Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII | HTML | PDF ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Il trampolino per le stelle - Tre dialoghi e due racconti
Author: D'Ambra, Lucio
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il trampolino per le stelle - Tre dialoghi e due racconti" ***


                             LUCIO D'AMBRA

                             Il trampolino
                             per le stelle

                      Tre dialoghi e due racconti



                          L. CAPPELLI, Editore
                 BOLOGNA — ROCCA S. CASCIANO — TRIESTE



          Di questo libro sono state tirate 50 copie su carta
            di lusso, firmate dall'Autore e numerate a mano.

                          PROPRIETÀ LETTERARIA



Il trampolino per le stelle


   In un qualunque tempo, in un paese qualunque, poichè Pierrot è
   sempre Pierrot, maschera e uomo, poeta e fanciullo. Egli stesso
   lo ha detto: «Io dico sempre la stessa cosa, perchè è sempre la
   stessa cosa; e se non fosse sempre la stessa cosa io non direi
   sempre la stessa cosa».

   Che cosa dice Pierrot? Dice che vuole essere amato più di
   quanto egli sappia amare. Dice che vuole un'innamorata sempre
   fedele, alla quale egli possa essere sempre infedele. Dice
   che tutto vorrebbe, senza dare mai niente: o tutt'al più
   un sospiro, un verso, una serenata, una canzone, un bacio,
   tuttociò insomma, che fa a lui piacere di dare prima che
   faccia piacere agli altri di ricevere. Sono io, Pierrot, io
   che scrivo. Sei tu, Pierrot, tu che leggi. Siamo tutti Pierrot,
   quanti noi siamo: uomini, fanciulli, poeti.

   Questo mio Pierrot di stasera è, come tanti, è come tutti.
   Poeta anche lui. Innamorato anche lui. Vive lassù, in
   soffitta, tra cieli e venti, e vorrebbe una reggia. Ha per
   amica Colombina, fiorista nella strada accanto, e vorrebbe
   una regina. Ha per amici quattro studenti come lui e vorrebbe
   per amici i dotti di Salamanca e il Principe di Galles. Ha le
   tasche vuote e vorrebbe i milioni di Rothchild. Ha poco sale in
   zucca e crede d'avervi la saggezza di Socrate. Ama le donne, i
   fiori e i bambini, ma le donne se non pretendono, i bambini se
   non piangono e i fiori se non sono destinati a dire addio ai
   morti. È un piccolo egoista, pieno di cuore, come me, come voi,
   come tutti. È un bugiardo che pretende la verità negli altri, è
   uno che strappa agli altri le illusioni e vorrebbe averle tutte
   lui, è un omettino che crede di saper tutto e non sa nulla. Si
   vanta di tutto potere e nulla può, proclama di amare tutti e
   non ama che sè.

   Ora è lì, nella soffitta, al suo tavolino coperto di carte e
   di libri. È con lui un amico, che lo lascia parlare, che lo sta
   sempre, povero Giobbe, pazientemente a sentire.

   Fuori nevica da un cielo di farina. È l'ultimo giorno di
   carnevale. Lì, sul tavolino, gettata su un libro, c'è una
   mascherina nera, quella che Pierrot ha messo iersera e che
   rimetterà stasera, quando crede di andare per le bettole e fra
   le maschere a divertirsi.

   Nel caminetto una sedia rotta fa un po' di luce e quel po' di
   luce par che faccia anche un po' di caldo. E Pierrot e l'amico
   chiacchierano per chiacchierare.


L'AMICO

Come mai oggi Colombina non c'è?

PIERROT

Mai più vedrai Colombina in questa onesta casa d'un poeta. Colombina
è una fraschetta, una civetta, Colombina è l'ultima delle donne. L'ho
scacciata un'ora fa da questa casa. Le ho gettato giù dalla finestra i
suoi cenci e la sua cuffia, i suoi scialletti ed i suoi nastri, i suoi
riccioli finti e i suoi fiori di carta. E non la rivedrò mai più, mai
più, mai più, mai più...

L'AMICO

Te l'ho sentito dir cento volte e il giorno dopo Colombina era qui.

PIERROT

Non ero io a richiamarla. Era Colombina a ritornare.

L'AMICO

Colombina diceva il contrario.

PIERROT

Colombina ha sempre mentito.

L'AMICO

E tu non le hai mentito mai?

PIERROT

Mai! E, senti, se vuoi rimanermi amico, se tu vuoi che non ci
guastiamo, non mi parlare mai più di Colombina. È morta, sepolta,
dimenticata, cancellata, dileguata, volatilizzata, polverizzata,
annientata, finita, sparita, svanita, allontanata, liquidata, volata,
sfumata, centrifugata. Con l'ultimo giorno di carnevale la sua
maschera è caduta. E domani è Quaresima. Il magro tempo quaresimale
consiglia raccoglimento e meditazione, severi studii di metafisica e
di filosofia. Dimenticherò nei numeri i suoi innumerevoli sorrisi e
andrò a dormire, ogni sera, con un filosofo nuovo. I suoi innumerevoli
sorrisi... Quanti ne aveva! Uno per prendermi e uno per lasciarmi, uno
per deludermi e uno per illudermi, uno per mentirmi come se fosse vero
e uno per dirmi la verità come se fosse una bugia, uno per fingersi
schiava e uno per farmi vedere che era padrona, uno per darmi il suo
cuore per sempre e uno per riprenderlo dopo un'ora... Ah, li conosco
tutti, oramai, e non possono più farmi male... Del resto nulla oramai
può più farmi male... Conosco le donne, gli uomini, i parenti, gli
amici, i ricchi, i poveri, i sapienti, gli imbecilli, me, te, il mio
vicino e quello che mi sta di rimpetto... Bella roba, tutta quanta,
in verità... Ah, che orribile mondo, questo, dove tutto è illusione,
menzogna, inganno, miraggio, vanità... Colombina, e tutte le donne, mi
hanno mentito... Tutti gli amici mi hanno tradito... Tutte le illusioni
se ne sono andate via per la finestra quando la realtà è riuscita a
entrare dalla porta... Tutte le speranze sono andate in fumo su per
la cappa del camino, quando ho cercato di scaldare al loro fuoco il
mio povero cuore intirizzito... E bisogna star qui, in questo mondo
stupido e vile, qui ad aspettare quello che non viene, a desiderare
quello che nessuno può darti, a cercare quello che non c'è... Ah,
andarsene, andarsene, andarsene... Via, via, lontano, lassù, lassù,
dove non arrivano gli aviatori, dove non arrivano neppure gli uccelli,
nell'etere, dove a quest'ora, nella sera serena, s'accendono le stelle,
dove la mia parente, la luna, s'affaccia ogni tre settimane, ride a
vedere quanto siamo stupidi, gonfia tutta la faccia a furia di ridere
e poi si sgonfia e se ne va... Guarda...

   (Prende su la scrivania il libro su cui è gettata la maschera.
   Sono le _Odes funambulesques_ di Théodore de Banville. E mostra
   il libro all'amico, poi cerca una pagina segnata).

L'AMICO

Che libro è quello?

PIERROT

Un poeta. Tu non lo conosci perchè tu non sei poeta e i poeti li
conoscono solo i poeti. Questo era un poeta che giuocava con le
strofe, come i bimbi con le trottole. Legava il filo delle rime
d'oro, stringeva e ristringeva attorno a un pensierino e poi lanciava
la trottola, lanciava la strofa e si divertiva un mondo a vederle
girare, girare, girare, tutte colori, tutte scintille, scintille che
splendevano, ma non bruciavano, come quelle dei fuochi a girandola
che accendono nelle sere di feste. Tu vedi tutto il cielo a fuoco
e non è nulla, dopo un istante: nè ardore, nè luce: buio. Tu vedi
tutte le pagine splendere alla luce di quel poema incandescente e
fosforescente e vai per scaldarti. Ma la luce s'è spenta e non c'è
più nulla quando l'ultima rima ha dato l'ultima scintilla. Era un
poeta, sì, ma era poeta come si può essere lucciola. Amava le fate e i
folletti, i clowns giocolieri e i fabbricanti di fuochi artificiali,
le donne tutte splendore di gioielli veri o falsi e le ballerine
tutte trasparenti di veli bianchi e rosei. Amava anche i Pierrot, come
me, come lui. Chiedeva alle fate che non ci sono le cose impossibili
che non si possono avere. Avrebbe voluto pescare la luna in fondo al
pozzo e metter le stelle a modo suo, davanti alla sua finestra, come
tanti lampioncini d'argento. E questo poeta dell'impossibile, questo
poeta che visse e morì felice perchè non aveva cuore ed era tutto
fantasia, voleva paragonarsi ad un _clown_, ad un bel _clown_ di seta
bianca e nera, che fa del suo sogno un trampolino, un gran trampolino
per scappar via dal mondo e andarsene lassù fra le stelle. Ascolta,
ascolta...

    _Plus haut! Plus loin! De l'air! Du bleu!_
    _Des ailes! Des ailes! Des ailes!_
    . . . . . . . . . . .
    _Le clown sauta si haut, si haut..._
    . . . . . . . . . . .
    _Et le coeur dévoré d'amour,_
    _Alla rouler dans les étoiles..._

   (E quando Pierrot ha finito di leggere l'_Ode funambulesque_
   di Banville, l'amico scuote il capo, mentre Pierrot è tutto
   vibrante d'entusiasmo).

L'AMICO

Son belli, questi versi. Ma il tuo poeta è pazzo. Chiede e sogna
l'impossibile. E non si può, quando si è stanchi del mondo, saltar
nelle stelle. Si può saltare dalla finestra e fracassarsi in istrada la
noce del collo. L'uomo non può saltare più in là di due metri dalla sua
finestra.

PIERROT

Ma questo appunto vuol dire esser poeti: sognare l'impossibile,
cercare nell'irreale il compenso del reale, metter nella vita quello
che non c'è, dare agli altri ciò che non hanno, aver le fate dentro un
rimario, i maghi nel calamaio, la bacchetta dei miracoli nella matita,
l'orchestra del paradiso in una conchiglia, l'oceano nella vasca
del tuo giardino, il cielo nel rettangolo della tua finestra, tutto
il mondo negli occhi d'una fraschetta come Colombina e un pubblico
immenso, per ammirarti, nelle orecchie d'uno scemo come te.

L'AMICO

Grazie tante.

PIERROT

E, avendo tutto questo, andarsene, senza muoversi di qui, volar nelle
nuvole coi piedi in terra, correre il mondo nella propria camera,
dominare i popoli essendo soli, giuocar coi secoli per pochi anni,
viver mille vite senza averne una ed aver tutto conosciuto senza aver
mai visto nulla. E vorrei anch'io stasera, perchè non ho un soldo,
perchè i miei versi nessuno li stampa, perchè nessuno mi vuol bene,
perchè nessun amico mi capisce, perchè gl'imbecilli vanno in carrozza
ed io vado a piedi, perchè Colombina mi ha lasciato per andare a cena
col vecchio barone che la protegge, vorrei anch'io stasera, come
Banville, toccar la bacchetta magica della fantasia, mutar questa
bianca casacca con l'abito ad aereostato del _clown_, fatto apposta
per salir su, su nel cielo e, uscito sul tetto di questa casa, trovare
il gigantesco trampolino e spiccare il salto verso le stelle... E una
volta raggiunti quei mondi nuovi, trovar tutto quello che quaggiù mi
manca, l'amore, l'amicizia, la verità, la gloria. Trovar lassù la donna
che non mentisce, l'amico che non tradisce, la realtà che non delude,
la verità che non uccide, la gloria che non deride... Trovar lassù,
nelle stelle, il mondo dei poeti e della poesia, i giardini sempre
in fiore, i cieli senza nuvole, i mari sempre azzurri, il sogno senza
risveglio, il trionfo senza nemici, l'amicizia senza invidie, l'amore
senza sospetto, il possesso senza dubbio, il sorriso senza lacrime,
la terra senza putredini, il bene senza male, la vita senza morte, il
volo senza caduta, il sole senza tramonto, e, soprattutto, io che della
menzogna ho sofferto e per la menzogna ho spasimato, io che la menzogna
ho sentito, viscida e sfuggente, in ogni cosa del mondo, soprattutto,
amico, io vorrei trovarvi soprattutto il bene dei beni, la gioia tra
le gioie, quella che è la mia sete inestinguibile, il martirio famelico
dell'anima mia: la verità, la verità senza veli, finalmente...

   (Nell'esaltazione Pierrot s'è commosso. E ora è li, abbattuto
   su la scrivania, il volto sulle braccia ripiegate a fargli da
   cuscino. Ora non nevica più. Il cielo è nero. La notte è fonda.
   L'amico s'è levato ed ha acceso nella soffitta una piccola
   lampada senza luce che si contenta di far dell'ombra, un po' di
   penombra. Accesa questa e la pipa, l'amico viene, avvolto nel
   mantello, a batter le mani su le spalle di Pierrot).

L'AMICO

Vieni via. Vieni a cena. È carnevale.

PIERROT

No. Lasciami. Sono solo e disperato.

L'AMICO

Troveremo amici, donne, fiori, vini, canti...

PIERROT

L'amico non ha fede, la donna non ha cuore, il fiore domani è secco,
il vino eccita un'ora, il canto porta in alto il cuore e poi lo lascia
ricadere...

L'AMICO

Che importa? Cogli l'ora che passa. Ridi stasera, anche se ritornerai
a piangere domani.

   (Inutilmente l'amico, in tutti i modi, tenta Pierrot, cerca di
   persuaderlo a prender la vita così, com'è, le donne così, com'è
   lui, l'amore qual'è per tutti e l'illusione per quanto è lecito
   al mondo).

L'AMICO

Vieni? Soffri perchè Colombina t'ha abbandonato per avere un mantello
di seta, una scarpa di raso e un anello d'oro? E tu vieni con una donna
là dove Colombina pranzerà, e vieni con una donna bella come lei...
con l'anello d'oro come lei... La troveremo e, per una sera, farò io le
spese... E Colombina ti vedrà felice e si struggerà. Ti vedrà con una
donna bella, felice anche senza di lei e si tormenterà. Se t'ha fatto
soffrire che vuoi di più bello che farla soffrire a sua volta?

PIERROT

No. Lasciami. Colombina è morta. Ed io vorrei andarmene stasera, per
sempre, dalla vita nella morte, dal sonno nel sogno e dal sogno nelle
stelle.

   (Visto che è inutile insistere l'amico rinunzia).

L'AMICO

Bè. Buona notte. Verrò a vederti domattina. Ti troverò?

PIERROT

Così potessi non trovarmi...

L'AMICO

Non mi scapperai stanotte dalla finestra per saltare nelle stelle?

   (Pierrot solleva un momento il capo e guarda fuori, nella
   finestra, la notte profonda).

PIERROT

Non aver paura. Vedi? Le stelle non ci sono. La bacchetta magica non
c'è e Banville il poeta era un _fumiste_. Ha vissuto settant'anni
con sua moglie che lo chiamava Totò. Ha fatto il critico drammatico
ascoltando ogni sera le più stupide commedie. Era commendatore della
Legion d'Onore. Ha vissuto come tutti. È morto come tutti. Non è
più nulla come tutti. E voleva, burlone e poveraccio, saltare nelle
stelle... Totò...

   (L'amico se n'è andato. Ha aspettato un momento dietro la
   porta pensando che Pierrot lo richiamasse, ma Pierrot non s'è
   mosso. Ha solo ripreso il libro delle _Odes funambulesques_
   ed ha riletto, una, due, tre, dieci volte, a voce alta, i
   versi di Banville. Giù, nella strada, una comitiva passa
   cantando. Pierrot guarda, nella finestra, il cielo buio e gli
   pare di vedere formarsi in quel nero il gigantesco trampolino
   fosforescente, come i versi di Banville. Vede un _clown_ agile
   come le rime di Banville, salir su questo e prepararsi al salto
   flettendosi su le ginocchia e dondolando le braccia. Prima il
   _clown_ ha il viso di Banville, poi quello di Pierrot. Ancora
   una volta la comitiva canta per istrada. Una macchina da
   scrivere batte col suo picchiettio nella soffitta accanto. Dal
   piano di sotto un pianoforte manda l'eco dei primi esercizii
   scolastici; le scale. E par che quel pianoforte metta in
   musica la dattilografia. Pierrot guarda fuori. La visione del
   trampolino fosforescente è scomparsa. Ripete ancora, sempre più
   piano, sempre più lento):

    _Et, le coeur dévoré d'amour,_
    _Alla rouler dans les étoiles..._

   (Poi, ripiegato il capo su le braccia, Pierrot comincia a
   smarrire l'esatta nozione delle cose e affonda a poco a poco
   nella nebbia del sonno. Di tanto in tanto ancora qualche parola
   esce, sussurro appena, dalle sue labbra):

PIERROT

Le stelle... Pierrot... Banville... Il Trampolino... Totò...

   (Così Pierrot s'è addormentato Il volume di Banville gli
   scivola dalla mano e ruzzola a terra. Suonano ancora, nella
   notte di carnevale, il coro lontano e la dattilografia
   musicale. Ma già Pierrot è partito dal sonno per il sogno, il
   sogno di Banville):

    _Plus haut! Plus loin! De l'air! Du bleu!_
    _Des ailes! Des ailes! Des ailes!_


II.

   (La mattina dopo è Quaresima e c'è un cielo mediocre: un cielo
   che non è azzurro e non è nero, un cielo grigio, il cielo delle
   ceneri. Sempre al suo tavolino, le braccia su questo, il capo
   su quelle. Pierrot dorme ancora. La porta s'apre L'amico entra.
   E viene a svegliare Pierrot. Coi piedi urta a terra un libro e
   lo raccoglie. Lo guarda e, dopo averlo guardato, lo getta con
   disprezzo su la tavola).

L'AMICO

Ah, già... il libro di Totò...

   (E l'amico si avvicina a Pierrot Lo tocca prima con la mano;
   poi lo scuote rudemente. Alla terza scuotitura Pierrot balza
   in piedi d'improvviso come se l'avesse destato una scossa di
   terremoto).

PIERROT

Oh guarda.... Sei tu.... E sono qui, in casa mia?...

L'AMICO

E dove credevi di essere? Alla Mecca?

PIERROT

No. Giù in istrada. Appoggiato al muro, seduto a terra, accanto a una
pozzanghera d'acqua piovana, con la luna dentro.

L'AMICO

E invece sei qui, a casa tua, appoggiato al tavolino dove t'ho lasciato
iersera. E la luna, caro mio, non c'è. Non c'è neppure il sole.
Carnevale è finito. Son le Ceneri. E il sole fa penitenza anche lui,
dietro le nuvole.

PIERROT

Ma io ci sono stato, stanotte, sai, nella luna... Oh, ti assicuro,
è stato un viaggio straordinario... E accaduto così... Vuoi che ti
racconti?

L'AMICO

Racconta pure. Ho tempo da perdere.

PIERROT

È stato così.... Tu eri andato via.... E io m'ero appoggiato a
questa tavola, le braccia conserte, il capo fra le braccia, gli occhi
chiusi.... E pensavo a tante cose.... A te, a Colombina, a Totò....
E a Totò specialmente, e ai suoi versi... E a quel suo _clown_, e al
trampolino, e al salto nelle stelle... E poi, a poco a poco, senza
pensare più a nulla o pensando a tante cose insieme, in modo che
tutte si confondevano e una copriva l'altra nel mio cervello, mi
sono addormentato. Mi sono addormentato, ma mi vedevo uscir di casa,
infilar la strada, una strada buia buia, e lunga, interminabile,
tra fango e vento. E c'era laggiù tutt'un disegno di puntini d'oro,
come un traforo di luce nell'oscurità. E, avvicinandomi, ho veduta
la sagoma delle illuminazioni, e le finestre illuminate, e dietro le
finestre ombre che passavano, che ballavano... Il caffè Momus... Il
Quartier Latino... E li ho veduti, sai, entrare tutti e sei, Mimì con
Rodolfo, Marcello con Musetta, Colline con Schaunard... E sono entrato
anch'io, dietro di loro. E mi son seduto con gli amici, per bere.
C'era, in un angolo, solo, un bel ragazzo con la barba bionda e gli
occhi azzurri, con lo sguardo vuoto e il bicchiere pieno che andava e
veniva dalla tavola alle sue labbra senza riposo.... Aveva l'aria così
melanconica, povero diavolo.... Aveva l'aria d'aver tanto sofferto.
Ma c'era una luce nei suoi occhi e non so che splendore su la sua
fronte. E l'ho riconosciuto. Sì, sì, era lui, proprio lui, Musset....
E più in là, coi bohèmes, seduto alla stessa tavola, con un sorriso
pieno di melanconia, innamorato di Mimì, disperato per Musetta, con
la sua faccia da poeta e da ospedale, c'era l'altro, Murger. Ed io
avevo alla mia tavola tanti altri Pierrot come me, allegri, chiassoni,
che bevevano, che mangiavano, che cantavano, e gridavano levando i
bicchieri: «Abbasso le donne... A che servon le donne quando ci sono
le stelle?». E, d'un tratto, tra la gente che ballava, ho visto lei,
Colombina, e sul chiasso del caffè Momus nell'ultima notte di Carnevale
ho sentito il suo riso.... E gli occhi non mi si sono più staccati da
lei. E ho veduto venire alla sua tavola, e sedersi, e bere lo champagne
con lei nel medesimo bicchiere, un vecchio con una borsa piena d'oro
da cui rovesciava monete sul tavolino e nelle mani di Colombina ogni
volta che Colombina, lì, davanti a tutti, davanti a me, a due passi
dalla mia collera, gli offriva un bacio ed un sorriso... E il vecchio
aveva una faccia che non m'era nuova, una faccia che io sono abituato
a vedere ad ogni fine del mese: quella del mio padrone di casa.... E
io volevo lanciarmi contro Colombina. Ma i Pierrot della mia tavola
mi tenevano al mio posto e mi ripetevano in coro: «A che servono
le donne quando ci sono le stelle?...». Ma d'un tratto Colombina
ha congiunto le mani facendone una piccola conca e il vecchio ci ha
versato dentro tutto il contenuto della sua borsa, una piccola montagna
d'oro, mentre Colombina gli dava la bocca, la bocca che io solo potevo
baciare, in un bacio che non finiva più.... E allora.... allora....
in un colpo ho mandato per aria la mia tavola e i miei Pierrot, e
ho traversato la sala rovesciando a terra le coppie che ballavano, e
ho strappato Colombina dalle braccia del vecchio, e l'ho bastonata,
bastonata, bastonata a più non posso, li, davanti a tutti, mentre
tutti urlavano, e volavan piatti e bottiglie, e mille voci gridavano:
«Gettatelo fuori.... Gettatelo fuori....». E Colombina sotto i miei
colpi gridava: «No.... Non mi far male.... Ti amo.... Ti adoro....
Ma sei povero.... E se amo te, mio poeta, amo anche i bei merletti,
i nastri di velluto, i rasi che mi accarezzano, le calze di seta che
fanno a gara con la mia pelle a chi è più fine.... E poichè tutto
questo tu non mi puoi dare vengo a prendermelo qui, da questo vecchio
imbecille....». Ed io, più che mai furibondo, più sentivo gridar
che mi amava, più avrei voluto ammazzarla tanto l'adoravo anch'io.
E l'avrei ammazzata se non m'avessero gettato fuori del caffè, in un
coro di voci che urlavano contro di me: «Scacciatelo.... È un pazzo....
È un mascalzone....» mentre una sola voce, baritonale, formidabile,
che superava tutte le altre, mi incoraggiava, mi spronava, gridando:
«Picchiala.... Picchiala.... ancora.... Più forte, più forte.... Se
ti ha tradito, picchia. Se si vende per il lusso, picchia. Se ti fa
soffrire, picchia.... Faccio anch'io così, nei cattivi giorni, con
Musetta....». E, mentre mi gettavano fuori, ebbi il tempo di volgermi
e di veder l'uomo che gridava, in piedi su una sedia, al tavolino dei
_bohèmes_. Era il pittore, era Marcello, che con un tovagliuolo in
mano menava gran colpi nell'aria come se picchiasse su Colombina, su
Musetta, su tutte le donne che amano e non sanno rinunziare, su tutte
le canaglie adorate che c'ingannano e ci fanno morire, che barattano
il nostro cuore con un fisciù, il nostro amore con un pompon, la
felicità immensa di volersi bene in due soli con un grùzzolo d'oro
maledetto.... E poi, quando fui fuori nella strada e dietro di me
il caffè era ridiventato tutto canti, danze e allegria e volgendomi
potevo veder Colombina riseduta di nuovo a tavola — ma coperta,
almeno, grazie a Dio, di lividure — col suo vecchio imbecille che
paga a peso d'oro quel che ha valore solo se è gratis, la porta s'è
riaperta e Marcello mi ha raggiunto. Aveva in mano due bottiglie di
_champagne_ e due bicchieri. «Bevi, ragazzo mio..., mi ha detto. Bevi.
Non c'è da fare altro per tirare avanti. Bevi per dimenticare. Musset
fa così. Murger fa così. E faccio anch'io così.... E fa dunque così
anche tu.... Bevi. Quando avrai bevuto e sarai ubbriaco non saprai
più che cosa sia la tua disperazione, e ti parrà ancora possibile di
vivere in mezzo a tutte queste donne e a tutti questi uomini, e ti
parrà ancora possibile riprenderti Colombina quando, carica d'oro e di
vergogna, questi assassini te la riporteranno...». E ho bevuto, bevuto,
tracannando tutto; e poi ho lasciato cader la bottiglia e mi sono
voltato per chiederne ancora. Marcello non c'era più: era laggiù, alla
tavola, con gli amici, con Musetta su le sue ginocchia; e la baciava
perchè per quella sera Musetta era senza pensieri, col lusso pagato
dalle tristezze di ieri, e poteva essere, felice e infame, tutta per
lui, solo per lui.... E son fuggito davanti a me, per non vedere e non
sapere più nulla. Ma il vino bevuto per dimenticare faceva le mie gambe
molli e il mio passo squilibrato così che andavo a zig-zag attraverso
la strada buia, urtando nei palazzi di sinistra, rimbalzando su quelli
di destra per rimbalzar di nuovo su quelli di sinistra, come una
pallottola di bigliardo che sbatte da sponda a sponda finchè finisce
in buca. E finii in buca anch'io, scivolando lungo un muro e cadendo lì
a sedere per terra, sotto la pioggia che veniva giù a torrenti, ma che
non riusciva a smorzarmi il gran fuoco che mi bruciava dentro.... E lì,
accoccolato per terra, bagnato di pioggia, sporco di fango, ubbriaco
di vino, sfinito di dolore, morto di stanchezza, mi parve di non saper
più nulla, di non conoscere più nè pioggia, nè champagne, nè amore,
nè dolore, nè la tempesta fuori, nè la tempesta dentro e mi sentii a
poco a poco irresistibilmente addormentare.... Ma io ti annoio.... Tu
sbadigli.

L'AMICO

Non ci badare. È nervoso. Va avanti.

PIERROT

Ma, addormentato che fui, vidi un altro me stesso davanti al portone
di casa mia; e lo vidi salir le scale alla luce dei fiammiferi ed
entrare nella mia soffitta. E, quando la candela fu accesa, vidi lì,
sul letto, un gran vestito da clown, nuovo di zecca, uscito allora
dalla sartoria, tutto di raso bianco e nero, a grosse strisce. E
sul vestito una letterina in cui era scritto: «Eccoti il vestito. Fa
dunque, povero innamorato deluso, come il mio clown; e col tuo cuore
divorato d'amore _va-t-en rouler dans les étoiles...._». E, sotto, la
firma: lui, proprio lui, l'autore delle _Odes funambulesques_, Théodore
de Banville, il grande impresario dei fuochi d'artificio lirico, il
buon marito sedentario, il commendatore della Legion d'Onore, Totò....
E, letta la lettera, d'improvviso mi trovai vestito da _clown_, mentre
il mio povero vestitino infangato da Pierrot era già su la stufa ad
asciugarsi, messovi da chissà quale fata invisibile che mi faceva,
bontà sua, da cameriera. Ma un'altra fata doveva esser sul tetto,
poichè questo d'improvviso, in un angolo della soffitta, si scoperchiò
quel tanto necessario a far venir giù dal tetto una scala tutta
foderata di velluto e coi piuoli di metallo come quelle che adoperano
nei circhi equestri per arrivare agli alti trapezii del salto mortale.
E son salito su per quella scala, e sono arrivato sul tetto dove — oh
meraviglia! — un gigantesco trampolino, tutto di metallo e di velluto
anche questo, era stato eretto contro il cielo adesso sgombro di nuvole
e tutto tremante di stelle. Non so dirti come quel trampolino fosse
grande. Ma sì: per darti un'idea, alto come la Torre Eiffel e grande
quanto San Pietro e con una molla così enorme che dieci cupole del
Kremlino sommate insieme non avrebbero potuto farle da coperchio. E
c'erano scale e scalette, scaloni e scalini per arrivare fin lassù;
ed io incominciai a salire, a salire, a salire, e più salivo più
c'era da salire ancora, più andavo in su e più mi sembrava d'essere
sempre allo stesso punto. Ma d'improvviso le scale scomparvero e mi
trovai su la piattaforma ch'era grande, per darti un'idea, come la
piazza della Concordia e oscillava sopra un perno alto come la Colonna
della Libertà a Nuova York. Su la piattaforma immensa io camminavo a
passettini così minuscoli che avrei impiegato un mese ad arrivare fino
in fondo. Ma avevo paura: la sentivo oscillare sotto i miei passi, come
fa il piatto d'una bilancia sotto la mano. E, d'un tratto, sebbene ci
volesse un mese a traversarla e non fosse passato nemmeno un minuto,
mi trovai al centro della piattaforma e avevo appena poggiato il piede
che, in un formidabile scoppio, come se cinquecento fulmini fossero
caduti tutti insieme sui cinquecento campanili della città, mi sentii
sollevato, lanciato in aria dal trampolino in azione, scaraventato
attraverso il cielo con la formidabile velocità della luce. Di rimpetto
a me le stelle piccole nel velluto immenso del cielo eran come tanti
chiodi d'oro ed io passavo in mezzo ai chiodi.... Ah, che paura, amico
mio... E vedevo laggiù, a terra, le metropoli illuminate piccole come
lucciole; e mi sembrava di non poter reggere al volo, che la forza del
mio slancio dal trampolino dovesse da un momento all'altro abbandonarmi
e farmi cader giù dove, morto di paura in cielo in quel momento, il mio
cadavere in polvere sarebbe arrivato a toccar terra un anno dopo... E
allora, passando fra due stelle, mi aggrappai a quei chiodi d'oro e
mi sostenni così. E ce n'erano a migliaia, a milioni, tutt'intorno,
di quei chiodi d'oro e così, dall'uno all'altro, non staccandomi da
un chiodo se non avevo afferrato l'altro ben bene cominciai a camminar
per il cielo penzoloni alle stelle e c'era tutt'intorno una gran luce,
una luce immensa, come quella del sole, ma più bianca, più fredda, una
luce d'argento e non una luce d'oro. E d'un tratto, in quell'immenso
chiarore, abbacinato mi smarrii. Non trovai più altri chiodi a cui
sospendermi. Il chiodo, cioè la stella alla quale ero con un braccio
aggrappato, bruciava, bruciava, oh come orribilmente bruciava,... Ed
io non potevo più resistere a quel fuoco, talchè a un dato punto per il
dolore abbandonai la stella e precipitai.... Precipitai nel buio verso
la gran luce e mi trovai, quando riaprii gli occhi chiusi per l'orrore,
in cima ad una grande scala d'argento e in un gran disco d'avorio.

L'AMICO

La luna?

PIERROT

La luna. Ed ai servi vestiti di bianco che custodivan la porta in
cima alla scala chiesi naturalmente, da persona bene educata, di poter
salutare la padrona di casa....

L'AMICO

Ch'era lei, la luna....

PIERROT

Ch'era lei, la luna. Chi me l'aveva detto? Nessuno. L'infallibile
istinto del viaggiatore celeste che prodigiosamente si orienta da sè in
quell'itinerario aereo senza indicazioni d'un Touring-Club stellare. È
anche vero che qualche cosa, vedendo tutti aver l'aria felice mentre
nel mondo che avevo abbandonato tutti hanno l'aria piagnona, qualche
cosa mi disse entro di me: «Gente felice?... Questo è certo il mondo
della luna....» Ed era, infatti, così. Ma la padrona di casa era a
passeggio e un gentiluomo della sua corte mi indicò laggiù, su la Via
Lattea, la sua carrozzina d'argento tirata da cento pariglie bianche di
minuscoli cavalli.

L'AMICO

Sorvola sui particolari. E va al sodo. Hai dunque visto la luna?

PIERROT

Sì, al suo ritorno, quando discese, in fondo alla gran scala
d'argento, dalla sua carrozza foderata di seta bianca in cui la
luna staccava come una perla sul suo candido astuccio. Oh, che bella
signora, amico mio.... Che cos'è mai Colombina al suo confronto? Un
mostricciattolo.... Bella, bella, divinamente bella, e bianca, bianca,
infinitamente bianca.... E quando salendo mi passò vicino mi riconobbe:
«Oh, tu qui, Pierrot?...».

L'AMICO

Ti conosceva?

PIERROT

Dal vestito. Per tutti i poeti c'è sempre stata un po' di luna nel
vestito di Pierrot.

L'AMICO

Ma se eri saltato dal trampolino vestito da _clown_.....

PIERROT

Sì, dal trampolino e finchè mi arrampicavo attraverso i chiodi d'oro
delle stelle. Ma, non appena toccai le madreperle della luna, per un
nuovo incantesimo mi trovai di colpo levate di dosso le brache del
_clown_ e negli specchi che nella luna fan da marciapiedi mi rividi
addosso il mio vestito da Pierrot, immacolato, di bucato, stirato di
fresco, con a posto tutti i bottoni e tutti i fiocchi, irreprensibile.

L'AMICO

E allora, dopo averti riconosciuto, che ti disse?

PIERROT

Nulla. Sorrise. E parve in quel sorriso voler dire tante cose, dal
benvenuto alla buona sera, dall'incoraggiamento al lasciapassare.
E sparì. Ma, come s'ella avesse veramente dato con quel sorriso un
ordine, io potei varcare la soglia d'argento e girare a piacer mio
pei giardini della luna, come se fossi munito d'un _coupe-file_ per
la libera circolazione. Ma dopo che ebbi pranzato con un estratto di
polline di fiori e con una coppa di rugiada, mentre fumavo in giardino
una sigaretta, fui avvertito che _Madame la Lune_ desiderava parlarmi.
E fui ammesso alla sua presenza. — «So — mi disse non appena fui
inginocchiato d'innanzi a lei — so perchè il tuo sogno, attraverso
il trampolino della fantasia, t'ha portato fin quassù. Nel mondo tu
soffri e cerchi per i tuoi sogni di poeta un mondo migliore. Tu hai
sofferto su la terra perchè tutti ti hanno mentito mentre a tutti
chiedevi, invece, o poeta, la verità. Quassù tu sarai accontentato.
Tutti ignorano quassù che cosa sia la menzogna. Quassù, come vedi,
tutto è bianco e tu sai benissimo che ogni bugia è, sul candore delle
anime, una macchiolina nera. Io ti dò piena libertà di rimanere in
questi miei immacolati paesi. Tu potrai andare e venire liberamente,
sognar le tue fantasie, trovare e cantare come e dove tu voglia la
fortuna, l'amore, la gloria. Ma se nessuno qui t'inganna, nemmeno tu
devi ingannare. E bada: io lo saprò. Se tu mentirai, ad ogni tua bugia
una macchiolina nera apparirà sul tuo bianco vestito. Vivi dunque
felice, Pierrot, come su la terra ed in mezzo agli uomini non ti fu
dato di vivere. Trova qui fra noi la verità che cercavi. Qui tutto è
amore, tutto è serenità, tutto è fiducia, tutto è ingenuità. Amore,
serenità, fiducia, ingenuità, questo è il colore della tua anima, caro
fanciullo, e del tuo vestito. Questo mio mondo lunare ha i medesimi
sentimenti degli uomini: l'amore, l'ambizione, la fede, la speranza, la
carità. Solamente questi sentimenti qui non conoscono frodi, inganni,
raggiri, calcoli o finzioni. Qui si vive veramente, come voi dite in
terra, col cuore su la mano. Va dunque, Pierrot, in questo felice mondo
che desideravi. Ma torna ogni sera, prima d'andare a dormire nel calice
d'un giglio, a farmi vedere se il tuo vestito e la tua anima continuano
ad essere senza macchie. E non credere, bada, di potermi illudere.
Quassù non c'è acqua e non ci son lavandaie. Fatta una macchia, tu non
potrai cancellarla mai più....».

L'AMICO

Comodo paese, il paese della verità!

PIERROT

Uscii dalla reggia della luna tripudiando di felicità. Avevo tanto
sofferto, io: Colombina infedele, gli amici infidi, i compagni sleali,
frode e menzogna in ogni cosa. E per tre giorni, pur andando in giro
continuamente fra uomini e donne, progetti ed affari, io ritornai dalla
Luna, alla sera, col mio bel vestito immacolato. Ma la quarta sera
_Madame la Lune_, corrugando il sopracciglio, scoprì una minuscola
macchiolina nera poco più su del cuore. E, con la faccia oscura, mi
rimproverò: «Tu hai detto, oggi, una bugia. Bada. Ma sia la prima
e l'ultima». Sapevo come la macchiolina era venuta. Devi sapere che
uomini e donne, lassù, son come noi. Solamente, mentre da noi le donne
belle e gli uomini forti stanno specialmente nelle statue dei musei
e nei quadri delle gallerie e attorno per il mondo vediamo girare
ogni giorno un popolo di mostri e di sfiancati che d'uomo e di donna
han solo il nome, nella luna, invece, son tutti belli. Così io, puoi
immaginarlo, non tardai ad innamorarmi. E quel giorno stesso avevo al
mattino chiesto un bacio ad una fanciulla bionda, offrendole, senza
ch'ella me lo chiedesse, ma perchè si fa sempre così, d'esserle per
sempre fedele. Ma nel pomeriggio una fanciulla bruna mi piacque e
poichè ella chiedeva, per annoiarmi, un giuramento d'eterna fedeltà,
io senza pensarci, tanto smaniavo di toccar quelle rosee sue labbra,
giurai come alla bionda anche alla bruna d'esserle per sempre fedele. E
il giorno dopo la prima bugia una terza fanciulla mi piacque. Suonava
il violino divinamente; e glielo dissi. Ella, sorridendo felice, mi
domandò se avessi mai sentito alcun altro suonar com'ella suonava.
Ed io giurai che no. E, verso sera, una quarta fanciulla mi piacque,
poichè suonava l'arpa celestialmente; e glielo dissi. Ed anch'ella,
sorridendo felice, mi domandò se avessi mai nella luna od altrove
sentito alcun altro suonare com'ella suonava. E io giurai che no, anche
a lei, tanto mi piacque lusingarla per esserne lusingato e tanto non
osai dir la verità per cui m'era parso che la suonatrice di violino,
per profondità di sentimento e delicatezza di tocco, la vincesse di
gran lunga su la suonatrice di arpa. E alla sera, _chez Madame la
Lune_, furon dolori. Quattro macchioline, grosse come centesimi, erano
schierate in bell'ordine su la mia giubba candida poco più su del
cuore. «Bada, mi disse vedendole la Luna con cipiglio severo. Bada,
Pierrot. Non continuar così se ti è caro vivere qui. Ricordati: non
sei più fra gli uomini. In terra, di bugie si vive. Qui, di bugie si
muore».

L'AMICO

Mi pare, in verità, che la Luna non potesse più affettuosamente
metterti in guardia....

PIERROT

Mettersi in guardia.... Facile a dirsi, difficile a farsi. T'ho detto
e ti ripeto che lassù eran tutte maledettamente belle e, non appena ne
vedevo una che non avevo veduta ancora, mi prendeva una gran smania di
baciarle le labbra e di suggerle in quel bacio l'anima come si succhia
un fiore. E, per ottener questo bacio, non badavo a mezzi leciti o
illeciti. Se mi chiedevano promesse, impegni, giuramenti, io, preso
nel vortice del mio desiderio, ubbriacato di bellezza, promettevo,
m'impegnavo, giuravo. E la giubba, la mia povera giubba si copriva
di macchioline che s'allineavano in piccoli battaglioni come un
esercito schierato in piazza d'armi e visto da un aereoplano a tremila
metri. E, ogni sera, la Luna contava: «Trecento.... Quattrocento....
Cinquecento....». E ora le bugie, dette le prime, crescevano e si
moltiplicavano senza che io volessi. Lo diciamo anche su la terra,
tanto per giustificarci: una tira l'altra, come le ciliegie. E una,
infatti, tirava l'altra. Dove una bugia era scoperta, dovevo dirne
due nuove per nasconder la prima. Dove un inganno svelato minacciava
di farmi perdere ciò che a me piaceva di conservare, tramavo altri
tre inganni per mantenere il primo. E, alla sera, la Luna contava:
«Ottocento.... Novecento.... Mille....». E sulla piazza d'armi della
mia giubba candida l'aereoplano a tremila metri non vedeva più i punti
fissi e radi d'un reggimento schierato: vedeva, povero me, tutt'un
formicolìo d'eserciti....

L'AMICO

Come se guardasse, mettiamo, nell'anima di Colombina cui tu
inesorabilmente rimproveri il giuoco delle bugie.

PIERROT

Ma tutto questo complicato andirivieni del mio capriccio e della
mia fantasia, passati i primi tempi, corsa la cavallina, s'acquetò
rapidamente. Quand'ebbi in un modo o nell'altro baciato tutte le donne
che mi piacevano, m'accorsi che tutti i baci erano uguali e che a nulla
serviva continuare a mutar di bocca se non riuscivo a mutar di piacere.
Quand'ebbi comunque conquistato, lusingando, adulando, ingannando,
imbrogliando, i migliori gigli per dormirvi la notte, i migliori fiori
per assicurarmi i più fini manicaretti, i più bei cavallini per far
trascinare la mia vettura, mi parve inutile continuare la mia fatica
per avere altri agi uguali a quelli che già avevo, altre ghiottonerie
quando di ghiottonerie ero già ristucco e altri lussi quando già, al
mio passaggio, sdraiato nella mia _Daumont_, destavo l'ammirazione di
mezzo mondo lunare e tutti mi segnavano a dito dicendo con rispetto:
«Quello è Pierrot...». Quando, imitando gli altri poeti, camuffando con
parole mie i pensieri altrui, rubacchiando con mano destra concetti
e rime, ebbi avuto l'onore di adornare di miei versi le più illustri
gazzette dell'Olimpo lirico lunare, mi parve superfluo insistere a far
versi miei con quegli degli altri se già tutti leggendomi dicevano:
«La Terra ha Dante.... E noi, più avventurati, abbiamo Pierrot....».
E allora chiusi la mia vita in tre grandi solitudini: una donna sola
per amare, un solo amico per vivere, un'opera sola per bere veramente,
come Musset, nel mio bicchiere e farmi perdonare da _Madame la Lune_,
in virtù del mio genio, le mie innumerevoli macchioline. E trovai, solo
allungando la mano, la donna che mi adorava, l'amico impareggiabile e
il capolavoro assicurato.

L'AMICO

E le macchioline, per tante nuove virtù, miracolosamente scomparvero.

