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Title: Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7/9
Author: Giannone, Pietro
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7/9" ***


                             ISTORIA CIVILE
                                  DEL
                            REGNO DI NAPOLI


                                   DI
                            PIETRO GIANNONE


                             VOLUME SETTIMO



                                 MILANO
                           PER NICOLÒ BETTONI
                              M.DCCC.XXII



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOSETTIMO


Quanto gli ultimi anni del Regno d'Alfonso furono tutti placidi e
sereni, altrettanto quelli di Ferdinando suo figliuolo furono pieni
di turbolenze e di confusioni. Si rinnovarono le antiche calamità,
e si vide il Regno di bel nuovo ora con rivoluzioni interne tutto
sconvolto, ora da esterni nemici combattuto ed invaso. Carlo Principe
di Viana fece pratiche co' Napoletani perchè lo gridassero Re. Il Papa
lo pretendeva devoluto alla sua Sede. I Baroni congiurati invitano alla
conquista del Regno il Re Giovanni, come acquistato con le forze della
Corona di Aragona, e non senza gran sua fatica. Rifiutato da costui
l'invito, ricorrono a Giovanni d'Angiò figliuolo di Renato, che per le
paterne ragioni lo pretendeva, e _Duca di Calabria_ si facea perciò
chiamare; e riusciti anche vani questi loro sforzi, congiurano di
nuovo, ed il Pontefice Innocenzio VIII lor s'unisce, e gli move guerra.
Tante procelle, tanti fastidiosi e potenti nemici ebbe a superar
Ferdinando per mantenersi nella possessione del Regno.

Appena morto il Re Alfonso, il Principe di Viana, come si è detto, era
venuto in Napoli a questo fine, per mezzo di molti Baroni catalani e
siciliani, ch'erano stati intimi del Re Alfonso, tentò far pratiche
co' Napoletani perchè lo gridassero Re. Come figliuolo del Re Giovanni
pretendeva, che egli fosse il legittimo successore del Regno, e che
Re Alfonso non poteva lasciarlo a Ferdinando suo figliuol bastardo,
per essere stato acquistato con le forze della Corona di Aragona.
Era ancora entrato in qualche speranza per l'alienazione del Papa da
Ferdinando, e per l'avversione ed odio d'alcuni Baroni, che portavano
al medesimo: ed all'incontro per l'affezione, che il Principe s'avea
guadagnato co' medesimi per la sua umanità e mansuetudine. Ma la città
di Napoli, e molti Baroni, ricordevoli del giuramento, e delle promesse
fatte ad Alfonso gridarono subito: _Viva Re Ferrante Signor nostro_; il
quale cavalcando per la città, e per li Seggi ricevè le acclamazioni
di tutto il Popolo. Quando il Principe vide questo, si risolvè tosto
di abbandonar l'impresa, e salito in una nave, che stava in ancora nel
Porto, partì per passar in Sicilia, e con lui s'imbarcarono tutti quei
Catalani, che dal Re Alfonso non aveano avuti Stati nel Regno.

Ma quantunque Ferdinando s'avesse tolto davanti quest'ostacolo,
non era però sicuro dall'insidie di Papa Calisto; egli ancorchè
proccurasse per via di messi e di lettere piene di sommessione e di
rispetto renderselo amico, con tutto ciò trovò sempre nel Papa somma
ostinazione. Avea Calisto fatta deliberazione di non confermare nella
successione il nuovo Re, e di dichiarare il Regno esser devoluto alla
sua Sede. Diceva, che il Re non poteva darlo a D. Ferrante, che non
gli era figlio, nè legittimo, nè naturale: che s'era fatto gran torto
al Re Giovanni suo fratello, levando dall'eredità il Regno di Napoli,
che come conquistato con la forza della Corona d'Aragona, e non senza
gran fatica del Re Giovanni, non dovea smembrarsi dagli altri Regni
d'Aragona e di Sicilia. Tutte queste cose erano indrizzate al fine,
ch'egli teneva, togliendo il Regno a Ferdinando, ed investendone altri,
di far grande in questo Regno Pier Luigi Borgia suo nipote, da lui già
fatto Duca di Spoleto[1]. Ma Ferdinando con l'avviso di tutte queste
cose non si perdè mai d'animo, ed attese ad insignorirsi del Regno, e
chiamò a Parlamento generale i Baroni e' Popoli, i quali essendo subito
in gran parte comparsi, gli giurarono omaggio senza dimostrazione di
mal animo. In questo Parlamento si trovarono ancora due Ambasciadori
del Duca di Milano, i quali in pubblico e in privato persuasero a'
Baroni d'osservar la fede, e godersi quella pace, ch'aveano in tempo
d'Alfonso goduta sedici anni continui, per la quale il Regno era venuto
in tanta ricchezza, e dissero pubblicamente che l'animo del Duca di
Milano era di porre lo Stato e la vita in pericolo, per favorire
le cose del Re. Con questo i Sindici delle Terre e i Baroni se ne
tornarono a casa con speranza di quiete.

Ma dall'altra parte Papa Calisto, a' 12 luglio di questo medesimo anno
1458, diede fuori una Bolla, colla quale rivocando la Bolla di Papa
Eugenio dichiarava il Duca di Calabria affatto inabile a succedere
al Regno, dicendo, che quella fu sorrettiziamente impetrata, perchè
il Duca era supposto, e non figliuol vero del Re Alfonso; e perciò
dichiarava il Regno devoluto alla Chiesa romana: assolveva dal
giuramento quelli, che avevano giurato a Ferdinando, ed ordinava a
tutti i Prelati, persone ecclesiastiche, Baroni, città e Popoli del
Regno, che sotto pena di scomunica e d'interdetto non l'ubbidissero,
non lo tenessero per Re, nè gli dassero il giuramento di fedeltà,
ed in caso si trovassero averglielo dato, da quello gli assolveva; e
fece affiggere Cartoni per diversi luoghi del Regno, dove tutto ciò
si conteneva[2]. Narra Angelo di Costanzo[3], che questa Bolla non
solo nel Regno, ma per tutta Italia diede gran maraviglia, vedendosi
(come se il Papato trasformasse gli uomini) che Calisto, il quale era
stato tanto tempo tra gl'intimi servidori e Consiglieri d'Alfonso,
e col favor di lui era stato fatto Cardinale e poi Papa, usasse ora
tanta ingratitudine a Ferdinando suo figliuolo. Altri cominciavano
a dubitare, che potesse esser vero quel che il Papa diceva, che
Ferdinando non fosse figlio vero d'Alfonso, ma supposto; poichè niun
meglio di lui, che fu suo intrinseco famigliare, poteva saperlo, e che
per ciò fosse mosso da buon zelo di voler far pervenire il Regno in
mano di Re Giovanni. In effetto questi Cartoni, dice questo Scrittore,
furono gran cagione di confermare nell'opinione quelli Baroni, che
si volevano ribellare, e d'invitarvi altri, che ancora non ci avevano
pensato; e che senza dubbio, se non fosse opportunamente successa la
morte di Papa Calisto, Re Ferrante avanti che fosse coronato avrebbe
perduto il Regno.

Non tralasciava intanto il Re opporsi a' disegni di Calisto: in
presenza del suo Nunzio lo ricusò come a lui sospetto; appellò dalla
dichiarazione d'esser devoluto il Regno alla Chiesa[4], e gli scrisse
in risposta della Bolla ch'egli era Re per la grazia d'Iddio N. S., per
beneficio del Re Alfonso suo padre, per acclamazione e consentimento
de' Baroni e delle città del Regno che lo riconoscevano per tale; e
che se mal vi si fosse ricercato altro, pure egli avea lo concessioni
di due Papi suoi predecessori, Eugenio e Niccolò; e ch'egli possedendo
il Regno con tanti giusti titoli non si sarebbe sgomentato per le
sue minacce e per li suoi irragionevoli fulmini. Scrisse ancora con
molto ossequio al collegio de' Cardinali, pregandogli ch'essendo di
tanta prudenza, dovessero proccurare la quiete d'Italia e di placar il
Pontefice, e ridurlo in buona via: che pensassero che era pur troppo
vergognoso ad un Principe d'animo vigoroso lasciar un Regno, se non
unito colla vita. S'interposero alcuni Cardinali per la pace, ma riuscì
vana ogni loro opera. Il Duca di Milano mandò ancor egli a pregarlo,
con fargli ancor sentire, che facendo altramente si vedea obbligato
di prender la difesa del Re, non solo per ragione della parentela,
ma anche per le condizioni della lega ch'era tra loro. Calisto però
sempre implacabile ed ostinato, rifiutò ogni mezzo ed intercessore,
tanto che il Re Ferdinando co' suoi partigiani deliberarono di mandar
Ambasciadori al Papa in nome del Regno, perchè interponessero alla
dichiarazione fatta un'altra consimile appellazione come quella del
Re. A costoro Ferdinando aggiunse i suoi, li quali portatisi in Roma
furono ricevuti come Ambasciadori del Re e del Regno. Trovarono il
Papa infermo, onde non furono ammessi alla sua udienza; ma non patendo
l'affare molta dilazione, ciascheduno degli Ambasciadori in nome di
chi gl'inviò, fece ciò che gli conveniva. Ricusarono per pubblici atti
la persona di Calisto, come sospetto al Re ed al Regno; appellarono
nuovamente dalla dichiarazione fatta da lui; e dichiararono in nome
del Regno, che così come tenevano il Re Ferrante per loro Re e Signore,
così pregavano il Papa, che come legittimo Re, secondo il costume de'
loro maggiori, gli dasse l'investitura del Regno.

Mentre queste cose si facevano, il Papa tuttavia andava peggiorando,
onde il Re determinò non moversi punto infin che vedesse l'esito della
sua infermità: ma la lunga età, i tanti dispiaceri sofferti, e più la
malinconia nella quale erasi posto, per aver inteso che il Re Giovanni
non voleva che Ferdinando si turbasse nella possessione del Regno, gli
fecero finir la vita a' 6 d'agosto di quest'anno 1458, dopo tre anni
e quattro mesi di Pontificato. Così i suoi vasti pensieri e la sua
albagia di voler innalzare tanto Pier Luigi suo nipote finirono colla
sua morte.

Il Re pien di contento insinuò tosto a' suoi Ambasciadori, ed a que'
del Regno ed all'Arcivescovo di Benevento, che si trovavano in Roma, ed
agli altri che vi mandò poi, che facessero ogni opera che l'elezione
del nuovo Pontefice sortisse in persona di sua affezione, come cosa
tanto importante al suo Stato; ed entrati i Cardinali in Conclave,
crearono a' 27 dello stesso mese d'agosto Enea Silvio Piccolomini
Sanese, che fu chiamato _Pio II_, uomo letterato, siccome mostrano le
sue opere che ci lasciò: ancorchè la condizione del Pontificato gli
fece mutar poi sentimenti, poichè in altra guisa scrisse quando fu
privato Segretario dell'Imperador Federico III, d'altra maniera fece
essendo Papa. Con tutto ciò fu egli amator di pace ed affezionato del
Re Alfonso, perchè essendo Segretario dell'Imperador Federico III, e
con lui venuto in Napoli, partecipò de' favori e della munificenza di
quello. Il Re intesa la creazione mandò subito Francesco del Balzo Duca
d'Andria a rallegrarsi, ed a dargli ubbidienza, il quale trovò il Papa
tanto benigno, che ottenne quel che volle: fu poi spedito _Antonio
d'Alessandro_, quel nostro celebre e rinomato Giureconsulto per
domandargli l'investitura; ma il Papa in questa congiuntura non volle
trascurare gl'interessi della sua Sede: gli fu accordata ma con molti
patti cioè, che si pagassero i censi non pagati; si dasse volentieri
al Papa aiuto sempre che ne facesse istanza; restituisse alla Chiesa
Benevento e Terracina; ed alcuni altri patti furono accordati in
nome del Papa da Bernardo Vescovo di Spoleto ed in nome del Re
da Antonio d'Alessandro. Fu da Pio II a' 2 novembre di quest'anno
1458 spedita Bolla, colla quale confermò li Capitoli accordati da'
suddetti Cardinali destinati dal Papa e dal Re circa l'investitura
del Regno, del suo censo e coronazione, e circa la restituzione di
Benevento e Terracina. Fu poi a' 10 dello stesso mese istromentata la
Bolla dell'investitura del Regno di Napoli al Re Ferdinando, che fu
consultata in maggior parte e dettata da Antonio d'Alessandro. Se ne
spedirono poi due altre[5] a' 2 decembre: nella prima il Pontefice
avvisava Ferdinando, che gli mandava il Cardinal Latino Legato
apostolico a coronarlo del Regno di Napoli, al quale il Re dovesse dare
il solito giuramento di ligio omaggio; nella seconda rivoca la Bolla
di Calisto III, per la quale s'era dichiarato il Regno devoluto, e
dice le ragioni onde si movea a rivocarla. Spedì ancora un'altra Bolla
di commessione al Cardinal Latino per la detta coronazione, il quale
partito di Roma venne in Puglia, e Ferdinando in sue mani diede il
giuramento e fu coronato.

(Le convenzioni stabilite tra 'l Papa ed il Re; la Bolla colla quale si
rivoca quella di Papa Calisto; il Breve di _Pio_ al Cardinal Latino,
per la coronazione di _Ferdinando_; e la Bolla dell'investitura colla
formola del giuramento di fedeltà, si leggono pure presso _Lunig_[6]).

Il Zurita vuole, che il Re si coronasse in Bari; ma il Costanzo e gli
altri più accurati Scrittori[7], narrano che la coronazione si fece
in Barletta a' 4 febbraio del nuovo anno 1459, in presenza di quasi
tutti i Baroni con solennità e grandi apparati. Il P. Beatillo[8] per
mostrarsi costante nella favolosa coronazione di ferro, che credette
per antico uso farsi in Bari, dice che in Bari nella chiesa di S.
Niccolò fu coronato colla corona di ferro, poi in Barletta con quella
d'oro; ma siccome da noi fu altrove detto, questa coronazione di ferro
in Bari è tutta sognata e favolosa.

Furono coniate nuove monete da Ferdinando in memoria di questa
celebrità, che si chiamarono per ciò _coronati_.

(Fra le monete del Regno di Napoli, impresse dal _Vergara_ in Roma
l'anno 1715 nella _tavola XXIII_ si vedono anche impressi questi
coronati di _Ferdinando_, in uno de' quali n. 3 da una parte mirasi
la croce di Gerusalemme (che il _Summonte tom. 3 lib. 5 cap. 2_ la
suppone Arme della provincia di Calabria) ed intorno FERDINANDUS D.
G. R. SICILI. IER. VNG. e dall'altra ha l'immagine del Re sedente
collo scettro ed il mondo nelle mani, alla destra il Cardinale ed
alla sinistra un Vescovo che l'incoronano, coll'iscrizione intorno
CORONATUS: Q. LEGITIME: CERTAVI).

Ferdinando non s'intitolava, come suo padre, _Re dell'una e l'altra
Sicilia_, ma e nelle monete e nei diplomi, usava questo titolo:
_Ferdinandus Dei gratia Rex Siciliae, Hierusalem, et Ungariae_:
poichè i Regni di Gerusalemme e di Ungaria s'appartenevano alla
Corona di Napoli. Nel dì di questa coronazione si mostrò con tutti
molto splendido e liberale; poichè non fu persona di qualche merito,
che non se ne tornasse a casa ben soddisfatta; co' Baroni e nobili
trattò amichevolmente, donando loro titoli, ufficj e dignità, e fece
Cavalieri quasi tutti i Sindici delle terre del Regno. Ornò ancora
Cavalieri molti vassalli di Baroni; il che come notò il Costanzo e si
conobbe poi, lo fece per astuzia, per tenere spie ed aver notizia per
mezzo di essi della vita ed azioni de' Baroni. Concesse a' popoli del
Regno nuovi beneficj, sgravandogli di molte gabelle. Agli Spagnuoli
che vollero appresso di se rimanere, promise la sua buona grazia e
familiarità: a coloro che vollero ritornare in Ispagna, accompagnati
con molti doni, onoratissimamente diede licenza. Fu riconoscente de'
favori del Papa, poichè nel 1461 sposò Maria sua figliuola naturale ad
Antonio Piccolomini nipote di Pio, dandogli in dote il Ducato d'Amalfi
con il Contado di Celano, e l'ufficio di Gran Giustiziere, vacato per
morte di Raimondo Orsini[9]; onde pareva, che con questa amicizia del
Papa, colla parentela del Duca di Milano, e con aversi resi con queste
rimunerazioni benevoli molti Baroni e' popoli, gli animi di molti, che
stavano sollevati, si quietassero.



CAPITOLO I.

_I Principi di Taranto e di Rossano con altri Baroni, dopo l'invito
fatto al Re GIOVANNI d'Aragona, che fu rifiutato, chiamano all'impresa
del Regno GIOVANNI d'Angiò figliuolo di Renato: sua spedizione, sue
conquiste, sue perdite e fuga._


Ma non durò guari nel Regno questa tranquillità poichè, se bene
alcuni Baroni, che non più a dentro penetrarono l'animo ulcerato di
Ferdinando, credevano che il suo Regno dovess'essere tutto placido e
benevolo; nulladimanco molti altri, che sapevano la natura sua maligna
e coperta, giudicavano questa clemenzia e liberalità, che fosse tutta
finta e simulata, e tra questi, i primi erano i Principi di Taranto
e di Rossano parenti del Re, i quali per la grandezza loro stavano
sospetti, e dubitavano, che 'l Re, ch'avea veduto vivere suo padre
tanto splendidamente con l'entrate di tanti Regni, vedendosi rimaso
solo con questo Regno, sempre avria pensato d'arricchirsi con le
ricchezze loro e per questo non osavano di venire a visitare il Re;
anzi il sospetto crebbe tanto nel Principe di Taranto, che ogni dì
pensava a qualche nuovo modo d'assicurarsi; e per estenuare le forze
del Re, ed accrescere la potenza sua con nuovi amici e parenti, cercò
al Re, che volesse rimettere nello Stato il Marchese di Cotrone, a
cui avea promesso di dare per nuora una figliuola: e cercò ancora di
far ricoverare lo Stato a Giosia Acquaviva Duca d'Atri e di Teramo,
padre di Giulio Antonio Conte di Conversano ch'era suo genero. Il
Re, ancorchè la dimanda fosse arrogante, pure colla speranza, che
tanto il Principe, quanto il Duca ed il Marchese con questo beneficio
mutarebbono proposito, ne gli compiacque e mandò due Commessarj,
l'uno in Apruzzo, l'altro in Calabria a dar la possessione di quelli
Stati, che si tenevano ancora per lo Fisco, al Duca ed al Marchese, e
rimandò gli Ambasciadori del Principe, che allora dimorava in Lecce,
molto ben regalati, ed il Principe con grandissima dissimulazione
mandò a ringraziare il Re, e da allora cominciarono ad andare dall'uno
all'altro spesse visite e lettere. Ma il Principe, che conosceva aver
offeso il Re, avendolo stretto a porre l'armi in mano a' suoi capitali
nemici, quanto più erano amorevoli le lettere del Re, tanto più entrava
in sospetto, perchè sapeva la sua natura avara, crudele e vendicativa,
ed attissima a simulare tutto il contrario di quello, che avea in
cuore. E per questo cominciò a disponersi di voler venire più tosto a
guerra scoperta, non fidandosi di stare più sicuro delle insidie del
Re, se non toglieva le pratiche de' servidori di Ferdinando in casa
sua, per le quali temeva di qualche trattato di ferro, o di veleno.
Determinossi per tanto, essendo d'accordo col Marchese di Cotrone, col
Principe di Rossano e col Duca Giosia, di mandar segretamente al Re
Giovanni d'Aragona a sollecitarlo, che venisse a pigliarsi quel Regno,
che gli spettava per legittima successione dopo la morte di Re Alfonso
suo fratello. La gran ventura di Ferrante fu, che Giovanni si trovava
allora in grandissima guerra in tutti i suoi Regni, e massimamente
in Catalogna, ed in Navarra, perchè non potevano i Catalani ed i
Navaresi soffrire, che 'l Re istigato dalla moglie, che era figliuola
dell'Ammirante di Castiglia, trattasse così male e tenesse per nemico
il suo figlio primogenito, Principe tanto ben amato da tutti, e
mostrasse di volere i Regni per l'Infante D. Ferrante figliuolo della
seconda moglie; poichè se fosse stato sbrigato da quelle guerre,
avria certamente in brevissimo tempo cacciato Re Ferrante da questo
Regno: onde il Re Giovanni rispose a questi Baroni, che desiderava,
che per allora osservassero la fede a D. Ferrante suo nipote, ch'egli
non curava di lasciare le ragioni, che ci aveva, purchè questo Regno
stesse sotto la bandiera d'Aragona. Dall'altra parte il Re Ferrante,
avendo qualche indizio di questa pratica, mandò subito in Ispagna Turco
Cicinello Cavaliere prudentissimo, ed il famoso Antonio d'Alessandro
pur Cavaliere e Dottore eccelentissimo, che avessero a pregare il Re
Giovanni, che non volesse mancare del favor suo al Re suo nipote, e
che potea dire, che fosse più suo questo, che i Regni della Corona
d'Aragona. Questi non ebbero molta fatica a divertire quel Re dal
pensiero di volere il Regno di Napoli, perchè se ben forse quel vecchio
ne aveva volontà, gli mancavano le forze. Ma ebbero fatica in saldare
un altra piaga, perchè pochi dì innanzi la Regina Maria, che fu moglie
del Re Alfonso morì in Catalogna, e lasciò erede Re Giovanni delle doti
sue, ch'erano quattrocentomila ducati, e il Re Giovanni dicea, che
doveano cavarsi dal Regno di Napoli e dal tesoro ch'avea lasciato Re
Alfonso; ed ebbero questi due Cavalieri fatto assai, quando accordarono
di darglieli in diece anni, dicendo ch'era tanto quanto togliere il
Regno, volendo così grossa somma di danari a questo tempo, che si
sospettava certa e pericolosa guerra.

Il Principe di Taranto vedendo riuscir vano il suo disegno, tentò un
altra impresa, nella quale, oltre i riferiti Baroni, volle avervi anche
per compagno il Principe di Rossano, che odiava il Re mortalmente,
perchè s'era sparsa fama che il Re avea commesso incesto colla
Principessa di Rossano sua sorella carnalmente, e moglie del Principe
onde mandò a richiederlo per mezzo di Marco della Ratta, che poichè non
era successo l'invito fatto al Re d'Aragona, che pigliasse l'impresa
del Regno, mandassero ad invitare Giovanni d'Angiò _Duca di Calabria_,
che ancora si trovava in Genova.

Era questo Principe venuto in Genova prima di morire Alfonso, quando
per la pertinacia sua di non voler restituire a Genovesi le loro
navi predate, gli costrinse disperati (poichè non trovarono nelle
Potenze d'Italia alcuno ajuto) a darsi a Carlo VII Re di Francia il
quale mandò a governargli Giovanni figliuolo del Re Renato, che,
come si disse, s'intitolava _Duca di Calabria_ per le ragioni di
suo padre; deliberarono per tanto unitamente di mandare il medesimo
Marco della Ratta a chiamarlo. Avea costui per moglie una figliuola
di Giovanni Cossa, il quale, come fu detto nel precedente libro, si
partì da Napoli col Re Renato, e da quel tempo era stato sempre in
Francia con grandissima fama di lealtà e di valore; e per questo il
Re Renato l'avea dato, come maestro, al Duca Giovanni suo figliuolo;
e fu cosa leggiera ad ottenere, che il Duca venisse a quest'impresa
non meno per volontà sua, che per consiglio e conforto di Giovanni
Cossa, che desiderava dopo un esilio di diciannove anni ritornare alla
Patria; onde nell'istesso tempo che mandò a Marsiglia al Re Renato
per l'apparato della guerra, fece ponere in ordine galee e navi in
Genova, e dall'altro canto il Principe di Taranto, che come Gran
Contestabile del Regno avea cura di tutte le genti d'armi, pose Capi
tutti dipendenti da lui, e cominciò a dar loro denari per ponersi bene
in ordine, e tuttavia dalla Marca e da Romagna faceva venire nuovi
soldati, ed accresceva il numero, e già pareva che in Puglia ed in
Apruzzo le cose scoppiassero in manifesta guerra, e dall'altra parte
nella Calabria per opra del Marchese di Cotrone le cose si trovavano
ancor disposte a prorompere in tumulti e disordini. E mentre Re
Ferrante era tutto inteso a reprimere questi moti, ecco che s'ebbe
l'avviso, che il Duca Giovanni con ventidue galee e quattro navi
grosse era sorto nella marina di Sessa tra la foce del Garigliano e del
Vulturno; onde per tutte le parti si vide in un baleno arder tutto il
Regno d'intestina e crudel guerra.

Tutta questa guerra, che seguì ne' primi anni del Re Ferrante, fu
scritta da Gioviano Pontano, celebre letterato di que' tempi e scrittor
contemporaneo, poichè fu secondo Segretario del Re Ferrante istesso.
Michele Riccio, pur egli autor coetaneo, parimente trattonne, ancorchè
ristrettamente Angelo di Costanzo[10] poi più a minuto e con maggior
esattezza ce la dipinse, protestando, che se egli s'allargava in molte
cose, che il Pontano non scrisse, o non espresse, era per relazione
di Francesco Puderico, quegli, che insieme col Sannazaro gli diedero
la spinta, e l'infiammarono a scrivere la sua istoria, che morì
nonagenario, e di alcuni altri Cavalieri vecchi, che furono prossimi a
quel tempo. Antonio Zurita, che seguì per la maggior parte il Fontano,
il Summonte ed altri, anche ampiamente ne scrissero; onde essendosi
questa guerra cotanto divulgata da questi Autori, nè essendo ciò del
mio istituto, volentieri mi rimetto all'istorie loro.

In breve fu ricevuto il Duca Giovanni dal Principe di Rossano; e
spinse la sua armata fino al Porto di Napoli, ed invase gran parte
di Terra di Lavoro. Passò poi in Capitanata, e trovò Baroni e Popoli
tutti inclinati a seguire la sua parte. Lucera subito aperse le porte,
e Luigi Minutolo rese il castello: il simile fece Troja, Foggia,
Sansevero, e Manfredonia e tutte le castella del Monte Gargano: ed
Ercole da Este, ch'era stato Governadore di quella provincia per
lo Re, vedendo tutte le Terre della sua giurisdizione ribellate,
passò a servire il Duca. Vennero anche a giurargli omaggio Giovanni
Caracciolo Duca di Melfi, Giacomo Caracciolo suo fratello Conte
d'Avellino, Giorgio della Magna Conte di Bucino, Carlo di Sangro
Signore di Torre Maggiore, Marino Caracciolo Signore di Santo Buono,
li quali aveano in Capitanata e nel Contado di Molise molti e buoni
castelli; e l'Aquila a persuasione di Pietro Lallo Camporesco alzò le
bandiere d'Angiò. Il Principe di Taranto, che si trovava a Bari uscì
fino a Bitonto ad incontrare il Duca e lo condusse in Bari, dove fu
ricevuto con apparato regale. Il Principe di Rossano tentò insidie e
tradimenti per assassinare il Re; ma fu il suo esercito rotto presso
Sarno. Tutto Principato, Basilicata e Calabria fin a Cosenza alzò le
bandiere angioine, e l resto di Calabria l'avea fatto già ribellare il
Marchese di Cotrone; e chi legge l'istoria di questa guerra scritta dal
Fontano, può giudicare in che opinione di perversa natura stasse il Re
Ferrante appresso i Baroni ed i Popoli, che non solo tutti quelli che
con grandissima fede e costanza aveano seguita la parte di Re Alfonso
suo padre, o i figliuoli d'essi cospirarono a cacciarlo dal Regno, ma
gli stessi suoi Catalani, cominciando da Papa Calisto III che fu suo
precettore.

Le cose di Ferdinando si ridussero in tanta declinazione, che fu
fama, la quale il Fontano tiene per vera, che la Regina Isabella di
Chiaramonte sua moglie, vedendo le cose del marito disperate, si fosse
partita da Napoli con la scorta d'un suo confessore in abito di Frate
di S. Francesco, e fosse andata a trovare il Principe di Taranto suo
zio e buttatasegli a' piedi l'avesse pregato, che poi che l'avea fatta
Regina, l'avesse ancora fatta morire Regina, e che il Principe l'avesse
risposto, che stesse di buon animo, che così farebbe.

Il Duca di Milano, che era entrato in questa guerra in ajuto del
Re Ferrante e che correva la medesima fortuna che il Re, per la
pretensione del Duca di Orleans sopra lo Stato di Milano, sentendo
le cose di Ferdinando in tale stato, pensò se per via di pace e di
riconciliazione potesse salvargli il Regno, e mandò Roberto Sanseverino
Conte di Cajazza, ch'era figliuolo di sua sorella, in soccorso del
Re con istruzione di consigliarlo, che proccurasse di riconciliarsi
i Baroni, e ricovrare a poco a poco il Regno; e perchè sapeva, che il
Re per la natura sua crudele e vendicativa era noto a' Baroni, che non
osservava mai patti, nè giuramenti, per saziarsi del sangue di coloro,
che l'aveano offeso; mandò una proccura in persona di Roberto, che
sotto la fede di leal Principe potesse assicurare in nome suo quelli
Baroni, che volessero accordarsi col Re[11]. Questa venuta del Conte
di Cajazza sollevò molto le cose del Re, perch'essendo parente del
Conte di Marsico e di Sanseverino trattò con lui, che avesse da tornare
alla fede del Re, siccome venne ad accordarsi accettando volontieri
l'onorati partiti che gli fece il Re, fra' quali fu la concessione
della città di Salerno con titolo di Principe; di poter battere moneta;
che i beni de' suoi Vassalli devoluti per fellonia, fossero del Fisco
del Principe, e non del Fisco regale, ed altri onoratissimi patti
rapportati dal Costanzo. Il Conte di Marsico, che da questo tempo
innanzi fu chiamato Principe di Salerno, mandò subito al Pontefice
Pio per l'assoluzione del giuramento, che avea fatto in mano del Duca
Giovanni, quando lo creò suo Cavaliere, rimandando al medesimo l'ordine
della luna crescente, del quale l'avea ornato Cavaliere e molti altri
seguirono quest'esempio; ed il Chioccarello[12] rapporta la Bolla
di Pio II fatta a' 5 Gennajo dell'anno 1460 colla quale assolve dal
giuramento tutti coloro, che aveano dal Duca Giovanni preso l'ordine
della luna crescente e disfece questa Confrateria, ch'era chiamata de'
_Crescenti_.

L'accordo del Principe di Salerno col Re fu gran cagione della salute
di Ferdinando, perchè non solo gli diede per le Terre sue il passo,
e gli aperse la via di Calabria; ma andò insieme con Ruberto Orsino
a ricuperarla; e perchè di passo in passo, da Sanseverino fino in
Calabria erano Terre sue, o del Conte di Capaccio, o del Corte di
Lauria, o di altri seguaci di casa sua, quanto camminò fino a Cosenza,
ridusse a divozione del Re. Fu presa Cosenza e saccheggiata: Scigliano,
Martorano e Nicastro si resero: Bisignano fu preso a forza, ed in breve
quasi tutta quella provincia tornò alla fede del Re.

Il Pontefice Pio mandò Antonio Piccolomini suo Nipote in ajuto del
Re con mille cavalli e cinquecento fanti, che gli ricuperò Terra di
Lavoro. Nel medesimo tempo il Duca di Milano mandò nuovo soccorso,
col quale nell'Apruzzo ridusse molte Terre alla sua ubbidienza. Il Re
passò in Puglia per dare il guasto al paese di Lucera, ove era il Duca
Giovanni con buon numero di gente, aspettando il Principe di Taranto.
Si resero a lui Sansevero, Dragonara e molte altre Terre del Monte
Gargano: e finalmente prese S. Angelo, dove trovò ridutte tutte le
ricchezze della Puglia. Fu saccheggiato con ogni spezie di avarizia
e di crudeltà, ed il Re sceso alla Chiesa sotterranea di quel famoso
Santuario, trovò gran quantità d'argento e di oro, non solo di quello,
ch'era stato donato per la gran devozione al Santuario, ma di quello,
ch'era stato portato ivi in guardia da Sacerdoti delle Terre convicine.
Il Re fattolo annotare se lo prese, promettendo dopo la vittoria
restituire ogni cosa, e di quell'argento fece subito battere quella
moneta, che si chiamava li _Coronati di S. Angelo_; che gli giovò molto
in questa guerra.

(Questa moneta pur trovasi impressa dal _Vergara Tab. XXIII n. 4_,
nella quale da una parte è l'immagine di _Ferdinando_ e dall'altra
quella dell'Arcangelo Michele, col motto IVSTA TVENDA: per iscusarsi,
che la necessità di difendere lo Stato l'obbligò a valersi degli
Argenti di quel Santuario).

Sopraggiunse ancora in questo stato di cose al Re Ferdinando un altro
improviso ajuto, poichè venne da Albania a soccorrerlo con un buon
numero di navi, con settecento cavalli e mille fanti veterani Giorgio
Castrioto cognominato _Scanderbecch_, uomo in quelli tempi famosissimo
per le cose da lui adoperate contra Turchi. Costui, ricordevole, che
pochi anni avanti, quando il Turco venne ad assaltarlo in Albania, dove
e' signoreggiava, Re Alfonso gli avea mandato soccorso; avendo inteso,
che Re Ferdinando stava oppresso da tanta guerra, volle venire a questo
modo a soccorrerlo, e la venuta sua fu di tanta efficacia che fece
diffidar i suoi nemici d'attaccarlo.

Il Cardinal Rovarella Legato appostolico, che stava in Benevento, fece
pratica di tirare dalla parte del Re Orso Orsino; e poco da poi il
Marchese di Cotrone si riconciliò col Re, ed il simile fece il Conte di
Nicatro.

Alfonso Duca di Calabria primogenito del Re, che non avea più che
quattordici anni, fu mandato dal padre sotto la cura di Lucca
Sanseverino ad interamente sottomettere la Calabria, il quale
mostrandosi dalla sua puerizia quello, che avea da essere nell'età
perfetta, con somma diligenza ed audacia perfezionò l'impresa.
Dall'altro canto il Re debellò i suoi nemici in Capitanata, prese Troja
e ridusse quella provincia interamente alla sua fede; onde gli altri
Baroni, vedendo posta in tanta grandezza la casa del Re, ed in tanta
declinazione la parte Angioina, venivano a trovarlo e rendersegli, come
fece Giovanni Caracciolo Duca di Melfi.

Il Principe di Taranto vedendo finalmente, che non restava altro di
fare al Re, che venire ad espugnarlo, deliberò di mandare a domandargli
pace[13]: Ferdinando non la ricusò, e mandò Antonello di Petruccio
suo Segretario col Cardinal Rovarella Legato del Papa a trattare
le condizioni con gli Ambasciadori del Principe, fra le quali fu
convenuto, che il Principe avesse da cacciare da Puglia e da tutte
le Terre sue il Duca Giovanni. Il Principe si ritirò in Altamura,
dove poco da poi morì, non senza sospetto, che il Re l'avesse fatto
strangolare.

Solo rimaneva da ridurre Terra di Lavoro di là dal Vulturno e
l'Apruzzo, ove il Duca Giovanni s'era fortificato ed il Principe di
Rossano. Fu pertanto guerreggiato a Sora, dove le genti del Papa,
ancorchè sollecitate da Ferdinando per l'assalto, non si vollero
movere; con iscoprire la cagione, dicendo, che il Papa non gli avea
mandati a dare ajuto al Re, perchè più non bisognava, essendo tanto
estenuato lo stato del Duca d'Angiò, ma solamente perchè pretendeva,
che 'l Ducato di Sora, il Contado d'Arpino e quello di Celano, essendo
stati un tempo della Chiesa romana, dovessero a quella restituirsi. Il
Re per non intrigarsi a nuove contese, prese espediente di dare in nome
di dote il Contado di Celano ad Antonio Piccolomini nipote del Papa,
e suo genero, con condizione, che riconoscesse per supremo Signore il
Re; e morto poi Papa Pio, con la medesima condizione diede il Ducato
di Sora ad Antonio della Rovere nipote di Papa Sisto. Finalmente il
Principe di Rossano mandò pure a trattare la pace, e per mezzo del
Cardinal Rovarella fu conchiusa, con condizione per maggior sicurtà,
che si dovesse fermare con nuovo vincolo di parentado, cioè, che il Re
desse a Giovan Battista Marzano figliuolo del Principe, Beatrice sua
figliuola, che poi fu Regina d'Ungheria, la quale fu subito mandata
a Sessa ad Elionora Principessa di Marzano come pegno di sicurtà e di
certa pace. Ma non passò guari, che il Principe fu fatto incarcerare
dal Re, il quale avendo mandato a pigliar subito il possesso di tutto
il suo Stato, fece venire in Napoli la Principessa, e li figli insieme
con la figliuola sua, ch'avea promessa per moglie al figliuol del
Principe.

Il Duca Giovanni vedendosi tolti i suoi partigiani, s'accordò col Re
d'andarsene dove gli parea, e gli fu data sicurtà, e se n'andò in
Ischia; ed il Re, dopo avere interamente ridotta tutta la Puglia,
l'Aquila e tutto l'Apruzzo a sua divozione, non gli restava altro,
che l'impresa d'Ischia, ove erasi ritirato il Duca d'Angiò, che veniva
guardata da otto galee, le quali ogni dì infestavano anche Napoli; nè
potendo il Re venirne a capo, fu necessitato mandare in Catalogna al
Re Giovanni d'Aragona suo zio, per far venire Galzerano Richisens, con
una quantità di galee di Catalani per finire in tutto queste reliquie
di guerra; onde il Duca vedendo tutti i partigiani suoi, o morti o
prigionieri o in estrema necessità, deliberò partirsi dal Regno, ed
imbarcato con due galee, se n'andò in Provenza: dopo la di cui partita
essendo venuta l'armata de' Catalani, fu dal Toreglia, che comandava
l'Isola, proposto trattato per mezzo di Lupo Ximenes d'Urrea Vicerè
di Sicilia, di renderla; ma perchè il Re Alfonso avea fatta Ischia
colonia de' Catalani, dubitando il Re Ferdinando, che costoro non
alzassero le bandiere del Re d'Aragona suo zio, e lo facessero pensare
all'impresa del Regno, si contentò fare larghissimi patti al Toreglia,
con liberar Carlo suo fratello, che poc'anzi avea fatto prigione, e
dargli cinquantamila ducati, e restituirgli due galee, che avea prese:
ciò che fu subito eseguito, e Ferdinando rimase padrone dell'isola.

Scrive Giovanni Pontano, che nel partir il Duca Giovanni dal Regno,
lasciò ne' Popoli, e massimamente appresso la Nobiltà un grandissimo
desiderio di se, perch'era di gentilissimi costumi, di fede e di lealtà
singolare, e di grandissima continenza e fermezza, ottimo Cristiano,
liberalissimo, gratissimo, ed amatore di giustizia, e sopra la natura
de' Franzesi grave, severo e circospetto. Per tante virtù di questo
Principe si mossero molti Cavalieri del Regno a seguire la fortuna
sua, ed andare con lui in Francia, tra' quali furono il Conte Nicola
di Campobasso, Giacomo Galeotto, e Roffallo del Giudice: e questi due
salirono in tanta riputazione di guerra, che 'l Galeotto fu generale
del Re di Francia alla battaglia di S. Albino, dov'ebbe una gran
vittoria[14]; e Roffallo nella guerra del Contado di Rossiglione
Generale del medesimo Re in quella frontiera contra 'l Re d'Aragona,
dove fece molte onorate fazioni; ed il Re gli diede titolo di Conte
Castrense.

Ma il Duca Giovanni, come fu giunto in Provenza, non stette in ozio,
perchè fu chiamato da' Catalani, ch'erano ribellati al Re Giovanni
d'Aragona, il che aggiunse felicità alla felicità del Re Ferdinando I,
perchè s'assicurò in un tempo di due emoli, del Duca Giovanni e del Re
Renato suo padre e del Re d'Aragona, che si tenea per certo, che se non
avesse avuto quel fastidio del Duca Giovanni, avria cominciato a dare
al Re Ferdinando quella molestia, che diede poi al Re Federico il Re
Ferdinando il Cattolico, che a lui successe. Il Contado di Barzellona
erasi ribellato contro Re Giovanni, ed avea chiamato Re Raniero per
Signore, nato da una sorella del Re Martino d'Aragona, il quale avea
le medesime ragioni sopra quello Stato, e sopra i Regni d'Aragona e di
Valenzia, che avea avuto il padre del Re Alfonso e di esso Re Giovanni,
ch'era nato dall'altra sorella. Il nostro Re Ferdinando avvisato di
ciò, mandò alcune compagnie di uomini d'arme in Catalogna in soccorso
del zio, ed il Duca Giovanni da poi che partì dall'impresa del Regno,
arrivato in Francia, subito andò a quella impresa, come Vicario
del padre, e signoreggiò fino all'anno 1470, nel qual anno morì in
Barzellona, e perchè non finissero qui di travagliare i Franzesi questo
Regno, trasfuse le sue ragioni, nella maniera che diremo più innanzi,
a Luigi ed a Carlo Re di Francia.



CAPITOLO II.

_Nozze d'ALFONSO Duca di Calabria con IPPOLITA MARIA SFORZA figliuola
del Duca di Milano; di ELIONORA figliuola del Re con ERCOLE DA ESTE
Marchese di Ferrara; e di BEATRICE altra sua figliuola con MATTIA
CORVINO Re d'Ungheria. Morte del Pontefice PIO II, e contese insorte
tra il suo successore PAOLO II ed il Re FERRANTE, le quali in tempo di
Papa SISTO IV successore furon terminate._


Da poi che il Re Ferdinando ebbe trionfato di tanti suoi nemici,
e ridotto il Regno sotto la sua ubbidienza, pensò ristorarlo da'
preceduti danni, che per lo spazio di sette anni di continua guerra
l'aveano tutto sconvolto e posto in disordine, ma prima d'ogni altro,
per maggior precauzione, volle fortificarsi con nuovi parentadi, e
mandare in esecuzione il trattato, che molti anni prima avea tenuto
col Duca di Milano, di sposare il Duca di Calabria con Ippolita sua
figliuola; onde nella primavera di quest'anno 1464 inviò _Federico_ suo
secondogenito con 600 cavalli in Milano a prender la sposa.

Federico giunto a Milano sposò in nome del fratello Ippolita, che dopo
partita da Milano, e dopo essersi trattenuta per due mesi a Siena,
passata indi a Rema, giunse finalmente in Napoli, ove con molta pompa
fu ricevuta da Alfonso suo marito, e si fecero dal Re celebrare molte
feste e giuochi. Alcuni anni appresso fu conchiuso il nuovo parentado
con Ercole da Este Marchese e poi Duca di Ferrara, al quale il Re sposò
Elionora sua figliuola, e fu dal Duca mandato a Napoli Sigismondo suo
fratello a pigliar la sposa, che il Re mandò accompagnata dal Duca
d'Amalfi e sua moglie, dal Conte d'Altavilla Francesco di Capua, e
dalla Contessa sua moglie, dal Conte e Contessa di Bucchianico, dal
Duca di Andria e da altri Signori.

Fu poi conchiuso anche il matrimonio di Beatrice con Mattia Re
d'Ungheria; e venuto il tempo, che la sposa dovea essere condotta
al marito, fu ordinata la sua coronazione avanti la Chiesa
dell'Incoronata, ove eretto un superbissimo teatro, vi venne il Re con
veste regali, e corona in capo accompagnato da' suoi primi Baroni: poco
appresso vi giunse Beatrice, la quale con gran pompa fu coronata Regina
d'Ungheria per mano dell'Arcivescovo di Napoli Cardinale Oliviero
Caraffa accompagnato da molti Vescovi; ed il dì seguente, avendo la
nuova Regina cavalcato per tutti i Seggi della città colla corona
in testa accompagnata da tutto il Baronaggio, partì poi da Napoli in
comitiva de' Duchi di Calabria e di S. Angelo suoi fratelli, e giunti
in Manfredonia, imbarcatisi su le Galee di Napoli, si condussero in
Ungheria. Con questi Signori s'accompagnarono ancora alcuni nostri
Avvocati, li quali, siccome narra Duareno, colli loro intrighi e
sottigliezze invilupparono l'Ungheria d'inestricabili liti: tanto che
bisognò pensare d'allontanargli da quel Regno, perchè si restituisse
nel primiero stato di pace e di quiete.

Tutte queste feste furono interrotte da' lutti, che portò la morte
della Regina Isabella, donna d'esemplare vita e di virtù veramente
reali. Fu compianta da tutti, e con pomposissime esequie fu il cadavere
portato in S. Pietro Martire, ove ancor si vede il suo sepolcro.

Ma maggiori disturbi avea recato al Re Ferdinando la morte del
Pontefice Pio, accaduta a' 14 agosto del 1464, la quale nel medesimo
anno fu accompagnata da quella del Duca di Milano, e poi seguìta da
quella di Giorgio Castrioto Signor d'Albania, suoi maggiori amici e
grandi fautori; poichè rifatto in luogo di Pio il Cardinal di S. Marco
Veneziano, che Paulo II volle chiamarsi; questi di natura avarissimo
cominciò a premere il Re Ferdinando, che gli pagasse tutti i censi
decorsi, che dovea alla sua Chiesa, li quali per più anni non s'eran
pagati; e Ferdinando, il quale aggravato per le eccessive spese della
passata guerra, era rimase esausto di denari, non solo si scusò di
potergli pagare, ma richiese al Pontefice di doverglieli rilasciare.
E da quest'ora si sarebbe venuto a manifesta discordia, se il Papa
volendo abbassare i figliuoli del Conte dell'Anguillara, non avesse
avuto bisogno del Re, al quale ebbe ricorso, perchè gli mandasse le
sue truppe, ciò che Ferdinando fece assai volentieri. Ma terminata
l'impresa con li fratelli dell'Anguillara, queste differenze, che per
alcun tempo erano rimase sopite, risursero di bel nuovo; poichè il
Papa tornando a richiedere con maggior acerbità i censi di quello che
avea fatto prima, obbligò il Re a dichiararsi, che non solo pretendeva,
che i censi si dovessero rilasciare, anche per cagion delle spese, che
ultimamente avea fatte in dargli soccorso; ma che per l'avvenire il
censo, che prima importava ottomila once l'anno, si dovesse minorare;
poichè prima questo censo si pagava non meno per lo Regno di Napoli,
che per quello di Sicilia: onde possedendosi la Sicilia dal Re Giovanni
d'Aragona suo zio, e non da lui, non era dovere ch'egli pagasse
l'intero censo. Il Papa dall'altra parte esagerava gli ajuti, che il Re
avea avuti dal suo predecessore, il quale gli avea salvato il Regno,
ed allegava l'investiture date con questa legge, ed i tanti meriti
della Chiesa[15]. E portandosi le querele or dall'uno ora dall'altro,
ciascheduno aspettava congiuntura di coglier il tempo opportuno per far
valere le sue ragioni; ma Ferdinando per farlo piegare a' suoi voleri,
pose in campo un'altra pretensione, e faceva premurose istanze che se
gli restituissero quelle Terre, che il Papa possedeva, le quali erano
dentro i confini del Regno, cioè, Terracina in Terra di Lavoro e Cività
Ducale, Acumoli e Lionessa nell'Apruzzo a' confini dello Stato della
Chiesa; e ciò in vigore dell'accordo fatto nel 1443 da Papa Eugenio
IV col Re Alfonso suo padre; come ancora pretese la restituzione di
Benevento, la quale egli avea restituita al Pontefice Pio suo buon
amico, e non volea che di vantaggio se la godesse ora un Pontefice
a se sospetto ed odioso. Il Papa vedendo inasprito l'animo del Re,
nè potendo colle forze e con altri maneggi resistergli, mandò subito
in Napoli il Cardinal Rovarella suo Legato a placare il Re, il quale
adempì così bene la sua incumbenza, che per allora non si parlò più di
censi decorsi, nè di restituzione di quelle Terre.

Sursero poi fra di loro alcune altre contese per la difesa de' Signori
della Tolfa, perchè il Papa pretendendo, che l'alume di rocca, che
quivi nasce, fosse sua, assediò quel luogo: ma sopraggiunto l'esercito
del Re, si posero subito le genti del Papa in fuga, lasciando
l'assedio[16]. Le contese ch'ebbero i nostri Re co' Pontefici romani
intorno quest'alume, furon sempre acerbe e continue; non pure nella
Tolfa, ma anche ne' campi di Pozzuoli e d'Agnano, ebbero i Papi
pretensione, che l'alume, che si fa in questi luoghi, spettasse alla
Sede appostolica, delle quali controversie trattò il Chioccarello nel
volume 21 de' suoi M. S. Giurisdizionali. La morte poi seguìta a 25
luglio del 1471 del Pontefice Paolo, e l'esaltazione in quella Cattedra
a' 9 agosto del Cardinal Francesco della Rovere, che fu chiamato _Sisto
IV_ fece cessare tutte queste discordie; poichè Papa Sisto, purchè
non si parlasse più delle pretensioni di Ferdinando, spedì al medesimo
nel 1475 una Bolla, rapportata dal Chioccarello[17], nella quale gli
rimette tutti i censi, e che durante la sua vita non fosse obbligato
pagarglieli; ma, invece del censo, fosse obbligato mandargli ogni anno,
per cagion dell'investitura, un palafreno bianco e ben guarnito[18],
e conoscendo quanto questo Pontefice fosse di grande spirito, volle
il Re apparentar con lui, e diede il Ducato di Sora (che avea tolto a
Giovan Paolo Cantelmo) ad Antonio della Rovere, col quale poi collocò
Caterina figliuola del Principe di Rossano, nata da Dionora d'Aragona
sua sorella.



CAPITOLO III.

_Splendore della Casa Reale di FERDINANDO, il quale, pacato il Regno,
lo riordina con nuove leggi ed istituti: favorisce li Letterati e le
lettere; e v'introduce nuove arti._


Ferdinando, calcando le medesime pedate del Re Alfonso suo padre, ora
che si vide il Regno tutto placido e tranquillo, non trascurò in questi
anni di felicità e di pace, di ordinarlo, di arricchirlo di nuove
arti, di fornirlo di provide leggi ed istituti, e d'uomini letterati ed
illustri in ogni sorte di scienze, e sopra tutto di Professori di legge
civile e canonica; onde avvenne, che nel suo Regno, oltre lo splendore
della sua casa Regale, cotanto presso di noi fiorissero i Giureconsulti
e le lettere. E certamente Napoli videsi a questi tempi in quella
floridezza che fu nel regno di Carlo II d'Angiò, per li tanti Reali,
che adornavano il suo Palazzo. Ebbe Ferdinando non meno che Carlo,
molti figliuoli, che illustrarono la sua Casa reale. Dalla Regina
_Isabella_ di Chiaramonte, oltre _Alfonso_ Duca di Calabria, destinato
suo successore nel Regno, ebbe _Federico_ Principe tanto buono e savio,
che il padre lo fece Principe di Squillace, indi Principe di Taranto
e poi Principe d'Altamura. Ebbe _Francesco_, che lo creò Duca di S.
Angelo al Gargano. Ebbe _Giovanni_, che da Sisto IV fu fatto Cardinale,
ed era nomato il Cardinal d'Aragona[19]; ma questi due premorirono al
padre. Ebbe ancora _Eleonora_, e _Beatrice_ sue figliuole, che maritò
una col Duca di Ferrara e l'altra col Re d'Ungheria.

Il Re Ferdinando rimaso vedovo della Regina Isabella nel 1477 si casò
la seconda volta con _Giovanna_ sua cugina figliuola del Re Giovanni
d'Aragona suo zio, dalla quale ebbe una sola figliuola che chiamò col
nome della madre pur Giovanna. Oltre di questi ebbe D. Errico e D.
Cesare suoi figliuoli naturali, ed oltre alle femmine che maritò co
primi Signori e Baroni del Regno.

A tanti Regali di Napoli s'aggiungeva ancora la famiglia del Duca
di Calabria, il quale casato, come si è detto, con Ippolita Sforza
figliola del Duca di Milano, avrà con lei procreati tre figliuoli,
_Ferdinando_ primogenito, che poi gli successe nel Regno, Pietro
ed _Isabella_; ma Pietro premorì non meno al padre, che all'avo, e
Isabella fu data in moglie a Giovanni Galeazzo figliuolo di Galeazzo
Duca di Milano, il quale morto il padre fu sotto il baliato e tutela
di Lodovico suo zio: quegli, che, come si dirà, pose in Italia tanti
incendj, e fu cagione di tante rivoluzioni e disordini. La Casa regale
di Napoli non avea in questi tempi da invidiare qualunque Corte de'
maggiori Principi d'Europa; e narra Camillo Tutini, deplorando la sua
infelicità nel supplemento della varietà della fortuna di Tristano
Caracciolo, che un giorno in un festino celebrato in Napoli comparvero
più di cinquanta persone di questa famiglia, tal che non si credea che
si potesse estinguer mai; ed era sostenuta colla maggior splendidezza e
magnificenza, così nelle congiunture delle celebrità, che si facevano
per tante nozze ed incoronazioni, come per riguardo di tante Corti,
che questi Reali tenevano e per tanti Ufficiali maggiori e minori della
Casa e dell'ostello regale, li quali con molto fasto, mentre fu Napoli
Sede Regia, si mantennero.

Non solo fu mantenuto il fasto e lo splendore della Casa regale,
ma Ferdinando volle anche ristabilire nel Regno gli Ufficiali della
Corona, i di cui uficj esercitati per la maggior parte da que' ribelli
Baroni, che egli avea spenti, eran per le precedute rivoluzioni e
disordini, rimasi vacanti. Per la morte del Principe di Taranto,
dovendosi provvedere l'uficio di Gran Contestabile, egli n'investì
Francesco del Balzo Duca di Andria. Vacando ancora per la ruina del
Principe di Rossano il G. Ammirante, lo diede a Roberto Sanseverino
Principe di Salerno. Per la ribellione di Ruggiero Acclocciamuro
fece G. Giustiziere Antonio Piccolomini Duca d'Amalfi e Conte di
Celano. Elesse per G. Protonotario Onorato Gaetano Conte di Fondi:
per G. Camerario Girolamo Sanseverino Principe di Bisignano: per G.
Cancelliere Giacomo Caracciolo Conte di Brienza e per G. Siniscalco D.
Pietro di Guevara Marchese del Vasto. Questi Ufficiali durante il Regno
degli Aragonesi erano nell'antico loro splendore e preminenza; anzi si
videro ora più rilucere, quanto che Ferdinando non avea altri Stati e
perciò proccurava ingrandire le loro prerogative per porre in maggior
lustro il suo unico Regno.

Ancorchè questo Principe fosse stato terribile coi suoi Baroni per le
precedute ribellioni, e s'avesse perciò acquistato nome di crudele
e d'inumano; nientedimeno non tralasciava per acquistar benevolenza
presso i suoi aderenti di innalzarli con onori e dignità. Accrebbe per
ciò il numero de' Titoli e di Conti sopra ogni altro, creandone molti,
come nel 1467 fece con Matteo di Capua, che lo creò Conte di Falena,
con Scipione Pandone, facendolo Conte di Venafro, con D. Ferrante
Guevara, che lo creò Conte di Belcastro e con tanti altri; ond'è che
accrebbe il numero de' Titoli nel Regno assai più, che non fece il Re
Alfonso, siccome si vede chiaro dal catalogo, che ne tessè il Summonte,
numeroso assai più degli altri, così ne' tempi d'Alfonso, come degli
altri Re angioini suoi predecessori.

Egli ancora, come si disse, fra gli altri Ordini di Cavalleria istituì
nel Regno un nuovo Ordine, chiamato dell'_Armellino_ di cui soleva
molti ornare. L'istituì per le gare ch'ebbe col Principe di Rossano,
il quale, come s'è detto essendosi dato alla parte del Duca Giovanni
d'Angiò, non potendo colla forza vincere il nemico, rivoltossi
agl'inganni, ed a' tradimenti, perchè nell'istesso tempo che, per via
di nuove parentele col Re, erasi con lui pacificato e mostrava aver
lasciato il partito di Giovanni, ordinò contro al Re nuovi trattati col
Duca: di che accortosi Ferdinando lo fece pigliare, e mandato prigione
a Capua, lo fece poi condurre a Napoli. Molti consigliavano il Re, che
lo facesse morire; ma non vi consentì Ferdinando, dicendo, che non
era giusto tingersi le mani nel sangue di un suo cognato, ancorchè
traditore. Volendo poscia dichiarar questo suo generoso pensiero di
clemenza, figurò un armellino, il qual pregia tanto il candor della
sua politezza, che più tosto da' cacciatori si fa prendere, che
imbrattarsi di fango, che coloro sogliono spargere intorno alla sua
tana per pigliarlo. Si portava per ciò dal Re una collana ornata di
gemme e d'oro coll'Armellino pendente, cui motto: _Malo mori, quam
foedari_. Per opporsi al Duca Giovanni ed alla sua Compagnia de'
Cavalieri detta de' _Crescenti_, istituì perciò egli quest'altra
detta dell'_Armellino_, ornando di questa collana molti, facendogli
Cavalieri; ed il Pigna[20] rapporta che fra gli altri, fece di questa
Compagnia Ercole da Este Duca di Ferrara suo genero, al quale per
Giovan Antonio Caraffa Cavalier napoletano mandò una di queste collane.

Oltre d'aver Ferdinando in tante maniere illustrato il Regno, come
Principe provido ed amante dell'abbondanza e delle ricchezze de'
suoi sudditi, egli facilitò i traffichi a' mercatanti, ed agevolò
il commercio in tutte le parti non meno d'Occidente che d'Oriente;
ma sopra tutto (di che Napoli deve confessar molto obbligo a questo
Principe, e porre per una delle cagioni della sua grandezza, ed
accrescimento de' suoi cittadini e delle ricchezze) fu l'avervi
introdotte ed accresciute molte arti, e particolarmente l'arte di
lavorar seta e tessere drappi e broccati d'oro.

Erasi quest'arte cominciata già ad introdursi in molte città d'Italia,
ond'egli dopo la morte della Regina Isabella sua moglie nel 1456 pensò
introdurla anche in Napoli, e fattosi da diversi luoghi chiamare più
periti di quella, finalmente scelse Marino di Cataponte veneziano di
quest'arte sperimentato maestro, il quale ricevuti dal Re in prestanza
mille scudi per servirsene per lavorare, fece qui tessere drappi di
seta e d'oro: e per maggiormente accrescerla fece franco ed immune
d'ogni dogana e gabella tutto ciò che serviva per questo lavoro,
concedendo che la seta, oro filato e la grana, ed ogni altra cosa
bisognevole per servizio di quest'arte tanto per tingere quanto per
tessere e far broccati e tele d'oro fosse esente da ogni pagamento[21].
Di vantaggio stabilì, che i lavoratori di quelli dovessero esser
trattati e reputati in tutto come Napoletani: che nelle loro cause
tanto civili, quanto criminali non possano essere riconosciuti da
niuno Tribunale o Ufficiale, eccetto che da' loro Consoli: che tutti
quelli di qualunque nazione si fossero, che in Napoli venissero ad
esercitar quest'arte siano guidati ed assicurati e franchi e liberi
da ogni commesso delitto, nè da altri potessero essere riconosciuti se
non da' loro Consoli: che tutti coloro, che vorranno fare esercitare,
o eserciteranno quest'arte, siano mercatanti, maestri, scolari o
ajutanti, si debbano far scrivere nella matricola, o sia libro della
lor arte, nel quale scritti che saranno, debbano godere di tutti
i privilegi e capitoli conceduti o che si concederanno dal Re e
suoi successori nel Regno: che in ogni anno nel dì di S. Giorgio,
assembrati, dovessero eleggere tre Consoli per lo reggimento e governo
di quella, i quali ogni Sabato dovessero tener ragione con amministrar
loro giustizia. Molti altri privilegi furono da Ferdinando conceduti a
quest'arte ed a Marino Cataponte. Altri ancora ne concedè a Francesco
di Nerone fiorentino, al quale promise pagargli ducati trecento l'anno
di provisione, acciò assistesse e la esercitasse in Napoli. Altri
a Pietro de Conversi genovese, ed altri a Girolamo di Goriante pur
fiorentino[22]. Li successori Re parimente nobilitarono quest'arte con
nuove altre prerogative, tanto che si eresse perciò in Napoli un nuovo
Tribunale, che si chiama della nobil arte della seta. Lo compongono
i Consoli, il Giudice, ovvero loro Assessore e l'Avvocato fiscale
di Vicaria vi puol anche intervenire[23]. Da' suoi decreti non dassi
appellazione, se non al S. C. dove il Giudice fa le relazioni stando
in piedi e con capo scoverto, nè se gli dà titolo di Magnifico, come
rapporta il Tassoni nel suo universale magazzino.

Non è da tralasciare ciò che ponderò il Summonte[24] nella sua istoria
di Napoli scritta, come ogni un sa, sono più che cento anni, che
per quest'arte fu cotanto accresciuta Napoli e nobilitato il Regno,
che concorrendo da tutte le parti molti a professarla, ed i naturali
dandosi a quella, si vide la città accresciuta d'abitatori, e vivere la
metà degli abitanti col guadagno d'essa, venendovi non pure dalle città
e Terre convicine del Regno, ma anche intere famiglie da diverse parti
d'Europa, tanto che a' suoi tempi, e' dice, che avea preso tanta forza,
che per ciò la città si vide ampliata ed ingrandita forse un terzo più,
che non era.

Così scrive quest'Autore quando i lussi e le pompe non erano arrivate
a quella grandezza ed estremità, che abbiam veduto a' tempi nostri
dopo un secolo e più ch'e' scrisse. Ora le cose sono ridotte al sommo
e non vi è picciola donnicciuola, o vil contadino o artigiano, che non
vestano di seta, quando ai tempi di questi Re d'Aragona, come ce n'è
buon testimonio il Consigliere Matteo d'Afflitto, gli abiti serici non
erano, che di Signore e Gentildonne[25].

Non pure quest'arte introdusse Ferdinando fra noi, ma pochi anni
appresso, nel 1480, v'introdusse l'arte della lana e quasi gl'istessi
privilegi concedè a' suoi Consoli. Volle che i professori si
scrivessero nella matricola e che non fossero riconosciuti se non da'
Consoli[26]. Surse per ciò un altro Tribunale, detto dell'arte della
lana, che si compone di Consoli e loro Giudice ovvero Assessore; ed
ove, sempre che voglia, può intervenire l'Avvocato fiscale di Vicaria.
Parimente da' suoi decreti non s'appella, che nel S. C. ove si fanno
le relazioni, e tiene molta conformità col Tribunale della nobil arte
della seta.

Parimente negli anni 1458 e 1474 innalzò Ferdinando l'arte degli Orafi,
istituendo il lor Consolato, a cui diede la facoltà d'aver cura de'
difetti, che si commettessero nell'arte[27] e prescrisse il modo e la
norma per evitar le frodi; ed ugual vigilanza praticò in tutte le altre
arti, perchè maggiormente fiorissero, e le fraudi si togliessero.



CAPITOLO IV.

_Come si fosse introdotta in Napoli l'arte della stampa e suo
incremento. Come da ciò ne nascesse la proibizione de' libri, ovvero
la licenza per istampargli; e quali abusi si fossero introdotti, così
intorno alla proibizione, come intorno alla revisione de' medesimi._


Ma quello di che Napoli e 'l Regno, e tutti gli uomini di lettere
devono più lodarsi di questo Principe, fu d'essere stato egli il primo
che introdusse in Napoli l'arte della stampa. Ferdinando fu un Principe
non pur amante delle lettere, ma fu egli ancora letteratissimo; onde
è, che nel suo Regno fiorissero tanti letterati in ogni professione,
come diremo. Erasi l'arte dello stampare trovata nel principio di
questo secolo verso l'anno 1428. Ma se deve prestarsi fede a Polidoro
Virgilio, fu inventata nel 1451 da Giovanni Gutimbergo Germano, il
quale in Erlem città d'Olanda cominciò ad introdurla. Si divolgò poi
nelle città di Germania e nella vicina Francia. Due fratelli alemani,
secondo scrive il Volaterrano, la portarono in Italia nell'anno
1458; uno andò in Venezia, l'altro in Roma, ed i primi libri che
si stamparono in Roma, furono quelli di S. Agostino _De Civitate
Dei_, e le _Divine Istituzioni_ di Lattanzio Firmiano. Non guari
da poi fu fatta introdurre in Napoli dal Re Ferdinando. Il Passaro
narra, che nell'anno 1473 Arnaldo di Brassel Fiammengo la portasse,
il quale accolto dal Re con molti segni di stima, gli concedè molte
prerogative e franchigie. Altri rapportano che nell'anno 1471 fra noi
l'introducesse un Sacerdote d'Argentina chiamato Sisto Rusingeno[28].
Che che ne sia, Ferdinando accolse i professori, e fece porre in opra
la loro arte, onde s'incominciarono in Napoli a stampar libri. Fra
i primi libri che qui s'imprimessero, furono i Commentarj sopra il
secondo libro del Codice del famoso _Antonio d'Alessandro_; ed i libri
di _Angelo Catone_ di Supino, Lettor pubblico di Filosofia in Napoli,
e Medico del Re Ferrante, il quale avendo emendato ed accresciuto il
libro delle Pandette della medicina di Matteo Silvatico di Salerno
dedicato al Re Roberto, lo fece stampare in Napoli nel 1474 da questo
tedesco, che poco prima avea quivi da Germania portata la stampa[29].
Indi di mano in mano se ne stamparono degli altri, come l'opere
d'_Anello Arcamone_ sopra le Costituzioni del Regno e di tanti altri.

(Di queste prime stampe fatte in Napoli non se ne dimenticò l'Autore
degli _Annali Tipografici_, rapportandole alla pag. 454).

Venne poi Carlo VIII in Italia ed avendo conquistato il Regno di
Napoli, dimorando qui per sei mesi, quanto appunto lo tenne, alcuni
Maestri francesi esperti in quest'arte subito vi si condussero e la
ripulirono assai, riducendola in miglior forma, e rimase non così
rozza com'era prima. Così tratto tratto, come suole avvenire di tutte
le altre arti, si ridusse fra noi in forma più nobile, siccome si vede
dall'impressione di alcuni libri fatti a questi tempi e fra gli altri
dell'_Arcadia_ del _Sannazaro_, che Pietro Summonte suo amico, mentre
l'Autore seguendo la fortuna del Re Federico suo Signore dimorava
in Francia, essendosi in Venezia due volte stampata piena d'errori e
scorrettissima, la fece ristampare in Napoli in carta finissima e di
buoni caratteri; e pure il Summonte si scusava col Cardinal d'Aragona
a cui la dedicò, se la stampa non era di quella bellezza, la qual altra
volta vi solea essere, e secondo per l'altre più quiete città d'Italia
si costumava allora; poichè trovandosi Napoli per le rivoluzioni di
guerra difformata, appena avea potuto avere comodità di quel carattere.

Ma venuto da poi in Napoli l'Imperador Carlo V ai conforti ed
istanze del famoso Agostino Nifo da Sessa celebre Filosofo e Medico
dell'Imperadore e suo famigliare, fu questa arte favorita molto più,
e posta in maggior polizia e nettezza; poichè questo Imperadore nel
1536 concedè alla medesima, ed a' suoi professori grandi privilegi
e franchigie, facendogli esenti da qualunque gabella, dogana o altro
pagamento, tanto per la carta bianca che serve per la stampa de' libri
e figure, quanto per tutte quelle cose che bisognano a perfezionarla;
del qual privilegio, oltre il Summonte[30], ne rendono testimonianza
fra' nostri Scrittori, Toro[31] ed il Consigliere Altimari[32].
Tanto che per li favori di questo Principe s'accrebbero in Napoli le
stamperie: ed i letterati, vedendosi cotanto favoriti, s'ingegnarono
mandare i parti de' loro ingegni in istampa; ed imprimendosi i libri
degli Antichi, che prima scritti a penna, ed in membrane erano rari e
non per tutti, recò ad essi grandissimo giovamento, non solo per aver
libri con facilità, ma anche ben corretti. Quindi si videro fiorire per
l'Accademie e crescer il numero de' letterati non solo in Napoli, ma
nelle altre città del Regno, ove furon ancora introdotte le stamperie,
come nell'Aquila, in Lecce, in Cosenza, in Bari, in Benevento ed in
alcune altre. E l'edizioni riuscivan perfettissime in carte finissime e
d'ottimi caratteri, come si può vedere da alcuni libri stampati in quei
tempi, e fra gli altri dalle poesie di _Bernardino Rota_, dall'opere
legali di _Cesare Costa_ Arcivescovo di Capua e di tante altre, delle
cui prime edizioni se ne veggono moltissime nella libreria di S.
Domenico Maggiore di questa città.

Siccome la invenzione di quest'arte fu riputata a questi tempi la più
utile e necessaria per lo commercio delle lettere, così ancora ne'
susseguenti tempi venne ad apportarci danno; poichè gli uomini dati
alla lezione di tanti libri che uscivano, caricavano sì bene la lor
memoria d'infinite erudizioni, ma la riflessione mancava; onde non
si videro, se non rari uomini di ingegno grande, e che facendo buon
uso de' loro talenti, avessero potuto per se medesimi stendere le
cognizioni e le scienze. Ancora presso di noi, nel precedente secolo,
cominciò a recarci degli altri incomodi e delle confusioni: poichè
tutti pretendendo esser dotti e savj, vedendo la facilità della stampa
e la poca spesa che vi bisognava, venne uno stimolo universale agli
uomini di lettere di stampar ciò che loro usciva di capo di penna
in qualunque professione: onde nel secolo 17 si videro in istampa
infiniti volumi impressi per la maggior parte da' Frati e da' Legisti,
per lo più insipidi e pieni di cose vane ed inutili. Gli Stampatori
davano loro fomento, e fecero, per non isgomentargli della spesa,
fabbricar una carta d'inferior qualità, della quale regolarmente si
servivano nella impressione de' loro libri, che poi chiamarono _carta
di stampa_. Ma perciò non si tralasciarono da' più culti le edizioni
in carte finissime e di ottimi caratteri. Tanto ha bastato all'avidità
ed ingordigia de' pubblicani de' nostri tempi, che con tutto che
l'Imperador Carlo V avesse conceduto privilegio di franchigia agli
Stampatori per la carta bianca che dovea lor servire per uso di stampa,
di pretendere che questa franchigia di dogana e d'ogni altra gabella
dovesse ristringersi per la carta _di stampa_, non già ad altre carte
di miglior qualità: quasichè in queste non si potesse stampare, ovvero
prima d'introdursi questa diversità di carte, non si fosse stampato
in carta finissima, ed in tutti i tempi dai più culti letterati non si
fosse quella adoperata.


§. I. _Abusi intorno alle licenze di stampare e di proibire i libri._

Il buon uso della stampa, che produsse al Mondo tanti comodi ed
utilità, per la pravità degli Autori, e per la facilità e prontezza
che molti aveano di pubblicare ciò che loro usciva dalla penna, si
converti da poi in un altro mal uso. L'eresia di Lutero che sparsa per
la Germania minacciava le altre parti di Europa, per questa via della
stampa si disseminava per varj libri: onde bisognò che i Principi vi
ponessero occhio, e regolassero colle loro leggi l'uso di quella. I
Pontefici romani vi badarono assai più e con maggiore oculatezza, come
quelli che colla libertà della stampa potevano ricevere maggior danno
che i Principi secolari: per ciò, e dagli uni e dagli altri, furon
in diversi tempi, dopo essersi quest'arte introdotta, fatte molte
proibizioni e divieti.

Ma i Pontefici romani tentarono anche da poi sopra ciò far delle
sorprese; poichè pretesero che di lor sulamente fosse il proibire
le stampe, anche con pene temporali, e conceder le licenze per le
impressioni. Il Cardinal Baronio nel XII tomo de' suoi Annali,
scrivendo per la propria causa, quando da Filippo III gli fu
proibito il suo tomo XI nel quale, quando men dovea, volle combatter
la Monarchia di Sicilia, fu il primo a dirlo arditamente[33]. Ma
essendosegli dato da quel Principe conveniente gastigo, niuno ardì
difendere l'impresa del Cardinale; poichè, siccome fu da noi rapportato
nel secondo libro di quest'istoria, l'antica disciplina della Chiesa
era, che trattandosi di Religione, la censura apparteneva a' Vescovi,
ma la proibizione al Principe. Gl'Imperadori, dopo la censura de'
Vescovi o del Concilio, proibivano con pene temporali i libri degli
Eretici e gli condennavano al fuoco: di che nel Codice Teodosiano
abbiamo molti esempj. l Padri del Concilio Niceno I dannarono i Codici
d'Ario; e poi Costantino M. fece editto proibendogli, e condennandogli
ad essere bruciati; e lo stesso fu fatto de' libri di Porfirio[34].
I Padri del Concilio Efesino dannarono gli scritti di Nestorio, e
l'Imperadore promulgò legge proibendone la lezione e la difesa[35]. Il
Concilio di Calcedonia condennò gli scritti d'Eutiche: e gl'Imperadori
Valentiniano e Marciano feron legge, dannandogli ad esser bruciati[36].
Il medesimo fu praticato da Carlo M.[37], e così dagli altri Principi
ancora ne' loro dominj. E per non andar tanto lontano, Carlo V nel
1550 promulgò in Brusselles un terribile editto contro i Luterani, nel
quale, fra le altre cose, proibì rigorosamente i libri di Lutero, di
Giovanni Ecolampadio, di Zuinglio, di Bucero e di Giovanni Calvino, li
quali da 30 anni erano stati impressi, e tutti quelli di tal genere
che da' Teologi di Lovanio erano stati notati in un loro Indice a
questo fine fatto[38]; poichè a' Principi appartiene che lo Stato non
solamente da' libri satirici, sediziosi e scostumati o pieni di falsa
dottrina non venga perturbato, ma anche da perniziose eresie. E siccome
a' Vescovi s'appartiene la censura, perchè la disciplina o la dottrina
della Chiesa non sia corrotta; così a' Principi importa che lo Stato
non si corrompa, e che li suoi sudditi non s'imbevino d'opinioni,
che ripugnino al buon governo: nel che ora più che mai è bisogno, che
veglino per le tante nuove dottrine introdotte contrarie all'antiche
ed a' loro interessi e supreme regalie; poichè da quelle ne nascono
le opinioni, le quali cagionano le parzialità che terminano poi in
fazioni, e finalmente in asprissime guerre. Sono parole sì, ma che in
conseguenza han sovente tirati seco eserciti armati.

Nel nostro Regno i nostri Re ributtaron sempre con vigore questi
attentati, e si lasciò a' Vescovi la sola censura, ma non che sotto
pene temporali potessero vietar le stampe: nè che queste proibizioni
s'appartenessero ad essi unicamente, ma furon anche dai nostri Re fatte
o da' loro Vicerè, ed in cotal guisa fu mai sempre praticato.

Papa Lione X a' 4 maggio del 1515 pubblicò una Bolla, che fece
approvare dal Concilio Lateranense, colla quale proibì che non si
potessero stampare libri senza licenza degli Ordinarj ed Inquisitori
delle Città e Diocesi, dove dovranno stamparsi: ponendovi pena che
quelli che gli stampassero senza questa approvazione, perdessero
i libri, li quali dovessero pubblicamente bruciarsi. Di vantaggio
impose pena pecuniaria, di doversi pagare da trasgressori ducati cento
alla fabbrica di S. Pietro di Roma, e che gli Stampatori per un anno
restassero sospesi dall'esercizio di stampare: gli dichiara ancora
scomunicati, e persistendo nella censura, che siano gastigati conforme
i rimedj della legge.

Ma questa Bolla, per quello che s'attiene alla pena pecuniaria e
sospension dell'esercizio e perdita dei libri, non fu fatta valere nel
nostro Regno, e sol ebbe vigore nello Stato della Chiesa.

Il Concilio di Trento nella sessione 4[39], che fu celebrata a' 8
Aprile del 1546, ancorchè avesse proibito agli Stampatori di stampare
senza licenza de' Superiori ecclesiastici libri della Sagra Scrittura,
annotazioni e sposizioni sopra di quella: e che non si stampassero
libri di cose sagre senza nome dell'Autore, nè quelli si vendessero o
tenessero, se prima non saranno esaminati ed approvati dagli Ordinarj,
sotto quelle pene pecuniarie e di scomunica apposte nell'ultimo
Concilio Lateranense; nulladimanco questo capo, per ciò che riguarda
la pena pecuniaria, non fu ricevuto nel Regno, ed agli Ordinarj si è
lasciato di poter solo imporre spiritual pena, non già pecuniaria o
temporale.

Si mantennero ancora i nostri Re, ovvero i loro Vicarj nel possesso
di proibirli, stabilendo molte prammatiche e editti, colle quali
proibirono le stampe senza lor licenza; ed abbiamo che D. Pietro
di Toledo Vicerè, mentre regnava l'Imperador Carlo V, diede ancor
egli provvedimenti intorno alla stampa de' libri, ed a' 15 ottobre
del 1544 promulgò una prammatica, colla quale ordinò che i libri di
teologia e sagra scrittura, che si trovassero stampati nuovamente da
25 anni in quà, poichè per la pestilente eresia di Lutero sparsa per
la Germania, cominciava a corrompersi la dottrina e disciplina della
Chiesa romana, non si ristampassero, e quelli stampati non si potessero
tenere nè vendere, se prima non si mostrassero al Cappellan maggiore,
acciò quelli visti e riconosciuti potesse ordinare quali si potessero
mandar alla luce. Di vantaggio, che quelli libri di teologia e sagra
Scrittura, che fossero stampati senza nome dell'autore, e quegli
altri ancora, i di cui Autori non sono stati approvati, che in nessun
modo si potessero vendere nè tenere. E poi nel 1550 a' 30 novembre
stabilì un'altra prammatica, colla quale generalmente ordinò, che non
si potesse stampare qualsivoglia libro senza licenza del Vicerè, nè
stampato vendersi.

Il Duca d'Ossuna Vicerè, nel medesimo tempo che il Pontefice Sisto V
stabilì in Roma la Congregazione dell'_indice_, a' 20 marzo del 1586,
regnando Filippo II, promulgò altra prammatica colla quale ordinò, che
gli autori del Regno o abitanti in esso, non facessero stampar libri nè
in Regno, nè fuori senza licenza del Vicerè _in scriptis_. E finalmente
il Conte d'Olivares, che fu Vicerè nel Regno di Filippo III, a' 31
agosto del 1598 fece anche prammatica, proibendo agli Stampatori di
poter aprire stamperie nè casa per istampare, senza espressa licenza
del Vicerè _in scriptis_.

Quindi nacque presso noi il costume di destinarsi dal Vicerè, Ministro
o altra persona per la revisione de' libri: e ciò vedesi praticato
sin da' tempi del Duca d'Alcalà Vicerè, il quale a' 23 novembre del
1561 spedì commessione, che fu poi rinovata a' 8 maggio 1562, al P.
Valerio Malvasino persona da lui ben conosciuta d'integrità e dottrina,
deputandolo Regio Commessario a vedere e riconoscere i libri, che
venivano da Germania, dalla Francia e da altre parti nel Regno di
Napoli, perchè trovatili infetti d'eresia proibisse di venderli o
di tenerli[40]. Fu da poi destinato Ministro regio di sperimentato
zelo verso il servizio del Re, e d'eminente dottrina: questo costume
l'abbiam veduto continuato sin a' tempi de' nostri avoli; ma ora queste
revisioni soglionsi commettere anche ai privati, e sovente a persone
di poca buona fede e di molto minor dottrina: ciò ch'è un abuso, che
meriterebbe un conveniente rimedio.

Si è ritenuto ancora presso noi il costume di proibirli, quando o
contra i buoni costumi, o contra i diritti del Principe della nazione,
ovvero contra la fama e riputazione d'alcuni, siansi composti; siccome
a dì nostri dal Vicerè e suo collateral Consiglio fu proibito un libro,
per altro sciocchissimo e pieno di inezie, che il Marchese Gagliati
diede alle stampe sotto il titolo di _capricciose fantasie_.

Queste proibizioni erano praticate, siccome tuttavia si pratica
sopra qualunque libro o scrittura anche dei Prelati o altre persone
ecclesiastiche, che venisse preteso di stamparsi. Nel Regno di Filippo
II il Nunzio del Papa residente in Ispagna portò querela al Re Filippo
contro il Duca d'Alcalà suo Vicerè in Napoli, il quale avea proibito
agli Stampatori d'imprimer cosa alcuna senza sua licenza, e che
perciò l'Arcivescovo di Napoli e tutti gli altri Prelati del Regno non
potevano far stampare cosa alcuna, anche concernente al loro uficio:
di che il Re Filippo ne scrisse al Duca, il quale a' 17 aprile 1569
l'informò di ciò che occorreva con piena consulta, dicendogli che egli
avea fatto quell'ordine, perchè il Vicario di Napoli, siccome tutti
gli altri Prelati del Regno, stampavano molti editti pregiudiciali
alla regal giurisdizione, e sovente facevano imprimere Bolle, alle
quali non era stato conceduto l'_Exequatur Regium_[41]. Quindi postosi
silenzio alle pretensioni del Nunzio, nacque che poi i Vescovi quando
volevano stampare i loro Sinodi, i loro editti, insino i calendarj
circa l'osservanza delle loro diocesi, anche i Brevi dell'indulgenze
concedute dal Papa alle loro chiese e cose simili, ricorrevano al
Vicerè e suo collateral Consiglio per la licenza. Così leggiamo,
che volendo l'Arcivescovo di Napoli Annibale di Capua stampar un
Concilio provinciale, cercò licenza di farlo, e dal Collaterale, a
primo febbrajo del 1580, gli fu data con riserba, che se in quello
vi era alcuna cosa contro la regal giurisdizione, si avesse per non
data nè consentito a quella in modo alcuno. L'Arcivescovo di Capua
per mezzo del suo Vicario chiese il permesso di poter far stampare un
nuovo Calendario circa l'osservanza delle feste della sua Diocesi, e
rimessane la revisione al Cappellan maggiore, questi a' 5 novembre
del 1582 fece relazione al Vicerè, che poteva darsi la licenza. Il
Vescovo d'Avellino dimandò l'_Exequatur Regium_ e la licenza di poter
far stampare un Breve d'indulgenze concedute dal Papa alla sua Chiesa
nel dì di S. Modestino, e commessosi l'affare al Cappellan maggiore,
questi a' 26 aprile del 1577 fece relazione al Vicerè che potevasi dare
l'_Exequatur_ al Breve e la licenza di stamparlo[42]. Ciò che poi si
è inviolabilmente osservato, sempre che i Ministri del Re han voluto
adempire alla loro obbligazione ed aver zelo del servigio del loro
Signore.


§. II. _Abusi intorno alle proibizioni de' libri che si fanno in Roma,
le quali si pretendono doversi ciecamente ubbidire._

Bisognò ancora rintuzzare un'altra pretensione della Corte di
Roma intorno a quest'istesso soggetto della proibizion de' libri.
Pretendevano, che a chiusi occhi i Principi cristiani dovessero far
valere ne' loro dominj tutti i decreti che si profferivano in Roma
dalle Congregazioni del S. Ufficio o dell'_Indice_, per li quali
venivano i libri proibiti, e che non stassero soggetti questi decreti
a' loro _Regj placiti_, onde dovessero da noi eseguirsi, senza bisogno
d'_Exequatur Regium_. Della cui necessità e giustizia, sarà da noi
diffusamente trattato ne' seguenti libri di quest'Istoria.

Ma non meno in Francia che in Ispagna, in Germania, Fiandra ed in tutti
gli altri Stati de' Principi cattolici, che nel nostro reame (sempre
che s'abbia voluto usare la debita vigilanza) fu lor ciò contrastato,
e come ad un attentato pregiudizialissimo alla sovranità de' Principi,
se gli fece valida l'esistenza; tanto che siccome tutte le Bolle,
rescritti ed altre provisioni che vengono di Roma, non si permettono,
che si pubblichino e si ricevano senza il _placito Regio_; così ancora
i decreti fatti sopra la proibizione de' libri soggiacciano al medesimo
esame. Anzi se mai i Principi ed i loro Ministri devono usar vigilanza
nelle altre scritture che vengono di Roma, in questi decreti devono
usarla maggiore; così perchè si sa la maniera, come in Roma i libri si
proibiscono, come ancora il fine perchè si proscrivono, ed i disordini
e scandali che potrebbero cagionare ne' loro dominj, se si lasciassero
correre a chiusi occhi.

Si sa che i Cardinali che compongono queste due Congregazioni onde
escono tali decreti, non esaminano essi i libri: alcuni per la loro
insufficienza, altri perchè distratti in occupazioni riputate da
essi di maggiore importanza, non possono attendere a queste cose, e
molto meno il Papa, da chi sarebbe impertinenza il pretenderlo. Essi
commettono l'esame ad alcuni Teologi che chiamano _Consultori_, ovvero
_Qualificatori_, per lo più Frati, i quali secondo i pregiudicj delle
loro scuole regolano le censure. Ciò, che non consente colle loro
massime, riputano novità, e come opinioni ereticali le condannano.
I Casuisti, che s'han fatta una morale a lor modo, giudicano pure
secondo que' loro principj. Ma il maggior pregiudicio nasce quando
si commette l'affare a' Curiali istessi ed agli Ufficiali e Prelati
di questa Corte per esaminar libri attenenti a cose giurisdizionali;
può da se ciascun comprendere, quanto in ciò prevaglia l'adulazione
in ingrandire l'ecclesiastica e deprimere la temporale. Si sa quanto
da costoro s'estolle sopramodo l'autorità del romano Pontefice sopra
tutti i Principi della terra, insino a dire che il Papa può tutto,
e la sua volontà è norma e legge in tutte le cose: che i Principi
ed i Magistrati siano invenzioni umane; e che convenga ubbidir loro
solamente per la forza; onde il contraffar le loro leggi, il fraudar
le gabelle e le pubbliche entrate, non sia cosa peccaminosa, ma
solo gli obbliga alla pena, la quale o colla fuga o colla frode non
soddisfacendosi, non per ciò restano gli uomini rei innanzi la Maestà
Divina, compensandosi col pericolo che si corre: ma per contrario, che
ogni cenno degli Ecclesiastici, senza pensar altro, debbia esser preso
per precetto divino ed obblighi la coscienza. Sono tanti arghi e molto
solleciti e vigilanti, perchè non si divulghi cosa contraria a queste
loro mal concepite opinioni. Ed è ormai a tutti per lunga esperienza
noto, che la Corte di Roma a niente altro bada più sollecitamente che
di proscrivere tutti i libri che sostenendo le ragioni de' Principi, i
loro privilegj, gli statuti, le consuetudini de' luoghi e le ragioni
de' loro sudditi, contrastano queste nuove loro massime e perniziose
dottrine.

Fatte che hanno questi _qualificatori_ le censure le portano a'
Cardinali, i quali senza esaminarle in conformità di quelle condannano
i libri. E lo stile d'oggi in formar tali decreti è pur troppo
grazioso: si condanna semplicemente il libro, senza censura e senza
esprimersi o designarsi niuno particolar errore, che avrebbe forse
potuto dar occasione alla proibizione; ma generalmente come continente
proposizioni ereticali, scismatiche, erronee contro i buoni costumi,
offendenti le pie orecchie e cose simili, e senza impegnarsi a spiegare
quali siano l'ereticali, l'erronee etc. se ne liberano con una parola
_respective_, lasciando l'autore ed i lettori nell'istessa incertezza
ed oscurità di prima. L'esperienza ha poi mostrato, che per queste
sorti di proibizioni ne siano nate presso i Teologi stessi gravi
contrasti, li quali sovente han perturbato lo Stato, perchè accaniti i
Frati di opinione contraria, non han mai finite le risse e le contese.

