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Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I - Seconda serie - Storia
Author: Various
Language: Italian
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                                   LA
                             VITA ITALIANA
                                  NEL
                              RISORGIMENTO

                              (1831-1846)

                             SECONDA SERIE


                                   I.

                                STORIA.


        La politica degli Stati italiani dal
          1831 al 1846.                       ROMUALDO BONFADINI.
        La vecchia Italia.                    GUGLIELMO FERRERO.
        Il brigantaggio meridionale durante
          il regime borbonico.                FRANCESCO S. NITTI.
        Il Vescovo d'Imola.                   ERNESTO MASI.



                                FIRENZE
                          R. BEMPORAD & FIGLIO
            CESSIONARI DELLA LIBRERIA EDITRICE FELICE PAGGI
                         7, Via del Proconsolo
                                 1899.



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                       RISERVATI TUTTI I DIRITTI

             _Gli editori_ R. BEMPORAD & FIGLIO _dichiarano
     contraffatte tutte le copie non munite della seguente firma:_

     [Illustrazione: firma manoscritta]

          Firenze, 1899. Tip. Cooperativa, Via Pietrapiana, 46



LA POLITICA DEGLI STATI ITALIANI DAL 1831 AL 1846

CONFERENZA DI R. BONFADINI


Il Congresso di Vienna aveva dato all'Italia un ordinamento
territoriale e politico assai ripugnante alle aspirazioni che la
Rivoluzione francese e i regimi napoleonici vi avevano alimentato.

Restituendo la corona delle Due Sicilie a quel re Ferdinando che nel
1799 vi aveva esercitato così feroci vendette, la Santa Alleanza non
gl'impose nessuna riserva, nè per gli antichi diritti costituzionali
mantenuti costantemente, in maggiore o minore misura, nell'isola di
Sicilia, nè per le nuove esigenze di civiltà amministrativa, sorte
nella parte continentale del Regno, durante il governo del re Gioachino
Murat.

Così pure, ricollocando sotto l'autorità del Papa i territorî
dell'antico Patrimonio, le Legazioni, le Marche e l'Umbria, non si dava
a quelle popolazioni nessuna speranza che il vecchio regime sacerdotale
potesse aprirsi a nessun miglioramento di legislazione o di indirizzo
politico.

Ritornavano in Toscana i principi di Lorena; ed era forse quella la
parte d'Italia meno offesa nei suoi sentimenti, vista l'antica e mite
tradizione di governo di quella Casa.

Ma i ducati di Modena, di Parma, di Lucca, stabiliti solo per
convenienza di principi e di principesse, rappresentavano la forma
più acre del dispotismo, non temperato da nessuna responsabilità
internazionale, da nessuna rispettabilità dei governanti.

Due repubbliche di antichissima origine, Genova e Venezia, invece
di essere ricostituite come si ricostituiva quasi ogni cosa nelle
condizioni anteriori al 1796, venivano aggregate a due grossi Stati;
più fortunata Genova, che almeno serviva ad arrotondare uno Stato
interamente italiano; più offesa nei suoi sentimenti e nel suo orgoglio
Venezia, che diventava provincia di un Impero straniero, a cui si
concedeva anche l'ambíto riacquisto della Lombardia.

La casa di Savoia, meno l'annessione di Genova, rientrava a un di
presso ne' suoi territorî antichi; e per verità dalla Santa Alleanza
avrebbe meritato maggiori riguardi, in ragione dell'aspro trattamento
subíto dal predominio francese e della costante fedeltà da essa serbata
verso i governi di diritto divino.

Ma il Congresso di Vienna era stato, in ogni sua deliberazione, il
trionfo dei forti. E il Piemonte non aveva potuto uscire più saldo
da quelle stipulazioni, soprattutto per l'ostilità dell'Austria, che
nutriva contro la casa di Savoia una diffidenza intuitiva, paralizzata
ne' suoi effetti maggiori soltanto dalla benevolenza della politica
russa.

L'Austria poi s'era assicurata una perfetta dominazione su tutte
le cose della penisola italiana, vuoi pel possesso del magnifico
territorio lombardo-veneto, così ricco di prodotti, di abitanti,
di strade e di fortezze, vuoi per la stretta parentela della casa
d'Habsburg con quasi tutti i principi minori d'Italia, vuoi per
l'immensa superiorità delle sue forze militari, accresciuta da speciali
trattati, che ponevano interamente a sua disposizione la politica, le
armi e le polizie dei principati rifatti lungo la valle del Po.

In complesso, può dirsi che questo ordinamento rappresentava soltanto
interessi di principi e di Case regnanti. Nessun interesse di popolo
v'era stato consultato o contemplato. Fiera de' suoi successi militari
contro il colosso napoleonico, la Santa Alleanza s'era illusa che il
mondo dovesse, d'allora in poi, essere governato dalla sola forza, e
che questa sola meritasse d'avere organismi e guarentigie.

Non tardò a comprendere di essersi ingannata; ma intanto il suo
inganno servì per molti anni a far persistere il governo austriaco,
suo rappresentante in Italia, nell'uso, anzi nell'abuso della forza: e
così sorse, quasi immediatamente nella penisola, il sentimento della
resistenza contro gli ordinamenti politici e territoriali, imposti
all'Italia dai trattati del 1815.

Com'è naturale, non avendo mezzi di esprimersi nè colla stampa, nè con
forme di rappresentanza, gelosamente vietate dai regimi ristabiliti,
il malcontento pubblico s'avviò verso i metodi della cospirazione.
Trovatosi ad un tratto come chiuso in una camicia di forza, dopo avere
passato parecchi anni sotto governi inspirati a principî più o meno
tumultuosi di libertà, il popolo italiano non seppe acquetarsi a così
improvviso e così duro mutamento d'istituzioni; molto più avendo la
coscienza di essere stato anche prima piuttosto vittima che complice
degli avvenimenti. Non potendo manifestarsi alla luce del sole, senza
pericolo di prigione o di capestro, cercò le vie sotterranee. E ne
avvenne ciò che avviene di quelle terribili sostanze aeriformi, che,
trovandosi chiuso il passaggio per le viscere della terra, prorompono
e diventano terremoti.

Di lì quel carattere speciale di monotonia, che impronta di sè la
politica degli Stati italiani, dal 1830, anzi addirittura dal 1815 fino
al 1846.

Ad eccezione di uno solo, in tutti quegli organismi governativi non
parve penetrare durante tutti quegli anni verun pensiero. Parve anzi
che l'unica ed accanita preoccupazione di quei regimi fosse la guerra
al pensiero, sotto qualunque forma e da qualunque compagine uscisse.
Mentre tante novità sorgevano e si discutevano in Europa, dalla
ricostituzione della Grecia a quella del Belgio, dalle insurrezioni
iberiche all'insurrezione polacca; mentre tante questioni nuove
di amministrazione e di governo balzavano lucidamente dalla virile
eloquenza dei Parlamenti di Francia e d'Inghilterra, in Italia una
sola attività prendeva il posto di tutte, un'attività di spionaggio e
di polizia. Ricostituiti sull'unica base di un interesse dinastico,
quegli Stati non ebbero dunque altro proposito che di mantenere la
base. Purchè la casa del Principe fosse tranquilla e ben provveduta,
l'interesse pubblico non esigeva di più. Se di questa situazione
qualche Principe abusava per uscire dal proprio diritto e violare,
a danno dei sudditi, i doveri della moralità e dell'onestà, l'unica
conseguenza era la necessità di una maggiore oculatezza, talvolta di
una maggiore ferocia negli stromenti di polizia, per reprimere sdegni
legittimi propositi di resistenza. Al postutto, le solidarietà nel
male erano assicurate dall'interesse comune, e su tutte stendeva la
sua indulgenza irresponsabile e sistematica la politica protettrice del
principe di Metternich.

Nulla dunque distraeva quei ministri di Stato dall'esclusiva cura
di perfezionare i metodi della polizia. E i dispacci di tutti quegli
ambasciatori, quei consoli, quei diplomatici, diretti dalla suprema
saviezza dei Canosa, dei Riccini, dei Lambruschini, arieggiano rapporti
di questura, piuttosto che avvedimenti di uomini politici. Ora si
tratta d'impedire un colloquio sospetto fra la marchesa Camerata e il
prigioniero Duca di Reichstadt, ora di indagare le relazioni personali
dei membri della famiglia Bonaparte in Roma, ora di vigilare perchè
Achille Murat non si muova da Londra per lidi ignoti. V'è perfino
un progetto di deportare tutti i liberali al di là dei mari europei;
progetto che si ruppe unicamente contro la ripugnanza manifestata dai
governi di Torino e di Firenze.

Centro di tutta questa reazione appassionata ed imprevidente fu
soprattutto il seggio pontificio, sul quale, al principio del 1831,
era venuto ad assidersi, per intrighi austriaci e spagnoli, un monaco
d'illibati costumi, di mente corta e di pregiudizi fanatici, Mauro
Cappellari della Colomba.

Rappresentato, ne' suoi rapporti di governo, da due personaggi,
egualmente fanatici, il cardinale Bernetti e il cardinale Lambruschini,
tutta la sua vita politica fu una lotta fiera e sanguinosa contro
i suoi sudditi; sui quali fece pesare replicatamente l'onta
dell'occupazione austriaca, richiesta ad ogni stormir di foglia e
accordata anche più volonterosamente che non si chiedesse.

Di questa politica tutta a base di persecuzioni, di repressioni e di
supplizi, si mostrava fiero censore un forte uomo politico italiano,
Pellegrino Rossi; il quale scriveva al ministro degli affari esteri
di Francia: «Se voi sapeste come tornerebbe agevole soddisfare i
voti di queste popolazioni, senza nulla riversare, nulla snaturare!
Tutta la parte sana non domanda che un poco d'ordine e di buon senso
nell'amministrazione. Che s'impianti un governo assennato, e issofatto
i demagoghi si troveranno isolati e impotenti.»

Ma questi consigli della ragione, dei quali parecchi governi italiani,
e prima e poi, avrebbero dovuto sentire l'opportunità, non tornavano
a grado del governo austriaco, gran consigliere e gran protettore
di Gregorio XVI; poichè il cardine fondamentale della politica
metternicchiana in Italia fu sempre d'impedire che i principi indigeni
accettassero progressi di legislazione; allo scopo di poter dimostrare
che le provincie amministrate meglio erano quelle governate dalla Casa
d'Austria, e trarne così, agli occhi dell'Europa, titolo a rendere
sempre più durevole e più esclusiva l'influenza austriaca nelle cose
della penisola.

Sicchè i metodi del Bernetti e del Lambruschini continuavano a
trionfare contro tutti gli sforzi dei cospiratori interni e contro le
timide rimostranze della diplomazia europea. Continuava lo scandalo
delle dilapidazioni e dei favoriti, continuava la preminenza nelle
cose dello Stato ora del barbiere Moroni, ora del colonnello Freddi,
ora dell'agente austriaco Sebregondi, ora del prete Abbo, spergiuro
e infanticida. In questa vergogna di cose s'andava rapidamente
spegnendo ogni prestigio della sovranità temporale esercitata dal
Sommo Pontefice; tanto che, fin dal 1837, l'inviato sardo a Roma,
marchese Crosa, non si peritava di scrivere al conte Solaro della
Margherita: «È qui comune idea fra le persone che spingono lo sguardo
nel lontano avvenire, il pensare che qualora prosegua in questo paese
l'attuale ordinamento di cose, debba col tempo aver luogo qualche
crisi essenziale; e la ipotesi la più plausibile sarebbe quella di
vedere la gran Roma ridotta alla mera supremazia ecclesiastica, non
conservando che l'ombra del temporale....» Il sagace diplomatico
piemontese intravedeva già, fra gli errori e fra gli orrori del tempo,
la soluzione soddisfacente, e, senza confessarlo a se stesso, tradiva
il pensiero che, dalla tribuna parlamentare, avrebbe proclamato,
ventiquattr'anni dopo, Camillo di Cavour!

Per allora, nulla si mutava e nulla si voleva mutare nello Stato
Pontificio, a cui soltanto avrebbe dato una scossa, di proporzioni
impreviste, il Papa futuro del 1846. Alle potenze europee, preoccupate
di questa perpetua alternativa fra rivoluzioni e reazioni, la curia
romana prometteva riforme, col preciso proposito di non attuarle; e
i diplomatici d'allora si rassegnavano ad essere ingannati, come si
rassegna sempre la diplomazia ad ogni inganno che serva alla pace d'un
quarto d'ora.

L'Austria entrava ed usciva dai territorî papali come da casa sua; la
Francia occupava Ancona, con gran fracasso di frasi, poi rimpiattava la
sua sterile iniziativa dietro le più umilianti dichiarazioni imposte
dal cardinale Bernetti. Nel tutto assieme, trionfo di prepotenza, di
reazione e d'ipocrisia, da cui la provvidenza storica si preparava a
trarre i germi del fatto nuovo.

Poco al di sopra o poco al disotto della politica pontificia stava
quella del duca di Modena, Francesco IV; al quale per rifare Cesare
Borgia mancò l'audacia e per rifare Filippo II mancò l'intelligenza.

Dell'uno e dell'altro però ebbe l'istinto dispotico, le morbose
ambizioni, l'animo freddamente feroce. Regnava da alcuni anni, quando
scoppiò in Francia la rivoluzione del 1830. Una grande illusione s'era
da quel rivolgimento diffusa nell'animo degli Italiani, specialmente
del centro; l'illusione che da Parigi uscisse energico aiuto alle
rivendicazioni liberali d'Italia. Il generale Pepe aveva capitanato
queste illusioni, destreggiandosi presso il generale Lafayette, perchè
accordasse alcuni soccorsi di fucili e di denaro.

Speranze simili erano penetrate anche in un uomo d'alto animo e di
larghi concetti, Ciro Menotti, modenese e commerciante di professione.
Poco fiducioso in moti popolari di carattere repubblicano, egli non
aveva avuto difficoltà ad aprirsi politicamente col suo principe, il
duca Francesco IV, di cui conosceva la cupa indole, ma di cui aveva
indovinato la segreta ambizione.

Sfiduciato di ottenere il trono di Sardegna, al quale per tanti
anni aveva rivolto sguardi ed intrighi, Francesco IV suppose che la
rivoluzione di Francia, riaprendo l'èra dei mutamenti italiani, gli
avrebbe forse permesso di ricomporsi un trono più ampio, sui dominî dei
principati vicini. Anche il titolo di re d'Italia pare sia balenato
al suo pensiero. Sicchè, dimentico per un istante de' suoi fanatismi
legittimisti, non respinse i discorsi di Ciro Menotti, che sembrava
poter essere chiamato da prossimi avvenimenti a notevoli influenze
politiche.

Però il prepotente atteggiarsi dell'Austria e il vacillante programma
dei nuovi governanti francesi, la cui fierezza svampava nella rettorica
parlamentare del generale Sebastiani, fecero accorto l'ambizioso
duca della vanità de' suoi sogni. Sicchè, ritraendosi da' primi
affidamenti, passò, come accade, a feroci vigilanze intorno al Menotti,
di cui aveva sorpreso alcuni andamenti. Il Menotti s'era ingannato
di vent'anni, supponendo maturo un popolo a concetti unitarî e fedele
un principe ad impegni di libertà. Vistosi a un tratto circondato di
diffidenze, dopo le prime larghezze lasciate al suo disegno, non fu
più in tempo a rompere le tese fila, e dovette anzi, per necessità
di salvezza, precipitare lo scoppio. Il 3 febbraio 1831 l'avviso era
dato, e una trentina di congiurati s'erano raccolti in casa Menotti.
Ma l'avviso era giunto contemporaneamente anche a cognizione del Duca,
il quale inviò soldati e cannoni, fece assalire la casa, uccidere
alcuni complici e tradurre incatenato alle sue carceri Ciro Menotti.
È del giorno successivo quel terribile dispaccio di Francesco IV
al governatore di Reggio: «Questa notte è scoppiata una formidabile
rivolta contro di me. I cospiratori sono nelle mie mani. Mandatemi il
boja.»

Erano questi i pregiati autografi dei principi d'allora.

Del resto, il trionfo momentaneo delle insurrezioni romagnole e
modenesi non riuscì a togliere una vittima alle vendette del duca di
Modena. Il quale, fuggendo sul territorio austriaco e ritornando dopo
la bufera, ne' suoi dominî, aveva trascinato seco in catene l'infelice
Menotti. Il processo aperto da un tribunale statario contro di lui ebbe
l'esito che non era difficile prevedere. La mattina del 26 maggio 1832
fu appiccato per ordine dell'implacabile Duca, a cui quell'uomo vivo
rappresentava il rimorso d'una politica equivoca.

E questa politica fu anche l'unica, fu l'ultima che desse un qualche
rilievo al Ducato di Modena. Il quale era poi cercato con affettata
ignoranza sulla sua carta geografica dal re Luigi Filippo, un po'
indispettito perchè il principe modenese si fosse impuntato a non
riconoscere la sua sovranità. Tempi curiosi, nei quali i principi a
cui una rivoluzione riusciva pretendevano essere accettati da sovrani
legittimi; mentre poi i principi che in un tentativo di rivoluzione
s'erano tuffati credevano disonorarsi riconoscendo principi a cui il
tentativo aveva giovato.

Meno feroci, anzi punto feroci, perchè l'ambiente non consentiva
ferocia, erano le pressioni esercitate dal gabinetto austriaco sulla
famiglia toscana.

Nella casa di Lorena non era minore che in tutte le altre d'Italia
la preoccupazione dinastica; ma poichè le miti tradizioni popolari
non incoraggiavano tentativi settarî, quel governo cercava mantenersi
con politica blanda, addormentando piuttosto che urtando, corrompendo
piuttosto che offendendo, cercando di deviare verso istituti di
benessere materiale quelle forze intellettuali bramose d'ideali, che
nel paese sovrabbondavano.

Era, scrive il Tabarrini «la mediocrità in ogni cosa». Sicchè Gino
Capponi patíva «le fiere malinconie dell'ingegno inerte e costretto».
«Il principato lorenese», afferma Giuseppe Montanelli «faceva
degenerare il popolo toscano».

Il che non pareva sufficiente alla politica del principe di Metternich,
il quale avrebbe certamente creato delle sètte dove non esistevano, per
darsi la gioia di perseguitarle. Contro il granduca Leopoldo attizzava
la diffidenza fra i potentati europei. Il non vedere erette forche in
quell'angolo d'Italia gli pareva una debolezza, fomite di prossime
rivoluzioni. Quando, nel 1835, il governo granducale mitigò la pena
del carcere ad alcuni condannati per causa politica, l'ambasciatore
d'Austria a Firenze consegnò un dispaccio ufficiale, in cui era detto
che «il Sovrano della Toscana, così operando, incoraggiava il delitto».

Per una sommossa di studenti nell'Università di Pisa, il gabinetto
austriaco consigliava riformare gli statuti della pubblica istruzione,
sostituendo nella scelta dei professori al criterio della scienza
quello della fedeltà politica. Chiese, e pur troppo ottenne, la
facoltà d'istituire per suo conto un gabinetto nero per l'apertura
delle corrispondenze private. Chiese, e pur troppo ottenne, che si
sopprimesse l'Antologia e si sbandisse da Firenze Niccolò Tommasèo.
Chiese, e pur troppo ottenne, crescendo colle rassegnazioni le
esigenze, che fossero arrestati il Guerrazzi, il Bini, il Salvagnoli,
il Contrucci e parecchi altri, processandoli per aderenze settarie, che
non furono mai potute provare. Perfino il Congresso dei Dotti, tenutosi
in Pisa nel 1844, fu argomento di fieri rabbuffi alla debolezza
del principe che lo aveva concesso. E quel filosofo del maresciallo
Radetzki, scrivendo all'ambasciatore austriaco in Firenze, considerava
il Congresso di Pisa come «un'istituzione destinata a travagliar gli
animi in segreto per gettare le fondamenta dell'opera infernale della
rigenerazione italiana».

Sicchè non è meraviglia se la politica austriaca avesse anche
immaginato, circa la Toscana, ipotesi più ardite e più avide, quando
pareva che al granduca Leopoldo mancasse la prole. Le manifestava
senza ambagi l'imperatore Francesco al Granduca, dicendogli: «Mi spiace
dirvelo, ma non avvi rimedio; la Toscana diverrà provincia austriaca».
Fortunatamente — guardate di che avverbi deve talvolta servirsi la
storia! — fortunatamente la granduchessa Marianna Carolina morì, e da
un successivo matrimonio Leopoldo ebbe prole maschile. La «provincia»
agognata dall'imperatore d'Austria era destinata a tutt'altra
sovranità.

Di questa politica toscana, tutta a spinte e controspinte, ebbe per
moltissimi anni la responsabilità principale Vittorio Fossombroni,
spirito arguto, scienziato eminente, uomo di Stato profondamente
scettico, i cui ideali di governo non oltrepassavano i limiti d'un
dispotismo bonario, e che, finite le ore d'ufficio, respingeva ogni
affare, dicendo: «Il desinare brucia, lo Stato no».

Pure, così scettico com'era, si devono a lui quelle poche resistenze
che oppose la Toscana così alle pretese austriache come alle esigenze
chiesastiche. Sapeva di rispondere ad una vecchia tradizione di
governo locale, equilibrandosi contro Vienna e Roma. Spento lui,
prevalsero sulla fiacca indole del principe lorenese influenze
tortuose e schiettamente retrive. Il suo confessore Balocchi gli negava
l'assoluzione se resisteva alle domande della Corte di Roma; il suo
ministro degli esteri, Hombourg, gli faceva firmare tutto ciò che
piaceva al Gabinetto di Vienna.

Era con siffatte disposizioni che la dinastia lorenese si affacciava ai
nuovi tempi. Erano queste le forze che preparava per resistere all'onda
mossa dietro di lei da quella pleiade illustre di liberali colti ed
energici, che dai Galeotti, dai Salvagnoli, da Ferdinando Andreucci
giungeva a Gino Capponi, a Ubaldino Peruzzi, a Bottino Ricasoli.

Ci allontaniamo parecchio da questi nomi scendendo giù per l'Italia
fino a Napoli, dove troviamo quelli di Ferdinando II, del marchese Del
Carretto, di monsignor Cocle, confessore del Re.

Qui ritorniamo all'antitesi nella sua più cruda espressione; la
prosperità dinastica fondata sulla pubblica umiliazione; i supplizi
correttivi delle cospirazioni; la polizia e lo spionaggio, elementi
dominatori dello Stato.

La polizia muta, pur rimanendo identica. Vuol dire, cioè, che nel
sogno d'un despotismo più intenso, si cerca perfino di allontanare
l'influenza austriaca, contrapponendovi ora influenze francesi, ora
influenze sarde, purchè aiutino il programma d'una indipendenza del
principato, unicamente volta a intera libertà di oppressione.

Questo parve essere infatti il pensiero direttivo del nuovo Sovrano,
che saliva al trono l'8 novembre 1830. Ferdinando II, come fu
più tardi giudicato da scrittori senza passione, non era uomo
cattivo, ma sopraffatto da un'indole rozza e volgare. Apparteneva
ad una stirpe regia, per la quale il giurare una Costituzione era
fenomeno altrettanto consueto quanto il ritoglierla. Governava
un'amministrazione, la cui corruttela formava il disgusto di tutti i
diplomatici accreditati presso la Corte di Napoli. Non voleva lasciar
far nulla a nessuno ed era poi così inerte e svogliato, che non
riusciva a far nulla da sè. Si stemperava in motti di spirito, in lazzi
osceni o brutali. Ora toglieva la sedia di sotto alla regina, per farla
sconciamente cadere a rovescio, ora frustava le gambe al cavaliere
Caracciolo di Castelluccio, per vederlo saltare, gridare e piangere.
Quando gli parlavano di modificare le uniformi dei soldati, rispondeva:
«Vestili come vuoi, fuggiranno sempre». Quando gli additavano qualche
ufficiale pubblico, arricchitosi scandalosamente colle concussioni,
diceva: «Preferisco i ladri ingrassati ai ladri da ingrassare».

Al di sopra poi di tutto questo scetticismo e di tutta questa
brutalità, appariva un furore quasi morboso di comando dispotico. Del
principe di Metternich amava i principî di governo, se non accettava
sempre volentieri i consigli. Al re Luigi Filippo, che lo aveva
timidamente invitato ad allentare un po' le redini della tirannia,
rispondeva senza ipocrisie: «Il mio popolo ubbidisce alla forza e si
curva; ma la libertà è fatale alla famiglia dei Borboni, ed io sono
deciso ad evitare ad ogni costo la sorte di Luigi XVI e di Carlo X».
Non l'ha evitata al suo immediato successore. Dio ha permesso che
gli giungesse all'orecchio, prima di morire, il rombo dei cannoni di
Montebello.

Con siffatto re e siffatta politica, i destini delle popolazioni
meridionali apparivano chiari; oscillare fra le agitazioni e le
repressioni.

Sbollite infatti le prime illusioni del nuovo regno, cominciarono i
fenomeni del pubblico malcontento.

Nel marzo 1831, cospirazione in Abruzzo, due cospirazioni a Napoli nel
1832, cospirazione a Capua e a Salerno nel 1833, insurrezioni nel 1837,
così nell'isola di Sicilia come sul continente. Poi, altra cospirazione
nel 1838, pronunciamento costituzionale in Aquila nel 1841, moto
insurrezionale nelle Calabrie durante il 1843, e finalmente spedizione
dei fratelli Bandiera nel 1844.

Da tutti questi movimenti uscivano processi, combattimenti,
fucilazioni, esilii; e si disperdevano pel mondo giovani divenuti
poi stromenti vigorosi d'italianità nei successivi periodi, come
Pier Silvestro Leopardi, Carlo Poerio, Giuseppe Massari, Benedetto
Musolino, Giuseppe Ricciardi, Luigi Settembrini, Saverio Baldacchini,
Francesco Paolo Bozzelli. La politica di Ferdinando II, come quella di
tutti i governi persecutori del pensiero, preparava così a sè stessa
gli elementi della sconfitta. Nessuno sa dire che forze d'ingegno
e che virtù di propaganda scompaiano pei supplizi politici; ma le
carceri e gli esilii politici ingrandiscono sempre uomini, che forse,
meno perseguitati, avrebbero avuto minori spinte all'azione e minori
opportunità di rinomanza. Certo, l'eco mondiale dei dolori di Silvio
Pellico, del Confalonieri, del Maroncelli ebbe per l'Austria, come
diceva il Sismondi, peggiori conseguenze che una battaglia perduta. E
la falange di esuli creata dalle persecuzioni politiche di Ferdinando
II rese popolari nell'Europa, che prima non li conosceva, quei nomi e
quegli uomini, da cui trasse Guglielmo Gladstone la coscienza di quella
terribile invettiva, sotto la quale cadde prostrato il governo dei
Borboni di Napoli.

È una delle leggi storiche più consolanti, una di quelle che più si
ripetono e confermano nel tempo. E se il dispregiarla è carattere
proprio dei regimi dispotici, che alle forze morali non credono e
l'avvenire non curano, sarebbe fatale pei regimi liberali l'obliarne
l'efficacia e la logica.

Del resto, — ed ora può dirsi — sarebbe stato un grande ostacolo per
lo svolgimento normale del sistema italiano se Ferdinando II avesse
ubbidito a consigli politici di altra natura. Questa tentazione era
passata, nei primi tempi, per l'animo suo: ed anche su lui, come sul
duca Francesco IV, aveva tentato qualche pressione quel manipolo di
liberali che in ogni regione italiana stava all'agguato per indovinare
un principe.... diverso dagli altri. Il pericolo sarebbe stato grave
se, cedendo alle influenze di Luigi Filippo, il re di Napoli avesse
camminato per quella via delle riforme che lo aveva sedotto nei primi
mesi del suo governo. Una iniziativa liberale partita dal mezzogiorno,
negli anni fra il 1830 e il 1840, avrebbe potuto impacciare
l'iniziativa liberale del settentrione e creato fra i patriotti
italiani un dualismo forse esiziale per l'ideale politico.

Se le cospirazioni furono la ragione o il pretesto per cui la dinastia
borbonica respinse ogni tentazione di liberalismo e si rifugiò paurosa
nell'abbraccio austriaco, bisogna dire che queste cospirazioni hanno
raggiunto il loro scopo. Le ultime soprattutto, perchè in queste
spuntava nuovo e seducente il concetto unitario, a cui Giuseppe
Mazzini, colla sua grande facoltà d'iniziativa, aveva ormai coordinate
tutte le fila del movimento settario, staccandolo dalle antiche
tradizioni di vendette locali.