PIERROT

No. Sta a sentire. E non m'interrompere così.... Trovato che ebbi
l'amore, l'amicizia e l'opera, potei considerarmi, invero compiutamente
felice. Da ogni parte la vita nella luna mi sorrideva come io avevo
sognato che la terra mi sorridesse. Altro non mi rimaneva da fare che
lasciarmi amare, lasciarmi servire e lasciar che l'estro liberamente
cantasse nella mia fantasia. Ma, col tempo, la donna che mi amava mi
venne a noia e, poichè aveva un'amica, non ebbi pace finchè non riuscii
a tradir quella con questa. Verso il mio fedele e impareggiabile amico
io non ebbi più scrupolo alcuno di mancargli di fede quando vidi che
su la sua fede io potevo fare completo assegnamento. E, giuocandone la
fiducia, sfruttandone gl'interessi, calunniandone il nome, riuscii ad
avvantaggiar me in ogni modo danneggiando in ogni modo lui. In quanto
poi al mio capolavoro, quando vidi che l'opera era certa, ma lunga la
fatica, quando vidi alle prove che l'estro cieco non basta, ma che,
come diceva Buffon, _le génie n'est qu'une longue patience_, quando
sentii farsi attorno al mio raccoglimento operoso il silenzio nelle
frivole voci delle più leggere e quotidiane popolarità e non mi vidi
più per le vie segnato a dito e non mi vidi più nei grandi giornali
paragonato ogni giorno a Dante od a Shakespeare, annunziai a tutti che
il gran capolavoro era finito e diedi fuori, spacciandoli per l'opera
lungamente pensata e lavorata, duemila versi qualunque buttati giù alla
svelta in meno d'una settimana. Ma quand'ebbi tradito così tutto quello
che avevo ricevuto in dono dalla Luna, l'amore, l'amicizia e la gloria,
non potei più passare per i marciapiedi senza veder riflettersi negli
specchi che li lastricavano non più la mia giubba candida tempestata di
macchioline, ma addirittura una funebre casacca nera in cui di bianco
non c'era più neanche un puntolino. Così mi ritrovò _Madame la Lune_
quando, alcuni giorni dopo, essendo stata chiusa in casa e invisibile
per un'eclissi, ricomparve ufficialmente nella sua reggia d'argento e
mi mandò a chiamare. Non osavo apparirle davanti e sentivo che nella
sua collera la mia ultima ora lunare sarebbe stata irremissibilmente
segnata. Ma non s'alterò vedendomi nero a quel modo da capo ai piedi.
Solo scosse melanconicamente la sua bella testa serena e mi disse così,
senza severità: «Vedo che nel felice mondo della luna, non ostante
tutto ciò che io ti ho consigliato, tu ti sei condotto non altrimenti
da come, su la terra, gli uomini si conducevano verso di te. T'ho dato
le tre grandi gioie del cuore, dello spirito e dell'intelligenza e tu
ne hai fatto menzogna e mercato. Ma non poteva essere altrimenti. Non
è tua colpa se, dopo le prime macchioline delle prime timide bugie,
la tua bianca casacca s'è fatta nera come l'anima tua. Tu sei poeta,
ma sei anche uomo, inguaribilmente uomo. Poeta tu desideri un bene,
una verità, una felicità che poi, se ti son dati, tu uomo non sai
vedere, non sai rispettare, non sai conservare. Quand'eri su la terra
odiavi la menzogna, l'inganno, la frode, perchè menzogna e inganno e
frode eran tramati dagli altri verso di te. Ma quando il tuo slancio
ideale verso il sogno t'ha portato più su degli uomini, dove nessuno
mentiva, nessuno ingannava, nessuno frodava, tu, che altro non sei
che un uomo, hai mentito, hai ingannato, hai frodato, hai fatto nella
luna, verso gli altri, quello che in terra ti doleva che gli altri
potessero fare a te. Il male è nel tuo cuore, piccolo uomo che si
veste di bianco, ma che è dentro di sè senza candore. L'illusione è
dentro di te, poeta, l'illusione per cui follemente ti lamenti d'umane
debolezze e d'umane viltà di cui tu sei quanto tutti gli altri capace.
Che vuoi tu dunque da noi? Qui sono anime candide per cui purezza vuol
dire diritto d'immortalità. La vostra vita umana è invece in un breve
circolo di anni, impercettibile attimo nel tempo, inesorabilmente
segnata. E nessuno di voi uomini è immortale perchè nessuno di voi,
uomini, è degno d'immortalità. Anche qui, qualche volta, un'anima si
perde. Tu ne hai perduta una: quella di colei con la quale hai tradito
l'immenso amore che, per l'eternità, in una donna io t'avevo dato. Ma
quando quassù un'anima si perde il lutto è così grande che una stella
si spegne nel cielo e un mondo s'inabissa nell'infinito. Le stelle
cadenti che voi uomini vedete solcare il cielo nelle notti d'estate
altro non sono che anime perdute quassù e che precipitano in un'ultima
luce per venire a perdersi nella vostra terrestre oscurità. Ritorna
dunque, o piccolo poeta mortale, il cui ideale non ha luce più lunga
e più forte di quella di una lucciola su la siepe, ritorna alla tua
terra laggiù. Sopporta che gli altri ti mentiscano poichè tu sei pronto
a mentir come loro. Soffri che gli altri ti ingannino, poichè tu, come
loro, non sai vivere di verità. Accetta d'essere vittima della frode in
attesa dell'ora propizia in cui sarai tu il frodatore. Vattene dunque,
uomo. E dì al poeta che ha dato le ali alla tua fantasia per mandarti
fin quassù, digli che è inutile chiedere come lui fece _des ailes, des
ailes_, quando non potete servirvene per restare in alto. Quanto più
in alto tu sali, o poeta, con le tue ali d'impossibile, più dall'alto
cadi, tu uomo, quando il tuo peso mortale inesorabilmente ti condanna
a ripiombare giù». Ciò detto la Luna fece un gesto e tutto si oscurò.
Ed io mi ritrovai un istante dopo sul margine del firmamento, non
più Pierrot bianco, non più Pierrot nero, ma col vestito da _clown_,
a striscie bianche e nere, pagliaccio di due colori, mezzo ideale e
mezzo realtà, poeta e uomo, da tutti diverso ed a tutti eguale. E vidi
correre verso di me cento, duecento, mille donne, tutte quelle che
avevo baciate, tutte quelle cui avevo mentito; e avevan tutte la faccia
di Colombina quando ride e mi sfida. E gridavan tutte spingendomi
verso l'abisso stellato: «Giù.... Giù.... Via di qua, uomo....
Torna da lei che ci vendicherà...». E in un'ultima risata di mille
gole, nello spintone di duemila braccia, dal margine del firmamento
ricaddi nell'abisso, traversai le stelle senza potermi più salvare
aggrappandomi ai loro chiodi d'oro; e vidi sotto di me, precipitando,
il minuscolo mondo crescere, crescere, crescere e farsi sempre più
vicino, e più preciso, e vidi il mare e i monti, vidi le luci delle
città e poi le città stesse, e poi le vie, e i palazzi, e le case, e le
finestre, e il mio tetto e su questo un grottesco piccolo trampolino
messo assieme con due povere tavole, miserabile tentativo fatto per
sfuggire alla vita, agli uomini e a me stesso, trampolino su cui
picchiai per rimbalzare e ricader fuori del cornicione, e rotolar giù
lungo la parete della mia casa, e ripiombar giù nella strada piccola,
buia, bagnata, fangosa e nell'urto formidabile svegliarmi, e trovarmi
lì a terra, accoccolato vicino al muro, col mio vestito da Pierrot
tutto pioggia e fango, col cielo sul capo, nella listarella azzurra
che se ne vede tra le case in città, senza più nuvole tutto pieno di
stelle. E la luna non era più che lì dentro — sola luna degna di me,
di te, di Colombina, di tutti noi uomini e donne — la luna non era più
che un dischetto bianco, grande quanto una fetta d'ananas, tremolante
lì accanto a me nell'acqua piovana della pozzanghera.


III.

   (Ora Pierrot, compiuto il suo racconto, si è abbandonato con
   le braccia e con la testa sul tavolino e, povero ragazzo deluso
   dal suo sogno prima ancora di viverlo o di tentare di viverlo,
   s'è lasciato andare alle sue lacrime e ai suoi singhiozzi.
   Piange, poverino, e si dispera da far pietà. Ma l'amico di
   Pierrot non si commuove. Non è un poeta, l'amico di Pierrot.
   È un uomo, semplicemente un uomo e gli uomini non hanno mai
   pietà per i poeti che invece son uomini disperati di non esser
   che uomini. Ma ora, d'improvviso, c'è un passettino su per la
   scala e una mano gratta leggera alla porta. L'amico di Pierrot
   ha imaginato chi può essere. E, infatti, levatosi, andato in
   punta di piedi alla porta ed apertala, si trova davanti timida,
   tra sorrisi e lacrime, con un fagottino sott'il braccio e
   una malinconia in cuore, Colombina che ritorna, con la pace
   di Quaresima, al suo poeta innamorato. E, di su la porta,
   Colombina vede pianger Pierrot che tutto sussulta nella sua
   giubba. Ha nella melanconia un sorriso di trionfo e interroga
   l'amico):

COLOMBINA

Poveretto!.... Piange per me?.... Ah, come lo adoro...

   (E senza neppure aspettare risposta tutto il suo viso
   s'illumina di felicità perchè di nulla una donna è felice
   come del potere di riempir di lacrime gli occhi d'un uomo. E
   Colombina si slancia verso Pierrot, s'inginocchia ai suoi piedi
   e leva verso di lui le sue braccia supplici e le sue parole
   pentite. L'amico guarda un momento e poi brontola andandosene):

L'AMICO

Valeva proprio la pena d'andar fin nella luna per ritornare a terra
così, come tutti i giorni....

   (Ma Pierrot ha sollevato il volto. Ha visto Colombina. S'è
   gettato nelle sue braccia. Colombina vorrebbe ancora spiegare
   la sua assenza della sera prima, l'origine onesta dei suoi
   piccoli lussi, e ingannare ancora Pierrot, e mentir quando
   occorre per far pace tra due innamorati, e giustificar tutto
   quello che è vano giustificare poichè è inevitabile).

COLOMBINA

Ti giuro.... Credimi, amor mio.... È la verità.... Non senti nella mia
voce, non vedi nei miei occhi che è la verità?...

   (Ma Pierrot le ha tappato la bocca con la mano. E ora si getta
   su le labbra di lei con le sue labbra per cercar nel bacio
   certo il solo oblio possibile di tutto quello che è incerto. E,
   tra un bacio e l'altro, le dice):

PIERROT

No, zitta, zitta, ti prego.... Non dirmi nulla. Non spiegarmi nulla.
Non c'è nulla da spiegare. La vita è questa. L'amore è questo. E
nessuno può cambiare.

COLOMBINA

Ma tu devi credermi, tu devi ascoltarmi....

PIERROT

No, cara. È inutile. Ti credo, ti credo come se tu avessi parlato.
Verità, bugia, hanno le stesse parole, i medesimi accenti, il medesimo
sguardo. E chi può mai distinguere, chi può davvero riconoscere? Che
importa a te di dirmi la verità se io posso crederla una bugia? Che
importa a te di dirmi una bugia se io, senza che tu abbia parlato, son
pronto a crederti come se avessi detto la verità.... Non c'è altro da
fare....

   (Ma invece di baciarlo Colombina si leva in piedi, offesa,
   imbronciata. Poichè Pierrot tenta di riprenderla lo respinge.
   Poichè Pierrot cerca di farla ridere, scoppia a piangere).

COLOMBINA

Lasciami... Mi hai offesa. E non mi ami.

PIERROT

Io?... Io ti ho offesa?... E come, come ti ho offesa?

COLOMBINA

Ma sì.... Anche ammesso che una donna dica una bugia non è lecito
crederle, mio caro, prima che l'abbia detta. Non è possibile toglierle,
credendola prima, l'illusione d'essere stata creduta davvero! Impara a
vivere, caro mio, ed a trattar come si deve con le donne....

PIERROT

Hai ragione.... Perdonami.... Tu ragioni a fil di logica ed io son qui
pronto ad ascoltarti,..

   (E, felice di poter mentire e di ricuperare nella bugia la gioia
   di sentirsi creduta, Colombina, seduta ai piedi di Pierrot, le
   mani nelle mani, gli occhi negli occhi, comincia a spiegare, a
   raccontare....)

COLOMBINA

Non ti ho mentito mai.... Il giovane che mi seguiva l'altra mattina è
un parente d'una mia amica e m'aveva raggiunta appunto per chiedermi
notizie di lei.... Il merlettino che tu hai trovato nel comò me lo ha
regalato quella mia stessa amica, per il giorno della mia festa, ed io
avevo dimenticato di fartelo vedere.... Il ritratto di militare ch'era
fra le mie camicie, te lo giuro, è capitato lì non si sa come.... Io
non lo conosco, quel militare.... Giurerei che è il fidanzato della
stiratrice.... E, quanto a questa notte, non credere che io sia andata
in giro per i caffè a divertirmi o a ballare.... Ero in casa della zia
e alle nove ero già a letto....

   (Mentr'ella parla così, Pierrot vede ancora nella massa dei
   capelli di Colombina qualcuno di quei pezzettini di carta
   colorata che piovon nei caffè e nei teatri nelle sere di
   Carnevale. Vorrebbe prenderne qualcuno per farglieli vedere
   e smascherar subito la gran bugia. Ma ripensa al _clown_
   di Banville, al trampolino per le stelle, al sogno nella
   luna, alla piccola e miserabile verità della terra.... E
   ride.... Ride per non piangere, come fanno i bambini, le
   donne e i poeti.... E vede lì accanto il libro delle _Odes
   funambulesques_.... Lo riapre. Rilegge i versi):

    _Plus haut! Plus loin! De l'air! Du bleu!_
    _Des ailes! Des ailes! Des ailes!_

   (E si rialza ridendo Ali, ali, ali... E per andar dove? E pensa
   a Totò, marito sedentario, pacifico commendatore, seduto nella
   sua poltrona accanto al fuoco, i piedi nelle pantofole, intento
   pazientemente a far versi pazzi nella sua tranquillità borghese
   ed a cercar rime rare tra le rime obbligate della sua vita
   d'ogni giorno.... E ride, ride, ride di sè, di Totò, di tutti i
   poeti, di tutte le poesie... Così ridendo prende il libro delle
   _Odes funambulesques_ e, aperta la finestra, lo scaraventa
   giù nella strada. Poi rivà di corsa da Colombina interrotta
   nelle sue spiegazioni e, ritornato a sedere, prima la bacia e
   poi l'ascolta: cioè fa prima la cosa necessaria e poi la cosa
   inutile E Colombina, ostinata riprende la matassina delle sue
   bugie che Pierrot, ridotto oramai ad essere come tutti, ascolta
   con aria serena e credula, come fossero sacrosante verità).

COLOMBINA

E quanto poi al ritrattino del militare.... vedi.... posso anche
dirti.... posso anche giurarti.... se vuoi.... che a me non piacciono
i militari....

   (Intanto, per istrada, un piccolo Pierrot di quindici anni ha
   raccolto il libro delle _Odes funambulesques_ caduto nel fango
   e, apertolo alla ballata del _clown_ e delle stelle, comincia
   a sua volta a sognare):

    _Plus haut! Plus loin! De l'air! Du bleu!_
    _Des ailes! Des ailes! Des ailes!_



Il Bacio di Cirano


I.

LE SUE AMICHE DELLA COLLINA VERDE.

La Collina Verde. Il bianco convento nascosto lassù, in vetta al colle,
fra querce ed abeti, che è la mèta d'ogni passeggiata mattutina di
Grazia. Arriva lassù, al trotterello del piccolo somaro sardegnolo,
piena di fiori la minuscola cestina che il somarello tira su su per
quel nastro bianco della strada svolazzante nel verde. Ecco la cima
del colle. Ecco il grande panorama della valle ancora ingombra di
nebbia azzurra nel mattino di primavera. E Grazia bussa alla porta del
convento. Il chiaro sorriso della suora guardiana l'accoglie appena la
porta s'è aperta. È la piccola amica d'ogni giorno, cariche come ogni
giorno le braccia di fiori, come ogni giorno piena di doni la borsa
di velluto che le pende al fianco. E, difatti, il primo dono è per
lei: una tavola di cioccolata per suor Ghiottona... Non ha neppure,
col volto illuminato di umile gioia, il tempo di ringraziarla. Già
Grazia vola via leggera — con la sua sottanina rosea, col suo giubbetto
di velluto nero, col suo cappello fiorito, con quel costume un po'
antiquato e fuori moda, ma così pieno di grazia e di colore, che la fa
sembrare una figurina di Winterhalter — già Grazia vola via per il gran
viale dei cipressi e sbuca laggiù su lo spiazzo davanti alla grande
cappella. Le suore in ricreazione son lì, tutte raccolte. E non appena
Grazia appare, ecco le piccole bianche suore accorrerle attorno, venir
d'ogni lato, di tra il verde, come un gran volo di farfalle. Quante,
quante sono le sue amiche della Collina Verde... E son lì, tutte
attorno a lei — e ancora ne vengono, dal bosco le solitarie, dalla
cappella le più mistiche, dall'orto le buone massaie, dal giardino le
più poetiche, dal refettorio le più golose — e son tutte lì attorno a
Grazia che, come ogni mattina, distribuisce, dopo il grande inchino e
il baciamano alla Badessa, fiori, doni e sorrisi.


II.

«HO FATTO IL GIRO DEI MIEI POVERELLI...»

Ora Grazia è seduta sul gran prato d'innanzi al convento, in un gran
cerchio di suore. E lei, tutta rosa in mezzo a quel bell'ordine di
suore bianche, vista di lassù dal campanile dove il campanaro suona le
campane a festa, deve sembrar nel verde una gran rosa rosea circondata
di camelie bianche. E parla, e parla... E racconta alle sue amiche
della Collina Verde quello che ha fatto da quando s'è destata e
levata con l'aurora: come ogni giorno il suo itinerario di pietà e di
consolazione, la sua dolce catena d'opere belle e d'opere buone:

— Ho fatto il giro, racconta, dei miei poverelli... Alla scuola
campestre, prima... Cari i miei bambinoni, con quei loro grembiuloni
bianchi, care le mie ragazzone con quei loro vestitini azzurri, lì,
su quei banchi, fra verde di campagna e azzurro di cielo... Poi via,
di corsa, dal mio “gran malato„ immobile, poverino, da dieci anni,
inchiodato, crocefisso nella poltrona dalla paralisi... E poi son corsa
a dar lavoro, alle mie «manine d'oro»... al laboratorio... Manine
d'oro, veramente... Come ricamano! Se vedeste... Vi fanno, adesso,
una tovaglia per l'altar maggiore... Vedrete... E poi via, di corsa,
dai «miei eroi»... Povera mamma sempre triste, ma pur gloriosa, con
quei due giovanottoni senza gambe l'uno, senza braccia l'altro, ma
con mezzo metro di nastrino blù sul petto tutt'e due... E poi ancora
dove sono stata?... Ah, a distribuire il pane ai miei vagabondi della
strada maestra, precisi ogni giorno all'appuntamento, al ponticello di
legno sul torrente... Non ne manca mai uno... Girano, girano, girano
senza casa e senza requie, tutt'il giorno e sempre lì ritornano ad
aspettarmi, ogni mattina... E anche lui mi aspetta, ogni mattina e ogni
sera, il mio vecchio poeta del campanile tra le sue campane... E come
suona a gloria il _Mattutino_ quand'io lo vado a trovare lassù, il mio
amico altolocato, tra campane e cielo!... E poi, quando lassù, isolata
e sospesa nel cielo, ho ascoltato ben bene, tra le campane giganti,
l'inno che il poeta del campanile fa squillare in onor mio, ridiscendo
giù... in terra... dove non c'è più gioia... dove il mio più grande
dolore mi aspetta...

Gli occhi le si velano di lacrime. Abbassa il volto e la voce:

— Il mio povero e caro fratello tanto malato è appena desto... Lo
faccio adagiare su la _chaise-longue_ dove trascorre leggendo quasi
tutte le sue giornate. Gli apro le finestre affinchè un po' di sole
entri a riscaldarlo e a rincuorarlo... Come ritorna la speranza
nel cuore dei malati quando un po' di sole viene a toccarli, a
scaldarli!... E gli domando, ogni mattina, col cuore che mi batte
tanto forte: “Stai meglio, stamattina?...„ Ed egli dice di sì, per
consolarmi... Ma non è vero... Lo so che non è vero... È condannato,
come tutti i miei...

E il volto di Grazia è nascosto nelle mani e il pianto è nella sua gola
e nel suo petto. Come più si stringono le piccole suore attorno a lei,
per consolarla... Ma Grazia è forte. Grazia ha un grande cuore eroico
e non vuol pietà. Rimanda in dietro le lacrime, balza in piedi e si
stringe attorno le amiche bianche:

— E ora sono, come ogni mattina, fra le mie amiche della Collina Verde
per ringraziare Iddio di quel po' di bene che mi permette di fare!...

Va Grazia, con le suore, alla cappella. S'inginocchiano e pregano. Che
mistico fervore è sul volto di Grazia, quale luce di trasfigurazione in
quei suoi grandi occhi sognanti!...


III.

CLAUDIO ARCERI.

Nel suo studio denso di stoffe e di tappeti, lasciato in eterna
penombra dalla poca luce che entra attraverso i cristalli da
cattedrale, Claudio Arceri, seduto al tavolino, con il pianoforte
aperto accanto a lui, lavora. Ha d'innanzi a sè i grandi fogli coperti
di segni della sua opera nuova. Il giovane maestro è già celebre, a
trent'anni. Le sue tre prime opere gli hanno conquistato una popolarità
universale e il mondo attende adesso la sua opera nuova. Il soggetto
ch'egli ha scelto è famoso: _Cirano di Bergerac_. La musica gli canta
dentro e il maggiore entusiasmo creativo accende Claudio Arceri. Ma
come lavorare? Ad ogni quarto d'ora è interrotto. Il vecchio domestico,
avvezzo ai rabbuffi ma sempre, tuttavia, intimidito quando gli si deve
avvicinare nelle ore del lavoro, viene avanti pian piano, in punta
di piedi... Ha, sul vassoio, tre biglietti da visita. Come lo guarda,
Claudio, e come vorrebbe strangolarlo... Ma non lo strangola perchè, in
fondo, a quel vecchio fedele e taciturno domestico vuol bene. Guarda i
biglietti da visita: un editore, due impresarii di teatri lirici. Come
si fa a non riceverli?... Peccato... Guarda i fogli sul tavolino...
Era in un'ora di estro... La ballata dei Cadetti gli veniva sui fogli
così facile che sembrava gliela dettassero dentro.. Pazienza... Avanti
l'editore... Poi... gli altri...

— E... non ci sono per nessun altro... Chiunque venga: il maestro
lavora e non riceve.

Il domestico va, ma Claudio, di scatto, lo richiama:

— Cioè no... Aspetto alle cinque una signora... La riceverò... Verso
le sette, poi, verrà la signorina Andreani. Se l'altra signora non
fosse ancora andata via direte alla signorina Andreani che non sono
ancora rientrato e che ho telefonato per farla avvertire che andrò io
a prenderla alle otto a casa sua per pranzare insieme...

Inchinato e docile, il domestico è uscito. Claudio, seccato e
compiaciuto insieme come tutti gli uomini e come tutti i grand'uomini,
sospira:

— Dio, che vita complicata è la mia!...

Complicata, sì, perchè Claudio Arceri non è solamente un grande
artista... È anche un gran bel ragazzo... E i suoi nemici dicono che se
fosse meno bello sembrerebbe — almeno alle signore — meno bella anche
la sua musica...


IV.

«FORSE, UN GIORNO... CHI SA?»

La meridiana della Collina Verde segna oramai mezzodì. Squilla, in un
dolce e caldo aroma di ragù che si mescola al profumo dei giardini,
la campanella del refettorio. Accompagnata dalle bianche amiche per il
gran viale dei cipressi. Grazia va, dopo aver pregato, verso l'uscita.
Ha le braccia aperte su le spalle di due suore che, guardando a terra,
accordano i loro piccoli passi su quello lento e grave di Grazia. Che
silenzio attorno, ora che la campanella del refettorio ha taciuto! E
Grazia si sofferma, guardandosi attorno e un sorriso pallido è su le
sue labbra:

— Fermarmi, un giorno, qui fra voi, per sempre... Che pace! Che riposo!

E riprende ad andare. E le due suore, occhi a terra, mani nascoste
nei grandi maniconi bianchi, riaccordano i loro piccoli passi sul
suo. Ora son presso la porta. Suor Ghiottona apre e Grazia si volge
ancora a guardare il giardino del convento. È triste, è quasi commossa.
Sussurra:

— Forse, un giorno... Chi sa?

E piega la fronte sul petto della Badessa.

— Ma no... Ma no... Sei giovane, sei bella, sei ricca, sei buona...
Tutto è per te nel mondo promessa di felicità...

Un'ombra passa sul volto di Grazia che l'ha risollevato sotto la
pressione d'una mano della Madre. E un piccolo brivido la scuote.
Dubbio, prima. Poi, presentimento di terrore. Ma è fiera e ha cuore
eroico, Grazia! Si riprende: e s'illumina ancora il suo volto nel
sorriso quieto della mattina di primavera e di bontà.

— E ora corro... È mezzogiorno... E m'aspetta, a casa mia, la minestra
dei miei poverelli...

Un bacio alle suore. Un bacio della Badessa su la sua fronte. Un'altra
tavoletta di cioccolata — inaspettata, l'ultima! — passata sotto mano
a suor Ghiottona che tiene aperta la porta e Grazia è fuori, sul suo
carrozzino di vimini, con in mano le redini infiocchettate del suo
ciuchino:

— Ioh, Lumachino...

E Lumachino, per smentire il nome, parte via di galoppo giù per la
discesa, lungo il nastro bianco della strada che serpeggia — Grazia
dice: svolazza! — nel verde della collina. E, sebbene il refettorio
le chiami e il ragù si raffreddi, le suore rimangono lì a salutare,
laggiù, lontane, sempre più lontane per Grazia che che ogni tanto si
volge, a salutare, care piccole amiche d'ogni mattina, in un lento, in
un sempre più lento agitarsi di maniche bianche e di soggòli candidi...


V.

«BUON APPETITO E BUON SOLE!»

Son venti? Son trenta? Chi li conta? Si passan la voce e ce n'è
ogni giorno di più.. Ma c'è minestra per tutti... Grazia sa bene
che i poveri sono sempre più di quanti crediamo e fa aumentare,
meccanicamente, ogni mattina, la razione. Distribuisce a tutti ella
stessa le belle scodelle fumanti e li mette lì, in fila, sul muricciolo
che, nella villa, divide il giardino dall'orto. Che sole c'è là! Caldo
dentro e caldo fuori... Come si scaldano tutti quei poverelli! E Grazia
tutti li saluta, tutti li incuora:

— Buon appetito e buon sole!

E fugge. Ma una vecchietta afferra Grazia per la veste, la ferma, le
bacia la mano:

— Dio ti benedica per quanto sei buona!

Su, nella villa, una finestra s'è aperta. Marcello, il fratellino
malato, sorride, saluta Grazia, le fa cenno di salire, richiude,
scompare. E Grazia, che prima ha sorriso, ora ha il volto doloroso e
contratto. E si china, un'istante, all'orecchio della vecchietta:

— Non per me bisogna chiedere la benedizione di Dio... Ma per lui, per
lui... bisogna tanto pregare...


VI.

SERENITÀ.

Leggera, aerea, rosea, sorridente, Grazia entra nella sala da pranzo
dove la tavola è apparecchiata. Mette i fiori su la tavola, nei vasi.
Corre alla finestra. L'apre. Il sole, in un gran rettangolo d'oro,
invade la sala. Ed eccola, di volo col sole, nelle braccia di Marcello
che le dice:

— Sorellina, dove entri tu entra il sole!

E Grazia ride, gli tappa la bocca con la mano:

— Esagerato!

E, di volo ancora, eccola nelle braccia di Rosetta, l'amica intima,
quella che su tutte e fra tutte è cara al suo cuore.

E batte le mani. E chiama a tavola. E aiuta il fratello a sedere. E
siede ella stessa, ma ancora un pensiero pei suoi poveri traversa
il suo cuore. Corre alla finestra. I poverelli son là, allineati,
sul muricciolo al sole, a gustare la buona minestra fumante. La
vedono, restan tutti con i cucchiai in aria e un coro di saluti e di
benedizioni la raggiunge lassù. Grazia sorride, richiude e torna a
tavola. Accanto al suo tovagliuolo, su un piccolo vassoio, è la posta.


VII.

UNA LETTERA TRA ALTRE DIECI.

  _Mia cara Grazia,_

_Claudio Arceri, il glorioso musicista che attualmente compone la
sua nuova opera, _Cirano di Bergerac_, distratto nel suo lavoro
dalle troppe cure e dalle troppe noie della vita cittadina, cercava un
verde cantuccio solitario per lavorare in pace. Io gli ho consigliato,
pensando a te, il paesello verde e rosa, tra boschi e giardini, dove
tu vivi con tanta serenità di cuore e di opere. Il maestro Arceri,
nella solitudine provinciale, troverà in te certamente un'ammiratrice
e un'amica. Gli ho detto di te la metà del bene che di te si deve
pensare. E te lo mando su, assieme a questa lettera, già un po'
innamorato di te: innamorato di te senza averti mai veduta, sol per
aver sentito vantare i tuoi pregi: come Jaufré Rudel per la Contessa di
Tripoli. Scherzi a parte, io affido alla tua buona accoglienza questo
grand'uomo che viene su la tua montagna. Dà alle ore del suo lavoro
il conforto prezioso della tua deliziosa amicizia. Ti ringrazia e ti
abbraccia la tua_

                                                           GABRIELLA.


VIII.

UN ARRIVO.

Un trenino omnibus si ferma, affannando, nella piccola stazione
tutta rossa d'oleandri in fiore. Un solo viaggiatore ne discende, un
viaggiatore insolito: un bel signore elegante, un signore di città.
Claudio Arceri chiede spiegazioni:

— Per il Castello d'Arcole, presso il convento della Collina Verde...

E un facchino accompagna il grande musicista verso la vecchia diligenza
polverosa che aspetta fuori, all'ombra, già rivolti i cavalli verso la
lunga strada bianca che bisogna lentamente salire.


IX.

TOSSE...

Batte le mani, Grazia. Com'è felice! Che grande idea ha avuta
Gabriella... Come ella ammira la musica di Claudio Arceri e come sarà
felice di conoscerlo, come terrà ad onore di diventare sua amica!...
Marcello, che rideva per tanta gioia, s'interrompe. Un colpo di tosse
gli sconvolge il viso lacerandogli il petto. Sùbito Grazia accorre a
lui, trepida, spaurita. L'attacco cessa. Torna, Marcello, a sorridere.
Torna, Grazia, al suo posto. Ma non sorride più...


X.

GRAZIA HA QUATTRO AMICI.

Quattro amici. I così detti «amici del dopo pranzo»... Fedeli. Devoti.
Esclusivi. Sempre in lotta fra loro, ma sempre uniti nell'affetto
di lei, nell'ammirazione delle sue virtù. Sono il farmacista della
Collina Verde, il maestro di scuola, il vecchio conte Spada e don
Giovannino. Tra i quattro il conte Spada e don Giovannino sono i più
caratteristici: il conte Spada col suo _tight_ eterno, con le sue
uose bianche, la sua caramella, la sua cravatta girata e rigirata tre
volte attorno all'altissimo ed immacolato colletto; Don Giovannino
con le sue eleganze provinciali, coi vestiti ch'eran di buon taglio
tre anni prima, con le cravatte dai colori sgargianti, le scarpe che
accoppiano tra piede e gambaletto i più stridenti colori, un palmo
di fazzoletto fuori del taschino, l'eterno fiore all'occhiello, la
scriminatura diritta come un binario e certe cravattine papillons che
sembran davvero farfalle tanti sono i colori che vi sfoggiano sopra.
Il conte Spada, unico superstite di grande famiglia, rappresenta tutta
l'aristocrazia della Collina Verde: aristocrazia senza un soldo, ma
aristocrazia. Don Giovannino è della Collina Verde l'uomo fatale: don
Giovanni di paese, migrante leggero ed inconcludente tra camerierine
e contadinotte verso un'eterna conquista, ma don Giovanni, arbitro di
tutte le eleganze, al corrente di tutte le mode, re dello chic su la
piazzetta del paese.

Eccoli, dopo colazione, tutt'e quattro, a prendere, come sempre,
il caffè in casa di Grazia e di Marcello. Ma che hanno oggi? Perchè
sono tutti scuri in volto, ammusoniti, taciturni, scontrosi? Grazia
interroga. Rispondono a monosillabi. Grazia guarda. Evitano il suo
sguardo... C'è... c'è... che sono già tutt'e quattro maledettamente
gelosi. Grazia ha annunziato l'arrivo di Claudio Arceri. E che viene
a fare lassù? Perchè ha scelto proprio la Collina Verde per venire a
lavorare? Quante altre migliaia di comuni ha l'Italia a disposizione
dei grandi uomini in cerca di villeggiatura? Ora che il grand'uomo
arriva accadrà quel che deve accadere: passeranno loro in seconda
linea, saranno da Grazia trascurati, forse abbandonati... per lui...

Grazia, ridendo, s'è levata. Li vede lì, mortificati, imbronciati, ai
quattro angoli della tavola da pranzo, col caffè che si fredda nelle
tazze alle quali, per protesta, non hanno voluto neppure avvicinare
le labbra. Grazia fa loro cenno di seguirla per passare nel salone
dov'è il pianoforte. Vanno, come cani frustati. Grazia, questa volta,
è crudele: anche Grazia è donna e non è perfetta. Li vede gelosi e si
diverte a punzecchiarli. Ha preso gli spartiti delle opere di Claudio.
Ha fatto prima vedere la fotografia del maestro, specialmente a don
Giovannino... E poi ha esclamato, coi tre spartiti in mano levati in
alto entusiasticamente:

— Che musica divina! Tre capolavori!

Il farmacista, che è melomane e ostinato suonatore di pianoforte,
storce la bocca con aria di disprezzo. Grazia gli va sotto
minacciandolo con gli spartiti e gridando;

— Capolavori, sì! E voi non capite niente...

È troppo. L'offesa li tocca tutti, ma per tutti si risente il
farmacista che prende dalle mani di Grazia uno spartito e, apertolo a
caso sul leggìo del pianoforte, esclama:

— Volete un saggio di questa famosa musica divina? Tappatevi le
orecchie.

E siede al pianoforte e fa per suonare... Ma Grazia si slancia verso la
vecchia spinetta, vi si appoggia e chiude su la tastiera il coperchio:

— No. Qui non si suona. Vi suonò per l'ultima volta mio padre, dieci
anni fa.

E corre nell'altra stanza, e torna, cariche le braccia del grave peso
del grammofono. Ed ha con sè un disco. Lo leva in aria, trionfalmente,
e poi lo mette a posto, nell'apparecchio.

— Si, sì, ora la sentirete la musica di Claudio Arceri...

E il grammofono va...


XI.

PITTORESCA, MA INTERMINABILE...

E va anche, su per la lunga e lenta salita, già da due ore, la
diligenza in cui Claudio Arceri sonnecchia quando i sobbalzi della
vettura glielo permettono. E ci sono ancora due ore di strada! Tra
sonno e sonno Claudio guarda dagli sportelli: luoghi pittoreschi,
boschi di castagni miracolosi, pinete sublimi, panorama indescrivibile,
sì, sì, tutto quello che gli hanno decantato e promesso... Ma che
strada interminabile!... Pittoresca, ma interminabile...

E che idea è stata mai quella di non venir fin lassù in automobile?


XII.

CHIAMA A RACCOLTA...

E il grammofono va, va ancora. Dapprima i quattro hanno tentato di
motteggiare sotto gli sguardi fulminanti di Grazia. Ma adesso... Adesso
altro che far gli spiritosi! Adesso son presi anche loro, come Grazia
rapita, come Marcello, come Rosetta, nel fascino della musica stupenda.
Hanno a poco a poco avvicinato le loro sedie e son là, con certi visi
gravi e intenti, con certi occhi grandi che un velo di lacrime fa più
luminosi. Anche Rosetta è, come Grazia, profondamente commossa. Anche
lei adora la musica di Claudio Arceri. Marcello, che le è vicino, le
mormora all'orecchio:

— Musica che strappa il cuore!...

E Rosetta, che aveva già il labbro tremante e gli occhi smarriti,
nasconde il volto nelle mani e scoppia a piangere dirottamente.

D'improvviso Grazia arresta il grammofono. Corre a Rosetta e, presala
tra le braccia, le asciuga gli occhi, la fa sorridere, ride con lei...
Poi guarda i quattro. Son lì, immobili, i vecchi amici gelosi di
Claudio, son lì vinti, commossi. Li fa levare, Grazia, e, dando loro i
cappelli, li spinge fuori e dice:

— E ora via, via, cari, a farvi belli e ad avvertir tutte le mie
amiche. Claudio Arceri fra poco sarà qui e voglio presentargli tutt'il
mio piccolo mondo.

E don Giovannino, su la porta, assicura Grazia:

— State tranquilla... Alle ragazze penso io...


XIII.

PRIMA CURIOSITÀ.

Il Castello di Arcole è a pochi chilometri dal paese e la diligenza vi
fa sosta affinchè Claudio Arceri possa discendere. E, appena disceso,
mentre la corriera riprende la via su per la salita, il suo primo
pensiero, il suo primo interesse è per Grazia. Chiede sùbito ov'ella
abiti al giardiniere che è venuto a riceverlo. E il giardiniere
gl'indica lì, a duecento metri, la vecchia villa di Grazia, coi suoi
due cipressi al cancello e la sua corona di pini attorno alla casa
tutta avvolta di edera.


XIV.

RIVEDENDO LA «SCENA DEL BALCONE».

    ... E quali mi direte, se venne un tale istante
    Per noi, quali parole? — Ma quante, quante, quante
    Me ne verranno al labbro; senza disporle in mazzo
    Gitterovvele in fascio: io vi amo, son pazzo...

— Bei versi! dice Rosetta levando gli occhi dal libro.

— E che musica saprà farci Claudio Arceri! risponde Grazia chiudendo il
poema ch'ella ha preso poco prima nella biblioteca.

E rimangon lì, le due fanciulle, a pensare, a ricordare... Rivedono
la scena del balcone al terzo atto di _Cirano_ così come la videro
qualche anno prima, una sera, indimenticabile, in città: Rossana
bianca sul balcone verde d'edera e fiorito, nell'ombra della notte
tutta tremante di stelle; e sott'il balcone Cristiano, il bello, il
felice, l'amato, che ripete le parole che Cirano, brutto, senza gioia,
senza amore, gli suggerisce, nascosto sott'il portico. Ma Cristiano
ode male, ripete male, va troppo piano per il torrente di parole che
vien su, tumultuoso, dal cuore innamorato di Cirano. E, avvolto nel
nero mantello, mascherando nella commozione la voce, Cirano parla
direttamente a Rossana, le canta, le grida le sue grandi parole d'amore
ch'ella deve creder quelle di Cristiano:

    T'amo, soffoco, è troppo, non reggo più: siccome
    Dentro un sonaglio, sta nel mio cuore il tuo nome,
    E poi che senza posa l'anima mia vacilla,
    Senza posa il sonaglio s'agita e il nome squilla.

E le due donne sono, come sempre, prese dalla disperata malinconia di
questa scena in cui l'infelicissimo amante privato d'amore trova una
disperata e tremenda voluttà nel dire nell'ombra, per un altro, le
parole del suo folle amore, nel rinunziare, nel sacrificarsi così fino
a far salire un altro a cogliere su le labbra dell'amata il bacio, il
divino bacio che le sue parole han preparato...

Ma Grazia si riprende. Scuote il capo sorridendo, e la melanconia:

— A vestirci!


XV.

PREPARATIVI.

Grazia mette una rosa nei suoi capelli e si guarda allo specchio: è
carina, è molto carina. Ma non pensa solo a sè, Grazia. Pensa anche
a Rosetta. E c'è una rosa anche per lei. C'è un po' di cipria anche
per lei. C'è uno specchio per dire anche a lei che anche lei è carina,
molto carina...

E ha l'aria di trovarsi molto carino anche Claudio Arceri, nella sua
stanza da letto al Castello, se indugia così davanti allo specchio a
fare impeccabilmente diritta la scriminatura, a rivedere il nodo della
cravatta, a infilar nell'occhiello un gran garofano bianco e a metter
nel fazzoletto due gocce d'ambra antica Coty.

E come si senton carini anche i quattro che, rivestiti a festa, tutti
lustri e attillati, scendon giù per un vicolo del paese verso la
villa di Grazia... Che palamidone ha il farmacista! E che panciotto di
velluto a scacchi bianchi e neri ha tirato fuori il maestro di scuola!
Le ghette e i guanti bianchi del conte Spada accecano per il loro
splendore e don Giovannino ha messo fuori una cravatta scozzese che,
per non innamorarsi a prima vista di lui e di lei, bisogna aver duro il
cuore come un macigno...


XVI.

L'INCONTRO.

Nel salone grande della casa di Grazia dov'è la vecchia spinetta
tra vecchi quadri di famiglia e vecchi mobili che mai Grazia ha
voluto cambiare — e sembra, ed è, infatti, un vecchio salotto del
Cinquantanove — nel salone grande e scuro della casa di Grazia gli
abiti chiari delle sue amichette mettono note di luce qua e là. Ogni
tanto, azzurra o rosea, tutta tulle e nastrini, ne spunta un'altra su
questa o quella porta. E sembran nella penombra grandi fiori rosei o
celesti che sboccino, d'improvviso, su una porta, dietro una tenda, fra
un mobile e l'altro, davanti a una consolle o sopra un canapè, qua e
là...

Qua e là, da per tutto, corre Grazia che Rosetta serve e segue come il
prete all'altare. Qua riordina, là spolvera... Metton dovunque fiori e
fiori nei vasi...

— Hanno spogliato il giardino! dice a un gruppo di piccole amiche,
sorridendo, Marcello, Marcello che domina il suo malessere per non
turbare a Grazia l'ora di quell'arrivo che è una gran festa per lei...

Spolvera, spolvera, spolvera... Quanta polvere c'era e quanta ce n'è
ancora... Ci vuole aiuto... E Grazia, quando i quattro amici in abito
da cerimonia fan l'entrata solenne in processione, mette sùbito un
bello scopettino nei guanti bianchi di don Giovannino e invita questi
a spolverare, a spolverare lui la spinetta, mentre lei spolvererà lo
consolle e Rosetta il canterano e le campane di cristallo.... Ma, oh
Dio!, il domestico entra ed annunzia: «Claudio Arceri è arrivato». È
come se fosse caduto il fulmine. Tutti son lì, immobili, in piedi,
impietriti;... Nell'ansia Grazia ha dimenticato di togliersi il
grembiulino e se ne accorge quando Claudio è già apparso su la porta e
s'è inchinato davanti a lei... Mentre Claudio, nell'inchino, ha giù gli
occhi al pavimento, fa a tempo Grazia a toglierselo, a chiuderlo in una
mano, dietro il dorso. Claudio è venuto avanti. Come agita, Grazia, le
mani dietro la schiena... È il momento di dar la mano al maestro. Ma in
una ha il grembiule e nell'altra lo scopettino. Un grand'imbecille quel
don Giovannino che è dietro di lei e non vede che bisogna toglierla
d'impaccio! Non pensa, Grazia, alla cosa più semplice: buttar tutto
per terra. Ma nella confusione accade sempre così: ci si impunta su un
ostacolo e la soluzione più semplice ci sfugge. Ecco che Claudio le è
davanti. Grazia s'è inchinata a sua volta. Ora è il caso di tirarsi su,
di dargli la mano... Ma come fare? Quell'imbecille di don Giovannino...
Si sente, Grazia, perduta... Ma miracolosamente, a tempo, due mani —
quelle di don Giovannino diventato meno stupido? — le tolgono scopetta
e grembiule ed ella, tirandosi su dal bell'inchino, può dare a Claudio
la mano e dirgli commossa e col suo più bel sorriso:

— Inutile assicurarle, maestro, ch'ella ha qui tutt'un piccolo mondo
d'ammiratori...

Claudio sorride: il sorriso solito per la solita frase udita mille e
mille volte. E Grazia presenta: suo fratello, Rosetta, i suoi grandi
amici — che stretta di mano stile _Louis XV_ dà il conte Spada e che
_shake-hand_ da spezzare il braccio al maestro dà don Giovannino! — e,
finalmente, le sue amiche. E, ad una ad una, le ragazze passan davanti
al maestro con un piccolo goffo inchino che le fa diventar tutte rosse
e poi si ritraggono e fanno qua e là, nel fondo in penombra della gran
sala, gruppi chiari e chiacchierini che son per Claudio Arceri tutti
sguardi e commenti.

E poi, appena Claudio è seduto accanto a Marcello che lo interroga
sul suo lavoro e sui suoi propositi, le ragazze, chiamate da Grazia,
vengono avanti e l'aiutano a servire il tè. In un angolo don Giovannino
studia il maestro. Ora s'avvicina a tre ragazze che son rimaste lì
ferme a guardare coi gomiti poggiati alla _consolle_. E chiede, in
confidenza:

— Meglio di me il maestro? Osereste affermarlo?

Una risata delle ragazze gli risponde e rimane lì, come uno stupido,
mentre le ragazze volan via anche loro verso il maestro, per servire i
biscotti...

E don Giovannino si consola. Guarda il maestro, vestito semplicemente
d'una giacca nera. E guarda, invece, il suo _tight_:

— Si fan forse le visite in giacca?... Ma bisogna compatirlo...
Poverino! È un artista. E non conosce gli usi...


XVII.

CAMPANE CHE ASPETTANO.

Come ogni sera a quell'ora, il vecchio amico del campanile aspetta
Grazia lassù per suonare l'Ave Maria. Il sole è già laggiù, su l'orlo
dell'orizzonte. Già non è più interamente un disco. E tra le grandi
campane mute, brune sul cielo verdino, il campanaro attende. Guarda
l'ora ogni due minuti. Per la prima volta quella sera Grazia è in
ritardo... E guarda giù se Grazia venga... Guarda, aspetta... E le
campane aspettano... E, il sole continua a calare laggiù, fra quelle
nuvole rosse...


XVIII.

IL «LAMENTO DI GIULIETTA».

Claudio Arceri è alla spinetta. Grazia gli ha detto:

— Vi suonò, l'ultima volta, mio padre. Vuol darmi lei la gioia di
riaprirla oggi?

Appena seduto, Claudio è rimasto incerto. Che cosa suonare? E Grazia ha
preso lo spartito d'una sua opera: _Giulietta e Romeo_. L'ha aperto sul
leggìo:

— Il “_Lamento di Giulietta_„, maestro. È il suo capolavoro!

E Claudio Arceri ha cominciato a suonare. Grazia è appoggiata alla
spinetta, intenta ad ascoltare, a guardare. E lentamente, pianamente,
a mano a mano che il maestro suona, i gruppi sparsi nell'ombra del
salone si avvicinano, si stringono sempre più, diventano uno solo e
le ragazze, le rose rosee, le rose azzurre, non sono più staccate,
ma formano adesso, chiare di luce nella penombra, tutto un grande
_bouquet_. E le braccia si allacciano, e gli occhi si cercano. E Grazia
guarda il piccolo orologio che ha al polso e, mentre ascolta la musica,
ricorda...


XIX.

LA BUONA NOTTE AL SOLE.

Sagoma nera su l'alto del campanile, il vecchio poeta delle campane
ha perduto oramai ogni speranza. Sarà solo, quella sera, a dar la
buona notte al sole, al sole che laggiù, nell'orizzonte ora violetto,
non è più che un piccolo arco rosso sempre più piccino, prossimo
a scomparire... E le grandi campane mute, brune sul cielo verdino,
aspettano ancora, ancora un momento...