Parimente a questi decreti sogliono andar congiunte alcune clausole
penali contro i lettori e detentori dei vietati libri che sovente
toccano la temporalità de' sudditi o conturbano i privilegj ed i
costumi delle province. Sovente per alcuni errori che si trovano sparsi
in un libro, che a' Professori ed alla Repubblica sarà utilissimo,
si proibisce interamente il libro; onde lo Stato viene a riceverne
incomodo e danno.

Per tutte queste ed altre ragioni, non meno i più saggi Teologi[43],
che la pratica inconcussa di tutte le province d'Europa, han fatto
vedere che si appartenga al Principe, non meno che fassi nell'altre
provisioni che vengono da Roma, d'invigilare sopra questi decreti.
Qualunque decreto che venga da Roma da queste Congregazioni o editto
che si faccia dal Maestro del Sagro Palazzo, onde vengono i libri
vietati, non è stato mai esente dal _placito regio_ ma fu sempre
sottoposto ad esame: siccome lo stile di tutte le province cristiane
il quale ebbe il suo principio, sin che da Roma cominciarono ad uscire
queste proibizioni, lo dimostra. E ben si vide praticato nell'_Indice_
stesso volgarmente detto _Tridentino_, fatto compilare dal Pontefice
Pio IV poco da poi terminato il Concilio.

Secondo l'antica disciplina della Chiesa, la censura de' libri
s'apparteneva a Concilj, siccome il Concilio Niceno, Efesino e di
Calcedonia fecero de' libri d'Arrio, di Nestorio e d'Eutiche. Volendo
i PP. del Concilio di Trento seguitare le medesime pedate, da poi
che quello fu ripigliato sotto il Pontefice Pio IV, proposero in una
Congregazione tenuta in Trento a' 26 gennaio del 1562 che dovessero
esaminarsi i libri dati fuori dopo l'eresie nate in Germania ed
altrove, e sottoporsi alla censura del Concilio, acciò che determinasse
quello, che gli parrebbe: fu conchiuso, che si commettesse ad alcuni
PP. la cura di farne Catalogo, ovvero _Indice_ di quelli e de' loro
Autori; siccome da' Presidenti di esso fu data la commessione a
diciotto Padri, a' quali poi con decreto del Concilio fu incaricato,
che diligentemente esaminassero i libri riferendo poi al Sinodo ciò che
aveano notato, per darvi providenza[44]. Essendosi da poi affrettata
la conchiusione del Concilio, di quest'affare dell'_Indice_ non se
ne trattò altro, ma solamente nell'ultimo giorno che quello ebbe
fine, essendosi letto il decreto della sessione 18 fu risoluto, che
non essendosi potuto dal Concilio porre a quest'affare l'ultima mano
per tanta moltitudine e varietà di libri, ordinava per ciò che tutto
quello, che i Padri destinati alla cura di quest'Indice avean fatto,
che lo presentassero al Pontefice, dalla cui autorità e parere si
determinasse l'_Indice_ e fosse divulgato.

In conformità di ciò, essendosi disciolto il Sinodo fu da que' Padri
presentato al Pontefice Pio IV un _Indice_, ove aveano notati gli
Autori ed i libri, che riputavano doversi proscrivere. Il Pontefice,
come egli testimonia nella sua Bolla pubblicata per ciò in forma
di Breve, che incomincia: _Dominici gregis_, fece esaminar da altri
dotti Prelati l'_Indice_, e dice averlo anche egli letto; onde lo fece
pubblicare con alcune _Regole_, che si dicono perciò dell'_Indice_,
dando fuori quella Bolla, nella quale comanda, che quell'_Indice_ con
le _Regole_ ivi aggiunte, debba da tutti riceversi, ed osservarsi sotto
gravissime pene e censure. Minacciansi tutti coloro, che leggeranno, o
riterranno quei libri in quest'Indice contenuti: dichiara, che questa
proibizione, dopo tre mesi, da che sarà la Bolla pubblicata ed affissa
in Roma, obbligherà tutti in maniera, _ac si ipsismet hae literae
editae, lectaeque fuissent_[45].

Fu quest'Indice diviso in tre classi. Nella prima, non i libri, ma i
nomi degli Autori solamente s'esprimono, perchè tutti conoscessero, che
venivano proibite non solo le opere già stampate, ma anche quelle da
stamparsi da loro. Nella seconda, si riferiscono i libri, i quali per
la non sana dottrina, o sospetta che contengono, si ributtano, ancorchè
gli Autori non fossero separati dalla Chiesa. La terza abbraccia quei
libri, che senza nome d'Autore uscirono alla luce e che contengono
dottrina, che, come contraria a' buoni costumi ed alla Chiesa romana,
si è riputato dannarla.

Ma siccome pubblicati che furon in Roma i decreti del Concilio, non per
ciò nell'altre regioni d'Europa furono quelli attinenti alla disciplina
ed alla riforma universalmente ricevuti, come al suo luogo diremo; così
ancora pubblicato che fu quest'_Indice_ in Roma, non ostante la Bolla
di Pio, non fu senz'esame ricevuto, nè accettato in tutte le sue parti
in Francia, in Spagna, nelle Fiandre ed in altre province cristiane.

Diedesi l'Indice ad esaminare a' Collegi, alle Università e ad uomini
dottissimi di ciascun paese. In Francia, la cosa è pur troppo nota, che
quelle Università vi vollero la lor parte, nè lo ricevettero in tutto
secondo il suo vigore.

In Spagna parimente il Re Filippo II lo fece esaminare dalle sue
Accademie ed Università, nè fu in tutto ricevuto; poichè fra gli altri
libri, l'opere di _Carlo Molinco_, arrolate nell'Indice Tridentino fra
gli Autori di prima classe, non tutte furono vietate, alcune furono
permesse, altre con piccola espurgazione parimente permesse. Quindi
sursero in Spagna, ed altrove gl'_Indici Expurgatorj_; poichè i Prelati
e le Università ed i Collegj di ciascuna provincia vollero in ciò
avervi anche la lor parte e credettero, che la lor censura fosse più
esatta per le province ove dimorano, ed il Principe sa meglio ciò che
nel suo Stato possa apportar quiete, o incomodo, o disordine, che non
si sa di fuori. Così in Spagna s'è introdotto stile di farsi questi
Indici. E dall'_Indice Expurgatorio_ fatto compilare per comandamento
del Cardinal Gaspare di Quiroga Arcivescovo di Toledo e General
Inquisitore di Spagna, ed impresso nel 1601, manifestamente si vede,
che in Spagna l'_Indice Tridentino_ non fu giammai in tutto e secondo
il suo rigore ricevuto.[46]

Parimente l'istesso Filippo II non solo ne' suoi Regni di Spagna,
ma in tutti gli altri suoi dominj, volle che l'istessa vigilanza si
fosse usata; e siccome fece de' decreti del Concilio, con maggior
ragione dovea premere, che per quest'Indice Tridentino si facesse.
Nella Fiandra divulgato che fu, non per ciò fu ciecamente ricevuto;
ma per autorità Regia si diede ad esaminare. Essendosi osservato, che
in quello si proscriveano molti libri in ogni facoltà e scienza, i
quali gastigati e purgati da alcuni errori e false opinioni, poteva
di quelli aversi buon uso e leggersi con utilità e profitto: narra
_Van-Espen_[47], dotto Prete e gran Teologo dell'Università di Lovanio,
che il Duca di Alba, allora Governatore di quelle province, in nome del
Re Filippo II comandò, che si fossero conservati que' libri proscritti
dall'Indice Romano, e solamente fece bruciare l'opere degli Eresiarchi.
Ma perchè da que' riserbati non si cagionasse danno, commise a' Prelati
ed alle Università ed agli uomini letterati di quelle province che
esaminassero que' libri, notassero gli errori e gli espurgassero,
con farne particolari Indici. Fu con ogni diligenza ciò eseguito e
presentati poi al Duca gl'Indici, instituì egli in Anversa un Collegio
di Censori, al quale per l'Ordine ecclesiastico presedè un Vescovo,
ed in nome del Re vi fu proposto il famoso Teologo Arias Montano, quel
medesimo, ch'era intervenuto al Concilio in Trento. Questi Censori con
ogni diligenza e maturità esaminarono di nuovo i libri contenuti in
que' Cataloghi, conferirono i luoghi notati da' primi Censori con gli
esemplari, e ne formarono un'esatta Censura; dando poi fuori un libro,
al quale diedero questo titolo, _Index Expurgatorius_. Quest'Indice
poi nel 1570, per ispezial diploma del Re Filippo II, fu approvato, e
per sua regal autorità fu comandato, che s'imprimesse, come fu fatto e
di quello si servirono poi tutte quelle province, non già del Romano.
Erano questi due Indici fra loro differenti: in questo _Expurgatorio_
di Fiandra, più libri, che per l'Indice romano erano assolutamente
proscritti, furono ritenuti e permessa la lor lezione, essendosi solo
in alcuni usata qualche espurgazione ed emendazione: siccome, per
tralasciarne molti, fu fatto dell'opere istesse di _Carlo Molineo_,
affatto proscritte e totalmente condannate dall'Indice Romano, le
quali con piccola emendazione furono permesse. Il Commentario alle
Consuetudini di Parigi dello stesso Molineo, fu senz'alcuna correzione
ritenuto, dicendosi: _In hoc opere nihil est, quod haeresim sapiat,
quapropter admittitur. De' suoi trattati De donatione, et inofficioso
testamento,_ pur si disse: _Nihil habent, quod Religioni adversetur,
aut pias aures offendere possit, quapropter admittitur_. E così di
molte altre sue opere fu giudicato.

Questa fu la pratica, che cominciò ne' Dominj dei Principi cristiani,
nell'istesso tempo che da Roma si cominciarono a far Indici proibitorj
di libri. Molto più fu ne' seguenti tempi continuata, quando i
Principi s'accorsero, che in Roma si badava molto a questo affare,
e ch'era entrata in pretensione di poter sola proibire i libri, e
che senza altra promulgazione ed accettazione, che di quella fatta
in Roma, nelle altre province dovesse valere ciò che in Roma veniva
stabilito. Fondossi a tal effetto nel Pontificato di Sisto V una nuova
Congregazione di Cardinali, chiamata per ciò dell'_Indice_: e così
questa, come l'altra del S. Uficio, ed il Maestro del Sagro Palazzo
Appostolico, non badavano ad altro. Ma non perciò s'arrestarono i
Principi ne' loro Reami far valere le loro ragioni e preminenze, così
di non permettere impressione di libro alcuno senza lor licenza, nè
senza il consueto _exequatur regium_ far osservare le proibizioni di
Roma, come anche di proibire essi i libri, come si è detto di sopra.

La loro vigilanza vie più crebbe, quando s'accorsero, che in Roma
erano più frequenti, che prima le proibizioni; e che qualunque libro
che usciva, nel quale si difendevano le regalie di qualche Principe,
o si facevano vedere le intraprese della Corte di Roma sopra la loro
autorità e giurisdizione a' diritti delle Nazioni, erano pronti i
decreti della Congregazione dell'Indice, e gli editti del Maestro del
Sagro Palazzo a proibirlo.

Per questa cagione furono avvertiti di non permettere, che simili
proibizioni fossero ne' loro Reami ricevute. I Re di Spagna, come dice
Salgado[48], non meno che i Re di Francia, avendo avvertito, che in
Roma erano questa sorte di libri affatto vietati, solo perchè in quelli
si fondavano le regalie e la giurisdizione de' Re e le ragioni de' loro
sudditi; per riparare ad un così grave pregiudizio, ordinarono, che
i Brevi appostolici e consimili decreti o editti fossero portati alla
suprema Inquisizione di Spagna, e secondo il costume usitatissimo ne'
Regni di Spagna, fossero _ritenuti_, nè permessa la loro pubblicazione
e molto meno l'esecuzione, affinchè non allacciassero le coscienze de'
sudditi per queste proibizioni, non ad altro fine procurate, che per
annientare le ragioni de' Principi e delle Nazioni.

Questo medesimo fecero valere nelle province di Fiandra, e quel ch'è
da notare, nel nostro Regno di Napoli ancora, cotanto a Roma vicino,
ed al quale sovente gli Spagnuoli, per vantaggiar le condizioni dei
Regni loro di Spagna, permisero, che molti aggravj dalla Corte di Roma
sofferisse.

Il Pontefice Clemente VIII, dopo la Giunta di Sisto V, accrebbe
l'Indice Romano e fatto di nuovo imprimere e pubblicare, in tutto
il tempo del suo Pontificato tenne così esercitata la Congregazione
dell'Indice ed il Maestro del Sagro Palazzo, che non vi fu anno, che
da Roma non uscissero decreti e editti proibitorj. Dal primo anno
del nuovo secolo 1601, e per li seguenti anni insino alla sua morte,
non uscivano altro da Roma, che questi decreti e editti, per li
quali furono successivamente proibiti molti libri di quasi tutte le
professioni e scienze, sol perchè o gli Autori erano separati dalla
Chiesa, o perchè sostenevano le regalie, o altre ragioni di Principi, o
perchè qualche errore fosse in quelli trascorso. Furono proibiti molti
libri legali, fra gli altri con molto rigore l'opere di _Molineo_, li
trattati di _Alberico Gentile_, di _Giovanni Corasio_, di _Scipione
Gentile_ e di tanti altri.

Infra questi il nostro reggente _Camillo de Curte,_ che, come diremo,
fu uno de' più rinomati nostri Professori di que' tempi, diede in
Napoli, nel 1605, alle stampe una sua opera intitolata: _Diversorii
juris Feudalis Prima, et Secunda Pars_: nella seconda parte della quale
trattò de' remedj, che sogliono praticarsi nel Regno per difesa della
giurisdizione regale, affinchè nè i diritti regali ricevano oltraggio,
nè i suoi vassalli siano oppressi da' Prelati, usurpando la regal
giurisdizione: dichiara in questo libro il modo solito e per lungo uso
stabilito di resister loro: cioè nel principio di farsegli una, due e
tre ortatorie: quando queste non bastano, di chiamargli: non obbedendo
alla chiamata, di sequestrar loro le temporalità e carcerare i parenti
più a lor congiunti, i servidori, anche gli amici: e per ultimo, non
volendo obbedire, di cacciargli dal Regno. Modi legittimi, permessi
ed approvati da una inveterata pratica di tutti i Regni d'Europa. Ma
il libro appena fu dato alla luce, che ecco si vide nel medesimo anno
uscir da Roma un editto, col quale fra gli altri libri venne anche
severamente proibito questo, con tali parole: _Camilli de Curtis
secunda pars Diversorii, sive Comprensorii juris Feudalis, Neapoli apud
Constantinum Vitalem 1605 omnino, et sub anathemate prohibetur_[49].

Il Conte di Benavente, che si trovava allora Vicerè in Napoli,
intesa la proibizione, non volle a patto veruno concedere _Exequatur_
all'editto; anzi a' 14 decembre del medesimo anno, scrisse una grave
consulta al Re Filippo III, nella quale fra l'altre cose occorsegli in
materia di giurisdizione, gli diè raguaglio di questa proibizione fatta
del libro del Reggente in Roma, sol perchè in questo si dichiaravano
que' rimedj ed i diritti di S. M. che ha in simili occorrenze,
rappresentando al Re, che contro questo abuso bisognava prendere
risoluti e forti espedienti, perchè altramente ciò soffrendosi, non vi
sarebbe chi volesse difendere la regal giurisdizione[50].

Parimente nel 1627, sotto il Pontificato di Urbano VIII, dalla
Congregazione dell'Indice uscì un decreto sotto la data de' 4 febbrajo
di quell'anno, dove oltre la proibizione fatta d'alcune opere legali
di _Treutlero_, di _Ugon Grozio_ e dell'Istoria della giurisdizion
pontificia di Michele Roussel, fu anche proibito un libro che D. Pietro
Urries avea allora pubblicato in Napoli in difesa del Rito 235 della
nostra G. C. della Vicaria, intorno a' requisiti del Chericato, da
riconoscersi da quel Tribunale; e perchè quel Rito, ancorchè antico,
non mai però interrotto, si oppone alle nuove massime della Corte
di Roma, fu tosto il libro proibito in Roma: _Petri de Urries liber
inscriptus: Aestivum otium ad repetitionem Ritus 235 M. C. Vicariae
Neapolitanae_[51]. Ma il Duca d'Alba Vicerè non fece valere nel Regno
quel decreto, e ne scrisse al Re, da cui ne ricevè risposta sotto li 10
agosto del detto anno, maravigliandosi della proibizione fatta in Roma
di quel libro dove non si difendeva, che un Rito antichissimo della
Vicaria del Regno[52].

Questa vigilanza si tenne presso di noi, quando si volevano far valere
i nostri diritti e le nostre patrie leggi ed istituti; poichè noi,
affinchè non si ricevano bolle, brevi, decreti, editti ed in fine
ogni provisione di Roma senza l'_Exequatur Regium_, ne abbiamo legge
scritta stabilita dal Duca d'Alcalà nel 1561, quando vi era Vicerè, e
che leggiamo ancora impressa nei volumi delle nostre Prammatiche[53]:
requisito che in conformità della legge era necessario, e si praticava
anche ne' decreti che venivano da Roma, per li quali si proibivano
i libri: ed in ciò il Regno nostro non ha che invidiare (quando si
voglia) nè a Francia, nè a Spagna, nè a Fiandra, nè a qualunque altro
Principato più ben istituito e regolato del Mondo Cattolico.

In Francia è a tutti noto che non han forza alcuna simili Bolle
o Decreti proibitorj di Roma: sono quelli ben esaminati, e se si
trovano a dovere, si eseguiscono, altrimente si rifiutano. Ciò che
non potrà più chiaramente dimostrarsi, se non per quello che accadde
nella proibizione dell'opere di _Carlo Molineo_. Avendo la Corte di
Roma saputo, che non ostante l'indice Romano, per cui erano state
affatto quelle proibite, venivano lette in tutti i Regni d'Europa,
particolarmente in Francia ed in Fiandra, le cui Università e Censori,
avendole solamente espurgate d'alcuni errori, le permettevano, tanto
che giravano per le mani di tutti i Giureconsulti e d'altri Letterati,
e tenute in sommo pregio; Clemente VIII riputando ciò a gran dispregio
della Sede Appostolica, a' 21 Agosto del 1602, cavò fuori una terribile
Bolla, colla quale sotto gravissime pene e censure proibì di nuovo
assolutamente tutti i suoi Libri, anche gli Espurgati, dicendo, che
_non aliter quam igne expurgari possint_. Rivocò per tanto tutte le
licenze date, e volle che per l'avvenire affatto non si concedessero.
Quindi nacque il moderno stile delle Congregazioni del S. Officio e
dell'Indice, che nelle licenze, che si concedono, quantunque ampissime
di legger libri, anche laidissimi e perniziosi, si soggiunga sempre:
_Exceptis operibus Caroli Molinei_. Fu pubblicata questa Bolla,
secondo il solito, in Roma a' 26 agosto di quell'anno 1602, ed affissa
_ad valvas Basilicae Principis Apostolorum in acie Campi Florae_,
soggiungendosi che tutti _ita arctent, ac afficiant, perinde ac si
omnibus, et singulis intimatae fuissent_.

Ma che pro? niente valse questa Bolla, nè in Francia, nè nelle Fiandre,
nè altrove: l'opere di questo insigne Giureconsulto niente perderono
di pregio, nè erano meno stancate da' Professori ora di prima: tutti i
Giureconsulti, ed ogni Pratico l'ebbe tra le mani, ed era più studiato
quest'Autore, e più frequentemente allegato nel Foro che Bartolo e
Baldo; e resesi così necessario, che, come dice Bertrando Loth[54],
nella Francia ed in Fiandra niuno insigne Pratico o Avvocato può
starne di senza, particolarmente nell'Artesia, dove le Consuetudini
di quella Provincia essendo simili a quelle di Parigi, gli scritti di
questo Autore sono stimati più di tutti gli altri, e molta autorità ha
ottenuto ne' loro Tribunali.

I Prammatici franzesi gli hanno così famigliari che non vi è arringo o
scrittura che si faccia, che non sia ripiena di allegazioni tratte da
quelli in qualunque materia, sia di ragion civile o canonica. Ma niun
argomento più convince non essere stata in Francia ricevuta questa
Bolla, e di non essersi di tal proibizione tenuto alcun conto, quanto
quella magnifica ed esatta _Edizione_ fatta modernamente di tutte le
Opere di questo Autore in Parigi, e proccurata per opera ed industria
di _Francesco Pinson_ il giovane, celebre Avvocato di Parigi, il quale
oltre avervi aggiunte alcune sue note molto erudite ed accomodate alla
moderna pratica, aggiunse ancora alle suddette opere alcune altre
appartenenti alla materia ecclesiastica, che compongono il quarto e
quinto tomo. Fu divolgata questa edizione in Parigi in cinque volumi,
con espresso privilegio del Re, perchè più chiaramente si conoscesse
nel Regno di Francia non essersi tenuta in niun conto la proscrizione
di Roma.

Ed in vero non meritavan tanta abbominazione l'Opere di questo Autore,
che dovesse portar tanto orrore, il quale, ancorchè non bene sentisse
in vita colla Chiesa romana, morì poi Cattolico; e se si permettono,
come bene a proposito osservò _Van-Espen_[55], l'opere de' Gentili,
ancorchè piene di lascivie e di laidezze, che possono con facilità
corrompere i costumi dei giovani; perchè non s'avran da permettere
l'opere d'un così insigne Giureconsulto per la loro gravità, dottrina
ed erudizione, dalla lezione delle quali possono ritrarre gran frutto?
Tanto maggiormente che se bene in quelle vi siano mescolate alcune
cose che non bene convengono colla dottrina della Chiesa romana, hanno
a ciò rimediato colle loro note, ed avvertimenti Gabriele de _Pineau_
e Francesco _Pinson_, in maniera che ora è più facile di poter essere
contaminati i giovani dalla lezione de' libri lascivi de' Gentili, che
il Giureconsulto cristiano possa essere in pericolo, leggendolo, di
deviare dalla dottrina della Chiesa Cattolica.

Altri esempi non meno illustri potrebbero raccorsi dalla Francia e
dalle province di Fiandra, che convincono il medesimo: come delle
proscrizioni fatte in Roma del Libro di _Cornelio Giansenio_ Vescovo
d'Iprì, intitolato _Augustinus_, e della Bolla per ciò emanata dal
Pontefice Urbano VIII nel 1643, che comincia: _In Eminenti_; delli
decreti profferiti in Roma dalla Congregazione del S. Ufficio sotto li
6 settembre del 1657 per li quali, fra l'altre, furono proscritte le
Lettere volgarmente chiamate _Provinciali_; della Bolla d'Alessandro
VII promulgata in Roma nel 1665, per la quale furon proscritte due
_Censure della Facoltà di Parigi_, non fatte valere nè in Francia,
nè in Fiandra: e di tante altre delle quali Van-Espen trattò
diffusamente[56].

Solo non abbiam riputato tralasciare in quest'occasione di notare, che
per tutti i Regni d'Europa i Principi hanno invigilato soprammodo, che
da Roma non si proscrivano libri che difendono la loro giurisdizione e
le prerogative de' loro Popoli; e con tutto che fossero da quella Corte
stati proibiti, non han fatta valere ne' loro Stati la proibizione,
nè permesso che i decreti fossero ricevuti, tanto che senza scrupolo
vengon letti, nè la proibizione curata; poichè hanno essi scoverto
l'arcano di Roma, e quanto importa, che i loro sudditi non s'imbevino
d'opinioni che ripugnano al buon governo.

Ne' Regni di Spagna, come si è detto, i decreti venuti di Roma, onde si
proibiscono i libri che difendono l'autorità regia, sono _ritenuti_ e
si sospende l'esecuzione[57].

In Francia la cosa è notissima, e tra le prove della libertà della
Chiesa gallicana[58], si legge un arringo fatto dall'Avvocato del Re
Domenico _Talon_ nel Consiglio regio, per occasione d'un consimile
decreto emanato dalle Congregazioni del S. Ufficio e dell'Indice,
dove fa vedere che simili decreti non debbono pubblicarsi, come
pregiudizialissimi alla Corona ed allo Stato; ed avverte che far il
contrario cagionerebbe gravi disordini; poichè da quelle Congregazioni
tuttavia l'Indice _proibitorio ed espurgatorio_ di libri si va
accrescendo, ed alla giornata prende augumento, e si proscrivono libri
in diminuzione delle Regalie del Re e libertà della Chiesa gallicana,
siccome eransi avanzati di proibire sino agli _Arresti_ del Parlamento
contra Giovanni Castelli, l'opere dell'illustre Presidente, _Tuano_,
le libertà della Chiesa gallicana ed altri Libri concernenti la persona
del Re e la sua regal giurisdizione.

In Fiandra dal Consiglio di Brabante co' medesimi sensi ne fu avvertito
l'Arciduca Leopoldo, a cui nel 1657 dirizzarono que' Consiglieri una
Consulta, nella quale l'ammonirono, che trascurare questo punto sarebbe
l'istesso che rovinar l'imperio; perchè già con lunga esperienza s'era
veduto, che Roma non fa altro, che proscrivere que' libri che difendono
la Regia autorità, tanto che ricevere quelli decreti senz'esame e senza
il _Placito Regio_, è il medesimo che permettere che il Papa possa
proscrivere ed interdire al Re di far editti o far imprimere libri
o scritti, per li quali sono difese le ragioni sue regali e de' suoi
vassalli. E confermando tutto ciò con esempj di fresco accaduti, gli
raccordarono che intorno a quattro anni furono in Fiandra impressi due
scritti, uno sotto il titolo: _Jus Belgarum circa Bullarum receptionem;
_ l'altro: _Defensio Belgarum contra evocationes, et peregrina
Judicia_. In quelli non si toccava niun dogma o articolo di fede, ma
unicamente si difendevano le ragioni di S. M. di non ammettersi Bolle
senza il _Placito Regio_: ciò non ostante, erano stati da Roma con
decreto Pontificio proscritti: tanto che bisognò che il Consiglio del
Brabante con suo decreto facesse cassare ed annullare la proibizione,
come si legge dell'arresto rapportato da Van-Espen nel suo Trattato _De
Placito Regio_[59].

Questa medesima vigilanza tennero anche un tempo i nostri Vicerè, e
sopra tutti, come vedremo ne' seguenti libri di quest'Istoria, il
Duca d'Alcalà: la tennero ancora il Conte di Benavente ed il Duca
d'Alba, per la proibizione fatta a libri del _Curte_ e d'_Urries_; ma
ora par che in ciò siasi perduto quel vigore e zelo che si dovrebbe
tenere del servigio Regio e del Pubblico; e siansi alquanto i Ministri
del Re raffreddati in un punto cotanto importante: ciò che hammi
mosso a far questa digressione. Non solo si veggono uscir da Roma
libri pregiudizialissimi alle ragioni del Re e de' suoi vassalli,
ma si permette che s'introducano nel Regno, e la loro lezione non è
vietata; ma quello che merita più tosto riscotimento che ammirazione,
è il vedersi che all'incontro si proibiscono in Roma ogni dì colla
maggior facilità tutti i libri, ove si difendono, contro gli attentati
di quella Corte, le ragioni del Re e delle Nazioni; e senza che i
Decreti o Bolle siano qui ricevute, senza che vi s'interponga _Regio
Exequatur_, che presso noi è per legge scritta indispensabile a tutte
le provisioni che vengano da Roma, niuna eccettuata, si permette
l'effetto, non si puniscono chi le osserva, e si crede il suddito
peccare leggendogli contro il divieto di Roma, e non peccare rompendo
la legge del Principe, per la quale queste provisioni, quando non siano
avvalorate di _Regio placito_, si riputano nulle e di niun vigore,
ed in effetto, è come se non vi fossero. E qual maggiore stupidezza
fu quella ne' trascorsi anni tra noi usata, che contendendosi tra la
Corte di Roma, e 'l nostro Re intorno a' _Benefici_ che giustamente
si pretendono doversi conferire a' Nazionali, ed il Principe l'avea
con suo _Editto_ comandato; appena uscite tre nobili Scritture, che
difendevano l'_Editto_, e lo dimostravano conforme non meno alle leggi,
che a' canoni, si videro tosto in Roma con particolar Bolla di Clemente
XI proscritte e condannate alle fiamme, e noi taciti e cheti non farne
alcun risentimento; ed all'incontro le contrarie girar attorno libere e
franche, senza che si fosse lor dato il minimo impedimento? Anzi siam
ridotti a tal vano timore, che non s'ardisce di dar alle stampe opere
per altro utilissime, sol perchè si temono queste proscrizioni di Roma.

All'incontro non avviene così de' libri di Roma, che sono stampati
e cento volte ristampati, e corrono sempre per le mani di tutti,
donde la gente viene universalmente imbevuta di quelle opinioni
pregiudizialissime all'autorità del Re ed alle ragioni de' Popoli.
Forse altri dirà, non doversi di ciò molto curare, e non piatire in
ogni passo per vane parole: non l'intende però così Roma. Sono parole
sì, ma, come altri disse, parole che tirarono alle volte eserciti
armati: parole che istillate continuamente agli orecchi dei Popoli,
gli rendono persuasi di ciò che scrivono, onde nasce l'avversione,
la contumacia e l'indocilità di non potergli poi più ridurre alla
diritta via: condannano perciò nelle occasioni la parte del Principe,
stimano noi miscredenti, e che si voglia colla forza solo sopraffargli.
Empiono di false dottrine le coscienze degli uomini, e sovente
pregiudizialissime allo Stato; onde nasce che si creda da alcuni
potersi usar fraude ne' pagamenti de' dazj e delle gabelle; e se siano
imposte senza licenza della Sede Appostolica, credono che non siano
dovute, perchè così leggono nella Bolla _in Coena Domini_, e così ne'
loro Casuisti e Teologi. Quindi s'apprendono i tanti alti concetti
della potenza e giurisdizione ecclesiastica, ed all'incontro i tanto
bassi della potestà del Principe[60]. Ma di ciò sia detto abbastanza e
prendane chi può e deve di ciò cura e pensiero. Di questa mia qualsisia
opera ben prevedo che l'abbia da intervenire lo stesso; ma io che,
nè per odio, nè per altrui compiacenza ho intrapreso a scriverla, ma
unicamente per amor della verità, e per giovare a coloro che vorranno
prendersi la pena di leggerla, se ciò l'avverrà, rivolto al Signore
che scorge i cuori di tutti ed a cui niente è nascoso, lo pregherò
vivamente che la benedica egli, ed istilli negli altrui petti sensi di
veracità e d'amore.



CAPITOLO V.

_Re FERDINANDO I riforma i Tribunali e l'Università degli Studj:
ingrandisce la città di Napoli e riordina le province del Regno._


Non solo a questo Principe deve la città e Regno di Napoli, per avervi
introdotte tante buone arti e di tante prerogative averlo fornito,
ma assai più gli deve per la particolar vigilanza, che tenne nel
riordinare i Tribunali di questa città, e di provvedergli di dotti ed
integri Ministri, perchè la giustizia fosse in quelli ben amministrata.
Egli accrebbe i Tribunali del S. C. e della Regia Camera con nuovi
e migliori istituti, e in forma più ampia gli ridusse di ciò che
Alfonso suo padre aveagli lasciati. Riordinò il Tribunale della G. C.
della Vicaria, ed a' suoi Riti aggiunse nuovi regolamenti intorno al
modo d'istituire le azioni e l'accuse, e in miglior forma prescrisse
l'ordine giudiziario ed i compromessi, siccome si vede da' suoi editti
che pubblicò nel 1477[61], donde poi i nostri più moderni Pratici,
e fra gli altri Bernardino Moscatello Lucerino, preser la norma ch'è
quella, che tuttavia in gran parte regola oggi i giudicj ne' nostri
Tribunali.

Fu tutto inteso a fornir questo Tribunale d'ottimi Giudici; onde si
narra che non ben soddisfatto d'alcuni Dottori ch'erano in Napoli,
mandò a cercargli per le province del Regno, e presso il Summonte[62]
si legge una sua pistola drizzata ad un suo famigliare in Apruzzo,
dove gli dice che avea caro d'avere da quella provincia due Dottori che
fossero persone da bene per mettergli per Giudici nella Vicaria, e che
facesse opera che dall'Aquila venisse _Messer Jacopo de Peccatoribus_,
e che vedesse ancora se in Cività di Chieti ve ne fosse un altro,
perchè gli piacerebbe averlo più presto da quella città che d'altra
parte.

Nel suo Regno cominciarono a fiorire le lettere, onde si videro
sorgere tanti uomini illustri nella giurisprudenza e nell'altre
scienze, de' quali più innanzi faremo parola; e per essere egli gran
fautore delle scienze, proccurò, che nell'Università di Napoli fossero
uomini illustri, che da tutte le parti invitava a leggere in quella
Università. V'invitò nel 1465 con buoni stipendi _Costantino Lascari_,
che da Milano, ove in quella Università avea letto sei anni, lo fece
venire in Napoli a leggere lingua greca[63]. Leggiamo ancora, che nel
1474 v'invitò _Angelo Catone_ di Supino celebre Filosofo o suo Medico,
facendolo leggere Filosofia ne' pubblici Studj di questa città. Quel
famoso _Antonio d'Alessandro_, che da questo Principe fu adoperato
negli affari più rilevanti di Stato, e che per la gran perizia della
giurisprudenza acquistò il soprannome di _Monarca delle leggi_,
pure nel 1483 volle che la leggesse in questa Università. _Antonio
dell'Amatrice_ celebre Canonista di questi tempi fu da Ferdinando
nel 1478 posto in questi Studj per Cattedratico, ove insegnò con
grand'applauso e concorso la legge Canonica. E nel 1488 v'invitò per
Lettori Bartolommeo di Sorrento, Girolamo Galeota, Giuliano di Majo,
Francesco Puzzo, Antonio Feo ed altri famosi Professori, li quali
illustrarono quest'Università e la resero non inferiore alle altre
Università d'Italia[64].

Per le tante utili arti quivi introdotte e per la grandezza de'
Tribunali, per la celebrità di quest'Accademia e per tanti altri
pregi onde ornò questo Principe Napoli, concorrendovi da tutte le
città e Terre del Regno, e da più remote parti gran numero di persone:
avvenne, che il numero degli abitatori crescesse a tal segno, che fu
d'uopo a Ferdinando ingrandir la città, ed allargare il giro delle
sue mura. Avea Carlo I d'Angiò, dopo le antiche ampliazioni, di cui
ben a lungo favella il Tutini[65], dato principio ad allargare le sue
mura, riducendo il mercato (quel miserabil teatro ove rappresentossi
l'orribil tragedia dell'infelice Corradino) dentro la città, edificando
le mura con torri avanti la chiesa del Carmelo, tirandole per dritto
incontro al mare insino all'antico porto della città che si chiama
piazza dell'Olmo, e racchiuse dentro di esse le strade, che oggi si
appellano della Conciaria, la Ruga de' Franzesi, la Piazza, detta
Loggia de' Genovesi, la Piazza delle Calcare e la Ruga de' Catalani.
Carlo II suo figliuolo nel 1300 l'ampliò dalla parte di Forcella, e
la Regina Giovanna II nel 1425 erse le nuove mura dalla dogana del
sale, insino alla strada delle Corregge. Ma Ferdinando dilatò il suo
circuito in più ampj e magnifici spazj, e con augusta celebrità si
diede ad ingrandirla, buttando la prima pietra con gran solennità e
pompa a' 15 giugno dell'anno 1484 dietro il Monastero del Carmelo, ove
edificò una Torre, che oggi giorno è in piedi, ed è nomata la torre
_Spinella_, per essere stato Francesco Spinello Cavalier napoletano
dal Re destinato Commessario a questa nuova fabbrica delle mura di
Napoli. Venne perciò racchiuso dentro la città per queste nuove mura
il monastero del Carmelo, e si tolsero via i ponti di tavole, ch'erano
avanti a ciascheduna porta della città, poichè attorno all'amiche
mura v'erano i fossi; ed a lato della chiesa suddetta si fece quella
porta, che ancor oggi si vede adornata di pietra travertina. Camminano
queste mura da questo luogo, e rinserrano la strada del Lavinaro,
l'altra della Duchesca (così appellata, perchè ivi anticamente era il
giardino d'Alfonso Duca di Calabria e della Duchessa sua moglie) e la
piazza chiamata Orto del Conte; e si trasferì la porta di Forcella
dall'antico luogo a quello dove è al presente, donde vassi a Nola,
onde Nolana appellossi. Così ancora fu trasportata la porta Capuana,
ch'era vicina al castello di Capuana, a fianchi della Chiesa di S.
Caterina a Formello, ove ordinò Ferdinando, che magnificamente si
costruisse, e fece scolpire in marmo la sua coronazione per collocarla
sopra la medesima; benchè poi, non sapendosene la cagione, non vi fu
posta, se non che da poi proseguendo l'Imperador Carlo V di cinger
Napoli di nuove mura, abbellì ed adornò questa porta di finissimi
marmi e maravigliose sculture con quella magnificenza, che ora si
vede. Furono da Ferdinando continuate queste mura, insino al monastero
di S. Giovanni a Carbonara, per le quali così questo, come quello di
Formello vennero a rinserrarsi dentro la città. Ma rimase interrotto
ogni lavoro per le turbolenze, che seguirono, e per le nuove guerre,
ch'ebbe a sostenere nella nuova congiura orditagli da' Baroni, cotanto
ben descritta da Camillo Porzio. La fabbrica è ben intesa: ella è tutta
di piperno, e da passo in passo vi sono molti Torrioni della stessa
pietra, il cui Architetto fu Messer Giuliano Majano da Fiorenza[66].
Sopra ciascuna porta vi fu scolpita in marmo l'effigie del Re sopra un
destriere con l'iscrizione: _Ferdinandus Rex nobilissimæ Patriæ_. Carlo
V poi finì il disegno, poichè nel 1537, quando egli venne a Napoli,
rinovò ed abbellì la porta Capuana con quella magnificenza, che ora
si vede, e togliendo l'effigie di Ferdinando vi pose le sue imperiali
insegne; e tirando le mura dalla parte di dietro del Monastero di S.
Giovanni a Carbonara le continuò sino alla porta di S. Gennaro, e poi
le stese insino alle falde del Monte di S. Martino, nella maniera,
ch'ora si vedono; ma le fabbricò non già di piperno, ma di pietra dolce
del monte del paese con nuovo modo di fortificazioni, non con torri, ma
con Baloardi: e questa fu l'ultima ampliazione per ciò che riguarda il
giro delle mura, poichè da poi si fabbricò tanto intorno ad esse, che i
suoi borghi nello spazio di 150 anni sono divenuti ora tante ampissime
e vastissime città.

Non pure il Re Ferdinando ne' suoi anni di pace inalzò cotanto Napoli
capo di un sì floridissimo Regno; ma ebbe ancora particolar pensiero
delle sue ampie province, che lo compongono. Non volle, che d'un
Regno se ne formasse una città sola, con ispogliar le altre delle
loro prerogative; ma le città principali delle province le fece Sedi
de' Vicerè. Quando prima i Presidi, che si mandavano a governarle,
eran chiamati _Giustizieri_, ne' suoi tempi cominciarono a chiamarsi
_Vicerè_. Quindi ne' tempi di questi Re Aragonesi leggiamo i Vicerè
d'Apruzzo e di Calabria. Quindi leggiamo concedute alle città ove
risedevano grandi prerogative, come all'Aquila, Bari, Cosenza ed a
molte altre.

Ma sopra ogni altra provincia innalzò quella d'Otranto, e
particolarmente la città di Lecce, dove ristabilì con ampissimi
privilegi e prerogative quel Tribunale. Quando questo Contado, dì cui
Lecce era capo, fu sotto i Principi di Taranto dell'illustre famiglia
del Balzo e poi Orsino, questi Principi tenevano il lor Tribunale,
ch'era chiamato il _Concistoro del Principe_; quindi ancor oggi vediamo
alcune sentenze profferite in Lecce _in Consistorio Principis_, dove
s'agitavano le cause di quel Contado, ed avea il suo Fisco; onde si
diceva il Fisco del Principe, a differenza del Fisco del Re. Questo
Concistoro era composto di quattro Giudici Dottori, d'un Avvocato e
d'un Proccuratore fiscale, d'un Maestro di Camera, o sia Camerario,
d'uno Scrivano e d'un Mastrodatto. Fu istituito nel 1402 da Ramondello
Orsino e da Maria d'Engenio genitori del Principe Giovanni Antonio[67]:
ed avea la cognizione delle cause così civili, come criminali, sopra
tutto il Contado e sopra tutte quelle città e Terre, che i Principi di
Taranto aveano occupate alla Regina Giovanna I.

Quando per la morte dell'ultimo Principe, accaduta in Altamura, il
Principato di Taranto venne in mano del Re Ferdinando, ancorchè il
Duca Giovanni d'Angiò tentasse i Leccesi perchè si mantenessero sotto
le sue bandiere, nulladimanco furon costanti sotto la fede del Re,
al quale si diedero, subito che intesero esser morto in Altamura il
Principe[68]. Ed oltre ciò, venuto il Re in Lecce nel 1462 dopo la
morte del Principe, gli presentarono tutto il tesoro del Principe,
che teneva serbato nel castello di quella città, ricchissimo di vasi
d'oro e d'argento e di preziosissime suppellettili: ciò che oltremodo
fu accettissimo a Ferdinando, il quale, per le spese della guerra,
che sosteneva col Duca Giovanni, era rimaso molto esausto di denaro.
Concedè per tanta fede e per un sì opportuno soccorso a Leccesi
privilegi ampissimi: confermò loro tutte le concessioni e contratti
di terre demaniali e burgensatiche, che aveano avuti col Principe.
Confermò il Concistoro co' Giudici, che lo componevano, e gli stipendj
che tenevano situati sopra le entrate d'alcuni Casali della città:
concedè loro privilegio, che quel Tribunale dovesse sempre risedere
in Lecce: lo ingrandì d'altre più eminenti prerogative, costituendolo
Tribunal d'appellazione sopra tutte le altre città e Terre della
provincia così dei Baroni, come demaniali: che potesse conoscere
delle cause feudali, anche de' feudi quaternati: potesse dare i
balj ed i tutori a pupilli feudatarj: potesse ravvivare l'istanze
perente, che noi diciamo _insufflazion di spirito_: che le sentenze
potessero proferirsi in nome del Re, e potesse farle eseguire, non
ostante l'appellazione interposta. Vi costituì per Capo D. Federico
suo figliuolo secondogenito, il qual vi dimorò fin che per la morte
di Ferdinando II, suo nipote non fosse stato chiamato alla successione
del Regno. Volle perciò, che non meno del S. C. di Santa Chiara, fosse
nomato ancor egli Sacro Consiglio provinciale, e che dopo quel di
Napoli fosse il più eminente sopra tutti gli altri Tribunali del Regno.
Quindi avvenne, che la Puglia, essendosi divisa in due Province, in
Terra di Bari e Terra d'Otranto, avendo ciascheduna il suo Tribunal
separato, ambedue s'usurpassero il titolo di Sacra Audienza; ma
ora molte delle riferite prerogative sono svanite, e toltone questo
spezioso nome ed alcuni altri privilegi di picciol momento, sono state
uguagliate alle Udienze di tutte le altre province del Regno.

Forse il Re Ferdinando in maggior splendore ed in una più perfetta
polizia avrebbe ridotto il Regno di Napoli, se avesse avuti nel suo
regnare più anni di pace e di tranquillità; ma ecco che contro di lui
sorgono nemici più fieri e terribili, ed i Baroni più ostinati che
mai, tornano di nuovo a perturbargli il Regno. Egli è vero, che se
Ferdinando le virtù medesime ch'esercitò nel principio del suo Regno e
tra le avversità della sua fortuna, l'avesse continuate nella prospera,
sarebbe certamente stato un Principe de' più saggi che abbiano regnato
in terra; ma il vedersi ora, dopo aver trionfato de' suoi nemici in un
Regno vastissimo e floridissimo, tutto pacato ed in pace; o che non
potesse resistere all'impeto della dominazione, o che prima covrisse
i suoi naturali costumi, fu poi notato di poca fede, e di animo fiero
e crudele. Dice Francesco Guicciardino[69] gravissimo istorico, essere
stato Ferdinando un Principe certamente prudentissimo e di grandissima
estimazione, che colla sua celebrata industria e prudenza, accompagnato
da prospera fortuna, si conservò il Regno acquistato nuovamente dal
padre contra molte difficoltà, che nel principio del regnare se gli
scopersero, e che lo condusse a maggior grandezza, che forse molt'anni
innanzi l'avesse posseduto Re alcuno; e che sarebbe stato un ottimo Re,
se avesse continuato a regnare con le arti medesime, con le quali avea
principiato; ma da poi, siccome ponderò Angelo di Costanzo[70], non men
di quello, savissimo Scrittore, il vedersi in tanta prosperità, mutò
maniera e costumi; poichè non ricordandosi de' beneficj che Iddio gli
avea fatti, cominciò a regnare con ogni spezie di crudeltà ed avarizia,
non solo contra quelli, che alla guerra passata aveano tenuta la parte
contraria, ma anche contra coloro che l'aveano più servito, perchè
rivocò tutti i privilegi che loro aveva fatti in tempo di necessità. Ma
quel, che più d'ogni altro gli facesse acquistare l'odio universale, fu
Alfonso Duca di Calabria suo primogenito, il quale seguendo il medesimo
stile lo superava di crudeltà ma assai più di libidine, disonorando
molte case principali, pigliandosi pubblicamente dalle case de' padri
le figliuole, e togliendole a' mariti illustri a cui erano promesse,
e poi maritandole a Nobili, e sovente contro lor volere. Accumulò
per tanto Alfonso tanto odio all'odio che s'avea acquistato il padre,
che non solo da' sudditi del Regno, ma da altri Potentati d'Italia fu
desiderata la sua ruina.

Conoscendo tanto Ferdinando, quanto Alfonso la mala volontà universale,
pensarono di vivere sempre armati, tenendo molte genti di guerra,
perchè potessero tenere in freno i soggetti che non si ribellassero.
E Ferdinando per aver occasione di nutrire il suo esercito in paesi
d'altri, fatta lega con Papa Sisto, mosse guerra ai Fiorentini, e
mandò il Duca di Calabria all'impresa di Toscana. Reggeva allora la
Repubblica fiorentina Lorenzo de' Medici, cittadino tanto eminente
sopra il grado privato nella città di Fiorenza, che per consiglio suo
non pur si reggevano le cose di quella Repubblica, ma era per tutta
Italia grande il nome suo, poich'invigilava con ogni studio che le cose
d'Italia non in modo bilanciate si mantenessero che più in una che in
altra parte non pendessero, e sovente l'aiuto dell'uno si ricercava
per far contrappeso all'altro. I Fiorentini per ciò, per tema che
il Re Ferdinando non stendesse oltre i suoi confini e non venisse ad
insignorirsi della Toscana, impegnarono i Venegiani ad entrar in lega
contro Ferdinando. I Vinegiani temendo ancora, che presa la Toscana,
non venisse a farsi Signore della Lombardia, s'unirono prontamente co'
Fiorentini, li quali non potendo dalle potenze cristiane conseguire che
travagliassero Ferdinando, si girarono a quella del Turco che avea suo
imperio nell'Albania, e parte nella Schiavonia dirimpetto al Regno[71];
onde i Fiorentini per divertire l'arme di questo Re dalla Toscana, ed i
Vinegiani quelle del Turco da' loro proprj Stati, invitarono Maometto
II alla conquista del Regno di Napoli. Gli avvenimenti della qual
impresa, siccome quella de' Baroni congiurati, bisogna riportare al
seguente libro di questa istoria.


  FINE DEL LIBRO VENTESIMOSETTIMO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOTTAVO


Insino ad ora fra tante nazioni che invasero queste nostre province,
non s'erano ancora intesi i _Turchi_; ma perchè niuna ne mancasse,
ecco, che ne sorge una più potente e più terribile dell'altre.
Gl'Imperadori Ottomani non è, come volgarmente si crede, che al lor
fasto ed alterigia, ed all'immoderata sete di dominare unicamente
appoggino la pretensione che vantano tenere sopra il nostro Reame.
Eglino pretendono, che dopo la presa di Costantinopoli, e d'aver
vinto e morto l'Imperador Costantino Paleologo ultimo Imperador Greco,
essendosi ad essi trasferito l'Imperio di Oriente, possano con ragione
riunire a quell'Imperio tutto ciò che ora si trova da altri occupato,
ed in mano di stranieri Principi. Pretendono, che l'Italia e molto
più le nostre province, particolarmente la Puglia e la Calabria, loro
s'appartenga, come a veri e legittimi successori di Costantino M. e
degli altri Imperadori d'Oriente. Essi vantano, e così han mostrato
di essere colle opere, d'imitare i Romani; e forse se si riguardano le
loro ampie conquiste ed i progressi che han fatti dall'anno 870 in qua,
gli acquisti loro non sono stati minori di quelli de' Romani, ed han
mostrato sempre, che non men che fecero i Romani, si nutrisce in loro
la pretensione di farsi Signori d'Italia e del Mondo.

Scipione Ammirato[72] fa vedere, che i progressi fatti da' Turchi
dall'anno 870, quando chiamati dai Persiani, dal Monte Caucaso, dove
primieramente abitavano, incominciarono a metter piede nell'Asia,
insino a' tempi suoi, cioè nel 1585, che non erano scorsi più che 715
anni, furono assai maggiori di quelli, che in altrettanto spazio di
tempo aveano fatti i Romani. E quantunque non si fossero resi Signori
dell'Italia e della Francia, come furono i Romani; nulladimanco erano
Signori dell'Egitto e dell'Armenia e d'altre province nell'Asia che
non ne furono i Romani, e dell'Illirico e della Pannonia non è alcun
dubbio, che posseggono parte molte maggiore che non possedevano i
Romani. Essi a gran passi s'ingegnarono sempre di camminare alla
Monarchia del Mondo, e resi padroni di tante e si sterminate province,
altro ad essi non restava di sottoporre alla loro dominazione, che
Costantinopoli capo dell imperio, e così estinguere affatto i Greci,
che insino a tempi del Re Alfonso aveano seduto in quella sede.
Furono perciò rivolti tutti i loro pensieri a quest'impresa, la quale
finalmente fu riserbata a _Maometto X_ Re de' Turchi e della famiglia
ottomana di quel nome II, il quale essendo succeduto nel 1451 a'
Regni paterni, pose ogni studio di venire a capo dell'impresa. Con
formidabili eserciti e stupende armate cinse finalmente nel 1453 per
mare e per terra la città di Costantinopoli: Costantino Paleologo
che n'era Imperadore, non potendo resistere a tante forze erasi,
per difender la sua persona, chiuso nella città. Invano si cercavano
aiuti da' Principi cristiani, li quali fra di lor guerreggiando, poca
cura prendeansi della ruina dell'Imperio d'Oriente, non ostante che
i Pontefici romani gl'incoraggiassero e scongiurassero a prenderne la
difesa. Solo il nostro Re Alfonso offerì soccorsi, perchè quella città
sede dell'imperio non cadesse in mano d'Infedeli; ma mentre Alfonso
s'affanna e gli affretta, ecco che Maometto a' 29 maggio di quell'anno
1453 espugna la città, prende e fa morire in quella l'Imperador
Costantino e tutta la nobiltà, ed in un istante si rende Signore
non meno della città che dell'imperio di Costantinopoli. Così finì
l'Imperio greco, che era durato 1127 anni. Non meno che il _Romano_,
che sotto Augusto cominciò e finì in Augustolo; così il _Greco_
cominciò sotto Costantino M. figliuolo d'Elena e venne a mancare sotto
Costantino Paleologo figliuolo parimente di Elena.

Trasferito in cotal guisa l'Imperio da' Greci a' Turchi, Maometto
fu gridato Imperadore de' Turchi. I progressi da lui fatti da poi
furono stupendi e portentosi, lasciando stare da parte l'altre cose
di minor conto, egli nel 1460 occupò l'Imperio di Trebisonda, e
fece mozzare il capo al Re David. Nel 62 s'insignorì dell'isola di
Metelino. L'anno 70 tolse a' Vinegiani l'isola di Negroponte. Nel 73
vinse in battaglia Usum Cassano Re di Persia, come ch'egli altre volte
fosse stato vinto da lui. L'anno 75 tolse a' Genovesi Caffa. Nel 77
costrinse i Vinegiani a dargli Calcide e Scutari, ed a pagargli un
censo l'anno per lasciargli navigare ne' suoi mari. Ed avendo per
tante vittorie pieno l'animo di concetti vasti e smisurati, e sopra
tutto acceso di desiderio ardentissimo di mettere piè nell'Italia,
pretendendo che l'Imperio di quella a se, come a vero e legittimo
Signore s'appartenesse, per virtù dell'Imperio costantinopolitano da
lui acquistato, i Vinegiani per divertirlo da' loro Stati, e perchè
maggiormente non gli angustiasse, gl'insinuarono che lasciata l'impresa
dell'isola di Rodi, dove stava allora impegnato Maometto per toglierla
a' Cavalieri gerosolimitani, verso la Puglia nel Regno di Napoli
drizzasse la sua armata; poichè in vece di un'isola avrebbe acquistato
un floridissimo e vastissimo Regno[73]. Angelo di Costanzo rapporta,
che Lorenzo de' Medici per mezzo d'alcuni mercatanti che negoziavano
ne' paesi del Turco, invitasse Maometto che venisse nel Regno. E può
esser vero l'uno e l'altro, che non meno i Vinegiani, che i Fiorentini,
nemici allora di Ferdinando, l'avessero stimolato.

Dimostrarono a Maometto, come l'alterigia ed ambizione d'Alfonso era,
se non al presente, nel tempo a venire per dover nuocere non meno ad
esso che a loro; anzi molto più a lui, essendo l'impresa più giusta
rispetto alla religione, più agevole per lo poco tratto del mare Jonio,
che divide ambi i loro Regni, e più favorita da' Principi cristiani.
Maometto ancora per diverse cagioni era contra il Re Ferdinando
oltramodo sdegnato, e vie più d'ogni altra cosa per aver porto quella
State medesima soccorso a Rodi, ch'egli indarno avea oppugnato; sicchè
non fu difficile a Fiorentini disporlo all'impresa[74].

Lasciata adunque Maometto l'impresa di Rodi, nel 1480 navigò sino alla
Velona, da dove mandò Acubat suo Bassà per questa spedizione, il quale
nella fine di giugno di quell'anno giunse in Puglia con un'armata
poderosissima, e posti a terra, oltre della fanteria, cinquemila
cavalli di gente bellicosissima, cinse di stretto assedio la città
d'Otranto. In questa città non vi eran di guarnigione che mille
combattenti, ed altri 500 ne avea portati allora da Napoli Francesco
Zurolo. I cittadini più che i soldati fecero valorosa difesa, ma contro
sì potente e numeroso esercito nulla valse la loro costanza. In men di
un mese fu presa la città per assalto, dove entrati furiosamente quei
Barbari non vi fu crudeltà che non praticassero: incendj, ruberie,
morti, violazion di vergini e quanta immanità usarono nella presa di
Costantinopoli, altrettanta in Otranto vi fu praticata. Molti cittadini
furon fatti passare a fil di spada, come si fece in Costantinopoli,
ma con sorte disuguale; poichè l'ossa di coloro rimasero per sempre in
suol nemico esposte alla pioggia e mosse dal vento, nè furon curati; ma
le ossa di questi d'Otranto, scacciati dopo un anno i Turchi, e tornata
sotto la dominazione di Ferdinando, furono a gara onorate non meno da'
paesani, che da Papa Sisto e dal Duca di Calabria Alfonso.

Presa questa città, avendo Maometto richiamato a se Acmet, questi,
ubbidendo al suo Signore, lasciò in suo luogo Ariadeno Baglivo di
Negroponte con settemila Turchi e 500 cavalli, ed egli con dodici
galee, con la preda fatta nel sacco di quella città, s'avviò per
Costantinopoli. Ariadeno volendo proseguire le conquiste pensava
d'occupar Brindisi e porre l'assedio ad altre città, tanto che si vide
il Regno in grandissimo pericolo di perdersi.

Ferdinando, vedendosi in tali angustie, scrisse a quasi tutti i
Principi d'Europa per soccorso, e mandò subito a chiamar Alfonso da
Toscana, perchè lasciata quella impresa venisse tosto a soccorrere il
Regno. Il Duca di Calabria abbandonò la guerra di Toscana, e lasciò in
pace i Fiorentini, e giunto in Napoli a' 10 di settembre di quest'anno,
avendo raccolta un'armata di 80 galee, con alcuni vascelli, ne diede
il comando a Galeazzo Caracciolo, il qual giunto coll'armata ne' mari
d'Otranto diede molto spavento all'esercito nemico, e poco appresso
vi venne il Duca di Calabria accompagnato da gran numero di Baroni
napoletani. Il Re d'Ungheria cognato del Duca vi mandò 1700 soldati
con 300 cavalli Ungari; ed il Papa v'inviò un Cardinale con 22 galee
de' Genovesi: tanto che l'esercito del Duca si pose in istato di
fronteggiare con quello de' Turchi, li quali, dopo molte scaramucce,
finalmente furon ridotti a ritirarsi dentro Otranto, dove per molto
tempo intrepidamente si difesero. Ma la morte opportunamente accaduta
a' 3 maggio dell'entrato anno 1481 dell'Imperador Maometto, liberò il
Regno da questi travagli: poichè Ariadeno giudicando, che per la morte
di Maometto il soccorso che aspettava sarebbe giunto molto tardi, si
risolvè a render la Piazza in poter d'Alfonso; ed essendogli stati a'
10 agosto accordati onorati patti, rese la piazza che per un anno era
stata sotto la lor dominazione, ed imbarcatosi con le truppe sopra la
sua armata, prese il cammino di Costantinopoli.

Questa opportuna morte non solo diede spavento a' Turchi d'Otranto, ma
anche ad un esercito di 25m. uomini che appresso la Velona erano venuti
a danno d'Italia, i quali se ne ritornarono tutti addietro. Alfonso
lieto di sì buon successo, licenziò i soldati Ungari, e vittorioso
ritornò in Napoli, dove trovò il soccorso che gli era venuto da
Portogallo e da Spagna, l'uno di 19 caravelle ed una nave, e l'altro di
22 navi, e, regalati i lor Comandanti, gli licenziò tutti. Vi morì in
questa guerra il fiore de' Capitani e dei Cavalieri del Regno veterani
e famosi, perchè vi morì Matteo di Capua Conte di Palena Capitano
vecchio, e per tutta Italia riputato insigne; vi morì Giulio Acquaviva
Conte di Conversano, il quale avea avuti i supremi onori della milizia
dal Re Ferdinando: morì ancora D. Diego Cavaniglia, Marino Caracciolo
ed un gran numero di Cavalieri molto onorati[75]. Nel sacco che
fu fatto da' Turchi in Otranto passarono a fil di spada più di 800
cittadini, l'ossa de' quali fur fatte da Alfonso seppellire con molto
onore e religione, e ne portò molti in Napoli, che, come scrive il
Galateo[76], fece riporre nella chiesa di Santa Maria Maddalena, donde
poi furon trasferite nella Chiesa di S. Caterina a Formello, ove ora si
adorano come reliquie di Martiri.

E per non venire a parlar di nuovo de' disegni che han sempre, insino
a' dì nostri tenuti i Turchi sopra la conquista di questo Regno,
degl'inviti che sono loro stati fatti da' nostri Principi cristiani
medesimi, i quali infra di loro guerreggiando, sovente per divertire
le armi del nemico, ricorrevano al Turco: dico ora, che mi si presenta
l'occasione, che quantunque nel Regno di Ferdinando e de' successori
Re aragonesi, non tornassero ad inquietare queste nostre province, non
era però che per gli acquisti grandi che nelle vicine parti faceano, da
tempo in tempo non ci portassero spavento e timore.

Morto _Maometto II_, che per avere acquistati due Imperi e dodici
Regni, e preso più di ducento città de' Cristiani, fu gridato I.
Imperadore de' Turchi; _Bajazet II_ suo figliuolo che gli succedette
nell'Imperio, con non interrotto corso di fortuna, fece altri
progressi; poichè nel 1484 prese la Valacchia, e nel 92 occupò i monti
Cerauni e tutto il tratto dell'Albania, e si sottomise tutte quelle
genti che viveano libere. Quindi molte famiglie, per non vivere in
ischiavitù, fuggirono da que' luoghi, e si ricovrarono nelle più vicine
parti ed alcune nel nostro Regno. Vi vennero perciò i _Castrioti_ ed i
_Tocchi_ che possedevano in quelle province buone Signorie. Vi venner
molti _Albanesi_; ond'è che da nostri Re fur loro assignate varie Terre
per luogo d'abitazione e tuttavia ancor vi dimorano. Sottomise poi
Bajazet al suo Imperio nel 1499 Modone e Corone città della Morea, e
nell'anno seguente tolse a' Vinegiani Mero città. _Selim I_ figliuolo
di Bajazet nel 1514 vinse in battaglia Ismaele Re di Persia, e 'l
cacciò nelle campagne Calderane. L'anno seguente ruppe e fece prigione
il Capitan Generale d'Aladola Re della Cappadocia, a cui mozzò il capo,
ed il mandò a' Vinegiani per segno della vittoria. Nel 1516 superò
combattendo Campsone Soldano d'Egitto, e messolo in fuga il costrinse
a morirsi; nel corso della qual piena e gloriosa victoria, vinto ed
impiccato l'altro Soldano, prese il Cairo, soggiogò Alessandria, e
fattosi Signore dell'Egitto, acquistò anche Damasco capo e sede del
Regno di Soria.

_Solimano II_ figliuolo di Selim tolse nel 1521 agli Ungheri Belgrado;
nel 22 cacciò la religione di S. Giovanni dall'isola di Rodi, ed
acquistò all'Imperio suo quell'isola nobilissima. Nel 26 diede di
nuovo una terribil rotta agli Ungheri, nella quale restò morto il
misero lor Re Lodovico. Nel 29 occupò Buda, e nel 24 tolse il Regno
al Re di Tunisi. Nel 37 oltre molti danni fatti a' Vinegiani, a'
quali saccheggiò il Zante e Citera, spianò ancora Egina, prese Paro
e fece tributaria Nasso. Nel 39 prese Castel Nuovo, ove tagliò a
pezzi la miglior milizia che avessero mai avuta gli Spagnuoli. _Selim
II_ figliuolo di Solimano, tolse ai Vinegiani il deliziosissimo
Regno di Cipro, dopo avere con potentissima armata cercato di
soggiogare Malta nuova Residenza de' Cavalieri gerosolimitani. Con
tal occasione ne venne a noi la famiglia _Paleologa_, di cui si legge
in Napoli il tumulo nella chiesa di S. Giovanni Maggiore rapportato
dall'Engenio[77]. _Amurat III_ figliuolo di Selim, ancorchè per le
continue guerre ch'egli ebbe a sostenere col Persiano, non inquietasse
le province cristiane, tennele però in grandissimo timore. Ma i suoi
successori _Maometto III_ ed _Acmet_ tolsero a' Vinegiani Candia,
gran parte della Dalmazia, la Bosnia, la Schiavonia; ed in breve
quasi tutto il lido del mare superiore, che diciamo ora Adriatico,
opposto a' mari d'Otranto e della nostra Puglia, passò sotto la lor
dominazione. Caddero questi sterminati acquisti, e s'estinsero tanti
Reami e Ducati. Caddero i Duchi d'Atene, i Duchi di Durazzo, i Despoti
dell'Arta Principi della Morea nella Grecia, i Duchi d'Albania, i
Principi d'Achaja e tanti altri Signori e Baroni che lungo sarebbe
a raccontargli. Ed essendo ne' loro Dominj succeduto un sì potente e
terribile nemico pur troppo a noi vicino, e che non altro tratto ci
divide, se non che il golfo di Vinegia e quello di Otranto; quindi
nacquero i continui timori, e le spesse scorrerie e saccheggi d'alcune
Città e Terre della Puglia e della Calabria.

Quindi si diede occasione a spessi ricorsi, che da Principi disperati
e da Baroni malcontenti, si faceva a loro, con sovente sollecitargli,
offerendo facile la conquista del Regno. Quando, come diremo appresso,
il Re Ferdinando fermò la pace col Pontefice Innocenzio VIII alcuni
Baroni, temendo della poca fede del Re, consultarono per loro quiete di
doversi mandare Ambasciadori a Bajazet, acciò che loro somministrasse
pronto soccorso, invitandolo alla conquista del Regno. Furono perciò
sovente invasi i nostri mari, e quelli di Gaeta furono scorsi e dati
sacchi funestissimi a quella città. E nei seguenti anni, Paola e S.
Lucido in Calabria, Sorrento e Massa incontro Napoli, furono da' Turchi
con lagrimevol strage saccheggiate, e gli abitanti fatti schiavi[78].

Nell'Imperio di Carlo V, il Principe di Salerno profugo da' suoi
Stati, non trovando udienza in Francia, ebbe ricorso a Turchi, a' quali
dipinse facile l'impresa del Regno, e fece mettere in mare una potente
armata per invaderlo.

Nel Regno di Filippo II suo figliuolo le spedizioni contra Turchi
furono assai spesse e strepitose; onde cotanto rilusse la fama di D.
Giovanni d'Austria, che in mare gli vinse e debellò: ed essendosi
accesa fiera ed ostinata guerra tra questo Re col Pontefice Paolo
IV, questi non contento d'aver fatta lega col Re di Francia e con
altri potentati, chiamò anche l'armata del Turco in suo aiuto per
assaltare il Regno. E fra noi è ancor rimasa memoria della congiura
che _Tommaso Campanella_ con altri Frati domenicani Calabresi nel 1599
avea ordita per dar le Calabrie in man de' Turchi; li quali da poi
nel 1621 con buona armata vennero ad invadere Capitanata e occuparono
Manfredonia, e dopo averla tenuta per qualche tempo, datole un fiero
sacco, abbandonarono l'impresa. Infinite scorrerie fecero ne' nostri
mari, riducendo molti nostri Regnicoli in ischiavitù. Ed in quest'anni
1716 e 1717 se non avessero avute in Ungheria due strane rotte dalle
vittoriose armi imperiali colla perdita di Temisvar e di Belgrado,
minacciavano l'Italia e queste nostre province, che corsero gran
pericolo. Ma fattasi ora col Turco tregua per venti anni, si è veduta
cosa che non videro mai i nostri maggiori, cioè traffico e commercio
aperto fra noi ed il Turco. Se durasse, ci vedremmo almeno per quanto
corre il mare Adriatico, liberi da corsari e non esposti que' lidi a
tanti danni e riscatti; poichè dall'aver vicino sì potente nemico, e
per poco tratto i nostri lidi divisi dai suoi, si è ricevuto ancora
l'incomodo di spesse scorrerie da' corsari barbareschi nelle terre
poste ne' lidi dell'Adriatico e delle Calabrie, e la desolazione di
molte famiglie, che per redimere dalle loro mani i loro parenti, si
sono impoverite, dovendo pagare grosse somme per gli riscatti. Carlo V
per tener guardati da quei pirati i nostri lidi fece costruire molte
torri per le marine del Regno, gravandolo d'eccessive spese per le
provvisioni che bisognò somministrare a' Torrieri. Quindi per sovvenire
a questi bisogni sursero le religioni della _Redenzione de' cattivi_,
che da Spagna a noi ci vennero, e molti altri luoghi Pii che tengono
destinate le loro rendite per lo riscatto.

L'opera non può negarsi che non sia molto pietosa, ed in Spagna, che
patisce i medesimi travagli da' pirati Algerini e dell'altre coste
di Tunisi e di Barberia e da' corsari Mori, è soprammodo cresciuta,
vedendosi per ciò eretti grandi Conventi di religiosi destinati a
quest'opera della redenzione, e ricchissimi di rendite; ma non può
negarsi ancora, che per questo istesso i Turchi esercitino l'arte
piratica, riuscendo ad essi molto utile e fruttuosa; onde quasi tutti
vi si applicano perchè sanno, che ridotti i cristiani in servitù,
vengono tosto immense somme per redimergli. All'incontro essi non
riscattano niuno di loro, se avviene che capitino essi in mano de'
cristiani; gli lasciano stare, nè se ne prendon pensiero; e quindi
i cristiani non s'invogliano a far prede e corseggiare i loro mari,
com'essi fanno de' nostri. Se noi non curassimo di riscattar i nostri,
certamente che si dismetterebbe presso loro il corseggiamento, e
forse si vivrebbe assai meglio, senza sospetti e senza timori ed in
maggior quiete. Ma di ciò sia detto a bastanza, richiamandoci il nostro
istituto a parlar di Ferdinando, e d'una nuova e più insidiosa congiura
orditagli ora da' suoi Baroni.



CAPITOLO I.

_I Baroni nuovamente congiurano contra il Re. Papa INNOCENZIO VIII
unito ad essi gli fa guerra: pace indi conchiusa col medesimo, e
desolazione ed esterminio de' congiurati._


Alfonso Duca di Calabria ritornato in Napoli dopo l'impresa d'Otranto
tutto glorioso e trionfante, pieno d'elati pensieri ed istigato dal
genio suo crudele ed avaro, pensò abbassare i Baroni, de' quali se
ne mostrava mal soddisfatto, e teneva sempre in sospetto. Tutti i
suoi pensieri erano a ciò rivolti, nè potè tanto coprire questi suoi
disegni che coloro non se ne insospettissero; poichè sovente co'
suoi confidenti soleva dire, che giacchè i Baroni non avean mai avuto
riguardo in tante guerre ed in tanti bisogni, ne' quali s'era il Re
veduto soccorrere il regio erario di denaro, voleva egli insegnar loro,
come i sudditi trattar dovessero col loro Signore. Non si potè ancora
contenere co' suoi famigliari d'assicurargli che stessero allegri,
che fra breve gli farebbe divenire gran Baroni senza dar loro Stato,
poich'egli avrebbe tanto abbassati i grandi che sarebbero essi divenuti
primi; e di vantaggio non si ritenne di porre nel suo elmo una scopa
per cimiero, ed alla sella del suo cavallo certe taglie, per dimostrare
volergli tutti sterminare.

Il Re Ferdinando, ancorchè Principe prudentissimo, nulladimanco per
l'affetto grande che portava al Duca D. Alfonso, per la sua vecchiaia
e per gli amori della novella sposa, s'era invilito tra gli affetti
di padre e di marito; e perchè fidava molto nel valore del Duca suo
figliuolo, aveagli quasi che cedute le redini del governo, e sol ne'
casi estremi scosso, riparava i disordini colla sua prudenza. I Baroni
che aveano concepito odio grande verso Alfonso, atterriti da queste
minacce, cominciarono a pensare il modo da potersene liberare.

Era in quest'anno 1484 a' 13 d'agosto trapassato il Pontefice Sisto,
ed a' 29 dello stesso mese era stato rifatto in suo luogo il Cardinale
Giovan Battista Cibo genovese, che _Innocenzio VIII_ chiamossi.
Questo Pontefice ebbe pensieri diversi da' suoi predecessori Pio e
Sisto, e bramando occasione d'ingrandir Franceschetto suo figliuol
naturale, vedendo gli animi dei Baroni disposti alle novità, cominciò
a darvi mano; e mostrandosi mal soddisfatto del Re Ferdinando, il
quale gli avea richiesto, che per le grandi spese sofferte nella
guerra d'Otranto, e per quelle che faceva in mantenere tante genti
d'arme per opporsi al Turco, e per tenere ben difeso il Regno ch'era
contra Turchi quasi il propugnacolo d'Italia, gli rilasciasse il censo
solito da pagarsi alla chiesa, come avean fatto i suoi predecessori, i
quali s'erano contentati del solo palafreno; egli non solo non volle
rilasciarglielo, ma avendo il Re a' 29 giugno del seguente anno 1485,
giorno stabilito al pagamento, mandato secondo il solito Antonio
d'Alessandro per suo Oratore in Roma a profferirgli il palafreno in
vigor dell'investitura, il Papa non volle riceverlo; tanto che fu
obbligato Antonio di farne pubblica protesta, che ancor si legge presso
il Chioccarello ne' suoi volumi M. S. della regal giurisdizione.

Dall'altra parte i Baroni, vedendo la mala soddisfazione del Papa,
pensarono di ricorrere a lui per essere sostenuti. Li Capi ed Autori
di questa congiura, che è stata tanto bene scritta da _Camillo
Porzio_, furono Francesco Coppola Conte di Sarno ed Antonello
Petrucci Segretario del Re. Il Conte di Sarno, ancorchè d'antica e
nobil famiglia del Seggio di Portanova, seguendo i vestigi del suo
genitore, erasi dato tanto a' traffichi, ed a mercatantare, in cui
v'avea un'abilità grandissima, che il Re istesso allettato anch'egli
dal guadagno, gli diede molto denaro, entrando in società ne' negozj,
che colui tenea[79], tanto che divenne ricchissimo: il Re medesimo lo
creò Conte di Sarno, ed il suo nome tanto in Levante, quanto in Ponente
avea tanto credito, che i mercatanti di quasi tutte le Piazze d'Europa
gli fidavan somme e merci rilevantissime. Antonello Petrucci nato in
Teano, città presso Capua, di poveri parenti, ed allevato in Aversa da
un Notajo, mostrando molto spirito e grande applicazione alle lettere,
fu da costui portato in Napoli, dove lo pose a' servigi di Giovanni
Olzina Segretario del Re Alfonso. L'Olzina, conosciuti i talenti del
giovane, dimorando in casa sua il famoso Lorenzo Valla, lo diede a lui
perchè lo ammaestrasse: ed avendo Antonello sotto sì eccellente Maestro
in poco tempo fatti miracolosi progressi, fu dall'Olzina posto nella
Cancelleria regia, il quale quando gravato d'affari non avea tempo
d'andare egli dal Re, soleva mandarvi Antonello. Piacquero anche al
Re Ferdinando le virtù e' tratti modesti d'Antonello, onde per questa
famigliarità entrò in somma sua grazia; tanto che morto poi l'Olzina
lo creò suo Segretario, nè vi era affare, ancorchè gravissimo, che non
passasse per le sue mani, per la confidenza grandissima, che teneva col
Re. Acquistò per tanto ricchezze grandissime e parentadi nobili: poichè
prese per moglie la sorella del Conte di Borrello Agnello Arcamone del
Seggio di Montagna, dalla quale generò più figli, e tutti col favore
del Re pose in grandezza. Il primo fu Conte di Carinola, l'altro di
Policastro, il terzo Arcivescovo di Taranto, il quarto Prior di Capua,
e l'ultimo Vescovo di Muro.

Le tante ricchezze, ed i cotanti estraordinarj favori, che il Re faceva
a questi due personaggi, gli fecero entrare nell'odio ed invidia di
molti, e massimamente del Duca di Calabria, il quale sovente non poteva
contenersi di dire in pubblico, che suo padre per arricchir costoro
avea se stesso impoverito: ma ch'egli non avrebbe mandato a lungo
quel che suo padre per tanto tempo avea dissimulato. Essendo pertanto
tutte queste cose sapute dal Conte e dal Segretario, pensarono unirsi
co' Baroni mal soddisfatti, co' quali, tenuto consiglio, deliberarono
ricorrere al Papa per ajuto. I Baroni, che congiurarono, furono il
Principe di Salerno Antonello Sanseverino Gran Ammirante del Regno, il
Principe d'Altamura Pietro del Balzo Gran Contestabile, il Principe di
Bisignano Girolamo Sanseverino, il Marchese del Vasto Pietro di Guevara
Gran Siniscalco, il Duca d'Atri Andrea Matteo Acquaviva, il Duca di
Melfi, il Duca di Nardò, il Conte di Lauria, il Conte di Melito, il
Conte di Nola e molti altri Cavalieri[80]. Questi uniti insieme a
Melfi, coll'occasione delle nozze di Trojano Caracciolo figliuolo
di Giovanni Duca di Melfi, mandarono al Pontefice Innocenzio perchè
col suo favore li ajutasse; ed il Papa volentieri accettò l'impresa.
Egli considerò, che non vi era altra miglior congiuntura di questa
per innalzar suo figliuolo; e per far questo si rivoltò alle solite
cose praticate da' Papi, cioè d'invitar altri all'acquisto del Regno
con prometterne l'investitura. Giovanni Duca d'Angiò si trovava sin
dal 1470 morto in Catalogna, e Renato suo padre era parimente morto:
non vi restava, che un altro Renato figliuolo di Violanta figliuola
di Renato, ch'era Duca di Loreno; mandò pertanto in Provenza a
stimolarlo, che venisse tosto all'acquisto del Regno, del qual egli ne
l'avrebbe investito, purchè in ricompensa dì sì grande beneficio avesse
arricchito Franceschetto suo figliuolo di onori e Signorie.

Intanto Alfonso Duca di Calabria avendo scoverti questi movimenti de'
Baroni, perchè la cosa non procedesse più avanti, pensò tosto romper
loro i disegni, e si impadronì all'improvviso del Contado di Nola,
e presa Nola, con carcerare due figliuoli del Conte con la madre,
gli fece condurre prigioni nel Castel Nuovo di Napoli. Quando gli
altri congiurati intesero questa risoluzione di Alfonso, temendo che
parimente i loro Stati non fossero occupati, tolto ogni rispetto,
cominciarono scovertamente ad armarsi, e da per tutto a tumultuare. In
un tratto si vide il Regno sossopra, le strade rotte, tolti i commerci,
serrati i Tribunali, e ciascun luogo pieno di confusione. Re Ferdinando
scosso da questi rumori cercava sedarli, ed il Principe di Bisignano,
per dar tempo che gli altri Baroni s'armassero, cominciò a trattar di
pace col Re: Ferdinando in apparenza si mostrò molto disposto, ma con
animo, cessati que' sospetti, di non osservar cos'alcuna. L'uno cercava
con simulazione ingannar l'altro: proposero al Re condizioni di pace
impertinentissime, ma dal Re furon loro tutte accordate: quando poi
si venne a firmarle, s'andavano dal Principe di Salerno frapponendo
difficoltà, ed essendosi intanto gran parte de' Baroni ritirati in
Salerno, fece egli sentire al Re, che per maggior sicurezza voleva, che
mandasse in Salerno D. Federico suo secondogenito, che in suo nome le
firmasse e ne proccurasse l'osservanza. Il Re glielo mandò, e Federico
fu ricevuto dal Principe e dai Baroni, che ivi erano, con molti segni
di stima, e salutato non altramente che a Re si conveniva. Federico
era un Principe dotato di rare ed incomparabili virtù, avvenente e
di maniere dolcissime, moderato e modesto, in modo che s'avea tirato
l'amore di tutti. Di costumi opposti al Duca di Calabria suo fratello,
e se la fortuna, siccome lo fece nascere secondogenito, l'avesse
favorito di farlo venir primo al mondo, certamente che il Regno avrebbe
continuato nella posterità de' nostri Re nazionali aragonesi; e tante
revoluzioni e disordini, che si sentiranno nel seguente libro, non
avrebbe certamente patiti e sofferti.

Entrò per tanto Federico in Salerno con ferma speranza di conchiuder
la pace; ma un dì il Principe di Salerno avendo fatto nel suo
palazzo convocare i Baroni, e fatto sedere Federico nel consesso
in una eminente e pomposa sede, cominciò con molta forza ed energia
a persuadergli, che prendesse dalle lor mani il Regno, ch'essi gli
offerivano, affinchè discacciato Alfonso crudelissimo Tiranno, quello
riposasse sotto la sua clemenza: ch'essi lo difenderebbero con armi e
danari sino allo spargimento dell'ultimo sangue: che avendo dal loro
canto il Papa, renderebbesi giusta l'impresa, il quale tosto ne lo
investirebbe, e se gli altri romani Pontefici, e' diceva, poterono
per lo bene della pace permettere ad Alfonso, che ne privasse il Re
Giovanni suo fratello, a cui di ragione questo Regno s'apparteneva,
quanto più ora sarà riputata azione giusta e gloriosa del presente
Pontefice Innocenzio, che togliendo il Regno dalle mani d'un Tiranno,
lo riponga nelle vostre, che tanto dissimile siete da lui, quanto il
lupo dall'agnello, quanto un crudele ed avaro, da un Principe tutto
clemente, tutto buono e tutto virtuoso: nè certamente se ne offenderà
il vecchio vostro padre Ferdinando, il quale son sicuro, che seconderà
la volontà degli uomini e d'Iddio, anzi si terrà del tutto padre
felice, che tra' suoi figliuoli abbiane generato uno, che per giudicio
universale sia stato riputato degno dello scettro e della regal Corona.
Doversi rammentare esser nato fra noi in questo Cielo ed in questa
preclara parte d'Italia per nostro scampo: dovere la pietà del vostro
cuore esser mossa dalle nostre miserie, abbracciare i nostri innocenti
figliuoli, sollevare le spaventate madri, e finalmente non soffrire,
che, cacciati dalla necessità, ricorriamo per aver salute in grembo
di genti barbare, come senza fallo avverrà, non accettandoci per servi
vostri[81].

Orò il Principe con tanto ardore ed efficacia, che ciascuno de'
circostanti credeva, che Federico non dovesse rifiutare il dono: ma
questo Principe, cui non movea nè ambizione, nè immoderata sete di
dominare, ma sola virtù, dopo aver rese le grazie dell'offerta, con
molta placidezza rispose loro, che se il concedergli il Regno stasse
in lor mano, volentieri accetterebbe il dono, ma non potendolo egli
acquistare, se non con violare tutte le leggi, il volere paterno e la
ragion di suo fratello, non voleva, che per mantenerselo poi con la
forza, fosse costretto usar maggiori fraudi e scelleratezze. Essere
il Regno pieno di tante fortezze e presidj, che appena la vita di due
Re valorosi e sempre vittoriosi, basterebbe a vincerli ed espugnarli,
massimamente, che buona parte de' Baroni avvezzi alle armi seguivano
l'insegne del Duca, il quale, ancorchè da Popoli fosse mal veduto,
era però da' soldati, co' quali s'avrebbe a far la guerra, molto
amato, anzi adorato. Che s'ingannavano nel paragone ch'essi facevan
tra le sue maniere con quelle del Duca: non esservi proporzione tra
un uomo privato, qual egli era, ad un Principe. Nè dover loro recar
meraviglia, se per aver egli coltivati gli studj delle buone lettere,
fosse divenuto di natura piacevole, ed all'incontro il Duca nutrito
tra le armi, terribile e feroce: che se divenisse Re, sarebbe forzato
lasciare i suoi antichi costumi, e prendere quelli del fratello per
confermazione dello Stato regale, maneggiando le guerre, imponendo
nuove gravezze, assicurandosi de' malcontenti, ed in brieve adoperando
tutto quello, per cui egli era odiato. Talchè quando da lui erano
assicurati, che gli articoli accordati sarebbero stati religiosamente
eseguiti, doveano lasciar questi pensieri, ed appigliarsi alla pace,
ch'egli loro offeriva.

Quando i Congiurati intesero la resoluzione di Federico, cambiati
di volto e impalliditi, presaghi del futuro, che di quella congiura
resultar dovea, vinti dalla disperazione diedero in furore ed in mille
enormità. In cambio di farlo Re, lo fecero prigione; e per invigorir
l'animo del Papa, scosso svelatamente il giogo, alzarono con biasimo
non men loro, che del Pontefice, le bandiere colle Papali insegne e si
scovrirono non meno aperti, che ostinati nemici del Re.

Ferdinando vedendo tanta indegnità, per abbattere non meno la loro
fellonia, che l'ambizione del Papa, si risolvè movergli guerra, e
senza riguardo alcuno assaltar lo Stato della Chiesa per costringerlo
a lasciar l'indegna impresa; onde voltò i suoi pensieri a far
ogni provisione di guerra, e mandò il Duca di Calabria con un
floridissimo esercito a' confini del Regno. Prima di mandarlo, perchè
molti di debile spirito si sbigottivano in sentire, che si dovesse
maneggiare una guerra contro il Pontefice, onde mal si disponevano
ad intraprenderla, per togliergli di questo inganno, fece egli a' 12
novembre di quest'anno 1485 nel Duomo di Napoli ragunar la Nobiltà
e 'l Popolo, con molti Capitani e Baroni, ed in loro presenza fece
pubblicamente leggere una protesta, colla quale dichiarava, che egli
non avea, nè voleva alcuna guerra contra la Santa Sede: che tutto
quell'apparato di guerra non era per offendere, nè occupar l'altrui,
ma solo per difender se, e conservare il suo Stato e liberarlo d'altrui
insidie: che del rimanente egli era stato e sarà sempre ubbidientissimo
figliuolo alla Sede Appostolica.

Fece ancora pubblicar bando, col quale s'ordinava a tutti Prelati e
persone Ecclesiastiche del Regno, che tenevano Vescovadi, Arcivescovadi
e beneficj nel Regno, e che dimoravano nella Corte romana, che fra
15 giorni numerandi dal dì della pubblicazione del bando, venissero
tutti nella sua presenza, ed a risedere nelle loro Chiese, altrimenti
gli privava del godimento de' frutti di quelle, li quali sarebbero
stati da lui fatti sequestrare; e non avendo voluto ubbidire al
bando l'Arcivescovo di Salerno, i Vescovi di Melito e di Teano, che
risedevano nella Corte romana, sequestrò i frutti delle loro Chiese e
destinò Economi per l'esazione[82].

Ragunò anche un altro esercito, del quale ne diede il comando a
D. Ferrante Principe di Capua suo nipote, primogenito del Duca
di Calabria, al quale, per moderare la giovanil età del Principe,
diede per compagni i Conti di Fondi di Maddaloni e di Marigliano;
e mandò anche in Puglia con altro esercito il Duca di S. Angelo suo
quartogenito a guardar quelle Terre.

Papa Innocenzio atterrito da' tanti apparati di guerra, e non vedendo
comparire _Renato Duca di Lorena_ da lui invitato all'acquisto del
Regno, si voltò al soccorso de' Vinegiani potenti allora in Italia, e
proccurava con ogni sforzo di far con esso loro lega per la conquista
del Regno, offerendo loro buona parte di quello; ma i Vinegiani,
avendo preveduta la riuscita, che doveano fare i Baroni congiurati, non
vollero entrare in manifesta lega contro il Re, nè abbandonar il Papa,
ma per vie segrete ajutarlo, come fecero.

Intanto il Duca di Calabria avendo invaso lo Stato del Papa, ed avendo
più volte combattuto gli Ecclesiastici, era arrivato fino alle porte
di Roma, cingendo di stretto assedio questa città. Ed il Principe D.
Federico, per opera d'un Capitano de' Corsi, che teneva stipendiato
il Principe di Salerno, era fuggito di prigione e venuto a Napoli,
ove dal padre, e da tutti gli Ordini della città fu con grande giubilo
accolto, commendando la sua virtù; onde il suo nome andava glorioso per
le bocche di tutti.

