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Title: La vita Italiana nel Rinascimento - Conferenze tenute a Firenze nel 1892
Author: Various
Language: Italian
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                                   LA
                             VITA ITALIANA
                            NEL RINASCIMENTO

                 _Conferenze tenute a Firenze nel 1892_


                                   DA

              E. Masi, G. Giacosa, G. Biagi, I. Del Lungo,
       G. Mazzoni, E. Nencioni, P. Rajna, F. Tocco, D. Martelli,
                 Vernon Lee, E. Panzacchi, P. Molmenti.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1896
                                   —
                            TERZA EDIZIONE.



                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                      _Riservati tutti i diritti._

                    Milano. — Tip. Fratelli Treves.



LORENZO IL MAGNIFICO

DI

ERNESTO MASI.


Vi ricordate della tragedia di Vittorio Alfieri intitolata: _La
Congiura de' Pazzi_? Come opera d'arte non è gran che, lasciando
stare anche l'alterazione quasi grottesca dei fatti storici, dei
caratteri e persino dei nomi dei personaggi. Ma non si tratta ora di
ciò. Voglio notare soltanto un fenomeno singolare, che parmi accaduto
all'Alfieri nel trattar questo tema, ed è che mentre ha senza dubbio
voluto travestire in Lorenzo e Giuliano de' Medici due de' suoi
soliti _Egisti_ e _Creonti_, due de' suoi soliti _tiranni_, messi
là a ricevere in pieno petto le contumelie del _prim'uomo_ e della
_prima donna_, non solo il carattere di Lorenzo gli è, suo malgrado,
riuscito il più simpatico della tragedia, ma all'ultimo non sa più egli
stesso, l'Alfieri, da che lato pende il torto maggiore; i motivi della
sanguinosa catastrofe, da prima apparsigli così chiari e lampanti,
si direbbe che gli si oscurano tutto ad un tratto; e per conclusione
finale mette in bocca a Lorenzo queste ambigue parole:

      . . . . E avverar sol può il tempo
    Me non tiranno e traditor costoro!

Sembra accorgersi tardi che il tentativo di raccogliere tutta la pietà
tragica sui Pazzi, anzichè sui Medici, è un grosso errore, tanto sotto
l'aspetto della storia, quanto sotto quello dell'arte, com'ebbe poi
a scrivergli con gran franchezza Melchiore Cesarotti, e si ferma lì
come in dubbio, e in questo dubbio lascia gli ascoltatori ed i lettori
della sua tragedia. La quale ritengo, avrebb'egli concepita in modo
tutto diverso, se, in cambio d'averla scritta fra il 1779 e l'80,
l'avesse scritta un dieci o dodici anni più tardi, quando, scoppiata la
rivoluzione francese, la prospettiva della tirannide gli si era, per
così dire, rovesciata e gli pareva molto più intollerabile quella che
viene dal basso, anzichè quella che viene dall'alto, la tirannide dei
molti, anzichè quella d'un solo.

Se non che il fenomeno accaduto all'Alfieri mi sembra essersi rinnovato
in molti altri dei più sfidati avversari di Lorenzo il Magnifico, dai
contemporanei fino ai giorni nostri. Molti altri accatastano fatti su
fatti e poi s'accorgono con loro stupore che i più tornano a gloria di
Lorenzo, e allora non possono tenersi dal mescolare le lodi ai biasimi,
o per lo meno dallo scindere l'unità di questa grande e complessa
figura storica del secolo XV in modo, da farne uscire due, tre, quattro
anzi, come propone il Perrens, uomini diversi, contenuti in un solo, e
così poterne lodare uno o due e biasimare i rimanenti; a molti altri
è accaduto di fermarsi all'ultimo, al pari dell'Alfieri, dubbiosi,
esitanti, come dinanzi ad un problema psicologico di troppo difficile
soluzione.

A Lorenzo de' Medici è toccata del resto una singolare fortuna, ed
è quella d'aver sempre appassionato pro o contro gli scrittori, che
hanno trattato di lui, dai contemporanei fino agli odierni, come se
in cambio d'aver vissuto dal 1449 al 1492 egli fosse nato, vissuto
o morto pochi anni fa, come se in cambio d'un uomo del secolo XV
si trattasse, ad esempio, d'un Napoleone I, gli effetti della cui
gloria e dei cui disastri sono forse sensibili anche oggi nella vita
europea. Eppure quei signori e principi della prima e seconda stirpe
Medicea sono ben morti e sepolti! Nulla ci parla più di loro. Gli
stessi edifici e monumenti d'arte, che hanno lasciato, ci ricordano
ancora il nome e l'opera dell'artista, che gli ha ideati e compiuti,
ma il nome del signore o del principe, che gli ha commessi, appena
qualche erudito lo sa con precisione e al visitatore indigeno o
forestiero poco importa oramai che si tratti dei primi o secondi
Cosimi, Giuliani e Lorenzi, che si tratti dei Medici insidiatori
della libertà fiorentina o dei Medici Granduchi, i quali alle loro
vecchie dimore non hanno lasciato di proprio neppure il nome. A qualche
scrutatore indiscreto alcuna traccia dei tempi Medicei parrà forse di
scernere ancora nel temperamento e in certe disposizioni morali del
popolo fiorentino (lo dico a lode, badiamo, non a biasimo di certo)
ma nulla più. Chi ne dubitasse entri, qui prossimo, a San Lorenzo, in
quelle sepolture Medicee. Che gelo, che tanfo di morte preistorica
in quel buio della vecchia e nuova sagrestia, ma qui almeno danno
lume e calore il genio di Andrea del Verrocchio e quello tra satirico
e malinconico di Michelangelo! Peggio tra la sfarzosa e teatrale
ricchezza del sepolcreto granducale! Qui nessun compenso possibile:
la storia dice poco; l'arte non dice niente; il freddo dei marmi vi
assidera, vi penetra crudelmente nell'ossa e nell'anima, e si sente
il bisogno d'uscire più che di fretta, non già per odio a quei sepolti
tiranni, che coi loro manti e le loro corone arieggiano innocui re da
melodramma, ma per la prosaica paura d'un raffreddore.

Ora dunque perchè, tra questi morti e così ben morti, quelli della
prima stirpe Medicea appassionano gli scrittori più di quelli della
seconda, e perchè tra quelli della prima Lorenzo più degli altri ha il
privilegio di eccitare anche oggi odii ed amori così tenaci?

Finchè in Italia i libri di storia furono per metà di politica, voi
sapete quanto si sfruttarono l'assedio e la caduta di Firenze nel
1530 e quell'accordo del Papa coll'Imperatore, che fu la cagione
immediata di tale catastrofe. Era la conclusione ultima di tutto il
gran dramma, non della libertà fiorentina soltanto, ma della libertà
italiana, e poichè quel Papa era un Medici ed un Medici il primo Duca
di Firenze, non altro si volle vedere in tuttociò che la continuazione
d'un antico disegno d'ambizione, che finalmente s'effettuava coll'aiuto
dello straniero, ed i più rei parvero i primi autori di quella lunga
e perseverante insidia, ed il peggiore di tutti, quegli in cui più
splendidamente s'incarnarono la tradizione e il genio di tutta la
stirpe. Divenne così una specie di obbligo pel liberalismo italiano
non far grazia ai Medici e soprattutti a Lorenzo. Non parliamo dei
contemporanei o dei quasi contemporanei. L'odio o l'amor loro troppo
facilmente si spiega. Non parliamo neppure degli scrittori toscani
dell'epoca granducale, medicea e lorenese. La lode o il silenzio in
bocca loro sono troppo sospetti. Ma quando colla storia filosofica
e Volteriana del secolo XVIII si cominciò ad opporre al Medio Evo
credente e devoto il Rinascimento scettico e razionalista, eccoti,
fra gli stranieri massimamente, fra gli indifferenti cioè alle nostre
passioni politiche, eccoti il panegirico dei Medici e di Lorenzo in
particolare, che tocca il colmo e, direi, passa il segno, nel famoso
libro del Roscoe, ed eccoti di riscontro il Sismondi, scrittore di gran
merito, ma uno dei santi padri, uno dei rappresentanti internazionali
di quel dottrinarismo liberale e borghese, che ha nelle instituzioni
repubblicane la panacea di tutti i mali, e quindi non perdona ai
distruttori di repubbliche ed ai loro encomiatori. Non badò il Sismondi
che nella vita di Lorenzo il Roscoe a dipinger l'uomo s'era attenuto
al Valori, un coetaneo di Lorenzo, che a narrar la storia avea seguito
il Machiavelli, che i documenti originali gliegli avea apprestati il
Fabroni, che a penetrar nella storia letteraria lo aveano aiutato
il Bandini, il Tiraboschi, autorità tutte di non poco valore; non
si ricordò neppure ch'egli stesso avea tanto esaltato i Medici e
Lorenzo nella sua storia letteraria dell'Europa meridionale, quanto
li deprimeva nella sua storia delle Repubbliche Italiane; non badò
a nulla, non volle curarsi di nulla; non altro gli stette a cuore
che contrapporre al panegirico la diatriba e spinta al segno da non
sdegnare esso, onest'uomo come era, di lodare quali azioni eroiche
persino la dissimulazione dei Pazzi, che convitano Lorenzo e Giuliano
de' Medici in casa loro a fine d'ammazzarli, persino il tasteggiare
che fanno il giovane Giuliano, fingendo abbracciarlo amicamente, per
assicurarsi se ha o no il giaco sotto la veste, quando lo inducono a
entrar nel duomo e lo uccidono.

È sommamente istruttiva la polemica, che ne seguì fra il Roscoe e il
Sismondi, la quale andò tant'oltre che il Sismondi stesso finì per
dire: “smettiamola, signor Roscoe, altrimenti si riderà di noi che ci
contendiamo un tiranno del secolo XV coll'accanimento medesimo, che due
rivali si contenderebbero il cuore d'una bella donna. E poi di che ci
scaldiamo tanto, noi, stranieri all'Italia tutti e due?„

Nè cadde a vuoto, sapete, quest'ultima parola, da cui s'arguirebbe
esservi sui Medici e su Lorenzo in particolare la possibilità
di due giudizi diversi, uno per gli Italiani, un altro per gli
stranieri, perocchè questo è appunto lo scrupolo, che ha trattenuto
il coscienzioso Burckhardt, nella sua classica opera sul Rinascimento
in Italia, dal giudicare Lorenzo come uomo di Stato e dal decidere
qual parte spetti agli uomini e quale sia superiore al loro stesso
buono o mal volere (il vero problema di questa storia) nei destini di
Firenze; scrupolo veramente eccessivo e che non trattenne per buona
sorte il Reumont, il Buser, il Leo, il Thomas, il Perrens e tanti altri
valentuomini stranieri dal fare della storia Medicea anche politica e
di Lorenzo come uomo di Stato il soggetto delle loro ricerche, e dei
loro studi.

Quanto agli Italiani, finchè durò il periodo della preparazione e degli
esperimenti infelici della nostra rivoluzione e sino a poco dopo il
1859, si tennero più o meno a modello il Sismondi, pur evitandone le
enormi esagerazioni, nel giudicare dei Medici e di Lorenzo, ma poi
spesso l'argomento fece forza da sè al preconcetto politico, ed o si
fermarono, ripeto, incerti e dubbiosi, a mezza spada, o il giudizio, da
prima severissimo, si venne via via temperando, più si approfondivano
le ricerche, come potete vedere in Gino Capponi, che nel 1842, quando
si cospirava anche coll'_Archivio Storico_ (una delle più nobili
arme affilate nel gabinetto di Giampietro Vieusseux), ha parole di
fuoco contro i Medici, e nel 1875, quando pubblicò la sua _Storia
della Repubblica di Firenze_, ne parla con tanta maggiore serenità e
obbiettività scientifica; come potete vedere in Pasquale Villari, che
nel suo _Savonarola_, il libro caldo ancora di inspirazione giovanile
e di passionata eloquenza, e assai prossimo al Sismondi, e nel suo
_Machiavelli_, lo studio severo della sapiente virilità, se non ha
dismessi tutti gli antichi corrucci, tuttavia tempera o per lo meno
slarga il suo giudizio, che in questo caso val quanto di necessità
temperarlo. Più notevole è il caso del Carducci, che in quei suoi primi
saggi bellissimi sulle poesie di Lorenzo de' Medici e del Poliziano,
ora la sua natura d'artista lo attrae irresistibilmente verso Lorenzo,
natura d'artista esso pure, come dice il Capponi, anima di principe,
ultima grandezza d'un'età splendida, che finiva, ora lo spirito
rivoluzionario lo trattiene, lo tira indietro, gli strappa accenti
di collera, troncati a mezzo però da una ripugnanza anche maggiore,
la ripugnanza alla reazione del Savonarola, che tenta gettare la sua
tonaca di frate su tutta quella radiosa giovinezza di Rinascimento
artistico e letterario.

Intanto le ricerche e gli studi sull'età Medicea e su Lorenzo
continuano indefessi; si ampliano e si integrano i documenti raccolti
dal benemerito Fabroni; al togato Guicciardini della _Storia d'Italia_
succede il Guicciardini della _Storia Fiorentina_, dei _Ricordi_ e di
quel capolavoro del pensiero politico italiano, che è il _Dialogo sul
Reggimento di Firenze_; abbiamo cioè l'espressione viva e immediata di
un quasi contemporaneo, che è insieme una gran mente d'uomo di Stato,
e tuttociò ci frutta fra il 1874 e 75 l'opera capitale su Lorenzo dei
Medici di Alfredo di Reumont ed il giudizio pieno e definitivo di Gino
Capponi. Si direbbe che il processo è chiuso, che la sentenza ultima è
pronunciata; che, com'è per lo più di tutte le sentenze della storia,
Lorenzo ne esce nè del tutto assolto, nè condannato del tutto. Oibò! La
buona fortuna del Sismondi non è finita. Esso rivive con tutte le sue
collere e i suoi anatemi nel Perrens, che sotto gli occhi nostri, nel
1888, e valendosi anzi di tutto il lavoro critico avvenuto dal Sismondi
in poi (giacchè, bisogna dirlo, il Perrens è anzi, per straniero
e francese che parla d'Italia, mirabilmente informato), riapre il
processo e non una parte di Lorenzo si salva; l'uomo, il padre,
il marito, il cittadino, il signore, lo statista, il mecenate, il
letterato, tutto, tutto è oscurato e ravvolto in una stessa condanna. È
una demolizione compiuta. Del tempio e della statua non resta in piedi
neppure una pietruzza, che dica al passeggiero: _qui fu Lorenzo de'
Medici_; tantochè all'ultimo lo stesso Perrens si ferma col martello
in mano e quasi spaventato dell'opera sua; si sente preso anch'esso da
quel dubbio, da quell'incertezza, che, come dicevo, assale dall'Alfieri
in giù tutti i più sfidati avversari di Lorenzo; ma è supremamente
comica la forma che piglia questo tardivo rimorso nel Perrens, il
quale si rivolta contro il suo maestro ed autore, contro il Sismondi,
e quasi lo apostrofa dicendo: “via, è troppo! Un po' di discrezione,
s'il vous plaît. Non è poi certissimo che quei vostri cari Albizzi
fossero proprio campioni di libertà e di democrazia in confronto dei
Medici e, quanto a Lorenzo, conveniamo che, se non fu veramente _l'ago
della bilancia_ nella politica italiana del suo tempo, come pretendono
i suoi adulatori, qualche cosa ha pur fatto per mantenere la pace,
almeno dalla guerra di Sarzana fino alla sua morte, dal 1487 al 1492.
È pochino! Sono cinque annetti soli! Ma questo almeno si conceda per
dimostrare, se non altro, la nostra imparzialità!„


Voi vedete, o signore, fra che odii e che amori, fra che assoluzioni
e condanne, fra che spinaio di giudizi diversi sarebbe costretto a
ravvolgersi chi avesse oggi da narrare a fondo la storia di Lorenzo il
Magnifico, della sua vita e del suo tempo. E se ho dovuto indugiarmi
tanto, solo per accennare le difficoltà del mio tema, mi conforta
il pensiero che accennare tali difficoltà è già esso stesso un
illustrarlo, e che, parlando ad un pubblico così culto e in massima
parte fiorentino, m'è lecito presupporre l'argomento noto almeno nelle
sue linee storiche principali e non tenermi obbligato a ridir tutto
per filo e per segno, che già sarebbe chieder troppo all'industria del
conferenziere e alla sofferenza del pubblico.

A giudicare dei Medici e di Lorenzo con quell'imparzialità almeno
relativa, a cui gli uomini possono aspirare, mi pare del resto che
la nostra generazione dovrebbe oramai essere meglio disposta delle
precedenti, la nostra generazione, che in fatto di politica è passata
a traverso tante bonacce e burrasche di promettenti primavere, di
malinconici autunni e di inverni spietati. Essa dovrebbe sentirsi,
dico, meglio disposta a non farsi guidare nel giudizio di un
passato remoto, che si tratta di conoscer bene, ma non muta più, da
idoleggiamenti rettorici di forme di governo, qualunque esse siano, o
da preoccupazioni politiche, che mutano ogni giorno.

La storia indifferente al bene od al male perde non solo ogni efficacia
morale, ma ancora ogni calore e vivezza di rappresentazione. Ma altro
è una gelida indifferenza al bene od al male, altro è gettarsi a
capo chino fra le lotte d'un'età tanto lontana da noi e sposarne gli
odii, gli amori, come se fossero i nostri, e aggregarsi a una fazione
contro dell'altra. Si moltiplicano per tal guisa deliberatamente le
occasioni e le cause d'errori infiniti, giacchè, per quanto ci sia
dato penetrare a dentro nella storia con le ricerche, gli studi e
attingendo, finchè si può, dalle fonti originali delle memorie e dei
documenti contemporanei, resta pur sempre un qualche cosa, che nessuna
ricerca può far rivivere, che nessuno studio può rimetterci dianzi
agli occhi, che nessun documento può dirci, ed è forse appunto in
quell'inafferrabile _qualche cosa_, che giace riposta la spiegazione
vera di un fatto o d'un uomo, la ragione ultima d'assolvere o di
condannare. Di ciò si ha un segno evidente in quella specie di sforzo
che occorre, in quella specie di disagio morale e qualche volta, direi
quasi, anche fisico, che si prova a volersi addietrare col pensiero
nella vita di generazioni già lontane da noi. Ce ne vuole per assuefare
non soltanto l'animo a sentimenti e passioni, che non si provano più,
ma la fantasia e gli occhi ad abitudini, a costumi, a fogge, ad arredi,
a vestiari, che non sono più i nostri, a compiacersi di divertimenti,
che oggi ci parrebbero torture, a persuadersi del buon gusto di un
pranzo, che oggi ci rovescierebbe lo stomaco, a ridire d'una burla
o d'un motto, che oggi ci suona come una freddura senza sugo, e via
dicendo. Quello sforzo e quella specie di disagio scemano in noi più ci
si affina il gusto della storia, e si convertono anzi in una misteriosa
delizia, che può divenire persino passione e mania. Ma dimostrano
insieme (e ciò dico in particolare a proposito dei Medici e di Lorenzo)
la necessità che lo studio della storia rimanga, più che possibile,
obbiettivo, la necessità di non spostare nè uomini, nè fatti, di
sceverare il generale dal particolare, di non dar troppo all'ambiente,
come oggi s'usa dire, per togliere all'uomo, nè attribuire a questo,
per quanta azione abbia avuto sul tempo suo, ciò che è dell'ambiente,
in cui quell'uomo ha vissuto, di sentenziare di preferenza dagli
effetti palesi dell'opera sua, che sono ben noti, anzichè dai movimenti
individuali e interiori, dei quali nessuno può più dirci intiero il
segreto, di non prolungare finalmente al di là di certi limiti quegli
effetti medesimi per incolparlo anche di ciò che risulta da tutti altri
uomini e da tutt'altre condizioni di tempi, scordandoci a suo danno
quello che l'esperienza ci dimostra ogni giorno, cioè che l'uomo è
appena padrone del minuto che passa.

Ora se v'ha personaggi storici pei quali queste cautele siano state
più trascurate, direi che sono i Medici per l'appunto. E si capisco
facilmente il perchè. Non parliamo dei Medici, dal 1531 Duchi e
Granduchi. Ma per quelli della prima linea, a non dir che di loro, per
Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso, Lorenzo il Magnifico, furono tanto
più facilmente trascurate quelle cautele, perchè essi appassionano,
come già dissi, più di tant'altri personaggi storici, gli scrittori,
e gli appassionano tanto più, perchè non sono semplici capi ereditari
d'una dinastia, d'una città, d'un regno, ma, oltre alla singolarissima
forma del potere che esercitano, sono, se non gli autori, gli attori
più in vista, pel loro grado, per le loro tradizioni, per le loro
aderenze, pel loro genio e le loro inclinazioni personali, di tutto
un nuovo e gran moto di civiltà, comprendente non solo le forme di
governo, le arti, le scienze, le lettere, ma i pensieri, i sentimenti,
la religione, la morale, i costumi, le usanze, tutta nel suo complesso
la vita pubblica e privata; ond'è che in essi si studia non il signore
soltanto, ma l'uomo nelle sue relazioni cogli uguali e cogli inferiori,
l'uomo nella vita quotidiana, in casa, in villa, per le vie, tra gli
spettacoli carnevaleschi, fra le dispute dell'accademia, nel banco
commerciale, nel museo, nella biblioteca, fra gli amici che predilige,
fra le donne che ama, fra le pareti del suo palazzo, alle corti
estere, dove, benchè semplice cittadino nella sua città, comparisce
da principe; e lo si studia appunto fra tanta gente e in tanti luoghi
diversi, perchè questa moltiplicità e varietà di gusti, di attitudini,
di attività è carattere generale del tempo, ma principalmente carattere
dei grandi uomini italiani, e fra gli Italiani dei Fiorentini, e fra i
Fiorentini dei Medici, e fra i Medici di Lorenzo il Magnifico.


Se le signorie dei secoli XIV e XV (che bisogna ben badare a non
confondere in Firenze ed altrove coi Principati) fossero un fatto
verificatosi in Firenze soltanto e per opera soltanto dei Medici, i
quali con arti subdole, con lunga e tenace insidia avessero a poco
a poco soffocata la vita del più torbido sì, ma del più glorioso
Comune italiano del Medio Evo, mentre all'intorno avessero prosperato
ancora gli altri Comuni, assodando la loro libertà e slargando la
loro giurisdizione territoriale, non vi sarebbe, a dir vero, vituperio
bastante a castigare un simile parricidio. Ma non è così! Nel secolo XV
la declinazione della cosidetta libertà comunale, che è la prevalenza
feudalesca di una città sul territorio che la circonda, e la sua
mutazione in signoria, che è la prevalenza d'un capo partito, o di un
capo militare, o di un vicario imperiale o di una potente famiglia
sui partiti, che si contendono il primato nella città dominante, è
un fatto universale in tutta Italia. In Firenze anzi, come fu più
tardivo a sorgere il libero Comune, così è più tarda a sorgere la
signoria. Nell'Italia superiore invece, dove il feudo s'insediò più
vigoroso, questa trasformazione non aspetta il secolo XV. Nei due
secoli antecedenti si compie e trascende già a principato vero coi
Torriani e Visconti a Milano, coi Da Romano nella Marca Trevisana,
cogli Scaligeri a Verona, coi Pelavicino a Piacenza e, più prossime
a Firenze, di qua e di là dell'Appennino, le signorie pullulano e si
frazionano all'infinito, più grandi, più piccole, or vigorose, ora
deboli, ora divorate dalle maggiori, ora dilaniantisi in sè stesse
fra odii sanguinosi di famiglie rivali. In Toscana stessa, ove le
resistenze sono più forti, avete le signorie militari e transitorie, i
tentativi sfortunati di Uguccione della Fagiuola e di Castruccio degli
Antelminelli. In Firenze stessa, tralasciando le signorie Angioine,
le quali si potrebbero dire delegazioni di poteri pubblici ad un fine
determinato, tralasciando pure l'episodio di Gualtieri di Brienne,
Duca d'Atene, la cui tirannia mette a repentaglio estremo le libertà
popolari, avete tentativi interni, i quali dimostrano che ai Medici,
anche nel maggior fervore della vita repubblicana, predecessori non
mancano: Corso Donati, ad esempio, che fin dal principio del secolo XIV
tenta farsi capo di una oligarchia di magnati; Rosso della Tosa, che
non gli vuol sottostare e mira diritto al principato. Più facile forse
il programma, come oggi si direbbe, di Corso Donati, perchè Rosso della
Tosa ha troppa fretta d'anticipare i Medici. Avete ad ogni modo, e di
non poco precedente la signoria Medicea, la tendenza ad afforzare in
una forma aristocratica i vecchi ordini comunali già decadenti, il che
si tenta fin dal secolo XIV col magistrato di parte Guelfa, instituito
già da molti anni, ma divenuto allora così chiuso e potente, che non so
davvero che cosa gli manchi per essere una vera tirannide; poi colla
prevalenza della parte aristocratica dei Ricci e degli Albizzi, prima
lottanti fra loro, poi degli Albizzi rivali dei Medici, i quali Medici
primeggiano nella parte popolare, donde sono usciti, sicchè all'ultimo
tutto si riduce a decidere quale delle due famiglie sopraffarà l'altra,
quale delle due, se gli Albizzi o i Medici, dominerà la repubblica. Ma
insomma questa inclinazione del Comune a signoria è fatale, è superiore
a tutte le combinazioni umane o di procaccianti ambizioni o di tardive
resistenze, perchè dipende da una legge più generale e più alta, quella
per cui un'età storica succede ad un'altra, quando i principii, sui
quali quella si reggeva sono logori, esausti, finiti, e le sottentrano
altri principii, altre tendenze, altre voglie, altri indirizzi di
civiltà, quasi un'altra società, un'altra gente.

Così è di questo tempo. Le grandi illusioni ghibelline sono finite
fin dal 1313 con Arrigo VII. Se gli Imperatori scendono ancora in
Italia da Lodovico il Bavaro a Carlo IV, a Venceslao, a Sigismondo, a
Federico III, vengono per esiger taglie, trafficar titoli e diplomi,
e se ne vanno. Settant'anni d'esilio in Avignone, quarant'anni
di scisma, hanno sminuito e trasformato il Papa in un principotto
italiano, che bada agli interessi suoi e de' suoi nipoti e lascia
il partito Guelfo senza capo. Le due universali unità politiche, le
due grandi forze ordinatrici, i due grandi ideali del Medio Evo sono
dunque finiti e scomparsi nella storia italiana. Nè basta. Napoli s'è
sottratta alla diretta soggezione imperiale. Venezia, che non fu mai
nè guelfa nè ghibellina, che quasi non pareva appartenere all'Italia,
cerca ora pigliarvi stato, e il difendersi da Napoli e da Venezia,
nel linguaggio e nelle idee d'allora, val quanto difendere la libertà
degli Stati italiani contro lo straniero. Nè basta ancora. Le potenti
energie messe in moto dalla turbolenta libertà dei Comuni hanno dato
vita ad una risurrezione d'arte e di sapere, ad una ristaurazione di
classicismo, che sarà fondamento a tutta la cultura moderna, e che ora
assorbe ogni attività spirituale e par fatta apposta per nascondere
sotto i suoi fulgori la decadenza dei vecchi ordini repubblicani
e la loro trasformazione in signorie. I Comuni colle loro lotte
continue in casa, in piazza, in palazzo, stancavano tutte le forze
del cittadino, fomentandone tutte le passioni, imponendogli attività
e doveri continui. Ma ormai è venuta su una gente disposta a cercar
riposo all'ombra d'un potere stabile e fermo, che tenga freno plebe
e oligarchi; una gente, che vuol godere in pace, fra gli agi e i
piaceri, il frutto della parsimonia e dell'operosità dei padri e degli
avi, tanta ricchezza ammassata, tanto splendore e amenità di arti e
di lettere e che per goderlo anche meglio si lascia cader le armi di
mano, abbandonando l'arte della guerra al mestiere dei venturieri
col fastidio superbo, colla noncuranza poltrona di opulenti, di
mercanti, di artisti e di letterati. Aggiungete che l'umanesimo ha
bisogno d'aiuto e di protezione signorile. Se la libera bottega bastò
ai prodigi spontanei dell'arte, l'umanesimo tende a costituire una
nuova aristocrazia piuttosto cortigiana, di quello che politicamente
e virtuosamente operosa. Questo all'interno. E al di fuori? Al di
fuori niun pericolo minaccia per ora: non dall'Impero troppo debole,
non dalle altre nazioni ancora intente alla loro costituzione. Se un
pericolo v'è, sta nella gelosia reciproca dei varii Stati italiani,
nella necessità quindi di una politica di equilibrio tra i più forti,
tanto più difficile a praticarsi, quanto più sono misteriosi e tutti
egoistici e personali i motivi, pei quali le violenze e le rappresaglie
si determinano. Firenze è al centro di tutto questo nuovo movimento di
civiltà, di tutta questa trasformazione morale, sociale e politica,
che si va compiendo, e in mezzo ad essa la signoria Medicea (di
origine certamente meno illegittima di tante altre, in quanto sorge
e si svolge dall'imo fondo dei rivolgimenti politici fiorentini) in
mezzo ad essa la signoria Medicea si afferma e si assoda da Cosimo
il Vecchio a Lorenzo il Magnifico, il quale ne segna l'apogèo, e dopo
del quale non avrà che a decadere (per poi vigoreggiare di nuovo con
forme e in tempi affatto diversi), tanto in questo strano congegno del
governo signorile, che il Burckhardt ha con ragione chiamato un'opera
d'arte, al pari d'un poema o d'un quadro, tutto è affidato alle qualità
personali dell'uomo. Ma di tutto quel nuovo ambiente, in cui il poter
loro prevale, i Medici sono essi la causa o l'effetto? L'effetto,
io credo. Sono la produzione spontanea delle condizioni generali del
tempo e delle particolari, che escono dalla storia di Firenze. Quindi
è necessario non dimenticar mai di considerare i Medici della prima
stirpe per quel che sono, uomini del loro tempo, Lorenzo sopra tutti,
che colle sue pecche non lievi e le sue straordinarie qualità è anzi il
tipo ideale del Signore italiano del Rinascimento.


Lasciando ai genealogisti cortigiani di avvolgere le origini della
famiglia Medici nelle nuvole della leggenda, dirò che essi appariscono
relativamente tardi nella storia di Firenze, non prima, che si sappia,
del 1301. Si dice che appariscono come sopraffattori di popolo nei
sanguinosi tumulti, che finiscono alla proscrizione dei Guelfi bianchi
e di Dante Alighieri. Si dice che con Salvestro de' Medici, il quale
da Gonfaloniere di Giustizia, nel 1378, dà le mosse al tumulto de'
Ciompi, essi cominciano a far l'arte loro di lusingar la plebe per
aiutarsi a salire. Si dice che Giovanni di Bicci nel 1426, opponendosi
a Rinaldo degli Albizzi, si atteggia a capo del partito popolare.
Tuttociò è vero, come fatto. Ma è altrettanto conforme a verità
trovarvi gli auspicii e il cominciamento del destino Mediceo? Se nel
1301 sono sopraffattori di popolo, vuol dire che erano violenti come
tutti gli altri, come quel popolo stesso, il quale s'era armato dei
cosidetti Ordinamenti di Giustizia. Se nel 1378 Salvestro ha parte
nel tumulto de' Ciompi, non ve l'ha certo maggiore di Benedetto degli
Alberti, di Giorgio Scali, di Tommaso Strozzi, i quali tutti sommuovono
i Ciompi, cioè l'infima plebe, contro Piero degli Albizzi e la setta
Guelfa. L'intervento dei Ciompi dà un carattere di rivoluzione sociale
alla lotta, che non era nelle intenzioni dei sommovitori. Essi sono
trascinati loro malgrado nella vittoria dei Ciompi, che si risolve
poi in una prevalenza delle sette Arti Minori, e di questa l'Alberti,
lo Scali, lo Strozzi sono le prime vittime, appunto perchè la parte
ch'essi ebbero in tutto questo moto fu molto maggiore di quella di
Salvestro de' Medici. La pretesa precocità dell'insidia Medicea, che si
vuol dedurre dal tumulto dei Ciompi, è dunque una delle tante _frasi
fatte_, che si ripete a carico dei Medici, ma che non ha fondamento
nella storia. Quanto a Giovanni di Bicci, certo egli ha gran parte
nella legge tutta popolare del Catasto del 1427, ma politicamente è
un personaggio quasi insignificante: accresce bensì il credito e la
ricchezza di Casa Medici, ma non può dirsi il fondatore politico di
essa. Il suo fondatore vero è Cosimo il Vecchio. Quand'egli apparisce,
le lotte si sono venute sempre più restringendo, e la rivalità dei
Medici e degli Albizzi diventa quasi una lotta personale fra Cosimo e
Rinaldo degli Albizzi, che, al dire di Jacopo Pitti, “come principe
maneggiava lo Stato.„ Costui pensa essere ormai tempo di troncare
di colpo la sempre crescente potenza Medicea e fa chiamar Cosimo in
Palazzo per ucciderlo, ma deve contentarsi dell'esilio; transazione,
di cui il Sismondi, il Perrens sono inconsolabili, perchè Cosimo è
richiamato dall'esilio un anno dopo e torna in patria in trionfo. Nei
giorni più splendidi di Casa Medici, sulle pareti del gran salone nella
villa di Poggio a Caiano questo ritorno sarà magnificato, figurandolo
per quello di Cicerone, ricondotto in patria sugli omeri di tutta
Italia. Il vero è che Cosimo, tornando dall'esilio il 6 ottobre
1434, si fermò e pranzò a Careggi, non permettendogli la Signoria di
rientrare in Firenze prima di sera, e poichè Via Larga era piena di
popolo aspettante, dovette sgattaiolare nel Palazzo della Signoria e
passarvi la notte, rientrando solo al mattino seguente nella sua dimora
di Via Larga, lo stupendo edificio, forse allora ancora in costruzione,
in cui, fra quel misto di solidità e di eleganza, di cittadino e di
principesco, sembra ch'egli abbia veramente improntato sulle muraglie
il proprio genio.

Se Lorenzo il Magnifico fosse succeduto a Cosimo il Vecchio, i
primi tempi della sua signoria sarebbero stati meno difficili e meno
travagliata la sua giovinezza. Ma succedette invece a Piero il Gottoso,
che in mille modi avea compromesso il potere della sua casa, più di
tutto deviando da quella esteriore semplicità e modestia di Cosimo,
che, unite alla grandezza degli intenti civili, alla protezione
delle lettere, al buon uso della ricchezza, alla passione magnifica
dell'edificare, per cui Benozzo Gozzoli, con allegoria, che sa di
satira, lo figurò nel Camposanto di Pisa assistente colla famiglia
all'edificazione della torre di Babele, mentre fecero dare alla potenza
Medicea il passo decisivo, valsero a lui il titolo glorioso di padre
della patria.

Ma morto Piero nel 1469, succedevano due giovani, Lorenzo di 21 e
Giuliano di 16 anni, sicchè rinverdirono le speranze dei nemici di
Casa Medici, contando sull'inesperienza e sull'impeto giovanile,
qualità poco adatte a conservare una potestà così vaga e indeterminata,
così raccomandata tutta al valor personale, come quella dei Medici.
Furono più forti l'amore del popolo, il terror dell'ignoto, le memorie
di Cosimo, tanto più ch'esso in persona parea rivivere nel giovine
Lorenzo, già messo in vista di tutti per la precocità dell'ingegno,
la giovialità, il fare largo e liberalissimo, l'educazione ricevuta
da grandi maestri, i viaggi alle corti estere, pei quali così giovane
era messo a parte di gravi faccende politiche e ammonito dal padre a
diportarsi già da uomo e da principe. Precoce era in tutto Lorenzo e
già da giovanissimo i contemporanei gli mutavano in predicato d'onore
il titolo di _Magnifico_ spettante al suo grado e con cui è rimasto
nella storia, mentre il fratello Giuliano, indole più rimessa e più
spensierata tuffata nei piaceri, negli amori, negli spassi giovanili
era dai suoi coetanei chiamato, dice il Giovio, _principe della
gioventù_. All'arme non fu educato Lorenzo, non sì però ch'egli non
fosse forte, aitante della persona, benchè assai brutto di volto,
come si vede, meglio che dalla figura un po' idealizzata di Lorenzo
giovine nel gran quadro dell'_Epifania_ di Sandro Botticelli e dal
ritrattino del Bronzino agli Uffizi, nella medaglia del Pollaiuolo
e nella trista figura dipinta dal Vasari (pure agli Uffizi), in cui
appariscono evidenti i segni del male, che lo trasse a morte prematura.
Appassionatissimo pei cavalli, era cavalcatore valente, ma della
corona riportata alla giostra del 1468, combattuta per le sue nozze
con Clarice Orsini, e cantata da Luca Pulci, è il primo a ridere con
la solita superiorità sua. Appena mortogli il padre, furono dunque a
lui i principali cittadini, pregandolo a pigliarsi cura dello Stato.
Esitò, forse ad arte, raccomandandosi ai consigli di tutti, ma certo
ben risoluto in cuor suo a far da sè.

Quali sono da questo momento i punti prominenti della vita di
Lorenzo? Dal 1472 al 1484 la sollevazione di Volterra, la congiura
de' Pazzi, la guerra che ne consegue col papa Sisto IV e col re di
Napoli, l'ardito viaggio di Lorenzo a Napoli, che stacca il re dal
papa e assicura la pace, il ritorno di Lorenzo in patria e la riforma
interna coll'instituzione dell'Ordine dei Settanta (che è il vero _18
Brumaio_ di Lorenzo), la guerra di Ferrara, la pace coi Veneziani,
e la morte di Sisto IV, l'implacabile nemico di Lorenzo. Dal 1484 al
1492 l'intimità di Lorenzo con Innocenzo VIII, successore di Sisto,
l'equilibrio politico a sommo studio mantenuto da Lorenzo, il maggior
splendore della sua signoria ed i primordi d'un'opposizione morale nel
Savonarola fino alla morte di Lorenzo, a cui seguitano così da presso
la preponderanza straniera e la servitù dell'Italia, che Cesare Balbo,
nella sua divisione della nostra storia, proponeva di finir qui (merito
o fortuna, che sia, di Lorenzo) l'età dei Comuni Repubblicani, che
altri protrae sino alla caduta di Firenze nel 1530.

Ora questi fatti, che io ho accennati così in breve c'è chi gli
ha narrati tutti a gloria, altri tutti a biasimo di Lorenzo. La
Repubblica doma la ribellione di Volterra? È lui che vuol rubare i
profitti delle cave d'allume. Volterra è posta a sacco? È lui, che
ordina quell'inutile crudeltà. I Pazzi congiurano? È lui che li ha
provocati. Il popolo fa scempio dei congiurati? È lui, che non è mai
sazio di vendette. Sisto IV e il Re di Napoli muovon guerra? È Lorenzo,
che strascina la patria in contese non sue. Lorenzo va a Napoli e
si dà in mano al suo nemico? È una commedia. Torna e si impossessa
coll'ordine dei Settanta dell'elezione dei Magistrati? È lui, che ha
inventata questa trappola alla libertà la quale non ha riscontro nella
storia di Firenze. Si stringe in amicizia e parentela con Innocenzo
VIII? È lui, che è quasi reo del nepotismo dei Papi. Cerca la pace
nell'equilibrio degli Stati? È una politica d'espedienti, che non val
nulla. Firenze è prospera e gioconda? È lui che la educa alla servitù,
corrompendola coi trionfi e i canti carnascialeschi. Che più? Neppur
l'uomo privato si salva da questo pessimismo demolitore. Si ricusano
tutte le testimonianze in suo favore, che concordemente lo dicono
buono, gioviale e tollerante, nonostante le sue sofferenze fisiche,
fedele agli amici, socievole, semplice nella grandezza, idolatra dei
figli, non dimentico mai del tutto degli insegnamenti e degli esempi
della pia madre, Lucrezia Tornabuoni, rispettoso della moglie, indole
pur così diversa dalla sua e con poca grazia e senza avvenenza; e, per
dimostrare com'era tuffato nei vizi, il Buser reca una lettera d'un
Francesco Nacci da Napoli, che annuncia a Lorenzo la spedizione di
cinquanta belle schiave turche, _le più belle che si trovarono_! Ah,
la grazia! Cinquanta? Se non che, come fu provato, il buon tedesco
ha letto nel documento _belle_ invece di _pelli_, _turche_ invece
di _tutte_, e così, invece di 50 _pelli di Schiavonia_, ha letto 50
belle schiave turche, un harem da sultano, e senza accorgersi neppure
che in tutto il contesto della lettera si parla della spedizione in
modo, come se oggi si spedissero a qualche gran Don Giovanni 50 belle
ragazze, turche o non turche, per pacco postale. Nè basta. Quello che
il Machiavelli dice a lode di Lorenzo s'interpreta a biasimo, e nel
dialogo sul _Reggimento di Firenze_ del Guicciardini si vuol vedere non
una discussione, ma una diatriba, e fra gli interlocutori del dialogo
si menan buone tutte le accuse di Paolo Antonio Soderini e di Pier
Capponi e non si tien conto alcuno di tutte le difese di Bernardo Del
Nero.

Quanto erano stati belli e lieti gli anni della prima giovinezza di
Lorenzo, altrettanto furono agitati e poi tristi e funesti i primi anni
della sua signoria. Nel 1470 insorge Prato. Due anni dopo Volterra, a
cagione delle miniere d'allume. Si vuole ch'egli vi fosse cointeressato
e che nella repressione la città fosse posta a sacco per ordine suo.
Ora è stato dimostrato che della prima accusa non c'è che una sola
testimonianza contemporanea ed è di un nemico dei Medici; e quanto
alla seconda, non solo che non furono gli assalitori, che la misero a
sacco, bensì le masnade stesse, che essa avea assoldate per difendersi.
Ma che monta? È un'altra delle frasi fatte a proposito dei Medici e di
Lorenzo, e non è un anno, che se l'è ribevuta il Bourget, romanziere
positivista, nelle sue _Sensations d'Italie_ e l'ha ridivulgata colla
magia del suo stile. Lorenzo volle non transigere, ma reprimere. Quella
frequenza di ribellioni gli dava ombra; ecco la maggiore responsabilità
sua. Ottenne di fatto qualche anno di tregua e ripigliò più che mai
gli spassi, gli studi, le magnificenze d'arti e spettacoli, perocchè
Lorenzo non era di quelle povere nature, come sarebbero le nostre, che
una sola faccenda assorbe intiere e non ci lascia più nè tempo nè testa
ad altro.

Natura grandiosa, fantasia ardente, ingegno universale, Lorenzo mandava
di pari passo lettere, filosofia, galanterie, mascherate, vita di
campagna, vita di città, laudi sacre, canti carnascialeschi, canzoni a
ballo, sacre rappresentazioni, intimità cogli amici, i letterati e gli
artisti, ospitalità sontuose a principi che capitavano, eriger chiese
e ville, passione dei musei e dei cavalli, della musica e delle belle
donne, banchetti e processioni, politica e giostre.

La più celebre è appunto di questi anni, nel 1478, e prende nome da
Giuliano ed è la più celebre, perchè fornì argomento alle _Stanze_
del Poliziano. Precede alla giostra e alla composizione delle
_Stanze_ un avvenimento intimo dei due fratelli Medici, la morte
della bella Simonetta Vespucci, amante di Giuliano, nel 1476, ed
interrompono la composizione delle Stanze la congiura de' Pazzi
e l'uccisione di Giuliano nel 1478. Il terribile epilogo, e non
voluto, del poema è dunque la narrazione in latino sallustiano,
scritta dallo stesso Poliziano. L'epilogo, forse ideato e non potuto
scrivere, il cavalleresco epilogo cioè della più bella data in
premio al più cortese, al più prode, sarebbe mai quello rappresentato
con inspirazione polizianesca dal Botticelli nello stupendo quadro
dell'Accademia di Belle Arti, detto comunemente: _la Primavera_? È una
ingegnosa e nuova interpretazione del quadro, proposta ora dal prof.
Jacopo Cavallucci e che a me pare fondatissima. La Ninfa del poema è
certo quella del quadro. Basta rileggere le _Stanze_:

        Candida è ella e candida la vesta
      Ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
      Lo inanellato crin dell'aurea testa
      Scende in la fronte umilmente superba.
      Ridele intorno tutta la foresta
      E quante può sue cure disacerba.
      Nell'atto regalmente e mansueta
      E pur col ciglio le tempeste acqueta.
      . . . . . . . . . . . . . . .
    Ella era assisa sopra la verdura
      Allegra e ghirlandetta avea contesta
      Di quanti fior creasse mai natura,
      De' quali era dipinta la sua vesta.
      E come prima al giovin pose cura
      Alquanto paurosa alzò la testa,
      Poi con la bianca man ripreso il lembo,
      Levossi in piè con di fior pieno un grembo.
      . . . . . . . . . . . . . . .
      Mosse sovra l'erbetta i passi lenti
      Con atto d'amorosa grazia adorno
      . . . . . . . . . . . . . .
      Ma l'erba verde sotto i dolci passi
      Bianca, gialla, vermiglia azzurra fassi.

Non meno certo è che la figura del giovine, situato a sinistra, è il
ritratto idealizzato di Giuliano, somigliantissimo, parmi, all'altra
figura di Giuliano, che è nel quadro dell'_Epifania_ del medesimo
Botticelli; e quasi lo stesso motivo poetico delle Stanze e del quadro
la _Primavera_, e la poesia attribuita a Giuliano de' Medici, ma
che il Carducci giudica del Poliziano, ed è diretta alla Simonetta.
Se la ninfa del quadro sia il ritratto della Simonetta, fra tanta
incertezza dei ritratti di questa vaga e celebre beltà, non si può
forse determinare assolutamente, ma altri emblemi, il _lauro_ allusivo
a Lorenzo, i tre fiori _d'ireos_ fiorentina, tutto concorre a dare a
quel quadro un significato Mediceo spiccatissimo, e si sa che i Medici
l'ebbero caro come un ricordo di famiglia.

Comunque, il dolce nome della Simonetta mi riconduce a Lorenzo, perchè
dalla vista di lei morta e portata, scoperto il volto, al sepolcro,
come narra il famoso epigramma latino del Poliziano, Lorenzo pretende,
nel _Commento_ ai propri sonetti amorosi, essersi sentito sollevare
alla perfetta cognizione platonica dell'amore, da una morta trapassato
poi in una viva, dalla Simonetta in Lucrezia Donati, da lui incontrata
in una festa, alla quale “concorsono, dic'egli, tutte le giovani nobili
e belle„. È una gentilissima invenzione, ma invenzione di certo, perchè
l'amore della Donati è precedente di dieci anni almeno alla morte
della Simonetta, e solo dimostra che continuò anche dopo il matrimonio
di Lorenzo con Clarice Orsini, sempre però puro, ideale, platonico,
petrarchesco, come assicura Ugolino Verini, un poeta intrinseco di
Lorenzo, e dietro a lui molti altri confermano, sicchè noi non possiamo
far di meglio che credere ad occhi chiusi a sì concordi testimonianze.


Tutta questa lieta visione di giovinezza e di amori si dilegua
nella congiura de' Pazzi. Non rinarrerò quella scena, una delle più
straordinarie della storia di Firenze, perchè tutte già l'avete a
memoria; quella messa in duomo col Cardinal Riario, che assiste;
Giuliano e Lorenzo de' Medici con parecchi loro amici, vicini al coro
e circondati, senza saperlo, dai congiurati; il popolo devoto, che li
attornia, e mentre il sacerdote celebrante solleva l'ostia consacrata
e le campane suonano a gloria, Giuliano, ferito a morte dal Bandini,
cadere immerso nel proprio sangue, Lorenzo assalito e ferito anch'esso,
ma avvoltasi la cappa a un braccio e tratta coll'altro la spada
aprirsi il passo alla sagristia, dove riesce a scampare. La chiesa
è tutta un tumulto; le vôlte quasi crollano alle grida; il Cardinal
Riario, accovacciato presso l'altare, ne rimarrà pallido di terrore
tutta la vita. Intanto a quel suono di campane, altri congiurati,
con l'Arcivescovo Salviati alla testa, assalgono il Palazzo della
Signoria, ma sono presi, i principali impiccati alle finestre, altri
respinti, mentre il popolo, infuriato per la morte di Giuliano, vuol
riveder salvo il suo Lorenzo dalle finestre del Palazzo di Via Larga,
poi trucida per le vie quanti congiurati o sospetti gli vengono alle
mani, chi dice settanta, chi cento, chi più; giustizia orrenda, ma che
dimostra avere il popolo giudicata la congiura per quel che era, una
trama ordita, non per amore di libertà, ma per odii e cupidigie private
dei Pazzi, del Papa e dei Riario, suoi nipoti, e quindi aver senz'altro
voluto vendetta dei congiurati. Dissimulando la complicità sua, il
Papa ruppe guerra a Firenze e vi trascinò il Re di Napoli, suo alleato,
pretendendo che la guerra era fatta non a Firenze, ma a Lorenzo. Questi
vide bene il pericolo di tale perfidia; intuì rapidamente la necessità
d'un gran colpo, scindere cioè l'alleanza del Papa col Re, e deliberò
a qualunque rischio di consegnarsi da sè nelle mani del Re. Partì
accompagnato dai voti e dall'ammirazione di tutti. Tornò colla pace,
tornò glorioso, tornò onnipotente, e di questo momento si valse subito
per riassodare l'autorità sua e della sua Casa. Questo si chiama veder
chiaro in politica! Di più, poteva in quel momento esser principe e non
volle; preferì una repubblica signorile a una signoria repubblicana.
Questo si chiama moderarsi nella vittoria, la più difficile di tutte
le virtù politiche. Poteva cioè uscire dalle tradizioni della storia
fiorentina e non volle!

Quante volte il fatto dei Medici e di Lorenzo non s'è ripetuto anche
nella storia d'altri paesi? Al ritorno di Cosimo dall'esilio il popolo
vide in lui un liberatore, non un tiranno. Al ritorno di Lorenzo da
Napoli accadde lo stesso e anche più. Perciò non credo ch'egli avesse
bisogno di corrompere il popolo, distillandogli i sottili veleni
della voluttà per meglio dominarlo. Anche questa è una delle tante
frasi fatte, ma, ha ragione il Gaspary, “un individuo non corrompe una
nazione, quando essa non sia già corrotta„. Quanto a morale e gusto
di piaceri, il popolo valeva il signore e il signore il suo popolo.
Per questo s'intesero così bene! Nè si nieghi l'azione di Lorenzo
sulla civiltà della Firenze d'allora, sofisticando su qualche data di
nascita o di morte di grandi artisti, perchè tutta la grande fioritura
artistica e letteraria del 400 fiorentino è Medicea, nè tali quistioni
si trattano coll'orologio alla mano. Il vero è che nè una protezione
principesca basta da sola a creare una civiltà, nè una tirannia,
anche più deprimente di quella dei Medici, a farla sparire. V'ha
bensì sull'ultimo della vita di Lorenzo, come già dissi, un principio
di reazione morale e religiosa, che s'incarna nel Savonarola, ma la
impicciolirebbe di troppo chi la considerasse provocata da un uomo
solo, anzichè dall'indole generale della nuova cultura, dei nuovi
costumi e dei nuovi tempi. Le lettere, che Lorenzo scrive alla morte
di sua madre, la pia e ingegnosa donna, la quale negli argomenti de'
suoi inni sacri precorre il Manzoni, mostrano la tenerezza filiale
di Lorenzo. Le lettere di Clarice Orsini e del Poliziano, del Pulci e
di tanti altri mostrano l'amor suo pei figli, la sua bonaria e fedele
affezione agli amici, dai quali fu idolatrato, e, quanto alla moglie,
lasciando stare se il _mi fu data_ dei _Ricordi_ di Lorenzo sia la
frase indifferente, che significa il fidanzamento o che la sposa non fu
di sua scelta, certo è che i fatti e i documenti dimostrano rapporti
non mai interrotti di affetto e di stima. Intercedendo per chi l'ha
offeso: “non fareste, essa gli scrive, secondo la natura vostra a
non gli perdonare„; parole, che fanno il maggior onore ad essa ed a
lui e scritte l'anno stesso della congiura de' Pazzi, quando l'animo
di Lorenzo dovea esser meno che mai disposto ad indulgenza. E quando
si leggono nella lettera di Matteo Franco, che descrive il ritorno
di Clarice dal Bagno a Morba, le parole, ch'essa risponde ai poveri
terrazzani di Colle, i quali la supplicano di raccomandarli a Lorenzo,
si vede chiaro quant'essa era addentro nel segreto della sua politica
e con che arte gentile sapea all'occasione farsene strumento.

Se non avessi già troppo abusato della vostra cortese attenzione,
mi sarebbe dunque facile dimostrarvi coi documenti alla mano che
Lorenzo fu buon figlio, buon padre, marito convenientissimo, nella
stessa guisa che potrei e dovrei mostrarvi, che come critico, precorre
studi moderni, che come poeta, sorpassa forse il Poliziano ed il
Pulci per osservazione della realtà e per sentimento vivo e immediato
della natura esteriore, che, come umanista, tempera gli eccessi
della scuola col culto della lingua volgare, di cui è restitutore e
mantenitore, che, come filosofo finalmente, modera l'irreligione del
tempo col teismo neoplatonico, il maggior tentativo di accordo fra il
cristianesimo e la filosofia, quantunque non potesse di certo parer
sufficiente al Savonarola.

Se come uomo Lorenzo de' Medici deve dirsi buono, se come letterato
e filosofo superiore al suo tempo (il quale tuttavia non ha nel
suo complesso chi lo rappresenti meglio e più intieramente di lui),
forsechè come politico è inferiore agli altri signori e principi del
tempo suo? Il sistema d'equilibrio dei quattro maggiori Stati d'Italia,
quale lo praticò Lorenzo al disopra della scellerata politica degli
altri principi, compresi i Papi, al disopra dei pregiudizi Guelfi
Fiorentini, al disopra d'ogni interesse di famiglia, perchè nella
politica estera egli non ha, nè può avere, notate bene, appunto perchè
non principe, altro pensiero che della potenza di Firenze, lo rende
indubitabilmente superiore a tutti gli statisti, non speculativi, ma
operanti del suo tempo. Ed ebbe pure il presentimento del donde potea
venire il pericolo futuro, poichè quando Luigi XI gli profferse aiuto
contro il Papa ed il Re di Napoli: “io non posso, disse, anteporre
il mio particolare vantaggio al pericolo di tutta Italia; volesse
Iddio che ai Re di Francia non venisse mai in mente di sperimentare
le proprie forze in questo paese. Quando ciò accada, l'Italia sarà
perduta!„ E lo fu in realtà, due anni dopo appena ch'egli era morto.
Non possiamo dire, ch'egli avrebbe impedita la catastrofe, ma ben
possiamo esser certi che la sua condotta non sarebbe stata così pazza
ed improvvida, come fu quella di Piero, suo figlio.


Moriva Lorenzo l'8 aprile 1492 nella sua villa di Careggi fra il dolore
disperato dei congiunti e degli amici; moriva fra il lutto e le lagrime
di tutto un popolo; moriva nel colmo della potenza e della gloria.
Ciò non potè tollerare l'intolleranza Piagnona e creò la leggenda
del Savonarola che all'ultim'ora gli nega l'assoluzione e lo lascia
morire fra i rimorsi. Nè basta. Ci voleva un po' di delitto per colorir
meglio il quadro e si raccontò, e si cantò anche in versi elegiaci,
che il medico Pier Leoni di Spoleto fu gettato in un pozzo per ordine
del primogenito di Lorenzo. Quanto alla prima parte della leggenda,
essa, come questione storica, s'è ingrossata, e allorchè un Villari le
presta fede, un Ranke non osava più negarla addirittura, un Reumont
la giudicava per lo meno incerta, non oserei io di mescolarmi in tal
disputa. Debbo però al mio gentile uditorio la mia opinione, ed è che
la lettera del Poliziano a Jacopo Antiquario, in cui il Savonarola
(ciò che s'accorda anche col tempo) si mostra solo uomo di chiesa e
ammonisce e benedice (non confessa ed assolve) _in articulo mortis_ il
peccatore pentito, mi pare a tutt'oggi il solo documento attendibile e
che tutte le altre parole messe dalla leggenda in bocca al Savonarola
e a Lorenzo mi sembrano un anacronismo e un assurdo. Quanto al medico,
la lettera, ora pubblicata, di Bartolommeo Dei toglie ogni dubbio.
Impazzò e si suicidò! Meno male, perchè il terribile Perrens aveva già
scartata l'ipotesi del suicidio, dicendo: “_Les medécins tuent, ne se
tuent pas!_„

Ed ora concludiamo. Chi dalle mie parole argomentasse che ho voluto
fare non la storia, ma l'apologia di Lorenzo il Magnifico, avrebbe
gran torto. Nè l'una, nè l'altra, se mai; non la storia, perchè in
sì piccolo quadro non si fa star dentro una così grande figura; non
l'apologia, perchè non credo che Lorenzo n'abbia bisogno. Volli esporre
il concetto, che mi sono formato della storia di Lorenzo in relazione
a quella di Firenze e d'Italia, e tale concetto posso riassumerlo così.

Nella storia di Firenze a me pare di scorgere una continuità nelle
parti, che si contendono il predominio cittadino ed un perpetuo ricorso
delle stesse forme, che, spogliate di quanto hanno d'accidentale e
d'occasionale, accennano fin dai più antichi tempi al dove vanno in
ultimo a terminare tutte le lotte fiorentine, al predominio cioè d'una
consorteria, d'una famiglia, d'un uomo. Furono i Medici! Potevano
essere gli Albizzi, gli Alberti, gli Strozzi, ma a questi non sarebbe
probabilmente riescito di dare alla loro signoria quel carattere, che
poterono darle i Medici, di pura preminenza d'un cittadino in una
repubblica. Le lotte delle fazioni si presentano subito in Firenze
come contrasto di due famiglie. Queste aggruppano intorno a sè gli
elementi, che sono proprii della lotta comunale in tutta Italia,
elementi politici, guelfismo e ghibellinismo, elementi sociali,
aristocrazia e democrazia. Il Comune è da prima fuori del contrasto,
poi naturalmente, e presto, diviene l'oggetto del contrasto medesimo e
gli dà la forma esteriore, mentre l'impulso segreto, l'impulso, che è
l'anima vera del contrasto, è sempre d'una famiglia e della clientela,
che le sta d'attorno. Se così non fosse, quando il fine, per cui una
fazione si muove, è ottenuto, si vedrebbe cessare questo moto, per poi
ricominciarne un altro. Invece, siano guelfi e ghibellini, che lottano,
grandi e popolo, arti maggiori e arti minori, appena una fazione vince,
si divide in sè stessa e la lotta continua sempre. È per questo, io
credo, che il Villani, il Compagni, tutti i cronisti, non parlano mai
dei principii o dei fini politici, pei quali una fazione s'è mossa,
bensì dei pregi o difetti della famiglia o dell'uomo, che alla fazione
dà nome, perchè questo è per essi importante; il resto accessorio.
Talvolta pare che si mira a slargare in senso democratico l'ordinamento
del Comune. Ma appena s'è vinto, la famiglia, la setta (come la
chiamano i Fiorentini nella seconda metà del trecento), cerca sfruttare
la vittoria a suo pro. Questo tentativo costante non riesce ad altri;
riesce ai Medici, perchè Cosimo sa far apparire la vittoria, vittoria
sua, non della parte, e non ha quindi da sconvolgere l'ordinamento
comunale per soddisfarla; frena insomma subito egli stesso la fazione,
con cui ha vinto gli Albizzi, e ciò tanto più facilmente, in quanto
non è fazion vera la sua, non una classe, non un'arte contro l'altra,
bensì un'accozzaglia d'amici e di malcontenti, che non spera che in
lui, ond'egli detta legge, non la riceve, e la vittoria contro la
minacciante tirannide degli Albizzi gli fa anzi quasi un obbligo,
una necessità di rispettare gli ordinamenti comunali, pur piegandoli
alla volontà sua, che è la tradizione di tutte le famiglie, le quali
hanno capitanate le fazioni fiorentine e con esse sono pervenute
più o meno lungamente al governo del Comune. Sempre le stesse arti,
sempre gli stessi mezzi, all'ombra sempre delle stesse instituzioni!
Finchè l'elemento di famiglia è costretto a tenersi celato dietro
l'elemento politico e sociale, la signoria non può fondarsi. Quando
per l'inclinazione generale dei Comuni italiani a signoria, può
mostrarsi a viso aperto, allora la signoria si fonda, ma col carattere
speciale delle passeggere signorie fiorentine, cioè tirando a sè,
non distruggendo, le instituzioni del Comune. Lorenzo restituisce e
conserva il tipo di Cosimo, ma da Cosimo a Lorenzo la signoria Medicea
fa un passo innanzi. Con Lorenzo è ancora più personale. Diciamo,
se volete, che Lorenzo è addirittura un tiranno, ma, in questo caso,
soggiungiamo subito col Guicciardini, che Firenze non poteva avere “un
tiranno migliore e più piacevole„ di lui.



LA VITA PRIVATA NE' CASTELLI

DI

GIUSEPPE GIACOSA.


Al tempo delle castella, la parola castellano ebbe tre significati
diversi, o per dir meglio fu adoperata ad indicare tre diverse classi
di persone. Era castellano il signore di uno o più castelli; era
castellano colui che, nel nome del signore, teneva il governo di un
castello; e castellano si chiamava pure chi dimorava nelle castella,
cioè nelle piccole terre cinte di mura e dominate da una rocca.

Nelle regioni d'Italia dove fiorì la vita comunale e repubblicana, la
parola era per lo più usata nel secondo significato, come quello che
corrispondeva al maggior numero dei casi. Il vocabolario del Manuzzi,
alla voce: Castellano, lo registra infatti innanzi di ogni altro, e
prima scrive: Capitano di castello, che Signore di esso. E quando la
parola racchiudeva il concetto della signoria, non implicava quello
della dimora; occorre infatti ad ogni momento la locuzione: di molte o
di poche terre castellano.

Invece nei paesi dove il sistema feudale ebbe il suo naturale
compimento nella monarchia unitaria, grazie la intricata rete di
privilegi, di prerogative e di interessi che fissava il signore alla
terra e lo costringeva a risiedervi, per Castellano in ogni tempo
si intese comunemente: il signore dimorante nel castello, il quale
castello, dalla secolare e non interrotta consuetudine, venne prendendo
una certa aria di famiglia, si adattò ai successivi crescenti bisogni,
si piegò quasi ai minuti capricci dei padroni, così che ne rispecchiò
poi fedelmente l'indole e le abitudini.

Fra questo castellano campagnuolo ed il signore dimorante nella
città e più il Principe dei nuovi principati italiani all'epoca del
Rinascimento, corrono differenze così profonde che la distanza di un
secolo non ne darebbe di maggiori. Differenze nel campo dell'azione e
delle attribuzioni politiche, differenze nell'ordinamento domestico
e nelle abitudini della vita quotidiana. Le Corti, più ricche, più
sfarzose, più colte, più popolose, ebbero istoriografi e descrittori
in abbondanza, mentre ne difettarono i castelli. Ed ognuno di quegli
istoriografi e descrittori fu in questi ultimi tempi argomento di nuovi
e minutissimi commenti e raffronti, sicchè non si può oramai trovare
in essi notizia che già non sia stata a sazietà detta e ripetuta. Ed
anche riguardo i castelli, le notizie raccolte nei libri riflettono
bensì molti momenti della vita privata, ma di preferenza quelli che si
connettono colla pubblica, quali sarebbero le feste ed i ricevimenti
o che hanno, in alcun modo, attinenza colle arti e colla cultura
generale. Ora, noi gente positiva, abbiamo oggi delle curiosità più
minute e meno discrete. Non ci basta sapere come quei fastosi signori
accogliessero i frequenti ospiti, come ordinassero i banchetti, come
uscissero a cavalcate, come vestissero nelle solenni occasioni, come si
raccogliessero la sera in illustre compagnia a novellare od a ragionare
di ornate cose, ma ci prende un indiscreto desiderio di entrare nelle
più intime camere loro, di assistere la mattina al loro primo levare,
di accompagnarli passo passo per tutta la giornata, di sorprendere le
loro più gelose debolezze, di sedere alla loro tavola quando pranzano
in famiglia, di gustare le loro vivande, di ascoltare i loro discorsi
coi servitori e colle donne, e, quando la sera prendono commiato dai
famigliari, di seguirli lungo i corritoi oscuri o su per le scale
tortuose, e riaccompagnarli in camera, a meno che, fatti da qualche
dolce ragione sospettosi e gelosi, non ce ne chiudano l'uscio sul muso,
e non tirino il chiavistello. Queste nozioni, i libri che ci si mettono
di proposito non ce le danno. Si possono bensì racimolare qua e là nei
novellieri, e così mi sono industriato di fare, ma è bene dove le cose
parlano, lasciar parlare le cose, le quali la sanno lunga e sono al
solito più sincere che gli uomini.

Innanzi di conoscere il Castellano, vediamo dunque di visitare il
Castello. Il Castello del secolo XV, ha già alquanto dimesso della
originaria spavalderia bellicosa. Ancora gli durano le torri e a taluno
i fossati, ma le varie cinte che nei secoli precedenti lo fasciavano
tutto intorno e gli toglievano l'aria e la vista, sono in parte cadute,
ed in parte dimezzate per l'altezza, reggono gli stecconi delle pergole
o danno appoggio alle spalliere. Noi dobbiamo però, se ci è caro averne
una giusta mozione, imbrigliare alquanto la fantasia amplificatrice,
la quale suole rappresentarci il castello feudale d'assai più vasto che
in realtà non fosse. A mano a mano che la facoltà di muovere ed i mezzi
di sostenere la guerra, vennero restringendosi dai signori di terre ai
signori di Stati, il castello feudale, ove dimoravano i padroni, prese
meno spazio ed apparve meno imponente. Coll'assodarsi delle monarchie,
cessò ai signori il diritto di levar genti e la necessità di allogarle
in chiusi recinti a guardia della Rocca. Gli apparecchi belligeri
che sul principio del secolo XV alcuni signori amano ancora disporre
intorno al maniero, ci stanno più a testimonianza di prerogative
nobiliari che a pratica difesa. E perchè sono incomodi e costosi,
ci durano poco, o perdurando sono causa che il padrone sloggi dalla
antica e si fabbrichi nelle vicinanze una nuova dimora. I castelli
dei privati signori che ancora ci rimangono di quel tempo, sono ben
lontani dal fastoso apparecchio che un secolo e mezzo o due secoli più
tardi fa delle ville signoresche altrettanti luoghi incantati, dove
gli spaziosi giardini, le gradinate a terrazzi e gli alberi secolari
diventano elementi architettonici e combinano insieme col palazzo ad
una magnifica ed armoniosa veduta. Il giardino del secolo XV più si
assomiglia ad un orto che ai lambiccati giardini del seicento e del
settecento; esso è quasi sempre chiuso fra muraglie alte onde prende
un'apparenza claustrale che non disdice all'ordinamento interno della
casa. — Al di fuori, il castello ha un aspetto severo e spesso arcigno.
Da una larga porta e per un atrio spazioso, si riesce nel cortile,
lastricato a lastroni massicci, intorno al quale corrono le quattro
pareti della casa aperte in portici e loggie e fregiati i muri con
fascie a rabeschi e colori, con stemmi in pietra o dipinti, o con
istorie figurate. Nel mezzo del cortile sta il pozzo o la cisterna, col
parapetto fatto di pietre o marmi scolpiti, col tettuccio a colonnini,
o colle staffe di ferro battuto a delicati fiorami, che reggono la
carrucola. A volte, fra i monti dove si può condurre al castello
qualche acqua sorgiva, in luogo del pozzo si trova una vasca che riceve
zampilli dalla colonna che le sorge nel mezzo o pioggia abbondante di
stille da un albero fronzuto di naturale grandezza, tutto ferro operato
dalle radici alle foglie ed ai frutti. Sotto il portico, rasente
il pieno muro, corre una lunga fila di panche fisse colla spalliera
vagamente intagliata. E tra il sommo della spalliera e la vôlta, alcune
pitture a fresco narrano a episodi la vita del castello e del borgo.
Una ci mostra il corpo di guardia: nel fondo sta la rastrelliera cui
pendono le armi, nel mezzo i soldati seduti al desco bevono, uno briaco
fradicio dorme, altri giocano, due si accapigliano, e ad un capo della
tavola una donna mostra all'amante la scena disgustosa per svogliarlo
dalla intemperanza. Poi viene la bottega del beccaio, poi il mercato
delle frutta e degli erbaggi, poi il sarto, poi lo speziale. Scene
popolari e borghesi, tutte movimento, ispirate certo alla vista delle
cose reali, testimonio preziosissimo delle costumanze locali, perchè la
ingenuità della fattura, e una certa rozzezza artistica, attestano che
il pittore ancora non conobbe l'arte nuova, che non attinse a maestri,
ma s'industriò alla meglio di rappresentare le cose che gli stavano
intorno.

Nel corpo della casa opposto all'entrata, od in quello che apre
esternamente sui luoghi meno belli, meno soleggiati e meno in vista,
stanno le cucine, le dispense, il tinello e gli altri locali dati al
servizio, al bucato, e via dicendo. A seconda della maggiore o minor
mole del castello e della sua giacitura, si trovano pure a pian terreno
una o più camere fornite, ad uso di ospizio per i viandanti. Certe
volte, queste camere, stanno in qualche fabbrica staccata e vicina,
colle scuderie, i canili, le stalle ed il fienile.

La cucina ha nella vita signoresca di quel tempo una importanza
grandissima quale noi a stento possiamo concepire, anche quando
confrontiamo alle modiche nostre le formidabili mangiate di quei nostri
maggiori. La Castellana pur sapendo di greco e di latino (caso, più
raro assai, a mio giudizio, di quanto sia stato detto e di quanto si
creda), scende ogni giorno alla cucina, bada direttamente alla spesa,
e ne registra i conti in apposito libretto, combina col cuoco, o più
comunemente colla cuoca, la lista del desinare, misura il vino alla
servitù, vigila alla nettezza dei rami e delle stoviglie. Tutti i
rami portano impressa l'arme della famiglia, come pure le brocche,
le mezzine, i gotti, ed i piatti di stagno, e belle armi scolpite
mostrano i monumentali mortai. — La cucina ha due immensi camini: uno
raccoglie sotto le ali della cappa i fornelli, l'altro, il maggiore che
ospiterebbe al coperto tutto quanto il servitorame, ha in un fianco,
sotto la cappa, il forno, e dal lato opposto, aperto nel muro del
fondo, il passa vivande, che guarda nella sala da pranzo. Questa la
conosciamo: gli scrittori di storia, i novellieri, i diplomatici ed
i poeti, ce ne hanno lasciato diligenti e riconoscenti descrizioni.
D'altra parte il suo arredamento non ha quella stabilità che si
incontra in ogni altro membro della casa, e a norma delle circostanze
e degli ospiti, variano le tappezzerie, variano i mobili e variano
sopratutto le argenterie ed il vasellame di cui, nelle occasioni
solenni, il sire del Castello fa grande e non sincera mostra,
togliendone a prestito da qualche vicino o parente.

Qui sopratutto da Principe a Castellano ci corre. Il Principe del
Rinascimento, venuto in subitanea ed impensata grandezza, ama lo
sfarzo degli apparati per naturale inclinazione artistica e per
accorgimento politico. Egli sa che tanto più può quanto più è creduto
potere, e del potere è visibile indizio la magnificenza. Inoltre,
salito all'altissimo grado per virtù d'ingegno, egli pregia tutte
le manifestazioni dell'ingegno umano, e gli ingegni stessi, onde
si circonda di poeti e di artisti, ne stimola con danari ed onori
l'attività, traendo dalla loro dimestichezza e dalle opere loro,
come osserva il Burckardt, una nuova legittimità alla sua illegittima
potenza.

Il Castellano, nobile di antica data, ha bensì ambizioni grandi,
ma deve fare i conti colle rendite che il potere sovrano gli va
continuamente assottigliando. Nè in tempi di così instabili signorie, e
nella rapida decadenza degli ordinamenti feudali, egli osa fare vistosa
mostra di ricchezze; onde, dei nuovi agi e delle nuove eleganze, ama
piuttosto fruire in famiglia che procacciare agli ospiti il godimento.
Perciò troveremo più ornate e ricche le camere di sopra, destinate
al dormire e all'abitare, che la sala da pranzo e quella antica sala
baronale che ancora occupa al piano terreno il maggiore spazio, ma che
sia ostentazione di austerità, sia religione degli avi o sia piuttosto
il trovarcisi a disagio, il padrone lascia, per lo più, nuda, fredda e
solenne quale l'ebbe dai padri.

Due scale mettono ai piani superiori della casa. Una, stretta, oscura
e rotta da frequenti ripiani, è destinata al disbrigo delle faccende
domestiche, l'altra spaziosa e chiara è riservata ai signori. Questa,
o sale visibilmente dal cortile coperta di un tettuccio posato su
pilastrini o colonnini, o si svolge in branche regolari con scalini
larghissimi e di poco rilievo. Nell'Alta Italia non erano infrequenti
le scale a chiocciola. Il Castello d'Issogne in Valle d'Aosta ce ne
mostra una veramente bella e degna di studio. Ogni gradino s'impernia
dall'uno dei capi in una colonna di granito sottilissima, e di là
allarga a ventaglio il suo piano finchè infigge nel muro l'altro
capo, più largo di un braccio. Rigirata sopra sè stessa, descrivendo
un circolo che misura oltre quattro metri di diametro, quella scala,
che pare empire colla sua elica enorme il cavo di una torre, ascende
misteriosa, nascondendo, a chi sale, la persona che lo preceda di pochi
gradini, ed ingrossando il suono di ogni passo e diffondendolo in quel
vento continuo che rendono le spire di una conchiglia. La sera essa vi
dà quella sottile inquietudine imaginosa, così piacevole agli adulti.
Ogni passo ed ogni voce svegliano mille echi di passi e di voci che
sembrano turbinare nel vano e salire e smarrirsi poi via per i solai
tenebrosi. Vi scattano rumori secchi come il battere di un acciarino,
spenti nell'attimo come la scintilla che ne lampeggia, vi corrono
fruscii morbidi come di vesti che sfiorino la terra e rapidi come di
persona snella che si rimpiatti. Se altri vi preceda colla lucerna, le
muraglie, più che una luce, riflettono una bianchezza incerta simile a
quella che irradiata dalle lampade degli altari fa più nera l'oscurità
delle navate.

Le camere del primo piano, sono chiare e spaziose; i mobili pochi, ma
ognuno di essi ha singolari pregi artistici. Gli intagli assottigliano
il legno e gli danno la vaghezza e la leggerezza di un ricamo, senza
scemarne punto la solidità. All'opposto di quanto segue oggidì, i
meglio ornati non sono i mobili di pretto lusso, ma gli usuali, come i
grandi stipi addossati al muro, le credenze, il seggiolone o cattedra
che fiancheggia il letto, la cui spalliera, imperniata al telaio, può
all'occorrenza scendere, e posando sui bracciuoli formare una tavola.
Ai piedi del letto sta il cassone, o la cassapanca, ornata di intagli
a fiori o figure, e con delicati fregi di ferro, alle maniglie ed
alla serratura, quella cassapanca che fu argomento di tante argute
ed inverosimili storie ai novellieri, nella quale le donne riponevano
le vesti più sfarzose, poichè ancora non usava, o poco, di appenderle
negli armadi. Il letto a colonnini, è coperto e fasciato di ricchissime
cortine. Quando il signore conduceva la sposa al castello, la camera
nuziale era tutta apparata a nuovo. Le altre camere della casa erano
depredate per raccoglierne in quella tutti gli agi e le ricchezze. Si
ponevano sul letto fin quattro materassi di bambagia, le lenzuola erano
di tela, sottilissime, tutte trapunte di seta e d'oro, che doveva far
ribrezzo a toccarle. Le coperte, di raso rosso, azzurro, cremisino,
mostravano ricami di fili d'oro con le frangie d'ognintorno. Le
cortine erano a liste alternate di velluto e damasco e tocca. Quattro
origlieri lavorati maravigliosamente a ricami e trine aspettavano le
nobili teste. Alle pareti, arazzi istoriati o vaghe stoffe sottili, a
ghirlande di fiori. Nel mezzo sulla tavola un tappeto alessandrino,
ed un tappeto, alessandrino pure, sul palco che reggeva il letto.
E intorno i forzieri recati in dote dalla sposa, pieni di gemme, di
monili, di stoffe preziose e di merletti.

Ma tale fasto durava quanto la intima convivenza dei coniugi, i quali,
a breve andare, si riducevano entrambi in meno ricchi appartamenti,
e spartivano fra di essi ed in seguito colla figliolanza le quattro
materasse, che erano spesso le sole della casa, e delle quali più d'una
volta i figlioli maschi ignoravano, finchè non menassero moglie, le
tepide mollezze. Perchè, il lusso era grande, ma non pari al lusso le
comodità, o, quanto meno, non le minute comodità, che tanto pregiamo ai
giorni nostri.

Avevano, onde è a credere che pregiassero sopratutto le comodità
di spazio, e grande e nuovissima a quei tempi, ricchezza di luce
e di aria. Nei secoli precedenti, il castello era più ordinato a
fortezza che a dimora, onde apriva non sulla campagna, ma sugli spazi
compresi fra le varie cinte, strette e basse finestre. Ora ogni camera
guardava intorno, oltre i recenti ruderi delle cinte, i campi ed il
cielo e lasciava entrare per le ampie e frequenti finestre, i raggi,
i profumi, i suoni che manda la natura. E quelle finestre, dalla
profonda strombatura, dovevano essere la dimora consueta delle donne
a giudicarne dai sedili a muro che le fiancheggiano e che solevano
ricoprire di morbidi cuscini. Di là le castellane aspettavano il
marito od i figliuoli reduci dalle caccie, non dalle caccie festose e
squillanti, raro e costoso sollazzo dato ai rari ospiti e delle quali
esse pure erano parte, ma dalle caccie quotidiane, rude esercizio
di forza e di astuzia, consueta e quasi unica educazione che i padri
davano ai figli. Di là anche, le giovani donne ammonivano il damo che
s'aggirava cauteloso nei pressi del castello, e con segnali convenuti
gli davano la posta. Se non che, a scapito della poesia romantica,
ed a gioia grande del demonio, esse solevano pur troppo concedere
e richiedere amore, a gente dimorante, per uffici che vi tenessero,
nel castello, e la distribuzione degli appartamenti aiutava i raggiri
infernali perchè le camere delle donne stavano tutte dall'un lato del
castello e quelle degli uomini dall'altro.

La famiglia del signore teneva il primo piano della casa. Il secondo
era destinato agli ospiti. Ciò dico, dei castelli, non delle abitazioni
signorili della città, nelle quali erano di solito serbate pei
forestieri molte camere al piano terreno.

                                   *

La mattina, all'alba, il cortile è pieno del vario popolo dei servi e
dei valletti. Gli uni portano le provvigioni alle cucine, e gli altri
forbiscono le armi od i fornimenti per le cavalcature, gli scozzoni
strigliano i cavalli, il maggiordomo, sotto il portico, misura, pesa
e registra il latte, le farine, le ova ed il pollame che i villani
arrecano dalle prossime cascine. Nel secolo XIV ancora squillava, al
levare del sole, il corno della torre maggiore. Ora quell'uso guerresco
è dimesso. Il signore s'alza per tempo, poichè andò la sera innanzi
per tempo, al riposo. Quando gli tocca levarsi ad ore insolite, egli
ricorre allo svegliarino, che chiamavano allora oriolo col destatoio,
del quale, verso la fine del secolo XV, già l'uso era quasi comune.
V'erano anzi orioli di così sottile congegno, che all'ora voluta, non
solamente risonavano stridendo, ma battevano l'acciarino ed accendevano
la candela. Appena desto, il Castellano scendeva alle stufe, pel bagno,
bella usanza dovuta alle Crociate e che si andò perdendo di poi, e
fu ripresa che non è molto; indi attendeva a vestirsi coll'aiuto del
domestico che si era tutta la notte giaciuto sul tettuccio accanto al
letto padronale. Di dormir solo in camera non si attentava nessuno.
All'ospite era squisita cortesia, offrire il Castellano un posto nel
suo proprio letto. E sempre o una dama, o una vecchia fante, dormiva o
nel lettuccio accanto o nel letto istesso della Castellana. Di questa
singolare, e a giudizio dei nostri tempi, fastidiosissima usanza, sono
piene le novelle. E poichè, bisogna pur dire ogni cosa, la domestica
non si rimoveva di camera, nemmeno quando il rimanervi la riduceva a
terzo incomodo; se non che i signori, quasi non avendola in conto di
creatura umana, nulla curavano di lei.

Com'era vestito, messer Castellano faceva le prime devozioni prostrato
all'inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente
alla sua camera. Bello e raccolto luogo di preghiera, colla vôlta
azzurra a crociere dorate e tutto stellato il cielo e colle pareti
dipinte a figure preganti inginocchiate fra l'erbe ed i fiori di un
prato. Spesso quelle devote imagini raffiguravano la Castellana ed il
signore, riconoscibili all'arme di famiglia che portano sulle vesti,
e in fondo al prato sorgeva l'imagine del castello, dalle cui torri
ascendeva fra nimbi al cielo un volo di angeli e di santi.

Poi tutta la famiglia si raccoglieva ad ascoltare la messa ed a
comunicare nella ricca e fastosa cappella, servita da un cappellano che
risiedeva in castello, dopo di che Madonna dava una prima capata alle
cucine, Messere alle scuderie o alla sala dell'armi dove attendeva ad
armeggiare coi figlioli o cogli ospiti o cogli scudieri, e le figliole
girellavano nel giardino cogliendo fiori e dedicandoli intenzionalmente
a lontani od a prossimi sospiranti. Quando la casa non aveva ospiti, i
giorni del bucato, la signora e le figliuole non disdegnavano scendere
nell'orto a sciorinarvi i panni, e nemmeno sdegnavano portarveli
stillanti nelle ceste a ciò destinate, o se non era l'orto era qualche
alta terrazza vicina al tetto. Altro ufficio della Castellana e delle
figliuole, è la cura delle tappezzerie e degli arazzi, che si tengono
piegati su appositi scaffali nella stanza chiamata per l'appunto: la
guardaroba delle tappezzerie, è collocata di solito all'ultimo piano
il più asciutto della casa ed il meno polveroso. Le fanti vi passano
intere giornate a spiegare, battere, rimendare e ripiegare i preziosi
paramenti, ma tale è il loro valore ed in tale pregio sono tenuti, che
per lo più vi attende direttamente la padrona. Ben inteso, che a queste
piccole cure le Castellane non andavano vestite di broccato, di raso
o di tocca, quali ce le soliamo raffigurare. Simili vesti passavano
per eredità dalla madre alla figliuola, onde è a credere che non le
portassero se non nelle grandi occasioni. In casa, anzi, il vestire
era dimesso, forti panni paesani a colori oscuri, biancheria grossa ed
ahimè mutata di rado, ed ai piedi certe grosse pantofole di panno.

Del signore poi non parliamo che tra le armi, la caccia, le scuderie
e le visite ai poderi, Dio sa come si trovasse conciato la sera. Alle
dieci della mattina uno squillo di corno annunzia il desinare. Anche
nei giorni ordinari, sono molti e grossi piatti: carni di bue, di
cinghiale, di capriolo, di montone, galline, fagiani, e via dicendo,
condite e fatte piccanti da salse formidabili, tutte aromi e pizzicori
mordenti, pepe, gorofano, cannella, ginepro, ambra, belzoino, noce
moscata, anice ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali
primeggiavano pur troppo l'aglio e la cipolla. Tale copia, scelta, e
condimento di vivande, sono fatte apposta per stimolare la sete cui
provvedono le ben fornite cantine che non più contente del prodotto
paesano, già accolgono una ricca varietà di vini italiani e forestieri
cotti e crudi. Cocevano per conservarlo più a lungo, il vin greco
di malvasia, venuto di Candia, che solevano condire con aromi. Fra
gli italiani era famoso un certo vino di Piacenza che nessuno più
conosce, se pure non proveniva dai colli di Voghera e di Stradella,
e del quale facevano grande incetta anche le cantine francesi. Erano
gustati assai i vini di Toscana e di Sicilia, e fra i piemontesi il
Nebiolo ed il Caluso. Ma a leggere i novellieri, non pare che presso
di noi le copiose e robuste bevute degenerassero o era caso raro, in
quelle brutali cotte di che menavano vanto i signori di Francia e di
Allemagna. I novellieri italiani parlano raramente di gente briaca, nè
si sarebbero astenuti dal farlo, quando ne avessero trovato frequente
argomento nella vita del tempo loro.

