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Title: Istoria civile del Regno di Napoli, v. 6/9
Author: Giannone, Pietro
Language: Italian
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                             ISTORIA CIVILE
                                  DEL
                            REGNO DI NAPOLI


                                   DI
                            PIETRO GIANNONE


                              VOLUME SESTO



                                 MILANO
                           PER NICOLÒ BETTONI
                              M.DCCC.XXII



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOSECONDO


Morto re Carlo II nacque subito quella famosa quistione tra il zio
ed il nipote sopra la successione del Regno; poichè dall'una parte
il giovanetto Re d'Ungheria mandò Ambasciadori a Papa Clemente a
dimandar l'investitura, non già come nipote, secondo l'error di
Tiraquello[1], ma come figliuolo di Carlo Martello primogenito del
Re Carlo II. Dall'altra parte Roberto Duca di Calabria, ch'era allora
col Papa in Avignone, diceva, che l'investitura doveasi a lui, come a
figlio, e più prossimo in grado al Re morto. Fu con molte discussioni
avute innanzi al Collegio de' Cardinali esaminato il punto: nel che
importò molto al Duca di Calabria l'opera di Bartolommeo di Capua
Dottore eccellentissimo, ed uomo, che per aver tenuto il primo luogo
molt'anni nel Consiglio di Re Carlo, era divenuto per molta isperienza
prudentissimo in pratiche di Stato. Costui trattò con molto valore
la difesa del Duca, e tra le opere di Luca di Penna, e di Matteo
d'Afflitto[2] leggiamo le sue allegazioni ch'egli compose per questa
causa. Scrisse ancora per Roberto, _Niccolò Ruffolo_ valente Dottore
di que' tempi, le cui allegazioni leggiamo impresse ne' volumi di Luca
di Penna. E Gio. Vincenzo Ciarlanti[3] vuole, che Roberto avesse seco
condotto ad Avignone anche _Andrea d'Isernia_ pur famoso Giureconsulto,
perchè insieme col Capua prendesse la sua difesa. Chi sostenesse le
parti di _Caroberto_ non abbiam memoria; e se dobbiamo prestar fede
a ciò, che di questa contesa ne scrisse Baldo Perugino[4], non fu
egli presso il Papa difeso, come ad una cotal difficile ed intrigata
quistione si conveniva.

Ma ciò che sopra ogni altro rese al giudicio del Mondo, ed agli
Scrittori giusta e prudente la decisione del Pontefice Clemente V
a favor di Roberto, fu che Bartolommeo di Capua trattò questa causa
non semplicemente da Dottore, ma dimostrò al Papa ed a' Cardinali,
che oltre a quella ragione, che davano le leggi al Duca di Calabria,
era necessario per l'utilità pubblica d'Italia, e del nome cristiano,
che il Regno dovesse darsi a Roberto Signor savio ed espertissimo in
pace ed in guerra, riputato un altro Salomone dell'età sua; e non più
tosto al giovanetto Re, il quale senza conoscimento alcuno delle cose
d'Italia nato, ed allevato in Ungheria, fra' costumi del tutto alieni
dagl'Italiani, essendo costretto di governare il Regno per mezzo di
Ministri e Baroni ungari, a niun modo avria potuto mantenerlo in pace,
parendo ancora cosa non meno impossibile, che inconveniente, che il
Duca di Calabria, il Principe di Taranto, ed il Principe d'Acaja zii
del Re, e Signori nel Regno tanto potenti, avessero a star soggetti a'
Baroni Ungari[5]; onde dopo molte discussioni, al fine fu sentenziato
in favor di Roberto, ed al primo d'Agosto di quest'anno 1309 fu
dichiarato in pubblico Concistoro Re di Sicilia ed erede degli altri
Stati del Re Carlo suo padre; ed a' 26 del detto mese fu da Roberto
in mano del Pontefice dato il giuramento di fedeltà e ligio omaggio,
e ricevè dal medesimo l'investitura[6] non meno di questo regno di
Puglia, che di quello di Sicilia[7]; poichè i Pontefici romani, avendo
per intrusi i Re Aragonesi, che possedevano la Sicilia senza ricercarne
da essi investitura, per non pregiudicare le loro ragioni, investivano
gli Angioini, così dell'uno, come dell'altro, secondo l'antico stile
ed usitate formole. Questa investitura, oltre essere stata raccolta
dal Chioccarelli nel primo tomo de' M. S. giurisdizionali, si legge
tra le Scritture del regale Archivio[8], ove fra i soliti patti e
convenzioni, Roberto s'obbliga pagar ogni anno alla S. Sede nel dì di
S. Pietro ottomila once d'oro per censo, in recognizione del Feudo:
replicandosi ancora ciò, che nell'altre investiture era stabilito,
che la città di Benevento restasse esclusa, e come fuori del Regno
rimanesse per sempre in dominio utile e diretto della Chiesa romana.
Così agli 8 di settembre nella città d'Avignone fu Roberto con tutte
le solite cerimonie e con ogni pompa e celebrità incoronato Re[9]; ed
il Papa a maggior dimostrazione di benevolenza, gli donò per autentica
Bolla sottoscritta da tutto il Collegio, una gran somma di denari, che
fu creduto passar trecentomila once d'oro, che dal Re Carlo suo padre
e suo Avo, si doveano alla Chiesa romana per le spese fatte da Papa
Bonifacio VIII, e suoi predecessori, nella spedizione di Sicilia[10].

Essendo tutte queste cose trattate in Avignone nel Ponteficato di
Clemente V, è gran meraviglia, come dai nostri Professori si creda
Autore di tal sentenza il Pontefice Bonifacio VIII, che più anni prima
era stato fatto prigioniere in Anagni da' Colonnesi, e morto in Roma
per dolor d'animo. Nel che non è condonabile l'error di Tiraquello,
e di alcuni altri[11], che contro ciò che si legge in tutti i più
gravi Storici[12], scrissero, che Bonifacio avesse sentenziato a
favor di Roberto, ingannato forse da ciò che si legge ne' Commentari
di Baldo[13], i quali secondo le edizioni vulgate, contenendo molte
scorrezioni, sono stati cagione a lui ed agli altri di simili errori.

Fu tal sentenza commendata da Bartolo[14], e quel ch'è più da Cino
da Pistoia[15], quel severissimo censore de' Pontefici e della Corte
romana; e quantunque Baldo[16] una volta la riprovasse, dicendo che in
ciò il Papa _fuit magis partialis, quam talis qualis esse debuerat_:
nulladimanco esaminando altrove[17] la questione, e trovatala piena di
difficoltà, e non così facile a determinare, tanto che fu costretto di
dire, _solvat Apollo_, soggiunge, che avendo così determinato la Sede
appostolica, _esset ridiculum, et quasi haereticum disputare, quia
injuriam facit judicio Reverendissimae Synodi_, delle quali parole si
valse anche il nostro Matteo d'Afflitto.

Fu ella poi, come rapporta anche Bzovio[18], confermata da Benedetto
XII, il quale avendo per mezzo de' suoi Legati ricevuto il giuramento
di fedeltà e ligio omaggio da Roberto, gli confermò il Regno e ne lo
investì con le medesime condizioni, che erano nell'investitura del
Re Carlo I suo Avo[19]. Nè sono mancati Giureconsulti gravissimi,
che l'han sostenuta con ragioni e con esempli, come Cujacio[20],
Ottomano[21], Morisco, Mariana[22], Arniseo[23] e tanti altri. Quindi
avvenne, che Roberto per mostrare che egli, perchè nato prima e come
più prossimo in grado di Caroberto, dovea godere, ad esclusione di
costui, della primogenitura, s'intitolava: _Robertus primogenitus,_
etc. come assai a proposito avvertì anche Gio. Antonio de Nigris[24]
ne' suoi Commentarj.

Roberto adunque, favorito in tanti modi da Papa Clemente partì da
Provenza per Italia, e quivi per mostrarsi grato al Pontefice, cavalcò
per tutte le città, favoreggiando i Guelfi, e dichiarando, ch'egli
sarebbe stato inimico a tutti coloro che cercassero d'infestare lo
Stato ecclesiastico ed i partegiani suoi.

Giunse finalmente in Napoli, dove con pompa reale e con testimonio
universale di gran contento il riceverono; poichè non solo ciascuna
provincia del Regno, ma ogni Terra di qualche nome gli mandò Sindici
a visitarlo e ad ossequiarlo: ed egli per mostrarsi meritevole del
giudizio del Papa e della benivolenza de' Popoli, cavalcò per tutto
il Regno riconoscendo i trattamenti de' Baroni e degli Ufficiali
co' sudditi, con accarezzare quelli che si portavano bene; e per
contrario riprese gl'ingiusti e tiranni, ordinando, che dovessero
inviolabilmente osservare le leggi ed i Capitoli del Regno, che suo
avo e padre aveano stabiliti. Tornato a Napoli, creò Duca di Calabria
Carlo suo unigenito, ed onorò molti gran Baroni del titolo di Conte; e
calcando le vestigia de' suoi maggiori, cominciò a far vie più bella e
magnifica la città, non avendo ancor cagione alcuna di guerra. Diede
in quest'anno 1310 principio al monastero di S. Chiara, luogo per
Monache in ampio numero di quell'Ordine, con un separato Convento per
molti Religiosi Conventuali, e piacquegli dichiarare questa magnifica
chiesa, che fosse sua Cappella regia[25]. Fabbrica, che in magnificenza
e grandezza non cede a niun altro edificio moderno d'Italia: ed è
fama, che dal dì primo del suo Regno destinò tremila ducati il mese da
spendersi, mentre e' vivea, prima in edificare la chiesa, e' Conventi,
e poscia in comprare possessioni, de' cui frutti potessero vivere le
Monache e' Frati. E vi è chi scrisse[26], che Roberto per ammenda della
morte proccurata a Carlo Martello suo fratello, affin di succedere
al Regno, avesse usata tanta profusione in opera così pietosa; quasi
che bastasse a cancellare tanta scelleraggine (se fosse vero il
sospetto, che s'ebbe di lui) un tal edificio; e come se agli uomini
per purgare i loro misfatti, bastasse il fabbricar chiese e monasterj,
ed arricchirgli d'ampie rendite e possessioni. Scipione Ammirato[27]
ne' suoi Ritratti narra, essere stato ricevuto di mano in mano dalle
memorie degli antichi in Napoli, che avendo Roberto condotta a fine la
fabbrica di questa Chiesa, domandò al Duca di Calabria suo figliuolo
quel che gliene paresse: a cui il Duca non per irreverenza, ma per non
adular il padre, liberamente rispose, che gli parea, che fosse fatta
a somiglianza d'una stalla. E ciò disse, perchè non avendo la chiesa
ale, le piccole cappelle, che intorno son poste di mala grazia, che non
continuano infino al tetto, rendono somiglianza di mangiatoje. Ma il
Re, o come è natura di ciascuno, che senta con mal grado chi biasima le
sue cose, o pur da divino spirito commosso: _Piaccia a Dio_, gli disse,
_o Figliuolo, che voi non siate il primo a mangiare in questa Stalla_.
E non è dubbio alcuno, il primo del Sangue Reale, che si seppellisse in
S. Chiara, essere stato il Duca Carlo.



CAPITOLO I.

_L'Imperadore ERRICO VII collegato col Re di Sicilia nuove guerra al
Re ROBERTO, e facendo risorgere l'antiche ragioni dell'Imperio, con sua
sentenza lo priva del Regno; ma tosto lui morto, svanisce ogni impresa;
e si rinova la guerra in Sicilia._


Passò Roberto i primi tre anni del suo Regno in questi esercizj di
pace; favorendo altresì, nel miglior modo che potea, la parte Guelfa
per tutta l'Italia; ma furono questi studj di pace interrotti per la
morte accaduta gli anni a dietro dell'Imperadore Alberto d'Austria;
poichè essendo stato in suo luogo rifatto Re de' Romani Errico VII,
il primo Imperadore dell'illustre Casa di Lucemburgo, e coronato in
Aquisgrana, tutti i Ghibellini d'Italia mandarono a sollecitarlo, che
venisse a coronarsi in Roma; e poichè lo Stato suo in Germania era di
poca importanza, e bisognava con le ricchezze d'Italia sostenere il
decoro imperiale, fu convocata una Dieta, ove furono tutti i Principi
di Germania, nella quale fu conchiuso, che la Nazione alemana pagasse
ad Errico un esercito, col quale potesse venire a coronarsi in Italia.
Papa Clemente che ciò intese, dubitando, che per la sua residenza in
Avignone non venisse ad occupare tutto lo Stato Ecclesiastico, ed a
ponere la Sedia dell'Imperio a Roma, creò Conte di Romagna e Vicario
Generale di tutto lo Stato della Chiesa Re Roberto, affinchè se gli
opponesse. Mandò per tanto Roberto, sentendosi ch'Errico dovea calar
in Italia, l'anno 1312 D. Luni di Raona con cento Cavalieri in ajuto
dei Fiorentini, siccome fece ancor l'altro anno a Roma, mandandovi
Giovanni Principe d'Acaja suo fratello con seicento Cavalieri catalani
e pugliesi per contrastar la coronazione dell'Imperadore[28].

Dall'altra parte Federico Re di Sicilia, che avea preso gran
dispiacere, che 'l Regno di Puglia fosse rimasto a Roberto più tosto
che al Re d'Ungheria, del quale per la distanza potea dubitar meno, e
che avea pensato di battere in ogni occasione le forze del Re Roberto,
pose molta speranza nella venuta dell'Imperadore, se bene nel principio
non si discoverse. Ma offeso da Roberto per esser posto in acerbissima
prigione (dove finì la sua vita) un suo Ministro, che avea mandato
a Napoli a visitar Ferdinando figliuolo del Re di Majorica, fatto
prigioniere in Grecia dal Principe di Taranto; da questa ingiuria
pigliando occasione Federico non volle tardar più a scovrirsi; e giunto
l'Imperadore in Italia, mandò Manfredi di Chiaramonte a visitarlo, ed
a trattar lega con lui contra Re Roberto. L'Imperadore fe gran conto
di quest'ambasciata e strinse la lega, e dichiarò Federico Ammiraglio
dell'Imperio, e mandò a pregarlo, che con l'armata infestasse le marine
del Regno, ch'egli presto sarebbe ad assalirlo per terra.

I Genovesi vedendo ora più gagliardo Errico per questa lega, lo
riceverono come loro Signore, onde egli cominciò ad essere formidabile
a tutta Italia; e giunto a Roma a' 29 di giugno di quest'anno 1312 fu
con molta celebrità coronato in S. Gio. Laterano[29]; indi ripassato a
Pisa, fece citar Roberto, come vassallo dell'Imperio, a comparir avanti
di lui.

Gl'Imperadori d'Occidente, come s'è veduto nei precedenti libri
di questa Istoria, pretendevano sovranità sopra questi Reami:
l'investiture, come altrove fu detto, sono più antiche quelle
degl'Imperadori d'Occidente che de' Romani Pontefici; onde è, che
S. Bernardo, adulando l'Imperador Lotario, disse, che _omnis, qui
in Sicilia Regem se facit, contradicit Caesari_; quindi, sempre
che gli Imperadori ripigliavano forza in Italia, non tralasciavano
quest'impresa. Errico cita Roberto, e questi non comparendo, lo
dichiara contumace, indi a' 25 aprile del seguente anno 1313 fulmina
contro lui la sentenza, colla quale lo sbandisce[30], lo priva del
Regno e di tutti i suoi dominii, e come ribello dell'Imperio lo
condanna ad esser decapitato. Questa sentenza si legge presso noi nel
primo tomo de' MS. giurisdizionali compilati per Chioccarello, e la
rapporta anche Alberico ne' suoi Commentarii[31].

(Questa sentenza è rapportata tutta intera da Lunig[32]; ma varia
intorno al tempo della data, notandosi l'anno 1311. Rapporta eziandio
alla pag. 1079 una lettera di _Filippo_ Re di Francia scritta a Papa
_Clemente V_, nella quale gl'incarica ad usar tutti gli sforzi per
impedire gli attentati ed i progressi d'Errico contro _Roberto_ suo
parente, i quali potrebbero frastornar anche l'impresa di Terra Santa;
onde Clemente fulminò una Bolla contro tutti i nemici del Re _Roberto_,
dichiarandoli invasori del Regno, la quale si legge pag. 1086).

Nell'istesso tempo il Re Federico con potente armata infestava le
Calabrie, e certamente le cose di Roberto sarebbero capitate male,
se morte opportuna non l'avesse liberato; poichè mentre Errico se ne
tornava in Toscana per quindi venire con gagliardo esercito a' danni
del Re Roberto, per cammino cadde infermo, e arrivato a Buonconvento,
castello del Contado di Siena, a' 24 agosto di quest'istesso anno 1313
se ne morì. Non mancano Scrittori che rapportano la sua morte essere
stata proccurata da' Fiorentini, i quali avendo corrotto un Frate
Domenicano nominato Pietro di Castelrinaldo, narrasi che questi gli
dasse un'ostia attossicata nel tempo che gli richiese di voler prendere
il Viatico.

(Il nome del Frate Domenicano che nell'Eucaristia attossicò
l'Imperadore Errico VII non fu altrimente di Pietro di Castelrinaldo,
ma di _Bernardo di Montepulciano_, e l'abbaglio d'alcuni Scrittori
nacque d'aver confuso Frate Pietro, che presso il Re di Boemia Giovanni
figlio d'Errico, prese la difesa di Frate Bernardo e del suo Ordine
Domenicano, con Frate Bernardo imputato d'una tale scelleraggine nelle
lettere apologetiche del Re Giovanni impresse dal _Baluzio_ T. 1,
Miscel., p. 162 si legge così: _Nuper autem retulit nobis Religiosus
Vir frater Petrus de Castro-Reginaldi, ordinis fratrum Praedicatorum,
quod in magnum ipsius ordinis dedecus et contemptum facti sunt
Romancii, Chronicae et Moteti, in quibus continetur, quod clarae
memoriae Dominum et genitorem nostrum Imperatorem Henricum, Frater
quidam Bernhardus de Montepeluciano, ordinis supra dicti, administrando
ei Sacramentum Eucharistiae, venenavit; et propter hoc, ad defensionem
veritatis, praedictus frater Petrus de Castro Reginaldi, habere super
hoc litteram testimonialem humiliter supplicavit_. E questo medesimo
nome gli danno Tritemio Chron. Hirsaug. ad An. 1313 e Cuspiniano pag.
366. Parimente è da notarsi, che durando ancor a' tempi d'Errico VII
il costume di darsi anche ai Laici la communione _sub utraque specie_,
molti Scrittori antichi rapportano che il veleno non fu propinato
nell'ostia, ma mescolato dentro il calice che se gli diede a bere:
ed in questa maniera narra esser seguito l'avvelenamento Alberto
Argent. pag. 118 dicendo: _Dicebatur enim, quod ipse praedicator
venenum sub ungue digiti tenens absconsum, post communionem potui
Caesari immississet et illico discessisset_. E lo stesso scrisse
H. Stero ad A. 1313. _Hic Imperator, ut communis fuit opinio, per
penitentiarium suum, immixto veneno in Calice Domini, cum Imperator ab
ipso Eucharistiam sumeret, extinctus fuit, et Pisis sepultus_. Veggasi
Martino Disembachio, il quale compilò una particolar dissertazione, _de
vero mortis genere, quo Henricus VII. obiit_. Dove nel §. 39 sulla fede
di Tritemio Cron. Hirsaug. ad Annum 1313 rapporta, che a que' tempi fu
così comune e costante la credenza che Errico fosse stato avvelenato
da un Frate Domenicano, che per questo misfatto fosse stata imposta
pena a tutto l'ordine de' Predicatori, che i loro Monachi non potessero
comunicare se non colla mano sinistra coloro, che s'accostavano
all'altare. Veggasi parimente _Burcardo Struvio_ Syntag. Hist.
Germanor. Dissert. 25, §. 15, il quale rapporta le arti e gli sforzi
che fecero i Domenicani presso Giovanni Re di Boemia, per purgarsi
di questa imputazione; e la propensione di quel Re di favorirli,
così perchè temeva che non gli concitassero l'odio del Clero, come
anche perchè de' medesimi valevasi per Confessori e Consultori di sua
coscienza, rapportando eziandio i sospetti che s'aveano, non quelle
lettere apologetiche trascritte da Baluzio, fossero false o almanco
estorte da Giovanni per loro importunità ed artificj).

Altri lo niegano, e dicono essersi ammalato per contagion d'aria e
morto di febbre[33]. Checchè ne sia, la morte d'Errico pose in tanta
confusione i Capi del suo esercito ed il Re Federico che, ciascuno
tolse la sua via, e Federico mesto si ritornò in Sicilia; ma essendo
il Re Roberto fieramente con lui adirato, il qual rotta la pace, che
avea seco, s'era scoperto in su quella venuta amico dell'Imperadore;
fatta un'armata di cento venti galee tra quelle di Provenza, del Regno
e de' Genovesi, andò egli stesso in persona con Giovanni e Filippo
suoi fratelli a danni di quell'isola. E furono i principj molto lieti,
perciò ch'egli prese per forza Castello a mare, e posto l'assedio a
Trapani, ebbe grande speranza d'averla; ma ingannato da' terrazzani che
l'aveano tenuto in parole di concerto con Federico, l'indugio fu tale
che vedendosi mancata la vettovaglia, ed andar tuttavia infermando il
suo esercito, nè volere il Re Federico venire seco a battaglia, nè in
mare, nè in terra, fu costretto far tregua co' Siciliani per tre anni,
e tornossene il primo giorno dell'anno 1315 a Napoli molto peggiorato.

Fra questo mezzo Papa Clemente V, morto Errico, avendo ripreso vigore
il suo partito, cavò fuori una sua Bolla, colla quale rivocò, ed
annullò la sentenza fatta dall'Imperadore contro Roberto. Questa oggi
la leggiamo tra l'altre decretali de' romani Pontefici, avendola i
Compilatori del dritto Canonico inserita fra le _Clementine_[34], e si
legge ancora nel primo volume dei MS. giurisdizionali del Chioccarelli.

Re Roberto convenendogli portarsi ora in Provenza, ora nell'impresa
di Sicilia, sovente in Fiorenza, in Genova ed altrove, avea costituito
_Vicario_ del Regno, secondo il costume de' suoi maggiori, _Carlo Duca
di Calabria_ suo figliuolo, di cui perciò, come si disse, abbiamo molti
_Capitoli_, fatti da lui mentr'era Vicario in assenza di suo padre.
Ma Roberto non avendo altri figliuoli, pensò di casarlo e conchiuse
il matrimonio con la figliuola dell'Arciduca d'Austria, onde mandò in
Alemagna il Conte Camerlingo, e l'Arcivescovo di Capua Ambasciadori
con onoratissima compagnia di Nobiltà. Costei ebbe nome _Caterina_,
la quale condotta con grandissimo onore a Napoli, fu poco fortunata,
perchè dopo non molto tempo morì senza lasciar figliuoli; tanto che da
poi Re Roberto diede a Carlo la seconda moglie che fu _Maria_ figliuola
di Carlo Conte di Valois, della quale ebbe tre figliuole, come diremo
più innanzi.

Intanto essendo finito il tempo della triegua co' Siciliani, il Re
Roberto deliberò seguire l'impresa di Sicilia, ed avendo posto in acqua
un buon numero di navi, afflisse tanto quell'isola, e le forze del Re
Federico, che fu comune opinione che se Roberto avesse continuata la
guerra in quel modo, avrebbe certamente ricoverato quel Regno; ma i
Siciliani, essendo morto nel mese di aprile dell'anno 1314 Clemente
V e rifatto in suo luogo Gio. XXII mandarono subito una imbasciata
de' maggiori uomini dell'isola a rallegrarsi della creazione, ed a
pregarlo, volesse trattare la pace o la triegua fra que' due Principi.
Il nuovo Papa mandò perciò un Legato al Re Roberto, che lo indusse a
far nuova triegua per cinque altri anni.



CAPITOLO II.

_L'Imperador LODOVICO bavaro cala in Roma, e muove guerra al Re
ROBERTO. Il Duca di Calabria si muore, onde s'affrettano le nozze di
GIOVANNA sua figliuola con ANDREA secondogenito del Re d'Ungheria._


Ma nuovo turbine interruppe i progressi, e turbò la quiete del Re
Roberto: morto, come si disse, l'Imperadore Errico, essendosi gli
Elettori adunati in Francfort l'anno 1314 si divisero sopra l'elezione
del successore: gli uni elessero _Lodovico di Baviera_; gli altri
_Federico_ figliuolo d'Alberto _Arciduca d'Austria_. Giovanni XXII
ricusò di confermare alcuno de' due eletti, e dichiarò vacante
l'Imperio. I due Pretendenti fecero guerra insieme in Alemagna, ed
i lor partigiani in Italia. In fine Federico restò sconfitto l'anno
1323 e preso prigione insieme con suo fratello Errico da Lodovico
di Baviera. Il lor terzo fratello _Leopoldo_ ricorse al Papa, che
pronunziò una sentenza contro Lodovico di Baviera. Questo Principe se
ne appellò al Concilio generale, ed al futuro Pontefice legittimamente
eletto[35]; all'incontro il Papa non lasciò di continuare la sua
azione, di scomunicar Lodovico di Baviera, e di dichiararlo eretico.
L'Italia per conseguenza fu parimente turbata dalle fazioni de' Guelfi
partigiani del Papa e de' Ghibellini partigiani dell'Imperadore; ma
chi fra' Guelfi si segnalasse sopra tutti gli altri fu il nostro Re
Roberto, e Carlo Duca di Calabria suo figliuolo. Il Papa lo chiamò,
e fece levar delle truppe per far la guerra contro il partito di
Lodovico. I Ghibellini veggendo, che i Guelfi per le forze di sì
potente Re andavano tuttavia crescendo, sollecitarono che venisse in
Italia il Bavaro. Lodovico calò in Italia, e giunto a Trento, andarono
ad incontrarlo Cane della Scala Signor di Verona, Passerino Signore
di Mantua, Azzo e Marco Visconte, Guido Tarlati Vescovo e Signore
d'Arezzo, gli Ambasciadori di Castruccio Castracani e de' Pisani, e
tutti i primi della fazione Ghibellina, tanto di Lombardia, quanto di
Romagna e di Toscana. Fu celebrato un Parlamento, dove Lodovico promise
e giurò di venir a Roma, e di favorire in tutta l'Italia il nome e la
parte Ghibellina; ed all'incontro i Principi e gli Ambasciadori, che
si trovarono al Parlamento, promisero dargli centocinquantamila fiorini
d'oro, quando egli fosse giunto a Milano[36].

In questo Parlamento ancora Lodovico fece pubblicar un processo contro
Papa Gio. XXII, nel quale per giudicio di quelli Vescovi e Prelati,
ch'eran appresso di lui, fu dichiarato eretico, imputandosi al Papa,
ch'errasse in sedici articoli di quelli, che negli altri Concilj era
determinato, che si tenessero per la Chiesa cattolica, e fatto questo
venne a Milano[37] e nel dì della Pentecoste si fece coronare dal
Vescovo d'Arezzo della Corona di ferro nella chiesa di S. Ambrogio;
ed invitato da' Romani intraprende di passare a Roma. Il Re Roberto
vedendo quel che potea importare la venuta del Bavaro in Roma e che
l'aiuto del Pontefice sarebbe stato debole e tardo, fece ogni sforzo
per impedirgli la venuta. A questo fine mandò egli il Principe della
Morea suo fratello con grossa cavalleria in Roma per tenere stretto
il Bavaro; mandò anche nuova armata in Sicilia, essendo finita la
triegua, per dar tanto da fare al Re Federico, ch'egli non potesse
esser d'alcuno aiuto all'Imperadore; ma tutti questi sforzi non furono
valevoli ad impedire, che il Bavaro non venisse tuttavia innanzi armato
per coronarsi in Roma; onde il Re fu costretto rivocar il Duca di
Calabria, il qual era al Governo di Fiorenza, e mandarlo a guardare le
frontiere del Regno. Carlo a' 28 settembre di quest'anno 1327 con la
moglie, e con tutti i Baroni ch'erano seco, partì di Fiorenza e per la
via di Siena, Perugia e Rieti giunse all'Aquila il medesimo giorno, che
il Bavaro fu coronato a Roma con molta celebrità: ciò che avvenne il dì
16 di gennaio del seguente anno 1328.

Ma l'indugio del Bavaro in Roma fu la salvezza del Re Roberto, essendo
stata fama in que' tempi, che egli non avrebbe potuto sostenere
l'impeto del Tedesco, il quale avea seco cinquemila buoni Cavalieri,
se senza tardar punto in Roma, dopo aver presa la Corona dell'Imperio,
fosse passato alla conquista del Reame. Ma l'aver egli voluto crear
nuovo Papa, da cui la seconda volta volle esser coronato, ed occupatosi
in far leggi, e dar altri ordini, fu cagione, che quando volle passar
nel Regno, non fu più a tempo: anzi le genti del Re presero Ostia di
nuovo ed Alagna, ed avendo fortificati i passi, costrinsero finalmente
il Bavaro ad uscir di Roma, e tornarsene in Toscana[38].

Essendo riusciti vani i disegni del Bavaro e de' Ghibellini, Re
Roberto non solo fu liberato dal pensiero della guerra, ma fatto assai
maggiore di forza e di autorità per se stesso e per l'aiuto del Papa,
divenne formidabile a tutti i suoi nemici; laonde ordinate le cose di
Toscana, senza dubbio avrebbe finito felicemente l'impresa di Sicilia;
ma come nelle maggiori felicità si conosce spesso la fragilità delle
cose umane, accadde, ch'ammalandosi il Duca di Calabria in Napoli, al
primo di novembre del medesimo anno 1328 morì la vigilia di S. Martino
con incredibile dolore dell'infelice padre e di tutto il Regno, e con
infinite lagrime fu sepolto nella chiesa di S. Chiara. Narrasi, che
quando questo Principe fu portato alla sepoltura, l'infelice padre
vedendosi tolto l'unico suo figliuolo, dicesse: _Caduta è la Corona dal
capo nostro._ Come veramente seguì per le ruine e turbulenze, che poi
vennero al Regno, perchè a Carlo, se bene mentr'era in Fiorenza Maria
di Valois sua seconda moglie gli avesse partorito un figliuolo maschio,
che nomossi Carlo Martello, questi non visse più che otto giorni; nè
di Maria, che sopravvisse al marito, lasciò maschi, ma due figliuole
già nate, ed un'altra nel ventre. La prima nominossi _Giovanna_, e fu
quella, che poi successe al padre, e fu Regina di Napoli. La seconda
fu chiamata Maria, la quale poco da poi morì, e fu seppellita in S.
Chiara. Poco appresso la vedova Duchessa partorì un'altra figliuola,
che fu anche chiamata _Maria_, la quale, come diremo, divenne Duchessa
di Durazzo.

Carlo Duca di Calabria fu un Principe, se ben non molto bellicoso,
adorno nondimeno di tutte le altre virtù convenienti a Re. Fu egli
religiosissimo, giustissimo, clementissimo e liberalissimo, amatore de'
buoni e nemico de' cattivi, e tale che il padre quasi dall'adolescenzia
gli pose il governo di tutto il Regno in mano. Lo creò suo Vicario,
ch'esercitò con tanta lode e prudenza, che il Re suo padre ne vivea
molto contento e soddisfatto. Il Tribunal della Vicaria nel suo tempo
era in somma floridezza e vigore. Egli vi creò Giustiziero Filippo
Sangineto, con stabilirgli provisione di 150 once d'oro l'anno, e
90 once per diece uomini a cavallo e 16 a piedi per guardia e decoro
di quel Tribunale. Ebbe in costume ogni anno cavalcare per lo Regno,
per riconoscere le gravezze, che facevano i Baroni e Ministri del Re
a' Popoli. Per mezzo di molti _Capitoli_ da lui stabiliti, mentr'era
Vicario del Regno, diede varie providenze, e sesto a molte cose
appartenenti al buon governo e retta amministrazione della giustizia,
della quale fu cotanto zeloso ed amatore, che nel suo sepolcro, per
ispiegar questa sua virtù, si vede sotto i suoi piedi tener scolpita
una conca d'acqua, nella quale pacificamente beve un lupo ed un
agnello.

Celebrate l'esequie del Duca, il Re pose ogni studio in fare bene
allevare la bambina, che avea da succeder al Regno, ed egli intanto,
come Principe di grande e generoso animo, non lasciò nè il governo del
Regno, nè il pensiero della guerra di Sicilia.

Ma passato alcun tempo, sentendosi già tuttavia invecchiare, pensò
stabilire la successione del Regno, e benchè i Reali fossero molti nel
medesimo Regno, come Roberto, Luigi e Filippo figliuoli del Principe
di Taranto; Carlo, Luigi e Roberto figliuoli del Principe della
Morea, ed altri, tra' quali avrebbe potuto eleggere alcuno abile alla
successione e governo del Regno, dandolo per isposo alla picciola
nipote; nulladimanco stimolato, come si crede, ed accenna Baldo[39],
d'alcun rimorso di coscienza, perchè il Regno per più diritta ragione
dovea toccare a suo Nipote Re d'Ungheria figliuolo di Carlo Martello
primogenito, o per altra occulta cagione, che a far ciò lo stringesse;
si risolse di far tornare lo Stato in quel ceppo onde si era partito,
e per questo deliberò d'eleggere uno dei figliuoli del già detto
Re d'Ungheria[40]: benchè i calamitosi successi, che ne seguirono,
dimostrarono apertamente, quanto il giudizio umano sia spesse volte
fallace.

Mandò a quest'effetto solenne ambasciaria a Caroberto Re d'Ungheria,
il quale con molta allegrezza ricevè l'ambasciata, e fatta elezione
d'Andrea suo figliuolo secondogenito, ne rimandò gli Ambasciadori con
ricchi doni, dicendo loro, facessero intendere al Re Roberto, ch'egli
fra pochi dì si sarebbe posto in viaggio collo sposo, e verrebbe
a Napoli, come già fece non dopo molto indugio; perocchè partitosi
d'Ungheria col picciolo figliuolo e gran compagnia di suoi Baroni
per la via del Friuli, all'ultimo di luglio del 1333 giunse a Vesti
città di Puglia, posta alle radici del Monte Gargano, dove da Giovanni
Principe della Morea, mandato dal Re con molti Baroni e Cavalieri del
Regno, fu onorevolmente ricevuto. Fu a' 26 settembre di quest'anno
celebrato lo sponsalizio tra Andrea e Giovanna pari d'età, non avendo
ambedue, che sette anni, e verso la fine d'ottobre, il Re d'Ungheria
lieto d'aver lasciato un figliuolo così ben ricapitato, con la certezza
di succedere a sì opulento Regno, si partì, e ritornò in Ungheria,
lasciando alcuni de' suoi Ungari, che servissero il figliuolo, già
intitolato _Duca di Calabria_, e tra gli altri lasciò con grande
autorità un Religioso chiamato _Fra Roberto_, che avesse da essere
Maestro di lettere e di creanza al picciolo Andrea.



CAPITOLO III.

_Si rinova la guerra in Sicilia; ma s'interrompe per la morte del Re
ROBERTO._


Re Roberto essendo libero dal pensiero del successore, solo gli
rimaneva quella cura, che perpetuamente dopo Re Carlo il Vecchio tenne
travagliati tutti i suoi successori, cioè di racquistare il Reame
di Sicilia; mandò per tal effetto nuova armata in quell'isola, dove
benchè facesse molti danni, non acquistò però Terra alcuna murata.
Ma morto che fu il Re Federico l'anno 1337, lasciando per successore
_Pietro_ suo primogenito, tosto mandò Roberto in Avignone a pregar Papa
_Benedetto XII_, il quale a' 20 decembre dell'anno 1334 era succeduto
a Gio. XXII, che avesse da mandar un Legato appostolico in Sicilia, a
richiedere Re Pietro, che volesse cedere quel Regno, ed osservare la
Capitulazione fatta in tempo di Carlo Valois della pace; e questo fece
non con isperanza di ottenere per quella via l'isola, ma con disegno,
che il Papa, vedendosi disprezzare da Re Pietro, entrasse in parte
della spesa della guerra. Nè mancò di mandare a visitare la Regina
Elionora sua sorella, ed a tentarla che avesse disposto il figlio a
cedere quel Regno, promettendole, che l'avrebbe aiutato ad acquistar il
Regno di Sardegna con molte maggiori forze di quelle, che erano state
promesse nella Capitulazione; ma la Regina, ch'era savia, rispose,
ch'ella non avea tale autorità col figlio, che bastasse a tanto, e che
pregava il Re suo fratello, che volesse più tosto tenerlo per servidore
e per figlio, e massime non trovandosi eredi maschi, ond'era certo di
non potere lasciare nè il Regno di Napoli, nè l'altre sue Signorie a
persona più congiunta di sangue, di quel che gli era Re Pietro. Così,
siccome questa ambasceria fece poco effetto, molto meno fece il Legato
appostolico, perchè gli fur date parole, nè potendo far altro, lasciò
il Re e l'isola scomunicata: del che curandosi poco Re Pietro, si fece
subito incoronare.

Rivolse perciò Roberto tutti i suoi pensieri alle armi, e a' 5
maggio del seguente anno 1338 mandò un'armata di settanta vele tra
Galee ed Uscieri con 1200 Cavalieri per infestare quell'isola, e non
molto da poi un'altra maggiore e meglio fornita; ma fuori dell'aver
preso Termini per assedio, non vi fece cosa di momento. Il Re non
trovandosi mai stanco di questa impresa, due anni da poi vi mandò
Giufredi di Marzano Conte di Squillaci e suo G. Ammiraglio; la qual
impresa fu meglio guidata, che nessun'altra, avendo il Conte preso
Lipari, e sconfitti i Messinesi. L'aver acquistato Lipari fu cagione,
che l'anno seguente, mandato con nuova armata Ruggiero Sanseverino
in Sicilia, acquistasse Melazzo; e questa fu l'ultima impresa che
il Re Roberto fece in Sicilia. Ma ciò che per tanti anni, e tante
e sì ostinate guerre non s'era potuto porre in effetto, se morte
non l'avesse impedito, si sarebbe veduto conseguire per una piccola
contingenza: Re Pietro, ch'era succeduto al padre, non regnò se non
che pochi anni; ed essendo morto, nè avendo lasciati altri, se non che
_Lodovico_ suo figliuolo fanciullo sotto il governo del zio; i Palizzi
Baroni potentissimi in Messina con molti parenti loro e di Federico
d'Antiochia, con quelli di Lentino, di Ventimiglia ed Abati, a' quali
erano venuti più in odio i Catalani, che non furono agli antecessori
loro i Franzesi, occuparono Messina, e mandarono da parte loro e di
quella città a Napoli a giurare omaggio a Re Roberto; ma il messo trovò
il Re che avea presa l'estrema unzione, e poco da poi morì. Esempio
evidente de' giuochi, che fa la fortuna nelle cose umane, che avendo
Re Carlo I e Re Roberto sessanta anni continui travagliato il Regno
di Sicilia con sì potenti e numerosi eserciti, e mandato quasi ogni
anno ad assaltarlo con tante potentissime armate, nè avendo mai potuto
ricovrarlo, la fortuna avea riservato ad offerirglielo, quasi per
beffa, al punto della morte; perchè non è dubbio, che se tal occasione
fosse venuta due anni avanti, l'isola sarebbesi ricovrata, perchè con
pochissime forze si poteano abbattere e spegnere quelle del pupillo Re,
ed esterminar in tutto il nome dei Catalani da quell'isola.

Morì questo savio Re, non men oppresso dagli anni, che da gravi affanni
e travagli, che in questi ultimi anni intrigarono l'animo suo in
molestissime cure: vedea, che in sei anni che Andrea Duca di Calabria
era stato nel Regno e nudrito nella sua Corte, Accademia e domicilio
d'ogni virtù, non avea lasciato niente de' costumi barbari d'Ungheria,
nè pigliati di quelli, che poteva pigliare, ma trattava con quegli
Ungari che gli avea lasciati il padre, e con altri che di tempo in
tempo venivano; tanto che il povero vecchio si trovò pentito d'aver
fatta tal elezione, ed avea pietà grandissima di Giovanna sua Nipote,
fanciulla rarissima, e che in quell'età, che non passava dodici anni,
superava di prudenza non solo le sue coetanee, ma molte altre donne
d'età provetta, avesse da passare la vita sua con un uomo stolido e
da poco. Avea ancora grandissimo dispiacere, nell'antivedere, come
Principe prudentissimo, le discordie che sarebbero nate nel Regno dopo
la sua morte; perchè conosceva che il Governo verrebbe in mano degli
Ungari, i quali governando con insolenzia, e non trattando i reali a
quel modo, che gli avea trattati esso, gli avrebbe indotti a pigliare
l'arme con ruina e confusione d'ogni cosa. E per questo, credendosi
rimediare, convocò Parlamento generale di tutti i Baroni del Regno
e delle città reali, e fece giurare Giovanna solo per Regina, con
intenzione, ch'ella avesse dopo la sua morte da stabilirsi un Consiglio
tutto dipendente da lei, e che il marito restasse solo in titolo di
Consorte della Regina.

S'aggiungea a questo un'altra molestia poco minore, perchè a quel
tempo che si vedea, che poco potea durare la sua vita, nè si sperava
successore abile a tener in freno gl'insolenti, in tutte le città
maggiori nacquero dissensioni civili, non senza grandissimo spargimento
di sangue, nè valevano i Giustizieri (che così si chiamavano allora i
Governadori delle province, che oggi appelliamo Presidi) a prevedere
ed estinguere tanto incendio. Dalle quali discordie crebbe tanto il
numero de' fuorusciti per tutto il Regno, che non potendosi sopportare,
bisognò che il Re provvedesse a modo di guerra, mandando Capitani e
soldati per le province per estinguergli; e non era possibile, sì
perchè i colpevoli si spargevano per diversi luoghi, e non davano
comodità a' Capitani del Re di potergli espugnare tutti insieme, come
ancora perchè molti Baroni gli favorivano e ricettavano nelle terre
loro. Con questi affanni e cure mordacissime essendosi infermato,
trapassò questo grandissimo Re a' 16 gennajo l'anno 1343, avendo
regnato anni trentatre, mesi otto e dì sedici; e fu sepolto dietro
l'altar maggiore di S. Chiara in quel nobile sepolcro, che ancor si
vede.

(Il Re Roberto nell'istesso dì 16 Gennaro nel Castelnovo di Napoli
prima di morire fece il suo testamento, nel quale istituì erede
universale in tutti i suoi Stati di Provenza e Regno di Sicilia,
Giovanna sua nipote, figlia primogenita del Duca di Calabria premorto.
E questo testamento estratto da' registri dell'Archivio reale di
Provenza, fu impresso da _Lunig_).

Lasciò Roberto nome del più savio e valoroso Re, che fosse stato
in quell'età, ornato di prudenza, di giustizia, di liberalità, di
modestia, di fortezza, ed altre virtù tanto militari, quanto civili. In
quanto alla giustizia, mai non fu veduto il Regno così ben governato
e con tanta prudenza, quanto che sotto di lui. Lo dimostrano le
tante savie leggi che ci lasciò, l'ordine esatto de' Tribunali e de'
Magistrati, e la cura che tenne d'elegger Ministri di somma dottrina
e di costumi incorrotti. Proccurò che nel Regno fosse fra i Popoli una
tranquilla pace e sommo riposo: tenne in freno gl'insolenti, e sterminò
gli sbanditi e facinorosi che lo turbavano: ripresse la violenza degli
Ecclesiastici, i quali sovente opprimevano i suoi vassalli: ed a questo
Principe noi dobbiamo que' rimedj, onde ci facciamo scudo e difesa
delle loro violenze e gravezze, che chiamiamo _Regj Conservatorj_, de'
quali in questo luogo bisogna tenere un più lungo discorso.



CAPITOLO IV.

_De' Conservatorj regj._


Nel Regno di Carlo I e II essendo, per le cagioni dette altrove,
i privilegj ed immunità de' Cherici cresciuti nell'ultimo grado;
ed essendo (tranne le feudali) così nelle cause civili, che nelle
criminali, stati sottratti dalla giurisdizione de' Magistrati regj:
la loro licenza e libertà crebbe tanto, che colla sicurezza di non
potere i loro eccessi e violenze essere emendati da' Giudici Laici,
i Prelati, i Cherici ed insino i Monaci insolentivano sovente contro
i Laici, ed alcune volte anche contro i Cherici stessi meno potenti.
Erano invase le loro possessioni, angariavano le loro persone,
l'affliggevano con ingiurie, danni, rapine ed altre molestie. Ci
testimonia l'istesso Roberto, che nel suo Auditorio non risuonavano
altre querele, nè si sentivano altri gemiti e clamori, che di queste
violenze, ed oppressioni[41]. Il savio Re per darne compenso prescrisse
a' suoi Giustizieri la norma, come dovessero reprimere tante insolenze,
ed emendare le oppressioni. Stabilì in quel suo famoso _Capitolo_,
che incomincia _Ad Regale fastigium_, istromentato dal celebre
Giureconsulto Bartolommeo di Capua suo Protonotario, che i Giustizieri,
sopra questi eccessi non procedendo per via giudiziaria, nè ricercando
_cognitionalia ordinare certamina_, ma solamente _facta de injuriis,
rapinis, et damnis illatis informatione summaria, per facti notorium,
vel rei evidentiam, famam publicam, aut designationem aliam attestantem
commissam injuriam_, la facessero correggere e prontamente emendare.

Prescrisse loro ancora, che per pruova della turbazione fossero solo
contenti di proponere un general editto, nel quale senza specificar
le persone perturbatrici, s'invitasse generalmente _quicumque sua
interesse putaverit, visurus accedat producendorum in causa testium
juramenta, et oppositurus, quae circa rei substantiam voluerit
allegare_.

Chiunque leggerà in questo capitolo le tante ragioni che Roberto allega
per giustificarlo, e per farlo apparire moderato, e non eccedente la
sua regal potestà, non potrà non essere sorpreso di maraviglia, vedendo
un Re, che non intende altro che di tener pacato ed in riposo il suo
Regno, e di rimover perciò da quello le rapine e le violenze, perchè
punto non s'offendesse la libertà ecclesiastica, parlar con tanta
riserba e moderazione, e con tante clausole piene di sommo rispetto e
riverenza; come se a' Principi non fosse permesso per quiete de' loro
Stati stabilire più forti ed efficaci leggi per estirpar que' mali e
que' disordini onde vengono afflitti. Egli si protesta in prima, che
quantunque contro le persone de' Prelati e de' Cherici comunemente la
sua potestà non s'estenda; nulladimanco per la protezione e difesa
che deve tenere di tutti i sudditi del suo Regno, perchè non siano
oppressi, questo faceva che s'innalzasse il potere dell'eminente suo
braccio. Concede di vantaggio, che i suoi Magistrati non possano contro
le persone de' Prelati e dei Cherici, e nelle loro cause procedere per
via di cognizion giudiciaria, e con formati processi; e perciò vuole,
che si proceda per via di summaria ed estragiudizial cognizione, con
tante moderazioni e rispettose riserve. Si dichiara e si protesta
ancora, che si muove a ciò fare unicamente per affetto di carità e
di compassione. Allega perciò l'esempio del Re Davide, che soccorse
gl'Isdraeliti oppressi: di que', che per loro scampo confuggono alle
statue de' Principi: che sia legge di natura ripulsare dal congiunto
o vicino l'ingiurie: allega finalmente l'esempio di Mosè, il quale
vedendo un Ebreo essere malmenato ed oppresso da un Egizio, lo stese
morto a terra.

Ma quello che maggiormente dimostra la sua moderazione, si è il
considerare, che tutto ciò stabilì non per via di legge e di solenne
editto, ma per forma di _Lettera Regia_ di maniera che volle, che
questo suo regolamento non si dovesse avere come sua Costituzione,
in vigor della quale potessero i suoi Magistrati per se medesimi
procedere, siccome regolarmente provedono in tutti gli altri casi,
come esecutori delle leggi, senza aver bisogno, che il Principe lor
dia altra spezial facoltà; ma ordinò, che i Giustizieri facendosi il
caso, dovessero ricorrere al Principe, e da quello ricevere particolari
lettere, onde si comunicasse loro questa autorità, intendendo per ciò
che in questi casi avrebbero proceduto non per via d'ordinaria potestà,
ma per quella comunicata loro dal Principe, a cui si appartiene
unicamente, per la potestà economica di reggere i suoi Stati, e sovente
per modi, ed espedienti estraordinarj, e non comunali, dipendenti dalla
suprema potestà del suo eminente braccio. Quindi è, che Bartolommeo di
Capua[42] istesso, per la di cui penna fu il Capitolo dettato, notò,
che questo non era Capitolo, cioè Costituzione, ovvero Editto, _sed
forma literae Regiae Curiae, quae debet dirigi Officiali a Rege in
pendenti, alias Officialis ipse non potest procedere secundum formam
hujus Capituli: Et ita se habet consuetudo Magnae Curiae Vicariae,
et omnium Civitatum Regni:_ ond'è, che niuno Ufficiale può procedere,
_nisi ex_ Regia commissione, come notò assai a proposito de Bottis[43].

E quindi nacque la pratica continuata di mano in mano insino a'
tempi nostri, che senza spezial commessione del Re, niun Tribunale
può procedere servata la forma di questo Capitolo. Nel Regno degli
Aragonesi, e nel principio ancora del Regno degli Austriaci, nel
quale, come vedremo, il Tribunal del Sacro Consiglio di S. Chiara
era nella sua maggiore elevatezza e splendore, e superiore a tutti
gli altri, procedeva sì bene senz'altra commessione regia; ma ciò
avveniva, perchè questo Tribunale rappresentava in tutto la persona
del Re e sotto il suo nome tutto si spediva; ond'è, che sovente, come
attesta l'istesso Bottis, soleva rimettere queste cause alla Gran
Corte della Vicaria, alla quale davasi autorità di poter procedere
contro gli Ecclesiastici _servata forma Capitulorum Regni_. Quindi
negli Archivj di questo Tribunale osserviamo perciò molti processi
fabbricati a tenore de' medesimi Capitoli. Ma innalzato da poi a' tempi
degli Austriaci sopra tutti gli altri Tribunali quello del Collateral
Consiglio, ed avendo tratto a se le supreme preminenze, ed ogni
potestà economica, e lasciata agli altri Tribunali l'independenza per
ciò, che riguarda le cose di giustizia, quindi nacque quello stile,
che ora riteniamo, che da questo Tribunale, come rappresentante la
persona del Re, si spediscono lettere regie, per le quali si commette
regolarmente al S. C. che procedesse servata la forma di questi
capitoli, e prima anche solevan commettersi al Cappellano Maggiore.
Non vi sarebbe niuna implicanza perchè queste lettere non si potessero
ancora drizzare al Reggente della Gran Corte della Vicaria, ovvero ai
Presidi delle province, che anticamente erano chiamati Giustizieri,
e ad altri Ufficiali Regj. Abbiamo molte di queste lettere drizzate
da Roberto istesso al Reggente della Vicaria e suoi Giudici, com'è
quella, che si legge sotto il titolo _de Spoliatis pro Laico contra
Clericum_, e che comincia: _Omnis praedatio_; e l'altra che leggiamo
presso Chioccarello: a' Giustizieri di Appruzzo _Ultru, et Citra
flumen Piscariae_: a' Giustizieri di Val di Crati, e Terra Giordana:
a' Giustizieri di Terra di Lavoro, ed a coloro del Contado di Molise.
L'istesso fece Carlo Duca di Calabria suo figliuolo, Carlo III di
Durazzo, Alfonso I e gli altri Re successori, come vedremo più innanzi.
Ma ne' nostri tempi e de' nostri avoli, essendo più che mai cresciuta
l'audacia e temerità de' Prelati, si è riputato migliore, per non
esponere questi inferiori Ministri ai loro fulmini, e non entrare
perciò in cimenti, di dirizzarsi queste lettere al Tribunal supremo del
S. C. il qual regolarmente perciò vi procede.

Ma tanta moderazione del Re Roberto, tanto suo rispetto, a niente giovò
a questo Principe, perchè i Prelati ed i Canonisti non declamassero
contro questo suo regolamento. Sin da' tempi di Luca di Penna[44],
che scrisse sotto il Regno di Giovanna I: _Hoc statutum_, com'egli
dice, _multi Praelati, et Canonistae nitebantur infringere, dicentes,
Principem Secularem nihil posse contra Clericos, et eorum causas
directe, vel indirecte statuere, sed ipsi circa hoc inique loquuntur_:
tanto che bisognò ch'egli impugnasse la sua penna per confutare i loro
errori. E ne' tempi posteriori, essendo più cresciuta la licenza degli
Scrittori ecclesiastici, furon da essi sempre questi rimedi combattuti
e riputati, com'essi dicono, offensivi alla immunità, ovvero libertà
ecclesiastica. Nel decimoterzo tomo dei MS. giurisdizionali raccolti
da Bartolommeo Chioccarelli, si legge una relazione delle tante
controversie che sono state tra' Ministri del Re, e gli Ecclesiastici
sopra questi Capitoli: si leggono ancora diverse allegazioni in jure
fatte per difesa e per mostrar la giustizia de' medesimi: all'incontro
quanto siansi affaticati gli Ecclesiastici per distruggere e far
togliere la loro osservanza ed esecuzione; ma non ostante questi loro
sforzi, per lo decorso di più secoli sono rimasti sempre stabili e
fermi, e sono stati presso di noi sempre in uso, e praticati sotto
quanti Principi mai da Roberto in qua hanno dominato questo Regno, e
tuttavia sono nel lor fermo vigore ed inalterabil osservanza.

Di Roberto, oltre del Capitolo ad _regale fastigium_, ne abbiamo
tre altri ordinanti il medesimo, drizzati secondo i casi accaduti
a' suoi Uffiziali che si leggono impressi tra' Capitoli del Regno
spediti da lui negli ultimi anni del Regno. Il primo è sotto la
rubrica: _Conservatorium pro Laico contra Clericum_: che comincia:
_Charitatis affectus_, drizzato a' Giustizieri d'Apruzzo _Ultra_, ad
istanza di Ruggiero Conte di Celano per le molestie e turbazioni che
gl'inferivano l'Abate, ed i Monaci del Convento di S. Maria della
Vittoria. Il secondo, che comincia: _Finis praecepti charitas ed
è sotto il titolo, Conservatorium pro Clerico contra Clericum_, fu
drizzato al Giustiziere di Val di Crati e Terra Giordana, e fu spedito
ad istanza di Giovanni Tavolaccio di Castrovillari Canonico Cosentino,
per l'ingiuste molestie che gli venivan date da Guglielmo ed Oliviero
Persona Cherici di Rossano, e da' loro congiunti e seguaci. Il terzo
fu drizzato da Roberto al Reggente della G. Corte della Vicaria e
suoi Giudici, e si legge sotto il titolo, _de Spoliatis pro Laico
contra Clericum_, e comincia: _Omnis praedatio_: fu spedito ad istanza
di Perotto Scalese di Napoli, il quale per essere stato con propria
autorità, e violentemente spogliato della possessione d'un Territorio,
ch'egli possedeva nelle pertinenze della città di Capua dal Vicario
dell'Arcivescovo di Capua, ebbe ricorso a Roberto perchè vi dasse
riparo. Oltre di questi che abbiamo impressi tra' Capitoli del Regno,
furono da Bartolommeo Chioccarelli da' regi Archivi raccolte consimili
lettere regie conservatoriali, spedite dal medesimo Roberto, da Carlo
Duca di Calabria suo figliuolo, e da molti altri Re successori per
quest'istesso fine e drizzate a' loro Ufficiali.

Carlo Duca di Calabria, mentr'era Vicario Generale del Regno, drizzò
nell'anno 1322 consimili lettere al Capitano di Napoli, spedite ad
istanza di Francesco Cannavacciolo di Napoli per le molestie che se
gl'inferivano sopra la possessione d'una sua casa, situata dentro
la Città di Napoli, dall'Abate Guglielmo Caracciolo con alcuni altri
Cherici. L'istesso Carlo nel 1324 commette a' Giustizieri di Calabria,
che a tenor del Capitolo di suo padre facciano purgar lo spoglio che
avea patito Giovanni Canonico della maggior chiesa di S. Marco d'una
vigna e certi buoi, da Guglielmo Malopere Primicerio di Napoli, e
Vicario dell'Arcivescovo di Cosenza. Nel 1328 anno della morte del Duca
di Calabria, il Re Roberto scrive alli Giustizieri di Terra di Lavoro
e Contado di Molise, e d'Apruzzi _Citra_ ed _Ultra_, che avendogli
esposto Francesco Abate del Monastero di S. Maria di Cinquemiglia, che
il Vescovo di Valve, pretendendo detta Badia appartenersi alla sua
Chiesa, voleva di fatto spogliarlo della medesima, che mantenessero
detto Abate nella possessione pacifica di detto monastero, nella quale
lo ritrovavano, _dunec justa causa possessionis duraverit_. Roberto
istesso nell'anno 1337 manda consimili lettere al Reggente e Giudici
di Vicaria ed altri suoi Ufficiali, che _juxta tenorem novi nostri
Capituli_, procedano su l'esposto fattogli da Tommaso Monsella di
Salerno Maestro Razionale della Gran Corte, che stando egli in possesso
del Castello di S. Giorgio situato in Calabria, il Vescovo di Melito,
insieme con altri laici lo turbavano, e tentavano con violenza occupar
i tenimenti del medesimo.

Il Re Carlo III d'Angiò nel 1383 scrisse al Gran Giustiziere del Regno
o suo Luogotenente, ed alli Giudici della Gran Corte che rivocassero
gli aggravi, e violenze fatte per l'Arcivescovo di Napoli, o suo
Vicario per mezzo d'un Prete suo Cameriere in loro nome a Simone Guazza
di Giugliano, in eseguirgli di fatto, e di propria autorità alcuni suoi
beni mobili, pendente l'appellazione d'una sentenza data a favore di
detto Cameriere, per un credito, che pretendeva conseguire in nome del
suddetto Arcivescovo.

Il Re Alfonso I d'Aragona nel 1440 drizzò consimili lettere al Vescovo
di Valenza Presidente del S. C. e Viceprotonotario del Regno, ed alli
suoi regi Consiglieri, perchè a tenor di questi Capitoli emendassero
lo spoglio, che Febo Sanseverino Vescovo di Cassano avea patito da
Geliforte Spinello, il quale non ostante, che il Sanseverino era
stato promosso a quel Vescovado da Bonifacio IX, e confermato da Papa
Martino V, e per più anni l'avea pacificamente posseduto, asserendosi
egli Vescovo, per forza, e fraude l'avea spogliato di fatto, e s'era
intruso in detto Vescovado. Il medesimo Re nel 1478 scrisse al suo
Vicerè, ed altri Ufficiali in Calabria, che avendogli esposto il Prete
Guglielmo di Gambini di Mangano, pertinenza della città di Cosenza,
che possedendo egli con altri Preti per più di venti anni alcuni
beneficj, da certi altri Preti di fatto n'erano stati spogliati, perciò
gl'incarica, che costando loro di questo spoglio, lo rivochino, e
facciano mantenere il medesimo nel possesso con fargli corrispondere i
frutti.

Il Re Ferdinando I nel 1481 scrive al Vescovo di Martorano, che non
molesti in cosa alcuna Palamede di Landro Vescovo di Catanzaro, nè
impedisca l'esazione de' frutti, e rendite del suo Vescovado, anzi
se avesse alcune rendite, o ragioni nella diocesi del suo Vescovado
glie le faccia corrispondere conforme e di giustizia: e nell'anno
1485 scrive al Castellano di Catanzaro che lo mantenga, e conservi
nella pacifica possessione, nella quale era stato, e stava del suo
Vescovado, facendogli corrispondere tutte le sue entrade e frutti
spettanti a quello. Il medesimo Re nell'istesso anno scrive a Carlo
Carafa Signore della terra di Montesarchio, dicendogli, che Fra
Jacopo Sordella dell'Ordine di S. Gio: Gerosolimitano Commendatore
della Commenda di detta Terra gli avea esposto, che possedendo detta
Commenda concedutagli dalla sua Religione, ne era stato di fatto
scacciato da Fra Ipolito d'Amelia in vigor di certe lettere ottenute
surrettiziamente dalla Corte di Roma: perciò gli ordina che costandogli
di questo spoglio per sommaria informazione, lo restituisca nella
possessione.

Il Gran Capitano D. Consalvo di Cordua nel 1503 scrive ad un Ufficiale
regio, che l'Abate Guglielmo Germano di Maratea, possedendo in vigor di
Bolle appostoliche la Badia di S. Giovanni d'Abate Marco della diocesi
di Cassano, n'era stato spogliato di fatto da Giovanni Caseo, gli
ordina perciò, che servata la forma de' Capitoli del Regno restituisca
detto Abate nella possessione, e gliela mantenghi, _donec justa causa
possessionis duraverit_. Il medesimo Gran Capitano nell'anno 1506
ordina al Governadore di Calabria, che essendo vero, che l'Abate di S.
Giovanni di Florio di Calabria sia stato spogliato di fatto dal Cherico
Martino di Torponibus d'alcune Chiese, e Grancie annesse alla sua
Badia, lo rimetta nella primiera possessione, e gliela conservi, _donec
etc_.

Il Vicerè D. Giovanni d'Aragona Conte di Ripacorsa nel 1507 scrive al
Governador di Calabria, ed agli altri Ufficiali di quella Provincia,
che Fra Lodovico di Nicotera Vicario Generale di detta Provincia
dell'Ordine di S. Francesco dell'Osservanza gli avea esposto, che da
molti Prelati di quella provincia eran usate molte violenze a' Frati
Osservanti del suo Ordine, che perciò ordina a detti ufficiali, che
ad ogni istanza del detto Vicario procedano co' dovuti rimedi, che
con effetto detti Prelati cessino ogni via di fatto, e di violenza
contro detti Osservanti: ma se pretendono cos'alcuna, propongano le
loro ragioni avanti Giudici competenti. Il medesimo Conte in detto
anno scrive al Capitano di Cariati, dicendogli, che li giorni passati
essendo stato spedito dal S. C. un editto, giusta la forma de'
Capitoli del Regno, a favore di Tommaso Assagno Paleologo, il qual
dicea essere stato turbato dal Vescovo di Cariati sopra la possessione
del Casale di Belvedere, e territorj di Malapezza; dovendosi quello
affiggere nelle porte della maggior Chiesa di Cariati, ed essendo ivi
apparecchiato l'Algozino con l'editto in mano, ed il Giudice, Notajo
e Testimonj per far l'atto dell'affissione; il Vicario del Vescovo
colla maggior parte del Clero uscendo della Chiesa, levarono l'editto
da mano dell'Algozino, e lo stracciarono, maltrattandolo insieme col
Notajo, non senza grave offesa della dignità del S. C. comanda perciò
al suddetto Capitano, che ordini al detto Vicario, ed a que' Preti,
che v'intervennero, che fra quindici giorni debbiano venire in Napoli
a presentarsi avanti il Vicerè, e non mai partire senz'espressa sua
licenza.

Nell'anno 1574 Decio Caracciolo Abate della regal Cappella, ed Abadia
di S. Pietro a Corte di Salerno, avendo dimandato al Vicerè esser
conservato, e mantenuto nel quasi possesso d'esercitare alcune sue
giurisdizioni spirituali e temporali, che teneva in detta Badia, nel
quale era turbato dall'Arcivescovo di Salerno, che pretendeva di fatto
spogliarlo di quelle; fu commesso l'affare al Regio Cappellan Maggiore,
che provvedesse servata la forma di questi Capitoli, avanti del
quale, speditosi il solito editto, comparve l'Arcivescovo, e formatosi
processo, fu l'Abate mantenuto nella possessione delle giurisdizioni di
detta sua Chiesa.

Nel 1593 avendo Giovanni Alfonso, Ferrante, ed altri della famiglia
Buonuomo della città di Pozzuoli esposto al Vicerè, che tenendo essi
nella maggior Chiesa una Cappella con un Sepolcro antico di loro
Antenati, il Vescovo di Pozzuoli di fatto, e di notte avea fatto
diroccare e levar detto sepolcro; dimandarono, che siccome di fatto
s'era levato, così fosse riposto, e conservati nella possessione, nella
quale erano. Fu il negozio dal Vicerè rimesso al Cappellan Maggiore,
il quale, servata la forma di questi Capitoli, spedì il solito editto;
ed ancorchè il Vescovo di quest'editto n'avesse avuto ricorso in Roma,
e dalla Congregazione de' Cardinali fosse spedita lettera al Nunzio
in Napoli, che facesse ordine al Cappellan Maggiore, che sotto pena
di scomunica rivocasse l'editto, e che non tollerasse questa pratica,
come pregiudiziale alla giurisdizione ecclesiastica, nulladimanco dal
Cappellano Maggiore, e dal Collateral Consiglio fu fatta consulta al
Vicerè insinuandogli, che non dovesse tener conto delle pretensioni di
Roma, essendo l'osservanza di questi Capitoli antichissima nel Regno,
e fondati a somma giustizia, per evitare gli spogli e le violenze.

Nel corso d'un altro secolo appresso, insino a' dì nostri, s'è tenuto
questo stile sempre per fermo e costante, e gli Archivj del S. C.
sono pieni d'innumerabili processi fabbricati sopra l'osservanza de'
medesimi: tanto che oggi presso noi questa osservanza non riceve più
contrasto, nè ammette più dubbio o difficoltà alcuna.



CAPITOLO V.

_Delle quattro Lettere Arbitrarie._


Fra' capitoli del Re Roberto, non sono meno celebri i Conservatori
regj, che le quattro Lettere Arbitrarie: riconoscono per Autore
anch'elle questo savio Principe, il quale usando ora rigore,
ora clemenza, secondochè la quiete e tranquillità del suo Regno
richiedevano, le drizzava alli Giustizieri delle province. Ne leggiamo
ancora un'altra diretta a Giovanni di Haya Maestro Giustiziero e
Reggente della Corte della Vicaria, la quale in alcuni esemplari
va sotto la rubrica: _Litera arbitralis_; in altri sotto il titolo:
_De Praeminentia M. C. Vicariae_, e comincia: _Si cum sceleratis_.
Quest'ultima, come quella che contiene le grandi prerogative che
furono solamente concedute al Gran Giustiziero e suo Tribunale, e
non agli altri Giustizieri delle province, come di procedere contro
i disrobatori di strade, omicidi, ladri, famosi ladroni ed altri,
per loro gravi ed infami delitti, senza accusa e senz'ordine; e di
poter procedere col solo processo informativo alla tortura de' rei
(prerogativa, che unicamente s'appartiene al Tribunal della Vicaria):
ciò che non essendo stato ad altri conceduto, siccome furono le altre
quattro lettere arbitrali drizzate a' Giustizieri delle province;
quindi avvenne, che questa non si annoverasse tra le quattro, ma la
facessero passare sotto il titolo _de Praeminentia M. C. Vicariae_.
Girolamo Calà[45] nel Trattato che compilò sopra questo soggetto,
credette che tal prerogativa non dal Re Roberto fosse stata data a
questo Tribunale, ma che prima l'avea già avuta da Carlo II suo padre
per lo capitolo in _accusatis_; e che per questo capitolo si cum
_sceleratis_, da Roberto le fosse stata tolta più tosto che conceduta,
vedendosi essere stato quello drizzato a Giovanni di Haya, a cui
unicamente fu conceduto tal arbitrio per le sue particolari ed eminenti
virtù di fede, di giustizia e di zelo, e d'odio contro gli scellerati:
dice però che da Roberto fu restituita tal preminenza a questo
Tribunale per lo Capitolo _juris censura_, e per l'altro _provisa
juris sanctio_. Ma non bisogna allontanarsi da quel che sentirono gli
altri nostri Scrittori regnicoli, essere stata tal autorità ed arbitrio
conceduto da Roberto a Giovanni, non già per le sue particolari virtù,
ma come Gran Giustiziero della G. C. della Vicaria, per cui venne
comunicata al suo Tribunale. Assai più s'ingannò quest'Autore, quando
scrisse, che da Roberto le fosse stata restituita tal preminenza per
li Capitoli _juris censura_, e _provisa juris sanctio_, come se quelle
lettere fossero state drizzate al Gran Giustiziero di quel Tribunale.
Il Capitolo _juris censura_, come si vedrà più innanzi, fu drizzato al
Capitano di Napoli, Ufficiale, come si è detto, ch'era allora affatto
diverso, e distinto dal Giustiziere della Vicaria: e l'altro conviene
a tutti i Giustizieri delle province, non già unicamente al Giustiziere
della G. C.

Furono chiamate _Lettere Arbitrarie_, non solo perchè Roberto le
concedè rivocabili a suo volere e beneplacito; ma anche perchè si
commetteva all'arbitrio degli Ufficiali di procedere ne' delitti in
ogni tempo, o con tortura o senza, o con accusa, o per inquisizione,
ovvero con composizione, usando clemenza, o con imporre le pene
stabilite dalle leggi, usando rigore. Una di queste lettere porta
perciò il titolo: _De Arbitrio concesso Officialibus_. L'altra,
de Componendo, et Commutatione poenarum. La terza, _Quod latrones,
disrobatores stratarum, et piratae omni tempore torqueri possunt_;
e l'altra, _de non procedendo ex officio, nisi in certis casibus, et
ad tempus_. Quella che fu drizzata a Giovanni di Haya pure fu detta
_Lettera Arbitrale_; perchè nella fine si leggono queste parole: _In
his enim tibi plenam potestatem meri, et mixti Imperii, ac arbitrium
competens duximus concedendum_. È da credere che fosse stata dettata da
Bartolommeo di Capua, come quella, che porta la data del 1313, quinto
anno del Regno di Roberto.

Fabio Montelione da Girace in quel suo ridicolo Commento, che fece
nell'anno 1555 sopra queste quattro Lettere Arbitrarie, dedicato da
lui a Carlo Spinelli I, Duca di Seminara, portò opinione, che la prima
lettera arbitrale fosse quella, che tra' capitoli del Regno leggiamo
sotto la rubrica _De non procedendo ex officio, ec_. la qual comincia:
_Ne tuorum:_ ma se deve attendersi l'ordine de' tempi, dovrà quella
riputarsi l'ultima, non la prima. Fu questa istromentata per Giovanni
Grillo Viceprotonotario del Regno, dopo la morte di Bartolommeo
di Capua, nel 1329 ventesimo primo anno del Regno di Roberto, come
porta la sua data; la quale deve correggersi, ed in vece di _Regnorum
nostrorum anno_ 20 deve leggersi _anno_ 21. In questa si dà arbitrio e
potestà a' Presidi e Capitani di poter procedere _ex officio_ in alcuni
delitti, senza querela, o accusazione, cioè in tutti quelli, dove dalle
leggi vien imposta pena di morte civile o naturale, ovvero troncamento
di membra: ove si tratti d'ingiuria inferita a persone ecclesiastiche,
pupille e vedove: e finalmente negli omicidj clandestini, ove non
appaja accusatore alcuno.

Più antica certamente fu quella, che leggiamo sotto la rubrica _de
Arbitrio concesso Officialibus_; che comincia: _Juris censura_. Quella
fu dettata da Bartolommeo di Capua nel 1313 quinto anno del Regno di
Roberto, come è chiaro dalla sua data somministrataci da Jacopo Anello
de Bottis nelle sue addizioni a questo capitolo. A chi fosse stata
drizzata, ce ne mette in dubbio l'edizione vulgata, nella quale si
legge: _Magistris Rationalibus etc_. e Bottis, il quale riferisce in
altre edizioni leggersi indrizzata _Iustitiario Basilicatae_. Ma dal
corpo della lettera è facile conoscere, che quella fosse stata drizzata
al Capitano di Napoli poichè si commette al suo arbitrio, e potestà,
per li frequenti eccessi, che si commettevano nella città di Napoli e
di Pozzuoli, e ne' loro distretti, dove erano insorti famosi ladroni,
disrobatori di strade, incendiari, rattori violenti, ed altri autori
d'enormi scelleraggini e d'infami delitti, che procedesse in quelli con
ogni severità e rigore, postergato ogni ordine, non osservate le regole
comuni prescritte ne' Capitoli del Regno; ma attendendo solamente
alla pura e semplice sostanza della verità, col consiglio del suo
Giudice, sterpi, e svella da que' luoghi questi reprobi, ed uomini sì
rei, affinchè ritorni in quelli la quiete, _nocendi facultas abeat, et
pacis optata amaenitas suavius reviviscat_. È noto, che al Capitano di
Napoli s'apparteneva in quei tempi anche il governo di Pozzuoli, e suo
distretto, come fu chiaramente dimostrato da Camillo Tutini nel Teatro
de' Gran Giustizieri del Regno, e da noi altrove fu rapportato.

L'altra lettera arbitrale, che leggiamo sotto la rubrica: _Quod
latrones, disrobatores, etc_., e che comincia: _Provisa juris sanctio_,
non vi è dubbio, che pure fosse stata da Roberto scritta per mano di
Bartolommeo di Capua; poichè sopra della medesima abbiamo di questo
Giureconsulto alcune note. Si dà facoltà per la medesima a' Giustizieri
del Regno, che contro gl'insigni ladroni, che nelle strade, nelle
case ed in mare rubano, e contro altri malfattori notati di maggiori
scelleraggini, possano procedere in ogni tempo a tormentargli, eziandio
in giorno di Pasqua, senza accusatore, senza ricercar plegierie, a loro
arbitrio e facoltà.

L'ultima si legge sotto il titolo, _de Componendo, et Commutatione
poenarum_, e comincia: _Exercere volentes benigne_. In questa
Roberto, temperando il molto rigore finora praticato, permette a'
suoi Ufficiali, e dà loro potestà di poter componere, e commutare
con multe pecuniarie le pene stabilite dalle leggi in questi delitti,
cioè, d'asportazione d'armi, per gli omicidj clandestini; commutar le
pene, che gli Ufficiali medesimi avranno imposte ne' loro banni, o
che imponeranno nell'avvenire all'università o persone particolari:
le pene delle difese, _de parendo juri_, e nell'altre arbitrarie, e
nelle multe. In tutti questi casi loro si permette, avuto riguardo alla
povertà, all'impotenza, ovvero ad altra ragionevol cagione, _in certa
quantitate pecuniae componere pro Curiae nostrae parte_.

Fu per questa lettera arbitrale Roberto biasimato d'avarizia da' suoi
detrattori, e che avesse perciò oscurata la fama delle altre virtù
sue; e Scipione Ammirato ne' suoi Ritratti rapporta, che questo savio
Re fosse stato perciò biasimato d'avarizia, e creduto essere stato
cagione delle molte discordie e divisioni, che nacquero in molte città
del Regno tra' lor Cittadini per le composizioni, ch'egli traea dagli
misfatti de' suoi sudditi, più in danari che in sangue; e ch'egli
era solito scusarsi con dire, che tutto ciò gli conveniva di fare per
aver onde nudrire cotante armate, che quasi ogni anno era costretto di
mettere in punto per la ricovrazione del Regno di Sicilia. Ma chiunque
considererà, che Roberto queste composizioni le ristrinse a certi non
gravi delitti con tanta riserva e moderazione, ed avuto ogni riguardo
alla condizione delle persone, ed a molte altre circostanze, secondo
l'arbitrio d'un uomo prudente e da bene, non lo condannerà certamente
per sordido ed avaro.

Queste sono le cotanto presso di noi celebri e famose Lettere
Arbitrarie, sopra le quali sin da' tempi della Regina Giovanna I,
il Viceprotonotario Sergio Donnorso fece un Commento, del quale
fa egli menzione nelle note a' Capitoli del Regno[46], e di cui fu
anche ricordevole Pier Vincenti nel suo Teatro dei Protonotari del
Regno[47]; le quali nell'investiture dei Feudi furon da poi concedute
a' Baroni insieme col mero e misto imperio; non che Roberto avesse
quelle a loro concedute, poichè esse furono drizzate a' Giustizieri,
non a' Baroni, i quali allora non aveano giurisdizion criminale, nè il
mero e misto imperio, siccome aveano i Giustizieri delle province. I
Baroni insino al Regno d'Alfonso I d'Aragona, ovvero, come credettero
alcuni, di Giovanna II, non aveano nelle loro terre e castella, che
la giurisdizion civile. Non potevano prima d'Alfonso i Feudatari,
che possedevano terre con Vassalli, esercitar altra giurisdizione, se
non quella infima e bassa, indrizzata unicamente a sedar le liti e le
discordie, che sogliono nascere tra gli abitatori de' luoghi, creando a
questo fine alcuni Ufficiali annuali chiamati Camerlenghi, i quali non
avean altra giurisdizione, che di conoscere e giudicare d'alcune cause
minime e sommarie.

I Giustizieri delle province, ed il Tribunal della Gran Corte erano
quelli Magistrati, che esercitavano l'alta e piena giurisdizione
sopra tutti i castelli e luoghi del Regno[48]. Non altrimenti che
praticavasi a' tempi de' Romani, i quali nelle loro città e terre
aveano minori Magistrati, che s'eleggevano dal Corpo delle medesime
chiamati _Defensores_, da' quali s'esercitava una bassa, ed infima
giurisdizione, consistente nella cognizione delle cause minime, e
sommarie civili.

In luogo di questi _Difensori_, secondo avvertì a proposito Andrea
d'Isernia[49], succederono poi nel nostro Regno i Baglivi de' luoghi,
i quali conoscevano delle cose civili, de' furti minimi, de' danni
dati, dei pesi e misure, e d'altre cause leggieri, e di picciolo
momento[50]. Ma le cose più gravi, e massimamente quelle, che
riguardavano il mero imperio, e la giurisdizione criminale, secondo le
leggi de' Romani, appartenevano a' Presidi delle province, in vece de'
quali da poi nel nostro Regno furono costituiti i Giustizieri delle
Regioni[51]. E però non è maraviglia, che le concessioni delle Terre
con vassalli, portassero con esso loro quell'infima giurisdizione, come
a loro coerente, e da esse inseparabile, e non il mero imperio e la
giurisdizion criminale, che non poteva dirsi alla medesima coerente,
siccome quella, che non da' proprj Magistrati, ma da' Presidi prima
soleva esercitarsi, e da poi non da' Baglivi de' luoghi, ma da'
Giustizieri delle regioni.

Marino Freccia[52] testifica perciò, che avendo egli letto il
privilegio che fece Carlo I d'Angiò, quando donò al suo figliuolo
unigenito la città di Salerno col titolo di Principato, con altre
terre e città, come Ravello, Amalfi, Sorrento, Nocera e Sarno, gli
concedè solamente in questi luoghi la giurisdizione civile, e fu notato
per cosa rara, che nella città di Salerno gli concedesse ancora la
giurisdizion criminale, circoscritta però dal circuito delle mura, e
dentro quelle ristretta, e non oltre; ma ciò fu _propter titulum suae
dignitatis_, come dice questo Scrittore, poichè in questi tempi i
Baroni non aveano giurisdizion criminale. Chi cominciasse a concederla,
vario e discorde è il parere dei nostri Autori. Matteo d'Afflitto[53],
Grammatico[54], Caravita[55], il Presidente de Franchis[56], ed altri
sostennero, che il primo fosse stato il Re Alfonso I d'Aragona; e
quest'ultimo Scrittore dice non essersi ciò posto in uso, se non
da' Re Aragonesi. Altri, come Francesco d'Amico[57], il reggente
Capecelatro[58] e Capobianco[59], la riportano un poco più in dietro,
cioè a' tempi della Regina Giovanna II; ma se dobbiamo credere a quel
gravissimo istorico, Angelo di Costanzo[60], bisognerà dire, che il
nostro Re Roberto fosse stato il primo. Favellando questo Scrittore
della liberalità di questo Principe, narra, che per infiniti privilegi
conceduti a' Baroni, a' Cavalieri particolari, tanto Napoletani
quanto dell'altre terre del Regno, si vedea quanto fosse stato verso
i medesimi liberalissimo, _a' quali donò Titoli, Castella, e Feudi
con giurisdizioni criminali, essendo fin a quel tempo costume, che
rarissimi de' Conti del Regno avessero la giurisdizione criminale
nelle lor terre; e questo Istorico medesimo_ rapporta ancora, che il Re
Ladislao concedè la giurisdizione criminale ad Antonello di Costanzo
sopra Tevarola, dov'egli ed i suoi per ottanta anni non avevano avuto
altro che la civile[61].

Che che ne sia, se Roberto o altri suoi successori a qualche suo
benemerito avesse usata questa insolita liberalità, egli è certo, che
da Alfonso I e dagli altri Re aragonesi suoi successori, furon poste
in uso; e con maggior frequenza fu, nelle concessioni fatte ai Baroni,
data la giurisdizione criminale, o nell'investiture fu conceduto loro
anche la potestà, ed arbitrio contenuto in queste quattro Lettere
Arbitrarie, ed oggi si è ridotto a stile, e quasi formolario di tutte
l'investiture, che si danno, di mettervi anche questa facoltà per
clausola.

Da ciò n'è nato, che siccome prima queste lettere erano a beneplacito
ed arbitrio del Principe, rivocabili e ristrette a certi confini; così
per quel che riguarda le persone de' Baroni, per le concessioni, che ne
tengono nelle loro investiture, sono irrevocabili; e maggiore si vide
in ciò essere stata l'autorità, ed arbitrio dei medesimi, che degli
Ufficiali regi, a' quali (come al Reggente e suoi Giudici della G. C.
della Vicaria, a' governadori delle province, Capitani delle terre ed
altri Ufficiali del Regno) fu prescritto dall'Imperador Carlo V per
mezzo di sue prammatiche[62] il modo di componere i delitti e commutar
le pene corporali in pecuniarie, e vietato di farlo senza suo consenso
o del Vicerè del Regno, e senza rimession della parte offesa, o ne'
casi che si dovesse imporre pena di morte naturale, o di troncamento
di membra. E poichè a' Baroni si trovavano concedute quelle lettere,
affinchè il loro arbitrio stasse ristretto fra' termini del dovere e di
giustizia; quindi l'istesso Imperador Carlo V con altra sua particolar
prammatica[63] stabilita per li Baroni e loro Ufficiali ordinò che non
dovessero abusarsi della facoltà, che tenevano nella commutazion delle
pene, ma servirsene fra' termini del giusto e con ragionevol modo:
minacciandogli in caso d'abuso della privazione de' loro privilegi.



CAPITOLO VI.

_De' Riti della Regia camera._


Pure sotto il Regno di Roberto furono compilati i riti della Regia
Camera. Questo Tribunale non solo in tempo dell'Imperador Federico
II si reggeva dai maestri Razionali, ma anche nel Regno di questi
Re angioini. Erano questi Ufficiali di grande autorità, e perciò
vediamo i più distinti personaggi di que' tempi impiegati a queste
cariche; e dalla Regina Giovanna I furono di maggiori prerogative e
privilegi arricchiti. La principal loro incombenza era d'invigilare
sopra i diritti e rendite fiscali, costringere i minori Ufficiali come
Doganieri, Tesorieri, Credenzieri ed altri, a render ragione della
loro amministrazione, ricevere da essi i conti dell'esazioni fatte, e
raccogliere il denaro per mandarlo alla Camera del Re. Queste rendite
per la maggior parte si cavavano da' dazi, gabelle, dogane, regalie
e da altre ragioni fiscali, così antiche come nuove. Nel Regno de'
Normanni queste esazioni restringevansi a poco numero, ed erano assai
moderate, e particolarmente in tempo del buon Re Guglielmo; ma da poi
che l'Imperator Federico I restituì le _regalie_, che s'erano quasi
perdute in Italia, e che tutti gli altri Principi, al di lui esempio,
vollero anche restituirle ne' loro Stati, s'accrebbe il di lor numero,
e furono più pesanti. Così passato questo Regno dai Normanni a' Svevi,
Federico II ve n'impose delle nuove: instituto, che fu poi dagli
altri Re suoi successori continuato, come quello che conduceva molto
all'abbondanza del loro erario, donde potevano sostenere più grandi
eserciti e numerose armate. I Re della casa d'Angiò, ancorchè più
volte ne' loro Capitoli promettessero moderarle, e di ridurle secondo
erano al tempo del Re Guglielmo il Buono; con tutto ciò, per le lunghe
ed ostinate guerre che soffrirono, e particolarmente per quella di
Sicilia, non ne fecero nulla, anzi di tempo in tempo più crebbero.
Furono per ciò queste ragioni fiscali divise in _antiche_ e _nuove_.

Dell'_antiche_, cioè di quelle, che furono prima dall'Imperador
Federico II nel Regno di Guglielmo, e suoi successori Normanni, abbiamo
che Andrea d'Isernia[64] ne formò due Cataloghi: uno se ne legge
nelle note, che fece alle Costituzioni del Regno sotto la rubrica
_de decimis_: e l'altro tra i riti della Regia Camera, pure sotto il
medesimo titolo[65]. In poche cose, e sol nell'ordine è l'uno vario
dall'altro: ecco il novero, che ne fece nelle Costituzioni.

                  _Jura vetera sunt haec, videlicet._

  _Dohana._
  _Anchoragium._
  _Scalaticum._
  _Glandium, et similium._
  _Jus Tumuli._
  _Portus, et Piscaria._
  _Jus Affidaturae._
  _Herbagium, Pascua._
  _Passagium vetus._

  _Jus Casei, et Olei non est ubique per Regnum._

Ecco l'altro che pose fra i Riti della Camera.

                        _Jura vetera sunt haec._

  _Jus Dohanae._
  _Jus Anchoragii._
  _Jus Scolatici_, ovvero
  _Jus Colli._
  _Jus Tumuli._
  _Jus Portus, et Piscariae vetus._
  _Jus Bucceriae vetus._
  _Jus Affidaturae herbagii, pascuorum, glandium, et similium._

  _Jus Casei, et Olei, non est ubique per Regnum._
  _Jus Passagii vetus._

Delle _nuove_ parimente ne abbiamo del medesimo Autore ne' luoghi
allegati due cataloghi. Furono queste introdotte da Federico II
Principe appo gli Scrittori Guelfi, che scrissero sotto il Regno
degli Angioini, riputato tiranno, e che angariasse in cento maniere
i suoi sudditi: Andrea d'Isernia sopra gli altri l'ha sempre nelle
sue opere malmenato, e dipinto per un crudele, e lo pone per ciò nel
fuoco penace dell'Inferno: dice nelle Costituzioni[66], che perciò
la Chiesa non vuole le decime di queste esazioni, come ingiuste, ed
imposte da Federico contro Dio e la giustizia: _De illis non vult
Ecclesia decimas, tanquam de male oblatis, quae imposita fuerunt
per illum contra Deum, et justitiam: per quod videtur ille Federicus
quiescere in pice, et non in pace_. E nel Rito I sotto il titolo _de
Jure Tinctoriae, et Celandrae_, dicendo che questi dritti come nuovi
ed odiosi non doveano stendersi per interpetrazione, ma più tosto
restringersi, scrisse: _Imposita fuerunt haec ab eo, qui depositus fuit
a Regno, et Imperio: poena sua propterea in Inferno crescit semper,
sicut poena Arii, ut Augustinus dicit_. Ma queste erano vane querele,
parole inutili e buttate al vento. S'incolpava, e detestava Federico
per avergli introdotti, si declamavano per empj ed ingiusti; ma non per
questo i Re Angioini, Roberto istesso, e Carlo suo padre, sotto i quali
egli scrivea, gli tralasciarono; anzi Roberto per avergli rigidamente
esatti ed accresciuti ne fu imputato d'avarizia.

L'istesso Andrea[67], che declamando dice, che la Chiesa nè men per
quelli vuol decime, ci racconta, che Filippo Minutolo Arcivescovo di
Napoli, mal soddisfatto della convenzione passata col Re Carlo II che
si dovessero pagar le decime per le due terze parti, lasciandone una,
che si credette poter importare per li nuovi ed illeciti diritti,
tornò a moverne litigio, credendo essere stato ingannato; ma dopo un
lungo contrasto, essendosi appurato che importava assai meno ciò che
gli apparteneva, quando non voleva esigere per li nuovi dazj, i quali
importavano somma assai maggiore dei vecchi, e che perciò bisognava
restituir grosse somme, niente curandosi più dell'indebita esazione,
nè di proseguirla per l'avvenire, pregò il Re che per grazia glie le
accordasse, e continuasse ad esigere le due terze parti, come prima;
e per togliere ogni scrupolo, il Re acconsentì, che per l'avvenire si
pagassero a lui due parti intere; ma che ciò che gli veniva per questo
suo dono, dovesse impiegarlo per l'edificio del Duomo di Napoli, e
quello finito, se gli dovesse continuare il pagamento con peso di
pregare Iddio per l'anime de' suoi genitori, e di dover ergere in
quella Chiesa alcuni altari, siccome narra Isernia, che a suo tempo si
faceva e si pagava[68].

Questi nuovi diritti, secondo il novero, che fa Isernia nelle
Costituzioni del Regno, sono:

                      _Nova sunt haec, videlicet._

  _Jus Fundici Ferri._
  _Azarii. Picis._
  _Salis._
  _Jus Staterae, seu Celandrae._
  _Ponderaturae._
  _Jus Mensuraturae._
  _Riae de nove._
  _Jus Setae. Jus Cambii._
  _Saponis. Molendini._
  _Bechariae novae._
  _Imbarcaturae. Jus Sepi._
  _Jus Portus, et piscariae novum._
  _Jus Exiturae._
  _Jus Decini. Tentoriae._
  _Jus Marchium._
  _Jus Balistrarum. Jus Gallae._

  _Jus Lignaminum non est ubique._
  _Jus Gabellae auripellis non est ubique per Regnum._
  _Jus Resinae, seu reficae majoris, et minoris non
    est ubique, sed Neapoli._

L'altro Catalogo delle medesime, che pose fra i Riti è questo.

                         _Jura nova sunt haec._

  _Jus Fundici._
  _Jus Ferri._
  _Jus Azarii._
  _Jus Picis._
  _Jus Salis._
  _Jus Staterae, seu ponderaturae._
  _Jus Mensuraturae._
  _Jus Exiturae._
  _Jus Setae._
  _Jus Tinctoriae, et Celandrae._
  _Jus Cambii._
  _Jus Bucceriae novum._
  _Jus Imbarcaturae._
  _Jus Sepi._
  _Jus Partus, et Piscariae novum._
  _Jus Decini._
  _Jus Balistrarum._
  _Jus Reficae majoris, et minoris._
  _Jus Marium, saponis, molendini, et gallae, non
    sunt ubique, sed in Apulea._
  _Jus Lignaminum, non est ubique._
  _Jus Gabellae auripellis._

Di tutte queste ragioni fiscali, delle loro esazioni, delle persone che
erano obbligate a pagarle, del modo di riceverne conto da' Doganieri,
Credenzieri, Gabellotti, ed altri minori Ufficiali, delle loro colpe e
difetti nell'amministrazione de' loro pleggi, degl'incanti, che doveano
premettersi per gli affitti, e degli escomputi pretesi, e di tutte le
quistioni e liti che insorgevano intorno a ciò tra le Parti e 'l Fisco,
questo Tribunale della Camera de' Conti n'era il giudice competente.
Veniva retto, oltre il Luogotenente del Gran Camerario suo Capo, da'
Maestri Razionali, chiamati così, _a rationibus quibus praesunt_[69].
Era perciò questo Tribunale nomato _Auditorium rationum_: poi fa detto
_Audientia Summaria_: e finalmente _Camera Summaria_[70]. Accadevano
per conseguenza molto spesso de' dubbj intorno a tutte queste cose,
ed i M. Razionali li decidevano, e secondo le loro decisioni, da
quelle che furono in ogni tempo uniformi e costanti, ne sursero vari
Riti e stili di giudicare, e varie norme e regole per potersi in casi
simili, in decorso di tempo, valere. Prima d'Andrea d'Isernia questi
Riti ed osservanze non si potevano ricavare, se non dai libri del
Tribunale, ove erano notati: e poichè a tutti non era facile averne
copia o comodità d'osservargli, non erano così universalmente noti e
palesi. Furono, egli è vero, alcuni regolamenti a ciò attenenti fatti
inserire nelle nostre Costituzioni, come sotto il titolo de _Officio
Magistrorum Fundicariorum_, ed in alcuni altri; ma dice l'istesso
Andrea nelle note a questa Costituzione, che gli altri statuti di
Federico a ciò riguardanti, erano nelle dogane, nè furono uniti a quel
volume delle Costituzioni: _Sicut dicunt alia statuta Imperialia, quae
sunt in Dohanis, nec sunt redacta in hoc volumine_. Questo gravissimo
Giureconsulto fu dunque, che trattigli da' registri delle dogane e
degli Atti di quel Tribunale, gli compilò, e ridusse in quella forma
che ora si leggono. Nè era da sperare che altri avessero potuto con
tanta diligenza, ed esattezza por mano a quest'opra, con quanta da
lui si fece. Era stato egli creato M. Razionale dal Re Carlo II, e poi
visse tale in tutto il tempo che regnò Roberto, che vuol dire 34 altri
anni, sin che dalla Regina Giovanna I non fosse innalzato al posto di
Luogotenente; onde niuno meglio di lui poteva darci i Riti di questo
Tribunale, e compilargli con tanta nettezza e dottrina, con quanta si
vede.

Ch'egli ne fosse stato il Compilatore, non è da dubitare: abbiamo
veduto per lo confronto fatto dei Cataloghi di queste ragioni fiscali,
riconoscer quelli un medesimo Autore. È manifesto ancora da un
altro confronto, che può farsi di ciò che scrisse l'istesso Andrea
ne' Commentarj de' Feudi sotto il titolo, _Quae sint regalia, in §
vectigalia, in add. n. 14_ e nelle note alla Costituzione suddetta _de
Officio Magistrorum Fundicariorum_, e da ciò che si legge in questi
Riti sotto la rubrica _de jure fundici_[71], ove si veggono ripetute
_ad literam_ l'istesse parole. Il medesimo Andrea nell'ultimo Rito
de _jure Dohanae_ nel fine cita se stesso; si rimette a quel ch'egli
medesimo avea scritto _in cap. unico, § Sacramentum, de consuet.
rect. feud_. Ce lo testificano ancora gli Autori suoi coetanei, o che
fiorirono non molto dopo lui. Luca di Penna fu suo contemporaneo,
perchè fu coetaneo di Bartolo, e quegli attesta, il Compilatore di
questi Riti essere stato Andrea[72]. Goffredo di Gaeta, che nell'anno
1460 come e' dice nel Rito_ 2 de decimis_, compose i Commentarj,
ovvero letture sopra i medesimi, passa in più luoghi per cosa fuor
d'ogni dubbio che Andrea ne fu l'Autore[73]. Il medesimo scrissero
Liparulo nella di lui vita[74], e l'Anonimo[75] Autor delle Note a'
Riti suddetti. E finalmente a lettere cubitali ciò si legge nel Codice
di questi Riti, che si conserva nell'Archivio della Regia Camera, che
porta in fronte questo titolo: _Ritus Domini Andreae de Isernia super
universis juribus Dohanarum, et aliarum Regni Siciliae Gabellarum_.

Furono appellati da Andrea questi Riti _Jura Imperialia_, non
perchè l'Imperador Federico nella maniera, che ora si leggono,
gli avesse egli fatti compilare, come fece del libro delle nostre
_Costituzioni_; ma perchè alcuni dritti, che si leggono in essi,
furono nuovamente da Federico introdotti, e chiamati per ciò _jura
nova_, ovvero _Imperialia_, a differenza degli antichi, chiamati
_jura vetera_, ch'erano prima di lui nel Regno de' Normanni. Ancorchè
Andrea d'Isernia, per privato studio e diligenza, avesse fatta questa
Compilazione, non per pubblica autorità, siccome furono da poi fatti
compilare i Riti della G. Corte della Vicaria dalla Regina Giovanna II,
che per sua Costituzione diede loro forza e vigore; non è però, che i
medesimi non abbiano avuta sempre, siccome ritengono ancora oggi, tutta
l'esecuzione ed osservanza, e che non abbiano presso noi quel medesimo
vigore, che hanno le leggi nostre scritte, come dipendenti da un non
mai interrotto stile, e da un antico uso di questo Tribunale[76]. Egli
è vero, che per lo corso poco men di quattro secoli, da che furono
compilati, molte cose sono mutate, ed altre cose nuove introdotte, onde
di questo Tribunale, oltre i Riti, abbiamo ora anche molti Arresti
raccolti dal Reggente de Marinis; nulladimanco in ciò, che per nuova
legge non fu mutato, o per contrario uso andato in dimenticanza, han
tutta la forza e tutto il lor vigore.

Abbracciò Andrea in questa Compilazione tutti i dritti così antichi,
come nuovi di sopra annoverati, divisegli con più distinzione in più
rubriche, e collocò sotto ciascuna di esse più o meno Riti, secondo
che la copia, o brevità del soggetto richiedeva. Trattò ancora, quasi
per appendice, di molte cose appartenenti agli Ufficiali, che hanno
l'amministrazione ed esazione de' medesimi, con rubriche separate,
come si vede nella rubrica 1, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34,
35, 36, 37 e 38. Egli è da avvertire che fra questi si leggono alcuni
Arresti fatti dai M. Razionali dopo la compilazione fatta da Isernia, e
inseriti da poi ne' luoghi adattati al soggetto, com'è l'arresto, che
si legge sotto la rubrica 11_ de Tracta_, fatta a settembre dell'anno
1382 e consimili. In oltre la rubrica 31 ch'è l'ultima, _de jure
Falangae, seu Falangagii_, fu aggiunta dopo la Compilazione d'Isernia;
perchè questo nuovo dritto o sia gabella, ch'è membro della Dogana,
fu imposto nell'anno 1385 dal Re Carlo III di Durazzo: questo Principe
l'impose dalla città di Gaeta insino a Reggio per quanto corre il Mar
Tirreno[77]: da poi Alfonso I d'Aragona nell'anno 1452 lo stese per
tutto il Regno, dal fiume Tronto insino a Reggio per quanto corre il
Mar Adriatico: tra questi due Mari è collocato il Regno.

Il primo, che dopo un secolo e più anni commentasse questi Riti fu
_Goffredo di Gaeta_ figliuolo di Carlo, che fiorì sotto il Re Ladislao
e la Regina Giovanna II, in qualità di Avvocato fiscale. Goffredo
suo figliuolo emulando le virtù paterne, e calcando le medesime sue
pedate, fu gran tempo nel Regno della Regina Giovanna II M. Razionale,
da poi dal Re Alfonso I avendo questo Principe al Tribunale della
Camera de' Conti aggiunti quattro Presidenti di toga, e due idioti, fu
creato Presidente della medesima; la qual carica continuò nel Regno di
Ferdinando I infino al tempo di sua morte, che accadde nell'anno 1463 è
verisimile che cominciasse questa sua fatica nel Regno d'Alfonso, e la
terminasse sotto Ferdinando, già che nel Rito 2 _de decimis_, dice, che
a riguardo del tempo, nel quale egli scrivea, cioè nel 1460 i diritti
imposti da Federico non si potevano dir più nuovi, ma antichi, essendo
scorsi dal dì della sua deposizione (che la pone nel 1244) ducento e
sedici anni. I suoi Commentarj sono dotti, gravi e proprj della materia
che si tratta, senza divagarsi in quistioni inutili ed estranee,
come allora correva il vizio degli altri Commentatori. Perciò furono
dai Professori de' seguenti tempi tenuti in sommo pregio, e riputato
l'Autore per uno de' maggiori Giureconsulti de' suoi tempi. Morì egli
in Napoli nel 1463 come lo dimostra l'iscrizione del suo sepolcro,
che si vede nella chiesa di S. Pietro Martire nella cappella della sua
famiglia, ove giace sepolto insieme con Carlo suo Padre.

Dopo il corso d'un altro secolo abbiamo che fossero state fatte quelle
note, che si leggono a questi Riti d'un Autore incerto ed _Anonimo_;
poichè s'allegano dal medesimo decreti ed arresti della Camera degli
anni 1554, come nel Rito primo de _Jure Ponderaturae_, del 1565 come
nel Rito 14 _de Jure Fundici_, ed altrove allega molte scritture e
consulte di quel Tribunale fatte in questi medesimi tempi. Allega
spesso Goffredo di Gaeta, Matteo d'Afflitto, e sovente anche Autori
del decimosesto secolo. Queste note sono proprie, dotte ed utilissime,
ripiene di molte notizie degli atti del Tribunale, de' suoi arresti,
lettere, consulte, carte regali, registri e ogni altro che poteva
conducere alla vera intelligenza de' vocaboli, e de' sentimenti di
questi Riti e delle mutazioni, aggiunzioni e variazioni ch'erano
seguite insino a' suoi tempi, intorno alle nuove imposizioni d'altri
diritti e gabelle, e delle loro origini, e progressi ed abusi; tanto
che non meriterebbe il suo nome presso i posteri essere rimaso così
oscuro e sepolto.

Abbiam veduto poi a dì nostri un altro Commento, ovvero come l'Autor
gli chiama, _nuove Addizioni_ su questi Riti, compilato per _Cesare
Nicolò Pisani_ Giureconsulto napoletano, il quale nell'anno 1699
insieme co' Commentarj di _Gaeta_, e note dell'_Anonimo_, gli diede in
Napoli alle stampe. Sono indegne d'esser paragonate, e poste insieme
colle fatiche di que' due insigni Giureconsulti; sono piene di cose
vane ed inutili, ricolme di quistioni lontane ed estranee di quel che
ricercava il soggetto: diffuse e goffe, ed unicamente poste insieme
senz'ordine e senza metodo, per far crescere il volume.



CAPITOLO VII.

_Degli Uomini illustri per lettere, che fiorirono sotto ROBERTO, e
sotto la Regina GIOVANNA sua nipote._


Fra gli altri pregi, che adornarono la persona di Roberto, fu l'essere
stato amantissimo di tutti i Scienziati eccellenti de' suoi tempi, e
gran letterato insieme e protettore delle lettere.

Di questo Principe veramente potè dirsi, che

    _Fur le Muse nudrite a un tempo istesso,_
    _Ed anco esercitate._

Leggansi i tanti elogi di Giovanni Villani[78], del Petrarca[79],
e del Boccaccio[80] suoi contemporanei, che per ciò con tante lodi
innalzarono. Si legge di questo Re un trattato delle virtù morali
composto da lui in varie rime toscane. Questo trattato lo fece
imprimere in Roma l'anno 1642 insieme con alcune rime del Petrarca
estratte da un suo originale, col Tesoretto di Ser Brunetto Latini,
e con quattro canzoni di Bindo Bonichi da Siena, il Conte Federico
Ubaldini, e porta questo titolo: _Il trattato delle virtù morali di
Roberto Re di Gerusalemme_. Egli, come dice l'Ubaldini, cimentò le
forze del suo ingegno nella vecchiaja, applicandosi a rimare, e volle
più tosto per questa opera imitare i più saggi Re della terra come
Salomone (onde perciò non volle al libro porre altra inscrizione, che
di _Re di Gerusalemme_), l'Imperador M. Aurelio Antonino, che lasciò
scritti in greco dodici libri morali della sua vita (se non sono
favolosi, come gli credette il Castelvetro), Basilio Macedone, Lione
Isaurico, Emmanuel Comneno ed altri Imperadori greci, che ne composero
de' simiglianti; che andar dietro a' suoi predecessori Re di Sicilia,
come all'Imperador Federico II ed al Re Manfredi, ad Enzio, e simili,
i quali tutti intesi a cose amorose, solamente di quelle vollero
tesser canzoni. Scrisse ancora, oltre le suddette rime, alcune lettere
latine in prosa, due delle quali sono volgarizzate presso Giovanni
Villani, mandate, l'una nell'anno 1333 al Popolo fiorentino, e l'altra
a Gualtieri Duca d'Atene, quando nell'anno 1341 pigliò la Signoria di
Fiorenza.

Nel suo Regno fiorirono le lettere in guisa, che i Professori
di qualunque condizione si fossero, ancorchè di bassa fortuna,
gl'innalzava a' primi onori, e con umanità grandissima gli accoglieva
ed accarezzava: andava a sentire in piedi i pubblici Lettori, che
leggevano in Napoli, ed onorava gli Scolari.

Per tralasciar infiniti esempi, venendo il Petrarca di Francia per
pigliare la Corona di lauro a Roma, mandò Gio. Barile, che in suo
nome assistesse in Campidoglio quella giornata come suo Ambasciadore,
scusandosi col Petrarca, che l'estrema vecchiezza era cagione, che
non venisse in persona a ponergli la corona in testa di sua mano;
ed ambiva, che _l'Affrica_ composta da costui, a lui s'indirizzasse.
Favorì grandemente i Teologi ed i Filosofi[81], tanto che nel suo Regno
queste facoltà cominciarono a fiorire in Napoli.