XX.

ESTASI E RIMORSO.

E, nella sala in cui l'ombra diviene sempre più nera e dove, nella
suggestione della musica, cuori e corpi si fanno sempre più stretti
e più vicini, Grazia guarda ancora l'orologio al suo polso. Vorrebbe
andare. Non sa staccarsi. È combattuta e divisa, tra un'estasi e un
rimorso.


XXI.

AVE MARIA!

E il sole è scomparso. Pace e melanconia infinita del crepuscolo. Ed
è l'armento che torna dal pascolo col suo pastore, ed è il piccolo
lago che s'addormenta tra le ninfee, ed è la luce che s'accende nei
casolari, ed è l'ombra che scende giù per la montagna, ed è la falce
di luna che spunta lassù dietro la collina, ed è il carro pesante e
lento che va per la lunga via crepuscolare, ed è l'argenteo saluto dei
campanili lontani al giorno che se n'è andato.

E, finalmente, nere e gigantesche sul cielo ove s'accendono pallide le
prime stelle, le campane lentamente si muovono.

Presso la spinetta Grazia, d'improvviso, le ode. Tende al richiamo
lontano delle amiche d'ogni sera l'orecchio ed il cuore. Ancora
è combattuta, ancora è divisa, presa fra due sentimenti e fra due
musiche. Con gli occhi intenti, dilatati, rivede le cose d'ogni sera:
il poeta sul campanile, le ultime nuvole paonazze laggiù, le finestre
di Collina Verde che s'illuminano, la porta del casolare che si chiude,
il contadino che torna coi suoi buoi, le fanciulle che ballano su l'aia
al suono della fisarmonica.

Claudio Arceri suona. Gli occhi fissi su lui, tutta l'anima in lui,
Grazia lo ascolta. Come, nell'ombra che ha invaso tutta la stanza, che
ha disperso ogni sagoma, come il gruppo di quelli che ascoltano s'è
stretto attorno al musicista nel breve cerchio di luce gialla delle
candele!... E nel silenzio immenso solo quelle due voci si chiamano,
si rispondono, fan di due canti lo stesso canto: la spinetta di Claudio
Arceri e, lontane e lente, le campane dell'Ave Maria.

Grazia, al riflesso delle candele che illumina solo il suo volto, è lì,
appoggiata alla spinetta, il capo fra le mani, gli occhi intenti sul
musicista, il cuore alle due musiche. Ma a poco a poco una sola musica,
quella che ha vinto, rimane in tutt'il suo immenso cuore gonfio di
commozione: quella di Claudio che continua a suonare mentre le grandi
amiche d'ogni sera, che hanno invano chiamato Grazia, si addormentano
pian piano negli ultimi rintocchi sempre più lenti e, ferme oramai, non
sono più che gigantesche ombre sul cielo sereno e infinito dell'immensa
notte finalmente discesa...


XXII.

COSÌ, OGNI GIORNO...

Le parole ardenti di Cirano hanno vinto il cuore di Rossana. Lassù, al
davanzale, trepida fra i rami del gelsomino, la fanciulla è pronta, è
offerta al bacio del suo innamorato. E Cirano, escito dalla sua folle
ebbrezza, spinge su l'altro, Cristiano, a cogliere su quelle labbra
frementi il bacio ch'egli ha preparato.

Questa è la pagina ardente e disperata che oggi ispira Claudio Arceri
seduto a comporre al suo tavolino da lavoro. Ha provato or ora, al
piano, la melodia che gli è frullata nel cervello e che ha fissata su
la carta. Ora è stanco. Ha guardato sul tavolino il piccolo orologio
che segna le ore della sua fatica quotidiana. Le sue piccole amiche
sono oggi in ritardo? Ma no... Ecco il rumore d'una porta che s'apre,
ecco un echeggiar di voci, fuori, nel vestibolo, e le due amiche, tutta
azzurra l'una, tutta rosea l'altra, entran correndo e son di volo alla
scrivania e al pianoforte. Grazia cerca fra le carte, vede la nuova
musica appena appena composta. L'apre sul leggìo e, costretto Claudio a
levarsi, lo fa sedere al pianoforte. Presto, presto... Le nuove melodie
appena nate devono avere le loro prime ammiratrici.

E Claudio Arceri suona alle due piccole amiche che, sedute accanto a
lui, un gomito sul ginocchio, il volto nella mano, vedono ripassare
nella loro memoria, nel sortilegio della musica, le scene e le figure
del bel poema: l'incontro coi cappuccini, l'apparir di Rossana al
balcone, il primo balbettìo di Cristiano, il volo lirico di Cirano,
l'apologia del bacio:

    .... Ma poi che cosa è un bacio? Un giuramento fatto
    un poco più da presso, un più preciso patto....


XXIII.

GENTE CHE ASPETTA INVANO.

Su la poltrona dov'è inchiodato dalla paralisi il «grande malato» volge
invano il capo verso il cancello del suo piccolo giardino...

Nel laboratorio le «manine d'oro» lavorano... La tovaglia per l'altar
maggiore, tutta piena di bei ricami, è pronta, ma nessuno viene a
ritirarla. Il lavoro non è più come prima, sicuro, felice... Di tanto
in tanto le «manine d'oro» si fermano... A questa sarebbe necessario
un consiglio... Quella ha paura di sbagliare... Quell'altra non sa più
come andare avanti. E aspettano, le manine d'oro, di sera in sera, di
mattina in mattina... Aspettano.

E lì, al sole, i due ragazzoni mutilati, i due eroi, senza gambe l'uno,
senza braccia l'altro, fumano e ricordano... Ricordano le ore in cui
le parole buone, parole consolatrici, parole che nessuna altra bocca
sa dire, scendevano sino in fondo alle loro anime... Ora fumano, soli,
melanconici, al sole... Soli: come e quanto si sentono soli!... Davanti
a loro è la strada bianca, vuota... Suonava un tempo, d'improvviso, su
quella strada, il trotterello leggero e frettoloso... E tutt'il cuore
era un'illuminazione...

E, al ponticello di legno, gli erranti, i vagabondi della strada
maestra, si raccolgono come ogni mattina. Facevan chilometri e
chilometri, una volta, per non mancare all'appuntamento. Dovunque
fossero, ovunque li conducesse il loro vagabondaggio, lì li
riconduceva, all'uscir da ogni notte, la loro buona stella. Veniva di
lassù, dall'alto di quel ponticello, la buona stella, in un dondolìo di
sonagli d'argento...

E lassù, sul campanile, accanto alle immobili campane che sembrano non
aver più lo stesso suono, il poeta del campanile aspetta, guarda ogni
sera, giù giù fin dove il viottolo si perde tra i vigneti, guarda se la
piccola cara ombra appaia ancora come appariva, fedele, puntuale, ogni
sera.

Ma Grazia non viene più.


XXIV.

UN MAZZO DI ROSE BIANCHE.

Claudio ha richiuso il piano. Quanta ne vorrebbero le ragazze!...
Vorrebbero uno spartito al giorno... Ma musica nuova non ce n'è più...
Grazia non si fida. È alla scrivania. Rovista fra le carte. Son lì, nel
vaso di cristallo, le belle rose rosse. Sono le rose che ella gli manda
ogni mattina per fiorirne il suo tavolino da lavoro. Ora Grazia tuffa
il viso, in quelle foglie ardenti e fresche: e, tra quelle foglie,
il suo respiro è quasi un bacio. Ma, volgendosi, Grazia vede un altro
mazzo di rose — bianche queste — lì, in un altro vaso di cristallo, sul
pianoforte. Un'ombra passa sul suo volto e spegne il suo sorriso.

— E queste? ella chiede.

Come, prima che Claudio risponda, Rosetta, tutta rossa, abbassa il
volto confusa e mortificata! È perfettamente inutile che il maestro
spieghi:

— Son della signorina Rosetta...

.... Già Grazia, da quel rossore, dall'abbassarsi di quello sguardo
sul tappeto, l'aveva capito... Lo sguardo di Grazia non s'abbassa come
quello della sua amica. Fattosi oscuro e torbido riman lì, diritto,
fermo. Rosetta se lo sente addosso senza vederlo e ne ha fastidio. Con
un pretesto si allontana con Claudio verso il fondo della stanza dove
son giornali e riviste appena arrivati con la posta. E Grazia, sempre
fermo e diritto lo sguardo carico di nuvole nere, strappa non veduta
qualche foglia al mazzo di rose bianche di Rosetta e le stritola, le
stritola — come le stritola! — nelle sue piccole mani convulse...

Claudio prepara il tè, laggiù, in fondo. Rosetta, che è buona e che non
ha nulla da rimproverarsi, si è riavvicinata a Grazia: timidamente le
chiede che cosa abbia. Le risponde una spallucciata.

— Che ho? Nulla.

Non ha nulla. E ha tutto. Ha un turbamento profondo che non ha forma,
che non ha nome ancora, ma che la lascia lì, imbronciata, cupa, senza
farle trovare una sola parola da dire all'amica, che le stringe il
cuore sino a farglielo così piccino che entrerebbe in un pugno. E
rimangon lì, così, le due donne — così vicine e così divise — finchè
Claudio s'accosta a loro recando due tazze di tè.

Ma passa ogni nube, tornano il volto e l'anima di Grazia a sorridere
se Claudio, bevuto il tè, siede con le due fanciulle in un angolo del
salotto e parla di sè, parla di sè a loro che bevono intente le sue
parole, parla, come lui solo sa parlarne, dei suoi ricordi d'arte e dei
suoi sogni di gloria.


XXV.

QUANDO GRAZIA NON C'È...

— Chiudete le finestre. Ho freddo.

È primavera. Ma Marcello ha freddo. Non c'è sole che gli illumini il
buio dell'anima, non c'è tepor di maggio che gli riscaldi le vene. È
lì, sconsolato, freddoloso, sotto le coperte, disteso sul divano, fra i
due più vecchi domestici di casa che lo assistono, la vecchia cameriera
che lo ha visto nascere e il vecchio servo fedele che gli è così vigile
e affettuoso infermiere. Un tempo una cosa, una gran cosa, riesciva a
distrarlo dal pensiero del suo male, a infondergli coraggio: il sorriso
di Grazia, la continua presenza di Grazia. Ma ora... Come son lunghe
e come son tristi a passare le ore in cui ella è lontana... E come in
quelle ore tutt'i suoi mali sembrano moltiplicarsi...

— Chiudete... Chiudete ancora... Ci dev'essere qualche cosa d'aperto
nell'altra stanza... Ho freddo...

Ha freddo dentro e gli pare d'aver freddo fuori. E con le coperte di
cui s'avvolge crede di riempire il vuoto, di rimediare al freddo che
Grazia lascia, quando non c'è...


XXVI.

CHI È LA MUSA?

Sono in giardino, tra le più belle rose del mondo. Son veramente le più
belle? Così almeno sembrano a loro. Così sembra a loro tutto quello che
da vicino o da lontano circonda il musicista, appartiene comunque a lui
o alla sua vita.

Rosetta chiede l'ora. La sua istitutrice doveva venirla a prendere
alle quattro e son le quattro passate da un pezzo. Ma chi pensa più
all'ora, al ritardo, alla mamma che aspetta, adesso che Claudio prende
a ognuna delle due ragazze una mano e sollevandole in alto domanda con
un sorriso:

— Qual'è fra voi due la Musa?

L'idea tenta Grazia immediatamente. In un lampo la coglie, ne fa un
fatto. Ha tolto dal taschino di Claudio il suo fazzoletto e ha bendato
il musicista. E ora, allontanandosi da lui e allontanando con sè
Rosetta, lasciandolo lì in mezzo alla grande aiuola fiorita, gli grida:

— Scegliete.

Strano giuoco frivolo e terribile in cui le bimbe che sono state fino
a ieri si divertono un mondo e non vorrebbero mai farsi acchiappare
da Claudio che, qua e là, le insegue, e in cui le donne ch'esse sono
diventate trepidano in una tensione atroce dello spirito e vorrebbero
che sùbito Claudio riuscisse ad afferrarle, che immediatamente il
giuoco finisse e la sorte facesse la sua scelta come a fissare e a
scoprire il destino. E vanno, e girano, e fuggono, e ritornano, e
lo sfiorano, e lo toccano, e son lì a due passi, e son là lontane, e
Claudio crede di stringerne una fra le braccia, e abbraccia l'aria fra
le loro risate. Ma, ahi, è fatta... Questa volta è presa bene e non
scappa più... Una delle due fanciulle è nelle braccia di Claudio che
sùbito si sbenda e la vede:

— Voi! Grazia!

E, tra il giuoco e il serio, Claudio trattiene per qualche istante fra
le sue braccia, più che non dovrebbe, Grazia, il cui volto è tutto
illuminato di gioia, mentre Rosetta s'è fatta laggiù, dove il viale
comincia, per nascondere il suo turbamento, per vedere se giunga la
sua istitutrice, la sua istitutrice che è incredibilmente in ritardo.
E ancora Claudio a bassa voce mormora all'orecchio di Grazia che tutta
ne trema e abbassa il volto fatto di brace:

— Voi... Voi...


XXVII.

GLI ABBANDONATI.

Su la piazza del paese, al piccolo “gran caffè„, mogi mogi,
abbandonati, senza parlare, son seduti tre dei quattro amici di Grazia:
il conte Spada, il farmacista e il maestro. Qua e là per la piazza, su
la porta delle case, le belle ragazze di Collina Verde fan capannelli.
E don Giovannino, più che mai fatale, va di gruppo in gruppo, a
dispensar sorrisi e a rubar cuori. Ma chi lo guarda più don Giovannino
da quando c'è in paese Claudio Arceri? Son tutte lì, su le porte, per
aspettarlo, per vederlo passare, alla solita ora, alle cinque, quando
viene in paese a spedir la sua posta e a comprar sigarette. Ora che
c'è in paese un grand'uomo e un bell'uomo chi guarda più, chi può più
guardare quell'uomo ridicolo ch'è don Giovannino? Ma don Giovannino,
come tutti i grandi che decadono, non si accorge della sua decadenza.
Prende per buoni i sorrisi ironici che lo accolgono, chiude le
orecchie alle risate che lo seguono, vede solo la più santa ingenuità
nelle frasi piene di malizia e di scherno con cui le belle ragazze di
Collina Verde prendono in giro la sua fatalità esautorata e si burlano,
insomma, maledettissimamente di lui...

Accanto ai tre che non parlano, caduti nell'abbattimento profondo dei
grandi abbandoni, il medico prende un caffè. Ma il domestico di Grazia
viene a chiamarlo.

— Corra, corra signor dottore... Il signor Marcello sta male... Ed io
vado al Castello a chiamare sùbito la signorina Grazia...

E corre via, pover'uomo, nel suo affanno e nel suo affetto, come se i
suoi vecchi «piedi dolci» avessero le ali...


XXVIII.

L'«ARIA DEL BACIO».

Quella Grazia non fa che rovistar tra le carte di Claudio! Rientrati
nello studio e mentre Claudio e Rosetta sono occupati a sfogliare un
_album_ di fotografie, Grazia si è avvicinata al tavolino per frugare
ancora. Non è, del resto, diritto della Musa ficcare il nasino nelle
faccende del suo Poeta? E, cerca, cerca... ha trovato! Ha trovato un
brano che Claudio non aveva ancora confessato d'aver composto. Ora,
con un lieve cenno, non veduta da Rosetta che continua a guardar
fotografie, ha chiamato Claudio per mostrargli il foglio di musica e
dirgli:

— Questa, “l'aria del bacio„, dovete farla sentire a me sola....

E Claudio le risponde sorridendo, sottovoce, e rimettendo il foglio sul
tavolino:

— Sì... Più tardi... Quando Rosetta se ne sarà andata...

Uff!... Ma quando se ne va Rosetta?... È sempre laggiù, a guardar
fotografie, tranquilla... Che può mai trovare d'interessante in un
_album_ di fotografie di gente che non conosce?... Sempre così, quella
ragazza... Senza nervi, docile come una pecora... Se le dicessero di
star lì tre ore a leggere e le mettessero fra le mani l'_Indicatore
generale delle Ferrovie_, lo leggerebbe tutto, da cima a fondo... Per
la prima volta Grazia è severa con la sua amica... Ma anche lei... Che
ostrica attaccata allo scoglio... La lasciasse mai sola.... E Grazia
guarda al suo polso il piccolo orologio: le quattro e mezza...

— Non doveva la tua istitutrice venirti a prendere alle quattro?... Sai
che son già le quattro e mezza passate?

Rosetta s'è levata chiudendo l'_album_... Oh, finalmente.... Guarda
dalla finestra per vedere se l'istitutrice venga... Oh, un passo nel
giardino... Eccola... Ma no... È un uomo, è il domestico di Grazia, che
vuol parlare a Grazia... E le parla, in un angolo, sottovoce:

— Venga sùbito, signorina... Il signor Marcello non sta bene... E la
vuole...

Sùbito Grazia è in allarme: pallida, tremante... Il suo primo movimento
è per andarsene... Ma guarda, lì, verso la finestra... Vede Rosetta
e Claudio, vicini, vicinissimi, che parlano, che ridono... Che fare?
Lasciarli soli?.. E il piccolo delitto si compie nell'anima sua. Non
chiede al domestico di più per non sapere di più... Gli dice che andrà
sùbito e, con un gesto, lo congeda. Poi risale verso i due che vengono
incontro a lei per interrogarla:

— Forse Marcello?...

E Grazia, la voce fredda, e decisa:

— Nulla... Nulla...

Sente, Grazia, tutto il suo delitto, ma lo compie, irresistibilmente,
inevitabilmente. Non può staccarsi. È lì, inchiodata, nel suo martirio
e nel suo amore. E c'è qualche cosa di più della gelosia per non farla
muovere. C'è l'amore per non farla andare via. Ora l'istitutrice di
Rosetta è entrata e Rosetta è pronta per andarsene. Ora non c'è più
la sofferenza di lasciarli soli, lì, accanto alla finestra, vicini,
vicinissimi, a parlare, a ridere... Rosetta, gelosa anche lei, le dice:

— Vieni anche tu?

Ma Grazia, l'aria ingenua, gli occhi bassi, quasi con un fare annoiato
di dover restar lì per non saper dove andare, risponde:

— No... Rimarrò... Ancora un poco...

A malincuore Rosetta va via. Claudio l'accompagna, fuori, in giardino.
Per la prima volta da che si conoscono e si vogliono bene le due
amiche non si sono baciate separandosi. Grazia, senza più forze, s'è
appoggiata, rigida, contro il muro. È lì, inchiodata, e la visione le
appare della sua casa, di Marcello disteso sul divano, nelle torture
atroci del suo male, nella terribile crisi... E quando Claudio rientra
la trova così: rigida contro il muro, pallida con gli occhi sbarrati.

— Che avete?

Ma non ha nulla, nulla... Non si allarmi... Nulla... E va al
pianoforte, e prende il foglio di musica, e lo mette sul leggìo... E fa
sedere Claudio, e siede accanto a lui, di contro a lui, a guardarlo, ad
ascoltarlo... Com'è deliziosa, avvolgente suggestiva quella musica...
Come si fa leggera, arguta, preziosa per il concettino lezioso,
leggiadro e artificiale che definisce il bacio:

    .... un apostrofo roseo messo tra le parole
    t'amo...

E come più oltre la musica si fa appassionata, ardente, travolgente,
con tutto l'ardore, con tutto il furore del bacio... Come Claudio
guarda, suonandola, Grazia... Come Grazia guarda, ascoltandola,
Claudio... Il bacio è già fra loro, aereo ancora, non tòcco, in quei
due sguardi... L'invito, la forza magnetica delle due giovinezze, è
irresistibile. Ed eccoli, quando la musica cessa, prima su l'ultimo
grido, poi su l'ultima nota ch'è un sospiro di voluttà, eccoli l'uno
nelle braccia dell'altra... Non è, ancora, il bacio delle bocche...
Grazia non vorrebbe... Claudio non osa... Ma è, irresistibile, più
grande, più profondo, il bacio delle anime che si sono intese, che
comunicano... È la gloria trepida, immensa, senza parole, dell'amore
che incomincia...


XXIX.

SOLO.

Nella stanza del malato dove già le lampade sono accese, un andare e
venire di ombre in un odore grave di farmaci. È la voce di Marcello che
geme:

— E Grazia... Grazia che non viene... Ma l'avete, l'avete veramente
chiamata?...

Ora un colpo di tosse, atroce, gli spezza il petto di fuoco. E,
ricadendo sui cuscini, il malato geme:

— Sto così male, così male... Chiamate, chiamatemi Grazia, ve ne
scongiuro...


XXX.

RITORNO.

.... e Grazia s'è levata, s'è strappata, quasi, dalle braccia di
Claudio. Lo ha fatto sedere al tavolino e prepararsi a riprendere il
lavoro.

— Mi piace, da lontano, di potervi pensare così: curvo su le vostre
carte, a cercar la musica nel vostro cuore...

Ha già in capo la gran paglia di Firenze coperta di roselline. Claudio
fa per levarsi. Ma Grazia lo ferma, col gesto, con la voce:

— No, non mi accompagnate. Rimanete così...

E si allontana. Poi ritorna. Prende nel vaso di cristallo le sue rose
rosse. Le sfoglia su le pagine di Claudio da dietro le sue spalle.
Claudio le afferra una mano, vi depone un bacio e con quella la
trattiene, la tiene... Ma Grazia si scioglie dolcemente:

— No... Lasciatemi andare... È tardi... Mio fratello non sta bene... E
mi attende...

Ed esce così, indietreggiando, senza levar lo sguardo di dosso a
Claudio immobile alla scrivania. È alla porta. L'apre. Esce. Richiude.
Claudio china il volto su le pagine bianche e su le rose rosse. Poi
prende la penna. Cerca un istante, gli occhi in aria, e riprende il
lavoro...

Ma la porta si riapre, cautamente, leggermente. Claudio, assorto nel
lavoro, non ode. Grazia è rientrata così, e, in punta di piedi, cauta
cauta, leggera leggera leggera, va fino al pianoforte per prender
nell'altro vaso di cristallo l'altro mazzo di rose, le rose bianche,
le rose di Rosetta, e portarlo via con sè. E, piano piano, leggera
leggera leggera, guardando quelle rose non sue che non vuol lasciar
lì, indietreggia, raggiunge la porta, l'apre, esce, richiude, senza che
Claudio, assorto nel lavoro, si sia avveduto di nulla...

Fuori, nel giardino, Grazia distrugge con le mani febbrili le rose di
Rosetta e ne fa una pioggia bianca su le aiuole intorno. Poi si chiude
nel mantello — col suo delitto verso il fratello, col suo amore per
Claudio, con la sua gelosia per Rosetta — si chiude nel mantello e
fugge, fugge via, di corsa, di volo, per non perdere un minuto di più,
un solo istante ancora, per essere sùbito, sùbito, da Marcello, dal
povero Marcello, che ella, nella sua follìa, ha potuto... ha potuto...
Oh, orrore!... Ha potuto...

Corre... corre... Ed eccola alla sua villa, nel suo giardino, su per
le scale, nella gran galleria, alla porta della camera... Ed entra. Ma
quand'ella entra sùbito i domestici, col gesto, ne arrestano l'impeto:

— Sssss... Dorme!

E mentre il vecchio servo guarda se il sonno e il respiro son
tranquilli la vecchia domestica spiega:

— È stato tanto male... Ed ha tanto cercato di lei...

Col gesto, immobile, chiusa nel nero mantello, Grazia allontana i
servi. E, rimasta sola, si getta ginocchioni ai piedi del fratello,
gli bacia le mani e, fra i singhiozzi che le scuoton la gola, dice
disperatamente al fratello addormentato:

— Perdonami, perdonami, Marcello!

E rimane lì, piangendo sommessa, accucciata a terra, umile, pentita,
sgomenta, a passarsi sui capelli, quasi per farsi perdonare senza
attendere il risveglio, dolcemente, dolcemente, in una lenta carezza,
la mano del suo povero fratello che dorme dopo aver tanto sofferto
senza di lei...


XXXI.

«HO IO IL DIRITTO DI AMARE?»

Nella notte Grazia non ha trovato pace nè riposo. Avute nel delitto
contro il fratello la rivelazione e la certezza del suo amore, tutta
la crudeltà del suo destino e tutta la precarietà del suo bene le sono
apparse. È stata, or ora, a baciar su la fronte Marcello che dorme
nella stanza accanto alla sua. Le giunge, dalla porta aperta, il suo
respiro più calmo, eguale. Quanto deve già amare ella Claudio Arceri
se ha potuto, quel giorno, lasciar Marcello in preda al suo orribile
male senza soccorrerlo, senza volare da lui, col cuore in gola, appena
chiamata, come sempre faceva al primo, al minimo allarme!... Ora è
ferma davanti a un cassetto che ha socchiuso e da cui ha tratto alcuni
medaglioni, vecchie miniature di famiglia. Lassù, in montagna, la
notte è ancora fredda e un po' di fuoco è ancora acceso, brace, non
più fiamma, nel suo camino. E Grazia s'accuccia a terra, in quel po' di
calore, in quel po' di luce rossa. E l'atroce domanda è nel suo cuore:

— Ho io il diritto di amare?

Guarda i medaglioni ad uno ad uno. Sua madre... Suo padre... Due suoi
fratelli... La piccola Anna Maria a quattordici anni... Morti tutti
così... Condannati tutti dal medesimo male...

E d'un balzo è in piedi, rigida, tragica, contratto il viso e disfatto,
con le mani convulse a stringere i medaglioni sul petto entro cui
freme, in un ritmo precipitoso del cuore in tumulto, la terribile
domanda che mille volte s'è fatta, che mai s'è fatta però così
atrocemente come quella notte:

— Ed io? Io?...

E ricade giù, di piombo, abbandonata da ogni sua forza, accanto al
camino, in quel po' di calore, in quel po' di luce rossa. E ricorda.
Ricorda com'ella ha vissuto finora. Si rivede errante ogni anno nei
paesi del sole, Nizza, Mentone, il Cairo; si rivede, nella calda
stagione, nei paesi delle eterne nevi dove l'ossigeno difende la
vita minacciata. Non è forse il male entro di lei? Può ella credere
d'esserne miracolosamente immune, mentre suo fratello, di là, lotta
già contro l'insidia ogni giorno, può illudersi solo perchè le cure
prudenti e una previdente igiene hanno forse ritardato il giorno
dell'aperta condanna? Può ella credere d'essere salva solo perchè ha
voluto tentar di salvarsi?

E Grazia rompe in un lungo pianto disperato, dilaniata così tra
l'estasi del suo amore e l'orrore della sua condanna...


XXXII.

NO!

Condannata? Saperlo, saperlo... La mattina dopo, con un pretesto, al
primo schiarire, Grazia è discesa, anonima, sconosciuta, alla città.
È già lì, da un'ora, nella sala d'aspetto del clinico famoso, tra gli
altri malati, altri dolori che attendono.

Grazia rivede Claudio Arceri, a quell'ora già intento al lavoro, al
tavolino dove in un vaso di cristallo son le sue rose rosse nuove ogni
mattina. E si rivede, come ieri ella era, nelle braccia di Claudio,
nella prima stretta, nella prima felicità... E invece... La giovinezza,
l'amore, la gloria... Dovere a tutto rinunziare!... Ed è lì, assorta,
disperata e muta, mentre due lacrime le appaiono su l'orlo del ciglio
e le scendon giù lungo le guance pallide, irrigidite, scarnite quasi,
quella mattina, dall'atroce tensione d'ogni nervo, d'ogni muscolo...

Ora la chiamano. È il suo turno. Ha fatto al medico la domanda recisa:

— Voglio sapere, dottore... Posso io amare? Posso avere senza delitto
una casa, figliuoli?...

Attento, tranquillo, solito, il medico la esplora, l'ascolta. Grazia
spia ogni minimo moto del suo volto, tutta l'anima tesa, sospesa.
Sul volto indifferente e abituato del grande clinico, solo un'ombra è
passata, un istante: ma sùbito Grazia l'ha veduta, l'ha còlta. Tenta il
medico qualche menzogna:

— Vedere... Aspettare... Il tempo...

Ma Grazia disperata e umile scuote il capo. Sa che la condanna è
inesorabile e mentre si riabbottona il corpetto sussurra:

— Anche io... come gli altri...

Ancora il medico — c'è un po' di pietà anche nei cuori stoici — tenta
qualche consolazione blanda:

— Non creda questo... Può guarire.. Molte cure... La giovinezza ha
meravigliose forze di difesa... Potrà un giorno aver la sua casa
anche lei, i suoi figliuoli... Lo credo... Lo spero... Ma aspettare...
Aspettare molto tempo, certamente....

Scuote il capo ancora, Grazia, cercando nella sua borsetta il denaro
del consulto. Perchè spreca il medico quelle parole?

— No, dottore... Sapevo già... Ma prima d'oggi non ho mai voluto
sapere... con certezza... Ma oggi era necessario... Oggi non potevo,
non dovevo più illudermi...

Ha tratto dalla borsa la busta col denaro: cinquanta lire. E la rimette
al medico con un sorriso e un ringraziamento. Quanto costa poco la
verità! Una vita sa di dovere a tutto rinunziare, di dover lentamente
durare per aspettar solo la morte: cinquanta lire! La scienza, con
breve esame, uccide il sogno, l'amore, un'anima, chiude tutto un
destino... Nulla. Una piccola busta presa con un gesto indifferente...
Cinquanta lire! È la commedia atroce delle tragedie chiuse in uno solo,
delle ore tragiche con persone indifferenti... Non ostante la condanna
data e ricevuta, due sorrisi, due inchini, un ringraziamento! E, vinta,
finita, distrutta, Grazia è uscita, fuori, nella sala d'aspetto. Le
forze tese fino a quel punto non la reggono più. Ed ella cade lì, su
una poltrona, accanto alla porta che il medico ha richiusa dietro di
lei per riaprirla, fra due minuti (il tempo di segnar l'incasso e il
numero della consultazione su un registro), per riaprirla, fra due
minuti, su un'altra angoscia.

Due bambini gracili, macilenti ed un signore a lutto sono seduti
accanto a Grazia che trae a sè i due bambini e interroga il padre
toccandoli al petto:

— Malati?

E il padre, coprendosi gli occhi col fazzoletto, dice due volte col
capo di sì, di sì...

Ha fra le sue braccia, Grazia, i due bambini esangui, intimiditi e
docili.

— Così sarebbero, pensa, i miei figliuoli...

Si asciuga le lacrime, bacia i bambini e si leva. Tende una mano
pietosa — carità d'un povero a un povero, carità anonima e sublime — al
padre che piange e gli dice:

— Coraggio!

E il signore a lutto, il vedovo, stringe quella mano e vi depone un
bacio. Scuote il capo come per dire che coraggio ne ha avuto tanto, che
ora non ne ha più... E china ancora il volto nel fazzoletto che trema
nella sua mano...


XXXIII.

PICCOLA FELICITÀ DA SOLA.

Mentre Claudio lavorava Rosetta è entrata. S'è sùbito guardata attorno,
cercando, stupita...

— E Grazia?

Claudio le ha teso la lettera di Grazia: costretta da un affare urgente
a discendere in città non potrà quella mattina andarlo a salutare...
Manda il solito augurio di buon lavoro... Tornerà, certamente, nel
pomeriggio...

Rosetta ha pregato Claudio. Poichè ella è sola Claudio non le farà
l'offesa di non suonare solo per lei la musica composta quella
mattina... Come può Claudio dire di no?... Ed è al piano, e suona...
E Rosetta l'ascolta, intenta... E la musica, quella musica, le par più
bella perchè è suonata stamattina solamente per lei...


XXXIV.

SOLITUDINE AL GIARDINO PUBBLICO.

Accanto alla stazione, nel giardino pubblico ov'ella attende il treno
per ripartire, Grazia è seduta su una panchina. Attorno a lei è un
andare e venire di gente al sole della bella mattina, è un correre e
un gridare di bimbi felici. Due, tre volte gli occhi le si riempion
di lacrime nel guardare quello spettacolo di serenità, quella lieta
primavera dell'anno e della vita. Due, tre volte ha sollevato il
fazzoletto ad asciugare con rapido pudore quelle sue lacrime pubbliche.
Un bimbo, la cui palla è venuta a cadere presso Grazia, la vede
asciugarsi le lacrime. La tira per la veste e le chiede:

— Perchè piangi, signora?

E gli par così strano che ci sia qualcuno che piange lì; dove si viene
ogni mattina, quando c'è il sole, per giuocare... Interroga già, quel
bambino, come interroghiamo noi uomini: non per far dire agli altri ciò
che loro preme sul cuore, ma per sapere noi, quando siamo curiosi...
Ma il bimbo ha già in mano la palla... E, senza aspettar che Grazia
risponda, già la tira, laggiù, ai compagni di giuoco che lo chiamano...


XXXV.

ROSE BIANCHE E ROSE ROSSE.

Ora, mentre Claudio suona, Rosetta si leva e, preso il mazzo di rose
bianche che ha portate con sè, le mette sul tavolino di Claudio dopo
aver tolto dal vaso di cristallo le rose rosse di Grazia.

E, in una pausa della musica, spiega:

— Mettiamo qui, stamattina, le rose mie.... Quelle di Grazia sono già
appassite...


XXXVI.

«MADRE, CONSOLAMI TU!»

Nel giardino del convento della Collina Verde le piccole suore bianche
sono in ricreazione. È l'ora in cui anche giuocare è malinconia. Vien
su il crepuscolo da dietro la collina. Tramonta il sole laggiù, sotto
quell'arco verde fatto dai pini, in un cielo di fiamme gialle.

Grazia è alla porticina del convento, appoggiata, esausta. Ha bussato e
aspetta. E quando la suora guardiana apre il corpo di Grazia, senza più
sostegno, cade dentro, nel convento, di piombo, come un corpo morto,
come un corpo senz'anima, fra le braccia della suora che ha appena il
tempo e che ha appena la forza di sorreggerlo...

Le altre suore sono accorse, tutte bianche attorno a Grazia tutta
vestita di nero. Mentre vanno per il gran viale dei cipressi la
sorreggono, quasi la portano. Chiedon con gli occhi trepidi alla
piccola amica che cosa ella abbia, ma la piccola amica ha chiuso gli
occhi e le labbra. Giungon così su lo spiazzo davanti alla Cappella.
Anche la Madre Badessa corre incontro a Grazia. E Grazia, le mani
giunte, le cade in ginocchio davanti:

— Madre, Madre, consolami tu, consigliami tu, col tuo Crocefisso!

E stringe nelle mani convulse, e bacia con le sue labbra frementi, il
piccolo crocefisso d'ebano e d'avorio che pende lungo la gonna della
Badessa. E questa, chiamandola appena con la voce bassa e commossa, le
carezza i capelli da cui il velo nero è caduto. Non sa che dirle: sa
che bisogna solo lasciarla piangere, così... E Grazia piange, piange,
disperata, tutta scossa dai singulti, schiantata in tutta la sua
persona e in tutta la sua vita, mentre le piccole suore, interrotte nei
loro giuochi, fatte serie, timide e silenziose da quel dolore che vien
da fuori a cercar rifugio là dove nell'accettazione dolore non c'è più,
si avvicinano a piccoli passi, senza far rumore, al gruppo doloroso.


XXXVII.

COLUI CHE HA A TUTTO RINUNZIATO.

Pallida figura di Cristo su la grigia parete della cella ove Grazia
ha trascorso, in affannosa veglia, la notte... E, d'innanzi a Colui
che seppe a tutto rinunziare, la Badessa e Grazia sono inginocchiate
pregando.

Nella lunga meditazione notturna, con la lunga preghiera, la serenità
è ritornata nel cuore di Grazia. Il suo dolore è, adesso, pacato e
forte. Ella accetta, gravemente, eroicamente, nella speranza d'un bene
ultraterreno più tardi, la rinunzia suprema. Sollevando gli occhi verso
la Madre Badessa che, come una madre veramente, le accarezza i capelli,
Grazia sussurra:

— Rinunzio anch'io... come Lui... Porto anch'io... come lui... la mia
Croce!

Un'ultima debolezza ed ella s'abbatte piangendo su le ginocchia della
Madre. Ma questa, dolcemente, con parole che invocan la grazia, la
risolleva. E la piccola martire chiede, chiede alla Badessa, e chiede
ancor più a Lui:

— Ma come, come vincere la tentazione?... Come resistere al mio amore?

La Badessa non risponde. Colui che ha a tutto rinunziato risponde
in fondo all'anima della fanciulla con misteriose parole. Grazia e
la Madre si son levate e sono uscite. Sono adesso nel giardino del
convento, appoggiate alla balaustra, d'innanzi all'ampio paesaggio
azzurrognolo della pianura laggiù. E Grazia dice:

— Laggiù, al piano, il sacrificio mi sembrava ieri tremendo.....

E china il capo su la spalla della Badessa che ancora, come una mamma
inconsolabile nel consolare, le accarezza dolcemente e lentamente i
capelli....


XXXVIII.

UN BIGLIETTO.

Buon lavoro quella mattina, lavoro sereno, lavoro fecondo. Il domestico
entra a portare a Claudio Arceri un mazzo di rose bianche. C'è,
insieme, un biglietto:

«_Poichè Grazia lascia appassir le sue rose voglio che sul vostro
tavolino, accanto al vostro lavoro, sieno oggi, come ieri, le mie,
fresche e nuove ogni giorno._

                                                            ROSETTA».


XXXIX.

ARRIVEDERCI, SORELLE!

La mano della Madre è su la fronte di Grazia, per costringerla a
levarla in alto, a guardar lassù, verso il cielo. Pensa ancora alle
parole di Grazia: “Laggiù, al piano, il sacrificio mi pareva ieri
tremendo...„. E la Madre le dice:

— E sai perchè qui il sacrificio ti par oggi meno terribile?... Perchè
sei più vicina al cielo che promette al dolore ricompensa...

E lo sguardo di Grazia, estatico, è lassù, fisso in quelle nuvole
bianche, in quelle nuvole d'oro di cui il sole nascosto s'ammanta,
in quelle nuvole in cui le par di vedere apparire — un istante solo —
Cristo tra gli angeli...

Ma è tardi. Bisogna andare. È attesa a casa. Marcello sarà in gran
pensiero. E vanno per il gran viale dei cipressi, verso l'uscita.
Grazia ripete ancora entro di sè la sua domanda: ma come vincere
la tentazione, come resistere al suo amore?... E la luce si fa nel
suo spirito, improvvisa... Un fantasma, un cavaliere dal lungo naso
ridicolo e dal grande cuore eroico, è passato un istante, col suo
sacrificio, nel suo ricordo... Ed ella dice, soffermandosi:

— Non ho che una via di salvezza: donare ad un'altra l'amore che avevo
sognato per me...

Rivanno. Sono presso la porta d'uscita. Grazia passa tra i bianchi
gruppi di suore: qualcuna ne abbraccia, tutte saluta... E quando le ha
tutte raccolte attorno a sè ne abbraccia ancora due con un grande gesto
che tutte vorrebbe stringerle al cuore:

— Arrivederci, sorelle!

E mentre, di nuovo rompendo in lacrime, si riavvìa con la Madre
Badessa, le piccole suore bianche si guardano tra stupite e commosse:

— Che ha?... Che ha?

E Grazia, andando, dice alla Madre, alla madre di tutte:

— Sorelle veramente... Anche fuori di qui, anche con queste mie
vesti... sono anch'io come loro... se anch'io ho a tutto rinunziato...

Nera, nascosta fra l'edera, è d'innanzi a loro la porticina del
convento che la suora guardiana ha socchiusa...

Che sole c'è, fuori, nella mattinata di maggio!... E da quante mattine
suor Ghiottona non ha più la sua cioccolata....


XL.

SERENITÀ NELLA RINUNZIA.

E, sul piazzale davanti alla cappella, al sole, tra le rose in fiore,
vanno, serene, placide e chete, le piccole suore. Quelle annaffiano i
fiori. Quelle altre ne còlgono.


XLI.

RINUNZIA NELLA TEMPESTA.

E la piccola porta del convento della Collina Verde s'è richiusa.
Grazia vi si appoggia sentendo mancar le sue forze. Ha sul volto i
segni della tremenda intima tempesta. Gli occhi sono fissi, vitrei, nel
vuoto... fissi su la terribile visione...

... Rosetta al tavolino del musicista e Claudio che sfiora, con un
primo bacio, la fronte della fanciulla...

... e Grazia ha le mani su gli occhi per fugar la visione. Poi li
riscopre. Da fissi si fanno vivi, animati empiendosi di lacrime
benefiche. E, in quel pianto silenzioso, senza singulti, il suo volto
che si placa si china lentamente sul petto, assentendo, accettando...

Poi Grazia si stacca dalla porticina del convento, s'irrigidisce,
s'innalza, si tende. Si chiude nel suo mantello nero. E così, chiusa,
ferma, incrollabile, s'avvia verso il suo destino...


XLII.

GELOSIA.

— Ho potuto fuggir di casa un momento anche stamattina...

Claudio la guarda. Sorride. Ringrazia. Com'è trepida, e ansante, la
piccina... Ma come lo spirito di Claudio, pur se ha Rosetta vicina,
è assente, è lontano... Aspetta, la piccina, una parola.... Quale
parola?... Non sa. Ma l'aspetta. E ode, invece, Claudio domandare:

— Sapete se Grazia è ritornata?

Mortificata, tutta rossa in volto, gli occhi a terra, Rosetta si
stringe nelle spalle, tra corruccio e ignoranza. Che pena nel suo
piccolo cuore... E va, sola, verso la scrivania... Guarda la musica
scritta quella mattina e leva gli occhi smarriti a interrogare Claudio
che lentamente l'ha raggiunta.

— È il canto di Cirano che richiama nel cuor dei Guasconi, al campo
d'Arras, la nostalgia della Guascogna lontana....

Come sempre Rosetta prende il foglio e lo mette sul leggìo, al piano,
e vorrebbe che sùbito Claudio le suonasse quella pagina... Ma Claudio
ritoglie il foglio dal leggìo e, rimessolo su la scrivania, siede a
questa e dice:

— Quest'oggi, quando ci sarà anche Grazia...

Urtata, ferita, offesa, Rosetta tritura una rosa che ha nelle mani,
ne stacca le foglie. Poi le getta a terra e, nel folle ardire datole
dall'immenso dolore, osa levar la testa e la sfida...

— Perchè? Io non son degna?...

Accorre Claudio a lei, sorride, ride, protesta, le fa mille graziette
per confortarla, per rassicurarla, per farla sorridere. Ma Rosetta non
sorride. La sua gran pena a poco a poco si fa corruccio comico, broncio
infantile. E mormora:

— Già... La Musa... è lei!

E scoppia a piangere... Dio, che pianto, che gran pianto disperato di
bambina che vede crollare il mondo attorno a sè... Claudio l'ha presa
fra le braccia, con tanta tenerezza, con tanto rispetto... Ma come, in
quelle braccia, Rosetta si abbandona... È, nell'atto inconsapevole,
la dedizione, l'offerta di tutta sè stessa. Claudio comprende. È
perplesso, indeciso, smarrito a sua volta.

— A me, mormora Rosetta, a me voi non volete bene...

E Claudio, ridendo:

— Ma sì... ma sì... Vi adoro.

E col grembiulino le asciuga gli occhi, e poi la stringe forte — un
po' troppo forte: ma se ne accorge dopo... — la stringe forte forte
al cuore... Infine, quando la bambina è calma e il suo pianto non è
più che un leggero affanno senza lacrime, Claudio siede al tavolino e
prende un foglio di carta:

— Scriverò a Grazia affinchè venga oggi...

E scrive. Dietro di lui è Rosetta che lo segue con l'anima straziata.
Claudio ha scritto e leva il foglio per piegarlo e chiuderlo nella
busta:

— No!...

E la mano di Rosetta, da dietro le spalle del musicista, ha afferrato
la lettera... In un attimo è già in cento pezzi... Claudio è balzato
in piedi... Non è più sul volto di Rosetta un corruccio di bimba: è un
tormento di donna... Ed esce dalle sue labbra convulse il grido della
sua gelosia:

— Sempre lei, lei, lei...

E, folle, disperata, senza più saper che cosa faccia, getta sul volto
di Claudio, con violenza, i pezzettini della lettera lacerata. Poi
prende la sua sciarpa e ne avvolge la testa. Fugge. È già su la porta.
Claudio, inchiodato dallo stupore, è fermò lì, alla scrivania. Rosetta
si volge. Lo guarda ed esita un istante. Poi corre a lui e gli cade in
ginocchio davanti:

— Perdono!

E gli bacia la mano... E, prima che Claudio abbia potuto risollevarla,
prima che Claudio abbia potuto sottrarle la mano, il perdono è chiesto,
il bacio è dato...

E la bimba è fuggita.


XLIII.

IL RITORNO.

— Prego per tuo fratello, signorina!

Grazia è nel giardino della sua casa, al momento del suo primo ritorno
dopo la condanna. La vecchietta della minestra le bacia la mano
benedicendola.

— No, non pregare solo per lui... Prega anche per me...

E ha la mano su la spalla della vecchietta che la guarda e non
comprende:

— Eh, tu non ne hai bisogno... Tu sei buona e sei felice....

Si appoggia tanto su la vecchietta — lei che è felice — che quasi è
per cadere... Ma il fratello appare lì, sotto l'arco della porta, il
sorriso caldo, le braccia tese:

— Grazia...

E Grazia si solleva. Un'energia immensa ritorna in lei. Sorride, ride,
corre al fratello, spensierata, felice...

— Eh, che cattiva?... Come mi son fatta aspettare... Ma in città mi
hanno trattenuta!... Iersera poi hanno voluto condurmi a teatro... Che
ridere!

Marcello guarda il suo abito nero, i suoi veli neri.