Il Re Ferdinando non tralasciava ancora dall'altra parte con astuzie
ed inganni tirar alla sua parte alcuni de' Baroni congiurati; onde
il Papa, ch'era più atto alla pace, che alle cose di guerra, non
vedendo comparir il Renato, nè grandi soccorsi venirgli dai Vinegiani,
molestato ancora dal Collegio de' Cardinali e da' lamenti di molti;
perchè i soldati de' Baroni del Regno, per non aver le paghe,
rovinavano lo Stato della Chiesa, vedendosi ancora per tre mesi
assediato in Roma, venne finalmente a trattar di pace, ed a persuadere
a' Baroni, che volessero accordarsi col Re, perchè avria trattato di
fargli avere buone condizioni. I Baroni per non poter far altro, da
dura necessità costretti inclinarono all'accordo, cercandolo con le
maggiori cautele, che fossero possibili e vollero, che il Re Giovanni
d'Aragona, e 'l Re Ferrante, detto poi il Cattolico, suo figliuolo,
ch'era allora Re di Sicilia, ed avea per moglie la Principessa
di Castiglia, che poi ne fu Regina, mandassero Ambasciadori, che
promettessero in nome loro la sicurtà della pace[83]. Fu in fine quella
fermata a' 12 agosto dell'anno 1486 intervenendovi l'Arcivescovo
di Milano ed il Conte di Tendiglia Ambasciadori del Re di Spagna
e di Sicilia; e fu accettata in nome del Re Ferdinando da Giovanni
Pontano famoso letterato di quei tempi. Fu per quella conchiuso, che
il Re riconoscesse la Chiesa romana, pagandogli il consueto censo; e
rimanesse di molestare i Baroni.

Papa Innocenzio fermata ch'ebbe questa pace, fu nel resto di sua vita
amico del Re, lo compiacque in tutto ciò, che gli chiedeva. Spedì a sua
richiesta a' 4 giugno del 1492 una Bolla, nella quale dichiarava, che
dopo la sua morte, dovesse succedere nel Regno Alfonso d'Aragona Duca
di Calabria suo figlio primogenito, per osservanza delle Bolle di Papa
Eugenio IV e di Pio II suoi predecessori: che se occorresse morire il
Duca di Calabria, vivente il Re, dovesse succedere nel Regno Ferdinando
d'Aragona Principe di Capua figliuolo del Duca di Calabria. A questo
fine fu mandato il Principe di Capua in Roma, al quale Alfonso suo
padre fece mandato di proccura, perchè in suo nome dasse il giuramento
di fedeltà e ligiomaggio in mano di Papa Innocenzio, siccome lo diede
tanto in nome suo proprio, quanto in nome d'Alfonso suo padre, giusta
l'investitura, che questo Papa gli avea conceduta[84].

I Baroni, ancorchè assicurati dal Papa e da' Re di Spagna e di Sicilia,
sapendo la crudeltà d'Alfonso e la poca fede di Ferdinando, rimasero
grandemente afflitti. Pietro di Guevara G. Siniscalco, prevedendo la
ruina, di dolore ed estrema malinconia se ne morì. Gli altri infra
di lor uniti, si fortificarono nelle loro Rocche, e non tralasciavano
ancora per vie segrete di mandar uomini diligenti in Roma, Vinegia e
Firenze per implorar ajuti, nè mancarono di quelli, che consultarono
di doversi mandar al Turco per soccorso; ma il Duca di Calabria ed il
Re Ferdinando, per avergli in mano, si portavano con gran simulazione,
gli offerivano sicurezza e mostravan loro umanità: molti ingannati
s'assicurarono; ma il Principe di Salerno loro non credè mai, e
sospettando quel che ne dovea avvenire, uscì di nascosto dal Regno e
si portò a Roma; e vedendo, che il Papa era affatto alieno di rinovar
la guerra, se ne passò in Francia: andata, che se bene per varj
impedimenti non partorì allora niente, non passarono molti anni, che
cagionò effetti grandissimi; poichè, come diremo, col favore del Re di
Francia afflisse non solo il Re ed il Duca, ma estinse tutta la loro
progenie.

Intanto Ferdinando ed il Duca suo figliuolo covrendo i loro disegni,
andavan assicurando gli altri; e risoluti di disfare il Conte di
Sarno ed il Segretario Petrucci co' loro figliuoli (poichè gli altri
Baroni, scusandosi, ributtavano la colpa della guerra su le spalle di
costoro) pensarono un modo, per assicurarsi di tutti, il qual fu di
congregarli insieme. Ed affrettando le nozze che s'erano appuntate tra
Marco Coppola figliuolo del Conte di Sarno con la figliuola del Duca
d'Amalfi nipote del Re oprarono che il Duca si contentasse, e vollero
che nella sala grande del Castel Nuovo splendidamente si celebrassero.
Mentr'erano tra balli e feste ivi tutti ragunati, fu convertita
l'allegrezza in estremo lutto ed amaro pianto; poichè niente curando
del luogo e di funestare quella celebrità, niente ancora stimando
l'autorità del Papa, nè de' due Re di Spagna padre e figlio, ch'erano
stati assicuratori della pace, fece Ferdinando imprigionare il Conte di
Sarno, Marco ch'era lo sposo e Filippo suoi figliuoli, il Segretario
Petrucci, i Conti di Carinola e di Policastro suoi figliuoli. Agnello
Arcamone cognato del Segretario, e Giovanni Impoù catalano. Fece ancora
spogliare le case de' prigioni, così a Napoli come a Sarno; e perchè
il fatto era detestato da tutti, che ne parlavano con orrore e biasimo,
non volle farli morire da se, ma destinò una Giunta di quattro Giudici,
acciocchè ne fabbricassero il processo e gli condennassero come felloni
e rei di Maestà lesa, secondo il rigor delle leggi. Trattando questi
la causa, dovendosi proferir la sentenza contro Baroni, e disponendo
le nostre Costituzioni che nell'interposizione della sentenza debbano
intervenire i Pari della Curia, furono anche eletti quattro Baroni
per Pari, li quali furono Giacomo Carracciolo Conte di Burgenza Gran
Cancelliere, Guglielmo Sanseverino Conte di Capaccio, Restaino Cantelmo
Conte di Popoli e Scipione Pandone Conte di Venafro. Fu proferita
la sentenza dai Commessarj, i quali congregati di nuovo co' Pari
nella sala grande del Castel Nuovo, sedendo col Reggente della Gran
Corte della Vicaria _pro Tribunali_, fecero leggere e pubblicar la
sentenza, presenti tutti quattro i rei che furono il Segretario, e due
suoi figliuoli ed il Conte di Sarno, i quali furono condennati alla
privazione di tutti gli onori, titoli, dignità, ufficj, cavalleria,
contadi, nobiltà e d'esser loro troncata la testa, ed i loro beni
incorporati al Fisco. Non volle il Re che in un dì morisser tutti: fece
prima giustiziare sopra un palco nel mezzo del mercato i figliuoli del
Segretario; alcuni mesi da poi dentro la porta del Castel Nuovo, avendo
fatto erger un palco altissimo, perchè fosse veduto dalla città, fece
mozzare il capo al Conte ed al Segretario. Ciò che si fece a' 11 maggio
del 1487.

Ciò eseguito fece poi il Re a' 10 di ottobre imprigionare il Principe
d'Altamura, il Principe di Bisignano, il Duca di Melfi, il Duca di
Nardò, il Conte di Morcone, il Conte di Lauria, il Conte di Melito,
il Conte di Noja e molti altri Cavalieri; e stimolato poi dal Duca
di Calabria, in varj tempi e diversità di supplicj gli fece tutti
segretamente morire: anche Marino Marzano Duca di Sessa che per
venticinque anni era stato prigione, perchè la tragedia fosse compita,
fu fatto morire; ed il Re per far credere al Mondo che fossero vivi,
mandò loro per molto tempo la provisione di vivere; ma la verità fu
che poco da poi, vedendosi in potere del boja una catenella d'oro che
portava nel collo il Principe di Bisignano, si disse ch'erano stati
scannati e gettati dentro sacchi in mare. Furono poco appresso presi i
figliuoli e le loro mogli, sotto pretesto che cercassero di fuggire per
concitar nuova guerra, e confiscati tutti i loro beni. Solo Bandella
Gaetana Principessa di Bisignano, donna non men d'origine che per virtù
romana, salvò i suoi figliuoli, che di soppiatto imbarcatigli in una
picciola nave, fuggì con loro, e giunta in Terracina, gli condusse
nelle Terre de' Colonnesi stretti parenti de' Sanseverini; onde avvenne
che estinta la progenie di Ferdinando, in tempo del Re Cattolico
ricuperassero i paterni Stati.

Una tragedia sì crudele e spaventevole diede orrore a tutto il Mondo;
onde Ferdinando e molto più il suo figliuolo Alfonso, acquistaron fama
di crudeli e di tiranni. Gli Scrittori di que' tempi e molto più i
Franzesi gli detestarono, e Filippo di Comines Monsignor d'Argentone,
Scrittor contemporaneo[85], gli descrisse per ciò per empj ed inumani.
Ma non mancò Ferdinando di difendere la sua fama nell'opinione del
Mondo, e di purgarsi dalla crudeltà che se gl'imputava. Fece porre
in istampa il processo fabbricato contra il Segretario e 'l Conte
di Sarno, che corre ancora oggi per le mani di alcuni, e gli altri
processi fabbricati contra gli altri Baroni, e gli mandò non solo
per tutta Italia, ma sino in Inghilterra, acciò gli fossero scudo a
quietare gli animi de' Principi. Si scusò ancora per lettere dirette a
tutte le Potenze cristiane, scrivendo loro, com'egli l'aveva carcerati,
non per farli morire, ma per assicurarsi di loro, perchè già tentavano
cose nuove. Ma tutte queste sue dimostranze niente gli giovarono,
e molto meno col Re di Spagna, appo il quale egli più d'ogni altro
studiava di purgarsi.

Era a questi tempi già morto il Re Giovanni d'Aragona, zio di
Ferdinando e succeduto in que' Reami Ferdinando suo figliuolo, il quale
s'avea sposata Elisabetta Principessa di Castiglia, sorella d'Errico
Re di quel Regno, al quale ella poi succedette. Re Ferdinando, che
fu detto il Cattolico, e che alla sua Corona per ragion della moglie
avea anche unita la Castiglia, avendo inteso, che s'era mancato
alla sua fede, cominciò a lamentarsi col Re Ferdinando; e con tal
pretesto a pensare all'acquisto del Regno di Napoli. Re Ferdinando,
a cui ciò molto premeva, avendo intesa la poca soddisfazione del Re
Cattolico, inviò tosto in Ispagna Giovanni Nauclerio ad escusarsi con
quel Re che non avea potuto far altro, perchè quei Baroni inquieti
cominciavano a macchinare cose nuove contra di lui, e che il Principe
di Salerno fuggito in Roma, coll'intelligenza de' Baroni rimasi nel
Regno, meditava nuova impresa. E vedendo che il Re Cattolico non stava
soddisfatto con quella ambasceria. per meglio assicurarsi, cominciò a
trattar matrimonio per mezzo della Regina Giovanna sua moglie, ch'era
sorella del Re Cattolico, del Principe di Capua figliuolo primogenito
del Duca di Calabria, con una delle figlie del detto Re Cattolico; ma
fu opinione di molti, ch'Elisabetta Regina di Castiglia moglie del Re
Cattolico non avesse voluto che s'effettuasse, perchè stava in quel
tempo con la cura e col pensiero tutta rivolta all'acquisto di questo
Regno; ma con tutto ciò non essendo venuta ancora l'ora destinata alla
rovina della Casa del Re Ferrante, essendosi in quel medesimo tempo
ribellata l'isola di Sardegna, ed i Mori di Granata avendo cominciato
a tumultuare contra i Regni di Castiglia, la cosa fu differita, nè si
pensò ad altro.



CAPITOLO II.

_Morte del Re FERDINANDO I d'Aragona; sue leggi che ci lasciò: e
rinovellamento delle lettere e discipline che presso di noi fiorirono
nel suo Regno e de' suoi successori Re Aragonesi._


Il Re Ferdinando, dissipati i suoi nemici, ed arricchito dalla rovina
di tanti gran Signori, da' quali ebbe un tesoro inestimabile, continuò
ne' sei altri anni, che visse, a regnare con somma quiete e pace: e le
cose della città e del Regno si ridussero in un tranquillo e sicuro
stato. Egli cominciò, per maggiormente stabilirsi in un più sicuro e
continuato riposo, a tenere al suo soldo i migliori Capitani di quel
tempo, de quali il primo era Virginio, appresso Gio. Giacomo Trivulzio
ed i due Colonnesi Prospero e Fabrizio, e 'l Conte di Pittigliano
ed altri: e si diede a fortificar di nuovo le fortezze della città
e quelle del Regno, ed a ben munirle di necessari presidj, e con la
prudenza sua e col valore del Duca di Calabria sperava di non avere
a temere nè del Re di Spagna, nè di quello di Francia. Invigilava
ancora a questo fine, per la quiete comune d'Italia, concorrendo nella
medesima inclinazione di Lorenzo de' Medici, per mantenervi la pace; e
quantunque in quello tempo fosse molto stimolato dal Duca di Calabria,
il qual mal volentieri tollerava che Giovanni Galeazzo Sforza Duca
di Milano maggiore già di venti anni, ritenendo solamente il nome
Ducale, fosse depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio, il quale
avendo più di dieci anni prima presa la di lui tutela, e con questa
occasione ridotte a poco a poco in potestà propria le fortezze, le
genti d'arme, il tesoro e tutti i fondamenti dello Stato, perseverava
nel governo, non come Tutore o Governatore, ma dal titolo di Duca di
Milano in fuori, con tutte le dimostrazioni ed azioni di Principe;
nondimeno Ferdinando avendo innanzi agli occhi più l'utilità presente,
che l'indignazione del figliuolo, benchè giusta, desiderava che Italia
non s'alterasse; o perchè, come ponderò Francesco Guicciardini[86],
avendo provato pochi anni prima con grandissimo pericolo l'odio contra
se de' Baroni e de' popoli suoi, e sapendo l'affezione che per la
memoria delle cose passate molti de' sudditi aveano al nome della casa
di Francia, dubitasse che le discordie italiane non dessero occasione
d'assaltare il suo Regno, e perchè conoscesse essere necessaria
l'unione sua con gli altri, e spezialmente con gli Stati di Milano e di
Fiorenza, per far contrappeso alla potenza dei Vinegiani, formidabile
allora a tutta Italia; ed in questa tranquillità si visse per alcuni
anni.

Ma la morte accaduta nel mese d'aprile dell'anno 1492 di Lorenzo
de' Medici, la quale pochi mesi appresso fu seguitata da quella
d'Innocenzio VIII fece mutare lo stato delle cose, e che si
preparassero più occasioni alle future calamità d'Italia e del Regno;
poich'essendo succeduto ad Innocenzio Roderigo Borgia, nominato
_Alessandro VI_, ed a Lorenzo, Pietro de Medici; e nate tra Pietro,
che continuò la medesima alleanza col Re Ferdinando, e tra Lodovico
Sforza aspre ed irreconciliabili discordie, ne procedè l'invito fatto
da Lodovico a Carlo VIII Re di Francia per la conquista del Regno, e le
altre calamità e disordini, che saranno il soggetto del seguente libro.

Il Re Ferdinando, che insino all'anno 1493, colla sua prudenza e
consiglio, avea proccurato mantenere la quiete non meno del Regno che
dell'Italia, sentendo queste mosse ed i grandi apparati di guerra,
che si facevano in Francia, non tralasciò di far ogni opera e con
Lodovico Sforza e coll'istesso Re Carlo per rimovergli dall'impresa;
nulladimanco mostrandosi il Re di Francia alienissimo dalla concordia
con Ferdinando, ed avendo comandato agli Oratori del medesimo, che come
Oratori di Re nemico si partissero subito dal Regno di Francia; si
vide incontanente il tutto ingombrato da grandi timori d'una crudele
e nuova guerra. Ed a Ferdinando intanto per aver dovuto prepararsi a
resistere ad un così potente inimico, affaticandosi più dell'ordinario
a provvedere l'esercito che apparecchiava, gli sopravvenne un gran
catarro, ed a questo essendo sopraggiunta la febbre, nel decimoquarto
giorno di sua infermità lo tolse di vita in Napoli al 25 gennajo del
1494, sopraffatto più da' dispiaceri dell'animo che dall'età. Morte
pur troppo funesta e luttuosa, e che portò seco la ruina, non pure
della sua progenie e del Regno, ma ricolmò di infiniti mali e calamità
l'Italia tutta; poichè la sua prudenza e celebrata industria era tanta,
che si tenea per certo, che se fosse più vivuto, avrebbe tentato
qualunque rimedio per impedire la passata de' Franzesi in Italia,
ed avrebbe tollerato qualunque incomodo ed indegnità per soddisfare
a Lodovico Sforza in tutto quello desiderasse per distaccarlo da'
Franzesi, da lui invitati alla conquista del Regno.

Egli lasciò un Regno, che colla sua virtù avea condotto alla maggior
grandezza, che forse molt'anni innanzi l'avesse posseduto Re alcuno.
Oltre della buona disciplina militare, lo riordinò con provide e sagge
leggi che ancora ci restano, e che sono le più culte che abbiamo di
tutte l'altre, che vi stabilirono i Re angioini suoi predecessori, per
le quali sin ad ora si governano i nostri Tribunali. Egli riordinò gli
studj nella città di Napoli, donde ne uscirono molto valenti uomini
in ogni scienza, tanto che i Napoletani fra i privilegi e grazie,
delle quali cercarono la conferma al G. Capitano, una fu questa che ad
esempio di Ferdinando, il Re Cattolico mantenesse questi studi[87] Ebbe
ancora il pregio, che nel suo regnare si rinovellassero presso noi i
buoni studj e le discipline e le lettere riacquistassero la loro stima
e riputazione, e che il Regno fiorisse non meno di famosi Giureconsulti
che d'insigni letterati: che la giurisprudenza, la quale quasi per
un secolo fra noi da pochi era professata ed era in declinazione, si
ristabilisse, ed in maggior splendore si vedesse illustrata da tanti
celebri Scrittori che nel suo Regno rilussero: che le leggi delle
Pandette e del Codice fossero più adoperate, e con sommo studio la
giurisprudenza romana abbracciata e commendata, donde nacque in noi la
total dimenticanza delle leggi longobarde: che il Regno fosse più culto
e la barbarie non fosse cotanta, così nelle scuole, come ne' nostri
Autori.


§. I. _Rinovellamento delle buone lettere in Napoli._

L'origine di tal rinovellamento, non solo al favore di questo Principe,
ma deve principalmente attribuirsi alla caduta di Costantinopoli.
Passata questa città sotto la dominazione di Maometto II primo
Imperador dei Turchi, ed invaso l'Imperio d'Oriente da questi barbari
nemici delle buone lettere, molti uomini dotti che in Grecia ed in
Costantinopoli dimoravano[88], per non rimanere in ischiavitù, si
ritirarono co' loro libri in Italia, e molti nel nostro Regno, come
quello che era lor più vicino. Oltre a tanti, di cui ora è il lor
nome oscuro, vi vennero Emanuel Crisolora, Bessarione, Costantino
Lascari Bizantino, che fu invitato da Ferdinando a legger lingua
greca nell'Università degli studi di Napoli[89], Trapezunzio, Gaza,
Argiropilo, Fletonte, Filelfo e molti altri, de' quali Giovio tessè
accurati elogi.

Prima di questo tempo, come s'è potuto vedere nei precedenti libri
di quest'Istoria, nelle Università degli studi d'Italia, le facoltà
e le discipline erano insegnate, ma non con molto candore e polizia,
nè molto s'attendeva allo studio delle lettere umane, e quantunque il
Petrarca ed il Boccaccio avessero nel secolo precedente rilevata questa
sorte di studi, non aveano ancora presso che niente avanzato.

La giurisprudenza, ancorchè nell'Accademie d'Italia ed in questa
nostra di Napoli, s'insegnasse su i libri di Giustiniano e molti
Professori vi faticassero attorno, chi in commentando le loro leggi,
chi in glossandole e chi in altra maniera sponendole; nulladimanco
poichè l'ignoranza del latino e della istoria romana impediva loro
lo intender bene i testi, tutti si rapportavano ai Sommarj ed alle
Chiose di coloro che credeansi esserne i meglio intesi; e quelli che
non aveano il soccorso d'altri libri, non facevano altro che spiegare
un luogo del _Digesto_ o del _Decreto_ per mezzo d'un altro luogo,
collazionandolo insieme quanto più esattamente potevano, nel che
Accursio sopra le Pandette riuscì maraviglioso. I difetti di tali
maestri trassero in errore facilmente gli scolari; ed alcuni abusando
la loro credulità, tramischiarono nelle loro Chiose etimologie ridicole
e favole stravaganti, come fra gli altri in più luoghi fecero Accursio
ed i Chiosatori del Decreto[90].

O perchè non comprendessero, non potersi praticare le leggi se
non s'intendono, o perchè disperassero di meglio capirle, la loro
applicazione più grande era di ridurle in pratica, trattando quistioni
sopra le conseguenze, che deduceano da' Testi, e dando consigli e
decisioni. Quando poi si volle applicare la legge romana sì mal intera,
e sì lontana da' nostri costumi, ed istituti totalmente diversi da
quelli de' Romani, ai nostri affari, e conservare nello stesso tempo
le nostre usanze, le quali era impossibile di cangiare, le regole
della giustizia divennero molto più incerte di prima, e s'intrigavano
in quistioni sopra conseguenze, ch'essi credean dedurre da' Testi.
Tutta la Giurisprudenza perciò si ridusse in dispute di scuola, e nelle
opinioni de' Dottori, li quali non avendo cavati a bastanza i principj
della morale, e della equità naturale dalle leggi romane, che ben, se
l'avessero comprese, potevan apprendersi, sovente o cercavano i loro
interessi particolari, ovvero si sposavano co' loro mal regolati ed
ostinati pareri. Quelli pure, che cercavano la giustizia, non sapevano
altri mezzi per proccurarla, che i rimedj particolari contro la
ingiustizia: il che fece loro inventare tante clausole per li contratti
e tante formalità per li Giudici.

Non così avvenne in questi medesimi secoli nella Grecia ed in
Costantinopoli, così per ciò che riguarda le lettere umane e l'altre
facoltà, come la Giurisprudenza; ed in quanto alle lettere umane, in
Grecia gli Studi s'erano molto ben conservati, ed il solo Commento
d'Eustazio sopra Omero dimostra esservi rimasta sino agli ultimi
secoli infinità di libri e personaggi di grand'erudizione. In quanto
alla giurisprudenza, il Corpo delle leggi e de' canoni raccolti da
Leunclavio, e da Marquardo Freero, fanno vedere, che in Costantinopoli
insino a' tempi del suo eccidio si conservava intatta. Le opere poi de'
Giureconsulti greci, che fiorirono sino agli ultimi secoli, dimostrano
ancora il medesimo: lo dimostrano le opere di Michele Attaliota, che
fiorì nel 1077, di Michele _Psello_, che visse intorno a' medesimi
tempi, di Costantino _Armenopolo_, che fiorì nel 1143, di Antioco
_Balsamone_, di Giuseppe _Tenedo_, d'_Eustazio_ Antecessore, ed altri
Chiosatori Greci rapportati da Giovanni Doujat[91], e da Giovanni
Leunclavio, e Marquardo Freero, il quale ne tessè una Cronologia, dalla
morte di Giustiniano insino alla perdita di Costantinopoli[92].

Caduta per tanto Costantinopoli, e passata la Grecia sotto la
dominazione di que' Barbari, si vide nella metà di questo secolo decimo
quinto improvvisamente apparire una folla d'uomini letterati in queste
nostre parti d'Occidente Ma la prima fu la nostra Italia: ella tiene
il vanto essere stata la prima ricevitrice delle lettere: d'Italia
l'apprese la Francia, poi passarono di mano in mano all'altre province
d'Europa.

Que' dotti, che si ritirarono coi loro libri in Italia invogliarono gli
altri allo studio delle buone lettere: questi con incredibile ansietà
s'applicarono a leggere tutti i libri degli antichi, che potevano
trovare, ed a scrivere in latino con maggior purità; poichè non mancava
chi loro insegnasse il greco, si posero ad impararlo, e per far maggior
profitto, così nell'una, come nell'altra lingua, si posero a tradurre
in latino gli Autori greci, de' quali n'avean copia. L'arte dello
stampare trovata, come si è detto, in questo medesimo tempo, fu loro
di grandissimo ajuto per avere libri con facilità, ed averli anche ben
corretti. Molti anche attendevano a fare edizioni eccellenti di tutti
i buoni Autori sopra i manoscritti migliori, ricercando i più antichi
e raccogliendone molti insieme. Altri fecero dizionari e gramatiche
perfettissime; altri Commenti sopra Scrittori difficili; altri Trattati
di tutto ciò, che può servire ad intenderli, come delle loro Favole,
della Religione, del Governo e della Milizia. E nei tempi seguenti,
poichè non tutto si fece in un tratto, questi studi furon coltivati
tanto, che si discese sino alle menome particolarità de' loro costumi,
de' loro vestiti, pranzi e divertimenti, tal che han fatto tutto lo
sforzo necessario per farne intendere, dopo sì lungo intervallo di
tempo, tutti i libri antichi greci, o latini, che ci restano. Ma poichè
è difficile agli uomini il restringersi in una giusta mediocrità,
si vider poi alcuni troppo fermati in questi studj che non sono che
istromenti per gli studj più serii; perocchè vi furono molti curiosi,
che passarono la loro vita studiando il latino ed il greco, e leggendo
tutti gli Autori solamente per la lingua, o per intendere gli Autori
medesimi, e spiegarne i luoghi più difficili, senz'arrivare più oltre,
nè farne alcun altro buon uso. Furonvi tra quelli alcuni, che si
fermarono nella sola mitologia e nelle antichità: altri che ricercarono
le iscrizioni, le medaglie e tutto ciò che poteva illustrare gli
Autori, ristringendosi nel solo diletto, che recavano queste curiosità.

Certi passando più avanti, studiarono negli antichi le regole delle
belle arti, come della eloquenza e della poesia, senza mai praticarle,
donde avvenne, che noi abbiamo tanti trattati moderni di poetica e di
rettorica, ancorchè vi siano stati tanti pochi veri Oratori; e tanti
trattati di politica fatti da' privati, che non sono stati giammai a
parte degli affari pubblici.

Finalmente l'applicazione di leggere i libri antichi produsse in molti
un rispetto sì cieco, che vollero più tosto anzi seguitare i coloro
errori, che darsi la libertà di farne giudicio. Così si credette, che
la natura fosse tale, quale è stata descritta da Plinio, e che ella
non potesse operare, salvo che secondo i principj d'Aristotele. Ma
il peggio si fu, che alcuni ammirarono troppo la lor morale, senza
avvedersi quanto ella sia inferiore alla religione, che sin da'
fanciulli aveano appresa: altri, benchè in picciol numero, diedero
nell'eccesso opposto, affettando di contraddire agli antichi, e di
allontanarsi da' loro principj.

Ma fra quelli, che ammirarono gli antichi, il più ordinario difetto
era la cattiva imitazione. Si credette, che per iscrivere com'essi
facevano, bisognava scrivere nella lor lingua, senza considerare,
che i Romani scriveano in Latino, non già in Greco; e che i Greci
scrivevano in Greco, non già in Egiziaco, o in Siriaco, Quindi avvenne,
che la lingua toscana, che dal Petrarca, Boccaccio, e da alcuni altri
del decimoquarto secolo si era rilevata tanto, cadesse in questo
decimoquinto secolo, perchè tutti i Letterati d'Italia la disprezzarono
come lingua del volgo; tanto che se nel seguente secolo Pietro Bembo e
gli altri Letterati, che lo seguirono, non v'avessero fatto argine, e
coll'esempio e colla ragione non avessero mostrato, che si poteva, così
bene ed in ogni materia, scrivere nell'una, che nell'altra, sarebbe
affatto rovinata[93]; ma a questi tempi i dotti la disprezzavano, e
s'appigliavano al Latino ed alcuni anche al Greco, dettando le loro
composizioni in verso, o in prosa in questa lingua, con pericolo di non
essere intesi da alcuno.

Cominciarono adunque in questo secolo presso noi a risorgere le
lettere, le quali accolte da' favori del Re Ferdinando, Principe
ancor egli letterato, fecero nel suo Regno non piccioli progressi.
Alfonso suo padre avea accolti, come si è detto, nella sua Corte
alcuni Letterati di que' tempi, Lorenzo Valla, Antonio Panormita ed
alquanti altri, i quali invogliarono questo Principe a proteggerle; gli
scoprirono le bellezze, la gravità e la prudenza dell'istoria romana;
gli posero tanto a cuore i libri di Livio, che divennero perpetua sua
lezione; e fecero educare il suo figliuolo Ferdinando, ch'egli avea
destinato per successore del Regno di Napoli, non meno nell'esercizio
delle armi, che delle lettere. Lo provide perciò Alfonso di buoni
Maestri, oltre al Vescovo di Valenza _Borgia_, Cardinale e poi Papa,
detto _Calisto III_, al Valla, e Panormita celebri al Mondo, ebbe anche
Ferdinando per Maestro Paris de Puteo e Gabriele Altilio famoso Poeta
di que' tempi e versatissimo nella lingua latina, che poi fu creato
Vescovo di Policastro, de' quali appresso ragioneremo[94].

Allevato questo Principe tra' Letterati, divenne ancor egli non pur
amante de' Letterati, ma letteratissimo. Di Ferdinando ancor si leggono
alcune _Epistole_ ed _Orazioni_ elegantissime, donde si scorge il buon
gusto, ch'egli avea delle buone lettere: di lui ancora non men che del
Re Roberto potea dirsi, che

    _Fur le Muse nutrite a un tempo istesso,_
    _Ed anco esercitate._

Furono queste sue Epistole ed Orazioni impresse nel 1586, e porta
il libro questo titolo: _Regis Ferdinandi, et aliorum Epistolae, ac
Orationes utriusque militiae, etc._[95].

Non men che suo padre avea di lui fatto, fece egli de' suoi figliuoli:
toltone Alfonso Duca di Calabria, che nato e cresciuto in mezzo alle
armi, di genio feroce e guerriero, non ebbe alcuna inclinazione agli
studi; Federigo secondogenito e gli altri suoi figliuoli furono dati
alle discipline; Federigo fu letteratissimo, e D. Giovanni quartogenito
vi fu parimente, tanto che dal padre fu destinato per la Chiesa, e dal
Pontefice Sisto IV fu creato Cardinale, detto il Cardinal d'Aragona.

I suoi Segretarj e gli Ufficiali della sua Cancellaria non erano se
non letterati: _Antonio Petrucci_ suo primo Segretario fu discepolo
di Lorenzo Valla, da cui apprese la purità della lingua latina e
le lettere umane, e divenne uom dotto e versato in molte scienze.
_Giovanni Pontano_ suo secondo Segretario, che dopo la morte del
Panormita occupò il suo luogo, niun è che non sappia quanto fosse
celebre e rinomato in tutte le scienze e nella perizia della lingua
latina. Quindi osserviamo, che le Prammatiche e gli Editti, che
leggiamo del Re Ferdinando I, particolarmente quelli che si stabilirono
nell'anno 1477 di cui più innanzi farem parola, poichè dettati da
questi due politissimi Scrittori, siano i più culti e scritti in buon
latino, ciò che non si vede negli altri de' nostri Re. Quindi ancora si
vede, che non valendosi la Cancellaria de' nostri Re aragonesi d'altra
lingua, che della latina ed italiana, i diplomi e l'altre scritture,
che n'uscivano, quegli dettati in latino fossero tanto più culti,
quanto quelli in italiano (per essere questa lingua disprezzata) rozzi
e plebei.

Oltre della sua Cancellaria, si è di sopra veduto, che invitò
all'Università degli Studj di Napoli i migliori Professori di que'
tempi; ed è notabile per conferma di tutto ciò, quel che si legge in
un suo diploma impresso dal Toppi[96], drizzato nel 1465 a _Costantino
Lascari_ di Bizanzio, dove mosso dalla fama d'un sì celebre Letterato,
l'invita con grosso stipendio a leggere lingua greca nell'Università
degli Studj di Napoli: _Decrevimus vos ad lecturam graecorum Auctorum,
Poëtatum scilicet, et Oratorum in hac Urbe Neapolis ad pubblice
legendum praeficere, freti moribus vestris, et literis etiam confisi,
per vos graecarum litterarum doctrina, ad frugem aliquam nostrorum
dilectissimorum studentium ingenia perventura._



CAPITOLO III.

_Degli Uomini letterati, che fiorirono a tempo di FERDINANDO I e degli
altri Re aragonesi suoi successori._


Fiorirono per tutte queste cagioni nel Regno di Ferdinando insino a
Federigo ultimo Re della sua discendenza, presso noi uomini illustri
per lettere e per dottrina. Non meno che Roma e le altre città d'Italia
si gloriavano in questi tempi d'un Pico della Mirandola, di Marsilio
_Ficino_, Bartolommeo _Platina_, Raffael _Volaterrano_, d'Ermolao
_Barbaro_, de' _Poliziani_, _Ursini_ e di tanti altri[97], che Napoli
ancora dei suoi, li quali e per numero e per dottrina non erano a
quelli inferiori.

Oltre al _Panormita_[98] e gli altri già detti, ebbe _Gabriele Altilio_
celebratissimo Poeta e versatissimo nella lingua latina. La Basilicata
lo produsse e per la fama del suo nome fu da Alfonso, come si è detto,
dato per Maestro al suo figliuolo Ferdinando: fu adoperato, non meno
che il Pontano, negli affari di Stato in Roma col Pontefice Innocenzio
VIII ed altrove. Il Pontano suo coetaneo ne fece molta stima,
dedicandogli il suo libro, _De magnificentia_, dove lo cumula di grandi
lodi; e morto, gli tessè un culto Epitaffio che si legge nel libro
primo de' suoi Tumuli. Non men che il Pontano, fu ammiratore della sua
Musa il Sannazaro e nel primo libro de' suoi Epigrammi, si legge il
Natale dell'Altilio: _De Natali Altilii Vatis_, e nelle sue Elegie non
lascia di commendarlo per i suoi dotti carmi. Molti altri Scrittori
insigni di questo famoso Poeta ne fanno illustre ed onorata memoria,
che possono vedersi presso Toppi e Nicodemo[99]. Ci restano ancora le
sue Poesie latine, l'_Epitalamio_, alcune _Elegie_ ed _Epigrammi_, che
furon raccolte dal Ruscelli, da Giovanni Matteo Toscano e da altri.

Fiorì ne' medesimi tempi _Antonio Campano_ nato in Cavelli, Terra
presso Capua, da vili parenti. I suoi talenti gli fecero trovar sommo
favore presso il Pontefice Pio II, da cui fu creato Vescovo di Teramo
nell'Apruzzo. Fu celebre Oratore, Istorico e Poeta, ed ancorchè niente
fosse istrutto di lettere greche, fu delle latine intendentissimo.
Ci lasciò molte opere: La _Storia d'Urbino_: La _Vita di Braccio_:
L'_Epistole Latine_, e moltissime altre, di cui Nicodemo[100] tessè
un ben lungo catalogo. Alcune di queste sue opere dedicò ad Alfonso
Duca di Calabria, da cui fu tenuto in somma stima. Fu molto celebrato
da' suoi coetanei e da altri Scrittori de' tempi seguenti, di che è da
vedersi Nicodemo. Morì, secondo il Volaterrano[101], non avendo più che
quaranta anni, in Teramo in questo secolo 15 intorno l'anno 1477. Il
Possevino ed il Toppi rapportano il suo Epitaffio, che sono da vedersi.

Non men celebre fu il suo coetaneo _Angelo Catone_ famoso Filosofo
e Medico del Re Ferdinando I. Questi nacque in Supino nel Contado
di Molise: per la sua dottrina fu da' Napoletani ricevuto nella lor
città con molta stima, e tenuto in gran pregio; ed il Re Ferdinando,
oltre averlo fatto suo Medico, nel 1465 lo invitò ad insegnare
nell'Università degli Studj di Napoli Filosofia ed Astrologia, ove
lesse molti anni. Emendò il libro delle Pandette di medicina, che
Matteo Silvatico di Salerno avea composto e dedicato al Re Roberto:
egli l'accrebbe, e nel 1473 lo fece imprimere da quel Tedesco, che poco
prima avea in Napoli introdotta la stampa, e fu un de' primi libri
che si stampassero in questa città[102]. Lo dedicò al Re Ferdinando,
dove gl'indrizza una Orazione, celebrando l'amenità e bellezza del
Regno, e ciò, che più di raro si trova in quello. Furonvi due altri
Angeli Catoni, uno di Benevento molto caro al Re Carlo VIII di Francia,
da cui per la sua dottrina fu creato Arcivescovo di Vienna: l'altro
di Taranto, Medico ed Elemosiniere di Lodovico XI Re di Francia, a
persuasione di cui scrisse i Commentarj delle cose di Francia, per quel
che ne scrive Filippo di Comines Monsignor d'Argentone.

Ebbe il famoso _Pontano_ Poeta anch'egli illustre, Istorico, Oratore e
Filosofo eminente, come dimostrano le sue opere, a tutti non men note,
che celebrate. Nacque egli nell'Umbria in Cerreto, ovvero, secondo che
altri scrissero, in Spelle, donde, essendo stato ucciso suo padre,
venne in Napoli giovanetto: e da Antonio Panormita, conoscendolo
di vivace ingegno, fu caramente accolto e posto nella Corte del Re
Ferdinando: diede gran saggio de' suoi talenti, onde il Panormita
fece, che il Re lo deputasse per Maestro e Segretario del Duca di
Calabria suo figliuolo. Crebbe tanto nella grazia di Ferdinando, che
morto Panormita sottentrò nel suo luogo per secondo Segretario del Re.
Fu poi fatto cittadino napoletano, e da Ferdinando creato Presidente
della Regia Camera, e poi anche Luogotenente del G. Camerario[103]. Fu
adoperato nei più gravi e rilevanti affari dello Stato, e per sua opera
fu conclusa, come si è detto, la pace col Pontefice Innocenzio. Narra
Camillo Porzio[104], ch'avendo il Pontano per sua industria e diligenza
recata a fine quella pace, era entrato in speranza, caduto Antonello
Petrucci, di succedere egli nel suo luogo ed autorità, fidando ne'
buoni ufficj del Duca di Calabria che gli avrebbe fatti col padre;
ma il Duca, ch'era poco amico delle lettere, e de' beneficj ricevuti
sconoscente, non lo favorì appresso il padre, come dovea ed avrebbe
potuto; da che provocato l'ambizioso vecchio, compose il Dialogo della
_Ingratitudine_, dove introducendo un Asino delicatamente dal Padrone
nudrito, fa ch'egli in ricompensa lo percuota co' calci. Non è però che
Alfonso, morto il Re Ferdinando, non l'avesse tenuto in somma stima,
e non gli avesse renduti i più grandi onori: poichè nel suo magnifico
palagio, che egli edificò presso il castello Capuano (che, come si è
detto, per la sua abitazione e per quella della Duchessa sua moglie
finora ritiene quel luogo dov'era fabricato, il nome di _Duchesca_) tra
gli altri arredi nobili e preziosi, ed una famosa Biblioteca, vi fece
ergere una statua di rame del Pontano[105], che non senz'encomi era
dal Re Alfonso mostrata a coloro, che venivano a vedere le ricchezze di
quell'edificio.

Per essere stato sì grandemente esaltato da questi due Re, fu non
poco biasimato, quando entrato Carlo VIII in Napoli, volendo prima di
tornarsene ricevere solennemente nella chiesa Cattedrale, secondo il
costume de' Re di Napoli, l'insegna reale egli onori, ed i giuramenti
consueti prestarsi a' nuovi Re; orando in questa celebrità in nome
del popolo il Pontano parve che o per servare le parti proprie degli
Oratori, o per farsi più grato a' Franzesi, si distendesse troppo nella
vituperazione di que' Re, da' quali era sì grandemente stato esaltato.
Tanto ch'ebbe di lui a dire il Guicciardini[106], che qualche volta è
difficile osservare in se stesso quella moderazione e que' precetti,
coi quali egli ripieno di tanta erudizione, scrivendo delle virtù
morali, e facendosi per l'universalità dell'ingegno suo in ogni spezie
di dottrina maraviglioso a ciascuno, avea ammaestrati tutti gli uomini.

Quanto fossero insigni e celebrate l'opere che ci lasciò questo
Scrittore, così in prosa, come in verso, ben è a tutti palese; e
quanti laudatori avessero così de' nostri, come de' forastieri, ben
ciascuno potrà vederlo presso il Vossio[107], e fra' nostri presso
Nicodemo[108], che di questo Autore e delle sue opere tratta ben a
lungo.

Gli fu falsamente imputato, che nella Biblioteca di Monte Cassino, la
quale siccome da noi fu narrato ne' precedenti libri di quest'istoria,
fu dall'Abate Desiderio arricchita di molti antichi volumi, avesse
trovate alcune opere di Cicerone e datele fuori per sue; ma di ciò è da
vedersi il Vossio e lo Schootkio.

Al Pontano deve Napoli la gloria, che acquistò per l'_Accademia_
cotanto celebre da lui quivi eretta, dove a gara vollero ascriversi
molti Nobili de' nostri Seggi ed i maggiori Letterati di que' tempi.

Del Seggio di _Nido_ furono Trojano Cavaniglia Conte di Troja e di
Montella: Ferdinando d'Avalos Marchese di Pescara: Belisario Acquaviva
Duca di Nardò: Andrea Matteo Acquaviva Duca d'Atri; e Giovanni di
Sangro.

Del Seggio di _Capuana_, il Cardinal Girolamo Seripando, se bene altri
dicono aver questa famiglia goduto nel Seggio di Nido: Girolamo Carbone
e Tristano Caracciolo.

Del Seggio di _Montagna_ Francesco Puderico. Del Seggio di _Porto_,
Pietro Jacopo Gianuario ed Alfonso Gianuario suo figliuolo. Del Seggio
di _Portanova_, Alessandro d'Alessandro ed il Sannazaro.

Fuori de' Seggi, i _Napoletani_ furono Antonio Carlone Signor di Alife:
Giovanni Elia ovvero Elio Marchese: Giuniano Maggio, ovvero Majo,
precettore del Sannazaro: Luca Grasso: Giovanni Aniso: il Cariteo (di
cui non si sa il nome): Pietro Compare: Pietro Summonte: Tommaso Fusco:
Rutilio Zenone: Girolamo Angeriano: Antonio Tebaldo: Girolamo Borgia e
Massimo Corvino, poi Vescovi di Massa e di Isernia.

De' _Regnicoli_: vi furono Gabriele Altilio della Lucania Vescovo di
Policastro: Antonio Galateo di Lecce e Giovanni Eliseo, d'Anfratta in
Puglia.

De' _Forastieri_ vi furono, Lodovico Montalto di Siracusa, Segretario
di Carlo V: Pietro Gravina di Catania, Canonico Napoletano: M. Antonio
Flaminio di Sicilia: Egidio Cardinal di Viterbo: Bartolommeo Scala di
Firenze: Basilio Zanchi di Lucca: Jacopo Cardinal Sadoleto di Modena:
Giovanni Cotta di Verona: Matteo Albino: Pietro Cardinal Bembo, e
M. Antonio Michieli Vinegiani: Giovan Pietro Valeriano di Bellun
di Francia: Niccolò Grudio di Roano: Giacomo Latomo della Fiandra:
Giovanni Pardo, filosofo Aragonese. Michele Marcello di Costantinopoli
e molti altri chiarissimi Letterati, de' quali il Pontano, come
Principe dell'Accademia era capo. Secondo l'uso dell'Accademia di Roma
di mutarsi il nome (onde il Poggio e Bartolommeo Platina patì tanto)
se lo cambiavano ancor essi; onde il Pontano mutossi in Jovianus,
Sannazaro in _Actius Sincerus_ e così gli altri.

Morì il Pontano già vecchio in Napoli nel 1503 ne' primi anni del
Regno di Ferdinando il Cattolico, e giace sepolto nella cappella di S.
Giovanni, ch'egli vivendo s'avea costrutta presso la chiesa di S. Maria
Maggiore ove si legge il suo tumulo, ch'egli stesso s'avea in vita
composto.

Fiorirono ancora negli ultimi anni del Re Ferdinando, di Alfonso e di
Federico, molti altri insigni Letterati che toccarono il decimosesto
secolo. Fiorì il famoso _Michele Riccio_ nostro non men insigne
Giureconsulto che istorico[109]. Questi ancorchè originario di Castel a
Mare di Stabia fu gentiluomo Napoletano del Seggio di Nido, e rilusse
non meno nel Foro che nella Cattedra, essendo stato un gravissimo
Giureconsulto ed eminente Avvocato ne' nostri supremi Tribunali. Il
Re Ferdinando lo fece Lettor primario di legge ne' pubblici studj
di Napoli e suo Consigliere. Quando poi Carlo VIII venne in Napoli,
e s'impadronì del Regno, aderì a costui, il quale nel 1495 lo fece
Avvocato fiscale del regal Patrimonio. Ma fugati i Franzesi, tornando
il Regno sotto il Re Ferdinando II, rimase il Riccio molto depresso,
insino che passando di nuovo a' Franzesi sotto Lodovico XII Re di
Francia, non fosse stato da questo Re innalzato a primi onori[110].
Fu egli nel 1501 da Lodovico creato Vice-protonotario del Regno,
presidente del S. C. ed aggregato colla sua posterità nel Seggio di
Nido. Lo fece poi Consigliere del suo gran Consiglio e del Parlamento
di Borgogna, Senator di Milano e Presidente di Provenza. Entrò in
tanto favore presso questo Principe che era adoperato negli affari
più rilevanti dello Stato; poich'essendo nata contesa fra il Re
Cattolico ed il Re Ludovico intorno alla divisione del Regno per la
provincia di Capitanata, diede egli fuori molte allegazioni a favor di
Lodovico[111], difendendo con tanto vigore e fortezza le sue ragioni,
che dal Zurita[112] fu notato di soverchia arroganza. Ma finalmente
essendo stati pure discacciati i Franzesi dal Regno da Ferdinando il
Cattolico, Michele volle seguire le parti di Lodovico, ed abbandonando
tutti i suoi beni e la famiglia, andò in Francia a dimorare dove dal
Re fu caramente accolto, onorandolo de' primi posti. Lo mandò nel 1503
per Ambasciadore in Roma a congratularsi in nome di quel Re con Giulio
II ch'era stato allora assunto al pontificato, dove si trattenne per
alcuni anni, nei quali trattò con Giulio della recuperazione del Regno
di Napoli per Lodovico; ma lo stato e la condizione di que' tempi
avendo fatto riuscire inutili tutti i suoi negoziati, con tutto ciò lo
fece il Re trattenere in Roma, dove avendo maggior ozio compose la sua
Istoria. Ritornò poi in Francia, da dove nel 1506 fu mandato dal Re
Ambasciadore in Genova, e poi nel 1508 in Firenze[113]. ✠ In fine dopo
essere stato adoperato dal medesimo ne' più rilevanti affari della sua
Corona, morì a Parigi nel 1515, non senza sospetto di veleno. Accoppiò
alle lettere umane una profonda cognizione di dottrina, e sopra tutto
di Giurisprudenza nella quale fu così eminente, che Giano Parrasio non
fece difficoltà d'uguagliarlo a' Sulpicj, a' Pomponj, Paoli ed agli
Scevoli. Fu eloquentissimo, e scrisse la sua Istoria con non minor
gravità che prudenza: il suo stile, secondo il giudizio del Parrasio
fu candido, puro e faticato, nè la sua brevità partorisce oscurezza.
Egli scrisse: _De Regibus Francorum lib. III. De Regibus Hispaniae lib.
III. De Regibus Hierusalem lib. I. De Regibus Neap. et Siciliae lib.
IV_. Se ne veggono di questi libri molte edizioni fatte in diversi
tempi, rapportate dal Toppi[114]. Fu celebrato da' più illustri
Scrittori di que' tempi; e Giano Parrasio gli dedicò un libro, ch'egli
fece imprimere a Milano nel 1501 che conteneva il Carme Pascale di
Sedulio Poeta cristiano da lui fra' M. S. antichi trovato, ed i Poemi
di Aurelio Prudente, dove nell'epistola dedicatoria con grandi encomj
celebra la costui virtù e dottrina. Scrisse a' tempi de' nostri avoli
la Vita di sì insigne letterato Carlo de Lellis, che la premise al
volume de' suddetti libri d'Istoria, impresso in Napoli nel 1645.

Non men celebre fu in questi medesimi tempi il famoso Poeta Giacomo
_Sannazaro_, il quale non altrimenti che il _Riccio_, volle seguire
in Francia la fortuna del suo Signore. Non bisogna che di lui facciam
molte parole, come di uomo pur troppo noto ed illustre, di cui e
delle sue opere è stato tanto scritto e tanto ammirato. Egli nacque
in Napoli, come di se medesimo dice nell'Arcadia, negli estremi anni
del Re Alfonso I, intorno l'anno 1458, e fu Cavaliere del Seggio
di Portanova, di costumi cotanto gentili e politi che Federigo,
secondogenito del Re Ferdinando, l'ebbe sommamente caro, tanto che il
Sannazaro così nella prospera che nell'avversa fortuna, non volle mai
abbandonarlo: lo seguì in Francia, ove dimorò molto tempo: ritornò poi
in Italia, e dopo essersi fermato alcuni anni in Roma, tornò in Napoli,
dove alcuni scrissero che morisse l'anno 1532. Ma vi è gran contesa
fra' Scrittori intorno al luogo ed all'anno della sua morte.

Giovan-Battista Crispo che scrisse la sua vita con molta esattezza,
per la testimonianza che egli rapporta di Ranerio Gualano e del
Costanzo, lo fa morire in Napoli, siccome anche scrisse l'Eugenio[115].
Ma l'autorità di costoro deve cedere a quella di Gregorio Rosso
scrittor contemporaneo, il quale ne' suoi Giornali rapportando in
due luoghi[116] la morte di questo insigne Poeta, accaduta nel tempo
ch'egli andava stendendo que' suoi Componimenti, dice che morì nel mese
di agosto in Roma, senza veder più Napoli, poco da poi della morte del
Principe d'Oranges, della quale si compiacque tanto che nell'estremo
di sua vita non tralasciò di dire che Marte avea fatto vendetta delle
Muse, alludendo alla sua Torre di Mergoglino diroccata per ordine del
Principe: e che li suo corpo fu trasferito a Napoli, e seppellito nella
sua chiesa di Mergoglino nel seguente mese di settembre di quell'anno,
che fu il 1530.

L'anno parimente viene chiarito da questo Scrittore, al quale concorda
l'Iscrizione del suo sepolcro, nella quale non vi è errore alcuno,
come credettero il Crispo e l'Engenio: poich'essendo nato nel 1458, e
concordando quasi tutti col Giovio, che morì di 72 anni, viene a cadere
la sua morte appunto nel suddetto anno 1530. La morte, accaduta del
Principe di Oranges, a 3 agosto del detto anno, conferma lo stesso,
essendo poco innanzi preceduta a quella del Sannazaro[117].

Suo contemporaneo e fido amico fugli _Francesco Poderico_ famoso
letterato anch'egli di questi tempi. Era gentiluomo del medesimo
Seggio e della stessa Accademia del Pontano; ancorchè fosse cieco di
corpo, non già dal nascimento, era uomo d'esquisitissimo giudicio,
tanto che il Sannazaro, mentr'era tutto inteso al lavoro del suo Poema
_de Partu Virginis_, non tralasciava mai pur un giorno di andarlo a
ritrovare e conferire con lui que' versi, ne' quali il Poderico era
tanto critico che il Sannazaro, per poterne sciegliere un verso degno
di quelle purgate orecchie, assai sovente ne recitava diece composti
d'un medesimo sentimento, e così per lo spazio di venti anni, seguendo
questo tenore di studio, pervenne al fine di quell'opera[118]. Il
Pontano l'ebbe ancora in grande stima; a lui dedicò il quarto de' suoi
libri, _de Rebus Coelestibus_; l'onorò sempre nelle sue opere, e nel
libro primo de' suoi _Tumuli_ si legge ancora quello del Poderico.
Pietro Summonte l'ebbe pure in grande venerazione ed in una sua pistola
d'eccelse lodi lo cumula, dedicandogli ancora il Dialogo del Pontano
intitolato, _Actius_.

A questi due insigni uomini dobbiamo noi l'istoria di Napoli del famoso
Costanzo: confessa egli, che fu confortato a scriverla dal Sannazaro
e dal Poderico, che benchè fosse degli occhi della fronte cieco,
ebbe vista acutissima nel giudicio delle buone arti e delle cose del
mondo. Questi due buoni vecchi, dic'egli[119], che nell'anno di N.
S. 1527 s'erano ridotti a Somma, dove io era, fuggendo la peste che
crudelmente infestava Napoli, in aver veduti tanti errori nel Compendio
di Collenuccio, che allora era uscito, mi coortarono ch'io avessi da
pigliare la protezione della verità, ed alle persuasioni aggiunsero
ancora ajuti, perchè non solo mi diedero molte scritture antiche, ma
ancora gran lume, onde poter trovare delle altre: e certo, se tre anni
dopo non fosse successa la morte dell'uno e dell'altro, dic'egli, che
la sua Istoria sarebbe più copiosa ed elegante, perchè avrebbe avuto
più spazio d'imparare e ripulirla nella conversazione di così prudenti
e dotte persone

Fiorirono ancora in questi medesimi tempi dell'istessa Accademia
del Pontano il tante volte nominato _Pietro Summonte_, ancor egli
letteratissimo, come si vede dalle sue pistole, ed a cui dobbiamo
l'edizioni dell'opera del Pontano e dell'Arcadia del Sannazaro, da'
quali ne' loro carmi vien cotanto celebrato, e da Ambrosio di Lione
cognominato il dotto[120]. Il famoso _Tristano Caracciolo_, di cui
l'istesso Sannazaro cantò:

    _Ma a guisa d'un bel Sol fra tutti radia_
    _Caracciol che 'n sonar sampogne e cetere_
    _Non trovarebbe il pari in tutta Arcadia._

Il cotanto celebrato da' carmi di Pontano e dal Sannazzaro _Cariteo_
famoso Poeta di que' tempi[121]. _Ambrogio di Leone_ di Nola: _Vir_,
come di lui scrisse il Vossio[122], _Latine, Graeceque doctissimus,
Philosophus idem, ac Medicus insignis_. Fu egli amicissimo d'Erasmo,
come si vede dalle loro vicendevoli lettere; dal quale fu cotanto
stimato, che 'l priega insino a volerlo nominare nelle sue opere,
delle quali il Nicodemo fece lungo ed accurato Catalogo[123].
Il famoso _Alessandro d'Alessandro_, la di cui opera de' _Giorni
Geniali_, ebbe il favore d'avervi impiegati intorno i loro talenti
tre famosi Scrittori Franzesi, non pure il Tiraquello ed il Colero,
ma anche il chiarissimo Giureconsulto Dionigi Gotofredo. Fu egli
in Napoli ed in Roma nudrito fra' Letterati di questi tempi ed uscì
dall'Accademia del Pontano: conversò con Francesco Filelfo, Giorgio
Trapezunzio, Bartolommeo Platina, Giovanni Pontano, Teodoro Gaza,
Niccolò Perotti, Domenico Calderino, Ermolao Barbavo, Paolo Cortese
e Raffael Volaterrano. Ascoltò alcuni di questi in Roma, con altri
visse familiarmente, onde divenne erudito: mentr'era giovane intese
in Roma Filelfo ch'essendo già vecchio spiegava in quell'Università
le Tusculane di Cicerone: ascoltò ivi ancora Perotti e Calderino che
spiegavan Marziale. Egli di professione era Avvocato, e ne' nostri
Tribunali ed in que' di Roma si diede a difender cause. Poi lasciato il
Foro si diede a' studj men severi ed alle lettere umane tutto intese.
Vi è chi lo nota d'ingratitudine, che avendo composti i suoi Giorni
Geniali a similitudine delle Notti Attiche d'Agellio e de' Saturnali di
Macrobio, e preso da varj Autori tutto ciò che vi scrive, non siasi mai
ricordato di lodarli, dissimulandoli, come se tutto fosse stato dettato
di suo capo.

Fiorirono ancora intorno a questi medesimi tempi _Pietro Gravina_
Poeta assai celebre, _Girolamo Carbone, Girolamo Massaino, Giuniano
Majo_, celebre Gramatico, Maestro del Sannazaro e tanti altri insigni
Letterati: tanto che l'Accademia del Pontano fu uguagliata dagli
Scrittori al Cavallo Trojano, donde uscirono tanti bravi guerrieri.

Ma ove lascio il famoso _Andrea Matteo Acquaviva_ Duca d'Atri e di
Teramo, insigne non men nell'armi che nelle lettere? Dal cui esempio
tutta la sua posterità e la lunga serie de' Duchi d'Atri, seguendo i
suoi vestigi, si adorna di simili virtù, e di esser perpetua fautrice
delle discipline e de' letterati. Fra tanti pregi onde questa famiglia
si è presso di noi resa eminente sopra tutte le altre, fu senz'alcun
dubbio questo, che la rese celebratissima presso tutti gli Scrittori.
Sin da questo principio nel risorgimento delle lettere in Italia
ed in Napoli, fu questo Duca come di lui scrisse il Puntano[124]:
_Princepem Virum et in mediis philosophantem belli ardoribus, et
Philosophorum inter libros, naturaeque ratiocinationes tractantem
Ducum artes, muneraque Imperatoria, utrumque cum dignitate, neutrum
sine suo, et decore, et laude_. E quanta stima facesse di lui questo
Scrittore si vede, che oltre i tanti elogi, che si veggono sparsi
per le sue opere, gli dedica i due libri _de Magnanimitate_, ed il
primo de Rebus Coelestibus. Tutti gli altri Letterati dell'Accademia
del Pontano di questi tempi gli resero estremi onori: Pietro Summonte
fece lo stesso che il Pontano lodandolo e dedicandogli le sue opere;
i libri degli _Epigrammi_ del Sannazaro[125] sono di sue lodi.
Alessandro d'Alessandro gli dedicò i suoi libri de' Giorni Geniali.
Il Minturno[126] nel libro de' suol _Epigrammi_, il Giovio[127] in
quello de' suoi _Elogj_ e tanti altri rapportati dal Nicodemo[128], non
finiscono d'altamente lodarlo. Ci restano ancora di quest'Eroe i suoi
Commentarj, ed i quattro libri delle Disputazioni Morali, che impresse
in Napoli sin dal 1526, furon da poi ristampate in Germania nel 1609.
Ci testifica ancora il Toppi[129], che questo libro si trovava anche M.
S. in pergameno nella Biblioteca de' PP. Agostiniani di S. Giovanni a
Carbonara; ma non sappiamo se dopo il sacco ultimamente datovi, sia ora
rimase fra quei miseri avanzi.

Fu con non interrotta successione continuata la cognizione delie
migliori lingue e di tutte le discipline liberali nella di lui
posterità. _Gio. Antonio Acquaviva_ suo figliuolo fu, secondo
testimonia l'Atanagio, assai dotto e buono. _Giovan Girolamo_ suo
nipote, per giudicio di questo istesso Scrittore, fu nella poetica ed
in tutte le discipline liberali gran Maestro; al quale egli per ciò
dedicò le poesie di Bernardino Rota. Ed ultimamente _Giosia Acquaviva_
XIV Duca d'Atri, che emulando le virtù paterne, non men nelle armi
che nelle lettere, fu celebratissimo, favorì cotanto i Letterati, che
volle avere per direttore de' suoi studj l'incomparabile Cattedratico
_Domenico Aulisio_ pregio di questa Università e suo maggior splendore,
il quale l'ebbe in tanta stima, che gli dedicò quel suo libro
intitolato; _la Sfinge_, ovvero _l'Interprete dell'Affrica Occidentale
con le sue isole_, il quale M. S. presso noi si conserva.



CAPITOLO IV.

_Stato della nostra giurisprudenza in questi ultimi anni del Regno
degli Aragonesi; e leggi, che da FERDINANDO furono stabilite._


Cotanto le lettere umane eransi rialzate nella fine di questo secolo,
e tale fu il numero de' Letterati, che vi fiorirono; ma la nostra
giurisprudenza, ancorchè cominciasse in questi tempi per li favori e
per le leggi di Ferdinando a sollevarsi, non fece però, come nel secolo
seguente que' progressi che si sentiranno ne' seguenti libri di questa
Istoria. Insino ad ora andavan di pari i Legisti e' Canonisti, come
i Teologi. Le altre facoltà furon tutte, come s'è veduto riformate
e ridotte nel loro splendore: le lingue, la gramatica, la poesia, la
oratoria, la politica ed in gran parte la filosofia, e la medicina. Ma
le gare insorte tra i Professori di queste facoltà, con i Dottori e
Teologi, fecero che questi ostinatamente seguitassero la tradizione,
e lo stile delle loro scuole e de' Tribunali, anteponendo l'utile al
dilettevole. I Dottori e' Teologi tenevano questi nuovi Letterati,
ch'e' chiamavano Umanisti, come Grammatici, Retori e Poeti, per uomini
da poco, li quali trattenevansi ne' giuochi de' fanciulli ed in vane
curiosità. Gli Umanisti al contrario allettati dalla bellezza degli
Autori antichi e sorpresi dalle loro invenzioni, sprezzavano il comune
de' Dottori, che seguitavano la tradizione delle Scuole, trascurando lo
stile per attaccarsi alle cose, e per parlare col linguaggio proprio
delle Scuole[130]. Essi si facevano ben sentire, e perchè scrivevano
con tutta la pulitezza, e perchè aveano appreso colla lettura degli
antichi a guadagnarsi in tal guisa la buona grazia da tutti. Questi
loro sforzi, ancorchè, come si è detto in questo cadente secolo
non molto riscotessero i Giureconsulti ed i Teologi, nulladimanco
nel secolo seguente fecero effetti maravigliosi; poiché nell'entrar
di quello s'incominciarono gli studi sopra le Pandette e gli altri
libri di Giustiniano con modo diverso, cioè coll'aiuto delle lingue
e dell'istoria romana, di quello che si era fatto per lo passato. Si
cominciarono a spiegar le leggi in altra guisa ed a commentarle in
miglior lingua, ed a penetrarne i veri sensi; ed il primo che nella
nostra Italia rompesse il guado fu _Andrea Alciato_ Professore di
legge nell'Università di Milano. D'Italia questa nuova maniera passò in
Francia, dove prima di ogni altro Guglielmo _Budeo_ e Carlo _Molineo_
vi impiegarono i loro talenti; ma in decorso di tempo non si può
negare, che la Francia superasse in ciò i Professori d'Italia; poichè
vi rilussero tanti Giureconsulti insigni, fra' quali l'incomparabile
_Cujacio_, che oscurò la fama di tutti.

L'eresia di _Lutero_, che poco da poi alzò il capo, diede occasione
di portar anche simile cangiamento alla teologia[131]. Pretendeva egli
del pari riformare gli Studi, che la Religione. _Melantone_ suo fedele
discepolo v'impiegò tutte le sue belle lettere e tutto il suo talento;
onde si diedero i pretesi Riformatori con grande ardore a studiare
le lettere umane, vedendo che la eloquenza ed il credito d'una scelta
erudizione a se chiamava gran numero di seguaci: consideravano questi
studi, come mezzi necessari alla riforma della Chiesa; e facendosi
ammirare dagl'ignoranti, davan lor facilmente ad intendere che i
Teologi cattolici non più sapevano della Religione che delle Belle
Lettere: obbligarono perciò i Cattolici ad impiegarsi a questi studi
per combattergli con le lor proprie armi: si diedero a questo fine alla
cognizione delle lingue originali e degli Autori antichi secondo le lor
proprie edizioni: incominciossi adunque di nuovo a studiare i Padri
sì greci come latini, troppo poco conosciuti ne' secoli precedenti.
Si studiò la Storia ecclesiastica, i Concilj, gli antichi Canoni,
penetrando per sino nella origine della tradizione, e deducendo la
dottrina dalla sua propria fonte; ed il senso letterale della Scrittura
fu ricercato col soccorso delle lingue e della critica.

Ma tutti questi avanzi così nelle leggi e ne' canoni, come nella
teologia, si videro nel seguente secolo decimosesto. Nel Regno di
Ferdinando e de' suoi figliuoli, presso di noi le buone lettere
cominciavan sì bene a restituire la giurisprudenza in qualche
lustro, ma in questi principj non fu tanto. Nell'Università nostra si
proseguiva lo stesso stile, ancorchè i Professori come i migliori di
que' tempi, vi ponessero maggiore studio. Ma se non fu restituita la
giurisprudenza nel suo antico candore, la saviezza di questo Principe,
la perizia delle lingue de' suoi Secretarj e la dottrina de' nostri
Professori che cominciavano, più di quel ch'erasi fatto ne' precedenti
secoli, ad impiegar i loro talenti in questi studi, produssero leggi
non men savie e prudenti, che culte. La legge romana avea preso
piede non pure nell'Accademie ma anche nel Foro; onde avvenne, che la
longobarda affatto mancasse.

Fra le nostre leggi patrie, quelle di Ferdinando, come di Principe più
illuminato e dotto, e che teneva la sua Cancelleria adorna d'uomini
letteratissimi, si videro più prudenti e più culte. Furono consultate
da gravissimi Giureconsulti, in fra gli altri da Luca Tozzolo, Antonio
d'Alessandro, Paris de Puteo e da Agnello Arcamone, e dettate in latino
per la maggior parte da Antonello Petrucci e Giovanni Pontano grandi
Letterati, come si è detto di que' tempi.

Le leggi de' nostri Re normanni e Svevi furon appellate _Costituzioni_:
quelle de' Principi angioini, all'uso di Francia, _Capitularj_, ovvero
_Capitoli_: queste de' Re Aragonesi, come da poi anche degli Austriaci,
si dissero _Prammatiche_; di queste ne furon fatte più compilazioni,
come di tempo in tempo andremo notando.

Abbiam veduto quanto poche ne stabilisse il Re Alfonso, vedremo
ancora quante meno ne facessero Ferdinando II e Federico ne' brevi e
tumultuosi anni del loro regnare: Ferdinando I però fu quegli, che fra'
Re Aragonesi ci lasciasse più leggi e le più sagge e le più culte.

Ne' primi anni del suo Regno furono stabilite quelle, che ora leggiamo
sparse nel terzo volume delle prammatiche, sotto il titolo _De Offic.
S. R. C._ eccettuatane la prammatica 2 che, come fu ne' precedenti
libri notato, a torto s'attribuisce a Ferdinando, essendo d'Alfonso,
istitutore di questo Gran Tribunale: sono di questo Principe, di cui
anche portano in fronte il nome, la prammatica 4, 5, 8, 9, 11, 12,
13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29,
30, 32, 33, 34, 35, 36, 37, nelle quali si danno molti regolamenti
intorno all'amministrazione e governo del S. C., del numero e qualità
de' Ministri, così maggiori, come minori, che lo compongono, del modo
d'istituir i giudicj, delle recusazioni e d'ogni altro riguardante alla
riforma e buona istituzione di questo Tribunale.

Nel 1462 ne promulgò una sotto li 9 Ottobre, per la quale si permette
agli Ufficiali di procedere _ex officio_ ne' delitti, ancorchè non vi
fosse querela della parte offesa, o questa desistesse, rivocando il
privilegio che su di ciò avea conceduto ad alcune Università del Regno,
la quale per questo fine fu collocata nel _tom. 3_, delle prammatiche,
sotto il titolo _de Privilegiis Universitatibus concessis_.

Nel 1466 ne promulgò due, una sotto li 23 luglio, che si legge sotto
il titolo de _Baronibus_[132], per la quale si vieta a' Baroni di
cercar sussidj da' Vassalli, fuor de' casi dalle leggi e costituzioni
permessi, e d'impedire il vendere le loro robe, come lor piaccia;
l'altra a' 15 agosto pure sotto il medesimo titolo, colla quale si
conferma la precedente sotto rigorose pene.

Nel 67 a' 19 novembre ne fu stabilita un'altra drizzata a Renzo
d'Afflitto Commessario delle province di Principato ultra, e
Capitanata, colla quale si prescrive il modo, come debba farsi
l'estimo, o sia apprezzo de beni di ciascuno per regolare i pagamenti
fiscali: noi ora la leggiamo sotto il titolo _de Appretio, seu bonorum
aestimatione_.

Nel 68 a' 2 novembre ne promulgò altra, con cui ordina, che i
delinquenti si mandino a' loro Giudici competenti, nè alcuno abbia
ardimento di dar loro ricovero ed alimento[133].

Nel 69 ne furon pubblicate sei, la prima a' 27 marzo, la seconda a' 25
maggio, per le quali si vieta agli Ufficiali ricever doni e pranzi e si
prescrivono a' Mastrodatti e ad altri Ufficiali minori i loro diritti
facendosene tariffa[134]; tre altre nel medesimo mese e la sesta nel
seguente di giugno.

Nel 1470 ne' mesi di marzo, aprile ed ottobre, tre altre; e nel 71
un'altra in giugno.

Nel 1472 ne stabili un'altra a' 13 settembre, per la quale fu deputato
Bernardo _Striverio_ Avvocato fiscale per Inquisitore Generale
del Regno contro gli Usurarj e contro altri malfattori, che nelle
moderne edizioni si legge sotto il titolo de _Usurariis_, ma con data
scorrettissima de' 9 ottobre 1462, quando quella, secondo l'edizioni
antiche, fu promulgata nel decimo quinto anno del suo Regno, come ivi
si legge: _Dat. 13 septembris 1472, Regnor. nostror. A. 15_.

Nel 73 in marzo ed aprile due altre, e nel 74 nel mese di marzo, una.

Nell'anno poi 1477 furono stabilite quelle tante leggi intorno
all'ordine giudiciario, delle quali si è altrove fatta memoria; ne'
seguenti anni 1479, 80, 81, 82, 83, 84, 86, 87, 88, 90 insino al 1492
ne furono molte altre da questo Principe promulgate, le quali possono
con facilità vedersi, secondo l'ordine de' tempi, nella _Cronologia_
di queste leggi prefissa al tomo primo nelle nostre prammatiche secondo
l'ultima edizione dell'anno 1715.

Furono queste prammatiche di Ferdinando nel seguente secolo raccolte
in un volume insieme con alcune altre di Ferdinando il Cattolico e
di Carlo V, ed impresse nel 1558. Da poi unite colle Costituzioni,
Riti e Capitoli del Regno furono ristampate in Vinegia nel 1590.
V'impiegarono i loro studi in quel secolo molti nostri Professori, chi
con Note, chi con diffusi Commentarj ed altri con particolari Trattati.
_Annibale Troisio_ della Cava, nominato perciò il _Cavense_, commentò
tutte quelle, che nel 1477 s'erano pubblicate, per le quali furono i
giudicj riordinati e molte altre ancora: Giovannangelo _Pisanello_,
Marc'Antonio Polverino e Giacomo _de Bottis_ vi fecero delle piene
Note. Orazio _Barbato_ sopra la prammatica _Assistentium_, vi stese un
Trattato. Gio. Bernardino _Moscatello_ di Lucera stese la sua Pratica
de' nostri Tribunali, che ora si vede ristampata colle addizioni del
Consigliere _Prato_, sopra le suddette leggi di Ferdinando promulgate
nel detto anno 1477. Altri sopra la prammatica _Odia inter conjunctos_,
stesero i loro trattati e le varie dispute intorno a compromessi.
Cotanto le leggi di questo Principe furono non pure in que' tempi, ma
anche ne' seguenti secoli riputate savie e dotte.



CAPITOLO V.

_De' Giureconsulti, che fiorirono fra noi a questi tempi._


Dopo Luca di Penna e Sebastiano Napodano, era quasi che intermesso fra'
nostri Professori l'uso di scrivere, e la nostra giurisprudenza era in
declinazione; ma nel Regno di Ferdinando e de' suoi figliuoli, sursero
alcuni eccellenti Giureconsulti, de' quali bisogna farne qui memoria.

Surse _Paris de Puteo_, il qual nato in Pimonte nel Ducato d'Amalfi,
due miglia lontano da Castell'a Mare[135], venne giovanetto in Napoli,
dove nell'Università de' nostri Studi apprese la legal disciplina.
Non contento de' nostri Cattedratici, girò per tutte l'Università
d'Italia, dove ascoltò i più insigni Dottori di quei tempi. Fu in Roma,
a Pavia, Milano, in Firenze, in Bologna, Perugia e nell'altre città
più rinomate, ed ebbe per maestri, com'egli stesso ci testifica[136],
Andrea _Barbatia_, Angelo _Aretino_, Alessandro _de Tartagnis_ d'Imola
ed Antonio _de Pratoveteri_ di Bologna. Ritornato a Napoli fu per la
sua gran dottrina dal Re Alfonso, gran favoreggiatore delle Lettere,
caramente accolto, facendolo suo Consigliere. Da poi, essendo già
adulto Ferdinando suo figliuolo Duca di Calabria, lo deputò per maestro
del medesimo non meno nelle lettere umane, che nella giurisprudenza o
nell'altre scienze[137]. Per molti anni Ferdinando fu suo discepolo,
da cui apprese le leggi civili e le altre discipline[138]. Era Paris
non pur eccellente Giureconsulto, ma versato (per quanto comportavano
que' tempi) nelle Sacre carte e nella lettura de' Padri e nelle
opere d'Aristotele; ed era secondo l'uso di que' tempi, inteso anche
d'Astrologia. Dell'Istoria non fu cotanto ignaro, e sopra i libri di
Tito Livio v'avea fatto molto studio. Entrò pertanto in somma grazia
del Duca di Calabria, e da lui era tenuto in molta stima, e quando
Alfonso dovendo partire da Napoli per la spedizione di Toscana, fece
Luogotenente generale del Regno Ferdinando suo figliuolo, questi nel
1446 creò _Paris_ suo Auditore Generale in tutto il Regno; la quale
carica per due anni, che il Re fu assente, esercitò con molto applauso
ed universale ammirazione.

Morto nel 1458 Alfonso, Ferdinando che gli successe, lo decorò assai
più di dignità e d'onori: lo fece Inquisitor Generale di tutto il
Regno contra i facinorosi: nel 1459 lo creò Consigliere, ed in tutti
gli anni che regnò, si valse della sua opera e de' suoi consiglj, così
nel promulgar delle leggi, come negli altri rilevanti affari della
sua Corona. Perchè a quei tempi non era riputata cosa incompatibile
a' Ministri del Re di patrocinar cause, non altrimente, che non si
stimava cosa strana di leggere nelle Cattedre; si diede ancora Paris
all'avvocazione, nella quale riuscì il primo; e per essere gran
Giureconsulto e peritissimo Feudista, tutte le cause de' primi Signori
del Regno eran da lui patrocinate, onde acquistò grandi facoltà. Ma
sopra tutto, quello che lo rese arbitro de' più potenti Signori non
pur di Napoli, ma di molte città d'Italia, fu, che stando a que' tempi
in Italia in fiore il costume, e presso noi da' Longobardi introdotto,
del duello, non vi era punto di Cavalleria, che dovesse per quella via
decidersi, che non era _Paris_ consultato, come in ciò versatissimo
sopra tutti gli altri. Venivano non pur i nostri, ma i più remoti
Principi da lui, donde gli fu data occasione di compilare un Trattato
_de Duello_, che scritto prima da lui in latino, egli stesso poi lo
tradusse in volgar materno[139]. Carico di tanti onori e dignità e
della familiarità regia di Ferdinando, divenuto già vecchio, morì poco
prima del Re Ferdinando nel 1493 d'età maggiore di ottanta anni in
Napoli, ove nella chiesa di S. Agostino giace sepolto.

Egli fu il primo, che rinovò l'istituto, tralasciato da molti anni,
di giovare il pubblico con lo scrivere; onde altri mossi dal di
lui esempio, ci lasciarono molti insigni volumi delle loro opere
legali. Compose egli un libro _de Syndicata Ufficialium_; opera, che
nel Foro acquistò molta autorità, tanto che il Consiglier Matteo
d'Afflitto[140] non lasciò ne' suoi scritti di commendarla. Fu la
prima, che nell'istesso tempo del Re Ferdinando fosse stata impressa;
ma perchè non era in tutto perfezionata, l'Autore la ripulì ed emendò,
e così corretta fu di nuovo in appresso mandata alle stampe. Fu da poi
ristampata, ed in Vinegia, ed in Lione, ed oggi si legge tra' volumi
de' Trattati[141].

Scrisse ancora un libro _de Reintegratione Feudorum de finibus, et modo
decidendi quaestiones confinium, territoriorum_, etc. che fu stampato
in Napoli, e poi in Francfort. Opera anch'ella da' nostri Scrittori
molto lodata, ancorchè Carlo Molineo vi desiderasse miglior ordine,
parendogli quel trattato assai confuso.

Compilò anche un altro libro _de Reassumptione instrumentorum;_
ed alcuni han creduto, che quel trattato _de Liquidatione, et
Praesentatione instrumentorum_, che fu impresso in Vinegia l'anno 1590
fosse pure opera sua; ma altri dubitano non sia apocrifo.

Compose ancora varie _Allegazioni_ intorno alle Collette imposte
innanzi di Luca di Penna, delle quali fece menzione Antonio
Capece[142]; ma queste non sono pervenute all'età nostra; siccome
alcune altre sue fatiche sopra alcuni titoli delle Pandette._ De in
integrum restit. De eo, quod met causa. De dolo malo, et de receptis
arbitris_.

Il libro _De Re Militari_, ovvero _De singulari certamine_, fu da lui
dedicato all'Imperador Federico III. Matteo d'Afflitto[143] narra, che
gli diede anche occasione di scriverlo, un libretto _De Duello_, che
prima di lui avea composto _Goffredo_ antico Dottore. Fu quel suo libro
prima impresso a Milano nell'anno 1515 ed ora lo leggiamo ancora fra'
Trattati. Egli stesso, come fu detto, lo tradusse in volgar materno, il
quale fu poi stampato in Napoli nel 1518.

Scrisse finalmente un altro libro _De Ludo_, del quale Afflitto[144]
fece anche memoria lodandolo, ed ora pur lo vediamo impresso tra'
volumi de' Trattati

Non men, che si questioni della Patria di Pietro delle Tigne e di
Luca di Penna, fu disputato della Patria di Paris. Giulio Claro[145]
d'Alessandria del Ducato di Milano, lo vuole Alessandrino. Ma
Toppi[146], non men di quel che fece per Luca di Penna, dimostra esser
nostro, siccome han per fermo tenuto non meno i nostri Scrittori, che
i forastieri, come _Molineo_, che lo chiama Dottor napoletano, siccome
chiamò ancora Luca di Penna Partenopeo.

Fiorì anche intorno a' medesimi tempi _Antonio d'Alessandro_ Cavaliere
napoletano, ed ancor egli insigne Giureconsulto. Fu sin dalla sua
giovanezza dato allo studio delle leggi nell'Università di Napoli: non
ben pago de' nostri Professori ne cercò altri nell'altre Università
d'Italia. Fu in Ferrara ed in Siena, dove ascoltò Francesco _Aretino_
famoso Giureconsulto di quei tempi, sotto la cui disciplina fece
maravigliosi progressi, e fu ancora discepolo di Alessandro d'Imola,
come narra Matteo d'Afflitto[147]. In Bologna prese il grado di
Dottore, e dapoi ritornò in Napoli. Appena giuntovi fu da Ferdinando
invitato a leggere Giurisprudenza in questa Università, dove per più
anni insegnò con tanto plauso ed ammirazione, che tirò a se Uditori
dalle più remote parti. Fu egli di acuto e grande ingegno, piano e
facile nello spiegare, chiaro e copioso: tanto che dalla sua scuola,
non meno che dall'Accademia del Pontano, uscirono innumerabili
Giureconsulti e dotti Ministri.

Nell'istesso tempo che insegnava nelle Cattedre, non tralasciava
esercitarsi nel Foro, dove riuscì famoso Avvocato; e fu egli non men
dotto ch'eloquente: difese cause de' primi Baroni e non meno orando,
che scrivendo si rese celebre. Scrisse egli un dotto responso in
materia feudale nella causa d'Antonia Tommacella, che ora leggiamo
tra' Consiglj d'Alessandro d'Imola[148], dopo quelli di Sigismondo
Loffredo[149], e per la sua prudenza, dottrina, perizia dell'istorie e
gravità de' costumi, s'acquistò presso il Re Ferdinando somma grazia
e stima: fu per ciò adoperato dal Re ne' maggiori e più importanti
suoi affari. Lo mandò nel 1458 Oratore in Roma al Pontefice Pio II
per ottener da quel Papa l'investitura del Regno: superò gli ostacoli,
che s'eran frapposti per parte del Duca d'Angiò, ed in fine entrò in
tanta buona grazia del Papa e del Collegio de' Cardinali, ch'egli
consultò e dettò la Bulla dell'investitura. Maneggiava affari di
Stato con molta destrezza, felicità e prudenza, onde fu in appresso
da Ferdinando mandato due volte per suo Ambasciadore in Ispagna al
Re Giovanni d'Aragona suo zio col quale trattò le nozze del Re colla
costui figliuola Giovanna. Lo inviò ancora due altre volte in Francia
suo Legato a quel Re; ed altrettante a' Pontefici successori di Pio,
Innocenzio VIII ed Alessandro VI, nelle quali legazioni si portò con
tanta prudenza e destrezza, che tutte ebbero felice successo. Fu
per ciò da Ferdinando innalzato a sommi onori; oltre averlo cinto
Cavaliere, lo fece Presidente della regia Camera, da poi nel 1465
Consigliere, indi nel 1480 Viceprotonotario e Presidente del S. C, nel
qual Tribunale presedè non pure in tutto il tempo che visse Ferdinando,
ma anche vi fu mantenuto da Alfonso II suo successore, da Ferdinando
II, da Carlo VIII istesso e da Federico ultimo Re, nel cui Regno,
essendo già vecchio, trapassò in Napoli a' 26 ottobre del 1499. Gli
furon fatti pomposi funerali nella chiesa di Monte Oliveto, dove vi
recitò l'Orazion funebre Francesco Puccio Fiorentino famoso Letterato
di que' tempi, in presenza di Ferdinando d'Aragona Duca di Calabria, e
dove al presente giace sepolto.

Ci lasciò questo insigne Dottore molti monumenti della sua dottrina.
I dotti _Commentarj_ fatti a quelle leggi, ch'egli spiegava
nell'Università de' quali pochissimi furono mandati alle stampe.
Quelli che furono impressi sono i _Commentarj_ sopra il secondo libro
del Codice, che portano questo titolo: _Reportata Clarissimi U. J.
Interpretis Domini Antonii de Alexandro super II Codicis, in florenti
studio Parthenopaeo sub aureo saeculo, et augusta pace Ferdinandi,
Siciliae, Hierusalem, et Ungariae Regis invictissimi_. Fu il libro
impresso in Napoli nel 1474 nella stamperia di Sisto Riessinger
Alemanno, che fu il primo, come si disse, che introdusse l'arte della
stampa in questa città.

Niccolò Toppi ci rende testimonianza aver egli veduti gli altri
_Commentarj_ sopra altre leggi, manuscritti, nelle librerie d'alcuni,
ed in quella del Consigliere Felice di Gennaro averne osservati più
volumi. Alcuni altri supra l'_Inforziato_ ed il _Digesto nuovo_, in
quella del Presidente di Camera Vincenzo Corcione. Altri sopra il
_Digesto vecchio_, in quella del Consigliere Ortensio Pepe. Alcune
_Letture_ sopra il secondo del _Digesto vecchio_ in pergamena, le
conservava il Dottor Giovanni Battista Sabatino. Gio: Luca Lombardo
conservava ancora un libro intitolato: _Recollectae D. Antonii de
Alexandro in tit. Soluto matrimonio. De liberis, et posthumis, et
de vulgari, et pupillari, etc. collectae per Franciscum Miroballum
ejus scholarem, dum idem Antonius in Neapolitano Gymnasio, anno 1466
publico Regio stipendio conductus, legeret, concurrens Domini Andreae
Maricondae in lectione extraordinaria_. Toppi istesso afferma che ebbe
anche in suo potere alcune note M. S. fatte da questo Giureconsulto nel
corpo di Bartolo.

Alcune Note ed _Addizioni_ fatte da lui nella Glosa di Napodano ancor
oggi si leggono: Grammatico[150] allega le _Addizioni_ che fece a
Bartolo ed a Baldo; allega ancora con Antonio Capece[151] quelle altre
che fece ad Andrea d'Isernia sopra le Costituzioni del Regno; e si
vedono queste _Addizioni_ alle Costituzioni ancor oggi impresse insieme
colle Chiose e Commentarj di Napodano, di che è da vedersi Camillo
Salerno[152] nell'Epistola alle Consuetudini di Napoli.

Fiorì ancora in questi medesimi tempi un altro Giureconsulto illustre,
il qual fu _Giovan-Antonio Caraffa_ non men famoso Legista che
Canonista. Fu caro ad Alfonso e più al Re Ferdinando suo figliuolo, da
cui fu creato Consigliere. Fu ancora Professore nella Università degli
studi non men di legge civile, che canonica, e finalmente fu innalzato
nel 1463 al posto di Presidente del S. C. Ci restano di questo insigne
Dottore molte sue opere. Un trattato de _Simonia_, impresso a Roma,
un altro _de Ambitu_, allegati da M. Afflitto[153] nelle Costituzioni
e nelle Decisioni e l'altro _de Jubileo_. Scrisse ancora alcune
_Prelezioni_ sopra il Codice, allegate da Afflitto. Lorenzo Valla[154]
gli tessè quest'elogio: _Joannes Antonius Carafa Jureconsultus pari
nobilitate, et scientia proximus, Princeps Jureconsultorum_. Morì egli
di morte improvvisa in Napoli a' 25 decembre del 1486 e fu sepolto nel
Duomo, come rapporta Giuliano Passaro ne' suoi _Giornali_.

_Luca Tozzolo_ ancorchè romano, esule però dalla sua Patria[155],
venuto in Napoli, qui finì i suoi giorni, e per la sua erudizione e
gran perizia delle leggi, fu da Ferdinando accolto con molto onore.
Era stato egli discepolo di Giovanni Petrucci di Monte Sperello
Perugino famoso Giureconsulto de' suoi tempi[156]: fu egli fatto nel
1466 Consigliere, nel medesimo tempo leggeva anche Giurisprudenza
nell'Università degli Studj di Napoli. Poi nel 1468 fu innalzato
all'onore di Viceprotonotario, e presedè ancora per qualche tempo nel
S. C. come Afflitto rapporta ne' suoi Commentarj e decisioni, dove si
leggono in più luoghi le sue lodi[157].

_Andrea Mariconda_ del Seggio di Capuana fiorì pure in questi medesimi
tempi ed acquistò fama di celebre Giureconsulto. Fu dalla giovanezza
dato allo studio delle leggi, e prese il grado di Dottore in Napoli
ai 25 d'ottobre del 1460. Riuscì nel Foro celebre Avvocato, e dalla
Regina Isabella Luogotenente Generale del Re suo marito, fu creato
Consigliere nel 1461. Da Ferdinando poi fu fatto Presidente della
Regia Camera e Razionale della G. C. della Zecca, e nel 1477 fu rifatto
Consigliere: fu celebre ancora nell'Università de' nostri studi, ove
insegnò giurisprudenza insieme con Antonio d'Alessandro nel 1466. Di
lui si leggevano alcune _Letture M. S._ sopra l'_Inforziato_ e _Digesto
nuovo_. Fu lungo tempo Consigliere e per l'assenza ed impedimenti
d'Antonio d'Alessandro esercitò anche in sua vece più volte l'ufficio
di Viceprotonotario. Poi per la sua età decrepita fu licenziato con
la ritenzione della metà del soldo finchè visse. Morì egli in Napoli
intorno l'anno 1508, e lasciò _Diomede_ e _Niccolò_ suoi figliuoli non
men dotti che gravi Giureconsulti. Matteo d'Afflitto suo Collega non è
mai satollo di lodarlo nelle sue decisioni ed altrove[158].