La tovaglia della tavola usava larghissima e pendente quasi fino a
terra perchè i lembi cadenti facevano l'ufficio del tovagliolo che
ancora non costumava, ed a quelli si forbivano i commensali. Sempre
al cominciare e al finire del pranzo era data l'acqua alle mani. Acque
profumate, di solito alla rosa; e di profumi facevano poi grande abuso
in ogni momento della giornata. Innanzi di portare in tavola un piatto,
la sospettosa vigilanza dei Castellani voleva che se ne facessero
palesi assaggi, paurosi come essi erano di veleno, e usavano pure
tenere sulla tavola specifici ed amuleti contro l'azione dei veleni.
Il Cibrario scrive, che nell'inventario delle gioie di Carlo I duca di
Savoia (l'anno 1480) è registrata: “u_ne espreuve plaine de langues de
serpans pour tenir sur la table pour eviter le venyn_„ ed aggiunge che
forse era destinata allo stesso ufficio, o ad ogni modo, era tenuta
in conto di amuleto, una “_pierre, noire crapaudine, garnie a une
chainette d'or_„, compresa nello stesso inventario.

Dopo il pranzo che era protratto quanto più lungamente si poteva,
il signore faceva quella siesta, che fu bazza per i novellieri. I
fanciulli, dopo alcun tempo dato ad esercizi fisici, riparavano poi
col pedagogo nella libreria (dove erano, caso raro, librerie), o nella
stanza data agli studii. Si trovano ancora in parecchi castelli certe
stanzette, all'ultimo piano, recanti sui muri, segnate in rosso, le
figure elementari della geometria con scritture che datano certamente
dal secolo XV. La Castellana e le figliuole riparavano nelle camere
loro, ed attendevano, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi.
O forse in quell'ora le giovinette aggirandosi in ozio per la casa
confidavano alle nude muraglie della scala e dei corritoi, i segreti
movimenti del loro cuore, incidendovi motti, date, pensieri e sentenze
amorose. O andavano rintracciando e rileggendo le sentenze scrittevi da
altri che erano come lettere al loro recapito.

Il Castello d'Issogne serba molte di tali scritte che ci danno a
conoscere il nome, ed in certa misura l'animo degli ospiti che vi
dimorarono. Vi fu ospite un tale Escobar che segnò sulle pareti il
proprio motto: Selon le pouvoir, colla firma e la data. Vi passarono
pure un tedesco, Wolf. Sckonfletter, ed un francese, De Vateuil, il
quale fa precedere al proprio nome queste parole sibilline: _Non sans
cause_. Un messere P. Gran scrive: _In Omnes et ad omnia fidus_, e lo
stesso Escobar di pocanzi tornatoci una seconda volta: _No piedo mas
fortuna_, più non cerco fortuna, onde è a credere che l'avesse trovata,
o che si fosse rassegnato a disperarne per sempre. E ancora l'Escobar
sentenzia: _Palabras de piuma lo viento le lieva_. Poi vengono gli
anonimi: _Qualis homo talia opera. A mala fama caveas. Sic vive ut
postea vivas_. Ed i consigli igienici:

    _Carolus ægrotus faciunt ieunia morbum,_
    _Ut recte valeas, Carole sume cibum._

Un altro tedesco apre l'animo con due versi così ingenui e sinceri che
muovono a pietà.

    Per non mostrar el mio dolore
    Talvolta rido che crepe el cuore.

               THOMA DRUENWALD. von Nuremberg.

Durante un periodo di tre anni, a giudicarne dalle date, si direbbe che
sia passato nella valle e sul castello un vento caldo, tutto impregnato
di olezzi stimolanti; un vento snervatore e tentatore, soffiato dal
demonio per scombuiare l'animo delle castellane. Sui muri, abbondano
sentenze d'amore ripetute a sazietà, scritte sempre dalla stessa
mano, mano femminile, mano padronale e signoresca, poichè ebbe agio di
confidare a tutte le stanze del castello la piena dell'animo. Quella
che s'incontra più spesso dice: _Omnia vincit amor_, l'amore vince
ogni cosa, sentenza che colma le distanze gerarchiche, ed afferma la
assoluta sovranità del piccolo Dio. Un'altra dice: _Non est amor imo
dolor, mulieris amor_. Non è amore, ma dolore, l'amore della donna.
Dolore, è a credere, di virtù resistente; se non che la resistenza
poco dura e l'amore finisce veramente per vincere ogni cosa, poichè
l'anno appresso, la stessa mano scrive: Vivamus et amemus, grido di
gioia spensierata, allegro ritornello di una canzone forse malinconica.
Infatti, in poco d'ora, l'idillio si chiude in elegia e l'angoscia esce
in lamenti in ogni parte della casa, colle scritte: _In me turbatum est
cor meum_, in me turbato è il mio cuore, e: _Meror et dolor venerunt
super me_: il pianto ed il dolore vennero sopra di me, le quali si
incontrano in ogni dove, sulla scala, negli anditi, nelle camere delle
donne.

                                   *

Riprendiamo la nostra giornata.

Quando capitavano visite, o v'erano ospiti in casa, verso le due,
tutti convenivano o nel giardino o nel parlatoio, e là si trattenevano
confettando e bevendo. A questa specie di _lunch_ erano rosoli,
marmellate, bocche di dama, pasticci, uccelletti arrosto, e le migliori
frutta della stagione. La Castellana apprestava canzonieri scelti
ed ogni sorta di lodevoli istrumenti, ed erano musiche e canti di
madrigali fino all'ora della cena, che batteva tra le quattro e le
cinque pomeridiane, ed era il maggior pasto della giornata.

Delle caccie, delle cavalcate, e di altri fastosi e festosi sollazzi
non parlo, perchè, come ho detto in principio, essi meno appartengono
alla vita privata che alla pubblica, e perchè troppo già furono e
maestrevolmente descritti, e d'altra parte richiederebbero troppo
lungo discorso. Basti dire, che verso la fine del secolo troviamo le
prime carrozze o carrette come le chiama il Bandello, ma erano poche,
e non usavano che nelle città. Non avevano molle, ma portavano fregi
ricchissimi e dorature, ed erano ricoperte di stoffe maravigliose.
Le tiravano, a seconda dei casi, due, quattro, sei, otto cavalli, dei
quali i più pregiati erano i Frisoni ed i Corsieri del Regno di Napoli.

Molti e vari erano i giuochi da tavola, il trictrac, gli scacchi,
i dadi, le carte, che servivano al Picchetto ed all'Homo, un giuoco
portato di Spagna, ed i tarocchi, che non furono già come si volle
inventati a svago dal re Carlo VI di Francia, ma vennero d'Oriente,
a segno che un moderno dottissimo ma fantasioso negromante, l'Eliphas
Levi, ravvisa nelle figure del pazzo, del carro, della giustizia, della
morte, del mondo, delle stelle, e via dicendo, i segni cabalistici del
libro di Salomone.

Ma di tali giuochi, eredità del fosco Medio Evo, e delizia poi della
grossa nobiltà dei secoli XVII e XVIII poco si diletta il nostro
castellano. Egli preferisce il pallone, o la più domestica partita
alle boccie in cortile o sul prato, cogli scudieri, col cappellano
o col pedagogo. Già non è a credere che quelle menti non provassero
quel continuo bisogno di attività e di applicazione, che agita le
nostre. A furia di voler noi ammazzare il tempo, il tempo si vendica
e ci ammazza: quelli lo lasciavano vivere, e si ristoravano delle
cercate fatiche fisiche, abbandonandosi ad una specie di assopimento
intellettuale. Agitate e pronte erano le menti nelle città e quelle dei
fortissimi avventurieri che in quel secolo e nel seguente disfecero
e crearono stati; ma se da essi procede e di essi parla la storia,
non se ne deve indurre che gli animi in generale e gli ingegni dei
signori somigliassero ai loro. Essi diedero la scalata alle signorie,
poichè ne ebbero abbassato il prestigio, e la dappocaggine dei molti
fu appunto argomento e giustificazione al prevalere dei pochi. Io
per me credo, che in tale dappocaggine sia da cercare la ragione dei
corrottissimi costumi femminili di quel tempo. Dalla decadenza romana a
noi non s'incontra altro periodo di così largo rilassamento morale. Nè
la religione poteva oramai fare argine allo sfrenarsi delle passioni.
Al tempo del carnevale, era lecito ai religiosi di rallegrarsi, onde
i frati tra loro recitavano commedie, e di qual fatta!, e suonavano
e cantavano ballando, e alle monache non si disdiceva, quei giorni,
vestirsi da uomini, colle berrette di velluto in testa, colle calze
chiuse in gamba e colla spada al fianco.

È davvero inconcepibile come in mezzo a tanto rinnovamento di studi e
gentilezza di coltura le donne parlassero lo sboccato linguaggio che
loro attribuiscono gli autori di commedie e i novellieri. Il Boccaccio
è di gran lunga più riguardoso. Nelle Cene del Lasca, troviamo narrata
da una donna, Amaranta, e con minutissimi particolari, la sconcia beffa
fatta da un giovine ricco e nobile al suo pedagogo, ed essa è tale
che nessuno artifizio di stile potrebbe farmi lecito di raccontare.
E quella del Lasca a sentirlo era compagnia che sapeva di greco e di
latino. Dicono: erano più sinceri di noi. Ma, astrazion fatta della
morale, la verecondia è più una grazia che una virtù, ed è grazia
sopratutto di gente colta. Nè Virgilio, nè Orazio, nè Catullo, nè
Ovidio, nè lo stesso Giovenale, potevano apprendere a quelle dame
ed a quei cavalieri somiglianti modi, onde è lecito sospettare che
la vantata coltura fosse meno diffusa di quanto si crede, sicchè la
gentilezza dei pochi nulla potesse contro la rozzezza dell'universale.
Ed è certo poi che fra i meno colti, era il mio signor Castellano. Il
quale, venuta la sera, si riduceva accanto al fuoco, in sonnacchioso
silenzio, e le donne fatte alcune lente danze al dubbio chiarore delle
fumose lucerne, prima novellavano alquanto fra di loro, indi infilavano
in cerchio _pater noster_ ed _ave Marie_, ed il cappellano dava loro
lo spunto. Poi i valletti mescevano al signore il vino del sonno, e
Madonna e Messere ognuno dalla sua ed in diversa e servile compagnia
andavano a letto.

E a me non rimane che augurare tranquille notti a quei morti, e
gioconde giornate a questi vivi.



LA VITA PRIVATA DEI FIORENTINI

DI

GUIDO BIAGI.


  _Signore e Signori,_

Quale fosse la Firenze del Tre e del Quattrocento non è facile
immaginare. A riguardarla dall'alto, da uno di quei colli che le fanno
ridente corona e oggi son per lei mutati in altrettanti giardini,
mentre forse allora nereggiavano d'alberi folti, di macchie e di
scopeti, appariva come una bruna massa di torri merlate, cinta di mura
e di baluardi. I pubblici edifizi che noi ammiriamo, le aeree cupole
delle chiese, i campanili, nella cui voce è il palpito della vita d'un
popolo, non ancora drizzavansi tutti nel fondo azzurro del cielo, come
le antenne poderose d'una nave a più alberi. La terza cerchia, quella
istessa che noi vedemmo abbattere, non era interamente compiuta, e
l'Arno faceva il suo _gorgo_ dove è ora la Piazza di Santa Croce,
sboccando tra il Ponte a Rubaconte e il Castel d'Altafronte.

Questo a' primi del Trecento, quando la piccola chiesa di Santa
Reparata durava tuttavia e di Santa Maria del Fiore era ignoto il nome;
e nel luogo dove sorse la Loggia d'Orsammichele tenevasi il mercato
delle granaglie, e il campanile cominciato da Giotto e che da lui prese
il nome, non era ancor stato condotto fino alle ultime finestre da
Francesco Talenti: soltanto di sulla torre del Palazzo dei Priori, già
la grande campana del Popolo, “la Vacca„, mugliava, facendo in alto
echeggiare il dolce suono della libertà[1].

Le miniature del Biadajuolo, raffresco del Bigallo, appena ci
danno un'idea della Firenze di quegli anni. Sono rappresentazioni
fantastiche, dove la prospettiva è ancora ignota, e i tetti di color
rosso vivo staccan di tono dalla selva delle torri che s'intrecciano
e si accavallano. La tavola di Domenico di Michelino, che si vede in
Duomo, vorrebbe mostrarvi la Firenze di Dante, la cui figura spicca nel
mezzo del quadro; ma anche cotesta è una Firenze immaginaria, quanto
il Purgatorio e l'Inferno che l'artefice le ha dipinti da presso. Una
veduta della città, ma assai più recente, troviamo nella tavola che il
Botticelli compose per Matteo Palmieri; una tavola, il cui soggetto
tolto dal poema di lui la _Città di vita_, parve quasi ereticale;
perchè il pittore, dipingendo la Vergine Assunta nella gloria del
cielo, circondata dalle più sublimi visioni dell'idealità femminile,
creò schiere di _angelesse_ così formose, da far giustamente temere
per i futuri amori degli angeli. Ma il paesaggio che serve di sfondo
alla meravigliosa composizione, sfuma nella lontananza e nell'ombra
d'un crepuscolo dorato, e al desiderio nostro non giova. Il quale potrà
soltanto appagarsi più tardi, quando nelle _Cronache di Norimberga_
scorgeremo una pianta della città quale era alla fine del Quattrocento.

Ma a rappresentarci Firenze dal Trecento a' più gloriosi giorni del
Rinascimento, quando i tesori raccolti in tutto il mondo da' suoi
mercatanti versò nella creazione di monumenti immortali, proseguendo
le tradizioni delle arti inaugurate per mano di Arnolfo, di Giotto e
dell'Orgagna[2]; a rappresentarci lo scenario e la scena ch'io vorrei
popolarvi con le figure d'artieri, di mercanti, di donne, di chierici,
di trecche, di poeti, di novellatori, d'uomini d'arme, di forosette, di
villani, di donzelli, di cavalieri, che mi s'affollano nella lanterna
magica del cervello e che vorrei potervi dipingere in questo quadro
della vita privata; a darvi un'idea viva se non compiuta, a darvi
come una visione della storia del nostro popolo, che dalla rozzezza
antica si condusse ai raffinamenti della Rinascenza, non basterebbe
tutta l'opera d'un artista che fosse insieme storico, archeologo e
poeta; non basterebbe — Dio ci liberi! — un corso intero di conferenze
ideali, fatte con la parola e illustrate con il pennello. Ma finchè la
donna, che ne è maestra, non abbia reso obbligatorio l'insegnamento
_per gli occhi_ dovremo contentarci di saggiare appena un così
gustoso argomento, scegliendo nei vecchi libri di ricordanze, nelle
cronache domestiche, nei carteggi, nei novellieri e nei poeti qualche
particolare men noto, qualche aneddoto, qualche notizia che ci sembri
meglio opportuna, per cogliervi alcun aspetto della vita in quegli
anni, così remoti anche dalle nostre immaginazioni.


I.

Accanto ai massicci palagi di pietra, sicuri come fortezze, su cui
si levavan fiere le torri merlate; nelle vie strette e tortuose dove
la grand'ombra di quelle moli incombeva triste e paurosa, sorgevano
le casette piccole e basse, con il tetto coperto di paglia, con le
impannate alle finestre, con le grosse imposte di legno, sempre esposte
ai pericoli del fuoco; onde Paolo di Ser Pace da Certaldo consigliava
tener sempre pronte “dodici saccha grandi buone per sgombrare quando
fuoco fosse ne la vicinanza tua o presso a te o a casa tua„ e uno
“canape che sia lungo dal tetto in terra per poterti calare da ogni
finestra„[3]. Le vie, piene di polvere, eran spazzate dall'acqua
che correva come un fiumicello[4] dentro e fuori il rigagnolo, dove
s'ingrufolavano, scrive il Sacchetti, quegli animali che sant'Antonio
avea in i protezione, ed entravan poi nelle case altrui a portarvi
il disordine e lo scompiglio[5]. Nè quelle case erano un modello
di pulizia: si spazzavano una sola volta la settimana, il sabato,
e negli altri giorni le immondezze si cacciavano sotto il letto,
dove era d'ogni cosa un poco: bucce di frutta, torsoli, ossa, pelli
scorticate, polli vivi, oche gracchianti e abbondanza di ragnateli.
Erano modeste dimore di gente che si contentava del poco e più che ai
conforti e godimenti della vita badava ai guadagni: gente antica, se
di buona stirpe, che passava la vita uccellando e cacciando piuttosto
in contado, nelle proprie tenute, che in città; gente nuova che nelle
arti e nella mercatanzia cercava far la roba. L'avolo di Messer Lapo
da Castiglionchio, che avea sua abitazione in sulla porta di Messer
Riccardo da Quona, là dalle Colonnine, usava far serrare la porta della
città a una vecchia serva, buona e lealissima, che glie ne riponeva le
chiavi nella sua camera[6].

Firenze intanto cresceva man mano che aumentava la proprietà de'
cittadini. Le vecchie case di legno o coi tetti di paglia eran spesso
distrutte dal fuoco. Tutta la città si commoveva e tutta la gente, ad
ogni incendio che divampasse, era sotto l'arme e in gran guardia[7].
Anche la Signoria, per abbattere con minor spesa le case dei
condannati, usava darle alle fiamme e poi pagare i danni degl'incendi
che si propagavano[8].

E come incendi avvampavano le passioni: le vendette, le risse, le
turbolenze tingevan di sangue le vie; e le paci tra gli avversi
consorti si celebravano con feste e conviti. Il Comune “fiero e in
caldo e signoria„ raddoppiava le forze; e debellati i nemici esterni,
“i mercanti della città vincitrice guidavano, nuova maniera di trionfo,
i loro muli, carichi de' panni di Calimala e delle seterie di Por Santa
Maria, attraverso a' monti e a' piani poc'anzi battuti dalle cavalcate
e da' soldati de' loro eserciti; portavano l'oro e l'ingegno fiorentino
nelle città, sotto alle cui mura avevano ondeggiato, fra le armi, le
libere insegne di questo popolo grande„[9].


II.

_Mercato vecchio_ era il cuor di Firenze; e pareva allora la più bella
piazza del mondo[10]. Chi ne legga le lodi nel capitolo di Antonio
Pucci, chi ne cerchi i fatti di cronaca quotidiana nelle novelle di
Franco Sacchetti, può avere un'imagine di quella vita cittadina che
si contentava di così piccola scena. Quello, il vero emporio d'ogni
commercio, il ritrovo de' bottegai, de' commercianti, degli oziosi, de'
giuocatori, de' villani, de' medici, degli speziali, de' malandrini,
delle fantesche, de' gentiluomini, de' poveri, delle trecche, dei
rivenduglioli, delle brigate allegre e spendereccie. Quivi robe d'ogni
genere e sorte: le carni fresche, le frutta, i formaggi, i camangiari,
l'uccellame, i pannilini, la cacciagione, i fiori, le stoviglie, le
botti, la mobilia usata. I monelli, anche allora terribili, vi stanno
come in casa loro: i grossi topi vi fan carnevale; la gente vi trae
da ogni parte. Ogni giorno si leva qualche romore: un cavallaccio
s'imbizzarrisce per una ronzina, e tutti gridando _accorr'uomo_, la
Piazza de' Signori s'empie di fuggiaschi, serrasi il Palagio, armasi
la famiglia, anche quella del Capitano e dell'Esecutore, e questi
per la paura nascondesi sotto il letto, e, quetato il tumulto, n'esce
fuori coperto di ragnateli; due muli beccati da un corvo cominciano a
tempestare; saltan sui deschi, si serrano le botteghe e nasce grande
contesa fra i lanaiuoli e i beccai per i danni fatti da quelle bestie
furiose.

Ma talvolta accadono anche serie questioni: i barattieri, tenitori di
giuoco, vengono alle mani:

    E vedesi chi perde con gran soffi
      Bestemmiar, con la mano alla mascella
      E ricevere e dar di molti ingoffi.

    Ed allor vi si fa con le coltella,
      Ed uccide l'un l'altro, e tutta quanta
      Si turba allora quella piazza bella.

Si rinnova la scena raffigurata in un affresco del monastero di
Lecceto, vicino a Siena. I tre dadi caddero sulla tavola in modo
che un de' giuocatori è perdente. Egli sorge in piedi, esacerbato
da quel colpo dell'avversa fortuna, e afferra il vincitore per la
gola, stendendo il braccio. E l'altro, fattosi pallido per l'ira e lo
spavento, si cerca indosso l'arme vendicatrice. La bestemmia prorompe
sui labbri de' contendenti; le grida degli astanti, delle donne, de'
fanciulli echeggian paurose: “Accorr'uomo, accorr'uomo!„ — La folla
indietreggia sbigottita, e quando l'Esecutore arriva — sempre tardo —
co' suoi famigli, la vittima è a terra, distesa in un lago di sangue.


III.

Questi i drammi, i “fatti diversi„ d'allora, che turbavano la pace
della semplice vita di quei nostri bisavoli. Perchè, la novella
borghese, che tenea l'ufficio delle odierne gazzette, rare volte ci
narra queste scene crudeli. Piuttosto si piace di raccontarci le beffe,
le burle, onde allegravasi il popolo motteggevole; perenne argomento
di queti ragionari, al canto del fuoco, presso gli alari dei grandi
camini, sotto la cui cappa annerita raccoglievansi le famiglie, prima
che sonasse l'ora di spegnere i lumi, quando chi andava a letto “il
sezzaio[11] erasi accertato fossero ben turate le botti„ e “l'uscio e
le finestre serrate„.

Non parea vero di ridere, di scordare le paure dell'oltremondano,
onde gli spiriti erano stati depressi: e già l'incredulità de' nuovi
tempi cominciava a metter fuori le corna, burlandosi de' cherici, e
un tantino de' miracoli e di molte altre imposture. I motteggiatori,
i burlevoli, che d'altrui si prendevan sollazzo e cercavano gabbare
il prossimo e il mondo, si dicevano “nuovi uomini„ e “_nuove cose_„ le
loro malizie. I deschi e le botteghe di Mercato Vecchio, i fondachi di
Calimala, le _loggie_ che sorgevano allora presso i palagi, dove la
gente stava sui banchi a conversare, echeggiavano di fresche risate
argentine; cui rispondevano i crocchi femminili, bisbiglianti sulle
porte di casa. Gli artisti, o come li chiamavan gli _artefici_, erano
i più sottili architettori di coteste burle ingegnose, immaginate fra
una pennellata e un colpo di stecca. E ne durò la memoria molti anni,
tanto che il Vasari parecchie ne raccolse nelle sue _Vite_, di quelle
che i novellieri non avevan consegnate alle lor cronache cittadine.

“Sempre fu che tra' dipintori si son trovati di nuovi uomeni„[12]
scrive il Sacchetti; e Bonamico Buffalmacco immortalato nel
_Decameron_, e Bartolo Gioggi, e Bruno di Giovanni, e Filippo di Ser
Brunellesco e Paolo Uccello e Donatello, ci fan tornare a mente le
burle fatte a Calandrino, al Grasso legnaiuolo, e a tanti altri che
furon vittime di così spietati begliumori[13]. Ma la voglia matta di
ridere e sollazzarsi, s'appiccicava anche alla gente più grave; e dalle
botteghe degli artefici entrava in quelle degli speziali, e attaccavasi
a' medici, a' giudici, a' procuratori, e saliva in Palagio a rallegrare
i Priori della malinconia di star chiusi, lontani dalla moglie e dalla
famiglia. — Semplici uomini e semplici costumi, che ancor sapevano
della rozzezza antica: la Signoria dormiva in una camera sola, e ciò
era incentivo e occasione agli scherzi[14]; e il proposto dei Priori
poteva andare in persona alla cucina a cuocersi sulla brace una fetta
di carne[15]. La burla, lo scherzo rasentava talora la truffa; ma una
buona risata dava torto a chi aveva avuto colle beffe anche il danno,
e tutti pari. Perchè a quegli anni, quand'ognuno pensava a sè, a' casi
proprii, al proprio interesse, la gente non aveva pietà o compassione
pei gonzi. Le più sottili malizie erano anche permesse ai mercanti, e
quei di Firenze eran famosi per la gran furberia.

Racconta il Sacchetti quel che intervenne ad un Friulano, che aveva
nome Soccebonel, e che andò a comprare panno da un di costoro. Ne
misuran quattro canne, e il fiorentino glie ne mangia una mezza. Poi,
per ricoprire l'inganno, gli dice: “Vuo' tu far bene? attuffalo in una
bigoncia d'acqua, e lascialo stare tutta la notte, sì che bea bene, e
vedrai poi panno ch'el fia.„ — Soccebonel così fa, e poi manda il panno
al cimatore. “Soccebonel va per esso e dice: Che dei tu avere? Dice
il cimatore: E' mi par nove braccia: da' nove soldi. Dice costui: Come
nove braccia? oimè! che di' tu?„ Lo rimisurano; ma il panno non cresce.
Soccebonel va dal ritagliatore, va di qua, va di là. E uno gli dice:
“Questi panni fiorentini non tornan nulla all'acqua.„ “Uno _comprò_
un braccio di panno fiorentino, e la sera l'attuffò, come tu facesti
questo, in un bigonciuolo d'acqua, e lasciovvelo stare tutta notte; la
mattina, lo trovò tanto rientrato, che non c'era più nulla„[16].


IV.

Ma i codici de' mercanti, chi li cerchi e li legga tra la polvere degli
archivi e delle librerie, paiono disdegnare simili imbrogli. In quelle
carte che cominciano tutte “al nome di Dio amen,„ piene di “buoni
asempri e buoni chostumi e buoni proverbi e buoni amaestramenti„,
troviamo precetti teorici ispirati alla più rigida e severa moralità.
Scrive un di cotesti savi: “Tieni a mente quando ài a dare alchuna
sentenzia di darla diritta, e leale, e giusta, e di questo non ti
rivolgere mai nè per prezzo, nè per amore, nè per paura, nè per
parentado, nè per amistà, nè per compagnia....„, perchè la persona
“contro cui la darai fia tuo nemico e quei cui tu servirai non
t'avrà nè per leale, nè per diritto, anzi si guarderà sempre di te e
vitupereratti sempre.„ Ma subito, più sotto, leggiamo: “S'hai bisogno
in piato o in altro tuo fatto dell'amistà d'alcuno signore o di rettore
di terra, — ti dico che co' presenti s'acquista molto agevolmente.
Guata chi è di sua famiglia, più suo segretario e con quel cotale
prima ti domestica, e dona a lui alcuna cosa, e poi a lui chiedi aiuto
e consiglio ed e' t'insegnerà a venire in amore del suo signore e
presentargli quella cosa di che e' sentirà che sia più vago„[17].

E non basta; la morale pratica porge ancora più opportuni consigli:
“Quando comperi biada, guarda che non ti sia empiuta la misura a un
tratto, che sempre ti calerà 2 o 3 per cento; e quando vendi il fa', e
cresceratti la tua biada„[18]. — “Di' sempre bene di quelli che reggono
il Comune. Sta' sempre bene co' tuoi vicini, però che de' tuoi fatti
e' sono sempre domandati prima di te, e negli onori e ne' disonori e'
póssonti molto nuocere e giovare.„ E così consigliavano e ammaestravano
i figliuoli, che crescevano destri ed esperti e consumati nell'arte del
saper vivere, fra mezzo a gente che della vita conosceva le malizie
e gl'inganni. Nè è meraviglia che un predicatore, per far gente e
non parlare al deserto, annunziasse voler proclamare dal pergamo che
l'usura non è peccato[19], anzi “è sovvenimento„, e così avesse tutta
la quaresima “infino a Domenica dell'olivo„, attento e affollato
uditorio.

La famiglia che allargavasi e alleavasi nella _consorteria_, aveva
unico fondamento la proprietà, guarentita da una selva di leggi e
privilegi. Il padre era padrone dispotico de' beni personali: poteva
lasciarli a chi meglio volesse, anche a' nipoti o ad alcun _luogo
pio_[20], anche ai figli dell'amore cresciutigli in casa. Così per
testamento: e si comprende di colpo l'importanza che aveano allora
i notari ed i chierici. Le donne, succedendo _ab intestato_, avean
soltanto diritto al quarto de' beni dei loro figliuoli: in ogni
caso, ai semplici alimenti. Tutto cospirava a preservare l'integrità
del patrimonio, ad impedire che uscisse fuori della famiglia, della
consorteria, del comune.

Giova ripeterlo: l'interesse, in quella società di mercanti, avidi
di far la roba, era d'ogni azione legge suprema. Sarebbe ingiustizia
cercarvi le sentimentalità della famiglia moderna, in cui alla donna è
riserbato così larga e così nobile parte, così degni e teneri uffici.

Quelle povere madri fiorentine dovevano starsi contente alle modeste
ingerenze consentite loro dalla tirannia de' mariti, e vivere, o
menar la vita, nell'uggia delle sordide case, allevando i figliuoli,
“vicitando„ la chiesa, e confessando a' frati i molti peccati di
desiderio.

Le fanciulle, le ragazze che oggi ci dan tanta pena, nemmeno dovevano
imparare a leggere: “S'ella è fanciulla femmina, ponla a cuscire e none
a leggere, che non ista troppo bene a una femmina saper leggere, se già
non la volessi far monaca„[21]. I monasteri erano, come furono molti
secoli, il rifugio di coteste meschine, com'eran la provvidenza delle
troppo numerose famiglie. Aver venti e più figliuoli, parea la cosa
più naturale del mondo; se campavano: “Iddio n'abbi lode e grazie„; se
morivano: “Di tutto sia lodato Iddio, amen„[22]. I libri di ricordanze,
le cronache domestiche, al tempo delle grandi morie, registrano così
le morti come le nascite con una serenità che oggi, alle trepide madri,
sembrerebbe cinismo. E anche ci porgono testimonianze preziose di fatti
più singolari, dell'intrusione nelle famiglie d'un nuovo elemento, che
ne offusca la vantata purezza. I critici più benevoli ne trovano la
ragione nel “gran vuoto fatto dalla mortalità nelle plebi cittadine
e nei campagnuoli„, onde non bastando “la lusinga del poco salario„ a
cavare dal popolo i domestici e le fantesche, “fu d'uopo cercare nel
commercio esterno la maniera di supplire alla loro rarità„[23]. Ma
piuttosto i commerci con l'oriente, e la vita randagia de' mercatanti
e la cresciuta ricchezza, furono eccitamento a quel traffico degli
schiavi e delle schiave, che durò in Firenze per ben due secoli dopo
il XIV[24]. È un tasto doloroso che pur dobbiamo toccare, a rischio di
cavarne alcuna nota stridente; ma anche in un quadro son necessarie
le ombre per concedere maggior risalto alle figure cui si vuol dare
evidenza e rilievo. — Ma non temete! anche un artefice inesperto non
dimentica il “fren dell'arte„; nè vorrei io, dinanzi a voi, empir la
breve mia tela con una mostra impudica di nudità.

Le schiave orientali, comprate, come carne da traffico, quasi sempre
a mezzo di sensali genovesi, veneziani, pisani e napoletani, e per
lo più tartare, greche, turche, schiavone e circasse, non erano
— rassicuratevi — archetipi di bellezza. I registri dove i nostri
segnavano, insieme coi nomi, con l'età e con il prezzo, i connotati
del volto e della persona[25], ce ne fan fede. Quasi tutte avean
pelle olivastra, sebbene si trovassero anche schiave di carnagione
rossa, sanguigna, rubiconda e qualche volta fin bianca. E sul viso
non mancava mai alcun segno particolare: chi era butterata, chi l'avea
sparso di moltissimi nèi, chi sfregiato da qualche cicatrice. I nasi
eran generalmente schiacciati, i labbri grossi e sporgenti, gli occhi
scerpellini, le fronti basse e lentigginose[26]. E a questi tocchi in
penna de' notai pedanti e minuziosi, corrispondono alcuni ritratti
che ne rimangono. Un curioso libro, il Memoriale del Baldovinetti,
dove codesto antenato del famoso pittore usava illustrar con figure
le sue ricordanze, ci ha conservato i profili delle tre schiave da
lui comprate negli anni 1377, 1380 e 1388; la “Tiratea overo Doratea
tartara da Rossia, giovane di 18 anni o più„, la “Domenica, è de pelle
bianca ed è de proxima de Tartaria„, e la “Veronica giovane di 16
anni„, “comperála quasi ignuda da Bonarota di Simone di Bonarota,„ un
antenato di Michelangiolo; ma la Dorotea, la Domenica e la Veronica
avrebber potuto benissimo — un po' invecchiate — servir di modello al
futuro Buonarroti per le _Tre Parche_.

Coteste donne, o brutte o belle che fossero, entravano nelle famiglie
de' Fiorentini ricchi per attendere ai più umili uffici, e badare
ai bambini: e davano un gran pensiero, per ogni conto, alle povere
massaie. Il sonetto del Pucci “le schiave ànno vantaggio in ciascun
atto. E sopra tutte l'altre buon partito,„ ce ne spiega maliziosamente
alcuna ragione, e ci dice che spesso sapean dare alle padrone “scacco
matto„. Le quali, come confessava parecchi anni appresso l'Alessandra
Macinghi, si vendicavano col metter loro “le mani addosso„. Pure anche
allora non potean farne a meno: erano le bambinaie e le _bonnes_ di
quei tempi; e la Strozzi scriveva al suo Filippo in Napoli: “E pertanto
ti ricordo el bisogno; che avendo attitudine averne una, se ti pare,
tu dia ordine d'averla: qualche tartera di nazione, che sono, per
durar fatica, vantaggiate e rustiche. Le rôsse, cioè quelle di Rossia,
sono più gentili di compressione e più belle; ma a mio parere sarebbon
meglio tartere„. Nè per questa scelta potea Madonna Lessandra trovar
chi più di Filippo avesse la mano felice: il quale presso di sè tenea
da vario tempo una schiava “che sapeva così ben fare„[27], di cui essa
il 7 aprile 1469 aveagli scritto: “Avete costì Andrea e massime Tommaso
Ginori, che venne el dì della Pasqua e me n'ha detto molte cose.... e
_così della Marina, dei vezzi che ella ti fa_„. E un anno appresso, con
accento piuttosto ironico: “Mandávi gli sciugatoi.... fatene masserizia
che non si perdino; che _madama_ Marina no' gli mandi a male„. Dove
vediamo che con i vezzi e le astuzie sapevan coteste donne cattivarsi i
padroni e diventar madame, e meritarsi, come appunto cotesta Marina, la
libertà e per “le buone fatiche et buoni portamenti„[28], alcun'assai
liberale disposizione testamentaria.

Meno male: peggio quando, come accadde a Francesco Datini, le cui
beneficenze verso i Pratesi non fan dimenticare le gravi colpe ch'egli
ebbe verso la moglie, — peggio, quando cotesto trafficato sangue di
tartare e di russe si mescolava con quelli, sin allora schietti, delle
antiche e libere stirpi!


V.

Ma ritorniamo nelle aure pure della famiglia, dove con le ricchezze
accumulate eran, pur troppo, entrati i mal germi, onde si corruppe e
disfece più tardi la vita e la coscienza italiana. Fra il Tre e il
Quattrocento era seguito un gran crollo: il rinnovarsi dei tempi e
de' costumi, già anelanti e vagheggianti la scioltezza del vivere che
si sbrigliò nel Rinascimento, aveano intepidito la fede, smagato la
religione, e la gente parea soltanto intendere ai godimenti mondani. Le
lettere del Mazzei ce ne porgono testimonianza: il buon notaio di Prato
è il savio d'un'“anima rozza„ e d'un “cuore agghiacciato„[29]: quel suo
amico Datini, diciamolo aperto, è il più esoso tipo di mercante che ci
abbia dato quel secolo. Ser Lapo è uno spirito ascetico, timorato, un
uomo di buona e antica fede, un moralista convinto. In quelle _Lettere_
ci par di vedere alle prese il peccatore ribelle col sant'uomo, che
vuol condurlo ad una buona morte, alla redenzione delle colpe terrene.
È la lotta del sentimento religioso con lo spirito di materialità de'
nuovi tempi, che sfolgorò nella gloria della Rinascenza, ma che dopo
così mirabili splendori lasciò nelle anime degl'Italiani un buio ed un
vuoto paurosi. Da coteste tenebre, purificatosi nei secoli di servitù,
maceratosi nelle vigilie del pensiero, l'uomo moderno doveva risorger
più tardi.

Ritorniamo in famiglia nella casa fiorentina, dalle cui finestre “le
schiavette amorose scotevano le robe la mattina, fresche e gioiose più
che fior di spina„[30]: nella casa dove la buona massaia godè appena
pochi mesi felici, dopo le nozze, mentre poi dovè noverare gli anni
del matrimonio da' nomi dei figliuoli che le crescevano intorno e le
ricordavano, ciascuno, qualche lunga assenza del marito, andatosene a
trafficare oltremonte od oltremare.

La giovenile freschezza appassiva, e, come scrive il Sacchetti, “la più
bella che sia, in piccol tempo, come un fiore, vien meno, e diventa
secca nell'ultima vecchiezza e in fine doventa uno teschio„[31]. È
naturale cercassero con l'arte correggere la natura e porre riparo
ai danni del matrimonio, e non soltanto per vanità. Perfino i maestri
dipintori come Taddeo Gaddi, s'accordavano nel giudicare con Alberto
Arnoldi[32] che le donne fiorentine “sono i migliori dipintori del
mondo„. “E fu mai dipingere, che su 'l nero, o del nero facesse bianco,
se non costoro? E qual artista, o di panni, o di lana, o dipintore, è
che del nero possa far bianco? certo niuno; perocchè è contro natura.
Serà una figura pallida e gialla, e con artificiali colori la fanno in
forma di rosa. Quella che per difetto, o per tempo, pare secca fanno
divenire fiorita e verde. Io non ne cavo Giotto, nè altro dipintore
che mai colorasse meglio di costoro; ma quello che è vie maggior cosa,
che un viso che sarà mal proporzionato, e avrà gli occhi grossi, tosto
parranno di falcone; avrà il naso torto, tosto il faranno diritto;
avrà mascelle d'asino, tosto l'assetteranno; avrà le spalle grosse,
tosto le pialleranno; avrà l'una in fuori più che l'altra, tanto
la rizzafferanno con bambagia, che proporzionate si mostreranno con
giusta forma. E così il petto e così l'anche, facendo quello, senza
scarpello, che Policreto con esso non avrebbe saputo fare.... Insomma
le donne fiorentine sono maggiori maestre di dipignere e d'intagliare,
che mai altri maestri fossono, perocchè assai chiaro si vede ch'elle
restituiscono dove la natura ha mancato.„ — Nè di ciò possiamo o
vogliamo riprenderle: unica libertà, onde godevano, mascherarsi da
giovani e felici, rifarsi lieto e fresco il volto, quando spesso il
cuore piangeva, in vedersi d'intorno e da presso altri visi di donna.
Anche amavano variar le fogge, le mode, le “portature„, e in ciò
sfogavano la loro ambizione. I lodatori dell'antico, cominciando da
Dante, le biasimavano di tanta volubilità, ingrata fino ai novellieri
moralisti, ingratissima ai rettori, a quel governo di mariti che
volentieri avrebbe lesinato su codesto lusso delle mogli.

“Se un arzagogo apparisse con una nuova foggia, tutto il mondo la
piglia„. “Che fu a vedere già le donne col capezzale (lo scollo) tanto
aperto che mostravano più giù che le ditelle! (le ascelle); e poi
dierono un salto, e feciono il collaretto infino agli orecchi„. “Le
giovanette che soleano andare con tanta onestà„, hanno “tanto levata la
foggia al cappuccio„ da ridurlo una berretta e “imberrettate portano
al collo il guinzaglio, con diverse maniere di bestie appiccate al
petto. Le maniche loro, o sacconi piuttosto si potrebbono chiamare,
qual più trista e più dannosa e disutile foggia fu mai? potè nessuna
tôrre o bicchiere o boccone di su la mensa che non imbratti e la
manica e la tovaglia co' bicchieri ch'ella fa cadere?... Lo 'mbusto
è tutto in istrettoie, le braccia con lo strascinío del panno, il
collo asserragliato da' cappuccini.....„ “Non si finirebbe mai di
dire delle donne, guardando allo smisurato traino de' piedi„ alle code
delle vesti “e andando infino al capo; dove tutto di su per li tetti,
chi l'increspa, e chi l'appiana, e chi l'imbianca, tantochè spesso di
catarro si muoiono„[33].

Ma cotesta smania del nuovo s'attaccava anche agli uomini. Il povero
messer Valore de' Buondelmonti, un vecchione tagliato all'antica, fu
costretto da' suoi consorti a mutare il cappuccio; e come l'ebbe fatto,
tutti se ne meravigliavano e lo fermavano per la via: “O che è questo,
messer Valore? io non vi conoscea, avete voi i gattoni?„[34].

Venne un tempo la moda delle gorgiere intorno la gola e delle
bracciaiuole, sicchè poteva dirsi dei fiorentini portassero “la gola
nel doccione„ e il braccio nel “tegolo„, onde accadde a Salvestro
Brunelleschi, “avendo una scodella di ceci innanzi e pigliandoli col
cucchiaio, per metterseli in bocca„, di cacciarseli nella gorgiera, e
di scottarsi[35]. Più tardi venne quella delle “calze„ (i calzoni) di
differenti colori non solo, ma anche “dimezzati e attraversati di tre
o quattro colori„: de' piedi con una punta lunghissima[36]; e delle
gambe così “incannate co' lacci che appena si possono porre a sedere„.
“I più dei giovani senza mantello vanno in zazzera„ e “al polso danno
un braccio di panno„ e “mettono in un guanto più panno che in un
cappuccio„[37].

Le vecchie foggie contrastavano con le nuove, con le modernissime:
ognuno si sbizzarriva a sua posta. La gente, curiosa anche allora,
prendea diletto a vedere “le nuove cappelline, le nuove cuffie e le
nuove cianfarde, e' nuovi gabbani, i nuovi tabarroni, e le antiche
arme; sì che appena si conoscono insieme, sguarguatando (sbirciando)
l'uno insino in sul viso dell'altro, prima che si conoscono„[38]. Una
vera mascherata!


VI.

Ora gli uomini, che han sempre fatto le leggi, pensarono con tal freno
vietare i “disordinati ornamenti delle donne di Firenze„. Il Comune
promulgò statuti suntuari fino dal 1306 e dal 1330[39], e provvisioni
severissime nel 1352, nel 1355, nel 1384, nell'88, nel 1396 e poi
di nuovo nel 1439[40] e nel 1456 e perfino ne troviamo nel 1562[41].
I religiosi tuonavano dal pergamo, i savi ammonivano e davano, come
il Dominici, “regoluzze„ alle madri timorate “circa i vestimenti„; i
novellieri mordevano con le loro facezie il lusso troppo smodato. Anche
nelle altre città di Toscana e d'Italia, si mandava a Firenze “per
esempio de' detti ordini„ e per “confermargli„[42].

Incomincia una contesa, una lotta assai singolare tra la burbanza
de' legislatori severi e la malizia donnesca. Le femmine astute non
contrastano apertamente, ma fingon di piegare il capo crucciose, finchè
passi quella bufera. Sono addottrinate, esperte del mondo: le leggi
troppo severe rimangono senza sanzione. Quando e come possano, cercano,
se non annullarle, deluderle. Alla venuta del duca di Calabria, nel
1326, si fanno attorno alla duchessa sua moglie che è una francese,
Maria di Valois, e ottengono sia loro reso un “loro ornamento di trecce
grosse di seta gialla e bianca, le quali portavano in luogo di trecce
di capelli dinanzi al viso..., ornamento disonesto e trasnaturato„,
brontola il Villani che vide “il disordinato appetito delle donne„
vincere “la ragione e il senno degli uomini„. Quattr'anni appresso i
Fiorentini per calen d'aprile “del 1330„ “tolgono tutti gli ornamenti
alle lor donne„ e come dice il Del Lungo in un magistrale lavoro, a cui
per voi darà qui il desiderato compimento, “le disabbigliano da capo a
piè„[43].

Anche questa, bufera che passa! A simiglianza delle donne di Fiandra,
tormentate per la stessa cagione da Tommaso Connette fanatico
carmelitano, esse, come scrive il Paradis negli _Annales de Bourgogne_
“_releverent leur cornes, et firent comme les lymaçons, lesquels quand
ils entendent quelque bruit retirent et reserrent tout bellement leurs
cornes; mais, le bruit passé, soudain ils les relevent plus grandes
que devant_„[44]. E occasione a rilevarle, la venuta del duca d'Atene
in Firenze nel 1342, e la “sformata mutazione d'abito„ portata da quei
francesi.

E qui vorrei indugiarmi a descrivervi il _figurino_ d'allora, quando
i giovani vestivano “una gonnella corta e stretta„ che per metterla
occorreva l'“aiuto d'altrui„, cinta alla vita da una striscia di cuoio
con ricca fibbia e puntale, con “isfoggiata scarsella alla tedesca„,
con il cappuccio attaccato ad una corta mantellina e terminato in una
punta o becchetto lungo infino in terra, per avvolgerlo al capo “per
lo freddo„: e i cavalieri una guarnacca attillata, con le punte de'
manicottoli strascicanti per terra, foderati di vaio, ed ermellini, de'
quali le donne copiaron subito la singolare “stranianza„[45]. Ma gli
affreschi del Memmi in S. Maria Novella, che ritraggono quelle fogge,
sono a voi noti, anche per visite recenti, quando in un'occasione
solenne tentaste di rinnovarle. A studio, dico _tentaste_, perchè
l'eleganza moderna non può agguagliare la magnificenza signorile di
que' drappi, di quelle vesti sontuose.

La _Prammatica_ del vestito del 1343, che conservavasi nell'_Archivio
della Grascia_, di cui ottenni alcun estratto dalla cortesia d'un
amico il quale ebbela fra mano, serba memoria di quegli splendidi
abbigliamenti ch'eran colpiti dal rigor delle leggi e bollati con
un marchio di piombo, avente sull'una e sull'altra faccia un mezzo
giglio ed una mezza croce, a cura dei famigli di quei poveri “uficiali
forestieri„, deputati dal Comune all'applicazione della legge. Eccovi
descritto un capo di vestiario proibito, appartenente a donna Francesca
moglie di Landozzo di Uberto degli Albizzi del popolo di San Pier
Maggiore: “Un mantello nero di drappo rilevato col fondo di color
giallo, con sopra uccellini, pappagalli, farfalle e rose bianche e
vermiglie e molte altre figure vermiglie e verdi, e con trabacchi e
dragoni, e con lettere e alberi gialli e neri e molte altre figure di
diversi colori, foderato di drappo bianco con righe nere e vermiglie„.
Nè basta: spesso erano anche motti, non soltanto lettere, impressi sui
drappi.


VII.

Ma di quell'_Archivio_ stesso _della Grascia_ e di quei disgraziati
ufficiali, costretti a un cómpito così disumano, di quei poveri
potestà e capitani, cavalieri, giudici, notai e famigli che dalle città
guelfe di Lombardia e delle Marche venivano in Firenze a sostenere le
parti di rettore, a contrastare nel loro rozzo dialetto, beffato dai
novellieri borghesi, con le lingue arrotate delle donne e de' loro
mariti, ancor si conserva un documento curioso. Chi non ricorda la
novella[46] di Franco Sacchetti, in cui narra le tribulazioni di “uno
judice di ragione„, Messer Amerigo Amerighi da Pesaro, “bellissimo uomo
del corpo„, e ancora “valentissimo della sua scienza„, il quale ebbe
mandato, mentre Franco era de' Priori nella nostra città, di proceder
sollecitamente ad eseguire certi “nuovi ordini„, al solito “sopra gli
ornamenti delle donne?„ Il valente giudice si pone all'opera, e manda
attorno il notaio, e i famigli, a fare inquisizioni; ma i cittadini
vanno a' Signori e dicono “che l'officiale nuovo fa sì bene il suo
officio, che le donne non trascorsono mai nelle portature come al
presente fanno.„

Or ecco la discolpa di Messer Amerigo: “Signori miei, io ho tutto il
tempo della vita mia studiato, per apparar ragione; e ora, quando io
credea sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla; perocchè cercando
degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m'avete
dati, sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come son
quelli che elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni.
E si truova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il
cappuccio. Il notaio mio dice: Ditemi il nome vostro, perocchè avete
il becchetto intagliato. La buona donna piglia questo becchetto, che
è appiccato al cappuccio con uno spillo e recaselo in mano, e dice
ch'egli è una ghirlanda. Or va' più oltre, truovo molti bottoni portare
dinanzi. Dicesi a quella che è truovata: Questi bottoni voi non potete
portare. E quella risponde: Messer sì, posso, chè questi non sono
bottoni, ma sono coppelle; e se non mi credete, guardate, e' non hanno
picciuolo; e ancora, non c'è niuno occhiello. Va il notaio all'altra
che porta gli ermellini, e dice: Che potrà apporre costei? Voi portate
gli ermellini. E la vuole scrivere. La donna dice: Non iscrivete, no;
chè questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi. Dice il notaio: Che
cos'è questo lattizzo? E la donna risponde: È una bestia„. E il notaio
non insiste, come non sanno insistere i magnifici signori Priori, che
si ricordano delle loro donne lasciate a casa, e conchiudono, come
hanno sempre conchiuso in Palagio, esortando messer Amerigo a tirar
via, e lasciar “correre le ghirlande per becchetti e le coppelle e i
lattizzi, e' cinciglioni„.

Non volevano forse che il giudice pesarese avesse a ricordare il
malinconico distico che un suo collega della _Mercanzia_ aveva scritto
sul margine degli _Statuti_:

    “S' tu ài niuno a chi tu vogli male
    “Mandallo a Firenze per uficiale.[47]

Pur questa volta, la novella del Sacchetti è verace documento di
storia; l'_Archivio della Grascia_ serba gli _Atti civili del Giudice
degli appelli e nullità_, e fra quei protocolli appunto ve n'è uno di
Giovanni di Piero da Lugo, notaio del dottore in legge ser Amerigo di
Pesaro, ufficiale della Grascia del Comune di Firenze, per sei mesi, a
cominciare dal XV marzo 1384.

Quel giorno stesso l'Amerighi pubblicò, a' soliti luoghi, un bando per
ricordare le pene delle leggi contro chi trasgrediva alla _Prammatica
sopra 'l vestire_. E il 27 marzo cominciarono per parte degli ufficiali
le inquisizioni. Vedevano per via alcuna donna con due anelli, ornati
di quattro perle, con una cappellina di velluto nero ricamata, con una
ghirlanda, con una delle abbottonature proibite? E subito si contestava
alle malcapitate (diciamolo col frasario odierno) la contravvenzione.
Andava il messo alle case con un “mandato di comparizione„, e il giorno
fissato compariva per la moglie il marito, che riconosceva l'errore e
pagava la multa. Così s'andò innanzi un bel po'; ma più tardi dovettero
le donne, ammaliziate, cominciare quelle contestazioni, accennate
dal novelliere, e naturalmente omesse nel protocollo del notaio. Le
inquisizioni si fanno più rare, le condanne meno frequenti e i mariti
che compariscono principiano a negare la reità delle mogli, con validi
argomenti: una è troppo vecchia perchè possano imputarsele siffatti
trascorsi, un'altra era in casa quel tal giorno a quella tale ora, una
terza è in lutto e così via.... E il protocollo si chiude quasi senza
registrare più nessuna condanna.

La Signoria e il giudice prima di lei si son dati per vinti; ma non
senza sospetto che quelli ufficiali, quei notai, deputati all'odioso
ministero, non si fossero lasciati vincere dal fuoco di qualche
bell'occhio, dalle carezze di qualche voce lusingatrice. Ahimè nelle
coperte della _Prammatica_ di quel tempo, leggiamo la confessione, lo
sfogo d'un cuore innamorato, prezioso documento umano fra le pedanterie
curialesche degli _Statuti_. Udite:

    Li dulci canti e le brigate oneste
    Gli uccelli, i cani e l'andar sollazzando,
    Le vaghe donne, i templi e le gran feste
    Che per amore solea ir cercando.
    Ora fuoco mi sono, oimè moleste,
    Quantunque vengo con meco pensando
    Che tu dimori di qui or(a) lontana
    Dolce mio bene e speme mia sovrana!

Le donne avean trovato alleati nella famiglia del Giudice di ragione:
la loro causa era vinta!


Ma per poco, giacchè quasi periodicamente si tornò ad infierire contro
la vanità femminile, e altre bufere scoppiarono, sempre di breve
durata. Anche tremendi avversari ebbero ne' moralisti che nei trattati
del _Governo della famiglia_, seguitavano a battere cotesto tasto
(valga l'esempio del Palmieri); peggiori nemici ne' frati, invasi dal
furore di purgare il mondo dai peccati.

Frate Bernardino da Siena nel 1425 continuò a Perugia quei bruciamenti
delle vanità che l'anno innanzi aveva iniziato a Roma, facendo
un gran falò di “capelli posticci e contraffatti, d'ogni lasciva
portatura, di balzi da scuffie„, dadi, carte, tavolieri “e altre
cose diaboliche„, preludendo alle grandi fiammate che nel 1497 fece
a Firenze il Savonarola, e che gli furono di pessimo augurio. Ma fra
tanti oppositori, non mancavano i buoni avvocati. Nell'aprile 1461
un predicatore che aveva vociato dal pergamo in Santa Croce contro
le donne, ricorse alla Signoria, e nel _Consiglio dei Richiesti_ si
trattò, nientemeno, di proibire la moda. Ma Luigi Guicciardini, padre
al grande storico e politico, disse aver risposto a un milanese,
giudicante a sproposito dell'onestà delle donne fiorentine dall'abito
sfoggiato e dall'incedere, che se l'abito parea disonesto, elleno erano
a' fatti assai diverse[48].


VIII.

Ma queste leggi suntuarie, ritoccate o come oggi direbbero
“rimaneggiate„ ogni momento, più che offendere le donne colpivan
la borsa dei loro mariti; nè, giova notarlo, si restringevano agli
ornamenti, sibbene frenavano o volevan frenare anche il lusso e
l'abbondanza delle nozze, dei battesimi, dei conviti e dei funerali.
I cortei nuziali non potevano eccedere il numero di dugento persone. I
sensali de' matrimoni dovevano denunziare innanzi i nomi degl'invitati.
Le _donora_ alla sposa eran regolate dalla legge, e così le cerimonie
nuziali; il cuoco “il quale dovrà apparecchiare per qualche sposalizio„
era tenuto a rapportare all'ufficiale del Comune il numero delle
vivande e dei piattelli, e le vivande non potevano essere più di
tre: non più di sette libbre di vitella, e i capponi, i paperi o gli
anitroccoli permessi dagli statuti. Del pari eran regolate le esequie,
il numero dei torchi di cera, le vesti dei morti e dei congiunti che
seguivano il funerale: i doni dei battesimi.... insomma ogni benchè
menoma cosa[49]. Chi contravvenisse a tali disposizioni, condannato a
multe assai gravi.

Perchè il Comune, anche allora, cercava dovunque argomenti per tasse,
gravami e balzelli, e lo studio dei cittadini, massime di quei furbi
mercanti, era tutto in cercare di alleggerirsi delle gravezze, di
rubare con qualche onesta licenza[50].

“_Il Comune ruba tanto altrui, che io posso ben rubar lui_„, è un
dettato antico riferito dal Sacchetti[51]; il quale anche lamenta le
lungaggini nelle pratiche del Comune, perfino verso chi volea donargli
le proprie castella[52]. Ciascuno tirava l'acqua al suo mulino, dice
Marchionne Stefani, e anch'egli aveva il mulino suo[53]. S'ingegnavano
tutti a difendersi dalle gravezze e com'è sempre usanza, scrive quel
cronista, “gli animali grossi e possenti saltano e rompono le reti„.

Anche Francesco Datini, accostandosi a quelli che tenevan lo Stato,
provvide a' casi suoi, in quegli anni nei quali “le guerre combattute
con le armi de' mercenari e le paci fatte a furia di denaro esigevano
che la imposta si riscotesse in un anno dieci e quindici volte[54]„.
Chi non potea con le amicizie e i favori, ci riusciva con l'astuzia,
come Bartolo Sonaglini che, essendosi per porre molte gravezze,
scendeva ogni mattina sull'uscio di casa e contava a tutti le sue
miserie, dicendo: “Oimè, fratel mio, io son disfatto.„ “E' mi converrà
o dileguarmi dal mondo o morir prigione„[55]; onde quando vennero alla
partita di lui ciascuno dicea: Egli è diserto, e guardasi per debito;
e l'un dicea: E' dice il vero, chè pure una di queste mattine non
ardiva d'uscir di casa. E l'altro dicea: E anco così disse a me.... Sia
come si vuole, dicono gli altri, e' si vuole trattar secondo povero,
e tutti a una voce gli posono tanta prestanza, quanta si porrebbe a
uno miserabile, o poco più.„ Fatte le prestanze e passato il pericolo,
Bartolo cominciò a uscir fuori e andava dicendo d'esser per accomodarsi
coi creditori; e così, a furia di ciance, si liberò dalle prestanze,
“dove molti altri più ricchi di lui ne rimasono disfatti„.


IX.

Già i tempi maturavano. Dell'antica e proverbiata semplicità, in tanta
sete di guadagni, rimanevano monumento vivente, ma pur rispettato,
soltanto quei vecchioni di cui Donato Velluti ci porge uno stupendo
ritratto, vivo e vigoroso come una figura di Andrea del Castagno.

“Bonaccorso di Piero, fu uno ardito, forte e aitante uomo, e molto
sicuro nell'arme. Fece di grandi prodezze e valentie, e sì per lo
Comune e sì in altri luoghi. Tutte le carni sue erano ricucite, tante
ferite avea avute in battaglie e zuffe. Fu grande combattitore contr'a
Paterini e Eretici.... Era di bella statura, di membra forti e bene
complesso. Vivette ben 120 anni, ma ben 20 anni perdette il lume,
innanzi morisse, per vecchiaia. Fu chiamato Corso, e benchè fosse
così vecchio, udii dire che la carne sua avea sì soda, che non si
potea attortigliare, e se avesse preso qualunque giovane più atante
in su l'omero, l'avrebbe fatto accoccolare. Intesesi anche bene di
mercatanzia, e fecela molto lealmente; intanto era creduto, che venuti
i panni melanesi in Firenze da Melano (de' quali molti ne faceano
venire) e tutti gli spacciava innanzi fossono aperte le balle; molti ne
faceano tignere qui, e perch'era sì diritto, udii dire che un Giovanni
del Volpe loro fattore veggendo sì grande spaccio di detti panni,
pensò nella tinta fare avanzare più la compagnia, e più debolmente,
e con meno costo gli facea tignere; di che essendo passato un tempo i
detti panni non avevano quel corso soleano: di che cercando la cagione,
trovarono che era stato per la sottilità del detto Giovanni, di che
egli il volea pure uccidere.

“Il detto Bonaccorso avendo perduto il lume, il più si stava in casa.
Avea di dietro al palagio di Via Maggio.... un verone lungo quanto
tenea il detto palagio, in sul quale rispondea tre camere dal lato di
dietro, per le quali egli andava, e tanto andava in qua e in là ogni
mattina, che facea ragione essere ito tre o quattro miglia, e fatto
questo asciolvea, e l'asciolvere suo non era manco di due pani, e poi
a desinare mangiava largamente, perocchè era grande mangiante: e così
passava la sua vita. Ora perchè si sappia come morì, udii dire a mio
padre, che gli venne voglia andare alla stufa, e così andò, nella quale
stufa s'incosse un piede; di che essendo tornato e veggendo che per
essa cagione non potea andare, nè fare il suo usato esercizio, in sul
verone, immantinente sì si (ac)cusò morto. Or avvenne in quel tempo
che Filippo suo figliuolo, e mio avolo che fu, menando Monna Gemma
de' Pulci sua seconda donna, avendo il dì molto motteggiato dicendo:
_ora farebbe bisogno a me d'avere moglie, più ch'a figliolmò, che
m'aitasse_, e molte altre ciance, gli venne voglia, essendo sul letto,
farsi portare in sul lettuccio da sedere: di che chiamato mio padre e
Gherardo suoi nipoti, avendosi colle mani e braccia appoggiato in sulle
spalle loro; subitamente per grande vecchiezza la vita gli venne meno,
e morì„[56]


X.

Con il ricordo di questa “cara e buona immagine paterna„, affrettiamoci
a' tempi nuovi, al nuovo secolo, di cui ormai rosseggia in cielo,
nel cielo della letteratura e dell'arte, la splendida aurora. Già ne
scorgemmo i segni annunziatori nell'ottenuto acquisto della ricchezza,
nell'affrancarsi così dai vecchi pregiudizi, come dalle severe regole
del vivere antico, nelle tendenze egoistiche preparanti lo svolgimento
di quel che i moderni critici chiamano “individualismo,„ onde meglio si
comprende il carattere degli uomini e della vita della Rinascenza.

L'affetto per il Comune, per la patria e anche per la famiglia, già
s'affievolisce col desiderio acuto de' godimenti, di che non era avara
la vita a chi volea gustarne le dolcezze. L'incredulità fa capolino;
lo scetticismo, la sensualità, minacciano di prendere il sopravvento.
Coteste generazioni, dopo i terribili terrori delle pestilenze,
scampate all'infuriar del contagio, doveron quasi meravigliare, stupire
di risvegliarsi alla vita.

Dalla grande moria del 1348 ai primi del '400, i cronisti ne registrano
molte altre: ricordiamo quelle del 1363, del 1374, del 1400, del 1411,
del 1420 e del 1424. Un nostro erudito spogliando il libro de' morti
degli Ufficiali della Grascia, noverò dal 1.º maggio al 18 settembre
1400, ben 10908 morti, la massima parte fanciulli[57]. Della peste
del 1348, oltre alla classica e grandiosa descrizione del Boccaccio,
troviamo vivi e dolorosi ricordi nelle cronache famigliari, ne' diarii,
ne' memoriali.

Dovè essere un pauroso, un raccapricciante spettacolo! Giovanni Morelli
racconta che in un'ora “si vedeva ridere e motteggiare„ il vicino
o l'amico “e nell'ora medesima il vedevi morire„. La gente cascava
morta per istrada “su per le panche„ come abbandonata, senza aiuto
o conforto di persona. Molti impazzivano e si buttavano nel pozzo, o
giù dalle finestre o in Arno, dal gran dolore o dalla orribile paura.
Tanti morirono senza esser veduti e “infracidavano su per le letta„,
molti si sotterravano ancor vivi. “Avresti veduto una croce ire per un
corpo e averne dietro tre o quattro prima giugnesse alla chiesa„[58].
Si calcola che in Firenze morissero i due terzi delle persone, “cioè
de' corpi ottantamila„[59]. Della moria del '400, veggiamo un'efficace
pittura in una lettera di Ser Lapo Mazzei. “Qui non s'apre appena
appena bottega: i rettori non stanno a banco: il palagio maggiore senza
puntelli: nullo si vede in sala: morti non ci si piangono, contenti
quasi solo alla croce„[60]. Era uno spavento: i figliuoli morivano,
cadevan gli amici, i vicini, i conoscenti, gl'ignoti; nel colmo della
estate, passavano i cento al dì; nel luglio vi fu un giorno che furon
dugento.

Di quella del 1420 scrive nel suo _Libro segreto_ Gregorio Dati: “La
pestilenzia fu in casa nostra, e cominciò dal fante, cioè Paccino,
a l'uscita di giugno 1420; e poi da indi a tre dì la Marta nostra
schiava, e poi al primo dì di luglio la Sandra mia figliuola, e a dì
5 di luglio l'Antonia. E uscimmo di casa, e andammo dirimpetto; e in
fra pochi dì morì la Veronica: e uscimmone e andammo in Via Chiara,
e presevi il male alla Bandecca e alla Pippa, e amendue s'andarono a
Paradiso a dì 1.º d'agosto, tutti di segno di pestilenza[61]. Iddio li
benedica!„

Chi poteva fuggire, scappava ad Arezzo, a Bologna, in Romagna, in
alcuna città e terra dove credesse potersi stare sicuro. Il Datini se
n'andò a Bologna, portando la famiglia, i domestici e i forzieri su
ronzini e su muli carichi di ceste[62]. Buonaccorso Pitti scampò dalla
peste del 1411 recandosi a Pisa in una casa a pigione, dove in sette
mesi spese 1300 fiorini e gli morì una figliuola e un famiglio. Nel '24
mandò il figlio suo Luca con la moglie e i bambini a Pescia, dove poi
si ridusse con gli altri congiunti.

Era di regola recarsi “in qualunque luogo la mortalità non fosse
stata„[63]; rimedi contro l'oscuro malore non c'erano, nè l'arte dei
medici sapea consigliarli. Il Morelli prescrive alcune norme che oggi
si direbbero igieniche: la pestilenza del 1348 era stata cagionata
da una terribile carestia: “l'anno dinanzi era suto in Firenze gran
fame„[64]; “vivettesi d'erbe, e di barbe d'erbe, e di cattive„, “tutto
contado era ripieno di persone, che andavano pascendo l'erbe come le
bestie„, e i corpi erano disposti e non avevano “argomento nè riparo
niuno„. Consiglia, pertanto, conservarsi sani, riguardarsi, mangiar
bene, sfuggire l'umido, “spender largamente„, senza “niuna masserizia„
senza economia “fuggi(r) malinconia e pensiero„, pigliarsi “spasso
piacere e allegrezza„, non “pensare a cosa ti dia dolore o cattivo
pensiero„, giuocare, cavalcare, divertirsi, stare allegri, tenere “in
diletto e in piacere la tua famiglia„, e “far con essa buona e sana
vita senza pensiero di fare per allora masserizie; che assai s'avanza
a stare sano e fuggire la morte„[65].

Gli “avanzati„ dal mortale flagello, doverono ben presto avvezzarsi al
nuovo tenore di vita, anche passato il pericolo. Effetto della peste e
de' suoi terrori, le processioni dei “_penitenti bianchi_, simiglianti
a quelle che quasi un secolo innanzi, sotto il nome di _compagnie de'
battuti_, avevan percorsa tutta l'Europa. Partivansi in folla dalle lor
case mescolati uomini e donne, laici ed ecclesiastici, tutti vestiti di
bianche cappe che lor coprivano anche la faccia, avendo un crocefisso
per insegna; e andavano processionalmente di paese in paese cantando
laudi, pregando con alte voci _misericordia_. Giacevano quasi sempre
all'aria aperta, non domandavano che pane e acqua. I popoli delle città
visitate, accendendosi d'egual fervore andavano col medesim'ordine
a visitare un'altra città. Alla comparsa dei pii pellegrini,
tutti movevansi a penitenza, le gravi inimicizie si deponevano,
si pacificavano le discordanti fazioni, le città si riempivano di
santimonia„[66]. A Firenze i facinorosi voleano profittarne per
liberare i prigioni delle Stinche; ma fortunatamente s'impedì che la
città n'andasse a romore d'arme, e tra le altre si fecer le paci tra
i Pitti e i Corbizi[67]. Anche Francesco Datini nell'agosto 1399 andò
in pellegrinaggio, “vestito tutto di tela lina bianca e scalzo„, co'
suoi famigli, amici e vicini. Erano in tutto dodici e portaron seco
due cavalle e una muletta, “in sulle quali bestie mettemmo un paio
di forzeretti, in che furono più scatole di tutte ragioni confetti,
e formaggio d'ogni ragione, e pane fresco e biscottato, e berlingozzi
zuccherati e non zuccherati e più altre cose che s'appartengono alla
vita dell'uomo, tanto che le dette cavalle furono presso che cariche
di vettovaglie„[68]. Stettero in pellegrinaggio dieci giorni, dal
28 agosto al 6 di settembre, e giunsero fino ad Arezzo o poc'oltre;
e dovunque si fermavano compravano cose da mangiare. Era davvero un
allegro modo, e comodo, di far penitenza, e di pellegrinare a cavallo!

Delle pratiche religiose, i più accorti e più increduli rispettavano
appena la forma esteriore, come il Datini, che temeva i rimbrotti e i
predicozzi dell'amico e mentore spirituale Ser Lapo Mazzei.

Altri, come Buonaccorso Pitti, già ci porgono l'immagine dell'uomo
della Rinascenza, che non ha terraferma, e gira il mondo, rôso da
una interna irrequietezza, e giuoca, e perde, traffica, e mescola
la politica ai commerci e ai sollazzi, come un avventuriere del
Settecento, come un Benvenuto Cellini, ma senza l'arte e con molto
meno d'ingegno. Curioso, strano tipo questo Pitti che sembra morso
dalla tarantola e mena le mani e sta a tu per tu con Carlo VI[69],
con duchi e principi, che cavalca a Roma difilato per una scommessa
con una giovane ond'era invaghito[70]; gran danzatore, giuocatore
ostinato e prode e leal cavaliere, e in patria assunto agli uffici
supremi[71]. Il Burckhardt lo chiama addirittura un precursore del
Casanova, che viaggia continuamente in “qualità di mercante, di agente
politico, di diplomatico e di giuocatore di professione„. “Guadagnò e
perdette enormi somme, e non trovava competitori che fra i principi,
quali ad esempio, i Duchi di Brabante, di Baviera e di Savoia„[72].
Questo il padre di quel Luca Pitti che in ricchezza e in magnificenza
rivaleggiava coi Medici e voleva anche in ogni altra cosa andare a paro
con Cosimo. I mercanti di panni divenuti banchieri e prestatori, aveano
in quei viaggi, in quei traffichi, con quelle “fattorie„ sparse in
varie città d'Europa, ne' più operosi centri del commercio, negli scali
più frequentati, accumulato smisurate ricchezze, ed era venuto il tempo
di godersele tranquillamente.

Già Fiorenza come una bella e prosperosa giovane “con buone parti„ e
dote abbondante, cessate le gare fra i partiti che se la contendevano,
all'ombra de' lauri medicei socchiudeva gli occhi abbarbagliati da
tante sfoggiate magnificenze, onde, come femmina, s'era lasciata
conquidere. Le famiglie, fatta la roba, voglion fondar la casata:
si cercano i maritaggi più convenienti e si discutono quasi fossero
alleanze. L'Alessandra Macinghi va a tutte le messe “in Santa Liperata„
e si pone “allato„ alle fanciulle, con cui vorrebbe per il suo Filippo
far parentado, e con occhio di futura suocera le studia, le esamina,
le spoglia, e ne scrive al figliuolo come se si trattasse d'un mercato
di polledre e non d'un matrimonio. Egli è vero che la buona madonna
Lessandra, per me troppo esaltata e lodata, dovette avere piuttosto
cuor di mercante che di donna. Che mettesse le mani addosso alle
schiave, lo confessava ella stessa senza ritegno; era costume, e
fors'anche con quelle rôsse e tartare la pazienza doveva facilmente
scappare. Ma di lei e della sua pietà troviamo un documento rivelatore.
Si tratta di due vecchi, gli unici che rimanessero d'una famiglia di
lavoratori di Pozzolatico: “ancora vive Piero e mona Cilia, tramendua
infermi. Ho allogato il podere per quest'altr'anno, e me lo conviene
mettere in ordine: e que' due vecchi se non muoiono, hanno andare
accattare. Iddio provvegga„[73]. Nè crediate sia questo un tristo, ma
fugace pensiero: è un fermo proposito. In una lettera scritta, pochi
mesi dopo, nel dicembre del 1465, leggiamo: “Piero vive ancora„ a
Mona Cilia Iddio aveva forse già provveduto “e bisogna che se n'esca,
e andrà accattando.... Arà pazienza: che Iddio lo chiami a sè, se 'l
meglio debb'essere!„[74] Col cuore, non si fa masserizia!


XI.

Ma chi aveva accresciute e moltiplicate le proprie sostanze, mostrava
sentimenti più nobili e animo più gentile. Giovanni Rucellai ci dà
l'immagine compiuta del fiorentino ricco che sente la dignità del
nuovo stato in cui fu posto dalla fortuna; la quale “non tanto gli
ha conceduto grazia nel guadagnare, ma ancora nello spenderli bene,
che non è minor virtù che il guadagnare. E credo — scrive nel suo
_Zibaldone_, — che m'abbi fatto più onore l'averli bene spesi ch'averli
guadagnati, e più contentamento nel mio animo,„ e “massimamente delle
muraglie ch'io ho fatte della casa mia di Firenze, del luogo mio di
Quaracchi, della facciata della chiesa di Santa Maria Novella, e della
loggia nella Vigna dirimpetto alla casa mia„. E ringrazia messer
Domenedio,„ d'averlo fatto “creatura razionale,„ cristiano e non
“turco, moro, o barbaro„, d'averlo fatto nascere “nelle parti d'Italia,
la quale è la più degna e più nobile parte di tutto il cristianesimo,
e nella provincia di Toscana la quale è reputata delle degne provincie
ch'abbi l'Italia„, e altresì d'avergli dato la vita nella “città di
Firenze, la quale è reputata la più degna e la più bella patria che
abbi non tanto il cristianesimo ma tutto l'universo mondo„, e infine
d'avergli dato l'essere “nell'età presente, la quale si tiene per li
intendenti ch'ella sia stata e sia la più grande età che mai avessi
la nostra città poi che Firenze fu edificata.... per esser stato al
tempo del magnifico cittadino Cosimo di Giovanni de Medici„. — E più lo
ringraziava d'avergli concesso d'allearsi con lui, per il matrimonio
della Nannina figlia di Piero e nipote di Cosimo, con il proprio
figliuolo Bernardo, splendido parentado di che il Rucellai insuperbiva.

Firenze allora celebrava, senza temere i rigori delle leggi suntuarie
cadute in disuso, le feste nuziali delle grandi famiglie. Le nozze
di Baccio Adimari con la Lisa de' Ricasoli, celebrate nel 1420, ci
son rappresentate da un'antica tavola della Galleria dell'Accademia
di Belle Arti, e vediamo gli sposi con la loro accompagnatura danzare
sotto un padiglione a strisce di vari e ridenti colori, al suono d'una
musica di trombe e di pifferi; ma di queste del Rucellai con la Medici,
che ci danno l'imagine della vita d'allora, vogliamo tentare un quadro
di cui ci fornirà le linee, i colori e il disegno lo _Zibaldone_ del
buon vecchio che ne serbò caro e pregiato ricordo.


Dorati dal fiammante sole di giugno, i festoni di verzura si
distendevan superbi da un lato all'altro della via, levando in alto gli
scudi, la metà coll'arme de' Medici e la metà coll'arme de' Rucellai.
Le pietre ruspe della facciata che la magnificenza di Giovanni Rucellai
aveva pochi anni innanzi fatto murare, come credesi, da Leon Battista
Alberti, acquistavano quasi nuovo colore coperte com'erano dagli
smaglianti parati e dalle ghirlande di fiori penzolanti da' pilastri
dorici del primo piano e dai pilastri corinti del secondo e del terzo.
Dirimpetto al palazzo, nella piazzuola di fronte alla loggia, era stato
eretto un palco che aveva la figura d'un triangolo. Lo copriva, per
difesa del sole, un cielo di panni turchini adornato di ghirlande,
in mezzo alle quali sbocciavano freschissime rose; mentre di sotto,
sull'assito di legno, si stendevano arazzi preziosi, che paravano anche
le panche messe lì torno torno per comodo d'aspettare, e le spalliere
chiudenti in giro il vago recinto. I lembi del gran velabro turchino
scendevano qua e là fino a terra, come aeree colonne. Da una parte
di quel gran padiglione sorgeva una credenza su cui splendevano vasi
e piatti d'argento lavorati a rilievo da quanti più valenti orafi ed
argentieri noverasse allora Firenze: e la ricchezza di quegli arredi
annunciava la sontuosità del convito che apparecchiavasi.

Nella via di fianco al palazzo s'eran poste le cucine, dove fra cuochi
e sguatteri lavoravano cinquanta persone. Il rumore era grande; via
della Vigna da un capo all'altro era piena di gente: agli artefici che
avevan preparato gli addobbi, succedevano i messi che portavano i doni
degli amici, dei clienti, del parentado: i contadini, i giardinieri,
i bottegai, gli speziali che portavano le vettovaglie; i pifferi e
i trombetti che preparavan le musiche: i giovani cavalieri che si
accingevano agli armeggiamenti nuziali.

Quella domenica — era l'otto giugno del 1466 — poco dopo il levar del
sole avea la gente cominciato ad accorrere da ogni parte al palazzo
dove le nozze dovean celebrarsi: arrivavano, cara e promettente
vista ai curiosi, vitelle squartate, barilozzi di vino greco, capponi
quanti ce ne possono stare appiccati a una stanga portata a spalla
da due robusti villani, stangate di formaggi di bufalo, coppie di
paperi, barili di vino comune e di scelto trebbiano, corbelli pieni
di melarance, ceste di pesci di mare grandi e odorosi, paniere di
pesciolini d'Arno con le squame d'argento, caprioli, lepri, giuncate.
— Venivano, portate dagli ortolani dei monasteri, cestelline di
zuccherini, di berlingozzi e d'altre dolcissime delicature preparate
dalle candide mani di monacelle gentili: venivano a gran fatica,
dondolando la testa fronzuta, e barcollando sui carri tirati da bovi
sbuffanti un magnifico ulivo di Carmignano, e ginestre e quercioli
tolti alla villa di Sesto, co' fiori che la ridente stagione donava in
gran copia.

Dovevano i regali aggiunger magnificenza alla festa, ed esser degni
di chi li offriva, e testimoniare insieme l'affetto o la reverenza che
portavano i donatori alle due insigni famiglie che con quegli sponsali
faceano alleanza. Il giovane Bernardo Rucellai, diciassettenne appena,
andava sposo alla Nannina figlia di Piero e nipote al gran Cosimo de'
Medici, ed il vecchio Giovanni Rucellai con quelle nozze si levava di
dosso il sospetto d'esser nemico alla parte Medicea che, dopo l'esilio
di Cosimo, era tornata più forte di prima in Firenze. Era un parentado
architettato con sommo studio, che ridondava a decoro della famiglia
sua, quanto la facciata di Santa Maria Novella fatta fare all'Alberti,
e la cappella in San Pancrazio, e il palagio e la bellissima loggia
corinzia di Via della Vigna.

Sottile ingegno avea quel maestoso vecchio con la fronte alta ed
aperta, il naso aquilino e i fulgidi occhi di un profondo color
cilestro, che pare ancor vivo nella cornice d'un suo antico ritratto.
Abbondanti capelli gli scendono in ricche anella sulle spalle e una
lunga barba gli ondeggia sul petto, conservando ancora alcune tinte
dorate frammiste al grigio della vecchiaia, e con i freschi colori
del viso dimostrando una longevità vigorosa. Lo vediamo seduto in
un seggiolone a bracciuoli, coperto di velluto cremisi a frangia e
borchie d'oro; veste una tunica verde scura ed è ravvolto in un lucco
purpureo a risvolte di velluto cremisi. Cogli occhi guarda in alto e
lontano come pensando a cose che non sono di questo mondo. Ma la mano
destra, adorna di un anello con un grosso brillante, si appoggia con
forza al bracciale del seggiolone, e la sinistra aperta accenna ad un
codice, ben rilegato, che gli è squadernato dinanzi, sur una pagina
del quale leggesi il titolo _Delle Antichità_. Accanto ad esso alcune
lettere dissigillate con l'indirizzo all'_illustrissimo signor Giovanni
Rucellai_. Dietro una tenda di colore scuro, in uno sfondo azzurro son
disegnate con grandissima diligenza ed esattezza le sue opere di pietra
e di marmo, la facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San
Pancrazio, il palazzo e la loggia. Quel dipinto compendia l'uomo e le
sue glorie: un ricco mercante che poteva diventar parente del magnifico
Cosimo di Giovanni de' Medici, il quale — com'ei diceva — è stato ed
è di tanta ricchezza e di tanta virtù e di tanta grazia e riputazione
e seguito, che mai non fu simile cittadino nè di tante buone parti e
condizioni quante sono state e sono in lui.

Ma torniamo alle nozze. Giovanna dei Medici venne a marito quel
giorno stesso, accompagnata, com'era costume, da quattro cavalieri de'
maggiori della città, messer Manno Temperani, messer Carlo Pandolfini,
messer Giovanozzo Pitti e messer Tommaso Soderini. _Veniam_ cioè
_verrò_ era scritto, secondo l'uso d'allora su certe cartellette
appiccate alle panche parate d'arazzi che eran disposte sotto al
padiglione fiorito; e la sposa vi venne, e in su quel palco soffice per
i ricchi tappeti si danzò e si festeggiò a suon di musiche, aspettando
i desinari e le cene.

Convennero alle nozze 50 gentildonne riccamente vestite e similmente
50 giovani in abiti bellissimi. Durarono le feste dalla domenica
mattina alla sera del martedì successivo, e i conviti si tenevano
due volte al giorno. Comunemente si convitavano a ciascun pasto
cinquanta tra parenti e amici e cittadini de' principali, per modo
che alla prima tavola, contando le donne e le fanciulle di casa,
i pifferi ed i trombetti, mangiavano 170 persone. E alle seconde e
terze tavole dette “tavole basse„, mangiava gente assai, tantochè ad
un certo pasto s'ebbero fin 500 persone. Le vivande, che eran quelle
prescritte dall'uso, furono squisite e abbondanti: la domenica mattina
si dettero capponi lessi e lingue, e un arrosto di carne grossa, e
uno di pollastrini dorati con lo zucchero e l'acquarosa: la sera la
gelatina, l'arrosto grosso e quello di pollastrini con frittellette.
Il lunedì mattina, bianco mangiare, coi capponi lessi e salsicciuoli
e arrosto grosso di pollastrini; la sera le solite portate, e più una
torta di pappa, mandorle e zucchero che dicevasi _tartara_. Il martedì
mattina, arrosto di carne grossa e di quaglie, e la sera i consueti
arrosti e la gelatina. Alle colazioni uscivano fuori in sul palchetto
venti confettiere di pinocchiati e di zuccherati, che si distribuivano
a profusione.

La spesa di questi conviti ascese a più che 6000 fiorini (circa 150000
lire), somma per quel tempo ingentissima. Si comprarono settanta staia
di pane, duemilaottocento pani bianchi, quattromila cialdoni, cinquanta
barili di trebbiano, tremila capi di pollame, mille e cinquecento uova,
quattro vitelli, venti catini di gelatina; e si arsero in cucina dodici
cataste di legna. — Pareva addirittura il regno dell'abbondanza.

Il martedì sera, parte dei giovani che erano stati invitati alle
nozze fecero gli armeggiamenti secondo l'usanza, movendosi dal Palazzo
Rucellai fino al canto dei Tornaquinci, e di poi in Via Larga sotto il
Palazzo dei Medici.

La sposa, chi voglia sapere il corredo e i regali che ebbe, ricevè da
diversi parenti non meno di venti anelli; e sei dallo sposo, due quando
la tolse, due _dello sposalizio_, due nella mattina che si donavano
le anella. Da Bernardo ebbe cento fiorini e più altre monete: le si
fecero ricchi vestimenti: uno di velluto bianco ricamato di perle,
di seta e d'oro con maniche aperte foderate di candide pellicce: uno
di _zetani_, drappo di seta molto massiccio, guernito di perle con le
maniche foderate d'ermellino.

