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Title: La donna fiorentina del buon tempo antico
Author: Del Lungo, Isidoro
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La donna fiorentina del buon tempo antico" ***


                          La donna fiorentina
                         del buon tempo antico

                    affigurata da ISIDORO DEL LUNGO


     NEI PRIMI SECOLI DEL COMUNE — DA DANTE AL BOCCACCIO — BEATRICE
     — LA DONNA ISPIRATRICE — NEL RINASCIMENTO E NEGLI ULTIMI ANNI
     DELLA LIBERTÀ — UNA MADREFAMIGLIA DEL CINQUECENTO — UN'ALTRA
     LETTERA DELL'ALESSANDRA MACINGHI STROZZI.



                     R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI
                  FIRENZE 1906 FILIALI: MILANO, ROMA.
               TORINO: S. LATTES E Cº. — NAPOLI: SOCIETÀ
                         COMMERCIALE LIBRARIA.



                          PROPRIETÀ LETTERARIA
                   DEGLI EDITORI R. BEMPORAD E FIGLIO

    1905 — FIRENZE, Tipografia della Biblioteca di cultura liberale.



  ALLA MIA EDUVIGE, E ALLE TRE NOSTRE BATTEZZATE IN
    SAN GIOVANNI CAROLINA, ROMILDA, ALBERTINA

             PALAZZINA, _17 ottobre 1905_.



NEI PRIMI SECOLI DEL COMUNE

    Alla _Società per l'istruzione della donna_, in Roma il 13
  marzo, e al _Circolo Filologico_ di Firenze il 25 aprile, del
  1887.

    Conservo a questo e ad altri degli scritti che compongono il
  presente volume la forma con la quale mi nacquero, di pubblica
  lettura. Bensì la materia, che qui si distende quant'occorreva
  alla trattazione dell'argomento, fu in quelle letture contenuta
  entro limiti di tempo e di discrezione.


  _Signore e Signori_,

Più volte mi è occorso pensare, che si potrebbe ritrarre, così in punta
di penna, la vita antica fiorentina, delineandola per figure femminili:
dalle donne casalinghe de' tempi di Cacciaguida alle madrifamiglia dei
primi tempi medicei; poi da queste alle popolane e gentildonne animose
e gagliarde degli ultimi anni repubblicani. Io mi son provato ad
abbozzare il ritratto della donna nel primo di que' due periodi, cioè
dai principî del Comune sino ai tempi dell'oligarchia prevalente nella
seconda metà del secolo XIV. La donna fiorentina di questo periodo
può considerarsi nella realtà storica, nelle leggende, nella idealità
poetica. Mi fermo ai due primi capi; realtà storica, leggende; e sotto
di essi raccolgo (nè altro prometto al mio cortese uditorio) alcune
imagini e figure dal vero.

Ma una cosa, innanzi di procedere, giova che sia avvertita. Alla
libertà fiorentina, da' primordî del Comune sino alla distruzione degli
ordini repubblicani nel 1530, la donna non recò il tributo di atti
virili ed eroici, come fu in altre città d'Italia. Non ha Firenze,
nè dalla storia nè dalla leggenda, la Cinzica de' Sismondi, che salva
Pisa dalla notturna aggressione dei Saraceni; non ha Stamura, che col
ferro e col fuoco affronta impavida l'esercito imperiale assediante la
sua Ancona; nè Caterina Segurana, a cui Nizza pose una statua sulla
porta Peiroliera da lei difesa contro Turchi e Francesi; nè madonna
Cia degli Ubaldini, la forte donna romagnola, «guidatore della guerra
e capitana de' soldati»,[1] che sostiene Cesena contro le masnade
sanguinarie del cardinale d'Albornoz, resistendo con pari fermezza
e alle armi nemiche e ai consigli di resa che le vengono da valorosi
uomini di guerra; nè, se vogliamo aggiungerla, Caterina Sforza Riario,
che, nella ròcca di Forlì, calpesta la fede data e la vita stessa de'
figliuoli, per assicurare la vendetta dell'ucciso marito; madre poi, e
non fa maraviglia, di Giovanni delle Bande Nere. Nè sono fiorentine, ma
della terra e del tempo dei Vespri, le donne che aiutavano la difesa
della patria contro l'angioino oppressore; e il popolo ne faceva la
canzonetta, che Giovanni Villani[2] avrebbe dovuto conservarci intera:

    Deh com'egli è gran pietate
    delle donne di Messina,
    veggendole scapigliate
    portare pietre e calcina!

Eroismo rinnovato, bensì con tutta la pompa del sec. XVI, dalle
gentildonne e popolane senesi, che distribuite in squadre con divise
a tre colori, violetto rosa e bianco, lavorarono alle fortificazioni
di quell'ultimo baluardo della democrazia toscana; e meritarono che un
gentiluomo francese, il Montluc,[3] rendesse loro l'omaggio dei prodi.
Non ebbe eroine Firenze, o le ha dimenticate. Ma che perciò? La donna
non ismentisce nella storia la propria natura e l'ufficio commessole
dalla Provvidenza: la istoria sua è (salvo eccezioni, così nell'ordine
de' fatti come del pensiero) storia senza nomi, ma di tutti i giorni
e di tutte le ore, perchè nessun giorno e nessuna ora passano senza
lacrime umane, ed è lei che le raccoglie o le dona; nè senza bisogno
di conforti alle battaglie della vita, e dal sorriso di lei ci vengono
i più efficaci. Rintracciare tale storia è invero malagevole; ma non
più di altre ricerche morali e psicologiche intorno alle umane vicende.
E se non le mancano pagine nel mondo antico, dove l'individuo era sì
gagliardamente assorbito nella pubblica cosa; se in ciò che di benefico
ebbe, contro quella tirannide dello Stato, la violenza barbarica,
uno dei simboli della individuale libertà e della umana coscienza
rivendicata è appunto la donna; sarebbe illogico, che la storia di lei,
nel senso e contenuto suoi veri, scarseggiasse in secoli di civiltà
e libertà cristiane, e a noi tanto più vicini e di tanto più agevole
investigamento; per modo che dovessimo limitarla alla genealogia
delle case feudali o principesche o magnatizie, che sarebbe quasi un
abolirla del tutto dai gloriosi annali delle nostre repubbliche. Ben
altramente hanno pensato della storia femminile menti elette o sovrane.
Il Tommaseo[4] scrisse, che «se prendessimo a considerare la donna
quale ce la dipingono via via tutti i poeti gli storici i moralisti,
de' varii luoghi e de' tempi, troveremmo in lei quasi l'ideale del
secolo»: nè egli era facile adulatore di nessuna potenza. Il Guasti,[5]
raccogliendo le lettere d'una madre fiorentina del Quattrocento, spera
aver provato con quelle, che «nelle lettere delle donne sia riposta la
storia più intima di un popolo». E il più grande Poeta dell'evo moderno
questa idealità della donna, immanente nella storia, raccolse in una
vigorosa astrazione chiamandola «l'eterno Femmineo»; i cui splendori
un Poeta nostro[6] ha salutati sopr'una fronte regale, che ha corona
invidiabile nell'amore unanime del popolo suo.


I.

Della donna fiorentina ne' secoli XI e XII, sul cominciar del Comune
italico, non potremmo desiderare più autentica imagine nè più efficace.
Nella mirabile rappresentazione che, tra i fulgori del cielo di Marte,
Dante fa del vecchio Comune fiorentino, ponendone sè ascoltatore
devoto e commosso dalla bocca di Cacciaguida degli Elisei, cavaliere e
crociato; alle memorie cittadine, ai titoli gentilizi, ai desiderî ai
rimpianti della vita civile, antecedono le ricordanze casalinghe, gli
affetti soavi della famiglia, le santità della culla e della tomba: e
su tutte queste figurazioni, che fanno di quel canto del _Paradiso_[7]
un vero idillio domestico, diffonde la sua luce, mite e modesta
regina, la donna. E non la donna idealizzata dall'amore e dall'ingegno:
Beatrice in quell'episodio si sta in disparte, e solo accompagna con
benigno sorriso il colloquio fra l'Alighieri e il trisavolo;[8] ma
la donna del focolare, la compagna della vita, quella che con l'uomo,
suo amore ed orgoglio, partecipa le gioie e i dolori, che gli guarda
l'avere, gli educa i figliuoli, lo conforta al bene e ne lo fa degno,
lo affida nelle avversità e nei pericoli, soccombente lo incora, nelle
vittorie lo affrena, gli fa quieta e riposata la casa perchè la patria
lo abbia cittadino operoso. Alla custodia di lei sono commesse le due
virtù che il Poeta pone come principali del viver sociale, parsimonia e
pudore:

    Fiorenza, dentro dalla cerchia antica,....
    si stava in pace sobria e pudica.

Non cerca sfoggio d'ornamenti,

    che fosse a veder più che la persona.[9]

È allegrezza e consolazione della casa dov'ella è nata, e che non
muterà con quella dello sposo, se non a tempo debito, e contentandosi,
essa e l'uomo che riamato ama lei, di dote ragionevole; cosicchè
«nè il tempo nè la dote faranno al padre paura». L'austerità del
costume le risparmia le frivole cure e gli artifizi procacciativi di
bugiarda bellezza: ella «vien dallo specchio senza il viso dipinto»;
e «contenta al fuso e al pennecchio», prepara di propria mano le
semplici vestimenta al marito. Un solo amore comprende nell'anima sua
la convivenza non interrotta con esso, e il luogo del comune estremo
riposo nella dolce terra nativa: sentimento che il Poeta chiama «la
certezza della sepoltura», e «Oh fortunate!» esclama con una di quelle
note che insegna l'esilio. La giovine sposa «veglia a studio della
culla», e acqueta e sollazza la sua creatura; mentre la nonna, filando,
racconta ai grandicelli le luminose leggende delle origini italiche e
della potenza latina,

    favoleggiando con la sua famiglia,
    de' Troiani, di Fiesole e di Roma:

però che essa, la donna del Comune italiano, indovina e sente che
questo è l'erede e il rinnovatore legittimo di quel glorioso passato; e
nel nome augusto di Roma, che i fanciulli imparano dalle labbra materne
a chiamar madre della loro città, sublima il concetto della patria in
quelle tenere menti, e ve lo impronta non cancellabile.

Dico, la donna del Comune italiano: e quel che dalla storia di Firenze
verrò, di figure femminili, delineando e colorendo, s'intenda che sia
in gran parte com'un ritratto della donna italiana nella vita de'
nostri liberi Comuni.[10] Però che anche rispetto a questa gentile
imagine del nostro passato, le diversità e le contingenze regionali
sottostanno alle ragioni di somiglianza, anzi alla identità di certe
generali condizioni storiche, entro le quali si rimase involuto fino
ai giorni presenti il benaugurato germe della unità nazionale. Se non
che la storia di Firenze è forse la più ricca di qualsiasi altra delle
città nostre, rispetto a notizie e documenti di carattere particolare e
domestico; è altresì quella, dove, per le ragioni della lingua, anche
tale ordine di fatti e di cose sia stato rappresentato con maggior
larghezza, e sia più universalmente noto, per opera di storici, di
novellatori, di trattatisti, di poeti, di comici, che la città non
tanto ha avuti quanto dati alla nazione.


II.

Quella donna fiorentina de' secoli XI e XII, nella cui soave ricordanza
Cacciaguida si esalta, e le congiunge la memoria della madre sua «ch'è
or santa», e i travagli di lei partoriente con la invocazione di Maria;
non ha un nome, perchè essa era nella mente di Dante un universale,
comprensivo e cumulativo delle figure individue concorse a formarlo.
Quella gentile, non d'altri splendori luminosa che della fioca e
carezzevole luce delle pareti domestiche, invecchiò presto: poichè poco
più d'un secolo separa la realtà storica di lei dal rimpianto che ne
suona, come di cosa ormai remota, nei versi del fiorentino proscritto.
Ma già ell'era vecchia, e di secoli pur quando generava

    a così riposato, a così bello,
    viver di cittadini, a così fida
    cittadinanza, a così dolce ostello;

perchè in lei, quale questa divina poesia[11] l'ha scolpita,
ritroviamo, immutata lungo il corso delle età procelloso, l'antica
madrefamiglia, sulla cui tomba il massimo della lode è che fu da
casa e filò la lana (_domum servavit, lanam fecit_). Questa parte
delle tradizioni latine era affidata a lei, che la mantenesse,
incontaminata dalle orgie e dalle ebbrezze imperiali, poi fra le
vendette sanguinose della barbarie, nella silenziosa desolazione
successa all'immensa caduta, infine nei mescolamenti delle razze
sopravvenute addosso al volgo innominato e disperso, ma conservatore
tenace, finchè gli rimane una famiglia, e della famiglia, vigile e
sospettosa e, occorrendo, fiera custoditrice la donna. La donna del
secolo XII, adunque, piuttosto che da quello al successivo invecchiata,
può dirsi aver finito la parte sua, e andar cedendo alle condizioni,
che intorno a lei si atteggiano così diversamente, di vita politica,
di costumanze, di pensieri e propositi. Nella civiltà nuova — della
quale è resultato e compendio, istituzione lentamente elaborata, il
Comune — troppi elementi, fin allora latenti più o meno e costretti, si
svolgono alle aure di libertà, cosicchè anche la vita domestica, e le
relazioni di questa con la civile, possano sfuggire ad una mutazione.
Nè fa maraviglia che tale mutazione non piaccia a Cacciaguida. Egli
si ricorda de' bei tempi, quando, lui giovinetto, vivevano ancora
i cittadini della «picciola Firenze divisa per quartieri, cioè per
quattro porte», delle quali Porta del Duomo era stato, dice la cronica,
«il primo ovile e stazzo della rifatta Firenze» (rifatta, nessun
Fiorentino ne dubitava, da Carlo Magno imperatore e dai Romani), «e
dove tutti i nobili cittadini di Firenze la domenica facieno riparo
e usanza di cittadinanza intorno al duomo», cioè al San Giovanni, «e
ivi si faceano tutti i matrimonî e paci, e ogni grandezza e solennità
di Comune».[12] Cacciaguida ha vissuto di questo Comune l'età, com'a
dire, inconscia e imperfetta, senza nè la potenza nè le burrasche
che poi sopravvennero: la pacifica età consolare, durante la quale
la cittadinanza si è venuta ordinando quasi estranea ai contrasti fra
Chiesa ed Impero, che ha lasciati combattere ai Marchesi di Toscana,
alle contesse Beatrice e Matilde, la cui nominale supremazia non
pesò mai di fatto, neanche della grande e popolare Contessa, sulla
indipendente città. Scarse relazioni esterne, sia di commercio sia
di politica; qualche passata imperiale, fatta quasi sempre innocua
dallo spontaneo omaggio e dall'essere la Toscana tenuta abitualmente
fuori dell'itinerario strategico di cotesti Cesari e di ciò che
si moveva con loro; qualche soggiorno di papa profugo; qualche
guerricciuola di contado: ecco gli episodi di quella vita tranquilla,
che menavano gli uomini de' quali Cacciaguida ricorda la parsimonia e
la modestia. Cavalieri con semplici cintole di cuoio e fibbie d'osso,
non d'argento e perle: cittadini con rozze sopravvesti di pelle di
camoscio, non co' mantelli e le guarnaccie di scarlatto foderate di
vaio; case strettamente misurate agli abitatori; nessun lusso, nessuna
delicatezza, nessuna corruzione. La sacra maestà dell'Imperatore era
ospitata e festeggiata come in famiglia; da Corrado il Salico, «che
si dilettò assai della città di Firenze, e molto l'avanzò, e più
cittadini di Firenze si feciono cavalieri di sua mano, e furono al suo
servigio»,[13] venendo, per lo spazio di quei due secoli, a Ottone IV,
del quale sentiamo pure ciò che racconta, molto a proposito nostro,
la cronica.[14] «Quando lo 'mperadore Otto quarto venne in Firenze,
e veggendo le belle donne della città che in Santa Reparata per lui
erano raunate, questa pulcella» (Gualdrada di messere Bellincion Berti
de' Ravignani) «più piacque allo 'mperadore. E 'l padre di lei dicendo
allo 'mperadore ch'egli avea podere di fargliela basciare, la donzella
rispose che già uomo vivente non la bascerebbe se non fosse suo marito.
Per la quale parola lo 'mperadore molto la commendò: e 'l conte Guido,
preso d'amore di lei per la sua avvenentezza, e per consiglio del detto
Otto 'mperadore, la si fece a moglie, non guardando perch'ella fosse
di più basso lignaggio di lui, nè guardando a dote. Onde tutti i conti
Guidi sono nati del detto conte e della detta donna». Costei Dante
chiama, in altro luogo del Poema, «la buona Gualdrada», e quel «buona»
valeva quanto «saggia e valente»; e per bocca di Cacciaguida lodando
nel padre di lei la semplicità del costume, ce lo conferma tale uomo
quale nella ingenua narrazione del Villani apprendiamo a conoscerlo.
In siffatta cittadinanza, piccola di numero e della purezza del suo
sangue gelosa, è vissuto Cacciaguida; e da tale comunanza ben si usciva
degni di cingere, come egli avea fatto, la spada per Cristo, e armato
cavaliere dalle mani imperiali morire da valoroso in Terrasanta. Ahimè
quanto diversa da quella, di mezzo alle cui miserie il Poeta era asceso
allo spiritale viaggio, nella sede dei beati, sollevandosi

    all'eterno dal tempo.........
    e di Fiorenza in popol giusto e sano![15]

E un dramma femminile è designato pur da Cacciaguida come punto
di separazione fra le due età. Buondelmonte che, per aver ceduto
slealmente alle istigazioni d'una Donati e alla bellezza d'una
figliuola di questa, paga col sangue lo spergiuro alla fidanzata
Amidei, è la vittima che dee segnare in Firenze gli estremi anni di
pace:

    vittima nella sua pace postrema.[16]

Storico certamente nella sostanza, è sia pur leggendario nei
particolari, quel dramma ritrae mirabilmente la vita fiorentina
sul cominciare del secolo XIII. La comunanza dell'«ovile di San
Giovanni»[17] è turbata: si è cominciata battaglia tra gli Uberti,
sangue germanico (o, com'altri vogliono, da Catilina), e la signoria,
latina, de' Consoli. Gli umori imperiali e chiesastici son già
penetrati fra i cittadini, vi serpeggiano insidiosamente, hanno ormai
disposti gli animi alla divisione: la consumeranno la bellezza d'una
fanciulla, l'interessato zelo materno, la leggerezza e slealtà d'un
giovine. Nessuna di siffatte cause avrebbe saputo così sinistramente
operare nella sobria e pudica Firenze del buon tempo antico, a cui
terza e nona, che le batteva la campana della vecchia Badia del
marchese Ugo,[18] segnavano giorni di pace virtuosa fra cittadini
l'uno all'altro affezionati e ossequenti. «E di ciò fu cagione in
Firenze, che uno nobile giovane cittadino, chiamato Buondalmonte de'
Buondalmonti, avea promesso tôrre per sua donna una figliuola di messer
Oderigo Giantruffetti» (degli Amidei). «Passando dipoi un giorno da
casa i Donati, una gentile donna chiamata madonna Aldruda, donna di
messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando
a' balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli
una delle dette figliuole, e disseli: — Chi ài tu tolta per moglie? io
ti serbavo questa. — La quale guardando molto li piacque, e rispose:
— Non posso altro oramai. — A cui madonna Aldruda disse: — Sì, puoi,
chè la pena pagherò io per te. — A cui Buondalmonte rispose: — E
io la voglio. — E tolsela per moglie, lasciando quella avea tolta
e giurata».[19] Il padre della tradita se ne duole coi consorti;
deliberano di vendicarsi: ferirlo? ucciderlo? Il Mosca de' Lamberti
pronuncia la mala parola: «Cosa fatta capo ha». Buondelmonte, la
mattina di Pasqua del 1215, mentre si reca a impalmare la Donati, è
ucciso sul Ponte Vecchio, a piè della statua di Marte; di dentro al cui
idolo i vecchi e savi fiorentini riconoscono operarsi dal diavolo, per
vendetta, la distruzione della cristiana città,

                           che nel Batista
    mutò il primo padrone; ond'ei per questo
    sempre con l'arte sua la farà trista.[20]

Un'antica cronichetta[21] rappresenta, come in funebre fantasmagoria,
il corpo sanguinoso esser portato per la città fra i pianti e le grida,
e nella stessa bara, col capo in grembo, starsi tutta in lacrime
la seduttrice fatale, o forse vittima innocente ella stessa delle
suggestioni domestiche. Certo è che cotesta figura di donna, sott'ogni
rispetto sciagurata, ritrae dal vero e in sè bene raccoglie i tanti
e varî e ignorati patimenti che, per tanti anni appresso di cittadine
battaglie, si accumularono sulla donna fiorentina:

    .... infelici....
    che il duol consunse; orbate
    spose dal brando; vergini
    indarno fidanzate;
    madri che i nati videro
    trafitti impallidir.[22]

Quel «nobilissimo e feroce leone» del quale racconta la cronica che si
teneva pel Comune nella piazza di San Giovanni, — e uscito della sua
stia, correndo verso Or San Michele, afferra un fanciullo, e «tenealo
tralle branche»; e la madre, «che non ne avea più» se non questo che
«le rimase in ventre» quando le fu ucciso il marito, «come disperata,
con grande pianto, scapigliata, corse contro il leone, e trassegli
il fanciullo delle branche, e il leone nullo male fece al fanciullo
nè alla donna, se non ch'egli guatò e ristettesi»;[23] — e' rendeva,
il leone, i figliuoli alle madri: ma il Comune, del quale egli era
superbo simbolo, li divorava senza pietà. Altre madri sulle vie di
Firenze imitarono quella d'Orlanduccio del Leone; ma esse chiedevano
pietà agli uomini, e agli uomini di parte! «Deh quanto fu la dolorosa
madre de' due figliuoli ingannata!» (una madre di Guelfi Bianchi de'
tempi di Dante) «che con abbondanza di lagrime, scapigliata, in mezzo
della via, ginocchione si gittò in terra innanzi a messer Andrea
da Cerreto giudice, pregandolo, con le braccia in croce, per Dio
s'aoperasse nello scampo de' suoi figliuoli. Il quale rispose, che
però andava a palazzo: e di ciò fu mentitore, perchè andò per farli
morire».[24] Oh se nell'attraversare oggi quel tetro maestoso cortile,
nel salire le lunghe erte scale di quel Palazzo del Podestà, studiosi
e commossi visitatori delle reliquie del nostro passato, pensassimo di
quanto sangue furono bagnate quelle pietre più che sei volte secolari,
dovremmo dire che a cancellarne la traccia, non ci voleva meno delle
lacrime tante che quel sangue è costato!


III.

Tutta ravvolta in questi foschi vapori di scellerato odio fraterno,
attraversa la donna fiorentina il secolo XIII, compagna de' forti
mercatanti ed artefici che lavorando e combattendosi, non meno
alacremente l'una cosa che l'altra; e senza tuttavia rimanere
insufficienti ad altre faccende, — soggiogare i magnati, osteggiare
i Comuni vicini, resistere all'Impero, tenere in rispetto la Curia
Romana; — fondano la guelfa democrazia. Arti e mestieri, nonostante la
intestina guerra, fioriscono; e con essi, i commerci e le industrie;
la ricchezza muta i sentimenti e i costumi; l'arte del bello, figurato
e scritto, comincia ad ingentilirli. Bensì lentamente. Siamo al primo
di quegli ordinamenti popolari, a quello che fu chiamato «il primo
popolo» o «popolo vecchio», del 1250; e la cronica[25] nota «che al
Tempo del detto popolo, e in prima e poi a grande tempo, i cittadini
di Fiorenza viveano sobrii e di grosse vivande, e con piccole spese,
e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi; e di grossi drappi
vestieno loro e le loro donne, e molti portavano le pelli scoperte
senza panno, e colle berrette in capo, e tutti con gli usatti in piede,
e le donne fiorentine co' calzari senza ornamento; e passavansi, le
maggiori, d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto d'Ipro o di
Camo, cinta ivi su d'uno scaggiale all'antica, e uno mantello foderato
di vaio col tassello sopra, e portavanlo in capo; e le comuni donne
vestite d'uno grosso verde di Cambragio per lo simile modo. E lire
cento era comune dota di moglie, e lire dugento o trecento era a quegli
tempi tenuta isfolgorata; e le più delle pulcelle aveano venti e più
anni anzi ch'andassono a marito».[26] Ma soggiungendosi poi che «di sì
fatto abito e di grossi costumi erano allora i Fiorentini, ma erano di
buona fe' e leali tra loro e al loro Comune», — il che quanto a «lealtà
tra loro» cioè concordia cittadina, non poteva dopo il 1215 dirsi più,
— mostra che molto della descrizione appartiene di più stretto diritto
ai tempi anteriori, dai quali il cronista stesso ha dichiarato di
muoverla. È insomma la descrizione d'una età di passaggio, dove, da un
canto, le «pelli scoperte» e gli usatti ci ricordano i contemporanei di
Cacciaguida

    andar contenti alla pelle scoperta;

mentre i nomi di que' panni francesi e inghilesi delle gonnelle
fiorentine, lo scarlatto d'Ypres o di Cam, il panno di Cambrai, ci
fanno avvertiti esser passati i tempi nei quali

                     ancor nessuna
    era per Francia nel letto deserta.[27]

E passati, altresì, quelli ne' quali i matrimonî a matura età
conciliava non isforzato l'amore, che durante il decimoterzo secolo
addivennero anch'essi arme e instrumento, manco male che di difesa,
alle animosità civili. Tarda età da marito diventarono i venti anni
od anche i diciotto; «grande etade e fiorita» i quindici; quando si
affrettava la collocazione delle figliuole nelle case, o de' consorti
per raffermare i vincoli di parte, o degli avversarî per suggello di
pace: e talvolta anche il Comune stesso vi cooperava.[28] Si faceva
il parentado, essendo tuttora fanciulli gli sposi; e bastava l'età
di dodici o tredici anni, perchè la fidanzata fosse poi condotta
all'altare e divenisse moglie. Uno degli antichi commentatori di
Dante dice: «le maritavano nella culla».[29] Guido Cavalcanti, il
gentilissimo de' nostri antichi rimatori, fu ammogliato così; datagli
dal padre a otto o nove anni, e datagli perchè Guelfi, la Bice degli
Uberti figliuola del magnanimo Farinata, piccola ghibellina di forse
cinqu'anni o sei, che sopravvisse poi lungamente co' figliuoli al
marito, morto giovine nel 1300.[30] Forse così anche fu conciliato il
matrimonio di Beatrice Portinari, giovanissima, con messer Simone de'
Bardi.[31] Matrimonî che avevano, nè poteva essere diversamente, i loro
drammi. Ma la elegia di coteste giovinezze tiranneggiate è notabile che
ci rimanga appunto nell'unico saggio di poesia femminile, offertoci,
di molto probabile autenticità, dal secolo XIII, e poesia fiorentina,
nei tre sonetti d'una donzella che nasconde il suo nome (la Compiuta
Donzella di Firenze, la chiama l'antico Codice Vaticano che ce li ha
conservati),[32] la quale, dopo aver salutato col frasario provenzale
de' rimatori dugentisti la primavera,

    la stagion che 'l mondo foglia e fiora,

soggiunge:

      ed ogni damigella in gioi' dimora,
      e a me n'abbondan smarrimenti e pianti:
    chè lo mio padre m'à messa in errore,
      e tenemi sovente in forte doglia;
      donar mi vuole, a mia forza, signore.
    Ed io di ciò non ò disio nè voglia,
      e 'n gran tormento vivo a tutte l'ore:
      però non mi rallegra fior nè foglia.

Ed ecco poi, nella triste sua realtà, il dramma. Una Buondelmonti,
di famiglia guelfa, «molto valente e savia e bella», va il 1239 sposa
negli Uberti a un fratello di Farinata: che è quanto dire, parentado
fra le due famiglie, capo ciascuna di parte. Alcuni anni dipoi, in
un agguato, alcuni degli Uberti sono trucidati dai Buondelmonti: la
città è tutta in armi e sossopra. Messer Neri degli Uberti rimanda la
donna alla casa paterna, dicendo: «Io non voglio generare figliuoli di
genti traditore.» La poveretta, che lo ama, obbedisce e lo lascia. Il
matrimonio è annullato: peggio ancora; è dissimulato dal padre di lei,
in un altro trattato di nozze che egli conchiude con un conte della
maremma senese. Il sacrificio è compiuto: ma la vittima, rimasta sola
col nuovo marito, gli dice: «Gentile uomo, io ti priego per cortesia,
che tu non mi debbia appressare nè fare villania, sappiendo che tu se'
ingannato, ch'io non sono nè posso essere tua moglie, anzi sono moglie
del più savio e migliore cavaliere della provincia d'Italia, cioè
messer Neri delli Uberti di Firenze». Il conte, gentiluomo davvero,
la rispetta, la conforta, la restituisce padrona di sè: e quella
nobile creatura ritorna alla sua Firenze, ma per vestirsi monaca in
Monticelli, e quivi sparire dal mondo, che oggi ignora perfino il suo
nome.[33]

Il monastero riparò molte di queste infelicissime; il monastero, del
quale la Compiuta Donzella cantava:

    Lasciar vorria lo mondo, e Dio servire,
      e dipartirmi d'ogni vanitate:
      ..... marito non vorria nè sire,
      nè star al mondo per mia volontate.
    Membrandomi ch'ogni uom di mal s'adorna,
      di ciaschedun son forte disdegnosa,
      e verso Dio la mia persona torna.
    Lo padre mio mi fa stare pensosa,
      chè di servire a Cristo mi distorna,
      nè saccìo a cui mi vuol dar per isposa.

Ma neanco il monastero fu talvolta asilo sicuro alla loro innocenza,
alle loro sventure, alla libertà dell'anima loro. Dio solo, ha detto
Dante, conobbe que' misteriosi dolori:

    e Dio si sa qual poi mia vita fusi.[34]

Poichè a chi di voi non precorre qui alla mente la celestiale figura di
Piccarda, che rimpiange la dolce chiostra dove giovinetta era fuggita
dal mondo, e l'ombra delle sacre bende che ella ed altre indarno
sperarono conservare sul capo canuto, e si compiace che

    non fur dal vel del cuor giammai disciolte?

Gli antichi commentatori raccontano che ella «fue bellissima donna,
sorella di messer Corso Donati: stata questa donna nel monistero,
occorse a messer Corso di fare un parentado in Fiorenza: non avea nè
chi dare nè chi tòrre: sì che fue consigliato di trarre la Piccarda
del monistero, e fare tal parentado.... Sforzatamente la trasse del
monistero, e maritolla».[35] Con siffatti auspicî entrò Piccarda
nei Della Tosa: ai quali, sebbene famiglia guelfa e legatissima con
la Chiesa e con l'episcopato fiorentino, sembra fossero familiari,
forse perchè più facilmente impunite, siffatte violenze contro
i monasteri; poichè nel 1304, quando i Guelfi Bianchi fuorusciti
tentarono armata mano il ritorno, uno dei Tosinghi si gettò, narrano i
contemporanei,[36] nel monistero di San Domenico, alla preda di due sue
ricche nipoti. Le quali cose ricordando di cotesta possente famiglia
magnatizia, che l'Alighieri pone fra le ingrassate a spese della
Chiesa fiorentina,[37] occorre altresì alla mente un'oscura pagina, o
piuttosto un curioso enigma, di storia, che risguarda e loro e la donna
fiorentina del secolo XIII: dico una cena che il reverendo capitolo
della Basilica di San Lorenzo dava il giorno di calen di maggio, ossia
il dì delle feste primaverili, non si sa a quali convitati, ma con
abbondante imbandigione, e che si chiamava «la cena delle maladette
donne de' Tosinghi».[38] Resta, ripeto, a sapersi il perchè di questa
maledizione, e dell'esservi mescolate le donne di quella casa, e dello
intitolarsi da una maledizione di donne una cena imbandita per cura e
a spese d'un capitolo di canonici. Forse Dante potrebbe dircene qualche
cosa per bocca d'una delle donne del suo Poema, monna Cianghella della
Tosa; il cui nome egli lancia, con quella potenza di vitupero ch'ei sa,
come un ideale femminile.... di tutto quel che non era Cornelia romana:

    Saria tenuta allor tal maraviglia
      una Cianghella............
      qual or saria....... Corniglia.[39]

Ma che sulla donna pesasse duramente la maledizione di quelle
discordie, è certo pur troppo. Era già dura servitù la inferiorità
civile nella quale era tenuta dalle leggi, con subordinazione non pure
della sua personalità giuridica ma sottomissione della sua volontà al
mundualdo o procuratore che quelle le assegnavano, e senza la «parola»
del quale ella non poteva nè obbligarsi nè sciogliersi, insomma non
fare un passo. Ponete caso; anzi sentitene uno da autentico documento
per man di notaro:[40] due donne si accapigliano l'una con l'altra,
monna Fiore e monna Puccia; si battono di santa ragione; poi fanno la
pace: ma per fare la pace, e perchè monna Fiore, la più gagliarda, sia
liberata dalla condanna di lire 275 di piccioli inflittale dal Potestà,
occorre prima, che un notaio dia loro il mundualdo, il quale poi
dinanzi a un altro notaio autorizza e fa valida la loro pacificazione.
Tale la condizion giuridica: le civili discordie poi, con gli esilî,
con le violenze, con gli odî mortali col vincolare gli affetti, col
calcolare a stregua di parte i parentadi, distruggevano alla donna
ciò che per essa è tutto, la vita domestica. Si pensa mai, quando si
legge di quelle vendette premeditate per dieci, venti, trent'anni,
trasmesse in sanguinoso legato da padre a figlio, le quali si sapeva,
dall'una parte e dall'altra, pesar com'un debito che era forza non meno
agli uni esigere che agli altri pagare, si pensa quante trepidazioni
materne e coniugali, di figliuole, di sorelle, di fidanzate, quante
lacrime di tenere creature impotenti a rompere que' giuramenti di
sangue, quanti sentimenti repressi, quante vite spezzate, coteste
atroci storie si trassero seco? Alcune anime sensitive e ferventi,
gittate in età ancor quasi di bambine in quel vortice, ne contraevano
lo spavento d'ogni cosa del mondo, cominciando, triste a dirsi!, dalla
famiglia. La Chiesa, consacrando con la canonizzazione il distacco
di tali donne dalla vita esteriore, quali una Cerchi, una Falconieri
(anche Piccarda nel Calendario fiorentino, come nel Paradiso dantesco,
è, ma col nome di suor Costanza, tra i Beati),[41] può dirsi abbia non
solamente coronate virtù miti in età feroce,[42] ma retribuito dolori
ineffabili. Umiliana de' Cerchi, sposa e madre a sedici anni, vedova
d'un brutal marito a venti, sfiduciata dell'avvenire de' suoi figliuoli
in quella società di crudeli, torna alla casa paterna, e conforta la
precoce vedovanza con la carità verso i poveri e i reietti: aborrente
da nuove nozze che le si minacciano, spogliata con inganno della sua
dote, le esce di bocca questo pietoso lamento:[43] «Com'io veggio, non
è fede in terra, perocchè il padre inganna e toglie alla figliuola.
Abbiami dunque il mio padre quinci innanzi me non per figliuola,
ma per fante e serva.» E si rinchiude più in sè, facendo della casa
sua monastero; si ritira nella torre del palagio, la quale è a lei
oratorio, dice la leggenda, anzi quasi una carcere. L'umano, anche
nelle sue più care e sacre attinenze, le si allontana viepiù sempre:
«Al tempo dell'orazione, i vostri figliuoli vi sieno lupi, e la camera
l'alpe di Montalpruno», dice ella a delle buone madri che si accusano
di essere distratte dal pregare «per la occupazione della masserizia e
de' figliuoli»; ma essa medesima poi con lacrime chiede a Maria la vita
della piccola Regale, sua figlia, un giorno che la poverina, dinanzi
alle asprezze di quella penitenza, le cade a' piedi come morta: «Abbi
misericordia di me, e rendimi questa mia figliuola». Presto la sua vita
si va consumando. Sul capo suo, dalla torre del padre, imperversa la
guerra civile; i mangani e i trabocchi grandinano pietre; si appicca
il fuoco alle case: per Umiliana tutto questo non è che il trionfo del
diavolo, il quale viene a lei dicendo: «Leva su, figliuola, e vedi la
città che tutta si consuma ed arde». A ventisett'anni, nel 1246, ella
muore. Doveva passare ancor più d'un secolo, perchè Firenze e l'Italia
ammirassero in una vergine senese gli affetti umani non spenti ma
santificati dal fervor religioso; carità di prossimo, di famiglia,
di patria, di Chiesa, avvivarsi come fiaccola alle procelle del
mondo; l'amore allearsi allo sdegno in ardimenti virili con femminile
modestia; e Caterina rimanere nella memoria degli uomini, ha scritto
un suo devoto che propugnò con Daniele Manin la libertà di Venezia,
rimanere «donna di consolazione e di lagrime, fanciulla ed eroe,
Clorinda ed Erminia dell'eterno poema d'Italia».[44]


IV.

