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Title: Le Novelle della Pescara
Author: D'Annunzio, Gabriele
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Le Novelle della Pescara" ***


                          Gabriele d'Annunzio


                               Le Novelle
                             della Pescara


                 LA VERGINE ORSOLA. — LA VERGINE ANNA.
              GLI IDOLATRI. — L'EROE. — LA VEGLIA FUNEBRE.
           LA CONTESSA D'AMALFI. — LA MORTE DEL DUCA D'OFENA.
    IL TRAGHETTATORE. — L'AGONIA. — LA FINE DI CANDIA. — LA FATTURA.
        I MARENGHI. — LA MADIA. — MUNGIÀ. — LA GUERRA DEL PONTE.
                 TURLENDANA RITORNA. — TURLENDANA EBRO.
                          IL CERUSICO DI MARE.



                                 MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI.
                                  1904
                           Settimo migliaio.



                          PROPRIETÀ LETTERARIA


       _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
     per tutti i paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia_

                         Tip. Fratelli Treves.



LA VERGINE ORSOLA.


I.

Il viatico uscì dalla porta della chiesa a mezzogiorno. Su tutte le
strade era la primizia della neve, su tutte le case la neve. Ma in alto
grandi isole azzurre apparivano tra le nuvole nevose, si dilatavano
sul palazzo di Brina lentamente, s'illuminavano verso la Bandiera. E
nell'aria bianca, sul paese bianco appariva ora subitamente il miracolo
del sole.

Il viatico s'incamminava alla casa di Orsola dell'Arca. La gente si
fermava a veder passare il prete incedente a capo nudo, con la stola
violacea, sotto l'ampio ombrello scarlatto, tra le lanterne portate dai
clerici accese. La campanella squillava limpidamente accompagnando i
salmi susurrati dal prete. I cani vagabondi si scansavano nei vicoli
al passaggio. Mazzanti cessò di ammucchiare la neve all'angolo della
piazza e si scoprì la zucca inchinandosi. Si spandeva in quel punto dal
forno di Flaiano nell'aria l'odore caldo e sano del pane recente.

Nella casa dell'inferma gli astanti udirono gli squilli, e udirono su
per le scale il salire dei vegnenti. La vergine Orsola era sul letto,
supina, tenuta dallo stupore della febbre, da una sonnolenza inerte,
con la respirazione frequente rotta da i rantoli. Posava sul guanciale
la testa quasi nuda di capelli, la faccia d'un colore quasi ceruleo
ove le palpebre erano semichiuse sopra gli occhi vischiosi e le narici
parevano annerite dal fumo. Ella faceva con le mani scarne piccoli
gesti incerti, vaghi conati di prendere qualche cosa nel vuoto, strani
segni improvvisi che davano quasi un senso di terrore a chi stava
da presso; e nelle braccia pallide le passavano le contrazioni dei
fasci muscolari, i sussulti dei tendini; e a volte un balbettamento
inintelligibile le usciva dalle labbra, come se le parole le si
impigliassero nella fuliggine della lingua, nel muco tenace delle
gengive.

Nella stanza si faceva quel silenzio tragico che suole precedere gli
avvenimenti supremi, un silenzio dove il respiro dell'inferma e i
gesticolamenti incerti e le irruzioni rauche della tosse aggravavano
l'attesa della morte. Dalle finestre aperte entrava l'aria pura ed
uscivano le esalazioni della malattia. Un vivo baglior bianco si
rifrangeva dalla neve coprente i cornicioni e i capitelli corintii
dell'arco di Portanova: il fiore cristallino dei ghiaccioli scintillava
d'iridi all'altezza della stanza. Nell'interno, su le pareti, pendevano
grandi medaglie sacre d'ottone, imagini di santi. Sotto un vetro una
Madonna di Loreto tutta nera il volto il seno le braccia, come un
idolo barbarico, luceva nella sua veste adorna di mezze lune d'oro.
In un angolo, un piccolo altare candido portava un vecchio crocifisso
di madreperla, tra due boccali turchini di Castelli pieni d'erbe
aromatiche.

Camilla, la sorella, l'unica parente, presso al letto, pallidissima,
tergeva le labbra nerastre e i denti incrostati dell'inferma con
un lino umido di aceto. Don Vincenzo Bucci, il medico, seduto,
guardava il pomo d'argento della bella mazza, le belle corniole
incise ch'egli aveva negli anelli delle dita, aspettando. Teodora La
Jece, una tessitrice vicina, stava ritta, in silenzio, tutta intenta
nell'atteggiare a dolore la faccia bianca e lentigginosa, gli occhi
d'acciaio, la bocca crudele.

— _Pax huic domui_ — disse il prete entrando. Apparve all'uscio Don
Gennaro Tierno, lunghissimo e smilzo su piedi enormi, con i movimenti
di un bruco che si snodi. Veniva dietro di lui Rosa Catena, una femmina
che avea fatto pubblica professione d'impudicizia al suo tempo verde e
che ora si salvava l'anima assistendo i moribondi, lavando i cadaveri,
vestendoli e accomodandoli nella bara, senza prender mercede.

Nella stanza di Orsola tutti erano in ginocchio, chini la faccia.
L'inferma non udiva; una stupefazione intensa le teneva ancora i sensi.
E l'aspersorio si levò su di lei, lucido nell'aria, aspergendo il
letto.

— _Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor..._ Ma Orsola non sentì
l'onda purificatrice che la rendeva più bianca della neve innanzi al
suo Signore.

Ella stirava davanti a sè con le dita fragili le coperte, aveva un moto
tremulo nelle labbra, nella gola il gorgoglio della parola che ella non
poteva profferire.

— _Exaudi nos, Domine sancte..._

Allora uno scoppio di pianto risonò fra le parole latine, e Camilla
nascose nella sponda del letto la faccia rigata di lacrime. Il medico
s'era accostato e teneva fra le dita inanellate il polso di Orsola.
Egli voleva scuoterla, apprestarla a ricevere il Sacramento dalle
mani del sacerdote di Gesù Cristo, fare che ella porgesse la lingua
all'ostia.

Orsola balbettò, gesticolò ancora vagamente nel vuoto, mentre la
sollevavano su i guanciali. Ella non udiva se non un tintinno nei nervi
dell'orecchio perturbati, a tratti un gridìo, a tratti una musica. Come
fu sollevata, subitamente il rossore livido della faccia si mutò in
un pallore di cadavere; la vescica di ghiaccio cadde dalla testa sul
lenzuolo.

— _Misereatur..._

Porse ella finalmente la lingua tremante, coperta d'una crosta mista di
muco e di sangue nerastro, dove l'ostia vergine si posò.

— _Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi..._

Ma ella non ritirò la lingua a quel contatto, perchè non aveva
conscienza di quel che faceva: lo stupidimento non era rotto dal lume
dell'Eucaristia. Camilla guardava con gli occhi rossi pieni di terrore
e di dolore quella faccia terrea dove ogni segno di vita mancava a poco
a poco, quella bocca aperta che pareva la bocca di uno strangolato.
Il prete seguitava, nella solennità del suo ministerio, le preghiere
latine lentamente. Tutti gli altri rimanevano genuflessi, sotto il
diffuso albore che fuori dalla neve suscitava il meriggio. L'odore
del pane caldo salì col vento e fece fremere le papille del naso ai
clerici.

— _Oremus!..._

Agli eccitamenti del medico Orsola richiuse le labbra. La riadagiarono
supina; poichè il prete entrava nel sacramento dell'Estrema Unzione. I
clerici genuflessi ripetevano sommessamente l'antifona dei sette Salmi
penitenziali.

— _Ne reminiscaris._

Teodora La Jece metteva di tratto in tratto un singulto soffocato,
coperta il volto con le palme, a' piedi del letto. Rosa Catena
stava ritta, accanto, con un occhio semichiuso da cui le colava di
continuo un liquido giallognolo e con l'altro occhio cieco e bianco
per un'albùgine; scorreva un rosario, mormorando. E mentre i Salmi
sommessamente dal pavimento si elevavano, su quel mormorio confuso
dominava la formula sacra del prete ungente in croce gli occhi, gli
orecchi, le narici, la bocca, le mani dell'inferma inerte.

— _... indulgeat tibi Dominus quidquid per gressum deliquisti. Amen._

Fu Camilla che scoperse i piedi della sorella: apparvero tra le coperte
due piedi gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano un
ribrezzo di membra morte. E su quella pelle secca le lacrime caddero,
si mescolarono con l'unzione estrema.

— _Kyrie eleison. Christe eleison. Kyrie eleison. Pater noster..._

L'unta del Signore stava ora immobile, respirando, con gli occhi chiusi
dinanzi alla luce, con le ginocchia sollevate e le mani strette fra le
cosce, nell'atteggiamento abituale dei tifosi. E il prete, poi ch'ebbe
premuto su le labbra di lei per l'ultima volta il crocefisso, fatto
il segno della croce alto in mezzo alla stanza con la gran mano, uscì
seguito dai clerici. Vagava ancora nella stanza quell'odore svanito
d'incenso e di cera che hanno le vesti sacerdotali. Fuori, sotto le
finestre, Matteo Puriello martellava le suola, canticchiando.


II.

I segni del male declinavano lentamente in favore: succedeva ora
il quarto settenario, succedeva ora al sopore stupido la quiete
naturale del sonno, una quiete durevole in cui a poco a poco tutte le
perturbazioni della conscienza si sedavano e le facoltà del senso si
facevano meno torbide e la frequenza della respirazione diminuiva. Ma
una tosse aspra scoppiava a tratti nel petto dell'inferma, facendo
sussultare le vertebre; una distruzione dolorosa della pelle e dei
tessuti molli si compiva ai gomiti, alle ginocchia, all'estremità
della schiena, di giorno in giorno. Quando Camilla si chinava sul
letto chiamando: — Orsola! — la sorella tentava d'aprire gli occhi,
di volgersi verso la voce. Ma la debolezza la opprimeva; lo stupore
torpido le occupava di nuovo il senso.

Ella aveva fame, aveva fame. Una bramosìa bestiale di cibo le
torturava le viscere vuote, le dava alla bocca quel movimento vago
delle mandibole chiedenti qualche cosa da masticare, le dava talvolta
alle povere ossa delle mani quelle contrazioni prensili che hanno
le dita delle scimmie golose alla vista del pomo. Era la fame canina
nella convalescenza del tifo, quella terribile avidità di nutrimento
vitale in tutte le cellule del corpo impoverite dal lungo malore.
Una scarsa onda di sangue restava a pena circolante pei tessuti; nel
cervello debolmente irrigato ogni attività ristagnava come in una
macchina a cui la forza motrice del liquido difetti. Soltanto, in
quella materia disordinatamente ora si producevano certe vibrazioni
determinanti certi atti che nella vita anteriore erano abituali; nè di
quel lavorìo meccanico aveva la convalescente conscienza. Ella per lo
più diceva ad alta voce le letanie; divideva in sillabe parole senza
nesso; minacciava punizioni a discepoli; cantava le strofe quinarie
di un inno a Gesù. Aveva per lo più nell'indice della mano sinistra
un moto di indicazione scorrente su l'orlo del lenzuolo, come se
ella con quel segno guidasse l'occhio dei discepoli su le righe del
libro. Poi, talvolta, la sua voce si sollevava, prendeva una solennità
quasi minacciosa, pronunciando le ammonizioni delle _sette trombe_,
ricordando confusamente le parole di fra Bartolomeo da Saluzzo ai
peccatori, avendo forse negli occhi stupefatti la visione di quelle
vecchie stampe impresse dal legno piene di deformi angeli tubanti e
di demonii debellati. Ma negli occhi non mai aveva uno sguardo. Le
palpebre pesanti coprivano l'iride a metà, quell'iride senza colore
spersa nella sclerotica che pareva come velata da un muco giallastro.
Ella stava nel suo letto distesa, con il capo su due guanciali. Quasi
tutti i capelli le erano caduti nella malattia; un pallor terreo,
di quei pallori sotto cui pare non anche possa rimanere la vita, le
occupava la faccia, le cavità della faccia; e il teschio ne traspariva,
e da tutta la restante aridezza della pelle lo scheletro traspariva,
e intorno a tutto quell'ossame nei punti di pressione sul letto i
tessuti aderenti degeneravano. Solo, un'immensa fame animava quella
rovina, torturava gl'intestini ove le ulceri tifose si cicatrizzavano
lentamente.

Fuori, era la novena di Natale, la bella festività de' vecchi e de'
fanciulli. Erano certi vespri chiari e rigidi, sotto cui tutto il
paese di Pescara si popolava di marinari e si empiva dei suoni delle
zampogne. L'odore acuto delle zuppe di pesce si propagava nell'aria
dalle cantine aperte. Lentamente alle finestre, alle porte, nelle vie i
lumi apparivano. Il sole indugiava roseo su i terrazzi di pietra della
casa di Farina, sui comignoli della casa di Memma, sul campanile di San
Giacomo. Le altezze illustri dominavano come fari sul paese occupato
dall'ombra. Poi, d'un tratto, la notte cominciava a constellare i
firmamenti; sopra le case di Sant'Agostino una mezza luna si affacciava
dal bastione tra il fanale rosso e il pino del telegrafo, crescendo.

Alla stanza di Orsola tutta quell'animazione di vita saliva in un
romorìo confuso di alveare che si sveglia.

Le pastorali delle zampogne si avvicinavano, di casa in casa, di porta
in porta. Avevano una religiosa e familiare letizia quei suoni che i
ciociari di Atina traevano da un otre di pecora e da un gruppo di canne
forate. La convalescente udiva, si sollevava sul letto; poichè quella
sensazione le ridestava i fantasmi di altre sensazioni trascorse, e gli
occhi le si empivano tutti di visione sacra, di presepi raggianti e di
bianchi peregrinaggi d'angeli in azzurri immacolati. Ella si metteva a
cantare le laudi, tendendo le braccia, restando talvolta con la bocca
aperta mentre la voce negli organi le mancava; si metteva a laudare
Gesù con una elevazione ardente e dolce di amore, trasportata dai suoni
delle pastorali appressantisi, allucinata dalle imagini sante delle
pareti. Ascendeva ai cieli, tra le musiche dei cherubini, tra i vapori
della mirra e dell'incenso.

— _Hosanna!_

La voce le mancava. Ella tendeva le braccia. Camilla, da presso, voleva
riadagiarla su i guanciali; si sentiva come soggiogare da quel cieco
entusiasmo di fede: le tremavano le mani, le labbra. Orsola ricadeva
stesa, con il capo abbandonato, scoperta la gola e il petto, mostrando
degli occhi solo il bianco nel gran pallore, sorridente a qualche
cosa invisibile, in un atteggiamento di vergine martire. Le zampogne
passavano; tardi passavano le canzoni del vino urlate dai marinari
nella notte tornanti alle barche della Pescara.


III.

L'istinto della fame si ridestava vivissimo, come più chiara si faceva
la coscienza. Quando dal forno di Flaiano saliva nell'aria l'odore
caldo del pane, Orsola chiedeva; chiedeva con un accento di mendicante
famelica, tendeva la mano, supplicando, alla sorella. Divorava
rapidamente, con un godimento brutale di tutto l'essere, guardando
d'intorno se qualcuno tentasse strapparle di tra le mani il cibo, in
sospetto.

La convalescenza era lunga e lenta; ma già un senso mite di sollievo
cominciava a spargersi per le membra, a liberare il capo. Per quella
sana nutrizione di albume e di carne muscolare un sangue novello si
produceva: i polmoni dilatati ora largamente dall'aria vivificavano
il sangue carico di sostanze; e i tessuti irrigati dall'onda tiepida
e rapida si colorivano ricomponendosi, si rinnovellavano nelle piaghe
di decubito, si ricoprivano di cute a poco a poco; e le attività
cerebrali a quell'affluire operavano sicure; e le innervazioni negli
organi sensorii non più perturbate rendevano limpida la sensazione;
e sul cranio i bulbi capilliferi rigermogliavano densi; e da quel
riordinamento delle leggi meccaniche della vita, da quel dispiegarsi
di energie prima latenti che la malattia aveva provocate, da quella
intensa brama che la convalescente aveva di vivere e di sentirsi
vivere, da tutto, lentamente, quasi in una seconda nascita, una
creatura migliore sorgeva.

Erano i giorni primi di febbraio.

Dal suo letto Orsola vedeva la sommità dell'arco di Portanova, i
mattoni rossicci tra cui crescevano l'erbe, i capitelli sgretolati
dove le rondini avrebbero appeso i nidi. Le viole di Sant'Anna nelle
screpolature del fastigio non anche fiorivano. Il cielo sopra si
apriva in una gentile beatitudine; e per l'aria a tratti giungevano
dall'arsenale gli squilli delle fanfare.

Fu allora che, quasi con un senso di meraviglia, ella riandò
l'esistenza trascorsa. Le pareva quasi che quel passato non le
appartenesse, non fosse suo: una lontananza smisurata ora la divideva
da quei ricordi, una lontananza come di sogno. Ella non aveva più
la valutazione sicura del tempo; ella doveva guardare gli oggetti
che la circondavano, fare uno sforzo della mente, raccogliersi a
lungo, per ricordare. Si toccava con le dita le tempie dove i capelli
rigerminavano tenui, e un sorriso vago di smemorata le sfiorava le
labbra pallide, le fuggiva negli occhi.

— Ah! — susurrò fioca; e il gesto delle dita alle tempie le ritornava,
gentilmente.

Era stata una vita triste ed uguale, in quelle tre stanze, fra tutte
quelle piccole statue deformi di Santi, fra tutte quelle imagini di
Madonne, fra tutti quei bimbi compitanti in coro ad alta voce per
cinque ore del giorno le medesime parole scritte col gesso su la
lavagna. Come le martiri gloriose della leggenda, come Santa Tecla
di Licaonia e Santa Eufemia di Calcedonia, le due sorelle avevano
consacrata la loro verginità allo Sposo celeste, al talamo di Gesù.
Avevano mortificata la carne a furia di privazioni e di preghiere,
respirando l'aria della chiesa, l'incenso e l'odore delle candele
ardenti, cibandosi di legumi.

Avevano stupefatto lo spirito in quell'esercizio arido e lungo di
sillabazione, in quel freddo distillìo di parole, in quell'opera
macchinale dell'ago e del filo su le eterne tele bianche odoranti
di spigo e di santità. Mai le loro mani cercarono la dolcezza delle
chiome infantili, il tepore di quel biondo angelico; mai le loro labbra
cercarono la fronte dei discepoli, in una effusione di tenerezza
improvvisa. Insegnavano la piccola dottrina, i piccoli canti della
religione; facevano prostrare tutte quelle teste gioconde lungamente
sotto le ammonizioni quaresimali; parlavano del peccato, degli orrori
del peccato, delle pene eterne, con la voce grave, mentre tutti quei
grandi occhi si empivano di meraviglia e tutte quelle bocche rosee si
aprivano allo stupore. Intorno, per le fantasie vive dei fanciulli le
cose si animavano: dal fondo dei vecchi quadri uscivano certi profili
giallognoli di santi misteriosi; e il Nazareno cinto di spine e di
stille sanguigne guardava da ogni parte con gli occhi agonizzanti,
perseguitando; e su per la gran cappa del camino ogni macchia di fumo
prendeva una forma atroce. Così infondevano esse la fede in quelle
anime inconsapevoli.

Ora il ricordo di quella sterilità si destò in Orsola torbidamente.
Ella risaliva, risaliva agli anni più lontani, per una naturale
tendenza dello spirito, si rifugiava alle fonti; e una pienezza
improvvisa di giubilo la inondò come se in un momento tutta la sua
infanzia le rifluisse al cuore.

— Camilla! Camilla! — chiamò. — Dove sei? — La sorella non rispose, non
era nell'altra stanza; era forse andata giù, nella chiesa, al vespro.
Allora la convalescente fu presa dalla tentazione di mettere i piedi a
terra, di provare i passi sul pavimento, così, sola.

Rideva d'un riso timido di bambina che esiti in un'impresa difficile;
socchiudeva gli occhi soffermandosi nel nuovo diletto di quel pensiero:
palpava con le dita le ginocchia, le caviglie esili, raccogliendosi,
come per misurare la forza; e rideva, rideva poichè il riso le
insinuava uno sfinimento dolce, una sottile delizia vibrante, in tutto
l'essere.

Una freccia di sole strisciava sul davanzale e feriva l'acqua di un
bacile in un angolo: il riflesso mobile tremolava nella parete, come
una fine trama di oro. Uno stuolo di colombi attraversò lo spazio e
venne a posarsi su l'arco; parve un augurio. Ella pianamente scansò
le coperte, esitò ancora: seduta su la sponda del letto cercava con
la punta del piede scarno e giallo la pianella di lana. La trovò,
trovò l'altra; ma ora una tenerezza subitanea l'assaliva e le si
empivano di lacrime gli occhi, e tutto tremolava dinanzi a lei in
un albore indistinto come se le cose in torno si facessero aeree ed
evanissero. Le lacrime le rigavano le guance, le si fermavano alla
bocca tiepide e salse: ella ne bevve alcune, ne sentì il sapore.
Fuori, dall'arco i colombi a uno a due si rialzavano, frullando. Orsola
con un moto delle fauci respinse il groppo del pianto; poi si poggiò
su la sponda, premette, si alzò finalmente in piedi; sorrise dagli
occhi umidi, guardandosi. Non sapeva di essere così debole, di non
potersi così reggere diritta su le gambe; aveva una strana sensazione
di formicolìo negli stinchi, di vellicamento nei muscoli, quasi la
sensazione d'un ferito che si levi quando l'osso infranto non anche è
bene saldato. Tentò di muovere un passo, avanzò il piede, timidamente;
ebbe paura, sedette di nuovo su la sponda, guardandosi in torno come
per assicurarsi che non la spiava alcuno. Poi cercò un punto di meta,
la finestra; e ricominciò, pianamente, con gli occhi fissi sul piede
che avanzava, in equilibrio, stringendosi lo scialle verde al petto,
invasa un poco dal freddo. Un subitaneo spavento la prese, a mezzo:
ella barcollò, agitò le mani, si rivolse verso il letto, mise tre o
quattro passi precipitosi, ricadde su la sponda. Stette un momento là,
in affanno; rientrò sotto le coperte dove ancora restava il tepore,
s'avvolse e si raccolse rabbrividendo.

— Come sono debole, Signore!

E guardava curiosa sul pavimento il luogo dove ella aveva fatto i
passi, quasi vi cercasse le orme.


IV.

Di questo primo tentativo non disse nulla alla sorella. Quando
sentì Camilla rientrare, chiuse gli occhi, stette immobile come
una dormiente, provando uno strano piacere in sè di quell'inganno,
ricacciando a forza indietro il riso che la vellicava a sommo del
petto e le saliva alle labbra. Ella gioiva di quel piccolo segreto:
tutti i giorni aspettava con un desiderio inquieto l'ora in cui Camilla
scendeva le scale; restava un momento in ascolto, seduta sul letto, fin
che giungeva il rumore del lento discendere; poi si levava, soffocando
gli scoppi di riso, appoggiandosi alle pareti, ai mobili, mettendo
gridi di paura sommessi ogni volta che le ginocchia minacciavano di
piegarsi, ogni volta che l'equilibrio mancava.

Dal forno di Flaiano a quell'ora saliva quasi sempre l'odore del pane
ad irritarla. Ella si avvicinava alla finestra per cercare il vento;
provava una tortura mista di voluttà nell'aspirare quella emanazione
sana, con la lingua nuotante nell'acquolina e gli occhi vivi di
cupidigia. Allora la prendeva una furia di frugare da per tutto,
di mettere da per tutto le mani, traendosi di quà di là con minore
lentezza, facendo sforzi inutili e irosi su le serrature di cui Camilla
aveva portato seco le chiavi. Una volta, in fondo al repostiglio di
un tavolino trovò una mela e ci ficcò i denti golosamente. Da tempo
nel regime severo della convalescenza, ella non assaporava un frutto.
In quello era un fresco profumo di rosa, il profumo che in certe mele
aggrinzite e scolorite si accoglie. Cercò di nuovo nel repostiglio,
sperando; ma non trovò se non una specie di siliqua verdognola, chiusa,
che doveva contenere forse un gruppo di semi; e la prese, la guardò
curiosamente, la nascose sotto il guanciale.

Passava così quell'ora, in segreto, con il godimento acre che danno ai
fanciulli in guarigione le cose proibite, le infrazioni degli ordini
dottorali, i piccoli furti. Solo testimone era un micio, tutto maculato
come una pelle di serpente, che girava talvolta intorno a Orsola con
un miagolìo familiare o si fermava teso invano a ghermire se fuori
volavano su l'arco i colombi. A poco a poco Orsola prendeva amore a
quel compagno discreto. Ella lo accoglieva nel tepore del letto, gli
sussurrava parole senza nesso, lo guardava lungamente leccarsi con la
lingua rosea la zampa, porgere la gola di lucertola alla blandizia,
una gola gialliccia che palpitava d'un suono rauco e dolce simile al
tubare delle tortore nei boschi. Ella, forse per un naturale ricorso di
quel suo misticismo anteriore, amava i bagliori tralucenti dagli occhi
dell'animale nella penombra, quegli sprazzi di fosforo, che emanavano
da una forma misteriosa e silenziosa nella tenebra.

Camilla vedeva tutte queste strane predilezioni della sorella, con
una specie di diffidenza ed anche di rammarico sordo, ma taceva. E
lentamente, quasi insensibilmente, quelle due anime si distaccavano, si
allontanavano per repulsa.

Erano prima vissute in una comunione di abitudini e di sentimenti
continua, perchè in loro ogni diversità d'indole e ogni insorgimento
si agguagliava e placava nell'unica fede, nel culto infrangibile della
deità di Cristo, in quel contemplamento ch'era divenuto lo scopo della
vita loro. Ma come il culto le assorbiva intere, in loro i legami
della consanguineità a poco a poco erano stati coperti e sopraffatti
da quelli della comune religione; quindi non mai una espansione di
tenerezza le aveva ricongiunte, non mai un abbandono di confidenza e
di ricordi o di speranze, come sorelle. Erano correligionarie, erano
membri della grande famiglia di Gesù spersi su la terra e agognanti il
Cielo.

Così che a pena, per la rinnovazione operata prima dalla malattia e
dopo dal regime, in Orsola si manifestarono inaspettati atteggiamenti
d'indole e modi inconsueti, la repulsa avvenne inevitabile e la voce
del comun sangue sopita non si potè levare a contrasto.


V.

I discepoli tornarono: fu la prima volta una mattina del marzo
nascente. Orsola s'era levata dal letto; stava seduta su la sponda,
col calore del sole alla nuca ed agli omeri. Nella stanza si sentiva
l'odore agro dell'aceto che Camilla aveva versato nei calamai muffiti;
e dalle finestre raramente il vento recava gli effluvii delle viole già
fiorite su l'arco.

L'infanzia alitò nella stanza come un fiato di quel vento marzolino.
Fu prima su l'uscio un sospingersi tumultuoso di piccole teste che
volevano sollevarsi le une su le altre per vedere; poi l'esitazione, la
timidità, una specie di meraviglia ingenua dinanzi alla maestra pallida
pallida e scarna che i discepoli riconoscevano a pena.

Ma la vergine sorrideva, sotto un turbamento improvviso di tutto il suo
sangue; li chiamava a sè, confondeva i loro nomi che le si affollavano
alle labbra, tendeva loro le mani. A uno, a due, a tre, i bimbi si
avanzavano, volevano prenderle le mani per metterci la bocca sopra,
ridicevano le parole di augurio imparate a casa, ingoiando per la furia
le sillabe.

— No, no, non più! — esclamava Orsola, sopraffatta, ma abbandonando le
mani a quelle bocche tiepide e molli. Si sentiva quasi mancare.

— Camilla, tienili, tienili.

Ogni bimbo recava un dono: erano fiori, erano frutta. Le violette
avevano subito sparso il profumo nell'aria, e in quel profumo, in
quella luce tutte quelle facce infantili invermigliate dal buon sangue
plebeo sorridevano.

Poi la lezione, nell'altra stanza, cominciò. La prima classe diceva a
voce alta le vocali e i dittonghi, la seconda sillabava; e su quel coro
chiarissimo a tratti si levava l'ammonimento di Camilla.

— _La, le, li, lo, lu..._

Negli intervalli di silenzio, si udiva Matteo Puriello picchiare su le
suola o il telaio della Jece sbattere.

— _Va, ve, vi, vo, vu..._

Allora Orsola s'infastidì. La monotonia de' rumori e delle voci le
dava al capo una pesantezza ingrata, le conciliava il sonno, mentre
ella voleva essere desta, mentre ella sentiva ancora intorno a sè la
respirazione dei fanciulli, il soffio giocondo di quelle vite.

— _Bal, bel, bil, bol, bul..._

Prese i fiori, li mise in un bicchiere pieno d'acqua per conservarli.
Li fiutò poi lungamente, stette con le narici tra quel fresco,
chiudendo gli occhi, raccogliendosi tutta in quel peccato d'olfatto.

— _Gra, gre, gri, gro, gru..._

Una gran nuvola bianca velò il sole. Orsola si accostò alla finestra,
si porse al davanzale per guardar giù nella piazza. Di fronte, Donna
Fermina Memma in una roba rosata stava sul balcone, tra i vasi dei
garofani; e un gruppo di ufficiali passava sotto a lei ridendo e
facendo un tintinnìo di sciabole sul lastrico. Più in là, nel giardino
pubblico le piante di lilla erano sul fiorire, la punta del gigantesco
pino si piegava al vento. Dalla cantina di Lucitino usciva Verdura,
l'eterno ubriaco, barcollando e vociferando.

Orsola si ritrasse: era la prima volta, dopo tanto, che si affacciava
su la piazza. Le parve di essere in alto in alto, guardando in giù; la
prese una leggera vertigine.

— _Nar, ner, nir, nor, nur..._

Il coro dentro seguitava, ancora, ancora, ancora.

— _Pla, ple, pli, plo, plu..._

Orsola si sentiva soffocare, venir meno, a quella tortura: i suoi
poveri nervi indeboliti cedevano. Il coro seguitava, al ritmo della
bacchetta di Camilla battuta sul tavolino, implacabile.

— _Ram, rem, rim, rom, rum..._

— _Sat, set, sit, sot, sut..._

Allora un impeto subitaneo di singhiozzi squassò la convalescente,
l'abbattè sul letto. Ella singhiozzava, così, bocconi, a braccia
aperte, premendo la faccia su i guanciali, scossa dai sussulti, senza
potersi frenare.

— _Tal, tel, til, tol, tul..._


VI.

Le erano ricresciuti tutti i capelli, crespi e castanei, come prima.
Ella aveva ora una curiosità grande di guardarsi nello specchio; perchè
Rosa Catena, con uno di quei lezii che sempre svelavano in lei l'antica
femmina impudica, passandole la mano sul corpo le aveva detto: —
Bellezza!

Aspettò dunque che Camilla uscisse; poi scese dal letto, staccò
dalla parete uno di quelli specchi _rococò_ a cornice d'oro appannati
di macchie verdi; con un lembo della coperta tolse la polvere e si
guardò dentro, sorridendo. Ella aveva tutto il collo nudo e pe 'l
collo certe vene azzurrognole quasi in rilievo, e nella testa piccola
e lunga qualche cosa di caprino, la bocca fine, il mento acuto, gli
occhi castanei come i capelli, ma più tendenti al giallo. Il pallore
trasparente e il sorriso davano una grazia nuova, una nuova giovinezza
ai suoi ventisette anni.

Ella restò a guardarsi a lungo; e si piaceva di allontanare lentamente
lo specchio e di veder sparire l'imagine in quella luce un po' glauca
come in un velo d'acqua marina e quindi riemergere. La vanità la
conquistava, la occupava. Ella si accorse di tante piccole cose a
cui prima non aveva badato mai; per esempio, di un neo simile a una
lenticchia, che le macchiava la pelle su la tempia sinistra, e di una
cicatrice leggera che le attraversava l'arco di un sopracciglio. Restò
così, a lungo. Poi, assalita da una gioia repentina cercò in torno un
qualche diletto.

Quella capsula vegetale, ch'ella aveva trovato in fondo a un
repostiglio, s'era aperta come in due valve scoprendo un grappolo denso
di semi nerastri. Ogni seme pareva legato a filamenti sottilissimi
d'una lucidità argentea; e il grappolo si manteneva compatto. Ma a
pena la Vergine vi mise un soffio, un nuvolo di piumoline bianche si
levò nell'aria e si sparpagliò qua e là brillando: erano le _spie_.
I semi parevano alati, parevano insetti ésili ed evanescenti che si
dissolvessero incontrando i raggi del sole o parevano lanugini di cigno
a pena visibili; ondeggiavano, ricadevano, si mescolavano ai capelli
di Orsola, le sfioravano la faccia, la coprivano tutta. Ella rideva,
difendendosi da quell'invasione, cercando di scacciare quella pelurie
che le vellicava la pelle e le si attaccava alle mani, ma le risa le
impedivano i soffii.

Alla fine si distese lunga sul letto, lasciò che tutta quella molle
nevicata le scendesse sopra lentamente. Teneva gli occhi semichiusi
per prolungare la dolcezza; e a mano a mano che il sopore la invadeva,
si sentiva come sommergere in un giaciglio alto di piume. La luce che
entrava nella stanza era una di quelle pallide chiarità pomeridiane
del mese di marzo, ove il sole ride modestamente estinguendosi come un
indizio di aurora in un gran cielo albeggiante.

Camilla trovò la sorella ancora addormentata con accanto lo specchio,
con ne' capelli le _spie_.

— Oh, Signore Gesù! oh Signore Gesù! — mormorò tra i denti,
congiungendo le mani, in atto di compassione amara.

La cristiana veniva dalla chiesa, dove aveva cantate le litanie
per l'Annunciazione e aveva ascoltata la predica sul messaggio
dell'Arcangelo all'ancella di Dio. _Ecce ancilla Domini_. L'eloquenza
sonora del frate predicante l'aveva inebriata; le restavano ancora
negli orecchi certe parole ammonitrici.

Orsola si destava in quel momento con un lungo sbadiglio voluttuoso, e
stirava le membra.

— Ah! sei tu, Camilla? — disse ella un po' confusa da quella presenza.

— Sono io, sono io! Tu ti perderai, sciagurata, tu ti perderai —
irruppe la devota, additando lo specchio sul letto. — Tu hai tra le
mani lo strumento del demonio...

Ed eccitata dalla prima invettiva, ella seguitava, sollevava la voce,
gittava le frasi ardenti della predica con grandi gesti nell'aria,
incalzava nelle minacce dei castighi eterni, non si rivolgeva soltanto
alla pericolante, assorgeva ad ammonire l'universo dei peccatori.

— _Memento! Memento!_

Orsola non intendeva più nulla, poichè tutta quella vociferazione
l'aveva stordita.

D'un tratto dall'angolo della piazza scoppiò la fanfara militare con
uno squillo di venti trombe.


VII.

L'ultima stanza della casa era stretta e bassa, con le travi
del soffitto annerite dal fumo, piena d'un lezzo di cipolle, di
rigovernatura e di carbone spento. I vasi di rame pendevano alla parete
in ordine, senza luccichìo; i piatti di Castelli stavano in ordine su
la mensola con le loro gioconde pitture di fiori, di uccelli e di teste
ridenti; le antiche lucerne di ottone, le bottiglie vuote, le foglie di
erbaggio non più fresche erano sparpagliate per le tavole; e su tutto
dominava proteggitore San Vincenzo effigiato con il gran libro in una
mano e la fiamma rossa in mezzo al cranio.

Là, un tempo, Orsola stando in mezzo ai vapori dell'acqua bollente e
alle esalazioni dei cibi vegetali, spesso aveva sentito giungersi sul
capo dalla piccola finestra alta i ritornelli d'una canzone libertina
e certi larghi schiamazzi di risa che s'inseguivano. I canti e le risa
crescevano nelle sere di estate, tra i passagalli delle chitarre, fra
gli urti della danza sul terreno. Tutti i romori della vita d'una
suburra infima salivano, in certe ore, a quella altezza e facevano
tremare d'orrore le povere spose di Gesù chine in umiltà su i tegami
d'argilla pieni dell'eremitica innocenza dei legumi e delle verdure.
Ma ora, al novel tempo e gaio, come un giorno udì Orsola le voci, una
voglia nell'animo le corse di spinger la vista fuori.

Camilla non stava nella casa; era la domenica quinta di Lazzaro.
Urgeva nell'aria, dopo le brevi piogge, con un più dolce alito di
calore l'imminenza dell'aprile; e in quell'aria la pulzella più aveva
pieno e chiaro il senso del suo rinascimento. E, in ozio, girando per
le stanze, ebbe ella naturalmente la curiosità di guardare, presa al
fascino malsano che gli spettacoli di lascivia esercitano anche sugli
animi verecondi.

Ella salì su una sedia all'altezza dell'apertura; ma prima di spingere
lo sguardo innanzi, fu invasa da un turbamento di tremiti, e ritta
su la sedia si volse intorno temente se non qualcuno la sorprendesse
nell'atto.

Intorno tutto era quieto; ogni tanto una gocciola d'acqua cadeva
dall'alto in un bacile, sonando. Di fuori salivano le voci ed
allettavano.

La vergine rassicurata, guardò. Nel vicolo, sotto la pioggia il
fradiciume aveva fermentato come un lievito; una melma nera copriva
il lastrico, ove spoglie di frutta, residui di erbe, stracci,
ciabatte marce, falde di cappello, tutto il ciarpame sfatto che la
miseria gitta nella strada, si mescolavano. Su quella cloaca, in
cui il sole suscitava insetti e miasmi, una fila di case nane pareva
ansare addossata alla Caserma. Da tutte le finestre però, da tutti
gli spiragli si riversavano le piante dei garofani non più contenute
nei vasi; e i grandi fiori rosei e rossi penzolavano al sole aperti
magnificamente. E tra quei fiori apparivano le facce flosce e dipinte
delle meretrici, passavano le oscenità delle canzonette, le risa
gutturali; e giù sul lastrico, sotto le inferriate della caserma,
altre femmine si tendevano verso i soldati parlando a voce alta,
provocandoli. E i soldati, che sentivano nel sangue alla primavera
rifiorire i mali di Venere, allungavano le mani di tra le sbarre pur di
brancicare qualcosa, divoravano con gli occhi in fiamme quelle femmine
disfatte già per anni dalla lascivia di tante ciurme briache e di tanti
facchini fradici.

Orsola stette lì stupidita allo spettacolo di tutta quella corruzione
fermentante pe'l buon sole di quaresima e saliente fino a lei. Non si
ritraeva ancora; ma come alzò gli occhi, vide in un abbaino sul tetto
della caserma un uomo biondo che la guardava e sorrideva. Ella scese
dalla sedia a precipizio, più pallida di prima, credendo di sentire
la voce di Camilla. Corse nella sua stanza, e si gettò sul letto,
sbigottita, senza respiro, come se l'avesse perseguitata qualcuno
minacciandola.


VIII.

Da quel giorno, tutte l'ore, tutti i momenti in cui Camilla non era
nella casa, la tentazione diabolica la trascinava a quello spettacolo.
Ella prima pugnava, vanamente, senza forze, lasciandosi vincere. Andava
là con l'ansia sospettosa di chi va a un ritrovo di amore; ci restava
lungo tempo, dietro la persiana quasi cadente, mentre i miasmi del
lupanare la turbavano e la corrompevano.

Ella spiava tutto, acuendo lo sguardo, cercando di penetrare negli
interni, cercando di scoprire qualche cosa tra i garofani che
chiudevano le finestre. Il sole era caldo e pesante: sciami d'insetti
turbinavano nell'aria. Ad intervalli, quando entrava nel vicolo qualche
uomo, venivano dalle finestre i richiami delle aspettanti: femmine
discinte, con il seno scoperto, uscivano fuori ad offerirsi. L'uomo
spariva in una delle porte oscure con l'eletta. Le deluse gittavano
scherni e risa dietro la coppia, e si rimettevano all'agguato tra i
garofani.

Così nella vergine si accendeva la brama. Il bisogno dell'amore, prima
latente, si levava ora da tutto il suo essere, diventava una tortura,
un supplizio incessante e feroce da cui ella non sapeva difendersi.

Un fiotto di sanità caldo la riempiva; certe sùbite allegrezze le
muovevano il sangue, le suscitavan nel petto quasi battimenti d'ale,
le inspiravano canti nella bocca. A volte un soffio, uno di quei
piccoli fremiti dell'aria che si dilata sotto il sole, una canzone
di mendicante, un odore, un nulla bastava a darle smarrimenti vaghi,
abbandoni in cui le pareva di sentire su tutte le membra come il
passaggio carezzevole del velluto d'un frutto maturo. Ella era così
librata e perduta in abissi ignoti di dolcezza. L'irritazione della
continenza, la sovrabbondanza insolita de' succhi, quel distendersi
continuo dei nervi sotto gli stimoli la tenevano in una specie
di stordimento simile al primo stadio dell'ebrezza. Il passato si
dileguava, si assopiva in fondo alla memoria, non risorgeva più. E
in ogni ora, in ogni luogo il desiderio le tendeva insidie: i santi
delle mura, le madonne, i cristi crocefissi ignudi, le piccole figure
di cera deformi, tutte le cose in torno, prendevano per lei apparenze
impure. Da tutte le cose l'impurità emanava e le alitava su la persona,
affocantemente.

— Ecco, ora scendo nella strada — diceva ella a sè stessa, non reggendo
più.

Poi le mani le tremavano su la porta, nell'aprire. Lo stridore del
chiavistello scorrente negli anelli la sbigottiva. Ella tornava in
dietro, si gettava sul letto quasi svenendosi, livida, sotto una larva
d'uomo.


IX.

La domenica delle Palme ella uscì dopo tanti mesi, per la prima volta;
poichè Camilla voleva condurla a render grazie della guarigione al
Signore. Quando le campane si misero a squillare, Orsola s'affacciò.
Tutto il paese era ridente nel grande riso pasquale del sole d'aprile.
Tutto il contado invadeva le vie con il segno pacifico dei rami di
olivo.

Ella ora doveva vestirsi in festa: la gente nelle vie l'avrebbe
guardata passare. Una furia di vanità sùbito la prese: si chiuse nella
stanza, cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto
di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro per anni:
erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette e cangianti,
che un tempo la crinolina avea forse gonfiate in torno alle anche di
una sposa novella; erano lunghi busti con màniche ampie, mantelline
color di tortora orlate di merletti bianchi, veli intrecciati di fili
d'argento, collari di tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per
l'uso, goffe, macchiate dall'umido.

Orsola sceglieva, come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di
canfora le mani nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli
la irritavano. Non trovava alfine nulla che le andasse alla persona!
Chiuse la cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del
piede. Le campane sonavano per la terza volta. Ella si mise in furia
il consueto abito triste color di cenere, in conspetto di Camilla,
mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime.

Le campane chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un
mobile luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva
di ramoscelli; e la candida clemenza della benedizione cristiana si
diffondeva per tutta l'aria da quelle selve, come se si appressasse
il Galileo, il re povero e dolce sedente su l'asina fra la turba dei
discepoli, in contro agli osanna del popolo redento. _Benedictus qui
venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis!_

Nella chiesa la folla era immensa, sotto la selva delle palme. Per
una di quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse di
popolo, Orsola fu divisa da Camilla; restò sola in quel rigurgito, in
mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quegli urti e quegli
aliti. Ella tentava d'aprirsi un varco: le sue mani incontravano la
schiena d'un uomo, altre mani tiepide il cui tocco la turbava. Ella
si sentiva sfiorare il volto da una foglia d'olivo, contrastare il
passo da un ginocchio, spingere il fianco da un gomito, offendere
il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. Sotto l'odore
dell'incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica, in
tutto quell'ammasso di cristiani e di cristiane, piccole scintille
erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; amori segreti si
ritrovavano e si congiungevano. Passavano accanto a Orsola fanciulle
della campagna con palme sul petto, con un riso fuggente nel bianco
degli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano; ed ella sentiva
in torno a sè così passare l'amore, poneva il suo corpo tra quei corpi
che si cercavano, era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi,
separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia. Ma
qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel sangue. In
un punto ella s'incontrò a faccia a faccia con un soldato biondo; quasi
gli posò il capo su la tunica, perchè una colonna di gente dietro la
spingeva. Ella levò gli occhi; e il giovine sorrise come aveva sorriso
un giorno dall'abbaino della caserma. Dietro, l'urto seguitava: il
vapore dell'incenso si spandeva più denso, e il Diacono dal fondo
cantò:

— _Procedamus in pace._

E il coro rispose:

— _In nomine Christi. Amen._

Era l'annunzio della processione, che mise un sommovimento enorme
in tutto il popolo. Per istinto, senza pensare, Orsola si attaccò
all'uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi sollevare
da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si sentì ne' capelli
quel fiato virile che sapeva lievemente di tabacco. Ella andava così,
indebolita, sfinita, oppressa da quella voluttà che l'aveva colta
d'improvviso, non vedendo se non un barbaglio dinanzi a sè.

Allora dall'altare maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli
di fumo cerulo e dolce sul popolo; e una processione candida si svolse
nel mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d'olivo e
cantavano.


X.

Tutta la settimana santa protesse delle sue complici ombre l'amore
della vergine Orsola. Le chiese erano immerse nel crepuscolo della
Passione, i crocifissi sugli altari erano coperti di drappi violacei; i
sepolcri del Nazareno erano circondati di grandi erbe bianche cresciute
nei sotterranei; un profumo di fiori e di belzuino pesava nell'aria.

Là Orsola, inginocchiata, attendeva, fin che un passo leggero dietro
di lei la faceva trasalire. Ella non poteva volgersi, perchè Camilla la
vigilava; ma si sentiva tutta abbracciare dallo sguardo di quell'uomo,
come da un fuoco sottile, e una tenerezza torbida le scendeva nella
carne. Allora fissava i ceri digradanti su un triangolo di legno presso
l'altare. I preti cantavano dinanzi a un gran libro; e ad uno ad uno i
ceri venivano spenti. Non ne rimanevano che cinque, non ne rimanevano
che due; l'oscurità si avanzava dal fondo delle cappelle su la gente
in preghiera. L'ultima fiammella finalmente spariva; tutte le panche
risonavano sotto le battiture delle verghe. Orsola nel buio, a pena
si sentiva toccare da due mani cercanti, scattava dal pavimento, con
un sussulto, smarrita. Poi, quando usciva dalla chiesa, il pensiero
d'aver violato un luogo sacro la empiva di rimorso: subitamente, la
paura del castigo risorgeva. Ella s'inabissava poi come in un sogno
dove la figura livida di Gesù morto e lo scroscio delle battiture e i
brividi della carne sollecitata e l'odor grave dei fiori e gli aliti
di quell'uomo biondo si mescolavano in un senso dubbio di dolore e di
piacere.


XI.

Ma come Gesù trionfante risalì alla gloria dei cieli, gli aromi
pasquali non più confortarono l'amore della vergine Orsola. Scena
dell'amore fu allora il dominio dei gatti randagi e dei colombi
torraioli. Dall'abbaino alla finestra i dolci segni correvano: tra
mezzo, il lupanare si sprofondava come un fossato d'acque limacciose
a' cui cigli crescessero fiori alimentati dalla putredine. I colombi
sorvolavano con il luccichio verde e grigio delle loro piume.

L'amadore aveva un bel nome antico, si chiamava Marcello, e aveva un
bel fregio rosso e d'argento su le maniche della tunica. Scriveva
epistole piene di fuoco eterno, con frasi impetuose che davano
all'amatrice deliquii di tenerezza e fremiti di voluttà mal contenuta.
Orsola leggeva quei fogli in segreto, li teneva notte e giorno nel
seno: pe 'l calore la scrittura violetta le s'imprimeva su la pelle, ed
era come un gentile tatuaggio d'amore, di cui ella gioiva. Le risposte
di lei non finivano mai: tutta la sapienza grammaticale di una maestra,
tutto il tesoro delle apostrofi psalmistiche di una devota, tutta la
fluente sentimentalità di una pulzella tardiva si riversava su la carta
de' quaderni scolastici rigati di turchino. Ella scrivendo si obliava,
si sentiva trascinare in un'onda di verbosità sonore. Pareva quasi che
una facoltà novella si esplicasse in lei e prendesse forme maniache,
d'improvviso. Quel gran sedimento di lirismo mistico accumulato per
la lettura de' libri di preghiera in tanti anni di fedeltà allo Sposo
Celeste, ora, scosso dal tumulto dell'amore terreno, si levava su
confusamente per assumere sapori di profanità nuovi. Così le lacrimose
implorazioni a Gesù si mutavano in sospiri di speranza verso letizie
d'amplessi non eterei, le offerte del fior dell'anima al Sommo Bene si
mutavano in tenere dedizioni della carne al disio del biondo amante, e
il lume afrodisiaco della luna si cingeva di tutti gli epiteti per cui
va radioso lo Spirito Santo, nè gli zefiri della primavera mancavan di
rapire gli aromi alle mense del Paradiso.


XII.

Era messaggero uno di quegli uomini che paion cresciuti su, come
funghi, dall'umidità della strada immonda ed hanno in tutta la figura
quasi una nativa tinta di fango; di quelli uomini bigi, che s'insinuano
per tutto, che si trovano per tutto ov'è un centesimo da guadagnare, un
po' di untume da leccare, uno straccio da sottrarre, oggi rigattieri
e domani procaccianti in atto di serve o di male femmine, oggi falsi
sensali di mercatanzia e domani accalappiatori di cani erratici.

Costui aveva un nome melodrammatico, si chiamava Lindoro: dal quartiere
dell'Ospedale al bastione di Sant'Agostino una popolarità grande s'era
fatta in torno a questo nome. Nasceva costui dall'accoppiamento d'un
sonatore ambulante di clarinetto con una piazzaiuola rivenditrice
di fruttaglia, ereditando l'istinto nomade del padre e la naturale
avarizia della madre. S'era prima strascicato per gli immondezzai di
tutte le case, con la scopa o il canestro; aveva poi fatto il guattero
in una bettola, dove soldati e marinai gli gettavano sul viso gli
sgoccioli del bicchiere e le spine del pesce mal fritto. Dalla bettola
era caduto in un forno, dove spingeva i pani con la lunga pala dentro
le fiamme, tutta la notte, in sudore, accecandosi. Dal forno era
passato all'uffizio di accenditore pubblico de' fanali, logorandosi una
spalla sotto il peso della scala portatile. Scacciato da quell'uffizio
perchè sottraeva il petrolio dalle grandi casse di zinco bianco, si
mise alla ventura della strada, comprando e rivendendo abiti vecchi,
facendo in tutte le case popolane i servigi più vili, offrendo ai
soldati e ai forestieri i suoi ruffianesimi, lottando così per il
tozzo.

Nel suo corpo e nella sua anima ogni mestiere aveva impresso una
traccia, aveva lasciato un gesto abituale, uno sviluppo di singoli
muscoli, l'indebolimento di un organo, una callosità, una cadenza di
voce, una frase del gergo. Egli era di piccola statura, magro, con una
testa enorme e quasi calva, con chiazze di peli radi su le guance,
con pustole tra i peli. Il suo vestito era ibrido e mutevole; tutte
le fogge passavano su la sua persona, si sovrapponevano a contrasto:
nobili zimarrine verdognole e calzoni carichi di toppe, cappelli
di feltro arrossenti e ciabatte servili, bottoni di metallo lucido,
formelle d'osso bianco, galloni militari, trine, quel miscuglio di
ricchezza sfatta e di miseria ignobile, che ingombra la bottega di un
rigattiere ebreo.


XIII.

Ora costui fu il galeotto. Portava le epistole di Marcello con le
conche piene d'acqua della Pescara su alla casa di Orsola e tornava
giù con le conche vuote e con epistole di risposta. Orsola, quando
lo sentiva salir le scale, si faceva pallida; cercava pretesti per
allontanare Camilla, per essere sola con l'uomo portatore d'acqua e di
gioia. Avvenivano allora contatti rapidi, nel sotterfugio; passavano
allora tra lei e il galeotto quegli sguardi obliqui d'intesa, quei
fuggevoli accenni dei muscoli faciali, quei monosillabi sommessi, che
son gli aiuti dell'astuzia umana e che a lungo andare stringono legami
tra gli ingannatori. A poco a poco nell'amore di Orsola penetrava
qualche cosa della viltà di Lindoro; una specie di domestichezza a poco
a poco si stabiliva tra l'amatrice e l'ambasciatore. Ella, se costui
giungeva nell'assenza di Camilla, lo incalzava di domande, gli parlava
da presso facendogli sentire l'alito, qualche volta inavvedutamente
gli posava su la spalla una mano. Lindoro scioglieva i freni della sua
loquacità, intramezzando parole di gergo, reticenze impudiche, furbi
sorrisi rivelatori, gesti ambigui, piccoli schiocchi di lingua e di
labbra.

Egli ruffianeggiava con arte, sapeva insinuare sottilmente la
corruzione nell'animo di Orsola, sapeva trascinare lentamente
all'insidia di Marcello quella preda. E la vergine stava ad ascoltarlo
intenta, con in fondo agli occhi una fiamma che cresceva, con in bocca
l'aridezza prodotta dall'orgasmo lascivo, senza più interrompere.
Lindoro s'accorgeva subito di aver suscitato nella femmina la brama; e
dinanzi a quella figura tutta protesa e tutta sconvolta si risvegliava
in lui il maschio d'un tratto e l'assaliva la tentazione di cogliere
quel fiore ch'egli apprestava al piacere di un altro. Ma la paura
sorgente dal fondo della sua viltà lo tratteneva e gli ghiacciava
l'ardore.

Così Orsola al fine aveva concesso a Marcello un ritrovo. Si sarebbero
ritrovati in una casa remota del sobborgo, in fondo a un vico deserto,
dove nessuno li avrebbe spiati, una domenica di giugno, stando Camilla
nella chiesa più lungo tempo, facendo buona guardia Lindoro.

Nei giorni precedenti quel gran fatto, Orsola era tenuta da una
eccitazione amara, da una specie di febbre che a volte le dava il
battito dei denti e le vampe alla faccia e i brividi alla radice dei
capelli, alla nuca. Ella non poteva più star ferma, non poteva più
star seduta; poichè una furia di mobilità le sollecitava tutte le
membra. Nella scuola, in mezzo al coro eguale dei discepoli, in mezzo
a quello stillicidio continuo di sillabe, uno spirito di ribellione
le abbagliava la vista all'improvviso, ed ella avrebbe voluto balzare
tra i fanciulli, sconvolgere con le mani tutte quelle capigliature,
rovesciare la lavagna, le tabelle, le panche, rompere in grida,
spezzare qualche cosa, stordirsi. Sotto lo sguardo freddo e scrutatore
di Camilla, poco mancava che ella non svenisse per lo spasimo, per la
bile, per l'immenso sforzo interiore di dissimulazione.

Poi, quando Camilla usciva, ella si agitava per tutte le stanze, moveva
le sedie, morsicchiava un fiore, beveva d'un fiato un gran bicchier
d'acqua, si guardava nello specchio, si affacciava alla finestra, si
abbatteva a traverso il letto, sfogava in mille modi l'irrequietudine,
l'esuberanza della vitalità sensuale. Tutto il suo corpo, nel tardivo
fermento della verginità, si era arricchito ed espanto. La sua
testa non era bella, non aveva la quadratura vigorosa, lo splendore
olivastro di certe razze d'Abruzzo, quelle pure linee del naso e del
mento svolgentisi grecamente nella latina ampiezza della faccia. Ma
ella, inconsapevole, sotto la goffaggine delle vesti grige, sotto la
cascaggine delle pieghe incomposte, celava un bel corpo delicato.

Erano i giorni primi di giugno: sorgeva l'estate dalla primavera, come
da un campo d'erbe un àloe. Tra il mare e il fiume tutto il paese di
Pescara godeva nella ventilazione salina e nel refrigerio fluviale,
come distendendo le braccia verso quei naturali confini d'acqua amara e
d'acqua dolce. Salivano alla stanza di Orsola allora le blandizie della
temperie; insetti lucidi urtavano ai vetri e rimbalzavano, come una
grandine d'oro.

La vergine, se era sola, provava un bisogno di distendersi, di gettare
lungi le vesti, di giacere, e di raccogliere su la pelle quella
blandizia ignota che fluttuava nell'aria.

Cominciava lentamente a spogliarsi, con gesti pigri, indugiando con le
dita in torno alle allacciature e ai fermagli, facendo piccoli sforzi
svogliati nel cacciar fuori le braccia dalle maniche, fermandosi a
mezzo e abbandonando in dietro la testa dai capelli crespi e corti,
quella sua testa di giovincello. Lentamente, sotto l'amorosa fatica,
dalla informità delle vesti, come dalla scoria del tempo una statua
diseppellita, il corpo ignudo si rivelava. Un mucchio di lana e di tela
vile era ai piedi della pulzella così purificata, e da quel mucchio
ella come da un piedestallo sorgeva nella luce coronandosi con le
braccia, mentre al contatto dell'aria una vibrazione a pena visibile
le correva a fior della pelle. In quell'attitudine momentanea tutte
le linee del torso si distendevano e salivano verso il capo ricinto:
si appianava la leggera onda del ventre non anche deturpato dalla
concezione; gli archi delle coste si disegnavano in rilievo. Poi, se un
insetto entrava nella stanza, il ronzìo aliante in torno ed accennante
ad attingere la nudità, il ronzìo sbigottiva Orsola; ed era allora un
difendersi dalla puntura mal temuta, erano movimenti serpentini, scatti
di muscoli sotto la cute, paurosi raggruppamenti di membra, falli dei
malleoli non bene forti al gioco.

Poi, così eccitata dal moto e calda, ella aveva voglie nuove.
Apriva l'uscio, cauta in sospetto; e metteva fuori il capo guardando
nell'altra stanza. C'era un odore di chiuso, quello squallore inanimato
che hanno le scuole senza fanciulli. Nelle tabelle quadrate l'alfabeto
cubitale e i gruppi dei dittonghi e delle sillabe stavano muti
dominatori del luogo. Orsola si avanzava evitando co' piedi nudi gli
interstizii del pavimento smosso, provando la titubanza di chi cammina
scalzo per la prima volta su un piano aspro e la confusione di una
donna che non sente più in torno al suo passo l'impedimento abituale
della veste. Andava così fino alla terza stanza, dov'era l'acqua.
Intingeva le mani, si spruzzava tutta, coraggiosamente, sussultando
se una gocciola più grossa le rigava l'epidermide. Usciva di là, tutta
sparsa di rugiada: andava verso lo specchio di un antico canterano.

Restavano in quel canterano ancora frammenti d'intarsio qua e là.
Lo specchio, che celava un armario sovrastante, aveva in torno fregi
misti d'oro e di colori e in alto due puttini decapitati. Orsola saliva
fin là, attratta da una irresistibile curiosità di vedersi nuda. La
sua persona tutta ancora fresca di gocciole sorgeva nell'offuscamento
dello specchio come in un verdazzurro fondo marino. Ella si guardava
sorridendo. Il sorriso, ogni movimento dei muscoli pareva far tremolare
tutte le linee della nudità nello specchio come quelle di una imagine
dentro le acque. Allora ella cominciava una specie di mimica vanitosa,
guardando riprodursi tutti i suoi gesti nella lastra, aprendo le labbra
per mostrare i denti, alzando le braccia per mostrare le ascelle,
presentando la schiena arcata e forzando il capo a volgersi in dietro;
fin che un pazzo impeto di ilarità, dinanzi a quello spettacolo di sè,
le scuoteva tutta la persona. In fondo in fondo, dietro la donna, si
rifletteva dalla parete avversa la tabella dell'alfabeto.


XIV.

Ora avvenne che in uno di quei momenti battesse alla porta della scala
Lindoro venuto su con le conche. Orsola gridò:

— Aspetta!

E raccolse da terra le vesti, in furia; se le mise addosso, in furia;
andò ad aprire.

Erano le sei di sera: il riverbero bianco del palazzo di Brina entrava
nella stanza; tutto il paese di Pescara, grande ospizio di rondini,
cantava.

I due, in mezzo, ritti, parlarono del ritrovo imminente. Lindoro con la
sua loquacità cercava di vincere le estreme esitazioni della pulzella;
poichè egli già teneva una parte della mercede, e l'adescava il resto.
L'artifizio persuasore gli avvivava le parole, gli occhi, i gesti.
Egli aveva nel fiato l'odore del vino, e nella faccia, su le tempie,
pe 'l passaggio recente del rasoio, piccole macchie rosee e violacee.
Mentre parlava gli si scopriva la fila dei denti eguale e schietta,
una di quelle forti chiostre che spesso armano le bocche plebee; e la
singolarità emergeva vivacemente dalla generale turpitudine dell'uomo.

Orsola opponeva dubbii, paure, ad interrompere; ma già, poi che
l'impudicizia a mano a mano sorgendo più calda dal fòmite del vino
bevuto si insinuò nelle persuasioni del galeotto, ella cominciava a
turbarsi. S'era ritirata a poco a poco verso il muro, appoggiandovisi.
Dalle aperture, lasciate qua e là nell'abito per la furia del
rivestirsi, si intravedevano i lembi del lino. La gola era tutta
scoperta, i piedi senza calze nascondevano nelle pianelle soltanto le
dita.

Ma ella, a un punto, involontariamente, per quel cieco istinto da cui
una donna è avvertita d'essere innanzi a un uomo bramoso, corse con
la mano a chiudere sotto la gola, sul petto gli uncinelli. Quell'atto,
col quale Orsola così riconosceva nel mezzano l'uomo, quell'improvviso
atto fece scattare dall'abbiezione di Lindoro un impeto di orgoglio
maschile. — Ah, egli dunque aveva potuto per sè stesso turbare una
donna! — E si fece più da presso; e, come il coraggio del vino lo
animava, quella volta nessun ritegno di viltà trattenne il bruto.


XV.

Orsola rimase inerte, lunga su i mattoni, con nelle vesti, con in tutta
la figura lo scompiglio della donna violata.

Ma, quando udì i passi di Camilla nella scala, dal fondo della sua
languidezza si levò su un gomito; rapidamente passò le mani su le
vesti sconvolte; ritrovò le parole per dire alla sorella che una sùbita
mancanza di forze l'aveva fatta cadere nel mezzo della stanza.

Fuori, annottava. Sul paese si spandeva la grande frescura glauca della
sera di giugno, originante dall'Adriatico. Voci e risa empivano la
piazza; giù pe 'l casamento cantava la gioia sabatina degli abitanti
sollevati. Dal secondo pianerottolo Teodora La Jece gridò:

— Comare Camilla, comare Orsola, venite?

Orsola seguì la sorella, senza parlare, senza pensare. Durava fatica
a ricordarsi: una specie di ebetudine le teneva ancora la memoria.
Teodora le empiva gli orecchi del suo chiacchierio di femmina
maldicente e petulante.

— Sapete, comare, la figlia di Rachela Catena si marita.

— Ah.

— Sapete, piglia Giovannino Speranza, quel rosso che tiene locanda alla
Pesceria e ha il mal di San Donato, liberanosdòmine.

— Ah.

— Sapete, comare; Checchina Madrigale se n'è scappata un'altra volta a
Francavilla. Voi la conoscete: quella grassa che sta di casa a Gloria,
nera, col naso a becco.... quella.

Teodora seguitando aveva preso il passo di Orsola. Camilla veniva un
poco in dietro, a capo chino, senza badare ai peccati di mormorazione
che la lingua della tessitrice commetteva contro il prossimo. Per le
vie tutta la gente godeva l'aria; gruppi di donne passavano, in vesti
di tela, con braccia nude sino al gómito.

— Comare, guardate Graziella Potavigna che falbalà s'è messo! Guardate
Rosa Zazzetta, con un sergente avanti e uno dietro.... Ah, voi non
sapete?

E qui una storia d'amorazzi piena d'indiscrezioni salaci, susurrata
quasi all'orecchio. Per obliare, Orsola si immerse nel pettegolezzo
intieramente, con una specie di furia convulsa, non dando a sè
stessa il tempo di ripensare, interrogando, eccitando Teodora alla
chiacchiera, temendo gli intervalli di silenzio, riempiendoli con
sussulti di riso. Ella aveva quasi un godimento amaro a sentire i
vituperii degli altri.

— Oh! ecco Don Paolo!

Veniva in contro con la sua bella placidezza Don Paolo Seccia, un
ottuagenario ancora aspro e verde come un ginepro.

— Venite con noi, Don Paolo: usciamo fuori.

Tutti i macelli per la via di qua, di là, avevano i loro manzi freschi
penzolanti in mezzo alla porta: l'odore della carne bovina si spandeva
dalle ventraie aperte e assaliva le nari. Più in su, lunghe file di
maccheroni stavano attelate al lume della luna che le guardava dalla
cima di un'antenna soperchiante la caserma. Gruppi di soldati si
affollavano in torno alle rivenditrici di frutta, vociferando.

— Andiamo alla Bandiera — disse Teodora, dando la precedenza a Don
Paolo ed a Camilla.

Orsola passò in mezzo a tutti quei romori e quegli odori forti,
stordita. Cominciava alfine uno sbigottimento vago a sommuoversi
dal fondo, a torcerle la bocca nel riso, nelle parole, a impedirle
la lingua. Anche certi piccoli tormenti fisici la molestavano e la
richiamavano alla realità delle cose. Ella non sapeva più sfuggire
a sè stessa: le moriva la voce fra i denti, l'angoscia le serrava la
gola, il fantasma del peccato enorme e irrimediabile le si drizzava
dinanzi. Ella ora si sentiva morire dalla fatica di reggersi in piedi,
di mettere i passi: si sentiva percossa dalla spietata animazione della
vita nella strada che è di tutti.

— Dunque, comare mia, quel guercio del marito senza saper nulla di
nulla... — diceva Teodora riannodando la maldicenza interrotta.

Andavano per la Bandiera. Il ponte a battelli, su la sinistra,
cavalcava il fiume. Dall'altro lato, la mole cupa e grave del bastione
si disegnava nel chiarore. I vecchi cannoni di ferro, piantati con la
bocca nel terreno, si dilungavano in fila trattenendo le gómene; grandi
áncore di ferro ingombravano lo scalo. Nelle tolde, a riva, i marinari
sotto le tende mangiavano e fumavano: le tende illuminate contrastavano
con un rossore sanguigno l'albore della luna. Intorno alle proe,
su l'acqua larghe chiazze come di materia liquefatta fluttuavano
lentamente.

— ... mandò a chiamare Don Nereo Memma, figuratevi! — seguitava
Teodora, implacabile.

— Chi parla del dottor Dulcamara? — fece Don Paolo, a cui era giunto
quel nome, ridendo dalla franca bocca ancora armata di avorii.

Orsola non sentiva più: ella era pallida come la faccia della luna. Da
prima, tutta quella gran pace luminosa piovente dal cielo sul fiume
e tutte quelle lunghe vene di odore marino correnti pe 'l fresco le
avevano dato sollievo; poichè dinanzi a quello spettacolo di dolcezza
i fantasmi vagheggiati dell'amore in fondo a lei si risollevavano
e le sommità del sentimento al raggio lunare riscintillavano. Fu,
súbito dopo, un tumulto confuso in cui ella udiva battere le arterie
con un susurrìo assordante che parve dilatarsi e riempire tutta
l'aria d'un tratto. Le mancava sotto i piedi il suolo fermo. Il
limite delle acque si confuse, per la vertigine; il fiume invase la
strada; acque acque acque si spársero in torno. Poi, d'un tratto, uno
scintillìo di bagliori si accese dentro gli occhi di lei, un tremolìo
crescente di fiammelle fatue che rompevano, si intrecciavano, si
allontanavano, e si fondevano e perdevano serpentinamente nell'ombra.
In quella illuminazione la figura di Marcello compariva e spariva,
con una rapidità e una mutabilità di sogno. La vertigine cessò.
Orsola riconobbe i riflessi della luna nel fiume placido; continuò a
camminare, stupefatta, indebolita, quasi in punto di venir meno.

— Stanca, eh? comare; voi non siete abituata, si sa. Appoggiatevi a me,
appoggiatevi — diceva Teodora. — La figlia di Donna Mentina Ussoria,
quella più piccola, butterata, stava proprio innanzi alla bottega,
sapete, su la piazzetta...

Erano alla caserma dei finanzieri. Grandi mucchi di carrùbe mandavano
un odore forte come di pelli conciate; e la strada seminata di scaglie
d'ostriche scricchiolava sotto i passi. Due sciàbiche, presso la riva,
facevano pesca d'anguille, in silenzio, con la luna propizia. Ma la
sonorità del mare empiva di grandezza il silenzio. Annunziavano la foce
gli ondeggiamenti del sale superanti il lieve fiore dell'acqua dolce.