Fiorirono ancora intorno a' medesimi tempi _Niccolò Antonio de
Montibus_ di Capua celebre Giureconsulto, Avvocato, Regio Consigliere,
Presidente e Luogotenente della regia Camera: Pontano[159] lo chiama
_Vir Juris Romani consultissimus_. Questi ancora fu adoperato dal Re
Ferdinando negli affari di Stato, inviandolo per suo Oratore in Roma,
ove nel 1467 dimorò tre mesi; e si legge ancora la sua soscrizione,
come Luogotenente del Gran Camerario in alcune Prammatiche del Re
Alfonso e di Ferdinando[160]._Agnello Arcamone_ del Sedile di Montagna,
Presidente di Camera nel 1466, poi nel 1469 regio Consigliere, fu
anch'egli dal Re Ferdinando adoperato negli affari di Stato, inviandolo
nel 1474 per suo Ambasciadore in Vinegia ed in Roma al Pontefice Sisto
IV per negozj gravissimi[161]. Disbrigato dall'Ambasceria con felice
successo, fu dal Re nel 1483 fatto Conte di Borrello, investendolo
ancora delle Terre di Rosarno e di Gioja in Calabria. Ma da poi la
sua fortuna mutò sembiante: poichè nella congiura de' Baroni, perchè
sua sorella era moglie d'Antonello Petrucci, fu dal Re insieme con gli
congiurati imprigionato, e fin che Ferdinando visse, lo tenne con gli
altri in carcere[162], donde poi insieme con tutti gli altri ne fu da
Ferdinando II nel 1495 liberato[163]. Ci lasciò egli alcune _Addizioni_
sopra le Costituzioni del Regno che ora abbiamo. Morì in Napoli nel
1519, e giace sepolto nella chiesa di S. Lorenzo, ove si vede il suo
tumulo.

Fiorirono ancora _Antonio dell'Amatrice_ celebre Canonista e Lettore
de' Canoni nella nostra Università nel 1478. _Antonio di Battimo_
napoletano, Dottore anch'egli rinomato di legge non men civile che
canonica. Compose egli nel 1475 un volume, che M. S. avea Toppi[164]
veduto che portava questo titolo: _Reportata, et tradita per
Dominum Antonium de Battimo Partenopaeum U. J. D. A. D. 1475. Lallo
di Tuscia_ napoletano, di cui abbiamo ancora alcune _Note_ nella
nostre Costituzioni del Regno[165]. _Stefano di Gaeta_ parimente
napoletano, famoso Canonista, fiorì nel Regno di Ferdinando nel 1470.
Scrisse un'opera molto stimata _de Sacramentis_, che la drizzò a
Giovan-Battista Bentivoglio Consigliere del Re Ferdinando, e molto vien
commendata dall'Abate Tritemio[166].

Non men celebre Giureconsulto fu nella fine di questo secolo, per
tralasciar gli altri d'oscuro nome, _Antonio di Gennaro_ del Sedile
di Porto. Fu egli figliuolo di Masetto e di Giovanella d'Alessandro
sorella del famoso Antonio: negli studi legali fece miracolosi
progressi, tanto che nell'Università di Napoli fu reputato il miglior
Cattedratico de' suoi tempi. Fu poi dal Re Ferdinando nel 1481 creato
Giudice della G. C. ed indi a poco Regio Consigliere. Ancor egli era
adoperato dal Re ne' più importanti affari di Stato; fu inviato da
Ferdinando nel 1491 per suo Oratore al Duca di Milano, e nell'istesso
anno in Ispagna al Re Ferdinando il Cattolico, ed alla Regina Isabella
sua moglie, e nel 1493 fu di nuovo mandato in Milano ed a Roma.
Morto Ferdinando, dal Re Alfonso II suo successore fu la terza volta
mandato al Duca di Milano. Il Re Federico l'inviò di nuovo nel 1495
suo Legato in Ispagna al Re Cattolico e poi al Duca di Milano. Estinta
la progenie di Ferdinando, sotto il Regno di Ferdinando il Cattolico
fu ancora in somma grazia del G. Capitano, da cui nel 1503 fa creato
Viceprotonotario e Presidente del S. C. nel cui ufficio lungamente
visse: essendo poi d'anni già grave, depose il posto, e fu contento che
in suo luogo sottentrasse Francesco Loffredo allora Consigliere, ma con
legge che fin che vivea non assumesse il nome di Viceprotonotario o di
Presidente, ma fosse sol contento dell'esercizio. Morì finalmente nel
1522 in Napoli e fu sepolto nella Chiesa di S. Pietro Martire, ove si
vede la sua statua e si legge l'iscrizione ai suo tumulo.

Chiuda in fine la schiera il cotanto presso di noi celebre e rinomato
_Matteo degli Afflitti_, quel perpetuo splendore del nostro S. C. il
quale, secondo il giudicio che ne diede l'incomparabile Francesco
d'Andrea[167], fu _omnium nostrorum quotquot ante, et post ipsum
scripserunt, proculdubio doctissimus_. Nacque egli in Napoli intorno
l'anno 1443, ma i suoi maggiori furono della città di Scala, com'egli
stesso ci testifica[168]. Ebbe ancor egli la vanità di tirar la sua
schiatta dai Patrizj romani, e da S. Eustachio Martire (non meno di
ciò, che si diceva di Sebastiano Napodano e del Sannazaro; il primo
che traesse sua origine da S. Sebastiano; il secondo da S. Nazario):
perciò nell'invocazione de' Santi, che premette nelle sue opere,
fra gli altri invoca S. Eustachio suo _gentile_. Non si ritenne
perciò egli di scrivere ne' _Commentarj_ alle Costituzioni del
Regno, essere stati i suoi maggiori Romani, i quali vennero, nella
decadenza dell'Imperio, ad abitare nella città di Scala, donde poi si
trasferirono in Napoli, ove furono nel Seggio di Nido aggregati. Che
che ne sia, si diede egli nella giovanezza allo studio delle leggi,
dove riuscì eccellente, e nell'anno 1468 prese in Napoli il grado di
Dottore[169]. Si diede poi all'avvocazione, e divenne nel Foro famoso
Avvocato: da' Tribunali passò alla Cattedra e nell'Università de'
nostri studi spiegò non solo il _Jus_ civile e canonico, ma anche
il feudale e le nostre Costituzioni, nel che riuscì ammirabile ed
oscurò la fama di quanti lo precedettero. Egli consumò venti anni in
questa lettura con applauso universale ed ammirazione di tutti. Ne'
primi anni sotto il Re Ferdinando spiegò in quest'Università tutti i
libri feudali co' Commentarj di Andrea d'Isernia, secondo l'ordine di
que' titoli: fatica veramente grande e nuova, che nè prima, nè dopo
lui, alcun si confidò di farla, e la ridusse felicemente a fine[170].
Incominciò egli a scrivere questi suoi _Commentarj de' Feudi_ nel 1475
nel trentesimosecondo anno di sua età, e li terminò nel 1480, come egli
stesso ne rende testimonianza[171]. Ciò che convince l'error di coloro,
i quali ingannati da Bartolommeo Camerario[172], che credette avere
Afflitto stesi questi Commentarj essendo già vecchio, e perciò non aver
ben capita la mente d'Andrea d'Isernia, scrissero inconsideratamente
il medesimo[173], mostrando con ciò non aver ben letti questi suoi
Commentarj, i quali potevano disingannargli di quest'errore, e fargli
apprendere, l'opera essere stata dettata nel suo maggior vigore,
e di essere la più sublime e dotta di quanti mai intorno a' Feudi
scrivessero.

Interpretò ancora nella nostra Università le leggi del _Codice_
ed i libri delle _Istituzioni_, e negli ultimi, anni vi spiegò le
_Costituzioni_ del Regno con indefessa ed instancabile lena.

La fama del suo sapere, l'esser nelle leggi sublime cotanto, e, secondo
comportava quel secolo, la perizia che mostrava avere della Sagra
Scrittura, delle opere di S. Tommaso e di Niccolò di Lira, lo resero
assai rinomato. I Nobili di Nido lo aggregarono al lor Seggio: il
Re Ferdinando I ed il Duca di Calabria suo figliuolo cominciarono ad
innalzarlo a pubblici Ufficj; prima lo elessero Avvocato de' Poveri,
ma egli non volle accettarlo, come egli stesso lo scrisse[174]: poi
il Re Ferdinando nel 1489 lo fece Giudice della G. C. della Vicaria:
indi dall'istesso Re fu nel 1491 creato Presidente della regia Camera.
La morte del Re Ferdinando, siccome pose in disordine tutto il Regno,
così non solo troncò le ali alla sua fortuna, ma con varie vicende fu
dall'avversa afflitto. Non trovò il suo merito ne' Principi successori
quella mercede, che si conveniva: fu trasferito ora in uno, ora in
un altro Tribunale, e sotto il Re Cattolico la fortuna gli fu pur
troppo avversa. Dal Re Ferdinando II nel 1496 fu fatto Consigliere, e
vi stette sin all'anno 1502, nel qual anno fu di nuovo trasferito in
Camera. Carlo VIII lo levò, ma poi fu rimesso[175]. Fece da poi nel
1503 ritorno in Consiglio, ove sedette insino all'anno 1507. Ma il
livore de' suoi Emoli potè poi tanto presso Ferdinando il Cattolico,
che datogli a sentire, che la sua decrepita età sovente lo portava a
delirare, fecion sì, che quel Re lo levasse dal Consiglio, e si ridusse
a menar vita privata, di che egli nelle sue opere cotanto si duole,
e si querela. Ma in questa sua vacazione non intermise i suoi studi,
ed ancorchè vecchio perfezionò in questa età in pochi anni i suoi
_Commentarj_ sopra le _Costituzioni_, che avendoli cominciati nel 1510
li ridusse a fine nel 1513 nel settuagesimo anno di sua età[176].

Fu da poi nel 1512 di nuovo fatto Giudice di Vicaria, ma per un
sol anno, onde quello terminato, tornò a' suoi studi, ed a finire i
suoi giorni in riposo, ed in privata quiete. Quindi è, che nel suo
testamento, che e' fece poco prima di morire a' 27 settembre del 1523
non si legge decorato d'altro titolo, che di semplice _Dottore_.
E quindi ancora è avvenuto, che morto in questo anno 1523, avendo
ordinato in questo suo testamento, che il suo cadavere si seppelisse
nella Chiesa di Monte Vergine, Diana Carmignano sua seconda moglie,
donna molto savia, e d'incorrotti costumi, per togliere quella taccia,
che da' suoi emoli era stata data a suo marito d'alienazione di mente,
nella iscrizione, che fece ponere quivi al suo tumulo, vi facesse
scolpire queste parole: _Ad extremam senectutem integra, et animi, et
corporis valetudine pervenit_

Lasciò della sua prima moglie Ursina Caraffa, Marino suo figliuolo,
che fattosi Sacerdote, fu Canonico del Duomo di Napoli; e di Diana
Carmignano più figliuoli, che istituì eredi, tre de' quali, come e'
dice, generò dopo aver passati i sessanta anni[177]. Sottopose la sua
casa, che possedeva nel quartiere di Nido, ed un podere nella Villa
di Centore presso Aversa, ad un perpetuo fedecommesso, al quale,
mancando tutta la sua discendenza maschile, chiamò il Collegio de
Dottori dell'una e l'altra legge di Napoli (del quale egli era) con
peso al Priore di quello, di dovere della sua casa formare un Collegio,
dove dai frutti di quel podere dovessero alimentarsi ed allevarsi
diece Studenti, la cui elezione si dà al Priore; e nel caso venisse
a distruggersi il Collegio, invitò in luogo di quello cinque Nobili
del Seggio di Nido, dei quali il più giovane dovesse avere l'istesso
peso, che avea imposto al Priore, di mantenere il collegio, ed i diece
Studenti, affinchè niente loro mancasse per attendere agli studi: ne
raccomanda efficacemente l'osservanza, _quia scit_, come sono le parole
del suo testamento, _quantum viri scientifici sint utiles Reipublicae,
et toti saeculo_.

Tali erano le disposizioni degli uomini saggi e prudenti di questi
tempi, mancata la loro posterità, non invitare monasteri e chiese al
godimento de' loro patrimonj, ma sovvenir poveri, e provvedere a'
bisogni delle lettere, e proccurare, che nelle Repubbliche quelle
s'avanzassero, e si dasse a' bisognosi modo d'apprenderle. Durano
ancora oggi i suoi posteri, i quali devono a questo insigne Dottore
non solo il pregio, ch'essi godono degli onori di Nido, ma molto più,
perchè possono pregiarsi d'avere un sì glorioso progenitore per Autore
della loro Casa.

Durano ancora via più luminose le insigni opere, che ci lasciò. De'
suoi Commentarj sopra i Feudi (ancor che altrimenti ne sentissero i
suoi emoli Sigismondo Loffredo[178] e Camerario[179]) ecco ciò che
ne lasciò scritto l'incomparabile Francesco d'Andrea[180]: _inter
omnes, qui post Afflictum integra Commentaria in fenda edidere, pauci
sunt, qui cum illo possint comparari; qui praeferri, certe nullus_.
Non potè in vita aver il piacere di vedere in stampa tutti i suoi
volumi, che compose; toltone le _Decisioni_ ed i _Commentarj sopra le
Costituzioni,_ tutti gli altri furon impressi dopo la sua morte. Avea
in vita disposto con Niccolò Agnello Imparato Stampatore in Napoli, e
s'era con costui convenuto per la stampa, e nel suo testamento avea
designato soddisfar le doti e monacaggi d'alcune sue figliuole, col
denaro che dovea ritrarsi da questi libri da imprimersi: ma la morte
ruppe i suoi disegni. Questi Commentarj sopra i Feudi furono da poi
stampati in Vinegia del 1543 e 1547 e poi in altri tempi e luoghi più
volte.

Egli fu il primo che pensasse di raccorre le decisioni, che nel
corso di più anni erano nate nel nostro S. C. e le distendesse in
quella maniera, che ora si leggono, nelle quali rapportò non pur le
diffinizioni di questo Tribunale e della regia Camera profferite in
tempo, che e vi sedette, ma ancora quelle, che e' stimò degne di
memoria, e che s'interposero poco prima, fin dal tempo, che il S.
C. dal Re Alfonso fosse stato istituito. Opera non pur fra' nostri,
ma anche presso i Forestieri celebratissima, dal cui esempio presero
l'altre Nazioni a distender le decisioni de' loro Tribunali, onde surse
la nuova schiera de' _Decisionanti_.

Furono queste impresse in Napoli la prima volta nel 1509 vivente
l'Autore, e furono dedicate alla città di Napoli sua patria[181].
Egli stesso nel suo testamento lo dice: poichè volle, che della
legittima lasciata a D. Marino suo figlio s'escomputassero ducati
venticinque, prezzo di ventisette corpi di decisioni, che costui
s'avea presi. Quanto fossero commendate dai nostri Professori, ben
si vede dalle fatiche che vi fecero intorno Tommaso Grammatico,
Giovannangelo Pisanello, Marc'Antonio Polverino, Prospero Caravita,
Cesare Ursillo e Girolamo de Martino, i quali l'illustrarono colle
loro note ed addizioni, che ora insieme col corpo di quelle si vedono
impresse, nel che Ursillo sopra tutti fu eminente. Non tralasciarono
però i suoi emoli Loffredo e Camerario di screditarle e vilipenderle,
scrivendo nelle loro opere non doversegli dare tanta fede, _ex quo_,
come dice Loffredo[182], _aliter judicatum fuit, quam Afflictus dicit:
e Camerario[183], nemo a Sacri Consilii auctoritate commoveatur ex
iis Afflicti decisionibus, cum sint Afflicti verba, qui cum homo
fuerit potuit errare_. Ma il livore di costoro niente oscurò la lor
fama; poichè nelle età seguenti corsero per tutta Europa luminose e
commendate non men da' nostri, che da' più eccellenti Giureconsulti di
straniere Nazioni; e _Tesauro_[184] l'antepone a quante mai decisioni
uscissero da tutti gli altri Tribunali del Mondo.

Ci lasciò ancora i suoi _Commentarj sopra le Costituzioni del Regno_:
opera, per la condizione di quei tempi, assai dotta e copiosa, la quale
fu avuta in sommo pregio non men da' nostri, che dagli esteri. Giacomo
Spiegelio[185] grandemente lodolla, e narra, che Cassaneo ne' suoi
Commentarj alle Consuetudini di Francia, trasportò molte cose da quelli
d'Afflitto; onde da molti è ripreso, che con somma ingratitudine non
si degnasse nè pure nominarlo. Questi anche furono impressi in vita
dell'Autore nel 1517, e reimpressi poi in Milano nel 1523 ed altrove.

Insegnando egli nella nostra Università le _Costituzioni_ del Regno
compilate dall'Imperador Federico II su la credenza, che fosse ancor
sua la Costituzione _Sancimus de jure prothomiseos_, prese egli a
spiegarla nella Cattedra nel 1479. Era veramente quella di Federico
I e non s'apparteneva punto alle nostre Costituzioni, siccome fu da
noi altrove avvertito; ma perchè questo Scrittore per la condizione
di que' tempi non fu molto inteso d'istoria, come di lui disse Marino
Freccia, prese per tanto tal'abbaglio. Non è però, che il Commentario
che vi fece, non fosse avuto in sommo pregio; anzi ebbe il favore,
che dall'incomparabile Cujacio[186] venga citato ne' suoi libri de'
Feudi. Fu più volte impresso, e si legge ancora fra' Trattati. Da poi
Francesco _Rummo_ Giureconsulto napoletano vi fece copiose addizioni,
che stampato da lui con queste sue fatiche in Napoli nel 1654 l'abbiam
veduto ora ristampato in quest'ultimi nostri tempi.

Molte altre sue Opere che compilò, ce l'ha tolte l'ingiuria del tempo;
e siccome si raccoglie dal suo testamento, molti libri avea egli
destinato di far imprimere ad Imparato suo Stampatore: ma la sua morte
e la peste indi seguìta in Napoli nel 1527, per iscampar la quale
fu obbligata Diana Carmignano a fuggire in Aversa, fece sì, che si
perderono non meno i suoi M. S. che i libri, ch'egli avea lasciati a'
suoi figliuoli. Pure presso Gabriele Sariana nella raccolta, che fece
di diversi M. S. di Dottori, che stampò nel 1560, leggiamo di questo
Autore alcune _Letture_ sopra il settimo libro del Codice[187].

Nell'iscrizione del suo tumulo leggiamo ancora: _multa scitissima
consiglia reliquit_: ma ora non sono: sovente però egli nelle sue opere
impresse allega questi consigli e fra gli altri uno, che e' compilò nel
Regno di Sardegna[188].

Scrisse ancora molti Commentarj sopra alcune leggi del Codice e sopra
le _Istituzioni_, de' quali toltone la memoria ch'egli ce ne dà nelle
sue opere citandogli, non se ne ha altra notizia.

Compose parimente un Trattato _de Consiliariis Principum, et de
Officialibus eligendis ad justitiam regendam, ac eorum qualitatibus,
et requisitis_, che dedicò a Ferdinando I. Compose anche a richiesta
del Cardinal Oliviero Caraffa, l'_Ufficio della Traslazione del corpo
di S. Gennaro_[189], coll'occasione della traslazione, che si fece del
medesimo Corpo nel 1497 dal monastero di monte Vergine in Napoli; delle
quali opere non è a noi rimalo altro vestigio, se non nelli suoi libri,
dove si citano. Scrisse pure un libro _de Privilegiis Fisci_, di cui
fece menzione Giovan Battista Ziletto[190].

Cotanto nel Regno di Ferdinando I e de' suoi figliuoli, per li favori
di questo Principe, e per li tanti e sì illustri Professori, erasi
la nostra giurisprudenza innalzata e salita in pregio assai più, che
non si vide ne' precedenti secoli. E siccome nell'altre Università
d'Italia tutto lo studio e tutta l'applicazione delle Cattedre era
sopra i libri di Giustiniano, così ancora nella nostra questo studio
crebbe per li tanti Professori, che vi s'impiegarono; e poichè, come
si è veduto, per lo più i Cattedratici erano insieme Magistrati ed
altri Avvocati, quindi avvenne, che siccome que' libri nelle Cattedre
avean molti anni prima presa forza e vigore, così poi tratto tratto
si vide, che il medesimo vigore ed autorità acquistassero ne' nostri
Tribunali. Quindi avvenne, che in questo secolo la legge _Longobarda_
fosse non men dalle Cattedre, che dal Foro affatto sterminata ed
abborrita, e che finalmente cedesse alla _Romana_. I Cattedratici, gli
Avvocati ed i Magistrati si diedero allo studio di questa, e di coloro
che l'avean commentata, allegandola non men nelle Scuole, che ne'
Tribunali. E narra l'istesso Matteo d'Afflitto[191], che se bene dagli
Avvocati vecchi avea inteso, che la legge _Longobarda_ nel Foro avesse
alcun tempo prevaluto alla _Romana_, nulladimanco, che a' suoi tempi
e quando fu Giudice di Vicaria e quando poi fu Presidente di Camera e
Consigliere nel S. C. non mai ciò vedesse, anzi tutto il contrario, che
la _Romana_ prevaleva alla _Longobarda_.

In questi tempi fu adunque, ed in questo rialzamento non meno delle
buone lettere che delle altre discipline, che presso noi le leggi
longobarde cedessero alle romane; onde poi avvenne, che presso i nostri
Causidici fosse appena noto il lor nome. Ecco il periodo ed il fine
delle leggi longobarde, e di qua innanzi non sentirete di lor più
favellare.

Non è però, che abolite queste leggi non rimanessero ancora presso noi
alcuni vestigi de' loro costumi. In Apruzzo si ritengono molti istituti
intorno a' Feudi che si regolano secondo le leggi longobarde, e ritiene
ancora quella provincia i beni _gentilizj_. In Bari, poi che le loro
consuetudini per lo più sono fondate sopra quelle leggi, si ritengono
ancora non meno i vocaboli che gl'istituti. Negl'istromenti, che in
molte altre province si stipolano, i Notari anche a' tempi nostri, se
vi sono donne, vi fanno intervenire per esse il _Mundualdo_. Ancora
dura lo stile, che negl'istromenti si metta la clausula _Jure Romano
etc._ per denotare, che i contraenti vivevano sotto quella legge e non
longobarda. Durano ancora le voci di _Vergini in capillo_, di _Meffio_
e _Catameffio_ e moltissime altre, delle quali fu da noi fatto lungo
catalogo nel quinto libro di quest'istoria. E perchè di loro affatto
ogni memoria non mancasse, _Giovan Battista Nenna_ di Bari non ignobile
Giureconsulto di que' tempi, Autore del trattato della vera nobiltà,
che intitolò il _Nennio_, e dedicò alla Regina Bona di Polonia e
Duchessa di Bari, trovando tra' libri de' suoi antenati un voluminoso
Commentario M. S. sopra le leggi de' Longobardi di Carlo di Tocco per
la ricerca che ne avea da molti, l'abbreviò e fattevi alcune postille,
con una esplicazione per alfabeto delle parole oscure de' Longobardi,
il fece stampare in Vinegia nel 1537 con grande utilità de' legisti, e
come dice Beatillo[192], con non minor comodità della città di Bari ed
altri molti luoghi del Regno, dove ancor oggi si vive con l'osservanza
delle leggi longobarde.

Di quest'opera oltre i nostri[193], ne fanno memoria anche gli
Scrittori forestieri, come il Pignoria[194] e quel ch'è più strano,
sino i Germani come Lindenbrogio[195], e Burcardo Struvio[196]. A
questo medesimo fine _Prospero Rendella_ Monopolitano distese quel suo
trattato: _In Reliquias Juris Longobardi_: impresso in Napoli l'anno
1609, perchè molti luoghi del Regno serbano ancora alcune loro usanze;
ma perchè ora il Regno universalmente si regola con altre leggi,
e le longobarde sono andate in disusanza, chi per se allega questi
particolari usi, si carica del peso di provarli[197].

Le leggi adunque, onde universalmente fu governato il nostro Regno,
erano quelle racchiuse nelle _Pandette_ di Giustiniano, secondo
l'antica partizione di Pileo e di Bulgaro, della quale si valse
Accursio e tutti gli altri Repetenti e Glossatori: il _Codice_ di
repetita prelezione: le _Istituzioni_ e le _Novelle_, secondo il numero
d'Agileo. Seguirono le _Costituzioni del Regno_, ove sono racchiuse le
leggi de' nostri Re Normanni e Svevi. I Capitolarj, ovvero _Capitoli
del Regno_, che racchiudono le leggi de' Re Angioini. I _Riti_ della
Camera e della G. C. Le _Consuetudini_ particolari così di Napoli come
dell'altre città del Regno; e finalmente le novelle _Prammatiche_, che
s'incominciarono dal Re Alfonso I, e furon da poi accresciute dagli
altri Re Aragonesi ed Austriaci, insino a quel numero che ora si vede.
Per quel che riguarda la legge _Feudale_, i libri de' _Feudi_ colle
_Costituzioni_, _Capitoli_ e novelle _Prammatiche_ stabilite da poi a
quelli appartenenti.

Ancorchè in questi tempi i libri de' Dottori non fossero cresciuti in
quell'infinito numero che si vede ora; e non si vedessero tanti volumi
di _Trattati_, di _Consiglj_, di _Controversie_, di _Allegazioni_,
di _Discettazioni_, di _Resoluzioni_ e di _Decisioni_; nulladimanco,
perchè per l'uso della stampa cominciavano ad apparire più del solito,
quindi nacque la massima, che i Giudici, quando le leggi mancassero
dovessero seguire o l'autorità delle cose giudicate o la opinione più
comune de' Dottori, e più i loro _Commentarj_ che i _Consiglj_; onde
mancando le leggi, le consuetudini, i riti e lo stile di giudicare,
non si rimetteva al loro arbitrio e prudenza il decidere, ma che
dovessero seguire il più comune insegnamento de' Dottori. Ed in ciò
pure si prescrissero molte regole e cautele. I se gli Interpreti
saranno fra' loro varj e discordanti, il Giudice dovrà seguire quella
parte dove sia maggior numero, ed il detto di costoro dovrà riputare
la più comune opinione. II dovranno i Giudici attenersi più tosto alla
sentenza di coloro, li quali di proposito e profondamente avranno
discussa ed esaminata la materia che di quelli, che di passaggio
senza punto esaminarla, vanno dietro agli altri. III che debbiano più
tosto seguire i loro commentarj ed i trattati, che i consiglj o i loro
responsi ed allegazioni. IV ove si tratti di cause appartenenti al Foro
ecclesiastico, debbano seguitare i canonisti, siccome i legisti in
quelle del Foro secolare. V invecchiando non meno, che tutte l'altre
cose umane, le opinioni; ed il corso del tempo, il lungo uso e la
nuova esperienza delle cose, ammaestrando gli uomini in maniera, che
sovente fanno loro abbandonare gli antichi dettami; quindi è dovere,
che i Giudici debbiano seguire più tosto le nuove, che le vecchie
opinioni degli Interpreti. Moltissime altre regole vengono da' nostri
Autori prescritte intorno a ciò, delle quali lungamente scrissero,
per tralasciar altri, Dionigi Gotofredo[198], ed il savissimo Arturo
Duck[199].

Ecco in fine lo stato nel quale Ferdinando I di Aragona lasciò questo
Regno, per quel che riguarda la sua politia e governo: lo vedremo ora
nel seguente libro tutto sconvolto e disordinato, in maniera che in
pochissimi anni vide sette Re che lo dominarono; nella revoluzione
delle quali cose rimase cotanto sbattuto, fin che poi non riposasse
sotto la Monarchia dell'inclito Re Ferdinando il Cattolico.


  FINE DEL LIBRO VENTESIMOTTAVO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMONONO


La guerra, che per invito di Lodovico Sforza mosse Carlo VIII Re di
Francia, ad Alfonso II, il quale, morto suo padre, fu subito in Napoli
con grande celebrità incoronato Re per mano del Cardinal Borgia[200],
è stata cotanto bene scritta da Filippo Comines Signor d'Argentone,
Scrittor contemporaneo e che fu da Carlo adoperato ne' maneggi più
gravi di quella spedizione, da Francesco Guicciardino e da Monsignor
Giovio, che a ragione potremmo rimetterci alle Istorie loro: ma
poichè non fu da Principe savio mossa guerra alcuna, che insieme non
si proccurasse farla apparire giusta, non avendo i nostri Scrittori
palesate le ragioni, onde i Franzesi per tale la dipinsero al loro
Re; perciò non ci dee rincrescere di scoprirle ora, che ce ne vien
somministrata l'occasione. Prima di muoverla, e dopo gl'inviti del
Moro, furono esaminate le pretensioni del Re con solenne scrutinio,
e trovatele a lor credere, sussistenti, persuasero al Re esser dal
suo canto somma giustizia di poter unire alla Corona di Francia
il Regno di Napoli. Essi appoggiavano la pretensione sopra questi
fondamenti. _Renato d'Angiò_, che, come si è veduto ne' precedenti
libri, perduto il Regno avea lasciato a Giovanni suo figliuolo la
speranza di ricuperarlo dalle mani di Ferdinando I d'Aragona, mentre
visse Giovanni, non potè vedere alcun buon esito di quella guerra;
poichè Ferdinando, sebbene dopo la morte del padre Alfonso fosse stato
assaltato e da lui e da' principali Baroni del Regno, nondimeno con
la felicità e virtù sua, non solamente si difese, ma afflisse in modo
gli avversari, che mai più, nè in vita di Giovanni, nè di Renato, che
sopravvisse più anni al figliuolo, ebbe nè da contendere, nè da temere
degli Angioini. Morì finalmente Renato, e non lasciando di se figliuoli
maschi, ma solamente una figliuola femmina, da chi nacque il Duca di
Lorena, fece erede in tutti i suoi Stati e ragioni _Carlo_ figliuolo
del Conte di Maine suo fratello[201].

(Questa figlia era _Violante_, la quale si maritò con _Ferry II_ di
Lorena Conte di Vaudemont, dal qual matrimonio nacque _Renato Duca
di Lorena_, che fu invitato da _Innocenzio VIII_ all'impresa del
Regno. Lasciò sì bene _Renato_ padre di Violante un'altra figliuola
femmina, _Margherita_ vedova del Re d'Inghilterra, alla quale nel suo
testamento lasciò le rendite del Ducato di Bar; ma a _Renato_ figliuolo
di _Violante_ lasciò il Ducato stesso di Bar, siccome si legge nel
suo Testamento, fatto in Marsiglia nell'anno 1474, che dettò in lingua
franzese, trascritto da _Lunig Tom 2_ p. 1278. Anzi in questo istesso
suo _Codice Diplomatico_ pag 1291 si legge ancora un Istromento di
donazione che fece la vedova Regina d'Inghilterra _Margherita_ al
suddetto Renato suo Padre, di tutte le sue ragioni, che avea nel
Ducato di Bar, le quali furono trasferite a _Renato di Lorena_ suo
nipote in virtù dei detto suo testamento, e poichè allegava, che suo
avo non potesse negli altri suoi Stati posporlo a _Carlo Conte di
Maine_, ch'era collaterale, come figlio di suo fratello, quando era
egli nella linea discendente, essendo figliuolo di sua figlia: perciò
pretendeva appartenersegli non meno il Ducato d'Angiò, ed il Contado di
Provenza, che il Regno stesso di Napoli e di Gerusalemme. E per questa
pretensione i Duchi di Lorena discendenti da _Renato_ fra gli altri
loro titoli presero ancor quello di Duchi di Calabria, e nelle loro
arme inquartarono eziandio quelle di Sicilia e di Gerusalemme; siccome
può osservarsi dalle lor monete impresse da _Baleicourt_ nel _Traité
Historique et Critique sur l'origine, et Généalogie de la Maison de
Lorraine_. Il qual Autore notò assai a proposito p. 28 _Explication
des Monnoies_, che i Duchi di Lorena prima di questo maritaggio di
_Violante_ con _Ferry di Lorena Conte di Vaudemont_, non inquartavano
le armi di Sicilia e di Gerusalemme, nè s'intitolavano _Duchi di
Calabria_, siccome fecero da poi i suoi discendenti, e proseguono
tuttavia fino al presente a fare; senza che mai i Re di Spagna glielo
avesser contraddetto; anzi a' tempi nostri, essendo accaduta nel
mese di marzo del 1729 la morte del Duca di Lorena Leopoldo padre
del presente Duca Francesco regnante, nelle pompose esequie, che
l'Imperadore Carlo VI fecegli celebrare nell'Imperial Chiesa di Corte
degli Agostiniani in Vienna, nel Mausoleo e nelle iscrizioni fra le
sue armi, si vedevano inquartate quelle di Sicilia e di Gerusalemme,
e fra i suoi titoli si leggeva anche a lettere cubitali quello di DUX
CALABRIAE).

Non fu già questo Carlo figliuolo di Giovanni, come con errore
scrissero alcuni moderni[202], fu sì bene nipote di Renato, ma di
fratello, non di figliuolo. _Carlo_ morì poco da poi parimente senza
lasciar figliuoli, e lasciò per testamento la sua eredità a _Lodovico
XI_ Re di Francia, ch'era figliuolo d'una sorella di Renato[203]. Molte
clausole di questo testamento, che fu fatto da Carlo in Marsiglia
a' 10 decembre del 1481, si leggono nel primo tomo della Raccolta
dei Trattati delle Paci tra' Re di Francia con altri Principi, di
_Federico Lionard_, stampato in Parigi l'anno 1693, dove istituisce
suo erede universale _Lodovico_, che chiama perciò suo consobrino, e
dopo lui Carlo il Delfino di Francia figliuolo di Luigi, al quale non
solo ricadde, come a supremo Signore, il Ducato di Angiò, nel quale,
per esser membro della Corona, non succedono le femmine, ma entrò
nel possesso della Provenza, e per vigore di questo testamento potea
pretendere essergli trasferite le ragioni, che gli Angioini aveano
sopra il Reame di Napoli. Ma Luigi fu sempre avverso alle cose d'Italia
e, contento della Provenza, non inquietò il Regno. Morto Luigi, essendo
continuate queste ragioni in _Carlo VIII_ suo figliuolo, giovane avido
di gloria, entrò, a' conforti d'alcuni che gli proponevano questa
essere occasione d'avanzar la gloria de' suoi predecessori, nella
speranza d'acquistar coll'arme il Regno di Napoli.

Ma in questi principi surse il Duca di Lorena per suo competitore;
poichè essendo il Re per coronarsi nell'età di 14 o 15 anni, venne da
lui il Duca a dimandare il Ducato di Bar ed il Contado di Provenza.
Appoggiava la sua pretensione per essere egli nato da una figliuola di
Renato, e per conseguenza non aver potuto Renato preporre Carlo ch'era
nato da suo fratello a lui, ch'era nato d'una sua propria figliuola. Ma
replicandosi in contrario, che nella Provenza non potevan succeder le
femmine, gli fu renduto il Ducato di Bar, ed intorno alla pretensione
della Provenza, fu stabilito che fra quattro anni si avesse a conoscere
per giustizia delle ragioni d'amendue sopra quel Contado. Narra Filippo
di Comines che fu uno del Consiglio destinato all'esame di queste
ragioni, che non erano ancora passati i quattro anni che si fecero
avanti alcuni Avvocati provenzali, cavando fuori certi testamenti del
Re Carlo I fratello di S. Lodovico e d'altri Re di Sicilia della Casa
di Francia, in vigor de' quali diceano, non solo appartenersi al Re
Carlo il Contado di Provenza, ma il Regno ancora di Sicilia, e tutto
ciò che fu posseduto dalla Casa d'Angiò; e che il Duca di Lorena non
vi potea pretendere cos'alcuna, non solo perchè Carlo ultimamente
morto Conte di Provenza figliuolo di Carlo d'Angiò Conte di Maine e
nipote di Renato, avea per suo testamento istituito erede Lodovico XI,
ma ancora perchè Renato l'avea preferito al Duca di Lorena, ancorchè
nato di sua figliuola, per eseguire le disposizioni de' suddetti
testamenti fatti da Carlo I d'Angiò e dalla Contessa di Provenza sua
moglie. Aggiungevano parimente che il Regno di Sicilia ed il Contado di
Provenza, non potevano esser separati: nè potevano in quelli succeder
le donne, quando v'erano maschi della discendenza. E per ultimo che
oltre Re Carlo I, coloro che a lui successero nel suddetto Regno,
fecero consimili testamenti, come fra gli altri Carlo II d'Angiò suo
figliuolo.

Per questi ricorsi de' Provenzali, e per avere il Re Carlo insinuato
a que' del Consiglio, che s'adoperassero in modo ch'egli non perdesse
la Provenza, finiti i quattro anni, il Consiglio portava in lungo la
deliberazione per istancare il Duca, e non potendolo più trattenere,
finalmente il Duca, scoverta la volontà del Re e di coloro del suo
Consiglio, si partì dalla Corte mal soddisfatto e molto adirato con
loro.

In questi tempi, quattro o cinque mesi prima di questa sua partenza
dalla Corte, gli fu fatto l'invito, che nel precedente libro si è
narrato, dal Papa e dai Baroni ribelli per la conquista del Regno, del
quale se egli se ne avesse saputo ben servire, s'avrebbe potuto mettere
in mano il Regno di Napoli; ma la sua lentezza e tardanza fa tale che
il Papa ed i Baroni resi già stanchi e fuori di speranza, per averlo
sì lungamente aspettato, s'accordarono con Ferdinando: onde il Duca con
molto rossore ritornossene al suo paese, nè da poi ebbe egli mai alcuna
autorità appresso il Re.

Intanto crescendo il Re Carlo negli anni, vieppiù cresceva nel
desiderio di passare in Italia alla impresa del Regno; nè mancavano i
suoi Consultori tutto dì stimolarlo, dicendogli, che il Regno di Napoli
s'apparteneva a lui. In questo mentre capitò a Parigi il Principe di
Salerno, il quale non fidandosi delle parole di Ferdinando, uscì,
come si disse, dal Regno, e prima con tre suoi nepoti, figliuoli
del Principe di Bisignano, andò a Vinegia, dove egli avea molte
amicizie. Quivi prese consiglio da quella Signoria, dove le paresse
meglio ch'eglino si ricoverassero o dal Duca di Lorena, o dal Re di
Francia, o da quello di Spagna. Filippo di Comines, che mostra nelle
sue Memorie aver tenuta grande amicizia col Principe di Salerno,
narra che avendo di ciò tenuto discorso col Principe, gli disse che i
Viniziani lo consigliavano che ricorresse al Re di Francia; poichè dal
Duca di Lorena, come uomo morto, non era da sperarne cos'alcuna. Il
Re di Spagna non bisognava allettarlo a quella impresa, ma doveasene
guardare, poichè se egli avesse il Regno di Napoli con la Sicilia e gli
altri luoghi nel golfo di Vinegia, essendo già molto potente in mare,
in breve porrebbe in servitù tutta Italia: onde non vi restava che il
Re di Francia, dal quale, e dall'amicizia ch'essi v'aveano, s'avrebbero
potuto promettere un Regno placido e soave. Così fecero, e giunti
in Francia furono con lieto viso ricevuti, ma poveramente trattati.
Penarono per due anni interi, assiduamente insistendo che si facesse
l'impresa del Regno; ma poichè il partito di coloro che dissuadevano il
Re, era de' più prudenti e solamente alcuni favoriti che vedendo la sua
inclinazione, per adularlo, l'instigavano al contrario, perciò erano
menati in lungo, un giorno con isperanza e l'altro senza.

Quello che poi gli fè dar tracollo fu, come s'è detto, l'invito di
Lodovico Sforza, il quale vedendo che non in altra guisa avrebbe
potuto rapire al nipote il Ducato di Milano, se non con porre
sossopra il Regno ad Alfonso, che s'opponeva a' suoi disegni per gli
continui ricordi che ne avea dalla Duchessa di Milano moglie del Duca
e sua figliuola, trattò efficacemente questa venuta, ed inviandovi
Ambasciadori per affrettarla, finalmente rotto ogni indugio, si dispose
Carlo al passaggio d'Italia.

(Le convenzioni ed articoli accordati tra _Carlo_ e _Ludovico Sforza_,
si leggono presso Lunig[204]).

Partì il Re da Vienna nel Delfinato a 23 agosto del 1494, tirando
diritto verso Asti: passò a Torino, indi a Pisa, donde partitosi venne
a Fiorenza, per passare a Roma[205].

(Giunto in Fiorenza il Re _Carlo_, diede fuori un _Manifesto_, nel
quale dichiarava a tutti ch'egli veniva per conquistar il Regno di
Napoli, non solo per far valere le sue ragioni che vi avea: ma perchè
conquistato avesse più facile e pronto passaggio per invadere gli
Stati del Turco, e vendicare le devastazioni e le stragi che sopra il
sangue Cristiano facevano que' crudeli e perfidi Maomettani; cercando
perciò a tutti passaggi, ajuti e vettovaglie per le sue truppe, per le
quali avrebbe soddisfatto i loro prezzi. Leggesi il manifesto presso
Lunig[206]).

Intanto Re Alfonso intesa questa mossa avea disposto un esercito in
campagna nella Romagna verso Ferrara, condotto da Ferrandino Duca di
Calabria suo figliuolo, ed un'armata per mare a Livorno e Pisa, di
cui ne fece Generale D. Federico suo fratello; ma quando intese che
Re Carlo a grandi giornate con tanta prosperità, secondandogli ogni
cosa, s'approssimava a Roma, mandò ivi Ferrandino a trattar col Papa
per la salute del Regno. Ma non erano minori l'angustie nelle quali,
approssimandosi l'esercito di Carlo alle mura di Roma, si trovava
Papa Alessandro, poichè vedendolo accompagnato dal Cardinal di S.
Pietro in Vincoli, e da molti altri Cardinali suoi nemici, temeva
che il Re, per le persuasioni de' medesimi, non volgesse l'animo a
riformare, come già cominciava a divulgarsi, le cose della Chiesa:
pensiero a lui sopra modo terribile che si ricordava con quai modi
fosse asceso al Pontificato, e con quai costumi ed arti l'avesse poi
continuamente amministrato[207]. Ma il Re che sopra ogni altra cosa
non desiderava altro più ardentemente che l'andata sua al Regno di
Napoli, lo alleggerì di questo sospetto, mandandogli Ambasciadori a
persuadergli, non essere l'intenzione del Re mescolarsi in quello che
apparteneva all'autorità pontificale, nè dimandargli se non quanto
fosse necessario alla sicurtà di passare innanzi; onde fecero istanza
che potesse il Re entrare col suo esercito in Roma, perchè entrato che
fosse, le dissensioni state fra loro si convertirebbero in sincerissima
benivolenza. Il Papa giudicando che di tutti i pericoli questi fosse
il minore, acconsentì a questa dimanda; onde fece partire di Roma il
Duca di Calabria col suo esercito, il quale se n'uscì per la porta
di S. Sebastiano l'ultimo di decembre di questo medesimo anno 1494,
nell'istesso tempo, che per la porta di S. Maria del Popolo v'entrava
coll'esercito franzese il Re armato.

Dimorò Carlo in Roma da un mese, non avendo intanto cessato di mandar
gente a' confini del Regno, nel quale già ogni cosa tumultuava, in
modo, che l'Aquila e quasi tutto l'Apruzzo avea, prima che 'l Re
partisse di Roma, alzate le di lui bandiere: nè era molto più quieto
il resto del Reame, perchè subito che Ferdinando fu partito da Roma,
cominciarono ad apparire i frutti dell'odio, che i popoli portavano
ad Alfonso: laonde esclamando con grandissimo ardore della crudeltà e
superbia d'Alfonso, palesemente dimostravano il desiderio della venuta
de' Francesi[208].

Alfonso, intesa ch'ebbe la partita del figliuolo da Roma, entrò in
tanto terrore, che dimenticatosi della fama e gloria grande, la quale
con lunga esperienza avea acquietata in molte guerre d'Italia, e
disperato di poter resistere a questa fatale tempesta, deliberò di
abbandonare il Regno, e dettando l'istromento della rinunzia Giovanni
Pontano, coll'intervento di Federico suo fratello, e de' primi Signori
del Regno[209], rinunziò il nome e l'autorità reale a Ferdinando
suo figliuolo, con qualche speranza, che rimosso con lui l'odio sì
smisurato, e fatto Re un giovane di somma espettazione, il quale
non avea offeso alcuno, e quanto a se era in assai grazia appresso
a ciascuno, allenterebbe peravventura ne' sudditi il desiderio de'
Franzesi. Questo consiglio, pondera il Guicciardino, che se si fosse
anticipato, forse avrebbe fatto qualche frutto, ma differito a tempo
che le cose non solo erano in troppo gran movimento, ma già cominciate
a precipitare, non ebbe più forza di fermar tanta rovina.

Ceduta ch'ebbe Alfonso al figliuolo Ferdinando (il quale non passava
l'età di 24 anni) la possessione del Regno, e fattolo coronare e
cavalcare per la città di Napoli, non trovando nè giorno, nè notte
requie nell'animo, entrò in sì fatto timore, che gli pareva udir che
tutte le cose gridassero _Francia, Francia_; onde deliberò partir
subito da Napoli e ritirarsi in Sicilia, e conferito quel ch'avea
deliberato solamente con la Regina sua matrigna, nè voluto a' prieghi
suoi comunicarlo, nè col fratello, nè col figliuolo, nè soprastare pur
due o tre giorni solo per finir l'anno intero del suo Regno, si partì
con quattro galee sottili cariche di molte robe preziose, dimostrando
nel partire tanto spavento, che pareva fosse già circondato da'
Franzesi. Si fuggì por tanto a Mazara Terra in Sicilia della Regina
sua matrigna, stata a lei prima donata da Ferdinando Re di Spagna suo
fratello, la quale volle anch'ella accompagnarlo.

Narra Filippo di Comines, che allora si trovava Ambasciadore del
Re di Francia in Vinegia, che con meraviglia di ciascuno si sparse
per tutto il Mondo, specialmente in Vinegia, cotal novella. Alcuni
dicevano, ch'egli fosse ito al Turco; altri per dar favore alle cose
del figliuolo, il quale non era odiato nel Regno così com'esso. Ma
colui, che de' Re aragonesi scrisse con molto biasimo e molta acerbità,
e forse più di quel che meritavano, non tralasciò di dire, che fu
sempre d'opinione, ch'egli ciò facesse per vera pusillanimità. Giunto
in Sicilia, dopo essere stato alquanto a Mazara, passò a Messina, ove
ritirossi a menar vita religiosa, servendo in compagnia de' Frati a
Dio in tutte l'ore del giorno e della notte, con digiuni, astinenze e
limosine; e narra ancora lo stesso Autore, che se morte non l'impediva,
avea deliberato di far sua vita in un monastero di Valenza, e quivi
vestirsi da Religioso. Ma non avendo ancor finito dieci mesi dopo il
suo ritiramento in Sicilia, fu egli assalito da una crudele infermità
d'escoriazione e da renella, che incessantemente gli dava acerbissime
punture e tormenti, tollerati però da lui con maravigliosa costanza e
pazienza; e finalmente aggravato dal male, con grandissimo rimordimento
delle sue colpe, finì i giorni suoi a' 19 novembre dell'anno 1495 del
47 anno, e quattordici giorni di sua età, dopo aver regnato un anno
meno due giorni. Fu con reali esequie seppellito nella maggior Chiesa
di Messina, ove ancora s'addita la di lui tomba.

Di questo Principe, e per lo suo corto regnare, e perchè era tutto
dedito alle armi, non abbiamo tra le nostre prammatiche alcuna sua
legge, ancorchè non impedisse il progresso delle lettere nel suo
Regno; ma come nudrito in mezzo alle armi, non fu cotanto quanto suo
padre amante de' Letterati; e Giovanni Pontano, come si è veduto nel
precedente libro, non ebbe molta occasione d'esser appagato di lui,
anzi agramente si vendicò della di lui ingratitudine con quell'Apologo
dell'Asino, che trasse de' calci a chi gli porse ajuto. Fu però insieme
magnifico e pietoso. Edificò due famosi palagi di diporto nella regione
Nolana ed in Poggio reale: amò assai i Frati bianchi di S. Benedetto
dell'Ordine di Monte Oliveto, al di cui Monastero in Napoli donò, come
altrove fu detto, molte entrate. Diede anco principio alla nuova chiesa
dei Monaci Cassinesi di _S. Severino_, non parendogli convenevole, che
due Corpi di Santi così insigni, Sossio e Severino, dovessero giacere
in due piccole Chiesette; e se le narrate disavventure non l'avessero
impedito, le avrebbe dato quel fine e posta in quella magnificenza,
nella quale oggi si vede.



CAPITOLO I.

_FERDINANDO II è discacciato dal Regno da CARLO Re di Francia. Entrata
di questo Re in Napoli, a cui il Regno si sottomette._


Ferdinando, il quale dopo la partita di Roma si era ritirato ne'
confini del Regno, essendo stato per la fuga del padre richiamato in
Napoli, da poi ch'ebbe assunto l'autorità ed il titolo regale raccolse
il suo esercito, e s'accampò a S. Germano per proibire, che i nemici
non passassero più innanzi. Ma avanti che il Re di Francia giungesse
a S. Germano, Ferdinando con grandissimo disordine abbandonò la Terra
ed il passo; ond'entrato il Re in S. Germano, Ferdinando si ritirò a
Capua, dov'entrò accompagnato con poca gente, non avendovi i terrazzani
voluto introdurre alcuna banda de' suoi soldati. Quivi fermatosi poche
ore, e pregata quella città a mantenersi a sua divozione, promettendole
di ritornare il dì seguente, se n'andò a Napoli, temendo di quello che
gli avvenne, cioè di ribellione. L'esercito lo dovea aspettare a Capua;
ma quando egli vi tornò il giorno seguente non trovò nessuno. Intanto
Re Carlo da S. Germano era giunto a Tiano, ed alloggiò a Calvi vicino
due miglia a Capua. I Capuani tosto l'introdussero nella loro città con
tutto il suo esercito; indi passato in Aversa, i Napoletani seguendo
l'esempio di Capua, trattavano di mandargli Ambasciadori ad incontrarlo
e rendersi a lui, sotto condizione, che gli fossero conservati gli
antichi privilegi.

Allora fu, che Ferdinando, veduti tali andamenti, e che il Popolo e la
Nobiltà era in manifesta ribellione, e con l'armi alla mano, vedendo
di non poter ripugnare all'impeto cotanto repentino della sua fortuna,
deliberò uscire della città, e convocati in su la piazza del Castel
Nuovo molti gentiluomini e popolani, gli disciolse dal giuramento ed
omaggio, che pochi dì avanti gli avean dato, e gli diede licenza di
mandare a prendere accordo col Re di Francia, con sentimenti cotanto
compassionevoli ed affettuosi, che espresse in quella sua orazione,
cotanto ben descritta dal Guicciardino[210], che udita con compassione
a molti commosse le lagrime. Ma era tanto l'odio in tutto il popolo, e
quasi in tutta la nobiltà, del Re suo padre, e tanto il desiderio de'
Franzesi, che per questo non si fermò il tumulto, anzi sfacciatamente
alla sua presenza il popolo cominciò a saccheggiar le sue stalle,
onde uscito dal castello per la porta del Soccorso, montò su le galee
sottili, che l'aspettavano nel Porto, e con lui s'imbarcò anche D.
Federico suo zio e la Regina vecchia moglie dell'avolo, con Giovanna
sua figliuola; e seguitato da pochi de' suoi navigò all'isola d'Ischia,
detta dagli antichi Enaria, replicando spesso con alte voci, mentre che
aveva innanzi agli occhi il prospetto di Napoli, il versetto del Salmo
di Davide: _Nisi Dominus custodierit Civitatem, frustra vigilat qui
custodit eam_.

Per la partita di Ferdinando da Napoli ciascuno cedeva per tutto,
come ad uno impetuosissimo torrente, alla fama sola de' vincitori;
ed intanto gli Ambasciadori napoletani trovato Carlo in Aversa,
gli resero la città, avendo egli conceduto alla medesima con somma
liberalità molti privilegi ed esenzioni. Entrò Carlo in Napoli, secondo
il Guicciardino, il dì vigesimo primo di febbrajo di quest'anno 1495,
ricevuto con tanto applauso ed allegrezza da ogn'uno, che vanamente si
tenterebbe esprimere, concorrendo con festeggiamento incredibile, ogni
sesso, ogni età, ogni condizione, ogni qualità, ogni fazione d'uomini,
come se fosse stato padre e fondatore di quella città. E ciò che fu più
di stupore, quegli stessi o i loro maggiori ch'erano stati esaltati o
beneficati dalla casa d'Aragona, non mostrarono minor giubilo degli
altri, e Gioviano Pontano istesso, che partito Alfonso era stato da
Ferdinando rifatto suo Segretario, nell'Orazione che gli fece, quando
fu incoronato Re nel Duomo di Napoli, non si ritenne di distendersi
soverchio nella vituperazione dei Re di Casa d'Aragona, da' quali era
stato sì grandemente esaltato.

Fu Carlo condotto ad alloggiare in Castel Capuano, poichè Castel
Nuovo si teneva per Ferdinando dal Marchese di Pescara; e si videro in
breve tempo tutte le province del Regno passare sotto la dominazione
de' Franzesi. Toltone Ischia e Gaeta, tutta Terra di Lavoro fu
sottomessa. La Calabria tosto si diede a Carlo, dove furono mandati
Monsignor d'Aubignì, e Perone del Baschie senz'esercito. L'Apruzzo
si rivoltò da se stesso e la prima fu la città dell'Aquila, che fu
sempre di fazione franzese. La Puglia fece il simigliante, eccetto il
Castello di Brindisi e Gallipoli, che fu conservata dal presidio che
v'era dentro, altrimenti il popolo si sarìa sollevato. Nella Calabria
tre luoghi solamente si mantennero alla divozione di Ferdinando. I
due primi furono Amantea e Tropea antichi Angioini, i quali avendo
innalzate le bandiere di Carlo, vedutisi poi esser donati a Monsignor
di Persì, tosto le tolsero e vi riposero l'insegna d'Aragona: il terzo
fu Reggio, che sempre si stette costante al suo Principe. E narra il
Signor d'Argentone, che tutto ciò che rimase in fede, fu per difetto di
mandarvi gente, poichè in Puglia ed in Calabria non ne andò pur tanta,
che fosse stata bastante a guardare una sola terra. La città di Taranto
s'arrese insieme colla fortezza. Il medesimo fecero Otranto, Monopoli,
Trani, Manfredonia, Barletta e tutto 'l rimanente. Venivano le città ad
incontrare i Franzesi tre giornate lontane per darsi al Re Carlo, e poi
ciascuna mandava a Napoli i loro Sindici a renderle.

Tutti i Signori e Baroni del Regno concorsero a Napoli per fargli
omaggio: toltone il Marchese di Pescara, lasciato da Ferdinando alla
guardia del Castel Nuovo, anche i suoi fratelli e nipoti v'andarono.
Il Conte d'Acri ed il Marchese di Squillace fuggirono in Sicilia;
perchè il Re Carlo avea donato lo Stato loro a Monsignor d'Aubignì:
si trovarono anche in Napoli il Principe di Salerno, il Principe di
Bisignano suo fratello co' figliuoli, il Duca di Melfi, quel di Gravina
ed il vecchio Duca di Sora, il Conte di Montorio, il Conte di Fondi,
il Conte della Tripalda, quel di Celano, il Conte di Troja il giovane,
nodrito in Francia e nato in Scozia, ed il Conte di Popoli, che fu
trovato prigioniere in Napoli: il Principe di Rossano, dopo essere
stato lungo tempo in carcere col padre, era stato liberato, e se n'andò
o volentieri, o forzato con Ferdinando. Vi si trovarono eziandio il
Marchese di Venafro e tutti i Caldoreschi: il Conte di Metallina ed il
Conte di Marigliano, ancorchè questi ed i loro predecessori avessero
servito sempre la casa d'Aragona. In brieve vi furono in Napoli a dar
ubbidienza al Re Carlo tutti i Signori del Regno, salvo que' tre di
sopra nominati.

Ecco, come saviamente ponderò il Guicciardino, che per le discordie
domestiche, per le quali era abbagliata la sapienza tanto famosa de'
nostri Principi italiani, e per la leggerezza e pazzo amore alla novità
de' Napoletani, si alienò con sommo vituperio e derisione loro e della
milizia italiana, e con grandissimo pericolo ed ignominia di tutti,
una preclara e potente parte d'Italia, dall'Imperio degli Italiani
all'Imperio di gente oltramontana trapassando; perchè Ferdinando il
vecchio, se ben nato in Ispagna, nondimeno perchè insino dalla prima
gioventù era stato o Re o figliuolo di Re continuamente in Italia, e
perchè non avea altro Principato in altra provincia, ed i figliuoli
e nipoti tutti nati e nutriti a Napoli, erano meritamente riputati
italiani. E quantunque la dominazione dei Franzesi sparisse come un
baleno, non fu però, che il Regno stabilmente ritornasse di nuovo
sotto Ferdinando o Federico suo zio, buono e savio Principe, che
avrebbe potuto cancellare ogni memoria dell'odio, che portavano i
popoli ad Alfonso; poichè vedutisi questi da dura necessità costretti
di ricorrere agli aiuti e soccorsi di Ferdinando il Cattolico Re di
Spagna, se sottrassero il Regno dalla dominazione de' Franzesi, lo
videro poi con estremo lor cordoglio cadere sotto l'imperio degli
Spagnuoli, e riconoscere non più Principi nazionali ma stranieri, che
da rimotissime parti amministrandolo per mezzo de' loro Ministri,
quanto perdè di dignità reale e di decoro, altrettanto si vide
malmenato ed abbietto.



CAPITOLO II.

_CARLO parte dal Regno, e vi ritorna FERDINANDO, che ne discaccia i
Franzesi coll'aiuto del G. Capitano; viene acclamato da' popoli, ed è
restituito al Regno: suo matrimonio e morte._


I Franzesi, che non sapendo reprimere la violenza della prospera
fortuna, si resero vie più altieri ed ambiziosi, oltre d'aversi
alienati gli animi de' popoli, dando sospetto a' Principi d'Italia,
ed a coloro medesimi che ve gli aveano invitati, se gli alienarono
in guisa, che finalmente congiurati gli discacciarono interamente
d'Italia. Resi ormai padroni del Regno, e per intelligenza e pratica
avuta co' Tedeschi che lo guardavano, resi ancor padroni del Castel
Nuovo, e poi del castello dell'Uovo e di Gaeta; non restava loro altro
di maggior rimarco, che impossessarsi d'Ischia. Tanto che Ferdinando
perduta ogni speranza, lasciando quell'isola in guardia ad Innico
d'Avalos fratello del Marchese di Pescara, partì e se ne passò in
Sicilia, dove a' 20 marzo di quest'istesso anno 1495 fu da' Messinesi
con amor grande ricevuto, e quivi, consultando con Alfonso suo padre
che ancor vivea, del modo come ricuperar potessero, e con quali aiuti
il perduto Regno, dimorava.

Intanto Re Carlo mal sapendo co' suoi Capitani governarsi in un Regno
nuovo, e per soverchio orgoglio de' suoi, nulla soddisfazione dandosi
alla nobiltà, in brevissimo spazio vide mutarsi quella gloria e quella
fortuna, che cotanto l'avea favorito. Narra il Signore d'Argentone,
allora suo Ambasciadore in Vinegia, che il Re dopo essere entrato in
Napoli, infino alla sua partita, non attese ad altro che a' piaceri
ed a' sollazzi; ed i Franzesi suoi Ufficiali a rapine, ed a ragunar
denari: alla nobiltà non fu usata nè cortesia nè carezzo alcuno; anzi
con difficoltà erano introdotti nella sua corte. Gli Caraffa furono i
meno maltrattati, ancorchè fossero veri Aragonesi. A niuno lasciarono
ufficj, nè dignità, e peggio trattarono gli Angioini che gli Aragonesi.
E Matteo d'Afflitto[211] rapporta, che Carlo istigato da' suoi, che lo
stimolavano a ridurre i Baroni del Regno nello stato, nel quale sono
i Baroni di Francia, fece consultare il modo come potesse toglier loro
il mero e misto imperio, che sin dal tempo del Re Alfonso I d'Aragona
esercitavano ne' loro feudi. Non si spedivano privilegi ed ordinazioni
del Re, che i Ministri, per le cui mani passavano, non ne riscuotessero
denari. Tutte le autorità e carichi furono conferiti a due o tre
Franzesi. Si levavano i Ministri dai loro posti, e non senza denari
poi si restituivano. Così i Napoletani (gente naturalmente più d'ogni
altra mutabile) quel pazzo amore, che prima aveano ai Franzesi, lo
cominciarono a mutar in odio.

Intanto giunto Ferdinando in Sicilia, consultando con Alfonso suo
padre di trovar qualche riparo alla loro rovina, aveano deliberato
di ricorrere agli aiuti di Ferdinando il Cattolico, come ad un
Principe non men potente, che a lor congiunto di sangue; ma sopra
tutto, perch'essendo padrone della Sicilia, avrebbe presa la loro
protezione, non tanto per la strettezza del sangue, quanto che a'
suoi propri interessi importava, che il Regno di Napoli non fosse in
mano dei Franzesi, i quali dominando un Regno così possente e ricco, e
cotanto alla Sicilia vicino, forte dubitar si poteva, che finalmente
non s'invogliassero d'invaderla, ed a quel di Napoli non pensassero
d'unirla. Mandarono per ciò in Ispagna al Re Cattolico, Bernardino
Bernaudo Segretario di Ferdinando, perchè ne pigliasse la protezione,
e con validi soccorsi gli riponesse nel possesso del perduto Regno.
Missione per gli Aragonesi di Napoli pur troppo infelice; e se la
necessità, che allora li premeva non gli scusasse, fu questa una
deliberazione pur troppo mal regolata ed imprudente, non solo perchè
s'esposero all'ambizione degli Spagnuoli, che per aver la Sicilia
vicina facilmente potevano invogliarsi alla occupazione del Regno
di Napoli, come l'evento lo dimostrò; ma ancora perchè Ferdinando
il Cattolico figliuolo di Giovanni Re d'Aragona fratello d'Alfonso I
riputava il Regno di Napoli essersi ingiustamente tolto alla Corona
d'Aragona, a cui spettava, e che Alfonso non poteva lasciarlo a
Ferdinando suo figliuol bastardo, ma che in quello vi dovea succedere
Giovanni, siccome succedette nella Sicilia, nell'Aragona e negli altri
Regni posseduti da Alfonso. E le cose succedute appresso dimostrarono,
che agli Aragonesi di Napoli sarebbe stato più facile e maggiore
la speranza di ricuperare il Regno, se fosse rimaso nelle mani de'
Franzesi, che cadendo in potere degli Spagnuoli perder affatto ogni
speranza di riaverlo.

Ferdinando il Cattolico ricevè molto volentieri l'invito ed accettò
l'impresa; onde mandò tosto in Sicilia con sufficiente armata Consalvo
Ernandez di casa d'Aghilar, di patria Cordovese, uomo di molto
valore ed esercitato lungamente nelle guerre di Granata: il quale
nel principio della sua venuta in Italia, cognominato dalla jattanza
spagnuola il _Gran Capitano_ per significare con questo titolo la
suprema podestà sopra loro, meritò per le preclare vittorie ch'ebbe da
poi, che per consentimento universale gli fosse confermato e perpetuato
questo soprannome, per significazione di virtù grande e di grande
eccellenzia nella disciplina militare. Giunto Consalvo in Messina
colle sue truppe, fu con incredibile allegrezza accolto da Alfonso e da
Ferdinando; ed avendo confortato que' Re a star di buon cuore, sbarcò
le sue genti in Calabria, ove riportò sopra i Franzesi rimarchevoli
vantaggi.

Dall'altra parte i Principi d'Italia, ed il Duca istesso di Milano
conchiusero in Vinegia a danni del Re Carlo una ben forte lega,
nella quale oltre i Vinegiani, v'entrarono ancora il Re de' Romani e
Ferdinando Re di Castiglia. Il Papa Alessandro VI vi volle ancor egli
essere incluso, per liberarsi da continui timori, e dalle violenze
che temeva da' Franzesi: era egli entrato in diffidenza di Carlo, e
cominciavano ad alienarsi, e l'alienazione a scoppiare in manifeste
inimicizie; poichè avendo il Re Carlo più volte ricercato il Papa, che
l'investisse del Regno, e gli destinasse un Legato che lo incoronasse,
Alessandro non volle acconsentirvi; onde Carlo sdegnato lo minacciò,
che avrebbe fatto congregare un Concilio per farlo deporre; di che
dubitando il Papa, e temendo la minaccia non fosse posta in effetto a
cagion che teneva nemici molti Cardinali, e fra gli altri il Cardinal
della Rovere, che poi fu Papa Giulio II, fu da dura necessità costretto
mandargli l'investitura ed il Legato per l'incoronazione la quale seguì
a' 20 maggio di questo anno 1495, con grande pompa e celebrità nel
Duomo di Napoli.

Ma pubblicata che fu la lega di questi Principi, i quali per renderla
più plausibile pubblicarono ancora i fini, per li quali essi furon
mossi a firmarla, cioè per difesa della Cristianità contra il
Turco, per difesa della libertà d'Italia, e per la conservazione
degli Stati propri; allora entrò il Re in tanto sospetto che non fu
possibile a' suoi Capitani di quietarlo, ed essendo precorsa voce, che
Francesco Gonzaga Marchese di Mantova, eletto Generale dell'esercito
della lega, lo minacciava, o d'ucciderlo o di prenderlo prigione,
deliberò partir da Napoli, risoluto di ritornarsene in Francia per la
medesima strada, dond'era venuto, benchè la lega s'apparecchiasse di
vietarglielo. Si ritirò per tanto appresso di se le migliori truppe,
e lasciò per guardia del Regno assai debole sostentamento, non più
che cinquecento uomini d'arme franzesi, duemila cinquecento Svizzeri,
ed alcune poche fanterie Franzesi. Vi rimase per Capitan Generale
Monsignor di Monpensieri della Casa di Borbone, in Calabria Eberardo
Stuard Monsignor d'Aubignì di nazione Scozzese, il quale era stato
da lui eletto Gran Contestabile del Regno, ed al quale avea donato
il Contado di Acri, col Marchesato di Squillace. Lasciò Stefano di
Vers, Siniscalco di Beaucheu, Governadore di Gaeta, fatto da lui Duca
di Nola e d'altri Stati e Gran Camerario, per le cui mani passavano
tutti i denari del Regno. Monsignor D. Giuliano di Lorena, creato
Duca della città di S. Angelo, restò alla difesa del proprio Stato. In
Manfredonia vi rimase Gabriello da Montefalcone: in Taranto Giorgio de
Sully: nell'Aquila il Rettor di Vietri; ed in tutto l'Apruzzo Graziano
di Guerra. Lasciò i Principi di Salerno e di Bisignano, che l'aveano
ottimamente servito, molto ben contenti ed in buono e ricco stato.

Partì per tanto il Re, dopo aver ordinato in così fatta guisa la
guardia del Regno, nell'istesso mese di maggio di quest'anno 1495 con
tanta velocità, che pareva esser seguitato da innumerabile esercito,
e giunto a Roma, non trovandovi il Pontefice, il qual per tema, o per
non vederlo, erasi ritirato in Orvieto e poi in Perugia, proseguì
avanti il suo cammino, fin che giunto al fiume Taro, fu incontrato
dall'esercito de' Vineziani, dove seguirono fieri combattimenti, perchè
i Vineziani cercavano impedirgli il passaggio, e Carlo aprirsi il passo
con le armi alle mani. Si pugnò ferocemente, e resta ancor oggi fra'
Scrittori in dubbio, se fossero rimasi più tosto vincitori i Franzesi,
che, malgrado dell'opposizione, finalmente passarono, o i Vineziani,
che saccheggiarono il campo e le bagaglie di Carlo, di che, oltre
l'Argentone, ampiamente scrissero il Guicciardino e Paolo Paruta nei
suoi Discorsi.

La partita di Carlo dal Regno portò tanto cangiamento negli animi
de' Popoli, che si videro mutar tosto le inclinazioni, ed i desiderj
insieme con quella fortuna, che due mesi prima gli era stata cotanto
favorevole. I Napoletani, mentre il Gran Capitano stava guerreggiando
in Calabria co' Franzesi, mandarono sino in Sicilia con grandissima
fretta a chiamar Ferdinando. Questi partì tosto con 60 grossi legni e
20 altri minori, ed ancorchè le sue forze fossero picciole, era però
grande per lui il favore e la volontà de' Popoli; per ciò arrivato
alla spiaggia di Salerno, subito questa città, la Costa d'Amalfi e la
Cava alzarono le sue bandiere. Volteggiò da poi per due giorni sopra
Napoli, e finalmente s'accostò coll'armata al lido per porre in terra
alla Maddalena; ma uscito fuori della città Mompensieri con quasi
tutti i soldati per vietargli lo scendere, i Napoletani, presa tale
opportunità, si levarono subito in arme e cominciarono scopertamente
a chiamare il nome di Ferdinando; ed occupate le porte lo fecero a'
7 luglio di quest'istesso anno 1495 entrare in Napoli, con alcuni
de' suoi a cavallo, e cavalcando per tutta la città con incredibile
allegrezza di ciascuno, fu da tutti ricevuto con grandissime grida;
nè si saziando le donne di coprirlo dalle finestre di fiori e
d'acque odorifere, molte delle più nobili correvano nella strada ad
abbracciarlo e ad asciugargli dal volto il sudore. Seguitarono subito
l'esempio di Napoli, Capua, Aversa e molte altre Terre circostanti, e
Gaeta parimente cominciò a tumultuare. In Puglia la città d'Otranto
sin da che intese la lega, vedutasi senza provvedimento di gente di
guerra, e vicina a Brindisi e Gallipoli, aveva alzate le bandiere
d'Aragona; onde Federico ch'era in Brindisi, la fornì tosto d'ogni cosa
necessaria.

Nel tempo istesso che Ferdinando entrò in Napoli, l'armata vineziana
accostatasi a Monopoli e fattovi sbarco, prese per forza la città, e
poi, per accordo, Pulignano. Taranto fu difesa con valore da Georgio
di Sully, e la conservò sotto l'insegne di Carlo infin che la fame non
lo costrinse a renderla, dove poi egli si morì di peste. Ma Gabriello
di Montefalcone, che avea in guardia Manfredonia, la rese subito per
mancamento di vettovaglie, ancor che avesse egli ritrovata quella
piazza copiosa di tutte le cose. Molte altre città tosto si resero per
mancanza di viveri, e narra l'Argentone, che molti vendettero tutto ciò
che trovarono dentro le Piazze commesse alla loro fede, e perciò eran
costretti di subito renderle. S'aggiungeva ancora che tutte le Terre
e Fortezze del Regno restarono mal fornite di denari, perchè stando
assignati i soldi sopra le rendite delle Province, queste mancando,
tosto vennero quelli a mancare, e la Calabria era stata quasi che tutta
manomessa dal Gran Capitano. Fu fama che Alfonso poco innanzi alla sua
morte, la qual accadde in questo tempo, avendo inteso, che il Regno
erasi restituito sotto l'ubbidienza di Ferdinando suo figliuolo, avesse
fatta istanza al medesimo di ritornare in Napoli, ove l'odio già avuto
contra di lui credeva essersi convertito in benevolenza, e si dice che
Ferdinando, potendo più in lui (com'è costume degli uomini) la cupidità
del regnare, che la riverenza paterna, non meno mordacemente, che
argutamente gli rispondesse, che aspettasse insino a tanto, che da lui
gli fosse consolidato talmente il Regno, ch'egli non avesse un'altra
volta a fuggirsene[212].

Poco adunque restando a Ferdinando a fare per discacciare interamente
qualche reliquia de' Franzesi, ch'erano rimasi in Aversa ed in
Gaeta, egli per maggiormente corroborare le cose sue con più stretta
congiunzione col Re di Spagna, tolse per moglie, con la dispensa del
Pontefice, Giovanna sua zia, nata di Ferdinando suo avo, e di Giovanna
sorella del Re. E proseguendo con non interrotto corso di benigna
fortuna a discacciare i suoi nemici dal Regno, non mancandogli quasi
altro, che Taranto e Gaeta, si vide collocato, in somma gloria, ed in
speranza grande d'avere ad esser puri alla grandezza de' suoi maggiori;
ma ecco, mentre colla novella sposa si diverte a Somma, Terra posta
nelle radici del Monte Vesuvio, che, o per le fatiche passate, o per
disordini nuovi, gravemente infermatosi, vien disperato di salute, e
portato a Napoli, finì fra pochi giorni in ottobre di questo anno 1496
la sua vita, non finito ancora l'anno della morte di Alfonso suo padre,
e fu seppellito nella Chiesa S. Domenico, dove si vede il suo tumulo.

Lasciò per la riportata vittoria, e per la nobiltà dell'animo, e per
molte virtù regie, le quali in lui risplendevano, non solo in tutto
il Regno, ma eziandio per tutta Italia grandissima opinione del suo
valore; ed ancorchè non avesse regnato che un solo anno ed otto mesi,
pure ci lasciò alquante leggi savie e prudenti, le quali si leggono
infra le prammatiche de' Re aragonesi. Morì senza figliuoli nell'età di
28 anni, e però gli succedette D. Federico suo zio, avendo questo Reame
nello spazio di soli tre anni veduti cinque Re; Ferdinando il vecchio,
Alfonso suo figliuolo, Carlo VIII Re di Francia, Ferdinando il giovine,
e Federico suo zio



CAPITOLO III.

_Regno breve di FEDERICO d'Aragona: sue disavventure, e come cedendo a'
Spagnuoli ed a Franzesi fosse stato costretto abbandonarlo, e ritirarsi
in Francia._


Federico Principe cotanto savio e molto caro alle Muse, appena morto
suo nipote, fu in Napoli con allegrezza di ciascuno gridato Re; e
la Regina vecchia sua matrigna, ancor che molti dubitassero, non lo
volesse ritenere per Ferdinando Re di Spagna suo fratello, gli consignò
subito Castel Nuovo; nel quale accidente si dimostrò egregia verso
Federico, non solo la volontà del Popolo di Napoli, ma eziandio de'
Principi di Salerno e di Bisignano e del Conte di Capaccio, i quali
furono i primi in Napoli che chiamarono il suo nome, lo salutarono Re,
contenti molto più di lui che del Re morto, per la mansuetudine del suo
ingegno, e perchè già era nata non picciola sospizione, che Ferdinando
avesse in animo, come prima fossero stabilite meglio le cose sue, di
perseguitare ardentemente tutti coloro che in modo alcuno si fossero
dimostrati fautori de' Franzesi; onde Federico per riconciliarseli
interamente, restituì a tutti liberamente con molta lode le loro
Fortezze; e per dimostrar maggiormente questo suo animo, fece coniare
una sorte di moneta, la quale da una banda avea un libro con una fiamma
di fuoco, col motto: _Recedant vetera_, e dall'altra una Corona, col
motto: _A Domino datum est istud._

(Sebbene questa moneta così descritta, come la rapporta il Diario di
_Silvestro Guarino_ presso il _Pellegrino_, non siasi ancor veduta;
nulladimanco il _Vergara_ nel suo libro delle monete de' Re di Napoli
alla _Tav. XXII, num_. I se non porta la stessa, ne portò una simile,
la quale da una parte ha il libro tra fiamme di fuoco, col motto
intorno: _Recedant vetera_: e dall'altra non già la Corona, il motto
_A. Domino etc_. ma l'immagine di _Federico_ coronato col suo nome e
titolo FEDERICUS DEI GR. SI. HI. ed a ragione riprova l'interpretazione
che le diede _Giovanni Luchio Sylloge Nunismat. Elegant_. il qual
rapportando pure questa moneta, sognò che fosse fatta coniare da
Federico in tempo che non avea un palmo di terra, cioè allora che
scacciato e ramingo, passò in Francia appresso il Re _Ludovico_ XII
per dinotare la lealtà della sua fede; ed essersi dimenticato delle
ingiurie da lui ricevute, quando fatta lega col Re Cattolico, e divise
le sue spoglie, lo discacciarono dal Regno).

Fugli parimente da Alessandro VI sotto li 7 giugno del seguente anno
1497 spedita Bolla d'Investitura per la morte di suo nipote; e per
mostrare la sua contentezza che ne avea, glie la mandò accompagnata
con una sua lettera tutta affettuosa e cordiale. Parimente a' 9
del medesimo mese ne gli spedì un'altra, per la quale l'avvisava
aver destinato il Cardinal Cesare Borgia suo figliuolo e suo Legato
appostolico per coronarlo[213];[214] e poichè in questo tempo Napoli
era travagliata da una mortifera pestilenza, deliberò di far la
cerimonia e pompa della incoronazione nella città di Capua, alla
quale Federico scrisse un'affettuosa lettera, che si legge presso il
Chioccarello, dove le dava avviso dell'investitura mandatagli dal Papa
e dell'incoronazione ch'egli per mano del Cardinal Borgia intendeva
far seguire in quella città. Camillo Pellegrino[215] rapporta una
scrittura cavata dagli atti della Cancellaria regia, ed un passo
del Diario di Silvestro Guarino Aversano, non ancor impresso, che lo
scrisse a que' tempi, dove si descrive la celebrità e pompa fatta di
questa incoronazione. Si fece alli 10 d'agosto nella Chiesa cattedrale
di Capua per mano del Borgia Legato, e v'intervennero l'Arcivescovo
di Cosenza allora Segretario del Papa, con molti Arcivescovi,
Vescovi ed altri Prelati, e gli Ambasciadori di vari Principi. Vi
fu l'Ambasciadore del Re de' Romani, quello del Re di Spagna, di
Vinezia e del Duca di Milano. Vi assisterono Prospero Colonna Duca
di Trajetto, Fabrizio Colonna Duca di Tagliacozzo, Alfonso d'Aragona
de' Piccolomini Duca d'Amalfi, Ferdinando Francesco Guevara Marchese
di Pescara, Trojano Caracciolo Duca di Melfi, Alberigo Caraffa Duca
d'Ariano, Andrea di Altavilla Duca di Termoli, Francesco de Ursinis
Duca di Gravina, Petricono Caracciolo Conte di Polcino, Giovanni
Tommaso Caraffa Conte di Madaloni, Trojano Cavaniglia Conte di
Montella, Bellisario Acquaviva Conte di Nardò, Marcantonio Caracciolo
Conte di Nicastro, Giovanni Caraffa Conte di Policastro, Vito
Pisanello Segretario Regio, Antonio Grifone Regio Camerario, Roberto
Bonifacio Milite, _cum aliis Donnicellis Baronibus, et Militibus,
etc._ Ed il Guarino nel suo Diario rapporta, che sebbene fra questi
Baroni in questo dì dell'incoronazione non vi fu nullo Barone di Casa
Sanseverino, nulladimanco al convito che fece il Re il giorno seguente
al Cardinal Legato ed a tutti i Baroni, vi si trovò il Principe di
Bisignano.

Il Regno di Federico, Principe cotanto savio, sarebbe stato più lungo e
placido, se la morte di Carlo VIII seguita in aprile del seguente anno
1498 non avesse ogni cosa conturbata e poste in su nuove pretensioni:
poichè Carlo tornato in Francia, ancorchè alle volte pensasse al
riacquistare il perduto Regno, ed incessantemente ne fosse stimolato
da' suoi, nulladimeno l'età sua giovanile lo trasportava a' piaceri
e sollazzi, e narra il Signor d'Argentone, che fermato nella città
di Lione si diede tutto a tornei, giostre, e dopo il principio dell
anno 1496, che si portò di là de' monti insino al 98, poco pensiero si
prendeva delle cose d'Italia: nutriva sì bene egli desiderj grandi, ma
bisognava pensare a mezzi, nel che egli non voleva fastidio, nè noia
tale, che lo potessero divertire da' suoi spassi. Mostrò più premura di
rappacificarsi col Re e Regina di Castiglia, i quali gli davano gran
molestia per mare e per terra, e gli mandò Ambasciadori per trattare
fra di loro una lega.

Sin da questo tempo in vita di Carlo si cominciarono i trattati
col Re di Castiglia della divisione del Regno di Napoli a danno de'
Principi d'Aragona, poichè narra il medesimo Argentone[216], essersi
in nome del Re di Castiglia proposto, che dovessero insieme mover
l'arme contra Italia a spese comuni, e che il Re di Spagna, insieme
col Re di Francia, dovessero ambedue in persona porsi alla testa
de' loro eserciti; e che gli Spagnuoli per ogni loro pretensione si
contentavano, del Regno di Napoli aver quella parte ch'è più vicina
alla Sicilia, cioè la Puglia e la Calabria, di cui n'aveano in potere
quattro o cinque Fortezze, delle quali Cotrone n'era una città buona e
forte; ed i Franzesi Napoli e tutto 'l rimanente. Ma eravi sospetto,
che tutti questi trattati non si proponessero per frastornare la
lega, e fossero tutte dissimulazioni del Re di Castiglia, il quale
aspirava a cose maggiori, e non era verisimile, che dovessero venire nè
personalmente alla guerra, nè volesse di pari portare col Re di Francia
il premio e la spesa della guerra. Niente pertanto fu concluso, e
toltone una brieve triegua, le cose rimasero così come erano prima. Ma
l'improvvisa morte di Carlo cagionò nuovi movimenti. Nel fiore de' suoi
anni, essendo in Ambuosa, mentre stava a vedere giuocare alle palle
ne' fossi del castello, il settimo giorno d'aprile di quest'anno 1498
fu sorpreso da un accidente di gocciola, detta da' Fisici apoplesia,
e cadendo all'indietro perdè la parola, ed in poche ore la vita. Non
avendo lasciato figliuoli, il Duca di Orleans, a cui s'apparteneva,
come a più vicino, succedè alla Corona di Francia e fu chiamato Luigi
XII.

Ciascuno riputava, che la morte dovesse liberare Italia d'ogni timore
della Francia, perchè non si credeva, che Luigi nuovo Re avesse nel
principio del suo Regno ad implicarsi in guerre di qua da' monti Ma
non rimasero gli animi degli uomini, consideratori delle cose future,
liberi dal sospetto, che 'l mal differito non diventasse in progresso
di tempo più importante e maggiore; poich'era pervenuto a tanto imperio
un Re maturo d'anni, sperimentato in molte guerre, ordinato nello
spendere e senza comparazione più dependente da se stesso, che non era
stato l'antecessore; ed al quale non solo appartenevano, come a Re di
Francia, le medesime ragioni al Regno di Napoli, ma ancora pretendeva,
che per ragioni proprie se gli appartenesse il Ducato di Milano, per
la successione di Madama Valentina sua avola, della quale ben a lungo
scrissero il Giovio e 'l Guicciardino[217].

Divenuto pertanto Luigi Re di Francia, niun desiderio ebbe più ardente
che d'acquistare, come cosa ereditaria il Ducato di Milano ed il Regno
di Napoli. Però pochi dì dopo la morte del Re Carlo, con deliberazione
stabilita nel suo Consiglio, s'intitolò non solamente Re di Francia, ma
ancora per rispetto del Reame di Napoli, _Re di Gerusalemme, e dell'una
e l'altra Sicilia e Duca di Milano_. E per far noto a ciascuno qual
fosse l'inclinazione sua alle cose d'Italia, scrisse subito lettere
congratulatorie della sua assunzione al Pontefice, a' Vineziani ed a'
Fiorentini: e mandò uomini propri a dare speranza di nuove imprese,
dimostrando espressamente prima d'ogni altro di voler fare l'impresa di
Milano, indi quella di Napoli.

Trovò Luigi maggiori opportunità che non ebbe Carlo: poichè oltre di
alcuni Principi odiosi allo Sforza, che ardentemente desideravano la
sua ruina, il Pontefice Alessandro stimolato dagl'interessi propri,
li quali conosceva non poter saziare stando quieta Italia, desiderava
che le cose di nuovo si turbassero. E disposto di trasferir Cesare
suo figliuolo dal Cardinalato a grandezze secolari, alzò l'animo a
maggiori pensieri, e di stringersi perciò col Re di Francia, sperando
di conseguir per mezzo suo non premj mediocri ed usitati, ma il
Regno di Napoli. Non avea mancato Alessandro nella bassa fortuna de'
Re aragonesi, innanzi che totalmente deliberasse d'unirsi col Re di
Francia, di tentar tutti i modi per aprir la strada al Cardinal Borgia
suo figliuolo al trono di Napoli; egli dimandò al Re Federico la sua
figliuola per moglie del Cardinale, il quale era già apparecchiato
di rinunziare alla prima occasione il Cardinalato, come già poi
fece, e pretese che in dote se gli desse il Principato di Taranto,
persuadendosi, che se 'l figliuolo grande d'ingegno e d'animo,
s'insignorisse d'un membro tanto importante di quel Reame, potesse
facilmente, avendo in matrimonio una figliuola regia, avere occasione
con le forze e con le ragioni della Chiesa, spogliar del Regno il
suocero debole di forze ed esausto di danari.

Federico intanto sentendo l'apparato di tanta guerra minacciata da
Lodovico sopra il suo Regno, si vide posto in gravissime angustie; ma
con tutto ciò, ancorchè grave gli fosse l'alienarsi dal Papa, ricusò
sempre ostinatamente queste nozze; e benchè il Duca di Milano, a cui
parimente dispiaceva la congiunzione del Papa col Re di Francia, avesse
proccurato con ragioni efficaci persuaderlo a consentirvi; nondimeno
Federico ricusò sempre, confessando, che l'alienazione dal Papa era per
mettere in pericolo il suo Reame; ma che conosceva anche che 'l dare la
figliuola col Principato di Taranto al Cardinal di Valenza, lo metteva
parimenti in pericolo; e però de' due pericoli, volere più presto
sottoporsi a quello, nel quale s'incorrerebbe più onorevolmente, e che
non nascesse dà alcuna sua azione.

Intanto il Re di Francia, calato in Italia con felicissimi progressi,
discacciò il Duca di Milano dalla sua sede; fecelo prigione, e
nell'anno del giubileo 1500 fine del decimoquinto secolo s'impadronì
interamente di quel Ducato.