Se non che agli uomini del secolo XIV erano ormai antiche, e da non
poter più rinnovarsi, quelle atroci battaglie che desolavano, da un
momento all'altro, l'intera città; quelle proscrizioni che schiantavano
dalla cittadinanza la metà dei cittadini; que' ritorni di sbanditi,
che alle porte della patria esiliatrice si presentavano col ferro in
mano e col fuoco. A esiliare pur troppo si seguitò; la condanna del
padre colpì i figliuoli anche nelle culle: ma la donna fu rispettata;
potè la donna rimanere nelle case vedovate, e serbarle ai ritorni con
dolorosa preghiera, nelle chiese della patria, dinanzi alle madonne
di Giotto, invocati. Diamo invece un ultimo sguardo al secolo XIII,
a questa forte età che nel grembo travaglioso conteneva pure i germi
della civiltà moderna. Ripensiamo la prima cacciata di Guelfi nel
1249, che per estremo atto nella patria, celebrano, tutti armati, le
esequie del loro portansegna messer Rustico Marignolli, lo depongono
in San Lorenzo, poi essi e le famiglie si partono e si disperdono pel
Valdarno: i Ghibellini distruggono le case deserte («maledizione del
disfare» che cominciò allora, dice la cronica),[45] e d'una torre,
che dal vecchio cimitero intorno a San Giovanni prendeva nome di
Guardamorto, vogliono «con maggiore empiezza», parole sempre della
cronica, vogliono far rovina addosso alla chiesa e battistero, come
guelfa anche lei, perchè ritrovo ab antico, e fonte di vita e riposo
in morte, di Guelfi. E nella seconda cacciata, dopo Montaperti,
«arriva in Fiorenza», lasciamo ancora parlare la cronica,[46] «la
novella della dolorosa isconfitta; e tornando i miseri fuggitivi, si
leva il pianto d'uomini e di femmine sì grande, che va sino al cielo;
imperciocchè non avea casa niuna in Fiorenza, nè piccola nè grande, che
non vi rimanesse uomo morto o preso.... I Guelfi, sanza altro comiato,
colle loro famiglie, piagnendo, uscirono di Fiorenza e andaronsene a
Lucca....»: fu una città che si riversava in un'altra. I vincitori,
con le masnade tedesche, rientrano in patria, e dentro e fuori delle
mura la demoliscono mezza. Strappano perfino rabbiosamente dalle chiese
le arche sepolcrali e le ossa dei Guelfi: e se oggi un Aldobrandino
Ottobuoni, cittadino integerrimo che ai nostri vecchi parve l'imagine
del «buono romano Fabrizio», non ha più la sua tomba in quella che
allora era Santa Reparata, si deve a quei sacrilegî;[47] a omissione,
non a reverenza, si deve, che del portansegna Marignolli sia rimasta
in San Lorenzo con le ceneri la pietra del sepolcro domestico.[48] Se
Fiorenza non fu «tolta via» tuttaquanta,[49] ognun sa che fu virtù e
gloria di un uomo. Ma a quei rifugiati in Lucca, che strazio l'udire,
impotenti a ripararvi, la rovina delle loro case, delle loro memorie,
dell'avvenire de' loro figliuoli! che furore negli uomini! che lacrime
cocenti si saranno serrate nel cuore quelle misere donne![50] Poi,
rivolta fortuna, successero le vendette guelfe, meno atroci ma più
lente, più intime, più continuate, poichè durarono quanto durò la
repubblica, dove il nome ghibellino rimase all'odio comune anche
quando più non sussisteva la cosa. Confiscati, distribuiti, dispersi
gli averi, i possessi delle famiglie ghibelline, come si distrugge il
nido d'una bestia feroce; gli Uberti, votati a esilio perpetuo, e nelle
orazioni de' Guelfi supplicato Dio che si degni di sradicarli;[51] i
Santi stessi, se del loro sangue, rimossi dall'altare;[52] vietato di
contrar matrimonio coi conti Guidi e altrettali signori di contado, e
i figliuoli di siffatte unioni sentenziati bastardi:[53] insomma, una
scomunica dalla convivenza sociale, che accompagna l'anatema con che la
Chiesa li separa dal suo grembo. Sotto questa bufera di persecuzione, i
più de' Ghibellini cedevano, e, per ritornare o rimaner cittadini, si
facevano Guelfi. Quasi soli i discendenti di Farinata rimasero fedeli
alla parte degli avi loro:[54] portarono superbamente per le terre
d'Italia la propria condanna e la propria fermezza; pagarono intrepidi,
sotto la mannaia guelfa, il debito, com'essi stessi lo chiamarono,
lasciato loro da' padri; «non mutarono aspetto, non mosser collo,
non piegarono costa», quale Dante, fra le tombe di Dite, avea veduto
giganteggiare il loro avo magnanimo, co' suoi eretici ghibellini, col
suo imperator Federigo.

Ma come in quel canto sublime, allato a cotesta figura di bronzo,
vediamo «in ginocchion levata» l'ombra affettuosa e piangente d'un
padre che cerca il figliuolo; così alle persone di quei profughi,
che pure erano figliuoli e padri e sposi e fratelli, noi congiungiamo
l'imagine delle povere, deboli creature, che dietro a loro trascinavano
il tormentoso desiderio della patria e della casa perdute. E quando
leggiamo[55] che in una di quelle illusorie pacificazioni, tornati per
pochi giorni in Firenze anche gli Uberti, fra la gente che venne loro
incontro, furono viste donne, i cui vecchi erano stati ghibellini,
baciar l'arme degli Uberti sui palvesi di quei proscritti; noi
sentiamo, a distanza di secoli, quel memore bacio, e l'alito che ne
spira di affetti consacrati dal pianto e dal sangue.

Appartengono a quelli anni del trionfo e della concordia dei Guelfi, le
feste del Calendimaggio che i cronisti e il Boccaccio[56] descrivono;
le corti bandite, con apparati allegorici d'amore;[57] la poesia
toscana che, rotto il circolo siculo provenzalesco, prende nome dal
«dolce stil novo»,[58] della quale può esser gentile imagine quel
vascelletto incantato, nel quale l'uno de' due maggiori rimatori di
cotesta scuola, Dante, affigura sè e Guido Cavalcanti e Lapo Gianni,
insieme con le loro donne, mollemente cullati dall'onde del mare
tranquillo.[59]

Ma presto si scatenò la bufera. Siccome il flagello di quelle discordie
si rivolgeva contro coloro stessi che lo impugnavano, i vincitori
Guelfi, presto gli uni con gli altri guerreggianti, fecero della
città conquistatasi e delle case loro lo scellerato teatro di altri
disordini. Si cominciò col non credere più oltre sicuro il trionfo del
popolo guelfo artigiano, senza la oppressione, anzi l'annientamento
dei Grandi: e i terribili Ordinamenti della Giustizia rinnovarono,
per le vie di Firenze guelfa, il triste spettacolo dei disfacimenti
ghibellini. Or pensate voi che possa essere stata disfatta pur una
di quelle case, senza che le donne di essa sentissero a uno a uno nel
cuore i colpi di quelle demolizioni? Pochi anni dipoi, Guelfi Bianchi
e Guelfi Neri, papa Bonifazio VIII e Carlo di Valois, si aggruppano
personaggi sinistri d'una tragedia mossa dalle Erinni familiari, la
quale ebbe fin d'allora storico e poeta degni in Dino e in Dante.
Raccogliamo brevemente, al proposito nostro, da quelle linee sparse,
la imagine della città caduta nel novembre del 1301 in mano del paciaro
francese, che al disprezzo dell'Alighieri non parve meritare nemmeno il
rinfaccio d'aver lacerato con la spada il seno di Firenze; egli, disse
il Poeta, «le aveva, pontando la lancia di Giuda, fatto scoppiare la
pancia».[60] Furono sei giorni di saccheggio e di desolazione:[61] ogni
uomo fece male a chi volle, a amico e a nemico: da tutte le parti era
un nascondersi, un trafugar roba, un fuggire: qua e colà, ogni tanto,
un palagio che bruciava: ruberie di botteghe e di case, uomini posti
alla corda, ferimenti, omicidî: in contado andar le gualdane, rubando,
ardendo, ammazzando. Non rispettato l'onor delle donne: i meno tristi
imporre ad esse e alle famiglie forzati matrimonî; fuggiti gli uomini,
rimanere donne e fanciulli alla discrezione de' nemici; sentite come!
e cuori di donna misurino il dolore di quelle poverette, a vedere così
iniquamente violato il santuario domestico: «Vennero in casa nostra
in Mercato Vecchio, di notte; rubaron quello che vi trovarono: ben
l'avevamo la sera passata sgomberata delle più care cose. Noi uomini
non v'eravamo, ch'eravamo cessati la sera dinanzi. In quella medesima
notte, ci venne in casa un'altra masnada, e rubarono di quello che
v'era rimaso. E dopo rubato, i Tosinghi e i Medici si mandavano
profferendo alle nostre donne. E non voglio che rimanga nella penna,
che quella notte furono lasciati ignudi i fanciulli, maschi e femmine,
in sul saccone, e portaron via la roba e' panni loro; che non fu fatto
in Acri per li Saracini così fatte opere e pessime».[62]

Del resto, in quella divisione di parte Guelfa tra Bianchi e Neri,
anche le donne si erano più forse che in alcun altra simile occasione,
mescolate. Nè è da maravigliarne: perocchè questa volta la discordia
si cacciava tra famiglie congiuntissime per vincoli di parte, di
consorteria, di vicinanza; e perciò turbava relazioni anche più
intime, che non da Guelfi a Ghibellini: nè a tale turbamento poteva
rimanere estranea la donna. Dice un cronista,[63] con parole nella loro
semplicità pittoresche: «Si divise la città di Firenze, e fecero di
loro due parti per modo, che non fu nè maschio nè femmina, nè grande
nè piccolo,» (intendasi di condizione) «nè frate nè prete, che diviso
non fosse». E un novelliere,[64] toccando specialmente di questo
parteggiar delle donne, e lodando a paragone la bontà di altri tempi:
«Ora che diremo dello ingegno della malizia femminina? Più acuto hanno
l'intelletto e più subito; e a fare e a dire il male assai più che gli
uomini, sono fatte parziali: chè a buon tempo elle averebbono ripresi i
mariti loro, oggi li confortano a combattere per parte. E per questo da
loro è disceso assai male nel mondo....».

Noi possiamo assistere a qualche singolare episodio di cosiffatte
guerricciuole a porte chiuse. Siamo in casa (l'ho raccontato altra
volta)[65] di messer Vieri de' Cerchi la mattina de' 23 aprile
del 1300, pochi giorni avanti che la discordia guelfa prorompa in
sanguinose violenze. È imbandita la mensa per un suntuoso convito:
e madonna Caterina, una Bardi moglie di messer Vieri, dispone a' lor
posti i convitati. Una Donati è da lei messa accanto a una gentildonna
pistoiese de' Cancellieri; e il marito, con poco prudente zelo,
l'ammonisce: «Non far così, chè non sono d'uno animo: tramezza chi
che sia». «Messere,» gli dice la Donati, che ha sentito, «voi fate una
gran villania, a far me e i miei di parte o nimici di persona: ed ho
voglia andarne di fuori». La Cerchi irritata risponde lei: «E tu te ne
va'». Il marito, dolente dello scandalo, fa le sue scuse e trattiene
la gentildonna con garbata violenza; ma il rimedio è peggior del male,
ch'ella lo rimprovera, come di scortesia, di questo porle addosso le
mani. Allora egli impazientito, «contuttochè fosse savio cavaliere»,
esclama (chiedo scusa per messer Vieri al mio gentile uditorio): «Bene
sono il diavolo le femmine!» E lascia, non si sa se andare o stare, la
furiosa Donati: ma il diverbio seguitò fra gli uomini; e poche ore dopo
co' ferri alle mani: «perocchè erano sì vicini, che l'uno sempre era a
casa l'altro».

Varchiamo soglie più segrete e gelose, quelle di San Pier Maggiore:
chiesa di monache benedettine antichissima, andata miseramente in
isfacelo un cento anni fa. La quale non può qui nominarsi, senza
ricordare che in essa i Vescovi fiorentini, quando facevano il loro
solenne ingresso, si recavano prima che altrove, e con cerimonie,
di cui ci rimangono minutissime descrizioni, inanellavano, fra riti
e pompe nuziali, la reverenda madre abbadessa, che in persona della
Chiesa fiorentina convitava e ospitava per ventiquattr'ore il novello
sposo. E ciò, dicono gl'instrumenti, «per antica e ferma consuetudine
da tanto tempo quanto è di là da memoria d'uomini».[66] Al monastero
pertanto di San Pier Maggiore, un giorno di gennaio del 1299, si
presenta Lisa di ser Guidolino da Calestano, venturiero lombardo
che fu poi cagnotto attivissimo dei Guelfi Neri,[67] e chiede di
esser ricevuta monaca. La badessa, suor Margherita, risponde che il
numero è completo, e ch'ella non può senza offesa delle costituzioni
ricevere la Lisa. Allora questa esibisce lettere del Santissimo Padre
papa Bonifazio VIII, che ingiungono senz'altro alla madre abbadessa
l'accettazione della nuova religiosa. Ma la badessa prorompe: «Che di'
tu Papa? che santissimo Padre? Bonifazio non è papa altrimenti, sibbene
il diavolo in terra tribolator de' Cristiani; ma il Signore Iddio
darà tanto potere ai Colonnesi di Roma, ch'e' faranno di lui e de'
parenti suoi quel che egli fece di loro contro diritto e giustizia». E
le porte del monastero si chiudono strepitosamente dietro l'iraconda
e, diciam pure, dantesca badessa; alla quale, del resto, non sembra
che mancasse nè la parola tagliente nè il dono della profezia: perchè
la trista violenza de' Colonna sul pontefice in Anagni la predisse
anche Dante,[68] ma a cose fatte; la badessa, quattro anni prima
che avvenisse. Questa volta però là qualificazione di «diavolo»
investiva ben altro che femmine, e non per bocca d'un cavaliere: una
sentenza della Curia vescovile a cui la Lisa, impenitente nella sua
vocazione, immediatamente ricorse, imponeva «perpetuum silentium»
a lei e al suo procuratore; con grande consolazione, non solamente
delle pinzochere fiorentine, che appunto di que' giorni mandavano
a loro spese fantaccini a crociarsi nella guerra papale contro «i
perfidi Colonnesi»,[69] ma altresì del Comune, pel quale un processo
addosso a quel Monastero di San Pier Maggiore non sarebbe stato,
com'oggi parrebbe, una cosa da poco, anzi una gravissima briga da
non aggiungersi volentieri alle molte, che in quelli anni funesti
travagliavano l'umoroso e mal disposto corpo della cittadinanza. Suor
Margherita (aggiungo in parentesi) si trova, a piccola distanza di
tempo, aver ceduto ad un'altra il seggio abbaziale, che teneva fin dal
93; poichè nelle nozze episcopali, ch'ebbero a rinnovarsi nel maggio
del 1301, ella è bensì fra le assistenti al rito, ma non essa la sposa.
Aggiungo ancora che quand'ella fu eletta, due delle monache elettrici,
agli scrutatori curiali che raccoglievano i voti, avevano risposto
che per consentire nel nome di qualsiasi delle suore volevano innanzi
consigliarsene col padre e con gli altri della casa: eccezione dagli
scrutatori respinta come disonesta e contro diritto, e a noi evidente
esser suggerita da rispetti e legami di parte, i quali avvincevano
dunque anche le donne, e quelle stesse che ogni vincolo mondano avevano
professato d'infrangere.[70]

Alle donne fiorentine di cotesti anni, mordendone con parole
acerbissime i disordinati costumi, minaccia Dante,[71] per bocca dello
spirito d'uno dei Donati, che i peccati di Firenze attireranno anche
su di esse la meritata punizione del cielo: avanti che siano adulti
i pargoletti i quali ora fanno la nanna sulle loro ginocchia, Dio le
farà triste, e avranno a «urlare» sui mali delle loro famiglie e della
loro città. Allusione indubitabile, ragguagliando le date, — o alla
rotta dei Guelfi sotto Montecatini, nel 1315, della quale un rimatore
contemporaneo[72] cantava:

    Non vi ricorda di Montecatini,
    come le mogli e le madri dolenti
    fan vedovaggio per li Ghibellini,
    e' babbi e' fratri e' figliuoli e' parenti?

— o piuttosto alle vendette imperiali che nel 1312 Dante con gli altri
Bianchi sperò e invocò da Arrigo VII sui Guelfi Neri.[73] È, a ogni
modo, notevole in relazione col nostro tema, che anche per Dante,
come per gli altri grandi interpetri dell'ideale umano, un disastro
di guerra, un civile rovescio, si concretino, nella loro più dolorosa
forma, in lutto e pianto di donne. Così presso Omero, le matrone
troiane guidate da Ecuba veneranda sollevano con alti pianti le mani a
Minerva; e nella morte di Ettore, ai lamenti della moglie e della madre
e di Elena fatale, rispondono i gemiti di tutto il popolo; e nella
caduta della città, sente, fra il crosciar delle armi e degl'incendî,
il disperato gridar delle donne la pietosa anima di Virgilio;[74] a
tenore delle cui imagini, nell'assalto di Rodomonte a Parigi,[75]

    sonar per gli alti e spazïosi tetti
    s'odono gridi e feminil lamenti:
    le afflitte donne, percotendo i petti,
    corron per casa pallide e dolenti,
    e abbraccian gli usci e i genïali letti
    che tosto hanno a lasciare a estranie genti....

Nell'Omero fiorentino del medio evo la figurazione è meno plastica,
ma forse più potente; e la satira mesce nell'epica intonazione la sua
stridula nota:

    Ma se le svergognate fosser certe
      di quel che il ciel veloce loro ammanna,
      già per urlare avrian le bocche aperte;
    chè, se l'antiveder qui non m'inganna,
      prima fian triste, che le guance impeli
      colui che mo' si consola con nanna.[76]

Se non che gli spiriti, al cui vaticinio confidava Dante i rammarichi e
le ire dell'ingiusto esilio, non antividero che quella esaltazione di
guelfismo, nella quale i Neri avevano trascinato il Comune, e da cui
i più onesti e temperati fra i Guelfi, come esso l'Alighieri, avevano
rifuggito, anche a costo di perder la patria; doveva ormai' quella
esaltazione guelfa, rimanere durevol forma del concetto politico a cui
avrebbe seguitato a ispirarsi, pe' suoi settant'anni di secolo XIV, il
Comune democratico, e in quella la perpetua «inferma» dell'Alighieri
«trovar posa in sulle piume» del letto suo doloroso.[77] Così fu; nè
qui accade discorrerne le varie e molteplici cagioni: fatto sta, che
la storia fiorentina del Trecento, nel cui ultimo scorcio l'oligarchia
prevalse, non offrì quelle fortunose vicende di reggimenti e di
fazioni, di disfatte e di esilî, di vincitori e di vinti, per le quali
la continua mutabilità dello stato rese alla donna così procelloso e
malfido il porto della famiglia durante il secolo XIII: dagli esodi
alternati di Ghibellini e Guelfi fra il 48 e il 67, all'ostracismo
di Giano della Bella nel 95 sbandeggiato co' suoi compresavi la
figliuola Caterina;[78] dai disfacimenti vandalici di mezza la città
sotto il piccone de' Ghibellini,[79] alle sillane proscrizioni bandite
dai Guelfi Neri contro i loro stessi compagni di Parte condannati a
divenire «ghibellini per forza».[80] Gli uomini del Trecento raccolsero
da que' feroci contrasti la tradizione democratica artigiana, che
atteggiò la vita interna del Comune a una progressiva espansione verso
la plebe; espansione inefficacemente combattuta dalle Arti maggiori,
e che fece capo al governo de' Ciompi: — ne raccolsero la tradizione
guelfa francese, che in quello stesso secolo finì con l'attirare
sulla libera città l'abietta e sconcia tirannide del Duca d'Atene, e
dispose incorreggibilmente la Repubblica a una parzialità lusinghevole
e pericolosa, i cui estremi danni sentì Firenze nel 1530, quando a
ripararli non si era più a tempo: — ne raccolsero infine la sola forma
di magistrato fiorentino che abbia avuta durata ferma, i Priori e il
Gonfalonier di Giustizia, la cui insegna popolare piantata da Giano
della Bella, trasmessa dall'una all'altra di quelle mani gagliarde, fu,
dopo quasi due secoli e mezzo, il vessillo della patria nelle ultime
battaglie della libertà.


V.

Il Trecento, adunque, è nella storia di Firenze, comparativamente
all'età che lo precede, secolo di confermamento e di stabilità.
«Nuovo popolo», come dicevano, non si fa più. Non mancano le grandi
commozioni, i grandi pericoli, i grandi rovesci eziandio: la città è
assediata da Arrigo VII; minacciata da Uguccione, e più gravemente
da Castruccio; stremata del suo miglior sangue nelle battaglie di
Montecatini e dell'Altopascio; le calate imperiali del Bavaro, di
Carlo IV, mettono alla prova il senno e la borsa de' suoi mercatanti;
questa è munta gagliardamente dai sovrani quasi di tutta Europa; i
reali di Francia e di Napoli vengono a spadroneggiarci in casa; un loro
venturiero crede di essercisi insediato signore e duca; la travagliano,
con le armi e con le cupidigie, Scaligeri e Visconti, i Papi
Avignonesi e le Compagnie di ventura; le epidemie, ed una sopra tutte
spaventevole, la disertano; la tirannide guelfa turba l'equilibrio
delle Arti, e provoca gli eccessi della demagogia: ma lo Stato rimane
pur sempre saldo a tutti questi urti, fra tutte queste burrasche;
saldo tanto, che il rivolgimento verso l'oligarchia si compie senza
mutazioni, nè di forma nei magistrati, nè di sostanza nella politica
del Comune. E così può Firenze, durante questa età gloriosa, svolgere
nelle forme più ampie e sino a' più alti gradi la civiltà sviluppatasi
faticosamente dalle tenebre dei bassi tempi; d'industrie e commerci
alimentarla, afforzarla, propagarla nel mondo; farle ministre le arti
del bello figurato, che Arnolfo, Giotto e l'Orcagna, maestri e operai
del Comune, improntano di quella gentil compostezza che d'ora innanzi
si chiamerà toscana; ai dispersi elementi dell'eloquio latino, che di
regione in regione italica vennero atteggiandosi a lingua di popolo,
dare Firenze la forma, farne il verbo della nazione, anzi già il
valido istrumento d'una letteratura, che, intorno a un altro grande
triunvirato fiorentino, si afferma italiana.

Di questa vita, tanto più spirituale e civile quanto meno agitata e
procellosa, la donna, resa quasi ad aere più spirabile, partecipa,
com'è naturale, e ne gode largamente. Nella istoria di lei, il
dramma fa luogo alle contingenze, or liete or tristi, del familiare
e cittadino consorzio; è finalmente ai tesori della bellezza e della
tenerezza sua, ispiratrici, ricomposto il nido domestico, com'era a
tempo delle avole buone, ma ora la ricchezza e l'arte gareggiano in
adornarlo: e i mercatanti di Calimala e di Por Santa Maria, quasi a
consolarla de' lunghi abbandoni, serbano a lei le primizie de' panni
che recarono d'oltremonte, e che trasformati e triplicati di pregio
rivarcheranno le alpi ed il mare.

Ed ella non sarebbe donna, se di quella ricchezza, di quelle
appariscenze, che son poi infine lieto testimonio della forza e della
prosperità del Comune, la non si compiacesse, e non se ne circondasse
volenterosa. Ed hanno un bel gridare i religiosi dal pergamo; e Dante
anche questa voce del tempo suo (e quale gliene sfugge?) ha raccolta;
hanno un bell'ammonire e minacciare e interdire, e aggiungere le
«spiritali» alle altre «discipline»,[81] che correggono e frenano i
mondani splendori e il trascorrere nelle pompe e nel lusso.... Ma sono
così belli, sotto il raggio meridiano del sole di primavera o ne' rosei
tramonti autunnali, quelli svariati colori, quegli arienti, quell'oro,
su quelle teste bionde, intorno a que' candidi colli, a prova con lo
scintillare di que' neri occhi pensosi! paion fatti apposta que' fini
broccati per disegnare le vite snelle e flessuose che aspettano di
essere abbracciate pel ballo! quelle perle e pietre preziose, e i segni
e lettere nella cui forma sono disposte, che significato e qual valore
avrebbero, se fossero risparmiate a que' petti esuberanti di giovinezza
e d'amore?

Ed ecco che il Comune, rigido ed inflessibile mantenitore de'
proprî diritti, arma l'Esecutor della legge, di capitoli e statuti
suntuarî[82] severissimi «contra i disordinati ornamenti delle donne
di Firenze»; le quali piegano crucciose il capo, e di mala voglia
obbediscono: siamo nel 1324. Ma son passati appena due anni; e tolta
occasione dalla venuta del duca di Calabria, chiamato al solito
esercizio di signoria angioina sulla guelfa repubblica, le donne si
fanno attorno alla duchessa sua moglie, che è una francese, Maria di
Valois; e ottengono sia loro reso «uno loro spiacevole e disonesto
ornamento» (è la borghesia che brontola per bocca di Giovanni
Villani)[83] «di trecce grosse di seta gialla e bianca, le quali
portavano in luogo di trecce di capelli dinanzi al viso...., ornamento
disonesto e trasnaturato....: e così il disordinato appetito delle
donne vince la ragione e il senno degli uomini». Una corte ducale,[84]
quel codazzo cortigiano e francese, operano, ne' pochi anni che Firenze
se li gode, il proprio effetto: e i Fiorentini, per calen d'aprile
del 1330, «tolgono tutti gli ornamenti alle loro donne», e, si può ben
dire con una parola di stampo adatto al caso, le disabbigliano da capo
a piè. Sentite![85] «Essendo le donne di Firenze molto trascorse in
soperchi ornamenti di corone e ghirlande d'oro e d'argento, e di perle
e pietre preziose, e reti e intrecciatoi di perle, e altri divisati
ornamenti di testa di grande costo; e simile, di vestiti intagliati
di diversi panni e di drappi rilevati di seta, e di più maniere, con
fregi e di perle e di bottoni d'ariento dorato ispessi, a quattro e sei
fila, accoppiati insieme; e fibbiati di perle e di pietre preziose al
petto, con diversi segni e lettere; e per simile modo facendosi conviti
disordinati per le nozze delle spose, ed altri, con più soperchie e
disordinate vivande; — sopra ciò si provvede e si fanno ordini, che
niuna donna non possa portare nulla corona nè ghirlanda, nè d'oro nè
d'ariento nè di perle nè di pietre nè di seta, nè niuna similitudine di
corona nè di ghirlande, eziandio di carta dipinta; nè rete nè trecciere
di nulla spezie, se non semplici; nè nullo vestimento intagliato nè
dipinto con niuna figura, se non fosse tessuto; nè nullo addogato nè
traverso, se non semplice partita di due colori; nè nulla fregiatura,
nè d'oro nè d'ariento nè di seta, nè niuna pietra preziosa, nè eziandio
ismalto nè vetro; nè potere portare più di due anella in dito, nè nullo
scheggiale nè cintura di più di dodici spranghe d'argento; e che d'ora
innanzi nulla si possa vestire di sciamito, e quelle che l'abbiano il
debbano marcare, acciò che l'altra nol possa fare; e tutti i vestiri
di drappi di seta rilevati sian tolti e difesi; e che nulla donna possa
portare panni lunghi dietro più di due braccia, nè iscollato di più di
braccia uno e quarto il capezzale; e per simile modo siano difese le
gonnelle e robe divisate a' fanciulli e fanciulle, e tutti i fregi, ed
eziandio ermellini, se non a' cavalieri e a loro donne; e agli uomini
tolto ogni ornamento e cintura d'argento, e' giubbetti di zendado o di
drappo o di ciambellotto. E nullo convito si possa fare di più di tre
vivande, nè a nozze avere più di venti taglieri,» (che val quanto non
più d'una quarantina di convitati) «e la sposa menare sei donne seco
e non più; nè a' corredi di cavalieri novelli più di cento taglieri di
tre vivande; e a corte de' cavalieri novelli non si possano vestire per
donare robe a' buffoni». Sopra i detti capitoli, continua la cronica,
feciono uficiale forestiere a cercare e uomini e donne e fanciulli
delle dette cose diviete con grandi pene. E impongono norme e tariffe
alle arti e allo spaccio delle derrate: e curano insomma l'interesse
e la masserizia delle famiglie, senza darsi pensiero del danno che ne
sentono specialmente «i setaiuoli e orafi», costituenti una medesima
Arte, «che per loro profitto ogni dì trovavano ornamenti nuovi e
diversi». Conchiude la cronica:[86] «I quali divieti fatti, furono
molto commendati e lodati da tutti gli Italiani; e se le donne usavano
soperchi ornamenti, furono recate al convenevole: onde forte si dolsono
tutte, ma per gli forti ordini tutte si rimasono degli oltraggi» (cioè
da quelli eccessi); «e per non potere avere panni intagliati, vollono
panni divisati e istrangi i più ch'elle poteano avere, mandandogli
a fare infino in Fiandra e in Brabante, non guardando a costo. Ma
però molto fu grande vantaggio a tutti i cittadini in non fare le
disordinate spese nelle loro donne e conviti e nozze, come prima
faceano; e molto furono commendati i detti ordini, perocchè furono
utili e onesti; e quasi tutte le città di Toscana, e molte d'Italia,
mandarono a Firenze per esempio de' detti ordini, e confermargli nelle
loro città».

Ma chi dovette trovarsi a disagio, proseguiremo noi, furono quelli
«ufficiali forestieri», deputati dal Comune all'applicazione della
legge, ossia a combattere per essa contro il malumore e l'astuzia delle
donne fiorentine, congiurate per la difesa del loro abbigliamento.
Delle tante grottesche figure, in cui la gaia novella borghese ha
atteggiato quei poveri potestà e capitani, cavalieri e giudici, notai
e famigli, che le città guelfe di Lombardia e delle Marche mandavano
per rettori a Firenze; e sui quali si motteggiava proverbialmente: «Se
tu hai niuno a chi tu vogli male, Mandalo a Firenze per ufficiale»;[87]
non ve n'è forse nessuna così argutamente comica, come quella disegnata
da Franco Sacchetti[88] d'uno «iudice di ragione» (de' suoi tempi die'
egli, ma al dabben giudice non mancarono di certo predecessori anche
in questa tribolazione, e Statuti suntuarî fiorentini ne possediamo
fin del 1306, e testimonianza di essi fin dal 1290),[89] il quale
messosi di buona lena, egli ed un suo notaio, ad eseguire certi
nuovi ordini, al solito, «sopra gli ornamenti delle donne», l'effetto
n'è, e i cittadini ne fanno le giuste meraviglie presso i Signori,
che «l'oficiale nuovo fa sì bene il suo oficio, che le donne non
trascorsono mai nelle portature, come al presente fanno.» Or ecco la
risposta di messer Amerigo al rimprovero de' signori Priori: «Signori
miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione;
e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla:
perocchè cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli
ordini che m'avete dati, sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna
legge, come sono quelli ch'elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio
nominare alcuni. E' si truova una donna col becchetto frastagliato
avvolto sopra il cappuccio. Il notaio mio dice: Ditemi il nome vostro,
perocchè avete il becchetto intagliato. La buona donna piglia questo
becchetto, che è appiccato al cappuccio con uno spillo, e recaselo in
mano, e dice ch'egli è una ghirlanda. Or va' più oltre, truovo molti
bottoni portare dinanzi. Dicesi a quella che è trovata: Questi bottoni
voi non potete portare. E quella risponde: Messer sì, posso, che questi
non sono bottoni, ma sono coppelle: e se non mi credete, guardate, e'
non hanno picciuolo; e ancora, non c'è niuno occhiello. Va il notaio
all'altra che porta gli ermellini, e dice: Che potrà apporre costei?
Voi portate gli ermellini. E la vuole scrivere. La donna dice: Non
iscrivete, no; chè questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi. Dice
il notaio: Che cosa è questo lattizzo? E la donna risponde: È una
bestia.» I magnifici signori Priori, che conoscevano le loro donne
meglio di messer Amerigo da Pesaro, dicono l'uno con l'altro: «Noi
abbiamo tolto a contender col muro. Me' faremo attendere a' fatti che
portano più. Chi vuole il malanno se l'abbia.» E infine esclama uno,
dicerto il più dotto della orrevol brigata: «Io vo' che voi sappiate,
ch'e' Romani non poterò contro le loro donne: che vinsono tutto il
mondo; ed elle, per levar gli ordini sopra gli ornamenti loro, corsono
al Campidoglio, e vinsono i Romani, avendo quello che voleano». E
cita Tito Livio, e vi dissertano sopra. E a messer Amerigo dicono,
faccia quello ch'e' può, e tiri via, e lasci correre le ghirlande e
le coppelle e i lattizzi; e così, d'allora in poi, narra il novelliere
essere stato fatto, conchiudendo che l'uomo propone e la donna dispone,
proverbio (come sentite) assai antico, e che le donne fiorentine, senza
studiare giurisprudenza, hanno saputo portare le loro fogge a dispetto
delle leggi e de' dottori di queste.