— Torniamo in dietro, belle figliuole — disse Don Paolo, prendendo una
carruba dal mucchio vicino.

Orsola si lasciava condurre. Ella durava fatica a rattenere l'ansia
del respiro; poichè ora il suo stato, con una terribilità incalzante,
le si ripresentava dinanzi e schiacciava tutti gli aneliti e i tumulti
del sentimento suscitati dalla voluttà della notte lunare. Ella vedeva,
nella fissazione del suo pensiero, la figura di Lindoro levarsi e
vivere; si sentiva un'altra volta afferrare e palpare da quelle mani
aspre, soffocare da quel fiato caldo di vino e di libidine, violare
su i mattoni della stanza. Ma in quel momento, pensava, ella non aveva
resistito, non aveva gridato, non aveva fatto nessun moto per opporsi;
ella aveva soggiaciuto, senza forze, non distinguendo più nulla, non
sentendo se non una gran gioia mista di dolore inondarle le fibre.
Allora il ribrezzo e il languore si avvicendarono nella sua carne,
agghiacciandola, affocandola. Inconsapevole, guardava innanzi a sè,
pallida e con gli occhi ingranditi e più neri.

— Sentite come il vino canta! — disse Don Paolo, soffermandosi.

Nelle barche i marinai stavano distesi tra i cordami, in mezzo al fumo
del tabacco di Dalmazia, e cantavano di femmine belle, in gran coro.


XVI.

Camilla, su l'inginocchiatoio, pregò a voce bassa, co 'l capo
prostrato, con giunte le mani, lungamente; poi accese la lampada votiva
a Maria Vergine, per la notte; piegò poi nel sonno tenendo il dolce
cuore di Gesù tra i fiori vizzi del seno. Il suo respiro di dormiente
era religioso come se sfiorasse l'ostia sacra su la paténa d'argento.
Nella volta le ombre seguivano le oscillazioni della fiammella
alimentata dall'olio. I rumori del legno che si dilata e dei tarli
che ródono, le voci misteriose dei vecchi mobili nella calma notturna,
rompevano il silenzio.

Orsola stava nello stesso letto, a fianco di Camilla, distesa, senza
muoversi, senza chiudere gli occhi, poichè una grande stanchezza
insonne le occupava le membra e la vigilanza assidua dell'angoscia le
martoriava l'anima tapina. Ella ascoltava il silenzio; spiava sè stessa
con una curiosità ansiosa, come per sentire qual mutamento si fosse
compiuto nell'essere suo.

A un tratto, Camilla nel sonno cominciò a mormorare parole confuse,
frammenti di parole incomprensibili, movendo appena le labbra, mettendo
lunghi respiri. La testa di lei, scarna, affilata, scolpita rigidamente
dalla penitenza e dal digiuno, ingiallita dal lume della lampada,
posava su la bianchezza del guanciale come una effigie mal dorata di
santa sopra una raggiera. Piccole ombre violacee segnavano l'interno
delle narici, i solchi del collo teso e pieno di corde, le fosse delle
gote, le occhiaie d'onde sporgeva grande il globo coperto dalla pelle
molle della pálpebra. Ella pareva così il cadavere di una martire,
dentro cui scendesse lo spirito di Dio.

Benchè quello dei soliloquii notturni non fosse il primo, Orsola
sentì freddo in mezzo ai capelli: un terrore improvviso l'assalì e la
oppresse. Ella istintivamente si rannicchiò, cercò di allontanarsi
dal corpo della sorella ritraendosi su l'orlo della sponda; stette
immobile, sospesa negli intervalli di silenzio, con gli occhi fissi
su la bocca della dormiente, provando un sordo sussulto in mezzo
al petto se quelle labbra si movevano a profferire nuove parole.
Ella non comprendeva; ma qualche cosa di lontanamente profondo e di
solenne era in quel mormorìo interrotto, un mistero soprannaturale si
levava da quel corpo inerte e inconsapevole che parlava senza udire
la propria voce. Nella stanza passava l'alito del sepolcro; per la
fantasia sconvolta dell'insonne le ombre oscillanti prendevano forme
spaventose e minacciose di spettri; l'aria pareva solcata da romori
ignoti. Tutte le cose su cui l'allucinata si rifugiava con lo sguardo,
tutte le cose si trasformavano e si animavano ed andavano verso di
lei. Allora l'idea del castigo e della pena eterna ancora una volta
le risorse nella conscienza e la incalzò. Ella si abbattè sotto
l'incubo del suo peccato, mettendo in croce le braccia sul petto per
difendersi dalle minacce dei demoni, tentando pregare con la lingua
impedita dal terrore, aggrappandosi con un supremo slancio all'áncora
del pentimento, all'ultima salvezza. Ella si sentiva perduta, chiedeva
misericordia dall'intimo del suo cuore al divino Sposo tradito, a Gesù
buono e grande, a Colui che perdona.

La voce di Camilla si esalava in sospiri, si confondeva in un borboglìo
tremulo, si spegneva nella respirazione lenta ed eguale, a mano a
mano che l'entusiasmo del sogno mistico si andava placando. Le ombre
seguitavano ad oscillare. Non ancora il Crocefisso discendeva dalla
parete a raccogliere con le dolcissime braccia la pecorella tornante
all'ovile.


XVII.

— Ha detto il Signore per bocca del profeta Gioele, figlio di Petuel:
«Avverrà che io spanderò il mio Spirito sopra ogni carne, e i vostri
figliuoli e le vostre figliuole profetizzeranno; i vostri vecchi
sogneranno sogni, i vostri giovani vedranno visioni.»

Questo Spirito di cui gli Apostoli ebbero le primizie e la beatitudine,
fu per essi e per noi uno Spirito di verità, uno Spirito di santità
e uno Spirito di forza... O divino amore, o sacro legame che unisci
il Padre e il Figlio, Spirito onnipotente, fedele consolatore degli
afflitti, pénetra negli abissi profondi del nostro cuore e infondici la
tua gran luce! —

Così predicava Don Gennaro Tierno nella Pentecoste, dall'altare
maggiore, volto al popolo ascoltante. Sopra di lui, in alto, la terza
persona della SS. Trinità apriva l'arco radioso delle ali d'oro, e
nella chiesa l'illuminazione dei ceri spandeva un rossore simile a
un riflesso d'incendio. Gli enormi pilastri di pietra sostenenti le
due navate, coperti di barbare sculture cristiane, cavalcavano verso
l'altare pesantemente; su le pareti gli avanzi dei mosaici rilucevano:
qualche testa di Apostolo, qualche braccio rigido di santa, qualche ala
d'angelo emergeva ancora nell'offuscamento e nello scrostamento operato
dai secoli. Tra i mosaici pendevano piccole navi ex-voto dedicate al
tempio dai naufraghi supérstiti. E in mezzo alle pietre rudi e alle
croste fosche si elevava agile un gruppo di colonne rosee a spira
sorreggenti il pergamo anche marmoreo fiorito di acanti e animato di
bassirilievi.

— Spandi la tua dolce rugiada su questa terra deserta, a fin che cessi
la sua lunga aridità. Manda i raggi celesti del tuo amore fino al
santuario dell'anima nostra, a fin che penetrandoci accendano fiamme
consumatrici delle nostre debolezze, delle nostre negligenze, dei
nostri languori! — seguitava il prete, salendo ai supremi culmini della
sua eloquenza e della sua potenza vocale.

Orsola, da presso, ascoltava, tutta raccolta. Ella si era rifugiata
nella casa del Signore, era tornata al talamo; voleva che il Signore
la purificasse e la ricevesse un'altra volta nella benignità del suo
grande abbracciamento. Quel barbaglio subitaneo di fede la abbacinava,
le faceva quasi dimenticare ogni fallo anteriore. Le pareva che
subitamente dalla sua anima le macchie si cancellassero e dalla sua
carne cadessero le scorie della impurità terrena. Giammai ella si era
accostata all'altare di Dio con un più profondo tremito di speranza;
giammai aveva ascoltato la parola di Dio con una più lunga ebrezza.

Dall'istante in cui l'orrore della dannazione le si levò nella
conoscenza, ella si compresse in una specie di raccoglimento cupo,
sorvegliando sè stessa, sorvegliando i propri atti, i propri pensieri,
i minimi moti pe 'l timore che quella veemenza di pentimento si
esalasse, per l'ansia di conservare intatto dentro di sè quel fiore
di fede rigermogliato d'improvviso. Fu una specie d'assunzione verso
Gesù, con un ripudio di ogni legame umano. Ella si esaltò nella lettura
dei libri sacri; si gettò nella contemplazione delle imagini e dei
misteri; lottò contro le molli viltà della carne, contro i calori della
giornata, contro l'insidie della notte, contro i profumi che le portava
il vento, contro il soffio che saliva dai suoi ricordi impuri, contro
le voci che parevano vellicarle l'udito e susurrarle segreti nuovi di
piacere.

Dopo quella settimana solitaria di passione, ella ora deponeva il
sacrificio ai piedi dell'altare; beveva il balsamo della parola di Dio,
fissando gli occhi in alto alla colomba radiosa e sentendosi a poco a
poco naufragare nel pèlago dell'estasi.

— Vieni dunque, vieni, dolce consolatore delle anime desolate, rifugio
nei pericoli, protettore nella sventura. Vieni, o tu che purifichi
l'anime da ogni macchia e ne guarisci le piaghe. Vieni, forza del
debole, appoggio di quegli che cade. Vieni, stella dei naviganti,
speranza dei poveri, salute di chi è per morire — incalzava Don Gennaro
Tierno, alto nella pianeta d'argento, vermiglio in volto, con occhi
forzanti le órbite, con gesti che parevano toccare il cielo.

Nella chiesa una calura grave si era addensata su i cristiani. Le
navate si schiacciavano su i pilastri; in una vetrata la testa di S.
Luca evangelista raggiava percossa dal sole e il gran manto metteva
nell'aria una zona di crepuscolo verde. L'ambone marmoreo si levava
come un miracoloso fiore mistico, in quel vapore di luce.

— Vieni, o Spirito, vieni ed abbi misericordia di noi!

Orsola teneva gli occhi all'alto: su l'onda di tutte quelle invocazioni
ella ascendeva verso il nimbo, penetrata dalla ineffabile soavità che
attira l'anime all'odore degli aromi spirituali. Le parve un istante
di vedere la colomba d'oro balenarle un lampo di assentimento, e il
cuore le balzò di giubilo nel seno come San Giovanni nelle viscere
d'Elisabetta alla visita della Vergine Maria.

— Per nostro signore Gesù Cristo. Amen.

Il prete, tutto d'argento, si volse verso la custodia, dicendo a bassa
voce un credo. Due turiferarii bianchi ai lati cominciarono a scuotere
i turiboli fumanti e odoranti. Un nuvolo di incenso avvolse la vergine
violata che stava da presso; e subitamente un invincibile fiotto di
náusea dal fondo della maternità le salì alla gola e le fece torcere la
bocca.


XVIII.

Non c'era dunque scampo? — Più giorni ancora ella oscillò nel dubbio,
aspettando l'ultima prova. Vertigini la prendevano al levarsi, quando
ella metteva a terra i piedi; sfinimenti vaghi la invadevano su la
sera, fievolezze in cui il pensiero, la volontà, i ricordi parevano
quasi avere la confusione, la sonnolenza fluttuante delle prime ore
mattutine. Ella faceva le cose per abitudine, con gesti di sonnambula,
stancamente. Nella scuola, se veniva sul vento l'odore del pane caldo
dal forno, ella si sentiva morire, sentiva tutte le viscere montarle
d'un tratto alla bocca; e un sapore di lisciva le si spandeva nella
lingua. Un giorno, mentre un bimbo succhiava una ciliegia, una voglia
violenta di quel frutto la fece contorcere su la sedia, impallidire
e sudare. Poi, ella, dopo il pasto, tutta amara di nausea, si metteva
lunga sul letto, si lasciava occupare dal sopore: il caldo era pesante,
le mosche ronzavano, le grida d'un venditore di occhiali passavano
sotto la finestra, rauche nel silenzio.

Sfiduciata, ella non cercò più la chiesa: l'incenso anche la ributtava.

Ella non pensò più a Marcello; non lo vide più, non ebbe di lui se non
un ricordo incerto, come d'un sogno remoto. L'ansia presente la teneva
tutta.

Lindoro saliva a portar acqua, come prima. Egli giungeva su, rosso e
stillante di sudore; posava le conche, lanciando sguardi di sbieco alla
vittima. Orsola si ritirava nell'altra stanza o si curvava sul lavoro
stringendo i denti nella collera repressa. Lindoro se ne andava, come
un cane frustato; ma il pensiero di aver posseduto quella donna gli
turbava il sangue: avrebbe voluto ora trascinarsela con sè, tenersela,
esserne il padrone come di una merce da usare e da vendere. Cupidigia
sensuale e avidità di guadagno in lui si mescevano.

Una sera egli aspettò che Camilla uscisse, alla porta di strada; poi
salì a precipizio per sorprendere Orsola, per trovarla sola nella casa.
Quando egli battè all'uscio Orsola lo riconobbe e si sentì rimescolare.

— Che vuoi da me, che vuoi? — chiese ella con la voce soffocata, senza
aprire.

— Sentimi un momento, sentimi! Non aver paura; non ti faccio male...

— Vattene, cane, infame, assassino... — proruppe la donna, con una
veemenza stridula di vituperii, togliendo il freno a tutto l'odio
accumulato contro colui. — Vattene, vattene!

E, sfinita, si ritrasse nella sua stanza, si gettò su i guanciali
mordendoli fra le lagrime.


XIX.

Non c'era più scampo. — La figlia di Maria Camastra aveva bevuto il
vetriolo ed era morta così, con un bimbo di tre mesi nel ventre. La
figlia di Clemenza Iorio s'era precipitata dal ponte, ed era morta
così, nella fanga della Pescarina. Bisognava dunque morire.

Quando questo pensiero balenò alla mente di Orsola, cadeva il
pomeriggio. Tutte le campane sonavano a gloria, nella vigilia del
_Corpus Domini_; grandi tribù di rondini schiamazzavano e turbinavano
sul palazzo di Brina, si assembravano a parlamento su l'Arco. Una
nuvola rossa sovrastava le case, simile forse a quella che versò bitume
ardente su l'empietà di Sodoma.

Orsola al baleno di quel pensiero si smarrì, ebbe paura. Poi a mano
a mano che il sentimento della vergogna la persuadeva al passo, in
fondo a lei una sorda ribellione di vitalità cominciava a levitare,
le viscere fremevano. Ella d'un tratto sentì il rossore e il calore
del suo sangue chiazzarle la fronte, le guance. Si levò dalla sedia,
torcendosi le braccia nell'agitazione della lotta. E, con un impeto
di forza nervosa, finalmente uscì dalla stanza, entrò nella cucina,
cercò su le tavole un bicchiere e il mazzo degli zolfanelli. L'odore
forte del carbone le turbava lo stomaco; la vertigine le prendeva
il cervello. Ella trovò tutto: mise gli zolfanelli a disciogliersi
nell'acqua; rientrò nella sua stanza e nascose in un angolo, sotto un
mobile, il bicchiere letale.

— Dio mio! Dio mio!

Ella aveva ora paura di trovarsi così, sola, dinanzi al suo
proponimento. Le tornò subitamente nella fantasia il cadavere di
Cristina Iorio intraveduto quel giorno mentre lo portavano su la
barella alla casa della madre: un corpo gonfio come un otre, con la
melma ne' capelli, nel cavo degli occhi, nella bocca, tra le dita de'
piedi violetti...

— Dio mio, Dio mio, morire!

E sussultò come se una mano fredda e rigida le si fosse posata sul
capo: un brivido le corse tutte le membra, le durò un momento sul
cranio con l'impressione di una lama che vi penetrasse per distaccarne
la pelle.

— No, no, no! — disse con la voce alterata, come se volesse scacciare
da sè il contatto di qualche cosa orribile. E andò alla finestra,
sporse il capo fuori, cercando un rifugio.

Ella rimase là, inchiodata, attònita dinanzi a quella visione
d'incendio biblico e a quella tregenda di uccelli neri. Quando si
volse un poco, intravide nell'ombra della stanza un bagliore strano:
il luccichìo delle mezzelune d'oro su la veste della Madonna di Loreto
e il luccichìo delle medaglie. Ebbe ancora paura; si schiacciò sul
davanzale, si sporse di più; stette là, senza avere il coraggio di
muoversi. Allora, in quella immobilità, l'indebolimento serale cominciò
ad invaderla; ed ella si strinse la testa grave tra le palme, socchiuse
le pàlpebre.

— Ah!

D'improvviso le si era aperto nell'animo uno spiràcolo. — Sì, sì, ella
se ne rammentava! Spacone, il mago, quel vecchio con la barba lunga,
quello che faceva i miracoli e aveva le medicine per ogni male... Era
venuto al paese qualche volta a cavalcioni di una muletta bianca, con
due triangoli d'oro agli orecchi, con una fila di bottoni larghi come
cucchiai d'argento senza mànico. Tante donne uscivano su gli usci e
lo chiamavano, e lo benedicevano. Egli aveva guarito ogni sorta di
malattie con certe erbe e certe acque e certi segni del dito pollice
e certe parole magiche. Egli doveva avere i rimedii pure per quella
cosa... sì, sì, li doveva avere!

E Orsola rivisse in un barlume di speranza, mentre il languore saliva
saliva. Dinanzi a lei, le cose annegavano nel crepuscolo; il giorno
vermiglio, penetrato dalle ceneri della notte vicina, mancava in un
lento scoloramento, senza contrasti. Una rondine, come un pipistrello,
passò radendole il capo. Il sùbito alito dell'estate le soffiò nella
faccia, le toccò ogni vena, le scosse fin le radici infime della vita.

Ella, con un moto involontario e inconsapevole, mise le mani sul ventre
e le tenne così un istante. L'indefinito sentimento della maternità
le attraversava l'anima. E dal fondo, misteriosamente, un ricordo
della convalescenza lontana si svegliò. — Ah, era di marzo... una
gran bianchezza ridente... e sopra di lei le _spie_, le lanugini molli
piovevano.


XX.

Così fu che la mattina dopo ella uscì dalla casa, di sotterfugio; e
s'incamminò sola fuori del paese, per la strada nuova di Chieti.

Nelle vicinanze di San Rocco abitava Spacone. Sotto la maestà di una
quercia druidica, egli compiva i miracoli e formulava i responsi.
Tutto il contado, in venti miglia di circuito, ricorreva a lui, come
a un apostolo della Providenza. Nelle epidemie del bestiame indigeno,
mandre di bovi e di cavalli si raccoglievano in torno alla quercia
per ricevere il talismano preservante dal morbo: le orme delle unghie
equine e bovine facevano come un circolo d'incanti su l'erbe semplici
del terreno.

Quando Orsola s'incamminò, era nella terra pescarese un gran giuoco
d'ombre e di luci. Le nuvole nòmadi trasmigravano dalla marina alla
montagna, come carovane con buone salmerìe d'acqua, per quel cielo
arabico del mese di giugno. A intervalli, larghe zone di terra si
sommergevano nell'ombra, altre zone emergevano illustrate; e, come
l'ombra era turchina e mobile, la campagna così dava apparenza di un
arcipelago che galleggiasse copioso d'alberi e di fromento. Il canto
degli uccelli lodava la maturità delle biade.

Al primo spettacolo Orsola ebbe un insolito ristoro; poichè la
libertà della campagna, la felicità della luce sul fogliame, gli odori
cordiali dell'aria circondandole d'un tratto la persona le mossero il
sangue, e la nuova speranza in lei al dispiegarsi dell'orizzonte si
fortificò ed esultò. Ella si alleggeriva di tutte le angosce, vivendo
per due sentimenti soli, per la speranza della salvazione corporea
e pel desiderio di raggiungere la meta. In fondo, alla meta, ella
vedeva nella sua fantasia sorgere il vecchio benefico e illuminarsi
misticamente. Per una nativa tendenza superstiziosa, ella trasformava
quella figura, la ingigantiva e la vestiva di una dolcezza cristiana,
la cingeva di nimbo. Allora tutte le dicerie che correvano tra il
volgo le tornarono alla memoria confusamente e gittarono sprazzi di
luce meravigliosa su la fronte di Spacone. Allora ella si rammentò
che Rosa Catena, in un giorno lontano della malattia, aveva parlato
del Vecchio con una reverenza devota citando miracoli. — Un cieco di
Torre de' Passeri era andato a San Rocco ed era tornato dopo tre dì con
gli occhi che ci vedevano e con una cifra turchina su la tempia. Una
femmina di Spoltore, invasa dagli spiriti maligni, era tornata mansueta
come un'agnella, dopo aver bevuto due sorsi d'un'acqua custodita in una
piccola zucca secca.

Così a poco a poco, lungo il cammino, pel concorso di tanti elementi
sparsi si venne formando nella mente di Orsola una specie di leggenda.
E a poco a poco, giacchè nulla possono gli uomini senza l'assistenza
di Dio, sorse anche la persuasione che il vecchio fosse un inviato
del cielo, un redentore delle anime dalla dipendenza corporale, un
distributore di grazie celesti su la terra ai caduti. — La speranza
estrema non era discesa su la peccatrice improvvisamente, quasi per
influsso divino, fra i segnali accesi nell'aria? E nella Pentecoste
la colomba non aveva balenato dall'alto, agli occhi della pregante, un
lampo di buona promessa?

La promessa ora si compiva nel santo giorno del _Corpus Domini_. Orsola
dunque, tutta calda di fede e di giubilo, andava su la polvere della
via nuova, non curando la fatica dei passi. Ai due lati, le siepi
biancheggiavano come coperte di escrementi d'uccelli. Gruppi di pioppi
sonori stavano su i limiti; e i tronchi inargentati riverberavano
le variazioni della luce. Le contadine della Villa del Fuoco, nane,
co 'l naso camuso, con le labbra schiacciate, femmine cafre dalla
pelle bianca, venivano incontro a due, a tre. Le vicende delle nuvole
occupavano l'immenso teatro della campagna.

Orsola passò il Mulino, passò la Villa. Una energìa nervosa le animava
il passo. Ella si sentiva battere il vento su la nuca e sentiva sul
capo a intervalli stormire i pioppi. Ma l'oscillare delle ombre e la
polvere cominciavano a turbarle un poco la visione; il calore del moto
le affluiva alla testa; la volontà era tutta occupata nell'insolito
sforzo materiale dell'incedere. Ella così andò innanzi in una specie di
stordimento crescente che si mutava in malessere; e, vinta dalla fatica
e dal caldo, si lasciò allettare da un mucchio di olivi messi in salita
a sinistra.

Passavano quattro o cinque zingari seminudi, bronzini, con amuleti
luccicanti sul petto, a cavalcioni di certi asini rossastri. Uno di
loro fischiava urtando con le calcagna il ventre della sua bestia.
Tutti avevano in mano canne e portavano bisacce di pelle su le cosce.
Guardarono la donna rifugiata sotto gli olivi e mormorarono ridendo.

Orsola ebbe paura di quegli occhi che mostravano il bianco nello
sguardo, e stette sbigottita finchè il gruppo non si allontanò. Lo
scoraggiamento incominciava a impadronirsi di lei; la solitudine
cominciava ad esserle paventosa, poichè nella campagna correva per
lunghi brividi l'annunzio della pioggia e un silenzio quasi lugubre
scendeva nell'aria dalle nuvole raccolte. Ella s'era appoggiata ad
un tronco: freschi soffi intermessi le investivano la persona e le
gelavano il sudore nei pori, soffi che accorrevano a lei co 'l fruscìo
di un animale furtivo nell'erba; mentre in torno il tremolìo del sole
pareva un riverbero d'acque lontane. Pallidi fiori d'un giallo sulfureo
facevano onda a pie' degli olivi.

Un ricordo scese allora dai buoni alberi su l'animo della donna. — La
chiesa era tutta piena di palme benedette e di aromi, quel giorno;
ed ella andava tra il popolo sorretta dalle braccia di Marcello, in
un gran tremore... Ma, come ella si soffermò in quel pensiero, le
si smarrì la memoria; tutto le sfuggì in una incertezza di sogno.
Soltanto, colpi sordi le batterono il cuore, sussulti d'angoscia le
affannarono il respiro. Ella aveva ora la sensazione ottusa di un
sopore che le cadesse sul cervello con la pesantezza d'un colpo di
maglio. Un resto di volontà vigile le bastò a scuotersi debolmente e a
discendere nella strada.

Le nuvole raccolte verso la Maiella avevano preso il colore diafano
e grigio di una massa pendula d'acque. Larghe trombe si avvicinavano
dalla marina più cariche; e ancora qualche azzurro campo si dilatava
nell'alto. Un odore di umidità già saliva dalla polvere, da tutta
la campagna ansante nell'aspettazione. Gli alberi immobili parevano
assorbire la luce, si levavano anneriti in mezzo alla fumea dell'aria,
popolavano di forme incerte la lontananza.

Orsola camminava con una fatica immensa, sentendo che le forze stavano
per abbandonarla. — Ecco, pensava, arriverò a quell'albero e poi
cadrò. — Ma non cadeva. Si scorgevano a destra le case di San Rocco. Un
contadino veniva in contro a corsa.

— Buon uomo, è quello San Rocco?

— Sì, sì, voltate alla prima scorciatoia.

Grosse gocce sonanti cominciarono a cadere; poi d'un tratto la pioggia
crescente rigò l'aria di lunghe frecce bianche, di lunghe sferze che
percotendo schioccavano. Un sommovimento mostruoso agitò allora le
nuvole: sprazzi di raggi eruppero di qua, di là. Tutte le colline, in
fondo, a traverso le liste della pioggia si accesero un attimo e si
rispensero. Una fievole serenità d'argento si levò su la Maiella, parve
acuirsi come una spada sottile.

Orsola tentava di correre verso la quercia distante un tiro di
schioppo. Le gocce le battevano su la nuca, le scivolavano per la
schiena, le colpivano la faccia; e già le vesti erano tutte molli sino
alla pelle. I passi le mancavano sul terreno sdrucciolevole. Ella cadde
e si rialzò, due volte. Poi, quasi folle, si mise a gridare verso la
casa.

— Aiuto! aiuto!

Una femmina uscì dalla porta e venne a sorreggerla, seguita da due cani
che abbaiavano.

Orsola si lasciò condurre senza poter più proferire una parola a
traverso i denti serrati, livida, con la faccia stravolta. Non si
riscosse se non dopo qualche tempo, per le domande che l'ospite le
faceva. E allora, repentinamente, all'udire il nome di Spacone, si
ricordò di tutto.

— Ah, dov'è Spacone? — chiese.

— È a Popoli, donna santa: l'hanno chiamato.

Orsola non resse più: cominciò a singhiozzare e a strapparsi i capelli.

— Che volete, donna santa? che volete? Io sono la moglie; ci son qua
io... — miagolava la strega, trattenendole i polsi, incitandola a
parlare.

Orsola esitò un momento; poi disse tutto, a precipizio, tra i singulti,
coprendosi la faccia.

— Aspettate. Il rimedio c'è; ma costa cinquanta soldi, donna santa —
fece la strega in quel suo idioma tutto molle di vocali, cantando quel
bello appellativo per intercalare.

Orsola sciolse un nodo nel fazzoletto e offerse cinque piccole monete
d'argento. Poi aspettò, più calma.

La stanza era vasta, ma bassa. Le pareti, su cui qua e là il salnitro
fioriva, apparivano scagliose e verdastre. Rozzi idoli cristiani di
maiolica popolavano quel fondo di spelonca; forme strane di utensili
e di stromenti ingombravano le tavole. Era come un aspro santuario
custodito da un semplicista monaco.

La moglie di Spacone, dinanzi al camino, componeva il suo filtro, in
silenzio. Era una femmina alta e ossuta, bianchissima in faccia, co
'l naso guasto, violetto come un fico, con i capelli rossi e lisci su
le tempie, con due piccoli occhi di albina, tatuata nel mento, nella
fronte, nel dorso delle mani.

— Ecco, donna santa! Coraggio!

Orsola ingoiò il liquido, d'un fiato; ma si sentì, subito dopo, da
un'amarezza atroce mordere il palato e le viscere. Restò con la bocca
aperta, premendosi il ventre con le mani, battendo rapidamente un piede
sul pavimento, nello spasimo della prima contrazione uterina.

— Coraggio, donna santa, coraggio! — le ripeteva la strega, fissandola
con quegli occhi bianchicci, soffregandole le reni. Avete tempo di
arrivare a Pescara... Via! via!

Orsola non poteva rispondere: alla bocca non le venivano che urli. I
crampi le serravano lo stomaco, le irrigidivano i muscoli respiratorii,
le eccitavano il vomito. I bulbi visivi le ruotavano in alto, come se
ella fosse entrata ne' sintomi di una convulsione epilettica. In tutto
il suo debole organismo la potenza eccessiva della bevanda operava ora
effetti inaspettati. Il parto falso si produsse quasi d'improvviso, con
una di quelle terribili perdite per ove le forze della vita se ne vanno
mollemente, insensibilmente, fluendo.

— Gesù, Gesù, Gesù! — mormorava la strega, inquieta, presa da una
sùbita paura dinanzi a quel povero corpo riverso — Gesù, aiutatemi!

Alle sollecitazioni di lei, Orsola rinvenne. E come dopo qualche tempo
il profluvio parve arrestarsi, la meschina si potè levare in piedi;
sospinta dalla femmina, uscire; giungere fino alla strada nuova,
barcollando, pallida come se non le fosse rimasta sotto la pelle una
goccia di sangue, ma tenuta viva dalla speranza che il maggior pericolo
fosse omai superato.

Ora la campagna era tutta frescamente luminosa dopo la pioggia. Passava
una fila di carretti carichi di gesso, e i grossi carrettieri di Letto
Manoppello, pieni di vino, sdraiati sui sacchi fumavano. Come Orsola si
mise dietro la fila, uno di quelli, l'estremo, gridò:

— Ohè, volete che vi porti, bella figliuola?

Quasi inconscia Orsola si lasciò tirar su dalle forti braccia
dell'uomo, e stette così seduta sopra i sacchi. Non intendeva le grosse
risa e i motti osceni che di carro in carro si propagavano.

Con l'energia dell'istinto teneva le ginocchia serrate per impedire al
flusso la via. Sentiva a poco a poco una specie di ottusità occuparle i
sensi, così che gli sbalzi frequenti delle ruote su la ghiaia le davano
appena un dolor sordo e il lezzo delle pipe le feriva appena le nari.
Poi cominciò un susurro lontano agli orecchi, un tremante bagliore alla
vista. Più volte ella sarebbe caduta se non l'avessero sorretta le mani
del carrettiere, che incoraggiato dalla muta docilità di lei tentava
qualche brutale carezza.

Il paese di Pescara apparve in cima alla strada, in mezzo al sole,
mandando suoni sul vento.

— Fanno la processione — disse uno degli uomini. Tutti gli altri
sferzarono; e la strada risonò sotto il trotto pesante, al tintinnìo
de' sonagli, allo schiocco delle fruste.

Quella violenza di scosse e di fragore richiamò per un momento Orsola
al senso della realtà circostante. Ma, poichè l'uomo le cingeva i
fianchi con un braccio e le soffiava il fiato vinoso nella guancia,
ella per un cieco impeto si mise a gridare e a gesticolare quasi
l'avesse presa il delirio. E il fantasma di Lindoro subitamente le si
rizzò dinanzi agli occhi offuscati e potè anco suscitarle il ribrezzo
dell'orrore in quel poco di sensibilità che le restava nei nervi.
Appena il carro si fermò, discese a terra dai sacchi scivolando; tentò
di muovere i passi, con la furia affannosa di chi cerchi raggiungere un
luogo sicuro per cadere.

Venivano in contro nella strada le verginelle coperte di veli candidi,
con in mano i cèrei dipinti, e cantavano. Dietro la torma angelica, un
grande sventolìo di drappi e di baldacchini ampliava l'aria beneficata
dalla pioggia recente. E cantavano:

    _Tantum ergo sacramentum_
    _Veneremur cernui..._

Orsola, intravedendo, voltò nel vicolo; giunse alla casa di Rosa
Catena, entrò; presa dalla vertigine, cadde in mezzo al pavimento. E,
come il profluvio del sangue ricominciava, la paralisi le occupò la
metà inferiore del corpo, ogni facoltà di moto volontario in lei si
spense.

Rosa non era nella casa: la processione aveva attirato tutto il paese,
quel giorno. In un angolo della stanza Muà, il padre, un mostro di
vecchiaia umana, un cieco inchiodato per anni sul legname di una sedia
dall'artrite deformante, tentava vagamente con la punta del bastone i
mattoni intorno a sè per scoprire la causa del rumore improvviso; e un
borbottìo bavoso gli esciva dalla bocca sdentata.

Allora, ai piedi del mostro orrendo, in mezzo al sangue del peccato,
con i pollici stretti nei pugni, senza grida, la sposa violata del
Signore per alcuni attimi si agitò nella convulsione mortale.

— Via! Via! Passa via! Via di qua!

Il vecchio, credendo che fosse entrato il mastino del beccaio,
allungava il bastone per scacciarlo; e percoteva la moribonda.



LA VERGINE ANNA.


I.

Luca Minella, nato nel 1789 a Ortona in una delle case di Porta
Caldara, fu marinaio. Nella prima giovinezza navigò per qualche
tempo sul trabaccolo _Santa Liberata_, dalla rada di Ortona ai porti
della Dalmazia, caricando legnami, frumento e frutta secche. Poi,
per vaghezza di cambiar padrone, si mise al servizio di Don Rocco
Panzavacante, e su una tanecca nuova fece molti viaggi in commercio
d'agrumi al promontorio di Roto, che è una grande e dilettosa altura su
la costa italica, tutta coperta da una selva di aranci e di limoni.

Su i ventisette anni egli si accese d'amore per Francesca Nobile; e
dopo alcuni mesi strinse le nozze.

Luca, uomo di statura bassa e fortissimo, aveva una dolce barba bionda
intorno al viso colorito; e, come le femmine, agli orecchi portava
due cerchietti d'oro. Amava il vino ed il tabacco; professava una
devozione ardente per il santo apostolo Tommaso; e, poichè era di
natura superstizioso e inchinevole allo stupore, raccontava singolari
avventure e meraviglie dei paesi d'oltremare e novellava delle genti
dálmate e delle isole adriatiche come di tribù e di terre prossime al
polo.

Francesca, donna di gioventù già schiusa, aveva della razza ortonese
la floridissima carne e i lineamenti molli. Ella amava la chiesa, le
funzioni religiose, le pompe sacre, le musiche dei tridui; viveva in
gran semplicità di costumi; e, poichè la sua intelligenza era fievole,
credeva le più incredibili cose e lodava in ogni suo atto il Signore.

Dal congiungimento nacque Anna; e fu nel mese di giugno del 1817.
Siccome il parto veniva difficile e si temeva di qualche sventura,
il sacramento del battesimo fu amministrato sul ventre della madre,
prima che uscisse alla luce l'infante. Dopo molto travaglio il parto
si compì. La creatura bevve il latte dalle mammelle materne e crebbe
in salute e in letizia. Francesca scendeva verso sera alla marina,
con la poppante su le braccia, quando la tanecca doveva tornare
carica da Roto; e Luca sbarcando aveva la camicia tutta odorosa dei
frutti meridionali. Risalendo insieme verso le case alte, si fermavano
allora un momento alla chiesa e s'inginocchiavano. Nelle cappelle già
ardevano le lampade votive; e in fondo, a traverso i sette cancelli
di bronzo, il busto dell'Apostolo luccicava come un tesoro. Le
preghiere invocavano la benedizione celeste sul capo della figliuola.
Nell'uscire, quando la madre bagnava la fronte di Anna con l'acqua
della pila, gli strilli infantili echeggiavano a lungo per quelle
navate sonanti come grandi conche di metallo puro.

L'infanzia di Anna passava pianamente, senza alcuno avvenimento
notevole. Nel maggio del 1823 ella fu vestita da cherubino, con una
corona di rose e un velo bianco; e, confusa in mezzo allo stuolo
angelico, seguì la processione tenendo in mano un cero sottile. La
madre nella chiesa volle sollevarla su le braccia per farle baciare
il santo protettore. Ma, come le altre madri sorreggenti gli altri
cherubini spingevano in folla, uno dei ceri appiccò il fuoco al velo
d'Anna e d'improvviso la fiamma avvolse il corpo tenerello. Un moto di
paura si propagò allora nella moltitudine, e ciascuno tentava d'essere
primo ad uscire. Francesca, se bene aveva le mani quasi impedite dal
terrore, riuscì a strappare la veste ardente; si strinse contro il
petto la figliuola nuda e tramortita; gittandosi dietro ai fuggenti,
invocava Gesù con alte grida.

Per le ustioni Anna stette inferma lungo tempo in pericolo. Ella
giaceva nel letto, con l'esile faccia esangue, senza parlare, come
fosse diventata muta; e aveva negli occhi aperti e fissi un'espressione
di stupore immemore più che di dolore. Nell'autunno guarì: e andò ad
appendere un voto.

Quando la temperie era dolce, la famiglia scendeva nella barca pel
pasto della sera. Sotto la tenda, Francesca accendeva il fuoco e sul
fuoco metteva i pesci: l'odor cordiale degli alimenti si spandeva
lungo il Molo mescendosi al profumo derivante dai verzieri della Villa
Onofria. Il mare dinanzi era così tranquillo che si udiva a pena
tra gli scogli il risucchio, e l'aria così limpida che la punta di
San Vito si vedeva in lontananza emergere con tutto il cumulo delle
case. Luca si metteva a cantare, insieme con gli altri uomini; Anna
faceva atto di aiutare la madre. Dopo il pasto, come la luna saliva il
cielo, i marinai apprestavano la tanecca per salpare. Intanto Luca,
nel calore del vino e del cibo, preso da quella sua naturale avidità
di narrazioni mirabili, cominciava a parlare dei litorali lontani. —
C'era, più in là di Roto, una montagna tutta abitata dalle scimmie
e da _uomini dell'India_, altissima, con piante che producevano le
pietre preziose.... — La moglie e la figlia ascoltavano, in silenzio,
attonite. Poi le vele si spiegavano lungo gli alberi lentamente, tutte
segnate di figure nere e di simboli cattolici, come vecchi gonfaloni
della patria. E Luca partiva.

Nel febbraio del 1826 Francesca si sgravò d'un bimbo morto. Nella
primavera del 1830 Luca volle condurre Anna al promontorio. Anna
era allora su l'adolescenza. Il viaggio fu felice. Nell'alto mare
incontrarono una nave di mercanti, una gran nave che faceva cammino
per forza di immense vele bianche. I delfini nuotavano nella scia;
l'acqua si moveva dolcemente intorno, scintillando, come se sopra vi
galleggiassero tappeti di penne di paone. Anna seguì a lungo con gli
occhi mai sazii la nave in lontananza. Poi una specie di nuvola azzurra
sorse su la linea dell'orizzonte; ed era la montagna fruttifera. Le
coste della Puglia si designavano a poco a poco sotto il sole. Il
profumo degli agrumi veniva spandendosi nell'aria gioviale. Quando Anna
discese su la riva, fu presa da un senso di letizia; e stette curiosa
a guardare le piantagioni e gli uomini nativi del luogo. Il padre la
condusse nella casa di una donna non giovane che parlava con una lieve
balbuzie. Restarono là due giorni. Anna vide una volta il padre baciare
la donna ospite su la bocca; ma non comprese. Al ritorno la tanecca era
carica di aranci; e il mare era ancora mite.

Anna conservò di quel viaggio un ricordo come di sogno; e, poichè per
natura era taciturna, raccontò non molte cose alle coetanee che la
incalzavano di interrogazioni.


II.

Nel maggio seguente, alle feste dell'Apostolo intervenne l'arcivescovo
di Orsogna. La chiesa era tutta parata di drappi rossi e di fogliami
d'oro; dinanzi ai cancelli di bronzo ardevano undici lampade d'argento
lavorate dagli orefici per religione; e tutte le sere l'orchestra
sonava un oratorio solenne con un bel coro di voci bianche. Il sabato
si doveva esporre il busto dell'Apostolo. I devoti peregrinavano
da tutti i paesi marittimi e interni; salivano la costa cantando e
portando in mano i voti, nel conspetto del mare.

Anna il venerdì fece la prima comunione. L'arcivescovo era un vecchio
venerando e mite: quando sollevava la mano per benedire, la gemma
dell'anello risplendeva simile ad un occhio divino. Anna, appena sentì
su la lingua l'ostia eucaristica, smarrì la vista per un'improvvisa
onda di gaudio che le irrigò i capelli con la dolcezza d'un bagno
tiepido e odoroso. Dietro di lei un susurro correva nella moltitudine;
allato, altre verginelle prendevano il sacramento e chinavano la faccia
sul gradino, in gran compunzione.

La sera Francesca volle dormire, com'è costume dei fedeli, sul
pavimento della basilica, aspettando l'ostensione mattutina del santo.
Ella era incinta da sette mesi, e molto l'affaticava il peso del
ventre. Sul pavimento i pellegrini giacevano accumulati; dai loro corpi
esalava il calore e montava nell'aria. Alcune voci confuse uscivano a
tratti da qualche bocca inconscia nel sonno; le fiammelle tremolavano
e si riflettevano su l'olio nei bicchieri sospesi tra gli archi; e
nei vani delle larghe porte aperte scintillavano le stelle alla notte
primaverile.

Francesca vegliò per due ore in travaglio, poichè l'esalazione dei
dormienti le dava la nausea. Ma, determinata a resistere e a soffrire
pel bene dell'anima, vinta dalla stanchezza, piegò alfine il capo. Su
l'alba si destò. L'aspettazione cresceva negli animi degli astanti e
altra gente sopraggiungeva: in ciascuno ardeva il desiderio d'essere
primo a vedere l'Apostolo. Fu aperto il cancello esterno; e il romore
dei cardini risonò nitidamente nel silenzio, si ripercosse in tutti
i cuori. Fu aperto il secondo cancello, poi il terzo, poi il quarto,
il quinto, il sesto, l'ultimo. Parve allora come una tromba d'uragano
investisse la moltitudine. La massa degli uomini si precipitò verso il
tabernacolo; grida acute squillarono nell'aria mossa da quell'impeto;
dieci, quindici persone rimasero schiacciate e soffocate; una preghiera
tumultuaria si levò.

I morti furono tratti fuori all'aperto. Il corpo di Francesca, tutto
contuso e livido, fu portato alla famiglia. Molti curiosi in torno si
accalcarono; e i parenti gemevano compassionevolmente.

Anna, quando vide la madre distesa sul letto tutta violacea nella
faccia e macchiata di sangue, cadde a terra senza conoscenza. Poi, per
molti mesi fu tormentata dal mal caduco.


III.

Nell'estate del 1835 Luca partiva per un porto della Grecia sul
trabaccolo _Trinità_ di Don Giovanni Camaccione. Siccome egli aveva
nell'animo un segreto pensiero, prima di navigare vendè le masserizie e
pregò i parenti d'accogliere Anna nella casa fin che egli non tornasse.
Di là a qualche tempo il trabaccolo tornò carico di fichi secchi e
d'uva di Corinto, dopo aver toccata la spiaggia di Roto. Luca non era
tra la ciurma; e si vociferò poi ch'egli fosse rimasto nel _paese dei
portogalli_ con una femmina amorosa.

Anna si ricordava dell'antica ospite balbuziente. Una gran tristezza
allora discese nella sua vita. La casa dei parenti era sotto la strada
orientale, in vicinanza del Molo. I marinai venivano a bere il vino
in una stanza bassa, ove quasi tutto il giorno le canzoni sonavano
tra il fumo delle pipe. Anna passava in mezzo ai bevitori portando
i boccali colmi; e il primo istinto de' suoi pudori si risvegliava a
quel contatto assiduo, a quell'assidua comunione di vita con uomini
bestiali. Ad ogni momento ella doveva soffrire i motti inverecondi,
le risa crudeli, i gesti ambigui, la malvagità delle ciurme inasprite
dalle fatiche della navigazione. Ella non osava lamentarsi, poichè
mangiava il pane nella casa degli altri. Ma quel supplizio di tutte le
ore la rendeva ebete: una imbecillità grave le opprimeva a poco a poco
l'intelligenza indebolita.

Per una naturale inclinazione affettiva dell'animo, ella poneva amore
agli animali. Un asino di molta età era ricoverato sotto una tettoia
di paglia e di argilla, dietro la casa. Il quadrupede mansueto portava
cotidianamente some di vino da Sant'Apollinare alla tavernella;
e, se bene i suoi denti cominciavano a ingiallire e le sue unghie
a sfaldarsi, se bene il suo cuoio era già secco e non aveva quasi
più pelo, talvolta al conspetto di una fiorita di cardi ridirizzava
le orecchie e si metteva a ragliare vivacemente in un'attitudine
giovenile.

Anna empiva di profenda la greppia e di acqua l'abbeveratoio. Quando
il calore era grande, ella veniva sotto la tettoia a meriggiare.
L'asino triturava i fili di paglia tra le mandibole laboriose, ed ella
con un ramo fronzuto faceva opera di pietà liberandogli la schiena
dalla molestia degli insetti. Di tanto in tanto l'asino volgeva la
testa orecchiuta, per un increspamento delle labbra flosce mostrando
le gencive quasi in un rossastro riso animalesco di gratitudine
e mostrando per un moto obliquo dell'occhio nell'orbita il globo
giallognolo e venato di paonazzo come una vescica di fiele. Gli insetti
turbinavano con un ronzìo pesante, su 'l fimo; non dalla terra nè
dal mare venivano romori o voci; e un senso infinito di pace occupava
allora l'animo della donna.

Nell'aprile del 1842 Pantaleo, l'uomo che guidava il somiere al
viaggio cotidiano, morì di coltello. Da quel tempo ad Anna fu commesso
l'ufficio. Ed ella partiva su l'alba e tornava sul mezzogiorno o
partiva sul mezzogiorno e tornava su la sera. La strada volgeva per
una collina solatia piantata d'olivi, discendeva per una terra irrigua
messa a pasture, e risalendo tra i vigneti giungeva alle fattorie di
Sant'Apollinare. L'asino camminava innanzi, con le orecchie basse, a
fatica: una frangia verde tutta logora e stinta gli batteva le coste e
i lombi; nel basto luccicavano alcuni frammenti di làmine d'ottone.

Quando l'animale si soffermava per riprender fiato, Anna gli dava
qualche piccolo urto carezzevole sul collo e l'eccitava con la voce;
poichè ella aveva misericordia di quella decrepitezza. Ogni tanto
strappando dalle siepi un pugno di foglie, le porgeva in ristoro; e
s'inteneriva sentendo su la palma il movimento molle delle labbra che
ricevevano l'offerta. Le siepi erano fiorite; e i fiori del bianco
spino avevano un sapore di mandorle amare.

Sul confine dell'oliveto stava una gran cisterna, e accanto alla
cisterna un lungo canale di pietra dove le vacche venivano ad
abbeverarsi. Tutti i giorni Anna faceva sosta in quel luogo; ed ella
e l'asino si dissetavano prima di seguire il cammino. Una volta ella
s'incontrò col custode dell'armento, che era nativo di Tollo e aveva
la guardatura un poco losca e il labbro leporino. L'uomo le volse il
saluto; e ambedue cominciarono a ragionare dei pascoli e dell'acqua,
e poi dei santuarii e dei miracoli. Anna ascoltava con benignità
e con frequenza di sorriso. Ella era macilente e bianca; aveva gli
occhi chiarissimi e la bocca stragrande, e i capelli castanei pieganti
indietro tutti senza spartizione. Nel collo le si vedevano le cicatrici
rossicce delle bruciature e le si vedevano le arterie battere d'un
palpito incessante.

Da allora i colloquii si reiterarono. Per l'erba le vacche stavano
sparse; e giacevano ruminando o pascolavano in piedi. Quelle moventi
forme pacifiche aumentavano la tranquillità della solitudine pastorale.
Anna, seduta su l'orlo della cisterna, ragionava semplicemente; e
l'uomo dal labbro fesso pareva preso d'amore. Un giorno ella, per un
improvviso spontaneo rifiorir del ricordo, narrò la navigazione alla
montagna di Roto. E, poichè la lontananza del tempo le ingannava la
memoria, ella diceva con accento di verità cose meravigliose. L'uomo
stupefatto ascoltava senza batter le palpebre. Quando Anna tacque,
ad ambedue il silenzio e la solitudine d'intorno parvero più grandi;
ed ambedue restarono in pensiero. Venivano le vacche, tratte dalla
consuetudine, all'abbeveratoio; e a tutte penzolava fra le gambe il
gruppo delle mammelle rifornite di latte dalla pastura. Come esse
avanzavano il muso nel canale, l'acqua diminuiva ai loro sorsi lenti e
regolari.


IV.

Su gli ultimi giorni di giugno l'asino infermò. Non prendeva cibo nè
bevanda da quasi una settimana. I viaggi s'interruppero. Una mattina
che Anna discese alla tettoia, scorse la bestia tutta ripiegata su lo
strame in un avvilimento miserevole. Una specie di tosse roca e tenace
scoteva di tratto in tratto la gran carcassa malcoperta di cuoio; sopra
gli occhi s'erano formate due cavità profonde, come due orbite vacue;
e gli occhi parevano due grosse bolle gonfie di siero. Quando l'asino
udì le voci di Anna, tentò di levarsi: il corpo gli traballava su le
zampe e il collo gli si abbatteva giù dalle spalle acute e le orecchie
gli penzolavano con i movimenti involontari e incomposti di un enorme
giocattolo che avesse guaste le commessure. Un liquido mucoso gli
colava dalle nari, talvolta allungandosi in filamenti sino ai ginocchi.
Le chiazze nude nel pelame avevano il colore azzurrognolo e quasi
cangiante della lavagna. I guidaleschi qua e là sanguinavano.

Anna, allo spettacolo, si sentì stringere da una angoscia pietosa; e,
poichè ella per natura e per uso non provava alcuna ripugnanza fisica
in contatto della materia immonda, si accostò a toccare l'animale. Con
una mano gli sorreggeva la mascella inferiore, con l'altra una spalla;
e così cercava di fargli muovere i passi, sperando in qualche virtù
dell'esercizio. L'animale prima esitava, squassato da nuovi sussulti di
tosse; poi finalmente prese a camminare per la china dolce che scendeva
al lido. Le acque, dinanzi, nella natività del giorno biancheggiavano;
e i calafati verso la Penna spalmavano una carena. Come Anna levò il
sostegno delle mani e trasse la corda della cavezza, l'asino per un
fallo de' piedi anteriori stramazzò d'improvviso. La gran macchina
delle ossa ebbe un scricchiolío interno di rotture, e la pelle del
ventre e dei fianchi risonò sordamente e palpitò. Le gambe fecero
l'atto di correre; per l'urto, dalla gengiva uscì un poco di sangue e
tra i denti si diffuse.

Allora la donna si mise a gridare andando verso la casa. Ma i calafati,
sopraggiunti, in cospetto dell'asino giacente ridevano e motteggiavano.
Uno di loro percosse col piede il ventre del moribondo. Un altro gli
afferrò le orecchie e gli sollevò il capo che ricadde pesantemente
a terra. Gli occhi si chiusero; qualche brivido corse fra il pelame
bianco del ventre aprendone le spighe, come un soffio; una delle gambe
di dietro battè due o tre volte nell'aria. Poi tutto fu immobile; se
non che nella spalla ov'era un'ulcera, si produsse un lieve tremolìo,
simile a quello che per la molestia d'un insetto avveniva dianzi
volontario nella carne vivente. Quando Anna tornò sul luogo, trovò i
calafati che tiravano per la coda la carogna, e cantavano un _Requiem_
con false voci asinine.

Così Anna rimase in solitudine; e per lungo tempo ancora visse nella
casa dei parenti ed ivi appassì, adempiendo umili uffici, e sopportando
con molta pazienza cristiana le vessazioni. Nel 1845 il mal caduco
riapparve con violenza; sparve dopo alcuni mesi. La fede religiosa
in quell'epoca divenne in lei più profonda e più calda. Ella saliva
alla basilica tutte le mattine e tutte le sere; e s'inginocchiava
abitualmente in un angolo oscuro protetto da una gran pila di marmo
dov'era figurata con rozza opera di bassorilievo la fuga della Sacra
Famiglia in Egitto. Da prima scelse ella forse quell'angolo attratta
dal docile asinello trasportante il pargolo Gesù e la Madre alla
terra dell'idolatria? Una gran quietudine d'amore le discendeva su lo
spirito, quando aveva piegate le ginocchia nell'ombra; e la preghiera
le sgorgava puramente dal petto come da una fonte naturale, poichè
ella pregava soltanto per la voluttà cieca dell'adorazione, non per la
speranza d'ottener grazia di beni nella vita terrena. Ella pregava,
con la testa china su la sedia; e come i cristiani nell'accedere e
nell'uscire attingevano con le dita l'acqua della pila, e si segnavano,
ella a quando a quando trasaliva sentendo su' capelli qualche stilla
benedetta cadere.


V.

Quando nel 1851 Anna venne la prima volta al paese di Pescara, era
prossima la festa del Rosario, che si celebra nella prima domenica
di ottobre. La donna si mosse da Ortona a piedi, per sciogliere un
voto; e, portando chiuso in un fazzoletto di seta un piccolo cuore
d'argento, camminò religiosamente lungo la riva del mare; poichè la
strada provinciale non ancora in quel tempo era praticata, e un bosco
di pini occupava molta estensione di terreno vergine. La giornata
pareva dolce, se non che nel mare le onde andavano crescendo, ed
all'estremo limite andavano crescendo in forma di trombe i vapori.
Anna avanzava tutta assorta in pensieri di santità. Nel far della sera,
come ella fu sul luogo delle Saline, cadde d'improvviso la pioggia, da
prima pianamente e dopo in grande abbondanza; così che, non essendovi
in torno riparo alcuno, ella n'ebbe le vesti tutte molli. Più in qua,
la foce dell'Alento portava acqua; ed ella si scalzò per guadare.
In vicinanza di Vallelonga la pioggia restò: ed il bosco dei pini
rinasceva serenante nell'aria con odor quasi d'incenso. Anna, rendendo
grazie nell'animo al Signore, seguì il cammino del litorale ma con più
rapidi passi, poichè sentiva penetrarsi nelle ossa l'umidità malsana, e
cominciava a battere i denti pel ribrezzo.

A Pescara, ella fu subito presa dalla febbre palustre, e ricoverata per
misericordia nella casa di Donna Cristina Basile. Dal letto, udendo i
cantici della pompa sacra, e vedendo le cime degli stendardi ondeggiare
all'altezza della finestra, ella si mise a dire le preghiere e a
invocare la guarigione. Quando passò la Vergine, ella scorse soltanto
la corona gemmata, e fece atto di mettersi in ginocchio su i guanciali
per adorare.

Dopo tre settimane guarì; e, avendole Donna Cristina offerto di
rimanere, ella rimase in qualità di domestica. Ebbe allora una piccola
stanza guardante sul cortile. Le pareti erano imbiancate di calce;
un vecchio paravento coperto di figure profane chiudeva un angolo;
e fra i travicelli del soffitto molti ragni tendevano in pace le
tele laboriose. Sotto la finestra sporgeva un tetto breve, e più giù
s'apriva il cortile pieno di volatili mansueti. Sul tetto vegetava, da
un mucchio di terra chiuso fra cinque tegole, una pianta di tabacco.
Il sole vi s'indugiava dalle prime ore antimeridiane alle prime ore del
pomeriggio. Ogni estate la pianta dava fiori.

Anna, nella nuova vita, nella nuova casa, a poco a poco si sentì
sollevare e rivivere. La sua naturale inclinazione all'ordine si
dispiegò. Ella attendeva a tutti i suoi uffici tranquillamente, senza
far parole. Anche, in lei la credenza nelle cose soprannaturali
ingigantì. Due o tre leggende s'erano per antico formate su due o
tre luoghi della casa Basile, e di generazione in generazione si
tramandavano. Nella _camera gialla_ del secondo piano abbandonato
viveva l'anima di Donna Isabella. In un ricettacolo ingombro, dove
una scala discendeva a gomito sino a una porta che non s'apriva da
tempo, viveva l'anima di Don Samuele. Quei due nomi esercitavano un
singolar fàscino sui nuovi abitatori, e diffondevano per tutto il
vecchio edificio una specie di solennità conventuale. Come poi il
cortile interno era circondato di molti tetti, i gatti su la loggia si
riunivano in conciliaboli e miagolavano con una dolcezza misteriosa,
chiedendo ad Anna gli avanzi del pasto familiare.

Nel marzo del 1853 il marito di Donna Cristina morì d'una malattia
urinaria, dopo lunghe settimane di spasimi. Egli era un uomo
timorato di Dio, casalingo e caritatevole; era capo d'una congrega di
possidenti religiosi; leggeva le opere dei teologi, e sapeva sonare sul
gravicembalo alcune semplici arie di antichi maestri napolitani. Quando
venne il viatico, magnifico per numero di ministri e per ricchezza di
arnesi, Anna s'inginocchiò su la porta, e si mise a pregare ad alta
voce. La stanza si empì d'un vapor d'incenso, in mezzo a cui il ciborio
raggiava e raggiavano i turiboli, oscillando come lampade accese. Si
udirono singhiozzi; poi le voci dei ministri, raccomandando l'anima
all'Altissimo, si sollevarono. Anna, rapita dalla solennità di quel
sacramento, perdè ogni orrore della morte, e da allora pensò che la
morte dei cristiani fosse un trapasso dolce e gaudioso.

Donna Cristina tenne chiuse tutte le finestre della casa durante un
mese intero. Continuava a piangere il marito nell'ora del pranzo e
nell'ora della cena; faceva in nome di lui le elemosine ai mendicanti;
e, più volte nel giorno, con una coda di volpe levava la polvere dal
gravicembalo come da una reliquia, emettendo sospiri. Ella era una
donna di quarant'anni, tendente alla pinguedine, ancora fresca nelle
sue forme che la sterilità aveva conservate. E poichè ereditava dal
defunto una dovizia considerevole, i cinque più maturi celibi del
paese cominciarono a tenderle insidie e ad allettarla alle nuove
nozze con arti lusingatrici. I campioni furono: Don Ignazio Cespa,
persona dolcigna, di sesso ambiguo, con una faccia di vecchia pettegola
butterata dal vaiuolo e una capellatura impregnata di olii cosmetici,
con le dita cariche di anelli e gli orecchi forati da due minuscoli
cerchi d'oro; Don Paolo Nervegna, dottor di legge, uomo parlatore
e accorto, che aveva le labbra sempre increspate come se masticasse
l'erba sardonica e su la fronte una specie di crescimento rossastro
innascondibile; Don Fileno D'Amelio, nuovo capo della congrega,
uomo pieno d'unzione e di compunzione, un po' calvo, con la fronte
sfuggente indietro e l'occhio pecorinamente opaco; Don Pompeo Pepe,
uomo giocondo, amante del vino e delle donne e dell'ozio, ubertoso
in tutta la corporatura e più nella faccia, sonoro nelle risa e nelle
parole; Don Fiore Ussorio, uomo di spiriti pugnaci, gran leggitore di
opere politiche e citator trionfante di esempi storici in ogni disputa,
pallido d'un pallor terrigno, con una sottil corona di barba intorno
agli zigomi e una bocca singolarmente atteggiata in linea obliqua. A
costoro si aggiungeva, ausiliare della resistenza di Donna Cristina,
l'abate Egidio Cennamele che, volendo trarre l'erede ai benefizi della
chiesa, osteggiava con ben coperta astuzia di impedimenti le lusinghe.

La gran contesa, che sarà un giorno narrata dal cronista per diffuso,
durò molto tempo ed ebbe molta varietà di vicende. E principal teatro
della prima azione fu il cenacolo, sala rettangolare dove su la carta
francesca delle pareti erano francescamente rappresentati i fatti di
Ulisse naufragante all'isola di Calipso. Quasi tutte le sere i campioni
si riunivano intorno all'inclita vedova; e facevano il giuoco della
briscola e il giuoco dell'amore alternativamente.


VI.

Anna fu candida testimone. Introduceva i visitatori, tendeva il tappeto
su la tavola, e a mezzo della veglia portava i bicchierini pieni
d'un rosolio verdognolo composto dalle monache con droghe speciali.
Una volta ella sentì su per le scale Don Fiore Ussorio gridare nel
calore della disputa un'ingiuria contro l'abate Cennamele che parlava
sommesso; e poichè l'irriverenza le parve mostruosa, ella da allora
in poi tenne Don Fiore per un uomo diabolico e al comparir di lui si
faceva rapidamente il segno della croce e mormorava un _Pater_.

Nella primavera del 1856, un giorno, mentre sul greto della Pescara
ella sbatteva i panni lavati, vide una torma di barche passare la foce
e navigar lentamente contro la forza dell'acqua. Il sole era sereno; le
due rive si rispecchiavano in fondo abbracciandosi; alcuni ramoscelli
verdi e alcune ceste di giunchi natavano nel mezzo della corrente,
come simboli pacifici, verso il mare; e le barche, aventi quasi tutte
la mitria di san Tommaso dipinta per insegna in un angolo della vela,
avanzavano così nel bel fiume santificato dalla leggenda di san Cetteo
Liberatore. I ricordi del paese natale si svegliarono nell'animo della
donna con un tumulto improvviso, a quello spettacolo; ed ella, pensando
al padre, fu invasa da una gran tenerezza.

Le barche erano tanecche ortonesi e venivano dal promontorio di
Roto con un carico di agrumi. Anna, come le ancore furono gettate,
si avvicinò ai marinai; e li guardava con una curiosità benevola e
trepidante, senza far parole. Uno di loro, colpito dalla insistenza,
la ravvisò e la interrogò famigliarmente. — Chi cercava? Cosa voleva? —
Allora Anna, tratto in disparte l'uomo, gli chiese se non per caso egli
avesse veduto al _paese dei portogalli_ Luca Minella, il padre. — Non
l'aveva veduto? Non stava ancora con _quella femmina_? — L'uomo rispose
che Luca era morto da qualche tempo. — Era vecchio. Poteva campar
di più? — Allora Anna contenne le lagrime; volle sapere molte cose.
L'uomo le disse molte cose. — Luca aveva strette le nozze con _quella
femmina_; ne aveva avuti due figliuoli. Il maggiore dei due navigava
sopra un trabaccolo e veniva qualche volta a Pescara per negozii. —
Anna trasalì. Un turbamento indeterminato, una specie di smarrimento
confuso le occupava l'animo. Ella non giungeva a ritrovar l'equilibrio
e la lucidità del giudizio dinanzi a quel fatto troppo complesso.
Ella aveva ora due fratelli dunque? Doveva amarli? Doveva cercare di
vederli? Ora che doveva dunque fare?

Così, titubante, tornò a casa. E dopo, per molte sere, quando entravano
nel fiume le barche, ella andava lungo lo scalo a guardare i marinai.
Qualche trabaccolo portava dalla Dalmazia un carico di asini e di
cavalli nani. Le bestie prendendo terra scalpitavano; l'aria sonava di
ragli e di nitriti. Anna, nel passare, batteva con la mano le grosse
teste degli asinelli.


VII.

Verso quel tempo ebbe in dono dal fattore di campagna una testuggine.
Il nuovo ospite tardo e taciturno fu diletto e cura della donna nelle
ore d'ozio. Camminava da un punto all'altro della stanza sollevando
a stento dal suolo il grave peso del corpo su le zampe simili a
moncherini olivastri, e, come era giovine, le piastre del suo scudo
dorsale, gialle maculate di nero, tralucevano talvolta al sole con
un nitor d'ambra. La testa coperta di scaglie, compressa nel muso,
giallognola, sporgeva tentennando con una mansuetudine timorosa; e
pareva talvolta la testa di un vecchio serpe estenuato che uscisse dal
guscio di un crostaceo. Anna prediligeva nell'animale i costumi: il
silenzio, la frugalità, la modestia, l'amor della casa. Gli dava per
cibo foglie di verdura, radici e vermi, restando estatica ad osservare
il moto delle piccole mandibole cornee dentellate nel lor duplice
margine. Ella, in quell'atto, provava quasi un sentimento di maternità;
eccitava pianamente l'animale con le voci e sceglieva per lui le erbe
più tenere e più dolci.

Fu la testuggine allora auspice d'un idillio. Il fattore, venendo più
volte al giorno nella casa, s'intratteneva su la loggia a ragionare
con Anna. Ed essendo egli uomo d'umili spiriti, divoto, prudente
e giusto, godeva veder riflesse le sue pie virtù nell'animo della
donna. Per la consuetudine sorse quindi tra i due a poco a poco una
famigliarità amorevole. Ella aveva già qualche capello bianco su
le tempie, ed in tutta la faccia diffuso un placido candore. Egli,
Zacchiele, superava di alcuni anni l'età di lei; aveva una gran testa
dalla fronte sporgente e due miti e rotondi occhi di coniglio. Tutt'e
due, nei colloquii, sedevano per lo più su la loggia. Sopra di loro,
fra i tetti, il cielo pareva una cupola luminosa; e ad intervalli i
voli dei colombi domestici, bianchi come il Paraclito, traversavano la
quiete celestiale. I colloquii volgevano su le raccolte, su la bontà
dei terreni, su le semplici norme della coltivazione; ed erano pieni di
esperienza e di rettitudine.

Poichè Zacchiele amava talvolta, per una ingenua vanità naturale, di
far pompa del suo sapere, in conspetto della donna ignorante e credula,
questa concepì per lui una stima e un'ammirazione senza limiti. Ella
imparò che la terra è divisa in cinque parti e che cinque sono le razze
degli uomini: la bianca, la gialla, la rossa, la nera e la bruna.
Imparò che la terra è di forma rotonda, che Romolo e Remo furono
nutricati da una lupa, e che le rondini su l'autunno vanno oltremare
nell'Egitto dove anticamente regnavano i Faraoni. — Ma gli uomini non
avevano tutti un colore, a imagine e somiglianza di Dio? Potevamo noi
camminare sopra una palla? Chi erano i re Faraoni? — Ella non riusciva
a comprendere, e rimaneva così tutta smarrita. Però da allora ella
considerò le rondini con reverenza e le tenne per uccelli dotati di
saggezza umana.

Un giorno Zacchiele le mostrò una Storia sacra dell'antico Testamento,
illustrata di figure. Anna guardava con lentezza, ascoltando le
spiegazioni. Ed ella vide Adamo ed Eva tra le lepri ed i cervi, Noè
seminudo inginocchiato innanzi a un altare, i tre angeli di Abramo,
Mosè salvato dalle acque; vide con gioia finalmente un Faraone nel
conspetto della verga di Mosè cangiata in serpe, e la regina di Saba,
la festa dei Tabernacoli, il martirio dei Maccabei. Il fatto dell'asina
di Balaam la empì di meraviglia e di tenerezza. Il fatto della coppa
di Giuseppe nel sacco di Beniamino la fece rompere in lacrime. Ed ella
imaginava gli Israeliti camminanti per un deserto tutto coperto di
quaglie, sotto una rugiada che si chiamava la manna ed era bianca come
la neve e più dolce del pane.

Dopo la Storia sacra, preso da una singolare ambizione, Zacchiele
cominciò a leggerle le imprese dei Reali di Francia da Costantino
imperatore sino ad Orlando conte d'Anglante. Un gran tumulto sconvolse
allora la mente della donna: le battaglie dei Filistei e dei Siriaci
si confusero con le battaglie dei Saraceni, Oloferne si confuse con
Rizieri, il re Saul col re Mambrino, Eleazaro con Balante, Noemi con
Galeana. Ed ella, affaticata, non seguiva più il filo delle narrazioni,
ma si riscoteva soltanto ad intervalli quando udiva passare nella voce
di Zacchiele i suoni di qualche nome prediletto. E predilesse Dusolina
e il duca Bovetto che prese tutta l'Inghilterra innamorandosi della
figliuola del re di Frisia.

Erano le calende di settembre. Nell'aria temperata dalla pioggia
recente, si andava diffondendo una placida chiarità autunnale. La
stanza di Anna divenne il luogo delle letture. Un giorno Zacchiele,
seduto, leggeva _come Galeana, figliuola del re Galafro, s'innamorò
di Mainetto e volle da lui la ghirlanda dell'erba_. Anna, poichè la
favola pareva semplice e campestre, e poichè la voce del lettore pareva
addolcirsi di accenti novelli, ascoltava con visibile assiduità. La
testuggine si traeva in mezzo ad alcune foglie di lattuga, pianamente;
il sole su la finestra illuminava una gran tela di ragno, e gli ultimi
fiori rosei del tabacco si vedevano a traverso la sottile opera di filo
d'oro.