Certo, non s'era mai visto prima che un drappello di giovani veneti
chiamasse a rivolta popolazioni napoletane; si sarebbe visto non molto
dopo un generale napoletano chiamato a comandare rivolte venete. Erano
i primi sintomi di quella felice fusione di sentimenti, che avrebbe
dato alle popolazioni italiane un solo vessillo ed un solo programma.

La generazione contemporanea può discutere liberamente il fenomeno
delle cospirazioni italiane, che sarà argomento di studio, non sempre
facile, per le generazioni venture. Quando un paese, dopo mezzo secolo
d'esercizio, s'è tanto inoculato il vaccino della libertà da credere
piuttosto al diritto di abusarne che alla possibilità di scemarla, può
essere anche impunemente ingiusto verso quei precursori, o efficaci o
semplicemente ingenui, che a metodi diversi hanno dovuto ricorrere. Il
collocarsi col pensiero negli ambienti giuridici, morali e politici del
passato è uno sforzo che non sempre riesce neanche a storici pacati e
desiderosi d'imparzialità. È proprio dell'indole umana giudicare altri
da sè come esaminare i tempi alla stregua dei criteri contemporanei.

Sugli innumerevoli tentativi di movimento che hanno agitata l'Italia
dal 1815 al 1848 si possono portare giudizi diversi, secondo gli
scopi, secondo gli effetti, secondo gli uomini. Però il tentativo dei
fratelli Bandiera ha ed è giusto che abbia un posto a parte. La povertà
dei mezzi coi quali fu condotto potrà sempre meritare, nell'opinione
dei pensatori austeri, rimprovero di spensieratezza; ma le splendide
idealità a cui s'inspirò quell'impresa, cominciata con tanto amore e
finita con tanta pietà, hanno innalzato il sacrificio all'altezza di
programma politico, ed hanno gettato su tutto il successivo movimento
italiano quel profumo di giovinezza e di poesia, che, anche quando
rimane leggenda, aiuta a render grandi le cose nobili e a mantenere
nobili le cose grandi.

Ho detto, sul principio di questo discorso, che, ad eccezione di
uno solo, tutti gli organismi governativi italiani respingevano
volontariamente da sè ogni velleità di pensiero.

L'eccezione, voi l'avete indovinato, deve cercarsi nello Stato Sardo;
che venne pigliando, attraverso molte contraddizioni, il suo preciso
indirizzo, soprattutto dopochè, morto Carlo Felice, senza discendenti
diretti, saliva al trono, il 27 aprile 1831, un uomo, contro il quale
s'è per lunghi anni sbizzarrita un'aspra e ingenerosa polemica, Carlo
Alberto, principe di Carignano.

È un nome che non può uscire dalla penna o dalle labbra, senza
richiamare ogni animo gentile a profonde meditazioni. Fu nella vostra
città, in Firenze, ch'egli venne a cercare conforto de' suoi primi
dolori; fu il vostro gran cittadino, Gino Capponi, che ne ottenne le
prime confidenze di uomo e di principe. Chi lo ha chiamato Amleto, non
ha riassunto che ima parte dell'anima sua; poichè Amleto ha ucciso di
spada per vendicare la patria, Carlo Alberto s'è ucciso di dolore per
liberarla; Amleto è morto nel dubbio, Carlo Alberto è morto nella fede,
— in quella fede che sul campo di Novara gli aveva fatto indovinare
Vittorio Emanuele II.

Più nel vero è il marchese Costa de Beauregard che lo chiama _le plus
grand des méconnus_. È infatti questa l'amarezza che gli avvelena
la vita: essere sempre giudicato a rovescio, — essere accusato di
accarezzare sentimenti in diretta opposizione coi suoi. Ha il desiderio
di allargare a' suoi sudditi le funzioni del governo, e lo chiamano
reazionario; dirige tutta la sua politica allo scopo di render
possibile una guerra d'indipendenza, e lo chiamano austriacante; abdica
e muore per rimanere fedele alla sua missione, e lo chiamano traditore.

Sono le grandi ingiustizie dei contemporanei che la storia è sovente
chiamata a rintuzzare. E dopo cinquant'anni sono ormai già tanto
rintuzzati, che ognuna delle pubblicazioni relative a Carlo Alberto
aggiunge una giustificazione od un elogio per lui, nessuna riesce ad
aggiungergli un biasimo od una colpa.

Il pensiero politico ch'egli porta al trono e con cui dirige lo Stato
è il pensiero dell'indipendenza italiana. Nè, malgrado le difficoltà
dei tempi, lo teneva talmente celato che non si avvertisse dai ministri
suoi, più invecchiati nel sentimento dinastico e nella tradizione
diplomatica del diritto divino. Quando infatti, sollecito di non
tradir l'avvenire, nominava a suo ministro degli affari esteri un uomo
innamorato delle vecchie forme, il conte Solaro Della Margherita,
questi lasciava scritto fin dal 1835: «Non ebbi d'uopo di grande
scaltrezza per iscoprire, che oltre al giusto desiderio d'essere
indipendente da ogni influenza straniera, egli era fin nel profondo
dell'animo avverso all'Austria e pieno d'illusioni sulla possibilità
di liberare l'Italia dalla sua dipendenza. Non pronunziò la parola di
scacciare i barbari, ma ogni suo discorso palesava il suo segreto».

Che a questo concetto dell'indipendenza della patria si associasse
l'altro di ingrandire lo Stato, secondo le secolari tradizioni della
casa di Savoia, non è difficile supporlo e non gli procurerebbe
nessun rimprovero dalla storia. Ma dal cauto suo labbro uscì pure una
frase, la quale dimostra che non egoista e non angusta era in lui la
previsione dell'avvenire; poichè all'inviato suo, conte Ricci, che gli
poneva alcune obbiezioni di carattere dinastico, non esitò a rispondere
fin dal 1845: «Conte, la forma dei governi non è eterna; cammineremo
coi tempi».

Il 1821 e il 1833 furono le due epoche formidabili, che servirono a
tante penne, alcune oneste, per dilaniare la memoria di Carlo Alberto.
Nel 1821, fu detto, _tradì_ i suoi amici, ai quali aveva _promesso_ di
aiutarli nel movimento. Nel 1833 perseguitò i liberali, condannandoli
all'esilio od alla morte.

Ebbene, a settant'anni di distanza possiamo avere l'animo abbastanza
calmo per esaminare queste due accuse.

Nessuno ha mai saputo dimostrare che cosa Carlo Alberto avesse
_promesso_ ai cospiratori del 1821 e in che modo quindi li avesse
traditi.

Bisogna essere bene inesperti di congiure e di rivoluzioni per ignorare
quanto sia facile a cospiratori illudersi sopra una parola o sopra un
gesto, e come sia prepotente, negli uomini che si sono posti, anche
per una causa nobile, fuori della legge, il bisogno di aggrapparsi a
qualunque filo che sembri legarli ad altri e maggiori cooperatori del
loro proposito.

Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni
costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe
di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il
Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i
loro vincoli colle società segrete, chiedendogli appoggio per ottenere
promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza
che l'adesione di un personaggio così vicino al trono avrebbe nel tempo
stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra
tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e
di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.

Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti
liberali manifestati nell'intimità di antecedenti colloqui; un serio
ammonimento circa l'impossibilità che in quel momento l'impresa
riuscisse; la più esplicita dichiarazione che in nessun caso egli
avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario.
Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine;
non s'è mai potuto accertare che altre da queste siano state le sue
dichiarazioni.

Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase,
dimenticando le altre; sia, com'è più probabile, che il moto li abbia
trascinati, al solito, più in là delle loro previsioni, non avevano
essi il diritto di affermare la complicità di Carlo Alberto in una
impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto
accettarla.

E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a
rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare
un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una
colpa d'aver voluto rimaner tale?

Non egli dunque tradì i congiurati; ma la congiura tradì lui e tutti,
portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non
proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la
congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero così bene,
dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si
raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del
1848, i più fedeli suoi consiglieri, i suoi amici più cari. Nè a quel
gran sofferente venne mai meno la generosità dell'oblio. Poichè, quando
gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un segretario, offrì
il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva,
pei fatti del 1821, flagellato di versi così crudeli. E il Berchet,
declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo
d'Adda, oggi senatore del Regno: «Darei dieci anni della mia vita per
non avere scritto quei versi».

E veniamo al 1833. In quell'anno, come è noto, un'altra congiura
politica, a cui non erano pure estranei alcuni ufficiali, era
stata ordita in Piemonte sotto le prime influenze della propaganda
mazziniana, disciplinata nella _Giovane Italia_. Pioveva, come
suol dirsi, sul bagnato; poichè soltanto due anni prima, all'epoca
della proclamazione di Carlo Alberto, una setta repubblicana aveva
reclutato tra le stesse guardie del Corpo alcuni proseliti disposti ad
assassinare il Re. Scoperta la prima cospirazione, il Re fu clemente
e si limitò a chiudere in Fenestrelle il capo della congiura[1].
Scoperta la seconda, l'atteggiamento diventò severissimo e il Re deferì
i colpevoli al giudizio dei consigli di guerra. Questi procedettero,
secondo l'indole loro, inesorabili e le condanne a morte furono più
d'una. Nessuno affermò che con quelle condanne si fossero violate
le disposizioni della legge stataria vigente, ma tutti deplorarono
che Carlo Alberto non avesse usato più largamente del suo diritto di
grazia.

E lo deploro anch'io. Però non si può non pensare che questo diritto
di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi
se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse
mai lasciata nessuna libertà di considerare i tempi, le circostanze,
le difficoltà dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre
magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la
giustizia non è offesa dagli atti loro.

Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta
era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non
si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821,
intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severità legale fosse in
quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e
di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire?
o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settarî,
specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero
nella sua compagine la monarchia, di cui divisava fare più tardi una
macchina per l'indipendenza italiana?

Certo è che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero
eccedere ogni misura di colpa, e ne restò sulla condotta di Carlo
Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le
sventure del biennio 1848-49 perchè quelle impressioni rimanessero
interamente dimenticate.

Del resto, non erano tempi facili, nè pei popoli, nè pei principi;
difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede più tardi
al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo
si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni
dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: «Je suis entre le poignard
des Carbonari et le chocolat des Jésuites». Non è dunque storicamente
giusto il biasimo inflitto dagli scrittori intransigenti alla
contraddizione quasi tragica nella quale oscillò Carlo Alberto, prima
della sua ultima e grande evoluzione politica. Quella contraddizione
poteva essere in parte attribuita all'indole del tempo. Fra il
Metternich, che minacciava di detronizzare Carlo Alberto a beneficio
del duca di Modena, e il Mazzini che s'agitava per detronizzarlo a
beneficio della Repubblica, la via sempre diritta non si vedeva chiara.

I sovrani hanno, anche più degli altri uomini, il diritto d'essere
giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi
passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano
che assai tardi le varie responsabilità.

Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza,
avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido
d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere
una battaglia disperata in nome della libertà. Ebbene? quale ne sarebbe
stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a
morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte
le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato.
Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono
sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse
l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua
esistenza.

Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affrontò, con mesto animo, ma
con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse
Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdonerà
qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli
ultimi; nei quali la sua lealtà non può essere pareggiata che dal suo
ardimento, e la semplicità del sacrificio è in perfetta armonia colla
nobiltà della causa per cui lo fece.

In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e
il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della
penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia
dopo il 1846.

E poichè in una legge storica consolante già ci siamo imbattuti durante
questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che
pure al nostro pensiero si afferma.

È assioma di pubblicisti volgari e di menti isterilite da scetticismo,
essere la politica fondata sulla furberia piuttosto che sulla lealtà,
e doversi respingere dall'arte di governare i popoli ogni miscela di
sentimento o di cuore. Tutto ciò risponde ai dettami di quell'egoismo,
sul quale una falsa scienza sedicente positiva vorrebbe impernare le
novità del mondo.

Ebbene, la politica dei vari principi italiani dal 1815 al 1848,
fu essenzialmente egoista; una sola, quella di Carlo Alberto, ebbe
virtù di espansione, carattere di altruismo. Questa rimase, trionfò e
trionfa ne' suoi successori; dell'altra non restano più che ricordi,
rattristati dalle catastrofi e illanguiditi dal tempo. In quegli anni
di dolori e di speranze, un solo principe buttò agli eventi la sua
corona per capitanare due guerre d'indipendenza; uno solo giurò la
Costituzione, senza ritoglierla. Che meraviglia se a quel solo l'Italia
s'avvinse, indovinando dalla fede del primo la lealtà non mai smentita
dei successori?

Non è dunque vero che la modernità debba uccidere gl'ideali per far
vivere gl'interessi. La contraddizione fra gli uni e gli altri è
l'ipotesi d'una dialettica artificiosa, non la formola uscita dalla
logica degli eventi.

La morale pubblica non può essere, non è diversa dalla morale privata.
Attingono entrambe la loro autorità dal sentimento del dovere, che non
è mai in contrasto coi dettami della virtù.

Vi riuscirebbe difficile dedurre da qualche deplorabile eccezione che
nella vita privata la disonestà produca dei felici. Potete affermare,
senza tema di smentite, che, nella vita pubblica, la prosperità degli
Stati è in ragione diretta dell'onestà dei Governi.



LA VECCHIA ITALIA

CONFERENZA DI GUGLIELMO FERRERO


Mezzo secolo addietro la vecchia Europa sentì a un tratto tremarsi
sotto la terra. In un impeto di audacia, che anche oggi, dopo tanti
anni, sembra a noi miracoloso, gli uomini insorsero quasi dovunque
contro l'ordine che si diceva costituito per volere di Dio; e, in pochi
mesi, i governi più antichi rispettati e temuti parvero distrutti per
sempre o vicinissimi all'estrema rovina.

Questa rivoluzione del grande anno, unica in apparenza, fu in realtà
molteplice; perchè ogni popolo meritò un premio suo, con le proprie
audacie rivoluzionarie. In Italia i rivolgimenti del 1848 parvero
mirare specialmente alla liberazione nostra dalla signoria straniera;
ma chi fruga un poco addentro nella storia della società italiana,
dal 1830 al 1848, vien fatto di accorgersi presto che, sotto la guerra
tra austriaci e italiani, si nascose allora, come dopo, il conflitto
tra una società che esisteva e l'idea, il disegno, il proposito di una
società nuova. Non è possibile comprendere la storia italiana di questo
ultimo mezzo secolo, se non si comprende il carattere sociale della
rivoluzione del 1848; ma la natura di questo terribile rivolgimento si
può a sua volta capire solo studiando la società della vecchia Italia
dal 1830 al 1848; nella quale maturò la discordia, che doveva scoppiar
poi nella aperta guerra durata dal 1848 al 1870.

La vecchia Italia era uno degli ultimi avanzi, e dei meglio conservati,
della vecchia Europa aristocratica e teocratica, nemica di quel
complesso di cose materiali e morali, che noi chiamiamo la civiltà
moderna. I diversi governi ricostituiti in Italia dopo la caduta di
Napoleone si affaticarono intorno a una impresa di conservazione, empia
e stolta secondo le idee nostre, ma alla quale non mancò una certa
avvedutezza e coerenza, derivatale dall'aver quei governi capito quale
sia il primo principio dell'arte di conservare gli Stati; che cioè le
istituzioni non durano a lungo, se le idee degli uomini non restano
eguali; e che gli uomini mutano tanto più facilmente di idee, quanto
più sono mutevoli le condizioni della loro esistenza. L'instabilità
delle idee e delle istituzioni, e l'instabilità dei destini individuali
e delle fortune si accompagnano sempre, come gli effetti alle cause;
sono ambedue i segni esteriori della interna elaborazione vitale
delle società che si rinnovano; onde la vera politica conservatrice
deve cercare di distruggere questa plasticità vitale della società,
quasi direi pietrificandola in tutti i suoi organi. L'opera a cui
attesero principalmente i governi italiani dal 1830 al 1848 fu quasi
di pietrificare tutti gli organi della società italiana, per modo
che questa non fosse più un animale vivente, capace di malattie e di
guarigioni, di crescite e di invecchiamenti; fu di mummificarla per
sempre in una forma morta, tenendola lungamente immobile entro un bagno
di ignoranza, di bigottismo, di pregiudizi e anche di virtù modeste e
di ragionevoli saviezze.

Le virtù modeste, le ragionevoli saviezze che dovevano essere tra
i primi elementi di conservazione della vecchia Italia, furono la
semplicità e parsimonia del vivere, universale in Italia sino al
1848; in una società nella quale i bisogni erano meno numerosi e le
spese di apparenza minori che nella nuova. Le città, salvo qualche
monumento di lusso pubblico, qualche teatro, qualche chiesa, qualche
palazzo gentilizio, erano costruite dimessamente; strette le vie; pochi
e miseri i giardini; trascurata la pulizia e ogni altra cosa nelle
strade; scarsa la luce di notte. Gli uomini erano contenti di vivere
in case più piccole, più buie, nelle quali parevano lussi molte cose
che ormai sono diventate bisogni volgari. Tutto era solido e durevole:
le mura delle case, granitiche e secolari; la mobilia robustissima,
costosa ma capace di servire a molte generazioni; i vestiti, tagliati
in stoffe solidissime, che passavano di padre in figlio e facevano
parte dell'asse ereditario. La spesa per il mantello ricorreva una
o due volte nel corso di una esistenza; nè era ancor noto il moderno
divenire continuo della moda. Il commercio non conosceva ancora quelle
teatralità goffe, quelle grandiosità posticcie, quella prodigalità
burlesca di ori e marmi falsi, quel barocco da poco prezzo che hanno
ridotte le vie delle nostre città grandi a orribili imposture della
bellezza, grandezza e ricchezza. I caffè e le botteghe erano in stanze
piccole e basse, come se ne vedono ancora a Venezia e a Mosca, i
caffè soprattutto non arieggiavano a falsi fôri romani, ad Alambre di
cartapesta.

Anche i bisogni erano molto meno numerosi. Pochissimi i giornali; pochi
i libri e letti solo da un piccol numero; rari i viaggi. Nè ferrovie
nè tranvai. I signori avevano le ville per l'estate nei pressi della
città stessa dove abitavano. Le alpi non erano state ancora inventate;
pochi i luoghi di bagnature celebri, poche le acque e famose per una
reputazione di secoli. Non esistevano ancora le macchine da cucire,
le biciclette, il gaz illuminante, il petrolio; non si conoscevano
ancora gli innumerevoli prodotti chimici, quei surrogati e quelle
falsificazioni, che hanno poi tanto complicata e popolata di insidie la
nostra esistenza. Un uomo si faceva fare il ritratto, forse una sola
volta durante tutta la sua vita. Il vivere insomma era più semplice
e rozzo, ma anche più schietto; i divertimenti erano pochi di numero,
lo _sport_ ancora in fasce; le abitudini dei figli ripetevano quelle
dei padri, che a lor volta avevano ereditate quelle dei nonni. Una
generazione passava, prima che un nuovo bisogno si fissasse nelle
abitudini di tutti; lo spirito della tradizione reggeva la famiglia e
la vita privata, come il governo dello Stato.

Non crediate che, riferendosi a cose così umili, queste considerazioni
siano futili. Esse hanno invece una importanza capitale: perchè la
differenza essenziale tra la vecchia Europa e la nuova, tra la vecchia
e la nuova Italia, il mutamento essenziale da cui derivarono gli
altri fu proprio questo: che nella vecchia Europa ed in Italia vigeva
un tenor di vita semplice, con bisogni sempre eguali o lentamente
crescenti; nella nuova, un tenor di vita con bisogni crescenti
indefinitamente e rapidamente. Un governo unitario ha potuto alla fine
costituirsi in Italia, perchè trovò un sostegno in questa nuova maniera
di vivere, divenuta comune nel popolo dopo il 1860; mentre gli antichi
governi avevano capito che non avrebbero potuto reggersi a lungo, se le
antiche forme del vivere, semplici e parsimoniose, sparivano; e avevano
in vari modi cercato di salvare i loro popoli dalla seduzione della
nuova civiltà, che prosperava in Inghilterra e in Francia.

Molti furono i mezzi; primo tra tutti, la oppressione della classe
che sola poteva farsi veicolo della nuova civiltà forestiera, la
borghesia istruita; oppressione esercitata per mezzo di una curiosa
alleanza della aristocrazia e del popolino. I re si fecero i tutori
della canaglia; l'aristocrazia, che rappresentava la ricchezza
fondata sulla proprietà della terra, la devozione alla Chiesa e alla
monarchia assoluta, l'orgoglio gentilizio che vuol sovrastare alle
capacità personali, prese a proteggere l'infimo popolino, a mantenerlo
grasso e ignorante. Madre per la plebe, la monarchia aristocratica
era invece matrigna per il ceto medio; che essa cercava di umiliare
in ogni modo, impedendogli di crescere, di imparare, di arricchire;
consentendogli appena di vivacchiare oscuramente, con l'elemosina di
magri impiegucci o con l'esercizio di professioni, ma a condizione di
andare a messa e di esser fedele al re: permettendogli al più di darsi
a studi punto malsani e pericolosi, come decifrare iscrizioni latine o
annotare vecchi testi di lingua. A elaborare questo disegno bizzarro
di una società aristocratica e plebea, fanaticamente conservatrice
in ogni cosa, più che ad altro, hanno faticato, nei diciotto anni
che precedettero il 1848, gli Stati italiani, dall'Austria a quel
Ferdinando II, tipo curioso di re ingegnoso e ignorante, abile e
ingenuo, che ha impersonato forse meglio di ogni altro sovrano questa
idea dello stato monarchico lazzaronesco.

Quei 18 anni furono infatti il momento della suprema fatica, per i
governi della vecchia Italia. Correvano i tempi in cui cominciavano
a fiorire in Inghilterra e in Francia i nuovi commerci e la nuova
industria meccanica, che hanno contribuito tanto a convertire l'antico
tenor di vita modesto e tradizionale, nel nuovo, sibaritico e con
bisogni sempre più numerosi; che hanno mutato l'antico assetto
delle fortune, rese labili tutte le ricchezze, ridotta l'essenza
della società moderna a un divenire continuo. Per queste ragioni
gli antichi governi, soprattutto l'impero d'Austria e il regno
delle Due Sicilie, si adoperarono a strozzare in culla le nuove
industrie e i nuovi commerci. Non era lecito aprire un opificio senza
permesso speciale del governo; ma le formalità erano tante, tante le
condizioni, le restrizioni, i rinvii, le diffidenze e le cautele delle
amministrazioni, che introdurre una industria nuova era quasi così
difficile come costituire una società segreta. Inoltre, come sempre
succede, la legislazione improntava di sè il sentimento pubblico, il
quale era portato a riguardare con diffidenza ogni impresa industriale.
Così in Lombardia si notano, sino al 1848, solamente progressi
agricoli, nella coltivazione del gelso, ad esempio; ma nessun progresso
industriale[2]. Ancor più ostinata fu la resistenza del governo
borbonico, che durò sino all'ultimo; onde le concessioni industriali
di quegli anni si possono contare tanto sono poche; e qualche volta
sono motivate con ragioni bizzarre, che mostrano l'intima natura di
quel governo; come quel permesso dato al marchese Patrizi, nel 1858,
di costruire due molini sul Sebeto, ma a condizione di far dire un
certo numero di messe in suffragio delle anime dei terrazzani. E la
concessione era data, dice espressamente il decreto, «avuto riguardo ai
vantaggi spirituali degli abitanti di quella pianura»[3].

Dallo stesso ordine di idee nasceva la politica doganale della vecchia
Italia, anche essa uno dei tanti processi di pietrificazione applicati
alla società italiana. A differenza dell'Italia contemporanea, gli
Stati italiani di prima del 1848 fecero libera la importazione del
grano; o la tassarono di diritti minimi, imposti per fini fiscali,
non per favorire come si fece dopo un «ordine privilegiato dalla fame
pubblica.» Così la Toscana, che nel 1842 aveva stabilito un leggero
dazio sul grano, sopravvenuta la carestia nel 1846 lo abolì senza tanto
cavillare e tergiversare, come fece, cinquant'anni dopo, un altro
governo; perchè il popolino doveva vivere ben pasciuto; le derrate
dovevano vendersi a prezzi vilissimi; i pericoli delle carestie esser
ridotti a meno che si potesse da saggie misure di previdenza pubblica.
Il Duca di Modena accumulava nei granai pubblici, durante gli anni
di abbondanza, per sovvenire al popolo negli anni magri, e salvarlo
dagli usurai e dalla fame. Pane in piazza, era il primo principio di
quell'arte antica di Stato.

Ma al liberismo agrario corrispondeva un fiero protezionismo
industriale, soprattutto negli Stati austriaci, nel regno delle Due
Sicilie e nello Stato pontificio. Nel 1846 un cardinale dichiarava in
Roma allo Zobi che la libertà di commercio e il giansenismo erano due
forme di errore sorelle; tanto è vero che il solo Stato che inclinasse
un poco alla libertà di commercio, la Toscana, era quello che aveva
dato motivo di maggior scandalo, con le inclinazioni di alcuni suoi
prelati agii errori del giansenismo[4]. La libertà di commercio era
considerata come una teoria funesta allo Stato; ciò che ci spiega
facilmente come mai l'Italia rivoluzionaria sia stata tenuta al fonte
battesimale del libero scambio; fede dalla quale essa doveva fare così
presto apostasia.

Sennonchè il protezionismo industriale della vecchia Italia era ben
diverso dal protezionismo industriale dell'Italia contemporanea.
Questo è la conclusione di una politica nello stesso tempo oligarchica
e rivoluzionaria, plutocratica e sovvertitrice; che aggrava la
disuguaglianza delle fortune; che affretta la formazione di una
oligarchia di milionari e di un proletariato industriale ammucchiato
e turbolento al nord dell'Italia; che porta con sè l'aumento dei
bisogni, la crescente costosità della vita, la universale avidità
del denaro, l'idolatria delle apparenze, la dissoluzione morale delle
classi medie, la miseria delle plebi rurali, la fermentazione di tutti
gli spiriti di progresso e di rivoluzione, di tutte le audacie buone
e cattive, l'instabilità sociale, la contradizione tra i desiderii
e la realtà, lo sforzo violento della invidia che tenta colmare
l'abisso tra gli uni e l'altra.... Il protezionismo della vecchia
Italia era invece un procedimento di mummificazione della società;
mirava a salvare l'antico artigianato dalla concorrenza delle grandi
manifatture inglesi e francesi, l'antica semplicità del vivere dalle
seduzioni alla nuova varietà e molteplicità dei consumi. L'industria
era allora in Italia esercitata da un ceto di artigiani, lavoranti
in casa o in piccoli laboratori; e il commercio dei manufatti era
quasi un privilegio ereditario di poche famiglie di mercanti. Un
ceto operaio ignorantissimo, che si serviva di un macchinario rozzo,
che applicava ostinatamente una tecnica tradizionale; nemico, per
stupidità e misoneismo, di qualunque ragionevole novità industriale;
quasi dovunque violento e facile al sangue, tale era la popolazione
urbana nella vecchia Italia. Questi artigiani fabbricavano cose di
qualità buona ma costosissime, perchè la rozzezza della tecnica era
causa di un grande spreco di lavoro; in compenso però essi stessi
erano un popolo di grandi fanciulli, violenti, imprevidenti, ignoranti,
fanaticamente conservatori, pronti al coltello, che potevano facilmente
esser governati da un regime di beneficenza e di terrore alternati.
Difatti, proprio in mezzo a questo popolino, che odiava ogni cosa
nuova, la vecchia Italia trovò quei settari che, specialmente negli
Stati della Chiesa, pugnalavano i campioni delle idee liberali. I
vecchi governi italiani erano dunque portati dalla forza stessa delle
cose a proteggere questo ceto di pretoriani del vecchio regime; onde,
quando la industria forestiera cominciò, tra il 1831 e il 1848, a voler
portare in Italia, contro la solidità tradizionale e costosa dei lavori
dell'artigianato, la brillante caducità a buon mercato delle cose sue,
studiando di comunicare al pubblico quella volubilità di gusti divenuta
ora universale, i governi corsero subito al riparo, inasprendo il
protezionismo.