Del resto, quelle severità suntuarie di cui possediamo documenti
bellissimi per la storia sì del costume e sì della lingua;[90] le
quali limitavano la misura de' corredi nuziali, o come dicevano delle
«donora», che la sposa portava al marito; e proporzionavano alla dote
il longobardico _morgincap_, o dono del mattino, che questi faceva a
lei la mattina dopo il matrimonio; e frenavano, com'abbiam sentito,
il lusso e l'abbondanza delle feste e dei conviti; sarebbero oggi per
noi violazioni di libertà individuale e quasi di domicilio. Eppure
un alto concetto democratico animava anche coteste disposizioni, in
quanto si voleva per esse, che il festeggiare de' cittadini fosse il
più possibilmente pubblico anzichè privato. «Un sentir comune voleva
comuni piaceri: le spese del ricco dovevano sempre avere qualche cosa
di popolare; fatte a pubblico benefizio e spettacolo, dovevano essere
un godimento per tutti. Nei palazzi, ciò che poi furono i salotti,
allora era, aperta alla vista di tutti, la loggia. Per tal modo un
paio di nozze rallegravano l'intera città: il ricco pagava le feste al
povero per goderle insieme con lui: i giovani armeggiavano, le donne
ballavano, sulle piazze, all'aria aperta, non al fumo di candele,
nell'uggia de' salotti». Queste cose, di quella età democratica
del Comune fiorentino, scriveva nel 1836 un giovine patrizio; il
quale doveva poi da vecchio, a tutta Italia anzi alla civile Europa
venerando, essere il degno storico della nostra Repubblica: il marchese
Gino Capponi.[91]

Altra materia, che di siffatte osservazioni morali, non è da aspettarsi
ci offra, intorno alla donna, come già dissi, la storia fiorentina
di quel secolo: non la storia de' fatti politici, per le ragioni che
vedemmo; non la storia della cultura, in tempi ne' quali i limiti
di questa erano tracciati così rigidamente, che la denominazione di
uom colto era «cherico», e gran mercè se alla donna rimaneva posto
fra il laicato. La Compiuta Donzella, se è, come pare, «non ombra,
ma donna certa», rimane un'eccezione, come tutte le regole hanno la
sua: nè della cultura della donna in Firenze dal Due al Trecento altre
testimonianze sapremmo indicare, all'infuori di qualche volgarizzamento
dal latino che vedesi fatto a loro istanza, come quello delle Eroidi
d'Ovidio (che chiamavano «Libro delle donne»), a istanza di madonna
Lisa Peruzzi condotto da ser Filippo Ceffi notaio;[92] o, più spesso,
i volgarizzamenti che religiosi o altre persone spirituali, pure ad
istanza di donne, facevano di testi sacri od ascetici.[93] E dovremmo
poi dire che il precettor cortigiano che la donna fiorentina di
quella età ebbe in Francesco da Barberino, mostra evidente che di
qualunque virtù più che di cultura preme a lui che la sua donna ideale
si addobbi; fino a porre in dubbio (tutto ben considerato, anche i
pericoli) se sia bene o male ch'ella sappia «lo leggere e lo scrivere»,
ancorachè sia di grande condizione; e sole eccettuando, manco male,
le destinate a monacarsi.[94] Ma oltre la storia politica e la storia
della cultura, noi possiam pure interrogare una storia, le cui pagine,
scritte senza intenzione d'arte anzi non per un pubblico qualsiasi,
a null'altro quasi hanno servito sin oggi che a documento di lingua,
e sono le Croniche o Ricordanze domestiche: ed una di queste,[95]
che proprio comprende nel suo bel mezzo il Trecento, offre al nostro
studio, non geste e imprese di certo, bensì più d'una fisionomia
femminile.

Le parole di messer Donato Velluti, che io riferirò testuali e dal
manoscritto suo autografo, vi faranno qui rivivere coteste donne, quali
egli, nella casa propria o de' consorti, le vide: «care e buone» le
più; testimonianza affettuosa, e troppo in quelle schiette sue pagine
frequente,[96] cosicchè io non debba ripeterla, anche a compenso
di giudizi sulla donna, e del Trecento e dell'Ottocento, non sempre
benigni. Sceglierò tipi diversi. E prima, poichè abbiamo avuto testè
a parlare di fogge e mode, sia d'una alla quale l'avere il capo ben
assettato giovò a qualche cosa. «Monna Diana fu una bonissima donna,
e molto amore mi portava...., e assai mi teneva a Bogoli quando era
fanciullo. Portava molto in capo: intanto che essendo una volta al
palagio vecchio de' Rossi, dirimpetto a Santa Filicita, ove oggi è
l'albergo, e cadendo d'in sul palagio una grande pietra, e cadendole
in capo, non la sentì, se non come fosse stata polvere venuta giù per
razolire di polli: onde ella, sentendosi, disse: — Chisci, chisci; — e
altro male non le fece, per cagione de' molti panni ch'avea in capo».
Resistente, del resto, e gagliarda, era soprattutto la fibra, non meno
di quelle donne, che degli uomini loro; e sentite come guardavano in
faccia la morte: «Sopravvenne la mortalità del 1348: ed essendo già
morti il detto Gherarduccio e sua figliola e le serocchie, et essendo
il detto Cino», l'ultimo rimasto di tre fratelli, «e sua donna in
contado al detto podere dal Poggio, infermarono; et essendo infermi,
deliberarono di venire», cioè alla città. «Ed essendo presso i fratelli
della moglie, gli feciono fare testamento.... E poi si partirono: e la
donna ne fu recata in istanghe, e giunta l'andai a visitare; e egli
ne venìa a cavallo in sella, e uno gli era in groppa. Di che dopo la
detta visitazione, essendo io ito in Borgo San Iacopo a la sepultura di
Bernardo Marsili, il quale era morto essendo de' Priori,» (e lo stesso,
di morire essendo de' Priori, in Palagio, toccò allo scrittore ventidue
anni appresso) «e tornando, essendo in capo del chiasso, vennono due a
una ora, e l'uno disse: — Monna Lisa è morta; — e l'altro disse: — Cino
è morto a l'Olmo da San Gaggio, a cavallo, venendo di villa. — Fecili
sotterrare.....». Ritratto di due buone ragazze, invecchiate in casa
co' fratelli: «Le dette Cilia e Gherardina non si maritarono: stettono
un grande tempo pulcelloni, con speranza di marito; poi fuggita
la speranza per non potere, si feciono pinzochere di San Spirito.
Guadagnavano bene, e francavano la loro vita, e più, dipanado lana;
sanza che, non fece mai bisogno a' detti fratelli tenere fante. Erano
amorevoli molto, e grandi favellatrici. Morirono per la detta mortalità
del 1348, essendo ciascuna d'età di quaranta anni e più». Ma ben altra
donna una madonna Gilia, che in casa dei fratelli ritorna da vedova,
e piena d'affari e di brighe, e «consumò molto in piatire, nel quale
molto si dilettava, però che era et è molto astuta e rea; e tanto vi
consumò, che non vogliendo vendere delle possessioni, vilmente vivea
e vestiva, tutto dì cercando Firenze....., e oggi vive in mendicume».
Ma ecco qua due figure simpatiche: di una donnina da casa, «monna
Lisetta, piccola della persona, ma savia e buona donna», che dopo la
morte del marito rimane in casa co' figliuoli, onestamente vivendo,
e governando i detti suoi figliuoli», che le muoion giovanissimi, ed
ella pure nella mortalità del 1363; — e di una bella sposa, di quelle
che, guardate negli affreschi o nelle tavole de' nostri maestri, ci
fanno non solamente ammirare ma pensare, «monna Ginevra Covoni, più
bella e maggiore di niuna sua serocchia, e sanza vergogna delle altre,
fu delle vertudiose savie e facenti donne che io vedessi mai, e quella
che per l'amorevolezza sua e piacevolezza e bontà si facea volere
bene a ogni persona». Finalmente la madre del cronista e la moglie:
«Monna Giovanna, mia madre, fu savia e bella donna, molto fresca e
vermiglia nel viso, e assai grande della persona onesta e con molta
virtù. E molta fatica e sollecitudine durò in allevare me e' miei
fratelli; considerato, che si può dire non avessimo altro gastigamento,
e spezialmente di padre, però che quasi del continuo nostro padre
stette difuori: per la qual cosa ella fu molto da lodare, e lodata
fu, di sua onestà e vita, essendo bella, e stando il marito tanto
di fuori. Di carnagione e freschezza fui molto somigliato a lei. Fu
grande massaia; e bisogno ebbe di ciò fare, avendo nostro padre poco
come avea, poi si divise da' fratelli, e avendo grande famiglia....
E la cagione della morte sua fu, che essendo nostro padre in Tunisi,
avendo noi ricevuto in pagamento.... uno podere...., e essendovi
ella andata a stare là di state, tornando poi qua, e essendo salita
a cavallo..., si mosse il cavallo, e corse un pezzo, e gittolla in
terra; di che si sconciò la gamba. Soprastette alcuno dì là su, e non
si fece trarre sangue; e poi essendo recata in Firenze in stanghe, si
rincannò la gamba: e stando così uno dì di San Martino nel letto, ed
essendo con lei molte donne, e favellando e cianciando, subitamente
dicendo O me!, passò di questa vita. Iddio abbia la sua anima; chè così
dovè essere, essendo buona e cara donna, e essendosi confessata il dì
dinanzi....». E la moglie, monna Bice Covoni: «La quale fu piccola e
non bella; ma savia, buona, piacevole, amorevole, costumata, e d'ogni
vertù piena e perfetta, e la quale si facea amare e volere bene a
ogni persona: e io molto me n'ò lodare, chè me amava e desiderava con
tutto quore. Era bonissima dell'anima sua: ed è da credere che Nostro
Signore Iesù Cristo l'abbia ricevuta nelle sue braccia, faccendo buone
e ottime operazioni, limosiniera e d'orare e visitare la chiesa....
Vivette meco in santa pace, e accrebbe il mio assai di grazia onore e
avere.... Ebbe grandissima infermità per la mortalità del 1348, e campò
di quello che non ne campò una nel centinaio. Fu grazia di Dio e in
iscampo di me, chè di certo ho per opinione, che s'ella fosse morta,
io non sarei scampato, per gli accidenti m'avvennono, che che di quella
infermità non sentissi.... Morì di luglio 1357: sì che vivette meco da
diciassette anni. Iddio abbia la sua anima.»


VI.

Tale, nella realtà dei fatti, la donna che i Fiorentini dei primi
secoli ebbero compagna della vita, a tutto il periodo schiettamente
democratico del Comune; fermandoci sul declinare del Trecento, quando,
sfuriati i Ciompi, l'aristocrazia borghese piglia campo, e paladini
del popolo, pericolosi paladini, si fanno avanti i Medici. Tale la
donna di quella antica Firenze: austera e gentile figura, che a sè
dice della gloria di cotesta età tanta parte esser dovuta, quanta fu
quella ch'ella prese nella operosità, nei dolori, ne' virili propositi,
ne' luminosi concetti, ne' passionati traviamenti, d'un popolo forte,
d'una democrazia degna veramente di tal nome, perchè senza declamazioni
operante con gagliardia e per sentimento di cose grandi.

Se non che la realtà è solo un aspetto della storia nè sempre il più
agevole a risapersi e a ritrarsi; e che anche quando si dà a divedere
con sufficiente larghezza, lascia pur sempre luogo da un lato alla
leggenda, dall'altro alle idealità dell'arte, trasformatrice quella,
imitatrice questa, del vero, di cui la realtà è la identificazione.
Ma se vasto è il campo nel quale la donna fiorentina potrebbe
considerarsi, in relazioni più o meno strette, più o meno dirette, con
le idealità della poesia e delle arti nei secoli iniziali della moderna
cultura, altrettanto angusto, è, come in ogni altro ordine d'idee e di
fatti fra noi, così anche in questo, il dominio della leggenda. È già
stato osservato da parecchi, che la fioritura leggendaria, nelle età
che l'avrebber portata, scarseggiò in Italia; e ciò perchè, lo dirò con
le parole d'un critico tedesco,[97] «gl'Italiani avevano dietro a sè
un'epoca di grande cultura nell'antichità, le cui traccie non si erano
mai interamente perdute, essi non uscirono da un tempo di barbarie:
e quindi mancavano loro appunto.... tradizioni, la origine delle
quali risalisse a tempi oscuri e mitici». Siffatta condizione storica
rivolse verso fonti oltramontane il naturale appetito delle plebi al
maraviglioso, originando quella poesia romanzesca, la quale solamente
fra noi doveva inalzarsi a creazioni d'arte grandiose e squisite;
siffatta condizione storica, anche per altri o cicli tradizionali,
o temi individui di leggenda, fu causa che il remoto e l'esotico
apparissero quasi essenzial condizione perchè un soggetto addivenisse
leggendario. Ciò premesso, sembrerà piuttosto troppo che poco, trovare
circonfusa del nimbo della leggenda qualche figura di donna fiorentina,
e non dai due primi secoli del Comune, sibbene da quelli della sua
piena maturità.

Al secolo XIV sembra invero appartenere, se si considerano le
circostanze dei fatti, il soggetto della novella, fin dal XV popolare,
e tale conservatasi, specialmente nella sua forma metrica, fino a' di
nostri, di Ippolito e Lionora;[98] una delle tante versioni sotto le
quali si è perpetuata la leggenda dell'amor contrastato, da Piramo
e Tisbe agli amanti veronesi che Guglielmo Shakspeare e Vincenzio
Bellini hanno resi immortali. Ma nella leggenda fiorentina mancano e
la catastrofe tragica, conchiudendosi l'amore con lieta fine, e quasi
la forma stessa di leggenda, alla cui scarna semplicità subentrano le
forme tornite e conversevoli della novella. Ippolito de' Buondelmonti
ama la Lionora, o Dianora, de' Bardi, e n'è riamato, nonostante
la nimicizia che, sebben guelfe ambedue, divide le loro famiglie.
Disperato del proprio amore, il giovane si consuma e ne inferma; e alla
madre, che piangendo lo interroga, rivela la segreta cagione del suo
languire. L'amore materno spinge le donne, non avvisando altro mezzo,
a pregare una zia di Lionora, abbadessa nel convento di Monticelli,
che procuri di far trovare insieme i due amanti. Il che avuto effetto
e giuratasi fede di sposi, e stabilito come rivedersi con maggior agio
nella casa di Lionora, nel recarvisi Ippolito nottetempo, è fermato
dalla famiglia del Potestà. Egli, per salvare l'onore della donna
amata, si dà per ladro, e tale persiste a dichiararsi, nonostante
l'onta e la desolazione de' suoi; tacendo, a quel che sembra, le donne,
per ispavento che, risapendosi il vero, le due famiglie e respettive
consorterie non s'arrovescino l'una contro l'altra, e prima vittima
sia lo stesso Ippolito. Il giovine generoso, condannato a ignominiosa
morte, prega, per la salvezza almeno dell'anima, «che vi piaccia, nel
mandarmi alla giustizia, che io faccia la via alla casa de' Bardi,
acciò che gli possa domandare perdono dell'odio che io come inimico ho
portato loro»; ma in realtà, «solamente per vedere una volta Lionora,
prima che morisse». Gli è concesso; e il lugubre corteggio, a suon
di trombe e con lo stendardo della giustizia alla testa, s'incammina:
Lionora si fa alla finestra, e gli sguardi de' due sposi s'incontrano:
allora ella «come furiosa discende la scala, a malgrado di tutte le
donne di casa...., si gitta fuori della porta, afferra per la briglia
il cavallo del cavaliere del Potestà, e grida: Finchè la vita mi starà
nel corpo, tu non menerai Ippolito alla morte, la quale lui non ha
meritata.» E si gitta nelle braccia del condannato. Il cavaliere non
sa che si fare, la gente romoreggia; la Signoria chiama a sè i due
giovani: «Ippolito, legato con la corda intorno al collo, e Lionora
scapigliata e piangente, seguendoli gran copia di popolo». La giovine
si fa innanzi e domanda ragione: «cioè, che voi mi rendiate il mio
marito e sposo; altrimente io appello a Dio ed al mondo, chiamando
vendetta di tanta ingiustizia, pregando Dio che con i suoi giusti occhi
riguardi le vostre inique sentenze e malvagi giudizi.» La Signoria,
verificati i fatti, chiama i padri de' due sposi: «li quali intendono
la cosa per dritto modo, e quivi in presenza de' Signori e del popolo,
fermano il parentado. E dove già duecento anni i Buondelmonti e i Bardi
erano stati inimici a morte, divennero amicissimi per il parentado
che tutti parevano d'uno sangue.» Vedete, o Signore gentili, che la
leggenda ha pur voluto dare la sua eroina a Firenze, e l'ha chiesta
all'amore.

Amorosa pure è la leggenda della sepolta viva; che il suo rozzo
cantastorie quattrocentista riferisce al 1393. Ginevra degli Amieri
(Almieri, per corruzione popolare) è amata da Antonio dei Rondinelli,
ma dal padre sposata invece a Francesco degli Agolanti. Infermatasi
e tramortita è, in que' sospetti di morìa, creduta estinta, e la
seppelliscono da Santa Reparata. Ritorna ai sensi dentro la tomba, si
accorge dell'atroce suo caso, si raccomanda alla Vergine, e guidata
da un debole raggio di luna che trapela da uno spiraglio del sepolcro,
sale una scaletta, riesce a smuovere la pietra testè murata; ed ecco la
sua bianca figura, che rasente al Campanile, pel chiasso che poi da lei
si vorrebbe essere stato chiamato della Morte, incamminasi alla casa
del marito. Batte, ed è il marito stesso che si affaccia alla finestra;

    Chi è la? chi batte? — Io son la tua Ginevra.
    Non m'odi tu?...

Il marito spaventato si fa il segno della croce, promette a quella
pover'anima errante orazioni e messe, e si ritira. Ginevra prosegue
alla casa paterna, in Mercato Vecchio. Bussa; e si affaccia la madre.

    Aprite.... io son la vostra figlia. —
    Va' in pace, anima benedetta.... —
    E riserrò la finestra con fretta.

La sventurata

    fece del cor ròcca, e tirò via
    sempre piangendo, misera dolente:

e incontra la stessa accoglienza sotto la casa d'un suo zio. Allora
si ricorda del virtuoso amante; va alla sua casa: egli, pur credendola
spirito,

    vuol veder se tal spirito gli nuoce:

scende, la raccoglie, chiama la madre e le altre donne di casa; la
confortano, l'assistono, la salvano. Ella vuol esser come morta al
marito che l'ha seppellita, e passare a seconde nozze con l'uomo pel
quale è rivissuta. Sostiene la sua causa dinanzi alla curia vescovile,
e la vince. L'Amore questa volta (bene è stato detto da chi illustrò
criticamente la leggenda)[99] l'Amore trionfa della Morte.

Ma, non che antica, antichissima sarebbe, e non di amore ma civile
e patriottica, una tradizione che risale nientemeno che a' tempi di
Totila; se però non si avesse piuttosto a tenere come una postuma
trovata del popolo. Il re barbaro, entrato per inganno in Firenze,
si è insediato nel centro della piccola città romana, nel palazzo
del Campidoglio. E volendo toglier di mezzo «li maggiori e più
possenti caporali della terra, li fa uno giorno richiedere a suo
consiglio in grande quantità. E come giugnevano in Campidoglio,
passando ad uno ad uno per uno valico di camera, gli faceva uccidere e
ammazzare, non sentendo l'uno dell'altro, e poi i corpi gittare negli
acquidocci».[100] Una trecca di mercato, che ha la sua botteguccia
accanto alla chiesa di San Pietro lì presso, entrata in sospetto,
avverte i cittadini «guardino bene, chè, come ha quella favola
d'Esopo, di quanti vi sono entrati, niuno se n'è veduto uscire». Il
che salva la vita a molti, e guadagna alla chiesa il nome di San Pier
Bonconsiglio;[101] ma non impedisce la distruzione della città per
mano del barbaro. La trecca e Totila poi si sono convertiti, e ciò
a' dì nostri, egli nel più aborrito fantasma di tirannide che sia
rimasto nella memoria del popolo fiorentino, il Duca d'Atene, ed essa
nella Cavolaia di Firenze; il Consiglio de' maggiorenti al Palazzo
del Campidoglio è addivenuto una veglia in maschera, con annessi
trabocchetti, nella residenza ducale; e la maggior campana del Duomo,
che d'inverno suona per l'ultima volta a sera inoltrata, e che al buon
tempo dei nostri nonni, quando si andava a letto presto per alzarsi
all'alba, faceva segno della cessazione delle veglie, è per la plebe
la campana della Cavolaia, e rammenta come per opera di questa brava
fiorentina la veglia micidiale del Duca finisse (nessun istorico lo
sapeva) con la sua ignominiosa cacciata. La Cavolaia di Firenze, eroica
moglie di Stenterello, divide oggi gli onori del teatro popolare
fiorentino con la Ginevra degli Almieri, della quale il suddetto
Stenterello è pur diventato non so se dissotterratore o che altro. I
suoi personaggi la plebe, una volta attiratili a sè, li avvolge nelle
spire di simpatie secolari, che si modificano, si trasformano, ma
morire del tutto, non muoiono mai.

E un altro amore tradizionale del popolo fiorentino è, pure in questa
età del Comune democratico, monna Tessa, la virtuosa fantesca di Folco
Portinari, che per consiglio e cominciamento principalmente di lei
si vorrebbe avesse fondato lo spedale di Santa Maria Nuova.[102] Al
popolo, che vede scolpita in marmo la imagine della caritatevole donna
sul limitare della grande casa, ospitale alle sue infermità e alle
sue miserie, vano sarebbe, se già non fosse una pedanteria crudele,
ammonirlo che la tradizione di monna Tessa, attestata sotto quel marmo
da una iscrizione del secolo XVII, è tanto dubitabile quanto è, a
ogni modo, evidente che cotesto mezzo rilievo, posteriore almeno di un
secolo ai tempi ne' quali ella sarebbe vissuta, e che anticamente era
collocato in una delle cappelle della chiesa, non è se non la effigie
o d'una benefattrice del luogo pio, o d'una delle oblate addette ad
esso. La tradizione poi, è molto probabile che avesse occasione od
appiglio da una iscrizion del Trecento, che scolpita in rozzi caratteri
gotici era sulla mensa dell'altare di quella medesima cappella, e
vi rimase almeno fino al 1647, e dove si raccomandava l'anima d'una
monna Tessa, moglie di Tura bastaio, la quale aveva fatto costruire
cotesto altare.[103] Oltre a ciò, riescirebbe malagevole attribuire
tanta potenza di effetti all'opera d'una femminella di condizione
servile, in tempi ne' quali tale condizione rimaneva tuttavia
molto prossima alla schiavitù; e schiave infatti le chiamavano, e
dall'Oriente ne condussero e tennero effettivamente di tali.[104] Ma
non è egli bello che il popolo lasci tutto questo, ed altro ancora,
alla nostra saccenteria, e si tenga per sè la imagine cara della sua
monna Tessa, fantesca poveretta; e di questa umile donna che sarebbe
uscita da lui, esperta del suo patire, passata nel mondo fra i medesimi
dolori, faccia egli a sè come l'angelo consolatore di questi dolori,
la confortatrice di quei patimenti? Certo, io credo, non sarebbe mai
una donna, per dottissima ch'ella fosse, che aspirerebbe alla gloria
di combattere l'autenticità di monna Tessa. Più facile invece, che
qualche rappresentatrice ingegnosa di quel vero, il quale, fuor d'ogni
contingenza di persone e di tempi, è suggello perpetuo dell'essere
umano, la ritragga nelle case dei Portinari, tutta intesa alle faccende
domestiche, abbellire di carità la vita rassegnata e paziente, e
disporre al soccorso dei poveri l'animo del ricchissimo messer Folco
e della moglie sua madonna Cilia de' Caponsacchi: e pargoletta sulle
ginocchia della povera serva, la loro figliuola, la predestinata
Beatrice.

Nel nome di Beatrice, le realtà della storia e le fantasie della
leggenda si congiungono con le idealità superbe a cui l'arte del bello
solleva la manifestazione del bello più eletta fra le create, la donna.
Ed io tocco i limiti che ho assegnati alla mia lettura. Non potrei
lasciarvi con nome di donna fiorentina che suoni più alto e più soave.
Da nessun'altra delle tombe della vecchia Firenze, alle quali abbiamo
richiesta la donna del nostro antico glorioso Comune, da nessuna la
donna fiorentina si solleva irraggiata di tanto splendore. E se, come
di Folco,[105] fosse a noi rimasta la tomba di Beatrice Portinari,
c'inchineremmo su quella forse con non minor reverenza che sul sepolcro
dell'esule amante in Ravenna.


VII.

Il più solenne monumento della democrazia fiorentina, Santa Maria
del Fiore, ha distese le braccia immense su molte di quelle tombe de'
secoli XIII e XIV, con altre insieme più antiche, fin da quando le basi
poste alle navate di Arnolfo e del Talenti, alla mole aerea di Giotto,
alle tribune su cui poi voltò la cupola il Brunelleschi, coprirono
l'antichissimo cimitero di Santa Reparata; esultanti, è da credere,
le anime de' sepolti, che le loro lapide sparissero e le ossa si
confondessero nelle fondamenta del tempio che a Dio inalzavano i forti
loro figliuoli. Un prezioso Obituario[106] ci ha conservato i nomi dei
sepolti e nell'antico cimitero e poi presso alla nuova chiesa: e su
quelle pergamene, ingiallite dai secoli, leggendo i nomi, nella pace
della morte congiunti, di Uberti e Buondelmonti, Lamberti e Adimari,
Cavalcanti (e vi è Guido il poeta) e Donati, Abati e Brunelleschi; dei
combattenti a Montaperti (e vi è Farinata magnanimo), e dei giustiziati
dai Guelfi Neri, e degli uccisi nelle zuffe cittadine; e poi nomi di
artisti, specialmente di addetti ai lavori della chiesa, e nomi di
loro donne, primo Arnolfo e madonna Perfetta la madre sua, invidiabile
madre per tale figliuolo e per tal sepoltura;[107] e poi anche i nomi
di tanti ignoti che pur fanno, anzi fanno perchè ignoti, fantasticare
la mente; siam tratti a ripensare e meditare tutta la storia d'un'età
che ci è sopravvissuta ne' mirabili monumenti del suo pensiero e del
cuor suo. E i nomi tanti di donne, molti de' quali al nostro orecchio
novissimi, per esempio (e taluni hanno del longobardico) Bellantese,
Bellamprato, Bellatedesca, Berricevuta, Ringraziata, Dolcedonna,
Altadonna, Donnetta, Buona, Moltobuona, Dibene, Piubbella, Rimbellita,
Belcolore, Macchiettina, Vezzosa, Ruvinosa, Leggiera; altri di storica
ricordanza, sia pe' loro casati, sia per sè medesimi come le molte
Tesse e Contesse, tributo onomastico alla Matelda famosa; tutti cotesti
nomi, quanta ignorata storia di affetti non racchiudono, addormentati
per sempre sotto quel sacro terreno!

    Mai non t'appresentò natura ed arte
    piacer, quanto le belle membra, in ch'io
    rinchiusa fui, ed or son terra sparte:

sono i versi[108] ne' quali Beatrice, pure in grembo al divino, si
ricorda di quando fu donna; e perciò da potersi inscrivere anche sulla
tomba di ignote.


  _Signore e Signori,_

Fra pochi giorni, su quel terreno che la religione e l'arte hanno fatto
sacro all'Italia e al mondo civile, converrà da tutte le nazioni, alle
solenni fratellanze del pensiero, un devoto unanime pellegrinaggio.
Santa Maria del Fiore avrà avuto, dopo quasi seicent'anni dalla
prima pietra, il suo compimento.[109] Ma i nostri vecchi, lasciando
questa gloria al secolo che ora tramonta, non potettero prevedere,
nè avrebbero osato augurarsi, che la pietra ultima sarebbe stata
consegnata alle fondamenta dalla mano invitta di Colui che la patria
italiana doveva salutare suo unificatore, suo padre, suo re;[110]
che le feste dell'opera degnamente compiuta avrebbero inauguratori
i figli di lui, il Re la Regina i Principi d'Italia; dell'Italia
finalmente pacificata e concorde in tutte le sue terre, di nazione
storica rivendicatasi a nazione vivente, e del l'avvenire affidata
dalla coscienza del proprio diritto, e dal valore de' suoi soldati
che combattono e muoiono, senza contare i nemici, nel nome di lei e
del dovere.[111] Santa Maria del Fiore si apparecchia a dischiudere
le sue porte ai sovrani benedetti da Dio e dal popolo; e di sotto ai
novelli marmi del suo limitare fremeranno in quel giorno le ossa, e
per gli spazi delle arcate severe si affolleranno invisibili, intorno
agli Eletti della nazione, i magnanimi spiriti dell'antica Firenze. Il
difensore a viso aperto e tutelatore della patria, l'Uberti, «si ergerà
col petto e con la fronte» dalla tomba sua vera,[112] drappellando nel
cospetto del Re prode e leale la vecchia insegna del popolo fiorentino,
la Croce, oggi per virtù di Casa Savoia insegna di popolo e di re. Ma
a Guido Cavalcanti, nel suo riaffacciarsi dal sepolcro al «dolce lume»
del sole, «ferirà gli occhi» una visione gentile, come quelle da lui
già idoleggiate nella sdegnosa fantasia, e gli farà ripetere li amorosi
suoi versi,[113] per entro a' quali trepida, interrogando, l'affetto:

    Chi è questa che vien, ch'ogni uom la mira,
    e fa di chiarità l'aer tremare?

E mille voci concordi risponderanno a quella sospirosa melodia
d'oltretomba, acclamando il nome dell'Augusta Donna, alle cui speranze
materne è raccomandata tanta e sì cara parte delle speranze d'Italia.


NOTE

[1] MATTEO VILLANI, _Cronica_, VII, LXIV.

[2] GIOVANNI VILLANI, _Cronica_, VII, LXVIII.

[3] _Commentaires de messire_ BLAISE DE MONTLUC, _mareschal de France_;
Lyon, 1593; pag. 176.

[4] _La donna_; Milano, Agnelli, 1868; a pag. 41.

[5] _Lettere di una Gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli
esuli_ pubblicate da CESARE GUASTI; Firenze, Sansoni, 1877; a pag.
XLIV: «Che le lettere familiari sono la prima fonte storica, è cosa
nota; ma che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima
di un popolo, vorrei averlo mostrato io con questo volume». Lo stesso
GUASTI altrove (_Opere_; Prato, Succ. Vestri; I, 596) osserva che «gli
storici fiorentini non sono molto larghi nel darci tipi di donna; ma
quelle che ci mettono dinanzi agli occhi, son proprio degnissime di
poema non che di storia.»

[6] GIOSUÈ CARDUCCI, _Alla regina d'Italia, XX novembre MDCCCLXXVIII_.
A pag. 858-860 delle _Poesie_, Bologna, Zanichelli, 1902. E in
_Confessioni e Battaglie_, vol. IV delle _Opere_ (Bologna, Zanichelli,
1890), a pag. 333-357, _eterno Femminino regale_. — Su l'uso e l'abuso,
e la interpretazione critica, della frase goethiana «das Ewigweibliche»
è da vedersi un bellissimo saggio di MICHELE KERBAKER, _L'eterno
Femminino e l'epilogo celeste nel Fausto di_ W. GOETHE; Napoli, Pierro,
1903. «Per l'eterno Femminino, cioè l'eterna femminilità, nel senso
più ovvio, chi non abbia riguardo al passo del _Fausto_, potrebbe
intendersi la potente ed arcana attrattiva che la donna esercita sui
sentimenti dell'uomo, mediante le speciali prerogative congenite alla
sua complessione fisica e morale.» Ma dall'esame critico dell'epilogo
celeste nel _Fausto_ il Kerbaker conchiude, che quella «femminilità
eterna» è «l'essenza stessa dell'indole femminile riguardata come una
legge costante e provvidenziale della natura, in contrapposizione
alla Mascolinità, e di cui la Beata Vergine, Madre di Dio e Regina
dei cieli, è un simbolo». In quanto però la frase si presti, come s'è
anche troppo compiacentemente prestata, a interpretazione astrattamente
umana, non credo aver da pentirmi di quella che, in relazione col mio
tema, a me venne fatto di darle: «idealità della donna, immanente nella
storia».

[7] Il canto XV, primo della trilogia fiorentina che il poeta svolge
intorno alla figura luminosa del suo trisavolo Cacciaguida degli
Elisei.

[8]

    Io mi volsi a Beatrice; e quella udio
      pria ch'io parlassi, ed arrisemi un cenno
      che fece crescer l'ali al voler mio.
    Poi cominciai così....
                                XV, 70-73

    Vincendo me col lume d'un sorriso
      ella mi disse: Volgiti ed ascolta,
      non pur ne' miei occhi è paradiso.
                             XVIII, 19-21

[9] XV, 97-99 e segg.

[10] Al geniale argomento appartengono: _La donna genovese del secolo
XV_, di CARLO BRAGGIO; Genova, dal _Giornale ligustico_, an. XII,
1885: — _La donna nel Medio Evo a Venezia_, di B. CECCHETTI, Venezia,
dall'_Archivio veneto_, an. XVI, 1886; e _La storia di Venezia nella
vita privata_, di P. G. MOLMENTI, Torino, Roux, 1885: — gli studî
di LODOVICO FRATI su _La vita privata di Bologna dal secolo XIII al
XVII_; Bologna, Zanichelli, MDCCCC (dello stesso autore, anche _La
donna italiana secondo i più recenti studi_; Torino, Bocca, 1899): —
una Conferenza di GUIDO BIAGI, _La vita privata dei Fiorentini_, fra
quelle su _La vita italiana nel Rinascimento_; Milano, Treves, 1893 —
una di LODOVICO ZDEKAUER, _La vita privata dei Senesi nel Dugento_, e
una di EUGENIO CASANOVA, _La donna senese del Quattrocento nella vita
privata_, fra quelle tenute dalla Commissione senese di Storia patria;
Siena, Lazzeri, 1895-98; — _La storia di Pescia nella vita privata_,
di CARLO STIAVELLI; Firenze, Lumachi, 1903 — e nel libro _La donna
italiana descritta da scrittrici italiane in una serie di Conferenze
tenute all'Esposizione Beatrice in Firenze_ (Firenze, Civelli, 1890),
quelle specialmente di MARIA SAVI LOPEZ, _La donna italiana nel
Trecento_; di FILIPPINA ROSSI GASTI, _Le donne nella Divina Commedia_;
di ALINDA BONACCI BRUNAMONTI, _Beatrice Portinari e l'idealità della
donna nei canti d'amore in Italia_.

[11] _Parad_. XV, 130-135; XVI, 34-39.

[12] G. VILLANI, IV, X,

[13] G. VILLANI, IV, IX.

[14] G. VILLANI, V, XXXVII. «Ma se nel 1209 accadde la venuta di Ottone
in Firenze, il racconto è favola; chè.... diciannove anni avanti,
Gualdrada e Guido eran congiunti, e fin dal 1196 avevano figliolanza»:
nota il GUASTI, _Opere_, I, 71. Ciò nonostante, il valor morale della
gentile tradizione rimane intatto.

[15] _Parad_. XXXI, 38-39.

[16] _Parad_. XVI, 145-147.

[17] _Parad_. XVI, 25.

[18] _Parad_. XV, 97-99.

[19] DINO COMPAGNI, I, II.

[20] _Inf_. XIII, 143-145.

[21] «Allora lo romore fue grande; e fue messo in una bara, e la moglie
istava nella bara, e tenea il capo in grembo fortemente piangendo; e
per tutta Firenze in questo modo il portarono». _Cronica fiorentina
compilata nel secolo XIII_; a pag. 234 del vol. II, P. VILLARI, _I
primi due secoli della storia di Firenze_; Firenze, Sansoni, 1894.

[22] MANZONI, _Adelchi_, IV, I.

[23] G. VILLANI, VI, LXIX; _Cronica malispiniana_, CLXIV.

[24] DINO COMPAGNI, II, XXIX.

[25] G. VILLANI, l. c.