— A teatro? Così?

E Grazia, un istante, è perduta... Ma si riprende:

— Sì, così... Sai, io non ci bado... E poi, ero in fondo al palco. Ma
mi son divertita lo stesso... Che ridere!

Che ridere! E ancora ride, ride, ride, ride nello spasimo convulso,
ride nella frenesia, ride sino a scoppiare in dirotte lacrime... E il
fratello è a lei, ansioso:

— Che hai? Che hai?

Ma Grazia si riprende, si domina con uno sforzo sovrumano. E, poichè
il domestico è apparso su la soglia della sala da pranzo, il volto di
lei si rasserena, il sorriso negli occhi umidi ritorna e Grazia grida,
battendo le mani e trascinando Marcello:

— A tavola! A tavola!


XLIV.

PETTEGOLEZZI PROVINCIALI.

Le amiche di Grazia, nei loro chiari abiti primaverili di mussolina o
di percalle, tra le spalliere fiorite del piccolo giardino provinciale,
son tutte lì, raccolte attorno ai quattro «amici del dopopranzo».

— Io dico che il grande musicista, esclama il farmacista, a Collina
Verde ci prende moglie!

— Ed io dico che sposa o Grazia o Rosetta!

Che risata accoglie la bella scoperta del maestro di scuola....

— Seneca ha parlato...

— Ma bravo! Ma che testone!

Grazia o Rosetta. Bella scoperta! Su questo sono tutte d'accordo... Ma
il difficile è sapere quale delle due sposerà.

— Grazia o Rosetta?

— Ai voti! Ai voti!

Tutti scrivono su un biglietto un nome e il farmacista va attorno
raccogliendo i biglietti nella sua papalina dal fiocchetto scozzese: un
regalo di Grazia, l'anno scorso, per il suo onomastico...

Il conte Spada fa, dignitosamente, austeramente, da gran signore, per
l'onore di tutti i suoi avi, lo spoglio dei voti:

— Undici voti per Grazia e tre per Rosetta!

La maggioranza — come tutte le maggioranze — applaude. Ma bisogna
sapere di più. Votare non basta. Bisogna ficcare il naso nei fatti
altrui. E don Giovannino è l'uomo indicato: deve andare da Grazia,
spiare, sapere come vanno le cose, chi prevale, chi vince... E in un
gran tramestio di ragazze don Giovannino è mandato via, via, sùbito, in
servizio d'informazioni.


XLV.

LA CANZONE DEI GUASCONI.

— Addio Rossini! Addio Verdi! Addio Wagner! Addio Debussy! Addio
Mascagni e Puccini!... Oramai non c'è più che un solo musicista al
mondo: Claudio Arceri...

Grazia s'era appena seduta al piano, prendendo e aprendo sul leggìo uno
spartito — di Claudio, naturalmente — quando lo scherzo e il riso di
suo fratello l'hanno raggiunta e fermata. Marcello l'ha presa fra le
braccia; e ora, mentre Marcello ride e mentre gli occhi di Grazia si
riempion di lacrime, fratello e sorella son lì, guancia contro guancia.

— Riverisco...

È don Giovannino. Ma fa una pessima entrata. Una maledetta lettera —
una lettera, certo, di Claudio Arceri — toglie ogni effetto al suo
ingresso bene preparato richiamando tutta l'attenzione di Grazia
balzata sùbito in piedi e corsa sùbito a toglier la lettera dal
vassoio. Scrive Claudio alla Musa per avvertirla che ha finito di
comporre il canto in cui Cirano richiama nello spirito dei suoi
Guasconi, al suon del piffero, la casa natìa, i lontani ricordi
della terra lontana. Crede che gli sia sgorgata dall'anima, in un'ora
benedetta, la pagina migliore dell'opera, il canto più commosso e più
profondo. E la lettera conclude dicendo: «_Voglio che voi siate la
prima ad ascoltarla e vorrei che voi poteste anche esser la sola..._»

Grazia ha richiuso la lettera. È indecisa, divisa in una lotta
atroce... Ricorda la sua paura: «Come vincere la tentazione?... Come
resistere al suo amore?...». E ricorda anche la decisione del suo
cuore eroico e disperato. È l'ora di mettere in opera il suo folle
proposito... Sì, sì... Si vede accanto, ridicolo nella tragedia,
smorfia grottesca nella sua angoscia, don Giovannino... Ma anche uno
sciocco può essere utile. E, oggi, don Giovannino è utilissimo. E il
ganimede paesano, che si guardava le scarpe per vedere se luccicavano
bene, si sente interpellare da Grazia:

— Voi, don Giovannino, verrete con me...

E don Giovannino, levandosi per assentire, ha fatto appena appena in
tempo a inchinarsi davanti alla porta che si richiudeva su Grazia.


XLVI.

TRAGEDIA SENZA PAROLE.

Un'ora dopo, nello studio del musicista, sono raccolti Grazia, Rosetta
e don Giovannino. Appena l'ha veduta entrare con don Giovannino
Claudio, a bassa voce, in un angolo, ha rimproverato Grazia:

— V'avevo pur detto che avrei voluto che foste sola...

Povera Grazia! Che stretta al cuore! Ma non risponde e riesce a non
rispondere perchè Rosetta — impaziente, smaniosa di sentir la musica
ma anche d'interrompere il colloquio — ha spinto Claudio verso il
pianoforte ed ha aperto la musica sul leggìo. Il maestro comincia a
suonare. E accanto a lui rimane Rosetta, intenta, tutta presa dalla
dolce melodìa, a mano a mano sempre più china su lui. E lo sguardo di
Claudio, sollevandosi dai tasti a cercar le note e i segni sul foglio,
incontra sovente gli occhi di Rosetta, fissi, accorati, immobili, con
le pupille sempre più velate di pianto.

Rimasta indietro, a metà stanza, Grazia, alle prime note suonate da
Claudio, s'è irrigidita, s'è tesa. Attratta dalla musica, sospinta
dal suo amore, ella avanza, lentamente, verso il musicista. Ed ha sul
volto l'estasi del suo amore e la rivelazione della musica sublime. Di
tanto in tanto, alle cadenze più belle e più gravi, Claudio si volge
a guardarla. I loro occhi s'incontrano e la loro commozione. Bella,
divinamente bella nel suo palpito e nel suo fremito, Grazia, in piedi
dietro di lui, è la musa che tremando ascolta il divino canto del suo
poeta.

In punta a una sedia, in disparte, le mani su le ginocchia, il volto
teso in avanti, anche don Giovannino forse sente quella bellezza e
sembra ammirarla: a modo suo, con una faccia stonata da imbecille.

Sul volto di Grazia torna l'ombra della sua condanna a spezzare
d'improvviso l'estasi e il sogno. Torna nella sua anima la voce
profonda a dirle la necessità di separarsi per sempre da lui e,
come inorridita dal pensiero di ciò che sta per fare, lentamente...
lentamente... si stacca da Claudio... dal suo sogno... dalla sua
vita... e indietreggia... indietreggia... Don Giovannino, rapito a sua
volta dalla musica, si punta su le gambe e su le braccia e, come se
una forza invisibile lo sollevasse, lentamente sorge in piedi. Grazia,
indietreggiando per uscire, se lo trova lì, accanto. Lo guarda. E lo
vede scuoter la testa a destra e a sinistra, segnando il ritmo della
musica, e lo sente dirle all'orecchio:

— Che bel tempo di «fox trott»!

Grazia ha nel corpo un sobbalzo di indignazione contro quell'imbecille
e sul volto il disgusto e l'ira. Ma poi muta, d'improvviso. L'idea del
sacrilegio le balena nell'anima. Ed ella guarda don Giovannino con un
sorriso ambiguo e oscuro. Proprio in quel punto Claudio si volge dal
pianoforte come a cercare Grazia, come a chiedere il suo consentimento.
E questo supremo contatto dei loro spiriti ha deciso Grazia che
risponde a don Giovannino approvando:

— Sì, sì, un «fox-trott»...

E gli offre le braccia, per ballare. Don Giovannino — che, dopo tutto,
ha buon senso — è riluttante: gli par che non stia bene, che di ballare
non sia il caso... Ma Grazia lo prende, lo trascina, lo domina. E
il passo di «fox-trott» incomincia. Mentre Grazia e don Giovannino
ballano Claudio continua a suonare. Due, tre volte si volge a guardare
Grazia che balla. Il suo volto si oscura e i suoi occhi son febbrili
e torbidi. Due, tre volte Grazia, a quello sguardo, si arresta. La
musica e l'amore la riprendono. Il suo volto si trasfigura. Ma quando
Claudio è per tornare a voltarsi Grazia riprende il ballo. Ora, d'un
tratto. Grazia si sente mancare e quasi si rovescia nelle braccia del
suo cavaliere sbalordito, il quale vorrebbe chiamare, dar l'allarme.
Ma, con uno sforzo disperato, sùbito Grazia si riprende:

— Nulla, nulla... È passato... Avanti!

E ancora balla. E ancora una volta Claudio si volge a guardarla. Ancora
una volta Grazia ha una sosta ed un gesto disperati. Ancora una volta
Grazia riprende a ballare.

La musica spezzata in uno strappo, il colpo secco del coperchio
richiuso e Claudio è in piedi, fremente, fermo, le braccia incrociate
sul petto, guardando Grazia che, senza musica, continua ancora qualche
passo. Poi, come se solo in quel punto avesse visto Claudio in piedi
fisso a guardarla, si scioglie dal suo cavaliere. È per cadere. Fa
due passi indietro e cade, infatti, su una poltrona. Rosetta e don
Giovannino si slanciano verso di lei per soccorrerla. Ma, di nuovo,
ella è sùbito in piedi. È stanca, affannata, ma tuttavia ride, si fa
vento con un foglio di musica preso lì, sul tavolino. Claudio, sempre
immobile, la guarda, conserte le braccia, il dorso al piano, finchè
Grazia avanza verso di lui e gli parla, con voce e parole qualunque:

— È molto bello, signor Arceri, quello che avete suonato...

I due si guardano nelle loro due disperazioni, ma Grazia non regge
allo sguardo di lui. Si fa dare la sciarpa, i guanti, il cappello. Si
prepara, sorridendo, per andarsene. Sempre immobile, Claudio la guarda,
conserte le braccia, appoggiato al piano. E Grazia, nel suo tumulto,
col passo che le manca, col cuore in gola, con un sorriso straziante
sul volto, fatto col capo un leggero cenno di saluto a Claudio,
indietreggia, indietreggia sempre più sotto lo sguardo di Claudio
che, immobile, con le braccia conserte, appoggiato al piano richiuso,
la fissa, la fissa in una spaventosa e impassibile incredulità.
Rosetta è tornata a mettersi accanto a Claudio, mentre don Giovannino,
povero diavolo, impacciato, timido, senza aver capito ancora nulla,
rigirandosi il cappello fra le mani e i perchè nella testa, ha seguito
Grazia ed è uscito con lei. E, non appena Grazia è uscita, Claudio cade
di piombo su lo sgabello del piano, desolato, i gomiti su le ginocchia,
il volto nelle palme, mentre Rosetta si china su lui e, timidamente,
leggermente, comincia a carezzargli i capelli...

Fuori nel giardino, don Giovannino vorrebbe condurre via Grazia, ma la
voce di Grazia sibila:

— Voi andatevene... Ma andatevene, vi dico...

E mentre don Giovannino dilegua all'angolo del viale — che roba e
quante cose da raccontare! — Grazia striscia lungo il muro del Castello
per andare, non sentita, verso il finestrone dello studio di Claudio.
E lo vede che s'è levato proprio in quel punto, con le mani e gli occhi
in aria. Giunge a lei la sua parola disperata:

— E io, io che nel mio spirito l'avevo collocata così in alto!

Rosetta gli si fa sempre più vicina, lo fa sedere e gli è accanto, un
braccio su la spalla di lui, la parola dolce per confortarlo:

— La vostra musica è divina...

Ma Claudio leva il pugno, fissando lo sguardo là dove Grazia poco prima
ballava:

— Ha offeso l'artista... Ha ucciso in me il sentimento dell'uomo...

Quale disperazione quella di Grazia, fuori, in giardino! E quale
trepida attesa quella di Rosetta, che ancora aspetta una parola per
sè e ancora ode parole per Grazia, vede dolore, per Grazia, orrore,
per Grazia... Sempre Grazia, Grazia, Grazia!... E il pianto la stringe
alla gola e le lacrime le cadon giù, d'improvviso, in uno scoppiar di
singhiozzi... Solo allora Claudio si volge e si avvede di lei, solo
allora le toglie il fazzoletto dagli occhi e, sollevatole il mento, la
guarda... Ma Rosetta scuote il capo, dolorosa ed umile:

— Io... io non vi basto...

E i singhiozzi la riprendono. E Rosetta abbandona la fronte su la
spalla di lui che si volge a guardarla, che di nuovo le solleva il capo
e fa levare in piedi la fanciulla. Lentamente gli occhi si cercano.
E la fronte di Rosetta va verso Claudio, incontra il labbro di lui
ed è un bacio... Un bacio? No... L'ombra d'un bacio, il presentimento
d'un bacio, un bacio che promette e spera l'amore, ma che non è ancora
l'amore...

E, fuori, le spalle al muro della casa, aperte le braccia in croce,
rovesciato il capo indietro come in una crocefissione, Grazia si
allontana, si allontana, strisciando contro la facciata della villa, si
allontana e si perde, sacrificata, distrutta, scomparsa dalla vita di
Claudio, si perde laggiù, nell'ombra della notte che viene, che viene
nella sua anima e su quel giardino.


XLVII.

LONTANI, DIVISI... POCHI GIORNI DOPO.

— Che belle, che belle cose sa scrivermi... Leggi!

Sono nella casa di Rosetta, il cui balcone dà sul giardino e rievoca il
balcone di Rossana tutto coperto com'è d'edera e di gelsomini. Seduta
a terra su un cuscino, poco distante da Grazia, Rosetta leggeva una
lettera, felice... E, trascinandosi a terra, ha portato a Grazia la
lettera di Claudio affinchè la legga anche lei... Grazia ha respinto
con la mano la lettera. Ma Rosetta insiste.

— Senti. Leggo io... «_Le tue parole, Rosetta, son la rugiada del
mattino sui fiori chiusi dell'anima mia. Tu sola, tu sola sai dire
queste divine parole che aprono al cuore l'infinito del sogno. Per il
bene che le tue parole fanno alla mia anima e al mio lavoro, che tu sii
sempre, amatissima mia, fra tutte benedetta!..._» Ah, è bello sentirsi
dir queste cose, da lui... Ma mi sento tuttavia umiliata, scontenta...
Io so amare, ma scrivere non so... E se tu non scrivessi per me....

Grazia, che non s'era mai mossa, toglie adesso dal seno una lettera già
pronta:

— Tieni... Ecco la risposta. L'avevo già preparata... Puoi mandarla...

E si stringe fra le mani la testa di Rosetta, più che per abbracciarla,
per nascondere il suo dolore agli occhi della fanciulla che,
incuriositi e spauriti, la cercano...

Rosetta intanto ha preso le mani di Grazia por portarle alle sue
labbra. E le dice, fra i baci:

— Tu, tu ci hai insegnato ad amarci... Tu, tu mi hai fatto amare da
lui... Se tu non gli avessi detto per me tutto quel bene che io non
riuscivo a fargli capire, io, poveretta, a quest'ora... Mi credeva una
bimba... Ma tu gli hai detto: Badate. È una donna.

E Grazia, straziata ma eroica, si china su lei e le fa levare il volto
per incontrarne gli occhi:

— E non sei forse felice?

Oh, sì, sì, è tanto felice, Rosetta... E come si fa piccina fra le
braccia di Grazia... Sì. È una donna, come ha voluto far capire a
Claudio... Ma quando è lì, ai piedi di Grazia, fra le sue braccia, no,
non è più una donna, ma è semplicemente una bimba, una povera bimba
felice, una bimba che si sente venir voglia di piangere, tanto è grande
la sua felicità...


XLVIII.

E UNA SERA...

Son presso il balcone, nell'ombra della sera d'estate ancora senza luna
e tutta stelle. Grazia ascolta. Rosetta legge:

— Scrive così: «_Sì, piccola amata, verrò stasera nel tuo giardino,
alla tua finestra. Verrò ad ascoltare con l'anima piena di tenerezza le
parole che solo tu sai dire... Quando mi scrivi, quante cose mi dici...
Ma quanto taci, quando sei con me... La timidezza, mi dici, fa tacere
il tuo labbro... Ma stasera, nell'ombra del tuo giardino, sotto il gran
velo nero della notte, tu saprai certamente parlare, tu saprai aprirmi,
Rosetta, tutto il tuo cuore..._».

Grazia è immobile, impassibile. Sempre così — osserva Rosetta —
quand'ella le legge le lettere di Claudio... Ma per quanto sia bello
ciò che Claudio le scrive Rosetta è preoccupata. Tortura la lettera e
dice all'amica:

— Tu hai voluto dargli questo appuntamento... Ma ora, ora che cosa gli
dirò?

Grazia la prende fra le braccia per stringersela al cuore:

— Guarda... Rimarrò qui, con te, nell'ombra della stanza, accanto alla
finestra... Suggerirò io le tue parole... E poi, vedrai... Poichè lo
ami ne troverai tante anche da te...

Batte le mani, Rosetta... È felice... Sì, sì, così... È carino, è molto
divertente... Corre sul balcone a guardare se Claudio giunga e ritorna
ancora a Grazia immobile e rigida presso l'arco del balcone:

— È carino, molto carino... Proprio come nel Cyrano...

Un pensiero la ferma a questo richiamo; e, levato un ditino in aria,
Rosetta sorridendo ammonisce Grazia:

— Ma bada: Cirano amava anche lui Rossana...

E a queste parole Grazia scoppia a ridere, a ridere, a ridere...

— Ma io non amo Claudio... E appunto per questo Cyrano non c'entra...

S'ode laggiù lo stridìo d'un cancello che s'apre.

— Va... È lui.

Rosetta è volata sul balcone. Guarda nell'ombra. Ascolta gli echi
dell'ombra. Grazia è rigida, appoggiata allo stipite, la morte
nell'anima e l'impassibilità sul viso.

Nel giardino Claudio avanza, cauto. Scricchiola, leggero, il suo passo
su la ghiaia. Tende sempre più, Rosetta, l'orecchio... Ora il passo è
più vicino, sempre più vicino, riconoscibile... Sì, è lui... E Rosetta
rientra per avvertire Grazia.

— Eccolo!... Eccolo!

E per raccomandarsi un'ultima volta, le mani giunte:

— Fido in te... Per carità!

E Grazia, violenta, la spinge fuori...

— Ma va... va... va...

C'è lì sotto — pare — un'ombra... A bassa voce Rosetta manda giù le
prime parole:

— Claudio... Sei tu?

E, da sotto, la voce bassa risponde:

— Sì... Sono io..., Rosetta...

Claudio stende la mano cercando nell'ombra quella di Rosetta che
l'affonda a sua volta giù nell'ombra a cercar la mano di Claudio. Ma le
due mani non si trovano...

— Troppo alto..., mormora Rosetta.

Troppo alto, sì... Ma Claudio è salito sopra una panchina e le mani
si trovano finalmente e si stringono. E Claudio copre di baci la mano
di Rosetta. E quella di Rosetta trema e lentamente si ritrae... Poi la
voce di Claudio vien su:

— E ora parlami, parlami, piccola amata!

Ma Grazia, che non credeva di dover suggerire anche le prime parole,
tace. E la mano di Rosetta s'agita dietro il suo dorso per chiamarla in
aiuto... E Grazia si china a suggerire... Fra l'edera Rosetta abbassa
il volto e getta giù a stento, ad una ad una, così come le coglie, le
parole di Grazia. Giù Claudio ascolta. Ora Grazia, sempre nascosta,
avanza, si avvicina, parla più basso, più fitto. E Rosetta, impacciata,
smarrita, ripete, come può, alla meglio o alla peggio. Di tanto in
tanto, da sotto, Claudia risponde:

— Come ti amo, Rosetta, mia musa, mia compagna, mia sposa!

E le parole cadono come colpi di clava sul capo e sul cuore di Grazia
irrigidita nello spasimo... Sale ancora la voce di Claudio dal giardino
notturno:

— Non parlar più. Rosetta... La notte è così dolce... E sa dir tante
cose anche il silenzio, quando si ama...

Silenzio infinito della notte infinita... Ora la luna è apparsa. E i
cipressi del viale si profilano sul cielo d'argento; e là sul piccolo
lago sono i bianchi cigni addormentati col capo sotto l'ala. Un treno
passa, nel silenzio, col suo rombo lontano, riempiendo il silenzio col
suo fragore immenso e solo. Poi, passato il treno, tornato più grande
di prima il silenzio, ancora la voce di Claudio riprende:

— E vuoi tu, Rosetta, che in questa notte divina il nostro amore abbia
il suo primo bacio?...

Trepida, commossa, Rosetta non sa che dire... Si volge a interrogar
Grazia con gli occhi... C'è prima un istante di silenzio. Poi, bassa,
soffocata, la voce di Grazia, precipitosamente, risponde:

— Ma sì, sì, sì, digli di salire...

E Rosetta chiama, soffocando le parole nell'edera e nel pudore:

— Claudio... Sali...

E mentre Claudio dà la scalata Rosetta, intimidita, vergognosa, s'è
rifugiata dentro, nella stanza, tra le braccia frementi di Grazia.
Come, come tremano le braccia di Grazia... Dovrebbe Rosetta sentire...
Ma sì... Come sentire?... Trema tanto anche lei...

Ora Claudio è per apparire al davanzale... Già la sua voce, che chiama,
è più vicina... E Grazia spinge Rosetta verso Claudio che appare:

— Va, va, bacialo, bacialo, bacialo il tuo amore!...

E mentre Rosetta va, Grazia, quasi istintivamente, l'ha seguita. Esce
anche lei sul balcone, ma sùbito si rigetta indietro addossandosi
alle persiane aperte... E, a bassa voce, parlando solo a sè stessa,
nell'orrore dell'infinita rinunzia, sospira e geme:

— Bacialo, bacialo, il «mio» amore!...

E lì, al davanzale, nel chiarore lunare, Rosetta e Claudio avvicinano
le teste e le bocche. E lì, alla finestra, nell'ombra, Grazia chiude
gli occhi per non vedere, per non vedere la cosa orrenda e divina.
E si muove e indietreggia, e prima è sotto l'arco della finestra, e
poi rientra nella stanza e, con gli occhi sbarrati, le braccia tese
a respingere, indietreggiando, Grazia affonda, affonda lentamente,
affonda sempre più profondamente nell'ombra della stanza, mentre
lì, fuori, al balcone, nel raggio lunare, tra l'edera e i gelsomini,
continua nel bacio il colloquio degli amanti.


XLIX.

CHIACCHIERE IN PIAZZA.

— Sapete la grande notizia? — Rosetta è fidanzata... — E Grazia? —
Grazia niente... — Chi l'avrebbe mai detto?... — Ma la notizia è vera?
— Verissima! — Non si temono smentite! — L'agenzia di don Giovannino
gode d'un credito meritato... — Meritatissimo... — E c'è di più... —
Di più? — Che c'è? — Dite. Non ci fate morire di curiosità... — C'è...
c'è... — Che c'è, in nome di Dio?... — Non ci vedete sospese alle
vostre labbra? — C'è... c'è... — Parlate! O vi uccidiamo... — C'è un
ballo... — Un ballo? — Sì, un ballo mascherato... — Dove? Dove? Dove?
— Da Rosetta? — No, da Grazia. — Davvero? E quando? — Per celebrare
il fidanzamento della sua amica col grande maestro... — E perchè in
maschera?... — Perchè è in onore dell'autore del Cyrano... Anzi non si
chiamerà un ballo: si chiamerà una «festa ciranesca»... — In maschera?
Già, in maschera... — Maschere sul viso e maschere sui cuori... — Che
vuoi dire dicendo così?... — Voglio dire che questo ballo offerto
da Grazia è proprio in maschera... Maschera con questo ballo il
dispetto che il matrimonio le fa... — Ma no! — Ma sì! — Anche Grazia
era innamorata del grand'uomo... — Ma sì! — Ma no! — E il grand'uomo,
invece, s'è innamorato di Rosetta... — Ecco che cosa vuol dire fidarsi
delle amiche... Vi portan via le migliori occasioni... — Ma no! — Ma
sì! — E tu non mi star sempre attorno, sai... Io non sono mica come
Grazia... Io ti rompo il muso... — Ma lo rompo io a te... — Tutte
chiacchiere, queste... Grazia non è mai stata innamorata del maestro.
— Sì, sì, sì... Lo è stata... — No... no... no... Non lo è stata...

E può continuare, così, all'infinito...


L.

DOMINO BIANCO, DOMINO NERO.

Alla festa ciranesca che, nelle sale della sua villa e nei viali del
suo giardino, Grazia ha voluto offrire a Claudio Arceri e a Rosetta
fidanzati e felici, le due fanciulle interverranno in domino. Son già
pronte, in _décolleté_, aggiustato l'ultimo capello, dato l'ultimo velo
di cipria. È il momento d'infilare i domini. Ce ne sono sul divano
due: uno bianco e uno nero. Claudio offre quello bianco a Grazia che
corregge il suo errore:

— No. Quello bianco è di Rosetta. Il mio è nero.

E le due donne aiutate da Claudio indossano i domini: Grazia il nero,
Rosetta il bianco.

Gli «amici del dopo-pranzo» girano intanto per le sale che già si
affollano. Maschere non ne hanno trovate e Grazia li ha autorizzati
a venire così: don Giovannino e il conte Spada con due _fracs_ fuori
moda ma irreprensibili e il farmacista e il maestro di scuola con certi
palamidoni lunghi e larghi da ricoprirci una famiglia intera.

— Olà!

Su la soglia d'una porta dàn di petto in un omaccione gigantesco con
certi baffi che fan paura e un naso lungo che sembra far da battistrada
al resto della persona un quarto d'ora prima che passi.

— Chi è? chiede il farmacista impaurito.

— È Cirano, spiega, saputello, don Giovannino.

E Cirano va attorno per la sala grande urlando versi con un vocione
stentoreo che fa tremar le vetrate:

    Questi sono i Cadetti di Guascogna
    di Carbonello di Castel Geloso...


LI.

LA SUA CONDANNA.

Mentre giù le sale sono già piene di invitati — straccionerie
pittoresche dei Guasconi e provinciali eleganze del bel mondo di
Collina Verde — e mentre già un'orchestrina, nella sala maggiore della
villa, eseguisce i brani più popolari delle opere di Claudio Arceri,
Grazia, già pronta, è stata chiamata in camera del fratello.

— Grazia, io non sto punto bene, stasera... Se avessi saputo di
peggiorare così ti avrei chiesto di rimandare la festa...

Umiliata e confusa Grazia gli si avvicina teneramente a sfiorargli con
la mano la fronte:

— Eppure sembri stare discretamente... La febbre non è alta...

Ma il fratello respinge quasi con violenza la mano di lei:

— Dici così per te... Per essere tranquilla... Ma non è vero!

Che strazio nel cuore di Grazia sotto quelle parole, sotto la frustata
di quelle parole che sono la verità e la sua condanna! Marcello le ha
ripreso la mano e gliel'ha fatta riappoggiar su la fronte:

— Senti... senti come brucio...

Poi la trae tutta a sè, tenero e disperato, quasi chiedendole un
miracoloso aiuto:

— Sorellina, sorellina mia... Abbi pietà...

E Grazia è a terra, stretta a lui, infinitamente stretta a lui, volto
contro volto, affanno contro affanno...


LII.

I PIFFERI DI GUASCOGNA.

In un angolo del giardino — al Padiglione ridotto a serra e quella sera
a _buffet_ — c'è un concertino di pifferi e di tamburi. Sono i pifferi
e i tamburi dei Guasconi, le musiche del campo di Arras: canzoni dei
paesi lontani, vecchi canti di Linguadoca, richiami di nostalgia, le
più appassionate e commosse melodie escite dalla fantasia di Claudio.
Ha voluto, Grazia, che quelle canzoni fossero eseguite quella sera
così, in quella forma suggestiva, fra gli alberi, nella notte lunare,
da quei Guasconi distesi a terra sui larghi mantelli, tutti attorno a
Cirano...


LIII.

IL SUO GRAND'UOMO...

E Claudio è lì, con Rosetta avvolta nel suo domino bianco, ad ascoltar
quelle sue musiche ch'egli ama. E tutta la folla silenziosa, raccolta
intorno, è presa da quel suono di pifferi e di tamburi, da quel canto
di malinconia e di guerra. Claudio stesso sente, quella sera, come
non sentì prima a tavolino, tutt'il misterioso e irresistibile potere
di quei canti. E come si stringe, commossa, Rosetta al braccio di
Claudio, com'è felice nel suo amore, come sarà bello divider tutta la
vita con lui, esser partecipe di tutte le sue battaglie e d'ogni suo
trionfo, com'è orgogliosa del suo grande artista ch'ella adora, del suo
grand'uomo che l'adora!...


LIV.

«AH, QUESTA MUSICA...»

Entra la canzone di pifferi e di tamburi nella stanza di Marcello per
la finestra aperta...

— Ah, questa musica, questa musica che viene dal Padiglione... Chiudi!
Chiudi!

Grazia ha chiuso ed è ritornata ai piedi del fratello disteso su la
_chaise-longue_: odia il letto da quando sa di dovervi un giorno —
assai presto — morire... E a Grazia Marcello dice, quasi scusandosi:

— Non posso sentire... Perdonami... Quella musica mi snerva...

Scoppia a piangere, infatti, tanto è snervato. Il male lo riprende con
un attacco di tosse. Si picchia il petto lacerato, dilaniato:

— Ho il fuoco... il fuoco... qui...

Si volge alla sorella esterrefatta... Le afferra con violenza il domino
quasi volesse strapparglielo di dosso:

— E tu, tu, tu sei vestita così...

Grazia si toglie il domino. Peggio. Le rimane l'abito da festa, con
le spalle nude. Grazia ha paura dello sdegno di Marcello. Vorrebbe
coprirsi... Cerca attorno e non trova.. Ma la voce di Marcello è
dolorosa e pacata:

— E anche senza domino, vestita così... Ma è giusto che tu sii vestita
così.. tu che stai bene... tu che vivrai...

È umiliata, Grazia, è disfatta e si fa piccola piccola e trova lì, a
terra, un mantello nero del malato e, pavida, vergognosa, ne avvolge e
ne copre le spalle nude. La voce del fratello geme:

— Còpriti, còpriti... Non voglio, non posso vedere...

E la risposta di Grazia, umile, bassa, sussurrata appena:

— Son coperta... Càlmati...

Lo sguardo di Marcello si volge su lei. Le braccia avvolgono e
l'attirano a un bacio:

— Così va bene... Perdonami, Grazia... Ma promettimi, promettimi che
non andrai se non starò meglio, se non sarò più calmo...

E Grazia promette. E copre di baci, di piccoli baci innumerevoli, la
mano ardente di Marcello.


LV.

LA «FESTA CIRANESCA».

Nel giardino e nelle sale la «festa ciranesca» è nel suo pieno
splendore, ma, non ostante l'eleganza e la signorilità che Grazia ha
cercato di conferirle, è una festa paesana, chiassosa e disordinata.
Quel mondo di provinciali in festa s'è diviso in due gruppi: quelli
che vogliono veder tutto e sono in un continuo andirivieni che fa un
gran chiasso e un gran disordine e quelli che non osano veder nulla
e restano lì, per ore e ore, dove il caso della prima entrata li ha
messi, su una poltrona, su una sedia da giardino, sotto l'arco d'una
porta o appoggiati al tronco d'un albero. Quelli che sono mascherati
sono i più vivaci. Nei giorni passati Grazia ha fatto loro provare
come si dovevano divertire per divertire gli altri. E c'è Ragueneau
che distribuisce paste e _marrons glacés_... E ci sono i cuochi della
_Rosticceria_ che sfornano, in un riflesso di lampadine rosse, grosse
torte che, tagliate a fette, spariscono in un batter d'occhi. Qua e
là, per le sale, i Guasconi intrecciano a duello gli spadoni. E c'è un
gran roteare di colpi che sovente non cadono su le spalle dei duellanti
ma su quelle degli invitati. Ne ha preso uno, curiosando, il maestro
di scuola, così forte da fargli credere d'aver lussata una spalla.
Azzimato nel suo _frac_, la bocca piena di pasticcini, don Giovannino
si pavoneggia in un gruppo di damine secentesche. Il conte Spada, che
è gran signore e gran _lettré_, gli ha detto or ora:

— Queste damine dovrebbero essere le _précieuses ridicules_ dell'Hôtel
Rambouillet... Ma le preziose son loro e il ridicolo sei tu...

Olà! Voleva, don Giovannino, protestare, ma voltandosi s'è trovato
davanti il naso formidabile di Cirano che continua a andare su e giù
pei salotti gridando con la voce stentorea:

    Questi sono i Cadetti di Guascogna,
    tutti spavalderia, tutti menzogna...

E il conte Spada è fra le signore attempate che fan da _tapisserie_
attorno alla sala con certi _décolletés_ di raso dai colori violenti
che sembran tavolozze di pittori futuristi: e c'è la moglie del
sindaco, e c'è quella del preside del liceo, e c'è la signora del
ricevitore delle imposte: il fior fiore, insomma, della buona società
di Collina Verde. Ci sono anche le ragazze che son più carine, certo,
e più ben vestite che le mamme. Ma chi le trova più le ragazze? Sono
tutte, da un'ora, attorno a Claudio Arceri. A distanza, sì, perchè
Claudio è con la sua fidanzata; ma attorno. E dove va lui arrivan loro.

Ha girato da per tutto, Claudio Arceri, alla ricerca di Grazia. Ha
chiesto apertamente di lei ai quattro «amici del dopo-pranzo» ma
nessuno l'ha vista e tutti se ne meravigliano: una festa così, senza
padroni di casa... Una vera sconvenienza: ha detto don Giovannino, con
la bocca piena della torta di Ragueneau...


LVI.

«ARIA! SOFFOCO!»

Lentamente Marcello sembra acquetarsi, assopirsi... Pare adesso che
dorma. Grazia fa per levarsi ma, nel sonno che viene, la mano di
Marcello stretta ai suoi vestiti ancora la tiene, la costringe a
riabbassarsi a terra, a rimanere. Di tanto in tanto l'affanno preme
ancora su Marcello. Nel dormiveglia, ei s'allarga la camicia attorno al
collo e dice:

— Aria, aria... Soffoco!

E Grazia si leva per aprir la finestra. L'apre, infatti, sul quadro
della notte ferma e infinita. Di laggiù viene a lei di nuovo l'eco dei
pifferi e dei tamburi. Che notte per il sogno! Che notte per amare!...
E quella musica, quella musica patetica e guerresca, in cui sono
insieme il fumo del tetto natìo e la fiamma del cannone, quella musica
così suggestiva, così avvolgente, così spossante... Snervante, sì, ha
detto bene Marcello... Snervante...

— Signorina Grazia!

Sale su dall'ombra la voce. L'ha sùbito riconosciuta: è quella di
Claudio venuto a cercarla.

— Venite, venite, Grazia... Tutti cercan di voi e la festa è
bellissima...

Grazia fa cenno che non può parlare, che aspetta il sonno di
Marcello... E Claudio, «silhouette» bianca e nera nell'ombra,
s'allontana tra gli alberi. Un'ondata di musica — pifferi e tamburi:
come rullano i tamburi, come stridono i pifferi! — giunge a Grazia nel
gran silenzio. E si volge. Guarda Marcello. Ha paura che quei suoni lo
destino... E richiude la finestra... Aria non può mancargli... Poi è
meglio un po' d'aria di meno e un po' di sonno riparatore di più...

Proprio così? Proprio per questo ha richiuso la finestra? Grazia,
rimasta in piedi presso il fratello, guarda ben bene in fondo alla
propria anima e vede la verità. Ma una grande idea le sorride da
qualche tempo, da quando cioè s'è levato il domino. Chiamare Rosetta
e scambiare il domino con lei: prender lei il bianco e dare il nero
a Rosetta... Entrar nella festa così e farsi scambiar da Claudio per
la sua fidanzata. L'inganno è facile: le due donne s'assomigliano,
poichè, uguali di capelli, pari di statura, han su per giù la medesima
figura... E così vivere un'ora accanto a Claudio, illudersi di vivere
un'ora d'amore, illudersi per un'ora di avere il diritto di esser
felice... Ma, se non la coglie quella sera, quando mai potrà ritrovare
la possibilità di quell'ora, dell'unica ora d'amore che potrà avere
nella sua vita se Claudio la scambierà veramente per Rosetta?... Ah
no, no, no, tutto, tutto piuttosto che rinunziare a quella disperata
pazzia...

Ora Marcello è addormentato. Grazia scioglie dalla stretta della mano
del fratello la mano che nel sonno egli le ha ripresa. Copre Marcello
con ogni cura e fa cenno ai servi di venire ad assistere il dormiente:

— Qualunque cosa, chiamatemi...

E indossa il domino, il suo domino nero. Si china a baciare Marcello.
Fa ancora col gesto e con gli occhi una raccomandazione ai servi e
lentamente, lentamente esce...

E i due servi siedono accanto al malato. Uno dei due mormora
guardandolo nelle labbra violacee, nelle occhiaie cave:

— Sta molto male, poveretto... Ma la signorina Grazia non se ne rende
conto...

E scuoton le due teste canute e buone. Non se ne rende conto! Oh, se e
quanto se ne rende conto, povera Grazia disperata e folle... Basterebbe
vederla lì, inchiodata contro la porta da cui appena è uscita, rigida,
immobile, con l'anima che è tutta una tempesta, col volto che è tutto
un terrore...


LVII.

TUTTA LA VITA IN UN'ORA.

Sono seduti in giardino, Grazia e Claudio, sotto un chiosco dove c'è
una tavola apparecchiata con una bottiglia di champagne e una guantiera
di biscotti. Su un altro vassoio è una torta di Ragueneau su cui è
scritto, a lettere di cioccolata: «Claudio e Rosetta». La tavola è
illuminata da un piccolo candelabro con due candele la cui poca luce
è ancor più abbassata da due paralumini di seta viola. Ha tutto ben
preparato, Grazia, per la sua ora d'illusione... E sembra che solo
il caso abbia operato... Tutto è andato così semplicemente, con tanta
naturalezza...

Mentre Claudio era trattenuto all'interno dai Guasconi che volevan
cantargli — che cani! — la loro ballata, Grazia, uscita in giardino,
ha incontrato Rosetta che saliva, mandata da Claudio, a cercarla...
E Grazia ha sùbito proposto la commedia all'ingenuità fiduciosa della
bambina:

— Su, mentre aspettavo che Marcello si addormentasse, m'è venuta
un'idea stupenda. Barattare i nostri domini: io prendo il tuo, bianco,
tu prendi il mio, nero. Claudio mi vede, mi crede te ed io gli parlo,
gli parlo di te e dell'amor tuo, direttamente, come non è mai stato
possibile. Crederà di parlare con te ed io potrò così interrogarlo come
tu non l'hai saputo mai interrogare... Potrò meglio, molto meglio,
conoscere in un'ora quello che dovrà essere tuo marito per tutta la
vita... Ti pare?

Veramente a Rosetta tutto ciò non pareva estremamente necessario... Ma,
se Grazia lo dice... Lo dice e insiste:

— Bada. È bene, è necessario anzi che io gli parli così... Quante
cose del suo carattere e della sua vita potrò sapere, utili per la tua
felicità...

Poichè Rosetta non è una stupida, un dubbio è passato nel suo cuore.
Ma ci ha ragionato sopra... E che ragione potrebbe aver Grazia? Non è
stata lei a fare il loro amore, non è stata lei a fidanzarli, non è lei
la creatrice della loro felicità?... E quale altro scopo, se non quello
di fare il suo bene, potrebbe ella avere?...

E lì, dietro un cespuglio, han barattato i domini, ridendo, come in un
giuoco, come per una burla divertente. Rosetta ha detto:

— Ma, dopo, glielo diremo... E sai come rimarrà Claudio... Oh che
ridere... E come ci divertiremo!

E Grazia, allacciando gli ultimi nastri, ponendo sul volto le maschere,
quella di velluto e quella del suo sorriso:

— Oh sì, certo... Ci divertiremo!...

Il resto è andato benissimo... Uscendo dalla sala coi Guasconi — con
le orecchie lacerate da quei cani, pieni però, poveretti, di buona
volontà — Claudio ha incontrato il domino bianco, la sua Rosetta... E
Grazia ha guidato i suoi passi fin là, al chiosco, dove sono entrati
per sedersi e per bere... E ora Grazia, bevuto lo _champagne_, è lì
ad ascoltare Claudio che le parla d'amore, è lì, stretta nelle sue
braccia, abbandonata su lui, quasi tutta rovesciata indietro — per
evitar la luce quanto più è possibile — e tutta l'anima è tesa, tutta
la vita è chiusa in quell'istante solo...

Un passo, fuori, su la ghiaia del giardino, li ha fatti sciogliere. È
un domino nero che passa, senza farsi vedere, senza riuscire a vedere:
è Rosetta che erra lì attorno, già un po' inquieta, come sempre s'è
inquieti quando si ama. Ora Grazia ha fame. Un garzone di Ragueneau ha
portato la torta e Grazia ne mangia qualche fetta, per aver la bocca
piena, per avere il pretesto di non parlare... Ora ha il braccio levato
e la torta fra i denti. Ricaduta indietro la manica del domino, il
braccio è nudo e Claudio l'ha preso e lo copre di baci lenti, sempre
più caldi, sempre più profondi...

Ancora l'ombra nera che passa lì fuori, non vista, senza vedere, li fa
sciogliere col rumore del suo passettino lieve su la ghiaia.

Che cerca, che vuole Grazia? Nulla. Non sa. Poggiati i gomiti su la
tavola, poggiato il volto fra le mani, gli occhi intenti e ardenti
nella macchia nera della maschera, Grazia lascia che l'ora folle
trascorra... E Claudio, curvo su lei, cingendole la vita, le parla
all'orecchio:

— Così ti farò felice... Così ti darò quel po' di giovinezza che mi
rimane, quel po' di gloria che la mia arte mi può aver meritato...

Grazia ha abbandonato il corpo su la spalla di lui. E, senza guardarlo,
senza lasciarsi guardare, gli prende convulsa e febbrile le mani,
gliele stringe sino quasi a spezzargliele e gli dice, bassa la voce,
bassa tanto che non possa riconoscerla:

— Dimmi, dimmi, dimmi ancora che mi ami!

E Claudio la stringe più forte. Il respiro di lui è nel collo di
Grazia con un brivido di voluttà in tutto il corpo di lei... E
Claudio stringe... Non ha mai sentito Rosetta così, non fanciulla, non
fidanzata, non sposa, ma donna, ma amante... E ancora la voce bassa di
Grazia chiede, invoca:

— Dàmmi, dàmmi quest'ora di felicità...


LVIII.

L'ALLARME.

Marcello d'improvviso, ghermito nel sonno dalla crisi, si desta urlando:

— Aria, aria... Muoio!

I servi, ch'erano sonnacchiosi su le sedie, sono accorsi a sorreggerlo,
a calmarlo:

— Signorino, per carità...

Marcello ha le mani convulse al collo, al petto... Sente l'aria e la
vita mancare...

— Chiamate, chiamate Grazia... Ma perchè, perchè mi lascia solo?... Non
lo vede che mi sento morire?

Il domestico è sùbito corso a chiamare Grazia. La soffocazione è
cessata. Pesante, esausto, Marcello è ricaduto giù, di piombo, la mano
stretta alla gola, l'affanno nel petto e negli occhi...


LIX.

L'ISTANTE SUPREMO.

Ancora Grazia nell'ebrezza ripete:

— Dàmmi, dàmmi quest'ora sola di felicità!

E Claudio scoppia a ridere tentando di rivolgere il capo, di scoprirle
la parte di viso che non è nascosta dalla maschera:

— Un'ora sola?... Ma tutta la mia vita io ti dò...

Tutta la vita! E Grazia abbandona il capo rovesciandolo con le braccia
su la tavola e rompendo in lacrime. Claudio cerca di sollevarla e
chiede il perchè di quelle lacrime nell'ora della felicità. E la voce
di Grazia risponde:

— Piango, piango... così... di gioia!

Grazia ha sollevato il volto. Le lacrime di sotto la maschera le
scorron giù per il viso. Appoggiato il capo su la mano aperta, gli
occhi adesso son fissi sul domani tremendo, fissi, terribili e vuoti.
«Tutta la mia vita io ti dò!»: ha detto Claudio. Ed ella non ha che
un'ora, un'ora falsa, rubata, un'ora non sua, l'illusione di un'ora...

Rosetta non sa più reggere. La gelosia, non sa perchè, la tormenta.
Non può staccarsi da quel chiosco e non resiste all'idea che quel
colloquio, che quel giuoco debbano prolungarsi ancora. È apparsa,
adesso, su la soglia del chiosco. Non veduta fa un cenno a Grazia come
per dirle che basta, che non ne può più... Ma Grazia le fa cenno di
aspettare, di aspettare ancora un momento... E col gesto la rimanda
fuori, l'allontana... Ora ha il capo fra le mani, gli occhi attoniti di
disperazione e dice, quasi a sè stessa:

— Ancora, ancora un attimo di felicità. Lo pago con tutta la vita!

E si rovescia tra le braccia di Claudio.


LX.

CONTRASTI.

Fuori il domestico va di gruppo in gruppo, nella sala, nei giardini,
cercando Grazia:

— La signorina... Il signor Marcello sta molto male...