Ebbe poi una _cotta_ o vestito di damaschino bianco broccato d'oro
fiorito, con maniche adorne di perle, e un'altra cotta di seta con
maniche di broccato d'oro cremisi ed altri vestiti e sopravvesti,
chiamate allora _giornee_. — Fra le altre gioie ebbe una ricca collana
con diamanti, rubini e perle del valore di 1200 fiorini, e uno spillo
da testa, e un vezzo di perle che avea per pendente un grosso diamante
a punta, e un cappuccio ricamato di perle e una reticella di perle
grosse. — La dote, che oggi parrebbe scarsa, fu di 2500 fiorini (circa
60 000 lire), compreso il corredo, nel quale si notano un paio di
forzieri con le spalliere riccamente lavorati, e dieci fra _cioppe_,
_gamurre_ e _giornee_, cioè vestiti lunghi di varia forma di finissime
stoffe, e sontuosi ricami d'oro e di perle: una camicia di _renso_
(tela bianca fine operata proveniente da Reims), una cuffia o testiera
di stoffa cremisi lavorata di perle, due berrette con argento, perle
e diamanti, un _libriccino_ da messa miniato con fermagli d'argento e
un _Bambino_ Gesù in cera con la veste di damasco ricamata di perle.
Inoltre stoffe in pezza, rasi, damaschi, velluti, guanciali ricamati,
cinture, borse, anelli da cucire, agorai, pettini d'avorio, 4 paia di
guanti, un _cappello_ alla milanese con frangie, otto paia di calze,
tre specchi, un bacino e un mesciacqua a smalto d'argento, un ventaglio
ricamato o _rosta_, e molte altre cose che non si contano.


XII.

Tre anni appresso, nel giugno 1469, le nozze sfolgorate, da vero
principe, di Lorenzo dei Medici con Clarice Orsini, che riuscirono una
pubblica festa, un vero carnasciale. “_Tu felix, Florentia nube!_„

Non c'indugeremo a descriverle, sulla traccia dell'informazione che
ne dette Piero Parenti a Filippo di Matteo Strozzi, suo zio materno,
che allora stava in Napoli, ed è il fondatore del bel palazzo di
Firenze, monumento della grandezza di questa famiglia. Quei conviti,
quelle magnificenze ponevano in grave impaccio le gentildonne che vi
erano invitate e dovevan comparirvi, secondo la dignità della casata,
con robe e cotte di broccato di gran valuta. Mentre il “Babbo„ era
“a Napi„[75], come aveva imparato a balbettare il piccolo Alfonso,
figlio di Filippo Strozzi e della bella e buona Fiammetta di Donato
Adimari, la giudiziosa donna volle piuttosto far l'ammalata, e non
v'intervenne[76].

Anche noi vogliamo seguirne l'esempio, e piuttosto cercare ne'
documenti contemporanei alcun accenno alle intimità della vita
domestica, che fra tanto pubblico scialo, si facevan sempre più rare. E
ci sarà grato trovarlo nelle letterine che il figlio di quelli sposi,
Piero de' Medici, scriveva a suo padre, mentr'era in villa o altrove,
raccomandato alle cure del suo pedagogo Messer Agnolo Poliziano. Le ha
tratte dagli originali del nostro Archivio di Stato, il Del Lungo che
saprà a' loro luoghi ricollocarle nella _Vita_ dell'Ambrogini, antica
promessa ringiovanita con lui.

A Piero de' Medici molto si perdonerebbe in grazia di queste letterine,
vergate con mano incerta dai cinque anni in poi, e dei primi latinucci
che il maestro _non_ correggeva. Nel 1476, appena cinquenne, scriveva
di villa alla nonna Lucrezia Tornabuoni, con la petulanza d'un nipotino
guastato dalle carezze. “Rimandateci parecchi fichi, chè quegli
mi piacquono; dico di quelli brugiotti: et mandateci delle pesche
col nocciolo, et delle altre cose che voi sapete che ci piacciono,
zuccherini et berlingozzi ed altre coselline.„ Nel '78 avvertiva il
padre d'aver “apparato già molti versi di Virgilio, e so quasi tutto
il primo libro di Teodoro a mente, e parmi d'intenderlo„, cioè la
grammatica greca di Teodoro Gaza (il _Curtius_, d'allora). “El maestro
mi fa declinare et mi examina ogni dì.„

L'anno appresso scrive più franco: “Vorrei che Voi ci mandassi qualche
segugio de' migliori che vi sono. Non altro. La brigata, ognuno si
raccomanda a voi, massime io. Priegovi che vi guardate dalla moría,
e che voi vi ricordiate di noi, perchè noi siamo piccini e abbiamo
bisogno di voi.„ Un'altra volta, passato alcun tempo, cerca profittare
del latino imparato per chiedere cose maggiori: “Quel cavallino non
si vede. _Nondum venit equulus ille, magnifice pater_„ e già comincia
a far da sopracciò ai fratellini. “Giuliano pensa a ridere.... la
Lucrezia cuce, canta e legge; la Maddalena batte le capate pe' muri, ma
senza farsi male; la Luisa dice già parecchie cosine; la Contessina fa
un gran chiasso per tutta la casa.„ E appresso: “Io, che per dar più
tono alla mia scrittura, ho scritto sempre in latino, non ho ancora
ottenuto il cavallino che m'avete promesso; cosicchè tutti mi danno la
baia.„ Ma il _cavallino_ non veniva. “Al cavallino ho paura gli sia
incolto qualche malanno; perchè, se fosse sano, so che me l'avreste
già mandato, come m'avevate promesso.... Caso mai quello non possa
venire, vi piaccia mandarne un altro.„ Finalmente arrivò, e un'ultima
lettera, ch'è di ringraziamento e tutta piena di buone promesse, chiude
quest'infantile carteggio.

Ma il curioso bozzetto domestico di vita medicea, che ha per isfondo la
campagna e per scena una di quelle ville dove i Medici si riducevano
per dimenticare le noie della politica, anche ci ricorda un altro
aspetto della vita d'allora. Il desiderio della quiete campestre,
l'amore per la villa, il sentimento della natura è una spiccata
caratteristica degli uomini della Rinascenza. Già ne troviamo cenni
in Ser Lapo Mazzei che usava andare a Grignano a far le faccende della
ricolta e della vendemmia[77], accomodava da sè la vigna, e voleva in
casa un po' di buon aceto. Buonaccorso Pitti, come il Petrarca, gode
a noverare tutti gli alberi del suo giardino[78]; il Rucellai è più
superbo della sua villa di Quaracchi, di cui ci porge una descrizione
amorosa, che del suo palagio magnifico[79]; i trattatisti del _Governo
della famiglia_[80] cantano le lodi della vita rustica: il Poliziano ne
compone una prosetta da far voltare in latino a' discepoli[81], e nello
sfondo di un paesaggio fiorito disegna l'immagine della bella Simonetta
Cattaneo[82].


XIII.

Lorenzo de' Medici (mediocre marito), anche in mezzo alle grandezze
della sua condizione d'ottimate e quasi di principe, seppe conservare
una certa bonarietà tutta casalinga e fiorentina; nè gli dispiacque
incanagliarsi col volgo, all'osteria della Porta a San Gallo, e
celebrar le bellezze della _Nencia_ rusticana, e serbare nel fasto una
sobrietà cittadina.

Racconta il Borghini che Franceschetto Cibo, cui dava in isposa la
figliuola, fu da Lorenzo trattato con grande semplicità e parsimonia,
mentre i suoi compagni, cavalieri e baroni romani, ebbero sontuose
accoglienze. E a lui, impensierito per la figura che avrebbe fatta
con loro, rispose rassicurandolo: “Onorai que' signori come ospiti
e forestieri; te invece accolsi come uno di mia famiglia[83].„ A'
clienti dava udienza per istrada, o al canto del fuoco, o passeggiando
amichevolmente per le vie di Firenze[84]. Fiorentino nell'anima, non
gli dispiaceva d'essere e di mostrarsi faceto. Vedendo a Pisa uno
scolare guercio, disse che e' sarebbe il più valente di quello Studio.
E domandato perchè, rispose: “perchè e' leggerà a un tratto le due
facce del libro, e così potrà imparare a doppio„[85].

Ma sotto coteste semplici apparenze covavano i disegni del politico
astuto che, come scrive il Vettori, “non istudiò in altro se non
in ridurre gli uomini alle arti e ai piaceri„, e la protezione alle
arti e agli artisti volle strumento a futura dominazione. Col denaro
mediceo si alzavano palazzi e conventi, e dentro vi si raccoglievano
antichità e libri; ne' giardini si radunavano gli artisti; alle
cene accorrevano i poeti; si bandivano giostre e giuochi del calcio,
concorsi poetici e feste religiose: la clientela politica del palazzo
era resa più gagliarda da quella dei sommi artisti delle umili
botteghe. Il Savonarola che del tiranno aveva indovinato i segreti
pensieri, diceva: “occupa il popolo in spettacoli e feste, acciocchè
pensi a sè, non a lui„. Firenze a' suoi tempi vide nascere, o crescere
più rigogliose, molte forme di costume e molti generi di poesia; dai
trionfi e dalle mascherate per le vie ai simposj platonici di Careggi;
dal canto carnascialesco e dalle ballate a rigoletto, alle Sacre
Rappresentazioni. La gaiezza spensierata e il facile appagamento dei
desiderj, così negli ordini dello spirito come in quelli della materia,
servirono a compensare la diminuzione delle pubbliche libertà[86].

La città gaudente, che da un pezzo risonava di clamori festivi,
accolse lieta il gran carnevale mediceo, que' sontuosi apparati, quelle
processioni ordinate dalle confraternite de' vari quartieri e dirette
da artisti. La paganità rinascente invadeva le feste religiose e le
trasformava a' suoi fini. In carnevale si facevan carri e trionfi “per
parere (dice mestamente il Cambi) che la città fussi in festa e in
buono stato„. In Mercato Nuovo si danzava, nella Piazza de' Signori si
facevano combattimenti d'animali, e fra essi si sguinzagliarono i leoni
sperando ne seguissero terribili scene. Ma il leone fiorentino era
così mansuefatto, che “come fosse un agnel si stava cheto„[87]. In via
Larga, dinanzi al palazzo de' Medici, correvano a gara gli armeggiatori
e si celebrava il trionfo d'amore. Per la venuta di Franceschetto
Cibo, novamente maritato alla Maddalena di Lorenzo il Magnifico, si
fecero in tutte le botteghe “mostre di cose gentili e ricche e drappi,
e broccati, e gioie di perle e argenterie, che è stato cosa stupenda
e miranda bellezza„. Per San Giovanni, s'apparecchiò “una bella festa
di nugoli e di spiritelli e carri ed altri festivi edifici e ingegni
popolari da passar tempo, e con tutte l'altre cose festive, ordinarie
altre volte„. Si correvano palii di sfoggiata magnificenza, e la torre
del Palagio rosseggiava tra i fuochi delle scoppiettanti girandole.

Nel far cavalieri e ricevere oratori, l'eccelsa Signoria, usava
cerimonie solenni di cui troviamo ricordo nel libro di Francesco
Filarete, araldo della Repubblica[88].

Nel 1491, per la festa di San Giovanni, Lorenzo fece fare 15 edifizi
o trionfi, rappresentanti il trionfo di Paolo Emilio, reduce dalla
Macedonia, quando tornò con tanto tesoro che i Romani per molti e molti
anni non pagarono nessuna gravezza[89].


XIV.

Pareva rinnovarsi l'età dell'oro! Le giostre medicee, che aveano
inspirato le ottave del Poliziano, stimolavano anche gli altri
cittadini a largheggiare nelle spese più pazze. Benedetto Salutati,
nipote di Messer Coluccio, per quella del 1467, “nella sopravveste,
testiera ed altri paramenti di due cavalli _mise_ 170 libbre di
fino argento, che volle sottilmente lavorato per mano d'Antonio del
Pollajuolo. E ne' ricami dei detti paramenti, nella sopravveste sua e
nelle cioppette de' sergenti mise intorno a 30 libre di perle, la più
parte di maggior pregio„[90].

Firenze, abbellivasi di sontuosi palagi. Filippo Strozzi incominciava,
il 6 agosto '89, a fondare il suo, e Giuliano Gondi poco appresso ne
imitava l'esempio. Il popolo ne andava orgoglioso, e il buon Tribaldo
De Rossi, per memoria del fatto, si fece mandare dalla Nannina sua
donna, tutti rivestiti i suoi due figliuoli e menatili a vedere i
fondamenti del palazzo Strozzi “prese Guarnieri in collo e guatava
colaggiù, e dettili un quattrin gigliato, e gittollo laggiù, e un mazzo
di roselline di Damasco c'aveva in mano ve li feci gittar drento.
E dissi: Ricorderàitene tu? Disse, sì. Insieme con la Tita nostra
serva erano, e Guarnieri aveva appunto detto di anni 4, e avevali
fatto la Nannina una gabbanella di taffetà cangiante, verde e gialla,
nuova„[91].

I ragazzi, come i cittadini più grandi, dovevano esser colpiti dalle
sorprendenti meraviglie, a cui li avvezzavano le magnificenze medicee.
Ogni giorno cose nuove e singolari: feste, processioni, cortei
principeschi. E il De Rossi, semplice cronista, di quegli avvenimenti,
ci ha conservato il ricordo. Nel 1488, donata dal Soldano di Babilonia
a Lorenzo, venne in Firenze una giraffa alta sette braccia, ch'era
menata a mano da un di quei Turcimani. Grande curiosità in tutti,
perfin nelle monache; onde furon costretti a mandarla attorno pei
monasteri[92]. “Mangiava d'ogni cosa, nelle ceste d'ogni forese metteva
il capo; a un fanciullo arebbe tolto una mela di mano, tanto era
piacevole. Morì a' dì 2 di gennaio 1489„ e tutti la piansero, “perchè
era sì bello animale„.


Ma, d'un tratto, tutta questa serena giocondità di vita, tutto questo
abbagliante splendore d'arte, di poesia, di spensierata gaiezza,
si spegne sinistramente. La tempesta rumoreggia lontano, la collera
celeste, profetizzata dal fiero domenicano che nel convento di San
Marco, fra lo strepito del carnevale, medita solitario, minaccia i
rinnovellati trionfi del paganesimo. L'8 di aprile 1492, come di una
pubblica calamità, giunse la nuova della morte di Lorenzo de' Medici.
“Lo splendore di tutta Italia, non che di Toscana,„ come scriveva
il Dei, era scomparso. La sera appresso, la compagnia de' Mazzi
riponeva il corpo nella sagrestia di San Lorenzo, e l'altro dì si fece
l'onoranza, “non con molta pompa, come i loro antichi son consueti, ma
onestamente e senza drappelloni, con tre regole di frati e una di preti
solo; che in vero, non si poteva tanta pompa fare, che maggiore non
fosse stata poca a un tanto uomo„[93].

Con così lugubri esequie, nel gelo de' sepolcri laurenziani si
chiudevano, con le spoglie del Magnifico, i ricordi di tutta una
età che apparve radiante di gloria e di giovinezza. Il mondo della
Rinascenza scompariva, e poco dopo, scrive Tribaldo De Rossi, “venne
una lettera alla Signoria che certi giovani, iti con caravelle,
arrivarono a cert'isole grandissime, che mai più vi si navigò per
nazione umana, popolate d'uomini e donne assai, tutti ignudi„.

Un nuovo mondo era stato scoperto!


  _Signore e Signori._

Rotta la terza cerchia delle sue mura, Firenze, fatta italiana, piantò,
sotto la folgorata torre di San Miniato, come un segnacolo di libertà
il David di Michelangiolo, glorioso mutilato nei tumulti del 527,
testimone immortale delle miserie antiche e delle future grandezze.
Dalla cima del colle e' guarda Firenze nuova, Firenze aperta da
ogni lato, senz'altra difesa di mura, di bastioni o di torri; perchè
Firenze, cuore d'Italia, si difende oggi dalle Alpi e dal mare.

La patria, un tempo ristretta nel Comune, nel piccolo Stato, ha
abbattuto le vecchie mura e i vecchi confini, e si distende per ogni
plaga dove suoni la lingua di Dante. Così la ragione de' popoli e la
civiltà, si sono affermate nel diritto e nella carità umana.

Tornare indietro nè si può nè si vuole: la semplice vita de' nostri
antichi, con la gioconda serenità che le fu propria, più non ci
alletta. Il pensiero moderno, che ci travaglia e tortura coi dubbi
tormentosi, con le aspirazioni insoddisfatte, lo redammo da tante
sublimi e nobili intelligenze: è una conquista superba cui non possiamo
rinunziare.

In esso è la forza che muove la scienza e che solleva i cuori e gli
spiriti verso un ideale più alto, l'ideale del perfezionamento umano:
il nuovo sole che irradia le vette eccelse della carità e dell'amore.

  Firenze, 17 aprile 1892.



LA DONNA FIORENTINA

nel Rinascimento e negli ultimi tempi della libertà

DI

ISIDORO DEL LUNGO.


I.

Pel San Giovanni del 1473, al consueto festeggiar cittadino si
aggiungeva la solennità del ricevimento fatto, come la Repubblica
artigiana soleva e i Medici favorivano, con principesca magnificenza
a Eleonora d'Aragona figliuola del Re di Napoli, la quale andava
sposa ad Ercole d'Este, duca di Ferrara e di Modena. Entrata in
Firenze il 22 giugno, ella trovava nel suo massimo sfoggio la mostra
che delle proprie ricchezze avevano apparecchiata le botteghe dei
mercatanti; assistè alla processione delle Compagnie co' fanciulli
vestiti di bianco in forma di “agnoletti„; vide i “dificii„ o macchine
fantasmagoriche, che in sulla Piazza della Signoria rappresentavano
Storie dell'Antico Testamento e del Nuovo; vide l'offerta che al
tempio del Santo Patrono portavano la Signoria e gli altri magistrati
del Comune e delle Arti, le Compagnie del Popolo coi gonfaloni,
parte Guelfa, e poi i Signori e Comuni sottoposti o raccomandati,
recanti palii, ossia drappi, di gran pregio e bellezza e grandi ceri
istoriati e fioriti; e con l'olivo in mano l'offerta de' prigioni e
de' condannati (quella a cui Dante non si sottomesse); e finalmente,
nel pomeriggio del dì 24, i barberi, già prima offerti ancor essi, che
correvano il palio di San Giovanni, un palio ricchissimo di broccato
d'oro, dal Prato su per la Vigna pel Mercato e pel Corso verso Porta
alla Croce, tal quale noi che non siam più giovani possiamo ricordarci
d'aver veduto. Ma nessun di noi potrebbe da' ricordi suoi giovanili
evocare ciò che nel 1473 fu dato a godere, in quelle feste, a madonna
Eleonora: un ballo, là su que' prati donde i barberi pigliavan le
mosse, un ballo alla dolce aria profumata de' giardini e delle loggie,
in uno de' palagi, quello de' Lenzi, dov'è oggi la Galleria Pisani, che
fronteggiavano coteste estreme parti della città verdeggianti lungo
le rive dell'Arno. Tacciono di quel ballo i diarii: sulle cui aride
pagine, a ogni modo, voi cerchereste inutilmente, signore gentili,
descriversi dal giornalista di quattro secoli fa gli abbigliamenti
delle vostre antenate; e sotto quali colori d'abito e con qual dottrina
di linee, presentassero esse al desiderio de' loro innamorati quelle
bellezze, che all'ammirazione nostra sopravvivono nelle tavole del
Botticelli e negli affreschi del Ghirlandaio. Un ballo fiorentino
de' tempi del Rinascimento; non dominato e quasi sopraffatto dallo
scintillio de' doppieri, ma lumeggiato soavemente dal sole che
di là dal Pignone tramonta; nè turbinato fra le vorticose battute
orchestrali, ma sposato sulle corde flebilmente amorose del liuto
e della viuola alle gentili baldanze ottonarie della Canzonetta che
appunto dal Ballo s'intitola; meritava cronista un poeta. Permettetemi
ch'io vi traduca dal latino di Angelo Poliziano quel Corriere del mondo
elegante d'allora: distici levigatissimi, dove le realtà della vita
s'intrecciano con le concezioni dell'arte, il vero col fantastico, il
fiorentino, il cristiano, con la classica paganità; circola l'aria che
respiravano i letterati nella Firenze del magnifico Lorenzo.

“Apollo con la rosea faccia ha menato il giorno che riconduce la
festa del selvaggio Batista san Giovanni; quando alla città che fu
colonia di Silla ferma le candide vestigia, per riposarsi dal lungo
cammino, la figlia del Re, che, lasciata la città delle Sirene, va
sposa ad Ercole. Festeggiano a gara il suo arrivo fanciulli, giovani
e vecchi, e le matrone e splendide di fresca bellezza le spose: tutta
la città si anima, d'ogni dove rumoreggia l'allegria. V'è una strada
che i Sillani (i Fiorentini, parafrasati in latino) chiamano Pantagia
(Borgognissanti, ribattezzato in greco), dove sorge splendido un tempio
dedicato a tutti i Celesti. Colà s'inalza superbo il palagio de' Lenzi:
ivi presso ride la verde distesa de' prati, e de' colori primaverili
si dipinge fiorito il terreno. Quivi, mentre i corsieri scalpitanti
aspettano, in sulle mosse, il canoro segnale della tromba Tirrena, la
regal fanciulla si abbandona ai sollazzi delicati della danza; ed ecco
atteggiarsi le gentili donne al tempo misurato e all'intreccio de'
balli. Innanzi alle altre ninfe risplende Albiera bellissima, e di sua
bellezza sparge a sè dintorno il tremulo splendore. Mossi dal vento
diffondonsi i capelli sulle candide spalle, i neri occhi raggiano di
luce soave: pare, fra le sue compagne, la stella del mattino il cui
rossore purpureo vince gli astri minori. Giovani e vecchi ammirano
Albiera: sarebbe di ferro chi non si commovesse a quella verginale
bellezza: lietamente, plaudendo, col cenno, con gli sguardi, con la
voce, tutti lodano Albiera.„

Albiera di Maso degli Albizzi era una giovinetta fra i quindici e i
sedici anni, fidanzata a Gismondo della Stufa. S'ammalò, subito dopo
quel ballo, e in capo a pochi giorni morì. “Ahi povera Albiera!„
sentite ancora il suo poeta: “così giovinetta, rubata ai genitori, allo
sposo! Va' ora, e confida nelle umane fortune! Ecco disfatte da morte
crudele, o Albiera, le tue bellezze: disfatto il tuo viso di gigli e
rose; i tuoi occhi gioiali, dove Amore accendeva le sue fiaccole; i
capelli, che o scioglievi abbondanti, e parevi Diana cacciatrice, o
raccoglievi in diadema d'oro, ed era l'acconciatura di Citerea: gli
Amorini, le carezzevoli Grazie, ti facevano bella, senza che tu il
sapessi: ogni virtù ti adornava, modestia e serietà di contegno, senno,
pudore, lealtà, gioialità, bel costume, bel tratto, schiettezza: tutto
ormai divenuto un pugno di cenere!„

In altre parti della elegia lunghissima è mitologizzata la malattia
e la morte d'Albiera. La sua bellezza ha attirato il bieco sguardo
di Nemesi, la dea che con misteriosi decreti governa le umane
vicende. Ritirasi la giovinetta alle sue case, finito il ballo, in
sull'annottare; nell'ora, o Signore, nella quale a voi, pe' balli
vostri, cominciano appena le operazioni della toeletta. E coricata
ch'ella è, si appressa al suo letto la Febbre, nume orribile, del
quale e del suo corteggio vi risparmio la descrizione, e che Nemesi ha
sospinto verso quella povera casa. I genitori, i fratelli, lo sposo,
pendono per dieci giorni ansiosi dal viso dell'inferma, pallido e
trasfigurito. Ella dà gli estremi addii a que' suoi cari e alla vita,
che, incominciatale appena, sente sfuggirle; e muore fra il pianto
disperato della sua casa. Il lutto e la pietà de' cittadini circondano
il corpo inanimato. La morte ha ricomposto il suo volto a pace soave:
pare che dorma. La ninfa, vittima della dea Nemesi e della dea Febbre,
ha esequie cristiane; e il distico ovidiano di messer Angelo colorisce
anche quelle. Ecco il trasporto; ecco con la nera coltre la bara: ella
distesavi su, coi capelli recisi, e in capo una umile ghirlanda. Le
salmeggiano intorno i preti; le campane suonano a morto: segue, in
veste di lutto, la cittadinanza; fra quella, lo sposo, che tutti si
mostrano a dito, compassionando. La chiesa di San Pier Maggiore arde di
ceri, è profumata d'incensi: si fa l'assoluzione e la benedizione: e le
tombe degli Albizzi, in quella stessa chiesa, si aprono a ricevere la
giovine fidanzata; forse, come si soleva, in abito di monacella: il che
non dice il Poeta; ma que' capelli tagliati ce ne danno, a mio avviso,
argomento più che probabile. La musa latina dell'umanismo fiorentino
consacrò, non con la sola elegia e con altri minori epicedii del
Poliziano, il nome d'Albiera: elegiaci e ricordanze su quella morte e
quei funerali abbondano, in copia anche maggiore che pei funerali della
bella Simonetta, morta soli due anni dopo la fanciulla degli Albizzi.

Ma alla Simonetta Cattaneo, genovese, venuta nel 69 sedicenne sposa in
Firenze a Marco Vespucci pur sedicenne, e mancata di mal sottile nel
76, l'arte dette anche in altre forme gli onori dell'apoteosi. E mentre
delle fattezze verginali di Albiera non ci è rimasta testimonianza
(salvo se qualche benemerito investigatore riuscisse a trovare il
busto marmoreo nel quale sappiamo dal Poliziano averla fatta rivivere
lo sposo), per la Simonetta, invece, si è impacciati a scegliere fra
più d'uno il ritratto vero: o vuoi quello che è nella Galleria de'
Pitti, attribuito al Botticelli, di una bionda delicata, dal collo
assai lungo, dal viso intento e gentilmente pensoso, in acconciatura
modesta e casalinga, da riferirsi piuttosto a un mezzo secolo innanzi;
o vuoi l'altro, sotto il quale è stato apposto il nome di lei, e che
si conserva a Parigi nella galleria del Duca d'Aumale, creduto del
Pollaiuolo o di Piero di Cosimo, ed è essa pure una figurina delicata e
gentile, ma di gaia e vivace bellezza, nudi il collo (anche di questa
assai lungo) e il seno e le spalle, i capelli tirati all'indietro
o avvolti in giri artificiosi con grande intrecciamento di perle e
pietre, e pendente sul petto un monile intorno al quale si rigira un
aspide; o che dobbiamo infine ravvisarla, come altri propone,[94]
in una delle figure allegoriche di quella misteriosa Primavera del
Botticelli, guidati da certi singolari riscontri che la composizione
del fantasioso maestro offre con le _Stanze_ del Poliziano, dove
è ritratta e designata per nome (pur nell'atto di trasfigurarla
in Ninfa delle più autentiche), e poeteggiata, con buona pace del
marito Vespucci, come innamoratrice di Giuliano de' Medici, appunto
la Simonetta Cattaneo. Or qualunque ella si fosse la giovane sposa,
certamente bellissima, che nell'aprile del 76 moriva, basti a noi, pur
lasciando d'altri suoi celebratori in latino e questa volta anche in
volgare, che il Poliziano facesse di lei la mitologica eroina delle
sue _Stanze_; che per la morte sua scrivesse pure epigrammi funebri,
d'alcuno de' quali il magnifico Giuliano de' Medici, il bel “Iulio„
delle _Stanze_, proponeva il concetto; e che Lorenzo, a sua volta (il
che mostra del tutto ideale e poetico il culto dei due fratelli alle
bellezze della Vespucci), tragga, o finga d'aver tratto, dalla morte
di lei il motivo a platonizzare poeticamente sull'anima ritornata
alle stelle. Lorenzo era a Pisa, e dai Vespucci medesimi riceveva di
giorno in giorno le dolorose notizie. Morta, un suo famigliare gli
scriveva: “La benedetta anima della Simonetta se ne andò a paradiso,
come avrete inteso. Puossi ben dire, che sia stato il secondo Trionfo
della Morte: chè veramente, avendola voi vista così morta come la
era, non vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fosse in vita.
_Requiescat in pace_„; e Lorenzo, essendo (così ci racconta) una serena
nottata primaverile, e andando con un amico a diporto, e parlando di
quella morta, si affisa a un tratto in una stella che mai non gli par
d'avere veduta così lucente, e “L'anima di quella gentilissima„ esclama
“o è trasformata in questa nuova stella, o si è congiunta con essa„;
e un'altra volta, pure in cotesta primavera, passeggiando per una
delle sue splendide ville, osserva il girasole, anzi Clizia, l'antica
innamorata del sole, “la sera restar col viso vòlto verso l'orizzonte
occidentale, che è quello che le ha tolto la visione del sole, insino
che la mattina il sole la rivolge all'oriente„; e ci vede una immagine
del nostro destino quando perdiamo chi si ama, che è di rimanere “col
pensiere vòlto all'ultima impressione„ della “visione„ perduta; ma
l'orizzonte nostro occidentale, donde il tramonto non ha ritorno, è la
morte.

È, del resto, notabile come in que' tempi che tante erano, e così
vigorosamente svolte, e così spesso violente, le energie della
vita, la morte circondasse di tanta poesia, sebbene caricata di
tanta oziosa mitologia, agli occhi e al cuore di cotesti uomini
la idealità femminile: notabile come quei travestimenti di donne
viventi in ninfe posticcie, pe' quali l'imitazione artistica del vero
perdeva miseramente tanto tesoro di realtà, si arrestassero, cotesti
travestimenti, o s'impacciassero dinanzi alla santità delle tombe;
quando, secondo la figurazione Polizianesca (nelle _Stanze_) della
morte della Simonetta, l'amante, o il poeta,

    Vedea sua ninfa, in trista nube avvolta,
    Dagli occhi crudelmente essergli tolta.

In uno degli epigrammi funebri di messer Angelo per la Simonetta,
e proprio in quello a cui dette il concetto Giuliano de' Medici,
“tranquilla in sul punto di morte, si volge, la ninfa, a Dio, in lui
confidando„; curiosa ninfa, a dir vero, che si raccomanda l'anima:
come singolar mortorio, altresì, quello che portava verso la chiesa
d'Ognissanti, alla cappella de' Vespucci, la Simonetta, se intanto,
strada facendo, Amore, proprio il figliuolo di Venere piovuto non si sa
come in quell'accompagnamento, saettava tuttavia, standocene a un altro
di cotesti epigrammi, saettava da' chiusi occhi di lei pur col ricordo
del loro splendore.

Meglio ispirato il poeta mediceo faceva da un'altra tomba di sposa
ventenne (cominciammo da un ballo, o Signore, e ci siam persi fra le
tombe; ma il geniale argomento, ancorachè caduto, come vedete nelle
mani d'un conversamorti, ci ricondurrà, vi prometto, alle gioie e ai
travagli della vita), da un'altra tomba di giovine sposa, minor sorella
dell'Albiera, e ancor essa bellissima, Giovanna degli Albizzi moglie
a Lorenzo Tornabuoni, morta nel dare alla luce il secondo figliuolo,
faceva il Poliziano uscire la voce di lei, così: “Gentilezza di
sangue, bellezza, un figliuolo, ricchezze, amor coniugale, ingegno,
costume, animo, mi facevan felice: felicità, che la Parca, perfida,
a viepiù inacerbirmi la morte, mi addimostrò piuttosto che darmi.„ Ma
buona e pietosa forse possiamo noi oggi dire la Parca; che risparmiò
a Giovanna di vedere soli nov'anni appresso, nel 97, ne' tempi del
terrore Piagnone, decapitato a ventinove anni il suo Lorenzo come
cospiratore mediceo: memorie d'infinita pietà a chi guardi, sulle
medaglie coniate in onore di lei, le sue forme gentili, e ne' rovesci
simboleggiate le sue virtù, o con le tre Grazie, sottovi scritto
Castità, Amore, Bellezza, o con la figura virgiliana della ninfa
cacciatrice; a chi nella cappella che fu de' Tornabuoni, in Santa
Maria Novella, la riconosce, nei meravigliosi affreschi di Domenico
Ghirlandaio, in quella bionda giovanissima gentildonna, che riccamente
vestita di broccato d'oro campeggia nella storia della Visitazione; a
chi potesse pur di Giovanna rivedere un altro ritratto, della stessa
mano del Ghirlandaio, che col nome della madonna Laura petrarchesca da
un palagio fiorentino trasmigrò ad altri lidi; o a chi rimpianga certi
preziosi affreschi, che in una villa suburbana del pian di Mugnone
tornarono, pochi anni or sono, alla luce, solamente per essere divelti
e travalicati e (sento dire) sciupati oltr'Alpe.

Quanta gentilezza del Rinascimento fiorentino dovette accogliersi
fra le pareti di quella villa, che nei Tornabuoni rimase dal 1469
al 1541, e fu dunque villa di Giovanni Tornabuoni, quando questi e
in Firenze e in Roma, quasi ambedue egualmente medicee, era forse
il principale agente della fortuna sì mercantile e sì politica della
poderosa famiglia; quando ei faceva nel 1490 scoprire quella magnifica
sua cappella, e ci faceva scrivere dal Poliziano la data, “anno 1490,
nel quale la città bellissima, nobile per ricchezze, vittorie, arti,
edificii, godeva di abbondanza, di salute, di pace„; quando nel giugno
dell'86 le nozze del suo Lorenzo con la bella Giovanna erano festa non
pur domestica ma cittadina. Veniva la sposa a Santa Maria del Fiore,
in mezzo a un cortèo di cento fanciulle delle maggiori famiglie, e di
quindici giovinetti vestiti d'un'assisa: assistevano al darsi l'anello
cavalieri così cittadini come di fuori, e un ambasciatore di Spagna
al Pontefice. Un Guicciardini e un Castellani accompagnavano la sposa
alle case de' Tornabuoni, presso alle quali la piazza di San Michele
Berteldi (oggi piazza San Gaetano) era “messa a palco„ per uso di
festeggiamento e di ballo: e di là tornati gli sposi alle case degli
Albizzi, s'imbandiva suntuosamente la cena, essendo messo il terreno
del palagio egualmente a palco pel ballo, che a lume di doppieri si
alternava, durante l'intera notte, co' virili giuochi d'una sfarzosa
armeggeria. Più riposate dolcezze offriva ai giovani sposi la villa.
Qui viene ad essi il Poliziano, tenerissimo del giovane Lorenzo fin
quasi a ieri suo valente discepolo; il Poliziano che con affetto quasi
paterno si compiace d'ogni suo trionfo, così nelle lettere classiche,
specialmente greche (delle quali spera che toccherà presto la cima);
come nel poetar volgare, magari anche all'improvviso; come nelle
giostre della piazza di Santa Croce: viene l'umanista dottissimo a
intertenersi de' cari studi, a leggere que' suoi stupendi poemetti
latini le Selve, una delle quali l'_Ambra_, d'argomento omerico insieme
e mediceo, è dovuta a te (scrive dedicandogliela) per l'un titolo e
l'altro: viene a esaminare e interpretare le antiche medaglie, della
cui raccolta in casa Medici il numismatico erudito e diligente è
appunto Lorenzo Tornabuoni: al quale, e al maestro suo, chi dubiterebbe
(certi di ciò) d'attribuire, con altre, le medaglie fatte eseguire
in onore della sposa diletta? Ma il vecchio Tornabuoni, che guarda
con occhio d'immenso affetto que' giovani capi, ahimè destinati sì
da presso alla morte, non pago che il Ghirlandaio li ritragga nelle
mirabili storie della cappella, in un'altra di quelle meraviglie
dell'arte li vuole, sulle mura di quella stessa sua villa, consacrati
alla ricordanza de' secoli. “Dipignetemi, o maestro, questa sala a
buon fresco; e il Poliziano nostro, qui, darà, come suole, il concetto
d'alcuna di quelle esquisite allegorie nelle quali sì fieramente vi
compiacete.„ E il Botticelli, in due storie sulla medesima parete della
sala, come sulla medesima parete della cappella in due separate storie
il Ghirlandaio, ritraeva i giovani sposi.

Nell'una, il cui fondo è una selva assai folta, che ricorda quello
dell'altra allegoria di Sandro polizianesca, la Primavera, Lorenzo
Tornabuoni, vestito dell'abito civile fiorentino, con la folta e
morbida capigliatura distesa, si avanza, condotto per mano da una donna
di modesto e gentil portamento, verso un circolo di altre sette donne,
acconciate (come anche l'introduttrice) fantasticamente, e che pe'
vari emblemi di che ciascuna d'esse è fornita simboleggiano certamente
le sette Arti liberali; delle quali quella che alle altre sovrasta e
par che presegga, fa a lui cenno di accoglienza amorevole. Nell'altra
storia, Giovanna, cara figura delle più vivamente lumeggiate di verità
bella che siano uscite da pennello di quattrocentista, con un viso
che dice davvero quelle virtù che leggemmo scritte sul suo sepolcro,
atteggiata a semplicità affabile e graziosa, porge con ambe le mani e
le braccia protese un pannolino spiegato, nel quale quattro gentili
giovinette, che si avvicinano a lei sono per deporre fiori. E anche
questa volta, vestita del costume fiorentino del tempo la persona della
sposa; ma a fantasia le quattro che probabilmente son figurate per
virtù proprie di lei.


II.

In tali imagini il sentimento e l'arte, che da questo s'informa,
effigiavano, mentre infieriva l'umanismo mediceo, la donna. Alla
quale, nelle realtà della vita e dell'esser suo, sola, io credo, di
tali omaggi era accessibile e gustata e compresa quella parte che
prendeva consistenza in figure consacrate dalla religione, sotto le
vôlte maestose delle chiese d'Arnolfo e di Brunellesco, piovente la
luce misteriosa, per le grandi bifore da' vetri colorati in istorie,
sugli affreschi e le tavole di Masaccio di Benozzo, de' Lippi e de'
Ghirlandai, d'Alessio Baldovinetti e di Piero di Cosimo, sui marmi e
sui bronzi di Mino, di Donatello, del Ghiberti, del Verrocchio, del
Pollaiuolo. Da quelle figure genuflesse alla preghiera, o nel sonno
della morte distese, o atteggiate vive all'azione delle leggende
evangeliche, sollevavansi le pie e gagliarde anime femminili a ciò che
nel tempo è di qua e di là dal momento che si vive; congiungevansi i
ricordi, gli affetti, le glorie umane della famiglia, con le speranze
immortali. E questa poesia, sentita nel cuore, sapeva anche trovar
forma nella parola, la forma paesana e casalinga della Lauda e della
sacra Rappresentazione, per opera di Antonia Pulci e di Lucrezia
Tornabuoni ne' Medici. L'Antonia nata dei Tanini, moglie e cognata di
poeti, in famiglia che tutti erano cosa de' Medici, potè con madonna
Lucrezia madre del magnifico Lorenzo conferire le sue ascetiche
ispirazioni nell'atto di fermarle in quello stampo fra drammatico ed
epico, pel quale la Rappresentazione ha corrisposto con tanta pienezza
all'istinto plastico della fantasia popolare; e madonna Lucrezia, fra
un canto e l'altro che Luigi Pulci le recitasse del suo _Morgante_,
e altresì fra l'una e l'altra delle provvide cure per le quali casa
Medici le dovè tanto, scriveva senza pretensione di letterata le
religiose canzonette pe' Laudesi, o riduceva in ottave o in ternari le
istorie bibliche, delle quali poi facevan delizia negli ozi fiesolani
e di Careggi i suoi nipotini.

Gentili donne non letterate, nello stretto senso, professionale e
(con vostra buona grazia, e senza che troppo debba rincrescervene) non
femminile, della parola; le quali serbando nette d'erudizione le mani
delicate, coglievano dall'arte il fior dell'affetto, e pur conversando
coi dotti umanisti e coi barbassori che la caduta di Costantinopoli
aveva addotto fra noi, si stavano col popolo nel vestire delle forme,
che egli intende e crea, il pensiero e l'affetto; dalla realtà, quale
il popolo per linea diritta la vede, cavar fuori e animare il fantasma.
Le giovinette istruite nel latino e nel greco, non difficile trovarle
nelle case principesche di Lombardia e di Romagna: era una, fra le
altre, delle splendidezze cortigiane di quelle regioni. Ma i grandi
cittadini della nostra Firenze, anche della oligarchia più elevata,
e molto più i Medici che a combattere quell'oligarchia, e sulle
ambizioni di lei insediare la propria, usavano artifizi democratici,
rimasero (dico gli Albizzi, i Ricci, gli Strozzi, i Rucellai, ed essi i
Medici), anche attraverso agli splendori dell'umanismo, principalmente
e visibilmente mercanti: e la donna, nelle loro case, fu sempre e
soprattutto la donna di grandi mercanti, donna massaia, avvisata, e più
che della libreria e del medagliere curatrice dell'azienda domestica,
o, se volete anco, della credenza, del celliere (com'allora dicevasi),
della colombaia, del pollaio.

Una letterata, anzi letteratissima (che però non ha lasciato libri),
ebbe Firenze in quel secolo, ma non da alcune delle grandi famiglie,
sibbene nella figliuola d'un Cancelliere della Repubblica, venuto,
come tanti altri, dal contado alla città, e qui arricchitosi e fatta
fortuna. Ella fu la bella Alessandra di messer Bartolommeo Scala:
alla quale due di quei barbassori greci, il Lascari e il Calcondila,
furon maestri; un altro, venuto in Italia umanista e soldato, Michele
Tarcaniota Marullo, fu suo marito; e spasimato di lei il Poliziano
(nonostante tutti i canonicati e priorati e pievanie di cui poco
degnamente lo rincalzavano i Medici; e nonostante, altresì, il suo
collo torto e l'occhio losco, e il naso sformato e gli anni ormai
quasi quaranta), spasimato di lei, e per cagion di lei nemico feroce
e con terribili giambi laceratore del marito e del padre. Non vi
meraviglierete che una passione amorosa fra persone di questo calibro
si sfoghi in greco. Si rappresenta nientemeno che una tragedia
di Sofocle, l'_Elettra_: protagonista, Alessandra Scala; cronista
teatrale, con tutti addosso gli entusiasmi d'una passione, ahimè, non
corrisposta, il povero Poliziano in sei distici di squisita fattura,
che vi traduco liberamente: “Una mirabile Elettra, la giovinetta
Alessandra: mirabile nel pronunziare, essa italiana, la lingua d'Atene,
nella intonazione vera della voce, nel curare l'artificio della scena,
nel ritrarre fedelmente il carattere, regolare lo sguardo, il gesto,
il movimento; nel conservare al linguaggio della passione il decoro,
nel suscitare col volto in lacrime la pietà degli spettatori. Tutti
ne fummo percossi; ma oh che invidia sentii io nel cuore, quand'ella,
stringendo al seno Oreste, gli dice: — T'ho io fra le braccia? — ed
egli: — Oh così tu m'abbia sempre!„ Un passo ancora, ossia un altro
epigramma greco, e il critico drammatico, l'ammiratore entusiasta,
si scuopre amante. “Ho trovata, ho trovata, quella che volevo, che
sempre cercavo; l'amor mio sospirato, quella che vedevo ne' sogni:
una fanciulla d'integra bellezza, di adornezza non accattata ma
naturale; una fanciulla, culta di greco e di latino, eccellente nella
danza, eccellente nella musica; de' cui pregi, velati dalla modestia,
contendono a gara le Grazie. L'ho trovata; ma a che pro, se appena
una volta l'anno posso io, che di lei ardo, vederla?„ Ma l'Alessandra
era in grado, non solamente di ricevere omaggi in greco, sì anco in
greco rispondere, e risponder a così: “Nulla di più bello, che la
lode d'un valentuomo; ed oh qual gloria a me dalla lode tua! Quanto
ai tuoi sogni, bada, interpretali bene: tu non puoi aver trovato
in me quanto dici. È sentenza del divino Omero: — Avvicina un Dio i
consimili. — Or troppa è fra te e me la dissomiglianza. Imperocchè
tu sei come il Danubio, che da occidente a mezzodì, e poi di nuovo
verse oriente, diffonde largo corso di acque. Glorioso filologo,
tu discacci le tenebre dai monumenti di più lingue: greca, romana,
ebraica, etrusca. Ercole dell'erudizione sei a gara chiamato, per le
tue fatiche intorno a testi di astronomia, di fisica, di aritmetica,
di poesia, di leggi, di medicina. I miei scritti di fanciulla son
cosette leggiere, come i fiori e la rugiada. Io accanto a te, perchè
so un poco di lettere! Ma sarebbe com'a dire, secondo il proverbio,
la zanzara accanto all'elefante, perchè han la proboscide tutt'e due;
la gatta accanto a Minerva, per via degli occhi cerulei.„ Che ve
ne pare? Fu mai con maggior dottrina, o con più squisita crudeltà,
rimesso al suo posto un adoratore stagionato? Non credete voi che
messer Angelo abbia questa volta dovuto imprecare alle similitudini,
alle perifrasi, alle antonomasie, e a tutto il resto dell'arsenale
retorico? mandare al diavolo i proverbi greci, e magari anche
le sentenze del divino Omero? Persiste tuttavia, come pur troppo
avviene, le più volte in simili casi; e persiste, il che è assai meno
frequente, in greco: “Tu mi mandi, o Sandra, le pallide violammamole:
e io nell'amore di te impallidisco e mi struggo. Fiori e foglie,
imagine gentile della tua primavera; ma il dolce frutto io vorrei.„
Al che Alessandra non risponde; anzi: “Nè vederti, o Alessandra, mi
è permesso più, nè ascoltarti: ma almeno, due versi di risposta.„ E
finalmente (del buon gusto poi di questa pensata lascio a Voi, Signore
e Signorine, il giudizio): “O giovinetta, gradisci per la tua chioma
questo pettine d'osso; così potessi io avere i capelli del tuo bel
capo.„ I capelli d'Alessandra Scala come già quelli dell'Albiera sul
feretro che la portava in San Pier Maggiore, furono (questa credo non
ve l'aspettereste) recisi più tardi sulle soglie di quello stesso
convento, dove, rimasta vedova del suo greco, ella si fece monaca
benedettina, e vi morì giovanissima nel 1506.


III.

Se non che l'arte, la poesia, non sono esse la poesia della vita:
possono, della vita, adombrare con le loro imagini, e idealizzare,
la realtà; ma quelle imagini dalla realtà si distaccano, hanno
propria esistenza, alla quale la realtà rimane estranea od anco può
contraddire. Beatrice è donna; addiviene angelo, simbolo, ente: Laura
è moglie e madre; la poesia la restituisce, libera, alle idealità
dell'amore. Le idealità del Trecento, paesane e cristiane, e umane
almen tanta parte quanta è umano lo spirito, il Rinascimento le aveva,
sin dove potè, sopraffatte con l'umanesimo della materia, con la
sua mitologia, co' suoi ninfali, co' suoi baccanali, incominciando
a svolgere dal dischiuso gomitolo dell'antichità classica quel filo
che, sottile ma tenace, si continuò poi per tutta la poesia italiana
non pure sino alle _Grazie_ d'Ugo Foscolo, che al rito delle sue Dee
consacrava sacerdotessa anche una gentildonna fiorentina, ma sino
sull'_Urania_ del Manzoni che precede gl'_Inni sacri_ e i _Promessi
Sposi_. Nella poesia del Quattrocento, dal Boccaccio al Poliziano e a
Lorenzo, le ninfe Simonetta e Ambra non sono che due figure spiccate
dall'idillio fiesolano, nel quale messer Giovanni ha classicizzato
e paganeggiato, con gli amori d'Affrico e di Mensola, le origini di
Firenze. Da Poggio a Caiano per Careggi e Montughi fino a Settignano
e Maiano, lungo tutto questo nostro sub-appennino gentile, le Driadi
e le Amadriadi, le Naiadi e le Napee, con tutta quanta la fauna del
loro corteo mascolino, danzano allegramente alla luce misteriosa dei
plenilunii, che pur si diffonde sulla Badia medicea di Brunellesco, e
da' finestroni della vecchia cattedrale di Fiesole investe le animate
sculture di Mino, lumeggia della cristiana aureola la Vergine e i Santi
di frate Giovanni Angelico. Muore in una sua villa, forse a Quarto,
una giovine gentildonna, che a prezzo della propria salva la vita
al suo bimbo pericolante nel crollare d'una tettoia del contadino.
E la cronaca cittadina, compilata sulla cetra dei latinisti, esalta
questa devozione di madre alla sua creatura, sapete come? con inveire
contro gli Dei Lari che non hanno sorretta quella tettoia, contro le
divinità campestri le quali hanno attratta in villa la bella Alba
(un'altra Albiera), che Venere avrebbe dovuto proteggere: e tutto
questo, pur descrivendo, e non senza efficacia, lo strazio del marito,
che, lontano da Firenze, torna quando la sua povera moglie è ormai
sotterra, e vuole a forza alzare la pietra di quella sepoltura, e che
le care contraffatte sembianze siano restituite una suprema volta al
suo disperato dolore. La famosa brigata delle gentili donne fiorentine,
che fuggendo i dolori e i pericoli della pestilenza del 1348 è dal gran
novelliere immaginata ritrarsi in una di quelle vallette, ci perde
i nomi con che sono state battezzate in San Giovanni, per divenire
Pampinee o Neifili, e le loro fantesche Misia Licisca Stratilia,
e Sisisco il cuoco, e Panfilo Filostrato Dioneo la fauna de' loro
amatori: con tanta verità, quanta ne è in cotesto calunniare la donna,
sia di quello sia di qualunque altro secolo, apponendole che dove si
soffre e si muore ella se ne vada in campagna, invece di rimanere ferma
e fedele al suo posto. Tanta verità in ciò (Voi non mel concedereste se
lo affermassi, o donne gentili), quanta nella bizzarria germogliata,
non si sa come, in testa al buon Franco Sacchetti, d'una _Battaglia
delle belle donne di Firenze con le vecchie_, le giovani schierate
sotto il gonfalone di Venere, le vecchie sotto quello dell'infernale
Proserpina; il tutto in quattro cantàri d'ottave mal connesse, con
volgare strazio d'ogni nobile affetto e un pocolino anche del buon
senso, che informa invece così finamente le novelle di quel medesimo
Franco. Tanta verità in ciò, quanta (per tacer d'altre siffatte
volgarità) nella fantasia, incarnatasi bensì in una delle più belle
prose di nostra lingua, _Le bellezze delle donne_; le quali bellezze
don Agnolo Firenzuola immagina, in un'altra brigata boccaccevole, siano
da quel suo Celso, che è poi lui stesso senza la cherica, analizzate
pezzo per pezzo, più o meno velati, sulla persona di quelle sue (al
solito sbattezzate) monna Lampiada, monna Amorrorisca, e Verdespina, e
Selvaggia, ascoltatici e interlocutrici: anatomia estetica, possibile
forse ad eseguirsi laggiù nella Magna Grecia in servigio di Zeusi
quando dipingeva la sua Elena, ma non già in Prato, nell'orto della
badia di Grignano, l'anno di grazia millecinquecento tanti, in una
veglia, quale quella vuole pur essere, di donne non dimentiche di sè
medesime.


IV.

Non era quella, nè poteva essere, la poesia della vita fiorentina fra
il XIV e il XVI secolo. Fantasticata sui libri, e in libri foggiata,
essa non attinge nè attiene alla vita vera di quell'età; nè vera è la
donna che su quel mitico fondo, tutto romano e greco, nulla medievale,
campeggia. Meglio dalle descrizioni, o siano poetiche o meglio se
in prosa schietta fiorentina, de' conviti nuziali, delle armeggerie,
delle giostre, viva ci sorride, e onestamente baldanzosa, e di quelle
cavalleresche e cortigiane onoranze seco medesima sodisfatta e superba,
la donna. Non mancano anche in cotesti suntuosi apparati lo iddio
Amore, gli Amorini (convertiti bensì, il che ha un po' del trovadorico,
in spiritelli), le Ninfe; sibbene come ornamento esteriore, fregio
posticcio, parvenza fugace; non come espressione mitologica d'un
sentimento, o quasi (direi co' filosofi) espressione essoterica
d'una dottrina. Ma la figurazione dominante e caratteristica è dalla
cavalleria medievale, e s'atteggia e si drappeggia nelle persone e
nelle foggie di castellani e di principi, d'uomini d'arme, di donzelli,
d'araldi e di paggi, di dame crudeli e di servi d'amore, con seco le
grandi o gentili memorie delle crociate, de' passaggi imperiali, della
santa gesta de' Paladini: “le donne (ha cantato Dante), le donne, i
cavalier, gli affanni e gli agi, che ne invogliava amore e cortesia„.

Siamo in piazza Santa Croce il 7 febbraio del 1468; e si fa la giostra
della quale Lorenzo de' Medici scriverà ne' suoi _Ricordi_: “Per
eseguire e far come gli altri, giostrai in sulla piazza di Santa
Croce„; e ne noterà la spesa in fiorini diecimila di suggello: “e
benchè e di colpi non fussi molto strenuo, mi fu giudicato il primo
onore, cioè un elmetto fornito d'ariento, con un “Marte per cimiero.„
Entrano in campo i giostratori: Medici, Pitti, Pucci, Vespucci,
Benci, Pazzi, e altri molti; qual più qual meno riccamente forniti:
con magnificenza più che regale, Lorenzo alla divisa de' gigli
d'oro di Francia e in sua compagnia il fratello Giuliano, coperti
d'oro, d'argento, di perle, di pietre d'ogni sorta preziose: ciascun
cavaliere accompagnato da trombetti e paggi e uomini d'arme, e giovani
gentiluomini a cavallo tutti vestiti sfarzosamente alla divisa di
quello; brigate per ciascuno di poco meno che un centinaio di persone;
e ciascun cavaliere col suo stendardo, nel quale fra emblemi e segni
diversi, e per lo più tra verde di prati e fiori di verzieri, la
dama del cuore. Questa, leggermente velata di bianco, con ghirlanda
di quercia in mano, e a' piedi legato con catene d'oro un leopardo;
quella, in abito di ninfa, che riceve nel grembo le foglie d'un faggio
battuto dalla tempesta, e le dà mangiare ad un daino; quell'altra,
vestita di bianco e di verde, che le saette d'Amore infocate spenge
nel fonte che scorre a' suoi piedi; un'altra, vestita di paonazzo, che
quelle stesse saette fa in pezzi e ne semina il prato; ma la dama di
Lorenzo, irraggiata dal sole traverso ai colori dell'iride, vestita di
drappo alessandrino ricamato a fiori d'oro e d'ariento, coglie d'un
ramo di lauro rinverdito sull'arido tronco, e ne fa ghirlanda, e ne
sparge foglie all'intorno; il suo motto, in lettere di perle grosse
da gioiellare, _le tems revient_. E molto lontano da Firenze, in Roma,
nell'austerità baronale del palagio degli Orsini, pensava a lui in quel
giorno una giovane donna, che non era nè forse le rincresceva di non
essere la dama del suo stendardo, perchè si apparecchiava ad essere la
madre dei suoi figliuoli. “Lorenzo è molto occupato in questa giostra,
chè già da tempo non ò avuto sue lettere„; ha detto ella, la Clarice,
un mese innanzi, a uno de' Tornabuoni venuto a recarle le nuove di lui;
ed ora, appena corrono a farle sapere “come Lorenzo à fatto la giostra,
e n'è uscito sano e con grandissimo onore„, e che “s'è aoperato tanto
degnamente quanto sia possibile di dire„, e che “giammai fu paladino
facessi quello à fatto Sua Magnificenza„, risponde soavemente, “Ora s'è
fatto la giostra, non avrà più scusa da recare, che non venga a Roma
questa quaresima„. E in occasione della quaresima, la madre le ha fatto
“levare panno pagonazo di Londra per una gonna a la romanesca„, che
crede quel fidato Francesco Tornabuoni “non istarà punto male„; e così
si propongono, madre e figliuola, di “andare vicitando tutti questi
perdoni, pregando Iddio per Lorenzo„; ma la madre insiste ch'e' venga,
perchè “vuole che voi vegiate la vostra mercanzia, avanti l'abbiate
a casa; la quale ogni giorno migliora„: della qual locuzione figurata
non so se proprio si abbellisse il parlare della nobilissima matrona,
o s'ella fiorisse spontanea nella lettera del mercante cliente al
mercante magnifico.

Un anno e quattro mesi dipoi, il 4 giugno del 69, le nozze di Lorenzo
e di Clarice si celebravano in Firenze con grande solennità, la
quale incominciava con due interi giorni di offerte a casa Medici dal
contado e dalle città di Toscana; offerte la cui consistenza sommò,
per citar qualche cifra a un centocinquanta vitelle, paia di capponi
paperi e pollastri più di duemila, vini nostrali e forestieri a botti,
e simili altre gentilezze, che Lorenzo partecipava largamente alla
cittadinanza, anche prima d'imbandire, dalla domenica al martedì, ben
cinque conviti, che empivano le loggie e i giardini del palagio di via
Larga, con le mense distribuite fra giovani donne in compagnia della
sposa (“cinquanta giovani da danzare„ dice l'informazione), e le donne
di più età con madonna Lucrezia; e così in tavole separate i “giovani
che danzavano„, e gli uomini di più età. Dalla domenica mattina,
quando la sposa, partitasi dalla casa degli Alessandri “a cavallo,
in sul caval grosso che donò a Lorenzo il re di Napoli„ entrava fra
nobilissimo corteo nella casa maritale, mentre festeggiato di musica
lieta si tirava su alla finestra il simbolico ulivo; sino alla mattina
del martedì, quando “andò a udire messa a San Lorenzo„, con in mano uno
de' mille doni nuziali, “uno libriccino di Nostra Donna, maraviglioso,
scritto a lettere d'oro in carta d'azzurro oltramarino, coverto di
cristallo e d'ariento lavorato„; Clarice Orsini, trasportata, avvolta,
sollevata in quel profumo di gioventù, di bellezza, di grazia,
di forza; ricevuta nelle sale che Cosimo, Piero e Lorenzo avevano
impreziosite dei tesori dell'antica arte e della risorta; circondata,
sovraccarica, dagli splendori d'una ricchezza che, anche non ostentata
anzi voluta dissimulare, tuttavia impacciava quasi sè medesima;
regina degli omaggi che il fiore delle intelligenze di tutto il mondo
tributava a questa famiglia, la cui potenza era soprattutto l'ingegno;
potè ben comprendere ch'ella era venuta sposa al primo cittadino, non
che di Firenze, d'Italia.

E lasciamo stare se a quella gaiezza un po' sbrigliata della città
popolana, allo scetticismo elegante di quei letterati già bell'e
cortigiani, a quelle transazioni fra il cittadino e il cliente che
corrompevano intorno al patrono tanto vecchio sangue repubblicano, se a
questo e ad altro che poi dovette offendere la sua romana alterezza e i
suoi sentimenti di moglie e di madre, ella ripugnò sin da principio, e
ne contrasse quel malinconico cruccio che avvolse tutta la sua virtuosa
esistenza domestica; lasciam pure che invece del Poliziano, il quale
ella giunse perfino a cacciare di casa, preferisse di vedersi intorno
ser Matteo Franco, buona pasta di cappellano e di sonettiere faceto,
nelle cui fiorentinissime lettere madonna Clarice, circondata da' suoi
figlioletti, è viva e parlante figura; ma non saprei tuttavia credere,
che giovinetta sposa, ella non abbia dovuto gustare, di quella popolana
gaiezza, di quella eleganza addottrinata, di quei cortigiani ritrovi,
quanto parlava così vivacemente ai sensi e alla fantasia, in feste, per
esempio, simili a questa, che pochi anni avanti, nel 64, aveva empito
del suo fragore gioioso un'intera notte del carneval fiorentino.

“Notizia d'una festa fatta la notte di carnasciale, per una dama
la quale fu figliuola di Lorenzo di messer Palla degli Istrozi. La
detta festa fu fatta da Bartolomeo Benci, come innamorato della detta
dama.„ Ve la riassumo, il più che potrò con le parole stesse della
_Notizia_ contemporanea, che sono una pittura. Bartolomeo Benci ha
ordinato, con altri otto giovani di principali famiglie, un'armeggeria
notturna, l'ultima notte di carnevale, in onoranza, prima alla dama
sua, poi, come sentirete, a ciascheduna delle otto respettive dame
de' suoi compagni. Ciascuno di essi otto è a cavallo, ricchissimamente
forniti; ciascuno ha trenta giovani intorno a sè, vestiti alla propria
divisa, con torchi in mano, e altri otto intorno alla briglia. Il
Benci poi, col bastone di “Signore e Capitano della Compagnia,„ è
“in su 'n uno cavallo che la natura nollo potre' fare più bello; con
fornimento e sella e briglia tutto di chermisi, ricamato di molte
argenterie tanto riccamente quanto fare si potè: e lui in su detto
cavallo, con uno giubone di perle ricamato e gioie, con due alle
alle spalle, d'oro e più altri colori. E intorno al detto Signore era
quindici gentili giovani a piè; tutti con gonnellini di raso chermisi
foderati d'ermellini, con calze pagonaze: a' quali esso Signore donò a
ciascuno. E oltre a questo, avea intorno detto Signore centocinquanta
giovani, tutti vestiti a una sua divisa, cioè gonnellini e calze verdi,
con falconi nel petto e di dietro, d'ariento, che gittavano penne
per tutto el gonnellino: e' quali centocinquanta giovani ciascuno
aveva un torchio acceso in mano„. Portatori e pifferi circondano il
Trionfo d'Amore, che è alla testa: un Trionfo “alto braccia venti,
composto in modo che, guardandolo, si rimaneva abagliato: co' molti
ispiritegli d'amore con archi in mano; e in alcune parti l'arme de'
Benci, e in altri luoghi la divisa del padre di detta dama; co' molte
campanellette a sonagli d'ariento, e varie cose. Era composto detto
Trionfo d'alloro, mòrtina, arcipresso, abeto e scope, cose tutte verdi
e calde, apropriate all'amore. E, per abreviare, in sulla cima di
detto Trionfo era un cuore sanguinente, aceso in fiamme di fuoco, che
del continovo ardevano; con certi razi„ che a suo tempo dovevano esser
lanciati. Muove la brigata (tutto ben computato, oltre un cinquecento
persone) dalla Piazza de' Peruzzi, dopo una lauta cena in casa di
Bartolomeo, e va alle case degli Strozzi da Santa Trinita: due Benci e
due Strozzi regolano a cavallo l'andata. La Signoria ha fatto bandire,
che nessuno quella notte giri a cavallo per la città, fuor di cotesta
armeggeria; e che in essa o a cagion d'essa, “se per disgrazia alcuno
fusse morto, chi l'ammazza sia sanza pena e sanza bando„: il che è
detto “un obviare a' casi cattivi che potrebbero nascere„. E così,
“giunti a casa della dama, feciono la mostra. E apresso, ciascuno corse
ritto in sulla sella, secondo uso d'armeggeria, con un dardo in mano,
dorato. E dipoi ancora, ciascuno corse con una lancia busa, dorata, e
ruppono a piè della finestra dov'era detta dama. La quale si mostrava
in mezo di quattro torchi acesi, con tanta graziosa onestà che una
Lucrezia basterebbe. E fatto questo, el Trionfo era fermo sulla piaza,
dirimpetto alla finestra dov'era detta dama: e al Signore fu ispiccate
l'alie e gittate in sul Trionfo; e in quel punto, era ordinato che
a detto Trionfo s'apiccassi el fuoco: e così arse, con tante grida e
suoni che insino alle stelle andava el romore. E i razi che v'erano su
erano artificiati in modo, che pareva che quegli ispiritegli d'amore,
ch'erano in su detto Trionfo, co' l'arco che gli avevano in mano, gli
saettassono. E così accesi per l'aria volavano appresso alla dama:
alcuno n'andava in casa della detta dama, che si istima glien'entrassi
alcuno nel cuore, per compassione del detto amante. E fatto questo,
el detto Signore Amante, partendosi con tutta la compagnia, per non
volgere le spalle a detta dama, fece che sempre el cavallo andava
indietro, tanto che più nulla potè vedere. E partiti di quivi, andarono
a rompere le lancie e armeggiare a casa le Dame di ciascuno de' suoi
Compagni, cioè degli otto nominati. Dipoi tornarono tutti dalla
Dama del Signore, e feciolle una mattinata co' molti suoni e gra'
magnificenza: e questo si dice mattinata, perch'era presso a dì. E
dipoi si partirono, e accompagnarono el Signore, cioè Bartolomeo Benci,
a casa, nel modo e forma come s'erano partiti nel prencipio. E 'l detto
Signore aveva ordinato molte confezioni, e e fece tutti convitare co'
gra' magnificenza„. A chi poi rimanesse la curiosità (mi sia permesso,
gentili ascoltatrici, supporla), se a que' nove armeggiamenti sotto le
finestre delle nove case abitate dalle nove dame, corrisposero a suo
tempo nove bei matrimoni, rispondo: che quanto ad alcuna delle amorose
coppie, no certo, per la ragione molto stringente che il cavaliere
aveva moglie, il che fa altresì lecito ammettere che anche qualcheduna
delle rispettive dame avesse, per ultimo respettivo, marito:
quanto a qualche altra coppia, potrebb'anch'essere; ma a chiarirlo,
bisognerebbe, come de' cavalieri, avere i nomi delle otto dame; e
questi la _Notizia_, che vi ho riassunta, non ce li dà; quanto poi
alla coppia che più forse vi preme, mi rincresce dovervi notificare,
che la Marietta Strozzi, nonostante tutta quella bersagliatura di
razzi amorosi fra la quale le finì il carnevale del 1464, sette anni
dopo andava sposa (e già aveva seguita fuor di Firenze la madre) ad
un Calcagnini di Ferrara; e l'anno appresso, nel 72, l'aligero, e
poi spennacchiato, capitano Bartolomeo Benci sposava la Lisabetta
Tornabuoni, una sorella di quel confidente a Roma tra la Clarice Orsini
e Lorenzo de' Medici.

Molte dolci memorie, del resto, dovè lasciare la bella Marietta Strozzi
nella città nostra, lontano dalla quale il padre suo esule (come
per lungo tempo, dopo il trionfo de' Medici, furono, di generazione
in generazione, gli Strozzi) era morto di ferro, e per l'esilio
di lui aveva dovuto pure starsene fuori la madre, virtuosissima e
austera donna, Alessandra de' Bardi: e in questa quasi orfanezza
la fanciulla si trovò forse più libera che alla condizione sua non
convenisse: almeno in quell'inverno del '64, nel quale, poche sere
avanti l'armeggeria, sentite quest'altra sua avventura carnevalesca,
e che cosa era possibile a farsi, senza scandalo, da una giovinetta
fiorentina in que' tempi. Vi traduco (liberamente anche questa
volta) da una lettera, elegantemente latina, di amichevoli confidenze
giovanili tra Filippo Corsini e Lorenzo de' Medici: “.... E mentre ti
scrivo, la neve cuopre quasi tutta la città: tedio per molti e cagion
di starsene; ma per altri cagione di darsi moto e piacere. Sappi
infatti che Lottieri Neroni, Priore Pandolfini e Bartolommeo Benci
(daccapo il nostro allegro Capitano). Cogliamo il destro, hanno detto,
di usare qualche bel tratto. E subito, a due ore circa di notte, si
son presentati alla casa della Marietta Strozzi, seguiti da una gran
moltitudine accorsa da ogni dove, per fare a gettarsi la neve con
lei. Gliene han data la sua porzione, e hanno incominciato. Immortali
Dei, che spettacolo! e come descrivertelo, Lorenzo mio, con questa
debole prosa? Gran pompa d'innumerevoli fiaccole; squillar di trombe,
dolcezza di flauti; pubblico appassionato e plaudente. E che trionfo,
quando alcuno degli assalitori riusciva a sparger di neve il viso, come
neve candido, della fanciulla! Ma che dico sparger di neve? un vero e
proprio trarre al bersaglio era quello, e di tiratori valentissimi!
La Marietta poi, così leggiadra e destra in quel giuoco, bella come
tutti sanno, ne uscì con immenso onore. Ma i gentili giovani non si
partirono da lei, che prima non le donassero molto nobilmente per loro
ricordo. E così, con grande contentezza di tutti, il piacevole giuoco
ebbe fine„. Un epigramma del Poliziano (l'ultimo che vi citerò da
quel florilegio aneddotico del Quattrocento fiorentino che sono, più
assai che le volgari, le sue Poesie greche e latine) dice così: “Neve
sei, o fanciulla, e giuochi con la neve. Giuoca: ma deh, prima che la
nevi s'imbratti, fa' che si sgeli„. L'erudito, che oggi legge queste
complimento amoroso, ricorda i molti altri, d'antichi e d'umanisti,
che sul medesimo argomento si contengono nell'_Antologia latina_,
e l'ha per un'imitazione a freddo (è proprio il caso di dir così)
dall'antichità classica. L'aneddoto che vi ho narrato mostra invece,
che questa almeno fra le tante imitazioni umanistiche aveva riscontro
nel vero attuale; ossia, che quel bizzarro costume era spontaneamente
rifiorito, come anche altre parti della vita antica, nell'allegra
democrazia del Rinascimento: finchè la inamidata prammatica delle
Corti, la Riforma protestante correggitrice e il conseguente reattivo
disciplinamento della morale cattolica, più tardi infine la filosofia
civile e la rivoluzione bandita e guerreggiata in nome di principii
universali, non ebber mutata la faccia del mondo.

Ma finchè quelle gazzarre, quelle feste davvero popolari, que'
fantastici apparati, que' simboli abbaglianti, ebber vita, nè corteo di
spose, nè armeggiamento per dame, nè giostra di amorosi cavalieri, ebbe
mai tanta cittadina solennità, quanto uno sposalizio, ben diverso da
tutti gli altri dall'ora e di poi: lo sposalizio dell'abbadessa di San
Pier Maggiore; sposalizio che si ripetè tante volte (salve eccezioni)
quanti Vescovi ebbe per secoli parecchi la Firenze e del Medioevo e
del Rinascimento ed anche del Principato Mediceo, poichè lo sposo della
badessa era (_honni soit qui mal y pense_) messere lo Vescovo.

Quella chiesa e monastero di San Pier Maggiore, che furono delle
maggiori antichità sacre di Firenze, se, come pare, nella lor forma
primitiva risalivano al secolo quarto; che detter nome a una porta e a
un sestiere della città, abitato e maledetto da Dante, non sono più.
Si restauravano nel secolo XI, e si afforzavano con addossarli alle
mura del secondo cerchio: si abbelliva la chiesa, a mezzo il secolo
XIV: si sconciava, come tante altre, mediante le cappelle patrizie a
marmi e stucchi di tutti i colori, nei secoli del barocco. E tutto oggi
è sparito. E il tempo, che “traveste l'uomo e le sue tombe„, a mala
pena ha rispettato nell'Arco di San Piero (salvo i possibili attentati
onomastici dei moderni edili) il nome del titolare. Quali rovine, quali
ossa, calpestiamo noi, passando da quell'arco! Delle nostre conoscenze
d'oggi, le due belle Albizzi si sono fatte polvere colaggiù sotto: e
si addormentò in pace con esse la monacella grecista, la quale, se
morendo ancor ella giovine, non ebbe tempo di maturarsi, arcigna e
rugosa superiora, per quelle nozze episcopali, potè bensì esercitare la
sua mondana erudizione, ahimè non più sulle immortali pagine d'Omero e
di Sofocle, ma sul grosso notarile latino degli autentici privilegi di
coteste mistiche nozze, che risalivano (dicono que' notari) “a tanto
tempo quanto è di là da memoria d'uomini„. L'ingresso del novello
sposo della Chiesa fiorentina si faceva ritualmente dalla porta di San
Pier Gattolini, oggi Romana: due famiglie, di grandi e tradizionali
attinenze (da Dante proverbiate) con la mensa vescovile, avevano, i
Tosinghi e i Visdomini, il privilegio di riceverlo e accompagnarlo sino
al monastero, dove, simbolo della Chiesa fiorentina lo attendeva la
badessa. Si celebravano nella chiesa le nozze, inanellando il Vescovo
la sposa con un ricchissimo anello, e questa offrendogli in dono un
letto suntuosamente montato nella camera stessa di lei, che per quel
giorno, durante intere ventiquattr'ore, uscendone lei, diveniva la
camera del Vescovo novello, sin che, la mattina appresso, i soliti
Visdomini e Tosinghi gli venivano incontro col clero, e lo conducevano
in Domo e lo insediavano. Tutta Firenze accorreva a quelle nozze.
Oltre le due ricordate famiglie, altre ancora, e delle principalissime,
Albizzi, Pazzi, Strozzi, rivestite di privilegi e diritti di questa o
quella parte del cerimoniale, avevano quasi a ogni Sposalizio occasione
di contestazioni, di proteste e di gare. Alla badessa rimaneva il
cavallo col quale era venuto il Vescovo: agli Strozzi, con gran trionfo
di tutto il parentado, la sella. La Chiesa fiorentina aveva avuto il
suo pontefice, e la città una festa di più; nella quale era toccata la
sua parte, e che parte essenziale!, alla donna.


V.

Ma traverso a tutte quelle ideali trasformazioni che l'arte le
apponeva, e a questa vissuta poesia di festeggiamenti e di pompe,
quale fu poi nel segreto della vita reale, fra le pareti domestiche,
figliuola e sorella, moglie e madre, quale, nella Firenze di quell'età,
fu la donna? Scoperchiare i tetti delle case, e sorprendere senz'essere
introdotti la gente che attende tranquillamente a' fatti suoi, e peggio
poi le signore, si è creduto, fino a pochi anni fa, un privilegio di
quel personaggio che sapete, _le Diable boiteux_, sollevato da Renato
Le Sage alla cattedra d'uno de' più grandi e maligni professori di
filosofia morale che il mondo abbia avuto. Fino a pochi anni fa,
quando a me, sfogliando con paziente amore le carte dei Medici avanti
il Principato, occorse di scoprire un'anticipazione del Diavolo Zoppo
di Le Sage nella persona d'un cortigiano de' più cari a Lorenzo e a'
figliuoli suoi, e che con uno di questi, divenuto papa Leone X, finì
cardinale di Santa Chiesa: l'autore della _Calandra_, il Bibbiena; che
in un Prologo a cotesta sua famosa commedia, rimasto inedito anzi fra
le cancellature del primo getto, immagina di fare un giro da camera
a camera femminili, invisibile per forza d'incanto, e mette al nudo
una serie di scenette bizzarre che accadono in questa o in quella,
sul punto del recarsi le donne a una veglia che si fa quella sera
in Firenze. Rassicuratevi: io non voglio entrar terzo fra il giulivo
Cardinale e il diavolo; se già non vi pare che sia ormai posto preso da
messer Guido Biagi, quando l'altro giorno v'introdusse con sì garbata
erudizione, e così intimamente, nelle segrete cose della vita privata
de' nostri vecchi[95].

E qui cade un'avvertenza e una dichiarazione. Quel tanto che la novella
e la commedia fiorentina del Quattrocento e (molto più largamente) del
Cinquecento potrebber dare al ritratto della donna, io credo contenga
troppa meschianza o di classico, o di boccaccevole, o di idealmente
satirico: nè ebbe quell'età, come nel Sacchetti ebbero il Due e il
Trecento da Giano ai Ciompi, un novelliere storico. Io non so in
verità, quanto a buon dritto si possano accettare anche solo come tipi
della famiglia in un dato momento della storia di Firenze i personaggi
della _Mandragora_; ma è poi certissimo che la buona Marietta Corsini
moglie di Niccolò Machiavelli nulla ebbe, povera donna, di simile con
quella alla quale egli, nel suo _Belfagor_, fa sposare il diavolo, e
poi ridurlo a tale disperazione, ch'e' se ne torna a rotta di collo
all'inferno.

E una leggenda di amor coniugale e materno, delle più poetiche e
commoventi, parrebbe, se non fosse dramma pur troppo vero e dramma
sanguinoso, il fatto di Annalena, che lo stesso grande istorico
consacrò alla memoria de' posteri con parole di somma reverenza.
Giunge un messo alle case di Annalena Malatesta, oltrarno, là dove il
popolo memore dice ancora “da Annalena„, e le annunzia “Madonna, il
marito vostro messer Baldaccio, l'hanno morto a ghiado nel Palagio
de' Signori, e precipitato dalla finestra, e mozzagli la testa come
a traditore e malfattore„. Ed ella, che al venturiero d'Anghiari,
valoroso e brutale come condottiero ch'egli è, ha dato, sposa poco più
che dodicenne, il cuore e la fede, e piegata sul suo petto di ferro
l'alterezza gentilizia del sangue che le scende nelle vene da Paolo
Malatesta, il cognato a cui la poesia di Dante fa eterni l'amore e la
pena, il bacio colpevole e l'amplesso infernale; essa, l'Annalena, che
da quel Baldaccio è già madre d'un bambinello, corre, povera donna, a'
Signori, al magistrato crudele che l'ha vedovata, e per quella creatura
innocente riesce a salvare, col pianto, da confisca i suoi beni. Poi
quel figliuolo, il suo Guidantonio, nel quale tutta la vita della madre
fanciulla si era raccolta, le muore; ed ella, ancor giovanissima, si
trova sola, e già vissuta, nel mondo. E allora Annalena, fatta donna
dal dolore, di quella sua casa in lutto fa chiostro, in quelle mura
chiude per sempre e consacra il breve romanzo della sua giovinezza,
le sue nozze e la sua maternità, le amorose imagini e le micidiali,
i ricordi d'una culla e di due bare; nelle stanze stesse dove fu
madre, ritorna vergine a Dio, e madre di vergini invecchia soavemente.
Affettuosa madre, e compassionevole agli splendori e alle lusinghe del
mondo; se uno degli umanisti celebratori di Albiera, proprio a lei,
ad Annalena ormai quasi cinquantenne, rivolgeva una di quelle elegie
latine, e le chiedeva la preghiera sua e delle sue monacelle per la
morta degli Albizzi, “per la giovinetta„, le dice “che tu hai amato
come una tenera madre ama l'unico suo„: parole non so dire se pietose
o crudeli, che il latinista forse scandiva senza pensarci su, ma che
dal cuore della vecchia monaca avran fatte risalire agli occhi le
lacrime della giovine madre. Il monastero d'Annalena, la quale morendo
a sessantaquattr'anni lo raccomandava a Lorenzo de' Medici, fu sin
da' suoi principii tutto cosa della potente famiglia: e nelle stanze
abitate già dalla fondatrice, dalla vedova del condottiero, ebbe asilo
e salvezza, ne' tempi grossi pel nome mediceo, un fanciullo che doveva
essere il principe di quelli armigeri, Giovanni delle Bande Nere.

Ma se cerchiamo la donna, a cui la sventura non invidia nè rapisce
la famiglia, la donna che della famiglia è ornamento e conforto,
esempio e ispirazione, forza e provvidenza, la donna di casa, la
moglie e la madre; alla storia di lei danno tipi ideali, però in
necessaria relazione con la realtà, come pel medioevo più alto i libri
di “reggimento o costume o castigamento„ femminili, così per questo
secolo XV i trattati di _Governo della famiglia_: o con intendimento
piuttosto civile e secolare, quale è nel libro che si abbellisce de'
nomi di Agnolo Pandolfini e di Leon Battista Alberti, e in quella
parte che è didattica delle care pagine di Vespasiano cartolaio; o con
prevalenza del sentimento religioso, siccome nella _Cura familiare_ del
beato Giovanni Dominici, diretta a una valente gentildonna Bartolommea
degli Alberti. Quel tipo ideale, o, diciam meglio, tradizionale e
derivato dalle memorie delle “buone e care„, delle “care compiute et
oneste„ donne, che tanta fragranza di gentili virtù spargono nelle
_Cronache domestiche_ del Trecento, Vespasiano lo effigiò, e anche
con un po' di retorica a suo modo lo colorì tra le figure illustri
dell'età sua, in Alessandra de' Bardi, la moglie di Lorenzo di messer
Palla Strozzi, e madre della vispa Marietta. L'Alessandra è ritratta da
Vespasiano “bellissima e venustissima del corpo quanto gnuna n'avesse
la città di Firenze„; vantaggiata di statura tanto, da fare a meno
delle “pianelle„, supplemento prezioso, pare, per altre fanciulle men
favorite di proporzioni: educata dalla madre sua “con ogni diligenzia„
(maggiore, forse è da credere, che l'esilio del marito e le altre
vicende della famiglia non consentissero poi a lei nell'educazione
di quella sua figliuola): dall'“amare e temere Iddio indótta a uno
moralissimo vivere„: avvezza a “mai perdere tempo che ella non fosse
occupata„, a “mai colle serve di casa non parlare, se non in presenza
della madre„; e “la prima a levarsi la mattina in casa esser lei„:
ammaestrata in “tutte le cose s'appartengono sapere a una donna,
ch'abbia aver cura di famiglia; e massime a lavorare d'ogni cosa, e
di seta e d'altro, come s'appartiene alle donne„, e “imparare tutto
quello che, bisognando, potesse viverne„, e a “saper fare ogni cosa
e sapere insegnare„, dal leggere sino a “ogni minima cosa„ attinente
alle faccende domestiche. “Rarissime volte era mai veduta all'uscio o
a finestra„, (ah Marietta!) “sì perchè non se ne dilettava, e perchè
occupava il tempo in cose laudabili. Menavala la madre il più dei dì
la mattina a una grandissima ora, a udire la messa, tutte col capo
coperto, e col viso ch'appena si vedevano„. Ma questa stessa, che
comincia forse quasi a parervi una monachina di casa, fatta poi sposa,
e venendo a Firenze un'ambasciata imperiale, sentite se sapeva, come
le faccende femminili, altrettanto far bene gli onori, non pur della
casa, ma della città, e d'una città che si chiamava Firenze, la quale
“in questo tempo„ dice il buon Vespasiano “era abbondante e di virtù
e di ricchezze, e la fama sua era per tutto il mondo„; città che “a
quelli ambasciadori parve un altro mondo, rispetto alla grande quantità
di uomini nobili e degni v'erano in quel tempo, e non meno donne
bellissime del corpo e non meno della mente; perchè, sia detto con
pace di tutte le donne e terre d'Italia, Firenze in quel tempo aveva le
più belle e le più oneste donne fussino in Italia, e di loro per tutto
il mondo n'era tal fama„. E descrive un ballo che a quei gentiluomini
dell'Imperatore fu offerto dalla Signoria, in Piazza, sopra un palco
dal lato del Palazzo verso Condotta, con grande apparato di spalliere,
e pancali, e arazzi, e festoni; e i primi giovani della città, vestiti
tutti a un'assisa di drappi verdi ricchissimi, e calzatura di pelle
sino a' fianchi; e le fanciulle e le spose, con ricche vesti accollate
fregiate di perle e di gioie. Alla onoranza di ciascun ambasciatore
deputate due dame: che pel primo di essi sono l'Alessandra, maritata
in quello stesso anno (era il 1482, ed ella n'aveva appena diciotto),
e una Francesca Serristori. Dopo il ballo, si porta in giro la
colezione; ed ecco l'Alessandra servire ella stessa gli ambasciatori,
“con una tovagliuola di rensa in sulla spalla.... con una ismisurata
gentilezza.... facendo riverenza con inchini in fino in terra, naturali
e non isforzati, che pareva non avesse fatto mai altro„. Poi, ballo
di nuovo; e, infine, accompagnamento degli ambasciatori all'albergo,
ciascuno d'essi dando di braccio alle due belle fiorentine, una di qua
e una di là, Alessandra alla diritta: e giunti alla porta dell'albergo,
“il primo ambasciatore si cavò uno bellissimo anello di dito, e donollo
all'Alessandra; di poi se ne cavò un altro, e donollo alla compagna„.
Dopo di che, “salutati le giovani e i giovani, gli ambasciadori
accompagnarono le giovani alle case loro„.