[26] Una di quelle «doti isfolgorate» di lire dugento, sappiamo oggi
essere stata la dote che la Gemma di messer Manetto Donati portò a
Dante Alighieri. L'illustratore di questo _Nuovo Documento concernente
Gemma Donati_ (U. DORINI, nel _Bullettino della Società Dantesca
italiana_, N. S., IX (1902), fasc. 7-8, pag. 181-184) ha potuto sopra
altri documenti fiorentini consimili rilevare che fra il 1276 e il
1316, sopra sessantasei doti, dieci vanno dalle 50 alle 200 lire o
poco più, quattordici dalle 250 alle 500, quindici dalle 500 alle 700,
tredici dalle 700 alle 1218, sei da fiorini 100 a 300, otto da fiorini
300 a 560. E si seguitò per questa via. GUIDO BIAGI ha pubblicato
(per nozze Corazzini-Brenzini; Firenze, 1899) _Due corredi nuziali
fiorentini (1320-1493), da un libro di Ricordanze dei Minerbetti_,
istituendo confronti su «ciò che fosse la vita fiorentina e nei primi
del Trecento, quando non era ancor fatta la _roba_, e sul declinare di
quel secolo decimoquinto, in cui la squisitezza del gusto raffinava
e ammolliva il costume». Nel matrimonio del 1320 la dote è di 325
fiorini d'oro, e 35 fiorini d'oro le «dónora» ossia il corredo. Nel
1493, fiorini 800 la dote, fiorini 240 le «dónora stimate» con altre
assai non stimate, e poi per fiorini 340 di «cose consegnate e date»
agli sposi dai genitori dello sposo. Un altro matrimonio, d'una Valori
a uno Strozzi nel 1485, porta (_Scritta di parentado_ ec. pubblicata
da G. O. CORAZZINI per nozze Ciampolini-Magagnini; Firenze, 1894)
fiorini duemila di suggello fra dote e dónora, delle quali segue la
lista. Vorrei poter riferire quelle liste, preziosa testimonianza anche
alla storia del costume. Consimili documenti di tempi ulteriori ha
pubblicato CARLO CARNESECCHI nel suo opuscolo _Donne e lusso a Firenze
nel secolo XVI. Cosimo I e la sua legge suntuaria del 1562_; Firenze,
Pellas, 1902.

[27] _Parad_. XV, 112-120.

[28] Vedi appresso, nel mio Studio su _Beatrice_.

[29] OTTIMO, III, 355 (_Parad_. XV, 103-105).

[30] Vedi il mio libro _Dino Compagni e la sua Cronica_; Firenze, Succ.
Le Monnier, 1880-87; I, 1113.

[31] Vedi il citato mio studio su _Beatrice_; ed ivi anche ciò che
concerne il matrimonio stesso dell'Alighieri con la Donati.

[32] _Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano
3793_, pubblicate per cura di A. D'ANCONA e D. COMPARETTI; Bologna,
1875-1888; n.i DX, DXI, CMX. L'autenticità e realtà della «compiuta
donzella di Firenze», che io, fin da quando (1887) scrivevo queste
pagine, propendevo a sostenere contro gli assalti della critica
dubitatrice, mi paiono ora validamente confermate nel bello Studio di
LIBORIO AZZOLINA, _La Compiuta Donzella di Firenze_; Palermo, 1902;
dove e quelle e altre (d'argomento amoroso) rime del Codice Vaticano ad
essa comecchessia attinenti, sono esaminate con finezza di osservazione
critica e con appropriata dottrina di storia e d'arte.

[33] _Cronica fiorentina_ cit. in nota 21 a pag. 235-236.

[34] _Parad_. III, 108.

[35] _Commento alla D. C._ d'Anonimo fiorentino III, 51.

[36] DINO COMPAGNI, III, X.

[37] _Parad_. XVI, 112-114.

[38] _Pro coena maledictarum dominarum de Tosingis_, riferisce il
canonico P. N. CIANFOGNI (_Memorie istoriche della basilica di S.
Lorenzo_; Firenze, 1804) essere intitolata, nel libro di Entrata e
Uscita del Capitolo di San Lorenzo, sotto l'1 Maggio 1306, la spesa
di quella imbandigione, «consistente in due capretti, due ventri
di vitella, cinque paia di pollastri e altrettante di piccioni, un
ventre di castrato, tre caci, otto dozzine e mezzo di pani, vino,
frutte, pomaranci, treggea, spezie e lardo, colla spesa, in tutto, di
otto lire, quattro soldi e sei danari» (vedi, qui subito appresso,
il conteggio, di poco superiore, del Borghini). E poi lo stesso
canonico Cianfogni soggiunge: «Chi fossero queste _donne maledette_,
le quali dalla quantità delle vivande si vede che erano di un numero
non indifferente, io non ho potuto rinvenirlo; siccome neppure si
sa se questo fosse un obbligo del Capitolo, perocchè non vi sono
libri anteriori, e dal 1307 fino al 1343 mancano tutti; e in quelli
che seguono, di questa cena non se ne vede più fatta menzione». Io
non sarei d'avviso che la cena fosse imbandita a donne, cioè non
crederei che le «maledette» fossero le commensali e consumatrici:
parecchia gente, osserva pure il Cianfogni, se si guarda la lista delle
pietanze. Direi piuttosto che le «maledette» dessero, come di certo
l'occasione e l'origine, così anche il nome alla cena; ma che questa
poi fosse ammannita a tutt'altre persone che donne e Tosinghi, ma o
a poveri o a religiosi, o altro che di simile: e ciò per un lascito
nel cui titolo le «maledette donne dei Tosinghi» rimangono per noi
un mistero. Mi capacita poco, che una casa come i Tosinghi, così
fiera e burbanzosa e potente, volesse mandar le sue donne a quella
periodica impinzatura di calendimaggio, accompagnata poi da quella
amorevole denominazione. Peccato non usino più i romanzi storici,
per ricamarvi un po' sopra! Il gran maestro di antichità fiorentine,
Vincenzio Borghini (_Autografi magliabechiani_, X, 98, c. 57), pare
vegga nella denominazione di «maledette» non altro che una imprecazione
de' canonici all'indirizzo delle Tosinghe, seccati di dover tutti gli
anni per cagion d'esse metter mano alla borsa e registrar quella spesa;
imprecazione raccolta dal camarlingo, e sopravvissutaci in cotesta
come motteggevole intestatura della partita: «_Pro coena maledictarum
dominarum de Tosinghis_. Erano parenti del Vescovo, e dovevano farsi
fare questa cena per piacevolezza: ma questi buon preti non ci avevano
pazienza, chè spesono in tutto lire 8. 9. 10, che erano più di 3 lire
delle nostre». Ma questa volta io non consentirei al maestro. In quel
«maledette» della cena laurenziana commemorativa, mi par di sentire
alcun che di consono al grido misterioso che aleggia fra gli alberi
del sesto girone del _Purgatorio_ dantesco: «Ricòrdivi, dicea, de'
maledetti....»

È stato popolare in Firenze, fino ai dì nostri il «lunedì dell'unte»,
cioè delle tessitore, che era il penultimo, o l'antepenultimo,
lunedì del carnevale, giorno di scialo per coteste donne dei nostri
camaldoli, con tavole apparecchiate anche su la strada: e doveva essere
antichissimo, quanto forse la cena (tutt'altra cosa) delle «maledette».

[39] _Parad_. XV, 127-129.

[40] Protocollo di ser Uguccione di messer Ranieri Bondoni, B. 2126
dell'Archivio antecosimiano dei Contratti, nell'Archivio fiorentino di
Stato. A c. 130 t., 11 aprile 1304.

[41] G. M. BROCCHI, _Le vite de' Santi e Beati fiorentini_; Firenze,
1742-61; II, 339 seg. Vedi anche L. SANTONI, _Diario sacro_ ecc.
con l'_Elenco di tutti i Santi, Beati e Venerabili che sono nati
domiciliati e morti in Toscana_; Firenze, 1853; pag. 105. Piccarda, o
col suo nome francescano suor Costanza, Donati è sotto il 17 ottobre.
(La data de' «17 ottobre, a pag. 105» dell'Elenco di L. Santoni, è
erronea. La vera è «17 dicembre, a pag. 128» del medesimo Elenco; dove
anche altre cose, oltre quel doppione, sarebbero da raddirizzare.)

[42] Questo concetto fermai in una iscrizione pel Centenario di Santa
Margherita da Cortona (1897), che qui ripubblico siccome non aliena dal
carattere del presente mio libro:

              _Coronazione di virtù miti in secolo feroce_
                      _fu l'aureola della santità_
                 _sulla fronte della donna medievale._
         _Ma di eroica redenzione dalle abiezioni del peccato_
                     _voluta e combattuta e vinta,_
    _ma di rivendicazione dello spirito immortale alla sua libertà,_
            _è confortevole simbolo anche nei mutati tempi_
                    _la santità tua, o Margherita,_
                          _o bella penitente,_
            _o consigliatrice di pace ai potenti del mondo,_
         _o iniziatrice di carità dagli abbienti ai poveretti;_
                 _Maddalena dell'età fosca e luminosa,_
                         _a cui Francesco ebbe_
                 _nelle stigmate dell'amore universale_
                 _rinnovato il dolce crocifisso Gesù._

[43] _Leggenda della beata Umiliana de' Cerchi_; Firenze 1827; a pag.
23, 34, 94, 50.

[44] N. TOMMASEO, _Lo spirito, il cuore, la parola di Caterina da
Siena_; premesso alle _Lettere_ di lei (Firenze, Barbèra, 1860), a pag.
CLXXXVI.

[45] G. VILLANI, VI, XXXIII: GINO CAPPONI, _Storia della Repubblica di
Firenze_; Firenze, Barbèra, 1875; I, 29-30.

[46] G. VILLANI, VI, LXXIX.

[47] G. VILLANI, VI, LXII.

[48] Il sepolcro in chiesa nella cappella di San Matteo. La pietra (con
lo stemma, e figurazioni guelfe, e la scritta _Sepulchrum filiorum de
Marignolle. A. D. MCCLVIIII. Restauratum A. D. MCCCCCV_), che serviva
di dossale all'altare (RICHA, _Chiese fiorentine_, V, 73, 33-34), fu
trasferita nel chiostro della Canonica, a man destra appena entrati,
nel 1739 per cura degli Ubaldini novelli patroni della cappella. E così
deve correggersi un accenno del CAPPONI, l. c.

[49] _Inf_. X, 92.

[50] Dramma ritratto con veracità d'arte possente, in una lirica del
TOMMASEO: a pag. 374-377 delle _Poesie_, Firenze, Succ. Le Monnier,
1872 e 1902.

[51] Vedi nel mio libro _Dino Compagni e la sua Cronica_, II, 519.

[52] Vedi nel citato mio libro, II, 457-58.

[53] _Statuti fiorentini,_ III, CLXXIX: «Di non contraere parentado
co' conti Guidi e altri (_conti Alberti, Ubertini, Pazzi di Valdarno,
Ubaldini_), e di pagare la gabella pe' contraenti matrimonio con alcuno
Signore confinante col territorio fiorentino.... E coloro e' quali di
tale matrimonio nascesseno, come bastardi a successione d'alcuno venire
non possano, ma da la successione s'intendano per essa ragione schiusi,
in quel modo ch'e' bastardi sono eschiusi.» Disposizioni che dai più
antichi Statuti si veggono perdurare fino in quelli del 1415: ed erano
spada sempre tagliente, sospesa sul capo delle famiglie ribelli; come
ne danno pietoso esempio due gentildonne del primo Quattrocento: una
Bardi negli Alberti, e una Alberti nei Corsini (vedi C. CARNESECCHI,
_Madonna Caterina degli Alberti Corsini, Notizie inedite_;
nell'_Archivio Storico Italiano_, 1892, X, 116-122).

[54] DINO COMPAGNI, II, XXI; G. VILLANI, VIII, XXXV.

[55] DINO COMPAGNI, III, VII.

[56] DINO COMPAGNI, I, XXII: «In tal sera, che è il rinnovamento della
primavera, le donne usano molto per le vicinanze i balli.» G. VILLANI,
VII, CXXXII; VIII, XXXIX: «Ogni anno per calen di maggio, si faceano
le brigate e compagnie di gentili giovani....; e simile di donne e
pulcelle, _ec_.» G. BOCCACCIO, _Vita di Dante_, III: «Nel tempo nel
quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti la terra, e
tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi frondi la fa
ridente, era usanza nella nostra città e degli uomini e delle donne,
nelle loro contrade ciascuno, e in distinte compagnie, festeggiare.»

[57] «Nell'anno 1283, del mese di giugno per la festa di San Giovanni,
essendo la città di Firenze in felice e buono stato di riposo, e
tranquillo e pacifico stato, e utile per li mercatanti e artefici, e
massimamente per gli Guelfi che signoreggiavano la terra, si fece nella
contrada di Santa Felicita oltrarno, onde furono capo e cominciatori
quegli della casa de' Rossi con loro vicinanze, una compagnia e
brigata di mille uomini o più, tutti vestiti di robe bianche, con uno
Signore detto dell'Amore. Per la qual brigata non s'intendea se non in
giuochi e in sollazzi, e in balli di donne e di cavalieri e d'altri,
popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia
e allegrezza, e stando in conviti insieme in desinari e in cene. La
quale corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che
mai fosse nella città di Firenze o in Toscana; alla quale vennero, di
diverse parti e paesi, molti gentili uomini di corte e giocolari, e
tutti furono ricevuti e provveduti onorevolmente.» G. VILLANI, VII,
LXXXIX.

[58] _Purg_. XXIV, 50, 57.

[59] _Rime_, ediz. FRATICELLI, pag. 74.

[60] _Purg_, XX, 70-75.

[61] DINO COMPAGNI, II, XIX segg.

[62] NERI STRINATI, _Cronichetta_; Firenze, 1753, pag. 115-116.

[63] _Istorie pistoiesi_, pag. 1.

[64] FRANCO SACCHETTI, _Nov_. CLXXIX.

[65] A pag. 49-51 di _Dante ne' tempi di Dante, Ritratti e Studi_;
Bologna, Zanichelli, 1888. I particolari dalla _Cronica_ di MARCHIONNE
STEFANI, CCXVII.

[66] Vedi qui appresso, _La donna fiorentina nel rinascimento_ ecc.

[67] Curioso inedito episodio di storia fiorentina, che io ebbi
occasione di raccontare nel cit. mio libro _Dino Compagni e la sua
Cronica_; I, 1086-88.

[68] _Purg_. XIX, 85-90.

[69] Monna Giovanna di Buonaccorso del Velluto, donna della Penitenza
delle Vestite di Santa Croce, manda (14 maggio 1298) Michele del fu
Orlando, servigiale delle monache di Monticelli, a stare per sei mesi
nell'esercito del venerabile padre messer Bonifazio sommo Pontefice
e di Santa Chiesa contro i perfidi (intendi, miscredenti) Colonnesi e
qualsisiano altri inimici e rubelli di detta Chiesa e Pontefice; con
riportare a suo tempo pubblico instrumento, o lettere sigillate papali,
del servizio fatto e relativa indulgenza, lucrata per tal mezzo da essa
monna Giovanna. Vedi il mio Commento alla _Cronica_ di Dino, II, ii, 6.

[70] L'episodio monastico di suor Margherita, dico quello della
sfuriata profetica contro papa Bonifazio, è consegnato a un atto dei
23 maggio 1299, pubblicato da D. MORENI (_Contorni di Firenze_, VI, 77
seg.) che è fra le pergamene dell'Archivio fiorentino di Stato, insieme
con altri (del 25 maggio e 23 luglio successivi) pur concernenti il
bizzarro episodio. Dei contrasti poi, diciam pure politici, per la sua
elezione a badessa nel 1291, ci dà i particolari un altro atto dei
5 gennaio di cotesto medesimo anno, e che è altresì, col corredo di
altri, fra le pergamene dell'Archivio fiorentino. In quella elezione a
badessa di suor Margherita, che succede a una Giovanna, le elettrici in
numero di sette, convengono nel nome di suor Margherita, eccetto due,
suor Petronilla e suor Giovanna, delle quali la prima dice che non vuol
consentire in nessun nome, finchè non abbia l'assentimento del proprio
padre e degli altri di casa sua, e perciò chiede dilazione; e suor
Giovanna, parimente, dichiara di voler prima l'assenso degli zii. Gli
scrutatori non l'accordano, protestando che la causa, per la quale le
due monache fanno tale richiesta, è riprovevole e disonesta e contro il
diritto e i buoni costumi. A dì 8 il vescovo Andrea dei Mozzi conferma
l'elezione. Ho cercato inutilmente, a quali famiglie fiorentine
appartenessero e suor Margherita e le due elettrici che, in nome e
nell'interesse del respettivo parentado, facevano quelle eccezioni
partigiane.

Nell'Archivio fiorentino di Stato (Sezione del Diplomatico) sono, oltre
gl'indicati, anche i documenti dello sposalizio episcopomonacale, così
di quello del 1301 come di altri.

[71] _Purg_. XXIII, 98-111.

[72] FOLGORE DA SAN GIMIGNANO; II, 194, dei _Poeti del primo secolo_;
Firenze, 1816.

[73] Vedi, nell'Appendice al mio Commento alla _Cronica_ di Dino, la
XVII.ª delle _Note dantesche_, pag. 624-27.

[74] _Iliade_, lib. VI e XXIV. _Eneide_, II, 790-97, nella traduz. del
CARO:

    S'ode più dentro un gemito, un tumulto,
    un compianto di donne, un ululato,
    e di confusione e di miseria
    tale un suon che feria l'aura e le stelle.
    Le misere matrone spaventate,
    chi qua chi là per le gran sale errando,
    battonsi i petti, e con dirotti pianti
    danno infino alle porte amplessi e baci.

[75] _Orlando furioso_, XVII, 13.

[76] _Purg_. XXIV, 106-111.

[77] _Purg_. VI, 148-151.

[78] Caterina della Bella, moglie di Galassino Castellani: esiliata col
padre nel 1295, prosciolta dal bando nel 1317.

[79] Vedi a pag. 66-73 del mio libro _Dal secolo e dal poema di Dante,
Altri Ritratti e Studi_; Bologna, Zanichelli, 1898.

[80] Vedi delle cit. mie _Note dantesche_ la XVª _Del ghibellinismo di
Dante_, pag. 604-610; e gli Atti della proscrizione dei Guelfi Bianchi,
fra i Documenti al mio Discorso _Dell'esilio di Dante_; Firenze, Succ.
Le Monnier,1881.

[81] _Purg_. XXIII, 103-105.

[82] G. VILLANI, IX, CCXLV.

[83] G. VILLANI, X, XI.

[84] Nel protocollo notarile di ser Lapo Gianni (Archivio antecosimiano
dei Contratti, nell'Archivio fiorentino di Stato) occorre un atto dei
2 gennaio 1328, risguardante condottieri e milizie a soldo, intestato
così: «Actum in ducali Palatio Florentie, presentibus testibus _ecc_.».

[85] G. VILLANI, X, XI.

[86] G. VILLANI, l. c.

[87] G. CARDUCCI, _Rime antiche da carte di archivî_; nel
_Propugnatore_, vol. XXI (an. 1888), pag. 8.

[88] _Nov_. CXXXVII: «Come le donne fiorentine, senza studiare o
apparare leggi, hanno vinto e confuso già con le loro legge, portando
le loro fogge, alcuno dottor di legge.»

[89] Al 1306 mostrano risalire gli _Ordinamenti intorno agli sponsali
ed ai mortorî_ (P. EMILIANI GIUDICI, _Storia dei Comuni italiani_, III,
149-170), in quanto si connettano con la istituzione fatta nel 1306
dell'_Esecutore degli Ordinamenti di giustizia_. E in un Consiglio del
1290 si discuteva dello «scrivere le vestimenta», cioè far l'inventario
degli ornamenti femminili; e fra i consulenti era ser Brunetto Latini
(_Alla biografia di ser B. L. contributo di documenti_ per I. DEL
LUNGO; a pag. 251-52 della _Monografia_ di T. SUNDBY, tradotta da R.
RENIER, _Della vita e delle opere di B. L._; Firenze, Succ. Le Monnier,
1884). Vedi poi la cit. Conferenza di G. BIAGI, _La vita privata dei
Fiorentini_, §§ VI, VII, pag. 100 segg.

[90] Chi voglia gustare un saggio del bel volgare di quei documenti,
può vedere i citati _Ordinamenti intorno agli sponsali e ai mortorî_, e
altri _Ordinamenti_ del 1388 pubblicati e illustrati da D. SALVI a pag.
221-237 della _Regola del governo di cura familiare del beato_ GIOVANNI
DOMINICI _fiorentino_; Firenze, 1860.

[91] _Scritti editi e inediti_; Firenze, Barbèra, 1877; I, 409-410.

[92] Da quell'Ovidio «delle donne» vedi curiosi saggi di psicologia
femminile in alcune pagine del cit. mio libro su _Dino Compagni_ ec.,
I, 418 seg.

[93] Esempio insigne FRA DOMENICO CAVALCA, _Volgarizzamento della
Epistola di S. Girolamo ad Eustochio_ (Roma, 1764), pag. 356:
«Volendo per utilità di molte donne religiose e altre oneste vergini,
e ancora molte altre persone che non sanno grammatica, recare in
vulgare quella bella Pistola la quale San Girolamo mandò ad Eustochio
nobilissima vergine di Roma, inducendola ad amare e ben guardare la
santa verginità, e a bene renunciare lo mondo tutto; do ad intendere a
ciascuno che legge, che _ecc_.»

[94] _Documenti d'Amore_; Roma, 1640. — _Del Reggimento e costumi di
donna_; Bologna, 1875. — Sulla precettistica femminile del Barberino,
vedi qui appresso, pag. 81 segg. Il quesito circa «lo leggere e lo
scrivere» è nella seconda delle indicate opere, a pag. 40-42.

[95] _Cronica domestica_, secondo il titolo col quale io la ho
preparata per le stampe sull'autografo, che si conserva presso i
signori Velluti-Zati. Vedine notizia e saggi nel _Manuale della
letteratura italiana_ di A. D'ANCONA e O. BACCI; vol. I (ediz. 1903),
pag. 572-78. La edizione, unica sinora, fatta da D. M. MANNI, fu
condotta sulle copie, ed è difettosa per troppi rispetti, e improprio
il titolo: _Cronica di Firenze dall'anno 1300 in circa fino al 1370_.
Ai passi, che qui adduco di sull'autografo, corrispondono nella
edizione del MANNI le pagine 14, 25, 26, 36, 56, 132, 53, 129.

[96] Rilevata come popolare da Vincenzio Borghini (postille al
SACCHETTI, ediz. Le Monnier, _Nov_. LXXXV): «_Delle care, delle
compiute e dell'oneste donne della nostra città_: è nostro modo di
dire, et ha sapore di comparativo o presso che superlativo.»

[97] A. GASPARY, _La scuola poetica siciliana del secolo XIII_;
Livorno, Vigo, 1882; a pag. 5.

[98] _Istoria d'Ippolito e Lionora_, o _Istoria d'Ippolito e Dianora_;
così in prosa come in ottava rima: stampata e ristampata, ormai da più
di quattro secoli, in libercoli di edizione popolare.

[99] A. D'ANCONA, nella edizione critica che di sulle popolari,
moltiplicatesi fin dai primi tempi della stampa, ne fece nel 1863
(Pisa, Nistri): _La storia di Ginevra degli Almieri che fu sepolta viva
in Firenze, di_ AGOSTINO VELLETTI, _riprodotta sulle antiche stampe_.
E criticamente ne ha discorso P. RAJNA, in _Romania_, vol. XXXI (an.
1902), pag. 62-68.

[100] G. VILLANI, II, I.

[101] «Ma del nome del _Buonconsiglio_, egli è noto quel che ne porta
attorno la fama comune: che andando liberamente e senza sospetto i
cittadini chiamati da Totila nel palazzo del Campidoglio, dove egli
gli mandava invitando per ammazzargli, furono avvisati da una donna
che stava a vendere accanto a quella chiesa, che guardasser bene, chè,
come ha quella favola d'Esopo, di quanti vi erano entrati niuno se
n'era veduto uscire. Donde vogliono che e' si salvasse la vita a molti
per lo _buon consiglio_ di quella trecca. Ma io non veggo che si abbia
a fare o riferire alla chiesa il fatto di questa feminella; però, se
vale a indovinare, credo che più si appressi al vero il pensiero di
coloro che..... pensano che, come..... alcuna volta ed in certi casi
nel tempio di Giove Capitolino (_in Roma_) si ragunava il Senato, così
si ragunasse in questo, ne' primi tempi, il Consiglio della città.» V.
BORGHINI, _Discorsi_, I, 143-144.

[102] Il documento storico di quella fondazione vedilo, con un mio
tentativo di versione in antico volgar fiorentino, a pag. 115-134 del
mio volumetto _Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII_;
Milano, Hoepli, 1891.

[103] Vedasi, di tuttociò, a pag. 285-288 della _Storia degli
Stabilimenti di beneficenza ec. della città di Firenze_ (Firenze,
Le Monnier, 1853) di LUIGI PASSERINI. Della leggenda di monna
Tessa, sfatandola, parla anche un antiquario settecentista G. B. DEI
(_Memorie di famiglie_, XXXVII, 89; nell'Archivio fiorentino di Stato),
raccogliendo notizie sui Portinari.

[104] G. BIAGI, a pag. 90-94 della cit. Conferenza su _La vita privata
dei Fiorentini_.

[105] Vedi appresso, _Beatrice nella vita e nella poesia del secolo
XIII_.

[106] _L'Obituario di Santa Reparata_, nell'Archivio dell'Opera di
Santa Maria del Fiore.

[107] Vedi a pag. 339, vol. IV (Prato, Succ. Vestri, 1897) delle
_Opere_ di CESARE GUASTI.

[108] _Purg_. XXXI, 49-51.

[109] 12 maggio 1887: inaugurazione della facciata di Santa Maria del
Fiore.

[110] 22 aprile 1860.

[111] In Affrica, a Dogali, il 26 gennaio 1887.

[112] _Inf_. X, 35, 69.

[113] GUIDO CAVALCANTI, _Rime_ (ed. P. ERCOLE, Livorno, 1885), pag. 266.



DA DANTE AL BOCCACCIO

    Nella solenne adunanza della _Società Colombaria_, tenuta il
  21 maggio 1887 nel Palazzo del Presidente, principe don Tommaso
  Corsini.


  _Colleghi egregi, Signore e Signori,_

Fu cortese desiderio del meritissimo Presidente e del Consiglio degli
Anziani della nostra Società, che fra i lettori designati, secondo le
Costituzioni, per l'anno presente, io trattenessi oggi per breve tempo
l'udienza, invitata alla Relazione, che con la consueta nobiltà di
pensieri e schiettezza affettuosa di forme, ci avrebbe fatta ascoltare
il Segretario[114] nella fratellevole allegrezza di questo, come i
vecchi dicevano, nostro annuale. A più modesta adunanza veramente
che a questa, la quale celebriamo in città tuttavia festeggiante e
all'ombra di quell'ospitalità di cui il patriziato fiorentino si onorò
sempre verso gli umani studi, a più modesta adunanza riserbavo io le
osservazioni, piuttosto accennative che dissertative, le quali sono
per leggervi, sulla idealità femminile nella letteratura fiorentina
da Dante al Boccaccio: nè dell'adunanza, in cui si è voluto che io
le rechi, intendo occupar con esse altro luogo che una estrema linea
e come d'appendice. Appendice forse non disadatta, per l'argomento,
alla genialità del convegno odierno; appendice altresì e compimento
di altra mia recente lettura;[115] trovino presso di Voi, come questa
ebbe presso altri gentili, accoglienza benevola: e in ogni caso, lo
avere non altro che obbedito valga e a scusarmi e insieme a liberarmi
dalla taccia di quel Cherilo oraziano, che batteva sempre sulla
medesima corda; e male, per giunta.[116] Io, fidato nella vostra bontà,
rinunzierò volentieri alla difesa che potrei trarre da una sentenza del
Machiavelli: «Se niuna cosa diletta o insegna nella storia, è quella
che particolarmente si descrive.»[117] Lo dice egli della storia, con
piana applicazione, com'è di tutti i suoi lucidi e appuntati aforismi:
nella critica, l'equivalente di questo mi sembra essere, che non si
trascuri alcun ordine di fatti, così dall'ideale come dal reale, i
quali appartengano alla illustrazione d'un dato argomento. Nè a me,
studiando la Donna fiorentina nei primi secoli del Comune, parve poter
trascurare, dopo mostrato ciò ch'ella fu nei fatti e nelle tradizioni,
un sommario cenno a quale ella ci vive tuttora presente, nelle
perpetuatrici pagine dei grandi effigiatori e assimilatori del vero;
quale ella informò di sè, per virtù de' proprî naturali effetti, i
cuori e le menti de' sovrani atteggiatori del pensiero nell'adolescente
e pur già virile parola italiana. Ma sempre, avvertasi bene, con
relazione, anche questa parte del mio Studio, a ciò che chiamerei la
personalità fiorentina della donna; per circoscrivere col linguaggio
de' giuristi un tema, che potrebbe svolgersi in àmbito ben altramente
ampio di principî e di applicazioni.

                                   *
                                  * *

In quel giovine mondo, del cui risvegliarsi con entusiasmo alla
vita è simbolo, ormai tradizionale, l'affrancamento dalle più o
meno millenarie paure della distruzione delle cose, molte e svariate
cause concorsero a far potenti e benefici gl'influssi della femminile
bellezza; ma non altrove forse così singolarmente quelli influssi
operarono, nè con effetti sì alti, come in questa città e in quel
tempo, in cui agli angeli di Cimabue (non più linee bizantine ma
umane figure) succedevano quasi immediatamente i profili eloquenti,
le passionate espressioni, del suo discepolo Giotto; e l'eco
dell'artificiata poesia di quei graziosi bizantini della parola che
poi infine furono i Provenzali, si era appena ripercosso nelle colline
di Fiesole e di Maiano, sede non disacconcia a «pastorette» e a
«tenzoni», che già, dal cuore della vecchia Firenze, una voce vera di
uomo, e quale uomo!, disperdeva fra concetti di schietto e profondo
sentimento quella musichetta di seconda e terza mano, e «cominciatore
del dolce stil nuovo», un giovine degli Alighieri, scriveva «a
dettatura d'Amore», e «secondo le interne spirazioni di lui, andava
significando» non vuoti suoni ma cose: «amoroso canto», a cui dava note
potenti Casella.[118] Se gentile atomo della terrena polvere» è stata
chiamata Firenze da un grande innamorato di lei,[119] a nessuna parte
forse di Firenze si addice meglio tal nome, che a quel breve tratto
fra le case dei Portinari nel Corso e la vecchia Badia, nel quale si
svolse la soave storia d'amore, che ebbe idillio ed elegia nella _Vita
Nuova_ e poema in uno de' più grandi concepimenti d'ingegno mortale.
E noi vorremmo, cotesto piccol nido di cose grandi, poterlo ripopolare
delle gentili figure di quelle «sessanta fra le più belle donne della
città», che il giovine poeta ci narra[120] avere enumerate e disposte
«in una epistola sotto forma di serventese»; della cui perdita mal ci
compensano il Serventese delle belle donne del 1335, scritto da Antonio
Pucci nel suo ruvido stile (salvo il cominciamento, ch'è assai garbato,

    Leggiadro sermintese, pien d'amore,
    cercando va', per la città del fiore,
    tutte le donne più degne d'onore,
                          in tal maniera),

e un posterior frammento consimile che si volle attribuire al
Boccaccio.[121] Ma quell'omaggio che alla bellezza delle sue
concittadine rendeva Dante; non il macro e doloroso meditatore della
Commedia divina, sibbene Dante giovine e innamorato, a cui non ancora
la morte aveva tolto la donna sua, nè l'esilio la patria; quell'omaggio
trovadorico, del quale null'altro, e da lui stesso, conosciamo, se non
che sessanta erano le belle, e come «componendolo, maravigliosamente
addivenne, che in alcuno altro numero non sofferse il nome della sua
donna stare, se non in sul nono», mistico numero; andò disperso nel
fragore battagliero delle parti. Così al cozzo delle spade, alle grida
di «Arme, arme! Ammazza, ammazza!», si sgominarono i balli di donne
e di cavalieri, festeggianti pel calendimaggio il rinnovamento della
primavera o per il San Giovanni la maggior solennità cittadina; si
dispersero le brigate allegoriche, vestite di robe bianche «con uno
Signore detto dell'Amore», che tenevan pubblicamente corte bandita,
imitando con larghezza popolana le feudali magnificenze.[122] Il poeta
che ventenne si era deliziato nei sogni d'amore, immaginando sè con gli
amici e poeti Guido Cavalcanti e Lapo Gianni e le loro donne, naviganti
in un mare tranquillo entro un vascello incantato;[123] respinto prima
dalla morte dell'amata sua nelle aspre realtà della vita, ebbe poi a
sostenere il peso delle pubbliche sventure, de' civili disinganni, e di
suoi proprî traviamenti ed errori. Per tal modo,

    le dolci rime d'amor, ch'ei solea
    cercar ne' suoi pensieri,[124]

cedetter luogo, nell'anima ravveduta e percossa, allo sdegno che
purifica, al dolore che ispira, alla meditazione che gli obietti
esteriori trasforma, quelli che per degnità ne son suscettivi, in
mere idealità. La dominante scolastica accrebbe (e il _Convivio_ ne
fa espressa testimonianza) impulso ed estensione al procedimento di
quell'austero intelletto verso l'ideale: cosicchè non solamente la
donna che

    si era partita dalla sua veduta,
    divenne spirital bellezza grande,[125]

sibbene tutta la realtà della vita, tutta, come dicevano, la vita
attiva, scomparve agli occhi suoi contemplanti, e le si sovrappose,
infinito e sovrumano, e solo esso vero, l'ideale. Ma gli occhi di
Beatrice anche in quella regione sconfinata, raggiano sempre,

    dal primo giorno ch'ei vide il suo viso.
    in questa vita, insino a quella vista;[126]

gli occhi amorosi, che per le feste primaverili nella casa del padre,
ai banchetti nuziali, passando per le vie, nella chiesa pregando a
Maria (non faccio che ricordarvi le realtà della _Vita Nuova_;[127]
e nessun altro libro nè ha di più spiritualmente adombrate), si sono
volti verso il Poeta: anzi, se lo sguardo di lei donna lo confondeva
e lo «sconfiggeva»,[128] sono ora gli occhi di lei «salita a spirto
e cresciuta di bellezza e di virtù»[129] che lo attraggono, per virtù
miracolosa, di cielo in cielo alla visione suprema dell'Ente:

    Beatrice in suso, ed io in lei, guardava.[130]

E nessuna lode, fra le adulazioni tante di che è stata (fin che è usato
rispettarla) caricata la donna, nessuna fu mai lode più alta di questa.

Di Beatrice, quanto indubitabile la realtà, suggellata in quel verso
potente[131]

    guardami ben; ben son, ben son Beatrice,

altrettanto è poco o punto contornata storicamente la figura, non dico
nel Poema, dov'ella è spirito e simbolo ma nella stessa _Vita Nuova_,
dov'ella è donna che ispira affetti e che muore. Può anzi dirsi che la
Beatrice della _Vita Nuova_, sebbene donna vivente, è in sì alto grado
angelicata, che i lineamenti femminili si perdono in quell'aureola
ond'è circonfusa la

                            cosa venuta
    di cielo in terra a miracol mostrare:[132]

e piuttosto nel Poema, dove la creatura celeste è discesa «dal suo
beato scanno, per soccorrere quei che l'amò tanto»,[133] spesso assume
aspetti e atteggiamenti di vita reale ed umana, sia che[134] non
senza lacrime parli a Virgilio del pericolo di Dante; sia che a questo
rimproveri le mondane infedeltà, e lo umilii fino a rompere in pianto;
sia che lo affidi pei mistici lavacri a Matelda; sia che sorrida de'
suoi smarrimenti di creatura impotente a sostenere il fascio del divino
che opprime i deboli sensi; sia che, perfino, maliziosamente

    ridendo, paia quella che tossìo
    al primo fallo scritto di Ginevra.