Nessuno ha visto Grazia. E la cercano qua e là... E il domestico cerca,
cerca ancora... desolato di non riuscire a trovarla, pensando che lassù
quel poveretto... Ma, finalmente, incontra Rosetta...

— La signorina... Il fratello sta male.

— Oh, mio Dio!

E, di corsa. Rosetta guida il domestico verso il chiosco dov'è Grazia.
E si scontran correndo...

— Olà!

... nel gigantesco Cirano che va ancora gridando con la voce stentorea:

    Questi sono i Cadetti di Guascogna...

E, più in là ancora, la loro corsa è arrestata da un'ondata di Guasconi
che, a suon di pifferi, passan cantando e portando in trionfo i cuochi
e le torte di Ragueneau.


LXI.

IL RISVEGLIO.

E Grazia è ancora, rovesciata, fra le braccia di Claudio che le parla
all'orecchio con le sue parole ardenti, le mani nelle mani. È felice,
silenziosa, eroica, miserabile e sublime. Claudio le ha offerto
una coppa di _champagne_ ed ha forzato la sua testa a girarsi....
D'improvviso le ha preso la bocca in un bacio lungo, infinito — e
solo...

Di su la porta del chiosco è il risveglio: Rosetta le grida:

— Corri, corri, tuo fratello muore...

D'un balzo Grazia è in piedi, lasciando cadere la coppa che si spezza
su la tavola, strappandosi la maschera dal viso. Guarda tutti —
Claudio, Rosetta, il domestico — come trasecolata, come nell'orribile
ritrovarsi d'un risveglio.

— Lei!

Claudio ha avuto un atto di meraviglia e un passo avanti. Ma sùbito
Rosetta gli ha parlato:

— È stato uno scherzo che ha voluto farti... Poi ti spiegherò.

Grazia è pietrificata. Rosetta è accanto a lei, le cinge la vita col
braccio, le dice piano:

— Vieni!

E, ancora come ridestandosi, Grazia guarda tutti attorno, e si passa
le mani su gli occhi. Ode il vocio del giardino, le musiche lontane,
immagina la tragedia che si compie lassù. Getta un grido disperato, un
urlo che è un nome:

— Marcello!

E fugge via, folle. E Rosetta la segue.


LXII.

ULTIMA MUSICA.

Su l'aiuola che Grazia attraversa correndo i Guasconi son raccolti
attorno a un flauto che suona mentre tacciono i pifferi. E Cirano,
in mezzo a tutti, dice ora, a voce bassa, accordandoli al tempo del
flauto, i bei versi famosi:

    ... Ascoltate, o Guasconi. Non più la marzia squilla
    del piffero, ma il flauto della selva tranquilla...


LXIII.

PERCHÈ?

Claudio è caduto di nuovo a sedere alla tavola, nel chiosco. Ha nelle
mani i frantumi della coppa di Grazia.

— Uno scherzo?

Ma allo scherzo non crede. E allora: perchè?


LXIV.

«NON HO PIÙ CHE TE!»

E Grazia, con Rosetta, è entrata nella camera di Marcello. C'è il
medico. Il tubo dell'ossigeno dà ancora respiro e vita al malato.
Quando la sorella è accanto a lui Marcello le grida:

— Il medico è venuto... Ma tu no... tu no...

E Grazia è lì, immobile, pietrificata, col suo domino bianco che le
mani del fratello le strappan di dosso, a brandelli....

— Tu così, così... Ancora!... Ma non vedi che io muoio?...

A queste parole Grazia piomba a terra. Ha il volto del fratello fra le
mani, la guancia di lui sotto i suoi baci:

— No, no, no, Marcello... Non ho più che te... Non ho più che te...


LXV.

BIANCO E NERO NELLA CASA VUOTA.

Nella gran sala della villa Grazia è nel suo abito di lutto e nel suo
pianto. Claudio, Rosetta, gli “amici del dopopranzo„ son davanti a lei,
Rosetta tutt'avvolta in un mantello, gli uomini chiusi nei soprabiti.
Tornano dalla chiesa.

Per il lutto di Grazia avrebbero voluto rimandare le nozze. Ma un'opera
di Claudio va in iscena a Vienna e come mèta e pretesto del viaggio di
nozze non si poteva trovar di meglio che quella festa d'arte. Ancora
Rosetta ha spiegato tutto questo a Grazia per giustificarsi, per
chiederle ancora perdono se nel loro egoismo d'innamorati...

Grazia guarda gli “amici del dopopranzo„ che son lì, la testa bassa,
a girarsi e rigirarsi i cappelli fra le mani. Apre i loro soprabiti su
gli sparati bianchi dei fracs.

— Come siete belli... Tornate adesso dalla chiesa?

E apre il soprabito di Claudio sul suo tight. Giovannino, che gli è
di fronte, ha un sobbalzo. Questa ancora — e son passate due ore — non
la può mandar giù... Quel gran musicista non sa proprio le regole del
viver civile... Il tight per un matrimonio... Dove mai s'è visto nulla
di simile?... Sa quello che Claudio ha spiegato (oh, non a lui, che gli
avrebbe risposto, ma a Rosetta...): cerimonia intima, senza pretese...
Ma, intima o no, pretese o no, la legge, per don Giovannino, è una
sola: si sposa in frac. E se in frac non si sposa, che cosa ci si fa?
Ci si nasce? Ci si muore?

Grazia ha aperto intanto il mantello di Rosetta su l'abito da sposa.
Istintivamente ha fatto nel vederlo, un passo indietro. E ha sospirato:

— Sposa...

Rosetta ha richiuso il mantello. Ma Grazia, no, riapre... Vuol vedere,
vedere ancora:

— Lasciami, lasciami toccare... Quanto è bello un abito da sposa!

E tocca la seta, i veli, i merletti, con le mani che le tremano. Poi
le forze le sfuggono e cade a sedere e a piangere su la poltrona lì
accanto. Sùbito Rosetta è in ginocchio vicino a lei per abbracciarla,
per consolarla. E i due vestiti, il vestito a lutto e l'abito da sposa,
si sfiorano, si toccano, si uniscono. E Grazia dice, indicandoli:

— Io col mio lutto e tu con la tua gioia...

Hanno tirato fuori il fazzoletto tutt'e quattro, là, in fondo, gli
“amici del dopo-pranzo„, chè una lacrima, e anche due, son spuntate sul
ciglio di tutti...

Ora Grazia s'è asciugati gli occhi e s'è levata. Bacia prima l'abito da
sposa su cui Rosetta chiude, pudica, il mantello e poi bacia Rosetta:

— Va, va... Non ritardare... Dovrai cambiarti, partire...

E accompagna Rosetta fin su la porta. Escono i quattro. Ultimo a uscire
è Claudio, Claudio che, rimasto solo, afferra i polsi di Grazia, e le
pianta gli occhi negli occhi:

— Perchè? Perchè? Perchè il domino bianco? Perchè sostituirvi a Rosetta?

È, per Grazia, la tentazione suprema. Parlare, gridargli: “Perchè io ti
amo e non posso amarti... Perchè muoio d'amore per te, mia sola vita,
che te ne vai con un'altra... per sempre...„.

E il grido è là, nei suoi occhi, su le sue labbra, nel suo petto
ansante. Riesce tuttavia a trattenerlo, a vincere per sempre, a perdere
per sempre... E ride, ride, ride d'un riso tragico, d'un riso pazzo:

— Nulla... Nulla... Uno scherzo... Così, per ridere... Potevo ancora
ridere, allora...

E vuole sciogliere le mani dalla stretta ferrea di Claudio. Ma questo
resiste e la tiene. Grazia lotta, si divincola e riesce a liberarsi...

— Andate, andate, gli grida... Vi aspettano. Addio!

E lo sospinge fuori proprio nel punto che Rosetta riappariva su la
porta a chiamare Claudio. E poi, quando Claudio è uscito, per la
stessa porta da cui entrò la prima volta — (lo scopettino in mano e
don Giovannino che non capiva... che disperazione!) — appena Claudio
è uscito, per sempre. Grazia cade a terra come un povero mucchio di
cenci, un povero mucchio di cenci sotto cui è qualche cosa ancora d'un
po' vivo, qualche cosa che altro non è più che un sussulto...


LXVI.

RIVEDERLO PER L'ULTIMA VOLTA.

Un'ora dopo Grazia è nella piccola piazza di Collina Verde, ferma
contro il parapetto della terrazza che affaccia su la strada maestra
da cui Claudio e Rosetta, partendo, dovranno passare... Poco prima,
cadendo a terra, ha battuto la fronte contro un mobile, e la ferita
ha fatto sangue. E ora lì, sotto i veli neri che tutta la coprono,
Grazia ha attorno alla fronte una fasciatura bianca... Come ritardano
a partire... Grazia non si regge più in piedi. Ma ecco, lassù, polvere
in aria, un gridare e un correre di ragazzi:

— Viva, viva gli sposi!

E due vetture, due grandi _landaux_ di paese scoloriti e tirati da
cavalloni con certe code lunghe fino a terra, vengono giù per la
discesa. Nella prima vettura Rosetta e Claudio e il conte Spada,
fermo e impettito lì, al terzo posto, con l'aria dell'uomo abituato
ad accompagnare regine. Nell'altra vettura don Giovannino e gli
altri amici. Accompagnano tutti gli sposi per qualche chilometro, per
festeggiarli ancora...

Eccoli, eccoli... Ora sono lì sotto, davanti a Grazia che agita in
aria il suo fazzoletto. Due fazzoletti, farfalline bianche laggiù,
le rispondono dalla prima vettura, e l'ossequiosa scappellata del
nobilissimo conte...

La vettura è passata, rapida. È già laggiù dove la strada rivolta il
suo nastro giù per il monte e scompare. Ora non è più, scomparsa, che
un po' di polvere in aria. Ma Grazia continua ancora a salutare, a
salutare... con quel fazzoletto che si agita lento, lento, lento, e non
saluta gli sposi che non possono più vederla, ma saluta l'amore che se
n'è andato, saluta il sogno che è per sempre finito, saluta la vita,
tutta l'immensa vita, cui ella dice per sempre addio...

Addio!


LXVII.

ADDIO!

Ancora una volta, nera nel nero mantello, avvolta nei suoi veli, ancora
una volta — e l'ultima! — Grazia è alla porta del convento. La suora
guardiana apre e il corpo di Grazia precipita dentro, abbandonato,
come morto, a terra. La suora guardiana la soccorre, la rialza e
l'accompagna per il viale dei cipressi verso lo spiazzo dove, al sole,
tra i fiori, è un andirivieni lento e bianco di suore. Ma Grazia non ha
la forza di giungere fin lì e si ferma in quella cerchia di cipressi,
in quella fredda ombra verde, appoggiandosi a un albero. Suor Ghiottona
ha chiamato, sgomenta, le suore. E sono tutte accorse, attorno a
Grazia, sgomente anche loro. E la Madre Badessa ha preso Grazia fra le
braccia, mentre la fanciulla, abbassando il volto sul petto di lei, le
sussurra:

— Madre... Madre... Sono qui per morire... per morire in mezzo a voi....

Che possono dirle le povere e buone amiche della Collina Verde? La
vedono pallida, magra, distrutta, senza sangue, senza vita, tanto
bella, più bella ancora in quello sfiorimento di tutto l'essere. Che
possono dire? Che possono fare? Sanno tutte, oramai, la tragedia
di Grazia. E stringono ancora più il cerchio attorno a lei sempre
appoggiata al tronco del cipresso. Ancora più forte la Madre la stringe
fra le braccia. E Grazia dice, in un sospiro:

— La mia vita è finita... La mia vita l'ho vissuta... nella felicità di
un'altra...

E, muovendo lentamente la mano nell'aria, volge il capo e sorride:

— Come te, come te, mio povero amico Cirano!

E, all'albero accanto a quello contro cui è appoggiata, l'allucinazione
le fa vedere... Sì, sì, è lui, è lui... È Cirano, come lei finito, come
lei morente, come lei tutto nero, con quell'ultimo segno bianco attorno
alla fronte, quell'ultima fasciatura dell'ultima ferita e dell'ultimo
dolore...

E quando i suoi occhi impietriti non vedono più ciò che gli altri
non vedono, Grazia torna a girar la testa e a prender la mano della
Badessa:

— E, come lui il suo pennacchio, io porto a Dio il mio martirio!

Le bianche amiche della Collina Verde vorrebbero tutte avvicinarsi
ancor più a Grazia, abbracciarla, baciarla, tentare ancora di
confortarla... Ma Grazia, pronta, le ferma tutte col gesto. Ha un'altra
volta gli occhi impietriti, il volto trasfigurato nell'allucinazione:

— Largo... Largo... Lasciate posto... C'è gente che viene...

E le pare che dagli alberi, da tutti quei cipressi lì attorno, da quei
pini laggiù, da dietro quelle siepi, da quei vasi di fiori escano,
tutti bianchi, tutti rosei, tutti biondi, bambini, tanti bambini che
vengono tutti verso di lei, che le si stringono tutti attorno...

— I bimbi... I bimbi che avrei voluti avere... I bimbi che avrei voluti
amare...

E le pare di toccarli, le par di sentirseli attorno. Ha i riccioli
d'oro nelle sue dita convulse e, nell'estasi suprema, il volto di
Grazia s'illumina, si trasfigura, si fa divino. È la Sposa senza
macchia, è la Madre bianca!

Ma anche quella visione è scomparsa... Come le batte il cuore e come è
stretta, da una mano di ferro, lì, in mezzo al petto... Grazia con una
mano saluta... L'altra l'ha lì, in mezzo al petto, a tentar di fermare
quella mano di ferro che dentro le strappa il cuore e la vita... E,
nel bianco cerchio delle suore che sempre più s'allarga attorno a lei,
sotto gli alberi immensi, nell'infinito silenzio, il piccolo corpo nero
della martire s'irrigidisce e, nell'ultimo spasimo contro il tronco
dell'albero, resta fermo, già morto, un istante...

Poi, d'un tratto, di piombo, precipita.



La Duchessa delle Nebbie


PERSONAGGI.

  UN POETA
  UNA DONNA
  UNA LAMPADINA ELETTRICA.

   La casa di un Poeta. È il crepuscolo. Su la tavola è accesa
   una luce rosea; è una damina del Settecento, un piccolo Sèvres
   delizioso che finisce al busto, dal quale discende una larga
   veste di seta rossa sotto cui la luce elettrica splende.
   È una lampadina elettrica originale, più che una lampada
   elettrica, una veilleuse bizzarra per le fantasticherie d'un
   poeta. Questi, che ha quarant'anni e tutta la malinconia
   dei quarant'anni, la malinconia della vecchiaia che non sa
   ancora sorridere perchè non ha saputo ancora dire addio alla
   giovinezza, è seduto alla scrivania, con i suoi capelli grigi,
   con la sua anima stanca, col suo sogno instancabile. È un poeta
   rinsavito; più che scrivere, sogna; più che far versi, cerca
   rime impossibili; più che sporcare altra carta, preferisce
   parlare lunghe ore con la damina rossa, con l'amica luminosa
   e silenziosa che sa ascoltarlo senza contraddirlo mai, col
   piccolo Sèvres dall'ampia gonna di seta che è accesa giorno e
   notte su la sua tavola e sul suo sogno. È, una volta di più
   il colloquio delle ore vuote, delle giornate grigie, delle
   malinconie indecise, delle rinunzie approssimative, delle
   rassegnazioni senza rassegnazione. Fuma e parla, il poeta,
   parla e fuma; e le sue parole vanno in fumo ancora più delle
   sue sigarette. Al piccolo Sèvres rosso e luminoso il fumo
   non dà noia: nè quello dei sogni nè quello delle sigarette. È
   abituata a vivere nella sua nebbiolina rosea e leggera giorno
   e notte, notte e giorno; ed è nebbia ella stessa. Il suo
   poeta, che è il suo innamorato, il suo innamorato che è il suo
   poeta, l'ha battezzata così: «la duchessa Aurora delle Nebbie»
   nell'Almanacco di Gotha del mondo delle fantasticherie. Aurora
   e Nebbia son le sue due poesie, la sua sola poesia; rossa
   splende come l'aurora di una realtà possibile; avvolta di sete
   e di veli disperde la sua luce nelle nebbie in cui si perdono e
   sfumano i bei sogni impossibili. È una donna solo a metà. Più
   giù del busto non è più che luce; più giù del cuore altro non
   è che fantasia.


IL POETA.

Senti? Piove ancora... È tutto il giorno che piove e noi le abbiamo
sentite venir giù, tutto il giorno, io e te, la pioggia e la
malinconia...

   (Il domestico apre piano la porta. Entra. La sua mano gira
   rapidamente il commutatore elettrico per accendere le esili
   appliques rosee che sono attorno alle pareti coperte di
   damasco verde. Ma sùbito la voce del Poeta corregge il gesto
   brutale del domestico e fa tornare la penombra nella stanza
   e la Duchessa delle Nebbie a tutt'il suo splendore un attimo
   attenuati da una luce più pallida ma più sfacciata della sua).

No. Spegnete. Non c'è ancora bisogno d'altra luce. Non è ancora sera.
E questa luce basta perchè possiate riaccendere il fuoco e distribuire
i fiori nei vasi.

   (Il domestico ha rispente le appliques rosee. Ora accende il
   fuoco nel caminetto. Poi distribuisce nei vasi, come luci nella
   penombra, le rose bianche che portava sul braccio. Si sente dal
   di fuori il ticchettio della pioggia sui cristalli della
   finestra, il rumore lento di una vettura, l'urto stonato di una
   tromba di automobile. Si sente da dentro il crepitìo delle
   fascine nel caminetto. E, quando il domestico ha finito ed è su
   la porta per uscire, il poeta avverte:

   «_Fate attenzione. Aspetto gente. Fra mezz'ora_». E quando il
   domestico è uscito, il poeta guarda al suo polso sinistro il
   piccolo orologio d'oro e riprende a parlare con la Duchessa
   delle Nebbie:)

Abbiamo ancora mezz'ora per parlare e in mezz'ora si possono dire tante
cose, o, almeno, quelle che dobbiamo dirci noi...

   (Trae di tasca il portasigarette. Accende una sigaretta.
   Fuma....)

Ma, vedi, ho acceso un'altra sigaretta per prendere tempo, e per
prendere coraggio, perchè non so da dove incominciare. È la sorte dei
poeti, questa: poichè non sanno mai, coi loro versi, dove andranno
a finire, non sanno mai, in prosa, trovare il principio... Ma io
comincerò da un ricordo... Il ricordo della sera in cui ci siamo
conosciuti, io e te, duchessa... Ero dal mio antiquario, a curiosare,
a perdere tempo, in una sera di malinconia... Che malinconia, quella
sera!... Una volta di più, due ore prima, una donna mi aveva mentito,
un amore era caduto. Ed io cercavo di essere forte, di provare a
me stesso che il disastro non era niente, che tutto era come prima,
che la vita continuava tranquilla... Mi dicevo: “Lei non soffre...
A quest'ora, mentre io non so dove andare, mentre io non so se
camminare o star fermo, mentre io mi lascerei cadere a terra, qui,
dove sono, come un animale ferito a morte, lei è dalla sua modista
a provare cappellini, o dal suo _coiffeur_, i capelli sotto i ferri
di _monsieur_ Pierre, le unghie nelle mani di _mademoiselle_ Rose
e tutto il suo cuore lì, preso, come sempre, nella sua vanità e nel
suo egoismo...„ E mi dicevo: “No, non devo soffrire neppure io...„
E avrei voluto anch'io una chioma da fare ondulare e biondeggiare,
una mano, già curata, da far curare ancora... Ma dove sarebbe stato,
in circostanze simili, il mio cuore? Io non ho vanità per occuparlo
o egoismo per alimentarlo... Io amavo lei, per lei... Lei amava me,
per sè... Ecco tutta la diversità fra noi, la causa dell'urto e della
rottura e la spiegazione di tutta la sua serenità e di tutto il mio
tormento... Rientrare a casa mi faceva paura... Ritrovarmi solo fra
le cose solite... Ed entrai lì, dall'antiquario, sperando che le cose
belle avrebbero potuto per qualche tempo allontanarmi dai miei pensieri
cattivi... E lì, nella penombra di quello stanzone senza luce, appena
rischiarato dai fiammiferi che l'antiquario accendeva per farmi vedere
una vecchia portantina riverniciata e rifoderata di fresco, ti vidi
lì, nell'angolo di un canterano, mezza schiacciata da un paraventino,
addossata con le spalle al muro... Ti vidi così, piccolo Sèvres, con
la tua veste rosea che nell'ombra era scura, mortificata, trascurata,
dimenticata... E, al mio grido, l'antiquario ti prese, ti portò
avanti, ti mise nel bel mezzo d'un tavolino di Bull, e portò sino al
muro il lungo cordone rosso che usciva di sotto la tua sottana. Tu ti
accendesti, duchessa. La tua veste scura fu un fiore roseo nell'ombra,
ed io m'innamorai di te. M'innamorai di te, perdutamente, in un minuto
e non ebbi pace finchè non ti ebbi sotto il braccio, tutt'avvolta di
carta velina... E ti portai via, via, di corsa, verso casa, come se
ti avessi rubata, come se ti avessi rapita... Proprio così... Non mi
pareva di averti avuto dal mio antiquario per trecento lire, prezzo
d'affezione... Mi pareva di averti avuta dopo un ratto, bene non mio,
felicità proibita, sogno rubato... E, a casa, nella mia casa vuota che
tu rallegrasti, che tu popolasti, ti diedi il posto d'onore, ti fissai
con due chiodi, due chiodi d'oro, duchessa, nascosti sotto la veste di
seta, qui sull'angolo del mio tavolino, e ti accesi... E fosti ancora
un fiore di luce rossa nella mia ombra e nella mia solitudine... E
fin da quella sera io cominciai con te, Duchessa, un interminabile
colloquio: l'infinito, l'intraducibile colloquio che solo può svolgersi
fra un poeta pieno di malinconia e una damina di porcellana che è tutta
leggiadria e poesia, donna, sia pur donna di Sèvres, dal cuore in su,
seta e luce e sogno, dal cuore in giù... Quale buon Dio, quale Dio
bonario della consolazione e della pietà, ti mandò sulla mia strada
e nella mia casa, bambola di luce, donna di sogno, realtà irreale,
proprio quella sera, mentre pioveva come adesso, mentre ero solo, come
adesso, mentre tutto il mio cuore piangeva perchè una donna da cui mi
ero creduto tanto amato aveva fatto male a quel mio cuore una volta di
più?... Il sogno, con te, mi guarì della realtà.... Poichè un'amante
mi aveva tradito, io ti elessi mia amante fedele, fedele come solo il
sogno sa essere, come le donne essere non sanno, non vogliono e non
possono... E ti battezzai quella sera, nella mia prima follia per te...
Duchessa eri nella fierezza del tuo portamento e nella nobiltà del
tuo profilo... E poichè uscivi dalle nebbie della mia malinconia fosti
Duchessa delle Nebbie... E, poichè t'accendesti rosea nella mia notte,
come un'aurora, fosti così, per l'araldica della mia fantasia e nello
stato civile del mio cuore, la Duchessa Aurora delle Nebbie.

   (Accende il poeta un'altra sigaretta... A cominciare è
   riuscito... Concludere gli è più difficile e quello che ha
   detto fa più arduo e penoso ancora, per lui, quello che dovrà
   dire.... Ma, pavido della scintilla, si getta poi d'improvviso
   nel fuoco come fanno i pazzi, i timidi e i poeti:)

Ti chiesi, duchessa, fedeltà. Ti promisi, duchessa, fedeltà. Ma
è instabile, cara, il cuore dell'uomo anche se stabile è la sua
coscienza. Continua, quando la vita è ferma, il nostro sogno a
camminare. Se ferma è la stella nel cielo e fermo è il nostro sguardo,
su lei gira il mondo sotto i nostri piedi par che giri la volta del
cielo sul nostro sogno. Per seguire, sempre fedeli, la nostra stella,
noi dovremmo poter evadere dalla nostra schiavitù umana, sollevarci
dalla legge che ci tiene inchiodati al suolo e poter seguire la stella
là dove sembra che la stella, al finir della notte, sia andata, e
poter essere là nell'alto emisfero venuto al posto del nostro: là
dove un altro poeta un altro innamorato possono ancora mirarla, e non
noi. Vicenda di sogno e di realtà, vicenda di sole e di stelle, di
luce e d'ombra, muoversi incessante del nostro mondo senza che noi lo
si avverta, fissità dei sogni, immobilità delle stelle nel cielo che
pare a noi movimento. Anche per me, e per te, duchessa, il mondo ha
girato intorno al suo asse. Anche per noi, fidanzati ed amanti in una
notte, il giorno, nell'incessante ritorno, è ora venuto. Dalle tue
rosee nebbie notturne, duchessa, è uscita l'aurora; ma quest'aurora
non è per te.... In quest'aurora che da te nasce tu muori, nella tua
fiamma ti bruci, nella tua luce ti spegni. Il sogno d'amore chiuso in
te si fa realtà in una donna. Questa donna è qui. Muove, in quest'ora,
verso la mia casa. Ha, mi sembra, tutte le bellezze e tutte le bontà
che io ho sognate in te. Ma non le porta, bellezze e virtù, come te,
nella nebbia losca della tua sottana di luce, del tuo corpo incorporeo.
Questa donna le ha vive nella sua realtà, nel suono della sua voce,
nel correre del suo sangue, nel fremere dei suoi nervi, in tutta la sua
umana e vivente verità. Non è, questa donna che sta per venire, non è,
come te, fantasticheria di bene, sogno di felicità, illusione d'amore.
È vivo, reale, tangibile, l'amore che ritorna alla mia casa, per il mio
cuore e per la mia carne... E viene come già tante volte è venuto: una
carrozza che s'avvicina nella via silenziosa e sonora, un passo rapido
e frusciante su per le scale e qui lo stesso caminetto che l'aspetta
le stesse rose per farle festa. Entrerà fra poco, il mio amore nuovo,
come entrarono, un tempo, tutti gli altri... Ma non è, questo, come
gli altri... È l'amore perfetto, è l'amore ideale, è l'amore sogno
che tu, duchessa, nelle tue nebbie, con la tua aurora, mi hai fatto
sognare... È, finalmente, l'illusione che si fa realtà, è l'impossibile
che si fa possibile, è la donna che in tutte le altre, attraverso il
dolore, ho follemente cercata, è l'anima che disperatamente chiedevo,
è l'anima che un clemente destino inaspettatamente mi manda.... Ma
sogno e realtà non possono vivere insieme in due diverse forme; e se
colei che sta per entrare in questa stanza è insieme, miracolosamente,
realtà e sogno, tu che fosti sogno solamente non puoi rimanere accesa
sull'angolo di questa tavola. Mai ti spensi, duchessa, giorno e notte,
da quella sera di malinconia in cui tu entrasti qui per la prima volta.
Ma ora ti spengo, duchessa, amica sognata, amante impossibile, felicità
di nebbia, ora ti spengo in questa sera di gioia in cui tutto il mio
cuore aspetta, divinamente sgomento, l'Amore. Addio, duchessa, e addio
per sempre. Il tuo poeta uccide la tua vita illusoria e spegne la tua
luce poichè la tua luce di sogno s'è, per prodigio, accesa nel cuore di
un'unica, e incomparabile donna...

   (E il poeta, tremando la sua mano, ha spenta la duchessa
   luminosa. E la carrozza rotola nella via silenziosa e sonora. E
   il passo rapido e frusciante è su per le scale. E il caminetto
   attende crepitando tra scintille e brontolii... E le rose
   son lì per far festa... Festa a colei che entra, avvolta nei
   veli, tremante di commozione, per portare l'amore... E ora
   il poeta ha acceso le _appliques_ rosee sul damasco verde
   per vedere nel volto pallido e smarrito la sua bella realtà
   vivente, l'amore divino che il poeta stringe fra le braccia,
   folle di meraviglia, per poter morire un giorno senza dire
   d'aver vissuto invano. Ma la donna si scioglie dalle braccia
   impazienti. C'è un cantuccio di tepore in quelle due poltrone
   accanto al fuoco. E la donna vi si rifugia per scaldarsi. E
   nell'altra poltrona, il poeta aspetta che dal rogo del pudore
   la fiamma immensa dell'immenso amore divampi. Così, nell'attesa
   dei due calori, freddamente le parole parlano).

IL POETA.

Tutto il giorno e tutta la vita vi ho attesa. Altre volte una donna
è entrata, così, nella mia casa e nel mio cuore... E fu, come per
voi tutta una illuminazione... Ma la fiamma, in breve, ogni volta si
spense: vanità, interesse, menzogne, orgoglio, i quattro orrendi e
viscidi tentacoli dell'anima umana vennero a cercare nel mio cuore
il sogno, lo ghermirono, lo soffocarono, lo stritolarono, me lo
lasciarono in cuore, peso morto, pietà schiacciante... Vanità che
fai di un essere umano nato per amare altrui ed essere dagli altri
amato un mostruoso egoismo attorcigliato su sè stesso e che ama solo
sè stesso; interesse che fai nel cuore umano delle cupidigie il solo
palpito e della sopraffazione la sola legge; menzogna che ti annidi
negli occhi più puri, nelle parole più chiare, nei sentimenti più alti
e fai che, dietro ogni fronte che tu adorni di tutte le speranze di
tutte le fiducie, tu senta il dubbio tormentoso di tutte le frodi, e
di tutti gli inganni e per cui quando tu più credi che un'anima è tua
più quest'anima può essere, ferocemente e silenziosamente, contro di
te. Orgoglio, infermità dell'anima d'ogni altra più grande, orgoglio
che fai il cuore cieco a ogni luce, sordo a ogni suono e che dove tu
attendi un'anima pietosa ti fa trovare un'anima implacabile, orgoglio
che, per non piegare, fa un nemico del cuore più amico e maschera
nella beffa di un riso il più disperato desiderio di pianto... Venti
volte ho sognato l'amore ed ho creduto di stringerlo fra le mie
braccia!... in due occhi in cui i miei occhi si specchiavano, in due
mani che s'allacciavano intrecciandosi alle mie, in un respiro che
col mio si mescolava e faceva un respiro solo. E venti volte vanità,
interesse, menzogna, orgoglio hanno svegliato il mio sogno e dalla
volta del Cielo stellato mi hanno inabissato in una fogna... venti
volte quando più credevo d'essere lo scultore dio che aveva dato vita
alla sua statua perfetta mi destavo stringendo nelle mani una bambola
vuota, un sogno di cartapesta. Ma questa volta, no. L'anima tutta si
riaccende nella certezza sublime che il miracolo si compia e che questo
è finalmente e veramente l'amore. L'uomo, che ha tutti i peccati,
tutte le miserie e tutte le vergogne, ha però un potere d'illusione e
di speranza più grande e più intiero di quello ch'è nel cuore di una
donna. Nel giuramento d'eternità dell'uomo c'è almeno l'illusione di
credere, un istante, l'eternità possibile. L'uomo più malvagio più
bugiardo, più mutevole ha, per un istante, veramente e interamente
amato, ha nell'amore annullato sè stesso. Mille e tre volte il sogno
di Don Giovanni è, — per un istante verità, — rinato dalle sue ceneri
bugiarde. C'è l'anima di Romeo in fondo alla curiosità di Lauzun! “Non
si scherza con l'amore„ è il grido d'un uomo che l'amore ha ferito a
morte. Ma quale di voi, donne, non ha con l'amore scherzato, quale di
voi, donne, non ha nascosto il pugnale sotto il merletto, il nostro
pianto sotto il suo sorriso? Ah, dove sei tu, donna che, senza vanità,
senza menzogna, senza orgoglio, vieni incontro all'amore per amare
e non per essere amata, per dare divinamente e non per ricevere, per
sacrificarti e non per sacrificare? Donna, la tua debolezza è sapiente!
Uomo, la tua forza è ingenua! Nel duello quando tu, uomo, più scopri
il tuo petto, tu, donna, più nascondi il tuo cuore. Ti dice, donna, il
tuo specchio ogni mattina, che tu sei nata per essere amata. Come ti
possono vanità e orgoglio permettere d'amare semplicemente, di farti
vittima se sei nata carnefice, di farti schiava se la bellezza ti fa
padrona? Amare, amare... Annullarsi nell'essere amato, vivere della
sua vita e non della nostra, offrire e non chiedere, sacrificare,
rinunziare, dare, dare, dare, unicamente, esclusivamente, follemente
e disperatamente dare; veder nell'altro essere tutte le gioie, tener
per sè tutto il dolore, strappar col nostro sangue tutte le spine
per offrire la rosa senza ferita, questo è l'amore! Sentire d'aver
vissuto invano, di non avere anzi vissuto, tutti i giorni trascorsi
prima d'incontrare l'essere amato, vedere orribilmente vuoti i giorni
che dovranno trascorrere se mai l'essere amato dovrà uscire dalla
nostra vita, e viver la vita giorno per giorno, ora per ora, minuto
per minuto, sventurata o felice a seconda che pena o sorriso son negli
occhi di un'altra creatura, specchio in cui la nostra anima riconosce
solamente la sua immagine: — questo è l'amore! Non aver volontà se
un'altra volontà comanda, non avere ambizione se un'altra ambizione
governa, non aver orgoglio e piegarsi se una mano ci piega, non aver
desiderio che non sia desiderio dell'altro essere, gioire sino alla
follia per un suo sorriso, spasimare fino al delirio per una sua
lacrima, sentire che mai vivremmo così intensamente come se ci fosse
dato di morire per assicurare all'altro essere un attimo di vita di
più: — questo è l'amore! Riconoscere il mondo che già conoscemmo e
trovargli un altro volto sol perchè un altro essere è accanto a noi,
amar tutti gli esseri sol perchè c'illudiamo che un altro essere umano
ami noi, far di tutto una speranza e di tutto un tormento, sentir la
nostra vita chiusa nel cerchio d'un respiro e veder immenso il nostro
orizzonte, guardarsi attorno stupiti e nulla più riconoscere di quanto
fu nostro e ci piacque, giungere a illudersi di poter parlare con
Dio senza chiedergli nulla per noi e tutto per un altro: — questo è
l'amore! Amare una strada sol perchè vi passammo con lei, detestare
un'altra strada sol perchè lei, un giorno, vi passò con un altro,
veder dovunque nel passato, nel presente, nell'avvenire, fantasmi
che ci minacciano e di nulla temere, e credere l'incredibile, e voler
possibile l'impossibile, e sentir finito l'infinito, fermarsi a pensare
al modo di staccare una stella dal cielo se il capriccio di lei vi
chiede una stella, illudersi di poter anche fermare il sole se alla
malinconia di lei quel giorno il riso d'oro del sole dà noia, sentir
la nostra mano piccola tanto grande da poter ghermire il mondo, come un
fiore, per offrirglielo: — questo è l'amore! Questo, questo è l'amore,
e tutto quello che è grande, che è bello, che è pazzo, tutto quello che
difficile per noi ci par facile per un'altra creatura, tutto quello che
per noi impossibile ci par per un'altra possibile. E abolire il tempo
e lo spazio, il passato e il futuro, e far dell'istante l'eternità e
dell'eternità l'istante, sentirsi, misero uomo, invisibile molecola
terrestre, più onnipotente di Dio; vivere in una divina libertà che è
una divina schiavitù, darsi legato in braccio al destino per dirgli di
portarci dove porta lei, girare tutto il mondo intero non muovendosi
da vicino a lei, salir sin negli spazii infiniti rimanendo ai suoi
piedi, veder dovunque un volto e non altro, nell'acqua, nel cielo,
nell'erba che spunta e nella stella che s'accende, nel fiore che
s'apre e nella nuvola che passa, far del sole un suo gioiello e della
costellazione un suo monile, della tempesta dell'aria il suo tormento,
e dell'oceano azzurro la sua pace: questo, questo, questo è l'amore!
Amare, amare così, solo sogno che avvicina l'uomo a Dio, divina follia
e sola bellezza di vivere, esaltazione di tutto l'essere in un altro
e, quando a questa follia l'altra follia risponda, divina comunione,
unità in due corpi, ebrezza di vivere in due vite fatta una tutta la
vita, sola illusione possibile d'immortalità, solo possibile anelito
umano verso la divinità... Che siamo? Due miseri esseri umani, schiavi
delle loro miserie, complicato e insieme elementare congegno di sangue
e di nervi, inchiodati alla terra, condannati a vedere il cielo senza
poterlo toccare, sangue terrestre che il soffio di Dio ha animato senza
farlo divino, poveri corpi schiavi delle più umili necessità, animali
che ogni giorno si nutrono e si vuotano per tornare a nutrirsi domani
nel più umile e brutale istinto di vivere, un maschio e una femmina,
una donna e un uomo, pari ad altri milioni di uomini, pari ad altri
milioni di donne, perduti, confusi, sommersi nell'immenso gregge tutto
eguale in marcia per un inutile cammino verso un destino sconosciuto,
condannati a cadere d'un tratto, ai margini della strada, senza saper
quando e senza sapere perchè. Ma se l'amore tocca e avvicina due di
questi esseri, due di queste pecore che van fra le pecore, se amore
scalda e illumina del medesimo calore e della medesima luce due di
queste anime e due di questi corpi, il miracolo si compie, il soffio
di Dio è nel bacio degli amanti e ognuno mette nell'anima dell'altro e
il sogno e il potere delle divinità. E i corpi si staccano dalla loro
crocifissione terrestre, e le anime si trasfigurano, e l'uomo e la
donna, non più umani, si elevano, s'innalzano, nell'amplesso felice e
completo, su nell'azzurro dei cieli verso Dio che guarda geloso coloro
che seppero nel prodigio strappargli il mistero della sua onnipotenza.
Questo, questo, o donna unica della mia vita, questo è l'amore che io
offro, questo è l'amore che io vi chiedo.

LA DONNA.

Vecchio fanciullo di quarant'anni che parli d'eternità ed hai già
grigie le tempie e carico il sangue di veleni che il tuo corpo, non
più giovane, non può già più bruciare, vecchio fanciullo poeta, il
tuo sogno è bello e tu canti con tanto fervore e da tanto tempo la
tua bugiarda canzone che hai finito per crederla vera. Ma questo tuo
amore d'angeli umani, questo tuo amore che riconosce il fango terrestre
sol per soffiarvi dentro lo spirito della divinità, non è quello che
altre donne ti han dato e non è quello che io posso darti. Vanità,
interesse, menzogna, orgoglio, quattro viscidi tentacoli che tengon
legata alla terra l'anima umana assetata d'amore e le impediscono di
levarsi su negli spazi infiniti. Così tu hai detto. Ma è forse in tuo
potere distruggere questi tentacoli che sono il peso e la condanna
delle creature umane, le sue armi d'offesa e di difesa, le forze con
cui si muove su la terra poichè Dio volle darle le pupille levate in
alto per guardare il cielo ma non le ali per salirvi, librarvisi e
purificarvisi? Come vuoi tu che io mi liberi, per il tuo amore, dalle
mie vanità se ogni giorno ho davanti a me lo specchio per ammirarmi, se
ogni giorno ho da lui parole così lusinghevoli che nessun amante saprà
mai dirmi più ardenti e più persuasive, se ad ogni ora il desiderio
degli uomini che passano accanto a me mette su la mia strada la lode e
l'esaltazione?

Tu mi vuoi bella ma vuoi che io non mi sacrifichi alla mia bellezza,
tu mi vuoi di tutte più bella ma non vuoi, che io tragga da questo
trionfo una ragione d'egoismo, il senso esaltato od esasperato della
mia persona. Tu vuoi la fiamma senza la luce, tu vuoi il calore senza
il fuoco, tu vuoi la bellezza senza la gloria d'essere bella. Tu vuoi,
poeta, l'impossibile. E tu rimproveri all'amore l'interesse, che lo
ispira e lo dirige, tu, tu rimproveri all'essere umano d'ubbidire
al suo primo istinto che è quello di difendersi, di conservarsi, di
esaltarsi nel sacrificio altrui invece che di diminuirsi nel proprio
sacrificio. Tu concepisci un amore disinteressato, mortificato e
rinunciatario in cui la creatura umana porti una fede altruistica
d'apostolo e uno spirito eroico di martire. No. La creatura umana
chiede all'amore gioia, pienezza di vita, voluttà di essere. Chiede
questo per sè per il suo bisogno, e all'altro concede di dividere sol
quanto ella possegga. E tu rimproveri all'amore la menzogna perchè
l'amore vive di menzogna. Ma sei tu certo che non gli rimprovereresti
la verità se fosse possibile all'amore vivere di verità? Se tu
mi rimproveri di dirti che ti amo nell'ora in cui non ti amo, mi
concederesti tu di dirti che non ti amo? Ammetteresti tu di poter
amare da solo? Vorresti avere tu la coscienza di dare senza ricevere?
Quando tu mi guardi negli occhi per trovarmici l'anima non chiedi
tu, disperatamente, ad ogni costo, la mia menzogna con i tuoi occhi
che implorano l'illusione, con la tua voce che trema per paura della
verità? E se io finisco d'amarti quando tu mi ami ancora sei tu pronto
ad ammettere l'iniquità di questo diverso destino o non pretendi
piuttosto che il mio cuore simuli di risponderti ancora quando non
ti risponde già più? Sì. Tu mi hai fatto giurare, una sera, che se un
giorno finirò d'amarti quando tu mi amerai ancora io avrò il coraggio
di dirti la verità, di spezzare la tua infelice illusione. Ma tu
accettavi quella sera un dolore che speravi, che contavi di vederti
risparmiato; tu parlavi di morte dell'amore, quella sera, quando tu
credevi il mio ed il tuo amore immortali; tu parlavi di morte come di
morte parlano i giovani: cioè come d'una spada sospesa non sul loro
capo ma sul capo degli altri. E tu mi rimproveri l'orgoglio. E in
che soffri tu, se non sul tuo orgoglio, quando tu rimproveri a me il
mio gesto o la mia parola orgogliosi? Contro il mio orgoglio che ti
domina non è forse orgoglio la tua umiltà mistificata? Non vorresti
tu strapparmi dalle mani lo scettro per esser tu ad imperare? Non
vorresti tu non essere sopraffatto per poter liberamente, a tua volta,
sopraffarmi? Pretende mai qualcuno che altri liberi un trono per
lasciarlo vuoto? Tu ti proclami schiavo di me e l'esercizio del tuo
governo ti spiace? E a che altro tende la tua simulata schiavitù se
non a far me schiava per poter tu governare? Se tu non fossi come me
fiero di te stesso perchè mi rimprovereresti la mia fierezza? Se tu non
fossi come me intransigente in che ti dorrebbe la mia intransigenza?
E ti farebbe soffrire la mia implacabilità nel mio orgoglio se tu non
fossi come me, nel tuo orgoglio implacabile? Tra due amanti quello che
rimprovera nell'altro il suo orgoglio, quello che non può esercitare
il suo, poichè solo l'orgoglio può riconoscere l'orgoglio. Solo il
desiderio d'opprimere può riconoscere l'oppressione. Che chiedi tu
dunque, o poeta, a me donna, a me essere umano? Chiedi a me altro,
forse, che non essere quello che tu sei? Mi rimproveri altri mali
forse, che non siano i tuoi stessi mali? Pazzo poeta d'una tortura
che è in te che tu vuoi far essere in me, fantastico creatore d'una
felicità impossibile in un impossibile unità d'un dualismo, vuoi tu
che io donna non sia donna, che io essere umano non sia umano? Vuoi
tu che io senz'ali voli, che io, condannata alla terra, non tocchi
terra? Ma apri gli occhi, vecchio fanciullo, guardati attorno e vedi
più in là del cerchio luminoso del tuo sogno che t'acceca, col suo
folle splendore, ogni altra vista. Guarda l'amore e la gioia dell'amore
così come sono nel mondo che ti circonda e non fra gli angeli che ti
sovrastano. Riconosci all'amore così com'è una grande nobiltà nel solo
desiderio di un'elevazione che l'inguaribile peso umano fa impossibile.
Riconosci che è già bello che l'amore sia sogno anche se non può mai
essere altro che sogno.

   (La donna ha parlato. Il poeta l'ha ascoltata in silenzio,
   senza interromperla. A mano a mano i suoi occhi socchiusi alle
   prime parole, si sono aperti, sempre più, come se riconoscesse
   quell'interlocutrice ch'egli riconosceva per la prima volta.
   Aspettava da lei nuova, una parola nuova. E son venute da lei,
   ch'ei credeva diversa da tutte le altre, le parole già dette da
   tutte le altre. Ed ora, quand'ella ha finito, mentre nell'ombra
   della stanza trema rossa e gialla la fiamma del camino e nel
   suo silenzio scoppietta ardendo la legna, il Poeta abbassa a
   terra lo sguardo, apre in un gesto desolato le braccia).

IL POETA.