Quando il capitolo fu finito, Zacchiele depose il libro; e, guardando
la donna, sorrise d'uno di quei sorrisi fatui che solevano increspargli
le tempie e gli angoli della bocca. Poi cominciò a parlarle vagamente,
con la peritanza di colui che non sa in qual modo giungere al
punto desiderato. Finalmente ardì. — Ella non aveva pensato mai al
matrimonio? — Anna alla domanda non rispose. Stettero ambedue in
silenzio ed ambedue sentivano nell'animo una dolcezza confusa, quasi
un risveglio attonito della giovinezza sepolta e un umano richiamo
dell'amore. E n'erano turbati come dal fumo d'un vino troppo forte che
montasse al loro cervello indebolito.


VIII.

Ma una tacita promessa di nozze fu data molti giorni dopo, in ottobre,
nella prima natività dell'olio d'oliva e nell'ultima migrazione
delle rondini. Con licenza di Donna Cristina, un lunedì Zacchiele
condusse Anna alla fattoria dei colli, dov'era il frantoio. Uscirono
da Portasale, a piedi, e presero la via Salaria, volgendo le spalle al
fiume. Dal giorno della favola di Galeana e di Mainetto, essi provavano
l'un verso l'altra una specie di trepidazione, un misto di temenza
vergogna e rispetto. Avevano perduta quella bella famigliarità d'una
volta; parlavano poco insieme e sempre con un tal riserbo esitante,
senza mai guardarsi nel volto, con incerti sorrisi, confondendosi
talora per un subitaneo rossore, indugiando così in questi timidi
bamboleggiamenti d'innocenza.

Camminarono in silenzio, da prima, ciascuno seguendo lo stretto
sentiero asciutto che i passi dei viandanti avevano praticato sui
due margini della via; e li divideva il mezzo della via fangoso e
segnato di solchi profondi dalle ruote dei veicoli. Una libera gioia
vendemmiale occupava le campagne: i canti del mosto per la pianura
si avvicendavano. Zacchiele si teneva un poco indietro, rompendo a
tratti a tratti il silenzio con qualche parola su la temperie, su
le vigne, su la raccolta delle olive. Anna guardava curiosa tutti i
cespugli rosseggianti di bacche, i campi lavorati, le acque dei fossi;
e a poco a poco le nasceva nell'animo una letizia vaga, quale di chi
dopo lungo tempo sia dilettato da sensazioni già innanzi conosciute.
Come il cammino prese a volgere su pel declivio tra i ricchi
oliveti di Cardirusso, chiaramente le sorse nell'animo il ricordo di
Sant'Apollinare e dell'asino e del custode degli armenti. Ed ella sentì
quasi rifluirsi al cuore tutto il sangue, d'improvviso. Quell'episodio
obliato della sua giovinezza le si coordinò nella memoria con una
perspicuità meravigliosa; l'imagine dei luoghi le si formò dinanzi; e
nella scena illusoria ella rivide l'uomo dal labbro leporino, ne riudì
la voce, provando un turbamento nuovo senza sapere perchè.

La fattoria si avvicinava; fra gli alberi soffiava il vento
facendo cadere le ulive mature; una zona di mare sereno si scopriva
dall'altitudine. Zacchiele s'era messo a fianco della donna e la
guardava di tratto in tratto con una pia supplicazione di tenerezza.
— A che pensava ella dunque? — Anna si volse, con un'aria quasi
di sbigottimento, come fosse stata colta in fallo. — A niente
pensava. —

Giunsero al frantoio, dove i coloni macinavano la prima raccolta delle
olive cadute precocemente dall'albero. La stanza delle macine era
bassa e oscura; dalla vôlta luccicante di salnitro pendevano lucerne
di ottone e fumigavano; un giumento bendato girava una mola gigantesca,
con passo regolare; e i coloni, vestiti di certe lunghe tuniche simili
a sacchi, nudi le gambe e le braccia, muscolosi, oleosi, versavano il
liquido nelle giare, nelle conche, negli orci.

Anna si mise a considerare l'opera, attentamente; e, come Zacchiele
impartiva ordini ai faticatori, e girava tra le macine, osservando la
qualità delle olive con una grande sicurezza di giudice, ella sentì per
lui in quel momento crescere l'ammirazione. Poi, come Zacchiele dinanzi
a lei prese un gran boccale colmo e versando nell'orcio quell'olio
purissimo e luminoso nominò la grazia di Dio, ella si fece il segno
della croce, tutta compresa di venerazione per l'opulenza della terra.

Venivano intanto su la porta le due femmine della fattoria; e ciascuna
teneva contro il seno un poppante, e si traeva un bel grappolo di
figliuoli dietro le gonne. Si misero a conversare placidamente; e,
poichè Anna tentava di accarezzare i fanciulli, ciascuna si compiaceva
della propria fecondità, e con una ridente onestà di parole ragionava
dei parti. La prima aveva avuti sette figliuoli; la seconda undici.
— Era la volontà di Gesù Cristo; e per la campagna poi ci volevano
braccia.

Allora la conversazione volse in materie famigliari. Albarosa, una
delle madri, fece molte domande ad Anna. — Ella non aveva avuto mai
figliuoli? — Anna, nel rispondere che non s'era maritata, provò per
la prima volta una specie di umiliazione e di rammarico, dinanzi a
quella possente e casta maternità. Poi, cambiando discorso, ella tese
la mano sul più vicino dei bimbi. Gli altri guardavano con occhi vasti
che pareva avessero assunto un limpido color vegetale dallo spettacolo
continuo delle cose verdi. L'odore delle olive infrante si spandeva
nell'aria, ed entrava nelle fauci ad eccitare il palato. I gruppi dei
faticatori apparivano e sparivano sotto il rossore delle lucerne.

Zacchiele, che fino a quel momento aveva invigilato su la misura
dell'olio, si accostò alle donne. Albarosa lo accolse con un volto
festevole. — Quanto voleva aspettare Don Zacchiele a prender moglie?
— Zacchiele sorrise con un po' di confusione, a quella domanda; e
diede un'occhiata sfuggente ad Anna che accarezzava ancora il bimbo
selvatico e fingeva di non aver inteso. Albarosa, per una benevola
arguzia contadinesca, riunendo visibilmente con l'ammiccar degli occhi
bovini il capo d'Anna e quello di Zacchiele, seguitò le incitazioni. —
Erano una coppia benedetta da Dio. Che aspettavano? — I coloni, avendo
sospesa l'opera per attendere al pasto, facevano in torno cerchia. E
la coppia, anche più confusa per quella testimonianza, restava muta in
un'attitudine tra di sorriso tremulo e di pudica modestia. Qualcuno dei
giovini fra i testimoni, esilarato dalla faccia amorosamente compunta
di Don Zacchiele, sospingeva con urti di gomiti i compagni. Il giumento
nitrì, per fame.

Fu apprestato il pasto. Un 'attività diligente invase la gran famiglia
rustica. Su lo spiazzo, all'aperto, tra gli olivi pacifici e in
conspetto del sottostante mare, gli uomini sedevano alla mensa. I
piatti dei legumi conditi d'olio novello fumavano; il vino scintillava
nelle semplici forme liturgiche dei vasi; e il cibo frugale dispariva
rapidamente entro gli stomachi dei faticatori.

Anna ora si sentiva come assalire da un tumulto di giubilo, e si
sentiva d'un tratto quasi legata da una specie di dimestichezza
amichevole con le due donne. Queste la condussero nell'interno della
casa, dove le stanze erano larghe e luminose benchè antichissime.
Su le pareti le imagini sacre si alternavano con le palme pasquali;
provvigioni di carni suine pendevano dai soffitti; i talami dal
pavimento si elevavano ampi ed altissimi con a canto le culle; da
tutto emanava la serenità della concordia familiare. Anna, considerando
quell'ordine, sorrideva timidamente a una dolcezza interiore; e in un
punto fu presa da una strana commozione quasi che tutte le sue latenti
virtù di madre casalinga e i suoi istinti di allevatrice fremessero e
insorgessero d'improvviso.

Quando le donne ridiscesero su lo spiazzo, gli uomini stavano ancora
in torno alla tavola; Zacchiele parlava con loro. Albarosa prese un
piccolo pane di frumento, lo divise nel mezzo, lo consperse d'olio
e di sale, e l'offerì ad Anna. L'olio novello, allora allora gemuto
dal frutto, spandeva nella bocca un saporoso aroma asprino; ed Anna
allettata mangiò tutto il pane. Bevve anche il vino. Poi, come il
vespro cadeva, ella e Zacchiele ripresero il cammino del declivio.

Dietro di loro i coloni cantarono. Molti altri canti sorsero dalla
campagna, e si dispiegarono nella sera con la piana larghezza di un
salmo gregoriano. Il vento soffiava fra gli oliveti più umido; un
chiarore moriente tra roseo e violaceo indugiava effuso pel cielo.

Anna camminò innanzi, con passo celere, rasente i tronchi. Zacchiele
la seguì, pensando alle parole ch'egli voleva dire. Ambedue, da poi
che si sentivano soli, provavano una trepidazione infantile. A un
punto Zacchiele chiamò la donna per nome; ed ella si volse umile e
palpitante. — Che voleva? — Zacchiele non disse più altro; fece due
passi, giunse al fianco di lei. E così continuarono il cammino, in
silenzio, finchè la via Salaria non li divise. Come nell'andare,
essi presero ciascuno il sentiero del margine, a destra e a manca. E
rientrarono a Portasale.


IX.

Per una nativa irresolutezza, Anna differiva continuamente il
matrimonio. Dubbii religiosi la tormentavano. Ella aveva sentito dire
che soltanto le vergini sarebbero ammesse a far corona in torno alla
Madre di Dio, nel paradiso. Dunque? Doveva ella rinunciare a quella
dolcezza celeste per un bene terreno? Un più vivo ardore di divozione
allora la invase. In tutte le ore libere ella andava alla chiesa del
Rosario; s'inginocchiava innanzi al gran confessionale di quercia,
e rimaneva immobile in quell'attitudine di preghiera. La chiesa era
semplice e povera; il pavimento era coperto di lapidi mortuarie; una
sola lampada di metallo vile ardeva innanzi all'altare. E la donna
rimpiangeva nell'animo il fasto della sua basilica, la solennità delle
cerimonie, le undici lampade d'argento, i tre altari di marmo prezioso.

Ma nella Settimana Santa del 1857, sorse un grande avvenimento.
Tra la Confraternita capitanata da Don Fileno d'Amelio e l'abate
Cennamele, coadiuvato dai satelliti parrocchiali, scoppiò la guerra;
e ne fu causa un contrasto per la processione di Gesù morto. Don
Fileno voleva che la pompa, fornita dai congregati, uscisse dalla
chiesa della Confraternita; l'abate voleva che la pompa uscisse dalla
chiesa parrocchiale. La guerra attrasse e avviluppò tutti i cittadini
e le milizie del Re di Napoli, residenti nel forte. Nacquero tumulti
popolari; le vie furono occupate da assembramenti di gente fanatica;
pattuglie armigere andarono in volta per impedire i disordini; il
conte arcivescovo di Chieti fu assediato da innumerevoli messi d'ambo
le parti; corse molta pecunia per corruzioni; un mormorio di congiure
misteriose si sparse nella città. Focolare degli odii la casa di Donna
Cristina Basile. Don Fiore Ussorio sfolgorò per mirabili stratagemmi
e per audacie novissime, in quei giorni di lotta. Don Paolo Nervegna
ebbe un grave spargimento di bile. Don Ignazio Cespa adoperò in vano
tutte le sue blande arti conciliative e i suoi sorrisi melliflui. La
vittoria fu contrastata con un accanimento implacabile, fino all'ora
rituale della pompa funeraria. Il popolo fremeva nell'aspettazione; il
comandante de le milizie, partigiano dell'abbadia, minacciava castighi
ai facinorosi della Confraternita. La rivolta stava per irrompere.
Quand'ecco giungere su la piazza un soldato a cavallo latore di un
messaggio episcopale che dava la vittoria ai congregati.

L'ordine della pompa si dispiegò allora con insolita magnificenza per
le vie sparse di fiori. Un coro di cinquanta voci bianche cantò gli
inni della Passione; e dieci turiferarii incensarono tutta la città.
I baldacchini, gli stendardi, i ceri per la nuova ricchezza empirono
gli astanti di meraviglia. L'abate sconfitto non intervenne; ed in sua
vece Don Pasquale Carabba, il Gran Coadiutore, vestito dei paramenti
badiali, seguì con molta solennità d'incesso il feretro di Gesù.

Anna, nel frangente, aveva fatto voti per la vittoria dell'abate. Ma
la suntuosità della cerimonia la abbagliò; una specie di rapimento
la invase, allo spettacolo; ed ella sentì gratitudine anche per Don
Fiore Ussorio che passava reggendo nel pugno un cero immane. Poi, come
l'ultima schiera dei celebranti le giunse dinanzi, ella si mescolò
alla turba fanatica degli uomini, delle donne e de' fanciulli; e andò
così, quasi senza toccar terra, tenendo sempre gli occhi fissi al serto
culminante della _Mater dolorosa_. In alto, dall'uno all'altro balcone,
stavano tesi i drappi signorili consecutivamente; dalle case dei
panettieri pendevano rustiche forme d'agnelli materiate di fromento; ad
intervalli, nei trivii, nei quadrivii, un braciere acceso spandeva fumo
di aròmati.

La processione non passò sotto le finestre dell'abate. Di tratto in
tratto una specie di movimento irregolare correva lungo le file, come
se la schiera antesignana incontrasse un ostacolo. E n'era causa il
contrasto tra il crocifero della Confraternita e il luogotenente
delle milizie, i quali ambedue avevano ricevuto il comando di
seguire un itinerario diverso. Poichè il luogotenente non poteva usar
violenza senza commetter sacrilegio, vinse il crocifero. I congregati
esultavano; il comandante generale ardeva d'ira; il popolo s'empiva di
curiosità.

Quando la pompa, in vicinanza dell'arsenale, si rivolse per rientrare
nella chiesa di San Giacomo, Anna prese un vicolo obliquo e in pochi
passi fu su la porta madre. S'inginocchiò. Giungeva primo verso di lei
l'uomo portante il crocifisso gigantesco; seguivano gli stendardieri
che tenevano l'altissima asta in equilibrio su la fronte o sul mento,
atteggiandosi con dotto giuoco di muscoli. Poi, quasi in mezzo a una
nuvola d'incenso, venivano le altre schiere, i cori angelici, gli
incappati, le vergini, i signori, il clero, le milizie. Lo spettacolo
era grande. Una specie di terrore mistico teneva l'animo della donna.

Si avanzò sul vestibolo, secondo la consuetudine, un accolito munito
d'un largo piatto d'argento per ricevere i ceri. Anna guardava. Allora
fu che il comandante, spezzando tra i denti aspre parole contro la
Confraternita, gittò violentemente il suo cero nel piatto e voltò le
spalle con piglio minaccioso. Tutti rimasero allibiti. E nel momentaneo
silenzio si udì tintinnare la spada di colui che si allontanava. Solo
Don Fiore Ussorio ebbe la temerità di sorridere.


X.

I fatti per moltissimo tempo incitarono l'attività vocale dei cittadini
e furono causa di turbolenze. Come Anna era stata testimone dell'ultima
scena, alcuni vennero a lei per ragguagli. Ella raccontava sempre
con le stesse parole, pazientemente. La sua vita da allora fu tutta
spesa tra le pratiche religiose, gli uffici domestici e l'amore della
testuggine. Ai primi tepori d'aprile la testuggine uscì dal letargo.
Un giorno, d'improvviso, sbucò di sotto allo scudo la testa serpentina
e tentennò debolmente mentre i piedi erano ancora immersi nel torpore.
I piccoli occhi rimasero coperti a mezzo dalla palpebra. E l'animale,
forse non più consapevole d'essere captivo, si mosse finalmente con un
moto pigro e incerto, tastando co' piedi il suolo, spinto dal bisogno
di trovarsi il cibo come nella sabbia del suo bosco natale.

Anna, innanzi a quel risveglio, fu invasa da una tenerezza ineffabile e
stette a guardare con occhi umidi di lacrime. Poi prese la testuggine,
la mise sul letto, le offerì alcune foglie verdi. La testuggine esitava
a toccare le foglie, e nell'aprire le mandibole mostrava la lingua
carnosa come quella dei pappagalli. Gli indumenti del collo e delle
zampe parevano membrane flosce e giallognole di un corpo estinto. La
donna a quella vista si sentiva stringere da una gran misericordia; ed
eccitava al ristoro il bene amato, con le blandizie di una madre pel
figliuolo convalescente. Unse d'olio dolce lo scudo osseo; e, come il
sole vi percoteva sopra, le piastre pulite risplendevano più belle.

In queste cure passarono i mesi della primavera. Ma Zacchiele,
consigliato dalla stagione novella a maggiori impeti di amore, incalzò
la donna con così tenere supplicazioni che n'ebbe alfine una promessa
solenne. Le nozze si sarebbero celebrate il giorno precedente la
Natività di Gesù Cristo.

Allora l'idillio rifiorì. Mentre Anna attendeva alle opere dell'ago
pel corredo nuziale, Zacchiele leggeva ad alta voce la storia del Nuovo
Testamento. Le nozze di Cana, i prodigi del Redentore in Cafarnao, il
morto di Naim, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la liberazione
della figliuola della Cananea, i dieci lebbrosi, il cieco nato, la
risurrezione di Lazzaro, tutte quelle narrazioni miracolose rapirono
l'animo della donna. Ed ella pensò lungamente a Gesù che entrava in
Gerusalemme cavalcando un'asina, mentre i popoli stendevano su la sua
via le vesti e spargevano fronde.

Nella stanza l'erbe di timo odoravano in un vaso di terra. La
testuggine veniva talvolta alla cucitrice e le tentava con la bocca il
lembo delle tele o le morsicchiava il cuoio sporgente delle scarpe.
Un giorno Zacchiele, nel leggere la parabola del Figliuol Prodigo,
sentendosi d'improvviso qualche cosa di mobile tra i piedi, per un
involontario moto di ribrezzo diede co' piedi un urto; e la testuggine
urtata andò a battere contro la parete e rimase capovolta. Il guscio
dorsale si scheggiò in più parti; un po' di sangue apparve da una delle
zampe che l'animale agitava inutilmente per riprendere la posizione
primitiva.

Se bene l'infelice amante si mostrò atterrito del fatto e
inconsolabile, Anna dopo quel giorno si chiuse in una specie di
severità diffidente, non parlò più, non volle più ascoltare la lettura.
E così il figliuol prodigo rimase per sempre sotto gli alberi delle
ghiande a guardare i porci del suo signore.


XI.

Nella grande alluvione dell'ottobre (1857) Zacchiele morì. La cascina
dov'egli abitava, nei dintorni dei Cappuccini, fuori di Porta-Giulia,
fu invasa dalle acque. Le acque inondarono tutta la campagna, dal
colle d'Orlando fino al Colle di Castellammare; e, poichè avevano
attraversato vastissimi sedimenti d'argilla, erano sanguigne come
nella favola antica. Le cime degli alberi emergevano qua e là su quel
sangue melmoso ed estuoso. Per intervalli, dinanzi al forte passavano
in precipizio tronchi enormi con tutte le radici, masserizie, materie
di forme irriconoscibili, gruppi di bestiami non ancora morti che
urlavano e sparivano e riapparivano e si perdevano in lontananza. I
branchi dei bovi, in ispecie, davano uno spettacolo mirabile: i grossi
corpi biancastri s'incalzavano l'un l'altro, le teste si ergevano
disperatamente fuori dell'acqua, furiosi intrecciamenti di corna
avvenivano nell'impeto del terrore. Come il mare era di levante, le
onde alla foce rigurgitavano. Il lago salso della Palata e gli estuarii
si riunirono col fiume. Il forte divenne un'isola perduta.

Nell'interno le vie si sommersero; la casa di Donna Cristina ebbe
la linea delle acque sino a metà della scala. Il fragore cresceva di
continuo, mentre le campane sonavano a distesa. I forzati, dentro le
carceri, urlavano.

Anna, credendo a qualche supremo castigo dell'Altissimo, ricorse
alla salvezza delle preghiere. Il secondo giorno, come salì su la
sommità della colombaia, non vide che acque e acque in torno sotto le
nuvole, e scorse poi cavalli sbigottiti che galoppavano in furia su le
troniere di San Vitale. Discese, stupida, con la mente sconvolta; e la
persistenza del fragore e l'oscurità dell'aria le fecero smarrire ogni
nozione del luogo e del tempo.

Quando l'alluvione cominciò a decrescere, la gente del contado entrò
nella città per mezzo di palischermi. Uomini, donne e fanciulli,
avevano su la faccia e negli occhi la stupefazione dolorosa. Tutti
narravano fatti tristi. E un bifolco dei Cappuccini venne alla casa
Basile per annunziare che Don Zacchiele se n'era andato _a marina_.
Il bifolco parlava semplicemente, narrando la morte. Disse che in
vicinanza dei Cappuccini certe femmine avevano legato i figliuoli
lattanti su la cima di un grande albero per salvarli dall'acqua e che
i vortici avevano sradicato l'albero trascinandosi le cinque creature.
Don Zacchiele stava sul tetto con altri cristiani in un mucchio
compatto, urlando; e il tetto stava già per sommergersi; e cadaveri
d'animali e rami rotti venivano già a urtare contro i disperati. Quando
finalmente l'albero dei lattanti passò di là sopra, la violenza fu così
terribile che dopo il suo passaggio non si vide più traccia di tetto nè
di cristiani.

Anna ascoltò senza piangere; e nella sua mente percossa il racconto di
quella morte, con quell'albero dei cinque pargoli e con quelli uomini
ammucchiati tutti sopra un tetto e con quei cadaveri di bestie che
andavano a urtar contro, suscitò una specie di meraviglia superstiziosa
simile a quella suscitatale da certe narrazioni del Vecchio Testamento.
Ella salì con lentezza alla sua stanza, e cercò di raccogliersi.
Il sole modesto splendeva sul davanzale; la testuggine in un angolo
dormiva ricoverata sotto il suo scudo; un cinguettío di passeri veniva
dagli émbrici. Tutte queste cose naturali, questa usuale tranquillità
della vita circonstante, a poco a poco la rasserenarono. Dal fondo di
quella momentanea calma alfine sorse chiaro il dolore; ed ella chinò la
testa sul petto, in un grande sconforto.

Allora le punse l'animo il rimorso d'aver serbato contro Zacchiele
quella specie di muto rancore per tanto tempo; e i ricordi a uno a uno
vennero ad assalirla; e le virtù del defunto le rifulgevano ora alla
memoria più religiosamente. Poichè l'onda del dolore cresceva, ella si
alzò, andò verso il letto, vi si distese bocconi. E i suoi singhiozzi
risonavano tra il cinguettío degli uccelli.

Dopo, quando le lacrime si arrestarono, la quiete della rassegnazione
cominciò a discenderle nell'animo; ed ella pensò che tutte le cose
della terra sono caduche, e che noi dobbiamo conformarci alla volontà
del Signore. L'unzione di questo semplice atto d'abbandono le sparse
sul cuore un'abbondanza di dolcezza. Ella si sentì libera da ogni
inquietudine, e trovò il riposo in quell'umile e ferma confidenza.
Da allora nella sua regola non fu che questa clausola: — La soprana
volontà di Dio, sempre giusta, sempre adorabile, sia fatta in tutte le
cose, sia lodata ed esaltata per tutta l'eternità.


XII.

Così alla figlia di Luca fu aperta la vera strada del paradiso. E
il giro del tempo per lei non fu determinato se non dalle ricorrenze
ecclesiastiche. Quando il fiume rientrò nell'alveo, uscirono per ordine
consecutivo di giorni molte processioni nella città e nelle campagne.
Ella le seguì tutte, insieme con il popolo, cantando il _Te Deum_. Le
vigne in torno erano devastate; il terreno era molle e l'aria pregna di
vapori biondi, singolarmente luminosa, come nelle primavere palustri.

Poi venne la festa d'Ognissanti; poi, la solennità dei Morti. Grandi
messe furono celebrate in suffragio delle vittime dell'alluvione. Nel
Natale Anna volle fare il presepe; comprò un bambino di cera, Maria,
san Giuseppe, il bove, l'asino, i re Magi e i pastori. Accompagnata
dalla figlia del sagrestano, ella andò per i fossati della via Salaria
a cercare il musco. Sotto la vitrea serenità iemale i latifondi
riposavano pingui di limo; la fattoria d'Albarosa si scorgeva sul colle
tra gli olivi; nessuna voce turbava il silenzio. Anna, come scopriva
il musco, si chinava e con un coltello tagliava la zolla. Al contatto
delle fredde erbe le sue mani divenivano lievemente violacee. Di
tratto in tratto, alla vista di una zolla più verde, le sfuggiva una
esclamazione di contentezza. Quando il canestro fu pieno, ella sedette
sul ciglio del fossato, con la fanciulla. I suoi occhi salirono pel
sentiero dell'oliveto, lentamente, e si fermarono alle mura bianche
della fattoria che pareva un edifizio claustrale. Allora ella chinò
la fronte, assalita da un pensiero. Poi d'un tratto si volse alla
compagna. — Non aveva mai veduto macinare le olive? — E cominciò
a figurar l'opera delle macine con molta prolissità di parole; e,
come parlava, a poco a poco le salivano dall'animo altri ricordi, le
venivano su la bocca spontaneamente a uno a uno, e le passavano nella
voce con un piccolo tremito.

Quella fu l'ultima debolezza. Nell'aprile del 1858, poco dopo
la Pasqua maggiore, ella infermò. Stette nel letto quasi durante
un mese, tormentata dall'infiammazione pulmonare. Donna Cristina
veniva la mattina e la sera nella stanza a visitarla. Una vecchia
fantesca, che faceva pubblica professione d'assistere i malati, le
somministrava i medicamenti. Poi la testuggine le rallegrò i giorni
della convalescenza. E come l'animale era estenuato dal digiuno, ed
era tutto aridamente pelloso, Anna vedendosi macilente, e sentendosi
anch'essa affievolita, provava quella specie di appagamento interiore
che noi proviamo quando una stessa sofferenza ci accomuna alla persona
diletta. Un tepore molle saliva dagli émbrici coperti di licheni,
verso i convalescenti; nel cortile i galli cantavano: e una mattina due
rondini entrarono d'improvviso, batterono l'ali in torno alla stanza e
fuggirono.

Quando Anna tornò la prima volta nella chiesa, dopo la guarigione,
era la Pasqua delle rose. Ella, nell'entrare, aspirò il profumo
dell'incenso cupidamente. Camminò piano, lungo la navata, per ritrovare
il posto dove soleva prima inginocchiarsi; e si sentì prendere da
una sùbita gioia, quando scorse finalmente tra le lapidi mortuarie
quella che portava nel mezzo un bassorilievo tutto consunto. Vi piegò
i ginocchi sopra, e si mise a pregare. La gente aumentava. A un certo
punto della cerimonia due accoliti scesero dal coro con due bacini
d'argento colmi di rose, e cominciarono a spargere i fiori su le
teste dei prostrati, mentre l'organo sonava un inno giocondo. Anna era
rimasta china, in una specie di estasi che le davano la beatitudine del
misterio celebrato e il senso vagamente voluttuoso della guarigione.
Come alcune rose vennero a caderle su la persona, ella n'ebbe un
fremito lungo. E la povera donna nulla aveva provato nella sua vita di
più dolce che quel fremito di delizia mistica e il susseguito languore.

La Pasqua rosata rimase perciò la festività prediletta di Anna, e
ritornò periodicamente senza alcun episodio notevole. Nel 1860 la città
fu turbata da gravi agitazioni. Si udivano spesso nella notte i rulli
dei tamburi, gli allarmi delle sentinelle, i colpi della moschetteria.
Nella casa di Donna Cristina si manifestò un più vivo fervore di azione
tra i cinque proci. Anna non si sbigottì; ma visse in un raccoglimento
profondo, non prendendo conoscenza degli avvenimenti pubblici nè
di quelli domestici, adempiendo ai suoi uffici con un'esattezza
macchinale.

Nel mese di settembre la fortezza di Pescara fu evacuata; le milizie
borboniche si sbandarono, gittando armi e bagagli nelle acque del
fiume; stuoli di cittadini corsero le vie con liberali acclamazioni
di gioia. Anna, come seppe che l'abate Cennamele era fuggito
precipitosamente, pensò che i nemici della Chiesa di Dio avessero
ottenuto il trionfo; e n'ebbe molto dolore.

Dopo, la sua vita si svolse in pace, lungo tempo. Lo scudo della
testuggine crebbe in latitudine e divenne più opaco; la pianta del
tabacco annualmente sorse, fiorì e cadde; le sagge rondini in ogni
autunno partirono per la terra dei Faraoni. Nel 1865 alfine la gran
contesa dei proci terminò con la vittoria di Don Fileno d'Amelio.
Le nozze si celebrarono nel mese di marzo, con solenne giocondità
di conviti. E vennero allora ad ammannire vivande preziose due padri
cappuccini, Fra Vittorio e Fra Mansueto.

Erano costoro i due che di tutta la compagnia rimanevano, dopo la
soppressione, a custodire il cenobio. Fra Vittorio era un sessagenario
invermigliato fortificato e letificato dal succo dell'uva. Una piccola
benda verde gli copriva l'infermità dell'occhio destro, e il sinistro
gli scintillava pieno di vivezza penetrante. Egli esercitava fin dalla
gioventù l'arte farmaceutica; e, come aveva pratica molta di cucina, i
signori solevano chiamarlo in occasione di festeggiamenti. Nell'opere
aveva gesti rudi che gli scoprivano fuor delle ampie maniche le braccia
villose; la sua barba si moveva tutta ad ogni moto della bocca; la
sua voce si frangeva in stridori. Fra Mansueto in vece era un vecchio
macilente, con una testa caprina da cui pendeva una barbicola candida,
con due occhi giallognoli pieni di sommissione. Egli coltivava l'orto,
e questuando portava l'erbe mangerecce per le case. Nell'aiutare il
compagno prendeva attitudini modeste, zoppicava da un piede; parlava
nel molle idioma patrio di Ortona, e, forse in memoria della leggenda
di san Tommaso, esclamava: — _Pe' li Turchi!_ — ad ogni momento,
lisciandosi con una mano il cranio polito.

Anna attendeva a porgere i piatti, gli arnesi, i vasellami di rame.
Le pareva ora che la cucina assumesse una sorta di solennità sacra per
la presenza dei frati. Ella restava intenta a guardare tutti gli atti
di Fra Vittorio, presa da quella trepidazione che le persone semplici
provano in cospetto degli uomini dotati di qualche virtù superiore.
Ammirava ella in ispecie il gesto infallibile con cui il gran
cappuccino spargeva su gli intingoli certe sue droghe segrete, certi
suoi aromi particolari. Ma l'umiltà, la mitezza, la modesta arguzia di
Fra Mansueto a poco a poco la conquistarono. E i legami della comune
patria e quelli più sensibili del comune idioma strinsero l'una e
l'altro d'amicizia.

Come essi conversavano, i ricordi del passato pullulavano nelle loro
parole. Fra Mansueto aveva conosciuto Luca Minella e si trovava nella
basilica quando accadde la morte di Francesca Nobile tra i pellegrini.
— _Pe' li Turchi!_ — Egli aveva anzi dato aiuto a trasportare il
cadavere fino alle case di Porta Caldara; e si ricordava che la morta
aveva addosso una veste di seta gialla e tante collane d'oro...

Anna divenne triste. Nella sua memoria il fatto fino a quel momento era
rimasto confuso, vago, quasi incerto, attenuato dal lunghissimo stupore
inerte che aveva seguito i primi accessi del mal caduco. Ma quando Fra
Mansueto disse che la morta stava in paradiso, perchè chi muore per
causa di religione va fra i santi, Anna provò una dolcezza indicibile e
si sentì d'un tratto crescere nell'animo una immensa adorazione per la
santità della madre.

Allora, per rammentare i luoghi del paese nativo, ella si mise a
discorrere su la basilica dell'Apostolo, minutamente, determinando le
forme degli altari, la positura delle cappelle, il numero degli arredi,
le figurazioni della cupola, le attitudini delle immagini, le divisioni
del pavimento, i colori delle vetrate. Fra Mansueto la secondava con
benignità; e, poichè egli era stato ad Ortona alcuni mesi innanzi,
raccontò le nuove cose vedute. — L'Arcivescovo di Orsogna aveva donato
alla basilica un ciborio d'oro con incrostature di pietre preziose. La
Confraternita del SS. Sacramento aveva rinnovato tutti i legnami e i
corami degli stalli. Donna Blandina Onofrii aveva fornita una intera
muta di parati consistente in pianete dalmatiche stole piviali cotte.

Anna ascoltava avidamente; e il desiderio di vedere le nuove cose e di
riveder le antiche cominciò a tormentarla. Ella, quando il cappuccino
tacque, si rivolse a lui con un'aria tra di letizia e di timidezza. —
La festa di maggio si avvicinava. Se andassero?


XIII.

Alle calende di maggio la donna, avuta licenza da Donna Cristina, fece
gli apparecchi. Inquietudine le nacque nell'animo per la testuggine.
— Doveva lasciarla? o portarla seco? — Stette lungamente in forse; e
infine deliberò di portarla, per sicurezza. La pose dentro un canestro,
tra i panni suoi e le scatole di confetture che Donna Cristina inviava
a Donna Veronica Monteferrante, abadessa del monastero di Santa
Caterina.

Su l'alba Anna e Fra Mansueto si misero in cammino. Anna aveva in
principio il passo spedito, l'aspetto gaio: i capelli, già quasi tutti
canuti, le si piegavano lucidi sotto il fazzoletto. Il frate zoppicava
reggendosi a una mazza, e le bisacce vuote gli penzolavano dalle
spalle. Come essi giunsero al bosco dei pini, fecero la prima sosta.

Il bosco, al mattino di maggio, ondeggiava immerso nel suo profumo
natale, voluttuosamente, tra il sereno del cielo e il sereno del mare.
I tronchi gemevano la ragia. I merli fischiavano. Tutte le fonti della
vita parevano aperte su la trasfigurazione della terra.

Anna sedette sopra l'erba; offerse al cappuccino pane e frutta; e
si mise a discorrere della festività, ad intervalli, mangiando. La
testuggine tentava con le zampe anteriori l'orlo del canestro, e la sua
timida testa serpigna sporgeva e si ritraeva negli sforzi. Poi che Anna
l'aiutò a discendere, la bestia prese ad avanzare sul musco verso un
cespuglio di mirto, con minor lentezza, forse sentendo in sè levarsi
confusamente la gioia della primitiva libertà. E il suo scudo tra il
verde pareva più bello.

Allora Fra Mansueto fece alcune riflessioni morali e lodò la
Provvidenza che dà alla testuggine una casa e le dà il sonno durante
la stagione dell'inverno. Anna raccontò alcuni fatti che dimostravano
nella testuggine un gran candore e una gran rettitudine. Poi soggiunse;
«Che penserà?» E dopo un poco: «Gli animali che penseranno?»

Il frate non rispose. Ambedue rimasero perplessi. Scendeva giù per la
corteccia di un pino una fila di formiche e si dilungava pel terreno:
ciascuna formica trascinava un frammento di cibo e tutta l'innumerevole
famiglia compiva il lavoro con ordine diligente. Anna guardava, e le si
svegliavano nella mente le credenze ingenue dell'infanzia. Ella parlò
di abitazioni meravigliose che le formiche scavano sotto la terra. Il
frate disse, con accento di fede intensa: «Dio sia lodato!» E ambedue
rimasero cogitabondi, sotto i verdi alberi, adorando nel loro cuore
Iddio.

Nella prima ora del pomeriggio arrivarono al paese di Ortona.
Anna battè alla porta del monastero e chiese di vedere l'abadessa.
All'entrare si presentava un piccolo cortile con nel mezzo una cisterna
di pietra bianca e nera. Il parlatorio era una stanza bassa, con poche
sedie intorno: due pareti erano occupate dalle grate, le altre due
da un crocefisso e da imagini. Anna fu subito presa da un senso di
venerazione per la pace solenne che regnava in quel luogo. Quando la
madre Veronica apparve d'improvviso dietro le grate, alta e severa
nell'abito monastico, ella provò un turbamento indicibile come dinanzi
all'apparizione di una forma soprannaturale. Poi, rianimata dal buon
sorriso dell'abadessa, ella compì il messaggio in brevi parole; depose
nel cavo della ruota le scatole, ed attese. La madre Veronica le si
rivolse con benignità, guardandola da que' suoi belli occhi lionati;
le donò un'effigie della Vergine; nel licenziarla le tese la mano
signorile pel bacio, a traverso la grata, e disparve.

Anna uscì trepidante. Mentre passava il vestibolo, le giunse un coro
di litanie, un canto che veniva forse da una cappella sotterranea,
ugualissimo e dolce. Mentre passava il cortile, vide a sinistra in
cima al muro sporgere un ramo carico di melarance. E, come pose il
piede su la via, le parve di aver lasciato dietro di sè un giardino di
beatitudine.

Allora si diresse verso la strada Orientale per cercare i parenti.
Su la porta della vecchia casa una donna sconosciuta stava appoggiata
allo stipite. Anna le si avvicinò timidamente e le chiese novelle della
famiglia di Francesca Nobile. La donna l'interruppe: — Perchè? Perchè?
Che voleva? — con una voce dura e uno sguardo investigante. Poi, quando
Anna si palesò, ella le permise di entrare.

I parenti erano quasi tutti o morti o emigrati. Restava nella casa un
vecchio infermo, zi' Mingo, che aveva sposato in seconde nozze _la
figlia di Sblendore_ e viveva con lei quasi in miseria. Il vecchio
da prima non riconobbe Anna. Egli stava seduto su un'alta sedia
ecclesiastica di cui la stoffa rossastra pendeva a brandelli: le sue
mani posavano su i braccioli, contorte ed enormi per la mostruosità
della chiragra; i suoi piedi con un moto ritmico percotevano il
terreno; un continuo tremore paralitico gli agitava i muscoli del
collo, i gomiti, le ginocchia. Ed egli guardò Anna, tenendo a fatica
dischiuse le palpebre infiammate. Finalmente si risovvenne.

Come Anna andava esponendo il proprio stato, la figlia di Sblendore
odorando il denaro cominciava a concepire nell'animo speranze di
usurpazione e per virtù delle speranze diveniva in volto più benigna.
Subito che Anna terminò, ella le offerse l'ospitalità per la notte;
le prese il canestro dei panni e lo ripose; promise di aver cura della
testuggine; poi fece alcune querele compassionevoli su la infermità del
vecchio e su la miseria della casa, non senza lacrime. Ed Anna uscì,
con l'animo pieno di riconoscenza e di misericordia; risalì per la
costa, verso lo scampanìo della basilica, provando un'ansia crescente
nell'appressarsi.

In torno al palazzo Farnese il popolo rigurgitava ondoso; e quella
gran reliquia feudale sovrastava ornata di paramenti, magnificata
dal sole. Anna passò in mezzo alla folla, lungo i banchi degli
argentarii artefici di arredi sacri e di oggetti votivi. A tutto
quel candido scintillare di forme liturgiche il cuore le si dilatava
per allegrezza; ed ella si faceva il segno della croce dinanzi a
ogni banco come dinanzi a un altare. Quando giunse alla porta della
basilica e intravide la luminaria e traudì il cantico del rito, ella
non più contenne la veemenza della gioia; si avanzò fin verso il
pulpito, con passi quasi vacillanti. Le ginocchia le si piegarono:
le lacrime le sgorgarono dagli occhi allucinati. Ella rimase là, in
contemplazione dei candelabri, dell'ostensorio, di tutte le cose che
erano su l'altare, con la testa vacua, poichè dalla mattina non aveva
più mangiato. E le prendeva le vene una debolezza immensa; l'anima le
veniva meno in una specie di annientamento.

Sopra di lei, lungo la nave centrale le lampade di vetro componevano
una triplice corona di fuochi. In fondo, quattro massicci tronchi di
cera fiammeggiavano ai lati del tabernacolo.


XIV.

I cinque giorni della festa Anna visse così, dentro la chiesa, dall'ora
mattutina fino all'ora in cui le porte si chiudevano, fedelissima,
respirando quell'aria calda che le infondeva nei sensi un torpore
beatifico, nell'anima una felicità piena di umiltà. Le orazioni, le
genuflessioni, le salutazioni, tutte quelle formule, tutti quei gesti
rituali ripetuti incessantemente, la istupidivano. Il fumo dell'incenso
le nascondeva la terra.

Rosaria, la figlia di Sblendore, intanto ne traeva profitto, movendo
la pietà di lei con false querimonie e con lo spettacolo miserevole del
vecchio paralitico. Ella era una femmina malvagia, esperta nelle frodi,
dedita alla crapula; aveva tutta la faccia sparsa di umori vermigli e
serpiginosi, i capelli canuti, il ventre obeso. Legata al paralitico
dai comuni vizi e dalle nozze, ella insieme con lui aveva disperse in
breve tempo le già scarse sostanze, bevendo e gozzovigliando. Ambedue
nella miseria, inveleniti dalla privazione, arsi da sete di vino e
di liquori ignei, affranti da infermità senili, ora espiavano il loro
lungo peccato.

Anna, con uno spontaneo moto caritatevole, diede a Rosaria tutto il
denaro tenuto per le elemosine, tutti i panni superflui; si tolse
gli orecchini, due anelli d'oro, la collana di corallo; promise altri
soccorsi. E riprese quindi il cammino di Pescara, in compagnia di Fra
Mansueto, portando nel canestro la testuggine.

In cammino, come le case di Ortona si allontanavano, una gran tristezza
scendeva su l'animo della donna. Stuoli di pellegrini volgevano per
altre vie, cantando: e i loro canti rimanevano a lungo nell'aria,
monotoni e lenti. Anna li ascoltava; e un desiderio senza fine la
traeva a raggiungerli, a seguirli, a vivere così pellegrinando di
santuario in santuario, di contrada in contrada, per esaltare i
miracoli d'ogni santo, le virtù d'ogni reliquia, le bontà d'ogni Maria.

«Vanno a Cucullo,» le disse Fra Mansueto, accennando col braccio a
un paese lontano. E ambedue si misero a parlare di san Domenico che
protegge dal morso dei serpenti gli uomini, e le semenze dai bruchi;
poi d'altri patroni. — A Bugnara, sul Ponte del Rivo, più di cento
giumenti, tra cavalli asini e muli, carichi di frumento vanno in
processione alla Madonna della Neve: i devoti cavalcano su le some,
con serti di spighe in capo, con tracolle di pasta; e depongono ai
piedi dell'imagine i doni cereali. A Bisenti, molte giovinette, con
in capo canestre di grano, conducono per le vie un asino che porta
su la groppa una maggiore canestra: ed entrano nella chiesa della
Madonna degli Angeli, per l'offerta, cantando. A Torricella Peligna,
uomini e fanciulli, coronati di rose e di bacche rosee, salgono in
pellegrinaggio alla Madonna delle Rose, sopra una rupe dov'è l'orma di
Sansone. A Loreto Aprutino un bue candido, impinguato durante l'anno
con abbondanza di pastura, va in pompa dietro la statua di san Zopito.
Una gualdrappa vermiglia lo copre, e lo cavalca un fanciullo. Come il
santo rientra nella chiesa, il bue s'inginocchia sul limitare; poi si
rialza lentamente, e segue il santo tra il plauso del popolo. Giunto
nel mezzo della chiesa, manda fuora gli escrementi del cibo; e i devoti
da quella materia fumante traggono gli auspicii per l'agricoltura.

Di queste usanze religiose Anna e Fra Mansueto parlavano, quando
giunsero alla foce dell'Alento. L'alveo portava le acque di primavera
tra le vitalbe non anche fiorenti. E il cappuccino disse della Madonna
dell'Incoronata, dove per la festa di san Giovanni i devoti si cingono
il capo di vitalbe, e nella notte vanno sul fiume Gizio a _passar
l'acqua_ con grandi allegrezze.

Anna si scalzò per guadare. Ella sentiva ora nell'animo un'immensa
venerazione d'amore per tutte le cose, per gli alberi, per le erbe, per
gli animali, per tutte le cose che quelle usanze cattoliche avevano
santificato. E dal fondo della sua ignoranza e della sua semplicità
sorgeva l'istinto dell'idolatria.

Alcuni mesi dopo il ritorno, scoppiò nel paese un'epidemia colerica;
e la mortalità fu grande. Anna prestò le sue cure agli infermi
poveri. Fra Mansueto morì. Anna n'ebbe molto dolore; e nel 1866,
per la ricorrenza della festa, volle prendere congedo e rimpatriare
per sempre, poichè vedeva in sonno tutte le notti san Tommaso che le
comandava di partire. Ella prese la testuggine, le sue robe e i suoi
risparmii; baciò le mani di Donna Cristina, piangendo; e partì questa
volta sopra un carretto, insieme con due monache questuanti.

A Ortona ella abitò nella casa dello zio paralitico; dormì su un
pagliericcio; non si cibò se non di pane e di legumi. Dedicava tutte le
ore del giorno alle pratiche della chiesa, con un fervore meraviglioso;
e la sua mente vie più perdeva ogni altra facoltà che non fosse quella
di contemplare i misteri cristiani, di adorare i simboli, d'imaginare
il paradiso. Ella era tutta rapita nella carità divina, era tutta
compresa di quella divina passione che i sacerdoti manifestano sempre
con gli stessi segni e con le stesse parole. Ella non comprendeva se
non quell'unico linguaggio; non aveva se non quell'unico ricovero,
tiepido e solenne, dove tutto il cuore le si dilatava in una pia
securtà di pace, e gli occhi le s'inumidivano in un'ineffabile soavità
di lacrime.

Soffrì, per amor di Gesù, le miserie domestiche; fu dolce e sommessa;
non mai profferì un lamento, o un rimprovero, o una minaccia. Rosaria
le sottrasse a poco a poco tutti i risparmii; e cominciò quindi a
farle patire la fame, ad angariarla, a chiamarla con nomi disonesti,
a perseguitarle la testuggine con insistenza feroce. Il vecchio
paralitico metteva continuamente una specie di mugolìo rauco, aprendo
la bocca ove la lingua tremava, onde colava in abbondanza la saliva
continuamente. Un giorno, poichè la moglie avida beveva innanzi a lui
un liquore e gli negava il bicchiere sfuggendo, egli si levò dalla
sedia con uno sforzo, e si mise a camminare verso di lei: le gambe
gli vacillavano, i piedi si posavano sul terreno con un'involontaria
percussione ritmica. D'un tratto egli si accelerò, col tronco inclinato
in avanti, saltellando a piccoli passi incalzanti, come spinto da
un impulso irresistibile, finchè cadde bocconi su l'orlo delle scale
fulminato.


XV.

Allora Anna, afflitta, prese la testuggine, e andò a chieder soccorso
a Donna Veronica Monteferrante. Come la povera donna già negli ultimi
tempi faceva alcuni servizi pel monastero, l'abadessa misericordiosa le
diede l'ufficio di conversa.

Anna, se bene non aveva gli ordini, vestì l'abito monacale: la tunica
nera, il soggólo, la cuffia dalle ampie tese candide. Le parve, in
quell'abito, di essere santificata. E, da prima, quando all'aria
le tese le sbattevano in torno al capo con un fremito d'ali, ella
trasaliva per un turbamento improvviso di tutto il suo sangue. E, da
prima, quando le tese percosse dal sole le riflettevano nella faccia
un vivo chiaror di neve, ella d'improvviso credevasi illuminata da un
baleno mistico.

Con l'andar del tempo, le estasi si fecero più frequenti. La vergine
canuta era colpita a quando a quando da suoni angelici, da echi lontani
d'organo, da romori e voci non percettibili agli orecchi altrui. Figure
luminose le si presentavano dinanzi, nel buio; odori paradisiaci la
rapivano.

Così pel monastero una specie di sacro orrore cominciò a diffondersi,
come per la presenza di un qualche potere occulto, come per l'imminenza
di un qualche avvenimento soprannaturale. Per cautela, la nuova
conversa fu dispensata da ogni obbligo d'opere servili. Tutte le
attitudini di lei, tutte le parole, tutti gli sguardi furono osservati,
comentati con superstizione. E la leggenda della santità incominciò a
fiorire.

Su le calende di febbraio dell'anno di Nostro Signore 1873, la voce
della vergine Anna divenne singolarmente rauca e profonda. Poi la virtù
della parola d'un tratto scomparve.

L'inaspettato ammutolimento sbigottì gli animi delle religiose. E
tutte, stando in torno alla conversa, ne consideravano con mistico
terrore gli atteggiamenti estatici, i movimenti vaghi della bocca
mutola, la immobilità degli occhi, d'onde a tratti sgorgavano profluvii
di lacrime. I lineamenti dell'inferma, estenuati dai lunghi digiuni,
avevano ora assunto una purità quasi eburnea; e tutte le trame delle
vene e delle arterie ora trasparivano così visibili, e sporgevano con
così forti rilievi, e così incessantemente palpitavano, che dinanzi a
quel palesato pálpito del sangue una specie di raccapriccio prendeva le
monache come dinanzi a un corpo spoglio di sua pelle cristiana.

Quando fu prossimo il Mese di Maria, un'amorosa diligenza sollecitò
le Benedettine al paramento dell'oratorio. Si spargevano elleno
nel verziere claustrale tutto fiorente di rose e fruttificante di
melarance, raccogliendo la messe del maggio novello per deporla ai
piedi dell'altare. Anna, tornata nella calma, discendeva anch'ella ad
aiutare la pia opera; e significava talvolta con i gesti il pensiero
che la perdurante mutezza le toglieva di esprimere. S'indugiavano al
sole tutte quelle spose del Signore, incedenti tra le fonti letifiche
del profumo. Fuggiva lungo un lato del verziere un portico; e come
nell'animo delle vergini i profumi risvegliavano imagini sopite, così
il sole penetrando sotto li archi bassi ravvivava nell'intonico i
residui dell'oro bisantino.

L'oratorio fu pronto per il giorno del primo ufficio. La cerimonia ebbe
principio dopo il vespro. Una suora salì su l'organo. Subitamente dalle
canne armoniche il fremito della passione si propagò in tutte le cose;
tutte le fronti s'inclinarono; i turiboli diedero fumi di belgiuino;
le fiammelle dei ceri palpitarono tra corone di fiori. Poi sorsero i
cantici, le litanie piene di appellazioni simboliche e di supplichevole
tenerezza. Come le voci salivano con forza crescente, Anna nell'immenso
impeto del fervore gridò. Colpita dal prodigio, cadde supina; agitò
le braccia, volle rialzarsi. Le litanie s'interruppero. Delle suore,
alcune, quasi atterrite, erano rimaste un istante nell'immobilità;
altre davano soccorso all'inferma. Il miracolo appariva inopinato,
fulgidissimo, supremo.

Allora a poco a poco allo stupore, al murmure incerto, alle titubanze
successe un giubilo senza limiti, un coro di esaltazioni clamorose,
un'alata ebrietà canora. Anna, in ginocchio, ancora assorta nel
rapimento del miracolo, non aveva conoscenza di quel che in torno
avveniva. Ma quando i cantici con una maggior veemenza furono ripresi,
ella cantò. La sua nota su dalla cadente onda del coro ad intervalli
emerse, poichè le divote diminuivano la forza delle voci per ascoltare
quella unica che dalla grazia divina era stata riconcessa. E la Vergine
nei cantici a volta a volta fu l'incensiere d'oro onde esalavano i
balsami più dolci, la lampada che dì e notte rischiarava il santuario,
l'urna che racchiudeva la manna del cielo, il roveto che ardeva senza
consumarsi, lo stelo di Iesse che portava il più bello di tutti i
fiori.

Dopo, la fama del miracolo si sparse dal monastero in tutto il
paese di Ortona, e dal paese in tutte le terre finitime, aumentando
nel viaggio. E il monastero sorse in grande onore. Donna Blandina
Onofrii, la magnifica, offerse alla Madonna dell'oratorio una veste
di broccato d'argento e una rara collana di turchesi venuta dall'isola
di Smirne. Le altre gentildonne ortonesi offersero altri minori doni.
L'arcivescovo d'Orsogna fece con pompa una visita gratulatoria, in cui
rivolse parole di edificante eloquenza ad Anna che «con la purità della
vita si era resa degna dei doni celesti.»

Nell'agosto del 1876 sopravvennero nuovi prodigi. L'inferma, quando si
avvicinava il vespro, cadeva in uno stato di estasi con catalessia;
donde sorgeva poi quasi con impeto. E in piedi, conservando sempre
la medesima attitudine, cominciava a parlare, da prima lentamente, e
quindi gradatamente accelerando, come sotto l'urgenza di un'ispirazione
mistica. Il suo eloquio non era se non un miscuglio tumultuario
di parole, di frasi, di interi periodi già innanzi appresi, che
ora nella sua inconsapevolezza si riproducevano, frammentandosi o
combinandosi senza legge. Le native forme dialettali s'innestavano
alle forme auliche, s'insinuavano nelle iperboli del linguaggio
biblico; e mostruosi congiungimenti di sillabe, inauditi accordi di
suoni avvenivano nel disordine. Ma il profondo tremito della voce,
ma i cangiamenti repentini dell'inflessione, l'alterno ascendere e
discendere del tono, la spiritualità della figura estatica, il mistero
dell'ora, tutto concorreva a soggiogare gli animi delle astanti.

Gli effetti si ripeterono cotidianamente, con una regolarità
periodica. Sul vespro, nell'oratorio si accendevano le lampade; le
monache facevano la cerchia inginocchiandosi; e la rappresentazione
sacra incominciava. Come l'inferma entrava nell'estasi catalettica,
i preludii vaghi dell'organo rapivano gli animi delle religiose in
una sfera superiore. Il lume delle lampade si diffondeva fievole
dall'alto, dando un'incertitudine aerea e quasi una morente dolcezza
all'apparenza delle cose. A un punto l'organo taceva. La respirazione
nell'inferma diveniva più profonda; le braccia le si distendevano così
che nei polsi scarnificati i tendini vibravano simili alle corde di uno
strumento. Poi, d'un tratto, l'inferma balzava in piedi, incrociava le
braccia sul petto, restando nell'atteggiamento mistico delle cariatidi
d'un battistero. E la sua voce risonava nel silenzio, ora dolce, ora
lugubre, ora quasi canora, quasi sempre incomprensibile.

Su i principii del 1877 questi accessi diminuirono di frequenza; si
presentarono due o tre volte la settimana; poi disparvero totalmente,
lasciando il corpo della donna in uno stato miserevole di debolezza.
E allora alcuni anni passarono, in cui la povera idiota visse tra
sofferenze atroci, con le membra rese inerti dagli spasimi articolari.
Ella non aveva più alcuna cura della nettezza; non si cibava se
non di pane molle e di pochi erbaggi; teneva in torno al collo, sul
petto, una gran quantità di piccole croci, di reliquie, d'imagini,
di corone; parlava balbettando per la mancanza dei denti; e i suoi
capelli cadevano, i suoi occhi erano già torbidi come quelli dei vecchi
giumenti che stanno per morire.

Una volta, di maggio, mentre ella soffriva deposta sotto il portico
e le suore in torno coglievano per Maria le rose, le passò dinanzi
la testuggine che ancora traeva la sua vita pacifica e innocente nel
verziere claustrale. La vecchia vide quella forma muoversi e a poco a
poco allontanarsi. Nessun ricordo le si destò nell'anima. La testuggine
si perse tra i cespi dei timi.

Ma le suore consideravano la imbecillità e la infermità della donna
come una di quelle supreme prove di martirio a cui il Signore chiama
gli eletti per santificarli e glorificarli poi nel paradiso; e
circondavano di venerazione e di cure l'idiota.

Nell'estate del 1881 apparvero i segni della morte prossima. Consunto
e piagato, quel miserabile corpo omai nulla più conservava di umano.
Lente deformazioni avevano viziata la positura delle membra; tumori
grossi come pomi sporgevano sotto un fianco, su una spalla, dietro la
nuca.

La mattina del 10 settembre, verso l'ottava ora, un sussulto della
terra scosse dalle fondamenta Ortona. Molti edifici precipitarono,
altri furono offesi nei tetti e nelle pareti, altri s'inclinarono
e s'abbassarono. E tutta la buona gente di Ortona, con pianti, con
grida, con invocazioni, con gran chiamare di santi e di madonne, uscì
fuori delle porte, e si raunò sul piano di San Rocco, temendo maggiori
pericoli. Le monache, prese dal pànico, infransero la clausura;
irruppero su la via, scarmigliate, cercando salvezza. Quattro di loro
portavano Anna sopra una tavola. E tutte trassero al piano, verso il
popolo incolume.

Come esse giunsero in vista del popolo, unanimi clamori si levarono,
poichè la presenza delle religiose parve propizia. In ogni parte, d'in
torno, giacevano infermi, vecchi impediti, fanciulli in fasce, donne
stupide per la paura. Un bellissimo sole mattutino illustrava le teste
tumultuanti, il mare, i vigneti; e accorrevano dalla spiaggia inferiore
i marinai, cercando le mogli, chiamando i figli per nome, ansanti per
la salita, rochi; e da Caldara cominciavano a venire mandre di pecore e
di bovi con i pastori, branchi di gallinacci con le femmine guardiane,
giumenti; poichè tutti temevano la solitudine, e tutti, uomini e
bestie, nel frangente si accomunavano.

Anna, adagiata sul suolo, sotto un olivo, sentendo prossima la morte,
si rammaricava con un balbettìo fievole, perchè non voleva morire senza
i sacramenti; e le monache d'in torno le davano conforto; e gli astanti
la guardavano con pietà. Ora, d'improvviso, tra il popolo una voce si
sparse, che da Porta-Caldara sarebbe uscito il busto dell'Apostolo. Le
speranze risorgevano; canti di rogazione risorgevano nell'aria. Come da
lungi vibrò un incognito luccichío, le donne s'inginocchiarono; e con i
capelli disciolti, lacrimose, si misero a camminare su le ginocchia, in
contro al luccichío, salmodiando.

Anna agonizzava. Sostenuta da due suore, udì le preghiere, udì
l'annunzio; e forse in un'ultima illusione travide l'Apostolo veniente,
poichè nella faccia cava le passò quasi un sorriso di gaudio. Alcune
bolle di saliva le apparvero su le labbra; un'ondulazione brusca le
corse e ricorse, visibile, le estremità del corpo; su gli occhi le
palpebre le caddero, rossastre come per sangue stravasato; il capo le
si ritrasse nelle spalle. E la vergine Anna così alfine spirò. Quando
il luccichío si fece più da presso alle donne adoranti, si chiarì
nel sole la forma di un giumento che portava in bilico su la groppa,
secondo il costume, una banderuola di metallo.



GLI IDOLATRI.


I.

La gran piazza sabbiosa scintillava come sparsa di pomice in polvere.
Tutte le case a torno imbiancate di calce parevano roventi come
muraglie d'una immensa fornace che fosse per estinguersi. In fondo,
i pilastri della chiesa riverberavano l'irradiamento delle nuvole
e si facevano roggi come di granito; le vetrate balenavano quasi
contenessero lo scoppio d'un incendio interno; le figurazioni sacre
prendevano un'aria viva di colori e di attitudini; tutta la mole ora,
sotto lo splendore della meteora crepuscolare, assumeva una più alta
potenza di dominio su le case dei Radusani.

Volgevano dalle strade alla piazza gruppi d'uomini e di femmine
vociferando e gesticolando. In tutti gli animi il terrore superstizioso
ingigantiva rapidamente; da tutte quelle fantasie incolte mille imagini
terribili di castigo divino si levavano; i commenti, le contestazioni
ardenti, le scongiurazioni lamentevoli, i racconti sconnessi,
le preghiere, le grida si mescevano in un rumorìo cupo d'uragano
imminente. Già da più giorni quei rossori sanguigni indugiavano
nel cielo dopo il tramonto, invadevano la tranquillità della notte,
illuminavano tragicamente i sonni delle campagne, suscitavano gli urli
dei cani.

— Giacobbe! Giacobbe! — gridavano, agitando le braccia, alcuni che fin
allora avevano parlato a voce bassa, innanzi alla chiesa, stretti in
torno a un pilastro del vestibolo. — Giacobbe!

Usciva dalla porta madre e si accostava agli appellanti un uomo lungo
e macilento che pareva infermo di febbre etica, calvo su la sommità
del cranio e coronato alle tempie e alla nuca di certi lunghi capelli
rossicci. I suoi piccoli occhi cavi erano animati come dall'ardore di
una passione profonda, un po' convergenti verso la radice del naso,
d'un colore incerto. La mancanza dei due denti d'avanti nella mascella
superiore dava all'atto della sua bocca nel profferire le parole
e al moto del mento aguzzo sparso di peli una singolare apparenza
di senilità faunesca. Tutto il resto del corpo era una miserabile
architettura di ossa mal celata nei panni; e su le mani, su i polsi,
sul riverso delle braccia, sul petto la cute era piena di segni
turchini, di incisioni fatte a punta di spillo e a polvere d'indaco,
in memoria de' santuarii visitati, delle grazie ricevute, dei voti
sciolti.

Come il fanatico giunse presso al gruppo del pilastro, una confusione
di domande si levò da quelli uomini ansiosi. — Dunque? Che aveva detto
Don Cònsolo? Facevano uscire soltanto il braccio d'argento? E tutto
il busto non era meglio? Quando tornava Pallura con le candele? Erano
cento libbre di cera? Soltanto cento libbre? E quando cominciavano le
campane a suonare? Dunque? Dunque?

I clamori aumentarono in torno a Giacobbe; i più lontani si strinsero
verso la chiesa; da tutte le strade la gente si riversò su la piazza
e la riempì. E Giacobbe rispondeva agli interroganti, parlava a voce
bassa, come se rivelasse segreti terribili, come se apportasse profezie
da lontano. Egli aveva veduto nell'alto, in mezzo al sangue, una mano
minacciosa, e poi un velo nero, e poi una spada e una tromba...

«Racconta! racconta!» incitavano gli altri, guardandosi in faccia,
presi da una strana avidità di ascoltare cose meravigliose; mentre la
favola di bocca in bocca si spandeva rapidamente per la moltitudine
assembrata.


II.

La gran plaga vermiglia dall'orizzonte saliva lentamente verso lo
zenit, tendeva ad occupare tutta la cupola del cielo. Un vapore di
fusi metalli pareva ondeggiare su i tetti delle case; e nel chiarore
discendente dal crepuscolo raggi sulfurei e violetti si mescolavano
con un tremolìo d'iridescenza. Una lunga striscia più luminosa fuggiva
verso una strada sboccante su l'argine dei fiume; e s'intravedeva al
fondo il fiammeggiamento delle acque tra i fusti lunghi e smilzi dei
pioppetti; poi un lembo di campagna brulla, dove le vecchie torri
saracene si levavano confusamente come isolotti di pietra fra le
caligini. Le emanazioni affocanti del fieno mietuto si spandevano
nell'aria: era a tratti come un odore di bachi putrefatti tra la
frasca. Stuoli di rondini attraversavano lo spazio con molto schiamazzo
di stridi, trafficando dai greti del fiume alle gronde.

Nella moltitudine il mormorìo era interrotto da silenzii di
aspettazione. Il nome di Pallura circolava per le bocche; impazienze
irose scoppiavano qua e là. Lungo la strada del fiume non si vedeva
ancora apparire il traino; le candele mancavano; Don Cònsolo indugiava
per questo ad esporre le reliquie, a fare gli esorcismi; e il pericolo
soprastava. Il pànico invadeva tutta quella gente ammassata come una
mandra di bestie, non osante più di sollevare gli occhi al cielo.
Dai petti delle femmine cominciarono a rompere i singhiozzi; e una
costernazione suprema oppresse e istupidì le coscienze al suono di quel
pianto.

Allora le campane finalmente squillarono Come i bronzi stavano a
poca altezza, il fremito cupo del rintocco sfiorò tutte le teste; e
una specie di ululato continuo si propagava nell'aria tra un colpo e
l'altro.

— San Pantaleone! San Pantaleone!

Fu un immenso grido unanime di disperati che chiedevano aiuto. Tutti in
ginocchio, con le mani tese, con la faccia bianca, imploravano.

— San Pantaleone!

Apparve su la porta della chiesa, in mezzo al fumo di due turiboli,
Don Cònsolo scintillante in una pianeta violetta a ricami d'oro.
Egli teneva in alto il sacro braccio d'argento, e scongiurava l'aria
gridando le parole latine:

— _Ut fidelibus tuis aeris serenitatem concedere digneris, Te rogamus,
audi nos._

L'apparizione della reliquia eccitò un delirio di tenerezza nella
moltitudine. Scorrevano lagrime da tutti gli occhi; e a traverso il
velo lucido delle lagrime gli occhi vedevano un miracoloso fulgore
celeste emanare dalle tre dita in alto atteggiate a benedire. La
figura del braccio pareva ora più grande nell'aria accesa; i raggi
crepuscolari suscitavano barbagli variissimi nelle pietre preziose; il
balsamo dell'incenso si spargeva rapidamente per le nari devote.

— _Te rogamus, audi nos!_

Ma, quando il braccio rientrò e le campane si arrestarono, nel
momentaneo silenzio un tintinnìo prossimo di sonagli si udì, che veniva
dalla strada del fiume. E avvenne allora un repentino movimento di
concorso verso quella parte e molti dicevano:

— È Pallura con le candele! È Pallura che arriva! Ecco Pallura!

Il traino si avanzava scricchiolando su la ghiaia, al passo di una
pesante cavalla grigia a cui il gran corno d'ottone brillava, simile a
una bella mezzaluna, su la groppa. Come Giacobbe e gli altri si fecero
in contro, la pacifica bestia si fermò soffiando forte dalle narici. E
Giacobbe, che s'accostò primo, subito vide disteso in fondo al traino
il corpo di Pallura tutto sanguinante, e si mise a urlare agitando le
braccia verso la folla:

— È morto! E morto!


III.

La triste novella si propagò in un baleno. La gente si accalcava in
torno al traino, tendeva il collo per vedere qualche cosa, non pensava
più alle minacce dell'alto, colpita dal nuovo caso inaspettato, invasa
da quella natural curiosità feroce che gli uomini hanno in cospetto del
sangue.

— È morto? Come è morto?

Pallura giaceva supino su le tavole, con una larga ferita in mezzo
alla fronte, con un orecchio lacerato, con strappi per le braccia, nei
fianchi, in una coscia. Un rivo tiepido gli colava per il cavo degli
occhi giù giù sino al mento ed al collo, gli chiazzava la camicia, gli
formava grumi nerastri e lucenti sul petto, su la cintola di cuoio, fin
su le brache. Giacobbe stava chino sopra quel corpo; tutti gli altri a
torno attendevano; una luce d'aurora illuminava i volti perplessi; e,
in quel momento di silenzio, dalla riva del fiume si levava il cantico
delle rane, e i pipistrelli passavano e ripassavano rasente le teste.

D'improvviso Giacobbe drizzandosi, con una gota macchiata di sangue,
gridò:

— Non è morto. Respira ancora.

Un mormorìo sordo corse per la folla, e i più vicini si protesero
per guardare; e l'inquietudine dei lontani cominciò a rompere in
clamori. Due donne portarono un boccale d'acqua, un'altra portò qualche
brandello di tela; un giovinetto offerse una zucca piena di vino.
Fu lavata la faccia al ferito, fu fermato il flusso del sangue alla
fronte, fu rialzato il capo. Sorsero quindi alte le voci, chiedendo
le cause del fatto. — Le cento libbre di cera mancavano; appena pochi
frantumi di candela rimanevano tra gli interstizi delle tavole nel
fondo del traino.

I giudizii, in mezzo al sommovimento, di più in più si accendevano e
s'inasprivano e cozzavano. E, come un antico odio ereditario ferveva
contro il paese di Mascálico, posto di contro su l'altra riva del
fiume, Giacobbe disse con la voce rauca, velenosamente:

— Che i ceri sieno serviti a S. Gonselvo?

Allora fu come una scintilla d'incendio. Lo spirito di chiesa si
risvegliò d'un tratto in quella gente abbrutita per tanti anni nel
culto cieco e feroce del suo unico idolo. Le parole del fanatico
di bocca in bocca si propagarono. E, sotto il rossore tragico del
crepuscolo, la moltitudine tumultuante aveva apparenza d'una tribù di
negri ammutinati.