Nella _Vita Nuova_ hanno cercato a che punto della narrazione Beatrice,
da Portinari, diventi de' Bardi, poichè, si è detto, «il matrimonio
di lei con un altro uomo doveva muovere gagliardamente l'anima del
giovine e innamorato poeta.»[135] Io non lo credo: e che l'amore di
Dante, «la reverenza che s'indonnava di tutto lui pur per B e per
ICE»,[136] sia stato amor di poeta medievale per la donna del pensiero,
e non altro, lo stimo asserto da poter sostenere il cimento anche
de' luoghi più appassionati di quella psicologica confessione.[137]
Del resto, è argomentazione molto probabile quella su tal proposito
stata fatta,[138] che Beatrice andasse sposa a messer Simone de' Bardi
in giovanissima età: e volentieri questo parentado di Portinari,
alcuni de' quali Ghibellini, con Bardi famiglia guelfa de' Grandi,
io lo porrei com'uno di quelli che la pace del cardinale Latino, nel
1280, conciliò tra famiglie delle due parti. Similmente, che quello
fra Donati e Alighieri, pel quale Dante, sposando la Gemma di messer
Manetto, s'imparentò col grande agitatore di parte guelfa messer Corso,
sia stato principalmente un parentado di «vicini», nel senso storico di
«quasi consorti» che tal parola ci deve da que' tempi richiamare alla
mente, è cosa non certa per documenti,[139] ma troppo più probabile
del tanto che sul matrimonio di Dante e, povera donna, sulla sua
moglie, hanno o ricamato o stillato biografi ed eruditi, dal romanzo
del Boccaccio alle bizzarrie presuntuose di critici odierni. Tanto più,
che il terribile messer Corso, in maneggiar parentadi di sua casa con
mire di parte, fu tale da disgradarne la peggio intrigante femmina,
aggiuntovi poi l'audacia e la violenza che per lui principalmente
attirarono alla sua famiglia il triste soprannome di Malefa' mi: o
si trattasse di strappare al chiostro la sorella bellissima; o a sè
medesimo, non più giovine, dare la terza moglie, dopo una Cerchi della
cittadinanza guelfa e una Ubertini del contadiname feudale ghibellino,
in una figliuola del ghibellino venturiero Uguccione della Faggiuola.
Corse voce, intorno a quella prima sua moglie, la Cerchi, che morisse
per veleno dal marito stesso propinatole: doppiamente orrendo a
pensarsi, se cupidigia di nozze partigiane trascinava quel sinistro
uomo a moltiplicarle.[140] E a tutto ciò riflettendo, quanto più cara
e pietosa addiviene, là dentro a quelle infauste case de' Malefa' mi,
la soavissima figura di Nella! la vedova virtuosa dello scapestrato
Forese Donati, compagno a Dante nel breve periodo giovanile, che
questi pur ebbe, di vita mondana;[141] «la Nella mia», dice Forese nel
Purgatorio,[142] «che piange e prega per me, soletta in bene operare
fra quella gente selvaggia dov'io l'ho lasciata». Ad amare di simile
affetto la madre de' suoi molti figliuoli, ad amarla in patria, ad
amarla esule, io penso che il culto ideale per Beatrice non dovesse
a Dante fare impedimento veruno; non più che a Guido Cavalcanti,
marito di Bice degli Uberti, la servitù amorosa per monna Vanna. Nè
credo, come alcuni interpreti della _Vita Nuova_ han voluto,[143]
che la «donna gentile» vicina di casa dell'Alighieri, e che «da una
fenestra riguardava molto pietosamente» al dolor suo nella morte della
Portinari, fosse appunto la Donati, che di quel tempo gli era forse
già moglie.[144] In quella donna gentile altri volle ravvisare la
Matelda del Paradiso terrestre: alla quale, meglio che il serto della
contessa famosa, meglio che le bende di non so qual monacella alemanna,
furon creduti addirsi — poichè ragioni all'accennata identificazione
non mancherebbero[145] — lo schietto vestire, il dimestico e natural
contegno, di semplice donna fiorentina: le cui più graziose imagini, di
donna che coglie fiori, di donna che muove il picciol passo a ballare,
di vergine che gli occhi onesti avvalla, ritornano, certamente dai
giovanili ricordi, dinanzi all'apparizione di lei, nella fantasia del
Poeta.[146]

                                   *
                                  * *

Ma nulla pur troppo di fiorentino potevano i giovanili ricordi ispirare
all'altro de' grandi idealizzatori della donna in quel secolo, al
Petrarca, a cui dalle maledette fazioni fu conteso in Firenze il
nascere e l'educarsi alla vita, come a Dante l'invecchiarvi e il
morire. Nè sappiamo se con preparazione e condizioni diverse di vita,
la tempera dell'animo suo e dell'ingegno sarebbe stata altra da quella
che fu, e sulla quale la realtà de' fatti operò tanto poco, e con tanta
poca coerenza d'impressioni, quanto invece fu molteplice e indefesso il
lavorio interno dello spirito e l'accentramento nel proprio sè delle
percezioni e de' sentimenti a queste congiunti. Checchè potesse esser
di ciò, nel Petrarca, quale lo abbiamo, non solamente Laura è donna
non fiorentina, ma ell'è la donna semplicemente; e quel che il Poeta le
appone è tutto attinto da sè medesimo, dal suo sentimento squisitissimo
e alcun poco morboso, pel quale il Petrarca bene è stato detto[147]
precorrere in parte ed anticipare i grandi poeti moderni dell'affetto e
del dolore universale e infinito.

Se non che una donna fiorentina, Eletta Canigiani, fu pure sua madre;
la quale datolo alla luce in terra d'esilio, da Arezzo infante di
sette mesi lo portò seco all'Incisa, e poi con lui ed un altro minor
fìglioletto segui il marito in Provenza, e morì, che il giovinetto
Francesco aveva appena quindici anni, ella non più che trentotto. E
trentotto esametri latini il giovinetto consacrò alla memoria materna:
nè chi conosce, quale poi si svolse, quella natura isterica d'umanista,
si meraviglia di tale aritmetica metrica applicata all'amor filiale.
«Porgimi ascolto, o madre mia santa, se virtù premiata in cielo non
isdegna altri onori. Anima eletta di nome e di fatto, cittadina del
paradiso e quaggiù eternamente memorabile per onestà e alta pietà,
dignità d'animo, e castità nel tuo bel corpo da' primi anni continuata
sino alla morte, tutti debbono venerarti, io piangerti sempre, chè
lasci me e il fratel mio giovinetti nel bivio fra il bene e il male,
in mezzo al turbine delle cose mondane: ma teco viene e ti accompagna
nel sepolcro la fortuna e la speranza della derelitta casa ed ogni
nostro conforto, e a me par d'essere sotto il tuo medesimo sasso». E le
promette più lunghe lodi e maggiori, dopo aver pianto sul suo feretro
e di lacrime aver bagnate le fredde membra; e che il nome della madre
vivrà ne' suoi versi, insieme col nome di lui, augurando, se questo
è destinato a perire, che quello di lei sopravviva. Ma tutto questo
dolore in latino, misurato in trentotto versi,[148] io dico schietto
non valere menomamente, nè[149] quell'ansiosa figura di madre, sebbene
appena sbozzata, che è in uno de' suoi tanti sonetti per Laura,

    Ne mai pietosa madre al caro figlio....
    diè con tanti sospir, con tal sospetto,
    in dubbio stato, si fedel consiglio....;

e molto meno quell'affettuoso e virile concetto nell'immortale Canzone
agl'Italiani, pel quale amor di patria e di famiglia sono fatti com'una
cosa sola:

    Non è questo il terren ch'i' toccai pria,
    ove nudrito fui sì dolcemente?
    non è questa la patria, in ch'io mi fido,
    madre benigna e pia,
    che cuopre l'uno e l'altro mio parente?

Di aver dati al Petrarca «i cari parenti e l'idioma», il Cantore dei
Sepolcri ha esaltata, con versi degni,[150] Firenze: ma che l'idioma
appreso sulle sponde dell'Arno rimanesse, nonostante la proscrizione
paterna, nonostante l'irrequieto pellegrinare di paese in paese, su
«quel dolce di Calliope labbro» ond'ebbe veste pudica l'amore; vi
rimanesse potente ad esprimere i più delicati sentimenti, mercè una
mirabil signoria delle più fine e riposte proprietà e, direi quasi,
fragranze del parlare toscano; quanto merito non ne dovesti aver tu,
oscura esule fiorentina, che in quella sua precoce adolescenza, fra una
pagina e l'altra di Cicerone e di Livio, in mezzo al gaio intertenersi
nell'amorosa lingua de' trovatori, fra le sonorità dell'eloquio
cortigiano della Babilonia avignonese, riportasti intermessamente
all'orecchio del figliuol tuo le armonie gentili del linguaggio
nativo! Che se di tal benefizio, di questa quasi seconda maternità, il
laureato capitolino, il conversante coi classici e gli eroi antichi,
il dispregiatore di questo anche per sua opera divino volgare, non
si accòrse mai dover esserti grato, è vecchia istoria delle madri,
che esse non chiedano compenso del loro amore, che esse cerchino il
sacrificio, e in quello appagate adagino la bianca testa veneranda,
come sul guanciale del loro riposo.

                                   *
                                  * *

La Provenza fu terra ospitale a molti di quei proscritti fiorentini;
e uno di essi, Azzo Arrighetti, fu colà il progenitore di una stirpe
più tardi famosa, Riquetti de Mirabeau. Paese gentile la Provenza,
di clima come il nostro benigno, agevole ai traffici italiani, e,
durante poi cotesto secolo, paese papale. Ma le donne nostre che,
come la Eletta Canigiani, colà o balestrava l'esilio od altra ventura
portava, le mogli de' mercatanti de' notai degli artefici fiorentini,
come si saranno assuefatte, e quali saranno esse parse, a quella
società feudale, tanto da' nostri reggimenti a popolo diversa? nel
paese de' baroni e de' trovatori, de' tornei e della gaia scienza, fra
la nobiltà dalle grandi tradizioni cavalleresche, accanto alle dame
che anc'oggi piace immaginare atteggiate a formular gravemente i loro
giudicati nelle Corti d'Amore, applicando a' casi controversi quello
o questo, de' trentuno articoli che ne compongono il codice?[151] Le
schive concittadine della buona Gualdrada, che la tradizione esaltava
d'essersi pubblicamente ricusata al bacio imperiale di Ottone IV,
che cosa avranno esse detto o pensato, assistendo in Avignone a
quella festa, che meritò un Sonetto del Petrarca, dove l'altera la
castissima Laura porse al bacio del giovane principe, che fu poi
Carlo IV, la fronte e quegli occhi, che il Poeta dovè contentarsi
d'aver cantati?[152] od anche solamente leggendo in una novella del
_Decameron_,[153] che Pietro d'Aragona, il cavalleresco re de' Vespri,
alla giovine fiorentina che in Palermo s'innamora di lui, confortatala
invece a savie nozze borghesi, in queste intervenuto di persona,
dinanzi ai genitori e allo sposo, «presole con amendue le mani il
capo, le bacia la fronte»? Che avranno, di queste baciature imperiali
e reali, le nostre care donne pensato? Risponde per loro, e proprio
da Avignone, un Fiorentino di due secoli appresso, che da Virgilio
ritraeva la poesia dell'Api e da Sofocle e da Euripide la tragedia, il
quale agli amici di Firenze annunziava, pieno delle memorie di madonna
Laura, che in quel gaio paese «gli erano leciti i baci come costì gli
sguardi»; «baci», aggiunge, «senza lo scoppio», de' quali egli stava
imparando, insieme col parlar francese, il segreto:[154] «baci», aveva
già prima detto il Pulci[155] «alla franciosa», che «ogni volta rimanea
la rosa».

La letteratura fiorentina del Trecento ebbe uno scrittore (che fu pure,
notisi, per alcun tempo in Provenza), il quale sentì quella semplicità
o, come poteva sembrare, rozzezza della nostra donna, della donna del
Comune democratico, appetto alla donna gentilesca e addestrata della
società feudale, e si argomentò di venirle in soccorso. La utopia
(chè altro nome non le si addice) di messer Francesco da Barberino
prese forma in due de' più singolari libri di quella letteratura,
i _Documenti d'Amore_ e _Costume e Reggimento di donna_, in forma
sentenziosa e di stampo addirittura gnomico: di che è bensì da
avvertire, che non in lunga e formata opera, come queste, ma in
componimenti lirici, e più specialmente canzoni, come quelle di Bindo
Bonichi, il Trecento porge altri notabili esempi.

Il _Costume e Reggimento di Donna_,[156] specialmente, è un completo
galateo femminile, dove, per ciascun grado e condizione sociale,
da fanciulla a vedova, da madre di famiglia a romita, da regina,
contessa, duchessa, principessa, a borghese, monaca, ancella, balia,
fruttaiuola, e persino barbiera, non omesse le treccole e le accattone,
si danno ammaestramenti alla donna, e se ne forma un modello ideale,
al quale ahimè quante poche rispondenze avrà dovuto trovare, anche
dopo la diffusione de' suoi libri, quel buono messer Francesco, fra
le allegre gentildonne e le graziose fanciulle e le saccenti comari
che per le case e per le piazze di Firenze gli si movevano attorno!
E notisi che i doveri femminili della vita regale[157] comprendono
ben cinquantaquattro capi, senza contare una dozzina di «cautele»
preliminari, e le speciali prescrizioni concernenti i casi di reggenza:
complesso di leggi, regole, norme, ammaestramenti, insegnamenti,
ammonimenti, consigli, che bastava esso solo a fare strabiliare,
salmisìa, non che le donnette spicciole, ma anche le gentildonne,
della nostra libera e sciorinata cittadinanza. Il recente storico della
Repubblica, signor Perrens, ha certamente esagerato nell'aggravare di
volgarità la vita quotidiana dell'antica donna fiorentina, contessendo,
con francese vivacità, d'episodietti dai nostri novellieri una serie
d'imagini e di fattispecie,[158] che pare uno spoglio, o piuttosto,
un inventario, dai romanzi d'Emilio Zola. Tuttavia ci è forza dubitare
assai, per modo di esempio, che molte delle leggitrici del _Reggimento
e Costume_ di messer Francesco abbiano saputo osservare i precetti co'
quali egli si confida regolar l'atteggiamento che la fanciulla dovrà
prendere nel ricevere l'anello di sposa:[159] stare con «gli occhi
chinati, fermi li membri» (e fin qui pazienza), ma inoltre «sembrar
paurosa»; e in questo era lecito a molte non riuscire abbastanza bene.
Così alla dimanda fattale del consenso, «aspettare l'una o le due»;
e la terza volta, «faccia soave e piana sua risposta»: manco male con
l'avvertenza, che e la paura e l'aspettare e la vocina sottile possano
essere un po' meno, se la sposa non è delle più giovinette. E sempre
dai precetti nuziali:[160] mangiar poco al banchetto; ma perchè lo
stomaco non soffra, aver preso innanzi qualche cosa in camera sua:
così pure, essersi lavata le mani, per non intorbidar troppo l'acqua
al bacino della mensa; e giova ricordare, come di que' tempi la
forchetta è, nelle ricerche erudite, un arnese di molto controversa
esistenza, e, per gentili e nobilissime che fossero, il cibo solido lo
portavano alla bocca le mani. Tutti poi i precetti del Barberino sono
corredati di esemplificazioni o novellette, spesso graziose assai,
ma quasi tutte di personaggi stranieri, di Provenza, di Normandia,
d'Inghilterra, di Castiglia, e cavalieri, conti baroni, re di corona;
e spesso alla esemplificazione è premessa qualche sentenza o concetto
di trovatore. L'intero trattato è altresì dominato per lungo e per
largo da un esercito di figure femminili allegoriche (come nel _Romanzo
della Rosa_), in persona di questa e quella virtù (taluna anche con
la sua «cameriera»[161] o col «fante»), Onestà, Pazienza, Castità,
Speranza, Cautela, Cortesia, Religione, e poi Voluttà, Penitenza,
Eterna luce, ed altre, subordinate tutte a Madonna che è la Sapienza;
la cui conversazione con lo scrittore dà come il filo a tutto il libro;
ed è cosparso largamente da descrizioni e moralità, il cui colorito
mena tinte calde e risentite, e lo stile, a motti e come a sprazzi, in
endecasillabi ballettanti i più sulla quarta e la settima, non ha forse
riscontro in altra opera dell'antica nostra poesia, e quasi arieggia le
moderne riproduzioni a freddo dell'oro e azzurro medievale.

Non vi dispiacerà, io credo, gustarne alcun poco. Una casa principesca
in giorno di nozze:[162]

    Suonan le trombe e li stormenti tutti;
    canti soavi e sollazzi dattorno.
    Frondi con fiori, tappeti e zendali
    sparti per terra,
    e grandi drappi di seta alle mura,
    argento ed oro, e le mense fornite,
    letti coverti e le camere allegre.
    Cucine pien' di varie imbandigioni;
    donzelli accorti a servire, ed ancora
    più damigelle giovani tra loro,
    armeggiando pe' chiostri e per le vie.
    Fermi balconi e le loggie coverte,
    cavalier molti e valorosa gente,
    donne e donzelle di grande beltate.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Vengono i vini e confetti abondanti;
    là son le frutte in diverse maniere.
    Cantan gli augelli in gabbia, e per li tetti
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Giardini aperti, e spandesi l'odore
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Bei cucciolini spagnuoi con le donne,
    più pappagalli per le mense vanno,
    falcon, girfalchi, sparvieri ed astori
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Li palafren corredati alle porte,
    le porte aperte, e partite le sale,
    come conviene alla gente venuta
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Surgon fontane di fonti novelle;
    spargon là dove conviene, e son belle.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Le molte donne allocate a sedere
    novellan tutte d'amore e di gioia
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Ride dal sol la primavera in campi;
    non è pareti che tengan la vista.
    . . . . . . . . . . . . . . . .

E questo distico di mirabile effetto nel descrivere il cessar d'una
festa notturna con l'alba:[163]

    Suona la sveglia, l'aurora apparisce,
    bassa il romore, e la gente s'addorme.

Quanto, e di che, debba la donna pregare Iddio:[164]

    ... è meglio assai
    orar fervente e poco,
    che molte orazïoni,
    de le quai poche si movon dal cuore.
    Dio non va cercando
    pur romper di ginocchia,
    ma ben save' che va cercando i cuori.
    Egli è scritto che breve orazione
    è quella che il ciel passa:
    folle è chi dunque in pur cianciar si allassa.
    Ma qui ti guarda sempre, che s'intende
    dell'orazione fervente e ordinata,
    con la dimanda licita e onesta:
    chè sono alquante, che pregan ch'Idio
    mantenga loro il color nel visaggio,
    e che le dia a star bella tra l'altre,
    e che mantenga biondi i lor capelli,
    o che dia lor la bella fregiatura.
    Onde per questo non v'affaticate,
    c'allora il provocate contro a voi.

Distrazioni amorose:[165]

    Va una donna a filare a finestra:
    passa uno amante, ed ella si volge;
    le man rattiene il filato ingrossa,
    e muta l'esser ch'ella à 'ncominciato.

    Così ancor chi a finestra cuce
    spesse fïate si cuce la mano,
    quand'ella crede sua veste cucire.

Parsimonia negli ornamenti:[166]

    E se ghirlanda porta,
    lodo che sia pure una
    gioliva e piccoletta;
    chè, come voi savete,
    grossa cosa è tenuta
    portar fastella in luogo di ghirlande.
    E quanto ell'è più bella,
    tanto minor la porti;
    però che non ghirlanda,
    ma piacer, fa piacere;
    nè fa l'ornato donna,
    ma donna fa parer lo suo ornato.

Capriccetti (che oggi chiameremmo romantici) delle ragazze:[167]

    Ora vi vengo a un vizio
    che regna spessamente
    in queste donzellette,
    lo qual vorria, s'io potessi, sturbare.
    E' ne son molte, che quando per vezzi,
    e tal fïata per una sciocchezza,
    ch'àn voglia di vedere
    com'elle sono amate da lor gente;
    e talora per alcuno disdegno
    d'alcuna paroletta
    ch'odon, ch'a lor non piace;
    e tal fïata perch'altri le lasci
    poi fare a lor senno;
    tale s'infìnge che le duole il fianco,
    e tale lo dente,
    e tale la testa,
    e tal dice mattezze,
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    E tal comincian questo,
    non credendo durar gran tempo in questo;
    ma poi ch'àn cominciato
    van pure innanzi,
    temendo ch'altri non dicesse poi:
    «Vedi che s'infingea».

Altrove[168] si propone un punto, intorno al quale lo scrittore «ha
trovate molte varie usanze, e di molte openioni», circa i saluti e
gl'inchini della novella sposa, cavandosene col consigliarla che ella

    dimandi della sua terra l'usanza
    e del paese dov'ell'è menata,
    e quella servi com' può temperata.

E basti ormai per conchiudere che chi in libro siffatto (nè
guari diversa intonazione ha l'altro dello scrittor medesimo, i
_Documenti d'Amore_) non voglia vedere il deliberato proposito,
da me sopra indicato, d'ingentilire i costumi popolani con una
teorica, poeticamente ideata, di signoril vivere e cortigiano,[169]
dovrebbe spiegarci come mai un Fiorentino, e dimorante in Firenze, e
vissuto quando gl'influssi poetici provenzali e siculi erano oramai
trapassati, come potesse, naturalmente e senza un preconcetto disegno,
provenzaleggiare e franceseggiare con tanta e sì passionata intensità,
«mescolando» (dic'egli in un luogo,[170] ma troppe volte è piuttosto
un sovrapporre o addossare) «il volgare toscano ad alcuni volgari
consonanti con esso», e fissare in un tipo così ricisamente foggiato
sopra realtà, per lo meno, non immediate la donna che l'etica amorosa
del tempo soleva comporre (e ne abbiamo graziose testimonianze) con
elementi svariatissimi, ove si mescolavano «la galanteria provenzale e
cavalleresca, la sensualità pagana, la prosaicità borghese, l'austerità
e ruvidezza ascetica, elementi del Rinascimento che contrastano
insieme, e sono sul divenire qualche cosa che non vorrebb'essere
nessuno di essi».[171]

                                   *
                                  * *

Nè di tali mescolanze, chi sottilmente indagasse, mancherebber forse
riscontri nelle realtà della vita d'allora: ma di siffatte realtà
troppi documenti, per la loro natura essenzialmente intima, fu
inevitabile che di que' secoli andassero perduti. Dirò tuttavia che
almeno uno, e assai grazioso, ne possediamo in un carteggio coniugale,
di poche e brevi lettere, scritte da una Fiorentina della seconda
metà del Trecento, Dora Del Bene, al marito mentr'egli era Vicario pel
Comune in Val di Nievole.[172] Ella scrive di campagna, e lo informa
delle faccende villerecce, degl'interessi domestici, della salute delle
figliuole: i figliuoli sono col padre, avvezzandosi così per tempo,
o ne' traffici o nel governo, i giovinetti a imparare la vita operosa
in servigio sì della famiglia e sì del Comune, e a conoscere il mondo,
in tante parti del quale portavano poi il nome fiorentino e d'Italia.
Ora in codesto carteggio, la reverenza affettuosa al marito, che
nelle soprascritte è chiamato «savio e discreto uomo, carissimo uomo,
reverendissimo uomo», e perfino «venerabile», è accompagnata da certi
urbani motti, i quali provano come alle donne fiorentine non isgradisse
mostrarsi verso i loro mariti, secondochè ad esse raccomandava un
anonimo espositore di Ovidio,[173] «non villane femine, che nulla
altra cosa sappiano fare se non lana carminare», ma savie e cortesi,
e «mostrare il suo bene e li suoi sollazzi e sue cortesie, tali che il
suo marito non possa altra femina trovare, che tanto gli possa piacere
o fare suo talento». Scrive la Dora: e premetto che nessuno certamente
può chiedere a quelle austere e robuste nature le espansioni fremebonde
della nostra età malaticcia. Scrive ella dunque: «Istiamo tutti bene,
lodato Idio: ma meglio ci parrebbe istare se fussimo teco. Addio;
t'accomando la Dora tua. Salute mille». E altrove: «Tu mi scrivi che
non puo' dormire la notte, per pensieri che hai dell'Antonia....»;
cioè della figliuola che pensavano a maritare. «Ma l'Antonia non è
quella che ti toglie el sonno. Ma quando non potrò più, assalirotti
che non te n'avvedrai, e non verrò se non solo per garrire». Scherzi,
come si sente, simulanti gelosia; e di quella gelosia che il solito
espositor d'Ovidio dice venire «da buono amore, «quando la donna ama il
suo diritto signore», e la distingue da un'altra gelosia ch'egli dice
venir da «follia». Questo medesimo linguaggio ritroviamo nei rimatori
e nostri e provenzali, e in una frase di Dante «il folle amore», una
delle molte, che i commentatori non riconoscono, da lui non trovate, ma
appropriatesi del comune parlare e sentire del tempo suo.[174] Quelle
lettere della Del Bene sono talvolta datate così: «Fatta dì XVIII
d'aprile all'Avemaria.... Fatta addì VIII di maggio. Dopo vespro sotto
la loggia.... Fatta addì XIX maggio dopo l'avemaria nella loggia;» con
ricordo amorevole, al marito e padre, dell'«ora che volge il disio»,
e del luogo che raccoglieva sulla sera la famiglia a geniale riposo
dalle giornaliere fatiche, che infine si conchiudeva con la preghiera.
L'ultima poi di esse lettere, quella della gelosia, è sottoscritta:
«la Dora tua nimica»; ossia col linguaggio, nè più nè meno, de'
rimatori verso le loro signore e tiranne. Questa figura di donna
vera non mi sembra scomparire poi troppo, e sia pure men compassata
e meno irreprensibile, appetto alle donne modello effigiate da messer
Francesco da Barberino.

                                   *
                                  * *

Una sola condizione di vita femminile ebbe in Firenze, non cortigiani,
ma popolani precetti: la vita coniugale; consacrati in quelli
_Avvertimenti di maritaggio_, de' quali, in prosa o in verso d'ottava
rima, ci rimane più d'un testo; formulati in dodici o quattordici
regole, con le quali la madre accompagna la figliuola all'altare.
Anche i teologi casisti aggravarono di cautele la vita matrimoniale,
mettendo in volgare anche ciò che era meglio rimanesse latino.[175]
Io qui, volgendomi a quelle altre più gentili e, ripeto, veramente
popolane scritture, riferirò da una di esse il preambolo e il commiato
materni:[176]

«Carissima mia figliuola, Molto ti prego, e ancora comando, che tu
non ti turbi perchè io t'abbi maritata, e convengati partire da me;
acciocchè non si adiri il tuo novello sposo al quale io t'ho sposata.
Bella mia figliuola, s'e' fosse lecito di starti meco infino alla mia
fine, non ti partiresti da me, tanta dolcezza d'amore ti congiunge
meco. Ma la ragione il concede, e l'onore nostro il vuole, e la tua
condizione e il tempo lo richiede, che tu sii oggimai accompagnata,
acciò che il tuo padre e io e i parenti nostri ricevino allegrezza di
te e de' tuoi figliuoli, i quali, alla speranza di Dio, avrai. Ora ti
traggo dal mio seno; ora escirai della signoria del tuo padre e andra'
ne al tuo marito e signore, onde non solamente gli sarai compagna
ma serva e ubbidiente. E sopra tutto, acciò che tu sappi come te
gli converrà esser serva e ubbidiente, intendi i miei ammonimenti, e
ricevili in luogo di comandamento; imperocchè, se bene gli manterrai,
in amore e grazia del tuo marito e di tutte le altre genti verrai».

Questo il preambolo. E queste altre poche parole, che paiono sfiorar
lievi lievi con tocco d'ala il velo nuziale della vergine, sono il
commiato: «Allora la gentil madre e savia donna benedisse e segnò
la benigna figliuola e mansueta pulzella, e raccomandolla a Dio, e
pregolla teneramente che sempre osservasse i suoi comandamenti, e che
sopra tutto avesse cara l'anima sua».

                                   *
                                  * *

Cotesti avvertimenti erano legislazione che veniva dal cuore e dalle
realtà della vita; non come quella del Barberino, dal paese d'utopia.

Francesco da Barberino moriva in tarda età nel 1348. Ma la pestilenza
che portò via, con tanti altri, anche il precettor cortigiano delle
donne fiorentine, doveva ispirare, ben altramente ascoltato, un altro
e ben più potente ingegno. Quel furore di godimento che inebriò,
come Matteo Villani ci attesta,[177] i sopravvissuti alla strage e al
terrore, ebbe il suo interprete in Giovanni Boccaccio: nella cui arte
il lussureggiar dei colori, la morbidezza ridondante delle linee, la
vistosità degli atteggiamenti, e pur troppo anche la depressione del
senso morale, accusano origine siffatta. Poca o nessuna idealità può
rinvenirsi nelle sue donne, in quanto idealità significhi attinenza,
più o meno visibile, che la figura ha con un tipo vagheggiato
dall'artista; ma efficace mirabilmente e profonda è nel borghese
fiorentino la rappresentazione drammatica del reale.[178] Non parlo
delle sue immaginarie raccontatrici, che Santa Maria Novella non vide
mai certamente incontrarsi sotto le sue volte sublimi, a profanare con
propositi da brigate la santità dell'infinito, e nessuna delle nostre
colline ospitò in ozio vile coi giovani vagheggianti, mentre giù al
piano la gente moriva: coteste donne, quelle Pampinee, quelle Elise,
quelle Fiammette, non dissomigliano guari, e taluna ha comune anche
il nome, alle figure dei suoi giovanili romanzi in prosa od in verso:
ninfe o donne, e talvolta un che di tramezzato dell'una e dell'altra,
ma sempre, anche quando donne vere come nel romanzo della _Fiammetta_,
figure tirate fuor dell'orbita reale e storica delle cose, in posa, più
o men classica, di dolore o d'amore, di sconforto o di gelosia, non mai
però sollevate sino a quella regione dove vivono immortali le creature
del pensiero, da Beatrice alla promessa sposa di Renzo, da Laura a
Margherita, da Erminia e Fiordiligi a Tecla Wallenstein ad Ermengarda.
Le figure femminili che il Boccaccio ha propriamente dato all'arte
sono le figure operanti nei brevi drammi di quel libro che a buon
dritto, in contrapposto al dantesco, è stato chiamato l'Umana Commedia:
delle quali forse una sola, che il Petrarca distinse come «di gran
lunga dissomigliante alle altre», contiene una idealità preconcetta,
ed è quella virtuosissima Griselda, la plebea degnata di nozze e poi
sottoposta a prova dal signor feudale; mito di storia e di moralità,
come altri ha giustamente rilevato,[179] e onorata di popolarità, nella
tradizione e nell'arte. Ma le più vivaci sono senza dubbio quelle che
messer Giovanni ritrasse dal vero del costume fiorentino: gentildonne
e borghesi, della città e del contado, allegre o maliziose ed anche
talvolta nobili figure, che egli o foggiava secondo i viventi modelli o
evocava da tombe da non molti anni dischiuse. In queste figure di sul
vero, non trasformate da nessun procedimento ideale, non alterate di
proporzioni per nessuna simpatia affettiva, si sente che il Medio Evo,
l'età mistica e contemplante, l'età dei grandi concepimenti interiori
nel seno fortemente travagliato, sta per morire: la realtà mondana
trionfa, e offre l'ignudo corpo alle vesti eleganti e sinuose che
l'umanismo prepara per adornarla, ed anche per travestirla.

                                   *
                                  * *

Ma noi, quando vogliam rivivere l'età de' padri nostri lontane,
torniamo, non che volentieri, ma naturalmente e come ricondotti
inconsapevoli, al Medio Evo: e le paganità del Rinascimento, che
incontriamo per via, potranno sodisfare curiosità acri, lusingare
istinti vivaci, avvivare genialità fantastiche di erudita incubazione;
bensì il cuore nostro riman chiuso, e insodisfatto il sentimento che
ci spinge a ricongiungere il presente col passato. Una pagina di Dante,
anche torturato dai grammatici o abbuiato dagli allegoristi, risponderà
sempre a più dimande del nostro spirito, acqueterà più intimamente
il cuor nostro, che non possano mai la _Mandragora_ o la _Calandra_
galvanizzate co' più squisiti artifizi sulle scene moderne. Di che
molte sono le cagioni; e principalissima, che dove troviamo maggiori
rispondenze ai sentimenti nostri migliori, ivi l'animo più volentieri
si acqueta. Ma io credo altresì, perchè tutta la civiltà della quale
siam figli ci ha assuefatti a cercare nelle opere d'arte effigiatrici
della vita, cercare e proseguire secondo i concetti spiritualmente
umani del Cristianesimo, la idealità femminile, che il Rinascimento (le
cui benemerenze grandi non ci debbono far dimenticare i suoi torti e
mancamenti) o disconobbe, o non valse a conservare in quelle altezze
dove l'avea portata, per tacer d'altri, il grande sintetizzatore
poetico del pensiero medievale.

La nostra letteratura ebbe per base un Poema, che da una donna
primigeniamente ispirato, tre donne ha, moventi l'azione, le quali
dall'alto de' cieli la preparano in terra, da svolgersi pe' regni
eterni e ne' cieli far capo: Maria misericordiosa, Lucia veggente,
Beatrice lode vera di Dio come specchio e dichiarazione delle opere
sue e de' misteri.[180] Se l'uomo, soccombente ai travagli della
vita, può, per le vie ardue della contemplazione, incamminarsi a
salvezza, sono le «tre donne benedette» che «curano di lui nella corte
del cielo»:[181] se Virgilio, dai sacri «luminosi» penetrali della
sapienza, si muove in aiuto di quel pericolante, è «Beatrice che lo fa
andare»:[182] del nome e delle virtù di Maria tutto il Purgatorio è,
per segni visibili o suoni o visioni soprannaturali, improntato:[183]
sulla vetta del sacro monte, sede della umana smarrita felicità,
egli sogna in Lia e in Rachele le armonie della vita operativa con la
contemplativa;[184] e già prima, sognando sè trasportato dall'imperiale
aquila, è stato da Lucia di sulla valle fiorita trasferito alla soglia
del Purgatorio:[185] nel Paradiso Terrestre è da Matelda iniziato
alla misteriosa trasfigurazione degli ordinamenti politici e religiosi
della società; da Matelda guidato verso Beatrice; da Matelda, mercè le
mistiche abluzioni in Lete e in Eunoè, da Matelda figura di gentile
umanità che ai poeti parla «donnescamente», dispogliato dell'uomo
antico, e rinnovellato e fatto abile all'ascensione pei cieli:[186]
son gli occhi di Beatrice sua, che di questa ascensione gl'infondon
virtù:[187] e infine per entro alla rosa de' Beati,[188] le tre donne
salvatrici e liberatrici dell'uomo tengon seggio di gloria nella
luminosa rappresentanza della cristiana umanità; e a' piedi di Maria
divina sta Eva la creatura bellissima, fra il peccato e la redenzione
comprenditrici e consumatrici della storia universa. Tanta parte, e
siffatta, ha la donna nel fondamental concetto del Poema dantesco! E
di su tale libro alzando la mano stanca il Poeta, ben poteva, alla
figliuola di Folco che dalle soglie dell'eternità gli accennava
aspettante, ripetere con l'esultanza del voto disciolto le estreme
parole della _Vita Nuova_[189] arcanamente promettitrici: «Io ho detto
di te quello che mai non fu detto d'alcuna».


NOTE

[114] Augusto Alfani.