La teologia _Scolastica_ ridotta ne' suoi tempi in arte, e fatta
pedissequa della filosofia d'Aristotele, secondo il metodo prescritto
dagli Averroisti, vi pose piede, e si rese più considerabile per le
famose fazioni de' _Tomisti_, e degli _Scotisti_ sostenute da due
Ordini allora considerabili de' _Frati Predicatori_ e de' _Frati
Minori_. I primi seguivano la dottrina d'Alberto Magno, e da poi di
_S. Tommaso_, nomato il _Dottor Angelico_ suo discepolo, che si rese
poi Capo di questa Setta di Scolastici, detti perciò _Tomisti_. I
secondi seguivano Alessandro de Ales del loro Ordine, e da poi il
famoso _Giovanni Duns_, detto il _Dottor Sottile_, e _Scoto_, perch'era
Scozzese, benchè alcuni l'abbiano creduto Inglese, ed altri Ibernese,
il quale si rese Capo di questa Setta, donde i suoi seguaci furono
chiamati _Scotisti_; onde nacque la divisione di queste due Scuole.
Alcuni nondimeno fecero un terzo partito, seguendo un metodo nuovo,
chiamati _Nominali_, ed uno de' principali Capi di questo partito
fu _Guglielmo Ocamo_ della Contea di Surrey in Inghilterra, il quale
ancorchè dell'Ordine de' Minori, si divise dagli altri facendosi Capo
di questa Setta, e perciò ne acquistò il titolo di _Dottor Singolare_.
Si disseminarono le loro Scuole per tutta Europa ed in Napoli, ne'
tempi di Roberto, essendo multiplicati i loro Maestri, la Teologia
in cotal maniera trasformata, era pubblicamente e con sommo applauso
ed ammirazione professata, ed i Teologi da questo Principe favoriti;
poichè proccurava che molti Teologi eccellenti e di buona vita fossero
provisti di Prelature e Vescovadi del Regno, e gli onorò sempre sopra
tutti gli altri Baroni laici[82].

Nelle Calabrie ed in Terra d'Otranto, per lo gran numero de' Greci,
e per lo continuo commercio d'Oriente, i Monaci de' Conventi fondati
sotto la Regola di S. Benedetto non la ricevettero se non molto tardi:
seguitavano le pedate de' Greci e la loro dottrina: e si distinse
sopra tutti gli altri _Barlaamo_ Monaco Basiliano di Calabria, nato
in Seminara, assai dotto e sottile, il quale essendosi portato in
Costantinopoli, entrato in somma grazia dell'Imperador Andronico,
fu adoperato dal medesimo negli affari più gravi dello Stato, e
per comporre, e riunire la Chiesa Greca alla Latina. Fu inviato da
Andronico in Napoli al nostro Re Roberto per domandargli soccorso; ma
perchè non poteva sperar d'ottenerlo se non col riunirsi le due Chiese,
ne fu data a lui parimente la commessione. Fu la unione lungamente
trattata, ma ogni progetto fu ributtato, e la sua opera rimase inutile
ed infruttuosa.

Ebbe grandi ed ostinate contese con _Palamas_ suo Antagonista, ma
dopo varie vicende, vedendo finalmente approvata in un Concilio tenuto
in Costantinopoli la dottrina di Palamas, e la sua condannata, partì
da Oriente, e si ritirò in Occidente, e prese il partito de' Latini,
onde fu fatto Vescovo di Geraci in Calabria[83]. Ci lasciò molte sue
opere, che compose contro Palamas, e contro i Monaci Quietisti da lui
perseguitati ed accusati come rinovatori degli errori degli Euchiti, e
sopra altri soggetti.

Scrisse un libro de _Primatu Papae: De Algebra_; ed altre insigni
opere, delle quali l'Allacci, ed il Nicodemo tesserono copiosi
Cataloghi[84]. Instruì molti dei nostri nelle discipline, e nella
lingua greca e latina, e fu Maestro di Giovanni Boccaccio, di Paolo
Perugino Giureconsulto e Prefetto della Biblioteca del nostro Re
Roberto, di Leonzio Tessalonicense e di molti altri[85].

In questi medesimi tempi fioriva in Otranto un monastero di Basiliani
lontano da quella città non più che mille e cinquecento passi. Era
dedicato a S. Niccolò, e i suoi Monaci professavano non men teologia,
che filosofia, ed erano istruttissimi di lettere greche, ed alcuni
anche di latine. Insegnavano la gioventù, e l'istruivano delle cose
greche e della lor lingua. Vi andavano i giovani ad apprenderla da
tutte le parti del regno, a' quali con somma liberalità, e magnificenza
erano dati i Maestri senza mercede, domicilio e vitto: tanto che le
discipline greche, che per la decadenza dell'Impero d'Oriente venivano
a retrocedere e mancare, si sostentavano, e lor si dava per essi riparo
in queste nostre parti. Narra Antonio Galateo[86], che a tempo de'
suoi grand'avoli, che vengono a punto a cadere nel regno di Roberto e
di Giovanna, quando ancora Costantinopoli non era passata in man de'
Turchi, fu fatto Abate di questo Monastero il celebre Filosofo Niccolò
d'Otranto, nominato Niceta: questi vi rifece una famosa Biblioteca,
e fece ricercare senza risparmio libri da tutta la Grecia d'ogni
genere, e quanto più ne potè raccogliere, tutti fece trasportare nel
suo monastero, e fra gli altri molti di Filosofia, e di Logica. Fu,
per la sua saviezza ed integrità di costumi, adoperato dagl'Imperadori
d'Oriente e da' Sommi Pontefici in varie Legazioni, i quali nelle
contese fra di loro nate, o per causa di religione o di Stato, si
servivano della di lui persona per comporle, e spesse volte era mandato
e rimandato da Costantinopoli a Roma dall'Imperadore, e da Roma in
Costantinopoli dal Papa. In discorso di tempo di questi libri, per
negligenza de' nostri Latini, e per lo disprezzo e poca cura, che fu
presso de' nostri delle lettere greche, alcuni ne furono trasportati
a Roma, al Cardinal Bessarione, e quindi a Venezia; ed il resto fu poi
tutto consumato e perduto per lo memorabil sacco, che i Turchi calati
in Otranto diedero nell'anno 1480 in quella città e monastero e suoi
contorni.

Roberto, oltre di favorire i _Teologi_, non trascurò ancora i
_Filosofi_ e'_Medici_[87]. Nell'Università degli studj di Napoli
proccurò che insegnassero queste scienze i migliori Professori
dell'età sua; e perchè altrove così queste, come l'altre facoltà non si
potessero apparare, ma solo in Napoli, rinovò gli editti dell'Imperador
Federico II, e proibì le Scuole nell'altre città del Regno[88]; pose
in maggior osservanza i privilegi che il Re Carlo II suo padre aveva
conceduto al Collegio degli studj di Napoli, li quali egli inserì in
quel suo Capitolo, che comincia _Universis_, che abbiamo tra i suoi
Capitoli, sotto il titolo _Privilegium Coll. Neap. Studii_. Poichè
ne' suoi tempi la filosofia d'Aristotele, secondo il metodo prescritto
dagli Averroisti, era nelle Scuole universalmente insegnata, e quella
sola teneva il campo, posposti tutti gli altri antichi Filosofi, per
le cagioni dette da noi altrove; e la medicina non altronde, che da'
libri di Galeno era tratta; quindi Roberto ad imitazione di Federico
II deputò Niccolò Ruberto famoso Medico e Filosofo di que' tempi, e gli
fece fare una traduzione del Greco in Latino dei libri d'Aristotele di
Filosofia, e de' libri di Galeno di Medicina, come ricavasi da' regali
registri rapportati dal Summonte[89].

Amò ancor Roberto, che la sua Corte e la sua Cancelleria fosse ripiena
d'uomini dotti, ponendo sommo studio, che usassero in quella i più
insigni letterati dell'età sua: il che, come ponderò assai a proposito
il Costanzo[90], si conosce ancora dallo stile, e frase de' suoi
Capitoli e privilegi, che sono più culti, ed ornati di molte clausole
oratorie, per quanto comportavano i suoi tempi, ne' quali l'eloquenza
e l'eleganza dello scrivere, non era arrivata in quell'elevatezza, che
abbiam veduta da poi a' nostri tempi, e dei nostri avoli. E benchè,
come soggiunge questo Autore, di tutte le discipline gli piacesse
meno dell'altre la poetica, desiderò nientedimeno grandemente d'aver
appresso di sè il famoso Petrarca, e che, come si disse, gli dedicasse
il suo poema dell'Affrica[91]. Amò per questa cagione, sopra gli altri
Cortigiani suoi, Giovani Barrile, al quale diede il governo di Provenza
e di Linguadoca, e Guglielmo Marramaldo, ambedue letterati, ed amici
del Petrarca; ed il Petrarca[92] e 'l Boccaccio[93] scrivono, che
nella vecchiaja pentissi di aver tenuto tanto poco conto de' Poeti, e
riputava come suo infortunio d'essersi tardi avveduto delle bellezze ed
artificj di quelli; ond'è che in vecchiaja si pose a comporre in rima
delle virtù morali.

Ma chi nel Regno di Roberto, e negli anni tranquilli del Regno di
Giovanna I sua nipote fiorissero sopra tutti gli altri, furono i nostri
_Giureconsulti_, elevati sempre a' primi onori del Regno, ed in somma
stima e riputazione avuti. Fiorirono nella Corte di Roberto sopra
tutti gli altri Legisti _Bartolommeo di Capua_, e _Niccolò d'Alife_.
Di Bartolommeo non accade qui ripetere quanto di lui, e sotto il Regno
di Carlo II, e sotto quello di Roberto fu detto; fu egli esaltato ad
esser G. Protonotario del Regno e suo intimo Consigliere, reggendosi
ogni cosa col suo consiglio e colla sua penna: oltre averlo innalzato
a' primi onori del Regno, gli donò molte terre e castella col titolo di
Contado d'Altavilla. Bartolo[94] famoso Giureconsulto di questi tempi
lo cumula d'eccelse lodi, e dice che per le sue proprie virtù meritò,
che fosse fatto da Roberto Gran Conte. Luca di Penna, Baldo[95],
Guido Pancirolo[96], ed altri celebrano in mille luoghi le virtù e la
dottrina di un tanto uomo. Ed Angelo di Costanzo[97] fin da' tempi ne'
quali egli scrisse quella gravissima e saggia sua Istoria, ponderò,
che veramente le tante remunerazioni fatte, e da Carlo e da Roberto
a questo insigne Giureconsulto, bisognava dire, che fossero un gran
indizio della bontà e virtù di quell'uomo; poichè si vede, che senza
mai perdersi per niuna di tante revoluzioni, che da quel tempo in qua
sono state nel Regno, ancora durano ne' descendenti suoi, e sono state
cagione di fargli maggiori, accrescendovi poi col trattare onoratamente
l'armi, i titoli del Principato di Molfetta, e di Conca, e del Ducato
di Termoli; e se vedesse a' dì nostri la sua stirpe accresciuta, oltre
questi Stati, di altri maggiori, chiari argomenti, non già indizj
avrebbe, non men della giustizia e della virtù, che della bontà di sì
insigne Giureconsulto.

_Niccolò Alunno_ della città d'Alife fu ancor egli uno de' nostri
famosi Legisti, che fiorissero nel Regno di Roberto, e di Giovanna I
sua nipote. Pier Vincenti nel Teatro de' Protonotarj del Regno, lo fa
dell'istessa famiglia di Giovanni d'Alife, che nel 1262 sotto il Re
Manfredi fu G. Protonotario del Regno. Fu egli sotto il Re Roberto
Secretario e Notajo della sua Regia Cancelleria, e da poi fu creato
Maestro Razionale dalla Regina Giovanna I, non già da Roberto, come
credette il Costanzo: fu fatto G. Cancelliere del Regno, mancato che fu
il Vescovo Cavillocense, e l'esercitò fin alla sua morte, che accadde
l'ultimo di dicembre dell'anno 1367. Giace sepolto in Napoli nella
chiesa dell'Ascensione fuori la Porta di Chiaja, ch'egli in vita avea
edificata a' Monaci Celestini, ove si vede il suo sepolcro con lunga
iscrizione, rapportata anche dall'Engenio nella sua Napoli Sacra[98]
Ebbe in dono dal Re alcune Terre nella provincia di Bari, che lasciò a'
suoi figliuoli, uno de' quali da Urbano VI nell'anno 1284 fu promosso
al Cardinalato, detto perciò il Cardinal d'Alife[99]. Non abbiamo di
questo Giureconsulto, che lasciasse di se memoria per qualche opera
legale, che avesse composta, siccome abbiamo di Bartolommeo di Capua,
d'Andrea d'Isernia, di Niccolò di Napoli, di Luca di Penna, e d'altri
suoi coetanei.

Fiorì ancora nel Regno di Roberto, e più in quello della Regina
Giovanna sua nipote il famoso _Andrea d'Isernia_. Per la sua profonda
dottrina legale, e particolarmente in materie feudali, fu nel Regno
di Carlo II padre di Roberto fatto Avvocato fiscale, e poi Giudice
della G. C., indi da Carlo istesso creato Maestro Razionale della
Camera de' Conti: ufficio, come fu detto, in que' tempi di grande
autorità: a cui donò ancora molte Terre, e fece altre remunerazioni.
Roberto suo figliuolo lo mantenne nel medesimo posto di Maestro
Razionale ch'esercitò per molti anni, sino che, morto Roberto, dalla
Regina Giovanna non fosse stato innalzato ad esser suo Consigliere e
Luogotenente della Camera Regia; Tribunale ove egli avea menati molti
suoi anni in qualità di M. Razionale.

Alcuni seguitando gli errori del Ciarlante[100], credono contro ciò
che fu a noi tramandato dagli antichi Scrittori, che Andrea sin nel
Regno di Carlo I avesse cominciate le sue fortune, e fosse stato da
lui creato Avvocato fiscale; e soggiungono, che dalla Regina Maria sua
moglie, da Avvocato fiscale fosse stato fatto suo Consigliere e Maestro
Razionale: ancorchè fosse costante presso tutti gli Autori, che e'
morisse vecchio in età di settantatrè anni, lo vogliono con tutto ciò
morto di morte naturale nel 1316 nel Regno di Roberto, non già nel 1357
nel Regno di Giovanna di morte violenta; imputando quella morte non già
a questo Andrea, ma ad un altro Andrea suo nipote figliuolo di Roberto
suo figliuolo, che, com'essi dicono, dalla Regina Giovanna fu parimente
creato Luogotenente della Regia Camera, siccome suo avo fu creato da
Roberto.

Questa opinione, oltre essere stata con manifesti argomenti confutata
dall'incomparabile Francesco di Andrea in quella sua dotta disputazione
feudale[101], è contraria a tutta l'istoria, e si convince favolosa
per più ragioni. Primieramente, ciò che si narra della sua moglie,
de' figliuoli e delle dignità, che costoro avessero avute dalla
Regina Giovanna, è tutto favoloso, siccome fu dimostrato dal Vescovo
Liparulo, che con molta diligenza ed esattezza tessè la vita di questo
Giureconsulto. II se si voglia far Andrea Avvocato fiscale nel Regno
di Carlo I, bisognerà dire, che fosse stato egli Dottore più antico di
Bartolommeo di Capua, ciò ch'è falso. Bartolommeo fu non pur coetaneo
di Bartolo, ma autore più antico di lui: Bartolo che nelle sue opere
fa di questo Giureconsulto onorata memoria, morì in Perugia, secondo
pruova Baluzio[102] nel 1357 di 46 anni[103], ventinove anni da poi
della morte di Bartolommeo, il qual, come si è veduto, morì nel 1328.
All'incontro Andrea fu coetaneo di Baldo, ebbe con lui dispute in
materie feudali, dove Baldo restò vinto: furono poco amici, nè Baldo
si ritenne dal malmenarlo, trattandolo da vario ed incostante, e che
ora inchinava a destra, ora a sinistra[104]. Ed è a tutti noto, che
Baldo fu discepolo di Bartolo, e visse molti anni appresso; ed anche,
se si voglia seguitar Osmano, morì nel 1400: poichè, secondo vogliono
altri[105], egli morì nel 1420 di età già decrepita, dopo avere per
cinquantasei anni letto in Bologna ed in Pavia il _jus civile_. Donde
si vede quanto di gran lunga vada errato il Consigliere de Bottis, il
quale scrisse aver egli in un antico Codice d'Andrea d'Isernia letta
una postilla a penna, mano di Bartolommeo di Capua; poichè tralasciando
esser cosa molto difficile, che de Bottis dopo 250 anni, che egli
scrisse, avesse potuto renderci testimonianza, che quella postilla
fosse stata scritta di propria mano di quel Giureconsulto, si vede
ancora essere affatto inverisimile, che un uomo sì grande ne' tempi
del Re Roberto, per la cui autorità egli governava il tutto, avesse
voluto scrivere postille ne' Commentarj d'Andrea, Dottore allora
presso di lui di niuna, o di poca stima; oltrechè dicendo il medesimo
de Bottis, aver veduta tal nota a penna ad Isernia, par che supponga
che il libro d'Isernia fosse impresso, il che, se così fosse, non
poteva quello essere stato in mano di Bartolommeo, di cui ne' tempi
la stampa non per ancora era stata introdotta in Italia. III il voler
fissare la morte d'Andrea nell'anno 1316, e per conseguenza prima
di Bartolommeo di Capua, per riportarlo in dietro a' tempi di Carlo
I ripugna a' più antichi monumenti, ed alle opere istesse di quello
Giureconsulto. Abbiamo alcune note del medesimo, fatte a' Capitoli, del
Re Roberto, istromentati per mano di Giovanni Grillo Viceprotonotario
del Regno; questi dopo la morte di Bartolommeo esercitò quest'ufficio;
poichè durante la vita di quello, che fu Protonotario, i Capitoli
erano dettati da lui e non da Grillo. Abbiamo ancora che quest'istesso
Andrea, nel proemio delle note, che fece sopra le nostre Costituzioni
del Regno[106], parlando d'Innocenzio III autore della Decretale _Cum
interest_, scrisse, che questo Papa era morto, erano già cento e più
anni, allegando le Cronache, che disse potersi in ciò allegare per
pruova della verità: avendo dunque egli esattamente vedute le Cronache,
avea certamente trovato, che Innocenzio morì a Perugia nell'anno
1216 a' 16 di luglio; onde se nel tempo, nel quale Andrea scrivea,
erano scorsi dal Pontificato d'Innocenzio cento e più anni, è chiaro
ch'egli scrisse quelle note alle nostre Costituzioni dopo l'anno
1316. Di vantaggio in queste medesime note e nel proemio istesso, più
volte allega Tommaso d'Aquino con titolo di _Sunto_: all'incontro nei
Commentari de' Feudi compilati prima, allega questo Autore col solo
titolo di _Frate_, come in più luoghi osservò Liparulo: Tommaso fu
posto nel rollo de' Santi da Giovanni XXII nell'anno 1323; è dunque
chiaro, ch'e' scrisse sopra le nostre Costituzioni dopo l'anno 1323.

Andrea adunque, ancorchè nato negli ultimi anni del Regno di Carlo I,
verso il 1280, quattro anni prima della sua morte, cominciò a rilucere
e dar saggio de' suoi talenti nel Regno di Carlo II suo figliuolo, da
cui per lo profondo suo sapere e dottrina fu fatto Avvocato fiscale e
Giudice della Gran Corte, ed indi Maestro Razionale della Regia Camera.
Negli ultimi anni del suo Regno scrisse egli i suoi famosi Commentarj
sopra i Feudi; e le note sopra le Costituzioni del Regno le compose
sotto il Re Roberto, intorno al 1232, siccome dimostra lo scrittor
della sua vita[107].

Baldo suo emolo, scorgendo qualche varietà ed incostanza d'opinioni
tenute da lui ne' Commentari dei Feudi, che poi variò nelle
Costituzioni, non potendo negare la profondità della sua dottrina,
l'incolpava di questo vizio; ma non men Liparulo, che l'incomparabile
Francesco d'Andrea ne penetrarono l'arcano ed il mistero. Il Re Roberto
tutto preso d'amore verso Bartolommeo di Capua, non vedendo per altri
occhi, nè reggendo il suo Regno che per i consigli di lui, attese sopra
tutti gli altri ad ingrandirlo: Andrea non era ugualmente guardato,
nè secondo il suo merito premiato; sotto il Regno di Roberto egli si
trovò Maestro Razionale, e così vi rimase, ed in quest'istesso posto
continuò in tutti gli anni di Roberto, carica conferitagli da Carlo
suo padre, e nella quale l'avea Roberto confermato; all'incontro tutti
gli onori erano del Capua, di che ardendo d'invidia Andrea, vedendo il
suo emolo innalzato, e lui depresso, non potendo prender del Re altra
vendetta, cominciò co' suoi scritti almeno ad abbassare le sue ragioni
Fiscali, e quanto ne' Commentari de' Feudi, che compilò sotto Carlo II
fu Regalista, altrettanto poi nelle note alle nostre Costituzioni, che
compose nel Regno di Roberto, fuvvi avverso e contrario. Moltissimi
documenti ed esempj di questo suo animo esasperato possono leggersi
presso Liparulo[108], e presso il Consiglier Francesco d'Andrea[109].
Ed osservarono questi Autori, che ne' Commentarj de' Feudi, sempre
che l'accadea far menzione (ciò che fece molto spesso) di Re Carlo I
e II, non gli nominò, se non con elogi; all'incontro, scrivendo sotto
Roberto le note sopra le Costituzioni, ancorchè avesse avuto ben cento
occasioni, ed alcune volte necessità di allegarlo, non ci si potè
mai indurre di nominarlo; tanto che Matteo d'Afflitto[110], parlando
d'Andrea, pien di maraviglia ebbe una volta a dire: _Et satis miror,
quod non alleget Capitulum Regis Roberti, cum ipse fuerit eo tempore,
et usque ad tempus Reginae Joannae I_. Ed avendo una sola volta per
dura necessità dovuto nominare quel Re, che a' suoi tempi fu riputato
un altro Salomone, non fu d'altra maniera chiamato, che come un uomo
del volgo, senza elogio, ancorchè scrivesse vivente Roberto, ivi: _Et
fuit determinatum in Consilio, quando Rex Robertus erat Vicarius patris
sui_[111].

Ma morto Roberto nell'anno 1343, e succeduta al Reame Giovanna sua
nipote, non avendo altro competitore, gli fu facile entrare per la
somma sua dottrina in grazia della medesima, dalla quale fu inalzato
al posto di Luogotenente della Regia Camera, e fatto suo Consigliere;
la qual carica continuò insino al 1353 anno della sua morte. Quando
gli Scrittori moderni non ci portano se non leggieri indizi e deboli
argomenti, non dobbiamo rimoverci da ciò, che lasciarono scritto gli
antichi intorno a questa sua morte. Narrano questo infelice successo
due autori gravissimi, che scrissero non più, che cento anni dapoi
che avvenne, onde potevano averlo appreso da' loro maggiori: questi
sono _Paris de Puteo_[112], che fiorì sotto Alfonso I di Aragona e
fu maestro di Ferdinando suo figliuolo, che gli successe al Regno, e
Matteo d'Afflitto[113], che scrisse i suoi Commentari a' Feudi sotto il
medesimo Re Ferdinando, ciò che si ricava anche da' nostri registri; li
quali scrissero, che avendo Andrea giudicato in una causa d'un Tedesco
nomato Corrado de Gottis, contro il quale fu profferita sentenza, per
cui gli fu tolta una Baronia che possedeva; questi fieramente sdegnato
per la perdita, di notte accompagnato con alquanti suoi Tedeschi,
mentre Andrea ritornava dal Castel Nuovo a sua casa, vicino porta
Petruccia, l'assalì, dicendogli che siccome egli colla sua sentenza
l'avea tolta la roba, così egli colle sue armi gli levava la vita; e
da più fieri colpi de' suoi masnadieri fu miseramente ucciso. Ecco
ciò, che di questo infelice successo ne scrisse Matteo d'Afflitto:
_Fuit autem interfectus praefatus Doctor insignis in civitate
Neapolis die 11 octobris 12 Ind. 1353 etc._ ed altrove: _Et ego vidi
privilegium Reginae Joannae I vindicantis mortem Andreae de Isernia
ejus Consiliarii, occisi tarda hora noctis, dum veniret a Castro novo,
prope Portam Petrutiam[114] per quosdam Teutonicos, acriter condemnatos
de crimine laesae Majestatis_. La Regina contro gli infami assassini
prese aspra vendetta: furono puniti con supplicj, pubblicati i loro
beni, diroccate le loro case e sentenziati a morte, non altrimenti che
se fossero rei di delitto di Maestà lesa, per la dottrina dell'istesso
Andrea, il quale quasi presago del suo fato infelice, avea insegnato
che colui, che uccideva il Consigliere del Principe, era reo di delitto
di Maestà lesa, e dovea punirsi con tal pena.

Ci lasciò questo insigne Giureconsulto i suoi incomparabili _Commentarj
sopra i Feudi_, che e' compose negli ultimi anni del Re Carlo II,
opera nella quale superò se medesimo, e che presso i posteri gli portò
que' elogi, e que' soprannomi _Princeps, et Auriga omnium Feudistarum,
Evangelista feudorum_, e simili rapportati dallo Scrittore di sua
vita. Sopra la qual opera i nostri professori impiegarono da poi
tutti i loro talenti, ed acquistò tanta autorità, che faceva forza
non meno che le leggi feudali medesime. Bartolommeo Camerario[115]
v'impiegò in leggerla ed emendarla quasi tutti gli anni di sua vita,
ed egli stesso testimonia, che per lo soverchio studio che vi pose, ci
perdette un occhio. Fu non solo appo noi, ma anche presso le nazioni
straniere riputato il più gran Feudista, che avesse avuto l'Europa in
que' tempi; confuse Baldo e l'obbligò in vecchiezza a darsi allo studio
feudale[116]; e fu non meno da' nostri, che dagli esteri predicato per
Principe de' Feudisti.

Scrisse ancora nel Regno di Roberto intorno l'anno 1323 e ne' seguenti,
le nostre _Costituzioni_ e sopra i _Capitoli_ del Regno: compilò _i
Riti della regia Camera_, e compose altre opere legali rapportate
dal Toppi[117] nella sua Biblioteca. Narrasi ancora aver composte
alcune opere di teologia e di legge canonica, onde ne riportasse dagli
Scrittori, che lo seguirono, i titoli di _Excelsus juris Doctor_,
_Theologus maximus_, e di _Utrisque juris Monarca_.

Egli è però vero, che più per vizio de' tempi, nei quali scrisse, che
per proprio fu nello stile barbaro e confuso, e senza metodo: ciò che
diede occasione ad Alvarotto[118] di dire, che fu egli commendabile
più tosto per la abbondanza delle cose, che per lo metodo; e che il
nostro Loffredo[119] si lagnasse, che quelle cose, ch'egli avrebbe
potuto trattare con più distinzione e chiarezza, l'avesse esposte così
oscuramente, e con poco ordine.

Fiorì ancora negli ultimi anni di Roberto, e vie più nel Regno di
Giovanna I sua nipote, un altro insigne Giureconsulto, quanto, e qual
fu _Luca de Penna_. Fu egli coetaneo di Bartolo, come ci testifica
egli medesimo nelle sue opere[120]: fu questo Dottore presso la Regina
Giovanna avuto in gran pregio, e nelle cose legali riputato di grande
autorità. Compose pienissimi Commentari sopra i tre ultimi libri del
Codice 10, 11 e 12[121]; ma il soggetto che e' si pose ad adornare
in que' tempi scarsi d'erudizione, e ne' quali non vi eran molte
notizie delle cose romane, de' costumi ed istoria loro, cose tutte
necessarie, per quel lavoro, lo fecero cadere in moltissimi errori:
non deve però non riputarsi l'impresa degna d'un grande ingegno e
di un grande ardire. L'ordine e lo stile, fu un poco più culto di
quello che comportava la sua età, e secondo il giudicio di Francesco
d'Andrea[122], nel metodo di insegnare, e nella chiarezza si lasciò
molto indietro Andrea d'Isernia. I Franzesi, non altrimenti, che i
Germani tentarono per Pietro delle Vigne, cercarono di togliercelo,
e volevano che fosse loro, e nato in Tolosa; ma egli è chiaro più
della luce del giorno che fu nostro, e nato in Penna città d'Apruzzo,
come Nicolò Toppi l'ha ben dimostrato nella sua _Apologia_. Nè i più
gravi Autori franzesi ce l'han contrastato, fra' quali fu il celebre
lor Papiniano Carlo Molineo[123], che nella sua glosa parisiense, ed
altrove lo chiama _Partenopeo_, cioè del Regno di Napoli.

Ad Andrea d'Isernia e Luca di Penna bisogna unire anche il famoso
_Niccolò di Napoli_, di cui abbiamo alcune note nelle nostre
Costituzioni e Capitoli del Regno. Fu questi Niccolò Spinello detto
di Napoli, ma di patria di Giovenazzo, cotanto favorito dalla Regina
Giovanna I. Fu Conte di Gioia e G. Cancelliere del Regno ed adoperato
dalla Regina ne' più gravi affari di Stato, e quando fu eletto Papa
Urbano VI fu da lei mandato a Roma a rallegrarsi col Papa della sua
assunzione, ed a dargli ubbidienza[124]. Questi tre Giureconsulti
furono da Camerario[125] riputati di tanta autorità e dottrina, che
non si ritenne di dire: _Nos Andream de Isernia, Nicolaum de Neapoli,
et Lucam de Penna, in nostri Regni juribus interpretandis, non aliter
venerari, quam veluti humanam Trinitatem_.

Fuvvi anche il Viceprotonario Sergio Donnorso M. Razionale della G. C.
del quale abbiamo alcune chiose ne' Capitoli del Regno: scrisse anche,
come disse, un Commento nelle quattro lettere arbitrarie, del quale
fa egli menzione in detti Capitoli: fu egli Viceprotonotario, mentre
era nel 1352 C. Protonotario del Regno Napolione Orsino. La famiglia
Donnorso fu molto antica in Napoli, e diede il nome ad una delle porte
delle città, detta negli antichi tempi Porta Donnorso, la qual era a
piè del tempio di S. Pietro a Maiella, e fu poi trasferita presso la
chiesa di S. Maria di Costantinopoli nell'ultima ampliazione della
città[126].

A costoro deve aggiungersi il Giudice _Blasio da Morcone_ della
famiglia Paccona: fu egli sotto il Regno di Carlo II discepolo di
Benvenuto di Milo da Morcone, il quale, come si disse, fu Lettore
dell'Università degli Studj; ed occupò la Cattedra di legge civile.
Fece progressi maravigliosi in questo studio, tanto che poi da Roberto
successore di Carlo, per la sua dottrina, fu nel 1338 creato suo
Consigliere, famigliare e Cappellano. Fu parimente tenuto in somma
stima da Carlo Duca di Calabria, il quale in tempo, ch'era Vicario
del Regno, gli diede facoltà d'avvocare, e lo costituì Avvocato nelle
province di Terra di Lavoro, Contado di Molise, Apruzzo e Capitanata,
e ne gli spedì nell'anno 1323 lettere molto favorite, e ripiene di
molti encomj e commendazioni[127]. Ci lasciò molte sue opere, fra le
quali la più insigne fu il Trattato, che e' compose delle differenze
tra le leggi romane e longobarde, ed i pieni commentarj sopra quelle
Leggi. Marino Freccia[128] ci testifica aver avuto egli quel Volume
M. S. in poter suo, al quale sovente ricorre con citarlo. Questa
opera ci ha resi certi, che in questi tempi le leggi de' Longobardi
nel nostro Regno non erano ancora andate affatto in disuso. Ancorchè
nell'Accademie d'Italia, ed in quella di Napoli le Pandette, e gli
altri libri di Giustiniano fossero pubblicamente insegnati, e ne'
Tribunali avessero cominciato a prendere forza e vigore, la loro
autorità non fu tanta, che ne avesse discacciato affatto le longobarde,
siccome avvenne nel Regno degli _Aragonesi_; nel quale pure, siccome
nel Regno degli _Spagnuoli_, vi rimasero alcune reliquie, onde si diede
occasione a _Prospero Rendella_ di comporre quel suo libretto: _In
reliquias juris Longobardorum_. Scrisse ancora alcuni altri _Trattati_,
alcuni _Singolari_, le _Cautele_, e le _Note_ sopra le nostre
_Costituzioni_, e _Capitoli_ del Regno[129]. Di queste sue fatiche
gli Scrittori de' tempi, che seguirono, ne fanno onorata memoria.
Francesco Vivio[130] lo chiama uomo di grande autorità nel Regno, e
spezialmente per lo suo Trattato delle differenze tra le leggi romane
e Longobarde. L'Autore della Chiosa alla Prammatica _Dubitationi, De
termino citandi auctorem in causa reali_, lo loda non poco; e tutti
coloro, che han fatto studio sopra le di lui opere, di molti encomj lo
cumulano. Fu coetaneo, e molto amico di Luca di Penna, com'egli stesso
ci fa conoscere, scrivendo nella Costituzione _Majestati nostrae, de
Adulteriis_, ch'egli d'un dubbio, che avea sopra quella Costituzione,
andò a dimandarne parere da Luca di Penna, il quale, come e' dice,
_a me interrogatus sic de verbo ad verbum respondit_, etc. Passò per
qualche tempo, nell'avversa fortuna, la sua vita in Cerreto, e fu
sempre grato al suo Maestro Benvenuto di Milo Vescovo di Caserta;
confessando nel titolo _de Aedificiis dirutis reficiendis_, che da
niente l'avea fatto, e ridotto in quello stato, in cui si trovava.

Fiorì con lui nel medesimo grado di Consigliere del Re Roberto _Giacomo
di Milo_ suo compatriotto: fu anche costui, per la sua dottrina
e saviezza, da questo Re fatto suo Consigliere, e glie ne spedì
privilegio, che si vede ne' Registri degli anni 1337 e 1338 _lit. B
fol. 28_, onde Morcone, Terra del Contado di Molise, si rese in questi
tempi celebre per tre suoi famosi Cittadini, per un dottissimo Vescovo,
e due insigni Consiglieri, e Giureconsulti. Intorno a questi medesimi
tempi rilusse _Filippo d'Isernia_ celebre Legista, e Lettore della
prima Cattedra del _Jus Civile_ nell'Università degli Studj di Napoli,
nell'istesso tempo ch'era Consigliere, e famigliare del Re Roberto, il
quale lo tenne in tanta stima, che non solo lo fece suo Consigliere,
ma nell'anno 1320 l'elesse per Avvocato de' Poveri, e poi del suo
Fisco[131]. Fiorirono ancora _Bartolommeo di Napoli_, contemporaneo
di Dino[132], _Bartolommeo Caracciolo_, di cui si crede, che fosse
la Cronaca pubblicata sotto il nome di Giovanni Villano, al sentire
d'Agnello Ruggiero di Salerno[133], ed alcuni altri rapportati dal
Toppi, de' quali a noi rara ed oscura fama è pervenuta, per non averci
di loro lasciate opere, nè altra memoria si ha de' loro scritti.

Di _Napodano Sebastiano_, che fiorì sotto la Regina Giovanna I, famoso
Chiosatore delle nostre Consuetudini, a bastanza fu da noi detto nel
libro precedente: morì egli nel 1382, e possiamo dire in lui essersi
quasi che estinto presso noi lo studio della giurisprudenza. I tempi
torbidi, e pieni di rivoluzioni, che seguirono e che per lo corso d'un
secolo intero continuarono insino al Regno placido e pacato _d'Alfonso
I d'Aragona_, fecero tacere presso di noi non meno la giurisprudenza,
che l'altre lettere. Da Napodano insino a _Paris de Puteo_, Goffredo
di Gaeta, e Matteo d'Afflitto, nel tempo de' quali cominciò ella a
risorgere, non abbiamo Scrittore, che ci lasciasse di quella monumento
alcuno. E vedi intanto in queste regioni le vicende della nostra
giurisprudenza, e quanto ella debba a' favori de' Principi letterali,
ed all'amore della pace.

Nel tempo del Re Roberto, e ne' principj del Regno di Giovanna sua
nipote, nell'Accademie, e negli altri Stati d'Italia fiorirono tanti
insigni ed illustri Giureconsulti; nè l'Accademia di Napoli, e la Corte
de' suoi Re furono inferiori a quelle.

In questo decimoquarto secolo cominciò in Italia quasi un nuovo
periodo alla ragion civile, e surse l'età de' Commentatori; poichè dopo
Accursio niuno più con Chiose, ma con pieni Commentarj cominciarono i
Giureconsulti di questi tempi ad illustrarla. Si distinsero nelle altre
città d'Italia Bartolo di Sassoferrato, Baldo Perugino suo discepolo,
Angelo fratello di Baldo, e poi Alessandro Tartagna, Bartolommeo
Saliceto, Paolo di Castro, Giasone Maino, Cino, Oltrado, Pietro di
Bellapertica, Raffael Fulgosio, Raffael Cumano, Ipolito Riminaldo, e
tanti altri, i quali al Corpo della ragion civile aggiunsero nuovi
Commentarj. Noi in niente avevamo di che invidiargli per li nostri
celebri Giureconsulti, che vi fiorirono ne' medesimi tempi, Bartolommeo
di Capua, Andrea d'Isernia, Luca di Penna, Niccolò di Napoli, e gli
altri di sopra riferiti. E veramente, siccome confessano anche gli
stranieri[134], fu questa gran lode della nostra Italia, la quale sopra
tutte le altre Nazioni in ciò si distinse. E quantunque per l'ignoranza
dell'istorie, delle lingue, e dell'erudizione, ne' loro Commentarj sia
molto che riprendere; nulladimanco ciò non dee imputarsi a lor difetto,
ma al secolo infelice, nel quale scrissero. Ma ben lo compensarono
colla perspicacia ed acume de' loro ingegni, e coll'ostinate e lunghe
fatiche, in guisa che dove non eran assolutamente necessarie l'istorie
e le lingue ovvero la lezione degli antichi, essi arrivarono, e diedero
al segno col solo acume della ragione e della lor mente. Fu riserbato
questo miglior rischiaramento al secolo seguente, quando, come diremo,
per la ruina della città di Costantinopoli cominciarono a risorgere
presso noi, ed a fiorire le buone lettere; e questo vanto pur deesi
alla nostra Italia, e per la giurisprudenza, ad _Andrea Aleiato_ di
Milano, il quale in il primo a restituirla nel suo candore e pulitezza.

Ma siccome sotto il Re Roberto, stando il Regno in grandissima
tranquillità, poterono i Cavalieri e' Baroni desiderosi d'acquistar
onori e titoli, esercitar il loro valore nelle guerre, che fuori del
Regno, ora in Sicilia ed in altre parti d'Italia, ora in Grecia ed in
Soria si facevano, e servendo con molta virtù in presenza del Re, o
de' suoi Capitani generali, meritare essere esaltati, ed arricchiti
d'onorati premj, onde per questa via dell'armi sorsero le loro
famiglie, le quali poterono mantenere il di loro splendore per molti
secoli appresso: così gli uomini letterati e di governo servendo a'
loro Principi, si videro esaltati a diversi, ed eminenti posti, ed
adoperati in cose importantissime, de' quali insin'al dì d'oggi se ne
vedono successori posti in altissimi gradi e titoli; ciò che ha fatto
vedere, che non meno l'uso della spada, che della penna suol onorare,
e far illustri le persone e le schiatte, e che questi soli siano i
due fonti, donde ugualmente deriva la nobiltà e la grandezza nelle
famiglie. Ma quando per la morte del savio Re Roberto senza figliuoli
maschi, s'estinse la linea di que' Re potenti, e valorosi, e 'l Regno
venne in man di femmina, tra le discordie di tanti Reali, che vi
rimasero, e quelle arme, che fin qui s'erano adoperate in far guerra
ad altri, a mantener il Regno in pace, ed in quiete, si rivolsero a
danni e ruine del medesimo Regno; non pur ne nacquero mutazioni di
Signorie, morti violente di Principi, distruzioni e calamità di Popoli.
ma le discipline e le lettere tra i moti e dissensioni civili, vennero
parimente a declinare; nè presso di noi risursero, se non quando, dopo
tante rivoluzioni di cose, che saranno il soggetto de' seguenti libri,
venne finalmente il Regno a riposarsi sotto la dominazione d'Alfonso
primo d'Aragona, Re savio e magnanimo, che restituillo nella pristina
sua pace e quiete.



CAPITOLO VIII.

_Politia ecclesiastica del XIV secolo, per quel tempo che i Papi
tennero la loro sede in Avignone, insino allo Scisma de' Papi di Roma
e d'Avignone._


Come suole avvenire nelle cose di questo Mondo, che qualora si veggono
giunte al sommo, questo stesso tanto innalzarsi è principio del loro
abbassamento: così appunto accadde al Pontificato romano in questo
nuovo XIV secolo, la politia ecclesiastica del quale saremo ora a
trattare. Bonifacio VIII calcando le orme dei suoi predecessori,
credea aver ridotto il Pontificato in tanta elevatezza, che coronato
di duplicate corone, e vestito del manto imperiale, volea esser
riputato Monarca non meno dello spirituale, che del temporale, e che
i maggiori Re e Principi della terra fossero a lui soggetti anche nel
temporale, siccome, oltre la divisa presa de' due coltelli, lo dichiarò
apertamente in quella sua stravagante Bolla _Unam Sanctam_. Prese per
tanto a regolare le contese de' Principi, e fra gli altri quelle di
Odoardo Re d'Inghilterra, e di Guido Conte di Fiandra con Filippo il
Bello, Re di Francia. Entrò nell'impegno di distruggere affatto in
Italia il partito de' Ghibellini e de' Colonnesi, e di far conoscere
la sua potenza sopra tutti i Principi, vietando loro con sua Bolla
d'esigere cos'alcuna sopra i beni degli Ecclesiastici. Queste ardite
risoluzioni offesero grandemente l'animo di Filippo Re di Francia, il
quale accortosi, che la proibizione, ancorchè generale, riguardava il
Regno di Francia, vi s'oppose con vigore, e fece stendere un Manifesto
contro la Bolla; e dall'altra parte seguitando Bonifacio a distruggere
il partito de' Ghibellini e de' Colonnesi, questi furono costretti
ritirarsi in Francia, dove furono dal Re accolti, onde maggiormente le
contese s'inasprirono, le quali finalmente proruppero non pure in onte
ed in contumelie, ma in esecuzioni di fatto; poichè portatosi il Signor
di Nogaret Ambasciadore del Re in Italia, assistito da Sciarra Colonna
entrò in Anagni, dove era il Papa, e lo fece prigione; e quantunque
liberato da quel popolo fuggisse in Roma, fu tanta l'afflizione
del suo animo, che non guari da poi se ne morì; e Dante ch'era
Ghibellino, scrisse[135], che la sua anima era con impazienza aspettata
nell'Inferno da Niccolò III per dargli luogo fra Papi simoniaci.

Queste liti, che nel principio di questo secolo furono tra il Re
Filippo e Papa Bonifacio, e molto più le contese, che arsero da poi
tra Lodovico Bavaro con Giovanni XXII e Benedetto XII, furono cagione,
onde il Pontificato Romano venne a decader non poco dalla sua opinione
e possanza: poichè, oltre dello scadimento per la trasmigrazione
della Sede Appostolica in Avignone, e dello Scisma indi seguito,
di che favelleremo più innanzi, coll'occasione di questi contrasti
tra i Papi, ed i Principi intorno alla potestà temporale, si diede
luogo a ben esaminare questa materia, quando che prima non era molto
curata; e cominciando pian piano a risorgere le lettere anche presso
i Laici, furono trovati ingegni, che secondo le fazioni cominciarono
a disputarla, ed i Ghibellini ne compilarono particolari trattati,
onde s'ingegnarono a far avvertiti gli altri delle usurpazioni, e a
dimostrare, che la potestà spirituale non avea che impacciarsi colla
temporale, la quale tutta era de' Principi.

Fra i primi deve noverarsi _Dante Alighieri_ Fiorentino, il quale
ne' suoi tre libri _de Monarchia_, scritti a' tempi di Lodovico
Bavaro, quest'appunto sostenne. Intorno a' medesimi tempi si distinse
per quest'istesso _Guglielmo Occamo_ dell'Ordine de' Frati Minori,
il quale ancorchè nato in un villaggio della Contea di Surrey in
Inghilterra, fiorì nell'Università di Parigi nel principio di questo
secolo, e compose un'Opera della _Potestà Ecclesiastica e Secolare_,
per difendere Filippo il Bello contro Bonifacio; e da poi fu uno de'
grandi Avversarj di Papa Giovanni XXII, che lo condannò sotto pena
di scomunica a starsene in silenzio. Si dichiarò poi apertamente
per Lodovico di Baviera, e per l'Antipapa Pietro di Corbaria, che si
faceva chiamare _Niccolò V_, e scrisse contro Giovanni XXII, che lo
scomunicò l'anno 1330. Allora uscì di Francia, e se ne andò a trovare
Lodovico di Baviera, che favorevolmente l'accolse, e terminando nella
Corte di quel Principe i giorni suoi, morì in Monaco l'anno 1347.
Giovanni di Parigi Dottor in Teologia dell'Ordine dei Predicatori,
cognominato il _Maestro Parisiense_, intorno all'anno 1322, compose
ancora un trattato della _Potestà Regia e Papale. Arnoldo di Villanova_
Catalano, _Marsilio di Padova_ e _Giovanni Jande_ impugnarono pure
l'autorità de' Pontefici sopra il temporale de' Re; ma costoro non
seppero tener modo, nè misura, dando in una estremità opposta: poichè
_Arnoldo_ espresse molte proposizioni contro l'autorità della Chiesa,
contro i Sacramenti, contro il Clero e contro i Religiosi; e _Marsilio_
e _Giovanni_ troppo concedendo ai Principi, attribuirono loro una
giurisdizione, che appartiene unicamente alla Chiesa. _Radulfo Colonna_
Canonico Carnutense, _Lupoldo di Babenberg_, _Raolfo di Prelles_,
e _Filippo di Mezieres_ Giureconsulti insigni, sostennero parimente
co' loro Trattati i diritti de' Principi; ma chi da poi in Francia
sopra tutti sostenesse le ragioni del Re Filippo di Valois contro
l'intraprese degli Ecclesiastici, fu _Pietro di Cugnieres_ suo Avvocato
generale nel Parlamento di Parigi. Costui nell'anno 1329 ebbe grandi
contrasti con Niccolò Bertrando Vescovo d'Autun, e poi Cardinale, e
cogli altri Prelati di Francia, sopra i diritti della giurisdizione
spirituale e temporale. Il Clero di Francia lo calunniarono, facendo
artificiosamente correre rumore, che sotto pretesto di risecare
l'intraprese delle loro Giustizie, si voleva loro togliere la roba,
ancorchè le proposizioni di _Cugnieres_ di ciò non parlassero punto:
tanto che il Re Filippo dubitando eccitare nuovi torbidi, e temendo
dell'autorità, che il Clero avea allora in Francia, non potè affatto
risecarle, siccome fu eseguito da poi per l'Ordinanza del 1438.

Non meno che i _Franzesi_ ed i _Germani_ cominciarono da poi gli
_Spagnuoli_ a riscuotersi dal lungo sonno; oltre _d'Arnoldo di
Villanova_ Catalano, _Alvaro Pelagio_ di Galizia in Ispagna dell'Ordine
de' Frati minori, e poi Vescovo di Silva in Portogallo, distese un
Trattato _de Plantu Ecclesiae_; opera eccellente sopra la riforma della
disciplina della Chiesa. Anche sul fine di questo secolo, e nel decorso
del seguente, prima, e dopo il Concilio di Costanza, il Cardinal
_Francesco Zabarella_ Arcivescovo di Fiorenza, _Teodorico di Niem_,
_Niccolò di Cusa_, e poi _Enea Silvio_, travagliarono sopra questo
soggetto. Ed al di loro esempio molti altri, che seguirono appresso,
ne compilarono diffusi trattati; onde si diede materia a _Simone
Scardio_[136], delle loro opere farne Raccolta, e dappoi a _Melchior
Goldasto_ di farne un'altra più ampia ne' suoi volumi della _Monarchia
dell'Imperio_.

Per queste contese si cominciò in Francia e nella Germania a
contrastare agli Ecclesiastici il diritto di esercitar la giurisdizione
temporale, e di giudicare sopra quelle cause, delle quali essi aveano
tirata al Foro episcopale la conoscenza, di cui nel XIX libro di
quest'Istoria si fece memoria. Fu lor contrastato di por mano in molte
cause civili sotto pretesto di scomunica, di peccato e di giuramento;
fu tentato ancora di assalire l'immunità de' Cherici e de' beni della
Chiesa; e quantunque gli Ecclesiastici avessero gagliardamente difesi
i loro diritti, nulladimeno fu rimediato a qualche abuso, e perdettero
a poco a poco una parte della giurisdizione temporale; ed in Germania
da questo tempo di Lodovico Bavaro cominciò il diritto Pontificio,
spezialmente quello contenuto nelle _Decretali_, a perdere la sua
autorità e vigore[137].

Ma non così avvenne nel nostro Regno sotto questi Re della Casa
d'Angiò: non ebbero essi alcun contrasto co' Romani Pontefici, anzi
furono ora più che mai a' loro cenni ossequiosissimi; e Roberto, assai
più che i suoi predecessori, avea obbligo di farlo per li tanti favori
che avea ricevuti da Clemente V, da Giovanni XXII, da Benedetto XII
Papi d'Avignone che lo preferirono al nipote nella successione del
Regno; e sempre gli diedero ajuti contro Errico VII e Lodovico Bavaro,
nell'impresa di Sicilia, e contro tutti i suoi nemici. Quindi questo
Principe, non seguendo in ciò l'esempio della Francia, mantenne intatta
la loro giurisdizione ed immunità, anzi giunse a tale estremità, che,
come fu rapportato nel XIX libro di questa Istoria[138], volle rendere
immuni sino le concubine de' Chierici, lasciando il castigo di quelle
alli Prelati delle Chiese[139]. Quindi avvenne, che nello stabilire i
_Rimedj_ contro le violenze degli Ecclesiastici, usasse tante riserbe,
cautele e rispetti, perchè non venisse la loro immunità in parte
alcuna offesa; e quindi avvenne ancora, che la traslazione della Sede
Appostolica in Avignone non recò a noi verun cambiamento nella politia
delle nostre Chiese: e che le querele di tutto il rimanente d'Italia
per questo trasferimento non furono accompagnate da' nostri Regnicoli,
i quali in ciò seguirono più tosto i desiderj de' Franzesi, che le
doglianze degli Italiani: ciò che bisogna un poco più distesamente
rapportare.


§. I. _Traslazione della Sede Appostolica in Avignone._

Benedetto XI, che a Bonifacio successe, non tenne più il Pontificato
che nove mesi; e morto egli in Perugia il dì 6 luglio dell'anno 1304,
i Cardinali quivi ragunati in Conclave per eleggere il successore,
vennero in tali contenzioni, che divisi in due fazioni, i loro
contrasti fecero, che la Sede stette vacante per lo spazio d'undici
mesi. Capo dell'una fazione era Matteo Orsini, e Francesco Gaetano
nipote di Bonifacio; dell'altra era Napolione Orsino dal Monte,
e Niccolò da Prato, il quale, innanzi al Cardinalato, era stato
dell'Ordine de' Predicatori. Non potendo accordarsi sopra un soggetto,
a cagione della lite, ch'era fra la fazione de' Franzesi e quella
degl'Italiani, convennero finalmente che gl'Italiani proponessero tre
Arcivescovi oltramontani, e che il partito de' Franzesi eleggesse
de' tre colui che più gli piacesse. Gl'Italiani fra' tre proposti
nominarono Bertrando Got Arcivescovo di Bordeos; onde il Cardinal di
Prato sollecitamente avvisandone il Re di Francia Filippo il Bello,
fece, che il Re chiamasse a se Bertrando, e dicessegli ch'era in sua
potestà di farlo Papa, e che lo farebbe, se gli acconsentiva ad alcune
condizioni: Bertrando cupidissimo di tanta dignità, gli accordò quanto
volle; onde il Re rescrisse al Cardinal di Prato che dasse opera,
che l'elezione cadesse sopra di costui, siccome a' 5 giugno del 1305
fu eletto Pontefice, e chiamato _Clemente V_. Narrasi, che fra le
condizioni accordate fossero che cassasse ciò che Bonifacio aveva
fatto contro di lui e del suo Regno, ed annullasse la sua memoria:
che restituisse nel Cardinalato Jacopo, e Pietro Colonnesi privati da
Bonifacio: che spegnesse l'Ordine de' Templarj, e che in Francia si
facesse coronare. In effetto egli rivocò la Bolla _Unam Sanctam_, e
l'altre Bolle di Bonifacio: ristabilì i Colonnesi nelle lor dignità:
dichiarò nulle tutte le sentenze che quel Pontefice avea pronunziate:
diede l'assoluzione a tutti coloro ch'erano stati da esso scomunicati,
eccettuatine il Nogaret e Sciarra Colonna; ed ordinò a' Cardinali
che venissero a Lione di Francia, perchè quivi voleva essere egli
incoronato. I Cardinali Italiani ciò malamente intesero, e narra S.
Antonino[140] Arcivescovo di Fiorenza, che l'apprese dall'Istoria di
Giovanni Villani, che il Cardinal Matteo Orsini ch'era il più anziano,
non si potè contenere di rimproverarne acremente il Cardinal di Prato,
dicendogli: _Assecutus es voluntatem tuam in ducendo Curiam ultra
Montes, sed tarde revertetur Curia in Italiam_.

Clemente, non ostante la repugnanza della maggior parte de' Cardinali,
volle essere ubbidito; onde portatosi in Lione, fu quivi a' 14 di
novembre incoronato, osservando al Re di Francia le promesse; e datosi
in sua balìa, creò molti Cardinali, parte guasconi, e parte francesi,
tutti uomini familiari del Re. Fermò per tanto la sua dimora in
Francia, residendo ora in Lione, ora in Bordeos, ora in _Avignone_,
dove nell'anno 1309 fermossi, e vi dimorò insino al Concilio di
Vienna tenuto nell'anno 1311 e fin che resse il Pontificato; facendo
varie dimore in diverse città della Francia, non pensò mai tornare
in Italia. Venuto a morte in Carpentras nel mese di Aprile dell'anno
1314 entrarono i Cardinali nel Conclave, e vi dimorarono persino al
dì 22 di luglio, senza poter accordarsi sopra l'elezione d'un Papa;
poichè i Cardinali italiani volevano un Papa della loro Nazione
che andasse a fare la sua dimora in Roma; i Guasconi volevano un
Franzese, che facesse la sua residenza in Francia; e s'avanzaron tanto
i contrasti, che essendosi ragunato il Popolo sotto la condotta dei
nipoti del Papa defunto, si portarono armati al Conclave, domandando,
che fossero dati in lor potere i Cardinali italiani, e che volevano
un Papa franzese: ciò essendo lor negato, posero fuoco al Conclave:
onde i Cardinali scappati via fuggirono chi qua e chi là, ed andaron
per due anni dispersi[141]. Filippo il Bello fece quanto potette per
adunargli, ma la sua opera riuscì vana. Morto Filippo, e succeduto nel
Regno di Francia Lodovico Utino, questi mandò suo fratello in Lione,
il quale chiamò a se i Cardinali, e gli fece chiudere nella Casa de'
Frati Predicatori di Lione, e dicendo loro, che di là non sarebbero
mai usciti e trattati con austerità, se non avessero tosto eletto un
Papa: i Cardinali dopo essere stati rinchiusi per lo spazio di quaranta
giorni, elessero finalmente nell'anno 1316 Giacomo d'Eusa, nativo
di Cahors, prima Vescovo di Frejus, e poi d'Avignone, ed era allora
Cardinale Vescovo di Porto. Questo Papa dopo la sua elezione prese il
nome di _Giovanni XXII_, ed essendosi fatto coronare in Lione a' dì
5 di settembre del medesimo anno, partì subito per _Avignone_, dove
fermò la sua residenza, nè vagò come Clemente per le altre città della
Francia; ond'è, che i suoi successori ebbero per ordinaria lor sede
Avignone; poichè avendo Giovanni tenuto il Pontificato 18 anni, stabilì
maggiormente quivi la sua Sede: e morto egli in Avignone nel mese
di decembre dell'anno 1334 i Cardinali nell'istesso mese elessero, e
coronarono nella chiesa d'Avignone il Cardinal Jacopo Fournier Vescovo
di Pamiers, nominato _Benedetto XII_ il quale, ancorchè mostrasse
intenzione di portarsi a far la sua dimora in Italia, avendo fatto
chiedere a' Bolognesi, se lo avessero voluto ricevere nella loro città,
e trovatigli mal disposti a farlo, fermò come il suo predecessore
la sua residenza in Avignone, dove dimorò sin al 1342 anno della sua
morte. Lo stesso fece _Clemente VI_ suo successore, _Innocenzio VI_,
_Urbano V_ insino a _Gregorio XI_, il quale avendo voluto trasferire
la sua Sede in Roma, malgrado de' Franzesi, fu cagione che dopo la
sua morte, seguisse quello scandaloso scisma tra i Papi di Roma e
d'Avignone che tenne lungamente travagliata la Chiesa, di cui avremo
occasione di ragionare ne' seguenti libri di quest'Istoria.

Intorno a questa traslazione della Sede Appostolica in Avignone, vi è
gran contrasto tra gli Scrittori nostri Italiani ed i Franzesi. Gli
Italiani la chiamano _Esilio Babilonico_; poichè la Chiesa, mentre
quello durò, stette sotto la schiavitù de' Franzesi, e spezialmente
del Re Filippo il Bello: la chiamano prevaricazione della Casa di
Dio: scandalo del Popolo cristiano, e ruina della Cristianità[142].
Che i Papi, che la ressero in quei tempi, furono più tosto mostri
d'empietà e di scelleraggini, che Vicarj di Cristo: che non ad altro
attesero, che a cumular denari, per nudrire la loro ambizione ed il
fasto, vilmente servendo i Re di Francia. Dipinsero per ciò nelle loro
opere i Papi d'Avignone per simoniaci, lussuriosi, crudeli, avari e
rapaci; ed Avignone per una Babilonia. Dante nella sua Commedia[143]
scrisse di _Clemente V_ cose orribili. Giovanni Villani[144], e con
esso lui Santo Antonino Arcivescovo di Fiorenza[145] gli tessè una
satira inclementissima: che e' fosse un uomo avaro, crudele, simoniaco,
lussurioso, e che si teneva per concubina Brunisinda Contessa
Petragoricense, bellissima donna figliuola del conte Fuxense, e madre
del cardinal Talairando. Il nostro Giureconsulto Alberico di Rosate
scrisse che lo sterminio e le crudeltà, che egli praticò co' Templarj,
lo fece contro giustizia, e per compiacere al Re di Francia; siccome
egli se n'era reso certo da un esaminatore della causa che ricevè la
deposizione de' testimonj, dicendo: _Destructus fuit ille Ordo tempore
Clementis Papae V ad provocationem Regis Franciae. Et sicut audivi ab
uno, qui fuit Examinator causae, et testium, destructus fuit contra
justitiam. Et mihi dixit, quod ipse Clemens protulit hoc: Et si non per
viam justitiae potest destrui, destruatur tamen per viam expedientiae,
ne scandalizetur charus filius noster Rex Franciae._ Quindi molti
Storici riputarono la condanna de' Templarj ingiusta, e che fossero
stati falsamente imputati di tanti delitti, ed estorte le confessioni
dalla violenza de' tormenti, e dal timore della morte: che Filippo
il Bello da gran tempo era ad essi contrario, accusandogli di avere
eccitata, e fomentata una sedizione contro esso: che era particolar
nemico del gran Maestro; e che voleva trar profitto dalle loro spoglie
insieme col Pontefice Clemente, ancorchè in apparenza mostrassero di
voler servirsi de' loro beni per la spedizione di Terra santa.

Peggiore è quel che narrano di _Giovanni XXII_ suo successore. Giovanni
Villani[146] lo fa figliuolo d'un Tavernajo, che nudrito presso
Pietro de Ferrariis Cancelliere del nostro Re Carlo II d'Angiò, ed
educato nelle lettere, da lui riconobbe la sua fortuna: che giunto al
Pontificato, niuno quanto lui fosse stato più intento a cavar denari
d'ogni cosa, e ad inventar modi per cumular tesori. Egli divise in
Francia molti Vescovadi, e vacando un beneficio ricco, usò di darlo
a chi n'avesse un altro poco inferiore, dando quello, che vacava ad
un altro, ed alle volte faceva sino a sei provvisioni, trasferendo
sempre da un meno ricco, ad un più ricco, ed al minimo provvedendo
d'un beneficio nuovo: sicchè tutti erano contenti, e tutti pagavano.
Inventò anche le _Annate_, gravame sopra i beneficj, innanzi lui,
non ancora udito: corruppe la disciplina della Chiesa colle tante
_dispense_, onde con grandissimo scandalo congregò incredibil Tesoro;
e con tutto che nello spendere, e donare non fu più ristretto de' suoi
predecessori, pure alla morte sua lasciò più milioni[147]. E narra
Giovanni Villani, che ad un suo fratello del Collegio de' Cardinali,
dopo la morte del Papa, fu dato carico d'inventariar il denaro, che
gli trovò 18 milioni in moneta coniata, e 7 milioni in vasi, e verghe
da lui pesate. Lodovico Bavaro gli fè fabbricare addosso più processi,
lo fece deponere, e dichiarar anche eretico. Le sue costituzioni
dette _Joannine_ furono riputate simoniache, ed anche eretiche. Egli è
riputato l'Autore delle _Regole della Cancelleria_, dove si danno molti
ingegnosi regolamenti per congregar denaro: in breve, ch'egli sopra
ogni altro avesse corrotta la disciplina della Chiesa, riputando il
patrimonio di Cristo esser i Regni, le città, le castella, le ricchezze
e le possessioni; e li beni della Chiesa essere non già il disprezzo
del Mondo, l'ardor della fede, e la dottrina dell'Evangelio, ma le
obblazioni, le decime, le gabelle, le collette, la porpora, l'oro e
l'argento.

Di _Benedetto XII_ suo successore scrissero ancora, che fosse un Papa
avarissimo, duro, crudele, diffidente e tenace: che si dilettava di
buffoni, di conversazioni licenziose ed inoneste: che fosse lussurioso,
che si giacesse con più meretrici, e che fortemente innamorato della
sorella del Petrarca, tanto facesse, che l'ebbe a sua voglia, e che
la stuprasse[148]: che fosse un gran bevitore di vino, tanto che da
lui nacque proverbio nelle brigate, che quando volevano passar con
allegria il tempo tra boccali e pransi, costumavano di dire: _Bibamus
Papaliter_[149]. Quindi, essendo egli morto in Avignone nell'anno 1342
fu chi al suo sepolcro componesse questi versi.

    _Iste fuit Nero, laicis mors, vipera Clero,_
      _Devius a vero, cuppa repleta mero[150]._

Non meno che a Benedetto, imputavano a _Clemente VI_ queste bruttezze,
e che egli non meno, che il suo predecessore si contaminasse con
meretrici. Ma assai più lo resero favola del Mondo per quella sua
Bolla, che nel terzo anno del suo Pontificato pubblicò in Avignone,
dove considerando la brevità della vita umana, restrinse il tempo del
Giubileo a cinquanta anni; poichè per maggiormente animare qualunque
sorta di persone da tutte le parti del Mondo a venire in Roma, anche
senza richiedere licenza da' loro Superiori, gli assicurava, che se
forse per istrada venissero a mancare, tanto avrebbero guadagnate le
indulgenze e remission de' loro peccati, e le loro anime sarebbero
state condotte subito in Cielo; e perciò comandava agli Angioli di Dio,
che senza dimora alcuna gl'introducessero alla gloria del Paradiso:
_Et nihilominus_ (sono le parole della Bolla[151]) _prorsus mandamus
Angelis Paradisi, quatenus animam illius a Purgatorio penitus absolutam
in Paradisi gloriam introducant_.

Quindi parimente s'avanzarono a dire, che per li Papi d'Avignone, e per
la loro scellerata vita, fossero sorte in questo secolo tante eresie,
e tanti errori; e che si fosse data occasione a _Giovanni Oliva_ Frate
Minore studiando l'Apocalisse farne un Comentario, e adattando quelle
visioni al suo secolo, ed alla vita corrotta degli Ecclesiastici,
d'aprire la strada a' suoi seguaci di riputare la Chiesa d'Avignone
da Babilonia, e perciò di promettere una Chiesa nuova più perfetta
sotto gli auspicj di S. Francesco, come colui, che avea stabilita la
vera Regola Evangelica, osservata da Cristo, e da' suoi Appostoli;
prorompendo da poi in altre bestemmie, pubblicando il Papa essere
l'Anticristo, la Chiesa d'Avignone la Sinagoga di Satana, e che perciò
non si dovea prestar più ubbidienza a Giovanni XXII, nè considerarlo
più come Papa.

Dall'altra parte gli Scrittori franzesi, pur troppo amanti del lor
paese, e degli uomini della loro Nazione, non possono senza collera
sentire ciò, che i nostri Italiani scrissero di questa traslazione,
e de' loro Pontefici avignonesi. Negli ultimi nostri tempi il più
impegnato in lor difesa si vede essere _Stefano Baluzio_[152], il
quale fa vedere quanto a torto gl'Italiani comparano quella traslazione
all'Esilio Babilonico: che debba più tosto darsi la colpa a' Romani, i
quali avendo ridotta Roma in una perpetua confusione piena di tumulti e
di fazioni, costrinsero Clemente V a trasferire la sua Sede in Francia,
la quale è stata sempre il sicuro asilo de' romani Pontefici: che
agl'Italiani ciò non piacque, non per altro, se non perchè venivano
ad esser privati de' comodi e guadagni, che lor recava la Corte di
Roma; che se si dovesse in ciò dar luogo alle querele, più tosto la
Francia dovrebbe dolersi di questo trasferimento in Avignone, la quale
ne ricevè danni grandissimi, a cagion che li perversi Italiani, che
quivi si portarono, corruppero i costumi de' Franzesi, i quali quando
prima vivevano colla loro simplicità, menando una vita molto frugale,
trasferita la Corte in Francia, appresero dagl'Italiani il lusso, le
astuzie, le simonie, gl'inganni, ed i loro perversi costumi: tanto che
Niccolò Clemange[153] soleva dire, da quel tempo essersi introdotta in
Francia la dissolutezza.

Sostengono ancora i Franzesi, che la residenza dei Papi in Avignone
non iscemò in conto alcuno la possanza della Santa Sede, anzi che
quivi si conservò con sommo onore ed unione: e che non servitù, ma
protezione e riverenza ebbero da' loro Re. Che la vita e costumi de'
Papi avignonesi comparati a quelli de' Papi di Roma, che ressero ivi
la Sede Appostolica prima di questa traslazione, e da poi che quella
fu restituita in Roma, furono meno peggiori, e meno scandalosi. Non
doversi prestar intera fede a Giovanni Villani ed agli altri Scrittori
italiani, che lo seguirono come appassionati; nè doversi l'esterminio
de' Templarj attribuire al disegno che Clemente V ed il Re Filippo
il Bello fecero d'occupare i loro beni, ma ai loro enormi delitti,
ed esecrande eresie provate con reiterate confessioni de' rei. Ed il
Baluzio nelle Note da lui fatte alle Vite de' Papi Avignonesi, adopera
tutti i suoi talenti in purgar Clemente V da ciò, che gl'imputa il
Villani: difende parimente Giovanni XXII, assolve Benedetto XII dallo
stupro, che se gl'imputa della sorella del Petrarca, e dalla vinolenza.
Si studia di far apparire apocrifa la Bolla di Clemente VI del
Giubileo, ed in brieve prende con ardore la difesa di tutti que' Papi,
che in Francia dimorarono.

Ma quantunque gl'Italiani nudrissero sentimenti contrarj a quelli de'
Franzesi, a' nostri Regnicoli però fu uopo seguitare l'esempio de' loro
Principi, ed allontanandosi da tutto il resto d'Italia, secondare i
Franzesi. I nostri Re della Casa d'Angiò, siccome si è potuto osservare
da' precedenti libri di quest'Istoria, erano grandemente obbligati a'
Papi d'Avignone, e per conseguenza gli furono ossequiosissimi, e come
leggi inviolabili erano i loro voleri prontamente eseguiti. Appena
_Clemente V_ diede avviso al re Carlo II della risoluzione presa,
ed eseguita in Francia contro i Templarj, con richiedergli ch'egli
lo stesso facesse eseguire ne' suoi Dominj, che subito questo Re lo
ubbidì, e di vantaggio scrisse al Principe d'Acaja, che eseguisse
parimente egli nel Principato d'Acaja quanto il Papa avea ordinato,
con carcerare incontanente tutti i Templarj, ed occupare i loro beni,
e tenergli in nome della Sede Appostolica[154].

Il Re Roberto avea maggiori obbligazioni col Pontefice Clemente, come
s'è detto, e non men col suo successore _Giovanni XXII_. Questo Papa,
prima d'esserlo, fu nudrito in Napoli nella Corte di Roberto, e dopo
la morte di Pietro de Ferraris succedè egli al posto di Cancelliere
del Re[155], e da poi a sua istanza fu fatto Vescovo d'Avignone: ed
asceso al Pontificato si mantenne fra loro una stretta amicizia e
corrispondenza. Quindi ciò che la Germania, e gli altri Stati d'Europa,
per la contenzione che Giovanni ebbe con Lodovico Bavaro, non potè
soffrire di questo Pontefice, presso di noi fu legge inviolabile.
Egli c'introdusse le _Regole della Cancelleria_, e tutti i modi da lui
inventati per cumular danari, furono nel Regno di Roberto prontamente
eseguiti. Per questa ragione a questi tempi il nome de' _Nunzj, e
Collettori Appostolici_ si legge più frequente nel Regno; e la lor mano
stesa anche sopra i beni delle Chiese vacanti.


§. II. _De' Nunzj, ovvero Collettori Appostolici residenti in Napoli._

Sin da' tempi del Re Carlo I d'Angiò hassi dei _Nunzj_ della Sede
Appostolica residenti in Napoli memoria, leggendosi ne' regali
Archivi della Zecca, che il Re Carlo I nell'anno 1275 per supplica
datagli da Maestro Sinisi Cherico della Camera del Papa, e _Nunzio_
della Sede Appostolica, incaricò a Carlo Principe di Salerno, che
facesse consegnare al Proccuratore del Nunzio suddetto alcune robe
sequestrate, non ostante le pretensioni del Secreto di Terra di Lavoro
e d'altri creditori, per essersi questi nella sua Curia concordati
col Nunzio[156]. Consimili carte si leggono del Re Roberto, ove fassi
menzione de' Nunzj a tempo di Clemente V; facendo questo Re nel 1311
dar il braccio a M. Guglielmo di Balacro Canonico della chiesa di S.
Alterio, ed a Giovanni di Bologna Cherico della Camera del Pontefice
Clemente V Nunzi deputati per due Brevi dal suddetto Pontefice ad
esigere e ricevere i censi alla romana Chiesa dovuti per qualunque
cagione, legati, beni, decime ed altro[157]. Siccome nell'anno 1335
fece dar il suo ajuto e favore a M. Girardo di Valle Diacono della
maggior chiesa di Napoli, e Nunzio destinato dalla Sede Appostolica in
questo Regno per eseguire alcuni affari commessili dalla medesima[158];
e nel 1339 si leggono altre lettere di questo Re, colle quali si dà il
_placito Regio_, ed ogni favore al suddetto Nunzio per eseguire le sue
commessioni[159].

Ma questi Nunzj erano destinati per Collettori delle entrade, che nel
Regno teneva la Sede Appostolica, la quale sin da' tempi antichi,
come si disse nel IV libro di quest'Istoria, avea in Napoli ed in
alcune sue province particolari _Patrimoni_, i quali col corso di
più secoli s'andarono sempre avanzando. Ma insino al Pontificato di
Giovanni XXII non estesero la loro mano ne' beni delle sedi vacanti;
poichè siccome fu altrove avvertito, anche nella investitura data
a Carlo I ancorchè si proccurasse togliere a' nostri Re l'uso della
_Regalia_, che avevano nelle loro Chiese vacanti, i Re di Francia e
d'Inghilterra; nulladimanco, intorno a' frutti di tali chiese, niente
fu mutato contro l'antica disciplina, leggendosi nell'investitura[160]:
_Custodia Ecclesiarum earumdem interim libere remanente penes
personas Ecclesiasticas JUXTA CANONICAS SANCTIONES_; le quali parole
certamente importano, che i beni del morto Prelato o de' Beneficiati,
dovessero conservarsi a' futuri successori, poichè così ordinano
i Canoni. Ciocchè parimente stabilì Papa Onorio nella sua Bolla e
ne' suoi Capitoli, siccome altrove fu rapportato. Nel Pontificato
adunque di Giovanni, negli anni del Regno di Roberto, non volendo
questo Principe contrastare alla cupidigia di colui sempre intento
a cumular denari, stesero i Nunzj appostolici la lor mano anche ne'
beni delle Chiese vacanti, ed in vece di lasciarli a' successori, gli
appropriavano alla Camera Appostolica. Ciocchè una volta introdotto,
fu poi continuato da Benedetto XII suo successore, a cui Re Roberto
non era men tenuto, che a' suoi predecessori, avendogli questo Papa
confermata la sentenza che riportò da Clemente V, colla quale l'avea
preferito nella successione del Regno al Re d'Ungheria. Quindi è, che
nel regal Archivio della Zecca leggiamo più carte di questo Re, per
le quali a tali Collettori, in vece di fargli in ciò ogni ostacolo, si
dà loro tutto l'ajuto e favore. Onde leggiamo, che questo Re a' 28 di
novembre dell'anno 1339 ordinò a tutti gli Ufficiali del Regno, che a
Guglielmo di San Paolo costituito dalla Sede Appostolica per Collettore
delli frutti ed entrade delle Chiese e beni ecclesiastici vacanti de'
Pastori, e Rettori nel Regno, gli diano ogni ajuto, e favore intorno al
raccogliere, e ricuperare i suddetti frutti, ed entrade per beneficio
della Chiesa romana. E nel 1341 a' 26 di giugno comandò parimente
a tutti gli Ufficiali del Regno, che dessero ogni ajuto e favore a
M. Raimondo di Camerato Canonico d'Amiens, ed a Ponzio di Paretto
Canonico Carnutense, Nunzj deputati in Avignone dal Pontefice Benedetto
XII per Commessarj per la Sede Appostolica a ricevere in nome della
Camera Appostolica li beni mobili e tutti i lor crediti e ragioni, che
aveano lasciati a tempo della loro morte Raimondo Vescovo Cassinense e
Lionardo Vescovo d'Aquino[161].

Donde si scorge, che siccome era maggiore la soggezione, che ebbero
i nostri Re angioini alli pontefici d'Avignone, che quella de' Re di
Francia, così fecero valere assai più nel nostro Regno le loro leggi,
che in Francia istessa. In Francia, come rapporta Tommasino[162],
_Clemente VII_ fu il primo, che sedendo in Avignone tentò introdurre
in quel Regno gli Spogli e le incamerazioni de' frutti nelle vedovanze
delle chiese per la morte de' Vescovi, e de' monasteri per la morte
degli Abati; e ciò fece per mantenere la sua corte in Avignone, e
trentasei Cardinali suoi partigiani, nel tempo dello Scisma, mentre in
Roma sedeva _Urbano VI_[163]. Ma il Re Carlo VI con un suo editto[164]
promulgato l'anno 1386 rendè vano questo sforzo. In conformità del
quale furono spedite le patenti e lettere regie nell'anno 1385 e
rinovate nel 1394, donde avvenne, che in Francia si fosse posto agli
spogli affatto silenzio; ed ancorchè Pio II volesse rinovar in Francia
le leggi degli Spogli, Luigi XI nel 1463 parimente le ripresse[165].

Ma presso di noi la legge degli Spogli fu più antica: ed i romani
Pontefici molto tempo prima lo tentarono, leggendosi dalle Costituzioni
di Bonifacio VIII, di Clemente V nel concilio di Vienna, e di Giovanni
XXII che alle querele di molti, per gli abusi, ed inconvenienti
deplorabili che seco recavano, furono costretti a proibirgli, donde
si vede che molto prima s'erano cominciati a tentare; ma secondo
la resistenza più o meno de' Principi, regolavano quest'affare. Dai
nostri Re _Angioini_ non vi ebbero resistenza veruna, anzi agevolavano
l'impresa, e gli davano più tosto aiuto e favore. E quantunque dal
pontefice Alessandro V nel concilio di Pisa e dal Concilio di Costanza,
approvato poi da Martino V anche per concordia avuta colle nazioni
che si opponevano, si fossero gli Spogli tolti; nulladimanco presso di
noi non si rimediò all'abuso, se non nel Regno degli _Aragonesi_, come
diremo al suo luogo.

Furono ancora i nostri Re Angioini e precisamente Roberto,
ossequiosissimi a' Papi Avignonesi ed alle loro leggi, e quando la
Germania poco conto faceva delle compilazioni, che sursero in questo
secolo delle _Clementine_ e delle _Estravaganti_, presso di noi però
ebbero per le cagioni addottate, tutta la forza e vigore.


§. III. _Delle compilazioni delle Clementine e delle Estravaganti._

Sursero in questo XIV secolo nuove compilazioni del diritto pontificio.
Acciocchè i Papi d'Avignone non fossero, anche in ciò, meno che i Papi
di Roma: _Clemente V_ racchiuse in cinque libri le sue Costituzioni, e
quelle stabilite nel Concilio di Vienna; e tenendo nel mese di marzo
dell'anno 1313 pubblico concistoro nel castello di Montilio, vicino
la città di Carpentras, gli fece pubblicare; ma infermatosi poco da
poi e morto nel seguente mese d'aprile, non ebbe tempo di mandargli
alle Università degli studj, perchè nelle scuole s'insegnassero, e per
quattro anni rimasero sospese. Giovanni Aventino[166], per relazione
avutane da Guglielmo Occamo, scrisse, che Clemente nel punto della
morte, considerando, che quelle Costituzioni contenevano molte cose
contrarie alla simplicità cristiana, ordinò che s'abolissero; ma il
suo successore _Giovanni XXII_ trovatele a proposito del suo genio
di congregar tesori, le fece nel mese di ottobre dell'anno 1317
pubblicare; e le trasmise alle Università degli studj, ordinando per
sua Bolla[167], che quelle si ricevessero non meno nelle scuole che ne'
Tribunali. Sortirono due nomi di _Clementine_, e per non confonderle
col sesto, furono anche chiamate _settimo_ delle decretali, come
le chiamarono Giovanni Villani[168], Aventino, Michel di Cesena ed
altri[169].

Non soddisfatto appieno _Giovanni XXII_ di questa compilazione, volle
alle Costituzioni di Clemente aggiungere venti altre delle sue, le
quali furono chiamate utili e salutifere, a cagion dell'utilità grande,
che recavano alla sua Corte; e poichè senz'ordine vagavano fuori
del corpo dell'altre raccolte, furono chiamate _Joannine_[170], come
eziandio le chiamò Cuiacio[171]; ed intorno all'anno 1340 furono per
privata autorità raccolte insieme, nè furono ricevute da tutti per
pubblica autorità. Questo Pontefice vien riputato ancora autore delle
_regole della Cancelleria_[172], inventore delle scandalose _Annate_, e
d'altri sottili ed ingegnosi ritrovamenti per cumular ricchezze. Al di
lui esempio gli altri Pontefici suoi successori, ne stabilirono delle
altre, come Eugenio IV, Calisto III, Paolo II, Sisto IV ed altri; onde
da poi per privata autorità se ne fece di tutte queste _estrazioni_
raccolta, che fu al corpo del diritto pontificio aggiunta, ed ebbero
non meno che le _decretali_ i suoi Chiosatori e commentatori[173].
Ma non da tutte le nazioni furono ricevute: e Guglielmo Occamo, che
fu coetaneo di Giovanni XXII testifica, che sin dal loro nascimento,
furono da molti riprese e condennate come eretiche e false e ripiene
di molti errori[174]. Presso i nostri Canonisti però ebbero credito e
vigore; e mentre durò il Regno degli Angioini, non vi fu cosa, che i
Pontefici avignonesi non facessero, che prontamente non fosse ricevuta;
quindi avvenne che quando la Francia e la Germania cominciavano
a toglier da' loro Regni gli abusi, presso di noi maggiormente si
stabilivano; e li disordini che seguirono da poi nel Regno di Giovanna
I, e de' seguenti Re angioini (dove non meno lo stato politico, per le
tante revoluzioni, che l'Ecclesiastico per lo scandaloso Scisma, che
surse, furono tutti sconvolti) posero le cose in maggior confusione,
ed in altri pensieri intrigarono gli animi de' nostri Principi, sì
che potessero pensare al rimedio, come vedrassi ne' seguenti libri di
quest'Istoria.


  FINE DEL LIBRO VENTESIMOSECONDO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOTERZO


Celebrate che furono l'esequie dell'inclito Re Roberto, la città
di Napoli fece subito gridar per tutto il nome di _Giovanna_ e
d'_Andrea_; ma si vide in pochi dì, come scrive il Costanzo[175],
quella differenza, ch'è tra il dì e la notte; poichè gli Ungheri, de'
quali era Capo Fra Roberto, per mezzo dell'astuzia di lui, pigliarono
il governo del Regno, cacciando a poco a poco dal Consiglio tutti
i più fidati e prudenti Consiglieri del Re Roberto, per amministrar
ogni cosa a volontà loro; onde la povera Regina, che non avea più di
sedici anni, era rimasta solo in nome Regina, ma in effetto prigioniera
di que' barbari, e quel che più l'affliggeva, era la dappocaggine
del marito; il quale non meno di lei stava soggetto agli Ungheri. La
Regina Sancia vedova del Re Roberto, vedendo in tanta confusione la
Casa Reale, che a tempo del suo marito era stata con tanto ordine,
fastidita del Mondo, andò a rinchiudersi nel Monastero di Santa Croce,
edificato da lei presso al mare, dove appena finito l'anno morì con
fama grandissima di santità. I Reali, che stavano in Napoli, vedendosi
da Fra Roberto privi di tutto quel rispetto che solevano avere dal Re
Roberto, andarono ciascuno alle sue Terre, ed in Napoli si vivea con
grandissimo dispiacere. I Cavalieri napoletani, vedendo il Re Andrea
dato all'ozio, e non esservi menzione alcuna di guerra, andarono ad
offerirsi a Roberto Principe di Taranto, che quell'anno armava per
passare in Grecia: ed accettati con molto onore dal Principe, andarono
a servirlo con tutte le loro compagnie, e diedero esempio a molti
Cavalieri privati del Regno che andassero a quell'impresa; e con questa
milizia felicemente il Principe ricovrò fin alla città di Tessalonica;
ed era salito in gran speranza di ricovrare la città di Costantinopoli,
se dalle turbolenze del Regno, che si diranno, que' Capitani, con
quasi tutta l'altra Cavalleria, non fossero stati richiamati alla
difensione delle cose proprie. Frate Roberto pronosticando da questi
andamenti, che i Reali di Napoli avessero da far ogni sforzo di
precipitarlo dal colmo di quell'autorità, che si avea usurpata,
mandò a sollecitare Lodovico Re d'Ungaria fratello maggiore d'Andrea,
che venisse a pigliarsi la possessione del Regno, come debito a lui
per eredità dell'avolo; ma Antonio Buonfinio Scrittore dell'Istorie
d'Ungaria dice, che Lodovico Re d'Ungaria mandò Ambasciadori al Papa
a proccurare, che mandasse a coronar Andrea suo fratello, e che gli
facesse l'investitura, non come marito della Regina Giovanna, ma come
erede di Carlo Martello suo avolo, e che questi Ambasciadori fecero a
tal'effetto molto tempo residenza nella Corte del Papa, che allora era
in Avignone, perchè vi trovarono gran contrasto; e Giovanni Boccaccio
scrive, che appena poterono ottenere le Bolle dell'incoronazione.
Giovanna intanto era stata già solennemente coronata in Napoli per
mano del Cardinal Americo mandato dal Pontefice Clemente VI, il quale
gl'inviò parimente l'investitura, e fu intitolata _Regina di Sicilia e
di Gerusalemme, Duchessa di Puglia, Principessa di Salerno, di Capua,
di Provenza, e di Forcalqueri, e Contessa di Piemonte_: la quale
all'incontro nella Chiesa di Santa Chiara nel dì ultimo d'agosto di
quest'anno 1344 in mano dello stesso Cardinale gli giurò omaggio, con
promessa del solito censo, siccome si legge nell'investitura rapportata
dal Summonte che l'estrasse dall'Archivio regio, ove si conserva[176].

Il Papa avea mandato il Cardinal Americo non solo per ricever il
giuramento da Giovanna, ma l'avea anche creato Balio della medesima
per la sua minor età: al quale parimente avea data potestà di revocare
tutte le donazioni e concessioni fatte da Roberto, e da Giovanna in
pregiudicio della Chiesa romana e del Regno[177]: ma questo baliato
non ebbe alcun effetto[178], perchè Fra Roberto co' suoi Ungheri
governavano ogni cosa. E sebbene i Pontefici romani avessero sempre
avuta tal pretensione di mandar essi i Balj, non ebbero però mai parte
alcuna nel governo.

Avea inoltre questa Regina, come donna savia mandato a chiamare Carlo
Duca di Durazzo figliuolo primogenito del Principe della Morea, e
datagli Maria sua sorella per moglie, dal qual matrimonio ne nacque un
figliuolo chiamato Luigi, che non avendo compito un mese, se ne morì,
e fu sepolto in Santa Chiara, dove ancora oggi si vede il suo Tumulo.
Ed in quest'anno medesimo Luigi di Durazzo, figliuolo secondogenito
del Principe della Morea e fratello di Carlo, tolse per moglie una
figliuola di Roberto o sia Tommaso Sanseverino, dal qual matrimonio ne
nacque poi _Carlo III_ che fu Re di Napoli[179].

Saputosi intanto in Napoli che il Papa avea spedite le Bolle
dell'incoronazione d'Andrea, e che gli Ambasciadori che le portavano,
erano giunti presso a Gaeta: alcuni Baroni che desideravano impedirla,
stimolati anche da' Reali che vi dissentivano, e sopra tutti da Carlo
Duca di Durazzo, stante ancora la dappocaggine d'Andrea, e l'insolenza
degli Ungheri, diedero la spinta a coloro che aveano congiurato
d'ucciderlo, d'accelerar la sua morte, temendo che scoverti i loro
disegni, non fossero per opera di Fra Roberto pigliati e decapitati,
subito che fosse venuto l'ordine del Papa che Re Andrea fosse coronato.
In fatti essendo andati il Re e la Regina alla città d'Aversa, ed
alloggiati nel castello di quella Città, dove poi fu eretto il convento
di S. Pietro a Majella[180], la sera de' 17 di settembre del 1345
quando stava il Re in camera della moglie, venne uno de' suoi Camerieri
a dirgli da parte di Fra Roberto, ch'erano arrivati avvisi di Napoli
di grande importanza, a' quali si richiedea presta provisione; ed il
Re partito dalla camera della moglie, ch'era divisa per una loggia
dall'appartamento ove si trattavano i negozj, essendo in mezzo di
quella, gli fu gittato un laccio al collo e strangolato, e buttato giù
da una finestra, stando gli Ungheri, perch'era di notte, sepolti nel
sonno e nel vino[181].

La novità di questo fatto fece restare tutta quella città attonita,
massimamente non essendo chi avesse ardire di volere sapere gli autori
di tal omicidio. La Regina ch'era di età di diciotto anni, sbigottita
non sapea che farsi: gli Ungheri aveano perduto l'ardire, e dubitavano
d'essere tagliati a pezzi se perseveravano nel governo: talchè il
corpo del Re morto ridotto nella chiesa, stette alcuni dì senza
essere sepolto: ma Ursillo Minutolo gentiluomo e Canonico Napoletano
si mosse da Napoli, ed a sue spese il fece condurre a seppellire
nell'Arcivescovado di Napoli nella cappella di S. Lodovico, dove
essendo stato sin all'età del Costanzo in sepoltura ignobile, Francesco
Capece abate di quella Cappella, ed emulo della generosità di Ursillo,
gli fece fare un sepolcro di marmo, e trasferita poi dall'Arcivescovo
Annibale di Capua la sagrestia in quella Cappella, fu riposto nel muro
avanti la porta della stessa sagrestia, dove oggi ancor si vede.

La vedova Regina si ridusse subito in Napoli, ed i Napoletani con
que' Baroni, che si trovavano nella città andarono a condolersi della
morte del Re, ed a supplicarla, che volesse ordinare a' Tribunali,
che amministrassero giustizia; poichè Fra Roberto e gli altri Ungheri
abbattuti non aveano ardire di uscire in pubblico. La Regina ristretta
co' più savi e fedeli del Re Roberto suo avolo, perchè si togliesse
il sospetto che susurravasi, d'aver ella avuta anche parte all'infame
assassinamento, commise con consiglio loro al conte Ugo del Balzo, che
avesse da provvedere ed investigare gli autori della morte del Re, con
amplissima autorità di punir severamente quelli, che si fossero trovati
colpevoli. Questi dopo aver fatti morire due Gentiluomini Calabresi
della camera del Re Andrea ne' tormenti, fece pigliare Filippa Catanese
col figlio e la nipote, e dopo avergli tutti e tre fatti tormentare
gli fece tanagliare sopra un carro, e la misera Filippa decrepita morì
avanti, che fosse giunta al luogo, dove avea da decapitarsi[182].

Dall'altra parte, essendo arrivata in Avignone la notizia di tal fatto
al Pontefice Clemente, riputando, che s'appartenesse a lui ed alla
Sede Appostolica la cognizione di questo delitto, cominciò a procedere
anch'egli contro i colpevoli. In prima generalmente gli scomunicò,
interdisse, dichiarò infami, ribelli e proscritti; (Questa prima Bolla
di _Clemente VI_ spedita in Avignone nel primo di febbraio 1346 si
legge presso _Lunig_[183]), ma per la lontananza del luogo riuscendo
inutili tutte l'inquisizioni per liquidar le persone, diede con sua
Bolla, spedita in Avignone nel 1346 quinto anno del suo pontificato,
commessione a Bertrando del Balzo G. Giustiziere del Regno, Conte di
Montescaglioso e d'Andria, con amplissima facoltà di procedere contro
i colpevoli; ed in questa Bolla, ch'estratta dal regal Archivio vien
rapportata da Camillo Tutini[184], si leggono fra l'altre queste
parole: _Nos nolentes, sicut nec velle debemus, tam horribile et
detestabile, ac Deo, et hominibus odiosum facinus, cuius cognitio
prima ad nos, et Romanam Ecclesiam in hoc casu pertinere dignoscitur,
relinquere impunitum etc._[185] Ed avendo con permissione anche
della Regina, fatta diligente inquisizione, trovò colpevoli, come
complici, cospiratori ed autori del delitto, Gasso di Dinissiaco Conte
di Terlizzi, Roberto di Cabano Conte di Evoli e gran Siniscalco del
Regno, Raimondo di Catania, Niccolò di Miliezano, Sancia di Cabano
Contessa di Morcone, Carlo Artus e Bertrando suo figliuolo, Corrado
di Catanzaro, e Corrado Umfredo da Montefuscolo. E poichè alcuni di
essi dimoravano nel Regno, la di cui presura era difficile, e per la
protezione che vantavano de' Reali, e perchè s'erano afforzati nelle
loro Terre; il Conte Bertrando ebbe ricorso alla Regina, perchè con suo
general editto si comandasse all'Imperadrice di Costantinopoli, ed a
Lodovico di Taranto suo figliuolo, che sotto fedele e sicura custodia
gli trasmettesse Carlo, Bertrando e Corrado d'Umfredo; e similmente
comandasse al Principe di Taranto, al Duca di Durazzo e loro fratelli,
a tutti i Conti e Baroni, e spezialmente a' cittadini napoletani, che
nel caso dall'Imperadrice suddetta non si fossero quelli trasmessi,
che detti Regali e Conti, e tutti gli altri con tutte le loro
forze si conferissero nelle Terre e luoghi ove coloro fossero, per
imprigionargli, offerendo anche egli di andarvi in persona, affinchè
di essi si prendesse la debita vendetta; e di vantaggio, che scrivesse
a' Vescovi, Vicari e loro Ufficiali, che con effetto mandassero in
esecuzione gl'interdetti e le scomuniche fulminate dal Papa contro di
loro, con dichiarare le terre ove dimoravano interdette, i loro fautori
e ricettatori scomunicati, e che gl'interdetti suddetti tenacemente
si osservassero ed ubbidissero. La Regina a tenor di queste dimande
a' 7 ottobre di quest'anno 1346 fulminò un severo editto, che fu
istromentato per mano di Adenolfo Cumano di Napoli Viceprotonotario
del Regno, di cui mandò più autentici esemplari per tutte le città e
province del Regno, ed in Napoli gli fece affiggere ne' portici del
Castel Nuovo e della G. C. perchè a tutti fosse noto e palese. L'editto
è parimente rapportato dal Tutini, dentro di cui si vede anche inserita
la riferita Bolla di Clemente.

Mandò ancora la Regina, perchè di lei si togliesse affatto ogni
sospetto, il Vescovo di Tropea in Ungaria al Re Lodovico suo cognato
a pregarlo, che volesse avere in protezione lei vedova, ed un picciolo
figliuolo, che l'era nato dal re Andrea suo marito, di cui nel riferito
editto fassi anche memoria, chiamato Caroberto Duca di Calabria[186].
Ma questa missione riuscì infruttuosa alla regina Giovanna; poichè re
Lodovico persuaso già, che ella fosse consapevole e partecipe della
morte d'Andrea, gli rispose, secondo che rapporta Antonio Buonfinio
con una epistola di questo tenore: _Impetrata fides praeterita,
ambitiosa continuatio potestatis Regiae, neglecta vindicta et excusatio
subsequuta, te viri tui necis arguunt consciam, et fuisse participem.
Neminem tamen Divini, humanive judicii poenas nefario sceleri debitas
evasurum_.



CAPITOLO I.

_Seconde nozze della Regina GIOVANNA con LUIGI di Taranto. Il Re
d'Ungaria invade il Regno, e costringe la Regina a fuggirsene, e a
ricovrarsi in Avignone: vi ritorna da poi, e coll'aiuto e mediazione
del Papa ottiene dall'Unghero la pace._


Al ritorno del Vescovo, la Regina fece palese a tutti quelli del
suo Consiglio la risposta, e tutti giudicarono, che l'animo del Re
d'Ungaria fosse di vendicarsi della morte di suo fratello, e compresero
ancora, dall'aver incolpata Giovanna, per aver ritenuta e continuata
la potestà regia, ch'egli pretendesse, che il Regno fosse suo: siccome
ne diede anche manifesti indizi, quando pretese dal Papa l'investitura
del Regno per Andrea suo fratello, non già come marito della regina
Giovanna, ma come erede di Carlo Martello suo avolo. Giudicarono perciò
tutti, ch'era necessario che la Regina si preparasse alla difesa; e
perchè la prima cosa che avea da farsi era di pigliar marito, il quale
avesse potuto con l'autorità e con la persona ostare a sì gran nemico,
Roberto Principe di Taranto ch'era venuto a Napoli a visitarla, propose
_Lodovico_ suo fratello secondogenito, essendo Principe valoroso, e nel
fiore degli anni suoi. A questa proposta applausero tutti gli altri più
intimi del Consiglio, ed essendo già passato l'anno della morte di Re
Andrea, per le novelle che s'aveano degli apparati del Re d'Ungaria, si
contrasse il matrimonio subito, senz'aspettare dispensa del Papa.

Ma la fama della potenza del Re d'Ungaria, e le poche forze del nuovo
marito della Regina, e l'opinione universale che la Regina avesse
avuta parte nella morte del marito, facevano stare sospesi gli animi
della maggior parte de' Baroni e de' Popoli; e benchè Luigi di Taranto
con gran diligenza si sforzasse di fare gli apparati possibili, non
ebbe però quella ubbidienza, che sarebbe stata necessaria, e si seppe
prima, che il Re d'Ungaria era giunto in Italia, che fosse fatta la
quarta parte delle provvisioni debite e necessarie. Onde la Regina che
fu veramente erede della prudenza del gran Re Roberto suo Avolo, volle
in questo fiore della gioventù sua, con una resoluzione savia mostrar
quello che avea da essere, e che fu poi nell'età matura; perchè vedendo
le poche forze del marito, e la poca volontà de' sudditi, deliberò
di vincere fuggendo, poichè non potea vincer il nemico resistendo; e
fatto chiamare Parlamento generale, dove convennero tutti i Baroni, e'
Sindici delle città del Regno, ed i Governatori della città di Napoli,
pubblicò la venuta del Re d'Ungaria, e dolutasi lungamente d'alcuni,
che la calunniavano a torto di tanta scelleratezza, disse ch'era
deliberata di partirsi dal Regno, e gire in Avignone per due cagioni,
l'una per fare manifesta l'innocenzia sua al Vicario di Cristo in
Terra, com'era manifesta a Dio in Cielo: e l'altra per farla conoscere
al Mondo, coll'ajuto che sperava certo di avere da Dio; e che tra tanto
non voleva, che nè i Baroni, nè i Popoli avessero da esser travagliati,
com'era travagliata essa; e però, benchè confidava, che tutti i Baroni
e' Popoli, almeno per la memoria del padre e dell'avolo, non sarebbero
mancati d'uscire in campagna a combattere la sua giustizia, voleva
più tosto cedere con partirsi, e concedere a loro, che potessero
andare a rendersi all'irato Re d'Ungaria; e però assolveva tutti i
Baroni, Popoli, Castellani e stipendiarj suoi dal giuramento, ed
ordinava che non si facesse alcuna resistenza al vincitore, anzi
portassero le chiavi delle terre, e delle castella, senz'aspettare
Araldi o Trombette. Queste parole dette da lei con grandissima
grazia, commossero quasi tutti a piangere, ed ella gli confortò,
dicendo che sperava nella giustizia di Dio, che facendo palese al
Mondo l'innocenzia sua, l'avrebbe restituita nel Regno, e reintegrata
nell'onore. S'imbarcò per tanto da Castel Nuovo per andare in Provenza
il dì 15 gennajo del nuovo anno 1348, e con lei e col marito andò anche
la Principessa di Taranto sua suocera che la chiamavano Imperadrice, e
Niccolò Acciajoli fiorentino, intimo della Casa di Taranto ed uomo di
grandissimo valore.

Intanto Lodovico Re d'Ungaria era col suo esercito entrato nel Regno,
e ricevuto nell'Aquila, vennero ivi a trovarlo il Conte di Celano,
il Conte di Loreto con quel di S. Valentino, e Napolione Orsino con
altri Conti e Baroni d'Apruzzo, i quali gli giurarono omaggio, ed
avendo presa e saccheggiata la città di Sulmona, a gran giornate,
non trovando chi gli facesse ostacolo, se ne veniva in Napoli; onde i
Reali, confidati nel parentado che avevano col Re d'Ungaria, si posero
tutti in ordine per andare ad incontrarlo amichevolmente, sperando
essere da lui umanamente raccolti, tanto più, che conducevano con
loro, come Re, il piccolo Caroberto figliuolo del Re Andrea ch'allora
era di tre anni; e così raccolta una Compagnia de' primi Baroni, si
mossero da Napoli il Principe di Taranto e Filippo suo fratello, Carlo
Duca di Durazzo, Luigi e Roberto suoi fratelli, ed incontrarono il
Re d'Ungaria, che veniva da Benevento ad Aversa, il quale con molta
amorevolezza baciò il nepote, ed accarezzò tutti; ma poichè fu giunto
ad Aversa, concorse un gran numero di Cavalieri, e d'altri Baroni a
riverirlo, e dimorato quivi cinque giorni, volendo il sesto andare in
Napoli s'armò di tutte arme, e fece armare tutto l'esercito e cavalcò,
e passando avanti il luogo dov'era stato strangolato Re Andrea, si
fermò, e chiamò il Duca di Durazzo, dimandandogli da qual finestra
era stato gittato Re Andrea; il Duca rispose, che no 'l sapea, e 'l Re
mostrogli una lettera scritta da esso Duca a Carlo d'Artois, dicendogli
che non potea negare suo carattere, e 'l fè pigliare, ed immantenente
decapitare[187], comandando, che fosse gittato dalla medesima finestra,
onde fu gittato Re Andrea; e rimaso il cadavere insepolto per ordine
del Re sino al dì seguente, fu poi portato a seppellire in Napoli nella
chiesa di S. Lorenzo, ove ancora oggi si vede il suo sepolcro. Questa
fu la morte del Duca di Durazzo figliuolo di Giovanni quintogenito
del Re Carlo II, il quale di Maria sorella della Regina Giovanna non
lasciò figliuoli maschi, ma solo quattro femmine, Giovanna, Agnesa,
Clemenzia e Margarita, delle quali si parlerà più innanzi. Gli altri
Reali, volle il Re che restassero prigioni nel Castello d'Aversa, e di
là a pochi dì gli mandò in Ungaria insieme col picciolo Caroberto; ed
egli continuando il cammino verso Napoli rappresentava uno spettacolo
spaventevole, facendosi portar avanti uno stendardo negro, dov'era
dipinto un Re strangolato, e venutogli incontro gran parte del Popolo
napoletano a salutarlo, egli con grandissima severità finse non
mirargli, nè intendergli, e volle entrare con l'elmo in testa dentro
Napoli, e rifiutando ogni rimostranza d'onore se n'andò dritto al
Castel Nuovo, di cui il Castellano già gli avea portate le chiavi:
onde nacque una mestizia universale e timore, che la città non fosse
messa a sacco dagli Ungheri; perchè subito posero mano a saccheggiare
le case de' Reali, e la Duchessa di Durazzo a gran fatica si salvò,
e fuggì in un navilio, andando a trovare la sorella in Provenza.
Nè volle il Re dare udienza agli Eletti della città, ma volle che
fossero tutti mutati, e fu ordinato che i nuovi Eletti non facessero
cos'alcuna, senza conferire col Vescovo di Varadino Ungaro. E poichè fu
trattenuto due mesi in Napoli, se n'andò in Puglia, dove costituì suo
Vicario Corrado Lupo Barone Tedesco, e dopo aver costituito Castellano
Gilforte Lupo fratello di Corrado del Castel Nuovo, e fatte molte
preparazioni in diversi luoghi del Regno, imbarcandosi in Barletta su
una sottilissima galea passò in Schiavonia, ed indi in Ungaria, non
essendo dimorato più che quattro mesi nel Reame.

In questo mezzo la Regina Giovanna, arrivata alla Corte del Papa
in Avignone con Luigi suo marito, vi furono accolti benignamente
da Clemente, il quale dispensò a' legami della consaguinità per lo
matrimonio contratto[188], e la Regina ebbe Concistoro pubblico, ove
con tanto ingegno e con tanta facondia difese la causa sua, ch'il
Papa ed il Collegio, che aveano avuto in mano il processo fatto contro
Filippa Catanese, e Roberto suo figliuolo, e conosciuto che la Regina
non era nominata, nè colpata in cosa alcuna, tennero per fermo ch'ella
fosse innocente, e pigliarono la protezione della causa sua, spedendo
subito un Legato appostolico in Ungaria a trattare la pace. Questi
trovò molto superbo il Re, o che fosse l'ira del morto fratello, o
l'amore che avea conceputo di così bello ed opulente Regno, che già si
trovava averlo tutto in mano, e lo teneva per suo, poichè il picciolo
Caroberto, poco da poi che fu giunto in Ungaria era morto; ma non per
la difficoltà del negoziare, il Legato volle partirsi da Ungaria, ma
cercò di dì in dì, con ogni arte, mollificare l'asprezza dell'animo di
quel Re.

Intanto i Napoletani, partito che videro il Re d'Ungaria, avendo
intesa la buona volontà del Papa verso la Regina, e che si vedeano
così maltrattati da Gilforte Lupo Castellano, e Luogotenente del Re in
Napoli, cominciarono a sollevarsi, e molti di coloro che erano stati
cortegiani di Re Roberto e della Regina, si partirono ed andarono a
trovarla fin in Provenza ed a confortarla, che se ne ritornasse, perchè
erano tanto indebolite le forze degli Ungheri, e tanto cresciuto l'odio
contra i barbari costumi loro, che senza dubbio sarebbero cacciati
con ogni picciol numero di gente che fosse condotta da Provenza. Non
mancarono ancora di molti Baroni che con messi e lettere secrete la
chiamavano; e questo giovò molto alla Regina, perchè mostrando queste
lettere al Papa, gli fermarono più saldamente in testa l'opinione che
tenea dell'innocenza sua, onde la Regina assicurata del favore del
Papa, e della volontà degli uomini del Regno, cominciò a ricovrar
insieme la fama e la benevolenza dei sudditi, a' quali pareva,
ch'essendosi presentata innanzi al Papa, padre e giudice universale de'
Cristiani, e da lui giudicata per innocente, e degna di esser rimessa
nel suo Regno ereditario, pareva a ciascuno che fosse da riposarsi
sovra quel giudicio, ed attender a far ufficio di buoni e fedeli
vassalli: e da questo mossi i popoli di Provenza e degli altri Stati
di là de' monti, fecero a gara a presentarla, e sovvenirla di danari,
de' quali stava in tanta estrema necessità, che vendè al Papa la città
d'Avignone[189], e col prezzo di quella, e co' danari presentatigli,
fece armare dieci galee, e preso commiato dal Papa insieme con Luigi
suo marito partissi. Angelo di Costanzo[190] narra, che nel partirsi
donò, non vendè al Papa ed alla Chiesa la città d'Avignone, con la
quale s'obbligò tanto l'animo del Papa, che conoscendo ch'ella il
desiderava, donasse il titolo di Re a Luigi suo marito

(Non può ora più dubitarsi di questa vendita, avendone _Lunig_[191]
impresso l'istromento stipulato in Avignone, dove è manifesto questa
città col suo distretto essersi venduta non già donata, e stante la
necessità, ed estremi bisogni della Regina bisognò ella contentarsi del
prezzo offertogli, che non oltre passò la somma di ottantamila fiorini
d'oro di Fiorenza; esprimendosi, che tutto il di più, che valesse,
considerando la Regina quelle parole del Signor nostro Gesù, rammentate
dall'Appostolo, _beatius est dare, quam accipere_, lo donava al Papa
ed alla Chiesa romana, come pura, semplice ed irrevocabile donazione.
Dee nell'istromento trascritto da _Lunig_ emendarsi la data, poichè si
porta stipulato in Avignone a' 12 giugno del 1358, quando molto tempo
prima la Regina avea già da Avignone fatto ritorno in Napoli).