Il biografo quattrocentista, che sul declinare del secolo scriveva
di questa e d'altre donne fiorentine della generazione antecedente,
non finisce mai di far paragoni tra esse e le donne fiorentine del
tempo suo, deplorando lo scadimento del costume e delle consuetudini
più virtuose e severe. In questi lamenti, un po' di parte va fatta
certamente all'abito che fu e sarà sempre di tutti i tempi, del
rimpiangere, per questo o quel rispetto, il passato; un'altra poca,
inoltre, alla disposizione di Vespasiano a trovar che ridire su troppe
cose (figuratevi che una volta vuole e prescrive che le donne “imparino
a non parlare, massime in chiesa„, egli dice; e poi, come se fosse
poco, soggiunge “e in ogni altro luogo„): pur tuttavia, fatte queste
eccezioni, e lasciando lo scherzo, io credo che que' suoi lamenti,
specialmente quando li formula, com'è spesso, in osservazioni positive,
attengano a condizioni reali; e propriamente a quella mutazione che
anche nella vita domestica, di cui la donna è custode e gli atti suoi
sono specchio, avevano indotto le splendidezze, a un poco per volta
sempre più cortigiane, di quei Medici, la cui potenza attraeva oramai,
volere o non volere, con l'interesse e la fortuna delle famiglie, anche
gli affetti, le speranze, i disegni, che più disposta e inchinevole ad
accogliere, in pro della famiglia, e fomentare è la donna.

“Ricòrdati che chi sta co' Medici sempre ha fatto bene, e co' Pazzi el
contradio; che sempre sono disfatti„: così scriveva (e s'era solamente
al 1461, diciassette anni prima della sanguinosa congiura) un'altra
Alessandra pur maritata negli Strozzi, e che essa pure come la Bardi
dagli esilii di quella famiglia ebbe lunghi dolori al suo cuore di
moglie e di madre, ma altresì la consolazione, prima che morisse, di
veder restituiti alla patria, e molto per la efficace materna opera
di lei, i figliuoli, e il maggior d'essi gettare alla grandezza della
sua famiglia quelle fondamenta delle quali è superbo monumento il
loro meraviglioso palazzo: Alessandra Macinghi negli Strozzi, alla
quale un altro monumento con la pubblicazione delle sue _Lettere a'
figliuoli esuli_, che io vorrei avere autorità di raccomandarvi e farvi
care, o Signore, componeva, ne' dì nostri, Cesare Guasti, erudito e
scrittore degno d'interpretare que' dolori, quelle consolazioni, quelle
grandezze.

Lo avvicinarsi ai Medici anime elette come quelle della Macinghi
Strozzi, matrona del cui costume e pietà avrebber potuto compiacersi
la bontà di Antonino arcivescovo o la fierezza di Girolamo Savonarola
(e a qualche pratica durezza piuttosto de' tempi che sua, confido
che, ripensandoci, il nostro Biagi[96] si farà più indulgente), lo
avvicinarsi, dico, di tali anime e famiglie (ne cito un'altra, i
Rucellai) ai Medici, mostra che l'opera di questi era stata non tanto
di corruzione, quanto di acquistare potenza fra i cittadini, prendere
dello stato (è la frase del Machiavelli, e del tempo) quanto a mano a
mano ne veniva ad essi concesso, cosicchè la forza loro sormontasse
invincibilmente su tutte le altezze, preponderasse su tutte le
resistenze, schiacciasse quasi fatalmente tutto ciò che si levasse
contro di loro. “Co' Medici, e non co' Pazzi!„: a quell'affettuoso
ammonimento materno risponde tragicamente, a distanza d'anni, nel
maggio del 78, un'altra voce di donna, anzi lo schianto d'un cuore,
d'un cuore di figliuola, ne' giorni che l'uccisione di Giuliano de'
Medici e le ferite di Lorenzo erano, nel sangue de' congiurati e di
chiunque paresse averli comecchessia favoriti, vendicati come delitti
contro la patria. La figliuola d'uno di costoro, giovane sposa di
vent'anni, Ginevra di Piero Vespucci (cognata della bella Simonetta; e
Piero, uomo, del resto, di poco senno, era stato un tempo deditissimo
a Lorenzo, e giostratore nel 64 in Santa Croce con lui, e armeggiatore
col Benci sotto le finestre della Marietta), scrive, la Ginevra a
Lorenzo, queste parole spezzate dal pianto: (la lettera è inedita e
sfuggita alle ricerche e curiosità erudite): “Amantissimo in luogo di
buon padre. La cagione di questi dolorosi versi si è perchè ieri non vi
potei parlare come desideravo, per potervi pregare e ricordare l'amore
e benivoglienza avete portata in questa casa, e le parole e promesse
fatte a me, e l'umanità dimostrami, quando mi chiamasti sorella: e però
vi priego vogliate accettare e mie' prechi, e ogni amore e promesse
rivolere in questo, e avere misericordia e compassione di noi tutti.
Vorrei vi fussi di piacere considerare la condizione di mio padre, e
specchiarvi in me, e non considerare quello che fa in ogni suo caso,
che non è solo in questo. E priegovi quanto più posso mi facciate
questa grazia; e questo si è, me lo rendiate senza altro segno, e
che la penitenza di questo peccato sia quella che à avuta: chè quando
penso, della età ch'egli è e poco sano, come è stato buon pezo, e ora
di nuovo, colla febbre, essere dove egli è, e avere e' ferri in piè;
che quando ci penso, mi scoppia el cuore. Priegovi abiate pazienza se
questi versi vi danno tedio, e priegovi per l'apportatore mi mandiate
qualche buona risposta; però che chi misericordia fa, misericordia
aspetti: e priego Idio vi metta in cuore, me lo rimandiate istasera:
e se io fussi con Voi, tanto vi pregherei me lo renderesti: e ora
di nuovo ò inteso à avuta della fune. Priegovi non ci vogliate fare
disperare più. Ginevra isventurata.„

Invero, la vita di quelle donne, quale la rivelano e l'aureo volume
del Guasti (che, potendo essere a mano di tutte, io mi son proposto di
lasciare pressochè intatto alla curiosità del cuor vostro, Signore e
Signorine) e lo pubblicazioni che di altri documenti femminili si sono
venute facendo, non solamente si vede essere tutta per la famiglia;
ma che quelle poderose famiglie, Medici, Strozzi, Salviati, Rucellai,
Guicciardini, Soderini, Ridolfi, debbono a coteste donne non piccola
parte della forza che ebbero, a fare quello che fecero. Il Savonarola,
che sulla caduta della supremazia Medicea tentò costruire saldamente
l'edificio del governo popolare, sentì quanto importasse al suo
intendimento avere a ciò profonde basi nella famiglia: pensò, come
la prima delle sue riforme, la riforma del costume; e si rivolse alle
donne. E non tanto, intendo, alle mistiche, quali erano una Visdomini,
una Gianfigliazzi, una anzi due Rucellai; com'a dire le Giacobine di
quello che poc'anzi ho chiamato Terrore Piagnone; giacobine, bensì, che
poi finivano monache, anzi una di esse Beata. Ma alle madri proprio di
famiglia, il Savonarola si rivolgeva: alle donne e a' fanciulli, che
è quanto dire alle forze dell'affetto materno, si rivolgeva, come a
instrumenti politici, con la fede, con cui l'avversario suo papa Borgia
si appoggiava alla spada e al pugnale del suo Valentino. “O donne e
fanciulli, la vostra riforma non è ancora vinta. Dite da mia parte alla
Magnifica Signoria, che questa non è cosa umana, ma di Dio; e fateli
questa imbasciata: che la racconcino se vi è cosa che non stia bene, e
che gli diano la sua perfezione; e che se non lo faranno, e si faranno
beffe delle opere di Dio o le contradieranno, che il Re gli punirà. E
ditegli che non sono Signori, ma ministri del Signore e del Re nostro
Cristo.... A voi, padri e madri, dico: confermate questa cosa a' vostri
figliuoli, perchè non vi è dentro se non buon vivere. Altrimenti Dio
ha apparecchiata la punizione a chi contradirà alle cose sue. Io ve
lo dico certo, e tenetelo a mente.„ Il magnanimo frate fu arso; e
il profeta, smentito dai fatti: ma molta parte di quella generazione
informata da lui rimase fedele a _Popolo e Libertà_, l'antico grido
del Comune glorioso: e que' fanciulli, che ne' carnevali de' Piagnoni
avean ballato intorno al Bruciamento delle vanità (cotesto bruciamento
altra cosa è approvarlo, ed altra intenderlo pel suo verso), que'
fanciulli, fatti uomini sostennero e combatterono, dalle mura di
Firenze assediata, contro il Papa e l'Imperatore, le ultime battaglie
della libertà italiana.

Un'egual gagliardia di sentimenti e di opere; un intenso sforzo di
tutte le energie morali, e un cupo raccoglierle e quasi appuntarle
alla vita pratica, al riuscire; durante que' trentacinqu'anni, che
intercedono fra il rivolgimento popolare nel 1494 e la caduta della
Repubblica nel 1530, animano del pari l'un campo e l'altro: gli eredi
e rivendicatori della libertà manomessa; e gli eredi e sostenitori
delle splendide ambizioni di chi la vuole ormai sopraffatta. Anche
sulle manifestazioni dell'arte, e nella elaborazione del pensiero,
incombe il travaglio dell'ignoto avvenire. Il giardino Mediceo di San
Marco, dove il Poliziano erudiva ne' miti ellenici i pittori e gli
scultori, e nella storia carlovingia Luigi Pulci, e il Ficino cercava
in Platone conciliazioni feconde tra la civiltà pagana e la fede
di Cristo, quel giardino è deserto. Ora è il Machiavelli che nelle
conversazioni degli Orti Oricellarii idealizza le togate figure di Roma
antica, e ne entusiasma i giovani che congiureranno contro i Medici,
mentr'egli da quella grande nostra storia romana dedurrà dottrina di
Stato, destinata a chi, in tristi tempi con tristi mezzi, sappia far
trionfare, per la salvezza d'Italia, un'idea generosa. Ma i Medici,
ne' quali egli vagheggia il suo principe, muoiono giovani: e sulle
loro tombe Michelangiolo scolpisce il Pensiero doloroso e la Notte.
Ben diverso trionfo, e non generoso, alla fortuna della loro famiglia
preparano, fattone strumento le Somme Chiavi, Leone X e Clemente VII:
ma per tutto cotesto periodo, di resistenza e di contrasto, durante
il quale difesa, ritorni, congiure, cacciate, si alternano, per poi
conchiudersi in quella caduta da eroi sulla quale irraggia la sua luce
il Ferruccio, la vita civile e la domestica non sono più nè possono
essere il gaio vivere, a sicura letizia intonato, nel quale, da Cosimo
a Lorenzo, Firenze aveva sorbito lentamente la dissuetudine dalla
libertà. I carnevali del magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, come
lo chiamano i contemporanei del nipote suo Lorenzo, che col ducato
d'Urbino anticipa ai Medici il titolo ond'è per coronarsi in Firenze
la loro secolare cupidigia, quei carnevali non tornano più: nè valgono
a rattizzarli le Compagnie del Broncone e del Diamante, nelle quali,
sotto le imprese e i motti e l'auspicio di que' passati splendori, si
raccoglie a darsi piacere la gioventù pallesca. I tempi non sono più
quelli, nè per Firenze, nè pur troppo, dopo la calata di Carlo VIII,
per tutto il resto d'Italia.

E la donna? Fedele custode delle sue tradizioni, in cotesta vita che
è divenuta tutta una guerra guerreggiata di foschi interessi, essa ha
vegliato e veglia agl'interessi del focolare: specialmente la madre.
Quando il magnifico Lorenzo perdette la sua, “Ho perduto„ scrisse “un
unico refugio di molti mia fastidii e sollevamento di molte fatiche,
uno instrumento che mi levava di molte fatiche„. “Tornate a vostra
madre che con tanto desiderio vi aspetta„; scriveva la Macinghi
Strozzi: e ai figliuoli esuli la voce di quella valente vecchia era
come la voce cara della patria, della patria che riapriva loro le
braccia, per tanti anni sì crudelmente serrate. E così la Lucrezia come
l'Alessandra hanno quasi con le loro proprie mani fatto i matrimoni
de' loro figliuoli; sottoponendo al sindacato del loro occhio materno,
nelle possibili nuore, tutto, dalla persona all'animo, ai costumi, al
parentado, alla dote: e fra le passate in rivista dall'Alessandra è,
con non troppo favore, la bella Marietta delle armeggerie e della neve.
Ora la Maria Salviati vedova del gran capitano Giovanni delle Bande
Nere, attende alla futura grandezza del suo Cosimo, che a diciott'anni
improvvisamente duca di Firenze, saprà, educato da quella donna di
alto animo, sottomettere o schiacciare i nemici, se anche si chiamino
Filippo e Piero Strozzi, deludere o respingere le pericolose ambizioni
de' partigiani, se anche si chiamino Francesco Guicciardini. Al buon
avviamento, prima, poi alla salvezza del suo sciagurato figliuolo
Lorenzino de' Medici, si adopera inutilmente la Maria Soderini: ed
essa e le figliuole bellissime, entrate negli Strozzi, la Laudomia e
la Maddalena, e dagli Strozzi entrata nei Ridolfi la Maria figliuola
di Filippo, il gran gentiluomo del secolo, parteciperanno, con gli
accorgimenti animosi e le ispirazioni de' loro cuori di madre, di
sorella, di moglie, all'affaticarsi infruttuoso, non però ingeneroso,
de' fuorusciti, contro l'afforzamento del principato Mediceo.
Protesterà, contro la violenza e il tradimento che lo hanno insediato,
la figliuola d'uno di quei fuorusciti, Giulia di messer Salvestro
Aldobrandini; che nella corte d'Urbino, richiesta da Fabrizio Maramaldo
di ballare con lui, “Levatemivi dinanzi„, gli risponde “chè ammazzaste
così vigliaccamente il Ferruccio„. Ma tra le vittime del novello
principe cadrà una gentile di quella schiera, Luisa Strozzi; sulla cui
tragedia, e su quella che pochi anni appresso involge nel mistero la
morte del padre suo Filippo, aleggiano sinistramente le parole dell'ava
veggente: Chi è contro a' Medici, sarà disfatto. Parole, del resto, che
nella casa degli Strozzi non ha ascoltate una Medici stessa, la madre
della Luisa, la Clarice moglie di Filippo e cospiratrice zelante alle
fortunose ambizioni di lui; anima, piuttosto che di donna, d'uomo e dei
più fieri di quel fiero Cinquecento: la quale ai giovinetti bastardi,
nelle cui mani, sotto i non dissimili auspicii di papa Clemente, il
moto popolare del 1527 trova le redini della signoria Medicea, ha
rinfacciato la passata grandezza de' suoi antenati, fondata sul favore
del popolo; e in nome di questo, nel palagio de' Medici, essa una
Medici autentica, ha loro additata e quasi intimata la via dell'esilio.

Forti donne, alle quali può l'uomo di cui portano il nome commettere
con fede le faccende domestiche, de' figliuoli e del patrimonio, della
casa e della villa; come messer Luigi Guicciardini, mentr'è fuori
Commissario pe' Medici, alla sua monna Isabella, una massaia stupenda,
che io mi onoro d'aver rivelata dalle sue lettere campagnuole:
commettere e raccomandare la custodia del palagio, e il decoro della
casata; che alle mani della moglie di Pierfrancesco Borgherini, madonna
Margherita, saranno sicuri. E quando un Della Palla, incettatore per
re Francesco di Francia di tesori artistici dalle case della nostra
città, si presenta con mandato (pur troppo!) dei Priori alla casa di
monna Margherita a mercanteggiare una sua camera, meravigliosa pe'
lavori di Iacopo da Pontormo, quella davvero nobilissima gentildonna lo
riceve così: “Adunque vuoi essere ardito tu Giovambattista, vilissimo
rigattiere, mercantuzzo di quattro denari, di sconficcare gli ornamenti
delle camere de' gentiluomini, e questa città delle sue più ricche
ed onorevoli cose spogliare, come tu hai fatto e fai tuttavia per
abbellirne le contrade straniere ed i nemici nostri? Io di te non mi
meraviglio, uomo plebeo e nimico della tua patria; ma dei magistrati
di questa città, che ti comportano queste scelerità abominevoli.
Questo letto che tu vai cercando per lo tuo particolare interesse e
ingordigia di danari, come che tu vada il tuo mal animo con finta pietà
ricoprendo„, cioè di conciliare a Firenze assediata la benevolenza del
Re “è il letto delle mie nozze, per onor delle quali Salvi mio suocero
fece tutto questo magnifico e regio apparato, il quale io riverisco
per memoria di lui e per amore di mio marito, ed il quale io intendo
col proprio sangue e con la stessa vita difendere. Esci di questa casa
con questi tuoi masnadieri, Giovambattista; e va', di' a chi qua ti
ha mandato comandando che queste cose si lievino dai luoghi loro, che
io son quella che di qua entro non voglio che si muova alcuna cosa:
e se essi, i quali credono a te uomo dappoco e vile, vogliono il re
Francesco di Francia presentare, vadano e sì gli mandino, spogliandone
le proprie case, gli ornamenti e letti delle camere loro. E se tu sei
più tanto ardito che tu venga per ciò a questa casa, quanto rispetto
si debba da' tuoi pari avere alle case de' gentiluomini, ti farò con
tuo gravissimo danno conoscere„. La conversazione o, se anche vogliamo,
l'amplificazione di queste generose parole di donna in una pagina del
buon Vasari, mi pare debba riconciliarci alquanto con l'oratoria dei
Cinquecentisti. Ma voi, quando nel Palagio del Potestà passate innanzi
ad un mirabile cammino in pietra di Benedetto da Rovezzano, che da
una sala appunto delle case che furono de' Borgherini colà trasferito,
è ormai assicurato al patrimonio intangibile della nazione italiana,
siate superbe, o gentildonne fiorentine, della vostra concittadina; e
se mai occorresse, ricordatevi dell'esempio ch'ella vi ha dato.

Che se la Margherita e l'Isabella favoreggiano, e la Maria Salviati
Medici rappresenta essa stessa potentemente quella parte Medicea dalla
quale, almeno in quel truce epilogo delle sue ambizioni, rifuggono
le simpatie di noi tutti (compreso, senza dubbio, l'apologista
dotto e sagace, per la cui eloquenza ha in questa sala rivissuto una
genialissima ora di vita il magnifico Lorenzo)[97]; se la Clarice
Medici Strozzi, e le gentildonne de' fuorusciti, agitano in petto,
insieme con altre passioni più nobili, gl'interessi altresì e i
rancori di ambizioni men della Medicea fortunate; non mancano poi
alla libertà che muore, non mancano dal popolo che per lei combatte
senz'altra ambizione nè amore che non sia essa stessa la libertà, le
sue eroine. Eroine anonime, come le dà la plebe, generosa de' nomi non
meno che del sangue (così non ne fosse prodiga anche a chi la inganna
e la sfrutta!); anonime, e nella veglia del malinconico inverno de'
casolari affigurate in leggenda. Tale la Lucrezia Mazzanti figlinese,
che nei gorghi del suo Arno cerca scampo alle brutali violenze della
soldataglia imperiale e papale: matura sposa quarantenne, ma che il
popolo vuole restituita alla poesia dell'intatta giovinezza, mentre
alla novella Lucrezia romana dedicano il loro latino gli ultimi
umanisti del Rinascimento, che il Bruto cesaricida esalteranno in
Lorenzino de' Medici. E dalle popolari memorie, nella storia del tempo
raccolte, effigiò modernamente il Guerrazzi, quando ne' duri anni
della servitù d'Italia volle essere l'Omero della libertà fiorentina,
quella che egli denominò monna Ghita setaiuola in Borgo San Friano:
“alta della persona, magra, adusta dal sole, sicchè sembrava di colore
del rame; i muscoli del collo grossi e protuberanti, le vene turgide,
le labbra vermiglie, e comunque tacessero, agitate; le narici ansose,
gli occhi fulgidissimi, perpetuamente volgentisi da un lato all'altro;
i contorni del volto squadrati, la faccia ossuta„; una Parca di
Michelangiolo: la quale, vedova e povera, dà alla difesa della patria
le buccole d'oro delle dónora maritali, e il figliuolo unico: “il mio
Ciapo di sedici anni e otto mesi, perchè deve entrare ne' diciassette
come si arriva alla festa di San Zanobi„; dopo fattogli giurare sul
Crocifisso il giuramento con che la Spartana consegnava al figliuolo
lo scudo: O con questo, o su questo. Ultima espansione da cuore di
madre popolana, dell'amor di patria nel sacrifizio della famiglia.
Succederanno i tempi ne' quali il popolo italiano dovrà dimenticare
d'avere una patria, cercar nelle gride (povero Renzo!) il diritto
d'avere una famiglia: e agli oppressi dalla doppia tirannide, politica
e sociale, non rimarrà altra voce, se non il pianto di Lucia che dice
addio a' suoi monti.


VI.

La libertà repubblicana è caduta: e su quelle rovine han fatto le
loro paci, la Chiesa di Roma, che per entro alla corruzione secolare
e alle pagane eleganze ha giocata la sua unità, e il sacro Romano
Impero, le cui idealità medievali son fatte così una brutta cosa,
nella greve signoria di Carlo V spagnuolo, del monarca su' dominii
del quale il sole non tramonta. Splendori di corti, di pensiero e di
roghi, illumineranno l'età che incomincia, della quale il mio tema
varca sfiorando le soglie, e destinata, o Signore, alle conferenze
del prossimo anno. Nei sozzi e atroci drammi coniugali dei duchi e
granduchi Medici e de' loro cortigiani, ultima che ritragga dell'antico
“femminile„ fiorentino, bella, culta di lettere, esercitata nella
poesia, nella musica, nell'uso di più lingue, del volgar nostro
intendentissima, gentile d'animo, è l'infelice Isabella Medici Orsini.
Altre gentili ospita il chiostro; il chiostro, talvolta cercato e
invocato, troppo più spesso destinato alla inconsapevole innocente
fanciullezza da quelle tirannidi gentilizie, scellerate e codarde,
delle cui vittime la Geltrude del Manzoni è vendetta immortale. E nel
chiostro, da uno ad un altro trafugandola gelosamente, i repubblicani
fiorentini dell'Assedio avean custodita Caterina de' Medici: come utile
ostaggio, speravano; e non sapevano di serbarla a ben altre fortune.
“Andate, e dite a que' miei padri e signori, che io intendo d'essere
monaca, e di starmi in perpetuo con queste mie reverende madri„;
mandava ella a dire alla Signoria: l'aspettavano invece il trono di
Francia, e le guerre civili di religione, e la _Saint-Barthélemy_.

Ma ai dolci silenzi della meditazione pietosa sulle umane colpe e
sventure, agli entusiasmi verso Dio buono, ai terrori di Lui giusto,
era nata Caterina de' Ricci, che in San Vincenzio di Prato si chiude
giovanissima, negli anni durante i quali per un'altra di quel casato,
la Marietta Ricci Benintendi, duelli di non degno amore intermezzano
le battaglie della libertà, e il nome d'un'altra Ricci, Cassandra, è
vituperato fra le tresche e nel sangue. Caterina nel chiostro riceverà
le ultime tradizioni e gli affetti de' seguaci di frate Girolamo;
appiè dell'altare, sul quale ella un dì sarà santa, consacra la
religione del martirio di lui: e dal chiostro, non ripudiata l'umana
fraternità, a' suoi di casa parla, nelle _Lettere_, parole di pace, di
conforto, d'amore; ai prelati suoi superiori, di reprensione reverente,
ove occorra; agli uomini, che tra le cure civili o mercantili si
travagliano, parole di virtù operosa e che si affisa nell'alto; di
giustizia, ai principi; di miti e caritatevoli affetti, alle donne;
e delle due che furono le mogli di Francesco de' Medici, ama Giovanna
d'Austria infelice, prega e fa pregare Dio per Bianca Cappello.

Nè con l'infoscarsi, sempre più cupo, de' tempi, col sempre più
gravemente incombere sulla libertà politica e del pensiero la domestica
e la straniera tirannide, manca ne' chiostri, alla pietà verso chi
rimane nel mondo, il cuor della donna: o l'abbiano esse lasciato,
o esso il mondo le abbia allontanate da sè, quelle buone sentono e
fanno suoi i dolori della famiglia alla quale appartennero. Sulla
collina d'Arcetri si raccoglie a morire, quasi prigioniero, il grande
liberatore del pensiero moderno, Galileo: ma presso alla villa del
Gioiello, che oggi nel suo nome ci è sacra, vegliano su lui, dal
convento di San Matteo, l'affetto e la preghiera d'una santa creatura,
che data a lui dall'amore, egli è forse colpevole di avere, sin dalle
fasce, destinata all'espiazione; della sua Virginia, che egli ha voluto
sia suor Celeste: ed ora ella viene a lui, non potendo di persona,
con le _Lettere_ nelle quali quella cara anima è sopravvissuta anche
a noi: e si accuora de' suoi dolori, e trepida delle sue malattie; e
si prostra reverente al suo divino intelletto che “penetra i cieli„; e
in una rosa, che gli manda nel cuor dell'inverno, vuole intravvegga,
di là dal “breve e oscuro inverno della vita presente, la primavera
dell'eternità„; e s'addossa ella le penitenze spirituali impostegli
dal Sant'Ufizio; e al ricevere un suo libro, o al sapere di onoranze
resegli, esulta; e vorrebb'essere “in una carcere assai più stretta
di quella in che si trova„, per far libero lui; nè le duole di
esser monaca, se non quando sente ch'egli è malato, per non potere
assisterlo; e dovendo come le altre monache scegliere fra i Santi il
Santo “suo devoto„, non altri sa scegliere, con sublime profanità di
figliuola, che il padre suo, il padre che prega Dio le sia conservato,
“perchè dopo di lui non mi resta altro bene nel mondo„. E quando
cotesto martirio di amor filiale incarcerato ha il suo termine, e a
trentatrè anni ella muore, il povero glorioso vecchio sentirà spezzato
il più caro vincolo che ancora lo congiungesse col mondo; più dura e
crudele gli pesa ora la guerra indegna che in lui è fatta ai diritti e
all'avvenire dell'umanità: e di lì a breve, cieco, infermo, degnato di
concessioni umilianti come a colpevole ravveduto, fattogli elemosina
di licenza e di permessi come a tollerato dai potenti della terra,
egli che ha rivelato i misteri del cielo, nel presentire la morte: “Mi
sento„ esclama “continuamente chiamare dalla mia diletta figliuola„.
Nè so se la donna abbia mai scritta nella propria storia una pagina che
valga cotesto grido paterno, uscito dal cuore di Galileo.


VII.

Le libertà repubblicane caddero, e successero i tempi infausti
della servitù: ma al terzo secolo da quella caduta, il sepolcro si
è dischiuso, e la libertà d'Italia risuscitò da morte. E la donna
italiana, così da Firenze come da ogni altra città e villaggio e
borgata della patria che è nostra, ha dato a quel risorgimento i
dolori del sacrificio e del martirio, le ansietà delle trepidanti
speranze, il pensiero e il lavoro degli uomini ch'ella ha amato e
ispirato, la vita propria, il sangue de' suoi figliuoli; da Eleonora
Fonseca a Teresa Confalonieri, dalla madre dei Ruffini alla madre
dei Cairoli: all'Italia han dato il fior dell'ingegno la Guacci, la
Turrisi Colonna, la Ferrucci, la Brenzoni, la Paladini, la Percoto, la
Milli, la Mancini, la Fusinato. O madri toscane, o spose, o sorelle, o
figliuole, che da Curtatone e Montanara alla rivendicazione di Roma le
sante battaglie della libertà orbarono de' vostri cari; o gentildonne
animose, o buone popolane, della nostra Firenze; la tradizione con le
forti donne dell'antica nostra istoria è per voi ricongiunta.

Nè più tardi d'ieri, da una collina le cui vigne e gli oliveti
ombreggiavano una tomba recente, è disceso un feretro, che da
quella tomba trasferiva, così volendo la nazione, in Santa Croce,
e restituiva al sepolcro degli avi suoi, de' Priori e Gonfalonieri
della nostra Repubblica, la salma di Ubaldino Peruzzi, nella cui
persona, il 27 aprile di trentadue anni fa, Palazzo Vecchio tornò al
suo antico signore, il Popolo fiorentino. Pia custode di quella tomba
gloriosamente vuota, è rimasta una Donna: che tanto seppe, tanto potè,
nei pensieri e negli affetti di lui; che lo animò, lo aiutò, alle
onorate fatiche, ne' dubbi lo consigliò, gli confortò i patimenti,
gli consolò le ingiustizie, gli allietò i trionfi. Storia, che in
tutti i paesi civili, in tutte l'età, è la storia vostra, o Signore:
che compendia i diritti e i doveri vostri verso le due grandi non
distruggibili società, delle quali voi siete l'anima immortale: la
famiglia e la patria.



IL POLIZIANO E L'UMANESIMO

DI

GUIDO MAZZONI.


  _Signore e signori_,

Presentarmi a voi, che avete fama meritata di giudici eletti, a voi che
pur ne' giorni scorsi udiste Adolfo Bartoli e udirete dopo me altri che
io reputo maestri miei, per discorrere del Poliziano e dell'Umanesimo,
argomento grave e forse nell'ampiezza sua meno adatto alle strette
d'una lettura, sembra audace a me stesso: ma non si conveniva a me
fiorentino negar l'opera mia in una impresa di cui Firenze si compiace,
come è questa delle pubbliche letture; dirò più schietto, non mi diè
l'animo di rifiutare l'onore che mi si fece invitandomi qui. Di che a
ottenere più agevole indulgenza, tacerò ogni altro preambolo. Ma prima
consentite ch'io vi preghi a unirvi meco in un desiderio di tutti gli
studiosi. Isidoro Del Lungo ha da mantenere certa sua promessa: ha da
darci quella vita del Poliziano della quale pubblicò saggi per dottrina
e per critica eccellenti; promessa giovanile, cui stima sottrarsi
affermandola invecchiata con lui; promessa di galantuomo e valente,
che vuole essere mantenuta, voi gli rispondete con me. A un libro del
Del Lungo non si rinuncia così per fretta; e troppo, nel tornare per
voi sul Poliziano, troppo ho risentito quel che importi averne o no la
guida sicura.


I.

    Dolci gli studii un tempo già m'erano: ahimè che m'incute,
      la Povertà, co' suoi luridi cenci, orrore!
    Onde, poi che 'l poeta non è che ludibrio del volgo,
      stimo più savio cedere a' tempi anch'io.

Questo lamento, che suona troppo più efficace ne' distici latini
dell'originale, questo sospiro di Angelo Ambrogini (sarà tra breve il
Poliziano) alla quiete e agli agi di una vita, quale egli desiderava la
sua, tutta spesa sui libri degli antichi e nell'esercizio dell'arte,
è schietto documento dello stato e dell'animo di lui quindicenne.
Cinque anni prima, gli avevano ammazzato il padre, per ciechi odii,
ferocemente; il padre, messer Benedetto, uomo di legge, onorato d'alti
offici nella patria Montepulciano, poi giudice a Pisa, cui non era
valso chiedere protezione a Piero di Cosimo de' Medici, che “per
l'amore de' suoi piccoli cinque figliuolini, lo sicurasse in modo che
potesse starsene sicuro a casa sua senza portar arme, che non era suo
mestiere„; nel maggio del 1464, tentando egli invano ripararsene con
le mani inermi, l'avean morto più colpi di coltello e di partigiana.
Vendetta, come allora si usava, ne era stata presa, due anni dopo, da
un nipote che, sangue per sangue, uccise gli uccisori: ma la vedova
si era rimasta con que' cinque figliuolini, e avea dovuto mandare il
maggiore di essi, Angelo, a Firenze, da un cugino del marito, perchè si
cercasse migliori fortune.

Tardavano queste; ed Angelo sentiva ogni dì più, nell'animo vivace,
nella mente addestrata alle lettere, il disagio e il cruccio della
miseria, onde quel sospiro che dianzi avete ascoltato. Ma come,
giovinetto quale era, povero quale era, potesse dare al sentimento la
veste succinta di un epigramma latino, non intenderà chi non rammenti
che fosse, a mezzo il secolo decimoquinto, la coltura italiana e più
specialmente la fiorentina; non rammenti, cioè, i modi e i luoghi di
quell'amore anzi furore per gli studii delle lettere che ebbe allora,
con parola ciceroniana, rimasta fino a' dì nostri nell'uso delle
scuole, titolo di umanità; delle lettere, anzi di tutta quanta la vita
latina e greca; perchè parve che l'Italia, dopo le vicende barbariche,
volesse riabbracciarsi stretta alla madre Roma, e quasi per ossequio di
lei venerare più da presso gli esemplari della vita e dell'arte che i
Romani stessi avevano ammirato nei Greci.

Alla parola Rinascimento non può ormai attribuirsi il senso che
anche qualche anno fa le era attribuito: tra la lingua e la civiltà
latina, tra la lingua e la civiltà nostra, distacco non fu. Come la
persistenza del latino letterario per tutte le scritture nell'età di
mezzo basterebbe a dimostrare, se altre testimonianze mancassero, la
persistenza dell'insegnamento; come le opere degli antichi, giunte
fino a noi su libri copiati nell'uno o nell'altro secolo di quell'età,
dimostrano che mai non furono del tutto obliate, e le citazioni e le
imitazioni ne dan riprova; così i vanti delle famiglie e delle città
che ripetono a gara l'origine degli antichi eroi, e ne onorano i
sepolcri che si credono recuperare, e conservano o dànno ai magistrati
i nomi d'un tempo gloriosi, affermano che il popolo d'Italia non smarrì
mai, e viva e intiera riebbe presto, la coscienza del sangue suo, del
latin sangue gentile. Sì che Dante, il quale osava, contro il dispregio
delle scuole, levare alle altezze del suo pensiero la parlata del
volgo, Dante si stima, proprio perchè fiorentino de' puri, romano, e
fa che Virgilio si stringa fra le braccia con amore di compatriotta il
recente Sordello, e a Virgilio si fida come a connazionale, dicendolo,
con orgoglio di comunanza, nostro. E neppure si era mai spenta, fosse
pur fioca e vacillante, la luce degli studii greci, alimentata da
quanto la Chiesa d'occidente nei testi e nei riti aveva di greco, da
quello che avevano dato e davano a tratti le ragioni politiche, dal più
che recavano i commerci continui tra le repubbliche nostre e l'impero
orientale. Morte dunque non fu, e parola fallace è perciò quella del
Rinascimento; non da sbandirla, ove s'intenda che l'Italia, nei secoli
dall'undecimo al decimosesto, rinvigorita, rallietata tutta, ebbe come
una nuova gioventù di fede in sè e di gagliardia; quasi una grande
quercia che, dopo aver frondeggiato ne' secoli, rotta ed arsa da più
fulmini, sembri, per una stagione, destinata a perire; ma le percosse
stesse e il riposo le hanno invece giovato, e getta fronde novelle, di
verde più gaio, e torna a dare ombre dilette e ghirlande di gloria.

Ma per pochissimi che delle lettere classiche sapevano tanto da
valersene come di nutrimento vitale al pensiero, per pochi che almeno
modellavano lingua e stile su questo o su quell'autore de' buoni,
quanti (e parlo sempre degli uomini colti) confondevano le forme della
grammatica in un gergo strano, dove non era nè il latino corretto nè il
volgare schietto, e le cose e gli uomini dell'antichità confondevano
in una scienza tutta errori e leggende! Il popolo s'era fatto un
Virgilio mago, del quale narrava le arti: come avesse purgata Napoli
dall'aria cattiva, dalle sanguisughe che ne guastavano le acque, dalle
cicale, dalle mosche, dalle zanzare che la tediavano, dalle serpi che
la infestavano; come avesse aperto il monte di Posillipo, e, quel ch'è
più, atterrito il Vesuvio dall'erompere, con la statua d'un arciere
pronto sempre a saettarlo. Molte di queste e altre tali meraviglie
ingrossavano la biografia del poeta ai tempi del Petrarca; e un
fiorentino non incolto, Antonio Pucci, ne registrava alcune in un suo
zibaldone, avvertendo che “quantunque paiono a grossi huomini favole
perchè in loro cuore non le possono comprendere, abbi quelle che udirai
per vere„. E un altro poeta, più oltre, sui primi del quattrocento,
poteva di Virgilio arditamente affermare che, andato a scuola,

    per la testa grossa che lui avia,
    da' scolari Marone era chiamato.

E già era stato detto innanzi, Virgilio derivare da _ver gliscens_,
perchè ei fu vario e fecondo come la primavera, e Marone dal mare,
perchè abbondante di scienza come d'acque il mare. Così d'Ovidio e il
popolo e i dotti favoleggiavano miracoli; e sul nome facevano, ch'era
esercizio consueto, belle fantasie: “Ovidio fu poeta (scriveva uno de'
primi commentatori di Dante) et fu chiamato Publio, et per sopranome
Ovidio _ab ovo_, perchè aveva tondo il viso, ritratto come un ovo: fu
ancora chiamato Nasone, perchè aveva uno grande naso.„ Sallustio era
fatto da alcuni zio di Cornelio Nipote; Stazio, contemporaneo di Ennio,
e padre di due figliuoli, Archimede e Tebaide, nei quali è facile, con
la correzione del primo nome in Achilleide, riconoscere i poemi suoi;
e quasi nomi di uomini erano già stati citati _Eunuchus comoedia_ e
_Orestes tragoedia_; Plinio il vecchio, confuso col giovane, aveva ai
molti libri suoi la giunta di leggende su Lucifero e su l'Anticristo;
e Marziale, per gli epigrammi culinarii, il titolo di cuoco. Nè più
si sapeva o si capiva della mitologia: “Venus fue una bellissima
donna, regina de Cipri, e fue sì bella che quanti la vedeva di lei
innamorava: unde dapuò la sua morte fue deificata e dicta dea de lo
amore„; “Apollo nacque in Delo e fue sommissimo astrolegho e tractò del
corso del Sole; e per tanto fue deifichato in lo quarto pianeta. Questo
Apollo che uno figlio dicto Eschulapio, che grande tempo medichò per
la scienza del padre; imperò che Apollo fue lo primo che trovasse la
medicina, et poi stete grande tempo persa, perchè, morto Eschulapio,
le grosse giente arsero i libri, perchè trovavano che le cose venenose
intravano nelle medicine; et non sapendo considerare l'utele de la
scienza, desfecero i libri.„ Basti il saggio breve: tali, su per giù,
la conoscenza e l'intelligenza dei miti negli anni in cui il Petrarca e
il Boccaccio si affaticavano a restaurarne lo studio, e iniziavano la
critica filologica e storica; dove è da notare, per segno dei tempi,
che il Petrarca a Roberto re, il quale, presenti molti, lo dimandava
sulla grotta di Posillippo, se la credesse anch'egli opera della magia
virgiliana, rispose deridendo quelle stoltezze; e il Boccaccio, invece,
nel commento all'Inferno dantesco, le ribadiva. Le menti del medio
evo, disadatte a uscire dal cerchio del presente, e giorno per giorno
seguitando ad allontanarsi inconscie dal modo antico di vedere e di
rappresentare, non intendevano più nè l'arte nè la vita de' secoli
greci e romani; e quando volevano rappresentarle, le travestivano. Ciò
che alla mitologia, accadde alla storia: Teseo diventò duca d'Atene;
Atene ebbe una università come avevano allora Parigi e Bologna;
Alessandro Magno, dopo aver corso co' suoi baroni e signori tutto
l'Oriente, scese in una gabbia di vetro fin giù nel fondo del mare,
tentò l'entrata del Paradiso terrestre; Nerone partorì dal fianco una
ranocchia; la regina di Fiesole, Belisea, prigioniera di Catilina,
andò “la mattina di Pasqua di Pentecosta alla chiesa nella Calonaca
di Fiesole alla messa„ (mi è ben lecito citar qui il Malispini); e
Catilina, sfidato da Attila “fece con lui sì aspra battaglia, che
pochi ne camparo dall'una parte e dall'altra, e Attila fu ritrovato
morto presso all'Arno, e Catellina fu ritrovato morto nella costa di
Fiesole„.

Tale, fino a non più che cento anni innanzi al Poliziano, e anche
più da presso, la dottrina che scrittori non incolti avevano
dell'antichità. E quanto sapessero di latino, per quel che è della
correzione e dell'eleganza, mostra il latino stesso di Dante, che
pur sapeva a mente tutta l'Eneide: dirò di più, il latino stesso del
Petrarca, tanto migliore di quel di Dante, e pur tanto lontano ancora
dalla retta imitazione de' classici, e spregiato per ciò dagli umanisti
più tardi, non senza ragione, come barbarico. E sì che il Petrarca fu
davvero, quale lo vantano i frontespizii nelle antiche stampe delle
opere sue, “filosofo, oratore e poeta chiarissimo, della rifiorente
letteratura e lingua latina, per molti secoli da orrenda barbarie
deturpate e quasi sepolte, confermatore e instauratore„. Parole
magnifiche, ma non false. Discepoli suoi possono infatti considerarsi
e il Boccaccio e il Salutati e il Marsigli e il Malpaghini, co' quali
l'erudizione classica meglio si addestrò e si fe' laica e divenne
parte necessaria della vita civile e politica. D'allora in poi
l'umanesimo, sì bene avviato, avanza ogni anno di spazio, cresce ogni
anno d'intensità: Firenze è il focolare; le faville se ne diffondono
per tutta Italia, e, secondo i luoghi, suscitano fiamme nuove o dan
forza ai fuochi che già ardevano chetamente: a Venezia, Padova, Verona,
Milano, Pavia, Genova, Mantova, Ferrara, Bologna, Rimini, Urbino,
Pesaro, e Foligno, e Camerino, a Siena, a Roma, a Napoli, là dove era
un reggimento aristocratico, repubblicano o principesco o pontificio
che fosse, ivi da per tutto chiamare maestri, raccoglier libri, educare
i giovani alle lettere con lezioni e con dispute, reputare decoro e
utile della città e dello Stato un cancelliere che sapesse vestire
consulte e ambasciate di adequati e sonanti ed efficaci periodi. Da
queste città in altre attorno minori; dalle corti e da' magistrati
supremi nelle famiglie, fino alle donne. Leggesi sulla fine del
trecento, di una gentildonna veneziana: “Chostei fu lodata et dotata de
una piacevole grammaticha (seppe, cioè, di latino), et udio li poeti
(i latini, s'intende) in questo muodo, che, essendo lei fanzulla, la
madre la mandò a la scola perchè imparasse da legere a ziò che dire
potesse lo officio de Nostra Donna; poi, essendo grande, intanto lo
padre teneva uno grande maestro in poexia che legieva a li figioli li
autori; et chostei, udendo quelli, et udendo latinare, meravigiosamente
si fece saputa, et molto si dilectò in Virgilio, et piacevolmente
lo intexe, e sì bene che io, che zià la udi' parlare, a pena me'l
consento.„ Ben s'intende come, un secolo dopo, il Poliziano, visitata
a Venezia Cassandra Fedele, dotta di greco e di latino, sì che la
Repubblica gelosa non volle mai che, per inviti di re e di pontefici,
lasciasse la terra di San Marco, il Poliziano potesse scriverne a
Lorenzo de' Medici: “È cosa mirabile.... Partimi stupito.„ Nè che in
Firenze ricambiasse con lui epigrammi greci Alessandra Scala, che in
greco recitava l'Elettra di Sofocle.

Perchè anche gli studii del greco, che fino al secolo undecimo avevano,
se non fiorito, perdurato, specialmente nell'Italia meridionale,
nè mai si erano inariditi del tutto, si riebbero presto e divennero
necessario compimento a quelli del latino. Fino dal 1359 il Boccaccio
erasi accolto in casa un maestro di lettere greche, Leonzio Pilato
calabrese, e gli avea procurata una cattedra in Firenze e libri greci
da interpretare: e il Petrarca, che volle costui a Venezia, gli diede
poi a tradurre, per prezzo, l'Iliade e l'Odissea; ormai disperava
intendere da sè quei libri greci che aveva imparato a decifrare da un
altro calabrese, frate Barlaam, e che, non intendendoli, si compiaceva
almeno di possedere. Venne finalmente da Costantinopoli un maestro
migliore, Manuele Crisolora; e già nel 97, per merito del Salutati, ne
ascoltavano a Firenze le lezioni più giovani volonterosi e ingegnosi:
quando, sette anni dopo, il Crisolora se ne tornò in patria, un altro
giovane, Guarino veronese, lo accompagnò come servo, pur d'imparare!
Anche il greco era ormai riconquistato alla coltura italiana.

Que' giovani si spandono per l'Italia e per la Germania, frugano le
biblioteche degli antichi conventi; traggon giù dagli scaffali tarlati,
detergono dalla polvere de' secoli, i manoscritti, e gli scorrono qua
e là frettolosi, col cuore che batte di desiderio e di speranza; ecco
le orazioni di Cicerone, i carmi di Catullo, gli annali di Tacito; ecco
le voci degli antichi nostri, che per lungo silenzio parean fioche,
levarsi da quelle membrane ingiallite a orecchie bramose e capaci di
comprendere. Ed altri scrivono a Costantinopoli per aver libri greci,
s'imbarcano essi stessi, comprano, rubano talvolta; ecco Sofocle,
ecco Platone, ecco i doni dell'arte e della sapienza ellenica che i
nostri antichi tesoreggiarono e che noi vogliamo riammirare, nè ci
lasceremo sfuggir più. A Strasburgo, nel 1439, un tale muove lite a
un tal altro perchè gli mantenga i patti conchiusi con un suo fratello
defunto, nell'esercizio di una certa arte arcana: i testimoni parlano
di ordigni strani, torchi, forme, punzoni: il socio citato in processo
è Giovanni Gutemberg. La stampa è inventata: l'eredità dei classici
è assicurata al pensiero moderno; promesso e assicurato con lei a te,
o pensiero moderno (lo dirò col poeta), il trionfo “su l'età nera, su
l'età barbara, sui mostri onde tu con serena giustizia farai franche le
genti!„

Dopo il Bruni, morto nel 44, il Valla nel 57, Poggio Bracciolini e
l'Aurispa nel 59, il Guarino nel 60, Flavio Biondo nel 63, l'umanesimo
ha ottenuto, non tutti i frutti suoi, ma tutto quanto il campo che
dissoderà: la critica e la interpretazione dei testi, la storia, la
geografia, l'epigrafia, la numismatica; l'archeologia insomma o la
filologia; e d'altra parte, la grammatica e la retorica come strumenti
all'imitazione delle forme letterarie classiche: la correttezza,
cioè, la scioltezza ed eleganza delle prose e dei versi sì latini che
greci. Quando nel 1453 cadde l'impero d'Oriente (fo mia una notevole
osservazione del Del Lungo) non furono i profughi che ci recassero la
scienza, ma sì la scienza nostra li assicurò di accoglienze buone e
fraterne.

E intanto Cosimo de' Medici, di quella famiglia di popolani mercanti
il cui nome entra nella storia tra le prepotenze di parte Nera nel
1301 con un assassinio, Cosimo, il più ricco uomo d'Italia e il più
liberale, padroneggiava Firenze; e attorno a sè, per amor di dottrina e
arte di governo, raccoglieva uomini di lettere e codici, e, conversando
coi greci, ideava l'accademia platonica. Lo studio fiorentino avea
lettori e ordinamenti compiuti; la città si adornava di edifici e di
opere stupende; il danaro affluiva; la Signoria stessa si rinnovava di
fogge e di suppellettili il corteggio e il Palazzo. Onde Piero, dopo
la morte del padre suo che fu titolato padre della patria, potè meglio
sentirsi e assumere sembianza di principe; e come principi fece educare
nei costumi e nelle lettere i figli Lorenzo e Giuliano. Quando nel
1469 morì, il primogenito non titubò a pigliarsi la cura dello Stato;
e Firenze ebbe, e nel bene e nel male, i giorni che già Atene con
Pericle. La libera città de' mercanti artisti perdeva nel fatto, se non
di nome, le istituzioni repubblicane; in ricambio non buono, acquistava
gli splendori della corte medicea e dell'umanesimo.


II.

Ormai è chiaro in che modo il quindicenne Ambrogini potesse lamentarsi
della sua miseria in distici garbati; ci è chiaro anche in che modo
potè, indi a poco, rompere la malignità della sorte. La protezione
che quel povero messer Benedetto aveva chiesta invano a Piero de'
Medici, fu dal figlio dell'invocato protettore conceduta al figlio
dell'assassinato, non tanto forse per la pietà dei casi suoi quanto
per la stima dell'ingegno e della dottrina. Lorenzo aveva sei anni
soli più dell'Ambrogini, e comuni con lui gli studii, del pari che
alcune qualità della mente; pregato egli giovine poeta da un poeta
giovine, che lo salutava e si diceva tutto suo, s'intende che subito
ricambiasse il saluto e l'offerta con benevolenza di signore e cortesia
di confratello. Che mai chiedeva in distici latini il minore al
confratello magnifico? Prima di tutto un paio di scarpe, chè i diti dei
piedi gli si affacciavano dalla rotta prigione alla vista del cielo,
e un vestito, fosse pure usato, che non mostrasse le corde e peggio,
come quello che lo faceva schernire da' beceri. Delle scarpe non so; il
vestito venne; e tali furono, in versi che mi spiace dover guastare, i
ringraziamenti:

    Ben io volea più volte ne' carmi renderti grazie,
      Lorenzo, o gloria prima de' tempi tuoi;
    sì che invocai la Musa Calliope con lunghe preghiere,
      ed ella venne, e avea seco l'arguta lira.

    Venne; ma come addosso mi vide le splendide vesti,
      subito volse a dietro l'isbigottito piede,
    chè ravvisar la Dea non seppe sì bello il poeta:
      troppo mi fa mirando questa vermiglia toga!

    Onde se a te minori dà il verso le debite grazie,
        colpa ha la Dea che niega regger la penna mia.
    Oh che leggiadri carmi udrai, sì tosto che avvezza
        a' miei splendori nuovi si sia la Musa!

La valentia che questi epigrammi dimostravano, fu confermata a Lorenzo
da' maestri dello Studio, tra i quali Marsilio Ficino che di quello
scolaro prometteva grandi cose: anche meglio la confermò, subito dopo,
il secondo libro dell'Iliade, recato in esametri latini, di colore
e sapore virgiliano, e offerto a Lorenzo medesimo. Il primo libro ne
era stato tradotto, per desiderio di Nicolò V, da un segretario della
repubblica, il Marsuppini, morto nel 1453: non potea non piacere al
Magnifico, che l'impresa fosse continuata a Firenze, sotto gli auspicii
suoi; ed Angelo, che secondo l'uso degli umanisti si ribattezzava, dal
nome della patria, in Poliziano, lasciò la casuccia di via Saturno,
dove il cugino povero lo aveva ospitato, e salì le scale del palazzo
mediceo in via Larga. Le salì certo senza borbottare il verso di
Dante, che è duro salire le scale altrui: perchè egli era giovane
molto, e sapeva la cortesia del protettore; e perchè l'umanesimo aveva
raddolcite le asprezze del vivere medievale, ma anche, mi convien
dirlo, scemato il vigore degli animi, e adusati i letterati e gli
artisti a stimarsi artefici di diletto e di fama ai potenti, anzi che,
come Dante fu, gl'interpreti e i vindici della rettitudine e della
patria. Fatto sta che il Poliziano, disposto a celebrare, in gloria di
Lorenzo, quasi una nuova Iliade, perfino il sacco spietato di Volterra,
e sollecito pedagogo ai figli di lui, se ebbe sempre a lodarsi del
padrone, si accorse anch'egli che il pane altrui sa di sale quando fu
poi preso in uggia dalla padrona, madonna Clarice.

Ma tali fastidii sentì più tardi. Allora, godendosi la quiete operosa
di che già avea disperato, attendeva alla versione d'Omero. Dalla
quale non gli fu grave distrarsi per ammirare a Mantova le feste che
il Gonzaga diede in onore di Galeazzo Sforza e Bona di Savoja sposi,
nel luglio del 1471; per ammirarle e farvisi ammirare; poi che quivi,
come volle il cardinale di Santa Maria Nuova, che l'avea conosciuto
allora allora in Firenze, dovè, entro quarantotto ore e in quella tanta
confusione, mettere insieme la favola d'Orfeo. Rammentatevi che il
Poliziano, nato il 14 luglio del 1454, compiva proprio in quei giorni
17 anni.

Perchè fosse meglio inteso dagli spettatori, l'Orfeo fu in volgare.
E forse spiacque allora al giovine umanista dover piegarsi, oltre
all'angustia del tempo, anche a codesta necessità; tanto che poi si
doleva, gli amici avessero conservato quell'abbozzo, e, pur assentendo
che ormai vivesse, gli volle unita un'epistola a testimonio della
sua riluttanza. Vero è che vi aveva cacciato dentro, per amore o
piuttosto per forza, almeno una strofe saffica sua, e due distici
d'Ovidio accomodati al proposito; ma troppo misero segno era quello
della dottrina sua e di latino e di greco! Qualche anno dopo, quando a
tutti egli appariva maestro nelle lettere classiche, s'intende invece
che non senza un segreto compiacimento concedesse agli amici la favola
improvvisata, in quella età e a quel modo, con tanta snellezza ed
eleganza di rime. E il compiacimento gli sarebbe stato maggiore se
avesse potuto prevedere l'importanza che un tempo si attribuirebbe
all'Orfeo, primo esperimento certo di adattare ai metri e alle forme
delle sacre rappresentazioni la materia profana. Un palcoscenico, più
largo che fondo, diviso, a una certa distanza, da quella che oggi
dicesi la ribalta, in due scompartimenti; al modo stesso che oggi
vediamo, per esempio, nel _Rigoletto_; salvo che nel melodramma odierno
è da un lato l'interno della casa, e dall'altro la via contigua,
mentre nella favola antica le selve della Tracia stavano a ridosso
dell'Averno, che gli spettatori dovevano immaginarsi sotterra; dalle
selve e dall'Averno si facevano a mano a mano innanzi sul proscenio
i personaggi; e supponevasi determinato il luogo dell'azione dallo
scompartimento onde essi erano usciti. L'Averno, nel quale si vedevano
vivi Plutone re, e Proserpina e Minos e una Furia, e s'intravedevano
per artificio di pitture Issione, Sisifo, Tantalo, le Danaidi, Cerbero,
le altre Furie, disse subito agli invitati del Gonzaga che l'arte
del giovinetto omerico, come lo chiamava il Ficino, li avrebbe tratti
nelle fantasie pagane; e la curiosità della festa, con quella novità,
dovè accendersi più. Ed ecco, invece dell'Angelo consueto, Mercurio
in persona a esporre l'argomento; e dopo lui, quasi a temperar la
tristezza delle morti annunziate, un pastore schiavone, cioè trace,
suscitare il riso ribadendo l'ammonizione agli uditori in un suo gergo
strano:

    State tenta, bragata; bono argurio
    chè di cievol in terra vien Marcurio.

Ma Aristeo e Mopso, sebbene pastori traci anch'essi, dan principio alla
favola ragionando tra loro in rime di squisito eloquio; e Aristeo,
perchè il vecchio intenda meglio la forza dell'amore onde è preso,
si fa accompagnare da lui sulla zampogna mentre canta una ballata di
perfetta toscanità.

    Udite, selve, mie dolce parole,
      poi che la ninfa mia udir non vole.

    La bella ninfa è sorda al mio lamento
      e 'l suon di nostra fistula non cura:
      di ciò si lagna il mio cornuto armento,
      nè vuol bagnare il grifo in acqua pura,
      nè vuol toccar la tenera verdura;
      tanto del suo pastor gl'incresce e dole.

    Udite, selve, mie dolce parole,
      poi che la ninfa mia udir non vole.

Tirsi, servo d'Aristeo, che si vanta di avere ravviato con suo gran
rischio nella mandria di Mopso un vitello smarrito, getta un'altra
risata nell'azione che si affretta a mal fine per colpa sua; ha vista
una donzella coglier fiori, e la descrive bellissima; onde Aristeo
riconosce l'amata e ne va in cerca e la insegue. Passano su la scena
correndo; poi si ode di dentro alla selva uno strido; un serpe velenoso
ha punto la giovine che là cercava nascondersi dall'inseguitore.
Turbati così gli animi degli spettatori, il poeta, quasi a intermezzo
di svago, fece che s'inoltrasse Orfeo con in mano la lira miracolosa,
e accennasse su questa in saffici latini le lodi del cardinale, figlio
secondogenito del marchese Lodovico, augurandogli la tiara; il marchese
dava la festa, il cardinale l'aveva voluta più bella per l'arte di
lui Poliziano: ma l'ode, già nota, credo, a' lodati, ai quali per ciò
quell'accenno bastava, era subito interrotta da un pastore:

    Crudel novella ti rapporto, Orfeo,
      che tua ninfa bellissima è defunta.

E Orfeo, con dolorosi lamenti, andava davanti all'inferno a impetrare
gli fosse resa Euridice, mortagli così crudelmente nel voler serbare la
fede coniugale.

Nel Convito di Platone si legge un raffronto di alta idealità tra la
sorte d'Alceste e quella d'Orfeo. Alceste, osserva Platone, per salvare
il marito suo Admeto, volle morire per lui, e gli Dei le concessero
il premio di tornare dall'Ade alla luce e all'amore; ma Orfeo gli Dei
“senza effetto rinviaron dall'Orco, dopo avergli soltanto mostrato
la imagine della donna per la quale v'era disceso; non già gliela
resero, chè giudicarono, si fosse comportato vilmente e da citaredo
ch'egli era, per ciò che non avesse avuto il coraggio di morir per
amore, come Alceste, ma ingegnato a penetrar vivo nell'Ade: e di ciò
certamente lo voller punito, facendo ch'e' fosse morto dalle donne„.
Che il Poliziano, discepolo del Ficino, rammentasse il Convito, non
è improbabile; l'arte a ogni modo gli suggerì un grido almeno, che,
rispettando il mito tradizionale, desse alla parlata d'Orfeo più calore
di perorazione. Rendetemi Euridice,

    e se pur me la nieghi iniqua sorte
    io non vo' su tornar, ma chieggio morte!

Proserpina si commuove al lamento di costui genuflesso innanzi
a Plutone, al lamento che ha fatti dimentichi i tormentati e i
tormentatori dei supplizi infernali; e induce a pietà il marito:
Orfeo riavrà Euridice, solo che non si volga a guardarla prima che
siano tra i vivi. Ma il citaredo, direbbe Platone, nel cantare a gioia
“certi versi allegri che sono d'Ovidio„ dimentica il patto, e perde
la donna sua, cui richiede invano, subito spaurito (oh citaredo!),
dall'opposizione di una Furia. E peggio fa del lasciarsi atterrire; chè
bestemmia (con che ragione? ma la favola portava così) l'amore delle
donne, e si propone d'ora in poi farne a meno. Sì che una Baccante non
ha torto quando indignata chiama le compagne ad ucciderlo: e fuor dalla
vista degli spettatori lo straziano, per recarne in trionfo la testa
cantando le lodi di Bacco in una ridda gioiosa.

    Ognun segua, Bacco, te!
      Bacco, Bacco, eù, oè!

    Chi vuol bever, chi vuol bevere,
      vegna a bever, vegna qui.
      Voi imbottate come pevere.
      Io vo' bever ancor mi.
      Gli è del vino ancor per ti.
      Lassa bever prima a me.

    Ognuno segua, Bacco, te!
      Bacco, Bacco, eù, oè!

Così, non senza un po' nelle rime di quello schiavone o trace comico
da cui aveva prese le mosse, chiudevasi comicamente la festa. Festa
drammatica, non dramma vero, e tanto meno tragedia di tipo classico,
quale poi altri la volle per altre feste racconciare alla meglio,
con accrescerla e distinguerla in atti. Di drammatico non ha l'Orfeo
altro che il dialogo, il quale anche vi si leva sempre che può alla
lirica: troppo più efficace il contrasto degli affetti e più rude ma
viva la voce d'essi, troppo maggiore insomma la commozione del fatto
e dello stile, in alcuna delle rappresentazioni sacre di cui la festa
profana aveva accettato i metri e le forme. Se non che, pur lasciando
da parte la importanza storica che l'Orfeo ha, appunto per essersi
valso di esse forme in argomento profano, oh come dolce vi sonava
il volgare, lo spregiato volgare, ripetendo sulle intonazioni degli
strambotti popolari le immagini elette de' classici greci e latini!
Le Muse antiche tenevano un po' il broncio, nel secolo decimo quinto,
alla Musa nostra novella, che ne' due secoli innanzi aveva, non certo
volendo, minacciato pareggiarle e superarle in bellezza. Virgilio si
era soffermato con Dante sulla spiaggia del Purgatorio, dimentico di
sè e del discepolo affidatogli, a udire i versi di Dante medesimo,
che aveva musicati e ricantava Casella: e le muse di Grecia e di Roma
s'indispettivano più, ripensando quell'omaggio che il loro alunno
migliore aveva fatto alla Musa d'Italia. Spettava al diciassettenne
toscano, che traduceva Omero in latino, la gioia e la gloria del
riconciliarle nella festa italiana d'Orfeo: le antiche, non più gelose,
abbracciarono finalmente la giovine sorella; e a lei, cogliendo insieme
il destro a premiare chi aveva il merito della pace, a lei promisero
splendidi doni: le Stanze del Poliziano stesso, o l'Orlando Furioso di
Lodovico Ariosto.


III.

Intonazione popolare, ho detto, e immagini classiche. Sì fatta
mistura non poteva riuscir felice, prima che ne fossero separatamente
manipolati e affinati gli elementi; e per ciò neppure al Boccaccio,
che la tentò ne' poemi, accadde d'ottenerla, se non forse qua e là
nel Ninfale fiesolano. Ma i prosecutori dell'opera sua di umanista e
di poeta, avevano, dagli ultimi decennii del trecento in poi, quali
studiata l'arte su gli antichi, quali invece teso l'orecchio alle
canzoni del popolo, quali anche coltivato insieme le canzoni e gli
studii. Onde Franco Sacchetti, così schietto popolarmente e grazioso
nelle ballate e ne' madrigali che rime sue furono poi attribuite al
Poliziano; onde Leonardo Dati, che tenta dottamente in volgare una
tragedia a uso Seneca, e in volgare sperimenta, dopo l'endecasillabo
già scioltosi dalla rima per imitazione de' latini, il verso esametro e
il saffico; onde Leonardo Giustinian, che parla in greco all'imperatore
di Costantinopoli, recita in pubblico orazioni latine, e insegna ai
liuti veneziani i più cari strambotti, le più dolci canzonette che
fossero mai state ascoltate da belle innamorate e da allegri compagni.
E, passando da liuto a liuto, da bocca a bocca, queste canzonette
veneziane o giustiniane, come le dicevano, scesero giù per l'Italia;
e Firenze, correggendole alla parlata toscana, cioè alla lingua
nostra letteraria, le fe' sue. Quando il Giustinian morì, che fu nel
1446, la poesia del popolo aveva dunque trovati cultori insigni a
raggentilirla; e a Luigi Pulci, nato nel '32, a Lorenzo de' Medici,
nato nel '48, e al Poliziano, non mancavano dunque gl'incitamenti e gli
esempii a perseverare e a compiere l'impresa leggiadra. D'altra parte,
l'imitazione de' classici aveva anche essa progredito; anzi, era giunta
allo sforzo ed alla goffaggine; non tanto, a parer mio, in quei metri
del Dati che oggi diciamo barbari, quanto nell'abuso dei vocaboli e
dei costrutti latini e delle erudizioni mitologiche e storiche alla
pedantesca.

Il poeta dell'Orfeo, che aveva cominciato dagli studii del latino e del
greco, vedeva accanto a sè, nel palazzo Mediceo, Lucrezia Tornabuoni,
madre di Lorenzo, scrivere laudi a uso del popolo, e Lorenzo piacersi
a scrivere sacre rappresentazioni e laudi anche lui, e insieme canzoni
a ballo e canti carnascialeschi; udiva Luigi Pulci, per desiderio di
madonna Lucrezia, racconciare nel Morgante a stile fiorentinescamente
snello e a racconto maliziosamente arguto le rozze storie d'un rimatore
plebeo. Provatosi così bene al volgare nella favola mantovana, è da
credere che allora, in quella brigata di cui ho detto soltanto i nomi
più illustri, tra l'ammirare e il ridere e il dar suggerimenti, meglio
si esercitasse nelle rime dei rispetti e delle ballatine, quasi a
sollievo dalla versione dell'Iliade e dall'erudizione che accumulava
portentosa. E perchè quel rimare gli era un sollievo, non fa meraviglia
che si astenesse dagli argomenti e dai metri più alti e più laboriosi,
la canzone e il sonetto: di canzoni, una sola ne ha, a imitazione del
Petrarca; di sonetti, a quel che sembra, neppure uno; di sirventesi,
che era metro popolare, ma troppo soleva andare per le lunghe, non
più che uno, prenunziante la prima scena dell'Aminta, in servigio
di Giuliano de' Medici, per conto del quale, da coetaneo e amico,
scrisse altri versi d'amore. Le ottave dei rispetti, le strofette delle
ballate, non chiedevano alla facilità e grazia dell'ingegno e della
penna che pochi quarti d'ora, tra la lettura di due codici, la versione
di due episodii, e, un po' più tardi, tra una lezione e l'altra a
Piero, primogenito di Lorenzo, e a Giovanni.

I sospiri, i dispetti, i vanti, le disperazioni, le maledizioni degli
innamorati, le immaginette rusticali e primaverili, gli scherzi e le
mariolerie fiorentine, le novellette e le satire, ebber vita così negli
accenti variamente affettuosi, gai, rabbiosi di quelle brevi poesie:
un mazzo che sopra è di rose fragranti e sotto di spine pungenti.
Il Poliziano era di sua natura epigrammatico, nel senso antico della
voce; spesso, scrivendo agli amici, se la godeva di sbrigarsene con
poche parole: — Ti lamenti che non ti rispondo: non ti lamentar più;
t'ho bell'e risposto. — Gran dispiacere, gran piacere ho avuto, della
tua malattia, della tua guarigione. — Siete in parecchi a chiedere
che vi scriva: ecco fatto: lettera unica, perchè vi amo unicamente;
ma le saranno più lettere, poi che a leggerla sarete in parecchi. —
Figuratevi poi, con la scaltra lingua toscana, e al bisogno col gergo
fiorentino, col verso, con le rime, in argomenti adatti, ammaestrando
le donne ad acquistarsi e a mantenersi gli amanti, narrando le
sue buone venture e sventure amorose, vituperando una vecchiaccia
sfacciata, toccando insomma quasi tutte le corde dell'antica lirica
popolare.

    Donne mie, voi non sapete
      ch'i' ho el mal ch'avea quel prete.

    Fu un prete (questa è vera)
      ch'avea morto el porcellino.
      Ben sapete che una sera
      gliel rubò un contadino
      ch'era quivi suo vicino;
      (altri dice suo compare):
      poi s'andò a confessare,
      e contò del porco al prete.

    El messer se ne voleva
      pure andare alla ragione:
      ma pensò che non poteva,
      chè l'aveva in confessione.

      Dicea poi tra Le persone:
       — Ohimè, ch'i' ho un male
      ch'io nol posso dire avale. —
      Et anch'io ho il mal del prete.

Tra queste malizie il sentimento della vita e della natura, caldo,
giulivo, libero, sì da effondersi talvolta in rime che sembrano
scheggiare i canti goliardici. Ma qui anche meno abbisognan gli
esempii. Chi non sa i conforti ad amare che la fanciulla dà alle
compagne?

    Quando la rosa ogni sua foglia spande,
      quando è più bella, quando è più gradita,
      allora è buona a mettere in ghirlande,
      prima che sua bellezza sia fuggita:
      sicchè, fanciulle, mentre è più fiorita
      cogliàn la bella rosa del giardino.

E chi non sa il canto pel rinnovamento della primavera che Firenze,
la città della primavera, salutava con feste? Non eran più, nel
quattrocento, le laute accoglienze di che narra il Villani, corti
coperte di drappi e zendali, e desinari e cene; ma le schiere de'
giovani correvano ancora la città agitando i ramoscelli in fiore, le
frondi verdi, i gonfaloni selvaggi.

    Ben venga maggio
      e 'l gonfalon selvaggio!

    Ben venga primavera
      che vuol l'uom s'innamori.
      E voi, donzelle, a schiera
      con li vostri amadori,
      che di rose e di fiori
      vi fate belle il maggio,

    venite alla frescura
      delli verdi arbuscelli.
      Ogni bella è sicura
      fra tanti damigelli;
      chè le fiere e gli uccelli
      ardon d'amore il maggio.

Ma non c'indugi la dolcezza de' suoni. Nel gennaio del 75, Giuliano
de' Medici trionfò in una di quelle giostre che porgevano a' signori
l'occasione di ostentare lor valentia cavalcando e armeggiando;
spettacolo pomposo e gradito al popolo. Il fratello maggiore,
Lorenzo, si era meritato, sette anni innanzi, il premio in una giostra
consimile, di cui avea celebrate le gesta e l'eroe, con un poemetto,
Luigi Pulci, come si usava sì per le giostre, sì pel giuoco del
calcio, sì per altri sollazzi, dai cantastorie; i quali compievano,
dati i tempi, l'officio de' cronisti ne' nostri giornali, non so con
quanto più di verità, certo con più fatica, perchè le fandonie le
strimpellavano in rima. Anche questo genere era dunque ormai caro
a' poeti d'arte: se non che il Pulci, come nel Morgante, così nella
Giostra, lo aveva accettato, almeno per le apparenze, tal quale,
dilettandosi nella parte finta del cantimpanca o d'un suo inspiratore;
tanto che diceva dover chiudere il racconto

    perchè il compar, mentre ch'io scrivo, aspetta
    ed ha già in punto la sua violetta.

Sapete che il compare aspettava nientemeno che dal 69? ed egli smise
di scrivere soltanto allora che si preparava la giostra del 75, in cui
spettava a Giuliano il trionfare. Poco più sollecito ma più elegante
poeta ebbe questi: poco più sollecito, perchè, se ci pensò prima, e se
forse qualcosa ne abbozzò, il Poliziano non si pose a stendere il poema
ordinatamente che dopo trascorso un anno dalla giostra. In compenso non
cantò le armi soltanto; cantò, più che le armi, gli amori.

Giuliano, che nella tela del Botticelli spira, giovenilmente pensoso,
una dolce mestizia, era innamorato, cavallerescamente e platonicamente,
com'era la moda, di quella Simonetta Cattaneo, moglie a un Vespucci,
che Piero di Cosimo, o altri, dipinse esilmente gentile. Ma la Vespucci
visse, dopo la giostra, pochi mesi più. Nell'aprile del 1476, scriveva
di lei a Lorenzo un amico ponendola accanto alla Laura del Petrarca:
“La benedetta anima della Simonetta se ne andò a paradiso, come so
harete inteso: puossi ben dire che sia stato il secondo trionfo della
Morte; chè veramente havendola voi vista così morta, come la era, non
vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fusse in vita: _requiescat
in pace_.„ Lorenzo stesso la pianse in versi; e il Poliziano, già
interprete de' sospiri amorosi, ebbe a far distici sulle esequie, co'
pensieri che Giuliano gli suggerì. Allora il racconto della giostra
dove Giuliano si era cavallerescamente adoperato per amore e onore di
lei, si allargò nella mente del poeta e comprese in sè anche la storia
di quell'amore. Il genere popolano delle narrazioni in ottava rima di
giuochi e apparati, venuto nelle mani d'uno scrittore geniale come il
Pulci, passava pertanto da quelle di lui a più squisito artefice, e da
questo era volto alla imitazione de' carmi encomiastici antichi; non
altrimenti che i racconti romanzeschi, proprio in quelli anni, salivano
dalla piazza al palazzo per opera del Pulci medesimo, ed erano da
Matteo Maria Boiardo, traduttore d'Erodoto, avviati sulla imitazione
de' poemi classici. Ove per altro conviene aggiungere che il Boiardo fu
grande poeta, e nel calore dell'invenzione fuse stupendamente l'antico
e il moderno in un metallo nuovo; il Poliziano fu grande artista,
e nell'agevolezza dell'esecuzione compose dell'antico e del moderno
un mirabile mosaico: all'uno mancò l'eleganza della lingua e dello
stile, all'altro la virtù delle alte concezioni: l'uno e l'altro erano
necessarii a preparare Lodovico Ariosto, poeta ed artista grande.

Ho detto con ciò il difetto e il pregio delle Stanze per la giostra:
il difetto è nel disegno generale, il pregio è nel disegno e
nell'esecuzione dei particolari. Come fare un poema degli amori cortesi
e delle armi cortesi di Giuliano? Ecco il modo. Julio, figlio della
etrusca Leda, cioè a dire Giuliano figlio della Tornabuoni, sdegnava
d'amare: Cupido volle che amasse, e in una caccia gli fece apparire una
cerva bellissima; la quale, trattolo via dalla brigata de' compagni,
disparve: ma al giovine non ne importava più, perchè si vedeva innanzi
una donna troppo più bella della cerva bellissima: la Simonetta.
Inutile dire che se ne innamora, e Cupido torna tutto lieto alla madre
Venere. Fin qui il primo libro. Nel secondo, i vanti di Cupido per la
vittoria, buona occasione alle lodi della casa medicea: il racconto
di un sogno che Venere manda a Julio, perchè si accenda a mostrare
all'amata la sua bravura in una giostra, sebbene egli abbia da quel
sogno stesso il prognostico della prossima morte di lei; e la preghiera
di Julio a Pallade, a Venere, a Cupido, che lo aiutino nell'impresa
della gloria e dell'amore. E qui il poema, come il monumento che
Michelangelo scolpì a' due fratelli Medici, rimase interrotto. Perchè?
Il 26 aprile 1478, una domenica mattina, nella chiesa di Santa Maria
del Fiore frequente di popolo, subito che il sacerdote nel celebrare
la messa si fu comunicato, Francesco de' Pazzi e Bernardo Bandini si
strinsero addosso a Giuliano co' pugnali e l'uccisero: Lorenzo ebbe
tempo a trarre lo stocco e, ferito nella gola, difendersi e riparare
nella sagrestia. Il colpo era andato a vuoto; Firenze restava ai
Medici. Ma Giuliano giaceva morto; e dopo quella tragedia non si
potevano più fiorire di rime le sue venture per una giostra bandita
a diletto. Il poeta si mutò in istorico, e narrò in latino, a mo' di
Sallustio, la congiura de' Pazzi.

Altri osservò: se il poema rimase a mezzo, fu, anzi che un danno, un
vantaggio alla fama dell'autore: andando innanzi, egli avrebbe dovuto
descrivere vesti, cavalli, armeggiamenti; e già nel secondo libro la
poesia scade; in più libri, il tedio sarebbe cresciuto; quel panegirico
sarebbe stato letto da' soli eruditi. Io non mi lascio consolare così
facilmente. Ammettiamo pure che le Stanze avessero a crescere, pel
compimento del secondo e per l'aggiunta d'un terzo libro, che è quanto
di più si possa immaginare, di un'altra metà: il disegno generale non
si sarebbe sottratto, certo, da giuste censure; ma non gli si muovono a
ogni modo, giudicandone dal frammento? e gli episodii ci avrebbero date
bellezze, se non maggiori, pari a quelle che nel frammento ammiriamo.

Non le rammenterò. Le lodi della vita rustica, la caccia, la Simonetta,
il regno di Venere, gl'intagli della porta nella reggia di lei,
l'albergo del Sonno, sono, a tratti almeno, in tutte le antologie,
sono, a tratti almeno, in tutte le memorie. La giostra non è più che
un pretesto: sembra che il Poliziano prometta di guidarvi a goderne
lo spettacolo, soltanto per aver modo di farvi ammirare, così senza
parere, d'una in un'altra galleria, la sua meravigliosa raccolta
di quadri e di statue. Sono i tempi de' bronzi di Lorenzo Ghiberti,
delle terre cotte di Luca della Robbia, dei marmi di Donatello, degli
affreschi di Filippino Lippi, delle tele di Sandro Botticelli; e
l'arte di tutti costoro si riflette nello specchio finissimo di quelle
ottave, che suonano e creano, secondo il precetto, da molti franteso,
del Foscolo, il quale più d'una somiglianza ebbe col Poliziano
negl'intendimenti e ne' modi dell'arte: suonano, cioè, varie, fluide,
eleganti; creano immagini adatte alla plastica e ai colori. Dopo Dante,
nessuno aveva posta nel verso tanta efficacia di rappresentazione:
nessuno ancora aveva saputo nell'ottava rima alternare, con tanta
accortezza di pause e di accenti, di piani e di sdruccioli, il forte
col tenue, il dolce con l'aspro. Il primato della lingua letteraria,
come da Leon Battista Alberti, sebbene con importanza minore d'assai,
per la prosa, così dal Poliziano era riconfermato alla Toscana per la
poesia: dopo le Stanze per la giostra, l'Orlando innamorato doveva di
necessità essere offuscato dalla fama del prosecutore che chiese alle
labbra di una fiorentina la grazia dei baci e le grazie del nostro
volgare; e doveva per ciò di necessità piegarsi, per rivaleggiare col
Furioso, al rifacimento toscano di Francesco Berni.

    La notte che le cose ci nasconde
      tornava ombrata di stellato ammanto:
      e l'usignuol sotto le amate fronde
      cantando ripetea l'antico pianto;
      ma solo a' suoi lamenti eco risponde,
      ch'ogn'altro augel quetato avea già il canto:
      dalla cimmeria valle uscian le torme
      de' sogni negri con diverse forme.

Lingua, stile, metro erano ormai perfetti, e compiuta l'assimiliazione
dell'arte classica nella medievale, per opera di quel giovane da
Montepulciano che tendendo nelle campagne l'orecchio alle canzoni del
popolo “beccava per tutta la via di qualche rappresaglia e canzone di
Calen di maggio„, e leggeva a diletto i nostri migliori, e poi, nel
silenzio del suo studio, meditava i testi dei greci e dei latini.


IV.

L'Orfeo e le Stanze, opera quasi improvvisata la prima, non compiuta la
seconda, furono pubblicate soltanto due mesi innanzi che il Poliziano
morisse, e non per volontà di lui. Al pari del Petrarca, egli, da buon
umanista, chiedeva piuttosto e si aspettava la gloria dalla filologia
classica, nell'arte e nell'erudizione. Per ciò, interrotta dalle
Stanze, la versione d'Omero, ch'era destino restasse come le Stanze
incompiuta; per ciò, scritto in latino il commentario della congiura
de' Pazzi; per ciò, gli epigrammi greci e latini; e in latino le
elegie, le odi, le Selve, le traduzioni di prose greche, le orazioni,
i trattati, le miscellanee. Tanto più, perchè a ventisette anni già
insegnava eloquenza greca e latina nello Studio fiorentino, dove
accorrevano a udirlo tali ch'egli aveva ascoltati maestri; e perchè
l'umanesimo si andava mutando d'arte in iscienza e richiedeva ormai
lunghe e pazienti fatiche di collazioni sui manoscritti e di commenti.

Giurazio Suppazio, che va in cerca de' dotti per tutta l'Italia, dopo
aver corse due giorni le vie di Roma con gran rischio d'essere messo
sotto dalle mule de' prelati, si sfoga con un letterato dell'ozio in
cui gli sembrano sprofondati i Romani: _otio illic marcescere homines_,
dice Suppazio; e l'altro lo prende a pugni: — To' su, bestiaccia!
_splendesco, tabesco, liquesco_ non ammettono il caso ablativo! — Più
egli cerca, con esempii, scolparsi, e più ne busca; sì che fugge da
quella grandinata e va a lagnarsene altrove; ma non ha aperto bocca,
che il confidente lo interrompe: — O non ti vergogni a codesta età,
non saper di latino? _iniuriam patior_ chi te l'ha insegnato a dire?
— Neppur qui valgono al disgraziato gli esempii; e quando vede che il
grammatico stringe i pugni, fa tutta una corsa fino a Velletri. La
satira è come uno specchio convesso che altera la proporzione delle
fattezze e suscita il riso: ma il volto sformato è pur nello specchio
quel dato volto e riconoscibile a tutti: così nel dialogo del Pontano
accade al purissimo de' ciceroniani ignoranti. Or quando si può far
satira tale, la diffusione e la intensità dell'umanesimo, rispetto
allo scrivere latino, sono palesi. Ridicola appariva ormai la lingua
letteraria del medio evo, tanto lontana da quella dei classici; e la
questione che si agitava non era più che questa: si ha da scrivere
coi vocaboli e i costrutti di Cicerone solo, o sarà lecito valersi
d'altri vocaboli e costrutti usati dagli altri antichi? e, al bisogno,
coniare vocaboli nuovi? il Poliziano fu per la libertà, diciam pure
per la licenza, e ne sostenne fiere baruffe, che lasciò in eredità
ai discepoli. Ma come Erasmo, eclettico anche lui, esclamò piacergli
più quel che il Poliziano scriveva dormendo, di quel che un suo
avversario, Bartolommeo Scala, da sveglio e con ogni cura; così, oggi
che l'eclettismo ha perduta la guerra, i critici lodano ancora nello
stile del Poliziano, sia pure a mosaico e tutto fioretti, un gran
sapore di latinità, e un vigore, una grazia, singolari. L'elegia per
le viole avute in dono dalla sua bella (vo' credergli non fosse ancora
canonico!) quella in morte di Albiera degli Albizzi, che prenunzia le
Stanze, l'ode ad Alessandro Cortesi, i giambi contro una vecchia (anche
in latino ricantavano i motivi popolari), gli esametri delle Selve con
le quali splendidamente iniziò le sue letture pubbliche di Virgilio,
d'Esiodo, d'Omero; e in prosa, le epistole, la prelezione alle Priora
d'Aristotele, il trattatello sull'ira, la narrazione della congiura,
sono tra i capolavori del latino recuperato, com'egli diceva, dalla
barbarie dell'evo medio. “Non son mica Cicerone io! me stesso, se non
m'inganno, ho da esprimere.„ Il ragionamento, a dir vero, zoppica; o
non aveva, ad esprimersi, il volgare? Ma il libraio degli umanisti
fiorentini, Vespasiano da Bisticci, affermava, quasi interprete di
tutti loro, che “nello idioma volgare non si può mostrare le cose con
quello ornamento che si fa in latino„. Esperienza del contrario fece
il Poliziano medesimo, e si mostrò restio, almeno in parte, al detto
del Filelfo: in volgare si scrivon le cose che non vogliamo far sapere
ai posteri. Restio pe' versi, non per la prosa; e voi rammentate che
dell'uccisione di Giuliano lasciò ai posteri la grave memoria in un
racconto latino. Del resto, anche per la poesia, troppa distanza poneva
tra i classici e i moderni. In una Selva, celebrati i greci e i latini
con più di settecento esametri, si sbriga con otto soli di Dante,
del Cavalcanti, del Petrarca, del Boccaccio: è un cenno in cui suona
l'affetto; ma l'ammirazione sua va ai padri antichi, non ai recenti
fratelli.