[115] _La Donna fiorentina nei primi secoli del Comune._

[116] «.... chorda qui semper oberrat eadem» _Ep. ad Pisones_, v. 356.

[117] _Istorie fiorentine_, proemio. E il GIOBERTI, _Rinnovamento_,
II, 462-63: «Il vivo della storia versando nei particolari, e solo da
questi potendosi raccòrre la notizia fruttuosa delle leggi che girano
le vicende umane, i racconti speciali sono i soli che giovano; laddove
le storie universali, pogniamo che rechino istruzione speculativa e
piacere, sono di poco o nessun profitto per la pratica».

[118] _Purg_. XXIV, 49-54; II, 91-114. Sul «dolce stil novo», e la sua
storia, si vedano specialmente i belli studi di GIULIO SALVADORI (_La
poesia e la Canzone d'amore di Guido Cavalcanti_; Roma, Soc. ed. Dante
Alighieri, 1895: _Sulla vita giovanile di Dante_; Roma, Soc. ed. D. A.,
1901), e quello recente (_Il dolce stil nuovo_; Palermo, Reber, 1903)
di LIBORIO AZZOLINA.

[119] TOMMASEO, _Il Duca d'Atene_; Firenze, 1879; pag. 58: «A te,
gentile atomo della terrena polvere, popolato d'anime e di memorie
immortali, conservatore d'un'immortale parola....»

[120] _Vita Nuova_, § VI.

[121] Vedi l'uno e l'altro nel Commento del D'ANCONA alla _Vita Nuova_
(Pisa, 1884), l. c., pag. 45 segg.

[122] G. VILLANI, VII, LXXXIX. DINO, I, XXII, 5.

[123] _Rime_, ediz. FRATICELLI, pag. 74. — Vanna (Giovanna) con Guido,
Lagia (Adelasia) con Lapo, e Bice con Dante, secondo la Volgata di quel
Sonetto, il quale non è tra le Rime di _Vita Nuova_. Ma sulla traccia
dei manoscritti si fa strada un ragionevole dubbio, che non Bice, ma
un'altra donna gentile, forse la prima «dello schermo» di _Vita Nuova_,
sia l'una delle tre fantasticate per l'amorosa comitiva. Vedi _Un
Sonetto e una Ballata d'amore dal Canzoniere di Dante_, per cura di M.
BARBI; Firenze, 1897.

[124] _Rime_, pag. 186.

[125] _Rime_, pag. 123.

[126] _Parad_. XXX, 28-29.

[127] §§ II (cfr. ediz. D'ANCONA, p. 6-7), III, V, XIV.

[128] §§ XVI, XVIII.

[129] _Purg_. XXX, 127-128.

[130] _Parad_. II, 22. L'_Esame della bellezza e del riso di Beatrice e
della facoltà visiva di Dante_ di TEODORICO LANDONI (_Dichiarazioni al
Paradiso_ ec., Firenze, Le Monnier, 1859) è gentile scrittura, da non
doversi dimenticare.

[131] _Purg_. XXX, 73.

[132] _Rime_, pag. 108.

[133] _Inf_. II, 112, 104.

[134] _Inf_. II, 116; _Purg_. XXXI, 19-21; XXXIII, 127 segg.; _Parad_.
I, 95; II, 52; III, 25, e altrove; _Parad_. XVI, 13-15.

[135] G. TODESCHINI, _Scritti su Dante_; Vicenza, 1872; I, 329.

[136] _Parad_. VII, 13-14.

[137] Vedi, qui appresso, il mio Studio su Beatrice.

[138] Da quel valentuomo del TODESCHINI, _Scritti_ cit., I, 328 segg.
Cfr. il Commento del D'ANCONA alla _Vita Nuova_, pag. 28-30, e 76-77. E
vedi il mio Studio su _Beatrice_.

[139] Mi compiaccio di conservare queste parole così come le dissi e le
pubblicai nell'87, perchè oggi il documento si ha: vedi il citato mio
Studio su _Beatrice_.

[140] Intorno a questi malauspicati matrimonî di Corso Donati, ho avuto
a dire in più luoghi del mio libro su _Dino_ ec.: vedili indicati a
pagina 52 del vol. III. E cfr. lo Studio di GUIDO LEVI su _Bonifazio
VIII e il Comune di Firenze_; Roma, 1882; pag. 20 segg.

[141] Vedi la _Tenzone di Dante con Forese Donati_, a pag. 435-461 del
mio _Dante ne' tempi di Dante_; Bologna, 1888.

[142] _Purg_. XXIII, 85-95.

[143] _Vita Nuova_, §§ XXXVI segg. Vedi nel Commento del D'ANCONA
(pag. 236-37) accennata, e non accettata, questa e alcun'altra
interpetrazione della «donna gentile».

[144] Vedi ancora, qui appresso, l'indicato luogo del mio Studio su
_Beatrice_.

[145] Vedile svolte egregiamente da R. FORNACIARI ne' suoi _Studj su
Dante_ (2ª ediz.; Firenze, Sansoni, 1901), pag. 180 segg., e accettate
dal D'ANCONA (l. c.). E a me, quando pubblicai la prima volta queste
mie pagine, pareva che la più comune interpetrazione della dantesca
Matelda per la Matilde contessa famosa fosse la meno accettabile. E
accennavo alle ipotesi di A. LUBIN e di G. PREGER, dietro le quali si
continua da alcuni a trovare analogie tra la Matelda e questa o quella
Matilde, religiose e misticografe tedesche. E poi dicevo che, tutto ben
considerato, dovesse prevalere il principio, che la realtà di questa
figura, la quale nel Poema ha sì stretta relazione e vicinanza con la
simbolica Beatrice del Paradiso terrestre, s'abbia a cercare fra le
donne che nella _Vita Nuova_ sono poste in altrettal vicinanza con
Beatrice Portinari. E adducevo, a tal concetto ispirata, la recente
ipotesi di A. BORGOGNONI, il quale ravvisava la Matelda in altra donna
pur della _Vita Nuova_ (§ XVIII), premurosa interrogatrice del Poeta
intorno all'amor suo; rilevando una giusta osservazione di lui, sulla
opportunità, in quell'ordine d'idee, di trovare, fra le gentildonne
fiorentine di quel tempo, una veramente chiamata Matelda o Matilde: e
che io avevo già tentata qualche indagine, la quale altro resultato non
mi aveva offerto, se non che nella famiglia dei Ricci (dalle cui case
in Por San Piero, non è improbabile che potesse «una gentil donna da
una fenestra riguardare» verso quelle degli Alighieri) ricorre nella
prima metà del Trecento il nome di Telda. Del resto, soggiungevo, non
esser tanto vero, che dopo la celebre contessa il nome di Matelda fosse
comune in Firenze (una Telda dei Bardi è nella _Battaglia delle donne_
del SACCHETTI, I, 18); perchè il nome che in onor suo ebbe voga, e
fu davvero comune, fu propriamente quello di Contessa e popolarmente
Tèssa. E la persona storica della Contessa credo io oggi, specialmente
dopo i validi studi di L. ROCCA (_Matelda_, nel volume _Con Dante e
per Dante_; Milano, Hoepli, 1898) e di A. BERTOLDI (_La bella donna
del Paradiso terrestre_; Firenze, 1901) e di G. PICCIOLA (_Matelda_;
Bologna, Zanichelli, 1902), e una genialissima lettura di EMMA BOGHEN
CONIGLIANI (_Il canto XXVIII del Purgatorio_; Brescia, 1902), debba
senz'altro restituirsi e confermarsi nella figura ideale della Matelda
dantesca.

[146] _Purg_. XXVIII, 40-69.

[147] B. ZUMBINI, _Studi sul Petrarca_; Napoli, 1878, pag. 68. Vedasi
poi la fina analisi che del _Carattere del Petrarca_, e delle relazioni
fra _il Petrarca e Laura_, fa il BARTOLI nel VII volume della sua
_Storia della Letteratura italiana_; Firenze, Sansoni, 1884.

[148] Non mi sembra inopportuno qui riferirli, con qualche cura della
lezione (cfr. _Opera omnia_ F. PETRARCAE; Basilea, 1554, pag. 1338-39:
F. PETRARCHAE, _Poemata minora_, ed. D. ROSSETTI; Mediolani, 1834, III,
100-105; B. ZUMBINI, op. cit., pag. 62-63).

        _Breve panegiricum defunctae matris._

      Suscipe funereum, genitrix sanctissima, cantum,
    atque aures averte pias, si praemia coelo
    digna ferens virtus alios non spernit honores.
    Quid tibi pollicear, nisi quod, velut alta Tonantis
    regna tenes, Electa Dei tam nomine quam re,
    sic quoque perpetuum dabit hic tibi nomen honestas
    Musarum celebranda choris, pietasque suprema,
    maiestasque animi, primisque incoepta sub annis
    corpore in eximio nullam intermissa per horam
    tempus ad extremum vitae notissima clarae
    cura pudicitiae, facie miranda sub illa?
    Iam brevis innocuae praesens tibi vita peracta
    efficit, in populo maneas narranda futuro,
    aeternum veneranda bonis, mihi flendaque semper.
    Nec quia contigerit quicquam tibi triste dolemus,
    sed quia me fratremque, parens dulcissima, fessos
    Pythagorae in bivio et rerum sub turbine linquis.
    Tu tamen instabilem, foelix o transfuga, mundum
    non sine me fugies, nec stabis sola sepulchro.
    Egregiam matrem sequitur fortuna relictae
    spesque domus, et cuncti animi solatia nostri:
    ipse ego iam saxo videor mihi pressus eodem.
    Haec modo pauca quidem, pectus testantia moestum,
    dicta velim: sed plura alias; tempusque per omne
    hac tua, fida parens, resonabit gloria lingua.
    Has longum exequias tribuam tibi: postque caduci
    corporis interitum, quod adhuc viget, optima sub quo
    vivis adhuc genitrix, cum iam comprenserit urna
    hos etiam cineres, nisi me premat immemor aetas,
    vincemus pariter, pariter memorabimur ambo.
    Sin aliter fors dura parat, morsque invida nostram
    extinctura venit fragili cum corpore famam,
    tu saltem, tu sola, precor, post busta superstes
    vive, nec immerito vocent oblivia Lethes.
    Versiculos tibi nunc totidem, quot praebuit annos
    vita, damus; gemitus et caetera digna tulisti,
    dum stetit ante oculos feretrum miserabile nostros,
    ac licuit gelidis lacrymas infundere membris.

Per le questioni che si sono fatte sulla madre del Petrarca (riassunte
e conchiuse da G. O. CORAZZINI, _La madre di Francesco Petrarca_;
Firenze, 1903, seconda ediz.), ha in questi versi molta importanza
la interpetrazione, alla quale nessuno ha posto mente, della frase
«Pythagorae in bivio» nel v. 17. Cotesta frase, nel linguaggio del
tempo, significava nè più nè meno che l'età di quindici anni; e così
ci è dichiarata da un dugentista, frate Salimbene da Parma, il quale
nella sua _Chronica_ (pag. 10), rimpiangendo la morte immatura d'un
giovinetto «qui, cum pervenisset ad bivium pythagoricae litterae,
ultimum diem clausit», soggiunge: «idest finitis tribus lustris,
quia tria lustra complent cyclum Indictionum»; dal che sembra che
l'indizione s'indicasse anche con la lettera Y, nella qual lettera
biforcata aveva Pitagora simboleggiato il bivio delle due strade che si
aprono, sul cominciare della giovinezza, verso il bene e verso il male.
Dunque il _Panegiricum matris_ fu scritto dal Petrarca a quindici anni,
nel 1319; nel quale anno, di lei trentottesimo (vv. 35-36), morì la
madre sua Eletta Canigiani (nata dunque nel 1281) prima moglie di ser
Petracco, che in seconde nozze sposò Niccolosa di Vanni Sigoli.

[149] _Le Rime_, CCLXXXV e CXXVIII.

[150] FOSCOLO, _Sepolcri_, vv. 175-79.

[151] PIO RAJNA, _Le Corti d'Amore_; Milano, Hoepli, 1890.

[152] _Le Rime_, CCXXXVIII. _Il bacio a madonna Laura_, che dà
argomento a quel Sonetto, fu magistralmente illustrato da GIOVANNI
MESTICA (_Nuova Antologia_, fasc. del 1º aprile 1892).

[153] X, VII.

[154] Lettera di Giovanni Rucellai da Avignone, il 13 maggio 1506, a
Lorenzo di Filippo Strozzi in Venezia; a pag. 243-44 delle _Opere di_
GIOVANNI RUCELLAI per cura di GUIDO MAZZONI; Bologna, Zanichelli, 1887.
Anche Giambatista Marino, descrivendo nel 1615 le usanze francesi,
e ancor egli come il Rucellai facendo tirocinio di quella lingua,
scriveva da Parigi: «Le signore non fanno scrupolo di lasciarsi baciare
in publico; e si tratta con tanta libertà, che ogni pastore può dire
alla sua ninfa commodamente il fatto suo». (_Lettere_; Venezia, 1627;
pag. 181).

[155] _Morgante_, XXV, 301.

[156] Vedi la edizione, fedelissima alla lezione dell'antico testo
Barberiniano, procurata dal conte CARLO BAUDI DI VESME per la R.
Commissione de' Testi di lingua; Bologna, 1875.

[157] Nella parte quinta e sesta, a pag. 100-165, 174-188, 230-235,
della citata ediz.

[158] _Histoire de Florence_ par F. T. PERRENS; tomo III (Paris,
1877), pag. 339 segg. Questa e alcun'altra esagerazione, e qualche
inesattezza, non tolgono però il suo pregio a quel capitolo su _la vie
privée_ in Firenze tra i secoli XIII e XIV.

[159] A pag. 118-119.

[160] A pag. 119-120, 125-126.

[161] La «cameriera» era pe' Fiorentini del Trecento personaggio da
corti: tantochè il Borghini, trovando in certi registri di popolazione
sul principio appunto del secolo XIV una «cameriera di Guido Benzi»
annotava: «Ci è alcuna volta questa voce _cameriera_. Non so se è il
medesimo che _servigiale_ ec.; chè non mi pare che quel tempo usasse
molte delicatezze e varietà di servitori» (a pag. 232 del quadernetto
_Il Fornaio_ di VINCENZIO BORGHINI; nell'Archivio fiorentino di Stato,
Manoscritti varî, n.º 482). Infatti le donne fiorentine delle dieci
Giornate, sebbene «reine», non hanno «cameriere» ma «fanti»; così le
due che attendono alla cucina, come le altre due che «al governo delle
camere delle donne». (_Decameron_, Introduzione).

[162] A pag. 123-125.

[163] A pag. 139.

[164] A pag. 62.

[165] A pag. 173-174.

[166] A pag. 31-32.

[167] A pag. 71-72.

[168] A pag. 120-121.

[169] Vedi, a tale proposito, alcune pagine (117-24) del mio Studio _La
gente nuova in Firenze_ nel volume _Dante ne' tempi di Dante_: Bologna,
Zanichelli, 1888. Cfr. G. Melodia, _Dante e Francesco da Barberino_,
Venezia, Estr. dal _Giornale dantesco_, 1896: A. THOMAS, _Francesco da
Barberino et la littérature provençale en Italie au moyen-âge_; Paris,
1883: O. ANTOGNONI, _Un contemporaneo di Dante e i costumi italiani_,
a pag. 59-79 del _Saggio di studi sopra la Commedia di Dante_; Livorno,
Giusti, 1893.

[170] A pag. 15.

[171] Mi sia lecito ripetere parole mie, e indicare la illustrazione
che mi occorse fare d'alcuni documenti letterarî fiorentini d'etica
amorosa, appartenenti a quell'età. Vedi _Dino Compagni e la sua
Cronica_, I, 418 segg.

[172] Stanno a pag. 46-55 di _Alcune lettere familiari del secolo XIV
pubblicate da_ PIETRO DAZZI, nel fasc. XC delle _Curiosità letterarie_;
Bologna, Romagnoli, 1868.

[173] Di queste chiose detti saggio nel libro e luogo testè indicati in
nota 58.

[174] _Parad_. VIII, 2. Vedi nella Crusca (Vª imp.), s. v. _Folle_, il
§ VII.

[175] Vedi le _Regole della vita matrimoniale_ di frate CHERUBINO DA
SIENA ristampate per cura di F. ZAMBRINI e di C. NEGRONI; Bologna,
1888, disp. CCXXVIII delle _Curiosità letterarie_.

[176] Vedi il libretto _Strenne nuziali del secolo XIV_ (Livorno,
Vigo, 1873), pubblicato da O. TARGIONI TOZZETTI. «Popolani precetti»
ho detto, sebbene in alcune di quelle scritture figurino a darli alla
loro figliuola un re e una regina: contaminazione che ha un po' del
barberinesco. Di quella, fra le dette scritture, che non ha in scena
codesti fantocci, e dalla quale ho già addotto il preambolo e il
commiato, credo far cosa grata alle gentili lettrici, abbellendone per
disteso almeno quest'angolo del mio libro sulla _Donna fiorentina_.
A pag. 37-40 delle cit. _Strenne nuziali_: ma mi son valso anche del
testo che pel primo ne dette F. TRUCCHI, in un opuscoletto di 15 pagine
(Firenze, Tofani, 1847) dedicato «alle gentili donne italiane».


                            COME DEE DIRE LA MADRE ALLA FIGLIUOLA
                                  QUANDO LA MANDA A MARITO

    Carissima mia figliuola. Molto ti prego, e ancora comando,
    che.... (ved. a pag. 89)

    Il primo comandamento si è, che tu ti guardi da tutte quelle
    cose per le quali egli si potesse adirare o ragionevolmente
    crucciare. E guardati di non stare allegra nè ridere, quando
    lo vedi crucciato; e similmente di non stare crucciata, quando
    lo vedi allegro; e quando egli è turbato, o carico d'ira e di
    pensieri, non te gli ficcare sotto; arrecati da parte, insino che
    si rischiari.

    Il secondo comandamento si è, che tu sia sollecita di sapere
    qual cibo più gli piaccia al desinare e alla cena, e fa' che
    diligentemente gli sia apparecchiato: e avvegnadio che talora
    non ti piacesse quella tale vivanda, voglio che mostri pure che
    la ti piaccia; però che molto è convenevole che la donna sappia
    condiscendere al piacere del suo marito.

    Il terzo comandamento si è, che quando il tuo marito fussi
    affaticato per debolezza, o per fatica, o per altro accidente,
    ed egli si dormisse, guardi di non lo svegliare senza legittima
    ragione: e se pure tel conviene chiamare, guarda di non destarlo
    subitamente, nè in fretta, ma piano e suave lo sveglia, acciò che
    teco non s'adirasse; imperò che di cotal cosa gli uomini se ne
    sogliono molto sdegnare.

    Il quarto comandamento si è, che tu sia fedele a guardia del
    tuo onore e del suo; e non gli trassinare nè cassa, nè borsa,
    nè altro luogo ove lui tenga i suoi denari, acciò non prenda
    sospetto di te; e se per avventura ti venisse ciò fatto, o per
    altra ragione, non gliene tôrre veruno, ma ripongli saviamente;
    e a veruna persona in verun modo del suo non dare, senza sua
    licenzia, e non prestare; però che egli è in tal modo tuo
    signore, che per l'amor di Dio, non che per altro modo, del suo
    non puoi dare ai poveri, senza sua richiesta: onde con sommo
    studio t'ingegna di guardare il suo; chè siccome l'uomo è lodato
    d'esser largo, così la donna è lodata per salvare le cose del
    marito.

    Il quinto comandamento si è, che tu non ti mostri troppo
    volenterosa di sapere le credenze e secreti del tuo marito; e
    se addiviene che lui te le dica, guarda che tu non lo ridica a
    veruna persona. E ancora ti guarda di ridire fuori della casa tua
    le parole dette familiarmente in casa tua, qualmente che sieno di
    piccolo valore; però che troppo è villana cosa che altri sappi i
    fatti della tua famiglia, principalmente per la tua bocca; e la
    donna di ciò n'è tenuta mentecatta e sciocca, e il marito l'ha in
    odio.

    Il sesto comandamento si è, che tu ami e porti fede, come si
    conviene, a' servidori e alla famiglia, e principalmente a
    coloro che sono in amore del tuo marito; e che per leggiere
    cagioni non gli biasimi e non gli accomiati, però che sempre ne
    saresti odiata, e potresti per loro e per la famiglia esserne
    abbominata di tale infamia, che quasi mai non ti cadrebbe il
    biasimo, e agevolmente ne potresti venire in odio del tuo marito
    e dell'altre genti.

    Il settimo comandamento si è, che tu non facci per lo tuo
    senno alcuna grande cosa senza il consentimento del tuo marito,
    qualmente che quella cosa ti paresse da fare; e guarda che tu non
    gli dichi, per alcuno modo: «Il mio consiglio era migliore che 'l
    tuo», eziandio che fosse bene migliore; perciò che il condurresti
    agevolmente in grande sdegno verso te e in grande odio.

    L'ottavo comandamento si è, che tu non richiegghi di cosa il tuo
    marito, che non si convenga, e che gli fusse troppo malagevole a
    fare; e massimamente cosa tu creda che gli dispiaccia, e che sia
    contro al suo onore, acciò che tu non sia cagione di suo male,
    danno, o struggimento.

    Il nono comandamento si è, che tu t'ingegni di mantenere la tua
    persona fresca e bella e adorna e netta, in forma e modo che sia
    onesta, senza alcuna cosa disonesta o brutto adornamento: imperò
    che quando il tuo marito ti vedesse disonestamente ornare oltre
    al suo piacere, leggermente ti potrebbe avere a sospetto; chè
    tenendoti onestamente adorna, te ne amerà e terrà più cara.

    Il decimo comandamento si è, che tu non sia troppo domestica
    colla tua famiglia nè troppo inchinevole, spezialmente a quelle
    persone che ti dovrebbono servire, o donzello o servigiale che
    sia, servo o serva: però che troppa dimestichezza importa vizio,
    e troppa familiarità ingenera sdegno; onde troppo è meglio essere
    un poco verso di loro altiera e signorile: imperò che non è già
    buon segno vedere la serva in superbia inverso la madonna; onde
    volgarmente dice la gente: _la serva signoreggia, se la madonna
    folleggia_.

    L'undecimo comandamento si è, che tu non sia troppo randagia, nè
    che tu non vada troppo fuori di casa tua; imperò che la donna
    che sta costantemente a casa, e va poco a torno, è allegrezza
    del marito suo, siccome dice Salomone, che 'l seppe bene: chè
    all'uomo bisogna provvedere a' fatti di fuori di casa, per
    fare quelli di dentro alla casa: e così conviene che la donna
    provvegghi a' fatti della famiglia e della masserizia: i quali
    giammai non faresti bene, figliuola mia, se tu randagia fussi.
    Ancora voglio e cornandoti, che tu ti guardi di favellare troppo;
    però che il poco parlare principalmente sta bene nelle donne,
    e significa onestà; chè se la donna fusse bene sciocca, e ella
    parli poco, è tenuta savia. Ancora ti comando, che sia modesta,
    cioè che non vogli sapere troppo, nè dar fede a indovine, nè a
    loro fatture o incantazioni: perciò che molto è sconvenevole alle
    donne voler sapere come gli uomini nell'operare degli uomini.

    Il duodecimo comandamento, e maggiore che io ti possa fare e
    onde io più ti gastigo, si è, che tu non facci cosa, per opere
    o per parole o per sembianti, onde il tuo marito possa entrare
    o incorrere in alcuna gelosia; però che quello è quella cosa
    che più tosto ti potrebbe il suo amore tòrre che altra cosa, e
    sempre ne verresti a sospetto, e lui faresti stare in ardente
    fiamma, e tu verresti non solamente nel suo odio ma ancora in
    quello de' parenti e degli amici; e tale infamia t'assalirebbe,
    per modo che mai non ti cadrebbe: però che questo fallo porta
    tal macchia, che mai non si può lavare. E questo ti sia sopra
    tutti i comandamenti; certificandoti, che la moglie in nessun
    modo può far cosa al marito che tanto gli sia cara, com'ella sia
    onesta di suo corpo: e così per l'opposto. Che però ogni onore,
    ogni riverenza, secondo che s'avviene sia sollecita di rendergli:
    e quando egli torna a casa, sempre gli fa' buona ricoglienza:
    e lietamente fa' onore a' parenti suoi, maggiormente che a'
    tuoi, però che così farà egli a' tuoi. Che se per avventura,
    nell'avvenimento d'alcuna altra onorevole persona, tu facessi
    alcuna opera vile della masserizia di casa, incontanente riponi
    la rócca e il fuso, nascondi l'opera servile, qualunque si sia;
    acciò che non pai allevata in villa. Nelle opere amorevoli non ti
    partire dall'onestà, secondo gli atti che io ti ho detti i quali
    tra me e te abbiamo ragionati, acciò che troppa amorosa voglia
    innanzi al tempo non ti togliesse il suo affetto: e per sì fatto
    modo il guarda, che amore, e non sdegno, sia cagione della sua
    guardia: e lascialo sempre un pochettino quasi usare un'amorosa
    forza; imperò che quella amorosa forza ritorna in tua onestà.

    Facendo adunque le dette cose sarai corona d'oro del tuo marito.

    Allora la gentile madre e savia donna benedisse e segnò.... (vedi
    a pag. 89).

[177] _Cronica_, I, iv.

[178] Vedi, con brevi ma acconcissime parole, svolto questo pensiero da
R. FORNACIARI, nel suo _Quadro storico della letteratura italiana nei
primi quattro secoli_; Firenze, 1885; pag. 88-90.

[179] FELICE TRIBOLATI nel IVº de' suoi eleganti _Diporti letterarii
sul Decamerone_; Pisa, 1873; pag. 160-62. Vedi ivi anche il giudizio
del Petrarca sulla _Griselda_, la quale egli tradusse in latino: e cfr.
le _Senili_ del Petrarca, date dal FRACASSETTI, II, 541 segg.

[180] _Inf_. II.

[181] _Inf_. I e II.

[182] _Inf_. II e IV.

[183] _Purg_. X-XXVI.

[184] _Purg_. XXVII.

[185] _Purg_. IX.

[186] _Purg_. XXIX-XXXIII. Di quel «donnescamente» dantesco, che
s'interpetra comunemente per «con grazia e gentilezza femminili», o
simile, mi sembra singolare e vera la dichiarazione che nel suo latino
esplicativo ne fa un frate del Quattrocento (GIOVANNI DA SERRAVALLE,
_Translatio et Comentum totius libri_ DANTIS ALDIGHERII; Prato,
1891; pag. 813): «_dominabiliter_, scilicet more suavis et nobilis
_dominae_»: insomma «signorilmente»; con attinenza al bello e possente
significato della parola «donna» per «signora», abbracciato sì dai
poeti e sì dal popolo nelle locuzioni «la mia donna» e «madonna». E
a cotesto «donnescamente», rintegrato (com'io credo) nel senso che
volle imprimergli il Poeta, porge illustrazione e conferma il verbo
«donneggiare», cristallizzatosi in un antico proverbio che ammoniva
le «signore» di poco savia condotta, le quali si lasciano, diremmo
oggi, pigliar la mano dalla servitù: «Quando madonna folleggia, la
fante donneggia», cioè fa lei da signora, diventa lei la padrona.
Proverbio, la cui efficace dicitura o guastano o snervano i
lessicografi che a «donneggia» o sostituiscono, o aggiungono come
variante, «danneggia». La quale, o sostituzione o variante, che sia da
rigettare senz'altro, se anche non lo dicessero l'orecchio e il buon
gusto, lo imporrebbe il raffronto di quella trecentistica scrittura
fiorentina degli _Avvertimenti di maritaggio_ testè riferiti in una
delle precedenti note; nel decimo dei quali (pag. 102) abbiam letto:
«Troppa «dimestichezza» della padrona verso la «famiglia», cioè verso
la servitù, «importa vizio, e troppa familiarità ingenera sdegno; onde
troppo è meglio essere un poco verso di loro _altiera e signorile_:
imperò che non è già buon segno vedere la serva in superbia inverso la
madonna; onde volgarmente dice la gente: — La serva _signoreggia_, se
la madonna folleggia».

[187] _Parad_. II, 19-30; V, 86-93; ecc.

[188] _Parad_. XXXI e XXXII.

[189] § XLIII.



BEATRICE

NELLA VITA E NELLA POESIA DEL SECOLO XIII

    Questo Studio fu pubblicato la prima volta nella _Nuova
  Antologia_ nel giugno del 1890, sesto centenario della morte di
  Beatrice.

    Fu ristampato, _con appendice di documenti ed altre
  illustrazioni_, in Milano, Hoepli, 1891. I _Documenti_
  dell'edizione Hoepli sono: I, _Testamento di Folco Portinari_.
  II, _Atto di fondazione dell'Ospedale di Santa Maria Nuova per
  Folco Portinari_. III, _Magistrature di Folco Portinari, e altre
  indicazioni su lui_. IV, _Documenti militari fiorentini, ai §§
  IX-X della_ Vita Nuova. V, _Dai libri mercantili dei Bardi_. VI,
  _La Canzone di messer Cino a Dante per la morte di Beatrice_.


I.

A dì 15 gennaio del 1288, in una chiesa e convento suburbani a Firenze,
fra le mura del secondo o penultimo cerchio, e quella che era allora
pendice boscosa (cafaggio, dicevano) di dolce salita verso i colli
fiesolani, ed è oggi la parte più elevata e forse la più ridente
della città che anche il suo cerchio terzo ha varcato e distrutto, si
accoglievano i religiosi di quel convento e chiesa di Sant'Egidio,
frati denominati della Penitenza di Gesù Cristo, intorno ad un
ragguardevole cittadino, che in presenza di essi dettava al notaro
il suo testamento. Folco di Ricovero di Folco dei Portinari, famiglia
anticamente ghibellina, consolare, delle «discese giù da Fiesole»,[190]
e che la mercatura avea fatte ricche e popolane e guelfe, assicurava
con quell'atto i perenni effetti di una sua splendida beneficenza,
quale era stata la fondazione d'uno spedale da lui medesimo pur allora
costruito presso il detto convento. «Raccomando umilmente l'anima
mia» così scriveva le parole di Folco il notaro Tedaldo Rustichelli
«a Dio vivo e vero, e mi eleggo la sepoltura nella cappella del mio
spedale di Santa Maria Nuova. Offro a Dio, al Signore Gesù Cristo,
alla Beata Vergine Maria madre di lui, il detto spedale e cappella
ovvero chiesa per rimedio delle peccata mie e de' miei, e in servigio
de' poveri infermi. I miei eredi lo mantengano e ne siano i patroni.
A religiosi e poveri lascio....»; seguivano in lunga lista fraterie,
monasteri, spedali della città e del contado. Disponeva poscia per la
famiglia, nominandoli capo per capo. Prima, la moglie: madonna Cilia
dei Caponsacchi, altra di quelle famiglie «nel mercato discese giù da
Fiesole», questa però rimasta ghibellina e de' Grandi; poi una sorella
sua naturale, Nuta, alla quale assicura che le sia continuato nelle
case de' Portinari la dimora e il mantenimento. Ma innanzi di venire
a' figliuoli, vuol designate quelle che sono case de' Portinari, dalle
quali esclude, perchè nei Portinari rimangano, qualsiasi successione o
diritto di femmine. E prima, la vecchia casa di famiglia, nel popolo di
San Procolo, ristaurata da lui insieme con altri consorti: poi una casa
nel popolo di Santa Maria in campo, lì presso alle mura; e il palagio
di sua abitazione, con torre, posto nel popolo di Santa Margherita; e
altre case e casolari. Dopo di che nomina le figliuole: delle quali,
quattro sono fanciulle, Vanna, Fia, Margherita, Castoria; e avranno
dote di ottocento lire a fiorini, ciascuna: due maritate, madonna Bice
nei Bardi, madonna Ravignana nei Falconieri. Lascia a madonna Bice
lire cinquanta a fiorini: di madonna Ravignana, che è morta, ricorda
un figlio Nicola, e a lui assegna la medesima somma. Eredi istituisce i
figliuoli: Manetto, Ricovero, Pigello, Gherardo, Iacopo; in minore età
questi ultimi tre; e ne affida la tutela, come delle figliuole che sono
nella stessa condizione, ai due altri maggiori, ed inoltre a messer
Vieri di Torrigiano de' Cerchi, a messer Bindo de' Cerchi, e a due de'
suoi proprî consorti.

«Sano, la Dio grazia, di mente e di corpo» è detto il testatore; nè
forse era molto innanzi con gli anni, se in quella figliolanza copiosa
di ben undici, due soli de' maschi avevan toccata l'età maggiore, due
sole delle sei femmine erano andate, e solevano andare così giovinette,
a marito; e di esse un sol figliuolo la Ravignana, e nessuno apparisce
averne la Bice. Pochi mesi dipoi, il 23 giugno, egli medesimo con
solenne atto fondava il suo diletto ospedale, assegnandogli terre,
suppellettili, paramenta e utensili sacri, facendosene dal vescovo di
Firenze Andrea de' Mozzi investire patrono, sè e suoi discendenti, e
insediandovi il primo rettore, a suon di campane e cantandosi nella
nuova chiesetta il _Te Deum_. Un anno e mezzo ancora; e il buon Folco
mancava a' suoi figliuoli e ai suoi poveri, il dì ultimo del 1289. Il
suo sepolcro in pietra, con l'arme gentilizia (la porta, arme parlante;
e dalle bande due leoni rampanti) e con iscrizione in lettere gotiche,
durò in quella sua chiesetta, più secoli; vegliato dall'imagine
di Maria, che egli stesso avea collocata sull'altare in una tavola
di Cimabue, alla quale successero ne' tempi, prima una Annunziata
di Andrea del Castagno, poi di Alessandro Allori una Vergine madre
circondata da Sante. Oggi nè la cappella nè il primitivo spedale, che
finì col nome di Spedale di San Matteo, più non esistono; e sull'uno
e sull'altra, e sulle ossa di Folco e della moglie e de' figliuoli
di lui, si è adagiato co' suoi innumeri e farraginosi protocolli
l'Archivio notarile de' Contratti. Ma delle tombe di essi Portinari,
quella di Folco è, non senza giusto destino, sopravvissuta; e fu
modernamente trasportata e ricomposta, con pietosa industria, nella
chiesa di Sant'Egidio, cioè nell'attual chiesa dell'Arcispedale di
Santa Maria Nuova. Così al pio luogo non è venuta meno la presenza
del genio suo tutelare. Tuttavia pochi sanno di quel monumento o,
come può dirsi ormai, cenotafio, sul quale si seguita a leggere: «Hic
iacet Fulchus de Portinariis qui fuit fundator et edificator [h]uius
ecclesie et ospitalis S. Marie Nove et decessit anno MCCLXXXIX die XXXI
decembris. Cuius anima pro Dei misericordia requiescat in pace». Non
sono pervenute fino a noi, ma durarono qualche secolo, le sepolture,
che erano pure in San Matteo, del figliuol suo Manetto, morto il 28
agosto del 1334, e di Accirito figliuol di Manetto, morto il 17 giugno
1358.[191]

Alla vita di Folco, che dalle cose accennate può indursi non lunga,
darebbero già altissima lode la carità e la bontà, che informano
i suoi estremi voleri: ma altri atti ci attestano altre sue civili
benemerenze. Il suo nome è nei ruoli d'ambedue i magistrati, coi quali,
fra il 1280 e l'82, si fondò saldamente la democrazia fiorentina: prima
i Quattordici buoni uomini, insediati dal cardinale Latino a suggello
della pace fra Ghibellini e Guelfi; e poi i Priori delle Arti, coi
quali il popolo artigiano incominciò il suo sormontare nello stato. In
ambedue i magistrati è Folco: de' Quattordici, nel marzo dell'82; de'
Priori, nell'agosto con la prima normale elezione che ne fu fatta in
numero di sei, uno per Sesto e per una delle Arti maggiori. Folco vi
era pel Sesto di Porta San Piero, e per l'Arte de' Mercatanti. Il nome
di Folco in coteste liste, e così in altri due priorati de' quali egli
fece parte, del 1285 e dell'87, è uno di quei nomi che rappresentano
sì l'elemento magnatizio, il quale si acconciava come alla mercatura
così ai magistrati della città, e sì l'elemento ghibellino, che
modificatosi progressivamente nella seconda metà del secolo, anche
innanzi allo stabile trionfo guelfo del 1267, venne in quell'ultimo
trentennio sceverandosi fra Ghibellini puri e avversi al reggimento
popolare, e Ghibellini moderati che accettavano del reggimento e della
mercatura la utile comunanza col popolo e coi Guelfi. Su tale terreno
si disegnava la nuova divisione della cittadinanza. Popolani e Grandi
«purchè fossero mercatanti»,[192] dall'una parte: e Grandi inflessibili
e intransigenti, dall'altra: e questa partizione gli Ordinamenti della
Giustizia nel 1293 statuirono, consacrarono. E parimente ed insieme:
dall'una parte. Ghibellini condiscendenti ai Guelfi, Guelfi benevoli
ai Ghibellini, perchè concordi Guelfi e Ghibellini nell'amare o
nell'accettare reggimento di popolo: e dall'altra Ghibellini immutati,
e questi ebbe dispersi l'esilio; o Guelfi radicali, e questi, l'anno
1300, furono i Guelfi Neri, nel nome di Guelfi Bianchi confondendosi
quei Guelfi e Ghibellini sotto l'auspicio popolare amicatisi. Dei
Guelfi Bianchi non fu a tempo, morendo nell'89, ad essere Folco: ma tra
i Guelfi Bianchi rimase, co' suoi figliuoli e consorti, il suo nome; vi
rimase, anche tra le vittime della violenza e del trionfo dei Neri. Il
giovinetto Pigello morì avvelenato dai Neri, da un prete;[193] e nella
Riforma di messer Baldo d'Aguglione, del 1311,[194] fra i reietti dalla
cittadinanza, ristrettasi a Guelfa Nera, sono i Portinari: vi sono con
Dante.