Nel dar a Luigi la benedizione il Papa lo chiamò Re; onde ambedue lieti
e pieni di buona speranza andarono ad imbarcarsi in Marsiglia, e giunti
a Napoli con venti prosperi, la città tutta uscì ad incontrarli nel
Ponte del picciolo Sebeto, 200 passi lontano dalla città, perchè al
Porto di Napoli non si poteano appressare le galee, poichè il Castel
Nuovo, come tutte l'altre castella si teneano dagli Ungari. Discesi
dunque a terra e ricevuti con allegrezza incredibile d'ogni sesso e
d'ogni ordine e d'ogni età, furono condotti sotto il baldacchino in una
casa apparecchiata per loro al Seggio di Montagna. Vennero fra pochi
dì molti Conti e Baroni a visitarla, ed a rallegrarsi del ritorno, e ad
offerirsi di servire a cacciare gli Ungheri. La Regina, ed il Re Luigi
si voltarono a rimunerare, per quanto l'angustia delle facoltà loro
a quel tempo comportava, tutti quelli, che aveano mostrata affezione
al nome loro, con privilegi, titoli, onori e dignità e sovra tutto i
Cavalieri giovani suoi coetanei, come coloro, che speravano più per
amore, che per forza di stipendi far esercito abile a poter cacciare
i nemici del Regno. Ed in questi tempi cominciò ad introdursi fra noi
di darsi a' Baroni il titolo di Duca, perchè prima non era in usanza,
che quello di Conte, ed il titolo di Principe, o di Duca, era de' soli
Reali, ed il primo fu Francesco del Balzo, che dalla Regina Giovanna
I fu fatto Duca d'Andria, ed il secondo fu il Duca di Sessa. Ordinò
ancora Re Luigi una bella Corte, e fece Gran Siniscalco del Regno
Niccolò Acciajoli Fiorentino; e perchè i Popoli del Regno erano in
molte parti oppressi da Corrado Lupo, e da' suoi Ministri Capitani
degli Ungheri, lasciò assediate le Castella di Napoli, e fatta una
buona compagnia di Conti e Baroni ch'erano concorsi a Napoli, e del
fiore della gioventù Napoletana, cavalcò contro il Conte d'Apici, e
quello debellato, passò in Puglia e presa Lucera andò a Barletta. Fu
lungamente con non minor ferocia, che ardire guerreggiato in Puglia, ed
in Terra di Lavoro, e non meno queste province, che l'altre del Regno
si videro ardere d'incendio marziale. Corrado Lupo tosto avvisonne il
Re d'Ungaria, il quale ricevuto l'avviso fu tanto presto, che prima
giunse in Schiavonia, e s'imbarcò per venire in Puglia, che si sapesse
ch'era deliberato di venire; e giunto che fu in Puglia si trovò al
numero di diecemila cavalli, e pedoni quasi infiniti. Si accese per
ciò più fiera ed ostinata la guerra infin che stanchi l'un partito e
l'altro, finalmente diedero apertura a Papa Clemente d'interporre fra
i due Re trattati di pace. Spedì per tanto il Pontefice due Legali,
i quali avendola maneggiata, non poterono allora ottener altro,
che tregua per un anno, onde il Re Lodovico se ne tornò in Ungaria,
lasciando presidio alle Terre, che si teneano con le sue bandiere.
Ma poichè fu in Ungaria, o che fosse destrezza e prudenza del Legato
appostolico, che gli fu sempre appresso; o che fosse, che disegnava
di far guerra coi Veneziani, i quali aveano occupate alcune Terre di
Dalmazia appartenenti al Regno d'Ungaria, concesse in fine la pace
al Re Luigi ed alla Regina Giovanna, rilassando in grazia del Papa
e del Collegio de' Cardinali tutte le sue pretensioni, e liberi i
cinque Reali, ch'erano stati quattro anni carcerati al Castello di
Visgrado. Fu conchiusa questa pace in aprile dell'anno 1351, ed alcuni
aggiungono, che avendo condennato il Papa, come mezzo della pace, il
Re Luigi e la Regina Giovanna a pagare trecentomila fiorini al Re
d'Ungaria per le spese della guerra, egli magnanimamente ricusò di
pigliarli, dicendo, ch'egli non era venuto al Regno per ambizione, nè
per avarizia, ma solamente per vindicare la morte del fratello; nella
quale avendo fatto quanto gli pareva, che convenisse, non cercava
altro, e fu molto lodato e ringraziato dal Papa e dal Collegio.

Usciti da questi affanni Re Luigi e la Regina, mandarono ambasciadori
a ringraziar il Papa ed il Collegio, ed a dimandargli un Legato
appostolico che l'avesse incoronati: il che ottennero agevolmente,
perchè dal Papa fu deputato a ciò il Vescovo Bracarense. Si fece per
tanto in Napoli un gran apparato per la incoronazione, alla quale
fu deputato il dì 25 maggio festa delle Pentecoste; e tutto il Regno
assuefatto a travagli, ad incendj ed a rapine, cominciò a rallegrarsi;
ed oltre i Baroni concorsero in Napoli da tutte le parti infiniti per
vedere una festa tale, la quale parea, che avesse da fare dimenticare
tutte le calamità passate. Nel dì stabilito essendo giunto il Legato
nel luogo dove era l'apparato, con grandissima pompa e solennissime
cerimonie, unse e coronò il Re e la Regina, e fur fatte molte giostre
e molti giuochi d'arme e conviti. Ed appresso, dalla città e da tutto
il Baronaggio fu solennemente giurato omaggio al Re ed alla Regina, i
quali fecero general indulto a tutti quelli, che nelle guerre passate
aveano seguite le parti del Re d'Ungaria; ed il Re Luigi in memoria
di questa Coronazione ordinò, come si disse, la compagnia del _Nodo_,
nella quale si scrissero da 60 Signori e Cavalieri napoletani di
diverse famiglie, ed i più valorosi Campioni di que' tempi.



CAPITOLO II.

_Spedizione del Re LUIGI di Taranto in Sicilia: pace indi seguita, e
sua morte._


Siccome il nostro Regno di Puglia erasi ridotto in assai felice
stato per la pace, e per la presenza e liberalità del Re Luigi, così
all'incontro le cose della Sicilia ogni dì andavano peggiorando:
perocchè crescendo, per la debolezza del picciolo Re Don Luigi, le
discordie tra' Siciliani, ed essendo divisi tutti i Baroni ed i Popoli
dell'isola, si lasciò la cultura dei campi, ch'è la principale entrata
di quel Regno, e parimente tutti gli altri traffichi e guadagni,
e s'attendea solo a ruberie, incendj ed omicidi; onde procedeva
non solo la povertà e miseria di tutta l'Isola, ma la povertà e
debolezza del Re, non potendo i Popoli supplire, non solo a' pagamenti
estraordinarj, ma nè anco a' soliti ed ordinarj; quindi avvenne, che
i Baroni dell'isola si divisero in due parti; dell'una erano capi
i _Catalani_, che s'aveano usurpata la tutela del Re; e dell'altra
quelli di Casa di _Chiaramonte_, ch'erano tanto potenti, che tenevano
occupate Palermo, Trapani, Saragoza, Girgento, Mazara, e molte altre
Terre delle migliori di Sicilia; e benchè non fossero scoverti nemici
del Re, signoreggiavano quelle Terre d'ogni altra cosa, che dal titolo
in fuora; e perchè coloro, che governavano il Re, possedendo la minor
parte di Sicilia, bisognavano cacciare da quella tanto che potessero
tenere il Re, e la Casa sua con dignità regia, e ch'essi potessero
anco accrescere di ricchezze, molti Popoli sdegnati cominciarono ad
alterarsi; e la Città di Messina, la quale era principale di queste,
che il Re possedeva, non potendo soffrire l'acerbo governo del Conte
Matteo di Palizzi, volti i cittadini in tumulto, andarono sin'al
palazzo reale, e l'uccisero; e gli altri Baroni appena poterono salvare
se stessi, e la persona del Re, ritirandosi in Catania. Con l'esempio
de' Messinesi, Sciacca ancora uccise i Ministri del Re, che v'erano; e
perchè di questo moto era stato autore il Conte Simone di Chiaramonte,
e conosceva, che contro di se sarebbe voltata tutta l'ira del Re e del
suo Consiglio, mandò a Re Luigi in Napoli, chiamandolo, non all'impresa
di Sicilia, come aveano altre volte chiamato Re Roberto ma ad una
certa vittoria, avvisandolo, che le cose di quel Regno stavano in tali
termini, che con ogni poca forza si sarebbe conquistato.

Il Re Luigi, e 'l Regno per le passate guerre si trovavano non men
disfatti, che i Siciliani, cominciando allora a cogliere i primi frutti
della quiete e della pace; e quelle forze, che a tempo di Re Roberto
erano potenti ed unite, ora per la presenza di tanti Reali, tra' quali
era diviso il Regno, erano deboli e disunite; onde non potè mandarvi
quel numero di gente e di vittovaglie, che sarebbe stato necessario
a tanta impresa; nulladimanco vi mandò il G. Siniscalco Acciajoli
con cento uomini d'arme, e Giacomo Sanseverino Conte di Melito con
quattrocento fanti, sopra sei galee e molti vascelli grossi di carico,
con la maggior quantità di vittovaglie, che fu possibile. Questi giunti
in Sicilia, col favore del Conte Simone, se n'andarono a Melazzo,
e l'occuparono, e postovi presidio e Governadore in nome del Re,
andarono a Palermo con gran parte di vittovaglia, e furono ricevuti dai
Palermitani, già ridutti all'estremo bisogno d'ogni cosa da vivere con
infinita allegrezza; e que' di Chiaramente fecero alzare le bandiere di
Re Luigi a Trapani, e Saragoza, ed a tutte l'altre Terre, che teneano
essi; e benchè non avessero tante genti di guerra, che bastassero a
tenerle con presidio di Re Luigi, era tanto più debole la parte del
Re di Sicilia, che senza forza di arme si mantennero in fede del Re di
Napoli, solamente con munizione di vittovaglia, che gli era mandata di
Calabria.

Per questi successi i Governadori del Re Don Luigi, desiderosi di non
fare annidare in Sicilia le genti del Re Luigi, avanti che crescessero
più, fecero ogni sforzo per riavere Palermo; ma fu in vano, perchè
i cittadini che avevano gustata la comodità delle vittovaglie si
mantennero in fede del Re Luigi, servendo con molta fede e diligenza
al G. Siniscalco, ed al Conte di Mileto, che difendevano la città onde
furono costretti ritornarsene.

Il Re D. Luigi fra pochi dì venendo a morte, fu gridato Re _Federico_
suo ultimo fratello, il quale non avendo che tredici anni, era sotto
il governo de' Catalani, per opera de' quali essendo sbandito da
Messina Niccolò Cesario, Capo di parte molto potente in quella città,
egli ancora seguì la parte del Re Luigi, ed avuta intelligenza con
alcuni de' suoi seguaci, di notte entrato in Messina con alcuni
soldati e aderenti di casa di Chiaramonte, assaltò i suoi nemici. Il
popolo essendosi levato a rumore, diede facoltà di poter intromettere
ducento cavalli, e 400 fanti, mandati dal gran Siniscalco, e da'
Conti di Chiaramonte, com'era stato stabilito tra loro, e cacciandone
quelli della fazione contraria, s'alzarono le bandiere del Re Luigi.
Questi subito, ch'ebbe l'avviso della presa di quella città, la quale
tenea per veramente sua, poichè l'altre erano tenute più tosto da'
Chiaramontesi, che dagli Ufficiali suoi, venne subito con la Regina
Giovanna sua moglie a Reggio in Calabria, mandando al Gran Siniscalco
supplimento di 50 altre lance, e 300 fanti a piedi, e buona quantità
di vittovaglia a Messina, che ne stava in grandissima necessità.
Fu tanta l'allegrezza de' cittadini, che giunti con quelle genti,
ch'erano venute allora, assaltarono i castelli di San Salvatore, e di
Mattagrifone, che furono stretti a rendersi con due sorelle del Re,
Bianca, e Violante, le quali con onorevole compagnia furono mandate a
Reggio alla Regina, e da lei furono con molta cortesia ed amorevolezza
ricevute ed accarezzate. Parve al Re non indugiare più, e passato
con la Regina il Faro, nella Vigilia della Natività del Signore del
1355 entrarono in Messina con grandissima pompa, e furono alloggiati
nel palazzo reale, dove con le solite cerimonie fu giurato omaggio e
fedeltà da tutti.

Pochi dì da poi vennero il Conte Simone e Manfredi e Federico di
Chiaramonte, i quali il Re onorò molto, come Capi della famiglia, ed
autori dell'acquisto di quel Regno; ma desiderando il conte Simone,
che Re Luigi gli desse Bianca sorella del Re Federico per moglie,
e persuadendosi, che non dovesse negarla per li meriti suoi, e
quasi per prezzo d'un Regno, confidentemente ne parlò al Re. Questa
richiesta parve di molta importanza, non per se stessa, ma per quelle
conseguenze, che avrebbe potuto portar seco tal matrimonio, poichè
essendo il Re Federico ultimo della stirpe de' Re di Sicilia della
Casa d'Aragona, e di età e di senno tanto infermo ch'era chiamato
_Federico il Semplice_, poteva agevolmente succedere, che aggiungendosi
alla potenza del Conte Simone la ragione, che gli portava la moglie,
n'avesse cacciato l'uno e l'altro Re; onde allora, nè volle negarlo,
nè prometterlo; ma tra pochi dì gli offerse per moglie la Duchessa di
Durazzo. Vedendosi dunque Simone con tale offerta escluso, ne prese
tanto sdegno e rammarico (perchè presumea, che il merito suo col Re
superasse ogni grazia, che se gli potesse fare) che se ne morì di là a
pochi dì, e gli altri di quella famiglia, quasi fossero rimasti eredi
dello sdegno di Simone, cominciarono a rallentarsi dall'affezione del
Re Luigi. Questi intanto mandò ad assediare Catania, dove era il nuovo
Re con tutte le poche forze sue; ma essendo state rispinte le sue genti
e disordinate e rotte, fu fatto prigione ancora Raimondo del Balzo
Conte Camerlengo, ed appena scampò il Gran Siniscalco Acciajoli. Questa
nuova diede grandissimo dolore a Re Luigi, al quale tolti gli ornamenti
della moglie andò a far danari per riscattare il Conte; ed avendo poi
mandato l'Araldo al Re Federico con la taglia, che si dimandava del
Conte, Federico non volle che si pigliasse taglia, ma mandò a dire, che
non vi era altra via per la liberazione del Conte, che il cambio della
libertà delle due sorelle. E perchè Luigi amava estremamente il Conte,
si contentò di mandarne le sorelle onorevolmente accompagnate sin in
Catania.

Tra questo tempo le novitadi, che successero nel Regno, sforzarono Re
Luigi a tornare in Napoli, e per non abbandonare l'impresa di Sicilia,
la quale per l'estrema povertà del nemico tenea per vinta, lasciato
Capitan Generale in Sicilia il Gran Siniscalco Acciajoli, egli con la
Regina se ne ritornò in Napoli. Cominciavano di bel nuovo in questo
Regno a sorgere disordini e confusioni poco minori di quelli, che
furono a tempo degli Ungheri; poichè il Principe di Taranto, che per
essere fratello maggiore del Re, si tenea di poter governare il Re e
'l Regno insieme, avea pigliato in odio, e perseguitava molti Baroni,
i quali volevano conoscere soli Re Luigi e la Regina Giovanna per
Signori. Parimente Luigi di Durazzo cugino del Re, vedendosi stare nel
Regno come povero Barone insieme con Roberto suo fratello, si giunse
col Conte di Minervino, il quale era salito in tanta superbia, che avea
occupato la città di Bari, e s'intitolava Principe di Bari e Palatino
d'Altamura, oltre gli altri titoli de' quali andava molto altiero; e
mantenea una banda d'uomini d'armi, con tanti cavalli, che gli parea
poter competere col Principe di Taranto e col Re; e per poter mantenere
quelle genti, andava discorrendo per le più ricche parti del Regno, e
taglieggiando le Terre senz'aver rispetto alcuno al Re ed alla Regina.
Si vide perciò Re Luigi impegnato a reprimere la superbia di costui, e
dopo varj fatti d'arme, che posero sossopra molte province del Regno,
finalmente ripresse i ribelli, e Luigi di Durazzo rimanendo solo e
senza forza, per lo vincolo del sangue fu riconciliato col Re e colla
Regina; e dato sesto per varj provvedimenti alla quiete del Regno, e
ridottosi nella primiera tranquillità, tornò il Re col pensiero alla
guerra di Sicilia.

Dall'altra parte que' di Sicilia, ch'erano del partito di Re Federico,
vedendosi molto inferiori di forze, fecero, che il loro Re prendesse
per moglie la sorella del Re d'Aragona, ma il novello parentado poco
potè giovargli, poichè la Sposa poco da poi se ne morì; ed in questo
mezzo per una parentela, che fecero i Chiaramontesi col Conte di
Ventimiglia, Capo della parte di Federico, si cominciò a trattar la
pace tra questo Principe, e 'l Re Luigi e la Regina Giovanna, la quale
dopo varj maneggi, fu finalmente conchiusa con queste condizioni:
Che Re Federico s'intitolasse _Re di Trinacria_: che pigliasse per
moglie Antonia del Balzo figliuola del Duca d'Andria e della sorella
di Re Luigi: che riconoscesse quel Regno dal Re Luigi e dalla Regina
Giovanna, ed a tal segno dovesse pagare a loro nel giorno di San
Pietro tremila once d'oro ogni anno: e quando il Regno di Napoli
fosse assaltato, pagare cento uomini d'arme, e dieci galee armate in
difensione di quello. All'incontro, che dal Re Luigi fossero restituite
tutte le cittadi, terre e castella, che sin a quel giorno erano state
prese, e si teneano colle bandiere sue.

(In esecuzione di questa pace, si legge presso _Lunig_[192] il mandato,
ovvero Plenipotenza, che il Re _Federico_ diede per stipularla, e
perchè gli articoli accordati fossero confermati da papa _Gregorio
XI_, come diretto Padrone dell'isola di Sicilia, nel qual mandato
s'intitola _Rex Trinacriae_. Si legge ancora pag. 1123 una ben lunga
Bolla di questo Papa, nella quale, dandogli la formula del giuramento
di fedeltà, si prescrivono al Re _Federico_ altre leggi e condizioni e
così pesanti, specialmente intorno alle appellazioni di tutte le cause
ecclesiastiche, di doversi portare in Roma; che se mai questa Bolla
avesse avuto il suo effetto, non vi sarebbe rimaso in Sicilia vestigio
alcuno del Tribunal della Monarchia).

Questo fu l'ultimo termine delle guerre di Sicilia, che durarono tanti
anni, con tanto spargimento di sangue, e con spesa inestimabile. Ma è
cosa veramente da notare, che il Regno di Sicilia, preteso dai romani
Pontefici loro feudo, e che ad essi spettasse darne l'investitura,
onde fecero tanti sforzi per levarlo dalle mani de' Re d'Aragona, ed a
questi tempi reso ligio e tributario a' Re di Napoli, col correr degli
anni si fosse totalmente sottratto, non men dalla soggezione degli uni,
che degli altri, che ora vien riputato più libero e independente, che
il Regno istesso di Napoli; poichè, dopo il famoso Vespro Siciliano,
per le continue guerre sostenute co' Re angioini, i quali ebbero
sempre a lor favore collegati i Pontefici romani, i Re d'Aragona non
richiesero più investitura dalla Sede Appostolica per quell'Isola, ed
anche da poi fatta pace co' Re di Napoli, nemmen la ricercarono; ed
in fatti morto il Re D. Federico, non lasciando di se prole maschile,
e succeduta in quel Regno nell'anno 1368 Maria sua figliuola, nè
Regina di Trinacria volle essere nomata, nè investitura alcuna prese
da' Romani Pontefici. Le stesse pedate furono calcate da Martino I
d'Aragona, che nell'anno 1402 succedè a Maria, e da Martino II suo
successore. E morto questi senza figliuoli, essendo stato nell'anno
1411 eletto Re d'Aragona, di Valenza e di Sicilia Ferdinando d'Aragona
figliuolo di Giovanni Re di Castiglia, questi tramandò al suo figliuolo
Alfonso, il quale nell'anno 1416 succedè in tutti i suoi Regni, anche
coll'istesse condizioni il Reame di Sicilia, non ricercandone da'
Pontefici romani investitura alcuna, siccome fecero da poi tutti gli
altri loro successori; tantochè nel Regno di Sicilia, siccome per
lo bisogno e circostanze di que' antichi tempi fu introdotto allora
costume di prender l'investitura di quell'isola da' Romani Pontefici,
così ora per desuetudine e per contrario uso si è quella affatto
tolta ed abolita: tal che oggi quel Regno rimane totalmente libero ed
indipendente.

Dall'altra parte, a questi tempi del Re Luigi di Taranto, si vide
dependente e tributario de' Re di Napoli, secondo le riferite
condizioni di questa pace; ma tali condizioni non furono mai adempite,
nè ebbero alcuna esecuzione; poichè se bene in un diploma rapportato
da Inveges[193] di Gregorio XI del 1373 spedito poco da poi conchiusa
questa pace, fosse nominato il Regno di Napoli col nome di Regno di
Sicilia, e quello di Sicilia, col nome di Trinacria, nulladimanco
niuno de' Re di quell'isola ne' loro diplomi s'intitolarono _Re di
Trinacria_, ma di Sicilia _ultra Pharum_, chiamando il Regno napoletano
Sicilia _citra Pharum_, come si legge ne diplomi di Martino e degli
altri Re di Sicilia suoi successori. Ed essendosi questi due Regni da
poi uniti nella persona d'Alfonso I d'Aragona, egli fu il primo, che
cominciò a intitolarsi _Re dell'una_ e _l'altra Sicilia_. Nè si legge
essersi riconosciuto quel Regno da' Re di Napoli, e che nel dì statuito
di S. Pietro si fossero mai pagate per tributo le 3000 once d'oro,
nè pagati i cento uomini d'armi e le dieci galee armate, convenute
nelle Capitolazioni sudette; poichè i Re di Napoli, insino ad Alfonso
I d'Aragona, furono in tante guerre distratti e per tante rivoluzioni
interne del Regno agitati, che non poterono pensare ad altro, che
alla propria loro salute e alla conservazione del proprio Regno, come
diremo.

Terminata in cotal guisa la guerra di Sicilia, e ripressi i moti
intestini del nostro Regno, ritornò a godersi la quiete; ma non
durò guari, poichè nell'anno 1362 ammalatosi di febbre acutissima Re
Luigi venne a morte, non avendo più che 42 anni. Fu questo Principe
bellissimo di corpo e d'animo, e non meno savio, che valoroso; ma
fu poco felice nelle sue imprese, perocchè ritrovandosi il Regno
travagliato ed impoverito per tante guerre e per tante dissensioni,
non ebbe luogo, nè occasione dì adoperare il suo valore, massimamente
nell'impresa di Sicilia.

Narra Matteo Palmerio nella vita del Gran Siniscalco Acciajoli, che
_Innocenzio VI_ successore di Clemente s'era offeso e grandemente
crucciato col Re Luigi, perchè non gli pagava il solito censo; e perciò
il Re mandò Ambasciadori in Avignone per placarlo, e questi furono
l'Acciajoli e l'Arcivescovo di Napoli Giovanni; ed il Bzovio aggiunge,
che a Bertrando successor di Giovanni fu data facoltà da Innocenzio
VI d'assolvere il Re Luigi _in articulo mortis dalla scomunica ob
non solutum Romanae Ecclesiae censum_[194]. Regnò Luigi cinque anni
prima che fosse coronato, e dieci dopo l'incoronazione. Fu mandato il
suo cadavere nel Monastero di Monte Vergine presso Avellino 20 miglia
lontano da Napoli, e fu sepolto appresso la sepoltura dell'Imperadrice
Margherita sua madre, ove ancor oggi si addita il suo tumulo sostenuto
da otto colonne colla sola sua effigie, senza iscrizione. Non lasciò
figliuoli, perchè due femmine, che procreò con la Regina Giovanna,
morirono in fascia.

Morì non molto tempo da poi in Napoli il Principe di Taranto, e
fu sepolto nella chiesa di S. Giorgio maggiore, e lasciò erede
del Principato e del titolo dell'imperio Filippo suo fratello
terzogenito[195]. Questo Principe poco innanzi avea tolto per moglie
Maria sorella della Regina, la quale poco da poi morì; onde tolse la
seconda moglie, che fu Elisabetta figliuola di Stefano Re di Polonia,
colla quale visse fin al 1368, anno della sua morte[196]. Morì egli
in Taranto ove giace sepolto, nè lasciò di se figli, onde lasciò il
Principato di Taranto, con il titolo dell'Imperio a Giacomo del Balzo
figliuolo di Margarita sua sorella e di Francesco Duca d'Andria. Morì
ancora Luigi di Durazzo Conte di Gravina e di Morcone, e fu sepolto
nella Chiesa di Santa Croce, appresso il sepolcro della Regina Sancia,
il quale lasciò un figliuolo chiamato Carlo, che, come si dirà, fu
poi Re di Napoli, e poco appresso morì in Francia Roberto Principe
della Morea, fratello del Conte, amendue figliuoli di Giovanni Duca
di Durazzo; onde con esempio notabilissimo della fragilità delle cose
umane, di così numerosa progenie del Re Carlo II non rimase altro
maschio, che Lodovico Re d'Ungaria e Carlo di Durazzo nel Regno di
Napoli, figliuolo del già detto Luigi di Durazzo. E non guari da poi si
vide perduto tutto ciò, che questa progenie possedeva in Grecia; poichè
ritenendosi per anche Corfù e Durazzo, avendo la Regina Margarita
moglie del Re Carlo di Durazzo (mentre suo marito era in Ungaria, ed
ella governava) fatta pigliare una nave de' Veneziani, nè volendola
restituire, ma ritenendosela con tutte le mercatanzie che vi erano di
molta valuta, diede occasione a' Veneziani, che dopo la morte del Re,
con questa scusa occupassero il Ducato di Durazzo, nel quale finì di
perdersi quanto la linea di Re Carlo I avea posseduto in Grecia[197].



CAPITOLO III.

_Altre nozze della Regina GIOVANNA, e ribellione del Duca d'Andria._


Rimasa vedova la Regina del Re Luigi di Taranto, perchè nel governo del
Regno non s'intrigassero i Reali di Napoli, tanto i Napoletani, quanto
i Baroni desideravano, ch'ella sola governasse, e perciò per mezzo di
coloro, ch'erano più intimi nella Corte della Regina, cominciarono
a confortarla, che volesse subito pigliar marito, non solo per
sostegno dell'autorità sua reale, ma ancora per far pruova di lasciare
successori per quiete del Regno; e così fu tosto destinato per suo
marito l'Infante di Majorica, chiamato Giacomo d'Aragona, giovane bello
e valoroso; onde parea ch'essendo anche la Regina d'età di 36 anni, si
potesse ragionevolmente sperare ch'avessero insieme a far figliuoli,
e conchiuso il matrimonio, venne lo sposo sulle Galee in Napoli in
quest'anno 1363 e fu da' cittadini ricevuto come Re. Sposò egli la
Regina, e da lei fu creato Duca di Calabria: ma l'avversa fortuna
del Regno non volle; poichè questo matrimonio fu poco felice, perchè
guerreggiando il Re di Majorica con quello d'Aragona suo cugino per lo
Contado di Rossiglione, e di Cerritania, volle il nuovo marito della
Regina andare a servire il padre in quelle guerre, ove prima fu fatto
prigione, e poi riscosso dalla Regina, e tornandovi la seconda volta
vi morì. Restò molti anni la Regina in veduità, e governò con tanta
prudenza, che acquistò nome della più savia Reina, che sedesse mai
in Sede reale; per la qual cosa quasi risoluta di non tentare più la
fortuna con altri mariti, cominciò a pensare di stabilirsi successore
nel Regno. Si aveva ella allevata in Corte Margarita, figliuola ultima
del Duca di Durazzo e di Maria sua sorella; e questa pensò di dare
a Carlo di Durazzo con dispensazione appostolica, poichè erano tra
di loro fratelli cugini; ma questo suo pensiere fu per qualche tempo
impedito, perchè avendo il Re d'Ungaria guerra con i Veneziani, mandò
a chiamare Carlo di Durazzo dal Regno di Napoli, che avesse a servirlo
in quella guerra. Questi ancor che fosse molto giovane, andò con una
fioritissima compagnia di Cavalieri, e servì là molti anni; il che
fece stare sospeso l'animo della Regina, sospettando, che nel cuore
del Re d'Ungaria fossero rimaste tante reliquie dell'odio antico, che
bastassero a far ribellare da lei Carlo; però al fine, come si dirà
poi, riuscì pure la deliberazione fatta di tal matrimonio, dal quale
per altra via ne seguì la rovina sua.

Ma dall'altra parte, parendo ad ogni uomo di potere agevolmente
opprimere una donna, rimasta così sola col peso del governo d'un Regno
tanto grande e di sì feroci province, se mancavano ora i Reali di
perturbarlo, non mancarono i vicini ed i più potenti Baroni di quello.
Fu turbato prima da Ambrosio Visconte figliuolo bastardo di Bernabò
Signore di Milano, il quale entrato nel Regno per la via d'Apruzzo
con dodicimila cavalli, ed occupate per forza alcune Terre di quelle
contrade, camminava innanzi con incredibile danno e spavento; ma la
Regina con quel suo animo virile e generoso, tosto lo represse, poichè
unite come poté meglio sue truppe, sconfisse l'esercito nemico, e
liberò il Regno da tale invasione.

Questa vittoria diede grand'allegrezza alla Regina, la quale trovandosi
ora nel più quieto stato volle andare a visitare gli Stati di Provenza
e gli altri che possedeva in Francia, ed andò principalmente in
Avignone a visitare il Papa _Urbano V_, che ad Innocenzio VI, successor
di Clemente, era succeduto; dal quale fu benignissimamente accolta e
con grandissimo onore[198]. Poi essendo stata alcuni mesi a visitare
tutti que' Popoli, e da loro amorevolmente presentata, se ne ritornò in
Napoli molto contenta, per aversi lasciato il Papa benevolo ed amico.

Giunta in Napoli mandò in effetto il matrimonio di Carlo di Durazzo con
Margarita sua nipote, mostrando a tutti intenzione di voler lasciare
a loro, il Regno dopo la sua morte; ma non per questo Carlo di Durazzo
lasciò il servizio del Re d'Ungaria, anzi con buona licenza e volontà
della Regina tornò nella Primavera di quest'anno 1370 a servire quel
Re contro i Veneziani, lasciando Margarita con una fanciulla di circa
sei mesi chiamata Maria, come l'avola materna, e lei gravida, la quale
nel principio del seguente anno partorì un'altra figliuola chiamata
Giovanna, come la Regina sua zia, che poi, come diremo, fu Regina di
Napoli.

Ma mentre il Regno stava per rifarsi, avendo tregua dall'invasioni
esterne, fu tutto sconvolto per una guerra intestina, che fu cagione
di molti mali; perocchè essendo spenti tutti gli altri Reali, rimase
grandissimo Signore Francesco del Balzo Duca d'Andria, perchè, come
si disse, colla morte di Filippo Principe di Taranto suo cognato,
ch'avea lasciato erede Giacomo del Balzo suo figliuolo, come tutore
di lui, possedeva una grandissima Signoria, e per questo era divenuto
formidabile a tutti i Baroni del Regno: onde pretendendo, che la città
di Matera appartenesse al Principato di Taranto, la quale era posseduta
allora da un Conte di Casa Sanseverino, andò con genti armate, e la
tolse di fatto a quel Cavaliero, minacciando ancora di torgli alcune
altre Terre convicine. Per questo insulto i Sanseverineschi, che per
numero di Personaggi e di Stato erano i più potenti Baroni del Regno,
ebbero ricorso alla Regina, la quale subito mandò al Duca a dirgli, che
si contentasse di porre la cosa in mano d'arbitri, ch'ella eleggerebbe
non sospetti, e non volesse mostrare far tanto poco conto di lei. Ma
il Duca rifiutando ogni partito, volle persistere nella sua pertinacia
di voler la Terra per forza, onde la Regina dopo aver chiamati tutti
i parenti del Duca ed adoperati più mezzi, desiderosa di tentare ogni
cosa, prima che venire ad usare i termini della giustizia, poichè
vide l'ostinazione del Duca, comandò, che fosse citato; e continuando
il Duca nella solita contumacia, volle ella un dì a ciò deputato,
sedere in sedia reale con tutto il Consiglio attorno, e profferire
la sentenza contro del Duca come ribelle: fatto questo, ordinò a'
Sanseverineschi, che dovessero andare ad occupare, non solo la Terra
a lor tolta, ma quante Terre avea in Puglia il Duca in nome del Fisco
reale, come giustamente ricadute alla Corona per la notoria ribellione
di lui. Bisognò contrastar lungamente per debellare il Duca, il quale
s'era posto in difesa; finalmente gli fu forza, debellato che fu,
fuggirsene dal Regno, onde la Regina avendo occupati tutti i suoi
Stati, ed essendosi a lei rese Tiano e Sessa, per rifarsi della spesa,
che avea fatta in questa guerra, vendè Sessa a Tommaso di Marzano Conte
di Squillaci per venticinquemila ducati, e Tiano per tredicimila a
Goffredo di Marzano Conte d'Alifi; ma a Tommaso concesse il titolo di
Duca sopra Sessa, e fu il secondo Duca nel Regno dopo quello d'Andria.
Mandò ancora a pigliar la possessione del Principato di Taranto perchè
il picciolo Principe, dopo la fuga del padre, s'era ricovrato in
Grecia, dove possedeva alcune terre.

Ma non si ristette il Duca d'Andria di tentar nuove imprese; poichè
essendo ad Urbano succeduto Gregorio XI suo parente, ebbe ricorso a
costui, dal quale fu bene accolto, e parte con danari ch'ebbe da lui
sotto spezie di sussidio, parte con alcuni, che n'ebbe dalle Terre,
ch'egli possedeva in Provenza, se ne ritornò in Italia, dove se
gli offerse gran comodità di molestare il Regno e la Regina, perchè
trovandosi allora Italia universalmente in pace, molti Capitani di
ventura oltramontani stavano senza soldo, tal ch'ebbe poca fatica con
quella moneta che avea raccolta, ma con assai più promesse a condurgli
nel Regno. Entrovvi egli con tredicimila persone da piedi e da cavallo,
e con grandissima celerità giunse prima a Capua, che la Regina avesse
tempo di fare provisione alcuna; onde non solo tutto il Regno fu posto
in iscompiglio, ma la città di Napoli istessa in grandissimo timore
e sospetto; contuttociò la Regina ch'era da tutti amata e riverita,
si provide ben tosto per la difesa, e già s'apparecchiava di far la
massa dell'esercito a Nola, quando il Duca avvicinandosi ad Aversa,
andò a visitare Raimondo del Balzo suo zio carnale Gran Camerario
del Regno, persona, e per l'età, e per la bontà venerabile e di
grandissima autorità, il quale stava in un suo casale detto Casaluce.
Questo grand'uomo, tosto che vide il Nipote, cominciò ad alta voce a
riprenderlo e ad esortarlo, che non volesse essere insieme la ruina,
e 'l vituperio di Casa del Balzo, con seguire un'impresa tanto folle
ed ingiusta: perchè bene avea inteso, che le genti ch'egli conducea
seco, erano ben molte di numero, ma pochissime di valore, nè potrebbe
mancare che non fossero sconfitte dalle forze della Regina, e di
tutto il Baronaggio del Regno, al quale egli era venuto in odio per la
superbia sua insopportabile. Il Duca sbigottito, e pien di scorno alle
parole del buon vecchio, non seppe altro che replicare, se non che quel
che facea era tutto per riavere lo Stato suo, il quale non si potea
altrimenti per lui recuperare, per molto che esso avesse pentimento
della ribellione. Replicogli il zio, che questa via che avea pigliata,
non era buona, anzi gli averia più tolta la speranza di ricovrare
lo Stato per sempre, e che 'l meglio era cedere, e cercare, con
intercessione del Papa, di placare l'animo della Regina. Valse tanto
l'autorità di quello uomo, che 'l Duca vinto da quelle ragioni, prese
subito la via di Puglia con le genti che avea condotte, sotto scusa
di volere ricovrare le Terre di quella provincia; e come fu giunto
alla campagna d'Andria proccurò, che gli fosse posto in ordine un
naviglio, in cui, disceso alla marina, s'imbarcò, e ritornò in Provenza
a ritrovare il Papa. Le genti, che avea condotte, trovandosi deluse, si
volsero a saccheggiare alcune terre picciole, per indurre la Regina ad
onesti patti; e perch'ella desiderava molto la quiete, patteggiò con
loro, ch'uscissero fuor del Regno, pigliandosi sessantamila fiorini.
Queste cose fur fatte fin all'anno 1375, nel qual morì Raimondo del
Balzo Gran Camerario, lasciando di se ornatissima fama; la Regina ebbe
gran dispiacere della perdita di un Baron tale, e creò in suo luogo
Gran Camerario Giacomo Arcucci Signore della Cirignola.

La Regina in questi tempi, o che le fosse venuto in sospetto il troppo
amore di Carlo di Durazzo verso il Re d'Ungaria, e che temesse di
quel che poi successe, o che fosse istigata dal suo Consiglio per
vedersi così sola a dover sempre combattere a' continui moti del Regno:
determinò di togliere marito, perchè, ancora ch'ella fosse in età
d'anni quarantasei, era sì fresca, che dimostrava molta attitudine di
far figli: tolse dunque per marito _Ottone Duca di Brunsuic_, Principe
dell'Imperio e di linea imperiale, Signor prudente e valoroso[199],
e d'età conveniente alla sua e volle per patto che non s'avesse da
chiamare Re, per riservar forse a Carlo di Durazzo la speranza della
successione del Regno. Venne Ottone nel dì dell'Annunziata del seguente
anno 1376 ed entrò in Napoli guidato sotto il Pallio per tutta la città
con grandissimo onore sino al Castel Nuovo dov'era la Regina, ed ivi
per molti giorni si ferono feste reali.

Questo matrimonio dispiacque assai a Margarita di Durazzo, la quale
nel medesimo tempo avea partorito un figliuol maschio, che fu poi
Re Ladislao, ed ella se ben credea per certo, che dalla Regina non
fossero nati figliuoli, tuttavia dubitava, che introducendosi Ottone
nel Regno con gente tedesca, si sarebbe talmente impadronito delle
fortezze e di tutto il Regno, che sarebbe stato malagevole cacciarlo,
ed ella ed il marito ne sarebbero rimasti esclusi. Ma la Regina con
molta prudenza stette ferma in non volere dare il titolo di Re al
marito, riserbandolo, se la volontà di Dio fosse stata di dargli alcun
figliuolo; e sempre nel parlare dava segno di tenere cura, che 'l
Regno rimanesse nella linea mascolina del Re Carlo II. E per mostrar
amorevolezza e rispetto al marito gli fece donazione di tutto lo Stato
del Principe di Taranto, ricaduto a lei per la ribellione di Giacomo
del Balzo figliuolo del Duca d'Andria, il quale Stato era mezzo Regno.
Dopo queste nozze si visse due anni nel Regno quietamente, e la Regina
diede secondo marito a Giovanna dì Durazzo, sua nipote primogenita del
Duca di Durazzo e della Duchessa Maria sua sorella, il quale fu Roberto
Conte d'Artois figliuolo del Conte d'Arras.



CAPITOLO IV.

_Dello Scisma de' Papi di Roma e quelli d'Avignone._


Negli anni seguenti, si vide il Regno in maggiori confusioni e
disordini per quel famoso scisma che nacque, e che durò poi fin
al Concilio di Costanza. Avea Papa Gregorio XI trasferita la Sede
Appostolica da Avignone, ov'era stata da Clemente V sin dall'anno
1305 traslatata, e dimorata settantadue anni, in Roma, ov'egli giunse
il dì 17 di gennajo di questo nuovo anno 1377. Quivi egli morì a' 27
marzo del seguente anno 1378. I Romani, i quali in tanto tempo che la
Sede Appostolica era stata in Francia, aveano patito infinito danno,
vollero servirsi della occasione di ristabilire nella lor città la
Corte del Papa, proccurando che dovesse eleggersi un Romano, o per lo
meno un nativo d'Italia; all'incontro vedendo che in Roma non v'erano
allora più che sedici Cardinali, de quali v'erano dodici oltramontani
e quattro soli Italiani, dubitarono, e con ragione, ch'essendo
maggiore il numero de' primi, non era verisimile che la pluralità de
suffragi per l'elezione del Papa fosse in favore d'un Italiano; e per
questo levato un tumulto, presero l'armi, e quando i Cardinali furono
entrati in Conclave il dì 5 aprile di quest'anno 1378 concorsa ivi
una moltitudine di Popolo, circondò il palazzo, e cominciò a gridare,
_Romano lo vogliamo_. Questo grido durò tutta la notte: il giorno
seguente il Popolo essendosi di nuovo adunato in maggior numero, andò
con furia maggiore al Conclave, minacciando di rompere le porte, e di
tagliare a pezzi i Cardinali franzesi, se non eleggevano un Papa, che
fosse romano o almeno d'Italia. I Cardinali intimoriti lo promisero
al Popolo, ma con protesta fra loro, che ciò sarebbe seguito per la
violenza, che loro si faceva, non già che l'elezione in futuro dovesse
valere. In fatti elessero tumultuariamente persona fuori del Collegio
de' Cardinali, che per la sua poca abilità, potesse esser con facilità
cacciata dal Papato. Questi fu Bartolommeo Prignano Arcivescovo di
Bari, nato in Napoli, secondo Panvinio, da vili parenti; ma il nostro
Giovanni Villani[200], e Teodorico di Niem[201], dicono esser nato
nel castello d'Itri del Contado di Fondi[202]. Visse quasi sempre in
Francia appresso la Corte del Papa nella Cancelleria Appostolica, indi
fatto Arcivescovo d'Acerenza, passò poi a quello di Bari. Essendosi
sparsa in Roma la voce, che l'Arcivescovo di Bari era stato eletto, il
Popolo confondendolo con Giovanni di Bar francese, cameriere maggiore
del Papa defunto, cominciò di nuovo le sue violenze. Il Cardinal di
S. Pietro comparì alla finestra del Conclave per placare il tumulto, e
molti vedendolo dissero: questi è il Cardinal di S. Pietro: subito il
popolaccio credette, che quegli fosse il Cardinale ch'era stato eletto,
e si pose a gridare, _viva, viva S. Pietro_. Alquanto da poi il Popolo
ruppe le porte del Conclave, arrestò i Cardinali, e rubò i loro mobili,
domandando sempre un Cardinal romano: alcuni domestici de' Cardinali
avendo loro detto, non avete voi il Cardinale di S. Pietro? eglino lo
presero, lo vestirono degli abiti Pontificali, lo posero su l'Altare,
ed andarono all'adorazione, benchè gridasse, che egli non era Papa, ed
esserlo non voleva. I Cardinali durarono molta fatica a salvarsi, chi
nelle lor case, chi nel castello di S. Angelo. L'Arcivescovo di Bari
divenuto in un tratto superbo ed austero e molto astuto, conoscendo
l'intenzione de' Cardinali, si fece subito il giorno seguente acclamare
da alcuni Cardinali, violentati a farlo da' Magistrati. Egli prese
il nome d'_Urbano VI_ e scrisse a tutti i Cristiani, notificando loro
l'elezione fatta, e tenne per lo principio molto a freno i Cardinali,
dubitando di quel che poi successe, cioè, che avrebbero pensato a
cacciarlo dal Papato[203]. Dall'altra parte i Cardinali, ancorchè
pubblicamente fossero stati costretti a riconoscerlo, scrissero però
segretamente al Re di Francia, ed agli altri Principi cristiani,
che l'elezione era nulla, e che non era stata lor intenzione, che e'
fosse riconosciuto per Papa; e poco da poi sotto pretesto di fuggire
i calori della state, i dodici Cardinali oltramontani uscirono l'un
dopo l'altro da Roma nel mese di maggio, e si portarono in Anagni. Ma
il Cardinale Ursino fratello del Conte di Nola, sotto scusa di venire
a visitare i parenti nel Regno, impetrò da Urbano licenza, e venne a
trovar la Regina; e su la certa credenza che i Cardinali avrebbero
rivocata l'elezione, cominciò a pregarla, che in tal caso avesse
voluto intercedere coi Cardinali provenzali, che avendosi da fare nuova
elezione per soddisfazione del Popolo Romano, avessero creato lui.

La Regina, come donna savia e prudente, non si volle muovere per le
richieste del Cardinale, anzi mandò a Roma Niccolò Spinelli di Napoli,
ma di patria di Giovenazzo, quel nostro famoso Dottor di leggi Conte
di Gioja, e Gran Cancelliero del Regno, a rallegrarsi con Urbano
della sua elezione ed a dargli ubbidienza. Ma questo risalito Papa
mostrò fare tanto poco conto di quest'ufficio della Regina, e della
persona del Gran Cancelliere, trattandolo incivilmente[204], che
questi che 'l conosceva nella vita privata per uomo di basso affare,
e giudicandolo indegno del Papato per la natura ritrosa, se ne venne
tanto mal soddisfatto di lui che si crede, che da quella ora pensò
d'essere ministro della nuova elezione d'un altro Papa. A questo
s'aggiunse che pochi dì da poi, essendo andato il Principe Ottone in
Roma a visitarlo, alcuni dicono per avere l'investitura del Regno[205],
altri per supplicarlo, ch'essendo restato il Regno di Sicilia per
successione in man di donna, avesse fatta opera che quella fosse data
per moglie al Duca Baldassarre di Brunsuich suo fratello; ma sia che
si voglia, è cosa certissima, che non solo dal Papa non potè ottenere
cosa che volle, ma fu anche mal veduto, e trattato poco onorevolmente:
narrando Teodorico di Niem[206], che fu Segretario d'Urbano, che
Ottone trovandosi col Papa quando era a pranzo, ed essendogli dato
il bicchiere per dargli a bere, come è costume, il Papa, fingendo di
ragionare d'altri negozj, il fece stare inginocchiato un gran pezzo
senza bere, finchè uno dei Cardinali, che aveva maggior confidenza con
lui, gli disse, _Padre Santo è tempo che beviate_; per la qual cosa
il Principe se ne ritornò con molto maggiore scorno di quello ch'ebbe
l'Ambasciadore.

Lo stesso Autore[207], e colui, che scrisse la vita d'Urbano, dicono
ch'essendo stato più, che fosse mai uomo, avido di voltare tutte
le forze del Papato in fare grandi i suoi, avesse pensato dall'ora
di trasferire il Regno di Napoli nella persona di Carlo di Durazzo,
tenendo per certo poter aver da lui più larghi partiti, e maggiori
Signorie nel Regno per Butillo, e Francesco Prignano suoi nipoti che
non avrebbe avuti dalla Regina Giovanna e dal Principe Ottone. Il Duca
d'Andria che avea seguitato in Roma Papa Gregorio XI con isperanza che
l'avesse fatto ricovrar gli Stati, si trovava allora in Roma in bassa
fortuna; ed avendo dopo la morte di Gregorio conosciuto l'animo del
nuovo Papa, poco amico della Regina, cominciò a trattar con lui, che
si chiamasse Carlo di Durazzo all'impresa del Regno, dimostrandogli che
agevolmente sarebbe successa felice, perchè già teneva avvisi da Napoli
che tutto 'l Regno stava mal soddisfatto, ed in timore di restare sotto
il dominio d'Ottone; e per contrario era gran desiderio tra' Baroni,
e tra' Nobili Napoletani di vedere Carlo di Durazzo unico germe nel
Regno della Casa d'Angiò; tanto più, quantochè nella milizia che avea
esercitata in servizio del Re d'Ungaria, era diventato famoso nell'arte
della guerra, non meno per valor di persona che di giudizio. Con queste
persuasioni gli fu cosa leggiera persuadere al Papa quello, a che
egli stava inclinatissimo, e però senza dimora mandò Urbano ad invitar
Carlo che stava in Italia nel Trivigiano a guerreggiare con i Veneziani
che venisse armato in Roma, perch'egli avea deliberato di privar la
Regina Giovanna del Regno, e chiuderla in un Monastero, e dar a lui
l'investitura e possessione del Regno[208]. Carlo per lo principio
mostrò molta freddezza in accettare l'impresa, perchè dall'una parte
lo stringea la pietà della Regina e li beneficj verso di lui, i quali
erano meritevoli di gratitudine, e dall'altra la difficoltà di pigliar
l'impresa, dubitando che se lasciava il Re d'Ungaria nell'ardore di
quella guerra, non avrebbe avuto da lui favore alcuno.

Questa pratica non potè esser tanto secreta che la Regina non
n'avesse avviso a Napoli, onde ristretta col suo Consiglio deliberò
di provvedervi. Il nostro Giureconsulto Niccolò di Napoli ch'era il
primo di valore e d'autorità nel Consiglio, ed era uomo di grande
spirito, e portava odio particolare al Papa, propose non esservi
altro miglior espediente per divertire il Papa da questa impresa, se
non d'incitare i Cardinali a far nuova elezione: alla qual proposta
applaudendo Onorato Gaetano Conte di Fondi, molto potente in Campagna
di Roma, e che per essere stato Vicario Generale, e Governadore di
tutto lo Stato ecclesiastico e di Campagna con grandissima autorità
mentre la Sede Appostolica era stata in Francia, desiderava l'assenza
della Corte da Italia, per tornare nel medesimo grado: la cosa fu
subito conchiusa, e fu deliberato che si tenesse un Concilio nella
città di Fondi. I Cardinali franzesi che si erano portati in Anagni,
subito che ivi furono giunti, dichiararono che l'elezione d'Urbano
era nulla, come fatta contro lor voglia, e contra il solito stile;
onde subito che intesero il trattato fatto in Napoli, vennero tutti a
Fondi, dove erano restati in appontamento di ritrovarsi insieme coi tre
Cardinali Italiani; ed alfine entrati in Conclave il dì 20 settembre
dopo essersi molto maneggiati per far cessare la contesa ch'era
sopra l'elezione fra' Cardinali Italiani, dopo aver dichiarata nulla
l'elezione d'Urbano, il Cardinal di Fiorenza propose d'eleggere Ruberto
Cardinal di Ginevra di Nazione alemanna. Tutti i Cardinali, eccettuati
i tre Italiani, gli diedero i loro suffragi[209]; prese egli il nome
di _Clemente VII_ e fu coronato il dì 21 del medesimo mese. Era egli
fratello d'Amadeo Conte di Ginevra, ed era stato Vescovo di Tervana
e poi di Cambray, indi da Gregorio XI era stato creato Cardinale, e
di qua cominciò lo scisma. Urbano rimasto solo col Cardinal di Santa
Sabina si mantenea nel possesso di Roma, ma il castel di Sant'Angelo
stava per Clemente. I Romani l'assediarono, lo presero in fine e lo
demolirono. Urbano fece subito nuova elezione di Cardinali, e scrisse a
tutti i Principi e Repubbliche de' Cristiani, notificando la rebellione
de' Cardinali per loro tristizia, e non già ch'egli non fosse stato
legittimamente creato per Vicario di Cristo, e persuadeva ad ogni uno
che dovesse tenere il Papa eletto da costoro per Antipapa, e loro tutti
per Eretici e Scismatici, e privati d'ogni dignità ed Ordine sacro;
divulgando ancora che questa ribellione avea avuta radice nel timore
che i Cardinali aveano, per gl'inonesti costumi loro, della riforma
ch'egli voleva fare. I Cardinali che egli creò furono la maggior
parte Napoletani e di Regno, e tra gli altri Fra Niccolò Caracciolo
Domenicano Inquisitore in Sicilia, Filippo Carafa Vescovo di Bologna;
Guglielmo da Capua, Gentile di Sangro, Stefano Sanseverino, Marino
del Giudice di Amalfi Arcivescovo di Taranto e Camerlengo della Sede
Appostolica, e Francesco Prignano suo nipote; e per aver maggior
parte in Napoli e nel Regno, conferì a loro, e ad altri loro aderenti
tutte le chiese principali ed altre dignità ecclesiastiche nel Regno.
In oltre per porre la città di Napoli in divisione, privò Bernardo
di Montoro Borgognone dell'Arcivescovado di Napoli, e lo conferì
all'Abate Bozzuto Gentiluomo di molta autorità, e di gran parentado
nella città[210]; e per ultimo per mezzo del medesimo Duca d'Andria,
mandò a chiamare Carlo di Durazzo, che a quel tempo si trovava nel
Friuli. Carlo a questa seconda chiamata non fu sì renitente, come alla
prima, perchè avea già avuto avviso da Napoli, che la Regina avendo
preso sospetto di lui faceva grandi favori a Roberto di Artois, che
era marito della sorella primogenita di Margarita, tal che entrato
in gelosia, promise al Duca di venire, purchè si trattasse dal Papa,
ch'il Re d'Ungaria gli desse buona licenza, e qualche favore ed aiuto,
perchè da se non aveva altre forze che circa 100 cavalli napoletani che
l'aveano sempre servito in quella guerra, ed intanto s'apparecchiava
per venire in Roma, aspettando l'avviso del Re d'Ungaria.

Avendo in cotal guisa Urbano posta in divisione la città di Napoli
ove meno sperava, tirò al suo partito molte altre province e Regni.
Quasi tutte le città di Toscana e di Lombardia, insieme co' Romani,
riconoscevano lui per Papa. L'Alemagna e la Boemia stette nel suo
partito. Lodovico Re d'Ungaria pure lo riconobbe: la Polonia, la
Prussia, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia seguirono l'esempio
dell'Alemagna, ed in Inghilterra, essendo stati uditi i deputati de'
due contendenti nel Parlamento, fu approvata l'elezione d'Urbano e
rigettata quella di Clemente.

Dall'altra parte Papa Clemente era riconosciuto nella Francia, nella
Scozia, in Lorena, in Savoia e nella Spagna, la quale quantunque prima
stesse per Urbano, si dichiarò poi per Clemente; ma sopra tutti era
riconosciuto e favorito dalla nostra regina Giovanna, la quale, partito
che fu Clemente di Fondi, ed andato a Gaeta, e di là venuto a Napoli,
lo ricevè con grandissimo apparato nel castello dell'Uovo, e per
fargli onore gli fece far un ponte in mare di notabile lunghezza, dove
egli venne a smontare. La Regina con tutti quei, che erano andati ad
incontrarlo, si ridusse sotto l'arco grande del castello, il quale era
adornato di ricchissimi drappi, ed ivi collocarono la sede pontificale
nel modo solito, dove subito che fu Clemente assiso, la Regina col
Principe Ottone suo marito andò a baciargli il piede, ed appresso
Roberto d'Artois con la Duchessa di Durazzo sua moglie, dopo andò
Agnesa, ch'era vedova, poichè fu già moglie del Signor di Verona, ed
erasi ritirata in Napoli, e per ultimo Margarita sua sorella, moglie di
Carlo di Durazzo, che si trovava in Napoli; seguì appresso a baciargli
il piede un gran numero di Cavalieri e Baroni, e donne, e damigelle
leggiadramente vestite; poi saliti su al castello, il Papa fu realmente
alloggiato con tutti i Cardinali, e stettero alcuni dì in continui
conviti e feste, ed a richiesta della Regina creò Cardinale Lionardo di
Gifoni generale de' Frati Minori.

Ma mentre duravano queste feste nel castel dell'Uovo, il popolo
Napoletano, che forse sarebbe stato quieto, se avesse visto, che la
Regina con maggior sicurtà avesse ricevuto il Papa nella città, e fatto
partecipare di queste feste la plebe avida di nuovi spettacoli; parendo
a molti di natura sediziosi, che la Regina, come consapevole dell'error
suo, non ardisse di fare quella festa in pubblico, cominciò a mormorare
contra di lei, che per mal consiglio de' suoi Ministri, istigati da
lor proprie passioni, volesse favorire un Antipapa di nazione straniero
e nutrire uno scisma, con tanto scandalo di tutto il Mondo, contra la
Sede Appostolica, sempre fautrice sua e de' suoi progenitori e contra
un Papa napoletano, dal quale in universale, ed in particolare tutti
potevano sperare onori e beneficj; e come è costume del vulgo, in ogni
parte si parlava dissolutamente e con poco rispetto; ed un di que'
giorni avvenne, che un artegiano alla piazza della Sellaria parlando
licenziosamente contra la Regina, fu ripreso da Andrea Ravignano
nobile di Porta Nova; ma persistendo colui in dire peggio che prima,
Andrea gli spinse il cavallo sopra e lo percosse in un occhio, di cui
restò cieco, onde quelli della strada mossi in grandissimo tumulto
presero l'armi; e nel medesimo tempo dalla piazza della Scalesia si
mosse un sarto chiamato il Brigante, nipote dell'artegiano offeso,
uomo sedizioso ed insolente, il quale trovando gli animi degli altri
sollevati, e raccolto un gran numero di popolo minuto, alzò le voci
gridando: _viva Papa Urbano_: e seguito da tutti quelli, scorse per le
parti basse della città, saccheggiando le case degli Oltramontani che
vi abitavano. Allora l'abate Luigi Bozzuto, che, come si è detto, era
stato creato da Papa Urbano, Arcivescovo di Napoli, e che per timore
della Regina stava nascosto nella sua casa, nè avea avuto ardire di
prendere il possesso dell'Arcivescovado, uscì fuori e tumultuariamente
aiutato dal popolo prese il possesso della chiesa e del palagio
Arcivescovile, cacciandone la famiglia dell'Arcivescovo Bernardo[211].

Questo tumulto di Napoli col sacco di tante case, ch'erasi disseminato
ne' casali d'attorno, ancorchè fosse stato ripresso da' Nobili e da'
gran Popolani, avendo prese l'armi, quietarono il romore e poi corsero
al castello, per mostrarsi pronti al servigio della Regina e di Papa
Clemente, pose in tanto timore il Papa, che non bastandogli tutto ciò
ch'erasi fatto ed offerto da' Nobili, volle tosto imbarcarsi su alcune
galee coi suoi Cardinali e gitone prima a Gaeta, di là poi passò ad
Avignone, dove restituì la Sede pontificale, ed ivi per molto tempo
fu ubbidito non men dalla Francia che dalla Spagna, Scozia, Lorena e
Savoia.

La Regina, benchè fosse per questi rumori rimasta assai turbata,
nulladimanco usando la solita virilità, confidata nella prontezza de'
Nobili, che aveano raffrenato l'ira ed il furore del Popolo, ordinò
a Raimondo Ursino figliuolo del Conte di Nola, ed a Stefano Ganga
Reggente della Vicaria, che con buona banda di gente uscissero contro
i ladroni del contorno, e da poi che n'ebbero tagliati a pezzi un
gran numero e molti presi, che furono tenagliati e divisi in quarti
entrarono nella città, e per ordine della Regina andarono alle case del
Bozzuto, e non ritrovandolo, perocchè era scappato via, avendo veduto,
che quei del Popolo aveano deposte l'armi, fecero diroccare le case
paterne dell'Arcivescovo nel Seggio di Capuana, e poi fecero dare il
guasto alle sue possessioni. Il Brigante con alcuni altri Capi di quel
tumulto furono subito tutti insieme appiccati; tanto che il Popolo
minuto per lo grandissimo timore conceputo, si stava rinchiuso nelle
sue proprie case.

Non guari da poi si vide Napoli posta di nuovo tutta in armi e
sconvolgimenti, per cagion d'una gara che in que' tempi passava tra'
Nobili delle piazze di Capuana e Nido, con quelle di Portanova, Porto e
Montagna, pretendendo que' di Capuana e Nido in vigor di una sentenza,
che aveano riportata dal Re Roberto, d'esser preposti così negli
atti, come ne' governi delle cose pubbliche a tutti gli altri Nobili
dell'altre tre piazze, che per ischerno chiamavano _Mediani_, quasi
che fossero un secondo stato, fra' Nobili ed il Popolo. All'incontro i
Nobili de' tre seggi andavan tessendo genealogie delle altre famiglie,
dando loro origini pur troppo basse, facendole originarie della
costa d'Amalfi, de' Casali intorno e d'altri luoghi più ignobili,
dove, a lor dire, i lor congiunti dimoravano esercitando ancora arti
meccaniche a vili. Dalle contumelie si venne alle armi, e fu fatta
strage grandissima per l'una parte e l'altra, e la città tutta posta
in iscompiglio e disordine. La povera Regina, a cui premevano cose di
maggior importanza, e che per riparare l'imminente tempesta che le
soprastava, avea mandato il principe Ottone a S. Germano, non volle
prender allora degli autori del tumulto e degli omicidiali castigo;
ma importandole darvi presto riparo, cacciò fuori un indulto, col
quale ordinando, che dato giuramento da ambe le parti in mano d'Ugo
Sanseverino gran Protonotario del Regno di viver quieti, e di non
vicendevolmente offendersi, indultava tutti que' Cavalieri, per le
morti e contenzioni precedute, insino che col ritorno del principe
Ottone suo marito, non si fossero quelle discordie intieramente
terminate. L'indulto, di cui fa anche memoria Pier Vincenti[212]
nel suo Teatro dei Protonotari, si legge impresso nella Storia
del Summonte[213], e fu sotto li 3 settembre di quest'anno 1380
istromentato nel Castel Nuovo di Napoli, per mano di Facio da Perugia
Giureconsulto, Viceprotonotario del Regno.



CAPITOLO V.

_CARLO di Durazzo è coronato Re da Papa URBANO, che depose la regina
GIOVANNA, la quale adottossi per figliuolo LUIGI d'Angiò, fratello
di CARLO V Re di Francia. Invade CARLO il Regno, vince OTTONE, e fa
prigioniera la Regina, fatta poi da lui morire._


Intanto Margarita di Durazzo, sentendo per secreti avvisi, che il
marito avea avuta già licenza dal Re di Ungaria, e che s'apparecchiava
di venire in Roma, chiese commiato alla Regina, con dire che voleva
andare nel Friuli a trovar suo marito; e la Regina, o che fosse per
magnanimità, o perchè non sapesse certo l'intento di Carlo di venire
contra lei, o per non volere provocarlo, le diede buona licenza e la
mandò onorevolmente accompagnata: del che certamente dovette più d'una
volta pentirsi, avendo potuto ritener lei, ed i due figliuoli Ladislao
e Giovanna, che ambedue poi regnarono, e servirsene per ostaggi ne'
casi avversi, che da poi le occorsero.

Carlo avuta licenza dal Re d'Ungaria, era finalmente giunto a Roma,
ove avidamente fu accolto da Urbano. Avea questo Pontefice sin da
luglio del passato anno 1379 pubblicata la sua Bolla[214], colla quale
dichiarò scomunicata, scismatica e maladetta la regina Giovanna,
privandola del Regno e di tutti i beni e feudi, che teneva dalla
Chiesa romana e dall'Imperio, e da qualsivoglia altre Chiese e persone
ecclesiastiche, con assolvere i suoi vassalli dal giuramento di
fedeltà, e che più non l'ubbidissero[215]; onde giunto che fu Carlo in
Roma, gli diede a primo giugno di questo anno 1381 l'investitura del
Regno con ispedirgliene Bolla, e fu in Roma dichiarato Re di Napoli e
di Gerusalemme, e quivi unto da lui ed incoronato[216].

(Presso _Lunig_[217] si leggono le lettere di Papa _Urbano VI_ spedite
in Roma nel 1381, colle quali dalla regina _Giovanna_ trasferisce il
Regno in Carlo Duca di Durazzo. E nella pag. 1150 si legge il diploma
di _Carlo_, spedito nel suddetto anno, dove ricevè l'investitura
datagli dal Papa, prestandogli giuramento di fideltà, e si obbliga a
tutte quelle leggi e condizioni, contenute nell'investitura data da
_Clemente IV_ al Re _Carlo I_ d'Angiò).

Co' denari ch'ebbe Carlo dal Re d'Ungaria soldò molta gente; ma il
Papa non volle che partisse da Roma, se prima non desse il privilegio
dell'investitura del principato di Capua e di molte altre terre a
Butillo Prignano suo nipote. Urbano avuta l'investitura per suo nipote,
mandò tosto a chiamare il conte Alberico Barbiano, che era allora in
Italia Capitano di ventura, sotto il di cui stendardo teneva arrolata
una gran compagnia di gente d'arme, e soldò questo Capitano con le sue
truppe, che l'unì a quelle di Carlo; e volle anche, che con lui andasse
per Legato appostolico il Cardinal di Sangro, sperando con l'acquisto
del Regno avere gran parte di quello per gli altri parenti suoi.

Dall'altra parte la Regina accertata della coronazione di Carlo,
mandò subito per Ottone suo marito che si trovava in Taranto, e fece
chiamare al solito servigio tutti i Baroni del Regno; e chiamati gli
eletti della città, pubblicò la venuta del nemico ed ottenne dalla
città una picciola sovvenzione per porre in ordine e pagare le genti,
che avea condotte da Puglia il principe Ottone. Ma si avvide in questa
occasione, che i partegiani di Carlo eran molti nel Regno, e che le
tante case principali, ingrandite e magnificate da Papa Urbano, le
ostavano, e conobbe tardi non aver ella dato il conveniente antidoto
all'artificio del Papa che sarebbe stato, quando Clemente fu in Napoli,
fargli creare una quantità di Cardinali napoletani e del Regno, che
avessero tenuta la parte sua, e non contentarsi di far solo Cardinale
un Frate, da cui niente potea sperarsi. Venuta per ciò in diffidanza
di potersi mantenere con que' presidj che avea, prese un espediente,
che riuscì pur troppo funesto e lagrimevole per questo Reame, e che
fu cagione di tante sue revoluzioni e calamità, che sostenne non meno
che per due secoli seguenti[218]; poichè mandò il Conte di Caserta
in Francia a dimandare aiuto al re Giovanni I di Francia, e per più
incitarlo mandò procura d'adozione in uno de' figliuoli del Re, Duca
d'Angiò, chiamato _Luigi_ fratello di Carlo V Re di Francia successor
di Giovanni, promettendo di farlo suo erede e legittimo successore del
Regno e degli altri Stati suoi; ed ordinò al Conte, che procurasse in
questa adozione il consenso del Papa Clemente; dal quale da poi a' 30
maggio del 1381 fu spedita Bolla, colla quale davasi l'investitura del
Regno a Luigi ed alla regina Giovanna, cioè a costei mentre vivea, e a
Luigi in perpetuo[219]; mandò anco in Provenza, ove tenea dieci galee,
comandando, che s'armassero subito e venissero in Napoli, acciò ch'ella
negli estremi bisogni avesse potuto usare il rimedio, che l'era ben
succeduto nell'invasione del Re d'Ungaria.

(L'Istromento di questa adozione si legge presso _Lunig_[220], si
legge il diploma della Regina Giovanna, col quale a Luigi d'Angiò, suo
figliuolo adottivo, concede il titolo e le ragioni di Duca di Puglia.
Parimente poco giù[221] si legge la Bolla di Clemente VII colla quale
conferma l'adozione suddetta. È ben degno da riflettere ed ammirare
il nuovo spettacolo, che ci presenta questo scisma, tra Papa Urbano
e Clemente, dando un Papa per Re a Napoli Carlo di Durazzo, ed un
altro Luigi d'Angiò fratello di Carlo V Re di Francia; ma ciò che
merita maggior riflessione come cosa ben singolare e nuova si è, che
Clemente VII per maggiormente interessar Luigi a' danni di Urbano,
ed opporgli un Principe, che avesse un nuovo titolo di scacciarlo
dallo Stato istesso della Chiesa romana, posseduto allora da Urbano,
non ebbe difficoltà con sua Bolla d'ergere lo Stato romano in Regno,
che chiamollo, _Regnum Adriae_, ed investirne Luigi, e suoi eredi, e
successori. Questo nuovo Regno era composto di tali province, come
si legge nella Bolla sud. §. 3. _Videlicet, Provincias Marchiae
Anconitanae, Romandiolae, Ducatus Spoletani, Massae Trabari nec non
Civitates Bononiam, Ferrariam, Ravennam, Perusiam, Tudertum, cum eorum
omnibus Comitatibus, territoriis et districtibus, et omnes alias et
singulas terras, quas ad praesens habere debemus, per quoscumque et
quacumque auctoritate possideantur, seu detineantur ad praesens,
exceptis, dumtaxat, urbe Roma cum ejus districtu, et Provinciis
Patrimonii S. Petri in Tuscia, Campania, et Maritima, ac Sabina, seu
Rectoratibus dictarum Provinciarum (per Rectores regi solitis) quae
terrae specialium commissionum vocantur, nostrisque successoribus,
et Romanae Ecclesiae, expresse et specialiter retinemus, in unum
Regnum erigimus ipsas provincias, et Civitates cum earum comitatibus,
districtibus seu territoriis, dignitate Regia decoramus, ac Regnum
Adriae ordinamus, statuimus, et decernimus perpetuo nuncupari_. Di
questo Regno ne fu investito Luigi, creandolo Re d'Adria, regolando
Clemente i gradi, il sesso e l'ordine della successione, per tutti
i suoi posteri e discendenti. Questa Bolla fu spedita in Aprile del
1382 primo anno del suo Pontificato in Sperlonga della diocesi di
Gatta, ove Papa Clemente allor dimorava, la qual ebbe dalla Regina
Giovanna per suo asilo, e ricovro. Giovanni _Ludewig_, come monumento
molto singolare, tratta dal _Codice di Leibnizio, part. 1_ _Codicis
jurisgentium n. 106 pag. 239_ volle anch'egli imprimerla tra le sue
_Opere Miscelle, Tom. 1 lib. 1. Opus. 1. Cap. 4 §. 6. pag. 108_ della
quale non si dimenticò _Lunig_, il qual pure tutta intera l'inserì nel
suo Codice Dipl. Ital. _Tom. 2 pag. 1167_).

Questa deliberazione della Regina alienò gli animi di molti dalla
fede e dalla benivolenza di lei; perchè sebbene in generale l'amavano
grandemente, quando seppero l'andata del Conte di Caserta in Francia,
ed il proposito della Regina, desideravano molto più avere per loro
Signore Carlo di Durazzo, nato ed allevato in Regno, e congiunto
di sangue a molti Signori Baroni principali del Regno, che vedere
introdotto un nuovo Signore franzese al dominio di quello, il
quale conducendo seco nuove genti oltramontane, pareva obbligato
d'arricchirle degli Stati e delle facoltà de' Regnicoli. Quindi
avvenne, che andando Ottone Principe di Taranto a San Germano,
per opponersi a Carlo, che veniva per quella strada, fu seguìto
da pochissimi Baroni, tal che senza vedere il nemico, fu costretto
d'abbandonare il passo, e si ritrasse con tutti i suoi in Arienzo. Ma
Carlo non volle per la via dritta andare in Napoli, giudicando assai
meglio d'andare a trovare il nemico, con disegno, che rompendolo
in campagna, avrebbe in un solo dì finita la guerra; ed andò a
quest'effetto a Cimitino vicino Nola, ove dal Conte di Nola fu
visitato, e ricevuto come Re. Il Principe Ottone mutando alloggiamento,
si pose fra Cancello e Maddaloni, e benchè Carlo andasse co' suoi
in ordinanza a presentargli la battaglia, non volle mai uscire dal
campo; ma per la via d'Acerra, e del Salice si ritirò verso Napoli;
e Carlo por la via tra Marigliano e Somma s'avviò pur verso Napoli,
tal che a' 16 Luglio di quest'anno 1381 a 15 ore, giunse con tutto
il suo esercito al Ponte del Selieto fuori la Porta del Mercato, nel
medesimo tempo, che il Principe era giunto fuori Porta Capuana, e
s'era accampato a Casanova. Erano questi due eserciti tanto vicini,
che gli uni si discerneano dagli altri: nel Campo di Carlo era il
Cardinal di Sangro Legato appostolico, il Conte Alberico Capitan
Generale delle genti del Papa, il Duca d'Andria, il Nipote del Papa,
che s'intitolava Principe di Capua, Giannotto Protogiudice, che per
la sua gran virtù ed esperienza nell'armi, era stato creato da lui
Gran Contestabile del Regno, Roberto Orsino figliuolo primogenito del
Conte di Nola, e moltissimi altri Baroni e Cavalieri Napoletani[222],
ed altra gente avventuriera: il Campo del Principe non avea tanti
Baroni, ma gran quantità di gentiluomini privati napoletani, e molti
altri di manco nome, perchè gli altri di maggior autorità, volle la
Regina, che rimanessero in Napoli. Stettero i due eserciti per tre
ore di spazio, aspettando l'uno qualche moto dell'altro, perchè Carlo
allora stava sospeso, dubitando della volontà del Popolo di Napoli,
la quale quando fosse stata inclinata alla fede della Regina, non era
sicuro per lui d'attaccar fatto d'arme: ma quando s'intese, che nella
città vi era grandissima confusione, perchè era divisa in tre opinioni,
l'una voleva lui per Re, l'altra volea gridare il nome del Papa, e
l'altra tenea la parte della Regina: allora si mossero due Cavalieri
napoletani, Palamede Bozzuto, e Martuccio Ajes Capitani di Cavalli
colle loro compagnie, e guidati da alcuni di quelli, ch'erano usciti
fuori la città, si posero dalla banda del mare a passare a guazzo, ed
entrarono per la porta della Conceria, la quale per la fidanza, che
s'avea, ch'era battuta dal mare, non era nè serrata, nè avea guardia
alcuna, e di là entrati levarono romore al mercato con gran grido,
dicendo viva _Re Carlo di Durazzo e Papa Urbano_, e seguiti da quelli,
ch'erano nel mercato, facilmente ributtarono quei, ch'erano dalla parte
della Regina, che tutti si ritirarono nel castello, e si voltarono
ad aprire la porta del mercato, per la quale entrò Carlo con tutto
il suo esercito, e posto buon presidio di gente a quella Porta, andò
alla Porta capuana, dove similmente vi pose buona guardia, e mandò
a guardare anco quella di S. Gennajo, ed egli andò a Nido, e fece
fermare il campo a S. Chiara, onde potea vietare l'entrata ai nemici
per la Porta Donnorso e per la Porta Reale. Il Principe Ottone, poichè
s'avvide la Cavalleria di Carlo esser entrata nella città, si mosse
colle sue genti per dar sopra la retroguardia de' nemici; ma trovate
chiuse le Porte se ne ritornò quella medesima sera con le sue genti a
Sicciano villa appresso Marigliano.

Carlo il dì seguente pose l'assedio al Castel Nuovo, dove oltre li due
nepoti della Regina, cioè la Duchessa di Durazzo, con Roberto d'Artois
suo marito, erano concorse quasi tutte le più nobili donne della città,
che per essere state semplicemente affezionate della Regina, dubitavano
esser maltrattate; vi era ancora grandissima quantità di Nobili d'ogni
età con le loro famiglie, i quali furono cagione di più presta rovina,
perchè parte per benignità, parte per la speranza che la Regina avea,
che le galee di Provenza venissero presto, furono tutti ricevuti, e
nudriti di quella vittovaglia, ch'era nel castello, la quale avrebbe
forse bastato per sei mesi a' soldati, che la guardavano, e si consumò
in un mese. Durante quest'assedio il Principe, che cercava ogni via
di soccorrer la moglie, ritornò alle Paludi di Napoli, tentando, che
Re Carlo uscisse fuori a far fatto d'arme; ma i Capitani non vollero,
che si movesse, ma che il corpo dell'esercito attendesse a guardar
la città, e tener stretto il castello, dove sapeano, ch'era ridotta
tanta gente, che in breve sarebbe stretta per fame a rendersi; onde il
Principe vedendo, che niente giovavano i suoi tentativi, si ritirò in
Aversa.

Intanto la Regina cominciava a patire necessità di vettovaglie, e
non avea altra speranza, che nella venuta delle galee, con le quali
disegnava non solo di salvarsi, ma con la presenza sua commovere il
Re di Francia, ed il Papa Clemente a darle maggiori ajuti, per potere
tornar poi, ed acquistare la vittoria insieme col figlio adottivo.
Ma non vedendosi le galee, ed essendo venuto il castello in estrema
penuria di viveri, la Regina mandò a' 20 agosto il Gran Protonotario
del Regno Ugo Sanseverino a patteggiare con Re Carlo, ed a trattare
per alcun tempo tregua, o alcuna specie d'accordo. Il Re ch'avea tutta
la speranza nella necessità della Regina, benchè avesse accolto il
Sanseverino con grande onore, perchè gli era parente, non però volle
concedere maggior dilazione, che di cinque giorni, tra' quali se il
Principe non veniva a soccorrere il castello e liberarlo dall'assedio,
avesse la Regina a rendersi nelle mani sue; ed essendo partito con
questa conclusione il Sanseverino, mandò appresso a lui nel castello
alcuni servidori a presentare alla Regina polli, frutti, ed altre
cose da vivere, e comandò, che ogni giorno le fosse mandato quel
ch'ella comandava per la tavola sua, credendo con questo indurla a
rendersi con più pazienza; anzi mandò a visitarla ed a scusarsi, che
egli l'avea tenuta semplicemente per Regina, e così era per tenerla e
riverirla; che non si sarebbe mosso a pigliare il Regno con l'armi in
mano, ma avrebbe aspettato di riceverlo per eredità, o per beneficio
di lei, se non avesse veduto, che il Principe suo marito, oltre di
tenere fortificate tante Terre importanti del Principato di Taranto,
nudriva appresso di se un potente esercito; onde si vedea chiaramente,
ch'avrebbe potuto occuparne il Regno, o privarne lui unico germe
della linea del Re Carlo I, e che per questo egli era venuto più per
assicurarsi del Principe, che per togliere lei dalla sedia Reale, nella
quale più tosto voleva mantenerla. La regina mostrò ringraziarlo,
ma nell'istesso punto mandò a sollecitare il Principe, che infra i
cinque dì l'avesse soccorsa; passarono i 24 del mese; e la mattina
seguente, che fu l'ultimo giorno del tempo stabilito, il Principe venne
d'Aversa con tutto il suo esercito per la strada di Piedigrotta, e
passata Echia, cominciò a combattere le sbarre poste dal Re Carlo, per
penetrare, e ponere soccorso di gente e di vettovaglia al castello; ma
Re Carlo fu subito ad incontrarlo con l'esercito suo in ordine, e dato
dall'una parte, e dall'altra il segno della battaglia, si combattè con
tanto valore, che un gran pezzo la vittoria fu dubbiosa; all'ultimo
il Principe, che non potea sopportare d'esser cacciato dalla speranza
d'un Regno tale, si spinse tanto innanzi verso lo stendardo reale
di Re Carlo, con tanta virtù, che non ebbe compagni, onde circondato
da' Cavalieri più valorosi del Re, fu costretto a rendersi, e colla
cattività sua il resto dell'esercito fu rotto. Il dì seguente la Regina
mandò Ugo Sanseverino a rendersi, ed a pregare il vincitore, che avesse
per raccomandati quelli, che si trovavano nel Castello. Il Re il dì
medesimo insieme col Sanseverino entrò nel castello con la sua guardia,
e fe' riverenza alla Regina, dandole speranza di tutto quel che l'avea
mandato a dire, e volle che in un appartamento del castello, non come
prigionera, ma come Regina si stesse e fosse servita da que' medesimi
servitori che la servivano innanzi.

Finito il mese, il primo di settembre comparvero le dieci galee de'
Provenzali condotte dal Conte di Caserta per pigliar la Regina, e
condurla in Francia. Il Re Carlo andò a visitare la Regina, ed a
pregarla, che poichè avea veduto l'animo suo, volesse fargli grazia di
farlo suo erede universale, e cederli anco dopo la morte sua gli Stati
di Francia, e che mandasse a chiamare que' Provenziali, che erano su
le galee, e loro ordinasse, che scendessero in terra, come amici; ma
la Regina dubitando, che questi buoni portamenti fossero ad arte, e
ricordandosi ancora di quello, che avea trattato col Re di Francia,
adottando Luigi Duca d'Angiò suo figliuolo secondogenito, volle
ancora simulare, e disse che avesse mandato un salvo condotto a' Capi
delle galee provenziali, ch'ella avrebbe loro parlato, e si sarebbe
sforzata d'indurgli a dargli l'ubbidienza: il Re mandò subito il salvo
condotto, ed ingannato dal volto della Regina, che mostrò volontà di
contentarlo, lasciò entrare i Provenzali nella di lei Camera, senza
volervi esser egli, o altri per lui. La Regina, come furono entrati
disse loro queste parole: _Nè i portamenti de' miei antecessori, nè il
sacramento della fede ch'avea con la Corona mia il Contado di Provenza,
richiedevano, che voi aveste aspettato tanto a soccorrermi, che io dopo
d'avere sofferto tutte quelle estreme necessità, che son gravissime
a soffrire non pure a donne, ma a soldati robustissimi, fin a mangiar
carni sordide di vilissimi animali, sia stata costretta di rendermi in
mano d'un crudelissimo nemico; ma se questo, come io credo, è stato
per negligenza, e non per malizia, io vi scongiuro, se appresso voi
è rimasta qualche favilla d'affezione verso di me, e qualche memoria
del giuramento e de' beneficj da me ricevuti, che in niun modo, per
nessun tempo vogliate accettare per Signore questo ladrone ingrato,
che da Regina mi ha fatta serva; anzi se mai sarà detto o mostrata
scrittura, che io l'abbia istituito erede, non vogliate crederlo,
anzi tenere ogni scrittura per falsa, o cacciata per forza contra
la mente mia: perchè la volontà mia è, che abbiate per Signore Luigi
Duca d'Angiò, non solo nel Contado di Provenza, e negli altri Stati
di là da' monti, ma ancora in questo Regno, nel quale io già mi trovo
averlo costituito mio erede o Campione, che abbia a vendicare questo
tradimento e questa violenza; a lui dunque andate ad ubbidire, e
chi di voi avrà più memoria dell'amor mio verso la nazione vostra, e
più pietà d'una Regina caduta in tanta calamità, voglia ritrovarsi
a vendicarmi con l'armi, o a pregar Iddio per l'anima mia, del che
io non solo v'ammonisco, ma ancora fin a questo punto, che siete pur
miei vassalli, vel comando._ I Provenzali con grandissimo pianto si
scusarono, e mostrarono intensissimo dolore della cattività sua, e le
promisero di fare quanto comandava, e se ne ritornarono su le galee,
nè solo navigarono verso Provenza, ma il Conte di Caserta deliberato di
seguire la volontà della Regina, come già avea seguita la sua fortuna,
andò ancor esso a ritrovare il Duca d'Angiò. Il Re Carlo ritornato alla
Regina per intendere la risposta de' Provenziali, e conosciuto che
non riusciva il negozio a suo modo, cominciò a mutare stile, ponendo
le guardie intorno alla Regina, ed a tenerla, come prigioniera, e di
là a pochi dì la mandò al castello della città di Muro in Basilicata,
che era suo patrimonio; ed il Principe Ottone fu mandato nel castello
d'Altamura; e poichè egli ebbe ricevuto il giuramento dalla città di
Napoli, e da tutti i Baroni, che vi erano concorsi nell'Arcivescovado,
fece giuramento d'omaggio alla Sede Appostolica in mano del Cardinal
di Sangro Legato. Scrisse da poi al Re d'Ungaria tutto il successo,
domandandogli, che far dovesse di Giovanna, e n'ebbe risposta che
dovesse farla finire di vivere nell'istesso modo, che era stato morto
Re Andrea, il che con memorando esempio di grandissima crudeltà ed
ingratitudine fu nell'anno seguente 1382 eseguito[223], avendo nel
castello di Muro fattala affogare con un piumaccio[224], e fece da poi
venire in Napoli il suo cadavere, che volle che stesse sette giorni
insepolto nella chiesa di S. Chiara a tal che ogni uno lo vedesse, ed i
suoi partigiani uscissero di ogni speranza; poi fu senza pompa sepolta
in luogo posto tra il sepolcro del Duca suo padre, e la porta della
Sacristia in un bel tumulo, che ancor oggi si vede.

Questo fu il fine della Regina Giovanna I donna senza dubbio rarissima,
che allevata sotto la disciplina del Re Roberto, e dell'onesta e savia
Regina Sancia, governò il Regno, quando fu in pace, con tanta prudenza
e giustizia, che acquistò il nome della più savia Regina, che sedesse
mai in sede reale: siccome dimostrano quelle poche sue leggi, che ci
lasciò, tutte ordinate a restituire l'antica disciplina ne' Tribunali
e ne' Magistrati, e la testimonianza di due celebri Giureconsulti, che
fiorirono nell'età sua, cioè di Baldo ed Angelo da Perugia, i quali
nelle loro opere grandemente la commendarono. Ed ancorchè dal volgo
fosse stata imputata allora, e da poi da alcuni Scrittori, ch'avesse
avuta ella parte nella morte d'Andrea suo primo marito; nulladimanco
dalle tante prove, che ella diede della sua innocenza, gli uomini
da bene e più saggi di que' tempi, la tennero per innocentissima;
e chiarissimo argomento è quello, che Angelo ne addita in un suo
consiglio[225] chiamandola _santissima, onore del Mondo, ed unica luce
d'Italia_; di che, come ponderò il Costanzo[226], si sarebbe molto ben
guardato un tanto famoso, ed eccellente Dottore di così chiamarla,
se non fosse stata a quel tempo presso i savj tenuta per innocente;
poichè ognuno avrebbe giudicato, che parlando per antifrasi, avesse
voluto beffeggiarla. Ma tolta questa nebbia onde que' Scrittori
pretesero offuscare il suo nome in tutto il resto della sua vita
non s'intese di lei azione alcuna disonorata, ed impudica. Scipione
Ammirato[227], oltre del Collenuccio, dice, che i tanti mariti, ch'ella
prese, si fosse proceduto più per aver successori nel Regno nati da
lei, che per vaghezza di vivere sotto le leggi del matrimonio, solita
a soddisfare per altra strada alle sue libidini. Ma il gravissimo e
savio Costanzo[228], come se volesse ripigliarlo, scrive, che anzi la
quantità dei mariti, che tolse, fu vero segno della sua pudicizia.
Perchè quelle donne, che vogliono saziarsi nelle libidini, non
cercano mariti, i quali sono quelli, che possono impedire il disegno
loro, e massime que' mariti, che tolse lei, non istolidi, come Re
Andrea, ma valorosissimi ed accorti. In tutto il tempo, che regnò,
non s'intese fama ch'ella avesse niuno cortigiano, nè Barone tanto
straordinariamente favorito da lei, che s'avesse potuto sospettare di
commercio lascivo. Solo il Boccaccio scrive, che nel principio della
gioventù sua e del Regno fosse stato molto da lei favorito il figliuol
di Filippa catanese balia del Duca di Calabria suo padre, e che avea
cresciuta lei dalle fasce; anzi fu cosa mirabile, che nel resto della
vita, dopo ch'ella cominciò a signoreggiare, si mantenne con queste
arti, trattando ogni dì virilmente con Baroni, Capitani di soldati,
Consiglieri ed altri Ministri, con tanto incorrotta fama, che nè
gli occhi, nè le lingue dell'invidia videro mai cosa, che potessero
calunniarla, ancorchè gli animi umani siano indicati a tirare ogni
cosa a cattivo fine, ponendo in dubbio ogni sincera virtù. Nè il
Collenuccio dice vero, trattando per impudica non men la Regina, che
Maria Duchessa di Durazzo sua sorella, riputandola quella, per cui il
Boccaccio scrisse que' due libri, il Filocolo e la Fiammetta, ed alla
quale facesse mozzar il capo il Re Carlo; poichè Maria, come si vede
nella sua sepoltura a Santa Chiara, morì alcuni anni innanzi, moglie
di Filippo Principe di Taranto, ed il Boccaccio non iscrisse per lei
il libro del Filocolo, ma per Maria figliuola bastarda del Re Roberto,
della quale restò egli preso nella chiesa di S. Lorenzo, come appare
nel principio del libro istesso del Filocolo; nè poteva esser questa
Maria Duchessa di Durazzo, perchè il Boccaccio era d'età provetta nel
tempo che quella era in fiore.

Fu Giovanna, come la qualifica Angelo da Perugia, religiosissima, ed i
monumenti che di lei abbiamo in Napoli, dimostrano, quanta fosse stata
grande la sua pietà e religione. Edificò ella la chiesa e lo spedale
di S. Maria Coronata dal palazzo, ove prima si reggeva giustizia, e
la diede in custodia a' PP. della Certosa: la chiesa e l'ospedale di
S. Antonio di Vienna fuori porta Capuana, dotandola di ricchissime
rendite; e magnificò ed ampliò la chiesa e monastero di San Martino su
'l monte di S. Eramo.

Sono alcuni Scrittori, i quali la biasimano per aver ella favorito
lo scisma contro Urbano VI, ed aderito alle parti di Clemente. Ma se
in ciò fu in lei alcun difetto, fu non già di religione ma di Stato;
poichè dall'aversi in quella guisa acerbamente offeso l'animo d'Urbano
e fattoselo suo implacabil nemico, le portò l'ultima sua ruina. Il non
averlo riconosciuto per vero Pontefice, fu non error suo ma universale
di quasi la metà d'Europa, che non lo riconobbe per tale. La sua
elezione era da' più saggi Teologi riputata nulla ed invalida, come
seguita per timore e per violenza usata dal Popolo romano a' Cardinali
nel Conclave.

Ed ancorchè Baldo nostro Giureconsulto, trovandosi in Toscana,
provincia ove era Urbano riconosciuto, avesse ne' principii di
quella elezione, essendo stato ricercato, scritto quel suo famoso
Consiglio per la validità dell'elezione; nulladimanco i migliori
Teologi della Francia riputarono valida l'elezion di Clemente e nulla
quella d'Urbano, siccome credettero la maggior parte degli Scrittori
franzesi; ed a' nostri tempi Stefano Baluzio nelle note alle vite de'
Papi Avignonesi[229] difende la causa di Clemente contro Urbano; e
rendendo il cambio agli Autori italiani, rapporta quello stesso contro
Urbano Papa di Roma, che coloro scrissero contro i Papi d'Avignone; che
Urbano fosse un falso Papa, bugiardo, crudele, superbo, inesorabile
e feroce; e che non volle mai commettere la sua causa dell'elezione
al giudicio del Concilio generale[230]. Frossardo[231] celebre
Scrittore delle cose di Francia, ancorchè non sia da seguitarsi
nelle cose che narra del nostro Regno, delle quali, come straniero,
non ebbe esatta contezza, narra, che il Re di Francia avuta notizia
dell'elezione dell'altro pontefice Clemente, fece tosto convocare più
Ordini, e principalmente quello de' Teologi, acciò esaminassero in
questa contrarietà d'opinione, a qual de due Papi dovesse prestarsi
ubbidienza; fu lungamente dibattuto l'affare, ed in fine i Magnati del
Regno, gli Ecclesiastici, i fratelli del Re, buona parte de' Teologi
conchiusero, che si dovesse riconoscere Clemente, non già Urbano, come
eletto per forza. Piacque al Re la censura, che fu notificata e sparsa
per tutto il Regno di Francia, affinchè quei popoli sapessero, qual de
due Pontefici dovessero riconoscere per legittimo. La Spagna, ancorchè
prima avesse riconosciuto Urbano, informata delle violenze usate nella
sua elezione, riconobbe da poi per vero pontefice Clemente[232]. Lo
stesso fecero il Conte di Savoia, il Duca di Milano e gli Scozzesi.
E que' della provincia d'Annonia in Fiandra non vollero riconoscere
nè l'uno nè l'altro. Cade per ciò a proposito quel che parlando
dell'altro famoso scisma accaduto nel Regno del Re Ruggiero tra
Innocenzio II ed Anacleto, fu detto nel XI libro di quest'Istoria;
e quel che in simili dubbiezze per norma delle coscienze scrisse S.
Antonino[233] Arcivescovo di Firenze, il quale non imputò ad errore
a S. Vincenzo Ferreri d'aver seguitato le parti di Benedetto XIII
successor di Clemente. Parimente Niccolò Tedesco, detto comunemente
l'abate _Panormitano_[234], il Cardinal Zabarella[235], ed il Cardinal
Gaetano[236], sostennero non doversi riputare scismatici coloro, che
seguitarono le parti di Clemente; ed ultimamente Stefano Baluzio[237]
e Lodovico Maimburgo[238] contro Odorico Rainaldo, fan vedere, che in
questo gran dubbio gli uomini più savi, siccome non ardirono chiamare
Urbano falso Papa, così nè meno osarono di nominare Clemente Antipapa.

(Se vogliono riguardarsi in ciò gli antichi esempi, famoso è quello
rapportato da _Teodoreto lib. 4 cap. 23_ dello scisma tra _Flaviano_
ed _Evagrio_, ambidue dalle lor fazioni riputati per veri e legittimi
Patriarchi di Antiochia. Flaviano era ammesso generalmente da tutte le
chiese di Oriente, _Evagrio_ era sostenuto dal Vescovo di Roma e dalle
chiese di Occidente; durante la controversia, ciascun partito senza
scrupolo di coscienza seguitava quello, che credeva vero Patriarca,
e ciascuno in ciò adempiva il tuo dovere; finchè non si fosse il
dubbio deciso, e terminata la controversia, siccome saviamente avvertì
Binghamo[239]).

Fu Giovanna per giustizia simile al Duca di Calabria suo padre;
proccurò per quanto comportavano i suoi tempi torbidi, che i Magistrati
fossero severi ed incorrotti, scegliendo i più dotti ed integri che
fiorissero nella sua età, e ne' dubbii, che accadevano sopra termini
di giustizia e sopra qualche successione feudale tra' Baroni, oltre
il consiglio de' suoi Savi, ricercava ancora il parere de' più insigni
Giureconsulti forastieri, che fiorivano allora in Italia. Chiarissimo
esempio di questo suo costume fu quando, dopo la morte d'Andrea
d'Isernia, essendo insorto dubbio intorno alla successione feudale
per li fratelli uterini, la Regina mandò a consultare il caso a que'
due famosi Giureconsulti, che fiorivano allora in Italia, _Baldo_ ed
_Angelo_, richiedendogli, che per verità dessero il lor parere; sopra
la di cui domanda diedero fuori un loro responso, che si legge tra'
consiglj d'Angelo[240]. A tal fine fu ella amantissima degli uomini
di lettere, ed ebbe sommamente a cuore i Giureconsulti e l'Università
degli studi. Tutti coloro, che cominciarono a fiorire negli ultimi
anni del Re Roberto suo avo, e che nel Regno suo, ancorchè turbato
erano avanzati nelle lettere e nelle discipline, favorì ella con onori
e pensioni; fra' quali sopra ogni altro innalzò Niccolò Spinello da
Giovenazzo detto di Napoli, che oltre avergli dato il Contado di Gioia,
lo fe' gran Cancelliere del Regno, e Siniscalco della Provenza e del
quale si valse nelle cose di Stato più gravi e rilevanti, esercitandolo
in Ambascerie, e ne' consiglj più secreti e di maggior confidenza. Ed
in usare beneficenza e liberalità fu così savia e prudente, che soleva
dire, che facean male que' Principi, i quali pigliando a favorire ed
ingrandire alcuni, lasciavano tutti gli altri marcire nella povertà;
e che si dovea nel ripartir delle mercedi e beneficj donar più tosto
moderatamente a molti, che profusamente a pochi.

Ebbe gran pensiero di tener Napoli abbondante, non solo di cose
necessarie al vitto, ma allo splendore ed ornamento della città.
E perchè concorsero per ciò Mercatanti d'ogni nazione con loro
mercatanzie, per molto che ella si fosse trovata in bisogno, mai non
volle ponere sopra i Mercatanti gravezza alcuna, come si suole da'
Re che sono oppressi da invasioni e da guerra. Restano ancor oggi i
segni della providenza che usò, che i forastieri al suo tempo stessero
ben trattati e quieti; perocchè ordinò la Ruga Francesca e la Ruga
Catalana, acciò che stando quelle nazioni separate, stessero più
pacifiche. Fece tra 'l Castel Nuovo e quello dell'Uovo una strada, per
Provenzali, che ora resta disfatta, per essere occupata dall'edificio
del palazzo regio, e fece la loggia per gli Genovesi, ove oggi è sol
rimasto il nome. Fu nel vivere modestissima, e di bellezza più tosto
che rappresentava maestà, che lascivia o dilicatura: ed in somma fu
tanto graziosa nel parlare, sì savia nel procedere, e sì grave in tutti
i gesti, che parve ben erede dello spirito del gran Roberto suo avolo.


  FINE DEL LIBRO VENTESIMOTERZO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOQUARTO


Stabilito nel Regno Carlo III di Durazzo per la rotta data al Principe
Ottone, e per la cattività del medesimo e della Regina, subito tutti
i Baroni mandarono a dargli ubbidienza eccetto tre Conti, quello di
Fondi, il Conte d'Ariano e l'altro di Caserta, i quali ostinatamente
seguir vollero le parti della Regina: ma Carlo poco curandosi di loro,
attese a purgare il Regno, cacciandone tutti i soldati stranieri che
aveano militato per la Regina; poi per ordinare le cose di giustizia,
mandò Governadori e Capitani per le province, e per le Terre della
Corona. Era allora in grande stima il Conte di Nola Orsino, il quale
persuase al Re, che chiamasse il Parlamento generale per lo mese
d'aprile del seguente anno 1382 per trattare d'imporre un donativo, e
'l Re che ben conosceva esser necessario di fare qualche provisione,
poichè sin d'allora si prevedeva, che il Duca d'Angiò adottato dalla
Regina non avrebbe voluto abbandonare le sue ragioni, mandò per lettere
chiamando tutti i Baroni a Parlamento; e per mantenersi l'amicizia
di Papa Urbano, fece pigliar prigione il Cardinal di Gifoni creato
da Clemente, e fece menarlo a Santa Chiara, dove fattogli spogliar
in pubblico l'abito di Cardinale, e toltogli il cappello di testa,
fece tutto buttare nel fuoco, che s'era perciò fatto accendere in
mezzo della Chiesa; fecelo anche abiurare e confessar di sua bocca che
Clemente era falso Papa, ed egli illegittimo Cardinale, e da poi fece
restituirlo in carcere, riservandolo all'arbitrio di Papa Urbano[241].

Nel mese di novembre seguente, venne Margarita sua moglie, co' piccioli
figliuoli Giovanna e Ladislao, e nel giorno di Santa Caterina con
grandissima pompa fu coronata ed unta, e menata, secondo il costume,
per la città sotto il baldacchino. E per levare in tutto una tacita
mestizia che si vedeva universalmente per Napoli, per la ruina della
Regina Giovanna, si fecero per più dì grandissime feste, giostre e
giuochi d'arme, ne' quali il Re armeggiò più volte con molta lode; poi
ad emulazione di Re Luigi di Taranto, volle istituire un nuovo ordine
di Cavalieri che intitolò la Compagnia della Nave; volendo alludere
alla nave degli Argonauti, affinchè i Cavalieri che da lui erano
promossi a quell'ordine, avessero da emulare il valore degli Argonauti.

Venne in questo tempo il dì del Parlamento generale, nel quale
adunati tutti i Baroni in Napoli, il Conte di Nola per vecchiezza e
per nobiltà, e molto più per lo gran valore di Roberto e Ramondo suoi
figliuoli, d'autorità grandissima, propose che ogni Barone ed ogni
città suggetta alla Corona dovesse soccorrere il Re con notabil somma
di danari, e per dare buon esempio agli altri, si tassò egli stesso
di diecimila ducati; e perchè pareva pericoloso mostrare mal animo al
nuovo Re, che stava ancora armato, non fu Barone, che rifiutasse di
tassarsi, tal che si giunse sino alla somma di trecentomila fiorini,
e celebrato il Parlamento, presero licenza dal Re tutti i Baroni,
promettendo di mandare ogn'uno quel tanto che s'era tassato, e pareva
con quel donativo, e con l'amicizia del Papa che Re Carlo potesse
fortificarsi nel Regno, e temer poco l'invasione, che già di giorno in
giorno si andava più accostando.



CAPITOLO I.

_Origine della discordia tra Papa URBANO, e Re CARLO. Entrata nel regno
di LUIGI I d'Angiò, e sua morte. CARLO assedia in Nocera URBANO, il
quale coll'aiuto de' Genovesi, e di Ramondello Orsino, e di Tommaso
Sanseverino scampa e fugge a Roma._


Papa Urbano dappoichè vide Re Carlo stabilito nel Regno, e che
si tardava d'adempire il concordato fra loro, quando gli diede
l'investitura, non volle aspettar più; onde gli mandò un Breve,
esortandolo, che poichè le cose del Regno erano acquistate, dovesse
consegnare a Butillo la possessione del Principato di Capua e degli
altri Stati che gli avea promessi; ma il Re non si poteva in niun modo
inducere a dismembrare la città di Capua dalla Corona, e però dava
parole, menando la cosa in lungo, donde cominciarono fra loro quelle
dissensioni, che poi risultarono in guerre aperte, con molta ruina
e calamità del Regno; poichè Urbano vedendosi a questo modo deluso,
cominciò a pensare di cacciar ancor lui dal Regno; e per avere un più
numeroso partito, fece nuova creazione di Cardinali, tra' quali creò
Pietro Tomacello di Napoli.

Ma mentre queste cose si facevano in Italia, Luigi Duca d'Angiò senza
contrasto alcuno s'insignorì del Contado di Provenza, nel che ebbe i
Provenzali favorevoli, i quali ubbidendo a quanto la Regina Giovanna
avea loro comandato, non vollero riconoscere per lor Sovrano Carlo,
ma sì bene Luigi, il quale favorito anche da Clemente fu da costui,
approvando l'adozione della Regina, investito del Regno, e fatto
gridare in Avignone Re di Napoli, con sovvenirlo ancora di buona somma
di fiorini, e sperava che calando Luigi potente, non solo avrebbe
ricuperata l'ubbidienza del Regno di Napoli, ma anche di tutta Italia.

(Morta la Regina _Giovanna_, e riconosciuto _Luigi_ da' Provenzali
per lor sovrano, e da _Clemente_ per Re di Napoli, venendo con
valido esercito per discacciar l'emolo dal Regno, _Carlo di Durazzo_
per risarcir la sua fama, che riputava rimaner offesa da alcune
parole contumeliose, dette da _Luigi_, lo sfidò a singolar duello, e
scrissegli un biglietto in lingua franzese, dove rinfacciandogli la
nullità dell'adozione, e che la Regina Giovanna non poteva cedergli il
Regno, lo invita a battersi seco. _Luigi_ rispose a _Carlo_ con pari
acrimonia, ed accettò il duello; anzi spedì salvo condotto a _Carlo_,
per assicurar il luogo del campo destinato, affin di comparire con
sicurezza egli ed i suoi. Si leggono presso _Lunig_[242], oltre il
salvo condotto suddetto, quattro biglietti, scritti vicendevolmente due
da _Carlo_ e due altri da _Luigi_, nell'idioma stesso franzese; ma non
si legge che il duello fosse seguito, poichè si venne a combattere, non
già a solo a solo, a corpo a corpo, ma con eserciti armati).

Come questo si seppe nel Regno, molti Baroni che aveano promessa
la tassa nel Parlamento, non solo non la mandarono, ma di più si
deliberarono di alzare le bandiere d'Angiò, e tra costoro fu Lallo
Camponesco in Apruzzo, e Niccolò d'Engenio Conte di Lecce in Terra
d'Otranto.

Nel medesimo tempo Giacomo del Balzo figlio del Duca d'Andria, vedendo,
che Ottone già Principe di Taranto era prigione, venne nel Regno, e
ricovrò tutto il Principato, e prese per moglie Agnese sorella della
Regina Margarita, la quale era vedova di Cane della Scala, Signor
di Verona. Questa parentela offese tanto i Sanseverineschi, capitali
nemici di Casa del Balzo, che sebbene erano di sangue e di parentela
congiunti col Re, in poco tempo se gli scoversero nemici; onde il Re
vedendo la revoluzione di tanti Baroni nelle più grandi ed importanti
province del Regno, e sentendo che il Conte di Caserta di Francia
scrivea, e tenea intelligenza con molti, cominciò a pensare a' casi
suoi: al che s'aggiungeva, che il Duca d'Andria non si trovava niente
soddisfatto del Re, perchè avea sperato, che subito dopo l'acquisto
del Regno, avesse dovuto rimetterlo interamente in tutto il suo Stato
di prima, il che il Re non avea fatto per la potenza di Casa Marzano
che possedevano la città di Sessa, e quella di Teano. E per ultimo,
trovandosi in queste angustie di mente, non mancarono di quelli
che cominciarono a porgli sospetto, che Giacomo del Balzo Principe
di Taranto, che s'intitolava ancora Imperadore di Costantinopoli,
non volesse occupare il Regno di Napoli, pretendendo per la persona
d'Agnesa sua moglie nipote carnale della Regina Giovanna, di maggiore
età della Regina Margarita, che il Regno toccasse a lui di ragione.
Questo sospetto ebbe tanto più presto luogo nella mente del Re, quanto
che Papa Urbano di natura ritroso ed inquieto minacciava di volerlo
cacciare dal Regno, alla qual cosa pareva abile suggetto la persona del
principe di Taranto; e per questo il Re imbizzarrito, per assicurarsi
di tutti coloro che potessero con qualche ragione pretendere al Regno,
fece carcerare la Duchessa di Durazzo sorella maggiore della Regina
Margarita, e cercò d'avere in mano il Principe di Taranto, lasciando
la moglie in Napoli, la quale similmente Re Carlo fece carcerare, e poi
mandò alla città di Muro.