Di questa politica che rendeva difficili le rivoluzioni industriali
e commerciali, era ad un tempo conseguenza e parte integrante tutta
l'opera sociale e morale di quei governi, intesa a mortificare
una delle passioni, cresciuta poi a dismisura nella nuova Italia,
come nella nuova Europa: la cupidigia dei subiti guadagni. Il
_self-made-man_ non era punto l'eroe di quella società, nella quale lo
Smiles, il Plutarco dell'êra borghese, sarebbe stato giudicato autore
di libri malsani, atti a corrompere l'immaginazione e il cuore dei
giovani. La società della vecchia Italia era come una chiesa antica
e venerabilissima, nella quale tutto è stato santificato dalla pietà
dei fedeli; le lampade vecchie di secoli, le pietre del pavimento
sconnesse e logorate da milioni di piedi, dove nulla si può toccare
senza commettere sacrilegio; onde la virtù vera consisteva a quei tempi
in rassegnarsi al grado di fortuna toccato in sorte nascendo, in saper
rimpiccolire in ogni modo il proprio essere. Lo spirito di avventura,
la ambizione di ingrandire sè e la propria fortuna, l'energia personale
che vince gli impedimenti della nascita oscura; tutte queste che poi
furono considerate come le prime virtù dell'uomo sembravano allora
tentazioni del diavolo, perchè contenevano un principio di rivolta
contro l'ordine delle cose vigente.

Così si capisce perchè la vecchia Italia si sia mostrata tanto
diffidente contro le nuove banche che si fondavano in Inghilterra e
in Francia; e si sia contentata di conservare gli storici banchi del
medio evo, istituzioni mirabili e prettamente italiane, ma che potevano
soltanto bastare alla conservazione di traffici tradizionali, non
al crescere di un nuovo commercio. È curioso a questo proposito che
il trapasso alle istituzioni bancarie moderne sia segnato in Italia
dal cambiamento di sesso della parola che le indica, che da _banco_,
come era nel vecchio italiano, diventa _banca_, alla francese. Basti
dire che non ci fu mai modo di persuadere Ferdinando II a fondare
una sola succursale del Banco di Napoli fuori di Napoli, salvo due
casse istituite nel 1843 a Messina e a Palermo, neanche quando il
Banco aveva nel suo tesoro più di 120 milioni[5]. Così successe che
tra il 1830 e il 1848 l'Italia godè di una inutile abbondanza di
capitale, che giaceva ozioso, nascosto in fondo alle calzette, sotto
i materassi e sepolto nei forzieri. La popolazione era più scarsa;
la terra rendeva discretamente; i governi sprecavano poco; il vivere
era meno caro perchè più povero di bisogni: l'Italia poteva così
risparmiare: ma gli impieghi industriali e finanziari essendo pochi, il
capitale ristagnava. Erano intatti gli anni in cui a Torino si dovevano
puntellare le vòlte della tesoreria, perchè i sacchi di marenghi non
le sfondassero; i tempi in cui in Lombardia i proprietari di terre
mutuavano facilmente al 4% senza ipoteca, onde prima del 1848 si
poterono dissodare molte terre e diffonder per la Lombardia la coltura
del gelso e l'allevamento dei bozzoli[6]; erano i tempi in cui, intorno
al 1840, Leopoldo II si risolveva a intraprendere la bonifica della
maremma, specialmente in considerazione di una grossa somma di denaro
che dormiva nelle casse del tesoro, e che parve giusto di impiegare in
qualche modo[7].

Insomma nessuno aveva ancora gridato all'Italia la frase del Guizot,
la parola della nuova alla vecchia Europa: _Enrichissez-vous_. Gli
incantesimi spesso pericolosi con cui la borghesia degli affari è
riescita a svegliare dal lungo sonno e a far prorompere di sottoterra
le fontane della ricchezza, erano ancora ignoti o detestati. I grossi
mercanti di prima del 1848, la prosperità delle cui case era spesso
opera di molte generazioni, consideravano le cambiali un poco come i
ponti che il diavolo delle leggende costruisce sopra gli abissi; che
da lontano paiono solidi, ma quando il peccatore orgoglioso ci monta
sopra, il ponte sparisce in niente e il peccatore precipita. Firmare
una cambiale era per essi quasi un disonore. Eguale prudenza, e,
diciamolo pure, prudenza onesta ben maggiore di quella che la nuova
Italia ha mostrato, usavano i governi di allora nel trattar la moneta
pubblica; in modo che essa non fu mai falsificata e adulterata da
nessuno di quei disonesti artificii, che divennero dopo così comuni.
La vecchia Italia usò sempre moneta d'argento e d'oro; e nel regno
delle Due Sicilie le fedi di credito del Banco di Napoli, come allora
si chiamavano i biglietti, valevano più dell'oro, come succede ora ai
biglietti della banca imperiale germanica, ma come non è mai successo
ai biglietti di banca della nuova Italia[8].

Questo differente stato morale della vecchia Italia si manifesta
mirabilmente nella corruzione amministrativa di allora, così diversa
da quella presente. Gli alti funzionari di allora erano quasi tutti
nobili e ricchi, che amministravano per onore e che per un senso di
probità e fierezza gentilizio non rubavano, ma lasciavano invece per
buon cuore rubacchiare i piccini, che non potevano fare gran danno e
che così si ingegnavano a viver meglio; mentre nella amministrazione
borghese successa dopo, più colta ma formata da una classe in cui erano
stimolate tutte le ambizioni e tutte le cupidigie, i piccoli doverono
rispettare i centesimini, ma i grandi rubarono i milioni.... In questo
consiste tutta la filosofia della storia del Banco di Napoli. Sotto il
governo borbonico i piccoli impiegatucci del Banco si ingegnavano per
spillar qualche quattrino dai clienti rendendo quei piccoli servigi
che un impiegato può rendere ai clienti di una grande amministrazione;
spesso anche trascuravano il loro ufficio per altri lavori. Ma
l'amministrazione del patrimonio, affidata a grandi personaggi, era
così rigorosa, le regole per gli sconti così severe, e così osservate,
che dal 1818 al 1861 sopra una media annua di 69 milioni di sconti e
prestiti su pegno, le perdite furono in media di 65,000 lire l'anno[9].
Dopo il 1860 gli uscieri e gli scribi poterono ingegnarsi meno; ma si
ingegnarono troppo intorno al Banco altri amministratori, ben più avidi
e malefici.

È facile capire come questa corruzione spicciola contribuisse a
conservare lo Stato, perchè giovava agli umili e non metteva a
repentaglio la prosperità pubblica. Cotesta era una corruzione
conservatrice; mentre quella che successe poi fu una corruzione
rivoluzionaria, che generando la miseria di molti, mettendo in mezzo
alla società lo scandalo di poche grandi fortune fatte col furto,
dissestò la fortuna pubblica e turbò il senso morale del popolo e fu
uno stimolo a desiderare forme più perfette di Stato.

Se dunque anche la corruzione amministrativa contribuiva alla politica
della stabilità eterna, che fu propria della vecchia Italia, la
politica intellettuale le portò il compimento. Che la vecchia Italia
fosse poco amica della istruzione popolare è notissimo, e lunghe
dimostrazioni sarebbero inutili, se anche nella Toscana, che pure
tra il 1830 e il 1848 fu il più civile degli Stati italiani, si
trovavano dei borghi di 10,000 abitanti senza scuole[10]. Sennonchè
questa politica intellettuale, fatta di semplice astensione, era
possibile rispetto al popolino, che poteva restare illetterato e
ignorantissimo; ma non rispetto alla classe media e all'aristocrazia,
che qualche cosa dovevano pure studiare, per la necessità stessa
della loro funzione sociale. Che cosa poteva dunque esser dato a
studiare a costoro, tra il 1830 e il 1848, senza che gli studi fossero
veicolo di idee empie, stimolo di ambizioni malsane? I vecchi governi
avevano stabilito censure più o meno rigorose; ma tutti sanno che il
contrabbando delle idee è il più facile di tutti. Perciò quei governi
apprestarono un'altra difesa, più potente: l'istruzione classica, con
carattere specialmente letterario. Nelle scuole frequentate dalla
classe media e dalla aristocrazia (collegi, il maggior numero, e
sempre con ecclesiastici per insegnanti) si insegnavano soprattutto
il latino e l'italiano: si insegnavano bene, ma non si insegnava
altra cosa. I nostri nonni imparavano davvero a leggere il latino e a
scrivere l'italiano, l'italiano pretto dei classici, la pura lingua
letteraria, la cui tradizione era conservata con molto zelo nelle
scuole dei vecchi governi, anche di quelli stranieri, come l'austriaco.
Fedeli in tutto alla tradizione, i vecchi governi erano in filologia
puristi: cosicchè sino al 1848 tutte le scritture degli uomini colti
furono scritte in pretto italiano, dalla requisitoria del poliziotto
austriaco che voleva mandare sul patibolo il Confalonieri, ai libri
dei medici, degli scienziati, degli eruditi. La rivoluzione nazionale
imbarbarì poi la lingua in quel gergo bastardo in cui oggi si scrive
ogni cosa: le leggi, i giornali, il maggior numero dei libri, e dal
quale bisognerà trar fuori una nuova lingua letteraria, nostra e bella,
viva e limpida, che non sia nè la lingua arcaica ora in uso in una
certa letteratura, nè il miscuglio fangoso in cui si appesantisce il
pensiero del maggior numero degli altri scrittori. Era quella dunque
una coltura tutta letteraria, che insegnava a curare una forma la quale
doveva restare vuota di ogni contenuto di idee vive e di cui il maggior
numero degli uomini colti del tempo si accontentava; perchè gli uomini
si appassionavano per le questioni sostanziali nei tempi di rapidi e
molteplici mutamenti sociali, per le questioni formali nei tempi di
universale osservanza delle tradizioni. D'altra parte l'educazione
puramente letteraria, il culto della forma, il classicismo, cioè
l'ammirazione delle opere antiche professata secondo certi canoni
fissi, convengono interamente a una società che vive di tradizioni,
perchè sono una scuola eccellente dello spirito di conservazione. Gli
uomini hanno immaginato mille prigioni per serrarci dentro la infinita
energia espansiva e sovvertitrice del pensiero umano; le carceri, la
povertà, l'infamia, la morte; sempre invano però! perchè una sola è
la prigione capace di contenere il pensiero: il carcere di formole
irrigidite, la gabbia di parole che hanno perduto il loro significato,
il sepolcro di antiche scritture ormai vuote di senso. Dal momento in
cui le classi colte di un paese si danno a curare la propria lingua
come una lingua morta e a lavarne continuamente il cadavere; quando
esse prendono a considerare certi capolavori della loro arte antica
come i tipi perfetti soli ed eterni della bellezza, che si devono
ricopiare indefinitamente, senza tentar cose nuove che sono di per
sè inferiori alle antiche, il loro spirito si chiude alle novità
sostanziali, ripugna ai rivolgimenti ideali che precedono o almeno
accompagnano i rivolgimenti sociali. Il Settembrini si meravigliava che
il governo borbonico lasciasse il Puoti, il celebre purista di Napoli,
insegnare a 300 giovani l'amore dei trecentisti, dimostrando ancora
una volta la nobile ingenuità del suo animo e la abilità del governo
borbonico; il quale sapeva che quei limatori di aggettivi, quei futuri
puristi che sarebbero caduti in convulsioni a udire un francesismo,
sarebbero stati quasi tutti buonissimi conservatori, salvo pochi così
perversi che sarebbero usciti liberali anche dalla educazione del più
fanatico prete. In un certo senso, i più formidabili baluardi della
vecchia Italia contro l'avvenire erano allora l'Accademia della Crusca
e la Rettorica di Aristotele; perchè gli studi letterari servirono
fino al 1848 a cristallizzare le idee degli Italiani, come lo studio
del Corano serve a cristallizzare quelle dei Turchi. Negli studi della
letteratura classica si preparava il personale delle amministrazioni
italiane di quei tempi, come adesso con lo studio del Corano si
prepara la burocrazia turca; e così quel personale riesciva facilmente
pieno di un fanatico spirito conservatore, che metteva in armonia
l'amministrazione con il governo.

Infine la vecchia Italia trovava le ultime seduzioni alla neghittosità
sociale, nella universale pigrizia e gaiezza. La vecchia Italia era
poco laboriosa e allegra; sapeva asciugar presto le lagrime e non
conosceva quegli esaurimenti ereditari che hanno tanto incupito, dopo,
il carattere italiano. I proprietari abbandonavano le terre ai fattori
e ai coloni, non passavano in campagna che qualche mese di autunno, ma
non per sorvegliare i contadini in un lavoro di cui essi del resto non
sapevano nulla, ma per convitare gli amici e divertirsi; poi tornavano,
alle prime nebbie invernali, in città, a oziare tra il caffè, la
piazza, il salotto e il teatro. Un principio di rivolta contro questa
neghittosità si nota qua e là tra il 1830 e il 1848; ma sono voci
solitarie che ammoniscono un popolo di sordi. Nel 1845 si istituisce
a Ravenna una società di agricoltura, di cui fu presidente il conte
Pasolini; tra il 1840 e il 1848 si discusse molto in Toscana nella
Accademia dei Georgofili, e il Salvagnoli rimproverò aspramente ai
«possidenti di ogni classe» la loro «vita oziosa e improduttiva»[11];
anzi il marchese Cosimo Ridolfi volle dare un esempio, ritirandosi
sulle sue terre a istruire i contadini[12]. Proposito ed esempi
singoli, che non trovavano imitatori, mentre la classe media —
professionisti e impiegati — imitava l'ozio dei grandi, lavorando
dolcemente, attendendo soprattutto al teatro, al giuoco del pallone o
del biliardo. Il popolino degli artigiani applicava per conto suo un
regime igienico di lavoro, senza intervento di ispettori governativi e
di leggi sociali, ribellandosi a ogni disciplina rigorosa di lavoro,
prolungando al lunedì le baldorie della domenica, osservando tutte
le feste sacre e profane.... Innumerevoli erano del resto le feste
di rito, quelle in cui i lavoranti riposavano, i mercanti chiudevano
bottega, gli impiegati e gli scolari restavano a casa: tutti i momenti
interveniva dal cielo qualche santo o santa a concedere per un giorno
amnistia da quella pena del lavoro, a cui Dio condannò l'uomo nel
paradiso terrestre. Forse solo la Turchia può oggi esser paragonata
alla vecchia Italia, come società in cui le feste si seguano fitte,
e in cui la vacanza sia una delle istituzioni cardinali dello Stato.
L'ozio infine era tanto considerato come la condizione regolare della
vita, che la vecchia Italia tollerava con indifferenza torme immense
di mendicanti. L'elemosina era, nella vecchia Italia, una istituzione
sociale organizzata da usi e leggi nelle case dei ricchi, nei conventi
e nel governo, in grazia della quale prosperava un numerosissimo ceto
di mendicanti. Nelle grandi città, nelle medie, nelle piccole, nelle
grosse borgate di campagna vivevano torme di proletari oziosi, senza
terra, senza arte, senza volontà di lavorare; vagabondi un poco per
necessità, un poco per elezione; che si facevano nutrire e vestire dai
ricchi, dai conventi e dal governo; che si aiutavano con furtarelli e
professioni immonde, quali il lenocinio e la prostituzione[13]: torme
superstiziose e violente che i governi accarezzavano e fustigavano, che
a più riprese aizzarono sui novatori: vero semenzaio di criminali, che
provvedeva il miglior personale alle bande di briganti, numerosissime e
audacissime nelle campagne di quasi tutta Italia; e alle associazioni
di malfattori, a volte, come la camorra, potentissime nelle città.
Questa miseria oziosa, palude di abiezione che la nuova Italia, riescì
in parte a prosciugare, non pareva ai vecchi governi dovesse esser
curata, cercando di indurre quei vagabondi al lavoro; essi si credevano
invece tenuti a sovvenir loro con le elemosine, a incoraggiarne cioè le
inclinazioni all'ozio.

Tempi bizzarri! Perfino le ferrovie, che proprio in quei tempi
cominciarono a comparire in Italia, non furono, prima del 1848 e
specialmente nel regno delle Due Sicilie, che un pretesto di elemosine
al popolino. Pochi fatti possono far meglio capire la natura di quei
vecchi governi e mostrare come da un paese all'altro si possa falsare
il carattere di una istituzione, che l'amministrazione delle ferrovie
borboniche prima del 1848, e il modo con cui esse furon ridotte a
esser quasi una succursale dei conventi e un pretesto per distribuire
zuppe al popolo. La prima linea di ferrovie, la Napoli-Torre Annunziata
risale al 1840: da questo anno al 1848 si costruirono in Italia solo
223 chilometri di ferrovie, di cui 113 nel regno delle Due Sicilie,
45 in Lombardia e 65 in Toscana. La vecchia Italia diffidava delle
ferrovie; Ferdinando II le considerava come funeste al popolino, cui
avrebbero rincarato il vivere, promuovendo l'esportazione dei generi
agrari; il governo pontificio resistè lungamente a ogni proposta di
costruzione. I pochi chilometri costruiti nel regno delle Due Sicilie,
erano come un giuocattolo per divertire il popolino: consistevano
di poche linee nei dintorni di Napoli, di cui una, quella da Napoli
a Caserta, congiungeva le due reggie e serviva soprattutto alla
corte; le altre erano usate dal popolino specialmente per scampagnate
domenicali. In conseguenza, l'amministrazione si era data cura di
togliere dal divertimento le occasioni di scandalo: tutte le stazioni
erano provviste di una cappella; per espressa volontà di Ferdinando
II non si ammettevano tunnels, i _pertusi_, come egli diceva, perchè
immorali; nelle terze classi i viaggiatori in _giacca e coppola_,
quelli cioè che avevano il cappello e la giacca, godevano di un
ribasso negato agli scamiciati, allo scopo di far viaggiare il popolino
vestito decentemente. La stazione era una specie di fôro, dove il re,
al partire o arrivando, dava udienza al popolo. Gli impiegati delle
ferrovie erano tenuti in conto di sudditi fedelissimi; formavano una
aristocrazia tra la plebe napoletana, distinta con un segno di favore
speciale dalla Corte e dal Governo. Non i bisogni del servizio o la
capacità, ma la protezione di persone potenti faceva ammettere tra quel
personale; mancavano i ruoli dei funzionari; accanto agli ordinari
si ammettevano indefinitamente i _soprannumeri_, accanto a questi
gli _aspiranti al soprannumerato_. Il re li considerava come i suoi
protetti e beniamini, ai cui capricci più fanciulleschi qualche volta,
nei momenti di buonumore, amava piegarsi. Una volta i capisquadra
della officina dei veicoli gli chiesero che concedesse a ogni squadra
di costruire a piacere un vagone, perchè si impegnasse una gara di
immaginazione e di abilità tra le varie squadre; avendo il re accolta
la domanda e dato il denaro, questi operai si baloccarono per diversi
anni a fabbricare vagoni di forme strane, di cui uno era ancor in
uso dopo il 1860, tutto noce e ferri cesellati, con i propulsori che
uscivano da gole di leoni. Così uno dei trovati più rivoluzionari del
secolo diveniva per quei governi un balocco buono per trastullare il
popolo[14].

                                   *
                                  * *

Ecco adunque chiaro che la opera vera della rivoluzione italiana
fu di convertire una società dove tutto era tradizionale, in una
società dove tutto fu instabile e mutevolissimo. È stato perciò un
grande errore credere che la rivoluzione cominciata nel 1848 e finita
nel 1870 sia stata solamente una rivoluzione nazionale; mentre il
suo vero merito, quanto essa conteneva di pericoli e di possibilità
future di grandezza, fu piuttosto nell'essere stata una rivoluzione
antinazionale, che snazionalizzò il carattere della società nostra
da quello che era stato negli ultimi due secoli. La rivoluzione fu
nazionale in parte, in quanto si adoperò a rovesciare la signoria
austriaca; ma in quanto si adoperò contro gli altri governi essa fu
rivoluzione antinazionale. I governi della vecchia Italia erano per
certe parti assai cattivi, ma non si può negare che fossero prettamente
italiani, che rappresentassero tradizioni sociali e una forma di
governo tutta nostra, che cercassero di conservare incontaminate la
lingua e la coltura italiana. Come abbiamo visto, faceva parte dei
loro stessi disegni di conservazione sociale l'avversione contro le
istituzioni, le idee e le invenzioni quasi tutte straniere, che formano
la civiltà moderna. La gloria appunto della rivoluzione italiana fu di
aver rotto in guerra contro la tradizione locale, di aver parteggiato
per istituzioni, idee e costumi forestieri; per le diverse filosofie
razionaliste contro i rammodernamenti della scolastica tradizionali
nelle scuole delle vecchia Italia; per il romanticismo contro il
classicismo; per le ferrovie, la grande industria e la vita a larghi
consumi, contro il modesto sempre eguale e ozioso vivere della vecchia
Italia. La società della vecchia Italia, pur essendo prettamente
italiana, si era mummificata, aveva ridotta la sua esistenza a una
eterna e vuota ripetizione; come avrebbe potuto l'Italia rinascere e
rivivere, se quella vecchia società non cadeva? Aver cominciato questa
opera necessaria di distruzione è stata la gloria dei rivoluzionari
del 1848. Lo so: questa rivoluzione fu compiuta in modo ben doloroso e
con terribili sprechi e turbamenti di tutte le cose; ma è meglio si sia
fatta così che se non si fosse fatta. I popoli hanno bisogno, di tempo
in tempo, di questi rivolgimenti di istituzioni, costumi ed idee che
rinnuovano il loro carattere. Come la _merry England_ del secolo XVI è
diventata la melanconica e puritana Inghilterra del XIX; come l'Italia
del 500 non è più quella del 300, così l'Italia del secolo XX non dovrà
esser più quella della prima metà del nostro secolo.

La vecchia Italia, ignorante, allegra e pigra non è più; l'Italia vuol
farsi più laboriosa, più colta, più seria; più consapevole dei fini
supremi della vita. Purtroppo noi siamo ancora lontani dal profondo e
soave riposo del rinnovamento compiuto; noi siamo esausti dal sostenere
l'immensa fatica del rinnovamento in via di farsi dentro di noi. Chi
riconoscerebbe più nell'Italia contemporanea l'Italia grassa e gaia
e triviale, la pingue comare che sino al 1848 divertì con i suoi
carnevali l'Europa? La pingue comare è diventata esile come una santa
dedita a discipline estenuanti. La terribile fatica la ha consunta;
le sue mani si sono fatte diafane; le sue guancie si sono infossate, i
suoi occhi scintillan di febbre, il suo spirito esausto è tormentato di
tempo in tempo da allucinazioni terribili; il suo corpo da piccole ma
dolorose convulsioni periodiche. È la prova da cui essa potrà uscire
a una condizione superiore di salute, se non si avvilirà sotto la
sofferenza presente e se saprà espiare utilmente gli errori passati.



IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE DURANTE IL REGIME BORBONICO

CONFERENZA DI FRANCESCO S. NITTI.[15]


L'anno scorso, in luglio, io ero a Strasburgo, nella solenne città dei
Nibelunghi, sacra pur nella leggenda al dissidio e alla guerra.

E, nella gentile ospitalità della famiglia di uno scienziato tedesco,
si discuteva la sera della Germania e dell'Italia, dello stato sociale
dei due paesi e di scienza e d'arte. Per quella strana curiosità che
i paesi del sole svegliano sempre nelle genti del Nord, le fanciulle
sopra tutto non mi chiedevano che del Mezzodì.

— Che nome ha la terra in cui siete nato? — mi chiese di un tratto la
vecchia padrona di casa, che nei suoi giovani anni (una giovinezza che
cominciava già a declinare alla caduta del potere temporale dei papi)
era stata nel Mezzogiorno d'Italia.

— Sono di Napoli, — risposi.

— Proprio di Napoli?

— No, di una terra ancora più meridionale, della Basilicata. —

La mia provincia, sopra tutto da quando ha il nome attuale, ha una
storia di assai mediocre interesse per la civiltà. Mi accorsi che il
nome riesciva nuovo e volli precisare.

— È una terra — io dissi — molto grande, grande la terza parte del
Belgio, grande più del Montenegro; non ha città fiorenti, nè industrie.
La campagna è triste e gli abitanti sono poveri. È bagnata da due mari
e l'uno e l'altro hanno costiere assai malinconiche; dintorno ha le
Puglie, i Principati e le Calabrie.

I nomi di queste terre dovettero produrre una certa impressione; poichè
la mia interlocutrice non mi fece quasi finire.

— Il vostro, — mi disse — se è tra la Calabria e le Puglie, deve essere
il paese dei briganti. —

E allora fu dintorno un movimento di curiosità viva; come sono? li
avete conosciuti? vestono ancora come nelle vecchie stampe? Le domande
mi piovevano d'ogni parte; e la figliuola gentile del mio ospite, che
così bionda e bella e solenne parea Elsa, insisteva più delle altre: —
Raccontate, raccontate le storie del vostro paese. —

Io rimasi come interdetto: che cosa dovevo dire? Vi era tanta ingenua
e tanta simpatica curiosità, che non avevo ragione di offendermi.
Protestai timidamente: dissi che i briganti sono oramai nella leggenda,
come i cappelli a punta e i fucili a tromba. Credettero che io
non avessi voluto dire per pregiudizio o per prudenza; e gli occhi
continuarono a fissarmi con curiosità incredula.

Io non prevedevo, o signore, o signori, che sarei venuto dopo meno di
un anno, dinanzi a voi a parlare non dirò delle storie, ma di uno dei
lati più interessanti della storia del mio paese.

E questa volta posso parlarne senza rancore, senza vergogna; poichè a
voi posso dire di più, e voi potete intender meglio.

Noi ci conosciamo così poco in Italia, che di ciò che è la parte
fondamentale della storia del nostro paese abbiamo nozioni e criteri
spesso contrari alla realtà.

Il brigantaggio meridionale, ancora per il maggior numero degli
italiani è circondato di leggende e di misteri paurosi. Sarò molto
fortunato se mi sarà dato esaminare senza prevenzioni un fenomeno che
attende ancora il suo storico — e intorno a cui si sono accumulati gli
errori più strani e le credenze più assurde.

Ogni parte d'Italia, oserei dire ogni parte di Europa, ha avuto banditi
e malviventi, che in periodi di guerra o di sventure hanno dominata
la campagna e si son messi fuori della legge. Si può dire anzi che, in
alcuni paesi dell'Europa centrale, il brigantaggio sia stato per secoli
una vera istituzione: e i banditi della Germania, che i romantici hanno
troppo spesso idealizzato, in brutalità e in ferocia hanno segnato
pagine assai più sanguinose delle nostre.

I masnadieri tedeschi, che l'individualismo romantico e il favore
della leggenda circondarono di simpatia erano spesso veri malviventi;
molti dei briganti meridionali, che ebbero nella loro condotta un lato
cavalleresco, o per lo meno non furono rozzi delinquenti, non trovarono
invece poeti o romanzieri che avessero saputo appropriarsi il lato
ideale della leggenda. Nè gli storici e gli statisti penetrarono spesso
le cause di tanto male.

Ma vi è stato un paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si
può dire sempre e non è finito se non ai giorni nostri; un paese dove
il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso
fiume di sangue e di odî, cui sono affluiti tutti i rivoli del dolore,
della ingiustizia, e della delinquenza; vi è stato un paese in cui per
secoli una monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come
un agente storico di grande importanza: questo paese è l'Italia del
Mezzodì.

Per quanto io sappia, anche le monarchie più potenti non sono riescite
a estirpare del tutto il brigantaggio dal reame di Napoli. Tante volte
distrutto, tante volte risorgeva; e risorgeva spesso più poderoso. Il
sangue genera il sangue — e spesso più la repressione era feroce, più
grande rinasceva il male. Come le cause non erano distrutte, nè si
poteva, ogni repressione era vana.

Così vediamo in tempi assai vicini a noi i briganti riunirsi in bande
numerose, formare dei veri eserciti, entrare nelle città, spesso
trionfalmente, imporre al Governo patti vergognosi; vediamo intere
città distrutte dai briganti e questi spingersi non di rado fin sotto
le mura della capitale.

Ancora adesso percorrendo le terre ove più il malandrinaggio e il
brigantaggio hanno celebrato i loro fasti, ci accorgiamo subito che
non solo la leggenda è viva, ma che non sono morti i sentimenti che
generarono il male. Per le plebi meridionali il brigante fu assai
spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia
stessa. Le rivolte dei briganti, conscenti o inconscenti, nel maggior
numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte
proletarie.

Ciò spiega quello che ad altri e a me è accaduto tante volte di
constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai
spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con
ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più
recenti imitatori.

Non ho mai visto in mano a un contadino un libro popolare sull'unità
italiana: ho visto spesso, insieme ai _Reali di Francia_, la rapsodia
dell'abate Cesare e la _Bellissima istoria_ di Angiolillo, e tuttavia
il dramma di Peppe Mastrilli appassiona ed esalta le menti.