“La sapienza latina e greca le abbracci per modo che non è facile
accorgersi di quale tu possegga più. Senza adulazione, Poliziano
mio, non c'è che un solo, o due, o forse nessuno, degno d'esserti
paragonato: se foste in più, il secolo nostro non avrebbe di che
invidiare gli antichi.„ La lode è d'un giudice amico, è del candido
Gian Pico della Mirandola; ma data l'enfasi epistolare d'allora,
esagerata non è. Il Poliziano, componendo epigrammi, traducendo Omero,
le Storie d'Erodiano, il Manuale d'Epitteto, fu veramente, anche per
le lettere greche, così elegante scrittore come sagace interprete,
e benemerito della filologia moderna. La quale, se ammira quella
tanta facilità e vivacità dello scrivere latino e greco, sia pure
che, fatta più accorta da quattro secoli di studii, abbia qua e là a
notare qualche scappuccio di stilistica e di prosodia, attribuisce al
Poliziano lodi maggiori per avere, con senno ed acume di critica, bene
avviata e procurata la restituzione e la interpretazione dei testi, e
lo saluta come uno de' maestri primi. Grammatico si vantava egli; ma
la sua grammatica era la filologia tutta e comprendeva tutta la vita
e la letteratura degli antichi. “Di grazia, m'avete voi per tanto
insolente o stolto, che se alcuno mi desse del giureconsulto o del
medico, non crederei in tutto ch'e' volesse il giambo de' fatti miei?
E pure (sia detto senz'arroganza) gli è buon tempo ch'io lavoro, e di
lena, ad alcuni commentarii sul Diritto civile, ad altri su maestri di
medicina; nè voglio acquistarne altro nome che di grammatico; pregando
che non mi sia invidiata questa qualifica, schifata pure da certi
messeri come vile e spregevole.„ Codesto grammatico raffronta codice a
codice; corregge col raffronto gli errori; dove il raffronto non giova,
fa congetture, e spesso indovina, come poi altri codici proveranno;
intende ciò che fino a lui pareva oscuro; e può nella prima centuria
delle Miscellanee mostrare, da gran signore, senza ostentarla, una
dottrina e una sagacia che sarà mirabile a tutti gli studiosi, dopo
essere stata gradita a Lorenzo de' Medici, il quale cavalcando con
a fianco l'amico, si dilettava ascoltarne le primizie. Così talvolta
si dilettavano insieme assistere alle dispute de' dottori rivali su
questioni di leggi; e d'una avvenuta in Pisa, riferiva così il bidello
al notaio dell'università: “Riscaldandosi e giostranti nell'arme si
fe' buio, e col torchio finì detta disputa. Venendo loro (Giason del
Maino e il Soccini disputanti) a un certo passo d'un testo, del dire
in un modo a dire nell'altro, Lorenzo e M. Agnolo Poliziano suo mi
mandò con sua volontà per uno codice, e trovata la legge, M. Agnolo la
lesse presso Lorenzo.„ Questo nel 1489; l'anno dopo, la collazione del
manoscritto delle Pandette era finita, e il Poliziano aveva sospinta
con essa anche la culta giurisprudenza a progressi crescenti. E nella
giurisprudenza, oltre quel merito del testo restituito a lezione
migliore, a lui spetta quest'altro, dell'aver accennato per primo alle
traduzioni greche del dritto giustinianeo, ai Basilici e a Teofilo, con
opinioni che la scienza odierna, se non le accetta tali quali, ancora
discute.

Quando nel 1494, due anni dopo il suo Lorenzo, il Poliziano morì, che
non contava ancora quarantun anno, l'umanesimo trionfava negli studii,
nell'arte, e, quel che più importa, nella coscienza italiana. Eccone,
per molti, un esempio men noto. A Reggio d'Emilia, negli ultimi mesi
della vita del Poliziano, corse voce fosse sottratto, o che presto
sarebbe, dal convento de' Carmelitani, un codice ove un frate umanista,
Michele Ferrarmi, aveva raccolte quante più iscrizioni antiche gli
erano capitate in lunghi anni di ricerche. La città si commuove;
gli anziani si adunano e fan provvisione, si mandino al convento tre
deputati i quali parlino col priore e diano opera a che il prezioso
manoscritto sia incatenato e talmente affisso nella libreria del
convento che mai non possa esserne nè tratto nè sottratto, ma resti
(son le parole della deliberazione) quasi un altro libro delle Pandette
nella città di Reggio perpetuamente. I deputati andarono; i frati si
scusarono e promisero; Reggio vanta ancora nella sua biblioteca il
codice del Ferrarini.

Tali gli effetti dell'umanesimo. Del quale io, parlandovi d'Angelo
Poliziano, non potevo e non dovevo colorire il quadro compiuto che
la serie di queste letture vi andrà troppo meglio a mano a mano
dipingendo. Ma non vi dissimulo che il Poliziano stesso mi avrebbe data
occasione a farvi almeno intravedere anche il rovescio della medaglia,
la petulanza del chiedere, i costumi facili, le invidie, le insidie,
i furori letterati, se avessi stimato utile ed opportuno, dentro lo
spazio d'un'ora, fermarmi su i vizii e su i malanni dell'uomo, e del
tempo suo, piuttosto che sulla virtù di quella mente e sulla importanza
del rifiorire degli studi classici. Che se poi non fossi riuscito
neppure in ciò, mi valga uno di quelli epigrammi che il Poliziano si
compiaceva aguzzare nelle sue lettere: lo scrisse a Gian Pico, un
giorno che nel far lezione l'avea veduto tra gli scolari; ed io lo
parafraso ed estendo a voi tutti: “Per farmi onore vi siete messi a
sedere qui innanzi a me, quasi mi foste scolari. Non v'aspettate la
mia gratitudine. Se la lettura v'è piaciuta, sta a voi l'esserne grati
a me; se poi la non v'è piaciuta, oh non ci mancherebbe altro che vi
dovessi esser grato io!„



LA LIRICA DEL RINASCIMENTO

DI

ENRICO NENCIONI.


I.

La più grande lirica del Rinascimento, è la poesia che emana da
quell'epoca stessa.

Epoca unica e veramente maravigliosa! I suoi grandi personaggi non
vivono isolati, come quelli di altre epoche insigni; ma respirano in
un ambiente medesimo, e hanno, dirò così, un'a_ria di famiglia_ che
ce li fa subito riconoscere. La gioventù, la curiosità scientifica,
l'aspirazione, ne sono le più spiccate caratteristiche. Quegli
_umanisti_ non sono dei dotti pedanti, ma degli _editori_ entusiasti.
Quegli eruditi, come Pico della Mirandola, son dei poeti. È un'epoca
_aurorale_, in cui tutto si intravede in una rosea luce di gioventù
e di poesia. Pensate! Lorenzo, il Savonarola, Pico, Brunellesco,
Leonardo, Guttemberg, Colombo, Copernico! — Tutto il Mondo moderno è
racchiuso in questi gran nomi. Si scuopre il Cielo e la Terra, gli
astri e l'America, la stampa e l'Oriente. Si commenta Platone, si
stampa Omero e Virgilio. Si rivela e s'adora il volto sempre giovine
e raggiante dell'antichità, che si credea tanto vecchia! In un'estasi
mistica e estetica, si tenta di conciliare i due grandi antagonismi,
Paganesimo e Cristianesimo. Fioriscono di vita nuova la geografia, la
storia naturale, la meccanica, la medicina, l'anatomia, la pedagogia.
Un Italiano completa la Terra: un Polacco scuopre l'infinito nel Cielo.
Savonarola attesta la coscienza morale e la libertà: Leonardo, la
universale parentela della Natura. _Simpatia umana_ è il motto sacro
del Rinascimento — prima che esso degeneri in Accademicismo e precipiti
nel Barocchismo — per poi tornare alle sue grandi origini del secolo
XIV e XV, e dar la mano al secolo XVIII e al secolo nostro.


II.

Esaminando le opere dei principali lirici del Quattrocento, vediamo
che la poesia idillica è la predominante: poi vien quella amorosa,
sensuale o elegiaca: poi la popolare, sacra o profana. Vediamo che il
Pulci nella sua stravagante e possente fantasia pare un'eco medievole
in mezzo al Rinascimento — che il Poliziano è il più essenzialmente
greco-latino, e il più artista — che il Magnifico ha più di tutti il
senso della realtà, e il Boiardo quello della poesia e della bellezza.
In tutti c'è, più o meno, l'intendimento e l'attitudine a rappresentare
nel verso la natura esteriore. Sotto un certo aspetto, son tutti
poeti _naturalisti_: ma il metodo descrittivo varia nei diversi
poeti. Lorenzo, come in pittura il Ghirlandaio, trascrive la immagine
esteriore delle cose, con una grafica precisione. Il Boiardo e il
Poliziano, vedono nella figura esteriore _qualche altra cosa_; e, come
il Botticelli, sono immaginosi più che drammatici.

In tutti però, eccetto Lorenzo de' Medici, l'osservazione della natura
è piuttosto limitata. Al lettore moderno, che ha letto Rousseau e
Goethe, Wordsworth e Shelley, Lamartine e Giorgio Sand, Tennyson e
Victor Ugo, pare che quei lirici del Quattrocento non abbian visto
che la primavera tra le stagioni, le rose e le viole tra i fiori,
e il rosignolo tra gli uccelli. Somigliano un po' a certi lirici
tedeschi, i cui _Lieder_ son composti con un limitatissimo e monotono
dizionario poetico: _cielo_, _luna_, _aprile_, _sorriso_, _vergine_,
_rose_, _gigli_, _rosignoli_, _amore_ e _dolore_.... Ma la nota
monotona, insistente come il ritornello d'un merlo, è sempre la
Primavera. Talchè, leggendoli, alla lunga ci prende un desiderio, una
simpatia, una voglia irresistibile di un po' di pioggia, di neve e di
tramontana....

Il vero realista è Lorenzo. Esso il primo interrompe la convenzionale
tradizionale _ottimista_ nelle pitture rurali. Ha visto il grano e le
rose, ma anche le ortiche ed il concio — le ghirlandette e i pruneti —
i rispetti e le serenate, e il sudiciume e la fame.

Nel suo delizioso poemetto, _L'Ambra_, la piena del fiume è descritta
nei più realistici e dolorosi particolari.

      Appena è stata a tempo la villana
    Pavida a aprire alle bestie la stalla.
    Porta il figlio che piange nella zana.
    Segue la figlia grande, ed ha la spalla
    Grave di panni vili, lino e lana:
    Va l'altra vecchia masserizia a galla,
    Nuotano spaventati i porci e i buoi....

Non pare staccato da una pagina della _Terre_ di Emilio Zola? E com'è
schiettamente contadinesco il Canto d'amore _la Nencia da Barberino_!
Immagini e favola, tutto è perfettamente _rusticano_ e _fiorentino_.

      Non vidi mai fanciulla tanto onesta,
    Nè tanto saviamente rilevata:
    Non vidi mai la più pulita testa,
    Nè sì lucente nè sì ben quadrata.
    Ell'ha due occhi che pare una festa
    Quand'ella li alza, e che ella ti guata:
    E in quel mezzo ha il naso tanto bello
    Che par proprio bucato col succhiello.

E che efficacia di rappresentazione nei suoi Canti Carnascialeschi!
Sia nei Mitologici, come le _Parche_, _Bacco e Arianna_, il _Trionfo
d'Amore_; sia nelle Mascherate dei Mestieri, come i _Cialdonai_, le
_Filatrici d'oro_, i _Calzolai_.... In moltissimi il doppio senso
è lubrico, spesso addirittura osceno, quale sarà più tardi in certi
Capitoli del Berni, dei Bernieschi, e dell'Aretino — talvolta è velato
da una maliziosa ironia, come nel Carro delle _Mogli giovani_ e dei
_Mariti vecchi_.

    _I Vecchi._ — Deh? vogliateci un po' dire
              Qual cagion vi fe' partire,
              D'aver preso altro amadore
              Vi farem tutte pentire.

    _Le Mogli._ — Deh, andatene al malanno,
              Vecchi pazzi rimbambiti!
              Non ci date più affanno!...
              Contentiam nostri appetiti.
              Questi giovani puliti
              Ci dann'altro che vestire....

E che movimento bacchico, che allegra spensieratezza pagana, che
gioconda esultanza di ritmo, nel _Trionfo di Bacco e Arianna_!

      Donne e giovinetti amanti,
    Viva Bacco e viva Amore!
    Ciascun suoni, balli e canti!
    Arda di dolcezza il cuore!
    Non fatica, non dolore!
    Quel c'ha a esser, convien sia,
    Chi vuol esser lieto, sia;
    Di doman non v'è certezza.
    Quant'è bella giovinezza
    Che si fugge tuttavia.

La figura di Sileno in questo medesimo Canto ha tanto rilievo, che par
gettata in bronzo dal Pollaiolo.

      Questa soma che vien dreto
    Sopra un asino, è Sileno:
    Così vecchio, è ebbro e lieto,
    Già di carne e d'anni pieno.
    Se non può star ritto, almeno
    Ride, e gode tuttavia....
    Chi vuol esser lieto, sia:
    Di doman non v'è certezza.

Lo stesso Lorenzo scriveva poi _Laudi_ e _Sacre Rappresentazioni_.
Spesso, una medesima aria serviva a una Lauda divota, come _Crocifisso
a capo chino_, — e a una lasciva Canzonetta, come _Una donna d'amor
fino_. Lorenzo è un gran dilettante, pel quale tutti i _motivi_ poetici
sono buoni — e passa con intrepida disinvoltura dal Canto sacro della
_Mater dolorosa_, al Canto carnescialesco dei _Bericuocolai_.


III.

Come poeta, credo che la sostanza, la vera eccellenza del suo ingegno,
consista nel suo realismo. Qui sta la sua originalità, e l'attrattiva
che esercita sul lettore moderno. È anch'egli un _impressionista_
(dei buoni) che trova sempre il modo di dar forma artistica — più o
meno felice, ma sempre fresca e schietta — a tutto ciò che colpisce il
suo occhio, la sua fantasia, il suo sentimento. Invece di Venere o di
Lucina, canta la Nenciozza, — invece di figurarsi Cipro e Delo, dipinge
dal vero Careggi e il Mugello, — invece degli Auguri o delle Sibille,
ritrae i Beoni e i Cialdonai. Non ha nulla dell'accademicismo del
Sannazzaro, o della estetica del Poliziano. È spesso rude e scorretto —
ma è il più vicino alla natura; e ha un sentimento della campagna così
vivo e diretto, che in tutta la storia letteraria dell'Europa (fatte
le debite differenze di epoca, di nazione e di carattere) non trovo da
paragonargli che Roberto Burns.

Invece, il mondo poetico del Poliziano è un riflesso di Teocrito, di
Virgilio, di Ovidio, di Stazio, del Petrarca: ma la sua immaginazione
trasforma, trasfigura ciò che raccoglie, in modo così felice, che
ci apparisce quasi come una nuova creazione. Egli mette nelle sue
reminiscenze classiche l'entusiasmo dell'umanista — e dà moto, vita e
passione, ai più freddi fantasmi mitologici. Egli canta Venere e Diana,
con l'ardore con cui Swinburne ha cantato oggi Federa e Atalanta.

Di più: come il Boiardo, egli è un insigne decoratore: ha il
senso squisito della ornamentazione: la sua tavolozza di colori è
maravigliosa. Chi non ricorda il ritratto della Simonetta, il quale è
appena inferiore per colorito, e supera, per grazia, quello d'Alcina?
Chi non sa a mente certi suoi versi deliziosi, come:

      Ridele attorno tutta la foresta.
    L'erba di sua bellezza ha maraviglia,
    Gialla, cilestra, candida e vermiglia.

e le fragranti strofe della ballata _Il giardino delle rose_?

Dove poi il Poliziano ha note intense di vera poesia è nei _Rispetti_.
Eccone uno, sensuale e delicato ad un tempo:

      So' innamorato d'una rosa rossa,
    E il giorno non mi so da lei partire.
    Quando ci passo il suo bel petto mostra,
    Ed è sì bianco, che mi fa morire.

E che dolore passionato in quest'altro!

    Ti vengo a rivedere anima mia,
    E vengoti a vedere alla tua casa:
    Pongomi inginocchioni in su la via.
    Bacio la terra dove sei passata!
    Bacio la terra ed abbraccio il terreno:
    Se non m'aiuti, bella, i' vengo meno.

Dal Poliziano al Rückert, dal Dall'Ongaro alla Robinson, quanti poeti
hanno imitato i Rispetti e gli Strambotti Toscani!

Ma non credo che nessuno di questi poeti abbia raggiunto l'altezza
lirica di quattro versi, improvvisati in una serenata da un contadino
della montagna di Pistoia, raccolti e editi dal Tommaseo:

    Una fila di nuvole d'argento
    Innamorate al lume della luna
    Vengon per l'aria portate dal vento
    A salutarti, o bella creatura!

Che larghezza di orizzonte, che movimento, e che luce nel verso
meraviglioso

    Vengon per l'aria portate dal vento!

È degno di Dante — e ricorda infatti la divina terzina:

    Come nei plenilunii sereni,
    Trivia ride fra le Ninfe eterne
    Che dipingono il ciel per tutti i seni.

Il Poliziano ha cose eccellenti anche nelle canzonette popolari. In
quella — Io vi vo' donne insegnare — Come voi dobbiate fare — vi sono
strofe di lepida arguzia; per esempio:

    Fate pur che 'ntorno a' letti
    Non sien, donne, mai trovati
    Vostre ampolle e bossoletti;
    Ma teneteli serrati.
    I capei, ben pettinati
    . . . . . . . . .
    State poi sempre pulite;
    Io non dico già strebbiate.
    Sempre il brutto ricuoprite,
    Ricci e gale sempre usate.
    Vuolsi ben che conosciate
    Quel che al viso si conviene:
    Chè tal cosa a te sta bene,
    Che a quell'altra ne dispare.
    Ingegnatevi star liete,
    Con bei modi ed avvenenti:
    Volentier sempre ridete,
    Pur che abbiate netti i denti.
    . . . . . . . . . . .
    Imparate i giuochi tutti,
    Carte e dadi, scacchi e tavole,
    Perchè fanno di gran frutti,
    Canzonette versi e favole.
    Ho veduto certe diavole
    Che pel canto paion belle:
    Ho veduto anco di quelle
    Che ognun l'ama per ballare.

Accanto al Poliziano, metterei il Boiardo; e, come pura immaginazione,
forse gli è superiore — anzi, senza forse. È il più essenzialmente
immaginoso di tutti i poeti del Rinascimento, non solo nell'_Orlando_,
ma anche nelle _Rime_. In tutti gli altri poeti epici e romanzeschi,
dal Poliziano e dal Pulci a Torquato Tasso, c'è qualche cosa di
artificioso e di teatrale — vi sono echi delle feste di Mantova e di
Firenze, di Roma e di Ferrara — meccanismi e macchine pirotecniche,
come nelle feste per Alfonso d'Este, o in quelle di Boboli e Pratolino
per Bianca Cappello. Il Boiardo invece vede tutto in un mondo magico
e etereo — è il più _orientale_ dei raccontatori — è il più indigeno
abitatore della _Faery-Land_ che sia mai esistito — anche più
dell'Ariosto, e di Spenser stesso.

Come lirico, unisce alla fiorente immaginazione un vivissimo colorito.
Certe sue poesie ricordano nel mondo letterario il _Liebesfrühling_
di Rückert e il _Buch der Lieder_ di Heine — nel mondo artistico, le
facciate smaglianti delle cattedrali di Orvieto e di Siena — e nel
mondo naturale, un prato o un campo di maggio, quando tra l'erba alta
e verdeggiante brillano fiori candidi e azzurri, e, come intensi e
voluttuosi desideri, ardono tra 'l verde, i petali di seta e di fiamma
dei rosolacci scarlatti. Ne prendo una tra cento:

    Leggiadro veroncello, ov'è colei
    Che di sua luce illuminar ti suole?
    Ben vedo che il tuo danno a te non duole;
    Ma quanto meco lamentar ti dei!

    Senza la sua vaghezza, nulla sei.
    Deserti i fiori e secche le viole,
    Al veder nostro il giorno non ha sole,
    La notte non ha stelle senza lei.

    Pur mi ricordo ch'io ti vidi adorno,
    Tra bianchi marmi e colorito fiore,
    Da una ridente candida persona.

    Al tuo balcone allor si stava Amore
    C'or te soletto e misero abbandona,
    Perchè a quella gentil respira intorno.


IV.

Fin da ragazzo avevo letto nelle storie letterarie e nelle Antologie
che pregio dell'_Arcadia_ del Sannazzaro era la bellezza delle
_Descrizioni campestri_. Ma anche prima ch'io “fuor di puerizia
fossi„ mi accorsi leggendolo che il Sannazzaro descrive.... come può
descrivere _un cieco_. Mi spiego. Un cieco può parlare di oggetti
visibili che non gli è dato distinguere — parlare di stature, di
misure, di forme, anche di colori: ne ha sentito parlare, e ripete ciò
che ha sentito dire. Così il Sannazzaro ci parla di boschi, di luna,
di aurora, di uccelli, di laghi, perchè gliene hanno detto qualcosa
Virgilio, Ovidio, i Greci, il Boccaccio — ed egli ripete, quasi sempre
male, quel che essi hanno detto bene.

A provare che il Sannazzaro non è vero poeta, cioè un veggente, cioè
un uomo che _vede meglio e più addentro che gli altri_, nell'uomo e
nella natura — basta guardare i suoi aggettivi. Non ne trovi mai uno,
dico uno, che, come fan sempre quelli di Dante, dia vita e fisonomia
e colore al suo sostantivo. Son tanto comuni che, dato il sostantivo,
s'indovina subito l'epiteto che l'accompagna.

Apro a caso e leggo:

“Gli aratori tutti lieti, con _vaghi_ e _dilettevoli_ giuochi, intorno
ai _candidi_ buoi, per li pieni presepi cantarono _amorose_ canzoni.
Oltra di ciò li _vagabondi_ fanciulli (_vagabondi_, in altro senso,
non sarebbe cattivo) con le _semplicette_ verginelle se videro per le
contrade exercitare _puerili_ giuochi in segno di _comune_ leticia.„

Ecco dei versi d'un'Egloga lodata. Parla il pastore Barcinio a
Summonzio.

    _Barcinio._ — Una tabella pose per munuscolo
        In su quel pin: se vuoi vederlo, or alzati,
        Ch'io ti terrò su l'uno e l'altro muscolo.

    _Summonzio._ — Quinci si vede ben senz'altro ostacolo
        Filli, quest'alto pino io ti sacrifico,
        Qui, Diana ti lascia l'arco e l'jacolo.
         — Questo è l'altar che in tua memoria edifico,
         — Quest'è il tempio honorato e questo è il tumulo
        In ch'io piangendo il tuo bel nome amplifico.

Certo, questi pastori hanno avuto sempre _dieci_ in latino, e sono
stati tutti all'_Università_.... Paragonate questi _dotti_ vestiti da
pastori, agli schietti e veri e vivi contadini di Lorenzo de' Medici!

Sarebbe però ingiusto il negare al Sannazzaro la facoltà che ha, in
qualche scena silvestre o rusticana, di darci una serie di graduali
impressioni che han del poetico — il senso della composizione, della
euritmia, della _Symetria prisca_. Peccato che egli si compiaccia e
si pavoneggi quasi sempre nella imitazione _formale_, in una specie di
trascrizione dai Latini, quasi a sfoggio di saccenteria.

Un valente critico, anche troppo benevolo al Sannazzaro, scrisse che
l'_Arcadia_ fu come un sogno per l'autore, e diventa un sogno per
il lettore — che i personaggi son quasi tutti _fantasmi_ piuttosto
che veri caratteri. Il Sannazzaro viveva nel più luminoso paesaggio
d'Italia; aveva sotto gli occhi il golfo di Napoli, Posilipo, Amalfi,
Sorrento; e non sa che _intravedere_ uomini e cose, come fantasmi in
un sogno! Aggiungete che i personaggi d'_Arcadia_, questi fantasmi che
non sappiamo distinguere, e che non ci interessano, nè ci commovono
mai, nè per le loro avventure, nè coi loro lamenti, erano, sotto nomi
pastorali, personaggi veri e _viventi_, amici e parenti del Sannazzaro,
che egli ha paralizzato con le sue frasi latine, e mummificato coi suoi
periodi boccaccevoli. La poesia che in Dante e nei veri poeti mette
la vita anche dov'era la morte — nel Sannazzaro mette invece la morte
dov'era la vita; perchè l'arte vivifica, e l'artificio dissecca. Sì,
pare incredibile, ma è vero e provato. La insipida pastora _Massilia_
è la Masina, madre del Sannazzaro, da lui tanta amata — _Amaranta_, è
la sua diletta Carmosina — _Melisco_ è il Pontano — _Fronimo_ è Gian
Francesco Caracciolo — persone vive e vere, che egli vedeva tutti i
giorni, e che egli ha _seppellite per sempre_ nel classico e freddo
sepolcro dell'_Arcadia_.

Se nella poesia e nella prosa, nell'_Arcadia_ e nelle _Rime_, il
Sannazzaro imita continuamente gli antichi, da Virgilio a Claudiano, si
può dire che saccheggia addirittura il Boccaccio.

Anche quando vuol descrivere la _sua_ Napoli, il Sannazzaro non sa far
altro che trascrivere dal Boccaccio. Ma il Boccaccio che, nonostante
i latinismi e l'artificio, e un certo manierismo, è un gran poeta
in prosa, rimane il solo vero ed efficace descrittore di Napoli. Il
placido, azzurro, tepido mare di Baia, Posilipo e Castelnuovo, la tomba
di Virgilio e Pozzuoli, Cuma e Caprea, ce lo rammentan sempre.

Dopo il Boccaccio, chi ha più sentito e meglio tradotto la poesia di
Napoli, è Lamartine. Boccaccio e Lamartine — spaventosa concordia!
eppure, o Signori, è così. Quell'incanto molle di Napoli, quello
spettacolo unico di cielo e di mare, dove in uno sguardo si vede,
dirò così, il fiore della Vita — dove la terra è una festa, e il
cielo un paradiso — il sensuale amante della Fiammetta lo sentì come
lo spirituale poeta di Elvira. Tatti e due avevano respirato l'aria
balsamica e luminosa delle notti napoletane — tutt'e due avean errato
sul golfo nell'ora ineffabile in cui la luna declina verso il Capo
Miseno, e impallidisce e svanisce tra le prime rose dell'aurora.

Nel Sannazzaro già trasparisce il lato debole, anzi cattivo
dell'epoca. Come in Lorenzo e in Leonardo è il lato _dialettico_, nel
Sannazzaro è il lato _sofistico_ del Rinascimento: la cieca idolatria
del classicismo, delle regole consacrate e dommatiche, e quello
spirito legislativo e dottrinario, che doveva finalmente soffogare
l'immaginazione e la libertà individuale, e precipitare fino ai
deliri del grottesco e del barocco, i sistematici adoratori del _Bello
Assoluto_. Già fino dalla fine del secolo XV, per molti letterati, ciò
che importa non è più _cosa_ s'ha a dire, ma _come_ si deve dire. Una
menzogna o una turpitudine in bei periodi Ciceroniani, si preferisce
a una verità o a un gran pensiero nel cattivo latino di Abelardo e di
san Tommaso. Dei cardinali umanisti raccomandano a dei giovani prelati
di non fermare il pensiero sulle orazioni della Messa o sulle parole
dei Salmi, per non sciuparsi _lo bello stile_. Si paganizzano perfino
i nomi, e Pietro si muta in _Pierio_, e Giovanni in _Gioviano_. Lo
scrittore finisce col non dir più quello che pensa, o immagina, o sente
— ma pensa solo a delle _frasi_ — vede, non più il mondo immenso della
Natura, ma il mondo limitato dei classici, e trascrive servilmente
questo, come modello assoluto, e quasi sempre lo sciupa nel riprodurlo.
La forza trionfante, l'indifferenza nella scelta dei mezzi pur di
riuscire, la bellezza sensuale e voluttuosa, il godimento raffinato
e egoistico, divennero un nuovo Vangelo — tanto che la Letteratura
e l'Arte, queste due confessioni della Società, ne furon finalmente
viziate, infette nell'intimo organismo, e mostruosamente pervertite.
E si ebbero per ultima conseguenza, poemi cortigianeschi deliranti
e snervanti, drammi da macchinisti, pitture e sculture di Dei senza
potenza, di Vergini senza pudore, di uomini senza carattere: Santi
che paion facchini e odalische — Angeli che somigliano ad acrobati o a
ballerine — moli enormi e insolenti di marmo e stucco sciupati, che si
chiamano chiese, palazzi e sepolcri.

Il vizio del Rinascimento dopo il suo primo fiore, fu il culto
eccessivo e la servile imitazione delle forme antiche. Finì per non
guardar più alla Natura, unica e inesausta sorgente d'ogni Vero
e d'ogni Bello; e lo vide solo attraverso i libri: e avemmo una
letteratura convenzionale, un accademicismo rettorico. Dante, il gran
conciliatore della Natura e dell'Arte, della dottrina e della poesia,
fu dimenticato. Poi l'ingegno umano, pazzo d'orgoglio, non imitò più
neppure i classici, ma pretese ricavare ogni invenzione dalla propria
fantasia, _creare_ senza guardare più nè il Vero nè gli antichi, e
avemmo il Marini e il _Secento_.


V.

E quanto alla Poesia, ricordiamoci sempre, o Signori, che il primo,
il vero, l'_insuperato_ Rinascimento, è in Dante. Dopo lui, non
c'è progresso. Come hanno potuto alcuni critici recenti affermare
che il _Sentimento della Natura_ e il _Sentimento umano_ cominciano
nella nostra poesia col Petrarca? Tutte le volte che Dante dipinge
scene naturali, dal cielo stellato alle pecorelle, dal turbine a un
uccellino, rimane insuperato non solo dal Petrarca, ma da quanti poeti
hanno cantato in Italia per cinque secoli. Solo il Leopardi, qualche
rara volta, gli si avvicina. Dante rimane il tipo del vero umanista;
perchè adora l'antico, ma non abdica mai nè la sua fede, nè la sua
epoca, nè la sua personalità. Egli solo nel suo tempo è grande poeta e
grande scienziato — dopo lui la poesia e la scienza fanno in Italia un
deplorevole divorzio. Nè si ripeta la solita storia delle dissertazioni
_teologiche_. Dante è sommo e unico non _per_, ma _malgrado_ i suoi
Canti teologici.

E il Sentimento umano? Non solo egli lo espresse in modo sovrano prima
del Petrarca; ma espresse _tutti_ i sentimenti umani: talmente che
anche oggi, dopo tanti secoli, non possiamo in questo paragonargli
_nessuno_, almeno in Italia. Pensate! Manfredi, Casella, Piccarda,
Farinata, Pier delle Vigne, Buonconte, Sapia, Francesca, Ulisse,
Ugolino, Filippo Argenti, Sordello, Romeo!

.... “Ma le soavi, divine elegie del Petrarca, ma il colorito del
Poliziano....„ Benissimo, — ma in Dante c'è ogni cosa: è una sinfonia
orchestrale dove c'è l'organo solenne, e il violino appassionato, e le
note ardenti della tromba di guerra, e i sospiri del flauto. Quando
Dante è elegiaco, è più soave e più patetico di tutti i Petrarca del
mondo — quando Dante colorisce, non gli son paragonabili che Tiziano
e Velasquez — e nei sinistri crepuscoli; o nelle tragiche tenebre,
Rembrandt.

I _quattro_ Classici!!... Ma fra Dante, e il più grande degli altri tre
che è l'Ariosto, ci sarebbe posto almeno per altri due o tre poeti. Di
Dante può dirsi ciò che il Petrarca cantò della Vergine:

    Cui nè primo fu, simil, nè secondo.

Per trovargli un _compagno_, bisogna uscire d'Italia — e non ne
troviamo che _uno_: Guglielmo Shakespeare.

E come impallidisce anche tutta questa Lirica del Quattrocento,
paragonata a certi accenti lirici della _Vita Nuova_ e del
_Purgatorio_, non solo come sentimento e immagini, ma anche come
pura _forma_ poetica! Dante resta incomparabilmente primo anche come
artefice di versi nel tecnicismo del ritmo, come _stilista_. Ha certe
audaci e felici inversioni, certi effetti di colore e di suono, da fare
impallidire i più consumati maestri della parola poetica, da Goethe a
Victor Ugo, dal Foscolo a Tennyson, dallo Shelley al Carducci.

Perchè notate, o Signori, che nei poeti del Quattrocento, accanto a
versi bellissimi, a strofe perfette, trovate versi deboli o manierati,
l'epiteto ozioso e insignificante, la _zeppa_: un lavoro di mosaico
e di tarsia, dove manca la pastosità del cemento, il magistero
dell'artista sommo che sa dir tutto, e tutto bene, e sempre bene.

Ah! se insieme ai tanti, ai _troppi_, commenti filologici, filosofici,
teologici, storici, archeologici, che abbiamo della _Divina Commedia_,
ne avessimo uno _estetico_; si vedrebbe come i caratteri essenziali
dell'arte moderna, il naturalismo, la malinconia, la passione, son
caratteri essenziali della poesia Dantesca — e come Dante, nonostante
la sua scolastica e la sua teologia, è il più _moderno_ di tutti i
poeti italiani. E si deplorerebbe che i poeti che gli succedettero,
invece di svolgere quel che era in germe nel Divino Poema, si
ostinassero nella sistematica riproduzione delle forme grecolatine.
In Dante era l'ode, l'eloquenza, la satira politica, sopratutto il
dramma. Non vi si badò. Si preferì di copiare Ovidio e Terenzio, il
Decamerone e il Petrarca — e si ebbero due secoli di Canzonieri noiosi,
di laide Novelle, e di Commedie copiate. E tutta questa roba si chiama
anche oggi _letteratura classica_ e se ne infarciscono le Storie
letterarie e le Antologie per le scuole: certe storie letterarie, certi
_Manuali_, dove si parla a lungo del Segneri e non è neppur rammentato
il Savonarola — dove si parla diffusamente e si danno estratti della
_Tancia_, e non è neppur ricordato Carlo Goldoni; perchè il Savonarola
e il Goldoni scrivono in _cattiva lingua_.... Tanto è vero che da noi,
per troppo amor della lingua, si perde spesso il _cervello_.

Ho detto che anche come _artefice di verso_, Dante è superiore a tutti
i poeti del Rinascimento, non escluso il Petrarca.

Mi basti ripresentare alla vostra memoria e alla vostra ammirazione i
versi descriventi la fiamma che parla, il gemito di una testa recisa,
le piante animate e sanguinanti, le trasformazioni di uomo in serpente,
l'uccello mattutino, le pecorelle che escon dal chiuso, l'anima che si
dilegua cantando, i versi sull'ora del tramonto, quelli sull'alba di
maggio....

E le note di suprema malinconia, i versi patetici, com'egli solo sa
fare?

    Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
    E riposato della lunga via....
    Ricorditi di me che son la Pia.

    Indi partissi povero e vetusto.
    E se il mondo sapesse il cuor ch'egli ebbe
    Mendicando sua vita a frusto a frusto
    Assai lo loda e più lo loderebbe.

Ed è lo stesso poeta che ha scritto:

    Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti
    Riprese il teschio misero co' denti
    Che furo all'osso come d'un can forti.

e:

    A te sia rea la sete onde ti crepa
    . . . . . la lingua e l'acqua marcia
    Che il ventre innanzi agli occhi sì t'assiepa.

E i versi _passionati_, dai primi, incerti, deliziosi sogni d'amore,
fino all'ebbrezza, fino al delirio?...

    Quanti dolci pensier, quanto desio,
    Menò costoro al doloroso passo!
    . . . . . . . . . . . . .
    Questi, che mai da me non fia diviso,
    La bocca mi baciò, tutto tremante....

È un grido umano, che cuopre e soffoca tutti i melodici sospiri per
tutte le Laure dei cento _Canzonieri italiani_.

Se la parte scolastica e scientifica della _Divina Commedia_ ci
apparisce un po' come natura morta, tutta la parte umana e poetica
è immortalmente giovine e viva: perchè la scienza è progressiva, e
perciò ha sempre un valore relativo, — ma la Poesia (la vera Poesia)
è assoluta, e perciò inalterabile. Copernico offusca Tolomeo, Cuvier
eclissa Buffon, Darwin eclissa Lamarke, — ma Dante non scema d'un
raggio l'aureola sfolgorante d'Omero — nè Shakespeare attenua di
un grado la gloria sovrana di Eschilo. Nè tutti gli splendori del
Rinascimento, dal Petrarca all'Ariosto, nè tutta la grande poesia
moderna da Goethe al Leopardi, offusca minimamente la gloria
_trascendentale_ della Divina Commedia.


VI.

Il Savonarola è una grande anima, e un vero poeta — ma è più gran
poeta in molte sue prediche, che nelle vere e proprie _Poesie_.
Nonostante, anche in queste, benchè scorrette, neglette di forma,
circola un'aura, un soffio potente, come un'eco ancor calda delle sue
ardenti perorazioni, delle sue tragiche visioni, delle sue formidabili
apostrofi: ma talvolta, e non di rado, vi son note semplici, fresche,
quasi festose, come in questi versi sul _Natale_, che sembran preludere
nella loro ingenuità ai due inni immortali del Milton e del Manzoni.

    Venite, Angeli santi.
    E venite suonando;
    Venite tutti quanti
    Gesù Cristo laudando,
    E gloria cantando
    Con dolce melodia;
    Ecco il Messia — ecco il Messia
    E la madre Maria.

      Venitene, Profeti
    Che avete profetato,
    Venite tutti lieti;
    Vedete ch'egli è nato,
    Il picciolin Messia!

      Pastor pien di ventura,
    Che state voi a vegghiare?
    Non abbiate paura;
    Sentite voi cantare?
    Correte ad adorare
    Gesù con mente pia.

      I Magi son venuti
    Dalla stella guidati,
    Con lor ricchi tributi.
    In terra inginocchiati.
    Quanto son consolati
    Adorando il Messia!

Altre volte, nell'ardore della preghiera, ha qualche cosa di
petrarchesco come in questa strofa:

    Apri, Signore, il tuo celeste fonte;
    Quella tua dolce vena
    Che Maria Maddalena
    Trasse di basso loco all'alto monte,
    Con l'anima serena
    Piena di raggi e di splendor divino.
    Pietà, Signor, di questo peregrino!

Amor giovine, deplorò le umane rovine della Chiesa e le morali rovine
del Mondo, con versi potenti. La Chiesa di Cristo,

    Povera va con membra discoverte,
    I capei sparsi e rotte le ghirlande:
    Scorpio la punge ed angue la perverte.
    E così va per terra
    La coronata, e le sue sante mani....
    Bestemmiata dai cani
    Che van truffando sabbati e calende....

Le Poesie sacre del Savonarola, a differenza di quelle di Feo Belcari
e del Benivieni, accennano o confermano il concetto d'una _Riforma
Cattolica_, già prenunziata da Dante. E in alcune strofe si mostra
anche artista. Nonostante il _falò_ delle vanità, nel quale è a
deplorarsi l'eccesso che pur vi fu, egli aveva vivo il sentimento
dell'Arte. Fondò una scuola di pittura nel suo stesso Convento, ove
lavorò Fra Bartolomeo, fu agli artisti e ai letterati consigliere e
ispiratore, fu intimo amico di Pico della Mirandola e inaugurò con lui
gli studi ebraici e orientali — e il genio dei Profeti e di Dante che
era in lui, lo comunicò a Michelangiolo, e palpita ancora immortale
alla volta e alle pareti della _Sistina_. Non facciamo dunque del
grande oratore e del grande riformatore, un Erostrato selvaggio e un
frate ignorante.

Egli fu in Italia la più gran coscienza _morale_ del secolo XV,
come Dante lo era stato del XIV, e come Michelangiolo lo fu del
XVI. L'ardore con cui il santo monaco fuse insieme i sentimenti di
patriottismo e di morale nel popolo di Firenze, non si spense con lui
— e i suoi migliori effetti si videro rifulgere nel memorabile Assedio
degli anni 1529-30. Il soffio vulcanico del grande oratore che ispirò
il poema della _Giustizia_ dipinto nella Sistina da Michelangelo,
animò egualmente la tragedia della _Libertà_ combattuta a Gavinana da
Francesco Ferruccio.

La sua _fede_ eccitava il suo entusiasmo, il suo entusiasmo faceva la
sua forza. Nessuno, o Signori, è diventato martire per una _opinione_:
la _fede_ sola fa i martiri. Egli credeva e vedeva, e tuonava dal
pergamo le sue visioni. Chiamatelo pure un fanatico. Era fanatico come
Ezechiello, come Geremia, come Arnaldo, come Demostene, come Dante,
come Mirabeau, come O'Connell — come tutti quelli che hanno comunicato
l'elettricismo d'una parola di fuoco. Era un malato?... Forse. Ogni
vera creazione produce uno spostamento, un disequilibrio. Se gli eroi,
i martiri, i grandi poeti son tutti _malati_ — consoliamoci — non c'è
mai stata tanta salute come oggi, in Europa!

Le più ammirabili prediche del Savonarola, come ben nota l'illustre
Villari nel suo classico libro, son quelle su i _Salmi_: e quella dove
l'impeto lirico è sommo ed unico, dove il Savonarola è veramente poeta,
e gran poeta, è la _predica-visione_ dei flagelli d'Italia. Il Cielo
stesso combatte; i Santi, gli Angeli spingono i barbari vendicatori.
Son loro che li hanno chiamati, che hanno messo le selle ai cavalli,
e affilate le spade. E il diluvio degli stranieri, il gran gastigo
italico, comincia. Dove andiamo? San Pietro grida: A Roma! a Roma! San
Giovan Battista e Santo Antonino: a Firenze! E San Marco: là verso la
città superba e voluttuosa, che inalza le sue cupole d'oro sovra le
acque!

La impressione che riceviamo anche oggi, dopo quattro secoli, e alla
semplice _lettura_, da questa predica, è solo paragonabile a ciò
che proviamo al primo ingresso nella Cappella Sistina. Vi ricordate?
Un fremito, un tumulto, corre sulle pareti. Non si sa dove riposare
lo sguardo. Da tutte le parti, visi minacciosi, e pianti disperati.
Ezechiello si volta impetuosamente, in furiosa disputa con un Angelo.
Geremia appoggia l'enorme testa sulle mani, come schiacciato dal peso
di tutti i dolori di Gerusalemme. La Libica si alza terribile, con
in mano il gran libro dei fati. La Persica legge con occhi ardenti.
Daniele scrive tremando. Qua, il tronco di Oloferne versa una fiumana
di sangue; là, gli adoratori degli idoli si contorcono, ignudi, sotto
i morsi dei serpenti divoratori. Madri spaventate urlano e fuggono,
stringendo al seno i bambini. Un altro vede passare in uno specchio
visioni così terribili, che indietreggia atterrito, e batte la spalla
nella muraglia. Par di sentir ruggire di lontano il tuono della
vendetta divina. La Giustizia e il Giudizio — riparatore e vendicatore
— respirano da ogni angolo della tremenda Cappella.

In quegli anni tragici e sinistri di saccheggi e di incendi, di
orgie e di tradimenti, Michelangelo, che doveva assistere ai funerali
della libertà e dell'Italia, si ricordò soprattutto del Savonarola, e
leggendo assiduamente i Profeti, Dante, e le Prediche e le Liriche del
Ferrarese, dipinse i Profeti, e scolpì la _Notte_, la _Notte d'Italia_.

In una delle sue ultime prediche, il Savonarola, presago dello
imminente martirio, disse queste parole: “O Signore, io non tengo modi
di cercar gloria umana. Io non voglio cappelli, nè mitrie piccole o
grandi. Non chieggo se non quello che tu hai dato ai tuoi Santi — la
morte. Un cappello rosso, un cappello di sangue, questo desidero.„

E l'ebbe. E prima, le agonie dell'infame processo, i dubbi e i terrori,
la fune che gli slogò tutte l'ossa, le tenebre della segreta, le smanie
e gli scoramenti, e i sudori di sangue dell'eterno Getsemani....

Fu allora che in un momento di tregua, in un'ora di grazia e di
respiro, — fra la tortura e il rogo — compose un salmo sublime, che il
Tommaseo ammirava tanto, e tradusse.

Eccone alcuni versetti:

    Conoscerò dunque, fra poco, Voi, o mio Dio, conoscitore di me.
    O mio consolatore, mostratevi a me finalmente;
    Siatemi adiutore — non mi lasciate.
    Perchè il padre e la madre mia mi lasciarono....
    Ma il Signore misericordiosamente mi assunse.
    Non mi date alle animosità di quei che mi tribolano,
    Poichè insorsero contro me testimoni iniqui — e l'iniquità
          mentì a sè medesima.

Sospeso dal laccio infame sul rogo, e non ancor morto, il Savonarola
potè forse vedere le mani impazienti e furiose del popolo, appressare
le torce accese alla catasta già sparsa d'olio e bitume; mentre
altre mani scagliavano una pioggia di sassi su quel volto tante volte
illuminato dalla luce del genio e dalla santità della vita.

Ah! da quando insultò Socrate, e preferì ad alte grida Barabba a Gesù;
al giorno in cui sputò in faccia a Bailly e imprecò a Madama Roland
moritura — la plebe ingannata e pervertita, o abbandonata al cieco
istinto bestiale, ha sempre applaudito all'eccidio dei suoi più insigni
_benefattori_.


VII.

Come il lato sofistico del Paganesimo era stato il consacrare la
natura umana anche nella sua parte cattiva — il lato sofistico del
Cristianesimo medievale fu di gettare un anatema troppo assoluto
su la Natura, di vivere come lo Stilita sospesi tra il Cielo e la
Terra, guardando a quello con estasi, a questa con un sacro terrore.
Il centro della Idealità fu spostato nel _Rinascimento_; e al culto
del Dolore spirituale, successe l'apoteosi della plastica Bellezza
e della Euritmia. Ma tra le voci armoniose e pagane, dura anche nel
_Quattrocento_ qualche eco della grande, triste e patetica poesia del
Cattolicismo. Oltre il Savonarola, vanno ricordati il Benivieni e il
Belcari. Il primo essenzialmente lirico, drammatico e trovatore di
patetiche situazioni, efficaci, nella loro ingenua espressione. Basti
rammentare le parole d'_Isacco_ al padre che sta per sacrificarlo.

Nella lirica satirica si distinsero il Cammelli e il Burchiello: ma il
loro più gran merito consiste forse nella visibile influenza che ebbero
sull'ammirabile genio del Berni.

Un soffio veramente lirico spira in alcuni canti epici del rude e
possente poeta Luigi Pulci. La sua _morte di Orlando_ è semplice,
patetica, e tocca il sublime. E forse Alfredo Tennyson l'ebbe in mente,
quando descrisse, negli _Idilli del Re_, la _Morte di Artur_o.

Nelle stanze narranti la catastrofe cavalleresca, Roncisvalle, e
la morte del gran Paladino, è commisto in modo mirabile l'elemento
_lirico_ all'epico:

    Così tutto serafico al ciel fisso
    Una cosa parea trasfigurata,
    E che parlasse col suo crocifisso....
    Il cielo certo allor s'aperse....
    E come nuvoletta che in su vada,
    _In exitu Israel_, cantar, _de Egipto_
    Sentito fu, dagli Angeli solenne
    Chè si conobbe al tremolar le penne.
    Poi si sentì. . . . . . . .
    Certa armonia con sì soavi accenti,
    Che ben parea d'angelici istrumenti.

Versi che certo rammentava l'Ariosto quando cantò con la magia che gli
è propria:

    E voci e suoni d'angeli concordi
    Tosto in aria s'udîr che l'alma uscìo
    La qual, disciolta dal corporeo velo,
    Fra dolce melodia salì nel cielo.

Arriva Carlo Magno e benedice al morto Paladino e gli richiede la spada
Durlindana.

    Io benedico il dì che tu nascesti,
    Io benedico la tua giovinezza.
    Io benedico i tuoi concetti onesti,
    Io benedico la tua gran prodezza.
    E se tu hai di me nel ciel mercede,
    Come solevi al mondo, alma diletta,
    Rendimi se Dio tanto ti concede,
    Ridendo, quella spada benedetta.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Come a Dio piacque, intese le parole,
    Orlando, sorridendo, in piè rizzossi;
    Con quella reverenza che far suole,
    E innanzi al suo Signore inginocchiossi,
    E poi distese, ridendo, la mana,
    E resegli la spada Durlindana.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Carlo tremar si sentì tutto quanto
    Per maraviglia e per affezione,
    E a fatica la strinse col guanto....

Ma il personaggio più magneticamente poetico del _Quattrocento_, quello
la cui _vita_ è una vera _lirica_ di bellezza, di aspirazioni e di
entusiasmi, è Pico della Mirandola: e non vi dispiaccia, o Signori, che
io _concluda_ col suo simpatico nome, questi miei rapidi cenni su la
poesia del Quattrocento.

Marsilio Ficino ci ha narrato come lo vide la prima volta in Firenze.
Era il 1480, l'anno in cui il Ficino aveva compiuto la sua grande
opera, la traduzione di Platone. Una bella giornata di settembre,
verso l'ora del tramonto, il dotto ellenista meditava nel suo studio.
La lampada votiva che egli teneva accesa dinanzi al busto di Platone
brillava vivace nella languente luce vespertina. Entrò un giovane alto
e bello, dagli occhi grigio-cerulei, dai capelli di un biondo acceso,
scendentigli sulle spalle sotto un berretto di velluto nero: vestiva
una cotta di raso violaceo, listato d'argento: aveva al collo la
collana d'oro di Principe. Era Giovanni Pico della Mirandola.

Parlarono di filosofia — di Platone, naturalmente. E il giovine
Principe suggerì al vecchio filosofo di tradurre Plotino, il mistico
panteista dell'Antichità. Parlò dell'Oriente; _il mio Oriente_,
diceva, l'_alma mater_ d'ogni scienza e poesia. Parlò della Bibbia
e del Cristianesimo, di un Cristianesimo eterno, indistruttibile,
conciliabile col Platonismo. Parlò dell'Uomo, che è un piccolo
Mondo, una sintesi portentosa e divina, “dov'è, diceva, l'essenza
angelica e il senso del bruto, e la vegetale anima delle piante, e il
fuoco e il mercurio„. Disse al Ficino di un Commento che intendeva
fare alla Canzone del Benivieni su l'_Amor divino_: e ne discorse
con una stupenda profusione di immagini colorite e poetiche, prese
dall'Astrologia, e dalla Cabala, da Salomone e da Omero.

E la notte calava sulle grandi vetrate dello studio, e la lampada
votiva illuminava il marmoreo volto di Platone e i capelli d'oro di
Pico.

Era allora poco più che ventenne: ma avea già provato le tempeste della
passione e n'era restato disilluso, e abitualmente un po' mesto.

Aveva scritto molti versi d'amore, e gli aveva, un giorno, tutti
bruciati. (Grande e raccomandabilissimo esempio!...) Aveva viaggiato,
visto uomini e cose. Veniva ora a Firenze, attratto dalla fama del
Magnifico Lorenzo, e dall'amicizia per il Ficino.

Una bellissima bruna, una ardente _Savonaroliana_, soprannominata la
_profetessa_, Camilla Rucellai, s'innamorò perdutamente di lui.... ma
non fu corrisposta. La irrequieta curiosità teologica e scientifica,
la triste sazietà dei piaceri, preservarono Pico da nuove passioni.
La Rucellai gli predisse che sarebbe morto _al tempo dei gigli_....
E il giorno che Pico della Mirandola spirava tra le braccia del
Savonarola, Carlo VIII entrava in Firenze preceduto dalla bandiera con
li aurei gigli di Francia. Fu sepolto in San Marco. Aveva 32 anni. I
contemporanei lo chiamarono la _Fenice_ degli ingegni. Per noi è una
Fenice soprattutto in questo, che fu un _Erudito poetico_. Non si è
visto ancora il secondo.

Sapeva e scriveva il greco, l'arabo, l'ebraico, il caldaico.
All'età di ventisette anni, trasse dai suoi immensi studi novecento
tesi di fisica, filosofia, teologia, astronomia, magia naturale,
comprendenti quasi tutto lo scibile del suo tempo, e le pubblicò
in Roma, proferendosi pronto cavallerescamente a sostenerle contro
chiunque osasse oppugnarle. Poeta e filologo, filosofo e mistico,
ebbe un'ardente curiosità dell'ignoto, del miracoloso, intravedendo e
indagando il _Soprannaturale_ nell'intima essenza del _Naturale_; come
Leonardo, Paracelso, Fichte, Novalis, Carlyle. Simpatizzava con tutto
quello che le morte generazioni hanno sinceramente e passionatamente
creduto: e studiava, rievocava, resuscitava le antiche mitologie.
Vedeva in esse l'eterno _Io_ dell'umanità, vi leggeva un motto del
grande Enimma. Egli disse pel primo la feconda parola: in ogni _fede_,
è una parte di _verità_.

La sua teoria è essenzialmente poetica e consolante, e rammenta
la teoria Browninghiana. — Tutto quello che rettamente si volle
e nobilmente si amò sulla Terra, non andrà mai perduto. Dovremo
traversare altri mondi — molto avrem da imparare, molto da dimenticare,
ma quel momento verrà. Tutto quello che ardentemente aspiravamo ad
essere, e non potemmo essere su la Terra, ed a cui pure ci sentivamo
chiamati; tutto ciò che era in noi e che il mondo ignorò, la poesia
muta, l'amore represso, il momento fatale perduto, tutto avrà un
giorno, altrove, sviluppo e trionfo. Pico della Mirandola serbò
intatte, nel suo poetico naturalismo, la coscienza individuale, e
la libertà morale dell'anima umana. Nel suo trattato _De Hominis
dignitate_, scrisse queste belle e memorande parole: “I bruti sono
eternamente bruti, gli angeli, essenze angeliche eternamente. Tu solo,
o Uomo, puoi degenerare fino a divenire un bruto, e rigenerarti e
sollevarti fino a parere un Dio. Tu solo hai un incessante sviluppo; tu
solo porti in te i germi di ogni specie di Vita.„

Se Pico della Mirandola distrusse i suoi versi, restò poeta nella vita,
nel sentimento, nell'intelletto. Nè mi è parso inopportuno parlare di
lui, in una lettura su la poesia del _Rinascimento_. Per esserne il
più poetico simbolo, non gli è mancato nulla. Ha avuto l'ingegno, la
dottrina, la bellezza, la gioventù, la nobiltà, l'entusiasmo, la morte
precoce; e finalmente _un certo mistero_ che avvolge il suo nome, la
sua vita, e tutti i suoi scritti.



L'ORLANDO INNAMORATO DEL BOIARDO

DI

PIO RAJNA.


Scommetto, signore e signori miei, che se fossi mago — che pur
troppo non sono — e avessi la virtù di far qui comparire a un vostro
cenno tutti i poeti che vi venisse la curiosità di vedere, la sala
correrebbe un gran rischio di essere stipata prima che a Matteo Maria
Boiardo fosse concesso di trovarsi in mezzo a un'accolta di persone,
tale da richiamarlo a' suoi giorni più belli. Gli è che il nome suo
vi s'offrirebbe offuscato da un altro: quello di Lodovico Ariosto. E
c'è di peggio. Il Boiardo della tradizione comune ha come l'aria di
un somarello dal pelo arruffato, pieno di guidaleschi, che se ne va
trotterellando alla meglio, indegno di attirare gli sguardi, finchè
un buffone — Francesco Berni mi scusi, — non è còlto dal ghiribizzo
di balzargli sul dorso, e, messolo a corsa a forza di scudisciate,
non si dà ad eseguire su quella cavalcatura ogni sorta di smorfie
e capestrerie. O chi mai deve dunque impacciarsi di richiamare
dall'eterno riposo un'ombra cosiffatta?

Chi? — Voi per l'appunto: dopo che vi siate presi la cura di conoscere
meglio cosa sia per davvero l'_Orlando Innamorato_, o _Innamoramento
d'Orlando_ che si voglia dire; una cura che, avendo me a guida,
riuscirà forse una fatica e una noia; ma che fatica e noia non sarebbe,
se, mandato a farsi benedire l'incomodo mediatore, apriste il libro voi
stessi e vi deste a legger senz'altro.

Per il momento son qui, e bisogna che mi tolleriate. Ed io dal mio
canto, volendo adempiere coscienziosamente l'ufficio a cui mi son
sobbarcato (povera coscienza, come si strazia in tuo nome!), son
costretto a risalir molto indietro. L'_Orlando Innamorato_ — dicono
i barbassori — non si può giudicar bene senza essere prima informati
della sua schiatta; e questa schiatta è disgraziatamente antica assai.

Sicuro: ci si perde in un lontano passato, e in un passato non nostro.
Tutti sanno oramai di una epopea rigogliosa fiorita nella Francia
del medio evo e dissepolta pietosamente da sessant'anni in qua. Essa
accompagnò la vita francese dai primordi fino a un'età molto tarda.
Nata di sangue germanico, ma fattasi presto romana, cantò i fatti e
gli eroi del periodo merovingio, poi quelli del carolingio, e serbò
ancora abbastanza fiato perchè, due e più secoli dopo, al tempo delle
crociate, potesse mettersi alla bocca la tromba.

Quanti personaggi si trovò così a celebrare! Ma tra gl'infiniti,
taluni, per motivi interni ed esterni, vennero a prevalere. Primo fra
tutti Carlo Magno, il sovrano per eccellenza. E accanto a lui Orlando,
del quale la morte stoicissima al passo di Roncisvalle fece l'ideale
del guerriero valoroso e del vassallo devoto. In Rinaldo invece e in
certi altri si possono veder personificate le doti meno corrette,
ma spesso più simpatiche, del barone ribelle; ribelle nondimeno ai
soprusi, non all'esercizio legittimo dell'autorità.

Nella sua forma schietta e genuina questa epopea francese è poesia
severa, profondamente patriottica, ardentemente cristiana, fieramente
guerresca. Ma se il patriottismo, la religiosità e lo spirito bellicoso
eran troppo connaturati con essa per venir a mancare, la severità
invece dovette via via ceder terreno di fronte al bisogno di andar
a sangue a un pubblico mano mano più desideroso di svago: simile al
pubblico d'una conferenza! Così l'epopea si veniva convertendo in
romanzo: metamorfosi da non poter mai riuscire perfettamente, nel
territorio almeno a cui l'epopea appartiene per nascita. Getti pur
lontano quanto vuole la sua tonaca, poco o tanto il frate resterà
sempre frate. Quindi, se le _chansons de geste_ continuarono ad
appagare esuberantemente il gusto, facile sempre, delle classi
popolari, il palato dei signori trovò col tempo maggior piacere in
altri cibi. E i cibi furono svariati; ma il più gradito fra tutti
fu quello offerto in gran copia dalle narrazioni costituenti la
cosiddetta Materia di Brettagna, o il Ciclo d'Artù e della Tavola
Rotonda. Straniero di origine, e però non vincolato o frenato da
nessun obbligo o tradizione, questo ciclo potè volgersi liberamente
a sodisfare ogni tendenza e desiderio di quella società cavalleresca
alla quale s'indirizzava, parte, svolgendo gli elementi portati con
sè della patria, e più assai trasformando e introducendo di nuovo.
Ne uscì un mondo fantastico, nel quale il meraviglioso — prima causa,
se non erro, della fortuna brettone — s'incontra a profusione; dove i
guerrieri se ne vanno errando soletti, o quasi, per regioni solitamente
boscose, sconosciute affatto a loro medesimi, incontrando di continuo
l'inaspettato; dove al posto della guerra s'ha il duello, il torneo
e l'“avventura„; dove insieme col valore regna la cortesia; dove la
donna, relegata in un cantuccio dall'epopea carolingia, è messa in
trono, e con essa — occorre mai dirlo? — è messo in trono l'amore; un
amore che cura ben poco le istituzioni sociali, sicchè si compiace
segnatamente delle due coppie adultere di Tristano ed Isotta, di
Lancillotto e Ginevra.

Dalla Francia così l'epopea nazionale come la materia di Brettagna si
propagarono all'Italia. L'epopea se ne dovette venire fino da un'età
molto antica; oserei quasi dire già in quella stessa di Carlo Magno.
Quanto alle narrazioni brettoni, giunsero a noi più tardi; eppure,
lasciando stare certi indizi che ci riporterebbero nientemeno che al
cadere del secolo XI, è certo che nel XII si divulgarono largamente.
La fortuna dell'epopea fu senza confronto maggiore. Essa trovò qui
una seconda patria; e non già solo in questa o quella regione, bensì
oramai in tutto il paese. Ciò non toglie che la vallata del Po fosse il
terreno più disposto ad accoglierla. Colà prima che altrove mise salde
radici e si rivestì di nuove frondi. Agli abitatori di quelle provincie
che avessero qualche poco di coltura, la favella francese sonava
famigliare; sicchè ivi accadde che si rimaneggiasse e s'arricchisse
con nuove invenzioni ciò che s'era avuto d'oltralpe servendosi del
linguaggio della Francia e senza dipartirsi dai ritmi originarii.
Linguaggio e ritmo non rimasero; invece, nè potevano rimanere, al di
qua dell'Appennino; l'uno cedette il posto ai volgari nostri, l'altro
all'ottava rima o alla prosa. Ma di quaggiù il mutamento ebbe poi
ad essere comunicato di rimbalzo all'Italia stessa del settentrione,
ridottasi a poco a poco ancor essa ad accogliere un sentimento più vivo
d'italianità nell'ordine altresì della lingua e della letteratura.

Quanto alla materia di Brettagna, è naturale che anche presso di noi
se ne avessero a compiacere specialmente quelle classi per cui s'era
venuta foggiando. Ciò viene a dire che dovette certo aver voga maggiore
nella Lombardia, intesa nel suo vecchio ed ampio significato, nella
Marca di Treviso, nella Romagna, così ricche di signori feudali e di
piccole corti. Però non a caso Dante pose il romanzo di Lancillotto
tra le mani de' “duo cognati„, con quell'effetto che troppo ben sapete.
Nondimeno e Artù e Tristano e Galvano e tutta la brigata non mancarono
di esercitare vive seduzioni anche qui nella Toscana sulle fantasie di
una gioventù, cui il nascere per la più parte di popolo non toglieva
d'essere amante del “donneare„, della prodezza del lusso, e di ogni
gentil costume. Quindi sulle pareti del palazzo della sua Madonna il
poeta dell'_Intelligenza_ — o perchè non dirò io Dino Compagni? — darà
luogo alla rappresentazione di questo mondo leggiadro con parole che
lasciano intendere quanto fosse caro al suo cuore (St. 287-288):

    E sonvi i pini, e sonvi le fontane.
    . . . . . . . . . . . . . . . . .
      E sonvi tutti i begli accontamenti
    Che facevan le donne e' cavalieri:
    Battaglie, giostre, be' torneamenti,
    Foreste, roccie, boscaggi e sentieri.
    Quivi sono li bei combattimenti,
    Aste troncando e squartando destrieri.
    Quivi sono le nobili avventure;
    E son tutte a fino auro le ligure:
    Le caccie, e corni, valletti e scudieri.

Lungi da me l'idea di parlarvi, sia pure rapidissimamente, di ciò che
da un lato il ciclo carolingio, dall'altro il brettone, produssero
presso di noi nel lungo periodo che precede al mio soggetto, ossia
fin verso il declinare del quattrocento. Questo solo dirò, che il
brettone riuscì poco prolifico, e si limitò quasi sempre a tradurre e
verseggiare. Il carolingio invece fu di una fecondità conigliesca, e
mise alla luce una serie interminabile di romanzi in prosa e in verso,
attraenti dapprima, fino a che in generale si contentavano essi pure di
ripetere in forma schietta ed ingenua narrazioni antiche, ma via via
più stucchevoli. Ci si domanda come la gente del secolo XV — ed anche
del XVI — potesse trovar diletto nel leggere o sentir recitare casi
tanto uniformi, narrati prolissamente e senza grazia. Ci si domanda:
ma quando si vede un fanciullo trastullarsi ore ed ore con quattro
fuscellini, e gli stessi pettegolezzi far le spese della conversazione
universale per una intera settimana, e i cuori di migliaia e migliaia
di persone (osservo, non critico) stare in ansia per veder risolto
il gran problema se quattro zampe di cavallo arriveranno alla mèta
un minuto terzo prima di altre quattro, e rimanersene per questo ore
ed ore sotto la sferza solare, si conchiude che per divertir l'uomo,
grande e piccino, molto poco può essere sufficiente. Vero che non ci
vuol troppo più nemmeno per annoiarlo.

Questa nostra letteratura pareva giunta alla sera — e che squallida
sera! — senza aver avuto un vero meriggio; quando le nubi si
squarciarono e il sole prese a sfolgoreggiare. Esso, par bene, ebbe
prima a mostrarsi a Firenze, dove, secondo le conclusioni di studi
recenti, il _Morgante_ di quella bizzarra creatura che fu Luigi Pulci
era già composto per tre quarti nel 1470. Il valore di questo poema
è tuttavia più scarso che non si pensasse in addietro. D'invenzione
non è da parlare che per pochi episodii, dacchè del resto l'amico del
Magnifico non fece oramai che rintonacare le mura rustiche elevate
da un rimatore popolaresco, sovrapponendovi un tetto costrutto
con travi e tegoli di cui possiamo determinare la provenienza. Il
pregio maggiore dell'opera sta nella vivacità, davvero mirabile,
dello stile e della lingua, e nel riso che guizza per ogni dove.
Ma insomma, col Pulci, il romanzo popolare carolingio si riveste
di nuovi panni, si raggentilisce, si abbandona alla gaiezza, senza
punto mutare sostanzialmente. I cantambanchi che in San Martino ed
altrove raccoglievano dattorno a sè un uditorio composto sopratutto
di bottegai e di artefici, potevano ancora riconoscere in messer Luigi
uno dei loro. Che le cose seguissero a questa maniera nella democratica
Firenze, è un fatto più che naturale.

E il Boiardo? — Qui la scena cambia. Ma prima di vedere il come,
bisogna pure che noi si faccia un po' d'amicizia col nostro
personaggio.

Matteo Maria Boiardo nasceva di una famiglia feudale che nel 1423
aveva ceduto al marchese Niccolò d'Este l'avita signoria di Rubiera,
tra Modena e Reggio, ricevendone in cambio la vicina Scandiano ed
altre ville, con titolo di contea. Venne al mondo nel 1434, o giù
di lì; verosimilmente in Scandiano stessa, residenza abituale de'
suoi. Perdette il padre nel 1452; il nonno, Feltrino — uomo insigne
— nel 1455; la nonna due anni appresso; e si trovò così arbitro di sè
medesimo in età affatto giovanile. La vita sua, nota a noi in modo per
verità manchevolissimo, trascorse per la massima parte tra Scandiano,
Reggio, Ferrara. Caro agli Estensi, com'era stato loro carissimo
l'avolo, accompagnò nel 1471 Borso nel viaggio intrapreso a Roma,
quando Paolo II gli concedette anche per Ferrara quel titolo di duca,
che l'imperatore Federico gli aveva conferito già da oramai vent'anni
per Modena e Reggio. Sotto Ercole poi, succeduto poco appresso al
fratello, fu nel 1481 e nel 1486 al governo di Modena. E più lungamente
ebbe quello di Reggio: chè, lasciando stare qualcosa che s'afferma e
non si prova per un tempo antecedente, rimase in ufficio dal 1487, o al
più tardi dal principio del 1488, fino alla morte, seguita nella notte
dal 20 al 21 dicembre del 1494.

Educato senza dubbio alcuno all'esercizio delle armi fin dagli anni
suoi teneri, Matteo Maria ebbe scarse occasioni di menar per davvero
le mani. Qualche parte è verosimile che prendesse alla difesa contro i
Veneziani, che nel 1482 mossero ad Ercole una fiera guerra, durata fino
al 1484. Come reggitore, certe voci, posteriori alquanto, lo accusano
di fiacchezza; e non dirò che l'accusa sia sbugiardata trionfalmente
in tutto e per tutto dall'esame di quel tanto che ci è rimasto del
suo carteggio col duca. Certo l'animo suo era profondamente inclinato
alla benevolenza. Non meno che a questa tuttavia alla giustizia. E il
carteggio dà insieme chiaramente a vedere com'egli fosse largamente
dotato di senno pratico, e rotto agli affari.

Agli uffici pubblici par che Matteo fosse spinto da ragioni private;
probabilmente da strettezze pecuniarie, ben conciliabili anche colla
signoria di Scandiano, toccata propriamente a lui nelle divisioni con
un cugino. Ma occupazione più gradita che le faccende amministrative,
conditegli spesso di fiele da altri ufficiali, gli riuscivano di sicuro
lo studio e la poesia.

Tre libri di liriche amorose contengono soprattutto gli sfoghi della
sua passione giovanile per una diva reggiana, che non tardò a mostrarsi
maestra di lusinghe, simulatrice, volubile, capricciosa. Grazie alla
provvida costumanza degli acrostici, ne conosciamo nome e cognome: si
chiamava Antonia Caprara. Ma Antonia non domina sola qua dentro. Buon
numero di poesie, scritte durante il viaggio a Roma del 1471, inclino a
credere indirizzate da Matteo a Taddea Gonzaga dei conti di Novellara,
divenuta l'anno dopo sua moglie. Ed altre rivendicazioni dovremmo
ammettere (nè dico ciò senza ragioni specifiche), se alle ossa che
furono donne gentili e leggiadre negli Stati estensi durante la seconda
metà del quattrocento fosse consentito di venir qui a far valere i
loro diritti. Chè l'amore fu il sentimento predominante nel Boiardo. E
sia poi stata fatta eseguire da lui medesimo, oppure invece da altri
in suo onore, la medaglia che nel 1490, quando egli s'avvicinava
alla sessantina, ce ne tramandò — e autentiche — le fattezze, il suo
rovescio, rappresentante Vulcano intento a foggiare sull'incudine
strali per Cupido, lì presente con Venere, e il motto virgiliano che
accompagna la rappresentazione, _Amor vincit omnia_, ci rendono davvero
secondo verità i lineamenti interni del Conte di Scandiano. Quel motto
— si badi — in una forma o in un'altra, noi lo raccogliamo direttamente
dalle sue labbra non so quante volte.

Il canzoniere del Boiardo è uno dei più notevoli del secolo XV; e io
mi domando, se mai, non ostante una certa povertà di tavolozza, non
fosse il più notevole addirittura. Attrae e colpisce la sincerità
della passione, di cui noi seguiamo agevolmente la storia nelle sue
vicende liete e tormentose; l'efficacia e la bella semplicità delle
espressioni via via che essa riceve; la vivezza e soavità delle
immagini; la delicata sensitività per la natura; l'armonia squisita dei
congegni ritmici. Se i convenzionalismi e le ricercatezze non mancano
(specialmente, badiamo, nel libro terzo, forse ordinato da altri che
dal poeta), quanto difficilmente potrebber mancare dopo l'esempio del
Petrarca! Ma l'ispirazione petrarchesca, che qui pure può assai, non
soffoca nient'affatto l'originalità. Tra Antonia e Laura, tra il modo
di sentire di Matteo e quello di messer Francesco, c'è una differenza
profonda. Quasi più che a Laura direi che Antonia rassomigli alla
Lesbia di Catullo; ma le assomiglia come una donna somiglia ad un'altra
donna, poichè essa è propriamente persona viva. Il poeta, trascorsa la
prima fase dell'estasi, ce la rappresenta colle sue pecche; e in causa
di lei accusa, più spesso e più acerbamente che il Petrarca non faccia,
tutto il sesso femminile:

      Fede non più: non più v'è de honor cura
    In questo sexo mobile e fallace,
    Ma volubil pensier e mente oscura.
                                      (Son. 79).

Ma anche quando soffre, e non potrebbe più dire di certo, come in un
tempo di beatitudine,

    Amore ogni tristezza a l'alma toglie,
                                         (Son. 23)

non sarebbe alieno dal ripetere le altre parole che faceva allora tener
dietro:

    E quanto la natura ha in sè di bene
    Nel core inamorato se raccoglie.

E infatti dell'Amore egli prende una volta le difese in un leggiadro
contrasto col suo proprio cuore che lo viene accusando:

      Non sei tu per Amor quel che tu sei?
    Se in te vien ligiadria,
    Se honor e cortesia?
    Ah, pensa pria se lamentar te dei!
      Lamentar di colui che l'armonia
    Infonde a i vagi ocei!
    Che infonde a' tygri humana mente e pia,
    E fa li homini Dei
                       (Canzone V, st. 3).

No, l'amore può tormentarlo quanto si voglia: dopo d'aver imprecato,
Matteo si riconcilierà con lui, e rimarrà tra' suoi più devoti.

Col Canzoniere hanno scarsa attinenza le altre opere minori. Dieci
egloghe latine furono composte, secondo me, tra il 1460 e il 1462;
dieci italiane spettano manifestamente la più parte al tempo della
guerra con Venezia. Perfino nel numero portano scritta in fronte
l'imitazione virgiliana! Qualche sprazzo di luce non vale davvero a
conciliarci con codesti pastori, che non hanno nulla di schiettamente
rustico, neppur quando l'allegoria non ne succhia il sangue. E meno
ancora ci seducono cinque capitoli, quattro dei quali hanno per
soggetto il timore, la gelosia, la speranza, l'amore, e il quinto
il trionfo delle virtù sui vizi. Quanto copiosi di una non recondita
erudizione mitologica e storica, altrettanto son poveri, e peggio, di
poesia. A un posto senza confronto più onorato, segnatamente per ragion
di tempo, può pretendere il _Timone_: commedia in terza rima, che non
vuol essere se non traduzione e adattamento scenico del dialogo omonimo
di Luciano, e che è qualcosa più. Traduzioni vere sono quelle che il
Boiardo fece, dal greco, dell'_Asino d'oro_ di Luciano stesso, delle
_Storie_ di Erodoto, della _Ciropedia_; dal latino, dell'_Asino d'oro_
di Apuleio. Quanto alla _Istoria Imperiale_, ossia degl'imperatori,
prima romani, poi romano-germanici, che si dà essa pure come versione
di un testo di Riccobaldo ferrarese, ancora non s'è ben chiarito cosa
sia; ma par da ritenere un raffazzonamento del Boiardo stesso, a cui
Riccobaldo non dette se non molta parte del materiale.

Tale, in brevi termini, l'uomo e lo scrittore, venuto ancor esso
nell'idea di metter mano a un poema cavalleresco. Quando l'idea
nascesse, non so dire; so bensì che nientemeno che sessanta dei
sessantotto canti e mezzo che il poeta ci ha lasciato, erano già
scritti al tempo della guerra con Venezia, e probabilmente anche
proprio avanti che nel 1482 la guerra scoppiasse. Chè, tra le armi, il
poeta, smarrito e addolorato, non per la sua provincia soltanto, ma per
l'Italia, non ha cuore di attendere all'opera, e ne rimette a giorni
migliori la continuazione:

    Non saran sempre e tempi sì diversi,
    Che mi tragan la mente di suo locho.
    Ma nel presente e canti mei son persi,
    E porvi ogni pensier mi giova poco;
    Sentendo Italia de lamenti piena,
    Non che hor canti, ma sospiro apena[98].

Però il principio della composizione vorrà riportarsi indietro Dio
sa di quanto; nè con essa ha dunque assolutamente che vedere la
pubblicazione del _Morgante_, seguìta essa pure solo nel febbraio di
quel medesimo anno 1482. E per me credo assai poco che vi abbia che
vedere nemmeno in altra maniera il poema fiorentino, del quale la
voce, od anche qualche esemplare manoscritto o qualche saggio, fossero
arrivati fino al Nostro. In ogni modo, se da Firenze fosse venuto
qualcosa, non si tratterebbe che di un semplice impulso, di cui poco
capisco che ci potesse esser bisogno.

Sicchè dobbiam fare direttamente i conti col nostro Matteo Maria.
Cosa ci saprà e vorrà egli dare? — Se ci mettiamo ad argomentare
dalle altre opere, il Canzoniere ci inspirerà una certa fiducia; ma
tutto il rimanente ci farà scuotere il capo in atto di diffidenza. Che
razza di poema cavalleresco dovrem noi aspettarci da un erudito, da
un traduttore, da un imitatore, dal coltivatore assiduo di un genere
letterario quale è l'egloga virgiliana, falso in sè medesimo e più
falso ne' suoi riflessi?

Diffidiamo; ma se invece di baloccarci fantasticando ci daremo a
guardare, saremo presi da un sentimento analogo a quello da cui sarebbe
colto chi per la prima volta s'accorgesse che l'autore del _Convivio_,
del _De Monarchia_, del _De Vulgari Eloquentia_, è ad un tempo l'autore
della _Divina Commedia_. Contemplando, siamo indotti a riconoscere che
se l'Italia produsse mai un uomo a cui la materia cavalleresca potesse
convenire, fu per l'appunto il Boiardo. E quest'uomo era in pari tempo
un esperto maneggiatore di affari grossi e piccini. Davvero, per quanto
si deva sentir ritegno a lodarsi di sè medesimi, non si può trattenersi
dal notare come sia dote caratteristica dell'ingegno italiano la
moltiplicità delle attitudini. Rassomiglierei questo ingegno al cubo,
che, adagiato su sei facce diverse, è sempre stabile ed equilibrato ad
un modo.

Erano due, come sapete, i cicli che il Boiardo si trovava dinanzi:
il carolingio ed il brettone. Entrambi gli erano ben famigliari; ma a
lui la schiatta e il costume signorile, e ancor più l'animo amoroso,
rendevano tra i due molto più grato il secondo:

      O gloriosa Bertagna la grande,
    Una stagion per l'arme e per l'amore,
    Onde ancor hoggi il nome suo si spande.
    Sì ch'al re Artuse fa portar honore:
    Quando e bon cavalieri a quelle bande
    Mostrarno in più battaglie il suo valore
    Andando con lor dame in aventura;
    Et hor sua fama al nostro tempo dura.
      Re Carlo in Franza poi tenne gran corte,
    Ma a quella prima non fo sembïante,
    Ben che assai fosse ancor robusto e forte
    Et havesse Ranaldo e 'l sir d'Anglante.
    Perchè tenne ad amor chiuse le porte,
    E sol se dete a le battaglie sante,
    Non fo di quel valore o quella estima
    Qual fo quell'altra ch'io contava in prima.

                     (_Orl. Inn._, II, XVIII, 1-2).

Si direbbe dunque che il Boiardo dovesse correre difilato al mondo
arturiano: porre in esso la scena, togliere di lì i personaggi, per
quel tanto che non li foggiasse di nuovo. Invece a questo partito
egli non s'appigliò punto; e anche con ciò dette prova di un criterio
rettissimo. Intanto, le selve della Brettagna, per quanto vaste,
erano sempre un terreno troppo angusto perchè ei ci facesse muovere
liberamente il suo popolo un intelletto italiano devoto al senso del
reale, e però non disposto a rappresentarsi ed a rappresentare gli
spazi troppo difformi dal vero; ben altra comodità offriva il ciclo
carolingio, condottosi via via ad estendere il suo dominio su tutta
quanta la terra! Poi, appunto perchè gl'ideali del Boiardo venivano
già ad essere attuati nella Tavola Rotonda, poco rimaneva qui a fare
per una mente creatrice. E c'era una ragione anche più grave d'assai.
Mentre Tristano, Lancillotto, Galvano, mantenevano non so che di aereo
anche per coloro che gli avevano in maggior domestichezza, i loro
rivali carolingi presentavano alla fantasia una concretezza, da non
potersi immaginare la maggiore: gli uni rassomigliavano come a gente
vista in sogno; gli altri parevano uomini conosciuti nella vita. Però,
parlare ad italiani di Carlo, d'Orlando, di Rinaldo, di Malagigi,
era un parlar loro di persone così prossime al cuore dei più, che
mai non si sarebbero stancati di udirne i fatti. Nè si creda che la
famigliarità con costoro, se non forse l'affetto, fosse nei signori
troppo minore che nel volgo. Di ciò fornisce la prova la conoscenza
che il Boiardo stesso dà a vedere incidentalmente, ora dell'una, ora
di un'altra narrazione tradizionale, e quella, meglio ancora, ch'egli
suppone a volte in un uditorio, che da luoghi non so quanti ci è
rappresentato come essenzialmente aristocratico. Ma non voglio neppur
tacere una testimonianza, istruttiva per più di un verso, fornita
da documenti storici dissotterrati di recente; tanto più che essa si
riferisce a una principessa estense, e propriamente a colei che tutti
s'accordano nel riguardare siccome l'esemplare più perfetto di quello
splendido fiore, che fu la donna del nostro Rinascimento.

Quando, al principio del 1491, Isabella, la figliuola del duca Ercole,
già marchesana di Mantova, fu a Milano per accompagnarvi la sorella
minore Beatrice, che andava sposa a Lodovico il Moro, s'accese una
disputa tra lei e Galeazzo Visconti, gentiluomo milanese, se fosse da
anteporre Orlando, oppure Rinaldo. Isabella (chi non sa che i ribelli
e gli scapigliati attraggono sempre le simpatie femminili?) stava per
Rinaldo; Galeazzo sosteneva le parti d'Orlando. La disputa dette luogo,
un giorno che s'andava per acqua a Pavia, oppure si ritornava di colà,
a una specie di lotta, nella quale Galeazzo costrinse la sua avversaria
a dichiararsi vinta, ed a gridare essa stessa: “Rolando, Rolando!„ Ciò,
beninteso, non le impedì punto di inalberare poi subito di nuovo la sua
bandiera e di tenercisi aggrappata anche dopo la partenza da Milano;
donde uno scambio curioso di lettere, tra le quali, disgraziatamente,
noi abbiamo solo — e non tutte — quelle di Galeazzo. La disputa (ciò
che ho detto della lotta lo avrà fatto intender di già) era sostenuta
in tuono umoristico. Importa poi rilevare, dacchè senza di ciò la
testimonianza perderebbe qui per noi ogni valore, che questo contrasto,
per quanto vediamo, non prese punto materia dall'_Innamorato_, sebbene
i primi due libri avessero visto la luce per le stampe cinque anni
innanzi.

Sicchè il ciclo carolingio era il solo donde si potesse muovere
opportunamente. Ma questo ciclo, qual era ridotto, presentava l'aspetto
di un vecchio castello, dalle mura decrepite, dove lasciate rovinare,
dove rifatte alla peggio, dalle sale sterminate e buie, dalle pareti
squallide, dall'arredamento poverissimo e consunto dal lungo uso. Non
era lì dentro davvero che un uomo dei gusti del conte di Scandiano
avrebbe mai voluto mettersi ad abitare, ed invitar cavalieri e dame
avvezzi allo splendore delle nostre corti. Perchè il castello gli
apparisse degno albergo di lui medesimo e di ospiti siffatti, bisognava
rimetterlo a nuovo da cima a fondo.

L'impresa era ardua quanto mai; e non so chi altri sarebbe riuscito
a condurla a buon termine. Restaurare è facile; ma è difficile in
sommo grado che ciò che s'è restaurato non si trovi poi essere la
negazione dell'armonia. Il Boiardo squarciò dovunque i fianchi alle
mura risaldate, e fra quelle tetraggini fece penetrare fiotti di
luce; rintonacò, dipinse e addobbò le pareti; senza dare lo sfratto
al vecchio mobigliare in quanto fosse ancora servibile, lo allogò
convenevolmente, e ne aggiunse uno copiosissimo di meravigliosa
ricchezza e d'impareggiabile svariatezza. Insomma, egli trasformò
quella miserabile dimora in un palazzo incantato.

Il rinnovamento consistette soprattutto (e si troverà ben naturale
dopo quanto s'è visto) in un grande raccostamento al ciclo brettone.
Un'azione di questo ciclo sul carolingio s'era cominciata a vedere
nella Francia stessa da ben tre secoli; ed aveva continuato ad
esercitarsi qui da noi. Ma sempre s'era trattato di fatti parziali,
compiuti senza impulso profondo, col semplice scopo di dilettar
maggiormente. Gli effetti erano stati per lo più tutt'altro che
felici; nè c'è da meravigliarsene. La vera e propria fusione del
mondo d'Artù e di quello di Carlo Magno non era possibile se non ad
un uomo per il quale quei due mondi avessero cessato di rappresentare
qualcosa di distinto e si confondessero in un'unità superiore: il
mondo cavalleresco. Allora soltanto Orlando e Rinaldo e quanti mai li
circondino potranno legittimamente convertirsi in cavalieri erranti; e
starà bene che anche i boschi del loro tempo sian pieni d'avventure;
e che le donzelle se ne vadan solette in cerca di un prode che osi
arrischiarsi a qualche arduo cimento, invochino con alte grida un
soccorso che le strappi a un pericolo, sian causa di combattimento
tra chi le accompagni e chi in loro s'incontri e pretenda di
impossessarsene; e che il passaggio tranquillo de' ponti sia impedito
da giganti e altri campioni; e che ai castelli si mantengan coll'armi
fiere usanze; e che le fate s'inframmettano nelle faccende degli
uomini, e li attraggano nelle loro dimore, e faccian sorgere giardini e
palazzi maravigliosi, che in un attimo vengan poi a dissiparsi. Queste
e molte altre cose troviamo nel poema del Boiardo per via de' romanzi
della Tavola Rotonda. Sennonchè insieme troviamo anche roba non so
quanta di provenienza diversa, e segnatamente classica. Ma poi, prenda
il Boiardo di dove mai si voglia, egli tutto trasforma e rifoggia, e
a tutto dà l'impronta sua propria. E dalla sua stessa fantasia trasse
tanto, quanto assolutamente nessun altro poeta italiano, all'infuori
di Dante. Però, al pari di Dante, di uno studio di fonti che, punto per
punto, riconduca alle sue origini quel che paia in qualsivoglia maniera
derivato d'altronde, egli non ha da temere. Ciò che per altri produce
troppo spesso l'effetto di una spennacchiatura, per lui si risolve in
una riprova di originalità. Così si capisce come, pur risultando da
elementi disparati, il poema non dia alcun sentore di raffazzonamento,
e nemmeno abbia la più lontana attinenza con un mosaico, per quanto
abilmente congegnato. Esso è lavoro di getto; e nel suo autore è da
riconoscere il creatore di un nuovo mondo poetico. Quanti sono mai gli
uomini, e nella nostra e in qualsivoglia letteratura, a cui sia lecito
di attribuire un vanto siffatto?