Intanto Luigi d'Angiò, preso il possesso del Contado di Provenza e
dell'altre Terre della Regina di là da' Monti, fu coronato da Papa
Clemente Re di Napoli, e si pose in viaggio, mandando innanzi dodici
galee nelle marine del Regno per sollevare gli animi di quelli del
partito della Regina, e per accertarli della venuta sua per terra.
Queste dodici galee comparvero alli 17 giugno di quest'anno 1383 nelle
marine di Napoli, ed andarono a Castello a Mare, e 'l presero, ed
all'improvviso la sera seguente vennero sin al Borgo del Carmelo, e 'l
saccheggiarono, poi passarono ad Ischia. Il Re Carlo vedendo, che così
poca armata potea far poco effetto, si pose in ordine per andare ad
incontrare il Re Luigi, che veniva per terra, e ragunò sue truppe in
numero di tredicimila cavalli. Ma questo numero era assai poco appetto
dell'innumerabil esercito del Re Luigi; il quale essendo entrato nel
Regno, per avergli dato il passo Ramondaccio Caldora, l'esercito suo,
per lo concorso di que' Baroni, che giudicando le forze di Carlo poco
abili a resistere, aveano preso il partito del Re Luigi, era cresciuto
in numero di trentamila cavalli: perciò Re Carlo non volle allontanarsi
da Napoli.

Quei che vennero di Francia col Re Luigi, furono il Conte di Ginevra
fratello di Papa Clemente, il Conte di Savoja, ed un suo nipote,
Monsignor di Murles, Pietro della Corona, Monsignor di Mongioja,
il Conte Errico di Bertagna, Buonigianni Aimone, il Conte Beltrano
tedesco, e molti altri Oltramontani di minor nome. Quelli del Regno,
che andarono ad incontrarlo, furono il Gran Contestabile Tommaso
Sanseverino, Ugo Sanseverino, il Conte di Tricarico, il Conte di
Conversano, (ancora che fosse per l'Ordine della Nave obbligato
a Carlo) il Conte di Caserta, il Conte di Cerreto, il Conte di
Sant'Agata, il Conte d'Altavilla, il Conte di S. Angelo e molti altri
Baroni e Capitani[243]. Finalmente essendo Re Luigi dalla via di
Benevento giunto in Terra di Lavoro, perchè Capua e Nola si tenevano
per Re Carlo, andò a ponersi a Caserta, la quale stava già con le
bandiere sue, e da Caserta occupò anche Madaloni; ma consumandosi
tuttavia lo strame e le vettovaglie per lo gran numero de' cavalli,
fu forza che passasse in Puglia; il qual passaggio, ancorchè Re Carlo
avesse proccurato d'impedirglielo, nientedimanco riuscì finalmente al
Re Luigi di condurre il suo esercito sicuro nel piano di Foggia.

Il Re Carlo vedendosi rotto il suo disegno, ed avendo avuta novella,
che Papa Urbano era partito di Roma e veniva verso Napoli, geloso, che
quell'uomo di natura superbo e bizzarro non alterasse gli animi dei
Napoletani, subito prese la via di Napoli a gran giornate; e giunse
a tempo, che il Papa era a Capua, dove andò subito a ritrovarlo, ed
insieme vennero ad Aversa: l'uno simulava coll'altro; ma giunti a
Napoli il Re non volle permettere, che il Papa albergasse nel Duomo, ma
sotto colore di amorevole rimostranza e di buona creanza lo condusse
al Castel Nuovo: quivi trattarono delle cose a loro appartenenti: il
Papa dimandò al Re il Principato di Capua, con molte Terre circostanti,
come Cajazzo e Caserta, le quali furono già del Principato di Capua;
dimandò ancora il Ducato d'Amalfi, Nocera, Scafati, ed un buon numero
d'altre città e castella, e cinquemila fiorini l'anno di provisione
a Butillo suo nipote; e per contrario promettea d'ajutare il Re alla
guerra, e lasciarli a pieno il dominio del Regno tutto, con quelle
condizioni, che l'aveano tenuto i Re suoi antecessori. Furono accordati
e fermati questi patti con grand'allegrezza dell'una e dell'altra
parte. Il Papa ottenne dal Re di uscire del castello, ed andare ad
alloggiare al Palazzo arcivescovile, e con gran pompa fu accolto
dall'Arcivescovo Bozzuto, che era stato rimesso in quella Cattedra dopo
la ruina della Regina, dove il Re e la Regina andarono molte volte
a visitarlo, e con intervento loro si fecero due feste di due nipoti
del Papa, l'una data per moglie al Conte di Monte Dirisi, e l'altra a
Matteo di Celano, gran Signore in Apruzzo; e la Vigilia di Natale il
Papa scese alla chiesa, e furo cantati i Vespri con solennità Papale.
Accadde in questi medesimi dì in Napoli un gran tumulto, poichè Butillo
Principe di Capua nipote del Papa entrò violentemente in un monastero
di donne Monache, e violò una delle più belle, che vi era dentro, e
delle più nobili, del che si fe' gran tumulto per la città, e quelli
del governo essendo andati al Re a lamentarsi, furono dal Re mandati al
Papa, i quali avendo esposta con gran veemenza querela di quel fatto,
il Papa, che com'era nell'altre cose severissimo, così all'incontro
era nell'indulgenza e nell'amore verso i suoi mollissimo, rispose,
che non era tanta gran cosa essendo il Principe suo nipote spronato
dalla gioventù: e Teodorico di Niem, che scrive questo, si ride, che il
Papa scusasse colla gioventù il nipote, il quale a quel tempo passava
quarant'anni[244]. Venne il dì di Capo d'anno e perchè i progressi, che
faceva Re Luigi in Puglia richiedevano, che Carlo andasse ad ostarli,
il Papa volle celebrare la messa, e pubblicò Re Luigi, che ei chiamava
Duca d'Angiò, per eretico, scomunicato e maledetto, bandì cruciata
contro di lui, promettendo indulgenza plenaria a chi gli andava contro,
e fe' Confaloniero della Chiesa Re Carlo, benedicendo lo stendardo, che
il Re tenne con la man destra sin che si celebrò la messa.

Si pose per tanto in ordine Carlo per andare in Puglia a cacciar
l'inimico, ed ordinò alla Cancelleria che scrivesse a tutti i
Feudatari, che dovessero star pronti; e perchè il Papa non dava altro
che parole, ed indulgenze, non già danari, fu astretto di pigliar dalla
Dogana tutti i panni, che vi erano di Fiorentini, Pisani e Genovesi,
per distribuirgli parte a' soldati ordinarj, e parte a' Cavalieri
napoletani, che s'erano offerti di seguirlo; e venuto il mese d'aprile
di questo anno 1384 si partì di Napoli per andare in Puglia, e giunse
a Barletta; ed ancorchè il Re Luigi proccurasse venire a battaglia
finita, Re Carlo approvando il consiglio del Principe Ottone (che
a questo fine l'avea fatto sprigionare) non volle uscire, ma i due
eserciti si trattenevano in far varie scaramucce; onde Luigi vedendo,
che non potea venir più a fatto d'arme, si ritirò a Bari, dove venne a
trovarlo Ramondello Ursino, a cui Luigi sposò Maria d'Engenio donzella
nobilissima e ricchissima, poichè per via della madre era succeduta al
Contado di Lecce.

Mentre queste cose si facevano in Terra di Bari, il Papa attediato
in Napoli dalle lunghe promesse di Carlo (il quale in effetto andava
estenuando quanto poteva le promesse fatte a' suoi parenti) si parti in
fine mal soddisfatto di Napoli, e con tutti i Cardinali e suoi parenti
ed amici andò a Nocera, la quale era stata già assegnata liberamente
a Butillo suo nipote, ma non già Capua, nella quale si tenevano le
fortezze in nome del Re. Il Papa come era persona iraconda e superba,
lasciava scapparsi delle parole, che davano indizio del suo mal animo
contra il Re, tal che faceva egli molto più paura a Carlo, che non gli
faceva Re Luigi, e certamente l'avrebbe indotto a lasciar la guerra di
Puglia, se la morte di Luigi accaduta opportunamente a' 20 settembre
di quest'anno 1384 non l'avesse liberato da questa molestia; poichè
i Franzesi rimasi senza Re, costernati in gran parte, ritornarono in
Francia. Morì Luigi d'Angiò in Biscaglia; Principe assai valoroso, e
savio, che fu il primo Luigi della Casa d'Angiò, che regnò in parte del
Regno di Napoli, ancorchè in quanto al nome fosse secondo, a rispetto
del Re Luigi di Taranto, che fu il primo.

(Re _Luigi I_ nel precedente anno 1383 a 20 di settembre, fece in
Taranto il suo solenne Testamento, che dettò in Lingua Franzese,
nel quale istituiva erede nel Regno _Luigi_ Duca di Calabria suo
primogenito; ed a _Carlo_ secondogenito lasciava altri Stati e Contee,
facendo altre disposizioni, e Legati pii a molte chiese, ospedali e
conventi. Leggesi il testamento presso _Lunig_[245]).

Liberato adunque Re Carlo, per la morte di sì importante nemico, dalla
guerra di Puglia, se ne venne in Napoli, ove giunto al dì 10 novembre,
fu ricevuto da' Napoletani con grand'allegrezza; e riposatosi alcuni
dì, mandò poi solenne ambasceria al Papa in Nocera, facendogli dire,
che desiderava sapere per qual cagione era partito da Napoli, ed
insieme a pregarlo di tornarvi, perchè aveano da conferire insieme
molte cose. Il Papa ritroso, com'era il suo solito, rispose, che se
avea da conferir seco, venisse il Re a trovar lui, essendo del costume,
che i Re vadano a' Papi e non i Papi vadano a trovare i Re a posta
loro; nè potè tanto frenare l'impeto dell'animo suo, che non dicesse
agli Ambasciadori, che riferissero al Re, che se 'l voleva per amico,
dovesse levare subito le gabelle, che avea poste nel Regno. Il Re udite
queste cose dagli Ambasciadori, rispose, che sarebbe ben egli andato
a trovarlo, ma armato, ed alla testa d'un fioritissimo esercito: che
intorno all'imporre al Regno suo nuove gabelle, non s'apparteneva al
Papa di vietarlo; ch'egli s'impacciasse solo de' Preti; perchè il Regno
era suo, acquistato per forza d'arme, e per ragione della successione
della moglie; e che il Papa non gli avea dato altro, che _quattro
parole scritte nell'investitura_[246]. E replicando il Papa, che il
Regno era della Chiesa, dato a lui in feudo, con animo, che avesse
da signoreggiare moderatamente, e non iscorticare i vassalli, e che
perciò era in elezion sua, e del Collegio dei Cardinali di ripigliarsi
il Regno, e concederlo a più leale e più giusto Feudatario: venne la
cosa a tale, che il Re mandò il Conte Alberico suo gran Contestabile
ad assediarlo nel Castello di Nocera; e questo fu su 'l dubbio, ch'egli
avea, che se per caso veniva a morte Papa Clemente in Avignone, Urbano
avrebbe confermato a' figli di Luigi d'Angiò, già morto, il Regno. Il
Papa vedutosi cinto d'assedio, cominciò a scomunicare, come il solito
e maledire: scomunicò Re Carlo, e tre volte il giorno affacciavasi
alla finestra, ed a suon di campanello, con torce di pece accese
imprecava, maladiceva e scomunicava sempre l'esercito del Re, ch'era
a sua veduta. I cinque Cardinali ch'erano seco, de' quali era capo il
Cardinal Gentile di Sangro, vedendosi in tanto periglio, cominciarono a
persuadergli, che volesse pacificarsi col Re, almeno finchè ritornasse
a Roma, perchè parea cosa molto dura contrastare con sì potente nemico,
senz'altre arme, che 'l suono del campanello: e perchè mostrarono in
ciò troppo avidità della pace, il Papa gli ebbe tanto sospetti, che
per una cifra, che fu trovata, che veniva ad uno de Cardinali, gli fè
pigliare tutti cinque, e tormentare acerbissimamente senza rispetto;
e Teodorico di Niem, che si trovava là suo Segretario, scrive, ch'era
un piacere vedere il Papa, che passeggiava, dicendo l'Ufficio, mentre
il Cardinal di Sangro, che era corpulento, stava appiccato alla corda,
ed egli interrompendo l'ufficio, gridava, che dicesse, come passava il
trattato; in fine, benchè non confessasse niuno di loro, gli fè tutti
cinque morire. Il Collenuccio narra, che i Cardinali furon sette, e che
quando Urbano scappò fuori da Nocera, navigando verso Genova, cinque
d'essi fece porre dentro i sacchi, e gittare in mare, e gli altri
due giudicialmente convinti in Genova, in presenza del Clero e del
Popolo gli fece morire a colpi di scure, i di cui corpi fatti seccare
ne' forni e ridurli in polvere, ne fece empire alcuni valigioni e
quando egli cavalcava, se gli faceva portare innanzi sopra i muli co'
cappelli rossi, per terrore di coloro, che volessero insidiargli la
vita, E congiurar contra di lui. Il Panvinio, de' Cardinali carcerati
e tormentati in Nocera ne annovera sei, i quali furono il Cardinal
di Sangro, Giovanni Arcivescovo di Corfù, Lodovico Donati Veneziano
Arcivescovo di Taranto, Adamo Inglese Vescovo di Londra, ed Eleazaro
Vescovo di Rieti: vuole che i primi cinque fossero stati gittati
in mare, ed il sesto lasciato in vita ad istanza di Riccardo Re
d'Inghilterra, e del settimo non fa parola.

Il Pontefice Urbano vedendo sempre più stringersi l'assedio, mandò
secretamente in Genova a pregar quella Signoria, che gli mandasse diece
galee, la quale con intervallo di pochi dì le mandò, e comparvero alle
marine di Napoli, senza sapere qual fosse l'intendimento loro. Allora
i Napoletani, che sentivano grandissimo dispiacere della discordia
tra 'l Papa e 'l Re, furono a supplicarlo, che volesse pacificarsi
con Urbano, perchè tal discordia non potea partorir altro, che danno
alla Corona sua ed a tutto il Regno; e 'l Re loro rispose, che esso
non resterebbe di mostrarsi sempre ubbidiente figliuolo del Papa e
di Santa Chiesa; ed in pruova di ciò non avrebbe egli ripugnanza di
riporre in mano di quelle persone, che deputasse la città di Napoli,
la potestà di concordarlo e di patteggiare col Papa in nome suo; ed in
fatti, ancorchè non si trovi memoria de' nomi degli Deputati dell'altre
Piazze, per la Piazza di Nido però si trova proccura di que' Nobili,
i quali deputarono le persone di Niccolò Caracciolo, come scrive il
Summonte o di Giovanni Carafa, secondo il Costanzo, e di Giovanni
Spinello di Napoli, perchè in nome della lor Piazza avessero da
intervenire a maneggiar questa pace. Intanto Papa Urbano, nell'istesso
tempo, che mandò in Genova per le galee, mandò ancora in Puglia a
chiamare Ramondello Ursino, acciocchè sforzando l'assedio, l'avesse
potuto condurre alla marina ad imbarcare su le galee: venne Ramondello
con ottocento cavalli eletti, ed arditamente a mal grado dell'esercito
del Conte Alberico si fece la strada con l'armi; ed entrato nel
castello di Nocera, fu dal Papa molto onorato e ringraziato; e poichè
seppe l'intenzion sua, conoscendo, che le genti sue erano poche per
cacciarlo di mano de' nemici, persuase al Papa, che mandasse un Breve
a Tommaso Sanseverino, che venisse con le sue genti a liberarlo, e
s'offerse egli di portare il Breve, e di condurli. Il Papa accettò il
consiglio, fece stendere il Breve, e gli diede più di diecimila fiorini
d'oro e lo benedisse; ed egli partito con molta diligenza, in capo di
tredici dì ritornò insieme col Sanseverino, col quale erano tremila
cavalli di buona gente, e per la via di Materdomini entrarono nel
castello, e baciato il piede al Papa, lo fecero cavalcare, conducendolo
per la strada di Sanseverino e di Gifoni al Contado di Buccino, e di
là mandato ordine alle galee genovesi, che venissero alla foce del
fiume Sele, condussero il Papa ad imbarcarsi, come fece. Donò allora
il Papa, per usar gratitudine a Ramondello, la città di Benevento e la
Baronia di Flumari, che consistea in diciotto castella. Il Sanseverino
se ne ritornò in Basilicata, e Ramondello in Puglia, e 'l Papa giunse
a Cività Vecchia salvo.



CAPITOLO II.

_Re CARLO è invitato al trono d'Ungaria. Sua elezione ed incoronazione
a quel Regno, e sua morte._


Essendo morto Lodovico Re d'Ungaria, quegli che venne due volte nel
Regno di Napoli per vendicar la morte di Re Andrea suo fratello, senza
lasciar di se stirpe maschile; i Principi e Prelati d'Ungaria giurarono
fedeltà ad una picciola fanciulla figliuola di lui primogenita,
chiamata Maria[247]; e per mostrare, che in tal fanciulla vivea il
rispetto e l'amore, che essi portavano al morto Re Lodovico, fecero
decreto, che si chiamasse non _Regina_ ma _Re Maria_ e così fu gridato
da tutti i Popoli: ma poichè Elisabetta madre della fanciulla, e sua
balia e tutrice, governava ogni cosa ad arbitrio di Niccolò Bano
di Gara (che a quel Regno è nome di dignità, poichè non vi sono
nè Principi, nè Duchi, nè Marchesi) molti altri Baroni per invidia
cominciarono a sollevarsi e pentirsi di aver giurata fedeltà al _Re
Maria_; tanto maggiormente, che aveano inteso essere destinata per
moglie a Sigismondo di Luxemburgo, figliuolo di _Carlo IV_ Imperadore
e Re di Boemia; e conoscendo il Re Carlo nella Corte del Re Lodovico
morto, e nel campo quando guerreggiò per quel Re contra i Veneziani;
giudicarono lui personaggio degno di succedere a quel Regno, per lo
parentado che avea col Re morto. Mandarono per tanto per Ambasciadore
il Vescovo di Zagrabia a chiamarlo, ed a pregarlo che avendo bisogno
quel Regno d'un Re bellicoso, e non d'una fanciulla Regina, volesse
venire, che gli porrebbero senz'alcun dubbio in mano la Corona di
quell'opulentissimo Regno, e che non v'avrebbe contraddizione alcuna.
La Regina Margarita, quando ebbe intesa la proposta dell'Ambasciadore,
come presaga di quel che avvenne, cominciò a pregare il marito, che
in niun modo accettasse tale impresa, che dovea bastargli, che da
privato Conte, Iddio gli avea fatta grazia di dargli la possessione di
questo Regno, nel quale era più savio consiglio stabilirsi in tutto,
e cacciarne i nemici, che lasciare a costoro comodità, che potessero
cacciarne lei ed i figli, mentre egli andava a spogliare quella povera
fanciulla del Regno paterno, ad istanza di gente infedele e spergiura,
la quale non avendo osservata fede alla Regina loro, figliuola di un
Re tanto amato, e benemerito di quel Regno, non era da credere, che
avessero da osservare fede a lui. All'incontro Re Carlo vedendosi ora
in prospera fortuna, poichè di due nemici, che avea nel Regno, il Re
Luigi era morto, e Papa Urbano fuggito, e considerando ancora, che
per la puerizia de' figliuoli del Re Luigi, avrebbe tempo d'acquistare
quel Regno, senza timore di perdere questo; finalmente si risolse di
partire, ed a' 4 di settembre si pose in via con pochissima gente;
per due cagioni, l'una per non volere mostrare agli Ungheri, che egli
volesse venire ad acquistare il Regno per forza d'arme, ma solo per
buona loro volontà; e l'altra per lasciare più gagliarda la parte
sua contra quella del Re Luigi: ed imbarcato a Barletta, con felice
navigazione arrivò in sei dì in Zagrabia, dove il Vescovo l'accolse
con grandissima magnificenza, e si fermò là per alcuni dì, per far
intendere agli altri Baroni della conspirazione la sua venuta, a tal
che più scovertamente e senza rispetto, si movessero contra la Regina
e con lettere a diversi amici suoi, ch'erano ancora sotto la fede
della Regina, si sforzò d'ampliare il numero de' parteggiani suoi, con
promesse non solo a loro, ma a tutto il Regno di rilasciare i tributi,
e concedere nuovi privilegi, e far indulto a tutti i fuorusciti. E
già con quest'arte in pochi dì gli parve d'aver guadagnato tanto, che
potesse senza fatica andare a coronarsi Re, perchè non si vedea essere
rimasti altri dalla parte della Regina, che il Bano di Gara; onde si
mosse ed andò verso Buda.

Queste cose erano tutte notissime alla regina Elisabetta vecchia, ed
al _Re Maria_, onde con molta prudenza mandarono subito per lo sposo,
e fecero celebrare le nozze tra Sigismondo e Maria, dubitando, che re
Carlo per agevolare più l'acquisto del Regno, pubblicasse da per tutto,
che non veniva per cacciare il _Re Maria_ dal Regno, ma per darla per
moglie a Ladislao suo figliuolo Duca di Calabria, con la quale arte
avrebbe senza dubbio tirato a se tutto il resto dei partigiani occulti
del Re Maria, i quali per non volere Sigismondo Boemo, sarebbonsi più
tosto contentati di lui; ma celebrate che furono le nozze, Sigismondo
ch'intendea, che il re Carlo se ne veniva a gran giornate, se ne andò
in Boemia.

La fama di queste nozze dispiacque molto a Re Carlo, perchè giudicava,
che l'imperator Carlo IV[248] padre di Sigismondo non avrebbe mai
sofferto, che il figlio fosse cacciato insieme colla moglie dal
Regno, debito a loro, senza fare ogni sforzo di cacciarne lui; ma
le due Regine dopo la partita di Sigismondo con grandissima arte
dissimulando, mandarono a Re Carlo a dimandargli se veniva come parente
o come nemico, perchè venendo come parente avrebbero fatto l'ufficio,
che conveniva, nell'andargli incontro, e nel riceverlo con ogni
dimostrazione di amorevolezza; se come nemico, il che non credevano,
sariano venute a pregarlo come donne infelici ed abbandonate, che
avesse loro qualche rispetto, non già per lo parentado, ma per non
aver mai avuto da loro nè in fatti nè in parole offesa alcuna. Re
Carlo dissimulando rispose, ch'egli veniva come fratello della Regina,
la quale avea inteso in quanti travagli stava per le discordie del
Regno, perch'egli era tanto obbligato alla memoria di Re Lodovico suo
benefattore, che avea pigliata questa fatica di lasciare il Regno suo
in pericolo, per venire ad acquietare le discordie e pacificare il
Regno d'Ungaria, che potesse quietamente ubbidire al _Re Maria_, e che
però l'una e l'altra stessero con l'animo quieto; e con questa risposta
credendosi, che le Regine la credessero, andò in Buda con miglior
animo, pensando che ancora l'Imperadore credendolo, non si movesse a
richiesta delle due Regine a disturbare il suo disegno. Ma le Regine,
ancorchè non si fidassero a tal risposta, vedendo che non potevano
resistere con aperte forze, deliberarono guerreggiare con arti occulte,
e dimostrando allegrezza della venuta del Re, come fratello, fecero
apparecchiare nel castello una gran festa ed uscirongli incontro con
grandissima pompa, con tanta dissimulazione, che veramente non pure Re
Carlo, ma tutti gli Ungheri credevano, che stessero in quell'errore,
e che quelle accoglienze fossero fatte non meno con l'animo che con
l'apparenza; e per questo Carlo, quando le vide, discese da cavallo ad
abbracciarle, e quando furono insieme entrati in Buda, per mostrare più
modestia, non volle andare ad alloggiare in castello, ma ad un palazzo
privato della città, fin che si fosse trovato modo di farsi pubblicare
per Re. Il dì seguente entrato nel castello a visitare le Regine,
furono con pari dissimulazione replicate le accoglienze vicendevolmente
ed i ringraziamenti; e così in apparenza credeano ingannare l'uno
l'altro; ma l'uno e l'altro stava sospetto e tenea secrete spie di quel
che si facea.

Niccolò Banno di Gara fidelissimo servidore delle Regine, che conoscea,
che tutto quel male era nato per cagion sua, non si partiva mai da
loro, avendo cura, che nella guardia reale fossero tutte persone
fidelissime, a tal che non fosse fatta forza alcuna. All'incontro Re
Carlo facendosi chiamare Governador del Regno, stava aspettando il
modo ed il tempo di occuparlo e d'entrare nel castello; e dall'altra
parte le Regine si guardavano quanto più potevano. Ma da questa guardia
delle Regine nacque più tosto comodità a Carlo che impedimento, perchè
vedendosi dal volgo, che le Regine erano poco corteggiate, perchè le
guardie non lasciavano entrare se non pochissimi personaggi; vennero
subito in dispregio, e tutte le faccende si facevano in casa del
Governadore; e per questo quelli, che si trovavano aver chiamato Re
Carlo, andavano sollevando la plebe, con dire che il governo de' Regni
non sta bene a donne, che son nate per filare, e per tessere, ma ad
uomini valorosi e prudenti, che possono in guerra ed in pace difendere,
ampliare e governare le nazioni soggette; e con queste e simili
esortazioni commossero a grandissimo tumulto il Popolo; onde le Regine
timide, non solo si teneano in pericolo di perdere il Regno, ma anche
la vita. Comparvero Intanto alcuni Vescovi e Baroni veramente fautori
di Carlo, e sotto spezie di volere acquietare il tumulto promisero
alla plebe di voler trattare dell'elezione del Re; nè essendo per
anche finito il tumulto, Re Carlo sotto colore di temerlo, entrò nel
castello, e trovando sbigottite le guardie, lasciò in luogo loro alcuni
Italiani, ch'erano venuti con lui: e salito alle Regine, disse loro,
che stessero di buon animo; e poco da poi ritornato nel suo palazzo,
trovò ch'era stato gridato Re dalla plebe, e confermato da molti
Baroni, anzi da tutti, parte con parole, e parte con silenzio, perchè
quelli ch'erano dalla parte del _Re Maria_, per timore del Popolo non
ebbero ardire di contraddire; onde volle che si mandasse da parte di
tutti i Baroni, Prelati e Popolo, uno, che dicesse al _Re Maria_, come
per beneficio del Regno, che non potea essere ben governato da donne,
aveano eletto nuovo Re, e comandavano, che ella lasciasse il Regno e
la Corona, nè volesse contrastare alla volontà universale di tutto il
Regno.

Le povere Regine a questa imbasciata per un pezzo restarono attonite;
ma poi il _Re Maria_ generosamente rispose: _Io mai non cederò la
Corona ed il Regno mio paterno; ma voi seguitate quella via, che avete
presa, ch'io se non potrò contrastare spero, che quando vi pregherò
per la memoria di Lodovico mio padre, che mi vogliate lasciare andare
in Boemia a ritrovare mio marito, non sarete tanto discortesi, che
avendomi levato il Regno ereditario, mi vogliate ancora levare la
libertà, e questo poco d'onore, che vi cerco per ultimo ufficio
della fedeltà, che mi avete giurata, della quale siete tanto poco
ricordevoli._ Ma la Regina Elisabetta per risarcire la risposta della
figlia, più generosa di quel che il tempo richiedeva, pregò colui,
che venne a far loro l'imbasciata, che rispondesse ai Signori del
Consiglio, che poichè le donne sono in questo imperfette, che non
possono, o senza molto pensare, o senza consiglio risolversi nelle
cose di tanta importanza, gli pregavano, che dessero loro tempo di
rispondere; e partito che fu, si levò un pianto da loro e da tutte
le donne ed uomini della Corte, che s'udiva per tutta la città, per
la quale ancora molte persone discrete, e da bene andavano meste,
che parea, che fosse spenta la memoria di tanti e sì grandi beneficj
ricevuti, e che Iddio ne mostrerebbe miracolo contro il Regno, che
sopportava tanta scelleratezza. Ma tornando nuova imbasciata al
castello a dimandare alle Regine la corona, e lo scettro, la Regina
Elisabetta saviamente confortò la figlia, che poichè col contrastare
non potean far altro effetto, che porre ancora in pericolo le vite
loro, volesse cedere ed uscire del castello, avanti che il Popolo
furibondo venisse a cacciarle: ammonendola, che Dio vendicatore delle
scelleraggini l'avrebbe per qualche via sollevata, e ricordandole del
costume efferato degli Ungheri, che un dì per furia sono crudelissimi
e ferocissimi animali, e l'altro, mancata la furia, sono vili pecore, e
come non pensano a quel che fanno, si pentono spesso di quel che hanno
fatto: pigliata la corona andò a visitare Re Carlo, lasciando la figlia
in amarissimo pianto; ed essendo ricevuta da Carlo con grand'onore,
cominciò a dirgli queste parole: _Poich'io veggio il Regno d'Ungaria,
per l'aspra e crudele natura degli Ungheri, impossibile ad essere ben
governato per mano di donne, ed è volontà di tutti, che mia figlia ne
sia privata, io l'ho confortata, e per l'autorità, che ho con lei, come
madre le ho comandato, che ceda alla volontà loro ed alla fortuna, ed
ho piacere, che sia più tosto vostro, che discendete dalla linea di Re
Carlo, che di altri; ma almeno vi priego, che ne lasciate andare in
libertà._ Il Re rispose cortesissimamente, che stesse di buon animo,
che avrebbe lei in luogo di madre e la figliuola in luogo di sorella, e
ch'era per contentarle di quanto desideravano, e fu tanta la prudenza
e la costanza di questa donna, e seppe si ben dissimulare l'interno
dolor suo e della figlia, che per la città si sparse fama, che di
buona voglia avessero rinunziato il Regno al Re Carlo lor parente; e
l'istesso Carlo ancora in questo ingannato, mandò a convitarle alla
festa dell'Incoronazione, che avea da farsi in Alba, e le donne con
mirabile astuzia vi andarono insieme con lui, come fossero esse ancora
partecipi della festa, e non condotte là per maggior dolore e più grave
loro scorno.

Venuto il dì della Coronazione, Re Carlo posto nella sedia regale, fu
coronato dall'Arcivescovo di Strigonia, di cui è particolar ufficio
coronar coloro, che i Baroni, Prelati e' Popoli eleggono per Re; e
quando fu a quella cerimonia di voltarsi dal palco, e dimandare tre
volte a' circostanti, se volevano per Re Carlo, quanto più alzava la
voce, tanto con minor plauso gli veniva risposto, perchè in effetto
la terza volta non risposero, se non quelli che aveano proccurata la
venuta di Carlo; e senza dubbio la presenza delle due Regine commosse a
grandissima pietà la maggior parte della turba, e massimamente quelli,
che più si ricordavano dell'obbligo, che tutto il Regno avea alle ossa
del Re Lodovico; e si conobbe subito un pentimento universale tra
coloro, ch'erano condescesi alle voglie de' fautori di Carlo, ed un
raffreddamento negli animi d'essi fautori, tanto più che successe una
cosa, presa per pessimo augurio, che finita la Coronazione, volendo
Re Carlo tornare a casa, colui, che portava innanzi, com'è solito,
la bandiera, che fu di Re Stefano (quegli che per le virtù sue fu
canonizzato per Santo) non avendo avvertenza nell'uscire della porta
di abbassarla, la percosse nell'architrave della porta della chiesa;
e com'era per vecchiezza il legno e la bandiera fragile, si ruppe e
lacerò in più parti: e da poi nel dì medesimo, venne sì grave tempesta
di tuoni e di venti, che gl'imbrici delle case andavano volando
per l'aria, e molte case vecchie e debili caddero con grandissima
uccisione; ed a questo s'aggiunse un altro prodigio, ch'una moltitudine
infinita di corbi entrarono con strepito grandissimo nel palazzo reale,
che fu una cosa molestissima a sofferire, massimamente non potendosi
in niun modo cacciare, e per questo stavano gli animi di tutti quasi
attoniti; del che accorto Re Carlo cominciò a dimostrare di farne poca
stima, e di dire, che queste erano cose naturali, e l'averne paura era
ufficio femminile.

Le due Regine ridotte nel castello non aveano altro refrigerio, che
i buoni ufficj di Niccolò Bano di Gara, il quale con grandissima
divozione fu loro sempre appresso, confortandole e servendole; e
perchè già s'accorgevano del pentimento degli Ungheri, e della poca
contentezza, che s'avea della coronazione di Re Carlo, cominciarono
a rilevarsi d'animo; e ragionando un dì il _Re Maria_ e la madre a
Niccolò del modo, che potea tenersi di ricovrar la perduta dignità
e '1 Regno, Niccolò disse loro, che quando a loro piacesse avrebbe
fatta opera, che Re Carlo fosse ucciso: queste parole furono
avidamente pigliate dalle due Regine, e ad un tempo risposero, che non
desideravano cosa al mondo più di questa: e Niccolò pigliando in sè
l'assunto di trovar l'omicida, diede a loro il carico di adoperarsi,
che 'l Re venisse in camera loro, e mentre egli attese a far la
parte sua, le Regine con la solita dissimulazione trovarono ben modo
d'obbligare il Re a venire all'appartamento loro, perchè la Regina
Elisabetta disse, che avrebbe fatta opera, che Sigismondo sposo della
figliuola avesse ceduto, come avean esse ceduto al Regno, purchè il
Re con alcuni non gravi patti ne avesse mandata la moglie in Boemia;
e poichè Re Carlo ebbe inteso con molto suo piacere questo pensiero
della Regina, la ringraziò molto, e la pregò, che conducesse questo
trattato a fine, ch'egli era per conceder, non solo, che se n'andasse
la Regina giovane al marito, ma che si portasse ancora tutti i tesori
reali, occulti, e palesi: e dopo alcuni dì, avendo Niccolò trovato
un valentissimo uomo chiamato Blasio Forgac, persona intrepida, che
avea accettata l'impresa d'uccidere il Re, e condottolo nel castello,
avendo ad una gran quantità de' suoi confidenti ordinato, che venissero
parte nel castello e parte restassero fuori con armi secrete; le
Regine mandarono a dire al Re, che aveano lettere da Sigismondo piene
d'allegrezza, e 'l Re, che non desiderava altro, si mosse ed andò
subito alla camera loro, e posto in mezzo nel tempo, che volevano
mostrargli la lettera, entrò Niccolò sotto specie di volere invitare
il Re, e le Regine alle nozze di una figlia sua, e con lui entrato
Blasio, il quale subito con una spada ungara diede una ferita al Re in
testa, che gli calò fino all'occhio. Il Re gridando cadde in terra; e
gl'Italiani che 'l videro caduto, e versare una grandissima quantità di
sangue, pensarono tutti a salvarsi; in modo, che Blasio non ebbe alcuna
fatica per ponersi in sicuro, perchè subito concorsero i parteggiani di
Niccolò, e se n'uscì dal castello colla spada insanguinata; e Niccolò
accortosi della paura della guardia del Re, e degl'Italiani, senza
contrasto pose le guardie al castello di persone tutte affezionate alle
Regine. Poichè il Re fu ridotto ferito alla camera sua, e si conobbe
dagli Italiani non essere speranza alcuna alla vita sua, cominciarono
a fuggire e salvarsi col favore di alcuni Ungheri, che aveano tenuta
la parte del Re Carlo; la notte poi grandissima moltitudine, non solo
de' cittadini di Buda, ma delle ville convicine, concorsa al rumore
di sì gran fatto, cominciò a gridare: _Viva Maria figlia di Lodovico,
viva il Re Sigismondo suo marito, e mora Carlo tiranno, e traditori
seguaci suoi_: e col medesimo impeto saccheggiarono le case di quanti
mercanti Italiani erano in Buda. Le Regine allegre fecero portare il Re
Carlo così ferito a Visgrado, simulando di fargli onore, con mandarlo
a seppellire dove era solito di seppellirsi gli altri Re d'Ungaria, e
sono alcuni che dicono, che per non aspettare che morisse della ferita
lo fecero, o avvelenare o affogare, perchè s'intendea, che Giovanni
Banno di Croazia, Capo de' fautori di Carlo, con gran numero di valenti
uomini veniva a favore del Re per farlo governare. Il corpo del Re,
poichè fu morto, fu condutto a seppellire alla chiesa di S. Andrea
com'era costume di seppellire gli altri, ma poco da poi venne ordine
da Papa Urbano, che fosse cavato da chiesa, essendo morto scomunicato
e contumace di Santa Chiesa.

Questo fu il fine di Re Carlo III di Durazzo, del quale si potea
sperare, che avesse da riuscire ottimo Principe, se non s'avesse fatto
accecare dall'ambizione, e si fosse contentato di possedere quel Regno,
che con qualche colorato titolo parea che possedesse. Fu, secondo che
narra Paris de Puteo[249], di sua persona valoroso, anzi valentissimo
ed amatore de' Letterati, ancorchè nel Regno suo torbido e fluttuante
pochi ne fiorissero, affabilissimo con ogni persona e molto liberale;
solo fu tacciato di crudeltà ed ingratitudine verso la Regina Giovanna
e le cognate sorelle della moglie, del che solamente potea scusarlo la
gelosia del Regno. Di lui non abbiamo leggi, che si lasciasse, come gli
altri Re suoi predecessori. Visse anni quarantuno, e regnò in Napoli
anni quattro e cinque mesi, da agosto 1381 fin a' 6 febbraio 1386.
Lasciò di Margarita sua moglie due figliuoli, _Giovanna_ già grandetta,
e _Ladislao_ ch'era di dieci anni.



CAPITOLO III.

_Di Re LADISLAO e sua acclamazione. Nuovo Magistrato istituito in
Napoli. Guerre sostenute col Re LUIGI II d'Angiò competitore di
LADISLAO._


Giunta in Napoli l'infelice novella della morte di Re Carlo, la Regina
Margarita, ancorchè per qualche tempo proccurasse tenerla occulta,
nulladimanco, essendo poi venuta a Roma a Papa Urbano, non potendo ella
celarla più, la pubblicò alla città; e con dimostrazione d'infinito
dolore celebrò l'esequie, essendo rimasta vedova di trentotto anni ed
afflitta, per la poca età del figlio, e per lo timore degli nemici.
Furono molti, che le persuasero, che facesse gridare se stessa per
Regina, poichè il Regno apparteneva a lei, come nipote carnale della
Regina Giovanna I. Ma vinsero quelli che le persuasero, che facesse
gridare _Re Ladislao_ suo figlio, col dubbio che il Papa non avesse
potuto dire, che la Regina Giovanna non potea trasmettere agli
eredi il Regno, essendone stata privata in vita per sentenza, come
scismatica. Fu per tanto gridato a' 25 febbraio 1386 per tutta Napoli
_Re Ladislao_, che avea poco più di dieci anni; e la Regina la prima
cosa che fece, mandò per Ambasciadore al Papa Antonio Dentice, per
mitigarlo, supplicandolo umilmente, che con l'esempio di colui, del
quale era Vicario in terra, volesse scordarsi dell'offese del padre,
e pigliare la protezione dell'innocente fanciullo, prendendosi quelle
Terre del Regno, ch'e' volesse, per darle a' suoi parenti. Il Papa
parte mosso a pietà, parte sazio d'aver veduto morto Re Carlo, e parte
per disegno di poter disporre di gran parte del Regno, rispose, fuor
della natura sua, benignamente, e creò Gonfaloniero di Santa Chiesa
Ramondello Orsino, e per un Breve Appostolico gli mandò a comandare
che pigliasse la parte del Re Ladislao, e per lo Vescovo di Monopoli
suo Nunzio gli mandò ventimila ducati, acciocchè potesse assoldare
più genti di quelle che tenea, e con questo la Regina restò alquanto
confortata.

Ma Margarita, come donna poco esperta ad un governo tale ed a tal
tempo, essendo a lei detto dai suoi Ministri, che le maggiori armi e
forze per mantener i Regni sono i danari, avea cari più degli altri
quei Ministri, che più danari facevano, senza mirare, se gli facevano
per vie giuste o ingiuste, nè dava udienza a coloro che venivano
a lamentarsi. Oltra di ciò, avea abbracciata tanto volentieri, ed
impressasi nella mente così tenace l'opinione di far danari, che le
erano sospetti tutti coloro, ch'entrassero a consigliarla altramente,
senza por mente alle persone, se fossero di autorità, e se fossero
affezionate alla parte sua. A questo aggiunse di più, che trovandosi
aver fatta mala elezione de' primi Uffiziali, e creando poi gli
altri a relazione e voto de' primi, quelli non proponevano se non
persone dependenti da loro, mirando poco se fossero abili o inabili,
onde perderono ogni speranza i Dottori e gli altri uomini prudenti
e di giudizio, di potere avere parte alcuna ne' Governi e negli
altri Ufficj; e quindi ogni dì si vedean fatti mille torti tanto
a' cittadini quanto a' nobili. Per questo i cinque Seggi uniti col
Popolo deliberarono di risentirsi, e crearono un nuovo Magistrato
che fu chiamato degli _Otto Signori del Buono stato_, che avessero da
provedere, che da' Ministri del Re non si avesse a far cosa ingiusta.
Questi otto furono Martuccello dell'Aversana per Capuana, Andrea Carafa
per Nido, Giuliano di Costanzo per Portanova, Tuccillo di Tora e Paolo
Boccatorto per Montagna e per Porto, Giovanni di Duca, nobili, ed
Ottone Pisano, e Stefano Marsato popolani, i quali cominciarono con
grandissima autorità ad esercitare il loro Magistrato, andando ogni dì
un di loro a' Tribunali, a vedere quel che si facea, affinchè non fosse
fatto torto ad alcuno. Talchè in breve parve, che fossero più temuti
essi dagli Ufficiali, che gli Ufficiali dal resto della città; nè
perchè la Regina col suo Supremo Consiglio facesse ogni sforzo, bastò
ad abolire tal Magistrato; onde entrò in grandissimo timore di perdere
Napoli, come in breve succedette.

Intanto la Regina Maria vedova del Re Luigi I e madre del picciolo Re
Luigi, avendo la protezione di Clemente, era presso il Papa in Avignone
a proccurare l'investitura, e lo ristabilimento del suo figliuolo
nel Regno, e stante la minorità del medesimo, erasi dichiarata sua
governatrice e balia; ma Clemente che non meno degli altri suoi
predecessori, pretendeva il Baliato appartenere alla Sede Appostolica,
non volle darla, se prima non si pensava il modo da tenere, per
togliere questa difficoltà: onde concertato l'affare coi Cardinali e
Ministri della Regina, fu risoluto, che la Regina Maria in pubblico
Concistoro dimandasse al Papa ed al Collegio il Baliato, siccome
fu fatto, e Clemente assentì; da poi il Re e la Regina diedero il
giuramento di fedeltà ed omaggio, ed il Papa investì Luigi del Regno,
dandogli in segno dell'investitura lo stendardo, e ne gli spedì Bolla
nel mese di maggio dell'anno 1385[250].

La fazione Angioina riconoscendo altro Papa ed altro Re, e fra gli
altri Tommaso Sanseverino Gran Contestabile, e Capo della parte
Angioina, e della famiglia sua, subito che intese la disposizione in
cui stava la città di Napoli, si usurpò il titolo di Vicerè per parte
di Luigi II Duca d'Angiò ch'era assente, e convocò un Parlamento per
lo ben pubblico ad Ascoli, nel quale vennero tutti i Baroni che aveano
seguita quella parte, e con l'esempio di Napoli che avea creati gli
_Otto del Buono stato della Città_, furono eletti in quel Parlamento
sei Deputati per lo _Buono stato del Regno_. Questi furono Tommaso
suddetto, Ottone Principe di Taranto, Vincislao Sanseverino Conte di
Venosa, Niccolò di Sabrano Conte d'Ariano, Giovanni di Sanframondo
Conte di Cerreto, e Francesco della Ratta Conte di Caserta. Nel
Parlamento fu anche conchiuso, che avessero tutti i Deputati da unirsi
a Montefuscolo con tutte le forze loro, e così fu fatto, perchè
due mesi dopo il Parlamento comparvero tutti, e fatto un numero di
quattromila cavalli, e duemila fanti, vennero a tentare Aversa, e
non potendola avere, vennero a porre il Campo due miglia lontano
da Napoli; e mandarono Pietro della Mendolea in Napoli a tentar gli
animi degli _Otto del Buono stato_, ed a sollecitargli che volessero
rendere la Città a _Re Luigi II_ d'Angiò, erede della Regina Giovanna
I. Gli _Otto_ risposero che non erano per mancare della fede debita al
_Re Ladislao_, ed andarono subito a trovar la Regina, e ad offerirsi
d'intervenire alla difesa della città. La Regina adirata, lamentandosi,
che tutto quel male era cagionato dal governo loro, stette in punto
di fargli carcerare; ma se n'astenne per consiglio del Duca di Sessa,
che allora era in Napoli e lor disse, che attendessero a guardar bene
la città, perchè verrebbe presto il Confaloniere della Chiesa, ch'era
al Contado di Sora a far genti per soccorrerla. Pietro ch'era stato
in Napoli due giorni, se ne ritornò al campo con la risposta degli
_Otto_, e disse che Napoli non poteva tardar molto a far novità perchè
avea lasciata la plebe alterata, ed i padroni delle ville dolenti di
non poter uscire a far la vindemia. Nè fu vano il pronostico, perchè
fermandosi il campo dove stava, ad ogni ora correvano i villani ad
annunziare a' padroni delle ville i danni che facevano i soldati agli
arbusti; onde a' 20 settembre si mossero alcuni cittadini, ed andarono
a S. Lorenzo a trovare gli _Otto_, e far istanza che provvedessero:
questi davan loro parole e speranza che fra breve verrebbe il
Confaloniere coll'esercito del Papa a liberargli; ma il Popolo minuto
che a que' dì soleva uscire per le ville, e portarne uve ed altri
frutti, vedendosi privo di quella libertà in tempo che più ne avea
bisogno, corse con gran tumulto a S. Lorenzo, e, prese l'armi, sarebbe
trascorso a far ogni male, se accorsi da una parte molti Cavalieri
e Nobili in difesa degli _Otto_, e dall'altra interpostisi alcuni
gentiluomini vecchi e popolani di rispetto e prudenti, non avessero
sedato il rumore. Questi ponendosi in mezzo fra la plebe ed i nobili,
cominciarono a trattare con gli _Otto_ il modo d'acquetar il tumulto,
ed infine gli _Otto_ temendo che la plebe non corresse ad aprire la
porta del mercato a' Deputati del Regno, vennero a contentarsi di
trattar una tregua che i cittadini potessero uscire per le loro ville,
ed i soldati de' Deputati potessero a trenta insieme entrare nella
città, per quel che loro bisognava.

La Regina, che per l'odio che portava agli _Otto_, avea avuto piacere
di questo tumulto, con isperanza, che la plebe gli avesse tagliati
a pezzi, ebbe dispiacere quando intese, che n'era uscita questa
tregua, per la quale tutti que' del suo Consiglio diceano che Napoli
potea tenersi per perduta; onde per darci qualche rimedio operò, che
l'Arcivescovo Niccolò Zanasio, che al Bozzuto era succeduto[251],
l'Abate di S. Severino, ed alcuni altri Religiosi cavalcassero
per la città, sollevando un'altra volta la plebe, con dire, ch'era
vergogna, che un popolo così cristiano ed amato tanto da Papa Urbano
vero Pontefice, sopportasse, che praticasser per Napoli i soldati
dell'Antipapa scismatico; e mentre andavano predicando con simili
parole, alcuni nobili di Portanova cominciarono a riprendergli,
con dir loro, ch'era ufficio di mali Religiosi andar concitando
sedizioni e discordie, e massimamente ad un popolo, al quale essendo
una volta tolto il freno, poi non se gli può agevolmente riporre;
e rispondendo l'Arcivescovo superbamente, e più gli altri, ch'erano
con lui, fidandosi all'Ordine Sacro furono alcuni di loro malamente
conci e feriti. Ma due dì da poi, essendo venuto avviso alla Regina
che Ramondello veniva con molta gente, i Ministri della Regina senza
fare stima degli _Otto_, si armarono con tutti coloro, ch'erano della
fazione di _Durazzo_, sotto pretesto di voler cacciare i soldati,
ch'erano entrati; ma poi corsero alle case d'alcuni Cavalieri, ch'erano
reputati affezionati alla parte _Angioina_, i quali, prese l'armi,
cominciarono gagliardamente a difendersi: gli _Otto_ mandarono subito
a dire all'una e all'altra parte che posassero l'armi, e non meno da
questo comandamento, che dalla notte, che sopravvenne, la zuffa fu
divisa. Ma il dì seguente essendo giunto l'avviso, che Ramondello era
a Capua, gli _Otto_ e quelli della parte Angioina temendo d'essere
sterminati, mandarono a dire a Tommaso Sanseverino, che trasferisse
il Campo alle Correggie, dove la sera venne. Vennero ancora in questo
tempo di Provenza due galee, mandate dal Re Luigi con venticinquemila
ducati per la paga de' soldati; il che inteso dalla Regina Margarita,
si partì dal castel dell'Uovo, ove erasi ritirata, e disperando dello
stato del figliuolo, se ne andò a Gaeta che fu a lei, ed a Ladislao
sempre fedele, dove durando queste guerre, stette per tredici anni.
Ma appena giunto la sera il campo nemico alle Correggie, la mattina
seguente all'alba venne Ramondello, ed entrò come nemico nella città
per la porta Capuana, che gli fu subito aperta, perchè la città fin
a quell'ora stava nella fede del Re Ladislao, e fece gridare: _Viva
Urbano, e Re Ladislao_. Gli _Otto del Buono stato_ con la maggior
parte de' Nobili, stavano a Nido armati, gridando: _Viva Re Ladislao,
e 'l Buono stato_. Ma Ramondello, giunto che fu a Nido, diede sopra
di essi, e gli ributtò con morte di molti, sin a' cancelli di S.
Chiara; allora si mossero que' di Portanova e di Porto, ch'erano
della parte _Angioina_, ed andarono ad aprire Porta Petruccia: onde
entrato l'esercito de' _Deputati_, una parte corse a dar soccorso agli
_Otto_ e l'altra con gran furia diede sopra a' soldati di Ramondello,
gridando: _Viva Re Luigi, e Papa Clemente_. Questi cominciando a
cedere, obbligarono Ramondello a ritirarsi a Nola, onde la città venne
interamente in mano di Tommaso Sanseverino, il quale rimasto vincitore,
richiesto dagli _Otto del Buono stato_, provide con molti banni, che
non fosse fatta violenza alle case della parte contraria, e 'l dì
seguente fatto salvocondutto a tutti, fece giurare omaggio nella chiesa
di S. Chiara in nome di Re _Luigi II_, del quale si faceva chiamare
Vicerè, e lasciando pochi soldati dentro la città, distribuì gli altri
per li Casali.

Poichè Tommaso Sanseverino a questo modo ebbe acquistata la città di
Napoli, considerando, che non molto tempo potea tenerla contra le forze
esterne; propose in un Parlamento de' Baroni della parte Angioina,
e de' più nobili e potenti Napoletani, che si dovesse da parte del
Baronaggio e della città mandare a Re Luigi ed a Papa Clemente, e
far loro intendere, come s'erano ridotti all'ubbidienza loro con più
affezione che forza, e ch'era necessario, che mandassero gagliardi
ajuti per poter non solo assicurare la parte Angioina, ma ponere
affatto a terra la parte della Regina e di Papa Urbano, contra i
quali non potrebbero con le forze del Regno molto tempo resistere. Fu
subito conchiuso, che si mandasse, e furono eletti più Ambasciadori,
i quali navigando felicemente giunsero a Marsiglia, ove ritrovarono
Luigi, e lo salutarono per Re, e n'ebbero gratissime accoglienze, e lo
sollecitarono, o a venir subito, dov'era con gran desiderio aspettato,
o che mandasse supplimento di gente e di danari. Ed essendosi
trattenuti alcuni dì, conoscendo in fine, essere quel Signore di natura
nell'azioni sue tepido e non così fornito di danari, che se ne potesse
aver gagliardo e presto soccorso; andarono ad Avignone a trovar Papa
Clemente, dal quale sapevano, che avrebbero migliori recapiti, per
togliere l'ubbidienza a Papa Urbano suo nemico. Ebbe Clemente cara
molto la venuta degli Ambasciadori, e pigliò molto piacere d'intendere
da loro, quanto picciola parte del Regno era rimasta all'ubbidienza
d'Urbano, e della speranza gli davano di torgli in breve il rimanente;
e poichè in Concistoro pubblico ebbe sommamente lodata la città ed
i Baroni, che conoscendo la giustizia della causa, s'erano partiti
dall'ubbidienza del Papa scismatico (che così chiamava egli Urbano) ed
erano venuti all'ubbidienza sua, ch'era vero e legittimo Papa, e che
ricordevoli de' beneficj ricevuti dalla buona Regina Giovanna, avessero
eletto di seguire la parte di Re Luigi suo legittimo erede, cacciando
l'erede del tiranno ed invasore, che con tanta ingratitudine l'avea
privata del Regno e della vita; promise grandissimi e presti ajuti, e
che avrebbe fra pochi dì coronato Re Luigi e proccurato, che venisse
con grand'esercito nel Regno.

Gli Ambasciadori, ancorchè vedessero con quanta veemenza il Papa avea
parlato, pur avendo in quelli dì inteso per lettere, che la plebe di
Napoli era impaziente degl'incomodi d'un assedio, e che Papa Urbano e
la Regina Margarita si apparecchiavano di mandare ad assediare la città
per mare e per terra, ringraziarono il Papa degli aiuti promessi, e
lo pregarono, che fosse quanto prima era possibile; ed assicurandoli
il Papa, che non avea cosa al Mondo più a cuore di questa, ed avendo
ad alcuni di loro concesse riserve di beneficj per parenti loro, si
partirono contentissimi. Giunsero costoro verso la fine dell'anno in
Napoli e rallegrarono la città, con la speranza dell'apparato, che
aveano lasciato, che si faceva in Marsiglia ed in Genova, e con la
relazione della liberalità, clemenza e dolcezza de' costumi del Re
Luigi, e della prontezza di Papa Clemente: tal che a tutti parea la
guerra finita.

Mentre queste cose s'erano trattate in Provenza, dall'altra parte
Ramondello Ursino e la Regina Margarita facevano ogni forzo per
impedire a Napoli i viveri, acciocchè per fame la città dovesse
rendersi; ma per la vigilanza del Sanseverino, liberata la città
di questo timore, ed essendo giunte a Napoli alcune galee di
Provenza, mandate da Papa Clemente con trentamila scudi d'oro per
paga dell'esercito, e provista Napoli di vettovaglie; la Regina,
disperata di non averla per fame, se ne ritornò a Gaeta. Pochi dì da
poi che la Regina fu ritornata a Gaeta, giunse l'armata provenzale in
Napoli, ed in essa venne con titolo di Vicerè e di capitan generale
Monsignor di Mongioja, e da' Napoletani e da tutti coloro, che nel
Regno seguivano la parte Angioina, ne fu fatta grand'allegrezza; non
considerando quel che n'avvenne; poichè per la sua alterigia fu più
tosto cagione di turbare che di stabilire il Regno al Re Luigi. Perchè
Tommaso Sanseverino restò offeso, che il Re non gli avesse mandata la
conferma di Vicerè, e per disdegno se n'andò alle sue terre, e pochi
dì da poi trattando il Mongioja col principe Ottone, non con quel
rispetto, che conveniva a tal Signore per la nobiltà del sangue, per
essere stato marito d'una Regina, e per la virtù e valor suo nell'arme:
il Principe si partì con le sue genti, e se n'andò a Santa Agata
de' Goti. I Signori del _Buono stato_ uniti andarono a ritrovare il
Mongioja e gli dissero, che il modo ch'egli tenea, farebbe in breve
spazio perdere il Regno, alienando gli animi de' più potenti Signori,
e ch'era necessario, che in ogni modo cercasse di placare il principe
Ottone: ed ancorchè il Mongioja avesse dato il pensiere ad essi di
placarlo, nulladimanco furono inutili tutti i trattati, per li molti
patti, che voleva il Principe, i quali non solo al Vicerè, ma a tutt'i
Cavalieri parvero soverchi, e non degni d'essere conceduti. E da questo
s'accorsero, che il Principe a quel tempo doveva esser in pratica di
passarsene alla parte della Regina, il che si confermò poi, perchè si
vide, che alzò subito le bandiere di Durazzo. Angelo di Costanzo per
questo credette esser vero quel, che in un breve compendio scritto
a penna di _Paris de Puteo_ avea letto, che il Principe avea fatto
disegno di pigliarsi la Regina Margarita per moglie, e che quella donna
sagacissima per tirarlo alla parte sua, glie ne avea data speranza; ma
poi con iscusandosi che Papa Urbano non volea dispensarvi, per essere
stata la regina Giovanna prima moglie del Principe, zia carnale della
regina Margarita, lo lasciò deluso a tempo, che per vergogna non poteva
mutar proposito, e seguì fin alla morte quella parte; onde seguirono
molte novità, e la parte di Durazzo cominciava ad entrare in isperanza
di poter ricuperar Napoli ed il resto del Regno, che si teneva per Re
Luigi;



CAPITOLO IV.

_Nozze tra il Re LADISLAO e la figliuola di MANFREDI di Chiaramonte.
Morte d'URBANO, elezione in suo luogo di BONIFACIO IX e venuta del Re
LUIGI II in Napoli._


Intanto la Regina Margarita, che stava in Gaeta con molti del suo
partito, non potendo sopportar l'ozio nel qual parea, che si marcisse
la speranza di ricovrar presto Napoli, non pensava ad altro, che a
trovar modo di cavar danari per rifar l'esercito, con soldar nuove
genti. Ma avvenne, che alcuni mercanti gaetani, ch'erano stati a
comprar grani in Sicilia, dissero avanti la Regina gran cose delle
ricchezze di Manfredi di Chiaramonte e delle bellezze di una sua
figliuola; onde l'animo vagabondo della Regina si fermò col pensiere
di mandare a chiedere quella figliuola per moglie al Re Ladislao suo
figlio, ch'era già di quattordici anni; e con ciò sia ch'era nelle
sue azioni fervida e risoluta, fece chiamare subito il Consiglio e
disse, che dopo aver vagato colla mente per tutti i modi, che potessero
tenersi per far danari, per rinovar la guerra, non avea conosciuto
per certa via, che quella di questo matrimonio, dal quale voleva la
ragione, che si potesse aver dote grandissima, e che però voleva mandar
in Sicilia a trattarlo. Non fu persona nel Consiglio, che non laudasse
la prudenza della Regina, e con voto ed approvazione di tutti, furono
eletti il conte di Celano e Bernardo Guastaferro di Gaeta, per andare
a trattare il matrimonio in Sicilia: il Conte, perch'era Signore ricco
e splendido, e conduceva seco famiglia onorevole, e Bernardo per esser
Dottor di legge ed uomo intendente. Questi con due galee partiti da
Gaeta, il quarto dì giunsero felicemente in Palermo. Era Manfredi
di Chiaramonte di titolo Conte di Modica, ma in effetto Re delle due
parti di Sicilia, perchè per la puerizia del Re, e per la discordia
de' Baroni avea occupato Palermo e quasi tutte l'altre buone terre
dell'isola, avendo acquistato con le forze sue proprie l'isola delle
Gerbe, dalla quale traea grandissima utilità, non solo per lo tributo,
che gli pagavano i Mori, ma per l'utile che traeva dai mercatanti,
che avean commercio e trafichi in Barberia; ed essendo di natura sua
splendido e magnanimo, con grandissima pompa accolse gli Ambasciadori;
e poichè ebbe inteso la cagione della lor venuta, la gran virtù e
valore della Regina Margarita, la grande aspettativa, che si potea
tenere del piccolo Re Ladislao, e la certezza di cacciare gli nemici
del Regno, avendosi aiuto di danari, restò molto contento, vedendosi
non solo offerta occasione di far una figlia Regina d'un ricchissimo
Regno, ma di potere sperare coll'aiuto del genero di occupare il
rimanente dell'isola, e farsi Re; strinse egli per tanto senza molto
indugio il matrimonio; ed ancorchè i Napoletani facessero ogni sforzo
per impedirlo, Manfredi non volle muoversi dalla determinazione ch'avea
fatta; onde giunto in Palermo Cecco del Borgo, Vicerè del Re Ladislao,
a condurne la sposa, Manfredi gli consegnò la figliuola Costanza,
ed in compagnia di lei mandò alcuni suoi parenti con quattro galee,
ed oltre alla ricca dote, le diede gran copia d'argento lavorato,
gioie e tapezzerie. Partiti da Palermo con prospero vento arrivarono
in pochi dì a Gaeta, dove la Regina ed il Re accolsero la sposa con
grandissima allegrezza e con feste splendidissime, che furono per molti
dì continovate.

Finite appena le feste, venne una maggior felicità a Ladislao, perchè
morì Papa Urbano, che per lui era inutile; poichè per la sua natura
bizzarra e ritrosa, era odiato non men dal Collegio, che da tutti i
popoli di sua ubbidienza; ed avendo fatto morire molti Cardinali, ed
altri privati del Cappello per diversi sospetti, non poteva attendere
ad altro, che a guardarsi dalle congiure, che temeva fossero fatte
contra di lui. Morì Urbano nel 1389, e fu creato in suo luogo il
Cardinal Pietro Tomacello, e chiamato _Bonifacio IX_[252], che come si
dirà appresso fu grandissimo protettore del Re Ladislao.

(_Ladislao_, avuta da _Bonifacio_ l'investitura del Regno, simile
a quella data a _Carlo_ suo padre, gli spedì lettere nel 1390 nelle
quali, prestandogli giuramento di fedeltà, dichiara, per beneficio
della Sede Appostolica possedere il Regno. E _Bonifacio_ mandò lettere
ai Napoletani, perchè lo riconoscessero per vero e legittimo Re:
siccome nell'anno 1398 conferma la pace stabilita fra _Ladislao_, e gli
Ordini del Regno. Le quali lettere si leggono presso Lunig[253]).

Lasciò Papa Urbano pochi al mondo che piangessero la sua morte, perchè
benchè fosse d'integrità singolare, fu superbo, ritroso ed intrattabile
di natura, ed alle volte non sapeva egli stesso quel che si volesse: fu
sepolto in Roma in S. Pietro con rustico epitaffio; ma in Napoli nella
chiesa di S. Maria la Nuova, nella cappella di Francesco Prignano,
presso il sepolcro del B. Giacomo, gli fu eretto un famoso tumulo
colla sua statua, che ancor oggi si vede. Il suo successore, che non
avea più di 45 anni, fu creato Papa per l'opinione della buona vita;
ma subito che fu incoronato, mostrò gran mutazione di vita, ponendosi
per iscopo di tutti i suoi pensieri l'ingrandire i fratelli ed i
parenti; e perchè potea aspettare gran cose dal Re Ladislao, per le
grandi ricchezze degli avversari, che vincendo potrebbe distribuire
a' partegiani suoi, deliberò d'incominciare a favorirlo, ed accolse
benignamente Ramondo Cantelmo conte d'Alvito e Goffredo di Marzano
conte d'Alifi, che vennero da parte di lui e della Regina a dargli
l'ubbidienza e visitarlo, e promise di dargli l'investitura del Regno,
che non avea potuto ottener mai da Papa Urbano. E pochi dì appresso
mandò il Cardinal di Firenze a Gaeta a coronarlo, essendosi l'ottavo
dì di maggio del 1390 celebrata la coronazione del Re e della Regina
Costanza, e fu letta la Bolla dell'investitura simile a quella che fece
Papa Urbano al Re Carlo III. Nel qual dì cavalcò il Re colla Regina per
Gaeta, con la corona in testa e con gran solennità.

I Napoletani, vedendo questi prosperi successi del Re Ladislao,
mandarono Baldassar Cossa, che poi fu Cardinale e Papa, a Re Luigi in
Provenza, a dirgli che le cose comuni stavano in gran pericolo, ed ogni
dì andavano peggiorando, per la gran superbia di Monsignor di Mongioja,
che avea alienati gli animi di tutti i Baroni e più degli altri, de'
Sanseverineschi, i quali tenean tutte l'armi e le forze del Regno, e
ch'era necessario che venisse; poichè delle quattro parti del Regno, a
quel tempo, tre n'erano sue, che col venire avrebbe mantenute in fede,
e tolta la discordia tra' Ministri, poteva sperar in breve cacciar i
nemici, ed ottener tutt'il Regno. Per questo ed a persuasione ancora
di Papa Clemente, il Re Luigi, il quale nell'anno precedente era stato
in presenza del Re di Francia solennemente coronato Re di Sicilia in
Avignone[254],[255] raunati venti legni da remo, tra galee e fuste
e tre navi grosse, nel mese di luglio si imbarcò in Marsiglia, ed a'
14 d'agosto giunse a vista di Napoli, dove levatasi una grandissima
burrasca, a fatica con la galea capitana verso il tardi s'appressò a
terra, e scese su 'l ponte ch'era apparecchiato nella foce del fiume
Sebeto, ove trovò un numero grande di Nobili e di Popolo con alcuni
Baroni, che a quel tempo erano in Napoli, che 'l ricevettero con
applauso grandissimo, e cavalcando cominciò a camminare verso Formello,
dove trovò gli Eletti di Napoli che gli presentarono le chiavi della
città: arrivato avanti la porta, fu ricevuto da otto Cavalieri sotto
il baldacchino di drappo ad oro, e passando per gli Seggi della città,
creò Cavalieri molti giovani nobili, ed assai tardi tornò al castel di
Capuana, avendo colla sua presenza soddisfatto molto a tutta la città,
perch'era di bello aspetto, ed atto a conciliarsi l'aura popolare, e
che a molti segni mostrava clemenza ed umanità. Il dì seguente tutti
cinque i Seggi confermarono il giuramento dell'omaggio, fatto in mano
di Tommaso Sanseverino allora Vicerè, e poi giurarono i mercatanti
ed il Popolo. Cominciarono poi a venire i Baroni, ed i primi furono
il Conte d'Ariano di casa Sabrano, Marino Zurlo Conte di S. Angelo,
Giovanni di Luxemburgo Conte di Conversano, Pietro Sanframondo Conte
di Cerreto, Corrado Malatacca ed altri Signori ed alcuni altri Capi
di squadre stranieri che possedevano alcune castella in Regno. Questi
condussero più di 1100 cavalli. Ma appresso vennero i Sanseverineschi,
che vinsero tutti gli altri di splendidezza, di numero e di qualità
di genti; poichè condussero con loro 1080 cavalli tutti in arnese,
come se andassero a far giornata, perchè vollero mostrare al nuovo Re,
quanto fosse importato alla sua Corona, e quanto potrebbe importare
la potenza loro che parve cosa superbissima. Questi furono Tommaso
Gran Contestabile, il Duca di Venosa, il Conte di Terra nuova,
il Conte di Melito, il Conte di Lauria della medesima casa; venne
poi Ugo Sanseverino d'Otranto con Gaspare Conte di Matera ed altri
Sanseverineschi, che avean le Terre in quelle province; appresso a
costoro vennero i Signori di Gesualdo, Luigi della Magna Conte di
Boccino, Mattia di Borgenza, Carlo di Lagni, ed altri Baroni di minor
fortuna. Ma d'Apruzzo venne solo Ramondaccio Caldora con alcuni altri
di quella famiglia; poichè gli altri ubbidivano tutti al Re Ladislao.

Non voglio tralasciare ciocchè quel gravissimo Istorico Angelo di
Costanzo lasciò scritto, in considerando la condizione di questi
tempi, paragonandogli coll'età, nella quale compilò la sua Istoria,
cioè sotto il Regno di Filippo II, che servirà per maggior nostra
confusione e scorno; poichè se questo grave istorico in cotal maniera
favella, paragonando que' tempi alla sua età; che dovremo dir noi de'
nostri, ne' quali senza paragone i lussi sono infinitamente cresciuti?
E' dice che vedendo ne' suoi tempi in ogni altra cosa felicissimi, e
Napoli tanto abbondante di Cavalieri illustri, ed atti all'armi, ed
all'incontro la difficoltà, che saria di porre in ordine una giostra;
e l'impossibilità di poter fare in tutto il Regno mille uomini d'arme
di corsieri grossi simili a quelli: stava quasi per non credere a se
stesso questo ch'egli scriveva, di tanto numero di cavalli, ancorchè
sapesse ch'era verissimo; ed oltrechè l'avea trovato scritto da persone
in ogni altra cosa veridiche, l'avea anche veduto ne' registri di que'
Re che gli pagavano. Ma tutto ciò, ei dice, dee attribuirsi al variar
de' tempi che fanno ancora variare i costumi. Allora per le guerre ogni
picciolo Barone stava in ordine di cavalli e di genti armigere, per
timore di non esser cacciato di casa da qualche vicino più potente;
ed in Napoli i Nobili vivendo con gran parsimonia, non attendeano ad
altro che a star bene a cavallo e bene in armi: s'astenevano d'ogni
altra comodità: non si edificava, non si spendeva a paramenti, nelle
tavole de' Principi non erano cibi di prezzo, non si vestiva con molta
pompa, tutte l'entrate consumavansi a pagar valent'uomini, ed a nudrir
cavalli. Or per la lunga pace, s'è voltato ognuno alla magnificenza
nell'edificare, ed alla splendidezza e comodità del vivere; e si
vide la casa, che fu del Gran Siniscalco Caracciolo, il quale fu
quasi assoluto padrone del Regno a' tempi di Giovanna II, che essendo
venuta in mano di persone, senza comparazione di stato e di condizione
inferiore a lui, aggrandita di nuove fabbriche, non bastando a costoro
quell'ospizio, ove con tanta invidia abitava colui, che a sua volontà
dava e toglieva le Signorie e gli Stati. Delle tappezzerie e paramenti
non parlo; poichè già è noto, che molti Signori ne' paramenti d'un
paio di camere, hanno speso quello che avria bastato a mantener 200
cavalli per un anno; ed avendo il Costanzo parlato della magnificenza
de' Principi, con questo esempio non lascerò di dire anche de' privati,
ch'erasi veduto di cinque case di Cavalieri nobilissimi essersene fatta
una di un cittadino artista. Tal che si può credere per certo, che
se fosse noto agli antichi nostri questo presente modo di vivere, si
maraviglierebbono essi, non meno di quel che facciam noi di loro.

Se Angelo di Costanzo, che scrisse nel Regno di Filippo II si
maravigliava che ad un semplice artista non bastavano cinque case di
Nobili per farne una: che direbbe ora in veggendo che non bastano agli
abitatori tutti quegli ampj ed immensi edificj, che, come tante altre
nuove città, si sono aggiunti all'antica? e che direbbe se vedesse le
tante pompe e fasti di quest'ultima nostra etade, i quali consumano
in cotal guisa le rendite, che senza difficoltà si potrebbe mettere
in piede una compagnia di cento cavalli? Ma lasciando al giudizio de'
Lettori, se sia più laudabile attendere alle arme ed a' cavalli ed
agli esercizi d'un rigido ed inclemente Marte, ovvero agli agi ed alla
comodità del vivere, ritorneremo là donde siam dipartiti.

Dappoichè il Re Luigi ebbe ricevuto il giuramento dell'omaggio da tutti
gli ordini della città e del Regno, fece convocare un Parlamento a
Santa Chiara, nel quale Ugo Sanseverino Gran Protonotario del Regno
propose, che si dovessero donare al Re mille uomini d'arme, e dieci
galee pagate dal Baronaggio e da' Popoli a guerra finita, il che fu
subito con gran volontà conchiuso e con grandissimo piacere del Re,
perchè trovandosi la Francia a quel tempo afflitta, per le guerre
degl'Inglesi, poca utilità traeva dal Contado di Provenza e dal Ducato
d'Angiò. Luigi per tanto con buon consiglio cominciò a fornirsi la casa
di nobili napoletani e del Regno, ordinando a tutti onorate pensioni, e
con questo parve che alleggerisse il peso insolito e nuovamente imposto
al Regno, ed acquistò in Napoli gran benevolenza.

Mentre in Napoli e nell'altre parti del Regno si facevan queste cose,
la Regina Margarita fece chiamare tutt'i Baroni del suo partito, e
mandò a soldare il Conte Alberigo di Cunio, desiderando di tentar la
fortuna della guerra, avendo acquistata forza, e dalla dote della
nuora, e dal favor del Papa. Convennero subito a Gaeta Giacomo di
Marzano Duca di Sessa e Grande Ammirante del Regno, Goffredo suo
fratello Conte d'Alifi e Gran Camerlengo, il Conte Alberigo Gran
Contestabile, Cecco del Borgo Marchese di Pescara, Gentile d'Acquaviva
Conte di S. Valentino, Berardo d'Aquino Conte di Loreto, Luigi di
Capua Conte d'Altavilla, Giovanni d'Atrezzo Milanese Conte di Trivento,
Giacomo Stendardo, Cola e Cristofano Gaetani, Gurrello e Malizia Carafa
fratelli, Gurrello Origlia, Salvatore Zurlo, Florido Latro ed Onofrio
Pesce, e trattarono da che parte si dovea incominciare a guerreggiare.
Fu risoluto, che si andasse a debellare i Sanseverineschi, che teneano
le lor genti disperse per diversi luoghi: e quindi attaccatisi varj
fatti d'arme, finalmente i Sanseverineschi ne riportarono vittoria.
Per la qual cosa il Castellano di S. Eramo Renzo Pagano, che si teneva
ancora per Re Ladislao, avendo intesa questa vittoria, venne in pratica
di render il castello al Re Luigi, e seppe ben farlo pagare a caro
prezzo, perchè n'ebbe la Bagliva di S. Paolo, l'Ufficio di Giustiziere
degli Scolari, la gabella della falanga e la gabella della farina. Ma
Andrea Mormile Castellano del Castel Nuovo per molte offerte e grandi,
che gli furono fatte, non volle mai rendersi, finchè non fu vinto da
estrema necessità, e si rendette senz'altro premio, che la salute sua e
dei compagni; e fu dal Re Luigi, quando entrò nel castello, sommamente
lodato, non essendovisi trovato da vivere, che per un solo dì.
Martuccio Bonifacio Governadore del castello dell'Uovo, ancor egli non
potendo più resistere, si rendè con onorati patti. Per così prosperi
successi si fecero gran segni d'allegrezza per tutta la città, perchè
pareva a tutti, che la guerra fosse finita, nè avendosi nè danno, nè
impedimento alcuno, come fino a quel dì aveano avuto dalle castella;
e viveasi in Napoli con molta contentezza e benevolenza verso il Re
Luigi.



CAPITOLO V.

_Divorzio del Re LADISLAO colla Regina COSTANZA, e suoi progressi
nell'impresa del Regno, che finalmente ritorna sotto il suo dominio._


Il Regno stette alquanti mesi quieto, concedendogli pace, dall'una
parte la povertà del Re Ladislao, dall'altra la natura pacifica del
Re Luigi. Ma in questo tempo nell'isola di Sicilia succedettero gran
movimenti, perchè mancata la linea maschile, per la morte di Federico
III, quel Regno era venuto in mano di _Maria_ picciola fanciulla del
morto Re d'Aragona, la quale nell'anno 1386 fu da' Baroni Siciliani
collocata in matrimonio a Martino figliuolo del Duca di Monblanco,
ch'era fratello di Giovanni Re d'Aragona e fu chiamato _Re Martino_.
Questi venendo nell'anno 1390 insieme col padre in Sicilia con
una buona armata, e giungendo a quel punto, che morì Manfredi di
Chiaramonte, agevolmente ricovrò Palermo, e tutte l'altre Terre
occupate da Manfredi; e nacque fama, che 'l Duca di Monblanco padre
del Re avesse pratica amorosa con la vedova moglie di Manfredi. La
Regina Margarita in Gaeta, o mossa da questa fama per istudio d'onore,
o per avere speranza, dando altra moglie al Re suo figliuolo, di aver
danari per rinovar la guerra, persuase al medesimo, ch'essendo cosa
indegna del sangue e del grado suo, aver per moglie la figlia della
concubina d'un Catalano, andasse al Papa, e cercasse d'ottener dispensa
di separar il matrimonio; poichè prendendo altra moglie potrebbe aver
dote e favore. Il Re per la poca età più inclinato all'ubbidienza
della madre, che all'amor della moglie, cavalcò a Roma, dove fu
onorevolmente, e con molte dimostrazioni d'amore ricevuto da Papa
_Bonifacio_, ed ottenne non solo la dispensa del divorzio, ma ajuto
di buona quantità di danari, per poter rinovar la guerra. Il Papa con
nuovo esempio mandò con lui il Vescovo di Gaeta, che celebrasse l'atto
del divorzio; e la prima domenica, che seguì dopo il ritorno del Re
nel Vescovado di Gaeta, quando il Re fu venuto con la moglie, la quale
credea di venir solamente al sacrificio della messa; il Vescovo avanti
a tutt'il popolo lesse la Bolla della dispensa, e mosso dall'altare
andò a pigliar l'anello della fede dalla Regina Costanza, e lo restituì
al Re: e l'infelice Regina fu condotta con una donna vecchia e due
donzelle ad una casa privata, posta in ordine a quest'effetto, ove
per modo di limosina le veniva dalla Corte il mangiare per lei e per
quelle che la servivano; nè fu in Gaeta, nè per lo Regno persona tanto
affezionata alla Regina Margarita, che non biasimasse un atto tanto
crudele ed inumano, e misto di viltà e d'ingratitudine, che avendola
con sommissione cercata al padre pochi anni prima, in tempo della
necessità loro, ed avutane tanta dote, l'avesse poi il Re ingiustamente
ripudiata, a tempo che la casa e' parenti di lei eran caduti in tanta
calamità, che si dovea credere, ch'ella più tosto come Regina potesse
ricevergli e sollevargli, che ritornarsene a loro priva della corona e
della dote; ma molto maggior odio si concitò contro Papa _Bonifacio_,
per aver dispensato a tal divorzio per ambizione e particolari suoi
disegni.

Fatto questo, il Re Ladislao comandò, che la seguente primavera tutti
i Baroni si trovassero al piano di Trajetto, perchè essendo già in
età di armarsi volea proceder contro a' nemici; ma per la rotta avuta
l'anno avanti, stavano tutti i Baroni così mal provveduti, che passò
tutt'il mese di giugno innanzi che fossero in ordine, ed appena al
fin di luglio si trovarono tutti sotto Trajetto, accampati alla riva
del Garigliano: e lasciate ivi le genti, i Baroni vennero in Gaeta a
trovare il Re, con cui avendo tenuto parlamento di quello, che fosse da
farsi, dopo molti discorsi fu conchiuso che a questa cavalcata non si
facesse altra impresa che andare sopra l'Aquila, la quale sola tra le
Terre d'Apruzzo mantenea pertinacemente la bandiera angioina; perchè
da quella città, ch'era assai ricca, s'avrebbe potuto cavar tanto
che nell'anno seguente accrescendo l'esercito, si sarebbero potuto
mettere ad impresa maggiore, giacchè non trovavasi allora il Re avere
più che 300 cavalli e 1600 fanti. Con questa deliberazione all'ultimo
di luglio di quest'anno 1393 il giovine Re armato tutto fuor che la
testa, scese insieme colla Regina Margarita al Vescovado alla Messa; e
come l'ebbe udita, baciate le mani alla madre che lo benedisse, e con
molte lagrime lo raccomandò a' Baroni, cavalcò arditamente sopra un
cavallo di guerra bardato, e Cecco del Borgo Marchese di Pescara andò
a porgergli il bastone, e gli disse: _Serenissimo Re, pigli V. M. il
bastone che indegnamente ho tenuto in suo nome molti anni, e priego
Iddio che come oggi glielo rendo, così possa ponergli in mano tutti
i ribelli ed avversarj suoi._ Il Re prese il bastone, e licenziatosi
un'altra volta dalla madre, salutando tutti i circostanti, si partì
assai desideroso di gloria, tutto disposto a magnanime imprese, tra
mille benedizioni del Popolo, che ad alta voce pregava Iddio che gli
desse vita e vittoria. Giunto al Campo, la mattina seguente cavalcò
con tutto l'esercito, contra il Conte di Sora, e 'l Conte d'Avito
amendue di casa Cantelmo, togliendo lo Stato all'uno ed all'altro,
perchè non aveano ubbidito all'ordine del Re, ed erano sospetti di
tener pratica di passar, dalla parte di Re Luigi. Poi per lo Contado
di Celano entrò in Apruzzo, ove fu gran concorso di genti che correan
per vederlo e presentarlo, e fuvvi un gran numero di giovani paesani
che invaghiti della presenza del Re, si posero a seguir l'esercito a
piede ed a cavallo come avventurieri. Gli Aquilani avendo inteso che
il Re verrebbe contro di loro, aveano ancora mandato al Re Luigi per
soccorso, il quale, benchè avesse promesso di mandarlo, non potea però
essere a tempo, perchè bisognava raunar le genti de' Sanseverineschi,
ch'erano disperse per più province; onde accomodarono i fatti loro,
come poterono il meglio, e pagando quattromila ducati per vietare il
sacco ed altre ostilità militari, si rendettero a Ladislao. Avendo
questo Principe pigliato spirito per questi primi successi, andò contra
Rinaldo Ursino Conte di Manupello, il quale in pochi dì con tutto lo
Stato venne in mano del Re. I Caldori si salvarono tutti nel castello
di Palena, ed il Re non volendo perder tempo ad espugnargli, se ne
scese per la strada dal Contado di Molise, e se ne ritornò a Gaeta,
ricco di molte prede e di gran quantità di danari, avuti parte in dono,
parte di taglie dalle Terre e da' Baroni contumaci, e diede licenza
a tutti i Baroni che ritornassero al loro paese, dicendo loro che
stessero in punto per la seguente Primavera. Ma la grave infermità che
sopravvenne a Ladislao, mentre già posto in ordine in questo seguente
anno 1394 erasi avviato verso Napoli, frastornò i suoi disegni: poichè
come fu giunto a Capoa, s'ammalò sì gravemente che per tutto il Regno
si sparse fama che fosse morto, e fosse stato avvelenato: pure con
grandissimi rimedi guarì, ma restò per tutto il tempo della sua vita
balbuziente, onde si differì l'impresa di Napoli e tornossene a Gaeta.
Vi fu intanto qualche trattato di pace fra lui e 'l Re Luigi, ma
niente fu conchiuso; poichè fu fama che alla poca volontà di Ladislao
si aggiungesse anche il consiglio di Papa Bonifacio, perchè non la
facesse. Fu perciò con maggiore ardore rinovata la guerra; dal Re
Luigi fu investita Aversa, che si teneva per Ladislao, ma la fede
degli Aversani, ed il pronto soccorso di Ladislao renderon vani gli
sforzi di Luigi: Ladislao liberato dall'obbligo di soccorrere Aversa,
andò in Roma a trovar il Papa, da cui sperava d'esser sovvenuto per
l'anno avvenire. Fu da Bonifacio onorato e caramente accolto, e molto
più ben veduto questa seconda volta: si trattò del modo che si avea
da tener in proseguir la guerra; e fu conchiuso che il Papa dasse al
Re venticinquemila fiorini, ed il Re all'incontro donò a' fratelli
il Contado di Sora e di Alvito, del quale avea spogliato i Cantelmi
e la Baronia di Montefuscolo, e molte altre buone Terre, con molta
soddisfazione e contentezza di Bonifacio: perchè benchè due anni
innanzi Ladislao gli avesse donato il Ducato d'Amalfi e la Baronia
d'Angri e di Gragnano, non aveano però potuto averne il possesso,
perchè il Ducato era stato occupato da' Sanseverineschi e la Baronia,
dopo la morte di Pietro della Corona, Re Luigi l'avea conceduta
a Giacomo Zurlo. Con questo esempio alcuni Cardinali più ricchi
sovvennero il Re di danari, volendo promesse di terre e di castella per
loro parenti, che allora erano possedute da' nemici ed il Re ne fece
loro l'investiture. Con questi denari, e con larghe promesse del Papa,
Ladislao partì di Roma, ed a' 19 novembre di quest'anno 1394 tornò a
Gaeta con gran riputazione, perchè coloro ch'erano stati con lui avean
divulgato che i danari che il Re avea avuti dal Papa, fossero assai più
di quelli che erano in effetto.

Dall'altra parte il Re Luigi, subito ch'ebbe avviso di questi apparati,
mandò Bernabò Sanseverino in Avignone a Papa Clemente a dirgli i grandi
aiuti che dava Bonifacio al Re Ladislao, ed a cercargli soccorso,
già che per la primavera seguente aspettava guerra gagliardissima per
terra e per mare. Ottenne per allora Bernabò da Clemente, che soldasse
sei galee e di più una quantità di danari. E questi furono gli ultimi
soccorsi che potè dargli; imperocchè questo Papa essendosi impegnato
di parola col Re di Francia, il quale studiavasi di toglier lo scisma,
di voler entrare in qualche trattato, per proccurare anch'egli la
pace della Chiesa; ed avendo l'Università di Parigi dato il suo
parere sopra i mezzi più acconci per farlo cessare e proposta la via
di un compromesso, quella della cessione de' due contendenti e la
convocazione di un general Concilio: Clemente restò molto sorpreso da
cotali proposizioni, e tanto più quando seppe, che i suoi Cardinali le
riputavano giuste; ciocchè gli cagionò tanta afflizione che ne morì il
dì 16 settembre di questo istesso anno 1394[256]. Ma non perciò finì
lo scisma: i Cardinali, ch'erano in Avignone, tosto vennero mal grado
del Re di Francia all'elezione del nuovo Papa, ed elessero il dì 28
dello stesso mese Pietro di Luna Aragonese Cardinal Diacono del titolo
di S. Maria, che fu nomato _Benedetto XIII_. Questi non meno che 'l
suo predecessore, mostrò subito grandissima inclinazione d'aiutare il
Re Luigi; e perchè il Governadore di Provenza avea spedite a questo
Principe tre galee di nuovo armate con alcuni denari, mandò esso ancora
quindicimila altri ducati. Fu per tanto con maggior contenzione da
amendue i Re, invigoriti da questi soccorsi d'amendue i Papi, rinovata
la guerra, che Ladislao avea portata insino alle porte di Napoli. Ma
il valore di questo Principe, ed il favore di Papa Bonifacio, che come
in quella interessato insieme co' suoi fratelli non cessava di dargli
continui e validi aiuti; ed all'incontro l'animo del Re Luigi più
atto agli studi della pace, che all'esercizio della guerra; i rari e
piccioli soccorsi, che gli venivano dalla Francia e la poca speranza
d'averne maggiori, fecero, che il G. Contestabile del Regno Tommaso
Sanseverino riflettesse al pericolo del Re Luigi, e per conseguenza
alla irreparabile sua ruina e di tutta la famiglia, se non vi dava
provvedimento, persuase perciò al Re, che poichè non potevano secondo
si conveniva fortificar la parte loro, volessero fare ogni opera
d'indebolire quella degli avversari, aggiungendo, che avea pensato di
alienare il Duca di Sessa dal Re Ladislao; il che credea che venisse
fatto, quando ci si disponesse di mandar a chiedere per moglie la
figlia del Duca, perchè credea, che il Duca avrebbe anteposto un tanto
splendor di casa sua, facendo la figlia Regina, all'amor che portava al
Re Ladislao. Il Re perch'era di natura pieghevole, lodò il pensiero,
e col parere di tutto il Consiglio mandò Ugo Sanseverino a trattar
il matrimonio, il quale in pochi dì, parte coll'autorità sua ch'era
grande, parte coll'aiuto della Duchessa, ch'era di casa Sanseverina,
ambiziosissima, e desiderava farsi madre di Regina, e parte perchè
il Duca si era ancor egli lasciato trasportare dal vento di tanta
ambizione, conchiuse il matrimonio, e se ne ritornò in Napoli; e Luigi
mandò subito Monsignor di Mongioia con doni reali a visitar la sposa,
chiamandola nelle lettere _Regina Maria_. Papa Bonifacio, che con
molto dispiacere avea intesa questa parentela ed alienazione del Duca,
mandò Giovanni Tomacello suo fratello a tentare di farlo ritornare alla
divozione del Re Ladislao: ma frapostovi molti impedimenti, non si potè
allora far niente, dando il Duca sole parole, senza vedersene alcuno
effetto: finalmente il Re Ladislao, vedendo la freddezza del Re Luigi,
cavalcò contro il Duca di Sessa; ma Papa Bonifacio, che desiderava
questa riunione, la quale avrebbe potuto più prestamente ridurre il
Regno tutto alla divozione di Ladislao, mandò di nuovo Giovanni a
trattar la pace, ed a persuadere al Re, che la facesse, siccome dopo
cinque mesi fu fatta, con patto, che il Re ricevesse in grazia il
Duca ed il fratello, e che gli rendesse le Terre tolte, e che quelli
assicurati dal Papa andassero a giurar di nuovo al Re omaggio. Con
questo trattato e riconciliamento furon anche disturbate le nozze di
sua figliuola Maria, le quali rimasero senza effetto; e benchè poi si
maritasse con altri, sempre però volle ritenere il titolo di _Regina_
datole da Luigi, quando la mandò a presentare.

In questi tempi Re Ladislao mosso (non si sa, se da proprio spirito, o
da ricordo della madre o d'altri) a pietade di Costanza di Chiaramonte
già sua consorte, che con grandissima laude di pazienza, di modestia
e di pudicizia, avea in bassa fortuna menata sua vita dal dì del
repudio; la diede per moglie ad Andrea di Capua primogenito del Conte
di Altavilla, coetaneo e creato suo assai diletto, e furon fatte le
nozze molto onoratamente; ma non per questo restò quella gran donna di
mostrare la grandezza dell'animo suo dignissimo della prima fortuna;
imperocchè quel dì, che il marito la volle condurre a Capua, essendo
posta a cavallo per partirsi, in presenza di molti Baroni e Cavalieri,
ch'erano adunati per accompagnarla, e di gran moltitudine di Popolo,
disse al marito: _Andrea di Capua, tu puoi tenerti il più avventurato
Cavaliere del Regno, poichè avrai per concubina la moglie legittima del
Re Ladislao tuo Signore._ Queste parole diedero pietà ed ammirazione
a chi la intese; e quando furono riferite al Re, non l'intese senza
rimordimento e scorno.

Intanto stringendo Ladislao l'assedio di Napoli per mare e per terra,
fu consigliato Re Luigi ad uscire dalla città ed andare a Taranto. I
Napoletani fastiditi da così lunga guerra, dopo vari trattati descritti
così bene ed a minuto da Angelo di Costanzo, finalmente resero la città
a Ladislao, il quale avendo loro accordati molti capitoli e patti,
che volevano, entrato in Napoli per tener placati gli animi di tutti,
fece molte più grazie di quelle, che avea promesse alla città; e diede
agli eletti quella _giurisdizione_, che oggi hanno sopra coloro, che
ministrano le cose necessarie al vivere[257].

Giunto l'avviso a Taranto al Re Luigi della resa di Napoli, ne intese
estremo cordoglio, e disperando di riacquistarla, e tenendo per perdute
anche l'altre parti del Regno, che restavano alla sua ubbidienza,
deliberò partirsi ed andare in Provenza. Ramondello Orsino non bastò a
fargli mutar proponimento, quantunque efficacemente ne 'l persuadesse,
mostrandogli, che benchè Napoli si fosse resa, pur erano all'ubbidienza
di sua Corona le due parti del Regno con tanti Baroni a lei divoti;
che coll'armata, che avea allora per soccorso di Napoli mandata Papa
Benedetto, e con unire di là a pochi mesi le forze di terra, era agevol
cosa di riacquistar tutto il Regno; e ch'era gran vergogna, che la
regina Margarita con Gaeta sola non si fosse disperata, senz'altro
aiuto, di ricovrar il Regno al figlio, ed egli con tante Terre maggiori
di Gaeta, e con tanto Stato in Francia, si partisse abbandonando tanto
dominio. Ma il Re o fosse sdegnato di lui, che mai non volle moversi
colle sue genti, e congiungerle con quelle del Gran Contestabile o
fosse fastidito di questi andamenti, s'imbarcò nell'armata, e con lui
se n'andò la maggior parte de' Cavalieri napoletani pensionari; ed
avendo girata la Calabria, passò per la marina di Napoli, mirandola con
gran dolore, e di là mandò a patteggiare col Re Ladislao, che facesse
uscire di Castel Nuovo Carlo d'Angiò suo fratello, co' Franzesi e con
tutte le suppellettili, ed a lui il castello si rendesse. Tutto ciò
gli fu agevolmente accordato; onde avendo mandate le galee a levare
gli usciti di castello, se ne andò in Provenza, lasciando grandissimo
desiderio di se, e gran dolore a tutti coloro del suo partito. Così
in quest'anno 1400 Napoli, e quasi tutto il Regno passò sotto la
dominazione del Re Ladislao; e sotto le bandiere del Re Luigi rimase
sol Taranto, che si mantenne lungo tempo nella sua fede.



CAPITOLO VI.

_Nozze di LADISLAO, prima con MARIA sorella del Re di Cipro, e poi con
la Principessa di TARANTO: sua spedizione nel Regno d'Ungaria, ch'ebbe
infelice successo._


Dopo aver Ladislao fugato dal Regno il suo Competitore, repressi
i Sanseverineschi, e posto a fondo la casa del Duca di Sessa, ed
insignoritosi de' loro dominj, gli parve tempo di godere in pace il
Regno, e veder di propagarlo ne' suoi discendenti; onde cominciò a
pensare di prender moglie. Papa Bonifacio se ne prese il pensiero, e
mentre ciò trattavasi, vennero in Napoli gli Ambasciadori del Duca
d'Austria Leopoldo a dimandare Giovanna sua sorella per moglie del
lor Signore; fu contento il Re di dargliela, e mentr'era in ordine
per andare ad accompagnarla fino a' confini del Ducato d'Austria,
fu l'andata differita, perchè Bonifacio aveva già conchiuso il suo
matrimonio con Maria sorella di Giano Re di Cipro; onde Ladislao volle
prima fare le sue nozze, e mandò subito in Cipri per la sposa Gurrello
di Tocco, con l'Arcivescovo di Brindisi e molti altri Cavalieri. Venne
questa Principessa in brevissimo tempo accompagnata dal Signore di
Lamech, e dal Signor di Barut suoi zii carnali; e fu ricevuta in Napoli
dal Re e dalla Regina Margarita sua madre, con amore ed onor grande nel
mese di febbraio di quest'anno 1403 ed incontanente furon le nozze con
ogni magnificenza celebrate.

A questo tempo gli Ungheri ritrovandosi mal soddisfatti del loro
Re Sigismondo avean in quel reame mossa sedizione, ed una parte
di que' Baroni lo carcerarono, ed alzate le bandiere di Ladislao,
lo gridarono Re, come figliuolo ed erede di Carlo III. Ladislao
avidissimo d'accrescere la sua potenza in diversi Regni, accettò la
Signoria; ma considerando l'istabilità di quella nazione, e che se
non riuscisse quanto i suoi aderenti gli aveano promesso, avrebbe
dovuto tornarsene in Napoli con poca sua riputazione: col pretesto
di voler accompagnare sua sorella in Austria, deliberò di partire; ed
avendo lasciata Vicaria del Regno la Regina Maria sua moglie, con che
dovesse governarlo col consiglio dell'Arcivescovo di Consa, di Gentile
de Merolinis di Sulmona, di Gurrello Origlia e di Lionardo d'Affitto
suoi Consiglieri[258], andò con Giovanna ad imbarcarsi a Manfredonia,
donde passò al Friuli; ed avendo consegnata la sorella a molti Baroni
del Ducato d'Austria, che quivi l'attendevano, egli se ne passò a Zara
Terra del Regno d'Ungaria, con animo di tentar l'impresa di quel Regno.
Zara senza contrasto aperse le porte, e parendo, che a questo viaggio
avesse fatto assai, fortificò quella città, e lasciandovi il Signor di
Barut con presidio bastante, se ne tornò in Napoli. Alcuni scrissero,
che Ladislao prima di tornarsene fosse stato a' 5 agosto di questo anno
coronato dal Vescovo di Strigonia Re di quel Regno, con soddisfazione
di tutto il popolo, e di molti Baroni ungheri e Prelati, che vennero a
trovarlo a Zara. Altri, che Papa Bonifacio lo facesse incoronare dal
Cardinal Fiorentino, e gli rimettesse i censi che dovea alla Chiesa
romana per lo Regno di Napoli, che erano più di ottocentomila fiorini,
concedendogli anche le decime per tre anni in questo Regno, per
sussidio della guerra; e che Ladislao finita la coronazione mandasse in
Ungaria per suo Vicerè Tommaso Sanseverino Conte di Montescaggioso con
cinquecento lanze, con intenzione di volerci poi passar egli. Alcuni
altri, come il Costanzo, rapportano questi avvenimenti alquanti anni
da poi, cioè dopo la morte della Regina Maria, dopo la morte di Papa
Bonifacio seguìta nell'anno 1404, di cui ne fu successore _Innocenzio
VII_ e dopo le nuove nozze contratte da Ladislao con la Principessa
di Taranto, stabilite nell'anno 1406 per riacquistare il principato
di Taranto come prosperamente avvenne. Allora fu, narra il Costanzo,
che vennero gli Ambasciadori d'Ungaria a fargli intendere, ch'essendo
morta la Regina Maria, gli Ungheri non potendo soffrire la tirannide
del Re Sigismondo, lo aveano posto in carcere ed innalzate le sue
bandiere, che perciò l'invitarono, che si ponesse tosto in ordine, ed
andasse a pigliar la possessione pacifica di sì ricco Regno, e che
bisognava più tosto celerità che forza. Ladislao e per cupidità di
regnare, e per desiderio di prender vendetta della morte del padre, con
una compagnia di gente eletta andò con gli Ambasciadori ad imbarcarsi
a Manfredonia, e con vento prospero navigando arrivò in pochi dì a
Zara; ed avendo inviati gli Ambasciadori innanzi per far intendere a'
Principi del Regno la sua venuta, di là a pochi dì intese, che il Re
Sigismondo era liberato e raccoglieva un grande esercito di Boemi, per
la qual cosa ricordevole della morte di suo padre, stette alcuni dì
fermo in Zara, consultando quello che avesse a fare. Ma avvenne, che
un dì essendo usciti alcuni soldati dalle galee e marinari a coglier
uva per le vigne, i cittadini di Zara pigliarono l'arme, e ne uccisero
venti, nè bastando ciò, così armati andarono nel palazzo ov'era il Re,
e con arroganza barbarica gli dissero, che se egli non volea tener in
freno le sue genti, non mancavano a loro nè arme, nè animo di fargli
star a segno. Il Re sdegnato di tanta insolenza, cominciò a pensare,
quanto doveano essere più efferati gli altri popoli di quel Regno più
vicini alla Scizia, ed a' Monti Rifei, poichè quelli di Zara prossimi
all'Italia erano tali; e sopra questo sdegno, essendo venuto nuovo
avviso, che il Re Sigismondo era entrato in Ungaria col suo esercito,
e che quelli della sua parte aveano messo in fuga e dispersi gli altri
della parte contraria, deliberò far vendetta de' Zaresi, e lasciar
quella impresa pericolosa.

Trattò per tanto con Francesco Cornaro, Lionardo Mocenigo, Antonio
Contarino, e Fantino Michele Ambasciadori de' Veneziani, di vendere
Zara a quella Signoria, della quale i Zaresi erano acerbissimi nemici,
ed essendo la novella di questo trattato giunta a Venezia, quel Senato
mandò centomila ducati di oro, e tante genti, quanto bastassero per
presidio di quella città, ed il Re Ladislao ne fece loro la consegna.
Da poi sdegnato con gli Ungheri, come narra Bonfinio nell'Istorie
d'Ungaria, scrisse al Re Sigismondo, scusandosi che non avea egli
di sua elezione pigliata quell'impresa, ma da altri chiamato, e per
vedere se era volontà di Dio il quale dona e toglie i Regni, ch'egli
sedesse nel Trono d'Ungaria: ma avendo conosciuto il contrario, ed
esperimentata la natura instabilissima di quella gente, che ogni
dì cangiar vorrebbe un nuovo Re, avea deliberato di cedergli, e di
offerirsegli ancora buon amico, e amorevole parente, aggiungendo, che
non avrebbe potuto fargli maggior piacere, che trattar i traditori
com'essi avean cercato di trattar lui; e fatto questo se ne ritornò
al Regno. Non è però, che Ladislao, siccome anche dopo la sua morte la
Regina Giovanna II e tutti i Re di Napoli loro successori, avessero ne'
loro titoli tralasciato quello di _Re d'Ungaria_, ma ne' loro diplomi
ed atti s'intitolavano non meno Re di _Sicilia_ e di _Gerusalemme_ che
_d'Ungaria_.


§. I. _Spedizione del Re LADISLAO sopra Roma._

La morte di Papa Bonifacio liberò Ladislao da tutte quelle promesse che
gli avea fatte, e dal rispetto che gli portava, come suo gran fautore
ed amico. Avrebbe questo Pontefice lasciato di se pel suo valore gran
nome; ma il soverchio amore, che portava a' suoi, oscurò la di lui fama
essendo arrivato, come scrive il Platina, insino a donar a' parenti
le indulgenze plenarie, acciocchè le vendessero: questa impietà però
ebbe poi molto vicina la punizione, perchè avendo Andrea suo fratello
Duca di Spoleto e Giovanni Conte di Sora e di Alvito, fatto avere
molte altre Terre a diversi altri suoi parenti, ne furono in brevissimo
spazio privati, rimanendo in grandissima povertà.

Rifatto in suo luogo da' Cardinali Cosmato Migliorato da Sulmona
Cardinal di Santa Croce che si fece chiamare _Innocenzio VII_ si
mostrò poco amico di Ladislao; questi all'incontro poco stimandolo,
e vedendosi pacifico possessore del Regno, e non distratto in altra
guerra, com'era di natura inquieto e cupido d'imperio e di gloria,
deliberò d'insignorirsi di Roma. Il tempo non poteva essere più
opportuno; poichè i Romani attediati per lo lungo scisma, e per l'odio
che aveano portato al Pontefice Bonifacio, e portavano ad Innocenzio,
per molti che ne avea fatto morire, eccitarono nel principio del suo
Ponteficato gran turbolenze in Roma: poichè avendogli dimandato,
che fosse loro restituita la libertà del Campidoglio e che avesse
proccurato togliere lo scisma, Innocenzio sdegnato di tanta insolenza,
chiamò Lodovico Marchese della Marca suo nipote, con molta gente
per far de' Romani vendetta. Il Popolo si levò a rumore, e chiamò
Ladislao in suo soccorso: tosto il Re venne a Roma, onde Innocenzio fu
costretto uscire insieme col nipote dalla città e ricovrarsi a Viterbo.
Ladislao ottenuta Roma, passò in Perugia, e l'occupò; ma i Romani in
un subito rivoltatisi, richiamarono il Pontefice, e le genti del Re
furono discacciate da Paolo Orsino. Intesa da Ladislao la leggerezza
de' Romani, pien di stizza, lasciando ogni cosa in abbandono, ritornò
nel Regno, per ordinare un poderoso esercito e prenderne vendetta; ma
mentre il Re era tutto inteso a questa espedizione. Papa Innocenzio a'
6 novembre di quest'anno 1406 se ne passò a miglior vita.

(Prima di morire _Innocenzio_ in quest'istesso anno 1406 nel mese di
agosto si stabilì pace tra _Ladislao_ ed _Innocenzio_; l'istromento
della quale si legge presso _Lunig_[259]: anzi nell'istesso tempo
Papa _Innocenzio_ creò _Ladislao_ difensore della Sede Appostolica e
Confaloniere della Chiesa romana, il cui Breve si legge pure presso
_Lunig_.[260]).