Ancora adesso, nelle lunghe sere d'inverno, nelle notti vegliate, nelle
soste del lavoro, trasformate e ingigantite dalla leggenda si ripetono
con compiacenza le storie dei briganti.

È tutto questo un male? Io non vorrei dire e non saprei.

Le cause che hanno prodotto per tanti secoli il brigantaggio non sono
ancora del tutto rimosse — e il male è che esistano, non che esistendo
operino e, scomparso il brigantaggio, producano effetti di altra
natura, ma sempre egualmente dolorosi.

                                   *
                                  * *

Si può dire che, durante tutto il vicereame spagnuolo e il regno dei
Borboni il brigantaggio sia stato una delle parti più interessanti, se
non la più interessante della storia meridionale.

Era il più delle volte un vero malandrinaggio: contadini affamati,
o perseguitati dalla così detta giustizia baronale, si riunivano in
bande, sceglievano un capo più intelligente o più feroce, e si davano,
come si diceva allora, alla campagna, per rubare e per uccidere. Se
i capi erano il più delle volte persone nate a delinquere, i gregari,
gli oscuri erano sofferenti, che avean torti da vendicare, o contadini
ridotti a una vita quasi bestiale, e che desideravano, per qualche anno
almeno, saziare la fame e vendicare le offese.

E tutto incitava al brigantaggio. Ancora adesso in Basilicata o
in Calabria, in Abbruzzo o nel Cilento, percorrendo la campagna
tristissima, ove alcune croci sorgono a ricordare ai passanti antichi
misfatti, la natura dei luoghi ci spiega in gran parte ciò che è
accaduto.

I paesi sono messi in alto sui monti, al riparo dalla malaria e dai
malviventi. I torrenti non arginati, le boscaglie nane e piene di
sterpi, la mancanza quasi assoluta di case non possono essere che
condizioni predisponenti al male.

Se pensate a ciò che è stata la feudalità nell'Italia meridionale,
come vi si sia radicata per secoli, e come, mutate le forme, in qualche
provincia duri tuttavia, vi spiegherete lo svolgersi e l'espandersi del
brigantaggio. Ma nulla vi contribuì di più della immoralità profonda
della dominazione spagnuola, durata per sì lungo volgere di tempo.

I baroni prepotenti erano attorniati da tal gente ed esercitavano
giustizia in tal modo, che dovevano eccitare alla rivolta anche gli
spiriti più miti. Essere _inquisito_, cioè aver commesso dei reati,
essere ciò che noi diremmo un criminale, era un requisito quasi
indispensabile per essere ammesso al servizio di un barone. Mancava
ogni fede pubblica e privata; le università che con grandi sforzi
riescivano a riscattarsi erano rivendute dagli stessi sovrani che
davano l'esempio della disonestà. In alcuni casi e non rari i baroni
stessi partecipavano al brigantaggio e lo proteggevano, sia per misura
di difesa, sia per desiderio di guadagno. Or le classi povere, che
non avevano nessuna fede nella giustizia, che in alcuni luoghi doveano
sostenere una lotta impari contro la perfidia della natura da una parte
e i cattivi ordinamenti sociali dall'altra, non doveano nè poteano
avere verso i banditi, cioè verso coloro che si mettevano in lotta
aperta con la società, alcun sentimento di avversione.

Come accade in tutti i periodi di violenza, in tutti i periodi di
anarchia, gli elementi peggiori prevalevano e dominavano; in una
società in cui la violenza e la ferocia eran mezzi di lotta, le nature
più perverse s'imponevano. Così in epoca più vicina a noi fra Diavolo
e Mammone, Parafante e Taccone, mostri di crudeltà prevalgono sugli
altri; ma non tutti coloro che li seguivano erano crudeli e feroci allo
stesso grado, nè tutti erano usciti dal consorzio civile per causa di
misfatti e di violenze.

Quando un contadino vedeva un suo pari mettersi contro le leggi e
quindi non soffrire più la fame e salire qualche volta in potenza
e trattare coi grandi della terra e averne onori, dovea ben sentire
qualche invidia. Che importa il pericolo? Il pericolo ha anch'esso le
sue attrattive, e un anno di vita vissuta bene, vale agli occhi delle
nature più impazienti e più vive assai più di una lunga vita vissuta
male.

Durante la dominazione spagnuola, nel 1559, è stato possibile a un
bandito famoso, a _Re Marcone_, andare realmente a prender possesso
della città di Cotrone e battere le truppe regolari. Alla fine del
secolo decimosesto Benedetto Mangone, Marco Sciarra e Battinello
erano i veri arbitri di alcune province. E non poche volte si videro i
briganti spingersi in gran numero fin sotto le mura di Napoli, bloccare
la capitale e mettere in pericolo la sicurezza del governo.

Anche prima i banditi erano stati molte volte una forza politica di cui
i sovrani si erano serviti contro i baroni e i baroni contro i sovrani.
Ma, durante la dominazione spagnuola, cioè per più di due secoli, non
vi è stata guerra combattuta con le forze interne del Regno, in cui una
delle parti nemiche non abbia adoperato i banditi.

Province intere, per secoli, furono al di fuori di ogni legge, sotto
la dominazione diretta o indiretta dei banditi, sotto la persecuzione
di un ordine feudale, che era tanto più esigente in quanto i baroni
solevano vivere in città.

Il brigantaggio era una gran forza da usare negli estremi perigli:
i Borboni che con Carlo III aveano cercato fiaccarlo se ne valsero
più tardi per riconquistare il reame e per tenere a freno, per
sessant'anni, le classi ricche o colte.

La storia dei Borboni, dopo Carlo III, è anzi strettamente legata
a quella del brigantaggio. Furono i briganti che a Ferdinando IV
riconquistarono il reame nel 1799; furono essi che tentarono, durante
la dominazione francese, di riconquistarlo una seconda volta e che
più tardi furono adoperati, e non in una sola occasione, contro la
borghesia aspirante a riforme politiche, o malcontenta.

Per la prima volta forse nel mondo civile passando sopra ogni legge
morale, i Borboni osarono scegliere come cooperatori i banditi più
infami: alcune belve crudelissime ebbero grado di colonnello o di
generale, titolo di marchese o di duca e laute pensioni, come se
fossero vecchi e gloriosi generali; ebbero l'amicizia del sovrano e
attestati di pubblica stima. È una non interrotta serie di fatti di
tale natura, che va dai mostri della reazione del 1799 a Giosafat
Talarico e ancora più tardi ai tentativi di reazione posteriori al
1860.

Io non credo che la lotta di classe sia base della vita sociale dei
popoli; non credo che sia metodo di trasformazione; non credo che dal
bandire e dal propagare questa lotta potrà uscire la pace.

Ma se un governo si è mai basato sul dissidio delle classi, è stato
il governo dei Borboni di Napoli. L'aristocrazia e la borghesia
liberale, entrambe scontente, hanno avuto per un secolo sospesa sul
capo la minaccia di rivolte proletarie a servizio della monarchia. Ne
fu tutta colpa loro, ma delle circostanze storiche; poichè non bisogna
mai dimenticare che i Borboni vennero a Napoli animati da spirito di
riforme e che essi e i loro ministri, per sessanta anni almeno, non
fecero che nimicarsi l'aristocrazia e il clero, poichè ne limitarono la
potenza. La rivoluzione del 1799 appare appunto composta degli elementi
più vari: ed erano in essa numerosi ecclesiastici e moltissimi nobili,
che alla monarchia centralizzata preferivano qualsiasi altro regime.

In Italia la feudalità non ha avuto forse mai salde radici; solo a
Napoli e in Sicilia è stata potente, e le sue tradizioni sono tuttora
vive. Trapiantata dai Normanni in tutto il suo vigore, ha trovato,
per espandersi e per durare, tutte le condizioni favorevoli. La tenue
densità della popolazione, una larga superficie malarica che impediva
e impedisce la popolazione sparsa e l'accumula solo in alcuni luoghi,
il debole sviluppo degli scambi determinavano l'esistenza e la potenza
della feudalità.

D'altra parte faceva riscontro una borghesia, nata non già dal traffico
e dalla industria, ma da tre funzioni che la rendevano ugualmente
odiosa al popolo: l'intermediarismo agrario, il piccolo commercio del
danaro, le professioni liberali e sopra tutto l'avvocatura.

L'intermediario della terra non era un coltivatore, ma aveva il più
delle volte una funzione puramente parassitaria; agente del barone o
del signore, che viveva in città, cercava di arricchire sui fitti brevi
e più avea bisogno di vivere (non dirò di arricchire) più incrudiva
sui coltivatori. Il piccolo commercio del danaro, che dava all'usura
agricola forme forse non più viste altrove, dura tuttavia ed è stata
origine assai frequente di arricchimento. Infine l'avvocatura, sempre
disposta a dimostrare le ragioni del più forte, sempre difenditrice
delle usurpazioni delle terre popolari, abilissima nei sotterfugi,
toglieva alla classe intermedia ogni fiducia. Il Colletta chiamò
l'avvocatura peste del reame di Napoli; e lo storico illustre delle
finanze napoletane, Ludovico Bianchini, riconosce che per secoli
essa in ogni occasione si mostrò sempre pronta a sostenere la cattiva
disciplina di governo.

Rappresentava e rappresenta forse tuttavia la parte più attiva,
più intraprendente, più audace: ma era ed è senza dubbio causa di
dissoluzione e di corruzione, rendendo più difficili i rapporti sociali
e corrompendo in ogni guisa tutte le magistrature. Il parlamentarismo
anzi, piuttosto che mitigare il male l'ha esacerbato, annullando ogni
dignità della magistratura e creando il tipo infame dell'avvocato
politico, che in passato non esisteva e non poteva esistere.

Uno degli studi più interessanti sarebbe quello della distribuzione
territoriale del brigantaggio. Senza dubbio le condizioni geografiche
agivano sopra tutto; ma dopo di esse in prima linea le condizioni
economiche.

Le provincie che hanno più sofferto il brigantaggio sono state la
Basilicata e il Principato Citra, nella parte sua più povera; vengono
dopo alcune zone dell'Abbruzzo e della Calabria, nella parte ove il
concentramento della proprietà era maggiore. Ma dovunque le ragioni
sono identiche.

Le cause predisponenti del brigantaggio erano numerose: alcune sono
scomparse, qualcuna ancora permane.

La prima, la vera, la grande causa era la miseria.

Alla vigilia della rivoluzione francese, nel 1786, il reame di Napoli
aveva appena 4,800,000 abitanti. Ora il reddito del reame, in un'epoca
in cui le industrie erano scarse e pochi i commerci, era tenue: era un
reddito quasi esclusivamente agrario, quale potea venire da un paese
a cultura estensiva e in gran parte pastorale. L'intero reddito dei
feudi era calcolato a oltre 4 milioni di ducati, esenti da tributi e
i feudatari aveano innumerevoli diritti, l'uno più gravoso dell'altro
per i cittadini. Di oltre 2000 comuni appena 384 erano demaniali, cioè
dipendevano direttamente dal Re. Il numero dei famigli e dei dipendenti
dei baroni, che applicavano i diritti feudali senza scrupoli, era
eccessivo: eccessivo più ancora il numero delle pretese. Circa 10
milioni di ducati prendevano sotto ogni titolo gli ecclesiastici, e il
loro numero sommava a oltre centomila, cioè vi era un ecclesiastico
per meno di ogni 50 abitanti. Popolazione enorme e improduttiva,
non forse però più enorme di quello che sarà fra breve il numero dei
professionisti usciti dalle università, dei diplomati delle scuole
secondarie, spostati desiderosi di impieghi e quindi bisognosi di
mutazioni.

Quale poteva essere la vita del popolo? Una vita grama e stentata;
una vita di miserie e più ancora di depressione morale. In alcuni
feudi i baroni erano implacabili nel pretendere che il molino fosse
un loro monopolio; e il pane si cuoceva sotto la cenere ed era negato
ai contadini ciò che hanno anche le popolazioni più misere e meno
progredite.

«Il brigantaggio — conchiudeva tristamente l'on. Massari — diventa in
tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche
e secolari ingiustizie.»

Le genti dell'Italia meridionale, risultato delle mistioni di razze sì
varie, hanno forse da tanti incroci, forse più ancora dalla rapidità
loro nell'ideare, una vaga tendenza alla vita di avventure. Vi è, sopra
tutto nelle genti di Basilicata e di Calabria un senso di misticismo
inconscio, che invade l'anima popolare.

Non è il misticismo gentile e delicato, che penetrò l'anima di
Francesco d'Assisi: ma un misticismo rozzo e quasi selvaggio,
com'è quello che dovè albergare nell'anima di Gioacchino di Fiore,
_il calavrese abate Gioacchino_, che esercitò appunto il suo rude
apostolato nei monti di Basilicata e di Calabria.

In quelle aspre regioni ogni paese, ogni zona, ha il santuario lontano,
in cima ai monti; chiese perdute tra i boschi, o costruite su antiche
caverne, abitate da pellegrini o da santi. Si va ai santuari, dopo aver
digiunato, pregando per via, qualche volta con i fiori in cima alle
canne, gli umili fiori dei campi e dei boschi: molto spesso si va a
piedi nudi, salmodiando e orando. Lunghi cortei di uomini e di donne
salgono le erte faticose fino ai luoghi da cui si spazia l'orizzonte
lontano. Nei lunghi pellegrinaggi il misticismo si trasforma; diventa
qualche volta desiderio di avventure. Il pellegrino è ora più che non
si pensi il precursore dell'emigrante; in altri tempi era il precursore
del brigante. Nulla di più naturale che, nelle lunghe notti vegliate,
nelle lunghe vigilie, nell'incontrarsi con genti nuove, sorga un
bisogno di andar lontano e di espandersi. La terra maligna, che dà
la febbre e uccide, discaccia. La razza sabellica ama l'intrapresa e
l'ignoto; la Basilicata, che non ha la quarta parte della popolazione
di Toscana, manda fuori di Europa assai più del doppio di emigranti
all'anno. Senza dubbio la causa più profonda e più generale è la
miseria; ma io non oserei dire che non vi sia in molti casi un bisogno
di tentare e di cercare.

Ricordo, come se fosse ora, un vecchio contadino del mio paese tutto
bianco, ma diritto tuttavia come un abete delle montagne. Andava al
Brasile: non possedeva che cinque lire e il biglietto d'imbarco; non
sapeva leggere, non avea nessuna nozione dei paesi dove si recava.
Sapeva solo che altri della sua terra vi era stato. Gli chiesi da
qual parte fosse il Brasile: mi rispose solo che era lontano, assai
lontano che non si potea misurare quanta fosse la lontananza. E mi
accennò con la mano in aria, come per indicare qualche cosa di strano
e di indeterminabile. Quando gli domandai che cosa avrebbe fatto: —
E chi lo sa? — mi rispose con la profonda filosofia meridionale, così
piena di fatalismo e di tristezza; e non volle dire niente più. Avrebbe
lavorato, avrebbe goduta quella che gli pareva la grande ricchezza,
cioè mangiare fino alla sazietà, come a Natale, come a Pasqua; sarebbe
morto forse.

Le anime inquiete non potendo far meglio ora emigrano; allora l'unica
professione possibile per chi non volea rassegnarsi a una vita bestiale
era il brigantaggio.

Così si spiega che tra i briganti noi troviamo alcune figure di veri
idealisti, alcune anime pur nella loro rozzezza, e qualche volta nella
loro crudeltà, desiderose di giustizia e amorose del bene.

Ciò che qualche volta sorprende nell'Italia meridionale è vedere
nei contadini più rozzi alcune finezze di sentimento e qualche volta
anche fisicamente alcune figure le quali fanno pensare a razze nobili
decadute. In un paese, che è stato teatro di tutte le guerre, in un
paese che è stato per molti secoli la porta del Levante e in cui è
stata contesa la signoria del mare, mutamenti frequentissimi hanno
assai volte cambiata la condizione degli individui: sì che le nobili
stirpi sono precipitate più in basso. Non è raro vedere nei tratti di
un contadino qualche cosa che rivela un'antica grandezza, o l'abitudine
di una vita non servile e non povera.

I patologi dicono che la malaria sia causa predisponente dell'isterismo
e delle malattie nervose: certo traversando le zone malariche (sopra
tutto dove la malaria è meno grave e non prostra addirittura gli
individui) si notano subito le tendenze fantastiche degli abitanti, la
loro tendenza verso l'ignoto, il bisogno della vita di avventura.

Adesso si emigra; quando l'emigrazione non v'era, il desiderio
dell'ignoto produceva conseguenze ben diverse.

Altra causa che agevolava grandemente il brigantaggio era la mancanza
di strade. La popolazione, agglomerata in alcune province, quasi non
avea strade. Per molte miglia si percorreva una campagna in cui non
eran che sentieri mal sicuri e i trasporti per necessità eran lenti e
difficili.

La Basilicata, centro principale del brigantaggio, ai tempi di Carlo
III non avea quasi alcuna strada rotabile. La strada delle Calabrie
giungeva fino a Persano; nel 1792 era estesa fino a Lagonegro e solo
nel 1795 giungeva a Muro e nel 1797 ad Atella.

Ancora nel 1863, quando fu fatta l'inchiesta parlamentare sul
brigantaggio, sui 124 comuni della Basilicata 91 erano senza strade;
sui 108 della provincia di Catanzaro 92; sui 75 della provincia di
Teramo 60. Dei 1848 comuni del Napoletano 1321 mancavano di strade.

Or tutto ciò era necessariamente a profitto del brigantaggio;
internandosi nelle boscaglie, facendo periodiche comparse al piano, i
banditi resistevano facilmente alle persecuzioni più audaci.

Alcuni dei banditi facevan fortuna, e qualche volta ottenevan la grazia
e si ritiravano a vivere tranquillamente; ma nel grandissimo numero
perivano uccisi o traditi, o erano imprigionati.

Qualche volta i signori del paese, per timidità, o per desiderio di
guadagno, proteggevano i briganti; il più delle volte davano nelle
loro _masserie_, nelle case di campagna asilo e rifugio. Ai tempi
di Carlo III anche i conventi erano asilo securo; e Carlo dovè molti
abolirne per questa ragione che eran covo di malviventi. Nei piccoli
paesi le lotte eran frequenti, eran frequenti le lotte tra un paese e
l'altro: dove i comuni eran più divisi e quindi più aspre e più inique
le persecuzioni della parte perditrice, maggiori eran le cause che
determinavano gli individui meno tolleranti a darsi alla campagna,
come si diceva allora. La vendetta era una necessità e un dovere, e le
vendette eran lunghe e terribili.

Oh! la tristezza di una borgata meridionale, perduta nelle gole di
Basilicata o nelle asperità della Sila, una borgata, senza luce di
pensiero, senza blandizie dell'arte, senza la suprema poesia della
lotta in comune.

Anche nell'Italia centrale le lotte erano terribili nei piccoli
centri come nei grandi: _e quei che un muro ed una fossa serra_ si
tormentavano e si dilaniavano fra loro quando non dovean lottare
contro i vicini. Ma la relativa prosperità e la mitezza del clima
e la salubrità dei campi davano alla lotta un carattere più umano;
permettevano lo sviluppo delle forme libere dei comuni; determinavano
il bisogno dell'arte, davano carattere di epica grandezza anche alle
lotte delle fazioni della stessa città.

Ma la vita in un piccolo centro campestre dell'Italia meridionale
nell'interno della Basilicata o delle Calabrie! ma la vita in un
casolare dell'Appennino! ma la vita in un grosso borgo pugliese! La
malaria da una parte e i cattivi ordinamenti dall'altra inducevano
gli abitanti a vivere uniti; in una unione necessaria e forse per
questo più ingrata. Le case si aggruppavano miseramente fra loro,
e non v'erano, d'ordinario, che il castello del barone, la chiesa
e il convento che avessero un'aria meno misera. Impedite quasi le
comunicazioni o limitate ai paesi vicini, la vita trascorreva sempre
allo stesso modo; quando non era turbata da cataclismi violenti, come
le guerre. Assoluto il potere del feudatario e peggiore di esso quello
di coloro che lo rappresentavano, non era possibile al popolo nessuna
salute fuori della rivolta individuale. La religione, quando non era
una superstizione, avea il carattere dei luoghi: una religione dura e
paurosa, quasi crudele, mitigata solo dall'intervento del protettore —
un santo, per lo più patrono di un male grave e pronto più a punire che
ad amare, più a vendicare che a perdonare.

La violenza sessuale delle genti del Sud faceva il resto, e contribuiva
non poco a inasprire i rapporti. Si può dire che fra dieci persone che
si davano al brigantaggio tre o quattro almeno ricorrevano a un così
estremo passo solo per vendicare la violenza patita da una moglie, da
una figliuola o da una sorella.

Per spiegarsi alcune cose bisogna intendere quale violenza abbia
l'istinto carnale nelle genti del Sud. Per i contadini specialmente è
spesso l'unica forma in cui riescano a concepire l'ideale e ad avere
una ebrietà dello spirito. Così come il desiderio è violento, l'istinto
della proprietà è completo.

La donna infedele — sopra tutto se cede a una violenza — altrove non è
causa di disprezzo per il marito o per il padre. Fra i contadini del
Mezzogiorno vi è invece una parola che riunisce tutti gli insulti,
una parola che è pronunziata spessissimo, e che nella crudeltà sua è
peggiore della morte, ed è il nome che è dato al marito ingannato o
vittima. Che un uomo sia ladro, omicida o perverso e che tutte queste
cose gli siano rimproverate egli soffrirà sempre meno che sentendosi
insultare per colpa o per sventura della moglie.

Ho letto molte storie di briganti, ne ho sentite raccontare moltissime;
ho vissuto nei luoghi dove più vivi sono i ricordi; dovunque ho visto
le stesse cause agire allo stesso modo.

Nei piccoli centri il potere del feudatario o del borghese, del
funzionario o del padrone era usato non di rado per attirare le donne
dei contadini: quando non cedevano volontariamente erano persecuzioni
lunghissime ai mariti, ai fratelli, ai padri. Era il disonore sotto
altra forma; era la miseria; era la sopraffazione quotidiana.

Come resistere in una lotta così impari? Le nature deboli si avvilivano
e tolleravano; ma gli uomini risoluti si davano alla campagna, si
facevano briganti; si ribellavano insomma nella sola forma che era loro
possibile.

La suprema gioia di uccidere dopo aver sofferto l'oltraggio supremo;
la suprema gioia di vendicare e di vendicarsi dopo aver tanto penato,
tentavano anche le nature meno cattive. La religione avea indulgenze
per i forti; e ne aveano più ancora i funzionari dello Stato.

Il brigantaggio diventava un mezzo di salvezza e un mezzo di
riabilitazione. Al marito oltraggiato, all'uomo perseguitato rendeva
quasi sempre la stima del pubblico, qualche volta la tranquillità dello
spirito, la gioia di vivere.

Le persone _out laws_ hanno avuta sempre una certa attrazione: maggiore
essa dovea essere in una società, in cui le leggi erano pessime.

Il contadino che, dopo aver sofferto tutte le persecuzioni, si dava
alla campagna, prendeva qualche volta la sua rivincita nel modo più
assoluto: la donna che lo aveva rifiutato si dava spesso a lui, per
paura, o per amore, poichè sulle anime rozze la vita del brigante
esercitava una attrazione: coloro che lo aveano perseguitato o
cercavano riparo nella fuga, o si umiliavano venendo a patti; e quasi
sempre vedeva il suo prestigio rialzarsi. Poteva essere odiato, non mai
disprezzato — e in questa differenza è la causa non ultima del fàscino
che la campagna immensa esercitava sulle anime insofferenti.

Quasi tutto questo non fosse bastato, incitava al brigantaggio, come si
è detto, l'opera dei governi. Nei periodi in cui ne aveano bisogno per
sedare interne lotte, i governi ricorrevano ai briganti. E si videro i
maggiori fra questi diventare ricchi e potenti, occupare alti gradi e
imporsi agli uomini onesti; si videro mostri di crudeltà, come Mammone
e Fra Diavolo premiati dal re e trattati come amici.

Il vicereame spagnuolo avea fatto lo stesso; ma nessuno avea mai
osato ciò che fece Ferdinando IV e ciò che fecero dopo di lui i suoi
discendenti.

Nell'Italia meridionale esisteva ed esiste tuttavia un vero
proletariato agricolo; vi sono in ogni provincia molte migliaia di
persone che non possiedono che la loro forza di lavoro. I _cafoni_ di
Basilicata e di Calabria: i _terrazzani_ di Capitanata sono le forme
tipiche di classi la cui miseria e la cui incertezza del vivere sono
spesso a un livello che non potrebbe essere più basso.

Non avendo altra industria che la terra, queste masse, che per giunta
hanno assistito per un secolo alla usurpazione delle terre pubbliche,
che vi assistono tuttavia, non amano le classi medie. Non amavano
nemmeno l'aristocrazia; ma essa aveva almeno il prestigio del nome e
della tradizione.

Quando venne l'onor. Castagnola insieme alla Commissione d'inchiesta
sul brigantaggio giù nell'Italia meridionale, fu vivamente sorpreso di
quest'odio che esisteva tra possidenti e salariati, fra _galantuomini_
e _cafoni_, come si dice da noi, all'indomani stesso della rivoluzione
liberale del 1860.

Prima del 1860 quasi nessun contadino sapea leggere; un certo numero di
possidenti delle campagne ignorava persino le prime e più elementari
nozioni. Superstiziosissime, per razza e per natura avventurose,
abituate per secoli a vedere il più forte opprimere il più debole,
le masse consideravano il brigante come il vindice dei torti che la
società loro infliggeva.

Ora i Borboni di Napoli, la cui colpa suprema fu non già la crudeltà,
come si ripete a torto, ma la paura, che nei regnanti è madre della
crudeltà, ed è peggiore di essa, non concepivano nemmeno che il popolo
potesse essere altra cosa fuori di quello che era. Molti provvedimenti
vollero per migliorarne le condizioni, nessuno per educarlo. Sentivano
che la loro fortuna era appunto nel disporre di una forza cieca da
scatenare contro le classi medie, tutte le volte che esse si mostravano
desiderose di ordinamenti nuovi.

Non solamente durante il 1799, ma durante la monarchia francese, ma
nel 1820, ma nel 1848, ma nel 1860, i Borboni ebbero il brigantaggio
come suprema difesa. Il brigantaggio era il modo di sfogare tutte le
vendette.

Era un'onda cui non si resisteva: secondata dai preti, fatta servire
alle passioni locali, inasprita da tutte le sofferenze, quest'onda
irrompeva terribile e devastatrice.

Passato il pericolo, restaurate le sue basi, la monarchia premiava i
più fortunati, i capi delle insurrezioni e perseguitava e sterminava
gli altri; tranne a ricominciare ove ne fosse il bisogno.

Così nella storia del brigantaggio, noi troviamo due forme distinte:
i briganti comuni erano o delinquenti desiderosi di far fortuna e di
sfogare i loro istinti, o poverissimi uomini spinti dalla fame e dalle
ingiustizie a mettersi contro la società.

Oltre di questo vi è stato un vero brigantaggio politico, che riunendo
gli elementi che già v'erano, e rivolgendosi alle masse e svegliando
istinti rivoluzionari, è stato sostegno della monarchia e da essa a
volta a volta creato e distrutto.

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Quando si parla di briganti si pensa subito a tutte le leggende che noi
abbiamo sentito ripetere: si pensa al trombone, al cappello a punta, ai
delitti terribili e alle grassazioni più spaventevoli.

Il brigante invece non era che un rivoltato: e fra i rivoltati vi
erano, come vi sono oggi, i sofferenti, gli idealisti e i perversi.
Bakounine ha detto che il brigante meridionale rappresenta il tipo del
perfetto anarchico. Se essere anarchico vuol dire soltanto mettersi
contro la società, apertamente, violentemente, i briganti erano
anarchici.

Quando si pensi alle descrizioni terribili che abbiamo lette o udite,
pare strano che anche i più feroci di essi erano religiosissimi. I
ladroni che seguivano il cardinal Ruffo, prima di mettere a sacco e
fuoco le città, di commettere ogni più terribile strage, ascoltavano la
messa. La vita di avventure va sempre unita a un fondo di misticismo:
ciascun brigante portava sul petto le sacre immagini, faceva doni alle
chiese e non mancava di recitare il rosario. Era una religione rozza
e primitiva credente in un Dio terribile, che qualche volta i banditi
invocavano perchè le loro operazioni riescissero.