Il nome del santo rompeva da tutte le gole, come un grido di guerra. I
più ardenti gittavano imprecazioni contro la parte del fiume, agitando
le braccia, tendendo i pugni. Poi, tutti quei volti accesi dalla
collera e dalla luce, larghi e possenti, a cui i cerchi d'oro degli
orecchi e il gran ciuffo della fronte davano uno strano aspetto di
barbarie, tutti quei volti si tesero verso il giacente, si addolcirono
di misericordia. Fu in torno al traino una sollecitudine pietosa di
femmine che volevano rianimare l'agonizzante: tante mani amorevoli gli
cambiarono le strisce di tela su le ferite, gli spruzzarono d'acqua
la faccia, gli accostarono alle labbra bianche la zucca del vino, gli
composero una specie di guanciale più molle sotto la testa.

— Pallura, povero Pallura, non rispondi?

Egli stava supino, con gli occhi chiusi, con la bocca semiaperta,
con una lanugine bruna su le gote e sul mento, con una mite beltà di
giovinezza ancora trasparente dai tratti tesi nella convulsione del
dolore. Di sotto alla fasciatura della fronte gli colava un fil di
sangue giù per la tempia; agli angoli della bocca apparivano piccole
bolle di schiuma rossigna; e dalla gola gli usciva una specie di sibilo
fioco, interrotto. Intorno a lui le cure, le domande, gli sguardi
febbrili crescevano. La cavalla ogni tanto scoteva la testa e nitriva
verso le case. Un'ansietà come d'uragano imminente pesava su tutto il
paese.

S'intesero allora grida feminili verso la piazza, grida di madre,
che parvero più alte in mezzo al subitaneo ammutolimento di tutte le
altre voci. E una donna enorme, soffocata dall'adipe, attraversò la
folla, giunse gridando presso al traino. Come ella era grave e non
poteva salirvi, s'abbattè su i piedi del figlio, con parole d'amore
tra i singhiozzi, con laceramenti così acuti di voce rotta e con una
espressione di dolore così terribilmente bestiale che per tutti gli
astanti corse un brivido e tutti rivolsero altrove la faccia.

— Zaccheo! Zaccheo! cuore mio! gioia mia! — gridava la vedova, senza
finire, baciando i piedi del ferito, attraendolo a sè verso terra.

Il ferito si rimosse, torse la bocca per lo spasimo, aprì gli occhi in
alto; ma certo non potè vedere, perchè una specie di pellicola umida
gli copriva lo sguardo. Grosse lagrime incominciarono a sgorgargli
dagli angoli delle palpebre e a scorrere giù per le guance e pel collo;
la bocca gli rimase torta; nel sibilo fioco della gola si sentì un vano
sforzo di favella. E in torno incalzavano:

— Parla, Pallura! Chi t'ha ferito? Chi t'ha ferito? Parla! Parla!

E sotto la domanda fremevano le ire, si addensavano i furori, un sordo
tumulto di vendicazione si riscoteva, e l'odio ereditario ribolliva
nell'animo di tutti.

— Parla! Chi t'ha ferito? Dillo a noi! Dillo a noi!

Il moribondo aprì gli occhi un'altra volta; e come gli tenevano serrate
ambo le mani, forse per quel vivo contatto di calore gli spiriti un
istante gli si ridestarono, lo sguardo si illuminò. Egli ebbe su le
labbra un balbettamento vago, tra la schiuma che sopravveniva più
copiosa e più sanguigna. Non si capivano ancora le parole. Si udì nel
silenzio la respirazione della moltitudine anelante, e gli occhi ebbero
in fondo una sola fiamma, poichè tutti gli animi attendevano una parola
sola.

— ... Ma... Ma... Ma... scálico...

— Mascálico! Mascálico! urlò Giacobbe che stava chino, con l'orecchio
teso, ad afferrare le sillabe fievoli da quella bocca morente.

Un fragore immenso accolse il grido. Nella moltitudine fu dapprima un
mareggiamento confuso di tempesta. Poi, quando una voce soverchiante il
tumulto gittò l'allarme, la moltitudine a furia si sbandò. Un pensiero
solo incalzava quelli uomini, un pensiero che pareva balenato a tutte
le menti in un attimo: armarsi di qualche cosa per colpire. Su tutte
le coscienze instava una specie di fatalità sanguinaria, sotto il gran
chiaror torvo del crepuscolo, in mezzo all'odore elettrico emanante
dalla campagna ansiosa.


IV.

E la falange, armata di falci, di ronche, di scuri, di zappe, di
schioppi, si riunì su la piazza, dinanzi alla chiesa. E gli idolatri
gridavano:

— San Pantaleone!

Don Cònsolo, atterrito dallo schiamazzo, s'era rifugiato in fondo
a uno stallo, dietro l'altare. Un manipolo di fanatici, condotto da
Giacobbe, penetrò nella cappella maggiore, forzò le grate di bronzo,
giunse nel sotterraneo, dove il busto del santo si custodiva. Tre
lampade, alimentate d'olio d'oliva, ardevano dolcemente nell'aria umida
del sacrario; dietro un cristallo, l'idolo cristiano scintillava con
la testa bianca in mezzo a un gran disco solare; e le pareti sparivano
sotto la ricchezza dei doni.

Quando l'idolo, portato su le spalle da quattro ercoli, si mostrò
alfine tra i pilastri del vestibolo, e s'irraggiò alla luce aurorale,
un lungo anelito di passione corse il popolo aspettante, un fremito
come d'un vento di gioia volò sopra tutte le fronti. E la colonna si
mosse. E la testa enorme del santo oscillava in alto, guardando innanzi
a sè dalle due orbite vuote.

Nel cielo ora, in mezzo all'accensione eguale e cupa, a tratti
passavano solchi di meteore più vive; gruppi di nuvole sottili
si distaccavano dall'orlo della zona, e galleggiavano lentamente
dissolvendosi. Tutto il paese di Radusa appariva in dietro come un
monte di cenere che covasse il fuoco; e, dinanzi, le masse della
campagna si perdevano con un luccichìo indistinto. Un gran cantico di
rane empiva la sonorità della solitudine.

Su la strada del fiume il traino di Pallura fece ostacolo all'incedere.
Era vuoto, ma conservava tracce di sangue in più parti. Imprecazioni
irose scoppiarono d'improvviso nel silenzio. Giacobbe gridò:

— Mettiamoci il santo!

E il busto fu posato su le tavole e tirato a forza di braccia nel
guado. La processione di battaglia così attraversava il confine. Lungo
le file correvano lampi metallici; le acque invase rompevano in sprazzi
luminosi, e tutta una corrente rossa fiammeggiava fra i pioppetti,
nel lontano, verso le torri quadrangolari. Mascálico si scorgeva su
una piccola altura, in mezzo agli olivi, dormente. I cani abbaiavano
qua e là, con una furiosa persistenza di risposte. La colonna, uscita
dal guado, abbandonando la via comune, avanzava a passi rapidi per una
linea diretta che tagliava i campi. Il busto d'argento era portato di
nuovo a spalle, dominava le teste degli uomini tra il grano altissimo,
odorante e tutto stellante di lucciole vive.

D'improvviso, un pastore, che stava dentro un covile di paglia a
guardare il grano, invaso da un pazzo sbigottimento in cospetto di
tanta gente armata, si diede a fuggire su per la costa, strillando a
squarciagola:

— Aiuto! aiuto!

E gli strilli echeggiavano nell'oliveto.

Allora fu che i Radusani fecero impeto. Fra i tronchi degli alberi,
fra le canne secche, il santo di argento traballava, dava tintinni
sonori agli urti dei rami, s'illuminava di lampi vivissimi ad ogni
accenno di precipizio. Dieci, dodici, venti schioppettate grandinarono
in un balenìo vibrante, una dopo l'altra su la massa delle case. Si
udirono crepiti, poi grida; poi si udì un gran sommovimento clamoroso:
alcune porte si aprirono, altre si chiusero; caddero vetri in frantumi,
caddero vasi di basilico, spezzati su la via. Un fumo bianco si
levava nell'aria placidamente, dietro la corsa degli assalitori, su
per l'incandescenza celeste. Tutti, accecati, in una furia belluina,
gridavano:

— A morte! a morte!

Un gruppo di idolatri si manteneva in torno a san Pantaleone. Vituperii
atroci contro san Gonselvo irrompevano tra l'agitazione delle falci e
delle ronche brandite.

— Ladro! Ladro! Pezzente! Le candele! Le candele!

Altri gruppi prendevano d'assalto le porte delle case, a colpi
d'accetta. E, come le porte sgangherate e scheggiate cadevano, i
Pantaleonidi saltavano nell'interno urlando, per uccidere. Femmine
seminude si rifugiavano negli angoli, implorando pietà; si difendevano
dai colpi, afferrando le armi e tagliandosi le dita; rotolavano distese
sul pavimento, in mezzo a mucchi di coperte e di lenzuoli da cui
uscivano le loro flosce carni nutrite di rape.

Giacobbe alto smilzo rossastro, fascio di aride ossa reso formidabile
dalla passione, condottiero della strage, si arrestava ad ogni tratto
per fare un largo gesto imperatorio sopra tutte le teste con una gran
falce fienaia. Andava innanzi, impavido, senza cappello, nel nome di
san Pantaleone. Più di trenta uomini lo seguivano. E tutti avevano la
sensazione confusa e ottusa di camminare in mezzo a un incendio, sopra
un terreno oscillante, sotto una vôlta ardente che fosse per crollare.

Ma da ogni parte cominciarono ad accorrere i difensori, i Mascalicesi
forti e neri come mulatti, sanguinarii, che si battevano con lunghi
coltelli a scatto, e tiravano al ventre e alla gola, accompagnando di
voci gutturali il colpo. La mischia si ritraeva a poco a poco verso la
chiesa; dai tetti di due o tre case già scoppiavano le fiamme; un'orda
di femmine e di fanciulli fuggiva a precipizio tra gli olivi, presa dal
pánico, senza più lume negli occhi.

Allora tra i maschi, senza impedimento di lagrime e di lamenti, la
lotta a corpo a corpo si strinse più feroce. Sotto il cielo color di
ruggine, il terreno si copriva di cadaveri. Stridevano vituperii mozzi
tra i denti dei colpiti; e continuo tra i clamori persisteva il grido
dei Radusani:

— Le candele! Le candele!

Ma la porta della chiesa restava sbarrata, enorme, tutta di quercia,
stellante di chiodi. I Mascalicesi la difendevano contro gli urti e
contro le scuri. Il santo d'argento, impassibile e bianco, oscillava
nel folto della mischia, ancora sostenuto su le spalle dei quattro
ercoli che sanguinavano tutti dalla testa ai piedi, non volendo cadere.
Ed era nel supremo voto degli assalitori mettere l'idolo su l'altare
del nemico.

Ora mentre i Mascalicesi si battevano da leoni, prodigiosamente, sul
gradino di pietra, Giacobbe disparve all'improvviso, girò il fianco
dell'edifizio, cercando un varco non difeso per penetrare nel sacrario.
E come vide un'apertura a poca altezza da terra, vi si arrampicò,
vi rimase tenuto ai fianchi dall'angustia, vi si contorse, fin che
non giunse a far passare il suo lungo corpo giù per lo spiraglio. Il
cordiale aroma dell'incenso vaniva nel gelo notturno della casa di Dio.
A tentoni nel buio, guidato dal fragore della pugna esterna, quell'uomo
camminò verso la porta, inciampando nelle sedie, ferendosi alla faccia,
alle mani. Rimbombava già il lavorio furioso delle accette radusane
su la durezza della quercia, quando egli cominciò con un ferro a
forzare le serrature, anelante, soffocato da una violenta palpitazione
di ambascia che gli diminuiva la forza, con la vista attraversata da
bagliori fatui, con le ferite che gli dolevano e gli mettevano un'onda
tiepida giù per la cute.

— San Pantaleone! San Pantaleone! — gridarono di fuori le voci rauche
de' suoi che sentivano cedere lentamente la porta, raddoppiando gli
urti e i colpi di scure. A traverso il legno giungeva lo schianto grave
dei corpi che stramazzavano, il colpo secco del coltello che inchiodava
là qualcuno per le reni. E pareva a Giacobbe che tutta la navata
rimbombasse al battito del suo selvaggio cuore.


V.

Dopo un ultimo sforzo, la porta si aprì. I Radusani si precipitarono
con un immenso urlo di vittoria, passando su i corpi degli uccisi,
traendo il santo d'argento all'altare. E una viva oscillazione di
riverberi invase d'un tratto l'oscurità della navata, fece brillare
l'oro dei candelabri, le canne dell'organo, in alto. E in quel chiaror
fulvo, che or sì or no dall'incendio delle prossime case vibrava
dentro, una seconda lotta si strinse. I corpi avviluppati rotolavano
su i mattoni, non si distaccavano più, balzavano insieme qua e là nei
divincolamenti della rabbia, urtavano e finivano sotto le panche, su
i gradini delle cappelle, contro gli spigoli dei confessionali. Nella
concavità raccolta della casa di Dio, il suono agghiacciante del ferro
che penetra nelle carni o che scivola su le ossa, quell'unico gemito
rotto dell'uomo che è colpito in una parte vitale, quello scricchiolìo
che dà la cassa del cranio nell'infrangersi al colpo, il ruggito di chi
non vuol morire, l'ilarità atroce di chi è giunto ad uccidere, tutto
distintamente si ripercoteva. E il mite odore dell'incenso vagava sul
conflitto.

L'idolo d'argento non anche aveva attinto la gloria dell'altare, poichè
un cerchio ostile ne precludeva l'accesso. Giacobbe si batteva con la
falce, ferito in più parti, senza cedere un palmo del gradino che primo
aveva conquistato. Non rimanevano se non due a sorreggere il santo.
L'enorme testa bianca barcollava come ebra sul bulicame del sangue
iroso. I Mascalicesi imperversavano.

Allora san Pantaleone cadde sul pavimento, dando un tintinno acuto
che penetrò nel cuore di Giacobbe più a dentro che punta di coltello.
Come il rosso falciatore si slanciò per rialzarlo, un gran diavolo
d'uomo con un colpo di ronca stese il nemico su la schiena. Due volte
questi si risollevò, e altri due colpi lo rigettarono. Il sangue gli
inondava tutta la faccia e il petto e le mani; per le spalle e per le
braccia le ossa gli biancicavano scoperte nei tagli profondi; ma pure
egli si ostinava a riavventarsi. Inviperiti da quella feroce tenacità
di vita, tre, quattro, cinque bifolchi insieme gli diedero a furia nel
ventre d'onde le viscere sgorgarono. Il fanatico cadde riverso, battè
la nuca sul busto d'argento, si rivoltò d'un tratto bocconi con la
faccia contro il metallo, con le branche stese innanzi, con le gambe
contratte. E san Pantaleone fu perduto.



L'EROE.


Già i grandi stendardi di San Gonselvo erano usciti su la piazza ed
oscillavano nell'aria pesantemente. Li reggevano in pugno uomini di
statura erculea, rossi in volto e con il collo gonfio di forza, che
facevano giuochi.

Dopo la vittoria su i Radusani, la gente di Mascalico celebrava la
festa di settembre con magnificenza nuova. Un meraviglioso ardore
di religione teneva gli animi. Tutto il paese sacrificava la recente
ricchezza del fromento a gloria del Patrono. Su le vie, da una finestra
all'altra, le donne avevano tese le coperte nuziali. Gli uomini avevano
inghirlandato di verzura le porte e infiorato le soglie. Come soffiava
il vento, per le vie era un ondeggiamento immenso e abbarbagliante di
cui la turba si inebriava.

Dalla chiesa la processione seguitava a svolgersi e ad allungarsi su
la piazza. Dinanzi all'altare, dove san Pantaleone era caduto, otto
uomini, i privilegiati, aspettavano il momento di sollevare la statua
di san Gonselvo; e si chiamavano: Giovanni Curo, l'Ummálido, Mattalà,
Vincenzio Guanno, Rocco di Céuzo, Benedetto Galante, Biagio di Clisci,
Giovanni Senzapaura. Essi stavano in silenzio, compresi della dignità
del loro ufficio, con la testa un po' confusa. Parevano assai forti;
avevano l'occhio ardente dei fanatici; portavano agli orecchi, come le
femmine, due cerchi d'oro. Di tanto in tanto si toccavano i bicipiti
e i polsi, come per misurarne la vigoria; o tra loro si sorridevano
fuggevolmente.

La statua del Patrono era enorme, di bronzo vuoto, nerastra, con la
testa e con le mani di argento, pesantissima.

Disse Mattalà:

— Avande!

In torno, il popolo tumultuava per vedere. Le vetrate della chiesa
romoreggiavano ad ogni colpo di vento. La navata fumigava di incenso
e di belzuino. I suoni degli stromenti giungevano ora sì ora no. Una
specie di febbre religiosa prendeva gli otto uomini, in mezzo a quella
turbolenza. Essi tesero le braccia, pronti. Disse Mattalà:

— Una!... Dua!... Trea!...

Concordemente, gli uomini fecero Io sforzo per sollevare la statua
di su l'altare. Ma il peso era soverchiante: la statua barcollò a
sinistra. Gli uomini non avevano potuto ancora bene accomodare le mani
intorno alla base per prendere. Si curvavano tentando di resistere.
Biagio di Clisci e Giovanni Curo, meno abili, lasciarono andare. La
statua piegò tutta da una parte, con violenza. L'Ummálido gittò un
grido.

— Abbada! Abbada! — vociferavano intorno, vedendo pericolare il
Patrono. Dalla piazza veniva un frastuono grandissimo che copriva le
voci.

L'Ummálido era caduto in ginocchio; e la sua mano destra era rimasta
sotto il bronzo. Così, in ginocchio, egli teneva gli occhi fissi alla
mano che non poteva liberare, due occhi larghi, pieni di terrore e di
dolore; ma la sua bocca torta non gridava più. Alcune gocce di sangue
rigavano l'altare.

I compagni, tutt'insieme, fecero forza un'altra volta per sollevare il
peso. L'operazione era difficile. L'Ummálido, nello spasimo, torceva la
bocca. Le femmine spettatrici rabbrividivano.

Finalmente la statua fu sollevata; e l'Ummálido ritrasse la mano
schiacciata e sanguinolenta che non aveva più forma.

— Va a la casa, mo! Va a la casa! — gli gridava la gente, sospingendolo
verso la porta della chiesa.

Una femmina si tolse il grembiule e gliel'offerse per fasciatura.
L'Ummálido rifiutò. Egli non parlava; guardava un gruppo d'uomini che
gesticolavano in torno alla statua e contendevano.

— Tocca a me!

— No, no! Tocca a me!

— No! a me!

Cicco Ponno, Mattia Scafarola e Tommaso di Clisci gareggiavano per
sostituire nell'ottavo posto di portatore l'Ummálido.

Costui si avvicinò ai contendenti. Teneva la mano rotta lungo il
fianco, e con l'altra mano si apriva il passo.

Disse semplicemente:

— Lu poste è lu mi'.

E porse la spalla sinistra a sorreggere il Patrono. Egli soffocava il
dolore stringendo i denti, con una volontà feroce.

Mattalà gli chiese:

— Tu che vuo' fa'?

Egli rispose:

— Quelle che vo' sante Gunzelve.

E, insieme con gli altri, si mise a camminare.

La gente lo guardava passare, stupefatta.

Di tanto in tanto, qualcuno, vedendo la ferita che dava sangue e
diventava nericcia, gli chiedeva al passaggio:

— L'Ummá, che tieni?

Egli non rispondeva. Andava innanzi gravemente, misurando il passo
al ritmo delle musiche, con la mente un po' alterata, sotto le vaste
coperte che sbattevano al vento, tra la calca che cresceva.

All'angolo d'una via cadde, tutt'a un tratto. Il santo si fermò un
istante e barcollò, in mezzo a uno scompiglio momentaneo: poi si rimise
in cammino. Mattia Scafarola subentrò nel posto vuoto. Due parenti
raccolsero il tramortito e lo portarono nella casa più vicina.

Anna di Céuzo, ch'era una vecchia femmina esperta nel medicare le
ferite, guardò il membro informe e sanguinante; e poi scosse la testa.

— Che ce pozze fa'?

Ella non poteva far niente con l'arte sua.

L'Ummálido, che aveva ripreso gli spiriti, non aprì bocca. Seduto,
contemplava la sua ferita, tranquillamente. La mano pendeva, con le
ossa stritolate, oramai perduta.

Due o tre vecchi agricoltori vennero a vederla. Ciascuno, con un gesto
o con una parola, espresse lo stesso pensiero.

L'Ummálido chiese:

— Chi ha purtate lu Sante?

Gli risposero:

— Mattia Scafarola.

Di nuovo, chiese:

— Mo che si fa?

Risposero:

— Lu vespre 'n múseche.

Gli agricoltori salutarono. Andarono al vespro. Un grande scampanìo
veniva dalla chiesa madre.

Uno dei parenti mise accanto al ferito un secchio d'acqua fredda,
dicendo:

— Ogne tante mitte la mana a qua. Nu mo veniamo. Jame a sentì lu vespre.

L'Ummálido rimase solo. Lo scampanìo cresceva, mutando metro. La luce
del giorno cominciava a diminuire. Un ulivo, investito dal vento,
batteva i rami contro la finestra bassa.

L'Ummálido, seduto, si mise a bagnare la mano, a poco a poco. Come il
sangue e i grumi cadevano, il guasto appariva maggiore.

L'Ummálido pensò:

— È tutt'inutile! È pirdute. Sante Gunzelve, a te le offre.

Prese un coltello, e uscì. Le vie erano deserte. Tutti i devoti erano
nella chiesa. Sopra le case correvano le nuvole violacee del tramonto
di settembre, come mandre fuggiasche.

Nella chiesa la moltitudine agglomerata cantava quasi in coro, al suono
degli stromenti, per intervalli misurati. Un calore intenso emanava
dai corpi umani e dai ceri accesi. La testa argentea di san Gonselvo
scintillava dall'alto come un faro.

L'Ummálido entrò. Fra la stupefazione di tutti, camminò sino all'altare.

Egli disse, con voce chiara, tenendo nella sinistra il coltello:

— Sante Gunzelve, a te le offre.

E si mise a tagliare in torno al polso destro, pianamente, in cospetto
del popolo che inorridiva. La mano informe si distaccava a poco a poco,
tra il sangue. Penzolò un istante trattenuta dagli ultimi filamenti.
Poi cadde nel bacino di rame che raccoglieva le elargizioni di pecunia,
ai piedi del Patrono.

L'Ummálido allora sollevò il moncherino sanguinoso; e ripetè con voce
chiara:

— Sante Gunzelve, a te le offre.



LA VEGLIA FUNEBRE.


Il cadavere del sindaco Biagio Mila, già tutto vestito e con la faccia
coperta d'una pezzuola umida d'acqua e d'aceto, stava disteso nel
letto, quasi in mezzo alla stanza tra quattro ceri. Vegliavano, nella
stanza, la moglie e il fratello del morto ai due lati.

Rosa Mila poteva avere circa venticinque anni. Era una donna fiorita,
di carnagione chiara, con la fronte un po' bassa, le sopracciglia
lungamente arcuate, gli occhi grigi e larghi e nell'iride variegati
come agate. Possedendo in grande abbondanza capelli, ella quasi
sempre aveva la nuca e le tempie e gli occhi nascosti da molte ciocche
ribelli. In tutta la persona le splendeva la nitidezza della sanità; e
la sua fresca pelle aveva il profumo dei frutti prelibati.

Emidio Mila, il cherico, poteva avere circa la stessa età. Era magro,
con nel volto il colore bronzino di chi vive nella campagna al pieno
sole. Una molle lanugine rossiccia gli copriva le guance; i denti forti
e bianchi davano al suo sorriso una bellezza virile; e gli occhi suoi
giallognoli lucevano talvolta come due zecchini nuovi.

Ambedue tacevano: l'una scorrendo con le dita un rosario di vetro,
l'altro guardando il rosario scorrere. Ambedue avevano l'indifferenza
che la nostra gente campestre suole avere dinanzi al mistero della
morte.

Emidio disse, con un lungo sospiro:

— Fa caldo, stanotte.

Rosa sollevò gli occhi per assentire.

Nella stanza un poco bassa la luce oscillava secondo i moti delle
fiammelle. Le ombre si raccoglievano ora in un angolo ora in una
parete, variando di forme e di intensità. Le vetrate della finestra
erano aperte, ma le persiane restavano chiuse. Di tratto in tratto le
tende di mussolo bianco si movevano come per un fiato. Sul candore del
letto il corpo di Biagio pareva dormire.

Le parole di Emidio caddero nel silenzio. La donna chinò di nuovo la
testa, e ricominciò a scorrere il rosario lentamente. Alcune stille
di sudore le imperlavano la fronte, e la respirazione le era faticosa.
Emidio, dopo un poco, domandò:

— A che ora verranno a prenderlo, domani?

Ella rispose, nel natural suono della sua voce:

— Alle dieci, con la congregazione del Sacramento.

Quindi ancora tacquero. Dalla campagna giungeva il gracidare assiduo
delle rane, giungevano a quando a quando gli odori delle erbe. Nella
tranquillità perfetta Rosa udì una specie di gorgoglìo roco escir
dal cadavere, e con un atto di orrore si levò dalla sedia, e fece per
allontanarsi.

— Non abbiate paura, Rosa. Sono umori — disse il cognato, tendendole la
mano per rassicurarla.

Ella prese la mano, istintivamente; e la tenne, stando in piedi.
Tendeva gli orecchi per ascoltare, ma guardava altrove. I gorgoglìi
si prolungavano dentro il ventre del morto, e parevano salire verso la
bocca.

— Non è nulla, Rosa. Quietatevi — soggiunse il cognato, accennandole di
sedere sopra un cassone da nozze coperto d'un lungo cuscino a fiorami.

Ella sedette, accanto a lui, tenendolo ancora per mano, nel turbamento.
Come il cassone non era molto grande, i gomiti dei seduti si toccavano.

Il silenzio tornò. Un canto di trebbiatori sorse di fuori in lontananza.

— Fanno le trebbie di notte, al lume della luna — disse la donna,
volendo parlare per ingannar la paura e la stanchezza.

Emidio non aprì bocca. E la donna ritrasse la mano, poichè quel
contatto ora cominciava a darle un senso vago d'inquietudine.

Ambedue ora erano occupati da uno stesso pensiero che li aveva colti
d'improvviso; ambedue ora erano tenuti da uno stesso ricordo, da un
ricordo di amori agresti nel tempo della pubertà.


Essi, in quel tempo, vivevano nelle case di Caldore, su la collina
solatìa, al quadrivio. Sul limite d'un campo di fromento sorgeva
un muro alto costruito di sassi e di terra argillosa. Dal lato di
mezzodì, che i parenti di Rosa possedevano, come ivi era più lento e
dolce il calor del sole, una famiglia di alberi fruttiferi prosperava
e moltiplicava. Alla primavera gli alberi fiorivano in comunione di
letizia; e le cupole argentee o rosee o violacee s'incurvavano sul
cielo coronando il muro e dondolavano come per inalzarsi nell'aria e
facevano insieme un ronzío sonnifero come d'api mellificanti.

Dietro il muro, dalla parte degli alberi Rosa in quel tempo soleva
cantare.

La voce limpida e fresca zampillava come una fontana, sotto le corone
dei fiori.

Per una lunga stagione di convalescenza Emidio aveva udito quel canto.
Egli era debole e famelico. Per sfuggire alla dieta, scendeva dalla
casa furtivamente, celando sotto gli abiti un gran pezzo di pane,
e camminava lungo il muro, nell'ultimo solco del grano, fin che non
giungeva al luogo della beatitudine.

Allora si sedeva, con le spalle contro i sassi riscaldati, e cominciava
a mangiare. Mordeva il pane e sceglieva una spiga tenera: ogni granello
aveva in sè una minuta stilla di succo simile a latte e aveva un
fresco sapor di farina. La voluttà del gusto e la voluttà dell'udito
nel convalescente si confondevano quasi in una sola sensazione
infinitamente dilettosa. Cosicchè in quell'ozio, tra quel calore,
tra quelli odori che davano all'aria quasi la cordial saporità del
vino, anche la voce femminile diveniva per lui un naturale alimento di
rinascenza e come un nutrimento fisico che gli si fondeva nelle vene.

Il canto di Rosa era dunque una causa di guarigione. E, quando la
guarigione fu compiuta, la voce di Rosa ebbe sempre sul beneficato una
virtù sensuale.

Dopo d'allora, poichè tra le due famiglie la dimestichezza divenne
grande, sorse in Emidio uno di quei taciturni e timidi e solitarii
amori che divorano le forze dell'adolescenza.

Di settembre, prima che Emidio partisse pel seminario, le due famiglie
riunite andarono in un pomeriggio a merendare nel bosco, lungo il
fiume.

La giornata era molle, e i tre carri tirati dai bovi avanzavano lungo i
canneti fioriti.

Nel bosco la merenda fu fatta su l'erba, in una radura circolare
limitata da fusti di pioppi giganteschi. L'erba corta era tutta piena
di certi piccoli fiori violacei che esalavano un profumo sottile; qua
e là nell'interno discendevano tra il fogliame larghe zone di sole;
e la riviera in basso pareva ferma, aveva una pace lacustre, una pura
trasparenza ove le piante acquatiche dormivano immote.

Dopo la merenda, alcuni si sparpagliarono per la riva, altri rimasero
distesi supini.

Rosa ed Emidio si trovarono insieme; si presero a braccio e
cominciarono a camminare per un sentiero segnato tra i cespugli.

Ella si appoggiava tutta su lui; rideva, strappava le foglie ai
virgulti nel passaggio, morsicchiava gli steli amari, rovesciava la
testa in dietro per guardar le ghiandaie fuggiasche. Nel moto il
pettine di tartaruga le scivolò dai capelli che d'un tratto le si
diffusero su le spalle con una stupenda ricchezza.

Emidio si chinò insieme a lei per raccogliere il pettine. Nel
rialzarsi, le due teste si urtarono un poco. Rosa, reggendosi la fronte
tra le mani, gridava tra le risa:

— Ahi! Ahi!

Il giovinetto la guardava, sentendosi fremere sin nelle midolle e
sentendosi impallidire e temendo di tradirsi.

Ella distaccò con l'unghie da un tronco una lunga spirale d'edera,
se l'avvolse alle trecce con un attorcigliamento rapido e fermò la
ribellione su la nuca con i denti del pettine. Le foglie verdi, talune
rossastre, mal contenute, rompevano fuori irregolarmente. Ella chiese:

— Così vi piaccio?

Ma Emidio non aprì bocca; non seppe che rispondere.

— Ah, non va bene! Siete forse muto?

Egli aveva voglia di cadere in ginocchio. E, come Rosa rideva d'un
riso scontento, egli si sentiva quasi salire il pianto agli occhi per
l'angoscia di non poter trovare una parola sola.

Seguitarono a camminare. In un punto un'alberella abbattuta impediva
il passaggio. Emidio con ambe le mani sollevò il fusto, e Rosa passò di
sotto ai rami verdeggianti che un istante la incoronarono.

Più in là incontrarono un pozzo ai cui fianchi stavano due bacini di
pietra rettangolari. Gli alberi densi formavano intorno e sopra il
pozzo una chiostra di verdura. Ivi l'ombra era profonda, quasi umida.
La vôlta vegetale si rispecchiava perfettamente nell'acqua che giungeva
a metà dei parapetti di mattone.

Rosa disse, distendendo le braccia:

— Come si sta bene qui!

Poi raccolse l'acqua nel concavo della palma, con un'attitudine di
grazia, e sorseggiò. Le gocciole le cadevano di tra le dita e le
imperlavano la veste.

Quando fu dissetata, con tutt'e due le palme raccolse altr'acqua, e
l'offerse al compagno lusinghevolmente:

— Bevete!

— Non ho sete — balbettò Emidio istupidito.

Ella gli gettò l'acqua in viso, facendo con il labbro inferiore una
smorfia quasi di dispregio. Poi si distese dentro uno dei bacini
asciutti, come in una culla, tenendo i piedi fuori dell'orlo, e
scotendoli irrequietamente. A un tratto si rialzò, guardò Emidio con
uno sguardo singolare:

— Dunque? Andiamo.

Si rimisero in cammino, tornarono al luogo della riunione, sempre in
silenzio. I merli fischiavano su le loro teste; fasci orizzontali di
raggi attraversavano i loro passi; e il profumo del bosco cresceva
intorno a loro.

Alcuni giorni dopo, Emidio partiva.

Alcuni mesi dopo, il fratello d'Emidio prendeva in moglie Rosa.

Nei primi anni di seminario il cherico aveva pensato spesso alla nuova
cognata. Nella scuola, mentre i preti spiegavano l'_Epitome historiæ
sacræ_, egli aveva fantasticato di lei. Nello studio, mentre i suoi
vicini, nascosti dai leggii aperti, si davano fra loro a pratiche
oscene, egli aveva chiuso la faccia tra le mani, e s'era abbandonato
ad immaginazioni impure. Nella chiesa, mentre le litanie alla Vergine
sonavano, egli, dietro l'invocazione alla _Rosa mystica_, era fuggito
lontano.

E, come aveva appresa dai condiscepoli la corruzione, la scena del
bosco gli era apparsa in una nuova luce. E il sospetto di non avere
indovinato, il rammarico di non aver saputo cogliere un frutto che gli
si offriva, allora lo tormentarono stranamente.

Dunque era così? Dunque Rosa un giorno lo aveva amato? Dunque egli era
passato inconsapevole accanto a una grande gioia?

E questo pensiero ogni giorno si faceva più acuto, più insistente,
più incalzante, più angustioso. E ogni giorno egli se ne pasceva con
maggiore intensità di sofferenza; finchè, nella lunga monotonia della
vita sacerdotale, questo pensiero divenne per lui una specie di morbo
immedicabile, e dinanzi alla irrimediabilità della cosa egli fu preso
da uno scoramento immenso, da una melanconia senza fine.

— Dunque egli non aveva saputo!

Nella stanza ora i ceri lacrimavano. Di tra le stecche delle persiane
chiuse entravano soffi di vento più forti, e facevano inarcare le
tende.

Rosa, invasa pianamente dal sopore, chiudeva di tanto in tanto le
palpebre; e come la testa le cadeva sul petto, le riapriva subitamente.

— Siete stanca? — chiese con molta dolcezza il cherico.

— Io, no — rispose la donna, riprendendo gli spiriti ed ergendosi su la
vita.

Ma nel silenzio di nuovo il sopore le occupò i sensi. Ella teneva la
testa appoggiata alla parete: i capelli le empivano tutto il collo,
dalla bocca semiaperta le usciva la respirazione lenta e regolare. Così
ella era bella; e nulla in lei era più voluttuoso che il ritmo del seno
e la visibile forma dei ginocchi sotto la gonna leggiera. Un soffio
repentino fece gemere le tende e spense i due ceri più vicini alla
finestra.

— S'io la baciassi? — pensò Emidio, per una suggestione improvvisa
della carne guardando l'assopita.

Ancora i canti umani si propagavano nella notte di giugno, con la
solennità delle cadenze liturgiche; e sorgevano di lontananza in
lontananza le risposte in diversi toni, senza compagnia di stromenti.
Poichè il plenilunio doveva essere alto, il fioco lume interno non
valeva a vincere l'albore che pioveva copioso su le persiane, e si
versava fra gli intervalli del legno.

Emidio si volse verso il letto mortuario. I suoi occhi, scorrendo la
linea rigida e nera del cadavere, si fermarono involontariamente su
la mano, su una mano gonfia e giallastra, un po' adunca, solcata di
trame livide nel dorso; e prestamente si ritrassero. Piano piano,
nell'inconsapevolezza del sonno, la testa di Rosa, quasi segnando
su la parete un semicerchio, si chinò verso il cherico turbato. La
reclinazione della bella testa muliebre fu in atto dolcissima; e,
poichè il movimento alterò un poco il sonno, tra le palpebre a pena a
pena sollevate apparve un lembo d'iride e scomparve nel bianco, quasi
come una foglia di viola nel latte.

Emidio rimase immobile, tenendo contro l'omero il peso. Egli frenava
il respiro per tema di destare la dormiente, e un'angoscia enorme
l'opprimeva per il battito del cuore e dei polsi e delle tempie, che
pareva empire tutta la stanza. Ma, come il sonno di Rosa continuava,
a poco a poco egli si sentì illanguidire e mancare in una mollezza
invincibile, guardando quella gola femminea che le collane di Venere
segnavano di voluttà, aspirando quell'alito caldo e l'odor dei capelli.

Un nuovo soffio, carico di profumo notturno, piegò la terza fiammella e
la spense.

Allora senza più pensare, senza più temere, abbandonandosi tutto alla
tentazione, il vegliante baciò la donna in bocca.

Al contatto, ella si destò di soprassalto; aprì gli occhi stupefatti in
faccia al cognato, divenne pallida pallida.

Poi, lentamente si raccolse i capelli su la nuca; e stette là, con
il busto eretto, tutta vigile, guardando dinanzi a sè nelle ombre
varianti.

— Chi ha spento i ceri?

— Il vento.

Non altro dissero. Ambedue rimanevano sul cassone da nozze, come prima,
seduti a canto, sfiorandosi con i gomiti, in una incertezza penosa,
evitando con una specie di artificio mentale che la loro coscienza
giudicasse il fatto e lo condannasse. Spontaneamente ambedue rivolsero
l'attenzione alle cose esteriori, in quest'operazione dello spirito
mettendo un'intensità fittizia, concorrendovi pure con l'attitudine
della persona. E a poco a poco una specie di ebrietà li conquistava.

I canti, nella notte, seguitavano e s'indugiavano per l'aria
lunghissimamente, e s'ammollivano lusinghevolmente di risposta in
risposta. Le voci maschili e le voci feminili facevano un componimento
amoroso. Talvolta una sola voce emergeva su le altre altissima, dando
una nota unica, in torno a cui gli accordi concorrevano come onde in
torno al medio filo d'una corrente fluviatile. Ora, ad intervalli, sul
principio di ciascun canto, si udiva la vibrazione metallica di una
chitarra accordata in diapente; e tra una ripresa e l'altra si udivano
gli urti misurati delle trebbie in sul terreno.

I due ascoltavano.

Forse per una vicenda del vento, ora gli odori non erano più gli
stessi. Venivano, forse dalla collina d'Orlando, i profumi possenti
dell'agrumeto; forse dai giardini di Scalia i profumi delle rose, così
densi che davano all'aria il sapore delle confetture nuziali; forse
dal padule della Farnia le fragranze umide dei giaggioli, che respirate
deliziavano come un sorso d'acqua.

I due rimanevano ancora taciturni, sul cassone, immobili, oppressi
dalla voluttà della notte lunare. Dinanzi a loro l'ultima fiammella
oscillava rapidamente, e curvandosi faceva lacrimare il cero consunto.
Ad ogni tratto, pareva sul punto di spegnersi. I due non si movevano.
Stavano là ansiosi, con gli occhi dilatati e fissi, a guardare la
tremula fiammella moritura. D'improvviso il vento inebriante la spense.
Allora, senza temere l'ombra, con un'avidità concorde, nel medesimo
tempo, l'uomo e la donna si strinsero l'uno all'altra, si allacciarono,
si cercarono con la bocca, perdutamente, ciecamente, senza parlare,
soffocandosi di carezze.



LA CONTESSA D'AMALFI.


I.

Quando, verso le due del pomeriggio, Don Giovanni Ussorio stava per
mettere il piede su la soglia della casa di Violetta Kutufà, Rosa
Catana apparve in cima alle scale e disse a voce bassa, tenendo il capo
chino:

— Don Giovà, la signora è partita.

Don Giovanni, alla novella improvvisa, rimase stupefatto; e stette un
momento, con gli occhi spalancati, con la bocca aperta, a guardare in
su, quasi aspettando altre parole esplicative. Poichè Rosa taceva, in
cima alle scale, torcendo fra le mani un lembo del grembiule e un poco
dondolandosi, egli chiese:

— Ma come? ma come?...

E salì alcuni gradini, ripetendo con una lieve balbuzie:

— Ma come? ma come?

— Don Giovà, che v'ho da dire? È partita.

— Ma come?

— Don Giovà, io non saccio, mo.

E Rosa fece qualche passo nel pianerottolo, verso l'uscio
dell'appartamento vuoto. Ella era una femmina piuttosto magra, con i
capelli rossastri, con la pelle del viso tutta sparsa di lentiggini. I
suoi larghi occhi cinerognoli avevano però una vitalità singolare. La
eccessiva distanza tra il naso e la bocca dava alla parte inferiore del
viso un'apparenza scimmiesca.

Don Giovanni spinse l'uscio socchiuso ed entrò nella prima stanza,
poi entrò nella seconda, poi nella terza; fece il giro di tutto
l'appartamento, a passi concitati; si fermò nella piccola camera del
bagno. Il silenzio quasi lo sbigottì; un'angoscia enorme gli prese
l'animo.

— È vero! È vero! — balbettava, guardandosi a torno, smarrito.

Nella camera i mobili erano al loro posto consueto. Mancavano però
su la tavola, a piè dello specchio rotondo, le fiale di cristallo,
i pettini di tartaruga, le scatole, le spazzole, tutti quei minuti
oggetti che servono alla cura della bellezza muliebre. Stava in un
angolo una specie di gran bacino di zinco in forma di chitarra; e
dentro il bacino l'acqua traluceva, tinta lievemente di roseo da una
essenza. L'acqua esalava un profumo sottile che si mesceva nell'aria
col profumo della cipria. L'esalazione aveva in sè qualche cosa di
carnale.

— Rosa! Rosa! — chiamò Don Giovanni, con la voce soffocata, sentendosi
invadere da un rammarico immenso.

La femmina comparve.

— Racconta com'è stato! Per dove è partita? E quando è partita? E
perchè? — chiedeva Don Giovanni, facendo con la bocca una smorfia
puerile e buffa come per rattenere il pianto o per respingere il
singhiozzo. Egli aveva presi ambedue i polsi di Rosa; e così la
sollecitava a parlare, a rivelare.

— Io non saccio, signore... Stamattina ha messa la roba nelle valige;
ha mandato a chiamare la carrozza di Leone; e se n'è andata senza dire
niente. Che ci volete fare? Tornerà.

— Torneràaa? — piagnucolò Don Giovanni, sollevando gli occhi dove già
le lacrime incominciavano a sgorgare. — Te l'ha detto? Parla!

E quest'ultimo verbo fu uno strillo quasi minaccioso e rabbioso.

— Eh... veramente a me m'ha detto: «Addio, Rosa. Non ci vediamo più...»
Ma... insomma... chi lo sa!... Tutto può essere.

Don Giovanni si accasciò sopra una sedia, a queste parole; e si mise
a singhiozzare con tanto impeto di dolore che la femmina ne fu quasi
intenerita.

— Don Giovà, mo che fate? Non ci stanno altre femmine a questo mondo?
Don Giovà, mo vi pare?...

Don Giovanni non intendeva. Seguitava a singhiozzare come un bambino,
nascondendo la faccia nel grembiule di Rosa Catana; e tutto il suo
corpo era scosso dai sussulti del pianto.

— No, no, no... Voglio Violetta! Voglio Violetta!

A quello stupido pargoleggiare, Rosa non potè tenersi di sorridere. E
si diede a lisciare il cranio calvo di Don Giovanni, mormorando parole
di consolazione:

— Ve la ritrovo io Violetta; ve la ritrovo io... Zitto! Zitto! Non
piangete più, Don Giovannino. La gente che passa può sentire. Mo vi
pare, mo?

Don Giovanni, a poco a poco, sotto la carezza amorevole, frenava le
lacrime: si asciugava gli occhi al grembiule.

— Oh! Oh! che cosa! — esclamò, dopo essere stato un momento con lo
sguardo fisso al bacino di zinco, dove l'acqua scintillava ora sotto un
raggio. — Oh! Oh! che cosa! Oh!

E si prese la testa fra le mani, e due o tre volte oscillò come fanno
talora gli scimmioni prigionieri.

— Via, Don Giovannino, via! — diceva Rosa Catana, prendendolo
pianamente per un braccio e tirandolo.

Nella piccola camera il profumo pareva crescere. Le mosche ronzavano
innumerevoli in torno a una tazza dov'era un residuo di caffè. Il
riflesso dell'acqua nella parete tremolava come una sottil rete di oro.

— Lascia tutto così! — raccomandò Don Giovanni alla femmina, con una
voce interrotta dai singulti mal repressi. E discese le scale, scotendo
il capo su la sua sorte. Egli aveva gli occhi gonfi e rossi, a fior
di testa, simili a quelli di certi cani imbastarditi. Il suo corpo
rotondo, dal ventre prominente, gravava su due gambette un poco volte
in dentro. In torno al suo cranio calvo girava una corona di lunghi
capelli arricciati, che parevano non crescere dalla cotenna ma dalle
spalle e salire verso la nuca e le tempie. Egli con le mani inanellate,
di tanto in tanto, soleva accomodare qualche ciocca scomposta: gli
anelli preziosi e vistosi gli rilucevano perfino nel pollice, e un
bottone di corniola grosso come una fragola gli fermava lo sparato
della camicia a mezzo il petto.

Come uscì alla luce viva della piazza, provò di nuovo uno smarrimento
invincibile. Alcuni ciabattini attendevano all'opera loro, lì accanto,
mangiando fichi. Un merlo in gabbia fischiava l'inno di Garibaldi,
continuamente, ricominciando sempre da capo, con una persistenza
accorante.

— Servo suo, Don Giovanni! — disse Don Domenico Oliva passando e
togliendosi il cappello con quella sua gloriosa cordialità napoletana.
E, mosso a curiosità dall'aspetto sconvolto del signore, dopo poco
ripassò e risalutò con maggior larghezza di gesto e di sorriso.
Egli era un uomo che aveva il busto lunghissimo e le gambe corte e
l'atteggiamento della bocca involontariamente irrisorio. I cittadini di
Pescara lo chiamavano Culinterra.

— Servo suo!

Don Giovanni, in cui un'ira velenosa cominciava a fermentare poichè
le risa dei mangiatori di fichi e i sibili del merlo lo irritavano,
al secondo saluto voltò dispettoso le spalle e si mosse, credendo quel
saluto un'irrisione.

Don Domenico, stupefatto, lo seguiva.

— Ma... Don Giovà!... sentite... ma...

Don Giovanni non voleva ascoltare. Camminava innanzi a passi lesti,
verso la sua casa. Le fruttivendole e i maniscalchi lungo la via
guardavano, senza capire, l'inseguimento di quei due uomini affannati e
gocciolanti di sudore sotto il solleone.

Giunto alla porta, Don Giovanni, che quasi stava per scoppiare, si
voltò come un aspide, giallo e verde per la rabbia.

— Don Domè, o Don Domè, io ti do in capo!

Ed entrò, dopo la minaccia; e chiuse la porta dietro di sè con violenza.

Don Domenico, sbigottito, rimase senza parole in bocca. Poi rifece la
via, pensando quale potesse essere la causa del fatto. Matteo Verdura,
uno dei mangiatori di fichi, chiamò:

— Venite! venite! Vi debbo dire 'na cosa grande.

— Che cosa? — chiese l'uomo di schiena lunga, avvicinandosi.

— Non sapete niente?

— Che?

— Ah! Ah! Non sapete niente ancora?

— Ma che?

Verdura si mise a ridere; e gli altri ciabattini lo imitarono. Un
momento tutti quelli uomini sussultarono d'uno stesso riso rauco e
incomposto, in diverse attitudini.

— Pagate tre soldi di fichi se ve lo dico?

Don Domenico, ch'era tirchio, esitò un poco. Ma la curiosità lo vinse.

— Be', pago.

Verdura chiamò una femmina e fece ammonticchiare sul suo desco le
frutta. Poi disse:

— Quella signora che stava là sopra, Donna Viuletta, sapete?... Quella
del teatro, sapete?...

— Be'?

— Se n'è scappata stamattina. Tombola!

— Da vero?

— Da vero, Don Domè.

— Ah, mo capisco! — esclamò Don Domenico, ch'era un uomo fino,
sogghignando crudelissimamente.

E, come voleva vendicarsi della contumelia di Don Giovanni e rifarsi
dei tre soldi spesi per la notizia, andò subito verso il _casino_ per
divulgare la cosa, per ingrandire la cosa.

Il _casino_, una specie di bottega del caffè, stava immerso nell'ombra;
e su dal tavolato sparso di acqua saliva un singolare odore di polvere
e di muffa. Il dottore Panzoni russava abbandonato sopra una sedia con
le braccia penzolanti. Il barone Cappa, un vecchio appassionato per
i cani zoppi e per le fanciulle tenerelle, sonnecchiava discretamente
su una gazzetta. Don Ferdinando Giordano moveva le bandierine su una
carta rappresentante il teatro della guerra franco-prussiana. Don
Settimio de Marinis discuteva di Pietro Metastasio col dottor Fiocca,
non senza molti scoppi di voce e non senza una certa eloquenza fiorita
di citazioni poetiche. Il notaro Gaiulli, non sapendo con chi giocare,
maneggiava le carte da giuoco solitariamente e le metteva in fila
sul tavolino. Don Paolo Seccia girava in torno al quadrilatero del
biliardo, con passi misurati per favorire la digestione.

Don Domenico Oliva entrò con tale impeto che tutti si voltarono verso
di lui, tranne il dottore Panzoni il quale rimase tra le braccia del
sonno.

— Sapete? sapete?

Don Domenico era così ansioso di dire la cosa e così affannato che
da prima balbettava senza farsi intendere. Tutti quei galantuomini
in torno a lui pendevano dalle sue labbra, presentivano con gioia un
qualche strano avvenimento che alimentasse alfine le loro chiacchiere
pomeridiane. Don Paolo Seccia, che era un poco sordo da un orecchio,
disse impazientito:

— Ma che v'hanno legata la lingua, Don Domè?

Don Domenico ricominciò da capo la narrazione, con più calma e più
chiarezza. Disse tutto; ingrandì i furori di Don Giovanni Ussorio;
aggiunse particolarità fantastiche; s'inebriò delle parole. — Capite?
capite? E poi questo; e poi quest'altro...

Il dottore Panzoni al clamore aperse le palpebre; volgendo i grossi
globi visivi ancora stupidi di sonno e russando ancora pel naso tutto
vegetante di nèi mostruosi, disse o russò, nasalmente:

— Che c'è? Che c'è?

E con fatica puntellandosi al bastone si levò piano piano e venne nel
crocchio per udire.

Il barone Cappa ora narrava, con alquanta saliva nella bocca, una
storiella grassa, a proposito di Violetta Kutufà. Nelle pupille degli
ascoltatori intenti passavano luccicori, a tratti. Gli occhiolini
verdognoli di Don Paolo Seccia scintillavano come immersi in un umore
esilarante. Alla fine, le risa scoppiarono.

Ma il dottor Panzoni, così ritto, s'era riaddormentato; poichè a lui
sempre il sonno, grave come un morbo, siedeva dentro le nari. E rimase
a russare, solo nel mezzo, con il capo chino sul petto; mentre gli
altri si disperdevano per tutto il paese a divulgare la novella, di
famiglia in famiglia.

E la novella, divulgata, mise a rumore Pescara. Verso sera, co 'l
fresco della marina e con la luna crescente, tutti i cittadini uscirono
per le vie e per le piazzette. Il chiacchierío fu infinito. Il nome di
Violetta Kutufà correva su tutte le bocche. Don Giovanni Ussorio non fu
veduto.


II.

Violetta Kutufà era venuta a Pescara nel mese di gennaio, in tempo
di carnevale, con una compagnia di cantatori. Ella diceva d'essere
una Greca dell'Arcipelago, di aver cantato in un teatro di Corfù al
cospetto del re degli Elleni e di aver fatto impazzire d'amore un
ammiraglio d'Inghilterra. Era una donna di forme opulente, di pelle
bianchissima. Aveva due braccia straordinariamente carnose e piene di
piccole fosse che apparivano rosee ad ogni moto; e le piccole fosse
e le anella e tutte le altre grazie proprie di un corpo infantile
rendevano singolarmente piacevole e fresca e quasi ridente la sua
pinguedine. I lineamenti del volto erano un po' volgari: gli occhi
color tané, pieni di pigrizia; le labbra grandi, piatte e come
schiacciate. Il naso non rivelava l'origine greca: era corto, un poco
erto, con le narici larghe e respiranti. I capelli, neri, abbondavano.
Ed ella parlava con un accento molle, esitando ad ogni parola, ridendo
quasi sempre. La sua voce spesso diventava roca, d'improvviso.

Quando la compagnia giunse, i Pescaresi smaniavano nell'aspettazione.
I cantatori forestieri furono ammirati per le vie, nei loro gesti,
nel loro incedere, nel loro vestire, e in ogni loro attitudine. Ma la
persona su cui tutta l'attenzione converse fu Violetta Kutufà.

Ella portava una specie di giacca scura orlata di pelliccia e chiusa
da alamari d'oro, e sul capo una specie di tôcco tutto di pelliccia,
chino un po' da una parte. Andava sola, camminando speditamente;
entrava nelle botteghe, trattava con un certo disdegno i bottegai, si
lagnava della mediocrità delle merci, usciva senza aver nulla comprato:
cantarellava, con noncuranza.

Per le vie, nelle piazzette, su tutti i muri, grandi scritture a mano
annunziavano la rappresentazione della _Contessa d'Amalfi_. Il nome
di Violetta Kutufà risplendeva in lettere vermiglie. Gli animi dei
Pescaresi si accendevano. La sera aspettata giunse.

Il teatro era in una sala dell'antico Ospedal militare, all'estremità
del paese, verso la marina. La sala era bassa, stretta e lunga come
un corridoio: il palco scenico, tutto di legname e di carta dipinta,
s'inalzava pochi palmi da terra; contro le pareti maggiori stavano le
tribune, costruite d'assi e di tavole, ricoperte di bandiere tricolori,
ornate di festoni. Il sipario, opera insigne di Cucuzzitto figlio di
Cucuzzitto, raffigurava la Tragedia, la Comedia e la Musica allacciate
come le tre Grazie e trasvolanti sul ponte a battelli sotto cui passava
la Pescara turchina. Le sedie, tolte alle chiese, occupavano metà della
platea. Le panche, tolte alle scuole, occupavano il resto.

Verso le sette la banda comunale prese a sonare in piazza e sonando
fece il giro del paese; e si fermò quindi al teatro. La marcia
fragorosa sollevava gli animi al passaggio. Le signore fremevano
d'impazienza, nei loro belli abiti di seta. La sala rapidamente si
empì.

Su le tribune raggiava una corona di signore e di signorine
gloriosissima. Teodolinda Pomàrici, la filodrammatica sentimentale e
linfatica, sedeva accanto a Fermina Memma la _mascula_. Le Fusilli,
venute da Castellammare, grandi fanciulle dagli occhi nerissimi,
vestite di una eguale stoffa rosea, tutte con i capelli stretti in
treccia giù per la schiena, ridevano forte e gesticolavano. Emilia
d'Annunzio volgeva attorno i belli occhi lionati con un'aria di tedio
infinito. Mariannina Cortese faceva segni col ventaglio a Donna Rachele
Profeta che stava di fronte. Donna Rachele Bucci con Donna Rachele
Carabba ragionava di tavolini parlanti e di apparizioni. Le maestre
Del Gado, vestite tutt'e due di seta cangiante, con mantellette di
moda antichissime e con certe cuffie luccicanti di pagliuzze d'acciaio,
tacevano, compunte, forse stordite dalla novità del caso, forse pentite
d'esser venute a uno spettacolo profano. Costanza Lesbii tossiva
continuamente, rabbrividendo sotto lo scialle rosso; bianca bianca,
bionda bionda, sottile sottile.

Nelle prime sedie della platea sedevano gli ottimati. Don Giovanni
Ussorio primeggiava, bene curato nella persona, con magnifici calzoni a
quadri bianchi e neri, con soprabito di castoro lucido, con alle dita
e alla camicia una gran quantità di oreficeria chietina. Don Antonio
Brattella, membro dell'Areopago di Marsiglia, un uomo spirante la
grandezza da tutti i pori e specialmente dal lobo auricolare sinistro
ch'era grosso come un'albicocca acerba, raccontava, a voce alta, il
dramma lirico di Giovanni Peruzzini; e le parole, uscendo dalla sua
bocca, acquistavano una rotondità ciceroniana. Gli altri su le sedie si
agitavano con maggiore o minore importanza. Il dottore Panzoni lottava
in vano contro le lusinghe del sonno e di tanto in tanto faceva un
rumore che si confondeva con il la degli strumenti preludianti.

— Pss! psss! pssss!

Nel teatro il silenzio divenne profondo. All'alzarsi della tela, la
scena era vuota. Il suono d'un violoncello veniva di tra le quinte.
Uscì Tilde, e cantò. Poi uscì Sertorio, e cantò. Poi entrò una torma di
allievi e di amici, e intonò un coro. Poi Tilde si avvicinò pianamente
alla finestra.

    Oh! come lente l'ore
    Sono al desio!...

Nel pubblico incominciava la commozione, poichè doveva essere imminente
un duetto di amore. Tilde, in verità, era un _primo soprano_ non molto
giovine; portava un abito azzurro; aveva una capellatura biondastra
che le ricopriva insufficentemente il cranio; e, con la faccia bianca
di cipria, rassomigliava a una costoletta cruda e infarinata che fosse
nascosta dentro una parrucca di canapa.

Egidio venne. Egli era il tenore giovine. Come aveva il petto
singolarmente incavato, le gambe un po' curve, rassomigliava un
cucchiaio a doppio manico, su 'l quale fosse appiccicata una di quelle
teste di vitello raschiate e pulite che si veggono talvolta nelle
mostre dei beccai.

    Tilde! il tuo labbro è muto,
    Abbassi al suol gli sguardi.
    Un tuo gentil saluto,
    Dimmi, perchè mi tardi?
    È la tua man tremante....
    Fanciulla mia, perchè?

E Tilde, con un impeto di sentimento:

    In sì solenne istante
    Tu lo domandi a me?

Il duetto crebbe in tenerezza. Le melodie del cavaliere Petrella
deliziavano le orecchie degli uditori. Tutte le signore stavano chinate
sul parapetto delle tribune, immobili, attente; e i loro volti, battuti
dal riflesso del verde delle bandiere, impallidivano.

    Un cangiar di paradiso
    Il morir ci sembrerà!

Tilde uscì; ed entrò, cantando, il duca Carnioli ch'era un uomo
corpulento e truculento e zazzeruto come ad un baritono si addice.
Egli cantava fiorentinamente, aspirando le c iniziali, anzi addirittura
sopprimendole talvolta.

    Non sai tu che piombo è a ippiede
    La atena oniugale?

Ma quando nel suo canto nominò alfine _d'Amalfi la contessa_, corse nel
pubblico un fremito lungo. La contessa era desiderata, invocata.

Chiese Don Giovanni Ussorio a Don Antonio Brattella:

— Quando viene?

Rispose Don Antonio, lasciando cadere dall'alto la risposta:

— Oh, mio Dio, Don Giovà! Non sapete? Nell'atto secondo! Nell'atto
secondo!

Il sermone di Sertorio fu ascoltato con una certa impazienza. Il
sipario calò fra applausi deboli. Il trionfo di Violetta Kutufà così
incominciava. Un gran susurro correva per la platea, per le tribune,
crescendo, mentre si udivano dietro il sipario i colpi di martello dei
macchinisti. Quel lavorìo invisibile aumentava l'aspettazione.

Quando il sipario si alzò, una specie di stupore invase gli animi.
L'apparato scenico parve meraviglioso. Tre arcate si prolungavano in
prospettiva, illuminate; e quella di mezzo terminava in un giardino
fantastico. Alcuni paggi stavano sparsi qua e là, e s'inchinavano. La
contessa d'Amalfi, tutta vestita di velluto rosso, con uno strascico
regale, con le braccia e le spalle nude, rosea nella faccia, entrò a
passi concitati.

    Fu una sera d'ebrezza, e l'alma mia
    N'è piena ancor....

La sua voce era disuguale, talvolta stridula, ma spesso poderosa,
acutissima. Produsse nel pubblico un effetto singolare, dopo il
miagolìo tenero di Tilde. Subitamente il pubblico si divise in due
fazioni: le donne stavano per Tilde; gli uomini, per Leonora.

    A' vezzi miei resistere
    Non è sì facil gioco...

Leonora aveva nelle attitudini, nei gesti, nei passi, una procacità
che inebriava ed accendeva i celibi avvezzi alle flosce Veneri del
vico di Sant'Agostino, e i mariti stanchi delle scipitezze coniugali.
Tutti guardavano, ad ogni volgersi della cantatrice, le spalle grasse
e bianche, dove al gioco delle braccia rotonde due fossette parevano
ridere.

Alla fine dell'_a solo_ gli applausi scoppiarono con un fragore
immenso. Poi lo svenimento della contessa, le simulazioni dinanzi al
duca Carnioli, il principio del duetto, tutte le scene suscitarono
applausi. Nella sala s'era addensato il calore: per le tribune i
ventagli s'agitavano confusamente, e nello sventolìo le facce feminili
apparivano e sparivano. Quando la contessa si appoggiò a una colonna,
in un'attitudine d'amorosa contemplazione, e fu rischiarata dalla luce
lunare d'un _bengala_, mentre Egidio cantava la romanza soave. Don
Antonio Brattella disse forte:

— È grande!

Don Giovanni Ussorio, con un impeto subitaneo, si mise a battere le
mani, solo. Gli altri imposero silenzio, poichè volevano ascoltare. Don
Giovanni rimase confuso.

    Tutto d'amore, tutto ha favella:
    La luna, il zeffiro, le stelle, il mar....

Le teste degli uditori, al ritmo della melodia petrelliana,
ondeggiavano, se bene la voce di Egidio era ingrata; e gli occhi
si deliziavano, se bene la luce della luna era fumosa e un po'
giallognola. Ma quando, dopo un contrasto di passione e di seduzione,
la contessa d'Amalfi incamminandosi verso il giardino riprese la
romanza, la romanza che ancora vibrava nelle anime, il diletto degli
uditori fu tanto che molti sollevavano il capo e l'abbandonavano un
poco in dietro quasi per gorgheggiare insieme con la sirena perdentesi
tra i fiori.

    La barca è presta.... deh vieni, o bella!
    Amor c'invita.... vivere è amar.

In quel punto Violetta Kutufà conquistò intero Don Giovanni Ussorio
che, fuori di sè, preso da una specie di furore musicale ed erotico,
acclamava senza fine:

— Brava! Brava! Brava!

Disse Don Paolo Seccia, forte:

— 'O vi', 'o vi', s'è 'mpazzito Ussorio!

Tutte le signore guardavano Ussorio, stordite, smarrite. Le maestre Del
Gado scorrevano il rosario, sotto le mantelline. Teodolinda Pomàrici
rimaneva estatica. Soltanto le Fusilli conservavano la loro vivacità
e cinguettavano, tutte rosee, facendo guizzare nei movimenti le trecce
serpentine. Nel terzo atto, non i morenti sospiri di Tilde che le donne
proteggevano, non le rampogne di Sertorio e Carnioli, non le canzonette
dei popolani, non il monologo del malinconico Egidio, non le allegrezze
delle dame e dei cavalieri ebbero virtù di distrarre il pubblico dalla
voluttà antecedente. — Leonora! Leonora!

E Leonora ricomparve a braccio del conte di Lara, scendendo da un
padiglione. E toccò il culmine del trionfo.

Ella aveva ora un abito violetto, ornato di galloni d'argento e di
fermagli enormi. Si volse verso la platea, dando un piccolo colpo
di piede allo strascico e scoprendo nell'atto la caviglia. Poi,
inframmezzando le parole di mille vezzi e di mille lezii, cantò fra
giocosa e beffarda:

    Io son la farfalla che scherza tra i fiori....

Quasi un delirio prese il pubblico a quell'aria già nota. La contessa
d'Amalfi, sentendo salire fino a sè l'ammirazione ardente degli uomini
e la cupidigia, s'inebriò, moltiplicò le seduzioni del gesto e del
passo; salì con la voce a supreme altitudini. La sua gola carnosa,
segnata dalla collana di Venere, palpitava ai gorgheggi, scoperta.

    Son l'ape che solo di mèle si pasce;
    M'inebrio all'azzurro d'un limpido ciel....

Don Giovanni Ussorio, rapito, guardava con tale intensità che gli occhi
parevano volergli uscir fuori delle orbite. Il barone Cappa faceva un
po' di bava, incantato. Don Antonio Brattella, membro dell'Areopago di
Marsiglia, gonfiò, gonfiò, fin che disse, in ultimo:

— Colossale!


III.

E Violetta Kutufà così conquistò Pescara.

Per oltre un mese le rappresentazioni dell'opera del cavaliere Petrella
si seguirono con favore crescente. Il teatro era sempre pieno, gremito.
Le acclamazioni a Leonora scoppiavano furiose ad ogni fine di romanza.
Un singolare fenomeno avveniva: tutta la popolazione di Pescara pareva
presa da una specie di manìa musicale; tutta la vita pescarese pareva
chiusa nel circolo magico di una melodia unica, di quella ov'è la
farfalla che scherza tra i fiori. Da per tutto, in tutte le ore, in
tutti i modi, in tutte le possibili variazioni, in tutti gli strumenti,
con una persistenza stupefacente, quella melodia si ripeteva; e
l'imagine di Violetta Kutufà collegavasi alle note cantanti, come,
Dio mi perdoni, agli accordi dell'organo l'imagine del Paradiso.
Le facoltà musiche e liriche, le quali nel popolo aternino sono
nativamente vivissime, ebbero allora una espansione senza limiti. I
monelli fischiavano per le vie; tutti i dilettanti sonatori provavano.
Donna Lisetta Memma sonava l'aria sul gravicembalo, dall'alba al
tramonto; Don Antonio Brattella la sonava sul flauto; Don Domenico
Quaquino sul clarinetto; Don Giacomo Palusci, il prete, su una sua
vecchia spinetta rococò; Don Vincenzo Rapagnetta sul violoncello; Don
Vincenzo Ranieri su la tromba; Don Nicola d'Annunzio sul violino. Dai
bastioni di Sant'Agostino all'Arsenale e dalla Pescheria alla Dogana, i
vari suoni si mescolavano e contrastavano e discordavano. Nelle prime
ore del pomeriggio il paese pareva un qualche grande ospizio di pazzi
incurabili. Perfino gli arrotini, affilando i coltelli alla ruota,
cercavano di seguire con lo stridore del ferro e della cote il ritmo.

Com'era tempo di carnevale, nella sala del teatro fu dato un festino
pubblico.

Il giovedì grasso, alle dieci di sera, la sala fiammeggiava di candele
steariche, odorava di mortelle, risplendeva di specchi. Le maschere
entravano a stuoli. I pulcinelli predominavano. Sopra un palco,
fasciato di veli verdi e constellato di stelle di carta argentea,
l'orchestra incominciò a sonare. Don Giovanni Ussorio entrò.

Egli era vestito da gentiluomo spagnuolo, e pareva un conte di Lara
più grasso. Un berretto azzurro con una lunga piuma bianca gli copriva
la calvizie; un piccolo mantello di velluto rosso gli ondeggiava su le
spalle, gallonato d'oro. L'abito metteva più in vista la prominenza
del ventre e la picciolezza delle gambe. I capelli, lucidi di olii
cosmetici, parevano una frangia artificiale attaccata intorno al
berretto ed erano più neri del consueto.

Un pulcinella impertinente, passando, strillò con la voce falsa:

— Mamma mia!

E fece un gesto di orrore così buffonesco, dinanzi al travestimento di
Don Giovanni, che in torno molte risa scampanellarono. La Ciccarina,
tutta rosea dentro il cappuccio nero della bautta, simile a un bel
fiore di carne, rideva d'un riso luminosissimo, dondolandosi fra due
arlecchini cenciosi.

Don Giovanni si perse tra la folla, con dispetto. Egli cercava Violetta
Kutufà. I sarcasmi delle altre maschere lo inseguivano e lo ferivano.
D'un tratto egli s'incontrò in un secondo gentiluomo di Spagna, in un
secondo conte di Lara. Riconobbe Don Antonio Brattella, ed ebbe una
fitta al cuore. Già tra quei due uomini la rivalità era scoppiata.

— Quanto 'sta nespola? — squittì Don Donato Brandimarte, velenosamente,
alludendo all'escrescenza carnosa che il membro dell'Areopago di
Marsiglia aveva nell'orecchio sinistro.

Don Giovanni esultò di una gioia feroce. I due rivali si guardarono e
si osservarono dal capo alle piante; e si mantennero sempre l'uno poco
discosto dall'altro, pur girando tra la folla.

Alle undici, nella folla corse una specie di agitazione. Violetta
Kutufà entrava.