Il Re di Francia, che tuttavia proseguiva nell'impegno di far
cessare lo Scisma, proccurava di non far seguire nuova elezione;
ma i Cardinali, che ubbidivano ad Innocenzio, trovatisi in Roma, in
vece di sospendere l'elezione, immantenente a' 30 dello stesso mese
elessero Angelo Cornaro Veneziano, che prese il nome di _Gregorio
XII_. Tutti questi Cardinali prima dell'elezione aveano firmata una
scrittura, colla quale s'impegnavano, che colui fra loro che fosse
eletto rinunziarebbe il Pontificato, purchè dal canto suo facesse
l'istesso Benedetto, e' suoi Cardinali, per proceder poi d'accordo
all'elezione d'un legittimo Pontefice. Gregorio XII protestò di esser
pronto a rinunziare, se lo stesso avesse fatto il suo Competitore. Il
Re di Francia s'impegnò per far riuscire la rinunzia de' Contendenti,
ma nè l'uno, nè l'altro aveano intenzione di farla, e la sfuggivano con
finte proposizioni d'affettamento. Si convenne alla perfine dall'una,
e dall'altra parte di portarsi in Savona per trattare l'unione. Vi
andarono Benedetto e' suoi Cardinali, ma Gregorio ancorchè uscito di
Roma per andarvi, sfuggiva con varie scuse la conferenza. Di questi
imbarazzi approfittossi assai bene Ladislao, poichè quando vide in
questo nuovo anno 1407 uscito di Roma il Papa, avendo intanto unito
un esercito di quindicimila fanti, s'avviò verso Roma e mandò molte
navi cariche di vittovaglie per l'esercito suo, con alcune Galee, che
guardassero la foce del Tevere, per non farvi entrar vittovaglia in
sussidio di Roma. Era allora in guardia di questa città Paolo Orsino
uomo di molta autorità e molto amato e stimato da' Romani per la grande
opinione, che si avea del valore suo. Costui con duemila cavalli e
co' cittadini abili a maneggiar l'arme si pose a difesa della Patria,
e poste ne' luoghi opportuni le guardie necessarie, tolse la speranza
al Re di potervi entrare per forza; ma essendo le galee nel Tevere, ed
avendo il Re pigliate tutte le castella della Teverina, e facendo con
gran diligenza guardare, che per lo fiume non potesse a Roma scendere
cos'alcuna da vivere, fu stretto di render se e la città al Re con
onorate condizioni, e nel dì di S. Marco 25 aprile di quest'anno 1408
Ladislao entrò come Signore a Roma sotto il Baldacchino di panno d'oro
portato da otto Baroni Romani, ed andò per quella sera al Campidoglio.

Il dì seguente un Fiorentino, che tenea il castello di S. Angelo per
Papa Gregorio, patteggiò di renderlo, e n'ebbe Quarata, buona Terra in
Puglia, e 'l Re passò ad abitar nel palazzo di S. Pietro in Vaticano.
Fece Castellano Riccardo di Sangro e Senatore Giannotto Torto Barone
di molte Terre in Abruzzo e stette in Roma fin a' 25 di luglio. Ecco
come Ladislao si rendesse Signore di Roma. Egli fu il primo, che ai
suoi titoli volle anche aggiunger questo di _Re di Roma_: onde è,
che leggiamo ne' suoi atti, e diplomi _Rex Romae_, titolo che per
l'addietro nè i Goti, nè i Longobardi, nè i Franzesi, ancorchè Re
d'Italia, osarono di prenderlo, chi per riverenza, chi per timore degli
Imperadori d'Oriente, i quali n'erano i loro Signori.

Ma Ladislao tirato forse, come dice il Costanzo, dall'amor delle
donne, non volle più trattenersi in Roma e se ne ritornò in Napoli,
ove si trattenne tutta l'està in piaceri e feste; e mentr'egli così
lussureggiando trascurava mantenere questo nuovo acquisto, gli venne
nuova che Roma era ribellata, perchè Paolo Orsino, parte sdegnato, che
avesse anteposto Giannotto a lui nell'Ufficio di Senatore, parte non
potendo soffrire, che Giannotto usasse molto rigore contra i Romani
senza far conto di lui, indusse il Popolo romano a pigliar l'armi,
ed andar al Campidoglio a far prigione il Senatore, ed egli co' suoi
ruppe i Capitani del Re, che givano per soccorrer il Senatore, con
morte di Francesco di Catania Nobile di Capuana, e di molt'altri
buoni soldati, sicchè per tutto fu gridato: _Viva la Chiesa Romana e
muojano i Tiranni_; essendosi le genti del Regno ritirate senza far
altro contrasto. Di questa nuova sentì il Re grandissimo dispiacere;
ma essendo prossimo il verno, non pensò fare per questo anno altro
movimento.


§. II. _Concilio convocato a Pisa per torre lo Scisma che ebbe infelice
successo._

Mentre queste cose succedevano in Italia, il Re di Francia non
tralasciava l'impresa di far rinunziare i due Contendenti, perchè si
fosse eletto un legittimo Papa; ma _Gregorio_ non voleva sentir parola
di cessione, onde i suoi Cardinali sdegnati per la sua condotta,
l'abbandonarono, si portarono in Pisa, e si appellarono delle sentenze
ch'e' pronunziò contro di essi al futuro Concilio; ma non per tutto
ciò astenevasi Gregorio di continuare i suoi procedimenti contro i
medesimi. Dall'altra parte il Re di Francia fece dire a _Benedetto_ che
assolutamente voleva ch'e' rinunziasse ed acconsentisse all'unione,
altrimenti si sarebbe sottratto dalla sua ubbidienza: ma Benedetto
ostinato non men che Gregorio, stese subito una Bolla fulminante contro
la sottrazione e la inviò in Francia. Vi fu mal ricevuta, e coloro
che l'avevano portata furono arrestati ed ignominiosamente trattati;
la Bolla fu lacerata ed in Francia fu pubblicata la neutralità.
_Benedetto_ ch'era in Avignone si ritirò in Aragona. _Gregorio_
per dimostrare che non era per lui mancata l'unione, cominciò a
discolparsi, e scrisse una lettera circolare, imputando a _Benedetto_
la cagione perchè l'unione non fosse stata conchiusa, e convocò un
Concilio in _Aquileja_. Benedetto che s'era ritirato in Aragona, fece
la stessa protestazione, ed adunò un altro Concilio in _Elba_ vicino
a Perpignano. I Cardinali dell'uno e dell'altro partito, vedendo che
per questa divisione parea che la Chiesa di Dio stesse senza Papa,
perchè si faceva poco conto dell'uno e meno dell'altro, e lo Stato
della Chiesa era occupato da diversi Tiranni, avuta fra loro secreta
intelligenza, convocarono ancor essi un altro Concilio in _Pisa_. Così
in quest'anno 1408 tre Concilj furon convocati il primo in _Perpignano_
dalla Bolla di _Benedetto_ che fu il più sollecito di tutti: il secondo
in _Aquileja_ dalla Bolla di _Gregorio_ spedita a' 2 di luglio, per la
quale s'intimava l'apertura del Concilio per la Pentecoste dell'anno
seguente; ed il terzo in _Pisa_ dalle lettere de' Cardinali d'amendue
i partiti spedite in Livorno il dì 26 giugno, per le quali s'intimava
l'apertura del Concilio a Pisa per lo dì 26 marzo dell'anno seguente.
_Benedetto_ fu il più sollecito, e fece cominciare il suo Concilio il
primo di novembre. Vi si trovarono i Vescovi di Castiglia, di Aragona,
di Navarra, e molti altri Prelati di Francia, di Guascogna e di Savoja
in numero di 120 senza comprendere i quattro Arcivescovi onorati con
titolo di Patriarchi. Quando si venne al punto dello scisma, i Vescovi
per la maggior parte si ritirarono da Perpignano, e 'l Concilio
si restrinse al numero di 18, i quali riconobbero _Benedetto_ per
legittimo Papa; lo consigliarono però di proccurare l'union della
Chiesa per via di rinunzia, in caso che il Competitore rinunziasse o
venisse a morte, ovvero fosse deposto; e d'inviar Legati a' Cardinali
ch'erano in Pisa con piena potestà di stabilire il trattato.

Mentre ciò facevasi in Perpignano, i Cardinali dei due Collegi
pensavano con serietà ad impegnar tutti i Principi a riconoscere il
lor Concilio e ad approvare quanto avessero fatto. Aprirono dunque il
Concilio il dì 25 marzo dell'anno 1409 giorno prefisso per l'apertura.
Primieramente il Concilio citò Pietro di Luna ed Angelo Cornaro, che si
dicevano Papi, e non essendo comparito alcuno, il Concilio gli dichiarò
contumaci. Pronunziò, che il Collegio de' Cardinali unito avea potuto
convocare il Concilio, e che il Concilio generale poteva procedere
ad una sentenza diffinitiva. Comandò poi la sottrazione d'ubbidienza
a' due pretesi Papi: ed infine dopo aver prese le informazioni sopra
la loro condotta, gli dichiarò decaduti dal diritto che pretendevano
al Pontificato, e gli depose con deffinitiva sentenza. I due Collegi
de' Cardinali procedettero poi all'elezione d'un legittimo Pontefice,
secondo il decreto del Concilio, ed elessero Pietro Filargio di Candia,
nomato il Cardinal di Milano, dell'Ordine de' Frati Minori che prese
il nome di _Alessandro V_. Egli presedette alle sessioni seguenti del
Concilio che terminò il dì 7 agosto di quest'anno 1409. Era composto
di 22 Cardinali, di 4 Patriarchi, e di 12 Arcivescovi, di 67 Vescovi in
persona, di 75 Deputati, d'un grandissimo numero d'Abati, di Generali,
di Procuratori d'Ordini, di Deputati de' Capitoli, e di 67 Ambasciadori
di Re e d'altri Principi sovrani.

Alessandro V riputato dalla maggior parte de' Principi d'Europa per
vero e legittimo Pontefice, ancorchè fosse Frate de' zoccoli, era
stato molti anni Arcivescovo di Milano, e poi fatto Cardinale da
Papa Innocenzio VII avea non poca esperienza delle cose del Mondo,
onde presa ch'ebbe la corona voltò subito il pensiero a riporre la
Sede Appostolica nel suo primiero stato e riputazione; e vedendo
gli apparati del Re Ladislao, i quali eran tutti indrizzati per
impadronirsi di Roma e del suo Stato, fece lega con i Fiorentini; a'
quali era già resa sospetta la grandezza e l'animo di Ladislao; ed
essendo favorito anche dalla Francia che lo riconobbe per vero Papa,
mandò ivi a chiamar Re Luigi per opporlo a Ladislao, ed intrigarlo
in una nuova guerra, acciocchè dovendo badar poi a' propri mali, non
potesse pensare ad inquietare lo Stato della Chiesa romana.

Dall'altra parte _Gregorio_ non avea mancato di aprir suo Concilio in
_Aquileja_, ovvero in Udine, nel giorno della Festa del SS. Sacramento
di quest'istesso anno 1409 ma non fu quello sì numeroso, nè vi si trovò
che un picciolissimo numero di Prelati; nulladimanco vi fece dichiarare
ch'egli ed i suoi predecessori erano stati canonicamente eletti,
e che non solo Pietro di Luna, et quelli che l'aveano preceduto,
ma eziandio Pietro di Candia nuovamente eletto, erano intrusi, e
che non aveano avuto alcun diritto al Pontificato. Fece però una
dichiarazione ch'era pronto a rinunziare al Papato realmente, e di
fatto purchè Pietro di Luna e Pietro di Candia vi rinunziassero ancora
personalmente e nel medesimo luogo. Creò nuovi Cardinali, non meno
che avea fatto Benedetto: onde invece di due Papi, dopo il Concilio di
Pisa se ne videro tre, da' quali miseramente era la Chiesa lacerata.
Gregorio terminato il Concilio, non istimandosi sicuro in Udine, fuggì
travestito in Apruzzo; onde Ladislao avendo scorti gli andamenti di
Alessandro, mandò tosto Angelo Aldemarisco Gentiluomo con quattro galee
a chiamarlo. Stava egli allora a Pietra Santa con due Cardinali che
non aveano voluto abbandonarlo, il qual intesa la chiamata di Ladislao,
scese molto volentieri ad imbarcarsi al Porto di Luna, e venne a Gaeta,
ove fermò la sua residenza, ed ove il Re l'accolse con molta riverenza
come a vero Pontefice, ed ordinò che per tale fosse tenuto nel Regno ed
in tutti i suoi dominj. Avea _Gregorio_ una picciolissima Corte: poichè
non era riconosciuto per Papa, se non negli Stati del Re Ladislao.
All'incontro _Alessandro V_ era riconosciuto per legittimo Papa
quasi in tutta la Cristianità, eccettuatene solo queste province che
ubbidivano a Gregorio, ed i Regni di Aragona, di Castiglia, di Scozia,
e gli Stati del Conte di Armagnac che riconoscevano _Benedetto_.
L'Alemagna era divisa, perchè Roberto Re de' Romani ricusava che fosse
riconosciuto _Alessandro_, per aver egli dato in molte lettere il
titolo di Re de' Romani a Venceslao Re di Boemia.



CAPITOLO VII.

_Ritorno del Re LUIGI II nel Regno per gl'inviti di Papa ALESSANDRO, il
quale scomunicò e depose LADISLAO, dandone nuova investitura a Luigi._


Essendo le cose in questo stato, Re Luigi udita la chiamata di Papa
Alessandro, e ricordandosi quanto importi l'amicizia d'un Papa a chi
vuole acquistare o mantenere il Regno di Napoli, si pose subito in mare
con alcuni legni, ch'erano nel porto di Marsiglia, e venne a Livorno,
e di là a Pisa a baciar i piedi al Papa, dal quale fu ricevuto in
Concistoro pubblico con grandissimo onore, ed esortato, che seguendo
l'esempio de' suoi cristianissimi antecessori, volesse pigliar la
protezione della chiesa; e perchè potesse più legittimamente procedere
all'acquisto del Regno, in un altro Concistoro il Papa pronunziò per
iscomunicato e scismatico Re Ladislao, e lo privò del Regno, e ne fece
nuova investitura a Re Luigi, dicendo, che quella che avea avuta da
Clemente, il quale non era vero Pontefice era invalida; e si conchiuse,
che si soldasse Braccio da Montone Perugino, Sforza da Cotignola e
Paolo Orsino, tutti Capitani a quel tempo di gran fama. Ma mentre
Luigi si partì da Pisa ed andò in Fiorenza per ottener, che quella
Repubblica per virtù della lega contribuisse al soldo de' tre Capitani,
Papa Alessandro se ne andò in Bologna; e perchè quando fu eletto
Papa, era settuagenario, ivi ammalatosi, se ne morì nel dì 3 maggio
di quest'anno 1410. I Cardinali il terzo dì da poi che furono entrati
in Conclave senza contrasto elessero Baldassare Cossa gentiluomo
napoletano Cardinal di Bologna, il quale anche ebbe la raccomandazione
del Re Luigi, e si fece chiamare _Giovanni XXIII_. Costui non meno di
spirito fervido ed inquieto di quel, ch'era Ladislao, il primo disegno
che concepì, fu di cacciar Ladislao del Regno; e perchè i Fiorentini
stavano sospesi, e non volevano pagar danari, se non sapeano, se
l'animo del nuovo Pontefice era di firmar la lega, Re Luigi andò in
Bologna ad adorarlo, e lo trovò molto più pronto in favor suo, che
non era stato Papa Alessandro; perocchè non solo concorse alle spese
dell'esercito per terra, ma soldò anche un gran numero di galee di
Genovesi, che giunte insieme col navilio franzese, che aspettavasi da
Provenza, andassero ad assaltar il Regno per mare.

Intanto Re Ladislao non perdè tempo: avvisato che fu della malattia di
Papa Alessandro, spinse incontanente dal Contado di Sora ov'era, il suo
esercito a Roma, e parte per trovarsi quella città senza presidio, e
parte perchè diceva di volerla ridurre all'ubbidienza di Papa Gregorio,
ch'era in Gaeta, la pigliò senza contrasto: ed avendo inteso gli
apparati de' suoi nemici, lasciò Perretto d'Ibrea Conte di Troia in
Roma, e Gentile Monterano con tremila e secento cavalli, e distribuì
il rimanente dell'esercito per alcune terre di Campagna, ordinando
a' Capitani, che quando vedessero il bisogno andassero tutti a Roma
a soccorrere il Conte di Troia, ed egli venne a Napoli a provveder
di danari, ed attendere, che la città non si perdesse per assalto di
mare. Accumulati per molte vendite di terre e di castelli, che fece a
vilissimo prezzo, danari in gran numero, armò otto navi o sei galee,
e provisto a questo modo alle cose di mare, chiamò tutti i Baroni con
disegno di andare a Roma. Ma essendosi approssimato Re Luigi a Roma,
il popolo romano sollecitato da Paolo Orsino, ch'era venuto alla Porta
di S. Pangrazio, prese l'arme, e benchè il Conte di Troia facesse
resistenza, all'ultimo fu forzato di cedere. Re Luigi fatto l'acquisto
di Roma, e fermati quivi gli Ufficiali in nome di Papa _Giovanni_,
desiderava d'entrare subito nel Regno e seguir la vittoria; ma Braccio
per ricoverare alcune terre del patrimonio di S. Pietro, che si
tenevano per Ladislao e poteano offendere le terre sue; e Paolo Orsino
per ricovrare alcuni castelli di campagna, s'intertennero tanto, che
Ladislao ebbe tempo di provvedere molto bene alle cose sue, e ponersi
in ordine con gagliardo esercito. E qui assai a proposito ponderò
Angelo di Costanzo l'infelicità dei Re di que' tempi che più tosto
servivano, ch'eran serviti da' Capitani di ventura, i quali aveano
per fine più il comodo proprio, che la vittoria di que' Principi che
gli pagavano: ond'è, che Ladislao, il quale di ciò s'avvide, dopo che
giunse in età di guerreggiare per se stesso, non se ne servì se non
quando non se ne potea far altro, servendosi sempre di condottieri del
Regno o di alcuno estero, che non avesse tante genti, che e' non avesse
potuto senza pericolo svaligiarlo, quando non avesse voluto eseguir a
punto quel che egli comandava.

Dopo che Paolo e Braccio ebbero cacciati i soldati di Ladislao da
quelle terre, si mossero da Roma con Luigi, e vennero colle loro
truppe per la via Latina verso il Regno. Dall'altra parte Ladislao
si partì di Capua con tredicimila cavalli, e quattromila fanti,
e giunse in campagna sotto Rocca Secca, a tempo che Luigi col suo
esercito era a Ceprano; e procedendo un poco più avanti, venne Re
Luigi ad accamparsi un miglio vicino a lui. L'una e l'altra parte
dubitava, che consumando il tempo, sarebbero mancati i denari per
pagar i soldati e si dissolverebbe l'esercito, onde vennero volentieri
a giornata. Si attaccò il fatto d'arme a vespro, e durò fin a notte
oscura con grandissima virtù dell'una parte e dell'altra; ma in fine
l'esercito di Luigi restò vittorioso, e Ladislao, che fin all'estremo
della battaglia avea fatto ogni sforzo possibile per vincere, al fine
disperato della vittoria si ridusse a tre ore di notte a Rocca Secca
e mutato cavallo, se ne andò a S. Germano, ove la medesima notte si
ritrovarono tutti quelli, ch'erano scampati dalla rotta. Vinse Luigi,
ma non seppe poi servirsi della vittoria; e fu gran maraviglia, che
l'esercito suo vittorioso guidato da' più esperti Capitani d'Italia,
non avesse seguita la vittoria, per la quale senza contesa avrebbe
acquistato il dominio del Regno. I soldati del Re Luigi dopo la
vittoria non vollero passar più innanzi senza la paga, sperando, che
Papa Giovanni l'avesse mandata al primo avviso della vittoria; onde
Luigi, in vece di passar innanzi, fu forzato a tornar a dietro, e
cavalcò a trovare il Papa a Bologna insieme con Braccio e con Sforza.
Scrive Pietro d'Umile, il quale si trovò a questa giornata, ch'era
tanta la povertà dell'esercito di Luigi, che gli uomini d'arme, che
avean fatti prigioni coloro dell'esercito del Re Ladislao, poichè gli
aveano tolte l'armi ed i cavalli, e data la libertà, secondo l'uso
di que' tempi, promettevano rendere ad ogn'uno l'arme, ed il cavallo
per prezzo di otto e diece ducati. E che perciò Re Ladislao comandò
a Tommaso Gecalese suo tesoriere, che prestasse danari a coloro, che
non potevano averne di casa loro; e che durò molti dì, che si partiva
il Trombetta di S. Germano con una schiera di ragazzi e tornavano
armati a cavallo; tal che non molto tempo da poi si trovò l'esercito
di Ladislao quasi intero. Si aggiunse ancora, perchè Ladislao fuor
della sua espettazione restasse libero d'ogn'impaccio, che Re Luigi,
essendo giunto a Bologna per ricever soccorso da Papa Giovanni, lo
trovò molto travagliato di mente; imperocchè l'Imperatore Sigismondo
mosso da zelo cristiano per estinguere lo scisma, ch'era durato tanti
anni, parte con la sua persona, parte con Ambasciadori andò e mandò a
confortare tutti i Principi cristiani, che volessero insieme con lui
costringere _Benedetto XIII_ che stava in Catalogna, _Gregorio XII_ che
stava in Gaeta, e _Giovanni XXIII_ a venire ad un Concilio universale,
ove si avesse da decidere chi di loro era vero Pontefice, e togliere
l'ubbidienza a colui, che non andasse. Ed ottenuta la volontà di tutti,
avea fatto congregare prelati d'ogni nazione nella città di Costanza,
che avea deputata per lo Concilio, ed a quel tempo avea mandato a
chiedere Papa _Giovanni_, che andasse al Concilio: per la qual cosa
trovandosi il Papa in dubbio di se stesso, fu costretto di dire a Re
Luigi, ch'era necessario attendere a' casi suoi, e di servirsi de'
soldati suoi contra i Tiranni, che alla fama di questo Concilio erano
insorti contra di lui, consigliandolo a differir la guerra del Regno
a tempo più comodo; per le quali parole Re Luigi mal contento partì,
e se ne andò in Provenza, e poco da poi morì, lasciando tre figliuoli,
_Luigi, Renato_, ed un altro, dei quali si parlerà ne' seguenti libri
di quest'istoria.



CAPITOLO VIII.

_Re LADISLAO tenta nuove imprese in Italia: sua morte, sue virtù e suoi
vizj; ed in che stato lasciasse il Regno alla Regina GIOVANNA II, sua
sorella ed erede._


Ladislao, restando fuori della sua credenza libero da ogni
sollecitudine, per la partita di Luigi, cominciò per vendicarsi di
Papa Giovanni, ad infestar lo Stato ecclesiastico. Stava allora il
Papa in grandissima confusione, perchè ristretto con gl'intimi suoi nel
consultarsi dell'andata al Concilio, trovò diversi pareri; poichè molti
consigliavano, che non andasse, e tra costoro uno era Cosmo di Medici
fiorentino, uomo di grandissima prudenza, che gli disse, non convenire
nè al decoro dell'autorità pontificale, nè alla dignità d'Italia, di
andare comandato a sottomettersi in mano ed al giudizio di Barbari;
ma essendo egli di grande spirito, e confidando nella giustizia, che
gli parea di avere, essendo stato eletto Papa universale da quelli
stessi Cardinali, che aveano rifiutato Benedetto e Gregorio, come
Antipapi, deliberò di andare, opponendo alle ragioni contrarie una
ragione assai probabile, dicendo che non era bene, che in contumacia
sua, facesse fare un altro Papa in Germania; il qual calando poi col
favor dell'Imperadore in Italia a tempo ch'egli era inimicato con Re
Ladislao, l'avesse consumato e cacciato dalla sede. Prima però che
si partisse, tentò di pacificarsi con Ladislao, mandando il Cardinal
Brancaccio per questo effetto in Napoli, uomo per vita, e per età
venerabile, il quale, benchè Ladislao, conoscendo la necessità del
Papa stesse duro, pure con destrezza e diligenza l'indusse ad accettar
la pace, per virtù della quale il Re liberava un fratello ed alcuni
parenti del Papa, ch'erano prigioni, e riceveva dal Papa ottantamila
fiorini.

In quest'anno 1412 la Regina Margarita, ch'era stata molti anni a
Salerno, città data a lei per appanaggio, insieme con altre Terre e
con la città di Lesina in Capitanata, partendosi da quella città per
la peste che vi era, se n'andò all'Acqua della Mela, Casale di S.
Severino, ove ammalatasi, nelle proprie braccia del Re suo figliuolo
a' 7. agosto morì, e fu con onorevolissime esequie portato il cadavere
nella chiesa di S. Francesco di Salerno, ove le fece fare un gran
sepolcro di marmo con iscrizione secondo l'uso di que' tempi, che ancor
oggi ivi si vede.

Papa Giovanni essendosi già risoluto d'andare al Concilio, avea
lasciato Braccio Capitano della Chiesa, perchè debellasse Francesco
di Vico, il qual era ribello della medesima, e s'intitolava Prefetto
di Roma: Re Ladislao, che non sapeva star in ozio, intesa la partenza
del Papa, soccorse il ribelle; per la qual cosa Braccio scrisse al
Papa, che il Re avea rotta la pace. Ma le cose del Concilio andavano
per Giovanni tanto travagliate, che l'avean fatto lasciare in tutto il
pensiero delle cose d'Italia; onde Ladislao, lasciato ogni rispetto
della pace l'anno seguente 1413 occupò Roma, e proccurò ancora con
grande arte che oltre a Sforza, venisse al di lui soldo anche Paolo
Orsino; poichè l'uso di que tempi era, che i Capitani di ventura
finito il soldo con un Principe, solevano andare a servire un altro,
senza che restasse rancore nel primo, che aveano servito; con tutto
ciò Paolo conoscendo il Re di natura vendicativo, stava pur sospeso;
e credendo che la sola di lui fede non gli bastasse, volle dal Re
sicurtà, che li fu data. Vennero perciò Paolo, ed Orso Orsini con
molte compagnie di genti d'arme bene in ordine, e 'l Re gli mostrò
buon viso. Ma covando dentro il pensiero di fargli morire, volle farsi
benevolo Sforza, al quale, ancorchè pure l'odiasse, siccome odiava
tutti i Capitani di ventura, nulladimanco gli portava più rispetto,
e dubitava più di romper la fede a lui, che agli altri. Erasi per
tanto Ladislao apparecchiato per la guerra di Toscana; ed i Fiorentini
sospetti della sua ambizione cercavano di prepararsi alla difesa della
loro libertà. Ma Ladislao per sorprendergli mostrava altrove voler
volgere le sue truppe; onde partito di Roma, ed avendo agevolmente
occupate tutte le Terre della Chiesa, distribuì per quelle i Capitani
e le genti ed egli si fermò a Perugia con disegno di non scoprire
per alcuni dì l'animo suo, volendo tenere in timore tutte le Terre
di Toscana, di Romagna e di Lombardia, per taglieggiarle: mandarono
subito Ambasciadori, Fiorenza, Lucca, Siena, Bologna ed altre Terre,
ed egli fece buon viso a tutti egualmente; ma nel parlare era ambiguo,
mostrando segno talora di voler passare in Lombardia. Ma all'ultimo
accettando dall'altre Terre l'offerte de' presenti, andava trattenendo
in parola gli Ambasciadori fiorentini, i quali tennero per certo,
che l'animo suo era di assaltar Fiorenza, e per questo presero un
sottile ed industrioso partito; poichè avendo inteso, che'l Re stava
innamorato della figliuola d'un Medico perugino, con la quale spesso
si giaceva, è fama, che avessero con gran somma di denari subornato il
Medico, acciocchè per mezzo della figliuola l'avesse avvelenato: che il
Medico indotto dall'avarizia, anteponendo il guadagno alla vita della
figliuola, l'avesse persuasa ad ungersi le parti genitali d'una unzione
pestifera, quando andava a star col Re, dandole a credere, che quella
fosse una composizione atta a dare tal diletto al Re nel coito, che
non avrebbe potuto mai mancare dall'amor suo; e che per questo il Re
si fosse infermato d'un malo al principio lento ed incognito; nel qual
tempo essendo venuto Paolo ed Orso a visitarlo, fece prendere amendue,
e porgli in carcere strettissimo; ed essendo tutti i Capitani venuti
a pregarlo, che non volesse rompere la fede data, il Re loro rispose,
che avendo saputo che, Paolo teneva pratica co' Fiorentini di tradirlo,
era stato astretto per assicurarsi, di farlo arrestare; ma quando non
fosse vero, l'avrebbe liberato. Fu questa istanza e trattenimento molto
opportuno per la lor salute, perchè aggravandosi il male, e partendosi
il Re da Perugia per venirsi ad imbarcare su le galee ad Ostia, quando
volle condur seco i prigionieri, i Capitani elessero il Duca d'Atri,
che andando sotto colore di far compagnia al Re, aresse da provvedere,
che i prigioni non fossero gittati in mare. Giunto il Re ad Ostia si
imbarcò assai grave del male, e quasi farneticando mostrava, che ogni
suo intento non era in altro, se non che i prigioni non fuggissero;
e giunto a Napoli a' 2 d'agosto di quest'anno 1414 fu dalla marina
portato in lettiga al castello, e subito che fu messo in letto comandò,
che Paolo fosse decapitato. Il Duca d'Atri parlò con Giovanna sorella
del Re, che governava il tutto, perchè la Regina moglie stava più a
modo di prigioniera, che di Reina, e dissele quanto potea pregiudicare
all'anima ed allo Stato del Re, se un tal personaggio fosse stato senza
legittima cagione fatto morire; ed operò, che la mattina seguente
quelli, che vennero a visitar il Re, dissero, che a Paolo era stata
mozza la testa ed il corpo tagliato in quarti. Nè perchè mostrasse il
Re di questo grandissimo piacere, mancò un punto la violenza del male,
per la quale giunto il sesto dì d'agosto uscì di vita con fama di mal
Cristiano. _Giovanna_, perch'era morto scomunicato, lo mandò senza
pompa a seppellire a S. Giovanni a Carbonara. Ma poi gli fece fare
quivi un sepolcro per la qualità di que' tempi assai magnifico e reale,
che ancor oggi si vede.

Morì Ladislao non avendo ancor compiti ventiquattro anni di Regno, come
di lui cantò il Sannazzaro:

_Mors vetuit sextam claudere Olympiadem_: e visse trentanove anni. Nel
suo regnare, come suole avvenire, che si siegua l'esempio del Principe,
fiorirono le armi, e si diede bando alle lettere; perciò non leggiamo
noi in questi tempi que' chiari Giureconsulti e tanti altri Letterati,
che sotto il Regno di Roberto e di Giovanna sua nipote fiorirono.
Le tante guerre in un Regno diviso, e dove sovente due regnavano,
obbligavano i Popoli a tener più le armi in mano, che i libri; quindi
non si vide, che per meglio stabilire il governo civile e politico,
si pensasse a far nuove leggi, a riordinar i Tribunali e l'Università
degli studj: di Ladislao solamente una legge abbiamo tra' _Capitulari_
de' Re angioini; poichè i due Re contendenti, _Luigi_ e _Ladislao_,
tenea ciascuno la sua Corte ed i suoi Ufficiali; quindi nacque quella
confusione, che osserviamo in questi tempi tra i sette Ufficiali
della Corona, dei quali non potè tenersi certa e continuata serie e
successione. Per quest'istessa cagione leggiamo ancora nello stesso
tempo due G. Contestabili, due G. Protonotarj e così degli altri, e
sovente mancare e poi esser l'Ufficiale rifatto e restituito, secondo
mancavano o si restituivano nel dominio i Principi contendenti.

L'animo bellicoso ed invitto di Ladislao, siccome nel Regno restituì
la disciplina militare, così l'accrebbe di Baroni, e non poco impoverì
il regal patrimonio per tante vendite e concessioni di Feudi che
fece; onde anche per questa parte si vide notabile cangiamento. Prima
pochi erano i Baroni e molto più pochi i Conti. De' Duchi (poichè i
Principati sol erano de' Reali, o di coloro al lor sangue congiunti)
non s'intese altro, che quello d'Andria nella casa del _Balzo_ e
l'altro di Sessa nella casa _Marzano_: poi nel tempo, che corse dalla
morte di Giovanna I al regno di Ladislao, alcuni Signori, che nutrivano
genti d'arme, occupavano le Terre e si usurpavano i titoli a lor modo
e tra costoro fra' _Sanseverineschi_ fu Vincislao Sanseverino, il qual
vedendo nella casa del Balzo e di Marzano questo titolo, s'usurpò
anch'egli il titolo di Duca di Venosa. Tra' Signori _Acquaviva_
l'istesso fece il Duca d'Atri, nella cui casa se bene il Marchese di
Bellante, disceso da questo Duca, dicesse ad Angelo Costanzo, che nella
Casa Acquaviva venisse il titolo di Duca per privilegio della Regina
Giovanna II, che regnò alquanti anni da poi; nulladimanco prima di
questo tempo scrive il Costanzo[261] trovar titolo di Duca in questa
casa nel libro del Duca di Monteleone di carta e carattere tanto antico
che si mostra che fu scritto a quelli tempi, siccome anche l'avea
letto nelle Annotazioni di Pietro d'Umile che accuratamente scrisse
le cose del Re Ladislao, e parte della Regina Giovanna II; ond'è che
l'uno e l'altro sia verissimo, e che questo Duca d'Atri, che si trovò
alla morte di Ladislao, e 'l padre, che fu Generale a Taranto, si
fossero chiamati Duchi avanti, che ne avessero il privilegio dalla
Regina Giovanna II. Ed è veramente cosa degna da notarsi, che tra le
tante revoluzioni e cangiamenti, che per lo corso di più secoli abbiamo
veduti in questo Regno, questa sola famiglia avesse ritenuto nella sua
casa questo titolo, e col titolo anche il dominio di quelle medesime
Terre, che li famosi gesti de' suoi illustri predecessori da tanti
secoli s'aveano acquistate. Alcune altre, come quella di Sanseverino;
i _Ruffi_ del Contado di Sinopoli; i _Capua_ del Contado d'Altavilla,
ed altri, ritengono ancora questi titoli, cioè di _Conti_, come prima i
loro antenati erano, non già di _Duchi_. Il Ducato di Andria, e l'altro
di Sessa sono più antichi; ma da altre famiglie sono ora posseduti.

De' Marchesi, ancorchè nel resto d'Italia si cominciassero a sentire,
nel nostro Regno non ve n'era alcuno; e solo nel Regno di Ladislao
s'intese Cecco del Borgo Marchese di Pescara, e notò il Costanzo, che
prima di costui non trovò, che altri avesse titolo di Marchese nel
Regno di Napoli.

I Conti, ancorchè nel Regno, non meno degli Angioini, che de' Svevi e
Normanni, fossero non pochi, ne' tempi di Ladislao si accrebbe molto il
numero, de' quali il Summonte ne tessè lungo catalogo; ma per le tante
concessioni di Feudi, che fece questo Principe, il numero di Baroni
crebbe non poco. Oltre ad essere stato stretto sovente dal bisogno
per mantener tante guerre, vendergli a prezzo vilissimo, era Ladislao
fuor di misura liberalissimo; e quando aveva e quando gli mancava,
non poneva mente nè a giusto, nè ad ingiusto per aver denari. Essendo
amatore di uomini valorosi e dilettandosi spesso in continue giostre
e giuochi d'arme, come quegli ch'era valentissimo in ogni spezie
d'armeggiare; a colui, dal quale vedea qualche pruova, non si poteva
mai saziare di donare e far onore. Quando la seconda volta trionfò
in Roma, sentendo gli apparati di Re Luigi, che col favore del nuovo
Pontefice Alessandro faceva per l'impresa del Regno, lasciando il Conte
di Troja in Roma, se ne venne egli a Napoli a provveder di danari; e
narra Angelo di Costanzo[262], che in quell'anno, secondo i registri
che ritrovano, fece infinite vendite di terre e di castelli a vilissimo
prezzo, non solo a Gentiluomini napoletani, ma a molti della plebe ed
a Giudei poco innanzi battezzati. Vendè anche molti Ufficj ed insino
al grado di Cavalleria, del che solea poi ridersi; e di alcune Terre
faceva a persone diverse in un tempo diversi privilegi. Quando poi
apparecchiossi alla guerra di Toscana, ritornò parimente in Napoli per
far danari, e cominciò a vendere terre e castelli non solo di coloro,
ch'erano giudicati e condennati per ribelli, ma di coloro eziandio,
in cui non era una minima sospizione. Si vede nell'Archivio regio un
registro grande di terre e castelli comprati da Gurrello Origlia per
bassissimo prezzo, benchè il Re dicesse, che il più che valevano,
il donava a conto di remunerazione. Ed è certamente cosa degna di
ammirazione la grandezza di questo Gurrello, che in una divisione che
fece tra' suoi figliuoli di quello che avea acquistato, si nominano
tra città, terre e castelli più di sessanta, che di sei figli, non
fu chi non ne avesse almeno otto; ma questa felicità ebbe pochissimo
spazio di tempo, perchè la Regina Giovanna, che successe, gli spogliò
d'ogni cosa. Parimente per farsi più benevolo Sforza donò a Francesco
primogenito di lui Tricarico, Senisi, Tolve, Crachi, la Salandra
e Calciano; la qual profusione si vide ancora praticata con gli
Stendardi, Mormili ed altri, di cui Costanzo[263] fece lungo catalogo.

Per questa cagione avvenne, che quando prima pochi Conti erano, che
possedevano Contadi e molti Baroni, allora si videro assai più Conti e
moltissimi Baroni, non pur cittadini delle altre città principali del
Regno, ma anche molte famiglie di Napoli, ancor che fuori de' Seggi,
si videro aver Feudi e castelli; e quando prima della rovina di tanti
gran Baroni sterminati da Ladislao, non erano più, che diciassette
famiglie in tutti i Seggi, che avessero terre e castelli e quelle
poche e piccole; nella morte sua si trovarono aggiunte più di ventidue
altre famiglie, particolarmente di quelle di Porta Nova e di Porto; i
gentiluomini de' quali Seggi furono da lui mirabilmente e quasi per
istituto naturale favoriti; e ciò oltra di quelle che non erano ne'
Seggi, le quali o per dono o per vendita si videro con Feudi e Baronie.

Di tre mogli ch'egli ebbe, Costanza di Chiaramonte da lui repudiata,
Maria sorella del Re di Cipro e la Principessa di Taranto, con niuna
generò figliuoli; perciò gli succedette nel Regno _Giovanna_ sua
sorella. Oltre a queste mogli, essendo un Principe libidinosissimo,
ebbe ancora molte concubine, cioè la figliuola del Duca di Sessa,
un'altra chiamata la Contessella, di cui il Costanzo non potè trovar
nome, nè cognome; e queste le teneva nel Castel Nuovo, da dove non
si partirono, nè tampoco quando si casò colla Principessa di Taranto,
di ch'ella tanto mostrossi ingiuriata, non avendo fatto almeno tanto
conto di lei, che avesse fatte appartare quelle e mandarle al Castel
dell'Uovo, dove stava Maria Guindazzo altra sua concubina. Ne ebbe
ancora altre di Napoli e di Gaeta, tenendo persone deputate a questo
fine, che glie le provvedessero delle più vivaci e più belle a
somiglianza de' Soldani d'Egitto e degl'Imperadori Ottomani d'oggi.
Sua sorella _Giovanna_ non volle in ciò essere riputata meno di suo
fratello; onde da poi che rimase vedova del Duca d'Austria, si provvide
anch'ella di concubini, tanto che possiam dire, che Carlo III di
Durazzo e la Regina Margarita sua moglie avessero dati al mondo due
portentosi mostri di libidine e di laidezza. Di tante concubine sol
da una donna di Gaeta generò un figliuolo bastardo chiamato Rinaldo,
che l'avea intitolato Principe di Capua, se ben senza dominio, il
quale lo casò con una figliuola del Duca di Sessa. Costui nelle
tante rivoluzioni, che avvennero nel Regno di Giovanna sua zia, non
parendogli di stare più in Napoli si ritirò in Foggia, dove ben veduto
dalla Regina menò i giorni suoi, e quivi morì e fu sepolto nella chiesa
maggiore di quella città, nella stessa cappella, dove era stato in
deposito il corpo del Re Carlo I ceppo della Casa d'Angiò. Rimasero di
lui un maschio chiamato Francesco e molte femmine. Francesco ebbe un
sol figliuolo, nominato anch'egli dal nome dell'avolo Rinaldo; il quale
casato con Camilla Tomacella, poco da poi se ne morì e fu sepolto nella
medesima cappella, dove il padre, che poco appresso lo seguì, gli fece
ergere un sepolcro con epitaffio, trascritto dal Summonte[264], che
ancor ivi si vede.


  FINE DEL LIBRO VENTESIMOQUARTO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOQUINTO


La morte del Re Ladislao pianta amarissimamente da tutti i Nobili
napoletani e del Regno, che seguivano l'arte militare, dissipò in un
tratto tutta quella buona disciplina e que' buoni ordini di milizia,
che subito si rivolsero in una confusione grandissima; poichè, mancando
le paghe, quasi tutti i soldati, lasciando i Capitani proprj, si
ridussero sotto Fabrizio e Giulio Cesare di Capua e sotto i Caldori e
sotto il Conte di Troja, li quali se gli condussero nelle Terre loro,
e quivi sostentandogli aspettavano d'esser soldati da altre potenze,
come alcuni d'essi fecero da poi. Ed in questo modo si dissipò in breve
tutto quel grand'esercito, che militava sotto l'insegne di questo
valoroso Re. E di tante Terre prese nella Campagna di Roma, solo si
tenne Ostia e Castel di S. Angelo in Roma, in nome di Giovanna vedova
del Duca di Austria, che il dì medesimo della morte di Ladislao suo
fratello era stata da' Napoletani gridata Regina, senza che per allora
si richiedesse investitura alcuna al Pontefice. Sforza avendo intesa
la morte del Re venne in Napoli a trovarla e fermò la sua condotta con
lei.

La città di Napoli, benchè si trovasse meno gran numero di Nobili
della parte Angioina, li quali erano in Francia, e que' ch'erano in
Napoli rimasi in gran povertà, nullamanco mentre vi regnò Ladislao
stette pur molto in fiore, non solo per l'arte militare che era in
uso con onore di tanti personaggi, ed utilità di tanti Nobili, che
onoratamente viveano con gli stipendj; ma molto più gli Stati che in
dono o in vendita avea Ladislao compartiti per le famiglie di tutti
i Seggi e fuori di quelli ancora. Ma si scoverse subito nel principio
del Regno della Regina Giovanna II tal mutazione di governo, che molti
savj pronosticarono che in breve la parte di Durazzo non starebbe
niente meglio dell'Angioina, con universale distruzione del Regno;
poichè Giovanna, essendo Duchessa, s'era innamorata d'un suo Coppiere
o come altri vogliono Scalco, chiamato Pandolfello Alopo, al quale
secretamente avea dato il dominio della persona; quando poi si vide
Regina, rotto il freno del timore e della vergogna, gli diede ancora
il dominio del Regno, perchè avendolo creato G. Camerario, l'ufficio
del quale come altrove fu detto, è d'aver cura del patrimonio e
dell'entrate del Regno, e lasciando amministrare ogni cosa a suo modo,
gli era quasi soggetto tutto il Regno. Ma praticando Sforza in Castello
per trattar la sua condotta con la Regina, scherzando ella con lui
molto liberamente, riprendendolo che non pigliava moglie: Pandolfello
entrò in gelosia, perchè Sforza se ben'era di quarant'anni, era di
statura bella e robusta, con grazia militare, atta a ponere su i salti
la natural lascivia della Regina: e senza dar tempo che potesse passar
più innanzi la pratica, disse alla Regina, che Sforza era affezionato
a Re Luigi, e ch'avea mandato a chiamare le sue genti nel Regno, con
intenzione di pigliar Napoli e se poteva il castello ancora e lei; e
che quest'era cosa, che l'avea saputa per vie certissime e bisognava
prestar provisione. La Regina non seppe far altro, che dire a lui,
che provedesse e gli ordinò; che la prima volta, che Sforza veniva
nel castello, se gli dicesse che la Regina era nella Torre Beverella;
onde Sforza entrato là trovò tanti che lo disarmarono e lo strinsero a
scendere al fondo dove stava Paolo ed Orso.

Quando questa cosa si seppe per Napoli, diede gran dispiacere alla
parte di Durazzo, e massime a coloro ch'erano stati del Consiglio del
Re Ladislao, i quali andarono tosto a dire alla Regina, che molto si
maravigliavano, che col solo parere del Conte Pandolfello avesse fatto
imprigionare Sforza tanto famoso e potente Capitano, dov'era necessario
averne consiglio da tutti i savj di Napoli e di tutto il Regno, non
solo degli altri della Corte, perchè ciò importava l'interesse non
solo della sua Corona, ma di tutto il Regno, che anderia a sangue ed
a fuoco, se le genti di Paolo si unissero con quelle di Sforza, per
venire a liberare i loro Capitani. La Regina rispose che avea ordinato
al Conte, che l'avesse conferito col Consiglio e che colui non avea
avuto tempo da farlo per lo pericolo, ch'era nella tardanza; ma che
avrebbe ordinato, che si vedesse di giustizia se Sforza era colpevole,
e trovandosi innocente il farebbe liberare. Quelli fecero di nuovo
istanza che si commettesse la cognizione della causa a Stefano di Gaeta
Dottor di legge, e così fu ordinato.



CAPITOLO I.

_Nozze della Regina GIOVANNA II col Conte GIACOMO della Marcia de'
Reali di Francia._


Questo risentimento pose in gran pensiero la Regina e più il Conte
Pandolfello, e tanto più, quanto che tutti quelli del Consiglio
uniti sollecitavano la Regina, ch'essendo rimasa sola della stirpe
di Re Carlo e di tanti Re, che aveano regnato centocinquanta anni,
dovesse pigliar marito per aver figliuoli ed assicurar il Regno
di quiete; e che il Regno stando in quel modo non potria tardare a
vedersi in qualche movimento. A questo s'aggiunse, che le Feste di
Natale arrivarono in Napoli Ambasciadori d'Inghilterra, di Spagna, di
Cipri e di Francia a trattar il matrimonio, che indussero la Regina
a risolversi. E perchè parea più opportuno il matrimonio dell'Infante
D. Giovanni d'Aragona, figliuolo del Re Ferrante, di tutti gli altri
matrimonj, perchè Ferrante possedea l'isola di Sicilia, donde poteva
più presto mandare soccorso per debellare gli emuli della Regina: il
Consiglio persuase, che si mandasse in Catalogna Messer Goffredo di
Mont'Aquila Dottore di legge e Frate Antonio di Taffia Ministro de'
Conventuali di S. Francesco a trattar il matrimonio, i quali furon
tantosto in Valenza e lo conchiusero con gran piacere di quel Re. Ma
quando gli Ambasciadori tornarono in Napoli, e dissero che l'Infante D.
Giovanni, che avea da essere lo sposo non avea più che diciotto anni,
e la Regina n'avea quarantasette, si mandò a disciogliere tutto quel,
che s'era convenuto e si elesse il matrimonio del Conte Giacomo della
Marcia de' Reali di Francia, ma molto rimoto alla Corona; giudicando
che potrebbe trattar con lui con più superiorità, che con gli altri,
che verrebbero con più fasto e superbia, e patteggiò col di lui
Ambasciadore, che s'avesse ad astenere dal titolo di Re, e chiamarsi
Conte e Governador Generale del Regno, che del rimanente sarebbe
tenuto da lei carissimo. Partì di Napoli l'Ambasciadore sollecitato
da molti, che pregasse il Conte d'affrettarsi al venire, e con questo
restarono gli animi di tutti quieti. Ma Pandolfello pensando, che fosse
poco, che il marito della Regina si chiamasse Conte per la sicurtà
sua, e conoscendo la moltitudine degl'invidiosi, che desideravano
la rovina sua, pensò di fortificarsi di amicizie e di parentadi, e
voltando il pensiero ad obbligarsi Sforza, scese a visitarlo nelle
carceri, sforzandosi di dargli a credere, che la Regina l'avea fatto
restringere ad instigazione d'altri, e ch'egli tuttavia travagliava
per farlo liberare. Sforza ch'era di natura aperta e molto semplice,
tenendolo per vero, il ringraziò, e gli promise ogni ufficio possibile
di gratitudine, ed egli replicò, che stesse di buon animo, che vi
avrebbe interposta Catarinella Alopa sua sorella favoritissima della
Regina. Di là a pochi dì avendo conferito questo suo pensiero con la
Regina, l'indusse a contentarsi di quanto egli faceva, e ritornato in
carcere disse a Sforza, che avea proccurato non solo la libertà, ma la
grandezza sua; ma che la Regina volea per patto espresso, che pigliasse
per moglie Catarinella, che avea tanto travagliato per liberarlo, e
che in conto di dote gli darebbe l'ufficio di G. Contestabile, con
ottomila ducati il mese per soldo delle sue genti. Uscì Sforza da
prigione, e fur celebrate le nozze con gran pompa; ma di ciò nacque un
grandissimo sdegno ed odio contro la Regina, ed il Conte Pandolfello,
in tutti quegli del Consiglio, parendo cosa indegnissima, che un
semplice Scudiero (che così lo chiamavano) disponesse senza vergogna
dell'animo e del corpo della Regina; ma molto più fremevano i servidori
del Re Carlo III e del Re Ladislao che vedevano vituperare la memoria
di due Re tanto gloriosi, e tra gli altri mostrava maggior doglia
Giulio Cesare di Capua, il quale avendo condotto appresso di se gran
parte de' soldati del Re Ladislao, aspirava a cose grandi, essendo
Sforza carcerato; ma quando lo vide libero ed unito con Pandolfello,
già pareva a tutti, che fosse ordinato un _Duumvirato_ di Sforza e del
Conte, che avrebbe bastato a poner in un sacco il Conte della Marcia,
e partirsi il Regno; onde quando venne l'avviso, che il nuovo marito
di Giovanna era in Venezia, e che fra pochi dì sarebbe a Manfredonia,
Giulio Cesare si partì con alquanti altri Baroni senz'ordine, ed
incontrato il Conte al piano di Troja, fu il primo, che scese da
cavallo e lo salutò Re, e così fecero gli altri. Narrò poi in che
miseria era il Regno, e quanta speranza avea d'esserne liberato dalla
Maestà Sua, perchè la Regina impazzita d'amore, s'era vilmente data in
preda d'un ragazzo, il quale avendo apparentato con un altro villano
condottiere di gente d'armi, disponeva e tiranneggiava il Regno con
gran vituperio della Corona e del sangue reale, e che però bisognava
ch'egli con spirito di Re e non di Conte pigliasse la Signoria, e che
non aspettasse che que' due manigoldi l'appiccassero, come in tempo di
un'altra Regina Giovanna fu appiccato Re Andrea; perchè certamente la
Regina, quando si vedesse impedita dal commercio amoroso di colui che
amava tanto, non è dubbio che avrebbe posto insidie alla vita sua. Re
Giacomo restò punto da doglia e da scorno, parendogli aver pigliata
la speranza della Signoria dubbia, e il pericolo e la vergogna certa,
perchè con lui non avea condotto esercito; pur lo ringraziò assai,
e gli promise che in ogni cosa si sarebbe servito del consiglio e
del valor suo. Il giorno seguente, quando il Re fu sei miglia presso
Benevento, arrivò Sforza mandato della Regina ad incontrarlo con molta
comitiva, il quale senza scender da cavallo lo salutò non da Re ma da
Conte: il Re con mal viso non gli rispose altro, se non come stava
la Regina; onde gli altri della sua compagnia, vedendo il Capo loro
mal visto, ed intendendo che il Conte era stato gridato Re, andarono
con tutti gli altri Baroni e cavalieri a baciargli le mani come Re.
Ma venendo poi Sforza, Giulio Cesare che sapeva farne piacere al Re,
quando l'incontrò alla scala gli disse, ch'essendo nato in un castello
di Romagna, non dovea togliere a quel Signore il titolo di Re, che gli
avean dato i Baroni nativi del Regno e rispondendo Sforza, che se era
nato in Romagna, volea con l'arme in mano far buono ch'era così onorato
come ogni Signore del Regno: e posto l'uno e l'altro mano alla spada
con grandissimo tumulto, mentre gli altri Cavalieri che erano presenti
si posero a spartire, uscì dalla camera del Re il Conte di Troia, che
come gran Siniscalco avea potestà di punire gl'insulti che si fanno
nella casa reale, e fece ponere in una camera Sforza, ed in un'altra
Giulio Cesare tutti due sotto chiave ma con diversa sorte: perchè
Giulio Cesare uscì la medesima sera, e Sforza senza rispetto fu calato
in una fossa.

La Regina, che la notte medesima ebbe avviso di questo, la mattina
mandò a chiamare gli Eletti di Napoli, e loro disse, che il dì
seguente il marito era per far l'entrata nella città, che pensassero
di riceverlo come Re. Fu ricevuto il Conte da' Napoletani, e salutato
Re; il qual giunto che fu alla sala del Castello trovò la Regina, la
qual dissimulando il dolore interno con quanta maggior dimostrazione
di allegrezza potè, l'accolse; e trovandosi con lei l'Arcivescovo di
Napoli con le vesti sacre, fu con le solite cerimonie celebrato lo
sponsalizio; e l'una e l'altro andarono al talamo, ove erano due sedie
reali; ivi come fu giunta la Regina, tenendolo per la mano si voltò
verso le donne, e' Cavalieri e l'altra turba, e disse: _Voi vedete
questo Signore, a cui ho dato il dominio della persona mia, ed or dono
del Regno: chi ama me, ed è affezionato di casa mia, voglia chiamarlo,
tenerlo e servirlo da Re_. A queste parole seguì una voce di tutti che
gridarono: _Viva il Re Giacomo e la Regina Giovanna Signori nostri_. Da
poi che fu consumato quel dì in balli e musiche, seguì la cena ed il Re
giacque con la Regina.

Il dì seguente, che tornarono le donne ed i Cavalieri, credendo di
continuar la festa reale, come si conveniva per molti giorni, conobbero
nella faccia della Regina e del Re altri pensieri, che di festeggiare;
perchè sopravvenne da Benevento Sforza incatenato, e con grand'esempio
della varietà della fortuna, fu messo nel carcere, onde pochi dì avanti
era con tanta grandezza uscito.

Il Re nel dì appresso fece pigliare il Conte Pandolfello, e condurre
prigione al castel dell'Uovo, dove fu atrocissimamente tormentato,
confessando tutto quello, che il Re volle sapere, e condennato a morte,
e nel primo dì d'ottobre fu menato al mercato, ove gli fu mozzo il
capo, e da poi il corpo fu strascinato vilissimamente per la città, ed
al fine appiccato per li piedi con intenso dolore della Regina e con
gran piacere di coloro, ch'erano stati servidori del Re Ladislao.

Avendo adunque il Re Giacomo trovato vero quanto avea detto Giulio
Cesare di Capua della disonesta vita della Regina, deliberò di togliere
a lei la comodità di trovare nuovo adultero, onde cacciò dalla Corte
tutti i Cortigiani della Regina, ed in luogo di quelli pose altrettanti
de' suoi Franzesi, e cominciò a tenerla tanto ristretta, che non poteva
persona del Mondo parlare, senza l'intervento d'un Franzese vecchio,
eletto per uomo di compagnia, il qual con tanta importunità esercitava
il suo ufficio, che la Regina senza sua licenza non potea ritirarsi per
le necessità naturali.

Il Re Giacomo, se dopo questa depression della Regina avesse saputo
rendersi benevoli i Baroni, ogni cosa sarebbe sempre seguita per
lui con ottimi successi: perchè tutti i Baroni abbominavano tanto la
memoria del tempo di Pandolfello, e gli inonesti costumi della Regina
atta a sottomettersi ad ogni persona vile, che avevano a piacere di
vederla in sì basso stato; e volevano più tosto ubbidire al Re, che
stare in pericolo d'esser tiranneggiati da qualch'altro nuovo adultero.
Ma il Re, benchè si mostrasse piacevole a loro, dall'altra parte
mettendo gli ufficj in mano dei Franzesi, gli alienò molto da se; tal
che pareva, che fossero saltati dall'un male in un altro, ma tra tutti
era il più mal contento Giulio Cesare di Capua; il qual essendo di
natura ambizioso, ed avendo desiderato sempre uno de' sette Ufficj del
Regno, essendo per questo stato autore, che il Conte avesse assunto il
titolo di Re, non poteva soffrire, ch'essende vacato l'Ufficio del G.
Contestabile, quel del G. Camerario e di G. Siniscalco, gli avesse dati
a' Franzesi[265], non tenendo conto di lui, che credea meritarlo molto
più degli altri. Dall'altra parte i Napoletani tanto Nobili, quanto del
Popolo, sentivano gran danno e incomodità da questa strettezza della
Regina, perchè non solo gran numero di essi, che vivevano alla Corte
dì lei, si trovavano cassi e senz'appoggio; ma tutti gli altri aveano
perduta la speranza di avere da vivere per questa via; oltre di ciò,
era nella città una mestizia universale, essendo mancate quelle feste,
che si facevano, ed il piacere che avevano in corteggiar la Regina,
tanto i giovani, che con l'armeggiare cercavano di acquistar la grazia
di lei, quanto le donne, che solevano partecipare de' piaceri della
Corte; e per questo essendo passati più di tre mesi, che la Regina non
s'era veduta, si mosse un gran numero di Cavalieri e cittadini onorati,
ed andarono in castello con dire, che volevano visitare la Regina loro
Signora; e benchè da quel Franzese uomo di compagna fosse detto, che
la Regina stava ritirata a sollazzo col Re, e che non voleva che le
fossero fatte imbasciate: tutti dissero, che non si partirebbero senza
vederla. Il Re che vide questa pertinacia, uscì dalla camera, e con
allegro e benigno volto, disse, che la Regina non stava bene, e che se
venivano per qualche grazia, egli l'avria fatta così volentieri, come
la Regina Allora gridarono tutti ad alta voce: noi non vogliamo da
Vostra Maestà altra grazia, se non che trattiate bene la Regina nostra,
e come si conviene a nata di tanti Re nostri benefattori, perchè così
avremo cagione di tener cara la Maestà Vostra. Queste parole fecero
restare il Re alquanto sbigottito, che parvero dette con grand'enfasi,
e rispose, che per amor loro era per farlo.

Giulio Cesare di Capua informato di questo successo, mosso da sdegno
e dallo stimolo d'ambizione, deliberò vindicarsi della ingratitudine
del Re, e di tentare (liberando la Regina) occupare il luogo di
Pandolfello, e dalla Terra di Morrone, ove dimorava, venne in Napoli;
e da poi ch'ebbe visitato il Re con gran simulazione di amorevole
servitù, disse che voleva visitar la Regina. I Cortigiani sapendo la
confidenza che teneva col Re, l'introdussero nella camera di lei, e
gli diedero comodità di parlare quel che gli piaceva. Allora con somma
sciocchezza, fidandosi d'una femmina ch'egli avea così atrocemente
offesa, gli disse che gli bastava l'animo di torre la vita al Re, e
così liberarla dalla servitù e miseria presente. La Regina dubitò
che non fosse opra del Re per tentar l'animo suo, poi si risolse
per raddolcire il Re, e vendicarsi di Giulio di scoprirgli tutto, e
risposegli che n'era contentissima. La Regina confidò il trattato al
Re, e perchè lo sentisse colle proprie orecchie, concertò col medesimo
che quando Giulio tornava, si fosse posto dietro la cortina. Tornò
egli, ed il Re intese il modo che avea pensato per assassinarlo;
ma quando uscì del cortile, volendo porre il piede alla staffa, fu
pigliato, e con lui il suo Segretario e condotti nel Castel Capoano e
convinti, furono di là a due dì nel mercato decapitati. Tutte queste
cose fur fatte in cinque mesi dal dì che Re Giacomo era giunto in
Napoli.

Il Re avendo con l'esperienza di Giulio Cesare conosciuto che cervelli
si trovavano allora nel Regno, cominciò a guardarsi, e ad allargarsi
da que' Baroni e Cavalieri che solevano trattare familiarmente seco; e
dall'altra parte ogni dì andava allargando la strettezza, in che avea
tenuto la Regina, e le mostrava d'esserle obbligato per la fede che
avea trovata in lei; ma con tutto ciò non voleva che fosse corteggiata,
e perseverava la guardia dell'importuno Franzese, con la quale
perseverò ancora la mal contentezza della città, perchè pochissimi
aveano adito al Re e niuno alla Regina; ed in questo modo si visse dal
principio dell'anno 1415 sin al settembre seguente.

In questo mese avvenne che il Re avendo data licenza alla Regina
d'andare a desinare ad un giardino d'un mercatante fiorentino; quando
per la città s'intese che la Regina era uscita, vi accorse un gran
numero di Nobili insieme e di Popolani che andarono a vederla, e la
videro di maniera che a molti mosse misericordia; ed ella ad arte quasi
con le lagrime agli occhi, e sospirando benignamente riguardava tutti
e pareva che in un compassionevole silenzio dimandasse a tutti ajuto.
Erano allora tra gli altri corsi a vederla Ottino Caracciolo, unito
con Annecchino Mormile Gentiluomo di Porta Nova che avea grandissima
sequela dal Popolo. Questi accordati tra loro di pigliar l'impresa di
liberar la Regina, andarono a concitar la Nobiltà e la Plebe, e con
grandissima moltitudine di gente armata ritornarono a quel punto che la
Regina volea ponersi in Carretta, e fattosi far luogo da' Cortigiani,
dissero al Carrettiere che pigliasse la via dell'Arcivescovado.
La Regina ad alta voce gridava: _Fedeli miei per amor di Dio non
m'abbandonate ch'io pongo in poter vostro la vita mia ed il Regno_: e
tutta la moltitudine gridava ad alta voce: _Viva la Regina Giovanna_. I
Cortigiani sbigottiti fuggirono tutti al Castel Nuovo a dire al Re il
tumulto, e che la Regina non tornava al castello. Il Re dubitando di
non essere assediato al Castel Nuovo, se ne andò al Castel dell'Uovo.
Fu grandissima la moltitudine delle donne che subito andarono a visitar
la Regina, ed i più vecchi Nobili di tutti i Seggi si strinsero
insieme, e parendogli che non conveniva che la Regina stesse in
quel palazzo, la portarono al castello di Capuana, e fecero che 'l
Castellano lo consignasse alla Regina. La gioventù tutta amava questa
briga, e gridava che si andasse ad assediare il Re; ma i più prudenti
di tutti i Seggi giudicavano che questa infermità della città era da
curarsi in modo che non si saltasse da un male ad un altro peggiore;
perchè prevedevano che la Regina vedendosi libera d'ogni freno, darebbe
se, ed il Regno in mano di qualche altro adultero più insopportabile.
Perciò cominciarono a pensare del modo da tenersi, per reprimere
l'insolenza del Re, e tenere alquanto in fren la Regina; onde fecero
Deputati d'ogni Seggio, che andarono a trattare col Re l'accordo. Il Re
non sperando da' suoi alcun presto soccorso, fu stretto di pigliarlo
in qualunque maniera che gli fosse proposto, e fur conchiuse queste
Capitulazioni: _Che sotto la fede de' Napoletani venisse egli a starsi
con la moglie: che concedesse alla Regina, come a legittima Signora
del Regno che si potesse ordinare e stabilire una corte conveniente,
e fosse suo il Regno, come era già stato capitolato dal principio che
si fece il matrimonio: ch'egli stesse col titolo di Re ed avesse 40
mila ducati l'anno da mantener sua Corte, la quale per lo più fosse di
Gentiluomini napoletani._ E così fu fatto.



CAPITOLO II.

_Prigionia del Re GIACOMO; sua liberazione per la mediazione di MARTINO
V, eletto Papa dal Concilio di Costanza; sua fuga e ritirata in Francia
dove si fece Monaco; ed incoronazione della Regina GIOVANNA._


La Regina Giovanna volendo ordinar sua Corte, pose l'occhio e 'l
pensiero sopra Sergianni Caracciolo, e lo fece Gran Siniscalco: era
Sergianni di più di quarant'anni, ma era bellissimo e gagliardo di
persona e Cavaliere di gran prudenza. Fece Capo del Consiglio di
Giustizia Marino Boffa, Dottore e Gentiluomo di Pozzuoli, al quale
diede per moglie Giovannella Stendarda erede di molte Terre: diede
l'Ufficio di Gran Camerario al Conte di Fondi di casa Gaetana; e
si riempiè la Corte di belli e valorosi giovani, tra' quali i primi
furono, Urbano Origlia ed Artuso Pappacoda, e fece cavare dal carcere
Sforza, e lo restituì nell'Ufficio di Gran Contestabile; ed essendo
innamorata di Sergianni, ogni dì pensava come potesse togliersi
d'avanti il Re, per goderselo a suo modo. Ma Sergianni prudentemente
le disse che usando ella violenza al Re così tosto, tutta Napoli
saria commossa ad ajutarlo; poichè l'accordo era fatto sotto fede de'
Napoletani, e che bisognava prima con beneficj e grazie acquistarsi
la volontà de' primi di tutti i Seggi, perchè si dimenticassero con
l'utile proprio di rilevare il Re; e così s'operava che ogni dì la
Regina distribuiva gli Ufficj, in modo che ne partecipassero non
solo i Seggi, ma i primi del Popolo. Con questo la città stava tutta
contenta. Soli Ottino Caracciolo ed Annecchino Mormile stavano pieni
di dispetto e di sdegno, e si andavano lamentando della ingratitudine
della Regina ch'essendo stata liberata da loro di così dura servitù,
non avesse fatto niun conto di loro; del che essendo avvisato
Sergianni, proccurò che la Regina donasse ad Ottino il Contado di
Nicastro che fu cagione di far venire Annecchino in maggior furore.
E perchè Sergianni stava geloso di Sforza di ch'era maggior di lui di
dignità e di potenza, e stando in Corte, poteva superarlo ne' Consigli
e cacciarlo dalla grazia della Regina, la di cui lascivia gli era ben
nota, cercò di allontanarlo dalla Corte con una occasione che Braccio
da Montone Capitano di ventura famosissimo che avea occupata Roma,
teneva assediato, per quel che s'intese, il castel S. Angelo, il qual
si tenea con le bandiere della Regina; onde propose in Consiglio che si
mandasse Sforza a soccorrerlo, forse con speranza che Braccio l'avesse
da rompere e ruinare, e così ordinò la Regina che si facesse.

Toltosi davanti Sforza, determinò mandarne anche via Urbano Origlia
che per la bellezza e valor suo, armeggiando, ogni dì saliva più in
grazia della Regina, e sotto spezie d'onore lo relegò in Germania,
mandandolo Ambasciadore della Regina al Concilio in Costanza, dove si
trattava di toglier lo Scisma che era durato tant'anni, e dove avanti
all'Imperador Sigismondo erano ragunati Ambasciadori di tutti gli altri
Principi cristiani, a promettere di dare ubbidienza al Pontefice che
sarebbe stato eletto in quel Concilio. Restato dunque Sergianni padrone
della casa della Regina, cominciò a pensare di restar solo padrone
ancora della persona, e fece opera che la Regina una sera cenando col
Re, disse che volea che cacciasse dal Regno tutti i Franzesi; e 'l Re
rispose che bisognava pagargli quel che l'aveano servito, seguendolo da
Francia; e replicando la Regina in modo superbo ed imperioso che voleva
a dispetto di lui che fossero cacciati, il Re non potendo soffrir tanta
insolenza, s'alzò di tavola e se n'andò alla camera sua, e la Regina
gli pose una guardia d'uomini deputati a questo. Il dì seguente fece
fare bando che tutti i Franzesi nello spazio d'otto dì uscissero del
Regno. Costoro vedendo il Re loro prigione, se ne andarono subito.

A questo modo restò il Regno e la Regina in mano di Sergianni, il quale
volendosi servire del tempo, fece che la Regina restituisse lo Stato
e l'Ufficio di Gran Giustiziere al Conte di Nola, purchè pigliasse per
moglie una sua sorella, ed un'altra ne diede al fratello del Conte di
Sarno; cosa che parve grandissima che due donne, le quali erano pochi
dì avanti state in tratto di darsi a Gentiluomini di non molta qualità,
fossero senza dote collocate sì altamente.

Questa così presta Monarchia di Sergianni concitò grande invidia a
lui, e grande infamia alla Regina, spezialmente appresso quelli che
erano della parte di Durazzo, e beneficati dal Re Carlo III e dal Re
Ladislao, i quali vedevano vituperata la memoria di due gloriosissimi
Re, ed il nome del più antico lignaggio che fosse al mondo, con sì
nefanda scelleraggine; ed andavano mormorando, e commovendo i Seggi e
la plebe dicendo, che non si dovea soffrire che un Re innocente fosse
sotto la fede d'una sì nobile ed onorata città tenuto carcerato, in
quella medesima casa, dove l'adultero si giaceva colla moglie, e che
potrebbe essere che si movesse tutta la Francia a vendicar questa
ingiuria fatta al sangue reale, e fra tutti il più veemente era
Annecchino Mormile.

Ma Sergianni che fu il più savio e prudente di quelli tempi, fece
distribuire tutte quelle pensioni che si davano a' Franzesi, a'
Gentiluomini ed a' Cittadini principali delle Piazze; e per tenersi
benevola la plebe ch'era la più facile a tumultuare, fece venire con
danari della Regina gran quantità di vettovaglie e venderle a basso
prezzo, e con questa arte fece vani tutti gli sforzi degli emuli suoi.

Solo gli restava il sospetto di Sforza, il quale avendo soccorso il
Castel di S. Angelo, se n'era ritornato mal soddisfatto di lui, con
dire, che Sergianni a studio non avea mandati a' tempi debiti le paghe
a' soldati, per fare, che quelli ammutinati passassero dalla parte di
Braccio; e per questo s'era fermato colle genti al Mazzone; e senza
venire a visitare la Regina si partì di là, ed andò in Basilicata.
Questa cosa diede a Sergianni segno del mal animo di Sforza, e per
potersi fortificare, affinchè non tutte le genti d'armi, e forze del
Regno stessero in mano di Sforza, fece, che subito venisse a soldo
della Regina Francesco Orsino, il qual allora fioriva nella riputazion
dell'armi; e fece ancor liberar Giacomo Caldora, e gli fece dar denari,
acciocchè andasse in Apruzzo a rifar le compagnie; e fece anche sotto
pretesto d'intelligenza collo Sforza carcerare Annecchino, il quale
alla venuta di Sforza avrebbe potuto movere il popolo a riceverlo colle
genti dentro la città.

Mentre queste cose accadevano nel Regno, nella Germania i Cardinali, ed
i deputati nel Concilio dopo lungo dibattimento entrarono in Conclave,
ed elessero tutti ad una voce il giorno di S. Martino dell'anno 1417
Odone Colonna Cardinal Diacono del titolo di S. Giorgio, che prese il
nome di _Martino V_ a cagion del giorno di sua elezione, il quale fu
riconosciuto da tutta la cristianità, dandosi fine allo Scisma, che
per tanti anni avea travagliata la chiesa. I Franzesi subito fecero
istanza al nuovo Papa, ch'intercedesse colla Regina per la libertà del
Re Giacomo; e da Urbano Origlia subito ne fu scritto alla Regina. Ma
Sergianni non mancò per riparare a questo, di spedire subito Belforte
Spinello di Giovenazzo Vescovo di Cassano suo grande amico, e Lorenzo
Teologo Vescovo di Tricarico per ambasciadori al Papa a rallegrarsi
in nome della Regina dell'elezione e ad offerirgli tutte le forze del
Regno per la ricuperazione dello Stato e della dignità della chiesa,
promettendo donargli, giunto che fosse in Roma, il Castel di S. Angelo
ed Ostia.

Dall'altra parte Sforza tornò con le sue genti in Napoli, e postosi
con le sue squadre ordinate alla porta del Carmelo, per dove essendo
entrato fece gridare: _viva la Regina Giovanna, e mora il suo falso
Consiglio_. Francesco Orsino all'incontro co' suoi pigliò l'arme,
ed assaltò con tanto impeto il campo sforzesco, che lo strinse a
ritirarsi, e per la via delle Grotte se n'andò a Casal di Principe,
donde per messi e lettere mandava sollecitando tutti i Baroni suoi
amici vecchi a liberarsi dalla tirannide di Sergianni. In effetto ne
tirò molti al suo partito, ed a due d'ottobre venne con l'esercito
alla Fragola, e di là cominciò a dare il guasto alle ville de'
Napoletani; onde per Napoli si fè grandissimo tumulto, e crescendo
tuttavia l'incomodità intollerabile di quelle cose, che sogliono dì
per dì venir a vendersi nella città, ch'erano intercette dalli cavalli
di Sforza; per riparare a' mali peggiori, alcuni vecchi proposero,
che si creassero deputati, come furono creati a tempo della Regina
Margarita, ch'avessero cura del buono stato della città; ed a questo
i nobili ed i plebei ad una voce assentirono, e subito furono eletti
venti deputati, dieci dei nobili ed altrettanti del popolo, i quali
per pubblico istrumento giurarono perpetua unione tra 'l popolo ed i
nobili. Questi deputati elessero tra loro dieci, cinque de' nobili
e cinque del popolo, ch'andassero a sapere da Sforza la cagione di
questa alienazione dalla Regina e dalla città, ove avea tanti che
l'amavano, ed a pregarlo, che sospendesse l'offese, per alcuni dì, che
si tratterebbe di soddisfarlo in tutte le cose giuste: furono accolti
con grande onore da Sforza, il quale loro rispose con molta umanità,
ch'egli era buono servidore della Regina, e che si reputava amorevole
cittadino di Napoli, e ch'era venuto là per vendicarsi di Sergianni,
maravigliandosi, che tanti signori potenti, tanti valorosi cavalieri,
quanti erano a Napoli, potessero soffrire una servitù così brutta:
ch'egli veniva per liberargli, ed all'ultimo conchiuse, che porrebbe
in mano de' signori deputati le sue querele. Quelli replicarono che a
queste cose onorate, ch'egli diceva, avria trovata la città grata e
pronta a seguirlo; e fu destinato un dì, in cui s'aveano da trovare
tutti i Deputati con lui, per trattare quel che s'avea da fare; ed
intanto Sforza assicurò tutti i cittadini, che potessero venire alle
loro ville e vietò le scorrerie.

Tornati ben soddisfatti nella città i Deputati, andarono alla Regina a
pregarla, che concedendo quelle cose, che giustamente chiedea Sforza,
liberasse la città di tanto pericolo, ed a' prieghi aggiunsero alcune
proteste. La Regina sbigottita non seppe dir altro: _andate a vedere,
che vuole Sforza da me, e tornate_. Quelli senza dimora andarono
al tempo determinato a trovarlo, e pigliarono da lui i Capitoli e
patti ch'egli voleva, tra' quali i principali furono questi: _Che
si cacciasse dal Governo e dalla Corte Sergianni: che si liberasse
Annecchino ed alcuni altri prigioni: che se gli dessero le paghe, che
doveva avere fin'a quel dì, e ventiquattromila ducati per li danni
ch'ebbe per la rotta datagli da Francesco Orsino_. La Regina pigliò
i Capitoli e disse, che voleva trattare col Consiglio quel ch'era da
fare, e risponderebbe fra due dì. Allora Sergianni, vedendo, che non
poteva resistere alla città unita con Sforza, elesse prudentemente di
cedere al tempo, più tosto che di ponere in pericolo lo Stato della
Regina; ed innanzi alla medesima fece sottoscrivere la volontà di
quella, condennando se stesso in esilio a Procida, e promettendo tutti
gli altri patti, che Sforza voleva: esso fu il primo ad osservare
quanto a lui toccava, perchè sapeva che Sforza non potea molto stare
a Napoli, e che l'esilio non poteva molto durare; l'altre cose furono
subito dalla Regina osservate.

Intanto Papa Martino V, sollecitato più volte dal Re di Francia e
dal Duca di Borgogna, che trattasse la libertà del Re Giacomo, avea
mandato in Napoli Antonio Colonna suo nipote a pregarne la Regina, più
con modi d'inferiore, che di pari o maggiore; perocchè avea designato
valersi delle forze della Regina, per ricovrar di mano de' tiranni lo
Stato della chiesa. Sergianni oltre l'onore che le fece fare dalla
Regina, in particolare gli fè tali accoglienze e promesse, che se
l'obbligò in modo, che, come si dirà appresso, cavò di quell'obbligo
grandissimo frutto; ma quanto alla liberazione del Re fece, che la
Regina promettesse farlo liberare a tempo, che stesse in più sicuro
stato, e che'l Papa fosse vicino, e la potesse favorire in tanti spessi
tumulti.

Questo esilio così vicino di Sergianni, solo in apparenza, parve che
gli avesse diminuita l'autorità, poichè in effetto non si faceva
cosa nel Consiglio o nella Corte, che non si comunicasse con lui
per continui messi: ed in questo mentre Antonio Colonna andò tanto
mitigando l'animo di Sforza, che non stava più con quell'odio intenso
per abbassarlo. Il Papa intanto da Mantova era venuto a Fiorenza; onde
la Regina elesse Sergianni, che in suo nome andasse a dargli ubbidienza
e a rassegnargli quelle Fortezze, che Re Ladislao avea lasciato con
presidii nello Stato della Chiesa. Antonio Colonna andò insieme con
lui, ed avanti che fossero a Fiorenza, Sergianni gli rassegnò la
Fortezza d'Ostia, il Castel di S. Angelo e Cività Vecchia, e poi passò
a Fiorenza. Così di quanto Ladislao avea conquistato nello Stato di
Roma, ne fece Giovanna dono al Pontefice Martino; ma non per questo
lasciò ella d'intitolarsi _Regina di Roma_, come suo fratello; ond'è,
che ne' suoi diplomi e capitoli si legga anche fra i suoi titoli,
_Romae Regina_[266].

(Negli altri Codici e diplomi, si legge _Ramae_, non già _Romae_, ed
è più verisimile che la Regina _Giovanna_ e _Ladislao_, intitolandosi
Re d'Ungheria, si dicessero anche Re di _Rama_; poichè fra i titoli di
quei Re si legge che esprimevasi anche quello di Re di _Rama_, ch'è una
provincia della Dalmazia, così allora chiamata, posta tra la Croazia
e la Servia. Così presso _Aventino Annal. Boior. lib._ 6 si legge in
un diploma di Bela Re d'Ungaria: _Bela_, _Dei gratia_, _Hungariae_,
_Dalmatiae_, _Croatiae_, _Ramae_, _Serviae_, _Galliciae_, _Lodomeniae_,
_Clumaniaeque_, _Rex_; nè presso gli Autori di quel Regno mancano altri
diplomi di altri Re, nei quali pur si legge lo stesso).

Giunto Sergianni a Fiorenza, fu dal Papa ricevuto con molta umanità,
e nel trattare e discorrere della qualità del presente stato sì
della Chiesa romana, sì del Regno, si fece Sergianni conoscere per
uomo che dovea non meno per la prudenza, che per la bellezza aver
la grazia della Regina. Fece veder al Papa che di tutti i Principi
cristiani, niuno ajuto era più spedito, e pronto per li Pontefici
romani che quello del Regno di Napoli; ed all'incontro niuna forza
poter mantenere ferma la Corona in testa a' Re di Napoli più che i
favori e la buona volontà de' Pontefici; e con quest'arte ottenne dal
Papa, che mandasse un Cardinal Legato appostolico ad ungere e coronare
la Regina, ed a darle l'investitura del Regno[267], la quale ancorchè
Giovanna l'avesse ricercata a Baldassar Cossa che si faceva chiamare
_Giovanni XXIII_[268], l'era stata sempre differita; e di più che si
gridasse lega perpetua fra lei ed il Papa. Poi volendo particolarmente
per se acquistare il favor del Papa, e l'amicizia di casa Colonna,
promise al fratello, ed a' nepoti grandissimi Stati nel Regno, e si
partì molto soddisfatto dell'opera loro; e perchè a quel tempo Braccio
tenea occupato quasi tutto lo Stato della Chiesa di là dal Tevere,
promise al Papa mandargli tutto l'esercito della Regina con Sforza
Gran Contestabile, e pigliò per terra la via di Pisa, e di là poi
andò ad imbarcarsi alle galee della Regina, ch'erano venute per lui a
Livorno, e si fermò alquanti dì in Gaeta, fingendo d'esser ammalato, e
scrisse alla Regina quanto avea fatto, e che ordinasse che si dessero
danari a Sforza ed alle genti, acciò che potesse subito partire; perchè
dubitava che ritornando di riputazione molto maggiore di quel ch'era
partito, l'invidia non movesse Sforza a proccurare ch'egli andasse a
finir l'esilio di Procida. La Regina per lo gran desiderio, che avea
di vederlo, fece subito ritrovare tutti i denari che Sforza volle,
e l'avviò in Toscana in favor del Papa; e Sergianni venne a Napoli
ricevuto dalla Regina e da' suoi seguaci, con onore grandissimo che
parea, che con questa lega trattata col Papa, avesse stabilito per
sempre lo Stato della Regina e della parte di Durazzo; e da allora
cominciò a chiamarsi e sottoscriversi _Gran Siniscalco_: e questo fu
nel 1418.

L'anno seguente nel mese di gennajo entrò in Napoli il Legato
appostolico che veniva per coronare la Regina, e con lui Giordano
Colonna fratello ed Antonio Colonna nipote del Papa. Al Legato si uscì
incontro col Pallio, ed a' Colonnesi la Regina ed il Gran Siniscalco
fecero onori straordinarj. Questi per la prima cosa trattarono la
libertà del Re Giacomo, per la qual dicevano che il Papa era molestato
dal Re di Francia e dal Duca di Borgogna, ed all'ultimo l'ottennero; ed
acciocchè il Re ricuperasse la riputazione perduta, i Colonnesi, quasi
con tutta la cavalleria, l'accompagnarono per la città e poi la sera
non volle ritornare al Castel Nuovo, ma a quel di Capuana, dicendo che
bisognava, che quelli che si rallegravano della libertà sua, avessero
da travagliar di mantenerlo in quella, e non farlo andare là, dove era
in arbitrio farlo tornare in carcere, ogni volta che a lei piacesse: e
con questo acquistò pietà appresso a' più prudenti.

Perseverando dunque il Re a starsi nel castello di Capuana, pareva
a tutti colà inconveniente che 'l Re stesse senz'autorità alcuna, ed
in Castel Nuovo si facesse ogni cosa ad arbitrio del Gran Siniscalco;
e per questo per tutti i Seggi furono creati Deputati alcuni Nobili
principali ad intervenire col Legato appostolico e co' Signori
colonnesi, per trattare alcuno accordo stabile tra il Re e la Regina;
e non mancarono di coloro che proposero che 'l Re dovesse coronarsi
insieme colla Regina, e che se gli giurasse omaggio. Ciò che perturbò
molto l'animo del Gran Siniscalco, perchè questa sola era la via di
abbassar la sua autorità; e per questo deliberò di acquistar l'animo
de' Signori colonnesi, con speranza di fare impedire per mezzo loro
quella proposta; e fece che la Regina di man propria facesse albarani
di dare ad uno d'essi il Principato di Salerno ed all'altro il Ducato
d'Amalfi, con l'ufficio di Gran Camerario, subito che fosse coronata.
Trattanto diede per moglie Ruffa ad Antonio Colonna ch'era Marchesa
di Cotrone e Contessa di Catanzaro, la quale morì poi senza figli, e
lo Stato rimase ad Errichetta sua sorella. Questi insieme col Legato
fecero restar contenti i Deputati della città di questo accordo; che
s'avesse da mutar Castellano, e cacciar dal Castel Nuovo tutta la
guardia, e dare a Francesco di Riccardo di Ortona, uomo di molta virtù
e di molta fede, il governo del castello con guardia eletta da lui,
e che giurasse in mano del Legato appostolico di non comportar che la
Regina al Re, nè il Re alla Regina potesse fare violenza alcuna; e come
fu fatto questo, il Re andò a dormire con la Regina.

Ma di là a pochi dì, vedendo che avea solamente ricovrata la libertà,
ma dell'autorità non avea parte alcuna; ed ancora vedendo che la Regina
passava cinquanta anni ed era inabile a far figli, tal che non potea
sperare successione, determinò d'andarsene in Taranto, e di là in
Francia a casa sua; e così un dì dopo aver cavalcato per Napoli andò
al Molo, e disceso di cavallo e posto in una barca, da quella saltò in
una gran nave di Genovesi, ove erano prima andati alcuni suoi intimi,
e con prospero vento giunse in pochi dì a Taranto, dove ricevuto dalla
Regina Maria con onore, fece opera che il Re trovasse passaggio sicuro
per Francia, e 'l provide liberalmente di quanto bisognava, e così se
n'andò, dove dicono che al fine si facesse Monaco[269]. Liberata la
Regina di quella a lei cotanto molesta compagnia, diede poi ordine
per la sua incoronazione, la quale fu celebrata nel Castel Nuovo la
domenica a' 2 ottobre sopra un pomposissimo talamo, ricevendo la corona
per mano del Legato, e fu letta l'investitura mandata dal Papa, la
quale essendosi per deplorabili esempi veduto quanto funesto fosse
stato fra noi il Regno delle femmine, l'esclude dalla successione,
sempre che vi siano maschi insino al quarto grado, siccome si legge in
quella rapportata dal Chioccarello e dal Summonte[270], ed i Napoletani
giurarono omaggio alla Regina loro Signora.

(Il Breve di _Martino V_ spedito a Mantua l'anno 1418 col quale si
dà facoltà al Legato della Sede Appostolica di coronare la Regina
_Giovanna_, si legge presso _Lunig_[271]).



CAPITOLO III.

_Spedizione di LUIGI III d'Angiò sopra il Regno per gl'inviti fattigli
da Sforza. Ricorso della Regina GIOVANNA ad ALFONSO V, Re d'Aragona, e
sua adozione; e guerra indi seguita tra LUIGI ed ALFONSO._


La Regina Giovanna rimasa libera per la partita del Re suo marito ed
il Gran Siniscalco, a cui ora non mancava altro, che il titolo di Re,
abusandosi del suo potere, e convertendo la sua prospera fortuna in
disprezzo d'altri e della Regina istessa, furono cagione di maggiori
perturbazioni e rovine nel Regno: poichè solo Sforza rimanea che potea,
ed era solito di attraversarsi ed impedire la grandezza sua; ma per una
occasione che se gli presentò, entrò il Gran Siniscalco in speranza di
poterlo abbassare. Era stato Sforza, come si è detto, mandato dalla
Regina contro Braccio che teneva invaso lo Stato della Chiesa per
combatterlo; e venutosi ad un fatto d'arme, fu Sforza da Braccio rotto
nel paese di Viterbo, con tanta perdita de' suoi veterani che parea,
che non potesse mai più rifarsi, nè ragunar tante genti che potesse
tornare in Regno, e far di quelli effetti che avea fatti prima; onde
parea che con l'amor della plebe, con l'amicizia de' Colonnesi e con la
rovina di Sforza, fosse lo Stato del Gran Siniscalco tanto stabilito
che non avesse più che temere: divenne perciò oltremodo insolente,
e cominciò a vendicarsi di tutti i principali de' Seggi della città
ch'erano stati mediatori a proccurar l'accordo di Sforza con la Regina,
tra' quali erano molti di Capuana. Ristrinse molto la Corte, e levò a
molti pensionarj le lor pensioni, e riempiè la Corte di confidenti e
parenti suoi: talchè avea acceso nella Nobiltà di Napoli un desiderio
immenso del ritorno di Sforza; e benchè il Papa per Brevi spesso
sollecitasse la Regina che mandasse danari a Sforza, perchè potesse
rifar l'esercito, con diverse scuse si oppose, ed operò che in cambio
di danari se gli mandassero parole vane; sperando di sentire ad ora ad
ora la novella che Braccio l'avesse in tutto consumato, e per evitar lo
sdegno del Papa, ogni volta che veniva alcun Breve o imbasciata, faceva
che la Regina donasse qualche Terra di più al Principe di Salerno ed al
Duca d'Amalfi.

Sforza essendosi di ciò accorto, e vedendosi marcire, ed essendo
sollecitato per lettere da molti Baroni del Regno a venire in Napoli,
mandò un suo Segretario a _Luigi_ Duca d'Angiò figliuolo di Luigi II
sollecitandolo che venisse all'acquisto del Regno paterno, dimostrando
ancora l'agevolezza dell'impresa con la testimonianza delle lettere de'
Baroni; e ciò, per quel che si vide poi, fu con saputa anche del Papa.

Il Duca accettò lieto l'impresa, e per lo Segretario gli mandò 39 mila
ducati, e 'l privilegio di Vicerè e di Gran Contestabile, co' quali
danari Sforza essendo rafforzato alquanto, si avviò a gran giornate;
ed essendo entrato ne' confini del Regno, per la prima cosa mandò alla
Regina lo stendardo e 'l bastone del Generalato; e poi confortati
i suoi che volessero andare per viaggio con modestia grandissima,
portando spiegato lo stendardo del _Re Luigi III_, che così chiamavano
il Duca, e confortando i Popoli a star di buon animo, con grandissima
celerità giunse avanti le mura di Napoli, e si avanzò nel luogo ov'era
stato accampato l'altra volta, e cominciò ad impedire le vettovaglie
alla città, ed a sollecitarla che volesse alzar le bandiere di _Re
Luigi_ lor vero e legittimo Signore.

(_Luigi III_ perchè per l'impresa di Napoli non gli fossero
d'impedimento le controversie che avea con _Amadeo VIII_ Duca di
Savoja, trattò pace col medesimo, la quale fu stabilita e firmata a' 15
ottobre del 1418, il cui stromento si legge presso _Lunig_[272]).

Questo successo così impensato sbigottì grandemente la Regina, e
l'animo del Gran Siniscalco, parendogli altri tumulti che li passati;
poichè ci erano aggiunte forze esterne, ed introdotto il nome di Casa
d'Angiò che avea tanti anni ch'era stato sepolto. Era nella città una
confusione grandissima, perchè quelli della parte _Angioina_ che dal
tempo che il Re Ladislao cacciò Re Luigi II padre di questo, di cui ora
si tratta, erano stati poveri ed abjetti, cominciarono a pigliar animo,
e speranza di ricovrare i loro beni posseduti da coloro della parte di
_Durazzo_, e tenere segrete intelligenze con Sforza, e molti da dì in
dì uscivano dalla città e passavano al campo. Ma quel che teneva più
in sospetto il Gran Siniscalco era che la parte di Durazzo, la qual
trovavasi tra se divisa, non tenea le parti della Regina con quella
costanza che richiedea il bisogno, perchè gran parte di essi trattava
con Sforza di alzare le bandiere del Re Luigi, purchè Sforza gli
assicurasse che il Re donasse il cambio di quelli beni degli Angioini,
ch'essi possedevano, a' primi possessori, senza sforzar loro a
restituirgli; oltracciò la plebe non avvezza ed impaziente de' disagi,
andava mormorando e già si vedea inclinata a far tumulto. E quantunque
il Gran Siniscalco proccurasse far introdurre nella città vettovaglie
per via di mare, nulladimanco quando sopraggiunse da poi la nuova certa
da Genova che fra pochi dì sarebbe in ordine l'armata del Re Luigi, al
giunger della quale si sarebbe tolto ogni sussidio di vettovaglie che
s'avea per mare, si tenne per imminente la necessità di doversi rendere
la città.

Il Gran Siniscalco prevedendo l'imminente ruina, fece più volte
ragunare il Consiglio supremo della Regina, e dopo molte discussioni di
quel che si avea da fare, fu concluso che si mandasse un Ambasciadore
al Papa, con ordine che se non potea aver ajuto da lui, passasse al
Duca di Milano o a Venezia; ed a questa ambasceria fu eletto Antonio
Carafa soprannomato Malizia, Cavaliere per nobiltà e prudenza di molta
stima. Costui giunto a Fiorenza, espose al Papa il pericolo della
Regina e del Regno, e supplicò la Santità Sua che provedesse; e se non
poteva dar soccorso bastante con le forze della Chiesa, oprasse con
l'altre Potenze d'Italia che pigliassero l'armi in difesa del Regno,
Feudo della Chiesa; e poi con buoni modi gli dimostrò che facendolo
avrebbe insieme mantenuta la dignità dello Stato ecclesiastico, e la
grandezza della Casa sua; perchè la Regina per questo beneficio avria
quasi diviso il Regno a' fratelli e nipoti di S. Santità. Il Papa
rispose che si doleva che quelli mali Consiglieri che aveano o per
avarizia o per altro tardato lo stipendio a Sforza, aveano insieme
e tirata una guerra tanto importante sovra la Regina loro Signora, e
tolto a lui ogni forza e comodità di poterla soccorrere; perchè qual
soccorso potea dar egli a quel tempo che appena manteneva un'ombra
della dignità Pontificale con la liberalità de' Fiorentini? o che
speranza poteva avere d'impetrar soccorso dalle Potenze d'Italia alla
Regina, se non avea potuto ottenerlo per se, e contra un semplice
Capitano di ventura, com'era Braccio, che tenea occupata così
scelleratamente la Sede di S. Pietro e tutto lo Stato ecclesiastico?
Queste parole, benchè fossero vere, il Papa le disse con tanta
veemenza, che subito Malizia entrò in sospetto, che la venuta del Re
Luigi non era senza intelligenza del Papa; e però conobbe che bisognava
altrove rivolgere il pensiero.

Alfonso Re d'Aragona avea a quel tempo apparecchiata un'armata per
assalire la Corsica, isola dei Genovesi: il Papa gli avea mandato un
Monitorio che non dovesse moversi contra quella Repubblica, la quale
s'era raccomandata alla Sede Appostolica e contra quell'isola, la
quale era stata data da' Pontefici passati a censo a' Genovesi; e 'l Re
Alfonso avea mandato Garsia Cavaniglia Cavalier Valenziano Ambasciadore
al Papa per giustificar la cagion della Guerra; il quale non avendo
avuto niente più cortese risposta di quella che avea avuta Malizia,
si andava lamentando co' Cardinali del torto che si faceva al suo
Re; ed un di Malizia incontrandolo gli disse che alla gran fama che
teneva Re Alfonso, era impresa indegna l'isola di Corsica, massimamente
dispiacendo al Papa, e che impresa degna d'un Re tanto famoso saria
girare quell'armata in soccorso della Regina, sua padrona oppressa e
posta in tanta calamità, dalla quale impresa nascerebbe eterna ed util
gloria, aggiungendo a' Regni che avea, non Corsica ch'era uno scoglio
sterile e deserto, ma il Regno di Napoli, maggiore ed il più ricco
di quanti Regni sono nell'Universo; perchè la Regina ch'era vecchia
e senza figli, vedendosi obbligata da tanto e tal beneficio, non solo
lo istituirebbe erede dopo sua morte, ma gli darebbe in vita parte del
Regno, e tante Fortezze per sicurezza della successione. Tutte queste
promesse faceva Malizia, perchè ogni dì era avvisato da Napoli che la
necessità cresceva, e che la città non si potea tenere senza presto o
speranza di presto soccorso. Il Cavaniglia disse che tenea per certo
che il Re per la sua magnanimità, e per tante offerte avrebbe accettata
l'impresa e lo confortò ad andar a trovarlo in Sardegna dove era.
Non tardò punto di ciò Malizia ad avvisar la Regina, e mandò con una
Fregata Pascale Cioffo Segretario di lei che avea condotto seco che
se alla Regina piaceva ch'egli andasse a trattar questo, gli mandasse
proccura ampissima e conveniente a tanta importanza; ed egli tolto
commiato dal Papa andò ad aspettar la risoluzione a Piombino. Andò
con tanta celerità la Fregata, e trovò con tanto timore la Regina ed
i suoi che si spese poco tempo in consultare; onde Pascale in sette dì
ritornò a Piombino con tutta la potestà che potesse avere o desiderare;
e Malizia subito partito con vento prospero giunse in Sardegna e
impetrata udienza dal Re Alfonso, gli espose i desiderj della Regina;
e per maggiormente invogliarlo all'impresa, gli disse ch'egli avea
avuta da lei potestà grandissima di trasferire per via d'adozione la
ragione di succedere al Regno dopo i pochi dì ch'ella potrà vivere e
consegnare ancora in vita di lei buona parte del Regno. Il Re rispose
che gli dispiaceva degli affanni della Regina, e ch'egli teneva animo
di soccorrerla per proprio istituto: e non già con animo di acquistar
il Regno, avendone tanti che gli bastavano; ma che bisognava che
ne parlasse con suoi Consiglieri; ed il dì seguente fece adunar il
Consiglio. Que' del Consiglio tutti dissuasero al Re l'impresa; ma
Alfonso senza dar segno della volontà sua, mandò a chiamar Malizia,
e gli disse il parere de' suoi Baroni; ma che con tutto ciò voleva
soccorrere la Regina, e che avrebbe mandate per allora sedici galee
ben armate insieme con lui, e che avrebbe anche mandata una quantità
di moneta, perchè si fossero soldati uomini d'arme italiani, e poi
sarebbe venuto anch'egli di persona a veder la Regina. Malizia lodò
il pensiero di Sua Maestà, e promise che la Regina ancora avrebbe
aggiunto tanto del suo, che avessero potuto soldar Braccio ch'era in
quel tempo tenuto il maggior Capitano d'Italia e fierissimo nemico di
Sforza. Il dì seguente il Re fece chiamar il Consiglio e manifestò
la volontà sua ch'era di pigliar l'impresa; poi ordinò a Raimondo
Periglios ch'era de' primi Baroni della sua Corte, e tenuto per uomo di
molto valore che facesse poner in ordine le galee per partirsi insieme
coll'Ambasciadore della Regina. Malizia tutto allegro, per confortar
gli animi degli assediati, fece partir subito Pascale con l'avviso che
'l soccorso verrebbe fra pochi dì; ed egli per acquetar gli animi dei
Catalani che stavano malcontenti dell'impresa, per istrumento pubblico
in nome della Regina adottò Re Alfonso, e promise assignargli il Castel
Nuovo di Napoli, ed il Castel dell'Uovo, e la Provincia di Calabria col
titolo di Duca, solito darsi a coloro che hanno da succedere al Regno,
e fatto questo tolse licenza dal Re, e si pose su l'armata insieme con
Raimondo.

Mentre questi apparecchi si facevano per la Regina, il Re Luigi colla
sua armata all'improvviso giunse a Napoli, ed avendo poste le sue genti
in terra, unite con quelle di Sforza strinse la città; la quale si
sarebbe a lui resa, se opportunamente non fosse sopraggiunta l'armata
aragonese comandata dal Periglios, che fu dalla Regina accolto con
somma stima, la quale per mostrar la ferma deliberazione del suo animo,
acciocchè Alfonso e que' del suo Consiglio non ne dubitassero, il dì
seguente per atto pubblico ratificò l'adozione e tutti i capitoli
stipulati in Sardegna, e fu dato ordine, che negli stendardi ed in
molti altri luoghi fossero dipinte l'arme d'Aragona quarteggiate
con quelle della Regina, e fu bandita per tutto l'adozione e la lega
perpetua. Si mandò ancora a soldare Braccio da Perugia, il quale non
volle venire, se, oltre il soldo, la Regina non gli dava l'investitura
di Capua e dell'Aquila che avea dimandata.

Intanto Aversa erasi resa al Re Luigi, e crescendo tuttavia la parte
angioina, fu mandato a sollecitar Braccio, il qual venuto con tremila
cavalli, ruppe Sforza, che gli contrastava il passo e venne a Napoli,
dove dalla Regina fu caramente accolto.

Re Alfonso ch'era passato in Sicilia, ancorchè fosse stato più volte
sollecitato dalla Regina a venir presto, ed egli andava temporeggiando,
avendo intesa la venuta di Braccio in Napoli, partì da Sicilia con
l'armata e se ne venne ad Ischia. La Regina mandò il G. Siniscalco ad
incontrarlo con alquanti Baroni, il qual dopo le lodi e grazie, resegli
da parte di lei, l'invitò a passare coll'armata al Castel dell'Uovo,
da dove la Regina voleva farlo entrare in Napoli con quella pompa
ed apparato, che conveniva ad un tanto Re e suo liberatore. Il G.
Siniscalco rimase poco contento, vedendo il Re così bello di persona,
valoroso, magnanimo e prudente; ed oltre di ciò la compagnia di tanti
onorati Baroni aragonesi, castigliani, catalani, siciliani ed altre
nazioni soggette al Re, perchè dubitava che l'autorità sua in breve
sarebbe in gran parte, e forse in tutto diminuita ed estinta, e si
ricordava bene dell'esito del Conte Pandolfello, temendo, che tanto
peggio potea succedere a lui, quanto che questo Re era di maggior
ingegno, valore e potenza, che non era stato Re Giacomo; con tutto
ciò ingegnossi coprire questo suo sospetto e fece disporre apparati
magnifici per l'entrata d'Alfonso in Napoli. Il Re nel dì statuito,
avendo cavalcato con gran pompa per la città, fu condotto al Castel
Nuovo, dove la Regina discese sin alla porta, ricevendolo con ogni
segno di amorevolezza e di letizia, e da poi che l'ebbe abbracciato,
gli consignò le chiavi del castello, ed il rimanente di quel dì e
molti altri appresso si passarono in feste e conviti, ed in questi dì
in presenza di tanti Baroni, e di quasi tutta la nobiltà e popolo,
dal Re Alfonso e dalla Regina si ratificarono l'adozione e tutti
i capitoli poc'anzi ratificati con Periglios, e sotto il dì 8 di
luglio di quest'anno 1421 se ne stipulò nuovo istromento, che, oltre
Chioccarello[273], si legge presso il Tutino, che l'ha fatto imprimere
nel suo libro de' G. Contestabili.

Giunto Alfonso colla sua armata in Napoli, s'accese più fiera la guerra
in Terra di Lavoro col Re Luigi, il quale fortificato in Aversa, che
se l'era resa, avea posta quella provincia in confusione. Alfonso
dall'altra parte stimolato dal G. Siniscalco andò a porre l'assedio ad
Acerra, che era allora posseduta da Giovanni Pietro Origlia nemico di
Sergianni. E Braccio nel medesimo tempo avendo assaltato l'esercito
di Sforza, faceva premurose istanze, che se gli dasse la possessione
di Capua; ed andandosi dalla Regina temporeggiando, Braccio andò a
lamentarsene col Re Alfonso, il quale per non disgustar quel Capitano
Indusse la Regina a consegnargliela. Tenendo ancor Alfonso assediata
Acerra, Martino V temendo, che finalmente Alfonso (di cui si era
scoperto nemico, per la mano che avea avuta a far venire Re Luigi)
non rimanesse superiore, spedì due Cardinali per pacificare questi
due Re; e mentre trattavano col Re Alfonso le condizioni della pace,
Alfonso dubitando che non fossero venuti per dargli parole, non
volle tralasciar l'assedio di quella città, e cominciò a batterla
più fortemente che prima, non ostante la gagliarda resistenza degli
Acerrani.

I due Cardinali per la forte difesa di quella piazza vedendo la grande
strage che ne seguiva e che sarebbe riuscito vano il disegno d'Alfonso,
lo pregarono che non volesse esporre a tanto pericolo i suoi,
promettendo che Papa Martino avria almeno presa in sequestro Acerra,
sì che non avrebbe potuto nuocere allo Stato della Regina Giovanna,
e, conchiudendosi la pace, l'avrebbe forse assignata a lei. Il Re
piegato ai prieghi de' Cardinali levò l'assedio; e Luigi chiamò a se i
presidii e fece consignare Acerra in deposito ai Legati appostolici;
ed il Re Alfonso si ritirò a Napoli e Braccio co' suoi a Capua. Fu
conchiusa tregua fra questi due Re per tanto spazio, quanto parea, che
bastasse per trattare la pace; e poco da poi il Re Luigi andò a trovar
Papa Martino, e lasciò Aversa e gli altri luoghi alli medesimi Legati;
e Sforza ebbe per patto nella tregua di potersene andare a star a
Benevento, ch'era suo.

Martino V era tenuto da Alfonso in freno, perchè sebbene col Concilio
di Costanza fosse cessato lo scisma, e Gregorio XII e Giovanni XXIII
avessero ubbidito a quello e deposto il pontificato; nulladimanco
Benedetto XIII Antipapa ancor viveva ostinato, e s'era fatto forte
in un luogo inespugnabile in Spagna, chiamato Paniscola, dove con
pertinacia grandissima accompagnato da quattro Cardinali conservava
ancora il nome e' contrassegni della pontifical dignità, e voleva
morire col titolo di Papa, ancorchè da nazione alcuna non fosse
ubbidito. Re Alfonso ponendo in gelosia Martino e dimostrando, che
se non avesse favorito le parti sue, avrebbe fatta dare ubbidienza da
tutti i suoi Regni all'Antipapa, ottenne pochi mesi da poi, che il Papa
gli facesse consignare non pure Acerra ma tutte le terre, che i Legati
tenevano sequestrate. In Napoli si fece grand'allegrezza, perchè parea,
che la guerra fosse finita, tenendosi l'Aquila solamente per se alla
divozione del Re Luigi; onde Alfonso per togliersi d'avanti Braccio,
gli comandò che andasse ad espugnarla: Braccio ne fu molto contento;
poichè per virtù de' patti, quando venne a servire la Regina ed
Alfonso, gli era stata promessa. Così la provincia di Terra di Lavoro
restò libera, ed in Napoli i partigiani della Regina viveano assai
quieti.



CAPITOLO IV.

_Discordie tra ALFONSO, e la Regina GIOVANNA, la quale rivoca
l'adozione fattagli, e adotta LUIGI per suo figliuolo._


Ma non durò guari nel Regno questa quiete, poichè nel mezzo della
Primavera di quest'anno 1422 venne una peste in Napoli, che obbligò il
Re e la Regina di andare a Castellamare; ma non potendo questa Città
mantenere due Corti Regali, andarono amendue a Gaeta, dove appena
giunti, furono visitati da Sforza, che partito da Benevento venne
ad inchinarsi ad Alfonso. Fu Sforza da Alfonso accolto con grande
umanità e cortesia: tanto che sorpreso da tanta gentilezza andava
predicando la generosità e clemenza di un tanto Re. Ciò che diede
esempio a gran numero di Baroni della parte Angioina, che facessero
il medesimo; laonde molti che aveano offeso la Regina, ed il Gran
Siniscalco, confidati alle parole di Sforza, andarono con grandissima
fiducia ad inchinarsi ad Alfonso, e furono benignamente da lui accolti,
giurandogli fedeltà, con dispiacere grandissimo della Regina.