Ma io ti chiedevo, o donna nuova che sembravi da tutte le altre
diversa, donna apparsa nella mia vita come un ultimo sole quando il mio
destino è per entrare nel crepuscolo dell'eterna notte, io ti chiedevo
un sogno che potesse durare come sogno fino al punto di credere che
il sogno fosse diventato realtà. Ci son due modi perchè il sogno sia
raggiunto: trasformare il sogno nella realtà o prolungare tanto il
sogno ed il sonno che la realtà non possa più venire a destarci. Tu mi
parli, invece, quello che tutte le altre mi hanno parlato: un sogno a
scadenza, un sogno che già prevede il risveglio, l'illusione dorata
o fantastica d'una notte di più. No, no, no... Io ho paura oramai,
tremendamente paura delle mattine in cui ci si risveglia nella miseria
dopo il sonno dorato, non voglio più che una donna mi ponga per un solo
e breve sogno tra le sue braccia per farmi credere come il calzolaio
ubriaco di Shakespeare. No. Se sognar per sempre non è possibile,
meglio è rimanere in questo mio melanconico dormiveglia sentimentale,
in questa penombra e in questa solitudine, chiusa la porta sul ricordo
di quelle che se ne sono andate, chiuse le finestre alla curiosità
di quelle che potrebbero per la mia strada passare. Che vuoi tu che
m'importi di una notte d'amore, d'una notte di sogno di più. Io ne ebbi
già mille. Mille sogni ho già avuti ridotti in un mucchietto di cenere
più piccolo di quello che la brace spegnendosi fa in questo camino che
t'illumina nella tua inutile bellezza... Va. Ritorna fra gli uomini che
possono contentarsi della tua breve offerta, della tua caduca felicità.
E lascia qui, solo, silenzioso, me poeta di un impossibile che se fosse
stato possibile mi avrebbe fatto maledir la vecchiaia mentre adesso,
invece, mi è così dolce invecchiare, sentir il cuore che si raffredda
e si spegne ogni giorno di più. No.... Non parlare. So quello che tu
vuoi dirmi. Vuoi dirmi che mio è il torto di non saper cogliere, nelle
ore che fuggono, una felicità passeggiera, di non sapermi accontentare,
io, uomo, della ricchezza degli uomini, ma di pretendere, poeta,
la ricchezza d'un Dio. So tutto questo. Ma mille volte, una sera,
mi sono accontentato e mille volte al mattino, ho pagato con la mia
disperazione l'errore di aver accettato la mediocrità. Mille volte,
accendendo la sera accanto a un volto di donna, la lampada d'una nuova
illusione, ho trovato al mattino, quando la lampada si è spenta, più
squallido il giorno, più stupida e vuota l'immensa faccia gialla del
sole. Mille volte la mia canzone d'amore cantata alla sera, quando
l'immenso silenzio della notte favorisce l'illusione che il destino
possa esser chiuso in una stanza e in un cuore, mi ha fatto sentire più
sciaguratamente desolate le mie mattine e i miei risvegli senza musica.
Mille volte il giuramento d'eternità che l'amore bugiardo sospira mi ha
fatto sentire più disperata la vanità dell'ora che fugge. Vattene, te
ne prego. E richiudi, per sempre, la porta. Offri ad altri uomini meno
assetati e meno affamati di me, la tua scarsa bevanda e il tuo tozzo
di pane. Porta ad altri il tuo amore terrestre fra un cappello nuovo
e una bugia vecchia, fra uno specchio e un egoismo, un orologio che tu
guardi e un'eternità che prometti e in cui non credi. Vattene, donna,
fra le altre donne. E chiudi la porta, chiudi per sempre, la porta.
È inutile che altre vengano se anche tu sei venuta invano. Ti sono
solamente grato di aver parlato come le altre non parlano, d'esserti
fatta riconoscere quando io credevo di non averti conosciuta mai. Se
è più grande per te, la mia melanconia, tu non mi hai dato, mia sola
amica, dolore. Vattene. E chiudi la porta, chiudi, per sempre la porta.
Io resto qui, vecchio fanciullo, poeta dell'impossibile, a cantare a
me stesso, solo a me stesso, la mia canzone bugiarda, la canzone della
verità.

   (E la donna è uscita. Ha piano piano richiuso la porta,
   richiuso per sempre la porta. E il poeta si leva dalla sua
   poltrona, traversa nella penombra la stanza, risiede alla sua
   grande tavola. Va la sua mano tremante alla seta e ai merletti
   della lampadina elettrica. Cerca una piccola chiave. E di
   nuovo la Duchessa delle Nebbie, spenta poco prima per sempre,
   risplende nella sua nuvola rossa. E di nuovo il poeta, che
   poco prima le aveva detto addio per sempre, torna teneramente
   a parlarle).

IL POETA.

Rieccomi a te, Duchessa, luce rossa, nebbia rosea, nebbia di sogno,
sempre uguale, così al tramonto come all'aurora. A te sola posso
cantarla, senza timore di risveglio, la mia canzone bugiarda di vecchio
poeta fanciullo. Tu sola sai ascoltarla, fantasia, sogno, bambola,
illusione, donna e sola verità. Vanità, interesse, orgoglio, menzogna
non hanno posto nel cerchio rosso della tua leggera veste illuminata.
Tu non hai, Duchessa, solo amore, unica amante, che tutto quanto io ti
presto, che tutto quanto piace a me di donarti. Creatura del mio sogno,
perdonami. Io ti ho spenta, poc'anzi perchè credevo possibile nella
realtà la tua luce e la tua poesia. Ho sbagliato, una volta di più, e
per l'ultima volta. Io ti ritorno davanti, stasera, come in quella sera
lontana in cui tu ti accendesti nella bottega dell'antiquario ed io, al
tuo primo splendore, m'innamorai di te. Canterò a te, mia innamorata,
la canzone del sogno senza risveglio, dell'oggi senza domani,
dell'amore che è amore, del poeta che vuol da una donna ciò che nessuna
donna può dare perchè nessuna donna è poeta. E sino a quando non sarò
più vecchio ancora, fino a quando i capelli grigi divenuti bianchi non
faranno grottesco che io parli d'amore anche a te, Duchessa, io darò
a te, Duchessa, tutto il mio amore, io chiederò a te tutto il sogno
d'amore, a te lampada, a te bambola, a te sola donna fra tutte le
donne, a te che sola puoi dare quel sogno d'eternità che è delle cose,
Duchessa, e non delle persone, che è delle bambole, Duchessa, e non
delle donne; chiederò tutto a te, infinita innamorata mia, a te che sei
donna solo a metà poichè più giù del busto non sei più che luce e più
giù del cuore altro non sei che fantasia.



Storia della Dama dal ventaglio bianco


Non c'era al mondo ventaglio più bianco e più grande di quello di
Madama Lu...

Cina, racconti e paesaggi cinesi, fantasie del Celeste Impero, nel
mondo dei favolosi incanti dove le donne son fiori e dove gli dei son
di porcellana, piccolo immenso mondo giallo fiorito di crisantemi
e di peonie, dominato da draghi e da vampiri, favole di lontananza
e d'impossibile, sotto cieli verdi e rossi, in giardini fioriti tra
salici e bambù, sotto il dominio di piccoli iddii multicolori d'Estremo
Oriente, favole d'un mondo vecchissimo e nuovissimo ancora...


RACCONTO CINESE CHE PUÒ SERVIRE DA PREFAZIONE.

_Madama Lu, bella signora cinese, era la sposa amante e riamata dal
signor Tao, giovine letterato d'Estremo Oriente. Sposi da pochi anni,
si amavano di tenerissimo amore ed eran felici, come solo in Cina
sanno esser felici i giovani e gli innamorati. Eran tutt'il giorno lì a
guardarsi, a parlarsi, a sbaciucchiarsi, per poi guardarsi, e parlarsi,
e sbaciucchiarsi di nuovo. Giuocavano all'amore come si giuoca a mosca
cieca per la gioia di perdersi e di ritrovarsi fra gli alberelli nani
del loro giardino. Ed erano nell'amore sicuro e lieto così felici che
ogni sera, prima di riposare, ringraziavano per tanta felicità i loro
Iddii verdi e rossi e i Dragoni di porcellana._

_Senonchè, nel fior dell'età, a ventiquattr'anni, il signor Tao venne
improvvisamente ad ammalarsi. Invano madama Lu gli prodigò tutte
le sue cure più affettuose, invano i medici più sapienti furono da
ogni parte raccolti a consulto. La scienza lo dichiarò spacciato. Si
disperò, madama Lu, e cercò di tener nascosta al suo adorato compagno
la terribile condanna che la lasciava vedova in così tenera età e in un
così felice amore. Ma il signor Tao fu chiaroveggente e comprese che la
sua fine era prossima. Solo per il suo amore gli dispiaceva di morire
e, povero signor Tao, non poteva sopportare l'idea di lasciare al mondo
madama Lu, nel fiore dell'età e della bellezza, perchè altri l'amassero
dopo di lui e avessero da lei quella felicità cui egli doveva, morendo,
rinunziare._

_Usciti i celebri medici, fu tra il signor Tao e la sua bella signora
la scena straziante dell'inevitabile separazione. E Tao disse a madama
Lu il suo dolore supremo: quello di lasciarla sola in mezzo alla vita._

_Nell'udir queste parole disperate, commosse e commoventi, madama Lu si
staccò dal suo sposo e corse a prendere i Dragoni di porcellana:_

_ — Giuro su tutti gli Dei — ella disse — che ti seguirò nella tomba!_

_E giurò. Ma Tao le tolse di mano i Dragoni di porcellana affinchè non
corresse il rischio di romperli inutilmente per un giuramento falso e
scosse il capo negativamente:_

_ — Non giurare mai quello — egli rispose — che tu sai di non poter
mantenere..._

_Docile, ubbidiente e ordinata — e sopratutto per prendere tempo
— madama Lu corse a rimettere a posto i Dragoni di porcellana. Poi
ritornò al suo sposo e gli disse:_

_ — Se gli Dei mi condanneranno a vedere ancora la luce quando tu, Tao,
non potrai più vederla, giuro che non prenderò mai un secondo marito e
che ti rimarrò sempre fedele..._

_Anche a questo secondo giuramento rispose l'incredulità di Tao che
continuò dapprima a scuotere negativamente la testa. Indi prese fra le
mani la bella fronte di madama Lu e, guardandola in fondo agli occhi,
con un malinconico sorriso, le disse:_

_ — Non giurar neppure questo perchè neppure questo sarà...._

_E madama Lu, non sapendo come poter consolare l'amato bene, si diè a
piangere disperatamente fra le braccia del signor Tao._

_Il quale signor Tao, essendo poeta, volle morire in piedi, nel suo
giardino, tra le peonie in fiore. E lì, nel piccolo giardino, tra gli
alberelli nani, nel morir del crepuscolo del giorno e della vita, il
signor Tao attese la morte mentre la diletta sposa gli faceva ogni
tanto, quasi per salutarle tutte, odorar le peonie ch'egli adorava. Non
reggendo a tanto strazio madama Lu, che aveva, come han tutte le donne
e quasi tutti gli uomini, bisogno di giurar sempre qualche cosa pur di
giurare, gridò al signor Tao morente:_

_ — Lasciami almeno giurare che per cinque anni non mi rimariterò..._

_Ancora il signor Tao sorrise scrollando il capo negativamente; e,
fissata madama Lu negli occhi, sempre più malinconicamente sorridendo,
le disse:_

_ — Non giurare neppure questo... Cinque anni sono lunghi._

_ — No, no, non sono lunghi... — aveva l'aria di dire madama Lu che
intanto riduceva il numero delle dita e degli anni nel giuramento: da
cinque quattro, da quattro tre, da tre due... E avrebbe ridotto a un
dito solo, a mezzo dito, a un anno, a mezzo anno, se il signor Tao, per
rispetto di sè, non le avesse coperto la mano..._

_Quando il sole tramontò, il signor Tao si sentì prossimo a morire e,
solo nel giardino crepuscolare, chiamò gente in suo soccorso. Madama
Lu fu la prima ad accorrere e il signor Tao, sollevatole il volto, la
guardò ben bene negli occhi e le disse:_

_ — Questo solo tu devi giurarmi, mia Lu adorata... Io non ti chiedo
di più... Ma tu devi giurarmi, per la mia pace che tu non bacerai altro
uomo finchè non sarà asciutta la terra che ricoprirà la mia tomba!_

_Madama Lu levò la testa, per giurare. Il signor Tao reclinò la
sua, per morire. E quando i famigliari accorsero nel giardinetto
crepuscolare, tra gli alberelli nani, non trovarono che Madama Lu
occupata a piangere disperatamente sul suo caro amore defunto._

_E, pochi giorni dopo, fedele al triste giuramento, madama Lu, reggendo
fra le mani il suo più grande e più bianco ventaglio bianco, piangeva
inconsolabilmente su l'immatura tomba del signor Tao ch'ella adorava.
E la terra appena smossa, che ricopriva il caro sposo, era tutta umida
sotto i suoi piedi._

Qui finisce la prefazione cinese e incomincia il racconto, buono per
ogni tempo e per ogni paese.


PARTE PRIMA


1.

Squilla una tromba nel vuoto silenzio del mare. Un marinaio, la mano
a berretto, offrendo con l'altra la sciarpa azzurra, s'è avvicinato a
Fiorvante appoggiato al bastingaggio. D'improvviso il giovane tenente
di vascello richiude il libro e la lettura della _Storia della Dama dal
ventaglio bianco_ si fermò qui, quel giorno. Rientra, Fiorvante, dal
mondo delle favole in quello della realtà. Non è più ora di leggere e
di sognare. È l'ora del suo «quarto di guardia». Riconsegna il libro
delle favole al marinaio. Cinge la sciarpa azzurra e va verso la
scaletta di sinistra a dare il cambio al suo compagno...


2.

Due alti e sottili vasi di cristallo nelle mani, venendo di corsa dalla
serra Mimì, Mimì gaia fioraia, entra correndo nel retrobottega del
suo magazzino di fiori. Tutti la conoscono, Mimì, nella piccola città
di mare, dove tutti i legni della squadra vengono, a periodi, a far
lunghi scali. È li, sul lungomare, il suo bel negozio tutto a vetrine
bianche con la bella scritta d'oro su la mostra: _Mademoiselle Mimì,
fleuriste_. L'ha ereditato dal padre quel negozio, ma l'ha fatto lei,
lei col suo assiduo e infaticabile lavoro, lei col suo spirito audace
e intraprendente, lei col suo garbo delizioso per cui comprar fiori
da lei è una delizia: viene voglia, ad entrar da lei, di non andarsene
più, tanto è carina, tanto è aggraziata, tanto è un fiore tra i fiori.
Perchè la chiamano Mimì? Come la sua graziosa amica di un'opera famosa,
non sa. Sa che l'hanno sempre chiamata così e che Ersilia — il suo vero
nome, che ella detesta — non l'ha mai chiamata nessuno.

— Ragazze, ragazze, meno chiacchiere e più lavoro...

E le ragazze che cinguettavano attorno ai due grandi tavoloni carichi
di cesti e di fiori fanno silenzio e si rimettono al lavoro con zelo
provvisorio.

— Domani c'è ballo a bordo della _Pisa_. Se andiamo avanti così i
trenta festoni non saranno mai finiti per domani a mezzogiorno...

E gira Mimì correndo, sorridendo, lieve, leggera, aerea, tutta azzurra
e bianca nel suo vestitino di tulle a grandi _volants_, gira da una
ragazza all'altra, e qui loda, là rimprovera, qua insegna, lì corregge,
maestra floreale che giuoca coi fiori come un pittore coi colori, come
una ricamatrice coi fili d'oro del suo ricamo.


3.

Scende lenta e grave la sera sul mare e sul porto. Le grandi navi
ancorate divengono, sul cielo violaceo, grandi masse nere, profili di
velluto intagliati su le sete del crepuscolo. Qua e là s'accendono, sui
bastimenti, le prime luci. Laggiù in fondo, all'orizzonte, il sole,
quasi tutto scomparso, non è più che un filo d'oro sul ciglio della
collina.

Qua, là, a destra, a sinistra, vicino, lontano, squillan le trombe
sui bastimenti e avanzano sui ponti i drappelli di guardia, le armi
al braccio. Venendo di qua, di là, si radunano a poppa, attorno ai
comandanti, gli ufficiali. È l'ora dell'«ammaina bandiera». Ed ecco
che di nuovo le trombe squillano. Gli ufficiali prendon l'attenti e
si scoprono. I drappelli presentan le armi e la bandiera sventolante
a poppa comincia a discendere, come un uccello che chiude le ali e
precipita...


4.

Mimì è distratta. Non lavora più come prima. Se una ragazza le chiede
un consiglio, glielo dà breve, secco, di malavoglia. Il suo spirito è
altrove. Assortendo il colore di due garofani, agganciando due rose,
Mimì guarda ogni tanto il piccolo orologio d'oro al suo polso. È l'ora
che ogni giorno il suo innamorato, il bel tenente di vascello Filippo
Ardea, viene a prenderla per andare insieme a pranzare e a passar la
serata... L'aspetta tutt'il giorno, Mimì, contenta, felice... Ma come
diventa melanconica, scorbutica, irritata, quando l'ora si avvicina...
Come la snerva quell'ultima mezz'ora di attesa così lenta a passare...


5.

Ed è sul molo, dalle imbarcazioni a vapore o a remi che, grosse,
piccine, agili o pesanti, lente o guizzanti, giungono a centinaia
dai bastimenti, è sul molo dove già s'accendono i primi fanali, una
continua ondata d'uniformi bianche che vien dal mare e dal mare galoppa
verso la città su per le ampie gradinate dello scalo. Son barconi
carichi di marinai. Son lance eleganti piene d'ufficiali.

— Fiorvante!

— Ardea!

Due voci, due sorrisi, due mani levate e un abbraccio. Scendendo ognuno
dal suo bastimento i due ufficiali, i due amici, si sono incontrati...

— Dove sei?

— Su la _Saint-Bon_. E tu?

— Comando una torpediniera. Un anno d'Estremo Oriente. Son qui da tre
mesi. E tu?

— Io sempre fermo. Fra Taranto e Spezia.

Due vecchi camerati che si vogliono molto bene, due compagni di corso
all'Accademia, gl'«inseparabili» quand'erano imbarcati insieme. Ora,
nella gioia di ritrovarsi, si dicono mille cose. E Ardea:

— Poichè ci siamo ritrovati, non ti lascio scappare...

Ha preso Fiorvante per il braccio e s'avvia con lui verso la città,
lungomare, in un gruppo d'amici e di compagni.


6.

Mimì non regge più. Si leva, va alla vetrina, guarda, torna a sedersi,
guarda ancora l'orologio, torna a levarsi, rivà alla vetrina, riguarda
di nuovo... Ma non viene ancora... Dove, dove sarà?

Ansia di rivederlo? Impazienza d'innamorata? Anche questo. Ma,
sopratutto, preoccupazione. La piccola perfida lettera anonima le ha
messo da due giorni il veleno nel sangue. L'ha lì nel seno. Non sa
staccarsene e sempre la rilegge...

«Badate a Filippo Ardea se l'amate. Un'attrice, una bella attrice
d'operette, che è stata l'anno scorso la sua amante, è su la piazza. E
c'è pericolo di ripresa. Badate: Flora Fleurette minaccia la felicità
di Mimì. Nulla piace di più a certe donne che riprendere un antico
innamorato quando questo è innamorato di un'altra. E gli uomini son
così stupidi e così vani che si lasciano sempre prendere da chi li
vuole. Occhio a Filippo, Mimì mia bella...».

Così ha scritto a Mimì _Un lupo di mare_... Cattivo lupo di mare che
le ha avvelenato la vita, da due giorni... Vorrebbe averlo lì, Mimì,
il «vecchio lupo di mare», per rompergli sul muso tutti quei vasi di
fiori, per impedirgli di dire e scrivere ancora altre sciocchezze...

Sciocchezze? Son poi veramente sciocchezze?... Che Flora Fleurette sia
su la piazza, è vero... Che l'anno scorso Filippo sia stato l'amante
di Fleurette è noto a tutti ed era noto anche a lei prima che se ne
innamorasse... Ma l'ha rivista, ha cercato di rivederla?... Questo è
il punto oscuro. Non ha osato interrogare Ardea. Lo sa bene: Ardea
non vuole gelosie. Qualche volta che Mimì è stata gelosa Ardea s'è
divertito a farla soffrire di più, l'ha provocata... Gliel'ha detto e
ridetto: «Lo faccio apposta, per educarti.. Detesto le donne gelose...
Ed io voglio poterti adorare...»

Ma perchè non viene? Perchè non s'affretta? Se venisse sùbito a
prenderla, appena disceso dal bastimento, il suo povero cuore in pena
avrebbe pace, potrebbe fidarsi... E invece, così, con questo ritardo...
Dov'è Fleurette? Dov'è Filippo?... Che fa, che fa, e perchè non
viene?...

E Mimì si leva, va alla vetrina, guarda, torna a sedersi, guarda ancora
l'orologio, torna a levarsi, rivà alla vetrina, riguarda ancora...
Dove, dove sarà?...


7.

E Ardea seguito dagli amici vien giù pian pianino, per il lungomare, a
braccetto con Fiorvante, parlando di bastimenti e di paesi, di compagni
e di donne, di ricordi e di speranze.

Ora Fiorvante si sofferma:

— Ma di qui dove mi porti? Io vado a pranzo al Circolo.

E Filippo, trascinandolo a forza:

— No. Tu vieni a pranzo con me. Andiamo a prendere la mia innamorata
che mi aspetta e che mi adora e passeremo insieme una serata di quelle
buone.

Fiorvante è riluttante, ma Ardea non sente ragioni e conviene lasciarsi
trascinare.

— Mimì, la fioraia del lungomare... La conosci?... No? La vedrai. È un
amore. Ed è il mio amore...

— Da quanto tempo?

— Da quattro mesi.

— E per quanto tempo?

— Per l'eternità.

E Fiorvante sorride perchè non crede all'eternità dei marinai. E, nei
riguardi dell'eternità d'amore, tutti gli uomini son marinai...


8.

— Eccolo! Eccolo!

Mimì, ch'era a guardar dalla vetrina, l'ha visto. È saltata giù dalla
sedia dov'era arrampicata, abbassa i cristalli delle vetrine, alza le
tende, mentre grida alle sue lavoranti:

— Eccolo! Ragazze, ragazze!... Fiori, fiori, e venite qui, venite
qui... Facciamoli arrivare sotto una pioggia di rose...

Ed è nel negozio un andare e venire, un correre, un affannarsi, tra
risa e grida, e tutte le ragazze son lì, attorno a Mimì, arrampicate
su le sedie, armate di rose, per la battaglia, fino ai denti... Fino
ai denti veramente perchè, già piene le mani, per averne di più, hanno
anche rose in bocca, tra le labbra, fiori bianchi fioriti in un fiore
rosso.

— Eccoli! Eccoli! Padrona, tiriamo?

E Mimì fa cenno d'aspettare:

— Ferme! Ferme! Quando saranno più vicini...

E aspettano. E il gruppo bianco degli ufficiali si avvicina. E...

— Via...

E la prima rosa bianca di Mimì va diritta, lanciata giusta, sul cuore
di Ardea. Sùbito le altre rose partono, volano, cadono, a pioggia. E
Mimì ne lancia, ne lancia, prima una alla volta, poi due, poi tre, poi
a fasci... E le ragazze incalzano... E gli ufficiali, ridendo, agitando
i berretti, lanciando baci e sorrisi, rispondono al fresco fuoco...
La battaglia è formidabile — e deliziosa. Il leggero fuoco è tremendo,
senza tregua!

Ora Mimì corre ai rifornimenti. Ma fiori non ce ne son più... Sì, ce
ne sono ancora... Ecco due bei fasci di rose. Ma una ragazza ferma Mimì
nell'atto di lanciarle:

— Padrona! Son quelle artificiali... Costan cinque lire l'una...

Ma Mimì risponde con una spallucciata. Che importa? Costassero pure
cento, che importa?... E lì, nella vetrina, fa schermo e portavoce
della mano alla bocca e grida:

— Questo... per l'ufficiale che non conosco!

E, giù — che tiro! — il fascio delle rose artificiali è sul petto e poi
nella mano di Fiorvante che risponde levando il berretto e sorridendo
in un leggero inchino. Gli altri compagni d'Ardea Mimì li conosce
tutti: son gli amici di lui e però sono gli amici suoi... Ma ha notato
quello che non conosce, quello che Ardea tiene per il braccio...

La battaglia di fiori continua. Ma ora è l'assalto. Gli ufficiali
voglion la resa della fortezza floreale, gli ufficiali vogliono, ad
ogni costo, entrare. E Mimì grida:

— No... no... Chiudete... Giù le saracinesche... Se entran qui dentro
siam rovinate... Mettono tutto a soqquadro.... Chiudete...

E in un fragore di ferri le saracinesche s'abbassano su le mani degli
ufficiali che tentano d'impedirne la discesa. Anche la porticina
d'entrata s'è chiusa e s'è poi socchiusa appena per lasciar entrare
Ardea e Fiorvante, mentre le ragazze, ridendo, felici, uccellini
ch'escon di gabbia, son volate di là, nella serra, a vestirsi...

Ardea ha presentato Fiorvante. Mimì china il volto in un sorriso, uno
di quei suoi grandi sorrisi luminosi che sono tutta la giovinezza. E
Ardea spiega:

— Ha voluto venire a ringraziarti...

Fiorvante, che s'inchina, ha fra le mani il mazzo di rose che Mimì gli
ha gettato. E Mimì lo guarda, l'aria contrita:

— Ma mi dispiace... Sono artificiali... Non hanno odore...

Ma ancora il bel volto s'illumina. Un'idea pazza le frulla nel
cervello. Corre in fondo, a un armadio, e torna con una bottiglia di
profumo:

— Ma ce ne metteremo uno... Il mio!

E giù, su le rose di Fiorvante, tutta la bottiglia. E giù a ridere, a
ridere, a ridere... e, gettata la bottiglia, a batter le mani, felice,
felice, felice perchè Filippo è venuto, felice perchè ora a Fleurette
ella non pensa più, felice perchè Filippo è dietro di lei a offrirle il
cappello, a reggerle il mantello affinchè lo indossi...

— Andiamo?

— Andiamo. Ma viene anche lui?...

E Mimì indica Fiorvante che sorride dicendo di sì... E le ragazze
escono, nasini all'aria, sorrisi al vento, cappellini su le ventitrè:

— Buona sera, padrona. Buona sera, padrona.

E Mimì:

— Addio, cara... Addio, cara... Addio, cara...

E tira baci a tutte. A chi non tirerebbe fiori e baci Mimì, tanto è
felice?.. Ed eccola fuori del negozio, tra Ardea e Fiorvante, mentre
le ragazze continuano a uscire e gli ufficiali cingon loro la vita, il
sorriso e il complimento su le labbra, la mano audace:

— Addio, Maria, fiore di notte tanto sei bruna...

— Addio, Ninetta, fiore di pesco tanto sei rosea...

E Ardea ferma un'automobile e vi fa salire Mimì, Fiorvante e quattro o
cinque amici... E lui avanti, accanto allo _chauffeur_:

— Lasciate me alla Croce di Malta e andate a pranzo.

E Fiorvante domanda:

— Come? Ci lasci?

Ma sùbito Mimì spiega:

No. Ci raggiunge sùbito. Va al suo albergo a vestirsi in borghese.
Non sapete che Filippo è un ballerino impenitente? Non farebbe altro
dalla mattina alla sera. E va a mettersi in borghese per ballar dopo
pranzo...

Giunti alla Croce di Malta un'inquietudine riprende Mimì nel veder
discendere Filippo. Verrà sùbito? Non andrà da Fleurette? Non abita
anche Fleurette in quell'albergo?... Come mai — stupida che non è
altro! — non ha pensato ad informarsi?...

— Fa' presto. Noi ti aspettiamo...

Ma Filippo non vuole. No. Vadano avanti loro per riservare la tavola.
Verrà sùbito, in carrozza... Ma non può vestirsi con l'idea che gente
l'aspetta giù... Mimì vuole insistere e insiste:

— Ma noi...

— No. Ho detto no.

Così è, Filippo. E non c'è che fare. Ha già girato sui tacchi, del
resto, ed è già entrato di corsa nell'atrio dell'albergo mentre, levato
il debraio, l'automobile riparte...

Ed ha una pena, Mimì, una così gran pena che le vien voglia
di piangere... E Fiorvante la guarda. Sente, Mimì, lo sguardo
dell'ufficiale... Leva gli occhi su lui in un sorriso che non
sorride... E Fiorvante vede gli occhi di lei pieni di lacrime che non
sono un pianto, ma che sono un infinito amore e un po' di melanconia...


9.

Come strepitano i «ragazzi» — gli amici di Mimì e di Ardea — per
gridar che hanno fame e che bisogna cominciare a mangiare senza far
complimenti... E Ardea, Ardea che non viene... È snervata, Mimì,
irosa contro sè, contro Ardea, contro tutti, anche contro quel povero
Fiorvante che conosce appena da mezz'ora e che per un'improvvisa
simpatia ha voluto farsi seder vicino... Mezz'ora che l'hanno lasciato
alla Croce di Malta e Ardea non viene ancora...

Gelosa? No, snervata, irritata... Gelosa non può essere. Flora
Fleurette è lì, proprio lì, a due passi da lei, al tavolinetto accanto
alla grande tavola ch'ella presiede, alla sua gran tavolata di begli
ufficiali. Flora Fleurette è intenta a pranzare, accanto a quel signore
pacifico e calvo che mangia un piatto di patate _soufflées_, alto come
una piramide. Chi è? Il nuovo amante? L'impresario? Non sa... A dir la
verità, non si guardano, non si parlano. Mangiano, estranei. A vederlo
così parrebbe proprio un marito. Ma è forse donna da mariti una Flora
Fleurette?

Mimì non l'ha vista entrare. In mezzo alla folla del grande
_restaurant_ a mare dove è enorme il fragore delle stoviglie dominante
anche il tumulto delle voci e dell'orchestra, in mezzo allo stordimento
delle parole degli amici suonanti vuote di senso attorno a lei tutta
assorta nel pensiero dell'assente, Mimì non ha veduto entrare Flora
Fleurette, cercare una tavola e sedersi lì accanto a lei, alla medesima
tavola del signore delle patate _soufflées_. A un tratto, voltandosi
per la centesima volta a cercar con gli occhi Filippo verso le porte
d'entrata, se l'è vista lì accanto, in atto di rosicchiar tranquilla
la polpa d'un roseo gamberetto. S'è sentita stringere il cuore.
Proprio lì, quella detestabile donna... Che direbbe «lupo di mare» se
gliela vedesse lì accanto, a portata di mano, a portata d'un solenne
ceffone?...

Cerca, Mimì, di non pensarci, di distrarsi... Ma ecco, si volge e Ardea
è lì, che entra, tutto elegante — come e quanto elegante! — nel suo
_smoking_ perfetto, adorno all'occhiello d'una bella cardenia. Come gli
sorride. Mimì, da lontano, e come lo aspetta, vicino... Ma, ahi... Deve
passar tra le tavole, deve ora passare accanto a Flora Fleurette... e
vederla... Ah, se potesse prendere il passaggio di destra, in modo da
evitarla, da non vederla... Come batte il cuore di Mimì!... Ma — che
dolore! — Ardea prende invece il passaggio di sinistra (forse l'ha
vista! certo l'ha vista!) ed eccolo vicino alla tavola di Fleurette,
eccolo davanti, e peggio, peggio, ecco che si ferma, le dà la mano,
le sorride, s'indugia, a parlare con lei, con l'odiatissima donna, una
mano poggiata su la tavola, l'altra su la spalliera della sedia di lei,
così in dentro, così in dentro che quasi ne sfiora — ah! l'aborre...
— il _décolleté_... Ardea parla tranquillo e galante con Fleurette.
Mimì guarda e freme. Fiorvante ha visto, ha capito e ride. Prende
affettuosamente una delle piccole mani agitate che stritolan mollica di
pane a tutto andare, sventrando in due colpi un panino.

— Siete gelosa? le chiede Fiorvante. Avete torto. È un modo sicuro di
soffrire inutilmente...

Ma sì... Belle prediche! Invece di parole inutili Mimì vuol da
Fiorvante qualche cosa di necessario, d'urgente: vuole un foglio di
taccuino, un lapis... E scrive. Scrive così: «La buona educazione ti
dovrebbe consigliare di non farti aspettare quando tutti sono a tavola.
E, se la tua amica così ossigenatamente bionda ha tante cose da dirti,
potevi fare a meno di venire con noi. Siediti lì. Al suo tavolino. C'è
posto anche per te».

E Mimì ha gettato il biglietto, per gettarlo ad Ardea. Ma, quand'è
gelosa e nervosa, non tira i biglietti al suo amante con la stessa
precisione di mira con la quale sa tirargli le rose quand'è contenta.
Così il biglietto è andato a cadere nel piatto di Fleurette, tra l'ala
di piccione e il risotto. E Fleurette l'ha mostrato, ridendo, ad Ardea,
ad Ardea furibondo che fulmina Mimì con un'occhiata. Risposta? Risposta
non ce n'è. Ardea rimane ancora alla tavola di Fleurette per far ben
bene vedere a Mimì che scene di gelosia non ne tollera. E Fleurette ve
lo trattiene per far ben bene vedere a Mimì che lei invece le scene di
gelosia le adora, tanto che le piace, in ogni modo, di provocarle...
Gli uomini che non le conoscono credono che le donne si divertano ad
amare gli uomini. Quante donne si divertirebbero sul serio ad amare un
uomo se amarlo non facesse dispetto ad un'altra donna? Nella donna,
novanta volte su cento, l'amore è un pretesto per un altro scopo. E
così Fleurette par che muoia d'amore mentre dice ad Ardea:

— Pranzate qui con me... Sono felice di rivedervi... E alla vostra
amica una lezioncina starà bene... Dovete farvi rispettare...

E Ardea accetta, sino a un certo punto:

— No. Siedo. Ma non pranzo. Siedo per stare con voi e per darle la
lezioncina che merita. Poi andrò. Gli amici mi aspettano.

Naturalmente Mimì non ha udito quelle parole. Ha solo veduto il gesto
di Fleurette che invitava il giovane a sedere ed ha veduto questi
sedersi. Seguiva prima il colloquio strappando a due a due le foglie
d'una grossa rosa rossa con le sue leggere dita di fioraia. Quando
ha visto Ardea sedersi — ahi, che tuffo di sangue alla testa! — ha
strappato tutte le foglie insieme, con una violenza da facchino. I
colpevoli son due: Fleurette e Ardea. Ma l'equità nervosa di Mimì
sfoga su una terza persona, innocente: il quieto signore delle patate
_soufflées_.

— Io vorrei sapere quell'altro... quell'imbecille... che ci sta a fare!

L'imbecille non fiata: una patata dopo l'altra, abbassa lentamente
la piramide. I due continuano a filare in sordina, per far dispetto,
tutt'e due, e ognuno a modo suo, a Mimì... Mimì beve, beve, e ribeve.
Cerca invano, Fiorvante, di calmarla. Ma sì... Una pila! Ora Mimì ha
guardato la rivale con una mossettina sprezzante delle labbra e chiede
a Fiorvante:

— Vi pare forse più bella di me?

Fiorvante scrolla il capo... Nemmeno per sogno... E Mimì beve,
beve, beve... e mette, fra un bicchiere e l'altro, certe risate che
scudisciano la rivale sul viso imbellettato...

— Guardate, dice Mimì a Fiorvante, ad alta voce, affinchè l'altra
possa sentirla. Guardate. Tiene sempre gli occhi socchiusi... Sfido: le
palpebre e le ciglia le pesano: con tutto quel nero...

L'altra comincia a sua volta a snervarsi. Ora picchia, prima piano, poi
più forte, col coltello sul piatto.

— Ah, mi dà ai nervi con quel coltello!

È Mimì, che si tappa le orecchie. Ma poi ci ripensa ed è lei che le fa
tappare agli altri. Se Fleurette picchia il piatto con un coltello,
Mimì lo picchia con due; se l'altra picchia forte, Mimì picchia
fortissimo. Mimì non è donna da restare mai indietro. E, poichè l'altra
rincalza e rinforza, Mimì va sempre più forte in un crescendo che
può dirsi rossiniano, ma non nel senso che sia melodico, dai tavolini
accanto la gente, assordata, comincia a protestare. Un _maître d'hôtel_
accorre presso Mimì, ma Mimì indica l'altra:

— Non sono io... È la signora...

E ricomincia. Ricomincia tanto forte che il piatto si spezza... Un
grido di soddisfazione si leva dai tavolini accanto. Anche l'altra ha
dovuto smettere perchè ora il _maître d'hôtel_ è da lei ed ella deve
spiegare:

— Io?... Io no... È quella signorina...

Quieto e beato, nel tumulto, il signore calvo continua a mangiare
patate _soufflées_. Di tanto in tanto un suo sguardo rassegnato, mentre
una nuova patata va in bocca, va a posarsi sui due che ora, riempiti
di _champagne_ i bicchieri, fanno un brindisi con due sorrisi che tiran
gli schiaffi. Mimì fa cenni disperati e grida prima a Fiorvante, poi al
signore:

— Ma quell'idiota... Sì, sì, lei, lei, venga qui...

Il signore delle patate _soufflées_ s'è visto chiamare e, levatosi, è
ora inchinato vicino a Mimì che gli domanda:

— Scusi: non potrebbe dire alla signora che è con lei...

Ma risponde a Mimì il più innocente sorriso:

— Le direi tutto quel che lei vuole... Sono anch'io stomacato... Ma la
signora non è con me... È al mio tavolino perchè non ha trovato altri
posti...

S'inchina e torna alle patate _soufflées_. Mimì ride un istante, per
l'equivoco... Ma il riso le si spezza in gola. Fleurette, con la coppa
in mano, è ora così vicina col volto al volto di Ardea che quasi ha
l'aria di baciarlo: certo, almeno, lo bacia con l'intenzione... Ma
l'intenzione dà terribilmente sui nervi di Mimì che spezza su la tavola
il suo bicchiere e, saltata su in piedi, grida:

— Scimmia ossigenata, la finisca!

Come andrà a finire? Fleurette l'ha tirata pei capelli e coi capelli
dovrà finire, e finisce, infatti, quando per i capelli l'acciuffa
d'improvviso Mimì, con un colpo magistrale in due tempi che prima le
manda per aria il cappello e poi le prende in pieno la capigliatura...
E giù, e su, e qua, e là, Mimì comincia a tirare... E tira, tira, tira
quei capelli come fossero corde di bastimenti. Ma anche Fleurette,
passato il primo smarrimento, lotta da par sua. Raggiunge anche lei
il cappellino e i capelli di Mimì e giù a tirare anche lei che è uno
spettacolo... Spettacolo al quale il pubblico s'appassiona coi più
manifesti segni di simpatia per Mimì che picchia più nudrito e più
sodo... Certo son così strette, le due donne, che Ardea, Fiorvante
e altri amici non riescono a separarle o ci riescono quando le due
donne non hanno più un capello in testa che non sia dolore... Allora
Fiorvante e gli amici s'affrettano a portar via Mimì verso l'uscita...
E all'uscita Mimì arriva, nella détente, più morta che viva... Lì,
all'uscita, aprendosi un varco nella ridente folla dei curiosi, Ardea
riesce a raggiungere Mimì, ad afferrarle violentemente un braccio e ad
avventarle a bassa voce sul volto queste parole:

— Bada! Da stasera, dopo quanto hai fatto, tutto è finito fra noi...
Non ti conosco più...

E Ardea risale tra la folla. E Mimì lo guarda coi suoi grandi occhi
spauriti e smarriti. Ed ha ancora il tempo, mentre quasi di peso la
portano fuori, di vedere Ardea tornare a Fleurette che si ripettina,
cingerle la vita col braccio e partir con lei verso la grande pedana
dove, a pranzo finito, già si muovono le prime coppie all'eco d'un
voluttuosissimo _tango_...

Di quel finimondo che cosa è rimasto nel _restaurant_ a mare? Nulla.
Lì, sul tappeto, qualche capello biondo e bruno, qualche rosellina o
qualche pennetta di cappelli... Poco male. Ma anche lì, a terra, sotto
i piedi di Ardea e di Fleurette che ballano, è rimasto il cuore felice
di Mimì... Di Mimì che sta tanto male.

Tanto male che può appena camminare... Gli ufficiali l'hanno lasciata
sola con Fiorvante e sono ritornati nel _restaurant_ alla ricerca
di Ardea. Un'automobile passava e Fiorvante vi ha fatto salire
Mimì per riaccompagnarla a casa. Ma, non appena seduta, Mimì s'è
rovesciata piangendo su la spalla dell'ufficiale. Questi, dolcemente,
pietosamente, la lascia piangere e le passa una mano nei capelli:

— Gli volete molto bene?

Mimì, senza levare il volto per rispondere, dice col capo di no, di
no...

— Gliene volevo... Ma ora non più...

E piange, e piange... E Fiorvante continua a carezzarle i capelli
mentre sorride d'incredulità...


10.

Gli ufficiali son ritornati al _restaurant_. Tra un giro e l'altro
hanno fermato Ardea:

— Va da Mimì... Poveretta... È pentita...

— No... No... Non mi parlate mai più di lei, dopo quello che ha fatto...

— Lo ha fatto per amore...

— Amore un corno!...

E Ardea picchia così forte un pugno sul tavolino che il signore delle
patate _soufflées_ resta con mezza patata in aria mentre metà della
gialla piramide unta e bisunta vacilla e crolla...

— Su, via, decìditi... Vieni... Ti aspetta...

Ma Filippo alza le spalle e tende le braccia aperte a Fleurette che
continua a riordinarsi i capelli davanti allo specchio, piano piano,
come facesse l'appello degli assenti:

— Fleurette, un altro _tango_...


11.

Nella sua piccola casa sul mare, tutta grazia e leggiadria, quanto,
quanto ha pianto Mimì, per circa due ore, su la spalla di Fiorvante
che, affettuoso e silenzioso, le ha fatto raccontare tutto, tutto...
tutto quello che Fiorvante non sapeva e non imaginava, tutto quello che
Fiorvante è venuto a sapere spalancando gli occhi ed il cuore...

— Vivo del mio negozio, io, del lavoro che il mio papà mi ha insegnato
e mi ha lasciato... Sono una ragazza per bene, io... E lui ha potuto
offendermi per una donna come quella...

S'è levata. Ha preso su una mensola la fotografia di Filippo con tanto
di dedica: «A Mimì, con tutt'il mio cuore, per tutta la vita».

— Tutta la vita! E non son quattro mesi... E dovevamo sposarci...

S'è chinata per aprire l'ultimo cassetto d'uno stipo dal quale ha
tratto un velo bianco e una coroncina nuziale di fiori d'arancio:

— Avevo anche avuto l'ingenuità di farmi comprare da lui il velo da
sposa... Mi sembrava di buon augurio...

S'è messo il velo attorno al capo e la coroncina su la fronte. E ha
guardato Fiorvante così, malinconici gli occhi ma fiero lo sguardo:

— Perchè così potevo sposarlo... Come una ragazza per bene... Non ero
mica la sua amante, io!...

E, disperata, si strappa dal capo la coroncina ed il velo e fa questo
a brandelli, lacerandolo coi denti, con le mani... Ha pietà, tanta
pietà, Fiorvante, nel suo vecchio cuore sentimentale, a vederla così
disperata, schiantata... Ha tanta pietà e tanta simpatia... E, poichè
veder soffrire è spesso una buona occasione per cominciare ad amare,
Fiorvante, sollevandola da terra dove s'è rovesciata con le sue lacrime
e il suo velo a brandelli, già la chiama, teneramente, per la prima
volta:

— Mimì...


12.

Gli amici hanno rinunziato a ricondurre Filippo da Mimì. Balla con
Fleurette _fox-trots_ e _fox-trots_, _tanghi_ dopo _tanghi_ e Fleurette
gli sorride come non gli ha mai sorriso. Così Filippo è ripreso.
Sottile veleno della sigaretta riaccesa, dell'amore che ricomincia...

— No, no, non ho ancora finito! tuona una voce.

Ed è il quieto calvo signore che ferma con la voce e col braccio
l'imprudente mano d'un cameriere che voleva portargli via il piatto
delle patate _soufflées_ che è appena, dopo due ore, a poco meno della
metà...


13.

C'è luna nel cielo e pace su l'acqua. La sera è tutta profumi. E Mimì
e Fiorvante sono discesi nel piccolo giardino. Vibran piccole luci da
per tutto: le stelle nel cielo, piccole lame d'argento su l'acqua,
lucciole d'oro nelle siepi e tra i rosai. Luci anche splendono sui
grossi bastimenti ancorati nel porto: e sembran catafalchi di giganti
giganteschi attorno ai quali la città con le sue luci d'oro ha acceso
tutt'un'architettura di ceri.

Sono appoggiati alla balaustra, Mimì e Fiorvante. Questi solleva il
volto della fanciulla e le dice:

— È il vostro primo dolore d'amore... So che cosa vuol dire soffrire.
Ho tanto sofferto anch'io per l'amore...

Appoggiato al davanzale cerca laggiù, sul mare, tra catafalco e
catafalco, i suoi grandi sogni morti, le sue speranze e i suoi ricordi.
Ora è Mimì a guardarlo, è Mimì che solleva con la punta di due dita la
fronte di lui:

— Voi siete così diverso da lui... dagli altri... Voi dovete saper
volere tanto... tanto bene...

Fiorvante prende fra le sue le piccole mani gelate di Mimì. Le bacia.
Attira a sè la fanciulla. La guarda, la guarda... Ma non osa parlare.
E poi, con la voce che gli trema:

— Sì, le dice, so volere molto bene, io... E mi par già di cominciare
a volervene...

La bimba arrossisce e abbassa gli occhi. Trepidamente Fiorvante chiede,
bassi gli occhi e bassa la voce:

— E voi?... E voi?...

E Mimì risponde... Risponde abbassando gli occhi sempre più, sempre
più, ma con un lieve cenno del capo che dice: sì, sì... Fiorvante le
ha preso ancora le mani. Fa per riportarle alle sue labbra. Ma poi si
ferma e, passata un'ombra sul suo volto, le abbandona:

— No... no... Vi par così, stasera... Ma voi tornerete ad amar lui,
domani...

E Mimì dice ancora col capo di no, di no... Ma Fiorvante non vede.
Ha i gomiti su la balaustra, la fronte nelle mani, gli occhi laggiù
tra nave e nave, tra catafalco e catafalco, a cercare tra i grandi
sogni morti... Quante, quante volte ha sognato così?... Quante
volte ha scambiato per una promessa di lunga fede sicura, per il
giuramento fedele di tutt'una vita la breve speranza che l'ora o il
luogo mettevano, per un momento di bontà, nel cuore di una donna?...
Menzogne, illusioni... Sogni, grandi sogni morti, laggiù, nella notte,
in fondo al mare...