Ella era vestita diabolicamente, con un dominò nero a lungo cappuccio
scarlatto e con una mascherina scarlatta su la faccia. Il mento rotondo
e niveo, la bocca grossa e rossa si vedevano a traverso un sottil velo.
Gli occhi, allungati e resi un po' obliqui dalla maschera, parevano
ridere.

Tutti la riconobbero, subito; e tutti quasi fecero ala al passaggio
di lei. Don Antonio Brattella si avanzò, leziosamente, da una parte.
Dall'altra si avanzò Don Giovanni. Violetta Kutufà ebbe un rapido
sguardo per gli anelli che brillavano alle dita di quest'ultimo. Indi
prese il braccio dell'Areopagita. Ella rideva, e camminava con un certo
vivace ondeggiare de' lombi. L'Areopagita, parlandole e dicendole le
sue solite gonfie stupidezze, la chiamava contessa, e intercalava nel
discorso i versi lirici di Giovanni Peruzzini. Ella rideva e si piegava
verso di lui e premeva il braccio di lui, ad arte, perchè gli ardori e
gli sdilinquimenti di quel brutto e vano signore la dilettavano. A un
certo punto, l'Areopagita, ripetendo le parole del conte di Lara nel
melodramma petrelliano, disse, anzi sommessamente cantò:

— Poss'io dunque sperarrr?

Violetta Kutufà rispose, come Leonora:

— Chi ve lo vieta?... Addio.

E, vedendo Don Giovanni poco discosto, si staccò dal cavaliere
affascinato e si attaccò all'altro che già da qualche tempo seguiva con
occhi pieni d'invidia e di dispetto gli avvolgimenti della coppia tra
la folla danzante.

Don Giovanni tremò, come un giovincello al primo sguardo della
fanciulla adorata. Poi, preso da un impeto glorioso, trasse la
cantatrice nella danza. Egli girava affannosamente, con il naso sul
seno della donna; e il mantello gli svolazzava dietro, la piuma gli si
piegava, rivi di sudore misti ad olii cosmetici gli colavano giù per
le tempie. Non potendo più, si fermò. Traballava per la vertigine. Due
mani lo sorressero; e una voce beffarda gli disse nell'orecchio:

— Don Giovà, riprendete fiato!

Era la voce dell'Areopagita, il quale a sua volta trasse la bella nella
danza.

Egli ballava tenendo il braccio sinistro arcuato sul fianco, battendo
il piede ad ogni cadenza, cercando parer leggiero e molle come una
piuma, con atti di grazia così goffi e con smorfie così scimmiescamente
mobili che intorno a lui le risa e i motti dei pulcinelli cominciarono
a grandinare.

— Un soldo si paga, signori!

— Ecco l'orso della Polonia, che balla come un cristiano! Mirate,
signori!

— Chi vuol nespoleeee? Chi vuol nespoleeee?

— 'O vi'! 'O vi'! L'urangutango!

Don Antonio fremeva, dignitosamente, pur seguitando a ballare.

In torno a lui altre coppie giravano. La sala si era empita di
gente variissima; e nel gran calore le candele ardevano con una
fiamma rossiccia, tra i festoni di mortella. Tutta quella agitazione
multicolore si rifletteva negli specchi.

La Ciccarina, la figlia di Montagna, la figlia di Suriano, le sorelle
Montanaro apparivano e sparivano, mettendo nella folla l'irraggiamento
della loro fresca bellezza plebea. Donna Teodolinda Pomàrici, alta e
sottile, vestita di raso azzurro, come una madonna, si lasciava portare
trasognata; e i capelli sciolti in anella le fluttuavano su gli omeri.
Costanzella Caffè, la più agile e la più infaticabile fra le danzatrici
e la più bionda, volava da una estremità all'altra in un baleno.
Amalia Solofra, la rossa dai capelli quasi fiammeggianti, vestita da
forosetta, con audacia senza pari, aveva il busto di seta sostenuto
da un solo nastro che contornava l'appiccatura del braccio; e, nella
danza, a tratti le si vedeva una macchia scura sotto le ascelle. Amalia
Gagliano, la bella dagli occhi cisposi, vestita da maga, pareva una
cassa funeraria che camminasse verticalmente. Una specie di ebrietà
teneva tutte quelle fanciulle. Esse erano alterate dall'aria calda e
densa, come da un falso vino. Il lauro e la mortella formavano un odore
singolare, quasi ecclesiastico.

La musica cessò. Ora tutti salivano i gradini conducenti alla sala dei
rinfreschi.

Don Giovanni Ussorio venne ad invitare Violetta a cena. L'Areopagita,
per mostrare d'essere in grande intimità con la cantatrice, si chinava
verso di lei e le susurrava qualche cosa all'orecchio e poi si metteva
a ridere. Don Giovanni non si curò del rivale.

— Venite, contessa? — disse, tutto cerimonioso, porgendo il braccio.

Violetta accettò. Ambedue salirono i gradini, lentamente, con Don
Antonio dietro.

— Io vi amo! — avventurò Don Giovanni, tentando di dare alla sua
voce un accento di passione appreso dal _primo amoroso giovine_ d'una
compagnia drammatica di Chieti.

Violetta Kutufà non rispose. Ella si divertiva a guardare il concorso
della gente verso il banco di Andreuccio che distribuiva rinfreschi
gridando il prezzo ad alta voce, come in una fiera campestre.
Andreuccio aveva una testa enorme, il cranio polito, un naso che
si curvava su la sporgenza del labbro inferiore poderosamente; e
somigliava una di quelle grandi lanterne di carta, che hanno la forma
d'una testa umana. I mascherati mangiavano e bevevano con una cupidigia
bestiale, spargendosi su gli abiti le briciole delle paste dolci e le
gocce dei liquori.

Vedendo Don Giovanni, Andreuccio gridò:

— Signò, comandate?

Don Giovanni aveva molte ricchezze, era vedovo, senza parenti prossimi;
cosicchè tutti si mostravano servizievoli per lui e lo adulavano.

— Na' cenetta, rispose. Ma!...

E fece un segno espressivo per indicare che la cosa doveva essere
eccellente e rara.

Violetta Kutufà sedette e con un gesto pigro si tolse la mascherina dal
volto ed aprì un poco sul seno il dominò. Dentro il cappuccio scarlatto
la sua faccia, animata dal calore, pareva più procace. Per l'apertura
del dominò si vedeva una specie di maglia rosea che dava l'illusione
della carne viva.

— Salute! — esclamò Don Pompeo Nervi fermandosi dinanzi alla tavola
imbandita e sedendosi, attirato da un piatto di aragoste succulente.

E allora sopraggiunse Don Tito De Sieri e prese posto, senza
complimenti; sopraggiunse Don Giustino Franco insieme con Don Pasquale
Virgilio e con Don Federico Sicoli. La tavola s'ingrandì. Dopo molto
rigirare tortuoso, venne anche Don Antonio Brattella. Tutti costoro
erano per lo più i convitati ordinari di Don Giovanni; gli formavano
intorno una specie di corte adulatoria; gli davano il voto nelle
elezioni del Comune; ridevano ad ogni sua facezia; lo chiamavano, per
antonomasia, _il principale_.

Don Giovanni disse i nomi di tutti a Violetta Kutufà. I parassiti si
misero a mangiare, chinando sui piatti le bocche voraci. Ogni parola,
ogni frase di Don Antonio Brattella veniva accolta con un silenzio
ostile. Ogni parola, ogni frase di Don Giovanni veniva applaudita
con sorrisi di compiacenza, con accenni del capo. Don Giovanni, tra
la sua corte, trionfava. Violetta Kutufà gli era benigna, poichè
sentiva l'oro; e, ormai liberata dal cappuccio, con i capelli un po'
in ribellione per la fronte e per la nuca, si abbandonava alla sua
naturale giocondità un po' clamorosa e puerile.

D'in torno, la gente movevasi variamente. In mezzo alla folla tre
o quattro arlecchini camminavano sul pavimento, con le mani e con i
piedi; e si rotolavano, simili a grandi scarabei. Amalia Solofra, ritta
sopra una sedia, con alte le braccia ignude, rosse ai gomiti, agitava
un tamburello. Sotto di lei una coppia saltava alla maniera rustica,
gittando brevi gridi; e un gruppo di giovani stava a guardare con
gli occhi levati, un poco ebri di desio. Di tanto in tanto dalla sala
inferiore giungeva la voce di Don Ferdinando Giordano che comandava le
quadriglie con gran bravura:

— _Balanzé! Turdemé! Rondagósce!_

A poco a poco la tavola di Violetta Kutufà diveniva amplissima. Don
Nereo Pica, Don Sebastiano Pica, Don Grisostomo Troilo, altri della
corte ussoriana, sopraggiunsero; poi anche Don Cirillo d'Amelio, Don
Camillo D'Angelo, Don Rocco Mattace. Molti estranei d'intorno stavano a
guardar mangiare, con volti stupidi. Le donne invidiavano. Di tanto in
tanto, dalla tavola si levava uno scoppio di risa rauche; e, di tanto
in tanto, saltava un turacciolo e le spume del vino si riversavano.

Don Giovanni amava spruzzare i convitati, specialmente i calvi,
per far ridere Violetta. I parassiti levavano le facce arrossite; e
sorridevano, ancora masticando, al _principale_, sotto la pioggia
nivea. Ma Don Antonio Brattella s'impermalì e fece per andarsene.
Tutti gli altri, contro di lui, misero un clamore basso che pareva un
abbaiamento.

Violetta disse:

— Restate.

Don Antonio restò. Poi fece un brindisi poetico in quinari.

Don Federico Sicoli, mezzo ebro, fece anche un brindisi a gloria di
Violetta e di Don Giovanni, in cui si parlava persino di _sacre tede_ e
di _felice imene_. Egli declamò a voce alta. Era un uomo lungo e smilzo
e verdognolo come un cero. Viveva componendo epitalami e strofette
per gli onomastici e laudazioni per le festività ecclesiastiche. Ora,
nell'ebrietà, le rime gli uscivano dalla bocca senza ordine, vecchie
rime e nuove. A un certo punto egli, non reggendosi su le gambe, si
piegò come un cero ammollito dal calore; e tacque.

Violetta Kutufà si diffondeva in risa. La gente accalcavasi intorno
alla tavola, come ad uno spettacolo.

— Andiamo, — disse Violetta, a un certo punto, rimettendosi la maschera
e il cappuccio.

Don Giovanni, al culmine dell'entusiasmo amoroso, tutto invermigliato e
sudante, porse il braccio. I parassiti bevvero l'ultimo bicchiere e si
levarono confusamente, dietro la coppia.


IV.

Pochi giorni dopo, Violetta Kutufà abitava un appartamento in una
casa di Don Giovanni, su la piazza comunale; e una gran diceria
correva Pescara. La compagnia dei cantatori partì, senza la contessa
d'Amalfi, per Brindisi. Nella grave quiete quaresimale, i Pescaresi si
dilettarono della mormorazione e della calunnia, modestamente. Ogni
giorno una novella nuova faceva il giro della città, e ogni giorno
dalla fantasia popolare sorgeva una favola.

La casa di Violetta Kutufà stava proprio dalla parte di Sant'Agostino,
in contro al palazzo di Brina, accosto al palazzo di Memma. Tutte le
sere le finestre erano illuminate. I curiosi, sotto, si assembravano.

Violetta riceveva i visitatori in una stanza tappezzata di carta
francese su cui erano francescamente rappresentati taluni fatti
mitologici. Due canterali panciuti del Settecento occupavano i due lati
del caminetto. Un canapè giallo stendevasi lungo la parete opposta,
tra due portiere di stoffa simile. Sul caminetto s'alzava una Venere
di gesso, una piccola Venere de' Medici, tra due candelabri dorati.
Su i canterali posavano vari vasi di porcellana, un gruppo di fiori
artificiali sotto una campana di cristallo, un canestro di frutta
di cera, una casetta svizzera di legno, un blocco d'allume, alcune
conchiglie, una noce di cocco.

Da prima i signori avevano esitato, per una specie di pudicizia, a
salire le scale della cantatrice. Poi, a poco a poco, avevano vinta
ogni esitazione. Anche gli uomini più gravi facevano di tanto in tanto
la loro comparsa nel salotto di Violetta Kutufà, anche gli uomini
di famiglia; e ci andavano quasi trepidando, con un piacere furtivo,
come se andassero a commettere una piccola infedeltà alle mogli loro,
come se andassero in un luogo di dolce perdizione e di peccato. Si
univano in due, in tre; formavano leghe, per maggior sicurezza e per
giustificarsi; ridevano tra loro e si spingevano i gomiti a vicenda per
incoraggiamento. Poi la luce delle finestre e i suoni del pianoforte
e il canto della contessa d'Amalfi e le voci e gli applausi degli
altri visitatori li inebriavano. Essi erano presi da un entusiasmo
improvviso; ergevano il busto e la testa, con un moto giovanile;
salivano risolutamente, pensavano che infine bisognava godersi la vita
e cogliere le occasioni del piacere.

Ma i ricevimenti di Violetta avevano un'aria di grande convenienza,
erano quasi cerimoniosi. Violetta accoglieva con gentilezza i nuovi
venuti ed offriva loro sciroppi nell'acqua e rosolii. I nuovi venuti
rimanevano un po' attoniti, non sapevano come muoversi, dove sedere,
che dire. La conversazione si versava sul tempo, su le notizie
politiche, su la materia delle prediche quaresimali, su altri
argomenti volgari e tediosi. Don Giuseppe Postiglione parlava della
candidatura del principe prussiano Hohenzollern al trono di Spagna;
Don Antonio Brattella amava talvolta discutere dell'immortalità
dell'anima e d'altre cose edificanti. La dottrina dell'Areopagita
era grandissima. Egli parlava lento e rotondo, di tanto in tanto
pronunziando rapidamente una parola difficile e mangiandosi qualche
sillaba. Secondo la cronaca veridica, una sera, prendendo una bacchetta
e piegandola, disse: «Com'è _flebile_!» per dire _flessibile_;
un'altra sera, indicando il palato e scusandosi di non potere suonare
il flauto, disse: «Mi s'è infiammata tutta la _platea_!» e un'altra
sera, indicando l'orificio di un vaso, disse che, perchè i fanciulli
prendessero la medicina, bisognava spargere di qualche materia dolce
tutta l'_oreficeria_ del bicchiere.

Di tratto in tratto, Don Paolo Seccia, spirito incredulo, udendo
raccontare fatti troppo singolari, saltava su:

— Ma, Don Antò, voi che dite?

Don Antonio assicurava, con una mano sul cuore:

— Testimone _oculista!_ Testimone _oculista!_ Una sera egli venne,
camminando a fatica; e piano piano si mise a sedere: aveva un reuma
_lungo il reno_. Un'altra sera venne, con la guancia destra un po'
illividita: era caduto _di soppiatto_, cioè aveva sdrucciolato battendo
la guancia sul suolo.

— Come mai,. Don Antò? — chiese qualcuno.

— Eh guardate! Ho perfino un _impegno_ rotto, egli rispose, indicando
il tomaio che nel dialetto nativo si chiama _'mbígna_, come nel
proverbio _Senza 'mbígna nen ze mandé la scarpe_.

Questi erano i belli ragionari di quella gente. Don Giovanni Ussorio,
presente sempre, aveva delle arie padronali; ogni tanto si avvicinava
a Violetta e le mormorava qualche cosa nell'orecchio, con familiarità,
per ostentazione. Avvenivano lunghi intervalli di silenzio, in cui Don
Grisostomo Troilo si soffiava il naso e Don Federico Sicoli tossiva
come un macacco tisico portando ambo le mani alla bocca ed agitandole.

La cantatrice ravvivava la conversazione narrando i suoi trionfi
di Corfù, di Ancona, di Bari. Ella a poco a poco si eccitava, si
abbandonava tutta alla fantasia; con reticenze discrete, parlava di
amori principeschi, di favori reali, di avventure romantiche; evocava
tutti i suoi tumultuarii ricordi di letture fatte in altro tempo:
confidava largamente nella credulità degli ascoltatori. Don Giovanni
in quei momenti le teneva addosso gli occhi pieni d'inquietudine,
quasi smarrito, pur provando un orgasmo singolare che aveva una vaga e
confusa apparenza di gelosia.

Violetta finalmente s'interrompeva, sorridendo d'un sorriso fatuo.

Di nuovo, la conversazione languiva.

Allora Violetta si metteva al pianoforte e cantava. Tutti ascoltavano,
con attenzione profonda. Alla fine, applaudivano.

Poi sorgeva l'Areopagita, col flauto. Una malinconia immensa prendeva
gli uditori, a quel suono, uno sfinimento dell'anima e del corpo.
Tutti stavano col capo basso, quasi chino sul petto, in attitudini di
sofferenza.

In ultimo, tutti uscivano l'uno dietro l'altro. Come avevano presa la
mano di Violetta, un po' di profumo, d'un forte profumo muschiato,
restava loro nelle dita; e n'erano turbati alquanto. Allora, nella
via, si riunivano in crocchio, tenevano discorsi libertini, si
rinfocolavano, cercavano d'imaginare le occulte forme della cantatrice;
abbassavano la voce o tacevano, se qualcuno s'appressava. Pianamente se
ne andavano sotto il palazzo di Brina, dall'altra parte della piazza.
E si mettevano a spiare le finestre di Violetta ancora illuminate. Su
i vetri passavano ombre indistinte. A un certo punto, il lume spariva,
attraversava due o tre stanze; e si fermava nell'ultima, illuminando
l'ultima finestra. Dopo poco, una figura veniva innanzi a chiudere
le imposte. E i riguardanti credevano riconoscere la figura di Don
Giovanni. Seguitavano ancora a discorrere, sotto le stelle; e di tanto
in tanto ridevano, dandosi piccole spinte a vicenda, gesticolando.
Don Antonio Brattella, forse per effetto della luce d'un lampione
comunale, pareva di color verde. I parassiti, a poco a poco, nel
discorso, cacciavan fuori una certa animosità contro la cantatrice che
spiumava con tanto garbo il loro anfitrione. Essi temevano che i larghi
pasti corressero pericolo. Già Don Giovanni era più parco d'inviti.
«Bisognava aprire gli occhi a quel poveretto. Un'avventuriera!.....
Puah! Ella sarebbe stata capace di farsi sposare. Come no? E poi lo
scandalo....»

Don Pompeo Nervi, scotendo la grossa testa vitulina, assentiva:

— È vero! È vero! Bisogna pensarci.

Don Nereo Pica, la faina, proponeva qualche mezzo, escogitava
stratagemmi, egli uomo pio, abituato alle secrete e laboriose guerre
della sacrestia, scaltro nel seminar le discordie.

Così quei mormoratori s'intrattenevano a lungo; e i discorsi grassi
ritornavano nelle loro bocche amare. Come era la primavera, gli alberi
del giardino pubblico odoravano e ondeggiavano bianchi di fioriture,
dinanzi a loro: e pei vicoli vicini si vedevano sparire figure di
meretrici discinte.


V.

Quando dunque Don Giovanni Ussorio, dopo aver saputo da Rosa Catana la
partenza di Violetta Kutufà, rientrò nella casa vedovile e sentì il suo
pappagallo modulare l'aria della farfalla e dell'ape, fu preso da un
nuovo e più profondo sgomento.

Nell'andito, tutto candido, entrava una zona di sole. A traverso
il cancello di ferro si vedeva il giardino tranquillo, pieno di
eliotropii. Un servo dormiva sopra una stuoia, co'l cappello di paglia
su la faccia.

Don Giovanni non risvegliò il servo. Salì con fatica le scale, tenendo
gli occhi fissi ai gradini, soffermandosi, mormorando:

— Oh, che cosa! Oh, oh, che cosa!

Giunto alla sua stanza, si gettò sul letto, con la bocca contro i
guanciali; e ricominciò a singhiozzare. Poi si sollevò. Il silenzio era
grande. Gli alberi del giardino, alti sino alla finestra, ondeggiavano
appena, nella quiete dell'ora. Nulla di straordinario avevano le cose
in torno. Egli quasi n'ebbe meraviglia.

Si mise a pensare. Stette lungo tempo a rammentarsi le attitudini, i
gesti, le parole, i minimi cenni della fuggitiva. La forma di lei gli
appariva chiara, come se fosse presente. Ad ogni ricordo, il dolore
cresceva; fino a che una specie di ebetudine gli occupò il cervello.

Egli rimase a sedere sul letto, quasi immobile, con gli occhi rossi,
con le tempie tutte annerite dalla tintura dei capelli mista al sudore,
con la faccia solcata da rughe diventate più profonde all'improvviso,
invecchiato di dieci anni in un'ora; ridevole e miserevole.

Venne Don Grisostomo Troilo, che aveva saputo la novella; ed entrò.
Era un uomo d'età, di piccola statura, con una faccia rotonda e gonfia,
d'onde uscivan fuori due baffi acuti e sottili, bene incerati, simili a
due aculei. Disse:

— Be', Giovà, che è questo?

Don Giovanni non rispose; ma scosse le spalle come per rifiutare ogni
conforto. Don Grisostomo allora si mise a riprenderlo amorevolmente,
con unzione, senza parlare di Violetta Kutufà.

Sopraggiunse Don Cirillo D'Amelio con Don Nereo Pica. Tutt'e due,
entrando, avevano quasi un'aria trionfante.

— Hai visto? Hai visto? Giovà? Noi lo dicevaaamo! Noi lo dicevaaamo!

Essi avevano ambedue una voce nasale e una cadenza acquistata nella
consuetudine del cantare su l'organo, poichè appartenevano alla
Congregazione del Santissimo Sacramento. Cominciarono a imperversare
contro Violetta, senza misericordia. «Ella faceva questo, questo e
quest'altro».

Don Giovanni, straziato, tentava di tanto in tanto un gesto per
interrompere, per non udire quelle vergogne. Ma i due seguitavano.
Sopraggiunsero anche Don Pasquale Virgilio, Don Pompeo Nervi, Don
Federico Sicoli, Don Tito De Sieri, quasi tutti i parassiti, insieme.
Essi, così collegati, diventavano feroci. «Violetta Kutufà s'era data a
Tizio, a Caio, a Sempronio... Sicuro! Sicuro!» Esponevano particolarità
precise, luoghi precisi.

Ora Don Giovanni ascoltava, con gli occhi accesi, avido di sapere,
invaso da una curiosità terribile. Quelle rivelazioni, in vece di
disgustarlo, alimentavano in lui la brama. Violetta gli parve più
desiderabile, ancora più bella; ed egli si sentì mordere dentro da una
gelosia furiosa che si confondeva col dolore. Subitamente, la donna gli
apparve nel ricordo atteggiata ad una posa molle. Egli più non la vide
se non in quell'atto. Quell'imagine permanente gli dava le vertigini.
«Oh Dio! Oh Dio! Oh! Oh!» Egli ricominciò a singhiozzare. I presenti
si guardarono in volto e contennero il riso. In verità, il dolore di
quell'uomo pingue calvo e deforme aveva un'espressione così ridicola
che non pareva reale.

— Andatevene ora! — balbettò tra le lacrime Don Giovanni.

Don Grisostomo Troilo diede l'esempio. Gli altri seguirono. E per le
scale cicalavano.

Come venne la sera, l'abbandonato si sollevò, a poco a poco. Una voce
feminile chiese all'uscio:

— È permesso, Don Giovanni?

Egli riconobbe Rosa Catana e provò d'un tratto una gioia istintiva.
Corse ad aprire. Rosa Catana apparve, nella penombra della stanza.

Egli disse:

— Vieni! Vieni!

La fece sedere a canto a sè, la fece parlare,, l'interrogò in mille
modi. Gli pareva di soffrir meno, ascoltando quella voce familiare in
cui egli per illusione trovava qualche cosa della voce di Violetta. Le
prese le mani.

— Tu la pettinavi; è vero?

Le accarezzò le mani ruvide, chiudendo gli occhi, co 'l cervello un po'
svanito, pensando all'abbondante capellatura disciolta che quelle mani
avevano tante volte toccata. Rosa, da prima, non comprendeva; credeva
a qualche subitaneo desiderio di Don Giovanni, e ritirava le mani
mollemente, dicendo qualche parola ambigua, ridendo. Ma Don Giovanni
mormorò:

— No, no!... Zitta! Tu la pettinavi; è vero? Tu la mettevi nel bagno; è
vero?

Egli si mise a baciare le mani di Rosa, quelle mani che pettinavano,
che lavavano, che vestivano Violetta. Tartagliava, baciandole; faceva
versi così strani che Rosa a fatica poteva ritenere le risa. Ma ella
finalmente comprese; e da femmina accorta, sforzandosi di rimanere in
serietà, calcolò tutti i vantaggi ch'ella avrebbe potuto trarre dalla
melensa commedia di Don Giovanni. E fu docile; si lasciò accarezzare;
si lasciò chiamare Violetta; si servì di tutta l'esperienza acquistata
guardando dal buco della chiave ed origliando tante volte all'uscio
della padrona; cercò anche di rendere la voce più dolce.

Nella stanza ci si vedeva appena. Dalla finestra aperta entrava un
chiarore roseo; e gli alberi del giardino, quasi neri, stormivano.
Dai pantani dell'Arsenale giungeva il gracidare lungo delle rane. Il
romorìo delle strade cittadine era indistinto.

Don Giovanni attirò la donna su le sue ginocchia; e, tutto smarrito,
come se avesse bevuto qualche liquore troppo ardente, balbettava mille
leziosaggini puerili, pargoleggiava, senza fine, accostando la sua
faccia a quella di lei.

— Violettuccia bella! Cocò mio! Non te ne vai, Cocò!... Se te ne vai,
Ninì tuo muore. Povero Ninì!... Baubaubaubauuu!

E seguitava ancora, stupidamente, come faceva prima con la cantatrice.
E Rosa Catana, paziente, gli rendeva le piccole carezze, come a un
bambino malaticcio e viziato; gli prendeva la testa e se la teneva
contro la spalla; gli baciava gli occhi gonfi e lagrimanti; gli palpava
il cranio calvo; gli ravviava i capelli untuosi.


VI.

Così Rosa Catana a poco a poco guadagnò l'eredità di Don Giovanni
Ussorio, che nel marzo del 1871 moriva di paralisía.



LA MORTE DEL DUCA D'OFENA.


I.

Quando giunse di lontano il primo clamor confuso della ribellione,
Don Filippo Cassàura aprì subitamente le palpebre che per solito gli
pesavano su gli occhi, infiammate agli orli e arrovesciate come quelle
de' piloti che navigano per mari ventosi.

— Hai sentito? — chiese al Mazzagrogna che gli stava da presso. E il
tremito della voce tradiva lo sbigottimento interiore.

Rispose il maggiordomo, sorridendo:

— Non abbiate paura, Eccellenza. Oggi è San Pietro. Cantano i mietitori.

Il vecchio stette un poco in ascolto, poggiato sul gomito, con
lo sguardo ai balconi. Le cortine ondeggiavano ai soffi caldi del
libeccio. Le rondini a stormi passavano e ripassavano, rapide come
freccie, nell'aria ardentissima. Tutti i tetti delle case sottostanti
fiammeggiavano, quali rossastri, quali grigi. Oltre i tetti si
distendeva la campagna immensa ed opulenta, quasi tutta d'oro in tempo
di mietitura. Di nuovo chiese il vecchio:

— Ma, Giovanni, hai sentito?

Giungevano, infatti, clamori che non parevano di gioia. Il vento,
rafforzandoli a intervalli e spegnendoli o mescendoli al suo fischio,
li rendeva più singolari.

— Non ci badate, Eccellenza — rispose il Mazzagrogna. — Gli orecchi
v'ingannano. State quieto.

Ed egli si levò per andare verso uno dei balconi.

Era un uomo tarchiato, con le gambe in arco, con le mani enormi,
coperte di peli sul dorso, bestiali. Aveva gli occhi un poco obliqui,
biancastri come quelli degli albini, tutta la faccia sparsa di
lentiggini, pochi capelli rossi su le tempie, e l'occipite occupato da
certe escrescenze dure e scure in forma di castagne.

Rimase in piedi alquanto, fra le due cortine che si gonfiavano come
due vele, a investigare il piano sottoposto. Un alto polverìo levavasi
dalla strada della Fara, come per passaggio di greggi numerose; e i
folti nugoli, gonfiati dal vento, crescevano in forma di trombe. Di
tratto in tratto, anche, i nugoli balenavano come se chiudessero gente
armata.

— Ebbene? — chiese don Filippo, inquieto.

— Nulla — rispose il Mazzagrogna; ma aveva le sopracciglia corrugate
profondamente.

Di nuovo, il soffio impetuoso portò un tumulto di grida lontane. Una
cortina, sforzata dall'urto, si mise a sbattere e a garrire nell'aria
come un gonfalone spiegato. Una porta si chiuse d'improvviso, con
violenza e con fragore. I vetri ne tremarono. Le carte, accumulate
sopra una tavola, si sparpagliarono per tutta la stanza.

— Chiudi! Chiudi! — gridò il vecchio, con un moto di terrore. — Mio
figlio dov'è?

Egli ansava, sul letto, affogato dalla pinguedine, incapace di
levarsi poichè aveva tutta la inferior parte del corpo impedita dalla
paralisìa. Un continuo tremor paralitico gli agitava i muscoli del
collo, i gomiti, le ginocchia. Le sue mani posavano sul lenzuolo,
contorte e nodose come le ràdiche dei vecchi olivi. Un sudore abondante
gli stillava dalla fronte e dal cranio calvo, rigandogli la larga
faccia che era d'un color roseo disfatto, sottilissimamente venato di
vermiglio come la milza dei buoi.

— Diavolo! — mormorò fra i denti il Mazzagrogna, mentre chiudeva le
imposte a viva forza.

— Fanno davvero?

Ora si scorgeva su la strada della Fara, alle prime case, una
moltitudine d'uomini agitata e ondeggiante, come un rigurgito di
flutti, che dava indizio d'un'altra maggior moltitudine non visibile,
nascosta dalla linea dei tetti e dalle querci di San Pio. La legione
ausiliaria delle campagne veniva dunque ad ingrossar la ribellione.
A poco a poco la folla diminuiva, internandosi nelle vie del paese e
scomparendo come un popolo di formiche nei labirinti d'un formicaio. Le
grida, soffocate dalle mura o ripercosse, giungevano ora come un rombo
continuo, indistinte. A volte mancavano; e allora si udiva il grande
stormire degli elci dinanzi al palazzo che pareva più solo.

— Mio figlio dov'è? — chiese di nuovo il vecchio, con una voce che lo
sbigottimento rendeva più stridula. — Chiamalo! Lo voglio vedere.

Tremava forte, sul letto, non soltanto perchè egli era paralitico,
ma perchè aveva paura. Ai primi moti sediziosi del giorno innanzi,
agli urli d'un centinaio di giovinastri venuti a schiamazzare sotto i
balconi contro la più recente angheria del duca d'Ofena, egli era stato
preso da una così pazza paura che aveva pianto come una femminetta
ed aveva passata la notte invocando i santi del Paradiso. Il pensiero
della morte o del pericolo dava un indicibile terrore a quel vecchio
paralitico, già semispento, in cui gli ultimi guizzi della vita eran sì
dolorosi. Egli non voleva morire.

— Luigi! Luigi! — si mise a gridare, nell'ambascia, chiamando il
figliuolo.

Tutto il palazzo era pieno dell'acuto tintinnio de' vetri all'urto del
vento. Di tratto in tratto si udiva il rimbombo d'un uscio sbattuto, o
suono di passi precipitati e di voci brevi.

— Luigi!


II.

Il duca accorse. Egli era un poco pallido e concitato, se bene cercasse
di dominarsi. Alto di statura e robusto, aveva la barba ancor tutta
nera su le mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena
d'un soffio veemente; gli occhi torbidi e voraci; il naso grande,
palpitante, sparso di rossore.

— Ebbene? — chiese Don Filippo, ansando con tal rantolo che pareva
dovesse soffocarlo.

— Non temete, padre; ci sono io — rispose il duca, appressandosi al
letto, cercando di sorridere.

Il Mazzagrogna stava in piedi, dinanzi a uno de' balconi, guardando di
fuori, intento. Non giungevano più grida; non si vedeva più alcuno. Il
sole declinava dal cielo puro, simile a un cerchio roseo di fiamma, che
più s'ingrandiva e più s'accendeva nel raggiungere le cime dei colli.
Tutta la campagna pareva ardere; e pareva che il garbino fosse l'alito
dell'incendio. Il primo quarto della luna saliva di tra le macchie
di Lisci. Poggio Rivelli, Ricciano, Rocca di Forca, in lontananza,
mandavano lampi dai vetri delle finestre e a tratti suono di campane.
Qualche fuoco incominciava a brillare qua e là. Il calore toglieva il
respiro.

— Questo — disse il duca d'Ofena con quella sua voce rauca e dura — ci
viene dagli Scioli. Ma...

E fece un gran gesto di minaccia. Poi s'accostò al Mazzagrogna.

Egli era inquieto per Carletto Grua che non si vedeva ancora. Passeggiò
in lungo e in largo nella stanza, con un passo pesante. Staccò da
una panoplia due lunghe pistole d'arcione e le esaminò attentamente.
Il padre seguiva ogni atto di lui con occhi dilatati; ansava come un
giumento in agonia; di tratto in tratto scoteva con le mani deformi il
lenzuolo, per aver refrigerio. Domandò due o tre volte al Mazzagrogna:

— Che si vede?

D'improvviso il Mazzagrogna esclamò:

— Ecco Carletto che vien su correndo, con Gennaro.

Si udirono, in fatti, colpi furiosi alla porta grande. Poco dopo,
Carletto e il servo entrarono nella stanza, pallidi, sbigottiti,
macchiati di sangue, coperti di polvere.

Il duca, vedendo Carletto, gettò un grido. Lo prese fra le braccia, si
mise a tastarlo in tutto il corpo per trovare la ferita.

— Che t'hanno fatto? Di', che t'hanno fatto?

Il giovine piangeva, come una donna.

— Qui — disse fra i singhiozzi. Abbassò la testa e mostrò su la nuca
alcune ciocche di capelli attaccate insieme dal sangue rappreso.

Il duca mise le dita fra i capelli delicatamente, per iscoprir la
ferita. Egli amava d'un tristo amore Carletto Grua; ed aveva per lui le
cure d'un amante.

— Ti fa dolore? — gli chiese.

Il giovine singhiozzò più forte. Egli era esile come una fanciulla;
aveva un volto femineo, a pena a pena ombrato d'una lanugine bionda;
i capelli alquanto lunghi, bellissima la bocca, e la voce acuta come
quella degli evirati. Era un orfano, figliuolo d'un confettiere di
Benevento. Faceva da valletto al duca.

— Ora verranno! — disse, con un tremito per tutta la persona, volgendo
gli occhi pieni di lacrime al balcone d'onde ora di nuovo giungevano i
clamori, più alti e più terribili.

Il servo, che aveva una ferita profonda su la spalla destra e tutto
il braccio intriso di sangue fino al gomito, raccontava balbettando
come ambedue fossero stati rincorsi dalla folla inferocita; quando il
Mazzagrogna, ch'era rimasto sempre a spiare, gridò:

— Eccoli! Vengono al palazzo. Sono armati.

Don Luigi, lasciando Carletto, corse a vedere.


III.

La moltitudine, in fatti, irrompeva su per l'ampia salita, urlando
e scotendo nell'aria armi ed arnesi, con una tal furia concorde che
non pareva un adunamento di singoli uomini ma la coerente massa d'una
qualche cieca materia sospinta da una irresistibile forza. In pochi
minuti fu sotto al palazzo, si allungò intorno come un gran serpente
di molte spire, e chiuse in un denso cerchio tutto l'edifizio. Taluni
dei ribelli portavano alti fasci di canne accesi, come fiaccole, che
gittavano sui volti una luce mobile e rossastra, schizzavano faville
e schegge ardenti, mettevano un crepitìo sonoro. Altri, in un gruppo
compatto, sostenevano un'antenna alla cui cima penzolava un cadavere
umano. Minacciavano la morte coi gesti e con le voci. Tra le contumelie
ripetevano un nome:

— Cassàura! Cassàura!

Il duca d'Ofena si morse le mani, quando riconobbe in cima all'antenna
il corpo mutilato di Vincenzio Murro, del messo ch'egli aveva spedito
nella notte a chieder soccorso di gente d'arme. Additò l'impiccato al
Mazzagrogna, il quale disse a bassa voce:

— È finita!

Ma l'udì don Filippo, e cominciò a fare un lagno così accorante che
tutti si sentirono stringere il cuore e mancare gli spiriti.

I servi si accalcavano su le soglie, smorti in faccia, tenuti dalla
viltà. Alcuni lacrimavano, altri invocavano un santo, altri pensavano
al tradimento. — Se, consegnando il padrone al popolo, avessero potuto
aver salva la vita? — Cinque o sei, meno pusillanimi, tenevano perciò
consiglio e si eccitavano a vicenda.

— Al balcone! Al balcone! — gridava il popolo, tempestando. — Al
balcone!

Ora il duca d'Ofena parlava sommesso col Mazzagrogna, in disparte.

Volgendosi a don Filippo, disse:

— Mettetevi nella sedia, padre. Sarà meglio. Ci fu tra i servi un
leggero mormorìo. Due si fecero innanzi per aiutare il paralitico a
discendere dal letto. Altri due accostarono la sedia che scorreva su
piccole ruote. L'operazione fu penosa.

Il vecchio corpulento ansava e si lamentava forte, premendo con
le braccia il collo dei servi che lo sostenevano. Egli era tutto
grondante; e la stanza, essendo chiuse le imposte, era omai piena
dell'insoffribile odore. Com'egli fu nella sedia, i suoi piedi con
un moto ritmico presero a percuotere il pavimento. Il gran ventre
tremolava floscio su le ginocchia, simile a un otre mezzo vuoto.

Allora il duca disse al Mazzagrogna:

— Giovanni, a te!

E quegli, con un gesto risoluto, aprì le imposte ed uscì sul balcone.


IV.

Un urlo immenso l'accolse. Cinque, dieci, venti fasci di canne ardenti
vennero lì sotto a radunarsi. Il chiarore illuminava i volti animati
dalla bramosia della strage, l'acciaro degli schioppi, i ferri delle
scuri. I portatori di fiaccole avevano tutta la faccia cospersa di
farina, per difendersi dalle faville; e tra quel bianco i loro occhi
sanguigni brillavano singolarmente. Il fumo nero saliva nell'aria,
disperdendosi rapido. Tutte le fiamme si allungavano da una banda,
spinte dal vento, sibilanti, come capellature infernali. Le canne più
sottili e più secche si accendevano, si torcevano, rosseggiavano, si
spezzavano, scoppiettavano come razzi, in un attimo. Ed era una vista
allegra.

— Mazzagrogna! Mazzagrogna! A morte il ruffiano! A morte il guercio! —
gridavano tutti, accalcandosi per iscagliar più da vicino l'insulto.

Il Mazzagrogna stese una mano, come per sedare i clamori; raccolse
tutta la potenza vocale; e incominciò col nome del re, quasi
promulgasse una legge, per incutere al popolo il rispetto.

— In nome di S. M. Ferdinando II, per la grazia di Dio, re delle Due
Sicilie, di Gerusalemme...

— A morte il ladro!

Due, tre schioppettate risonarono fra le grida; e l'arringatore,
colpito al petto e alla fronte, vacillò, agitò in alto le mani e cadde
in avanti. Nel cadere, la testa entrò fra l'un ferro e l'altro della
ringhiera e penzolò di fuori come una zucca. Il sangue gocciolava sul
terreno sottostante.

Il caso rallegrò il popolo. Lo schiamazzo saliva alle stelle.

Allora i portatori dell'antenna con l'impiccato vennero sotto il
balcone e accostarono Vincenzio Murro al maggiordomo. Mentre l'antenna
oscillava nell'aria, il popolo stava intento al congiungimento
dei due morti, quasi ammutolito. Un poeta improvviso, alludendo
all'occhio albino del Mazzagrogna e a quello cisposo del messo, gittò a
squarciagola un sospetto:

    — _Affàccet' a 'ssa fenêstre, ùocchie fritte,
    Ca t' è mmenut' a ccandà 'lu scacazzate!_

Un vasto scroscio di risa accolse lo scherno del poeta; e le risa si
propagarono di bocca in bocca, come un tuono d'acque cadenti giù pe'
sassi d'una china.

Un poeta rivale gridò:

    — _Vide che ssòrt' ha da 'vé 'ssu cecàte!
    S' affranghe de chiude 'l'ùocchie quande se mòre._

Le risa si rinnovellarono.

Un terzo gridò:

    — _O faccia de cecòria mmàle còtte!
    Tenète lu chelòre de la mòrte!_

Altri distici volarono al Mazzagrogna. Una gioia feroce aveva invaso
gli animi. La vista e l'odore del sangue inebriavano i più vicini.
Tommaso di Beffi e Rocco Furci vennero a contesa di destrezza nel
colpire con una sassata il cranio penzoloni dell'ucciso ancor caldo.
Ad ogni colpo il cranio si moveva e dava sangue. La pietra di Rocco
Furci alla fine colpì nel mezzo, levando un suono secco. Gli spettatori
applaudirono. Ma erano sazii ormai del Mazzagrogna.

Di nuovo sorse il grido:

— Cassàura! Cassàura! Il duca! A morte! Fabrizio e Ferdinandino
Scioli s'insinuavano tra la folla ed istigavano i facinorosi. Una
terribile sassaiuola si levò contro le finestre del palazzo, fitta
come una grandine, mista di schioppettate. I vetri cadevano addosso
agli assalitori. Le pietre rimbalzavano. Rimasero feriti non pochi dei
circostanti.

Terminati i sassi, consumato il piombo, Ferdinandino Scioli gridò:

— A terra le porte!

E il grido, ripetuto da tante bocche, tolse al duca d'Ofena ogni
speranza di salvezza.


V.

Nessuno aveva osato di richiudere il balcone dov'era caduto il
Mazzagrogna. Il cadavere giaceva in un'attitudine scomposta. Poichè
i ribelli, per essere liberi, avevan lasciata l'antenna contro la
ringhiera, anche il corpo sanguinoso del messo, a cui qualche membro
era stato reciso con la scure, scorgevasi a traverso le cortine
gonfiate dal vento. La sera era profonda. Le stelle riscintillavano
senza fine. Qualche stoppia bruciava in lontananza.

Udendo i colpi contro le porte, il duca d'Ofena volle ancora tentare
una prova. Don Filippo, istupidito dal terrore, teneva gli occhi
chiusi; non parlava più. Carletto Grua, con la testa fasciata, si
rannicchiava tutto in un angolo, battendo i denti nella febbre e nella
paura, seguendo con i poveri occhi fuori dell'orbita ogni passo, ogni
gesto, ogni moto del suo signore. I servi erano rifugiati quasi tutti
nelle soffitte. Pochi rimanevano nelle stanze contigue.

Don Luigi li radunò, li rianimò; li armò di pistole o di fucile; quindi
a ciascuno assegnò un posto dietro il davanzale d'una finestra o tra
le persiane d'un balcone. Ciascuno doveva tirare su la folla, con la
maggior possibile celerità di colpi, in silenzio, senza esporsi.

— Avanti!

Il fuoco incominciò. Don Luigi sperava nel pànico. Egli stesso caricava
e scaricava le sue lunghe pistole con un meraviglioso vigore, senza
stancarsi. Come la moltitudine era densa, nessun colpo falliva.
Le grida, che si levavano ad ogni scarica, eccitavano i servi e
n'aumentavano l'ardore. Già lo scompiglio invadeva gli ammutinati.
Molti fuggivano, lasciando a terra i feriti.

Allora dal servidorame partì un urlo di vittoria:

— Viva il duca d'Ofena!

Quelli uomini vili ora s'imbaldanzivano, vedendo le spalle del nemico.
Non rimanevano più nascosti, nè più tiravano alla cieca, ma si erano
alzati in piedi, fieramente, e cercavano di colpire nel segno. Ed ogni
volta che vedevan cadere uno, gittavano l'urlo:

— Viva il duca!

In poco, il palazzo fu libero d'assedio. D'intorno i feriti si
lamentavano. I residui delle canne, che ancora ardevano al suolo,
gittavan su' corpi bagliori incerti, suscitavan riflessi da qualche
pozza di sangue, o stridevano spegnendosi. Il vento era cresciuto;
ed investiva gli elci con alto stormire. I latrati dei cani si
rispondevano per tutta la valle.

Inebriati dalla vittoria, grondanti per la fatica, i servi discesero a
rifocillarsi. Tutti erano incolumi. Bevevano senza misura, e facevano
gazzarra. Alcuni proclamavano i nomi di quelli che essi avevan colpito,
e ne descrivevano il modo della caduta, buffonescamente. I bracchieri
desumevano le similitudini dalla selvaggina. Un cuciniere si vantò
d'aver ucciso il terribile Rocco Furci. Alimentate dal vino, le
millanterie si moltiplicavano.


VI.

Ora, mentre il duca d'Ofena, sicuro d'aver per quella notte
almeno scongiurato ogni pericolo, era solo intento a custodire il
piagnucolante Carletto, improvvisi bagliori si ripercossero in uno
specchio e nuovi clamori si levarono tra il fischiar del libeccio,
sotto il palazzo. Al tempo medesimo apparvero quattro o cinque servi,
che il fumo aveva quasi soffocati mentre dormivano ubriachi nelle
stanze basse. Essi non avevano ancora riacquistati gli spiriti;
barcollavano senza poter parlare poichè si sentivan la lingua torpida.
Altri sopraggiunsero.

— Il fuoco! Il fuoco!

Tremavano gli uni addossati agli altri, come una greggia. La viltà
nativa li occupava novamente. Avevano tutti i sensi ottusi, come in
un sogno. Non sapevano quel che dovevano fare. Nè ancora la perfetta
consapevolezza del pericolo li stimolava a cercare uno scampo.

Sorpreso, il duca dapprima restò perplesso. Ma Carletto Grua, vedendo
entrare il fumo e udendo quel singolare ruggito che fanno le fiamme
nel nutrirsi, si mise a strillare così acutamente e a far gesti così
forsennati che Don Filippo si destò dal grave sopore in cui era caduto
e vide la morte.

La morte era inevitabile. Il fuoco, sotto il costante soffio del
vento, propagavasi con una stupenda celerità per tutta la vecchia
ossatura dell'edifizio, divorando ogni cosa, suscitando da ogni cosa
vampe mobili, fluide, canore. Le vampe correvano lievi su le pareti,
lambivano le tappezzerie, esitavano un istante a fior del tessuto, si
colorivano di tinte mutevoli e vaghe, penetravano nella trama con mille
lingue sottilissime e vibranti, parevano infondere per un attimo nelle
figure murali uno spirito, accendere per un attimo su la bocca delle
ninfe e delle iddie un riso non mai veduto, muovere per un attimo le
loro attitudini e i loro gesti immobili. Passavan oltre, in fuga sempre
più luminosa; si avvolgevano alle suppellettili di legno, conservando
fino all'ultimo la loro forma, così da farle apparire tutte materiate
di piropi che d'un tratto si disgregavano e s'incenerivano come per
incanti. Le voci delle vampe erano innumerevoli; formavano un vasto
coro, una profonda armonia, come d'una selva dai milioni di foglie,
come d'un organo dai milioni di canne. Già appariva ad intervalli,
nelle aperture fragorose, il cielo puro con le sue corone di stelle.
Omai tutto il palazzo era in potere del fuoco.

— Salvami! Salvami! — gridò il vecchio, tentando invano di sorgere,
sentendo già sotto di sè sprofondare il pavimento, sentendosi accecare
dall'implacabile rossore. — Salvami!

Con uno sforzo supremo giunse a levarsi. E si mise a correre, col
tronco inclinato innanzi, saltellando a piccoli passi incalzanti,
come spinto da un irresistibile impulso progressivo, agitando le mani
informi, finchè cadde fulminato, già preda del fuoco, sgonfiandosi e
rappigliandosi come una vescica.

Ora di tratto in tratto le grida del popolo aumentavano, e salivan
più alto dell'incendio. I servi, pazzi di terrore e di dolore, mezzo
riarsi, si precipitavano dalle finestre e venivano a cadere morti sul
suolo; o mal vivi, ed eran finiti. Ad ogni caduta rispondeva un maggior
clamore.

— Il duca! Il duca! — gridavano i barbari, malcontenti, perchè volevano
veder precipitare il tirannello col suo bagascione.

— Eccolo! Eccolo! È lui!

— Giù! Giù! Ti vogliamo!

— Muori, cane! Muori! Muori! Muori!

Su la porta grande, proprio in cospetto del popolo, apparve Don
Luigi con le vesti in fiamme portando su le spalle il corpo inerte di
Carletto Grua. Egli aveva tutto il volto bruciato, irriconoscibile; non
aveva quasi più capelli, nè barba. Ma camminava a traverso l'incendio,
impavido, non anche morto, poichè valeva a sostener gli spiriti quello
stesso atroce dolore.

Da prima il popolo ammutolì. Poi di nuovo proruppe in urli e in gesti,
aspettando con ferocia che la gran vittima venisse a spirargli dinanzi.

— Qui, qui, cane! Ti vogliamo veder morire!

Don Luigi udì, a traverso le fiamme, l'ultime ingiurie. Raccolse tutta
l'anima in un atto di scherno indescrivibile. Quindi voltò le spalle; e
disparve per sempre dove più ruggiva il fuoco.



IL TRAGHETTATORE.


I.

Donna Laura Albònico stava nel giardino, sotto la pergola, prendendo il
fresco all'ora meridiana.

La villa taceva, tutta bianca, con le persiane chiuse tra le piante
degli agrumi. Il sole raggiava un calore e un fulgore immensi. Era
la metà di giugno; e i profumi degli aranci e dei limoni fioriti
si mescolavano all'odor delle rose, nell'aria tranquilla. Le rose
crescevano da per tutto, nel giardino, con una forza indomabile.
Le masse magnifiche si movevano, lungo i viali, ad ogni soffio di
vento, coprendo il terreno con l'abbondanza della loro neve odorante.
In certi momenti l'aria, pregna dell'aroma, aveva un sapore dolce e
possente come quello di un vino prelibato. Le fontane, invisibili tra
la verzura, mormoravano. A tratti, la cima mobile scintillante degli
zampilli appariva fuor del fogliame, scompariva, riappariva, con vari
giochi; e alcuni zampilli bassi producevano nei fiori e nelle erbe
un fruscìo e uno scompiglio singolari, sembrando bestie vive che vi
corressero a traverso o vi pascolassero o vi scavassero tane. Gli
uccelli, invisibili, cantavano.

Donna Laura, seduta sotto la pergola, meditava.

Ella era una donna già vecchia. Aveva il profilo fine e signorile;
il naso lungo, lievemente aquilino, la fronte un po' troppo ampia, la
bocca perfetta, ancora fresca, piena di benignità. I capelli canuti le
si piegavano su le tempie e le facevano intorno al capo una specie di
corona. Doveva essere stata molto bella, nella gioventù, ed amabile.

Era venuta da due soli giorni in quella casa solitaria, col marito e
con pochi servi. Aveva rinunziato alla villa magnatizia che sorgeva
sopra un colle del Piemonte, abituale soggiorno estivo; aveva
rinunziato al mare, per quella campagna deserta e quasi arida.

— Ti prego, andiamo a Penti, — aveva detto al marito.

Il barone settuagenario era rimasto da prima un po' stupefatto, a
quello strano desiderio della moglie.

— Perchè a Penti? Che s'andava a fare a Penti?

— Ti prego, andiamo. Per mutare — aveva insistito Donna Laura.

Il barone, come sempre, s'era lasciato persuadere.

— Andiamo.

Ora, Donna Laura custodiva un segreto.

Nella giovinezza, la sua vita era stata attraversata dalla passione.
A diciotto anni aveva sposato il barone Albònico, per ragioni di
convenienza familiare. Il barone militava sotto il primo Napoleone,
con molta prodezza; egli stava quasi sempre assente dalla sua casa,
poichè seguiva ovunque il volo delle aquile imperiali. In una di quelle
lunghe assenze, il marchese di Fontanella, un giovine signore che aveva
moglie e figliuoli, fu preso d'amore per Donna Laura; e, come egli era
bellissimo ed ardente, vinse alfine ogni resistenza dell'amata.

Allora pei due amanti una stagione passò nella felicità più dolce. Essi
vivevano nell'oblio di tutte le cose.

Ma un giorno Donna Laura s'accorse d'essere incinta; pianse, si
disperò, rimase in una terribile angoscia, non sapendo che risolvere,
come salvarsi. Per consiglio del suo amico, partì alla volta della
Francia; si nascose in un piccolo paese della Provenza, in una di
quelle terre solatíe piene di verzieri, dove le donne parlano l'idioma
dei trovatori.

Abitava una casa di campagna, circondata da un grande orto. Gli alberi
fiorivano: era la primavera. Fra i terrori e le nere malinconie, ella
aveva intervalli d'una infinita dolcezza. Passava lunghe ore seduta
all'ombra, in una specie d'inconsapevolezza, mentre il sentimento vago
della maternità le dava a tratti a tratti un brivido profondo. I fiori
in torno a lei emanavano un profumo acuto: leggiere nausee le salivano
alla gola e le propagavano per tutte le membra una lassitudine immensa.
Che giorni indimenticabili!

E, quando il momento solenne si avvicinava, giunse, desiderato, il
suo amico. La povera donna soffriva. Egli le stava accanto, pallido in
viso, parlando poco, baciandole spesso le mani. Ella partorì di notte.
Gridava, fra gli spasimi; si afferrava convulsamente alla lettiera;
credeva di morire. I primi vagiti dell'infante le scossero l'anima
dalle radici. Ella, supina, con la testa un po' arrovesciata oltre i
guanciali, bianca bianca, senza più voce, senza più forza per tenere
aperte le palpebre, agitava dinanzi a sè le mani esangui, debolmente,
in certi piccoli movimenti vaghi, come fanno talvolta i moribondi verso
la luce.

Il giorno dopo, tutto il giorno, ella tenne seco, nel medesimo letto,
sotto la medesima coperta, il bambino. Era un essere fragile, molle, un
po' rossiccio, che vibrava d'una palpitazione incessante, di una vita
palese, e in cui le forme umane non avevano certezza. Gli occhi stavano
ancora chiusi, un po' gonfi; e dalla bocca usciva un lamento fioco,
quasi un miagolío indistinto.

La madre, rapita, non si saziava di riguardare, di toccare, di sentirsi
su la guancia l'alito filiale. Dalla finestra entrava una luce bionda e
si vedevano le terre provenzane tutte coperte di mèssi. Il giorno aveva
una specie di santità. I canti dal fromento si avvicendavano, nell'aria
quieta.

Dopo, il bambino le fu tolto, fu nascosto, fu portato chi sa dove. Ella
non lo rivide più. Ella tornò alla sua casa; e visse col marito la vita
di tutte le donne, senza che nessun altro avvenimento sopraggiungesse a
turbarla. Non ebbe altri figliuoli.

Ma il ricordo, ma l'adorazione ideale di quella creatura ch'ella non
vedeva più, ch'ella non sapeva più dove fosse, le occuparono l'anima
per sempre. Ella non aveva se non quel pensiero; rammentava tutte le
minime particolarità di quei giorni; rivedeva chiaramente il paese, la
forma di certi alberi che stavano dinanzi alla casa, la linea d'una
collina che chiudeva l'orizzonte, il colore e i disegni del tessuto
che copriva il letto, una macchia nella vòlta della stanza, un piccolo
piatto figurato su cui le portavano il bicchiere, tutto, tutto,
chiaramente, minutamente. Ad ogni momento il fantasma di quelle cose
lontane le sorgeva nella memoria, così, senza ordine, senza legame,
come nei sogni. A volte ella ne rimaneva quasi stupita. Le tornavano
dinanzi, precisi e viventi, i volti di certe persone vedute laggiù, i
loro moti, un loro gesto insignificante, una loro attitudine, un loro
sguardo. Le pareva di avere negli orecchi il vagito della creatura, di
toccare le mani esilissime, rosee, molli, quelle manine che forse erano
la sola parte già tutta formata perfettamente, simile alla miniatura
d'una mano d'uomo, con le vene quasi impercettibili, con le falangi
segnate di pieghe sottili, con le unghie trasparenti, tenere, appena
appena suffuse di viola. Oh, quelle mani! Con che strano brivido la
madre pensava alla loro carezza inconsapevole! Come ne sentiva l'odore,
l'odore singolare che ricorda quello dei colombi nella prima piuma!

Così Donna Laura, chiusa in questa specie di mondo interiore che ogni
giorno più assumeva le apparenze della vita, passò gli anni, molti
anni, sino alla vecchiezza. Tante volte aveva chiesto all'antico amante
notizie del figliuolo. Ella avrebbe voluto rivederlo, sapere il suo
stato.

— Ditemi dov'è, almeno. Vi prego.

Il marchese, temendo un'imprudenza, si rifiutava. «Ella non doveva
vederlo. Ella non avrebbe saputo contenersi. Il figlio avrebbe
indovinato tutto; si sarebbe valso del segreto per i suoi fini; avrebbe
forse rivelato ogni cosa... No, no, ella non doveva vederlo.»

Donna Laura, dinanzi a queste argomentazioni d'uomo pratico, rimaneva
smarrita. Ella non sapeva imaginarsi che la sua creatura fosse
cresciuta, fosse già adulta, fosse già presso al limitare della
vecchiaia. Oramai erano passati circa quarant'anni dal giorno della
nascita; eppure ella nel suo pensiero non vedeva se non un bambino,
roseo, con gli occhi ancora chiusi.

Ma il marchese di Fontanella venne a morire.

Quando Donna Laura seppe la malattia del vecchio, fu presa da
un'angoscia così penosa che una sera, non potendo più resistere allo
spasimo, uscì sola, si diresse verso la casa dell'infermo, perchè un
pensiero tenace la sospingeva, il pensiero del figlio. Prima che il
vecchio morisse, ella voleva conoscere il segreto.

Camminò lungo i muri, tutta raccolta, come per non farsi vedere. Le
strade erano piene di gente; l'ultimo chiarore del tramonto faceva
rosee le case; tra una casa e l'altra un giardino appariva tutto
violaceo di lilla in fiore. Voli di rondini, rapidi e circolari,
s'intrecciavano nel cielo luminoso. Frotte di bambini passavano a
corsa, con grida e con richiami. Talvolta passava una femmina incinta,
a braccio del marito; e l'ombra della sua gonfiezza si disegnava sul
muro. Donna Laura pareva incalzata da tutta quella gioconda vitalità
delle cose e delle persone. Ella affrettava il passo, fuggiva. Gli
splendori varii delle vetrine, delle botteghe aperte, dei caffè le
davano agli occhi un senso acuto di dolore. A poco a poco una specie
di stordimento le occupava la testa; una specie di sbigottimento le
prendeva lo spirito. — Che faceva? Dove andava? — In quel disordine
della coscienza, le pareva quasi di commettere una colpa; le pareva che
tutti la guardassero, la indagassero, indovinassero il suo pensiero.

Ora la città s'invermigliava agli ultimi rossori del sole. Qua e là,
dentro le cantine, i cori del vino si levavano.

Come Donna Laura giunse alla porta, non ebbe forza di entrare. Passò
oltre, fece venti passi; poi ritornò in dietro, ripassò. Finalmente
varcò la soglia, salì le scale; si fermò, sfinita, nell'anticamera.

Nella casa c'era quell'animazione silenziosa di cui i familiari
circondano il letto dell'infermo. I domestici camminavano in punta
di piedi, portando qualche cosa fra le mani. Avvenivano dialoghi a
bassa voce, nel corridoio. Un signore calvo, tutto vestito di nero,
attraversò la sala, s'inchinò a Donna Laura, ed uscì.

Donna Laura chiese a un domestico, con la voce omai ferma:

— La marchesa?

Il domestico indicò rispettosamente col gesto un'altra stanza a Donna
Laura. Quindi corse ad annunziare la visita.

La marchesa apparve. Era una signora piuttosto pingue, con i capelli
grigi. Aveva gli occhi pieni di lacrime. Aperse le braccia all'amica,
senza parlare, soffocata da un singulto.

Dopo un poco, Donna Laura chiese, non alzando gli occhi:

— Si può vedere?

Profferite le parole, strinse le mascelle per reprimere un tremito
violento.

La marchesa disse:

— Vieni.

Le due donne entrarono nella stanza dell'infermo. La luce ivi era mite;
l'odore di un farmaco, empiva l'aria; gli oggetti segnavano grandi e
strane ombre. Il marchese di Fontanella, disteso nel letto, pallido,
pieno di rughe, sorrise a Donna Laura, vedendola. Disse lentamente:

— Grazie, baronessa.

E le tese la mano ch'era umidiccia e tiepida.

Egli pareva aver ripreso gli spiriti d'un tratto, per uno sforzo di
volontà. Parlò di varie cose, curando le parole, come quando stava
sano.

Ma Donna Laura, all'ombra, lo fissava con uno sguardo così ardente di
supplicazione che egli, indovinando, si volse alla moglie.

— Giovanna, ti prego, preparami tu la pozione, come stamattina.

La marchesa chiese licenza, ed uscì senza sospetto. Nel silenzio della
casa si udirono i passi di lei allontanarsi su i tappeti.

Allora Donna Laura, con un moto indescrivibile, si chinò sul vecchio,
gli prese le mani, gli strappò le parole con gli occhi.

— A Penti... Luca Marino... ha moglie, figli... una casa... Non lo
vedere! Non lo vedere! — balbettò il vecchio, a fatica, preso da
un terrore subitaneo che gli dilatava le pupille. — A Penti... Luca
Marino... Non ti svelare mai!

Già la marchesa veniva, con il medicamento.

Donna Laura sedette; si contenne. L'infermo bevve; e i sorsi scendevano
nella gola con un gorgoglio, a uno a uno, distinti, regolari.

Poi successe un silenzio. E l'infermo parve preso da sopore: tutta
la faccia gli si fece più cava; ombre più profonde, quasi nere, gli
occuparono le occhiaie, le guance, le narici, la gola.

Donna Laura si accommiatò dall'amica; se ne andò, trattenendo il
respiro, pianamente.


II.

Tutte queste vicende ripensava la vecchia signora, sotto la pergola,
nel giardino tranquillo. Che cosa ora dunque la tratteneva dal rivedere
il figlio? Ella avrebbe avuto la forza di reprimersi; ella non si
sarebbe svelata, no. Le bastava di rivederlo, il figlio suo, quello
ch'ella aveva tenuto su le braccia un giorno solo, tanti anni a dietro,
tanti, tanti anni! Era cresciuto? Era grande? Era bello? Com'era?

E mentre così interrogava sè stessa, nel fondo del suo spirito ella non
giungeva a raffigurarsi l'uomo. Sempre in lei l'imagine dell'infante
persisteva, si sovrapponeva ad ogni altra imagine, vinceva con la
nitida chiarezza delle sue forme ogni altra forma fantastica che
tentasse di sorgere. Ella non preparava l'animo, si abbandonava
debolmente al sentimento indeterminato. Il senso della realtà in quel
momento le mancava.

— Io lo vedrò! Io lo vedrò! — ripeteva in sè stessa, inebriandosi.

Le cose in torno tacevano. Il vento faceva incurvare i roseti che,
passato il soffio, seguitavano a muoversi pesantemente. Gli zampilli
scintillavano e guizzavano, tra il verde, come stocchi.

Donna Laura stette un poco in ascolto. Dal silenzio, nell'ora pànica,
sorgeva qualcosa di grande e di inesorabile, che le infuse nell'animo
uno sgomento misterioso. Ella esitò. Poi si mise pel viale, da prima
con passi rapidi; giunse al cancello tutto abbracciato dalle piante
e dai fiori; sostò, per guardarsi in dietro: aprì. Dinanzi a lei la
campagna si stendeva deserta sotto il meriggio. Le case di Penti in
lontananza biancheggiavano su l'azzurro del cielo, con un campanile,
con una cupola, con due o tre pini. Il fiume si svolgeva nella pianura,
tortuoso e lucentissimo, toccando le case.

Donna Laura pensò: — Egli è là. — E tutte le sue fibre di madre
vibrarono. Animata, riprese a camminare, guardando dinanzi a sè con gli
occhi che il sole fastidiva, non curando il calore. A un certo punto
della strada cominciarono gli alberi, magri pioppetti tutti canori di
cicale. Due femmine scalze, ciascuna con un cesto sul capo, venivano
incontro.

— Sapete la casa di Luca Marino? — chiese la signora, presa da una
voglia irresistibile di pronunziare quel nome a voce alta, liberamente.

Le femmine la guardarono, stupefatte, soffermandosi.

Una rispose con semplicità:

— Noi non siamo di Penti.

Donna Laura, malcontenta seguitò la via, provando già un poco di
stanchezza nelle povere membra senili. Gli occhi, offesi dalla luce
intensa, le facevano vedere alcune mobili macchie rosse nell'aria. Un
leggero principio di vertigine le turbava il cervello.

Penti si avvicinava sempre più. I primi tuguri apparvero tra molte
piante di girasoli. Una femmina, mostruosa per l'adipe, stava seduta
sopra una soglia; ed aveva su quel gran corpo una testa infantile, gli
occhi dolci, i denti schietti, il sorriso placidissimo.

— O signora, dove andate? — chiese la femmina, con un accento ingenuo
di curiosità.

Donna Laura si accostò. Aveva il volto tutto infiammato e la
respirazione corta. Le forze erano per mancarle.

— Mio Dio! Oh mio Dio! — gemeva ella, reggendosi le tempie con le
palme. — Oh mio Dio!

— Signora, riposatevi — diceva la femmina ospitale, invitandola ad
entrare.

La casa era bassa ed oscura; ed aveva quell'odor particolare che hanno
tutti i luoghi dove molta gente agglomerata vive. Tre o quattro bambini
nudi, anch'essi col ventre così gonfio che parevano idropici, si
trascinavano sul suolo, borbottando, brancicando, portando alla bocca
per istinto qualunque cosa capitasse loro sotto le mani.

Mentre Donna Laura seduta riprendeva le forze, la femmina parlava
oziosamente, tenendo fra le braccia un quinto bambino, tutto coperto di
croste nerastre tra mezzo a cui si aprivano due grandi occhi, puri ed
azzurri, come due fiori miracolosi.

Donna Laura domandò:

— Qual'è la casa di Luca Marino?

L'ospite col gesto indicò una casa rossiccia,

all'estremità del paese, in vicinanza del fiume, circondata quasi da un
colonnato di alti pioppi.

— È quella, perchè?

La vecchia signora si sporse per guardare.

Gli occhi le dolevano, feriti dalla luce solare, e le palpebre le
battevano forte. Ma ella stette qualche minuto in quell'attitudine,
respirando con fatica, senza rispondere, quasi soffocata da una
sollevazione di sentimento materno. — Quella dunque era la casa del suo
figliuolo? — Subitamente, le apparvero l'interno della stanza lontana,
il paese di Provenza, le persone, le cose, come nel bagliore di un
lampo, ma evidenti, nettissimi. Ella si lasciò ricadere su la sedia,
e rimase muta, confusa, in una specie di ottusità fisica proveniente
forse dall'azione del sole. Negli orecchi aveva un ronzío continuo.

Disse l'ospite:

— Volete passare il fiume?

Donna Laura fece un cenno fievole, incantata da un turbinío di circoli
rossi che le si producevano nella retina.

— Luca Marino porta uomini e bestie da una riva all'altra. Ha una barca
e una chiatta — seguitò l'ospite. — Se no, bisogna andare fino a Prezzi
a cercare il guado. È trent'anni che fa il mestiere! È sicurissimo,
signora.

Donna Laura ora ascoltava, facendo uno sforzo per raccogliere i suoi
spiriti che si disperdevano. Ma pure, dinanzi a quelle novelle del
figliuolo, restava smarrita; quasi non comprendeva.

— Luca non è del paese — riprese la femmina grassa, trascinata
dalla nativa loquacità. — L'hanno allevato i Marino che non avevano
figliuoli. E un signore, non di qui, gli ha dotata la moglie. Ora vive
bene; lavora; ma ha il vizio del vino.

La femmina diceva queste cose ed altre, con semplicità grande, senza
malizia per l'origine sconosciuta di Luca.

— Addio, addio — fece Donna Laura, levandosi, presa da un vigore
fittizio. — Grazie, buona donna.

Porse a uno dei bimbi una moneta; ed uscì alla luce.

— Per quella viottola! — le gridò dietro, indicando, l'ospite.

Donna Laura seguì la viottola. Un gran silenzio regnava intorno, e nel
silenzio le cicale cantavano a distesa. Alcuni gruppi d'olivi contorti
e nodosi sorgevano dal terreno disseccato. Il fiume, a sinistra,
brillava.