Basta, del resto, quanto siam venuti dicendo (se pur non fosse stato
altrove dimostrato ampiamente[195]), per comprendere che Parte Bianca
preesistè, in fatto, di alquanti anni al proprio battesimo: e il
testamento stesso di Folco non è senza importanza per cotesta, direi
quasi, preistoria delle due fazioni. La tutela de' figliuoli egli
commette con pari fiducia a' consorti suoi Portinari e ai Cerchi,
compagni suoi di traffico, i futuri capi di Parte Bianca; e fra i
designati tutori è messer Vieri di Torrigiano, quello stesso che
nelle gare tra Cerchi e Donati bilancerà, con la potenza mercantile
e l'autorità di gran cittadino, le feroci ambizioni di messer Corso
Donati, finchè queste prorompano in aperta violenza, che appoggiata da
papa Bonifazio, trionferà. E delle due figlie maggiori, la Ravignana,
nome di antico stampo che ricordava la famiglia di Bellincion
Berti de' Ravignani; «dell'alto Bellincione»,[196] nel cui palagio,
fatto comitale dai Guidi, erano i Cerchi signorilmente successi; la
Ravignana, Folco l'ha maritata a Bandino Falconieri, che sarà uno
de' maggiorenti di Parte Bianca, e dei più favellatori nei Consigli
del Popolo: l'altra, la Bice, a messer Simone de' Bardi, famiglia di
Grandi, ma altresì cambiatori e banchieri de' più poderosi, e Grandi
guelfissimi, e che saranno de' Neri.[197] Parentadi, l'uno e l'altro,
che tra i Portinari, in origine ghibellini, e quelle famiglie guelfe;
tra i Portinari grandi, e i Falconieri popolari; tra i Portinari
aderenti ai Cerchi, e i Bardi partigiani de' Donati; ci appariscono
subito come parentadi politici, di quelli che suggellavano le paci
della cittadinanza, o che il Comune stesso, anche a proprie spese,
procurava, per ovviarne, quant'era possibile, le scissure e le guerre.
Nei quali matrimonî, si avverta bene (e con questo avviciniamoci
al soggetto del presente Studio), l'amore non entrava per nulla; ed
invero il più delle volte se ne stipulavano gli atti di promissione,
essendo gli sposi, non che giovinetti, ma ancora fanciulli. Oltredichè,
anche quando non si trattasse di matrimonî così fatti a secondo fine
civile, la sposa era «data»; non essa avea disposto del suo cuore
e della sua mano: la dava il padre; il marito la riceveva, anzi «la
menava»,[198] a lui stesso consentita innanzi o designata dal proprio
padre, piuttostochè cercata e sospirata per dolce e faticosa conquista
d'amore.

All'amore si faceva volentieri in versi. Non dico che non si facesse
anche in altra maniera: ma l'«amore per rima» era, ciò che oggi non
è certamente, una costumanza, un andazzo; potremmo dire, scomodando
un grosso vocabolo, un'istituzione. Alcun che di simile fu pure il
serventismo nel Settecento. E come in questo la donna astraeva, in
sè medesima, la persona sua coniugale e quella di dama servita dal
cavaliere; così la donna dei nostri antichi rimatori non aveva nulla
che fare con la donna toccata loro veramente compagna, ed anche
compagna (se a Dio era piaciuto) carissima, della vita. La loro
«donna mia», la loro «donna gentile», la donna del sonetto e della
ballatetta, rimaneva fuori della casa e della famiglia: nella casa e
nella famiglia l'uomo era ben altro che facitor di rime amorose: era
mercatante, era lanaiuolo, era cambiatore, era giurista; e poi era
magistrato, era partigiano, era milite di cavallata, era ambasciatore
del Comune, andava rettore nelle altre terre d'Italia: ed oltre tutto
questo, era diligentissimo padrefamiglia, che alla donna sua vera, alla
moglie, commetteva in fidata custodia la casa, alle mani di lei valenti
raccomandandone la masserizia, e nella prole, per solito numerosa,
assicurando in vario modo le speranze e i disegni che i loro vecchi
avevano accolto nell'animo quando li avevano congiunti marito e moglie.

Questa vita, così severamente pratica, laboriosa, procacciante, e
nella quale alla formazione della famiglia soprintendevano l'autorità
dei genitori e gl'interessi domestici o cittadini, versava nelle
rime d'amore quanto di affettive idealità rimaneva in essa impedito
o compresso. E vien subito pensato che in tali condizioni reali, la
donna di rime originate in quel modo, questa donna affatto esteriore
all'orbita delle cose attualmente e operativamente amate e curate
dall'uomo di quei tempi, fosse, anzi dovesse senz'altro essere,
donna ideale, una figura poetica, il tema: il tema fittizio dei dolci
sospiri, dei desiri dubbiosi, degli sconforti, delle confidenze soavi,
che di necessità mancavano a quelle destinazioni senza scelta, a quel
possesso senza contrasti. Ma non era così; anzi, ribatteremo, non
poteva, per quelle stesse condizioni e qualità psicologiche di vita
reale, non poteva esser così. Quella praticità di abitudini, positività
d'intendimenti, ripugnanza in checchè si facesse dall'astratto e non
determinato, era cagione che cotesti uomini, se gentilezza di cuore
e di mente li portava a dir parole di amore in rima, volessero una
donna alla quale indirizzarle; una donna viva e vera, col suo nome e
cognome; volessero, questo loro «rimare sopra materia amorosa», questo
«cotal modo di parlare, trovato per dire d'amore, farlo intendere»
in buon volgare «a donna alla quale era malagevole intendere i versi
latini»; secondochè, nella _Vita Nuova_,[199] con imagini e locuzioni,
come sentiamo, quanto più desiderar si possa nette e positive, ci è
significato da Dante.

La «donna» del rimatore, dunque, esisteva; esisteva in tutta la sua
realtà femminile, compresovi il non saper di latino: a una donna
pensavano, a una donna parlavano, i «dicitori per rima»;[200] a una
donna, la cui bellezza potesse il rimatore visibilmente ammirare,
allietarsi del sorriso, per la lontananza sua sospirare, dei suoi lutti
attristarsi, piangere sulla sua tomba, custodirne pia e ispiratrice
la ricordanza. E pur tuttavia, nell'omaggio che ella riceveva, nulla
era da ingelosirsene nè il marito di lei, nè la moglie del rimatore:
aveva nome e cognome; ma questo cognome poteva anche, e senza veruno
scandalo, essere quello che un valentuomo le avesse dato a portare e
onorare: poteva per altre cagioni (di quelle per le quali potè sempre
e può anc'oggi), ma non per questa dei versi d'amore, essere la quiete
coniugale turbata. Fra le tante, per le quali quella gente fiera e
riottosa veniva al sangue così di leggieri, non si ha memoria, essere
mai stato uno di tali amori poetici, che abbia fatto arrotare nel
cupo silenzio della vendetta, o sguainare nei furori delle mischie
improvvise, i ferri fratricidi. Nessun codice, dei tanti che riboccano
di rime amorose, potrebbe essere registrato fra i documenti infausti
delle nostre discordie cittadinesche. La quale, se così vuolsi
chiamare, impunità, non toglieva bensì, che il rimatore facesse de'
suoi sospiri un mistero gentile, e mostrasse custodirlo segretamente,
cosicchè al fior dell'affetto amoroso non mancasse neanche questa
sua più delicata fragranza. Quindi, e lo schermirsi con le apparenze
d'un altro amore, per nascondere quello vero;[201] e alle altrui
inchieste negar di rispondere;[202] e ne' serventesi enumeratívi, a uso
provenzale,[203] delle più belle donne della città, il nome di ciascuna
non andar congiunto con altro che con quello del suo «diritto signore»,
cioè del marito;[204] e la «donna mia» del sonetto e della ballata o
non avere altra personale designazione che quella (se il nome vi si
presta) di qualche concettosa perifrasi onomastica, od anche il nome
stesso, ma rigorosamente spoglio da qualsiasi allusione al cognome o ad
altra caratteristica gentilizia o domestica.

I cognomi, del resto, son materia ribelle al linguaggio poetico,
quanto arrendevole alle indagini e controversie critiche. Cosicchè,
anche solo per ciò, dovevano codeste donne poetiche, nel trasmettersi
fino a noi, lasciar per istrada quel loro storico distintivo, e
non rimanerne alcuna espressa testimonianza nella poesia da esse
ispirata. Nessuno anzi ne avrebbe, è da credere, fatta questione,
se la figura sopravvissutaci d'una di quelle ispiratrici non avesse
portato seco, non pure, come le altre, intorno alle bionde o nere
chiome, i gentili ma tenui raggi d'una poesia tutta e solamente e
soggettivamente d'amore, per quanto ideale e fantastico, sibbene, sulla
fronte regalmente superba, la splendida aureola che emana dalla poesia
d'un grande poema, d'un concepimento oggettivo de' più laboriosi e
comprensivi e solenni che siano mai usciti da umano ingegno. Circondata
da questa aureola, la figura che è donna nella _Vita Nuova_, angelo e
simbolo nella _Divina Commedia_, risorge dal suo sepolcro, oggi dopo
seicent'anni; e nel linguaggio che le ha appropriato l'immortale amico
suo, anche a noi, nè forse con diverso intendimento, ripete

    Guardami ben; ben son, ben son Beatrice.

Non con diverso intendimento; se a Dante atteggiato di vergogna e
di pentimento dinanzi a lei, là sul verdeggiante ripiano della sacra
montagna, ella rinfacciava, con quelle parole, d'averla dimenticata
e, o per altre imagini di bello e di buono, o per realità mondane,
sconosciuta e postergata;[205] e se a noi, che ci trasciniamo
faticosamente dietro alle imagini o alle parvenze del passato, seguendo
la tormentosa ricerca del vero, ella volesse (pentiti o no che la
critica, sola ormai nostra, ahimè! poco amabile, «donna», ci permetta
di essere) rimproverare di non aver saputo nella figura della donna e
dell'angelo riconoscere la Bice che nacque de' Portinari e andò sposa
nei Bardi.[206]


II.

Tutti sanno che questa identificazione risale al Boccaccio, e che da
lui l'accettarono e fecer propria altri antichi. Ciò che nei soavi e
sfumati adombramenti della _Vita Nuova_ è semplice «apparimento» di
fanciulla «in giovanissima etade», primo incontro di quell'«angiola
giovanissima»,[207] addiviene, sotto l'abbondante colorito del gran
novelliere,[208] il calendimaggio festeggiato nelle case d'un vicino
degli Alighieri, «uomo assai orrevole in quei tempi tra i cittadini»: e
quest'uomo è Folco Portinari. In quel calendimaggio del 1274, Beatrice
apparisce al garzoncello Alighieri, «non credo primamente», dice
sempre analitico, il geniale biografo, che pensa e provvede a tutte le
possibilità storiche dell'argomento propostosi, ma la prima volta che
fosse «possente ad innamorare».

Nella _Vita Nuova_, «alli occhi di Dante appare per la prima volta
la gloriosa donna della sua mente», il cui nome è Beatrice anche in
bocca di coloro i quali «non sanno che si chiamare», cioè non sanno che
cosa chiamino, ignorano quanto ad essa si convenga quel nome, quanto
ella abbia in sè di beatitudine, a quale e quanta ella sia riserbata.
La fanciulla è «vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto,
sanguigno, cinta ed ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade
si convenía»; è «quasi dal principio del suo anno nono», e Dante quasi
in sulla fine pur dei nove anni, cioè nel 1274. D'allora in poi, Amore
«signoreggia l'anima sua», e più volte, pure in quella sua puerizia,
gl'impone di «andare cercando di lei»;[209] finchè, passati altri nove
anni, nè più nè meno, «questa mirabile donna appare a lui vestita di
colore bianchissimo, in mezzo di due gentili donne di più lunga etade»,
gli appare «passando per una via», e «lo saluta molto virtuosamente»,
tanto che a lui «pare allora vedere tutti li termini della
beatitudine».[210] Da quel momento, — il quale, secondo la cronologia
che Dante stesso ha incardinata sul mistico nove, appartiene all'anno
1283, — secondo novennio, incominciano i pensieri e i turbamenti
amorosi, le fantasie, le visioni.

Nella narrazione del Boccaccio,[211] «Dante, il cui nono anno non era
ancor finito, siccome i fanciulli piccioli, e spezialmente ai luoghi
festevoli, sogliono li padri seguitare», va col padre, in una splendida
giornata di primavera fiorentina, al calendimaggio dei Portinari.
«Avvenne che quivi mescolato tra gli altri della sua etade, de' quali
così maschi come femmine erano molti nella casa del festeggiante,
servite le prime mense, di ciò che la sua picciola età poteva operare,
puerilmente si diede con gli altri a trastullare. Era infra la turba
de' giovanetti una figliuola del sopraddetto Folco, il cui nome era
Bice (comecchè egli sempre dal suo primitivo nome, cioè Beatrice, la
nominasse), la cui età era forse di otto anni, assai leggiadretta
e bella, secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste
che il suo picciolo tempo non richiedeva; e oltre a questo, aveva le
fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi un'angioletta
era reputata da molti. Costei, adunque, tale quale io la disegno o
forse assai più bella, apparve in questa festa.... agli occhi del
nostro Dante....». E a siffatte premesse corrisponde il rimanente di
questa parte della boccaccevole narrazione fino alla morte di Beatrice;
massime in questo, dico o ripeto, che quanto è nella _Vita Nuova_
delineato a man leggiera, e quasi paurosa della materia che tocca,
quanto ivi è per imagini spiritualissime affigurato, con accenni
sfiorato appena, velato con perifrasi, sollevato e quasi alienato
dalla vita reale tanto che talvolta è lasciato addirittura che se
ne interpretino o controvertano le relazioni con questa; invece nel
_Trattatello_, come il Boccaccio altrove lo chiama,[212] _in laude di
Dante_, è lumeggiato e colorito sensibilmente, con le realtà della vita
mescolato e coordinato, e per giunta moraleggiato in sentenze sul bene
e il male di questa correlativamente alla vita dell'Alighieri.

«Passioni ed atti» è, nella _Vita Nuova_, frase piena d'idealità, sotto
la quale Dante omette i particolari di quel primo novennio amoroso,
all'«esempio» del già narrato, cioè dello apparimento, riferendoli
tutti come a suo tipo. «Puerili accidenti», con frase ben altramente
positiva, li chiama il Boccaccio, e ancor egli li omette; omette, che
dobbiam dire? di raccontarli quali fossero accaduti, o di inventarli
quali egli avrebbe, certo ingegnosissimamente, saputo? Subito appresso,
nella _Vita Nuova_, si travalica all'83, all'episodio del saluto, al
sonetto della visione di Madonna addormentata fra le braccia d'Amore,
e da lui pasciuta del cuore del Poeta.[213] E da quelle prime visione e
rima (la quale, fra tutte le dantesche, ha, forse più che alcun'altra,
del trovadorico e occitanico) si dipartono e succedono, con altre
visioni e rime intessendosi, gli episodî dell'amore di Dante: episodî,
con tenue filo congiunti alla realtà esteriore, e questa (sia essa o
una via della città, o la chiesa, o il mortorio dell'amica di Beatrice,
o uno sposalizio, o il mortorio del padre[214]) è fuggevolmente
accennata, descritta non mai; alle occorrenze poi della vita civile
dell'Alighieri una volta sola, per quanto io vegga, collegati, della
quale dirò or ora espressamente. Molto più franco e sicuro e meglio
informato il Boccaccio, il quale non ha certamente agio di fermarsi
in particolarità e molto meno in formali episodî; ma per le generali
e molto ricisamente sa dirci, non solamente questo: che «con l'età
multiplicarono le amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era
piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei»; ma quest'altro
ancora, che Dante «ogni altro affare lasciando, sollecitissimo andava
là dovunque potea credere vederla, quasi del viso e degli occhi di lei
dovesse attignere ogni suo bene ed intera consolazione». Segue una
digressione morale sugl'inconvenienti che reca l'amore nella vita,
specialmente degli studiosi; inconvenienti, osserva il Boccaccio,
che nel caso di Dante, alcuni vogliono siano stati ammendati dallo
avergli l'amore per Beatrice ispirate le rime: ma, soggiunge, «l'ornato
parlare» non è termine o mèta di eccellenza assoluta, non è la
«sommissima parte d'ogni scienza»; nè ad altro che a «ornato parlare»
fu incitator di Dante l'amore per donna: or le cose «leggiadramente
nel fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, fatte da
lui», compensano esse il danno che possa essergliene venuto «alli sacri
studi e all'ingegno»? Parole, per quanto sonore, tuttavia d'incredibil
grettezza, chi ripensi alla parte che Beatrice, la Beatrice pur della
_Vita Nuova_, ha in quel Poema, la cui grandezza il Boccaccio mostrò
nel _Comento_ di sentire e pregiar degnamente.


III.

E qui fermiamoci alla frase «ogni altro affare lasciando». Secondo
la quale, la giovinezza di Dante, dai diciotto anni ai venticinque, o
sarebbe tutta trascorsa in un assiduo corteggiare la donna desiderata,
e a tutte le cose del mondo, anche alle doverose, anteposta, proprio
com'uno de' volgari femminieri del _Decamerone_; o, poichè il Boccaccio
stesso si affretta a dichiarare che «onestissimo fu questo amore» e
scevro d'ogni «libidinoso appetito», dovrebbe la narrazione de' patemi
amorosi, appartenenti alla nuova vita di Dante, essere accettata
siccome positiva e puntual narrazione di fatti estrinsecatisi proprio
ne' termini in che vengon posti; ossia dovremmo credere effettivamente,
che e' passasse quelli anni dal saluto alla morte di Beatrice, che
è quanto dire dal 1283 al 90, in visioni, in lacrimazioni, nello
scrivere il giorno quel che sognasse la notte, in soliloquî, in
languori, sottraendosi del tutto alla vita civile fiorentina, la quale
appunto in quelli anni dal cuore e dall'opera de' cittadini migliori
attingeva al suo spirito artigiano la più vigorosa espressione che
mai abbia avuta un reggimento democratico. Potremmo noi, vorremmo,
concepire siffatta la giovinezza di Dante? abbandonare non ai nobili
silenzî, alla severa solitudine, d'una meditazione feconda, ma agli
ozî isterici d'una passione che sarebbe stata fine, e vacuo fine, a
sè stessa, gli anni della sua vita più vigorosi e più caldi? Tutta la
metafisica medievale sulla precellenza della vita contemplativa alla
vita attiva non salverebbe dal ridicolo il Dante amoroso della _Vita
Nuova_ interpetrata alla lettera, cioè diversamente da quel che debba
interpetrarsi un libro d'amore non pur del secolo XIII, ma altresì (e
la _Fiammetta_ equivale, sotto questo aspetto, alla _Vita Nuova_[215])
del XIV.

Ma v'ha di più. Io ho poc'anzi accennato, e vediamo ora quanto
preziosamente faccia al caso ed assunto nostri, quel collegamento
che una sola volta, com'ebbi a dire, ma una volta è pur fatto, in una
pagina della _Vita Nuova_, tra le idealità amorose e la realtà della
vita civile di Dante.

In tale interpetrazione, dopo averne diversamente opinato e
dubbiato,[216] mi fermo oramai di quel passo dove il Poeta accenna
ad una sua cavalcata da Firenze, lungo un fiume, fatta in compagnia
di molti, ma di mala voglia pel «dilungarsi da la sua beatitudine»
verso un luogo di non grande lontananza, e, pare, essendo egli su'
venti anni, cioè nel 1285. «Mi convenne» egli dice[217] «partire de
la sopradetta cittade,» (_gli convenne_: andata, dunque, doverosa ed
imposta) «ed ire verso quelle parti» (_nelle parti_ di Valdarno, di
Casentino, di Romagna, di Lombardia, era la frase usuale e costante
a designare andate o militari o politiche di cittadini in servigio
del Comune[218]) «verso quelle parti», prosegue, dove trovavasi una
gentildonna fiorentina, alla quale altresì era, come ha scritto poco
innanzi,[219] «convenuto partirsi de la sopradetta cittade», ma per
luogo assai più lontano, e donde non sarebbe tornata per un pezzo:
Dante invece mostra di porre a breve distanza di tempo la propria
«ritornata»;[220] parola, anche questa, della quale, come del suo
correlativo «andata», l'uso militare è negli antichi frequente.[221]
Io non dubito che, spogliando del solito adombramento i fatti che in
questi due luoghi si accennano, i fatti sian questi. Una gentildonna
fiorentina è stata condotta dal proprio marito in una delle città
d'Italia, più facilmente in una città guelfa: potevano essere Perugia,
Orvieto, Bologna, Lucca, Genova, od altra alla quale meglio si adatti
la designazione, che è nel testo, «paese molto lontano» da Firenze.
Invero non sempre la donna di que' mercatanti «era per Francia nel
letto deserta»;[222] talora ella seguiva in que' venturosi commerci
il marito: oppure, come qui crederei più probabile, alcuna volta, e
fosse pur raramente, «menava seco la donna»[223] il cittadino che, con
licenza del proprio Comune, andava Potestà o Capitano di alcun'altra
città,[224] per trattenervisi almeno un semestre, e spesse volte un
anno, e dunque per «non rivenire a gran tempi» (cioè per lungo spazio
di tempo, per un pezzo), come della gentildonna scrive, a confronto
dell'andata propria in quella cavalcata, il Poeta. Verso quella stessa
città, ma per fermarsi ad assai minor distanza da Firenze, è diretta la
cavalcata, della quale «è convenuto» far parte a Dante; il quale, pochi
capitoli appresso,[225] è da osservare che assai men determinate parole
appropria ad altro suo, com'ei dice, «passare per un cammino», fuori
della città, «lungo il quale correva un rivo chiaro molto»: e questa
può essere una semplice passeggiata a diporto, o per cagion di poco
rilievo e tutta personale. Là invece si tratta di una vera e propria
«cavalcata»:[226] la quale se, come dalla cronologia della _Vita Nuova_
par che resulti, fosse da riferire al 1285, avviciniamo un poco il
testo dantesco ai documenti, ossia ai Consigli fiorentini del 1285 (e
si noti che, come di quell'anno, così potremmo ai Consigli di altri
anni), e al documento chiediamo la interpetrazione del testo dantesco.

«Questo è il modo di fare la oste pel Comune di Firenze contro
i Pisani, trovato per li mercatanti fiorentini per lo migliore e
più utile stato e comodo della città di Firenze e degli artefici
e delle Arti, e di tutta la Mercatanzia, della sopradetta cittade
di Firenze». E il modo era questo: chiudersi le botteghe; sonare a
martello la campana del Comune; cittadini e contadini fornirsi per
l'oste; scriversi liste, ciascuna di cinquanta nomi, dai quindici
ai settant'anni, e di essi l'una parte andare in oste, l'altra, ma
pagando, rimanere a custodia della città: in sulla metà del mese
(era il giugno) il Potestà, e in sua compagnia cavalcheranno dugento
cavalieri cittadini fiorentini, moverà le insegne per andare in terra
di nimici. I duecento cavalieri menavano seco ciascuno un compagno bene
armato e con cavallo coperto.

Ora, che in quelle liste delle cinquantine, come in altre simili di
cotesti anni,[227] dovess'essere il nome del ventenne Alighieri, è
certo: che alla custodia della città si ritenessero i più teneri e i
più gravi di anni, e che i gagliardi dai venti ai cinquanta fossero
prescelti a cavalcare contro il nemico, dovrà altrettanto sembrar
ragionevole. Dunque la interpetrazione di quel capitolo sarebbe
già fatta..., se non dovessimo avvertire che quella oste contro i
Pisani nell'85 non ebbe poi effetto altramente, essendo, a quel che
pare, prevalse le pratiche ed istanze del Papa perchè così andasse a
finire.[228] Ma ciò, prima di tutto, non infirma la convenienza che
abbiamo rilevata fra le circostanze e locuzioni del testo dantesco e
i particolari determinati e le forme adoperate nel documento militare:
cosicchè sta sempre che quelle si adattano benissimo ad una spedizione
militare fiorentina, quandochessia e per dovecchessia avvenuta; nè la
cronologia della _Vita Nuova_ è ancora, se pur potrà esserlo mai, così
tassativamente fermata, che non sia lecito riferire quel capitolo ad
altro anno che all'85. In secondo luogo, poi, anche non avendo avuto
effetto nell'85 una vera e propria oste del Comune contro i Pisani,
tale da lasciar traccia di sè nella storia come fu per quelle di pochi
anni appresso,[229] rimane tuttavia la possibilità d'una semplice
fazione, od anche semplice cavalcata, delle tante che di certo sono
sfuggite a qualsiasi menzione di storico, a qualunque testimonianza
di documento; cavalcata di militi cittadini verso il Valdarno pisano
in quella medesima estate. Anzi alcuni di que' documenti del giugno
1285, ai quali io attingo, contengono questa proposta: che all'oste
generale contro Pisa si sostituisca «un'andata particolare di cavalieri
e pedoni», «i meno che si possa»; tanto per non mancare agli obblighi
della Taglia Guelfa, pur dando sodisfazione alle interposizioni
del Papa; e quest'altra ancora, che l'andata sia libera, «senza che
alcuno sia costretto», ma si bandisca che «chi vuole andare si faccia
scrivere». E nulla impedisce di credere, che questa o qualche consimil
proposta non abbia infine, dopo tutto quel dibattere di più settimane,
avuto, senza troppo strepito, che non si cercava, il proprio effetto.

Del resto, spedizioni fiorentine contro questo o quel Comune, o in
aiuto di questo o quell'altro contro altri, non facevano pur troppo
difetto: e sul cadere di cotesto medesimo anno 1285, dopo consultar
lungo e vario, cinquanta cavalieri, «buoni e gentili uomini della
città», ciascuno con «un compagno e due cavalli armigeri», erano
effettivamente «in oste pel Comune di Firenze» in soccorso de' Senesi
contro gli Aretini per una guerricciuola intorno ad un forte castello
di loro frontiera, Poggio Santa Cecilia. Aiuti fiorentini (di genti a
soldo, o delle vicaríe del contado, o di cittadini) erano inviati per
le parti del Valdarno di sopra, da Montevarchi; altri dal vicariato
del Chianti. I cittadini, designati Sesto per Sesto a tale servizio,
erano costretti ad andare: _cogantur ire_: tal e quale il dantesco «mi
convenne partire, ed ire....». Dall'oste guelfa scriveva messer Corso
Donati al Comune, «sperando del tutto battaglia». La guerricciuola e
l'assedio finirono in aprile con la vittoria de' Guelfi.

Ma o pisana o aretina, la spedizione guelfa per la quale a Dante
«sia convenuto partire de la sua cittade» ed «ire verso queste o
quelle parti», sia scendendo sia risalendo il corso del suo Arno;
o in quell'anno 85, vuoi nell'estate vuoi nell'inverno, ovvero in
altro anno; cotesta, insomma, qualsiasi spedizione ha qui per noi
un'importanza del tutto secondaria; questo invece importandoci, che se
paragoniamo il contenuto e la forma di quel capitolo al fatto reale
che in esso è adombrato, noi intenderemo tanto bene, quanto forse
su nessun altro punto della _Vita Nuova_ potremmo, in quali termini
Dante, scrivendola, si collocasse fra la realtà storica e le idealità o
misticità, che dir si vogliano, dell'amor suo.

Paragoniamo. Ecco il fatto. Le cavallate fiorentine procedono lungo
il corso dell'Arno, al loro cammino: Dante è co' suoi compagni
d'arme, giovane tra giovani, nella baldanza de' suoi vent'anni, e
del suo sentimento di guelfo magnate che presta al Comune la spada
degli Alighieri, esercitata già onoratamente in Montaperti da' suoi
maggiori, morti appiè del Carroccio. Dinanzi son date al vento le
bandiere di questo Comune glorioso; e il Giglio vermiglio, e la Croce
del Popolo, e in lettere d'oro il dolce nome _Libertas_, annunziano
Firenze. — Ed ecco il racconto della _Vita Nuova_. A Dante è «convenuto
partire de la cittade, ed ire verso quelle parti, _ecc_.». La cagione
del partirsi, la qualità e forma dell'andata; le condizioni della
città, ne' cui Consigli noi oggi, leggendone gli atti, crediamo di
rivivere; tutto, in questo racconto, sparisce. «Avvenne cosa per la
quale mi convenne partire»: quella cosa è la guerra guelfa; è la lega
di Firenze, Genova e Lucca contro l'odiata emula ghibellina; è Porto
Pisano, le cui catene saranno spezzate e trascinate come spoglia di
guerra; è l'ambizione d'Ugolino della Gherardesca, la cui atroce fine
sarà immortale nella poesia di questo giovane milite, che oggi cavalca
pensando rime d'amore. Oppure: è, verso altra parte di Toscana e contro
altro nemico, pur sempre la guerra guelfa. Arezzo e Siena rimuginano,
anch'esse alla lor volta, i maligni umori cittadini: ghibellina Arezzo
col suo Vescovo battagliero, ma guelfi i suoi fuorusciti e gli aderenti
loro in città, vanamente aspiranti a un governo popolare sullo stampo
di quello fondato in Firenze: Siena, voltabile d'anno in anno, guelfa
ora con Firenze: son corsi appena venticinque anni da Montaperti; e
fra soli altri quattro sarà Campaldino. Ma nel racconto che abbiamo
dinanzi, queste realtà solenni e tragiche svaniscono, e sottentrano ad
esse i fantasmi ideali del romanzo d'un'anima. Dante «è a la compagnia
di molti»: i suoi compagni perdono ogni personalità individua; sono
i «molti», e basta: le cavallate cittadine, i cavalieri gentili
uomini, co' loro compagni e i cavalli coverti, sono una «compagnia»
non specificata: Dante non è solo; nient'altro. Anzi, anche questo è
troppo: non è solo, «quanto a la vista», esteriormente, in apparenza;
ma nel segreto dell'anima sua egli è solo, solissimo, perchè sola
sua, sola degna, compagnia sono i suoi pensieri d'amore. Il paradosso
del maggiore Affricano, — quand'io non fo nulla, è quando fo di più;
mai non mi trovo men solo, che quando son solo,[230] — si adatta,
con singolare vicenda, non più ai romani pensamenti del vincitore
d'Annibale, ma alla medievale psicologia dei trasognati servi di Amore.
E tale invero Dante descrive in quella cavalcata sè stesso: «Tutto
ch'io fossi a la compagnia di molti quanto a la vista, l'andare mi
dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l'angoscia
che il cuor sentìa, però ch'io mi dilungava da la mia beatitudine». Ma
potete voi credergli? Vi riesce uno di quei fieri uomini del Dugento,
sotto le bandiere del suo Comune, figurarvelo, storicamente, così? —
Era poeta. — Sì: ma poeta, che il giglio della sua Firenze cantò non
dover mai essere per man di nemici «posto a ritroso»; il poeta che
allo stemma delle grandi famiglie assegna come il fregio più bello
l'essere stato portato nelle imprese della patria; «.... e le palle
dell'oro Fiorian Fiorenza in tutti i suoi gran fatti»; il poeta che
nella ghiacciaia infernale, sul traditore della bandiera, Bocca degli
Abati, inveisce ferocemente non pur con le parole, ma e con le mani
e co' piedi.[231] Questo il poeta vero, e nel poeta l'uomo. Nella
_Vita Nuova_, dove (a rovescio) l'uomo è il rimatore, sull'ordito dei
fatti reali è intessuta la fittizia prammatica dell'amore per rima,
son ricamate le gracili malinconiose imagini di essa; e se n'ha un
libro il cui fondo è reale, ma il colorito, le figure, l'azione, sono
interamente fantastici.

Tanto fantastico, quindi, quel Dante sospiroso fra i cavalieri di
cavallata, quanto il personaggio che, invisibile a tutti fuori che
a lui, si aggiunge alla comitiva, e chiama il Poeta, e gli favella
e lo istruisce di schermi e infingimenti amorosi, e gl'ispira un
sonetto. Il personaggio è Amore, il quale, vestito con poveri panni di
pellegrino, viene da quella più lontana città dov'è ita la gentildonna.
Egli è sbigottito, con gli occhi a terra, un poco sogguardando le
acque lucenti dell'Arno. Non però che l'Arno sia nominato altramente
che siccome «uno fiume bello, corrente e chiarissimo, il quale sen
gìa lungo questo cammino là ove io era», per il solito scrupoloso e
perifrastico astrarre dalla storica realtà. Come della mescolanza di
essa coi fantasmi psicologici segno caratteristico è ciò; che questa
d'Amore sia chiamata apparizione («ne la mia imaginazione apparve....
disparve questa mia imaginazione»); anzi la stessa figura dell'iddio
pellegrino finisca col diventare un mero sentimento del Poeta;[232] ma
ciò non toglie, che sin che è figura ella sia rappresentata riguardosa
della gente con la quale il Poeta è accompagnato: «E sospirando pensoso
venìa, Per non veder la gente, a capo chino». Sparito ch'egli è, Dante
seguita a cavalcare e a sospirare: «e, quasi cambiato ne la vista mia,
cavalcai quel giorno, pensoso ed accompagnato da molti sospiri». E noi
con quelli lo lasceremo oramai.


IV.