Ma molto più importanti mutazioni si videro per noi nell'entrar del
nuovo secolo; poichè Federico sgomentato della prigionia del Duca di
Milano e della sua ruina, temendo non sopra di lui, Principe senza
appoggio, debole di forze, ed esausto di denaro, cadessero le medesime
sciagure, non sapeva ove volgersi per aiuti. Avea egli sì bene pensato
di ricorrere agli aiuti del Turco, al quale avea con grandissima
istanza dimandato soccorso, dimostrandogli, dalla vittoria del Re
di Francia presente nascere quel medesimo, anzi maggior pericolo di
quello, che avea temuto dalla vittoria del Re passato; ma i ricorsi
riusciron vani e gli aiuti sperati mancarono: del Re di Spagna
era entrato in gravissimi sospetti, poichè gli erano note le sue
pretensioni sopra il Reame ed i suoi ardenti desiderj, che copriva con
pazienza e simulazione spagnuola. Con tutto ciò la dura necessità lo
costrinse a ricorrere agli aiuti di costui, il quale con incredibile
celerità e contento rimandò tosto il Gran Capitano in Sicilia, perchè
eseguisse i suoi disegni. Ma tuttavia temendone, si narra ancora, che
nell'istesso tempo mandasse il Bernaudo al Re di Francia ad offerirgli,
pur che lo lasciasse regnare, di render il Regno a lui tributario, ed
egli far suo uom ligio.

Ma Lodovico avendo voltato tutti i suoi pensieri all'impresa del Regno,
alla quale temeva non se gli opponesse il Re di Spagna, riputò meglio
di rinovare con Ferdinando quelle stesse pratiche cominciate a tempo
del Re Carlo della divisione del Regno. Ferdinando Re di Spagna, come
si è veduto nei precedenti libri, non meno che suo padre Giovanni,
pretendeva il Regno di Napoli a se appartenere, non altrimenti che
il Regno di Sicilia, di cui era in possesso; poichè se bene Alfonso
I Re d'Aragona l'avesse acquistato per ragioni separate dalla Corona
d'Aragona, e però come di cosa propria ne avesse disposto in Ferdinando
suo figliuolo naturale, nondimeno in Giovanni suo fratello, che
gli succedette nel Regno d'Aragona, ed in Ferdinando figliuolo di
Giovanni, era stata insino allora querela tacita, che avendolo Alfonso
conquistato con l'arme e co' danari del Reame d'Aragona, apparteneva
legittimamente a quella Corona. Questa querela avea Ferdinando lungo
tempo tenuta coperta con astuzia e flemma spagnuola, non solo non
pretermettendo con Ferdinando I, e poi con gli altri che succederono
a lui, gli uffici debiti tra parenti, ma eziandio augumentandoli con
vincolo di nuova affinità; poichè a Ferdinando I dette per moglie
Giovanna sua sorella, e consentì poi, che Giovanna figliuola di costei
si maritasse a Ferdinando II, ma con tutto ciò non avea conseguito,
che la cupidità sua non fosse stata molto tempo prima nota a questi
Principi. Concorrendo adunque in Ferdinando, e nel Re di Francia
la medesima inclinazione, l'uno per rimoversi gli ostacoli e le
difficoltà, l'altro per acquistare parte di quello, che lungamente avea
desiderato, poichè a conseguire il tutto non appariva per allora alcuna
occasione, facilmente convennero per la divisione. Il Giovio[218]
aggiunge, che Ferdinando venne ancora a tal partito, perchè ebbe molto
a male, che Federico pensasse di farsi uom ligio e tributario de'
Franzesi a lui cotanto nemici. Fu per tanto infra di lor conchiuso e
pattuito.

Che da amendue si dovesse assaltare in un tempo medesimo il Reame di
Napoli, il quale tra loro si dividesse in questo modo.

Che al Re di Francia toccasse la città di Napoli, la città di Gaeta e
tutte le altre città e terre di tutta la provincia di Terra di Lavoro:
tutto l'Apruzzo e la metà dell'entrate della dogana delle pecore
di Puglia: avesse i titoli regj, in guisa che oltre di nominarsi Re
di Francia e Duca di Milano, si chiamasse ancora _Re di Napoli e di
Gerusalemme_.

Che al Re di Spagna Ferdinando si dasse il Ducato di Calabria e tutta
la Puglia, e l'altra metà delle entrate della dogana, col titolo ancora
di _Duca di Calabria e di Puglia_.

Che ciascuno si conquistasse da se stesso la sua parte, non essendo
l'altro obbligato ad aiutarlo, ma solamente non impedirlo; e sopra
tutto convennero, che questa concordia si tenesse segretissima sin a
tanto che l'esercito, che 'l Re di Francia mandava a quell'impresa,
fosse arrivato a Roma, al qual tempo gli Ambasciadori d'amendue,
allegando essersi fatta per beneficio della cristianità questa
convenzione, e per assaltare gl'Infedeli, unitamente ricercassero
il Pontefice, che concedesse l'investitura secondo la divisione
convenuta, investendo Ferdinando sotto il titolo di _Duca di Puglia e
di Calabria_, ed il Re di Francia sotto titolo non più di Sicilia, ma
di _Re di Gerusalemme e di Napoli_. L'intero trattato di questa pace
e confederazione tra Luigi XII Re di Francia, e Ferdinando ed Isabella
Re di Spagna che porta la data in Granata de' 11 novembre del 1500 si
legge nel primo tomo della raccolta di tutti i trattati delle paci,
tregue ec. fatte da' Re di Francia con altri Principi di _Federico
Lionard_, impresso a Parigi l'anno 1693, ed alcuni capitoli di quello
si leggono parimente presso Camillo Tutini[219] nel trattato degli
Ammiranti del Regno; dove è degno da notare, che questi due Re, oltre
delle loro pretensioni, che dicono avere ciascuno sopra il Reame, e che
a niun altro poteva appartenere se non ad uno di essi, allegano ancora
un'altra cagione, onde furono mossi a tal divisione, ed a discacciare
Federico dal Regno, che fu, perchè era a tutto il Mondo notissimo,
_Regem Fredericum saepe Turcarum Principem christiani nominis hostem
acerrimum, Literis, Nunciis, ac Legatis ad arma contra populum
Christianum capessenda sollicitasse, ac in praesentiarum sollicitare,
qui ad ejus maximam instantiam cum ingenti classe, ac validissimo
terrestri exercitu ad christianorum terras invadendas, vastandasque
jam movisse intelligitur: igitur tam imminenti periculo, ac damno
Christianae Reipublicae obviari volentes etc_.

Così i Principi quando loro veniva in acconcio proccuravano coprire
la loro immoderata sete di dominare col manto della religione, per
coonestare al Mondo, e rendere meno biasimevoli le loro intraprese.
Pure Carlo VIII dipinse l'impresa di Napoli col colore di religione,
protestando che i suoi sforzi erano per conquistar quel Regno, non
ad altro fine che per passare in Macedonia contra al Turco. Nel che
Ferdinando il Cattolico fu eccellentissimo sopra tutti gli altri, il
quale s'ingegnava coprire quasi tutte le sue cupidità sotto colore
d'onesto zelo della religione, per la qual cosa ne acquistò il
soprannome di Cattolico, e n'avrebbe anche dal Papa ottenuto quello di
Cristianissimo, se non si fossero opposti i Cardinali franzesi per non
soffrire il torto che si sarebbe fatto al loro Re[220]. E narra Bacone
di Verulamio nell'istoria dei Regno d'Errico VII Re d'Inghilterra,
che Ferdinando quando ricuperò Granata, da molti secoli posseduta da'
Mori, ne diede con sue lettere avviso a quel Re con tanta affettazione
di zelo di religione, che sino gli scrisse le solennità sagre che si
celebrarono nel dì, ch'egli prese il possesso di quella città.

Fermata che fu da' due Re questa capitolazione, il Re di Francia
cominciò scopertamente a preparare l'esercito, e destinò il
Generale Obignì con mille lance e diecemila fanti all'impresa di
Napoli, il quale già a gran giornate s'incamminava a questa volta.
L'infelice Principe Federico, che per essersi la capitolazione tenuta
segretissima, niente ne sapeva, sentendo questi movimenti de' Franzesi,
sollecitava il G. Capitano (il quale colla sua armata era fermato
in Sicilia sotto simulazione di dargli aiuto) che tosto venisse a
Gaeta; ed intanto niente sapendo, che le armi Spagnuole sotto spezie
d'amicizia fossero preparate contra lui, gli avea messe in mano
alcune terre di Calabria, che Consalvo, sotto colore di volerle per
sicurtà delle sue genti, gli avea dimandate; ma la verità era, che le
richiese per farsi più facile l'acquisto della sua parte. Sperava per
ciò Federico, che congiunto che fosse Consalvo con l'esercito suo, e
coll'aiuto de' Colonnesi, con tutto che gli mancassero gli aiuti del
Turco, di potere in campagna resistere all'esercito franzese, e per
ciò avendo prima mandato Ferdinando suo primogenito ancora fanciullo
a Taranto, più per sicurtà del medesimo, se caso avverso succedesse,
che per difesa di quella città, si fermò egli con l'esercito suo a
S. Germano, ove aspettando gli aiuti degli Spagnuoli, e le genti che
conducevano i Colonnesi, sperava con più felice successo d'aver egli a
difendere l'entrata del Regno, che non avea nella venuta di Carlo fatto
Ferdinando suo nipote. Ciascuno riputava che questa impresa avesse ad
essere principio di grandissime calamità in Italia per la contenzione
acerbissima che vi dovea nascere fra Principi sì potenti; ma si dileguò
ogni timore, subito che l'esercito franzese fu giunto in Terra di Roma,
perchè gli Oratori franzesi e spagnuoli entrati insieme nel Concistoro,
notificarono al Pontefice ed a' Cardinali la lega e la divisione
del Regno fatta tra loro Re, per potere attendere (come dicevano)
all'espedizione contra i nemici della Religion cristiana, e gli
dimandarono per ciò l'investitura secondo il tenor della convenzione
ch'erasi fatta.

Papa Alessandro non men per odio concepito contra Federico per le
niegate nozze, che per la confederazione pattuita col Re di Francia,
senza dilazione alcuna concedè tosto l'investitura, e sotto i 25
giugno di quest'anno 1501 ne spedì Bolla che si legge presso il
Chioccarelli[221], con la quale privando il Re Federico del Regno di
Napoli, e dividendo detto Regno in due parti secondo la convenzione
pattuita, d'una ne investì Lodovico Re di Francia con titolo di Re
di Napoli e di Gerusalemme, e dell'altra Ferdinando il Catolico, ed
Elisabetta sua moglie Re di Spagna, con titolo di Duca e Duchessa di
Calabria e di Puglia; concedendo di vantaggio nel seguente anno ai
detti Re di Spagna, che non fossero tenuti, nè essi nè loro eredi e
successori venire di persona a dar il giuramento al Pontefice romano
per la parte del Regno a lor toccata, ma che lo dassero in mano di
persona che sarebbe destinata dal detto Pontefice[222].

(Vien'anche rapportato questo Breve _d'Alessandro_, spedito in Roma
nel mese di maggio del 1505, dove rimette a _Ferdinando_ ed _Isabella_
il doversi portare personalmente a dargli il giuramento di fedeltà, da
Lunig p. 1335.)

Narra il Guicciardino[223], che non dubitandosi più quale avesse da
essere il fine di questa guerra, non cessavano gli uomini prudenti
di sommamente maravigliarsi, come il Re di Francia avesse voluto
più tosto, che la metà di questo Regno cadesse nelle mani del Re di
Spagna, e introdurre in Italia, (dove prima era egli solo arbitro
delle cose) un Re suo emolo, al quale potessero ricorrere tutti i
nemici mal contenti di lui, e congiunto oltra questo al Re de' Romani
con interessi molto stretti; anzi che comportare, che il Re Federico
restasse padrone del tutto, riconoscendolo da lui, e pagandogliene
tributo, come per vari mezzi avea cercato d'ottenere.

E dall'altra parte non era nel concetto universale meno desiderata
l'integrità e la fede di Ferdinando, che la prudenza di Luigi,
maravigliandosi tutti gli uomini, che per cupidità d'ottenere una
parte del Reame, si fosse congiurato contra ad un Re del suo sangue, e
che per potere più facilmente sorprenderlo, l'avesse sempre pasciuto
di promesse false d'aiutarlo, oscurando lo splendore del titolo di
Re _Cattolico_ pochi anni innanzi conseguito dal Pontefice, e quella
gloria, con la quale era stato esaltato insin al cielo il suo nome,
per avere non meno per zelo della religione, che per proprio interesse,
cacciati i Mori dal Reame di Granata.

Alle quali accuse date all'uno ed all'altro Re, non si rispondeva in
nome del Re di Francia, se non che la possanza franzese era bastante
a dar rimedio, quando fosse il tempo, a tutti i disordini. Ma in nome
di Ferdinando si diceva, che se bene da Federico gli fosse stata data
giusta cagione di moversi contra lui, per sapere, ch'egli molto prima
avea tenute pratiche segrete col Re di Francia in suo pregiudizio;
nondimeno non esser da ciò stato spinto, ma dalla considerazione, che
avendo quel Re deliberato di fare ad ogni modo l'impresa del Reame di
Napoli, si riduceva in necessità, o di difenderlo o d'abbandonarlo:
pigliando la difesa, era principio d'incendio sì grave, che sarebbe
stato molto pernizioso alla Repubblica cristiana, e massimamente
trovandosi l'arme de' Turchi sì potenti contra i Vineziani per
terra e per mare; abbandonandolo, conoscere, che il Regno suo di
Sicilia restava in grave pericolo, e senza questo risultare in danno
suo notabile, che il Re di Francia occupasse il Regno di Napoli
appartenente a se giuridicamente, e che gli poteva anche pervenire con
nuove ragioni, in caso mancasse la linea di Federico; laonde in queste
difficoltà aver eletto la via della divisione, con speranza, che per li
cattivi portamenti de' Franzesi, gli potesse in brieve tempo pervenire
medesimamente la parte loro; il che quando succedesse, secondo che lo
consigliasse il rispetto dell'utilità pubblica, alla quale sempre più
che all'interesse proprio avea riguardato, o lo riterrebbe per se, o
lo restituirebbe a Federico, anzi più presto a' suoi figliuoli, perchè
non negava d'aver quasi in orrore il suo nome, per quello ch'e' sapea
che insino innanzi, che 'l Re di Francia pigliasse il Ducato di Milano,
avea trattato co' Turchi[224].

La nuova di questa concordia spaventò in modo Federico che ancor che
Consalvo, mostrando di disprezzar quello che s'era pubblicato in Roma,
gli promettesse con la medesima efficacia di andare a suo soccorso,
si partì dalle prime deliberazioni, e si ritirò da S. Germano verso
Capua; e Consalvo avendo inteso che l'esercito franzese avea passato
Roma, scoperte le sue commessioni, mandò a Napoli sei galee per levarne
le due Regine vecchie, sorella l'una, e l'altra nipote del suo Re.
Allora Federico deliberato di ridursi alla guardia delle Terre, intesa
la ribellione di S. Germano e degli altri luoghi vicini, determinò di
fare la prima difesa nella città di Capua. A guardia di Napoli lasciò
Prospero Colonna, ed egli col resto della gente si fermò in Aversa.
Ma Obignì non trovando alcuna resistenza ne' luoghi dove passava,
occupò tutte le Terre circostanti alla via di Capua; onde Federico si
ritirò in Napoli, abbandonando Aversa, la quale insieme con Nola, e
molti altri luoghi, si dette a' Franzesi. Capua fu presa per assalto,
ed al 25 luglio di quest'anno 1501 fu saccheggiata da' Franzesi,
nella quale diedero l'ultime pruove della loro crudeltà, avarizia e
libidine. Con la perdita di Capua fu troncata ogni speranza di poter
più difendere cos'alcuna. Si arrese senza dilazione alcuna Gaeta, ed
essendo venuto Obignì con l'esercito ad Aversa, Federico abbandonata la
città di Napoli, la quale s'accordò subito, con condizione di pagare
sessantamila ducati a' vincitori, si ritirò in Castel Nuovo; e pochi
giorni dapoi convenne con Obignì di consegnargli fra sei dì tutte le
Terre e le Fortezze, che si tenevano per lui, della parte, la quale,
secondo la divisione fatta, apparteneva al Re di Francia, ritenendosi
solamente l'Isola d'Ischia per sei mesi: nel quale spazio di tempo gli
fosse lecito d'andare in qualunque luogo gli paresse, eccetto per lo
Regno di Napoli, e di mandare a Taranto cento uomini d'arme, potesse
cavare qualunque cosa di Castel Nuovo, e dal Castel dell'Uovo, eccetto
l'artiglierie che vi rimasero del Re Carlo: fosse data venia a ciascuno
delle cose fatte da poi che Carlo acquistò Napoli, ed i Cardinali
Colonna e d'Aragona godessero l'entrate ecclesiastiche che aveano nel
Regno.

Si videro veramente nella Rocca d'Ischia accumulate con miserabile
spettacolo tutte le infelicità della progenie di Ferdinando il vecchio,
perchè oltre Federico spogliato nuovamente di Regno sì preclaro,
ansioso ancora più della sorte di tanti figliuoli piccoli, e del
primogenito rinchiuso in Taranto che della propria; era nella Rocca
_Beatrice_ sua sorella, la quale, avendo, dopo la morte di Mattia Re
d'Ungheria suo marito, avuta promessa di matrimonio da Uladislao Re di
Boemia col fine d'indurla a dargli aiuto a conseguire quel Regno, era
stata da lui, da poi ch'ebbe ottenuto il desiderio suo, ingratamente
ripudiata e celebrato con dispensa di Alessandro Pontefice un altro
matrimonio: eravi ancora _Isabella_ già Duchessa di Milano, non meno
infelice di tutti gli altri, essendo stata quasi in un tempo medesimo
privata del marito, dello Stato e dell'unico suo figliuolo.

Ma Federico risoluto, per l'odio estremo, che e' portava al Re di
Spagna, di rifuggire più tosto nelle braccia del Re di Francia, mandò
al Re a dimandargli salvocondotto, ed ottenutolo, lasciati tutt'i
suoi nella Rocca d'Ischia, sotto il governo del Marchese del Vasto, se
n'andò con cinque galee sottili in Francia. Consiglio, come saviamente
dice il Guicciardino[225], certamente infelice; perchè se fosse stato
in luogo libero, avrebbe forse nelle guerre che poi nacquero tra i due
Re, avute molte occasioni di ritornare nel suo Reame; ma eleggendo
la vita più quieta, e forse sperando questa essere la via migliore,
accettò dal Re il partito di rimanere in Francia, dandogli il Re la
Ducea d'Angiò, e tanta provvisione che ascendeva l'anno a trentamila
ducati; ond'egli comandò a coloro che avea lasciati al governo d'Ischia
che la dessero al Re di Francia.

Dall'altra parte il Gran Capitano nel tempo medesimo ora passato in
Calabria, dove benchè quasi tutto il paese desiderasse più presto il
dominio dei Franzesi; nondimeno non avendo chi gli difendesse, tutte
le Terre lo riceverono volontariamente, eccetto Manfredonia e Taranto;
ma avuta Manfredonia con la Fortezza per assedio, si ridusse col
campo intorno a Taranto, dove appariva maggior difficoltà; nondimeno
l'ottenne finalmente per accordo, perchè il Conte di Potenza D.
Giovanni di Guevara, sotto alla cui custodia era stato dato dal Padre
il piccolo Duca di Calabria, e Fra Lionardo Napoletano, Cavalier
di Rodi, Governadore di Taranto, non vedendo speranza di poter più
difendersi, convennero di dargli la città e la Rocca, se in tempo
di quattro mesi non fossero soccorsi, ricevuto da lui giuramento
solennemente in su l'Ostia consegrata di lasciar libero il Duca di
Calabria; il quale avea segreto ordine dal padre di andarsene, quando
più non si potesse resistere alla fortuna, a ritrovarlo in Francia.
Ma nè il timor di Dio, nè il rispetto dell'estimazione degli uomini
poterono più che l'interesse di Stato; perchè Consalvo giudicando che
potrebbe importare assai il non essere in podestà del Re di Spagna la
persona del Duca, sprezzato il giuramento, non gli dette facoltà di
partirsi, ma come prima potè lo mandò bene accompagnato in Ispagna,
dove dal Re accolto benignamente, fu tenuto appresso a lui nelle
dimostrazioni estrinseche con onori quasi regj, ma in realtà in una
splendida ed onorata prigione[226].

Ecco, come, discacciato Federico, fu partito il Regno in due parti,
e con nuova politia governato dagli Ufficiali di due Re. In Napoli
il Re di Francia vi teneva per Vicerè Luigi d'Armignac Duca di Nemors
il quale reggeva Terra di Lavoro e l'Apruzzo, e tutta quella parte a
lui spettante. In Calabria e Puglia, province alla Sicilia vicine,
governava il Gran Capitano, come Vicerè e Gran Plenipotenziario di
Ferdinando Re di Spagna.



CAPITOLO IV.

_Origine delle discordie nate tra Spagnuoli e Franzesi, e come
finalmente cacciati i Franzesi, tutto il Regno cadesse sotto la
dominazione di FERDINANDO il Cattolico._


Non così subito, in vigor della convenzione pattuita, si vide diviso
il Regno tra questi due potentissimi Re e due emule Nazioni, che in
questo stesso anno 1501 sursero infra di loro gravi discordie intorno
al prefiggere i termini della accordata divisione. L'origine di queste
contese nacque, perchè nella divisione non furono espressi bene i
confini, ed i termini delle province; in quella non si espresse, se
non generalmente, che al Re di Francia fosse aggiudicata Terra di
Lavoro ed Apruzzi, ed al Re di Spagna la Puglia e la Calabria. Vi erano
alcune Province come Capitanata, Contado di Molise, e Val di Benevento,
Principato e Basilicata, le quali chi pretendeva che dovessero
comprendersi nella sua metà, e chi nell'altra parte a se appartenente.

S'accrebbero le discordie in questo stesso anno 1501 per l'esazione
della dogana del passaggio delle pecore in Puglia, nella provincia di
Capitanata[227]. I Capitani franzesi pretendevano, che questa Provincia
dovesse appartenere ali Apruzzi, fondando questa lor pretensione in una
ragione, secondo che la rapporta il Guicciardino, affatto vana, cioè
di non doversi stare alla moderna divisione fatta da Alfonso, di cui
a bastanza si è discorso ne' precedenti libri, ma doversi nel dividere
aver rispetto all'antica. Allegavano, che Capitanata essendo contigua
all'Apruzzi, e divisa dal resto della Puglia dal fiume dell'Osanto,
già detto Aufido, dovea a loro aggiudicarsi: o che non si comprendesse
sotto alcuna delle quattro Province nominate nella divisione, o che
più tosto fosse parte dell'Apruzzi, che della Puglia. La premura, che
ne mostravano era grandissima, poichè non gli moveva tanto quello, che
in se importasse il paese, quanto perchè non possedendo Capitanata,
essendo privato l'Apruzzi e Terra di Lavoro de' frumenti, che nascono
in Capitanata, potevano ne' tempi sterili esserne facilmente quelle
province ridotte in grandissima estremità, qualunque volta dagli
Spagnuoli fosse proibito loro il trarne dalla Puglia e dalla Sicilia.
Il Guicciardino rapporta ancora, che per altra cagione loro premeva
aver quel paese, perchè non possedendolo, non apparteneva a loro
parte alcuna dell'entrate della dogana delle pecore, membro importante
dell'entrate del Regno. Ma se è vera la carta rapportata da _Federico
Lionard_ e dal _Tutino_ di questa divisione, com'è verissima, si vede
che questa cagione non potè allora muovergli; poichè in quella fu
espressamente convenuto, che queste rendite dovessero per metà fra
di loro dividersi; e l'istesso Guicciardino confessa, che in questo
primo anno per togliere l'altercazioni, erano stati contenti di
partire in parte uguale l'entrate della Dogana, la quale divisione,
com'egli crede, fu in vigor di questa concordia, non già della prima
convenzione; tanto che nel seguente anno, non contenti della medesima
divisione, ne avea ciascuno occupato il più che avea potuto.

Ma in contrario, per parte de' Capitani Spagnuoli, forse con maggior
ragione, s'allegava non poter Capitanata appartenere a' Franzesi,
perchè l'Apruzzi terminando ne' luoghi alti, non si stende nelle
pianure, e perchè nelle differenze de' nomi e confini delle province,
s'attende sempre all'uso recente; s'aggiungeva che sebbene Capitanata
fosse contigua alli Apruzzi, e divisa dal resto della Puglia dal
fiume Ofanto, nulladimanco la Puglia essere stata sempre divisa in tre
parti, cioè in Terra d'Otranto, Terra di Bari e Capitanata; onde dovea
riputarsi questa compresa sotto la Puglia, una delle quattro province
nominate nella convenzione.

S'aggiunsero da poi nuove contenzioni, nutrite insino allora più per
volontà de' Capitani che per consentimento de' Re; poichè gli Spagnuoli
pretendevano che il Principato e Basilicata si comprendesse nella
Calabria; e che il Val di Benevento che tenevano i Franzesi, fosse
parte di Puglia: e però mandarono Ufficiali a tenere la giustizia
nella Tripalda, vicina a due miglia ad Avellino, dove dimoravano gli
Uffiziali de' Franzesi.

Queste dissensioni essendo moleste a' principali Baroni del Regno, per
mezzo delle loro interposizioni proccurarono che si componessero da
Consalvo, e dal Duca di Nemors Vicerè del Re di Francia; ed essendo
venuti per opera loro il Duca a Melfi e Consalvo ad Atella, Terra del
Principe di Melfi, dopo le pratiche di qualche mese, nelle quali anche
i due Capitani parlarono insieme; non trovandosi tra loro forma di
concordia, convennero aspettare la determinazione de' loro Re, e che
in questo mezzo non s'innovasse cosa alcuna. Ma il Vicerè franzese
insuperbito, perchè era molto superiore di forze, avendo pochi dì da
poi fatta altra dichiarazione, protestò la guerra a Consalvo, in caso
non rilasciasse subito Capitanata: e da poi immediatamente fece correre
le genti sue alla Tripalda, dalla quale incursione che fu fatta il
decimo nono dì del mese di giugno di quest'anno 1501 ebbe principio
la guerra, la quale continuamente proseguendo, i Franzesi cominciarono
senza rispetto ad occupar per forza in Capitanata ed altrove le Terre
che si tenevano per gli Spagnuoli: le quali cose non solamente non
furono emendate dal loro Re; ma avendo già notizia che il Re di Spagna
era determinato a non gli cedere Capitanata, voltato con tutto l'animo
alla guerra, mandò loro in soccorso per mare duemila Svizzeri, e fece
condurre agli stipendi suoi i Principi di Salerno e di Bisignano,
ed alcuni altri de' principali Baroni. Venne, oltra questo, il Re a
Lione per potere di luogo più propinquo fare le provvisioni necessarie
all'acquisto di tutto il Reame, al quale, non contento de' luoghi della
differenza, già manifestamente aspirava, con intenzione di passare, se
bisognasse, in Italia.

Portatosi con effetto Re Luigi a Milano, rivolse tutti i suoi pensieri
alle cose di Napoli, le quali pareva che insino allora succedessero
prosperamente, e si sperava per l'avvenire maggiore prosperità, perchè
il Vicerè Duca di Nemors, che avea già, toltone Manfredonia e S.
Angelo, occupata tutta Capitanata, coi nuovi soccorsi avuti dal Re,
avea occupate molte terre di Puglia e di Calabria; ed eccetto Barletta,
Andria, Gallipoli, Taranto, Cosenza, Gerace, Seminara e poche altre
città vicine al mare, tutto era passato sotto le bandiere de' Franzesi:
tanto che il Gran Capitano, trovandosi molto inferiore di gente, si
ridusse coll'esercito in Barletta senza danari, e con poca vettovaglia.

Queste prosperità, mentre che il Re era in Italia, non solo lo fecero
negligente a continuare le debite provisioni, nelle quali continuando
sollecitamente avrebbe facilmente cacciati i nemici da tutto il Regno,
ma come se l'impresa fosse finita lo fecero deliberare di tornarsene
in Francia: onde le cose de' Franzesi dopo la sua partita d'Italia,
non procederono più così prosperamente; poichè essendo passato da
Messina in Calabria D. Ugo di Cardona con 800 fanti spagnuoli; e poco
da poi arrivate di Spagna a Messina nuove truppe guidate da Emmanuele
di Benavida, col qual passò allora in Italia Antonio di Leva, che
salito poi di privato soldato per tutti i gradi militari al Capitanato
Generale, acquistò in Italia molte vittorie; cominciarono gli Spagnuoli
a prender vigore, e venutosi a vari fatti d'armi, ne' quali gli
Spagnuoli rimasero superiori, sempre più andavan riprendendo animo, ed
all'incontro s'andava diminuendo l'ardire de' Franzesi.

Ma assai più si videro costernati e pieni di rossore, quando per
alcune parole ingiuriose vicendevolmente dette da' Franzesi contro
agl'Italiani, e da questi contra quegli, s'accesero gli animi in guisa,
che ciascuno di loro per sostenere l'onore della propria Nazione, si
convennero, che in campo sicuro, a battaglia finita, combattessero
insieme tredici uomini d'arme franzesi e tredici uomini d'arme
italiani. Fu eletto per luogo del combattimento una campagna tra
Barletta, Andria e Quarato. Ciascuno de' Capitani confortava i suoi; ma
come fu dato il segno, combattendo ciascuno con grandissima animosità
ed impeto, finalmente i Franzesi furon vinti, e chi da uno e chi da un
altro degli Italiani furono fatti tutti prigioni; questo abbattimento
de' Franzesi cotanto ben descritto dal Guicciardino[228] e dal
Giovio[229], siccome riempì di coraggio gli Italiani, che militavano
sotto il G. Capitano, così è incredibile quanto animo togliesse
all'esercito franzese e quanto n'accrescesse all'esercito spagnuolo,
facendo presagio da questa isperienza di pochi del fine universale di
tutta la guerra.

Il Re di Francia Luigi vedendo per questi progressi degli Spagnuoli,
che non vi era speranza di liberarsi da questa guerra, se non tentando
con varie pratiche l'animo del Re di Spagna, di ridurlo ad una pace,
non cessava di proccurarla; e mentre che tra l'uno e l'altro Re erano
questi trattati, s'offerse assai opportuna congiuntura di ridurle ad
effetto.

Filippo figliuolo di Massimiliano Imperadore, Arciduca d'Austria,
Principe di Fiandra e più prossimo alla successione de' Regni
di Spagna, per Giovanna sua moglie (unica figliuola, ed erede di
Ferdinando e di Elisabetta) essendo dimorato lungamente in Spagna
tra le carezze de' suoceri, deliberò tornare in Fiandra, e far il
viaggio per terra traversando la Francia: e benchè i suoi suoceri
glielo sconsigliassero, nulladimanco stando sicuro della fede e lealtà
del Re Luigi, volle intraprendere quel cammino: e con tal occasione
venendo sollecitato dal Re di Francia per la pace, proccurò, che i suoi
suoceri gli dassero ampia facoltà e libero mandato di conchiuderla nel
passaggio di Francia con quel Re; ed oltre a ciò, perchè fosse stabile
ciò, ch'egli avrebbe conchiuso, proccurò che fosse accompagnato da due
loro Ambasciadori, senza la participazione de' quali non voleva egli
nè trattare, nè conchiudere cos'alcuna. Partito Filippo di Spagna, ed
entrato in Francia, fu incredibile con quanta magnificenza ed onore
fosse per ordine del Re ricevuto per tutto il Regno di Francia, non
solo per desiderare di farselo propizio nella pratica dell'accordo,
ma per conciliarsi per ogni tempo l'animo di quel Principe giovane,
ed in espettazione di somma potenza, perchè era il più prossimo alla
successione dell'Imperio romano, e de' Reami di Spagna con tutte le
loro dipendenze: furono colla medesima liberalità raccolti, e fatti
molti donativi a quegli ch'erano grandi appresso a lui: alle quali
dimostrazioni corrispose Filippo con magnanimità reale; perchè avendo
il Re, oltre la fede datagli, che e' potesse sicuramente passare
per Francia, mandato per sua sicurtà a far dimorare in Fiandra, sin
ch'egli fosse passato, alcuni de' primi Signori del Reame, Filippo
come fu entrato in Francia, per dimostrare di confidarsi in tutto
della sua fede, ordinò che gli Statichi fossero liberati. Nè a queste
dimostrazioni d'amicizia tanto grandi succederono, per quanto fu in
loro, effetti minori, perchè convenutisi a Bles, dopo la discussione di
qualche giorno, conchiusero la pace con queste condizioni:

Che il Reame di Napoli si possedesse secondo la prima divisione: ma
lasciarsi in deposito a Filippo le province, per la differenza delle
quali s'era venuto alle armi.

Che fin dal presente Carlo figliuolo di Filippo e Claudia figliuola
del Re, tra' quali si stabiliva lo sposalizio altre volte trattato,
s'intitolassero _Re di Napoli e Duchi di Puglia e di Calabria_.

Che la parte che toccava al Re di Spagna, fosse in futuro governata
dall'Arciduca Filippo, quella del Re di Francia, da chi deputasse il
Re, ma tenersi l'una e l'altra sotto nome de' due fanciulli, a' quali,
quando consumavano il matrimonio, il Re consegnasse per dote della
figliuola la sua porzione.

Fu questa pace, secondo il Guicciardino, pubblicata nella chiesa
Maggiore di Bles, e confermata con giuramento del Re e di Filippo, come
Proccuratore de' Re suoi suoceri: ma il trattato di questa pace che
tutto intero si legge nel secondo tomo di _Federico Lionard_ della sua
Raccolta, porta la data di Lione a' 5 aprile del 1502. Pace certamente,
se avesse avuto effetto, di grandissimo momento, perchè si sarebbero
posate le armi tra' Re tanto potenti.

(Gli Articoli concessi in questa Pace si leggono in Lingua franzese
presso _Lunig tom_. 2, pag. 1331 ed hanno la stessa data de' 5 aprile
1502).

Ma avendo subito il Re e Filippo mandato nel Regno di Napoli ad
intimarla ed a commandare a' Capitani che insino a tanto venisse la
ratifica de' Re di Spagna, possedendo come possedevano, s'astenessero
dall'offese, offerse il Capitan Franzese d'ubbidire al suo Re; ma lo
Spagnuolo o perchè più sperasse nella vittoria o perchè l'autorità sola
di Filippo non gli bastasse, rispose, che infino non avesse il medesimo
comandamento da' suoi Re, non poteva omettere di fare la guerra. Così
Consalvo che, vedendo ora i suoi vantaggi, non gli parve trascurar
le opportunità, sperando, prima che venisse la commessione del suo
Re, aver fatto tanto acquisto che non si sarebbe la pace ratificata,
proseguì con maggior fervore che mai a molestare i Franzesi, co'
quali venuto a battaglia, interamente li ruppe e disperse, talchè
abbandonando ogni cosa, si ritirarono tra Gaeta e Trajetto. Ottenuta
Consalvo tanta vittoria, non allentando il favor della fortuna, si
dirizzò coll'esercito a Napoli, ove come cominciò ad accostarsi, i
Franzesi che v'erano dentro si ritirarono in Castel Nuovo. I Napoletani
abbandonati mandarono Ambasciadori ad incontrar Consalvo, ed a
pregarlo che li accettasse in fede: il che egli fece molto volentieri
sottoscrivendo i privilegi dei Re passati, ed il quartodecimo giorno
di maggio di quest'anno 1503 entrò in Napoli, ove fu ricevuto con
gran pompa e giubilo, ed il giorno seguente si fece giurar fedeltà in
nome del Re Ferdinando: e nel medesimo tempo l'istesso fecero Aversa e
Capua.

Pervenute al Re di Francia le novelle di tanto danno in tempo che
più poteva in lui la speranza della pace che i pensieri della guerra,
commosso gravissimamente per la perdita d'un Reame tanto nobile, per
la ruina degli eserciti suoi, ne' quali era tanta nobiltà e tanti
uomini valorosi, per li pericoli, ne' quali rimanevano l'altre cose che
in Italia possedeva; come ancora per riputarsi grandissimo disonore
d'essere vinto da' Re di Spagna, senza dubbio meno potenti di lui; e
sdegnato sommamente d'essere stato ingannato sotto la speranza della
pace, deliberava d'attendere con tutte le forze sue a ricuperare
l'onore ed il Regno perduto, e vendicarsi con l'armi di tanta ingiuria.
Ma innanzi procedesse più oltre si lamentò efficacissimamente con
l'Arciduca, che ancora non era partito da Bles, dimandandogli facesse
quella provvisione ch'era conveniente, se voleva conservare la sua
fede ed il suo onore, il quale essendo senza colpa, ricercava con
grandissima istanza i suoceri del rimedio: dolendosi soprammodo che
queste cose fossero così succedute con tanta sua infamia nel cospetto
di tutto il Mondo.

Ferdinando innanzi alla vittoria avea con varie scuse differito di
mandare la ratifica della pace, allegando, ora non trovarsi tutti due,
egli e la Regina Elisabetta sua moglie in un luogo medesimo, com'era
necessario, avendo a fare congiuntamente l'espedizione; ora l'essere
occupati molto in altri negozi. Eran essi mal soddisfatti della pace,
o perchè il genero avesse trapassate le loro commessioni, o perchè
dopo la partita sua di Spagna avessero conceputa maggiore speranza
dall'evento della guerra; o perchè fosse paruto loro molto strano,
ch'egli avesse convertita in se medesimo la parte loro del Reame,
e senza certezza alcuna, per l'età tanto tenera degli Sposi, che
avesse ad avere effetto il matrimonio del figliuolo, e nondimeno non
negando, anzi sempre dando speranza di ratificare, ma differendo, si
avevano riservato più tempo che potevano a pigliare consiglio secondo
i successi delle cose; ma intesa la vittoria de' suoi, deliberati
di disprezzare la pace fatta, allungavano nondimeno il dichiarare
all'Arciduca la loro intenzione; perchè quanto più tempo ne stasse
ambiguo il Re di Francia, tanto più tardasse a fare nuove provvisioni
per soccorrere Gaeta e l'altre Terre che gli restavano; ma stretti
finalmente dal genero, determinato di non partire altrimente da Bles,
vi mandarono nuovi Ambasciadori, i quali dopo aver trattato qualche
giorno, manifestarono finalmente non essere la intenzione de' loro Re
di ratificare quella pace, la quale non s'era fatta in modo che fosse
per loro, nè onorevole, nè sicura; anzi venuti in controversia con
l'Arciduca, gli dicevano essersi i suoceri maravigliati assai, ch'egli
nelle condizioni della pace avesse trapassata la loro volontà, perchè,
benchè per onor suo il mandato fosse libero ed amplissimo, egli si
aveva a riferire alle istruzioni ch'erano state limitate. Alle quali
cose rispondeva Filippo non essere state meno libere le istruzioni che
'l mandato; anzi avergli nella partita sua efficacemente detto l'uno
e l'altro de' suoceri che desideravano e volevano la pace per mezzo
suo; ed avergli giurato in sul libro dell'Evangelio ed in su l'Immagine
di Cristo Crocifisso che osserverebbono tutto quello che da lui si
concludesse; e nondimeno non avere voluto usare sì ampia e libera
facoltà, se non con partecipazione ed approvazione de' due uomini che
seco aveano mandati.

Proposero gli Oratori con le medesime arti nuove pratiche di concordia,
mostrandosi inchinati a restituire il Regno al Re Federico: ma
conoscendosi essere cose non solo vane ma insidiose, perchè tendevano
ad alienare dal Re di Francia l'animo di Filippo, intento a conseguire
quel Reame per lo figliuolo; il Re proprio in pubblica audienza fece
loro risposta, denegando volere prestare orecchi in modo alcuno a'
nuovi ragionamenti, se prima non ratificavano la pace fatta, e davano
segni che fossero loro dispiaciuti i disordini seguiti; aggiungendo
parergli cosa non solo maravigliosa, ma detestanda ed abbominevole
che quelli Re, che tanto si gloriavano d'avere acquistato il titolo
di _Cattolici_, tenessero sì poco conto dell'onor proprio, della fede
data, del giuramento e della religione: nè avessero rispetto alcuno
all'Arciduca, Principe di tanta grandezza, nobiltà e Virtù, e figliuolo
ed erede loro; con la qual risposta avendo il dì medesimo fattigli
partire dalla Corte, si volse con tutto l'animo alle provvisioni della
guerra, disegnando farle maggiori, e per terra e per mare che già gran
tempo fossero state fatte per alcuno Re di quel Reame.

Deliberò dunque di mandare grandissimo esercito, e potentissima armata
marittima nel Regno di Napoli; e perchè in questo mezzo non si perdesse
Gaeta e le castella di Napoli, mandarvi con prestezza per mare soccorso
di nuove genti e di tutte le cose necessarie; e per impedire che di
Spagna non v'andasse soccorso (il che era stato cagione di tutti i
disordini) assaltare con duo eserciti per terra il Regno di Spagna,
mandandone uno nel Contado di Rossiglione, l'altro verso Fonterabia e
gli altri luoghi circostanti; e con un'armata marittima molestare nel
tempo medesimo la costiera di Catalogna e di Valenza.

Mentre che il Re Luigi con grandissima sollecitudine preparava queste
spedizioni, il Gran Capitano non tralasciava proseguire l'espugnazione
delle Castella di Napoli, e riuscendogli con prospera fortuna ogni
impresa, finalmente fu tutto rivolto all'espugnazione di Gaeta, ed a
discacciare interamente i Franzesi dagli altri luoghi del Regno.

Ma quello che fece a' Franzesi uscir totalmente di speranza di
ristabilirsi, fu la morte accaduta in questi tempi del Pontefice
Alessandro, al quale sebbene fosse succeduto _Pio III_, questi non
avendo tenuto più quella Sede che 20 giorni, fu rifatto in suo luogo
_Giulio II_, il quale, contro l'espettazione di tutti, riuscì il
più fiero nemico che avessero avuto mai i Franzesi, onde le imprese
cominciate con tanta speranza dal Re di Francia, erano ridotte in molta
difficoltà: tanto che Re Luigi mal volentieri inchinava alla guerra
di là de' monti, e datasegli apertura di pace facilmente vi diede
orecchio.

Colui, che vi s'interpose, fu il nostro discacciato Re Federico, il
quale trovandosi in Francia appresso quel Re, lusingato dalle finte
promesse del Re di Spagna, che gli dava intenzione di consentire alla
restituzione sua nel Regno di Napoli, e sperando che avesse parimente a
consentirvi il Re di Francia, appresso al quale, indotta a compassione,
si affaticava molto per lui la Regina di Francia, avea introdotto tra
loro pratiche di pace, per le quali, mentre che ardeva la guerra in
Italia, andarono in Francia Ambasciadori del Re di Spagna, governandosi
con tanto artificio che Federico si persuadeva che la difficoltà della
sua restituzione (contraddetta estremamente da' Baroni della parte
Angioina) consistesse principalmente nel Re di Francia. Ma mentre con
questi artifici si trattava di pace, il Gran Capitano non tralasciava
vieppiù che mai di molestare i Franzesi; ed essendogli riuscito dargli
una memorabil rotta appresso il Garigliano, cotanto ben descritta
dal Giovio e dal Guicciardino, oltre d'essergli stata dai Franzesi
consegnata Gaeta e la Fortezza; il primo giorno del nuovo anno 1504
se n'uscirono finalmente dal Regno, il quale in quest'anno cadde
interamente sotto la dominazione di Ferdinando, e sotto il governo ed
amministrazione del Gran Capitano suo Plenipotenziario.

Non si rallentavano in questo tempo medesimo i trattati di pace tra
il Re di Francia ed i Re di Spagna, i quali simulatamente proponevano
che il Regno si restituisse al Re Federico o al Duca di Calabria suo
figliuolo, a' quali il Re di Francia cedesse le sue ragioni; e che
al Duca si maritasse la Regina vedova nipote di quel Re, ch'era già
stata moglie di Ferdinando il giovane d'Aragona. Nè era dubbio, il
Re di Francia essere alienato tanto con l'animo dalle cose del Regno
di Napoli che per se avrebbe accettata qualunque forma di pace; ma
nel partito proposto lo ritenevano due difficoltà: l'una, benchè
più leggiera, che si vergognava abbandonare i Baroni che per avere
seguitata la parte sua erano privati de' loro Stati, ai quali erano
proposte condizioni dure e difficili; l'altra che più lo movea,
che dubitando, che se i Re di Spagna, avendo altrimenti nell'animo,
proponessero a qualche fine con le solite arti questa restituzione,
temeva che consentendovi, la cosa non avesse effetto, e nondimeno
alienarsi l'animo dell'Arciduca, il quale desiderando di avere il
Regno di Napoli per lo figliuolo, faceva istanza che la pace fatta
altre volte da se andasse innanzi; però rispondeva generalmente,
desiderarsi da se la pace, ma essergli disonorevole cedere le ragioni
che avea in quel Regno ad un Aragonese; e dall'altra parte continuava
le pratiche antiche col Re de' Romani e con l'Arciduca: le quali,
come fu quasi certo dovere avere effetto, per non l'interrompere
con la pratica incerta de' Re di Spagna, licenziò gli Ambasciadori
Spagnuoli, ed a Blois nel mese di settembre del 1504 si conchiuse
la pace con Massimiliano e l'Arciduca, con istabilirsi prima di ogni
altro, che il matrimonio prima trattato di Claudia sua figliuola con
Carlo Duca di Lucemburgo primogenito dell'Arciduca, avesse effetto; ed
intorno al Regno di Napoli fu convenuto, che niuno delli contraenti
potesse trattare co' Re di Spagna, e col Re Federico d'Aragona sopra
questo Regno senza volontà e sapere di tutti, dandosi tre mesi di
tempo ai suddetti Re di Spagna se volessero entrare in questa pace
ed essere in quella compresi; purchè però rimettessero il Regno,
per quanto si apparteneva ad essi, a Carlo Duca di Lucemburgo; e per
quanto si apparteneva al Re di Francia, a Claudia sua figliuola; ma
dovesse amministrarsi dal Re di Castiglia insino che sarà consumato il
matrimonio tra detto Duca e Claudia[230].

In questo stato di cose morì a' 9 di settembre di quest'anno 1504
nella città di Tours il Re Federico, privato di speranza d'avere più
per accordo a ricuperare il Regno di Napoli, benchè prima ingannato
(com'è cosa naturale degli uomini) dal desiderio, si fosse persuaso,
essere più inclinati a questo i Re di Spagna, che il Re di Francia,
non considerando, come assai a proposito ponderò il Guicciardino[231],
essere vano sperare nel secolo nostro sì magnanima restituzione di
un tanto Regno, essendone stati esempj sì rari, eziandio ne' tempi
antichi, disposti molto più che i tempi presenti, agli atti virtuosi
e generosi: nè pensando essere alieno da ogni verisimile che chi
avea usato tante insidie per occupare la metà, volesse ora che l'avea
conseguito tutto, per liberalità privarsene; ma nel maneggio delle cose
s'era finalmente accorto, non essere minore difficoltà nell'uno che
nell'altro: anzi doversi più disperare, che chi possedeva restituisse,
che chi non possedeva consentisse.

Questo fu l'ultimo Re discendente da Alfonso I ultimo ancora degli
Aragonesi di Napoli, e con lui il nostro Regno perdè il pregio d'avere
Re propri e nazionali; perdè ancora la città di Napoli essere sede
regia, e quel pregio, col quale tanti Re suoi predecessori, per averla
eletta per loro residenza, l'avean illustrata ed ornata di tanti
splendori, quanto seco ne porta una Corte regale. Morì nell'età di
cinquanta due anni, avendone regnato meno di cinque. Principe cotanto
saggio e di molte lettere adorno, che a lui, non men che a Ferdinando
suo padre deve Napoli il ristoramento delle discipline e delle buone
lettere. Ci restano ancora di lui alcune savie e prudenti leggi che nel
volume delle nostre prammatiche si leggono.

Non meno infelice fu la sua progenie: egli ancorchè di se e della
Regina Isabella sua legittima moglie lasciasse cinque figliuoli, tre
maschi e due femmine, ebbero tutti infelicissimo fine. Il Duca di
Calabria, Ferdinando suo figliuol primogenito, fu mandato prigione in
Ispagna, dove finchè visse Ferdinando il Cattolico, fu tenuto assai
ristretto, e ben guardato. Gli fu data da Ferdinando per moglie Mencia
di Mendozza sterile, perchè non ne nascesse prole. Innalzato al trono
l'Imperador Carlo V, per aver Ferdinando ricusato d'esser Capitano
della sedizione seguita in Ispagna l'anno 1522, lo richiamò nella
sua Corte, ove lo tenne con grande amore: e gli diede non molto da
poi, essendo morta Mencia, per moglie Germana di Fois figliuola d'una
sorella del Re Lodovico di Francia, quella che nel 1505 fu maritata col
Re Cattolico. Era costei molto ricca, ma sterile; onde per questo si
pensò congiungerla con Ferdinando, acciò che in lui, ultima progenie
de' discendenti d'Alfonso, il vecchio Re d'Aragona, s'estinguesse
quella famiglia, siccome nel 1550, nel qual anno morì Ferdinando,
affatto s'estinse.

Era egli rimaso l'ultimo, perchè due altri figliuoli d'età minore,
erano già prima morti, uno in Francia, l'altro in Italia: imperocchè
Isabella stata moglie di Ferdinando, licenziata da quel Re dal Regno di
Francia, per aver ricusato di mettere questi due figliuoli in potestà
del Re Cattolico, se n'andò a Ferrara, dove l'anno 1533 morì, avendo
veduto prima morire questi due suoi figliuoli. Le due figliuole femmine
nate di questo matrimonio parimente morirono senza lasciar di se prole
alcuna.

Alcuni Scrittori rapportano, che Federico colla prima moglie Anna
di Savoja procreasse una figliuola nominata _Carlotta_ d'Aragona
Principessa di Taranto; ed i Franzesi scrivono che questa fosse stata
maritata in Francia nel 1500 a Guido XVI Conte di Lavalla, essendo poi
morta nel 1505. Nacquero da queste nozze Caterina ed Anna di Lavalla:
la posterità di _Caterina_ restò estinta per la morte senza prole
di Guido XX Conte di Lavalla, morto nel 1605. _Anna_ di Lavalla fu
maritata nel 1521 a Francesco della Tremoglia, da' quali nacque Luigi
Duca della Tremoglia; onde essendo estinta la famiglia de' Lavalli
in Francia, e nelle di lui ragioni succeduta la Casa de' Duchi della
Tremoglia, discendenti da _Luigi_ nipote di Carlotta; si pretende
ancora oggi che le ragioni di Carlotta sopra il Reame di Napoli si
fossero trasferite a' Duchi della Tremoglia; e ne' tempi di Filippo IV
per le note revoluzioni accadute nel regno, avendo il Re di Francia
Luigi XIV, per non perder quell'occasione, voluto anch'egli entrarvi
in parte, per le pretensioni che vi teneva, come discendente di Luigi
XII che fece divolgare per più manifesti; si vide ancora uscir fuori
nel 1648 una scrittura in nome del Duca della Tremoglia di quel tempo,
in lingua franzese, che fu anche tradotta in Italiano, portando in
fronte questo titolo: _Trattato del jus, e de' diritti ereditarj del
Signor Busa della Tremoglia sopra il Regno di Napoli_. Parimente nel
tempo medesimo se ne fece imprimere un'altra latina in Parigi: _De
Regni Neapolitani jure pro Tremollio Duce_. Pretendeva il Duca per le
ragioni di Carlotta appartenere a se il Regno, e ne fece allora tanto
rumore, che nell'Assemblea tenuta in detto anno 1648 nella città di
Munster per la pace generale, il Duca fece presentar nell'Assemblea la
scrittura latina a' Mediatori della pace dall'Abate _Bertault_ in suo
nome, ove fece più proteste e pubblici atti per questa pretensione.
Il libro tradotto in Italiano, con tutti questi atti e protesti, ebbi
io opportunità di leggerli nella Biblioteca de' Brancacci al Seggio di
Nido, ove si conserva.

(Oltre ciò nella pace di Nimega trattata e conchiusa nel 1678 _Carlo
Duca della Tremoglia_ spedì pure _Giovanni Gabriele Sanguiniere_ per
suo Messo al Nunzio appostolico straordinario _Bevilacqua_, residente,
con lettere di 7 luglio del suddetto anno, di dover proteggere in
quell'accordo la sua pretensione, e dal medesimo fece presentare a 16
agosto nel Congresso per man di Notajo una simile protesta, la quale
colle suddette lettere si legge presso _Lunig Tom._ 2. _pag_. 1395. Di
vantaggio, nella pace di Risuich, trattata nel 1697 fece altra simil
Protesta narrata da _Struvio Syntag. Hist. Germ, diss._ 37 § 87 _pag_.
1811, il qual scrive: _Tremouillus Dux contra Hispanorum possessionem
Regni Neapolitani; extant haec scripta in Actis et M. Tom. III. pag._
319)

Per le stesse ragioni il Principe di Condè vanta pure aver pretensione
sopra questo Reame, traendo sua ragione da Carlotta Caterina della
Tremoglia, figliuola di Luigi, che si maritò con Errigo di Borbone
Principe di Condè, della quale non si dimenticò Camillo Tutini nel suo
trattato degli Ammiranti del Regno[232].

Ecco in qual maniera fu il Reame di Napoli trasferito al Re di Spagna
Ferdinando il _Cattolico_, il quale pretendeva, che gli s'appartenesse
per successione del Re Giovanni suo padre, erede d'Alfonso I suo
fratello, e per ciò non volle esser chiamato Ferdinando III, o
che foss'egli obbligato ad osservare i privilegi e promesse fatte
da'predecessori Re Ferdinando I e II, Alfonso II e Federico. Gli
reputò sì bene Re legittimi e non ingiusti usurpatori, intrusi, stante
le investiture, che coloro aveano avute da romani Pontefici e la
legittimazione, che Alfonso I avea fatta a Ferdinando suo figliuol
bastardo, non essendo questa legittimazione stata mai contrastata a'
nostri Aragonesi, e l'Autor del suddetto _Trattato_ fa vedere con più
esempi, che non meno in Napoli, che ne' Regni di Spagna, han succeduto
i bastardi; ancorchè non risponda a quello, di che veniva imputato
Ferdinando, d'esser figliuol supposto e non naturale d'Alfonso.

Per questa cagione trovandosi in questi medesimi tempi Ferdinando
nella città di _Toro_, a' 18 febbraio del nuovo anno 1505 promulgò
una prammatica[233] colla quale chiamandoli legittimi Re, e suoi
predecessori, confermò tutti i loro atti, concessioni e privilegi,
comandando, che i possessori delle città, castelli, Feudi e di
qualunque ragione, o roba, sia burgensatica o feudale, che si
trovassero possedere in vigore delle loro concessioni, non fossero in
quelle turbati, nè inquietati, nè in giudicio, nè fuori, ma in esse
mantenuti e conservati. Solo permise, che contro gli atti, decreti
e concessioni fatte ne' turbolentissimi anni del Regno di Alfonso
II, di Ferdinando II e di Federico, potesse ciascuno richiamarsi;
ma ciò con sua licenza, prescrivendo loro il modo di ricorrere al
suo Vicerè del Regno, il quale intese le querele, col voto e parere
del Viceprotonotario e del Luogotenente del Gran Camerario, presa
informazione, ne facesse a lui relazione, acciò, che secondo stimerà
egli più giusto, potesse darvi la dovuta providenza; ma che intanto
niuno si molestasse nella possessione, nella quale erano in vigor delle
concessioni, che ne aveano da que' Re ottenute.

Parimente con altra sua Prammatica data nella stessa città di _Toro_,
cassò, annullò e revocò tutte le concessioni, privilegi, convenzioni,
atti e qualsivoglia altre scritture, che si fossero fatte dal Re
Federico dopo li 25 di luglio del 1501 in avanti, quando perduta
Capua, essendo per lui disperate le cose del Regno, mandò Ambasciadori
a' Capitani del Re di Francia per capitolare la resa di Napoli e
suoi Castelli con le altre Terre e castelli del Regno: le quali, per
essere state estorte con importunità da diversi in quella disperazione
e rivoluzione di cose, credette di poterla rivocare, valendosi di
quel proverbio, che allegò in quella prammatica: _Quod importunitate
concessimus, consulto revocamus_[234].

Quindi presso i nostri Giureconsulti è nata quella distinzione,
che, sempre che colui, il qual allegava il privilegio di questi Re,
si trovi, che per lungo tempo abbia avuta detto privilegio la sua
esecuzione ed esserne in possesso, debba esserne quello mantenuto,
bastandogli quel titolo, per non essere vizioso, ma procedente da' Re
legittimi e per tali riputati dall'istesso Re Ferdinando il Cattolico.
Quando però si tratti, o che il privilegio, o concessione non abbia
avuto mai il suo effetto, tantochè chi l'allega non mostrasse per se il
possesso; ovvero fosse stato espressamente dal Re Ferdinando, o dagli
altri Re austriaci suoi successori rivocato: in questi casi, perchè
non vogliono essere obbligati ad osservare ciò che quelli promisero o
concederono, perchè al Regno sono succeduti non già come loro eredi,
ma come successori d'Alfonso I per la persona del Re Giovanni, a cui
il Regno s'apparteneva; per ciò resti in loro arbitrio di far ciò,
che ad essi piacerà e parerà, siccome ampiamente ne discorrono i
Reggenti Loffredo, e Moles rapportati dal Reggente Marinis[235], e
dall'Ageta[236] ne' loro volumi.

Ancorchè Ferdinando il Cattolico proccurasse di non alterare la
forma e politia del Regno, ma di lasciarlo nella maniera, che lo
trovò, nulladimanco dovendo essere da ora innanzi governato non da'
Re, propri, che vi dovessero risedere collocando quivi la lor sede
regia, come per lo passato, ma da' loro Ministri, dovea per necessità
introdursi nuova forma di governo; come si scorgerà ne' seguenti
libri di quest'Istoria, dove si vedrà cangiata non meno la civile, che
l'ecclesiastica politia, introdotti nuovi magistrati, nuova nobiltà di
sangue spagnuolo e nuovi istituti e costumi.


  FINE DEL LIBRO VENTESIMONONO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMO


Trasferito il Reame di Napoli al Re di Spagna Ferdinando, e governato
in nome del medesimo dal Gran Capitano, fu, durante il Regno suo,
libero da straniere invasioni: poichè il Re Luigi di Francia alienato
dalle cose del Regno, rivolgeva tutte le sue cure per la conservazion
sola del Ducato di Milano: e la morte della Regina Elisabetta
accaduta a' 26 novembre di quest'istesso anno 1504, ancorchè turbasse
non poco il riposo della Spagna, e sopra ogni altro affliggesse il
Gran Capitano, dalla quale riconosceva ogni grandezza, nulladimanco
quest'istesso cagionò, che nel Regno non vi accadesse mutazione alcuna.

Apparteneva a questa Regina (donna d'onestissimi costumi, ed in
concetto grandissimo ne' Regni suoi di magnanimità e di prudenza)
propriamente il Regno di Castiglia, parte molto maggiore e più
potente della Spagna, pervenutale ereditaria per la morte d'Errigo
suo fratello, ma non senza sangue e senza guerra; perchè se bene era
stato creduto lungamente, ch'Errigo fosse per natura impotente alla
generazione, e che per ciò non potesse essergli sua figliuola la
Beltramigia, partorita dalla moglie, e nutrita molti anni da lui per
figliuola e che per questa cagione Elisabetta, vivente Errigo, fosse
stata riconosciuta per Principessa di Castiglia, titolo di chi è più
prossimo alla successione; nondimeno levandosi in tempo della di lui
morte, in favore della Beltramigia molti Signori della Castiglia,
ed aiutandola con l'arme il Re di Portogallo suo congiunto, venute
finalmente con le parti alla battaglia, fu approvata dal successo della
giornata per più giusta la causa d'Elisabetta, conducendo l'esercito
Ferdinando d'Aragona suo marito, nato ancora esso della Casa de' Re di
Castiglia, e congiunto ad Elisabetta in terzo grado di consanguinità;
ed il quale essendo poi socceduto per la morte di Giovanni suo padre
nel Regno d'Aragona, s'intitolavano Re e Reina di Spagna, perch'essendo
unito al Regno d'Aragona quello di Valenza ed il Contado di Catalogna,
era sotto l'imperio loro tutta la provincia di Spagna, la quale si
contiene tra i monti Pirenei, il mare Oceano e 'l mare Mediterraneo;
e sotto il cui titolo, per essere stata occupata anticamente da
molti Principi Mori, ciascun de' quali della parte occupata essendosi
intitolato Re, viene per ciò a comprendere il titolo di molti Regni;
eccettuato nondimeno il Regno di Granata (che allora posseduto da'
Mori, fu da poi gloriosamente ridotto da loro sotto l'Imperio di
Castiglia) ed il picciol Regno di Portogallo, e quello di Navarra molto
minore, che avevano Re particolari.

Ma essendo il Regno d'Aragona con la Sicilia, la Sardegna e l'altre
isole appartenenti a quello, proprio di Ferdinando, si reggeva da
lui solo, non vi si mescolando il nome o l'autorità della Regina.
Altrimenti si procedeva in Castiglia, perch'essendo quel Regno
ereditario d'Elisabetta e dotale di Ferdinando, si amministrava
col nome, con le dimostrazioni e con gli effetti comunemente, non
eseguendosi cos'alcuna, se non deliberata o ordinata, e sottoscritta
da amendue. Comune era il titolo di Re di Spagna: comunemente gli
Ambasciadori si spedivano: comunemente gli eserciti s'ordinavano,
le guerre comunemente s'amministravano, nè l'uno più che l'altro si
arrogava della autorità e del governo di quel Reame.

Ora per la morte di Elisabetta senza figliuoli maschi, apparteneva la
successione di Castiglia per le leggi di quel Regno (che attendendo
più alla prossimità che al sesso, non escludono le femmine) a Giovanna
figliuola comune di Ferdinando e di lei, moglie dell'Arciduca Filippo,
perchè la figliuola maggiore di tutte ch'era stata congiunta ad
Emanuello Re di Portogallo, ed un piccolo fanciullo nato di quella,
erano molto prima passati all'altra vita; onde Ferdinando, non
aspettando più a lui, finito il matrimonio l'amministrazione del Regno
dotale, avea da ritornare al piccolo Regno suo d'Aragona: piccolo
a comparazione del Regno di Castiglia per la strettezza del paese e
dell'entrate, perchè i Re aragonesi non avendo assoluta l'autorità
regia in tutte le cose, sono in molte sottoposti alle costituzioni
ed alle consuetudini di quelle province, molto limitate contra
la potestà de' Re. Ma Elisabetta quando fu vicina alla morte, nel
testamento dispose che Ferdinando, mentre vivea, fosse Governadore di
Castiglia: mossa, o perchè essendo sempre vivuta congiuntissima con
lui, desiderava si conservasse nella pristina grandezza, o perchè,
secondo diceva, conosceva essere più utile a suoi popoli il continuare
sotto il governo prudente di Ferdinando, non meno che al genero
ed alla figliuola; a' quali, poichè alla fine aveano similmente da
succedere a Ferdinando, sarebbe beneficio non piccolo, che insino a
tanto che Filippo nato e nutrito in Fiandra (ove le cose si governavano
diversamente) pervenisse a più matura età ed a maggior cognizione
delle leggi, delle consuetudini, delle nature e de' costumi di Spagna,
fossero conservati loro sotto pacifico ed ordinato governo tutti
i Regni, mantenendosi in questo mezzo come un corpo medesimo, la
Castiglia e l'Aragona.

Rimosse adunque la morte di questa Regina tutte le difficoltà che
prima aveano impedita la pace tra 'l Re di Francia e Ferdinando; ma
partorì nuovi accidenti tra Ferdinando e Filippo suo genero. Rimosse
il rispetto dell'onore del Re di Francia, e 'l timore di non alienare
da se l'animo dell'Arciduca; perchè il Re di Francia, essendogli
molestissima la troppa grandezza sua, era desideroso d'interrompergli
i suoi disegni; ed il Re di Spagna, avendo notizia che l'Arciduca,
disprezzando il testamento della suocera, aveva in animo di rimuoverlo
dal Regno di Castiglia, era necessitato a fondarsi con nuove
congiunzioni; però si contrasse matrimonio tra lui e Madama Germana di
Fois, figliuola d'una sorella del Re di Francia, con condizione, che
il Re gli desse in dote la parte che gli toccava del Reame di Napoli,
obbligandosi il Re di Spagna a pagargli in diece anni 700 mila ducati
per ristoro delle spese fatte, ed a dotare in 300 mila ducati la nuova
moglie[237]: col qual matrimonio essendo accompagnata la pace, fu
quella conchiusa in Bles a' 13 del mese d'ottobre di quest'anno 1505 in
cotal maniera[238].

Che i Baroni angioini e tutti quelli ch'avevano seguitata la parte
franzese, fossero restituiti senza pagamento alcuno alla libertà, alla
patria ed a' loro Stati, dignità e beni, nel grado medesimo che si
trovavano essere nel dì, che tra Franzesi e Spagnuoli fu dato principio
alla guerra, che si dichiarò essere stato il dì, che i Franzesi corsero
alla Tribalda[239].

Che s'intendessero annullate tutte le confiscazioni fatte dal Re di
Spagna e dal Re Federico.

Che fossero liberati il Principe di Rossano, il Marchese di Bitonto,
Alfonso ed Onorato Sanseverini, Fabrizio Gesualdo e tutti gli altri
Baroni ch'erano prigioni degli Spagnuoli nel Regno di Napoli.

Che il Re di Francia deponesse il titolo del _Regno di Gerusalemme e di
Napoli_.

(Questo articolo dimostra, quanto fosse stravagante la nuova
interpretazione, che il P. _Arduino_ sognò sul motto PERDAM BABILONIS
NOMEN, che il Re _Ludovico XII_ fece imprimere nelle sue monete, per
rintuzzare l'alterigia di Papa _Giulio II_, nelle quali, oltre il
titolo di Re di Francia, si legge anche _Regnique Neap. Rex_, sul falso
supposto, che _post annum certe 1503 nunquam inscripsit se Ludovicus
XII Regem Neapoleos_, come sono le sue parole in Oper. select. _pag_.
905, e per conseguenza che non poteva intendere delle brighe avute
con _Giulio II_, le quali non cominciarono, se non all'anno 1509.
_Lodovico_ anche dopo perduto il possesso di Napoli nel 1503, e dopo
questa pace del 1505 (che il primo a violarla fu _Ferdinando_ stesso)
insino all'ultima pace fatta col medesimo Re pure a Blois nel primo
di decembre dell'anno 1513 non abbandonò mai questo titolo, dopo
quest'ultima pace che si legge nel _Tom._ 2 della Raccolta de' trattati
stampata in Amsterdam sotto il titolo: _Recueil des Traités de Paix,_
pag. 35, nella quale _Lodovico_ tornò assolutamente a rinunciare il
titolo e le ragioni sopra il Regno di Napoli. Non si legge che nel
restante di sua vita avesse continuato di porlo fra gli altri suoi
titoli. Leggasi sopra questa moneta la dissertazione, ultimamente
impressa nel _Tomo VII_ dell'ultima edizione di Londra dell'_Istorie
di Tuano_ con tanta accuratezza e magnificenza data fuori da _Samuel
Buckley_. L'autor della quale è lo stesso, che lo Scrittore di questa
istoria; e perciò si vede ora inscritta nel _V Tomo_ di questa nuova
edizione in idioma italiano, siccome l'Autore la distese tradotta poi
in latino e mandata a Mr _Buckley_).

Che gli omaggi e le recognizioni de' Baroni si facessero
respettivamente alle convenzioni sopraddette, e nell'istesso modo si
cercasse l'investitura dal Pontefice.

Che morendo la Regina Germana in matrimonio senza figliuoli, la parte
sua dotale s'intendesse acquistata a Ferdinando, ma sopravvivendo a lui
ritornasse alla corona di Francia.

Che fosse obbligato il Re Ferdinando ad aiutare Gastone Conte di Fois
fratello della nuova moglie, al conquisto del Regno di Navarra che
pretendeva appartenersegli, posseduto con titolo regio da Catterina di
Fois e da Giovanni figliuolo d'Albret suo marito.

Che il Re di Francia costringesse la moglie vedova del Re Federico ad
andare con i due figliuoli che erano appresso a se in Ispagna, dove
le sarebbe assegnato onesto modo di vivere; e non volendo andare la
licenziasse dal Regno di Francia, non dando più nè a lei nè a figliuoli
provvisione, o intrattenimento alcuno.

Che all'una parte ed all'altra fosse proibito di fare contra ciò, che
i nominati da ciascuno di loro stabilissero: i quali nominarono amendue
in Italia il Pontefice ed il Re di Francia nominò anche i Fiorentini.

Per ultimo, che in corroborazione della pace, tra i due Re s'intendesse
essere perpetua confederazione a difesa degli Stati, essendo tenuti a
soccorrersi vicendevolmente, il Re di Francia con mille lancie e con
seimila fanti, e Ferdinando con trecento lancie, duemila giannettarj e
seimila fanti.

Conchiusa in cotal maniera questa pace, della quale il Re d'Inghilterra
promise per l'una parte e per l'altra l'osservanza, i Baroni angioini
ch'erano in Francia, licenziatisi dal Re andarono quasi tutti con
la Regina Germana in Ispagna: ed Isabella stata moglie di Federico,
licenziata dal Regno dal Re di Francia, perchè ricusò di mettere i
figliuoli in potestà del Re Cattolico, se n'andò a Ferrara.

Questa pace, che fu ratificata dal Re Cattolico in Segovia a' 16
ottobre del medesimo anno 1505 ancorchè avesse lasciata speranza,
ch'estinte già le guerre nate per cagione del Regno di Napoli, la
quiete d'Italia avesse a continuare; nondimeno apparivano dall'altra
parte semi non piccioli di futuri incendj, perchè Filippo, che già
s'intitolava _Re di Castiglia_ non contento, che quel Regno fosse
governato dal suocero, si preparava a passare contra la volontà sua in
Ispagna. Veniva incitato a ciò da' più principali Signori di Castiglia,
i quali stimavano con maggior licenza di poter godere della loro
grandezza sotto un fioritissimo Re giovane, che sotto un austero, e
com'essi dicevano, poco liberal vecchio Catalano[240]. Pretendeva ancor
Filippo, non essere in potestà della Regina morta prescrivere leggi al
governo del Regno finita la sua vita; ed il Re de' Romani preso animo
dalla grandezza del figliuolo, trattava di passare in Italia.

Ferdinando veduta la resoluzione di Filippo di passar in Ispagna,
nè potendola impedire, pensò (simulando essergli grata) di promover
trattati con lui del modo, come doveano convenirsi insieme a governar
la Castiglia; e dall'altra parte Filippo, temendo pure che 'l
suocero non gli facesse con gli aiuti del Re di Francia resistenza,
governandosi con le medesime arti spagnuole accettò la mediazione, e
mostrò che si sarebbe nella maggior parte delle cose rapportato al suo
governo; onde fra di loro fu convenuto che avessero comune il titolo
di Re di Spagna com'era stato comune tra lui e la Regina morta, e che
l'entrate si dividessero in certo modo: il perchè Ferdinando, ancorchè
non bene sicuro dell'osservanza, gli mandò in Fiandra per levarlo molte
navi. Partì per tanto Filippo da Fiandra a' 10 gennajo del nuovo anno
1506, ed imbarcatosi con la moglie e con _Ferdinando_ suo secondogenito
prese con venti prosperi il cammino di Spagna, dove appena giunto
concorsero a lui quasi tutti i Signori di Castiglia; e Ferdinando non
potendo resistergli, rimanendo abbandonato quasi da tutti, nè avendo
se non con molto tedio e difficoltà potuto vedere il genero, bisognò,
disprezzato il primo accordo fatto tra loro, che accettasse le leggi e
le condizioni, che con altro nuovo gli furon date.

Fu pertanto nuovamente convenuto, che Ferdinando cedendo
all'amministrazione lasciatagli per testamento dalla moglie, ed a tutto
quello che per ciò potesse pretendere, si partisse incontanente di
Castiglia, promettendo di più non vi tornare.

Che Ferdinando avesse per proprio il Regno di Napoli: sopra di che
vi fu grande altercazione: poichè se bene Ferdinando pretendesse
sopra di ciò non potervi essere alcun dubbio, essendo quel Regno suo
proprio, e come Re d'Aragona a lui dovuto, e poi acquistato e con le
arme e colle forze d'Aragona; nulladimanco non mancò chi mettesse
in considerazione, che più giustamente questo reame s'appartenesse
a Filippo, per essere stato ultimamente acquistato con le armi e con
la potenza del Regno di Castiglia, poichè le spedizioni furono fatte
da Ferdinando ed Elisabetta comunemente, e come Re di Spagna, ed il
titolo e le investiture fur comuni non meno all'uno che all'altro, e
non particolari a Ferdinando come Re d'Aragona. Comunque si fosse, per
facilitare la partita di Ferdinando non pur da Castiglia, ma anche da
tutta la Spagna, gli fu accordato, che il Regno di Napoli l'avesse come
proprio.

Che i proventi dell'isole dell'India rimanessero riservati a Ferdinando
durante la sua vita.

Che i tre Maestralghi di S. Jacopo, Alcantara e Calatrava fossero
parimente a lui riservati.

E che dall'entrate del Regno di Castiglia avesse ciascun anno
venticinquemila ducati.

Firmata questa capitolazione, Ferdinando, che qui innanzi chiameremo
o Re _Cattolico_ o Re d'_Aragona_, se ne andò subito in Aragona, con
intenzione d'andare quanto più prestamente potesse per mare a Napoli.



CAPITOLO I.

_Venuta del Re Cattolico in Napoli, e suo ritorno in Ispagna per la
morte accaduta del Re FILIPPO. Come lasciasse il Regno sotto il governo
de' Vicerè suoi Luogotenenti: sua morte, e pomposi funerali fattigli in
Napoli._


Il Re Cattolico ritirato da Castiglia ne' suoi propri Stati d'Aragona,
deliberò di passar tosto a Napoli, non tanto per desiderio di vedere
questo Regno, siccome i Napoletani ne l'aveano richiesto, ed egli loro
promessolo[241], e di riordinarlo, come apparentemente mostrava, ma per
cagioni assai più gravi e serie. Mostrava per tanto egli in apparenza
di venire per desiderio di vederlo e di riordinarlo con migliori
leggi ed istituti, e restituirlo nell'antico splendore e dignità.
E dall'altra parte il desiderio e l'espettazione de' Napoletani era
molto maggiore, persuadendosi ciascuno, che per mano d'un Re glorioso
per tante vittorie avute contra gl'Infedeli e contra i Cristiani,
venerabile per opinione di prudenza, risonando chiarissima la fama
d'avere con singolar giustizia e tranquillità governato i suoi Reami;
dovesse il Regno di Napoli ristorarsi di tanti affanni ed oppressioni,
che dalla morte di Ferdinando I per lo spazio poco men di diece anni
avea sofferti, e vedutosi ardere per continue guerre e tutto sconvolto
per le mutazioni di sette Re, che in sì breve spazio di tempo vi
dominarono; dovesse ora per la prudenza d'un tanto Re ridursi in
istato quieto e felice; e sopra tutto reintegrarsi de' Porti, dei
quali nell'Adriatico i Veneziani per le precedute guerre, soccorrendo
i Re d'Aragona di Napoli di denari, si erano impadroniti, e tenevano a
titolo di pegno, con dispiacere non piccolo di tutto il Reame.

Ma cagioni assai più gravi mossero il Re Cattolico ad intraprendere
questo viaggio. Era egli entrato in sospetti gravissimi del Gran
Capitano, del quale, dopo la morte della Regina Elisabetta, temeva che
non pensasse in se medesimo trasferire il Regno di Napoli; ovvero fosse
più inclinato a darlo al Re Filippo che a lui: di che maggiormente
s'era insospettito, perocchè non ostante che, fatto l'accordo, il
Re Filippo gli facesse intendere che avea totalmente ad ubbidire al
Re d'Aragona, il quale l'avea richiamato in Ispagna; egli tuttavia
con varie scuse ed impedimenti differiva l'andata; perciò Ferdinando
dubitando, non andandovi in persona, d'avere difficoltà di levargli il
governo, deliberò venire; ed imbarcatosi a Barcellona a' 4 settembre di
quest'anno 1506 con 50 vele, navigò verso Italia.

Il Gran Capitano avvisato della deliberazione del Re Cattolico, mandò
subito, prima che il medesimo partisse da Barcellona, un suo uomo
a prestargli ubbidienza, e ad offerirsi pronto a riceverlo. Il Re
nascondendo ciò che di lui avea pensato di fare, l'accolse lietamente,
e confermò a lui non solo il Ducato di S. Angelo, il quale gli aveva
già donato il Re Federico; ma ancora Terranova, e tutti gli altri
Stati, che possedeva così in Calabria, come in tutto il Regno, che in
que' tempi portavan d'entrata più di ventimila ducati. Gli confermò
l'Ufficio di Gran Contestabile del medesimo Regno, e gli promise
per cedola di sua mano il Maestralgo di S. Jacopo; perciò Ferdinando
imbarcatosi con maggior speranza, ed onoratamente ricevuto per ordine
del Re di Francia insieme con la moglie in tutti i Porti di Provenza,
fu col medesimo onore ricevuto nel Porto di Genova. Il Gran Capitano
andò ad incontrarlo, ciò che diede a tutti ammirazione, perchè non solo
negli uomini volgari, ma eziandio nel Pontefice, era stata opinione,
ch'egli consapevole della inobbedienza passata, e de' sospetti, i quali
il Re forse non vanamente avea avuti di lui, fuggendo per timore il suo
cospetto, passerebbe in Ispagna.

Partito da Genova, non volendo con le galee sottili discostarsi
da terra, stette più giorni, per non avere i venti prosperi, in
Portofino; dove, mentre dimorava, gli sopraggiunse avviso, che il
Re Filippo suo genero giovane di 25 anni, e di corpo robustissimo e
sanissimo, nel fiore della sua età e costituito in tanta felicità,
per febbre duratagli pochi dì, era in Burgos passato all'altra vita
a' 25 settembre, lasciando di se e di Giovanna sua moglie, Carlo e
Ferdinando, che furon poi Imperadori, e quattro figliuole femmine.

Ciascuno credette, che per desiderio di ripigliare il governo di
Castiglia, Ferdinando volgesse subito le prue a Barcellona; ma
continuando egli il cammino, giunto nel porto di Gaeta nel dì di
San Luca, nel giorno seguente entrò in Napoli, dove fu ricevuto dai
Napoletani con grandissima magnificenza ed onore. Concorsero a Napoli
prontamente Ambasciadori di tutta Italia, non solo per congratularsi,
ed onorare un tanto Principe, ma eziandio per varie pratiche e cagioni,
persuadendosi ciascuno, che con l'autorità e grandezza sua avesse
a dar forma, e ad essere il contrappeso di molte cose. Ma giunto
Ferdinando a Napoli, perchè avea determinato di passar in Ispagna,
e di trattenervisi poco tempo, non potè soddisfare all'espettazione
grandissima, che s'era avuta di lui.

Era egli stimolato per varie cagioni di ritornar presto in Ispagna,
intento tutto a riassumere il governo di Castiglia, perch'essendo
inabile Giovanna sua figliuola a tanta amministrazione, non tanto per
l'imbecillità del sesso, quanto perchè per umori malinconici, che se
le scopersero nella morte del marito, era alienata dall'intelletto,
i figliuoli comuni del Re Filippo e di lei erano ancora inabili per
l'età, de' quali il primogenito Carlo non avea più che sette anni. Lo
movea, oltra questo, l'essere desiderato e chiamato a quel governo da
molti per la memoria d'essere stati retti giustamente, e fioriti per
la lunga pace quelli Regni sotto lui; ed accrescevano questo desiderio
le dissensioni già cominciate tra i Signori grandi, e l'apparire da
molte parti segni manifestissimi di future turbazioni; ma non meno era
desiderato dalla figliuola Giovanna, la quale, non essendo nell'altre
cose in potestà di se medesima, stette sempre costante in desiderare
il ritorno del padre, negando contra le suggestioni ed importunità
di molti, ostinatamente di non sottoscrivere di mano propria in
espedizione alcuna il suo nome, senza la quale soscrizione non avevano,
secondo la consuetudine di que' Regni, i negozi occorrenti la sua
perfezione.

Per queste cagioni non potè più trattenersi in Napoli, che sette mesi,
ne' quali, ancorchè avesse dato in parte qualche riordinamento al Regno
con introdurvi nuova politia; la quale dopo la sua partita, dai Vicerè
che vi lasciò, e dagli altri Re suoi successori fu perfezionata, e
poi ridotta nello stato nel quale oggi ancora dura; nulladimanco, e
la brevità del tempo, e perchè difficilmente si può corrispondere a'
concetti degli uomini, il più delle volte non considerati con la debita
maturità, nè misurati con le debite proporzioni, non soddisfece a quel
concetto grandissimo che s'era di lui formato.

Coloro, che credettero colla sua venuta in Napoli doversi apportare
comodo universale all'Italia, rimasero delusi, perchè alle cose
d'Italia non lo lasciò pensare il desiderio di ritornare presto nel
governo di Castiglia, fondamento principale della grandezza sua; per
lo quale era necessitato fare ogni opera per conservarsi amici il Re
de' Romani, e 'l Re di Francia, acciocchè l'uno con l'autorità d'essere
avolo de' piccioli figliuoli del Re morto, l'altro con la potenza
vicina, e col dare animo ad opporsegli a chi avea l'animo alieno da
lui, non gli mettessero disturbi a ritornarvi.

Intorno al gratificare il Regno, ancorchè, come scrisse il
Guicciardino[242], non vi portasse alcuna utilità, nè vi facesse alcun
beneficio, ciò nacque per la difficoltà, che seco portava 'l trovarsi
egli obbligato per la pace fatta col Re di Francia, a restituire
gli Stati tolti a' Baroni angioini, che o per convenzione, o per
remunerazione erano stati distribuiti in coloro, ch'aveano seguitata
la parte sua: e costoro, non volendo egli alienarsi i suoi medesimi,
era necessitato ricompensare, o con Stati equivalenti, che si aveano a
comprare da altri, o con danari: alla qual cosa essendo impotentissime
le sue facoltà, era costretto non solo a far vivi in qualunque modo i
proventi Regj, ed a dinegar di fare, secondo il costume de' nuovi Re,
grazia o esenzione alcuna, o esercitare spezie alcuna di liberalità,
ma eziandio, con querela incredibile di tutti, ad aggravare i Popoli,
i quali aveano aspettato sollevazione e ristoro di tanti mali. Ed
ancorchè a' 29 gennajo del nuovo anno 1507, ad istanza degli Eletti
della città di Napoli, avesse conceduto indulto generale (che si
legge fra le nostre prammatiche) agli uomini della città di Napoli,
e di tutte le altre città e Terre demaniali di questo Regno, per li
delitti commessi per tutto il mese d'ottobre passato, da che egli
entrò a Napoli; ed a' 30 del medesimo mese, essendosi convocato general
Parlamento, avesse egli confermati i privilegj, e conceduto alla città
47 capitoli, non derogando agli altri privilegj conceduti da' Re suoi
predecessori; nulladimanco gli fu per ciò fatto un donativo di ducati
trecentomila.

I Baroni, non meno Angioini che del suo partito, non cessavano
parimente di querelarsi, perchè a quegli che possedevano, oltra che
mal volontieri rilasciavano, gli Stati, furono per necessità scarse
e limitate le compensazioni, ed a quegli altri si ristringeva quanto
si poteva in tutte le cose, nelle quali accadeva controversia, il
beneficio della restituzione; perchè quanto meno a lor si restituiva,
tanto meno agli altri si ricompensava.

Solo alla Piazza del Popolo di Napoli fu Ferdinando liberalissimo,
avendo a loro domande concedute molte grazie; secondo il privilegio,
che intiero vien rapportato da Camillo Tutini[243] nel suo libro della
Fondazione de' Seggi, che porta la data nel Castel Nuovo de' 18 maggio
di quest'anno 1507, le quali poi nel 1517 furono confermate dalla
Regina Giovanna, e dall'Imperador Carlo V suo figliuolo.

Partì finalmente il Re Cattolico da Napoli a' 4 giugno di quest'anno
1507, e con lui il Gran Capitano, drizzando la navigazione a Savona,
ove era convenuto abboccarsi col Re di Francia. Partì con poca
soddisfazione tra 'l Pontefice e lui, perchè avendogli dimandata
l'investitura del Regno, il Pontefice negava di concederla, se non
col censo, col quale era stata conceduta agli antichi Re. Ferdinando
faceva istanza, che gli fosse fatta la medesima diminuzione, ch'era
stata fatta al Re Ferdinando I suo cugino, a' figliuoli, ed a' nipoti:
dimandava l'investitura di tutto il Regno in nome suo proprio,
come successore d'Alfonso il vecchio, nel qual modo avea ricevuto
in Napoli l'omaggio ed i giuramenti, con tutto che ne' capitoli
della pace fatta col Re di Francia, si disponesse, che in quanto a
Terra di Lavoro e l'Apruzzi si riconoscesse insieme il nome della
Regina Germana sua moglie. Si credette, che l'aver il Papa negato di
concedere l'investitura, fosse cagione, che 'l Re ricusasse di venire
a parlamento con lui, mentre il Papa, essendo stato nel tempo medesimo
più dì nella Rocca d'Ostia, si diceva esservi stato per aspettare la
passata sua. Ma in appresso, nel 1510, gli concedè ciò che volle, e gli
donò li censi, che dovea; siccome da poi nel 1513 fece anche Lione X,
confermandogli tutti i privilegi, concessioni, remissioni ed immunità
fattegli da' Pontefici Romani suoi predecessori[244].

Ferdinando passato a Savona, e trovato il Re di Francia, con molti
segni di stima e di confidenza fra di loro, per tre giorni si trattenne
quivi; nel qual tempo ebbero segretissimi e lunghissimi ragionamenti;
ed il Gran Capitano fu con eccessive lodi, e con incredibile stima ed
ammirazione di tutti onorato sopra la fortuna degli altri uomini dal
Re di Francia, il quale aveva voluto, che alla mensa medesima, nella
quale cenarono insieme Ferdinando, e la Regina, ed egli, cenasse ancora
Consalvo, siccome ne gli avea fatto comandare da Ferdinando; indi, dopo
il quarto giorno, i due Re con le medesime dimostrazioni di concordia
si partirono da Savona: Ferdinando col Gran Capitano prese il cammino
per mare verso Barcellona, ed il Re Luigi se ne ritornò per terra in
Francia. Fu questo l'ultimo de' gloriosi giorni del Gran Capitano;
poichè giunto che fu con Ferdinando in Ispagna, gli fece questi
intendere, che non venisse in Corte, ma andasse alle sue Terre, nè si
partisse se non veniva da lui chiamato; il perchè non si videro mai più
mentre vissero, nè uscì mai da' Reami di Spagna, nè ebbe più facoltà
d'esercitare la sua virtù, perchè da poi non fu adoperato nè in guerra,
nè mai in cose memorabili di pace: onde si narra, che soleva dire, di
tre cose pentirsi, la prima aver mancato di fede a D. Ferdinando Duca
di Calabria figliuolo del Re Federico; la seconda non avere osservata
la fede al Duca Valentino; e la terza non poterla dire, giudicandosi
che fosse, di non avere, per la gran benevolenza de' Nobili e de'
Popoli verso di lui, consentito di farsi gridare Re di Napoli[245].

Tornato il Re Cattolico in Ispagna, gli fu subito dalla Regina sua
figliuola dato il governo de' Regni di Castiglia, ed il Regno di Napoli
fu amministrato da Vicerè suoi Luogotenenti, a' quali concedendosi
pieno potere e assoluta autorità, per ciò che riguarda il suo governo,
si vide Napoli già regia sede, quando prima era immediatamente
governata da' suoi Principi, mutata in sede di Vicerè, e pendere
da' loro cenni; onde fu nuova politia introdotta, scemata a' primi
Ufficiali del Regno molta autorità, ed introdotti nuovi Magistrati e
leggi, come qui a poco diremo.