— Ooh, La Martinaaa! — chiamò una voce, in lontananza, dalla parte del
fiume.

Quella voce umana d'improvviso fece tremare le vene della vecchia.
Ella guardò. Sul fiume navigava una barca, a pena visibile tra il
vapor luminoso; e un'altra barca, ma a vela, biancheggiava a maggior
distanza. Nella prima barca si scorgevano forme d'animali: erano forse
cavalli.

— Ooh, La Martinaaa! — richiamò la voce.

Le due barche si avvicinavano l'una all'altra. Quello era il punto
delle secche, dove i barcaiuoli pericolavano quando il carico pesava.

Donna Laura, ferma sotto un olivo, appoggiata al tronco, seguiva
con lo sguardo la vicenda. Il cuore le palpitava con tanta violenza
che le pareva i battiti empissero tutta la campagna circostante. Il
fruscío dei rami, il canto delle cicale, il lampeggío delle acque,
tutte le apparenze la turbavano, le si confondevano nello spirito col
disordine della demenza. L'accumulamento lento del sangue nel cervello,
per l'azione del sole, le dava ora una visione leggermente rossa, un
principio di vertigine.

Le due barche, giunte a un gomito del fiume, non si videro più.

Allora Donna Laura riprese a camminare, un po' barcollante, come
un'ebra. Le apparve un gruppo di case riunite intorno a una specie di
corte. Sei o sette mendicanti meriggiavano ammucchiati in un angolo:
le loro carni rossastre, maculate dalle malattie della cute, uscivano
di tra i cenci; nei loro volti deformi il sonno aveva una pesantezza
bestiale. Qualcuno dormiva bocconi, con la faccia nascosta tra le
braccia piegate a cerchio. Qualche altro dormiva supino, con le braccia
aperte, nell'attitudine del Cristo crocifisso. Un nuvolo di mosche
turbinava e ronzava su quelle povere carcasse umane, denso e laborioso,
come sopra un cumulo di fimo. Dalle porte socchiuse veniva un rumore di
telai.

Donna Laura attraversò la piazzetta. Il suono de' suoi passi su le
pietre fece risvegliare un mendicante che si levò su i gomiti e,
tenendo gli occhi ancora chiusi, balbettò macchinalmente:

— La carità, per l'amore di Dio!

A quella voce tutti i mendicanti si risvegliarono, e tutti sorsero.

— La carità, per l'amore di Dio!

— La carità, per l'amore di Dio!

La torma cenciosa si mise a seguitare la passante, chiedendo
l'elemosina, tendendo le mani. Uno era storpio e camminava a piccoli
salti, come una scimmia ferita. Un altro si trascinava sul sedere
puntellandosi con ambo le braccia, come fanno con le zampe le locuste,
poichè aveva tutta la parte inferiore del corpo morta. Un altro aveva
un gran gozzo paonazzo e rugoso che ad ogni passo ondeggiava come una
giogaia. Un altro aveva un braccio ritorto come una grossa radice.

— La carità, per l'amore di Dio!

Le loro voci erano varie, alcune cavernose e roche, altre acute e
feminine come quelle degli evirati. Ripetevano sempre le stesse parole,
con lo stesso accento, in un modo accorante.

— La carità, per l'amore di Dio!

Donna Laura, così inseguita da quella gente mostruosa, provava una
voglia istintiva di fuggire, di salvarsi. Uno sbigottimento cieco la
teneva. Avrebbe forse gridato, se avesse avuta la voce nella gola. I
mendicanti le instavano da presso, le toccavano le braccia, con le mani
tese. Volevano l'elemosina, tutti.

La vecchia signora si cercò nella veste, prese alcune monete, le lasciò
cadere dietro di sè. Gli affamati si fermarono, si gittarono avidamente
su le monete, lottando, stramazzando sul terreno, dando calci,
calpestandosi. Bestemmiavano.

Tre rimasero con le mani vuote; e ripresero a seguitare la vecchia
incattiviti.

— Noi non l'abbiamo avuta! Noi non l'abbiamo avuta!

Donna Laura, disperata per quella persecuzione, diede altre monete,
senza volgersi. La lotta fu tra lo storpio e il gozzuto. Ambedue
presero. Ma un povero epilettico idiota, che tutti opprimevano e
dileggiavano, non ebbe nulla; e si mise a piagnucolare, leccandosi le
lacrime e il moccio che gli colava dal naso, con un verso ridicolo:

— Ahu, ahu, ahuuu!


III.

Donna Laura infine era giunta alla casa dei pioppi.

Ella si sentiva sfinita: le si offuscava la vista, le tempie le
battevano forte, la lingua le ardeva; le gambe sotto le si piegavano.
Dinanzi a lei, un cancello stava aperto. Ella entrò.

L'aia circolare era limitata da pioppi altissimi. Due degli alberi
sostenevano un cumulo di paglia di fromento, tra mezzo a cui uscivano
i rami fronzuti. Poichè in giro l'erba cresceva, due vacche falbe vi
pascolavano pacificamente battendosi con la coda i fianchi nutriti; e
tra le gambe a loro penzolavano le mammelle gonfie di latte, colorite
come frutti succulenti. Molti arnesi di agricoltura stavano sparsi pel
suolo. Le cicale, in su gli alberi, cantavano. Nel mezzo, tre o quattro
cuccioli ruzzavano abbaiando verso le vacche o inseguendo le galline.

— O signora, che cerchi? — chiese un vecchio, uscendo dalla casa. —
Vuoi _passare_?

Il vecchio, calvo, con la barba rasa, teneva tutto il corpo in avanti
su le gambe inarcate. Le sue membra erano deformate dalle rudi fatiche,
dall'opera dell'arare che fa sorgere la spalla sinistra e torcere il
busto, dall'opera del falciare che fa tenere le ginocchia discoste,
dall'opera del potare che curva in due la persona, da tutte le opere
lente e pazienti della coltivazione. Egli, dicendo l'ultima parola,
accennava al fiume.

— Sì, sì — rispose Donna Laura non sapendo che dire, non sapendo che
fare, smarrita.

— Allora vieni. Ecco Luca che torna — soggiunse il vecchio, volgendosi
al fiume dove navigava a forza di pertiche una chiatta carica di
pecore.

Egli condusse la passeggiera, a traverso un orto irrigato, fin sotto
a una pergola dove altri passeggieri attendevano. Camminando innanzi,
egli lodava le verzure e faceva pronostici, per consuetudine di
agricoltore invecchiato tra le cose della terra.

Volgendosi a un tratto, poichè la signora restava muta come se non
udisse, vide che ella aveva i cigli pieni di lacrime.

— Perchè piangi, signora? — le chiese con la stessa tranquillità con
cui parlava delle verzure. — Ti senti male?

— No, no... niente... — mormorò Donna Laura che si sentiva morire.

Il vecchio non disse altro. Egli era così indurato alla vita, che i
dolori altrui non lo commovevano. Egli vedeva, tutti i giorni, tanta
gente diversa _passare_!

— Siedi — fece, come giunse alla pergola.

Là tre uomini della campagna attendevano, uomini giovani, carichi di
fardelli. Tutt'e tre fumavano in grosse pipe, mettendo nel fumare una
attenzione profonda, come per gustarne intera la voluttà, secondo il
costume della gente campestre nei rari diletti. Ad intervalli, dicevano
quelle lunghe cose insignificanti che l'agricoltore ripete senza fine e
che appagano lo spirito di lui tardo ed angusto.

Guardarono un poco, stupefatti, Donna Laura. Poi ripresero la loro
impassibilità.

Uno di loro avvertì, tranquillamente:

— Ecco la chiatta.

Un altro aggiunse:

— Porta le pecore di Bidena.

Il terzo:

— Saranno quindici.

E si levarono, insieme, intascando le pipe.

Donna Laura era caduta in una specie di stupidimento inerte. Le lacrime
le si erano fermate su i cigli. Ella avea perduto il senso della
realità. Dov'era? Che faceva?

La chiatta urtò leggermente contro la riva. Le pecore, strette le
une contro le altre, belavano intimidite dall'acqua. Il pastore,
il traghettatore ed il figlio le aiutavano a discendere a terra. Le
pecore, appena discese, facevano una piccola corsa; poi si fermavano,
si riunivano e si mettevano a belare ancora. Due o tre agnelli
saltellavano su le gambe lunghe e deformi, tentando i capezzoli
materni.

Compiuta la bisogna, Luca Marino fermò la chiatta. Poi a grandi passi
lenti salì la riva, verso l'orto. Era un uomo di quarant'anni circa,
alto, magro, con la faccia rossiccia, calvo alle tempie. Aveva baffi
di colore incerto e una manata di peli sparsa disugualmente per il
mento e per le guance; l'occhio un po' torbido, senza alcuna vivacità
d'intelligenza, venato di sanguigno, come quello dei bevitori. La
camicia aperta lasciava vedere il petto velloso, un berretto carico
d'untume copriva la testa.

— Ahuf! — esclamò egli d'un tratto, in faccia alla pergola, fermandosi
su le gambe aperte e nettandosi con le dita la fronte stillante di
sudore.

Passò dinanzi ai passeggieri, senza guardarli. In tutti i suoi gesti
e in tutte le sue attitudini era incomposto e quasi brutale. Le mani,
enormi, gonfie di vene sul dorso, le mani avvezze al remo parevano
essergli d'impaccio. Egli le teneva penzoloni lungo i fianchi e le
dondolava camminando.

— Ahuf! Che sete!...

Donna Laura stava come impietrita, senza più parole, senza più
conscienza, senza più volontà.

Quello era il suo figliuolo! Quello era il suo figliuolo!

Una femmina gravida, che aveva già una figura senile, disfatta dal
lavoro e dalla fecondità, venne a porgere al marito assetato un boccale
di vino. L'uomo bevve d'un fiato. Poi si asciugò le labbra col dorso
della mano e fece schioccare la lingua. Disse, bruscamente, come se la
nuova fatica gli fosse dura:

— Andiamo.

Insieme col primogenito, ch'era un grosso fanciullo di quindici anni,
preparò il legno: mise tra il bordo e la riva due tavole per rendere
agevole ai passeggieri l'imbarco.

— Perchè non monti, signora? — fece il vecchio di dianzi, vedendo che
Donna Laura non si moveva e non parlava.

Donna Laura si levò, macchinalmente, e seguì il vecchio che le diede
aiuto nel salire. Perchè saliva ella? Perchè passava il fiume? Non
pensò; non giudicò l'atto. Il suo spirito, così colpito, rimaneva ora
inerte, quasi immobile in un punto. — Quello era il figlio. — E a poco
a poco ella sentiva in sè qualche cosa estinguersi, svanire; sentiva
nella mente a poco a poco farsi una gran vacuità. Non comprendeva più
niente. Vedeva, udiva, come in un sogno.

Quando il primogenito di Luca venne a lei per chiedere la mercè del
traghetto, prima che la barca si staccasse dalla riva, ella non intese.
Il fanciullo scoteva nel concavo delle mani le monete ricevute da uno
dei passeggieri; e ripeteva la domanda a voce più alta, credendo che la
signora fosse sorda per la vecchiezza.

Ella, come vide gli altri due uomini mettere la mano in tasca e pagare,
imitò quell'atto, risovvenendosi. Ma diede più del dovuto.

Il fanciullo volle farle intendere ch'egli non poteva renderle
l'avanzo, perchè non l'aveva. Ella non comprese. Il fanciullo prese
tutto il danaro, con una smorfia di malizia. I presenti sorrisero, di
quel sorriso astuto che hanno gli uomini campestri in conspetto di un
inganno.

Uno disse:

— Andiamo?

Luca, che fin allora stava intento a tirar l'áncora, spinse la barca
che si mosse dolcemente su l'acqua gorgogliante. La riva parve fuggire,
con le canne e con i pioppi, ed incurvarsi come una falce. Il sole
incendiava tutto il fiume, appena inclinato verso il cielo occidentale,
dove sorgevano vapori violetti. Si vedeva ora su la riva un gruppo
di gente che gesticolava; ed erano i mendicanti addosso all'idiota. A
tratti, col vento giungevano anche lembi di parole e di risa simili a
un'agitazione di flutti.

I rematori, nudi il busto, vogavano a gran forza per superare il filo
della corrente. Donna Laura vedeva il dorso di Luca, nero, dove le
costole si disegnavano e colava a rivoli il sudore Teneva gli occhi
fissi, un po' dilatati, pieni di ebetudine.

Uno dei passeggieri avvertì, prendendo sotto il banco le sue robe:

— Ci siamo.

Luca afferrò l'ancora e la gittò alla riva. La barca ridiscese con la
corrente per tutta la lunghezza della corda; quindi si fermò con una
stratta. I passeggieri furono a terra, d'un salto, ed aiutarono la
vecchia signora, tranquillamente. Quindi si rimisero in cammino.

La campagna da quella parte era coltivata a vigneti. Le viti, piccole
e magre, verdeggiavano in filari. Alcuni alberi interrompevano qua e là
il piano, con forme rotonde.

Donna Laura si trovò sola, perduta, su quella riva senz'ombra, non
avendo più conoscenza di sè che per il battito continuo delle arterie,
per un romorío cupo ed assordante negli orecchi. Il suolo sotto i piedi
le mancava e pareva affondarsi come fango o arena, ad ogni passo. Tutte
le cose intorno turbinavano e si dileguavano; tutte le cose, ed anche
la sua esistenza, le apparivano vagamente, lontane, dimenticate, finite
per sempre. La follia le prendeva la mente. Ella, d'un tratto, vide
uomini, case, un altro paese, un altro cielo. Urtò in un albero, cadde
su una pietra; si rialzò. E il suo povero corpo sfinito traballava in
moti terribili e insieme ridevoli; ma nessuna cosa intorno splendeva
come i suoi capelli bianchi sotto il sole feroce.

Ora, i mendicanti dall'altra riva avevano eccitato per dileggio
l'idiota a passare il fiume a nuoto ed a raggiungere la donna per aver
l'elemosina. Essi l'avevano spinto nell'acqua, dopo avergli strappati
i cenci di dosso. E l'idiota nuotava come un cane, tra una pioggia di
sassate che gl'impedivano di tornare addietro. Quegli uomini deformi
fischiavano e urlavano, prendendo diletto nella crudeltà. Essi, come la
corrente traeva l'idiota, arrancavano lungo la sponda e imperversavano.

— Affoga! Affoga!

L'idiota, con sforzi disperati, prese terra. E così ignudo, poichè in
lui era morto con l'intelligenza il sentimento del pudore, si mise a
camminare verso la donna, di traverso, com'era suo costume, tendendo la
mano ad ogni tratto.

La demente, rialzandosi, vide; e con un moto di orrore e con un grido
acutissimo si diede a correre verso il fiume. Sapeva quel che faceva?
Voleva morire? Che pensava ella, in quell'attimo?

Giunta all'estremo limite, cadde nell'acqua. L'acqua gorgogliò, si
chiuse pienamente; e tanti circoli successivi partirono dal luogo della
caduta e si allargarono in lievi ondulazioni lucide e si dispersero.

I mendicanti dall'altra riva gridavano verso una barca che si
allontanava:

— Oh Lucaaa! Oh Luca Marinooo!

E correvano verso la casa dei pioppi a dare la novella.

Allora, come seppe il caso, Luca spinse la barca verso il luogo che gli
indicavano, e chiamò La Martina che se ne veniva placidamente con il
suo legno in balía della corrente.

Disse Luca:

— C'è un'annegata laggiù.

Non si curò di raccontare il fatto e di parlare della persona, poichè
non amava le molte parole.

I due fiumátici misero i legni a paro e remigarono con calma.

Disse La Martina:

— Hai tu provato il vino nuovo di Chiachiù? Ti dico!...

E fece un gesto che rappresentava l'eccellenza della bevanda.

Luca rispose:

— Non ancora.

Disse La Martina:

— Ne prenderesti una goccia?

Luca rispose:

— Io sì.

La Martina:

— Dopo. Ci aspetta Iannangelo.

Luca:

— Va bene.

Giunsero al luogo. L'idiota, che poteva meglio indicare il punto,
era fuggito, e in mezzo alle vigne era stato preso da un accesso di
epilessia. All'altra riva i curiosi cominciavano a radunarsi.

Disse Luca al compagno:

— Tu ferma la tua barca e salta nella mia. Uno rema e l'altro cerca.

La Martina così fece. Egli remava su e giù per una ventina di metri, e
Luca tentava il fondo del fiume con una lunga pertica. Ogni tanto Luca,
sentendo qualche resistenza, mormorava:

— Ecco.

Ma s'ingannava sempre. Finalmente, dopo molte ricerche, Luca disse:

— Questa volta c'è.

E chinandosi e inarcando le gambe per far forza, sollevò piano piano il
peso all'estremità della pertica. I bicipiti gli tremavano.

La Martina chiese, lasciando il remo:

— Vuoi che t'aiuti?

Luca rispose:

— Non importa.



AGONIA.


I.

Quando entrò Donna Letizia tenendo l'infermo su le belle braccia
carnose con un'attitudine di misericordia lacrimevole, tutte le figlie
accorsero a torno intenerite ed esalarono la gentil pietà dell'animo
in querele gemebonde. Le voci femminili risonavano così nella stanza
confusamente tra i rumori che dal traffico della strada salivano per
le vetrate aperte; e al compianto delle fanciulle si mescevano in quel
punto le interiezioni d'un cerretano magnificatore d'acque angelicali e
di polveri mirifiche.

Il cane, su le braccia della signora, ebbe allora un lieve tremito
che gli corse per tutto il dorso fino alla estremità della coda;
tentò di sollevare le palpebre, di volgere alle carezze quei suoi
enormi occhi pieni di gratitudine. Moveva la testa in certi sforzi
penosi, come se le corde del collo gli si fossero irrigidite; aveva
la bocca semiaperta, da cui il lembo della lingua tenuta tra i due
denti sporgenti usciva come una foglia vermiglia solcata di venature
violacee. E una bava molle gl'inumidiva il mento, quella piccola parte
della mandibola inferiore dove la rarezza dei peli lasciava apparire
la pelle rosea. E la fatica del respiro a volte gli s'inaspriva in
una specie di raucedine sibilante, mentre le narici d'ora in ora si
disseccavano e prendevano l'aspetto duro e scabro di un tartufo.

— Oh, Sancio, povero Sancio, che t'hanno fatto? Povero bibì, eh? Povero
vecchio mio!..

Le commiserazioni delle fanciulle sensibili si facevano via via
più tenere, finivano in un balbettío pargoleggiante di parole senza
significato, di suoni lamentevoli, di lezii carezzevoli. Tutte volevano
passar la mano su la testa dell'animale, prendere una delle zampe,
toccare le narici. Donna Letizia sorreggeva il dolce peso maternamente;
e le sue dita grasse e bianche, le cui falangi parevano gonfie quasi
per un morbo, le sue dita vellicavano pianamente il ventre di Sancio,
s'insinuavano tra il pelo.

Nella stanza entrava la luce del pomeriggio e il fresco della marina,
a traverso le tende verdognole. Otto stampe colorite, chiuse in cornici
nere, adornavano le pareti coperte di una carta a fiorami gialli. Sopra
un vecchio canterale del Settecento, con la lastra di marmo roseo e le
borchie di ottone, posava tra due piccoli specchi retti da sostegni
d'argento un trionfo di fiori di cera in una campana di cristallo.
Sopra il caminetto scintillava una coppia di candelabri dorati, con
le candele intatte. Un automa di cartapesta, raffigurante un macacco
in abito moresco, meditava immobile dall'alto d'uno di quei tavolini
intarsiati che vengono di Sorrento. Molte seggiole con su la spalliera
vignette di favole pastorali, un canapè dell'Impero, due poltrone
moderne, concorrevano alla discordia delle forme e dei colori.


II.

Come l'infermo venne adagiato in grembo a una delle poltrone, ci fu
nella stanza un intervallo di silenzio. Sancio si levò un momento
in piedi tremando, si rigirò più volte cercando una positura meno
dolorosa, nella irrequietudine della sofferenza, tentò di poggiare la
testa su uno dei bracciuoli, si piegò su le gambe di dietro; stette
così alfine con le palpebre socchiuse, respirando a fatica, come preso
da una sonnolenza improvvisa. Sul petto largo la pelle abbondante gli
faceva, con tre o quattro crespe, quasi una piccola giogaia; sopra
la collottola le crespe erano più grandi e più tonde; i lembi delle
labbra ai lati della mandibola superiore pendevano flosciamente; e il
povero animale aveva ora nella malattia quel non so che di ridevole
insieme e di miserevole che hanno gli uomini nani oppressi dall'adipe e
dall'asma.

Le fanciulle dinanzi a quell'abbattimento restavano mute, invase
da un rammarico immenso, colpite dal presentimento della sventura;
poichè Sancio era stato per molti anni la loro cura amorosa, l'oggetto
delle loro blandizie e dei loro vezzi, lo sfogo innocuo delle loro
mollezze e delle loro tenerezze di adolescenti clorotiche. Sancio
era nato e cresciuto nella casa, con quelle forme tozze e pesanti di
razza imbastardita, con quelle rotondità di bestia eunuca oziosa e
golosa; e a poco a poco eragli apparso negli occhi tondi uno sguardo
pieno di umanità e di devozione. Soleva agitar vivamente il tronco
della coda nelle ore di gioia, reggendosi su tre gambe sole e tutto
raggomitolandosi con un singolar tremolío del pelame e trotterellando
con la grazia d'un porcellino d'India in mezzo all'erbe primaverili.

I bei ricordi ora travagliavano le animule delle fanciulle.

— E il medico quando viene? — chiese, con la voce impaziente,
Teodolinda, la figlia minore; che aveva una faccia di giovine
bertuccia, tutta bianca di cipria, e su la fronte una larga frangia di
capelli rossi.

L'infermo a tratti metteva una specie di gemito fioco aprendo gli
occhi e volgendo in torno lo sguardo supplichevole, uno sguardo lento
e dolce, fatto più umano dall'increspamento nervoso degli angoli delle
palpebre e da due linee brune che gli umori sgorganti avevano segnato
sotto le orbite. E come Donna Letizia tentava di fargli prendere un
cucchiaio di zuppa ristoratrice, egli agitava fuor della bocca la
lingua flessibile in tutti i sensi per lo sforzo dell'inghiottire e non
poteva chiudere le mascelle irrigidite.

Allora si udì nell'anticamera la voce del dottore Zenzuino che era
finalmente salito. Ed entrò nella stanza un signore dalla bella faccia
lucida di giovialità e di sanità.

— Oh Don Giovanni, guarite Sancio! Sta per morire — esclamò una voce
flebile.

Il medico guardò in torno tutta quella dolente famiglia che egli aveva
nutrita d'arsenico, di ferro e d'olio ferruginoso e d'acqua di Levico
per tanti anni in vano ed ebbe un lieve lampo di sorriso negli occhiali
d'oro. Poi, osservando l'infermo con una curiosità d'uomo ricercatore,
disse molto lentamente:

— Credo sia un caso di paralisi della mandibola e delle glandole
salivari sotto-mascellari. La malattia che ha sede in un'alterazione
nervosa centrale probabilmente delle meningi e che per la sua eziologia
può dipendere da una causa ereditaria o parassitaria, è d'indole
progressiva. Il processo che tende a diffondersi, andrà parzialmente
e progressivamente privando il corpo, organo per organo, della sua
funzionalità; finchè giunto in breve ad agire sul centro di una
delle funzioni vitali, sia della circolazione che della respirazione,
produrrà la morte...

Le terribili parole barbare misero un'ambascia suprema nelle
animule blandule; e le guance floride di Donna Letizia in un momento
impallidirono.

— Io credo che abbia influito su lo sviluppo del morbo l'alimentazione
— soggiunse Don Giovanni, senza pietà.

A quella specie di accusa, il rimorso cominciò a tormentare le
fanciulle che sempre per la golosità di Sancio erano state piene
d'indulgenza colpevole. E Teodolinda, con un atto di sconforto
ineffabile, chiese:

— Non c'è dunque rimedio?

— Tentiamo. Io consiglio l'applicazione di un cerotto vescicatorio alla
nuca — rispose il dottore licenziandosi in ultimo amabilmente.

Sancio voleva discendere dalla poltrona. Esitava su l'orlo, non avendo
la forza di spiccare il salto, implorava l'aiuto con gli occhi fievoli
che già si velavano come due acini d'uva nera suffusi dalla pruina
argentea della maturità. Nella sua pinguedine il dolore a poco a
poco scavava ombre senili; le tinte rosee del muso, dove i peli erano
lunghi e radi, pareva si corrompessero divenendo quasi giallastre; le
orecchie mozze avevano di tratto in tratto un tremolìo leggerissimo;
e nello stesso tempo un brivido passava a traverso il pelame bianco
visibilmente.

Allora Isabella, la più eterea delle cinque fanciulle, che per crudeltà
della sorte ereditava dal padre il pio naso borbonico e la fronte
leprina, si accostò tutta commossa e prese l'infermo fra le mani
delicate per posarlo a terra.

Sancio prima rimase fermo un istante, senza poter muovere i passi,
con il dorso arcuato, e la testa in alto, oppresso dall'affanno
del respiro; poi cominciò a trascinarsi, barcollando, con lo stento
doloroso di un animale ferito alle due cosce. Forse aveva sete, perchè
quando gli fu accostata la scodella tentò di lambire con la lingua
il liquido. Ma, come la paralisi crescente già gli impediva anche
quell'atto, dopo sforzi inutili ed irosi egli si volse piegando su
le gambe posteriori e con una delle zampe davanti cominciò a battersi
la mascella, quasi per rimuovere alfine di là quell'ostacolo che gli
faceva tanto dolore.

E l'attitudine era così vivamente umana e le pupille erano così piene
di supplicazione e di disperazione umana, che d'un tratto Donna Letizia
scoppiò in pianto:

— Oh, povero bibì! Chi te l'avesse mai detto, povero bibì mio!..

In tutte le fanciulle la commozione raggiunse il supremo grado.
Teodolinda raccolse il morituro, lo portò sul canapè, chiese le
forbici. Era necessario un eroismo; bisognava infine esperimentare il
rimedio, ad ogni costo.

— Isabella, Maria, le forbici! Venite!

Tutte trepide e pallide, si chinarono intorno a Sancio, che aveva
di nuovo socchiuse le palpebre e alitava il fiato ardente nelle mani
della soccorritrice. E questa, vinta la prima ripugnanza, cominciò a
tagliare il pelo su la nuca dell'animale, pianamente, arrestandosi di
tratto in tratto, mettendo via via un soffio su la parte rasa. Una
specie di chierica irregolare si veniva allargando nella grassezza
della collottola; e il tonsurato assumeva così un nuovo aspetto
miserevolmente buffonesco.

Le tende del balcone, investite dalla brezza, s'inarcavano come due
vele. I clamori della strada salivano in confuso, vivi e giulivi;
una prospettiva di case plebee s'intravedeva al fondo nella doratura
pallida del tramonto; e un merlo fischiava.

Allora discese dalle camere superiori Natalia, la bella nuora di Donna
Letizia, con un bimbo su le braccia; ed entrò nella stanza. Ella aveva
la faccia ovale, la pelle fine e rosea, solcata di vene, gli occhi
chiarissimi, le narici diafane, tutta in somma la dolcezza di sangue
della donna bionda, tra una nera ribellione di capelli; e aveva nella
persona, nelle vesti, nell'incedere, quella negligenza semplice, quella
felice placidità quasi direi bovina, quella specie di freschezza lattea
delle giovani madri che nutrono con la propria mammella il figliuolo.

Appena ella vide il cane tonsurato, un impeto così spontaneo d'ilarità
la invase, che non potè ritenere le risa entro la chiostra dei denti.

— Ah, ah, ah, ah, ah!..

Come? Natalia osava ridere, mentre quel povero Sancio moriva? — Le
innupte sensibili volsero un acre sguardo d'indignazione alla cognata
irriverente e crudele. Ma questa, con una lieta incuranza, si appressò
per tendere il bimbo verso l'animale. E il bimbo seminudo agitava le
piccole mani irrequiete, cercando toccare, tutto vibrando di naturale
gioia e barbugliando suoni incomprensibili nella bocca rorida ancora
della bevanda materna. E l'animale, uso già a sottomettere la testa
mansueta a quei cercamenti, aveva ancora nelle membra inferme una
esitazione di festevolezza e negli occhi un supremo barlume di bontà
conoscente.

— Povero Sancio Panza! — mormorò alfine Natalia ritraendo il figliuolo
che stava per bagnarsi di bava le dita. E, come il bimbo rincrespava le
labbra per piangere, ella fece due o tre giri nella stanza cullandolo e
palleggiandolo; poi, fermatasi dinanzi all'automa, volse la chiave del
meccanismo.

Il macacco aprì la bocca, battè le palpebre, attorcigliò la coda,
tutto animandosi internamente al suono d'una gavotta ben nota. Quel
voluttuoso ondeggiamento di danza moveva l'aria e la testa di Natalia
per ritmo. La luce nella stanza era dolce; il profumo dei garofoli
entrava dai vasi del balcone aperto.

Sancio non udiva forse più. Al bruciore caustico del vescicante su la
nuca, egli scoteva di tratto in tratto il dorso, e piegava la testa
in basso, con un lamentìo fievole. La lingua ritirata fra i denti,
violacea, quasi anzi nerastra, aveva già perduta ogni facoltà di
moto. Gli occhi, ora, coperti da una specie di membrana turchiniccia
e umidiccia, non conservavano altra espressione di spasimo che quella
dell'apparir rapido d'un lembo bianco agli angoli delle orbite. La bava
si produceva più copiosa e più densa. L'asfissia pareva imminente.

— Oh Natalia, cessa! Ma non vedi che Sancio muore? — proruppe, con la
voce piena d'acredine e di lagrime, Isabella.

La gavotta non si poteva interrompere prima che la forza data dalla
chiave alla macchina fosse esaurita. Le note continuavano, lente e
molli, a spandersi su l'agonia del cane. Le ombre del crepuscolo,
intanto, cominciavano a penetrare nell'interno e le tende sbattevano
nella frescura.

Allora, Donna Letizia, soffocata dai singhiozzi, non reggendo più allo
strazio, uscì. Tutte le figlie la seguirono, a una a una, piangendo,
con i teneri petti oppressi dal dolore. Soltanto Natalia per curiosità
si fece da presso al moribondo.

E, mentre la gavotta era su la ripresa, il buon Sancio spirò in musica,
come l'eroe di un melodramma italiano.



LA FINE DI CANDIA.


I.

Donna Cristina Lamonica, tre giorni dopo il convito pasquale che
in casa Lamonica soleva essere grande per tradizione e magnifico e
frequente di convitati, numerava la biancheria e l'argenteria delle
mense e con perfetto ordine riponeva ogni cosa nei canterani e nei
forzieri pei conviti futuri.

Erano presenti, per solito, alla bisogna, e porgevano aiuto, la
cameriera Maria Bisaccia e la lavandaia Candida Marcanda detta
popolarmente Candia. Le vaste canestre ricolme di tele fini giacevano
in fila sul pavimento. I vasellami di argento e gli altri strumenti da
tavola rilucevano sopra una spasa; ed erano massicci, lavorati un po'
rudemente da argentarii rustici, di forme quasi liturgiche, come sono
tutti i vasellami che si trasmettono di generazione in generazione
nelle ricche famiglie provinciali. Una fresca fragranza d bucato
spandevasi nella stanza.

Candia prendeva dalle canestre i mantili, le tovaglie, le salviette;
faceva esaminare alla signora la tela intatta; e porgeva via via
ciascun capo a Maria che riempiva i tiratoi, mentre la signora spargeva
negli interstizi un aroma e segnava nel libro la cifra. Candia era una
femmina alta, ossuta, segaligna, di cinquant'anni; aveva la schiena un
po' curvata dall'attitudine abituale del suo mestiere, le braccia molto
lunghe, una testa d'uccello rapace sopra un collo di testuggine. Maria
Bisaccia era un'ortonese, un po' pingue di carnagione lattea, d'occhi
chiarissimi; aveva la parlatura molle, e i gesti lenti e delicati
come colei ch'era usa a esercitar le mani quasi sempre tra la pasta
dolce, tra gli sciroppi, tra le conserve e tra le confetture. Donna
Cristina, anche nativa di Ortona, educata nel monastero benedettino,
era piccola di statura, con il busto un po' abbandonato sul davanti;
aveva i capelli tendenti al rosso, la faccia sparsa di lentiggini, il
naso lungo e grosso, i denti cattivi, gli occhi bellissimi e pudichi,
somigliando un cherico vestito d'abiti muliebri.

Le tre donne attendevano all'opera con molta cura; e spendevano così
gran parte del pomeriggio.

Ora, una volta, come Candia usciva con le canestre vuote, Donna
Cristina numerando le posate trovò che mancava un cucchiaio.

— Maria! Maria! — ella gridò, con una specie di spavento. — Conta!
Manca _'na cucchiara_.... Conta tu!

— Ma come? Non può essere, signó, — rispose Maria. — Mo' vediamo.

E si mise a riscontrare le posate, dicendo il numero ad alta voce.
Donna Cristina guardava, scotendo il capo. L'argento tintinniva
chiaramente.

— E vero! — esclamò alla fine Maria, con un atto di disperazione. — E
mo' che facciamo?

Ella era sicura da ogni sospetto. Aveva dato prove di fedeltà e di
onestà per quindici anni, in quella famiglia. Era venuta da Ortona
insieme con Donna Cristina, all'epoca delle nozze, quasi facendo parte
dell'appannaggio matrimoniale; ed oramai nella casa aveva acquistata
una certa autorità, sotto la protezione della signora. Ella era piena
di superstizioni religiose, devota al suo santo e al suo campanile,
astutissima. Con la signora aveva stretto una specie di alleanza ostile
contro tutte le cose di Pescara, e specialmente contro il santo dei
Pescaresi. Ad ogni occasione nominava il paese natale, le bellezze
e le ricchezze del paese natale, gli splendori della sua basilica, i
tesori di San Tommaso, la magnificenza delle cerimonie ecclesiastiche,
in confronto alle miserie di San Cetteo che possedeva un solo piccolo
braccio d'argento.

Donna Cristina disse:

— Guarda bene di là.

Maria uscì dalla stanza per andare a cercare. Rovistò tutti gli angoli
della cucina e della loggia inutilmente. Tornò a mani vuote.

— Non c'è! Non c'è!

Allora ambedue si misero a pensare, a cumular congetture, a investigar
nella loro memoria. Uscirono su la loggia che dava nel cortile, su la
loggia del lavatoio, per fare l'ultima ricerca. Come parlavano a voce
alta, alle finestre delle case in torno si affacciarono le comari.

— Che v'è successo, Donna Cristí? Dite! Dite! Donna Cristina e Maria
raccontarono il fatto, con molte parole, con molti gesti.

— Gesù! Gesù! Dunque ci stanno i ladri?

In un momento il rumore del furto si sparse pel vicinato, per tutta
Pescara. Uomini e donne si misero a discutere, a imaginare chi
potesse essere il ladro. La novella, giungendo alle ultime case
di Sant'Agostino, s'ingrandì: non si trattava più di un semplice
cucchiaio, ma di tutta l'argenteria di casa Lamonica.

Ora, come il tempo era bello e su la loggia le rose cominciavano a
fiorire e due lucherini in gabbia cantavano, le comari si trattennero
alle finestre per il piacere di ciarlare al bel tempo, con quel dolce
calore. Le teste feminili apparivano tra i vasi di basilico e il
ciaramellio pareva dilettare i gatti in su le gronde.

Donna Cristina disse, congiungendo le mani:

— Chi sarà stato?

Donna Isabella Sertale, detta la Faina, che aveva i movimenti lesti e
furtivi di un animaletto predatore, chiese con la voce stridula:

— Chi ci stava con voi. Donna Cristí? Mi pare che ho visto ripassare
Candia....

— Aaaah! — esclamò donna Felicetta Margasanta, detta la Pica per la sua
continua garrulità.

— Ah! — ripeterono le altre comari.

— E non ci pensavate?

— E non ve n'accorgevate?

— E non sapete chi è Candia?

— Ve lo diciamo noi chi è Candia!

— Sicuro!

— Ve lo diciamo noi!

— I panni li lava bene, non c'è che dire. È la meglio lavandaia che sta
a Pescara, non c'è che dire. Ma tiene lu difetto delle cinque dita...
Non lo sapevate, commà?

— A me 'na volta mi mancò due mantili.

— A me 'na tovaglia.

— A me 'na camicia.

— A me tre paia di calzette.

— A me due fédere.

— A me 'na sottana nuova.

— Io non ho potuto riavere niente.

— Io manco.

— Io manco.

— Io non l'ho cacciata; perchè chi prendo? Silvestra?

— Ah! Ah!

— Angelantonia? Babascetta?

— Una peggio dell'altra!

— Bisogna ave' pazienza.

— Ma 'na cucchiara, mo'!

— È troppo, mo'!

— Non vi state zitta, Donna Cristí; non vi state zitta!

— Che zitta e non zitta! — proruppe Maria Bisaccia che, quantunque
avesse l'aspetto placido e benigno, non si lasciava sfuggire nessuna
occasione per opprimere o per mettere in mala vista gli altri serventi
della casa. — Ci penseremo noi, Donn'Isabbé, ci penseremo!

E le ciarle dalla loggia alle finestre seguitavano. E l'accusa di bocca
in bocca si propalò per tutto il paese.


II.

La mattina vegnente, mentre Candia Marcanda teneva le braccia nella
lisciva, comparve su la soglia la guardia comunale Biagio Pesce
soprannominato _il Caporaletto_.

Egli disse alla lavatrice:

— Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune, sùbito.

— Che dici? — domandò Candia aggrottando le sopracciglia, ma senza
tralasciare la sua bisogna.

— Ti vuole il signor Sindaco sopra il Comune, sùbito.

— Mi vuole? E perchè? — seguitò a domandare Candia, con un modo un
po' brusco, non sapendo a che attribuire quella chiamata improvvisa,
inalberandosi come fanno le bestie caparbie dinanzi a un'ombra.

— Io non posso sapere perchè — rispose il Caporaletto. — Ho ricevuto
l'ordine.

— Che ordine?

La donna, per una ostinazione naturale in lei, non cessava dalle
domande. Ella non sapeva persuadersi della cosa.

— Mi vuole il Sindaco? E perchè? E che ho fatto io? Non ci voglio
venire. Io non ho fatto nulla.

Il Caporaletto, impazientito, disse:

— Ah, non ci vuoi venire? Bada a te!

E se ne andò, con la mano su l'elsa della vecchia daga, mormorando.

Intanto per il vico alcuni che avevano udito il dialogo uscirono su
gli usci e si misero a guardare Candia che agitava la lisciva con le
braccia. E, poichè sapevano del cucchiaio d'argento, ridevano tra loro
e dicevano motti ambigui che Candia non comprendeva. A quelle risa e a
quei motti, l'inquietudine prese l'animo della donna; e crebbe quando
ricomparve il Caporaletto accompagnato dall'altra guardia.

— Cammina! — disse il Caporaletto, risolutamente.

Candia si asciugò le braccia, in silenzio; e andò. Per la piazza la
gente si fermava. Rosa Panara, una nemica, dalla soglia della bottega
gridò con una risata feroce:

— Posa l'osso!

La lavandaia, smarrita, non imaginando la causa di quella persecuzione,
non seppe che rispondere.

Dinanzi al Comune stava un gruppo di persone curiose che la volevano
veder passare. Candia, presa dall'ira, salì le scale rapidamente;
giunse in conspetto del Sindaco, affannata; chiese:

— Ma che volete da me?

Don Silla, uomo pacifico, rimase un momento turbato dalla voce aspra
della lavandaia, e volse uno sguardo ai due fedeli custodi della
dignità sindacale. Quindi disse, prendendo il tabacco nella scatola di
corno:

— Figlia mia, sedetevi.

Candia rimase in piedi. Il suo naso ricurvo era gonfio di collera, e le
sue guance rugose tremolavano alle contratture delle mascelle mordaci.

— Dite, Don Sì.

— Voi siete stata ieri a riporta' la biancheria a Donna Cristina
Lamonica?

— Be', che c'è? che c'è? Manca qualche cosa? Tutto contato, capo per
capo... Non manca nulla. Che c'è, mo'?

— Un momento, figlia mia! C'era nella stanza l'argenteria...

Candia, indovinando, si voltò come un falchetto inviperito che stia per
ghermire. E le labbra sottili le tremavano.

— C'era nella stanza l'argenteria, e Donna Cristina trova mancante 'na
cucchiara... Capite, figlia mia? L'avete presa voi... pe' sbaglio?

Candia saltò come una locusta, a quell'accusa immeritata. Ella non
aveva preso nulla, in verità.

— Ah, io? Ah, io? Chi lo dice? Chi mi ha vista? Mi faccio meraviglia di
voi, Don Sì! Mi faccio meraviglia di voi! Io ladra? io? io?...

E la sua indignazione non aveva fine. Ella più era ferita dall'ingiusta
accusa perchè si sentiva capace dell'azione che le addebitavano.

— Dunque voi non l'avete presa? — interruppe Don Silla, ritirandosi in
fondo alla sua grande sedia curule, prudentemente.

— Mi faccio meraviglia! — garrì di nuovo la donna, agitando le lunghe
braccia come due bastoni.

— Be', andate. Si vedrà.

Candia uscì, senza salutare, urtando contro lo stipite della porta.
Ella era diventata verde: era fuori di sè. Mettendo il piede nella
via, vedendo tutta la gente assembrata, comprese che oramai l'opinione
popolare era contro di lei; che nessuno avrebbe creduto alla sua
innocenza. Nondimeno si mise a gridare le sue discolpe. La gente
rideva, dileguandosi. Ella, furibonda, tornò a casa; si disperò; si
mise a singhiozzare su la soglia.

Don Donato Brandimarte, che abitava a canto, le disse per beffa:

— Piangi forte, piangi forte, che mo' passa la gente.

Come i panni ammucchiati aspettavano il ranno, ella finalmente
si acquetò; si nudò le braccia, e si rimise all'opera. Lavorando,
pensava alla discolpa, architettava un metodo di difesa, cercava
nel suo cervello di femmina astuta un mezzo artifizioso per provare
l'innocenza; arzigogolando sottilissimamente, si giovava di tutti gli
spedienti della dialettica plebea per mettere insieme un ragionamento
che persuadesse gli increduli.

Poi, quando ebbe terminata la bisogna, uscì; volle andare prima da
Donna Cristina.

Donna Cristina non si fece vedere. Maria Bisaccia ascoltò le molte
parole di Candia scotendo il capo, senza risponder niente; e si
ritrasse con dignità.

Allora Candia fece il giro di tutte le sue clienti. Ad ognuna raccontò
il fatto, ad ognuna espose la discolpa, aggiungendo sempre un nuovo
argomento, aumentando le parole, accalorandosi, disperandosi dinanzi
alla incredulità e alla diffidenza; e inutilmente. Ella sentiva che
oramai non era più possibile la difesa. Una specie di abbattimento cupo
le prese l'animo. — Che più fare! Che più dire!


III.

Donna Cristina Lamonica intanto mandò a chiamare la Cinigia, una
femmina del volgo, che faceva professione di magia e di medicina
empirica con molta fortuna. La Cinigia già qualche volta aveva scoperta
la roba rubata; e si diceva ch'ella avesse diverse pratiche con i
ladroncelli.

Donna Cristina le disse:

— Ritrovami la cucchiara, e ti darò 'na regalía forte.

La Cinigia rispose:

— Va bene. Mi bastano ventiquattr'ore.

E, dopo ventiquattr'ore, ella portò la risposta. — Il cucchiaio si
trova in una buca, nel cortile, vicino al pozzo.

Donna Cristina e Maria discesero nel cortile, cercarono e trovarono,
con grande meraviglia.

Rapidamente, la novella si sparse per Pescara.

Allora, trionfante, Candia Marcanda si diede a percorrere le vie. Ella
pareva più alta; teneva la testa eretta, sorrideva, guardando tutti
negli occhi come per dire:

— Avete visto? Avete visto?

La gente su le botteghe, vedendola passare, mormorava qualche parola
e poi rompeva in uno sghignazzìo significativo. Filippo La Selvi, che
stava bevendo un bicchiere d'acquavite fine nel caffè d'Angeladea,
chiamò Candia.

— 'Nu bicchiere pe' Candia, di questo qua!

La donna, che amava i liquori ardenti, fece con le labbra un atto di
cupidigia.

Filippo La Selvi soggiunse:

— Te lo meriti, non c'è che di'.

Una torma di oziosi erasi ragunata innanzi al caffè. Tutti avevano su
la faccia un'aria burlevole.

Filippo La Selvi, rivoltosi all'uditorio, mentre la donna beveva:

— L'ha saputa fa'; è vero? Volpe vecchia...

E battè familiarmente la spalla ossuta della lavandaia.

Tutti risero.

Magnafave, un piccolo gobbo, scemo e bleso, unendo insieme l'indice
della mano destra con quello della sinistra, e impuntandosi su le
sillabe, disse:

— Ca... ca... ca... Candia... la... la... Cinigia...

E seguitò a gesticolare e a balbettare con un'aria furbesca, per
indicare che Candia e la Cinigia erano comari. Tutti, a quella vista,
si contorcevano nell'ilarità.

Candia rimase un momento smarrita, co 'l bicchiere in mano. Poi, d'un
tratto, comprese. — Non credevano alla sua innocenza. L'accusavano di
aver riportato il cucchiaio d'argento segretamente, d'accordo con la
strega, per non aver guai.

Un impeto cieco di collera allora la invase. Ella non trovava parole.
Si gittò su 'l più debole, su 'l piccolo gobbo, a tempestarlo di pugni
e di graffi. La gente, con una gioia crudele, in cospetto di quella
lotta, schiamazzava a torno in cerchio, come dinanzi a un combattimento
d'animali; ed aizzava le due parti con le voci e con le gesticolazioni.

Magnafave, sbigottito da quella furia improvvisa, cercava di fuggire,
sgambettando come uno scimmiotto; e, tenuto dalle mani terribili della
lavandaia, girava con rapidità crescente, come un sasso nella fionda,
sinchè cadde con gran veemenza bocconi.

Alcuni corsero a rialzarlo. Candia si allontanò tra i sibili; andò
a chiudersi in casa; si gittò a traverso il letto, singhiozzando e
mordendosi le dita, pe 'l gran dolore. La nuova accusa le coceva più
della prima, tanto più ch'ella si sentiva capace di quel sotterfugio.
— Come discolparsi ora? Come chiarire la verità? — Ella si disperava,
pensando di non poter addurre in discolpa difficoltà materiali che
avessero potuto impedire l'esecuzione dell'inganno. L'accesso al
cortile era facilissimo: una porta, non chiusa, corrispondeva al primo
pianerottolo della scalinata grande; per togliere l'immondizie o per
altre bisogne una quantità di gente entrava ed usciva liberamente da
quella porta. Dunque ella non poteva chiudere la bocca agli accusatori
dicendo: — Come avrei fatto ad entrare? — I mezzi per condurre a
termine l'impresa erano molti ed agevoli; e su questa agevolezza si
fondava la credenza popolare.

Candia allora cercò differenti argomenti di persuasione; aguzzò
l'astuzia; imaginò tre, quattro, cinque casi diversi per spiegare
come mai si trovasse il cucchiaio nella buca del cortile; ricorse ad
artifizi e a cavilli d'ogni genere; sottilizzò con una ingegnosità
singolare. Poi si mise a girare per le botteghe, per le case, cercando
in tutti i modi di vincere l'incredulità delle persone. Le persone
ascoltavano quei ragionamenti capziosi, dilettandosi. In ultimo
dicevano:

— Va bene! Va bene!

Ma con tal suono di voce che Candia rimaneva annichilita. — Tutte le
sue fatiche dunque erano inutili! Nessuno credeva! Nessuno credeva!
— Ella, con una pertinacia mirabile, tornava all'assalto. Passava le
notti intere pensando sempre a trovar nuove ragioni, a costruire nuovi
edifizi, a superare nuovi ostacoli. E a poco a poco, in questo continuo
sforzo, la sua mente s'indeboliva, non sosteneva più altro pensiero che
non fosse quello del cucchiaio, non avea quasi più consapevolezza della
vita comune. Più tardi, per la crudeltà della gente, una vera manìa
prese il cervello della povera donna.

Ella, trascurando le sue bisogne, s'era ridotta quasi alla miseria.
Lavava male i panni, li perdeva, li faceva strappare. Quando scendeva
alla riva del fiume, sotto il ponte di ferro, dove erano raccolte le
altre lavandaie, a volte si lasciava fuggir di mano le tele che rapiva
per sempre la corrente. Parlava continuamente, senza stancarsi mai,
della medesima cosa. Per non udirla, le lavandaie giovani si mettevano
a cantare e la beffavano nei canti con rime improvvise. Ella gridava e
gesticolava, come una pazza.

Nessuno più le dava lavoro. Per compassione le antiche clienti le
mandavano qualche cosa da mangiare. A poco a poco ella si abituò a
mendicare. Andava per le strade, tutta cenciosa, curva e disfatta. I
monelli le gridavano dietro:

— Mo' dicci la storia de la cucchiara, che nun la sapemo, zi' Ca'!

Ella fermava i passanti sconosciuti, talvolta, per raccontare la storia
e per arzigogolare su la discolpa. I giovinastri la chiamavano e per un
soldo le facevano fare tre, quattro volte la narrazione; sollevavano
difficoltà contro gli argomenti; ascoltavano sino alla fine, per poi
ferirla con una sola parola. Ella scoteva il capo; passava oltre; si
univa alle altre femmine mendicanti e ragionava con loro, sempre,
sempre, infaticabile, invincibile. Prediligeva una femmina sorda,
che aveva su la pelle una sorta di lebbra rossastra e zoppicava da un
piede.

Nell'inverno del 1874 la colse una febbre maligna. Fu assistita dalla
femmina lebbrosa. Donna Cristina Lamonica le mandò un cordiale e un
cassetto di brace.

L'inferma, distesa su 'l giaciglio, farneticava del cucchiaio;
si levava su i gomiti, tentava di agitar le mani, per secondare
la perorazione. La lebbrosa le prendeva le mani e la riadagiava
pietosamente.

Nell'agonia, quando già gli occhi ingranditi sì velavano come per
un'acqua torbida che vi salisse dall'interno, Candia balbettava:

— No so' stata io, signó... vedete... perchè... la cucchiara...



LA FATTURA.


Quando nella piazza comunale strepitavano consecutivamente i sette
starnuti di Mastro Peppe De Sieri, detto La Bravetta, tutti gli
abitanti di Pescara sedevano alle mense e incominciavano il pasto.
Sùbito dopo, la campana vibrava i tocchi del mezzodì. Un'ilarità
unanime propagavasi nelle case.

Per molti anni La Bravetta diede al popolo pescarese questo giocondo
segnale cotidiano; e la fama delle sue meravigliose starnutazioni si
sparse per il contado in torno e per le terre finitime. Ancora tra
il buon volgo la memoria n'è viva e, fermata in un proverbio, durerà
lungamente nei tempi a venire.


I.

Mastro Peppe La Bravetta era un plebeo di alquanta corpulenza, tozzo,
con la faccia piena di una prospera stupidezza, con gli occhi simili
a quelli d'un vitello poppante, con mani e piedi di straordinaria
espansione. E come aveva un naso molto lungo e carnoso e singolarmente
mobile, e come aveva le mascelle forti, egli nel ridere e nello
starnutire pareva una di quelle foche a proboscide, che in conseguenza
della pinguedine tremano tutte come una gelatina, secondo narrano i
marinai. Anche di quelle foche egli aveva la pigrizia, la lentezza
dei movimenti, la ridicolezza delle attitudini, l'amore del sonno. Non
poteva passare dall'ombra al sole o dal sole all'ombra, senza che un
irresistibile impeto d'aria gli rompesse per la bocca e per le narici.
Lo strepito, in ispecie nelle ore tranquille, udivasi a gran distanza;
e poichè si produceva in periodi determinati, serviva d'orario a quasi
tutti i cittadini. Mastro Peppe nella sua gioventù aveva tenuto negozio
di maccheroni; ed era cresciuto in una dolce balordaggine, tra le belle
frange di pasta, tra il rumore eguale dei buratti e delle ruote, fra
il tepore dell'aria invasa dal polverìo delle farine. Nella maturità
egli s'era legato in nozze con una tal Donna Pelagia, del comune dei
Castelli, e da allora, abbandonato il mestiere alimentario, aveva
preso a rivendere stoviglie di maiolica e di terracotta, orci, piatti,
boccali, tutto lo schietto vasellame fiorito di cui gli artefici
castellesi allietano le mense della terra d'Abruzzi. Tra la rusticità
e quasi direi la religiosità di quelle forme immutate da secoli e
immutabili, egli viveva molto semplicemente, starnutando. E come la
moglie era avara, a poco a poco l'avarizia conquistava e avviluppava
anche l'animo di lui.

Ora, possedeva egli su la destra riva del fiume un podere con una casa
rurale, proprio in quel punto ove la corrente rivolgesi formando quasi
un verde anfiteatro lacustre. Ivi il terreno irriguo rendeva, più che
uve e cereali, gran copia d'erbaggi; il frutteto si moltiplicava;
e un porco si impinguava annualmente, sotto una quercia ricca di
ghiande. In ogni gennaio La Bravetta andava insieme con la moglie al
podere, trattenendovisi co 'l favore di sant'Antonio, per assistere
all'occisione e alla salatura del porco.

Avvenne una volta che, essendo la moglie alquanto inferma, La Bravetta
andò solo ad invigilare il supplicio.

Sopra una tavola ampia l'animale, tenuto da due o tre coloni, fu
scannato con un coltello forbitissimo. Risonarono i grugniti per tutta
la solitudine fluviatile; poi subitamente divennero fiochi, si persero
nel gorgogliare caldo e vermiglio del sangue che sgorgava dalla ferita
slabbrante, mentre il gran corpo dava gli ultimi tratti. Il sole
del novello anno beveva dalla riviera e dalle terre umide la nebbia.
La Bravetta guardava, con una sorta di dilettosa ferocia, l'occisor
Lepruccio bruciare con un ferro rovente gli occhi del porco profondati
nel grasso; e gioiva, udendo stridere i bulbi, al pensiero del molto
lardo e del molto prosciutto futuro.

L'occiso fu sollevato, a forza di braccia, sino all'uncino d'una
sorta di forca rusticale, e rimase péndulo con la testa in basso. Ivi
con fasci di canne accese i coloni arsero tutte le setole; le fiamme
crepitavano quasi invisibili alla maggior luce del giorno. Lepruccio
in ultimo con una lama lucida si diede a raschiar quel corpo nerastro
che un altr'uomo intanto aspergeva d'acqua bollente. La pelle, a mano
a mano divenendo netta e tutta di un dubbio pallor roseo, fumigava nel
sole. E Lepruccio, che aveva una faccia rugosa e untuosa di vecchia
femmina con le campanelle d'oro agli orecchi, stringeva le labbra nella
bisogna, allungandosi ed accorciandosi, giocando su i ginocchi.

Quando l'opera fu fornita, Mastro Peppe ordinò che i coloni deponessero
il porco in un luogo coperto. Mai, negli altri anni, più meravigliosa
mole di carni egli aveva veduto; e si rammaricava in cuor suo che la
moglie non ivi fosse a rallegrarsene.

Allora (cadeva il pomeriggio) sopraggiunsero Matteo Puriello e Biagio
Quaglia, amici, i quali venivano dalla prossima casa di Don Bergamino
Campione, prete dato alla mercatura. Erano costoro gente di gaia vita,
ricchi di consiglio, dediti alla crapula, vaghi d'ogni sollazzo; e,
poichè avean saputo l'occisione del porco e l'assenza di Donna Pelagia,
sperando in una qualche bella avventura venivano a tentar La Bravetta.

Matteo Puriello, detto Ciávola, era un uomo in su i quarant'anni;
cacciatore clandestino; alto e segaligno, con i capelli biondastri, la
pelle del viso giallognola, i baffi duri e tagliati come una spazzola,
tutta la testa avente l'aspetto di una effige di legno su cui fosse
rimasta una traccia lievissima dell'antica doratura. I suoi occhi,
tondi, vivi e mobili quasi per inquietudine come quelli delle bestie
corritrici, lucevano simili a due monete nuove. In tutta la persona,
vestita quasi sempre di un certo panno di color terrigno, egli aveva
le attitudini, i movimenti, il passo dondolante di quei lunghi cani
barbareschi che pigliano le lepri a corsa per le pianure.

Biagio Quaglia, detto il Ristabilito, era in vece di statura mediocre,
d'alcuni anni più giovane, rubicondo nella faccia e tutto gemmante
come un mandorlo a primavera. Egli aveva una singolar virtù scimiatica
di muovere indipendentemente gli orecchi e la pelle della fronte
e la pelle del cranio, per non so che vivacità di muscoli: e aveva
una tale versatilità di aspetti e una tal felice potenza vocale di
contraffazioni e così prontamente sapeva cogliere il lato ridevole
degli uomini e delle cose e in un sol gesto o in un sol motto
rappresentarlo che tutte le brigate pescaresi per amor di allegria
lo chiamavano e convitavano. Egli, in questa dolce vita parassitica,
prosperava, sonando la chitarra alle mense nuziali e alle pompe dei
battesimi. I suoi occhi brillavano come quelli d'un furetto. Il suo
cranio era coperto d'una sorta di lanugine simile a quella del corpo
spiumato di un'oca grassa che ancora sia da abbrustolire.

Or dunque La Bravetta, come vide i due amici, li accolse con cera
festevole, dicendo loro:

— Qualu vente ve porte?

E quindi, poi che le accoglienze oneste e liete furono iterate, egli
traendoli nella stanza dove su una tavola giaceva il mirabile porco,
soggiunse:

— Che dicete de 'sta bellezze? Eh? Mo che ve pare?

I due amici contemplavano il porco con una silenziosa meraviglia; e il
Ristabilito faceva un cotal suo rumore con la lingua contro il palato.
Ciávola chiese:

— E che ce ne vuo' fa'?

— Le vuojie salà — rispose La Bravetta con una voce in cui sentivasi
fremere tutta la ghiotta gioia per le future delizie della gola.

— Le vuo' salà? — gridò d'improvviso il Ristabilito, — le vuo' salà? —
Ma, o Cià, si viste ma' 'n'ommene chiù stupide di custù? A farse scappa
l'uccasïone!

La Bravetta, stupito, guardava con i suoi occhi vitulini ora l'uno ora
l'altro degli interlocutori.

— Donna Pelagge t'ha sempre tenute assuggette — continuò il
Ristabilito. — Sta vote che esse nen te guarde, vínnete lu porche; e
magnémece li quatrine.

— Ma Pelagge? Ma Pelagge? — balbettava La Bravetta, a cui il fantasma
della moglie irata dava già uno sbigottimento immenso.

— E tu dijie ca lu porche te se l'hanne arrubbate — fece il biondo
Ciávola, con un vivo gesto d'impazienza.

La Bravetta inorridì.

— E coma facce a riì a la case nghe sa nutizie? Pelagge nen me crede;
me cacce, me mene... Vu nen le sapete chi è Pelagge?

— Uh, Pelagge! Uh, uh, Donna Pelagge! — squittirono in coro
motteggiando i due insidiatori. E il Ristabilito, subito, imitando
la voce piagnucolosa di Peppe e la voce acuta e stridula della donna,
rappresentò una scena di comedia in cui Peppe era garrito e sculacciato
come un bamboletto.

Ciávola rideva sgambettando in torno al porco, senza potersi reggere.
Il beffato, preso da un violento impeto di starnuti, agitava le braccia
verso l'atto, volendo forse interrompere. Al frastuono i vetri della
finestra tremavano. I fuochi dell'occaso percotevano i tre diversi
volti umani.

Come il Ristabilito tacque, Ciávola disse:

— Mbé, jamocénne!

— Se vulete cenà nghe me... — offerse, a bocca stretta, Mastro Peppe.

— No, no, bello mio — interruppe Ciávola volgendosi verso l'uscio. — Tu
súghete Pelagge e sálate lu porche.


II.

Camminarono gli amici lungo la riva del fiume.

In lontananza le barche di Barletta cariche di sale scintillavano come
edifizi di preziosi cristalli; e da Montecorno un serenissimo albore
spandevasi nella rigidità delle aure, ripercotevasi dalla limpidità
delle acque.

Disse il Ristabilito al Ciávola, soffermandosi:

— Cumbà, ce vuléme arrubbà sstanotte lu porche?

Disse il Ciávola:

— Eccome?

Disse il Ristabilito:

— Le sacce i' come, si lu porche arremane addó l'avéme viste.

Disse Ciávola:

— Embé, facémele! Ma, dapù?

Il Ristabilito si soffermò di nuovo. I suoi piccoli occhi brillavano
come due carbuncoli schietti; la sua faccia florida e rubiconda tra le
orecchie faunesche vibrava tutta in una smorfia di gioia. Egli fece,
laconico:

— Le sacce i'.

Veniva da lungi in contro ai due Don Bergamino Camplone, nero in tra la
pioppaia ignuda e argentea. Subito che i due lo scorsero, sollecitarono
il passo verso di lui. E il prete, veduta la lor cera giuliva, dimandò
sorridendo:

— Che me dicéte de bbelle?

Comunicarono gli amici in brevi parole il lor proposito a Don
Bergamino, il quale assentì con molto rallegramento. E il Ristabilito
soggiunse, a bassa voce:

— Aqquà avéme da fa' li cose a la furbesca maniere. Vu sapete ca Peppe,
da quande s'ha pijiate chella brutta vijecchie de Donna Pelagge, s'ha
fatte avare; e lu vine je piace assa'. 'Mbè, jémele a pijà e purtémele
a la taverne d'Assaù. Vu, Don Bergamine, détece a beve a tutte e
paghéte sempre vu. Peppe bevarrà quante chiù putarrà, senza caccià
quatrine; e se pijarà 'na bona parrucche. Accuscì nu, dapù, putéme fa'
mejie l'affare nuostre.

Lodò Ciávola il consiglio del Ristabilito, e il prete s'accordò.
Andarono insieme verso la casa dell'uomo, distante due tiri di fucile;
e quando furono da presso, Ciávola diede la voce:

— Ohe, La Bravettaa! Vuo' venì a la taverne d'Assaù? Ce sta lu prévete
aqquà che ce paghe na carráfe. Oheee!

La Bravetta non pose indugio a discendere su 'l sentiero, e tutti e
quattro camminarono in fila, motteggiando, sotto il chiarore della
nuova luna. Nella serenità il miagolío de' gatti presi d'amore saliva
ad intervalli. E il Ristabilito fece:

— O Pe', nen siente Pelagge che t'archiame?

In su la sinistra riva splendevano i lumi della taverna d'Assaù
ripercossi dall'acqua. Ora, come il corso del fiume era ivi per
solito assai dolce, Assaù teneva un paliscalmo per traghettare gli
avventori. Alle voci, si mosse infatti il paliscalmo e venne per
l'acqua luminosa a prendere i sopraggiunti. Quando tutti i quattro
salirono, tra amichevoli clamori, Ciávola con le sue lunghe gambe prese
a far traballare e scricchiolare il legno per atterrire La Bravetta
che in mezzo all'umidità fluviale fu assalito da un nuovo impeto di
starnutazioni.

Ma nella taverna, in torno a un desco di quercia, gli amici
moltiplicarono le risa e i clamori. Ognuno mesceva da bere
all'insidiato, a cui quel buon vermiglio succo delle vigne spoltoresi,
brusco, quasi frizzante, ricco di sapore e di colore, scendeva
agevolmente nel gorgozzúle.

— 'N'atra carráfe! — ordinava Don Bergamino, battendo il pugno in su 'l
desco.

Assaù, un uomo tutto bestialmente villoso fin sotto gli occhi e di
gambe storto, recava le caraffe arrubinate. Ciávola canticchiava una
canzone di molta libertà bacchica, percotendo in ritmo il vetro dei
bicchieri. La Bravetta, con la lingua già impedita, con gli occhi già
natanti nella favolosa gioia del vino, balbettava non so che laudi
del suo bel porco e teneva il prete per la manica affinchè ascoltasse.
Sopra di loro pendevano dalla vôlta lunghe corone di poponelle d'acqua
verdegialle; le lucerne mal nutrite d'olio fumigavano.

Era buona ora di notte quando gli amici ripassarono il fiume, alla luna
occidua. Nel discendere su la riva Mastro Peppe fu lì lì per cadere tra
la melma, tanto egli aveva le gambe malferme e la vista torbida.

Disse il Ristabilito:

— Facéme 'n' ópera bbone. Arpurtéme a la case custù.

E il ricondussero, sorreggendolo alle ascelle, su per la pioppaia.
Balbettava l'ebro, travedendo i tronchi biancicanti nella notte:

— Uh, quanta frate duminicane!...

E Ciávola:

— Vann' a la cerche pe' sant'Antuone.

E l'ebro, dopo un poco:

— O Leprucce, Leprucce, sette rótole de sale n'abbaste. Coma facéme?

Giunti all'uscio di casa, i tre congiurati se ne andarono. Mastro Peppe
salì a grande stento la scaletta, sempre farneticando di Lepruccio e
del sale. Poi, senza rammentarsi d'aver lasciato aperto l'uscio, si
gittò in su 'l letto pesantemente tra le braccia del sonno, e inerte vi
rimase.

Ciávola e il Ristabilito, come ebbero avuto ristoro alla cena di Don
Bergamino, muniti di certi ordigni ritorti, se ne vennero cautamente
all'impresa. Era il cielo, dopo l'occaso della luna, tutto smagliante
di stelle; e un maestraletto gelido andava soffiando per la solitudine.
I due avanzarono in silenzio, tendendo l'orecchio, soffermandosi ad ora
ad ora; e tutte le virtù venatorie e le agilità di Matteo Puriello in
quell'occorrenza si esercitavano.

Quando essi giunsero alla mèta, il Ristabilito a pena potè trattenere
una esclamazione di gioia accorgendosi dell'uscio aperto. Una perfetta
quiete regnava nella casa, se non che si udiva il profondo russare del
dormiente. Ciávola salì primo le scale, seguito dall'altro. Ambedue, al
fievolissimo lume che entrava pe' vetri, scorsero subito la forma vaga
del porco in su la tavola. Con infinita cautela sollevarono il peso e
pianamente lo trassero fuori a gran forza di braccia. Stettero quindi
in ascolto. Un gallo d'improvviso cantò e altri galli risposero dalle
aie, consecutivamente.

Allora i due gai ladroni si misero pe 'l sentiero, con il porco in su
le spalle, ridendo d'un riso lungo e silenzioso; e a Ciávola pareva
d'essere giù per una bandita recando un grosso capo di selvaggina
predata. Come il porco era assai greve, essi giunsero alla casa del
prete alenanti.


III.

La mattina Mastro Peppe, avendo digerito il vino, si risvegliò; e
stette su 'l letto un poco ad allungar le membra e ad ascoltare le
campane che salutavan la vigilia di Sant'Antonio. Egli già, in mezzo
alla confusione del primo risvegliarsi, sentiva nell'animo espandersi
la contentezza del possesso, e pregustava il diletto di veder Lepruccio
mettere in pezzi e coprir con sale le pingui carni suine.

Spinto da questo pensiero, egli si levò; e con sollecitudine uscì su
'l pianerottolo, stropicciandosi gli occhi per meglio guardare. Su la
tavola non rimaneva se non qualche macchia sanguigna, e sopra vi rideva
il sole virginalmente.

— Lu porche? Addó sta lu porche? — gridò, con una voce rauca, il
derubato.

Una furibonda agitazione l'invase. Egli discese le scale, vide l'uscio
aperto, si percosse la fronte, irruppe fuori urlando, chiamando in
torno a sè i lavoratori, chiedendo a tutti se avessero visto il porco,
se l'avessero preso. Egli moltiplicava le querele, sollevava ognora
più le voci; e il doloroso schiamazzo, risonando per tutta la riviera,
giunse fino agli orecchi di Ciávola e del Ristabilito.

Se ne vennero dunque costoro placidamente, in accordo, per godersi lo
spettacolo e per continuare la beffa. E come furono giunti in vista,
Mastro Peppe, rivolgendosi a loro, tutto dolente e lacrimante, esclamò:

— Uh, pover'a me! Me l'hann'arrubbate lu porche! Uh, pover'a me! E coma
facce mo? E coma facce?