Così tra i briganti troviamo i tipi più diversi, come le nature più
varie: accanto ai ladri e agli assassini, che costituivano il fondo del
malandrinaggio, uomini desiderosi di più umano vivere e qualche volta
perfino amanti di giustizia. Una giustizia rozza, quale poteva apparire
alla mente di uomini incolti e superstiziosi.

Il tipo più singolare, più interessante, direi quasi più leggendario
del brigantaggio meridionale è stato Angiolo Duca, conosciuto dal
popolo sotto il nome di _Angiolillo_.

Ancora qualche anno fa la storia si cantava sul molo di Napoli e
interessava e commoveva non meno di quella di Rinaldo di Montalbano.
Ciccio Zuccarino, che vende e tradisce _Angiolillo_, apparisce più
esecrabile di Gano di Maganza, il _Maganzese_, orrore del popolo
napoletano. I briganti che la letteratura tedesca ha vagheggiato, e
Karl Moor dei _Raüber_ di Schiller trovano il loro riflesso in Angelo
Duca, che fu filantropo anche nelle sue avventure brigantesche.

Contadino della terra di San Gregorio, Angelo Duca divenne bandito per
sfuggire all'ira di un barone, che volea vendicare un servo, cui Angelo
in rissa avea ucciso un cavallo. Vagò da prima con altri banditi: poi
formò una banda propria. Non ebbe mai grandissimo numero di compagni,
come già altri famosi prima di lui e quasi tutti erano delle terre di
Basilicata e di Salerno. Angelo un po' per abilità sua, un po' per la
disorganizzazione della giustizia in quel tempo, fu per parecchi mesi
padrone di larga zona e operò con buon successo non solo nel nord di
Basilicata, che fu il teatro delle sue gesta, ma nelle provincie di
Avellino e di Salerno e si spinse fino in Capitanata.

Non uccideva se non coloro che lo perseguitavano; non assaliva mai i
viandanti, nè ricorreva mai ai soliti espedienti di rubare di notte.
Preferiva chiedere apertamente ciò che gli era necessario: e tutti
davano per timore o per calcolo. Quando fermava sulle vie maestre i
ricchi viandanti divideva amabilmente, da uomo educato. E il danaro che
prendeva, solo in parte dava ai compagni suoi: il resto lo distribuiva
ai poveri, impiegava a scopi di bene, sopra tutto a dotare le zitelle.

Ogni brigante che volea durare a lungo dovea essere o mostrarsi
filantropo: ma _Angiolillo_ era sinceramente pietoso.

Un secolo prima di Angelo Duca anche il terribile abate Cesare usava
fare opere di pietà e dotava le fanciulle povere; e Peppe Mastrillo
— il brigante più leggendario — secondo un suo biografo consigliava
ai compagni di far la carità ai poveri e di difendere l'onore delle
zitelle.

Ma nessuno dei briganti nè prima, nè dopo ha avuto la filantropia larga
e disinteressata di Angelo Duca.

Quando entrava in un paese, e ciò gli accadeva di frequente, andava
subito dai più ricchi, si faceva dare il danaro che possedevano e lo
distribuiva ai poveri. Così fece a Calitri dove il più ricco era il
parroco.

Non amava che i ricchi godessero e i poveri soffrissero. Ad Ascoli in
casa di un ricco signore si faceva festa: egli vi andò, ma volle che
una parte dei cibi e molto danaro fossero distribuiti ai contadini,

    Con dir se festa fa la signoria,
    Anche alla povertà festa si dia.

Questi versi sono dei suoi biografi, che ne hanno raccontato in ottava
rima le gesta; come in versi (o strazio della rima!) è la _Bellissima
istoria_ che si cantava sino a pochi anni fa.

Non amava gli usurai e con essi era qualche volta crudele. Una volta
incontrò un pover uomo che era menato in prigione, perchè non avea
pagato l'usuraio. La moglie l'accompagnava piangendo e singhiozzando.
_Angiolillo_ liberò l'arrestato; si recò subito al paese dell'usuraio,
entrò nella casa di questi e lo atterrì dicendogli che l'usuraio è
peggiore del brigante. Il poeta gli mette in bocca le seguenti parole:

    Il ladro ruba ed ha grande timore
    . . . . . . . . . . . . .
    Ma l'usuraio ruba francamente
    E rende afflitta e misera la gente.

È inutile aggiungere che si fece dare dall'usuraio tutti i danari,
tutti i registri e tutte le obbligazioni. Distribuì i primi ai poveri
e bruciò il resto.

Sopra tutto non amava l'economia politica, poichè fissava i prezzi
a piacere. In un anno in cui in Puglia era grande carestia di grano,
Angelo seppe che un barone avea fatto grande incetta di frumento e avea
venduto sulla piazza di Genova 12 mila tomoli di grano a 37 carlini
il tomolo. Angiolillo non esitò un momento solo: andò dal barone e con
bel garbo si fece dare le chiavi dei depositi, dicendo che voleva egli
stesso occuparsi della vendita. Poi, secondo il poeta, fece dare il
bando....

        .... a chi necessita lo grano,
    Angelo vende a quindici carlini

cioè ad assai meno della metà. Il grano fu venduto in pochi giorni, e,
cosa abbastanza singolare, Angelo restituì fedelmente il ricavato della
vendita al barone.

Non amava confondersi con i delinquenti comuni, e quando poteva
arrestare i peggiori di essi lo faceva assai volentieri, e si occupava
perfino di consegnarli ai giudici.

Religiosissimo e accolto a braccia aperte, come un amico, dai frati
in tutti i conventi della regione, avea una strana propensione a
svaligiare i vescovi e i ricchi prelati; anzi si può dire che la sua
opera fu principalmente diretta contro di essi. Ma nemmeno in tali casi
amava essere scortese. Un vescovo avea 1000 zecchini; glie ne prese
500, dicendogli con profondo rispetto: — 500 vi bastano per il vostro
viaggio. — Un'altra volta incontrò un abate benedettino, che ne avea
2500: glie ne prese metà e di questa fece due parti: una per sè e per
i suoi compagni; dell'altra si servì, al solito, per dotar zitelle.

Questo desiderio di proteggere l'onore delle fanciulle non può essere
compreso da chi non abbia un concetto della prepotenza baronale e più
ancora di quella della ricca borghesia, che abusava delle fanciulle nel
modo più indegno che si possa immaginare.

_Angiolillo_ insegnava la morale non solo ai signori, ma anche ai preti
e ai vescovi.

Gli accadde che, andando pei boschi, s'incontrò in un prete che
bestemmiava come un turco. Erano strani tempi, in cui i preti
bestemmiavano e i briganti insegnavano la morale.

    Voi facendo sì trista funzione
    Padre mi fate ancor scandalizzare,

gli disse _Angiolillo_; poi un po' col tu, un po' col voi, com'è
abitudine dei meridionali, aggiunse:

    Quietatevi, ti prego in cortesia,
    E dimmi ancora la ragion qual sia.

Il prete raccontò tutto. Vacava una buona parrocchia: e il vescovo
simoniaco l'avea destinata non a lui che ne avea diritto ma a un prete
ricco e immeritevole, che avea pagato una grossa somma. _Angiolillo_
andò subito dal vescovo, gli s'inchinò, gli baciò la mano e

    Dopo questo si misero a parlare
    Sul punto del dovere e dell'onore.

Il vescovo non seppe negar nulla a tanto intercessore, e la parrocchia
fu data a chi ne avea diritto. La giustizia però non era completa:
_Angiolillo_ si recò dal prete corruttore e si fece dare 250 ducati, in
punizione di aver cercato di corrompere un vescovo, e, come al solito

    Tutto il contante che il prete ha portato
    Il fuoruscito ai poveri ha donato.

Circondato dalla simpatia delle masse Angelo Duca avea tale potenza,
che entrava da trionfatore in città di sei o settemila abitanti.

Il popolo lo considerava come un eroe e lo credeva invulnerabile.

Perseguitato aspramente e tradito da un compagno, fu arrestato nel
monastero di Muro Lucano e nel 1784 impiccato in Salerno, per semplice
ordine del re, senza nemmeno la parvenza di un processo. Fu forse
l'ultima condanna pronunziata a Napoli _per biglietto_, senza nessuna
procedura; e il fatto parve mostruoso anche alla Curia, che di questo
scandalo parlò a lungo.

Nè prima, nè dopo di lui vi fu alcuno che, anche lontanamente, si
potesse paragonare ad Angelo Duca. Vi furono tra i banditi molte anime
desiderose di giustizia, o almeno di vivere più umano; vi furono
individui che in non poche occasioni diedero prova di spirito di
sacrifizio e di devozione. Ma erano nature rozze, e la loro primitiva
morale non permetteva mai di elevarsi fuori dell'ambiente di miserie e
di odî in cui vivevano.

                                   *
                                  * *

Ma il vero brigantaggio politico non comincia che nel 1799. Fuggiti in
quell'anno i sovrani in Sicilia e proclamata la repubblica, questa non
avea nè potea avere salde radici nel popolo. Messa su dai francesi,
raccoglieva intorno a sè gli spiriti più eletti e insieme gran numero
di scontenti dell'aristocrazia del reame. Nondimeno si sorreggeva, e,
nonostante Nelson, la lotta da parte della squadra britannica sarebbe
durata se un uomo audace e intraprendente non avesse concepito il
pensiero arditissimo di conquistare il regno al Sovrano, eccitando le
passioni popolari e scatenando il brigantaggio.

Il cardinale Fabrizio Ruffo, il cui nome è rimasto tristamente famoso,
ma che fu migliore della sua riputazione e sopra tutto fu più onesto
dei suoi sovrani, concepì l'idea audace di riconquistare il reame,
mettendo in rivolta le classi proletarie. Principe della Chiesa
e feudatario, pieno di debiti e di audacia, senza scrupoli e pure
non perverso, egli avea un piano assai semplice ed ardito. Partendo
dalla punta estrema della Calabria e descrivendo un grande arco di
cerchio traverso la Basilicata, le Puglie e i Principati si proponeva
di giungere a Napoli, dopo aver percorso le zone principali del
brigantaggio. Riunendo dintorno a sè i banditi — come si diceva allora
che la parola brigante non era ancora penetrata — riunendo i miserabili
e gli scontenti, sapeva di arrivare a Napoli seguìto da turba infinita
e feroce, e contava di poter facilmente distruggere la mal difesa
repubblica.

In una lettera da Monteleone al ministro Acton, il Cardinale spiega
chiaramente i mezzi di cui volea valersi; contava sopra tutto di andare
avanti «nutrendo sempre la gelosia fra il popolo e il ceto medio.» Le
classi colte erano desiderose di nuovi ordinamenti: bastava atterrirle
svegliando l'odio popolare contro i possidenti. «Spero — scriveva in
un'altra lettera, partecipante la presa di Cosenza — che il popolo
basso abbia saccheggiato insieme con gli aggressori, e così _mantenga
a freno i nobili e i paglietti_,» cioè l'aristocrazia scontenta e la
borghesia.

Il Cardinale era seguìto da malfattori venuti d'ogni parte e da
banditi famosi, cui si prometteva ogni sorta di premio e da turbe
desiderose di saccheggio, le quali assai facilmente propendevano a
dichiarar giacobino chiunque possedesse. A Napoli il sinistro canto dei
sanfedisti diceva:

    Chi tene grane e vine
    Ha da esse giaccubine.

Chi possiede è giacobino.

Nelle Provincie si pensava presso a poco allo stesso modo.

Quando il Cardinale giunse a Napoli, seguìto dalle sue turbe
brigantesche, dopo aver traversato sì larga parte del reame, scrisse
sinceramente in una sua lettera che si era accorto che il popolo
trasformava ogni possidente in giacobino: «è la rapina — egli scriveva
— che produce i proprietari giacobini.»

Il piano di Ruffo era il solo che potesse riescire e riescì; dire ai
contadini: rubate le case dei ricchi, saccheggiate, dividetevi le terre
era valersi di interessi e di sentimenti veri.

Uno storico austriaco, apologista del cardinal Ruffo, il barone von
Helfert, dice che il Cardinale, per una così difficile impresa, non
potea scegliere i suoi compagni. E certo non gli scelse! Ruffo avea
seco, condottieri del suo strano esercito, briganti famosi come
Panedigrano, Pansanera, Sciarpa, Mazza, de Castro e tanti altri famosi
negli annali del delitto.

E mentre il Cardinale operava da un lato, Pronio e Rodio, due
avventurieri, operavano in Abbruzzo, Mammone e fra Diavolo in Terra di
Lavoro: altri iniquissimi altrove.

I nomi di Mammone e fra Diavolo hanno oramai acquistata una celebrità
internazionale.

Gaetano Mammone, nativo di Terra di Lavoro, era un monomane del
delitto: uccideva senza ragione, per piacere, e giungeva ad atti di
crudeltà che parrebbero inverosimili. Vincenzo Coco dice di lui ch'era
mugnaio di mestiere; che in due mesi di comando in poca estensione di
terreno fece fucilare 350 persone, oltre forse del doppio uccisi dai
suoi satelliti ed accenna alle crudeltà e ai tormenti da lui inventati.
«Il suo desiderio di sangue umano, scrive Coco, era tale che si beveva
tutto quello che usciva dagl'infelici che facea scannare: _chi scrive
lo ha veduto egli stesso_ beversi il sangue suo dopo essersi salassato
e cercar con avidità quello degli altri salassati che eran con lui;
pranzava avendo a tavola qualche testa ancor grondante di sangue,
beveva in un cranio.... A questi mostri scriveva Ferdinando da Sicilia:
_mio generale e mio amico_.»

Tutto ciò è confermato dalle cronache dei tempi e dagli scrittori più
autorevoli.

Meno terribile ma più drammatica la storia di Michele Pezza, conosciuto
sotto il nome di fra Diavolo; le cui avventure romanzesche hanno
fornito a Scribe e ad Auber il soggetto di uno dei loro migliori
melodrammi. Omicida e dei più terribili avea, dicono, l'astuzia del
monaco e la perfidia del diavolo. Era già brigante da qualche anno,
quando sopraggiunsero gli eventi del 1799; non tardò ad illustrarsi
colle sue crudeltà.

Dopo la restaurazione monarchica ebbe, come Mammone, un altissimo
grado nell'esercito, una pensione di 3000 ducati e fu nominato duca di
Cassano. Nel 1806 volle ancora insorgere in difesa del re Ferdinando
contro la monarchia francese: ma dopo molte peripezie, fu impiccato
al largo del Mercato — e a dileggio, dicono, gli si lasciò l'uniforme
di generale addosso e gli si sospese al collo il diploma di duca di
Cassano.

Or guardate i miracoli della previsione.

Nel 1803, tre anni prima cioè che fra Diavolo fosse impiccato, era
pubblicata a Parigi una storia romanzesca sotto il titolo _Les exploits
et les amours de frère Diable, géneral de l'armée du cardinal Ruffo_.
L'incisione innanzi al frontespizio rappresenta fra Diavolo in abito
da frate, armato di carabina, pistola, pugnale, sciabola e accetta:
nel romanzo egli è fatto cavaliere e la scena delle sue azioni è
raffigurata in Calabria. Il romanzo non è che una serie d'invenzioni.
Ma vi è di vero solo una _predizione_! Il romanziere fa finire fra
Diavolo sulla forca, per essersi messo di nuovo in campagna: allora fra
Diavolo era vivo, ma tre anni dopo finì in realtà sulla forca.

Or fu con questi elementi, che la monarchia borbonica fu restaurata.

I lazzari di Napoli gridavano a Ferdinando IV che rientrava a Napoli:

    Signò, 'mpennimmo chi t'ha traduto,
    Prievete, muonece e cavaliere!
    Fatte cchiù cà, fatte cchiù là,
    Cauce 'n facce a la libbertà.

Tutti i canti popolari di quel tempo non sono che feroci apostrofi
alla libertà, violente ingiurie ai giacobini: poesia infame, ma che
esprimeva sentimenti veri e sopra tutto speranza di tempi migliori.

    A lu suono de li tammurilli
    So risurte li puverielli!

Il brigantaggio del 1799 fu, come assai più tardi quello del 1860,
accresciuto dall'aver disciolto l'esercito del Re. L'esercito
raccoglieva allora i più poveri, poichè i ricchi e i borghesi si
faceano esentare, e raccoglieva anche gli elementi peggiori.

Macaulay dice che al ritorno del re legittimo in Inghilterra
fu necessario sciogliere l'esercito rivoluzionario di Cromwell.
Cinquantamila uomini, abituati a battersi, furono lasciati sulla
strada. V'era da aspettarsi qualunque cosa: invece alcuni mesi dopo non
rimaneva traccia che indicasse che una delle armate più formidabili era
stata assorbita nella massa del popolo. E quando si vedeva un operaio
prosperare in oneste industrie, si poteva dire quasi con sicurezza che
egli avea fatto parte dell'esercito di Cromwell.

Nel reame di Napoli, quando per due volte fu sciolto l'esercito del
re legittimo, la maggior parte di esso si diede al brigantaggio, alla
rapina e al vagabondaggio.

Del resto che cosa poteva essere un esercito in cui i gradi eminenti
erano riserbati a Mammone e a Fra Diavolo, e che cosa poteva essere
un'amministrazione in cui si davano i posti più alti a uomini come il
brigante Panedigrano?

                                   *
                                  * *

Quando nel 1806 si stabilì a Napoli con Giuseppe Bonaparte da prima e
poi con Gioacchino Murat la monarchia francese, i Borboni fuggirono
di nuovo in Sicilia. Ancora una volta non mancarono di aizzare il
popolo e di rinfocolare il brigantaggio: fra Diavolo uscì in campo
di nuovo e uscirono altri già noti nel 1799, i Pizza, i Guariglia, i
Furia, gli Stodui e altri di pessima fama. Con danari e con promesse
il brigantaggio fu promosso dovunque. Molti si davano alla campagna
perchè avean vendette da compiere; altri perchè l'esempio dei contadini
promossi colonnelli o duchi, come Mammone e fra Diavolo, accendeva le
menti.

Così in Basilicata dominavano Taccone e Quagliarella; nei due
Principati Laurenziello; nelle Calabrie Parafante, Francatrippa,
Benincasa, il Boia, Carmine Antonio, Mascia, Mazziotti, Bizzarro; negli
Abbruzzi Antonelli, Fulvio Quici, Basso Torneo e altri celebri.

Quando Murat salì al trono, tutto il regno si può dire che era
infestato di briganti: gli esempi del 1799 accendevano le menti, e ogni
contadino insofferente della miseria, come ogni ribaldo desideroso di
conquistare la fortuna si davano alla campagna.

Ma non era possibile ripetere a pochi anni di distanza il tentativo di
Ruffo, e mancava in ogni caso l'uomo.

Seguiti da torme fameliche, i briganti entravano nelle città,
depredavano, violavano le donne e si dicevano difensori del sovrano
legittimo. _Bizzarro_, non meno feroce di Mammone, osava dare in pasto
ai suoi cani ufficiali francesi trucidati barbaramente e avea abituato
i mastini a dare la caccia agli uomini; altri facean cose ancor più
crudeli e avevano aria di dominatori.

Taccone dominava addirittura il nord della Basilicata. In una delle
sue crudeli escursioni corse ad assediare, nel castello di Abriola,
il barone Federici. Dopo un blocco di parecchi giorni costrinse il
barone a rendersi, promettendo che non si sarebbe fatto male ad alcuno.
Appena entrati i briganti violarono la moglie e le figlie del barone e
poi buttarono tutta la famiglia nelle fiamme, da cui non si salvò per
miracolo che un bambino.

Basso Torneo, crudelissimo, detto _il Re della campagna_, bruciava
perfino una caserma di gendarmeria e condannava a esser bruciati vivi
le mogli e i figli dei gendarmi assenti.

Parafante, il Boia, Francatrippa e Laurenziello commettevano gesta
ancor più nefande.

Per il governo era necessità vincere il brigantaggio, sradicarlo sia
pure in modi crudelissimi. La monarchia di Gioacchino non era sicura
se non debellando le torme ogni dì crescenti e i cui capi mantenevano
corrispondenza assidua con casa Borbone e la corte di Palermo.

Fu adottato un rimedio estremo, e il generale francese Carlo Antonio
Manhés ebbe l'incarico di distruggere a ogni costo i briganti e gli
furono conferiti poteri eccezionali. Il generale Manhés, che a quasi
un secolo di distanza si nomina ancora con terrore nelle Calabrie e
in Basilicata, era un degno generale di Gioacchino: intraprendente,
arditissimo, senza scrupoli e nello stesso tempo uomo galante e
avventuroso.

Manhés non esitò. Bisognava, per agire sulle fantasie meridionali, per
vincere rapidamente il brigantaggio non avere pietà, sopra tutto non
transigere mai. In Abbruzzo il brigantaggio fu distrutto in poco tempo:
Antonelli impiccato, altri uccisi.

Ma le difficoltà più gravi erano in Basilicata e in Calabria, province
più vicine alla Sicilia, da cui i briganti ricevevano soccorsi e aiuti
e promesse.

Manhés avea pieni poteri: vi si recò, fece cose crudelissime. Taccone
fu preso ed entrò a Potenza non da trionfatore, sì come avea sperato,
ma a cavalcioni di un asino, la coda del quale servivagli da briglia: e
con una mitra in testa, sulla quale leggevasi a grandi lettere: _Questo
è l'infame e crudele assassino Taccone_. Era un supplizio molto comune
allora, e voleva riescire di esempio al popolo.

Quagliarella, abbandonato dai compagni, fu ucciso a colpi di falcetto
dai mietitori di Ricigliano, desiderosi di guadagnare la _taglia_, che
gli pesava sul capo.

Bisognava che la repressione non solo fosse terribile, ma apparisse
tale. Manhés non trascurò nulla a quest'oggetto. Il villaggio di
Parenti, ove una compagnia di francesi era stata trucidata, fu messo in
fiamme; altri paesi distrutti.

Con procedimento sommario, qualche volta senza nessun procedimento,
migliaia di uomini furono uccisi. «Io non vorrei essere stato il
generale Manhés — dice Pietro Colletta — ma nemmeno vorrei che il
generale Manhés non fosse stato nel Regno nel 1809 e nel 1810. Fu per
opera sua se questa pianta venefica del brigantaggio venne alla perfine
sradicata.»

Manhés — come disse nel suo ordine del giorno di Monteleone — volle
agire di un tratto, colpendo la causa stessa del male: volle prendere i
briganti per fame. Sotto pena di morte fu vietato a chiunque di fornire
loro viveri: e la disposizione fu applicata senza pietà. Significava
colpire al cuore il male, poichè dopo la caduta delle nevi non era
possibile ai briganti durare senza avere i viveri dai borghi.

La terribile repressione cominciò con il comune di Serra.

In quel comune, messo fra le giogaie dell'Aspromonte, i briganti
aveano fatto sapere che voleano arrendersi: chiesero un abboccamento
al sindaco, al tenente della gendarmeria e al capitano della guardia
nazionale. Non diffidando, questi non presero alcuna precauzione: i
briganti invece irruppero armati nella sala e trucidarono le autorità.
Il tenente si chiamava Gérard, e sua moglie, bella giovane di 22 anni,
caduta poco tempo prima nelle mani dei briganti di Castrovillari avea
subìto il più crudele oltraggio e dopo era stata assassinata.

Manhés volle fare una vendetta terribile. Si recò a Serra seguìto da
molti soldati: il paese fu pieno d'armati, e la costernazione entrò
nell'animo di tutti. Manhés non volle ricevere alcuno: vegliò tutta la
notte, pensando alla vendetta più crudele. La scelta della punizione
era difficile. Da una parte non si poteva uccidere parecchie migliaia
di persone: dall'altra non si poteva distruggere un paese necessario
alla difesa nazionale. Gli abitanti di Serra erano infatti addetti
alla industria del ferro ed essendo allora, a causa degli inglesi,
impossibili o molto difficili le comunicazioni per via di mare, le
poche miniere di ferro di Calabria eran preziose.

La gente di Serra, convinta che il paese sarebbe stato distrutto passò
la notte in orazioni ed in pianti, cercando di mettere in salvo quanto
potè di mobili e di oggetti di valore.

La mattina il generale ordinò che tutta la popolazione fosse riunita
nella pubblica piazza: l'assemblea fu innumerevole. Neppur uno mancò:
vecchi e malati si trascinarono e si fecero trascinare. Manhés entrò in
mezzo alla folla e parlò con veemenza: tutti tremavano. Ei disse che
erano uomini senza onore, che tutti dovean perire, che neppur uno si
sarebbe salvato.

A un punto ebbe una idea luminosa.

Nel profondo terrore di tutti:

«Io ordino, esclamò, che tutte le chiese di Serra siano murate, che
tutti i preti senza eccezione abbandonino questo paese maledetto e
vadano a Maida. I vostri fanciulli nasceranno senza battesimo; i vostri
vecchi moriranno senza sacramento. Se alcuno tenterà di uscire dal
paese sarà ucciso e voi dovrete vivere soli come cani.»

Bisogna conoscere il paese per comprendere l'abbattimento che vinse
tutti; una condanna di morte non avrebbe agito così.

Quando Manhés partì, tutta la città era deserta. Ma nel bosco il
generale s'imbattè in una processione interminabile: migliaia di
persone con le camicie bianche, si battevano il petto nudo con
le pietre e imploravano misericordia. — Uccideteci piuttosto! —
esclamavano.

Manhés fu inesorabile. I preti furon condotti via tutti; fu portato
a braccia perfino un vecchio prete di ottant'anni e rinchiuso nel
seminario di Maida. Serra rimase nella desolazione, con le sue chiese
chiuse.

Il generale promise che avrebbe perdonato solo quando in tutto il
territorio di Serra e nei boschi vicini non fosse stato in vita un
solo brigante. La disperazione fece fare cose terribili: i legami di
amicizia o di sangue non impedirono la strage. Neppure un brigante
sfuggì. In pochi giorni fu fatto ciò che nessun esercito avrebbe
potuto.

E allora Manhés tolse l'interdetto.

La popolazione tutta intiera si recò a Maida a riprendere i suoi preti,
fra le grida di giubilo e d'allora Serra non ebbe mai più un brigante.

«Ove i popoli sono infieriti con le armi — ha detto Vico — talchè non
vi abbiano più luogo le umane leggi, l'unico potente mezzo di ridurli
è la religione.»

Oltre gli uccisi, il cui numero è assai difficile indicare, 1200
briganti furono rinchiusi nelle diverse prigioni della Calabria.

Sotto la più terribile delle persecuzioni i capi si videro abbandonati
dai seguaci; resa loro impossibile la comunicazione con coloro che
erano nei paesi e che li aiutavano, fucilati costoro su semplice
sospetto, messe grosse taglie sui briganti più noti, l'avidità, il
desiderio di salvarsi fecero sì che molti tradirono o vendettero i
compagni.

La fine di molti briganti fu crudelissima.

Più terribile, più tragica di tutte la fine del brigante Bizzarro.
Attorniato da ogni parte, abbandonato da tutti, si era ridotto nel
bosco di Rosarno con la sua amante Niccolina Licciardi di Seminara
e con i suoi due terribili mastini, divoratori di uomini. L'amante
avea dato da pochi mesi a Bizzarro un figliuolo, e nelle lunghe fughe
precipitose, nelle peregrinazioni dolorose la donna portava a braccia
il bambino: madre e amante fedele nel periglio.

Bizzarro si era ricoverato in un antro solitario, noto forse a lui
solo, e di cui l'entrata assai angusta era difesa e nascosta dai rovi
e dalle erbacce.

Ora il bambino che avea sofferto di quella vita errante piangeva
sempre. La donna cercava invano di attaccarlo al seno esausto: la notte
sopra tutto non facea che gridare. Una notte in cui le grida erano
maggiori e i terribili cani guaivano quasi per segnalare l'avvicinarsi
di gente, Bizzarro esasperato, temendo di essere scoperto, prese il
figlio per un piede e lo fracassò contro il muro.

La donna non disse nulla.

La mattina, quando il brigante fu uscito scavò con il coltello una
fossa nella grotta e vi seppellì dentro il figliuolo e pose sopra il
letto, perchè i cani non scavassero il cadavere per divorarlo. Nelle
notti insonni ella dovette maturare il pensiero terribile; e una notte
che Bizzarro dormiva prese il fucile e lo uccise. Poi gli recise la
testa, la mise nel grembiale e si recò al comune vicino per chiedere il
danaro promesso a chi avrebbe dato morte al brigante.