Questa fu la cagione, che siccome sino a quel dì aveano governato ogni
cosa con gran concordia, d'allora innanzi nacquero quelle sospizioni
e discordie, che furono poi cagione d'infiniti danni; poichè il Gran
Siniscalco, ch'era lo spirito e l'anima della Regina, non potea
soffrire, che Alfonso s'avesse fatto giurare omaggio dalle Terre
prese e da' Baroni ch'erano venuti a visitarlo perchè parea segno, che
volesse pigliar innanzi il dì della morte della Regina la possessione
del Regno contra i patti dell'adozione; e facendolo intendere alla
Regina, avea venenato l'animo di lei di maggiore sospizione, ed
obbligatala ad amarlo ogni dì più, vedendo la cura ch'egli tenea
dello stato e della salute di lei, perchè le disse, che un dì Alfonso
l'avrebbe pigliata, e mandatala in Catalogna cattiva, per occupar
il Regno e con quello poi occupar tutta Italia. Per questo timore la
Regina deliberò guardarsi quanto più potea, ed all'impensata si partì
da Gaeta e venne a Procida: passò poi a Pozzuoli con determinazione
di portarsi in Napoli, dove la peste dopo aver fatta gran strage, era
cominciata a cessare. Il Re Alfonso che avea creduto, che la Regina
avesse da tornare da Procida a Gaeta, quando intese che avea presa la
via di Pozzuoli per andare a Napoli, portossi con pochissima compagnia
a visitarla in Pozzuoli, credendosi levarle ogni sospezione; ma fu
tutto il contrario, perchè la Regina timida entrò in maggior sospetto,
onde subito che Alfonso fu partito da lei per andare a veder Aversa,
ella se ne venne per terra a Napoli, nè volle entrare nel Castel Nuovo,
ma se ne passò al castello di Capuana. Il Re trovandosi ad Aversa
fu subito avvisato di questi andamenti della Regina, e conoscendo
l'instabilità di costei, lo spirito, l'ambizione del G. Siniscalco,
dubitando che non macchinassero qualche novità, venne subito a Napoli
ed alloggiò al Castel Nuovo, e già si vedeano intermesse le visite tra
lui e la Regina; onde ogni persona di giudizio era in opinione che la
cosa non potrà tardare a venire in aperta rottura. Alfonso conoscendo,
che quest'alterazione di mente della Regina era per suggestione del
G. Siniscalco, credendo che levato di mezzo l'autore delle discordie,
avrebbe ottenuto dalla Regina quanto voleva, a' 27 maggio dell'entrato
anno 1423 lo fece carcerare; e poi cavalcò subito per andare a trovar
le Regina, non si sa se con animo di scusarsi con lei della cattura
di quello, o se andava per mettersi in mano anche la Regina, e quando
vedesse di non poter piegarla a mutar vita, mandarla in Catalogna.
Ma subito che il G. Siniscalco fu preso, ne fu avvisata la Regina,
e vedendo il Re venire, gli fece chiudere in faccia le porte del
castello; onde Alfonso rispinto sì bruttamente, ritornossene al Castel
Nuovo, ed in Napoli fu gran confusione e disordine tra' Spagnuoli e
Catalani da una parte, ed i Napoletani, che seguivano il partito della
Regina, dall'altra.

In tanta costernazione, la Regina ristretta coi primi e più fedeli
della sua Corte, consultò quello che si avea da fare, e con voto di
tutti fu risoluto di mandare a chiamare Sforza, ed a pregarlo che per
l'amicizia antica venisse a liberarla. Sforza che in quel tempo si
trovava a Benevento molto povero, per essere stato molti mesi senza
stipendio alcuno, ebbe grandissimo piacere di questo avviso, sperando
gran cose, perchè si confidava o di far rivocare l'adozione fatta al Re
Alfonso e di far chiamare all'adozione Re Luigi suo amico; o avere in
arbitrio suo la Regina e 'l Regno per quanto ubbidiva a lei; e senza
indugio alcuno, adunati i suoi veterani, a' quali erano arrugginite
l'arme e smagriti i cavalli, con quelli si pose in via verso Napoli.
Alfonso intendendo che Sforza veniva, inviò Bernardo Centiglia ad
incontrarlo con tutti i Baroni catalani e siciliani e con tutti i
soldati dell'armata; e fattosi un fatto d'armi vicino le mura di
Napoli, Sforza ruppe l'esercito d'Alfonso, ed entrato dentro la città,
assediò Alfonso dentro il Castel Nuovo; e dopo aver visitata la Regina,
che l'accolse con grandi onori, chiamandolo suo liberatore, partì da
Napoli ed andò ad assediare Aversa.

Alfonso trovandosi dopo questa rovina così solo e senza danari da poter
fare nuovo esercito, stava in grandissima angoscia; due speranze però
lo confortavano, l'una per aver egli molti mesi innanzi comandato, che
si facesse un'altra armata in Catalogna, perchè non voleva, non ostante
l'impresa del Regno, abbandonar quella di Corsica, ond'ora inviò subito
a sollecitarla, che venisse a soccorrerlo: l'altra era nell'esercito
di Braccio, che stava all'assedio dell'Aquila; ma in questo facea
poco fondamento, sì per l'avidità di Braccio di pigliar l'Aquila, come
ancora perchè non sperava che i soldati Bracceschi senza nuove paghe
si movessero per soccorrerlo; con tutto ciò mandò a chiamarlo, e ne
seguì quello che avea pensato. Ma quindici dì dopo la rotta, essendo
arrivato in Gaeta Giovanni di Cardona Capitan Generale dell'armata, che
consisteva in diece galee e sei navi grosse, avendo inteso in che stato
stava il suo Re, venne subito verso Napoli. Furono molti che dissero
che quest'armata era ordinata venisse, per lo disegno che avea fatto
il Re, se gli riusciva, di pigliar la Regina per mandarnela cattiva in
Catalogna; ed era da credere, poichè trovandosi a quel tempo il Regno
quieto senza guerra, non bisognava che venisse armata.

Giunta l'armata vicino al molo di Napoli, il Re comandò, che i soldati
smontassero; e trovandosi nella città gran parte dell'esercito di
Sforza, che teneano assediato Castel Nuovo, s'accese dentro le mura
di quella una crudele ed ostinata Guerra, che pose in iscompiglio e
sconvolgimenti la città con miserabili saccheggi ed incendii, cotanto
ben descritti dal Costanzo. La Regina, scorgendo nella città tante
revoluzioni, entrò in tanto timore che le pareva essere ad ora in ora
legata da' Catalani; onde spesso si raccomandava a molti Cavalieri,
ch'erano concorsi al castello di Capuana, che avessero cura della
guardia della sua persona e mandò subito a Sforza che stava ad Aversa a
pregarlo, che venisse tosto a liberarla da quel pericolo assai maggiore
dell'altro. Venne Sforza in Napoli, liberò la Regina e la condusse
in Nola; e poi pigliata Aversa, la condusse là, dove fu maneggiata
una nuova adozione, che valse a far perpetui e continui li travagli e
sconvolgimenti di questo Reame.

Dall'altra parte le forze del Re Alfonso tuttavia crescevano; perocchè,
essendosi alle sue truppe aggiunte quelle di Braccio, pensò Sforza
di accrescere il partito della Regina, per potergli fare un più
vigoroso contrasto; onde operò con la Regina che si dovesse valere
delle forze degli Angioini; ed avendogli con solenne istromento a
primo luglio di quest'anno 1423[274] fatto rivocare l'adozione prima
fatta ad Alfonso, per cagion d'ingratitudine, che diceva averle usato
quel Re, la persuase, che adottasse Re Luigi; e poichè la Regina si
vedeva molto sola, e molti beneficati da lei, per invidia che aveano
al G. Siniscalco, seguivano la parte del Re Alfonso o in secreto,
o scovertamente, non solo s'inchinò a chiamare Re Luigi, ma fece
ripatriare tutti gli Angioini, rendendo alla maggior parte di loro le
cose, che aveano perdute.

Ma come la Regina compiacque a Sforza di accettar questo suo consiglio,
così ancora Sforza che conoscea ch'ella ardea di desiderio di ricovrare
il Gran Siniscalco, permise che trattasse lo scambio di lui con alcuni
de' Baroni catalani ed aragonesi. La Regina, che non desiderava altro,
ogni dì mandava a trattar il cambio con Alfonso: il quale conoscendo
la sua pazzia, che senza vergogna alcuna avria riscosso il Gran
Siniscalco, con togliersi anche la corona di testa, quando altramente
non avesse potuto: mandò a dirle che non bastavano nè uno nè due, ma
bisognavano darsi tutti i prigioni catalani ed aragonesi per Sergianni.
La Regina donando molte terre a Sforza pigliò da lui tutti i prigioni
che teneva che furono questi: Bernardo Centiglia, il qual fu Capitan
Generale, Raimondo Periglios, Giovanni di Moncada, Mossen Baldassen,
Mossen Coreglia, Raimondo di Moncada, Federico Vintimiglia, il Conte
Enrique ed il Conte Giovanni Ventimiglia e gli mandò al Re in cambio
del Gran Siniscalco, il quale fu liberato, e come fu giunto in Aversa,
ricordevole delle cose passate tra lui e Sforza, cercò di farselo
benevolo e stringerlo per via di parentado, facendo opera che Sforza
desse Chiara Attendola sua sorella a Marino Caracciolo suo fratello.
Sergianni ch'era entrato ora in maggior grazia della Regina che fosse
mai, lodò la rivocazione dell'adozione fatta di Re Alfonso sotto
titolo d'ingratitudine, ed insisteva anch'egli che s'adottasse Re
Luigi d'Angiò, il quale si trovava ancora in Roma presso il Pontefice
Martino; poichè come Cavaliere prudente pensava, che introducendosi un
Re d'un sangue reale, avesse estinta l'invidia e tolta la calunnia che
gli davano ch'egli volesse farsi Re; perciò furono mandati Ambasciadori
in Roma a trattare col Re Luigi l'adozione, i quali trovarono tutta la
facilità, e non solo conchiusero col Re l'adozione con que' patti che
essi vollero; ma tirarono ancora Papa Martino a pigliare la protezione
della Regina contra Re Alfonso, ed ebbero poca fatica a farlo, perchè
il Papa, oltre di riputarsi gravemente offeso da Alfonso che sosteneva
ancora, benchè secretamente, il partito di Benedetto XIII, desideroso
di ponere la Chiesa nello stato e riputazione antica, desiderava che
il Regno restasse più tosto in potere del Re Luigi ch'era più debole
di forza, e che avrebbe avuto sempre bisogno de' Pontefici romani,
che vederlo caduto in mano d'Alfonso Re potentissimo per tanti altri
Regni che possedea, per li quali era atto a dar legge a tutta Italia,
non solo a' Pontefici romani. Conchiusa dunque l'adozione, senza
dilazione di tempo condussero gli Ambasciadori con esso loro Re Luigi,
con capitolazione che avesse da tener solo il titolo di Re, poichè
avea da competere e da contrastare con un altro Re: ma in effetto
fosse sol Duca di Calabria co' medesimi patti ch'erano stati fermati
nell'adozione del Re Alfonso.

Questa adozione fornì la Casa del Duca d'Angiò di questa seconda
razza di doppio titolo, e doppia ragione sopra questo Reame; poichè
a quello della Regina Giovanna I, dalla quale fu chiamato al Regno
Luigi I d'Angiò avo del presente, s'aggiunse quest'altro della Regina
Giovanna II, donde da poi i Re di Francia, a' quali furon trasfusi
questi diritti, pretesero appartener loro il Reame per doppia ragione.
Quindi sursero le tante ed ostinate guerre che i due Luigi, Carlo
VIII e Francesco I mossero agli Aragonesi ed agli Austriaci, le quali
miseramente per più secoli l'afflissero.

Re Luigi giunto ad Aversa, fu dalla Regina ricevuto con grande onore
e dimostrazione d'amorevolezza, e dopo molte feste la Regina fece
pagare un gran numero di denari a Sforza, perchè ponesse in ordine le
sue genti per potere attendere alla recuperazione di Napoli. Il Papa
mandò Luigi Colonna Capo delle genti ecclesiastiche, e molti altri
condottieri minori in favor della Regina; e da poi proccurò ancora che
Filippo Visconti Duca di Milano, (il quale a quel tempo era formidabile
a tutta l'Italia, e ch'era entrato in sospetto della troppa potenza
d'Alfonso) s'unisse con lui in difesa della Regina.



CAPITOLO V.

_ALFONSO parte di Napoli, e va in Ispagna; e Napoli si rende alla
Regina GIOVANNA. Insolenze del Gran Siniscalco; sua ambizione ed
infelice morte._


Quando Re Alfonso ebbe intesa la nuova adozione del Re Luigi, e la
confederazione del Papa e del Duca di Milano contro di lui, cominciò
a dubitare di perdere Napoli, perchè fin a quel dì i Napoletani
della parte Angioina erano stati tanto depressi e conculcati dal Gran
Siniscalco, ch'erano divenuti Aragonesi, ed aveano piacere di vedere
in rovina lo stato della Regina e del Gran Siniscalco; ma dappoichè
intesero l'adozione del Re Luigi, saliti in isperanza di ricovrar le
cose loro, erano per far ogni sforzo, acciocchè la città ritornasse
in mano della Regina; e già s'intendeva che da dì in dì molti andavano
in Aversa a trovare Re Luigi in palese, e molti che non aveano ardire
di palesarsi, lo visitavano per secreti messi. Perciò Alfonso mandò
a chiamar Braccio, il quale ancora penava per ridurre l'Aquila, che
venisse colle sue genti a Napoli. Ma Braccio che confidava, che quella
Piazza si rendesse fra pochi dì, rispose ad Alfonso, ch'era assai più
necessario conquistar quella provincia bellicosa ed ostinatamente
affezionata alla parte Angioina, che tener Napoli, la qual solea
esser di coloro, che vinceano la campagna, e che perciò gli mandava
Giacomo Caldora, che tenea il primo luogo nel suo esercito dopo lui, e
Berardino della Carda, e Riccio da Montechiaro Colonnello di fanteria.
Questi con mille e ducento cavalli, e mille fanti vennero subito a
Capua, e da Capua, avendo inteso ch'erano venute alcune navi e galee
con genti fresche da Barzellona, vennero in Napoli.

Dall'altra parte Sforza, avendo poste in ordine le sue genti, persuase
a Re Luigi che andasse sopra Napoli, onde si partirono da Aversa il
primo d'ottobre, e vennero per tentare di pigliar Napoli per la porta
del mercato; ed essendo seguìto un fatto d'arme, nel quale restò
Sforza vittorioso, Re Luigi entrò in grandissima speranza di pigliarla.
Mentre Alfonso era in questi travagli, gli vennero lettere da Spagna
con avvisi, che Giovanni Re di Castiglia suo cognato e cugino, che si
governava tutto per consiglio di D. Alvaro di Luna, nemico alla Casa
Aragona, avea messo in carcere D. Errico d'Aragona amatissimo fratello
del Re Alfonso, perchè avea tolta per moglie D. Catarina sorella del
Re di Castiglia, contro la volontà di lui; per la qual cagione Alfonso
deliberò d'andar in Ispagna per liberar il fratello, ed ancora per
dubbio, che il Re di Castiglia instigato da D. Alvaro, non tentasse di
occupare il Regno di Aragona e di Valenzia, mentr'egli guerreggiava in
Italia. Dunque postosi in ordine, lasciò D. Pietro suo ultimo fratello
per Luogotenente Generale in Napoli, e partitosi con diciotto galee e
dodici navi grosse, per cammino assaltò Marseglia, città del Re Luigi,
all'improvviso e la prese e saccheggiò e ne portò in Ispagna il Corpo
di S. Luigi Vescovo di Tolosa, e non volle tenere quella città, per non
diminuire l'esercito lasciando i presidj, perchè credea aver di bisogno
di gente assai per la guerra di Spagna, ove stette molt'anni impedito
per liberare il fratello.

Nel principio dell'anno seguente 1424 venne l'armata di Filippo
Visconti Duca di Milano, la quale presa Gaeta, che si tenea per
Alfonso, navigò verso Napoli ove giunta, fu posto in terra l'esercito
nella porta del Mercato; onde le cose del Re Luigi sempre più andando
prospere, fur cagione che il Caldora passasse in questo modo alla sua
parte. Vedendo il Re e la Regina che per l'assedio di Napoli bastavano
le genti del Duca di Milano, mandarono Sforza col suo esercito a
soccorrer l'Aquila, che ancora era assediata da Braccio; ma Sforza nel
passar il fiume di Pescara si annegò: il Caldora ch'estinto Sforza, si
confidava di ottenere il luogo di Gran Contestabile, ed esser il primo
di quella parte, si voltò alla parte della Regina, rendendo la città di
Napoli; e l'Infante D. Pietro con i migliori soldati che avea si ritirò
al presidio del castello. La festa di tutta la città fu grandissima, il
popolo concorse a saccheggiar le case degli Spagnuoli e de' Siciliani,
e la Regina fece tornar le genti del Duca in Lombardia molto ben
soddisfatte.

Restava solo nel Regno l'esercito di Braccio, che tenea le parti del
Re Alfonso; ma il Re Luigi e la Regina dando il bastone di Capitan
Generale al Caldora, lo mandarono a danno di Braccio; e come fu giunto
al Contado di Celano trovò le genti di Papa Martino capitalissimo
nemico di Braccio, e con quelle e col suo esercito diede una fiera
rotta alle genti di Braccio, dove questi restò morto e Nicola Piccinino
prigione.

Con tutto che il Re Alfonso fosse stato avvisato che Napoli s'era
perduta, e che l'Infante si fosse salvato nel Castello, non volle però
abbandonare le cose del Regno e mandò a soccorrere il castello; e pochi
dì da poi comparve in Napoli Artale di Luna mandato dal Re a liberar
l'Infante dall'assedio, il quale lasciati nel castello i migliori
soldati, e grandissima munizione di vettovaglie, si pose in mare e se
ne n'andò in Sicilia. Così la Regina ed il Re Luigi stettero alcuni
anni assai quieti, mentre che Alfonso fu occupato nelle cose di Spagna:
e benchè il Castel Nuovo si tenesse per Re Alfonso, come si tenne
poi gran tempo, la Regina visse molti anni quieta, nel quali anni di
riposo si diede a riformare il Tribunal della Gran Corte della Vicaria
per mezzo de' _Riti_ che fece compilare, ad istituire il Collegio de'
Dottori, e ad applicare il suo animo agli studj di pace e di religione,
come diremo.

Intanto il Gran Siniscalco vedendosi nel colmo di ogni felicità, perchè
dubitava che Re Luigi nuovamente adottato dalla Regina non tenesse la
medesima volontà che avea tenuta Re Alfonso di abbassarlo, non volle
mai che Castel Nuovo si stringesse d'assedio; anzi più volte diede
tregua ad Arnaldo Sanz che era rimaso Castellano in nome del Re Alfonso
per tenere sospetto il Re Luigi, che sempre che volesse mostrarsi
contrario alla grandezza sua, avrebbe richiamato il Re Alfonso. Ed in
cotal modo si tenne il castello undici anni con le bandiere d'Aragona,
fin alla morte della Regina Giovanna; e pareva cosa molto strana che il
Castellano mandasse nel tempo di tregua a comprare nella città quel che
gli bisognava e s'intitolasse Vicerè del Regno.

Il Re Luigi, ch'era di natura mansueta, stette sempre all'ubbidienza
della Regina: onde il Gran Siniscalco operò con la medesima che
donasse a quel Re il Ducato di Calabria, e gli diede tutte le genti
sue stipendiarie che andasse a conquistarlo dalle mani de' Ministri
del Re Alfonso; ed egli restò assoluto Signore di tutto il rimanente
del Regno, nè avea altro ostacolo che Giacomo Caldera ed il Principe
di Taranto ch'era nel Regno grandissimo Signore; onde per assicurarsi
di loro, diede una delle sue figliuole per moglie ad Antonio Caldera
figliuolo di Giacomo, e l'altra a Gabriele Orsino fratello del
Principe, dandogli il Contado di Acerra quasi a titolo di dote. A
questo modo stabilì le cose sue che non era chi potesse contrastare
o resistere alla volontà sua; e così disfece molte famiglie, come
gli Origli, li Mormili, li Costanzi e li Zurli, togliendo ad altri
ed investendo i suoi de' loro Stati, e distribuì a molti di Casa
Caracciolo terre e castelli. E quindi avvenne che mentre durò la
guerra fra' tre Luigi d'Angiò, col Re Carlo III, Ladislao e la Regina
Giovanna, si trovino privilegi ed investiture di molte terre in fra
di lor contrarie fatte a diverse famiglie: e molti castelli che in
un anno mutavano due Signori, secondo le vittorie che aveano que'
Re ch'essi seguivano. Nè bastando al Gran Siniscalco tanta autorità,
aspirando sempre a cose maggiori, dimandò alla Regina ch'essendo per
la morte di Braccio ricaduto alla Corona il Principato di Capua che
ne lo investisse; ed ella tosto ai 22 ottobre di quest'anno 1425 glie
lo concedette; ma usò per allora questa moderazione, che non si volle
intitolar mai Principe, ancorchè li parenti gliel persuadessero.

In questo medesimo anno, essendo nel precedente succeduta la morte
di Benedetto XIII i due Cardinali ch'erano rimasi presso di lui
elessero per Papa Egidio Munion Canonico di Barzellona che prese il
nome di _Clemente VIII_, il quale creò de' Cardinali, e fece tutti
gli atti da Papa; poichè ancora questo partito era sostenuto dal Re
Alfonso, irritato, come si è veduto, contro il Pontefice Martino,
perchè avea investito Re Luigi del Regno. Nè perchè Alfonso stasse
distratto negli affari di Spagna, abbandonò mai le cose del Regno, e
proccurò in cotal guisa tener il Papa in sospetto, sin che finalmente
nell'anno 1429 non si rappacificarono insieme: per la qual cosa mandò
Martino il Cardinal di Foix Legato in Ispagna, affinchè nelle mani
di costui l'Antipapa deponesse la carica: e per ordine d'Alfonso fu
Clemente costretto rinunziare il suo diritto, asserendo però, che non
lo sacrificava, se non se per lo bene della pace. I Cardinali ch'egli
avea creati rinunziarono anche volontariamente al Cardinalato, ed i due
vecchi Cardinali che aveano eletto Clemente furono posti in prigione,
dove morirono poco da poi di disgusto e di miseria. Così terminossi
interamente lo Scisma, dopo aver durato per lo spazio di cinquanta
uno anni; e Martino V restò solo ed unico Papa, riconosciuto da tutto
l'Occidente.

Ma questa riconoscenza non durò più che due anni; poichè a' 20 febbraio
dell'anno 1431 trapassò in Roma, ove fu sepolto in Laterano; ed in suo
luogo il dì 4 del mese di marzo in eletto Michele Condolmerio Veneziano
figliuolo d'una sorella di Gregorio XII che lo avea assunto al
Vescovado di Siena ed alla dignità di Cardinale, e fu nomato _Eugenio
IV_. Questi appena assunto al Pontificato cominciò a perseguitare i
Colonnesi, perchè si dicea che aveano in mano tutto il tesoro del Papa
morto: i Colonnesi fidati nello Stato grande che il zio loro avea dato
in Campagna di Roma ed in quello che possedevano nel Regno di Napoli,
si disposero di resistere alle forze del Papa, e soldarono genti di
guerra per difendersi da lui. Ma il Papa avendo ciò presentito, rinovò
subito la lega con la Regina co' medesimi capitoli che furono fatti
nella lega di Papa Martino, e richiese la Regina che gli mandasse ajuto
per debellare i suoi ribelli. Il Gran Siniscalco che non desiderava
altro che l'abbassamento de' Colonnesi per potere sopra le loro
ruine maggiormente ingrandire, gli mandò il Conte Marino di S. Angelo
suo fratello con mille cavalli, e mandò a minacciare i Colonnesi di
togliere loro le terre che aveano nel Regno, se perseveravano nella
contumacia del Papa; e perseverando nell'ostinazione, furono dal Papa
scomunicati e privati del Principato di Salerno e de' Contadi che
tenevano nel Regno, con disegno d'avere la maggior parte de' loro
Stati tolti e confiscati. Non contento adunque d'esser Duca di Venosa,
Conte d'Avellino, Signore di Capua e di molte altre Terre, cominciò a
dimandare alla Regina che gli donasse il Principato di Salerno ed il
Ducato di Amalfi, con dire che se ben gli avea donata Capua, egli non
se ne voleva intitolar Principe, perchè era certo che ogni altro Re che
succedesse al Regno, se la toglierebbe come Terra che per l'importanza
sua dev'essere sempre unita alla Corona.

Era allora la Regina divenuta assai vecchia per gli anni, ma molto
più per una complessione sua mal sana, che parea al tutto decrepita
e schifa; e per questo il G. Siniscalco, ch'era ancora incominciato
ad invecchiare, avea lasciata la conversazione segreta, che avea con
lei; onde s'era ancora in lei, non solo intepidito, ma raffreddato
in tutto l'amore, e però alla dimanda fattale, negò di voler dare
nè Salerno, nè Amalfi; per la qual cosa il G. Siniscalco turbato,
cominciò in opere ed in parole, ad averla in dispregio ed in odio.
In questo tempo era salita in gran favore della Regina Covella Ruffo
Duchessa di Sessa, donna terribilissima e di costumi ritrosi, la quale
per esser nata da una zia carnale della Regina, per l'antichissima
nobiltà del suo sangue, e per essere rimasta erede di molte terre,
era superbissima e non potea soffrire la superbia del G. Siniscalco;
e per questo ogni dì, quando gli veniva a proposito, sollecitava la
Regina che non sopportasse tanta ingratitudine in un uomo, che da
bassissima fortuna e da tanta povertà, che avea quasi irrugginita la
nobiltà, l'avea esaltato tanto; e perchè la Regina per la vecchiezza
era divenuta stolida, ascoltava bene quel che dicea la Duchessa, ma non
rispondea niente a proposito. Ma tornando il G. Siniscalco un giorno
a parlare alla Regina, e con qualche lusinga dimandarle di nuovo il
principato di Salerno e di Amalfi, vedendo che quella ostinatamente
negava, venne in tanta furia, per la gran mutazione che scorgeva
da quel ch'era stato per diciotto anni, ne' quali la Regina non gli
avea mai negata cos'alcuna, che incominciò ad ingiuriarla e trattarla
da vilissima femmina con villanie disoneste, tanto che la indusse a
piangere: la Duchessa ch'era stata dietro la porta dell'altra camera,
quando intese la Regina piangere, entrò con altre donne a tempo, che il
G. Siniscalco se ne usciva, e vedendo la Regina sdegnata per l'ingiurie
fresche, cominciò fortemente a riprenderla di tanta sofferenza, e che
volesse tosto prender partito di raffrenare così insolente bestia, la
quale un giorno si sarebbe avanzata sino a porle le mani alla gola
e strangolarla. La Regina vedendo tanta dimostrazione d'amore e di
vera passione, caramente l'abbracciò e le disse ch'ella dicea bene,
e che in ogni modo voleva abbassarlo: la Duchessa conferì tutto con
Ottino Caracciolo nemico del G. Siniscalco: Ottino poi lo conferì con
Marino Boffa e con Pietro Palagano fieri nemici di Sergianni. Questi
conchiusero di valersi del mezzo della Duchessa, e la persuasero,
che sollecitasse la Regina, e che l'offerisse di trovar uomini che
avrebbero ucciso il G. Siniscalco: la Duchessa non fu pigra a tal
maneggio, perchè trattandosi a quel tempo nuovo parentado tra Giacomo
Caldera ed il G. Siniscalco, che voleva dar per moglie a Troiano
Caracciolo suo unico figliuolo, Maria figliuola del Caldora, avvertì
la Regina che questo matrimonio per tutta Napoli si dicea, che si
trattava con disegno di dividersi il Regno fra loro e privarne lei,
onde pensasse a' casi suoi e lo facesse morire. La Regina rispose,
ch'era ben determinata e disposta di volerlo abbassare e togliergli il
governo di mano; ma non voleva che s'uccidesse, perch'era vecchia e ne
avrebbe avuto tosto da render conto a Dio. La Duchessa, poichè non potè
ottener altro, mostrò di contentarsi, che se gli levasse il governo
di mano, e la pregò, che fosse presta a parlare con Ottino Caracciolo
del modo, che s'avea da tenere. Conferito poi il tutto con Ottino,
conchiusero di pigliar dalla Regina quel che poteano, ed ottener ordine
di carcerarlo per poterlo uccidere, con iscusar poi il fatto, che
avendosi voluto porre in difesa erano stati costretti ad ammazzarlo,
e con questa deliberazione restarono. La Regina fece chiamare Ottino
e gli disse, che lasciava a lui il carico di trovar il modo di porlo
in carcere. Mentre queste cose si trattavano, il G. Siniscalco strinse
il matrimonio del figliuolo colla Caldora, e per dar piacere alla
Regina dispose di far una festa reale al castello di Capuana dove
alloggiava la Regina, sperando per tal festa riconciliarsi con lei
ed indurla di far grazia allo sposo ed alla sposa dei principato di
Salerno, ch'esso desiderava tanto. Venuto il dì deputato alla festa,
che fu a' 17 agosto di quest'anno 1432, e quello passatosi in balli
e musiche, e parte della notte in una cena sontuosissima; il G.
Siniscalco scese all'appartamento suo e postosi già a dormire, Ottino e
gli altri congiurati, avendo corrotto un mozzo di camera della Regina
chiamato Squadra, di nazione Tedesco, lo menarono con loro e fecero
che battesse la porta della camera del G. Siniscalco e che dicesse,
che la Regina sorpresa da grave accidente apopletico stava male, e che
voleva che salisse allora. Il G. Siniscalco si levò ed incominciandosi
a vestire, comandò che s'aprisse la porta della camera per intender
meglio quello ch'era. Allora entrati i congiurati, a colpi di stocchi
e d'accette l'uccisero. La mattina sentendosi per la città una cosa
tanto nuova, corse tutta la città a veder quello spettacolo miserabile,
non picciolo esempio della miseria umana: vedendosi uno, che poche
ore innanzi avea signoreggiato un potentissimo Regno, tolti e donati
castelli, terre e città a chi a lui piaceva, giacere in terra con una
gamba calzata e l'altra scalza (che non avea potuto calzarsi tutto),
e non essere persona che avesse pensiero di vestirlo e mandarlo alla
sepoltura. La Duchessa di Sessa vedendo il corpo morto disse: _ecco
il figliuolo d'Isabella Sarda, che voleva contender meco_; poco da
poi quattro Padri di S. Giovanni a Carbonara, dov'egli avea edificata
con gran magnificenza una cappella che ancor si vede, vennero, e così
insanguinato e difformato dalle ferite, il posero in un cataletto e
con due soli torchii accesi vilissimamente il portarono a seppellire.
Troiano suo figliuolo, da poi nella cappella istessa gli fece ergere un
superbo sepolcro colla sua statua; e Lorenzo Valla, famoso letterato di
que' tempi vi compose quella iscrizione che ivi si legge. La Regina,
ancorchè restasse mal contenta della sua morte, pur ordinò che fosser
confiscati tutti i suoi beni come ribelle; e concedette ampio indulto
a' congiurati, che fu dettato da Marino Boffa; e narrasi che quando
innanzi a lei si leggeva la forma dell'indulto, quando si venne a
quelle parole che dicevano, che per l'insolenza del G. Siniscalco la
Regina avea ordinato che si uccidesse, avesse risposto in pubblico, che
non mai ordinò tal cosa, ma solamente che si carcerasse.



CAPITOLO VI.

_Re ALFONSO tenta rientrare nella grazia della Regina, ma in vano.
Nozze di Re LUIGI con MARGARITA figliuola del Duca di Savoia; sua
morte, seguita poco da poi da quella della Regina GIOVANNA._


Quando il Re Luigi, che stava in Calabria, ed avea fermata la sua
sede in Cosenza, intese la morte del G. Siniscalco, si credette che
la Regina lo mandasse subito a chiamare; ma la Duchessa di Sessa, che
con questa morte era divenuta potentissima, persuase alla Regina che
non lo chiamasse, e per trattenerlo gli fè commettere nuovi negozi in
quella provincia: e per questo si crede, che quel Re per poca ambizione
avesse perduto per se e per gli suoi successori questo Regno; il
contrario di quel che avea fatto Re Alfonso, che per troppa ambizione
se ne trovava fuori. Era allora Alfonso in Sicilia, e quando intese
la novella della morte del G. Siniscalco, si rallegrò molto e molto
più si rallegrò quando intese, che la Duchessa di Sessa era quella che
governava; e confidando molto in costei, venne in speranza di essere
chiamato dalla Regina, ed essere confermato nella prima adozione.
Per non mancare a questa prima opportunità, venne con alcune galee
in Ischia, che si tenea per lui, e cominciò segretamente con messi a
pregare e trattare con la Duchessa, che avesse indotta alle voglie sue
la Regina; ed avrebbe forse questo trattato avuto il suo effetto, se il
troppo desiderio di Alfonso non l'avesse guasto; poichè non contento
del maneggio della Duchessa, mandò a trattar col Duca di Sessa suo
marito finchè alzasse le sue bandiere, perchè di grande l'avrebbe fatto
grandissimo; del che subito che fu avvisata la Duchessa, ch'era capital
nemica del marito, non solo converse in odio l'affezione che avea col
Re Alfonso, ma accusò il marito alla Regina del trattato che tenea
di ribellarsi, e fece che Ottino Caracciolo e gli altri del Consiglio
supremo mandassero genti d'arme per lo Stato del Duca, acciocchè non
potesse mutarsi a favore d'Alfonso, il quale vedendosi usciti vani
amendui i maneggi, fece tregua per diece anni colla Regina, e se ne
tornò con poca riputazione in Sicilia.

Nel seguente anno 1433 Margarita figliuola del Duca di Savoia fu
sposata col Re Luigi, la quale partita da Nizza, dopo una crudelissima
tempesta, arrivò a Sorrento molto maltrattata dal viaggio; la Regina
voleva farla condurre in Napoli, con quell'onore che si conveniva, e
mandare a chiamare il Re da Calabria, per far celebrare con pomposità
lo sponsalizio in Napoli; ma la Duchessa di Sessa la distolse, dandole
a sentire, che si guardasse di farlo, perchè avrebbe conturbato lo
Stato, e che per quel poco tempo che le restava di vita, volesse
vivere e morire Regina senza contrasto. E per questo la Regina, che
mutava d'ora in punto sempre pensiero, mandò solamente a visitare
la sposa ed a presentare, e di là quella Signora andò in Calabria,
dove si fece la festa in Cosenza con le maggiori solennità che si
poterono. Ma ben tosto fu tal nodo disciolto; poichè nel mese di
novembre del seguente anno 1434, dopo avere Re Luigi in quella state
guerreggiato col Principe di Taranto, ritirato in Calabria, tra le
fatiche durate in quella guerra, e tra l'esercizio del letto con la
moglie, gli venne un accidente di febbre, del quale morì senza lasciar
di se prole alcuna. Fece testamento, e lasciò che il corpo suo fosse
portato all'Arcivescovado di Napoli, ed il cuore si mandasse in Francia
alla Regina Violante sua madre, e questo fu eseguito subito; ma il
corpo restò nella maggior chiesa di Cosenza, dove ancora si vede il
suo tumulo; perchè non vi fu chi si pigliasse pensiero di condurlo
in Napoli. Questo Re fu di tanta bontà, e lasciò di se tanto gran
desiderio a' popoli di Calabria che si crede, che per questo sia stata
sempre poi quella provincia affezionatissima del nome d'Angiò.

La Regina, quando ebbe la nuova della sua morte, ne fece grandissimo
pianto, lodando la grandissima pazienza che quel Principe avea avuta
con lei, e l'ubbidienza che l'avea sempre portata, e mostrò grandissimo
pentimento di non averlo onorato e trattato com'egli avea meritato. E
nell'entrar del nuovo anno 1435, travagliata da' dispiaceri dell'animo
ed oppressa dagli anni e da' suoi mali, rese lo spirito nel dì 2
di febbrajo, giorno della purificazione di Maria Vergine, in età di
sessanta cinque anni, dopo averne regnato venti e sei mesi: ordinò
che fosse seppellita alla Chiesa della Nunziata di Napoli senza alcuna
pompa, in povera ed umile sepoltura, ove ora giace.

Questa Regina fu l'ultima di Casa Durazzo: e non avendo nè col
primo, nè col secondo marito concepiti figliuoli, durando ancor in
lei l'odio contro il Re Alfonso, fece testamento nel quale istituì
erede _Renato_ Duca d'Angiò e Conte di Provenza, fratello carnale
del Re Luigi, esprimendo in quello le cagioni, per le quali fu mossa
a talmente stabilire. Ecco ciò che si legge in una particola di
questo testamento, fatta imprimere dal Tutini nel suo trattato de'
Contestabili del Regno: _Praefata Serenissima, et Illustrissima Domina
nostra Regina Joanna fide digna, et veridice informata, quod bonae
memoriae Dominus Papa Martinus V per quasdam Bullas Apostolicas olim
concessit clarae memoriae Domino Ludovico III Calabriae, et Andegaviae
Duci, ipsius Reginalis Majestatis consanguineo, et ejus filio
arrogato, et ejus fratribus haeredibus, et successoribus hoc Regnum
Siciliae post ipsius Reginalis Majestatis obitum: nec non noscens
omnes Regnicolas ejusdem Regni affectos, intentos, et inclinatos
velle unum ex germanis fratribus dicti q. Domini Ludovici in Regem,
et quod si secus fieret, vel evenerit, fieri non posset absque maxima
aspersione sanguinis, miserabilique clade, et strage, et finaliter
calamitate, et destructione hujus Regni. Nec minus et considerans, quod
Serenissimus, et Illustrissimus Princeps Dominus Renatus Dux Bari,
etc. ipsius Majestatis Reginalis consanguineus, praefatique quondam
Domini Ludovici germanus frater ab inclita, et Christianissima Regia
Stirpe domus Franciae, sicut ipsa Reginalis Majestas, suam claram
trahit originem; volens praefatis futuris scandalis tacite providere,
et salubriter obviare, et per consequens votis, et desideriis dictorum
suorum Regnicolarum satisfacere, cupiensque praeterea, quod hoc Regnum
potius perveniat ad suum clarissimum Francorum sanguinem, et inclitam
progeniem, quam ad quamvis aliam nationem: Jam dictum Serenissimum,
et Illustrissimum Principem Dominum Renatum ejus consanguineum,
ac dicti q. Domini Ludovici ejus arrogati filii germanum fratrem,
ejusdem Regnicolis ita gratum, desideratum et acceptum, in quantum
ad ipsam Serenissimam Reginalem Majestatem spectat, et in ea est, et
quod potest omni meliori via, modo et forma quibus de jure melius, et
aptius potest et debet suum universalem haeredem, et successorem in hoc
Regno Siciliae, et in omnibus aliis ejus Regnis, Titulis et Juribus,
Actionibus, et cum omnibus Provinciis, Juribus, Jurisdictionibus, et
omnibus pertinentiis suis quacumque vocabuli appellatione distinctis,
et ad illam spectantibus, et pertinentibus, quovis modo, coram
nobis, instituit, ordinavit et fecit, infrascriptis legatis, et
fideicommissis, dumtaxat exceptis._

Lasciò cinquecentomila ducati alla Tesoreria che avessero da servire
in beneficio della città di Napoli, ed in mantenimento del Regno nella
fede di Renato, ed ordinò che sedici Baroni Consiglieri e Cortigiani
suoi, governassero il Regno fin alla venuta di Renato.



CAPITOLO VII.

_Politia del Regno sotto i Governadori deputati da GIOVANNA. Governo
che da poi vi tenne la Regina ISABELLA moglie e Vicaria di RENATO
d'Angiò. Guerre sostenute da costui col Re ALFONSO: da cui in fine fu
costretto ad uscirne ed abbandonare il Regno._


Non meno la morte che il testamento della Regina Giovanna pose in
maggiori sconvolgimenti questo Reame; quando prima era combattuto da
due Pretendenti, ecco che ora ne surge un terzo, cioè il Pontefice
romano. Papa Eugenio intesa la morte della Regina, fece intendere a'
Napoletani ch'essendo il Regno Feudo della Chiesa, non intendeva che
fosse data ad altri che a colui ch'egli dichiarasse ed investisse;
ed intanto che dovesse egli amministrarlo, e destinar il Balio par
reggerlo. Alfonso lo pretendeva per se in vigor dell'adozione, e Renato
in vigor di questo testamento.

(La Bolla d'_Eugenio IV_ spedita del mese di giugno in Fiorenza nel
1445, colla quale si comanda ai Napolitani di non riconoscere per Re nè
_Alfonso_, nè _Renato_, è rapportata da _Lunig_[275]).

Ma i Napoletani ch'erano allora quasi tutti affezionati alla parte
Angioina, sentendo la pretensione del Papa, se gli opposero fortemente,
e si dichiararono che non volevano altro Re che Renato, ed insino a
tanto che egli non venisse a reggerlo, dovesse eseguirsi il testamento
della Regina; in effetto furono eletti per lo governo que' sedici
Baroni destinati dalla Regina, li quali furono Raimondo Orsino,
Conte di Nola: Baldassarre della Rat, Conte di Caserta: Giorgio della
Magna, Conte di Pulcino: Perdicasso Barrile, Conte di Montedorisi:
Ottino Caracciolo, Conte di Nicastro e Gran Cancelliere, Gualtieri e
Ciarletta Caracciolo tutti tre Rossi: Innico d'Anna Gran Siniscalco:
Giovanni Cicinello ed Urbano Cimmino, l'uno Nobile di Montagna e
l'altro di Portanova: Taddeo Gattola di Gaeta ed altri che si leggono
nel testamento della Regina. Questi dubitando che tal reggimento in
fine non si convertisse in Tirannia, crearono essi venti uomini Nobili
e del Popolo, i quali furono chiamati Balj del Regno. Da costoro fu
sollecitato che si dovesse mandar tosto in Francia a notificar a Renato
il testamento e volontà della Regina ed il desiderio della città, ed
a sollecitarlo che venisse quanto prima; ed in effetto furono tosto
mandati tre Nobili a chiamarlo, e fra tanto in lor difesa chiamarono
Giacomo Caldora, al quale diedero denari, perchè assoldasse genti;
soldarono ancora Antonio Pontudera con mille cavalli e Micheletto da
Cotignola con altrettanti, per reprimere gl'insulti d'Alfonso: ed in
cotal guisa quelli mesi che corsero tra la morte della Regina, fin
alla venuta della Regina Isabella moglie di Renato fu governato il
Regno; ond'è, che negl'Istrumenti che si stipularono in quel tempo,
non si metteva altro Regnante, ma si diceva: _Sub regimine Illustrium
Gubernatorum relictorum per Serenissimam Reginam Joannam clarae
memoriae._

Dall'altra parte il Re Alfonso avendo intesa la morte della Regina,
persuaso che, secondo si dicea, quel testamento non fosse stato di
libera volontà della medesima, si apparecchiò subito a far la guerra,
e tirò molti al suo partito, come il Duca di Sessa, quello di Fondi,
il Principe di Taranto ed alcuni altri; e sollecitato da costoro
partì da Messina ove era, e venne a Sessa, indi si portò all'assedio
di Gaeta. L'assedio di questa Piazza che durò lungo tempo, poco mancò
che non recasse ad Alfonso l'ultima sua ruina, e se non fosse stata
la magnanimità del Duca di Milano, la guerra sarebbe finita; poichè il
Duca di Milano avendo sollecitati i Genovesi che soccorressero quella
città, nè sopportassero che il miglior Porto del Mar Tirreno venisse
in potere de' Catalani nemici loro: i Genovesi avendo posto in mare
una potente armata, ed Alfonso all'incontro un'altra potentissima,
nella quale vi erano personaggi cotanto illustri, quanto oltre Alfonso,
erano il Re di Navarra, D. Errico Maestro di S. Giacomo, e D. Pietro
suoi fratelli, il Principe di Taranto, il Duca di Sessa, il Conte di
Campobasso, il Conte di Montorio, e grandissimo numero d'altri Baroni
del Regno di Sicilia e d'Aragona: venutosi a' 5 agosto di quest'anno
1435 ad una battaglia nell'acque di Ponza che durò diece ore,
finalmente i Genovesi ruppero l'armata d'Alfonso, e fecero prigionieri
il Re istesso, il Re di Navarra, D. Errico, il Principe di Taranto
ed il Duca di Sessa, con molti Cavalieri e Baroni, forse al numero
di mille; solo si salvò fuggendo ad Ischia D. Pietro con la nave sua.
Furono i prigionieri condotti a Savona, e poi portati a Milano, dove
il Duca ricevè il Re Alfonso da ospite, non già da prigioniere, e fu
tanta la magnanimità del Duca che non solo gli accordò la libertà;
ma persuaso da Alfonso che la sicurezza del suo Stato, era l'aver
in Italia Aragonesi e non Franzesi, perciocchè se Renato occupava il
Reame di Napoli, non resterebbe di movere il Re di Francia a toglierli
lo Stato, conchiusero insieme lega; e con cortesia che non ebbe altra
simile al Mondo, donò la libertà a lui, a suo fratello ed a tutti gli
altri prigionieri, e prima che si fossero firmati i Capitoli della
lega, il Duca permise che il Navarra ed il Maestro di S. Giacomo
andassero in Ispagna a far nuovo apparato per la guerra di Napoli, e
che il Principe di Taranto, il Duca di Sessa e gli altri Baroni del
Regno venissero in Napoli a dar animo ai partigiani del Re che credeano
che mai più Alfonso potesse sperare d'avere una pietra nel Regno. Poco
da poi fu firmata la lega, ed il Duca mandò in Genova ad ordinare che
si preparasse l'armata, per andare col Re all'impresa di Napoli.

Mentre queste cose succedettero ne' nostri mari, gli Ambasciadori
napoletani, ch'erano stati mandati in Francia a chiamar Renato,
trovarono che il Duca di Borgogna, il quale in una battaglia l'avea
fatto prigione, e che poi l'avea liberato sotto la fede di tornare,
richiese a Renato che osservandoli la fede data fosse tornato a lui, e
quando tornò lo pose in carcere: o fosse per invidia, vedendo ch'era
chiamato a così gran Regno o fosse per far piacere a Re Alfonso:
ciocchè diede materia di discorrere, qual fosse stata maggiore, la
sciocchezza di Renato ad andarvi o la discortesia del Duca a porlo in
carcere, la quale parve tanto più vituperosa e barbara, quanto che fu
quasi nel medesimo tempo della cortesia che fece il Duca di Milano ad
Alfonso. Gli Ambasciadori non ritrovandolo, operarono che con loro,
come Vicaria del Regno, venisse a prenderne il possesso in vece del
marito _Isabella_, la quale con due piccioli figliuoli _Giovanni_
e _Lodovico_, sopra quattro galee Provenzali partì, e nel principio
d'ottobre giunse a Gaeta, dove dai Gaetani fu ricevuta con molto onore
ed ella lodò quei cittadini ch'erano stati fedeli, e loro fece molti
privilegj. Passò poi a Napoli dove giunta a' 18 d'ottobre di quest'anno
1435 fu ricevuta con somma allegrezza di tutta la città, alla quale
era venuto in fastidio il governo della Balìa e de' Governadori, e
dal Conte di Nola le fu giurato omaggio, al cui esempio, quasi tutti
i Baroni fecero il simile; ed ella come _Vicaria_ del Re suo marito,
cominciò a governare il Regno.

Questa Regina per la sua gran prudenza e bontà fra poco tempo s'avea
acquistata presso tutti grandissima benevolenza, tanto che se la
fortuna non avesse prosperate tanto le cose d'_Alfonso_, e attraversate
quelle di _Renato_ suo marito, avrebbe stabilito il Regno nella di
lui posterità. Ma la lega pattuita col Duca di Milano quando men si
credea, e la libertà data ad Alfonso ed a suoi fratelli con inaudita,
e non creduta magnanimità, pose in grande spavento la Regina Isabella
e tutta la parte Angioina. A questo s'aggiunse, che Gaeta la quale con
tanti assalti, e con tante forze non avea potuto pigliarsi, per una
tempesta occorsa a D. Pietro fratello d'Alfonso, venne in mano degli
Aragonesi; perchè D. Pietro che stava in Sicilia, essendosi mosso con
cinque galee per andare alla Spezie a pigliar il Re ch'era stato già
liberato, essendo arrivato ad Ischia, fu ritenuto da una grave tempesta
di mare nella marina di Gaeta; e perchè in quella città v'era la peste,
ed i Gaetani più nobili e più facoltosi erano usciti fuori della Città,
e per caso il Governadore era morto, alcuni Gaetani che teneano la
parte del Re Alfonso andarono ad offerirsegli, e a dargli la città in
mano. D. Pietro restò in Gaeta, e mandò Raimondo Periglio con le galee
a Porto Venere, dove trovò il Re che avuta la novella della presa di
quella Piazza, tosto si incamminò a quella volta, ed il dì 2 febbrajo
del nuovo anno 1436 vi si portò, e passarono molti mesi che senza
fare impresa alcuna andava e veniva da Gaeta a Capua che se gli era
parimente resa. S'aggiunse ancora la ribellione del Conte di Nola, di
quello di Caserta e di molti altri Baroni che vennero al suo partito.

Questa prosperità d'Alfonso fece pensare alla Regina, ed a coloro
della sua parte di dimandar al Papa soccorso; e furono inviati Ottino
Caracciolo e Giovanni Coffa al Pontefice Eugenio a chiederlo, il quale
con molta prontezza il diede; perchè il Papa, sapendo l'ambizione
del Duca di Milano che da se solo tentava di farsi Signore di tutta
l'Italia, pensava ora che molto maggiore sarebbe stata l'audacia sua,
essendogli giunta l'amicizia del Re d'Aragona e di tanti altri Regni;
onde mandò Giovanni Vitellisco da Corneto Patriarca Alessandrino, uomo
più militare che ecclesiastico, con tremila cavalli e tremila fanti in
soccorso della Regina, e con questo si sollevò molto la parte Angioina;
e tanto più quanto che acquistò l'amicizia de' Genovesi ch'erano
diventati mortali nemici del Duca e del Re d'Aragona, li quali con
grandissima fede favorirono quella parte fino a guerra finita.

Si guerreggiò per tanto con dubbio evento per ambe le Parti, e mentre
ardea la guerra in molte parti del Regno, il Duca di Borgogna, ricevuta
una grossa taglia, liberò _Renato_, il quale senza perder tempo si
imbarcò in Marsiglia, e con vento prospero venne a Genova, ove a' 8
di aprile di quest'anno 1438 fu con sommo onor ricevuto; ed avute da'
Genovesi sette altre galee sotto il governo di Battista Fregoso si
partì, e navigando felicemente, a' 9 maggio giunse in Napoli.

(Prima di partir _Renato_ da Marsiglia a' 20 gennaro dell'anno 1438
spedì Legati ad _Eugenio_, a' quali diede mandato di filial ubbidienza,
e procura di poter transigere col Papa ogni controversia, ed in suo
nome intervenire nel Concilio designato dal Papa, di doversi convocare
in Ferrara o in altro luogo che piacerà ad _Eugenio_; il qual si legge
presso _Lunig_[276]).

Fu a Napoli con gran festa ricevuto Renato, cavalcando per la città
con _Giovanni_ suo primogenito con giubilo ed applauso grande, e per
tutto il Regno sollevò molto gli animi della parte Angioina per la
gran fama delle cose fatte da Luigi nelle guerre di Francia contro
gl'Inglesi; la qual fama comprobò colla presenza e co' fatti; perchè
subito che fu giunto, e dai Napoletani ricevuto come Angelo disceso
dal Cielo, cominciò a voler riconoscere i soldati ch'erano in Napoli,
e la gioventù napoletana e ad esercitargli; onde acquistò grandissima
riputazione insieme e benevolenza. Mandò subito a chiamare il Caldora,
col quale consultò di ciò che dovea farsi per l'amministrazione della
guerra; e deliberarono, dopo essersegli resa Scafati, di passare in
Abruzzo ed all'assedio di Sulmona.

Ma mentre che Renato era in Abruzzo colla maggior parte della gioventù
napoletana, il Re Alfonso, al quale da Sicilia e da Catalogna eran
venute molte galee per rinforzo, andò con quindicimila persone ad
accamparsi a Napoli sopra la riva del fiume Sebeto. I Napoletani per
l'assenza del Re loro, restarono per lo principio molto sbigottiti; ma
non mancarono poi con l'ajuto de' Genovesi di far una valida difesa,
tanto che Alfonso fu costretto a levar l'assedio e ritirarsi a Capua,
nel quale vi perdè D. Pietro suo fratello, che vi rimase ucciso da una
palla di cannone.

Renato, ridotte tutte le terre di Abruzzo a sua devozione, sentendo
l'assedio di Napoli, per la via di Capitanata e di Benevento tosto
venne a soccorrerla; e dopo aver tolto a' Catalani la torre di S.
Vincenzo, entrò in speranza di ricuperare il Castello Nuovo che per
tanti anni era stato in mano degli Aragonesi: ordinò per tanto al
Castellano di S. Eramo che cominciasse a danneggiarlo, poich'essendogli
cominciato a mancar la polvere ed il vitto, era impossibile potersi
difendere, ed il soccorso che avrebbe potuto venirgli dal Castel
dell'Uovo ch'era in mano d'Alfonso, era impedito dalle navi de'
Genovesi. In questo arrivarono in Napoli due Ambasciadori di Carlo VI
Re di Francia, il quale dubitando che Renato suo parente non ritornasse
discacciato dal Regno per le poderose forze d'Alfonso, mandò a trattar
la pace tra questi Re; e prima d'ogni altra cosa trattarono i patti
della resa del castello. Ma il Renato che stava esausto per le spese
fatte alla guerra, fece proponer ad Alfonso la tregua per un anno,
offerse di contentarsi che 'l castello si ponesse in sequestro in
mano degli Ambasciadori, e passato l'anno si restituisse al Re Alfonso
munito per quattro mesi. Ma Alfonso che vedea le forze di Renato tanto
estenuate, elesse di perdere più tosto il castello che dargli tanto
spazio di respirare, e con nuove amicizie riassumere forze maggiori,
talchè gli Ambasciadori franzesi se ne ritornarono senza aver fatto
altro effetto che intervenire alla resa del castello, il qual si
rese a' 24 agosto di quest'anno 1439, con patto che il presidio se
ne uscisse con quelle robe che ciascun soldato potea portarsi, non
senza dispetto d'Alfonso, il quale in faccia sua si vide perdere
quel castello che s'era per lui tenuto undici anni, quando egli non
possedeva una pietra nel Regno, ed ora perdersi in tempo che con sì
grand'esercito possedeva le tre parti del Regno.

Compensò non però Alfonso questa perdita coll'acquisto che fece della
città di Salerno, la quale se gli rese senza contrasto, e della quale
ne investì con titolo di Principe, Ramondo Orsino Conte di Nola, al
quale l'anno avanti avea data per moglie Dianora d'Aragona sua cugina
col Ducato d'Amalfi, e poi subito tornò in Terra di Lavoro.

La morte improvvisa seguita a' 15 di ottobre di quest'anno di Giacomo
Caldora celebre Capitano di quei tempi indebolì in gran parte le
forze di Renato; poichè quantunque Renato avesse ad Antonio Caldora
suo figliuolo confermati tutti gli Stati paterni, e l'Ufficio di G.
Contestabile[277], e di più l'avesse mandato il privilegio di Vicerè
in tutta quella parte del Regno che gli ubbidiva; nulladimanco essendo
poi venuto in sospetto, che il Caldora tenesse secreta intelligenza
con Alfonso lo fece imprigionare. Ciò che cagionò il maggior suo
danno; poichè i soldati Caldoreschi levatisi in tumulto, con quella
facilità che fu carcerato, colla medesima fu liberato. Antonio per
questa ingiuria avendo ragunato il suo esercito, impetrò dal Re Alfonso
tregua per 50 giorni, e venuti insieme a parlamento, il Caldora se gli
offerse con tutte le sue genti. Intanto Acerra e poi Aversa nel 1421
si resero ad Alfonso; onde Renato rimasto molto debole per la partenza
del Caldora, e vedendo in tanta declinazione lo stato suo, ne mandò
la Regina Isabella sua moglie ed i figliuoli in Provenza; e cominciò a
trattare accordo ed offerire di cedere il Regno al Re Alfonso, purchè
pigliasse per figlio adottivo _Giovanni_ suo primogenito, il qual
dopo la morte d'Alfonso avesse da succedere al Regno. Ma i Napoletani
che stavano ostinatissimi ed abborrivano la Signoria de' Catalani, il
confortavano e pregavano che non gli abbandonasse, perchè Papa Eugenio,
il Conte Francesco Sforza ed i Genovesi, a' quali non piaceva che 'l
Regno restasse in mano de' Catalani, subito che avessero intesa la
ribellione del Caldora, avrebbero mandati nuovi aiuti; e per questo lo
sforzarono a lasciare la pratica della pace: e già fu così, perchè i
Genovesi mandarono nuovi soccorsi, ed il Conte Francesco mandò a dire
che avrebbe inviati gagliardi e presti aiuti.

Ma tutti questi aiuti non poterono far argine alla prospera fortuna
d'Alfonso; poichè nel seguente anno 1442, quando meno 'l pensava,
stando in Capua, venne un Prete dell'isola di Capri ad offerire di
dargli in mano la Terra: Alfonso mandò subito con lui sei galee, e
senza difficoltà il trattato riuscì, ed ebbe quell'isola, la quale se
ben parea piccolo acquisto, tra poco si vide che importò molto: poichè
una galea che veniva da Francia, avendo corsa fortuna e credendo che
l'isola fosse a devozione del Re Renato, pose le genti in terra, le
quali furono tutte prese dagli isolani e si perderono con la galea
ottantamila scudi, che si mandavano a Renato per rinforzo: il che parve
che avesse tagliato in tutto i nervi e le forze di Renato, poichè con
quelli danari avria potuto prolungare buon tempo la guerra.

Così vedendo Re Alfonso, che la fortuna militava per lui, andò ad
assediar Napoli dove accampato, vedendo quella città tanto indebolita
di forze, che appena poteano guardare le porte e le mura, mandò parte
delle genti ad assediar Pozzuoli, che dopo valida resistenza si rese
con onorati patti; indi mandò a tentare la torre del Greco, che si
rese subito: poi per tenere più stretta la città di Napoli fece due
parti dell'esercito, una parte ne lasciò alle paludi che sono dalla
parte di levante con _D. Ferrante_ suo figliuol bastardo e l'altra
condusse ad Echia, e s'accampò a Pizzofalcone. La città fece valida
difesa, ma introdotte per un acquedotto le genti di Alfonso dentro
la città di Napoli, a' 2 giugno di quest'anno 1442 fu presa; e benchè
l'esercito aragonese, irato per la lunga resistenza, avesse cominciato
a saccheggiar la città, il Re Alfonso con grandissima clemenza cavalcò
per le strade con una mano di Cavalieri e di Capitani eletti, e vietò
a pena della vita che non si facesse violenza nè ingiuria a' cittadini,
sicchè il sacco durò solo quattro ore, nè si sentì altra perdita che di
quelle cose, che i soldati poteano nascondere, perchè tutte le altre le
fece restituire.

Renato, ridotto nel Castel Nuovo, permise a Giovanni Cossa, ch'era
Castellano del castel di Capuana, che rendesse il castello per cavarne
salva la moglie ed i figli; ed il dì seguente essendo arrivate due
navi da Genova piene di vettovaglie, in una di esse montò con Ottino
Caracciolo, Giorgio della Magna e Giovanni Cossa, e fatta vela si
partì, mirando sempre Napoli, sospirando e maledicendo la sua rea
fortuna, e con prospero vento giunse a porto Pisano, e di là andò a
trovare Papa Eugenio ch'era in Fiorenza, il quale fuor di tempo gli
diede l'investitura del Regno, confortandolo che si sarebbe fatta nuova
lega per farglielo ricuperare: Renato, che non vide altro che parole
vane, gli rispose, che voleva andarsene in Francia, acciocchè non
facessero mercatanzia di lui i disleali Capitani italiani; e perch'era
debitore di grandissima somma di denari ad Antonio Calvo genovese, che
l'avea lasciato Castellano del Castel Nuovo di Napoli, poichè vide che
da Papa Eugenio non avea avuto altro che conforto di parole, scrisse
ad Antonio che cercasse di ricuperare quel che dovea avere, vendendo il
castello al Re Alfonso, come fece.

Ecco il fine della dominazione degli _Angioini_ in questo Reame, li
quali da Carlo I d'Angiò insino alla fuga di Renato l'aveano governato
centosettantasette anni. Ecco come fu trasferito in mano degli
_Aragonesi_, che da poi lo tennero settantadue anni. Ma Renato partendo
portò seco in Francia tali semi di discordie e di crudeli guerre, che
lungamente turbarono il Regno; poichè i Re di Francia succeduti nelle
di lui ragioni ed a quelle di suo figliuolo _Giovanni_, spesso lo
combatterono; e quantunque sempre con infelice successo, non è però che
non fossero stati cagione di grandissimi sconvolgimenti e disordini,
come si vedrà ne' seguenti libri di quest'Istoria.



CAPITOLO VIII.

_De' Riti della Gran Corte della Vicaria; e de' Giureconsulti che
fiorirono nel Regno di GIOVANNA II e di RENATO: e da' quali fosse
compilata la famosa prammatica nominata la Filingiera._


Quantunque durante il governo di questa Regina e di Renato fossesi
veduto il Regno cotanto sconvolto e da crudeli guerre combattuto, a
tal che le lettere e le discipline furon poco coltivate e molto meno
esercitate, e Giovanna per suoi laidi ed instabili costumi, avesse
contaminata la Sede Regale e posto in disordine tutto il Reame; non
è però, che affatto presso di noi fossero mancate le lettere ed i
Giureconsulti, e non rilucesse fra tante laidezze qualche raggio di
virtù in quella Regina; poichè meritò molta lode e commendazione per
essere stata tutta amante della giustizia e tutta intesa a riformare
i Tribunali, e non permettere in quelli sordidezza alcuna ne' suoi
Ministri e ne' loro Ufficiali minori. Ella col consiglio de' suoi savj
tolse molti abusi, riformò molte cose, perchè la giustizia fosse ben
amministrata, ed i litiganti non fossero angariati nelle spese degli
atti e delle liti. A questo fine ridusse in miglior forma i _Riti_ del
Tribunale della Gran Corte, e molti altri ne stabilì di nuovo.

Questo Tribunale era riputato ancora supremo, non solo della città
ma di tutto il Regno, al quale essendosi unito l'altro del Vicario,
queste due Corti unite insieme componevano il più eminente pretorio del
Reame. La città di Napoli, ancorchè avesse la corte del suo Capitano,
nulladimanco non avendo questa, se non la cognizione delle sole cause
criminali sopra le persone del suo distretto, nè potendo conoscere
delle civili e molto meno delle feudali, di quelle di Maestà lesa e di
molte altre più gravi[278]; e potendosi da quella appellare alla Gran
Corte, siccome di tutte le altre Corti delle città del Regno, non era
perciò in molta considerazione; e fu poi tanta la sua declinazione, che
nel Regno degli Aragonesi s'estinse affatto, e la cognizione delle sue
cause passò pure, e s'incorporò nel Tribunale della Vicaria.

Siccome fu rapportato nel 20 libro di quest'istoria, era composto
questo Tribunale di due Corti, di quella del G. Giustiziere, detta
_Cura Magistri Justitiarii_, e dell'altra chiamata _Cura Vicarii_
ovvero _Vicaria_. Per le molte ordinazioni de' predecessori Re
angioini, essendosi vicendevolmente comunicate le giurisdizioni di
queste due Corti, venne col correr degli anni a farsene una, chiamata
perciò come ivi si disse _Gran Corte della Vicaria_: riputandosi
inutile considerarle come due Tribunali distinti, e dove dovessero
impiegarsi più Ministri separati, i quali avessero la stessa cognizione
ed autorità. Essendo capo della Gran Corte il Gran Giustiziere, per
questa unione venne il medesimo a presiedere ancora a quella del
Vicario; ond'è, che tutte le provisioni ed ordini, che dalla Gran
Corte della Vicaria si spediscono tanto per Napoli, quanto per tutto
il Regno, sotto il titolo del Gran Giustiziere siano pubblicate. Prima
avea questi autorità di mettere suoi Luogotenenti ovvero Reggenti
per amministrarla; ma da poi gli fu tolta, e fu riserbato al Re e suo
Vicerè di creargli.

Componendosi adunque questo Tribunale di due Corti; quindi è, che in
questi Riti sovente la Regina di lor parlando: _In nostris Magnae et
Vicariae Curiis_[279]; ed altrove[280]: _Judices ipsarum Curiarum._
Parimente ne' privilegi che spedì nell'anno 1420 a' Napoletani
registrati in questi Riti[281], volendo che di quelli potessero valersi
in tutte le Corti, disse: _Quod nulla Curia civitatis Neapolitanae,
tam scilicet M. Curia Domini Magistri Justitiarii Regni Siciliae, seu
ejus Locumtenentis, ac Regentis Curiam Vicariae, quam Capitaneorum, vel
alienorum Officialium etc._

Questo modo di parlare fu ritenuto durante il Regno degli Angioini
insino all'ultimo Re Renato; poichè Isabella sua Vicaria nel 1436
drizzando una sua legge a Raimondo Orsino G. Giustiziere del Regno,
la quale pur leggiamo fra questi Riti[282], così favella: _Magnifico
Raymundo de Ursinis, etc. Magistro Justitiario R. Siciliae, et ejus
Locumtenenti, necnon Regenti Magnam Curiam nostrae Vicariae etc._

Furono per tanto dalla Regina Giovanna dati molti provvedimenti
per questo Tribunale intorno allo stile e modo di procedere nelle
cause, così civili come criminali: ciò che bisognava osservare per la
fabbrica de' processi, perchè gli atti fossero validi: la norma per
la liquidazione degl'istromenti: per le citazioni: per l'incusa delle
contumacie: per l'esame: per le pruove; e tutto ciò che riguarda la
tela ed ordine giudiziario. Si prescrive il numero dei Giudici, de'
Mastrodatti e loro Attuarj; si tassano i loro diritti ed emolumenti;
e sopra tutto si raccomanda la retta amministrazione della giustizia,
riformando molti abusi, in che questo Tribunale era caduto per li tanti
disordini e rivoluzioni accadute nel Regno.

Merita riflessione il Rito 1235, che infra gli altri questa Regina
fece divolgare; poichè quantunque nel Regno degli Angioini, e molto
più nel suo, si proccurasse andar a seconda de' romani Pontefici; con
tutto ciò non permise questa Regina, che si togliesse quell'antico
costume praticato nella Gran Corte di conoscere ella del chericato
e d'obbligare il preteso Cherico a comparire personalmente avanti
i suoi Ufficiali, per pruovare i requisiti di quello, e sottoporsi
intorno a ciò alla sua giudicatura: che che altramente ne disposero le
_decretali_[283], come si dice nel Rito istesso[284]. E pure tutto ciò
ne' seguenti tempi non bastò agli Ecclesiastici, perchè nel Pontificato
di Pio V non intraprendessero di dover essi assumerne la conoscenza e
d'abbattere il Rito, che per tanti anni erasi osservato; come si vedrà
ne' seguenti libri di questa istoria, quando ci toccherà favellare del
Governo del Duca d'Alcalà Vicerè di questo Regno.

Queste ordinazioni non furono in un tratto stabilite, ma di tempo in
tempo, col consiglio de' suoi savii, Giovanna le dispose; e si crede
che la maggior parte fossero state emanate dall'anno 1424 insino al
1431 che furono gli anni, che ebbe qualche tregua e riposo; poichè
in tutto il resto del suo Regno fu per la sua instabilità travagliata
tanto, e tanto distratta in altre pericolose cure ed affanni, sicchè
non la fecero pensare, che alla propria difesa ed alla sua propria
libertà.

Furono poi questi Riti uniti insieme, a' quali ella prepose una
costituzione proemiale, per la quale loro diede forza e vigor di
legge, comandando che quelli fossero inviolabilmente osservati non
pure in Napoli nella Gran Corte della Vicaria e nelle altre Corti di
questa città, ma in tutte le altre del Regno: ordinò ancora, che tutti
gli altri Riti fuor di questi, che per l'addietro s'erano osservati,
s'abolissero, si cassassero e non avessero nelle Corti niun vigore ed
efficacia. Quindi presso i nostri Autori nacque quella comune sentenza,
che ciò che s'osservava nel Tribunale della Vicaria fosse come una
norma di tutti gli altri Tribunali inferiori del Regno, e che lo stile
di quello dovesse praticarsi negli altri Tribunali inferiori.

Gli Scrittori, che o con picciole note o con ben lunghi commentarj
impiegarono le loro fatiche sopra i medesimi, per maggior distinzione,
e perchè allegati tosto si rinvenissero, gli divisero per numeri; onde
ora il lor numero arriva a quello di trecento ed undici.

Fra essi vi collocarono un ordinamento, che la Regina Isabella
moglie del Re Renato e sua Vicaria del Regno, stabilì nell'anno 1436
indrizzato, come fu detto, a Raimondo Orsino Gran Giustiziere[285].
Ella lo stabilì come Vicaria Generale di suo marito, come si legge
nella iscrizione: _Isabella Dei gratia Hierusalem, et Siciliae Regina
etc. et pro Serenissimo et illustrissimo Principe, et Domino conjuge
nostro Reverendissimo Domino Renato, eadem gratia, dictorum Regnorum
Rege, Vicaria Generalis_; con questa data: _Datum in Regio, nostroque
Castro Capuanae Neap. per manus nostrae praedictae Isabellae Reginae,
A. D. 1436 die 14 mensis aprilis, 14 Indict. Regnorum vero dicti Domini
Regis II._ E questo è l'ultimo ordinamento, che a noi è rimaso de' Re
dell'illustre casa d'Angiò.

È da notare ancora, che in questi ultimi tempi dei Re angioini,
le leggi de' Longobardi non ostante di essere risorte le Romane, e
restituite nella loro antica autorità, non erano nel nostro Regno
affatto abolite ed andate in disusanza: vi erano per anche chi
viveano secondo quelle leggi[286]: si davano perciò alle donne i
Mundualdi, senza de' quali, così i giudicii, come i lor contratti eran
invalidi[287]. Non si concedeva repulsa tra coloro, che viveano secondo
la legge Longobarda, contro i loro sacramentali[288]; ed ancorchè
Annibale Troisio e Prospero Caravita testificano, che que' Riti erano
andati in disusanza, ciò era forse vero, riguardandosi a tempi, ne'
quali scrissero i loro commentarj, non già nel Regno di Giovanna, la
quale inutilmente si sarebbe posta a dar suoi regolamenti su di ciò, se
non vi fossero stati nel Regno coloro che fosser vivuti sotto il _Jus
Longobardo_. Anzi non sappiamo con quanta verità possa ciò dirsi, anche
nell'età di questi Commentatori, quando fino a' nostri tempi in alcune
parti del Regno i Notari ne' loro istromenti, quando intervengono
donne, vi fanno intervenire anche per esse i Mundualdi; e quando ciò
non sia, soglion perciò dire, che i contraenti vivono _Jure Romano_:
ciò che altrove fu da noi avvertito.

Questi Riti per la loro utilità, e perchè contengono infiniti
regolamenti, massimamente intorno alla fabbrica de' processi, e
dell'ordine giudiciario, furono prima con picciole note, poi con pieni
commentarj dai nostri Autori esposti.

Il primo fu _Annibale Troisio_, detto comunemente il _Cavense_, per
essere stata la Cava sua patria, di cui non si dimenticò Gesneio nella
sua Biblioteca. Fiorì egli nel principio del decimosesto secolo,
e finì questi suoi commentarj al primo di novembre dell'anno 1542
com'egli testimonia nel fine dell'opera. Aggiunsero alcune picciole
addizioni a' suoi commentarj, Cesare Perrino di Napoli, Giovan Michele
Troisio e Girolamo de' Lamberti, e presso gli Autori del nostro Foro
acquistarono non picciola autorità, e furon sempre riguardati con
rispetto, ed onore. _Giovan Francesco Scaglione_ Dottor napoletano, ma
originario d'Aversa, parimente compose sopra i medesimi alcuni piccioli
commentarj, ma non sopra tutti; e fece alcune osservazioni di ciò
ch'egli avea veduto praticare nella Gran Corte mentre era Avvocato; ed
i suoi commentarj furono la prima volta impressi in Napoli nel 1553.

Oscurò la fama di amendue _Prospero Caravita_ di Eboli, il quale nello
spazio d'un anno e mezzo, cominciando i suoi commentari in Eboli sua
patria, nel mese di marzo del 1559, gli terminò felicemente in Agosto
del 1560. Non vi era giorno, che non vi impiegasse i suoi studj, ora
in Eboli, ora in Salerno, dove in quella Udienza esercitò la carica
d'Avvocato fiscale. Riuscirono assai dotti e copiosi, tanto che presso
i posteri fu riputato il Dottor più classico di quanti mai sopra questi
Riti scrivessero.

Ultimamente a' dì nostri surse il Reggente _Petra_, il quale vi compose
sopra ben quattro volumi: meritano piuttosto nome di magazzini che
di commentarj:, poichè oltre di quel che bisognava per illustrargli,
gli riempiè di tante e sì varie materie, che vi racchiuse quanto
egli seppe, e quanto da altri apprese: divagossi in varie dispute ed
articoli occorsi sopra cause recenti ed agitate a' suoi tempi; onde
gli caricò di molte allegazioni e d'infinite e varie altre cose affatto
estranee dal soggetto, che avea per le mani. Può aversene buon uso per
li molti esempi di cause a' suoi dì decise, e per la moderna pratica e
stile, non men della Gran Corte che degli altri nostri Tribunali.


§. I. _De' Giureconsulti di questi tempi, e da' quali fu compilata la
prammatica detta la Filingiera._

I Giureconsulti, che fiorirono nel Regno di Giovanna II e di Renato
sino ad Alfonso, non sono da paragonarsi, così nel numero, come nel
sapere con coloro, che vissero sotto il Re Roberto e sotto la Regina
Giovanna I sua nipote. Essi non ci lasciarono niente delle loro opere
e de' loro scritti. Solamente si rese in questi tempi celebre _Marino
Boffa_ da Pozzuoli, il quale adoperato dalla Regina negli affari
più gravi del Regno, fu innalzato da lei al supremo Ufficio di Gran
Cancelliere; ma poi entrato in gara col Gran Siniscalco Sergianni,
questi operò tanto con la Regina, che a sua istanza nel principio
dell'anno 1419 lo privò dell'Ufficio, surrogando in suo luogo Ottino
Caracciolo[289]. Ciò che deve far cessar la maraviglia, che Toppi[290]
avea, come Marino in tempo della prammatica _Filingiera_, che si
stabilì nell'anno 1418 era Gran Cancelliere e poi quando fu instituito
il Collegio de' Dottori nel 1428 non lo era.

Fiorirono ancora Giovanni di Montemagno e Pietro di Pistoja Giudici
della Gran Corte e Giovanni Arcamone Giudice d'appellazione di detta
Corte. Ebbero ancor fama di gravi Dottori Biagio, Cisto, Carlo di
Gaeta, Gorrello Caracciolo, Carlo Mollicello, il Giudice Giacomo
Griffo e l'Abate Rinaldo Vassallo di Napoli. Fiorirono ancora in
questi medesimi tempi Bartolommeo Bernalia di Campagna, di cui presso
Toppi[291] hassi onorata memoria, ed altri di men chiaro nome. Questi
furono i Giureconsulti de' quali la Regina nelle deliberazioni più
gravi solea valersi.

Costoro furono adoperati nella cotanto celebre prammatica detta la
_Filingiera_, stabilita dalla Regina a richiesta del Gran Siniscalco
Sergianni, per l'occasione che diremo. Avea Sergianni per moglie
Caterina Filingiera figliuola di Giacomo Conte d'Avellino: questi
nel suo testamento istituì eredi ne' beni feudali Gorrello suo
figlio primogenito, e ne' burgensatici Caterina e tre altri suoi
fratelli, Alduino, Giovannuccio ed Urbano; ed oltracciò, a Caterina
avanti parte lasciò ottocento once, le quali si diedero in dote
a Sergianni. Gorrello morì poi senza figli, e gli altri tre suoi
fratelli, che rimasero, parimente l'un dopo l'altro, morirono in
età pupillare. Aspiravano alla successione Filippo lor zio paterno
fratello di Giacomo; Ricciardo Matteo Filingiero figlio, ed erede
di Ricciardo fratello di Filippo, il Fisco che pretendeva essersi il
Contado devoluto, e Caterina moglie di Sergianni. Costei supplicò la
Regina, che avendo riguardo a' servizj di lei, de' suoi antecessori
e di suo marito, non la facesse litigare co' suoi parenti, nè col
Fisco; ma si compiacesse la cognizione di questa causa commetterla
alla perizia di que' Dottori, che Sua Maestà stimava più idonei, i
quali senza figura di giudicio, esaminando le ragioni delle Parti,
determinassero chi dovesse succedere nel Contado d'Avellino, se lei,
o pure i suoi congiunti, ovvero dovesse dirsi il Contado devoluto. La
Regina aderì alle sue preci, ed elesse per la decisione della causa il
Gran Cancelliero Marino Boffa, e gli altri di sopra riferiti Dottori,
li quali avendo ben discusso ed esaminato il punto, giudicarono, che
Caterina dovesse succedere, non ostante, che fosse stata dotata dal
fratello; poichè la dote non le fu costituita de' beni del medesimo.
La Regina non solo s'uniformò alla loro determinazione, ma la fece
passare per legge generale del Regno, e nell'anno 1418 sopracciò ne
fece emanar prammatica, per la quale fu stabilito, che fra coloro, che
vivono _jure Francorum_, la sorella maritata, ma non dotata de' suoi
beni, non dovesse escludersi dalla successione del fratello; tutto al
contrario in coloro, che vivono _jure Longobardorum_ dove la sorella
vien esclusa, bastando che fosse stata dotata, o dal comun padre o
dal fratello. Questa è quella prammatica cotanto fra noi rinomata,
detta la _Filingiera_, che porta la data de' 19 gennaio del suddetto
anno 1418, e fu istromentata nel Castel Nuovo; la quale si vede ora
racchiusa nel secondo volume delle nostra prammatiche sotto il titolo
_de Feudis_[292]; intorno alla quale s'è poi tanto scritto e disputato
da' nostri Scrittori Forensi.



CAPITOLO IX.

_Istituzione del Collegio de' Dottori in Napoli._


L'Università degli Studj di Napoli, che fiorì tanto sotto il Re Carlo
I e II, e di Roberto suo figliuolo, li quali l'adornarono di molte
prerogative e privilegi, teneva prima il suo Rettore, ch'era uno de'
primi Dottori, allora chiamati Maestri dell'Università, al quale Carlo
e Roberto diedero ampia giurisdizione sopra gli scolari di quella.
Teneva ancora questa Università il suo Giustiziere a parte, ed altri
Ufficiali minori. Da poi, come altrove si disse, la Prefettura degli
Studi fu conceduta al Cappellan Maggiore, il quale come Prefetto n'avea
la cura e soprantendenza. L'università dava i gradi del Dottorato,
di Licenziato, ovvero Baccalaureato, siccome oggi giorno si pratica
nell'Università degli Studj di Francia, e nell'altre città d'Europa.
Anzi la potestà di conferire i Gradi fu da alcuni riputata cotanto
necessaria, e sustanziale dell'Università degli Studj, che senza quella
non meritavano essere l'Accademie chiamate Università[293]. Questo
Dottorato nella maniera, che si conferisce ora, non era riconosciuto
da' Romani: nè molti secoli appresso sino al Pontificato d'Innocenzio
III. Ed il Conringio[294], osserva, che a' tempi d'Alessandro III che
fiorì 20 anni prima d'Innocenzio, non vi era Dottorato, e si permetteva
a tutti, che mostravano erudizione ed idoneità, di reggere gli Studi
delle lettere e le scuole; ed il primo, che tra i Cancellieri di Parigi
fosse onorato col titolo di Maestro (che in quel tempo l'istesso
era ciocchè noi chiamiamo Dottore) fu Pietro di Poitiers, il qual
fiorì sotto Innocenzio III[295]. Ed il Mulzio e Vitriario portarono
opinione, che nel duodecimo secolo questi Gradi si fossero introdotti.
Regolarmente le Università degli Studi gli conferivano, ed in Napoli ed
in Salerno, prima che regnasse la Regina Giovanna, quelle Università
gli davano; nè fu questa Regina, che prima gl'istituisse, perchè
dall'istesso suo privilegio si vede, che nell'Università v'erano i
Dottori ed il Rettore, destinati per la creazione degli altri.

La Regina Giovanna II volle farne un Collegio separato con
trascegliergli, parte dall'Università degli Studi e parte dagli altri
Ordini, al quale unicamente attribuì il potere di dar i gradi di
Licenziatura e di Dottorato. I primi Dottori, che si trascelsero, e che
sono nominati nel privilegio della istituzione, istromentato nel Castel
di Capuana nell'anno 1428, furono il Dottor Giacomo Mele di Napoli,
che fu creato priore del Collegio. Andrea d'Alderisio di Napoli Dottor
di leggi: Marino Boffa, che privato del posto di Gran Cancelliere, si
vide come Dottore ascritto con gli altri in questo Collegio: Gurrello
Caracciolo di Napoli Dottor di leggi: Giovanni Crispano di Napoli
Vescovo di Tiano Dottor di leggi: Goffredo di Gaeta di Napoli Milite e
Dottore: Carlo Mollicello di Napoli Dottor di leggi e Milite: Girolamo
Miroballo di Napoli Dottor di leggi: e Francesco di Gaeta di Napoli
parimente Dottor di leggi. Concedè ancora nell'istesso privilegio la
sovrantendenza e giurisdizione così nelle cause civili, come nelle
criminali de' Dottori e Scolari, al Gran Cancelliere del Regno, che
allora era Ottino Caracciolo, non intendendo però pregiudicare alla
giurisdizione del Giustiziere degli Scolari[296]; e sottopose il
Governo del Collegio al Gran Cancelliere o suo Vicecancelliere, ch'egli
volesse eleggere, assegnandogli i Bidelli, il Segretario ed il Notaro.

La prima e principal prerogativa che gli diede, fu di conferire i
gradi di Dottorato o Licenziatura nelle leggi civili e canoniche. Si
prescrissero i doni, ovvero sportule che gli Scolari doveano prestare
così al Vicecancelliere, come agli altri Dottori del Collegio quando
si dottoravano; e fra l'altre cose comandò, che all'Arcivescovo di
Napoli, se si trovasse presente all'atto del Dottorato, se gli dovesse
dare una berretta ed un par di guanti[297]: ciò che in decorso di tempo
andò in disusanza, perchè gli Arcivescovi di Napoli saliti in maggior
fasto e grandezza, sdegnarono di più intervenire a queste funzioni,
niente curandosi d'un sì picciol dono. Stabilì in fine il numero de'
Collegiali, la loro Elezione ed il modo da doversi tenere nel Dottorare
e si disposero le Precedenze, così nel sedere, come nel votare, e
si diedero altri particolari provvedimenti, li quali si leggono nel
privilegio della fondazione, che fu tutto intero impresso dal Reggente
Tappia ne' suoi volumi[298], e ne fece anche menzione Matteo degli
Afflitti[299]; ed il Summonte[300] rapporta in più occasioni essersi il
di lui transunto presentato nel S. C., ed ultimamente Muzio Recco[301]
lo stampò anch'egli insieme con le sue chiose, che vi compose, piene di
molte cose puerili, e d'inutili quistioni.

Questo Collegio non era che di Dottori dell'una e l'altra legge; era
ancor di dovere che se ne formasse un altro di Filosofi e di Medici,
e la Regina a richiesta del Gran Cancelliere Caraccioli non fu pigra a
stabilirlo. Ella dopo un anno e nove mesi, nel 1430 a' 18 agosto spedì
altro privilegio per la sua fondazione. Lo sottopose parimente al Gran
Cancelliere, volendo che ne fosse egli il Capo ed il Moderatore o in
sua vece il suo Luogotenente. Gli diede il suo Priore, e trascelse a
questa carica il Priore del Collegio di Salerno, Salvatore Calenda, il
qual era anche Medico della Regina. L'assegnò un Notaro, ed un Bidello;
e volle che i Collegiali fossero, oltre Salvator Calenda Priore,
Pericco d'Attaldo d'Aversa Medico e Lettore di Medicina nell'Università
degli Studj di Napoli: Raffaele di Messer Pietro Maffei della Matrice,
Medico e Lettore nell'Università suddetta: Antonio Mastrillo di Nola,
Medico: Battista de Falconibus di Napoli, Medico e parimente Lettore
in Napoli: Angiolo Galeota di Napoli, Medico e Lettore in detta
Università: Nardo di Gaeta di Napoli, Milite e Medico della Regina:
Luigi Trentacapilli di Salerno, Milite e Dottore in Medicina: Maestro
Paolo di Mola di Tramonti, Medico: Roberto Grimaldo d'Aversa Medico: e
Paolino Caposcrofa di Salerno, suo familiare e Medico.

Avendo parimente posto questo Collegio sotto la giurisdizione del
Gran Cancelliere, ordinò che questi fosse il Giudice competente nelle
cause, così civili come criminali de' Medici Collegiali; prescrisse
parimente i doni che i Dottorandi dovean dare: ordinò che l'esperienza,
che doveva farsi dell'abilità del Dottorando, si facesse sopra gli
_Aforismi_ d'Ippocrate e ne' libri della Fisica e de' _Posteriori_
d'Aristotele. Pure all'Arcivescovo di Napoli, intervenendo alla
funzione, stabilì che se gli dasse la berretta ed un par di guanti: a'
Teologi pure un par di guanti e così anche agli altri nella forma che
si legge nel privilegio. Stabilì il modo di dottorare, e prescrisse
anche il numero, l'elezione e le precedenze de' Collegiali.

Egli è da notare che ad amendue questi Collegi dalla Regina furono
ammessi non pure gl'oriundi ed i cittadini napoletani, ma anche gli
oriundi del Regno, i quali per quattro anni continui avessero nella
città di Napoli pubblicamente insegnato nelle scuole. Di questo
privilegio fece parimente menzione Afflitto[302]; ed il Summonte[303]
anche attesta, essersi il suo transunto presentato in occasion di liti
nelle Banche del S. C. ed il Reggente Tappia lo fece anche imprimere
nel suo _Jus Regni_.

A questi due fu poi unito il Collegio di Teologia, composto di Teologi,
e per lo più di Reggenti e di Lettori Claustrali. Dottorano anch'essi
in teologia e danno lettere di Licenziatura. È parimente sotto la
giurisdizione del Gran Cancelliere che lo riconosce per suo Capo
e Moderatore. Così oggi il Collegio di Napoli vien composto di tre
ordini di Dottori, di coloro di legge civile e canonica, di Dottori di
filosofia e di medicina e dell'altro di teologia: essi danno i gradi
e le licenziature nelle leggi, nella filosofia e medicina e nella
teologia. Collegio che ancorchè ceda a quello di Salerno per antichità,
si è però innalzato tanto sopra di quello, che secondo portano le
vicissitudini delle mondane cose, non pur contese, per la maggioranza,
ma ora, e per lo numero e per dottrina de' Professori, tanto egli s'è
reso superiore, quanto l'una città è sopra l'altra più eccelsa e più
eminente.

Da' successori Re _Aragonesi_, e più dagli _Austriaci_ intorno
all'amministrazione e governo di questo Collegio, circa i requisiti
richiesti ne' Dottorandi, e per la sua forma e durata, furono stabiliti
più ordinamenti, che si leggono nel volume delle nostre prammatiche;
ed il Reggente Tappia[304] ne unì insieme molti sotto il titolo _De
Officio M. Cancellarii_. Giovan Domenico Tassone[305] ne trattò anche
nel suo Magazzino _De Antefato_ e finalmente _Muzio Recco_[306] nel
1647 ne stampò un volume, ove anche vi tessè un ben lungo Catalogo di
tutti i Dottori di questo Collegio dall'anno 1428 sino al 1647, il qual
Catalogo fu poi dagli altri continuato sino a' nostri tempi.



CAPITOLO X.

_Politia delle nostre Chiese durante il tempo dello Scisma, insino al
Regno degli Aragonesi._


Le revoluzioni accadute dopo la morte del savio Re Roberto insino al
Regno placido e pacato del Re Alfonso, conturbarono non meno lo Stato
politico e temporale di questo Reame, che l'Ecclesiastico e spirituale
delle nostre Chiese. Lo Scisma, che surse per l'elezione d'_Urbano IV_
e di _Clemente VII_, ci fece conoscere in un medesimo tempo non pure
due Re, ma due Papi; e diviso il Regno in fazioni, siccome miseramente
afflissero l'Imperio, così anche il Sacerdozio rimase in confusione ed
in continui sconvolgimenti e disordini. Colui era fra noi riputato il
vero Pontefice, il quale avea il favore e l'amicizia de' nostri Re; e
siccome la fortuna sovente mutava il Principe, così variavasi fra noi
il Pontefice. L'indisposizione del capo faceva languire tutte le altre
membra; onde i Prelati delle nostre Chiese si videro ora intronizzati,
ora cacciati dalle loro Sedi, secondo la varia fortuna de' Principi
contendenti. _Urbano VI_ nel principio della sua intronizzazione, che
avvenne nel 1378, fu da noi riconosciuto per Papa; ma scovertisi poi
i difetti della sua elezione e l'animo de' Cardinali di dichiararla
nulla, e di crearne un, altro, la nostra Regina Giovanna I per le
cagioni rapportate nel XXIII libro di questa Istoria, gli diè favore,
ed agevolò l'impresa, e diede mano, che l'elezione si facesse ne'
suoi Stati e propriamente a Fondi, dove nello stesso anno s'elesse
il nuovo Papa _Clemente VII_, il quale fu da lei accolto ed adorato
in Napoli come vero Pontefice. Nacquero perciò nelle nostre Chiese
disordini grandissimi, e sopra ogni altra in quella di Napoli, poichè
sedendo quivi l'Arcivescovo _Bernardo_, avendo costui aderito alle
parti della Regina e di Clemente, fu da Urbano deposto e creato in suo
luogo Arcivescovo l'Abate Lodovico _Bozzuto_, il quale concitando il
Popolo avea occupata la sede, e cacciata la famiglia di Bernardo. Ma
la Regina avendo sedato il tumulto, fugò il Bozzuto, fece abbattere
le sue case, ruinare le possessioni[307], e richiamò Bernardo, il
quale resse questa Chiesa insino che Napoli non fu occupata da Carlo
III di Durazzo. Questi invitato da Urbano, il quale avea scomunicata
la Regina, e data a lui l'investitura del Regno, fece strozzare la
Regina, s'impossessò del Reame, ed afflisse inumanamente tutti i suoi
partigiani, spogliandogli de' loro Feudi, delle dignità e di tutti
i loro beni. Dall'altra parte Urbano, per vendicarsi di coloro, che
aveano aderito a Clemente, mandò tosto per Legato nel Regno il Cardinal
Gentile di Sangro, il quale superando di gran lunga le crudeltà di
Carlo, perseguitò barbaramente tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Abati,
Preti, in fine tutti i Cherici del Regno partigiani di Clemente,
imprigionandogli, tormentandogli e spogliandogli di tutte le dignità,
beneficj e beni, non perdonando nè ad età, nè ad onore, nè allo stato
di qualunque persona; ed Urbano lodando il rigore del suo Legato, per
accrescere maggior miseria agli spogliati, e tor loro ogni speranza,
diede ad essi tosto i successori e per cosa assai portentosa si narra,
che in un sol giorno creasse trentadue tra Vescovi ed Arcivescovi per
lo più Napoletani, e singolarmente favorisse coloro, i quali aveano
dato ajuto a Carlo per l'acquisto del Regno, non richiedendo altro
merito che questo[308]. Nè di ciò soddisfatto il Legato, fece un dì
nella chiesa di S. Chiara al cospetto del Re Carlo, de' suoi principali
Signori e di tutto il Popolo napoletano, ignominiosamente condurre
Lionardo di Gifoni Generale dell'Ordine de' Minori di S. Francesco,
già stato eletto Cardinale da Papa Clemente: Giacomo de Viss franzese,
Arcivescovo di Otranto e Patriarca di Costantinopoli Cardinale eletto
da Clemente, e mandato nel Regno per suo Legato: Casello Vescovo di
Chieti, ed un certo Abate nominato Massello, ch'erano stati affezionati
alla Regina, e gli costrinse ad abjurare Clemente, e professare Urbano:
da poi gli fece spogliare degli abiti e del Cappello Cardinalizio,
del manto e della cocolla episcopale, ed accesa una pira, fece quelle
spoglie tutte ardere al cospetto del popolo: dopo questo gli fece di
nuovo condurre in oscuro carcere, dove per lungo tempo dimorarono[309].
E narra Teodorico di Niem[310], che le crudeltà, che usò il Cardinal di
Sangro nel Regno contro tutti gli Arcivescovi, Vescovi, Abati, Preti e
Cherici partigiani della Regina e che avean aderito a Clemente, furono
tali, che non si possono senz'orrore ascoltare.

Ma furono non guari da poi disturbati i partigiani d'Urbano; perchè
Luigi I d'Angiò chiamato al Regno da Giovanna, ed investito da
Clemente, calò nel 1382 per riacquistarlo. Si oppose Urbano, ed usò
ogni arte ed ingegno per render vano il suo disegno; e venuto in
Napoli lo dichiarò scismatico, lo scomunicò, gli bandì contro _la
Cruciata_, concedendo indulgenza plenaria e remission di ogni peccato
a tutti coloro, che contro lui pigliavano l'arme; e creò Confaloniere
di S. Chiesa il Re Carlo, benedicendogli lo stendardo, che gli diede
nel Duomo di Napoli nella solennità della Messa. Perchè mancava il
denaro per sostenere una sì aspra e crudel guerra, egli diede facoltà
a Filippo Gezza e Poncello Orsino suoi Cardinali di poter vendere e
pignorare li fondi e le robe di tutte le chiese, ancorchè i Prelati
ed i Capitoli dissentissero; ed allora le nostre Chiese patirono un
guasto terribile de' loro beni, perchè Carlo, premendo il bisogno della
guerra, gli faceva vendere a vilissimo prezzo[311]. Mentre Carlo visse,
la parte Angioina quasi in niente prevalse; ma costui morto, Re Luigi
invase il Regno, ne discacciò Margarita, vedova del morto Re, col suo
figliuolo Ladislao; e nell'anno 1387 gli confinò a Gaeta.

Risorta perciò nel Regno la fazione di Clemente, gli partigiani
d'Urbano furono tutti a terra. Clemente intanto, morto _Bernardo_
nell'anno 1380 avea rifatto in suo luogo per Arcivescovo di Napoli
_Tommaso de Amanatis_, il quale, mentre durò l'intrusione del _Bozzuto_
e la fazione d'Urbano, dimorò sempre in Avignone, dove Clemente lo creò
pure Cardinale e dove morì; variando gli Scrittori non meno intorno
l'anno della sua promozione, che della sua morte[312]; e Clemente tosto
gli diede l'Arcivescovo _Guglielmo_ per successore. Dall'altra parte
Urbano, morto _Bozzuto_ nell'anno 1384 non mancò di dargli _Niccolò
Zanasio_ per successore; ma costui, non meno che Tommaso, seguendo le
parti della Regina Margarita, morì esule della sua Chiesa, da lui già
resignata, in Cremona nell'anno 1389 avendogli intanto Urbano prima di
morire nell'anno 1386 dato per successore l'Arcivescovo _Guindazzo_,
il quale seguitando con molta costanza le parti d'Urbano; e prevalendo
a' suoi tempi la parte Angioina, non potè godere la possession
pacifica della sua Chiesa: poichè confinata la Regina Margarita e
Ladislao in Gaeta, ed ubbidendo Napoli ed il Regno al Re Luigi ed al
Pontefice Clemente, l'Arcivescovo _Guglielmo_ era riconosciuto da'
Napoletani[313].

Papa Clemente non volle essere riputato meno di Urbano in opporsi a'
disegni di Ladislao che fatto adulto s'accingeva all'Impresa del Regno,
per discacciarne Luigi suo competitore; onde pure egli residendo in
Avignone, diede licenza al Re Luigi ed a coloro che governavano il
Regno suoi partigiani, che per la guerra contro Ladislao potessero
valersi di tutti i vasi d'argento e d'oro delle chiese per coniar
moneta per stipendio de' soldati: e così fu fatto, perchè tutti i vasi
delle chiese furono parte coniati e parte venduti, con inestimabile
danno di quelle[314]. Non si legge però essersi praticate da Clemente
contro i Vescovi ed Abati, partigiani del suo Competitore, quelle
crudeltà che usò Urbano per mezzo del Cardinal di Sangro.

Rimase il partito di Clemente in fiore per tutto l'anno 1389 quando
Ladislao rinvigoritosi, e prendendo forza il suo partito riacquistò
buona parte del Regno; ed allora li disordini si viddero maggiori
nelle nostre Chiese, poichè ardendo la guerra, al variar della fortuna
de' Principi contendenti, variavano le condizioni ed i Prelati delle
Chiese. Nè bastò, per far cessare lo Scisma, la morte d'Urbano seguìta
dopo di quella di Clemente; poichè siccome i Cardinali della fazione
d'Urbano elessero per suo successore _Bonifacio IX_, così morto
Clemente in Avignone nell'anno 1394 i suoi Cardinali tosto vi rifecero
_Benedetto XIII_, e siccome Bonifacio favoriva il Re Ladislao, così
Benedetto prese le parti di Luigi, al quale confermò la Corona del
Regno, concedendogli nuova investitura. E stando il Regno diviso,
Bonifacio era da' suoi riconosciuto, e Benedetto che resisteva in
Avignone avea sotto la sua ubbidienza tutti coloro che seguitavano la
parte Angioina; ed i prelati erano sempre in forse ed in timore di non
esserne cacciati; onde è che Ladislao per accrescere il suo partito
assecurava i timidi, che i loro parenti non sarebbero stati scacciati
dalle Sedi: come fece a Galeotto Pagano, assicurandolo che _Niccolò
Pagano_ suo fratello ch'era nell'ubbidienza di Benedetto XIII non
sarebbe stato cacciato dalla Chiesa di Napoli, ma ch'egli l'avrebbe ad
ogni suo costo fatto mantenere; siccome parimente promise a Giacomo
di Diano di far rimanere in Arcivescovo di Napoli _Niccolò di Diano_
suo fratello, e di là non farlo rimovere o transferire per qualunque
occasione o tempo; siccome si legge ne' diplomi di questo Re rapportati
dal Chioccarello[315]. E per tutto quel tempo che la parte Angioina
potè contrastare a Ladislao, furono non meno che le città, combattute
le nostre Chiese, insino che abbassata la parte Angioina, e tornato il
Re Luigi in Francia, _Bonifacio IX_, _Innocenzio VII_ e _Gregorio XII_
suoi successori, affezionati del Re Ladislao non ripigliasser nel Regno
maggior forza e vigore.

Mentre in Avignone sedeva Benedetto XIII, ed in Roma Gregorio XII,
i Cardinali d'amendue i Collegi, per togliere lo Scisma, presero
espediente d'unirsi in un Concilio a Pisa, e crear essi un nuovo Papa,
e deporre Benedetto e Gregorio e così fecero, creando _Alessandro
V_; ma questo Concilio ebbe per noi inutile successo, perchè ciò
non ostante, il Re Ladislao continuò nell'ubbidienza di Gregorio e
l'accolse nel Regno; ordinò a' suoi sudditi che lo riconoscessero
per vero Pontefice, e gli assegnò la Fortezza di Gaeta per sicuro suo
asilo, dove dimorò per lungo tempo, malgrado d'Alessandro, il quale
perciò gli mosse contro Baldassar Cossa Cardinal Diacono, che trovò
ben presto il modo d'impadronirsi di Roma, di cacciare gli Ufficiali
di Ladislao, e stabilirvi Paolo Orsino. Ma Alessandro, che quando
fu eletto Papa era settuagenario, non sopravvisse gran tempo alla
sua elezione: morì egli in Bologna l'anno 1410, ed in suo luogo fu
rifatto Baldassar Cossa, fiero nemico di Ladislao, che prese il nome
di _Giovanni XXIII_. Costui che nella sua elezione ebbe il favore e la
raccomandazione del Re Luigi II d'Angiò emolo di Ladislao, il primo
disegno, che concepì giunto al Pontificato, fu di spogliar Ladislao
del Regno di Puglia: ed in effetto pose in piedi un esercito contro
lui, andò verso Capua, lo sconfisse, e ritornò trionfante in Roma.
Ma Ladislao, ch'era un Principe d'animo invitto, tosto si ristabilì,
sicchè ridusse il Papa a voler pace con lui, la qual si fece con
condizione che cacciasse da' suoi Stati Gregorio, e facesse in quelli
riconoscer lui come vero Pontefice. Ladislao eseguì il trattato: onde
Gregorio cercò il suo rifugio nella Marca d'Ancona sotto la protezione
di Carlo Malatesta, dove dimorò sino al Concilio di Costanza. Così
discacciato _Gregorio_, il quale insino all'anno 1412 era stato adorato
in Napoli, fu da poi riconosciuto per Pontefice _Giovanni_ insino
all'anno 1415 quando dal Concilio di Costanza fu egli deposto; il
quale finalmente acquetandosi alla sentenza di quel Concilio si spogliò
l'abito pontificale.

Non riconobbe poi il nostro Reame niun altro Pontefice per tutto il
tempo che corse dalla deposizione di Giovanni, insino all'elezione
fatta dal Concilio di Costanza di Papa _Martino V_, seguita in
novembre dell'anno 1417, tanto che quasi per due anni e mezzo si riputò
appresso noi vacare la Sede Appostolica: onde nelle scritture fatte
in Napoli in questo tempo, non si metteva nome d'alcun Pontefice, ma
si diceva, _Apostolica Sede vacante_[316]; poichè siccome dopo deposto
dal Concilio _Giovanni_, non fu riputato Pontefice, molto più deposti
Gregorio e Benedetto, non furono da noi per niente riconosciuti.
Ma eletto dal Concilio _Martino V_, siccome questi fu riconosciuto
da quasi tutto il Mondo cattolico per vero e legittimo Pontefice,
così da' nostri Principi e da tutte le Chiese e Popoli del Regno, in
Napoli, e da per tutto fu adorato ed avuto per solo e vero Pontefice;
e quantunque il Re Alfonso per tener in freno il Pontefice Martino
sostenesse ancora il partito di _Benedetto XIII_, e costui morto
nell'anno 1424, quello di _Clemente VIII_ suo successore, eletto da
due soli Cardinali ch'erano rimasi appresso di esso; nulladimanco
ciò presso di noi non apportò alterazione alcuna, così perchè Alfonso
non impedì a suoi sudditi il riconoscer Martino, come anche perchè si
sapeva il fine che lo spingeva a proteggere il partito di Clemente:
essendosi ancora Alfonso sdegnato con Martino, perchè avea investito
Luigi III del nostro Regno suo emolo e competitore. Ma cessate infra
di loro le discordie e rappacificati, Alfonso mandò il Cardinal di Foix
Legato in Ispagna, perchè Clemente cedesse, il quale nell'anno 1429 fu
costretto nelle mani del Legato renunziare ogni suo diritto, siccome
i Cardinali ch'egli avea creati, anche volontariamente rinunziarono
al Cardinalato; ed in cotal maniera terminossi interamente lo Scisma
che per lo spazio di cinquantuno anni avea miseramente lacerata la
Chiesa; e _Martino V_ restò solo ed unico Papa, riconosciuto da tutto
l'Occidente.

Fu data perciò pace alle nostre Chiese, le quali non furono in niente
turbate per lo Scisma rinovato dal Concilio di Basilea, il quale
nell'anno 1439 avendo deposto _Eugenio IV_ successor di Martino,
avea confermata l'elezione fatta da' suoi Commessarj d'Amedeo Duca di
Savoja, che si faceva chiamare _Felice V_ poichè sebbene Alfonso per
le cagioni, che si diranno nel seguente libro, lo favorisse, non fu
mai dalle nostre Chiese riconosciuto per Pontefice, rimanendo sempre
nell'ubbidienza di Papa Eugenio: siccome dopo la di lui morte, accaduta
nel 1447, di _Niccolò V_ successore, per l'elezione del quale finì
anche lo Scisma, perchè essendo costui un uomo mite e pacifico, ascoltò
volentieri le proposizioni d'accordo che gli furono fatte da' Principi
cristiani; e dall'altra parte _Felice_, ed i suoi aderenti trovandosi
parimente disposti alla pace, s'indusse a rinunziare alla pontifical
dignità, e gli fu accordato che sarebbe egli rimaso il primo fra'
Cardinali e Legato perpetuo della Santa Sede in Alemagna.