Biagio Quaglia stette un poco a considerare l'aspetto
dell'infelicissimo, con socchiusi gli occhi tra la canzonatura e
l'ammirazione, con china la testa verso una spalla, quasi in atto di
giudicare un effetto d'arte mimetica. Poi, accostatosi, fece:

— Eh, sì, sì.... nen ze po' di' de no.... Tu le fi' bbone la parte.

Peppe, non comprendendo, levò la faccia tutta solcata di gocciole.

— E, sì, sì.... sta vote li si fatte proprie da furbe — seguitò il
Ristabilito, con una cert'aria di confidenza amichevole.

Peppe, non comprendendo ancora, levò di nuovo la faccia; e le lacrime
negli occhi pieni di stupore gli si arrestarono.

— Ma, pe' di' la verità, accuscì maleziose nen te credeve — riprese a
dire il Ristabilito. — Brave! brave! Me rallegre!

— Ma tu che dice? — dimandò tra i singhiozzi La Bravetta. — Ma tu che
dice? Uh, pover'a me! E coma facce mo a rijì a la case?

— Brave! brave! Bena! — incalzava il Ristabilito. — Dajie mo! Strilla
forte! Piagne forte! Tirete li capille! Fatte sentì! Accuscì! Falle
créde'.

E Peppe, piangendo:

— Ma i' diche addavére ca me se l'hann'arrubbate. Uh die! Pover'a me!

— Dajie! Dajie! Nen te fermà. Quante chiù tu strilla, chiù te nome
créde. Dajie! Angóre! Angóre!

Peppe, fuor di sè pe 'l dispetto e pe 'l dolore, sacramentava ripetendo:

— I' diche addavére. Che me pozza murì, mo, sùbbite, se lu porche nen
me se l'hann'arrubbate!

— Uh, povere 'nnucende! — squittì per ischerno Ciávola. — Mettéteje
lu ditucce 'mmocche. Coma putéme fa' a crédete, se jere avéme viste lu
porche a là? Sant'Andonie j'ha date li 'scelle pe' vula?

— Sant'Andonie bbenedette! È coma diche i'.

— Ma po' esse?

— Accuscì è.

— Ma nen è cuscì.

— È cuscì.

— No.

— Uh, uh, uh! È cuscì! È cuscì! I' so' mmorte. I' nen sacce coma pozze
fa' a rijì a la case. Pelagge nen me crede; e se ppure me crede, nen me
dà chiù pace... I' so' mmorte!

— 'Mbè, ce vuléme créde — concluse il Ristabilito. — Ma bbade, Pe',
ca Ciávule a jere t'ha 'nzegnate lu juchette. E i' nen vulesse ca tu
gabbísse a Pelagge e a nu, tutte 'na vote. Tu fusse capace...

Allora La Bravetta ricominciò a piangere, a gridare, a disperarsi
con una così pazza irruzion di dolore, che il Ristabilito per pietà
soggiunse:

— 'Mbé, statte zitte. Te credéme. Ma, se è vere su fatte, s'ha da truvà
'na maniere pe' armedià.

— Quala maniere? — dimandò subito, rasserenandosi tra le lacrime, La
Bravetta, nel cui animo la speranza risorgeva.

— Ecc'a qua — propose Biagio Quaglia. — Certe, une di quille che
stanne pe' qua attorne ha avute da esse; pecchè certe n'hanne vinute
dall'India bbasse a pijarse lu porche a te. No, Pe'?

— Va bbone, va bbone, — assentì l'uomo, che stava trepido a udire, col
naso in alto tutto ancor pieno d'umor lacrimale.

— Mo dunque (statte attende), — continuò il Ristabilito che a quella
credula attenzione prendeva diletto, — mo dunque se nisciume ha vinute
dall'India bbasse pe' venirte a rubbà, cert'è che quaccune di quille
che stanne pe' qua attorne ha avute da esse lu latre. No, Pe'?

— Va bbone, va bbone.

— Mo che s'ha da fa'? S'ha da raunà tutte sti cafune e s'ha da
sprementà cacche fatture pe' scuprì lu latre. Scuperte lu latre,
scuperte lu porche.

Gli occhi di mastro Peppe brillarono di desiderio; ed egli si fece più
da presso, poichè l'accenno alla fattura aveva risvegliate in lui le
native superstizioni.

— Tu le sié; ce stanne tre specie de maggie: la bianche, la rosce e la
nere, e ce stanne, tu le sié, a lu paese tre femmene dell'arte: Rosa
Schiavona, Rusaria Pajara e la Ciniscia. Sta a te a scejie.

Peppe stette un momento in forse. Poi elesse Rosaria Pajara che aveva
gran fama d'incantatrice e aveva operato in altri tempi cose mirabili.

— 'Mbé, su, — concluse il Ristabilito, — nen ce sta tembe da pérde.
I' pe' te, propie pe' farte nu piacere, vajie sine a lu paese a pijà
quelle che ce serve. Parle 'nghe Rusarie, me facce dà tutte cose, e me
n'arvenghe, dentr'a sta matine. Damme li quatrine.

Peppe si tolse dalla tasca del panciotto tre carlini ed esitando li
porse.

— Tre carline? — gridò l'altro, rifiutandoli. Tre carline? Ma ce ne vo'
pe' lu mene diece.

A sentir questo il marito di Pelagia ebbe quasi uno sbigottimento.

— Come? Pe' na fatture, diece carline? — balbettò egli cercandosi con
le dita tremule nella tasca. — Ècchetene otte. Nen ne tenghe chiù.

Disse il Ristabilito, secco:

— Va bbone. Quelle che posse fa' facce. Viene pure tu, Cià?

I due compagni s'incamminarono verso Pescara, di buon passo, pe 'l
sentiero degli alberi, l'uno innanzi, l'altro dietro. E Ciávola
picchiava gran colpi di pugno su la schiena del Ristabilito, per
dimostrare la sua allegrezza. Come essi giunsero al paese, si recarono
nella bottega di un tal Don Daniele Pacentro speziale con cui erano
in familiarità; ed ivi comperarono certi aròmati e droghe, facendone
quindi comporre pallottole a guisa di pillole grosse, come noci, ben
coperte di zucchero, sciloppate e cotte. Subito che lo speziale ebbe
compiuta l'operazione, Biagio Quaglia (il quale nel frattempo era stato
assente) tornò con una carta piena d'escrementi secchi di cane; e di
quelli escrementi volle che lo speziale componesse due belle pillole,
in tutto simili alle altre per la forma, se non che confettate prima in
aloe e poi coperte leggermente di zucchero. Così lo speziale fece; e,
perchè queste dalle altre si riconoscessero, vi mise, per consiglio del
Ristabilito, un piccolo segno.

I due ciurmadori ripresero la via della campagna, e furono alla casa
di Mastro Peppe in su l'ora di mezzodì. Mastro Peppe stava con molto
affanno aspettando. A pena vide sbucare di tra le alberelle il corpo
lungo e sottile di Ciávola, gridò:

— Mbé?

— Tutte è all'ordene — rispose in suon di trionfo il Ristabilito,
mostrando il cofano delle confetture incantate. — Mo tu, già che ogge
è la viggilie de Sant'Andonie e li cafune fanne feste, arhunisce tutte
quante all'are per dajie a beve. Tu hi da tené na certe butticelle de
Montepulciane. Mitte mane a quelle pe' ogge! E quande tutte stanne bene
arhunite, penze i' a fa' e a dice tutte quelle che s'ha da fa' e s'ha
da di'.


IV.

Dopo due ore, come il pomeriggio era tiepido e chiarissimamente sereno,
avendo La Bravetta fatto correre la voce, se ne vennero all'invito i
coltivatori e i massai dei dintorni. Nell'aia si levavano alti mucchi
di paglia, che percossi dal sole ornavansi d'un glorioso colore d'oro;
quivi una torma di oche andava schiamazzando, bianca, lenta, con
larghi becchi aranciati, chiedendo di nuotare; gli odori dello stabbio
giungevano ad intervalli. E tutti quelli uomini rusticani, aspettando
di bere, motteggiavano, tranquilli, su le loro gambe in arco difformate
dalle rudi fatiche: alcuni con volti rugosi e rossastri come vecchi
pomi, con occhi resi miti dalla lunga pazienza o resi vivi dalla lunga
malizia; altri con barbe nascenti, con attitudini di gioventù, con
nelle vesti rinnovate una manifesta cura d'amore.

Ciávola e il Ristabilito non si fecero molto attendere. Tenendo in
una mano la scatola delle confetture, il Ristabilito ordinò che tutti
si mettessero in cerchio; e, stando egli nel mezzo, fece una breve
concione, non senza una certa gravità di voce e di gesti.

— Bon'uómmene! — disse — nisciune de vu, certe, sa pecche propie Mastre
Peppe De Siere v'ha chiamate a qua...

Un moto di stupore, a questo strano preambolo, si propagò in tutte le
bocche degli ascoltanti; e la letizia pe 'l promesso vino si mutò in
una inquietudine di diversa espettazione. Continuava l'oratore:

— Ma, seccome po' succéde caccosa bbrutte e vu ve putassáte lagnà de
me, ve vojie dice de che se tratte, prima de fa' la spirienze.

Gli ascoltanti si guardavano l'un l'altro negli occhi, con un'aria
smarrita; e quindi rivolgevano lo sguardo curioso e incerto al
cofanetto che l'oratore teneva in una mano. Un d'essi, poichè il
Ristabilito faceva pausa per considerare l'effetto delle parole,
esclamò impaziente:

— Ebbè?

— Mo, mo, bell'uómmene mi'. La notta passate s'hann'arrubbate a Mastre
Peppe nu bbone porche che s'ave' da salà. Chi ha state lu latre, nen
ze sa; ma cert'è ca s'ha da truvà miezze a vu' áutre, pecchè nisciune
venéve dall'India bbasse p' arrubbarse lu porche a Mastre Peppe!

Fosse un giocondo effetto di questo peregrino argomento dell'India o
fosse l'azione del tiepido sole, La Bravetta cominciò a starnutire.
I villici si fecero in dietro; la tribù delle oche si disperse,
sbigottita; e sette starnutazioni consecutive risonarono liberamente
nell'aria, turbando la pace rurale. L'ilarità risorse negli animi, a
quel fragore. L'adunanza, dopo un poco, si ricompose. Il Ristabilito
continuò, sempre grave:

— Pe' scuprì lu latre Mastre Peppe ha pensate de darve a magnà certe
bbone cunfette e de darve a bere nu certe Montepulciane viecchie che
j'ha messe mane ogge apposte. Ma pirò v'ajie da dice na cose. Lu latre,
appena se mette mmocche lu cunfette, se sente la vocche accuscì amare,
accuscì amare c'ha da sputà pe' fforze. Vulete sprementà? O pure lu
latre, pe' nen esse sbruvegnate, se vo' cunfessà a lu prévete? Bell'uó,
arspunnéte!

— Nu vuléme magna e beve — risposero quasi in coro gli adunati.
E un movimento incerto corse fra quella gente semplice. Ognuno,
guardando il compagno, aveva negli occhi una punta d'investigazione.
Ognuno, naturalmente, poneva nel ridere una tal quale ostentazione di
spontaneitá.

Disse Ciávola:

— V'avete da mette tutt'a ffile, pe' la sprïenze. Nisciune s'ha da puté
nnascónne.

Ed egli, quando tutti furono disposti, prese il fiasco e i bicchieri,
apprestandosi a mescere. Il Ristabilito si fece dall'un de' capi, e
cominciò a distribuire pianamente i confetti che sotto le gagliarde
dentature dei villani scricchiolavano e sparivano in un attimo. Come
egli giunse a Mastro Peppe, prese uno dei confetti canini e glielo
porse; e seguitò oltre, senza nulla dare a divedere.

Mastro Peppe, che fin allora era stato con i grandissimi occhi
intenti a cogliere in fallo qualcuno, si gittò in bocca il confetto
prestamente, quasi con cupidigia di goloso, e prese a masticare. D'un
tratto i pomelli delle gote gli salirono vivamente verso gli occhi, gli
angoli della bocca e le tempie gli si empirono di crespe, la pelle del
naso gli si arricciò, il mento gli si torse un poco, tutti i lineamenti
della sua faccia ebbero una comune mimica involontaria di orrore; e
una specie di brivido visibile gli corse dalla nuca per le spalle. E
subito, poichè la lingua non poteva sostenere l'amaro dell'áloe e una
resistenza invincibile saliva dallo stomaco per la gola ad impedire
l'inghiottimento, il malcapitato fu costretto a sputare.

— Ohe, Mastre Pè, tu che ccazze fiè? — garrì Tulespre dei Passeri, un
vecchio capraro verdastro e peloso come una tartaruga di palude.

Si rivolse, a quella voce agra, il Ristabilito che non anche aveva
terminato di distribuire. Però, vedendo La Bravetta tutto contorcersi,
disse con suon di benevolenza:

— Mbé, quelle forse ere troppe cotte. To'! Ecchene n'áutre. 'Nglutte,
Peppe!

E con due dita gli cacciò in bocca la seconda pillola canina.

Il pover'uomo la prese; e, sentendo sopra di sè fissi gli occhi maligni
e acuti del capraro, fece un supremo sforzo per sostener l'amarezza;
non masticò, non inghiottì; stette con la lingua immobile contro i
denti. Ma, come al calore dell'alito e all'umidore della saliva l'áloe
si discioglieva, egli non poteva più reggere: le labbra gli si torsero
come dianzi; il naso gli si empì di lacrime; e certe gocciole grosse
gli cominciarono a sgorgare dal cavo degli occhi e a rimbalzar, come
perle scaramazze, giù per le gote. Alfine, sputò.

— Ohe, Mastre Pé, e mo che ccazze fiè? — garrì di nuovo il capraro,
mostrando in un suo ghigno le gencive bianchicce e vacue. — Ohe, e
queste mo che signifeche?

Tutti i villici ruppero l'ordine, e attorniarono La Bravetta; alcuni
con risa di beffa, altri con parole irose. Le ribellioni di orgoglio
subitanee e brutali che ha l'onore della gente campestre, le severità
implacabili della superstizione scoppiarono d'improvviso in una
tempesta di contumelie.

— Pecché ci si' fatte venì a qua? Pe' jettè la cólepe a une de nu
'nghe 'na fatture fáuze? Pe' cujunà a nu? Pecché? Si' fatte male li
cunde! Latre, bbuciarde, nasó, fijie de cane, fijie de puttane! A nu vu
cujunà? Pezze de fesse! Latre! Nasó! Te vuleme rompe tutte li pignate
'n cocce. Fijie de puttane! Sangue de Criste, tu!

E si dispersero, dopo aver rotto il fiasco e i bicchieri, gridando le
ultime ingiurie di tra i pioppi.

Allora rimasero nell'aia Ciávola, il Ristabilito, le oche e La
Bravetta. Questi, pieno di vergogna, di rabbia, di confusione, con il
palato ancora morso dalla perversità dell'áloe, non poteva profferire
parola. Il Ristabilito stette a considerarlo crudelmente, percotendo
il terreno con la punta del piede poggiato in su' l tacco, scotendo
per ironia il capo. Ciávola squittì, con un indescrivibile suon di
dileggio:

— Ah, ah, ah, ah! Brave! Brave La Bbravette! Dicce nu poche; quante ci
si' fatte? Diece ducate?



I MARENGHI.


Passacantando entrò, sbattendo forte le vetrate malferme. Scosse
rudemente dalle spalle le gocce di pioggia; poi si guardò in torno,
togliendosi dalla bocca la pipa e lasciando andare contro il banco
padronale un lungo getto di saliva, con un atto di noncuranza
sprezzante.

Nella taverna il fumo del tabacco faceva come una gran nebbia
turchiniccia, di mezzo a cui si intravedevano le facce varie dei
bevitori e delle male femmine. C'era Pachiò, il marinaro invalido,
a cui una untuosa benda verde copriva l'occhio destro infermo d'una
infermità ributtante. C'era Binchi-Banche, il servitore dei finanzieri,
un omiciattolo dal viso giallognolo e rugoso come un limone senza
succo, curvo nella schiena, con le magre gambe sprofondate negli
stivali fino ai ginocchi. C'era Magnasangue, il mezzano dei soldati,
l'amico degli attori comici, dei giocolieri, dei saltimbanchi, delle
sonnambule, dei domatori d'orsi, di tutta la gentaglia famelica e
girovaga che si ferma nel paese per carpire agli oziosi un quattrino. E
c'erano le belle del Fiorentino: tre o quattro femmine affloscite nel
vizio, con le guance tinte d'un color di mattone, gli occhi bestiali,
la bocca flaccida e quasi paonazza come un fico troppo maturo.

Passacantando attraversò la taverna e andò a sedersi su una panca, tra
la Pica e Peppuccia, contro il muro segnato di figure e di scritture
invereconde. Egli era un giovinastro lungo e smilzo, tutto dinoccolato,
con una faccia pallidissima da cui sporgeva il naso grosso, rapace,
piegato molto da una parte. Le orecchie gli si spandevano ai due
lati come cartocci sinuosi, l'uno più grande dell'altro; le labbra,
sporgenti, vermiglie, e d'una certa mollezza di forma, avevano sempre
agli angoli alcune piccole bolle di saliva bianchicce. Un berretto che
l'untuosità rendeva consistente e malleabile come la cera, gli copriva
i capelli bene curati, di cui una ciocca foggiata ad uncino scendeva
fin su la radice del naso ed un'altra arrotondavasi su la tempia. Una
specie di oscenità e di lascivia naturale emanava da ogni attitudine,
da ogni gesto, da ogni modulazion di voce, da ogni sguardo di costui.

— Ohe, — gridò egli — l'Africana, una fujetta! — percotendo il tavolo
con la pipa d'argilla che al colpo s'infranse.

L'Africana, la padrona della taverna, si mosse dal banco verso il
tavolo, barcollando per la sua corpulenza grave; e posò dinanzi a
Passacantando il vaso di vetro colmo di vino. Ella guardava l'uomo con
uno sguardo pieno di supplicazione amorosa.

Passacantando d'un tratto, dinanzi a lei, cinse co 'l braccio il collo
di Peppuccia costringendola a bere, e quindi attaccò la bocca a quella
bocca che ancora teneva il sorso del vino e fece atto di suggere.
Peppuccia rideva, schermendosi; e per le risa il vino mal tracannato
spruzzava la faccia del provocatore.

L'Africana divenne livida. Si ritrasse dietro il banco. Di mezzo al
fumo denso del tabacco le giungevano gli schiamazzi e le mozze parole
di Peppuccia e della Pica.

Ma la vetrata si aprì. E comparve su la soglia il Fiorentino, tutto
avvolto in un pastrano, come uno sbirro.

— Ehi, ragazze! — fece con la voce rauca. — È ora.

Peppuccia, la Pica, le altre si levarono di tra gli uomini che le
perseguitavano con le mani e con le parole; se ne uscirono, dietro il
loro padrone, mentre pioveva e tutto il Bagno era un lago melmoso.
Pachiò, Magnasangue, gli altri anche se ne uscirono, a uno a uno.
Binchi-Banche rimase disteso sotto una tavola, immerso nel torpore
dell'ebrietà. Il fumo nella taverna a poco a poco vaniva verso l'alto.
Una tortora spennacchiata andava qua e là beccando le briciole del
pane.


Allora, come Passacantando fece per alzarsi, l'Africana gli mosse
in contro, lentamente, con la persona deforme atteggiata a una
lusinghevole mollezza d'amore. Il gran seno le ondeggiava da una
parte all'altra; ed una smorfia grottesca le rincrespava la faccia
plenilunare. Su la faccia ella aveva due o tre piccoli ciuffi di peli
crescenti dai nei; una lanugine densa le copriva il labbro superiore e
le guance; i capelli corti, crespi e duri le formavano su 'l capo una
specie di casco; le sopracciglia le si riunivano alla radice del naso
camuso folte; cosicchè ella pareva non so qual mostruoso ermafrodito
affetto di elefanzia o di idrope.

Quando fu presso all'uomo, ella gli afferrò la mano per trattenerlo.

— Oh, Giuvà!

— Che volete?

— I' che t'hajie fatte?

— Voi? Niende.

— E allora pecchè me dai pene e turmende?

— Io? Me facce meravijia... Bona sere! Nen tenghe tembe da perde, mo.

E l'uomo, con un moto brutale, fece per andarsene. Ma l'Africana gli si
gettò alla persona, stringendogli le braccia, e mettendogli il volto
contro il volto, ed opprimendolo con tutta la mole delle carni, per
un impeto di passione e di gelosia così terribilmente incomposto che
Passacantando ne rimase atterrito.

— Che vuo'? Che vuo'? Dimmele! Che vuo'? Che te serve? Tutte te denghe;
ma statte'nghe me, statte'nghe me. Nen me fa murì di passijone... nen
me fa ì 'n pazzía... Che te serve? Viene! Píjiate tutte quelle che
truove... — Ed ella lo trasse verso il banco; aprì il cassetto; gli
offerse tutto, con un gesto solo.

Nel cassetto, lucido di untume, erano sparse alcune monete di rame
tra cui luccicavano tre o quattro piccole monete d'argento. Potevano
essere, insieme, cinque lire.

Passacantando, senza dir nulla, raccolse le monete e si mise a contarle
su 'l banco, lentamente, tenendo la bocca atteggiata al dispregio.
L'africana guardava ora le monete, ora la faccia dell'uomo, ansando
come una bestia stracca. Si udiva il tintinno del rame, il russare
aspro di Binchi-Banche, il saltellare della tortora, in mezzo al
continuo rumore della pioggia e del fiume giù per il Bagno e per la
Bandiera.

— Nen m'abbaste — disse finalmente Passacantando. — Ce vo' l'autre.
Cacce l'autre, se no i' me ne vajie.

Egli s'era schiacciato il berretto su la nuca. Il ciuffo rotondo
gli copriva la fronte, e sotto il ciuffo gli occhi bianchicci,
pieni d'impudenza e d'avarizia, guardavano l'Africana intentamente,
involgendo quella femmina in una specie di fascinazione malefica.

— I' nen tenghe chiù niende. Tu mi siè spujate. Quelle che truove,
píjiatele... — balbettava l'Africana, supplichevole, carezzevole,
mentre la pappagorgia e le labbra le tremavano, e le lagrime le
sgorgavano dagli occhietti porcini.

— Mbé, — fece Passacantando, a voce bassa, chinandosi verso di lei —
mbé, e t'acride che i' nen sacce che maritete tene li marenghe d'ore?

— Oh, Giuvanne... E coma facce pover'ammè?

— Tu, mo, súbbito, vall'a pijà. I' t'aspett'a qua. Maritete dorme.
Quest'è lu momende. Va; se no nen m'arvide chiù, pe' Sant'Andonie.

— Oh, Giuvanne... I' tenghe pahure.

— Che pahure e nen pahure! — strillò Passacantando. — Mo ce venghe pure
i'. 'Jame!

L'Africana si mise a tremare. Indicò Binchi-Banche che stava ancora
disteso sotto la tavola, nel sonno pesante.

— Chiudème prime la porte — ella consigliò, con sommessione.
Passacantando destò con un calcio Binchi-Banche, che per lo spavento
improvviso cominciò a urlare e a dimenarsi entro i suoi stivali finchè
non fu quasi trascinato fuori, nella mota e nelle pozzanghere. La porta
si chiuse. La lanterna rossa, che stava appiccata ad una delle imposte,
illuminò la taverna d'un rossore sudicio; gli archi massicci si
disegnarono in ombra profonda; la scala nell'angolo divenne misteriosa;
tutta l'architettura prese un'apparenza tetra.

— 'Jame! — ripetè Passacantando all'Africana che ancora tremava.


Ambedue salirono adagio per la scala di mattoni che sorgeva nell'angolo
più oscuro, la femmina innanzi, l'uomo indietro. In cima alla scala
era una stanza bassa, impalcata di travature. Sopra una parete era
incrostata una madonna di maiolica azzurrognola; e davanti le ardeva
in un bicchiere pieno d'acqua e d'olio un lume, per voto. Le altre
pareti copriva, come una lebbra multicolore, una quantità d'imagini di
carta in brandelli. L'odore della miseria, l'odore del calore umano nei
cenci, empiva la stanza.

I due ladri si avanzavano verso il letto cautamente.

Stava su 'l letto maritale il vecchio, immerso nel sonno, respirante
con una specie di sibilo fioco a traverso le gengive senza denti, a
traverso il naso umido e dilatato dal tabacco. La testa calva posava di
sbieco sopra un guanciale di cotone rigato; su la bocca cava, simile a
un taglio fatto su una zucca infracidita, si rizzavano i baffi ispidi
e ingialliti dal tabacco; e uno degli orecchi visibile rassomigliava
all'orecchio rovesciato di un cane, essendo pieno di peli, coperto di
bolle, lucido di cerume. Un braccio usciva fuori delle coperte, nudo,
scarno, con grossi rilievi di vene simili alle gonfiezze delle varici.
La mano adunca teneva un lembo del lenzuolo, per abitudine di prendere.

Ora, questo vecchio ebete possedeva da tempo due marenghi avuti in
lascito non si sa da qual parente usuraio; e li conservava con gelosa
cura dentro una tabacchiera di corno in mezzo al tabacco, come alcuni
fanno di certi insetti muschiati. Erano due marenghi gialli e lucenti;
ed il vecchio vedendoli ad ogni momento e ad ogni momento palpandoli
nel prendere tra l'indice e il pollice l'aroma, sentiva in sè crescere
la passione dell'avarizia e la voluttà del possesso.

L'Africana si accostò pianamente, trattenendo il respiro, mentre
Passacantando la incitava con i gesti al furto. Si udì per le scale
un rumore Ambedue ristettero. La tortora spennacchiata e zoppa entrò
saltellando nella stanza; trovò il nido in una ciabatta, a piè del
letto maritale. Ma come ancora, nell'accomodarsi, faceva strepito,
l'uomo con un moto rapido la serrò nel pugno, con una stretta la
soffocò.

— Ci sta? — chiese all'Africana.

— Sì, ci sta, sott'a lu cuscine... — rispose quella mentre insinuava
sotto il guanciale la mano.

Il vecchio, nel sonno, si mosse, mettendo un gemito involontario, ed
apparve tra le sue palpebre un po' del bianco degli occhi. Poi ricadde
nell'ottusità del sopore senile.

L'Africana, per l'immensa paura, divenne audace; spinse la mano d'un
tratto, afferrò la tabacchiera, e, con un moto di fuga, si rivolse
verso le scale; discese seguita da Passacantando.

— O Die! O Die! Vide che so fatte pe' te!... — balbettava,
abbandonandosi addosso all'uomo.

Ed ambedue si misero insieme, con le mani malferme, ad aprire la
tabacchiera, a cercare fra il tabacco le monete d'oro. L'acuto aroma
saliva loro per le narici; ed ambedue, come sentivano l'eccitazione
a starnutire, furono invasi d'improvviso da un impeto d'ilarità. E,
soffocando il rumore degli starnuti, barcollavano e si sospingevano.
Al gioco, la lussuria nella pinguedine dell'Africana insorgeva. Ella
amava d'essere amorosamente morsicata e bezzicata e sballottata e qua
e là percossa da Passacantando; fremeva tutta e tutta si ribrezzava
nella sua bestiale orridezza. Ma, a un punto, prima si udì un brontolio
indistinto e poi gridi rauchi proruppero su nella stanza. E il vecchio
comparve in cima alla scala, livido alla luce rossastra della lanterna,
magro, scheletrito, con le gambe nude, con una camicia a brandelli.
Guardava in giù la coppia ladra; ed agitando le braccia gridava come
un'anima dannata:

— Li marenghe! Li marenghe! Li marenghe!



LA MADIA.


A pena Luca udì il rumore delle grucce, spalancò gli occhi e li volse
ardenti e torbidi verso la porta, aspettando che il fratello comparisse
sul limitare. Tutta la faccia, estenuata dalla sofferenza, divorata
dalla febbre, sparsa di bolle rossastre, gli prese d'improvviso un
aspetto di durezza e quasi d'ira. Egli afferrò le mani della madre,
convulsamente, gridando, con la voce rauca e rotta:

— Caccialo! Caccialo! Non lo voglio vedere. Capisci? Non lo voglio
vedere; mai più. Capisci?

Le parole lo soffocarono. Egli stringeva forte le mani della madre,
tossendo con grande affanno, mentre la camicia sul petto gli palpitava
e gli s'apriva un poco ad ogni sforzo. Aveva la bocca gonfia; e
pel mento le bolle riseccate gli formavano come una crosta che si
screpolava e sanguinava ad ogni sforzo.

La madre cercava di placarlo.

— Sì, sì, figlio mio. Non lo vedrai più. Farò come tu vuoi. Lo caccerò,
lo caccerò. Questa è la casa tua, figlio, tutta tua. Mi senti?

Luca le tossiva sul volto.

— Ora, ora, sùbito — egli diceva, con una persistenza feroce,
sollevandosi di sul letto, spingendo la madre verso la porta.

— Sì, figlio mio. Ora, sùbito.

Ciro comparve al limitare, reggendosi su le grucce. Egli era
mingherlino, con una grossa testa pesante. I capelli erano così biondi
che quasi parevan bianchi. Gli occhi eran dolci come quelli d'un
agnello, azzurri fra le lunghe ciglia chiare.

Entrando, non disse nulla; poichè era muto per una paralisia. Ma vide
gli occhi dell'infermo, che lo guardavano intenti e crudeli; e si
fermò nel mezzo della stanza, appoggiato alle grucce, irresoluto, non
osando avanzare. La gamba destra, torta e raccorciata, aveva un piccolo
tremito visibile.

Luca disse alla madre:

— Che viene a fare, questo stroppiato? Caccialo via! Voglio che tu lo
cacci via. Capisci? Sùbito.

Ciro intese, e guardò la matrigna che già era per levarsi. La guardò
con occhi tanto supplichevoli, ch'ella non ebbe cuore di fargli
violenza. Poi, tenendo sotto l'ascella una gruccia, con la mano libera
fece un gesto disperato. E gittò uno sguardo vorace alla madia ch'era
in un canto. Voleva dire:

— Ho fame.

— No, no; non gli dar niente — si mise a gridare Luca, agitandosi tutto
sul letto, imponendo alla donna il suo capriccio malvagio. — Niente!
Mandalo via.

Ciro aveva chinato sul petto la grossa testa, tremando, con gli occhi
pieni di lacrime. Quando la matrigna gli mise una mano su la spalla
e lo spinse verso l'uscio, egli ruppe in singhiozzi; ma si lasciò
condurre. Poi sentì chiuder l'uscio; e rimase sul pianerottolo, a
singhiozzare. Singhiozzava forte e costante.

Disse Luca alla madre, con un atto iroso:

— Lo senti? Fa apposta, per farmi venir male.

Il singhiozzo del fratello seguitava, interrotto qualche volta da un
mugolìo singolare, accorante come il rantolo d'un giumento che sia per
morire.

— Ma lo senti? Va. Gettalo per le scale!

La donna sorse con impeto; corse all'uscio, e levò sul muto le mani
dure, avvezze a percuotere e ad incrudelire.

Luca, sollevato in su' gomiti, ascoltava i colpi, dicendo:

— Ancóra! ancóra!

Sotto le percosse, Ciro tacque. Trattenendo il pianto, discese nella
strada. Egli era famelico; non mangiava da quasi due giorni. A pena
aveva la forza di trascinar le grucce.

Passò in corsa una schiera di monelli, dietro il volo d'un aquilone che
prendeva vento beccheggiando. Taluni gli diedero un urto, gridandogli:

— Ehi, lo stroppiatino!

Altri lo beffarono, gridandogli:

— Vieni, bàrbero, alla carriera!

Altri, alludendo alla sua gran testa, gli chiesero per dileggio:

— Quanto la libbra il cervello, stroppiatino?

Uno tra questi, più disumano, gli fece cadere una gruccia; e si mise
a fuggire. Il muto barcollò; poi la raccolse a fatica, e si mosse. Gli
strilli e le risa dei monelli si dileguavano verso il fiume. L'aquilone
s'inalzava, come un uccello di paesi strani, in un cielo tutto rosato e
soave.

Compagnie di soldati cantavano in coro, lungo il Bagno. Era la bella
stagione, sotto la festa di Pasqua.

Ciro, sentendosi mordere le viscere dalla fame, pensò:

— Ora chiedo l'elemosina.

Dal forno veniva col vento primaverile la fragranza del pane recente.
Passò un uomo vestito di bianco, portando in testa una lunga tavola su
cui giacevano in ordine molti pani color d'oro, che ancora fumavano.
Due cani lo seguivano, con il muso all'aria, dimenando la coda.

Ciro si sentì quasi venir meno, di languore. Pensava:

— Ora chiedo l'elemosina; se no, muoio.

Il giorno cadeva lentamente. Il cielo diafano era tutto sparso
d'aquiloni che si ritraevano verso terra ondeggiando. Le campane
propagavano nell'aria sonora un rombo continuo e profondo.

Ciro pensò:

— Ora mi metto alla porta della chiesa.

E si trascinò verso quel luogo.

La chiesa in fatti era aperta. Si vedeva in fondo l'altare illuminato
di fiammelle tremolanti, come una costellazione. Usciva fuori l'aroma
dell'incenso e del belzuino, svanito. Di tanto in tanto, l'organo
gittava un gran fascio di suoni.

Ciro, d'improvviso, sentì velarsi gli occhi da nuove lacrime. Egli
pregò nel suo cuor religioso:

— O Signore, Dio mio, aiutami tu!

L'organo mise un tuono che fece vibrare i pilastri come stromenti; poi
si rallegrò di note chiare. Sorsero le voci dei cantori. E i devoti
e le devote entravano, a due, a tre, per la porta unica. Ciro non
osava ancora tendere la mano. Un mendicante, poco discosto, chiese
lamentevole:

— La carità, per l'amore di Dio!

Allora il muto ebbe onta. Vide entrare nella chiesa la matrigna, tutta
raccolta sotto la mantatura nera. Pensò:

— Se andassi a casa, mentre la matrigna è fuori?

La bramosia del cibo lo punse così forte, che egli non indugiò
più oltre. Volava su le grucce, dietro la speranza del pane. Una
femminetta, al passaggio, gli gridò ridendo: — Corri il palio,
stroppiatino?

Egli giunse alla casa, in un baleno, ansando e palpitando. Salì le
scale con cautela infinita, senza rumore. Cercò la chiave a tentoni,
in una cavità del muro, dove soleva metterla la matrigna uscendo. La
trovò; e prima d'aprire guardò pel buco della serratura. Luca, sul
letto, pareva sopito.

Ciro pensò:

— Se potessi prendere il pane senza svegliarlo!

E girò la chiave, piano piano, trattenendo il respiro, temendo di
svegliare il fratello con palpiti del cuore. Pareva che quei palpiti
empissero tutta la casa, come d'un fragore altissimo.

— E se si sveglia? — pensò Ciro con un brivido nelle midolle, quando
sentì che la porta era aperta.

Ma la fame lo rendeva audace. Egli entrò, puntando le grucce
delicatamente, non togliendo mai gli occhi di sul fratello.

— E se si sveglia?

Il fratello, supino, respirava con affanno in quel sopore. Di tratto in
tratto gli usciva dalle labbra quasi un fischio lieve. Una sola candela
ardeva su la tavola, gittando alla parete larghe ombre variabili.

Ciro, come fu presso alla madia, s'arrestò per vincere il tremore;
guardò il dormiente; poi, reggendo ambo le grucce con l'ascelle, si
mise a sollevare il coperchio. La madia scricchiolava forte.

D'improvviso Luca diede un balzo, svegliandosi. Vide il fratello in
quell'atto, e cominciò a gridargli contro, agitando le braccia, come un
ossesso:

— Ah, ladro! Ah, ladro! Aiuto!

Ma il furore lo soffocava. Mentre il fratello, accecato dalla fame,
chino su la madia, cercava con le mani tremanti un pezzo di pane, egli
si gettò giù dal letto e gli corse sopra a impedirgli di prendere.

— Ladro! Ladro! — gridava, fuori di sè.

Fuori di sè, trasse il coperchio pesante sul collo di Ciro; che s'agitò
come una vittima alla tagliuola, disperatamente. Resisteva Luca contro
quelli sforzi, avendo perduto ogni coscienza della cosa, premendo con
tutta la sua persona, quasi per decapitare il fratello. Il coperchio
scricchiolava, penetrando nella viva carne della nuca, schiacciando le
canne della gola, pestando le vene e i nervi. Penzolò dalla madia un
corpo inerte, che più non dava alcun tratto. Allora, in conspetto dello
storpio trucidato, uno sbigottimento pazzo invase l'animo del fratello.

Due o tre volte, barcollando, egli attraversò la stanza che i guizzi
della candela empivano di paure; mise le mani su le coperte, le tirò a
sè, ci si avvoltolò tutto, coprendosi anche la testa; poi si accovacciò
sotto il letto. E nel silenzio i suoi denti stridevano, come fa una
lima sul ferro.



MUNGIÀ.


In tutto il contado pescarese, e a San Silvestro, a Fontanella, a San
Rocco, perfino a Spoltore e nelle fattorie di Vallelonga oltre l'Alento
e più specialmente nei piccoli borghi dei marinai presso la foce del
fiume e in tutte quelle case di creta e di canne, dove si accende il
fuoco con i rifiuti del mare, fiorisce da gran tempo la fama di un
rapsodo cattolico che ha un nome di corsale barbaresco ed è cieco a
simiglianza dell'antico Omero.

Mungià comincia le sue peregrinazioni su i principii della primavera
e le termina nel mese di ottobre, ai primi rigori. Va per le campagne,
guidato da una femmina o da un fanciullo. Tra la grandezza e la forte
serenità della coltivazione, reca ora i lamentevoli canti cristiani le
antifone, gli invitatorii, i responsorii, i salmi dell'officio per i
defunti. Come la sua figura a tutti è familiare, i cani dell'aia non
latrano contro di lui. Egli dà l'annunzio con un trillo del clarinetto;
ed al segnale ben noto le vecchie madri escono in su la soglia,
accolgono onestamente il cantore, gli pongono una sedia all'ombra di
qualche albero, gli chiedono le nuove della salute. Tutti i coloni
cessano dal lavoro e si dispongono in cerchia, ancora alenanti,
tergendosi il sudore con un gesto semplice della mano. Rimangono fermi,
in attitudini di reverenza, tenendo gli strumenti dell'agricoltura.
Nelle braccia, nelle gambe, nei piedi ignudi essi hanno la deformità
che le fatiche lente e pazienti danno alle membra esercitate. I loro
corpi nodosi, la cui pelle assume il color delle glebe, sorgendo dal
suolo nella luce del giorno paiono quasi avere comuni con gli alberi le
radici.

Spandesi allora dall'uomo cieco su quella gente e su le cose in torno
una solennità cristiana. Non il sole, non i presenti frutti della
terra, non la letizia dell'opera alimentaria, non le canzoni dei
cori lontani bastano a difendere gli animi dal raccoglimento e dalla
tristezza della religione. Una delle madri indica il nome del parente
morto a cui ella offre i cantici in suffragio. Mungià si scopre il
capo.

Appare il suo cranio largo e splendente, cinto di canizie; e tutta la
faccia, simigliante nella quiete a una maschera corrosa, si raggrinza
e vive nel movimento del prendere a bocca il clarinetto. Su le tempie,
sotto la cavità degli occhi, lungo gli orecchi, e poi d'in torno alle
narici e agli angoli delle labbra mille grinze sottili e fitte si
compongono e si scompongono a seconda dell'inspirazione ritmica del
fiato nello stromento. Rimangono tesi e lucidi e salienti gli zigomi,
solcati da venature sanguigne simili a quelle che traspariscono in
autunno nelle foglie della vite. E degli occhi, in fondo alle orbite,
non si vede se non il segno rossiccio della palpebra inferiore rivolta.
E su tutte le scabrosità della pelle, su tutta quella meravigliosa
opera d'incisione e di rilievo fatta dalla magrezza e dalla vecchiezza,
e di tra i peli duri e corti d'una barba mal rasa, e nei cavi e nelle
corde del collo lungo e rigido la luce si frange, sfugge, si divide
quasi direi per stille, come una rugiada su una zucca piena di porri e
di muffe, gioca in mille maniere, vibra, si spenge, esita, dà talvolta
a quella umile testa inaspettate arie di nobiltà e di mistero.

Dal clarino di bossolo, a seconda dei movimenti delle dita su le
chiavette malferme, escono suoni. Lo stromento ha in sè quasi direi una
vita e quella inesprimibile apparenza di umanità che acquistano le cose
per l'assiduo uso in servigio dell'uomo. Il bossolo ha una lucentezza
untuosa; i buchi, che nei mesi d'inverno divengono nidi di piccoli
ragni, sono ancora occupati dalle tele o dalla polvere; le chiavette,
lente, sono macchiate di verderame; e qua e là la cera vergine e la
pece chiudono i guasti; e la carta e il filo stringono le commessure; e
ancora si veggono in torno all'orlo gli ornamenti della gioventù. Ma la
voce è debole e incerta. Le dita del cieco si muovono macchinalmente,
poichè non fanno se non ricercare quel preludio e quell'interludio da
gran tempo.

Le mani lunghe, deformate, con grossi nodi alla prima falange
dell'anulare e del medio, con l'unghia del pollice depressa e violetta,
somigliano le mani d'una scimmia decrepita; hanno su 'l dorso le
tinte di certi frutti malsani, un misto di roseo, di giallognolo e di
turchiniccio; su la palma hanno una laboriosa rete di solchi, e tra
dito e dito la pelle escoriata.

Come il preludio finisce, Mungià prende a cantare il _Libera me
Domine_, e il _Ne recorderis_, lentamente, su una modulazione di cinque
sole note. Nel canto, le terminazioni latine si congiungono alle forme
dell'idioma natale; di tratto in tratto, quasi con un ritorno metrico,
passa un avverbio in _ente_ seguito da molte gravi rime; e la voce ha
una momentanea elevazion di tono; poi l'onda si riabbassa e segue a
battere le linee men faticose. Il nome di Gesù ricorre spesso nella
rapsodia; e la passione di Gesù è tutta narrata in strofe irregolari di
settenarii e di quinarii, non senza un certo movimento dramatico.

I coloni in torno ascoltano con animo devoto, guardando il cantore
nella bocca. Viene talvolta dai campi su 'l vento un coro di
vendemmiatrici o di mietitori, secondo la stagione, a contendere con
la pia laude; e l'albero al vento si fa tutto musicale. Mungià, che
ha fioco l'udito, continua a cantare i misteri della morte. Le labbra
gli stanno aderenti alle gencive deserte, e gli comincia a colar giù
pe 'l mento la saliva. Egli imbocca il clarinetto, suona l'intermezzo;
poi riprende le strofe. Così va sino alla fine. Sua ricompensa è una
piccola misura di frumento, o una caraffa di mosto, o una resta di
cipolle, o anche una gallina.

Egli s'alza dalla sedia. Ha una figura alta e macilenta, la schiena
curva, i ginocchi volti un poco in dentro. Porta in capo una grande
berretta verde e, in ogni stagione, su le spalle un mantello chiuso
alla gola da due fermagli di ottone e cadente a mezza coscia. Cammina a
fatica, talvolta soffermandosi per tossire.


Quando, nell'ottobre, le vigne sono vendemmiate e le strade sono
piene di fango o di ghiaia, egli si ritira in una soffitta; e là vive
insieme con un sartore che ha la moglie paralitica e con uno spazzino
che ha nove figliuoli afflitti dalla scrofola o dalla rachitide. Nei
giorni sereni, egli si fa condurre sotto l'arco di Portanova; siede
al sole, sopra un macigno, e si mette a cantare il _De profundis_,
sommessamente, per esercizio della gola. Quasi sempre i mendicanti
allora gli fanno cerchia. Uomini con le membra slogate, gobbi,
storpi, epilettici, lebbrosi; vecchie piene di piaghe, o di croste,
o di cicatrici, senza denti, senza cigli, senza capelli; fanciulli
verdognoli come locuste, scarni, con gli occhi selvaggi degli uccelli
di rapina, con la bocca già appassita, taciturni, che covano nel
sangue un morbo ereditato; tutti quei mostri della povertà, tutti quei
miserevoli avanzi d'una razza disfatta, quelle cenciose creature di
Gesù, vengono a fermarsi in torno al cantore e gli parlano come a un
eguale.

Allora Mungià solleva la voce per benignità verso gli ascoltanti.
Giunge, trascinandosi a fatica per terra con l'aiuto delle palme
munite d'un disco di cuoio, Chiachiù, il nativo di Silvi; e si ferma,
tenendosi tra le mani il piede destro ritorto come una radice. Giunge
la Strigia, una figura ambigua, repugnante, di ermafrodito senile, che
ha il collo pieno di foruncoli vermigli, su le tempie alcuni riccioli
grigi di cui ella par vana, e tutto l'occipite coperto di peluria come
quello degli avvoltoi. Giungono i Mammalucchi, i tre fratelli idioti
che paiono essere nati dall'accoppiamento di un uomo con una pecora,
così manifeste ne' loro volti sono le fattezze ovine. Il maggiore ha
i bulbi visivi sgorganti fuor delle orbite, degenerati, molli, d'un
colore azzurrognolo, simili al sacco ovale di un polpo che sia prossimo
a putrefarsi. Il minore ha il lobo di un'orecchia smisuratamente
gonfio, e paonazzo, simile a un fico. Tutti e tre vanno in comune, con
le bisacce di corda dietro la schiena.

Giunge l'Ossesso, un uomo scarno e serpentino, dalle palpebre
arrovesciate come quelle dei piloti che navigano per mari ventosi,
olivastro nella faccia, camuso, con un singolare aspetto di malizia
e di fraudolenza palesante in lui l'origine zingaresca. Giunge la
Catalana di Gissi, una femmina d'età incognita, con lunghi cernecchi
rossicci, con su la pelle della fronte alcune macchie simili quasi
a monete di rame, sfiancata come una cagna dopo il parto: la Venere
dei mendicanti, l'amorosa fonte a cui va a dissetarsi chi patisce
la sete. E giunge Jacobbe di Campli, il grande vecchio dal pelame
verdastro come quello di certi artefici che lavorano l'ottone. Giunge
l'industre Gargalà su 'l veicolo costrutto con rottami di barche
ancora incatramati. Giunge Costantino di Corrópoli, il cinico, che,
per una crescenza del labbro inferiore, pare tenga sempre fra i denti
uno straccio di carne cruda. Altri giungono. Tutti gli iloti che
hanno emigrato lungo il corso del fiume, dagli altipiani al mare, si
raccolgono in torno al rapsodo, sotto il comun sole.

Mungià canta allora con una varia ricerca di modi, tentando altitudini
insolite. Una specie di orgoglio, un'aura di gloria gli invade l'animo,
poichè egli allora esercita l'arte liberalmente, senza prender mercede.
Sale dalla turba dei mendicanti, a tratti, un clamore di plauso ch'egli
a pena ode.

Al termine del canto, come il dolcissimo sole abbandonando quel luogo
ascende su per le colonne corintie dell'Arco, i mendicanti salutano il
cieco e si sbandano per le terre vicine. Rimangono, per consuetudine,
Chiachiù di Silvi, con il piede ritorto fra le mani, e i fratelli
Mammalucchi. Costoro chiedono ad alta voce l'elemosina a chi passa;
mentre Mungià taciturno forse ripensa i trionfi della giovinezza,
quando Lucicappelle, il Golpo di Càsoli e Quattòrece erano vivi.


Oh gloriosa _paranzella_ di Mungià!

La piccola orchestra aveva conquistata, in quasi tutta la valle
inferiore della Pescara, una inclita fama.

Sonava la viola ad arco il Golpo di Càsoli, un omuncolo tutto
grigiastro come le lucertole dei tetti, con la pelle del volto e del
collo tutta rugosa e membranosa come i tegumenti d'una testuggine cotta
nell'acqua. Egli portava una specie di berretto frigio che per due
ali aderiva agli orecchi; giocava d'arco con gesti rapidi, premendo su
'l piè della viola il mento aguzzo, martellando le corde con le dita
contratte, ostentando un visibile sforzo nell'azione del sonare, come
fanno i macacchi dei saltimbanchi nòmadi.

Dopo di lui, Quattòrece veniva co 'l violone appeso in su 'l ventre per
mezzo d'una correggia di pelle d'asino. Lungo e smilzo come una candela
di cera, Quattòrece aveva in tutta la persona un singolar predominio
dei colori aranciati. Pareva una di quelle figure monocromatiche
dipinte, su certi rustici vasi castellesi, in attitudini rigide.
Ne' suoi occhi, come in quelli dei cani da pastore, brillava una
trasparenza tra castanea ed aurea; la cartilagine delle sue grandi
orecchie, aperte come quelle dei pipistrelli, contro la luce tingevasi
d'un giallo roseo; le sue vesti erano di quel panno color tabacco
chiaro, che per solito adoperano i cacciatori; e il vecchio violone,
ornato di penne, di fili d'argento, di fiocchi, d'imaginette, di
medaglie, di conterie, aveva l'aspetto di non so quale artifizioso
stromento barbarico d'onde dovessero escire novissimi suoni.

Ma Lucicappelle, tenendo a traverso il petto la sua immane chitarra a
due corde accordate in diapente, veniva ultimo con un passo di danza
e di baldanza, come un Figaro rusticale. Egli era il giocondo spirito
della _paranzella_, il più verde d'anni e di forze, il più mobile, il
più arguto. Un gran ciuffo di capelli crespi gli sporgeva su la fronte,
di sotto a una specie di tòcco scarlatto; gli brillavano agli orecchi
feminilmente due cerchi d'argento: le linee della sua faccia formavano
un natural componimento di riso. Egli amava il vino, i brindisi in
musica, le serenate in onor della bellezza, le danze all'aperto, i
conviti larghi e clamorosi.

Ovunque si celebrasse uno sposalizio, un battesimo, una festa votiva,
un funerale, un triduo, correva la _paranzella_ di Mungià, desiderata,
acclamata. Precedeva i cortei nuziali, per le vie tutte sparse di fiori
di giunco e d'erbe odorifere, tra le salve di gioia e le salutazioni.
Cinque mule inghirlandate recavano i doni. Un carro, tratto da due
paia di bovi con le corna avvolte di nastri e con i dorsi coperti
di gualdrappe, recava _la soma_. Le caldaie, le conche, i vasellami
di rame tintinnivano agli scotimenti dell'incedere; gli scanni, le
tavole, le arche, tutte quelle rudi forme antiche delle suppellettili
casalinghe, oscillavano scricchiolando; le coperte di damasco, le gonne
ricche di fiorami, i busti trapunti, i grembiali di seta, tutte quelle
fogge di vestimenta muliebri risplendevano al sole in un miscuglio
di gaiezza; e una conocchia, simbolo delle virtù familiari, eretta su
'l culmine, carica di lino, pareva contra il cielo azzurro una mazza
d'oro.

Le donne della parentela, con su 'l capo un canestro di grano e su 'l
grano un pane e su 'l pane un fiore, si avanzavano per ordine, tutte in
una stessa attitudine semplice e quasi jeratica, simili alle canèfore
dei bassirilievi ateniesi, cantando. Come giungevano alla casa, presso
il talamo, si toglievano il canestro dal capo, prendevano un pugno
di grano e, a una a una, lo spargevano su la sposa, pronunziando una
formola d'augurio rituale in cui la fecondità e l'abbondanza erano
invocate. Anche la madre compiva la cerimonia frumentaria, fra molte
lacrime; e con un panello toccava alla figlia il petto, la fronte, le
spalle, dicendole parole di dolente amore.

Poi, nella corte, sotto un'ampia stuoia di canne o sotto un tetto di
rami, incominciava il convito. Mungià, a cui non anche la virtù visiva
era venuta meno nè eran sopraggiunti i mali della vecchiezza, diritto
nella magnificenza di una zimarra verde, e tutto sudante e fiammante e
soffiante entro il clarinetto la maggior forza dei pulmoni, incitava
i compagni con battere di piedi su 'l terreno. Il Golpo di Càsoli
fustigava la viola irosamente; Quattòrece con fatica teneva dietro
alla crescente furia della moresca, sentendosi aspri traverso il
ventre passar gli stridori dell'arco e delle corde. Lucicappelle, erto
la testa in aria, stringendo con la sinistra in alto le chiavi della
chitarra e con la destra pizzicando le due forti corde metalliche,
sogguardava le femmine che ridevano luminose al fondo in tra la letizia
delle fioriture.

Allora il _Mastro delle cerimonie_ recava le vivande in amplissimi
piatti dipinti; i vapori salivano come una nebbia disperdendosi nel
fogliame; i vasi del vino, dalle anse bene usate, passavano d'uomo
in uomo; le braccia allungandosi e intrecciandosi su la mensa, tra
i pani cosparsi d'anice e i formaggi più tondi che il disco della
luna, prendevano aranci, mandorle, olive; gli odori delle spezie si
mescevano ai freschi effluvi vegetali; e di qua, di là, entro bicchieri
di liquori limpidi i commensali offerivano alla sposa piccoli gioielli
o collane dai grossi acini avvolte come grappoli d'oro. Su 'l finire,
negli animi una gran gioia bacchica si accendeva; i clamori crescevano;
fin che Mungià, avanzandosi, a capo scoperto, con in mano un bicchiere
colmo, cantava il bel distico rituale che nei conviti della terra
d'Abruzzi suol dischiudere ai brindisi le bocche amiche:

    Quistu vino é dòlige e galante;
    A la saluta de tutti quante!



LA GUERRA DEL PONTE.

FRAMMENTO DI CRONACA PESCARESE.


      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Verso gli idi d'agosto (per tutte le campagne il grano lavato
si asciugava felicemente al sole), Antonio Mengarino, un vecchio
agricoltore pieno di probità e di saggezza, stando nel Consiglio del
Comune a giudicare su le cose pubbliche, come udì taluni consiglieri
cittadini discorrere a voce bassa del _cholèra_ che in qualche
provincia d'Italia andavasi ampliando e udì altri proporre ordini a
conservazion della salute ed altri esporre timori, si fece innanzi con
un'aria tra di incredulità e di curiosità ad ascoltare.

Erano con lui nel Consiglio, agricoltori, Giulio Citrullo della pianura
e Achille di Russo dei colli; e il vecchio, mentre ascoltava, volgevasi
di tratto in tratto a quei due con cenni delle palpebre e delle labbra
come per avvertirli dell'inganno ch'egli credeva si celasse nelle
parole dei consiglieri signori e del sindaco.

Finalmente, non più potendo trattenersi, disse, con la sicurtà di un
uomo che sa e vede molto:

— Mbé, leváme ssti chiacchiere in tra di nu áutre. Le vuleme fa' veni
nu poche de culere, u ne le vuleme fa' veni? Dicémecele 'n segrete, mo.

A queste inaspettate parole, tutti i consiglieri furono da prima presi
dalla meraviglia, e quindi dal riso.

— Vatténne, Mengarì! Che ti mitte a dice, sangue de Crimie! — esclamò
don Aiace, il grande assessore, spingendo con la mano una spalla del
vecchio. E gli altri, scotendo il capo o battendo il pugno in sul
tavolo sindacale, commentavano la pertinace ignoranza dei cafoni.

— Mbè, ma ve pare mo ca nu credeme a ssi chiacchiera quisse? —
fece Antonio Mengarino, con un gesto vivo, poichè sentivasi punto
dall'ilarità che le sue parole avevano suscitata. Nell'animo di lui
e in quello degli altri due agricoltori la diffidenza e la nativa
ostilità contro _la signoria_ insorgevano. — Dunque essi erano esclusi
dai segreti del Consiglio? Dunque ancora erano considerati come cafoni?
Ah, brutte cose, per la Majella!...

— Facéte vu. Nu ce ne jame — concluse il vecchio, acre, coprendosi
il capo. E i tre villici uscirono dalla sala, con un passo pieno di
dignità, in silenzio.

Come furono fuori del paese nella campagna opulenta di vigne e di
gran ciciliano, Giulio Citrullo, soffermatosi per accendere la pipa,
sentenziò:

— Ocche bádene a isse! Ca ssta vote sa coma va sgrizzenne li cocce, pe'
la Majelle!... I nin vulesse esse' lu sìnnache.


Intanto nel territorio contadino il timore del morbo imminente
sconvolgeva tutti gli animi. In torno agli alberi fruttiferi, in torno
alle viti, in torno alle cisterne, in torno ai pozzi, gli agricoltori
vigilavano, sospettosi e minacciosi, con una costanza instancabile.
Nella notte colpi di fucile frequenti turbavano il silenzio; i cani,
aizzati, latravano fino all'alba. Le imprecazioni contro i Governanti
scoppiavano di giorno in giorno con maggior violenza d'ira. Tutte
le pacifiche ed auguste fatiche agresti erano intraprese con una
sorta d'incuria e d'insofferenza. Sorgevano dai campi le canzoni di
ribellione rimate all'improvviso.

Poi, i vecchi rinnovavano i ricordi delle passate mortalità,
confermando la credenza nei veleni. Un giorno, nel 54, alcuni
vendemmiatori di Fontanella, avendo colto un uomo in cima a un albero
di fico e avendolo costretto a discendere, videro che questi nascondeva
una fiala piena di un unguento gialliccio. Con minacce essi gli fecero
inghiottire tutto l'unguento; e d'un tratto l'uomo (ch'era uno dei
Paduani) stramazzò, torcendo le membra su le zolle, livido, con gli
occhi fissi, con il collo teso, con ai denti una schiuma verde. A
Spoltore, nel 37, Zinicche, un fabbro, uccise in mezzo alla piazza il
cancelliere Don Antonio Rapino; e le morti cessarono subitamente, il
paese fu salvo.

Poi, a poco a poco, le leggende si formavano e di bocca in bocca
variavano, e, se bene recenti, divenivano meravigliose. Una diceva che
al Palazzo del Comune erano giunte sette casse di veleno distribuito
dai _Governanti_ perchè fosse sparso nelle campagne e mescolato nel
sale. Le casse erano verdi, cerchiate di ferro, con tre serrature. Il
sindaco aveva dovuto pagare settemila ducati per sotterrar le casse e
liberare il paese. Un'altra voce recava che al sindaco i _Governanti_
davano cinque ducati per ogni morto. La popolazione era troppo grande:
toccava ai poveri morire. Il sindaco stava facendo le liste. Ah, si
arricchiva, il _figlio di Sciore_, questa volta!


Così il fermento cresceva. Gli agricoltori al mercato di Pescara nulla
compravano, nè portavano mercanzia in traffico. I fichi dagli alberi,
giunti a maturità, cadevano e si corrompevano su 'l suolo. I grappoli
rimanevano intatti fra i pampini. I ladroneggi notturni più non
seguivano, poichè i ladri temevano di cogliere frutti attossicati. Il
sale, l'unica merce presa nelle botteghe della città, era prima offerto
ai cani e ai gatti, per esperimento.

Giunse quindi un giorno la novella che a Napoli i cristiani morivano
in gran numero. E al nome di Napoli, di quel gran reame lontano
dove _Ggiuanne senza pahure_ un dì trovò fortuna, le imaginazioni si
accendevano.

Sopravvennero le vendemmie. Ma, come i mercanti di Lombardia compravano
le uve nostrali e le portavano nei paesi del settentrione per trarne
vini artifiziosi, la letizia del rinato mosto fu scarsa e poco le
gambe dei vendemmiatori si esercitarono a danzare nel tino e poco si
esercitarono al canto le bocche feminili.

Ma, quando tutte le opere della raccolta furono terminate e tutti gli
alberi furono spogliati dei loro frutti, cominciarono i timori e i
sospetti a dileguarsi; poichè oramai eran diminuite pe' i Governanti le
opportunità di spargere il veleno.

Grandi piogge beneficatrici caddero su le campagne. Il terreno ora,
nutrito d'acqua, andavasi temperando pe 'l lavoro dell'aratro e per la
seminagione, co 'l favore dei dolci soli autunnali; e la luna nel primo
quarto influiva su la virtù dei semi.


Una mattina, per tutto il territorio si sparse d'improvviso la voce
che a Villareale, presso le querci di Don Settimio, su la riva destra
del fiume, tre femmine erano morte dopo aver mangiato in comune una
minestra di pasta comprata nella città. L'indignazione irruppe da
tutti gli animi; e con maggior veemenza, poichè tutti oramai s'erano
pacificati in una securtá fiduciosa.

— Ah, va bbone; lu fije de Sciore nen ci ha vulute arnunzià a lì
ducate... Ma a nu nen ce po fa' niente mo, pecché frutte nen ce ne sta,
e a Piscare nen ci jeme.

— Lu fije de Sciore joca na mala carte.

— A nu ce vo fa' murì? Mbé, esse ha sbajate lu tembe, povere
Sciurione...

— Addó le po mette la pruvelette? A la paste, a lu sale... Ma la paste
nu ne la magneme; e lu sale le deme prime a pruvà a li hatte e a li
cane.

— Ah, Signure birbune! Ch'aveme fatte nu, puveritte? Mannajia Crimie,
ha da venì chilu journe...

Così le mormorazioni si levavano da ogni parte, miste ai dileggi e alle
contumelie contro gli uomini del Comune e contro i Governanti.

A Pescara, d'un tratto, tre, quattro, cinque persone del volgo furono
prese dal male. Cadeva la sera; e su tutte le case discendeva una
grande paura funerea, insieme con l'umidità del fiume. Per le vie la
gente si agitava correndo verso il Palazzo comunale; dove il sindaco
e i consiglieri e i gendarmi, avvolti in una confusion miserevole,
salivano e scendevano le scale parlando tutti insieme ad alta voce,
dando contrari ordini, non sapendo che risolvere, dove andare, come
provvedere. Per un natural fenomeno, il commovimento dell'animo si
propagava al ventre.

Tutti, sentendo dentro le viscere romorii cupi, si mettevano a
tremare e a battere i denti; si guardavano in volto l'un l'altro;
si allontanavano a rapidi passi; si chiudevano nelle case. Le cene
rimasero intatte.

Poi, a tarda ora, quando il primo tumulto del pánico fu sedato, le
guardie cominciarono ad accendere su i canti delle vie fuochi di zolfo
e di catrame. Il rossore delle fiamme illustrava i muri e le finestre;
e l'inutile odore del bitume spandevasi per la città sbigottita. Da
lontano, come la luna era serena, pareva che i calafati verso il mare
spalmassero carene allegramente.


Tale fu in Pescara l'entrata dell'Asiatico.

E il male, serpeggiando lungo il fiume, s'insinuò nei borghi della
Marina, in quelli adunamenti di casupole basse dove vivono i marinai e
alcuni vecchi dediti a piccole industrie.

Gli infermi morirono quasi tutti, poichè non volevano prendere i
rimedi. Nessuna ragione e nessuna esperienza valse a persuaderli.
Anisafine, un gobbo che vendeva ai soldati acqua mista a spirito di
ánace, quando vide il bicchiere del medicamento, strinse forte le
labbra e cominciò a scuotere il capo in segno di rifiuto. Il dottore
prese ad eccitarlo con parole di persuasione; bevve egli pel primo la
metà del liquido; e, dopo, quasi tutti gli assistenti accostarono la
bocca all'orlo del bicchiere. Anisafine seguitava a scuotere il capo.

— Ma vedi, — esclamò il dottore, — abbiamo bevuto prima noi...

Anisafine si mise e ridere per beffa.

— Ah, ah, ah! Ma vu, mo che arreuscite, ve pijate lu contravvelene, —
disse. E, poco dopo, morì.

Cianchine, un macellaio idiota, fece la stessa cosa. Il dottore, per
ultima prova, gli versò a forza tra i denti il medicinale. Cianchine
sputò tutto, con ira e con orrore. Poi si mise a scagliar vituperii
contro gli astanti; tentò due o tre volte di levarsi per fuggire; e
morì rabbiosamente, dinanzi a due gendarmi esterrefatti.

Le cucine pubbliche, instituite per concorso spontaneo d'uomini
caritatevoli, furono in su 'l principio credute dal volgo un
laboratorio di tossici. I mendicanti pativano la fame più tosto che
mangiare la carne cotta in quelle pentole. Costantino di Corròpoli, il
cinico, andava spargendo i dubbi tra la sua tribù. Egli vagava in torno
alle cucine, dicendo a voce alta, con un gesto indescrivibile:

— A me nen mi ci acchiappe!

La Catalana di Gissi fu la prima a vincere il timore. Ella, un poco
esitante, entrò; mangiò a piccoli bocconi, esaminando in sè stessa
l'effetto del cibo; bevve il vino a piccoli sorsi. Poi, sentendosi
tutta ristorata e fortificata, sorrise di meraviglia e di piacere.
Tutti i mendicanti attendevano ch'ella uscisse. Quando la rividero
incolume si precipitarono per la porta; vollero anch'essi bere e
mangiare.

Le cucine sono in un vecchio teatro scoperto, nelle vicinanze di
Portanova. Le caldaie bollono nel luogo dell'orchestra, il fumo invade
il palco scenico: tra il fumo si vedono al fondo le scene raffiguranti
un castel feudale illuminato dal plenilunio. Quivi, su 'l mezzodì, si
raccoglie intorno a una mensa rustica la tribù dei poveri. Prima che
l'ora scocchi, nella platea s'agita un brulichìo multicolore di cenci e
si leva un mormorìo di voci roche. Alcune figure nuove appaiono tra le
figure già cognite. Notabile una tal Liberata Lotta di Montenerodòmo,
che ha una stupenda maschera di Minerva ottuagenaria, piena di regalità
e di austerità nella fronte, con i capelli tutti tesi in su 'l cranio
come un casco aderente. Ella tiene fra le mani un vaso di vetro verde,
che par colmo di misteri; e resta in disparte, taciturna, aspettando
d'essere chiamata.


Ma il grande episodio epico di questa cronaca del _choléra_ è la Guerra
del Ponte.

Un'antica discordia dura tra Pescara e Castellammare Adriatico, tra i
due comuni che il bel fiume divide.

Le parti nemiche si esercitano assiduamente in offese e in
rappresaglie, l'una osteggiando con tutte le forze il fiorire
dell'altra. E poichè oggi è prima fonte di prosperità la mercatura,
e poichè Pescara ha già molta dovizia d'industrie, i Castellammaresi
da tempo mirano a trarre i mercanti su la loro riva con ogni sorta di
astuzie e di allettamenti.

Ora, un vecchio ponte di legname cavalca il fiume su grossi battelli
tutti incatramati e incatenati e trattenuti da ormeggi. I canapi e
le gómene s'intrecciano nell'aria artifiziosamente, scendendo dalle
antenne alte dell'argine ai parapetti bassissimi; e dànno imagine
di un qualche barbarico attrezzo ossidionale. Le tavole mal connesse
scricchiolano al peso dei carri. Al passaggio delle schiere militari,
tutta la mostruosa macchina acquatica oscilla e balza da un capo
all'altro e risuona come un tamburo.

Sorse un dì da questo ponte la popolar leggenda di san Cetteo
liberatore; e il santo annualmente vi si ferma nel mezzo, con gran
pompa cattolica, a ricevere le salutazioni che dalle barche ancorate
mandano i marinai.

Così, tra la vista di Montecorno e la vista del mare, l'umile
costruzione sta quasi come un monumento della patria, ha quasi in sè
la santità delle cose antiche e dà agli estranei indizio di genti che
ancora vivano in una semplicità primordiale.

Gli odii tra i Pescaresi e i Castellammaresi cozzano su quelle tavole
che si consumano sotto i laboriosi traffici cotidiani. E, come per di
là le industrie cittadine si riversano su la provincia teramana e vi si
spandono felicemente, oh con qual gioia la parte avversa taglierebbe i
canapi e respingerebbe i sette rei battelli a naufragare!

Sopraggiunta dunque la bella opportunità, il gonfaloniere nemico con
molto apparato di forze campestri impedì ai Pescaresi il passaggio
nell'ampia strada che dal ponte si dilunga per gran tratto congiungendo
innumerevoli paesi.

Era nell'intendimento di colui chiudere la città rivale in una specie
d'assedio, toglierle ogni modo di traffico ed interno ed esterno,
attrarre al suo mercato i venditori e i compratori che per consuetudine
praticavano su la destra riva; e, quindi, dopo avere ivi oppressa in
una forzosa inerzia ogni arte dì lucro, sorgere trionfatore. Offerse
egli ai padroni delle paranze pescaresi venti carlini per ogni cento
libbre di pesce, mettendo come patto che tutte le paranze approdassero
e scaricassero alla sua riva e che la convenzion del prezzo durasse
fino al giorno della Natività di Cristo.

Ora, nella settimana precedente la Natività, il prezzo del pesce suol
salire a più che quindici ducati per ogni cento libbre. Manifesta
appariva dunque l'insidia.

I padroni rifiutarono ogni offerta, preferendo tenere inoperose le reti.