Qualche tempo dopo la donna si maritò e il generale Manhés dice che fu
sposa e madre esemplare.

La persecuzione di Manhés in Basilicata e in Calabria durò pochi mesi:
ma fu così terribile, che in breve tempo non rimase più in vita un solo
brigante.

                                   *
                                  * *

Dalla persecuzione di Manhés, avvenuta fra il 1810 e il 1811 sino alla
fine della dinastia borbonica, nel 1860, in mezzo secolo, fatta qualche
eccezione, il brigantaggio torna a essere malandrinaggio.

Appaiono anche in questi cinquant'anni alcune eccezioni notevoli,
come quel famoso don Gaetano Vardarelli, intelligente e non privo di
studi, che insieme ai suoi fratelli e a molti compagni dominò quasi
la provincia di Foggia fra il 1815 e il 1817. Carbonaro e cattolico
avea, malgrado non poche ribalderie, tendenze liberali e umanitarie e
volea rassomigliare e rassomigliava in qualche cosa ad Angelo Duca. I
Vardarelli aveano con sè la simpatia delle popolazioni, e non erano da
confondersi con i banditi volgari. Il governo borbonico, che non avea
potuto averli per forza d'armi li ebbe per tradimento: promise loro ciò
che chiedevano, e come tante volte prima e dopo, venne meno al patto.

Il brigantaggio ebbe ancora qualche figura meno crudele o corrotta:
ma fu sempre, dopo, sfogo naturale della miseria, della ingiustizia e
della delinquenza, sì com'era stato prima nel 1799.

I famosi briganti del regno di Francesco I, la «grande compagnia di
Gasparone,» la quale taglieggiava i comuni e i proprietari in Abbruzzo;
la trista comitiva di _Mezzapenta_, famosa in Terra di Lavoro: le
piccole bande sparse dovunque nella Basilicata non riunivano che
disgraziati o delinquenti. Le operazioni erano sempre le stesse;
si derubavano i viandanti, s'imponevano taglie ai possidenti, sotto
minaccia di rovinare le loro proprietà; si rubavano e violavano donne,
si eseguivano vendette per incarico o per commissione; storia di
tristezze e di miserie.

Accanto al brigantaggio fioriva il _manutengolismo_, come si dice
ancora da noi, ed era di due specie: era fatto per timidità ed era
fatto per avidità. Vi erano coloro che speculavano sui briganti,
che qualche volta arricchivano su di essi. I briganti doveano avere
il protettore, l'informatore, il difensore; e spesso queste qualità
si trovavano in coloro stessi che doveano perseguitarli. Parecchie
fortune sono state fatte col brigantaggio; assai spesso il manutengolo
arricchiva e il brigante finiva sulla forca. Le chiese stesse e i
monasteri erano asilo di briganti, e i monaci di Venafro pregavano
il giorno e non disdegnavano la notte di travestirsi per assalire i
viandanti e per derubarli. Anche durante il regno di Ferdinando II il
brigantaggio non fu che malandrinaggio: raccontarlo non sarebbe che
ripetere una storia di dolore e di sangue. Le autorità erano fiacche,
le popolazioni impaurite, le miserie grandi; l'esempio dei briganti
arricchiti esaltava e accendeva le nature più miti. Perfino in tempi
molto vicini a noi Ferdinando II, non riescendo a vincerlo altrimenti,
graziava il brigante Giosafat Talarico, gli accordava lauta pensione e
soggiorno nella ridente isola d'Ischia.

Ma la minaccia era sempre sospesa sul capo dei liberali, e le classi
desiderose di novazioni (in grandissimo numero per necessità o
per bisogno, in una certa parte per idealità) si preoccupavano dei
massacri che ogni mutamento avrebbe prodotto: si sapeva che qualsiasi
rivoluzione volea dire _Santa Fede_ a Napoli e il brigantaggio nelle
province.

Nel 1820, che pure non lasciò traccia alcuna, perchè fu moto incomposto
e ingiustificabile, mentre i carbonari discutevano di libertà e i loro
seguaci chiedevano impieghi nelle province, il brigantaggio si acuiva.

Più ancora il male si manifestò nel 1848.

Data la costituzione a malincuore si volle dalla Corte determinare
quello stato di squilibrio, che rendeva necessario il ritorno al
vecchio regime. I principi di casa reale, come il conte d'Aquila e il
principe di Salerno pensarono di «promuovere la rivolta dei contadini
nelle province, della plebaglia nella capitale» come scrive P. S.
Leopardi. Difatti, in parecchi comuni, torme di contadini invasero le
terre pubbliche e vollero dividersele e il brigantaggio, già depresso,
cominciò a rifiorire.

Leggendo gli scritti e la corrispondenza dei liberali del 1848 traspare
ogni momento la loro ingenua sorpresa nel vedere che, mentre essi
lottano per la libertà, i contadini si rivoltano, invadono le terre
pubbliche e se le appropriano, oppure si trasformano in briganti. L'8
giugno del 1848 Carlo Poerio scriveva a Raffaele Poerio: «Una setta
anarchica s'impadronisce delle proprietà dei privati e quindi irrita
e allarma i ricchi e li rende devoti a qualunque governo che permetta
sicurezza.» E dopo ingenuamente confessa che, mentre la famiglia Poerio
fa tanti sacrifizi «i nostri coloni non pagano e la guardia nazionale
di Policastro s'impadronisce della Sila e la divide fra i suoi
abitanti!» E lo stesso Carlo Poerio scriveva ad Alessandro il 22 luglio
del 1848: «La difficoltà non è di far cadere il Ministero; ma sibbene
di comporne un altro, mentre vi è una feroce reazione sanfedista nelle
province, dove vi era stata mossa.... La rapina e i ricatti delle bande
armate aveano finito di disgustare la massa dei proprietari e degli
onesti cittadini. Nel Cilento, poi, gli sciagurati, che si sono mossi,
formano una setta antisociale e bestiale, che non si occupa d'altro
fuorchè di mettere a sacco e a ruba il paese.»

Nei nostri Parlamenti si fa sovrastare ora il pericolo dei dinamitardi;
allora non v'era la dinamite e si parlava con terrore dei _fuochisti_,
miserabili contadini che a ogni agitazione volevano riprender le terre
che altri usurpava. E la monarchia trovava la sua difesa appunto nel
divampare degli odî popolari.

Così Francesco II cercò di salvarsi nel 1860, impiegando la stessa
politica che più di sessant'anni prima avea salvata la corona del suo
bisavolo. Egli e i suoi, prima di andar via, gittarono in fiamme il
reame. L'esercito disciolto, proprio come nel 1799, fu il nucleo del
brigantaggio, come la Basilicata ne fu il gran campo di azione.

Anche allora uomini di fede pura lasciarono la vita miseramente. I
briganti entrarono nelle borgate e nelle città, ebbero i loro generali,
i loro capi, i loro protettori, i loro sfruttatori; fu l'esplosione
di tutti gli odî, fu il divampare di tutte le vendette. Sopra tutto al
sorgere del brigantaggio nel nord-est della Basilicata, fra i trucidati
furono alcuni uomini che erano per la virtù della vita e la nobiltà
delle idee onore della loro terra. Ma più tardi la politica entrò
solo in parte, come mezzo di unione e di rallegamento. Il popolo non
comprendeva l'unità, e credeva che il re espulso fosse l'amico e coloro
che gli succedevano i nemici. Odiava sopra tutto i ricchi, e riteneva
che il nuovo regime fosse tutto a loro benefizio.

L'Italia nuova non ha avuto il suo Manhés; ma le persecuzioni sono
state terribili, qualche volta crudeli. Ed è costata assai più perdita
di uomini e di danaro la repressione del brigantaggio di quel che non
sia costata qualcuna delle nostre infelici guerre dopo il 1860.

                                   *
                                  * *

  Signore e signori,

Io v'ho detto che cosa sia stato il brigantaggio: vi ho raccontato
tutta una storia di dolore.

Ora permettete che io mi chieda: abbiamo noi rimosse le cause del male?
La stessa domanda si rivolgeva venti anni or sono Pasquale Villari, e
rispondeva con tristezza che le cause esistono tuttavia. Alcune, e le
principali, non solo non sono state eliminate, ma in qualche punto si
sono inacerbite.

Abbiamo costruito alcune ferrovie ed è stato un bene anche quando
non rappresentano un'attività; abbiamo imposta, sia pure con poca
efficacia, l'istruzione obbligatoria, e il popolo, se ha imparato molte
cose inutili, alcune utili ha appreso. L'esercito, per fortuna nostra
non ancora basato sull'ordinamento territoriale, che vorrebbe dire
la fine dell'unità, ha avuto un vantaggio; centinaia di migliaia dei
nostri contadini sono usciti dai loro paesi, hanno visto nuove città,
hanno sopra tutto dimenticato. Gli odî trasmessi per eredità, acuiti
dalla vicinanza, esacerbati dalla ingiustizia, sono qualche volta
diminuiti. Il contadino ha acquistato un più alto concetto di sè: chi
ricorre a lui, sia pure per il voto, per la sovranità fittizia del
momento, non può esser sempre inumano.

Ma in tutto il resto le cose non sono mutate.

La massa degli intermediari è cresciuta, è altresì strabocchevolmente
aumentato il numero dei professionisti. Vi erano nel regno di Napoli
cento mila ecclesiastici un tempo: maggiore è forse oggi, nelle
province, che lo componevano il numero dei professionisti laureati e
diplomati. E almeno gli ecclesiastici non si sposavano e non chiedevano
alle amministrazioni impieghi per i figliuoli. Le terre pubbliche sono
state usurpate, usurpate contro la legge, e noi abbiamo assistito
spettatori silenziosi a tanto male. Le imposte sono cresciute e
cresciute su chi non può pagarle: e sono pondo insostenibile e crudele.
Non una parola di amore ha portato la civiltà nuova a tante sofferenze,
non una parola di pace. I contrasti sono ancora stridenti; e così
assorbiti come siamo dalle nostre miserie, dalle nostre vanità, dalle
nostre preoccupazioni, noi chiudiamo gli occhi a tutto e non vediamo.
In un'ora difficile, in un'ora di periglio, il male sopito ora potrebbe
divampare.

E allora, voi mi chiederete, perchè il brigantaggio non esiste più
quando molte cause permangono?

Perchè noi mandiamo ogni anno fuori di Europa dal solo Mezzogiorno
continentale, un vero esercito di quasi cinquanta mila persone e i
contadini di Basilicata, delle Calabrie, del Cilento, che non chiedono
nulla allo Stato, nemmeno bonifiche derisorie, nemmeno consorzi
mentitori, nemmeno tariffe di protezione, danno il contingente
più largo. Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del
brigantaggio e una dell'emigrazione e l'una e l'altra si completeranno
e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi.

Una delle più crudeli accuse e più inique è nel dire che i contadini
meridionali amano l'ozio; ho visto molta gente lavorar meglio, nessuno
lavorar più.

La miseria crudele non ha ucciso le intime energie della razza, l'anima
essenziale della stirpe; il brigante e l'emigrante con la rivolta e con
l'esodo sono la prova di una mirabile capacità espansiva.

— Che cosa farai? — io chiedevo al vecchio contadino che partiva.

— Chi lo sa! — egli mi rispondeva.

Non chiedeva nulla, non voleva nulla. Andava a lottare, a soffrire;
aspirava alla sazietà. In altri tempi sarebbe stato brigante o
complice; ora andava a portare la sua forza di lavoro, il suo
misticismo doloroso nella terra lontana, a costituire forse con i suoi
compagni quella che dovrà essere la nuova Italia.

O povera gente così forte e così infelice, così buona e così calunniata!



IL VESCOVO D'IMOLA

CONFERENZA DI ERNESTO MASI


Sulla fine di dicembre del 1832 Giovanni Maria Mastai-Ferretti,
arcivescovo di Spoleto, e che poi divenne Papa col nome di Pio IX, fu
da Gregorio XVI nominato vescovo d'Imola.

Entrò in Imola (notano con intenzione certi suoi biografi) il mercoledì
delle Ceneri del 1833.

Se questo indefinibile arnese letterario, che si chiama una conferenza,
e in cui la dose del poco e del troppo resta sempre un problema, si
dovesse e potesse limitare ad una semplice biografia, io, per verità,
dovendo fermarmi al 1846, non avrei molto da dire.

La vita di Pio IX è divisa essenzialmente in due parti, e la prima e
più naturale divisione di essa neppur si ferma al 1846, bensì continua
fino al 15 novembre del 1848, che Pellegrino Rossi, Ministro di Pio IX,
fu assassinato in Roma a tradimento, mentre, sceso appena di carrozza,
saliva il primo ramo di scala del palazzo della Cancelleria per recarsi
a riaprire il Parlamento degli Stati Pontifici. Il giorno dopo, la
rivolta di piazza, sobillata dai circoli demagogici, ormai padroni
del campo, assaliva Pio IX nel Quirinale, gli imponeva un Ministero,
e in capo ad altri nove giorni, il Papa, travestito da semplice prete,
fuggiva da Roma nella carrozza della contessa Spaur, ambasciatrice di
Baviera, e si rifugiava a Gaeta. La prima parte della vita di Pio IX
finisce qui.

Da questo momento fino al 7 febbraio 1878, in cui Pio IX morì,
egli, come uomo, come principe, come Papa, è un personaggio storico
diversissimo da quello di prima, sebbene forse nell'uomo, nel principe
e nel Papa di prima si trovino già, se non tutte le cagioni (le quali
oltrepassano la sua qualunque individualità e sono di ordine più
generale), certo molte delle ragioni sufficienti del mutamento in lui
sopravvenuto.

Se non che fermandoci al 1846, che fu il primo anno del suo
pontificato, noi vediamo in lui non solo il vero iniziatore del
risorgimento italiano, allorchè questo esce finalmente dal periodo
delle profezie letterarie, delle visioni teoriche, delle sommosse
spicciolate e delle tenebrose cospirazioni, espiate coi martirii, per
entrare nella piena luce della grande azione storica e comprendere in
un moto irresistibile tutta intiera l'Italia e l'Europa, ma assistiamo
altresì a questo fenomeno singolarissimo, che un uomo senz'alcun
antecedente personale molto notevole, un uomo mediocre (l'epiteto è
del Gioberti), mediocre di animo, di bontà, di coltura, d'ingegno e di
carattere, e quasi inconsciente degli effetti prossimi e remoti della
sua azione pubblica, può tuttavia dare la prima e più decisiva mossa a
così straordinaria mole di eventi, e lo vediamo proprio, quando egli è
ancora portato e si lascia volentieri portare dall'onda enorme d'una
popolarità subitanea e senza esempio, e innanzi ch'egli incominci ad
accorgersi e spaventarsi del crollo strapotente dato dalla sua debole
mano a tutto il vecchio mondo e con una sola parola: _perdóno_, a
pronunciar la quale, fra tanto imperversare di odii implacabili,
d'ingiustizie selvaggie, d'impòtenti repressioni e di inutili
vendette, non occorreva, se guardiamo bene, nè alcuna eroica bontà,
che l'inspirasse, nè alcuna sopraffina abilità di governo, che la
suggerisse anche al più modesto politico, come lo spediente migliore.

Una filosofia della storia alla Bossuet potrebbe quindi far di Pio
IX un docile istrumento della provvidenza di Dio. Una filosofia della
storia alla Darwin potrebbe far di lui una di quelle forze cieche, che
agiscono nel mondo morale e materiale all'infuori d'ogni determinazione
volontaria e per fatale impulso d'una legge misteriosa, che sfugge
all'osservazione degli uomini. E quella in fine che oggi chiamasi
concezione materialistica della storia, che è la filosofia professata
dalla scuola socialista o giù di lì, e pretende aver sorpassate tutte
le altre, perchè le riduce tutte al fenomeno _economico_, quella, dico,
dinanzi al fenomeno storico d'un Pio IX, non potendo spiegarselo nè
coll'organismo della produzione, nè colla bilancia mobile dei salarii,
nè col prezzo delle derrate e via dicendo, probabilmente passerebbe
oltre senza curarsene, lasciando che altri riempisse, come meglio
crede, una siffatta lacuna.

La realtà è invece, mi sembra, che iniziando o fermandosi, secondando
o resistendo, annientandosi come principe o esagerandosi come
papa, il destino di Pio IX è di essere, anche suo malgrado, uno dei
fattori storici principali della Rivoluzione Italiana, e che tale
destino s'adempie in lui fino all'ultimo; s'adempie persino nelle più
prestigiose coincidenze esteriori con una puntualità singolare. Muore
difatti il primo Re d'Italia in Roma; pochi giorni dopo lo segue Pio IX
nella tomba. L'Italia è fatta! Il periodo storico della vera e grande
Rivoluzione Italiana è finito!

Sotto questo aspetto almeno, parlar di lui con serenità, con giustizia,
con equità, con misura, oltrechè ufficio della storia verso ognuno,
par quasi debito di riconoscenza nazionale, sebbene sia difficile
sempre, come avvertì il Machiavelli, parlare senz'odio o senz'amore dei
contemporanei e non dispiacere a molti, quanto più appunto ci si studia
di non dispiacere a nessuno. Ciò in generale. Nel caso speciale di Pio
IX, la quantità degli scrittori, che pro o contro, di proposito o per
incidenza, hanno parlato di lui, cresce a dismisura la difficoltà. Da
cinquant'anni ad oggi sono a migliaia e in tutte le forme letterarie
possibili. Una classificazione qualsiasi chi potrebbe tentarla neppure?

Guardando alla grossa, v'ha i patriotti classici (chiamiamoli così)
che spiegano per insegna l'epigramma famoso dell'Alfieri: — _Il Papa
è Papa e re — Dèssi abborrir per tre!_ — senza stare a cercar altro;
v'ha chi si vanta di non aver mai dato dentro all'illusione di un Papa
liberale e italiano, e razzola e aggruppa aneddoti e pettegolezzi per
dimostrare che questo Papa, apparso nel 1846 come un prodigio, altro
non era che la resultanza combinata d'un Alessandro VI e d'un Pio V,
d'un fanatico e d'un feroce; v'ha chi si affligge d'aver visto svanire
con Pio IX il maggiore, forse l'ultimo, tentativo di conciliazione fra
Italia e Papato, cattolicismo e libertà; v'ha chi arreca a lui solo la
colpa d'aver mandato a male il moto di riscossa più largamente e più
profondamente popolare, che sia mai stato in Italia, e non gli perdona
di non aver saputo essere un Alessandro III, come se al 1848 l'Europa
fosse ancora composta di Papi, Imperi e Comuni, mentre invece i Comuni
alla medio evo non esistevano più, e Papi ed Impero non erano più che
due Stati, uno debolissimo contro un forte; v'ha chi esalta e divinizza
Pio IX come l'eroe e il martire del secolo, che dopo una lotta immane
contro tutte le malvagità del suo tempo soccombe bensì, ma lancia,
cadendo, col _Sillabo_ e l'_Infallibilità papale_ l'ultima condanna,
l'ultima sfida a tutte le scapestratezze della società moderna, e le
ha preparato in pari tempo l'ultimo porto di salvezza, quando stanca,
prostrata, pentita de' suoi errori e vagante come pazza fra tenebre
mentali sempre più fitte, tornerà a ridomandare la luce e la pace delle
verità tradizionali al solo uomo, che ha dunque, dicono, la certezza di
non errare.

La speranza di tale ritorno è audace, non v'ha dubbio, non meno della
condanna e della sfida; ma a che pro continuare questa enumerazione,
se non c'è possibilità di compirla, e se essa non varrebbe forse
che ad impigliarci in polemiche infinite senza alcuna probabilità nè
di scegliere, nè d'intenderci, nè d'accordarci, nè di venire ad una
conclusione?

Stiamo dunque modestamente ai fatti, come sono. Essi soli, non
sempre, ma il più delle volte danno lume a orientarsi fra le fallacie
delle dottrine, i mutamenti delle opinioni, le superbie, i vanti, le
ingenuità e le perfidie delle sètte, delle fazioni e delle scuole,
ognuna delle quali pretende naturalmente di possedere tutta la verità.

Ci fermammo l'anno scorso, se ve ne ricordate, al 1831, l'anno
dell'elezione di Gregorio XVI. Le ultime onde della rivoluzione
erano venute a sbattersi languidamente e a morire sulle porte del
conclave, che lo aveva eletto, e quando queste porte si riaprirono,
ne uscì un Papa dei soliti, un vecchio cioè quasi settantenne, che da
quarantasette anni era monaco Camaldolese, ch'era stato bensì Prefetto
di Propaganda e negoziatore di concordati con qualche Stato europeo, ma
che se molto sapeva di teologia, delle cose di quaggiù avea cognizione
ed esperienza, quanto di quelle del mondo della luna. Eppure, chi
lo crederebbe? Fra le quinte del conclave, anche Gregorio era stato
combattuto come avverso all'Austria, e citando un passo della sua opera
teologica: _Il trionfo della Santa Sede_, qualcuno s'era pure provato
a farlo passare per liberale. Poveretto! Un torto, che non meritava
davvero, come non meritava d'essere annunciato ai suoi _felicissimi
sudditi_ con le parole divenute famose del cardinale Bernetti, suo
segretario di Stato: «_un'era novella incomincia_». Un buon astrologo,
in fede mia, quel Bernetti e soprattutto in gran buona fede!

Furono quindici anni di congiure, di sommosse periodiche, di
repressioni feroci, d'interventi stranieri, di carcerazioni, di esigli,
di condanne, di supplizi, e di un oscurantismo così insensato, che
infamarono nell'opinione pubblica europea il Governo Pontificio, e
che resero proverbialmente odioso il nome di Gregorio XVI, forse
non cattiv'uomo nel fondo; certo non tale, quale il libello e la
satira politica (unica vendetta ed unico sfogo agli oppressi) l'hanno
dipinto, perocchè è falso ch'egli fosse scorretto di costumi, dedito
al vino fino all'ubriachezza abituale, avido del danaro pubblico per
arricchirne i nipoti, e tutti gli aneddoti, nei quali si compiacque,
per esempio, l'erotica fantasia del Petruccelli della Gattina nella sua
_Storia dei Conclavi_, e che si vedono ricopiati da tanti altri della
sua risma, sono invenzioni.

Lo si diceva, poniamo, dominato a bacchetta dal suo cameriere, Gaetano
Moroni, per certo intimissimo suo, e che avendo cominciato barbiere
del convento dei Camaldolesi, avea finito per essere in corte del Papa
un gran personaggio, a cui non solo s'inchinava riverente una folla
di mendicanti e di cacciatori d'impieghi, di grazie e di onori, ma che
per mezzo dei diplomatici e dei visitatori stranieri più cospicui era
divenuto noto a tutt'Europa e riverito col vezzeggiativo di _signor
Gaetanino_, com'era solito il Papa chiamarlo. Il mondo è sempre stato
così e continua ad essere, anche se il _signor Gaetanino_ non è più
in corte del Papa, ma è invece ministro, deputato, o un pezzo grosso
qualsiasi. Pur di piegare la schiena a qualche potente, o creduto
tale!! Ora anche il _signor Gaetanino_, un mitissimo cortigiano,
tutto miele di sorrisi, di complimenti e di riverenze, è dipinto nei
libelli e nelle satire contemporanee come un Tigellino spietato, un
Seiano, consigliere d'infamie e qualcosa pure di più turpe, ed in
tutto questo parimenti non c'è nulla di vero. Il _signor Gaetanino_
invece era un giovine popolano, intelligente, istruitosi un po' da
sè, un po' coll'aiuto del Papa e riuscito all'ultimo un erudito non
volgare, sempre poi un lavoratore indefesso, il quale, oltre alle
sue faccende di corte, ha trovato modo di lasciare 120 volumi d'un
_Dizionario Storico-Ecclesiastico_, che anche oggi si consulta con
qualche utilità. Certo, egli era un servitor devoto e affezionatissimo
al Papa, nè mai s'era sognato che il suo signore e padrone potesse
aver torto, ma era un galantuomo, rispettato per tale a Roma, dove io
stesso ebbi curiosità di conoscerlo, come un monumento d'antichità,
poco dopo il settembre del 1870, rispettato, dico, anche dai liberali,
e soggiungerò che fra i papalini più noti rimarcai ch'egli era uno dei
più indifferenti alla mutazione avvenuta.

Di lui seppi altresì con certezza quest'aneddoto. Gregorio XVI avea
in odio mortale le ferrovie, come un'invenzione del diavolo, e da
buon logico non volea neppur sentirne parlare. Per vincere questa
sua ripugnanza, i banchieri, che ne brigavano la concessione per gli
Stati Pontifici, immaginarono (da quell'ingegnosissima gente che sono)
di presentare al Papa il modellino d'una ferrovia tutto in argento,
un amore di giocattolo, ch'essi credevano avrebbe valuto a sedurre
quel tanghero di teologo. Ufficiarono quindi il _signor Gaetanino_,
offrendogli una somma addirittura enorme, affinchè egli facesse trovare
al Papa quel giocattolo sul suo scrittoio. Il _signor Gaetanino_
rispose secco ch'ei non guadagnava il suo denaro a così buon mercato,
ch'ei non si prestava a tale insidia al suo benamato padrone, e
rifiutò. Non voglio farne per questo un eroe; dico soltanto che tanti
altri _Gaetanini_ della vita pubblica d'adesso non solo avrebbero
accettato il negozio, ma, riuscendo, avrebbero ingoiato anche la
_ferrovia vera_ con la macchina accesa e i vagoni pieni!

Che perciò? Non meno indegno, nè meno giustamente diffamato fu il
governo di Gregorio XVI per la cecità bestiale del suo oscurantismo
e per la efferatezza dei mezzi, con cui credette aver diritto di
difendere da ogni minaccia il suo principato; cecità ed efferatezza
che, se già altre circostanze più alte e più speciali non ci fossero,
spiegherebbero da sole il contraccolpo di quasi folle entusiasmo e
l'esplosione subitanea di giubilo, di contentezza e di speranza, con
cui ad occhi chiusi fu accolto Pio IX.

Domata nel marzo la rivoluzione del 1831, gli Austriaci nel luglio
se n'andarono dalle Romagne, ed il paese restò in uno stato di strana
incertezza, con una guardia civica, riarmatasi nelle quattro Legazioni,
ed un governo, che intanto metteva insieme un'orda di usciti di galera
e di banditi fra Rimini e Ferrara coll'idea di compir l'opera, che gli
Austriaci avevano lasciata a mezzo.

Era in sostanza la guerra civile, che s'andava bel bello
apparecchiando, e che al cardinale Bernetti, il quale pur si vantava
discepolo del Consalvi, non parea poi un ideale di governo da
disprezzarsi del tutto. Non così la pensavano le potenze protettrici,
le quali in cinque, non esclusa l'Austria, avevano chiesto con un
_memorandum collettivo_, come si praticherebbe col Bey di Tunisi, fino
dal 10 maggio 1831, che almeno le più marchiane assurdità del Governo
Pontificio fossero corrette. Il Bernetti fece l'uomo offeso. O non avea
promesso l'_êra novella_? Aspettassero dunque che l'erba crescesse, e
l'erba, la mal'erba, fu il cardinale Albani, cagnotto dell'Austria e
uno dei più vecchi e peggiori arnesi della Curia, messo alla testa di
quell'infame marmaglia, che s'andava riunendo fra Rimini e Ferrara, e
incaricato di rimettere in cervello del tutto Bologna e le Romagne.

A tale minaccia quelle popolazioni si risentirono fieramente. Fra gli
ultimi di dicembre e il gennaio 1832 una parte delle Guardie Civiche
di Forlì, di Ravenna, d'Imola e di Bologna s'andò pertanto radunando a
Cesena, deliberata di tener testa ai Papalini, i quali finalmente il 20
gennaio dettero l'assalto a Cesena. I liberali non erano più di 1800;
quasi 5000 i Papalini. I primi, male armati e non guidati da alcuno,
resistettero ciò nonostante sei ore, poi si sbandarono, ed i secondi,
entrati in Cesena, non perdonarono nè a luogo, nè a sesso, nè a età, nè
a condizioni: trucidarono vecchi, donne, preti, bambini, persino nelle
chiese, dove alcuni avevano cercato rifugio. Sono così enormi questi
fatti, che molti scrittori per partito preso cercarono attenuarli
o negarli, quella perla del Cantù fra gli altri, ma, oltrechè negli
storici più gravi e nelle corrispondenze private e diplomatiche, sono
concordemente attestati da certi diari manoscritti, che si conservano
a Cesena e sono opera di preti o di gente ad essi devotissima. Non
c'è quindi da dubitarne, tanto più che le gesta del cardinale Albani a
Cesena si rinnovarono quasi identiche, se non peggiori, il 21 gennaio a
Forlì, il 24 a Faenza, e il 25 a Imola, dove i Papalini si congiunsero
cogli Austriaci, ritornati subito, e tutti insieme furono il 26 a
Bologna, dove, per colmo d'obbrobrio (tanto era l'orrore inspirato dai
lanzichenecchi papali) gli Austriaci furono accolti e acclamati, come
salvatori.