Guardiamo un poco addentro in quest'opera singolare. Vi sentiremo
in ogni parte strepito d'armi: qui abbiamo il cozzo di moltitudini,
come nel ciclo carolingio, là, e più spesso, semplici duelli, come
nel brettone. Ma alle armi s'accompagna qualche altra cosa. Dalla
bocca stessa del poeta s'è udito, non è molto, come la corte di Carlo
(quella, s'intende, di cui s'era narrato fin allora) fosse rimasta al
di sotto della corte d'Artù “Perchè tenne ad amor chiuse le porte„.
Chiuse del tutto, per verità, non le aveva tenute di sicuro; e Matteo
Maria lo sapeva benissimo; ma certo in essa l'amore aveva sempre
avuto l'aria di un intruso, e in ogni modo poi il valore non gli aveva
obblighi di nessuna specie. Per il Boiardo invece

    Amore è quel che dona la vittoria
    E dona ardire al cavaliero armato.
                                      (II, XVIII, 3).
Senza di esso il cavaliere quasi non si concepisce, e

    Se in vista è vivo, vivo è senza core.
                                          (I, XVIII, 46).

Nè, mancando l'amore, potranno fiorire neppur l'altre virtù, e in
primo luogo la cortesia, che è tanta parte nella morale cavalleresca.
Così si pensa e parla nel poema (I, XII, 12); e qui noi subito ci
s'accorge dell'intimo legame che lega questo col Canzoniere; ossia
veniamo a conoscere come il poema, lungi dall'essere un'opera concepita
ed eseguita per mero sollazzo o per studio d'arte, abbia radice nella
regione più profonda del sentimento. Ciò costituisce la massima tra
le differenze che distinguono il conte di Scandiano da quant'altri
si dettero fra noi al poema cavalleresco, non escluso nient'affatto
l'Ariosto.

Supremo pensiero del Boiardo dovrà essere dunque di redimere il mondo
carolingio da quella vita vegetativa in cui aveva languito così a
lungo, e di stabilire anche su di esso la signoria dell'Amore. Ed ecco
che un Trionfo d'Amore sarà ciò che verrà ad offrirsi sulla scena ai
nostri sguardi subito al levarsi della tela.

Siamo di maggio, verso la pasqua di rose, e in Parigi, per occasione di
una giostra bandita da Carlo, troviam raccolta una solennissima “corte
reale„, che più che alle solite corti del nostro imperatore rassomiglia
a quelle d'Artù. Insieme colla moltitudine de' signori cristiani,
sono accorsi di Spagna anche molti Saracini; chè le barriere del mondo
cristiano e Saracino, se non son tolte, son cadute più che a mezzo in
isfacelo. Quel giorno tutta l'infinita baronia è stata chiamata a un
gran convito. Carlo va lieto a porsi sopra una sedia d'oro “a la mensa
ritonda„; (la “Tavola Rotonda„ è trasportata qui, come vedete, non
solamente in idea); accanto a sè ha i paladini, dirimpetto gli ospiti
spagnoli.

Mentre si sta in allegrezza, all'estremità della sala si presenta
una donzella, che sapremo poi chiamarsi Angelica, in mezzo a quattro
giganti, seguita da un cavaliere e non più:

    Essa sembrava matutina stella,
    E giglio d'orto e rosa di verzieri;
    In somma, a dir di lei la veritate,
    Non fu veduta mai tanta beltate.
                                    (St. 21).

A quella vista non un cristiano, non un Saracino, sa rimanersene
seduto; tutti cercano di accostarsi alla donzella, la quale si fa ad
esporre all'imperatore certe sue fanfaluche, il cui succo si è che il
fratello suo (il cavaliere che l'accompagna) domanda giostra a quanti
son qui convenuti, e che ella stessa sarà premio per chi riesca ad
abbatterlo. Il fascino esercitato da questa bellezza impareggiabile è
tanto, che l'amore s'accende di subito nei petti. Innamora Namo, “ch'è
canuto e bianco„, e si scolorisce in viso; innamora Rinaldo, e si fa
“rosso come un foco„; il Saracino Ferraguto, che ha l'argento vivo
addosso, a gran fatica si rattiene dallo slanciarsi contro i giganti,
per impadronirsi colla forza della fanciulla, e frattanto

    Hor su l'un piede, or su l'altro si muta;
    Grattasi il capo e non ritrova loco.
                                        (St. 34).

Insomma, a farla breve,

    . . . . . . . . ogni barone
    Di lei se accese, et ancho il re Carlone;
                                             (St. 32)

il quale profitta della condizione sua privilegiata, e tira in lungo la
risposta alla donzella. “Per poter seco molto dimorare„(St. 35).

Ma il trionfo dell'amore non parrebbe al poeta pieno abbastanza, se
alla testa dei devoti non fosse ridotto a camminar dietro al carro
per l'appunto chi era parso più restio a questo culto, o a questo
servaggio: il casto e severo Orlando, il futuro martire di Roncisvalle:

      Non vi para, signor, maraviglioso
    Odir cantar de Orlando inamorato,
    Che qualunque nel mondo è più orgoglioso
    È da Amor vinto al tutto e subiugato;
    Nè forte braccio, nè ardire animoso,
    Nè scudo o maglia, nè brando affilato,
    Nè altra possanza può mai far diffesa,
    Che alfin non sia da Amor battuta e presa.
                                              (St. 2).

E d'Orlando l'amore s'impadronirà a tal segno, da dare lo sfratto
ad ogni altro pensiero, da soffocare qualsiasi altro sentimento. Non
contento di trascinarlo in remotissime terre dell'Asia, di darlo del
tutto in altrui balìa, di renderlo affatto noncurante di Alda, della
quale, dopo una fugace apparizione al principio, non è più questione
nel poema, lo muove a calpestare l'amicizia e la parentela, ed a
combattere ferocemente, pur sapendo di far male, contro il cugino
Rinaldo (I, XXV-XXVII). E tanto può, da renderlo perfino sordo al
tremendo pericolo a cui Carlo e la cristianità tutta intera sono
esposti per il passaggio che sta per fare Agramante (II, XIII, 50-51).
Quando poi, per volontà della sua dama, non già per sua propria, il
paladino sarà tornato in Francia, l'annunzio delle orde nemiche che
sono in procinto di rovesciarsi sull'esercito cristiano, invece che a
sfoderar Durindana, porterà questo campion della fede a ritrarsi in un
bosco:

    E là pregava Dio devotamente
    Che le sante bandiere a zigli d'oro
    Siano abbattute, e Carlo, e la sua gente.
                                             (II, XXX, 61).

Ciò perchè la sconfitta servirebbe a' suoi scopi! all'amore per una
pagana!

Facendo innamorare Orlando, il Boiardo s'è guardato bene dall'alterarne
sostanzialmente le fattezze. Ciò che egli si studia di rappresentare
son precisamente gli effetti che la nuova passione deve produrre
sul personaggio che tutti conoscevano da tanto tempo. Non è di certo
un rendergli servigio l'operare in cosiffatta maniera: non si rende
servigio ad un uomo di molto merito, ma senza alcuna pratica della
società e delle sue usanze, trascinandolo in un ritrovo elegante.
Guardatelo questo povero paladino, quando ritorna ad Albraccà, tutto
pesto e malconcio, dopo aver compiuto imprese incredibili. Angelica lo
disarma, lo spoglia per ungerlo “d'un olio delicato — Che caccia de la
carne ogni livore„ (I, XXV, 38), e senza tante storie lo vien baciando.
Che il Conte all'accostarglisi di quel volto si senta in paradiso, non
potrebbe non essere; ma invece di prendere ardimento, se ne sta “quieto
e vergognoso„. E timido compagno — timido, beninteso, come amante —
sarà ad Angelica nel lunghissimo viaggio dal Cataio alla Francia (II,
XIX, 50). Questa sua imperizia egli ce la dà a vedere anche più aperta,
quando — guai a incominciare! — si lascia vincere dai vezzi di un'altra
donna: di Origille. Con lei, che lo stimola e gli fa animo, parlerà
d'amore, “come insonnïato„ (I, XXIX, 47), e le si mostrerà “mal scorto
e rozzo amante„ (II, III, 66). Quanto rozzo e mal scorto, altrettanto
credulo, sì da lasciarsi dar a bere che salendo in cima a una certa
roccia e guardando in una specie di pozzo vedrà “l'inferno e tutto
il paradiso„ (I, XXIX, 50). Vero che qui il Boiardo lo vuol scusare,
dicendo che al pari di lui sarebbe stato ingannato chiunque, “che
di leggier si crede a quel che s'ama„ (St. 52); ma io mi permetterò
di domandare a Matteo Maria se avrebbe mai fatto gabbare a quel modo
Rinaldo, o qualcuno della sua tempra.

Sicchè il protagonista mascolino del poema è volutamente un personaggio
nel cui volto c'è qualcosa di ridicolo; un personaggio del quale, a
proposito del viaggio con Angelica ricordato dianzi, è possibile dire
che

    Turpin, che mai non mente di ragione,
    In cotale atto il chiama un babione.

Non so cos'altro mai possa volerci per accorgersi che il poeta si
atteggia di fronte alla materia sua in ben altra maniera che non
facciano gli autori delle _chansons de geste_ e quelli di tutti i
romanzi del ciclo brettone. Non già che l'elemento comico sia escluso
di colà. Basterebbe rammentare, per una parte il cosiddetto _Voyage de
Charlemagne a Costantinople_ e certe scene dei _Quatre fils Aimon_,
ossia della storia di Rinaldo e de' fratelli, per l'altra la figura
di Keu, il siniscalco di Artù, così simile per più d'un verso al
nostro Astolfo. Per sè stesso il comico non disdice nemmeno all'epopea
più schietta; o non vediamo nell'Olimpo dell'_Iliade_ lo zoppo e
barbuto Vulcano andare attorno ansimando in ufficio della vezzosa
Ebe, suscitando negli dei una ilarità inestinguibile? Ma Omero non si
sarebbe mai sognato sicuramente di rappresentare Ettore o Achille come
fa Orlando il Boiardo; nè gli sarebbe passato per il capo di mettere in
bocca ad Agamennone parole analoghe a quelle, tali ch'io non potrei qui
tutte ripeterle, che il Conte di Scandiano pone sulle labbra di Carlo
Magno, quando nella giostra di Parigi vede la sua baronia sopraffatta
dai campioni saracini (I, II, 63-65); e nemmeno, crederei, di farlo
scendere nell'arena a metter rimedio a un tradimento,

    Dando gran bastonate a questo e quello,
    Che a più di trenta ne ruppe la testa.
                                          (I, III, 24).

Qui il ridicolo non penzola dai rami: esso si stringe dattorno al
tronco stesso; sicchè alla tragedia ed al dramma si sostituisce la
farsa.

Ma il ridicolo s'incontra nel poema del Boiardo anche in una forma che
specialmente importa di rilevare: quale umorismo. Cosa propriamente sia
l'umorismo secondo il concetto moderno, tutti più o meno intendono;
eppure nessuno riesce a spiegar bene a parole. Permetterete dunque
che ancor io tenti una definizione mia propria, e che lo dica “un
riso interiore„. Esso è un riso che si vela, senza per questo volersi
celare, sotto apparenze di serietà. Da questo riso dissimulato alla
sghignazzata più chiassosa, non c'è soluzione alcuna di continuità.
Si passa dall'uno all'altra per gradi insensibili, soliti comprendersi
sotto un certo numero di varietà, come a dire il riso a fior di labbra,
il riso aperto, e che altro so io. Però si capisce come le specie non
siano nettamente distinte, sicchè a volte non si riesca a veder bene
se s'abbia a fare con questa o con quella. E dato l'umor gaio, esso
tende a manifestarsi, salvo condizioni e propositi speciali, or con una
specie or coll'altra, non già sempre alla medesima maniera.

E le varie forme di riso s'incontrano nell'_Orlando Innamorato_ ben
diverso anche in ciò dal _Don Chisciotte_, dove invece l'umorismo
informa tutta l'opera. Ma nemmeno nel nostro poema l'umorismo
scarseggia. È umorismo, per esempio, quando subito alla terza ottava si
dice:

      Questa novella è nota a pocha gente,
    Perchè Turpino istesso la nascose,
    Credendo forse a quel Conte valente
    Esser le sue scritture dispettose.

Qui l'umorismo intacca proprio, come vedete, l'azione fondamentale
del poema. E umoristici sono in genere tutti appunto i riferimenti a
Turpino, che occorrono numerosi, ivi specialmente dove se n'è sballata
qualcuna di grossa; e umoristici diventano in particolar modo allorchè
il Boiardo assume dirimpetto al suo autore una certa quale aria di
diffidenza, o rovescia comunque su di lui il peso dell'asserzione, come
segue a proposito delle dame che assistono in Cipro da un gran palco al
torneo che s'è bandito per maritare Lucina:

    Mostravan poche il viso naturale,
    Le più l'havean dipinto e colorato;
    Turpino il dice, io nol scio per expresso,
    Benchè sian molte che ciò fanno adesso.
                                           (II, XX, 13).

Questo umorismo non è se non una varietà di quello che consiste
nell'assumere tuono di storico veritiero, cauto, accurato, e che
porterà, per esempio, a mettere in rilievo qualche circostanza perchè
serva a giustificare qualcosa di molto straordinario:

    Al fin de le parole un salto piglia
    (Vero è che indietro alquanto hebbe a tornare
    A prender corso), e, come havesse piume,
    D'un salto, armato, andò di là del fiume.
                                             (II, VIII, 23).

La farò finita cogli esempi dell'umorismo boiardesco col menzionare
il desiderio che il poeta manifestò di aver assistito a una certa
battaglia contro un esercito di diavoli evocati da Malagigi,

    Sol per veder se il demonio è cotale
    E tanto sozzo come egli è dipento;
    Che non è sempre a un modo in ogni loco:
    Qua maggior corne, e là più coda un poco.
                                             (II, XXIII, 1).

Il Boiardo non prende adunque la materia cavalleresca propriamente sul
serio; ma andrebbe mille miglia lontano dal vero chi immaginasse per
ciò che la volesse volgere in canzonatura. Le virtù cavalleresche,
vale a dir la prodezza, il coraggio, la lealtà, la cortesia, la
generosità, la sete di gloria, il disprezzo delle ricchezze, e insieme
con esse l'amore, che le inspira e rinfoca, egli le ammira dal profondo
dell'animo. Quindi per esaltarle può anche continuare lungamente a
cantare a occhi chiusi con un abbandono propriamente epico. Ma il senso
della realtà è troppo vivo in lui, perchè, se appena apre le palpebre,
non abbia ad accorgersi che ciò che gli sta davanti son fantasmi, e non
componga il volto ad un sorriso. Ad un sorriso, oppure invece anche al
pianto, se rivolge la mente a ciò che gli apparisce la vera grandezza;
ad Alessandro, a Cesare, e ad altre figure siffatte:

      Fama, sequace de gl'imperatori,
    Nympha che e gesti a dolci versi canti,
    Che dopo morte anchor gli homini honori,
    E fai coloro eterni che tu vanti:
    Ove sei gionta? a dir gli antichi amori
    Et a narrar battaglie de giganti,
    Mercè del mondo, che al tuo tempo è tale,
    Che più di fama o di virtù non cale.
                                        (II, XXII, 2).

Del resto importa rilevare che l'atteggiamento del Boiardo in cospetto
del mondo della cavalleria non è già qualche cosa di peculiare a lui.
In embrione, esso si può cogliere negli stessi rimatori popolari,
ai quali, per esempio, non sono estranei nient'affatto i richiami
scherzevoli all'autorità del famoso arcivescovo; portato all'estremo,
per via d'una speciale conformazione dell'ingegno e dell'animo, ci dà
il _Morgante_; e che del pari come agli scrittori fosse comune anche
al pubblico cui essi si rivolgevano, può mostrare l'intonazione del
contrasto tra Isabella d'Este e Galeazzo Visconti, a proposito del
quale la parola “umoristico„ mi è già dovuta uscir di bocca. Si tratta
dunque di qualcosa, che è dell'ambiente italiano d'allora. Da questo
qualcosa, se si va bene al fondo, il nostro romanzo cavalleresco ripete
in generale quel suo temperamento capriccioso, che rende naturali,
nonchè ammissibili per esso, tutte quante le capestrerie di pensiero e
di forma.

Esaltatore dei sentimenti cavallereschi, il Boiardo può ridere
nondimeno dei personaggi in cui egli stesso li incarnò; grande araldo
dell'amore, lo troveremo, o non lo troveremo noi, in atto di adorazione
devota, al piede della creatura da cui questa passione si diffonde?
Cosa sono le sue donne quando egli ha la libertà di foggiarle a
piacimento?

Protagonista femminile dell'_Innamorato_ è Angelica. L'importanza sua
non è uguagliata da quella di nessun altro personaggio, compreso lo
stesso Orlando. In lei principalmente s'accentra l'azione; l'amore che
da lei s'ispira è il motore più potente di tutto quanto il meccanismo.
Quali effetti essa produca col suo semplice apparire, avete visto voi
stessi. E il Boiardo ha immaginato un modo ingegnosissimo di complicare
il giuoco dei sentimenti, facendo che, per virtù di due fonti, l'una
delle quali accende, l'altra spegne le fiamme del cuore, Angelica sia
aborrita da Rinaldo mentre ella arde per lui, e lo abbia in avversione
non appena egli ha mutato d'animo. Che sia incantatrice, mi spiace; una
donna è sempre maga abbastanza per il semplice fatto dell'esser giovane
e bella! Ma il poeta è troppo avveduto per non accorgersi ottimamente
di ciò egli medesimo; quindi di cotale prerogativa fa un uso assai
parco, e finisce poi oramai per dimenticarla del tutto. Bensì Angelica
rimane sempre una lusinghiera; questo il tratto in cui s'assomma
l'indole sua. Che moine sa usare con Orlando, per il quale non prova
alcun affetto, e che solo le desta rimorso quando è stato mandato da
lei a un'impresa da cui non crede che possa uscir vivo (I, XXVIII, 40)!
E al tempo stesso ella tiene a bada altri adoratori, che le giova di
avere a suoi comandi. Ce la redimerebbe l'amore non corrisposto per
Rinaldo, che dà luogo a scene d'una passionatezza commovente, se non
fosse l'effetto d'una forza soprannaturale, e se non ci rappresentasse,
molto tempo prima che l'Ariosto potesse pensare a Medoro, come una
punizione di quel farsi giuoco degli amanti:

    Chè amor vol castigar questa superba.
                                         (I, III, 40).

Insomma, all'infuori che per la bellezza, Angelica non ha somiglianza
alcuna colle Laure, e meno che mai colle Beatrici.

I difetti che si scorgono nella figliuola di Galafrone toccano il colmo
in Origille:

      Era la dama di estrema beltate,
    Malicïosa e di losinghe piena;
    Le lachryme teneva apparecchiate
    Sempre a sua posta com'acqua di vena:
    Promessa non fè mai con veritate,
    Mostrando a ciaschedun faccia serena;
    E se in un giorno havesse mille amanti,
    Tutti li beffa con dolci sembianti.
                                       (I, XXIX, 45).

Angelica in fondo al cuore non è malvagia: Origille invece è tutta
impastata di perfidia, a segno tale da trastullarsi anche colla vita
de' suoi disgraziati adoratori.

Possiamo dir buona Tisbina. Amata da due, non frascheggia: riama Iroldo
e sente compassione di Prasildo. Che disperazione è la sua quando una
promessa a cui Iroldo stesso imprudentemente l'ha spinta, la mette
nella necessità di concedere a Prasildo sè medesima! Iroldo vuol
morire, ed essa morrà con lui. E i due inghiottono diffatti insieme una
bevanda, che credono veleno. Ma veleno non è; e la conclusione della
storia viene ad essere, che, dopo una gara mirabile di generosità,
Tisbina, mentre è immersa nel sonno per effetto di ciò che ha bevuto,
rimane a Prasildo. Che farà essa mai al risentirsi, quando le sarà
detto che il suo Iroldo se n'è andato lontano per sempre? È piena di
dolore e tramortisce; ma poi, considerando che non c'è rimedio, prende
“altro partito„:

    Ciascuna dama è molle e tenerina
    Così del corpo come della mente,
    E simigliante della fresca brina,
    Che non aspetta il caldo al sol lucente;
    Tutte siam fatte come fu Tisbina,
    Che non volse battaglia per nïente,
    Ma al primo assalto subito se rese,
    E per marito il bel Prasildo prese.
                                       (I, XII, 89).

“Tutte siam fatte„: gli è che queste parole, insieme col racconto a cui
servono di conclusione, son poste esse pure in bocca ad una donna. Ma
se Fiordalisa modestamente parla così, mettendo sè medesima in mazzo
con tutte l'altre, in lei almeno avremo finalmente un esemplare di
perfetta lealtà femminile. Chi non ha presente quel suo pietoso andar
di continuo in traccia di Brandimarte, che via via ritrova per poi
riperderlo di bel nuovo? Se c'è donna amante, quella è lei di sicuro.
Ma, ohimè, che ancor essa dà qualcosa a ridire! È troppo, per verità,
il compiacimento col quale contempla il bel Rinaldo addormentato (I,
XIII, 50), perchè un certo sospetto che il poeta s'è permesso poco
prima (st. 48) abbia a parer calunnioso.

Sicchè in conclusione le donne dell'_Innamorato_ son tutt'altra cosa
che le Isotte e le Ginevre. Si capisce che nell'animo del poeta c'è una
persuasione analoga a quella che ispira al Leopardi l'Aspasia. Gl'idoli
a cui si brucian gl'incensi sono, pur troppo, ben lontani in generale
dall'essere quali l'immaginazione li rappresenta. L'amore, maschile
e femminile, riposa sopra una continua illusione; ciò che s'adora è
un fantasma della propria mente; sennonchè per il Boiardo — e tutti
saremo con lui — una volta che l'illusione riesce gradita e feconda di
bene, merita di essere tenuta nel medesimo conto in cui si terrebbe
la realtà. Questo concetto, mentre ci porta lontano dalle tradizioni
consuete dei romanzi cavallereschi, ci riconduce alla vita del nostro
Matteo Maria. Si rammenti il Canzoniere; si ricordi Antonia Caprara.
Così ci si verrà sempre più persuadendo che l'_Innamorato_ è altra cosa
che una semplice opera d'arte.

Della tela del poema non crederei indispensabile di farvi, sia pur
rapidissimamente, l'esposizione, quand'anche al punto in cui sono non
dovessi rammentarmi che tra le virtù del Boiardo ce n'è una nella quale
giova che io mi specchi: il saper fare i conti colla pazienza di chi
sta ad ascoltare. L'orditura ha qui assai poca importanza; l'importanza
sta nelle molteplici narrazioni particolari. Queste s'intrecciano,
spesso interrotte, più tardi riprese. Il procedimento per cui parecchie
azioni camminano di conserva, dando luogo a continue spezzature, viene
all'Innamorato dai romanzi della Tavola Rotonda, e segnatamente dal
_Tristano_, dal _Lancillotto_, dal _Girone il Cortese_. Ma ciò che in
questi è un mero e impaccioso portato della necessità, nelle mani del
Boiardo si converte in un procedimento artistico, mediante il quale la
curiosità è stuzzicata, e si consegue una varietà che mai l'uguale.

Ciò che assai mi duole si è che mi sia impedito di mostrarvi le
ricchezze meravigliose della poesia del Boiardo, paragonabili a quelle
della sua grotta di Morgana,

    Che solo a dir di lor seria un volume;
    E non ha tante stelle il ciel sereno,
    Nè primavera tanti fiori e rose,
    Quante ivi ha perle e pietre preciose.
                                          (II, VIII, 19).

Che attitudine a concepire figure caratteristiche e a metterle in
moto! che intuizione degli uomini e delle cose! che fecondità di
concepimenti! che sentimento delle bellezze naturali! che musicalità
di ritmo! che amabile semplicità di forma! È una poesia fresca che noi
qui abbiamo: la poesia d'un prato fiorito, in un bel mattino di maggio.
E nelle nostre tazze la fantasia vien mescendo a profusione vini
scintillanti, che parrebbero spremuti da altre uve che dalle terrene.

Sicuro che anche nel Boiardo ci son le sue pecche. Di certe
particolarità non è opportuno che discorra, una volta che ai
particolari devo qui rinunziare anche per il resto. E non gli farò
colpa alcuna del molto intrattenersi a descriver colpi di lancia e
di spada, non di rado uniformi. Queste descrizioni, che a noi paion
monotone e stucchevoli, tali non parevano a uditori diversamente
disposti che noi non siamo; alla maniera come non riesce monotono per
una signora elegante il minuto ragguaglio dei cento vestiti e delle
cento acconciature che si son sfoggiati a una festa. Bensì non è dubbio
che nell'_Innamorato_ c'è difetto di lima, sicchè aguzzando gli occhi
si scorgono a ogni tratto piccole mende, che si vorrebber corrette.
Quanto alla lingua, il vizio è quasi tutto alla superficie, ossia
nella fonetica; e bisogna non conoscere la nostra storia letteraria
per muoverne al Boiardo la più piccola colpa. Esso può rendere per il
più dei lettori necessaria una spolveratura, non altro; ma certo non
giustifica la manomissione commessa dal Berni. Sennò dovrà esser lecito
ad un pittore moderno di ridipingere un Giotto, un Beato Angelico,
un Botticelli, per la ragione che il disegno non vi è propriamente
corretto.

Vi farò forse meravigliare, terminando, col dire che il poema del
Boiardo ha ai miei occhi un alto valore morale. In quell'Italia perfida
che gli storici soglion descriverci — l'Italia di Lodovico il Moro e di
Alessandro VI —, una voce che esalta col più sincero convincimento le
virtù cavalleresche, e prima tra esse la lealtà, significa mi par bene,
qualcosa. E più significa perchè non è voce che scenda da un pulpito,
nè voce di popolo. Sicchè l'_Innamorato_ viene a indicare che il marcio
non era poi tanto profondo come in generale si afferma e si crede.

Certo tuttavia non era più questa la poesia che propriamente convenisse
all'Italia, una volta che su di essa venne a rovesciarsi quella sequela
di bufere, che al finire del secolo XV prese a devastare i campi, a
sradicar gli alberi, ad abbattere case e palagi per tutto il bel paese.
Di quella bufera il Boiardo non vide che i prodromi; ma essi bastarono
per strozzargli il canto in gola e dissipare le immagini ridenti
che gli danzavano davanti alla fantasia. L'opera fu interrotta; ed è
legittimo il supporre che il poeta non l'avrebbe ripigliata nemmeno
se al passaggio delle genti di Carlo VIII, avviate verso il regno di
Napoli, non fosse tenuta dietro quasi subito la sua morte. Quanto
differenti le guerre ch'egli aveva vagheggiato e rappresentato da
quelle che allora si vennero a combattere! Ma io mi rallegro che gli
ultimi versi di questo poema, tutto letizia e apparente spensieratezza,
gli ultimi probabilmente che il Boiardo abbia scritto, siano rivolti
alla patria:

    Mentre che io canto, o Iddio redentore,
    Vedo la Italia tutta a ferro e a foco,
    Per questi Galli che con gran valore
    Vengon per disertar non scio che loco.

Son parole condite d'ironia, alle quali servono di efficace commento
quelle che si sono raccolte dalle labbra del poeta in un'altra
occasione, consimile, ma a saper leggere nel futuro, assai meno
lagrimosa[99]. E noi da questa interruzione ci si sente attratti
verso il poeta e l'opera sua più che non saremmo dal più splendido dei
coronamenti.



IL SAVONAROLA e la PROFEZIA

DI

FELICE TOCCO.


  _Signore e Signori_,

Dall'argomento della mia conferenza altri di me più degno avrebbe
dovuto tenervi parola. Ma per sfortuna mia e vostra chi scrisse a
giudizio unanime la migliore storia del Savonarola, è lontano da noi,
e per il bene della cosa pubblica dobbiam tutti sperare che non faccia
sollecito ritorno[100]. Un altro scrittore avrebbe potuto degnamente
tenerne il luogo, il nostro Gherardo che intorno al Savonarola seppe
scoprire nuovi documenti e dottamente illustrarli. Ma poichè anche
a lui non fu dato di accettare il difficile còmpito, eccomi di nuovo
innanzi a voi, per riprendere a così dire il filo della conferenza, che
ebbi l'onore di tenere: or sono due anni sull'eresia del Medio Evo.
Giacchè io non intende parlarvi soltanto del Savonarola e dell'opera
sua, ma ben piuttosto del modo come il frate ferrarese si ricolleghi
coi profeti medievali, che lo precedettero. Escludo dal mio discorso le
leggendarie o apocrife profezie del mago Merlino, della Sibilla Eritrea
o del Carmelitano Cirillo, e di quei profeti solo vi terrò parola,
dei quali abbiamo sicure testimonianze. E per non risalire più in su
fino a san Nilo o santa Ildegarde, comincerò da quell'abate Gioachino,
a voi ben noto, che a giudizio di Dante sarebbe stato realmente di
_spirito profetico dotato_. Parecchi in verità revocarono in dubbio
codesto dono della profezia, e san Tommaso glielo negò addirittura. Ma
i più erano dell'avviso di Dante, specie gli spirituali francescani,
che consideravano le principali opere di Gioachino come cosa sacra; e
già sapete che ripubblicandole e chiosandole non dubitarono di dirle
Evangelo eterno. Le loro chiose furono condannate solennemente dalla
Chiesa, le profezie stesse di Gioachino smentì l'anno fatale 1260;
ma ad onta di ciò la fede dei Gioachimiti non venne meno, e parecchi
altri seguitarono a profetare, come l'abate Calabrese. La differenza
tra questi nuovi profeti e gli antichi del Vecchio Testamento sta in
ciò, che questi si sentivano in contatto diretto con la Divinità e
ne udivano le voci, e sotto dettato, a così dire, ne scrivevano le
rivelazioni; invece quelli a tanto non arrivano, e non a torto la
maggior parte di essi, da Gioachino al Savonarola medesimo, dichiarano
spesso di non essere nè profeti nè figli di profeti. Per quanto a loro
non facciano difetto nè i sogni nè i rapimenti dei profeti veri, per
quanto possano vantare anch'essi quella forza divinatrice, che squarcia
il velame del tenebroso futuro, pure indarno cercate in loro la vena
larga e potente dell'ispirazione diretta; poichè non le proprie visioni
essi interpretano, ma le altrui. Non sono profeti, bensì commentatori
di profezie, e le più oscure come il libro di Daniele e l'Apocalisse
preferiscono.

Si conserva ancora inedita nella nostra Laurenziana la postilla
sull'Apocalissi di uno dei più famosi seguaci di Gioachino, minorità,
ben s'intende, e capo degli spirituali di Provenza, fra Giovanni di
Piero Olivi, nato nel 1248, morto cinquantanni dopo. Negli ultimi
tempi della sua vita, benchè avesse vedute tutte le speranze del suo
partito dileguarsi, e l'eremita Celestino cedere la tiara a Bonifacio
VIII, avido di potere e di gloria mondana, pure non ismise la sua
fede, nè dubitò che l'ora della tremenda vendetta fosse per scoccare.
In una lettera ai figli di Carlo II di Napoli, scrive: “Orsù, generosi
soldati, preparatevi alla pugna. Il tempo della potatura è venuto, e
si è udita sulla nostra terra la voce della tortora che sospira e che
ha il gemito per canto. È d'uopo che nell'aprire il sesto suggello il
sole e la luna s'oscurino, e che cadendo le stelle dal cielo, la terra
ne tremi così, che tutte le montagne e le isole siano svelte dalle loro
sedi.... Poichè a quel modo che sul secentesimo anno della vita di Noè
si ruppero le fonti dell'abisso, e le cateratte del cielo si apersero
a segno che nessuno potè salvarsi all'infuori dei ricoverati nell'arca
fatta per comando di Dio; così fa d'uopo che l'empia Babilonia nel
profondo del mare si sommerga.„ L'empia Babilonia è la Chiesa carnale,
conculcatrice della povertà evangelica, e il ministro della vendetta
divina sarà l'Anticristo.

La fede nel prossimo avvento dell'Anticristo è così radicata nei
circoli dei beghini e degli spirituali, che Arnaldo di Villanova,
celebre medico e studioso delle scienze occulte, non dubita di scrivere
un trattato _De adventu Antichristi_, che gli fruttò le persecuzioni
del vescovo parigino. Il trattato, ancora inedito, fu scritto nel
1297, come dice l'autore stesso, e non è se non un commento di alcuni
luoghi delle Profezie di Daniele. Eccovene un saggio: “Compiuti i
mille duecento anni dal tempo, in cui il popolo ebreo perdette il
possesso della sua patria, entrerà nel luogo santo l'abbominio della
desolazione, o l'Anticristo, il che sarà circa nel settantottesimo
anno del secolo futuro. Non posso determinare con maggior precisione,
ma certo intorno al 1378 si compirà quello che il Profeta predisse.„
E più appresso contro i suoi contradditori aggiunge: “Senza dubbio
questa conclusione non segue dalla parola di Daniele in modo certo
e necessario; ma ha l'evidenza di una grande probabilità, in quanto
che con questa interpretazione concordano altri luoghi della sacra
scrittura.„ Era tanta la fede di Arnaldo nelle divinazioni sue, che
uno scritto sul medesimo argomento ardì leggere al papa Clemente V;
e non solo noi, ma i contemporanei stessi, a cominciare da Filippo il
Bello, non sapevano più di che cosa meravigliarsi, se dell'audacia del
lettore o della benignità soverchia di chi l'ascoltava. Ai medici di
gran grido, che si crede abbiano in mano la vita nostra, sono permesse
molte cose; e un papa meno docile e mansueto di Clemente V, lo stesso
Bonifacio VIII, si mostrò indulgente col Villanova, e lo assolse dalle
censure del vescovo di Parigi, purchè non s'impacciasse più oltre di
teologia.

Non meno audaci sono le predizioni di frate Ubertino da Casale,
l'eloquente difensore dell'Olivi, le cui dottrine segue, lievemente
modificandole, in quel libro intitolato _Arbor vitæ crucifixæ_, che
finì la vigilia di San Michele Arcangelo del 1305 nella solitudine
dell'Alvernia, dove i suoi superiori l'aveano esiliato, perchè non
predicasse più oltre nello stile degli esaltati spirituali. Nulla di
nuovo egli dice sui sette stati o periodi in cui va divisa la storia
della Chiesa o dell'Umanità, che secondo questi frati sono tutt'uno;
poichè anch'egli, come l'Olivi, risale a Gioachino, e fa gli stessi
calcoli e pone a confronto gli stessi passi scritturali per argomentare
prossima la fine del sesto periodo. Quando esso abbia cominciato, o
dalla rivelazione fatta dall'abate Gioachino, come dicono alcuni,
o dalla conversione di san Francesco, come dicono altri, o infine
dalla protesta che i frati spirituali levarono contro i trasgressori
della regola francescana, non importa decidere; perchè tutte queste
date possono essere vere secondo che si consideri tutto il periodo
ora da un aspetto, ora dall'altro. Quel che monta è constatare che si
affretta alla sua fine. La qual cosa non può mettersi in dubbio; perchè
scorsi 1293 anni dalla morte di Cristo, s'è veduta quell'orribile
novità dell'abdicazione di papa Celestino e dell'usurpazione del suo
successore. E come se questo segno non bastasse, ecco pullulare nuove
eresie, come alla fine d'ogni periodo; e molti sostenere non essere la
povertà evangelica il nocciolo della perfezione cristiana, e alcuni
filosofi di Parigi andare più oltre, e proclamare con Aristotele
che il mondo fu “ab eterno„ ed in eterno durerà. Le quali eresie
mostrano chiaramente essere già nato il mistico Anticristo, vale a
dire il precursore e il simbolo di quel vero Anticristo, che sorgerà
più tardi alla fine del settimo stato. L'Anticristo mistico non è
nè un imperatore nè un pontefice, ma bensì quel pseudo-cristiano che
condannerà lo spirito di Cristo nella povertà evangelica. E di questi
pseudo-cristiani al tempo di Ubertino non facea difetto.

Se non che la fine del mondo non ebbe luogo in tutto quel secolo, sul
cui cominciare Ubertino scriveva, e nuove tribolazioni non mancarono.
Rinacquero sotto Giovanni XXII le lotte coll'Impero, non chetate
neanche sotto i successori Benedetto XII e Clemente VI, e la Chiesa,
infeudata ai re di Francia, travagliarono mali e scandali siffatti,
che Avignone fu detta non pure dagli spirituali francescani ma dal
Petrarca medesimo: _l'avara Babilonia_, _fontana di dolore_, _albergo
d'ira_, _scuola d'errori_, _tempio d'eresia_. Non è meraviglia che in
questa età procellosa rifiorisse la Profezia. Anche i poeti, quindi,
come il cantore di Laura, prendono il tono di veggenti, e minacciano e
rampognano e predicono imminente lo scoppio dell'ira divina.

    Fiamma del ciel su le tue trecce piova,
    Malvagia, che dal fiume e dalle ghiande
    Per l'altrui impoverir sei ricca e grande....
    Nido di tradimenti, in cui si cova
    Quanto mal per lo mondo oggi si spande....

    Ma pur novo Soldan veggio per lei
    Lo qual farà, non già quando io vorrei,
    Sol una sede, e quella fia in Baldacco.
    Gl'idoli suoi saranno in terra sparsi
    E le torri superbe al ciel nemiche,
    E suoi torrier di for, come dentro, arsi.

Ma dopo la tempesta verrà il sereno, e il Petrarca anche lui vede in
nube quel Papa, da questi profeti concordemente chiamato angelico, che
sbalzerà di seggio gl'indegni ministri:

    Anime belle e di virtude amiche
    Terranno il mondo; e poi vedrem lui farsi
    Aureo tutto e pien dell'opre antiche.

Non diversamente canta frate Stoppa dei Bostichi, che non può essere
vissuto dopo il papa Clemente VI, a cui rivolge le più fiere rampogne,
chiamandolo _specchio evidente, nel qual potrà mirare ogni superbo_, e
nell'impeto dell'ira esce in questa profezia:

      Sarà la Chiesa de' pastor privata;
    Fie beato qual potrà negare
    Il chericato, e rifiutar l'entrata,
    Fiane cagion la terra d'oltremare.
    Invidia, gola al chericato guata
    Superbia, simonia, lussuriare;
    Poi fie la Chiesa ornata di pastori
    Umili e santi, come fur gli autori.

Intorno allo stesso tempo sarà probabilmente sorta quell'altra
profezia, attribuita a Jacopone da Todi, ma che certamente non gli
appartiene, dove par che si confidi più in un potente imperatore che in
un papa angelico:

    Da poi che seran structi li tiranni
    Et li preti cacciati alli lor danni,
    Verrà cului che di terra di lor mani
                          Serà alevato....

    Costui serà segnor de tucto 'l mundo,
    Facendo della terra el quadro e 'l tundo:
    Sposo d'Italia, questo non abscundo,
                          Imperatore....

    Costui farà far pace in ogne lato,
    Descacciarà del mundo ogne peccato,
    Non si trovarà chi sia superchiato
                          Dal suo vicino.

    Costui convertirà alla fede Saracino
    Et Tartaria con tucto quil camino;
    Poi intrarà ad quil luoco divino
                          Sacrificato.

    Poi tornarà Roma nel suo stato
    De tuctu quanto el mundo repusato:
    Li sancti preti di novello Stato
                          Predicaranno.

    E tucti l'infidel convertiranno,
    Tucti vestiti d'un aspero panno,
    Et sensa proprio sempre viveranno
                          Im povertade.

In simili profezie credono anche gli uomini politici, specie quel Cola
da Rienzi, che da oscuro popolano assunto ai primi poteri dello Stato,
ebbro della sua insperata fortuna, prende pubblicamente il bagno nella
vasca Costantiniana, perchè dalle macchie dell'ignobile origine appaia
deterso il nuovo cavaliere dello Spirito Santo. Sembra che anche nei
giorni del suo trionfo Cola abbia avuto sogni e visioni. Almeno egli
stesso racconta che pochi giorni prima della cruenta sconfitta dei
Colonnesi, gli apparve in sogno Bonifacio VIII per incitarlo alla
vendetta contro gli autori della sua cattura. Quando poi, dimessa la
dignità tribunizia, si ritrasse nel silenzio di Monte Sant'Angelo
presso i romiti della Majella, le sue fantasie apocalittiche ebber
nuovo alimento. Ed uno di quei fraticelli, a nome Angelo, gli predisse
dovere fra non molto risorgere tale, che morì fra le persecuzioni
(forse fra Pietro di Giovanni Olivi?), e che alla sua voce nascerebbe
grande confusione e terrore tra i maggiorenti della Curia, ed il Papa
stesso correrebbe pericolo, finchè brillerebbe la nuova luce. Allora
sarà fatta la riforma della Chiesa, e non pure tutti i Cristiani, ma
i Saraceni con essi, formeranno un popolo solo, e a capo di tutti
si porrà il Papa angelico. A queste profezie il tribuno prestava
ascolto, tanto più che egli stesso doveva aver non piccola parte
nella futura rinnovazione del mondo. E per infondere nell'imperatore
e nell'arcivescovo di Praga la propria fede, si fa a sua volta
commentatore ed interprete di profezie, e fra tante sceglie la più
recente, che, nata senza dubbio sullo scorcio del secolo decimoterzo,
fu attribuita ad un profeta Cirillo, contemporaneo di Gioachino, del
quale non si sa nulla all'infuori della profezia medesima; e che non
sarà meno apocrifo di essa. Comunque sia, Cola sa ben torcere l'oscuro
oracolo al senso che più gli torna; e sotto il sole che entrerà nelle
viscere dello scorpione e sarà lacerato dai figli dello scorpione
medesimo, intende proprio lui, Cola, che andrà glorificato da Dio
e posto al governo di Roma, e poscia dal Papa e dai cardinali sarà
perseguitato, e nell'anno del giubileo chiuso nella squallida spelonca
del carcere imperiale. Frate Angelo da Monticelli aveva ben insegnato
la sua arte al credulo tribuno!

Un altro minorita, non meno credente di frate Angelo, ardiva
divulgare le medesime profezie nella sede stessa della corte papale
in Avignone. Avea nome fra Giovanni di Roquetaillade, latinamente _de
Rupescissa_; ed oltre che per le sue profezie è noto per lo studio
che, al pari di Arnaldo da Villanova, faceva dell'alchimia. Le sue
predizioni risalgono, come dice egli stesso, al 1356, l'anno avanti
che cominciassero le secolari guerre tra Francia e Inghilterra. La sua
voce fu inascoltata; anzi Clemente VI, lo stesso papa così avverso a
Cola, lo chiuse in prigione, e ve lo rimise il successore Innocenzo
VI, tenendovelo per tutta la vita. Una profezia, che costui compose
nelle carceri ad istanza di un suo correligionario, comincia così:
“Le rendite ecclesiastiche sappiate che fra breve andranno tutte
perdute, poichè molti popoli della terra spoglieranno il Clero dei beni
temporali, lasciandogli appena da vivere. La Curia romana fuggirà da
questa città peccatrice di Avignone, e non sarà più dove è ora. Prima
che si compiano sei anni da questo presente, che è il 1356, la superbia
clericale sarà prostrata nel fango, e distrutta ogni malvagità. La
città delle delizie sarà convertita in lutto, e il mondo si perderà per
l'avarizia; ma dopo innumerevoli tribolazioni scenderà la misericordia
alla gente desolata, perchè un angelo, vicario di Cristo, spargerà
tutte le virtù evangeliche, e convertirà gli Ebrei e i Tartari e i
Saraceni e i Turchi distruggerà.„ Come vedete questo profeta anche
a costo di andare crudelmente smentito dai fatti predice le cose
a termine fisso ed a breve distanza. E non muta stile in un altro
libercolo intitolato _Vade mecum in tribulatione_, composto l'anno
dopo, dove riassume tutte le predizioni sue sparse negli altri libri,
che cita e magnifica come annunziatori di fatti da poi verificatisi,
quale la cattura del re di Francia. Anche nel _Vade mecum_ vuol essere
preciso più di quel che convenga a un profeta. “Pria che il mondo
arrivi all'anno 1370, egli dice, prima che corrano altri tredici, da
questo che abbiamo ora compiuto, 1356, avrà principio la restaurazione
del mondo, e sarà palese quello che ora annunzio. Nel 1365 sorgerà
l'Anticristo orientale, e gli Ebrei ingannati da codesto falso Messia
infiniti danni recheranno al popolo cristiano. E nello stesso anno i
veri seguaci del santo mendico di Assisi saranno di nuovo tribolati,
come al tempo di Michele da Cesena; ma ben presto si rifaranno dei loro
danni, e l'ordine loro si dilargherà per l'universo ed i loro conventi
si moltiplicheranno come le stelle del cielo. Ma non vale la pena di
riferire più oltre i sogni del povero prigioniero, che aspetta prossima
la liberazione sua e dei suoi compagni. Dirò solo che anche egli adduce
a prova delle sue profezie il versetto di Daniele, che soleva citare
Arnaldo; ed anche lui, facendo cómputi sottili, arriva all'anno 1370
nello stesso modo che un secolo prima Gioachino di Fiore arrivava al
1260.

Al di sopra di questi, sarei per dire, computisti della Profezia,
si eleva una donna di alto sentire e di nobilissimo sangue, santa
Brigida di Svezia. Nata intorno all'anno 1302, a sedici anni sposò il
diciottenne principe Wulf di Nerik, da cui ebbe otto figliuoli. Alla
morte del marito, dato un addio agli splendori principeschi e diviso
il patrimonio tra i suoi figli, vestì le ruvide lane del pellegrino e
venne a Roma, dove scrisse le sue _Revelationes_. A differenza di tutti
i vaticinatoli precedenti la santa svedese non s'indugia a commentare
le altrui profezie; ma come i profeti antichi conversa direttamente
con Dio, che le svela il segreto dell'avvenire. “Io non disdegno di
parlare con te, le dice Gesù, e benchè la mia umanità sembri essere
dentro di te e parlar teco, pure è più verisimile essere la tua anima
e la tua coscienza con me e in me, poichè a me nulla è difficile nè
in cielo nè in terra.„ Una volta in una chiesa di Roma la Vergine
stessa le apparve, e in tuono di comando le disse: “Tu devi mandare
da parte mia questa parola al legato del Papa.„ Al che la donna
rispose: “Egli non mi crederà e volgerà i miei detti in derisione.„
E di rimando la Vergine: “Benchè io conosca l'intimo animo di quel
prelato, pure è d'uopo che tu gli faccia sapere che le fondamenta della
Chiesa vacillano, e la vôlta è screpolata in più parti, e le colonne
piegano e il pavimento si avvalla così, che i ciechi che v'entrano
sono per cadere.„ Questo ardito linguaggio osava tenere la santa al
cardinale Albornoz, legato di Clemente VI, che, per riacquistare il
sacro patrimonio, riempiva l'Italia di sangue e di rovine. Di Urbano
V, il successore di Clemente, la Vergine stessa le dice: “Io condussi
Urbano papa da Avignone a Roma senza alcun pericolo suo. E che cosa fa
egli? Mi volge le spalle e intende partirsi da me. Il maligno spirito
lo guida colle sue frodi. Ma se accadrà che egli faccia ritorno alla
terra dove fu eletto, sarà colpito nella guancia così che i suoi denti
scricchioleranno, e il suo volto diverrà caliginoso e fosco, e tutte
le membra del suo corpo tremeranno.„ La profezia si avverò nel modo più
tragico; che il Pontefice, non appena tornato in Avignone, vi morì. Nè
meno energiche sono le ammonizioni, che Maria manda per mezzo della
santa a Gregorio XI. “Come la pia madre, ella dice, che stringe al
petto il suo bambino nudo e tremante di freddo per riscaldarlo del suo
calore e nutrirlo del suo latte, così io farò di Gregorio, se vorrà
tornare a Roma con animo di rimanervi e di riformare la Chiesa tutta. E
perchè in avvenire non adduca la scusa dell'ignoranza, io gli annunzio
che, se non obbedirà alle ingiunzioni mie, proverà la verga della mia
giustizia e l'indignazione del mio figliuolo.„ Tutte queste visioni,
ed altre non meno terribili sulla regina Giovanna, ebbe la santa
donna in Napoli, dove sostò per qualche tempo tornando dal faticoso
pellegrinaggio di Palestina. A lei non era dato vedere il frutto delle
sue coraggiose ammonizioni, poichè, tornata a Roma, vi morì grave
d'anni il 23 luglio 1373.

L'opera da santa Brigida lasciata a mezzo, fu continuata da un'altra
santa, che anch'ella ha estasi e visioni, anch'ella talvolta cade in
tale anestesia, da poterlesi conficcare nella pelle un grosso ago,
senza che si riscuota od avverta alcun dolore; ma forse più ancora
della Svedese, ha un tatto finissimo per guidare gli uomini e riuscire
nelle imprese più scabrose. Intendo parlare di Santa Caterina da Siena,
che nata nel 1347 da un agiato popolano, e pur digiuna di lettere,
seppe levarsi a tanta altezza di concetti, a tanta squisitezza di
forma, che la sua prosa è anche oggi tenuta in grandissimo pregio. A
quindici anni, vinte le opposizioni della madre, che la voleva sposa
ad un ricco congiunto, entrò nelle Mantellate, terziarie domenicane,
che non professavano voti solenni, e dopo tre anni passati nella
sua cella tra preghiere e digiuni e torture d'ogni sorta, che ella
infliggeva al delicato suo corpo, escì all'aperto ministra di pace
e di carità. Nella peste del 1374 ella sola mostrò tale coraggio,
tale abnegazione nell'assistere gl'infermi più gravi, da parere agli
occhi di tutti un essere superiore. E ben si comprende come questo
miracolo di sacrifizio, dovunque mostravasi, sapesse imporre la pace
ai più riottosi, e comunicasse agli altri quell'ardente carità, che
le bruciava il petto; talchè non pure a Siena, ma nella maggior parte
delle terre toscane era chiamata come paciera, e la sua fama saliva
tant'alto, che i più consumati uomini di Stato non disdegnavano
d'entrare in relazione con lei; come, per citarne un solo, Bernabò
Visconti. E a tutti teneva un linguaggio fermo e di gran buon senso.
Al cardinale d'Ostia, legato pontificio, grida: “Pace, pace, pace,
padre carissimo. Ragguardate voi e gli altri, e fate vedere al Santo
Padre più la perdizione dell'anima che quella delle città; perocchè Dio
richiede l'anime più che le città.„ Allo stesso papa Gregorio XI, non
appena scoppiata la guerra con Firenze, scrive, ribadendo il concetto
della santa svedese: “Andate innanzi e compite con vera sollecitudine
e santa quello che per santo proponimento avete cominciato, cioè
dell'avvenimento del santo e dolce Passaggio (vale a dire il ritorno
della Santa Sede in Roma). E non tardate più, perocchè per lo tardare
sono avvenuti molti inconvenienti.... Pregovi che coloro che vi sono
ribelli, voi gl'invitate ad una santa pace, sicchè tutta la guerra
caggia sopra gl'infedeli.„ “Ma pare che la somma ed eterna Bontà
permetta che gli stati e delizie sieno tolti alla sposa sua, quasi
mostrasse che volesse che la Chiesa santa tornasse nel suo stato
primo poverello, umile e mansueta come era in quello tempo, quando
non attendevano altro che all'onore di Dio e alla salute delle anime,
avendo cura delle cose spirituali e non temporali. Che poi che ha
mirato più alle temporali che alle spirituali, le cose sono andate di
male in peggio.„ Mandata dalla repubblica Fiorentina in Avignone per
trattare la pace col Papa, Caterina vi si adoperò con tutte le sue
forze; e se non riescì a comporre il dissidio, ottenne però quello che
più le stava a cuore sovra ogni altra cosa, il ritorno della Santa Sede
a Roma. Questo è il suo pensiero dominante, che il felice passaggio,
come diceva lei, avrebbe posto riparo a tutti i mali della Chiesa. E
la sua fede invitta seppe trasfonderla in Gregorio: “Andiamoci, Ella
scriveva, andiamci tosto, babbo mio dolce, senza veruno timore; se Dio
è con voi, veruno sarà contro di voi. Dio è quello che vi move, sicchè
gli è con voi. Andate tosto alla sposa vostra, che vi aspetta tutta
impallidita, perchè gli poniate il colore.„ “E io vi prego da parte
di Cristo Crocifisso, che voi non siate fanciullo timoroso, ma virile.
Aprite la bocca e inghiottite l'amaro, per lo dolce.... Spero.... che
voi sarete uomo fermo e stabile e non vi moverete per verun vento
nè illusione di dimonio, nè per consiglio di dimonio incarnato.„ E
fermo fu Gregorio. Non valsero le preghiere calde e insistenti di suo
padre e delle sue sorelle, non valsero le opposizioni dei cardinali
e le rimostranze del re di Francia. Su tutti e contro tutti vinse la
fanciulla di Siena; e lo stesso giorno che ella lasciò Avignone, anche
il Papa ne partì per non ritornarvi più mai. Singolare tempra di donna,
a nessun'altra pari, fuorchè in parte ad un'altra vergine, nata non
meno umile della Benincasa, Giovanna d'Arco. Anche questa fanciulla,
pochi anni dopo Caterina, apparisce nel mondo come dotata di una
potenza misteriosa. E al re di Francia e all'esercito suo disfatto ed
avvilito, ella, la povera fanciulla d'Orléans, sa ridare il coraggio e
la confidenza in sè e li conduce alla vittoria. Diverso fu il destino
delle due profetesse: l'una levata sugli altari, l'altra dannata al
rogo: ma entrambe operarono prodigi, perchè prodigi erano elle stesse
di fede, di amore, di sacrifizio.

Il ritorno del Papa a Roma, secondo la veggente Sienese, doveva essere
il principio di quella riforma della Chiesa, a cui ella come tutti i
profeti aspiravano, e che avrebbe dovuto portar seco la pacificazione
degli animi in Italia e l'unione di tutte le forze cristiane contro
l'irrompere dei Maomettani. Il Signore stesso in una fatidica visione
le commette di dire al Papa: “che levi la croce santissima sopra
gl'infedeli, e levila sopra dei sudditi suoi.... in perseguitare e'
vizii e difetti loro. Divelto il vizio è piantata la virtù, ponendo
questa croce in mano di buoni pastori e rettori nella santa Chiesa„. E
in un'altra, ancor più notevole, le svela il segreto delle tribolazioni
della Chiesa, che egli permette per divellere le spine della sua sposa
che è “tutta imprunata„. “Sai tu come io fo? Io fo come feci, quando
io ero nel mondo, che feci la disciplina di funi e cacciai coloro
che vendevano e compravano nel tempio, non volendo che della casa
di Dio si facesse spelonca di ladroni. Così ti dico che io fo ora.
Perocchè io ho fatta una disciplina delle creature, e con essa caccio i
mercanti immondi e avari ed enfiati per superbia vendendo e comprando
i beni dello Spirito Santo.„ Sfortunatamente queste profezie non si
avverarono, poichè la Chiesa, non che riformarsi e rinvigorirsi, ebbe
a subire nuovi travagli dal lungo scisma, che tenne dietro alla morte
di Gregorio. E indarno la vergine Sienese s'adoperò a soffocarlo sul
nascere, scrivendo lettere di fuoco a principi e cardinali. Ormai
la battaglia era impegnata, ed ella, accorsa al fianco di Urbano VI,
si preparava a sostenerla virilmente, quando la morte sopraggiuntale
nell'aprile del 1380 le risparmiò nuovi e più cocenti dolori.

Un altro profeta, certo molto da meno della santa di Siena, non
si faceva invece alcuna illusione. Era costui il frate terziario
francescano, Tommasuccio da Foligno, che nato nel 1319 dicono morto nel
1377; ma certo avrà vissuto ben oltre quell'anno, perchè dell'elezione
di Urbano VI è testimone, e di tutte le sciagurate conseguenze dello
scisma tra Urbano e Clemente che tristamente descrive, se pure le
strofe, ove di ciò si tratta, non s'abbiano a dire interpolate nel suo
rozzo componimento, che fu oltremodo popolare:

    Urbanu et Chiomento
    Faran nova quistione
    Et l'uno in Vengnone
    Forte terà sua sysma.
    In fede et in bactisma
    Crescierà suo podere,
    Mectendo grande herrore
    Nella cristiana gente.
    In Italia primamente
    Ne seguirà strazio,
    Che ne sarà ben sazio
    El sangue de oltramontani.
    . . . . . . . . . . . .
    Serà fra li dui munti
    In Roma grande divisa,
    Ogni cosa provisa
    El caso mino offende.
    Però ongne omo che intende
    Ol mio parlar diverso,
    Che no sarà somerso
    El bel castello Ursinu;
    Poi ad priesso ad Marinu
    La jente oltremontana
    Fra monti valli e piani
    Fugerà e sarà presa.

Qui sono accenni e fatti determinati, come la presa del castello
Orsino e la battaglia di Marino, accaduti nel 1379. E nessun profeta nè
antico nè nuovo entra in particolari, se non è contemporaneo dei fatti
che annunzia. Comunque sia, fra Tommasuccio crede anch'egli nel papa
angelico:

    Verrà poi nello strimo
    Dalla benigna stella
    Uno che renovella
    El mundo in altra forma.
    Darà la bella norma
    Ad nostra vita activa,
    Et farà la terra priva
    De vitii fallace.
    Per lu universo pace
    Serà da cielo in terra
    Et follia e guerra
    Serà nello inferno remessa.

Ahimè! Pur troppo la triste realtà era ben lontana da questo roseo
sogno; poichè le condizioni della Chiesa peggioravano ognor più, e
se Urbano poteva vantare della sua parte e santa Caterina e Giovanni
dalle Celle, neanche a Clemente VII faceano difetto uomini d'insigne
pietà, come a dirne uno, san Vincenzo Ferrero, teologo e profeta egli
pure. Ormai non si sapeva più da qual parte stesse il diritto, e peggio
ancora a quale fra i combattenti sarebbe per arridere la vittoria:
talchè i profeti stessi, parteggiando chi per l'uno chi per l'altro, in
questo solo s'accordavano: nel credere prossima la fine del mondo. E
vi credè il suddetto Giovanni dalle Celle, che, pur avendo combattuto
per tutta la sua vita contro i Fraticelli, non teme ora d'imitarne
il linguaggio, e di risalire anche lui allo stesso abate Gioachino,
dai Fraticelli tenuto per suprema autorità. “L'abate Gioachino, egli
scrive, fu nel 1138 e fece un libro il quale si chiama el Papa, dove
egli infino all'avvenimento di Anticristo dipinse tutti i papi.... Ma
questo papa Gregorio (XI) pone che è l'ultimo papa e pone che fugge
in forma di fraticello. E dopo di questo papa dipinse una terribile
bestia, che colla coda avvinghia molte stelle, e dalla punta della
coda esce una spada. Gli uccelli del Cielo sono i religiosi e questa
bestia è l'Anticristo....„ Il libro che il Vallombrosano crede composto
intorno al 1138, quando probabilmente Gioachino era ancor fanciullo,
non è se non quello che racchiude gli apocrifi vaticini intorno ai
Pontefici, vaticini dei quali, come delle profezie di Merlino, di
Cirillo e delle varie Sibille, si fecero tratto tratto nuove edizioni
con aggiunte ed interpolazioni per adattarle ai nuovi fatti. Su
questi libri, sfacciatamente bugiardi, e sopra un creduto vaticinio
tradotto, dicevasi, dall'ebraico in latino per opera di un Dandolo
Ilerdense, e intitolato _Oroscopo_, fonda altresì le sue congetture
l'eremita calabrese Telesforo o Teoforo o Teleoforo da Cosenza.
Per parte mia credo che questo profeta faccia il paio col supposto
Cirillo; e parmi non poco probabile che sotto il pseudonimo di un
conterraneo di Gioachino si nasconda qualcuno, che non vivea molto
lontano dalla Curia avignonese e ne divideva le speranze. Comunque
sia, racconta il nostro eremita che vivendo nelle solitudini di Tebe
presso Cosenza, dopo avere sparse molte lagrime e durati parecchi
digiuni per divenir degno di conoscere il principio e il termine
dello scisma; finalmente addormentatosi in sull'aurora della Pasqua
del 1386, gli apparve un angelo dal volto verginale, dall'ali lucenti
e dell'altezza di due cubiti, che lo invitò a raccogliere i libri
di Gioachino e di Cirillo, se voleva conoscere il segreto che tanto
l'affannava. Destatosi l'eremita si mise a cercare insieme con un suo
compagno, Eusebio Vercellese, le opere dei due profeti, e non solo
quelle trovò in gran copia, ma tutte le altre che vi ho testè citate.
Come si vede, il Cosentino, benchè gli appaiano gli angeli dalle
bianche vesti, non è neanche lui un profeta, ma piuttosto uno studioso
delle altrui profezie. E resta altresì molto indietro ai predecessori
suoi; poichè non nelle sacre carte cerca di leggere l'avvenire, ma
nelle profezie più recenti, e non nelle autentiche, ma nelle spurie,
come a dire i falsi vaticini sui Pontefici, che egli conosce sotto il
nome di _Fiore_, e il falso commento alla pretesa profezia di Cirillo.
La sua ingenuità arriva anzi a tal segno, da credere in buona fede
che Gioachino, morto nel 1202, abbia potuto commentare la profezia
Cirilliana, la quale, secondo Telesforo, sarebbe apparsa nel 1264.
Ma i profeti, che vedono tanto bene nel futuro, non hanno l'obbligo
di conoscere per filo e per segno il passato. Alla luce di queste
pseudo-profezie al nostro eremita si rischiarano tutti i dubbi; ed
ora legge nell'avvenire come in un libro aperto. “Il presente scisma,
ei scrive, è nato dai vizi e dalle colpe della Chiesa, che dei beni
terreni apparve più sollecita che degli spirituali; e non avrà fine
se non al tempo dell'angelico pastore, che seguirà immediatamente
alle presenti tribolazioni, e rinunzierà spontaneamente a tutti i
suoi possessi.„ Dicevano in Avignone che la ragione del ritorno della
Santa Sede in Italia dovevasi ricercar nel desiderio di riconquistare
quel dominio temporale, che i principi e le città collegate con a
capo Firenze stavano per togliere alla Chiesa. Ed aggiungevano che
sarebbe stato molto meglio subire tale spogliagione, che mettersi
allo sbaraglio di uno scisma. Anzi l'antipapa Clemente di una gran
parte del patrimonio di San Pietro avea costituito un ducato in
favore dell'Angioino, per riceverne aiuto e difesa nelle presenti
strettezze. Telesforo, andando più oltre, aggiunge che il successore
di Clemente, o il Papa Angelico, non ad una parte sola dei possessi
suoi rinunzierebbe, ma bensì a tutti. Se non che prima che spunti
questo avventuroso giorno nuove calamità sovrasteranno ai fedeli, e
dalla Germania sorgerà, secondo un'antica leggenda tedesca, un terzo
Federico, della semente del secondo, il quale, non meno infesto alla
Chiesa, pugnerà contro la Francia, come un tempo Manfredi contro
Carlo d'Angiò, e più fortunato di lui riuscirà a menare prigione il re
francese. Ma non tarderà molto, che le sorti della guerra muteranno e
l'imperatore tedesco sarà sconfitto e l'impero stesso passerà nelle
mani di re Carlo di Francia, il quale, stretto in intimo accordo
col Papa Angelico, dominerà tutto il mondo cristiano, sconfiggerà
i Saraceni, convertirà i Tartari, e la Chiesa greca unirà con la
latina. Nel qual tempo si verificherà l'antica profezia di un solo
ovile e di un solo pastore, e per lunga pezza la pace sorriderà agli
uomini. Nè qui si arresta l'incauto profeta, ma discorre ancora dei
successori del Papa Angelico, che saranno in numero di tre, dopo i
quali il Diavolo sarà sciolto di nuovo, e verrà l'ultimo Anticristo,
che con doni ed incanti sedurrà il popolo dei credenti; dopo di che
seguiranno la finale catastrofe e il giudizio universale. Di tutti
questi avvenimenti, dei quali neppur uno si è verificato, è così certo
il nostro eremita da snocciolarvene le date con precisione matematica.
Lo scisma avrebbe fine nel 1417, e nel 1432 sarebbe legato Satana, e
tra altri 420 anni dal 1386, vale a dire nel 1806, sarebbe accaduto
il giudizio universale. Siamo, come si vede, in piena decadenza
della profezia. Telesforo è un commentatore di commentatori; e non si
contenta se non quando ha colmate tutte le lacune, assegnate tutte le
date. La sua profezia è un libro di partito, scritto per rincorare
i suoi, ed accertarli che, non ostante i rovesci e le sconfitte, la
vittoria finale non sarà per mancare. Non gl'importa che di lì a poco
tempo il fatto possa smentirlo. Quel che preme ora, è non perdersi
d'animo; e nulla giova tanto ad assicurare la vittoria, come la piena
fiducia di doverla conseguire.

Il libro di Telesforo ebbe un grande ed immeritato successo; e sei anni
dopo che fu pubblicato, vale a dire nel 1392, Enrico di Langstein ne
scrisse una confutazione stringente. Ed Enrico era uno dei più dotti
teologi del tempo e vice-cancelliere dell'Università di Parigi, e nello
scisma ebbe una parte importantissima; perchè sostenne validamente
non potersi comporre il conflitto, se non a patto che entrambi i papi
deponessero il loro potere e lasciassero ad un Concilio la cura della
nuova scelta del pontefice e della sospirata riforma della Chiesa;
idee che, svolte poi dal Gerson, trionfarono nel Concilio di Costanza.
Orbene quest'uomo, così dotto e così pratico, non ebbe disdegno di
combattere le profezie del preteso Telesforo. E la ragione sta in
questo, che tutti in quel tempo erano inclinati ad accogliere le voci
profetiche. Lo stesso Enrico, se non presta fede a tutte le puerilità
dell'Eremita, se gli rimprovera di attingere a sorgenti impure e non
approvate dalla Chiesa, crede però anch'esso nella prossima venuta
dell'Anticristo; e di Arnaldo di Villanova fa tanto conto che lo mette
a pari di santa Ildegarde, la Sibilla tedesca come ei la chiama, e
rimprovera Telesforo di non averne conosciute le opere.

Parimente nella prossima venuta dell'Anticristo crede un altro teologo,
Niccolò Oresme, precettore del re Carlo V di Francia. Mandato dal re
francese alla Curia pontificia in Avignone, vi tenne un ardito discorso
predicente lo scisma, e liberatosi poscia dall'accusa di eresia con
tale vantaggio da meritare il vescovato di Lisieux, seguitò a meditare
sui destini dell'umanità, e pur combattendo le dottrine gioachimite
intorno alle tre età e all'Evangelo eterno, si fece a dimostrare in
un libro _De Antichristo_, scritto, a quel che sembra, allo scoppiare
dello scisma, che fra non molto si verificherebbero le terribili
profezie dell'Apocalisse, stando almeno a parecchi indizi, tra i
quali è da contare il pressochè compiuto annichilamento dell'Impero,
la tepidezza della carità, la dissolutezza e la simonia dell'alto
clero, il pullulare di nuove eresie, e più che tutto l'apparizione
di quei falsi profeti che sono i Gioachimiti. Ed enumerati ad uno ad
uno questi segni precursori, il dotto prelato si fa a descrivere il
futuro Anticristo, che nascerà in Giudea e coll'apparenza della santità
e con larghi donativi si guadagnerà molti cristiani, allontanandoli
dalla vera fede, e fattosi eleggere loro re, perseguiterà a morte gli
ortodossi, e con alterna vicenda di sconfitte e vittorie travaglierà
tutto il mondo, finchè Cristo stesso non scenderà in terra per levarlo
di seggio e cacciarlo in inferno con tutti i suoi seguaci.

Non meno convinto della vicina catastrofe era quel Domenicano spagnuolo
ricordato più sopra, Vincenzo Ferrer, che nelle sue predicazioni e in
una lettera indirizzata al papa avignonese Benedetto XIII il 27 luglio
1412 affermava dover coincidere la venuta dell'Anticristo con la fine
del mondo, ed essere imminenti e l'una e l'altra; poichè già da cento
anni ai beati Domenico e Francesco era stato rivelato che tre spade
percuoterebbero la terra, vale a dire la persecuzione dell'Anticristo,
la conflagrazione, e il giudizio universale. Inoltre nell'Apocalisse
è detto che Satana, dopo mille anni dacchè fu legato, sarà sciolto di
nuovo e sguinzagliato contro i fedeli. E Satana fu legato non alla
venuta di Cristo, come dicono alcuni, ma ben piuttosto al tempo del
beato Silvestro, quando l'Impero romano si convertì alla nuova fede e
il paganesimo fu vinto. Da quel tempo i mille anni sono già trascorsi,
e l'estrema ruina si appresta _cito et bene cito ac valde breviter_; e
gli stessi ordini religiosi, il Domenicano e il Francescano, istituiti
per ritardarla, sono pressochè distrutti, poichè è venuta meno la
rigida osservanza delle loro regole. Le opinioni apocalittiche erano
state fino allora proprie del sodalizio francescano, e della parte
più esaltata degli spirituali; ora penetrano nell'ordine domenicano; e
dopo Vincenzo Ferrer un altro predicatore, Manfredo di Vercelli, le va
spargendo per l'Italia settentrionale, traendo seco le turbe atterrite.

Ma questi tetri pronostici fallirono alla lor volta del tutto; anzi
composto a Costanza il grande scisma, e vinto senza fatica l'altro
che vi tenne dietro a Basilea, il papato parve sorgere a nuova vita e
riprendere il prestigio goduto ai giorni d'Innocenzo III e di Gregorio
IX. Senonchè l'attento osservatore sotto l'apparenza ingannatrice non
tardava a scoprire i segni di nuovi mali. La Curia non era più, come
in Avignone, alla mercè del re di Francia; ma la corruzione, tanto
rimproverata alla Corte avignonese, non era scomparsa sotto altro
cielo. E per un certo rispetto pareva si andasse di male in peggio;
poichè ora con cinico sorriso si mettevano a nudo le proprie brutture,
e le facezie di Poggio Bracciolini trovavan lieta accoglienza nelle
stesse sale del Vaticano. Aggiungi che al cessare degli scismi lo
spirito cristiano non che informare uomini ed istituzioni, pareva
invece soffocato dal rifiorire della cultura pagana e dalla ognor
crescente miscredenza, e la stessa Curia pontificia aveva a segretari
uomini, che eglino per i primi non prestavano fede ai brevi ed alle
bolle da loro distesi come saggio di elegante latineggiare. Infine
un'altra piaga si riapriva nel seno della Chiesa, e più maligna delle
precedenti, il nepotismo, che da Paolo II a Sisto IV divenne sempre più
minaccioso, e con Alessandro VI non conobbe più modo nè misura.

In queste condizioni, quando le sorti della Chiesa parevano disperate,
e lo stesso Vicario di Cristo era accusato a torto o a ragione delle
tresche più scandalose, tonò potente la voce di Gerolamo Savonarola.
In lui la profezia dal basso loco, in che era caduta, assurge
novamente a sublimi fastigi. Al pari dei suoi predecessori egli lavora
d'interpretazioni e di commenti sui libri profetici del Nuovo e del
Vecchio Testamento; l'Apocalisse, i Profeti e il libro dei Salmi sono
i suoi testi prediletti. Se non che non parla più, come i predecessori
suoi, della prossima venuta dell'Anticristo e della fine del mondo,
ma solo dell'imminente rinnovazione della Chiesa. E i suoi vaticini
trae, come l'Oresme, da diversi indizi, che ha cura di enumerare ad
uno ad uno nella famosa predica del 14 gennaio 1494. “Hora, egli
dice, cominciamo dalle ragioni che io t'ho alleghate da parecchi
anni in qua, che dimostrano et pruovano la renovatione della Chiesa.
Alchune ragioni sono probabili, che gli si può contradire, alchune
sono demonstrative, che non se gli può contradire, perchè son fondate
nella scriptura sancta. La prima è _propter pollutionem prelatorum_.
Quando tu vedi un capo buono, dì che il corpo sta bene. Quando el capo
è captivo guai a quel corpo. Però quando Dio permecte che nel capo
del reggimento sia ambitione, luxuria et altri vitii, credi che il
flagello di Dio è presso.... La terza _per exclusionem istorum_. Quando
tu vedi che alchuno Signore o capo di reggimento non vuole e buoni et
onesti appresso, ma gli cacciano, perchè non vogliono che gli sia dicta
la verità, dì che il flagello di Dio è presso.... La _sexta propter
multitudinem peccatorum_. Per la superbia di David fu mandata la peste.
Guarda se Roma è piena di superbia, _luxuria et avaritia et simonia_.
Guarda se in lei multiplicano sempre li captivi et però dì che il
flagello è presso.... Tu dirai: O egli c'è tanti religiosi e tanti
prelati più che ne fussi mai. Chosì ce ne fussi mancho. O cherica, per
te _orta est hæc tempestas_! Tu se' cagione di tucto questo male et
oggidì ad ogni uno gli pare essere beato chi ha el prete in casa; et
io ti dico che verrà tempo che si dirà: _Beata quella casa che non ha
cherica rasa._ La decima è _propter universalem opinionem_. Vedi ognuno
che pare che predichi et aspecti el flagello et le tribolatione.... Lo
abbate Joachino et molti altri predicano et annunziano che in questo
tempo ha advenire questo flagello.„

Il Savonarola adunque non diversamente dai suoi predecessori è un
profeta più di riflessione che d'ispirazione, e nelle previsioni
sue l'ermeneutica biblica e le dottrine teologiche hanno la parte
preponderante, come in quelle dell'abate Gioachino, che egli stesso
cita. Ma ciò non pertanto a scoprire nelle sacre carte il senso,
che agli altri sfuggiva, occorrevagli una singolare attitudine o
un'illuminazione dall'alto. E questo dono singolaro nessuno più del
Savonarola è convinto di averlo. “Chi dubiterà — egli scrive — che
il giglio sia bianco se non il cieco?... Le cose avvenire appariscono
tanto chiare nel lume della prophetia, che colui il quale ha tal lume
non può avere dubitatione alcuna„. “Et dicoti che si verificherà ancora
il resto che non fallirà una iota et io ne so certo più che non sei
tu che due e due fanno quattro, et più che io non so certo che io
toccho questo legno di pergolo, perchè quello lume è più certo che
non è senso del tacto. Credimi, Firenze; tu dovresti pur credermi,
perchè di quel che t'ho decto non ne hai veduto fallire una iota
fino a qui, et anco per l'avenire non ne vedrai manchare niente„.
A lui non sembra come a santa Brigida e a santa Caterina di avere
diretti colloqui con Cristo o con la Vergine, nè la sua fantasia sa
levarsi alle grandiose rappresentazioni di Ezechiello e dell'autore
dell'Apocalisse. Anzi talvolta l'arte gli fa tanto difetto, che cade
nel trito e nel minuto, come in una descrizione del Paradiso inserita
nel compendio delle Rivelazioni. Ma senza dubbio lampi di vero genio
guizzano talvolta nelle sue prose e nelle sue poesie. E talune delle
visioni sue colpirono talmente i contemporanei, che furono riprodotte
in molte incisioni, come quella apparsagli nell'anno MCCCCLXXXXII, “la
nocte precedente all'ultima predicatione che fue in Sancta Reparata,
quando vide una mano in cielo con una spada sopra la quale era scripto:
La spada del Signore colpirà tosto e veloce. E da poi questo la mano
rivolse la spada verso la terra et subito parve che si rannugholassi
tutto l'aere et che piovessi spade et gragnuola con grandi tuoni et
saette e fuochi et fu in terra facto guerra pestilenza et carestia„.
Non c'è nulla di strano che queste visioni ei l'abbia avute realmente.
La sua fantasia, piena di ricordi biblici, non posava mai, il suo
corpo estenuavano i digiuni e le fatiche della predicazione, il suo
animo combattevano speranze e timori senza fine. Non erano fredde
lucubrazioni le sue, ma sensazioni potenti che sentiva nel più profondo
dell'essere suo prima di comunicarle agli altri.

Se non che il Savonarola non era soltanto un mistico ed un veggente,
ma possedeva altresì uno squisito senso della realtà; e gran parte
delle previsioni sue, come quelle intorno alla discesa di Carlo
VIII ed all'espulsione dei Medici, si dovevano, più che alla sua
natura profetica, alla conoscenza profonda, che egli aveva degli
uomini e delle cose. Certo nessuno meglio di lui seppe consigliare
ai Fiorentini, tornati liberi, la forma di governo più opportuna.
E nessuno vide meglio di lui che la repubblica non sarebbe durata
se non ad un patto, che si fossero rappaciati gii animi e scordate
le antiche offese. Nella sua grande anima il Savonarola riunisce
le doti e le tendenze più disparate. E se nei suoi vasti disegni
pensava alla Chiesa tutta, che avrebbe dovuto tornare alla severità
degli antichi costumi, non trascurava le sorti degli Stati, non meno
bisognosi di riforme della Chiesa stessa, a cominciare da Firenze, la
patria di adozione, che esercitava su di lui, come su tutti noi, il
suo fascino irresistibile. Ed a Firenze avea consacrata non piccola
parte dell'opera sua fin da quando, chiamato al letto del morente
Lorenzo, non volle, a quel che raccontano, udirne la confessione se
prima non avesse promesso di ridare la libertà alla sua patria. Le
due riforme andavano, secondo lui, strettamente congiunte, perchè
si potesse ritornare a quel tempo glorioso, quando i più rigidi e
intemerati papi stavano al governo della Chiesa, e la Chiesa stessa
era l'anima dei liberi comuni. Senonchè quella età era ben lontana,
e la storia, per sforzi che si facciano, non torna indietro. Le due
riforme, che il frate di San Marco congiungeva nel suo pensiero, si
recavano vicendevole impaccio, come i fatti dimostrarono ben presto.
Secondo l'austero riformatore Firenze, conquistata la libertà e il
governo di sè, dovea ora rinnovare la sua coscienza, e da pagana
che era, in gran parte, rifarla cristiana. Nè aveva a tollerare più
a lungo quei canti e quelle feste carnescialesche, onde fu celebre
il governo di Lorenzo, e lo Stato, prendendo il luogo della Chiesa,
dovea punire come infrazioni delle leggi sue quelli che la Chiesa
condannava come peccati. Cristo dovea assere il re di Firenze, e in
suo nome aveasi a riformar la città. Le quali idee del frate tornavano
ostiche, non solo ai partigiani dei Medici, ma ben anche ad una parte
degli aderenti all'ordine nuovo, che mal pativa la città si governasse
dal pergamo, con metodi e con idee fratesche. E quando il Savonarola
concepì l'infelice disegno di fare accendere in piazza della Signoria
un gran fuoco per bruciarvi quanti oggetti di lusso o di vanità fosse
dato raccogliere, le loro rampogne non conobbero misura, e l'odio
contro il frate crebbe a tal segno, che la parte dei repubblicani,
a lui ostili, fu detta degli Arrabbiati. Dall'altro lato se la
religione, secondo la mente del Savonarola, dovea informare lo Stato
fiorentino così da dargli sembianza di teocrazia, lo Stato alla sua
volta aveva da esercitare un'azione non meno potente sulla religione;
poichè da Firenze, che è, come egli dice, l'ombelico d'Italia, doveva
sprigionarsi la scintilla del grande incendio della Riforma. Ed anche
da questo lato non potevano tardare i disinganni; perchè la parte
politica del Savonarola avea da sostenere l'urto non pure dei nemici
interni, ma di un avversario ancor più potente, qual era il Papa,
che impersonava la gerarchia. Nè ci voleva molto a prevedere che
nell'impari lotta contro la doppia potestà temporale e spirituale,
ne andrebbe fiaccata. E il Savonarola stesso lo sa, e con mirabile
divinazione predice che la prima vittima sarà lui; ma un fato lo
trascina ed egli non sa resistere.

Non è dubbio, dicemmo, che la propaganda del mistico profeta dovesse
recare non poco danno all'opera politica da lui intrapresa, e non è
dubbio altresì che danno non minore dovesse recare l'inframmettenza
politica al disegno di riforma religiosa. In che stesse codesta riforma
è manifesto. Il Savonarola, al pari dei profeti che lo precedettero,
non intende di toccare nessun punto del domma, e quelli che, a
cominciare da Lutero stesso, ne vogliono fare un precursore della
Protesta, s'ingannano di gran lunga. Ei voleva solo che la Chiesa si
lavasse dalle brutture presenti, che sulla cattedra di San Pietro
sedesse un papa santo, non diverso dal Papa Angelico vagheggiato
dalle età precedenti, e che la corruzione provenuta dall'avidità di
ricchezze e di potere cedesse il campo alla povertà e alla semplicità
primitiva. La prima riforma che il Savonarola intraprese in piccolo,
quando ottenne che il convento di San Marco, sottraendosi alla
giurisdizione del provinciale lombardo, si ponesse a capo della nuova
provincia toscana, fu appunto questa d'introdurre nell'interno del
chiostro domenicano la stretta regola della povertà evangelica, presso
a poco come la intendevano i Francescani spirituali. Ma la conseguenza
logica di questo indirizzo più severo sarebbe stata appunto di vietare
che gli uomini di Chiesa si mescolassero nelle cose dello Stato. Il
che mal s'accordava col fatto che un frate fosse a capo di una parte
politica, qual era quella dei Piagnoni. Evidente contraddizione questa
che ebbero ben cura gli avversari di mettere in piena luce. Invano il
Savonarola adduceva l'esempio del cardinale Latino, di santa Caterina
da Siena e di sant'Antonino arcivescovo di Firenze. Indarno protestava
non essersi delle faccende dello Stato in particolare mai impacciato,
e solo le norme generali del governo aver suggerito per la salute
temporale e spirituale dei Fiorentini. Le sottili distinzioni non
gli giovavano. E per vincere l'ardua prova di condurre a buon fine le
due riforme, che mal s'accordavano insieme, sarebbe occorsa a Firenze
maggiore forza e più robusta fede di quella che avesse in realtà. Per
fermo era un sogno, che questa piccola repubblica, stretta intorno
da tanti e così diversi nemici, potesse alla lunga resistere alle
minacce di Roma. Oltre a che il Savonarola avea da combattere contro
un pontefice, che, se dava ogni giorno nuova materia a scandali e
maldicenze, vinceva tutti in scaltrezza, e che anche questa volta non
si smentì. Non appena Alessandro sente che un frate fiorentino osa
dal pergamo sparlare di lui e del suo governo e predicare l'imminenza
della Riforma, lo chiama a Roma con lettera affettuosa e allettatrice.
Scusatosi il Savonarola di non potersi muovere e per lo stato di sua
salute e per le condizioni della città, gli vieta di predicare più
oltre. Fallitogli per insistenza della Signoria fiorentina anche questo
provvedimento, delibera di distruggere l'autonomia, da lui stesso
concessa, del convento di San Marco, e di assorbire la nuova provincia
toscana in una più larga, che prende il nome di tosco-romana, il che
voleva dire mettere San Marco e il guardiano suo nelle mani di una
creatura del Papa. Nè il Savonarola nè i suoi dipendenti si piegano al
duro decreto, ed Alessandro VI alla sua volta non tarda a scomunicarli
tutti come ribelli agli ordini suoi, e chiedere al governo fiorentino
di assicurarsi del loro capo, se non voleva rendersene complice, ed
incorrere nell'interdetto. Queste gravi misure non disanimavano il
Savonarola, che dopo breve intervallo di silenzio ritorna sul pergamo
e dichiarata nulla e vana la scomunica, ribadisce le sue profezie,
sempre più convinto che non un iota, com'ei diceva, ne fallirebbe. “O
uomini religiosi, esclama nella predica del 25 febbraio 1497, o Roma, o
Italia, e tutto il mondo chiamo, fatevi innanzi. Questo che io dico o
è da Dio o no. Se è da Dio voi non potete impugnarlo, e se impugnate,
perderete con vostro danno; se non è da Dio mancherà presto per sè
medesimo.„ E più gravemente in quella del 18 marzo: “Dico che quando è
guasta la Chiesa, non è potestà ecclesiastica, ma è potestà infernale e
di Satanasso. Io ti dico che quando ella adiuta le meretrici, li cinedi
et li ladroni et perseguita e buoni et cercha di guastare el ben vivere
christiano, allora ella è potestà infernale et diabolica, et hassegli
a fare resistenza„. Era guerra aperta e a ferri corti, e il Savonarola
non disperava di vincerla. In una lettera ad un amico ricorda che i
concili di Pisa e di Costanza aveano stabilita la superiorità della
Chiesa tutta, rappresentata dal Concilio sul Papa, e il dritto di
deporlo, dove si fosse chiarito indegno di tenere l'alto seggio.
Dottrina già sostenuta un tempo da Marsilio da Padova e dall'Occam,
e più di recente difesa dal Langstein, dal Gerson, dal Piccolomini,
dal Cusano. E al Gerson il Savonarola s'appella, e spera che il re
di Francia o l'imperatore dei Romani, o tutti insieme bandiscano un
Concilio, che ponga fine agli scandali e alle simonie. E nello stesso
collegio cardinalesco si affida di trovare aiuto, specie nel cardinale
della Rovere, che fu poi Giulio II, il quale pubblicamente accusava il
Papa di aver compra la tiara a contanti.