Lo scaltro nemico fece ad arte spargere voce che una mortalità grande
affliggeva Pescara. Si adoperò per via d'amicizia a sollevare tutti gli
animi della provincia teramana e gli animi anche dei Chietini contro la
pacifica città dove il morbo già era scomparso.

Respinse con violenza o ritenne prigionieri alcuni onesti viandanti
che, usando d'un comun diritto, prendevano la strada provinciale per
recarsi altrove. Lasciò che su la linea di confine un branco di suoi
lanzichenecchi stesse dall'alba al tramonto schiamazzando contro
chiunque si avvicinava.

La ribellione cominciò allora a fermentare nei Pescaresi, contro
gli ingiusti arbitrii; poichè sopraggiungeva la miseria e tutta la
numerosa classe dei lavoratori languiva nell'inerzia e tutti i mercanti
incorrevano in gravissimi danni. Il _cholèra_, scomparso dalla città,
accennava a scomparire anche dalla marina dove soltanto alcuni vecchi
invalidi erano morti. Tutti i cittadini, fiorenti di salute, amavano
riprendere le consuete fatiche.

I tribuni sorsero: Francesco Pomárice, Antonio Sorrentino, Pietro
D'Amico. Per le vie la gente si divideva in gruppi, ascoltava la
parola tribunizia, applaudiva, proponeva, gittava gridi. Un gran
tumulto andavasi preparando fra il popolo. Per eccezione, taluni
raccontavano il fatto eroico del Moretto di Claudia. Il quale, preso
dai lanzichenecchi a forza e imprigionato nel lazzeretto ed ivi
trattenuto per cinque giorni senz'altro cibo che pane, riuscì a fuggire
dalla finestra; passò a nuoto il fiume, e giunse tra i suoi grondante
di acqua, alenante, famelico, raggiante di gloria e di gioia.

Il sindaco, nel frattempo, sentendo il mugolio precursore della
tempesta, si accinse a parlamentare co 'l Gran Nimico castellammarese.
È il sindaco un piccolo dottor di legge cavaliere, tutto untuosamente
ricciutello, con omeri sparsi di forfora, con chiari occhietti
esercitati alle dolci simulazioni. E il Gran Nimico un degenere nepote
del buon Gargantuasso; enorme, sbuffante, tonante, divorante. Il
colloquio avvenne in terra neutrale; e presenti vi furono gli illustri
prefetti di Teramo e di Chieti.

Ma, verso il tramonto, un lanzichenecco, entrato in Pescara per recare
un messaggio a un consiglier del Comune, si mise in cantina con altri
bravi a bevere; e quindi prese bravamente a girovagare. Come lo videro
i tribuni, gli corsero sopra. Tra le grida e le acclamazioni della
plebe lo spinsero lungo la riva, sino al lazzeretto. Era il tramonto
su le acque luminosissimo; e il bèllico rossore dell'aria inebriava gli
animi plebei.

Allora dall'opposta riva ecco una torma di Castellammaresi, uscente di
tra i salici ed i vimini darsi con molta veemenza di gesti ad inveire
contro l'oltraggio.

Rispondevano i nostri con eguale furia. E il lanzichenecco imprigionato
percoteva con tutta la forza dei piedi e delle mani la porta della
prigione, gridando:

— Apríteme! Apríteme!

— Tu adduòrmete a esse, e nen te n'incaricà, — gli gridavano per beffa
i popolani. E qualcuno crudelmente aggiungevagli:

— Ah, si sapisse quante se n'hanne muorte a esse dendre! Siente
l'uddore? Nen te s'ha cumenzate a smove nu poche la panze?

— Urrà! Urrà!

Verso la Bandiera scorgevasi un luccichío di canne di fucile. Il
sindachetto veniva a capo di un manipolo militare per liberar dal
carcere il lanzichenecco, a fin di non incorrere nelle ire del Gran
Nimico.

Subitamente la plebe, irritata, tumultuò; grida altissime si levarono
contro quel vil liberatore di Castellammaresi.

Per tutta la via, dal lazzeretto alla città, fu un clamoroso
accompagnamento di sibili e di contumelie. Al lume delle torce, la
gazzarra durò fin che le voci non furon roche.

Dopo quel primo impeto, la rivolta si andò svolgendo a mano a mano con
nuove peripezie. Tutte le botteghe si chiusero. Tutti i cittadini si
raccolsero su la strada, ricchi e poveri, in familiarità, presi da una
furiosa smania di parlare, di gridare, di gesticolare, di manifestare
in mille diversi modi un unico pensiero.

Ad ogni tratto giungeva un tribuno recando una notizia. I gruppi si
scioglievano, si ricomponevano, variavano, secondo le correnti delle
opinioni. E, poichè su tutte le teste la libertà del giorno era vitale
e i sorsi dell'aria letificavano come sorsi di vino, si ridestò nei
Pescaresi la nativa giocondità beffarda; ed essi seguitarono a far
ribellione in una maniera gaia ed ironica, così, per il diletto, per il
dispetto, per l'amore delle cose nuove.

Gli stratagemmi del Gran Nimico si moltiplicavano. Qualunque accordo
rimaneva inosservato a causa di abili temporeggiamenti che la debolezza
del piccolo sindaco favoriva.


Il mattino d'Ognissanti, verso la settima ora, mentre nelle chiese si
celebravano i primi uffici festivi, i tribuni si misero in giro per la
città, seguiti da una turba che ad ogni passo accrescevasi e diveniva
più clamorosa. Quando l'intero popolo fu raccolto, Antonio Sorrentino
arringò. La processione, in ordine, quindi si diresse al Palazzo
comunale. Le strade erano ancora azzurre nell'ombra e le case erano
coronate dal sole.

In vista del Palazzo un immenso grido scoppiò. Tutte le bocche
scagliavano vituperii contro il leguleio; tutti i pugni si levavano
in attitudine di minaccia; tra un grido e l'altro, certe lunghe
oscillazioni sonore rimanevano nell'aria, come prodotte da uno
strumento; e su la confusion delle teste e delle vesti i lembi vermigli
delle bandiere sbattevano, come agitati dal largo soffio popolare.

Su 'l comunal balcone non appariva alcuno. Il sole discendeva a poco
a poco dal tetto verso la gran meridiana tutta nera di cifre e di
linee su cui lo gnomone vibrava l'ombra indicatrice. Dalla Torretta
dei D'Annunzio al campanil badiale torme di colombe svolazzavano
nell'azzurro superiore.

Le grida si moltiplicarono. Una mano di animosi diede l'assalto alle
scale del Palazzo. Il piccolo sindaco, pallido e pavido, si arrese al
volere del popolo; lasciò il seggio; rinunziò all'ufficio; discese su
la strada, tra i gendarmi, seguito dai consiglieri. Uscì quindi dalla
città; si ritrasse su 'l colle di Spoltore.

Le porte del Palazzo furono chiuse. Un'anarchia provvisoria si
stabilì nella città. Le milizie, per impedire l'imminente lotta tra i
Castellammaresi e i Pescaresi, fecero argine su l'estremità sinistra
del ponte. La turba, deposte le bandiere, si avviò alla strada di
Chieti; poichè di là era per giungere il Prefetto chiamato in furia da
un Commissario reale. I proponimenti parevano feroci.

Ma la mite virtù del sole a poco a poco pacificò le ire. Nell'ampia
strada venivano, uscenti dalla chiesa, le femmine del contado tutte
in vesti di seta multicolori e coperte di gioielli giganteschi,
di filigrane d'argento, di collane d'oro. Lo spettacolo di quelle
facce, rubiconde e gioconde come grandi pomi, rasserenava ogni animo.
I motti e le risa nacquero spontaneamente; ed il non breve tempo
dell'aspettazione parve quasi dilettevole.

Su 'l mezzodì la vettura prefettizia giunse in vista. Il popolo
si dispose in semicerchio per chiuderle la via. Antonio Sorrentino
arringò, non senza un certo sfoggio di eloquenza fiorita. Gli altri,
fra le pause dell'arringa, chiedevano in vari modi giustizia contro
gli abusi, sollecitudine e validità di provvedimenti nuovi. Due grandi
scheletri equini, ancora animati, scotevano di tratto in tratto le
sonagliere, mostrando ai ribelli le gencive pallidicce, con una smorfia
di derisione. E il delegato di polizia, simile non so a qual vecchio
cantator di teatro che ancora portasse per divozione in torno al volto
una finta barba di druido, moderava dall'altitudine del serpe l'ardor
del tribuno, con cenni gravi della mano.

Come il perorante nella foga saliva a culmini di eloquenza troppo
audaci, il Prefetto, sorgendo su 'l predellino, colse il momento per
interrompere. Proferì una frase ambigua e timida che le grida del
popolo copersero.

— A Pescara! A Pescara!

La vettura camminò quasi sospinta dall'onda popolare ed entrò in città;
e, poichè il Palazzo era chiuso, si fermò dinanzi alla Delegazione.
Dieci nominati a voce dal popolo salirono insieme col Prefetto,
per parlamentare. La turba occupò tutta la via. Impazienze qua e là
scoppiavano.

La via era angusta. Le case riscaldate dal sole irraggiavano un tepor
dilettoso; e non so qual lenta mollezza emanava dal cielo oltremarino,
dall'erbe fluttuanti lungo le gronde, dalle rose delle finestre, dalle
mura bianche, dalla fama stessa del luogo. Ha il luogo fama d'albergare
le più belle popolane pescaresi: vive e di generazione in generazione
nella contrada si va perpetuando una tradizion di beltà. La immensa
casa decrepita di Don Fiore Ussorio è un vivaio di bimbi floridi e
di fanciulle leggiadre; ed è tutta coperta di piccole logge che sono
esuberanti di garofani e che si reggono su rozze mènsole scolpite di
mascheroni procaci.

A poco a poco, le impazienze della folla si placavano. I parlari oziosi
propagavansi da un capo all'altro; dall'uno all'altro bivio.

Domenico di Matteo, una specie di Rodomonte villereccio, motteggiava
ad alta voce sull'asinità e l'avidità dei dottori che facevano morire
gli infermi per prendere dal Comune una maggior mercede. Egli narrava
certe sue cure mirabili. Una volta egli aveva un gran dolore al petto
ed era quasi prossimo all'agonia. Poichè il medico gli proibì di bere
acqua, egli ardeva di sete. Una notte, mentre tutti dormivano, si levò
piano piano, cercò a tentoni la conca, vi tuffò la testa e rimase lì
a bevere come un giumento, fin che la conca non fu vuota. La mattina
dopo egli era guarito. Un'altra volta egli ed un suo compare, avendo
da lungo tempo la febbre terzana contro cui ogni virtù di chinino
pareva inutile, deliberarono di fare una esperienza. Si trovavano su
la riva del fiume, ed alla riva opposta una vigna solatia li allettava
con i grappoli. Si spogliarono, si gittarono nelle fredde acque,
tagliarono la corrente, toccarono l'altra riva, si saziarono d'uva;
poi di nuovo attraversarono. La terzana disparve. Un'altra volta,
essendo egli infermo di mal francioso ed avendo speso più di quindici
ducati vanamente in opere di medici e di medicine, come vide la madre
attendere al bucato, fu colto da un pensiero felice. Tracannò, l'un
dopo l'altro, cinque bicchieri di lisciva; e si liberò.

Ma ai balconi, alle finestre, alle logge il bello sciame muliebre
si affacciava tumultuariamente. Tutti gli uomini dalla via levavano
gli occhi a quelle apparizioni e restavano con la faccia al sole per
guardare; e tutti, poichè la consueta ora del pasto era già trascorsa,
si sentivano la testa un poco vacua e nello stomaco un languore
infinito. Brevi dialoghi dalla via alle finestre si intrecciavano.
I giovini gittarono motti salaci alle belle. Le belle risposero con
gesti schivi, con scuotere di capo; o si ritrassero, o forte risero.
Le fresche risa di quelle bocche si sgranellavano come collane di
cristallo, cadendo su gli uomini che già il desio incominciava a
pungere. Dalle mura il calore s'irradiava più largo e mescevasi al
calor dei corpi agglomerati. I riverberi bianchissimi abbarbagliavano.
Qualche cosa di snervante e di stupefacente discendeva su quella turba
digiuna.

Apparve su una loggia, d'improvviso, la Ciccarina, la bella delle
belle, la rosa delle rose, l'amorosa pèsca, colei che tutti han
desiato. Per un moto unanime, gli sguardi si volsero verso di lei.
Ella, nel trionfo, stava semplicemente sorridendo, come una dogaressa
dinanzi al suo popolo. Il sole le illuminava la piena faccia carnosa,
che è simile alla polpa di un frutto succulento. I capelli, di quel
color lionato di sotto a cui par trasparisca una fiamma d'oro, le
invadevano la fronte, le tempie, il collo, mal frenati. Un natural
fàscino venereo le emanava da tutta la persona. Ed ella stava
semplicemente, tra due gabbie di merli, sorridendo, non sentendosi
offesa dalle brame che lucevano in tutti quelli occhi intenti a lei.

I merli fischiarono. I madrigali rustici batterono l'ali verso la
loggia. La Ciccarina si ritrasse, sorridendo. La turba rimase nella
via, quasi abbacinata dai riverberi, dalla vista di quella femmina,
dalle prime vertigini della fame.

Allora uno dei parlamentari, affacciatosi a una finestra della
Delegazione, disse con voce squillante:

— Cittadini, si risolverà la cosa fra tre ore!

      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .



TURLENDANA RITORNA.


La compagnia camminava lungo il mare.

Già per i chiari poggi litorali ricominciava la primavera; l'umile
catena era verde, e il verde di varie verdure distinto; e ciascuna
cima aveva una corona d'alberi fioriti. Allo spirar del maestro quelli
alberi si movevano; e nel moto forse si spogliavano di molti fiori,
poichè alla breve distanza le alture parevano coprirsi d'un colore tra
il roseo e il violaceo, e tutta la veduta un istante pareva tremare
e impallidire come un'imagine a traverso il vel dell'acqua o come una
pittura che lavata si stinge.

Il mare si distendeva in una serenità quasi verginale, lungo la costa
lievemente lunata verso austro, avendo nello splendore la vivezza d'una
turchese della Persia. Qua e là, segnando il passaggio delle correnti,
alcune zone di più cupa tinta serpeggiavano.

Turlendana, in cui la conoscenza dei luoghi per i molti anni d'assenza
era quasi intieramente smarrita e in cui per le lunghe peregrinazioni
il sentimento della patria era quasi estinto, andava innanzi senza
volgersi a riguardare, con quel suo passo affaticato e claudicante.

Come il camello indugiava ad ogni cespo d'erbe selvatiche, egli gittava
un breve grido rauco d'incitamento. E il gran quadrupede rossastro
risollevava il collo lentamente, triturando fra le mandibole laboriose
il cibo.

— Hu, Barbarà!

L'asina, la piccola e nivea Susanna, di tratto in tratto, sotto
gli assidui tormenti del macacco si metteva a ragliare in suono
lamentevole, chiedendo d'esser liberata dal cavaliere. Ma Zavalì,
instancabile, senza tregua, con una specie di frenesia, con gesti
rapidi e corti ora di collera e ora di gioco, percorreva tutta la
schiena dell'animale, saltava su la testa afferrandosi alle grandi
orecchie, prendeva fra le due mani la coda sollevandola e scotendone
il ciuffo dei crini, cercava tra il pelo grattando con l'unghie
ostinatamente e recandosi quindi l'unghie alla bocca e masticando con
mille vari moti di tutti i muscoli della faccia. Poi, d'improvviso, si
raccoglieva su 'l sedere, tenendosi in una delle mani il piede ritorto
simile a una radice d'arbusto, immobile, grave, fissando verso le acque
i tondi occhi color d'arancio che gli si empivano di meraviglia, mentre
la fronte gli si corrugava e le orecchie fini e rosee gli tremavano
quasi per inquietudine. Poi, d'improvviso, con un gesto di malizia
ricominciava la giostra.

— Hu, Barbarà!

Il camello udiva; e si rimetteva in cammino.

Quando la compagnia giunse al bosco dei salci, presso la foce della
Pescara, su la riva sinistra (già si scorgevano i galli sopra le
antenne delle paranze ancorate allo scalo della Bandiera), Turlendana
si arrestò, poichè voleva dissetarsi al fiume.

Il patrio fiume recava l'onda perenne della sua pace al mare. Le rive,
coperte di piante fluviatili, tacevano e si riposavano, come affaticate
dalla recente opera della fecondazione. Il silenzio era profondo su
tutte le cose. Gli estuarii risplendevano al sole tranquilli, come
spere, chiusi in una cornice di cristalli salini. Secondo le vicende
del vento, i salci verdeggiavano o biancheggiavano.

— La Pescara! — disse Turlendana soffermandosi, con un accento di
curiosità e di riconoscimento istintivo. E stette a riguardare.

Poi discese al margine, dove la ghiaia era polita; e si mise in
ginocchio per attingere l'acqua con il concavo delle palme. Il camello
curvò il collo, e bevve a sorsi lenti e regolari. L'asina anche bevve.
E la scimmia imitò l'attitudine dell'uomo, facendo conca con le esili
mani ch'erano violette come i fichi d'India acerbi.

— Hu, Barbarà!

Il camello udì e cessò di bere. Dalle labbra molli gli gocciolava
l'acqua abbondantemente su le callosità del petto, e gli si vedevano le
gencive pallidicce e i grossi denti giallognoli.

Per il sentiero, segnato nel bosco dalla gente di mare, la compagnia
riprese il viaggio. Cadeva il sole, quando giunse all'Arsenale di
Rampigna.

A un marinaio, che camminava lungo il parapetto di mattone, Turlendana
domandò:

— Quella è Pescara?

Il marinaio, stupefatto alla vista delle bestie, rispose:

— È quella.

E tralasciò la sua faccenda per seguire il forestiero.

Altri marinai si unirono al primo. In breve una torma di curiosi si
raccolse dietro Turlendana che andava innanzi tranquillamente, non
curandosi dei diversi comenti popolari. Al ponte delle barche il
camello si rifiutò di passare.

— Hu, Barbarà! Hu, hu!

Turlendana prese ad incitarlo con le voci, pazientemente, scotendo
la corda della cavezza con cui ora egli lo conduceva. Ma l'animale
ostinato si coricò a terra e posò la testa nella polvere, come per
rimanere ivi lungo tempo.

I plebei d'in torno, riavutisi dalla prima stupefazione, schiamazzavano
gridando in coro:

— Barbarà! Barbarà!

E, come avevano dimestichezza con le scimmie perchè talvolta i marinai
dalle lunghe navigazioni le riportavano in patria insieme ai pappagalli
e ai cacatua, provocavano Zavalì in mille modi e gli porgevano certe
grosse mandorle verdi che il macacco apriva per mangiarne il seme
fresco e dolce golosamente.

Dopo molta persistenza di urti e di urli, alla fine Turlendana riuscì a
vincere la tenacità del camello. E quella mostruosa architettura d'ossa
e di pelle si risollevò barcollante, in mezzo alla folla che incalzava.

Da tutte le parti i soldati e i cittadini accorrevano allo spettacolo,
sopra il ponte delle barche. Dietro il Gran Sasso il sole cadendo
irradiava per tutto il cielo primaverile una viva luce rosea: e, come
dalle campagne umide e dalle acque del fiume e del mare e dagli stagni
durante il giorno erano sorti molti vapori, le case e le vele e le
antenne e le piante e tutte le cose apparivano rosee; e le forme,
acquistando una specie di trasparenza, perdevano la certezza dei
contorni e quasi fluttuavano sommerse in quella luce.

Il ponte, sotto il peso, scricchiolava su le barche incatramate, simile
ad una vastissima zattera galleggiante. La popolazione tumultuava
giocondamente. Per la ressa, Turlendana con le sue bestie rimase fermo
a mezzo il ponte. E il camello, enorme, sovrastante a tutte le teste,
respirava contro il vento, movendo tardi il collo simile a un qualche
favoloso serpente coperto di peli.

Poichè già nella curiosità degli accorsi s'era sparso il nome
dell'animale, tutti, per un nativo amore degli schiamazzi e per una
concorde letizia che sorgeva a quella dolcezza del tramonto e della
stagione, tutti gridavano:

— Barbarà! Barbarà!

Al clamore plaudente, Turlendana, che stava stretto contro il petto del
camello, si sentiva invadere da un compiacimento quasi paterno.

Ma l'asina d'un tratto prese a ragliare con sì alte ed ingrate
variazioni di voci e con tanta sospirevole passione che un'ilarità
unanime corse il popolo. E le schiette risa plebee si propagavano da un
capo all'altro del ponte, come uno scroscio di scaturigine cadente giù
pe' i sassi d'una china.

Allora Turlendana ricominciò a muoversi attraverso la folla, non
conosciuto da alcuno.

Quando fu su la porta della città, dove le femmine vendevano la pesca
recente dentro ampi canestri di giunco, Binchi-Banche, l'omiciattolo
dal viso giallognolo e rugoso come un limone senza succo, gli si fece
innanzi, e, secondo soleva con tutti i forestieri che capitavano nel
paese, gli offerse i suoi servigi per l'alloggiamento.

Prima chiese, accennando a Barbarà:

— È feroce?

Turlendana rispose che no, sorridendo.

— Be'! — riprese Binchi-Banche, rassicurato — ci sta la casa di Rosa
Schiavona.

Ambedue volsero per la Pesceria e quindi per Sant'Agostino, seguiti
dal popolo. Alle finestre e ai balconi le donne e i fanciulli
si affacciavano guardando con stupore il passaggio del camello e
ammiravano le minute grazie dell'asinetta bianca e ridevano ai lezii di
Zavalì.

A un punto Barbarà, vedendo pendere da una loggia bassa un'erba mezzo
secca, tese il collo e sporse le labbra per giungerla, e la strappò. Un
grido di terrore ruppe dalle donne che stavano su la loggia chine; e il
grido si propagò nelle logge prossime. La gente dalla via rideva forte,
gridando come in carnovale dietro le maschere:

— Viva! Viva!

Tutti erano inebriati dalla novità dello spettacolo e dall'aria della
primavera.

Dinanzi alla casa di Rosa Schiavona, in vicinanza di Portasale,
Binchi-Banche accennò di sostare.

— È qua — disse.

La casa, molto umile, a un solo ordine di finestre, aveva le mura
inferiori tutte segnate d'iscrizioni e di figurazioni oscene. Una fila
di pipistrelli crocifissi ornava l'architrave; e una lanterna coperta
di carta rossa pendeva sotto la finestra media.

Ivi alloggiava ogni sorta di gente avveniticcia e girovaga: dormivano
mescolati i carrettieri di Letto Manoppello grandi e panciuti; gli
zingari di Sulmona, mercanti di giumenti e restauratori di caldaie; i
fusari di Bucchianico; le femmine di Città Sant'Angelo venute a far
pubblica professione d'impudicizia tra i soldati; gli zampognari di
Atina; i montagnuoli domatori d'orsi, i cerretani, i falsi mendicanti,
i ladri, le fattucchiere.

Gran mezzano della marmaglia era Binchi-Banche. Giustissima
proteggitrice, Rosa Schiavona.

Come udì i rumori, la femmina venne su 'l limitare. Ella pareva in
verità un essere generato da un uomo nano e da una scrofa.

Chiese, da prima, con un'aria di diffidenza:

— Che c'è?

— C'è qua 'stu cristiano che vuo' alloggio co' le bestie, Donna Rosa.

— Quante bestie?

— Tre, vedete, Donna Rosa: 'na scimmia, 'n'asina e 'nu camelo.

Il popolo non badava al dialogo. Alcuni incitavano Zavalì. Altri
palpavano le gambe di Barbarà, osservando su le ginocchia e su 'l petto
i duri dischi callosi. Due guardie del sale, che avevano viaggiato sino
ai porti dell'Asia Minore, dicevano ad alta voce le varie virtù dei
camelli e narravano confusamente d'averne visti taluni fare un passo di
danza portando il lungo collo carico di musici e di femmine seminude.

Gli ascoltatori, avidi di udire cose meravigliose, pregavano:

— Dite! dite!

Tutti stavano a torno, in silenzio, con gli occhi un po' dilatati,
bramando quel diletto.

Allora una delle guardie, un uomo vecchio che aveva le palpebre
arrovesciate dai venti del mare, cominciò a favoleggiare dei paesi
asiatici. E a poco a poco le parole sue stesse lo trascinavano e lo
inebriavano.

Una specie di mollezza esotica pareva spargersi nel tramonto.
Sorgevano, nella fantasia popolare, le rive favoleggiate e luminavano.
A traverso l'arco della Porta, già occupato dall'ombra, si vedevano le
tanecche coperte di sale ondeggiar su 'l fiume; e, come il minerale
assorbiva tutta la luce del crepuscolo, le tanecche sembravano
materiate di cristalli preziosi. Nel cielo un po' verde saliva il primo
quarto della luna.

— Dite! dite! — ancora chiedevano i più giovini.

Turlendana intanto aveva ricoverate le bestie e le aveva provviste
di cibo; e quindi era uscito in compagnia di Binchi-Banche, mentre la
gente rimaneva accolta innanzi all'uscio della stalla, dove la testa
del camello appariva e spariva dietro le alte grate di corda.

Per la via, Turlendana domandò:

— Ci stanno cantine?

Binchi-Banche rispose:

— Sì, segnore; ci stanno.

Poi, sollevando le grosse mani nerastre e prendendosi co 'l pollice
e l'indice della destra successivamente la punta d'ogni dito della
sinistra, enumerava:

— La candina di Speranza, la candina di Buono, la candina di Assaù, la
candina di Zarricante, la candina della cecata di Turlendana...

— Ah — fece tranquillamente l'uomo.

Binchi-Banche sollevò i suoi acuti occhiolini verdognoli.

— Ci sei stato 'n'altra volta a qua, segnore?

E, non aspettando la risposta, con la nativa loquacità della gente
pescarese, seguitava:

— La candina della cecata è grande e ci si vende lu meglio vino. La
cecata è la femmina delli quattro mariti...

Si mise a ridere, con un sorriso che gli increspava tutta la faccia
gialliccia come il centopelle d'un ruminante.

— Lu primo marito fu Turlendana, ch'era marinaro e andava su li
bastimenti del re di Napoli, all'Indie basse e alla Francia e alla
Spagna e infino all'America. Quello si perse in mare, e chi sa a dove,
con tutto il legno; e non s'è trovato più. So' trent'anni. Teneva la
forza di Sansone: tirava l'áncore co' un dito... Povero giovane! Eh,
chi va pe' mare quella fine fa.

Turlendana ascoltava, tranquillamente.

— Lu secondo marito, dopo cinqu'anni di vedovanza, fu 'n'ortonese,
lu figlio di Ferrante, 'n'anima dannata, che s'er'unito co' li
contrabbandieri, a tempo che Napolione stava contro l'Inglesi.
Facevano contrabbando da Francavilla infino a Silvi e a Montesilvano,
di zucchero e di cafè, co' li legni inglesi. C'era, vicino a Silvi,
'na torre delli Saracini, sotto il bosco, da dove si facevano
li segnali. Come passava la pattuglia, plon plon, plon plon, noi
'scivamo dall'alberi.... — Ora il parlatore accendevasi al ricordo;
ed obliandosi descriveva con prolissità di parole tutta l'operazion
clandestina, ed aiutava di gesti e di interiezioni vive il racconto. La
sua piccola persona coriacea si raccorciava e si distendeva nell'atto.
— In fine, il figlio di Ferrante era morto d'una schioppettata nelle
reni, per mano de' soldati di Gioacchino Murat, di notte, su la
costiera.

— Lu terzo marito fu Titino Passacantando che morì nel letto suo, di
male cattivo. Lu quarto vive. Ed è Verdura, bonomo, che no' mestura li
vini. Sentarai, segnore.

Quando giunsero alla cantina lodata, si separarono.

— F'lice sera, segnore!

— F'lice sera.

Turlendana entrò, tranquillamente, fra la curiosità dei bevitori che
sedevano a certe lunghe tavole in giro.

Avendo chiesto da mangiare, egli fu da Verdura invitato a salire in una
stanza superiore ove i deschi erano già pronti per le cene.

Nessun cliente ancora stava nella stanza. Turlendana sedette e
incominciò a mangiare a grandi bocconi, con la testa su 'l piatto,
senza intervalli, come un uomo famelico. Egli era quasi intieramente
calvo: una profonda cicatrice rossiccia gli solcava per lungo la
fronte e gli scendeva fino a mezzo la guancia; la barba folta e grigia
gli saliva fino ai pomelli emergenti; la pelle, bruna, secca, piena
di asperità, corrosa dalle intemperie, riarsa dal sole, incavata
dalle sofferenze, pareva non conservare più alcuna vivezza umana;
gli occhi e tutti i lineamenti erano, da tempo, come pietrificati
nell'impassibilità.

Verdura, curioso, sedette di contro; e stette a riguardare il
forestiero. Egli era piuttosto pingue, con la faccia d'un color roseo
sottilissimamente venato di vermiglio come la milza dei buoi.

Alla fine, domandò:

— Da che paese venite?

Turlendana, senza levar la faccia, rispose semplicemente:

— Vengo di lontano.

— E dove andate? — ridomandò Verdura.

— Sto qua.

Verdura, stupefatto, tacque. Turlendana levava ai pesci la testa e la
coda; e li mangiava così a uno a uno, triturando le lische. Ad ogni due
o tre pesci, beveva un sorso di vino.

— Qua ci conoscete qualcuno? — riprese Verdura, bramoso di sapere.

— Forse — rispose l'altro semplicemente.

Sconfitto dalla brevità dell'interlocutore, il vinattiere una
seconda volta ammutolì. Udivasi la masticazione lenta ed elaborata di
Turlendana tra l'inferior clamore dei bevitori.

Dopo un poco, Verdura riaprì la bocca.

— Il camello in che siti nasce? Quelle due gobbe sono naturali? Una
bestia così grande e forte come può essere mai addomesticata?

Turlendana lasciava parlare, senza rimuoversi.

— Il vostro nome, signor forestiere?

L'interrogato sollevò il capo dal piatto; e rispose, semplicemente:

— Io mi chiamo Turlendana.

— Che?

— Turlendana.

— Ah!

La stupefazione dell'oste non ebbe più limiti. E insieme una specie di
vago sbigottimento cominciava a ondeggiare in fondo all'animo di lui.

— Turlendana!... Di qua?

— Di qua.

Verdura dilatò i grossi occhi azzurri in faccia all'uomo.

— Dunque non siete morto?

— Non sono morto.

— Dunque voi siete il marito di Rosalba Catena?

— Sono il marito di Rosalba Catena.

— E ora? — esclamò Verdura, con un gesto di perplessità. — Siamo due.

— Siamo due.

Un istante rimasero in silenzio. Turlendana masticava l'ultima crosta
d'un pane, tranquillamente; e si udiva nel silenzio lo scricchiolío
leggero. Per una naturale benigna incuranza dell'animo e per
una fatuità gloriosa, Verdura non era compreso d'altro che della
singolarità dell'avvenimento. Un improvviso impeto d'allegrezza lo
prese, salendo spontaneo dai precordii.

— Andiamo da Rosalba! andiamo! andiamo! andiamo!

Egli traeva il reduce per un braccio, a traverso il fondaco dei
bevitori, agitandosi, gridando:

— Ecc'a qua Turlendana, Turlendana marinaro, lu marito de mógliema,
Turlendana che s'era morto! Ecc'a qua Turlendana! Ecc'a qua Turlendana!



TURLENDANA EBRO.


Quando egli bevve l'ultimo bicchiere, all'orologio del Comune stavano
per iscoccare due ore dopo la mezzanotte.

Disse Biagio Quaglia, con la voce intorbidata dal vino, come i tocchi
squillarono nel silenzio della luna chiarissimi:

— Mannaggia! Ce ne vulemo i'?

Ciávola, quasi disteso sotto la panca, agitando di tratto in tratto
le lunghe gambe corritrici, farneticava di cacce clandestine nelle
bandite del marchese di Pescara, poichè il sapor selvatico della lepre
gli risaliva su per la gola e il vento recava l'odor resinoso dei pini
dalla boscaglia marittima.

Disse Biagio Quaglia, percotendo con i piedi il cacciatore biondo, e
facendo atto di levarsi:

— 'Jamo, Purié.

E Ciávola con molto sforzo si rizzò dondolandosi, smilzo e lungo come
un cane levriere.

— 'Jamo; ca mo fanne lu passo — rispose, levando la mano verso
l'alto quasi in atto di auspicio, poichè forse pensava a una qualche
migrazione di uccelli.

Turlendana anche si mosse; e, vedendo dietro di sè la vinattiera
Zarricante che aveva fresche le gote e acerbe le poma del petto, volle
abbracciarla. Ma Zarricante gli sfuggì di tra le braccia, gridandogli
una contumelia.

Su la porta, Turlendana chiese ai due amici un po' di compagnia e
di sostegno per un tratto di cammino. Ma Biagio Quaglia e Ciávola,
che facevano un bel paio, gli volsero le spalle sghignazzando e si
allontanarono sotto la luna.

Allora Turlendana si fermò a guardare la luna che era tonda e rossa
come una faccia canonicale. I luoghi intorno tacevano. Le case
biancicavano in fila. Un gatto miagolava alla notte di maggio, su i
gradini della porta.

L'uomo, avendo nell'ebrietà una singolare inclinazione alla tenerezza,
tese la mano pianamente per accarezzare l'animale Ma l'animale, essendo
di natura forastico, diede un balzo e disparve.

Vedendo un cane errante avvicinarsi, l'uomo tentò di versare su quello
la piena della sua benevolenza amorevole. Ma il cane passò oltre, senza
rispondere al richiamo, e si mise in un canto del trivio a rosicare
certe ossa. Il rumore dei denti laboriosi udivasi distintamente nel
silenzio.

Come dopo poco la porta della cantina si chiuse, Turlendana rimase solo
nel gran plenilunio popolato di ombre e di nuvole in viaggio. E la sua
mente rimase colpita da quel rapido allontanarsi di tutti gli esseri
circostanti. Tutti dunque fuggivano? Che aveva egli fatto perchè tutti
fuggissero?

Cominciò a muovere i passi incertamente, verso il fiume. Il pensiero
di quella fuga universale, a mano a mano ch'egli andava innanzi, gli
occupava con maggior profondità il cervello alterato dai fumi bacchici.
Avendo incontrato altri due cani spersi, si fermò presso di loro quasi
per esperimentare e li chiamò. Le due bestie ignobili seguitarono a
strisciarsi lungo i muri, con la coda fra le gambe; e scantonarono.
Poi, quando furono più lontani, si misero a latrare; e subitamente da
tutti i punti del paese, dal Bagno, da Sant'Agostino, dall'Arsenale,
dalla Pescheria, da tutti i luoghi luridi e oscuri i cani erranti
accorsero, come a un suon di battaglia. E il coro ostile di quella
tribù famelica saliva fino alla luna.

Turlendana stupefatto, mentre una specie d'inquietudine gli si
svegliava nell'animo vagamente, riprese il cammino con passi più
spediti, di tratto in tratto incespicando su le asperità del terreno.
Quando giunse al canto dei bottari, dove le ampie botti di Zazzetta
formavano cumuli biancastri simili a monumenti, egli sentì un
interrotto respirar bestiale. E, poichè il pensiero fisso dell'ostilità
delle bestie omai lo teneva, egli si accostò da quella parte, con una
ostinazione di ebro, per esperimentare di nuovo.

Dentro una stalla bassa i tre vecchi cavalli di Michelangelo ansavano
faticosamente su la mangiatoia. Erano bestie decrepite che avevano
logorata la vita trascinando su per la strada di Chieti due volte
al giorno la gran carcassa d'una diligenza piena di mercanti e di
mercanzie. Sotto i loro peli bruni, qua e là rasati dalle bardature, le
coste sporgevano come tante canne secche di una tettoia in rovina; le
gambe anteriori piegate non avevano quasi più ginocchia; la schiena era
dentata come una sega; e il collo spelato, dove a pena rimaneva qualche
vestigio della criniera, si curvava verso terra così che talvolta le
froge senza più soffio toccavano quasi le ugne consunte.

Un cancello di legno, malfermo, sbarrava la porta.

Turlendana cominciò a fare:

— Ush, ush, ush! Ush, ush, ush!

I cavalli non si movevano; ma respiravano insieme, umanamente. E le
forme dei loro corpi apparivano confuse nell'ombra turchiniccia; e il
fetore dei loro aliti si mesceva al fetore dello strame.

— Ush, ush, ush! — seguitava Turlendana, in suono lamentevole, come
quando spingeva Barbará ad abbeverarsi.

I cavalli non si movevano

— Ush, ush, ush! Ush, ush, ush!

Uno dei cavalli si volse e venne a mettere la grossa testa deforme
su 'l cancello, guardando dagli occhi che rilucevano alla luna come
ripieni d'un'acqua torbida. Il labbro inferiore gli penzolava simile
a un lembo di pelle flaccida, scoprendo la genciva. Le froge ad ogni
soffio ripalpitavano nel tenerume umidiccio del muso, e si chiudevano
talvolta con la stessa mollezza d'una bolla d'aria in una massa di
lievito che fermenta, e si richiudevano.

Alla vista di quella testa senile, l'ebro si risovvenne. Perchè dunque
s'era empito di vino, egli così sobrio per consuetudine? Un momento, in
mezzo all'ebrietà obliosa, la forma di Barbarà moribondo gli ricomparve
dinanzi, la forma del camello che giaceva su 'l terreno e teneva su
la paglia il lungo collo inerte e tossiva come un uomo e si agitava
debolmente di tratto in tratto, mentre ad ogni moto il ventre gonfio
produceva il rumore d'un barile a metà pieno d'acqua.

Una gran tenerezza pietosa lo invase; e l'agonia del camello, con
quelle scosse improvvise e quegli strani singhiozzi rauchi che facevano
sussultare e vibrare sonoramente tutto l'enorme carcame semivivo, e
con quegli sfarzi affannosi del collo che si sollevava un istante per
ricadere su la paglia dando un romor sordo e grave mentre le gambe si
movevano quasi in atto di correre, e con quel tremore continuo degli
orecchi e quell'immobilità del globo oculare che pareva già spento
prima d'ogni altra parte sensibile, l'agonia del camello gli ritornò
nella memoria lucidamente in tutta la sua miseria umana. Ed egli,
appoggiato al cancello, per un moto macchinale della bocca seguitava a
fare verso il cavallo di Michelangelo:

— Ush, ush, ush! Ush, ush, ush!

Con la persistenza inconscia degli ebri, con una ebetudine crescente,
seguitava, seguitava; ed era una lamentazione monotona accorante, quasi
lugubre come il canto degli uccelli notturni.

— Ush, ush, ush!

Allora Michelangelo, che dal suo letto udiva, d'improviso si affacciò
alla finestra soprastante; e in furia si diede a caricar di contumelie
e di imprecazioni il disturbatore.

— Fijie di puttane, vatt'a jettà a la Piscare! Vatténne da ecche!
Vatténne, ca mo pijie na varre. Fijie di puttane a turmendà li
cristiani vuo' venì? 'Mbriache 'vrette! Vatténne!

Turlendana si rimise a camminare, verso il fiume, barcollando. Al
trivio dei fruttaiuoli una torma di cani stava in conciliabolo amoroso.
Come l'uomo si appressò, la torma si disperse correndo verso il Bagno.
Dal vicolo di Gesidio un'altra torma sbucò e prese la via dei Bastioni.
Tutto il paese di Pescara, nel dolce plenilunio primaverile, era pieno
di amori e di combattimenti canini. Il mastino di Madrigale, incatenato
a guardia d'un bove ucciso, di tratto in tratto faceva sentire la sua
voce profonda che dominava tutte le altre voci. Di tratto in tratto,
qualche cane sbandato passava di gran corsa, solo, dirigendosi al luogo
della mischia. Nelle case, i cani prigionieri ululavano.

Ora, un turbamento più strano prendeva il cervello dell'ebro.
Dinanzi a lui, dietro a lui, in torno a lui, la fuga imaginaria delle
cose ricominciava più rapida. Egli si avanzava, e tutte le cose si
allontanavano: le nuvole, gli alberi, le pietre, le rive del fiume,
le antenne delle barche, le case. Questa specie di repulsione e di
reprobazione universale lo empì di terrore. Si fermò. Un gorgoglio
prolungato gli moveva le viscere. Subito, nella mente scomposta, gli
balenò un pensiero. — Il lepre! Anche il lepre di Ciávola non voleva
più restar con lui! — Il terrore gli crebbe; un tremito gli prese le
gambe e le braccia. Ma, incalzato, discese fra i salici teneri e le
alte erbe su la riva.

La luna piena, radiante, spandeva per tutto il cielo una dolce
serenità nivale. Gli alberi s'inclinavano in attitudini pacifiche alla
contemplazione delle acque fuggitive. Quasi un respiro lento e solenne
emanava dal sonno del fiume sotto la luna. Le rane cantavano.

Turlendana stava quasi nascosto tra le piante. Le mani gli tremavano
su i ginocchi. D'improvviso, egli sentì sotto di sè muoversi qualche
cosa di vivo: una rana! Gittò un grido, si levò, si diede a correre
traballando, in mezzo ai salici che lo fustigavano. Pel disordine de'
suoi spiriti, egli era atterrito come da un fatto soprannaturale.

A un avvallamento del terreno cadde, bocconi, con la faccia su l'erba.
Si rialzò a gran fatica, e stette un momento a riguardare in torno gli
alberi.

Le forme argentee dei pioppi sorgevano immobili nell'aria, taciturne;
e parevano inalzarsi fino alla luna, per un prolungamento ingannevole
delle loro cime. Le rive del fiume si dileguavano indefinite,
quasi immateriali, come le imagini dei paesi nei sogni. Su la parte
destra gli estuari risplendevano d'una bianchezza abbagliante, d'una
bianchezza salina, su cui ad intervalli le ombre gittate dalle nuvole
migratrici passavano mollemente come veli azzurri. Più lungi la selva
chiudeva l'orizzonte. Il profumo della selva e il profumo del mare si
mescolavano.

— Oh Turlendana! ooooh! — gridò una voce, chiarissima.

Turlendana, stupefatto, si volse.

— Oh Turlendanaaaaa!

E Binchi-Banche apparve in compagnia di un finanziere, su 'l principio
di un sentiero praticato dai marinai tra il folto dei salci.

— Addó vai a 'st'ora? A piagne lu camelo? — chiese Binchi-Banche
avvicinandosi.

Turlendana non rispose subito. Si reggeva con le mani le brache,
teneva le ginocchia un po' piegate innanzi; e nella faccia aveva una
così strana espression di stupidezza e balbettava così miseramente che
Binchi-Banche e il finanziere scoppiarono in grasse risa.

— Va, va — disse l'omiciattolo grinzoso, prendendo l'ebro per le spalle
e incamminandola verso la marina.

Turlendana andò innanzi. Binchi-Banche ed il finanziere seguitavano a
distanza, ridendo e parlando a voce bassa.

Ora la verdura terminava e incominciavano la sabbie. Si udiva mormorare
la maretta alla foce della Pescara.

In una specie di bassura arenosa, tra le dune, Turlendana si incontrò
con la carogna di Barbarà non ancora sepolta. Il gran corpo, tutto
spellato, era sanguinolento; le masse adipose della schiena anche
erano scoperte ed apparivano d'un colore giallognolo; su le gambe e su
le cosce la pelle rimaneva con tutti i peli e i dischi callosi; nella
bocca si vedevano i due denti enormi, angolosi, ricurvi della mandibola
superiore e la lingua bianchiccia; il labbro di sotto era, chi sa
perchè, reciso; e il collo somigliava ad un tronco di serpente.

Turlendana, in conspetto di quello strazio, si mise a gridare scotendo
la testa. Faceva un verso singolare, che non pareva umano.

— Ahò! Ahò! Ahò!

Poi, volendo chinarsi su 'l camello, stramazzò; si agitò invano per
rialzarsi; e, vinto dal torpore del vino, rimase senza conoscenza.

Binchi-Banche e il finanziere, come lo videro cadere, sopraggiunsero.
Lo presero, l'uno da capo e l'altro da piedi; lo sollevarono, e
lo adagiarono lungo su 'l corpo di Barbarà, atteggiandolo a un
abbracciamento d'amore. Sghignazzavano i due operando.

E così Turlendana giacque co 'l camello, sino all'aurora.



IL CERUSICO DI MARE.


Il trabaccolo _Trinità_, carico di fromento, salpò alla volta della
Dalmazia, verso sera. Navigò lungo il fiume tranquillo, fra le paranze
di Ortona ancorate in fila, mentre su la riva si accendevano fuochi e
i marinai reduci cantavano. Passando quindi pianamente la foce angusta,
uscì nel mare.

Il tempo era benigno. Nel cielo di ottobre, quasi a fior delle acque,
la luna piena pendeva come una dolce lampada rosea. Le montagne e le
colline, dietro, avevano forma di donne adagiate. In alto, passavano le
oche selvatiche, senza gridare, e si dileguavano.

I sei uomini e il mozzo prima manovrarono d'accordo per prendere il
vento. Poi, come le vele si gonfiarono nell'aria tutte colorate in
rosso e segnate di figure rudi, i sei uomini si misero a sedere e
cominciarono a fumare tranquillamente.

Il mozzo prese a cantarellare una canzone della patria, a cavalcioni su
la prua.

Disse Talamonte maggiore, gittando un lungo sprazzo di saliva su
l'acqua e rimettendosi in bocca la pipa gloriosa:

— Lu tembe n'n ze mandéne.

Alla profezia, tutti guardarono verso il largo; e non parlarono. Erano
marinai forti e indurati alle vicende del mare. Avevano altre volte
navigato alle isole dàlmate, e a Zara, a Trieste, a Spàlato; sapevano
la via. Alcuni anche rammentavano con dolcezza il vino di Dignano, che
ha il profumo delle rose, e i frutti delle isole.

Comandava il trabaccolo Ferrante La Selvi. I due fratelli Talamonte,
Cirù, Massacese e Gialluca formavano l'equipaggio, tutti nativi di
Pescara. Nazareno era il mozzo.

Essendo il plenilunio, indugiarono su'l ponte. Il mare era sparso di
paranze che pescavano. Ogni tanto una coppia di paranze passava accanto
al trabaccolo; e i marinai si scambiavano voci, familiarmente. La
pesca pareva fortunata. Quando le barche si allontanarono e le acque
ridivennero deserte, Ferrante e i Talamonte discesero sotto coperta
per riposare. Massacese e Gialluca, poi ch'ebbero finito di fumare,
seguirono l'esempio. Cirù rimase di guardia.

Prima di scendere, Gialluca, mostrando al compagno una parte del collo,
disse:

— Guarda che tenghe a qua.

Massacese guardò e disse:

— Na cosa da niente. N'n ce penzà.

C'era un rossore simile a quello che produce la puntura di un insetto,
e in mezzo al rossore un piccolo nodo.

Gialluca soggiunse:

— Me dole.

Nella notte si mutò il vento; e il mare cominciò ad ingrossare. Il
trabaccolo si mise a ballare sopra le onde, trascinato a levante,
perdendo cammino. Gialluca, nella manovra, gittava ogni tanto un
piccolo grido, perchè ad ogni movimento brusco del capo sentiva dolore.

Ferrante La Scivi gli domandò:

— Che tieni?

Gialluca, alla luce dell'alba, mostrò il suo male. Su la cute il
rossore era cresciuto, ed un piccolo tumore aguzzo appariva nel mezzo.

Ferrante, dopo avere osservato, disse anche lui:

— Na cosa da niente. N'n ce penzà.

Gialluca prese un fazzoletto e si fasciò il collo. Poi si mise a fumare.

Il trabaccolo, scosso dai cavalloni e trascinato dal vento contrario,
fuggiva ancora verso levante. Il rumore del mare copriva le voci.
Qualche ondata si spezzava sul ponte, ad intervalli, con un suono
sordo.

Verso sera la burrasca si placò; e la luna emerse come una cupola di
fuoco. Ma poichè il vento cadde, il trabaccolo rimase quasi fermo nella
bonaccia; le vele si afflosciarono. Di tanto in tanto sopravveniva un
soffio passeggiero.

Gialluca si lamentava del dolore. Nell'ozio, i compagni cominciarono
ad occuparsi del suo male. Ciascuno suggeriva un rimedio differente.
Cirù, ch'era il più anziano, si fece innanzi e suggerì un empiastro di
mele e di farina. Egli aveva qualche vaga cognizione medica, perchè la
moglie sua in terra esercitava la medicina insieme con l'arte magica e
guariva i mali con i farmachi e con le cabale. Ma la farina e le mele
mancavano. La galletta non poteva essere efficace.

Allora Cirù prese una cipolla e un pugno di grano: pestò il grano,
tagliuzzò la cipolla, e compose l'empiastro. Al contatto di quella
materia, Gialluca sentì crescere il dolore. Dopo un'ora si strappò dal
collo la fasciatura e gittò ogni cosa in mare, invaso da un'impazienza
irosa. Per vincere il fastidio, si mise al timone e resse la sbarra
lungo tempo. S'era levato il vento, e le vele palpitavano gioiosamente.
Nella chiara notte un'isoletta, che doveva essere Pelagosa, apparve in
lontananza come una nuvola posata su l'acqua.

Alla mattina Cirù, che omai aveva impreso a curare il male, volle
osservare il tumore. La gonfiezza erasi dilatata occupando gran parte
del collo ed aveva assunta una nuova forma e un colore più cupo che su
l'apice diveniva violetto.

— E che è quesse? — egli esclamò, perplesso, con un suono di voce
che fece trasalire l'infermo. E chiamò Ferrante, i due Talamonte, gli
altri.

Le opinioni furono varie. Ferrante imaginò un male terribile da cui
Gialluca poteva rimanere soffocato. Gialluca, con gli occhi aperti
straordinariamente, un po' pallido, ascoltava i prognostici. Come
il cielo era coperto di vapori, e il mare appariva cupo e stormi
di gabbiani si precipitavano verso la costa gridando, una specie di
terrore scese nell'animo di lui.

Alla fine Talamonte minore sentenziò:

— È 'na fava maligna.

Gli altri assentirono:

— Eh, po èsse'.

Infatti, il giorno dopo, la cuticola del tumore fu sollevata da un
siero sanguigno e si lacerò. E tutta la parte prese l'apparenza d'un
nido di vespe, d'onde sgorgavano materie purulente in abbondanza.
L'infiammazione e la suppurazione si approfondivano e si estendevano
rapidamente.

Gialluca, atterrito, invocò san Rocco che guarisce le piaghe. Promise
dieci libbre di cera, venti libbre. Egli s'inginocchiava in mezzo al
ponte, tendeva le braccia verso il cielo, faceva i voti con un gesto
solenne, nominava il padre, la madre, la moglie, i figliuoli. D'in
torno, i compagni si facevano il segno della croce, gravemente, ad ogni
invocazione.

Ferrante La Selvi, che sentì giungere un gran colpo di vento, gridò con
la voce rauca un comando, in mezzo al romorìo del mare. Il trabaccolo
si piegò tutto sopra un fianco. Massacese, i Talamonte, Cirù si
gittarono alla manovra. Nazareno strisciò lungo un albero. Le vele in
un momento furono ammainate: rimasero i due fiocchi. E il trabaccolo,
barcollando da banda a banda, si mise a correre a precipizio su la cima
dei flutti.

— Sante Rocche! Sante Rocche! — gridava con più fervore Gialluca,
eccitato anche dal tumulto circostante, curvo su le ginocchia e su le
mani per resistere al rullìo.

Di tratto in tratto un'ondata più forte si rovesciava su la prua:
l'acqua salsa invadeva il ponte da un capo all'altro.

— Va a basse! — gridò Ferrante a Gialluca.

Gialluca discese nella stiva. Egli sentiva un calore molesto e
un'aridezza febrile per tutta la pelle: e la paura del male gli
chiudeva lo stomaco. Là sotto, nella luce fievole, le forme delle cose
assumevano apparenze singolari. Si udivano i colpi profondi del flutto
contro i fianchi del naviglio e gli scricchiolii di tutta quanta la
compagine.

Dopo mezz'ora, Gialluca riapparve su 'l ponte, smorto come se uscisse
da un sepolcro. Egli amava meglio stare all'aperto, esporsi all'ondata,
vedere gli uomini, respirare il vento.

Ferrante, sorpreso da quel pallore, gli domandò:

— E mo' che tieni?

Gli altri marinai, dai loro posti, si misero a discutere i rimedii;
ad alta voce, quasi gridando, per superare il fragore della burrasca.
Si animavano. Ciascuno aveva un metodo suo. Ragionavano con sicurezza
di dottori. Dimenticavano il pericolo, nella disputa. Massacese aveva
visto, due anni avanti, un vero medico operare sul fianco di Giovanni
Margadonna, in un caso simile. Il medico tagliò, poi strofinò con pezzi
di legno intinti in un liquido fumante, bruciò così la piaga. Levò
con una specie di cucchiaio la carne arsa che somigliava fondiglio di
caffè. E Margadonna fu salvo.

Massacese ripeteva, quasi esaltato, come un cerusico feroce:

— S'ha da tajià! S'ha da tajià!

E faceva l'atto del taglio, con la mano, verso l'infermo.

Cirù fu del parere di Massacese. I due Talamonte anche convennero.
Ferrante La Selvi scoteva il capo.

Allora Cirù fece a Gialluca la proposta. Gialluca si rifiutò.

Cirù, in un impeto brutale ch'egli non potè trattenere gridò:

— Muòrete!

Gialluca divenne più pallido e guardò il compagno con due larghi occhi
pieni di terrore

Cadeva la notte. Il mare nell'ombra pareva che urlasse più forte. Le
onde luccicavano, passando nella luce gittata dal fanale di prua.
La terra era lontana. I marinai stavano afferrati a una corda per
resistere contro i marosi. Ferrante governava il timone, gettando di
tratto in tratto una voce nella tempesta:

— Va a basse, Giallù!

Gialluca, per una strana ripugnanza a trovarsi solo, non voleva
discendere quantunque il male lo travagliasse. Anch'egli si teneva
alla corda, stringendo i denti nel dolore. Quando veniva una ondata,
i marinai abbassavano la testa e mettevano un grido concorde, simile a
quello con cui sogliono accompagnare un comune sforzo nella fatica.

Uscì la luna da una nuvola, diminuendo l'orrore. Ma il mare si mantenne
grosso tutta la notte.

La mattina Gialluca, smarrito, disse ai compagni:

— Tajiáte.

I compagni prima s'accordarono gravemente; tennero una specie di
consulto decisivo. Poi osservarono il tumore ch'era eguale al pugno
di un uomo. Tutte le aperture, che dianzi gli davano l'apparenza di un
nido di vespe o di un crivello, ora ne formavano una sola.

Disse Massacese:

— Curagge! Avande!

Egli doveva essere il cerusico. Provò su l'unghia la tempra delle lame.
Scelse infine il coltello di Talamonte maggiore, ch'era affilato di
fresco. Ripetè:

— Curagge! Avande!

Quasi un fremito d'impazienza scoteva lui e gli altri.

L'infermo ora pareva preso da uno stupidimento cupo. Teneva gli occhi
fissi su 'l coltello, senza dire niente, con la bocca semiaperta, con
le mani penzoloni lungo i fianchi, come un idiota.

Cirù lo fece sedere, gli tolse la fasciatura, mettendo con le labbra
quei suoni istintivi che indicano il ribrezzo. Un momento, tutti si
chinarono su la piaga, in silenzio, a guardare. Massacese disse:

— Cusì e cusì, — indicando con la punta del coltello la direzione dei
tagli.

Allora, d'un tratto, Gialluca ruppe in un gran pianto. Tutto il suo
corpo veniva scosso dai singhiozzi.

— Curagge! Curagge! — gli ripetevano i marinai, prendendolo per le
braccia.

Massacese incominciò l'opera. Al primo contatto della lama, Gialluca
gittò un urlo; poi stringendo i denti, metteva quasi un muggito
soffocato.

Massacese tagliava lentamente, ma con sicurezza; tenendo fuori la
punta della lingua, per una abitudine ch'egli aveva nel condur le cose
con attenzione. Come il trabaccolo barcollava, il taglio riusciva
ineguale; il coltello ora penetrava più, ora meno. Un colpo di mare
fece affondare la lama dentro i tessuti sani. Gialluca gittò un altro
urlo, dibattendosi, tutto sanguinante, come una bestia tra le mani dei
beccai. Egli non voleva più sottomettersi.

— No, no, no!

— Vien' a qua! Vien' a qua! — gli gridava Massacese, dietro, volendo
seguitare la sua opera perchè temeva che il taglio interrotto fosse più
pericoloso.

Il mare, ancora grosso, romoreggiava in torno, senza fine. Nuvole in
forma di trombe sorgevano dall'ultimo termine ed abbracciavano il
cielo deserto d'uccelli. Oramai, in mezzo a quel frastuono, sotto
quella luce, una eccitazione singolare prendeva quegli uomini.
Involontariamente, essi nel lottare col ferito per tenerlo fermo,
s'adiravano.

— Vien' a qua!

Massacese fece altre quattro o cinque incisioni, rapidamente, a
caso. Sangue misto a materie biancastre sgorgava dalle aperture.
Tutti n'erano macchiati, tranne Nazareno che stava a prua, tremante,
sbigottito dinanzi all'atrocità della cosa.

Ferrante La Selvi, che vedeva la barca pericolare, diede un comando a
squarciagola:

— Molla le scòtteee! Butta 'l timone a l'ôrsa!

I due Talamonte, Massacese, Cirù manovrarono. Il trabaccolo riprese
a correre beccheggiando. Si scorgeva Lissa in lontananza. Lunghe zone
di sole battevano su le acque, sfuggendo di tra le nuvole; e variavano
secondo le vicende celesti.

Ferrante rimase alla sbarra. Gli altri marinai tornarono a Gialluca.
Bisognava nettare le aperture, bruciare, mettere le filacce.

Ora il ferito era in una prostrazione profonda. Pareva che non capisse
più nulla. Guardava i compagni, con due occhi smorti, già torbidi come
quelli degli animali che stanno per morire. Ripeteva ad intervalli,
quasi fra sè:

— So' morto! So' morto!

Cirù, con un po' di stoppa grezza, cercava di pulire; ma aveva la mano
rude, irritava la piaga. Massacese, volendo fino all'ultimo seguire
l'esempio del cerusico di Margadonna, aguzzava certi pezzi di legno
d'abete, con attenzione. I due Talamonte si occupavano del catrame,
poichè il catrame bollente era stato scelto per bruciare la piaga.
Ma era impossibile accendere il fuoco su 'l ponte che ad ogni momento
veniva allagato. I due Talamonte discesero sotto coperta.

Massacese gridò a Cirù:

— Lava nghe l'acqua de mare!

Cirù seguì il consiglio. Gialluca si sottometteva a tutto, facendo un
lagno continuo, battendo i denti. Il collo gli era diventato enorme,
tutto rosso, in alcuni punti quasi violaceo. In torno alle incisioni
cominciavano ad apparire alcune chiazze brunastre. L'infermo provava
difficoltà a respirare, a inghiottire; e lo tormentava la sete.

— Arcummánnete a sante Rocche — gli disse Massacese che aveva finito di
aguzzare i pezzi di legno e che aspettava il catrame.

Spinto dal vento, il trabaccolo ora deviava in su, verso Sebenico,
perdendo di vista l'isola. Ma quantunque le onde fossero ancora forti,
la burrasca accennava a diminuire. Il sole era a mezzo del cielo, tra
nuvole color di ruggine.

I due Talamonte vennero con un vaso di terra pieno di catrame fumante.

Gialluca s'inginocchiò, per rinnovare il voto al santo. Tutti si fecero
il segno della croce.

— Oh sante Rocche, sálveme! Te 'mprumette 'na lampa d'argente e
l'uoglie pe' tutte l'anne e trenta libbre de ciere. Oh sante Rocche,
sálveme tu! Tenghe la mojie e li fijie... Pietà! Misericordie, sante
Rocche mi'!

Gialluca teneva congiunte le mani; parlava con voce che pareva non
fosse più la sua. Poi si rimise a sedere, dicendo semplicemente a
Massacese:

— Fa.

Massacese avvolse in torno ai pezzi di legno un po' di stoppa; e a mano
a mano ne tuffava uno nel catrame bollente e con quello strofinava la
piaga. Per rendere più efficace e profonda la bruciatura, versò anche
il liquido nelle ferite. Gialluca non mosse un lamento. Gli altri
rabbrividivano, in conspetto di quello strazio.

Disse Ferrante La Selvi, dal suo posto, scotendo il capo:

— L'avet'accise!

Gli altri portarono sotto coperta Gialluca semivivo; e l'adagiarono
sopra una branda. Nazareno rimase a guardia, presso l'infermo. Si
udivano di là le voci gutturali di Ferrante che comandava la manovra e
i passi precipitati dei marinai. La _Trinità_ virava, scricchiolando. A
un tratto Nazareno si accorse d'una falla in cui entrava acqua; chiamò.
I marinai discesero, in tumulto. Gridavano tutti insieme, provvedendo
in furia a riparare. Pareva un naufragio.

Gialluca, benchè prostrato di forze e d'animo, si rizzò su la branda,
imaginando che la barca andasse a picco; e s'aggrappò disperatamente a
uno dei Talamonte. Supplicava, come una femmina:

— Nen me lasciate! Nen me lasciate!

Lo calmarono; lo riadagiarono. Egli ora aveva paura; balbettava
parole insensate; piangeva; non voleva morire. Poichè l'infiammazione
crescendo gli occupava tutto tutto il collo e la cervice e si
diffondeva anche pe 'l tronco a poco a poco, e la gonfiezza diveniva
ancor più mostruosa, egli si sentiva strozzare. Spalancava ogni tanto
la bocca per bevere l'aria.

— Portateme sopra! A qua me manghe l'arie; a qua me more....

Ferrante richiamò gli uomini sul ponte. Il trabaccolo ora bordeggiando
cercava di acquistare cammino. La manovra era complicata. Ferrante
spiava il vento e dava il comando utile, stando al timone. Come più il
vespro si avvicinava, le onde si placavano.

Dopo qualche tempo, Nazareno venne sopra, tutto sbigottito, gridando:

— Gialluca se more! Gialluca se more!

I marinai corsero; e trovarono il compagno già morto su la branda, in
un'attitudine scomposta, con gli occhi aperti, con la faccia tumida,
come un uomo strangolato.

Disse Talamonte maggiore:

— È mo'?

Gli altri tacquero, un po' smarriti, dinanzi al cadavere.

Risalirono su 'l ponte, in silenzio. Talamonte ripeteva:

— È mo'?

Il giorno si ritirava lentamente dalle acque. Nell'aria veniva la
calma. Un'altra volta le vele si afflosciavano e il naviglio rimaneva
senza avanzare. Si scorgeva l'isola di Solta.

I marinai, riuniti a poppa, ragionavano del fatto. Un'inquietudine
viva occupava tutti gli animi: Massacese era pallido e pensieroso. Egli
osservò:

— Avéssene da dice che l'avéme fatte murì nu áutre? Avasséme da passà
guai?

Questo timore già tormentava lo spirito di quegli uomini superstiziosi
e diffidenti. Essi risposero:

— È lu vere.

Massacese incalzò:

— Mbé? Che facéme?

Talamonte maggiore disse, semplicemente:

— È morte? Jettámele a lu mare. Facéme vedé ca l'avéme pirdute 'n
mezz'a lu furtunale... Certe, n'arrièsce.

Gli altri assentirono. Chiamarono Nazareno.

— Oh, tu... mute come nu pesce.

E gli suggellarono il segreto nell'animo, con un segno minaccioso.

Poi discesero a prendere il cadavere. Già le carni del collo davano
odore malsano; le materie della suppurazione gocciolavano, ad ogni
scossa.

Massacese disse:

— Mettémele dentr'a nu sacche.

Presero un sacco; ma il cadavere ci entrava per metà. Legarono il sacco
alle ginocchia, e le gambe rimasero fuori. Si guardavano d'in torno,
istintivamente, facendo l'operazione mortuaria. Non si vedevano vele;
il mare aveva un ondeggiamento largo e piano, dopo la burrasca; l'isola
di Solta appariva tutt'azzurra, in fondo.

Massacese disse:

— Mettémece pure 'na preta.

Presero una pietra fra la zavorra, e la legarono ai piedi di Gialluca.

Massacese disse:

— Avande!

Sollevarono il cadavere fuori del bordo e lo lasciarono scivolare nel
mare. L'acqua si richiuse gorgogliando; il corpo discese da prima con
una oscillazione lenta; poi si dileguò.

I marinai tornarono a poppa, ed aspettarono il vento. Fumavano, senza
parlare. Massacese ogni tanto faceva un gesto involontario, come fanno
talora gli uomini cogitabondi.

Il vento si levò. Le vele si gonfiarono, dopo avere palpitato un
istante. La _Trinità_ si mosse nella direzione di Solta. Dopo due ore
di buona rotta, passò lo stretto.

La luna illuminava le rive. Il mare aveva quasi una tranquillità
lacustre. Dal porto di Spálato uscivano due navigli, e venivano
incontro alla _Trinità_. Le due ciurme cantavano.

Udendo la canzone, Cirù disse:

— Toh! So' di Piscare.

Vedendo le figure e le cifre delle vele, Ferrante disse:

— So' li trabaccule di Raimonde Callare.

E gittò la voce.

I marinai paesani risposero con grandi clamori. Uno dei navigli era
carico di fichi secchi, e l'altro di asinelli.

Come il secondo dei navigli passò a dieci metri dalla _Trinità_, varii
saluti corsero. Una voce gridò:

— Oh Giallù! Addó sta Gialluche?

Massacese rispose:

— L'avéme pirdute a mare, 'n mezz'a lu furtunale. Dicétele a la mamme.

Alcune esclamazioni allora sorsero dal trabaccolo degli asinelli; poi
gli addii.

— Addie! Addie! A Piscare! A Piscare!

E allontanandosi le ciurme ripresero la canzone, sotto la luna.



INDICE.


                                                     Pag.

  La vergine Orsola                                     1
  La vergine Anna                                      86
  Gli idolatri                                        165
  L'eroe                                              186
  La veglia funebre                                   194
  La contessa d'Amalfi                                209
  La morte del duca d'Ofena                           255
  Il traghettatore                                    276
  Agonia                                              307
  La fine di Candia                                   319
  La fattura                                          337
  I marenghi                                          364
  La madia                                            374
  Mungià                                              383
  La guerra del Ponte                                 397
  Turlendana ritorna                                  421
  Turlendana ebro                                     437
  Il cerusico di mare                                 448



  _OPERE di GABRIELE D'ANNUNZIO_

      I ROMANZI DELLA ROSA:

  Il Piacere                                             L. 5 —
  L'Innocente                                               4 —
  Trionfo della Morte                                       5 —

      I ROMANZI DEL GIGLIO:

  Le Vergini delle Rocce                                    5 —
  La Grazia *.
  L'Annunziazione *.

      I ROMANZI DEL MELAGRANO:

  Il Fuoco                                                  5 —
  La Vittoria dell'Uomo *.
  Trionfo della Vita *.

  Le Novelle della Pescara                                  4 —

      POESIE:

  Canto novo; Intermezzo                                    4 —
  L'Isottéo; la Chimera                                     4 —
  Poema paradisiaco; Odi navali                             4 —
  La Canzone di Garibaldi: La Notte di Caprera              1 50
  In morte di Giuseppe Verdi. Canzone preceduta da una
    Orazione ai giovani                                     1 —
  Nel primo centenario della nascita di Vittor
    Hugo — MDCCCII-MCMII — ode                              1 —
  Laudi del Cielo, del Mare, della Terra e degli Eroi
    _Vol. I:_ Laus Vitæ. Legato in finta pergamena          8 —
  — Legato in vera pergamena                               12 —
    _Vol. II:_ Elettra — Alcione. Legato in finta
     pergamena                                             10 —
  — Legato in vera pergamena                               14 —
  L'Allegoria dell'Autunno                                  1 —

      DRAMI:

  Francesca da Rimini, tragedia in 5 atti                   7 50
  — Legata in vera pergamena con fregi e nastri di
    stile antico                                           12 —
  Francesca da Rimini. Edizione econom.                     4 —
  La Città morta, tragedia in 5 atti                        4 —
  La Gioconda, tragedia in 4 atti                           4 —
  La Gloria, tragedia in 5 atti                             4 —
  La Figlia di Iorio, tragedia in 3 atti                    4 —

  I Sogni delle Stagioni
      Sogno d'un mattino di primavera                       2 —
    * Sogno d'un meriggio d'estate.
      Sogno d'un tramonto d'autunno                         2 —
    * Sogno d'una notte d'inverno.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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