Il Concilio di Costanza rimediò ancora a' disordini preceduti delle
nostre Chiese; poichè, per lo ben della pace e per togliere le
dissensioni fra due partiti, sul dubbio di chi de' due Contendenti
dovesse riputarsi il vero e legittimo Pontefice, e per conseguenza
quali elezioni e provisioni da essi fatte dovessero rimaner ferme,
previde che i Cardinali, Vescovi, Abati, Beneficiati e tutti gli
Ufficiali delle due Ubbidienze fossero mantenuti nel possesso de'
loro posti, e che le dispense, indulgenze e l'altre grazie concedute
da' Papi delle due Ubbidienze, come pure i decreti, le disposizioni
ed i regolamenti che avessero fatti, dovessero avere la loro
sussistenza[317]. In cotal guisa rimasero le nostre Chiese in pace;
siccome la Chiesa di Roma dopo l'elezione di _Niccolò V_ insino
alla fine di questo secolo fu in pace; ed i Pontefici furon da poi
occupati più nelle guerre d'Italia, e nella cura di sostenere la
lor potenza temporale, e di stabilire la propria famiglia, che negli
affari ecclesiastici. Erano ancora occupati per cagion di coloro, che
d'ordinario si portavano in Roma per le Canonizzazioni de' Santi: per
ottener privilegi a' monasterj: per gli affari degli Ordini di tante
e sì varie religioni: per ottener indulgenze e dispense: per le liti
fra le Chiese e gli Ecclesiastici che si tirarono tutte a Roma, dove
parimente si tirarono le collazioni di tutti i beneficj, colle riserve,
grazie, aspettative, prevenzioni, annate e tutte l'elezioni de'
Vescovadi e Badie, ed altre provisioni di beneficj; per i litigj fra
Curati e Religiosi sopra l'amministrazione de' Sacramenti e sopra tante
altre faccende; onde lor si diede occasione di stabilire tante Bolle
e lettere, le quali col correr degli anni crebbero in tanto numero,
che ora se ne veggono compilati ben cinque volumi, sotto il titolo di
_Bullario Romano_[318].


§. I. _Monaci e beni temporali._

Le nostre Chiese, durante il tempo dello Scisma, non fecero notabili
acquisti di beni temporali, poichè l'Ordine chericale era in poco
credito; anzi le ostinate guerre che insorsero, sovente obbligarono i
nostri Principi, con permissione de' romani Pontefici, di dare a' loro
beni guasti terribili, insino a venderli e impegnargli, ed a valersi,
per gli stipendj de' soldati, de' loro vasi d'oro e d'argento. I
Monaci vecchi avendo già perduto il credito di santità, non erano più
riguardati. Tutta la devozion de' popoli era rivolta verso i novelli
Ordini di nuove religioni, che s'andavano alla giornata ergendo;
e siccome altrove fu osservato, nel Regno degli _Angioini_, i più
accreditati erano i _Mendicanti_, e fra questi i più favoriti furono
i _Frati Predicatori_ ed i _Frati Minori_. La Regina Giovanna II in
ammenda delle sue lascivie diedesi pure a favorirgli, e a disporre il
suo animo ad opere di pietà. Oltre di aver fondato un nuovo ospedale
nella chiesa dell'Annunziata di Napoli, dotandolo di ricchissime
rendite, e d'aver ampliato l'ospedale e la chiesa di S. Niccolò del
Molo, riparò in grazia de' _Frati Minori_ il monastero della Croce
di Napoli, ed ordinò che tutti coloro ch'aveano rubato in tempo suo
e della Regina Margarita e di Ladislao suo fratello al Fisco regio,
fossero assoluti, con pagar il due per cento delle quantità rubate ed
occupate: ed a tal effetto avea posta una cassa dentro il monastero di
S. Maria della Nuova, dove i ladri doveano portar il denaro, ch'ella
avea destinato per reparazione di quel monastero[319]. Donò ancora
al monastero di S. Antonio di Padova, ora disfatto, molti poderi,
a contemplazione di Suor Chiara già Contessa di Melito; e confermò
al monastero di S. Martino sopra Napoli, li privilegi e concessioni
fatte al medesimo dalla Regina Giovanna I di governare lo spedale
dell'Incoronata da lei fondato e dotato, facendo franca la chiesa e sue
robe d'ogni ragion fiscale, affinchè gl'infermi fossero ben trattati;
ora i beni donati e le franchigie concesse son rimase, ma _lo spedale_,
come dice il Summonte[320], _è dismesso; e dove si governavano
gl'infermi, ora vi sono magazzini di vino_.

Favorì ancora questa Regina _Giovanni da Capistrano_, Terra posta
nell'Apruzzo Ultra, _Frate Minore_ e discepolo di S. Bernardino di
Siena, il quale datosi nella sua giovanezza agli studii legali, vi
riuscì eminente e fu creato Giudice della Gran Corte della Vicaria; ma
da poi abbandonando il secolo, si fece religioso di S. Francesco, e fu
più celebre per le sue spedizioni, che per li suoi trattati di legge e
di morale che ci lasciò, de' quali il Toppi[321] fece catalogo. Egli si
fece capo d'una Crociata contro i _Fraticelli_ e gli _Ussiti_, ed andò
in persona alla testa delle truppe che guerreggiavano contro i Boemi.
La Regina Giovanna gli diede anch'ella commessione di proibire ai
Giudei del nostro Regno l'usure, e che potesse costringergli a portare
il segno del _Thau_, perchè fossero distinti da' Cristiani. Fu ancor
rinomato per lo spaventoso soccorso, che diede alla città di Belgrado
assediata da Turchi, e per gli altri impieghi marziali, ch'ebbe in
Ungheria, dove nell'anno 1456 finì i giorni suoi.

(La morte di _Giovanni da Capistrano_, secondo che rapporta
_Gobellino_[322], bisogna riportarla ne' seguenti anni; poichè questi
lo fa intervenire nel Concilio di Francfort, celebrato nell'anno 1454,
scrivendo ancora, che le sue prediche poco profittarono nella guerra
contro a' Turchi. _Aderat et Johannes Capistranus ordinis minorum
Professor vitae sanctimonia, et assidua verbi Dei praedicatione clarus,
quem populi velut prophetum habebant, quamvis in bello contra Turcas
suadendo paucum proficeret)._

Un nuovo Ordine, che surse a questi tempi fra noi, diede occasione a
nostri Principi _Aragonesi_, perchè non fossero riputati meno degli
_Angioini_, di accrescere anch'essi gli acquisti de' Monaci. Fu questo
l'Ordine _di Monte Oliveto_ istituito in Italia da tre Sanesi, i
quali ritiratisi nel contado di Monte Alcino a menar vita solitaria
in un Monte chiamato _Oliveto_, essendo stati accusati al Pontefice
Giovanni XXII come inventori di nuove superstizioni, fur costretti
giustificare il loro instituto a quel Pontefice, il quale diede
commessione al Vescovo d'Arezzo, nella cui Diocesi era _Monte Oliveto_,
che prescrivesse loro la regola, colla quale dovessero vivere: il
Vescovo gli fece vestire di un abito bianco, dando loro la regola di S.
Benedetto; ed avendo essi edificato in quel Monte un monastero ch'ora
è rimaso capo di questa Congregazione, fra poco tempo se ne edificarono
in Italia degli altri: onde nel 1372 Papa Gregorio XI approvò il nuovo
Ordine, e Martino V parimente lo confermò. In Napoli furono questi
novelli Religiosi introdotti da Gurrello Origlia Cavalier di Porto,
Gran Protonotario del Regno, e molto familiare del Re Ladislao, il
quale nel 1411 dai fondamenti gli edificò chiesa e monastero, dotandolo
di 133 once d'oro l'anno per vitto di 24 Monaci e 14 Oblati. Assegnò
loro anche molti poderi e censi, e fra gli altri li feudi di Savignano,
di Cotugno e di casa Alba nel territorio d'Aversa: li territorii
d'Echia colle grossissime rendite che da quelli si traggono, non
riserbandosi altro per se e suoi successori, se non che i Monaci gli
dovessero ogni anno nel dì della Cerajuola, presentare un torchio di
cera d'una libbra, in segno del padronato che e' si riserbava, come
fondatore di quella chiesa[323].

Ma da poi ne' tempi de' nostri Re Aragonesi crebber assai più
gli acquisti e le lor ricchezze; ed Alfonso II sopra gli altri
affezionatissimo di quest'Ordine, gli arrichì estraordinariamente;
poichè oltre d'aver loro donate molte preziose suppellettili e vasi
d'argento, ed ingrandite le loro abitazioni, ed adornate con dipinture
eccellenti, donò loro anche tre castelli cioè Teverola, Aprano e
Pepona, con la giurisdizione civile e criminale. Ciò che fu imitato
anche dagli altri Re _Aragonesi_, il Regno de' quali saremo ora a
narrare:


  FINE DEL LIBRO VENTESIMOQUINTO.



STORIA CIVILE DEL REGNO DI NAPOLI

LIBRO VENTESIMOSESTO


Il Regno di Napoli trasferito dagli Angioini in mano d'Alfonso Re
d'Aragona, ancorchè passasse sotto la dominazione d'un Re potentissimo
per tanti Regni ereditari, che possedeva, per Aragona, Valenza,
Catalogna, Majorica, Corsica, Sardegna, Sicilia, il Rossiglione e
tant'altri floridissimi Stati: e nuove famiglie, nuovi costumi, e
molti istituti portati da Spagna si fossero in quello introdotti;
nulladimanco fortunatamente gli avvenne, che da questo magnanimo Re
non fosse trattato come Regno straniero, nè reputato forse, come una
provincia del Regno di Aragona; ma l'ebbe, come se fosse suo avito
Regno, e nazionale; anzi vi erse in Napoli un Tribunal così eminente,
che ordinò che a quello dovessero per via d'appellazione portarsi non
solo le cause di queste nostre province, ma di tutti gli altri suoi
vastissimi Regni.

Sia la sua amenità o grandezza, il tanto numero de' grandi Baroni, la
sua eminente nobiltà, siano gli amori della sua cara Lucrezia Alagna
egli è evidente, che lo preferì a tutti gli altri suoi dominj, e non
si vide mai in tanta floridezza e splendore, quanto negli anni del
suo Regnare. Egli fermò in Napoli la sua sede regia, e quivi volle
menar il rimanente di sua vita, e finire quivi i suoi giorni: e quasi
dimenticatosi degli altri suoi paterni Regni, tutte le sue cure, e
tutti i suoi pensieri furono verso questo Reame drizzati. La Sicilia
vicina, che divisa dal Regno fin dal famoso Vespro siciliano, ora
s'unisce, a lui accrebbe parimente utilità e grandezza. Quindi avvenne
che per essersi nella sua persona riuniti questi Regni, cominciò a
chiamarsi Re dell'una e l'altra Sicilia, ut et hinc, come dice il
Fazzello[324], _Pontificum Romanorum authoritatem non improbare,
et vetustam observationem non negligere videretur, non ignarus, cum
eruditissimus esset, illius usurpatam esse, et novitiam vocem._ Ciocchè
poi usarono gli altri Re suoi successori che dominarono l'uno e l'altro
Reame. Ma la principal cagione, onde anche dopo la di lui morte questo
Regno mantenesse la sua propria dignità, e che conservasse i suoi
proprj Re, e non dipendesse da Principi stranieri, li quali tenendo
altrove collocata la Regia loro sede, per mezzo de' loro Ministri
soglion governare, come avvenne dal tempo di Ferdinando il Cattolico
in poi; fu l'avere Alfonso proccurato per via di legittimazione,
d'investiture e acclamazione de' Popoli che il Regno di Napoli,
mancando egli senza figliuoli legittimi, non passasse con tutti gli
altri Regni ereditarj sotto la dominazione di Giovanni suo fratello e
degli altri Re d'Aragona, ma ne fosse investito ed acclamato per suo
successore _Ferdinando_ d'Aragona suo figliuolo bastardo, il quale sino
a Federico d'Aragona ultimo Re di questa linea, perpetuò per molti anni
nella sua discendenza questa successione in guisa che il Regno ebbe
insino al Re Cattolico proprj Principi, anzi più che Nazionali; poichè
non avendo essi in altre parti altri Stati e dominj, il Regno di Napoli
era la loro unica sede e la propria Patria.

Molto dunque deve Napoli ed il Regno ad Alfonso, il quale posponendo
gli altri suoi Regni, in questa città fermò il suo soglio, ed
all'antica nobiltà normanna, sveva e franzese aggiungendovi altra
nuova ch'e' portò di Spagna, di nuove illustri famiglie l'accrebbe e
adornò. Egli vi portò i Cavanigli, i Guedara, i Cardenes, gli Avalos
e tante altre, che ancora ci restano, e che rischiarano colla nobiltà
del loro sangue questo Regno: oltre a' Villamarini, Cardona, Centeglia,
Periglios, Cordova e tante altre famiglie nobilissime che son ora tra
noi estinte. Egli riordinò il Regno con frequenti Parlamenti, con nuove
numerazioni e con migliori istituti e nuovi Tribunali.

Non è mio proponimento, nè sarebbe dell'istituto della mia opera,
voler in questa Istoria narrare i magnifici ed egregj suoi fatti: ebbe
quest'Eroe particolari Autori, che di lui altamente e diffusamente
scrissero, due Antonj, Zurita e Panormita, Bartolommeo Facio, Enea
Silvio, poi Papa Pio II, il celebre Costanzo, Spiegello, Gaspare
Pellegrino e tanti e sì illustri che empierono le loro carte de' suoi
famosi gesti. A noi, perciò che richiede il nostro istituto, basterà
rapportare ciò che appartiene alla politia, colla quale questo Principe
governò il Regno: che cosa di nuovo fuvvi introdotto, e quali fossero
le sue vicende e mutazioni nello stato, così civile e temporale, come
ecclesiastico e spirituale.



CAPITOLO I.

_De' capitoli e privilegi della città e Regno di Napoli e suoi Baroni._


Da poi ch'ebbe Alfonso interamente sconfitti coloro della parte
Angioina, ed in tutte le parti del Regno fatto correre le sue bandiere,
pensò convocare un general Parlamento per dar sesto a molte cose che
le precedute guerre avean poste in disordine e confusione. Lo intimò a
Benevento, e per questo mandò per tutte le province lettere a' Baroni
ed alle Terre demaniali che ad un dì prefisso ivi si trovassero; ma i
Napoletani mandarono a supplicarlo che trasferisse il Parlamento nella
città di Napoli ch'era capo del Regno, e così fu fatto: v'intervennero
due Principi, poichè in questi tempi non ve n'eran più nel Regno, il
Principe di Taranto Balzo e quello di Salerno Orsino, il primo Gran
Contestabile e l'altro Gran Giustiziere: v'intervennero tutti gli altri
cinque Ufficiali della Corona: quattro Duchi, quel di Sessa Marzano,
il Duca di Gravina Orsino, il Duca di S. Marco Sanseverino, ed il
Duca di Melfi Caracciolo (poichè il Duca d'Atri Acquaviva ed altri
Baroni che aveano seguita la parte di Renato, ancorchè chiamati, non
s'assicurarono venire innanzi al Re): due Marchesi, quel di Cotrone
Centeglia e l'altro di Pescara Aquino: molti Conti, e moltissimi Baroni
e Cavalieri dei quali il Costanzo ed il Summonte fecero lungo catalogo.

In questo Parlamento propose il Re che avendo liberato il Regno
dall'altrui invasioni, per poterlo nell'avvenire mantener in pace e
difenderlo da chi cercasse turbarlo, era di dovere che si stabilisse
per tutto il Regno un annuo pagamento per mantenere uomini d'arme per
la difensione di quello: consultarono sulla richiesta, e si conchiuse
di costituirli un pagamento d'un ducato a fuoco, da pagarsi ogni anno
per tutto il Regno, con che il Re dovesse all'incontro dar ad ogni
fuoco un tomolo di sale, e levar ogni colletta, colla quale prima
si vivea[325]. Si fece al Re l'offerta con chiedergli ancora alcune
grazie. Alfonso l'accettò, promise tener mille uomini d'arme pagati
a pace ed a guerra, e diece galee per guardia del Regno, e concedè
magnanimamente quelle grazie che gli furon dimandate.

Molti furon i privilegi che si veggono ora impressi in un particolar
volume: fra gli altri fu stabilito di dar udienza pubblica in tutti i
venerdì a' poveri e persone miserabili: fu lor costituito un Avvocato
con annuo soldo da pagarsi dalla Camera del Re: che nella Gran C.
della Vicaria in luogo del Gran Giustiziere dovesse continuamente
assistere il suo Luogotenente, ovvero Reggente con quattro Giudici per
l'amministrazion della giustizia: che alli Baroni si conservassero li
privilegj delle giurisdizioni a loro conceduti: che fossero sciolti
da ogni pagamento d'adoa: che pagandosi per ciaschedun fuoco carlini
diece, se gli somministrasse un tomolo di sale: che s'assegnasse a
spese del regio Erario un avvocato a' poveri: ed altri privilegj
e grazie concedette non meno alla città di Napoli che a tutte
l'Università e Terre del Regno.

L'orme d'Alfonso furon da poi calcate dagli Re suoi successori, i quali
in occasioni simili, avendo dal Regno richieste, ed essendo loro state
accordate o nuove imposizioni o donativi di somme considerabilissime,
concederon essi altre grazie alla città e Regno. Molte se ne leggono
di Ferdinando I, d'Alfonso II, di Ferdinando II, di Federico, di
Ferdinando il Cattolico, o del suo Plenipotenziario Gran Capitano, di
Carlo V e di Filippo II. Tanto ch'essendo nell'anno 1588 cresciuto il
lor numero, ebbe il pensiero _Niccolò de Bottis_ di raccoglierle in
un volume che fece imprimere in Venezia, e lo dedicò al Presidente de
Franchis, allora Consigliere.

Ma in decorso di tempo, essendone state altre concedute dal Re Filippo
II, da Filippo III e IV, da Carlo II e ne' nostri tempi dall'Imperador
Carlo VI con grande utilità del pubblico si è proccurato nei passati
anni, farne altra raccolta in un altro volume che si è fatto imprimere
in Napoli (ancorchè portasse il nome di Milano) nell'anno 1719, dove
sono stati impressi li rimarchevoli privilegi e segnalatissime grazie
concedute ultimamente alla città e Regno dal nostro augustissimo e
clementissimo Principe; delle quali secondo l'opportunità se ne farà in
quest'Istoria ricordanza.



CAPITOLO II.

_Successione del Regno dichiarata per la persona di FERDINANDO
d'Aragona figliuolo d'ALFONSO. Pace conchiusa col Pontefice EUGENIO IV
da cui vengono investiti del Regno._


Fu ancora in questo Parlamento dichiarata la succession del Regno
per la persona di Ferdinando figliuolo d'Alfonso; poich'essendo
notissimo a' più intimi Baroni del Re l'amore che e' portava a questo
suo figliuolo, ancorchè naturale, al quale avea spedito privilegio di
legittimazione[326] dove lo dichiarava abile a potergli succedere in
tutti i suoi Stati e particolarmente nel Regno di Napoli; e sapendo
di far gran piacere al Re, proposero agli altri di cercargli grazia
che volesse designare D. Ferdinando suo futuro successore, col titolo
di Duca di Calabria, solito darsi a' figliuoli primogeniti de' Re
di questo Regno: onde col consenso di tutti, Onorato Gaetano che fu
eletto per Sindico di tutto il Baronaggio, inginocchiato avanti al
Re lo supplicò, che poichè S. M. avea stabilito in pace il Regno, e
fatti tanti beneficj, per fargli perpetuare, volesse designare per
Duca di Calabria e suo futuro successore, dopo i suoi felici giorni,
l'illustrissimo Signor D. Ferdinando suo unico figlio[327]; e 'l Re
con volto lieto fece rispondere dal suo Segretario in di lui nome
queste parole: _La serenissima Maestà del Re rende infinite grazie a
voi illustri, spettabili e magnifici Baroni della supplica fatta in
favore dell'illustrissimo Signore D. Ferrante suo carissimo figlio, e
per soddisfare alla domanda vostra, l'intitola da quest'ora, e dichiara
Duca di Calabria immediato erede e successore di questo Regno, e si
contenta se gli giuri omaggio dal presente dì._ Fu subito con gran
giubilo gridato Ferdinando Duca di Calabria e successore del Regno,
e da tutti gli Ufficiali e Baroni suddetti gli fu giurato omaggio e
ligio di fedeltà _ore et manibus_; e ne fu fatto pubblico istromento
in presenza di molti Baroni in quest'anno 1443 che si legge impresso
nel volume de' privilegj suddetti. Nel seguente giorno, il Re con
Ferdinando accompagnato dal Baronaggio andò nel monastero delle Monache
di S. Ligoro, e poichè fu celebrata con pubblica solennità la messa,
diede la spada nella man destra di Ferdinando, e la bandiera nella
sinistra, e gl'impose il cerchio Ducale su la testa, e comandando
che tutti lo chiamassero _Duca di Calabria_, e lo tenessero per suo
legittimo successore: di che anche ne fu fatto pubblico istromento che
parimente ivi si legge.

Ma tutto ciò non bastava per assicurar la successione del Regno nella
persona d'un figliuolo bastardo, ancorchè legittimato, se questo
giuramento e dichiarazione non fosse stata approvata dal Papa, il
quale per l'inimicizia che teneva con Alfonso non gli avrebbe data mai
l'investitura; ed il mal animo del Papa era evidente, poichè avendo
tutti i Potentati di Italia mandato a congratularsi con lui della
vittoria, e della quiete e pace del Regno, solamente il Pontefice
Eugenio non vi mandò; anzi mostrò dispiacer grandissimo della ruina di
Renato e della sua uscita dal Regno. Perciò Alfonso, che avea bisogno
di lui, non solo per istabilire più perfettamente la pace, ma per
ottenere l'investitura del Regno per lo Duca di Calabria, rivoltò tutti
i suoi pensieri per riconciliarsi con lui, e adoperò ogni mezzo por
conseguirlo.

Avea prima Alfonso, come si disse, vedendo l'avversione d'Eugenio,
tenuto secreto trattato con Amedeo duca di Savoja Antipapa, e non
per altro che per ottenere da quello ciò che dal vero Pontefice non
potea conseguire. Lo Scisma che s'era rinovato nella Chiesa dopo
la morte di Martino V per lo Concilio di Basilea, avea posto in
disordine ogni cosa. Ciò che il Papa Eugenio stabiliva, il Concilio
dichiarava nullo; ed all'incontro il Papa tenendo per Conventicola
quella radunanza, tuttociò che in quella si determinava, lo dannava ed
anatematizzava. Il Concilio citò il Papa e non comparendo, lo dichiarò
contumace; finalmente que' Prelati ch'eran rimasi in Basilea, de' quali
componevasi il Concilio, lo deposero il dì 25 giugno dell'anno 1439 e
deputarono alcuni Commessarj per eleggere un nuovo Papa. I Commessarj
elessero Amedeo Duca di Savoja, che, come fu detto, s'era ritirato
nella solitudine di Ripaglia, nella Diocesi di Ginevra, dove vivea
come Romito. La sua elezione fu confermata dal Concilio, e fu nomato
_Felice V_, il quale tosto portossi in Basilea a presiedere in quello.
Papa Eugenio ne teneva aperto un altro in Fiorenza, e vicendevolmente
si condennavano l'un l'altro. La Francia continuò a riconoscere Eugenio
per Papa. L'Alemagna però cominciava a vacillare, e propose di tenere
un nuovo Concilio per giudicare sopra il diritto de' due eletti. Il Re
Alfonso durando nell'inimicizia d'Eugenio, per dargli di che temere,
mandò Luigi Cescases per suo Ambasciadore appresso Felice, e permise
che alcuni Prelati suoi sudditi l'ubbidissero e riconoscessero per vero
Pontefice. All'incontro Felice per tirar scovertamente Alfonso nel
suo partito, e tutti i sudditi de' di lui Regni alla sua ubbidienza,
offeriva a Luigi suo Ambasciadore ch'egli avrebbe confermata l'adozione
fattagli dalla Regina Giovanna II, conceduta l'investitura del
Regno, ed oltre ciò gli offeriva ducentomila ducati d'oro[328]. Ma
il prudentissimo Re scorgendo che di giorno in giorno il Concilio
di Basilea andavasi debilitando, e che Felice erasi a' 20 novembre
dell'anno 1442 con una parte de' suoi Cardinali ritirato in Lausana,
e che a lungo andare si dissolverebbe ogni cosa: pensò destramente di
rivoltarsi alla parte d'Eugenio, e per tenere intanto a bada Felice,
fece rispondere dal suo Ambasciadore alla profferta fattagli che li
ducentomila ducati d'oro bisognava che se gli pagassero in una paga:
che si contentava di ritenersi la città di Terracina per la somma
di 305 mila ducati di Camera in parte di ciò che se gli dovea per la
guerra mossagli dal Patriarca Vitellesco, quando gli ruppe la tregua,
e che allora vi fu condizione che dovesse aver Terracina fin che ne
fosse interamente soddisfatto: che se Felice era contento di ciò ed
adempiva a queste condizioni, egli non avrebbe mancato di difenderlo e
di prestargli co' suoi fratelli ubbidienza; ed oltre a ciò che avrebbe
inviati al Concilio suoi Ambasciadori, e proccurato che i Prelati de'
suoi Regni ancor vi venissero; ed anche si studierebbe che il medesimo
facessero il Re di Castiglia ed il Duca di Milano, e co' suoi fratelli
si sarebbe confederato ancora con la Casa di Savoja.

Questi trattati teneva egli aperti con Felice, prolungandogli con
destrezza, perchè non si venisse a veruna conchiusione; ma nell'istesso
tempo avea dato incarico al Vescovo di Valenza D. Antonio Borgia, che
fu Cardinale e poi Papa, detto Calisto III che s'adoprasse con Eugenio
per la sua riconciliazione, il quale incominciò a sollecitare il
Papa, che si degnasse trattare di pace e ricevere il Re per suo buon
figliuolo e buon feudatario. Agevolò ancora il trattato, ed ammollì
l'animo d'Eugenio Lodovico Scarampo Patriarca d'Aquileia Cardinal di S.
Lorenzo in Damaso suo Camerlengo, con cui solea egli conferire de' più
gravi ed importanti affari; onde Eugenio mosso dalle loro insinuazioni,
e considerando altresì che non poteva giovare al Re Renato, e che
l'inimicizia del Re Alfonso gli poteva nuocere, voltò l'animo alla
pace; ed a' 9 aprile di quest'anno 1443 spedì una Bolla di legazione e
commessione in persona del Cardinal suddetto, inviandolo a trattare col
Re della pace e dell'investitura del Regno da concedersi al medesimo.
La Bolla di questa legazione è rapportata dal Chioccarello, e si legge
nel primo volume de' suoi M. S. giurisdizionali.

Trovavasi allora il Re a Terracina, dove ricevè il Legato con molto
onore; e dopo molti dibattimenti fu a' 14 giugno del detto anno la pace
conchiusa con questi patti.

Che il Re con dimenticanza perpetua di tutte l'ingiurie ed offese
passate, e con rimessione di quelle, riconoscesse Eugenio per se e per
tutti i suoi Regni per unico, vero e non dubbioso Pontefice e Pastor
universale di S. Chiesa, e che come a tale gli prestasse egli ed i suoi
Regni ubbidienza.

Che dovesse tenere per Scismatici tutti i Cardinali aderenti
all'Antipapa Amedeo.

Che all'incontro il Papa dovesse dar l'investitura al Re Alfonso del
Regno di Napoli, con la conferma dell'adozione ed arrogazione, che la
Regina Giovanna II aveale fatta con clausola, che non gli ostasse avere
acquistato il Regno colle proprie armi.

Che trasferisse in Alfonso tutta quella autorità che era stata
conceduta da' Pontefici passati agli antichi Re di Napoli; e che
abilitasse D. Ferrante Duca di Calabria alla successione dopo la morte
del padre. E dall'altra parte il Re si farebbe vassallo e feudatario
della chiesa, con promettere d'aiutarla a ricovrare la Marca, la quale
si tenea occupata dal Conte Francesco Sforza.

Che quando il Papa volesse far guerra contra Infedeli, avesse il Re da
comparire con una buona armata ad accompagnare quella del Papa.

Che il Re dovesse ritenere in nome della chiesa la città di Benevento
e di Terracina in governo per tutto il tempo di sua vita, e per lo
medesimo tempo lasciava il Re al Papa Città ducale, Acumoli e la
Lionessa, terre importantissime della provincia d'Abruzzo.

Che il Re dovesse servire al Papa con sei galee per sei mesi nella
guerra contro il Turco. E per ricuperare le città e fortezze che teneva
occupate nella Marca il Conte Francesco Sforza, si convenne, che il Re
dovesse inviare quattromila soldati a cavallo e mille a piedi.

Che il Papa dovesse concedere la Bolla di legittimazione per D.
Ferdinando suo figlio che fosse abilitato per l'investitura, in guisa
che tanto egli, quanto i suoi eredi potessero succedere al Regno.

Che al censo, che dovea pagar il Re per l'investitura, s'avessero da
scomputare le spese, che si facessero nelle sei galee e nella gente
d'arme, che dovean andare alla Marca.

Che le città di Benevento e di Terracina si darebbero in governo a D.
Ferdinando e suoi successori perpetuamente, e dell'istesso modo avesse
la chiesa in governo la Città ducale, Acumoli e la Lionessa.

Questi capitoli di pace furono a' 14 giugno di quest'anno 1443
conchiusi in Terracina dal Re e dal Legato appostolico Cardinal
d'Aquileia; nella conchiusion de' quali intervennero solamente Alfonso
Covarruvias famoso Giurista e Protonotario appostolico e Giovanni
Olzina Segretario del Re; e sono rapportati dal Chioccarello nel tomo
I de' M. S. giurisdizionali.

Papa Eugenio con sua particolar Bolla spedita a' 6 luglio del detto
anno, parimente rapportata da Chioccarello, confermò i capitoli
suddetti, ed in esecuzione di quelli, in questo medesimo anno, spedì
più Bolle rapportate anche dal medesimo Autore.

Primieramente a' 13 luglio diede fuori una Bolla preliminare, colla
quale assolvea il Re ed i suoi Ministri da tutte le scomuniche e
censure, nelle quali fossero incorsi per le guerre ed offese fatte
alla chiesa romana nel tempo dello Scisma, e per l'invasione dei beni
ecclesiastici. Dopo tutto ciò, residendo Eugenio in Siena, a' 15 del
detto mese spedì la Bolla dell'investitura, per la quale concedè al Re
Alfonso l'investitura del Regno di Napoli per se, suoi eredi mascoli e
femmine legittimi discendenti dal suo corpo per _retta linea_.

Di questa investitura variamente parlarono i nostri Autori: Scipion
Mazzella[329] dice, che abbracciava ancora il Regno d'Ungheria, di
cui il Papa ne investì Alfonso per le ragioni di Giovanna sua madre
adottiva; e che nella medesima si concedeva ancora, che Ferdinando suo
figliuol naturale potesse succedere nel Regno. Il Cardinal Baronio[330]
credette, che per questa Bolla il Re Alfonso fosse stato da Eugenio
investito non solo del Regno di Napoli, ma anche di quello di Sicilia.
Ma non men l'uno che l'altro vanno di gran lunga errati. L'investitura
non fu che del solo Regno di Napoli, chiamato nelle Bulle pontificie,
_Regnum Siciliae et Terram citra Pharum_. Nè della Sicilia _ultra
Pharum_, e molto meno dell'Ungheria si fece parola, come nè tampoco
dell'abilitazione di Ferdinando. Ciò è evidente dalla Bolla, che ora
leggiamo impressa nel III tomo del Summonte, e che manuscritta fu dal
Chioccarelli ancor inserita fra l'altre di questo Papa nel tomo primo
de' suoi M. S. giurisdizionali: dove Eugenio, numerando le cagioni, che
lo moveano a dar l'investitura, cioè l'adozione della Regina Giovanna
II, li travagli d'Alfonso sofferti in tanti anni per mettersene in
possesso, la vittoria riportata de' suoi nemici, la pace data al Regno,
la volontà dei Baroni che lo consideravano e che l'aveano ricevuto
per loro Re e Signore, datogli ubbidienza e prestatogli il giuramento
solito di fedeltà (cose tutte riguardanti il solo Regno di Napoli), i
meriti proprj e del Re Ferdinando suo padre, per tutte queste ragioni
l'investiva del Regno colle clausole solite, che furono apposte in
quella conceduta al Re Carlo I con il censo di ottomila once d'oro
l'anno: e che i Baroni e popoli del medesimo Regno non potessero
gravarsi di nuove taglie, ma godessero quella libertà, franchigia e
privilegi che goderono a tempo del Re Guglielmo II.

Non poteva in questa investitura parlarsi del Regno di Sicilia _ultra
Pharum_, di cui i Re di Sicilia predecessori d'Alfonso, sin dal famoso
Vespero Siciliano, non ne richiesero mai investitura; ed Alfonso
era a quello succeduto per la morte del Re Ferdinando suo padre sin
dall'anno 1416, e di cui era in possesso prima della sua adozione. Lo
convincon ancora le parole della Bolla dell'investitura, conceduta
_pro Regno Siciliae, et tota terra ipsius, quae est citra Pharum,
usque ad confinia terrarum ipsius Ecclesiae_. Ciò che si conosce più
chiaramente dal giuramento di ligio omaggio, che Alfonso poi nell'anno
1445 diede ad Eugenio con queste parole: _Ego Alphonsus dei gratia Rex
Siciliae plenum homagium, ligium, et vassallagium faciens vobis Domino
meo Eugenio Papae IV et Ecclesiae Romanae, pro Regno Siciliae, et tota
terra ipsius, quae est citra Pharum_[331].

Mette poi la cosa in maggior evidenza, e non lascia punto da dubitare
la data di questo giuramento, dove per lo Regno di _Sicilia, et tota
terra citra pharum_, non si denota, che questo solo Regno di Napoli.
Ecco ciò che ivi leggiamo: _Datum Neapoli per manus nostri praedicti
Regis Alphons, anno a Nativitate Domini 1445, die vero secundo
mensis Junii octavae Indictionis. Regnum nostrorum trigesimo; hujus
vero SICILIAE, ET TERRAE CITRA PHARUM anno Regni XI_. Non è dunque
da dubitare, che questa investitura fu del solo Regno di Napoli,
siccome per cosa fuor di dubbio scrissero il Costanzo, il Summonte, il
Chioccarelli, e tutti i più rinomati e gravi nostri Autori.

Oltre di questa investitura, nel medesimo anno furono da Eugenio
spedite altre Bolle in favor d'Alfonso; nel dì 4 di settembre ne diè
una per la quale gli rimette e dona il pagamento di non picciole somme
di marche sterline, che era tenuto pagare alla Camera Appostolica per
cagion della concessione, ed investitura del Regno di Napoli. E nel
dì 29 del medesimo mese con altra Bolla gli rimise tutta la somma
di denari, che gli dovea per li censi passati del Regno di Napoli;
e tutta la somma, che il Re, e suoi Ufficiali e Ministri in suo nome
aveano esatta insino al detto dì, da qualunque ragioni, e crediti della
Camera Appostolica, ovvero da prelature e dignità, beneficj e persone
ecclesiastiche di qualsivoglia modo. Parimente nel medesimo giorno ne
spedì un'altra, colla quale promette al Re di mandargli il Cardinal di
S. Lorenzo in Damaso, o altra persona per coronarlo solennemente quando
e dove il Re vorrà; ma questa coronazione poi non si fece, non essendo
stato Alfonso mai coronato[332].

Poi in un medesimo giorno de' 13 decembre del suddetto anno furono
spedite nove altre Bolle in favor del medesimo. Per la prima,
si concede che la pena della privazione del Regno in caso di
contravenzione alli patti dell'investitura, possa permutarsi in pena
pecuniaria di ducati 50 mila da pagarsi dal Re alla Camera Appostolica;
durante però la vita d'Alfonso. La seconda, gli proroga per due
altri anni il tempo di dare il giuramento alla Sede Appostolica per
l'investitura del Regno, non ostante, che in quella si dica, doversi
dare fra sei mesi, se il Papa sarà in Italia ed essendo fuori d'Italia,
fra un anno. La terza, gli rimette le 8 mila once d'oro l'anno, che
gli doveva per lo censo, durante però la vita d'Alfonso. La quarta gli
dà facoltà di non ricevere i suoi ribelli nel Regno, e di cacciargli,
con confiscare i loro beni, non ostante il giuramento dato dal Re per
osservanza dell'investitura fattagli, di ricevere detti ribelli nel
Regno e di restituire a' medesimi i loro beni, assolvendolo dal detto
giuramento. Per la quinta, se gli concede, che se bene nell'investitura
vi sia patto, che non possa imponere taglie e collette alle chiese,
monasterj, luoghi pii e religiosi, cherici e persone ecclesiastiche, e
loro beni, eccetto che ne' casi permessi _de jure_, ovvero per antica
consuetudine di detto Regno, tuttavia che possa il suddetto Re per
tutto il tempo della sua vita imponere taglie e collette a detti luoghi
e persone ecclesiastiche, essendovi necessità, non ostante li patti di
detta investitura. Nella sesta, si dice, che essendosi dal Re Alfonso
esposto, che per antica consuetudine del Regno poteva imponer taglie
e collette alle chiese, monasterj, Luoghi pii, religiosi, cherici e
persone ecclesiastiche e loro beni, e che non era tenuto ricevere,
nè ammettere Prelati eletti, nominati e provisti in detto Regno, se
probabilissimamente gli eran sospetti di Stato: il Papa gli concede,
che possa imporre dette taglie e collette, e non ricevere detti
Prelati, se per consuetudine del Regno gli era lecito, non ostante li
patti apposti in detta Investitura. Per la settima, ad istanza del
detto Re se gli concede e dispensa, che possano anche succedere nel
Regno _i trasversali_, non ostante li patti di detta Investitura, che
chiamava solo li mascoli nati e nascituri, legittimamente discendenti
per linea retta dal detto Re. Per l'ottava, se gli conferma l'adozione,
ovvero arrogazione per figlio e successore nel Regno di Napoli fattagli
dalla Regina Giovanna II. L'ultima, rimette al Re li 300 soldati
armati, che avea da tenere in campagna, e che avea promesso alla Sede
Appostolica a sue spese per tre mesi per cagione dell'Investitura
concessagli.

Da poi nel seguente anno 1444 a' 14 Luglio in esecuzione de' capitoli
accordati col Cardinal Legato in Terracina, spedì Eugenio la Bolla
della legittimazione a favor di Ferdinando Duca di Calabria, per la
quale lo legittimò e l'abilitò a succedere nel Regno di Napoli; ed
a primo Aprile dell'anno seguente con altra Bolla si commette a Don
Giovanni Abate del monastero di S. Paolo di Roma, a ricercare dal Re
Alfonso in nome della Sede Appostolica il giuramento ch'era tenuto dare
per cagion dell'Investitura, il quale fu dato in mano del medesimo con
quelle parole di sopra riferito.

(La formola del giuramento di fedeltà prestato da Alfonso, siccome i
Brevi, ed altre Bolle d'investitura e sua estensione a' collaterali, di
remission di debiti alla Camera Appostolica, di riunione nel Regno dei
Beni distratti e di conferma dell'adozione fatta dalla Regina _Giovanna
II_ in favor d'Alfonso, sono rapportate anche da _Lunig_[333], il
quale trascrive eziandio una bolla d'_Eugenio_, spedita in Roma nel
mese d'Ottobre del 1443 per la quale gli concede facoltà di potere per
tutto il futuro anno 1444 impor taglie e collette, ed esigere sopra
tutti i frutti de' Beni degli Ecclesiastici de' suoi Regni la somma
di ducentomila fiorini d'oro di Camera; cioè da' Regni d'Aragona,
Valenza, Catalogna, Majorica e Minorica fiorini cento quarantamila; dal
Regno di Napoli trentamila e da quello di Sardegna diecimila. Comanda,
che niun Ordine regolare o secolare sia da ciò esente; ma tutti gli
Ecclesiastici, ospedali ed altri luoghi pii debbano contribuire,
eccettuandone i soli Cardinali, per quella ragione che _Eugenio_
esprime nella suddetta sua Bolla, dicendo: _Venerabilibus Fratribus
nostris S. R. E. Cardinalibus, qui in partem nostrae sollicitudinis,
divina miseratione vocali, grandia ad eorum statum decenter tenendum
expensarum onera quotidie subire noscuntur dumtaxat exceptis_).



CAPITOLO III.

_Nozze tra FERDINANDO Duca di Calabria con ISABELLA di Chiaramonte
nipote del Principe di Taranto. Morte di Papa EUGENIO, ed elezione in
suo luogo del Cardinal di Bologna chiamato NICCOLÒ V, che conferma ad
ALFONSO quanto gli aveva conceduto il suo predecessore EUGENIO._


Re Alfonso dopo aver stabilita la pace col Pontefice Eugenio, fu
tutto inteso non meno ad assicurare la successione del Regno nella
persona del Duca di Calabria, che a soddisfare il Papa di quanto ne'
capitoli della pace erasi convenuto. In adempimento del primo capitolo
fece prestargli ubbidienza da tutti i Sudditi e Prelati; e poichè il
famoso Canonista _Panormitano_ avea assistito al Concilio di Basilea,
ed avea avuta gran parte a quanto ivi fu fatto contro il Pontefice
Eugenio, in ricompensa di che era stato nominato Cardinale da _Felice
V_ Antipapa, lo fece richiamare e l'obbligò a cedere il Cardinalato,
e a ritornare nel suo Arcivescovado di Palermo, dove morì di peste
l'anno 1445. Ma vedendo che D. Ferdinando non era molto amato da'
suoi vassalli, per essere di natura dissimile a lui, siccome colui
che s'era scoverto superbo, avaro, doppio e poco osservatore della
fede, cominciò a dubitare non il Regno dopo la sua morte venisse in
mano aliena; onde trovandosi averlo destinato per successore, cercò di
fortificarlo di parentadi, ed inteso che il Principe di Taranto teneva
in Lecce una figlia della Contessa di Copertina sua sorella carnale,
giovane di molta virtù e da lui amata come figlia, mandò a dimandarla
per moglie del Duca di Calabria; ed il Principe ne fu contentissimo,
e la condusse molto splendidamente in Napoli. Parve al Re di avergli
con ciò acquistato l'ajuto del Principe di Taranto; e per maggiormente
fortificarlo, cercò di stringerlo anche di parentado col Duca di Sessa
che era pari di potenza al Principe: e diede a Martino di Marzano,
unico figliuolo del Duca, D. Lionora sua figlia naturale, assegnandogli
per dote il Principato di Rossano con una parte di Calabria.

Ma mentre Alfonso è tutto inteso a stabilire la successione del Regno
per suo figliuolo, a soddisfare il Papa di quanto ne' capitoli della
pace erasi convenuto: ecco che Eugenio, infermatosi gravemente, venne
a morte il dì 23 di febbraio di quest'anno 1447. Per questa morte si
levarono in Roma grandi tumulti, perchè gli Orsini dall'una banda ed
i Colonnesi dall'altra, sforzavano i Cardinali che avessero creato
Papa a volontà loro; ma ritrovandosi il Re a Tivoli, spedì tosto suoi
Ambasciadori al Collegio de' Cardinali ad esortargli che nell'elezione
non s'usasse alcun maneggio, perch'egli non avrebbe fatta usare alcuna
violenza, ma che procedessero a farla con tutta la libertà senza
passione o timore. Assicurati i Cardinali da Alfonso, tosto con gran
conformità elessero il dì 6 marzo il Cardinal di Bologna uomo mite e
pacifico, il quale si può porre per uno de' rari esempj della fortuna,
perch'essendo figliuolo d'un povero medico di Sarzana, castello piccolo
posto ne' confini di Toscana e di Lunigiana, in un anno fu fatto
Vescovo, Cardinale e Papa che nomossi _Niccolò V_. Il Re di questa
elezione restò molto contento, e mandò quattro Ambasciadori che si
trovassero alla coronazione, e gli dassero da parte di lui ubbidienza.

Mutossi in un tratto lo stato delle cose d'Italia; poichè ad un Papa di
spiriti bellicosi essendone succeduto un altro tutto amante di quiete
e di pace, in breve tempo si vide il riposo d'Italia e della Chiesa
di Roma; poichè subito cominciò a trattare la pace tra' Veneziani,
Fiorentini ed il Duca di Milano. Estinse tosto ogni reliquia di Scisma,
che eravi rimasa, poichè ascoltò volentieri le proposizioni d'accordo
che gli furono fatte da' Principi cristiani. L'Antipapa Felice ed i
suoi aderenti, trovandosi parimenti disposti alla pace, facilitarono
l'accordo, il qual fu fatto con condizioni vantaggiose per amendue i
partiti, cioè che Felice avrebbe rinunziato alla pontifical dignità;
ma che sarebbe il primo fra i Cardinali, e Legato perpetuo della Santa
Sede in Alemagna: che sarebbero rivocate dall'una e dall'altra parte
tutte le scomuniche e l'altre pene fulminate da' Concilj o dai Papi
contendenti contro quelli del partito opposto: che i Cardinali, i
Vescovi, gli Abati, i Beneficiati e gli Ufficiali delle due ubbidienze,
sarebbero mantenuti ne' loro posti: che le dispense, indulgenze
e l'altre grazie concesse da' Concilj, ovvero da' Papi delle due
ubbidienze, come pure i decreti, le disposizioni ed i regolamenti
che avessero fatti, avrebbero sussistenza: in fine che _Niccolò V_
adunerebbe un Concilio generale in Francia sette mesi dopo l'accordo:
e tutte queste condizioni, alla riserva dell'ultima, furono eseguite.
Felice rinunziò il Pontificato, e Niccolò fu da tutti riconosciuto per
Papa, il quale impiegò il rimanente del suo Pontificato ad acquietare
le turbulenze d'Italia, e da questo tempo, fino alla fine del secolo,
si vide in pace la Chiesa di Roma.

Col Re Alfonso fu tutto mite e pacifico; non pur confermò quanto
erasi pattuito col suo predecessore, ma per le molte spese che il
Re avea sofferte nella guerra della Marca, e per altri soccorsi
somministratigli pochi giorni dopo il suo ingresso al Pontificato,
a' 22 marzo di quest'istesso anno gli spedì Bolla, colla quale gli
restituì le Terre d'Acumulo, Cività Ducale e Lionessa nella Montagna
dell'Amatrice[334], date da Alfonso ad Eugenio in iscambio della città
di Benevento e di Terracina, con rimanere le suddette città ad Alfonso
e suoi successori nel Regno (toltone il tributo di due sparvieri
l'anno) senza pagamento di censo alcuno; assolvendolo anche nell'anno
1452 con altra particolar Bolla dal suddetto tributo di due sparvieri,
che detto Re dovea alla Sede Appostolica in quell'anno, e per tutto il
tempo passato, per le città suddette di Benevento e Terracina.

Confermò poi a' 14 gennajo dell'anno 1448 con altra Bolla tutte
le grazie e concessioni che tanto ad Alfonso, quanto a Ferdinando
suo figliuolo erano state da Eugenio concedute; ed a' 27 aprile
del seguente anno con altra Bolla confermò, e di nuovo concedè la
legittimazione e successione del Regno di Napoli fatta dal detto Papa
Eugenio a Ferdinando Duca di Calabria, con ampliarla di più che detto
D. Ferdinando potesse succedere negli altri Regni d'Alfonso suo padre.

(Oltre i suddetti privilegj e concessioni, _Niccolò V_ spedì da Assisi
nell'anno 1454 Bolla ad _Alfonso_, per la quale gli concede il dominio
d'un'isola nell'Arcipelago, vicina all'isola di Rodi, con un castello
diruto che s'apparteneva alla religione de' Cavalieri di S. Giovanni,
affinchè potesse fortificarlo, empir d'abitatori l'isola e valersi del
suo porto, per far argine alle incursioni de' Greci e de' Saraceni.
Leggesi la Bolla presso _Lunig_[335]).

Così Alfonso, secondandolo la fortuna in ogni cosa, disbrigato da tutte
le cure della guerra, e riposando in una placida e tranquilla pace,
dopo avere scorsa la Toscana, ritornò in Napoli, dove giunto trovò che
la Duchessa di Calabria sua nuora avea partorito un figliuolo che poi
fu Re _Alfonso II_, che nel tempo del parto apparve in aria sopra il
Castel Nuovo un trave di fuoco, che fu presagio della terribilità che
avea da essere in lui. I Napolitani fecero molti segni d'allegrezza per
lo ritorno del Re, il quale fermatosi in questa città, quivi lungamente
si stette, attendendo parte a' piaceri, parte a fabbriche e parte a
riordinare i Tribunali di giustizia.



CAPITOLO IV.

_Origine ed istituzione del Tribunale del S. C. di S. Chiara, ora detto
di Capuana._


Fra i molti fregi che adornarono la persona del Re Alfonso, il più
celebrato sopra ogni altro fu quello d'avere avuto in somma stima, non
meno gli uomini d'arme, che quelli di lettere e di consiglio. Egli
ammiratore della grandezza de' Romani, delle loro magnanime imprese
e della loro saviezza e prudenza non meno civile che militare, non
avea altro diletto che leggere le loro istorie; e la sua ordinaria
lezione era sopra _Livio_, di cui fu tanto adoratore che da Padova,
ove giaceano le sue ossa, proccurò da' Veneziani che in memoria di sì
grande Istorico gli dassero un osso del suo braccio, il qual fece con
gran religione trasferire in Napoli. Conferiva ciò che vi leggeva con
uomini dottissimi, che tenne sempre appresso di se, favorendogli con
molti segni di stima e di onore.

Essendo a' suoi dì caduta Costantinopoli sotto il giogo de' Turchi, ed
estinto l'Imperio greco, molti grand'uomini, che fiorirono in quella
città, per iscampare dalla loro barbarie, fuggirono in Italia dove
portarono le lettere e la greca erudizione. Si videro perciò fiorire
Gaza, Argiropilo, Fletone, Filelfo, Lascari, Poggio, Valla, Sipontino,
Campano, Bessarione e tanti altri[336]: tanto che alla caduta di
Costantinopoli si deve, essersi in Italia restituite l'erudizione
e le lettere più culte e tolta la barbarie. Alfonso nella sua Corte
n'accolse molti, in guisa che quella fioriva non meno d'eccellenti
professori Latini che Greci. Tenne presso di se il famoso Trapezunzio,
Crisolora, Lascari e dei Latini il celebre Lorenzo Valla, Bartolommeo
Facio, Antonio da Bologna detto il Panormita, Paris de Puteo e tanti
altri. Ebbe pur anche presso di se uomini di fina prudenza e consiglio,
e fra gli altri il famoso _Alfonso Borgia_ Vescovo di Valenza: questi
nato in Xativa nella diocesi di Valenza, coltivò nell'Università di
Lerida i suoi studj, dove avendo fatti mirabili progressi, prese il
Dottorato e ne divenne eccellente Cattedratico. Fu poi eletto Canonico
di quella città, e per la fama della sua dottrina entrato in somma
grazia del Re Alfonso, fu da costui creato suo intimo Consigliere e
Cappellano; non molto da poi fu eletto Vescovo di Valenza; e mentre
reggeva questa chiesa, avendo Alfonso intrapresa l'espedizione del
Regno di Napoli, lo condusse seco, della di cui opera, come si è detto,
molto giovossi, quando mandato in Roma, fu impiegato nel gravissimo
affare della pace col Pontefice Eugenio, la quale felicemente condusse
a fine.

Quando Alfonso, dopo tanti travagli si rese pacifico possessore
del Regno, e voltò i suoi pensieri a ristabilirlo, ad introdurvi
miglior forma di governo e a riordinare i nostri tribunali, il suo
principal Ministro e Consigliere era il Vescovo di Valenza: costui
nelle deliberazioni più gravi v'avea la maggior parte, ed il Re da'
suoi consigli pendea più che da qualunque altro. Diedero occasione
all'erezione di questo Tribunale del S. C. gli abusi, che si vedeano
introdotti in Napoli per cagion de' ricorsi, che dalle determinazioni
del Tribunale della Gran Corte della Vicaria si facevano al Re. Questo
Tribunale composto, come s'è detto, di quello della Gran Corte e
dell'altro del Vicario, era in Napoli e nel Regno il Tribunal supremo,
ed i suoi Giudici che lo componevano, erano i Magistrati ordinarj:
dalle determinazioni di quello non vi era appellazione, poichè sopra
di lui non si riconosceva altro Tribunale superiore ove potesse
ricorrersi per via d'appellazione. Non avea _la retrattazione_, che
ora appelliamo _reclamazione_, e la quale presso i Romani era solamente
del Prefetto Pretorio; onde per riparare alle gravezze non vi restava
che un rimedio, fuori dell'ordine de' giudizj ordinarj, e questo era
ricorrere al Re per via di preghiere e di memoriali. Il Re soleva
alle volte destinar certe persone, alle quali rimetteva i memoriali
ad esso portati, perchè gli riconoscessero, e fattogliene informo, di
sua autorità emendassero le gravezze; e queste persone erano chiamate
Giudici d'appellazioni della Gran Corte, ond'è, che prima dell'erezione
di questo Tribunale, nelle scritture di quei tempi spesso di questi
Giudici fassi memoria. Più frequentemente però i Re, senza legarsi
a certa persona, mandavano i memoriali ora ad uno ora ad un altro
Giureconsulto per sapere il lor parere, i quali da poi ch'aveano inteso
il lor consiglio e letto il voto, determinavano essi, e la decisione
usciva sotto il nome regio[337]. Questo costume portava degli abusi
e de' disordini; poichè sovente affari importantissimi erano risoluti
secondo il parere d'un solo. Crescevano ancora i ricorsi, venendo non
pur da' Tribunali della città di Napoli, ma ancora dalle province del
Regno; onde si vedea gran disordine, che senza una particolar ragunanza
di più savj, avessero da emendarsi le tante gravezze per voti di
particolari Giureconsulti.

In altra guisa praticavasi nel Regno di Valenza, dove vi era particolar
Consiglio assistente presso il Re, di cui egli era capo, dove i
ricorsi che da tutti i Tribunali ordinarj di quel Regno erano al
Re portati, s'esaminavano in quel Consiglio, da cui procedevano le
ammende e le retrattazioni. A somiglianza dunque del Consiglio di
Valenza, il Re Alfonso, guidando ogni cosa il Vescovo Borgia, pensò
stabilirne un consimile in Napoli, il quale si componesse di più
insigni Giureconsulti e di più gravi e savj uomini, che assistendo
presso la sua regal persona conoscessero sopra tali ricorsi, e volle
dichiararsene egli capo, siccome ne fu autore.

Il Cardinal di Luca[338] portò opinione, che il Vescovo Borgia, poi
Cardinale e Papa, formasse questo Consiglio non pure secondo l'idea di
quello di Valenza, ma anche essendo egli dimorato lungo tempo in Roma,
molti istituti e modelli prendesse dal Tribunale della Ruota romana,
che allora era in fiore e che alla formazione di questo Senato vi ebbe
parte, non meno il Consiglio di Valenza, che la Ruota di Roma; ed in
effetto, siccome questo Tribunale da quello di Valenza prese il nome
di _Consiglio_, così ancora il luogo ove si tenne, prese da Roma il
nome di _Ruota_; e siccome nella Ruota romana non v'è uso di libelli, o
come ora diciamo d'istanze, ch'è de' Magistrati ordinarj, ma di preci
o suppliche o memoriali, che si drizzano al Papa, il quale per mezzo
del Prefetto della Signatura di giustizia, le segna e commette; così
ancora in questo Tribunale non vi han luogo libelli, siccome negli
altri Tribunali inferiori della città e del Regno, ma le suppliche che
si drizzano al Re, il quale per mezzo del Presidente del Consiglio, le
segna e commette.

Fu adunque questo Tribunale del Consiglio eretto in Napoli
principalmente per li ricorsi, che al Re portavansi dalle
determinazioni della Gran Corte della Vicaria e delle altre Corti
inferiori, non meno della città che delle province del Regno. Fu detto
perciò il Tribunale delle appellazioni; poichè costituito supremo a
tutti gli altri, poteva in conseguenza da questi a lui appellarsi.
Questo Tribunale riconoscendo per suo capo il Re istesso, e le sue
membra essendo di persone per nobiltà e dottrina illustri, venne ad
acquistare le maggiori prerogative e preminenze sopra tutti gli altri.
Quindi, come s'è detto, non cominciano in esso le cause per via di
libelli, ma di suppliche che bisogna indirizzare al Re, le quali
poi segnate e commesse acquistano forza di libelli. Quindi nasce,
che dalle sue determinazioni non si dà appellazione, ma solamente
_retrattazione_, ovvero come chiamiamo _reclamazione_, a somiglianza
del Prefetto Pretorio. Quindi acquistò il nome di _Sacro_ per la
sacrata persona del Re, che se ne dichiarò capo, e per esser suo
proprio e particolar Consiglio presso la sua regal persona assistente:
onde avvenne, che per consimil cagione all'Audienza d'Otranto si diè
anche il nome di _Sacra_ Audienza, perchè un tempo presedè a quella
il Re Alfonso II d'Aragona[339]; e perocchè questa provincia fu poi
divisa in due, cioè d'Otranto e di Bari, quindi anche quella di Bari
si disse _Sacra_[340]. Quindi le sentenze si promulgano sotto il nome
del Re, e si veggono ancora molte sentenze sottoscritte dall'istesso Re
Alfonso; onde se accade in quelle nominarsi il Vicerè e alta persona
illustre, non altro titolo se gli dà, se non quello con cui dal Re
vien chiamata[341]. Quindi in questo sacro Auditorio non è permesso,
nè tampoco a' Nobili entrare cinti di spada o d'altre arme, nemmeno
a coloro, che possono portarle sin dentro il gabinetto del Re. Quindi
egli solo tien la campana, e conosce delle cause di tutti i Tribunali
della città e del Regno; le sue sentenze s'eseguono _manu forti et
armata_; e vien adornato di tante altre prerogative e preminenze, di
cui il _Tassoni_[342] ed il _Toppi_[343] ne tesserono lunghi cataloghi:
e a' dì nostri il Dottor _Romano_[344] ne compose un ben grosso volume.

Ma infra l'altre sue prerogative, la maggior fu quella di conoscere per
via d'appellazione delle cause di tutti i Tribunali della città e del
Regno, ed in questi principj a quello s'appellava, anche de' decreti
interposti dalla Regia Camera della Summaria, siccome testificano
Marino Freccia[345], e Giovan Battista Bolvito in un breve discorso
latino, che compose sopra questo Tribunale, che M. S. si conservava
nella Biblioteca de' SS. Appostoli di questa città, il qual fu dal
Summonte trascritto nella sua Istoria[346]; ed apparisce ancora da una
lettera[347] del Re Alfonso rapportata dal Toppi, il quale Autore fa
vedere ancora, che qualora nel Tribunale della Summaria dovea decidersi
qualche articolo di ragione, s'avea ricorso al Consiglio di S. Chiara,
che vi giudicava per via d'appellazione[348].

Ma ciò, che deve riputarsi degno d'ammirazione, si è il vedere,
che questo inclito Re pose in tanta eminenza questo Tribunale, che
ordinò, che anche le cause degli altri suoi numerosi Regni e province,
potessero riportarsi a quello per via d'appellazione. Ecco ciò,
ch'egli dice in una sua regal carta de' 13 agosto del 1440 rapportata
dal Toppi[349], parlando di questo Consiglio e de' suoi Ministri:
_Quibus decrevimus omnes causas Regnorum nostrorum Occiduorum et
Regni nostri Siciliae ultra Pharum, esse remittendas_. E siccome si è
veduto, possedeva questo gran Re in quel tempo i Regni d'Aragona, di
Valenza, di Majorica e di Sardegna, possedeva la Corsica, il Contado di
Barzellona, e 'l Rossiglione e la Sicilia di là dal Faro; e finch'egli
visse, avendo fermata la sua sede regia in Napoli, insino da sì remote
parti si portavano per via d'appellazione le cause in questo Consiglio;
e ci restano ancora i vestigj di molti processi, donde appare questo
Tribunale essere stato in quel tempo Giudice d'appellazione di tutti
que' Regni e Signorie. Donde si convince quanto sia vano il credere,
che questo Regno sin da' tempi d'Alfonso fossesi reso dipendente dalla
Corona d'Aragona. Si perdè poi questa prerogativa, quando succeduto
Ferdinando figliuolo d'Alfonso nel solo Regno di Napoli, non ebbe più
che impacciarsi negli altri Regni di Spagna, ne' quali succedè Giovanni
d'Aragona fratello d'Alfonso.

Teniamo l'origine, il nome e l'occasione per cui fu questo Tribunale
istituito; teniamo ancora il tempo e l'Autore; ma intorno a
quest'ultimo, pare, che la prammatica 2 collocata sotto il titolo de
_Ufficio S. R. C._ ce ne metta in dubbio. Il Surgente[350] su tal
appoggio credette, che non già _Alfonso_ ne fosse stato l'autore,
ma _Ferdinando I_ suo figliuolo: ma questa prammatica o è apocrifa o
scorretta; ripugnando ciò alla testimonianza degli Autori contemporanei
e ai pubblici documenti.

Michiel Riccio[351] celebre Giureconsulto ed Istorico, Autor prossimo
ad Alfonso, che fiorì nel Regno di Ferdinando I, e fu Presidente e
Viceprotonotario di quest'istesso Tribunale, lo testifica nella sua
grave e dotta Istoria, che compose de' Re di Napoli e di Sicilia;
ecco le sue parole: _Alphonsus, etc. reddendi juris adeo studiosus,
ut Consilium constituerit, quod omnes appellarent ex toto suo Regno;
cui praefecit Episcopum Valentiae (qui postea Nicolao V successit,
et Calistus est appellatus) cum prius ad Vicariae Tribunal, aliosque
minores Regni Judices confugere cogerentur, et inde jus petere._

Il nostro famoso Matteo d'Afflitto[352] che fiorì nei medesimi tempi,
e che sotto l'istesso Ferdinando fu Consigliere di questo Consiglio
pur dice: _Sic fuit sententiatum in Sac. Consilio tempore immortalis
memoriae Regis Alfonsi I de Aragonia, tempore quo praesidebat Episcopus
Valentiae, qui postea fuit Papa Calistus III_. Marino Freccia[353]
colle stesse parole di Michiel Riccio rapporta il medesimo: e
così tennero i più appurati Scrittori delle nostre memorie, il
Summonte[354], il Chioccarello[355], il Reggente Tappia[356], il
Tassone[357] e tutti gli altri insino al Toppi[358], che fu l'ultimo,
che scrisse dell'istituzione di questo Tribunale.

I diplomi d'_Alfonso I_ inseriti nelle loro opere da questi Autori,
ne' quali questo Re fa menzione di questo Tribunale da lui instituito,
convincono il medesimo: il Chioccarello[359] ne rapporta tre, due in
novembre e dicembre dell'anno 1449, l'altro in febbrajo del 1450; il
Summonte[360] due altri, uno de' 23 novembre del 1450, l'altro de' 2
agosto dell'anno 1454, e molti altri possono vedersi presso Toppi ne'
luoghi allegati.

La prammatica, che s'attribuisce a Ferdinando I, Toppi[361] credette
che fosse apogrifa e supposta; poichè in niuno degli antichi volumi
impressi delle Prammatiche si vede, e sol si legge senza giorno ed
anno nell'ultime edizioni; testificando in oltre quest'Autore, che
per esatta diligenza ch'egli avesse fatta in Cancellaria, ove sono
notate tutte le prammatiche del Regno, non la ritrovò mai. Comunque
ciò sia, egli è più tosto da credere, che questa prammatica per
errore de' compilatori o degl'impressori, in vece di portar in fronte
il nome d'_Alfonso_, se gli fosse dato quello di _Ferdinando_. E
veramente chiunque considera le parole di quella, non possono a patto
veruno convenire a Ferdinando, ma sì bene tutte acconciamente si
adattano ad Alfonso. Questo Re poteva nominare i Re d'Aragona suoi
predecessori, non già Ferdinando, il quale non fu mai Re d'Aragona,
nè succedè ne' Regni paterni di Spagna, ma solo nel Regno di Napoli
per ragion d'investitura, della legittimazione fattagli dal padre
e per l'acclamazione de' Napoletani. Molto meno possono a lui
convenire quelle parole: _Igitur cum Neapolis Siciliae Regnum, jure
quodam legitimo, et haereditario nobis debitum nostrae nuper ditioni
restitutum sit, idque non armis tantum nostris, quantum immortalis
Dei beneficio, etc._ Ciò che s'avvera d'Alfonso, che più per le arme,
che per lo titolo d'adozione se ne rese padrone. Ferdinando ebbe a
guerreggiare co' suoi Baroni più tosto che con nemici stranieri, e
mal si godette il Regno acquistato colle armi e sudori di suo padre.
Non è dunque da dubitare, che Alfonso fosse stato l'Autore di sì
illustre Tribunale, e che tutta la sua disposizione e forma si debba
al Vescovo di Valenza, a cui meritamente Alfonso ne diede la cura e
sopraintendenza.


§. I. _Del luogo ove fu questo Tribunale eretto; della dignità e
condizione delle persone, che lo componevano, e del lor numero; e come
fosse cresciuto tanto, che in conseguenza portò la multiplicazion delle
quattro Ruote, delle quali oggi è composto._

Essendo già per lungo tempo Napoli stabilita Sede Regia, e costituita
metropoli e capo di tutto il Regno, non in altra città che in quella
dovea collocarsi un Tribunal sì supremo, ove doveano riportarsi tutte
le cause del Regno, e del qual il Re istesso se n'era dichiarato capo,
e che fosse suo Consiglio Collaterale. Quindi Alfonso nella riferita
prammatica[362] disse: _Sacrum eodem in Regno, supremumque Consilium
ordinavimus, cui sedem, locumque in Urbe Neapolitana, et Regni Urbium
omnium suprema, ac Metropoli constituimus._ Le contrade della città,
nelle quali questo Tribunale fu retto non furon sempre le medesime, ma
si variarono secondo la condizione de' tempi e de' Presidenti, che lo
ressero. Sovente Alfonso lo tenne nell'ospizio di Santa Maria coronata,
chiesa regia, ove i Re suoi predecessori con solenne pompa solevansi
coronare. Alcuna volta nel castel Capuano, e più frequentemente nel
Castel Nuovo, e vi sono lettere del 1449 del Re Alfonso riferite
dal Toppi[363], nelle quali si prescrive, che si dovesse congregare
nel Castel Nuovo, essendo egli in Napoli: ed in sua assenza nelle
case del suo Vicecancelliere, ovvero in altro decente luogo a suo
arbitrio. Spessissime volte si ragunava nelle case de' Presidenti di
quello: così leggiamo, che nel 1457 fu retto nelle case del Patriarca
d'Alessandria Vescovo di Urgello, che n'era Presidente, poste nella
regione di Porto. Altre volte nel Palazzo Arcivescovile, siccome fu
in tempo d'Oliviero Caraffa Arcivescovo di Napoli, e poi Cardinale
che fu parimente Presidente di questo Tribunale: nel 1468 sendone
Presidente D. Giovanni d'Aragona figliuolo di Ferdinando I, perchè
questi teneva il suo palazzo nel Monastero di Monte Vergine, di cui
n'era Abate Commendatario, si vide questo Tribunale anche nella di lui
casa essere stato retto. Matteo d'Afflitto[364] ci testifica ancora,
che ai suoi tempi questo Tribunale soleva anche reggersi nel convento
di S. Domenico Maggiore di questa città. E così trasportato in varj
luoghi, che piacque al Toppi troppo sottilmente ricercare, finalmente
nel 1474 fu trasferito nel monastero di Santa Chiara, ove sino all'anno
1499 fu tenuto. Ma da poi il Cardinal Luigi d'Aragona Luogotenente del
Regno lo volle nel suo palazzo; fin che nell'anno 1501 restituito di
nuovo in Santa Chiara, quivi lungamente durò insino all'anno 1540. Per
questa lunga dimora fatta quivi acquistò il nome di _Consiglio di S.
Chiara_, che lungo tempo ritenne. Finalmente nel suddetto anno 1540
trasferito da D. Pietro di Toledo con tutti gli altri Tribunali nel
Castel capuano, lungamente quivi durando, ed ove ancor oggi s'ammira,
acquistò presso noi il nome di Capuana.

Diede Alfonso a questo Gran Consiglio un Presidente[365], al quale
diede la soprantendenza del Tribunale. L'adornò, tanto egli, quanto
i suoi successori Re aragonesi, di molte prerogative, delle quali il
Tassoni[366] ed il Toppi[367] ne fecero lunghi cataloghi. Trascelse
sempre a tal carica uomini insigni non meno per dottrina, che per
gravità di costumi, per chiarezza di sangue e d'eminenti posti adorni.
Vi furono de' Vescovi ed Arcivescovi ed altri insigni Prelati della
Chiesa. Il primo fu il famoso Alfonso Borgia Vescovo di Valenza, che
lo resse insino al 1444, nel qual anno fu creato Cardinale, e poi
nel 1455 Papa, chiamato Calisto III. In suo luogo fu rifatto Gaspare
di Diano Arcivescovo di Napoli, Giureconsulto di quei tempi, prima
Vescovo di Tiano, indi Arcivescovo di Consa, e finalmente nel 1437
di Napoli. Fu costui da Alfonso creato Presidente nel 1446, e durò il
suo Presidentato fin che morì nell'anno 1450[368]. A costui succedette
Arnaldo di Roggiero Patriarca d'Alessandria e Vescovo di Urgell. Fuvvi
ancora creato da Ferdinando I nel 1465 il famoso Oliviero Caraffa
Arcivescovo di Napoli, il quale ancorchè da Paolo II fosse stato nel
1467 creato Cardinale, non lasciò la presidenza di questo Tribunale,
finchè, chiamato dal Papa, non gli convenne andare in Roma[369]. Ad
Oliviero succedette Don Giovanni d'Aragona figliuolo di Ferdinando
I Arcivescovo di Taranto, Commendatario perpetuo de' monasteri di M.
Cassino, della Cava e di Monte Vergine, e poi Cardinale ed Arcivescovo
di Salerno. Fuvvi ancora nel 1499 Don Lodovico di Aragona nipote del Re
Ferdinando I Vescovo d'Aversa e poi Cardinale.

Ma ciò, che ridonda in maggior splendore di questo Tribunale, è il
vedersi essere stati eletti Presidenti di quello i propri figliuoli de'
Re ed i primi Baroni del Regno.

Il Duca di Calabria Primogenito del Re Alfonso fu Presidente del S.
C. col titolo di Luogotenente generale del Re suo padre nell'anno
1454, siccome vi furon Giovanni d'Aragona figliuolo di Ferdinando I
poi Cardinale, Lodovico d'Aragona suo nipote già detti, e Ferdinando
d'Aragona figlio di Ferdinando, fratello del Re Federico. De' primi
Baroni vi fu nel 1550 Onorato Gaetano Conte di Fondi e Ferdinando
d'Aragona nel 1479 figliuolo naturale di Ferdinando I Conte di
Nicastro: oltre tanti altri di chiarissima stirpe nati.

Furonvi ancora eletti i migliori Giureconsulti e letterati di que'
tempi, che o colle opere o colla gravità de' costumi, o colla prudenza
civile se l'aveano meritato. Michiel Riccio famoso Giureconsulto ed
Istorico, Giovan Antonio Caraffa gran Dottore di que' tempi, cotanto
celebrato da Matteo d'Afflitto; Luca Tozzoli, di cui presso lo stesso
Autore fassi sovente onorata memoria; il famoso Antonio d'Alessandro,
Andrea Mariconda, Antonio di Gennaro, Francesco Loffredo, Giacomo
Severino, Tommaso Salernitano, Gio: Andrea di Curte, Antonio Orefice,
Gio: Antonio Lanario, il cotanto rinomato Vincenzo de Franchis,
Camillo de Curte, Marc'Antonio de Ponte, Pietro Giordano Ursino, Andrea
Marchese, Francesco Merlino, ed altri, de' quali il Summonte[370], e
poi più accuratamente il Toppi[371] fecero distinto e minuto catalogo.

Oltre il Presidente, tenevano il secondo luogo in questo Consiglio due
gran Baroni del Regno, che da Alfonso furono aggiunti a' Consiglieri
Dottori per _Assistenti_ a questo Tribunale; poichè sovente in quello
non pur dovea trattarsi di cose appartenenti alla Giustizia, ma di cose
di Governo e di Stato. Questi erano per lo più eletti dell'Ordine di
Baroni, non eran Giureconsulti, ma militari, de' quali il maggior soldo
era di ducati mille l'anno, quando agli altri Consiglieri Togati non
era più, che di cinquecento. Eran chiamati Consiglieri _Assistenti_; e
finchè durò il Regno degli Aragonesi, il S. C. si vide anche adorno di
questa prerogativa, e ne' suoi Consiglieri vide il pregio della nobiltà
migliore.

Furonvi ne' tempi d'Alfonso per Consiglieri _Assistenti_, oltre
Onorato Gaetano Conte di Fondi, che ora come Gran Protonotario,
ora come Presidente, ed ora come Consigliere _Assistente_ illustrò
questo Tribunale; il famoso Petricone Caracciolo Conte di Burgenza;
Niccolò Cantelmo Conte d'Alvito e di Popoli e poi Duca di Sora; Marino
Caracciolo Conte di Sant'Angelo, e Giorgio d'Alemagna Conte di Pulcino,
li quali furon creati Consiglieri _Assistenti_ da Alfonso nell'anno
1450.

Nel 1458 a' 23 gennaio leggiamo ancora Francesco del Balzo Orsino
Duca d'Andria, figliuol del Principe di Taranto, essere stato creato
da Alfonso Consigliere _Assistente_[372], e nel medesimo anno a' 5
novembre fu da Ferdinando I fatto Consigliere Innico d'Avalos. Orso
Ursino de' Conti di Nola fu parimente da Ferdinando nel 1473 fatto
Consigliere Assistente[373], e per ultimo Pietro Bernardino Gaetano
Conte di Morcone figliuolo del Conte di Fondi nel 1485 dei quali
lungamente ragiona Toppi nel suo secondo volume dell'Origine de'
Tribunali.

Tra le persone, che componevano questo gran Tribunale, vi era ancora
il Viceprotonotario. Questo è un punto d'Istoria molto intrigato e
tanto difficile, che il Toppi[374] non se ne seppe sviluppare. Il Re
Alfonso nell'erezione di questo Tribunale e nella scelta che fece de'
Consiglieri, che dovean comporlo, si protestò sempre, che egli per
questo nuovo Consiglio non intendeva recare alcun pregiudicio alle
preminenze del Gran Protonotario del Regno: ecco come egli dice in
un diploma rapportato dal Chioccarelli[375] e dal Toppi[376] spedito
a' 20 novembre dell'anno 1449. _Postquam reformationi nostri Sacri
Consilii debito libramine moderavimus, in quo salva praeminentia
officii Logothetae, et Prothonotarii Regni huius, et praesidentiae
Rev. in Christo P. Gasparis Archiepiscopi Neapolitani ejusdem S. C.
Praesidentis, nonnullos famosissimos U. J. D. fideles nostros elegimus,
et deputavimus, ec._ Ed altrove in un altro diploma[377] de' 12 agosto
del medesimo anno: _Salva tamen in omnibus, et per omnia praerogativa,
et praeminentia Officii Logothetae, et Protonotarii hujus citra Farum
Siciliae Regni, vel Reverendo Archiepiscopo Neapolitano, cum in Curia
praesentes fuerint._ Il Toppi pien di maraviglia dice, che cosa avea
che fare in questo nuovo Consiglio il Gran Protonotario, ovvero il
suo Luogotenente, e che vi era di comune fra di loro? ma gli nacque
tal maraviglia, perchè il Toppi riguardava questo ufficio secondo
l'aspetto, che teneva ne' tempi, ne' quali scrisse e che ancor oggi
ritiene, non già ne' tempi d'Alfonso e degli altri Re aragonesi suoi
successori. Presentemente il Gran Protonotario è un nome vano e senza
funzione: ed al suo Viceprotonotario, che nè meno è creato da lui,
ma a dirittura dal Re, delle tante prerogative che teneva, non gli è
rimaso altro, come fu detto altrove, che la potestà di crear i Notari
ed i Giudici a' contratti, chiamati dal dritto de' Romani, Giudici
cartularj: di visitare i loro protocolli, ed invigilare a tutto ciò,
che appartiene al loro ufficio: aver la cognizione delle loro cause,
così civili come criminali: e legittimare i figliuoli naturali, secondo
che per le nostre novelle prammatiche fu stabilito[378].

Ma nel Regno de' Normanni, de' Svevi, Angioini ed Aragonesi, l'Ufficio
e potestà del Gran Protonotario era pur troppo ampia: la principal sua
cura era non già della creazione de' Notai e Giudici, ma, come altrove
si disse, di ricevere i memoriali e le suppliche che si davano al Re:
per le sue mani passavano tutti i Diplomi, ed egli gl'istromentava:
tutte le nuove leggi, Costituzioni, editti e prammatiche, che si
stabilivano, eran da lui formate ed istromentate: ciocchè il Principe,
o nel suo Concistoro o in ogni altro suo Consiglio sentenziava o
statuiva, egli riduceva in forma o di sentenza, o di diploma, o di
privilegio: ed in mano del famoso Bartolommeo di Capua si vide quanto
quest'Ufficio fosse ampio ed eminente.

Per questa cagione avvenne, che avendo Alfonso istituito questo nuovo
Tribunale, ove di molte cose dovea trattarsi, che toccavano l'Ufficio
del Gran Protonotario, come di riceversi le preci, ch'erano drizzate
al Re, d'istromentar le sentenze, che da sì alto Pretorio uscivano,
e di molti affari al suo ufficio appartenenti; ancorchè Alfonso
avesse conceduta al Presidente ugual potestà di poter egli da se solo
spedirgli, nulladimanco non volle, che perciò si pregiudicassero
le preminenze del Gran Protonotario o suo Luogotenente, quando
interveniva nel Consiglio: talchè trovandosi in quello presente il Gran
Protonotario ovvero il Luogotenente, non loro s'impediva che far non
potessero tutto ciò ch'era della loro potestà ed incumbenza. Quindi
è che sovente negli antichi diplomi leggiamo Onorato Gaetano Conte
di Fondi aver preseduto a questo Tribunale, come Gran Protonotario,
o come Presidente di quello, e sovente ancora esservi intervenuto
come Consigliere _Assistente_. Quindi eziandio leggiamo, che nel
proferirsi delle sentenze v'eran presenti insieme co' Consiglieri il
Gran Protonotario o suo Luogotenente. Così, secondo la testimonianza
che ce ne dà l'istesso Toppi[379], in una sentenza del S. C. proferita
a' 29 gennaio del 1452 v'intervennero Onorato Gaetano Conte di Fondi
Gran Protonotario del Regno e Giorgio d'Alemagna Conte di Pulcino
Consigliere _Assistente_; anzi l'istesso Conte di Fondi, come Gran
Protonotario, non già come Presidente, che non lo era allora, nel 1474
commise una causa a Lucca Tozzoli suo Viceprotonotario. Parimente nel
1485 il Conte di Morcone Gran Protonotario col suo Viceprotonotario e
Consiglieri intervenne nelle sentenze profferite in questo Tribunale
nel dì 20 settembre del medesimo anno.

Da questo costume nacque ancora, che quando il promosso all'Ufficio di
Gran Protonotario dovea prendere il possesso della sua carica, poichè
i Gran Protonotari nel S. C. facevano le loro maggiori e più solenni
funzioni, in questo Tribunale pigliavano il possesso con intervenire
nelle sentenze, che dal medesimo si profferivano: e questo era l'atto
del loro possesso. Così leggiamo, che Don Ferdinando di Toledo essendo
stato creato Gran Protonotario dall'Imperador Carlo V, ne prese
il possesso a' 22 maggio del 1537 nel S. C., ed in quella giornata
intervenne a tutte le sentenze, che profferì il Tribunale; ed Antonio
di Gennaro, che si trovava allora Presidente del Consiglio fece una
molto dotta ed elegante orazione in sua commendazione[380]. Parimente
Don Ferdinando Spinelli Duca di Castrovillari e Conte di Cariati,
quando dall'Imperador Carlo V fu fatto Gran Protonotario nell'ultimo di
Giugno del 1526, come rapporta il Passero[381], ovvero a' 26 aprile,
come dice il Rosso[382], ne prese il possesso nel S. C. ed intervenne
insieme col Presidente e tutti gli altri Consiglieri in tutte le
sentenze, che si profferirono quella giornata.

Quindi nacque ancora il costume che ora abbiamo, e che fu introdotto
fin da' tempi de' nostri Avoli, che nella persona del Presidente del
S. C. siasi ora indissolubilmente unito il posto di Viceprotonotario;
poichè i Gran Protonotari, personaggi d'alta gerarchia, non volendo
più intervenire di persona a risedere nel S. C. come ad altri
affari implicati, e che cominciavan a sdegnarlo, mandavano i loro
Viceprotonotari al Tribunale, i quali così bene che il Presidente
adempivano le sue veci, tanto che il Consigliere Matteo d'Afflitto[383]
in più sue decisioni ci assicura, che il famoso Antonio d'Alessandro,
ancorchè allora non fosse Presidente, come Viceprotonotario interveniva
nel Consiglio, ed insieme con gli altri Consiglieri votava nelle
cause, e reggeva il Tribunale. Michiel Riccio non ancor Presidente,
come Viceprotonotario commise varie cause a' Regj Consiglieri[384]. Di
Luca Tozzoli pur si legge il medesimo, e così di molti altri. Quindi
avvenne, che potendosi da un solo ciò adempire, essendo nel S. C. pari
d'autorità, l'ufficio di Viceprotonotario venga ora sempre unito nella
persona del Presidente.

Egli è però ancor vero, che prima non era così, poichè portando il
posto di Viceprotonotario la creazion de' Notari e Giudici, funzione
totalmente distinta ed independente dal S. C. e per conseguenza
grandissimi emolumenti, alcuni, ancorchè non Presidenti, se lo
proccuravan per essi, e molti Reggenti l'ottennero. Così il Reggente
di Cancellaria Girolamo Colle ottenne, non essendo Presidente, nel 1540
questo ufficio, che l'esercitò fin che nel 1549, creato Vicecancelliere
in Ispagna, ivi si portasse[385]. E vacato in cotal guisa questo posto,
fu poi provveduto nella persona di Girolamo Severino, che allora
era Presidente. Ma avendo questi per la sua vecchiaia e continue
indisposizioni deposta la carica di Presidente, si ritenne quella
di Viceprotonotario, come più utile e men faticosa, la quale ritenne
finchè visse nel 1558, dopo la di cui morte fu provveduta in persona
d'Alfonso Santillano allora Presidente, che la ritenne finchè morì nel
1567.

Ma morto Santillano, il Duca d'Alcalà allora Vicerè la provide _per
interim_ al Reggente Villano; ed essendo stato rifatto Presidente del
S. C. in luogo del Santillano Tommaso Salernitano, questi vedendo che
l'Ufficio di Viceprotonotario era esercitato dal Reggente Villano,
mandò in Ispagna al Re sue allegazioni, colle quali studiossi fondare,
ch'essendo il Viceprotonotariato ufficio unito e congiunto a quello
di Presidente, non dovesse da quello separarsi, e nella sola persona
del Presidente dovesse sempre unirsi. Mentre egli aspettava dal Re la
determinazione, venne a morte il Reggente Villano, ed egli ottenne
il posto; ma poi da Presidente essendo stato creato Reggente della
Cancellaria, si ritenne il Viceprotonotariato, lasciando Gio. Andrea de
Curte, che gli succedette nel Presidentato l'anno 1570 senza quello. Il
Presidente de Curte ebbe ricorso in Ispagna valendosi dell'allegazioni
istesse formate dal Salernitano suo competitore; e dal Re ottenne la
riunione, avendo l'allegazioni suddette al Consiglio di Spagna fatta
gran forza, sicchè reputò doversi questi due ufficj unire; ond'è, che
fin da quel tempo insino ad ora si siano veduti sempre congiunti in una
medesima persona. Egli è vero, che il Re nel regal diploma gli concede
ambedue al provisto, non bastando, che se gli spedisca il privilegio
di Presidente per potersi dire, che vada in quello inchiuso anche il
Viceprotonotariato. Sono due ufficj che s'uniscon sì bene insieme in
una persona, ma fra di loro sono distinti, avendo diversa natura e
varia funzione, almeno per quel che riguarda la creazione dei Notai e
Giudici: ond'è, che negli ultimi nostri tempi, essendosi dalla nuova
Cancellaria dal Re spedito privilegio di Presidente al Reggente Aguir,
senza in quello nominarsi l'ufficio di Viceprotonotario, fu d'uopo al
medesimo ricorrere di nuovo al Re, che glie lo concedette.

Abbiamo adunque In questo nuovo Tribunale il _Presidente_,
due _Consiglieri militari Assistenti_, e sovente ancora il
_Viceprotonotario_: sieguono ora i _Consiglieri Dottori_, che per
la maggior parte lo componevano, dei quali il numero era maggiore.
Si trascelsero sempre per Consiglieri di questo Senato i migliori
Giureconsulti, che fiorissero in ogni età. Alfonso, Ferdinando suo
figliuolo e tutti gli altri Re loro successori in questa elezione vi
usavan ogni scrutinio e diligenza. Vollero che fossero i più dotti
Giureconsulti: _Viri juris insignibus decorati, docti, graves, severi,
insontes, mites, justi, faciles, lenique, qui in judicibus exercendis,
non precibus, non pretio, non amicitia, non odio, neque denique ulla
re corrumpantur_, come sono le parole d'Alfonso[386]. Quindi è, che
fin dal tempo della sua istituzione leggiamo, che vi sedettero uomini
dottissimi e savissimi, un Michiel Riccio, un Francesco Antonio
Guindazzo, un Nicol'Antonio de' Monti, un Paris de Puteo, un Antonio
d'Alessandro, un Gio. Antonio Caraffa, un Matteo d'Afflitto, un Giacomo
d'Ajello, un Antonio Capece, un Loffredo, un Salernitano, un Tappia,
un Gamboa, un Miroballo e tanti altri, dei quali presso Toppi[387]
si legge numeroso catalogo, e de' quali, secondo che ci ritornerà
l'occasione, faremo ne' tempi che fiorirono, onorata memoria.

In questi principj, sino al Regno degli Austriaci, non eran perpetui,
ma ad arbitrio del Re[388], il quale fidando nella loro dottrina,
integrità e prudenza civile nel medesimo tempo ch'eran Consiglieri, gli
creava Presidenti di Camera, adempiendo con molta esattezza ambedue
le loro cariche. Severino di Diano, Pietro Marco Gizzio, Bartolommeo
di Verico, Andrea e Diomede Mariconda e moltissimi altri, siccome
osservò Toppi,[389] nell'istesso tempo ch'erano Consiglieri, furon
creati Presidenti di Camera, ed esercitavano amendue queste cariche.
Ciò che non deve parere impossibile, poichè in questi tempi solamente
tre dì della settimana, cioè il martedì, giovedì e sabbato si reggeva
Consiglio[390].

Sovente i pubblici Cattedratici eran creati Consiglieri; ma non perciò
lasciavano le loro Cattedre, ed i loro talenti gl'impiegavano non meno
nell'Università degli Studj, che nel Senato. Tale fu il Consigliere
Matteo d'Afflitto, tale Camerario e moltissimi altri, che possono
vedersi presso Toppi[391].

Intorno al lor numero, fu fin dal suo nascimento sempre vario ed
incerto, da poi si stabilì certo e determinato. Alfonso I quando
istituì questo Tribunale, oltre del Presidente, scelse nove Dottori
per Consiglieri[392]. Poi nell'anno 1449 riformandolo in miglior
forma, istituì due Titolati per Consiglieri _Assistenti_, e riformò
il numero de' Dottori; ordinando che non fossero più che sei. Poco da
poi, rivocando tal proibizione, v'aggiunse il settimo. Ma in decorso
di tempo, nel 1483 ed 84 il lor numero era di diece e sovente arrivò a
dodici. S'univan tutti in una Sala; onde è, che spesso nelle decisioni
del Consigliere Afflitto, leggiamo essersi talora qualche causa
concordemente decisa per _totum Sacrum Consilium_.

Carlo V fu il primo che con suo diploma, spedito in Bologna, sotto
li 26 febbrajo dell'anno 1533, ordinò, che si dividesse in due Ruote,
in ciascheduna delle quali, oltre il Presidente, dovessero assistere
quattro Dottori Consiglieri, determinando in cotal guisa il lor numero
ottonario[393]: ciò che nel castel di Capuana fu eseguito dal suo
Vicerè D. Pietro Toledo. Ma crescendo tuttavia il numero delle cause,
fu dal medesimo a preghiere della città e Regno conceduto a' 2 marzo
del 1536, che vi s'aggiungessero due altri Consiglieri, da dovere
assistere cinque per ciascheduna Ruota. Ne furon poi aggiunti due
altri, i quali dovessero assistere a' Giudici criminali della Vicaria,
mutandosi a vicenda in ogni biennio, con rimaner sempre nelle due Ruote
del Consiglio cinque per ciascheduna[394].

Da chi da poi fosse stato accresciuto il lor numero, ed aggiunta
la terza Ruota, niente può recarsi di certo. È verisimile, che ciò
accadesse nel Regno di Filippo II, giacchè egli in sue regali carte,
spedite a Madrid li 24 decembre del 1569, fa menzione di questa terza
Ruota[395].

Ma chi avesse aggiunta la quarta, è troppo chiaro che fu il Re Filippo
II, il quale alle preghiere fattegli ne' Parlamenti dell'anno 1589
e 1591 dalla città, per lo maggior disbrigo delle cause, con sue
regali lettere spedite a' dì 7 settembre del 1596, accrebbe il numero
de' Consiglieri, ed ordinò che alle tre s'aggiungesse la quarta
Ruota, dove parimente dovessero assistere cinque altri Consiglieri.
In guisa che restò il numero de' Consiglieri a ventidue, de' quali
venti si dovessero distribuire per le quattro Ruote del Consiglio, e
due assistere nella Ruota criminale della Vicaria, per raddolcire il
rigore di quel Tribunale, come ora tuttavia si osserva. Ve ne sono due
altri, che non risiedono in Napoli, uno è preposto al governo di Capua
che di biennio in biennio si muta; l'altro, o è destinato in Roma per
assistere in quella Corte per affari di giurisdizione, o al governo di
qualche provincia, ovvero per altre incombenze, che al Re piacesse di
altrove loro commettere. Questo al presente è il numero ordinario de'
Consiglieri, due parti de' quali doveano esser Regnicoli, e la terza ad
arbitrio del Re[396]. Ma ora per le novelle grazie[397] sei solamente
sono riservati al beneplacito Regio. I Re alcune volte gli han tolti e
ridottigli al numero ordinario, secondo che han portato le contingenze,
il favore o il merito di qualche eminente soggetto.

Questi sono i Ministri, che compongono un tanto Tribunale. Ebbe ancora,
siccome ancor ritiene, i suoi Ufficiali minori, un Secretario, un
Suggellatore, tredici Mastrodatti, molti Scrivani, sedici Esaminatori,
un Primario, nove Tavolarj e quattordici Portieri.

Da questo Tribunale, che fu quasi sempre composto di Giureconsulti
assai celebri, nacquero quelle tante _decisioni_, delle quali ora
abbiamo tanti Compilatori. Le sue decisioni, fin dal suo nascimento
ebbero tanto applauso ed autorità, che non pur appo i nostri, ma
anche presso i Giureconsulti stranieri acquistarono somma stima e
venerazione, di che ne può essere buon testimonio infra gli altri,
Filippo Decio. Il primo, che le compilasse, fu il famoso Matteo
d'Afflitto, il quale per questo solo merita essere sopra tutti
celebrato; perchè egli fu il primo in Italia che introducesse questo
instituto di notare le decisioni de' Tribunali, e farne particolari
raccolte. Il Cardinal de Luca[398] portò opinione, che questo
Giureconsulto avesse in ciò imitato lo stile della Ruota romana, le di
cui decisioni prima dell'erezione di questo nuovo Tribunale del S. C.
eransi rese già celebri, ed erano allegate da molti Scrittori. Ciò che
ne sia, non può dubitarsi ch'egli fu il primo che introducesse questa
nuova maniera di scrivere, e queste private collezioni. Il di lui
esempio seguiron da poi, non meno gli altri nostri Autori regnicoli,
che i Giureconsulti d'altre nazioni. Fra' nostri i più vicini a lui
furono, Antonio Capece, due Tommasi, Grammatico e Minadoi, ed il famoso
Vincenzo de Franchis. Seguiron poi gli altri, de' quali il Toppi[399]
tessè lungo ed acculato catalogo. Onde dopo gli antichi Glossatori,
dopo i Commentatori, i Repetenti, gli Addenti, i Trattanti ed i
Consulenti, surse fra noi un'altra classe di Scrittori chiamati per ciò
_Decisionanti_: di che altrove ci tornerà occasione di ragionare.



CAPITOLO V.

_Alfonso riordina il Tribunal della regia Camera; e come si fosse
riunito col Tribunale della regia Zecca retto da' M. Razionali._


Fra le molte virtù d'Alfonso non tralasciarono i nostri Scrittori[400]
notare un vizio, nel quale la stessa troppa sua liberalità e
magnificenza lo fecero cadere. Egli donando profusamente ed innalzando
pur troppo alcune famiglie, ridusse il regio Erario in angustie tali,
sicchè gli fu duopo per supplire agli eccessivi doni e spese, pensare
a nuove imposizioni e ad inventare altri gravosi mezzi per congregar
tesori. Volse per tanto i suoi pensieri a riordinare il Tribunale della
regia Camera, perchè i suoi Ministri stessero più accorti ed intenti a
procacciar danari.

Questo Tribunale, non meno di quello della Gran Corte della Vicaria,
lo compongono due Tribunali che prima divisi, poi col correr degli
anni s'unirono e ne formarono un solo, dove si tratta del patrimonio
del Re, nella maniera che oggi si vede. I M. Razionali, come fu da
noi rapportato ne' precedenti libri di questa Istoria, formavan il
lor Tribunale che si chiamava il Tribunal della _Zecca_, ed essi
erano anche chiamati Razionali della Gran Corte[401]. Qual fosse la
loro autorità ed incombenza fu a bastanza da noi esposto altrove. Era
una dignità assai onorevole, e per ciò veniva conferita per lo più
a' Nobili, ed a' primi Giureconsulti di que' tempi. Fu alcun tempo,
che i M. Razionali reggevano questo lor Tribunale nel castello di S.
Salvatore a Mare, che ora diciamo il castello dell'Uovo, come si vide
nel Regno di Carlo I d'Angiò; ed il di lor numero fu assai maggiore
di quello che ora si vede. Sotto il Re Ladislao se ne contavano sino a
sessantacinque; sotto Alfonso il di lor numero fu ridotto a trentasei,
e poi nel 1585 non eran più che diciotto[402].

La Regina Giovanna I nel 1350 spedì loro ampissimo privilegio, che
vien rapportato dal Reggente Capece Galeota[403]; ma poi i Razionali di
quello abusandosi, e volendo stender la loro giurisdizione nelle cause,
le quali non eran della loro incombenza, narra il Sargente[404], che
l'istessa Regina nell'anno 1370 ristrinse la loro autorità, proibendo
loro d'impacciarsi nelle cose altrui, e di stender le mani più di
quello che comportava il di lor posto.

Oltre a questo Tribunale, eravi sin da' tempi antichissimi l'altro,
in cui parimente trattavasi del patrimonio regale, chiamato _regia
Camera_ ovvero _regia Audientia, Curia Summaria_, e finalmente nomossi
la _regia Camera della Summaria_, nome che anche oggi ritiene[405]. Era
amministrato da' Magistrati, i quali prima erano chiamati _Auditori_
(onde fu il Tribunale anche detto _regia Audientia_) e poi si dissero
_Presidenti_ della regia Camera.

Poichè gli Ufficiali di questi due Tribunali, per trattar d'un medesimo
soggetto, riconoscevano un sol Capo, qual'era il G. Camerario o suo
Luogotenente, e sovente doveansi assembrar insieme, divenne perciò più
facile l'unione, e che di due si fosse fatto un sol Tribunale, e che le
prerogative degli uni con facilità passassero agli altri.

La maniera colla quale questi Ufficiali trattavano gli affari del
regal patrimonio, così nel Regno degli Angioini come degli Aragonesi,
ce la descrive l'istesso Re Alfonso in un suo diploma rapportato dal
Toppi[406], oltre il Surgente[407] e gli altri Scrittori del Regno
che lo seguirono. Tutti coloro che amministravano le ragioni fiscali
ed esigevano le rendite regali, eran obbligati portare i conti in
particolari quinterni nella Camera regia. Questi conti portati in
Camera, doveansi vedere da' Presidenti e Razionali insieme aggiunti,
ma sommariamente, cioè separar tosto le partite dubbie dalle liquide,
e ciò che rimaneva di debito liquido, mandar subito in esecuzione
l'esazione, onde si spedivan dal Gran Camerario e Presidenti lettere
significatoriali dirette al Tesoriere ch'esigesse tosto da' debitori
le somme in quelle significate. Le partite dubbie si rimettevano a'
M. Razionali, affinchè pienamente le rivedessero, le discutessero,
riassumessero i dubbj e finalmente le determinassero. Solamente quando
occorrevan delle difficoltà intorno al dritto, le comunicavano a'
Presidenti, i quali anche sommariamente doveano giudicarle: _Hinc
evenit_ (come ben a proposito scrisse il Surgente[408]) _ut Camera
Summariae sit appellata, cum prius Audientia Rationum appellaretur_.

Nel Regno del Re Ladislao cominciò ad introdursi, che i Presidenti,
non meno che i Razionali dovessero anch'essi pienamente discutere e
determinar i dubbj e spedir le quietanze. Ma Alfonso in questo suo
diploma dato nel Castel Nuovo a' 23 novembre dell'anno 1450 comandò,
che i conti riportati nella regia Camera si dovessero da' Presidenti
non pur sommariamente, ma pienamente discutere, e finalmente terminare,
senza che i M. Razionali s'intromettessero nella decisione, e
determinazione di quelli; trasfondendo a' Presidenti tutta l'antica
autorità che in ciò tenevano, e tutte le loro prerogative e preminenze,
succedendo essi in luogo di coloro; onde avvenne, che poi solamente
il di lor ministero si restringesse in riferire e proporre i dubbj
ed aspettarne da' Presidenti la decisione. Quindi è nata la gran
differenza, che ora si vede tra' M. Razionali antichi ed i moderni dei
nostri tempi.

Prima a' M. Razionali s'apparteneva interamente la cura del
regal patrimonio, ma poi Carlo I d'Angiò la commise alla Camera
regia[409]. Ed Alfonso innalzò poi sopra tutti gli altri Re questo
Tribunale, poichè stese la sua cognizione a molte cause, che prima
si appartenevano al Tribunale della G. Corte, o al sagro Consiglio.
Ordinò, secondo che narra il Costanzo[410], che avesse cura non solo
del patrimonio regale, ma che conoscesse delle cause feudali. Quindi
avvenne, che imitando gli altri successori Re l'esempio d'Alfonso,
favorissero tanto questo Tribunale, con estendere la sua giurisdizione
in tutte le cause, ove il Fisco, attore o reo, v'avesse interesse;
di conoscere delle Regalie, delle cause giurisdizionali quando si
tocasse il suo interesse, dell'investiture de' Feudi, delle cause di
successioni feudali, de' giuramenti di fedeltà e di ligio omaggio, de'
relevj, di adoe, delle devoluzioni de' Feudi; de' padronati regj, delle
dignità ecclesiastiche ed altri beneficj di collazione, o presentazione
regia: d'aver la soprantendenza sopra tutti gli ufficj vendibili: la
cura delle regie galee, de' regj castelli, delle torri, delle loro
provvisioni così da bocca come da guerra, de' cannoni, della polvere,
del nitro, e di tutto ciò che riguarda il provvedimento degli arredi
militari: la soprantendenza dell'amministrazione dell'Università
del Regno, delle tratte, de' dazj, delle gabelle e delle risulte del
Cedulario. Conoscere de' conti di tutti i Ministri regj, della dogana,
delle miniere, de' tesori, delle strade, de' ponti, de' passi: in breve
di tutto ciò che tocca il suo regal patrimonio e sue ragioni fiscali.

Tenendo la conoscenza e giurisdizione sopra tutto ciò, quindi avvenne
che soprastasse a molti altri Tribunali inferiori, i quali alla regia
Camera sono perciò subordinati, come alli Tribunali dello Scrivano di
Razione, del Tesoriere generale del Regno, della dogana grande e di
tutte l'altre dogane del Regno: del Montiere maggiore: del Portolano di
Napoli, e di tutti gli altri Portolani delle province, de' Vicesecreti,
de' Fondachi del sale e di tutti gli altri del Regno; della regia
zecca: delle monete, de' pesi e misure: dei Capitani della grassa:
della custodia de' passi e dei Consulati delle nobili arti della seta
e della lana. Conoscesse di tutti i Percettori, ovvero Tesorieri del
Regno, de' Commessari proposti all'esazioni fiscali, de' Maestri di
Camera, de' Segretari, delle regie Audienze, del Percettore della Gran
Corte della Vicaria e del Segretario del Sagro Consiglio: soprastasse
alli Tribunali dell'Arsenale, della regia cavallerizza, della gabella
del vino, del giuoco; e ad infinite altre cose a ciò attenenti
soprantendesse.

Angelo di Costanzo[411] narra che avendo il Re Alfonso stesa cotanto la
giurisdizione di questo Tribunale, avessegli perciò costituiti quattro
Presidenti Legisti, o due Idioti ed un Capo, il qual fosse Luogotenente
del Gran Camerario, e che il primo Luogotenente fosse stato Vinciguerra
Lanario Gentiluomo di Majori, del quale s'era servito avanti in molte
cose d'importanza. Ciò che non concorda co' cataloghi dei Luogotenenti
e Presidenti che tessè il Toppi[412]; poichè prima d'Alfonso era questo
Tribunale governato dal Gran Camerario, ovvero dal suo Luogotenente
che n'era Capo; e Vinciguerra Lanario vi fu Luogotenente molto tempo
prima d'Alfonso. Il primo Luogotenente nel Regno d'Alfonso, si porta
in quest'istesso anno della riforma di questo Tribunale 1450. Niccolò
Antonio de' Monti patrizio di Capua che fu Luogotenente di Francesco
d'Aquino Conte di Loreto Gran Camerario, il qual in niun conto volle
assistere al Tribunale, pretendendo, che come persona illustre potesse
servire per mezzo del Luogotenente suo sustituto, e l'ottenne[413];
onde fu creato Luogotenente Niccolò Antonio, e da questo tempo in
poi i Gran Camerarj non assisterono più nel Tribunale, ma i loro
Luogotenenti, de' quali insino a' suoi tempi Niccolò Toppi tessè
lungo catalogo; quindi in discorso di tempo, i Gran Camerarj non
molto impacciandosi di questo Tribunale, avvenne che i Re creassero i
Luogotenenti, ed a' Gran Camerarj non rimanesse se non questo nome vano
senza funzione, e sol per titolo d'onore e di preminenza.

Il numero de' Presidenti, non meno che quello dei Consiglieri, fu
sempre vario, ed erano parimenti amovibili ad arbitrio del Re, passando
vicendevolmente gli uni nel Tribunale degli altri. Secondo che narra
il Costanzo, in tempo d'Alfonso non eran più che quattro Togati e due
Idioti; poi crebbe a meraviglia il di lor numero, tanto che nel 1495
si videro reggere questo Tribunale ventisei Presidenti tutti uomini
insigni non men per nobiltà di sangue, che per lettere[414].

Questo eccesso fece pensare alla riforma; onde nel medesimo anno
1495, sotto Ferdinando II, fu riformato il Tribunale, e si lasciarono
solamente cinque Presidenti, i quali in una Ruota, come costumavano
i Consiglieri di S. Chiara s'univano. Ma in discorso di tempo,
crescendo tuttavia nel Regno l'entrate regali, fu bisogno ampliar il
numero, e per conseguenza non capendo in una Ruota, il Re Filippo II
con sua carta de' 24 dicembre del 1596 drizzata al Conte d'Olivares
Vicerè[415], ordinò che il Tribunale si dividesse in due sale, in
ciascheduna delle quali assistessero tre Presidenti Togati ed uno
Idiota, e il Luogotenente ora in una, ora in altra, secondo la maggior
gravità ed occorrenza del negozio, vi soprastasse. Nè ciò bastò
all'immensità degli affari del Tribunale; ma fu d'uopo che nel 1637,
per la più pronta spedizione di quelli, il Conte di Monterey Vicerè
aggiungesse la terza Ruota. Ora il di lor prefisso numero è di dodici,
otto Togati, e quattro Idioti, i quali, toltane la dignità della toga,
e d'astenersi al votare nel caso che s'abbia a decidere qualche punto
di ragione, hanno le medesime prerogative che i Togati, e siedono
dopo di questi. Filippo II, nel 1558, ne' privilegi conceduti alla
città e Regno, dispose che de' Presidenti di Camera due parti fossero
Nazionali; e la terza ad arbitrio del Re[416]: ma nel Regno degli altri
Austriaci s'è veduto sempre questo Tribunale essere stato governato
da quattro Italiani, e quattro Spagnuoli; ed ancorchè i Presidenti
Idioti fossero stati per lo più Nazionali, pure sovente se ne videro
Spagnuoli. Ora per le novelle grazie[417], tre Togati ed uno Idiota
sono rimasi ad arbitrio del Re.