Ma tutti questi calcoli erano sbagliati. Le teorie di Pisa e di
Costanza, se non pubblicamente condannate, furono ferite a morte dopo
lo scacco del Concilio di Basilea e la sottomissione dell'antipapa
da questo nominato. E gli uomini più eminenti, come il Cusano e il
Piccolomini, ebbero a ricredersene anche prima che l'uno fosse fatto
cardinale di San Pietro in Vincoli, e l'altro assumesse la tiara col
nome di Pio II. Nè era credibile che il disegno fallito a Basilea,
d'introdurre nella Chiesa in luogo del monarcato assoluto un governo
a larga base, potesse riescire ora che le condizioni vi si prestavano
meno. Certo è che quando il Savonarola levò il suo grido contro quel
papa, che la Chiesa stessa deplora d'aver avuto a capo, nessuno lo
raccolse, e gli Arrabbiati seppero ben cogliere l'occasione delle
minaccie papali per sbalzare di seggio la parte politica devota al
Frate. Nè solo i politici gli si mossero contro, ma benanche la maggior
parte del clero con i frati minori alla testa, i quali sfidarono il
Profeta di provare la verità delle predizioni sue coll'esperimento
del fuoco. Il Savonarola non voleva accettare la strana sfida, che
sapeva bene non essere se non un tranello; ma il suo fido compagno fra
Domenico, convinto della bontà della loro causa, l'accettò e sarebbe
certo entrato nel fuoco, se il Minorita si fosse fatto innanzi. Costui
però, come era da prevedere, non si presentò, il truce spettacolo
non ebbe luogo, e la gran folla adunata in piazza della Signoria per
assistervi, a tarda sera si sciolse indispettita e minacciosa. Da quel
giorno la sorte del Savonarola era decisa. Ben presto fu dato l'assalto
al suo convento, e vinta facilmente la debole resistenza, che una
parte dei Piagnoni ancora opponeva, fu tratto in prigione, come volgare
malfattore, quell'uomo dalle cui labbra pochi giorni innanzi pareva che
il popolo tutto pendesse. La Signoria non volle consegnarlo al Papa, ma
dopo lunghe trattative ottenne che il processo fosse fatto in Firenze
e vi prendesser parte i magistrati fiorentini.

Potrebbe sembrare strano come il Governo tanto tenesse ad istruire un
processo, senza dubbio più ecclesiastico che civile e per la qualità
delle persone e per l'indole stessa dell'accusa di ribellione al
Papa, i cui ordini non furono eseguiti, le scomuniche sprezzate. E
la Signoria stessa ebbe a ricorrere ad una menzogna per giustificare
l'opera propria, asserendo, nell'intestazione degli atti processuali,
che i giudici da lei scelti procedevano per conto e per mandato del
Papa, mentre questi non avea potuto avere il tempo di manifestare la
volontà sua. Perchè tanta insistenza? La ragione è chiara. La Signoria,
sotto al processo ecclesiastico, ne ordiva uno politico, e non solo
il Savonarola voleva colpire, ma tutta la sua parte. E sperava che
il Profeta, innanzi al quale fu visto allibire lo stesso Lorenzo dei
Medici, smentisse sè stesso, perchè, non solo scomparisse dalla scena
politica, ma ne fosse per sempre macchiata la fama, e passasse appo i
posteri quale impostore, nè fosse possibile che la parte, della quale
egli era anima e mente, riprendesse lena e del di lui nome si giovasse.
A tale scopo non fu risparmiato nessun mezzo. Furono somministrati
all'infelice in un solo giorno tre tratti e mezzo di fune, che gli
slogarono le ossa e sconciarono la mano destra, furono alterati i
verbali delle sue risposte, mandati in giro con glosse, che, guastando
il senso, rivelavano con la nequizia l'inabilità del notaio che le
stese. Ed i Signori ottennero in parte l'intento loro. Il Savonarola
già nel pieno trionfo della sua carriera non è sempre sicuro di sè.
Dice bene spesso che le sue rivelazioni le ebbe da Dio, e ribatte
tutti gli argomenti degli avversarii che il dono profetico gli volevan
contrastare; ma talvolta dichiara di non essere nè profeta nè figlio di
profeta, e che tutto quel che dice lo ha ricavato dallo studio attento
delle sacre carte, che ogni uomo di qualche levatura può fare. In lui,
come in tutti i presaghi dell'avvenire, non di rado con la fiducia
piena s'alterna il profondo scoraggiamento. Non è dunque strano che
davanti ai suoi giudici, dopo aver sofferte le più atroci torture e
i più cocenti disinganni, sconfessi il suo dono profetico. Talvolta
il primo uomo risorge e si ribella alle sue stesse confessioni,
come in queste memorabili parole pronunziate il 20 maggio 1498
nell'apparecchiarsi ancora una volta alla tortura: “Hor su uditemi:
Dio, tu m'hai colto, io confesso che ho negato Christo, io ho detto la
bugia. Signori Fiorentini, siatemi testimoni, io l'ho negato per paura
di tormenti; s'io ho a patire, voglio patire per la verità; ciò che io
ho detto l'ho havuto da Dio; Dio tu mi dai la penitenza, per averti
negato per paura di tormenti, io lo merito.„ Ma questo ritorno fu un
lampo. Dimandato in sulla fune sconfessò le dichiarazioni sue e nel
giorno seguente confermò di aver detto “come huomo passionato, e che
voleva sbrigarsi da una gran briga„. Il 23 maggio 1498 egli ed i suoi
compagni, fra Domenico e fra Silvestro, furono degradati e consegnati
al braccio secolare, e alle dieci del mattino le livide fiamme del rogo
ne accolsero i cadaveri.

I pensieri dominanti del Savonarola furono questi due: la rinnovazione
della Chiesa e la libertà del popolo fiorentino; l'una da promuovere,
l'altra da stabilire e difendere. E i principi della Chiesa e i signori
del popolo si strinsero insieme per darlo al rogo, vittima espiatrice
delle sue grandi aspirazioni. Con la morte del Savonarola la Profezia
ammutisce, nè più si ode, fuorchè a un secolo di distanza negli
insipidi vaticini dello pseudo-Malachia, e nella debole eco di un altro
domenicano, uomo politico anch'esso, fra Tommaso Campanella. Negli anni
che seguono al martirio del Ferrarese, l'ora del tremendo giudizio non
s'attende più, è già suonata. Ma nessun profeta l'annunzia, e quando
più fervono le lotte religiose, e torrenti di sangue dilagano per
l'Europa, nessuna voce risuona a confortare gli animi con la promessa
di giorni migliori. Simili ai dannati danteschi, i profeti di cui vi
ho ricordate le strane visioni, a furia d'aguzzar gli occhi nel futuro,
brancolano come ciechi nelle tenebre, quando si tratti del presente:

      Noi veggiam, come quei c'ha mala luce,
    Le cose, disse, che ne son lontano,
    Cotanto ancor ne splende il sommo Duce;
      Quando s'appressano, o son, tutto è vano
    Nostro intelletto, e s'altri noi ci apporta
    Nulla sapem di vostro stato umano.



LA PITTURA DEL 400 A FIRENZE

DI

DIEGO MARTELLI.


  _Donne gentili, onorandi signori_,

Nell'anno passato mi presentavo a voi con somma trepidazione; giacchè
un pubblico fiorentino e specialmente un pubblico come il vostro, è
uno dei più imponenti giudici avanti ai quali si possa presentare colui
che ha in animo di perpetrare una conferenza. Pur tuttavia uno stimolo
forte mi ha mantenuto saldo al mio posto. La vecchierella che portava i
suoi 76 anni come un giocondo fardello di serene rimembranze, mi stava
allora vicina; quella povera donna era mia madre, quella vecchierella
racchiudeva in un corpo esile e sottile, lo posso dire con orgoglio,
l'anima d'un eroe. Quindi nessuna debolezza mi era permessa, io doveva
fare la mia conferenza e la feci, la vostra gentilezza l'accolse, ed
eterna ne rimase in me la gratitudine. Quest'anno con vento fresco da
poppa avrebbe dovuto volare verso i suoi ponenti gagliarda la navicella
dell'ingegno mio; ma fu colta dalla bufera: quella povera vecchia non è
più qui, e voi non avete che gli avanzi d'un triste naufragio davanti
agli occhi. Questo mi raccomandi alla vostra benevolenza. Io mi sento
stretto dappresso dalla immagine d'una quantità di cari estinti e
l'arte pure ne perse di recente, e dei grandi, voglio dire del nostro
Barabino e del nostro Cassioli, e fra i colleghi della società, delle
letture, io più non veggo in questa sala quell'attento Dogliotti, il
quale veniva qui con l'animo ingenuo d'un giovane discepolo. Quell'uomo
così grande, così buono, che aveva tutte le fidanze di un fanciullo,
voi lo sapete, sta nella storia italiana col core d'un Baiardo.

Ciò posto, cercherò alla meglio di svolgervi l'argomento che mi sono
proposto, accennando ai principali pittori del 400 fiorentino. È da
avvertire però che tra le peripezie che incolsero gravi alla società
delle letture nell'anno passato, vi fu anche quella della malattia del
nostro egregio amico Enrico Panzacchi.

Così voi sentiste parlare dell'arte pisana, di quei grandi
scultori, pittori ed architetti da me; de' primordi dell'arte veneta
splendidamente da Pompeo Molmenti; ma fu passato sopra al nome di
Giotto, il quale veramente appartiene al secolo XIV e non al secolo
XV di cui dobbiamo ora parlare. E io comincierò la mia conferenza
rammentandovi qualche cosa delle opere e del grande nome di lui; questo
mio rammentare sarà come bandiera che si inchina riverente passando
davanti ad uno dei santi padri dell'arte italiana.


I.

GIOTTO.

Nel 1265 nasceva Dante; a pochi anni di distanza nasceva il pastore
di Bondone, Giotto. Il Guerrazzi, commentando alcuni dei lavori di
Giotto, con quella sua splendida ed immaginosa facondia, dice che
le nostre preghiere, le preghiere degli umani, quando salgono dalla
terra al cielo vanno su faticosamente e tremanti, in modo che arrivano
all'empireo stanche e rovinate dal lungo cammino; là sono raccolte
dagli angeli della misericordia che le presentano al Signore. Egli
quando le vuole esaudite abbassa il ciglio alla terra e guarda una
madre; e con quello sguardo, dice il Guerrazzi, infonde tale una virtù
nell'alvo materno che cotesto felice portato ritraendo in sè parte
grandissima della divinità esce a suo tempo al mondo per conforto ed
onore della specie umana.

In questo modo e per questa causa nacquero Dante e Giotto. E infatti
Giotto, che fu di Dante amicissimo, col quale certamente s'incontrò
mentre l'uno peregrinava per le sue sventure, e l'altro peregrinava
chiamato dai grandi a decorare sontuosi edifici, fu di conforto
all'esule che potè rivedere l'amico pittore e parlare con lui di cose
divine d'arte e di patria. Giotto, non occorre dirvelo, ha lavorato
immensamente come pittore, ed ha decorato monumenti a Napoli, ha
lavorato nella chiesa di Assisi, ed un gioiello ha pure lasciato
nell'alta Italia, nella cappella degli Scrovegni.

Io credo che si possa dire di Giotto, che come Dante, dagli
sparsi conati del volgare italiano, seppe col suo potente ingegno
formulare quella cantica divina che resta come il primo, più grande
e impareggiabile monumento del nostro idioma; così, tenuto conto
dei tempi e delle circostanze, Giotto dalla eredità dei Bizantini,
dall'eredità dei primi pittori italiani, portò l'arte a una tale
perfezione che veramente si può dire ch'egli determinasse il principio
del vero, del grande risorgimento italiano. Fu colto ed arguto, perchè
è impossibile che un uomo di ingegno non senta il bisogno di estendere
le proprie cognizioni all'infuori della tecnica del mestiere che
esercita; e fino dai tempi di lui noi vediamo caratteristica principale
dell'artista la universalità dell'opera sua, inquantochè se Giotto
fu pittore eminente, se principalmente nella pittura si esercitò il
sapere suo, pur tuttavia il campanile che ammirate nella piazza del
Duomo, dice quanto egli fosse un architetto valente. Ora essere un
architetto valente per me vuol dire essere artista per eccellenza,
imperocchè se nella fatica della specializzazione, tutte le arti hanno
dovuto dividersi e suddividersi in modo che oggi si abbiano non più,
come un tempo, artisti, sempre universali, i quali principalmente erano
pittori, o principalmente architetti, o principalmente scultori, pur
tuttavia l'arte resta sempre una cosa unica e sola, e per conseguenza
ha il carattere della universalità.

Ora questo carattere di universalità sopra tutte lo ha l'architettura
che è l'arte madre, l'arte che si serve dei colori dei vari materiali
per ottenere i suoi effetti; e di che splendida tavolozza si giovi ce
lo dice il Duomo di Firenze; essa è l'arte essenzialmente delle linee,
l'arte essenzialmente delle proporzioni e del chiaroscuro. Dunque se
nella pittura di Giotto si possono con poco piacere vedere gli errori
che la tecnica, non ancora perfezionata, metteva nell'opera sua, nelle
sue architetture perfette allora, perfette ora e perfette fino a quando
resteranno in piedi, voi avete l'espressione completa, assoluta d'un
ingegno che non ha rivali nel mondo. La provvisione del magistrato
fiorentino che lo nomina suo architetto e lo propone alla fabbrica di
Santa Maria del Fiore parla così “_che in tutto l'universo, si dice,
che non vi sia nessuno il quale a sufficienza sia edotto delle cose
dell'arte da superare Giotto da Bondone, e per questa ragione vien
creato maestro di Santa Maria del Fiore e delle fortificazioni della
città...._„

Voi vedete che non solamente Giotto era un egregio pittore, un egregio
architetto, ma era anche, per le cognizioni del tempo, un ottimo
architetto di castrametazione, cioè di architettura militare. Visitando
a Padova la cappella degli Scrovegni ho avuto la fortuna di vedere
uno dei più preziosi ricordi dell'arte sua pittorica, e in cotesto
luogo, dove nella parte inferiore di questa cappella, da un lato sono
dipinte a chiaroscuro le sette virtù, e dal lato opposto i sette vizi
che a quelle si contrappongono, m'è parso vedere quanto, fino da quel
tempo e similmente a Dante, Giotto sentisse della pura, della vera
arte classica antica. La Speranza effigiata in profilo con delle ali
non troppo robuste che vola verso il cielo protendendo le mani ad una
corona che gli viene porta da un angioletto, ha tutto l'andamento d'un
bassorilievo etrusco, di quelle figure di angioli, che pur gli Etruschi
conoscevano, e che mettevano sui loro sarcofagi. La figura della
Prudenza colla bocca sbarrata da una specie di lucchetto, con la mano
sopra una spada che poggia con la punta in terra, vestita d'un ampio
paludamento, con le pieghe mosse a modo di quelle che coprono le statue
delle Vestali romane, mi ha richiamato all'idea, che come Dante aveva
riconosciuto in Virgilio il maestro suo ed era risalito all'antichità
classica per produrre il più classico monumento dell'età moderna,
così Giotto avesse dai pochi avanzi che allora si avevano della santa
antichità pagana tratto argomento a migliorare l'arte sua, per quanto
cristiana, mistica e modernissima.

Giotto ebbe vita molto fortunata, imperocchè torno a ripetere quanto
avvertii nell'anno passato, che le discordie intestine, laceranti in
Italia le varie repubbliche, a tale che Firenze bandiva dalle proprie
mura Dante Alighieri, non influivano gran cosa sull'arte. L'artista era
festeggiato per tutto, e quindi, sia nell'arte della letteratura, sia
nelle arti plastiche si formava quel gusto, quella parentela italiana,
la quale faceva che Italia, ad onta delle sue immense e deplorabili
divisioni, pur tuttavia si formasse un gusto, ed una persona propria;
persona tanto grande, tanto splendida di bellezza e di gloria, che
ad onta dei vizî e delle sventure mai non doveva perire e ci doveva
condurre come oggi siamo, a coacervare le sparse membra, e poter dire:
l'Italia è una nazione ed un popolo intiero!


II.

L'ANGELICO.

Salutata così la gran figura di Giotto entro più specialmente a parlare
dei pittori del 400. Parlare di tutti è assolutamente impossibile,
scegliere i più grandi mi pare anch'essa ardua fatica ed impossibile
cosa. È tanto magnifica quella epoca, che perdersi nella quisquilia di
mettere quei giganti a rango di altezza è cosa troppo difficile e nella
quale mi dichiaro incompetente. Io prenderò a parlare, perchè il tempo
incalza e l'ora fugge, di quelli che più mi sembrano caratteristici
dell'epoca loro, di quelli che forse maggiormente corrispondono al mio
sentimento individuale.

Fra questi primeggia un altro Mugellese, Guido da Vicchio, il quale
nel 1407 veniva accolto novizio nell'ordine dei Domenicani e nel
convento di San Domenico di Fiesole. Figlio di Pietro da Vicchio
questo fraticello, che nell'ordine prese il nome di Giovanni, ebbe
poi ad essere chiamato l'Angelico, perchè veramente sembrò ai suoi
contemporanei, ed anche ai presenti lo sembra, che l'opera sua fosse
opera d'Angelo o di ispirato da celestiali apparizioni. Dei suoi
maestri, di come egli entrasse nella carriera della pittura poco o
niente si sa; se non che è certo che in quell'epoca nei conventi dei
Domenicani vi era una scuola speciale di miniatura per abbellire ed
alluminare i salteri ed i codici che servivano per le orazioni della
Chiesa. A me sembra che non occorra cercare di più; a coloro i quali
ancora si domandano dove e come l'Angelico imparasse a dipingere la
gran pittura, io rispondo, che se in quel convento si studiava tanto
e così bene da illustrare, come si illustravano, salteri con delle
miniature che sotto tutti i rapporti sono quadri e valgono per quadri,
è lì che egli ha appreso i rudimenti dell'arte, ed è col suo solo
ingegno che li ha sviluppati fino al punto di fare i magnifici freschi
che decorano il Vaticano ed il convento di San Marco; e ciò per quella
gran ragione che l'arte in quei tempi veniva quasi di getto, da tutte
le parti si entrava nell'arte, perchè essa era considerata una cosa
sola, e non esistevano quelle per me fatali divisioni, le quali la
spezzettano in mille modi, per fare dei mestieranti sempre, degli
artisti mai.

Nel 1409 l'Angelico dovette lasciare, insieme coi suoi compagni, il
convento di Fiesole, imperocchè per alcune scissure avvenute tra i
religiosi, furon costretti da una ordinanza del Pontefice a sloggiare.
Visse nove anni lontano da Firenze, su quel di Foligno principalmente,
e fu in quell'epoca che probabilmente lavorò al convento dei Domenicani
di Cortona, la quale Cortona conserva ancora molte ed insigni opere
di lui. Nel 1418 lo ritroviamo nell'Umbria, e questo giova a sapersi,
perchè anche in queste peregrinazioni forzate dell'Angelico si
cominciano a stabilire dei rapporti di conoscenza e di buon vicinato
fra gli artisti toscani e gli artisti dell'Umbria, propagandosi sempre
più quelle certe parentele artistiche, quelle inoculazioni per contatto
delle varie maniere, le quali poi dovevano dare origine con la scuola
umbra alle glorie del Perugino e alle future apoteosi del Raffaello.
Ritroveremo più tardi a lavorare in quei paesi con l'Angelico il
Benozzo Gozzoli venuto con lui da Firenze come suo scolaro, e lo
troveremo insieme a Gentile da Fabiano.

Nel 1418 i frati furono restituiti nel convento di San Domenico
di Fiesole e nel 1443 l'arte dei lanaiuoli dette all'Angelico la
commissione dello stupendo tabernacolo che oggi si conserva nella
Galleria degli Uffizi. Il contratto è stipulato in questa guisa: Fu
stabilito “_che fosse dipinto di dentro e di fuori con colori di oro
ed argento, variati e migliori e più fini che si trovano, con ogni sua
arte ed industria_„, ed il prezzo fu fissato in fiorini 190 d'oro. Io
ho ricorso alla gentilezza del dotto economista professor De-Johannis
per avere una idea del ragguaglio della moneta d'allora con quella
presente per capire se vera è la leggenda che i pittori di quel tempo
vissuti con semplicissimi costumi ricevessero per così dire la mercede
del bracciante. Invece ho avuto dal mio dotto e carissimo amico questa
risposta. Il fiorino di Firenze, la cui prima coniazione rimonta al
1252, e che era d'oro purissimo, a 24 carati, pesava una dramma, cioè 3
grammi e 2/100: il rapporto di valore tra l'oro e l'argento fra il 1450
ed il 1500 era come di uno a dieci: con approssimazione si calcola che
nella stessa epoca l'argento avesse una potenza di acquisto circa di
dieci volte maggiore dell'attuale. Per esempio il frumento si comprava
con 10 drammi l'ettolitro ossia occorrevano 100 grammi, ossia 20 lire
per la proporzione tra l'argento e l'oro. Ora si avrebbe in conclusione
che i 190 fiorini d'oro, coi quali fu pagato all'Angelico quel
tabernacolo equivarrebbero a lire 17 226. Ora siccome nel contratto si
dice ancora che sarà poi pagato quel meno che alla carità del frate
fosse parso opportuno, e questo s'intende che è relativo alle spese
maggiori o minori che avesse dovuto sopportare per quei colori fini
che si raccomandavano, per quell'oro che si doveva mettere nel fondo
e che era una forte doratura, non essendo l'arte dei battiloro tanto
perfezionata da formar quel velo che si mette adesso, pur tuttavia
voi vedete che 17 226 lire pagate da una corporazione di artieri sono
una bella moneta. Se io mi sono trattenuto sul prezzo di questa opera,
sulla determinazione sua in rapporto alle mercedi attuali, ho voluto
farlo perchè anche il prezzo sta a designare, come lo dice la parola,
il valore d'un'opera. Se un'opera si paga cara, vuol dire che si stima
assai, e ciò dimostra che a quei tempi si stimava assai l'arte, e si
pagava al prezzo del suo vero valore. Dico questo per eccitamento e
per esempio affinchè non serva di scusa il dire che Andrea del Sarto
un giorno, preso dalla fame e dalla disperazione, per un sacco di grano
fece la bellissima Madonna della SS. Annunziata.

Nel 1436 i frati di Fiesole scesero in Firenze aventi seco l'Angelico,
e a Priore del convento il celebre vescovo sant'Antonino. Papa Eugenio
IV trovavasi allora in Firenze pel concilio colla Chiesa greca: a
Firenze era ospitato l'Imperatore greco: a Firenze Cosimo il Vecchio
era signore. Voi non avete bisogno che vi dica di quanto splendore
fosse ricca la nostra città in quel momento. Quando l'Angelico è venuto
e ha dato mano alle pitture del Cenobio di San Marco, già Brunellesco
voltava le vôlte della cupola sua, mentre Donatello era in piena
fioritura, la cappella Brancacci si copriva con le pitture di Masaccio,
insomma era una esuberanza, una primavera dell'arte; come questa
primavera dell'arte corrispondesse alla fioritura letteraria, già ve
lo diceva con eloquentissima e dotta parola Guido Mazzoni nella sua
conferenza sull'Umanesimo, e poi altri ve lo dirà ancor meglio di me.
In mezzo a tutto questo lavorio di menti, di scalpelli, di pennelli,
di maestri di pietra, di decoratori d'ogni sorta, d'ogni risma,
l'Angelico rimaneva fisso nella sua celeste visione. Egli amava l'arte
con tutta l'intensità propria dei grandi ingegni, ma non la disgiungeva
un momento dal concetto religioso. A parer mio l'Angelico è l'ultimo
dei veri mistici, è veramente il pittore che chiude il periodo del
Rinascimento pittorico artistico, religioso, iniziato da Giotto.

La pittura dell'Angelico, se si considera in relazione ad altre pitture
contemporanee, è una pittura quasi un po' in ritardo, ma è una pittura
certamente insuperabile nella evidenza del sentimento.

Io non so se derivi dalla costruzione della sua retina, come direbbe
un materialista, o dalla serenità delle sue celesti visioni, ma il
fatto si è che mentre l'Angelico, pel modo come dipinge, pare che sia
precisamente un miniatore, anche nelle più vaste e più ampie pareti, si
appalesa sempre per un colorista di prima forza.

Se vi presentate in una galleria qualunque con lo scopo di vedere o
riscontrare un particolare in un quadro dell'Angelico e non sapete
precisamente dove questo quadro sia collocato, e gettate un occhio
sulle pareti della Pinacoteca, l'Angelico vi si appalesa con una
nota così chiara, così brillante, così argentina, che appena entrati
filate diritto sull'opera che riconoscete a distanza. Poter avere
continuamente dei toni delicatissimi, fare assolutamente dell'aria
aperta, non forzare mai i neri, è la sua caratteristica principale. Voi
potete riscontrare quante volte vi piace quello ch'io dico guardando
la Crocifissione, che è nella galleria dell'Accademia, quadro tutto
verità, nel quale sono indietri meravigliosi, cielo luminosissimo senza
uno scuro forzato. Ci sono però dei neri apparentemente assoluti,
perchè dove mette un domenicano vestito di bianco e nero sembra che
quel nero sia un nero assoluto; ma invece quel nero non fa mai toppa,
mai buco, e chi conosce un poco la tecnica dell'arte sa benissimo
quanta e quale sia la difficoltà di collocar bene un bianco in ombra
e un nero al sole, un nero che non faccia toppa, che rimanga al suo
piano in mezzo ad una gamma di colori chiari; è una difficoltà di primo
ordine per un colorista, e l'Angelico nella sua semplicità la supera
perfettamente.

Non bisogna dunque fermarsi solamente a contemplare nell'Angelico
il pittore delle sante ispirazioni; non bisogna fermarsi solamente a
contemplare nell'Angelico il pittore delle ingegnose trovate, delle
dotte composizioni; ma bisogna anche tener conto che fra i coloristi
fiorentini l'Angelico è un vero maestro.

L'Angelico, diventato celebre nel 1447, andò a Roma e là forse sentì la
grandezza dell'ambiente che lo circondava, perchè le sue composizioni
si sviluppano in una maniera più grandiosa e più magistrale che per
l'avanti.

Egli fu scritturato da Enrico dei Monaldeschi per andare a lavorare
ad Orvieto, ed abbiamo dal contratto fatto in cotesta circostanza, la
notizia che Benozzo Gozzoli era con lui, come sappiamo che Gentile da
Fabriano, stato poi maestro a Giovanni Bellini, il gran Veneziano, era
pure in comunicazione di lavori e d'opere con l'Angelico. Vi richiamo
a queste brevi e piccole circostanze per dimostrare come l'arte di
Firenze ebbe contatti coll'arte dell'Umbria, come Gentile da Fabriano
comunicò coll'arte veneziana, e mi permetto di riportarvi sempre col
pensiero a questa catena che circonda l'Italia e la avvince a quegli
effetti dei quali oggi noi fortunatamente godiamo il frutto.

L'Angelico che nelle sue composizioni è grandemente ascetico, è anche
sottilmente sarcastico e realista nei piccoli quadretti: si vede
questo nei gradini dei quadri, che illustrano con varii episodii le
vite dei santi superiormente rappresentati. Citerò un gradino che si
conserva nella galleria degli Uffizi rappresentante la visita di santa
Elisabetta alla Madonna. La Madonna è uscita dalla casa per abbracciare
l'amica che le viene incontro, mentre la serva sta dietro la porta
origliando per sentire quello che dicono le padrone.

Questo viziarello domestico che si perpetua nella storia del mondo e
durerà per un pezzo, era rimarcato dal giocondo fraticello, il quale
si permetteva di esprimerlo con la graziosa figurina della serva che
ascolta.

Egualmente è comica in un altro quadretto la meraviglia d'un converso
il quale uscito dalla cella di san Domenico, sente il Santo, che
ha lasciato solo, che parla con altri. Questo è l'episodio della
vita del Santo, nel quale san Pietro e san Paolo gli appariscono
nella cella e gli danno il bordone del pellegrino e il volume degli
Evangeli. La meraviglia del frate è assolutamente comica, rimanendo pur
decentissima; con questo si dimostra il buonumore e la serenità d'animo
dell'Angelico, e l'attitudine che aveva di osservare nella natura e sul
vero anche il lato comico delle cose con una piccola punta di realismo
e di verismo non disdicevole in questo gran pittore delle visioni
celesti.

Accanto all'Angelico, come vi ho già accennato, abbiamo, fra gli altri,
Masolino da Panicale e Masaccio. La cappella Brancacci del Carmine
è contemporanea, o presso a poco, alle opere dell'Angelico del San
Marco e del Vaticano. Di Masolino da Panicale poco si sa. Certo egli
è un grande e robusto pittore, il quale si avanza sicuro dell'arte già
ricca di tutti i progressi che la tecnica, la prospettiva han portato
nell'arte stessa.


III.

MASACCIO.

Masaccio che gli succede ne è una esplicazione ancora più brillante
e più completa, e noi entriamo con lui nel periodo vero del secondo
Rinascimento, il quale prende a venerare l'antico, dimentica il
sentimento religioso puro dell'età precedente; e se rimane nella
religione totalmente pel soggetto che tratta, umanizza, rende di forma
meno mistica tutti i suoi concetti e progredisce nella via che oggi si
direbbe del realismo. Di fatti in quell'epoca si sente già un grande
agitarsi di tutte le menti per la scoperta del vero reale, del vero
scientifico, mentre nei fondi dei pittori del 300 la prospettiva è
messa là in un modo bambinesco, quasi ad esplicazione del soggetto.
Si fa per esempio una torricina, ci si mette accanto una porta molto
più piccola delle gambe di un cavallo, e di fuori ci si dipinge una
cavalcata di ambasciatori molto più grandi della torre della città (e
questo è un errore quasi voluto, perchè dovendo questa prospettiva
rappresentare degli ambasciatori che andavano in un certo posto,
uscendo da una certa città, si doveva far vedere che c'era una città
e che erano usciti da una porta, magari più piccola dei cavalli che
la dovevano oltrepassare, e non bastando questo magari ci scrivevano
sopra il nome della città dalla quale partivano e quello della città
alla quale arrivavano). Ma torniamo a bomba: invece nei primordi
del 400 abbiamo le menti che si affaticano per cercare la ragione
matematica della proiezione delle ombre. Già sappiamo che il maestro
di Masaccio fu Brunellesco, e di questi Paolo Toscanelli dal Pozzo, sul
quale sta pubblicando un libro con eruditissime ricerche il professore
Uzielli. Toscanelli dal Pozzo fu uno dei più grandi matematici dei
suoi tempi, ma però per quella universalità di allora su tutto lo
scibile umano, era intimissimo amico del Brunellesco, ed a questo
insegnava la prospettiva, la quale poi di seconda mano veniva passata
a Masaccio. Voi vedete che le cognizioni negli uomini di quei tempi si
accomunavano, si affratellavano, si davano la mano l'una coll'altra, e
gli artisti sommi del 400, torno a ripeterlo, erano nel medesimo tempo
gli uomini più colti dell'epoca loro. Nel quadro — tutto di mano del
Masaccio — della cappella Brancacci, nel quale il Cristo circondato
dagli Apostoli è interrogato dal pubblicano per ricevere le decime e
dove il Salvatore dà ordine a san Pietro di andarle a pescare nelle
branchie di un pesce (cosa che sarebbe oggi molto comoda), abbiamo una
pittura limpida, chiarissima e una pittura nella quale i piani vanno
dal primo all'orizzonte con una degradazione sicura, scientifica. La
prospettiva aerea è bellissima: il paese che circonda le figure è tutto
al suo posto, e da questo voi vedete che il progresso è evidente, che
la pittura non è più mistica, non è più significativa di una sola
idea religiosa, ma la storia, anche del Cristo, diventa soggetto
per trattare una storia umana. Le passioni, gli affetti si svolgono
umanamente, e le figure per conseguenza prendono una precisione
derivante dalla tecnica studiata severamente, dal vero cercato nella
osservazione non domandato ad alcuna visione rivelatrice. Masaccio,
descritto dal Vasari come persona distrattissima, e che per quanto
derivasse dalla celebre famiglia dei Guidi di San Giovanni, pur
tuttavia fu chiamato Masaccio per la trascuratezza della sua andatura,
non potè finire l'opera sua: chiamato a Roma dove lavorò alla Minerva,
morì giovanissimo, ed alla cappella già incominciata da Masolino da
Panicale diè finalmente mano Filippino Lippi, figlio di frate Filippo
Lippi, dato in educazione alla morte del padre a Sandro Botticelli.
Uno di codesti affreschi, quello che rappresenta la risurrezione del
nipote dell'imperatore per opera di san Pietro, è un affresco misto, e
dipinto in parte da Masaccio, in parte da Filippino; di faccia abbiamo
un affresco tutto di Filippino, al di sopra abbiamo l'affresco tutto
di Masaccio, e più in alto gli affreschi già compiuti da Masolino
da Panicale. Sarebbe difficilissimo oggi trovare tre artisti i quali
potessero fare convenientemente la decorazione intiera ed unica d'una
cappella facendo ciascuno un quadro per conto proprio: impossibile
quasi direi che nel medesimo affresco potessero dipingere due artisti
senza darsi noia uno coll'altro. Ora io di questo fatto tengo conto
perchè mi sembra importantissimo per spiegare come l'indirizzo degli
studi, la buona fede colla quale un artista dava mano all'altro, la
comunanza di idee nella quale vivevano, facesse sì che si potesse avere
un'opera perfetta, ed un'opera triplice ed una nello stesso tempo.


IV.

ANDREA DEL CASTAGNO.

Un artista strano che mi pare che faccia assolutamente razza da sè è
Andrea del Castagno. Egli pure nacque in Mugello come Giotto e come
l'Angelico, ma non ebbe nè l'ingegno di Giotto nè il candore dell'anima
dell'Angelico. Egli fu uomo viziosissimo ed iracondo, agitato da mille
passioni, ma potente ingegno. Egli deve forse al suo cattivo carattere
la nota speciale che lo distingue tra quei pittori i quali abbandonando
l'ascetismo entrarono nella via che, tanto per farmi capire alla
meglio, ho chiamata del realismo, sebbene vi entrassero in un modo
intenso come ricerca di forme, come ricerca di luce, come effetto
prospettico, senza però quella passione psicologica che va a cercare
il pel nell'uovo nelle intime convulsioni del cuore umano. Andrea del
Castagno mi pare che segni una nota particolare in questo senso.

Agitato di spirito come egli era, mette una agitazione, una nota
potente, una nota moderna, dirò così, nella sua pittura. Di lui ci
resta il Cenacolo di Santa Reparata, nel quale sono anche state poste
delle belle pitture che decoravano un tempo la villa Pandolfini.
Queste sono la rappresentanza di uomini grandi: Dante, Boccaccio,
Petrarca, Pippo Spano, Farinata degli Uberti; una Sibilla, una Virtù,
ed altri. Ebbene in codesto cenacolo che prende tutta la vastissima
parete, è già notevole la ricerca della differenza tra un esterno ed
un interno, poichè al di sopra della linea di mezzo della parete si
vede la Crocifissione, in aria pienamente aperta, la Risurrezione, e
la deposizione nella tomba del corpo del Salvatore, al di sotto in un
ambiente chiuso la Cena. Ora questa ricerca fra l'effetto dell'interno
e quello dell'esterno era una ricerca poco curata forse dagli altri
pittori dell'epoca sua, mentre in lui è accuratissima. Le figure
che campeggiano nell'aria aperta, specialmente la figura del Cristo
tutto in bianco che esce giovane dalla tomba, sotto la quale sono due
figure di soldati addormentati, è una figura di tinta tutt'affatto
moderna, di pittura squisitamente chiara, contrapposta colla tetra
scena del Cenacolo, che egli ha caricato di tinte oscure e truci,
quasi a significare l'orribile tradimento che in quel momento si stava
compiendo; e fra tante pitture che rappresentano nei Cenacoli la figura
di Giuda, io credo non ci sia una figura così drammaticamente e con
forza espressa come la figura di Giuda nel Cenacolo di Andrea del
Castagno.

I ritratti poi a gran decorazione, la figura di Farinata specialmente,
vestito d'armatura completa, e quella di Pippo Spano di cui tanto si
decantavano le gesta in quei tempi, che tiene in mano la spada e ne
torce la lama con la robustezza del poderoso suo braccio, sono figure
così scultorie, che assolutamente si possono mettere a pari colle
grandi creazioni della scultura fiorentina del tempo e specialmente
colla figura del San Giorgio di Donatello. Si dice che vivendo egli
nello Spedale di Santa Maria Nuova e lavorando con Domenico Veneziano
carpisse allo stesso il segreto della pittura a olio la quale tanto
doveva influire sulle future sorti della pittura stessa. Questo segreto
o questo ritrovato, per meglio dire (poichè nell'arte di mescolar
l'olio e specialmente l'olio di lino alle tinte già si erano fatti
e si facevano continuamente esperimenti anche dai pittori del secolo
precedente), fu attribuito dal Vasari a Giovanni da Brugghia che lo
ridusse alla perfezione attuale. Un quadro di lui fatto alla corte di
Napoli dette luogo come tutte le novità a un grande agitarsi di quei
pittori, e Antonello da Messina finalmente ne indovinò il mistero.
Antonello lo rivelò a Domenico Veneziano, Domenico Veneziano venendo
a lavorare a Firenze lo comunicò colle buone o colle cattive (questo è
difficile a sapersi) ad Andrea del Castagno, donde tutta una leggenda;
imperocchè il Vasari asserisce che dopo avere imparato il segreto
del suo amico, Andrea del Castagno lo investisse mentre usciva da una
casa in via della Pergola, e proditoriamente lo uccidesse. Il nostro
Milanesi però con sottile acume di critica crede di potere asserire
che di questo delitto Andrea del Castagno non è macchiato, perocchè
ritiene che nel 1457 Andrea del Castagno molto probabilmente fosse già
morto per la pestilenza che infieriva nella città; e siccome il buon
Domenico Veneziano è morto nel 1461, mi pare molto improbabile che lo
possa avere ammazzato uno che era già morto qualche anno prima.


V.

PIERO DELLA FRANCESCA.

Emulo nello splendore della pittura, nella chiarezza dei suoi dipinti
all'Angelico, dotto in tutto ciò che l'arte dava allora di più pratico
e di più positivo, compositore di prim'ordine con una nota tutta sua
propria è Piero della Francesca. A Firenze poco abbiamo di lui, tranne
i due ritratti in profilo del duca e della duchessa d'Urbino che
vediamo nella Galleria degli Uffizi e che al di dietro della tavola
portano dei trionfi allegorici. Pur tuttavia questo piccolo esempio
è talmente forte che basta a persuadere chiunque dell'eccellenza
dell'artista. Piero della Francesca ha profilato le sue figure
leggermente di tono su un'aria limpidissima e su un paese che si perde
lontano lontano nell'orizzonte. Ora questa potenza di mettere di contro
alla luce una figura, di farne vedere tutti i dettagli, non forzando
oltre modo nè troppo caricando le tinte e nello stesso tempo facendola
risaltare su un cielo immensamente chiaro, e in un paese chiarissimo,
è opera precisamente di grande coloritore. Piero della Francesca ha
lasciato il più bel testamento artistico che si possa mai immaginare
nelle pareti del Coro del San Francesco in Arezzo, e io consiglio
chiunque è amatore della buona pittura di non trascurare una gita ad
Arezzo per vedere le pitture di Piero della Francesca.

La prima volta che io mi sono trovato costà davanti all'affresco
rappresentante la regina di Saba che va a visitare Salomone (affresco
nel quale abbiamo il re Salomone sotto una specie di peristilio a
colonne bianche di marmo mentre la regina è dalla parte esterna di
questo peristilio e comparisce in un paese dove sono alberi verdi su
un fondo ugualmente chiaro, in fondo al quale rosseggiano le tinte del
tramonto) io mi sono trovato davanti a una pittura così luminosamente
fresca, così brillantemente fatta che primo fra gli artisti m'è saltato
in testa Domenico Morelli in certi suoi bianchi, in certi suoi effetti
luminosissimi e violenti. Io vi dico questo non per dirvi una cosa
rara, perchè io nè di cose belle, nè di cose rare fo mestiere, ma per
dire una impressione che ho ricevuto; e se un pittore che nasce nella
prima metà del secolo XV, se un pittore che nasce a quell'epoca lì, ha
tanto in sè da rammentare di primo acchito uno dei più moderni nostri
moderni, mi pare che sia sempre un bel gagliardo, e che viva d'una
giovinezza assolutamente imperitura. Egli campò vecchissimo; uomo
insigne in matematica e prospettico eccellente, scrisse anzi su questa
materia dei dotti volumi, i quali forse furono la causa per la quale
l'opera sua di pittore non è troppo abbondante. Dicesi che delle opere
sue rimanesse erede, per così dire, un fra Luca Pacioli suo discepolo,
che alla morte del maestro le dette per sue.

Questa pure è una accusa lanciata dal Vasari; Milanesi l'attenua e la
nega in parte. Comunque sia, resta che Piero della Francesca è uno dei
più insigni, dei più delicati pittori dell'epoca sua; il che non toglie
che fosse al solito un gran maestro in matematica e prospettiva, uomo
d'ingegno, e dei più colti dell'epoca nella quale viveva.


VI.

BENOZZO GOZZOLI, ALESSANDRO BOTTICELLI.

Benozzo, discepolo dell'Angelico, è più traverso, più quadrato.
Egli non sente molto dell'insegnamento ascetico del maestro, e nelle
grandi decorazioni murali del Camposanto di Pisa vi si distende dentro
con quella giusta, serena ricerca della verità che io poc'anzi vi
descriveva quale nota caratteristica dell'arte del 1400.

Io non posso attardarmi a descrivere l'opera del Gozzoli, opera
importantissima e notevolissima, inquantochè troppo è necessario non
dimenticare tra i massimi Alessandro Botticelli.

Alessandro Botticelli figlio di Mariano Filipepi nacque nel 1447;
ricevette un'educazione abbastanza accurata e classica in un'epoca
nella quale il classicismo fioriva rigoglioso. Inquieto di carattere,
svegliato, pieno di ingegno, fu posto da suo padre presso l'orafo
Botticelli a imparare l'arte dell'orefice. Poi diventò scolaro di fra
Filippo Lippi, e alla morte di fra Filippo diventò il maestro al quale
fu affidata l'educazione artistica di Filippino, di quel Filippino il
quale ebbe a completare, ed è questo il maggior bene che si possa dire
di un pittore, l'opera di Masaccio nella cappella Brancacci.

Il Botticelli anch'egli ha una nota sua particolare, ed è il primo
che comincia a trasportare la pittura dai soggetti sacri ai soggetti
profani.

Di fatti si sa di lui che illustrò un soggetto profano del Decamerone,
ossia la storia di Anastasio degli Onesti che si vedeva in quattro
tavole descritta nelle cose preziose della famiglia Pucci di Firenze e
che ora non si sa più dove sia. Di lui è conosciutissima la nascita di
Venere, di lui è conosciutissimo il quadro allegorico che si ritiene
fatto alla morte della bella Simonetta, come già vi accennava il nostro
Ernesto Masi, secondo le induzioni dell'illustre storico dell'arte
professor Camillo Jacopo Cavallucci.

Il Botticelli è pittore d'un'eleganza nuova nella forma, un'eleganza
che certamente non è quella di Vatteau, o dei pittori fiamminghi del
1600, e nemmanco l'opulenza di Rubens. Egli nella nascita di Venere ci
dipinge una Venere che non è neppure parente, neppure biscugina della
Venere del Tiziano. Ha dei piedi grandemente sviluppati, delle mani
altrettanto, ma se voi davanti ad un contorno di donna del Botticelli
vi fissate su un punto qualunque della sagoma, e cominciate a andar su
su e ricercarla tutta, voi vi sentite invadere da una delizia simile
a quella che si prova se in una bella giornata d'inverno ci si mette a
guardare un bell'albero spoglio delle sue fronde e se ne ricercano con
l'occhio tutti gli eleganti contorni.

Io non saprei diversamente darvi ad intendere o spiegarmi meglio
riguardo alle sensazioni che si provano davanti questo gentile pittore,
che chiamato nel Vaticano a lavorare, per la vita disordinata che egli
faceva in Roma finì i quattrini e dovette tornarsene a Firenze. Qua per
l'amicizia che aveva con Lorenzo il Magnifico e per le cognizioni sue
di letteratura e l'affinità che aveva coi grandi dotti dell'epoca si
messe a illustrare e illustrò per il Landino la _Divina Commedia_. La
edizione del _Commento_ della _Divina Commedia_ fatta dal Landino colle
tavole del Botticelli si può vedere ancora da chi ne ha voglia nelle
sale della Biblioteca Marucelliana.

Ma più che quelle illustrazioni che sono poche e, pei mezzi imperfetti
del mestiere a quei tempi, abbastanza ordinarie, si può ammirare in
quella Biblioteca la collezione fotografica degli schizzi di tutta
intiera l'illustrazione del divino poeta, comprata dal gabinetto di
Berlino e della quale è stata fatta un'opera magnifica di riproduzione
fedele. Sfogliando codeste tavole voi trovate al solito, nelle figure
del Purgatorio e del Paradiso, una Beatrice con delle appendici
abbastanza pronunziate che una signora d'oggi non amerebbe avere,
ma tanta è la potenza di concetto sviluppato dall'artista, sia
nell'esprimere i tormenti dei dannati, sia nell'esprimere le gioie del
poeta condotto al cielo dalla sua divina fanciulla, che quel sentimento
di attrazione e di delizia che ho detto provarsi quando si comincia
ad andare su per un contorno del Botticelli, lo si prova egualmente
davanti a quei potenti concetti svolti da questo grande in punta di
penna. In lui è da notarsi come l'arte di già fa un passo in avanti
ed entra ad illustrare un'opera descrittiva. Botticelli che aveva in
quattro tavole illustrata e descritta la storia di Anastasio degli
Onesti, finisce con una illustrazione completa della _Divina Commedia_
e degna del poeta illustrato.

Dire di più di Alessandro Botticelli parrebbemi tempo perso, che
l'ora mi dice di andarmene, nè io voglio lasciarvi senza avervi ancora
parlato o per _fas_ o per _nefas_, abusando della vostra pazienza, di
un altro grande ed alto artista del quale tratterò nella Conferenza
presente. Questo artista è Domenico Ghirlandaio.


VII.

IL GHIRLANDAIO.

Egli nasce da Tommaso del Ghirlandaio della famiglia dei Bigordi
nel 1449, ed arriva a tempo per riassumere i portati della scienza
pittorica che si era precedentemente sviluppata. Egli entra nell'arte
come c'è entrato il Verrocchio, come c'è entrato il Pollaiuolo, per
la via dell'oreficeria. Domenico Ghirlandaio è molteplice, splendido
fra tutti i pittori dell'epoca sua; finissimo anch'egli per la potenza
del chiaroscuro, finissimo anch'egli per la delicatezza della sua
intonazione.

La tavola della Galleria delle Belle Arti nella quale si rappresenta
l'adorazione dei pastori, e dove egli stesso ha ritratto la propria
effigie, ha un indietro lontano, con una cavalcata di signori, forse
i re Magi che vengono all'adorazione dell'infante Gesù, stupendo per
prospettiva aerea, per delicatezza di sfondo, per serenità di ambiente.
Il coro di Santa Maria Novella è là che parla; esso è un'opera
smisurata, colossale. La cappella di Santa Fina a San Gemignano è un
gioiello. Il Cenacolo che abbiamo qui in San Marco, è un'altra cosa
stupenda come colore perchè il Ghirlandaio è potentissimo nel mettere
bene le cose del primo piano, su dei fondi chiari ed ariosi. Nella
cappella di Santa Fina in San Gemignano che è di un tono delicato ed
argentino, nell'affresco del miracolo della Santa da una finestrella
si vede la campagna lontana, a perdita d'occhio, luminosissimo è
l'ambiente della stanza interna senza essere sfacciatamente colorito,
più che luminoso, scintillante è il paese traveduto dalla finestrella.
Tutte le tenuità, tutte le delicatezze, tutte le finezze di un
grande artista il Ghirlandaio tiene con sè. Egli ha lavorato alla
cappella Sassetti in Santa Trinità, cappella che veramente, sia per la
disposizione della luce, o pel modo con cui è fatta, è molto oscura e
poco decifrabile.

Ho però il piacere di potervi dare una bella notizia. Nei restauri che
si sono fatti adesso in Santa Trinità s'è scoperto l'affresco della
parete esterna della cappella, una grande pittura di dieci figure
rappresentante la Sibilla tiburtina che indica il monogramma e predice
la venuta di Cristo all'Imperatore. La Sibilla colle sue ancelle da
un lato accenna il monogramma; l'imperatore dall'altro lo guarda quasi
abbacinato. Questa scoperta si deve alla pazienza di Cosimo Conti, il
quale si offrì gratuitamente di cercare codesto affresco, e ora dopo
avere saputo che l'affresco c'era, ed aver visto che era scoperto,
finalmente, _magna degnatione_, il Ministero della Pubblica Istruzione
s'è deciso a farlo restaurare e rimettere.


Se avessi voluto parlare di tutti i pittori fiorentini del 400, non
solamente avrei seccato moltissimo, ma vi avrei fatto assolutamente
addormentare; sono troppi, e troppo grandi, e troppo insufficiente io
sono per il cómpito che mi ero proposto. Vi ho accennato dei principali
o almeno di quelli che a me sembrano, fra i pari i più eminenti, quelli
che maggiormente corrispondono al sentimento che dell'arte ognuno tiene
in sè, e quindi al sentimento mio proprio.

Dopo il Ghirlandaio sorge una grande, una splendida figura, che
riassume in sè tutte le glorie artistiche del 1400. Questa figura è
quella di Leonardo da Vinci, ed io grazie a Dio, non devo occuparmi di
lui, perchè nella prossima conferenza sentirete parlare degnamente di
Leonardo da Vinci dall'amico Enrico Panzacchi.



LA SCULTURA del RINASCIMENTO

DI

VERNON LEE.


La scultura dell'antica Grecia e la scultura del medioevo italiano sono
rami della stessa arte; ma del tutto divergenti: anzi, direi quasi,
formano due arti diverse. Ciascuna di esse ha rivelati all'umanità
eguali tesori di bellezza, ma l'una copiò mirabilmente una bella
realtà; mentre l'altra prese l'imperfetto e il brutto, e riuscì a
formarne bellezza. L'una è l'arte meridionale, pagana, del modellatore
in creta; l'altra l'arte nordica cristiana, dell'intagliatore di
pietra.

Prima di esaminare le opere, esaminiamo il modo di operare. E prima
di considerare che cosa l'antico greco e l'italiano del medioevo
furono rispettivamente chiamati ad imitare e ad esprimere, guardiamo
la necessità e la capacità del materiale in cui ciascuno di essi imitò
quel che vide ed espresse quel che sentì.

I Greci primitivi avevano raramente occasione di farsi abili
intagliatori di pietra. Gli edifizi loro come quelli che ritraevano
le forme di costruzioni primitive e semplicissime in legno, ne avevano
anche i rozzi elementari ornamenti, poichè l'ordine Jonico, per quanto
povero di ornamenti, non venne che più tardi, e il Corintio, il quale
solo dà luogo alla ricerca e all'abilità degli intagli, nacque soltanto
quando era pervenuta già alla sua maturanza l'arte di scolpir la
figura. Ma i Greci, i quali del resto erano appena entrati nel periodo
del ferro (e il ferro è appunto lo strumento per lavorare la pietra)
erano grandi modellatori di creta e fonditori di bronzo. Gli oggetti
che le età più recenti fecero in ferro, pietra o legno furono da loro
foggiati in creta o in bronzo. Stanno a dimostrarlo gl'innumerevoli
arnesi, armi e minuti oggetti dei nostri musei: — dagli schinieri
accuratamente modellati come le gambe che devono coprire, fino alle
bambole di terracotta, piccole Veneri dalle braccia articolate e coi
ligamenti di spago.

E veramente quando i Latini applicarono alla scultura il verbo
_fingo_, che significa in realtà fare vasi, — e dalla quale ci viene
non solo _effigies_, ma anche _fichtlis_, — parrebbe avessero capito
che nell'arte di Fidia e di Prassitele poco entrava l'intagliare ed
il cesellare, e molto invece il _formare_, il modellare, il plasmare.
Poichè, oltre al fatto ogni giorno più confermato dall'archeologia,
che, cioè, la maggior parte delle statue antiche ora in nostro
possesso, sono copie in marmo di originali in bronzo, fatto rivelatoci
anche da puntelli di esse e dal trattamento dei capelli; è evidente
che anche le statue destinate ad eseguirsi in marmo, vennero prima
modellate, cioè concepite dallo scultore, in creta.

Riassumendo: dai Greci la figura umana s'imitava con un processo, che
non fu scultura nel senso letterale della parola. Rivolgiamoci ora
a considerare il medioevo, e troveremo uno stato di cose totalmente
diverso. Non v'era nella vita quotidiana bisogno di oggetti in metallo
fuso, e non essendovi questo bisogno dell'arte del fondere, del far di
getto, non vi era nemmeno pratica nell'arte preliminare del modellare
in creta. Ma invece gli uomini del medioevo furono meravigliosamente
abili nell'intagliar la pietra.

L'architettura, fino dai Romani, aveva dato più importanza
all'ornamentazione scultoria: — sempre squisita nei capitelli, nelle
ringhiere, dei primitivi tempi Bizantini si manifestò nelle elaborate
cornici, negli archi e nelle colonne dello stile Lombardo fino ai
complicati gruppi e rilievi del Gotico pienamente sviluppati. E in
verità la chiesa gotica, particolarmente in Italia, non era più lavoro
di muratore, ma di scultore. Non è dunque fortuita combinazione se quei
paesetti, i quali forniscono ancora Firenze di pietra e di scarpellini,
hanno dato il nome a tre de' suoi più grandi scultori (Mino da Fiesole,
Benedetto da Maiano, Desiderio da Settignano); nè Michelangiolo,
allevato in quel paesetto (Chiusi di Casentino) “per tutto pieno„
dice il Vasari “di cave di macigni, che son lavorate di continovo da'
scarpellini, scultori che nascono in quel luogo„, abbia potuto vantarsi
d'aver tirato dal latte della balia gli scarpelli e il mazzuolo con che
faceva le sue figure.

I Toscani del medioevo, i Pisani del '200, i Fiorentini del '400,
facevano certamente modelli in cera delle loro statue; ma le opere loro
sono concepite per essere poi lavorate nel marmo; e quest'arte è uscita
dal sasso, senza interposizione d'altro materiale, — come le figure che
Michelangiolo traeva viventi e gigantesche direttamente dal macigno.

I Greci, dunque, in quel tempo primitivo in cui l'Arte prende il suo
abbrivo, erano modellatori di creta e fonditori di bronzo; i Toscani,
invece, nel periodo corrispondente, erano cesellatori d'argento,
battitori di ferro, ma sopratutto tagliatori di pietra. Ora la creta
(e bisogna rammentarsi bene che il bronzo non è che il calco della
creta) significa il piano modellato; l'imitazione di tutti i rilievi
e di tutte le depressioni delicatamente graduate del corpo umano; la
creta non presenta contrasti fra luce e ombra, non permette varietà nel
trattamento corrispondente alla varietà dei tessuti. La creta si presta
quindi ad imitare non la tessitura del corpo umano, ma la forma; e la
forma poi nell'assoluta realtà tangibile della natura.

Tutto l'opposto accade col marmo. Granulato come fibra vivente e
capace allo stesso tempo di una delicata spulitura, il marmo può
riprodurre la vera sostanza del corpo umano colle sue varietà d'opaco
e di lucente. Può riprodurre, sotto ai variati colpi dello scarpello,
quelle ombreggiature correnti ora in un senso, ora nell'altro,
secondo che la pelle riveste il muscolo o l'osso. Il marmo inoltre
è così resistente e insieme così docile al ferro, che può prendere
i contorni più squisitamente sottili; e si presta all'incisione più
superficiale ed al taglio più profondo, in modo che la luce e l'ombra
diventano il materiale dell'artista quanto la pietra stessa. Quindi il
marmo consente allo scultore di cercare non solo la forma assoluta,
ma la forma relativa; non solo il rilievo, ma anche il chiaroscuro.
Tali erano i caratteri fondamentali di quei due generi diversissimi
di scultura, la scultura in creta e la scultura in marmo, che in
circostanze diversissime di vita e di pensiero, Greci e Toscani
trattarono, per produrre opere di indole e di bellezza diversissime.

È inutile che ci dilunghiamo sulla influenza esercitata nell'Arte
dalla civiltà antica, coi suoi costumi e caratteri essenzialmente
meridionali, colla sua vita all'aria aperta, colla sua perfettissima
educazione del corpo, coi suoi atleti nudi, i togati suoi cittadini
ed i suoi contadini ed artigiani pochissimo vestiti, e sopratutto
colla sua religione di divinità conviventi coi mortali e di semidei
dalla poderosa muscolatura; come è inutile che, d'altra parte, ci
dilunghiamo sull'influenza della vita assai più complessa del medioevo,
vita di tipo nordico anche nei paesi meridionali, vita industriale,
sedentaria, che costringeva la gente nelle angustie delle città murate;
ed in cui primeggiò sempre, nonostante la sensuale grossolanità, la
preoccupazione dell'anima, l'ideale del patimento, il disprezzo del
corpo.

Tutto questo è oramai ovvio ed anche esagerato da tanti scrittori
invaghiti della teoria del _milieu_ (ambiente o mi-luogo) introdotto
da Enrico Taine meno per la sua verità che per l'occasione che porge
di tratteggiare pagine colorite. Ma vorrei richiamare la vostra
attenzione su di un'altra circostanza storica, che ha influito
potentemente sulle differenze tra la scultura medioevale italiana
e la scultura antica. Questa circostanza è il primato della pittura
nella seconda metà del medioevo italiano. Mentre nell'antica Grecia
la scultura fu l'arte dominante e matura, della quale la pittura non
fu che l'ombra; nell'Italia medioevale invece la pittura fu l'arte che
meglio corrispose ai bisogni della civiltà; fu l'arte che superò i più
ardui problemi tecnici e scientifici, e fu quindi quella che dovette
primeggiare. Si può asserire in senso quasi letterale che la pittura
greca non fosse che l'ombra della scultura. Sui vasi e negli affreschi
vediamo infatti le figure modellate con moltissima cura anatomica (al
punto, per esempio, di accennare qualche volta la giuntura fra la gamba
e la coscia con due linee che non esistono nella visibile realtà, e
che sembrano segni di tatuaggio), — ma senza consistenza, vuote, ed
allineate simmetricamente l'una accanto all'altra, senza comporsi in un
disegno vero, precisamente come se fossero tante ombre di statue tonde
proiettate sul piano. Lo scultore non poteva imparare nulla di nuovo
da una simile pittura, che non si occupa delle cose più essenzialmente
pittoriche, la prospettiva, l'aggruppamento, il contorno lineare, il
valore relativo dei colori, il chiaroscuro ed il tessuto degli oggetti.
La pittura medioevale, arte positiva, agisce in ben altro modo da
quest'arte negativa che fu la pittura antica. Esaminiamo che cosa essa
portò di nuovo nel campo dell'osservazione e della pratica artistica.
In primo luogo, la superficie piana, muro o tavola, in cui l'arte
medioevale mostrò la sua maggiore originalità, insegnò agli uomini a
dar valore alla prospettiva, ad ordinare gruppi nei vari piani, ed a
studiare l'insieme, sotto il rispetto delle opere intelligibili quanto
sotto quello della bellezza, delle figure così raggruppate. Poi li
abituò a considerare la forma non più come un insieme di proiezioni, di
rilievi, di piani, ma come linea, come alternativa di luce e d'ombra,
il cui pregio principale consisteva nella sagoma esterna, nel profilo
dell'intreccio di linee, d'angoli e di curve; cosa assai più importante
nella pittura, col suo unico, immutabile punto di vista, che nella
scultura, dove l'occhio, girando intorno alla forma, si compensa
della povertà di un punto di vista colla varietà di tutti gli altri.
Di più, la pittura, nata da un interesse più sviluppato di quello che
sentisse l'antichità pel colore, la pittura, dico, indusse gli artisti
a considerare meglio l'effetto del colore sulla forma lineare.

Poichè, sebbene l'uomo, fatta astrazione dal colore naturale o da una
tinta bianca, abbia infatti quella forma larga ed alquanto smussata,
quell'indecisione di contorni che caratterizza la scultura; tuttavia
quale egli esiste realmente, coi capelli, gli occhi e le labbra
fortemente coloriti, ed il resto del viso colorito di tinte diverse,
acquista dal colore — il quale dà enfasi alla linea — una maggior
precisione, direi piuttosto, una maggiore acutezza di forme lineari.
Per ciò, nel modo istesso, in cui la prospettiva e la composizione in
pittura dovettero indurre gli scultori ad usare maggiore complessività
nel rilievo e maggiore unità nel punto di vista, così pure la nuova
importanza del disegno e del colore, dovette suggerir loro un nuovo
concetto della forma.

L'uomo cessò dunque d'essere una mera combinazione di piani e di masse,
cessò d'essere omogeneo nel tessuto e nel colore. Si accorsero ch'era
fatto di sostanze diverse, pelle — pelle morbida dove aderisce al
muscolo, dura e lustra dove accenna l'osso, pelle liscia o rugosa o
pelosa; pelo poi duro o floscio, nero o biondo; inoltre ch'era pinto
in vari colori, e che possedeva ciò che i Greci sembra non avessero
avvertito, quella cosa straordinaria e straordinariamente variabile
che è l'occhio. Gli scultori del '400 furono spinti dai pittori
a riconoscere queste differenze fra l'uomo monocromo dei Greci —
monocromo per l'astrazione del vero colore — e l'essere multicolore che
è l'uomo vero.

Avvertite queste differenze, vollero significarle nell'opera loro.
Ma come avrebbero potuto conseguir l'effetto colla loro arte che
tratteggiava il rilievo tangibile, e che ricusava l'aiuto del colore?

Per capirlo bisogna fermarci a considerare di nuovo, e più
attentamente, due particolarità capitali, che distinguevano gli
scultori medioevali da quelli antichi.

Gli artefici del medioevo, in primo luogo, erano chiamati assai di
rado a fare figure da essere poste all'aria aperta su un piedistallo
libero. Invece, erano continuamente esercitati a scolpire ornamenti
architettonici da porre in alto e profilati su di uno sfondo scuro;
e monumenti, tombe, pulpiti, ringhiere, da collocare in locali
parzialmente illuminati e spesso oscuri.

Ora, secondo l'altezza dell'oggetto e la direzione della luce, certi
particolari acquistano o perdono la loro importanza; per restituire
la relazione vera fra linea e linea, rilievo e rilievo, bisogna
tener conto della posizione e del punto di luce; bisogna, perchè la
cosa faccia lo stesso effetto che al livello dell'occhio e sotto una
luce diffusa, alterare le proporzioni, accrescere qua, scemare là,
introvertire alle volte il concavo ed il convesso, sacrificare il vero
all'apparente.

I monumenti gotici, per esempio quelli di Santa Maria Novella,
che sporgono dal muro all'altezza di un primo piano di casa, non
presenterebbero che una confusione indecifrabile, se la figura
sdraiata ed i suoi accessorî non fossero alterati in modo da sembrare
mostruosi a chi s'arrampicasse a vederli da vicino. Lo stesso segue
nell'arte sviluppatissima del '400. Il Cardinale di Portogallo —
figura del Rossellino a San Miniato al Monte — ha una metà del viso
voltata soverchiamente all'insù, in modo da ricevere in faccia la
luce; e ciò perchè, essendo visto dall'ingiù, la metà più vicina del
viso avrebbe altrimenti un'importanza relativamente troppo grande;
mentre, all'opposto, al bellissimo guerriero morto, d'autore incerto,
che è a Ravenna, lo scultore ha deliberatamente tagliata una parte
della mascella, perchè lo spettatore deve guardare all'ingiù la
figura sdraiata su un lettuccio basso di marmo. Se prendiamo i gessi
di queste due statue, ponendo sulla tavola quella del Cardinale, ed
attaccando sul muro quella del guerriero, la composizione si sfascia
completamente: l'espressione cambia affatto, i lineamenti diventano
deformi, e mentre l'una testa diventa grossolana, l'altra sembra
insoffribilmente manierata.

Per intendere questo sistema, d'alterare la forma a seconda della
collocazione e della luce, basta rammentarsi l'aneddoto delle due
cantorie di Donatello e di Luca della Robbia, di cui la prima parve
brutta nella bottega dello scultore, ma bellissima messa al posto;
mentre la seconda, che era piaciuta straordinariamente veduta da
vicino, scomparve del tutto nell'altezza buia di Santa Maria del Fiore.

Quest'abitudine di prendere delle licenze col modello, di alterare le
proporzioni misurabili all'occhio, abitudine cominciata per ragioni
quasi architettoniche, permise agli scultori del '400 d'imitare i
pittori, cercando, come questi, la verità apparente, col sacrificio
coraggioso della verità assoluta e concreta. Aprì alla scultura il
campo vastissimo degli effetti relativi; l'incoraggiò a produrre, colla
materia dura ed incolore, l'equivalente della varietà nel colore e nel
tessuto.

Ma per secondare questo nuovo indirizzo dell'arte, era necessario che
gli artefici del '400 trattassero la parte tecnica in un modo diverso
affatto da quello dei Greci.

Gli antichi, a' quali abbondavano ottimi gettatori in bronzo,
esercitati nel foggiare armi, utensili e arredi d'ogni genere,
dovettero prendere l'abitudine di circoscrivere la loro personale
operosità al modello in creta: giacchè questo non richiedeva, come
nel Rinascimento, la sorveglianza costante dello scultore. E le liste
lunghissime di statue, di cui molte costruite faticosamente d'avorio
e d'oro, dànno a credere che gli scultori antichi non perdessero il
tempo sbozzando i lavori in marmo, ma invece terminassero soltanto di
propria mano le copie che dal modello in creta avevano tratto lavoranti
espertissimi. Che ci fossero simili copiatori, lo sappiamo dall'uso di
fare riproduzioni in marmo delle statue già fuse in bronzo, uso a cui
dobbiamo la maggior parte delle statue antiche pervenute a noi.

Le abitudini erano diversissime da queste nel medioevo italiano. È
vero che il Vasari consiglia allo scultore di valersi di modelli grandi
quanto le statue che si propone di fare. Ma il consiglio stesso, fatto
per scansare i calcoli sbagliati, che spesso rovinano il marmo, fa
vedere che prevaleva l'abitudine di sbozzare la pietra senza tener
conto di questo pericolo; che anzi, se l'uso dei modelli grandi fosse
stato universale, Agostino di Duccio non poteva avere _storpiato_,
come dice il Vasari, il marmo da cui Michelangelo cavò più tardi il
suo David. Ma questi modelli di cui parla il Vasari più distesamente
nella vita di Jacopo della Quercia, erano fatti “di pezzi di legno
e di piani confitti insieme, e fasciati poi di fieno e di stoppa, e
con funi legato ogni cosa strettamente insieme, e sopra messo terra
mescolata con cimatura di pannolano, pasta e colla„ onde potevano
bensì servire a tenere “innanzi agli scultori l'esempio e le giuste
misure„, ma era impossibile che servissero mai, come i modelli di gesso
_puntati_ del giorno d'oggi, a francare l'artista dallo sbozzamento
del marmo. Anzi, tutto ciò che scrive il Vasari dimostra chiaramente
che il modello vero — quello cioè che veniva copiato non nelle sole
misure — era piccolissimo e fatto in cera; e che l'abitudine di
sbozzare le figure nel marmo, che a noi sembra cosa maravigliosa nel
Buonarroti, era generale fra gli scultori del '400. È frequente il caso
di uno scultore che intraprenda, coll'aiuto di un solo uomo, lavori di
vastissima mole, porte, archi, mausolei. Nè pare che il Vasari stupisca
quando Jacopo della Quercia si mette, solo solo, alla facciata di San
Petronio; lavoro che gli costò dodici anni, in cui un Greco avrebbe
fatto chi sa quanti bronzi magnifici ed un moderno chi sa quante
meccaniche copie di un gesso. Infatti non rimane nulla d'inverosimile
in questo sistema di lavorare il marmo interamente e direttamente da
sè, quando si rifletta che tra gli scultori del Rinascimento una metà
aveva esercitato la professione dell'orafo, e l'altra l'arte dello
_scarpellino_ o _squadratore di pietre_; e a tali artefici doveva
riuscire facile e naturale egualmente qualunque parte — sì rozza che
finissima — dell'arte loro.

Gli scultori del '400 avevano adunque dello scarpello una sicurissima
pratica, quale non ebbero, nè sognarono pur d'averla, gli antichi.

Nelle mani loro lo scarpello non era semplicemente un secondo stecco
da modellare, riproducente nel marmo i delicati piani, le sottili
concavità e convessità trovate prima nella creta.

Per questi tagliapietre della collina fiesolana, per questi orafi di
Ponte Vecchio, lo scarpello era l'emulo della matita o del pennello;
e con esso, a seconda della direzione che gli si dava, potevansi così
imprimere nelle forme vigorosi tratteggi, come lasciarle svanire in
impercettibili sfumature. O, per meglio dire, lo scarpello era per essi
un pennello tuffato nelle varie tinte del bianco e del nero, con cui,
secondo che versava nel marmo le luci e le ombre, o variava a guisa di
spennellate le ruvidezze e le spuliture e ogni altro modo d'intaglio,
potevansi riprodurre nella pietra la sostanza delle carni, dei capelli
e delle stoffe — le carni e i capelli biondi e lisci dei bambini —
le carni vizze o ruvide dei vecchi — le stoffe di lana, di tela e di
broccato.


Nell'antichità greca lo scultore soleva prendere il bel modello —
l'adolescente nel fiore dai quindici ai diciott'anni, dalle membra
sviluppate armoniosamente nella palestra, all'aria aperta; e,
correggendo colla esperienza giornaliera di simili bellezze tuttociò
che v'era d'imperfetto nell'individuo, ne copiava quel tanto che la
creta si prestava a riprodurne. Ne riproduceva le squisite proporzioni,
la maestosa ampiezza delle masse, la delicata finitezza delle membra,
l'armonioso gioco di muscoli, il sereno candore del volto e del
gesto; ponendolo in atteggiamento tale da essere inteso e ammirato
egualmente da lontano e da vicino, e dal maggior numero di punti di
vista. E cotesta fedele copia nella creta di un originale perfettamente
bello, veniva poi tradotta e trasmessa ai posteri dal fedele copiatore
in marmo, dalla fedeltà inesorabile del bronzo, che riempie ogni
minimissimo vuoto lasciato dalla creta. Essendo bellissimo in sè
stesso, quest'uomo di bronzo o di marmo era necessariamente bello
ovunque venisse posto e sotto qualunque rispetto venisse contemplato;
sia che si mostrasse in iscorcio sul frontone di un tempio, o al
livello dell'occhio, ombreggiato dagli aggruppati allori, o splendente
al sole in mezzo alla piazza. La bellezza di esso viene apprezzata ed
amata come s'apprezza e si ama la bellezza vivente di una creatura
umana, poichè egli non è che la riproduzione più esatta che l'arte
ci abbia mai data della bellissima realtà, posta in mezzo al suo
vero ambiente e sotto la vera luce del cielo. E siccome prende nuovo
aspetto la bella realtà umana secondo che si muovono il sole e le
nuvole, secondo che le giriamo noi intorno, così cambia anche esso;
ma così pure esso rimane sempre, nonostante tutti i cambiamenti, la
personificazione della forza, della purezza, della inalterata serenità
dell'adolescenza.


Di cotale perfezione, nata dal più raro incontro di circostanze felici,
la scultura del '400 non seppe mai nulla.

Arte secondaria in tempi, che davano il primato alla pittura; serva, in
gran parte, dell'architettura; turbata dalla vista di corpi cresciuti
a caso, e spesso cresciuti male; turbata pure da ideali ascetici e da
curiosità scientifiche, la scultura di Donatello e di Mino, di Jacopo
della Quercia e di Benedetto da Majano, la scultura dello stesso
Buonarroti fu una di quelle fioriture artistiche, che si nutrono
degli elementi del terreno rifiutati dalla più fortunata e rigogliosa
vegetazione, che l'aveva preceduta. La scultura del '400 riuscì da meno
in tutte le cose in cui la scultura antica era riuscita; ma eseguì ciò
che l'antichità aveva lasciato ineseguito. Ebbe pochissima intuizione
della bella forma umana. Alternava fra la ignoranza del nudo e la
insistenza pedantesca sull'anatomia, difetti spesso riuniti nella
medesima opera. Paragonato all'antico, il David di Donatello, il San
Giovannino di Benedetto da Majano, l'Adamo di Jacopo della Quercia sono
addirittura goffi; e lo stesso Bacco di Michelangelo è un bel villano
invece che un dio.

Questa scultura ha di più una vera preferenza pei momenti meno belli
della vita fisica: ama i brutti vecchi — spesse volte sfasciati dalla
sensualità o rimbecilliti dall'ascetismo, — ed i ragazzi sproporzionati
dalla crescenza. Coll'eccezione del San Giorgio di Donatello, il cui
corpo però è nascosto sotto la pesante armatura, essa non ci presenta
mai la squisita vigoria dell'adolescenza.

Questi particolari si avvertono subito; e chi è avvezzo all'arte
antica, si sente subito respingere da quest'arte medioevale.

Ma osserviamo la scultura del '400 quando fa ciò che l'antichità non
aveva neppur sognato: l'antichità che collocava le statue sui frontoni
l'una accanto all'altra, ad equilibrarvisi come massa, ma non mai ad
intrecciarvisi in veri disegni; l'antichità che fece del rilievo la
ripetizione d'un lato solo della statua in tondo, l'ombra del gruppo
del frontone; l'antichità che nei suoi bei tempi non conobbe nè il
patetico della vecchiaia, nè la grottesca bellezza dell'infanzia, nè
la graziosa goffaggine della prima adolescenza; l'antichità che non
seppe distinguere la consistenza della pelle, la setosa morbidezza dei
capelli, il colore dell'occhio.

Passiamo ora a considerare alcuni lavori tipici del '400.


Cominciamo dalle statue e dai busti di bambino. Ecco prima la
creaturina i cui piedini escono da una specie di ghetta carnosa, le
cui gambine, senz'ossi, appena sorreggono il ventre grassotto, la
testolina non bene proporzionata. Notate che in questa testolina il
cranio apparisce sempre relativamente morbido, della consistenza d'una
mela, sotto le floscie matasse bionde. I fratellini maggiori sono
tuttora assorti in vaga contemplazione del mondo e delle cose, cogli
occhi largamente aperti, ma facilmente imbambolati. Quelli un po' più
grandicelli, invece, hanno già scoperto che il mondo è fatto di gravità
da scombussolare: i lineamenti del viso sono appena più sentiti, i
capelli sono appena inanellati in vetta, ma gli occhi pare che siano
usciti di sotto la tettoia della fronte, l'occhio e la fronte sono già
nella vera proporzione: e poi nelle gote ci sono delle fossette venute,
si direbbe, dal ridere, e che invitano ai pizzicotti. I ragazzi dai
dodici ai quattordici anni, hanno sempre quelle braccia magrissime
che contrastano deplorevolmente coi polpacci delle gambine ancora
impotenti a sostenere il ventre piccolo, ma grasso, e che accenna agli
abbondanti pasti dell'infanzia, continuati nell'adolescenza. Ma hanno,
allo stesso tempo, la monelleria (gaminerie) gagliarda del David del
Verrocchio, il quale dovette, insieme alla pietra, scagliare qualche
canzonatura addosso a quella goffaggine di Golia; oppure hanno, come
il San Giovannino del Louvre e quello di Benedetto da Maiano, una
certa grazia sentimentale, quasi una civetteria delicata di bella
signorina, che fa capire come fra poco smetteranno il baloccarsi per
leggere la _Vita Nuova_, o le _Rime_ del Petrarca. Due San Giovanni,
d'altra parte, hanno preso, cogli anni, un andamento diverso. Sono
ambedue di Donatello. Quello più giovane, dalla prima, dubbiosa
lanugine sul volto, è già scappato inorridito dalla _Vita Nuova_ e
dal _Decamerone_, prima d'averne voltato una pagina. Estenuato dal
digiuno, non ha di muscolare che le gambe, diventate di ferro a furia
di scorrere i deserti. Del resto, anche nei deserti ha cominciato ad
essere infastidito da voci e da visioni, non si sa se d'angeli o di
diavoli; e cammina furiosamente, cogli occhi fissi sullo scritto, colla
mente distaccata, a quanto pare, da ogni cosa terrestre; si direbbe
che facilmente potesse impazzire, questo santo ventenne. Eccolo di
nuovo, ritratto nel bronzo che è a Siena, quel San Giovanni, ma oramai
maturo; ha la barba e i capelli incolti, è diventato quasi un selvaggio
delle foreste, ma colla gravità e la fede in sè del predicatore di
professione: è uscito dal deserto, ha domato ogni tentazione; il suo
fanatismo è militante, direi quasi sistematico.

Passiamo ad altro.

Questo vecchio — lo Zuccone di Donatello — non può mai essere stato
quel San Giovanni, ma facilmente sarà stato un suo devoto. È un vecchio
che non è stato mai cospicuo per intelligenza; ed ora la testa, fatta
a cupola, ha ripreso, colle floscie matasse bianche, che richiamano
l'infanzia, quell'apparenza di poca sodezza che è propria del cranio
infantile; la bocca poi è già tremula, cascante, forse per una prima
paralisi; e gli occhi non fissano più; ma in questo deperimento fisico
e intellettuale, il vecchio sembra essersi riempito di sempre maggior
dolcezza morale: è un Giobbe riconciliato con Dio, perchè fatto
indifferente a sè stesso, è il fiore umano sfasciato in terra, per
essere poi riseminato in cielo.

Coteste sculture, per quanto destinate ad un determinato posto, nicchia
o mensola, sono sempre sculture libere, non legate all'architettura.
Rivolgiamoci adesso alle sculture d'intenzione decorativa. Guardiamo
prima l'Annunziata di Donatello che è a Santa Croce. La pietra bigia,
vilissima, incapace di pigliare un contorno netto, è scolpita in larghe
masse quasi grossolanamente, e per supplire le sottigliezze d'intaglio
impossibili in quella materia, il fondo, i fregi, gli orli dei vestiti,
le ali dell'angelo, sono ritoccati coll'oro: quella cosa ruvida finisce
con essere squisita. Del resto, notate l'esterno contegno, l'assenza
dell'estasi, della sorpresa, dell'espressione solita in quel soggetto:
l'Angelo e la Madonna serbano il decoro, la serietà delle linee
architettoniche, dei vicini pilastri. Passiamo a guardare la Cantoria
di Donatello, rilievo bassissimo su fondo intarsiato; quei gruppi
schiacciati di bambini danzanti formano, colle larghe ombre fra le
braccia alzate sopra il capo, una specie di pergolato umano in bianco
e nero. Questo lavoro è basato tutto sulle ombre; guardiamone uno in
cui l'ombra entra appena: la Madonna coi Santi, di Mino, nel Duomo
di Fiesole. Il rilievo è voltato in modo da guardare dalla cappella
nel corpo della chiesa; ed in tal modo che la testa della Madonna,
ricevendo la luce — come un segno di gloria — sulla purissima lucente
fronte, proietta intorno a sè un nimbo d'ombra circolare. Rilievo
maraviglioso, cotesto di Mino, per essere composto quasi esclusivamente
di luci. Anzi, si direbbe non rilievo, ma mirabile visione di bianche
rose del Paradiso, i cui acerbi bocci e le acute spine (nutriti
dall'incenso e dal sangue dei martiri) sono diventati poi le sottili
labbra, gli occhi lunghi e stretti, l'acerbo virgineo corpo e le dita
affilate di Maria.

Questi rilievi sono relativamente semplici. Guardiamo invece le
complessità del pulpito di Santa Croce, dove il gruppo è involuto
nel gruppo, per svanire nei porticati e nei filari d'alberi appena
profilati dello sfondo. Guardiamo le magnifiche composizioni, a razzi,
si direbbe, tessuti di luce e d'ombre, ed incorniciate da immortali
ghirlande, delle porte del Ghiberti.

Ma non è tutto. L'arte del Rinascimento, non si contentò d'aver messo
in marmo l'uomo vero, fatto di carne e d'ossa, dal pelo biondo o scuro,
dall'occhio chiaro o cupo; ma volle pure, prima di sparire dal mondo,
scolpire nella pietra l'intangibile sogno. Parlo di quelle tombe le
cui cime sono trono a fantasmi di guerrieri e i cui ripidi fianchi
sono letto inquieto a divinità che sembrano emergere non dal marmo, ma
dalla tenebra e da quella luce, come dice il profeta, che è simile alla
tenebra.



LEONARDO DA VINCI

DI

ENRICO PANZACCHI.


  _Signore e Signori!_

Il pittore francese Paolo della Roche nella più insigne forse delle
sue opere, il famoso _Emiciclo_ che è nell'Accademia di belle arti a
Parigi, riprendendo e imitando liberamente il pensiero di Raffaello,
nella _Scuola d'Atene_, ha inteso di rappresentare e disporre in certi
gruppi gerarchici gli artisti principali del Rinascimento italiano ed
europeo.