14.

In automobile — carica quella povera macchina da far pietà... —
gli ufficiali sono andati alla casina di Mimì per consolarla, per
salutarla, per darle la buona notte e riprender Fiorvante...

E son lì, lungo il muretto di cinta del giardino, a guardar due ombre
— Mimì e Fiorvante — intagliarsi, piccole sagome nere nel controluce
della chiarità plenilunare...

— Guardali... Son lì... Piano... Avanti... Di sorpresa... Senza farci
sentire...

E via, leggeri, a dare la scalata al muretto tutto coperto e odorante
di gelsomini, via su per le scalette a mare della casina di Mimì, in
fila indiana, in punta di piedi, per non essere visti, per non esser
sentiti...


15.

E ora Fiorvante ha preso una mano di Mimì e l'ha portata alle labbra.
Son lì, appoggiati tutt'e due alla terrazza a mare dal parapetto
coperto d'edera, spalla contro spalla, testa contro testa, già cuor
contro cuore...

— Vi ho voluto bene fin dal primo momento che vi ho veduta, dice
Fiorvante a Mimì, fin da quando mi avete tirato il mazzo di rose...

E la mano di Mimì restituisce la stretta. E la voce di Fiorvante si fa
più grave, più dolce e la pressione della mano è più forte:

— Affidatevi a me, mia piccola amica, in questa prima ora di dolore...
Affidatevi a me... Io non sono di quelli che cambian d'amore come
cambian di casa...

Ha appoggiato, Mimì, il capo su la spalla di Fiorvante, senza parlare,
la mano abbandonata, tutta l'anima tutta offerta.

E gli ufficiali son dietro di loro, non veduti, non sentiti. Una voce
sussurra:

— Ahi!

Han veduto i due, stretti, uniti... E l'ufficiale che ha dato
l'allarme si volta per far cenno ch'è il caso d'un rapido e discreto
_dietro-front_... Ed ecco che ancora più in punta di piedi, in fila
indiana, per non esser veduti, per non esser sentiti, gli ufficiali
rivanno via, giù per le scalette della casina a mare di Mimì, verso il
muretto di cinta tutto coperto e odorante di gelsomini... Scavalcato
questo, tornati su la strada e nell'automobile che rifila via per il
lungomare bianco di luna, uno degli amici esclama per tutti:

— Ecco fatto. Consolata!

E ridono. No, ragazzi, non è consolata, Mimì. È inconsolabile, anzi,
Mimì. Se è lì, su la terrazza, la mano nella mano di Fiorvante, non
cerca ella stasera un innamorato nuovo al posto di quello che l'ha
abbandonata. Cerca un cuore che la comprenda e che col dolore altre
volte provato faccia eco al dolore ch'ella prova per la prima volta.
Cerca un braccio cui appoggiarsi, una mano in cui affidarsi. Cerca
sopratutto di non esser sola questa sera tanto è disperata. Perduto il
suo amore, cerca un amico. E questo amico è lì, accanto a lei, ed ella
sente che questo amico d'una sera saprà essere l'amico d'una vita.

Ma Mimì è bella e la notte è notte d'amore. Cinge Fiorvante la vita
di lei e fa per attirarla a sè. No. Mimì non vuole. Mimì si scioglie.
Mimì non vuole gesti, non vuol parole. Vuole che nel suo immenso dolore
una presenza accanto a lei le dica che non tutto, non tutto è finito
anche se l'amore, che doveva essere eterno due ore prima, è, da un'ora,
finito per sempre...

C'è tutt'il plenilunio in quelle due lacrime d'argento che scendon giù
dai grandi occhi di Mimì in quell'ora di tristezza in cui è doppia la
malinconia: malinconia di qualche cosa che muore e malinconia d'una
cosa che nasce.

Quale più grande, fra le due?


16.

E, al _restaurant_;

— Ancora questo _tango_, Fleurette, e poi andiamo...

E il quieto signore calvo delle patate _soufflées_ prende
religiosamente, con due dita, l'ultima patata. Tre ore a tavola: una
piramide di patate _soufflées_ e lo stomaco per contenerla.

Chi di voi più felice, mio signore?


PARTE SECONDA


17.

— Il passo di _Schéhérazade_... No, quello di Carnaval... No, quello
del _Principe Igor_: il passo degli arcieri...

E la piccola ballerina, indecisa fra tanti consigli, si decide; e, su
la stuoia ai piedi del terrazzo, snodata, piegata, le braccia conserte,
accenna un passo dei balli russi...

Un ufficiale parla piano a un compagno:

— Guardalo. È tranquillo, sereno. Fleurette è partita. Mimì è perduta
per lui. E lui ha l'aria d'infischiarsene, come se non avesse mai amato
Mimì... E non sono quindici giorni!

Ora, cessato il ballo russo con un capitombolo della ballerina male
addestrata, Ardea si fa avanti e tende le mani a Mimì per invitarla a
ballare. Mimì s'è levata ed è fra le braccia di Ardea che si rivolge
agli amici e alle amiche, chitarristi e mandoliniste, ordinando:

— Il valzerino della _Fanciulla del West_...

E incomincia a ballare con Mimì mentre gli altri li seguono danzando e
battendo il tempo a suon di mani:

    _Ma quel che tu mi taci_
    _me lo dice il cuor..._

Non tace Ardea, ballando. Avventa parole brevi, febbrili, nel piccolo
orecchio di Mimì:

— Io ti amo ancora... Io ti voglio ancora...

E la stringe, la stringe... E Mimì cerca di liberarsi... E Fiorvante,
in un angolo, guarda, mordendosi il labbro, bianco di gelosia. Ma come
stringe, Ardea! Come si sente, Mimì, presa e offesa da quella stretta.
Violenta, ribelle, ora si svincola:

— Lasciami... Ti proibisco!

Fiorvante le è corso vicino e la riceve tra le braccia tutta fremente.
Ardea ha già preso un'altra dama. E Fiorvante, cupo, ansioso,
interroga, a bassa voce:

— Di'! Di'! Che ti diceva?

— Nulla, nulla, amor mio... Ti amo!

E Mimì si stringe tutta a lui, teneramente, a lui che la porta via con
sè, quasi di peso, fuor della sala dove suonano e ballano, lì, su la
terrazza dove son soli, al sole, nel bel vento pomeridiano di grande
primavera, soli tra cielo e mare.


18.

C'è un piccolo uomo curioso alla porta della casetta di Mimì. Ha
bussato, ribussato e aspetta che gli vengano ad aprire. È Pierotto,
l'ex-attendente di Fiorvante. Rottosi un piede in servizio e riformato,
Pierotto ha voluto tuttavia conservar l'abito da marinaio e continuare
a vivere col suo padrone come un cane fedele, pronto anche a morire per
lui, se è necessario.

Piede zoppo, ma gamba salda e capace di tener dietro al suo padrone
anche in capo al mondo se può essergli utile o se il padrone vuole.
Devozione d'altri tempi, fatta di virtù, di sacrificio, di sentimento
e d'ammirazione: servitù fatta un po' d'amore. Se il Re lo chiamasse
alla Reggia e lo coprisse di medaglie, Pierotto non avrebbe il cuore in
festa come quando il suo padrone, battendogli una mano su la spalla,
lo guarda negli occhi con quegli occhi che gli passano il pensiero
da parte a parte tanto sono acuti e profondi e gli dice bruscamente e
semplicemente:

— Bravo!

Il Re? Il Re può essere Re, per tutti: Pierotto, non fa difficoltà. Ma
per lui, per Pierotto, il solo re è il suo padrone.


19.

Pierotto è su la terrazza.

— Signor capitano, il comandante ha mandato a cercare di lei a casa per
averla sùbito a bordo. Ho pensato di far bene venendo fin qui con la
lancia.

D'un sùbito Fiorvante è in piedi. Bacia Mimì e senza salutar nessuno
fila via con Pierotto, a passo di carica. Come gli tien dietro di
galoppo, Pierotto! Come lo seguirebbe in capo al mondo, anche con mezza
gamba di meno!... La forza che gli manca nel piede l'ha nel cuore: fa
lo stesso, per gli eroi.


20.

Amici, amiche, chitarristi e mandoliniste, sono discesi in giardino
alle due altalene, che vanno, vanno, su, su, come volessero toccare il
cielo, spinte dagli ufficiali, cariche di ragazze, polsi di ferro che
spingono, fantasie con le ali che volano...

Su la terrazza, avviati a scendere in giardino, Ardea ha fermato Mimì
e l'ha presa alla vita: polso di ferro anche lui.

— Dimmi, dimmi che non mi ami più...

— No... Lasciami... Non ti amo più...

— Non è vero... Non può essere vero...

— Sì... sì... Non devo... non posso più amarti...

— Ma io ti amo ancora...

— Dovevi non lasciarmi prima!

E ancora Mimì fremente lotta, disperata, per svincolarsi, per
liberarsi... E ci riesce, finalmente...


21.

Nella lancia che fila verso la corazzata Fiorvante ha avuto la notizia:

— Fuoco a bordo!

Con che ansia va verso il bastimento! Con che impeto sale, appena
giunto, la scaletta di poppa ed eccolo, su l'attenti, davanti al
Comandante:

— Ella s'era assunto l'obbligo di sostituire l'ufficiale di guardia,
signor Ardea, costretto ad assentarsi per una grave circostanza...

Da dieci giorni Ardea, sbarcato dalla torpediniera, è su lo stesso
bastimento con Fiorvante. Questi vorrebbe rispondere, ma il Comandante
gli taglia la parola:

— Così è... Ella non ha nulla da rispondere... Lo stesso signor Ardea
l'ha lasciato detto, allontanandosi... Il signor Ardea è colpevole
di grave atto d'indisciplina... Ma tanto più ella aveva il sacrosanto
dovere di rispettare un impegno già abusivamente assunto.

E il Capo conclude:

— Terrà gli arresti!

E si allontana dopo avere rimesso bruscamente a Fiorvante il comando
delle operazioni necessarie a spegnere il fuoco...


22.

Un colpo di cannone ha echeggiato. Altri rispondono dai forti. Di colpo
le altalene si sono arrestate. Gli ufficiali si guardano, pallidi: più
pallido di tutti, livido, Ardea.

— Fuoco a bordo!

E via, tutti, di volo... verso la riva... verso l'imbarco... verso le
lance... verso la nave...


23.

Catena di marinai. Rapido correre dei secchi d'acqua di mano in mano.
Fragor di pompe, frusciar d'acqua, squillar di trombe. E, in mezzo
alla catena di marinai, in mezzo all'accorrer d'uomini scalzi, a getto
continuo, su dai boccaporti, è l'«Uomo dei fuochi intensi» nella sua
armatura incombustibile da palombaro del fuoco. Fiorvante vola di qua,
di là. Comanda l'opera con pugno di ferro, con decisione pronta. E
le fiamme s'abbassano, scompaiono, e le nuvole di fumo diradano, e si
disperdono, e non sono più che nebbia rossastra attorno alla nave. Il
fuoco è spento.

Ardea, i compagni, son giunti a bordo. Fiorvante affronta Ardea:

— Pago per te la tua menzogna. Io non avevo assunto nessun obbligo. Tu
hai speso, per coprire la tua colpa, il mio nome ed il mio onore. Tu
hai mentito.

— Fiorvante!

Altri ufficiali sono attorno a loro. Vuole Ardea allontanarsi. Ma
Fiorvante lo ferma:

— No. Davanti a tutti voglio gridartelo. Tu hai mentito!

E la mano di Ardea si leva su Fiorvante. Sfiora appena la sua guancia.
Sùbito Fiorvante è su l'avversario. E gli ufficiali sono in mezzo a
loro, nel tumulto...

Un uomo pacifico commenta:

— Peccato! Due amici...

Un uomo preciso rettifica:

— Due ex-amici...

Un uomo ironico aggiunge:

— _Cherchez la femme!_...

E un uomo che spreca parole inutili precisa il nome che già tutti sanno:

— Mimì...


24.

Nella cabina del Comandante entra Fiorvante, acceso ancora il volto di
sdegno:

— Signor Comandante, il fuoco è spento e sono agli arresti.

Ma la porticina si riapre. È Ardea.

— Signor Comandante, ho mentito. Il tenente di vascello Fiorvante non
aveva assunto nessun obbligo di sostituirmi.

Così Ardea si accusa. Non un muscolo si muove sul volto di Fiorvante
che rimane lì, immobile, piantato. Il Comandante guarda i due
ufficiali. Li pesa, li valuta. Intuisce. Forse sa. E giudica:

— Allora, signor Ardea, terrà lei gli arresti.

E, volgendosi a Fiorvante:

— Lei vada. È libero. Mi lasci col signor Ardea.

E, appena Fiorvante è uscito, il Capo è davanti ad Ardea piantato e gli
batte una mano su la spalla:

— Ragazzo, ragazzo, che follìe sono queste?...

E Ardea balbetta:

— La follìa di un'ora, signor Comandante... Un cieco furore di
gelosia...

La commozione lo vince e cade piangendo sul divanetto del Comandante,
la testa fra le mani. Questi lo guarda, muto, immobile, diviso fra
il sentimento della pietà e il senso della disciplina, l'uomo e il
soldato...

E la voce di Ardea implora:

— Mi faccia ottenere, signor Comandante, un altro imbarco, lontano da
qui, lontano da una donna che amo, che ho amata troppo tardi quando non
ero più in tempo per esserne amato ancora...

Il soldato vince su l'uomo in uno sforzo di volontà:

— Basta così... Signor Ardea, si ritiri...

Ma, appena Ardea è uscito, il Comandante scuote il capo e brontola fra
i denti:

— Povero ragazzo! Brutto male!


25.

Nello spiazzato della villa gli otto ufficiali in borghese preparano
lo scontro: Fiorvante, Ardea, i quattro padrini, due medici. Caricano
le pistole e misurano i passi. Ardea è fermo, appoggiato a un albero,
conserte le braccia. Fiorvante passeggia su e giù, con un amico,
fumando... C'è un elastico fuori cerniera nel portasigarette di
Fiorvante ed egli si affatica a volerlo rimettere a posto. Ora Ardea
passa i cerini da una scatola qualunque comprata poco prima al suo
portafiammiferi d'oro... Piccole occupazioni inutili compiute con
scrupolo e puntualità dieci minuti, forse, prima di morire...


26.

Tra ragazze e fiori Mimì felice è nel suo negozio. Fuori il sole è
bello, il mare è tranquillo, tutto è serenità. Una ragazza porta a Mimì
per fargliela approvare o correggere una cestina di fiori candidi.
Un'altra le porta una croce di fiori oscuri. Mimì guarda l'una e
l'altra ed esclama:

— Un funerale e un battesimo... Primavera _bonne à tout faire_!

E, deposte la cesta e la croce, trae da una scatola i fiori d'arancio
e dice ridendo alle ragazze:

— E la primavera felice fa anche questi... per me...


27.

Bel tipo, il diciottenne guardiamarina Francucci!

Tutte le ragazze sono innamorate di lui, ma egli non ne prende nessuna
tanto è mai timido: una signorina vestita da ufficiale. Ma quand'è in
negozio Francucci, che chiasso... Ci si diverton tutte a tormentarlo,
a stuzzicarlo, ad abbracciarlo, a metterlo in croce, deliziosamente, a
furia di sorrisi e a suon di baci. E ci si diverte anche Mimì, Mimì più
di tutte, Mimì che è felice...

— Avanti, avanti, Francucci in mezzo e noi girotondo...

È Mimì che dirige il carnevaletto. E il girotondo di ragazze gira, gira
bianco, roseo, azzurro, attorno al povero guardiamarina, e gira, gira,
gira, gira... finchè la porta si spalanca per Pierotto che entra:

— Signorina, il padrone si batte in duello...

Che? Dove ha preso il cappello Mimì? Chi gliel'ha dato? Come è uscita
dal negozio e salita nell'automobile che vola verso la villa dove deve
aver luogo lo scontro?... Pare a Mimì di sentirsi morire... Arriverà
viva fin laggiù?...


28.

I passi per allontanarli, di spalle, uno dall'altro. Poi i colpi di
mano. Il _dietro-front_, il fuoco...

Un urlo risponde alle due detonazioni: Mimì è ai piedi della scalea,
trattenuta dagli ufficiali che le sono corsi incontro vedendola venir
giù come una pazza. Ardea e Fiorvante sono in piedi. Il colpo di Ardea
è fallito. Fiorvante ha sparato in aria. E Mimì è sospesa tra i due
uomini, divisa fra quello che ha amato e quello che ama... Incerta, un
istante... Ma poi si getta fra le braccia di Fiorvante, felice, folle
di gioia, nella pace ricuperata, nella felicità salvata...

E Fiorvante è lì, Mimì fra le braccia. Si scioglie per muovere incontro
ad Ardea. Devono stringersi la mano, riconciliarsi. E Fiorvante sente
che qualcuno, che è a terra, gli prende timidamente una mano, vi
inchioda sopra due grosse labbra tremanti. È Pierotto che con voce
soffocata gli dice:

— Padrone mio, che sia sempre benedetto!


29.

Ardea parte. Imbarca a Taranto per una lunga crociera nei mari
del Nord. Mimì e Fiorvante vanno ad accompagnarlo dal negozio di
_Mademoiselle Mimì, fleuriste_ fino all'imbarcatoio. Mimì, e Ardea
e Fiorvante sono appena usciti e saliti in automobile. E le ragazze
che hanno or ora finito di salutare coi fazzolettini siedono qua e
là, silenziose, tristi, per il negozio. E sono tutte un po' tristi
perchè pensano che un giorno l'innamorato di ognuna può da un momento
all'altro dover partire, così...

Alla banchina son gli ultimi saluti. Mimì riempie di fiori le braccia
di Ardea che le stringe lungamente la mano, gliela bacia e salta nella
lancia per nasconder le lacrime che gli riempiono gli occhi.

— Arrivederci, Fiorvante.

— Arrivederci, Ardea.

Mimì non saluta con la voce la lancia che se ne va. Voce in gola,
per la commozione, non ne ha. Saluta col fazzoletto, lentamente, con
un'infinita melanconia. Vedranno Ardea mai più? Che sarà di lui? Che
sarà di loro? È l'angoscia dell'ora dei distacchi, l'angoscia per le
due parti: rivedranno quelli che restano colui che parte? Ritroverà
quello che parte coloro che rimangono? Lungo mistero di un anno quando
anche un minuto, il minuto che segue immediatamente quello che viviamo,
c'è sconosciuto quanto un altro mondo, quanto un altro evo...

Il fazzoletto di Ardea saluta ancora dalla lancia che s'allontana e i
fazzoletti di Mimì e di Fiorvante salutano dalla banchina. Fiorvante
ora guarda Mimì che saluta e le dice:

— Il passato, vedi, se ne va...

E Mimì smette il bianco saluto. Con gli occhi pieni di lagrime ma col
cuore pieno di speranza, si volge a Fiorvante e gli stringe una mano
dicendogli:

— Sì, il passato se ne va...

Un grande sorriso le illumina gli occhi ancor umidi di lacrime:

— Rimani tu: il mio più grande avvenire.


30.

Son ritornati a casa di Mimì. Forse in quello stesso momento la nave
di Ardea esce dal porto. È il tramonto. Mimì e Fiorvante sono usciti su
la terrazza. E Mimì, appoggiando la fronte su la spalla di lui, mormora
felice:

— La vita intera ora ci sorride!

E sono lì, stretti, liberi, soli, per sempre, sotto l'immenso cielo,
d'innanzi all'immenso mare, piccolo gruppo umano felice, piccolo e
immenso fra le due immensità. E, dal fondo della terrazza, come li
guarda, felice, benedicendoli, Pierotto, Pierotto che adora Fiorvante,
Pierotto che adesso adora Mimì anche più di Fiorvante...

La nave di Ardea è uscita in quel punto dal porto ed entra nel libero
mare inquadrato nel rettangolo della terrazza coperta. E Fiorvante
indica la nave a Mimì sognante, estatica:

— Vedi... Com'è già lontano, in un'ora, dal nostro cuore e dalla nostra
vita... laggiù... laggiù... in mezzo al mare...

E i due amanti si stringono, si stringono chiedendo alla vita la catena
felice che lega e non scioglie più, mentre la nave, piccina, lontana,
in un gran rettangolo d'azzurro, svanisce, sparisce, e Pierotto, tirata
la tenda dietro di loro, s'accuccia sui gradini che dalla terrazza
scendono nel salotto, s'accuccia per vegliare su quella felicità, come
un cane fedele.

Ma sorge o tramonta il sole, in quel fuoco, dietro quelle colline? Lo
splendore è così grande e il cuore è così lieto che quel tramonto par
l'aurora...


PARTE TERZA


31.

Una sera, in piena serenità, fulminea, la tempesta. Sono appena levati
da tavola. Da tre mesi marito e moglie, e felici. Dividono gli antichi
amici, nella bella casa messa su con tanto amore, un lungo ordine d'ore
tranquille. Sono felici e sono felici in tre perchè è anche felice
Pierotto, attendente, maggiordomo, _factotum_, che li serve adorandoli.

Son le undici e mezza. È l'ora di muovere verso le imbarcazioni pronte
per il ritorno a bordo degli ufficiali. Cari, cari i vecchi amici, i
«ragazzi», lieti di saperla lieta, tutti stretti attorno a lei ed a
Fiorvante... Questi ha voluto farla felice facendola sua per sempre. Il
negozio di _Mademoiselle Mimì fleuriste_, venduto, ha fornito la dote
militare e il corredo. E la felicità della lunga vita in due è senza
nuvole, senza paura.

Ma il Comandante, invece d'andar via coi suoi ufficiali, s'è fermato:
ha dato ordine che gli rimandino il suo canotto. Dalla porta vetrata
che dà sul giardino e dove Mimì ha accompagnato signore ed amici, ella
vede il Comandante trarre Fiorvante in disparte per rimettergli, dopo
poche parole, una lettera: una lettera che sembra violentemente colpire
Fiorvante. Gli occhi di Fiorvante si volgono, presaghi, verso Mimì. Gli
occhi di Mimì, nel presentimento, si volgono ansiosi verso Fiorvante.

L'ultimo amico è andato via. E Mimì viene avanti e raggiunge il
Comandante, cui toglie di mano la lettera che proprio in quel punto suo
marito gli ha restituita, dicendo solo:

— Sta bene, signor Comandante.

Che cos'è? Le mani di Mimì sono così convulse che non riescon neppure
ad aprire il grande foglio ministeriale piegato in quattro. Finalmente
ha aperto, ha letto e il foglio le cade di mano e, senza grido, senza
parola, si porta le mani al cuore tanto le pare che scoppii: è l'ordine
d'imbarco, per il tenente di vascello Fiorvante, entro dieci giorni:
«raggiungere in Estremo Oriente le truppe internazionali operanti
per reprimere la rivolta dei _boxers_». Con uno sguardo supplice Mimì
chiede pietà al Comandante. Povero Comandante, sempre preso nel suo
dissidio tra soldato e uomo... Vorrebbe gridare a Mimì, tanto la vede
angosciata, smarrita: «No, no, non piangete... Troveremo il modo di
non farlo partire...», ma, invece, soldato, capo, esecutore d'ordini,
apre le braccia come a dire che non c'è nulla da fare, ch'è giocoforza
obbedire. Ma scappa via in fretta, tanto si sente venir voglia di
piangere a veder quella donna che disperata s'abbatte sul petto del
marito, gettandogli le braccia al collo e balbettando tra i singulti:

— No... No. Partire no...

Riaccompagnato il Comandante fin fuori nel giardino, Fiorvante ritorna
rapido verso sua moglie, caduta lì, alla scrivania, le braccia conserte
su la tavola, la fronte e il pianto in quelle braccia. Ma qualche cosa,
a terra, l'avvolge alle gambe, lo ferma, di colpo: è Pierotto, Pierotto
che ha sentito, Pierotto che ha letto il foglio d'ordini caduto a
terra, Pierotto che stringendogli le gambe, ginocchioni, gli occhi
supplici in su come pregasse Iddio, gli dice con voce soffocata:

— Padrone, in Cina porti anche me!

Fiorvante ha respinto l'umile offerta e l'umile dolore. Ha davanti a
sè, più grande, il dolore di sua moglie, ha dentro di sè, disperato, il
suo. Non va, Fiorvante, a sollevare Mimì. Siede alla scrivania anche
lui, il gomito su la tavola, il volto nella palma, lo sguardo fisso
davanti a sè, nell'ignoto. E Mimì si solleva e lo guarda... Gli va
vicino, gli prende fra le mani la fronte per rovesciargli il capo e gli
chiede:

— Che cos'hai... tu che sei sempre così forte, così agguerrito?...

Fiorvante le prende le mani, e unitele, fa di queste un piccolo cuscino
vivo alla sua testa stanca... Poi la guarda, doloroso, appassionato, e
le risponde:

— Non so. Ho come un presentimento. Penso che non ti rivedrò mai più...
che morirò laggiù...

Che scossa nel cuore di Mimì e che sobbalzo di tutto il suo essere!
Ma si fa forte. Si china su lui che ha rialzato il capo. Sono ora
volto contro volto. La volontà d'un sorriso a ogni costo illumina
malinconicamente gli occhi di Mimì mentre ella esclama, tanto per
rispondere:

— Che sciocchezze!

Ma lo stesso brivido che ha attraversato l'anima di Fiorvante ha corso
la sua anima, povera bimba che ha paura, che ha tanta paura e non vuol
farlo vedere perchè anche l'altro, quello che è forte, quello che è
audace, quello che non ha mai paura di nulla, ha questa volta paura,
tanta paura.

Paura di non rivederla mai più...


32.

Non hanno potuto dormire, quella notte. Sono usciti in giardino. Hanno
percorso e ripercorso la terrazza a mare. Son rimasti lì, lungo tempo,
nella sera d'estate, fermi, le mani nelle mani, tutta la vita dell'uno
nella vita dell'altro, a interrogar con gli occhi fissi, inutilmente,
le stelle indifferenti, come potessero conoscere il destino...

Ora sono rientrati nello studio di Fiorvante, tra le belle cose che
amano e che hanno raccolte per circondarne una felicità di tre mesi
appena che non doveva avere mai fine...


33.

A bordo, nel quadrato degli ufficiali, quelli che vengon da terra hanno
portato la notizia della partenza di Fiorvante a quelli rimasti a bordo
a passar la sera in quadrato tra carte, bibite ghiacciate e sigarette.
Un sentimentale sospira:

— Povero Fiorvante! Una felicità che si spezza appena nata...

Ma un altro — un forte? ma no: un altro sentimentale, ma un
sentimentale che non vuol parerlo... — un altro alza le spalle:

— È il nostro destino di marinai... Nè casa, nè amore, nè tempo...

E ride. E scopre una carta da giuoco ed esclama:

— Ma che importa?... Ho il re d'_atout_...

Quella risata è sola, senza eco. E sarebbe sola, staccata, falsa, anche
se nel quadrato non fossero venti ufficiali, anche se nel quadrato
non ci fosse che colui che ride, che ride fuori e piange dentro, com'è
quasi sempre, quando si ride...


34.

Storia della Dama dal ventaglio bianco che gli torna in mente in
quell'ora? Analogia che gli s'è chiarita nell'anima fra il signor Tao
della favoletta cinese costretto ad abbandonare Madama Lu per morire
e lui che deve abbandonare Mimì per partire?... Chi sa? Confusi moti
dello spirito, orologeria misteriosa e impenetrabile che segna il tempo
ai pensieri...

Certo è che da mezz'ora Fiorvante parla a Mimì — a Mimì disperata di
sentirlo parlar così — della possibilità della sua morte, laggiù, in
Estremo Oriente. Mimì è caduta ai piedi di lui. E Fiorvante la tira su,
le prende le mani, la guarda in volto e le dice:

— Giurami...

Non osa parlare. Poi si fa coraggio:

— Giurami... Giurami che se non dovessi ritornare... le tue labbra...
le tue labbra, Mimì, non avranno parole e promesse d'amore per un altro
uomo... finchè il lutto che tu porterai di me non sarà finito...

Mimì trema. Non vuole giurare... Perchè? Che cattivi pensieri... Perchè
metterle paura così? China il volto per sottrar lo sguardo. Vorrebbe
svincolarsi. Ma Fiorvante la tiene.

— Ma tu ritornerai certamente..., mormora Mimì. Io ti aspetterò nel mio
dolore e torneremo ad essere felici...

Ma la stretta di Fiorvante ai polsi di Mimì si fa più forte, quasi
brutale, quasi selvaggia: tutto l'orrore della gelosia è in quella
stretta.

— Giura, giura ugualmente... Chi può sapere?

E Mimì solleva una mano di lui per portarsela alle labbra, fissa i
chiari occhi sinceri nei grandi occhi ansiosi e, ferma la voce e fermo
il cuore, dice:

— Giuro!


35.

Cina che le sembravi così lontana e così leggiadra, lontana Cina di
bazar e d'acquarello, Cina delle scatole di lacca e dei mobiletti di
bambù, terra sconosciuta che eri così cara alla sua fantasia, dove
tanto piaceva di correre al suo sogno d'oltremare, — Cina orrenda e
minacciosa adesso, Cina del suo tormento e della sua tortura, Cina dei
supplizii e dell'orrore, Cina di battaglie e di morte... Già da due
mesi Fiorvante è partito ed ella è sola, nella casa abbandonata, sola
con Pierotto che piangendo è rimasto accanto a lei, per guardarla,
per difenderla... Quanto dovrà aspettare così? Quanto potrà il suo
cuore resistere in quell'arresto di vita, in quell'agonia?... Povera
Butterfly d'occidente, più dolorosa ed ansiosa perchè non ha come
l'altra la cieca fede nel ritorno... Perchè se per l'altra tutto è
certezza, per Mimì tutto è brivido, tormento, dubbio, presentimento,
paura, tortura indicibile, ineffabile tortura...


36.

Un colpo di _tam-tam_. I servi cinesi annunziano, come ogni giorno, il
suo arrivo a cavallo alla Residenza Inglese dove, come ogni giorno,
per la colazione, il Residente e sua figlia Maud lo aspettano...
Poichè il _tam-tam_ l'ha avvertita, miss Maud corre incontro, come ogni
giorno, le braccia tese, le mani offerte, al bell'ufficiale italiano...
Innamorata? Ancora non sa. Certo da venti giorni ogni volta che lo vede
il cuore le batte dentro più forte e più precipitoso...

Amore? Sì, certo. La più bella ora dell'amore, quella in cui l'amore
non sa ancora d'essere amore...

E, poco dopo, alla tavola ospitale della Residenza, mentre miss Maud
non leva gli occhi di dosso al bell'ufficiale, Fiorvante chiude i suoi,
tutt'il suo cuore laggiù, in occidente, nella casa abbandonata, con la
cara compagna lontana, e vede Mimì che appoggiata al parapetto della
terrazza, con Pierotto vicino, guarda ogni giorno lunghe ore il mare,
il mare per cui egli è partito, il mare per cui egli, forse, un giorno
ritornerà...


37.

Mimì è al pianoforte:

    _E non le pesa_
    _la lunga attesa..._

Più fortunata sorella di pena... Quanto pesa a lei, invece, la
terribile, l'interminabile attesa... E non può sentir quella musica...
E chiude il piano e abbandona su le braccia, posate sul coperchio
chiuso, la testa che tanto le duole...


38.

E c'è un'altra attesa, lì, alla Residenza Inglese, lunga attesa anche
questa, e vibrante come l'altra, e come l'altra disperata nelle sue
paure... Piccola miss sdraiata su le stuoie tra le serventi cinesi che,
sedute accanto a te, ti fanno corona e vento coi ventagli di foglie di
palma, da quanti giorni non hai più pace? Per la prima volta il tuo
piccolo cuore, che sembrava tanto freddo e tanto saggio, palpita in
disordine e in confusione...

Che vuoi? Che hai, piccola miss? Ami tu il giovane ufficiale venuto
d'Italia con quel suo volto stanco che par così stanco di soffrire,
con quei suoi grandi occhi sognanti che paiono così stanchi di sognare?
L'ami tu, di già, veramente? Pare ieri. La prima volta che venne qui:
non sono, non paiono, sei settimane. E ora sei presa... Sei veramente
presa? Ti pare che non avresti potuto vivere se tu non l'avessi mai
incontrato? Ti pare che non potresti più vivere, ora che incontrato lo
hai, se un avverso destino si divertisse a dividerti per sempre da lui,
a volerlo per sempre allontanare?

Come batte il tuo cuore, piccola miss, quando tuo padre ti parla dei
ripetuti attacchi dei _boxers_, sempre più numerosi e sempre più gravi
in questi giorni! È venuto una mattina Fiorvante, una mattina come
tutte le altre — e forse era l'ultima. Da quella mattina tu non l'hai
più riveduto. Adesso ricordi i particolari del saluto quando tu gli
dicesti: “Arrivederci domani...„, come ogni giorno, ed egli, dopo una
pausa, con la voce grave delle sue parole gravi, ti rispose, non come
ogni giorno: “Arrivederci domani...„.

Allora quasi non avvertisti. Ora ricordi. Allora non avvertisti quella
pausa, quell'esitazione, quell'ombra di dubbio che velava il suo
volto... Ma ora rammenti che la voce gli tremava un poco, che un poco
anche la mano gli tremava mentre stringeva la tua, ora rammenti che
c'era come un disperato e silenzioso saluto in quel suo ultimo sguardo
che si sforzava a parer sorridente.

Già sapeva il bell'ufficiale, quel giorno, quello che tu ancora,
piccola miss, non sapevi: già sapeva d'essere a una delle grandi ore
del destino, già sapeva di dover combattere, di dover forse morire...

Morire! Ma perchè tremi così, perchè un brivido tutta ti invade e ti
scuote?... Che hai? Paura? Presentimento? Ma no... Sorridi... Attendi
con serenità... Fiorvante ritornerà, una di queste mattine...

Ma perchè tremi, perchè tremi così?


39.

— Pierotto, che farà il Comandante a quest'ora?

Pierotto si stringe nelle spalle. Non sa...

— Pierotto, dove sarà il Comandante a quest'ora?

Ancora, Pierotto, si stringe nelle spalle. Chi sa?...

— Pierotto, a chi penserà il Comandante a quest'ora?

Si stringe ancora, Pierotto, nelle spalle. Ma si domanda? Si sa....

E ancora, seduta accanto a lui in piedi, nel giardino, nella sera che
discende con le sue paure e coi suoi misteri, ancora Mimì domanda:

— Pierotto, non sarà accaduto al Comandante nulla di male?

E Pierotto questa volta è dritto su le spalle, l'occhio che sfida
il destino, la voce chiara e sonora, per rispondere con fede cieca e
assoluta:

— No. Nulla di male può capitare al Comandante. Dio lo protegge! E
anche io l'ho benedetto....

Dio e.... lui! Pierotto ha ragione. Che può mai accadere al Comandante?


40.

Messi a cavallo giungono alla Residenza inglese. Un accorrer di servi,
un andare qua e là.... E la notizia che, venuta dai messi, corre il
giardino, di bocca in bocca, entra nella casa, raggiunge miss Maud....

— In uno scontro coi _boxers_ il Comandante Fiorvante è caduto....


41.

Su la terrazza a mare Mimì è accanto a Pierotto. Poco prima, un grande
brivido l'ha scossa tutta, dalla radice dei capelli ai piedi. E, a
Pierotto che trepido l'ha guardata, ella ha detto ancora rabbrividendo
entro di sè:

— Non so.... Ho sentito la Morte passarmi vicino....


42.

Il Residente conforta sua figlia. Povera Maud disperata! Nel suo
silenzioso amore ella non sapeva d'amarlo così.... E il padre
interroga, manda a cercare notizie, conferme, smentite...

— Il Comandante era alla testa di una compagnia da sbarco... L'urto coi
_boxers_ è stato improvviso... S'è veduto il l'ufficiale cadere nella
mischia terribile...

E Maud piange disperatamente tra le braccia paterne il caro grande
amico che le era così dolce vedere ogni giorno, lì, accanto a lei,
col suo sorriso malinconico, con quella sua parola grave e tenera
insieme, che dava ad ogni gioia una malinconia e ad ogni dolore una
consolazione...


43.

Senza notizie di lui, da tre mesi. Nella casa dolorosa, attorno a Mimì,
è un andirivieni d'ufficiali. Ministero, amici, da per tutto è stato
bussato. Nessuno spiraglio s'è aperto, Lettere perdute? Lettere non
scritte? Morto? Ferito? Lontano? Nell'impossibilità di comunicare?

Ecco ancora un ufficiale. Pierotto prima, Mimì poi, gli corrono
incontro. Ma anche lui, come gli altri, apre le braccia...

Nessuna notizia, ancora...


44.

E, a migliaia di chilometri di distanza, alla Residenza Inglese, è
ancora la stessa ansia, è la stessa incertezza...

Anche laggiù Maud interroga servi, marinai, ogni giorno.

Anche laggiù il cuore si chiude ogni giorno più all'ultima speranza.

Si riapre se una faccia nuova sopraggiunga. Un'ansia, un grido:

— Nulla?

— Nulla...


45.

Un giorno Pierotto è venuto di corsa a chiamarla:

— Padrona, padrona... Di là, in salotto... Il Comandante... Gli
ufficiali....

Mimì è andata, lenta, rigida, come impaurita, quasi presaga. E,
appena varca la soglia, li ha visti lì, tutti, sparsi per la sala,
i volti gravi, gli occhi bassi. Nessuno s'è mosso ad incontrarla.
Hanno abbassato la testa, in segno di saluto, da lontano. Solo i due
più vicini alla porta le hanno preso la mano, gliel'hanno sfiorata
con un bacio. Ed è parso a lei che quelle mani, prendendo la sua,
tremassero...

Pierotto la segue come un'ombra, come un cane, girando e rigirando
il berretto fra le mani, con gli occhi bassi ma lo sguardo che fruga.
Viene avanti, Mimì, guardando a destra, guardando a sinistra. Nessuno
parla. Che c'è? Perchè nessuno parla? Perchè nessuno si muove?

— Che c'è?

Così ha chiesto a un ufficiale. Così chiede ad un altro. Nessuno
risponde. Perchè nessuno parla? Perchè nessuno si muove?

— Che c'è?

Ancora la sua voce, strozzata in gola, interroga. Che c'è, che c'è
veramente? Ha intuito, ha capito... Ma non vuol comprendere da sè la
cosa orribile... Le par delitto avere capito... E avanza. E ancora
interroga. E Pierotto, ombra, la segue. La tremenda ansia di Mimì
chiede conforto, chiede speranza, chiede magari menzogna... Ma nessuno
parla. Perchè? Nessuno si muove. Perchè?

Finalmente non regge più. Meglio la certezza che l'ansia atroce. Si
getta, Mimì, verso il Comandante e gli afferra un braccio. Ed è il
grido:

— Mio marito?

Ora, per la prima volta, gli ufficiali, immobili sempre ai loro posti,
levan gli sguardi su lei, mentre il Comandante, con la mano tremante,
cava di tasca un foglio — la partecipazione ministeriale della morte —
e gliela tende.

Mimì ha preso il foglio con polso fermo e ha letto con ciglio asciutto.
Non ha fiatato. Non si è mossa. È lì, rigida, pietrificata. Poi la
bocca le si apre e ne esce un gemito lieve e breve, un sospiro....
E, di piombo, precipitando. Mimì s'abbatte al suolo, schiantata,
fulminata...

Sùbito gli ufficiali le sono attorno pietosi, commossi. E Mimì apre
gli occhi. Se li vede tutti attorno, come quando c'era Fiorvante. E li
guarda, stupita, coi suoi grandi occhi senza lacrime, senza lacrime
ancora. Perchè son tutti lì? Perchè la guardano chini su lei? Perchè
nessuno parla? Perchè nessuno si muove?

Perchè, perchè nessuno piange?... Ma piange lei, Mimì, disperata,
urlando finalmente il suo folle dolore, piange finalmente lei, Mimì,
per tutti...


46.

Tre mesi sono passati. Due dolori, ignoti l'uno all'altro, in due
case, in due cuori, ricordano inconsolabili il caro scomparso. Ma anche
nei grandi lutti incancellabili la vita trascorre, il tempo passa, le
abitudini riallacciano l'interrotta catena delle giornate. Passa lunghe
ore, Mimì, nello studio di Fiorvante, là dove tutto, tutto le parla di
lui, là dove sono i quadri che gli piacevano e i libri che egli amava.
Ecco un libro, un piccolo libro ch'egli prediligeva: la _Storia della
Dama del ventaglio bianco_, racconto cinese, di quella Cina che doveva
essere la sua morte e la sua sepoltura, di quella Cina che Mimì odia
ferocemente, nel furore di tutta la sua disperazione. Ma quella piccola
storia cinese è un piccolo libro che Fiorvante amava tanto... E Mimì lo
porta, religiosamente, alle sue labbra.

Che sole fuori e che freddo là dentro.. Mimì esce per chiedere al sole,
al grande consolatore d'oro, un po' di pace, un po' di conforto, un
po' di vita. E siede lì, in giardino, nel suo cantuccio preferito. E
apre a caso il libro che Fiorvante amava, l'apre in un punto qualunque,
tanto per leggere qualche cosa, per deviare un poco il suo pensiero...
E legge...


SEGUITO DEL RACCONTO CINESE CHE PUÒ SERVIRE DA INTERMEZZO.

_Piangeva ogni giorno, da mesi, Madama Lu, il suo povero e caro sposo
perduto e veniva ogni giorno a piangerlo ore ed ore su la sua sepoltura
quando un giorno, su la tomba contigua a quella del signor Tao, un
elegante cinesino, dal bel vestito bianco di lutto e il bel codino nero
tutto lucido e levigato, venne a piangere una dilettissima sorella.
Passarono i giorni, una settimana, due settimane. Ogni giorno Madama Lu
e l'avvenente cinesino si trovavano lì, su le due tombe, alla medesima
ora. E Madama Lu piangeva il signor Tao e guardava fra una lacrima e
l'altra l'avvenente cinesino il quale a sua volta piangeva a calde
lacrime la dilettissima sorella e, fra lacrima e lacrima, guardava
con aria di trovarla assai carina l'addoloratissima Madama Lu. Si
guardavano così, ma non si parlavano. O si parlavan con gli occhi: il
miglior linguaggio perchè è chiaro per tutti. E un giorno si parlarono
anche con le bocche perchè a Madama Lu cadde il grande ventaglio
bianco e l'elegante cinesino con gran premura si chinò a raccoglierlo.
E Madama Lu gli disse grazie, parola che in cinese ha un gran valore
di seduzione: non so come si scriva ma, a sentirla, è dolce come una
carezza._

_Avvenne da quel giorno che Madama Lu e l'elegante cinesino si
vedessero ogni mattina su le contigue sepolture del compianto signor
Tao e della dilettissima sorella e dai regni bui della Morte partissero
insieme, dopo le ore di pianto, verso i rosei regni dell'Amore.
Anche in Cina i giovanotti eleganti sono intraprendenti e non sanno
accompagnar per via una bella signora senza parlarle d'amore. Così
l'elegante cinesino parlò un giorno d'amore a Madama Lu. Avrebbe voluto
questa rispondergli: non per le rime, ma piuttosto facendo rima: rima
baciata. Ma non s'è giurato per nulla... E Madama Lu, fedele al suo
giuramento, resisteva al fascino del nuovo amore, poichè non le era
concesso di baciar bocca di uomo prima che la terra fosse asciutta su
la sepoltura del suo compianto marito. E la terra era ancora bagnata,
anche perchè, quasi a far dispetto a Madama Lu e piacere al signor Tao,
i tempi erano eccezionalmente piovosi. Pioveva a catinelle ogni sera.
E il sole aveva un bell'asciugar l'umidità ogni mattina. Ci pensavano
le grosse nuvole nere di mezzogiorno a rimettercene altrettante ogni
sera...._


47.

— Cucù! Guardate chi c'è?

Gli ufficiali, in punta di piedi, riuscendo con ogni cautela a non far
scricchiolare la ghiaia nei vialetti, sono giunti in giardino dietro la
poltrona nella quale Mimì è seduta a leggere. E, di sorpresa, dietro le
spalle, con un fazzoletto le han tappato gli occhi...

— Indovinate chi c'è?

E le hanno posto qualcuno davanti. Tocca, Mimì, il nuovo ospite, con le
mani caute, per identificarlo. Un'uniforme, un berretto: è, certamente,
un ufficiale.

— Ma chi? Garlini che viene da Taranto? Lanciani che ritorna dal Mar
Rosso? Zandrini che tutti aspettavano il mese scorso di ritorno dalla
sua spedizione equatoriale?...

Ma le voci rispondono, a destra, a sinistra:

— No... no... no...

Ora Mimì non regge più all'impazienza, alla curiosità. Tanto più che
adesso le è parso di riconoscere: la fronte larga, il naso corto, il
mento pronunziato. In un gran gesto improvviso si strappa il fazzoletto
dagli occhi e, con un grido, si getta indietro:

— Ardea!

Sì, Ardea di ritorno. Le sue mani non l'avevano nella breve cecità
ingannata: Ardea tornato improvvisamente, da un giorno... La crociera
terminata prima per necessità di riparazioni alla nave... Ardea
incontrato dagli altri ufficiali alla porta del giardino di Mimì...
venendo da opposte parti... mentre anche Ardea veniva a far visita
all'antica amica mai dimenticata...


48.