Resse Ferdinando per nove altri anni, fin che visse, il Regno, da
Spagna per suoi Ministri e rimossone il Gran _Capitano_, che fu il
primo suo Vicerè, anzi suo gran Plenipotenziario, che per quattro anni
con tanta sua lode e soddisfazione di tutti gli Ordini e nelle cose di
guerra e nelle più importantissime di pace avea amministrato il Regno:
vi lasciò in suo luogo _D. Giovanni d'Aragona Conte di Ripacorsa_, che
fu il secondo Vicerè del Regno, che per lo spazio di due anni e quattro
mesi lo governò con molta saviezza e prudenza.

Diede ancora Ferdinando, per la caduta del Gran Capitano, l'Ufficio
di Gran Contestabile al famoso Fabrizio Colonna Duca di Tagliacozzo
valoroso Capitano, al quale commise l'espedizione contra i Vineziani
per la ricuperazione de' Porti, e delle città, che coloro tenevano
occupate nel Regno alla riva del mare Adriatico. Erano, come si
è narrato, stati del Regno scacciati interamente i Franzesi: solo
rimaneva per ridurlo nel suo primiero stato, che se gli restituissero
le città di Trani, Monopoli, Mola. Polignano, Brindisi ed Otranto, che
ancora i Vineziani tenevano occupate; onde Ferdinando ordinò, che loro
s'intimasse la guerra, e nel 1509 diede il comando delle sue truppe a
Fabrizio, il quale andò coll'esercito ad assediar Trani, e non tantosto
fu accampato vicino a quella città, che i cittadini consapevoli del
valore di Fabrizio, subito si resero: seguitarono l'esempio di Trani,
tutte le altre soprannominate città; onde furono quelle co' loro porti
restituite alla Corona di Napoli, siccome erano prima[246].

Il Conte di Ripacorsa, richiamato dal Re alla Corte, lasciò per suo
Luogotenente _D. Antonio di Guevara_ Gran Siniscalco del Regno, il
quale non più che sedici giorni l'amministrò; ma sopraggiunto a' 24
d'ottobre del medesimo anno 1509 _D. Raimondo di Cardona_, destinato
dal Re successor Vicerè, fu da costui amministrato il Regno finchè
Ferdinando visse.

Intanto per la morte di Luigi XII sursero nuovi sospetti con
_Francesco I_ suo successore per le cose di Napoli. E dall'altro
canto _Massimiliano_ Re de' Romani mal sofferendo, che Ferdinando
avesse preso il governo de' Regni di Castiglia, in pregiudizio di
_Carlo_ nipote comune, minacciava nuove intraprese; il perchè parve
a Ferdinando, per potere attendere con maggiore animo ad impedire la
grandezza del Re di Francia a lui sempre sospetta, per l'interesse
del Reame di Napoli, di rappacificarsi nel miglior modo, che potè con
Massimiliano; onde nella fine di quest'istesso anno 1509 fra di loro fu
stabilita concordia, per la quale fu convenuto, che il Re Cattolico,
in caso non avesse figliuoli maschi, fosse Governadore di que' Reami,
insino che _Carlo_ nipote comune pervenisse all'età di vinticinque
anni; e che non pigliasse Carlo titolo regio vivente la madre, la quale
avea titolo di Regina, poichè in Castiglia le femmine non sono escluse
dai maschi.

Stabilito per tal convenzione il Re d'Aragona nel governo de' Regni
di Castiglia, fu tutto inteso ad impedire i disegni del Re franzese,
che teneva sopra Italia, e sopra il Regno di Napoli. Ma questo inclito
Re mentre apparecchiavasi a sostenere la guerra, che il Re Francesco
minacciavagli, finì i giorni suoi in Madrid in età di 75 anni.

Morì Ferdinando nel mese di Gennaio del 1516 siccome scrissero il
Guicciardino e gli altri Istorici contemporanei[247], a' quali deve
prestarsi più fede, che a qualunque altro Scrittor moderno[248], che
ingannati da una scorrettissima data d'una lettera di Carlo, fissano
il giorno della sua morte in gennaio dell'anno precedente 1515.
Morì (mentre andava con la Corte a Siviglia) in Madrid, villa allora
ignobilissima del Contado di Toledo, presso a S. Maria di Guadalupe, e
volle, che il suo corpo fosse seppellito a Granata, ove fu trasferito.
Re secondo l'elogio, che gli tessè il Guicciardino, di eccellentissimo
consiglio e virtù, nel quale, se fosse stato costante nelle promesse,
non potresti facilmente riprendere cos'alcuna, perchè la tenacità
dello spendere, della quale era calunniato, dimostrò facilmente falsa
la morte sua; conciossiacosachè avendo regnato quaranta due anni,
non lasciò danari accumulati; ma accade quasi sempre, per lo giudicio
corrotto degli uomini, che ne' Re è più lodata la prodigalità, benchè
a quella sia annessa la rapacità, che la parsimonia congiunta con
l'astinenza della roba d'altri. Alla virtù rara di questo Re, si
aggiunse la felicità rarissima e perpetua (se tu ne levi la morte
dell'unico figliuolo maschio) per tutta la vita sua, perchè i casi
delle femmine e del genero furono cagione, che insin alla morte si
conservasse la grandezza: e la necessità di partirsi, dopo la morte
della moglie, di Castiglia, fu più tosto giuoco, che percossa della
fortuna: in tutte le altre cose fu felicissimo. Di secondogenito del
Re d'Aragona, morto il fratello maggiore, ottenne quel Reame: pervenne
per mezzo del matrimonio contratto con Isabella al Regno di Castiglia:
scacciò vittoriosamente gli avversarj, che concorrevano al medesimo
reame. Ricuperò poi il Regno di Granata posseduto da' nemici della
nostra fede poco meno di 800 anni: aggiunse all'Imperio suo il Regno
di Napoli, quello di Navarra, Orano e molti luoghi importanti de' liti
dell'Affrica: superiore sempre e quasi domatore di tutti i nemici suoi;
ed ove manifestamente apparì congiunta la fortuna con l'industria,
coprì quasi tutte le sue cupidità sotto colore d'onesto zelo di
religione e di santa intenzione al ben comune.

Morì circa un mese innanzi alla morte sua (a' 2 decembre del 1515) il
_Gran Capitano_, assente dalla Corte e mal soddisfatto di lui[249]; e
nondimeno il Re per la memoria della sua virtù, volle egli, e comandò,
che da se, e da tutto il Regno gli fossero fatti onori insoliti a farsi
in Ispagna ad alcuno, eccetto che nella morte de' Re, con grandissima
approvazione di tutti i Popoli, a' quali il nome del Gran Capitano per
la sua grandissima liberalità era gratissimo; e per l'opinione della
prudenza, e che nella scienza militare trapassasse il valore di tutti
i Capitani de' tempi suoi, era in somma venerazione.

Saputosi in Napoli la morte di sì gran Re, _D. Bernardino Villamarino_,
che per l'assenza di D. Raimondo di Cardona Vicerè si trovava in
Napoli suo Luogotenente, gli fece con grandissimo apparato celebrare
esequie pomposissime nella chiesa di S. Domenico, ove intervenne
tutto il Baronaggio con gli Eletti e Deputati della città, e tutti gli
Ufficiali Regj. E la Piazza del Popolo, ricordevole de' privilegi e
grazie concedutegli, gli fece ancora con grandissimo apparato celebrare
i funerali nella chiesa di S. Agostino: ed in memoria d'un tanto lor
benefattore statuì, che ogni anno a' 23 gennaio se gli celebrasse un
Anniversario, ciò che veggiamo nel dì statuito continuarsi sino ai dì
nostri con molta celebrità e pompa.

Morto Ferdinando, il Principe Carlo Arciduca d'Austria, ch'era
in Brusselles, ancorchè vivesse _Giovanna_ sua madre, alla quale
s'apparteneva la successione del Regno, non tralasciò di scriver subito
alla città di Napoli una molto affettuosa lettera[250], nella quale
profferendole il suo amore, le impone che ubbidisse per l'avvenire
a D. Raimondo di Cardona, come aveano fatto per lo passato, ch'egli
confermava Vicerè. Governò sola Giovanna pochi mesi la Monarchia; ma
arrivato, che fu _Carlo_ in Ispagna l'associò al Regno, da lui poi
amministrato con quella saviezza, e prudenza, che sarà narrata ne'
seguenti libri di quest'Istoria.

Così le Spagne, e tutti i dominj, onde si componeva sì vasta Monarchia,
passarono negli _Austriaci_ discendenti da' Conti d'Aspurg; e con
meraviglia di tutti fu veduto, che Ferdinando Re d'Aragona, per far
maggiore la grandezza del successore (mosso non da altra cagione, che
da questo, con consiglio dannato da molti, e per avventura ingiusto)
spogliò del Regno d'Aragona il Casato suo proprio tanto nobile, e
tanto illustre, e consentì contra il desiderio comune della maggior
parte degli uomini, che il nome della Casa sua si spegnesse, e si
annichilasse.



CAPITOLO II.

_Nuova politia introdotta nel Regno; nuovi Magistrati e leggi
conformi agl'istituti e costumi Spagnuoli. De' Vicerè e Regenti
suoi Collaterali, donde surse il Consiglio Collaterale e nacque
l'abbassamento degli altri Magistrati ed Ufficiali del Regno._


Siccome s'è potuto vedere ne' precedenti libri di questa Istoria,
il Regno di Napoli, così nel principio del suo stabilimento sotto i
Normanni, come nel lungo regnare de' Re della illustre casa d'Angiò,
fu composto ad esempio del Regno di Francia, dal quale prese molti
istituti e costumi. Alfonso I d'Aragona lasciò i suoi Regni ereditari,
e volle in Napoli trasferire la sua sede regia, e conformossi alle
leggi e costumi che vi trovò. Gli altri Aragonesi di Napoli non
alterarono la sua politia, poichè non avendo Stati in altre province,
come Regno lor proprio e nazionale lo governarono colle medesime leggi
ed istituti: ma ora che Napoli, avendo perduto il pregio d'esser sede
regia, viene ad essere amministrata da' Re di Spagna, i quali tenendo
collocata altrove, ed in remotissime parti la loro sede, reggendo
il Regno per mezzo de' loro Luogotenenti, che si dissero _Vicerè_,
prese il suo governo nuova forma e venne più tosto a conformarsi a'
costumi ed istituti di Spagna, che di Francia. Nacquero per ciò e negli
Ufficiali del Regno e ne' Magistrati della città non picciole mutazioni
e cangiamenti.

Non vi ha dubbio, che gli Spagnuoli, per ciò che riguarda l'arte
del regnare, s'avvicinassero non poco a' Romani; e Bodino[251] e
Tuano[252], ancorchè franzesi, siccome Arturo Duck inglese[253],
portarono opinione che di tutte le Nazioni, che dopo la caduta
dell'Imperio signoreggiarono l'Europa, la Spagnuola in costanza,
gravità, fortezza e prudenza civile fosse quella che più alla romana
s'assimilasse. Nello stabilir delle leggi niun'altra Nazione imitò
così da presso i Romani, quanto che la spagnuola. Essi diedero a noi
leggi savie e prudenti, nelle quali non vi è da desiderar altro, che
l'osservanza e l'esecuzione. Ma siccome niuno può contrastar loro
questi pregi, nulladimanco in questo s'allontanarono da' Romani, che
i Romani debellando le straniere Nazioni, le trattarono con tanta
clemenza e giustizia, che i vinti stessi si recavano a lor sommo onore
d'essere aggiunti al loro Imperio, e le loro leggi erano ricevute con
tanto desiderio, che non come leggi del vincitore, ma come proprie le
riputarono. Non così fecero gli Spagnuoli, da' quali, fuori di Spagna,
i Regni e le province, che s'aggiunsero alla loro Monarchia, erano
trattate con troppo alterezza e boria. Dalle memorie che ci lasciò
il Vescovo di Chiapa, si sa ciò che fecero nel Nuovo Mondo; quel che
fecero in Fiandra; e si saprà quel che praticarono presso di noi. Ma
ciò che più gli allontanò da' Romani, fu, perchè loro mancò quella
virtù, senza la quale ogni Stato va in rovina, cioè l'economica: quanto
erano profusi, altrettanto per nudrir questo vizio, bisognava che
ricorressero all'altro della rapacità, gravando i Popoli con taglie e
donativi, e con tuttociò profondendo senza tener modo, nè misura, non
per questo gli eserciti non si vedevano spesso ammutinati per mancanza
di paghe e gli Ufficiali mal soddisfatti. Non bastò l'oro del nuovo
Mondo, nè le tante tirannidi e le crudeltà usate a que' Popoli per loro
rapirlo[254]. L'altro difetto fu di non aver proccurato ne' loro Regni
d'ampliare il commercio, e favorir la negoziazione, avendo tanti famosi
porti, non rendergli frequenti di navi, di fiere e di scale franche
come l'altre Nazioni, che hanno gli Stati in mare fanno; siccome, infra
gli altri, a' dì nostri si sono distinti gl'Inglesi, gli Olandesi ed i
Portoghesi.

La perpetua adunque e continua residenza de' nostri Re in Ispagna
seco portava, che fossero creati i Vicerè che reggessero questo Reame.
Prima i suoi Re, ancorchè per alcune occorrenze fossero stati costretti
esserne lontani, lasciavano per governarlo i loro Vicarj che solevano
per lo più essere del loro sangue, e quelli, che doveano dopo la lor
morte essere loro successori; ma la lontananza era breve, e tosto
venivano essi a ripigliarne il governo. Vi furono alcune volte, ma
assai di rado, occasioni, che per l'assenza de' Re, vi lasciavano
loro Luogotenenti, chiamati pure Vicerè; ma ora, che la lontananza
era perpetua, bisognava, che ad un Ministro di sperimentata probità e
prudenza ne commettessero l'amministrazione, al quale dessero tutta la
loro autorità ed illimitato potere per ciò che riguardava il governo
e buona cura del medesimo. Bisognò per tanto dar loro l'autorità di
far leggi, ovvero prammatiche o altri regolamenti, che conducessero a
questo fine. Così da ora avanti le prammatiche si vedranno stabilite
non men da' Re, che da' loro Vicerè e Luogotenenti. Bisognò parimente
che a questo Ministro se gli dessero Giureconsulti, che assistendo
al suo lato lo consigliassero bene, affinchè la sua potestà fosse
regolata dalle leggi, e non passasse in tirannide. Vi fu de' nostri
chi lungamente scrisse della lor potestà; ed il Reggente de Ponte ne
compilò un ben grande volume, che va per le mani di tutti.


§. I. _Del Consiglio collaterale e sua istituzione._

Ferdinando adunque, quando temendo della sterminata potenza del G.
Capitano che s'avea acquistata nel Regno per lo suo valore e virtù,
e per la benevolenza di tutti gli ordini; si determinò di persona
a venire in Napoli per condurlo seco in Ispagna, ed in suo luogo
lasciare il Conte di Ripacorsa per Vicerè, portò seco tre Giureconsulti
ch'erano Reggenti del supremo Consiglio d'Aragona, per istabilirne un
altro in Napoli a somiglianza di quello, non altrimente di ciò, che
fece Alfonso, che a similitudine del Consiglio di Valenza introdusse
nel Regno quello di Santa Chiara, il quale, quando risedevano i Re
in Napoli, era il supremo come quello, nel quale giudicava l'istesso
Principe, che n'era capo. Questi furono _Antonio di Agostino_, padre
del famoso Antonio cotanto celebre e rinomato Giureconsulto, _Giovanni
Lone_ e _Tommaso Malferito_, colui che in tutti i trattati di tregua e
di pace stabiliti ne' precedenti anni tra Ferdinando e Lodovico XII Re
di Francia, rapportati da _Federico Lionardo_[255] fu adoperato dal Re
Ferdinando per suo Procuratore e Nunzio insieme con Giovanni di Silva
Conte di Sifuentes e Fr. Giovanni Enguera Inquisitor di Catalogna,
onde vien chiamato ne' suddetti trattati _Dottore_ e _Reggente di
Cancelleria_. A costoro s'unì anche _Bernardo Terrer_, il quale essendo
stato creato Consigliere di S. Chiara si rimase in Napoli. Mentre il
Re in que' sette mesi, cioè da ottobre insino a giugno del 1507 si
trattenne in Napoli, si valse per Reggenti della sua Cancelleria di
due, cioè di Giovanni Lone e di Tommaso Malferito; ond'è, che quelle
prammatiche ch'egli promulgò in Napoli, portano la soscrizione di
_Malferit_; poichè in questi principj si praticava che un solo Reggente
sottoscrivesse.

Bisognando poi partire per Ispagna, per le cagioni di sopra rapportate,
e partir con animo di non mai più farci ritorno, lasciò come s'è detto
per Vicerè il _Conte di Ripacorsa_, che per antonomasia veniva chiamato
il _Conte_, ed in cotal guisa si firmava nelle scritture, e dovendosi
seco ricondurre in Ispagna i due Reggenti Lone e Malferito, creò
egli in lor vece due altri Giureconsulti per Reggenti, che dovessero
assistere a lato del Vicerè per sua direzione, onde ne nacque il nome
di _Reggenti Collaterali_. Erano ancora chiamati _Auditori_ del Re,
e ne' privilegj di Napoli e ne' capitoli conceduti alla città dal
Conte di Ripacorsa, sono perciò indifferentemente chiamati Auditori e
Reggenti[256].

Nel principio di questa istituzione non era composto tal Consiglio
che di due soli Reggenti e d'un Segretario; e questi furono _Lodovico
Montalto_ Siciliano, il quale mentr'era Avvocato fiscale in Sicilia
fu dal Re Ferdinando creato Reggente di Napoli, e _Girolamo de Colle_
catalano (il quale trovandosi Consigliere di Santa Chiara fu parimente
dal Re fatto Reggente) e sostituiti in luogo di Lone e Malferito, che
ritornarono col Re in Ispagna. E durante il Regno di Ferdinando per
tutto l'anno 1516 non furono in quello Consiglio, di cui era capo il
Vicerè, che i suddetti due Reggenti col Segretario Pietro Lazaro Zea.

Nell'anno seguente 1517 e nel principio del Regno del Re _Carlo_ e
poi Imperadore, fu aggiunto il terzo Reggente, e stabilito che di tre,
due fossero ad arbitrio e beneplacito del Re, ed il terzo nazionale e
Regnicolo[257]. Fu costui il famoso _Sigismondo Loffredo_, il quale per
la sua gran dottrina e saviezza, perchè il Re e la sua Corte stesse
informata degli affari del Regno, fu da Carlo chiamato in Germania
alla sua Corte, ove dimorò per tre anni continui. Quindi avvenne, che
per la lunga dimora del terzo Reggente nella Corte, non risedendo
nel collateral Consiglio di Napoli, che due soli, fosse costituito
il quarto Reggente, affinchè uno che doveva esser nazionale andasse
a risedere appresso il Re, perchè come istrutto delle cose del Regno
informasse quella Corte, e tre stabilmente dovessero risedere in
Napoli. Così nel 1519 fu creato Reggente _Marcello Gazzella_ da Gaeta,
che si trovava in Napoli Presidente della regia Camera, destinato per
la Corte in luogo del Reggente Loffredo, il quale avea ottenuta licenza
dal Re di poter tornare in Napoli, siccome tornò.

Narra Girolamo Zurita[258], che questo prudente consiglio di far
venire a risedere nella Corte del Re un Ministro da' Regni d'Italia,
fu ordinato dall'istesso Re Cattolico nel suo testamento, che fece
prima di morire nel 1516, nel qual tempo, non essendosi ancora aggiunto
alla Corona di Spagna lo Stato di Milano, ma solo i Regni di Napoli
e di Sicilia, stabilì che venissero in Ispagna ad assistere con gli
altri al Consiglio ch'egli avea eretto per l'indisposizione della
Regina sua figliuola Giovanna, due Dottori, uno napoletano e l'altro
siciliano; onde avvenne, che il Re Carlo suo successore, seguendo
il suo consiglio, introducesse questo costume; e che poi avendo egli
alla Corona di Spagna aggiunto il Ducato di Milano, venisse non pur
da Napoli e da Sicilia, ma anche da Milano un Ministro ad assistere
appresso lui nella sua Corte.

In questi principj, ancorchè fosse destinato un Reggente per la Corte,
perchè l'Imperador Carlo V non avea in Ispagna perpetua residenza, ma
scorrendo secondo i bisogni della sua Monarchia, ora la Germania, ora
la Spagna, la Fiandra e l'Italia, i Reggenti destinati per la Corte
doveano seguitarlo dovunque risedesse. Ma quando per la rinunzia e
poi per la morte dell'Imperadore, alla Monarchia di Spagna succedè
Filippo II suo figliuolo, questi mal imitando i costumi di suo padre,
fermatosi in Ispagna, e quivi collocando stabilmente la sua sede regia,
pensò di stabilire in Ispagna un Consiglio ove degli affari d'Italia
si trattasse, e a dargli un Presidente; il qual Consiglio si componesse
oltre de' Reggenti Spagnuoli, di vari Ministri che da Napoli, Milano e
Sicilia si mandassero. Così nel 1558 fu stabilito in Ispagna il supremo
Consiglio detto d'Italia; ed il suo primo Presidente fu D. Diego Urtado
de Mendozza Principe di Mileto e Duca di Francavilla. Ed in questi
principj Filippo II non contento d'uno, volle che da Napoli venissero
in Ispagna due, li quali furono il Reggente _Lorenzo Polo_ e _Marcello
Pignone_, che si trovava Presidente di Camera, siccome leggesi in
una sua regal carta rapportata dal Toppi[259] con tali parole: _Para
resedir aqui en esta Corte, y que se entiendan bien los negocios
deste Reyno, de cuya buena, o mala espedicion pende mucha parte del
govierno, y buena administracion de la Justicia: havemos accordado, que
como solia haver un Regente, aya dos, y que estos sean el Doctor Polo
Regente, y del nostro Consejo Collateral, y el Doctor Marcello Pinnon
Presidente de la Summaria, etc_.

In cotal guisa col correr degli anni fu stabilito questo supremo
Consiglio, al quale essendo poi aggiunti altri due, si venne a comporre
di cinque Reggenti, alcuni nazionali, altri ad arbitrio del Re, il
quale per lo più eleggeva Spagnuoli. Il Regno d'Aragona pretese, che
uno dovesse essere aragonese, riputando questo Regno dipendente da
quella Corona, come acquistato da Alfonso colle forze d'Aragona, e
non senza ajuto del Re Giovanni suo fratello. Ha per suo Capo, come
s'è detto, il Vicerè, nelle di cui mani i Reggenti danno nel principio
dell'anno il giuramento di serbar il secreto. E nel caso della colui
morte, quando non se gli trovi dato il successore, nell'interregno
assumono il governo insieme con essi, i Reggenti di Spada nominati
di Stato, i quali sono creati dal Re, perchè in mancanza del Vicerè,
sottentrando in suo luogo, prendano le redini del governo co' Togati,
i quali assembrati insieme nel regal Palazzo trattino dei negozi
attinenti allo Stato ed alla buona amministrazione del Regno, sino a
tanto che il Re non provvegga del successore.

Stabilito che fu dunque in Napoli questo supremo Consiglio,
conciosiachè avesse per capo il Vicerè, a cui era commessa la somma
delle cose, venne per ciò ad innalzarsi sopra tutti gli altri, e
vennero gli altri Tribunali a perdere l'antico lor lustro e splendore.
Ma molto più per la lontananza della sede regia furono abbassati i
sette Ufficiali del Regno; onde col volger degli anni si ridussero
nello stato, nel quale oggi li veggiamo.

Molto perdè il _Gran Contestabile_, che avea la soprantendenza degli
eserciti di Terra in campagna, perchè costituito il Vicerè Luogotenente
del Re e suo Capitan Generale del Regno, tutta la sua autorità passò
nella di lui persona; avendo egli il comando non pur degli eserciti in
campagna, ma anche in tutte le Piazze e sopra tutti li Governi delle
province, a cui ubbidiscono tutti gli altri Generali e Marescialli.
Solo, come fu detto nel libro XI di questa Istoria, quando il Vicerè
sia lontano dal Regno, nè altri fosse stato deputato, potrebbe oggi
il Gran Contestabile ne' casi repentini, e quando la necessità lo
portasse, riassumere il comando delle armi: ond'è, che ancora duri
il costume, che in caso di non pensata morte del Vicerè, il Gran
Contestabile, quando dal Re non sia stato altrimente provveduto,
sottentri in suo luogo al Governo del Regno.

Per l'erezione di questo nuovo Consiglio, tutte quelle belle
prerogative, che adornavano il _Gran Cancelliere_ furono da lui
assorbite. Fu ne' tempi d'appresso riputato prudente consiglio de'
Principi di togliere a' Gran Cancellieri quelle tante ed eminenti loro
prerogative, ed unirle a' Reggenti, ed alla loro Cancelleria[260]. Si
rapportò a questo fine nel libro XI di quest'Istoria l'esempio del
Cancelliere della Santa Sede di Roma, il quale, poi che quasi _de
pari cum Papa certabat_, fu risoluto da Bonifacio VIII toglierlo,
attribuendo la Cancelleria a se medesimo, stabilendo solamente un
Vicecancelliere. Così appunto avvenne appresso noi nel Regno di
Ferdinando il Cattolico, di Carlo e degli altri Re di Spagna suoi
successori. La Cancelleria per questo nuovo Collateral Consiglio fu
attribuita al Re ed a questo suo Consiglio, amministrato da' Reggenti
detti per ciò anche di _Cancelleria_. Prima i Gran Cancellieri aveano
la presidenza al Consiglio di Stato negli affari civili del Regno,
l'espedizione degli editti e d'ogni altro comandamento del Re: aveano
la soprantendenza della giustizia: eglino erano i Giudici delle
differenze, che accadevano sopra gli Ufficj ed Ufficiali: regolavano
le loro precedenze e distribuivano a ciascun Magistrato ciò, ch'era
della sua incombenza, perchè l'uno non attentasse sopra dell'altro.
Presentemente i Reggenti di Cancelleria sottoscrivono i memoriali,
che si danno al Vicerè, essi pongon mano ai privilegi, interpretano le
leggi; hanno l'espedizione degli editti e de' comandamenti del Re. Essi
sono i Giudici delle differenze che accadono fra gli altri Ufficiali,
decidono le precedenze, destinano i Giudici, distribuiscono a ciascun
Magistrato ciò, che se gli appartiene, ed è della loro incumbenza.
Presso loro risiede la Cancelleria, e con essa gli scrigni, i registri
e tutto ciò che prima era presso il Gran Cancelliere.

Per ciò hanno un Segretario, il quale tien sotto se e sotto la
sua guida altri Ufficiali minori, che sono tutti impiegati alla
spedizion delle lettere regie, degli assensi, de' privilegi, delle
patenti degli Ufficiali del Regno. Tiene per ciò sei Scrivani, che
si dicono di Mandamento, quattro Cancellieri: un altro de' negozj
della soprantendenza della Campagna; un altro dei negozi della regal
giurisdizione e sei altri Scrivani ordinari, che han cura de' registri,
del Suggello e dell'altre cose appartenenti alla Cancelleria: dodici
Scrivani di forma: due Archivarj, un Tassatore, un Esattore, un
Ufficiale del suggello e quattro Portieri. Tutti questi sono uffici
vendibili, fuor che del Cancelliere della giurisdizione, il quale
per essere ufficio di confidenza, si concede graziosamente a persona
meritevole[261].

Quando prima i diritti delle spedizioni della Cancelleria erano
regolati dal Gran Cancelliere, da poi Ferdinando il Cattolico per mezzo
d'una sua prammatica, che si legge sotto il titolo _super solutione
facienda in Regia Cancellaria pro scripturis ibidem expediendis_,
prescrisse la quantità, che dee pagarsi, così per ispedizioni di
lettere di giustizia, come di grazia, e per le concessioni delle
Baronie e de' Titoli, de' Privilegi, de' Capitanati, de' Baliati, delle
Castellanie, delle concessioni di mero e misto imperio, delle lettere
di cittadinanza, di emancipazione, di Protomedici, Protochirurgi,
di Doganieri e di Portolani, in brieve di tutti gli Uffici e di
molte altre spedizioni: delle quali in quella prammatica fece egli
un lungo catalogo, proscrivendo e tassando per ciascheduna le somme,
che per diritto dee esiger la Cancelleria[262]. Prima, come narra il
Tassone[263], non s'esigevano questi diritti; ma per mantenere gli
Ufficiali minori della Cancelleria erano destinati li frutti d'un feudo
posto tra li confini di Lettere e di Gragnano, che per ciò acquistò il
nome di Cancelleria. Ma poi, essendo stato quello venduto al monastero
di S. Jacopo dell'isola di Capri dell'Ordine della Certosa, fa uopo
esigerli dalle parti e tassarli nella maniera, che si è divisata.
Fu variato il modo delle spedizioni, e quando prima non era usata
che la lingua latina, indi cominciò ad introdursi la spagnuola, e le
prammatiche ancora a dettarsi con quel linguaggio.

Fu parimente per l'erezione di questo nuovo Consiglio molto scemata
l'autorità del _Gran Protonotario_ e del suo Luogotenente. Quasi tutte
le prammatiche, i privilegi e l'altre scritture prima erano firmate dal
Gran Protonotario o suo Luogotenente; al presente non si ricerca più
la lor firma, ma de' soli Reggenti. Fu sì bene a tempo di Ferdinando
il Cattolico in questi principi ritenuto il costume, che oltre a'
Reggenti le prammatiche fossero anche firmate dal Viceprotonotario;
e quando si trattava di cose attenenti al patrimonio regale, le
spedizioni si facevano _pro Curia_ dal Luogotenente del Gran Camerario,
come s'osserva in quelle poche prammatiche, che promulgò in Napoli
Ferdinando; nulladimanco nel decorso degli anni fu tolta affatto la
lor firma, e rimase quella de' soli Reggenti. Anche nella creazione
de' Notari e de' Giudici a contratti vi vollero la lor parte, ed oltre
di prescrivere i diritti per le lettere de' Notari e de' Giudici, i
loro privilegi pure si spediscono dalla Cancelleria con firma di un
Reggente, oltre del Viceprotonotario.

Il _Gran Camerario_ ed il suo Tribunale della regia Camera fu posto
nella suggezione, nelle cause più gravi del Patrimonio regale, ed ove
l'affare il richiegga, di dovere il Luogotenente e Presidenti di quella
andare in questo Consiglio a riferir le loro cause, ed ivi deciderle;
e ciò per la soprantendenza, che tiene sopra tutti i Tribunali della
città e del Regno, drizzata al fine, che non altrimente potrebbe
sperarsene un ottimo e regolato governo; ond'è, che si esiga la loro
riverenza e rispetto.

Prima le dimande de' sudditi, che si facevano al Re, siano di
giustizia o di grazia, si portavano al _Gran Giustiziere_, il quale
nel giorno stesso, col consiglio d'un Giudice della Gran Corte,
quelle che erano regolari, e che non avean bisogno di parteciparsi
al Principe, le spediva egli immediatamente nel giorno seguente, le
altre che richiedevano la scienza del Re, si mandavano suggellate al
suo Segretario per la spedizione[264]. Ora per l'elezione di questo
Consiglio, tutti li preghi e memoriali si portano dirittamente al
Segretario del Collaterale e suoi Scrivani di Mandamento, e vi si dà la
provvidenza.

Non minore abbassamento sperimentarono gli altri Ufficiali della
Corona e della Casa del Re e tutti gli altri Ufficiali minori a lor
subordinati, non tanto per l'erezione di questo nuovo Consiglio, quanto
per esser mancata in Napoli la sede regia, e trasferita altrove in
remotissime regioni.

Al _Grand'Ammiraglio_, per l'erezione del General delle galee e del
Tribunal dell'arsenale, divenne molto ristretta la sua autorità.
Questo nuovo Capitan Generale ebbe la soprantendenza sopra le galee di
Napoli e del Regno con una totale independenza dal Grand'Ammiraglio; ed
ancorchè nel Parlamento generale convocato in Napoli nel 1536, nella
dimora che vi fece l'Imperador Carlo V, fossegli stato richiesto,
che quello dovesse esser Cavaliere napoletano, e l'Imperadore avesse
risposto, che secondo il bisogno e contingenza de' tempi avrebbe
provveduto[265], si vide sempre però in persona di Spagnuoli, li
quali esercitando giurisdizione sopra le persone a quelle deputate,
secondo le instruzioni che ne diede il Re Filippo II, rapportate dal
Reggente Costanzo[266], eressero un Tribunale a parte, independente
da quello del Grande Ammiraglio, con eleggervi un Auditor generale
ed altri Ufficiali minori, da' decreti del quale s'appella non
già al Grand'Ammiraglio, ma al Vicerè, il quale suol commettere le
appellazioni per lo più a' Reggenti del Collaterale, ovvero ad altri
Ministri che meglio gli piacerà[267].

Parimente fu eretto un nuovo Tribunale dell'Arsenale ch'esercita
giurisdizione civile e criminale sopra molti, ch'esercitano l'arte
di costruir navilj, tutto subordinato e dipendente non già dal
Grand'Ammiraglio, ma dalla Regia Camera e suo Luogotenente, il quale vi
destina un Presidente di quella a reggerlo, ed alla quale si riportano
le appellazioni de' decreti del medesimo[268].



CAPITOLO III.

_Nuova disposizione degli Ufficiali della Casa del Re._


L'Ufficio del _Gran Siniscalco_, per non esser più Napoli sede regia,
rimase poco men ch'estinto ed abolito. E si videro sorgere nuovi
Ufficiali affatto da lui indipendenti.

Il Gran Siniscalco, siccome si è potuto vedere nell'undecimo libro di
quest'Istoria, avea la soprantendenza della Casa del Re; e quantunque
la sua carica riguardasse il governo della medesima, nulladimanco
perchè la sua autorità non era limitata da alcun luogo o provincia,
ma si stendeva in tutto il Reame, nè era mutabile per ogni mutazione
di Re; si diceva per ciò servire allo Stato, e non già solamente alla
persona del Re, onde per uno degli Ufficiali della Corona era riputato.
Avea egli sotto se più Ufficiali nella Casa del Re, dei quali nel libro
XXI di quest'Istoria se ne fece un lungo catalogo; alcuni dei quali,
durando ancora la residenza de' Re in Napoli, pure furono esentati,
come si disse, dall'ubbidienza del Gran Siniscalco, e sottoposti
immediatamente al Re.

Ma da poi che i Re abbandonarono Napoli, trasferendo altrove la lor
sede regia, e reggendo la città ed il Regno un suo Luogotenente detto
_Vicerè_, restarono soppressi que' tanti Ufficiali così maggiori, come
minori della Casa del Re, subordinati per la maggior parte al Gran
Siniscalco; ed altri nuovi ne sursero nel Palazzo reale, subordinati
non già più al Gran Siniscalco, ma assolutamente al Vicerè, a cui, come
al di lui palazzo servivano.

S'estinsero i Ciambellani, i Graffieri, nomi franzesi, i Panettieri,
gli Arcieri, gli Scudieri e tanti altri Ufficiali; e ne furono all'uso
di Spagna altri introdotti, che doveano aver cura del Palazzo reale,
e servire al Vicerè, ed alle sue Segreterie, con indipendenza dal Gran
Siniscalco.

Si stabilirono due _Segreterie_, una di Stato e di Guerra, l'altra di
Giustizia. L'una e l'altra non hanno alcuna dipendenza dalla Segreteria
del Regno, nè dal Consiglio Collaterale; e la comunicazione di tutti
que' negozj, che il Vicerè rimette in Collaterale, passa per quelle
Segreterie. Ciascheduno di questi due Segretarj secondo la loro
incombenza, o di guerra o di giustizia, spediscono in nome del Vicerè
gli ordini, che egli prescrive. Per la Secreteria di Guerra passano
tutti i negozj militari e di Stato, e tutti quelli, che appartengono
agl'interessi del regal Patrimonio e delle Comunità del Regno, e di
tutti gli arrendamenti e gabelle. Per quella di Giustizia, possano
tutti i negozj appartenenti alla buona amministrazione di giustizia,
ed elezione di tutti i Governadori ed Assessori delle città e Terre
demaniali, Presidi, Auditori di province, Giudici di Vicaria, e di
tutte l'altre somiglianti cariche, che provvede il Vicerè. Non s'usa
nelle loro Segreterie altra lingua che la Spagnuola. Tengono sotto
di loro più Ufficiali per la spedizione de' biglietti e dispacci, che
nella città si dirizzano a' Capi de' Tribunali, ed altri Ministri così
di spada, come di toga, e nelle province a' Presidi, e suoi Ufficiali.
Prima riconoscevano il Gran Protonotario per loro Capo, ora il Vicerè
che li tiene nel regal Palazzo per la più pronta e sollecita spedizione
degli affari.

Nel Palazzo regale si è ancora unita la _Scrivania di Razione_, la
quale prima secondo ciò che scrisse il Summonte[269], s'esercitava
nella propria Casa dello _Scrivano di Razione_, e la quale in forma di
Tribunale, oltre lo Scrivano di Razione suo Capo, tiene molti Ufficiali
minori suoi sudditi. Ne tiene ancora nelle province, che parimente
Scrivani di Razione sono appellati. La sua incombenza è di tener cura
della Matricola, ovvero Rollo di tutti i soldati del Regno, di tutti
gli Stipendiarj, e di tutti gli Ufficiali, siano di Toga, o di Spada,
a' quali il Re paga soldo. Tiene il Rollo delle Milizie della città e
del Regno. Tiene conto delle Castella e Fortezze del Regno, così per le
provvisioni de' Soldati, come delle munizioni, fabbriche, reparazioni,
e d'ogni altra cosa, che in quelle si fanno; nè possono spedirsi ordini
per lo pagamento de' loro soldi, se non saranno prima nella matricola,
che e' conserva, notati. Nell'occorrenze ha luogo nel Collateral
Consiglio, ove siede dopo il Luogotenente della regia Camera, al cui
Tribunale è sottoposto, e precede al Tesoriere, al Reggente della
Vicaria, ed al Segretario del Regno[270], ed è decorato col titolo di
_Spettabile_[271].

Parimente nel Palazzo regale s'è unita la _Tesoreria_. Prima, ne'
tempi dell'Imperador Federico II, la Tesoreria era nel castel del
Salvatore, oggi chiamato dell'Uovo, dove Federico ordinò, che dovesse
il Tesoro trasportarsi, e vi destinò per la custodia tre Tesorieri,
Angelo della Marra, Marino della Valle ed Efrem della Porta. Ferdinando
il Cattolico, come narra il Zurita[272], abolendo il _Tesoriere_,
avea introdotto un nuovo Ufficiale, detto _Conservator Generale_,
nella persona di Giovan Battista Spinelli; ma sperimentatosi dannoso,
quando venne in Napoli, alle querele di molti, che l'aveano per esoso,
l'estinse affatto, e rifece, come prima il Tesoriere. Era questi prima
totalmente subordinato al Gran Camerario, come quegli che teneva la
cura e custodia del Tesoro del Re: ora è subordinato al Vicerè, ed al
Tribunal della Camera. Ha il secondo luogo dopo lo Scrivano di Razione,
con cui tiene molta connessione ed intelligenza; ed ancorchè sia da
costui preceduto, precede egli però al Decano della Camera, quando, o
in questo Tribunale, o in Collaterale accadesse di sedere. Ha ancora in
Collaterale Sedia, quando il Decano siede allo Sgabello[273].

In questo nuovo governo degli Spagnuoli surse un nuovo Ufficiale detto
_Auditor Generale dell'Esercito_, che lo potrem anche dire Giudice del
Regal Palazzo. Introdotte che furono nel Regno le milizie spagnuole; fu
loro dato un General Comandante, chiamato il Mastro di Campo Generale.
Questi ebbe il suo Auditor Generale, al quale fu data la conoscenza
delle cause di tutti i soldati spagnuoli stipendiati ed altri detti
Piazze morte; la sua giurisdizione s'estende ancora sopra i soldati,
Alfieri e Capitani italiani, e sopra i 50 Continui, de' quali si parla
ne' privilegi di Napoli conceduti da Carlo V[274]. Negli ultimi tempi
per prammatica del Conte di Lemos del 1614, confermata poi dal Cardinal
Zappata nel 1622, fu stesa la cognizione del suo Tribunale sopra altri
affari.

Tiene sotto di se altri Tribunali minori, come quello dell'Auditor del
Terzo Spagnuolo e di tutti gli altri Auditori delle castella, delle
città e del Regno. Il Terzo Spagnuolo tiene un suo Auditor a parte, il
quale ha la cognizione delle cause civili e criminali sopra i soldati
spagnuoli del Terzo residente in Napoli; però questo Tribunale è
subordinato a quello dell'Auditor Generale dell'esercito, perchè da'
suoi decreti s'appella al Tribunale dell'Auditor Generale.

Parimente i tre Castelli della città di Napoli, Castel Nuovo, quel di
S. Ermo e l'altro dell'Uovo, hanno ciascuno un Auditor particolare,
che vien eletto dal Castellano, ed ognun tiene il suo Attuario e
Coadiutore della Corte. Questi esercitano giurisdizione sopra tutti
quelli, che abitano ne' Castelli; quel del Castel Nuovo l'esercita
anche sopra quelli che sono nella torre di S. Vincenzo. Prima, da' loro
decreti s'appellava al Vicerè, che commetteva le appellazioni a vari
Ministri, perchè le rivedessero. Poi dal Conte di Lemos nel 1614, per
sua prammatica confirmata dal Cardinal Zappata nel 1672, fu stabilito,
che le appellazioni si rivedessero dall'Auditor Generale dell'esercito,
a cui sono subordinati.

Tiene ancora la conoscenza sopra tutti coloro, che abitano e sono del
Palazzo del Vicerè, e conosce dei delitti ivi commessi, essendo egli
il Giudice della casa del Re. Prima questa conoscenza era del Gran
Siniscalco, come Capo Uffiziale della casa del Re; ora è dell'Auditor
Generale, con subordinazione non già al Gran Siniscalco, ma solo al
Vicerè, al quale si riportano le appellazioni de' suoi decreti, da chi
sono commesse a que' ministri, che gli piaciono[275]. Pretende ancora
aver conoscenza sopra i Soldati della guardia Alemanna destinata per
custodia del regal Palazzo; ma glie la contrasta il lor Capitano, che
se l'ha appropriata. Parimente i Cantori della regal Cappella, essendo
della famiglia del real Palazzo, dovrebbero esser a lui subordinati: ma
il Cappellan Maggiore ne tiene ora la conoscenza, e come suoi sudditi
vengon riputati.

Pure il _Cappellano Maggiore_, ch'è Capo della Cappella del regal
Palazzo, merita per questa parte essere annoverato tra gli Ufficiali
della Casa del Re. Tiene egli giurisdizione nell'Oratorio regio e
sopra tutti i Cappellani regi, anche de' Castelli della città e del
Regno. La esercita ancora sopra i Cantori della Cappella regia. Tiene
il suo Consultore e de' decreti del detto Tribunale se ne appella
al Vicerè, il quale suole commettere l'appellazione a que' Ministri,
che gli piaciono. Dell'origine ed incremento del Cappellano maggiore,
sue prerogative e soprintendenza nei Regi Studi già diffusamente si è
discorso nel XXI libro di quest'Istoria.



CAPITOLO IV.

_Degli altri Ufficiali, che militano fuori della Casa del Re._


Questi finora annoverati sono gli Ufficiali del regal Palazzo, secondo
la nuova disposizione degli Spagnuoli. Prima tra gli Ufficiali della
Casa del Re erano annoverati, il _Maestro delle Razze Regie_ ed il
_Maestro delle Foreste e della Caccia_. Ma sotto il Regno degli
Spagnuoli questi due Uffici furono trasformati, e presero altre
sembianze.

Il Maestro delle Razze Regie, detto ancora il Cavallerizzo Maggiore del
Re, innalzò in sua propria casa un Tribunale a parte col suo Auditore
ed Attuario, dove esercitava giurisdizione sopra tutte le persone
destinate alle razze regie, che il Re teneva così in Napoli, come nelle
province, in Terra di Lavoro, al Mazzone presso Capua, nella Puglia ed
in Calabria. De' suoi decreti s'appellava alla regia Camera, a cui era
subordinato. Nel 1660 fur dismesse le razze, che teneva in Calabria,
come al Re dannose[276]. Nei tempi nostri furono parimente per
l'istessa cagione tolte in Napoli, nel Mazzone e nella Puglia; ond'oggi
rimane estinto in noi questo Tribunale, ed abolito affatto l'ufficio di
Cavallerizzo del Re.

Contraria fortuna ebbe il _Maestro delle Foreste e della Caccia_,
chiamato oggi il _Montiere Maggiore_. Prima, com'è chiaro da' Capitoli
del Regno, la sua giurisdizione ed incombenza non si stendeva più,
che nelle foreste demaniali del Re. Da poi essendo la Caccia divenuta
regalia del Principe, si stese sopra tutti i luoghi, nè viene ora
ristretta da alcun termine o confine. Egli dà le licenze a' Cacciatori,
e che possano a tal fine portar arme per tutto il Regno: tiene il
suo Tribunale a parte con un Auditore ed Attuario, e s'è di presente
innalzato tanto, che è riputato uno degli ufficj non meno illustre, che
di rendita[277].

Ma sopra tutti questi Uffici, niuno a questi tempi s'innalzò tanto,
quanto il _Maestro delle Osterie_ e _delle Poste_, chiamato ora
comunemente il _Corriere Maggiore_, il quale per essere di moderna
istituzione, era dovere riportarlo a questi tempi, e di cui per ciò più
distesamente degli altri bisogna ora far parola.

L'Ufficio di _Corrier Maggiore_, ovvero _Maestro delle Osterie_
e _delle Poste_ secondo la moderna istituzione, è tutto altro dal
_Corso pubblico_, che leggiamo praticato presso i Romani; e le sue
funzioni non sono le medesime, che si descrivono nel Codice Teodosiano
sotto quel titolo[278]. Appresso i Romani, almeno negli ultimi tempi
dell'Imperio di Costantino M. e dei suoi successori, non era un ufficio
a parte, o che la soprantendenza di quello s'appartenesse ad un solo.
Era regolato il _Corso pubblico_, oltre al Principe, dagli Ufficiali
ordinarj dell'Imperio; ne doveano tener cura e pensiero i Prefetti
al Pretorio, i Maestri dei Cavalieri e degli Ufficj, i Proconsoli ed
i Rettori delle province. Non si restringeva la loro cura nella sola
spedizione de' Corrieri a piedi, o a cavallo, portatori di lettere,
_quo celerius, ac sub manum_ (come d'Augusto scrisse Svetonio[279])
_annunciari cognoscique posset, quid in Provincia quaque gereretur_,
o come di Trajano narra Aurelio Vittore[280], _noscendis ocyus quae
ubique e Repubblica gerebantur, admota media publici cursus_[281]; ma
la più importante loro incombenza era di provvedere in tutti i luoghi
di quanto faceva bisogno per li viaggi del Principe: per quelli che
intraprendevan i Rettori, i Consolari, i Correttori, o Presidi delle
province: quando dall'Imperadore erano mandati a governarle, o quando
finita la loro amministrazione erano richiamati in Roma: per li viaggi
degli altri Magistrati, così civili come militari, quando occorreva
scorrere le Province: per li Legati, che, o si mandavano dal Senato e
Popolo romano o da' Provinciali all'Imperadore: ovvero per quelli, che
dalle Nazioni straniere erano mandati a Roma: in breve, per li viaggi
di coloro, a' quali, o la legge, o il Principe concedeva di potersi
servire del _Corso pubblico_, del quale non potevano valersi i privati,
se non quando con indulto o licenza dell'Imperadore si concedevan loro
lettere di permissione, che chiamavano _evectiones_.

Tutte le spese, sia per uomini destinati al pubblico corso, sia per
cavalli, bovi o altri animali, per carri, carrocci, quadrighe ed
ogn'altro bisognevole, erano somministrate dal Fisco, o dal pubblico
Erario. Quindi avvenne, che per mantenere questo pubblico corso,
erano imposte alle Province alcune prestazioni, chiamate angarie o
parangarie; e sovente era domandato a' Provinciali, ovvero da essi
perciò offerto, qualche tributo. Quindi era, che l'uso di questo corso
era solamente destinato per le pubbliche necessità, non già per le
private; onde a' privati, come si è detto, non era permesso valersene,
se non con licenza e per missione. E quindi furono prescritte tante
leggi per ben regolarlo, come si vede nel Codice di Teodosio[282], e
di cui metodicamente scrisse il Gutero[283] e più esattamente Giacomo
Gotofredo in quel titolo[284].

Ma caduto l'Imperio romano, e diviso poi in tanti Regni sotto vari
Principi stranieri, ed infra di lor discordi e guerreggianti, non potè
mantenersi questo _pubblico Corso_. I viaggi non erano più sicuri,
i traffichi ed i commerci pieni d'aguati e di sospetti, onde venne a
togliersi affatto, nè di quello restò alcuno vestigio.

Stabiliti da poi col correr degli anni in Europa più dominj, sebbene
non potè ristabilirsi affatto il corso pubblico, nulladimanco, siccome
per li commerci e traffichi fu ridotto a maggior perfezione l'uso delle
lettere di cambio, così i Principi ad imitazione degli Imperadori
romani, pigliarono a ristabilire quella parte del corso pubblico
che riguardava la spedizione dei corrieri a piedi ed a cavallo,
ed a disporre almeno i viaggi di quelli per le pubbliche strade e
provvedergli nel passaggio del bisognevole (ond'è, che a' corrieri
maggiori fu data ancora giurisdizione sopra l'_Osterie_, e perciò furon
anche chiamati _Maestri delle Osterie_, siccome nelle concessioni di
Carlo V e di Filippo II e III fatte di questo ufficio a' Signori Tassi,
vengon chiamati _Maestros mayores de Ostes, y Postas, y Correos de
nuestra Casa, y Corte, etc._[285]), affinchè i Corrieri ne' cammini
non patissero disagi, e con prontezza e celerità s'affrettassero ad
avvisar loro quanto passava ne' loro eserciti ed armate, ne' loro
Regni e province, e nelle Corti degli altri Principi, dove essi
tenevano Ambasciadori. Ed in Francia, scrive Filippo di Comines Signor
d'Argentone[286], che il Re Luigi XI avesse ordinato le poste, le quali
per l'addietro non mai vi furono; siccome in Inghilterra per autorità
regia furono i Corrieri parimente istituiti[287].

Chi presso i Romani avesse prima introdotta questa usanza, par che
discordino gli Autori dell'Istoria Augusta. Svetonio[288] ne fa autore
_Augusto_; Aurelio Vittore[289], _Trajano_; Sparziano[290], _Adriano_;
e Capitolino[291], _Antonino Pio_. Che che ne sia, nel che è da
vedersi Lodovico von Hornick[292], e Giacomo Gotofredo[293], il quale
si studia ridurli a concordia: egli è certo, che secondo questa nuova
istituzione fu costituito sopra ciò un nuovo ufficio a parte, incognito
a' Romani, la cura del quale fu commessa ad un solo, e ristretto ad
una più gelosa incombenza ch'era la sopraintendenza de' Corrieri,
li quali dalle loro Corti spedivano i Principi sovente a' Capitani
d'eserciti o d'armate, a' Governadori de' loro Reami o province e ad
altri loro Ministri ed Ambasciadori: dalla lealtà e segreto del quale
dipendeva sovente il cattivo o buon successo d'una negoziazione, d'una
battaglia, d'un assedio di piazza, e de' trattati di lega o di pace
con gli altri Principi suoi amici o competitori. Per questa cagione
fu reputato quest'ufficio di gran confidenza e di grande autorità, e
di maggiore emolumento[294]; poichè oltre d'aver il Corrier maggiore
la soprantendenza e la nomina di tutti i Corrieri, di prender da essi
il giuramento necessario per lo fedele e leal uso di quello, tassare i
viaggi, per li quali esigeva le decime ed altri emolumenti, e stabilire
le poste, avea ancora la giurisdizione sopra tutte le osterie,
siccome è manifesto dalle riferite concessioni di Carlo V, e de' Re
Filippo II e III, fatte a' Signori _Tassi_, i quali lungamente tennero
quest'ufficio; e sebbene costoro si fossero astenuti sopra gli osti
d'esercitarla, non è però, che in vigore delle concessioni suddette non
avessero avuta facoltà di farlo[295].

Oltre i tanti obblighi, che annoverò Lodovico von Hornick[296] nel
suo trattato _De Regali Postarum Jure_, teneva presso noi il Corriere
Maggiore obbligo d'assistere appresso la persona del Principe, stando
egli nella sua Corte ovvero presso la persona de' suoi Vicerè o
Luogotenenti, dimorando egli ne' Regni, dove gli conveniva esercitar
il posto: avere la sua abitazione in luogo, quanto più fosse possibile
vicino al Palagio reale, affinchè si ponesse meno intervallo fra
l'arrivo del corriere o _Staffetta_, e l'avviso che deve darsi tosto al
Principe o suo Luogotenente. Se accaderà a costoro uscire fuori della
città per incontrare da lontano qualche Principe o altro personaggio
di stima, è tenuto il Corrier maggiore seguirli e preparar loro comode
ed agiate stanze per tutti i luoghi dove dovran albergare. Parimente
se dovranno andare alla guerra deve seguitarli e servirli di corrieri,
postiglioni e cavalli: se l'esercito dovrà stare in campagna dovrà
fare il medesimo, sempre stando a' fianchi e vicino al Principe o suo
Luogotenente; ed in tempo di marcia star vicino allo stendardo regale,
ove sogliono dimorare i trattenuti Gentiluomini e Cavalieri che non
hanno altro carico[297].

In questi principj l'ufficio ed amministrazione del Corrier maggiore
non era che intorno alla soprantendenza, nomina e spedizione de'
Corrieri per negozi ed affari del Principe e dello Stato; onde a
somiglianza del _Corso pubblico_ de' Romani, i privati non v'aveano
parte alcuna, e le città ed i loro abitatori aveano la libertà di
comunicare e trattare i loro negozi e traffichi per quelli mezzi
e persone che ad essi piaceva eleggere. Il Cardinal di Granvela fu
quegli, che richiamato dal Re Filippo II dal governo di Napoli (dov'era
dimorato quattro anni Vicerè) in Ispagna per esercitare nella sua
Corte la carica di Consigliere di Stato e di Presidente del Consiglio
d'Italia, instituì il primo nell'anno 1580, negli _ordinarj_ d'Italia,
le _staffette_, le quali da poi nell'anno 1597 furono instituite in
Siviglia ed in tutta la Spagna. Per la quale instituzione, si tolse
alle città e loro abitatori la libertà che aveano di eleggere le
persone ed i mezzi per comunicarsi insieme, perchè coll'uso degli
_ordinarj_ e delle _staffette_ stabilite, si pensò di ridurre ad una
mano, ed all'utile d'uno la comunicazione de' Regni, il cui diritto
poteva solo appartenere al Principe Sovrano, intervenendovi la causa
pubblica, e convertendosi in di lui utile quel che si ricavava da'
particolari. Quindi all'utile, che il Corrier maggiore ritraeva,
ripartendo i viaggi de' Corrieri, delle decime, s'aggiunse l'utile
delle _staffette_ che si ricavava da' particolari.

S'aggiunse appresso l'utile de' _Procacci_. Non ha dubbio, che l'uso
de' Procacci tragga la sua origine dal _Corso pubblico_ de' Romani, e
sia una picciola parte di quello, per ciò che riguarda la disposizione
praticata in esso intorno al trasporto delle robe; ma nel rimanente
i Procacci presenti, sono da quello differenti: poichè questi hanno
giorno determinato per la loro partenza: s'usano cavalli propri o muli
a vettura, e sogliono avere gli alloggiamenti a luogo a luogo, ove
sempre ritrovano quelli pronti e provveduti: furono introdotti non pure
per la pubblica comodità del Principe e dello Stato, ma per li commerci
e per li più comodi viaggi e trasporti di robe de' privati, conducendo
casse, balle ed altre loro mercatanzie[298].

Essendosi cotanto ampliata la sua giurisdizione, e più i suoi
emolumenti, quindi ora vedesi avere Tribunal proprio[299], e molti
Ufficiali minori[300], distribuiti non meno per ben regolarlo, che per
l'esazione degli emolumenti; tal che è riputato ora uno de' maggiori
ufficj, che al pari della grandezza e lustro vada congiunta la dovizia
e l'utilità.

Questo cangiamento fu veduto negli Ufficj nel nuovo Governo spagnuolo,
nel quale fu introdotto ancora costume, che la collazione de' medesimi
si rendesse per la maggior parte venale: e quando prima non erano
conceduti se non a persone, che se gli aveano meritati per loro fatti
egregi o nell'arme, o nelle lettere, furono da poi, per lo bisogno
continuo, che s'avea di denaro, renduti quasi tutti vendibili; e non
pure la concessione fu ristretta alla sola vita del concessionario,
ma a due e tre vite, ed anche si videro perpetuati in una famiglia,
e sovente erano ancora conceduti in _allodio_ per se e loro eredi in
perpetuo.

Si vide ancora nel nuovo Regno degli Spagnuoli un altro cangiamento
intorno a' _Titoli_, li quali si videro più del solito abbondare.
Quando prima il Titolo di _Principe_ non era conceduto, che a' primi
Signori ed a Reali di Napoli, si vide da poi non già colla mano, ma
col paniere dispensarsi a molti, non altrimente di quel che si faceva
de' Titoli di Duca, di Marchese, o di Conte; tanto che Ferdinando
il Cattolico nella Tassa, che ordinò de' diritti di Cancelleria,
ugualmente trattò gli emolumenti, che doveansi esigere per le
investiture del Principato, che del Ducato, Marchesato e Contado,
siccome uguale era il diritto per la concessione d'un nuovo Titolo di
Principe, che di Duca, di Conte, o di Marchese. E poichè non meno che
gli Ufficj, le Baronie ed i Titoli erano renduti venali, quindi a folla
cominciarono a multiplicarsi fra noi i Titoli ed i Baroni; e negli
ultimi tempi del loro Governo la cosa si ridusse a tale estremità, che
fu detto, che gli Spagnuoli avean posta la Signoria fino al bordello,
e creati più Duchi, e Principi a Napoli, che non eran Conti a Milano.

Furono parimente introdotte nel Regno nuove famiglie spagnuole, i
Sanchez di Luna; i Cordova; i Cardoni; gli Alarconi; i Mendozza;
i Leva; i Padigli; gli Erriquez e tante altre, decorate non men
di Titoli, che di Stati e Signorie. S'introdussero per ciò nuovi
costumi ed usanze, delle quali nel decorso di quest'Istoria, secondo
l'opportunità, ci sarà data occasione di parlare.

La disposizione delle province però non fu alterata. I Presidi
continuarono a governarle come prima, chiamati ancora a questi tempi
Vicerè. Il numero era lo stesso, ma non corrispondeva il numero delle
province a quello de' Presidi. Sovente due province, come vediamo ancor
ora praticarsi nelle province di Capitanata e Contado di Molise, erano
amministrate da un sol Preside; e nel Regno di Filippo II, siccome
ce ne rende testimonianza Alessandro d'Andrea, che scrisse la guerra,
che questo Principe ebbe a sostenere col Pontefice Paolo IV, non erano
nel Regno, che sei Presidi, a' quali era commessa l'amministrazione
della giustizia in tutte le dodici province; quantunque per ciò che
riguardava l amministrazione delle rendite regali, il numero de'
Tesorieri, ovvero Percettori corrispondeva a quello delle province. Fu
per tanto il numero de' Presidi sempre vario, ora accrescendosi, ora
diminuendosi, secondo le varie disposizioni ed ordinamenti de' nostri
Principi. Siccome le città della loro residenza, non furon sempre le
medesime, trasferendosi ora in una, ora in altra, secondo il bisogno,
o la migliore loro direzione e governo richiedeva.



CAPITOLO V.

_Delle leggi, che FERDINANDO il Cattolico ed i suoi Vicerè deputati al
governo del Regno ci lasciarono._


Ferdinando ci lasciò poche leggi, ma quelle del G. Capitano, del
Conte di Ripacorsa e di D. Antonio di Guevara suo Luogotenente, di D.
Raimondo di Cardona e di D. Bernardino Villamarino suo Luogotenente,
furono più numerose.

Merita tra le leggi di Ferdinando essere annoverata in primo
luogo quella, che a richiesta della città stabilì per ristoramento
dell'Università degli Studi di Napoli: erano i nostri Studi per li
precedenti disordini e rivoluzioni di cose quasi che estinti, ed i
pubblici Lettori, a' quali dal regio erario erano somministrati i
soldi, per le tante guerre precedute, non erano pagati: pregarono per
tanto i Napoletani il Re Ferdinando, ch'essendo il Regno pervenuto
nelle di lui mani, ed essendo stato nella città di Napoli capo del
Regno, e sede regia, da tempo antichissimo lo Studio generale in ogni
facoltà e scienza, ed in quello essendo stati Cattedratici i più famosi
Dottori in ogni facoltà, salariati da' Re suoi predecessori, era allora
per le precedute guerre quasi che mancato ed estinto; onde lo pregarono
di volerlo ristaurare, e ridurlo al primiero stato, preponendo
alle letture i Dottori napoletani ed i regnicoli a' forastieri, ed
ordinare il pagamento a' Lettori sopra alcuna speziale entrata di S.
M. nella città di Napoli, o nella provincia di Terra di Lavoro. Il
Re benignamente vi acconsentì, ed ordinò al suo Tesoriere, che delle
sue più pronte e spedite rendite pagasse ogni anno agli Eletti della
città per mantenimento de' Lettori ducati duemila, come dal suo diploma
spedito nella città di Segovia sotto li 30 settembre del 1505.[301] Ciò
che poi fu confermato dall'Imperador Carlo V nel Parlamento generale
tenuto in sua presenza in Napoli nel 1536[302].

Le altre sue leggi si leggono nel volume delle nostre prammatiche.
Prima di venire a Napoli ne promulgò alcune nelle città di Toro,
di Segovia e di Siviglia. Venuto in Napoli ne promulgò altre, che
portano la data nel Castel Nuovo. Ritornato in Ispagna insin che
visse ne stabilì alcune altre, le quali secondo l'ordine de' tempi
furono raccolte nella _Cronologia_ prefissa al primo tomo delle nostre
prammatiche, secondo l'ultima edizione del 1715.

Nella sua assenza i Vicerè suoi Luogotenenti, ai quali era di dovere,
che per la lontananza della sua sede regia, si dasse questa potestà, ne
stabilirono moltissime.

Il Gran Capitano in febbrajo ed in giugno dell'anno 1504 ne promulgò
due, ed un'altra in decembre del seguente anno 1505.

Il Conte di Ripacorsa ne stabilì pure alcune savie e prudenti. Diede
egli per le medesime l'esilio dal Regno a tutti i Ruffiani: proibì
severamente i giuochi e le usure, e riordinò la disciplina con leggi
severe e serie, la quale per li preceduti disordini si trovava in
declinazione e quasi che spenta. Alla di lui intercessione deve il
Regno quelle prerogative, che Ferdinando il Cattolico gli concedette
epilogate in 37 _Capitoli_[303]: siccome in tempo del suo Governo
furono stabiliti in Napoli i _Capitoli del ben vivere_[304], donde fu
con tanta esattezza e saviezza provveduto alla dovizia ed abbondanza
della città. Ed in que' pochi giorni, che D. Antonio Guevara come suo
_Luogotenente_, governò il Regno, ne fu da costui stabilita una molto
savia, per la quale furono rinovati i regolamenti, che Ferdinando I
avea dati intorno a' Cherici e Diaconi Selvaggi[305].

D. Raimondo di Cardona così nel Regno di Ferdinando, come in quello
di Carlo V, che lo confermò _Vicerè_, ci lasciò pure sue prammatiche,
siccome D. Bernardino Villamarino suo _Luogotenente_; le quali, per non
tesserne qui un noioso catalogo, possono secondo l'ordine de' Tempi
osservarsi nella suddetta _Cronologia_ prefissa al primo Tomo delle
nostre prammatiche.

Queste furono le prime leggi, che ci diedero gli Spagnuoli: leggi
tutte provvide e savie, nello stabilir delle quali furono veramente gli
Spagnuoli più d'ogni altra Nazione avveduti, e più esatti imitatori dei
Romani.



CAPITOLO VI.

_Politia delle nostre Chiese durante il Regno degli Aragonesi insino
alla fine del secolo XV, e principio del Regno degli Austriaci._


Siccome si è potuto osservare ne' precedenti libri di quest'Istoria,
i Pontefici romani, dopo essere interamente estinto lo Scisma, si
occuparono più nelle guerre d'Italia, e a favorire, o contrastare
uno de' Principi contendenti, che alle spedizioni contra i Turchi,
o ad altre più grandi imprese. Si applicarono ancora, cominciando
da _Calisto III_ agl'interessi della propria Casa, e ad ingrandire i
loro parenti e nipoti: instituto che continuato da' successori portò
in Italia nelle loro private famiglie due grandi Signorie, quella
di Fiorenza nella Casa de' Medici, e l'altra di Parma in quella de'
Farnesi; e coloro, che non ebbero opportunità d'innalzarli cotanto,
li provvidero almanco di ampi Stati ed estraordinarie ricchezze.
_Alessandro VI_ svergognò il Pontificato, perchè tutta la sua avarizia,
tutta la sua ambizione e crudeltà, e tante altre sue scelleratezze
le indirizzò a questo fine, d'innalzar Cesare Borgia suo figliuolo da
privato ad assolute ed independenti Signorie.

L'avidità di cumular tesori e tirar denaro in Roma da tutte le parti
e per ogni cosa, li tenne solleciti, di stender la loro giurisdizione
sopra il temporale; dì ricevere le appellazioni in ogni sorta di
causa, e di tirare in fine tutte le liti in Roma. Si tirarono ancora
le collazioni di quasi tutti i Beneficj, colle riserve, grazie,
aspettative, prevenzioni, annate e pensioni; e la maggior parte
de' Beneficj più doviziosi furono posti in commenda. Tutti gli
Arcivescovadi, Vescovadi, Badie, Priorati e Prepositure furono tirate
in Roma. Le Indulgenze, che a questi tempi più del solito erano
concedute da' Pontefici, le dispense, le decime, che erano imposte a'
Cleri, e tanti altri emolumenti tiravano alla Camera Appostolica grandi
ricchezze.

Ma sopra ogni altro dagli _Spogli_, particolarmente in Italia, si
ricavavano somme considerabilissime. Ancorchè il Concilio di Costanza
avesse proccurato porvi freno, con tutto ciò, morto il Beneficiato,
prima che che se gli fosse dato il successore, ciò che lasciava,
applicavasi alla Camera del Pontefice. Si mandavano Collettori e
Sottocollettori per tutto, li quali con severe estorsioni mettevano in
conto di spoglie eziandio gli ornamenti delle Chiese, e davano molta
molestia agli eredi, anche sopra i beni acquistati dal defunto con
industria, o cavati dal suo Patrimonio; ed in dubbio di qual qualità
fossero i beni, sentenziavano a favor della Camera: e coloro che ad
essi si opponevano, eran travagliati con scomuniche e censure.

In Francia e nella Germania tutte queste intraprese trovarono delle
opposizioni, ed in Ispagna la legge degli Spogli fu ristretta a'
soli Vescovi. Ma nel nostro Reame, come si è veduto nel XXII libro di
quest'Istoria, mentre durò il Regno degli _Angioini_ ligi de' Pontefici
romani, si sofferirono queste ed altre cose peggiori.

Trasferito poi il Regno agli _Aragonesi_, Alfonso I e gli altri Re
suoi successori della Casa d'Aragona, ancorchè seguendo gli esempi di
Spagna; non piacesse loro usare que' forti ed efficaci rimedi, che si
cominciavano a praticare in Francia; con tutto ciò andavano medicando
le ferite con unguenti e con impiastri, affin di togliere, come meglio
potevano, almeno gli abusi più gravi ed intollerabili. Essi, perchè i
pregiudizi sofferti da' loro predecessori non loro ostassero, tiravano
il titolo di regnare non già dagli _Angioini_, ma dagli _Svevi_ e
dall'ultimo Re Corradino, per l'investitura che ne fece al Re Pietro
d'Aragona marito di Costanza figliuola del Re Manfredi.

Alfonso I nel Conclave, che nell'anno 1431 si tenne per l'elezione del
nuovo Pontefice, proccurò che i Cardinali promettessero con giuramento
di non pretendere più _Spogli_; ond'essendo l'elezione seguita in
persona d'Eugenio IV, nell'investitura che questo Pontefice gli diede
del Regno di Napoli, per quel che s'apparteneva agli Spogli e frutti
delle Chiese vacanti, espressamente fu dichiarato, che si dovesse il
tutto regolare _JUXTA CANONICAS SANCTIONES_. Quindi per tutto il tempo,
che corse nel Regno de' Re d'Aragona, anche di Ferdinando il Cattolico,
insino ai principj del Regno dell'Imperador Carlo V, fu presso noi
introdotto stabile costume e pratica, che quando moriva alcun Prelato
o Beneficiato, non solamente di quelle Chiese e Beneficj ch'erano di
regia collazione, o presentazione, ma universalmente di tutte le Chiese
e Beneficj del Regno, si dava dal Cappellano Maggiore la notizia della
vacanza a' nostri Re, da quali per le loro Segreterie si spedivano
commessioni a persone, che lor fossero più a grado, affinchè in nome
della regia Corte ne prendessero il possesso, facessero degli _Spogli_
esatto e fedele inventario, e quelli insieme co' frutti, che andavano
maturando in tempo delle vacanze, conservassero in beneficio del
successore, senza che vi s'intromettesse la Camera Appostolica. Da
poi, conferitasi la Chiesa o Beneficio, si presentavano dal provvisto
le Bolle, e dato a quelle l'_exequatur Regium_, spedivasi ordine al
Commessario regio conservatore degli _Spogli_ e de' frutti suddetti,
acciò immettesse il provvisto nella possessione, e nell'istesso tempo
gli dasse i frutti. Gli esempi di questa pratica ne' Regni d'Alfonso
I, di Ferdinando I e del Re Federico, si descrivono in una consulta,
che il Duca d'Alcalà fece al Re Filippo II nel 1571, mentr'era Vicerè
del Regno[306]; ed insino a D. Ugo di Moncada, nel Regno di Carlo
V, tal'era il costume, ancorchè a tempo di Ferdinando il Cattolico
non si tralasciasse da Roma, quando le veniva in acconcio, di far
delle sorprese, siccome finalmente le riuscì nel 1528, quando essendo
accaduto nel precedente anno il sacco di Roma, Clemente VII per cavar
denari per suo riscatto, destinò Commessarj per tutto, li quali a torto
e a diritto esigessero spogli, annate e quanto potevano per far denari,
come vedremo ne' seguenti libri di quest'Istoria.

Ferdinando I non tralasciò, per quanto potè, andar incontro ad altri
abusi: egli, come si è veduto, regolò la prestazione delle _collette_,
e l'altre immunità pretese da Cherici o Diaconi _Selvaggi_: ripresse
gli attentati d'Innocenzio VIII[307], e cose maggiori se ne potevano
sperare da' suoi successori, se li tanti disordini accaduti poi nel
Regno, non li avessero costretti a pensare alla conservazione del
medesimo ed alla propria loro salute e scampo.

Ferdinando il Cattolico non discostandosi da' costumi spagnuoli, usava
piacevolezza e lentezza. Quindi nè molto si badò a' progressi, che
tuttavia gli Ecclesiastici facevano in distender la loro giurisdizione,
ed ampliare i loro Tribunali, in guisa, che fu duopo ancor ad essi
stabilire vari Riti (siccome fece l'Arcivescovado di Napoli) per meglio
regolarli e molto meno si badò agli eccessivi acquisti, che non tanto
le chiese, quanto i monasteri facevano de' beni temporali.


_Monaci e beni temporali._

Gli Aragonesi, ed infra gli altri il Re Alfonso II, arricchirono
cotanto i Religiosi di _Monte Oliveto_, che siccome fu veduto nel
XXV libro di questa Istoria, di buone Terre, di grandi e magnifiche
abitazioni, e di preziosa suppellettile, gli fornirono. Di che però
que' Monaci ne furono a coloro gratissimi; poichè nella loro bassa
e povera fortuna non mancarono sovvenirgli, e si legge ancora una
compassionevole lettera scritta da Alfonso II, mentre dimorava in
Sicilia, a' PP. Olivetani di Napoli, pregandoli, come fecero, che si
ricordassero di lui nelle loro orazioni, raccomandandolo a Dio, al
quale era piaciuto di ridurlo in quello stato lagrimevole, perchè
avesse di lui pietà e misericordia. E nelle calamità della Regina
Isabella, moglie del discacciato Re Federico, gli Olivetani con molta
gratitudine la sovvennero: poichè avendo, come si disse, presa la
risoluzione di ritirarsi in Ferrara, s'era quivi co' suoi figliuoli
ridotta in tanta povertà, che se gli Olivetani non la soccorrevano di
300 ducati l'anno, non poteva vivere; di che questa savia Regina per
sua lettera, scritta da Ferrara, rende loro molte grazie, che in quelle
avversità le avessero usata tanta gratitudine[308]

Nel principio del Regno degli Aragonesi, Alfonso I ad imitazione di
molti Conventi, che s'erano fondati in Ispagna, portò a noi l'ordine
di _S. Maria della Mercede,_ istituito per la _redenzione de' Cattivi_
dalle mani degl'Infedeli: egli fu il primo che nell'anno 1442,
secondo il diploma che rapporta il Summonte[309], fondò in Napoli un
monastero di quest'Ordine, dotandolo di molti beni, e concedendogli
molti privilegi. Il qual Ordine in tempo degli Austriaci fu da poi
accresciuto d'altri monasteri in Napoli ed altrove.

Ma niun Ordine fu cotanto celebre, e che più si allargò di quanti ne
furono in questo secolo istituiti, quanto quello de' _Minimi_, surto
in Calabria, e che ebbe per autore _Francesco di Paola_, nome della
Terra, ove e' nacque. Si dissero prima _Romiti di S. Francesco_,
perchè, secondo narra Filippo di Comines Signor d'Argentone[310] (che
trovandosi allora nella Corte del Re Luigi XI ebbe congiuntura di
trattarvi, quando da questo Re fu chiamato in Francia) egli dall'età
di dodici anni infino alli quarantatrè, quanti ne avea, quando venne
e lo conobbe in Francia, avea menata una vita di Romito, abitando
sempre in una spelonca sotto un altissimo sasso. Non mangiò in tutto il
corso di sua vita nè carne, nè pesce, nè uova, nè latte, astenendosi
di quasi tutti i cibi comuni all'uman genere. Era egli uomo idiota
e senza lettere, nè giammai avea appresa cos'alcuna. Ciò che, come
narra Comines, dava maggior ammirazione per le risposte prudenti e
savie, che egli faceva. La fama di tanta e sì estraordinaria austerità
e ritiratezza lo rese celebre per santità in tutta Europa, ond'era
chiamato il _Sant'uomo di Calabria_.

Luigi XI Re di Francia fu assalito a questi tempi d'una stravagante
infermità, la quale l'avea quasi alienato di mente, e ridotto a far
cose straordinarie e pazze. Si era chiuso nel suo castello di Plessis
di Tours e pieno di sospetti fece ben chiudere il palazzo, dentro il
quale niun personaggio voleva che s'alloggiasse, per grande che fosse.
Desideroso di ricuperar sua salute, mosso dalla fama del Sant'uomo
di Calabria, mandò un suo Maestro di Casa a torlo, ma non volendo
quegli partire senza commessione del Papa e del suo Re, fu duopo,
che Federico allora Principe di Taranto figliuolo del Re Ferdinando,
andasse in compagnia dell'Inviato franzese a torlo dalla spelonca, e
lo condussero in Napoli, dove dal Re e dai suoi figliuoli fu ricevuto
con somma stima ed onore Ciò che diede ammirazione fu, che essendo
uomo idiota e semplice, ragionava con esso loro, con tanta saviezza,
come se fosse nutrito ed allevato in Corte. Passò poi in Roma, dove
fu da' Cardinali accolto con grande onore, e molto più dal Pontefice
Sisto IV, dal quale ebbe tre segrete e lunghe udienze, facendolo sedere
presso a lui in sedia splendidamente ornata. Rimase il Pontefice così
sopraffatto della prudenza delle sue risposte, che gli diede autorità
di poter istituire un novello Ordine chiamato da lui _de' Romiti di S.
Francesco_. Partito da Roma e giunto in Francia, con maggiori onori fu
ricevuto dal Re: tutto ansioso di riaver la sanità, gli andò incontro
e vedutolo, s'inginocchiò a' suoi piedi, istantemente pregandolo,
che gli concedesse sanità e lunghezza di vita; ma egli saviamente,
e come ad uom prudente si conviene, gli rispose. E narra Monsignor
d'Argentone, ch'egli sovente l'avea inteso ragionare in presenza di
Carlo poi Re, e dov'erano tutti i Grandi del Regno, di molte cose con
tanta sapienza, che in un uomo idiota e senza lettere era impossibile,
che senza divina ispirazione potesse favellarne; ma poichè, mentre egli
scriveva, era costui ancor vivo, e come e' dice, si poteva cangiare
in meglio, o in peggio, perciò di lui non faceva più parola. Alcuni
della Corte del Re si ridevano della venuta del Romito, chiamandolo per
beffe il _Santuomo_; ma dice questo Scrittore, che costoro parlavano
così, perchè non erano informati, come lui, della stravaganza del male
del Re, nè aveano vedute le cose, che glie ne diedero cagione, ed il
desiderio grandissimo, che avea di liberarsene.

Ancorchè il Re Luigi niente impetrasse per l'intercessione di questo
Santuomo, poichè il male se gli accrebbe in guisa, che non guari da
poi gli tolse la vita: con tutto ciò Carlo VIII suo figliuolo, che gli
succedè nel Regno, l'ebbe in somma stima e venerazione, ed in suo onore
nell'entrata del parco della città di Tours, fece poi edificare una
chiesa, onde in Francia cominciò il suo nascente Ordine ad introdursi;
ed avendo Francesco fatta poi quivi la sua dimora, in poco tempo molti
monasteri furono ivi costrutti.

In Napoli, il primo che s'ergesse, fu in luogo a que' tempi solitario,
dove era una piccola cappella dedicata a _S. Luigi_ Re di Francia;
ond'è che ora quel monastero ritenga ancora il nome di quel Santo.
In Calabria fondò anch'egli un picciolo monastero de' suoi Religiosi
vicino a Paola sua patria. Se ne fondarono parimente in Roma; onde poi
si diffuse quest'Ordine per tutte l'altre province d'Europa, essendo
stata la sua Regola confermata da' Pontefici successori di Sisto, da
Alessandro VI e da Giulio II, ed in Napoli e nel Regno si moltiplicaron
poi i monasteri di questo Ordine in non picciol numero; e col mezzo
delle loro particolari divozioni, che ancor essi inventarono, crebbero
in ricchezze, e loro abitazioni in fabbriche magnifiche, dotate d'ampie
rendite in quello stato, che ora ciascun vede.


  FINE DEL LIBRO TRENTESIMO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO TRENTESIMOPRIMO


La morte di Ferdinando il Cattolico, ancorchè portasse la successione
di tanti Regni ad un gran Principe, quanto fu l'Arciduca Carlo, e
per quel ch'era, e per quello che dopo la morte di Massimiliano suo
avo dovea essere, onde pareva, che non si dovessero temere nuove
turbolenze: nulladimeno quest'istesso accese l'animo di _Francesco I_
Re di Francia all'impresa di Napoli, e a porre di nuovo in iscompiglio
questo nostro Reame. Veniva egli lusingato, ch'essendo il Regno per la
morte del Re male ordinato alla difesa, nè potendo l'Arciduca essere
a tempo a soccorrerlo, fosse facilmente per ottenerne la vittoria.
Credeva che il Pontefice Lione X avesse da facilitare l'impresa
anche per interesse proprio, dovendogli essere sospetta la troppa
grandezza dell'Arciduca successore di tanti Regni, e successore
futuro di Massimiliano Cesare. Sperava oltra questo, che l'Arciduca
conoscendo potergli molto nuocere l'inimicizia sua nello stabilirsi
i Regni di Spagna, e spezialmente quello d'Aragona, sarebbe proceduto
moderatamente ad opporsegli.

Al regno d'Aragona, se alle ragioni fosse stata congiunta la potenza,
avrebbero potuto aspirare alcuni della medesima famiglia, perchè,
sebbene vivente il Re morto ed Isabella sua moglie, fosse stato nelle
Congregazioni di tutto il Regno interpetrato, che le Costituzioni
antiche di quel Regno escludenti le femmine dalla successione della
Corona, non pregiudicavano a' maschi nati di quelle, quando nella
linea mascolina non si trovavano fratelli, zii o nipoti del Re morto,
e di chi gli fosse più prossimo del nato dalle femmine, o almeno in
grado pari; e che per questo fosse stato dichiarato appartenersi a
Carlo Arciduca, dopo la morte di Ferdinando, la successione: adducendo
in esempio, che per la morte di Martino Re d'Aragona, morto senza
figliuoli maschi, era stato per sentenza de' Giudici deputati a questo
da tutto 'l Regno, preferito Ferdinando avolo di questo Ferdinando
(benchè congiunto per linea femminina) al Conte d'Urgelli, ed agli
altri congiunti a Martino per linea mascolina, ma in grado più remoto
di Ferdinando; nondimeno era stata fin d'allora tacita querela ne'
Popoli, che in questa interpetrazione, e dichiarazione avesse più
potuto la potenza di Ferdinando e d'Isabella, che la giustizia; non
parendo a molti debita interpetrazione, che escluse le femmine, possa
essere ammesso chi nasce di quelle; e che nella sentenza data per
Ferdinando il vecchio, avesse più potuto il timore dell'armi sue, che
la ragione.

Queste cose essendo note al Re di Francia, e noto ancora, che i popoli
della provincia d'Aragona, di Valenza e della Contea di Catalogna
(includendosi tutti questi sotto 'l Regno d'Aragona) avrebbono
desiderato un Re proprio; sperava che l'Arciduca, per non mettere in
pericolo tanta successione e tanti Stati, non avesse finalmente ad
essere alieno dal concedergli con qualche convenevole composizione il
Regno di Napoli.

Ma mentre il Re Francesco era deliberato di non differire il muover
le armi, fu necessitato per nuovi accidenti a volger l'animo alla
difesa propria, poichè _Massimiliano_ si preparava per assaltare,
come avea convenuto con Ferdinando, il Ducato di Milano; laonde fu
costretto a cercar modo di pacificarsi col Re Carlo, e per mezzo
suo coll'Imperadore. Carlo, che cercava di rimovere le difficoltà
del passare in Ispagna, per istabilirsi in que' Regni: per consiglio
di Monsignor di Ceures, Fiamengo, con l'autorità del quale, essendo
allora nell'età di sedici anni, totalmente si reggeva, non ricusò,
accomodandosi alle necessità ed a' tempi, di farlo; ed avendo i loro
Ministri convenuto di congregarsi a Nojon, s'assemblarono quivi per la
parte del Re di Francia, il Vescovo di Parigi, il G. Maestro della sua
Casa, ed il Presidente del Parlamento di Parigi, e per la parte del Re
Cattolico, Monsignor di Ceures, ed il G. Cancelliere dell'Imperadore.
Convenuti i Deputati de' due Re a Nojon, ai 13 agosto di quest'anno
1516, fu la pace conchiusa, e per ciò che riguarda il Regno di Napoli,
furono stabilite tali Capitolazioni.

Che tra 'l Re di Francia e 'l Re di Spagna fosse perpetua pace e
confederazione per difesa degli Stati loro contra ciascuno. Che il
Re di Francia desse la figliuola _Luisa_, ch'era d'età di un anno,
in matrimonio al Re Cattolico, dandogli per dote le ragioni che
pretendeva appartenersegli sopra il Regno di Napoli, secondo la
divisione già fatta da' loro antecessori; ma con patto, che fin che la
figliuola non fosse d'età abile al matrimonio, pagasse il Re Cattolico
per sostentazione delle spese di lei al Re di Francia ciascun anno
centomila scudi[311]. Il Giovio[312] rapporta, che questi centomila
scudi dovevano pagarsi dal Re Cattolico al Re di Francia, come tributo,
acciocchè apparisse, che i Franzesi avessero qualche ragione nel Regno
di Napoli. Ma i capitoli di questa pace, che interi si leggono nella
Raccolta di Federigo Lionard[313], convincono il contrario, dove non
per tributo, ma per cagion delle spese non per sempre, ma insino che
_Luisa_ arrivasse all'età nubile, furono promessi.

Fu ancora convenuto, che se la designata sposa fosse morta innanzi
al matrimonio, ed al Re nascesse alcun'altra figliuola, quella
coll'istesse condizioni si desse al Re Cattolico, ed in caso al Re non
ne nascesse alcuna, si desse per isposa _Renata_, quella, ch'era stata
promessa nella Capitolazione fatta a Parigi. E morendo qualunque di
esse nel matrimonio senza figliuoli, ritornasse quella parte del Regno
di Napoli al Re di Francia. Fu ancora, secondo questi patti, cercata
a Papa Lione l'assoluzione de' giuramenti dati nel trattato, che si
trovava antecedentemente fatto del matrimonio con _Renata_ in Parigi;
e Lione a' 3 di settembre del medesimo anno 1516 ne spedì Bolla[314].

Fermata questa pace, Re Carlo, che dimorava a Brusselles s'accinse per
intraprendere il viaggio da Fiandra per Ispagna; e quasi alla fine del
seguente anno 1517 giunse con felice navigazione in Ispagna a pigliare
la possessione di que' Regni; avendo ottenuto dal Re di Francia (tra'
quali erano dimostrazioni molto amichevoli, ciascuno palliando la mala
disposizione, che intrinsecamente covavano) che gli prorogasse per sei
mesi il pagamento de' primi centomila ducati.

Giunto Carlo in Ispagna fu ricevuto con incredibile amorevolezza,
e la Regina _Giovanna_ sua madre gli cedè l'amministrazione di que'
Regni, con condizione che ne' titoli non si tralasciasse il suo nome,
e che governasse i Regni in nome suo e di Giovanna. Confermò nel
Viceregnato di Napoli D. Raimondo di Cardona e scrisse un'altra lettera
a' Napoletani piena d'affetti e di paternal amore. Nel medesimo tempo,
essendo morta la figliuola del Re di Francia destinata ad essere
sposa del Re di Spagna, fu riconfermata tra loro la pace e la prima
capitolazione, con la promessa del matrimonio della seconda figliuola,
celebrando l'uno e l'altro Principe questa congiunzione con grandissime
dimostrazioni estrinseche di benivolenza; il Re di Spagna, che gli
avea già fatto pagare in Lione i centomila ducati, portò pubblicamente
l'Ordine di S. Michele il dì della sua festività, ed il Re di Francia
il giorno dedicato a S. Andrea, portò pubblicamente l'Ordine del
Tosone.



CAPITOLO I.