Volle ora l'Austria far suo pro dell'esecrazione eccitata da queste
tragedie, per vantaggiarne le sue vecchie cupidigie sulle quattro
Legazioni? Se ne adombrò il Papa e pensò di opporre stranieri a
stranieri nello stesso modo che opponeva una parte dei suoi sudditi
all'altra? Ossivvero la Francia si mosse di suo per bilanciare
l'influenza dell'Austria e impedirne un ulteriore ingrandimento in
Italia? Fatto è che ora accade questo: l'Austria cerca estendere i
suoi partigiani colla sètta Ferdinandea; i Francesi di Luigi Filippo
occupano Ancona, dandosi le solite arie di venire in aiuto ai liberali,
che invece perseguitano per conto del Papa al pari degli Austriaci; le
truppe del Papa neppur si provano di resistere e nondimeno il cardinal
Bernetti (lui, che avea chiamati e richiamati gli Austriaci) protesta
contro la nuova invasione straniera, mentre poi, per poter fare a meno
di Austriaci e Francesi, organizza le sue masnade in _Centurioni_
(vera sètta di scherani sedentari, raccolta luogo per luogo, a cui
era assicurata l'impunità d'ogni delitto) e di lì a poco, per compir
l'opera, assolda due reggimenti di Svizzeri.

Lo dissi già l'anno scorso. Se non vivessero ancora molti della
generazione, che l'ha visto cogli occhi proprî, difficilmente si
crederebbe ad un simile viluppo di stoltezze e d'iniquità (pare che
molti, troppi Italiani se ne siano scordati), eretto, in pieno secolo
XIX, a sistema di governo, per eccellenza conservatore, e a cui non
mancarono neppure interpreti teorici più sfrontati, lo Haller nella
_Restaurazione della scienza politica_, il Canosa nell'_Esperienza ai
Re della terra_, Monaldo Leopardi, il padre del poeta, nei _Dialoghetti
sulle materie correnti nel 1831_, e parecchi altri.

Il paese era prostrato senza più nè fiducia, nè energia, nè speranze.
Gli esuli invece numerosissimi s'agitavano, ed ora principia la serie
dei tentativi rivoluzionari, organizzati dal di fuori e che non trovano
dentro se non consensi spicciolati dei più arrischiati, dei meno in
cervello, dei meno atti e veder chiaro e a riferire giustamente, o
peggio ancora, di coloro che pescano nel torbido per professione; un
quissimile delle proscrizioni e dei ritorni guelfi e ghibellini dei
nostri Comuni medievali.

Notiamo intanto. — Anche l'insurrezione della Guardie Civiche di
Romagna nel 1832 ha un carattere iniziale di semilegalità, perchè
si mossero richiedendo l'esecuzione delle promesse del Bernetti,
quel burlone dall'_êra novella_, e se all'ultimo intonarono nei loro
bivacchi e nella breve pugna di Cesena il _Ça-ira_ e la _Carmagnola_,
reminiscenze giacobine, fu l'immanità della repressione, che dimostrò
non esservi possibilità d'intesa col Papa ed i suoi ministri.

Ma, in mezzo a questo pandemonio di congiure, di promesse non
mantenute, d'invasioni straniere e di brigantaggio organizzato, non è
men vero che un'opinione moderata va spuntando, il proposito di opporre
il bene al male, di mettere tutto il torto dalla parte del governo,
di appellarsi all'opinione pubblica liberale, che dopo il 1830 va
sempre più slargandosi e imponendosi in tutt'Europa, e di forzarla a
metter riparo a tante enormezze. Contemporaneamente però, e appunto in
quest'anno 1832, Giuseppe Mazzini fondava la _Giovine Italia_, il cui
programma era l'azione immediata, e un determinar tutto _a priori_,
l'unità nazionale, la repubblica come forma di governo, l'insurrezione
popolare, come mezzo a conseguir l'una e l'altra, e persino una riforma
educativa e religiosa, contenuta nella sua celebre formola: _Dio e
Popolo_, ed ecco una nuova ragione di dissenso e di contrasto fra i
liberali.

Ormai è tempo però di non giudicar più tali dissensi e contrasti solo
dalla riuscita e di sollevarsi ad una critica più giusta, che tenga
conto delle condizioni d'allora e soprattutto veneri, come merita,
tutta questa forte generazione d'uomini, che fra tante ruine non
disperò mai, non si accasciò mai sull'orma sua, ma lottò tenacemente
e sempre, e quante volte cadde rovesciata, altrettante si rialzò e
riprese a combattere, variando arme, propositi, ed anche moltiplicando
colpe ed errori, se si vuole, ma senza contar mai le vittime, delle
quali aveva seminata la via.

La propaganda mazziniana trovò in Romagna molti aderenti; in Bologna
assai meno allora e dopo. Allora poi le nocquero soprattutto le due
imprese tentate in Piemonte e in Savoia nel 1833 e 34, che parvero e
sono veramente d'una supina e colpevole inanità e giovarono non poco
alla reazione, la quale, diffidando sempre delle giovanili velleità
di Carlo Alberto, voleva, secondochè bucinavasi nelle congreghe del
sanfedismo piemontese, far assaggiare anche a lui _sangue di liberali_.

Scorse così qualche anno. Fra il 1837 e il 38 Austriaci e Francesi
se n'andarono di nuovo. Al Papa rimanevano gli Svizzeri e qualche
reggimento indigeno, ma la sua difesa migliore e più fida gli parevano
i _Centurioni_, le spie e la polizia, che erano tutt'uno. Mazziniani e
liberali si riscossero. A Bologna capitò Carlo Poerio, nome divenuto
poi famoso, e s'ebbe da esso contezza di gravi rivolgimenti prossimi
a scoppiare nel regno di Napoli, ov'erano, diceva (parlando a nome
del Mazzini), armi pronte, animi disposti ad ogni estremità, tremila
Calabresi, ai quali bastava un cenno per muoversi in aiuto d'altre
provincie italiane, che insorgessero, e persino si faceva assegnamento
su buon nerbo di Albanesi, gente manesca e ardente di combattere per
l'Italia.

In questo emissario mazziniano, che profetizza tali miracoli, chi
riconoscerebbe il Poerio moderato e cavouriano del 1860? Anche fra
i compromessi mazziniani del 33 in Piemonte c'è Vincenzo Gioberti,
e chi direbbe che sette od otto anni dopo scriverà il _Primato_? Ma
sono appunto questi trapassi, queste variazioni, queste gradazioni,
che danno impronta così originale e così sincera al movimento
rivoluzionario, segreto e palese dell'Italia, e a biasimarli o lodarli
col senno del poi si può fare dell'inutile polemica retrospettiva, ma
non si penetra nell'intima psicologia di questa storia.

Non tutti a Bologna aggiustarono fede alle promesse del Poerio,
nè tutti le giudicarono d'egual valore, specie quel soccorso degli
Albanesi, che parve alquanto fantastico; nondimeno, per non perdere
un'occasione, se mai era, un comitato rivoluzionario si riordinò nel
1840. Avrebbe voluto essere indipendente del tutto dalla direzione
mazziniana, pure temendo che coll'ignorare ciò che tramava la _Giovine
Italia_, accadesse di disgregare le forze, la nuova cospirazione
s'accontò con alcuni, che ancora aderivano in tutto al Mazzini, e formò
con essi un cosiddetto _Comitato d'azione_, il quale cercò relazioni
e aderenze con Ferrara, le Marche, Roma e la Toscana. Si aspettava il
segno da Napoli, ma Napoli non si moveva, anzi pareva ora aspettarlo
essa dallo Stato Romano. In queste incertezze si preparava alla meglio
l'azione, riunendosi i cospiratori in una villa vicina a Bologna,
ove tra i più impazienti era Luigi Carlo Farini, che sfidando mille
pericoli accorreva nottetempo e a cavallo da Ravenna, e prima che
albeggiasse ripartiva.

È il caso di ripetere anche qui: chi indovinerebbe in questo audace
e romantico cospiratore il futuro storico dello _Stato Romano_, così
severo alle vecchie cospirazioni politiche, ed il futuro dittatore
delle provincie emiliane nel 1859?

Del suo mutamento molti scrittori repubblicani, Aurelio Saffi fra
gli altri, gli fanno acerbo rimprovero; ma perchè? Non mutò anche il
Saffi, di moderatissimo divenendo Triumviro della Repubblica Romana e
rimanendo poi sempre uno dei più onorati e solitari epigoni della fede
mazziniana?

Non c'è di peggio della passione politica per far confondere il
criterio della fazione con quello della storia anche negli animi più
retti.

Allora il Farini era dunque fra i più insofferenti d'indugi e per
romperli con qualche probabilità di riuscita e chiarirsi del vero,
il Comitato spedì a Napoli segretamente il conte Livio Zambeccari,
bolognese, fervido e coraggioso uomo, ma ahimè! il più disposto
da madre natura a pigliar lucciole per lanterne. Scelto bene il
referendario!

Queste le condizioni delle Romagne dal 1832 al principio del 43; questo
il paese, nel cuore del quale era stato mandato ad esercitare il suo
ministero di pace e di misericordia Giovanni Maria Mastai-Ferretti,
vescovo d'Imola. Ora, che uomo era esso? quale la sua vita insino
allora? e che parte era la sua fra gli oppressi e gli oppressori?

Più che mai ci troviamo collocati ora, o Signore, fra la storia e il
libello, fra la satira e il panegirico; fuoco nascosto sotto la cenere
ingannatrice, direbbe il poeta latino, su cui bisogna camminare con
precauzione. Un gran santo, un gran genio fin dalla culla, ne fanno
alcuni; un bimbo nato col bernoccolo d'ogni scelleratezza, ne fanno
altri; frottole, leggende l'una e l'altra versione; nè per conoscer
l'uomo è mestieri in questo caso (come in quasi tutti gli altri del
resto) pigliar le mosse così di lontano.

Il conte Giovanni Mastai era un nobile di provincia, nè molto ricco,
nè di molto antica data. Apparteneva a rispettabile famiglia di
Sinigaglia, in cui nel secolo XVI era entrata sposa una Garibaldi;
scoperta atavistica, che a qualcuno pare molto notevole; a me no. Il
padre, il conte Girolamo, era un galantuomo; la madre, la contessa
Caterina, una signora pia, virtuosa e bellissima. Giovanni Maria fu
l'ultimo de' suoi nove figliuoli; studiò nel Collegio degli Scolopi a
Volterra. Ne uscì, perchè epilettico, terribile malattia, dalla quale
guarì cogli anni e coi viaggi, ma gli lasciò sempre uno strascico
di eccitabilità, di emottività subitanea e mutevole, «di nervosa
passione», come dice il Farini, storico e medico, accennando a spiegare
con questo, e forse con ragione, non poche delle ulteriori vicende di
Pio IX. Tali in realtà l'infanzia e l'adolescenza del Mastai.

La sua precocità negli studi, la sua vena poetica, che prendeva a
soggetto talvolta le battaglie napoleoniche, i suoi mirabili progressi,
che facevano andare in solluchero i maestri, i quali lo compensavano di
corone accademiche, profetando fin d'allora ben altre corone all'alunno
promettentissimo, sono le solite frasche dei panegiristi, siccome altri
aneddoti, relativi alla sua giovinezza e coloriti poco meno che col
pennello di Svetonio, quando narra le amenità dei dodici Cesari, sono
ignobili fanfaluche o amplificazioni dei detrattori.

Tornato alla sua Sinigaglia nel 1809, vi si fermò fino alla
ristaurazione di Pio VII. Giovine, malaticcio, distratto quindi per
necessità da studi troppo intensi, è naturale che abbia sentito e
vissuto da giovine.

È il tempo che la vita italiana, su cui è passato il soffio della
Rivoluzione Francese, sta trasformandosi profondamente; è il tempo,
che la leggerezza arcadica sta cedendo il posto alla sentimentalità
preromantica; è il tempo, che i nostri vecchi cicisbei e cavalieri
serventi sono sulla via di trasformarsi in Oberman, in Werther, in
Iacopo Ortis, in Renato.

A queste variazioni la gioventù è sensibilissima e tanto più la
gioventù d'una piccola città di provincia, la quale naturalmente le
esagera con poca misura di buon gusto sin nelle mode e nelle fogge
esteriori. Non trovo nulla di strano quindi che il giovine Mastai
si lasciasse crescere le chiome e le rabbuffasse con una certa
premeditazione, che portasse una polacchetta grigia cogli alamari
neri, un berretto rosso, pantaloni screziati di colori vistosi, un
cravattone sventolante, gli sproni agli stivali, un giardino alla
bottoniera e un eterno sigaro in bocca, come il _Giovinetto_ del
Giusti, e che questo insieme di figurino, il quale oggi parrebbe un
sintomo di mattoide (ogni tempo ha i suoi sintomi), allora invece
solleticasse dolcemente le fantasie e i cuori delle sensibili fanciulle
di Sinigaglia. Non trovo nulla di strano quindi che fra le più commosse
a veder caracollare per le vie sopra un focoso destriero un tal tipo
d'arrischiata eleganza locale, sia dato nominare una Lena popolana,
che lo amò sul serio e a cui non fu fedelissimo, una principessina
Elena Albani, che, per esemplare castigo del volubile Mastai, prima
gli preferì un asino d'ussaro, ma autentico, poi andò sposa a un
signorone di Milano, e lo piantò in asso, nonostante le pittoresche
combinazioni del suo abbigliamento, e finalmente ch'egli tentasse
consolarsi di questo abbandono con una Morandi-Ambrogi, piccola deità
di palcoscenico, e giuocando al pallone sulle mura di Sinigaglia, o al
bigliardo in qualche losca e affumicata stamberga di caffè ed in non
troppo edificante compagnia, che allarmava la buona famiglia Mastai,
una famiglia di schietti codini (checchè se ne sia detto), perchè il
rivoluzionario ed esule del 31, di nome Pietro, che molti citano e che
per campare onestamente la vita faceva il lustrascarpe a Ginevra, non
era niente affatto fratello di Pio IX, bensì un conte Ferretti, suo
lontano parente.

Le abitudini, gli atteggiamenti, le mode e le piccole avventure del
Mastai sono cose insomma di tutti i tempi e di tutti i luoghi e che si
possono narrare d'ogni giovine, che non sia uno schietto imbecille, ed
abbia un temperamento vivace, e tanto più d'un giovine, com'era senza
dubbio il Mastai, indole gioviale e affettuosa, ma forse in fondo
infelice per l'orribile malattia, che l'affliggeva, e bisognoso di
sbattersi un po' di dosso la malinconia.

Nè ciò impedisce, anche se ebbe allora misteriosi contatti
(possibilissimi, ma non provati di certo) con qualche inferraiuolato
framassone, nè ciò impedisce, dico, che tramutatosi a Roma a cercar
fortuna al seguito dello zio, monsignor Paolino Mastai, e trovatosi
in tutt'altro ambiente, prima s'accodasse a quel prelatume mondano,
ultimo avanzo degli eleganti abati settecentisti, la più comune forma
del cicisbeismo romano, poi l'ascetismo sincero della madre ripigliasse
il disopra nell'indole del giovine Mastai e finalmente che l'influenza
e la protezione di Pio VII facessero il resto, spingendo l'estrema
emottività di lui in tutt'altra direzione da quella di prima.

Tuttociò è naturalissimo e sono inutili tutti gli sforzi dei libellisti
a complicare romanzescamente e a colorire sinistramente questi primordi
assai semplici e chiari del Vescovo d'Imola e di Pio IX, siccome sono
superflui, mi pare, gli sforzi dei panegiristi fanatici a dissimularli
e negarli.

Si narra che da prima tentasse entrare nelle Guardie Nobili del Papa e
che risaputosi della sua infermità, il comandante, principe Barberini,
non lo volesse ammettere. Erano gli ultimi guizzi degli antichi ardori
cavallereschi, e si spensero così! Oramai l'ultima sua speranza erano
il sacerdozio e la prelatura, quest'ultima la gran via degli onori e
della fortuna nella Roma d'allora. Ma il Mastai, sempre più infervorato
di idee religiose, cominciò bene la sua carriera, offrendosi ad un
modestissimo ufficio di carità pei poveri orfani dell'ospizio di _Tata
Giovanni_ (Papà Giovanni vuol dire, in dialetto romanesco), un ricovero
fondato già da un povero muratore, che si chiamava Giovanni Borghi.

In quella vita di sagrificio e di abnegazione operosa, la sua salute
migliorò notabilmente, siccome gli avea presagito Pio VII, i cui
incoraggiamenti ve l'avevano spinto, ed il giovine Mastai, ammiratore
devoto di questo Papa, che le violenze di Napoleone aveano circondato
d'un'aureola di santità e di martirio, ebbe il presagio in conto di
profezia e di miracolo, e si fece prete.

Com'è di tutte le nature ardenti e impulsive (ed il Mastai certamente
lo era) ben presto le quattro mura dell'ospizio di _Tata Giovanni_
gli parvero anguste alla nuova energia morale, risvegliatasi in lui, e
gli sorrise un più vasto campo di lotta, la predicazione, la missione
evangelica in terre di barbari e di idolatri ed, occorrendo, la
persecuzione e il martirio. Si provò prima, come oratore sacro, nella
chiesetta dell'ospizio, poi dinanzi a pili vario uditorio in San Carlo
al Corso, ed il successo non fu nè piccolo, nè grande. Pure si parlò di
lui e qui viene a collocarsi nella sua vita un aneddoto singolare e che
allo studio dell'uomo, qual era, importa non poco.

Una delle ultime forme delle _Sacre Rappresentazioni medievali_,
dalle quali ebbe origine il teatro moderno, e che più specialmente si
riattacca, mi pare, a quelle, che nella magistrale opera del D'Ancona
su questo argomento, sono dette i _Contrasti_, era un genere di
predica popolare, fatta per lo più sulle piazze e di cui si valevano i
missionari, la qual predica si faceva in due o tre contemporaneamente,
disputando fra essi in una specie d'azione dialogizzata fra un
dotto e un ignorante, fra un peccatore indurito e il prete, che vuol
convertirlo, e via dicendo. Or bene, il cardinale Testaferrata, vescovo
di Sinigaglia, volle nel 1822 organizzare una di tali rappresentazioni
in quella città e (caso o disegno che fosse) nella compagnia dei
Missionari, colà spedita, fu scritturato il Mastai. Pochi anni prima
Sinigaglia l'avea conosciuto, come dissi, sotto ben altre spoglie e ben
altre sembianze. Rivederlo ora sul trespolo dei missionari, accanto
a un gran crocifisso, sotto la zimarra del prete; udirlo esortare
e minacciare i peccatori colla voce tremula, il gesto agitato, lo
zelo, la passione d'un apostolo, in cui gli uditori subodoravano la
contrizione d'un convertito, produsse un effetto incredibile, e qui
pure la malevoglienza ha intrecciato leggende d'ogni fatta: bische e
taverne invase a furor di popolo: sante Terese in estasi; Maddalene,
penitenti, innamorate, impazzate. A noi basta notare l'antitesi
drammatica significantissima anche in questo episodio della vita del
Mastai.

Ne segue un altro nel 1823 di ben più vaste proporzioni: una sua
missione mezzo tra diplomatica e apostolica al Chilì. Non più ora la
modesta piazza d'una città delle Marche, ma un più vasto orizzonte
s'apre dinanzi alla fantasia del giovine e del prete: l'Oceano
infinito, i monti mostruosi, la vegetazione dei tropici, selvaggi
da convertire alla fede, repubblichette ringhiose e sanguinarie da
ammansare, e, chi sa? forse il trionfo, forse invece la schiavitù,
il martirio! Capo della missione era un monsignor Muzi, vescovo _in
partibus_ e compagno al Mastai un prete Sallusti, che ha narrato il
viaggio in quattro grossi volumi, illeggibili veramente, nonostante
che il viaggio fosse in realtà disastrosissimo, e i rischi corsi, e i
patimenti sofferti non pochi nè lievi. Tutto però si riduce a mal di
mare, tempeste, quarantene, nulla di molto romanzesco, voglio dire, nè
come missione apostolica, perchè non si sa d'alcun idolatra convertito
dall'eloquenza del Mastai, nè come missione diplomatica, perchè non si
sa d'alcun importante negoziato condotto a termine da monsignor Muzi.

Ad ogni modo un immenso viaggio (di cui è certo esistere una narrazione
scritta dallo stesso Mastai, ma ancora inedita e sconosciuta da tutti)
un immenso viaggio per quei tempi da Roma a Santiago e da Santiago a
Roma, ove furono di ritorno nel 1825, e trovarono morto da tempo Pio
VII e succedutogli il Della Genga col nome di Leone XII, per fortuna
del Mastai assai benevolo a lui. Difatto lo nominò tosto Presidente
dell'Ospizio di San Michele, asilo di vecchi e penitenziario di
donne, in cui il Mastai, quanto era stato tenero, indulgente, pietoso
nell'ospizio di _Tata Giovanni_, altrettanto si mostrò orgoglioso,
severo, inflessibile; contraddizione singolare, che anch'essa dice
non poco dell'indole dell'uomo e di parecchie sue gesta future. Due
anni dopo era nominato Arcivescovo di Spoleto, ed ivi è il suo primo
contatto colla Rivoluzione Italiana.

Dissi già che la Rivoluzione Bolognese del 31 avea spinte le sue
squadre, sotto il comando del Sercognani, vecchio soldato di Napoleone,
sino ad Otricoli. Non osò correre su Roma e si fermò dinanzi a Rieti,
dove Gabriele Ferretti, un vescovo con atteggiamenti guerreschi alla
medio evo e che fu poi Segretario di Stato di Pio IX, stava con bande
armate sugli spaldi della città. Il Sercognani retrocedette sino a
Spoleto ed ivi l'arcivescovo Mastai riescì a disarmare e sciogliere le
truppe del Sercognani.

È d'uopo sceverare ancora la leggenda dalla realtà. C'è chi ha dipinto
il Mastai in questa occasione un politico sopraffino e senza scrupoli,
che fa di Spoleto la Capua del Sercognani e dopo averlo ammollito
nelle delizie e versandogli l'oro a piene mani, lo induce a disarmare
e sciogliere le sue truppe, le quali alla spicciolata, credendo
ridursi alle proprie case con un salvacondotto, cascano invece in
mano agli Austriaci, che s'avanzavano a grandi giornate da Bologna
ed Ancona. C'è invece chi ha dipinto il Mastai, come già intinto di
pece rivoluzionaria e amoreggiante coi liberali, laonde poi sarebbe
caduto in disgrazia di Gregorio XVI e tramutato ad Imola. Quanto
all'oro intascato dal Sercognani, parli per questo povero soldato la
sua fine. È morto esule e miserabile in uno spedale di Parigi. Quanto
all'arcivescovo Mastai, la sua condotta in quel frangente non merita:

    _Ni cet excès d'honneur, ni cette indignité._

Dinanzi ai primi subbugli di Spoleto egli si era prudentemente
allontanato. Tornò, perchè il Governo Pontificio avea messo nelle mani
di lui anche il potere civile e allora si conformò pienamente a quello
che aveva fatto il cardinale Benvenuti colla capitolazione d'Ancona.
Il Sercognani, cioè, che retrocedeva da Rieti, sapendo già della
capitolazione di Ancona e dell'intervento austriaco, capitolò esso pure
nelle mani del Mastai. Che colpa ebbero il Mastai e il Sercognani, se
la capitolazione fu disdetta? Tuttociò si vede chiaro nelle lettere
del Mastai al Bernetti e al Benvenuti, che sono pubblicate, e da esse
risulta soltanto che il Mastai fu mite ed onesto fra tanta gente senza
onore e senza pietà. È molto; ma non è quello che amici e nemici si
sono piaciuti d'immaginare!

Ed ora torniamo ai cospiratori di Bologna, che lasciammo nella
primavera del 43, aspettanti per muoversi l'annunziata rivoluzione di
Napoli, dove avevano spedito per informarsi il conte Livio Zambeccari.

Figlio d'un areonauta, che, dopo prove e riprove, s'era accoppato
precipitando, come Icaro, dal cielo, mentre stava cercando il punto
d'appoggio nell'aria e la direzione dei palloni volanti, nel conte
Livio s'era travasato non poco del fantastico genio del padre.
Emigrato nel 21, cavaliere errante di repubblica, prima in Ispagna,
poi nell'America meridionale, appena tornato, s'era rimesso all'opera
rivoluzionaria, nella _Giovine Italia_. Spedito ora a Napoli dal
Comitato bolognese, scriveva tosto colà mirabilia, assegnando persino
il giorno che la rivoluzione sarebbe scoppiata, cioè l'ultimo di
luglio, festa di Sant'Ignazio. Non gli fu creduto! E poichè trovavasi
in Bologna a quei giorni, sotto finto nome, il Ribotti, esule nizzardo,
partecipò tanto egli stesso, uomo di grande ardire e di buon ingegno,
ai dubbi che tormentavano il Comitato sulla veracità di quelle
asserzioni, che si profferse d'andare in persona ad accertarla.

Intanto però il Governo Pontificio era già sull'intesa e, per
cominciare, fece accerchiare da birri e soldati la villa, in cui
dimoravano i fratelli Pasquale e Saverio Muratori, principalissimi
fra i congiurati. Essi scamparono colle armi in mano, e messa insieme
una _guerriglia_ cui si unirono altri usciti da Bologna (non tutti
purtroppo brava e onesta gente, com'erano i fratelli Muratori), presero
a Savigno la via dei monti, batterono a Castel del Rio una squadra
di Papalini, e quindi aiutati da Don Verità, prete di Modigliana, dal
Montanelli e da altri amici di Toscana, poterono finalmente raggiungere
il mare, imbarcarsi e rifugiarsi in Corsica.

Svanita ogni speranza d'un moto napoletano, benchè in realtà una
preparazione vi fosse stata in Malta, iniziata da Nicola Fabrizi
e mezzo secondata e mezzo avversata dal Mazzini (il che spiega le
illusioni del povero Zambeccari), svanita, dico, ogni speranza d'un
moto napoletano, il Ribotti, tornato a Bologna e per sfruttare il
fermento, che durava ancora vivissimo dopo il tentativo dei fratelli
Muratori, ne pensò un altro, più rischioso ancora, se possibile, in
Settembre.

Villeggiavano tra Imola e Castelbolognese tre cardinali, l'Amat,
il Falconieri e Giovanni Maria Mastai, creato già Cardinale da
Gregorio XVI fino dal 1840. Parve al Ribotti da tentare un bel colpo:
sorprendere i tre _Eminentissimi_, sostenerli in ostaggio, ribellare
quindi le Romagne, le Marche e l'Umbria e marciar dritti su Roma.
Detto e fatto. L'8 settembre 1843, a notte chiusa, aduna al ponte di
Savena, presso Bologna, un duecento compagni, armati alla meglio, alla
peggio, e s'incammina verso Imola. Dovevano per via trovare altri aiuti
e nessuno comparve. A Imola silenzio sulle mura e porte sbarrate. A
Castelbolognese lo stesso. Nella villa, che accoglieva i tre Cardinali,
la gabbia aperta (come s'esprime in certe sue _Memorie_ uno dei
congiurati) e i tre _cardellini_ volati via.

Non per questo il Ribotti si perse d'animo. Sbandati i suoi compagni,
cercò altre trafile rivoluzionarie (ce n'erano tante!), si provò quasi
da solo di sommuovere Ancona e le Marche, osò penetrare sino in Roma:
figura arditissima di cospiratore, cui fa riscontro in questi moti del
43 quella di Felice Orsini, che apparisce ora per la prima volta nel
dramma tenebroso delle cospirazioni politiche romagnuole, e vi dovea
poi acquistare purtroppo così terribile celebrità.

Il Governo infierì con Commissioni di sanfedisti spietati, nelle quali
è rimasto infame il nome d'un colonnello Freddi, che le presiedeva, e
colpì di morte, di galera, di esilio un numero grandissimo di persone,
mescolando ad arte nei giudizi e nelle sentenze i patriotti coi
colpevoli di delitti comuni.