Perchè trema Mimì, mentre appoggiata al braccio che Ardea le ha
offerto, rientra con lui nella casa? Quel ritorno inaspettato,
improvviso, le mette un fremito in tutto l'essere, le par quasi un
sogno, un avvertimento, un oscura volontà: volontà del destino.

Su la soglia del salotto, uscito non si sa da dove, appare Pierotto che
si pianta su l'attenti al passaggio del suo ufficiale; ma non appena
questi è passato lo segue con uno sguardo nero di diffidenza, ardente
d'odio.

Perchè? Segno, avvertimento del destino anche per lui?

Sono nel salotto, adesso, Mimì ed Ardea. E Ardea le dice la parte che
ha presa al suo dolore. E poi le parla di sè, della sua pena... Lunghe
terribili ore ha egli attraversate, passata la prima ora felice che è
quella dell'ebrezza di sacrificarsi... E ancora le dice che non l'ha
mai dimenticata, che ancora, disperatamente, non ostante la lontananza,
non ostante l'oblio tentato, che ancora l'ama, ancora e sempre. E
sempre l'amerà, come il primo giorno...

Parole ardenti, appassionate, che vanno al cuore di Mimì... Ma
Pierotto, che sorveglia, che spia, riappare nella stanza, gli occhi
indagatori, con un vaso di fiori che nessuno ha chiesto... E la visione
di Pierotto richiama Mimì all'idea del suo dovere. Ed ella mette una
mano su la bocca di Ardea per non permettergli di parlare ancora, di
dirle ancora...

— No... No... No... Non dica nulla, Ardea... Non dica nulla... Nulla...
nulla... nulla...

Perchè nulla Mimì può ascoltare... Nulla... ancora...


49.

E le ritornano in mente, mentre Ardea, senza più parlare, senza più
toccarla, indugia accanto a lei, le ritornano in mente le ultime parole
ch'ella ha lette poco prima nella _Storia_ di Madama Lu...

«... non le era concesso di baciar bocca di uomo prima che la terra
fosse asciutta su la sepoltura del suo compianto marito... E la terra
era ancora bagnata...».


PARTE QUARTA


50.

Maud non è inglese per nulla. Ella ha portato con sè le abitudini
europee e una volta alla settimana una manicure occidentale viene,
con gli arnesi del mestiere nella borsetta di velluto, a curar le
unghie dei servi cinesi addetti alla custodia e al servizio della
Residenza. Qualche volta, quand'ella torna a tempo da una delle sue
grandi galoppate mattutine, Maud assiste al lavoro della manicure.
Trapiantando da occidente a oriente l'usanza si spostano i termini
e tra i servi cinesi gli uomini sono assai più che le donne fieri
d'aver nette le unghie e di vedersele curate e nitide come fossero di
madreperla.

Quel giorno Maud è tornata presto dalla sua passeggiata a cavallo. In
pantaloni kaki e stivaloni gialli, il casco sul capo e il frustino in
pugno, Maud s'è avvicinata alla manicure. Costei ha in opera, adesso,
la bella mano d'un servo cinese tra i più onesti e i più fedeli. E lo
sguardo di Maud è fermato da qualche cosa che splende al dito medio del
servo. L'attenzione di Maud è stata ancor più richiamata dalla voce
della manicure la quale, nell'atto di prender la mano sinistra del
servo dopo aver finito di curar la destra, ha esclamato:

— Che anello!

Maud ha volto il capo e sùbito l'ha riconosciuto con un grido:

— L'anello di Fiorvante!

Sùbito Maud chiama a sè il servo cinese. Guarda meglio l'anello e si
accerta: sì, è quello di Fiorvante, tanto caratteristico, riconoscibile
tra diecimila. Non v'ha dubbio. E Maud interroga il servo spaurito:
come mai ha quell'anello, da quanto tempo e chi glielo ha dato?... Da
quanto tempo? Da ieri. Chi glielo ha dato? E il servo cinese, senza
parlare, accenna laggiù, laggiù...

— A quanti chilometri da qui?

Pochi. Una ventina. Maud è inglese anche in questo. Tra l'idea
dell'azione e l'azione non suol lasciare tempo in mezzo. Ordina i
cavalli per sè e per un seguito armato... E, dopo dieci minuti, eccoli
tutti in sella, compreso il servo cinese... E via di galoppo verso
laggiù... laggiù... dove il servo cinese ha confessato d'aver ricevuto
l'anello in cambio di due sacchi di riso....

Ancora, in cammino, mentre galoppano, Maud continua la sua inchiesta:

— E come possedeva l'anello la persona che te l'ha dato? Non glielo hai
chiesto?

E il piccolo servo cinese risponde quello che sa:

— L'hanno preso, m'han detto, a un ufficiale che da quattro mesi è
prigioniero dei _boxers_...

Quattro mesi? Maud conta rapidamente, marzo, febbraio, gennaio,
dicembre: le date coincidono. Son quattro mesi, infatti, giorno più,
giorno meno, che Fiorvante è scomparso... «Arrivederci domani...». E
non l'ha rivisto mai più... Ma possibile, possibile?... Potrebbe dunque
ancora, Fiorvante, essere vivo?

E come pianta gli speroni nei fianchi del cavallo per galoppare sempre
più presto, per volare addirittura, per far quei venti chilometri in un
lampo...


51.

Seduta al pianoforte Mimì suona. È pianista accurata, piena di
sentimento, senza maestria. Accanto a lei, rapito a guardarla
e intento a volgerle le pagine, è lui, Ardea... Due, tre volte
Pierotto è entrato, con un pretesto o con l'altro... Due, tre volte
Mimì s'è sentito addosso un muto rimprovero, un tormentoso sospetto
dell'ex-attendente...

Ora Mimì e Ardea sono usciti su la terrazza a mare. È il crepuscolo.
Una grande nave tutta bianca, già risplendente da tutti i suoi lumi,
richiama l'attenzione di Mimì. Escita dal porto, traversa adesso il
mare. E Mimì indica la nave:

— Partì una sera, così...

Ma Ardea interrompe l'elegia e, presale una mano, esclama:

— Non ricordare... Ora sono io, sono io accanto a te...

Libera, Mimì, la sua mano e si allontana un poco da Filippo. Parole
ardenti e contatti le sembrano ancora sacrilegio. E i suoi occhi si
fissan laggiù, sul mare, dove lo vide partire, donde non vedrà più il
suo ritorno...

E non vede che più in là, appoggiato al loro stesso parapetto, anche
Pierotto, schiantato senza il suo padrone, guarda il cielo, guarda il
mare e, nell'ingenuità buona della sua anima, si dice cento volte al
minuto:

— Potesse un giorno, per miracolo, ritornare...


52.

Alla Residenza di Sua Maestà Britannica, la sera istessa, luminarie,
feste, musiche, danze, notte lunga sott'il cielo stellato di primavera.
Fiorvante passeggia al braccio di Maud, per il giardino tutto fiori e
tutto luce. Rivede ancora, Maud, il miracoloso modo di rintracciarlo,
di salvarlo, la lotta corpo a corpo, sostenuta per istrapparlo alle
sue catene e ai suoi carnefici, lo stato lacrimevole dei suoi vestiti
e del suo volto tutto coperto di lunga barba... E la miracolosa fuga
a cavallo — lei e Fiorvante sul medesimo cavallo — mentre la lotta
fra servi cinesi e _boxers_ ferocemente continuava. E il ritorno alla
Residenza, e la gioia di tutti, e l'incontro col Residente che non
crede ai suoi occhi, e il modulo di telegramma chiesto per avvertire
tutti, sùbito, in Europa, e sopratutto la moglie, la moglie che lo
piange per morto e non attende mai, mai, mai, questo suo incredibile,
inverosimile ritorno...

E Maud, mentre vanno fra canti e suoni, ritrova la sua impressione
dolorosa, lo spasimo acuto del suo cuore sentito nel momento in
cui Fiorvante chiedeva quel modulo per telegrafare a sua moglie,
un'ora dopo appena, un'ora dopo ch'ella, con un manipolo di servi,
aveva lietamente, eroicamente e follemente arrischiato la vita per
istrapparlo ai _boxers_ di cui era prigioniero...

Giusto, giusto ch'egli abbia sùbito voluto telegrafare alla moglie...
Ma quanta ingiustizia nella giustizia del cuore umano! E non poteva
egli, poichè la moglie lo credeva morto, lasciarsi credere tale un
giorno di più e dare a lei, per ventiquattr'ore almeno, l'illusione
d'averlo salvato non per gli altri ma per sè?

Andando sempre avanti a loro sono usciti, dal cerchio di luce delle
illuminazioni. Son fuori, adesso, lungi dalla Residenza, di fronte a
un cielo di perla su cui splende, bassa, a fil d'orizzonte, ed enorme,
una luna arancione. I canti cinesi e le musiche primitive che li
accompagnano, stridule, discordanti, grattate, più che suonate, su le
corde dure degli strumenti, non sono più che echi lontani portati loro
bel vento fresco dalla zona illuminata che lasciano dietro le loro
spalle. Dice Fiorvante la sua gratitudine:

— Mi avete, Maud, ridato la vita!

Maud ripensa alla donna lontana, al telegramma partito il giorno stesso:

— Vorrei che voi foste in grado di accettare il dono di tutta la mia!

Stretti l'uno all'altra son lì, come se tutto il rimanente mondo
fosse abolito e l'universo altro non fosse che quel cielo di perla
con quell'enorme luna arancione che sembra sempre più grossa, sempre
più gonfia e dilatata, luna idropica d'Estremo Oriente, luna di
caricatura cinese su una scatola di lacca, tra quei due alberelli vuoti
come scheletri che la chiudono e l'incorniciano su l'orizzonte. Luna
d'incubo. Ardor di primavera. Notte d'amore. E le loro bocche son per
unirsi. Ma Fiorvante si ritrae e stacca Maud da sè:

— No... No... Non posso... Non devo...

E solo bacia la piccola mano fredda della fanciulla che s'abbandona a
piangere su la sua spalla, di fronte all'enorme e goffa luna arancione
che sembra piantata come un disco, quasi impiccata, su le punte aguzze,
su l'esile forca dei due alberelli.


53.

La vanno ancora a trovare, quasi ogni giorno, anche nel tempo del suo
lutto, anzi più che mai nel tempo del suo lutto, gli ufficiali, gli
antichi amici, i «cari ragazzi». Eccoli lì. Son tutti intorno a lei. Di
lassù, sott'il chiosco, in cima all'invisibile scaletta, sotto quella
cupola d'edera che par fiorita su dal mare, ella li vede qua e là,
uniformi bianche tra il verde, passeggiare, fumando, ridendo, al sole,
nel suo giardino. Accanto a lei, lassù, c'è Ardea, solo, Ardea che
ancora le parla del suo amore rinato con irresistibile violenza, del
suo amore non interrotto mai:

— Ti amo... Ti amo... E tu amavi me prima di lui. E l'equivoco è
nato... Io non ho mai cessato un'ora d'amarti... Ah, quali errori,
anche amando, l'orgoglio consiglia...

E Mimì lo ascolta, gli occhi smarriti, l'affanno nel petto... È così
sola, è così triste, Mimì, e ha amato tanto Ardea... Ma non vuole, non
deve... Vuol rimanere fedele al suo morto... Potrà?... Vorrà sempre?...
Già la sua parola, nell'ansia, tradisce il più profondo pensiero, il
pensiero neppure a sè stessa confessato:

— No, non dirmi che mi ami... Non dirmi ancora, Filippo, che mi ami...

Il cuore avverte il pericolo assai prima della coscienza. Il cuore
conosce sè stesso. E il semplice cuore di Mimì, che adorava Ardea, che
s'è creduto offeso e abbandonato da Ardea, che ha chiesto e ottenuto
da Fiorvante la consolazione e la rinascita, che è stato consolato,
rifiorito e felice per tre mesi nella libertà dell'amore e per altri
tre mesi nella gioia della casa, il semplice cuore di Mimì sente che
non può stare solo, che non può essere vuoto... Ma deve, deve ancora
star solo... Terra ancora umida, Madama Lu! Terra che continuerà forse
sempre ad essere umida poichè tu, Mimì, sempre la bagni con le tue
lacrime...

— Padrona!

Mimì e Filippo si volgono con un sussulto, come fossero stati sorpresi.
La voce dura e sorda di Pierotto, che scoppia sempre d'improvviso
accanto a loro e sempre alle spalle, riesce ogni volta a sgomentarli...
E quello sguardo duro, indagatore, di quel marinaio che non parla,
ma guarda e osserva e tutto dice con gli occhi, e tutto nel suo cupo
silenzio rimprovera...

Pierotto ha portato un telegramma. Mimì l'apre con indifferenza. Chi
mai nel mondo può, oramai, interessarla? Ma dà un grido, agita in
aria le braccia, chiama, chiama tutti attorno a sè e corre lei stessa
incontro a tutti, giù per la scaletta:

— È vivo! È vivo! È vivo!

Tutti sono accorsi, nella confusione, nel tumulto, attorno a Mimì che
per la commozione è quasi svenuta fra le braccia degli ufficiali mentre
il telegramma di Fiorvante circola di mano in mano:

«Prigioniero dei _boxers_, miracolosamente salvato, tornerò con la
prima nave in partenza».

Poichè tutti sperano nei miracoli ma nessuno ci crede quando qualche
cosa che ha l'aria del miracolo avviene la gente l'accoglie con un'aria
d'intontimento in cui c'è ancora anche contro l'evidenza, un'ultima
incredulità.

Quando ritorna in sè Mimì tutta s'illumina nel volto con un sorriso
vedendo dinanzi a sè, il telegramma in una mano, il berretto agitato
nell'altra, saltare, come impazzito di gioia, sul suo piede rotto e
abbracciar tutto e tutti, alberi e ufficiali, e anche lei, anche lei,
— sì, anche lei, Mimì... — il marinaio fedele, il cane da guardia...

Solo uno Pierotto non ha abbracciato e non ha voluto abbracciare,
consapevole e logico anche nell'ebrezza della gioia: Ardea, che è lì,
solo, silenzioso, in un angolo...


54.

Fuori i cancelli di legno della Residenza i cavalli aspettano per
Fiorvante e per la sua scorta. Il suo bagaglio è già partito, sui dorsi
dei muli. Il Residente è andato a prepararsi per accompagnar Fiorvante
a cavallo per un tratto di strada. I servi cinesi son già tutti venuti
a inchinarsi all'ospite che se ne va. Fiorvante e Maud sono soli. E
tende Maud un'ultima volta le mani a Fiorvante:

— Addio... Addio... Non potrò mai... mai dimenticarvi...

Profondamente commosso, legato a lei da così grande riconoscenza,
preso d'amore per lei fino al grado d'una tentazione cui è possibile
resistere, ancora una volta Fiorvante le bacia le mani. Ed ella dice,
ancora:

— Nulla... Nulla ho più nella vita, poichè voi partite e poichè questo
mio grande sogno è impossibile...

E quando Fiorvante, chiamato esce per partire, ancora la voce commossa
di lei gli dice:

— Non potrò mai dimenticarvi... Lontana migliaia e migliaia di leghe
sempre vostra rimarrò nel sogno... poichè questa gioia, nella realtà,
non mi fu data...

E quando i cavalli partono Fiorvante vede ancora — e sempre vedrà —
il fazzolettino bianco che lo saluta e, di laggiù, un attimo, prima di
svoltare, prima di scomparire, la bianca figurina dell'innamorata che
si rovescia a terra fra i servi che accorrono...


55.

Mentre con la nave del ritorno Fiorvante, diviso il cuore e il pensiero
fra due continenti, traversa in lunghe ed eguali giornate gli eguali
oceani, Mimì, nella casa ove l'aspetta, dice ad Ardea, che ancora tenta
di stringerle una mano e di riprenderle il cuore:

— No... Lasciami... Tutto deve essere finito...


56.

Ma, ritornato Fiorvante, tutto non è finito.

È trascorso già un mese dal giorno che è ritornato e che si è ripresa
Mimì fra le braccia dopo d'averla per sempre perduta, dopo d'essere
stato pensato da lei perduto per sempre.. Gioia, gioia grande di
ritrovarsi, sempre inferiore tuttavia al dolore di quando ci siamo
lasciati... Poichè il dolore ha intensità che la gioia non conosce e
che non può conoscere se non diventando, nello spasimo, dolore a sua
volta...

Il Comandante e Ardea sono stati a colazione da loro. Il Comandante
adesso si congeda, bacia la mano di Mimì... Di Mimì che sorride e dice:

— Si rammenta, Comandante, quel terribile giorno?...

E Fiorvante lo riaccompagna, fuori, nel giardino.

Rimasto solo con Mimì, Ardea cinge la vita di lei e le parla
all'orecchio. Son tutt'e due frementi, convulsi...

— Voglio... devo parlarti... l'ultima volta...

Mimì negando, tentando di svincolarsi. Ardea insiste e la tiene stretta
con un braccio di ferro che la schianta. Pierotto, entrato in punta di
piedi a recare la posta, è, non veduto, dietro di loro.

— Parlarti... l'ultima volta...

E, disperata, perduta, sgomenta, Mimì concede...

— Alle cinque. Al Padiglione di Villa Rosa.

Pierotto avanza con un volto tragico, deformato, cui non badano. Al
rumore del passo sùbito Mimì e Ardea si sono sciolti, ricomposti...
Come li guarda, Pierotto, come li guarda... dopo che ha deposto il
corriere su la tavola di Fiorvante... e mentre si allontana... Ma non
ci badano... Lo conoscono. È quello il suo modo di essere, il suo modo
di fare.

E Fiorvante rientra.


57.

Sono le cinque. Lente ore d'una quieta giornata nella serena intimità
della casa felice... Mimì è di là, nelle sue stanze... Fiorvante è alla
sua scrivania, intento a leggere.

Piano piano, la porta s'è aperta... È Pierotto che porta il caffè.
Viene avanti, in punta di piedi, talchè Fiorvante lo avverte solo
quando l'ha vicino... Come Pierotto gli versa il caffè, e smuove lo
zucchero, e lo guarda bere... Ora Fiorvante ha preso una sigaretta
e chiede a Pierotto un fiammifero. Pronto, devoto, Pierotto lo serve
sorridendo coi gesti teneri e timidi d'una madre schiava del suo figlio
re. E Fiorvante lo guarda sorridendo e gli soffia il fumo negli occhi,
per ridere, per farlo tossire, così, così... Poi gli mette una mano su
la spalla battendovela sopra in segno d'affetto e lo congeda:

— Va, caro, va...

E si rimette a leggere, in serenità.


58.

Al Padiglione di Villa Rosa Mimì è giunta prima di Ardea. Avvolta in
un gran mantello nero è entrata di corsa nella serra come se fosse
inseguita. E, infatti, è inseguita: inseguita dalla paura e dal
rimorso...

Gira qua e là, senza pace, di sgabello in sgabello. E tanta, tanta è
la sua angoscia, tanta è la sua paura che quando Ardea sopravviene ella
gli si getta d'impeto nelle braccia, come per cercarvi scampo, come per
rifugiarvisi...

E si volgono, d'un tratto. Che cos'è questo rumore? Chi è passato nella
serra, tra le foglie?... Sembrava che qualcuno strisciasse per terra...
Ma non c'è nulla... nessuno... Ardea rassicura Mimì:

— Il vento che entra da quel finestrone aperto...

Fuori della serra, volando sul suo piede zoppo, il cane da guardia
corre verso la casa.


59.

... verso la casa dove Fiorvante continua a leggere in serenità. Poichè
nulla minaccia la sua ora felice.

Pierotto è dietro di lui... ancora affannato per la corsa dalla serra
alla casa... Ma Fiorvante non l'ha sentito. Pierotto leva una gamba, vi
appoggia sopra un foglietto di carta tolto di tasca e con una matita vi
scrive sopra in grossi caratteri elementari:

«Morto ho difeso la tua memoria. Vivo difendo il tuo onore, padrone.
Ardea non è tuo amico. E la signora tua non ha peccato. Ma tu devi a
tempo salvarla».

Combattimento supremo tra il suo dovere e la pietà per quella pace
serena del suo padrone felice che legge, che ora l'ha sentito dietro
di sè e che, voltando pagina, solleva un momento gli occhi e volge il
capo per guardarlo, per sorridergli... Del biglietto, intanto, Pierotto
ha fatto una pallottolina e, quando nel combattimento è vittorioso
il dovere e Fiorvante ha ripiegato il viso su la sua lettura,
Pierotto lancia la pallottolina da dietro le spalle del padrone. E
la pallottolina cade lì, sotto gli occhi di Fiorvante, su le pagine
aperte.

Dopo un primo movimento di stupore e uno sguardo a Pierotto che è lì,
dietro di lui, impietrito, sgomento, una mano nell'altra, tutto scosso
dentro da un fremito ch'è la paura di ciò che istintivamente ha fatto,
Fiorvante apre la pallottolina e legge il biglietto. D'un balzo è in
piedi con un grido ch'è un ruggito. E si slancia su Pierotto caduto
a terra, bianco di paura, con le mani tremanti e supplici, ma con gli
occhi pieni di volontà, d'energia, di odio per coloro che tradiscono...

— Che cosa hai scritto, qui? Vuoi che ti strozzi?

E la mano è alla gola di Pierotto. Ma questi non protesta, non fugge,
non si libera dalla stretta... Solo con gli occhi parla, grida, urla
e con la mano convulsa indica là, là, fuori della porta, oltre il
giardino, oltre il muro di cinta, oltre i cipressi, indica, laggiù,
laggiù, la serra di Villa Rosa...


60.

— Bisogna aver la forza di resistere... di rinunziare... Così ha detto
Mimì svincolandosi dalle braccia di Ardea che l'avvolgono, che la
stringono. Ma Ardea la ghermisce di nuovo:

— L'hai tu?

E di nuovo la stringe, l'attira a sè, petto contro petto, respiro
contro respiro... Mimì si getta indietro, disperata, nell'ultima
lotta: ma come son forti le braccia di Ardea, come formano un cerchio
sempre più stretto, che l'avvicina a lui sempre più, che quasi unisce
i respiri, gli affanni e le bocche...

— Tu! Tu!

E, d'un balzo, Fiorvante è su Mimì e, afferratala per le braccia,
la scuote, la getta lontano. Poi Fiorvante si volge. Ardea s'è fatto
indietro, le braccia conserte, aspettando l'inevitabile. E Fiorvante
lentamente avanza su lui, lo fissa terribile negli occhi che Ardea
abbassa al suolo.

Nella spinta Mimì è caduta a terra. Vedendo i due uomini di fronte,
pronti a colpire, vicini alla tragedia, Mimì si trascina a terra
per giungere fino a Fiorvante e prendergli le gambe con le braccia
avvinghiandosi tutta a lui, per allontanarlo da Ardea, per richiamar su
di sè tutta la sua collera...

— No... No... Non ho peccato... Te lo giuro... Il passato è
ritornato... Ma l'ho respinto... Lo scacceremo insieme... Sarò tua,
tutta tua, come prima, per sempre...

E, forte lei adesso d'una forza che la disperazione le dà, si stringe
sempre più a Fiorvante, sempre più l'allontana da Ardea immobile, e
lo trascina, lo trascina, finchè, inciampando e sentendosi mancare,
Fiorvante cade su la panchina e nasconde nelle mani il suo pianto
disperato, soffocato...

Raggomitolato a terra, senza neppur respirare, Pierotto guarda...
Vorrebbe ora, vedendo piangere così il suo padrone, tornare indietro...
Vorrebbe... ma non è più possibile. Tutto è già avvenuto. E Mimì è ai
piedi di suo marito.

E Pierotto, gomitolo buio in un angolo, si fa sempre più piccino,
sopraffatto dalla tragedia, per non esser sentito, per non esser
veduto...


61.

È notte. Fiorvante è nel suo studio appena illuminato da una lampada su
la scrivania. Il marinaio, muto, immobile, è accovacciato a terra, cane
sul tappeto, ai piedi del padrone, attento a ogni gesto del padrone...

Il padrone è li — da quanto tempo? — nel cerchio di luce della
lampada gialla, un gomito su la tavola, il volto nella mano, gli occhi
fissi laggiù nell'ombra, aperti, spalancati su la rovina. Finalmente
Fiorvante si leva per andare alla biblioteca, in fondo, e prendervi un
piccolo libro col quale ritorna alla sua scrivania e risiede, gomito su
la tavola come prima, volto nella mano come prima. E il libro non l'ha
aperto.

Dietro la vetrata del giardino c'è un'ombra bianca, che guarda, apre
la porta e viene avanti piano, leggera. È Mimì, dolore errante per la
casa, da ore, senza parola, senza riposo. Fiorvante non l'ha udita.
L'ha veduta, però, il marinaio e, dalla sua cuccia, le fa cenno
silenziosamente col braccio affinchè vada da Fiorvante e si getti ai
suoi piedi.

— Avanti! Avanti!

Ma invece di venire avanti Mimì va indietro, sempre più indietro
e, ombra, fantasma, senza neppure essere entrata nel cerchio della
lampada, si allontana, scompare. Il cuore vorrebbe. Ma coraggio non
ha...

E Fiorvante ha aperto il libro, a una pagina segnata, dove il suo
occhio sùbito ritrova le parole cognite...


SEGUITO DEL RACCONTO CINESE CHE PUÒ SERVIRE DA CONCLUSIONE.

_Madama Lu amava il cinesino che l'adorava. E tuttavia ell'era fedele
al suo giuramento e resisteva. Fedele, sì, al suo giuramento; ma è
duro, è assai duro rimaner fedeli ai viventi e ai vicini. Più duro
ancora è, in Cina ed altrove, rimaner fedeli ai lontani ed ai morti, ai
morti due volte lontani._

_Quante volte l'elegante cinesino, durante le loro passeggiate fra
le peonie dei bei giardini cinta la vita di Madama Lu, tenta di darle
un bacio... Ma, per fortuna, Madama Lu ha sempre con sè il suo grande
ventaglio bianco che, aperto a tempo, fra bocca e bocca, fa scudo...
uno scudo di piume... alla sua virtù..._

_Duro esser fedeli ai lontani ed ai morti, ai morti due volte lontani.
E più duro ancora, e più triste, dover rinunziare all'amore quando
s'è giovani e tutto intorno, nei fiori e negli uccelli, nel chiaror
dei cieli e nel tepor dell'aria, nei corsi d'acqua e nei fili d'erba,
tutto, tutto, tutto è rinascita, tutto è amore, tutto è primavera..._

_ — Addio! Addio! A domani._

_E Madama Lu, nel giardino in fiore si separa con indicibile strazio
dal bel cinesino e rientra triste, sola, nella sua casa vuota, senza
calore e senz'amore. Ma ella aveva giurato di non baciare altro uomo
prima che la terra fosse asciutta su la sepoltura del suo amatissimo
marito, il signor Tao..._

_E continuan così a vedersi ogni giorno su le due sepolture contigue.
Quante volte il cinesino ha raccolto nella mano un po' di terra, quante
volte l'ha raccolta nella piccola mano Madama Lu, umida ancora!... Ma
se la terra tarda ad asciugarsi i due innamorati, poverini, languono
d'amore.... E un giorno, finalmente, non reggendo più al triplice
invito dell'amore, della giovinezza e della primavera, Madama Lu,
raccolta ancora su la sepoltura la terra ancora bagnata, apre il suo
grande ventaglio bianco e comincia a far vento affinchè la terra su la
tomba di suo marito possa asciugarsi più presto!_


62.

E Fiorvante chiude il libro. La _Storia della Dama dal ventaglio
bianco_ è finita. E sul piccolo racconto filosofico Fiorvante si ferma
a meditare...


63.

Un'ora è trascorsa. Al lume della lampada Fiorvante rilegge la lettera
scritta per Mimì, lettera che poi depone lì, su la scrivania, sotto un
cristallo, affinchè ella la trovi domattina... È una lettera d'addio,
senza rimproveri. Il torto è sempre dei lontani, degli assenti. E chi è
morto non deve ritornare a disturbare la vita di quelli che continuano
a vivere non ostante i giuramenti fatti ai morti. Non c'è posto, fra
gli uomini, nel loro continuo andirivieni, pei fantasmi che ritornano
troppo tardi quando la vita, oltre la morte, è ricominciata...

Una valigia è pronta, lì accanto, col cappello di Fiorvante. Questi fa
cenno al marinaio di prenderla.

— Andiamo!

E vanno, piano, per non destare nessuno, per andarsene così, senza
saluti, senza pianti, così, scomparendo... Giunti su la soglia tra
casa e giardino Fiorvante si volge un'ultima volta a guardare in quelle
quattro pareti il nido distrutto della felicità, le care cognite cose
tanto amate...

— Addio per sempre, casa del sogno d'una vita felice!

E, mentre chiude gli occhi su quel caro mondo che lascia, su quella
felicità sognata e spezzata, un'altra felicità gli appare, lontana ma
raggiungibile: Maud fra le sue donne, seduta a terra su le stuoie della
Residenza, così assorta nel ricordo lontano, nel sogno cui s'è promessa
per tutta la vita, che ad ogni colpo di _tam-tam_ ella sobbalza, quasi
dal sogno felice tornasse, d'improvviso, nel chiuso cerchio della
realtà in cui le ali urtano e si spezzano...


64.

E, fuori, nella luna, d'innanzi alla bianca casetta addormentata fra
stelle ed edera, appoggiato a un albero, mentre aspetta che Pierotto
carichi i bagagli su la vettura che è laggiù, alla voltata, perchè
nessuno possa udirne il nome, Fiorvante ascolta il sogno che muore e
che gli parla:

— Sogno d'eterna e serena felicità io esco, amico, dalla tua vita. E
tu ti trovi solo, adesso, più solo di quando io ti ho incontrato. Ma
c'è una legge suprema che viene a separarci: questa legge si chiama
tempo, questa legge si chiama lontananza, questa legge si chiama
assenza. Non sono io, sogno tuo, nato dall'assenza d'un altro? E non
sono io, sogno tuo, morto nella tua assenza? La volontà della vita
è assoluta: poichè non vuol posti vuoti, fa dell'attesa una vana
parola e un'inutile promessa, fa del ritorno un'inutile speranza e una
folle illusione. Non si ritorna mai a quello che s'è lasciato. Mai si
riallaccia, mai si riannoda quello che s'è interrotto. Se la vita perde
una maglia tutto è da ricominciare. E tu sognasti l'amore, una sera,
una sera di plenilunio come questa, davanti a questo stesso mare, tu
sognasti l'amore e tu fosti forte, per ottenerlo, contro un assente. Ma
l'assente è ritornato. La vita è ricominciata, diversa. E quello che
è ritornato, per riottenere l'amore, è stato a sua volta forte contro
te assente. E ora, poichè il posto è suo, non c'è più posto per te. Io
esco dal tuo cuore. E tu te ne vai. La strada è nemica al destino degli
uomini, è nemica del sogno di felicità poichè ad ogni passo è l'ignoto,
poichè ogni giorno seppellisce nella polvere rossa della sua aurora il
giorno che l'ha preceduto. E, per il cuore, è sempre domani...

Ma un'altra voce parla a Fiorvante, un'altra voce che è quella d'un
sogno nuovo:

— Sì, per il cuore, la vita è sempre domani... Ed io sono, amico che
riparti, il tuo domani... Se una felicità quaggiù t'è stata carpita,
un'altra felicità tu hai lasciata lontano, ad aspettar follemente
l'impossibile... Non sempre assenza vuol dire addio: talvolta
assenza vuol dire eterno ricordo, insanabile rimpianto, disperata
inconsolabilità... Domani, domani... Domani è la piccola donna rimasta
laggiù, domani è la creatura eroica che t'ha salvato la vita, non per
sè, ma per gli altri, non per tenersela, ma per donarla, ineffabile
olocausto al diritto di quelli che son venuti prima... E tu, fedele
al diritto di quelli che son venuti prima, hai lasciato un cuore
appassionato senza speranze, per sempre... Ma il piccolo cuore ti
disse: «Non avrò mai altro sogno se questo sogno è impossibile e non
avrò mai altro amore se amarvi non m'è concesso...». Domani, amico,
è laggiù, oltremare, oltre la tua vita d'oggi, oltre il tuo sogno
caduto... Pochi giorni di navigazione verso la terra promessa... e
tu sarai felice... Io, sogno, più leggero di te, volerò laggiù prima
di te, dirò a colei che ti aspetta senza speranza: «Il miracolo è
compiuto. E la tua felicità, cui dicesti addio per sempre, sta per
ritornare...»

Ma Pierotto chiama, con voce sorda, dal cancello:

— Padrone, andiamo.

E Fiorvante va, quasi senza dolore, perchè ogni giorno seppellisce
nella polvere rossa della sua aurora il giorno che l'ha preceduto. E,
per il cuore, è sempre domani...

Domani...


65.

Fiorvante ha chiesto al Ministero di poter tornare ad imbarcarsi per
l'Estremo Oriente. Da otto giorni, in compagnia d'un amico, seguito da
Pierotto che questa volta non lo lascerà dovesse andare a nuoto fino in
Cina, da otto giorni Fiorvante, a Montecarlo, attende che il Ministero
risponda, che l'ordine venga...

Ma Pierotto entra come quando ha buone notizie da portare: un fulmine,
a ciel sereno.

— C'è un amico. Il guardiamarina Francucci.

La cosa, che sembra far gran piacere a Pierotto, non sembra farne
affatto a Fiorvante, il quale fa cenno al marinaio di far entrare e
rivoltosi all'amico chiede:

— Che cosa vorrà questo ragazzo da me?... Perchè vengono ad annoiarmi
ed a scovarmi fin qui?

Francucci è entrato, timido, impacciato. Non sa che dire. Poi diventa
tutto rosso e osa mormorare:

— C'è di là... sua moglie...

Pierotto ride, felice. Fiorvante è balzato in piedi e Mimì, senza
aspettare che le dicano d'entrare, è già entrata, s'è gettata ai
piedi di Fiorvante ripiombato a sedere ed ha il capo su le ginocchia
di lui... Francucci e l'amico sentono ch'è un gran momento e si
allontanano per lasciarli liberi...

— Io non voglio lasciarti, mormora Mimì. Io non voglio... Io ti amo! Ti
amo!

E si stringe a lui, per abbracciarlo, per raggiungere il suo viso, la
sua bocca. Ma Fiorvante sorride melanconicamente e scuote il capo:

— No... Tu non mi ami più, Mimì... Tu hai pietà... E non è la stessa
cosa...

Come si dispera, Mimì! Come si aggrappa, Mimì! Come vorrebbe che
Fiorvante se l'abbracciasse, la prendesse su le ginocchia e le desse
forza... Ma Fiorvante le solleva il viso nascosto, e, prese le sue
tempie nelle mani, la guarda in fondo agli occhi e in fondo all'anima
e l'ammonisce:

— No... Non posso accettare il tuo sacrificio d'onore... Non
rinunziare, Mimì alla tua felicità se la tua felicità è quella... La
vita è una sola...

E Mimì che sa quanto Fiorvante ha ragione e non vorrebbe che l'avesse,
scoppia a piangere dirottamente. I due amici appaiono, oltre la
vetrata, nell'altra stanza. E Fiorvante, fatto un cenno, chiamati gli
amici, solleva da terra Mimì:

— Francucci... La riaccompagni.


66.

Pierotto gli ha dato notizie: sa, Fiorvante, che Mimì è ripartita con
Francucci, senza lacrime, quasi senza pena. È ripartita, per sempre.
Ardea l'aspetta laggiù, in un altro paese, per un'altra vita. Ed egli
che l'ha tanto amata, non la rivedrà mai più...

Mai più...

E perchè non soffre? Perchè non piange? Perchè non sente l'orrore
dell'indifferenza che segue l'estasi, del buio freddo in cui s'affonda
il sole? È tranquillo, pacificato, quasi sereno... Vorrebbe piangere:
non ha lacrime. Vorrebbe ricordare: non ha ricordi. I ricordi si
perdono, pallidi, indecisi, non più realtà, ma ombre...

Ombre d'un passato che la luce della vita nuova cancella, impressioni
del tramonto, rimaste non su le cose ma negli occhi, e che lo splendore
della nuova aurora disperde...

Eterna vicenda d'ombre e di luci, incessante rinnovamento, infinita
rinascita del giorno dalle sue ceneri...

Vita!


67.

Una sera, pochi giorni dopo, in una busta ministeriale, l'ordine
d'imbarco per l'Estremo Oriente è giunto. Fiorvante è sùbito corso su
la soglia della sua camera da letto ove Pierotto riordinava nei comò:

— Fa' presto, Pierotto... Le valigie in due ore... Domattina si parte.

Si parte? Che gioia ha Pierotto e come batte le mani... E come si dà da
fare, un quarto d'ora dopo, mentre il suo padrone, col suo amico, esce
di casa e traversa i giardini diretto al _Casino_.

E, alla svoltata d'un viale, un _alt_ improvviso, un colpo al cuore,
la mano al cappello. Maud, colei che lo doveva aspettare inconsolabile,
colei ch'egli doveva raggiungere laggiù, in Cina, per consolarla, Maud
è davanti a lui, rossa in volto, le mani incerte.

— Son qui da un mese, ella spiega. Mio padre è in Europa, per tre mesi,
in congedo... E ha voluto che io l'accompagnassi.

Ma, più che su Maud, gli occhi di Fiorvante si posano su quel
giovanotto rimasto indietro e che ora fa cenno a Maud di presentarlo.

— Mister Treddles... mio fidanzato..

Fiorvante sobbalza. Il fidanzato viene avanti con un sorriso, la mano
stesa. E Fiorvante non può parlare, non parla... Troppe cose egli
avrebbe da dire... Ci rinunzia e, del resto, già Maud, rossa in volto,
tende la mano a Fiorvante e s'allontana col giovane inglese che, non
appena rimasti soli, ombroso come tutti gl'innamorati, chiede notizie
e spiegazioni... E Maud spiega:

— L'ho conosciuto in Cina... Sei mesi or sono... prima d'incontrar
voi...

E il piccolo incontro, la grande tragedia, dalle due parti, non hanno
altre parole...


68.

S'affatica, Pierotto, a preparare, dagli armadii al comò, dal comò
agli armadii, dal salotto al bagno, dal bagno alla camera da letto,
affinchè il padrone trovi tutto pronto, le valigie chiuse, e dica, come
al solito, battendogli una mano su la spalla:

— Bravo!

Ancora due cassetti da vuotare e le cinghie da stringere. E niente
altro. Poi il padrone può ritornare. Il padrone è servito, come sa
servire Pierotto: da soldato, fedele agli ordini.

Ma la porta s'apre dietro le sue spalle e la voce del padrone risuona:

— Lascia, Pierotto... Non parto più.

L'ha visto nello specchio, senza volgersi, Pierotto: pallido, contratto
il viso, l'aria dei suoi giorni peggiori. Ed è rimasto li, una camicia
in una mano, un pacco di cravatte nell'altra, la bocca spalancata, gli
occhi che interrogano...

Chi interrogano? Già Fiorvante è sparito dalla porta. È nell'altra
stanza, nel salotto, col suo amico. S'è seduto e ha fatto sedere
l'amico vicino a sè:

— Vedi?... Due volte lontano, due volte dimenticato...

Luce cruda e sfacciata delle stanze d'albergo, luce senza veli, senza
penombre, luce fatta per chi non ha dolore da nascondere, per chi non
ha nell'anima oscurità che chiedan l'ombra anche fuori... Fiorvante ha
chiamato Pierotto:

— Spegni.

E Pierotto ha spento ed è rimasto lì, nella penombra, a guardare il
suo padrone illuminato nel viso da quella sola lampadina ch'è su la
tavola, piccolo fiore cupo, sotto il paralumino viola. E ode Fiorvante
aggiungere con la voce grave e profonda che vien su dal fondo più
profondo dell'anima:

— Ed è giusto che sia così... Non può essere che così...

C'è un silenzio. E Fiorvante dice ancora parlando più a sè stesso che
al suo amico taciturno:

— Il cuore dimentica... La vita cammina...

Il suo padrone soffre. Come soffre il suo padrone!... Lo sente dalla
sua voce, Pierotto, dalla sua voce che squilla, giovane e forte,
nell'ora lieta, che si fa cupa, velata di lacrime, quando il cuore
fa male. E Pierotto s'è accucciato a terra, s'è trascinato fino al
padrone, cane fedele che non si stacca dal capezzale quando il padrone
è malato...

E ancora una volta la voce di Fiorvante ripete:

— Il cuore dimentica... La vita cammina...

Di sotto in su Pierotto lo guarda: ha gli occhi pieni di lacrime, ma
un sorriso appare agli angoli della bocca, su le labbra dolorose: un
sorriso che è una smorfia.

— Ti rammenti? Il piccolo racconto cinese che leggevamo a bordo e che
anche a te piaceva tanto nella sua desolata, amara verità... Madama
Lu... Il ventaglio bianco...

E, dal petto, dalla gola, da tutto l'essere di Fiorvante prorompe una
risata che suona grottesca e tragica nella stanza, una risata che fa
male a sentirla. E ancora la voce, tra le risa, ripete:

— Il ventaglio bianco... Il ventaglio bianco...

Pierotto non sa mai bene perchè fa le cose. Non è uno psicologo,
Pierotto... Ma le fa. E a vedere il suo padrone con gli occhi pieni
di lacrime, a sentirlo ridere così, si trascina ancora sul tappeto
e bacia, senza che il padrone se ne accorga, la mano ch'egli ha
abbandonata, giù dalla poltrona, verso terra...


69.

E Fiorvante rivede laggiù, in fondo, nel buio della stanza, Madama Lu
che fa vento su la sepoltura del signor Tao, affinchè la terra possa
asciugarsi più presto, Madama Lu che fa vento col suo bel ventaglio
bianco, il ventaglio più bello e più bianco che si sia mai veduto...


70.

Cina, racconti e paesaggi cinesi, fantasie del Celeste Impero, nel
mondo dei favolosi incanti dove le donne son fiori e dove gli Dei son
di porcellana, favole di lontananza e d'impossibile, poesia e filosofia
d'Estremo Oriente, favole d'un mondo vecchissimo e nuovissimo ancora,
favole di laggiù, verità di quaggiù, racconti d'Estremo Oriente che
chiudon le verità dell'Estremo Occidente, tremenda monotonia del mondo,
dove il male è sempre uguale, dove l'uomo è sempre lo stesso, dove
la storia è sempre quella, poesia che tutti sognano, in cui nessuno
crede e che tutti tramandano, verità di cui tutti soffrono, cui nessuno
sfugge e che nessuno insegna, pena e vergogna d'essere uomini e niente
altro che uomini, piccole cose d'un immenso mondo, immenso mondo di
piccole cose...

                             . . . . . . .

Madama Lu del giuramento fedele, Madama Lu della vita che non si ferma
sui caduti o su gli sperduti, tu hai prestato a Mimì, a Maud, tu presti
sempre a tutte il tuo bel ventaglio bianco che col muovere delle sue
penne leggere abbrevia il tempo del ricordo fedele e allunga quello
dell'oblio inevitabile... Ma ci sarà un giorno anche per te, Madama
Lu, per il tuo nome che tu avrai scritto su la terra umida delle tue
lacrime — ci sarà per asciugare più presto, per più presto cancellare
— ci sarà un giorno Madama Lu, un ventaglio bianco anche per te....


FINE.


    _Rocca S. Casciano, 1922. — Prem. Stab. Tip. Licinio Cappelli._



Opere di Lucio d'Ambra


=Romanzi e novelle=

  _Il Miraggio_, romanzo — 2ª edizione.
  _L'Oasi_, romanzo — 3º migliaio.
  _L'Ardore di Settembre_, novelle (esaurito.)
  _L'Amore e il Tempo_, novelle.
  _Il «Damo Viennese»_, romanzo — 8º migliaio.
  _Il Re, le Torri, gli Alfieri_, romanzo — 6º migliaio.
  _La Rivoluzione in sleeping-car_, romanzo — 15º migliaio.
  _L'Ombra della Gloria_, romanzo — 10º migliaio.
  _Il Mestiere di marito_, romanzo.
  _L'Uomo che ha fatto uscire il Papa_, romanzo — 10º migliaio.
  _Il Trampolino per le Stelle_, novelle — 5º migliaio.
  _Mister Wiskey, mio rivale_, romanzo (di prossima pubblicazione).
  _La Commedia a Pontassieve_, novelle (di prossima pubblicazione).
  _Madame Pompadourette_, romanzo (in preparazione).

=Teatro=

  Vol. I. — _L'Amore ricama_, 1 atto — _Castello di carte_, 1 atto —
    _Marionette_, 1 atto — _Fantasia_, 1 atto — _La Destra e la
    Sinistra_, 1 atto — _Acqua acqua, fuoco fuoco_, 1 atto — _I miei
    amici di Sans-Souci_, 1 atto.
  Vol. II. — _Acqua stagnante_, 3 atti — _La via di Damasco_, 3 atti —
    _Il Giardino d'Armida_, 2 atti.
  Vol. III. (In collaborazione con Giuseppe Lipparini) — _Il Bernini_,
    4 atti, in versi — _Goffredo Mameli_, 5 atti, in versi — _Il
    Matrimonio improvviso_, 3 atti._
  Vol. IV. — _Effetti di luce_, 2 atti — _Gli Angeli Custodi_, 3 atti —
    _Gli Esuli_, 4 atti.
  Vol V. — _La Diva della Scala_, 4 atti — _La Frontiera_, 3 atti.

=Critica=

  _Le Opere e gli Uomini_, 1ª serie.
  _Le Opere e gli Uomini_, 2ª serie (di prossima pubblicazione).
  _Storia della Letteratura Francese_.
  _La Commedia dal mio palco_ (1ª serie) Rassegne drammatiche
    della «Nuova Antologia» (in preparazione).



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** End of this LibraryBlog Digital Book "Il trampolino per le stelle - Tre dialoghi e due racconti" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home