_Morte di MASSIMILIANO Cesare, ed elezione nella persona di CARLO
suo nipote in Imperadore. Discordie indi seguite tra lui, e 'l Re di
Francia, che poi proruppero in aperte e sanguinose guerre._


Mentre le cose d'Italia e del Regno si stavano in quiete, Massimiliano
in questo medesimo anno 1517, desideroso di stabilire la successione
dell'Imperio romano, dopo la sua morte, in uno de' nipoti, trattava
con gli Elettori di farne eleggere uno in Re de' Romani. E benchè
Cesare avesse prima desiderato, che questa dignità fosse conferita a
Ferdinando suo nipote secondogenito, parendogli conveniente, che poichè
al fratello maggiore erano venuti tanti Stati e tanta grandezza, si
sostentasse l'altro con questo grado, giudicando, che per mantenere più
illustre la Casa sua, e per tutti i casi sinistri, che nella persona
del maggiore potessero succedere, essere meglio avervi due persone
grandi, che una sola, nondimeno stimolato in contrario da molti de'
suoi e dal Cardinal Sedunense e da tutti quelli, i quali temevano
ed odiavano la potenza de' Franzesi, rifiutato il primo consiglio,
voltò l'animo a far opera, che a questa dignità fosse assunto il
Re di Spagna: dimostrandogli questi tali, essere molto più utile
all'esaltazione della Casa d'Austria, accumulare tutta la potenza in un
solo, che dividendola in più parti, fargli meno potenti a conseguire
i disegni loro: essere tanti e tali i fondamenti della grandezza di
Carlo, che aggiungendosegli la dignità imperiale, si poteva sperare,
che avesse a ridurre l'Italia tutta, e gran parte della Cristianità
in una Monarchia, cosa non solo appartenente alla grandezza dei suoi
discendenti, ma ancora alla quiete de' sudditi, e per rispetto delle
cose degl'Infedeli, a beneficio di tutta la Repubblica cristiana: ed
essere ufficio e debito suo pensare all'augumento ed all'esaltazione
della dignità imperiale, stata tant'anni nella persona sua e nella
famiglia d'Austria, la quale non si poteva sperare aversi a sollevare,
nè ritornare al pristino splendore, se non trasferendosi nella persona
di Carlo, e congiugnendosi alla sua potenza: vedersi per gli esempi
degli antichi Imperadori, Cesare Augusto e molti dei suoi successori,
che mancando di figliuoli e di persone della medesima stirpe, gelosi
che non s'ispegnesse o diminuisse la dignità riseduta nella persona
loro, aver cercato successori remoti di congiunzione, o non attenenti
eziandio in parte alcuna, per mezzo delle adozioni; ed esser fresco
l'esempio del Re Cattolico, il quale amando come figliuolo Ferdinando,
allevato continuamente appresso a lui, nè avendo, non che altro, mai
veduto Carlo, anzi provatolo nella sua ultima età poco ubbidiente
a' precetti suoi; nondimeno senza aver compassione della povertà
di quello, non gli avea fatta parte alcuna di tanti suoi Stati, nè
di quelli eziandio che per essere acquistati da lui proprio, era in
facoltà sua di disporne; anzi aver lasciato tutto a colui, che quasi
non si conosceva, se non per uno strano.

A questa istanza di Cesare si opponeva con ogni arte ed industria
il Re di Francia, essendogli molestissimo, che a tanti Regni e
Stati del Re di Spagna s'aggiugnesse ancora la dignità imperiale, la
quale, ripigliando vigore da tanta potenza, diventerebbe formidabile
a ciascuno; però cercava di disturbarla occultamente appresso agli
Elettori ed al Pontefice; ed ai Vineziani aveva mandato Ambasciadore,
perchè si unissero seco a fare l'opposizione, ammonendo e il Pontefice
e loro del pericolo porterebbono di tanta grandezza. Ma gli Elettori
erano in gran parte tirati nella sentenza di Cesare, e già quasi
assicurati de' denari, che per questa elezione si promettevano loro
dal Re di Spagna, il quale aveva mandato per questo in Alemagna
ducentomila ducati. Nè si credeva, che il Pontefice, ancorchè gli
fosse molestissimo, ricusasse di concedere, che per mano de' Legati
appostolici Massimiliano ricevesse in Germania in suo nome la Corona
dell'Imperio; poichè l'andare ad incoronarsi a Roma, sebbene con
maggiore autorità della Sede appostolica, era riputato più presto
cerimonia, che substanzialità[315].

(Intanto fu ciò proposto, perchè sembrava cosa nuova, che non essendo
stato ancora _Massimiliano_ coronato dal Pontefice, si potesse venire
alla elezione del Re de' Romani, siccome narra _Gerardo a Roo_[316],
il quale parlando di _Massimiliano_ scrisse: _Is aetate jam provectum
se considerans, sive mortem haud procul abesse animo praesagiens, cum
Septemviris Imperii Electoribus, qui praeter Bohemiae Regem, Augustam
omnes venerant, de Carolo Nepote, in Romanorum Regem eligendo, agere
coepit; cumque novi exempli res esset, Caesare nondum a Pontefice
coronato, Regem eligi, in Concilio propositum fuit, eo inducendum esse
Leonem, uti Coronam, et alia Imperatoriae Dignitatis insignia, per
Legatum conferenda, in Germaniam mittat_).

Con suddetti pensieri e con suddette azioni si consumò l'anno 1518, non
essendo ancora fatta la deliberazione dagli Elettori, la quale diventò
più dubbia e più difficile per la morte di Massimiliano succeduta a
Lintz nel primi giorni dell'anno 1519.

Morto Massimiliano, cominciarono ad aspirare all'Imperio apertamente il
Re di Francia ed il Re di Spagna, la quale controversia, benchè fosse
di cosa sì importante, e tra Principi di tanta grandezza, nondimeno
fu esercitata tra loro destramente, non procedendo nè a contumelie di
parole, nè a minacce d'armi, ma ingegnandosi ciascuno con l'autorità e
mezzi suoi, tirare a se gli animi degli Elettori: anzi il Re di Francia
molto laudabilmente parlando sopra questa elezione con gli Ambasciadori
del Re di Spagna, diceva essere commendabile, che ciascuno di loro
cercasse onestamente di ornarsi dello splendore di tanta dignità, la
quale in diversi tempi era stata nelle Case degli antecessori loro; ma
non per questo dover l'uno di loro ripigliarlo dall'altro per ingiuria,
nè diminuirsi per questo la benivolenza e congiunzione già stabilita.

Pareva al Re di Spagna appartenersegli l'Imperio debitamente, per
essere continuato molti anni nella Casa d'Austria, nè essere stato
costume degli Elettori privarne i discendenti del morto senza evidente
cagione della inabilità loro. Non essere alcuno in Germania di tanta
autorità o potenza, che potesse competere seco in questa elezione; nè
gli pareva giusto o verisimile, che gli Elettori avessero a trasferire
in un Principe forestiero tanta dignità continuata già molti secoli
nella Nazione germanica; e quando alcuno, corrotto con denari o per
altra cagione, fosse d'intenzione diversa, sperava, o di spaventarlo
con le armi preparate in tempo opportuno e che gli altri Elettori se
gli opporrebbero, o almeno, che tutti gli altri Principi e l'altre
Terre franche di Germania non comporterebbono tanta infamia ed
ignominia di tutti, e massimamente trattandosi di trasferirla la nella
persona di un Re di Francia, con accrescere la potenza di un Re nemico
alla loro Nazione, e donde si poteva tenere per certo, che quella
dignità non ritornerebbe mai più in Germania. Stimava facile ottenere
la perfezione di quello che era già stato trattato con l'avolo, essendo
già convenuto de' premj e de' donativi con ciascuno degli Elettori.

Dall'altra parte non era minore, nè la cupidità, nè la speranza del Re
di Francia, fondata principalmente su la credenza dell'acquistare con
grandissima somma di denari li voti degli Elettori, alcuni de' quali
mostrandogli la facilità della cosa, lo incitavano a farne impresa:
la quale speranza nudriva con ragioni più presto apparenti che vere,
perchè sapeva, che ordinariamente a' Principi di Germania era molesto,
che gli Imperadori fossero molto potenti per il sospetto, che non
volessero in tutto, o in qualche parte riconoscere le giurisdizioni
ed autorità imperiali occupate da molti, e però si persuadeva, che
in modo alcuno non fossero per consentire alla elezione del Re di
Spagna. Eragli noto ancora essere molestissimo a molte Case illustri
in Germania, che pretendevano essere capaci di quella dignità, che
l'Imperio fosse continuato tanti anni in una casa medesima, e che
quello, che oggi all'una, domani all'altra dovevano dare per elezione,
fosse cominciato quasi per successione a perpetuarsi in una stirpe
medesima; e potersi chiamare successione quella elezione, che non
permette discostarsi da' più prossimi della stirpe degl'Imperadori
morti; così da Alberto d'Austria essere passato l'Imperio in Federico
suo fratello, da Federico in Massimiliano suo figliuolo, ed ora
trattarsi di trasferirlo da Massimiliano nella persona di Carlo suo
nipote. Però, oltre questo, sperava il Re di Francia nel favore del
Pontefice; così per la congiunzione e benivolenza, che gli pareva aver
contratta seco, come perchè non credeva, che a lui potesse piacere, che
Carlo Principe di tanta potenza, e che contiguo col Regno di Napoli
allo Stato della Chiesa, avea per l'aderenze de' Baroni Ghibellini
aperto il passo insino alle porte di Roma, conseguisse anche la Corona
dell'Imperio; non considerando, che questa ragione verissima contro
Carlo, militava ancora contro lui; nondimeno non conoscendo in se
quello, che facilmente considerava in altri, ricorse al Pontefice,
supplicandolo volesse dargli favore, perchè di se e dei Regni suoi si
potrebbe valere, come di proprio figliuolo.

Premeva grandissimamente al Pontefice la causa di questa elezione,
essendogli molestissimo per la sicurezza della Sede Appostolica
qualunque de' due Re fosse assunto all'Imperio. Nè essendo tale
l'autorità sua appresso agli Elettori, che sperasse con quella poter
giovare molto, giudicò essere necessario adoperare in cosa di tanto
momento la prudenza e le arti. Persuadevasi, che il Re di Francia,
ingannato facilmente da qualcuno degli Elettori non fosse per avere
parte alcuna in questa elezione, nè avere, benchè in uomini venali, a
poter tanto le corruttele, che avessero disonestamente a trasferire
l'Imperio dalla Nazione germanica nel Re di Francia. Parevagli che
al Re di Spagna per essere della medesima nazione per le pratiche
cominciate da Massimiliano, e per molti altri rispetti, fosse molto
facile conseguire l'intento suo, se non gli si faceva opposizione
molto potente; la quale giudicava non potere farsi in altro modo, se
non che il Re di Francia si disponesse a voltare in uno degli Elettori
que' medesimi favori e denari che usava per eleggere se. Parevagli
impossibile indurre il Re a questo, mentre che era nel fervore delle
speranze vane; però sperava, che quanto più ardentemente, e con più
speranza s'ingolfasse in questa pratica, tanto più facilmente, quando
cominciasse ad accorgersi riuscirgli vani i pensieri suoi e trovandosi
irritato e su la gara, aversi a precipitare a favorire l'elezione di
un terzo, con non minore ardore: e quindi poter similmente accadere,
favorendosi gagliardamente ne' principj le cose del Re di Francia,
che l'altro Re veduto difficultarsi il desiderio suo, e dubitando,
che il Re avversario non vi avesse qualche parte, si precipitasse
medesimamente ad un terzo. Per queste cagioni, non solo dimostrò
al Re di Francia di avere sommo desiderio, che in lui pervenisse
l'Imperio, ma lo confortò con molte ragioni a procedere vivamente in
questa impresa, promettendogli amplissimamente di favorirlo con tutta
l'autorità del Pontificato.

(Se dee prestarsi fede a _Goldasto_, Papa _Lione_ mandò un suo Legato
nel congresso degli Elettori, dimandando, _ut Regem Neapolitanum cujus
Regni proprietas ad Ecclesiam Romanam spectat, nullo pacto in Romanorum
Regem eligant, obstante sibi defectu inhabilitatis et ineligibilitatis,
ex Constitutione Clementis Quarti_. E che gli Elettori poco di ciò
curando, gli rispondessero, ch'essi non dovean aver altro riguardo,
che d'elegger colui, che riputassero il più savio ed il più degno.
_Goldasto, Tomo uno Constit. Imp. p. 429_ rapporta non men la dimanda
del Legato, che la risposta degli Elettori).

Mentre le suddette cose si trattavano con tante sollecitudini e
sospetti, non intermisero però l'uno e l'altro Re gli atti della
congiunzione ed amicizia: poichè nel medesimo tempo convennero in nome
loro a Monpelieri il Gran Maestro di Francia e Monsignor di Ceures (in
ciascuno de' quali consisteva quasi tutto il consiglio e l'animo del
suo Re) per trattare sopra lo stabilimento del matrimonio della seconda
figliuola del Re di Francia col Re di Spagna, e molto più per risolvere
le cose del Reame di Navarra; la restituzione del quale all'antico Re
promessa nella concordia fatta a Nojon, benchè molto sollecitata dal Re
di Francia, era differita dal Re di Spagna con varie scuse; ma la morte
del Gran Maestro succeduta innanzi parlassero insieme, interruppe la
speranza di questo congresso.

Ma dall'altra parte con grandissima contenzione si proseguiva dall'uno
e l'altro Re l'impresa dell'Imperio. Il Re di Francia s'ingannava ogni
giorno, indotto dalle promesse grandi del Marchese di Brandeburg, uno
degli Elettori, il quale avendo ricevuto da lui offerte grandissime
di denari, e forse qualche somma presente, si era non solo obbligato
con occulte Capitolazioni a dargli il voto suo, ma promesso che
l'Arcivescovo di Magonza suo fratello farebbe il medesimo. Si lusingava
ancora del voto del Re di Boemia: per lo voto del quale, discordando
i sei Elettori, che tre ne sono Prelati e tre Principi, si decide la
controversia. Dall'altro canto si scorgeva grande la inchinazione de'
Popoli di Germania, perchè la dignità Imperiale non si rimovesse da
quella Nazione, anzi insino agli Svizzeri, mossi dall'amor della Patria
comune Germania, avevano supplicato il Pontefice, che non favorisse in
questa elezione alcuno, che non fosse di Lingua Tedesca.

Convenuti per tanto gli Elettori, secondo l'uso antico a Francfort,
mentre stavano in varie dispute per venire al tempo debito, secondo
gli ordini loro, all'elezione, avvicinossi a Francfort un esercito
messo in campagna per ordine del Re di Spagna (il quale fu più pronto
co' danari a raccorre gente, che a dargli agli Elettori) sotto nome
di proibire chi proccurasse di violentare la elezione; onde con
ciò accrescendo l'animo agli Elettori, che favorivano la causa sua,
tirò nella sentenza degli altri quelli ch'erano dubbj, e spaventò
il Brandeburghese inclinato al Re di Francia; in modo che venendosi
all'atto dell'elezione, fu il vigesimo ottavo giorno di giugno di
quest'anno 1519 eletto Imperadore Carlo d'Austria Re di Spagna dai voti
concordi di quattro Elettori, dall'Arcivescovo di Magonza e quello di
Colonia e dal Conte Palatino e dal Duca di Sassonia; ma l'Arcivescovo
di Treveri elesse il Marchese di Brandeburgo, il quale concorse
anch'egli alla elezione di se stesso. Nè dubitossi, che se per la
equalità de' voti l'elezione fosse pervenuta alla gratificazione del
VII Elettore, che sarebbe succeduto il medesimo, perchè Lodovico Re di
Boemia, il qual'era anche Re d'Ungheria avea promesso a Carlo il suo
voto.

Afflisse questa elezione molto l'animo del Re di Francia e del
Pontefice e di quelli che in Italia dipendevano da lui, vedendo
congiunta tanta potenza in un Principe solo, giovane, ed al quale
si sentiva per molti vaticinj essere promesso grandissimo Imperio e
stupenda felicità; e se bene non fosse copioso di danari, quanto era il
Re di Francia, nondimeno era tenuto di grandissima importanza il potere
empiere gli eserciti suoi di fanteria tedesca e spagnuola, milizia di
molta stimazione e valore.

Il Pontefice Lione nascondeva con recondite simulazioni, ed arti
il suo discontento, e non era ancora in se medesimo risoluto a qual
partito dovesse appigliarsi: pure per fuggir l'occasione di scoprire
l'animo suo mal affetto a Carlo, di sua libera volontà, dispensò a
poter accettare la elezione fattagli dello Imperio non ostante, che
fosse contra il tenore della investitura del Regno di Napoli, con la
quale (fatta secondo la forma delle antiche investiture) gli veniva
ciò espressamente proibito, spedendogli per ciò Bolla, per la quale fu
abilitato ad essere Imperadore, non ostante li patti suddetti, che si
legge presso il Chioccarelli[317].

Nel nuovo anno 1520 passò Cesare per mare di Spagna in Fiandra, e di
Fiandra in Germania, dove nel mese d'ottobre ricevè in Aquisgrana,
città nobile per l'antica residenza, e per lo sepolcro di Carlo M. con
grandissimo concorso la prima Corona (quella medesima, secondo ch'è
fama, con la quale fu incoronato Carlo M.) datagli, secondo il costume
antico, con l'autorità de' Principi di Germania.

Ma questa sua felicità era turbata dagli accidenti nati di nuovo
in Ispagna, perchè a' popoli di quei Regni era stata molesta la
promozione sua all'Imperio, conoscendo, che con grandissima incomodità
e detrimento di tutti sarebbe per varie cagioni necessitato a stare
non picciola parte del tempo fuori di Spagna: ma molto più gli aveva
mossi l'odio grande, che avevano conceputo contra l'avarizia di
coloro, che lo governavano, massimamente contra Ceures e gli altri
Fiaminghi, in modo che concitati tutti i Popoli contra il nome loro,
avevano alla partita di Cesare tumultuato quei di Vagliadolid, ed
appena uscito di Spagna, sollevati tutti, non contra il Re, ma contra
i cattivi Governatori: e comunicati insieme i consigli, non prestando
più ubbidienza agli Uffiziali regj, avevano fatto congregazione della
maggior parte de' Popoli, li quali data forma al Governo, si reggevano
in nome della _Santa Giunta_ (così chiamavano il Consiglio universale
de' Popoli), contra li quali essendosi levati in armi i Capitani
e Ministri regj, ridotte le cose in manifesta guerra, erano tanto
moltiplicati i disordini, che Cesare piccolissima autorità vi riteneva.
Donde in Italia e fuori cresceva la speranza di coloro, che avrebbero
desiderato diminuita tanta grandezza.

Nella fine di quest'anno istesso, forse tremila fanti spagnuoli, stati
più mesi in Sicilia, non volendo ritornare in Ispagna, secondo il
comandamento avuto da Cesare, disprezzata l'autorità de' Capitani,
passarono a Reggio di Calabria, e procedendo (con fare per tutto
gravissimi danni) verso lo Stato della Chiesa, misero in grave terrore
il Papa; massimamente ricusando l'offerte fatte dal Vicerè di Napoli,
e da lui di soldarne una parte, ed agli altri far donazione di denari;
ma questo movimento si risolvè più presto che gli uomini non credevano,
perchè passato il Tronto per entrare nella Marca Anconitana, nella
quale il Pontefice aveva mandate molte genti, ed andati a Campo a Ripa
Transona, avendovi dato un assalto gagliardo, perduti molti di loro,
furono costretti a ritirarsi; laonde diminuiti molto d'animo e di
riputazione, accettarono cupidamente da' Ministri di Cesare condizioni
molto minori di quelle, le quali avevano disprezzate.

Intanto vie più crescevano tra Cesare e 'l Re di Francia le male
inclinazioni, e Papa Lione, ancor che ostentasse in apparenza
neutralita, avendo per sospetta la troppa felicità di Carlo,
segretamente trattava col Re di Francia del modo di cacciarlo dal
Reame di Napoli, e fra di loro s'erano accordati d'assaltare con
l'armi, congiunti insieme, il Regno, con condizione, che Gaeta e
tutto quello che si contiene tra 'l fiume del Garigliano ed i confini
dello Stato ecclesiastico, s'acquistasse per la Chiesa: il resto del
Regno fosse del secondogenito del Re di Francia, il quale per essere
d'età minore avesse ad essere, insino ch'egli fosse d'età maggiore,
governato insieme col Reame da un Legato appostolico, che risiedesse a
Napoli[318].

In questo medesimo tempo invitato il Re dall'occasione de' tumulti
di Spagna, e confortato (secondo che poi querelandosi affermava)
dal Pontefice, mandò un esercito sotto Asparoth, fratello di Oderico
Lautrech in Navarra per ricuperar quel Regno al Re antico, siccome gli
riuscì felicemente. E non restava altro per l'impresa di Napoli, che
l'esecuzione della capitolazione fatta a Roma tra 'l Pontefice e lui;
della quale venendogli ricercata la ratifica cominciò a star sospeso,
essendogli messo sospetto da molti, che attesa la duplicità del
Pontefice, e l'odio che, assunto al Pontificato, gli avea continuamente
dimostrato, era da dubitare di qualche fraude, dicendo non esser
verisimile, che il Pontefice desiderasse, che in lui, o ne' figliuoli
pervenisse il Reame di Napoli, perchè avendo quel Regno e il Ducato di
Milano, temerebbe troppo la sua potenza: per certo tanta benevolenza
scopertasi così di subito non essere senza misterio. Avvertisse bene
alle cose sue ed agl'inganni, e che credendo acquistare il Regno di
Napoli, non perdesse lo Stato di Milano: perchè mandando l'esercito a
Napoli, sarebbe in potestà del Pontefice, che aveva seimila Svizzeri,
intendendosi co' Capitani dell'Imperadore, disfarlo, e disfatto quello,
che difesa rimanere a Milano? Queste ragioni commossero il Re in modo,
che stando dubbio del ratificare, e forse aspettando risposta d'altre
pratiche, non avvisava a Roma cos'alcuna, lasciando sospesi il Papa e
gli Ambasciadori suoi.

Ma il Pontefice, o perchè veramente governandosi con le simulazioni
consuete, avesse l'animo alieno dal Re; o perchè come vide passati
tutti i termini del rispondere, sospettando di quel ch'era, e temendo,
che il Re non iscoprisse a Cesare le sue pratiche, concitato ancora
dal desiderio ardente, che avea di ricuperare Parma e Piacenza, e di
fare qualche cosa memorabile: sdegnato oltre questo dalla insolenza di
Lautrech e del Vescovo di Tarba suo ministro, li quali non ammettendo
nello Stato di Milano alcuno comandamento, o provisioni ecclesiastiche,
le dispregiavano con superbissime ed insolentissime parole; deliberò di
congiugnersi con Cesare contra il Re di Francia.

Dall'altra parte l'Imperadore irritato dalla guerra di Navarra, e
stimolato da molti fuorusciti di Milano, e commosso ancora da alcuni
del suo Consiglio, desiderosi d'abbassare la grandezza di Ceures,
che aveva sempre dissuaso il separarsi dal Re di Francia; si risolvè
a confederarsi col Pontefice contra il Re, ed in effetto fu senza
saputa di Ceures, il quale opportunamente morì quasi ne' medesimi
giorni, tra il Pontefice e l'Imperadore fatta confederazione a difesa
comune, eziandio della Casa de' Medici e de' Fiorentini, con aggiunta
di rompere la guerra nello Stato di Milano, il quale acquistandosi,
restasse alla Chiesa Parma e Piacenza, per tenerle con quelle ragioni,
con le quali le avea tenute per innanzi; e che atteso che Francesco
Sforza, il quale era esule a Trento, pretendeva ragione nello Stato di
Milano per l'investitura paterna e per la rinunzia del fratello, che
acquistandosi ne fosse messo in possessione, ed obbligati i Collegati
a mantenervelo e difendervelo: che il Ducato di Milano non consumasse
altri Sali, che quelli di Cervia: che fosse permesso al Papa non solo
di procedere contra i sudditi e feudatari suoi; ma obbligato eziandio
Cesare (acquistato che fosse lo Stato di Milano) ad aiutarlo contra
loro, e nominatamente all'acquisto di Ferrara: fu accresciuto il censo
del Reame di Napoli, e promessa al Cardinal de' Medici una pensione di
diecimila ducati su l'Arcivescovado di Toledo vacato nuovamente, ed uno
Stato nel Reame di Napoli d'entrata di diecimila ducati per Alessandro
de' Medici figliuol naturale di Lorenzo, già Duca d'Urbino.

Conchiusa occultissimamente questa confederazione fra 'l Papa e
l'Imperadore contra il Re di Francia, furono tutti rivolti i loro
pensieri alla guerra di Milano, la quale per essere stata cotanto
bene scritta dal Guicciardino, dal Giovio, e da altri Scrittori
contemporanei, e per non essere del mio istituto, volontieri tralascio.
In brieve, gli Imperiali, e Francesco Sforza avendone cacciati i
Franzesi comandati dal famoso Capitano Lautrech, acquistarono quel
Ducato; del quale successo il Pontefice Lione ebbe tanta contentezza,
che Michiel S. di Montagna[319] scrive, che all'avviso della presa di
Milano, da lui estremamente desiderata, entrò in tale eccesso di gioia,
che ne fu preso dalla febbre, e se ne morì. Il Guicciardino[320] narra,
che morisse di morte inaspettata il primo di dicembre di quest'anno
1521, poichè dopo d'aver avuta la nuova dell'acquisto di Milano,
e ricevutone incredibile piacere, fu sorpreso la notte medesima da
piccola febbre, e ancorchè da' Medici fosse riputato di piccolo momento
il principio della sua infermità, morì fra pochissimi giorni, non senza
sospetto grande di veleno, datogli, secondo si dubitava, da Bernabò
Malespina suo cameriere, deputato a dargli da bere: il quale se bene
fosse incarcerato per questa sospezione, non ne fu poi ricercata più
cosa alcuna: perchè il Cardinal de' Medici, come fu giunto a Roma, lo
fece liberare, per non avere occasione di contrarre maggior inimicizia
col Re di Francia, per opera di chi si mormorava, ma con autore e
conghietture incerte, Bernabò avergli dato il veleno.

Fu agli 9 di gennajo del nuovo anno 1522 in suo luogo rifatto Adriano
Cardinal di Tortosa di nazion fiamengo, ch'era stato in puerizia di
Cesare maestro suo, e per opera sua promosso da Lione al Cardinalato,
il quale avuta la novella dell'elezione, non mutando il nome, che
prima avea, si fece denominare _Adriano VI_. Il suo Pontificato fu
molto breve, e durò poco più d'un anno e mezzo, essendosene morto ai
14 settembre del seguente anno 1523. Ed in suo luogo dopo due mesi
fu eletto il Cardinal Giulio de' Medici, che fece chiamarsi _Clemente
VII_.

Grandi furono gli avvenimenti sotto il suo Pontificato: Re Francesco
tornò in Italia per ricuperar lo Stato di Milano, assedia Pavia,
commette fatto d'arme nel Parco, e vi vien fatto infelicemente
prigione. Furono proposte molte condizioni per la sua liberazione,
ed intanto fu menato prigione in Ispagna, ove vi stette fin che fu
conchiuso con dure condizioni l'accordo fra lui e Cesare della sua
liberazione.

(_Carlo di Launoja_, senza saputa del _Borbone_ e del _Marchese di
Pescara_, dando a sentire di voler portare il Re Francesco a Napoli in
più forte e più sicura prigione, lo condusse in Ispagna: di che que'
mostrandosene aspramente offesi lo querelarono all'Imperadore, ed il
_Pescara_, siccome narra il _Varchi_, mandò al _Launoja_ un cartello,
sfidandolo come traditore, ed offrendosi di voler ciò provargli
colle arme in mano a corpo a corpo combattendo. Da questa mala
soddisfazione del Marchese nacque l'imputazione, che gli fu addossata
d'aver dato orecchio all'offerte del Papa di volerlo investire del
Regno di Napoli. Il _Varchi_ nella sua _Istoria Fiorentina_ stampata
ultimamente colla data di Colonia nel 1721 _lib. 2 pag. 12_ narra le
più minute circostanze di questo fatto, scrivendo, che il _Pescara_
avesse risposto all'offerta fattagli dal _Morone_, che ogni volta che
gli fosse mostrato, che senza pregiudizio dell'onor suo ciò far si
potesse, egli non ricuserebbe di porvi mano: e da Roma gli fu tosto
levato ogni scrupolo, poichè ivi non _mancarono_ (dice il _Varchi_) _de
Dottori, anzi Cardinali stessi_ (_e questi furono Cesis e l'Accolto_)
_i quali scrissero al Pescara, facendogli certa fede ed indubitata
testimonianza, ch'egli secondo la disposizione e ordinamenti delle
leggi così civili, come canoniche, non solo poteva ciò fare senza
mettervi scrupolo alcuno di punto dell'onor suo; ma eziandio che dovea
farlo per obbedire al sommo Pontefice_. Il Marchese che unicamente per
iscorgere i consiglj e fini de' nemici avea dato orecchio a questo
trattato, fingendo esser dubbio d'accettar l'invito, diede d'ogni
cosa relazione all'Imperadore _Carlo V_, il quale nella risposta,
che nel 1526 fece a _Clemente VII_, dichiarò essere stato fin dal
principio informato dal medesimo di tutto, e che non poteva avere
alcun sospetto della fedeltà ed onore del _Pescara_; rinfacciando al
Papa questi indegnissimi modi e perverse machinazioni. Merita esser
letta questa savia e gravissima risposta di Cesare; la qual finisce con
un'appellazione che interpose, di tutti i papali atti e futuri gravami
e minacce, al futuro general Concilio, che dovea tosto convocarsi da
tutte le province cristiane. Fu quella impressa da _Goldasto_ nel tomo
uno _Const. Imp._ e si legge _alla pag. 419_, ed ultimamente _Lunig_
nel III tomo del suo _Codice Diplomatico d'Italia_, che in quest'anno
1732 ha dato alla luce, non ha mancato alla _pagina_ 1962 _et seqq_. di
trascriverla tutta intera, insieme col Breve lunghissimo di _Clemente_,
al quale si risponde).

Nella capitolazione fra il Re Francesco, e l'Imperadore, che fu
stipulata in Madrid li 14 di gennajo dell'anno 1526, fra l'altre cose
fu convenuto, che rinunziasse il Re Cristianissimo, e cedesse a Cesare
tutte le ragioni del Regno di Napoli, eziandio quelle che gli fossero
pervenute per le investiture della Chiesa, e 'l medesimo facesse delle
ragioni dello Stato di Milano[321].

Non meno i Giureconsulti che gl'Istorici[322] scrissero, che in
vigor di questo accordo fossero estinte tutte le ragioni, che mai
i Re di Francia potessero rappresentare sopra il Reame di Napoli, e
che nell'avvenire non avrebbero più pretesto d'invaderlo, e che per
ciò ogni guerra che si fosse mossa, sarebbe stata irragionevole ed
ingiusta, ed in fine, che si sarebbero terminate tutte le contese sopra
il Regno di Napoli.

Ma non furono vani i presagi, che gli uomini prudenti sin d'allora
fecero di questa simulata e sforzata convenzione: appena si vide
il Re Francesco posto in libertà, che riputando di niun valore le
obbligazioni fatte violentemente in prigione, nulla curando de'
propri figliuoli dati in ostaggio in potere di Cesare, non solo non
le osservò, ma riputandosi ingiuriato da lui, per averlo astretto
a promesse indegne ed impossibili, proccurò vendicarsene: a questo
fine, avanti che segnasse la pace, nel medesimo giorno, fecene lunga
protesta, che si legge presso _Lionard_ nella sua Raccolta[323], ove
dichiarava per pura violenza, trovandosi prigione e gravemente infermo,
essere stato costretto a segnarla. Perciò avendo rivolti i suoi
pensieri per unire tutte le sue forze, tornò più irato che mai a fargli
nuova guerra, e a portare le sue armi di nuovo in Italia, con impegno
non solo di ricuperare il perduto Stato di Milano, ma invadere anche
il Regno di Napoli, promettendosene per mezzo di _Lautrech_ suo famoso
Capitano la reduzione, come più innanzi narreremo.



CAPITOLO II.

_Come intanto fosse governato il Regno di Napoli da D. RAIMONDO DI
CARDONA, e dopo la di lui morte da D. CARLO DI LAUNOJA suo successore._


Intanto il Regno di Napoli commesso al governo di D. Raimondo di
Cardona dal Re Ferdinando e poi dal Re Carlo, che lo confermò Vicerè,
ancorchè non avesse patita alcuna invasione di armi straniere,
soffriva di volta in volta tasse intollerabili, perchè dovendosi
mantenere una guerra così dispendiosa, venivano i Baroni e li Popoli,
in occasione di dimandare o nuove grazie, o conferma delle antiche,
ovvero (ciò che più loro premeva) esecuzione delle già concedute, le
quali non erano osservate, costretti a far nuovi donativi di somme
considerabilissime. Erano i tanti capitoli e le tante grazie loro
concedute sempre mal eseguite; poichè essendosi sempre dimandato e
sempre conceduto, che negli Ufficj così militari, come di giustizia e
ne Beneficj ecclesiastici fossero preferiti i Nazionali agli stranieri,
governandosi ora il Regno dai Spagnuoli, ed essendovi venute molte
famiglie da tutti i Regni di Spagna, erano quelli per lo più conferiti
a' Spagnuoli, onde si facevano spesso ricorsi per l'osservanza de'
capitoli: di nuovo si prometteva, quando di nuovo si facevano i
donativi, ma sempre erano violati ed infranti.

Quando furono a' Napoletani accordate dal Re Ferdinando quelle grazie
contenute ne' suoi Capitoli, dei quali di sopra s'è fatta memoria,
gli fecero un donativo di 300m. ducati. Non molto da poi, nel 1508,
essendosi il medesimo Re, in vigor della pace fatta con Lodovico XII Re
di Francia, obbligato di mantenergli a sue spese, oltre la fanteria,
500 uomini d'arme, fu imposto un pagamento di tre carlini a fuoco
per sette anni, affinchè si soddisfacesse il Re Lodovico: nella quale
occasione dal Conte di Ripacorsa furono conceduti, o per meglio dire
confermati, que' Capitoli che si stabilirono nel Parlamento generale
celebrato in Napoli nella chiesa di S Lorenzo a' 13 settembre del
mentovato anno 1508[324].

Succeduto ne' Reami di Spagna il Re Carlo ed eletto poi Imperadore, per
li molti dispendj occorsi in proccurar dagli Elettori i loro voti per
quest'elezione, e che doveano occorrere nella sua coronazione, fu fatta
richiesta nel 1520 dal Vicerè _Cardona_, che ritrovandosi il Re in
necessità ed esausto di denari, si proccurasse dalla città, Baronaggio
e Sindici delle Terre demaniali di fargli un donativo, perchè
all'incontro il Re l'avrebbe confermati i capitoli e conceduti altri di
nuovo. Fu a tal fine in detto anno tenuto altro generale Parlamento, e
furono offerti al Re altri ducati 300 mila da pagarsi fra il termine di
tre anni, centomila ducati l'anno in tre paghe: fu perciò accordata la
conferma di tutti gli altri Capitoli e Privilegi, e che per l'avvenire
non si potesse imponere alcuno pagamento estraordinario al Regno.
Fu tutto ciò confermato dal Vicerè Cardona in detto anno 1520, e poi
ratificato dall'Imperadore con ispezial suo diploma spedito in Vormazia
al primo di gennajo del seguente anno 1521[325], ma non per questo,
durando l'istesse cagioni, anzi vie più che mai resi irreconciliabili
gli animi di Cesare e del Re Francesco Principi potentissimi, ed accese
più fiere che mai fra di loro guerre crudeli ed inestinguibili, cessò
la necessità e 'l bisogno di denari per sostenerle; onde si venne di
nuovo alle sovvenzioni ed a nuovi donativi e grazie.

Morì nel seguente anno 1522 a '10 di Marzo D. Raimondo di Cardona,
ed il suo cadavere fu depositato nella cappella del Castel Nuovo,
per trasportarsi in Catalogna nella chiesa di S. Maria di Monferrato:
Capitano, se si riguarda la condizione di que' tempi, comportabile per
la sua prudenza e destrezza nel governo civile, che soddisfece al Re
Ferdinando, e molto più all'Imperador Carlo V, a cui la di lui morte
cotanto dispiacque. Non essendo stata da lui sostituita persona, nè
trovandosi tampoco nominata dal Re, che sottentrasse al governo, rimase
a governare il Consiglio Collaterale, sino a' 16 luglio del medesimo
anno, poichè dall'Imperadore fu in luogo del Cardona mandato al governo
di Napoli _D. Carlo di Launoja_, non già spagnuolo, ma fiamengo. Carlo
in questi principj del suo regnare, venuto da Brusselles in Ispagna, ed
avendo seco condotti molti Fiamenghi, s'era posto in mano de' medesimi,
e come si è veduto, si governava col consiglio di Monsignor di Ceures
fiamengo, e la cagione de' tumulti avvenuti in Ispagna non altronde
fu, che d'essersi il Re valuto, posponendo gli Spagnuoli nazionali,
de' Fiamenghi e sopra ogni altro del Ceures, il quale dimostratosi
insaziabile, avea per tutte le vie accumulata somma grandissima di
danari; lo stesso facendo gli altri Fiamenghi, vendendo per prezzo a'
forastieri gli ufficj soliti darsi a' Spagnuoli, e facendo venali tutte
le grazie, privilegi ed espedizioni, che si dimandavano alla Corte.

Venne Launoja in Napoli famoso Capitano ed espertissimo nell'arte
militare, il qual sì mostrò alla piazza del Popolo di Napoli molto
favorevole, e pochi mesi dopo la sua venuta, le concesse molti
Capitoli, che furono da lui spediti nel Castel Nuovo a' 12 ottobre di
quest'anno 1522, rapportati dal Summonte[326].

Non potè che poco più d'un anno governar il Regno; poichè tuttavia
la guerra di Lombardia incrudelendosi, nè potendo più sostener il
comando dell'armata Prospero Colonna carico d'anni, e quasi già
alienato di mente, l'Imperadore stimò appoggiar quell'impresa alla
espertezza e valore di Launoja; onde comandò, che lasciato in Napoli
un suo Luogotenente andasse a Milano a pigliar il supremo comando
di quell'esercito. E con tal congiuntura, premendo il bisogno di
questa guerra, fu fatto un nuovo donativo a Cesare di altri ducati
cinquantamila per supplire alla spesa, che seco portava un tanto
esercito[327]. Ed alcuni anni da poi, per la nascita del Principe
Filippo, convocato nuovo Parlamento, se gli accordò un altro donativo
di ducati ducentomila[328], siccome di tempo in tempo ne furon fatti
degli altri di somme rilevantissime, delli quali il Tassoni, il
Mazzella ed il Costo tesserono lunghi cataloghi.

Partì il Launoja da Napoli nel 1524, e lasciò per suo Luogotenente
_Andrea Caraffa Conte di S. Severino_, il quale con molta lode
governò il Regno poco men che tre anni. Morì costui nel mese di giugno
dell'anno 1526, e la sua morte fu da tutti compianta[329]. Ed intanto,
essendo il Launoja tornato di Spagna, ove come in trionfo avea portato
prigione il Re Francesco, dopo aver combattuto ne' mari di Corsica
con l'armata franzese, si restituì a Napoli per difendere il Regno
dall'insidie del Papa, che vi avea invitato Valdimonte alla conquista.



CAPITOLO III.

_Invito fatto da Papa CLEMENTE VII a Monsignor DI VALDIMONTE per la
conquista del Regno: suoi progressi, li quali ebbero inutile successo.
Prigionia di Papa CLEMENTE e sua liberazione._


Appena si vide Re Francesco libero in Francia, che posta in
dimenticanza la solennità de' Capitoli stipulati in Madrid, la fede
data e la religione dei giuramenti, il vincolo del nuovo parentado,
e quel ch'è più, il pegno di due figliuoli, fu tutto rivolto a
muover nuove e più implacabili guerre al suo emolo Carlo. Coloriva
l'inosservanza con dire, ch'egli e prima quando fu condotto prigione
nella Rocca di Pizzichitone, e poi in Ispagna nella Fortezza di Madrid,
si era molte volte protestato contra Cesare, (perchè vedeva la iniquità
delle dimande sue) che se stretto dalla necessità cedesse ad inique
condizioni, o quali non fosse in potestà sua d'osservare, che non solo
non le osserverebbe, anzi riputandosi ingiuriato da lui per averlo
astretto a promesse inoneste ed impossibili, se ne vendicherebbe,
se mai ne avesse l'occasione. Nè aveva mancato di dire molte volte
quello che per loro stessi potevano sapere, e che credeva anch'essere
comune agli altri Regni, cioè, che in potestà del Re di Francia non
era obbligarsi senza consentimento degli Stati generali del Reame
ad alienare cos'alcuna appartenente alla Corona: non permettere le
leggi cristiane che un prigione di guerra stesse in carcere perpetua;
per essere pena conveniente agli uomini di mal affare, e non trovata
per supplicio di chi fosse battuto dalla acerbità della fortuna:
sapersi per ciascuno essere di nessuno valore l'obbligazioni fatte
violentemente in prigione: ed essendo invalida la capitolazione, non
restare nemmeno obbligata la sua fede accessoria e confermatrice di
quella; procedere i giuramenti in contrario fatti a Rems, quando con
tanta cerimonia e con l'olio celeste si consacrano i Re di Francia,
per li quali s'obbligano di non alienare il patrimonio della Corona;
e perciò non essere meno libero che pronto a moderare la insolenza di
Cesare. Questi medesimi sentimenti e desiderj mostravano d'avere la
madre e la sorella del Re e tutti i principali della sua Corte.

Ma tutte queste deliberazioni non avrebbero avuto verun successo, se
insieme alle medesime non avessero dato calore i Vineziani, e più
il Pontefice Clemente, i quali considerando non meno la potenza di
Cesare, che la sua ambizione fomentata dal Consiglio di Spagna, che
lo persuadeva ad impadronirsi d'Italia, temevano non finalmente gli
riuscisse di mettere in servitù la Chiesa, Italia e tutti gli altri
Principi. Sopravvennero altri dispiaceri al Papa per cagione de'
Ministri di Cesare. I Capitani imperiali alloggiando nel Piacentino
e nel Parmegiano facevano infiniti danni; e querelandosene il
Pontefice, rispondevano, che per non essere pagati, vi erano venuti di
propria autorità. Commoveanlo eziandio le cose forse più leggieri, ma
interpetrate, come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte
peggiore; perchè non tanto in Ispagna che in Napoli, s'erano pubblicate
ordinazioni in pregiudizio della Corte Romana: Cesare avea fatti
pubblicare in Ispagna alcuni editti prammatici contra l'autorità della
Sede Appostolica, per virtù de' quali, essendo proibito a' sudditi
suoi trattare cause beneficiali di quelli Regni nella Corte Romana,
ebbe ardire un Notajo Spagnuolo, entrato nella Ruota di Roma il dì
destinato all'udienza, d'intimare in nome di Cesare a due Napoletani,
che desistessero dal litigare in quello Auditorio[330].

(Dall'aver Cesare in tutti i Regni della Monarchia di Spagna tolta
ogni autorità a' Tribunali di Roma, Tuano nel lib. primo _Hist. sui
temporis_, savissimamente avvertì, che ciò non ostante potea ben in
quelli conservarsi intiera l'Ecclesiastica disciplina, come fu già
nei tempi antichi: _Caesar_, ei dice, _ut injuriam sibi a Clemente
illatam ulcisceretur, nominis Pontificii auctoritatem per omnem
Hispaniam abolet; exemplo ad Hispanis ipsis Posteritati relicto,
posse Ecclesiasticam disciplinam citra nominis Pontificii auctoritatem
conservari_. Fra le altre querimonie che si leggono nel lungo Breve
scritto da _Clemente_ a _Cesare_ a' 2 giugno di quest'istesso anno 1526
rapportato da _Lunig_[331], si leggono le querele, che sopra ciò ne
fece con _Carlo V_, ma questo savio Imperadore nella risposta che gli
diede rintuzzò la querimonia, pag. 1005, con queste savissime parole:
_Minusque potuit V. S. de nostra voluntate dubitare ex Pragmaticis in
Hispania editis, quae prout a nostris etiam Consiliariis accepimus
(quibus in his quae juris sunt, merito credere debemus) conformari
videntur, et antiquis Regnorum nostrorum Privilegiis, moribus et
consuetudinibus_. E per ciò, che riguardava il Regno di Napoli,
gli soggiunse: _itidem facturi de his, quae ad Regnum Neapolitanum
pertinent, pro quibus nec ab Investitura; nec a Privilegiis Regni
quovis modo recedere intendimus, nec illis derogare_).

Deliberò pertanto Papa Clemente, stimolato anche da tutti i suoi
Ministri, non solo di confederarsi col Re di Francia e con gli altri
contra Cesare, ma di accelerarne anche la esecuzione. Assolvè per tanto
il Re da' giuramenti prestati in Ispagna per osservazione delle cose
convenute nella capitolazione di Madrid, e strinse finalmente la lega
con quel Re ed i Principi italiani, a cui diedero il nome di _Lega
Sanctissima_. Fu quella conchiusa nel 17 di maggio dell'anno 1526 in
Cugnach tra gli uomini del Consiglio Proccuratori del Re di Francia
da una parte, e gli Agenti del Pontefice e de' Vineziani dall'altra.
Furono in questa confederazione stabiliti molti capitoli, che possono
leggersi nell'Istoria del Guicciardino[332]; ma per ciò che riguarda il
Regno di Napoli, fu convenuto:

Che indebolito in Lombardia l'esercito Cesareo, si assaltasse
potentemente per terra e per mare il Reame di Napoli: del quale, quando
s'acquistasse, avesse ad essere investito Re chi paresse al Pontefice.
In un capitolo separato però s'aggiunse, che non potesse il Papa
disporne senza consenso de' Collegati, riservatigli nondimeno i censi
antichi, che soleva avere la Sede Appostolica, ed uno Stato per chi
paresse a lui, d'entrata di 40 mila ducati.

Che, acciocchè il Re di Francia avesse certezza, che la vittoria
che s'ottenesse in Italia, e l'acquisto del Reame di Napoli fosse
per facilitare la liberazione de' figliuoli, che in tal caso volendo
Cesare infra quattro mesi dopo la perdita di quel Reame entrare nella
confederazione, gli fosse restituito; ma non accettando questa facoltà,
avesse il Re di Francia in perpetuo sopra il Reame di Napoli annuo
Censo.

Intanto Cesare avea mandato in Francia il nostro Vicerè Launoja, perchè
con effetto ratificasse la capitolazione fatta a Madrid; ma il Re
scusandosi di non esser in sua potestà di lasciargli la Borgogna, ma
contentarsi, in vece di quella, che se gli pagassero due milioni di
scudi, rispose, ch'era per osservargli tutte le altre promesse. Questa
risposta concitò sdegno grandissimo in Cesare, il quale deliberato
di non alterare il capitolo della restituzione della Borgogna, ma più
tosto concordarsi col Pontefice alla reintegrazione di Francesco Sforza
nello Stato di Milano, destinò D. Ugo di Moncada al Pontefice Clemente,
con commessione di dargli tutte le soddisfazioni. Ed avendosi sposata
nel principio di Marzo di quest'anno 1526 nella città di Siviglia D.
Isabella figliuola del Re di Portogallo, li danari, ch'ebbe di dote,
gli destinò per pagare l'esercito di Lombardia, di cui per la morte del
Marchese di Pescara avea fatto Capitan Generale il Duca Borbone ribelle
del Re di Francia, sollecitandolo, che tosto passasse in Italia[333].

Ma giunto che fu D. Ugo a Roma, avendo proposto al Papa le condizioni
della confederazione, gli fu risposto non essere più in potestà sua di
accettarla, mostrandogli la necessità che l'avea indotto a confederarsi
col Re di Francia e co' Vineziani per la sicurezza sua e d'Italia,
avendo Cesare tardato molto a risolversi.

Le cose di Lombardia perciò erano piene di sconvolgimenti e timori,
e que' della lega per divertire la guerra di Lombardia, avean fatti
grandi apparecchi per assaltare il Regno di Napoli per mare e per
terra: onde mosso da questi timori il nostro Vicerè Launoja, se ne
venne in Napoli; e poichè gli Spagnuoli temevano assai, che il Regno
non si perdesse, giunto che fu, diede il Vicerè molti ordini per la
fortificazione di molti Castelli per lo Regno, e particolarmente diede
pensiero a Giovan Battista Pignatello, che allora si trovava Vicerè
delle province d'Otranto e di Bari, che fortificasse tutti quelli
ch'erano alla marina di Puglia nell'Adriatico ed invigilasse sopra i
Vineziani confederati col Papa e Francia[334].

E dall'altra parte D. Ugo di Moncada istigava i Colonnesi, per levare
il Papa dalla lega contra l'Imperadore, affinchè questi, avendo l'armi
in mano, con gli altri Capitani imperiali destinati per la difesa del
Regno di Napoli, assalissero all'improvviso il Palazzo del Vaticano,
come fecero, saccheggiandolo con molta empietà: onde il Papa, vedendosi
in così stretto partito, se ne fuggi dal Palazzo di S. Pietro per lo
corridojo al Castello di S. Angelo, dove si salvò; e costretto in tal
guisa, mandò per ostaggio due Cardinali suoi parenti a D. Ugo, perchè
entrasse nel Castello a trattar seco l'accordo, che dimandava. Fu il dì
seguente 21 di settembre quello conchiuso; onde i Colonnesi partirono
da Roma, e D. Ugo se ne venne a Napoli[335]. Ma non così tosto si vide
libero il Papa, disposto a non osservar accordo veruno, che gli era
stato estorto con tanta perfidia e violenza, che privò Pompeo Colonna
del Cardinalato e chiamò Monsignor di Valdimonte da Francia, perchè
pretendendo egli essere erede della Casa d'Angiò, suscitasse nel Regno
di Napoli la fazione Angioina contra all'Imperadore.

Il Vicerè Launoja incontanente, sentendo l'invito fatto dal Papa
a Valdimonte, volle prevenirlo, e ragunato un competente esercito
determinò assaltare lo Stato Ecclesiastico; onde a' 20 di decembre
di quest'istesso anno 1526 si pose col campo a Frosinone, dove fu
combattuto con le genti Papali, che gagliardamente si opposero. Da
poi condusse il campo imperiale a Cesano ed a Cepperano, travagliando
queste ed altre Terre dello Stato della Chiesa.

Il Papa all'incontro mandò Renzo da Ceri in Apruzzo con seimila fanti,
il quale occupò l'Aquila ed altri luoghi di quel contorno.

Venne il nuovo anno 1527 pieno d'atrocissimi e già per più secoli
non uditi accidenti, mutazione di Stati e di Religione, prigionie di
Pontefici, saccheggiamenti spaventosissimi di Città, carestia grande di
vettovaglie, peste quasi per tutta Italia, ed in Napoli grandissima.

Nel principio di quest'anno giunse il Valdimonte, chiamato da Clemente,
con un'armata di 24 Galee, ed avendo ottenuto dal Pontefice titolo di
suo Luogotenente cominciò a travagliare le marine del Regno, facendosi
chiamare _Re di Napoli_.

(Valdimonte si facea chiamare Re di Napoli, perchè pretendeva, come si
è detto, nella sua linea essere trasfuse le ragioni di _Renato d'Angiò_
ultimo Re Angioino, discacciato dagli Aragonesi per _Violanta_ sua
figliuola maritata con _Ferry Conte di Vaudemont_, dal qual matrimonio
nacque _Renato II_ Duca di Lorena; onde questa famiglia fra le sue arme
inquarta anche quelle di Sicilia e di Gerusalemme, e fra titoli ritiene
ancor quello di Duca di Calabria, siccome è manifesto dal Trattato
istorico di _Baleicourt su l'orig. et Genealog. della casa di Lorena
pag._ 206 secondo l'edizione di Berlino dell'anno 1711).

Valdimonte saccheggiò al primo di marzo Mola di Gaeta, ed a' 4 avendo
posto la sua gente a terra sotto Pozzuoli, tentò sorprenderlo, ma gli
riuscì vano il disegno. Venuto poi a vista di Napoli, prese Castel a
Mare, indi la Torre del Greco, e scorrendo i suoi soldati per terra
sino alla Porta del Mercato di Napoli, fu tanta la paura de' Cittadini,
che con fretta la chiusero.

Prese anche Sorrento e gli altri luoghi d'intorno, ed ebbe ardire la
sua armata accostarsi tanto alla città di Napoli, che dalle Castella le
furono tirati alcuni colpi di artiglieria. Prese anche Salerno, rubando
i vasi d'argento, che stavano al Sepolcro dell'Appostolo Matteo. E se
l'avviso dell'accordo fatto col Papa non l'avesse intepidito, avrebbe
fatto maggiori progressi.

Il Pontefice, ancorchè avesse rifiutato l'accordo, che por Cesare
Ferramosca con umili lettere dell'Imperadore, rapportate dal
Summonte[336], gli fu nuovamente proposto, mostrando sempre durezza,
e tanto più, quando vide giunto Valdemonte; nulladimanco all'avviso
che il Duca Borbone calava con potente esercito verso Roma, e che
l'amplissime promesse dei Franzesi riuscivano ogni dì più scarse
d'effetti, piegò finalmente il capo, e diede al Ferramosca certezza
d'ultimarlo; di che costui avvisatone il Launoja, questi a' 25 marzo si
portò immantenente in Roma, dove finalmente fu quello conchiuso, con
condizioni di sospendere l'armi per otto mesi, di pagare all'esercito
Imperiale 60 mila ducati, e restituire il Pontefice le Terre occupate
nel Regno; ed all'incontro fu convenuto (ciò che più al Papa premeva)
che dovesse in persona andar Launoja alla volta di Borbone, e
ritenerlo, affinchè non passasse più avanti, siccome avea prima mandato
Cesare Ferramosca ad incontrarlo per quest'istesso fine.

Partì con effetto il Vicerè ai 3 d'aprile da Roma; ed andò incontro
a Borbone; ma nè l'andata del Ferramosca, nè la sua punto giovò per
distogliere quel Capitano di lasciare il suo cammino: scusandosi non
essere in potestà sua comandar all'esercito, che si fermasse, poichè
essendo creditore di molte paghe, non avea altro modo di pagarsi che
col sacco di Roma, nè potea recarsi a' suoi soldati nuova più spiacente
di questa; e volendosi opporre con fortezza il Vicerè, fu fama che
passasse pericolo nella vita: cotanto stavano sdegnati i soldati,
la maggior parte de' quali venuti di Germania appestati per le nuove
eresie, che colà Martin Lutero avea sparse, in discredito e vilipendio
della Corte di Roma, correvano famelici ed allettati dal guadagno del
sacco promesso di Roma, vedevano di mal animo chi voleva distoglierli
da quella preda.

Intanto il Papa confidatosi nell'autorità del Launoja avea licenziato
tutte le genti di guerra, che teneva assoldate; onde quando men sel
pensava, Borbone seguitando il suo cammino, e devastando lo Stato
Ecclesiastico, fu veduto a' 5 di maggio alle mura di Roma. Il nostro
Vicerè non volendo esser partecipe di tanto male, quanto designava
fare Borbone, non volle seguitare il suo esercito, che andava alla
volta di Roma, ma incamminandosi insieme col Marchese del Vasto per
altra strada alla volta di Napoli, quando giunse ad Aversa s'ammalò,
ed in pochi giorni nel mese di maggio di quest'anno, quivi trapassò.
Vi fu opinione, che fosse stata proccurata la sua morte con veleno,
per vendetta della morte del Marchese di Pescara, e perchè a lui dovea
succedere nella carica di Vicerè D. Ugo di Moncada[337]. Non leggiamo
di lui alcuna _Prammatica_, perchè quasi sempre essendo lontano da
Napoli, attese agli esercizj di Marte. Fu il suo cadavere portato in
Napoli, ove giace sepolto nella Chiesa di Monte Oliveto; e governando
intanto il Regno il Collateral Consiglio, fu in suo luogo nella fine di
quest'anno 1527 rifatto per Vicerè, D. _Ugo di Moncada_ Spagnuolo.

Non vi fu rapacità ed ingordigia maggiore di quella, che entrato
il Borbone in Roma per saccheggiarla, non si praticasse: tutto era
disordine e confusione; ed ancorchè Borbone nel primo assalto rimanesse
morto d'un colpo d'archibugio, ciò diede al suo esercito spinta
maggiore d'incrudelire contra quella Città. Entrarono dopo picciolo
contrasto i soldati nel Borgo. Il Papa si ritirò in Castel S. Angelo,
dove fu assediato, ed i soldati non trovando più ostacolo entrarono
per Porta Sisto in Roma. Non vi fu crudeltà, irreverenza, avarizia
e libidine, che non fosse esercitata. Posero il tutto a sacco, nè
si può immaginare quanta rapacità, quanto fosse stato il vilipendio
delle Chiese, gli obbrobrj fatti a' Cardinali, ed agli altri Prelati,
e quanta la libidine usata contra l'onore delle donne. L'esercito
della lega, non trovando modo di poter soccorrere al Papa per le
difficoltà proposte dal Duca d'Urbino, conchiuse essere impossibile
allora soccorrere il Castello; onde il Pontefice, abbandonato d'ogni
speranza, si accordò come potè il meglio con gl'Imperiali, di pagare
all'esercito 400 mila ducati: di restar egli prigione in Castello con
tutti i Cardinali, che vi erano in numero di tredici, insino a tanto
che fossero pagati i primi 150 mila ducati: poi andassero a Napoli,
o a Gaeta per aspettare quello che di loro determinasse Cesare: che
restasse in potestà di Cesare il Castello di S. Angelo, mentre a lui
piacerà di ritenerlo con l'altre Rocche: ed altre capitolazioni, che
possono leggersi presso il Guicciardino[338].

Come fu fatto quest'accordo, entrò nel Castello il Capitan Alarcone
con tre compagnie di fanti spagnuoli ed altre tante tedesche, il
quale deputato alla guardia del Castello e del Pontefice, lo guardava
con grandissima diligenza, ridotto in abitazioni anguste, e con
picciolissima libertà.

Pervenuto in Francia ed in Inghilterra la novella d'un così orribil
fatto, e della prigionia del Pontefice, si mossero quei due Re più
fieri che mai contra l'Imperadore, non solo per la pietà cristiana
che professavano, e per la divozione alla Sede Appostolica; ma molto
più per l'odio privato implacabile, che portavano a Cesare: Francesco
I per cagioni assai note, ed Errico VIII Re d'Inghilterra, perchè
avendogli prestate grosse somme di denari, quando glie le dimandava,
era pasciuto di parole, e menata in lungo la restituzione. Si strinsero
perciò fra di loro, con deliberazion ferma d'unire tutte le loro forze,
e mandare potenti eserciti in Italia; non pure per liberar il Papa
dall'oppressione in che stava con toglierlo di mano dagli Spagnuoli,
ma invadere con potente esercito il Regno di Napoli, e toglierlo
dall'ubbidienza dell'Imperadore. Facilitava l'impresa l'unione de'
Vineziani, e de' Svizzeri, i quali mossi ancor essi a pietà del Papa
e di Roma, sollecitavano il pigliar l'armi, acciò che tutti insieme
aggiunti potessero liberare il Papa, e riacquistar il Regno di Napoli.
Sperava ancora il Re di Francia, che vedutosi Cesare astretto in
cotal guisa, ed esausto per le paghe de' suoi eserciti, che contra
tanti dovea mantenere, facilmente si sarebbe indotto, pagandogli una
buona taglia, a restituirgli i due suoi figliuoli, ch'erano rimasi per
ostaggi in Ispagna.

Fu per ciò immantenente risoluto il passaggio degli Svizzeri in Italia,
assoldata nuova gente in Francia, contribuendo il Re d'Inghilterra
con denari, ed altri con gente; tanto che fu unito un fioritissimo
esercito con prestezza mirabile, e fu dato il supremo comando di quello
al famoso Odetto di Fois Monsignor _Lautrech_, un de' Capitani più
insigni, che avesse allora la Francia, il qual si mosse da Francia
per Italia per liberar prima il Papa, e poi passare alla conquista del
Regno.

Dall'altra parte, giunto che fu in Ispagna l'avviso del sacco di
Roma, e della prigionia del Papa fu cosa maravigliosa, quanto da
Cesare e dagli Spagnuoli s'affettasse il dolore e la mestizia.
Giunse il tempo, quando per la natività del Principe D. Filippo
figliuol primogenito dell'Imperadore, la Spagna era al maggior colmo
di gioja e d'allegrezza, e la Corte in feste e in tornei; e pure
l'Imperadore fece tosto cessar le feste, vestissi di lutto in segno
del dolore che mostrava averne, e tutta la sua Corte parimente si
vide con abiti lugubri: si fecero processioni lunghe, e numerose,
pregando N. S. per la liberazione del Papa. I Frati, i Preti nelle
loro Chiese con pubbliche preci assordavano il Cielo, implorando il
Divino ajuto per la libertà del loro Sommo Sacerdote, come se non
in mano di Cesare in Roma, ma dell'Imperadore de' Turchi sotto duro
carcere in Costantinopoli e' si stasse. E nel medesimo tempo Papa
Clemente sofferiva la stretta custodia del Capitan Alarcone, il quale
lo guardava, ridotto in abitazioni anguste, con severità e alterigia
spagnuola; e l'Imperadore con la solita tardità degli spagnuoli stava
deliberando, se dovea ratificar l'accordo fatto nel Castel di S.
Angelo, ovvero imporre più dure condizioni alla sua liberazione: a
tanti Principi che di ciò lo ricercavano per mezzo de' loro Oratori,
dava egli benignissime parole, ma incerta e varia risoluzione.
Avrebbe egli desiderato, che la persona del Pontefice fosse condotta
in Ispagna, giudicando sua gran riputazione, se d'Italia in due anni
fossero stati condotti in Ispagna due così gran prigioni, un Re di
Francia ed un Pontefice Romano.

(Il _Varchi Istor. Fior. lib._ 5 _A._ 1521 pag. 119 rapporta ancora
che questa tardanza ed irresoluzione di Cesare nasceva, perchè secondo
credevano li più prudenti, (sono le sue parole) _che l'intendimento
suo fosse di volere il Papato a quell'antica simplicità e povertà
ritornare, quando i Pontefici senza intromettersi nelle temporali
cose, solo alle spirituali vacavano. La quale deliberazione era, per
l'infinite abusioni e pessimi portamenti di Pontefici passati, lodata
grandemente, e desiderata da molti, e già si diceva infino a plebei
uomini, che non istando bene il Pastorale e la Spada, il Papa dover
tornare in S. Giovanni Laterano a cantar la Messa_.)

Nulladimanco avendo inteso i tanti apparati di guerra, non meno de'
Svizzeri e Vineziani e Franzesi, che del Re d'Inghilterra, il quale
sopra gli altri ardentissimamente desiderava la liberazione del Papa,
per non irritare tanto l'animo di questo Re, e perchè tutti li Regni
di Spagna, e principalmente i Prelati ed i Signori detestavano molto,
che dall'Imperador Romano, protettore ed avvocato della Chiesa, fosse
con tanta ignominia di tutta la Cristianità tenuto in carcere colui,
che rappresentava la persona di Cristo in terra; avendo poi, dopo aver
tardato più d'un mese a far deliberazione alcuna, intesa l'andata di
Lautrech in Italia, e la prontezza del Re d'Inghilterra alla guerra;
si risolse finalmente di mandar commessione al Vicerè di Napoli per la
liberazione del Pontefice e restituzione di tutte le Terre e Fortezze
occupategli. Mandò per tanto in Italia il Generale di S. Francesco,
e Veri di Migliau con commessione sopra questo negozio al Vicerè
Launoja, il quale trovandosi morto quando arrivò il Generale, fu
necessario trattare il negozio con D. Ugo di Moncada, al quale anche si
distendeva il mandato di Cesare; ed avendo il Generale comunicato con
D. Ugo, andò a Roma insieme con Migliau. Conteneva questo negozio due
articoli principali, l'uno, che il Pontefice soddisfacesse all'esercito
creditore in somma grossissima di danari; l'altro, la sicurtà di
Cesare, che il Pontefice liberato non s'unisse co' suoi nemici, ed
in questo si proponevano dure condizioni di statichi, e di sicurtà di
Terre.

Trattossi per queste difficoltà la cosa lungamente, ed il Pontefice
per facilitarla, continuamente sollecitava Lautrech (ma occultamente)
a farsi innanzi: l'assicurava, che qualunque cosa ch'ei forzato
promettesse agli Imperiali, uscito di carcere, e condotto in luogo
sicuro, non l'osserverebbe. Finalmente venne nuova commessione di
Cesare, il quale sollecitava, che il Pontefice si liberasse con più
soddisfazione sua, che fosse possibile, soggiungendo bastargli, che
liberato non aderisse più a' Collegati, che a lui. Si credette che
da Cesare, e da' suoi si facilitasse la liberazione del Papa per lo
timore, che avevano della venuta di Lautrech, e per condurre per ciò
quanto più presto si potesse il loro esercito alla difesa del Reame
di Napoli: ma come che ciò era impossibile farsi, senza assicurar i
soldati degli stipendj decorsi, i quali ricusavano ammettere ogni
compensazione, che loro si opponeva, per le tante prede, e tanti
guadagni fatti nel sacco di Roma: per ciò si badò unicamente a
provvedere a questi pagamenti, e si pensò meno all'assicurarsi per lo
tempo futuro del Pontefice. Fu conchiusa dunque all'ultimo d'ottobre,
dopo sette mesi della prigionia del Papa, la concordia in Roma col
Generale, e con Serenon in nome di Don Ugo, che poi ratificò, la quale
conteneva questi Capitoli.

Che il Papa non contrariasse a Cesare nelle cose di Milano e di
Napoli: gli concedesse la Crociata in Ispagna, ed una decima delle
entrate ecclesiastiche in tutti li suoi Regni: rimanessero per
sicurtà dell'osservanza in mano di Cesare, Ostia, e Civitavecchia:
consegnassegli Civita Castellana, la Rocca di Forlì; e per Istatichi
Ippolito ed Alessandro suoi nipoti, ed insino a tanto, che costoro
venissero da Parma, dove allora trovavansi, i Cardinali Pifano,
Trivulzio e Gaddi, che furono condotti dagl'Imperiali nel Regno di
Napoli.

(Il _Varchi_[339] aggiunge, che furono condotti nel Castel Nuovo, dove
per più tempo furono guardati).

Pagasse subilo il Papa a' Tedeschi ducati settantasettemila, con
questo che lo lasciassero libero con tutti i Cardinali, con potersene
uscire da Roma e dal Castello: chiamandosi libero ogni qual volta fosse
condotto salvo in Orvieto, Spoleto, o Perugia, e fra quindici dì dopo
l'uscita di Roma pagasse altrettanti denari a' Tedeschi; ed il resto
poi (che ascendeva col primi a ducati più di trecentocinquantamila)
pagasse infra tre mesi a' Tedeschi e Spagnuoli secondo le rate loro.

Fra queste condizioni le più dure furono quelle dello sborso di tanto
denaro, che portò discordie grandissime ed inuditi scandali. Per
soddisfare i primi 150 mila ducati, secondo l'accordo prima fatto
nel principio della prigionia, bisognò al Pontefice con grandissima
difficultà ricavarli parte in danari, parte con partiti fatti con
Mercatanti genovesi sopra le decime del nostro Regno di Napoli, e sopra
la vendita di Benevento: ma appena soddisfatti i soldati di questa
somma, dimandarono per il resto de' denari promessi altre sicurtà ed
altro assegnamento di quello erasi loro fatto sopra varie imposizioni
per lo Stato Ecclesiastico: cose tutte impossibili ad eseguirsi da
un Papa incarcerato; e pure dopo molte minacce fatte agli Statichi,
e di tenerli incatenati con grandissima acerbità, li condussero
ignominiosamente in Campo di Fiore, dove rizzarono le forche, come se
incontanente volessero prendere di loro quel supplicio. Ora, che in
esecuzione di questa nuova concordia, per uscir di prigione doveano
pagar somme sì immense, bisognò a Clemente venire a que' estremi
rimedj, a' quali non avea voluto prima ricorrere. Creò per danari
alcuni Cardinali, con esporre all'incanto quella dignità, della quale
si videro decorate persone la maggior parte indegne di tanto onore.
Per il resto concedette nel nostro Reame di Napoli le Decime sopra i
beni delle Chiese ed Ecclesiastici, e la facoltà d'alienare i beni
Ecclesiastici; convertendosi per concessione del Vicario di Cristo
(così sono profondi li giudicj Divini) in uso ed in sostentazione
d'eretici quel ch'era dedicato al Culto di Dio: si pose mano agli
Spogli delle Chiese vacanti ed incamerazioni, e furono inventati altri
mezzi per cavar denari.

(Il _Varchi_ narra[340] che pubblicamente, e poco meno, che messi
all'incanto, furono a prezzo venduti sette Cappelli di Cardinali).

Con questi modi avendo stabilito ed assicurato di pagare a' tempi
promessi, dette anche per istatichi, per la sicurtà de' soldati, li
Cardinali Cesis ed Orsino, che furono condotti dal Cardinal Colonna
a Grottaferrata; ed il Papa temendo non la mala volontà, che sapeva
avere contra lui D. Ugo nostro Vicerè, sturbasse ogni cosa, affrettò
l'uscita, e la notte degli 8 di dicembre di quest'anno 1527, senza
aspettar il nuovo giorno statuito alla sua uscita, segretamente ed In
abito di Mercatante uscì dal Castello, e portossi frettolosamente in
Orvieto, nella quale Città entrò di notte, non accompagnato da alcuno
de' Cardinali. Esempio certamente, come scrive il Guicciardino[341],
molto considerabile, e forse non mai, da poi che la Chiesa fu grande,
accaduto. Un Pontefice caduto di tanta potenza e riverenza, essere
custodito prigione, perduta Roma e tutto lo Stato, e ridotto in
potestà d'altri. Il medesimo nello spazio di pochi mesi restituito
alla libertà, rilasciatogli lo Stato occupato, ed in brevissimo tempo
già ritornato alla pristina grandezza. Tanta era appresso a' Principi
Cristiani l'autorità del Pontificato, ed il rispetto che da tutti gli
era portato.



CAPITOLO IV.

_Spedizione di LAUTRECH sopra il Regno di Napoli, sue conquiste, sua
morte e disfacimento del suo esercito, onde l'impresa riuscì senza
successo. Rigori praticati dal PRINCIPE D'ORANGES contra i Baroni
incolpati d'aver aderito a' Franzesi._


L'anno 1528[342] fu pur troppo infelice al Regno di Napoli, perchè
combattuto da tre Divini flagelli, di guerra, di fame e di peste, poco
mancò, che non vedesse l'ultima sua desolazione. La peste, che sin dal
mese di Settembre del passato anno cominciò a farsi sentire in Napoli,
vie più crescendo riempiva d'orrore il Regno.

Dall'altra parte, dopo la liberazione del Pontefice, rotto ogni
trattato di pace, avendo gli Ambasciadori del Re di Francia e
d'Inghilterra intimata a Cesare la guerra, accelerossi la venuta di
Lautrech alla conquista del Regno, ed essendosi già congiunta l'armata
Franzese guidata dall'Ammiraglio Andrea Doria con quella de' Vineziani
per l'impresa di Sardegna, per facilitare la guerra di Napoli, essendo
sbattuta da venti, vennero a scorrere le riviere del Regno, per dar
maggior calore all'impresa di Lautrech, il quale non aspettando la
Primavera, il dì 9 di gennajo partì di Bologna, dove avea svernato
colle sue genti, e per la via di Romagna e della Marca arrivò sul
fiume Tronto (confine tra lo Stato Ecclesiastico ed il Regno) il decimo
dì di febbrajo, dove trovò ogni cosa sprovveduta, onde gli fu facile
d'impadronirsi di buona parte dell'Apruzzo e della Città dell'Aquila,
dove fatta la rassegna delle sue truppe, le ritrovò ch'erano 30 mila
persone a piedi e cinquemila a cavallo[343].

Avrebbe fatto il simigliante in brevissimo tempo in tutto il Regno,
perchè, o fosse per l'affezione al nome de' Franzesi, o per l'odio
a quello de' Spagnuoli, tutte le Terre dell'uno e l'altro Apruzzo
anticipavano a rendersi vinticinque o trenta miglia innanzi alla
venuta dell'esercito. Ma l'esercito imperiale uscito di Roma ritardò
il fortunato suo corso, e gli fece abbandonare il cammino dritto,
che avea preso verso Napoli, non si fidando per li monti condurre le
artiglierie, il cui trasporto per ogni picciola opposizione dei nemici
poteva essere impedito; e perciò Lautrech fu costretto di pigliare il
cammino più lungo di Puglia a canto alla marina.

Intanto l'esercito imperiale comandato dal Principe d'Oranges, che
in luogo del Duca Borbone era stato dall'Imperadore creato Capitan
Generale, s'incamminò alla volta del Regno per opporsi a' nemici. Il
Principe d'Oranges comandava i Tedeschi, il Marchese del Vasto, che di
mala voglia ubbidiva al Principe, comandava l'infanteria spagnuola,
e D. Ferrante Gonzaga la Cavalleria. In Puglia presso Troja venuti
gli eserciti a fronte, non si diede battaglia, ma si trattennero
alquanti dì in semplici scaramucce e scorrerie. Ma poco da poi, a' 22
marzo, Lautrech incamminatosi alla volta di Melfi, prese per assalto
quella Città, facendovi prigione il Principe Sergianni Caracciolo,
che valorosamente la difendeva, e gli Spagnuoli si ritirarono alla
Tripalda. Presa Melfi, si rese Ascoli, Barletta, Venosa e tutte l'altre
Terre convicine. Trani e Monopoli, nel medesimo tempo si resero ai
Vineziani; poichè secondo l'ultime convenzioni fatte col Re di Francia,
s'acquistavano ad essi tutti que' Porti del Regno, che possedevano
innanzi alla rotta ricevuta dal Re Luigi nella Chiaradadda.

I Capitani imperiali giunti alla Tripalda si abboccarono col Vicerè
D. Ugo, col Principe di Salerno e Fabrizio Marramaldo, che ivi erano
accorsi con tremila fanti Italiani e diece pezzi d'artiglieria; e
tutti di comun accordo conchiusero di ritirarsi in Napoli ed a Gaeta
alla difesa di quelle Città, come fecero, abbandonando tutto il Paese
circostante. Allora Lautrech s'incamminò col suo esercito verso Napoli,
e nel passaggio arrenderonsi a lui Capua, Nola, Acerra, Aversa e tutte
le Terre circostanti, alloggiando quattro dì nell'Acerra, donde spedì
Simone Tebaldi romano con 150 Cavalli leggieri e 500 Corsi disertati
dal Campo imperiale per non essere pagati, all'impresa di Calabria.
E già Filippino Doria, con otto Galee d'Andrea Doria e due Navi, era
venuto alla spiaggia di Napoli, e fatto con l'artiglierie disloggiare
gl'Imperiali dalla Maddalena. Ma le sue Galee non bastavano a tenere
totalmente assediato il Porto di Napoli; perciò Lautrech sollecitava
le Galee de' Vineziani, che venissero ad unirsi con le Genovesi, e
quelle dopo essersi lentamente rimesse in ordine a Corfu, erano venute
nel Porto di Trani: ma esse (quantunque già si fossero arrendute
loro le città di Trani e di Monopoli) preponendo i comodi proprj agli
alieni (benchè dalla vittoria di Napoli dependessero tutte le cose)
ritardavano per pigliare prima Poligano, Otranto e Brindisi; a' 19 di
aprile il Provveditore degli Stradiotti Andrea Civrano, che militava
per li Vineziani, ruppe presso la Vetrana il Vicerè della Provincia
d'Otranto, il quale a gran fatica si salvò a Gallipoli col Duca di S.
Pietro in Galatina; e Lecce Metropoli di quella Provincia e S. Pietro
in Galatina con tutte le altre Terre circostanti si resero[344].

Intanto per sì fortunati successi delle armi della Lega, vedendosi
già Lautrech avvicinato alle mura di Napoli, fu dibattuto da' Capitani
Imperiali il modo della difesa; il Marchese del Vasto era di parere,
unito l'esercito in Napoli, che s'alloggiasse fuori delle mura,
parendogli viltà d'animo lo inserrarsi dentro; ma prevalse il parer
contrario del Vicerè Moncada, del Principe d'Oranges, di D. Ferrante
Gonzaga, dell'Alarcone e di tutti gli altri Capitani di ritirarsi
dentro. In Napoli eran rimasi pochissimi abitatori, perchè tutti quelli
che aveano o facoltà o qualità, s'erano ritirati, chi ad Ischia, chi
a Capri e chi all'altre Isole vicine. I Baroni che vi eran rimasi,
erano di sospetta fede, perchè sebbene all'avviso della venuta di
Lautrech, s'erano molti Baroni e li più potenti e ricchi offerti al
Vicerè Moncada di spendere il sangue e la roba in servizio di Cesare;
nulladimeno per aver egli composta la maggior parte di quelli in denaro
contante, in vece del servizio personale, e data loro licenza di potere
alzare in caso di necessità le bandiere di Francia, senza che fosse
loro imputato a fellonia o ribellione (oltre di molti altri che vi
erano dentro della fazione Angioina) fu riputato savio consiglio, a
fine di tener la Città sicura di qualche rivoluzione, che l'esercito
si ritirasse dentro le mura della Città. Il popolo, alcuni per timore,
altri per l'odio del nome spagnuolo, avea parimente bisogno di coraggio
e di freno. Ed in fatti fu tale il suo timore, quando vide l'esercito
Franzese alla vista della Città, che non si vedea altro per le strade,
che processioni, e non s'udivano che pubbliche preci, e dimandar
pietade; tanto che il Marchese del Vasto fu costretto ricorrere al
Vicerè Moncada, perchè quelle si proibissero, come fu fatto, con
incoraggir il popolo, che stasse di buon animo, e che le orazioni si
facessero privatamente nelle Chiese e ne' Monasteri[345].

Ma tutte queste insinuazioni niente giovarono, quando il primo sabato
di maggio, che in quell'anno fu alli 2 di quel mese, non si vide
secondo il solito liquefarsi il sangue alla vista del Capo di S.
Gennaro lor Protettore[345a]. Allora sì che s'ebbero per perduti e la
Città nell'ultima costernazione. Ma come più innanzi diremo, fur vani
gl'infausti pronostici, e seguirono effetti tutti contrari.

Il famoso Lautrech, il penultimo di d'aprile, alloggiò il suo esercito
tra Poggio Reale ed il Monte di San Martino, distendendosi le sue genti
insino a mezzo miglio, ed egli si mise più innanzi di Poggio Reale
in una collina nella Vigna del Duca di Montalto, la quale d'allora
in poi mutò nome, e sin oggi vien quel luogo appellato _Lotrecco_. Il
celebre Pietro Navarra, Cantabro, che prima militando sotto l'insegna
di Cesare, per mala soddisfazione portossi da poi al servigio di
Francia, alloggiò in quelle colline, che sono all'incontro la Porta di
S. Gennaro, e si distendono per fino al Monte di S. Martino.

Il Principe d'Oranges, dall'altra parte, fece subito fortificare il
Monte di S. Martino, acciò che non fosse occupato da' Franzesi, i quali
s'erano accampati negli altri vicini colli; ed allora fu, che fece
abbattere la Torre del Sannazaro a Mergellina, luogo destinato da lui
per le Muse: onde questo Poeta pieno di sdegno andossene in Roma, dove
morì senza veder più Napoli; nè mancò per l'indignazione conceputa, ne'
suoi versi covertamente malmenare così il Principe, come gli Spagnuoli,
a' quali e per l'amore de' Re d'Aragona di Napoli suoi benefattori, e
per l'odio conceputo al nome loro, avea notabile avversione. E narrasi,
che trovandosi in Roma gravemente infermo e fuor d'ogni speranza di sua
salute, intesa prima di morire la morte del Principe, si rallegrasse
non poco, dicendo che Marte avea voluto già far vendetta delle Muse, da
costui oltraggiate.

Non mancava in oltre provveder Napoli di frumento e d'ogni altra
munizione così di bocca, come di guerra, per far valida difesa: e
si cominciò ancora ad arrolare molta gente del popolo napoletano
adatta all'armi per servirsene ne' bisogni: ma non altrimenti, che
de' servi accadde in Roma, avvenne in Napoli dei suoi Cittadini. Il
Senato Romano, che per togliere la confusione che vi era nella Città
ripiena di tanti servi, avea deliberato, perchè si distinguessero da
liberi Cittadini Romani, di contrassegnargli negli abiti con una nota
distinta, quando vidde che per l'eccessivo lor numero, con notarsi
con quel marco i servi, come dice Seneca, avrebbero saputa quanto era
grande la lor forza, s'astenne di farlo. Così gli Spagnuoli fecero
in Napoli in questa occasione; poichè avvedendosi, che con arrolarne
tanti, il popolo Napoletano avrebbe ben conosciuta la forza che teneva
nella sua moltitudine, i Capitani spagnuoli dissuasero al Principe
d'Oranges, ed al Vicerè Moncada, che non si seguitasse il rollo
cominciato, e così levaron mano, e s'astennero di proseguirlo[346].

Intanto, mentre si consumava il tempo in varie e spesse scaramucce
dalle genti dell'uno e l'altro esercito, Lautrech non volle tentar
l'espugnazione di Napoli, così per la moltitudine e valore de'
defensori, come perchè sperava, che a' nemici dovessero mancar denari
e vettovaglie, e prolungando l'assedio, siccome avea ridotto a sua
divozione la maggior parte del Regno e molti Baroni, che si diedero
al partito del Re di Francia; così credeva fermamente, e n'avea data
certezza al suo Re, che Napoli fra breve avrebbe dovuto rendersi.
Confermollo in questa speranza la sconfitta, che alquanti dì da poi
diede Filippino Doria all'armata imperiale nel Golfo di Salerno.

Erano entrati in speranza il Principe d'Oranges, ed il Vicerè Moncada
di rompere l'armata di Filippino, e sollecitavano l'impresa prima
che sopraggiungessero nuovi ajuti; perchè Andrea Doria con le Galee,
ch'erano a Genova non si movea; dell'armata preparata a Marsiglia non
s'intendeva cos'alcuna, e l'armata vineziana, li quale intenta più
all'interesse proprio, che al beneficio comune, anzi più tosto agli
interessi minori ed accessorj, che agli interessi principali, attendeva
alla spedizione di Brindisi e di Otranto, delle quali città, Otranto
avea convenuto di arrendersi, se fra sedici dì non era soccorso, ed in
Brindisi, benchè per accordo avesse ammesso i Vineziani, si tenevano
ancora le Fortezze in nome di Cesare.

Ma prima d'avviarsi all'impresa, bisognò comporre una grave contesa
insorta tra il Vicerè di Moncada, ed il Principe d'Oranges intorno al
comando dell'armata. Furono questi due Capitani in continue gare: il
Principe d'Oranges come Capitan Generale, sustituito da Cesare in luogo
del Duca Borbone, pretendeva l'assoluto comando sopra tutti: il Vicerè
come Capitan Generale del Regno, ove la guerra si faceva, pretendeva
all'incontro non ubbidirlo; e questa divisione separò gli eserciti,
con grave danno di Cesare, in due fazioni, chi seguitava la parte
del Vicerè, chi quella del Generale Oranges. Nel comandare l'armata
navale sursero vie più fiere le competenze; il Principe, come Generale
dell'esercito, voleva a se arrogarsi il comando; D. Ugo ostinatamente
repugnava, poichè, oltre il carico di Vicerè, si trovava egli allora
anche G. Ammiraglio del Regno, a cui s'apparteneva il pensiero, e
comando delle cose del mare. Non volendo l'un cedere all'altro, per
non ritardare l'espedizione, fu risoluto che si desse il comando di
quella impresa al Marchese del Vasto, ed al Gobbo Giustiniano nelle
cose marittime veterano e famoso Capitano. D. Ugo per mostrar il suo
valore e zelo, vi volle andare da semplice soldato, ed il suo esempio
mosse Ascanio e Camillo Colonna, Cesare Ferramosca, il Principe di
Salerno ed altri ad andarvi. Non vi erano nel Porto di Napoli che sei
Galee e due Vascelli, ed il maggior fondamento non si faceva in sul
numero, ma nella virtù de' combattenti, perchè empirono i loro legni
di mille archibugieri spagnuoli de' più valorosi; e per ispaventare
i nemici di lontano col prospetto di maggiore numero di legni,
v'aggiunsero molte barche di Pescatori. Partirono il primo dì di giugno
da Posilippo, e s'incamminarono alla volta di Capri: dove arrivati
allo spuntar del 'giorno, videro i naviganti uscir da una spelonca
un Romito spagnuolo assai noto, chiamato _Consalvo Barretto_, il
quale essendo prima soldato, lasciata la milizia, erasi in quel luogo
ritirato a menar vita solitaria. Costui vedendo le Galee imperiali,
gridando ad alta voce, fece sì che D. Ugo con grandissimo pregiudizio
di quell'impresa perdesse tempo ad udirlo. Egli assicurava l'armata,
dandogli più benedizioni, che andasse pur felice a valorosamente
combattere, perchè secondo l'apparizioni, che egli avea avute la notte,
dovea ella rovinare i vascelli nemici, ammazzar molta gente, e per
questa battaglia liberare il Regno di Napoli dall'oppressione in che
si trovava[347]. I creduli soldati ricevendo come oracolo di felice
augurio le parole del Romito, con festa e giubilo e suoni di trombe,
promettendosi certa vittoria, andarono ad affrontar i nemici nel Golfo
di Salerno vicino al Capo d'Orso. Ma azzuffatisi insieme le due armate,
ben tosto s'avvidero quanto fossero sciagurati e vani gl'infelici
pronostichi di quel fanatico. Tutti al contrario seguirono gli effetti.
Fu l'armata imperiale interamente disfatta dal Doria: i soldati,
ch'erano su le Navi, quasi tutti morti, ed i feriti fatti prigioni.
D. Ugo valorosamente combattendo fu prima ferito nel braccio, e mentre
confortava i suoi, da' sassi e da' fuochi gittati dalle Galee nemiche,
restò miseramente morto, e poi crudelmente fu gittato in mare; e questo
medesimo avvenne al Ferramosca. Il Marchese del Vasto, Ascanio Colonna,
amendue feriti, il Principe di Salerno, il Santa Croce, Camillo
Colonna, il Gobbo, Serenon, Annibale di Gennaro e molti altri Capitani
e Gentiluomini restarono tutti prigioni: i quali tosto furon mandati da
Filippino con tre Galee ad Andrea Doria prigionieri a Genova.

Ecco l'infelice successo di questa spedizione: ecco ancora
l'infelicissimo fine del nostro Vicerè Moncada, il quale in tempi
così turbolenti non potè godere del governo del Regno, che per soli
sei mesi; perciò di lui non ci restano leggi, nè ebbe spazio fra noi
lasciarci altra memoria. I Napoletani a' 8 giugno gli fecero solenni
esequie; ed il Guicciardino, che parimente narra il suo cadavere
essere stato buttato a mare, rende ancora non verisimile quel che
alcuni scrissero, che fosse stato portato ad Amalfi, e poi condotto
in Valenza, dove gli fu eretto un superbo tumulo, con iscrizione ed
elogio. Che che ne sia, prese in suo luogo il carico di nuovo Vicerè
Filiberto di Chalon _Principe d'Oranges_.