A destra del riguardante attira lo sguardo un gruppo, forse il più
riuscito di tutta la composizione. Sul davanti Michelangelo siede solo
sopra un frammento di basso rilievo antico e guarda triste dinanzi
a sè, voltando le spalle agli altri. Dietro di lui, elegante figura
giovanile, si leva Raffaello d'Urbino, e lievemente del capo sovrasta
a tutti gli altri. Ma guardando bene, si capisce che il protagonista
vero di questo gruppo non è nè Raffaello nè Michelangelo. È invece
un bellissimo uomo sontuosamente vestito, con una ricca barba, col
gesto largo e con quell'obbliquo atteggiamento dei diti della mano
sinistra, proprio del pittore che discorre analiticamente dell'arte
sua. E quest'uomo ha l'aria d'insegnare a tutti, e tutti hanno l'aria
di ascoltarlo con rispetto. Non è il dottore ascetico e austero del
medio-evo; è piuttosto, all'aspetto, uno di quei tipi di gentiluomini
culti e compiti che Baldassare Castiglione metteva nei dotti e piacenti
colloqui alla corte del duca e della duchessa d'Urbino. E tutti, vi
ripeto, lo ascoltano. Lo ascolta attentamente frate Bartolomeo della
Porta ritto vicino a lui e guardandolo col volto serio e sereno; lo
ascolta più lungi Hans Holbein col profilo teutonico e la chioma
arruffata; lo ascolta con gli occhi intenti Alberto Durer nel suo
sfarzoso abbigliamento signorile. Anche il Domenichino più d'ogni altro
premuroso si accosta a lui per non perdere parola. Con l'orecchio è
attentamente inclinato verso il maestro; ma nell'inquietudine del suo
eclettismo bolognese si vede che egli erra cogli occhi tra Michelangelo
e Raffaello.

Quest'uomo sedente o docente, tutti hanno ben ragione di ascoltarlo
perchè egli è Leonardo da Vinci, grandissimo fra i grandi, l'uomo più
portentoso del Rinascimento italiano, che di portenti ebbe così grande
ricchezza.

Ed io, o signore, dovrò parlarvi di quest'uomo? C'è proprio da sentirsi
tremare le vene e i polsi! Tanto più, ve lo confesso, perchè anche
dopo le copiose pubblicazioni e illustrazioni che si sono fatte
dei manoscritti di Leonardo da Vinci in Inghilterra, in Francia, in
Alemagna e in Italia; anche dopo le belle fatiche di tanti eruditi
stranieri e nostrani, tra i quali non bisogna scordare Gustavo Uzielli
e il vostro Milanesi, un libro sopra Leonardo da Vinci ci sarebbe
da arrischiarsi a scriverlo: e non sarebbe forse per me un atto di
disperata audacia. Ma parlare di lui nel breve tempo d'una conferenza,
ma costringere, ma pigiare entro questo breve circolo tanti elementi
così disparati, è cosa che io credo impossibile, o che, a ogni modo
supera di troppo le forze di cui posso disporre. Però, o signore,
io faccio appello colla più viva instanza alla benevolenza vostra, a
quella benevolenza che altre volte esperimentai e di cui serbo sempre
così vivo il ricordo e la gratitudine.

Ascoltatemi dunque attente e scusatemi se, per la terribilità e
vastità del soggetto, invece di narrare io dovrò procedere per brevi
accenni, invece di dimostrare, il più delle volte, dovrò contentarmi
di affermare; insomma se invece di rendervi intera e rilevata
questa colossale e complessa figura, io sarò costretto a darvene una
pallidissima immagine, simile ad ombra di gigante fuggente sul muro in
una giornata scarsa di sole.


I.

Egli era l'uomo dei doni. Difficilmente, percorrendo la storia della
umanità, ci potremmo imbattere in un uomo che lo valga. Humboldt
avrebbe detto di lui ch'egli era un figlio prediletto della natura.
Se fosse vero ciò che narra la leggenda, che le fate vanno alla culla
degli uomini predestinati a grandi cose, egli è certo che alla culla
di questo bastardo di Ser Piero da Vinci accorsero tutte le fate e
vi buttarono dentro tutti i loro doni, e nessuna rimase a casa per
dispetto o per dimenticanza.

Cominciamo dai doni fisici. Bellissimo della persona, d'una bellezza
temperata di grazia e di maestà; e forte come pochi del suo tempo.
Con un movimento del pollice storceva un ferro di cavallo; nella
danza, nella lotta, nel nuoto vinceva i campioni più rinomati del suo
tempo. Le qualità del suo ingegno darebbero luogo ad una amplissima
descrizione; ma sopratutto sorprende quella interezza organica che è
tutta propria di lui. Egli non ammette soluzione di continuità nello
svolgimento del suo ingegno; e la sua mente vi dà l'idea di una grande
tastiera d'organo ove i suoni vanno dai più profondi ai più acuti senza
il più piccolo salto di tono, senza la più piccola disarmonia. Egli non
si contenta mai; vuole approfondire, sviscerare, esaurire tutti gli
argomenti. Nella meccanica, per esempio, egli va colla medesima cura
dal girarrosto ad elica (che pare egli abbia inventato) fino al più
complicato congegno di idraulica, fino ai più ingegnosi strumenti di
guerra, che egli offre per la vittoria ai principi ed alle repubbliche
italiane. Come artista egli è lo stesso. Per lui nell'arte non esiste
parvità di materia; tutta quanta la gamma artistica egli la vuol
toccare, e la tocca e la tratta colla medesima scrupolosità, colla
medesima maestria elevandosi di grado in grado alle più meravigliose
eccellenze. Leonardo mette ugual cura nel rendere col suo pennello la
appannatura dell'acqua in una caraffa ed il volto radioso e sorridente
d'una Vergine; mette egual delicatezza e minuziosità nel rappresentare
le damascature e l'ordito della tovaglia gettata sulla tavola del
Cenacolo come a esprimere la soavità accorata dell'apostolo Giovanni,
come a significare la divinità attristata e sofferente del Redentore
del mondo. In tutto è sempre eguale a sè stesso e rivela un equilibrio
stupendo; il quale equilibrio voi cerchereste forse invano in alcun
altro dei suoi contemporanei, così completo e così scrupolosamente
mantenuto. Colossi sorgono intorno a lui; ma, se li guardate, questi
colossi hanno tutti qualche cosa che turba, molto o poco, la loro
stupenda economia spirituale e lascia luogo a desiderare.

Onde, più lo si osserva, più si capisce il fascino che doveva
esercitare Leonardo da Vinci sopra i suoi coetanei. Alle sue grandi
qualità della mente e dell'estro aggiungete certe particolarità
nell'essere e nella vita, che realmente dovevano colpire e quasi
impaurire. Aveva del bizzarro, del misterioso, dello strano. Se
vergava una lettera la vergava da destra a sinistra, alla maniera degli
Orientali. Viveva fantastico, ghiribizzoso; mille cose intraprendeva e
poi tralasciava, andando continuamente in traccia di nuovi aspetti di
verità, di nuove e insolite forme di bellezza. Racconta il suo biografo
che si rinchiudeva volentieri in una stanza dove non lasciava entrare
alcun uomo; e in quella stanza egli accumulava insetti, farfalle,
ramarri, animali morti d'ogni specie, e là spendeva lunghe ore
meditando, sperimentando, osservando, fantasticando a sua posta. C'era
in lui qualche cosa come del negromante, del Gilberto, del Raimondo
Lullo, del Faust; un Faust però, lasciatemi dire, più sereno, più
equilibrato di quello tedesco; sopratutto un Faust onesto e benefico,
che studiava la vita e scrutava la natura e cercava di indovinarne le
leggi, ma non ad appagamento dei suoi egoismi crudeli e superbi, sì
per scoprire utili veri, per cogliere i fiori più eletti della verità
e della bellezza e gettarli, a consolazione e ad ornamento, sui passi
degli uomini.

E a proposito di Faust, vien subito fatto di indicare un altro lato
singolare e argomento di molta curiosità nella vita di Leonardo da
Vinci. Questo Faust trovò egli la sua Elena o la sua Margherita nella
vita mortale?... Fra i tanti punti oscuri della vita di Leonardo,
questo è rimasto oscurissimo. In tanti volumi di manoscritti ch'egli ha
lasciato non ricorre il nome di una donna. Quest'uomo che aveva tutto
per essere amato, che, secondo la bella frase del Vasari, colla voce
soave “tirava a sè gli animi delle genti„, che professava così vivo il
culto della bellezza, e quindi doveva essere così inclinato a sentirne
il fascino, quest'uomo non ha una donna nella sua vita. Tutto ciò
naturalmente è spiaciuto ai romanzieri e ai poeti, ai quali è parso che
questa grande figura mancasse di qualche cosa senza un romanzo o almeno
un idillio d'amore. Alcuni quindi, guardando il sorriso così vivo,
così suggestivo e quasi invitante della Lisa del Giocondo, hanno voluto
fantasticarci su e fabbricare un romanzetto al quale io non credo; non
perchè io lo reputi genericamente inverosimile, ma perchè in storia
non bisogna affermare se non ciò che è sorretto da qualche maniera
di argomenti. Noto anzi un particolare. Il Vasari racconta che per
togliere al bellissimo volto di monna Lisa quella fissità e tristezza
che hanno quasi sempre i ritratti pel disagio e la noia che invade
l'originale nel posare, Leonardo faceva venire intorno alla bella
donna dei sonatori e dei buffoni che la mantenevano sempre graziosa ed
allegra.... Oh! se Leonardo e monna Lisa si fossero intesi d'amore, voi
ben vedete, che sarebbe bastato il bello e spiritoso pittore a tenere
allegra la sua modella; e non avrebbero pensato ad altra compagnia!

Di quanti hanno cercato di definire la figura di Leonardo da Vinci il
più vicino al vero mi pare sia stato Gino Capponi, nel primo volume
della Storia di Firenze, ove dice che “in Leonardo vennero a far capo
le due correnti per le quali s'era condotta l'Italia, da un lato nelle
arti e dall'altro nelle scienze.... Con ciò parmi molto fedelmente
resa la grande singolarità della figura di Leonardo da Vinci e il suo
posto nella storia ideale del nostro Rinascimento. Noi possiamo avere
nel medesimo individuo delle attitudini artistiche e delle facoltà
scientifiche; può darsi benissimo che tanto le prime quanto le seconde
procedano di pari passo in un armonico sviluppo. Ma in Leonardo da
Vinci abbiamo qualche cosa di più: abbiamo la compenetrazione di questo
doppio ordine di qualità. Non è che lo scienziato vada per la sua via
e per la sua via vada l'artista; la via dello scienziato e quella
dell'artista non formano che una medesima grande strada regia, che
porta verso delle altitudini sconosciute.

Sono meravigliose le scoperte, le antiveggenze di questo genio che non
ristava mai dall'osservare nel volume della natura. Guglielmo Libri
nella sua storia delle matematiche quando arriva a Leonardo, a questo
scultore, a questo pittore, a questo sonatore di cetra, è costretto
a fermarsi a lungo e dedicargli quasi un intero capitolo. E le
benemerenze di Leonardo verso le matematiche non sono che una parte dei
titoli che ha verso la scienza universale. Egli è dei primi, il primo
forse, che scuote completamente l'_apriorismo_ della scolastica e che
non accetta la concezione del mondo già fatta, già costituita secondo
la sentenza degli antichi. — Che importa a me, egli scrive, se non cito
gli antichi e se non seguo le loro massime? Io cito la Natura e segno
la Natura che è la maestra di quei maestri. — E di tali massime, che
esprimono il libero procedimento del suo ingegno nell'osservare, i suoi
manoscritti sono pieni. Torna sempre sopra questo concetto: ammira gli
antichi, li venera, ma dice che se essi valsero in qualche cosa, se
essi scoprirono invidiosi veri, fu perchè essi osservarono la Natura.
Dunque egli vuol risalire a questa grande maestra, a questo universale
esemplare, e da esso direttamente, non di seconda mano, attingere la
verità.


II.

Per questo non è di nulla esagerato il dire che Leonardo da Vinci è il
primo a cui completamente si addice il titolo di “uomo nuovo„ secondo
il concetto di Giordano Bruno. Egli anticipa sopra tutte le scienze
e gli scienziati che vennero dopo. Nella metodologia viene prima di
Bacone da Verulamio quasi di cento anni. Quello che v'ho detto circa
il metodo suo d'osservazione è, in sostanza, il “nuovo organo„ che
di poi con tanta pompa di novità il Cancelliere inglese proclamerà al
mondo. Nella idraulica anticipa il Castelli; nella geologia Pomponio
Leto; nell'ottica egli precede La Porta, prevenendolo nella scoperta
nientemeno che della camera oscura; nella caduta dei gravi anticipa
di molti teoremi il lavoro di Galileo Galilei; nella intuizione dei
tratti della fisonomia come manifestazione delle interne facoltà
dell'animo, egli spiana la strada al La Porta e al Lavater. Un'altra
anticipazione importantissima ci dà Leonardo. In un passo molto
caratteristico egli dice: “Lascio stare i libri sacri, incoronati
di suprema verità„; e procede oltre liberamente nelle indagini della
natura, tralasciando ogni preoccupazione dogmatica e teologale. Anche
in questo delicato argomento, lo spirito di Leonardo precedette di
molti anni il Pomponazzo, il Cremonino e lo stesso Galileo Galilei,
che con tanto studio e tanta arte, nella sua famosa lettera _Alla
granduchessa madre_, si adoperò a dimostrare che il procedimento
teologico e il procedimento scientifico devono andare avanti di pari
passo senza intralciarsi l'uno coll'altro, e senza che i dogmi rivelati
gravitassero con troppo frequenti intromissioni nel lavoro e nelle
conclusioni dello scienziato.

Se non che, per quanto mi ha dettato lo studio amoroso dei manoscritti
leonardeschi ora in molta parte editi, io penso che, mentre lo
scienziato pare alle volte che dietro a sè ci nasconda l'artista,
l'artista invece tiene sempre il campo. È sempre l'Arte la regina della
mente di Leonardo. Basta leggere alcune delle pagine del Trattato in
cui celebra le lodi della sua prediletta fra le arti, la pittura, per
capire da che sovrano entusiasmo estetico fosse riscaldato e mosso
l'animo suo. Per cui tante volte, mentre direste alla prima che la
indagine scientifica prepari in Leonardo il lavoro dell'arte; la verità
vera è invece il contrario: vale a dire che il lavoro della scienza non
è altro che un prolungamento, per dir così, della ricerca artistica.
E con questa gran differenza che, mentre gli altri artisti suoi
contemporanei si fermavano alla parvenza della cose e quella cercavano
di ritrarre secondo le regole dell'arte, Leonardo, spinto da un fervore
d'animo tutto suo particolare, andava anche al di là della parvenza
artistica, e voleva trovare e trovava in fatto la ragion d'essere di
questa in una più alta regione speculativa.

Così quand'egli studia la prospettiva lineare ecco che egli a poco
a poco si incammina e s'ingolfa nel mondo della geometria: quando
studia la prospettiva aerea ecco che l'ottica gli apre i suoi grandi
orizzonti, e lì spigola e raccoglie verità nuove e spesso mirabili.
Medesimamente la pittura del corpo umano lo traeva ad investigare
tutto il magistero della nostra struttura corporea; ed ecco che si
associa a Marcantonio della Torre e dà al mondo i primi saggi completi
e veramente scientifici di anatomia grafica. Lo stesso gli avviene, o
signore, in tutti mai i rami dello scibile. Egli è condotto sulla via
delle scienze dalla mano dell'arte. Nel libro VI del _Trattato della
pittura_ egli parla delle piante. Pittoricamente parlando, uno si
sarebbe fermato alla apparenza di queste piante e ad indicare il modo
con cui il pittore deve fedelmente ritrarle giusta i varii stati in cui
ce le dimostra ai nostri occhi la natura, sia ch'esse siano sguarnite
di foglie nell'inverno o abbiano il primo tenero verde nell'aprile o
le foglie diffuse nella pienezza della buona stagione; sia che vengano
o battute dalla pioggia o scrollate dal vento o illuminate dal sole
e via discorrendo. Invece Leonardo da Vinci vi dà tutto questo per
il pittore; ma il suo spirito non può fermarsi qui. Egli procede più
oltre investigando e speculando: “La natura ha messo le foglie degli
ultimi rami di molte piante in modo che sempre la sesta foglia sia
sopra la primiera, e così segue successivamente, se la regola non
fu impedita.„ Qui, come vedete, abbiamo qualche cosa di più che una
semplice osservazione bastante per gli occhi del pittore. E non è cosa
di piccolo momento, o signore, ma una vera e propria legge botanica
(la _fillotassi_) che farà poi la gloria del naturalista Brown. Sempre
rimanendo dentro l'ambito della pittura ed andando oltre, Leonardo
scrive: “Le parti meridionali della pianta mostrano maggior vigore e
gioventù che le settentrionali. Li circoli degli rami segati mostrano
il numero degli suoi anni, e mostrano l'aspetto del modo con cui
erano volti, poichè più grossi sono a settentrione che a mezzodì.
Così il centro dell'albero per tal causa è più vicino alla scorza sua
meridionale che alla sua scorza settentrionale.„ Nelle quali parole è
pure anticipata una dimostrazione che farà, dopo un secolo, Marcello
Malpighi, meritamente salutato dall'universale come l'inventore ed il
fondatore della anatomia botanica.

Questi esempi, o signore (e tanti altri che potrei citarvi),
riconfermano quello che io vi accennava, cioè che, a guardare bene
nella mirabile struttura dell'ingegno di Leonardo da Vinci e in tutti
gli atteggiamenti della sua attività, noi vediamo ch'egli si diffonde
mirabilmente nel campo dello scibile, ch'egli corre dietro a tutte
le forme del vero, ma che la sua stella polare è sempre l'Arte, e
che all'Arte egli vuole che convergano gli elementi della sua cultura
meravigliosa. Se tale la sua propedeutica artistica, voi avete un primo
dato per argomentare subito quale e quanta debba essere stata l'arte di
Leonardo da Vinci.

Egli venne in tempi in cui, massime in Italia, la pittura si avvicinava
alla sua più alta fioritura, anzi alla sua radiosa maturità. Antonello
da Messina aveva già divulgato fra noi il processo della pittura ad
olio per il quale delle più smaglianti grazie ed una maggiore evidenza
acquistavano i colori; a Firenze nel tempo di Leonardo dipingevano
artisti come Sandro Botticelli; nella Umbria tenevano il campo
Pinturicchio e il Perugino, preparando Raffaello; a Bologna Francesco
Raibolini detto il Francia di grande orafo si mutava in grande
pittore; Ferrara aveva avuto il Tura e il Cossa e il Costa. Di là dal
Po, Mantegna, svincolatosi dalle dotte pedanterie dello Squarcione,
popolava di meraviglie Padova, Verona e Mantova e associandosi e
accostandosi al Giambellino, fondeva la robusta evidenza del suo
disegno con le grazie del colorito veneziano. Volgeva dunque un momento
di grande ricchezza e di grande splendore per l'arte. Egli, Leonardo,
doveva coronare e glorificare tutto questo movimento.

E gli si aprivano due vie. Il suolo d'Italia restituiva, come per
grazioso miracolo, alcuni dei più bei documenti dell'arte antica: le
menti ne rimanevano stupite e irresistibilmente attratte ad imitarli.
Leonardo da Vinci, quest'alunno della natura, tutto il tesoro delle
osservazioni fatte nel campo della vita portava nel campo dell'arte,
e voleva un'arte essenzialmente naturale, che dalla natura prendesse
tutto il suo vigore e tutte le sue grazie. È molto notevole, o signore,
questo atteggiamento preso di Leonardo nella grande contesa fra il
naturale e l'antico, che allora appunto stava per raggiungere il
suo momento critico e decisivo. Leonardo portò tutto il peso del suo
sapere, tutta la potenza delle sue attitudini artistiche, tutta la sua
autorità immensa in favore del movimento naturalista, ampiamente inteso
e nobilmente significato.

Osservate in fatti che egli non accetta i “moduli„ che si cominciano
ad insinuare nelle pratiche dell'arte, e coi quali si tendeva già a
sostituire qualche tipo fisso ed inalterabile al lavoro personale e
continuamente vario, al movimento fluido, infaticabile della natura,
l'eterno e inesauribile esemplare. Guardate il Cangiasio, il Durer,
Leon Battista Alberti escogitano misure e proporzioni determinate al
corpo umano; fra Bartolomeo della Porta tira fuori dalla sua mente, o
piglia dalla Germania, il _manichino_. Leonardo scarta tutto ciò. Egli
guarda con diffidenza tutto quello che tende a sostituire nell'arte
degli schemi già finiti e per così dire cristallizzati all'incessante
mutualità che deve passare fra l'animo dell'artista e la natura. Egli
primo fra i moderni, comincia già a tracciarvi la storia dell'arte in
un modo che ci fa davvero stupire e che dà ragione della sua maniera di
sentirne l'essenza. Ascoltiamolo: “Le arti giacquero in Italia perchè
fu negletto ogni studio di imitare la natura, finchè venne Giotto
fiorentino, il quale nato in monti solamente abitati da capre e simili
bestie, cominciò a segnar su per li sassi gli atti di simili capre,
delle quali era guidatore; e così cominciò a fare tutti gli altri
animali, che nel paese trovava. In tal modo che questi dopo molto di
studio avanzò, nonchè i maestri dell'età sua, tutti quelli di molti
secoli passati.„ Ecco il giusto criterio naturalista sostituito ad ogni
altro criterio! Il tipo dell'artista per Leonardo infatti è Giotto,
l'uomo semplice, quasi primitivo, che non guarda, come Nicola Pisano,
il sarcofago antico, ma le cose naturali e vive che stanno dintorno
a lui e ingenuamente le ritrae. E prosegue a dire: “Dopo, gli uomini
imitarono Giotto, e l'arti decaddero.„ L'imitazione sostituita allo
studio diretto della natura, quindi perniciosa all'arte. “Finalmente
sorse Tommaso fiorentino cognominato Masaccio, il quale mostrò con
opere perfette come quelli che pigliano per autore altri che la natura,
maestra de' maestri, si affaticano invano.„


III.

Dal naturalismo così altamente inteso doveva sgorgare un'arte
individuale, eminentemente soggettiva, un'arte che non procede da
formule fatte, ma le desume da quel travaglio incessante che l'occhio
e la mente dell'artista non ristanno mai dal proseguire. Perciò con
gli aspetti della natura, l'anima dell'artista entra e si rispecchia
nell'opera d'arte. Il Vinci esprimeva questo concetto fondamentale nel
_Trattato della Pittura_ in un modo che non lascia luogo al più piccolo
dubbio. Per lui non solamente l'artista deve ispirarsi al proprio
estro, deve conformarsi alle attitudini naturali che egli ha, ma va
più oltre. Egli crede che dentro al cervello di ogni artista ci sia
“un giudizio proprio„, una specie di facoltà determinata, che la natura
mette a disposizione di ogni singolo artista perchè egli ritragga, in
una certa guisa particolare, il mondo esteriore. “Questo tal giudizio è
di tanta potenza, dice Leonardo, ch'egli muove le braccia al pittore e
fagli replicare sè medesimo, parendo a essa anima che quello sia il suo
modo di figurare l'uomo; e chi non fa come lei faccia errore.„ A questa
individualità poi corrisponde (e ne è come la più luminosa riprova) una
specie di _unicità_ nei singoli oggetti generati dall'arte. Niente si
assomiglia in arte; questo è il concetto di Leonardo. Ammira le belle
e armoniche forme delle statue antiche, dà anch'egli qualche precetto,
qualche suggerimento per generalizzare le proporzioni del corpo umano,
e andate discorrendo. Ma finisce sempre con l'insistere sulla massima
che _bisogna proporzionare ogni oggetto particolare con sè medesimo_.
Non è mai il modello rinnovato degli antichi il quale stabiliva che un
corpo umano è alto tante teste e largo tante altre. No, Leonardo invece
vi dice: studiate ogni singolo corpo umano, e rilevate e trasferite
nella pittura vostra quella data proporzionalità che rappresenti il
carattere di quel dato corpo, come voi lo vedete, e non di altro.

Questa la gran differenza che è tra Leonardo da Vinci e Leon Battista
Alberti, ed Alberto Durer e Rubens, e tutti gli altri creatori di
moduli, fino agli ultimi tedeschi, che hanno voluto rinnovare questa
specie di meccanismo geometrico applicato alla pittura. “La bellezza
dei visi„ dice Leonardo “mai si trova essere replicata in natura, di
modo che se tutte le bellezze, tutte le eccellenzie tornassero vive,
esse sarebbero maggior numero di popolo che quello che al nostro secolo
si trova. E siccome in esso secolo nessuno precisamente si somiglia, il
medesimo interverrebbe alle dette bellezze e per questo, sommo difetto
è dei pittori replicare gli medesimi moti, e gli medesimi volti e
maniere di panno in una medesima istoria, e via discorrendo.„ Tutto,
insomma, ciò che il pittore rappresenta, secondo Leonardo, dee avere
un certo carattere di istantaneità, vale a dire vuole che sia ispirato
dentro di lui da un particolare stato dell'animo, fuori di lui da una
particolare visione che balzi ai suoi occhi, che impressioni i suoi
sensi e che per via della mano si trasferisca nella forma elaborata.
“Sempre il pittore deve cercare la prontitudine nell'atto naturale
fatto dagli uomini all'improvviso e nato da potente affezione dei
suoi affetti; e di quelli far breve ricordo nei suoi libretti e poi,
a suo proposito, adoperarli. _Finalmente la mente del pittore si deve
del continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono le figure degli
oggetti notabili che dinanzi gli appariscono e di quelle fermare il
passo e notarle, considerando il luogo e le circostanze, il lume e le
ombre._„

È impossibile, o signore, esprimere in termini più esatti gli
intendimenti tecnici ed estetici della pittura di sostanza e di
ambiente, quale oggi potrebbe vagheggiarla ed esercitarla ogni più
progressivo animo d'artista!

Da queste premesse ideali passiamo alle conseguenze pratiche. La
pittura di Leonardo è una meravigliosa testimonianza della singolarità
del suo modo di intendere l'arte. Aggiungo qui di passaggio, che egli,
pure essendo così scrupoloso e sincero osservatore della natura, non
s'acconciò mai ad essere, come Piero di Cosimo e altri del suo tempo,
a guisa del letto di un fiume che accoglie indifferentemente tutte
le acque, siano esse torbide o chiare. No. Questo naturalista aveva
l'istinto della bellezza e procedeva per elettissime selezioni, e tutti
i suoi tipi danno, per così dire, ragione veduta della sua scelta.
Le figure di Leonardo, per una grande significazione di carattere,
appaiono tutte segnate del segnacolo d'una razza distinta. Forse era
la studiosa e perseverante scelta del pittore, forse era l'animo suo
che infondeva a quelle teste qualche cosa di singolare, che ci innamora
e ci esalta, sia ch'egli ci rappresenti la deviazione del tipo umano
nelle deformità sue; sia che ci allegri e turbi insieme con quei
sorrisi ineffabili di donna che non somigliano a nessun altro sorriso,
eppure sono tanto femminili; sia che ci impensierisca e ci commuova
colla espressione mistica di certe teste, ove il sentimento del divino
è reso come in nessuna altra pittura, prima e dopo, fu reso mai.

E qui dovendo esemplificare mi trovo di fronte a un fatto singolare
e ben triste, o signore. Questo nostro Leonardo, del quale tanto
parliamo, è un artista in gran parte inedito. Peggio ancora, egli è
un artista soppresso dall'opera del tempo. Quanta distruzione ha fatto
il tempo sulle opere sue! Un po' per colpa di lui che il Vasari chiama
_instabile e vario_, che cominciava mille cose e poi le tralasciava a
metà, attratto sempre da quella sua eroica inquietudine di conoscere
e fare del nuovo; un poco perchè anche gli accidenti della natura e
della storia hanno cospirato a suo danno, fatto sta che di Leonardo
quasi tutto è scomparso. Intanto dello scultore niente possiamo dire
_de visu_. Delle tante opere in plastica di Leonardo, che pur gli
diedero, lui vivente, tanta fama che per molti contemporanei suoi egli
era massimamente celebre come scultore, che resta a noi? Nulla! Il
gran colosso di Francesco Sforza, con cui s'era gratificato l'animo di
Lodovico il Moro, fu ben finito (non però fuso in bronzo) e inaugurato
a Milano nella piazza del Vecchio Castello. Ma sopraggiungevano
i Francesi di Luigi XII vincitore e invadevano Milano. Entrati i
balestrieri guasconi in quel castello e visto là grandeggiare in forma
di apoteosi il capo della dinastia ch'erano venuti a distruggere,
naturalmente furono tratti dalla voglia di balestrarlo; e lo
balestrarono, ahimè! tanto bene che il colosso andò in pezzi e non
n'è più rimasto che qualche vago e dubbio ricordo in alcuni segni
dell'autore, e in alcune miniature del tempo.

E anche della pittura di Leonardo da Vinci poco, ben poco rimane di
conservato e di indubbiamente autentico; onde ebbe a dire un critico
tedesco che non avrebbe coraggio di giurare che un palmo solo di
pittura leonardesca sia arrivato fino a noi veramente intatta.

Rimane fortunatamente un'opera sulla quale, quanto ad autenticità
originaria, non può cadere dubbio, benchè sia ridotta anch'essa in
così misero stato che fa veramente pietà. Voglio dire il Cenacolo,
che Leonardo dipinse nel refettorio di Santa Maria delle Grazie.
Anche così malconcio, anche in quel suo stato quasi pauroso di larva
in cui ora lo vediamo, esso ferma i nostri occhi, conquide il nostro
animo, ci costringe a chinare la fronte. Pensate! Esso è la riprova
ancora vivente, la riprova sintetica, eloquentissima della verità
ed efficacia di tutte le dottrine che intorno all'arte Leonardo era
andato predicando e praticando. Pensate ancora quanti artisti si sono
cimentati in questo dramma intimo e sacro, la cena ultima di Gesù
Cristo coi suoi discepoli!... I più dei pittori scelsero quel momento
in cui Cristo offre ai suoi discepoli e all'umanità tutto sè stesso
nel pane e nel vino. Leonardo preferì invece di cogliere un momento
meno mistico ma più naturale; e talmente naturale che noi, senza
mancare di riverenza ad alcuno, possiamo anche considerare quella sua
rappresentazione come una scena puramente umana. Si tratta in sostanza
d'un maestro che ha raccolto intorno a sè i suoi discepoli più fidi,
mentre ingrossano i tempi e la persecuzione minaccia al di fuori....
Arrivato a un certo punto della cena, a un tratto egli dice: _uno di
voi mi tradisce_. Questa frase, gettata là in mezzo ad animi semplici
e devoti, produce come uno scoppio di dramma istantaneo.

Non sono più le immobili figure dei vecchi Cenacoli, colle loro
aureole intorno al capo, che assistono misticamente alla mistica
consacrazione. Qui abbiamo invece uomini che si sentono feriti nel
profondo dell'animo dall'angoscia di sapere che c'è in mezzo ad essi
un loro compagno che tradirà l'uomo che vollero seguire a ogni costo,
che amano sopra ogni cosa. Non basta: tutti sentono il turbamento e
l'irritazione di potersi sapere sospettati di una tanta iniquità. Se
guardate a quelle dodici figure d'apostoli, ognuna vi rende questo
dramma interiore con una varietà ammirabile. Il volto di Cristo ha una
specie di calma costernata. Le sue labbra sono ancora semiaperte, e
si capisce che le tristi parole ne sono uscite allora allora; le mani
fanno un movimento di tristezza; la calma non è turbata in quel volto
divino; ma una lieve increspatura della fronte ci lascia comprendere
che la parte umana in lui palpita e si addolora. Tutti gli apostoli
alla prima hanno avuto certamente un movimento eccentrico; poi quasi
tutte le figure si protendono in avanti verso il maestro. Che varia
e potente significazione psicologica in quelle figure e in quei
volti! Guardate tutte quelle mani. Ognuna (dando ragione ad un famoso
capitolo del Montaigne) ha un significato, un pensiero, un fremito
di vita personale. Guardate tutti quei piedi. Visti vagamente sotto
la tovaglia, così irrequieti e mossi in vario senso, vi completano
l'idea della agitazione espressa dalla parte superiore di quelle
dodici figure. Nel mezzo, solo i piedi di Cristo si mostrano queti e
composti....

Giovanni nella semplicità amorosa dell'animo suo pare che dica: —
Ma questo non è possibile! Di una mostruosità tale niuno di noi può
essere capace! — San Pietro allarga violentemente le braccia come
porta l'indole sua. È l'uomo che poi tirerà fuori il coltello e
taglierà l'orecchio a Malco. Par di sentirlo gridare: — Fuori il nome
del traditore! Noi vogliamo saperlo ed esser puri d'ogni sospetto.
— Il penultimo degli apostoli, a destra di chi guarda l'affresco,
ha un lieve torcimento degli occhi e della bocca e, parlando piano
al vicino, fa un accenno.... Si capisce che ha un vago sospetto di
Giuda.... Giuda, che incarna la bruttezza del tradimento, si volta
repentinamente, come per udire le parole dell'apostolo che parla dietro
di lui. Si indovina l'uomo che vorrebbe dissimulare, prendendo un
contegno disinvolto; ma intanto con un movimento inconscio del gomito
versa la saliera. Il sale si sparge sulla tovaglia e con questo segno
sinistro di mal augurio, pare che il triste dramma venga lugubremente
suggellato.


IV.

Su questa grande parete, Leonardo da Vinci inaugurò la _pittura nuova_
perchè infuse nell'arte la pienezza della vita, rivendicando insieme
ad essa la più completa libertà. Lo sentirono i contemporanei; e il
_Cenacolo_ fu l'opera che diede più gloria all'artista.

Ma, parlando in genere, se egli ebbe vivendo fama grandissima, possiamo
noi anche affermare che riscosse favori corrispondenti al suo merito?
Non credo. Chi studia attento la vita di Leonardo, vede un intimo
dissidio fra l'arte sua e lo spirito che ormai domina ne' tempi suoi.
Nel grande e risolutivo andazzo che andava a prendere, l'arte italiana,
la quale era salita su per tutti i gradi della preparazione e della
elaborazione, ormai voleva slanciarsi. Tutti quegli artisti, già così
forti nella tecnica e così pieni di fantasia, non volevano più stare
alle mosse e cercavano novità. Leonardo invece si mantiene fedele
all'ideale artistico della sua epoca gloriosa.

Un senso d'inquietudine trae ogni giorno più gli artisti ad un'arte
frettolosa, sommaria e decorativa. Anche la Chiesa, presentendo la
grande bufera che si approssima, domanda che l'arte si trasformi,
che si spinga ad un fare più largo e magniloquente, come per mettere
fra sè e i tempi nuovi un antemurale di bellezza spettacolosa che
seduca e fermi la fantasia dei popoli. Aggiungete infine che, per la
perdita della indipendenza e delle libertà locali, per l'abbassamento
della moralità, per l'invasione, l'amalgama e il bastardume delle
costumanze straniere, la vita italiana languiva e precipitava; e
l'arte, la nostra grande arte, unica energia ormai rimasta in piedi,
era costretta a colmare, ma in fretta, tutti questi vuoti, tutte
queste voragini; e le vecchie forme pareva che più non bastassero.
Ma Leonardo volle resistere a tutte queste correnti, e star fermo
all'arte sua coscienziosa, equilibrata e casta, che era in sostanza
l'arte del Botticelli e degli altri migliori di quel secolo, inalzata
a una maggiore potenza. Egli volle essere, e fu in fatti, l'ultimo dei
quattrocentisti e il più grande di tutti. Ma pagò cara questa gloria.
Egli fu uno sconfitto, ed uscì dall'arringo come un vinto. Nella
sua vita ebbe molti onori, ebbe amplissime lodi; ma però guardate: i
periodi della sua vita finiscono sempre in un modo sinistro. Nel suo
primo periodo Lorenzo il Magnifico, che è così largo di protezione a
tutti, a Leonardo mostra, non dirò il malo animo e quasi l'odio, come
colla sua alfierana fantasia ha supposto il Ranalli nella sua preziosa
storia delle belle arti; ma, insomma, Lorenzo il Magnifico non tiene
molto conto di Leonardo, e quando il Moro da Milano glielo chiede (se
è vero che glielo chiedesse) Lorenzo lo concede volentieri, perchè tra
le altre cose l'indole strana, fiera di Leonardo non era probabilmente
fatta per gratificarsi l'animo di un principe che, per quanto liberale
si fosse, amava però di vedere ricambiata la magnificenza del suo
mecenatismo con molta sottomissione e sopra tutto con l'essere
richiesto di consiglio. Voi sapete che Lorenzo amava d'andare sopra i
lavori degli artisti e proverbiarli e correggerli. Diceva per esempio
al giovane Michelangiolo: “Cava un dente a quel vecchio satiro„,
e Michelangiolo lo cavava docile. Chi sa se Leonardo avrebbe avuto
così pronta arrendevolezza?... Io molto ne dubito; e penso che per
questo egli non potè mai entrare appieno nelle grazie del Magnifico.
Il suo secondo periodo è il più brillante. Alla corte del Moro egli è
riconosciuto, carezzato, festeggiato; ma in sostanza l'utile fruttuoso
pare che fosse scarso, se dobbiamo rilevarlo da un frammento di lettera
in cui dice, in sostanza, al Moro: — Con tutti questi onori, con tutte
queste commissioni io non cavo da vivere, non mi sono avanzato nemmeno
quindici lire. — E il frammento chiude con una frase tristissima:
“Io non voglio mutare la mia arte.„ Quanta differenza, o signore, tra
questa umile e sconsolata lettera e la lettera piena d'onesta baldanza
con cui Leonardo si faceva precedere nella sua andata a Milano! Allora
egli diceva al duca: — Io so fare questo e questo; tutto ciò che gli
altri fanno io lo faccio, e, sia chi voglia, meglio di loro. Mettetemi
alla prova! — Anche questo periodo adunque, principiato bene, si chiude
con una sconfitta. Leonardo dopo va errando prima agli stipendi del
Valentino, poi a Firenze col Soderini. Si cimenta con Michelangiolo ed
è molto onorato, perchè in questa gara di due giganti, nessuno ha il
coraggio di decidere quale sia il perdente e quale il vincitore. Ma
poi, allor che si viene alla esecuzione del cartone celebratissimo,
nascono subito dei guai e delle contese; e noi vediamo il Soderini
che comincia a non lodarsi più di Leonardo, e Leonardo che comincia a
trattar male il Soderini. Insomma, anche quando è fortunato, Leonardo
non consegue mai quella specie di alto dominio che esercitarono altri
artisti, certamente grandi, ma forse non più grandi di lui, come
Michelangiolo, come Raffaello; artisti davanti ai quali i principi e
i papi stavano trepidanti, e mandavano delle legazioni per risolvere
questioni sorte fra loro, e non avevano pace finchè non li vedevano
attratti di nuovo nell'orbita del loro principato.

Tantochè Leonardo da Vinci negli ultimi anni è costretto ad espatriare;
e, bisogna confessarlo, trovò sorte più lieta e più benigno mecenatismo
in Francia che in Italia. Questo mi pare che risulti evidentemente
dalla sua vita. Come già era stato liberalmente protetto da Luigi
XII, fu liberalmente ospitato ed onorato, secondo i meriti suoi, da
Francesco I, questo re che non fu certo un modello di buon costume,
ma che col suo spirito cavalleresco seppe tanto bene farsi perdonare i
difetti; e che noi dobbiamo ricordare con gratitudine. Fatto è che per
invito suo Leonardo da Vinci col suo caro alunno Francesco Melzi, col
suo fedele Salai va in Francia. Oltre una pensione di 700 scudi d'oro,
il Re gli alloga il castello a Cloux presso Amboise; e là può il grande
italiano spendere finalmente i suoi ultimi anni di vita nella perfetta
quiete dell'animo e darsi intero e libero alle occupazioni predilette
del suo spirito.

In Francia Leonardo da Vinci finisce i suoi giorni e li finisce
pacifico e riconciliato con tutti. Se lo avevano accusato di poca
reverenza verso gli antichi, egli aveva già ordinato al Platina di
fargli un epitaffio in cui dice: “Io studiai gli antichi ma non potei
però raggiungere la loro divina simmetria. Feci quello che potei. O
posterità, siimi indulgente! _Veniam da mihi, posteritas._„ E muore
riconciliato colla Chiesa, con la quale, a detta del Vasari, non fu
sempre in troppo buoni termini; e nel suo testamento raccomanda l'anima
sua a Dio, alla Vergine e a non so quanti altri santi del Calendario.
Muore riconciliato colla famiglia verso la quale aveva avuto delle liti
non piccole per causa di eredità, lasciando ai suoi fratelli 400 scudi
che teneva sopra un banco fiorentino.

È cosa singolare, o signore! Finalmente nel suo testamento noi
incontriamo un nome di donna. Ma che i romanzieri e i poeti non
si esaltino. Non si tratta della Giulia Gallerani nè della Cecilia
Crivelli, nè della Lisa del Giocondo, nè della bella Ferroniera; si
tratta di una certa Maturina, a cui lascia un po' di denaro e un po'
di roba in cambio dei buoni servigi ch'essa gli aveva reso. È dunque
il caso d'una povera serva, per giunta forse vecchia e brutta. Ecco
l'unico episodio femminile, se così si può chiamare, di quest'uomo
che aveva versato nelle sue tele tutte le più squisite e poetiche
suggestioni dell'amore. E a me non dispiace. In fondo quella povera
vecchia avrà dato all'artista, tanto combattuto e tanto travagliato,
gioie e servizi umili ma preziosi, che i potenti coi loro favori,
spesso in mal punto dati e sgarbatamente tolti, non gli avevano
procurato mai. Lo avrà scaldato negli inverni rigidi di Cloux, gli
avrà preparato il desinare, lo avrà curato, confortato, e colle sue
goffaggini e facezie di vecchia serva, qualche volta forse anche
rallegrato nelle ore più tristi della infermità e del tedio. E allorchè
il vecchio pittore sarà morto, non Francesco primo re di Francia
e Navarra, come dice la favola, ma lei, lei, questa povera vecchia
avrà chiusi quegli occhi che avevano veduto tante meraviglie.... Che
importa? Essa glieli avrà chiusi con quel senso di schietta pietà che
quaggiù inalza tutti ad un modo, perchè è l'unico attributo, o signore,
divinamente dato alla nostra umanità.



L'ARTE VENEZIANA DEL RINASCIMENTO

DI

POMPEO MOLMENTI.


Correva l'anno 1495 (perdonate, o Signori, se incomincio come usava
nei vecchi romanzi storici di mezzo secolo fa), correva l'anno 1495 e
Filippo de Commines, ambasciatore di Carlo VIII, entrando a Venezia,
esclamava ammaliato: — la più trionfante città che io abbia mai veduta!
— E, in vero, dall'aprirsi del secolo quintodecimo fino quasi alla fine
del XVI, la vita di Venezia sembra un trionfo. Prorompono affetti ed
entusiasmi, e tutto vive in un contrasto che pare aumenti l'energia. In
questo tempo appunto, fra la metà circa del quattrocento e lo scorcio
del cinquecento, nasce, cresce, matura, declina l'arte veneziana. È una
vita breve, rapida, piena di agitazioni e di esultanze. La pittura, fra
le lagune, sboccia a un tratto quasi senza lavoro di preparazione. Nel
secolo XIV, allora che Giotto compiva le sue divine opere, in Assisi e
in Padova, e fino quasi alla metà del secolo seguente, i tentativi di
alcuni timidi pittori veneziani non possono chiamarsi col nome d'arte.

Ma, circa l'anno 1422, la Repubblica, volendo dipingere una sala del
Palazzo Ducale, chiamava Vettor Pisanello di Verona, eminente artefice,
e Gentile da Fabriano, la mano del quale, al dire di Michelangelo, non
facile lodatore, era gentile come il nome. Durante la loro dimora fra
le lagune essi segnarono un avanzamento nell'arte, ed esercitarono una
azione efficace sulle opere dei primi artefici veneziani, specie del
Vivarini.

Dopo aver dipinto, in Palazzo Ducale, la battaglia navale presso
Pirano, tra l'armata veneta e quella del Barbarossa, Gentile da
Fabriano partiva per Roma, accompagnato da un giovane pittore
veneziano, Jacopo Bellini. Della vita di Jacopo poco o nulla si sa; il
Vasari si limita a dire, che, ritornato in patria, egli era nella sua
professione il maggiore e più reputato.

Del resto, di quasi tutti quegli artefici, che espressero il sentire
profondo della giovane arte veneziana, ci è sconosciuta la vita. Prima
della gran luce di Tiziano, quei casti ingegni non viveano se non per
l'arte, dimenticando ogni cosa, non d'altro desiderosi che di farsi
dimenticare.

Il nome di Jacopo Bellini è menzionato più per essere stato padre di
Gentile e Giovanni che per le opere sue. A torto, perchè egli veramente
segna l'alba di quella pittura, che sbocciò subito dopo, tutta fiori,
odori e colori. A rendere in breve tempo splendida e rigogliosa
quest'arte, contribuirono l'ordinamento politico, la postura della
città e l'indole degli abitanti.

L'onnipotenza dello Stato teneva unite e dirigeva le forze della
nazione, e ora le spingeva a creare la libertà e ad arricchire la
patria, ora, distraendole dalla politica, le rivolgeva a trasformar la
città in tempio dell'arte.

E intorno a quest'arte ricorreva, come nimbo glorioso, la natura
circostante, con tutto il fascino di una bellezza incomparabile. Qui
pare abbia più incanti la luce del sole, più dolcezze melanconiche
il tramonto. I vapori dell'aria tolgono ogni rigidezza di contorni
alle cose e le immergono come in un'onda eterea; i mille strani
sbattimenti delle acque, i miraggi di madreperla degli orizzonti
lontani, i dorsi di sabbia che s'alzano dalla laguna e rifulgono di
tinte dorate, s'intrecciano in un'armonia stupenda, dove, senza eccesso
e senza volgarità, l'azzurro e l'arancio si uniscono, e il violaceo si
congiunge al giallo, e lo smeraldo al giacinto, e il diaspro

    par che si mischi in flessuosi amori
    con l'ametista.

Chi nasce in quest'aura ed abbia il senso dell'arte è naturale
debba comprendere tutte le ricchezze e le gioie del colore. Venezia
è veramente la reggia del colore. E per questo appunto nell'arte
veneziana incontriamo pochi nomi di statuari eminenti, e anche questi
architetti e decoratori, come i Delle Masegne, il Buono, il Rizzo,
i Lombardo, il Vittorio, i quali tutti seppero trarre dalle due arti
ornamenti svariati e leggiadri. Gli architetti violavano ogni regola,
sfuggivano la simmetria, e raggiungevano l'armonia, trasportavano,
negli edifizi delle lagune, la poesia fastosa dell'Oriente, emulando
con le seste il pennello. E infatti le pietre, con le loro armonie di
colore, servivano di tavolozza e sulle facciate dei palazzi brillavano
il porfido, il serpentino, il verde antico, la breccia, il broccatello.
Ecco forse perchè qui, più che altrove, tardò a comparire, sulle tavole
e sulle tele, la pittura, che avea agio di manifestarsi nell'accordo
dei marmi variopinti. Anche si dipingevano i prospetti. Quando il
Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa,
chiamata d'Oro, non già per aver appartenuto alla famiglia patrizia
Doro, ma per le dorature di cui era adorna, fu fatto il contratto il 30
aprile 1430. Compiuta la facciata, che, nonostante le offese del tempo,
ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di
Francia, per ornarla _de pentura_. Come dovea allora apparire quel
gioiello della veneta architettura! Maestro Giovanni s'impegnava di
dorar le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei
capitelli e i dentelli, dipingere _le tresse dazuro oltremarin fin ben
dopiado per muodo che i la stia benissimo_. Le merlature doveano essere
dipinte con biacca e venate a guisa di marmo; le fascie bizantine a
tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse
e tutte _le dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le
para rosse_.

Passando pel Canal Grande, e ammirando la Cà d'Oro e i palazzi dipinti
dai migliori maestri dell'arte, poteva bene Filippo de Commynes
esclamare: — C'est la plus belle rue que je croy qui soit en tout le
monde. —

Dodici anni più tardi, sul Fondaco dei Tedeschi, dipingeano a fresco
Tiziano e Giorgione. A Giorgione furono dati 150 ducati dell'opera
sua, in cui ebbe a cooperatore, per gli ornamenti, il Morto da Feltre,
il quale, secondo una leggenda, abbellita dal verso, rapì l'amante al
maestro ed amico, che ne morì di dolore. Ma il Vasari attribuisce la
morte di Giorgione a un male più prosaico.

Quanta forza e quanta efficacia ha sull'indole umana la qualità del
luogo dove si nasce! E come le persone e le vesti dei veneziani si
accordavano, in quei tempi, con la vita festante, coll'architettura
fantastica, colle trasparenze opaline dell'aria, coi riflessi delle
acque! Una vecchia cronaca dice che, nel 1433, a Venezia, più di
seicento donne andavano fuori di casa _vestite di seta, oro, joje,
che è una maestà vederle_. Le belle veneziane ci appaiono vestite di
broccato d'oro, di velluto ricamato d'argento, di tela a fiorami dai
più vaghi colori, col breve busto fregiato di gioielli e le spalle
ignude, adorne di perle, di gemme, di diamanti, di monili, di oggetti
d'oro e d'argento. Una Contarini, sposa a Jacopo Foscari, l'infelice
figlio del Doge, avea nel corredo, tra molte vesti di seta, un abito
di broccato d'oro con maniche piccole: un altro in campo d'oro ricinto
di cremisi con maniche aperte, foderate di vaj, con la coda di un
braccio e mezzo; un terzo di panno in campo d'oro e paonazzo foderato
d'ermellini: un quarto con maniche cadenti a terra, dette arlotte,
d'ormesino broccato, e via via. La donna veneziana non rivive nelle
pagine degli storici e dei poeti, ma palpita ancora nelle tele degli
artefici come a traverso una gaia fantasmagoria di colori. La ricerca
e la femminile brama di tutto ciò che splende e brilla erano portate
qualche volta all'eccesso. Non bastarono alla donna le vesti a tinte
audaci, ma si voleano ravvivar col belletto i pallidi colori delle
guancie. E perfino, perdonate all'osservatore del passato questo strano
particolare, perfino si colorivano le mammelle, che le vesti oltremodo
scollacciate non lasciavano ignorar allo sguardo. Un poeta popolare del
cinquecento scrive:

    Fazzandose le tete rosse e bianche
    E descoverte per galantaria.

E i capelli si tingevano in biondo, il colore, che, sui bei capi
femminili, stacca come un'aureola dorata sul fondo dei canali oscuri,
delle viuzze buie, dei bruni palazzi. Cento ricette, una più curiosa
dell'altra, esistono per dare la tinta e la lucentezza dell'oro alla
chioma. Vedete bizzarrie delle mode, che hanno i loro ritorni, come le
civiltà di Vico! Per rasciugare i capelli tinti, le donne si esponevano
al sole sopra i tetti delle case, in una specie di loggia scoperta,
chiamata _altana_, e là sedevano vestite di tela leggera con in testa
un cerchio di paglia finissima a foggia di tesa di cappello, detto
_solana_.

Ricche e variopinte anche le vesti degli uomini. I patrizi, secondo
i vari uffici e le solennità, andavan vestiti di raso, di velluto,
di zendado cremesino, di broccato d'oro. Nell'inverno, gli abiti, con
ricami di cordoni d'oro e d'argento, si foderavano con finissime pelli
di gran prezzo. Elegantissimo il costume dei Compagni della Calza,
brigate di gentiluomini uniti nell'intento di dare feste, tornei,
spettacoli d'ogni maniera. Si chiamavano della Calza, perchè portavano
sugli stretti calzoni un'impresa a colori. I giubberelli attillati
di velluto, di seta, ricamati d'oro e stretti da un cingolo, avevano
le maniche tagliate per lo lungo e riunite da nastri, che lasciavano
scappar fuori gli sbuffi della camicia. Le calze strette a striscie
colorate longitudinali, le scarpe forate in punta, su le spalle un
mantello di panno d'oro, di damasco o di velluto cremesino, con un
cappuccio sulla cui fodera era ricamata l'impresa della Compagnia.
Di sotto a un berretto nero o rosso, ornato in punta da un gioiello e
pendente sull'orecchio, scappava la chioma, allacciata da una fettuccia
di seta.

Nelle feste religiose e civili, nelle incoronazioni dei dogi e
delle dogaresse, nei ricevimenti di re e di principi, nel commemorar
vittorie, nelle nozze, perfino nei funerali, sempre e dovunque il
trionfo del colore, un poema di magnificenze.

Nei palazzi, i ricevimenti, i banchetti, gl'inviti, i festini
doveano sembrare mirabili fantasmagorie. La luce dei doppieri faceva
scintillare le pareti ricoperte d'oro, d'arazzi, di specchi di Murano,
i velluti e le sete d'ogni colore, le splendide gemme. La magnificenza
patrizia scendeva dai palazzi alle vie, dove la città s'agitava felice,
gioiosa di contemplarsi ed ammirarsi. Sulla piazza e sulle strade
passavano le gentildonne colle vesti più magnifiche del mondo; i
patrizi nelle loro splendide toghe come, osserva un viaggiatore tedesco
del quattrocento, se fossero tanti vescovi; i levantini dalle fogge
variopinte e bizzarre.

Un altro viaggiatore, il milanese Casola, che, nel 1494, fu presente
alla processione del _Corpus Domini_, sulla piazza di San Marco, non
trova parole per descrivere i gentiluomini vestiti di aurei drappi e
di velluti, la ricchezza degli addobbi, la profusione dei fiori, la
quantità dei ceri, la varietà dei colori. Gl'ingressi dei Procuratori,
dei Patriarchi, dei Cancellieri Grandi, ecc., parevano trionfi. E
trionfi si chiamarono le incoronazioni dei Dogi e delle Dogaresse —
affascinanti splendori di tinte.

Meglio conveniva la pompa al decoro dello Stato, quando si doveano
ricevere re, principi, ambasciatori.

Cito così come mi vengono alla memoria le dorate visioni.

Nel 1521, il principe di San Severino era festeggiato in casa del
patrizio Veniero dai Compagni della Calza. L'atrio, le stanze, il
portico del palazzo tappezzati di quadri e d'arazzi: un prezioso panno
d'oro era steso nel luogo dove il principe sedeva. Sovra una credenza
erano esposte argenterie pel valore di 5000 ducati. Furono invitate
quante fra le più belle patrizie erano allora in Venezia, tutte in
abito d'oro listato in seta. Il principe, bello, grazioso e _facile
ad innamorarsi_, osserva il Sanudo, ballò fino ad ora tarda. Poi le
musiche e i buffoni, abbigliati nelle più strane fogge, annunciarono
l'ora della cena suntuosissima.

Nel banchetto per le nozze del principe di Mantova (1581), dopo la
rappresentazione di una commedia, fu aperta una bellissima sala, dove
sotto un baldacchino sedettero i principi, i duchi e i cardinali. Cento
gentildonne, riccamente abbigliate, erano assise intorno a una mensa,
risplendente di vetri di Murano.

L'entrata di Enrico III fu celebrata da storici, da poeti e da pittori.
Riccamente fantastici furono, in tale occasione, gli spettacoli:
gite, baldorie, banchetti, luminarie, regate. I giovani patrizi, al
servizio del monarca, erano vestiti con zimarre di seta, e di seta
ranciata la guardia di onore di sessanta alabardieri, armati di azze.
Il re, accompagnato dal doge, fu condotto, fra salve di artiglieria,
a Venezia, sopra una galera di quattrocento rematori, seguita da
grandissimo numero di galee, di brigantini, di fuste, di barche, di
gondole, messe ad arazzi e panni d'oro, e velluti, e specchi ed armi.
Il figlio di Caterina de' Medici fu alloggiato nel palazzo Foscari,
addobbato con arazzi, panni azzurri contesti d'oro, rasi e velluti,
sparsi di gigli. Poi si succedettero, come in un sogno fantastico,
altre feste, tornei, processioni, trionfi, conviti, cerimonie.

E tutto intorno, cornice meravigliosa, le acque della laguna, e
Venezia, mobile, varia, come donna non d'altro curante che di piacere
e che non domanda se non l'omaggio reso alla bellezza. Perchè la
bellezza a Venezia andava a poco a poco sostituendo l'antica energia,
come la pompa andava prendendo il luogo della prosperità materiale, e
il fasto chiudeva i germi della decadenza. In fatti, verso la fine del
secolo XV, il movimento commerciale di Venezia s'arrestò un poco, e la
scoperta dell'America e il passaggio del Capo di Buona Speranza fecero
prendere altra via al traffico, in modo che al mercato di Rialto, come
nota un diarista contemporaneo, il Priuli, giungevano molte galere
_vode senza collo di spetie, che mai più da alcuno non era stato
visto_. Ma Venezia non se ne accorgeva, e su quelle tristi minacce di
prossimo decadimento, gettava spensieratamente come un manto d'oro di
pompe, di feste, di arte. Di arte specialmente, degli allettamenti il
supremo.

Cresce l'artefice nella esuberanza della vita veneziana, e in quel
meraviglioso movimento l'ingegno si espande, si afforza, si accende.

La pittura, dopo il vigoroso impulso dato da Jacopo Bellini e dai
Vivarini, apre il suo libro d'oro a nomi d'artefici immortali. Fra i
primi: i due figliuoli di Jacopo Bellini, Giovanni e Gentile, Vettor
Carpaccio e Cima da Conegliano. Le glorie di quella federazione di
mercanti, di marinai, di operai, hanno come la consecrazione nell'arte,
fresca della prima vita. Non più le rigide forme artistiche venute
da Bisanzio, ma il moto e il calore, l'impronta del tempo e del
luogo, l'eco dei trionfi guerreschi, delle incoronazioni di dogi,
dell'arsenale fragoroso d'opere. La grandezza politica e guerresca di
Venezia è recente e l'arte ne raccoglie l'immagine con vivacità. Ma
la vivacità e la gioia sono come velate da un intimo senso di soave
dolcezza, che accresce le attrattive. È un soffio dell'arte ingenua
e pura del trecento. A noi qui importa poco saper se gli artefici
trecentisti fossero più o meno religiosi o virtuosi di quelli che li
seguirono, nè a noi preme indagare se le figure stecchite dei santi
esprimano fervide preghiere, prelibamenti di beatitudini celesti, ma
quelle opere primitive, offese da sante ignoranze, hanno i fascini,
che inspira sempre l'infanzia. Hanno un'attrattiva particolare quelle
ingenuità, che ci fanno rivedere i pittori dipingere _col pennello
sottile acuto di setole liquide e sottili, che entravano su per un
bocciuolo di penna d'oca_, come insegnava il buon Cennino Cennini
di Colle di Val d'Elsa. E poi i secoli ammorbidiscono i contorni
delle cose, li fanno vedere come a traverso una leggera nebbia di
poesia. Il tempo fa acquistare a ciò che trova quel colore d'antichità
veneranda, che i pittori chiamano pattina, e gli Attici negli scritti
chiamavano πῖνον. Così il corso dei secoli ha involto in un'aura di
misteriosa religiosità certe vecchie cattedrali gotiche, bianche e
gaie, simili ad immensi oggetti d'orificeria, al tempo della loro
gioventù, e che ora parlano colla melanconia delle memorie, coi marmi
tinti sapientemente dal tempo, colla austera maestà delle rovine. Per
tal modo, l'arte del quattrocento, non essendosi potuta impadronire
di tutti i mezzi tecnici, conserva ancora la soave imperizia del
trecento. La timidezza in arte è sinonimo di sincerità. E quegli
artefici sono timidi e sinceri: qualche volta poveri di bellezza
esteriore, ma ricchi di sentimento. Nella purezza immacolata delle
vergini, nella serenità cogitabonda dei santi, nella gioia calma degli
angeli, in ogni espressione sempre vaga e melanconica, essi, gl'ingenui
quattrocentisti, si proponevano, forse inconsapevolmente, dei problemi,
che affaticano gli uomini del nostro tempo e non ancora hanno trovato
una soluzione. Ecco perchè noi sentiamo fiorirci nell'animo come un
vivo desiderio di quell'arte tenue e semplice, ecco perchè noi, meglio
che i nostri padri, comprendiamo quei solitari ricercatori, che furono
travolti nello strepito allegro dell'arte che li seguì.

E certamente ai due Bellini, al Carpaccio, al Cima dovè sembrare un
libertinaggio pittorico la nuova maniera di Tiziano. Così Venezia,
dinanzi alle bellezze femminili di Tiziano e di Paolo, dimenticò la
maniera di Gian Bellino e degli altri pittori di quel tempo, maniera
che il Vasari chiama secca, cruda, stentata. Ma la critica moderna,
più imparziale e più larga, studia con amore quella maniera _secca_ e
_cruda_ dei primitivi maestri veneziani, i quali risentirono l'influsso
della scuola toscana e l'azione del casto genio nordico. Quel non so
che esuberante e festivo dell'indole veneziana, fu come tenuto in
freno dalla purezza dei Toscani e dalla temperanza dei maestri del
settentrione.

A poco a poco questa sincerità e questa ingenuità dell'arte vanno
dileguandosi. Le idee, il gusto si trasformano, i costumi si
addolciscono sempre più.

Nell'arte il fiore s'è svolto in frutto. Non più impedimenti tecnici
— _la mano ubbidisce a tutto ciò che vuole l'intelletto_, per dirla
con Michelangelo. Alla morbidezza, alla grazia, all'eleganza succedono
l'allegrezza, la giocondità, l'esultanza. Dagli altari le vergini dolci
cominciano a sorridere mondanamente, e sulle labbra, un dì socchiuse
alla preghiera, freme come il desiderio di un bacio. Sulle tele, nei
marmi il culto della forma; alla pittura sobria, delicata, succedono le
luminose malìe della tavolozza, il fulgore impareggiabile delle tinte,
lo splendore che accarezza e ammalia l'occhio, ma non penetra fino
all'animo.

Sono arti grandi tutte e due, ma una ti parla al senso, l'altra
all'animo, l'una t'innamora della forma, l'altra ti investiga lo
spirito.

Giorgio Barbarella, detto il Giorgione, stacca, per dirla con un
critico straniero, la pittura dell'ancoraggio del Medio Evo per
slanciarla sulle onde del Rinascimento, di quel Rinascimento che
la critica dell'avvenire, sgombra dai pregiudizi di cattedra e di
accademia, mostrerà quanto di originalità abbia tolto all'arte e
alla letteratura italiana. Egli esce dall'antica timidezza e lascia
spaziare il genio a sua voglia, moderando però gli arbitrii della
fantasia con severe cognizioni. Ei modella, tra mille blandimenti, i
corpi femminili, cui infonde una specie di tôno aureo diffuso, e le
carni del color dell'ambra, staccano, fra armoniose trasparenze, sul
fondo del paesaggio dipinto con un senso della natura, tutto moderno. I
declivi corrono ricchi di messi alla pianura, velata da vapori lievi;
nulla d'arido nel suolo, nulla di triste nel cielo. Egli tramuta in
realtà l'ideale della madre di Dio, ma sulla fronte delle sue madonne,
mondanamente formose, sfuma ancora l'ombra di una santa dolcezza.
Giorgione segna il punto di transazione fra la leggenda cristiana
e i miti dell'antichità. Prima di Giorgione prevale il sentimento
cristiano, congiunto allo studio della natura, dopo di lui predomina
l'imitazione dell'antico. I quattrocentisti s'erano assimilato lo
spirito classico, pur rimanendo cristiani nel fondo dell'anima; i
cinquecentisti non mirarono se non a dar forme nuove ai miti pagani: il
passato ringiovanisce in nuovi spiriti.

Tiziano, Paolo Veronese e il Tintoretto, compiono il veneto
rinascimento. Tiziano è grande come un genio, splendido come un re. Non
mai la pittura fu come in lui forte e ricca. Ma bandite le sottigliezze
del pensiero e del sentimento, le intime emozioni, in lui non vibra
se non l'appassionato amore della bellezza. Tutto ciò che si move nel
cuore, tutto ciò che si agita nella mente, come un problema doloroso,
non lo arresta, pago di rappresentare la vita del senso, dominatrice di
quella dell'anima.

Egli ha la tranquillità della forza; spirito che non si ascolta e non
s'interroga, e accetta la vita com'è, senza indagarne i misteri. I
suoi ritratti meravigliosi, riproducono in modo inarrivabile l'indole
del modello, non già perchè l'artefice studiasse il pensiero che
passava sulla fronte o lampeggiava nell'occhio, ma perchè il pittore
riproduceva, con una abilità non raggiunta più mai, ogni accidente del
reale, senza cercare più in là.

I biografi del Tiziano narrano che l'imperatore Carlo V, in uno dei
suoi giorni di suprema tristezza, volle consultare Tiziano per la
composizione di un dipinto, nel quale fossero rappresentate e la lotta
religiosa di quel tempo e il suo stesso desiderio di riposo. Alla sua
richiesta, il maestro rispose, proponendo di rappresentare la radiante
corte del cielo, presieduta dalle tre persone della Trinità, con tutto
il seguito di patriarchi, profeti, evangelisti, e la Vergine Maria
in atto d'intercedere presso il figlio, inginocchiata fra le nubi ed
attorniata da angeli, per i peccati della reale famiglia. Ma il quadro
non fu mai eseguito, e il pittore tradì la sua libera natura solo con
la parola.

E, nel regno della passione e del sentimento, neppure il Veronese
esercita alcun impero. Egli è il lirico della pompa lussuriosa,
l'interprete della bellezza irriflessiva, il glorificatore del colore e
della luce, il mago di un'arte che esprimeva la ricchezza, la gloria,
la potenza: la ricchezza con tutte le sue magnificenze e tutte le
sue pompe, la potenza con tutte le sue energie e i suoi ardimenti, la
gloria con tutte le sue effervescenze e i suoi entusiasmi. Sulle sue
tele i colori ardono, divampano, guizzano, sfavillano, abbagliando il
riguardante,

      sì come il sol che si cela egli stesso
    per troppa luce....

Solo a traverso la fantasia del Tintoretto passa qualche concetto
profondamente triste, ma anch'egli è poi attratto dalle fulve bellezze
veneziane, anche per lui il pensiero, il sentimento, la commozione si
trasformano in una grazia plastica, in una eleganza materiale. E dietro
a Paolo, a Tiziano, al Tintoretto, altri artefici giocondi: i Palma,
Lorenzo Lotto, Bonifazio, Paris Bordone, lo Schiavone, il Pordenone, il
Bassano e molti ancora, che creano una folla di figure ridenti, fra le
gaiezze del cinquecento.

Nella donna essi non comprendevano che la venustà corporea. Un intenso
profumo di sanità e di piacere spira dalle rosee carni femminili. Nè
meno affascinanti le bellissime donne imprigionate le membra opulenti
dai vestiti d'oro e di broccato.

Paolo Veronese ha dipinto nel Palazzo Ducale il trionfo di Venezia,
coronata dalla Gloria, celebrata dalla Fama, circondata dalla Virtù,
da Cerere e da Giunone, ammirata da donne ignude e discinte. Ebbene,
o Signori, quando io guardo quella fiorente bellezza, che rappresenta
Venezia, il pensiero corre pei sentieri fioriti di quel secolo, e
rievoca (non vi paia irriverente il raffronto) rievoca la immagine di
Veronica Franco, l'Aspasia veneziana, adulata dai potenti, riverita
dagli uomini più illustri, amata da Enrico III, che portò con sè in
Francia il ritratto della bella cortigiana, dipinto dal Tintoretto.
E in vero la cortigiana diventa di questo tempo la musa dell'arte, ed
ha i suoi storici, i suoi poeti, i suoi novellatori, i suoi pittori.
Di tai donne a Venezia ce n'è un infinito numero, scrive il Bandello,
e le chiamano _con onesto vocabolo_ cortigiane. — Cesare Vecellio ce
le descrive coi capelli arricciati, e la veste aperta sul seno, con
monili d'oro e d'argento, catene d'oro, seriche vesti, cappe di velo
di seta, pianelle bianche e calze ricamate. _Sono molto simili alle
nobili venetiane appresso coloro che non hanno la pratica della loro
conditione_, osserva Cesare Vecellio. Nelle loro case, splendenti di
serici parati, di cuoi dorati, di arazzi, convenivano gli artisti.
E, fra le congreghe liete, s'alzava molte volte acuta e squillante la
risata maligna di Pietro Aretino.

Era una serenità imperturbabile, la vita non aveva per quegli uomini
giocondi inquietudini e amarezze, tutto per essi era limpido e calmo.
Le passioni umane, le ire, la curiosità non turbavano quelle fronti
serene. Parecchi fra gli artefici, Tiziano e Paolo, ad esempio,
pieni di speranze e di fantasie, venivano dal luogo natio alle
lagune, ricambiando l'ospitalità cortese di Venezia, allietando la
città dei più bei fiori dell'arte. Aveano amicizie di re, protezioni
d'imperatori, ma non servirono mai ad altro che agli occhi delle belle
donne. In amore non erano dell'avviso di Michelangelo, che cioè l'amore
fosse _un concetto di bellezza immaginata_, ma cercavano il dolce oblìo
d'ogni cura nella bellezza delle veneziane, che vivono nelle loro tele
d'una vita immortale.

I problemi del mondo psichico non li tormentavano, non cercavano
l'espressione intensa, ma l'atteggiamento elegante. Lasciavano libero
il volo alla fantasia e si piacevano delle più strane licenze. Paolo
poneva a canto il Redentore figure nude e licenziose, alla Santa Cena
faceva intervenire uomini d'arme tedeschi, servitori che gettavano
sangue dal naso, apostoli che si stuzzicavano i denti colla forchetta.
Ciò parve irriverente al Sant'Uffizio, che diede una buona ramanzina
al Veronese, il quale sorridendo rispose che egli dipingeva figure e
non caratteri, che i pittori possono pigliarsi _quella licentia che si
pigliano i poeti e i matti_, e che faceva i suoi quadri _senza prendere
tante cose in consideration_.

— _Fare i quadri senza prendere tante cose in consideration_ — ecco
tutte le loro teoriche ed ecco tutta la loro forza. La lotta artistica
non deve essere di parole, non di teorie, ma di opere e di esempio,
se vuole il trionfo. Comparate la fecondità di quegli artefici alla
stentata opera moderna, quei quadri immensi, compiuti con inarrivabile
prestezza di concetto e di eseguimento, senza sforzo (la _Gloria del
paradiso_ del Tintoretto è una tela alta metri 7,50, larga 24,60), coi
nostri quadretti di pochi palmi fatti, rifatti, torturati nell'ansia
della ricerca. Noi nulla soddisfa oggi, essi di tutto si appagavano
allora — noi raffinati e anemici, essi pieni di vigoria e di salute —
noi dissolvitori, essi creatori — noi critici, essi artisti.

Ma in tutta l'arte veneziana del Rinascimento, dai primi maestri
agli ultimi lieti cinquecentisti, eccezion fatta per qualche isolata
espressione religiosa, come in Giovanni Bellini, o per qualche
meraviglioso ritratto di Tiziano e di Paolo, una cosa sopra le altre
ci arresta, ed è l'evidenza con cui è ritratta la folla. Persino nei
pittori amabilmente timidi del primo periodo dell'arte v'è un senso
della decorazione, un gusto dei colori, che è come il riflesso della
vita festosa. Il protagonista dei loro quadri non è mai un uomo, ma
il popolo, nessuna figura attira particolarmente la nostra attenzione
e l'occhio vaga soddisfatto sulla folla composta, tranquilla nei suoi
movimenti, ma gaia e variopinta. Così nei quadri del Carpaccio e di
Gentile Bellini, protagonista è Venezia con le sue feste pubbliche,
che chiede all'Oriente l'opulenza e i colori, lieta di strepiti
guerreschi e di fervore operoso. Poi viene la folla romorosa e festante
dei pittori successivi, nelle opere dei quali si sente ancora oggi
come un'eco dell'allegria veneta, delle luminarie, delle fiere, delle
giostre, delle serenate, delle regate.

A differenza degli artefici toscani, che s'arrestano particolarmente al
singolo individuo, all'espressione del volto, i Veneti ritraggono con
amabile e vivace superficialità la vita reale agitata e romorosa. Tale
l'arte, tale la vita. Che cosa è l'uomo a Firenze? Figure energiche
austere dominano la folla. Farinata, Dante, Giano della Bella, Michele
di Lando. A Venezia invece l'uomo è assorbito dallo Stato. Lo Stato
non permette all'iniziativa individuale di esercitarsi in tentativi
isolati, lasciando a ciascuno la responsabilità della propria sorte, e
quindi ogni uomo coordina la sua azione a quella degli altri. Le virtù
militari e civili non fanno che accrescere la gloria dello Stato, il
quale veglia geloso perchè l'uomo non acquisti troppa autorevolezza,
perchè la libertà non s'infoschi intorno a un trono. Qui non avrebbero
potuto fiorire le ambizioni medicee. Questa cura di tutto eguagliare,
perchè nessuna autorità potesse innalzarsi, perchè nessuna potenza
individuale potesse sorgere minacciosa di fronte alla repubblica, la
vedete in ogni atto dello Stato veneto.

Tale la vita, tale l'arte. Gli artefici toscani, o sulla tela o nel
marmo, ritraevano, ben distinti, gli uomini celebri del loro tempo,
gli amici più cari, gli avversari più odiati. E con tanta diligenza
ne studiavano le sembianze, da esserci tramandati perfino i nomi di
taluni personaggi riprodotti sulle tele o nei marmi. Donatello dovea
scolpire sul campanile del Duomo una statua di Geremia o di Salomone,
e vi pose invece il ritratto di Francesco Soderini. Negli affreschi
della cappella Brancacci possiamo notare Masolino, Masaccio, Filippino,
Botticelli e Pollaiuolo. E Luca Signorelli ritrae nei freschi del Duomo
d'Orvieto sè stesso e molti amici suoi: Nicolò, Paulo e Vitellozzo
Vitelli, Giovan Paolo ed Orazio Baglioni. I pittori veneti invece
badavano unicamente a ciò che stava bene nel quadro, e nel quadro
ritraevano coloro che avevano pittoresco il tipo e non altri. Se
qualcuno volea la sua effigie tramandata ai posteri in qualche tavola
di artefice insigne, bisognava ne desse commissione, come la famiglia
Pesaro nella pala di Tiziano ai Frari, e i Pisani nel quadro del
Veronese, rappresentante la famiglia di Dario ai piedi di Alessandro.
Nelle scene dipinte dai Veneziani, l'uomo si confonde fra l'agitazione
elegante della folla. Questo principio di predominio della casta
sull'individuo, che formò la grandezza civile e artistica di Venezia,
fu poi anche causa della sua decadenza, giacchè l'iniziativa privata,
la libera spontaneità individuale e la personale responsabilità non
vennero in aiuto dello Stato decadente.

E in fatti, dal chiudersi del cinquecento in poi, ruinano le sorti
di Venezia, la quale scema ogni anno di tesoro e di dominio. Anche la
sua arte splendida infiacchisce per ripigliare nuova forza nell'ultimo
secolo della repubblica, quasi a confortare l'agonia della singolare
città. L'arte del seicento offerse il passaggio dallo splendido
naturalismo del cinquecento all'elegante raffinatezza del settecento.
Ma già alla fine del secolo sedicesimo, nelle botteghe dei pittori,
l'arte decade precipitosamente.

Il corteo mesto e rado, che, fra la desolazione della città atterrita
dalla peste, segue, nel 1576, la bara di Tiziano, sembra il funerale
della grande arte veneziana. L'ultimo de' suoi forti campioni, che
vide spegnersi a poco a poco la gloria pittorica di Venezia fu Jacopo
Tintoretto, dilungato dal mondo, ridotto a perpetui ragionari con le
sue idee.

Morì nel 1597. Sette anni prima gli era morta la figlia Marietta,
bella, buona, giovane, celebre ormai nella pittura e nella musica. Il
misero padre si vide gittato dalla corrente della sventura sulla riva,
come un avanzo di naufragio. Anche i suoi maestri, i suoi compagni, i
suoi amici — Tiziano, Paolo — tutti se ne erano andati alla pace, che
non ha turbamenti. La sua vita s'era ridotta a un trepido silenzio;
conforto unico — l'arte. E negli ultimi istanti della sua vita, certo,
alla dolce immagine della sua Marietta si sarà unita la luminosa
visione dell'arte, nel desiderio supremo che a quest'arte e alla patria
non fossero per mancare degli altri ingegni da riempire di fantasie,
degli altri cuori da movere alla passione.


  FINE.



  INDICE.

                                                              Pag.

  ERNESTO MASI        Lorenzo il Magnifico                       1
  GIUSEPPE GIACOSA    La vita privata ne' Castelli              31
  GUIDO BIAGI         La vita privata dei Fiorentini            49
  ISIDORO DEL LUNGO   La donna fiorentina nel Rinascimento
                        e negli ultimi tempi della libertà      99
  GUIDO MAZZONI       Il Poliziano e l'Umanesimo               147
  ENRICO NENCIONI     La lirica del Rinascimento               178
  PIO RAJNA           L'Orlando innamorato del Boiardo         205
  FELICE TOCCO        Il Savonarola e la Profezia              236
  DIEGO MARTELLI      La pittura del 400 a Firenze             269
  VERNON LEE          La scultura del Rinascimento             293
  ENRICO PANZACCHI    Leonardo da Vinci                        309
  POMPEO MOLMENTI     L'arte veneziana del Rinascimento        332



NOTE:


[1] DEL LUNGO, _Dino Compagni_, II, 464.

[2] DEL LUNGO, I, 6.

[3] PAOLO DI SER PACE DA CERTALDO. — Ms. Riccard. 1383, § 18.

[4] SACCHETTI, n. 17.

[5] SACCHETTI, n. 110

[6] LAPO DA CASTIGLIONCHIO.

[7] VILLANI, X, 208.

[8] PERRENS, _Histoire de Florence_, III, 408.

[9] DEL LUNGO, I, 96.

[10] PUCCI, _Le proprietà di Mercato Vecchio_.

[11] PAOLO DI SER PACE DA CERTALDO, § 23.

[12] SACCHETTI, n. 161.

[13] _Capricci e anneddoti di artisti_, descritti da GIORGIO VASARI.
Firenze, Barbèra, 1878, in-64.

[14] SACCHETTI, nov. 83, fine.

[15] Ivi, 108.

[16] SACCHETTI, n. 92.

[17] PAOLO DI SER PACE DA CERTALDO, § 56.

[18] Ivi, § 76.

[19] SACCHETTI, nov. 32.

[20] PERRENS, III. 330, 331, 335 e segg.

[21] PAOLO DI SER PACE, § 79.

[22] G. DATI, _Il libro segreto_, pag. 100-101.

[23] BONGI, in ZANELLI: _Le schiave orientali a Firenze_. Firenze, 1885.

[24] Ivi, VII. Firenze. 1885.

[25] ZANELLI, pag. 40.

[26] ZANELLI, pag. 41.

[27] MACINGHI, pag. 475.

[28] ZANELLI, pag. 83.

[29] MAZZEI, I, 88 prefaz.

[30] La festa di San Giovanni Battista che si fa in Firenze, in GUASTI:
_Le feste di San Giovanni_, Firenze, 1884. pag. 11.

[31] NOV. 99.

[32] Nov. 136.

[33] SACCHETTI, n. 178.

[34] Ivi, n. 105.

[35] SACCHETTI.

[36] Ivi, 178.

[37] Ivi, 178.

[38] SACCHETTI, n. 200.

[39] G. VILLANI, X, 150.

[40] MORELLI GUIDO, _Deliberaz. suntuaria del Comune di Firenze_.
Firenze, 1881.

[41] FABRETTI ARIOD., _Vestire degli uomini e delle donne in Perugia_,
a pag. 176.

[42] VILLANI.

[43] DEL LUNGO, _La donna fiorentina ne' primi secoli del Comune_, a
pag. 31.

[44] FABRETTI, pag. 208.

[45] VILLANI, XII, 4.

[46] Nov. 137.

[47] CARDUCCI, Rime antiche da carte di archivi. Nel _Propugnatore_,
vol. I, fasc. I, 1888.

[48] PELLEGRINI F. C. — Agnolo Pandolfini in _Giornale Storico della
Lett. It._, fasc. 1-2, 1886 a pag. 49.

[49] _Inventario e Regesto dei Capitoli del Comune_, pag. 103-108.

[50] PELLEGRINI, op. cit., pag. 45.

[51] Nov. 146.

[52] Nov. 204.

[53] MAZZEI, I, LVIII.

[54] MAZZEI, I, LVIII.

[55] SACCHETTI, nov. 148.

[56] DONATO VELLUTI, _Cronica_, pag. 30-31.

[57] CORAZZINI, _I Ciompi e Michele di Lando_, p. XCVI.

[58] GIOVANNI MORELLI, _Cronica_, pag. 280.

[59] Vol. I, pag. 250.

[60] GUASTI, _Lettere di Ser Lapo Mazzei_, I, pag. CXXI.

[61] Pag. 96.

[62] GUASTI, op. cit., pag. CXIX.

[63] B. PITTI, _Cronica_, pag. 86 e 133.

[64] MORELLI, pag. 281.

[65] MORELLI, pag. 284.

[66] SALVI, prefaz. al _Dominici_, pag. XIII e XIV.

[67] PITTI, _Cronica_, pag. 58.

[68] _Lettere di Ser Lapo Mazzei_, I, pag. CI.

[69] _Cronica_, pag. 33.

[70] Ivi, pag. 19-20.

[71] Ivi, pag. 53.

[72] Vol. II, pag. 221.

[73] MACINGHI, pag. 438.

[74] MACINGHI, pag. 526.

[75] MACINGHI, pag. 587.

[76] Idem, pag. 600.

[77] MAZZEI, pag. LXXVIII.

[78] PITTI, pag. 112.

[79] RUCELLAI, pag. 72, e segg.

[80] PANDOLFINI, ediz. Silvestri, pag. 47 e segg.

[81] POLIZIANO, ediz. Sansoni, pag. 299.

[82] GIOSTRA, ottava 43.

[83] BORGHINI, _Della moneta_.

[84] TRIBALDO DE ROSSI, pag. 260.

[85] PICCINI, _Facezie e motti_, pag. 95.

[86] D'ANCONA, _Origini del teatro_, I, p. 254-255 _passim_.

[87] MURATORI, _R. I. S._, II, pag. 739.

[88] Nozze Supino-Morpurgo, _Cerimoniale di Franc. Filarete Araldo_.
Pisa, 1884.

[89] GUASTI, pag. 24. — TRIBALDO DE ROSSI, pag. 271.

[90] D. SALVI, in _Dominici_, pag. 252.

[91] _D. Salvi_, in _Dominici_, pag. 248.

[92] Pag. 247.

[93] FRATI L., _La morte di L. de' Medici_ in _Arch. Stor. Ital._,
lett. citata del Dei.

[94] Vedi più innanzi in questo volume la conferenza di DIEGO MARTELLI,
_La pittura del Quattrocento a Firenze_.

[95] Vedi la conferenza di GUIDO BIAGI, _La vita privata dei
Fiorentini_.

[96] Vedi la citata conferenza su _La vita privata dei Fiorentini_.

[97] Vedi la conferenza di ERNESTO MASI, _Lorenzo il Magnifico_.

[98] Questi versi appartengono alla penultima stanza dell'edizione che
si pubblicò dei primi due libri nel 1486: stanza omessa nelle edizioni
successive.

[99] Vedi pag. 321.

[100] Pasquale Villari, che nel marzo 1892, quando si leggeva questa
conferenza, era ministro dell'istruzione pubblica. Ma poche settimane
dopo, il 5 maggio, cadeva il ministero Rudinì di cui egli faceva parte.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "La vita Italiana nel Rinascimento - Conferenze tenute a Firenze nel 1892" ***

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