Tiene questo tribunale un Avvocato fiscale, ed un Proccuratore
che alla gran mole degli affari appena basta, tanto che il Tassone
desiderava fin da' suoi tempi, che almeno fossero due Fiscali. Fu a'
dì nostri ciò posto in effetto, ma da poi si ritornò ad uno, come ora
si vede. Egli è vero, che in parte fu provveduto a questo difetto,
per essersi con nuova provvisione aggiunto un Fiscale detto de' Conti,
che chiamiamo di Cappa corta, il quale siede dopo l'Avvocato fiscale
togato, e tien soldo di mille ducati[418]. Teneva ancora questo
Tribunale venti Razionali; ma ora il di lor numero è ristretto a
quindici: dodici destinati per gli affari delle dodici province: due
per lo regal patrimonio, ed uno per la dogana di Foggia; l'autorità de'
quali, ancorchè sia molto diminuita, e per la maggior parte sia stata
trasferita a' Presidenti, pure nella relazione e discussione de' Conti
è grande. Sono non meno che i Presidenti e l'Avvocato e Proccuratore
fiscale, creati dal Re, ed è lor facile l'ascendere da Razionali
a Presidenti Idioti, ciocchè, siccome ci testimonia Toppi[419], si
praticava ancora in tempo degli Aragonesi e di Carlo V, e godono tutte
le prerogative, preminenze ed esenzioni, che tutti gli altri Ufficiali
del Tribunale.

Tiene il suo Notajo, ovvero Segretario, che quantunque sia ufficio
vendibile, nulladimanco la confirma pure dipende dal Re. Tiene tre
Archivarj secondo i tre archivi che vi sono: quello della regia zecca,
l'altro de' Quinternioni, ed il terzo del Gran Archivio, de' quali e
delle loro preminenze il Toppi[420] tessè lunghi discorsi e copiosi
cataloghi.

Tiene parimente il Suggellatore, gl'Ingegnieri, che fanno le veci
de' Tavolarj e quattro principali Mastrodatti, i quali han facoltà
di creare otto Attuarj, due per ciascheduno, oltre dodici altri, che
ne crea il Luogotenente, tutti nazionali: molti Scrivani ordinarj
approvati con decreto del medesimo, precedenti debiti requisiti:
moltissimi estraordinari e più portieri; sopra de' quali tutti il
tribunale tiene la cognizione delle loro cause, così civili come
criminali.

Ecco in qual'eminenza oggi sia questo Tribunale, arricchito di tanti
privilegi e prerogative non meno da' Re aragonesi, che da' successori
Principi austriaci, tanto che si è reso per se stesso Tribunal
supremo, ed indipendente da qualunque altro per ciò che riguarda
l'amministrazione del regal patrimonio. È assomigliato al _Procurator
di Cesare_ de' Romani. Ha la retrattazione, come il S. C. in guisa
che non può dalle sue determinazioni appellarsi ad altro Tribunale,
ma per via di reclamazione, egli stesso le rivede, non impedita
l'esecuzione. Non meno che il Tribunal del S. C. da esso escono le
decisioni, e gli arresti, ed i decreti generali che nel Regno han forza
non inferiore alle leggi ed a' riti e costumanze degli altri Tribunali
supremi. Quindi oltre i riti, gli arresti ed i decreti generali, de'
quali abbastanza fu da noi discorso nel libro XII di quest'Istoria,
tiene particolari Scrittori che compilarono le sue decisioni, come
il Reggente Revertera, Ganaverro, Moles, Ageta ed altri. E nel Regno
degli Aragonesi, prima che nel 1505 si fosse da' Spagnuoli eretto il
Consiglio _Collaterale_, teneva questo Tribunale il secondo luogo dopo
quello del S. C. di S. Chiara, da cui in ogni tempo ed in ogni luogo,
fuor che in casa propria, dove i Presidenti siedono al lato destro ed
i Consiglieri al sinistro, è stato sempre preceduto.



CAPITOLO VI.

_Disposizione e numero delle province del Regno sotto ALFONSO, ed
in che modo fossero dalla Regia Camera amministrate; e come fossero
numerati i fuochi di ciascuna città e terra che lo compongono._


Io non veggio donde Marino Freccia[421] abbiasi appreso che il Re
Alfonso avesse diviso questo Regno in sei province. Sin da' tempi
dell'Imperador Federico II, siccome si vide nel XVII libro di
quest'Istoria, era diviso in otto province. Il _Principato_, che
per la sua estensione si divise poi in due, _citra_ ed _ultra_. La
_Calabria_, che per la sua ampiezza bisognò poi dividerla parimente
in due, in _Terra Giordana_, che diciamo ora Calabria _ultra_, e _Val
di Crati_ che Calabria _citra_ oggi s'appella. La _Puglia_ divisa poi
parimente in due, _Terra d'Otranto_ e _Terra di Bari_, e _l'Apruzzo_,
che pur fu diviso in due province; onde a queste otto aggiunte l'altre
quattro, cioè _Terra di Lavoro_, _Basilicata_, _Capitanata_ e _Contado
di Molise_, venne il di lor numero ad arrivare a dodici, come è al
presente. Ed è tanto lontano che Alfonso avesse ristretto il di lor
numero, che fu costante opinione de' nostri Scrittori, ch'egli avesse
diviso l'Apruzzo in due province per toglier le brighe che solevan
insorgere fra' Questori per l'esazion delle tasse e dei dazj[422]. Ma
niun'altra scrittura più manifestamente convince nel Regno d'Alfonso
il numero di queste province essere di dodici, quanto la general
Tassa delle Collette che furono nuovamente imposte per l'entrata
trionfale di Alfonso, che fece in Napoli nel 1443, e per la quale fu
anche tassato il popolo napoletano. Fu questa scrittura impressa de
Camillo Tutini[423] nel suo libro de' sette Ufficj del Regno, ch'egli
estrasse dall'Archivio maggiore della Regia Camera. Mancavi solamente
la provincia di Terra d'Otranto, non sappiamo se per la voracità del
tempo, ovvero perchè possedendosi questa provincia per la maggior sua
parte dal Principe di Taranto, parente del Re, ne fosse stata perciò
eccettuata; e nel novero delle città e terre di tutte le altre province
mancano ancora le città demaniali, per le quali bisogna credere che
si fosse fatta tassa separata. I registratori però commisero errore in
notarne la rubrica, perchè in vece di dire: _Triumphi Regis Alphonsi_,
dissero: _Tassa Collectarum felicis Coronationis Regis Alphonsi noviter
imposita ad recolligendum a Baronibus Provinciarum Regni, ultra Terras
demaniales_; poichè ancor che Alfonso nel 1445 avesse ottenuta Bolla da
Papa Eugenio, per la quale se gli prometteva di mandargli il Cardinal
di S. Lorenzo o altra persona per solennemente coronarlo; nulladimanco
non fu mai questa solennità celebrata in tutto il tempo che visse. Si
registrano in questa cedola, toltane Terra d'Otranto, tutte l'altre
undici province, colle città e terre baronali ed i loro baroni con
quest'ordine e nomi: _Principato citra, et ultra: Basilicata: Terra di
Lavoro e Contado di Molise: Apruzzo citra: Apruzzo ultra: Provincia
Calabriae Vallis Cratis: Provincia Calabriae ultra: Capitanata:
Provincia Terrae Bari._

Ecco dunque che nel Regno d'Alfonso le province del Regno non erano
minori di quel che vediamo ora. Nel che si convince parimente l'errore
del _Guicciardino_[424], il quale scrisse che Alfonso avesse variata la
denominazione antica delle province, ed avendo rispetto a facilitare
l'esazioni dell'entrate, avesse diviso tutto il Regno in sei province
principali; cioè, in Terra di Lavoro, Principato, Basilicata, Calabria,
Puglia ed Apruzzi; delle quali la Puglia era divisa in tre parti, cioè
in Terra d'Otranto, Terra di Bari e Capitanata. Errore quanto degno di
scusa a questo Scrittore, che come forestiere non potè averne esatta
notizia, altrettanto da non condonarsi a Marino Freccia Scrittor
nazionale e regio Ministro di Napoli.

Ma ciò che dovrà notarsi nel tempo di questo Re, sarà il vedere che non
pure tutte le isole a queste province adjacenti, delle quali si parlerà
più innanzi, ma anche l'isola di Lipari, non già alla Sicilia, ma alla
_Calabria_ era attribuita.

Accrebbe ancora questo Principe la provincia del _Principato
ulteriore_, col nuovo acquisto della città di Benevento, e distese
sopra lo Stato della Chiesa romana li confini di _Terra di Lavoro_ più
di quello che ora sono; ed aggiunse parimente al Regno la Sovranità
sopra lo Stato di Piombino.

La città di Benevento, come si è potuto vedere ne' precedenti libri di
quest'Istoria, per le cagioni ivi rapportate, fu lungamente posseduta
da' Pontefici romani; ed ancorchè sovente fosse stata interrotta la
loro possessione da Roberto Guiscardo, da Ruggiero I Re di Sicilia,
da Guglielmo II, dall'Imperador Federico II e da altri Re, secondo
che le congiunture della guerra o d'inimistà portarono; nulladimanco
sempre poi ne' trattati di pace fu alla Chiesa restituita, riputandosi
questa città come fuori del Regno; poichè quando di queste province se
ne formò un Regno, si trovava già da quella divisa e separata, e sotto
l'ubbidienza de' romani Pontefici; ond'è, che in tutte le investiture
fu sempre quella eccettuata. Nel Regno di Carlo III di Durazzo, Urbano
VI la diede in governo a Ramondello Orsino, che fu poi Principe di
Taranto, per averlo liberato dalle mani di Carlo, quando lo teneva
assediato in Nocera. Chiamato Alfonso alla conquista del Regno per
l'adozione della Regina Giovanna II essendo insorti que' contrasti
che finalmente proruppero in sanguinose guerre; Alfonso che tenne
contrarj due Papi, occupò Benevento, senza che pensasse di doverla
mai restituire, come avean fatto gli altri Re suoi predecessori.
Ne' trattati di pace che si s'ebbero in Terracina col Legato di Papa
Eugenio, fa molto dibattuto sopra la sua restituzione, la quale non fu
accordata dal Re; e sol si convenne che insieme con Terracina dovesse
ritenerla in nome della Chiesa per tutto il tempo di sua vita: ma che
all'incontro si lasciassero sotto il governo del Papa Città Ducale,
Acumoli e la Lionessa, terre importantissime della provincia d'Apruzzo
ulteriore. Ma da poi essendo ad Eugenio succeduto Niccolò V, furono
ad Alfonso restituite le suddette Terre della Montagna dell'Amatrice;
ond'è che il Contado di Acumoli, confinando con quello di Norcia,
perchè si togliesse ogni occasione di controversia di confini fu dal
Conte di Miranda, nell'anno 1389, pubblicata prammatica[425], colla
quale fu proibita ogni sorte d'alienazione de' territorj d'Acumoli, che
sono ne' suddetti confini, a' forestieri, e specialmente a' Norcesi; e
rimasero parimente Benevento e Terracina in potere del Re, assolvendolo
ancora dal tributo de' due Sparvieri, che per dette due città dovea
alla Sede Appostolica: onde la provincia di _Principato ultra_ in tutto
il tempo che regnò Alfonso, riconobbe, anche perciò che riguarda la
politia temporale, Benevento per suo capo e metropoli. Nè dopo la morte
d'Alfonso fu restituita alla Chiesa, ma Ferdinando I suo successore
parimente la ritenne per lungo corso di tempo: in appresso dopo varj
trattati avuti col Pontefice Pio II la restituì al medesimo; dal qual
tempo in poi, con non interrotta possessione, insino ad ora si vide
sotto il dominio della Sede Appostolica, e riputata città fuori del
Regno. Della medesima avea a' tempi de' nostri avoli tessuta una esatta
e piena istoria _Alfonso di Blasio_ gentiluomo Beneventano; ed il
quarto volume conteneva quest'ultimo stato, nel quale giacque suddita
a' Papi. Secondo una sua epistola del 1650 rapportata dal Toppi[426],
nella quale ci dà l'idea di quest'opera, egli v'avea travagliato
trent'anni, e secondo i varj suoi stati (prima d'essere stata
soggiogata da' Romani, nel tempo che fu dominata da' medesimi in forma
di Colonia, sotto i suoi Duchi e Principi, e finalmente sotto i Papi)
l'avea divisa in quattro volumi. Sosteneva che l'antichissima città di
Sannio fosse stata Benevento, rifiutando l'opinione di Cluverio e di
Salmasio che negarono la sussistenza della città di Sannio. Ma morto
al piacere dell'immortal suo nome che senza dubbio per cotal opera
avrebbesi acquistato, non potè vederne il fine; ed i suoi manuscritti
con tanta trascuraggine non curati, giacciono ora sepolti in profonda
caligine, senza che vi fosse stato chi se ne avesse presa cura o
pensiere di fargli imprimere.

La provincia di _Terra di Lavoro_ nel Regno d'Alfonso distese molto più
i suoi confini sopra lo Stato della Chiesa romana che ora non tiene.
Li Pontefici romani pretesero che la città di Gaeta s'appartenesse
allo Stato della lor Chiesa; e fondavano questa lor pretensione, come
si disse ne' precedenti libri di quest'Istoria, nella liberalità di
Carlo M. quando pretese toglierla a' Greci per farne un dono alla
Chiesa di Roma, siccome avea fatto di Terracina e dell'altre spoglie
de' Greci. Ma essendosi in que' tempi opposto Arechi Principe di
Benevento, frastornò ogni lor disegno, e proccurò che tosto questa
città ritornasse sotto la dominazione degl'Imperadori d'Oriente, i
quali vi mandavano i Patrizj loro Ufficiali per governarla. Ma non
per ciò si astennero i Pontefici romani, quando le congiunture lo
portavano, di far dell'intraprese, e quando vedevano non poterle
mantenere, ne investivano un Principe più potente. Così leggiamo che
Giovanni VIII la concedè a Pandolfo Conte di Capua, che morì nell'anno
882[427]; e Lione Ostiense[428] scrive, che Gaeta in que' tempi serviva
al Papa; ma ritornò ben tosto sotto gl'Imperadori d'Oriente, e ne'
tempi seguenti, avendo i Normanni spogliati i Greci di ciò che loro
era rimaso in queste nostre province, essi se n'impadronirono; ond'è
che s'intitolavano ancora Duchi di Gaeta. A' Normanni essendo succeduti
i Svevi, e poi gli Angioini, ed a questi ora Alfonso, e poi gli altri
Aragonesi e finalmente gli Austriaci, questa città fu con continuata
e non interrotta possessione da' nostri Re ritenuta, e come una delle
città di questa provincia fu sempre riputata.

Ma la medesima sorte non ebbe Terracina se non a' tempi d'Alfonso.
Questa città pure come spoglia de' Greci fu da Carlo M., avendola tolta
a' medesimi, donata alla Chiesa romana[429]; ma i Normanni, discacciati
i Greci, in lor vece la pretesero[430]. Non l'abbandonaron con tutto
ciò i Pontefici e la riebbero: tanto che con interrotta possessione
ora da Papi, ora da' nostri Re fu occupata e sempre combattuta, finchè
solamente Alfonso per via d'accordo e di capitolazioni avute con due
Pontefici, stabilmente non la unisse a questa provincia; e per lungo
tempo i confini del Regno verso quella parte si distesero sino a
questa Città. Eugenio IV come si è veduto, in iscambio d'Acumoli, città
Ducale e Lionessa, diede in governo ad Alfonso, Benevento e Terracina
per tutto il tempo di sua vita; da poi s'ampliò la concessione
a Ferdinando ed a' suoi successori perpetualmente. Niccolò V suo
successore confermò quanto Eugenio avea fatto; anzi restituì ad Alfonso
quelle Terre, e volle che Benevento e Terracina rimanessero a lui
senz'alcuna obbligazione di censo. Fu Terracina nel Regno d'Alfonso, e
ne' primi anni di Ferdinando suo figliuolo ritenuta. Ma poi Ferdinando
per tenersi amico Pio II, che gli diede l'investitura, negatagli da
Calisto, bisognò che la restituisse[431] insieme con Benevento; onde i
romani Pontefici di nuovo l'incorporarono al loro Stato, donde mai da
poi potè divellersi: sursero quindi le tante controversie ne' confini
tra la Sede Appostolica ed i nostri Re, i quali conservarono sempre
queste ragioni per riaverla secondo che le congiunture portassero; ed
il Chioccarello nel ventesimoprimo tomo de' suoi M. S. Giurisdizionali
di tutte queste ragioni ne fece particolare ed accurata raccolta[432].

Non trascurò Alfonso le sue ragioni sopra altri luoghi di quest'istessa
provincia pur pretesi ed invasi da' romani Pontefici. Il Castello di
Pontecorvo, non più che otto miglia lontano da Monte Cassino[433], dove
ora risiede il Vescovo d'Aquino, era certamente dentro il distretto
di questa provincia di Terra di Lavoro. Fu edificato nel tenimento
d'Aquino presso un ponte curvo, onde prese il nome, da Rodoaldo
Castaldo, ne' tempi dell'Imperador Lodovico, siccome narra Lione
Ostiense[434]. Il monastero Cassinense, a cui fu poi nel 1105 conceduto
da Riccardo Principe di Benevento, per lungo tempo lo tenne[435]: ma
gli Abati di questo monastero eran in que' tempi entrati in pretensione
di posseder tutte le terre del loro monastero, come Signori assoluti,
senza dipender da altro Principe, nè riconoscere altro supremo ed
eminente dominio: perciò independentemente ne infeudavano gli altri con
farsi prestare il giuramento di fedeltà e di ligio omaggio, de' quali
giuramenti l'Abate della Noce[436] ne porta due formole. Porta ancora
questo Autore l'investitura, che l'Abate Oderisio fece della metà di
questo castello a Giordano Pinzzast durante la sua vita solamente,
ma che dopo la sua morte tornasse al monastero. Questa pretensione
certamente in que' tempi se la fecero valere, poichè eran entrati in
tanta alterigia, che poser eserciti armati in campagna, e mosser guerre
in que' tempi turbolentissimi, difendendosi i loro castelli con mano
armata. Ma in decorso di tempo, sterminati da queste province tanti
piccioli Signori e ridotte quelle in forma di Regno sotto il famoso
Ruggiero I Re di Sicilia, le Terre di questo Monastero furono trattate
da' Re normanni, da' Svevi ed Angioini non meno che l'altre Terre
degli altri Baroni, delle quali i Re aveano il supremo ed eminente
dominio ed alta giurisdizione. Quindi noi leggiamo, che gli Abati di
Monte Cassino nel Regno di Carlo I d'Angiò, volendo tornar all'antiche
pretensioni fur ripressi da questo Principe, il quale nell'anno 1275
scrisse a' suoi Ufficiali, dicendo loro, che le Terre che possedeva il
monastero Cassinense erano soggette al Re, come tutte l'altre Terre e
vassalli del Regno, e che quel monastero e suo Abate non v'aveano altro
che il vassallaggio: onde ordina ad essi, che non facciano aggravare
i suddetti vassalli dall'Abate. Carlo II suo successore, nel 1292,
mentre questo Monastero era amministrato nel temporale e spirituale
dal Vescovo di Tripoli, mandò due Commessari a distinguere i confini
de' Territori tra le Terre di Rocca Guglielma e Pontecorvo, e porvi i
termini: e nel 1307 scrisse al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado
di Molise, che rendesse giustizia all'Abate e monastero suddetto di
non fargli molestare nella possessione d'alcuni beni stabili, ragioni
e vassalli, che tenevano nel distretto di Pontecorvo, spettanti al
suddetto monastero, ma che gli mantenesse nella possessione, nella
quale si trovavano.

Il Re Roberto nel 1311 ordinò all'abate Cassinense che tenesse ben
guardate le fortezze e luoghi di detta Badia esposti all'offesa de'
suoi nemici, e spezialmente S. Germano e Pontecorvo; e nel 1324 essendo
di nuovo insorta lite de' confini tra Rocca Guglielma e Pontecorvo,
commise al Giustiziere di Terra di Lavoro e Contado di Molise, che
dividesse i confini dei territorj delle Terre suddette e vi ponesse i
termini.

La Regina Giovanna I nel 1343 ordinò al Giustiziere di Terra di Lavoro
e Contado di Molise, che non procedesse _ex officio_ contra agli uomini
della Terra di Pontecorvo vassalli del monastero Cassinense negli
loro delitti, eccettuatine quelli, che _de jure_ spettano. E la Regina
Giovanna II, nel 1431, creò Capitano di Pontecorvo per lo rimanente di
quell'anno Niccolò di Somma di Napoli Milite.

Ancora dagli antichi Cedolarj regj si ricava, che la Terra di
Pontecorvo, dalli tempi del Re Carlo I insino alla Regina Giovanna II,
fu sempre tassata nelle tasse generali a pagar le collette alla Regia
Corte, conforme tutte l'altre Terre del Regno, come nell'anno 1274,
1275, 1292, 1295, 1304, 1306, 1309, 1316, 1319, 1320, 1321, 1322,
1323, 1324, 1328, 1333, 1335, 1339, 1395 e 1423, li quali documenti
furon tutti raccolti dal Chioccarello nel tomo 18 de' suoi M. S.
Giurisdizionali.

Ma il monastero Cassinense, avendo patite varie mutazioni, e dalla
Corte romana ora dato in Commenda a qualche Vescovo o Cardinale, ora
restituito nel suo primiero stato, disponendone i Pontefici romani
a lor talento, fu molto ben da essi estenuato con appropriarsi
buona parte de' suoi dominj, tanto che Pontecorvo tolto a' Monaci,
finalmente pervenne in mano della Sede Appostolica. I Papi non vollero
riconoscere i nostri Re per supremi Signori della Terra, come prima
gli riconoscevano gli Abati di quel monastero, ma s'usurparono sopra
quella ogni diritto. Ma il Re Alfonso in tempo dell'inimicizia,
che ebbe con Eugenio IV gli tolse colle armi Pontecorvo, e fin che
regnò, lo tenne, e dopo la sua morte lo trasmise al Re Ferdinando suo
successore. Nella guerra poi, che questo Re ebbe con Giovanni figliuol
di Renato, cotanto ben descritta dal Pontano, gli fu tolto da Giovanni;
ma avendo Ferdinando fatta lega col Pontefice Pio II, il quale contro
Giovanni pose in piedi un fioritissimo esercito, l'esercito del Papa
discacciò Giovanni da que' luoghi che avea presi, e Pontecorvo ritornò
in questa guerra a Ferdinando suo vero padrone[437]. Ma i Pontefici
Romani, che mai trascurano il tempo e l'occasioni di riacquistar
ciò, che una volta possederono, vegghiaron sempre per riaverlo, e
secondo le congiunture portarono, con non picciola trascuraggine de'
Ministri de' nostri Principi, se n'impossessarono di nuovo, e con non
interrotta possessione lo tennero lungamente, ed in fine giunsero, che
nell'investiture del Regno se l'han riserbato, non meno che fecero di
Benevento[438]; ed ultimamente, perchè il Vescovo d'Aquino dimorasse
in più sicuro luogo, han mutata la sua residenza, ed in vece di farlo
risiedere in Aquino antica Sede Cattedrale, oggi risiede in Pontecorvo,
Terra da essi pretesa fuori del dominio de' nostri Re[439]. Anzi
rinovando l'antiche contese de' confini, intrapresero estendergli
sopra Rocca Guglielma, tanto che nel Ponteficato di Paolo V fu d'uopo
al Vicerè D. Pietro Conte di Lemos, mandar in S. Germano il reggente
Fulvio di Costanzo Marchese di Corleto, il quale coll'Arcivescovo di
Chieti Commessario appostolico mandato dal Papa, composero queste
differenze, ed a' 31 maggio 1762 ne fu in S. Germano stipulato
istromento tra il suddetto Arcivescovo e 'l Reggente per la distinzione
de' confini suddetti tra Pontecorvo e Rocca Guglielma, nel quale furono
inserite le loro commissioni sopra di ciò ricevute[440].

Vindicò Alfonso da' Pontefici romani non meno Pontecorvo, che le
picciole isole adiacenti ne' mari di Gaeta. Sono in questo mare quattro
isolette chiamate Ponza, Summone, Palmerola e Ventotene. In alcune
carte Summone e Palmerola, son dette S. Maria e le Botte. Pure sopra
quest'isole i Pontefici romani tentarono dell'intraprese, ancorchè
comprese nel Regno di Napoli, e fossero riputate sempre della diocesi
di Gaeta, e da' nostri Re sempre dominate.

Il Re Carlo I nel 1270 ordinò a' suoi Ufficiali di Terra di Lavoro, che
non facessero molestare l'Abate e Convento del monastero di S. Maria
dell'isola di Ponza dell'ordine Cisterciense della diocesi di Gaeta,
sopra alcuni beni che possedeva nella diocesi di Sessa; ed il nostro Re
Alfonso, avendo Fr. Marcellino d'Alvana ottenuto da lui sorretiziamente
un ordine, che fosse posto in possesso della Badia del monastero di S.
Maria di Ponza, scoverto l'inganno, ordinò che se gli levasse tosto il
possesso e la riscossione de' frutti di detta Badia.

Seguendo in ciò l'esempio d'Alfonso, li successori Re mantennero in
quest'isole il lor possesso; e, regnando l'Imperador Carlo V, abbiamo,
che il Conte di S. Severina Vicerè del Regno nel 1525 spedì più ordini
a' Castellani di Ponza e Ventotene, che le guardassero attentamente, e
con vigilanza contro i Turchi.

Ma nel Regno di Filippo II i Pontefici romani avanzarono le loro
pretensioni, e oltre averne spedite concessioni al Cardinal Farnese ed
al Duca di Parma, i Romani attentarono di fare alcuni Forti nell'isola
di Ponza, di che avendone il Duca d'Ossuna avvisato il Re, Filippo
nel 1584 gli rescrisse, che stasse in ciò con molta avvertenza, in non
permettere, che alcuno usurpi la sua giurisdizione, e che perciò voleva
che pienamente l'informasse di tutto con suo parere. Il Vicerè fece
far consulta dalla Regia Camera, nella quale fu con molta esattezza
dimostrato, che l'isola di Ponza con altre Isole convicine, cioè
Summonte, Palmerola e Ventotene erano comprese nel Regno, nè il Papa
poteva avervi alcun dritto, nè il Duca di Parma, il quale non era che
un semplice e nudo affittatore, avendosele nel 1582 affittate per scudi
13000 per ventidue anni: onde il Re con altra sua carta de' 3 novembre
del medesimo anno 1584 in vista di detta consulta gli ordinò, che
continuasse a conservare le ragioni che egli vi tenea, nè permettesse
che altri sopra quelle facessero innovazione alcuna.

Succeduto poi al governo del Regno il Conte di Miranda, il Cardinal
Farnese mosse trattato col Re Filippo, per mezzo del Conte d'Olivares
allora Ambasciadore in Roma, che queste isole si concedessero in
feudo al Duca di Parma suo fratello cugino: ed inclinando il Re
per le condizioni di que' tempi a farlo, scrisse al Conte nel 1587,
che l'informasse con particolarità di ciò che poteva occorrere in
contrario, ma che fra tanto non permettesse in dette isole vi si
facesse fortificazione alcuna, nè molo nè porto nè cosa simile, insino
che informata del tutto potesse risolvere quel che più conveniva al
suo regal servigio. Ed avendogliene il Conte di Miranda fatta piena
relazione, risolvè il Re d'infeudarle al Duca di Parma con darne avviso
al Vicerè di questa sua risoluzione; ed a' 22 settembre del 1588 ne
scrisse anche al Conte di Olivares suo Ambasciadore in Roma, che in
conformità di quel che avea scritto al Vicerè, veniva a concedere dette
isole in feudo al Duca di Parma con ergerle in Contado[441].

Accrebbe finalmente Alfonso il Regno colla sovranità, che acquistò
sopra lo Stato di Piombino (posto presso il mare tra il Pisano ed
il Sanese), e coll'acquisto della picciola isola del Giglio, di
Castiglione della Pescara e di Gavarra. Nella guerra che Alfonso mosse
in Toscana per indurre i Fiorentini alla pace, ed a richiamare le loro
truppe dall'assedio di Milano, essendogli da' Senesi dato il passo,
pensò, che non per altra parte potesse più utilmente muovere le sue
forze contro i Fiorentini, se non per lo Stato di Piombino, nel cui
Porto potesse far venire da Sicilia la sua armata di mare. Rinaldo
Orsino erane allora Signore, il quale se ben prima avesse seguita la
parte d'Alfonso, cominciò da poi ad aver intelligenza coi Fiorentini,
co' quali finalmente si unì contro il Re. Fece per tanto che Alfonso
deliberasse di fargli guerra; onde dopo aver per tutta la primavera
dell'anno 1488 guerreggiato in Toscana, nel principio di luglio andò a
poner il campo contro Piombino, cingendolo di stretto assedio. Rinaldo
chiamò i Fiorentini che venisser tosto a soccorrerlo, i quali non furon
pigri a farlo[442]; ed azzuffatesi le due armate, riuscì ad Alfonso
di batter in mare i Fiorentini, ed introdurre le sue navi nel Porto
di Piombino, le quali s'impadronirono ancora della vicina isola del
Giglio. Fece dar l'assalto alla città per ridurla; ma sopraggiunta
in quell'està una gran pestilenza nel suo esercito, fu d'uopo levar
l'assedio: trattatasi poi la pace tra 'l Re ed i Fiorentini, con gli
altri Potentati d'Italia, Alfonso l'accettò con queste condizioni,
che rimanessero sotto il suo dominio Castiglione della Pescara, il
Giglio, lo Stato di Piombino e Gavarra: ciò che gli fu accordato; ma
i Fiorentini vollero, che in questa pace si includesse anche Rinaldo
Orsino, e fu accordato che Rinaldo rimanesse Signore di Piombino, con
riconoscere il Re per sovrano, a cui pagasse per tributo ogni anno un
vaso d'oro di 500 scudi.

Era questo Stato della nobilissima famiglia Appiano, e Gherardo
Lionardo Appiano ne fu l'ultimo Signore. Questi essendosi casato
con Paola Colonna, dal cui matrimonio non essendone nati maschi, ma
una sola femmina chiamata Catterina Appiana, ordinò che nello Stato
succedesse non Catterina, ma Emmanuele suo fratello, nel caso, che
Giacomo altro suo fratello morisse, come avvenne, senza figli maschi.
Ma morto Gherardo, Paola sua moglie, avendo casata Catterina sua
figliuola con Rinaldo Orsino, proccurò che Rinaldo suo genero si
fosse reso Signore dello Stato, escludendone Emmanuele e per mezzo de'
Fiorentini ottenne, che Alfonso gli lasciasse lo Stato col tributo del
vaso d'oro, come si è detto.

(_Gherardo a Roo_[443], e per la costui testimonianza, _Struvio Syntag.
Hist. Germ. dissert._ 30 §. 22 rapportano, che gli Orsini collo sborso
di quindicimila ducati, che pagarono all'Imperadore _Federico III_,
ebbero dal medesimo il Principato di Piombino; il quale _Alfonso_ rese
a se tributario).

Essendone da poi morto Rinaldo, Catterina sua moglie mandò Oratori al
Re Alfonso, pregandolo a non darle travagli per li misfatti del marito;
poichè ella seguiterebbe a riconoscerlo per sovrano con prestargli
ogni ubbidienza e pagargli il tributo. Il Re ne fu contento, e fin
che visse Catterina rimase Signora dello Stato; ma quella poco da
poi morta, i Cittadini di Piombino chiamaron subito Emmanuele, e come
loro legittimo Signore l'invitarono allo Stato. Ritrovavasi questi in
Troja città del Regno, posta nella provincia di Capitanata, ove erasi
ricovrato sotto la protezione d'Alfonso: il ricevette molto contento
dell'invito fattogli da' suoi vassalli[444], e per tenerlo più fermo
in suo servizio, quando bisognasse contro i Fiorentini, inviò un suo
Segretario a coloro dello Stato, dichiarando il contento, che teneva
così per aver essi fatto il lor debito in richiamarlo, come anch'egli
avea molto caro, che quello Stato fosse ricaduto ad Emmanuele, che
avea sempre tenuto sotto la sua protezione sopra a qualunque altro;
onde Emmanuele, avendogli giurato omaggio, e promesso di pagare a lui
e suoi successori ogni anno un vaso d'oro di 500 scudi, fu stabilito
ancora con coloro dello Stato, che tutti gli altri, che succedessero
in quella Signoria, fosser obbligati di riconoscere il Re e suoi
successori nel Regno per lor sovrano con restar esenti e liberi
d'ogni altro vassallaggio. Giunto Emmanuele a Piombino fu salutato e
riconosciuto da tutti per lor Signore, il quale governò i suoi popoli
con molta prudenza ed amore, e fu sempre carissimo al Re Alfonso; e
morto che fu, lasciò suo successore Giacomo suo figliuolo, e per molti
anni in appresso si vide la Gente Appiana signoreggiare questo Stato.
Ma poi quella estinta, insorsero varie contese fra' Pretendenti, nella
determinazione delle quali vi ebbero sempre gran parte i nostri Re,
come successori di Alfonso, a' quali s'appartenevano le ragioni di
sovranità, onde narra il Summonte[445], che a' suoi tempi il Vicerè di
Napoli mandò a sequestrarlo e tenerlo in nome del Re Filippo II. Quindi
son derivate le ragioni a' nostri Re sopra la sovranità di questo
Stato, e le investiture, che poi di quello si fecero a varie altre
famiglie.

Lo Stato adunque delle province ond'ora si compone il Regno, ne' tempi
d'Alfonso, si vide nel suo maggior vigore ed ampiezza; e poichè la
soverchia sua generosità l'avea portato ad invigilar pur troppo ad
accrescere il regal patrimonio, il Tribunale della regia Camera, che
soprastava all'esazione de' regali diritti, ed avea la soprantendenza
sopra i Doganieri, Tesorieri e sopra tutti gli altri Ufficiali minori
delle Province destinati a questo fine, si vide più numeroso, e
d'affari più carico. Quindi nacque lo stile, che ancor oggi dura, di
distribuire le province fra' Presidenti e Razionali della medesima,
acciò ciascheduno ne avesse particolar pensiero, e di mandare un
Presidente in Foggia a sopraintendere al governo della regia dogana
della mena delle pecore, donde il Re ne ricava somme immense di denaro,
e che oggi vien riputata per una delle maggiori rendite del regal
patrimonio.

Accrebbe parimente Alfonso il regal Patrimonio coll'esazione del
ducato a fuoco, onde s'introdusser nel Regno le _numerazioni_.
Prima sotto i Re normanni l'entrate del Fisco si riscuotevano per
apprezzo; cioè per ogni dodici marche d'entrate si pagavano tre
fiorini[446], e quest'esazione per licitazione soleva affittarsi a'
Pubblicani; il che durò fin al tempo dell'Imperador Federico II. Questo
Principe, acciocchè i poveri non fossero oppressi da' più ricchi e
potenti, proibì l'esazione in questo modo; ed avendo nel 1218 nel
castel dell'Uovo convocato un general Parlamento di tutt'i Baroni e
Feudatari del Regno, con i Sindici delle città e Terre, stabilì, che
per l'avvenire l'entrate regie si riscuotessero per _collette_, in
guisa, che chi più possedesse roba, più pagasse; chi meno, meno, chi
nulla, nulla. Furono imposte in cotal maniera le prime collette assai
moderate; ma poco appresso, non bastando a sovvenire alle necessità del
Regno, si venne alle seconde, e così di mano in mano insino alle seste
collette chiamate pagamenti fiscali ordinarj, secondo ci testificano
Andrea d'Isernia[447], Luca di Penna[448], Antonio Capece[449], e Fabio
Giordano nella sua Cronaca.

Durò questo modo fino al tempo d'Alfonso, il quale, siccome fu detto,
nel primo Parlamento, che convocò in Napoli nel 1442, stabilì, che in
iscambio delle sei collette, si riscuotessero da ogni fuoco carlini
diece. Nell'anno poi 1449 come si nota ne' Registri della regia
Camera[450], resedendo Alfonso nella Torre del Greco, fece radunare
un altro Parlamento, ed avendo proposto, che mantenendo egli grossi
eserciti così terrestri come marittimi per custodire il Regno, non
essendo l'entrate regie bastanti, era forzato quelle accrescere;
onde avea pensato, che per beneficio universale fosse bene, che
s'imponessero cinque altri carlini al fuoco, oltre a' diece, e che
all'incontro e' promettea di dare a tutti i fuochi del Regno un
tomolo di sale per ciascheduno: ciò che fu con consentimento di tutti
stabilito.

Furono perciò nel Regno introdotte le _numerazioni_, e la prima
cominciò dall'istesso Alfonso nell'anno 1447, la qual si trova
intera nel grande Archivio. Le altre si fecero ne' tempi de' Re suoi
successori, e la seconda fu fatta nel 1472, la terza nell'anno 1489, la
quarta, che non fu compita, si fece nel 1508, la quinta nel 1522, la
sesta nel 1532, la settima nel 1545, e l'ottava nel 1561, le quali si
trovano, ancor che alcune non intere, nel grande Archivio. Seguirono
da poi le altre, che si conservano presso i Razionali, cioè degli
anni 1595, 1642, 1648 e 1699 ch'è l'ultima, che ora abbiamo[451].
Oltre di questi pagamenti ordinari, che ad esempio d'Alfonso furon
da' suoi successori da tempo in tempo sempre accresciuti, tiene il Re
moltissimi altri fonti perenni, onde riscuote dalla città di Napoli,
dalle province e Baroni grandissime entrate, delle quali il Mazzella
tessè lungo catalogo; le quali, ora dopo un secolo che lo scrisse,
sono cresciute in immenso; ma in gran parte dalla Corona distratte
ed alienate, avendo gli Spagnuoli invogliati i Nazionali istessi a
comprarsi le proprio catene, perchè non potessero mai disciorsene.



CAPITOLO VII.

_ALFONSO accrebbe il numero de' Titoli e de' Baroni, a' quali diede la
giurisdizion criminale. Sua morte, e leggi che ci lasciò._


Rese Alfonso più di quel, che era, il Regno assai numeroso di Baroni e
di Titolati. Prima non vi erano, che due _Principi_, quel di Taranto e
di Salerno, e poi s'aggiunse quello di Rossano; cinque _Duchi_, e pochi
_Marchesi_; de' _Conti_ ve n'era qualche numero e più di _Baroni_; ma
Alfonso gli accrebbe al doppio, siccome dice il Summonte[452], e si
vede dal catalogo che ne fece. In alcuni Seggi di Napoli non vi eran
Titolati, ed i primi furono al seggio di Nido il Conte di Borrello
ed il Conte di Bucchianico della famiglia Alagna. Questi furono due
fratelli della famosa Lucrezia d'Alagno figliuola d'un Gentiluomo di
Nido, la quale fu amata tanto da Alfonso, che avea tentato di aver
da Roma dispensa di ripudiare la moglie, che era sorella del Re di
Castiglia, per pigliar costei per moglie; e tra le altre cose notabili,
che fece per lei, subito che l'ebbe a' suoi piaceri, fece questi due
fratelli l'un Conte di Borrello e Gran Cancelliere, e l'altro Conte
di Bucchianico: e scrive Tristano Caracciolo nel libro _De varietate
fortunae_, rapportato dal Costanzo[453], che questi furono i primi
Titolati del seggio di Nido.

Ma quello di che non s'ebbero molto da lodare i secoli seguenti, fu
d'aver Alfonso conceduto a' Baroni il mero e misto impero. Avendo
questo Principe per la sua sterminata liberalità resi esausti tutti
gli altri fonti, cominciò ad esser profuso anche delle più supreme
regalie, che non doveano a verun patto divellersi dalla sua Corona,
quando i Re suoi predecessori erano stati di ciò cotanto gelosi, che il
Re Carlo I d'Angiò avendo donato al suo figliuolo unigenito la città
di Salerno, col titolo di Principe, con alcune altre città e terre
d'intorno, gli concedè sopra quelle solamente la giurisdizione civile,
e solo in Salerno per quanto si distendeva il circuito delle sue mura
e non oltre, gli concedè la giurisdizione criminale[454]; e gli altri
Re, siccome s'è veduto ne' precedenti libri, molto di rado, e solo
in premio d'una eminente virtù a qualche loro benemerito ed a qualche
segnalato Barone, solevano concederla; ond'era, che le concessioni ed
investiture, fatte prima che regnasse Alfonso, non abbracciavano la
giurisdizione criminale, essendo delle cose eccettuate e riservate;
poichè l'uso di que' tempi era, che i Feudatari, che possedevano Terre
con vassalli, non potevano esercitare, se non quella bassa ed infima
giurisdizione indrizzata a sedar le liti e le discordie, che sogliono
nascere tra gli abitatori de' luoghi; e perciò i Baroni ed i Feudatari,
non eleggevano se non Camerlenghi annuali, i quali esercitavano
giurisdizione in conoscere e giudicare di quelle brevi liti e cause
sommarie[455]: poichè la G. C. esercitava la giurisdizione sopra
tutti i luoghi e Terre del Regno. E la ragione era, perchè, siccome
fu saviamente considerato dal Consigliere Giuseppe di Rosa nostro
acutissimo Giureconsulto[456], nelle città e Terre con vassalli, era
solamente quella giurisdizione, che infima si chiama e che, secondo
il diritto de' Romani, s'amministrava da' minori Magistrati, che si
chiamavano _Defensores_, e consisteva nella cognizione delle Cause
civili: in luogo de' quali, secondo notò Andrea d'Isernia[457], nel
nostro Regno succederon poi i _Baglivi_ de' luoghi, i quali conoscevano
delle cause civili, dei furti minimi, de' danni, de' pesi e misure,
e d'altre cause leggiere e di picciolo momento[458]; ma le cose più
gravi e massimamente quelle, che risguardavano il mero imperio e
la giurisdizion criminale, s'appartenevano, secondo il diritto de'
Romani, a' _Presidi_ delle province, in luogo de' quali nel nostro
Regno furono, come si è veduto ne' precedenti libri, costituiti i
_Giustizieri_[459], che ora pur Presidi appelliamo, da' quali per
via d'appellazione si riportavano alla G. C. della Vicaria, Tribunale
supremo sopra tutti i Giustizierati del Regno. Così le investiture,
che prima d'Alfonso eran concedute a' Baroni delle città e Terre
con vassalli, abbracciavan solo quell'infima giurisdizione come a
loro coerente e da esse inseparabile, e non il mero imperio e la
giurisdizion criminale, che non poteva dirsi alle medesime coerente,
siccome quella, che non da' proprj Magistrati, ma da' Presidi prima
soleva esercitarsi, e da poi non da' Baglivi de' luoghi, ma da'
Giustizieri delle province.

Ne' tempi d'Alfonso e degli altri Re aragonesi suoi successori,
cominciò a porsi in uso nell'investiture de' Feudi la concessione
della giurisdizion criminale[460] e delle quattro lettere arbitrarie
ancora, come fu da noi altrove rapportato. Quindi in decorso di tempo
fu veduto quel che ancor oggi si vede, che qualunque, benchè picciol
Barone, abbia ne' suoi Feudi il mero e misto imperio, con non picciol
detrimento delle regalie del Re, e danno de' suoi sudditi. Ben Carlo
VIII Re di Francia, in que' pochi mesi che vi regnò, pensò di toglierlo
affatto a' Baroni, con ridurgli all'uso di Francia[461]; ma il poco
tempo, che vi ebbe, e per le difficoltà che s'incontravano, non potè
mettere in esecuzione questo suo disegno; molto meno oggi è ciò da
sperare, che il male è antico, e che senza grandi ravvolgimenti e
scompigli non potrebbe ridursi ad effetto.

Dopo avere questo Principe in cotal guisa riordinato il Regno, ancor
che negli ultimi suoi anni si fosse rinovata la guerra co' Fiorentini,
ed ultimamente per non aver voluto far restituire alcune navi predate
dai suoi legni a' Genovesi, se gli avesse resi nemici; nulladimanco
invilito negli amori di Lucrezia d'Alagno proccurò tosto pace co'
primi, nè molto curò de' secondi, ed attese il rimanente tempo di
sua vita in cacce, conviti, giostre ed altri piaceri; e mentre era
già vecchio, il Duca di Milano mandò Ambasciadori a trattare doppio
matrimonio con la sua casa regale, perchè dubitava molto, che il Re di
Francia non pigliasse a favorire il Duca d'Orleans, che pretendeva,
che il Ducato di Milano toccasse a lui per esser figlio di Valentina
Visconte legittima sorella del Duca Filippo[462]; ed in tal caso gli
parea di non potere avere più fedele ajuto che da Alfonso, il quale
avea sempre in sospetto Re Renato, che ancor teneva in Italia molte
pratiche. Così in breve fu conchiuso matrimonio doppio, ed Ippolita
Maria figliuola del Duca fu data per moglie ad Alfonso primogenito del
Duca di Calabria; e Lionora figliuola del Duca di Calabria fu promessa
a Sforza figliuolo terzogenito del Duca di Milano, e tanto gli sposi,
come le spose, non passavano l'età di otto anni.

Successe in questo anno 1455 la morte di Papa Niccolò V, e dopo 14 dì,
che vacò la Sede Appostolica, fu nel mese d'aprile eletto in suo luogo
il Cardinal di Valenza Alfonso Borgia, che, come si disse, era stato
molti anni caro al Re Alfonso e suo intimo Consigliere, che _Calisto
III_ nomossi. Costui, benchè fosse d'età decrepita, fece gran disegno
di fare cose che avrebbono ricercata un'età intera d'un uomo. Come
suole avvenire che i più confidenti ai Principi, quando sono elevati
al Papato, sogliono divenire i più fieri loro nemici; così Calisto
assunto al trono cominciò a pensar nuove cose, e ad opporsi ai disegni
d'Alfonso: e non piacendogli questo nuovo parentado conchiuso col
Duca di Milano, fece ogni sforzo per disturbare le nozze; ma Alfonso,
avendo conosciuto l'animo del Papa, tanto più lo sollecitava: onde nel
principio dell'anno seguente 1456 furono solennemente celebrate, ed
Elionora fu condotta a Milano al suo sposo Sforza.

A questi tempi medesimi Giovanni Re di Navarra, fratello secondogenito
del Re Alfonso, stava in gran discordia con D. Carlo suo figliuolo
primogenito che s'intitolava _Principe di Viana_; e la cagione della
discordia era, perchè il Regno di Navarra era stato dotale della madre
del Principe ch'era già morta, ed il Re Giovanni avea tolta per seconda
moglie la figliuola dell'Ammirante di Castiglia. Il Principe non poteva
soffrire di vedere la Regina sua matrigna sedere, dove avea veduta sua
madre, ed esso vivere privatamente; perchè la matrigna s'era in tal
modo fatta Signora del marito, già vecchio, che tanto nel Regno di
Navarra, quanto in Aragona, dove il padre era Vicerè, non si faceva
altro che quel che volea la matrigna, e per questo avea tentato nel
Regno di Navarra farsi gridare Re, perchè era molto amato per le virtù
sue e per la memoria della madre, Regina naturale di quel Regno. Il
disegno non gli riuscì, onde venne ad accostarsi col Re Alfonso suo
zio, il quale gli costituì dodicimila ducati l'anno pel vivere suo;
ma perchè vedeva ch'era di corpo bellissimo e di costumi amabili ed
atto ad acquistare benevolenza, non gli piaceva che dimorasse molto
in Napoli; ma lo mandò al Papa a pregarlo, che pigliasse assunto di
ridurlo in concordia col padre. Il Principe andò, ed il Papa lo ricevè
con gusto, e gli diede trattenimento da vivere; ma poichè vide che
Calisto per l'età decrepita era tardo a trattare la riconciliazione sua
col padre, e che Re Alfonso era assai declinato di salute, e non potea
molto vivere, si fermò in Roma, con speranza che i Baroni del Regno
che stavano mal soddisfatti delle condizioni del Duca di Calabria,
chiamassero lui per Re dopo la morte di Alfonso. Intanto Alfonso
ne' principj di maggio di quest'anno 1458 cominciò ad ammalarsi, e
peggiorando tuttavia, s'incominciò a pubblicare che il suo male era
pericoloso, di che avvisato il Principe di Viana venne tosto da Roma a
visitarlo, ciò che rese più travagliato il fine di così gran Re; perchè
giunto il Principe a Napoli tre giorni avanti che morisse, essendo
già disperato da' Medici, gli raddoppiò l'agonìa della morte, sapendo
ch'era venuto per tentare d'occupar Napoli; e perchè conosceva che
morendo al Castel Nuovo, donde non potea cacciare il Principe, avria
potuto il Castellano più tosto ubbidire al Principe, che al Duca di
Calabria massimamente essendo la guardia del Castello tutta di Catalani
che restavano vassalli del Re Giovanni, il qual avea da succedere ne'
Regni d'Aragona e di Sicilia; fece subito dire ch'era migliorato, e
che i medici lodavano che si facesse portare al Castello dell'Uovo per
la miglioranza dell'aria, il che s'eseguì subito, lasciando al Duca
di Calabria la cura di guardarsi il Castel Nuovo; e da poi giunto al
Castello dell'Uovo il dì seguente morì a' 27 giugno di quest'anno 1458,
essendo giunto all'anno 64 di sua vita[463].

Questo fu il fine di sì gran Re; Principe celebratissimo per infinite
virtù che l'adornavano, e sopra tutto per liberalità e magnificenza.
Egli liberalissimo arricchì molti con preziosi doni, ed ingrandì altri
assai, donando loro grandissimi Stati. Fu magnificentissimo nel dare al
Popolo spettacoli, ne' quali si sforzò di emulare la magnificenza de'
Romani, come si vide quando ricevè in Napoli Federico III, designato
Imperadore e Lionora figliuola del Re di Portogallo, e di sua sorella,
che dovea sposarsi con Federico.

(Il matrimonio tra _Federico III_ e _Lionora_, fu trattato in Napoli
da Alfonso suo zio, da' Legati mandati dal Re di Portogallo e da Enea
Silvio Piccolomini, poi Papa _Pio II_, dove dopo quaranta giorni fu
conchiuso; siccome narra Gobellino, lib. 1, p. 16. _Quam rem, e' dice,
diebus quadraginta tractatam, cum denique conclusissent coram Rege,
Cardinale Morinensi Apostolico Legato, Clivensi, Calabriae, Suesae,
Silesiaeque Ducibus, et Magna Praelatorum, Comitumque multitudine, in
Curia Novi Castri Neapolitani; Aeneas Sylvius de Nobilitate, virtuteque
contrahentium orationem habuit, quae postmodum a multis transcripta
est_. Lo stesso narra _Nauclero pag._ 1056 e _Fugger. lib._ 5, _c_. 7,
_n_. 1. Anzi _Enea Silvio_ stesso _Hist. Friderici p._ 82 rapporta che,
dopo i travagliosi viaggi della sposa, accolta da _Alfonso_ in Napoli,
nella dimora, che quivi fecero gli sposi, fu il matrimonio consumato,
siccome scrisse anche _Struvio Syntag. Hist. Germ. Diss.,_ 30, § 22.
_Invitatus inde ab Alphonso Siciliae Rege cum nova nupta, et reliquo
comitatu suo Neapolim venit, ubi matrimonium demum fuit consummatum_).

Si conobbe ancora Re Alfonso nelle alte gran feste, cacce, giostre e
conviti, dando spesso diletto al Popolo napoletano vaghissimo di simili
divertimenti. Tenne il palazzo abbondantissimo di tappezzerie di lavoro
d'oro e d'argento, e d'arredi ricchissimi e preziosi. Splendidissimo
ancora negli edificj, onde adornò Napoli a pari di qualunque altra
illustre città del Mondo: fece ingrandire il molo grande, e diede
principio alla gran sala del Castel Nuovo, che senza dubbio è delle
stupende macchine moderne che sia in tutta Italia: fortificò il
castello con quelle altissime torri che ora s'ammirano: fece ampliare
l'Arsenale di Napoli, la Grotta onde da Napoli vassi a Pozzuoli, e fece
un fondaco reale e molti altri edificj per diversi usi.

La sua morte fu amaramente pianta da' Napoletani, come quella che non
solo gli privò di tante grandezze e felicità, e che disturbò la pace
del Regno; ma che poi dovea recar loro una lunga guerra, e porgli
in nuove calamità e disordini. Non abbastanza compianto, fu il suo
cadavere, con funerale superbissimo, rinchiuso dentro un forziere che
rimase in deposito nel Castello dove morì; e benchè nel suo testamento
avesse ordinato che fosse portato alla Chiesa di S. Pietro Martire, e
di là quanto prima si mandasse in Ispagna al monastero di Santa Maria a
Pobleto, ove sono sepolti gli antichi Re d'Aragona; nulladimeno restò
il suo deposito in Napoli, ov'era additato da' Padri Domenicani nella
Sagrestia della lor chiesa di S. Domenico Maggiore di questa città con
molti segni di stima e di venerazione.

Non avendo avuti figliuoli dalla Regina Maria, figliuola d'Errico III
Re di Castiglia, nel suo testamento, che fece il dì avanti di morire,
istituì e nominò per successore nel Regno di Napoli D. Ferdinando Duca
di Calabria suo figliuolo naturale, legittimato; e ne' Regni della
Corona d'Aragona e di Sicilia D. Giovanni Re di Navarra suo fratello
secondogenito e suoi discendenti, conforme avea anche disposto nel suo
testamento D. Ferrante suo padre, che si conservava nell'Archivio reale
di Barcellona, donde prima di morire avea voluto Alfonso che se gliene
inviasse copia; ed ordinò in quello molti legati indrizzati ad opere
di pietà[464]. Narra S. Antonino Arcivescovo di Fiorenza, che prima
di morire non lasciava di ricordare al Duca di Calabria, ch'egli gli
lasciava il Regno di Napoli, ma che per potervi quietamente regnare,
bisognava che tenesse lontani, e s'alienasse da tutti gli Aragonesi
o Catalani ch'egli avea esaltati, e che in lor vece si servisse
d'Italiani e di questi componesse la sua Corte, e principalmente amasse
quelli del Regno, a' quali conferisse gli ufficj e non gli riguardasse,
come faceva, di mal viso e come sospetti. Che egli conosceva avere
gravato il Regno con nuove gravezze ed esazioni, alterando anche le
antiche, e ch'eran tante che i Popoli non potevano sopportarle: che
però l'ammoniva che le levasse tutte e le riducesse all'usanza antica.
E finalmente che coltivasse la pace, nella quale egli l'avea lasciato
colle Repubbliche e Principi d'Italia, e sopra tutto si tenesse amici
i Pontefici romani, da' quali in gran parte dependeva la conservazione
o la perdita del suo Regno: soffrisse con pazienza il lor fasto ed
alterezza, e loro si mostrasse per non isdegnarli, sempre umile e
riverente, perchè egli non avea conosciuti altri mezzi per rintuzzare
la loro ambizione.

(_St. Antonino in Chron. part._ 3, _tit_. 22, _cap_. 16 _ad A._
1458 scrisse così: _Rex vero Aragonum graviter infirmatus Neapoli
in fine mensis Junii ejusdem anni diem clausit extremum; qui ante
mortem Ferdinandum filium suum, etsi illegitimum, jam uxoratum, et
filios habentem, dimisit haeredem, et Regni Apuliae successorem, cum
maximo thesauro congregato. Quem etiam ut regnare posset quietius,
et obstacula non haberet, admonuit, ut viam, quam in Regno tenuerat,
non sequeretur in tribus, sed oppositum. Prima quidem, ut omnes
Aragonenses et Cathalanos, quos ipse exaltaverat; et totum se eis
crediderat, exosos hominibus, a se abjiceret, et in curia sua Italicos,
et praecipue Regnicolas, diligere ostenderet, et ad officia promoveret,
quos tamen ipse, ut suspectos non laeta facie respiciebat. Secundo, ut
nova gravamina et exactiones, quas instituerat, et antiqua auxerat,
quae tanta erant, ut homines respirare non possent, omnia removeret,
et ad morem antiquum deduceret. Nimiae enim fuerunt extorsiones ejus
ab hominibus Regni, et (ut de caeteris taccam) beneficia vacantia
etiam minora nullus obtinere valebat in curia, nisi prius manus Regis
implesset et quantitate non modica. Tertio ut pacem confectam per se
cum Ecclesia, et aliis communitatibus, et Principatibus ipse servaret,
nec a pacis foederibus declinaret_).

Re Alfonso, oltre d'averci lasciate tante illustri memorie, e tanti
buoni istituti e nuove riforme, ci lasciò anche alcune leggi. Secondo
che narrano alcuni Autori, questo Principe dopo tante e sì lunghe
guerre, che sostenne in vita della Regina Giovanna II, e dopo la
costei morte con Renato suo competitore, avendo finalmente trionfato
de' suoi nemici, resosi pacifico possessore del Regno, pose tutto
il suo studio a riordinarlo ed a dargli ristoro de' passati danni e
disordini che le succedute guerre aveanvi recati. Stabilì pertanto
molte Costituzioni, cominciando dall'erezione del Tribunale del S. C.
alle quali da poi molte altre ne aggiunse. Queste Costituzioni, che,
come dice Toppi[465], prima si vedeano in Napoli, ora non l'abbiamo,
ma per sinistro fato si sono perdute. Ne sono solamente a noi rimase
alcune che ora si leggono sparse ne' registri del G. Archivio e ne'
volumi delle nostre Prammatiche[466]. La prima si legge sotto il
titolo _de Possessoribus non turbandis_, che in altre edizioni porta
questa epigrafe: Edictum Pentimae Gloriosissimi, et Divi Alphonsi Regis
clementissimi. Fu questo editto promulgato da Alfonso nel secondo anno
del suo pacifico Regno nel 1443, dopo finita la guerra con Renato,
per cui comandò, che per la preceduta guerra, essendo insorte molte
liti fra suoi sudditi intorno al possesso de' loro feudi e beni, non
si turbassero i possessori, ma che si lasciassero possedere come
si trovavano, nè i Giudici si proccurassero commessioni di queste
cause, senza consultarne prima lui. Nè procedessero in quelle, se non
precedente sua commessione. Ciò che fu steso anche nelle moratorie
prima a' medesimi possessori concedute[467]. Fu questa legge data nel
campo di _Pentima_, luogo posto in Apruzzo presso Sulmona[468].

Un'altra consimile, ch'estratta dal registro de' Capitoli d'Alfonso,
si vede anche impressa nelle nostre prammatiche[469] fu da questo Re
stabilita nel 1446 _nel Mazzone delle rose_ presso lo Spedaletto, non
molto da Capua lontano; e letta e pubblicata con gli altri capitoli nel
castel Capuano, dove ordinò che non dovessero inquietarsi coloro, che
innanzi la morte del Re Ladislao aveano continuamente per se e per loro
legittimi antecessori posseduto e possedevano terre, castelli ed altri
beni; nè astringersi a portare originalmente i loro titoli, e vedere ed
esaminare i loro antichi diritti, che sarebbe sovvertire diversi stati
e condizioni di molti nel Regno; della qual legge fu anche ricordevole
Capece nelle suo decisioni[470]. La prammatica 2 che leggiamo sotto il
_tit. de Off. S. C._ pure fu d'Alfonso, non di Ferdinando, come si è
detto.

L'altra[471] che parimente si legge nelle nostre prammatiche è quella
notissima che tratta de' censi, nella quale Alfonso inserì la Bolla
di Niccolò V, stabilita a sua richiesta dal medesimo per li suoi
Regni, in Roma nel 1451, per regolare i censi. Questo Re per mezzo di
tal prammatica confermò la Bolla, e volle che ne' suoi Regni avesse
forza e vigore non meno che le altre sue leggi e statuti, aggiungendo
altri suoi ordinamenti intorno alla validità e modo da tenersi nella
costituzione de' censi suddetti. Fu questa statuita nella _Torre
del Greco_, ove il Re dimorava negli ultimi anni di sua vita per
avere più dappresso la sua Lucrezia d'Alagno, e porta la data de' 20
ottobre dell'anno 1451. Altri editti, privilegi e diplomi d'Alfonso
si veggono ne' suoi registri nel Gran Archivio, de' quali alcuni,
secondo il soggetto, che aveano per le mani, furono impressi nelle
loro opere da diversi Autori: molti ne fece imprimere Toppi nei suoi
tomi dell'Origine de' Tribunali: alcuni altri, gli Reggenti Moles,
Tappia, Galeota ed altri moltissimi: ma i riferiti, come posti nel
corpo delle prammatiche hanno fra noi forza e vigor di legge: degli
altri può aversene buon uso, per quanto conduce all'istoria dei
tempi, all'istituzione de' Tribunali, alle riforme dei medesimi e per
illustrazione dell'altre sue leggi ed editti.


  FINE DEL VOLUME SESTO.



TAVOLA DE' CAPITOLI CONTENUTI NEL TOMO SESTO


  LIBRO VENTESIMOSECONDO                                 pag.   5

  Cap. I. _L'Imperador Errico VII collegato col
         Re di Sicilia muove guerra al Re Roberto,
         e facendo risorgere l'antiche ragioni
         dell'Imperio, con sua sentenza lo
         priva del Regno; ma tosto lui morto,
         svanisce ogni impresa; e si rinova la
         guerra in Sicilia_                               »    12
  Cap. II. _L'Imperador Lodovico Bavaro cala in
         Roma; e muove guerra al Re Roberto.
         Il Duca di Calabria si muore, onde
         s'affrettano le nozze di Giovanna sua
         figliuola con Andrea secondogenito del
         Re d'Ungheria_                                   »    19
  Cap. III. _Si rinova la guerra in Sicilia; ma
         s'interrompe per la morte del Re Roberto_        »    25
  Cap. IV. _De Conservatorj Regj_                         »    30
  Cap. V. _Delle quattro lettere Arbitrarie_              »    42
  Cap. VI. _De' Riti della Regia Camera_                  »    52
  Cap. VII. _Degli uomini illustri per lettere, che
         fiorirono sotto Roberto, e sotto la Regina
         Giovanna sua nipote_                             »    64
  Cap. VIII. _Politia Ecclesiastica del XIV secolo
         per quel tempo, che i Papi tennero la
         loro sede in Avignone, insino allo scisma
         de' Papi di Roma e d'Avignone_                   »    89
      §. I. _Traslazione della Sede Appostolica
         in Avignone_                                     »    95
      §. II. _De' Nunzj, ovvero Collettori Appostolici
         residenti in Napoli_                             »   106
      §. III. _Delle Compilazioni delle Clementine,
         e delle Estravaganti_                            »   110

  LIBRO VENTESIMOTERZO                                    »   113

  Cap. I. _Seconde nozze della Regina Giovanna
         con Luigi di Taranto. Il Re d'Ungheria
         invade il Regno, e costringe la Regina
         a fuggirsene, ed a ricovrarsi in
         Avignone: vi ritorna da poi, e coll'aiuto
         e mediazione del Papa ottiene dall'Ungaro
         la pace_                                         »   121
  Cap. II. _Spedizione del Re Luigi di Taranto
         in Sicilia: pace indi seguita, e sua
         morte_                                           »   131
  Cap. III. _Altre nozze della Regina Giovanna,
         e ribellione del Duca d'Andria_                  »   143
  Cap. IV. _Dello Scisma de' Papi di Roma, e
         quelli d'Avignone_                               »   150
  Cap. V. _Carlo Di Durazzo è coronato Re da
         Papa Urbano, che depose la Regina
         Giovanna, la quale adottossi per figliuolo
         Luigi d'Angiò, fratello di Carlo V
         Re di Francia. Invade Carlo il Regno,
         vince Ottone, e fa prigioniera la
         Regina, fatta poi da lui morire_                 »   163

  LIBRO VENTESIMOQUARTO                                   »   183

  Cap. I. _Origine della discordia tra Papa Urbano
         e Re Carlo. Entrata nel Regno di
         Luigi I d'Angiò, e sua morte. Carlo
         assedia in Nocera Urbano, il quale coll'aiuto
         de' Genovesi e di Ramondello
         Orsino e di Tommaso Sanseverino,
         scampa, e fugge a Roma_                          »   ivi
  Cap. II. _Re Carlo è invitato al trono d'Ungheria.
         Sua elezione ed incoronazione a
         quel Regno, e sua morte_                         »   197
  Cap. III. _Di Re Ladislao, e sua acclamazione.
         Nuovo Magistrato istituito in Napoli.
         Guerre sostenute col Re Luigi II d'Angiò
         competitore di Ladislao_                         »   209
  Cap. IV. _Nozze tra il Re Ladislao e la figliuola
         di Manfredi di Chiaramonte. Morte d'Urbano,
         elezione in suo luogo di Bonifacio IX
         e venuta del Re Luigi II in Napoli_              »   220
  Cap. V. _Divorzio del Re Ladislao colla Regina
         Costanza, e suoi progressi nell'impresa
         del Regno, che finalmente ritorna
         sotto il suo dominio_                            »   230
  Cap. VI. _Nozze di Ladislao, prima con Maria
         sorella del Re di Cipro, e poi con la
         Principessa di Taranto: sua spedizione
         nel Regno d'Ungheria, ch'ebbe infelice
         successo_                                        »   240
      §. I. _Spedizione del Re Ladislao sopra Roma_       »   244
      §. II. _Concilio convocato a Pisa per torre
         lo Scisma, ch'ebbe infelice successo_            »   248
  Cap. VII. _Ritorno del Re Luigi II nel Regno
         per gl'inviti di Papa Alessandro, il
         quale scomunicò e depose Ladislao, dandone
         nuova investitura a Luigi_                       »   253
  Cap. VIII. _Re Ladislao tenta nuove imprese in
         Italia: sua morte, sue virtù e suoi vizj;
         ed in che stato lasciasse il Regno alla
         Regina Giovanna II sua sorella ed erede_         »   258

  LIBRO VENTESIMOQUINTO                                   »   269

  Cap. I. _Nozze della Regina Giovanna II col
         Conte Giacomo della Marcia de' Reali
         di Francia_                                      »   272
  Cap. II. _Prigionia del Re Giacomo; sua liberazione
         per la mediazione di Martino V
         eletto Papa dal Concilio di Costanza;
         sua fuga e ritirata in Francia,
         dove si fece Monaco, ed incoronazione
         della Regina Giovanna_                           »   282
  Cap. III. _Spedizione di Luigi III d'Angiò sopra
         il Regno per gl'inviti fattigli da
         Sforza. Ricorso della Regina Giovanna
         ad Alfonso V Re d'Aragona, e sua
         adozione; e guerra indi seguìta tra Luigi
         ed Alfonso_                                      »   294
  Cap. IV. _Discordie tra Alfonso e la Regina
         Giovanna, la quale rivoca l'adozione
         fattagli, e adotta Luigi per suo figliuolo_      »   305
  Cap. V. _Alfonso parte da Napoli, e va in Ispagna;
         e Napoli si rende alla Regina
         Giovanna. Insolenze del G. Siniscalco,
         sua ambizione, ed infelice morte_                »   313
  Cap. VI. _Re Alfonso tenta rientrare nella grazia
         della Regina, ma invano. Nozze di
         Re Luigi con Margarita figliuola del
         Duca di Savoja; sua morte, seguita poco
         da poi da quella della Regina Giovanna_          »   324
  Cap. VII. _Politia del Regno sotto i governadori
         deputati da Giovanna. Governo che da
         poi vi tenne la Regina Isabella moglie
         e Vicaria di Renato d'Angiò. Guerre
         sostenute da costui col Re Alfonso; da
         cui in fine fu costretto ad uscirne ed
         abbandonare il Regno_                            »   328
  Cap. VIII. _De' Riti della Gran Corte della Vicaria;
         e de' Giureconsulti, che fiorirono
         nel Regno di Giovanna II e di Renato;
         e da' quali fosse compilata la famosa
         Prammatica nominata la Filingiera_               »   340
      §. I. _De' Giureconsulti di questi tempi, e dai
         quali fu compilata la Prammatica detta
         la Filingiera_                                   »   348
  Cap. IX. _Istituzione del Collegio de' Dottori in
         Napoli_                                          »   351
  Cap. X. _Politia delle nostre Chiese durante il
         tempo dello Scisma, insino al Regno
         degli Aragonesi_                                 »   357
      §. I. _Monaci e beni temporali_                     »   367

  LIBRO VENTESIMOSESTO                                    »   372

  Cap. I. _De' Capitoli e Privilegj della Città e Regno
         di Napoli e suoi Baroni_                         »   375
  Cap. II. _Successione del Regno dichiarata per
         la persona di Ferdinando d'Aragona
         figliuolo d'Alfonso. Pace conchiusa col
         Pontefice Eugenio IV, da cui vengono
         investiti del Regno_                             »   378
  Cap. III. _Nozze tra Ferdinando Duca di Calabria
         con Isabella di Chiaramonte nipote
         del Principe di Taranto. Morte del Papa
         Eugenio, ed elezione in suo luogo del
         Cardinal di Bologna chiamato Niccolò V,
         che conferma ad Alfonso quanto gli
         avea conceduto il suo predecessore Eugenio_      »   390
  Cap. IV. _Origine, ed istituzione del Tribunale
         del S. C. di S. Chiara, ora detto di
         Capuana_                                         »   395
      §. I. _Del luogo ove fu questo Tribunale eretto:
         della dignità e condizione delle
         persone, che lo componevano e del lor
         numero; e come fosse cresciuto tanto,
         che in conseguenza portò la moltiplicazion
         delle quattro Ruote, delle quali oggi
         è composto_                                      »   403
  Cap. V. _Alfonso riordina il Tribunal della
         Regia Camera, e come si fosse riunito
         col Tribunale della Regia Zecca retto
         da M. Razionali_                                 »   421
  Cap. VI. _Disposizione e numero delle province
         del Regno sotto Alfonso, ed in che modo
         si fossero dalla Regia Camera amministrate;
         e come fossero numerati i
         fuochi di ciascuna Città e Terra, che
         le compongono_                                   »   431
  Cap. VII. _Alfonso accrebbe il numero de' Titoli
         e de' Baroni, a' quali diede la giurisdizion
         criminale. Sua morte e leggi che ci lasciò_      »   451


  FINE DELL'INDICE.



NOTE:


[1] Tiraq. qu. 40 n. 167 tract. de primogen.

[2] Affl. in tit. de Success. Feud. et decis. 119 n. 3.

[3] Hist. de Samnio. lib. 4 cap. 23.

[4] Costanzo lib. 5.

[5] Costanzo lib. 5.

[6] Chioccar. in M. S. giurisd. tom. 1.

[7] Scip. Ammirato ne' Ritratti, pag. 292.

[8] Archiv. lib. 1 lit. H. ann. 1309. Indict. 7 fol. 1. Summont. l. 3
pag. 370 tom. 2.

[9] Baluz. Vitae Papar. Aven. tom. 1 cap. 15, 34, 70, 104.

[10] Scip. Ammir. ne' Ritratti, pag. 292.

[11] Ursino de sucess. feud. pag. 1 qu. 5 art. 1 num. 19, 22.

[12] V. Baluz. loc. cit. Sabell l. 7. Ennead Costan. l. 5.

[13] Baldo in l. cum in antiqu. Cod. de jur. delib.

[14] Bartolo in Auth. post fratres, Cod. de legit. haered.

[15] Cin. in l. si viva matre, C. de bon. mater.

[16] Baldo nella l. liberti libertaeq. C. de oper. lib. num. 25.

[17] Baldo in l. cum in antiquiorib. C. de jur. delib.

[18] Bzovio ann. 1355. Ann. Eccl.

[19] Chiocc. t. 1. M. S. reg. jurisd.

[20] Cujac. de Feud. lib. 2 tit. 11.

[21] Ottom. quaest. illust. qu. 3.

[22] Mariana lib. 13. Hist. Hisp. cap. 9 in fir. et lib. 14 cap. 8.

[23] Arnis. t. 1 cap. 2 sect. 10.

[24] Nigris in Comment. ad capit. Rober. incip. privilegia, cap. 1.

[25] Costanzo lib. 5. Engen. Nap. Sacr. di S. Chiara.

[26] Giannettas Hist. Neap. l. 2.

[27] Ammirat. Ritratti pag. 302.

[28] Ammirato: Ritratti, pag. 292. Baluz. Vitae Papar. Aven. tom. 1
pag. 18, 21, 44, 45, 48.

[29] Baluz. loc. cit. pag. 48, 93.

[30] Baluz. pag. 51.

[31] Alberic. in l. quisquis, num. 11, C. ad L. Jul. Majest.

[32] Tom. 2 p. 1035.

[33] Baluz. pag. 21, 53, 94, 614.

[34] Clement. pastoralis, de sent. et re judic.

[35] Baluz. Vitae Papar. Aven. tom. 2 p. 478 dove porta
quest'appellazione.

[36] Costanzo l. 5.

[37] V. Baluz. l. c. tom. 2 p. 512, 522.

[38] Ammir. Ritrat. pag. 298.

[39] Baldo in l. si viva matre, C de bonis mater. V. Ammirat. Ritratti
pag. 299.

[40] Frossardo nel lib. 2 della sua Istor. prende molti abbagli in
narrando questo casamento di Giovanna.

[41] Cap. Robertus, etc. Ad Regale fastigium. Sane in Adjutorio nostro
inculcatione frequenti lata plurium querela perstrepuit, et clamor
validus tumultuosa quadam vociferatione perduxit, quod Praelati Regni
nostri Siciliae, Hospitalarii, Monachi, aliique Clerici, etc.

[42] In notis ad dictum cap. in princ.

[43] Bottis ad d. capit.

[44] Lucas de Penna in not. ad cap. ad regale fastigium.

[45] Calà de Praemin. M. C. V. cap. 2.

[46] Tit. de tormentis, fol. 27.

[47] P. Vinc. ann. 1352 p. 90.

[48] Constitut. Ea quae ad speciale decus. Franc. de Amic. de his qui
feud. dar. poss. in c. sumus modo, fol. 43 numer. 2. Rosa in praelud.
feud. lect. 11 numer. 10.

[49] Andr. in Constit. locor. Bajuli.

[50] Constitut. locor. Bajuli, et ad officium Bajuli.

[51] Constit. Justitiarii nomen, et normam. Constit. Justitiarii per
Provincias. Constitut. Praesides, et Constit. Capitaneorum.

[52] Freccia de subfeud. l. 2, auth. 2 num. 21.

[53] Affl. in Constitut. contingit 3 notab. et in Constit. ea quae ad
speciale decus 4 notab.

[54] Gramat. voto 28.

[55] Caravita ritu 49.

[56] Franchis decis. 510 nu. 4 et decis. 370 num. 2.

[57] Franc. de Amic. ad tit. de his, qui feud. dar. pos. fol. 43 n. 8.

[58] Capecelatr. cons. 41 num. 10.

[59] Capibl. de Baron. prag. 8 par. 1 n. 63 et 84.

[60] Costanzo lib. 6.

[61] Costanzo Hist. lib. 12 in fin.

[62] Pragm. In sperata delictorum venia pragm. Et quia, etc.

[63] Pragm. mandamus etiam.

[64] Andr. in Constit. quanto caeteris, de decimis.

[65] Rit. 1 de decimis, etc.

[66] Andr. Constit. quanto de caeteris, de decimis.

[67] Rit. 2. R. Cam. de decimis.

[68] V. Chioccar. de Archiep. Neap. ann. 1288 pag. 188.

[69] L. fin. C. si propter pubblicas pensitationes.

[70] Auctor, Anonym. in notis Rit. R. C. rub. 36.

[71] Rit. 18.

[72] Luc. de Penna in l. si tempora. C de fid. instrum. et host. fisc.
lib. 10.

[73] Goffred. de Gaeta de jure Dohanae, n. 179 et 181 et in rubr. de
non positis, aut subtract. in quater. etc. num. 2.

[74] Lipar. in vita Andr. vers. Invenimus etiam Andream compilasse, etc.

[75] Auth. in annot. ad rubr. 1.

[76] Rov. it. decis. 18 n. 4. Galeot. resp. Fiscal. 15 num 5. Philippis
diss. Fiscal. 1 n. 147.

[77] Annot. in rub. ult. de jure Falangae.

[78] Villan. lib. 11 hist. et lib. 12.

[79] Petrar. rer. memor. lib. 23.

[80] Boccac. in Genealog. Deor. lib. 14 cap. 9 et 22 et lib. 15 c. 13.

[81] Petrarc. Rer. memorand. lib. 2. Sacrar. Scripturar. peritissimus:
Philosophiae charissimus alumnus.

[82] Costanz. lib. 6.

[83] Alacci de Eccl. Occid. etc. lib. 2. cap. 17.

[84] V. Alacci l. c. V. Nicod. in Addit. ad Bibliot. Toppi.

[85] Boccac. Genealog. l. 5 c. 6. Nicod. l. c.

[86] Galat. de Situ Japigiae.

[87] Petrar. l. c. Philosophiae charissimus Alumnus: Orator egregius:
incredibili Physicae notitia.

[88] Cap. Robertus, etc. Grande fuit.

[89] Summon. t. 2 l. 3 p. 411.

[90] Costanzo lib. 6.

[91] Boccac. Gen. Deor. lib. 15 cap. 13.

[92] Petrarc. Rer. memor. l. 2.

[93] Boccacc. in Genealog. Deor. l. 14.

[94] Bart. in Auth. Presbyteros, C. de Episc. et Clericis.

[95] Bald. l. properandum in fin. C. de Judiciis.

[96] Pancirol. de Clar. II. interpr. l. 2 c. 48.

[97] Costanzo l. 6.

[98] Caesar. Engen. Nap. Sacra, p. 657.

[99] P. Vincenti de' Protonot. Ciarlanto del Sannio l. 4 c. 29.

[100] Ciarl. del Sannio l. 4 c. 24.

[101] Andreys disp. feud. An fratres, etc.

[102] Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. to. 1 pag. 971.

[103] Boxornius in Monum. vir. illustr. pag. 102. Pancirol. de Cl.
inter lib. 2 cap. 67.

[104] Lipar. in vita Andreae.

[105] Arthur. Duck l. 1 cap. 5 § 15.

[106] Andr. in prooem. Constit. 20 col. in fin.

[107] Liparul. in vita Andreae.

[108] V. Liparul. in vita Andreae.

[109] Andreys in disp. feud. cap. I § 6 num. 33, 34.

[110] Affl. in Constit. hostici, Cap. si Comes, aut Baro, numer. 26.

[111] Andr. in Constit. Sancimus, de offic. Magistr. Justitiar. verb.
miserabilium, in principio.

[112] Paris de Puteo de Sindicatu, tit. de excessib. Consiliar. in fin.

[113] Afflict. Com. in feud. Quae sint Regalia, § et bona, nu. 43.

[114] Costanzo lib. 6 dice la Porta Petruccia essere stata tra la
Chiesa di S. Giorgio de' Genovesi, e l'Ospedale di S. Gioachimo, il
qual a' suoi tempi era dirimpetto a quella Chiesa.

[115] Camer. cons. 371 post Cannetium.

[116] Card. de Luca de emphyt. disc.

[117] Toppi in Biblioth. De Jure Prothomiscos, seu de Jure Congrui.
Super. auth. habita, ne filius pro patre. Et in primo Codicis.

[118] Alvarot. in praelud. feud.

[119] Loffred. in tit. Si contentio sit inter dom. et agn. § si quis
per 30 in fin. fol. 31.

[120] Luc. de Penna in l. unic. C. de his, qui se deferunt, lib. 10.

[121] Vedi Toppi de orig. Trib. pag. 1 lib. 3 cap. 11.

[122] Andreys disp. feud. cap. 1 § 8 num. 41 pag. 45.

[123] Molin. glos. Paris. tit. de feud. in princ.

[124] Costanzo lib. 6.

[125] Camerar. tit an agnat. num. 152.

[126] Pier Vincenti de' Proton. ann. 1352 pag. 90.

[127] Ciarlan. lib. 4 cap. 26.

[128] Freccia de Subfeud.

[129] Conrad Gesnero in Bibliotheca. Autore dell'Indice de' libri
legali. V. Toppi in Biblioth. pag. 40.

[130] Viv. decis. 163.

[131] V. Toppi in Biblioth. p. 400.

[132] V. Gesner. in Biblioth. fol. 105. Toppi in Biblioth. fol. 40.

[133] Aguel. Rug. Orat. Literar. Theatrum.

[134] Arthur. Duck de Auth. etc. lib. 1 c. 5 § 15. Struv. de Hist. Jur.
Justin. restaur. cap. 5 § 14.

[135] Dant. infer. canto 19.

[136] Simon. Schard. Syntagma Tractatuum, de Imperiali Jurisd.

[137] V. Struvium Hist. Jur Canon, c. 7 § 36.

[138] Lib. XIX cap. ult. n. 3.

[139] V. Chioccar. M. S. giurisd. to. 10.

[140] S. Antonin. par. 3 tit. 21 cap. 1

[141] Baluz. vita PP. Aven. tom. 1 pag. 112.

[142] Blondus Flavius. Anton. Campus l. 3 Hist. Cremon. Odor. Raynald.
ann. 1314.

[143] Dant. Infern. cant. 19.

[144] Villan. l. 9 c. 58.

[145] S. Antonin. tit. 21 c. 3 § 21.

[146] Villan. l. 9 c. 79.

[147] V. Struv. Histor. Jur. Can. c. 7 § 28.

[148] V. Baluz. in Notis PP. Aven. t. 1 p. 825.

[149] Vita 8 Bened. XII apud Baluz. t. 1 p. 240.

[150] Vita 7 Bened. XII apud Baluz. l. c.

[151] Questa Bolla si legge presso Baluz. in 5 vita Clement. VI to. 1
p. 312, presso Cornelio Agrippa, ed altrove.

[152] Baluz. in Praefat. ad vitas PP. Aven.

[153] Nicol. de Clemang. cap. 27 de corr. Ecol. statu.

[154] Chiocc. M. S, giurisd. tom. 8.

[155] Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. I p. 796.

[156] Registr. Car. I ad ann. 1275.

[157] Registr. R. Robert. ann. 1311.

[158] Registr. R. Robert. ann. 1335.

[159] Registr. R. Robert ann. 1339.

[160] Rainald. ann. 1253 num. 3 et ann. 1265.

[161] Chioc. M. S. giurisd. tom. 3 de Nuntio Apost.

[162] Tomasin. de benefic. par. 3 lib. 2 cap. 57 n. 5.

[163] Pruove della libertà Gallic. cap. 22 num. 6. Tomasin. loc. cit.

[164] Le parole dell'Editto si leggono nel c. 22 num. 8 delle Pruove
della Liber. Galic.

[165] Pruove, etc. n. 22 dove si legge l'Editto di Luigi XI.

[166] Avent. Ann. Bojor, l. 7 c. 15 n. 18.

[167] Bulla Jo. XXII praefixa Clementinis.

[168] Villan. Histor. Flor. l. 9 c. 2.

[169] V. Baluz. in Not. ad Vitas PP. Aven. tom. 1 p. 682 Struv. Hist.
Jur. Can. c. 7 § 27. Bonifac. de Amanatis in prooem. Clement.

[170] V. Struv. l. c. § 18.

[171] Cujac. in C. ad audientiam 4 de Spons. et Matr.

[172] Ludov. Gomes. in prooem. Comment. ad Regul. Cancel.

[173] V. Mastricht. Hist. Jur. Can. n. 283.

[174] V. Struv. Hist. Jur. Can. c. 7 § 28 et § 36.

[175] Costanzo lib. 6.

[176] Summonte t. 2 l. 3 pag. 417. Baluz. Notae ad Vitas Papae. Aven.
tom. 1 p. 842.

[177] Baluz. loc. cit.

[178] Prima Vita Clem. VI apud Baluz. tom. 1 pag. 246. Sed circa
regimen, et administrationem Regni memorati modicum facere potuit, per
dictam Joannam jam doli capacem impeditus.

[179] Costanzo lib. 6.

[180] Grammat. decis. 1 n. 27.

[181] Giovanni Villani lib. 12 cap. 50, 78, 98. Matteo Villani lib.
1 cap. 11. Petrarca lib. 6 rer. fam. epist. 6. V. Baluz. in Notis ad
Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 860.

[182] Cost. lib. 6.

[183] Tom. 2 pag. 1111.

[184] Tutin. de' M. Giustizieri, fol. 62. V. Baluz. loc. cit.

[185] Prima Vita Clem. VI apud Baluz. tom. 1 pag. 247. Contra alios
vero dictus Papa fecit processus, et fulminavit sententias quantum
ratio dictabat, et justitia suadebat.

[186] Baluz. tom. 2 Vitae PP. Aven. pag. 689 e 690 rapporta due
epistole di Clemente scritte alla Regina, che lo richiese di levar al
fonte il parto; ed il Papa commise agli Arcivescovi di Napoli, di Bari
e di Brindisi, o altro Prelato ad elezione della Regina di farlo in suo
nome, siccome fu tenuto al fonte dal Vescovo Cavillocense Cancelliere
di Giovanna.

[187] II. Vita Clem. VII apud Baluz. tom. 1 pag. 271.

[188] II. Vita Clem. apud Baluz. loc. cit. Misericorditer dispensavit,
quoniam in secundo consanguinitatis gradu se invicem ex duobus
stirpibus contingebant.

[189] II. Vita Clem. apud Baluz. loc. cit. pag. 272. Civitatem
Avenionensem, etc. emit a Regina praedicta pretio invicem concordato.

[190] Costanzo lib. 6.

[191] Tom. 2 pag. 182.

[192] Tom. 3 pag. 1119.

[193] Inveges tom. 3. Histor. Paler.

[194] V. Chiocar. de Archiep. Neap. ann. 1359. Ughell. de Archiep.
Neap. pag. 195, 196.

[195] Costanzo lib. 7.

[196] Tristan. Caracc. in Geneal. Car. I. Summ. tom. 2 lib. 3, p. 446
e 447.

[197] Summonte tom. 2 lib. 3 pag. 446 et 447.

[198] IV. Vita Urb. V. apud Baluz. tom. 1 pag. 424.

[199] Theodoric. b Niem lib. 1 de Schismate, cap. 6, 6, 34, 65.

[200] Villan. lib. 12 cap. 17.

[201] Theodoric. lib. 1 de Schismate, cap. 9.

[202] V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 1333.

[203] V. Baluz. loc. cit. pag. 1176 et seqq.

[204] V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 p. 1125.

[205] V. Baluz. loc. cit. et pag. 1124.

[206] Theodor. a Niem de Schism. lib. 1 loc. cit. V. Baluz. loc. cit.
pag. 1124

[207] Theodor. lib. 1 cap. 7, 8.

[208] Theodor. a Niem loc. cit. cap. 21. Baluz. loc. cit. pag. 1127.

[209] V. Baluz. loc. cit. pag. 1098, 1207 et 1398.

[210] V. Chioccar. de Archiepisc. Neap. ann. 1378.

[211] V. Chioccar. de Archiep. Neap. ann. 1378.

[212] Vincenti in Teatr. Ugo Sanseverin.

[213] Summonte part. 2 c. 3 pag. 457.

[214] È rapportata da Chioccarel. in M. S. giurisd. tom. 1.

[215] Rainald. ann. 1380 § 4.

[216] Costanzo l. 7.

[217] Tom. 2 p. 1147.

[218] Scip. Ammir. ne' Ritratti parlando della Regina Giovanna Prima.

[219] Chioc. M. S. Giurisd. tom. 1.

[220] Lunig, pag. 1140 e seqq.

[221] Pag. 1146.

[222] Sono rapportati dal Costanzo lib. 7.

[223] V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 1157.

[224] Felyn. Epito de Regno Apuliae, et Siciliae, c. 2. Grammat. decis.
1 num. 23 et 27.

[225] Angel. cons. 110.

[226] Costan. lib. 7.

[227] Ammirat. nei Ritratti.

[228] Costanzo lib. 7.

[229] Baluz. tom. 1 pag. 1093 et seqq. usq. ad 1104 et pag. 1182 usque
ad pag. 1192.

[230] V. Baluz. to. 1 pag. 1278, 1459, 1036, 1101, 1126, 1369 et 1474.

[231] Paul. Aemil. l. 9 de reb. in Gal. gest. Fross. hist. lib. 2.

[232] Paul. Aemil. l. 6 de reb. in Gallia gest.

[233] S. Antonin. par. 3 tit. 22 cap. 2 § 2.

[234] Panorm. in prooem. Decretal.

[235] Zabarell. Tract. de schismate, p. 569.

[236] Cajet. Tract. de auth. Papae, et Conc. cap. 8.

[237] Baluz. in Praefat. ad Vitas Papar. Aven. tom. 2.

[238] Maimburg. Istoria del grande Scisma d'Occidente, l. 1 et 3.

[239] Bingamo, de Orig. Eccl. l. 16 c. 1 § 6.

[240] Angel. cons. 110.

[241] Costanzo lib. 8.

[242] Tom. 2 pag. 1182 et 1183.

[243] Tutini de' Contestabili, pag. 123. Costanzo lib. 8.

[244] Costanzo lib. 8.

[245] Tom. 2 pag. 1192.

[246] Costanzo lib. 8.

[247] Bonfinio Hist. d'Ungaria, Costanzo lib. 8.

[248] Se dovranno attendersi gli Scrittori rapportati da Struvio
Syntag. Hist. Germ. Dissert. 24 § 35 l'Imperatore Carlo IV a quei tempi
era già morto; poichè narrano esser accaduta la sua morte in Praga la
vigilia di Sant'Andrea Apostolo nell'anno 1378.

[249] Paris de Puteo lib. de Duello, cap. 14 lib. 9.

[250] V. Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 1 pag. 1253.

[251] Ughell. tom. 5. Ital. sacr. de Archiep. Neap. pag. 207.

[252] I. Vita Clem. VII apud Baluz. t. 1 p. 254.

[253] Tom. 1 pag. 1210 et 1215.

[254] I. Vita Clem. VII apud Baluz. loc. cit.

[255] La celebrità, ordine e processo della solenne incoronazione,
fatta in Avignone da Papa Clemente VII al Re Luigi II d'Angiò,
con tutte le sue cirimonie, riti e funzioni; siccome le orazioni,
benedizioni e cirimonie, che s'usarono nell'imbarcarsi il Re Luigi
nel porto di Marsiglia, per l'impresa di Napoli, colla formula della
benedizione data alla Galea, sulla quale dovea navigare il Re, e sua
Compagnia; si leggono presso Lunig in una pienissima relazione, dettata
in Lingua Franzese p. 1186.

[256] Baluz. in Notis ad Vitas PP. Aven. tom. 2 pag. 1397.

[257] Costanzo lib. 11.

[258] Summon. tom. 2 pag. 534.

[259] Tom. 2 pag. 1220.

[260] Pag. 1326.

[261] Costanzo lib. ii.

[262] Ang. Cost. lib. II in fin.

[263] Costan. lib. II.

[264] Summont. lib. 4 to. 2 pag. 602.

[265] Tutin. de' Contestab. pag. 130.

[266] In prooem. MC. V. et Rit. ult. ann. 1420.

[267] Chiocc. M. S. Giurisd. to. 1 ann. 1418.

[268] Chioccar. loc. cit.

[269] Costanzo l. 13 in fin.

[270] Summonte l. 4 tom. 2 p. 585.

[271] Tom. 2 p. 1234.

[272] Pag. 1226.

[273] Chiocc. M. S. giur. tom. 1.

[274] Chioccarel. tom. 1. M. S. giurisd.

[275] Tom. 2 pag. 1235.

[276] Pag. 1238.

[277] Tutin. de' Contest. pag. 145.

[278] Rit. 55 et ult.

[279] In prooem. et Rit. 1.

[280] Rit. 14, 34, 39, 46, 50.

[281] Rit. 311.

[282] Rit. 289.

[283] Cap. si Judex Laicus de sentent. Excomm. in 6.

[284] Rit. 235. Quamvis Jura Canonica his praedictis videantur
aliquantulum refragari.

[285] Rit. 289.

[286] Rit. 280.

[287] Rit. 292.

[288] Rit. 293.

[289] V. Summonte p. 583 to. 2.

[290] Toppi tom. 1 de Orig. Tribun. p. 182.

[291] Toppi Biblioth.

[292] Pragm. 1 de Feud.

[293] V. Jacopo Bern. Mulzio repraesent. Majest. Imper. p. 2 c. 33 §
2. Ant. da Wood. hist. et antiqu. Academ. Oxoniens. lib. 1. Reinardo
Vitriario G. C. Olandese Instit. jur. pub. Rom. Germ. l. 4 tit. 11 § 9.

[294] Conringio Antiqu. Acad. dissert. 4.

[295] Claud. Emerico de Acad. Paris. p. 115. Naudeo de antiq. Scholae
Medic. Paris. pag. 17.

[296] Privil. Reg. Jo. II. Non quod per hoc, nec per infrascripta
tollatur privilegium Justitiario Scholarium ab antiquo concessum.

[297] V. Chioccar. de Archiep. Neap. in Nicolao de Drano, fol. 271.

[298] Tappia, Jus Regni, lib. 2 de Offic. M. Cancellarii, pag. 407.

[299] Affl. decis. 41.

[300] Summ. tom. 2 lib. 4 pag. 608.

[301] Recco super privileg. Jo. II.

[302] Afflict. decis. 41.

[303] Summ. Tappia loc. cit.

[304] Tappia Jus Regn. lib. 2 de Offic. M. Cancell. pag. 417 ad 423.

[305] Tasson. de Antef. vers. 3 observ. 3 num. 255.

[306] Recco in Privilegio Jo. II.

[307] V. Chioccar. de Archiep. Neap. in Bozzuto, anno 1378.

[308] V. Ciaccon. in Urbano VI et in Cardinali Gentili de Sangro.

[309] Ciaccon. loc. cit. Diar. Ducis Montisleon. Jo. Baptista Carafa.
Hist. Neap. lib. 6.

[310] Teodoric. de Schism. lib. 1 cap. 26.

[311] Ciaccon. in Urbano VI.

[312] V Chiocc. in Archiep. Neap. in Thom. ann. 1380.

[313] Chioc. in Archiep. Guglielmo ann. 1380.

[314] S. Antonin. in 3 p. Hist. lit. 12 cap. 2 § 14. Collenuc. lib. 5.
Comp. Regn.

[315] Chiocc. de Archiep. Neap. ann. 13, 9 fol. 257 et ann. 1412 fol.
266.

[316] Chioc. de Archiep. Neapol. fol. 256.

[317] V. Baluz. in Praefat. ad Vitas Papar. Aven.

[318] V. Struv. Hist. Juris Canon. c. 7 § 32.

[319] Summon. tom. 2 lib. 4 cap. 620.

[320] Summ. loc. cit.

[321] Toppi de Orig. Tribunal. part. 1. 3 c. 10 pag. 107 et segg.

[322] Lib. 1 p. 23.

[323] V. Engen. Nap. Sacr. di M. Oliveto.

[324] Fazzel. de Reb. Siculis, decad. 1 lib. 1 c. 3.

[325] Michael Riccius lib. 4 de Regib. Neap. et Sic. Cum prius
unaquaeque Civitas, Oppidumve pro numero, amplitudineque, et opibus,
stipendia penderet pro collectas, ut ajunt.

[326] Vien rapportato da Chioccar. tom. 1. M. S. giurisd.

[327] Capit. Reg. Alphonsi.

[328] Zurita Annali d'Aragona.

[329] Mazzel. Descriz. del Regno.

[330] Baron. Ann. Eccles. discurs. de Monarchia Siciliae, tom. 11.

[331] Vien rapportato dal Chioccar. tom. 1. M. S. Giurisd.

[332] Tutin. de' M. Giustiz. pag. 78.

[333] Tom. 2 pag. 1239, 1246, 1248 e 1249.

[334] Chioc. l. 1. M. S. giurisd.

[335] Tom. 2 pag. 1254.

[336] V. Giovio negl'Elogj degl'uom. illustr.

[337] V. Tappia Jus Regni, in rubr. de Off. S. R. C. num. 6.

[338] Card. de Luca Relat. Cur. Rom. lib. 13 disc. 32 n. 13.

[339] Tappia loc. cit. n. 10.

[340] Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 7 p. 111.

[341] Tasson. l. c. n. 75 et vers. 7 obs. 3 n. 70.

[342] Tasson. de Antefato loc. cit.

[343] Toppi de Orig. S. R. C. lib. 1 cap. 4.

[344] Roman. de praeem. S. R. C.

[345] Freccia lib. 1 de Subfeud. de Offic. M. Camerar. n. 15 et 16.

[346] Summon. tom. 3 pag. 99.

[347] Litera R. Al. apud Toppi, pag. 442 tom. 2 de Orig. Tribunal.

[348] Toppi tom. 2 de Orig. Trib. lib. 1 cap. 4 n. 34 et 35 ivi: in
quibus de jure disceptabitur, etc.

[349] Toppi tom. 2 p. 442 et 496.

[350] M. A. Surg. de Neap. illust. cap. 17 n. 45.

[351] Ricc. lib. 4 de Reg. Neap. et Sicil.

[352] Afflict. decis. 291 n. 3.

[353] Freccia de Subfeud. lib. 1. cap. de Antiq. Statu. Regni n. 38.

[354] Summonte tom. 3 lib. 5 p. 69.

[355] Chiocc. de Episc. Neap. in Gaspare de Diano p. 277.

[356] Tappia in rub. de Offic. S. R. C. in Jur. Reg.

[357] Tasson. de Antef. loc. cit.

[358] Topp. tom. 2 de Orig. Trib. lib. 1 cap. 1.

[359] Chiocc. loc. cit.

[360] Summ. loc. cit.

[361] Toppi loc. cit. cap. 2.

[362] Prammatica 2 de Offic. S. R. C.

[363] Toppi loc. cit. cap. 3.

[364] Affl. decis. 304 in princ.

[365] Pramm. v. de Offic. S. R. C. ivi: Ubi praesidebit unus.

[366] Tasson. de Antef. vers. 3 rub. 3.

[367] Toppi de Orig. Trib. tom. 2 lib. 2 cap. 6.

[368] V. Bartol. Chiocc. de Episcop. et Arch. Neap. pag. 277.

[369] V. Chiocc. de Archiep. Neap. in Oliverio, pag. 287.

[370] Summ. lib. 5 tom. 3 pag. 190.

[371] Topp. tom. 2 de Orig. Trib. lib. 3 cap. 1.

[372] Alphonsi diploma penes Toppi de orig. Trib. tom. 2.

[373] Ferdinandi diploma penes Toppi loc. cit.

[374] Toppi lib. 2 cap. 5 num. 1.

[375] Chiocc. de Archiep. Neap. pag. 297.

[376] Toppi tom. 2 de orig. Trib.

[377] Questo diploma si legge presso Toppi tom. 2 de orig. Trib. p. 441.

[378] V. Tasson. de antef. vers. 3 obs. 3 pag. 168.

[379] Toppi tom. 2 de orig. Trib. fol. 483.

[380] Toppi tom. 2 de orig. Trib.

[381] Passer. in diar. Reg. Neap.

[382] Giornali di Gregorio Rosso, pag. 3 ann. 1526 alli 25 d'Aprile
lo Duca di Castrovillari pigliò possesso nel S. R. C. di S. Chiara
dell'Ufficio di Protonotario, e Logoteta del Regno con molta solennità,
ed accompagnato da tutta la nobiltà e signoria.

[383] Afflict. decis. 1.

[384] V. Toppi lib. 2 de Off. S. R. C. pag. 165.

[385] Toppi lib. 2 de Off. S. C. Cap. 5 num. 5 et seq. fol. 111.

[386] Prammatica 2 de Off. S. R. C.

[387] Toppi lib. 1 de Orig. Trib. cap. 7.

[388] V. Toppi lib. 2 cap. 1 num. 112.

[389] Toppi loc. cit. cap. 11.

[390] Pragmatica 6 de Off. S. B. C.

[391] Toppi lib. 4 cap. 1.

[392] Pragm. 2 de Off. S. R. C.

[393] Prag. 4 de Off. S. C.

[394] Pragm. 2 de off. S. C. n. 5.

[395] Pragm. 68 de off. proc. Caesar.

[396] Pragm. 1 de Offic. Prov.

[397] Grazie dell'Imp. Carlo VI tom. 2 pag 255.

[398] Card. de Luca Rel. Cur. Rom. lib. 15 disc. 32 num. 13 et seq.

[399] Topp. lib. 1 cap. 15 tom. 2.

[400] Michel Riccio lib. 4 de Reg. Neap. et Sic. Fazzello de Reb.
Sicul. decad. 2 lib. 7 in Alphonso.

[401] Surg. de Neap. illustr. cap. 7 n. 1, 2.

[402] V. Topp. de Orig. Trib. tom. 1 lib. 4 cap. 3 num. 8 et 11.

[403] Reg. Cap. Galeot. resp. fiscal. 1 num. 51.

[404] Surg. loc. cit. Reg. Cap. Galeot. loc. cit. num. 37.

[405] Topp. loc. cit. cap. 1 num. 12.

[406] Questo diploma si legge presso Toppi de Orig. Trib. tom. 1 pag.
259

[407] Surg. loc. cit. num. 2.

[408] Surg. loc. cit. num. 2.

[409] Surg. loc. cit. num. 3.

[410] Costanzo lib. 16.

[411] Costanzo lib. 18.

[412] Toppi tom. 1 de Orig. Tribunal. cap. 7 et 8.

[413] V. Tasson. de Antel. vers. 3 obs. 3 nu. 142.

[414] Toppi tom. 1 de Orig. Tribunal. cap. 2 lib. 4 n. 3 et cap. 14 n.
1 et 3.

[415] Si legge nel tom. 1 del Toppi de Orig. Tribunal. pag. 97.

[416] Tasson. de Antef. vers. 3 obs. 3 n. 140.

[417] Grazie dell'Imper. Carlo VI tom. 2 p. 255.

[418] V. Capece Galeot. resp. fisc. 2 nu. 7.

[419] Toppi tom. 1 de Orig. Trib. lib. 4 cap. 7 num. 11.

[420] V. Toppi loc. cit. lib. 2 cap. 2 ad 9.

[421] Freccia lib. 1 de subfeud. tit. de Prov. et Civ. Reg. num. 16.

[422] Mazzella nella descrizione del Reg. Prov. d'Apruzzo ultra.

[423] Tutin. de' M. Giustiz. pag. 80.

[424] Guicciard. lib. 5. Istor.

[425] Pragm. 10 de empt. et vendit.

[426] Toppi Biblioth. Neap. fol. 356.

[427] Erchemp. num. 63.

[428] Ostiens. lib. 1 cap. 43.

[429] Hadrian. epist. 64 et 72.

[430] Camill. Pelleg. fines Duc. Ben. ad merid. p. 27.

[431] Summ. tom. 3 pag. 249.

[432] Chiocc. loc. cit. de Juribus, quae antiqui Neapolitani Reges
habuerunt in Civitate Terracina, quam nunc Apostolica Sedes possidet.

[433] Abb. de Nuce in Not. ad Cron. Cass. lib. 1 cap. 38.

[434] Lione Ostiense lib. 1 cap. 38.

[435] Cron. Cass. lib. 4 cap. 25.

[436] Abb. de Nuce in Chron. Cass. lib. 3 cap. 52.

[437] Summ. tom. 3 lib. 5 pag. 421.

[438] Chioccar. loc. cit.

[439] Abb. de Nuce loc. cit. lib. 1 cap. 18.

[440] Chioccar. loc. cit. tom. 18.

[441] Chiocc. tom. 18. M. S. Giurisd.

[442] Summ. tom. 3 lib. 5 pag. 88.

[443] Lib. 5 pag. 188.

[444] Summ. loc. cit. pag. 91.

[445] Summ. loc. cit. pag. 91.

[446] Mazzel. tratt. dell'entrade, etc.

[447] Andr. in cap. 1 § et extraordinaria, in princ. et num. 2. Quae
sint regal.

[448] Luc. de Pen. l. 1 n. 3. C. de indebit lib. 10.

[449] Ant. Capec. Invest. Feud. claus. vers. collectis, col. 5 in fin.
et in princ.

[450] Registro intitolato Literarum Curiae secundi anni 1451 fol. 133
riferito dal Mazzel. loc. cit.

[451] V. Toppi de orig. Trib. tom. 1 lib. 2 cap. 6 n. 3.

[452] Summ. tom. 3 lib. 5 cap. 1 pag. 18 et 229.

[453] Costanzo Ist. Nap. lib. 18.

[454] Freccia lib. 2 auth. 2 nu. 21.

[455] Franc. de Amic. ad tit. de his, qui feud. dar. poss. in cap.
sumus modo, fol. 43 n. 2 et seqq.

[456] Rosa in praelud. feud. lect. 11 num. 10.

[457] Andr. in Constit. locorum Bajuli.

[458] Constit locor. Baju. et ad officium Bajul.

[459] Const. Justitiarii nomen, et normam Constit. Justitiarii per
Provincias Constit. Praesides. Constit. Capitaneorum.

[460] Franchis decis. 510 nu. 4.

[461] Affl. in prooem. Constit.

[462] Costanzo lib. 19.

[463] Ricc. de Reg. Neap. et Sic. lib. 4.

[464] V. Summon. tom. 3 lib. 5 pag. 121.

[465] Toppi de Orig. Trib. par. 2 lib. 2 cap. 2. num. 12.

[466] Prag. 1 tit. 129 de Possessorib. non turban.

[467] Prag. 2 cit. tit.

[468] Costanzo lib. 20.

[469] Pragm. 3 cit. tit.

[470] Capec. decis. 86 num. 13.

[471] Pragm. 1 de Censib.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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