A tanta prosperità delle armi Franzesi s'aggiunse l'arrivo dell'armata
vineziana di ventidue Galee, la quale, dopo essersi impadronita di
quelle Piazze nell'Adriaco, passando il Faro di Messina, giunse al
Golfo di Napoli a' 10 di questo mese, era costeggiando di continuo il
nostro mare, e tutta intesa ad impedire i viveri alla Città assediata;
ma era tanta l'avidità ed avarizia degli arditi marinari, che non
perciò mancavano di venire ogni giorno nuovi rinfreschi da Sorrento,
Capri, Procida, Ischia ed altri luoghi, mettendosi i marinari a mille
rischi per la speranza di grossi guadagni.

Questi fortunati successi diedero speranza grande ai Franzesi di
terminar fra poco tempo tutta l'impresa. Cominciò Lautrech con
l'artiglieria a battere la Città da quelle colline, dove stava
accampato Pietro Navarra. Fece ancor levar l'acqua del formale,
ch'entrava dentro la Città dalla banda di Poggio Reale; ma siccome
per l'abbondanza de' pozzi sorgenti, che vi sono dentro, non le recò
molto danno, così per altra via riuscì ciò dannosissimo non meno a
Napoli, che al suo esercito; poichè l'acqua allagando e stagnando in
que' contorni, cagionando mal aria, fece augumentar la peste e le
infermità che correvano sino al suo Campo. Si vide perciò la Città
miseramente afflitta da crudel peste, dall'artiglieria, che tirava
alle sue mura e da grande carestia di farina, carni e vino, essendo
obbligati gli assediati di nutrirsi di grano cotto. A tutti questi mali
s'aggiungevano i disagi, che l'apportavano gl'istessi soldati spagnuoli
e tedeschi, li quali usando insolenze grandissime, rubavano, sforzavano
donne, ammazzavano e maltrattavano, alle quali cose i Napoletani non
usi, per non avere avuto da molto tempo guerra in casa propria, mal
volentieri comportavano simili strazi.

Ma, mentre le cose erano in tale estremità, la fortuna, che sino a
questo punto erasi mostrata cotanto propizia a' Franzesi, si vide
tosto mutata ai lor danni, ed a favorire le parti di Cesare. Andrea
Doria mal soddisfatto del Re di Francia, a persuasione del Marchese
del Vasto suo prigioniere, lasciati gli stipendi di quel Re, andò a
servir Cesare; per la qual cosa Filippino Doria con tutte le Galee
partì da Napoli il quarto dì di luglio. Quello, che poi accelerò più
la ruina de' Franzesi, furono le infermità cagionate in gran parte nel
loro esercito, dall'aver tagliati gli acquidotti di Poggio Reale per
torre a Napoli la facoltà del macinare, perchè l'acqua sparsa per lo
piano, non avendo esito corrompè l'aria; onde i Franzesi intemperanti,
ed impazienti del caldo s'ammalarono. Si aggiunse ancora la peste
penetrata nel Campo per alcuni infetti mandati studiosamente da Napoli
nell'esercito. Così cominciarono le cose de' Franzesi a declinar
tanto, ch'eran divenuti da assedianti, assediati; ed al contrario
in Napoli cresceva ogni dì la comodità e la speranza. Ma si videro
nell'ultima declinazione, quando infermatosi ancora Lautrech, per
l'infezion dell'aria e per dispiacere di veder quasi tutta la sua
gente perduta, a' 15 agosto trapassò di questa vita, in su l'autorità
e virtù del quale si riposavano tutte le cose. Fu sepolto nell'istessa
Vigna del Duca di Montalto, dove stava accampato, e rimasero esposte
le sue gloriose ossa all'ignominia ed avarizia degli Spagnuoli; di che
avertito da poi Consalvo Duca di Sessa nipote del G. Capitano con alto
magnanimo e pietoso, fecele trasferire in Napoli, e seppellire nella
sua Cappella nella Chiesa di S. Maria la Nuova, dove fece loro ergere
un superbo tumulo di marmo, ed ancor oggi vi si legge pietoso elogio.
Il simile fece questo Signore alle ossa del famoso Pietro Navarro, il
quale poco da poi della disfatta dei Franzesi, fatto prigione, essendo
morto nelle carceri di Castel Nuovo, gli fece parimente nell'istessa
Cappella ergere pari tumulo con iscrizione che ancor ivi si vede[348].

La morte di sì insigne Capitano, restando il comando dell'esercito al
Marchese di Saluzzo non pari a tanto peso, multiplicò i disordini; e
sopraggiunto nel medesimo tempo Andrea Doria, come soldato di Cesare
con dodici Galee a Gaeta, i Franzesi rimasi quasi senza gente e senza
governo, non potendo più sostenersi, si levarono dall'assedio per
ritirarsi in Aversa; ma presentita dagli Imperiali la loro levata,
furono rotti nel cammino, dove fu preso Pietro Navarra e molti altri
Capitani di condizione; e salvatosi il Marchese di Saluzzo in Aversa
con una parte dell'esercito, non potendosi difendere, mandò fuori il
Conte Guido Rangone a capitolare col Principe d'Oranges, il quale ne'
principj di settembre accordò al Conte queste Capitolazioni.

Che lasciasse il Marchese Aversa con la Fortezza, artiglierie e
monizione, ed egli e gli altri Capitani, fuor che il Conte, in premio
di questa concordia, restassero prigioni. Che facesse il Marchese ogni
opera, perchè i Franzesi ed i Vineziani restituissero tutte le Piazze
del Regno. Che i soldati e quelli che per l'accordo rimanevano liberi,
lasciassero le bandiere, l'arme, i cavalli e le robe, concedendo però
a quelli di più qualità ronzini e muli per potersene andare; e che i
soldati Italiani non servissero per sei mesi contra Cesare.

Così rimase tutta la gente rotta e tutti i Capitani o morti, o presi
nella fuga, o nell'accordo restati prigioni. In pochi dì si resero
Capua, Nola e tutti gli altri luoghi di Terra di Lavoro. L'armata
vineziana si divise dalla Franzese; quella s'avviò verso Levante
e questa verso Ponente. Rimasero solo alcune reliquie di guerra in
Apruzzo e nella Puglia; poichè in Calabria d'alcuni pochi luoghi,
che si tenevano per li Franzesi, non se ne teneva conto. Il Principe
d'Oranges gli discacciò poi interamente da quelle Province, e le Piazze
ed i Porti, che i Vineziani tenevano occupati nell'Adriatico furono,
nella pace universale, che si conchiuse da poi, restituite.

Ma se bene le cose di Napoli si fossero, cessata ancora la peste,
vedute in qualche pace e tranquillità; nulladimanco il rigore del
Principe d'Oranges, che volle usare co' Baroni, conturbò non poco la
quiete del Regno, e fu cagione dell'abbassamento e della desolazione
d'alcune famiglie, siccome dell'ingrandimento d'alcune altre. Il suo
predecessore D. Ugo avendo, come si disse, composti molti Baroni e
data loro licenza in caso di necessità, di poter alzare le bandiere
Franzesi, e d'aprir le porte delle lor Terre al nemico, diede la
spinta a molti di farlo; ma il Principe d'Oranges, ora che il Regno
era libero e ritornato interamente sotto l'ubbidienza di Cesare, non
ammettendo a' Baroni quella scusa, e dicendo che il Moncada non avea
potestà di rimettere la fedeltà dovuta dal vassallo al suo Sovrano,
si mise a gastigarli come ribelli, ad alcuni togliendo la vita, a
moltissimi confiscando le robe, e ad altri, per semplice sospetto
d'aver aderito a Franzesi, componevagli in somme considerabili, con
connivenza ancora di Cesare, il quale avea sempre bisogno di denari per
nutrir la guerra, che si manteneva a spese, ora del Papa, ora d'altri,
ora con contribuzioni, tasse e donativi, che si proccuravano a questo
fine. Si serviva il Principe del ministerio segreto di Girolamo Morone
genovese, Commessario destinato a queste esecuzioni, il quale con molta
efficacia ed esattezza adempiva l'uffizio suo. Fece in prima tagliar
il capo ad Errigo Pandone Duca di Bojano ed al Conte di Morone[349].
Il medesimo avrebbe fatto del Principe di Melfi, del Duca di Somma,
di Vicenzo Caraffa Marchese di Montesarchio, di Errigo Ursino Conte di
Nola, del Conte di Castro, del Conte di Conversano, di Pietro Stendardo
e di Bernardino Filinghiero, se gli avesse avuti nelle mani: de' quali
il Marchese di Montesarchio, il Conte di Nola e Bernardino Filinghiero
morirono di malattia, prima che i Franzesi uscissero dal Regno, e gli
altri se n'andarono in Francia. Tutti questi però furono spogliati de'
loro Stati.

Il Marchese di Quarata ed altri Baroni volendosi valere della licenza
data loro da D. Ugo Moncada, fu ad essi di giovamento per far loro
scampare la vita, ma non già per con far loro perdere la roba, la qual
si credette, che l'avrebbero certamente salvata, se fosse stato vivo
D. Ugo. Nel numero di questi Baroni furono il Duca d'Ariano, il Conte
di Montuoro, il Barone di Solofra, l'uno e l'altro di Casa Zurlo, il
Barone di Lettere e Gragnano di Casa Miroballo, ii Duca di Gravina e
Roberto Bonifacio ultimamente fatto Marchese d'Oira; delli quali, gli
ultimi due ricuperarono da poi a maggior parte delli loro Stati e si
composero in denari, come ancora il Duca d'Atri, che ricuperò il suo.
Si richiamarono questi a Cesare, che non l'ammise alla reintegrazione
de' loro Stati, se non col pagamento d'una somma considerabile di
denaro, non avendo potuto in conto alcuno, evitar quest'ammenda.
Scrissero con tal occasione i primi Giureconsulti, che fiorirono in
Italia a favor de' Baroni, e Decio ne compilò più consiglj; pruovando
non potersi venire a somiglianti partiti, che apportavano pregiudicio
alla loro innocenza; ma fu in darno gettata ogni lor fatica, perchè
Cesare avea bisogno di denari per pagare le truppe, e con tal modo
sostener la guerra. Parimente avendo l'Aquila tumultuato, ridotta dal
Principe d'Oranges all'ubbidienza, la condannò in ducati 100 mila, che
per pagarli bisognò vendere sino gli argenti delle Chiese, ed impegnare
a due Mercatanti tedeschi, che pagarono anticipatamente il denaro, la
raccolta del Zaffarano, oltre d'averla spogliata della giurisdizione
che teneva sopra molti Casali, che l'Oranges donò ad alcuni Capitani
del suo esercito.

Dappoichè il Principe ebbe confiscate tutte quelle Terre a' loro
antichi Baroni, le divise a' Capitani dell'Imperio. Si tenne per se
Ascoli, la quale da poi fu d'Antonio di Leva. Melfi con la maggior
parte dello Stato del Principe di Melfi fu data ad Andrea Doria. Al
Marchese del Vasto fu dato Montesarchio ed Airola, Lettere, Gragnano ed
Angri. A D. Ferrante Gonzaga, Ariano. Ad Ascanio Colonna lo Stato del
Duca d'Atri, confiscato per la ribellione del Conte di Conversano; ma
gli Apruzzesi vassalli del Duca, non volendo dar ubbidienza ad Ascanio,
fu occasione che si vedesse meglio la causa del vecchio Duca d'Atri, e
ritrovandosi la persona sua fuori d'ogni sospetto di fellonia, gli fu
restituito con darsi ad Ascanio l'equivalente sopra altre Terre.

Le Terre della Valle Siciliana, ch'erano possedute da Camillo Pardi
Orpino, furono date a D. Ferrante d'Alarcone, e dopoi anche il
Contado di Rende del Duca di Somma. All'Ammiraglio Cardona, Somma.
A D. Filippo di Launoja Principe di Sulmona, figliuolo del Vicerè D.
Carlo, gli fu dato Venafro già del Duca di Bojano Pandone. A Fabrizio
Maramaldo, Ottajano. A Monsignor Beuri Fiamengo, Quarata, che era stata
del Marchese Lanzilao d'Aquino. Al Segretario Gattinara, Castro. A
Girolamo Colle, Monteaperto. A Girolamo Morone esecutore indefesso de'
rigori del Vicerè, in premio della sua severità, la Città di Bojano.
E ad altre persone, altre Terre, che la memoria dell'uomo non si può
ricordare. Alcuni di questi pretesi felloni ottennero, che le lor cause
si fossero vedute per giustizia, siccome ottenne Michele Coscia Barone
di Procida, e quella trattatasi in Napoli a' 4 maggio del seguente anno
1529 riportò sentenza conforme a quella del Marchese di Quarata, cioè,
che perdesse la roba, ma non la vita; onde Procida fu confiscata, e fu
data al Marchese del Vasto[350].



CAPITOLO V.

_Pace conchiusa tra 'l Pontefice CLEMENTE coll'Imperador CARLO in
Barcellona, che fu seguita dall'altra conchiusa col Re di Francia a
Cambrai, e poi (esclusi i Fiorentini) co' Vineziani; e coronazione di
Cesare in Bologna._


Gl'infelici successi delle armi franzesi in Italia fecero, che pensasse
il Papa, l'istesso Re Francesco, e tutti coloro della Lega alla
pace; onde tutti i loro pensieri furono rivolti a trovarne il modo.
Il Papa fu il primo che trattasse accordo, e per mezzo del General
de' Francescani, creato da lui Cardinale del titolo di S. Croce, che
sovente portandosi da Spagna in Roma, e da quivi in Ispagna, ridusse
l'accordo con Cesare in buono stato, e già in Napoli nel principio di
questo nuovo anno 1529 penetrò qualche avviso di speranza di pace.
Finalmente dopo essersi negoziata per alquanti mesi dal suddetto
Cardinale, fu ridotta a fine da Giovan-Antonio Mascettola, che si
trovava in Roma Ambasciadore per l'Imperadore, e si conchiuse molto
favorevole per lo Pontefice, o perchè Cesare, desiderosissimo di
passare in Italia, cercasse di rimoversi gli ostacoli, parendogli per
questo rispetto aver bisogno dell'amicizia del Pontefice, o volendo con
capitoli molto larghi dargli maggiore cagione di dimenticare l'offese
praticate da' suoi Ministri e dal suo esercito: in effetto gli accordò
ciò che il Papa più ardentemente desiderava, cioè lo ristabilimento
della sua Casa in Fiorenza, promettendo l'Imperadore per rispetto del
matrimonio nuovo di Margherita sua figliuola naturale con Alessandro
de' Medici suo nipote, figliuolo di Lorenzo, di rimettere Alessandro
in Fiorenza nella medesima grandezza ch'erano i suoi innanzi fossero
cacciati.

I Capitoli di questa pace si leggono nell'Istoria del Giovio[351] e
del Guicciardino[352], e sono rapportati da altri Scrittori[353]. Il
Summonte[354] ed il Chioccarelli[355] ne trascrivono le parole; e per
ciò che riguarda il Regno di Napoli, fu convenuto:

Che il Pontefice concedesse il passo per le Terre della Chiesa
all'esercito Cesareo, se volesse partire dal Regno di Napoli; e che
passando Cesare in Italia debbiano abboccarsi insieme per trattare la
quiete universale de' Cristiani, ricevendosi l'un l'altro con le debite
e consuete cerimonie ed onore.

Che Cesare curerà il più presto si potrà, o con l'arme, o in altro modo
più conveniente, che il Pontefice sia reintegrato nella possessione
di Cervia e di Ravenna, di Modena, di Reggio e di Rubiera, senza
pregiudizio delle ragioni dell'Imperio e della Sede Appostolica.

All'incontro, concederà il Pontefice a Cesare, avute le Terre
suddette, per rimunerazione del beneficio ricevuto nuova investitura
del Regno di Napoli, con rimettergli tutti li censi imposti per lo
passato, riducendo il censo dell'ultima investitura ad un cavallo
bianco, in ricognizione del feudo, da presentarsegli nel giorno di S.
Pietro e Paolo. Fu questo censo sempre vario, ora diminuendosi, ora
accrescendosi a considerabili somme, le quali poi non pagandosi, i
Pontefici per non pregiudicarsi, con altre Bolle solevano rimettere a'
Re i censi decorsi, ma volevano, che nell'avvenire si pagassero; ma poi
nè tampoco sodisfacendosi, si tornava di nuovo alla remissione.

Per questa capitolazione si tolse ogni censo pecuniario, e la cosa si
ridusse ad un solo cavallo bianco da presentarsi il dì di S. Pietro
in Roma, come fu da poi praticato. Tommaso Campanella perciò compose
una Consultazione _De Censu Regni Neapoletani_, che non si trova
impressa[356]. Paolo IV non ostante questa capitolazione, lo pretese da
Filippo II, ed arrivò per questa cagione di non essersi pagato, sino
a dichiarare divoluto il Regno; ma di ciò si parlerà più innanzi nel
Regno di quel Principe.

Di più sarà conceduta a Cesare la nominazione di ventiquattro Chiese
Cattedrali del Regno, delle quali era controversia: restando al Papa la
disposizione delle altre Chiese, che non fossero di Padronato e degli
altri Beneficj. Di che ci tornerà occasione di lungamente ragionare,
quando tratteremo della politia Ecclesiastica del Regno di questo
secolo.

E per ultimo, per tralasciar le altre che non appartengono alle cose
di Napoli, si convenne, che non potesse alcuno di loro in pregiudicio
di questa confederazione, quanto alle cose d'Italia, fare leghe nuove
nè osservare le fatte contrarie a questa: possano nondimeno entrarvi i
Vineziani, lasciando però quello, che posseggono nel Regno di Napoli.

Furono queste Capitolazioni fatte in Barcellona e furono solennemente
ivi stipulate a' 29 giugno di quest'anno 1529, dove intervenendo per
Ambasciadori di Cesare Mercurio Gattinara e Lodovico di Fiandra, e
per lo Pontefice, il Vescovo Girolamo Soleto suo Maggiordomo, furono
ratificate innanzi all'altar grande della Chiesa Cattedrale di
Barcellona con solenne giuramento.

Volendo per tanto Cesare in esecuzione di questa concordia riporre
Alessandro de' Medici nello Stato di Firenze, deliberò valersi per
quella impresa del Principe d'Oranges nostro Vicerè: al quale comandò,
che da Apruzzo, ov'era, si mettesse in cammino con la sua gente alla
volta di Firenze; e che nel passare andasse a Roma a ricevere gli
ordini del Papa.

Nel medesimo tempo con non minor caldezza procedevano le pratiche della
concordia tra Cesare ed il Re di Francia, per le quali, poichè furono
venuti i mandati, fu destinata la Città di Cambrai, luogo fatale a
grandissime conclusioni.

I negoziati di questa pace furono appoggiati a due gran donne, a
Madama Margherita d'Austria, zia dell'Imperadore, ed a Madama la
Reggente, madre del Re di Francia, acconsentendo a questi maneggi
il Re d'Inghilterra, il quale avea mandato per ciò a Cambrai un suo
Ambasciadore. Re Francesco si studiava con ogni arte e diligenza, con
gli altri Ambasciadori della Lega d'Italia, di dar loro a sentire,
che non avrebbe fatta concordia con Cesare, senza consenso e loro
soddisfazione. Si sforzava persuaderli di non sperare nella pace, anzi
avere volti i suoi pensieri alle provvisioni della guerra: temendo,
che insospettiti della sua volontà, non prevenissero ad accordarsi
con Cesare; onde mostrò essere tutto inteso a provvisioni militari,
e mandò a questo fine il Vescovo di Tarba in Italia con commessione
di trasferirsi a Venezia, al Duca di Milano, a Ferrara ed a Firenze
per praticare le cose appartenenti alla guerra: e promettere, che
passando Cesare in Italia, passerebbe anch'egli nel tempo medesimo
con potentissimo esercito. Queste erano l'apparenze; ma il desiderio
di riavere i figliuoli, rimasi per ostaggio in Ispagna, lo faceva
continuamente stringere le pratiche dell'accordo, per cui a' 7 di
Luglio entrarono per diverse porte con gran pompa amendue le Madame in
Cambrai; ed alloggiate in due case contigue, che aveano l'adito l'una
nell'altra, parlarono il dì medesimo insieme, e si cominciarono per gli
Agenti loro a trattare gli articoli; essendo il Re di Francia, a chi
i Veneziani, impauriti di questa congiunzione, facevano grandissime
offerte, andato a Compiegne, per essere più da presso a risolvere le
difficoltà, che occorressero.

Convennero in quel luogo non solamente le due Madame, ma eziandio, per
lo Re d'Inghilterra, il Vescovo di Londra, ed il Duca di Suffocle,
perchè col consenso e partecipazione di quel Re si tenevano queste
pratiche. Il Pontefice vi mandò l'Arcivescovo di Capua e vi erano gli
Ambasciadori di tutti i Collegati; ma a costoro riferivano i Franzesi
cose diverse dalla verità di quello che si trattava; ed il Re sempre
lor prometteva le medesime cose, che non si sarebbe conchiuso niente
senza lor consenso e soddisfazione. Sopravvenne intanto a' 28 di
luglio l'avviso della capitolazione fatta tra 'l Pontefice e Cesare; ed
essendosi per ciò molto stretto l'accordo, fu per isturbarsi per certe
difficoltà, che nacquero sopra alcune Terre della Franca Contea; ma
per opera del Legato del Pontefice e principalmente dell'Arcivescovo di
Capua, fu quello conchiuso.

Si pubblicò questa pace solennemente il quinto dì d'agosto nella
Chiesa maggiore di Cambrai, e l'istromento di quella è rapportato da
_Lionard_ nella sua Raccolta[357]. I principali articoli, e quelli che
riguardarono il nostro Reame furono.

Primieramente, che i figliuoli del Re fossero liberati, pagando il Re
a Cesare per taglia loro un milione e ducentomila ducati, e per lui al
Re d'Inghilterra ducentomila[358].

Che si restituisse a Cesare tra sei settimane dopo la ratificazione
tutto quello possedeva il Re nel Ducato di Milano, con rilasciargli
parimente Asti, e cederne le ragioni.

Che lasciasse il Re più presto che potesse Barletta e tutto quello
che teneva nel Regno di Napoli. Che protestasse il Re a' Vineziani,
che secondo la forma de' Capitoli di Cugnach, restituissero le Terre
di Puglia, ed in caso non lo facessero, dichiararsi loro nemico, ed
ajutare Cesare per la ricuperazione con 30 mila scudi il mese e con
dodici Galee, quattro Navi e quattro Galeoni pagati per sei mesi.

E per tralasciar gli altri, fu parimente convenuto, che il Re dovesse
annullare il processo di Borbone e restituire l'onore al morto ed
i beni a' successori. Siccome dovesse restituire i beni occupati a
ciascuno per conto di guerra, o a' loro successori. Le quali cose dal
Re, ricuperati ch'ebbe i figliuoli, non furono attese: perchè tolse i
beni a' successori di Borbone, nè restituì i beni occupati al Principe
d'Oranges, del che Cesare cotanto si querelava.

Fu compreso in questa pace per principale il Pontefice, e vi fu
incluso il Duca di Savoja. Vi fu ancora un capitolo, che nella pace
s'intendessero inclusi i Vineziani ed i Fiorentini, in caso che fra
quattro mesi fossero delle loro differenze d'accordo con Cesare, che
fu come una tacita esclusione; ed il simile fu convenuto per lo Duca
di Ferrara. Nè de' Baroni e fuorusciti del Regno di Napoli fu fatta
menzione alcuna.

Pubblicata che fu, non si può esprimere quanto se ne dolessero i
Vineziani, e più i Fiorentini, che non furono in quella compresi,
vedendosi così abbandonati, ed in arbitrio di Cesare e del Pontefice;
il quale, giunto che fu il Principe d'Oranges in Roma, destinato da
Cesare a ridurre i Fiorentini, l'avea accolto con giubilo grande, e
datigli molti ajuti per facilitare quella impresa, che tanto desiderava
vederla ridotta a felice fine.

Intanto Cesare dopo aver conchiusa la pace col Pontefice, si era
posto subito in cammino per Italia, dove avea deliberato di venire,
non già per quella cerimonia di pigliare la corona imperiale di mano
del Pontefice, ma fu mosso per cagioni assai più serie; poichè con
tal occasione pensava d'abboccarsi col Papa per dar sesto a molte
cose d'Italia ancor fluttuanti. E partito da Barcellona con le Galee
d'Andrea Doria a' 8 di luglio, arrivato che fu a Genova a' 12 agosto,
gli furono presentati gli articoli della pace conchiusa in Cambrai col
Re di Francia, li quali di buona voglia ratificò. In esecuzione della
quale, dall'altra parte, il Re di Francia chiamò le sue genti, che
erano nel nostro Regno, comandando a' suoi Capitani, che restituissero
a' Ministri di Cesare, Barletta e tutti gli altri luoghi, che si
tenevano nel Regno a nome suo, come fu eseguito[359].

Da questa pace di Cambrai in poi i Re di Francia non fecero altre
spedizioni in lor nome sopra il Regno di Napoli, nè mai pretesero
per loro le conquiste che furon poi tentate. S'unirono bensì nelle
congiunture co' nemici de' Re di Spagna a lor danni, ma per altre
cagioni, che si diranno nel progresso di questa Istoria.

Rimanevano ancora in Puglia le reliquie della guerra; poichè i
Vineziani non compresi nella pace, ostinatamente attendevano a
guardarsi quelle Terre e quei Porti dell'Adriatico, che tenevano
occupati. E quantunque fosse stato dato il carico al Marchese del
Vasto di discacciarli, questi però essendo stato richiamato in Fiorenza
dal Principe d'Oranges, che avea trovata l'impresa assai più lunga e
difficile di quello si credeva; fu dato il carico all'Alarcone, già
fatto Marchese della Valle Siciliana, per ricuperar quelle Terre[360].

Ma giunto che fu l'Imperadore in Bologna a' 5 del mese di novembre, ove
secondo concertarono, si fece parimente trovar il Papa, abboccatisi
insieme, la prima cosa che fra di loro si trattò, fu la restituzione
dello Stato al Duca di Milano, e la pace con gli Vineziani e con gli
altri Principi Cristiani: per agevolar la quale molto vi cooperò Alonzo
Sances Ambasciadore di Cesare alla Signoria di Venezia. Giovò ancora a
Francesco Sforza l'essersi presentato, subito che arrivò in Bologna,
al cospetto di Cesare: onde trattatesi circa un mese le difficoltà
dell'accordo suo e di quello de' Vineziani, finalmente a' 23. decembre
di quest'anno, essendosene molto affaticato il Pontefice, si conchiuse
l'uno e l'altro. Fu convenuto che al Duca si restituisse lo Stato con
pagare a Cesare in un anno ducati 400 mila, ed altri cinquecentomila
poi in diece anni, restando in tanto, fin che non fossero fatti i
pagamenti del primo anno, in mano di Cesare Como ed il Castel di
Milano; e gli diede l'investitura, ovvero confermò quella, che prima
gli era stata data[361].

Che i Vineziani restituissero al Pontefice Ravenna e Cervia co' suoi
Territorj, salve le loro ragioni.

Che restituissero a Cesare per tutto gennajo prossimo tutto quello che
possedevano nel Regno di Napoli.

Che se alcun Principe Cristiano, eziandio di suprema dignità,
assaltasse il Regno di Napoli, siano tenuti i Vineziani ad ajutarlo con
quindici Galee sottili ben armate.

E per ultimo, tralasciando gli altri, fu convenuto, che se il Duca di
Ferrara si concorderà col Pontefice e con Cesare, s'intendesse incluso
in questa confederazione.

Nel primo di gennajo del nuovo anno 1530 fu nella Cattedral Chiesa di
Bologna solennemente pubblicata questa pace, nella quale solamente
i Fiorentini ne furono esclusi. In esecuzione della quale Cesare
restituì a Francesco Sforza Milano e tutto il Ducato, e ne rimosse
tutti i soldati, ritenendosi solamente quelli, ch'erano necessari
per la guardia del Castello e di Como, li quali restituì poi al tempo
convenuto; e poichè per questa pace i Capitani dell'Imperadore erano
rimasi mal contenti, particolarmente il Marchese del Vasto, ed Antonio
di Leva: l'Imperadore, per mantenerli soddisfatti, persuase al Duca
di Milano, che avesse per bene, che quelli nel suo Ducato possedessero
alcune Terre.

I Vineziani restituirono al Pontefice le Terre di Romagna, e nello
stesso mese furono da essi restituite a Cesare Trani, Molfetta,
Pulignano, Monopoli, Brindisi e tutte l'altre Terre, che tenevano nelle
marine della Puglia.

Così liberato il Regno da straniere invasioni, e restituito in pace,
avea bisogno di tranquillità e maggior riposo per ristorarsi de'
passati danni.



CAPITOLO VI.

_Governo del Cardinal Pompeo COLONNA, creato Vicerè in luogo
dell'ORANGES, grave a' sudditi, non tanto per lo suo rigore, quanto per
le tasse e donativi immensi, che coll'occasione dell'incoronazione,
e del passaggio di Cesare in Alemagna, per la natività di un nuovo
Principe, e per le guerre contra al Turco riscosse dal Regno._


Eletto il Principe d'Oranges per l'impresa di Fiorenza, fu ne' principj
di luglio del passato anno 1529 rifatto in suo luogo il Colonna. Costui
fu il primo Cardinale, ch'essendo ancora Arcivescovo di Monreale,
si vide in qualità di Vicerè e Capitan Generale governare il Regno.
In altri tempi, quando chi era destinato a' ministerj della Chiesa,
non poteva impacciarsi ne' negozi ed affari del secolo, avrebbe ciò
portato orrore; ma ne' pontificati d'Alessandro VI, di Giulio II (di
cui scrisse Giovanni Ovveno[362], che avendo deposte le chiavi, e
presa la spada, attese più alle arti della guerra, che al ministerio
sacerdotale) di Lione (che come dice il Guicciardino[363], niente
curando della Religione, avea l'animo pieno di magnificenza e di
splendore, come se per lunghissima successione fosse disceso di Re
grandissimi, favorendo con profusioni di regali Letterati, Musici e
Buffoni) di Clemente VII (nel di cui tempo gli abusi della Corte di
Roma eran trascorsi in tanta estremità, che fu desiderato un Concilio
per estirparli) non parevano queste cose strane. Non dava su gli occhi,
che un Arcivescovo insieme e Cardinale, lasciata la sua Cattedra,
governasse Regni e Province da Vicerè e da Capitan Generale. E tanto
meno stranezza dovea apportare il Cardinal Colonna, il quale niente
curando delle cose della Religione, fu tutto applicato alle armi, ed
agli amori, siccome correva la condizione di que' tempi.

Egli nella sua adolescenza fu applicato da Prospero Colonna suo zio
all'esercizio dell'armi, e militò sotto il G. Capitano, dando pruove
ben degne del suo valore. Poi stimò meglio lasciar la guerra, e
ritirarsi in Roma, dove si diede allo studio di lettere umane, e nella
poesia fece maravigliosi progressi, e per ciò fu molto stimato dal
Minturno[364], e dagli altri Letterati del suo tempo. Essendo costume
de' Poeti eleggersi un'Eroina, onde ispirati da quel Nume con maggior
fervore e vena poetassero, così ancora fece il Colonna, il quale
acceso fortemente dell'avvenenza e venustà di D. Isabella Villamarino
Principessa di Salerno, cantò di lei altamente, e per cui compose
molti versi, che ancor si leggono. Fu carissimo ancora alla cotanto
celebre D. Vittoria Colonna sua parente, di cui parimente cantò le
sue lodi e' suoi pregi; e per mostrare al mondo quanto le donne gli
fossero a cuore, compose un giusto volume delle loro virtù, lodandole
e defendendole da tutti quelli, che le soglion biasimare[365].

In premio di queste sue fatiche, essendo morto il Cardinal Giovanni
Colonna suo zio, Giulio II lo creò Vescovo di Rieti. Lione X, a cui
assai più aggradivano le sue maniere e la sua letteratura, l'innalzò a
più grandi onori: oltre averlo fatto passare a più sublimi Cattedre, lo
creò Vicecancelliere della Sede Appostolica, e finalmente Cardinale.
Ma Clemente VII l'odiò sopra modo, siccome colui, che aderendo,
come tutti gli altri Colonnesi, alle parti imperiali, continuamente
s'opponeva al suoi pensieri. Ed il Cardinale col favor di Cesare
fatto più ardito e fastoso, non si conteneva di parlar pubblicamente
di lui, come di asceso al Papato per vie illegittime; e magnificando
le cose operate dalla Casa Colonna contra altri Pontefici, aggiungeva
esser fatale a questa famiglia l'odio de' Pontefici intrusi, e ad essi
l'esser ripressi dalla virtù di quella. Di che irritato il Pontefice
pubblicò un severo Monitorio contra di lui, citandolo a Roma sotto
gravissime pene: nel qual anche toccava manifestamente il Vicerè di
Napoli, ed obbliquamente l'Imperadore. Il Cardinal Pompeo non lasciò
di vendicarsene, quando entrati i Colonnesi in Roma, saccheggiarono
tutta la suppellettile del Palazzo Pontificio e la Chiesa di S.
Pietro; onde avvenne, che assicurato il Papa per la tregua fatta per
quattro mesi con D. Ugo Moncada, scomunicando, e dichiarando eretici
e scismatici i Colonnesi, privò ancora il Cardinale della dignità
Cardinalizia. Trovavasi allora il Cardinale in Napoli, il quale
intesa la sua privazione, non stimate le censure del Papa, pubblicò
un'appellazione al futuro Concilio, citando Clemente a quello, con
proporre l'ingiustizia e le nullità de' monitorj, censure e sentenze
contra di lui e' Colonnesi pubblicate; e dai partigiani de' Colonnesi,
di questa appellazione ne furono affissi più esemplari in Roma di notte
sopra le porte delle Chiese principali ed in diversi altri luoghi, e
disseminati per Italia.

(Questi Atti del Cardinal _Pompeo Colonna_ contra _Clemente VII_ sono
stati raccolti ed impressi nelle collezioni di _Goldasto_; de' quali
non si dimenticò _Struvio_[366], che l'avvertì pure scrivendo alla
pag. 1262, _Extant Acta Pompeii Cardinalis, adversus Clementem VII apud
Goldastum_. L'esempio di _Carlo V_ rese frequenti, mentre durarono le
brighe con questo Pontefice, le appellazioni contra i Monitorj, censure
ed ogni altro atto Papale, al futuro Concilio. Anzi l'appellazione
interposta dall'Imperadore, contiene una formola assai notabile;
poichè si dimandano al Papa gli Apostoli (vocabolo forense) cioè le
lettere dimissoriali per la trasmissione degli atti al futuro Concilio,
affinchè intanto egli non procedesse, nè innovasse cos'alcuna. Ecco
le parole, colle quali egli termina quella dotta e grave risposta
fatta a _Clemente VII_ siccome si leggono, ed in _Goldasto_, ed in
_Lunig_[367]. _Nos enim, quum ex his, et aliis satis notoriis causis
turbari videremus universum Ecclesiae et Christianae Religionis statum
ut nobis, ac ipsius Reipublicae saluti consulatur, pro his omnibus
ad ipsum Sacrum Universale Concilium per praesentes recurrimus,
ac a futuris quibuscunque gravaminibus, eorumque comminationibus
provocamus, appellamus et supplicamus a Vestra Sanctitate ad dictum
Sacrum Concilium, cujus etiam officium per viam querelae his de causis
implorandum censemus: petentes cum ea, qua decet instantia, Apostolos
et litteras dimissorias, semel, bis, ter, et pluries nobis concedi, et
de harum praesentatione testimoniales litteras fieri, ac expediri in
ea qua decet forma, quibus suis loco et tempore uti valeamus. Et quum
ad haec solemniter peragenda ejusdem Sanctitatis Vestrae praesentiam
habere nequeamus, ut inde futuris forsan gravaminibus occurramus, has
nostras ejus Nuncio Apostolico penes nos agenti et Legationis munere,
nomine Vestrae Sanctitatis fungenti, per actum publicum coram Notario
et Testibus exhibendas intimandasque censuimus. Dat. Granatae die 17
Septembris 1526._)

Durarono le suddette aspre contese finchè non seguì la pace, conchiusa
tra il Pontefice e Cesare in Barcellona; in vigor della quale
restando assoluti tutti quelli, che in Roma, o altrove aveano offeso
il Pontefice, fu il Cardinale restituito alla prima dignità, ma non
mai alla grazia del Papa; e per questi successi vie più entrato in
sommo favore dell'Imperador Carlo V, questi lo nominò Arcivescovo di
Monreale, Chiesa, come ciascun sa, di ricchissime rendite in Sicilia;
e partito l'Oranges per l'impresa di Fiorenza, trovandosi il Cardinale
in Gaeta, gli diede il governo del Regno, creandolo suo Vicerè.

Giunto il Cardinale a Napoli, trovò il Regno per le precedute calamità
e disordini, non men esausto di denari che pieno di dissolutezze. I
suoi predecessori per le precedute guerre e rivoluzioni, dovendo più
attendere alle cose della guerra, trascurarono gli esercizi della
giustizia; e l'Oranges più col suo esempio che per trascurarne il
castigo, ne' giovani Nobili avea introdotta un'estrema licenza e
dissolutezza con grande oltraggio della giustizia. Non pure i Grandi
del Regno, ma i semplici Gentiluomini privati, toglievano alla scoverta
dalle mani della giustizia i delinquenti, oltraggiavano i popolari, si
ritenevano le mercedi ai poveri artigiani, e talora richieste, erano
battuti. I Potenti dentro le loro case tenevano uomini scellerati per
ministri delle loro voglie, nè li Capitani di giustizia vi potevano
rimediare: i loro Palagi erano divenuti tanti asili, e coloro che
v'entravano, ancorchè rei di mille delitti, eran ivi sicuri, e se
talora venivano estratti dalla giustizia, erano i birri bastonati,
perseguitali e costretti a renderli.

Il Cardinale nel principio del suo governo, seguitando le vestigia de'
suoi predecessori, lasciava correre i disordini, come per l'innanzi
camminavano: poi vedendo le cose ridotte all'ultima estremità, si
riscosse alquanto. Fece tagliar la mano a Giovan-Battista d'Alois di
Caserta suo valletto, il quale nella sua anticamera avea data una
guanciata ad un altro suo servidore; ed ancorchè Vittoria Colonna
si fosse mossa sin da Ischia a dimandargli il perdono, fu l'opra sua
tutta vana; e l'istessa Isabella Villamarino Principessa di Salerno,
cotanto da lui celebrata ne' suoi versi, non potè impetrar altro, che
siccome dovea recidersi la mano destra, si troncasse la sinistra,
come, fu eseguito[368]. Fece impiccare nella piazza del Mercato
Cola Giovanni di Monte, che nel 1525 era stato Eletto del popolo,
ed era allora Maestrodatti delle contumacie di Vicaria, e Giulio suo
fratello parimente Maestrodatti, per mille ruberie, falsità ed altri
enormi delitti, dei quali furon convinti. Ed essendo un malfattore
scappato dalle mani del Bargello, ricovrato nel palazzo del Principe
di Salerno, minacciò al Principe la confiscazione dei suoi beni
se non lo consegnava in poter della Corte, da chi fu prontamente
ubbidito; e negli ultimi suoi giorni i rigori che usò con Paolo
Poderico leggermente indiziato d'aver avuta mano nell'assassinamento
del Conte di Policastro, sarebbero trascorsi in crudeltà e manifeste
ingiustizie, se non fossero stati ripressi da Tommaso Gramatico nostro
Giureconsulto, che si trovava allora Giudice di Vicaria. Questi rigori
giovaron non poco a tener molti in freno, ma non che la giustizia
riprendesse affatto il suo vigore. Questa parte stava riserbata a _D.
Pietro di Toledo_ suo successore, il quale, come diremo, appena giunto
la rialzò tanto, che in una medaglia che si coniò a suo tempo in Napoli
colla giustizia cadente e da lui rialzata, meritò che se gli ponesse il
motto: _Erectori Justitiae_.

(Questa Medaglia in vano a Napoli ricercata, si conserva nel Museo
Cesareo di Vienna, è per quel che si sappia, sin qui non ancor
impressa. È di bronzo di mezzana grandezza: da una parte ha l'effigie
del _Toledo_ con barba lunga, ed intorno PETRUS TOLETUS OPT. PRIN. e
dall'altra l'imagine dell'istesso _D. Pietro_, sedente, che avanti a'
suoi piedi ha la Giustizia in ginocchione, la quale è innalzata dal suo
braccio destro, ed intorno il motto: ERECTORI JUSTITIAE).

Ma il governo del Cardinal Colonna riuscì a' Napoletani pur troppo
grave per li bisogni, che occorsero nel suo tempo di nuove tasse
e donativi. Essendo ancora l'Imperadore a Bologna, venne nuova di
Spagna, avere l'Imperadrice partorito un figliuolo: onde in Napoli,
nella fine di gennajo di quest'anno 1530 nell'istesso tempo, che si
facevano feste e tornei, si pensava per la natività di questo Principe
a far nuovo dono a Cesare. Si era parimente appuntato il dì della sua
incoronazione, e fu destinato quello di S. Mattia, giorno a lui di
grandissima prosperità, perchè in quel dì era nato, in quel dì era
stato fatto suo prigione il Re di Francia; ond'era di bene che in quel
dì stesso assumesse i segni e gli ornamenti della dignità Imperiale.
Prese per tanto in Bologna nel dì statuito per mano del Pontefice
la Corona Imperiale; della prima si era già coronato in Aquisgrana
colla corona di Carlo Magno: si fece anche da Monza venire in Bologna
l'altra di ferro, che parimente con molta solennità ricevette dal Papa:
il dì poi di S. Mattia 24 febbraio fu coronato con l'altra d'oro, e
con molto strepito di trombe e d'artiglierie fu acclamato Augusto.
Il Guicciardino[369] narra, che questa coronazione si fece ben con
concorso grande di gente, poichè da Napoli, e da altre parti d'Italia
vi accorsero infiniti, ma con picciola pompa e spesa; ed ancorchè la
spesa fosse picciola, da Napoli però gli furono dal Principe di Salerno
per questa incoronazione mandati 300 mila ducati.

Si affrettò tanta celebrità per la premura che avea Cesare di passare
tosto in Alemagna, così per dar sesto alli tanti sconvolgimenti,
che in quella Provincia avea apportati l'eresia di Lutero; come per
l'elezione del Re de' Romani, che e' proccurava far cadere in persona
di Ferdinando suo fratello. Gli erano perciò venute premurose lettere
di Germania, che lo sollecitavano a trasferirsi colà: gli Elettori
e gli altri Principi della Germania ne facevano istanza per cagion
delle Diete: Ferdinando per essere eletto Re dei Romani; e gli altri,
riputando, che tante rivoluzioni nate per causa di Religione non
potessero sedarsi, che per via d'un Concilio, lo sollecitavano ancora
a questo fine.

Partì per tanto l'Imperadore da Bologna per Germania alla fine di
marzo, nell'istesso tempo, che il Papa partì per Roma, e giunto a' 18
giugno in Augusta trovò ivi i Principi di Germania, che l'aspettavano
per la Dieta, che dovea tenersi contra l'eresia di Lutero. Ed essendo
stato a' 3 agosto di quest'anno ucciso in battaglia il Principe
d'Oranges, rimase il Cardinal Pompeo non più Luogotenente, ma assoluto
Vicerè del Regno.

Intanto l'Imperador Carlo dimorando in Germania, era tutto inteso a
dar sesto a quelle Province, e proccurare l'elezione del Re de' Romani
per suo fratello, come felicemente gli riuscì: poichè nel principio del
nuovo anno 1531 fu eletto Ferdinando, e coronato in Aquisgrana.

Ma le infelicità di questo Regno bisogna confessare essere state
sempre pur troppo grandi e compassionevoli; poichè essendo dominato da
piccioli Re, come furono gli Aragonesi di Napoli, non avendo questi
altri Dominj, onde potevan ritrarre denaro, era cosa comportabile
e degna di compatimento, che nei bisogni della guerra i sudditi
contribuissero talora alle spese. Ma chi avrebbe creduto, che Napoli
caduta ora sotto un Principe cotanto potente, Signore di due Mondi, a
cui, non pur l'oro della Spagna, ma quello delle Nuove Indie veniva a
colare, si vedesse sempre in necessità, spesso si sentissero ammutinati
i suoi eserciti per mancanza di paghe, e si udissero continuamente
richieste di nuovi sussidj e donativi?

L'altra infelicità che sperimentò questo Regno fu, che quando ebbero
finito i Franzesi, ricominciarono i Turchi. Fu veduto perciò sempre
combattuto, e posto in mezzo a soffrire intollerabili spese, o sia per
la guerra degli uni, o per lo timore (ch'era peggiore della guerra)
degli altri. Solimano Imperador de' Turchi si preparò in quest'anno
con potentissimo esercito per invadere l'Austria, e cingere nuovamente
di stretto assedio Vienna; e nell'anno seguente si vide passare con
grandi apparati in Ungheria, onde fu obbligato Cesare ad apparecchiarsi
ad una valida difesa. Mancavano però denari e gente per resistere a
tanto nemico: perciò fu da Cesare insinuato al Cardinal Vicerè, che
per li bisogni di questa guerra, proccurasse, che da Napoli si facesse
altro più grosso donativo. Il Cardinale a 11 luglio di quest'anno 1531
fece, secondo il costume, convocar un general Parlamento in S. Lorenzo,
ove esposti i desiderj di Cesare, proccurò, esagerando il bisogno,
persuadere i Baroni, e i Popoli ad assentirvi, e che il donativo fosse
almeno di ducati seicentomila. I Deputati all'incontro, ancorchè
mostrassero la prontezza del loro animo di farlo, nulladimeno gli
posero innanzi gli occhi la loro impotenza: trovarsi il Regno affatto
esausto, e per gli preceduti flagelli di guerra, di fame e di peste,
quasi del tutto ruinato: ricordassesi, che nell'occasione della sua
coronazione s'erano mandati in dono a Cesare per lo Principe di Salerno
ducati trecentomila; onde erano in istato cotanto miserabile, che
avevano bisogno di maggior compatimento: che con tutto ciò per mostrare
al lor Principe la prontezza del loro animo profferivano donargli
ducati trecentomila. Ma stando il Cardinale inflessibile, ed ostinato
alla prima dimanda, fu forza alla fine d'offrire in donativo li ducati
seicentomila da pagarsi però fra quattro anni, per potersi frattanto
riscuotere dalle tasse, che a proporzion de' fuochi s'imponevano. Si
diede al Principe di Salerno la commessione di portare il donativo; e
con tal occasione si domandò nuova conferma de' vecchi Capitoli, e si
cercarono a Cesare nuove grazie, le quali nel seguente anno, stando
egli in Ratisbona, le concedette, e ne spedì privilegio colla data di
Ratisbona, sotto li 28 luglio del 1532, che si leggono fra' privilegi
e grazie della Città e Regno di Napoli[370]; ma il denaro di questo
donativo fu impiegato la maggior parte a pagare la soldatesca, ch'era
in Toscana, ed a soldare, ed in Napoli e nell'altre parti delli Regni
dell'Imperadore, più genti, per accrescere i suoi eserciti.

Intorno al medesimo tempo vennero al Cardinale cinque Prammatiche
stabilite dall'Imperadore, mentre era in Germania, alcune delle quali
riguardavano quest'istesso fine di ricavar denari. Il Cardinale non
vi fece altro, che pubblicarle; onde possiamo con verità dire, che il
medesimo non promulgasse fra noi legge alcuna.

Per la prima stabilita ad Ispruch a' 5 luglio 1530, e pubblicata
dal Cardinal in Napoli a' 3 gennajo del seguente anno 1531,[371] fu
dichiarato, che così nelle alienazioni fatte da' privati, come dalla
sua Regia Corte, niente pregiudicasse a' venditori, per esercitar
il patto di ricomprare, il trascorso del tempo dal primo di marzo
dell'anno 1528 per tutto febbrajo del 1530, come quello che fu pieno
di rivoluzioni, guerre ed altre calamità: e che per ciò, quello non
ostante, potessero i venditori e la Corte esercitarlo.

Per la seconda data in Gante a 4 giugno del 1531, e pubblicata dal
Cardinale a' 27 luglio del medesimo anno, si dà a tutti licenza di
poter armare navigli contra gl'Infedeli, e scorrere i mari per difesa
delle marine del Regno[372].

La terza spedita a Brusselles a' 15 marzo del 1531, e pubblicata dal
Cardinale all'ultimo di settembre del medesimo anno, rivoca tutte le
concessioni, grazie, mercedi, provvisioni, immunità ed altre esenzioni,
che si trovassero concedute da' Vicerè passati, confermando solo
quelle fatte dal Principe d'Oranges, ed incarica al Tesoriere, al Gran
Camerario e suo Luogotenente l'esazione delle rendite del suo Fisco,
prescrivendo loro con premura le leggi, onde l'Erario s'augumenti, e
sia bene amministrato[373].

Nella quarta stabilita parimente in Brusselles a' 20 decembre del
detto anno 1531, e promulgata in Napoli dal Cardinale a' 17 febbrajo
del seguente anno 1532, si prescrivono rigorose leggi a' Questori,
ed a tutti gli Ufficiali, che riscuotono e distribuiscono il denaro
regio, di tener minuto conto della loro qualità, peso e valore, con
darne esattissimo conto a' Ministri del suo Tribunale della Regia
Camera[374].

Finalmente nella quinta, data in Colonia a' 28 gennajo del seguente
anno 1532, e pubblicata dal Cardinale a' 17 febbrajo del medesimo
anno, si dichiara, che i Vicerè non possono conferir ufficj nel Regno,
che oltrepassano la rendita di ducati cento, spettando questi alla
collazione del Re: e quelli, che essi possono conferire di ducati
cento, in questa somma vada compreso, non pure ciò, che agli Ufficiali
è stabilito per lor salario, ma quanto esigono d'emolumenti, e d'ogni
altro diritto[375].

Pochi mesi da poi ch'egli pubblicò questa Prammatica, finì il Cardinale
il suo governo colla vita; poichè solendo nell'està di quest'anno
1532 spesso portarsi a diporto nel suo giardino di Chiaja, andatovi
una mattina de' principj di luglio col Conte di Policastro suo grande
amico, mangiò ivi de' fichi, e poco dopo il pasto sopraggiuntagli
una febbre lenta, in pochi dì gli tolse la vita in età di 53 anni.
Fu fama, che ne' fichi gli fosse stato dato il veleno per opera d'un
tal Filippetto suo Scalco, il quale sapendo l'uso del suo padrone,
che in quel giardino soleva spesso mangiar de' fichi, glie li avesse
attossicati. Narra Gregorio Rosso[376] Scrittor coetaneo, che fu
riputato gran maraviglia, che il Cardinal morisse, e non il Conte di
Policastro, il quale quell'istessa mattina avea pure mangiati fichi
col Cardinale. Da chi fosse venuto il colpo, varia fu la fama, alcuni
pensarono che Filippetto da un gran personaggio di Roma, capitalissimo
nemico del Cardinale, fosse stato corrotto a far questo. Altri ne
allegavano per autori i parenti di quella gran Dama cotanto da lui
celebrata ne' suoi versi, i quali mal volentieri soffrivano, che come
avea fatto il Petrarca della sua Laura, avesse voluto far egli, con
scegliersi per soggetto delle sue rime una lor parente. Ma Agostino
Nifo celebre Medico di quell'età, che fu chiamato alla sua cura, e che
fu presente all'apertura del suo cadavere, costantemente affermava, non
esservi trovato alcun segno di veleno nelle sue viscere. Paolo Giovio,
che scrisse la vita di questo Cardinale, inchinò a credere il medesimo,
attribuendo la cagione della sua morte all'uso smoderato della neve,
ch'era solito, secondo l'uso dei Romani, bere due ore dopo il cibo
mescolata col vino per rinfrescarsi. Il suo cadavere fu seppellito
nella Chiesa di Monte Oliveto, ove non ha molti anni si vedeva il suo
tumulo; ma poi fur trasferite le sue ossa nella Cappella de' Principi
di Sulmona della famiglia Launoja. Morto che fu, insino alla venuta del
successore, prese il governo del Regno il Consiglio Collaterale, Capo
del quale si trovava allora D. Ferrante D'Aragona Duca di Montalto. E
subito che il Papa con estremo suo giubilo ebbe intesa la di lui morte,
provvide il Vice-Cancellierato della Sede Appostolica, e la maggior
parte de' suoi Beneficj al Cardinal Ippolito de' Medici suo nipote, che
si trovava allora partito per Germania[377].

Intesa dall'Imperador Carlo la morte del Cardinale, provvide tosto
il Viceregnato in persona di _D. Pietro di Toledo_ Marchese di
Villafranca, che si trovava seco in Germania, il quale il primo
d'agosto, essendo partito da Ratisbona, ove stava l'Imperadore, giunse
in Napoli a' 4 di settembre, e nel seguente dì prese il possesso della
sua carica.

Ma poichè il governo che tenne costui del Regno, fu il più lungo
di tutti gli altri, avendolo amministrato per lo spazio di ventuno
anni e mezzo, nel qual tempo avvennero fra noi successi notabili; e
da lui cominciò Napoli a prender quella forma, e quella politia, la
quale tiene molto rapporto alla presente: per ciò sarà bene, che la
narrazione di tanti memorabili avvenimenti si rapporti nel seguente
libro di quest'Istoria.


  FINE DEL VOLUME SETTIMO.



TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO SETTIMO


  LIBRO VENTESIMOSETTIMO                                    »   5

  Cap. I. _I Principi di Taranto e di Rossano
         con altri Baroni, dopo l'invito fatto al
         Re Giovanni d'Aragona, che fu rifiatato,
         chiamano all'impresa del Regno
         Giovanni d'Angiò figliuolo di Renato:
         sua spedizione, sue conquiste, sue perdite
         e fuga_                                            »  14
  Cap. II. _Nozze d'Alfonso Duca di Calabria con
         Ippolita Maria Sforza figliuola del Duca
         di Milano: di Elionora figliuola del
         Re con Ercole da Este Marchese di Ferrara;
         e di Beatrice altra sua figliuola
         con Mattia Corvino Re d'Ungheria. Morte
         del Pontefice Pio II, e contese insorte
         tra il suo successore Paolo II ed il Re
         Ferrante, le quali in tempo di Papa
         Sisto IV successore furon terminate_               »  28
  Cap. III. _Splendore della Casa Reale di Ferdinando,
         il quale, pacato il Regno, lo riordina
         con nuove leggi, ed instituti: favorisce
         li letterati e le lettere, e v'introduce
         nuove arti_                                        »  33
  Cap. IV. _Come si fosse introdotta in Napoli l'arte
         della stampa, e suo incremento. Come
         da ciò ne nascesse la proibizione dei libri,
         ovvero la licenza per istamparli; e
         quali abusi si fossero introdotti, così intorno
         alla proibizione, come intorno alla
         revisione de' medesimi_                            »  41
      §. I. _Abusi intorno alle licenze di stampare
         e di proibire i libri_                             »  45
      §. II. _Abusi intorno alle proibizioni de' libri
         che si fanno in Roma, le quali si pretendono
         doversi ciecamente ubbidire_                       »  52
  Cap. V. _Re Ferdinando I riforma i Tribunali e
         l'Università degli Studi: ingrandisce la
         Città di Napoli, e riordina le Province
         del Regno_                                         »  73

  LIBRO VENTESIMOTTAVO                                      »  83

  Cap. I. _I Baroni nuovamente congiurano contra
         il Re. Papa Innocenzio VIII unito ad
         essi gli fa guerra: pace indi conchiusa
         col medesimo, e desolazione ed esterminio
         de' Congiurati_                                    »  95
  Cap. II. _Morte del Re Ferdinando I d'Aragona:
         sue leggi, che ci lasciò; e rinovellamento
         delle lettere e discipline, che presso
         di noi fiorirono nel suo Regno e dei
         suoi successori Re Aragonesi_                      » 111
      §. I. _Rinovellamento delle buone Lettere in
         Napoli_                                            » 115
  Cap. III. _Degli Uomini letterati che fiorirono a
         tempo di Ferdinando I e degli altri Re
         Aragonesi suoi successori_                         » 124
  Cap. IV. _Stato della nostra Giurisprudenza in
         questi ultimi anni del Regno degli Aragonesi;
         e leggi, che da Ferdinando furono
         stabilite_                                         » 139
  Cap. V. _De' Giureconsulti, che fiorirono fra noi
         a questi tempi_                                    » 146

  LIBRO VENTESIMONONO                                       » 172

  Cap. I. _Ferdinando II è discacciato dal Regno
         da Carlo Re di Francia. Entrata di questo
         Re in Napoli, a cui il Regno si sottomette_        » 184
  Cap. II. _Carlo parte dal Regno, e vi ritorna Ferdinando,
         che ne discaccia i Franzesi coll'aiuto
         del G. Capitano; viene acclamato
         da' popoli, ed è restituito al Regno;
         suo matrimonio e morte_                            » 189
  Cap. III. _Regno breve di Federico d'Aragona:
         sue disavventure, e come cedendo a' Spagnuoli
         ed a' Franzesi fosse stato costretto
         abbandonarlo e ritirarsi in Francia_               » 198
  Cap. IV. _Origine delle discordie nate tra Spagnuoli
         e Franzesi; e come finalmente cacciati
         i Franzesi, tutto il Regno cadesse
         sotto la dominazione di Ferdinando il
         Cattolico_                                         » 217

  LIBRO TRENTESIMO                                          » 239

  Cap. I. _Venuta del Re Cattolico in Napoli e suo
         ritorno in Ispagna per la morte accaduta
         del Re Filippo. Come lasciasse il
         Regno sotto il governo de' Vicerè suoi
         Luogotenenti: sua morte e pomposi funerali
         fattigli in Napoli_                                » 248
  Cap. II. _Nuova politia introdotta nel Regno; nuovi
         Magistrati e leggi conformi agl'istituti
         e costumi spagnuoli. De' Vicerè e Reggenti
         suoi Collaterali, donde surse il Consiglio
         Collaterale, e nacque l'abbassamento
         degli altri Magistrati ed Ufficiali del
         Regno_                                             » 262
      §. I. _Del Consiglio Collaterale e sua istituzione_   » 265
  Cap. III. _Nuova disposizione degli Ufficiali della
         Casa del Re_                                       » 276
  Cap. IV. _Degli altri Ufficiali, che militano fuori
         della Casa del Re_                                 » 282
  Cap. V. _Delle leggi, che Ferdinando il Cattolico,
         ed i suoi Vicerè deputati al governo
         del Regno ci lasciarono_                           » 292
  Cap. VI. _Politia delle nostre Chiese durante il
         Regno degli Aragonesi insino alla fine
         del secolo XV, e principio del Regno degli
         Austriaci_                                         » 295
      §. I. _Monaci e beni temporali_                       » 299

  LIBRO TRENTESIMOPRIMO                                     » 304

  Cap. I. _Morte di Massimiliano Cesare, ed elezione
         nella persona di Carlo suo nipote
         in Imperadore. Discordie indi seguite tra
         lui e 'l Re di Francia, che poi proruppero
         in aperte e sanguinose guerre_                     » 309
  Cap. II. _Come intanto fosse governato il Regno
         di Napoli da D. Raimondo di Cardona
         e dopo la di lui morte da D. Carlo di
         Launoja suo successore_                            » 327
  Cap. III. _Invito fatto da Papa Clemente VII a
         Monsignor di Valdimonte per la conquista
         del Regno: suoi progressi, li quali
         ebbero inutile successo. Prigionia di Papa
         Clemente, e sua liberazione_                       » 331
  Cap. IV. _Spedizione di Lautrech sopra il Regno
         di Napoli, sue conquiste, sua morte e
         disfacimento del suo esercito, onde l'impresa
         riuscì senza successo. Rigori praticati
         dal Principe d'Oranges contra i
         Baroni incolpati d'aver aderito a' Franzesi_       » 349
  Cap. V. _Pace conchiusa tra 'l Pontefice Clemente
         coll'Imperador Carlo in Barcellona,
         che fu seguita dall'altra conchiusa col
         Re di Francia a Cambrai, e poi (esclusi
         i Fiorentini) co' Vineziani; e coronazione
         di Cesare in Bologna_                              » 366
  Cap. VI. _Governo del Cardinal Pompeo Colonna;
         creato Vicerè in luogo dell'Oranges,
         grave a' sudditi, non tanto per lo suo
         rigore, quanto per le tasse e donativi
         immensi, che, coll'occasione dell'incoronazione
         e del passaggio di Cesare in
         Alemagna per la natività d'un nuovo
         Principe, e per le guerre contra al Turco,
         riscosse dal Regno_                                » 375


  FINE DELL'INDICE



NOTE:


[1] Costanzo lib. 19.

[2] Questa Bolla è rapportata dal Chioccar. tom. I. M. S. Giurisd. ed
anche da Lunig tom. 2 pag. 1255.

[3] Summ. tom. 3 lib. 5 pag. 243.

[4] Summ. tom. I l. 5 pag. 244.

[5] Tutte queste Bolle sono rapportate dal Chioccar. nel tom. I de'
suoi M. S. Giurisd.

[6] Tom. II pag. 1258 usque ad 1277.

[7] Tutini de' G. Giustiz. Antonio Piccolomini, pag. 102.

[8] Beatil. Istor. di Bari, lib. 4.

[9] Tutin. de' G. Giustiz. del Regno.

[10] Costanzo lib. 19.

[11] Costanzo lib. 19.

[12] Chiocc. to. 1. M. S. Giurisd.

[13] Ricc. lib. 4, Hist. Regn. Neap.

[14] Costanzo lib. 20.

[15] Platina in Paulo II.

[16] Summ. tom. 3, p. 474.

[17] Chioccar. I. M. S. Giurisd.

[18] Platin. in Sixto IV. Summ. tom. 3 pag. 490.

[19] Ricc, lib. 4 de Reg. Neap.

[20] Pigna lib. 8. Hist. della fam. d'Este. Eugen. disc de' Cav.

[21] V. Franchis decis. 722 num. 17 et 18.

[22] V. Tasson. de Antefat. vers. 3 obs 3 nu. 30.

[23] Franchis decis. 679.

[24] Summ. tom. 3 pag. 451.

[25] Afflict. decis. 315 num. 14.

[26] Franchis decis. 722 nu. 28 et decis. 679. Tassone de Antefato,
vers. 3 obs. 3 num. 305

[27] V. Tasson. de Antef. pers. 3 obs. 3 num. 389.

[28] Tom. Bozio de Sign. Ecl. cap. 5 sig. 93. Rocca de Typogr. etc.
rapportati dal Sum. pag. 488 tom. 3.

[29] Topp. Biblioth. Neap. fol. 17.

[30] Summon. tom. 3 pag. 438.

[31] Toro in Suppl. Comp. decis. ver. libri.

[32] Altimar. ad Cons. Rovit. tom. 3 obs. 8 n. 29 et 31.

[33] V. il P. Servita nell'Istor. dell'Inquis.

[34] Filesaco De Sacr. Epis. auct. cap. 1 § 7 fol. 14.

[35] Liberat. Breviar. cap. 16.

[36] L. quicunque, § nulli et § omnes, C. de haeret. Evagr. lib. 1 cap.
2. Socrat. lib. 1 cap. 6. V. il P. Servita loc. cit.

[37] Capitular. Car. M. l. 1 cap. 78.

[38] Thuan. lib. 6 histor.

[39] Trid. sess. 4 de edit. et usu Sacr. Libr.

[40] Chiocc. tom. 17. M. S. Giurisd.

[41] Chiocc. tom. 17. M. S. Giurisdiz.

[42] Chiocc. M. S. Giurisd. de Typogr. tom. 17.

[43] Fra' quali è da vedersi Van-Espen de Promulgat. Ll. Eccl. par. 4
cap. 1 § 1, 2 et 3.

[44] Decr. Conc. Trid. sess. 18.

[45] Si legge questa Bolla nell'Indice Tridentino, e nel Bullario tra
le Costituzioni di questo Pontefice, sotto il num. 77.

[46] Van-Espen de Usu placiti reg. par. 4 c. 2 § 3.

[47] Van-Espen l. c.

[48] Franc. Salgado de Supplicat. ad SS. par. 2 c. 38 num. 141.

[49] Leggesi nell'editto del 1605 sotto Clem. VIII nell'Indice de'
libri proib.

[50] Questa consulta si legge tra' M. S. di Chiocc. tom. 17 de
Typograph.

[51] In Indice libr. prohib. sub Urban. VIII ann. 1627, 4 Feb. V.
Petram. d. Rit. 235.

[52] È da vedersi la lettera del Re nel t. 17 de' M. S. Giur. di Chioc.

[53] Prag. 5 de Citation.

[54] Bertrand. Loth in Resol. Belgic. tract. 14 quaest 2 art. 7.

[55] Van-Espen par. 4 de Usu plac. Regii, cap. 2 § 4.

[56] Van-Espen loc. cit. cap. 3, 4, 5 et 6.

[57] Salgad. de Supp ad SS.

[58] Probat. libert Eccl. Gall. cap 10 num. 11.

[59] Van-Espen in Appendice, litter. E.

[60] V. il P. Servita nell'Istoria dell'Inquis. ver. fin.

[61] Si leggono dopo i Riti della G. C. in più rubriche, e la prima
comincia, de Procedendi modo in causis civilib.

[62] Summ. t. 3 p. 505.

[63] Toppi t 3. Orig. Trib. p. 307

[64] Toppi Biblioth.

[65] Tutini Orig. de' Seg. cap. 2.

[66] Tutin. l. c.

[67] Summ. tom. 3 pag. 454.

[68] Anton. Galat, de Situ Japigiae.

[69] Guic. lib. I. Hist. d'Italia.

[70] Cost. lib. 20.

[71] Camillo Porzio lib. I in princ. Congiura de' Baroni.

[72] Ammir. Miscel. disc. 8.

[73] Galat. De situ Japygiae.

[74] Camil. Porzio lib 1 loc. cit.

[75] Costanzo lib. 20.

[76] Ant. Galat. De situ Japyg.

[77] Edgen, Nap. Sac. p. 77.

[78] Engen. Nap. Sag. pag. 8. ann. 1558.

[79] Mich. Ricc. de Regn. Sic. et Neap. lib. 4.

[80] Michel. Ricc. loc. cit.

[81] Camil. Porzio Congiura de' Baroni.

[82] V. Chiocc. tom. 18. M. S. Giurisd.

[83] Costanzo l. 20.

[84] Chiocc. t. 1 M. S. Giurisd. Questa investitura è riferita anche da
Lunig, Tom. 2 p. 1295.

[85] Comines l. I de bello Neap.

[86] Guic. I. I. Hist. d'Italia.

[87] Capitoli del Gran Capitano cap. 44.

[88] Fleury Tratt. della direz. de' Studi, p. 1. cap. 13.

[89] Toppi tom. 3. Orig. Trib. pag. 307.

[90] V, Glos in cap. I. Extra, de Sum. Trinit. in verb. Diabolus. Item
in inst, de jure nat. et tit. seq. 4, 5, 6.

[91] Doujat. histor. Jur. civ.

[92] V. Struv. hist. Jur. Greci, t. 4 § 4.

[93] V. Pallav. Arte dello Stile

[94] Toppi Biblioth. Nicod. Addiz.

[95] V. Toppi Biblioth. lit. F.

[96] Toppi tom. 3 pag, 307 de Orig. Trib.

[97] V. Giovio negli Elogi.

[98] Del Panormita V. Nicod. nelle Addiz. alla Bibl. del Toppi.

[99] Toppi in Biblioth. Nicod. nell'Addiz.

[100] Nicodem. Addiz. ad Biblioth. Toppi.

[101] Volater. lib. 21 dell'Antropologia.

[102] Toppi in Bibl.

[103] Toppi tom. I De Orig. Trib. pag. 215. et in Bibliot.

[104] Camil. Porzio, pag. 63. Congiura de' Baroni.

[105] Epist. Franc. Asulani, in Edit. Pontan.

[106] Guicc. lib. 2 Hist. Ital.

[107] Vos. de Historic. latinis, car. 607 et 608.

[108] Nicod. Addit ad Biblioth. Toppi.

[109] V. Top. tom. De Orig. Trib. pag. 183 et tom. 2 pag. 165.

[110] Grammat. cons. 65.

[111] Affl. decis 403. nu 3.

[112] Girol. Zurita lib. 4. Chron. Arrag. cap. 66.

[113] Guicc. lib. 7 Ist. Ital. ✠ (Oltre il Guicciardino, questo istesso
indica Biagio Buonaccorsi, Scrittore di lui più antico, nel suo Diario
ad an. 1508.)

[114] Top. Tom. 2 de Orig. Trib. pag. 267 et 268.

[115] Engen. Neap. Sac.

[116] Rosso Giorn. pag. 17 et 79.

[117] V. Nicodem. Addiz. ad Biblioth. Toppi.

[118] Crispo nella vita del Sannazaro. Nicomed. Addiz. a Toppi.

[119] Costanzo nel Proem.

[120] Nicodem. in Add. ad Biblioth. Toppi.

[121] Nicod. ad Biblioth. Toppi.

[122] Voss. de Histor. Latin. lib. 3.

[123] Nicod. Addit. ad Biblioth. Toppi.

[124] Fontano de Magnanimit.

[125] Sannazar. Epigr. lib. 2.

[126] Minturno Epigr. fol. 86.

[127] Giovio Elog. fol 152.

[128] Nicod. in Addit. ad Bibl. Tappi.

[129] Toppi Biblioth. Nicod. Addit.

[130] Pallavic. Arte dello Stile.

[131] Epist. Obscur. viror. Erasmi.

[132] Pragmat. 1 et 2 de Baronib.

[133] Pragmat. I. Ubi de delicto, quis couven. deb.

[134] Pragmat 4 et 5. De Actuar.

[135] V. Toppi, De Orig. Trib. p. 2 lib. 4 num. 27 pag. 215.

[136] Paris de Puteo. De reint. feud. in cap. vulgaris qu. num. II. et
in cap. post haec. seq. n. 5, Tract. de Syndic. in c. per Syndicatores
n. 13 et in cap. an si Judex, n. 12.

[137] Paris Tract. De Synd. in praef.

[138] Afflict. in Constit. hac lege, sub tit. ut post. conclus. n. 4.

[139] Nicod. ad Biblioth. Toppi.

[140] Afflict. Constit. volumus, tit. quanto tempore, n. 4.

[141] Topp. de Orig. Trib. p. 2 l. I. c. I. n. 4

[142] Capec. in Invest. feudorum, § colligit, ver. immunitas.

[143] Afflict. in § si quis alium. n. 5 de pace tenen.

[144] Afflict. in § item si fidelis, tit. Quib. mod. feud. amitt. n. 21.

[145] Clar. § fin. Prax. crim, stat. 7.

[146] Toppi loc. cit. part. 2 de Orig. Trib.

[147] Afflict. in Constitut. Bajulos, tit. de feriis, et salar, nu. 72.

[148] Alex. cons. 28 l. 5.

[149] Loffr. cons. 52.

[150] Gramm. qu. i post, decis. num. 4 et in addit. decis. 58 Affl. et
decis. 88 n. 5.

[151] Ant. Capece in repet. cap. Imper.

[152] Camill. Salern. in epist. in Consuet. Neap.

[153] Affi. in Constit. quam plurimum. Toppi tom. 2 p. 146.

[154] Valla in Antidoto in Poggium, lib. 4.

[155] V. Platina in Paulo II.

[156] Affl. decis. 96 num. 6.

[157] Affl. in locis a Toppio adductis, tom. 2 part. 2 lib. 3 cap. 1
num. 12.

[158] Affl. decis. 34, 58, 65, 190, 194, 211, 229, 252, 269, 291, 308,
337.

[159] Pontan. lib. 4. de Obedien. cap. 6.

[160] Toppi tom. I de Orig. Trib. lib. 4 cap. 9 num. 13.

[161] Toppi tom. I de Orig. Trib. lib. 4 cap 12.

[162] Gio. Albino de Bello intest. fol. 110. Camillo Porzio lib. 3
Congiur. de Bar.

[163] Guicciard. lib. I Istor.

[164] Toppi Biblioth.

[165] Gesner. Biblioth. fol. 531.

[166] Tritem. de Scriptor. Eccl. fac. 375. V. Nicod. ad Biblioth. Toppi.

[167] Andreys Disp. feud. cap. I § 8 n. 42.

[168] Affl. in constit. si quis aliquem de spolian. homin.

[169] Affl. in Cap. Vassallus, De Invest. in marit. fact. numer II.

[170] V. Andreys Disp. feud. cap. I § 8 num. 44.

[171] Affl. in Proemio sup. Feud. n. 6 et tit. de feud. dat. in vim.
l. commis. lib. I tit. 22 n. 49 et in cap. si inter dom. sub. tit. de
investit. Feud. num. 5.

[172] Camerar. in Repetit. ad L. Imperialem.

[173] V. Rovit. Fiag. I de fide memorial. num. 42.

[174] Affl. in Constit. lege praesenti, sub. tit. de dand. edu. pup. n.
8.

[175] Affl. in Prooem. Constit. quaest. praelim.

[176] Affl. in Prooem. Constit.

[177] Affl. in Constit. post mortem, tit. de morte Baron. num. 32.

[178] Loffred. cons. 17 n. 53 cum seqq. et in c. I. Imperator
Lotharius, in 2 col. Andrea, ed in c. Imperialem, ver. per praedictum.

[179] Camer. in c. Imper. et alibi.

[180] Andreys disp. feud. c. I § 8 nu. 44.

[181] Toppi De Orig. Trib. tom. I l. 4 c. 13 n. 12

[182] Loffred. in cap. 1 §. quaesitum est, de capit. qui ver. vind ver.
1 declaratio.

[183] Camerario in cit. cap. Imperialem, lit. Q. foi. 21 a ter.

[184] Thesaur. in praef. decis. n. 6.

[185] Spiegel. Lex. Juris civ.

[186] Cujac. De Feud. l. 5 in fin.

[187] V. Toppi tom. I loc. cit.

[188] Affl. De Success. feud. vers. hoc quoque, n. 32.

[189] Toppi loc. cit.

[190] Zilet. in suo Indice libror. legal.

[191] Affl. in Constit. puritatem, num. 9.

[192] Beat. Ist. di Bari, lib. 4 pag. 204.

[193] Beatil. loc. cit. Toppi in Biblioth. Nicod. ad Topp.

[194] Pignor Epist. Symbol. ep. 49 p. 217.

[195] Lindenbr. in Prolegom.

[196] Struv. Hist. Juris, c. 5. §. 5 p. 365.

[197] V. Capec. Latr. Consult. 3 lib. 1. Fab. Cap. Galeota. tom. I
controv. 1, 2, 3.

[198] Gotofr. in Prax. civil. lib. 1 tit. 2 lib. 1 cap. 8 per tot.

[199] Artur. De Usu. et Auth. Jur. Civ.

[200] La Formola del giuramento prestato da Alfonso II quando fu
incoronato da Alessandro VI vien rapportata da Lunig Tom. 2 pag. 1299.

[201] Argenton. de Bello Neap. in princ. Guicc. I. 1 Istor Ital. Jo.
Sleidam. in Phil. Comin.

[202] Loschi in Arbor. fam. Austr.

[203] Sleid. in Argentone.

[204] Tom. 2 p. 1303.

[205] Argenton l. c

[206] Tom. 2 p. 1302.

[207] Guic. lib. 1.

[208] Guic. L. I.

[209] Giovio.

[210] Guic. l. 1.

[211] Afflict. in Prooem. Constit. Regn.

[212] Guic. lib. 2.

[213] Chioc. M. S. Giur. tom. I.

[214] (Presso Lunig pag. 1307 e 1310 si leggono la Bolla
dell'Investitura, ed il Breve spedito al Card. Borgia suo Legato, per
l'incoronazione di Federico).

[215] Cam. Pell. in Append. ad Castig. in Lupum Protosp.

[216] Memor. Arg. lib. 8 cap. 14.

[217] Guic. lib. 4 in princip. Istoria d'Italia.

[218] Giov. lib. I della Vita del Gran Capitano.

[219] Tutin. degli Ammiranti pagin. 171.

[220] V. Guicc. lib. 12. Boccalino nella Pietra di Paragone.

[221] Chioccar. M. S. Giurisd. tom. I. Vien rapportata anche questa
Bolla da Lunig Tom. 2 pag. 1311.

[222] Chiocc. loc. cit.

[223] Guicc lib. 5.

[224] Guicc. l. 5.

[225] Guic. lib. 5.

[226] Thuan. lib. 1. Histor. sui temporis.

[227] Thuan. lib. 1. Hist. Sed non diu inter victores reges mansit
in societate concordia; nam cum de vectigali, quod in Apulia ad fines
Sannii ex quadrupedum transitu colligitur, inter partes ambigeretur,
etc.

[228] Guic. l. 5.

[229] Giov. lib. 2. Vita Consalvi.

[230] Frider. Lionard. tom. 2 della Raccolta de' Trattati di Pace co'
Re di Francia, ed altri Principi.

[231] Guic. lib. 6.

[232] Tutin 1. e. p 162.

[233] Pragm. de Possessor. non turbau.

[234] Si legge questa Prammatica sotto il titolo: De Revocatione
gratiar. factar. per R. Feder. etc.

[235] Marinis lib. 2 cap. 273 num. 10 ad 17.

[236] Ageta ad Moles § 23 de jur. devolut. part. 57.

[237] Tuan. lib. 1. Hist. Facile in novas nuptias consensit bis
legibus, ut dotis nomine jus in ea Regni Neapolis parte, quae in
divisione Ludovico obvenerat, Germanae ab avunculo cederetur, ita ut si
ante Ferdinandum moreretur, ea pars marito accresceret, sin marito ante
sine liberis mortuo decederet, ad Ludovicum rediret. Nec certior in eo
foedere conservando quam in reliquis Ferdinandi fides fuit, nam contra
dotales tabulas, ipse mox se totum Regnum ex successione Alphonsi I
excluso Germanae uxoris jure, possidere palam professus est.

[238] L'Istromento di questa pace è rapportato da Federico Lionard nel
2 tom della sua raccolta de' Trattati di pace, etc. fol. 35.

[239] Guic. lib. 6. Giovio lib. 3. Vita di Consalvo.

[240] Giovio lib. 3. Vita di Cons.

[241] Capitoli e grazie, etc. cap. 48 fol. 49 a ter.

[242] Guic. l. 7.

[243] Tutin. Orig. e fondaz. de' Seggi, c. 21.

[244] Chioccar. t. 1. M. S. Giur.

[245] Cam. Tutin. de' Contestab. p. 176.

[246] Cam. Tut. de' Contestab. in Fabrizio Colon.

[247] Guicc. lib. 12. Jo. Vasaei Chronic. Hispan. pag. 164 Franc. Carap
hae de Reg. Hisp.

[248] Summon. tom. 4 lib. 6.

[249] Giov. Vita del G. Capit

[250] Si legge tra' Capitoli e Grazie della Città e Regno fol. 78 con
data scorrettissima, dovendosi leggere: Ex Bruxella XI Feb. MDXVI.

[251] Bodin. lib. 5. Rep. cap. 1.

[252] Tuan. Hist. lib. 1.

[253] Artur. lib. 2 cap. 6 num. 1.

[254] V. Michel di Montagna ne' Saggi, lib. 2 cap 6.

[255] Lionard tom 2 ivi: Doctorem, et Regentem Cancellariae.

[256] Privil. Neap. in c. 9. Comitis Ripae Cursiae.

[257] In privileg. et cap. Neap. fol. 148 et 159 cap. 4 Tasson. de
Antef. vers. 7 obs. 3 num. 14

[258] Zurita de las empresas, y Ligas de Italiae, l. 10 c. 99

[259] Topi t. 3 orig. Trib. p. 154.

[260] V. Tappia de praeemin. R. Cancell.

[261] V. Tasson. De Antef. vers. 7 obs. 3 n. 40.

[262] Privil. et c. Neap. fol. 50. Pragm. 1 de Offic. Secret.

[263] Tasson. de Antef. vers. 7 obs. 3 n. 7.

[264] Constit. Regni, Accipimus.

[265] C. 8. Parl. gener. Caroli V in Priv. et Cap. Neap.

[266] Constant. in l. 1. C. de Classicis, lib. 11 nu. 78.

[267] Tasson. De Autef. vers. 3 obs. 3. Trib. 20.

[268] Tasson. De Antef. vers. 3 obs. 3. Trib. 28.

[269] Summont. lib. 1 p. 168.

[270] Freccia fol. 430. Loffredo cons. 4 num. 19. Tasson. De Antef.
vers. 5 observ. 3. Trib. 21.

[271] Pragm. 1. De Offic. Scr. Port.

[272] Zurita Histor. tom. 6 cap. 26 de las empresas, y ligas de Italia.

[273] Tasson. De Antef. vers. 5 obs. 3. Trib. 22.

[274] Privil. et Capit. Neap. c. 25 pag. 90 a ter.

[275] Tass. De Antef. vers. 5 obs. 5. Trib. 25.

[276] V. Tasson. de Antef. ver. 5 obs. 5. Trib. XXVI.

[277] V. Tasson. de Antef. vers. 3 ob. 3. Trib. XXVII.

[278] Cod. Theod. de Cursu publico.

[279] Sveton. in August. cap. 49.

[280] Sex. Aurel. Vict. c. 15.

[281] V. Michel S. di Montagna ne' Saggi, lib. 2. cap. 21 delle Poste.

[282] Cod. Th. de Curs. public. lib. 8 tit. 5.

[283] Jacob. Gullier. de Offic. domus August. lib. 3 c. 14 et 15.

[284] Jacob. Goth. de Cur. pub. Cod. Th. tit. 5 in paral. tit. 7.

[285] Questi Diplomi si conservano in Napoli tra le scritture di
quest'Ufficio, e sono anche registrati da Francesco Zazzera par. 2
della Famiglia Turriana, da Bernardo Mareno de Vargas ne' Disc. della
nobiltà di Spagna, e da altri rapportati da Carlo de Lellis par. 1
disc. della fam. della Torre.

[286] Memor. d'Argentone, lib. 5 cap 10.

[287] P. Gregor. Syntagm. Juris, lib. 17 cap. 12 n. 7, 8.

[288] Svet. l. cit.

[289] Aur. Vict. loc. c

[290] Spart. in Vita Hadrian pag. 4.

[291] Capit. in Antonino.

[292] Hornick de Regal. Postar. Jure, cap. 4

[293] Goth. J. cit. in Comment. ad l. 1 in princ.

[294] V. Giulio Chifletio nel lib. intit. Les Marques d'honneur de la
Maison de Tassis, stamp. in Anversa, nel 1645 par. 2 cap. 2.

[295] Itinerario delle Poste, stampato in Milano nel 1616.

[296] Hornick, loc. cit. c. 15, 16, 17.

[297] Itinerario loc. c.

[298] V. Itinerario, etc. loc cit.

[299] V. Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 3.

[300] V. Hornick De Reg. Postar. Jure, cap. 6.

[301] Inter Cap. et Privileg, Civit. Neap. fol. 53.

[302] Im Parlam. gener. c. 30.

[303] Si leggono nel volume de' Capit. e graz. della Città, e Regn.
fol. 63

[304] Si leggono nel cit. vol. fol. 70.

[305] Pragm. 5 De Cleric. seu Diac. Salvat.

[306] V. Chiocc. tom. 3 M. S. Giurisd.

[307] V. Rainald. Ann. 1477. n. 18 Ann. 1484 n. 33, 34 Ann. 1486 n. 13,
14, 33.

[308] Capaccio nel Forastiero, giorn. 9 dove rapporta le riferite
lettere.

[309] Summ. Hist. tom. 3 pag. 5. Unum Monasterium ejus Ordinis in hoc
Regno, in quo nullum erat, apud Civitatem Neapolitanam, etc. construi
fecimus.

[310] Argenton. Memor. lib. 6 cap. 8.

[311] Guid. l. 12.

[312] Giov. l. 18 in fin.

[313] Fed. Lionard tom. 2 pag. 144.

[314] La Bolla è rapportata da Lionard nella sua Raccolta tom. 2 pag.
149.

[315] Guicciard. lib. 13

[316] Lib. 12 pag. 603.

[317] Chioc. tom. I. M. S. Giur.

[318] Guic. lib. 14.

[319] Montagna l. 1 c. 2 de' suoi Saggi.

[320] Guic. lib. 14.

[321] L'intero istromento di questa pace è rapportato da Lionard nella
sua Raccolta, tom. 2 pag. 220.

[322] V. Jo. Sleidan. ad Flossard. et Argenten.

[323] Lionard tom. 2 pag. 210.

[324] Capit. et privileg. Neap. fol. 67.

[325] Capit. et Privileg. Civit. Neap. fol. 83.

[326] Summ. tom. 4 pag. 35.

[327] Summ. t. 4 P. 37

[328] Summ. loc. cit. p. 42.

[329] Giornali di Gregorio Rosso p. 3.

[330] Guic. l. 17.

[331] Tom. 3 pag. 1765.

[332] Guic. lib. 17.

[333] Gior. del Rosso p. 4.

[334] Gior. del Rosso p. 4.

[335] Rosso p. 5.

[336] Summ. tom. 4.

[337] Gior. del Rosso pag. 9.

[338] Guic. lib. 18.

[339] Istor Fior. l. 5. An. 1521.

[340] Istor. Fior. l. 5. Ann. 1527.

[341] Guic. l. 18.

[342] Vedi Apologia Tomo V parte seconda cap. II.

[343] Giorn. del Rosso pag. 12.

[344] Gior. del Rosso pag. 16.

[345] Giorn. del Rosso, pag. 17.

[345a] Rosso pag. 18.

[346] Giornali del Rosso, pag. 19.

[347] Rosso pag. 28 et 29.

[348] V. Engen. Nap. Sacr. p. 494 et 496.

[349] Giornali del Rosso, pag. 49 et 50.

[350] Rosso pag. 56.

[351] Giovio l. 26 et 27.

[352] Guic. l. 9.

[353] Tarcagnota lib. 2 vol. 4. Panvinio in Vita Clem. VII. Bugato lib.
6. Bellai lib. 3.

[354] Summ. tom. 4.

[355] Chioccar. M. S. Giurisd. tom. I.

[356] Toppi Biblioth. lit. T.

[357] Lionard tom. 2 pag. 346.

[358] Guic. l. Bellai lib. 3.

[359] Gior. del Rosso pag. 61.

[360] Rosso loc. cit.

[361] Guic. lib. 19.

[362] Jo. Ovveni Epigr. 77.

[363] Guic lib. 14.

[364] Lettere del Minturno, car. 9.

[365] Vedi Nicod. Biblioth. in Pompeo Colonna.

[366] Syntagm. Hist. Germ. Disser. 32 § 29

[367] Cod. Diplom. Ital. Tom. 3 pag. 1012.

[368] Gior. del Rosso fol. 63.

[369] Guic. lib. 20.

[370] Capitoli e Grazie di Napoli in tempo del Cardinal Colonna, fol.
87.

[371] Pragm. 1. De pacto de retrovend.

[372] Pragmat 2. Quod Regnicoli possint armare, etc.

[373] Pragmat. 2. De Revocat. et Suspensione.

[374] Pragmat. 1. De Offic. Quaest. Caesar.

[375] Pragm. 1. De Offic. ad Reg. M.

[376] Giorn. Del Rosso, p. 83.

[377] Giorn. di Gregor. Rosso, pag. 83.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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