Nei tentativi dell'anno dopo, 1844, si compromisero il Galletti, che
fu poi Ministro di Pio IX, Pompeo Mattioli ed altri, gettati tutti in
Castel Sant'Angelo, mentre dall'estremo della Calabria giungeva l'eco
della tragedia dei fratelli Bandiera, pietosa tanto, che il Mazzini
fece di tutto per togliersene di dosso ogni responsabilità.

Contuttociò non un anno, come vedete, passava nelle Romagne senza
che il fermento rivoluzionario in un modo o nell'altro si provasse a
prorompere.

Il moto però, che seguì nel 1845, mentre per certi rispetti somiglia a
quello del 1832, ha tuttavia un carattere tutto suo e che lo distingue
così dai tentativi antecedenti, come dai posteriori di pura derivazione
mazziniana.

Dissi già del _Memorandum_ delle cinque Potenze per indurre a riforme
il Governo Pontificio. Rimasto lettera morta, i cospiratori del 1845 lo
ripresero a loro insegna, sperando così propiziarsi l'Europa e indurla
con essi in una specie di morale complicità.

L'idea in sè non val molto, ma indica però che l'inutilità degli sforzi
tentati sino allora avea generato negli animi una reazione e che anche
fra gli accecamenti delle cospirazioni un'opinione moderata s'andava
formando, come ho già fatto notare, la quale sentiva, se non altro,
la necessità di spinger gli occhi al di là delle chiuse muraglie delle
sètte.

Di qui il _Manifesto di Rimini_, opera di Luigi Carlo Farini (lo
stile lo dice) in collaborazione col Montanelli, con le parole rimaste
celebri: «Non è di guerra lo stendardo, che noi inalziamo, ma di pace,
e pace gridiamo e giustizia per tutti e riforme di leggi e garanzia di
bene durevole.... Preghiamo e supplichiamo i principi a non volerci
trascinare alla necessità di addimostrare che quando un popolo è
abbandonato da tutti e ridotto agli stremi, sa trovare salute nel
disperare salute.»

Con questo programma, che parlava ai sordi, si sollevò in Rimini Pietro
Renzi nel Settembre del 1845, ma alla sollevazione di Rimini, finita
subito, non rispose che un ardito combattimento di Pietro Beltrami
e di Raffaele Pasi alle Balze e poi tutti scamparono in Toscana, il
_refugium peccatorum_ d'allora, come lo chiamava Massimo d'Azeglio.

Fra i propositi riformisti d'una opinione politica moderata e queste
audaci e frammentarie prove di sommossa a mano armata v'ha una
contraddizione palese ed è quello che si studiò di persuadere a tutti
Massimo d'Azeglio, viaggiando ora a piccole giornate e raccogliendo
poi la sostanza delle sue osservazioni e dei suoi consigli nel celebre
opuscolo, che intitolò: _I casi di Romagna_, ammonimento d'amico ai
cospiratori, requisitoria terribile contro il Governo Pontificio,
e portavoce, sto per dire, di tutta quell'aperta, libera e pubblica
cospirazione letteraria, di cui l'opuscolo del D'Azeglio è l'ultimo
atto e il più pratico, perchè non foggia e non architetta sistemi
storici o disegni politici, bensì espone fatti e accusa e difende
persone. Vi si sente però l'eco della scuola romantica e liberale
lombarda, come di chi, frapponendosi fra oppressi ed oppressori,
consiglia ai primi la rassegnata, ma operosa, pazienza manzoniana, ed
intima ai secondi il: «_Dio vi ha abbandonati e non vi temo più_» del
Padre Cristoforo a Don Rodrigo.

Dal 1820 al 1848 la letteratura italiana è tutta una vasta cospirazione
politica, che inspira, accompagna, modera ed eccita il sotterraneo
lavorìo delle sètte, prorompente di quando in quando nelle sommosse.
Dopo il 1840, questa letteratura, seguendo il moto sempre crescente
dell'opinione pubblica liberale europea, si scioglie come può e dove
può dal sottinteso, dall'allusione, dall'anfibologia e affronta alla
scoperta il problema della redenzione della patria, facendo sì che
la questione italiana esca fuori dall'ombra e s'imponga da sè ai
pensieri degli uomini, contrari o favorevoli, che siano. Più la crisi
s'approssima e più questo carattere apertamente politico e militante
della letteratura italiana si determina nella lotta ancora tutta
ideale di due scuole diverse, che già si trovano a fronte: da un lato
il _Primato_ di Vincenzo Gioberti, cattolico, federale, monarchico,
neoguelfo e romantico schietto, e dietro a lui le _Speranze d'Italia_
di Cesare Balbo, la _Nazionalità Italiana_ di Giacomo Durando, la
_Sovranità temporale dei Papi_ di Leopoldo Galeotti, i _Pensieri d'un
Lombardo_ di Luigi Torelli, i _Casi di Romagna_ di Massimo d'Azeglio;
dall'altro Giuseppe Mazzini, non cattolico, ma mistico, non federale,
ma unitario, non monarchico, ma repubblicano, e a lui più aderenti,
benchè con parecchie diversità, il Cattaneo e Giuseppe Ferrari.

Dalla scuola del Gioberti esce il partito riformista, il primo cioè che
si esperimenterà nell'azione, quando questa, mercè dell'umile _Vescovo
d'Imola_, uscendo dai libri e dalle sommosse, incomincierà su di un
campo che può dirsi nazionale davvero, e diverrà ben presto europeo.

Tale svolgimento del pensiero politico italiano e la conseguente
formazione dei partiti, che io accenno di volo, ed è assai bene esposto
in un libro recente di Agostino Gori, si toccano con mano nei _Ricordi_
di Marco Minghetti e per quel poco o molto che ne trapassa nel _Vescovo
d'Imola_ e serve a creare il _Pio IX del 1846_, nulla è più suggestivo
e d'un realismo artistico, che meglio ricostruisca scena, ambiente, e
ci faccia quasi veder l'aspetto e riudir le voci dei personaggi, del
libro bellissimo, in cui il mio amico, Pier Desiderio Pasolini, ha
raccolte le _Memorie_ di suo padre.

Il Mastai, liberale di vecchia data, e di cui Gregorio XVI avrebbe
detto: «in casa Mastai è Carbonaro persino il gatto,» è un'invenzione
dei glorificatori ad ogni costo di Pio IX ed una calunnia dei
Gregoriani, trasformazione questi ultimi dei Vecchi Sanfedisti e
Centurioni Pontifici, che i primordi del pontificato di Pio IX avevano
sgominati ed a lui erano fieramente nemici. A Spoleto nel 1831 il
Mastai non aveva inferocito. A Imola (ed era noto) s'addolorava dei
delitti orrendi e della più orrenda impunità dei _Centurioni_ papalini,
e ciò bastava, se non era di troppo, per farlo passare a Roma per
settario e per liberale. Se ne ha la prova in alcune lettere di lui
dirette a monsignor Polidori e pubblicate alcuni anni fa dal conte
Paolo Campello. «Si è procurato, scrive il Mastai nell'agosto del
1834, di dipingermi in Roma come un vescovo poco meno che liberale.» E,
alludendo a Spoleto, soggiunge con amarezza: «le impertinenze, che ho
ricevuto dai cosiddetti Papalini, è certo che non le ho ricevute dai
liberali nella quaresima del 1831: questo argomento, se lo esternassi
a certa classe di Papalini, sarebbe bastante a farmi divenire poco
meno che un M.r Grégoire.» Dal contesto della lettera si vede chiaro
che le accuse muovono dai _Centurioni_ e dai loro capi, i quali, per
quanto il Mastai dissimuli, esso disprezza come meritano, concludendo:
«in mezzo a queste tempeste di fanatismo mi sento tranquillo!»
Notevolissimo è pure il brano seguente d'una lettera scritta al
Polidori nel novembre del 1845, due mesi dopo la sommossa di Rimini,
informandolo d'un conciliabolo fra i Cardinali Legati di Bologna,
Ferrara e Ravenna. «La mia politica, scrive, non ha oltrepassato l'_a_,
_b_, _c_ e per conseguenza giudico con questi soli primi elementi, e
dico che un tal congresso darà a chiacchierare, senza che se ne possa
ottenere risultati.» E chiude con un testo latino, il quale significa:
«se Dio non ci aiuta lui, non sarà sicuramente il congresso dei tre
Eminentissimi, che ci salverà!»

Un certo lievito d'opposizione traspare, non v'ha dubbio, da queste
parole, e pel solo fatto di non essere un malvagio, come gli altri, uno
scoramento malinconico, un sentirsi solo, isolato, impotente a fare un
po' di bene, come avrebbe desiderato, e circondato dal sospetto, dalla
diffidenza e dallo spionaggio.

È appunto in questo momento ch'egli si lega di tanta intrinsichezza
colla famiglia dei Pasolini e s'intende bene in quale precisa
disposizione di spirito.

Quella vecchia villa di Montericco presso Imola, ove i Pasolini
abitavano, si capisce quindi che a poco a poco dovea diventare pel
cardinale Mastai un asilo, un rifugio, un riposo, in mezzo alle tante
tristezze e iniquità, fra le quali gli toccava di vivere. Colà trovava
un giovine signore, indipendente affatto per la sua alta condizione
sociale, pei suoi principii religiosi, per le sue opinioni liberali,
per le qualità del suo ingegno e del suo carattere, così da ogni timore
del Governo, come da ogni vincolo settario (caso raro in Romagna a
quel tempo) ed al suo fianco una gentildonna, giovanissima essa pure,
colta, pia, graziosa e tutta lieta della sua domestica felicità, un
vero raggio di sole in quel buio della Romagna d'allora.

Nell'interno di quella casa, quale l'ha descritto lo stesso Giuseppe
Pasolini in una lettera a sua nuora, «una semplicità, che sentiva
d'austero e pure non contrastava ai comodi della vita, un odore di
vecchio e di rispettabile passato e presente, una solitudine senza
vicini obbligati, una vita quieta, ma operosa; modesta, ma non
inelegante.»

Il Cardinale, non volgare uomo e con educazione ed istinti signorili,
doveva sentirsi attratto dalla genialità di quell'ambiente, che poi
lo affidava d'una lealtà d'amicizia e d'una onestà d'intenzioni, non
facilmente trovabili altrove da lui in quel momento. Non nudrito di
forti studi, nè abituato a scrutare a fondo gli argomenti, che lo
interessavano, ne discorreva volentieri con un certo dilettantismo
vago, che, scontrandosi colla solida e varia coltura del Pasolini e
colla fresca, spontanea e simpaticissima vivacità della sua gentile
signora, se ne sentiva come rinfrancato, e gli schiudeva nuovi
orizzonti, facendogli smettere quella nativa diffidenza di sè e delle
proprie forze, per cui, ad esempio, nello stesso modo che al Polidori
scriveva nel 45: «la mia politica non ha oltrepassato l'_a_, _b_,
_c_,» così ripeteva ora al Pasolini: «ma già io non intendo un _ette_
di politica, e forse sbaglio.» Ciò a proposito d'un tema, su cui era
naturale che tornassero spesso, la possibilità teorica e pratica d'un
accordo fra il progresso e la religione, fra la fede cattolica ed i
principii liberali, ed il contrasto fra le aspirazioni del patriottismo
italiano ed i metodi di governo del Papa e dell'Austria, che rendevano
necessario cotesto orribile intreccio di sètte opposte le une alle
altre, di violenze, di sommosse, di castighi, di repressioni, da cui
non si vedeva un'uscita.

Il Mastai era ora in quella medesima condizione d'animo, in cui s'era
trovato il cardinale Chiaramonti, che fu poi Pio VII, suo predecessore
appunto nel Vescovato d'Imola e da lui venerato come un santo, il
quale in una sua Omelia del dicembre 1797, documento singolarissimo,
volle con accesa eloquenza dimostrare che i principii del Vangelo non
contrastavano a quelli della vera democrazia e che si poteva benissimo
essere buoni Cattolici e buoni Repubblicani.

Il Mastai non aveva forse tenuto dietro da studioso allo svolgimento
di questa dottrina di conciliazione, che, ripresa dal romanticismo
liberale del 1830, imprimeva ora un moto interiore d'opposizione
agli oscurantisti ed ai Gesuiti in tutto il giovine clero e avea
rappresentanti notevolissimi nella scienza, nelle Università d'Europa
e nella Chiesa, apertamente professandola dalle cattedre e dai pulpiti
di Parigi l'Ozanam, l'abate Coeur, il Lacordaire, il Ravignan, che il
conte e la contessa Pasolini dovevano aver ascoltati nei loro recenti
viaggi, come gli avea ascoltati il Minghetti, che viaggiava appunto in
Francia nel 1844.

Il Mastai non avea forse, dico, tenuto dietro da studioso allo
svolgimento di questa dottrina, ma la sentiva in fondo all'animo
suo, come l'hanno sempre sentita del resto gli stessi rivoluzionari
italiani, i quali dai Carbonari al Gioberti e al Mazzini non hanno
mai dissociata del tutto la tendenza spiritualista e religiosa dalla
loro azione politica. Si andava ora più oltre. I libri del Gioberti e
del Balbo fondavano addirittura su quella dottrina i loro disegni di
redenzione della patria italiana, e così d'uno in altro argomento di
conversazione era facile a Giuseppe e Antonietta Pasolini condurre sul
difficile terreno della politica il cardinale Mastai, il quale, colla
fantasia facilmente accensibile e infervorandosi sempre più nei suoi
lunghi e frequenti colloqui con essi, finiva a deplorare commosso e
quasi piangente la condizione tristissima del presente e ad augurare
un migliore avvenire, che solo un po' di buon senso, di mitezza e di
giustizia cristiana nel governo gli pareva dovessero bastare a far
conseguire.

Per confermarlo sempre più in queste idee, una volta era il conte
Giuseppe, che gli dava a leggere il _Primato_ di Vincenzo Gioberti,
un'altra era la contessa Antonietta, che gli prestava le _Speranze
d'Italia_ di Cesare Balbo e gliene chiedeva un giudizio. Da un altro
amico il Cardinale aveva già avuti i _Casi di Romagna_ del D'Azeglio,
e l'avea ricambiato con un libriccino di devozioni.

Per tal guisa la descrizione sincera dell'orribile realtà presente,
riconfermatagli appunto in quei giorni dal fatto d'un _centurione_
papalino, ferito a morte in una rissa notturna e che gli era venuto a
cascare fra le braccia nella chiesa di San Cassiano, mentre egli stava
pregando, per tal guisa, dico, la descrizione sincera dell'orribile
realtà presente e le speculazioni d'una filosofia politica, che
augurava una confederazione italiana, di cui fosse anima il Papa e
spada Carlo Alberto, si univano a preparare, un po' affrettatamente,
se si vuole, e come si vide dappoi, nell'umile e impressionabile
_Vescovo d'Imola_ il _Pio IX del 1846_, il quale per allora nel salotto
dei Pasolini, discutendo di quei disegni d'avvenire, s'appoggiava
impaziente ora su l'uno, ora sull'altro dei bracciuoli d'un antico
seggiolone, incerto se le idee del Gioberti e del Balbo fossero sogni
o vaticinii, e talvolta fissava meditabondo e lungamente un quadro,
che appeso alla parete gli stava dinanzi, un vecchio quadro, che
rappresentava Vittorio Amedeo III, re di Sardegna.

Il 1º giugno 1846 Gregorio XVI morì. Nel primo momento il governo
temette al solito un casaldiavolo, ma non fu nulla. L'opinione moderata
ormai avea fatto strada, ed i popoli si contentarono d'inviar memoriali
al Conclave chiedendo riforme. Parevano necessarie ed urgenti, come
abbiamo visto, anche al cardinale Mastai, che tutto caldo delle sue
letture e dei suoi dialoghi coi Pasolini s'avviò al conclave, riponendo
nel baule i libri del Gioberti, del Balbo e del D'Azeglio per offrirli
al nuovo Papa, circostanza che è narrata dal Balbo e che i ricordi
personali di Pier Desiderio Pasolini mi confermano ora pienamente con
altre particolarità, taciute nel suo libro.

Quanto a Giuseppe Pasolini, esso s'accomiatò dal Vescovo d'Imola con
queste solenni parole: «Io non posso tacerle che in fondo al mio cuore
sta l'ardente speranza che dalla cattedra di San Pietro ella possa
promulgare e benedire quei principii che tante volte abbiamo insieme
discussi, e soddisfare quei voti che sì spesso abbiamo concordemente
innalzati al cielo pel bene di tutta la Chiesa e per quello di questa
povera Italia.»

A cui il Mastai rispose: «Caro Conte, il Papa non sarò io; ma state
tranquillo, e ditelo, ditelo bene a vostra moglie; i libri, che mi
avete dati a Montericco gli ho messi nel baule, perchè voglio darli al
nuovo Papa.»

Il Mastai partì e il popolo gli vedea volare intorno alla carrozza
da viaggio una bianca colomba, prenunziatrice della buona novella.
L'oscura vita del _Vescovo d'Imola_ era finita! La grande leggenda era
già incominciata!!

Il conclave fu brevissimo. Stavano a fronte due fazioni, capitanate
l'una dal cardinale Lambruschini, l'altra dal cardinale Bernetti. E se
il cardinale Gaysruck, depositario, si disse, del _veto_ dell'Austria,
fosse giunto in tempo, forse la fazione del Lambruschini vinceva.
Ma il Gaysruck non giunse in tempo e il Lambruschini ebbe fretta. Al
primo scrutinio egli ebbe 15 voti, 12 il Mastai, 23 andarono dispersi.
I 23 non avevano un candidato proprio e sicuro, e per tagliar la via
al Lambruschini si unirono ai 12 del Mastai e lo elessero. All'ultimo
scrutinio il Mastai era fra i verificatori e leggendo il suo nome tante
volte ripetuto, le mani gli tremavano, gli occhi gli si offuscavano di
lagrime e quando si vide eletto: «Ah, signori, gridò, che cosa hanno
mai fatto?» e cadde svenuto. Quello che avessero fatto, non lo sapevano
davvero. Ah! se lo avessero saputo!!...

Notate, Signore. Quando il cardinale Mastai divenne Papa col nome
che assunse di Pio IX in omaggio alla memoria di Pio VII, dense
nuvole di reazione si accavallavano sempre più minacciose per ogni
dove. Quella che negli eufemismi del gergo diplomatico si chiamava
l'_entente cordiale_ fra Luigi Filippo e l'Inghilterra era rotta dal
volgare inganno dei _matrimonii spagnuoli_, con cui il Re borghese
avea voluto arieggiare Luigi XIV e invece lo avea costretto a gettarsi
nelle braccia dell'Austria, che ora lo reggeva, come la corda regge
l'impiccato; in Svizzera con l'aiuto dell'Austria e della Sonderbund,
ossia Lega dei sette Cantoni cattolici, i Gesuiti s'erano dimostrati
prontissimi per sete di dominio ad accendere magari la guerra civile,
se occorreva; in Gallizia l'Austria sguinzagliava i contadini contro i
nobili ribelli, fino a che fra le discordie e le stragi degli ingenui,
che cascano nelle sue trappole, s'impadronirà di Cracovia. In Italia
pure, salvo che in Piemonte, tutto il satellizio austriaco dei nostri
principotti e principini accennava manifestamente a reazione, compresa,
dopo la morte del ministro Don Neri Corsini, la mite Toscana, la quale
fino allora era pur parsa una piccola oasi in paragone del resto.
L'Austria del Principe di Metternich imperava dunque, si può dire,
su tutta Europa, nè mai forse quel magnifico signore pareva aver più
ragione di compiacersi della gran tela, che aveva ordita da più di
trent'anni.

Creato Papa in tale temperie di politica ed in sole quarantott'ore
di conclave, Pio IX sentì quindi nel primo momento le vertigini
dell'altezza, cui era sì d'improvviso e contro ogni sua aspettazione
salito, e nel primo annuncio, che ne dà ai suoi fratelli in Sinigaglia,
c'è non solo l'umiltà cristiana, ma si tradisce lo sgomento, da
cui è preso: «Fate pregare e pregate per me. Lungi dall'esultare,
compassionate il vostro fratello.» Che cosa fare? donde incominciare?
Le prime mosse, quelle prime Commissioni, nominate da lui, miste
d'amici e di nemici, di retrogradi e di progressisti, mostrano,
con quegli strani accozzi di persone, l'uomo che barcolla a tastoni
nel buio. Per buona sorte lo sovvennero i consigli di due, che gli
richiamavano a memoria i consigli e le inspirazioni dei Pasolini: il
canonico Graziosi e monsignor Corboli-Bussi, prete dotto ed illuminato
il primo, ed il secondo d'indole così ardente, che oggi, secondo il
Minghetti, si direbbe un socialista cattolico. Furono essi (subito
dopo i Pasolini) gli ispiratori dell'amnistia del 16 luglio 1846, che
fece del _Vescovo d'Imola_ l'iniziatore, nell'ordine dei fatti, del
risorgimento politico italiano, e monsignor Corboli-Bussi è per di più
l'estensore di quel grand'atto, nel quale, con la rotondità magnifica
della prosa giobertiana, era concesso il perdono a tutti i condannati
politici. Chi badò allora alle restrizioni, alle cautele, alle minaccie
stesse di quel decreto? Bastò una parola di mansuetudine e di perdono,
scesa dall'alto di quel trono, da cui s'era ormai avvezzi a non sentire
che anatemi e condanne, perchè la materia infiammabile, da tanti anni
accumulata, s'incendiasse tutta in un attimo. Quell'immensa tratta di
gente, che da tutti gli angoli di Roma sale guidata da Ciceruacchio
(il caratteristico tribuno trasteverino, colla giacca corta di velluto
sopra corto panciotto, i calzoni stretti al ginocchio e slargantisi
a campana sul collo del piede, una larga sciarpa di seta attorno
alla vita, fazzoletto a fiorami attorno al collo, in testa un alto
cappello a cencio e aguzzo verso la punta) quell'immensa tratta di
gente, dico, che da tutti gli angoli di Roma sale ogni sera a salutare
e a ringraziare Pio IX sul Quirinale, è veramente, come dimostra con
infinite testimonianze Raffaello Giovagnoli nel suo importantissimo
libro: _Ciceruacchio e Don Pirlone_, è veramente l'avanguardia
dell'Italia e del mondo, perchè la parola di Pio IX si propaga rapida
e luminosa, al pari di un baleno e commove l'Italia ed il mondo, come
se avesse da sola la miracolosa virtù di raddrizzare tutti i torti, di
vendicare tutte le ingiustizie, di pacificare tutti gli odii, di sanare
tutte le miserie umane, di cacciare nell'ombra e per sempre tutti i
prepotenti della terra e sollevare tutti gli oppressi.

Poche ore come queste ha la storia; uguali forse in tutto, nessuna;
e se fu veramente una immensa, universale e quasi inesplicabile
illusione, sia pure! Ve n'ha così poche nella storia e nella vita, che
non val la pena di sciuparla con commenti, che, quali che siano, nè
la diminuiscono, nè la spiegano meglio di così. Chi stette saldo? chi
non vi partecipò? Nessuno, salvo qualche testardo giacobino; nessuno,
neppur quelli, che ebbero di poi la vanagloria di vantarsene, a fine di
passare per politici dal lungo naso.

Da questo momento sino al giorno che dal balcone del Quirinale, Pio
IX, alzando le braccia al cielo, mentre un raggio di sole gli inonda
di luce la fronte, e la folla gli si prosterna piangente e devota,
Pio IX esclama colla voce sonora: «_Benedite, gran Dio, l'Italia_,» il
delirio, che aveva accolta l'amnistia, cresce, gonfia, sale sempre, e
travolge, come un'onda vorticosa, tutto e tutti, compreso il Papa.

Pare un sogno, un dolce sogno di fraternità umana, che abbia, per
un istante almeno, cancellata ogni diversità di patria, di razze,
di credenze religiose, di opinioni politiche. La parola di Pio IX si
diffonde rapida, potente, in ogni angolo della terra; si può dire col
poeta:

    L'Arabo, il Parto, il Siro
    In suo sermon l'udì.

Il Turco gli manda ambasciatori; l'eretica Inghilterra un ministro,
Lord Minto, e Riccardo Cobden, l'apostolo della libertà commerciale;
l'agitatore irlandese, Daniele O'Connel, muore per via, mentre accorre
a lui; gli Ebrei gli baciano il lembo delle vesti, come all'aspettato
Messia; Giuseppe Mazzini lo incoraggia; Garibaldi dalla lontana
America, quando Sanfedisti e Gesuiti, riavuti dal primo spavento,
minacciano nella cosiddetta _Congiura di Roma_ la sicurezza e la vita
di Pio IX, gli offre a difesa il suo braccio e la sua spada; a Carlo
Alberto pare che spunti l'astro da tanto tempo invocato; e finalmente
il principe di Metternich, dubitando per la prima volta in sua vita
della propria infallibilità, dice al marchese Sauli: «_l'Austria era
apparecchiata a tutto fuori che a un Papa liberale; ora che l'abbiamo,
non si può più risponder di nulla_:» il maggiore omaggio che il
grand'arbitro della politica europea potesse mai rendere a Pio IX.

Così si procede per quasi altri due anni. Nei rapporti immediati fra il
Papa e Roma si svolge una commedia, che, se mi è lecito il paragone,
somiglia in punto a quella degli _Innamorati_ del Goldoni: smanie,
freddezze, ripulse, gelosie, rimproveri, esplosioni d'amore, lagrime,
abbracciamenti, disdegni furibondi, paci tanto più deliziose, quanto
più tribolate; col solo divario, che l'amore non finirà nel matrimonio,
bensì nel divorzio per assoluta e provata incompatibilità di caratteri.

Ma intanto: _viva Pio IX_ sarà per un pezzo ancora in Italia e nel
mondo il grido, che piglierà tutti i significati; il grido d'ogni
rivolta e d'ogni rivendicazione. Con esso insorgerà Palermo contro
i Borboni; Napoli e Calabria si agiteranno terribilmente; Milano e
Venezia caccieranno gli Austriaci; si udrà sulle barricate di Parigi;
echeggierà fra le valli e i monti della libera Svizzera contro la Lega
della Sonderbund; rintronerà negli orecchi al principe di Metternich,
fuggente dinanzi alla rivoluzione di Vienna; con questo grido sulle
labbra i soldati di Carlo Alberto varcheranno il Ticino, e i volontari
dell'Italia centrale passeranno il Po per combattere la prima e santa
guerra dell'Indipendenza italiana; per gli uni questo grido vorrà
dire libertà, per altri conciliazione della ragione colla fede, per
altri ancora fratellanza universale, per tutti patria e risurrezione
nazionale. Si usciva da un buio pesto. _Viva Pio IX_ era il grido
dell'avvenire. Quale avvenire? Nessuno lo sapeva, a cominciare da lui!



NOTE:


[1] NICOMEDE BIANCHI, _Storia documentata della diplomazia europea in
Italia_, vol. IV, pag. 55.

[2] _Atti del Comitato dell'Inchiesta industriale._ vol. I. Roma, 1870
(Categoria II, § 52), pag. 8.

[3] MEMOR, _La fine d'un regno_. Città di Castello, 1895, pag. 122.

[4] ZOBI, _Saggio sulle mutazioni politiche ed economiche avvenute in
Italia dal 1859 al 1868_. Firenze, 1870, vol. I, pag. 146.

[5] MEMOR, op. cit., pag. 145.

[6] _Atti del Comitato dell'Inchiesta industriale_, già citati, pag. 8.

[7] POGGI, _Cenni storici delle leggi sull'Agricoltura_. Firenze,
1845-48, vol. II, pag. 345.

[8] MEMOR, op. cit., pag. 145.

[9] MEMOR, op. cit., pag. 146.

[10] ZOBI, op. cit., 142.

[11] POGGI, op. cit., pag. 418.

[12] POGGI, id., id., pag. 420.

[13] POGGI, op. cit., pag. 414.

[14] VEDI MEMOR, op. cit., pag. 340 e seg.

[15] Non ho creduto necessario di riprodurre la lunga bibliografia sul
brigantaggio meridionale, nè le molte fonti cui son dovuto ricorrere.
Ringrazio qui solo l'amico Benedetto Croce delle notizie e dei dati che
mi ha voluto cortesemente fornire.



INDICE


  La politica degli Stati italiani dal 1831 al 1846.        Pag. 5
  La vecchia Italia                                             41
  Il brigantaggio meridionale durante il regime borbonico       73
  Il vescovo d'Imola                                           135



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I - Seconda serie - Storia" ***

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