Ma dopo esser venuti alle conchiusioni che volevamo, e che abbiamo già
enunciate dicendo essere la _Vita Nuova_ un libro, il cui colorito,
le figure, l'azione, e di questa gli accidenti e le vicende, sono
fantastici, ma il fondo è reale. Reale ne' fatti e nelle circostanze
della vita quotidiana, ai quali figure e azione e tutto quell'amore
per rima si collegano; reale nei personaggi. Reale in lui, Dante
Alighieri, e in Beatrice: nelle due gentildonne dello schermo o
difesa,[233] siano esse questa cosa solamente, o altresì due giovanili
passioncelle del rimatore: realtà i mortorî dell'amica e del padre di
Beatrice;[234] e l'amicizia del fratello di questa con Dante,[235] nè
più nè meno che l'amicizia di Dante con colui al quale la _Vita Nuova_
è diretta, e che Dante stesso, pur tacendo quello come qualunqu'altro
nome, ha indubitabilmente identificato in Guido Cavalcanti:[236] vere
e vive donne della città di Firenze, le donne che aveva enumerate
nel serventese delle belle,[237] fantasticamente poi e in vario modo
operanti nella psicologia del racconto: realtà la donna gentile
vicina di casa degli Alighieri, e amore episodiaco del fedele di
Beatrice:[238] realtà i romei che passano da Firenze:[239] realtà la
ispirazione del Poema, indeterminatamente concepita in una celeste
glorificazione di Beatrice,[240] la cui persona di donna viva e vera,
come le altre, e fiorentina, astratta dapprima (pel solito procedimento
de' rimatori) in donna ideale, è poi, questa volta, trasfigurata e
sollevata alla sublimità luminosa di simbolo per opera di un grande
Poeta, il quale, quando avrà determinato e fatto scienziale quel
primigenio concepimento, «dirà di lei ciò che mai non fu detto
d'alcuna».

Dinanzi a queste conchiusioni, che c'impongono la realtà storica
di Beatrice, si ha l'affermazione del Boccaccio, ch'ella fosse de'
Portinari, e figliuola di Folco. Quale autorità può concedersi alla
sua affermazione? Distinguiamo. Altro è dire che il _Trattatello_
di messer Giovanni amplifica e lumeggia retoricamente, come abbiamo
veduto, od anche inventa, le circostanze dei fatti per creare intorno
ad essi il colorito descrittivo; altro è dire, che quand'egli afferma
una cosa, quella cosa non gli si debba credere. La retorica qui non
entra per nulla; il colorito locale o personale, nemmeno. C'entra
invece, ed è da considerarsi, che un cittadino fiorentino, il quale
afferma, non più tardi del 1363 o 64,[241] questa ed altre cose di
fatto; e questa la concreta in un cognome di famiglia fiorente allora
e notissima, indicandone una donna di cui vivono in Firenze, per lo
meno, i nipoti di fratello o sorella, e che i vecchioni della città
potrebbero riconoscere come Dante Ciacco, perchè «fatti prima che essa
disfatta»; non può questo cittadino tirare in ballo piuttosto quel
cognome e quella donna, che un altro ed un'altra, se la verità non
fosse che proprio Bice Portinari fu la Beatrice dantesca, e che ciò
egli scrive davvero, come esplicitamente dichiarò pochi anni dipoi nel
_Comento_,[242] «secondo la relazione di fededegna persona, la quale
la conobbe e fu per consanguinità strettissima a lei». Quella persona,
quel Portinari, noi oggi non potremmo che cercarlo per indovinamento
lungo le aride rubriche de' Sepoltuarî, o tra il frondame delle tavole
genealogiche: ma i contemporanei di messer Giovanni non avevano che a
guardarsi attorno, per dimandare quale fosse dei Portinari a quei dì;
e se non fosse stato nessuno, e insussistente la notizia data sulla sua
fede, — Che frottole ci venite voi a contare? — avrebber detto a messer
Giovanni, che qui in Santo Stefano di Badia esponeva loro di viva voce
«el Dante»;[243] lo esponeva per solenne provvisione decretata ne'
Consigli del Comune, facendo larga parte alle memorie cittadine: fra
le quali sarebbe stata peggio che stoltezza piantare, così a capriccio
e senza che nulla vel costringesse, non un abbellimento retorico, non
un'amplificazione esornativa, ma una falsità; non un fiore de' suoi
lussureggianti giardini, ma un'insipida carota dell'orto altrui.

Non è, del resto, solamente una piccola giunta ch'io faccio alla
biografia del gran Certaldese, ma altresì una notizia non disutile
al nostro tema, questa: che nel banco dei Bardi,[244] fra i tanti
interessati come «fattori» all'azienda, fu, dal 1336 al 1338,
«Boccaccio Ghellini [Chellini] da Certaldo»: e fattori pure dei
Bardi, e cointeressati, furono Portinari parecchi, della discendenza e
consorteria di Folco; un Andrea, un Ricovero di Folchetto, un Sangallo
di Grifo, un Lorenzo di Stagio, un Ubertino di Gherardo di Folco che
stava pei Bardi a Parigi e colà mori nel 1339: nipote, quest'ultimo,
di Beatrice Portinari. Non mancarono, come si vede, al figliuol di
Boccaccio occasioni di aver ragguagli domestici concernenti sia Bardi
sia Portinari: e da un parente strettissimo della Beatrice dantesca,
dichiara egli aver avuta la identificazione di lei in Beatrice
Portinari, che poi il testamento di Folco ci fa tutt'una con quella
madonna Bice, al cui fiorentinesco vezzeggiativo lo stesso Alighieri
non rifuggì dal render testimonianza[245] fra gli splendori delle sfere
celesti, e pur significando «la reverenza che s'indonna Di tutto me pur
per _B_ e per _ice_».

Egli è noto che un'altra testimonianza, e di grande peso, del tutto
indipendente dalla testimonianza del Boccaccio, e che anzi le è
anteriore di qualche anno, si è aggiunta recentemente a confermare
l'identità della Beatrice dantesca nella figliuola di Folco. Un leale
impugnatore di tale identità, Adolfo Bartoli, annunziò egli pel primo
pubblicamente, al più strenuo difensore di essa, Alessandro D'Ancona,
la osservazione d'un valente discepolo e benemerito degli studî
danteschi, di quelli in particolare sugli antichi Commenti, il quale
nel Commento di Pietro Alighieri, secondo la nuova lezione che ce
ne offre un autorevolissimo codice tornato fra gli Ashburnhamiani in
Italia, leggeva[246] quanto appresso (traduco fedelmente da quel piano
latino): «È da premettere che in fatto certa nominata madonna Beatrice,
molto insigne per costumi e bellezza, nel tempo dell'autore fu nella
città di Firenze, nata della casa di certi cittadini fiorentini che
si dicono i Portinari; della quale questo autore Dante fu, mentre
ch'ella visse, vagheggiatore ed amatore, e in laude sua molte canzoni
compose; e poi che fu morta, per celebrare il nome di lei, sì volle in
questo suo poema assumerla le più volte sotto l'allegoria e carattere
della Teologia». Così là in Verona, dove viveva giudice riputatissimo,
scriveva verso il 1360 il figliuolo di Dante. Il cui autentico
testimonio (del tutto indipendente, giova ripeterlo, da quello di
messere Giovanni) ci riconduce esso pure a colei che Folco Portinari
nel testamento del 1288 designava, «madonna Bice, figliuola sua, e
moglie di messer Simone de' Bardi».

Quel testamento ha forse il torto d'essersi fatto conoscere troppo
presto, e che fino dal 1759 lo abbia pubblicato di sull'original
pergamena, illustrando le Chiese fiorentine, il gesuita Giuseppe
Richa.[247] Se alle più o men legittime suspicioni su Beatrice i
dantisti, dal Biscioni a oggi, avessero avuto per solo argomento
e pascolo l'affermazione del Boccaccio, echeggiata dai posteriori
biografi; e che da nessun angolo storico, vuoi di sepolcreto vuoi
di penetrale domestico, fosse stato ripercosso quel suono, a parola
autentica e positiva di documento; io giuro che non sarebbe mancato,
fra gl'impugnatori, chi avesse detto: — Noi crederemo al Boccaccio,
e agli assertori dell'asserito da lui, la lor Beatrice Portinari,
quando avremo un documento dell'esistenza di questa donna! — E allora,
pognamo caso che in quest'anno di grazia, e (se a Dio piace, e perchè
in Italia non se ne perda l'usanza) di centenario, fossi oggi venuto
io con la mia brava pergamena in saccoccia, e al mio fianco l'ombra
di quel buon sere che la distese; e avessi annunziato: — Eccolo qua il
sospirato o temuto documento, o signori; e voi, ser Tedaldo Rustichelli
per autorità imperiale giudice e notaro, tornando dopo anni più che
seicento alla vostra professione onorata, rogatevi qui dinanzi a noi
e certificate, che madonna Beatrice Portinari a suo tempo, _et quidem_
al vostro, veracemente fu donna, — se tutto questo io lo avessi potuto
far accadere; il documento, tale e quale lo abbiamo, ma venuto a tempo,
salirebbe, come un valor di borsa in rialzo, di non saprei quanti
punti; e la mia critica per man di notaio, non sarei io stesso degli
ultimi a portarmela in palma di mano.


V.

Invece al sesto centenario della donna che, secondo il racconto della
_Vita Nuova_,[248] muore nel giugno del 1290, — cioè in piena misticità
novenaria, perchè nella nona diecina del secolo, nel nono giorno del
mese pel calendario arabico, e mese nono pel calendario siriaco, — io
non posso recar altro di nuovo, se non alcune osservazioni di fatto
sullo stato coniugale di madonna Beatrice figliuola di Folco Portinari
e moglie di messer Simone de' Bardi; le quali spero non siano senza
valore per confermare l'identità di essa con la Beatrice dantesca.

Del marito di Beatrice i dantisti, che se lo sono, in certo modo,
trovato lungo la strada, dicono[249] che egli nel 1290, durante la
guerra guelfa contro Arezzo, era consigliere del Comune presso messere
Amerigo di Nerbona condottiero della Taglia in nome del re Carlo
d'Angiò; che nel giugno del 1301, partecipava, mediante certe mene
guerresche coi conti Guidi, a un tentativo dei Neri per sormontare,
come poco dopo venne lor fatto, sui Bianchi, e ne veniva condannato;
e che nell'ottobre del 1302, compiutasi la vittoria de' Neri, era
ufficiale del Comune sulle libre e prestanze. Vere le due prime cose,
e ben rispondenti alla qualità di magnate e cavaliere: non sussistente
la terza, perchè quello era ufficio di popolano. Se a ciò avessi
ripensato, avrei interpretato più dirittamente il documento, sul
quale fui io il primo ad attribuire cotesto ufficio popolare a messere
Simone.[250]

In altri documenti, i quali aspettano uno studio degno della loro
importanza, libri mercantili de' Bardi, che la cortesia del marchese
Carlo Ginori mi ha concesso di esaminare, le mie ricerche, diciam
così, coniugali mi condussero per primo resultato alla scoperta sotto
l'anno 1310 d'una nidiata di almen cinque figliuoli: «Puccino, Masino
e Gieri fratelli, figliuoli che fuoro di Simone di messer Iacopo [de'
Bardi], manovaldi di Vannozzo e di Perozzo loro fratelli». Altro che
«la steril Beatrice»! dovetti, a prima giunta, col divulgato settenario
carducciano,[251] esclamare: e stavo per comunicare al poeta ed amico
la prosperosa novella; se non che, seguitando a sfogliare quelle
spaziose e crepitanti membrane, ebbi a dire, «non dopo molte carte»,
Adagio a' ma' passi!

In una ricordanza, di bella forma volgare, quale corre di pagina in
pagina per tutti quei voluminosi registri, risguardante una madonna
Nente di messer Nepo dei Bardi, enumerandosi sotto il medesimo anno
1310, quelli della famiglia e consorteria i quali, per testamento
del padre di lei, dovranno «dicernere» di certi denari che possano
spettarle, io leggevo: «Cino, Bartolo, Gualtieri e messer Lapo
fratelli, figliuoli che fuoro di messer Iacopo; messer Nestagio di
Bardo; _messer Simone_ di Gieri; e Puccino di _Simone_». Dunque, fra
il XIII e il XIV secolo, i Bardi ebbero due Simoni, come da altri
di quei documenti potei porre in sodo.[252] L'uno, Simone di messer
Iacopo, fratello di quei Cino, Gualtieri, messer Lapo e Bartolo; uomo,
cotesto Bartolo, di molta autorità nel popolo e in Parte Guelfa:[253]
e questo Simone, ufficiale delle Prestanze nel 1302 e, possiamo
aggiungere, stato de' Priori nell'87, e consigliere del Comune nel
78,[254] nel 1310 era morto, e negl'interessi di quella gigantesca
ragione mercantile de' Bardi sono inscritti per lui i figliuoli suoi
«Puccino e fratelli». L'altro, messer Simone di Geri, cavaliere,
consigliere nell'oste guelfa presso Amerigo di Nerbona, partigiano
donatesco, cioè de' Guelfi Neri, e per essi brigatore presso i conti
Guidi, suoi molto intrinseci: e questo messere Simone di Geri, le cui
memorie scendono, per quanto io veggo, sino al 1315, rimanendomene
dubbia una del 1329,[255] è certamente il messer Simone de' Bardi
ricordato nel testamento di Folco siccome marito di madonna Bice de'
Portinari. Un Simone dunque, e un messer Simone: un Simone di messer
Iacopo, e un messer Simone di Geri. Perchè il titolo di _messere_ non
era un titolo che si desse per complimento o non desse, a capriccio:
non si dava a chi non fosse o giudice (cioè dottore in legge), o
cavaliere, o costituito in dignità ecclesiastica; e così non lo ha, nè
in quel testamento nè su' Prioristi nè altrove, Folco Portinari; non
lo ebbe mai Guido di messer Cavalcante Cavalcanti; non lo ebbe Dante:
si dava religiosamente a cui, per alcuna di dette ragioni, spettasse,
e il titolo trasformava addirittura la persona agli occhi della gente.
Scrive un cronista domestico:[256] «Castellano Frescobaldi, che poi fu
messer Castellano»: e poco dipoi racconta, che «s'andò a fare cavaliere
a Napoli per le mani del re Ruberto»; quello che faceva anche i poeti.

I cinque figliuoli, pertanto, di Simone (e per altre testimonianze[257]
parrebbe non fossero i soli; come due, forse, le mogli sue,
un'Acciaiuoli e una Gherardini) mi si accertavano per figliuoli di
Simone di messer Iacopo, quello de' Priori nell'87 e delle Prestanze
nel 1302, morto prima del 10: a messer Simone di Geri, veniva a mancar
quella, nè altra testimonianza di prole da nessun altro documento gli
sopraggiungeva: e madonna Beatrice ritornava «sterile».[258]

La figliuola adunque di Folco, la quale nel 1288, al testamento del
padre, o non aveva avuto figliuoli o non le eran campati, non ne
ebbe nemmeno, o non le camparono, fra quel gennaio 88 e il giugno 90
ch'ella morì. Nel giugno del 1290 morì? Questo afferma espressamente
della sua Beatrice l'autore della _Vita Nuova_. Della Bice Portinari,
sia pure che documenti non lo confermino; ma nemmeno ve n'ha che vi
si oppongano, poichè l'unico che di lei parli, cioè il testamento
paterno, la fa viva nel 1288, e moglie di messer Simone, il quale non
apparisce aver avuto figliuoli: e tal mancamento di prole dal Bardi e
dalla Portinari, è evidente quanto bene si addica alla donna, la cui
morte, nella cronologia della _Vita Nuova_, è a distanza di soli due
anni e mezzo da quel testamento. Certo è poi che nella _Vita Nuova_ la
morte di Beatrice è effettivamente la morte avvenuta in Firenze, d'una
gentildonna fiorentina, in un dato giorno d'un mese dell'anno: data di
giorno, mese ed anno, che l'Autore non foggia a capriccio, ma riceve
dalla realtà dei fatti; e su questa realtà, che egli non può mutare,
sottilizza e si dicervella per iscovare in ciascun elemento di quella
triplice data il mistico numero nove, nel quale, in quel medesimo
paragrafo, finisce con l'identificare addirittura «la donna della sua
mente», conchiudendo ch'«ella era un nove, cioè un miracolo, la cui
radice è solamente la mirabile Trinitade». Analizza su tre calendarii
(su tre, radice del nove) la data dell'anno, e osserva che il 1290 si
compone delle prime nove diecine dei cento anni del secolo; analizza
la data del mese, e scuopre che il giugno, nel quale essa è morta,
è il nono mese del calendario siriaco; analizza la data del giorno,
e «secondo l'usanza d'Arabia» (com'è indubitabilmente l'autentica
lezione di quel passo[259]) trova sul calendario musulmano, essere il
dì 9 del mese di Giumâdâ secondo, dell'anno dell'Egira 689, quel che
nel calendario nostro fu il 19 di giugno 1290: la quale è, insomma, la
data che l'Alighieri ci ha non inventato ma conservato, della morte di
Beatrice.[260] Ora se Beatrice fosse stata soltanto «la donna della sua
mente», ossia una qualunque delle tante cose che gl'impugnatori della
realtà femminile di lei han voluto che fosse, chi impediva a Dante di
farla morire sotto la data più squisitamente novennale novimensuale e
novendiale del calendario nostro cristiano, senza che, per compicciare
tal data, gli bisognasse trascinar a contributo Maometto e la Siria?

Moglie, Beatrice, nel 1288, da quando? Quando fu che la fanciulla
abbellitrice, col suo sorriso, dei calendimaggio nel Sesto di Porta San
Piero, passò nelle guernite case dei Bardi, fra le cupe mura di quei
forti arnesi da guerra cittadinesca, là oltr'Arno «presso a Rubaconte»?
Non lo sappiamo: ma io ebbi già ad accennare che quei parentadi li
conciliava, e le più volte per tempissimo, l'interesse domestico e
cittadino.[261] Erano due casate che si congiungevano, piuttostochè una
fanciulla ed un giovine; erano interessi di vicinanza o di consorteria
che si raffermavano, erano secolari e sanguinose discordie che si
pacificavano, o si tentava di pacificare, coi matrimonî. Tale io credo
questo di Bardi e Portinari, tale l'altro di Alighieri e Donati;[262] e
che al tanto dissertare fattosi in questi ultimi anni su madonna Bice
e madonna Gemma sia mancato, soprattutto, il senso storico di quella
vita reale, e che nello stesso difetto cada la interpetrazione di
certi passi della _Vita Nuova_, che si vorrebbero mettere in relazione
col matrimonio di Beatrice o con quello di Dante. La Beatrice che
Dante ritrae nella _Vita Nuova_ «donna della sua mente» fin da quando
nel 1274 gli apparisce fanciulletta sul nono anno, questa Beatrice,
allorchè nove anni appresso, nell'83, si raffaccia agli occhi suoi,
«mirabile donna.... in mezzo di due gentili donne, le quali erano
di più lunga età», io non esito a crederla già maritata; e che ella
sia già quella «monna Bice», alla cui condizione coniugale rendono
testimonianza espressa, e da non doversi lasciar passare inosservata,
due luoghi delle _Rime_;[263] «E monna Vanna e monna Bice poi», «Io
vidi monna Vanna e monna Bice». Perocchè la qualificazione di _monna_ o
_madonna_ era anch'essa, come già rilevammo per l'altra di _messere_,
riserbata a una data condizione o stato civile, mancando il quale
mancava altresì al nome proprio femminile l'apposizione suddetta.[264]
Io son d'avviso che il matrimonio di Beatrice, come il matrimonio di
Dante, siano l'uno e l'altro, e per le ragioni che sopra esposi a suo
luogo, fatti assolutamente esteriori estranei e indifferenti al dramma
tutto psicologico, all'amore per rima, della _Vita Nuova_. Vano quindi
il cercare allusioni a cotesti due fatti in questo o quell'episodio del
libro, come pur si è tentato massime per il matrimonio di Dante, che si
voleva collegare con l'episodio della «donna gentile» e consolatrice,
vicina a lui di casa, la quale interviene negli ultimi capitoli, e
poi è di nuovo affigurata nel _Convivio_ come simbolo della Filosofia.
Donna vera e fiorentina anche quella, io ho per fermo; sebbene ormai
impossibile forse ad essere storicamente riconosciuta,[265] ma non
la Donati di certo, non la madre (fin d'allora forse, già madre)
de' figliuoli di lui. Perchè, insomma, nella _Vita Nuova_ è ben da
distinguere storia e psicologia. Alla narrazione psicologica, la
quale si compone di fatti atteggiati secondo la scolastica dell'amor
medievale, e prescindendo dalla realtà, e quindi anche dalla verità,
appartengono non solamente le visioni, i sogni, lo interloquire degli
spiriti e spiritelli amorosi, ma altresì e in pari modo le iperboliche
descrizioni degli effetti che la vista di Beatrice produce sul Poeta
e sugli altri, le sue proprie (com'e' le chiama) trasfigurazioni o
tramortimenti, e intorno a sè in quello stato l'atteggiamento delle
donne gentili e pietose, o motteggiatrici e beffarde, le questioni
di casistica o dommatica amorosa qua e là interposte, la desolazione
de' cittadini e la epistola deploratoria per la morte di lei.[266]
Quando s'impugna la possibilità storica di coteste e simili altre
cose, io credo che la s'impugni a buon diritto, sia rispetto alle
condizioni dell'umana natura in sè stessa, sia, e più, rispetto a quel
ch'ella era nella Firenze di quei tempi; ma non già che se ne debba
concludere, tutta la _Vita Nuova_ essere deficiente di storica verità,
e Beatrice non essere donna viva e reale. Si dica, sì, che in quel
libretto, il quale per la sua singolarità si sottrae alle norme della
comune esegesi, ben poco è di storico: ma quel poco non si può, senza
ingiuria, distruggere. Nè io intendo qui enumerarlo compiutamente, ma
soltanto accennare, per esempio,[267] la morte dell'amica di Beatrice,
la partenza da Firenze della gentildonna del primo schermo o difesa,
la cavalcata per la guerra guelfa, l'assistenza che essendo Dante
infermo gli presta (quale sembra che sia) la sorella, l'amicizia con
Guido Cavalcanti e col fratello di Beatrice, probabilmente Manetto;
e poi,[268] rispetto a Beatrice, le positive indicazioni dell'età di
nove e diciotto anni, la data della morte fermata sui tre calendari, la
morte del padre. La data che nella cronologia della _Vita Nuova_ viene
ad avere questo ultimo avvenimento, collima con la data della morte
di Folco Portinari, 31 dicembre 1289: ma ciò non è tutto, anzi è meno
assai di quest'altro. Del padre di Beatrice scrive Dante che «egli, sì
come da molti si crede e vero è, fu buono in alto grado». Ora io non
so, queste parole nella semplicità loro così belle ed espressive, — e
che non siano più esplicite e personali, lo impedisce l'astrattezza
perifrastica impostasi come dicemmo, dall'Autore, — queste parole,
nelle quali la verità dei fatti e la pubblica opinione sono concordate
in un reverente omaggio ad un'anima buona, e la lode del bene operare
vi è così schiettamente significata; non so su quale tomba più
degnamente potrebbero scriversi che su quella dell'uomo, la cui bontà
si è tramandata a' suoi cittadini in un'opera di carità perenne e
inesausta quanto la miseria umana e il dolore; dell'uomo, di cui fu
potuto dire doversi a lui lo Spedale, come a Beatrice sua figliuola il
Poema.[269]

Il riprendere lo studio di tutta la _Vita Nuova_ sotto questo doppio
aspetto, psicologico (o se più atto vocabolo si trovi) e storico,
eccede l'assunto e i confini e l'agio di queste mie pagine; e mi
terrei pago che altri se ne incorasse. Con ciò si verrebbe altresì,
da un lato, ad alleggerire la biografia del Poeta di tutto quanto,
in quel giovanile periodo, non appartenga ai fatti della vita reale,
e dall'altro a ridurre al loro valore le affermazioni che di sul
Boccaccio furono ripetute tradizionalmente. Una delle quali è, che
il matrimonio di Dante con la Gemma di messer Manetto Donati (del
matrimonio di Beatrice non si cura egli far menzione veruna) fosse
dai parenti di lui procurato per consolarlo della morte di Beatrice.
Questo è confondere que' due ordini di cose, separati del tutto e
l'uno dall'altro indipendente.[270] Rispetto a quel che ne sappiamo,
come pure rispetto alla psicologia della _Vita Nuova_ il matrimonio di
Dante potrebbe anche antecedere alla morte di Beatrice. A ciò qualche
altra cosa, invece, si oppone: e prima di tutto, l'affermazione del
Boccaccio; secondochè ad altro proposito distinguemmo, non potersi
le sue affermazioni di fatti venir rifiutate alla stregua delle sue
amplificazioni descrittive di quelli. Poi, certi documenti, alquanto
a dir vero spiacevoli, ma positivi se altri mai, della vita mondana
di Dante, cioè i Sonetti appartenenti alla _Tenzone con Forese
Donati_,[271] e a que' loro anni di vita scapestrata ai quali egli
allude nell'incontrare il pentito sposo della buona Nella fra gli
espianti del sesto balzo.[272] Se quel sensuale obliamento di sè
medesimo va posto tra le aberrazioni delle quali egli poi nel XXX e
XXXI del _Purgatorio_ si accusa a Beatrice d'essersi reso colpevole
dopo la morte di lei, que' Sonetti vengono ad esser posteriori al
giugno del 90: ora in essi, che sono, com'è noto, un palleggio
d'ingiurie fra i due sonettieri, mentre non mancano le mordaci
allusioni di Dante alle infedeltà coniugali di Forese, queste non
sono da Forese, come invece sono le altre, ribattute a martello in
faccia dell'avversario; anzi da uno di que' Sonetti[273] può arguirsi
piuttosto la convivenza di Dante con un fratello ed una sorella. Se
non che questa stessa condizione di cose, mentre confermerebbe nel
Boccaccio la data matrimoniale posteriore al 90, ossia l'affermazione
del fatto, infirmerebbe, al solito, l'amplificazione retorica del fatto
stesso, in quanto quel suo Dante lacrimoso e desolato, e confortato
dai parenti alle dolcezze e alla santità della compagnia coniugale,
apparirebbe, in realtà, sviato dietro ad altre, alquanto diverse,
compagnie e consolazioni.

Insomma il matrimonio di Dante, sia che si dovesse o volesse crederlo
anteriore al 1290, o, sulla fede del Boccaccio, debba aversi siccome
avvenuto poco di poi, nulla ha che lo colleghi con la morte di
Beatrice, con quella che Dante già nemmen denomina morte, ma un
«essere chiamata a gloriare sotto la 'nsegna di quella reina benedetta
Maria»;[274] nè sa attribuirla a cagione fisica morbosa, «Non la
ci tolse qualità di gelo Nè di calor, sì come l'altre face»,[275]
precisamente all'opposto del Boccaccio, il quale al racconto di essa
morte proemia con una specie di aforismo ippocratico, che «un poco di
soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo (lasciando stare gli
altri accidenti infiniti e possibili), da essere a non essere senza
difficoltà ci conduce», e così pianamente fa morire «nel fine del
suo vigesimoquarto anno» anche «la bellissima Beatrice». Seguono nel
_Trattatello_,[276] letteralmente interpretati e descritti, i pianti,
i sospiri, le disperazioni della _Vita Nuova_, con più quello che la
_Vita Nuova_ non ha. Ciò sono, le consolazioni dei parenti, che dopo
lungo resistere Dante finalmente ascolta: allora, perchè «non solamente
de' dolori il traessino, ma il recassero in allegrezza», succede il
loro «ragionare insieme di dargli moglie; acciocchè, come la perduta
donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fusse la
novamente acquistata. E trovata una giovane, quale alla sua condizione
era dicevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la
loro intenzione gli scoprirono. E acciocchè io particolarmente non
tocchi ciascuna cosa, dopo lunga tenzone, senza mettere guari di
tempo in mezzo, al ragionamento segui l'effetto: e fu sposato». E
qui, conchiusione a dir vero che non ci aspetteremmo, una fierissima
tirata contro il voler dare moglie agli uomini di studio, i quali quel
censore rigidissimo scomunicava (come vedemmo[277]) anche dall'amore; e
sul capo della povera madonna Gemma (manco male ch'e' non la nomina),
lanciata quella retorica sentenza di moglie, per lo meno, incomoda,
che nulla di quel poco, pur troppo, che sappiamo della _Vita di Dante_,
concorre a giustificare.


VI.

Di consolazioni a Dante nella morte di Beatrice rimane documento molto
invero diverso da quelli che porterebbe il racconto del novellatore
biografo. La consolazione è d'un poeta al poeta, di amatore ad amatore;
con imagini gentilmente intrecciate a quelle delle rime amorose di
Dante; trasportata l'azione dalla terra al cielo; attori, pur da una
di quelle rime,[278] due personaggi fantastici, la Pietà e l'Amore.
Il consolatore, l'amico, il poeta, è messer Cino da Pistoia. La cui
_Canzone a Dante per la morte di Beatrice_, falsamente, e a cagione
d'un materiale equivoco, attribuita da alcuni al Guinicelli, tornò
a luce in questi giorni, emendata sui manoscritti, ornata di antichi
caratteri e di miniature, offerta dalle gentildonne fiorentine alla
prima gentildonna d'Italia.[279] Il nome augusto della nostra graziosa
Regina fregia degnamente questo documento poetico, nel quale le ragioni
della storia e della idealità amicamente si consertano.

L'«amoroso messer Cino»,[280] il poeta che divise con Guido Cavalcanti
e col fratello di Beatrice i più caldi sentimenti d'amicizia nel cuore
di Dante, si scusa con lui di non essersi prima d'ora rivolto a quei
due benigni iddii, la Pietà e l'Amore, che vengano a confortarlo.
Pensa tuttavia che egli è sempre nel lutto del cuore e dell'anima, per
l'andata in cielo di quella veramente beata gioia, come il nome stesso
diceva. Desidera rivederlo; nè sa quando. Intanto, finchè dura il suo
lutto, giungeranno sempre opportuni i conforti. E così, a dettatura
d'Amore, — Voi avete torto — lo ammonisce — ad accorarvi che dalla
miseria di questa vita Beatrice sia volata alla compiuta gioia del
cielo. Voi stesso avevate cantato che un Angelo l'aveva chiesta a
Dio, come la sola cosa bella che mancasse al paradiso: ed ora ella è
lassù, fra i Santi e le Virtù celesti, dinanzi alla suprema Salute,
alla Divinità. L'oggetto dell'amor vostro, quello nel quale la mente
e l'intelletto vostro si fissavano, ora lo avete nel regno celeste:
e i vostri spiriti affettivi Amore li indirizza lassù. Perchè dunque
dolervi? Confortatevi, rallegratevi nel cuore e nell'aspetto; perchè,
sebbene collocata da Dio in paradiso, ella è pur sempre con Voi. Ai
conforti che Amore vi porge, si aggiungono quelli della Pietà, la
quale vi scongiura che cessiate di piangere. Ascoltatela, deponete il
vostro lutto; pensate che il dolor disperato priva l'anima della grazia
di Dio; e che in tal modo Voi sareste crudele verso l'anima vostra,
e verso la speranza che questa ha di rivedere un giorno Beatrice nel
paradiso e riposare nelle braccia di lei. Dunque vi piaccia accogliere
speranza di conforto. E già fin d'ora Voi potete fissar gli occhi
nell'eterna beatitudine, dove dimora la vostra donna che fra i beati è
coronata: così la speranza vostra è in paradiso, l'innamoramento vostro
è santificato, contemplando l'anima di Beatrice fatta celeste! Or com'è
che il cuor vostro non si dà pace, avendo pure in sè medesimo dipinte
quelle beate sembianze? Beatrice è colassù la medesima meraviglia che
era nel mondo, anzi maggiore, perchè ivi è dalle intelligenze celesti
conosciuta compiutamente. E con quanta festa l'abbiano gli angeli
ricevuta, Voi medesimo, i cui spiriti fanno spesso quel viaggio, lo
avete riferito nelle vostre rime. Essa, parlando di Voi con gli spiriti
beati, ricorda le lodi di che l'avete onorata in vita; e prega il
Signore, che vi conforti, come ormai Voi stesso dovete desiderare.

Dante non dimenticò la Canzone di messer Cino: e fra le citate
dell'amico suo pistoiese nel libro di _Volgare Eloquenza_, è, col
primo suo verso, anche questa.[281] Le allusioni che essa sparsamente
contiene alle rime dell'Alighieri, possono più specialmente
riscontrarsi nella prima, nella seconda e nella ultima fra le Canzoni
della _Vita Nuova_.[282] Nè questo confronto può farsi senza pensare
altresì, che anche sulla tomba di Dante, e già prima su quella del loro
imperatore, dell'«alto Arrigo», la voce del fedele amico e compagno
di parte recò il tributo della poesia toscana.[283] Di Arrigo rapito
(così egli dolorosamente) «alle speranze degli esuli», cantò che aveva
raggiunto nel cielo la virtuosa sua moglie, Margherita di Brabante,
morta anch'essa in quella infelice spedizione italica. Per Dante, pregò
Dio che «lo ricoverasse nel grembo di Beatrice», e imprecò all'«iniqua
setta» che aveva arricchito Ravenna del tesoro che Firenze aveva
perduto.

Pochi anni appresso, uno de' primi e più autorevoli a commentare la
_Commedia_, l'Ottimo, ricordò la Canzone consolatoria di Cino a Dante
insieme con le Rime di questo in onore di Beatrice «in quanto ella
fu tra' mortali corporalmente».[284] Più tardi, i nomi dei due poeti
e delle loro donne congiungeva, nel gentil vincolo della idealità
amorosa, il Poeta dell'amore Francesco Petrarca:[285] «Ecco Dante e
Beatrice; ecco Selvaggia, ecco Cin da Pistoia»; appagando, in altro
modo, il desiderio, anzi il rammarico, di Cino, il quale avrebbe voluto
che nel paradiso dantesco la sua Selvaggia avesse avuto un seggio di
gloria accanto a Beatrice.[286]


VII.

Questi di messer Cino, poetici, non i romanzeggiati domesticamente
dal Boccaccio, furono i conforti che Dante ricevè per la morte della
«donna della sua mente». E se proprio li ricevè in mezzo a quel
giovanile traviamento, è da credere che non saranno stati senza
efficacia a risvegliare entro lui, nel nome di Beatrice, la coscienza
delle nobili e gentili idealità che egli veniva atteggiando a fantasmi
dell'«alta visione» d'oltretomba. Ma rispetto alla realtà delle cose,
come il poeta amatore di Selvaggia Vergiolesi bene avrebbe potuto
mandargli que' versi anche se già marito, anche se padre di alcuno
dei figliuoli che a lui dette madonna Margherita degli Ughi, così
il poeta amatore di Beatrice Portinari avrebbe potuto riceverli al
fianco di madonna Gemma Donati vegghiante a studio della culla, in
mezzo a' figliuoli che dovevano un giorno commentare il Poema del
padre. Così Guido Cavalcanti, dalle maremme del confino, mandava
l'ultima sua ballatetta,[287] «leggera e piana», di nascosto dalle
persone grossolane, «dritta alla donna sua», pur sapendo che a casa lo
aspettavano la moglie e i figliuoli (una Uberti, figlia di Farinata) e,
fra le braccia loro, la morte. E quando anche Dante fu, ma per sempre,
travolto nell'esilio, e per «primo strale di questo arco» senti il
dolore di «lasciar ogni cosa diletta più caramente»,[288] la moglie
rimase fida custode della casa vedovata, mentr'egli conduceva seco fra
le dure realtà della vita, le sue idealità affettive e intellettuali, e
superbo mistero dell'anima sua, il concetto del Poema divino.

In quel concetto regnava Beatrice. Vi regnava con altre ideali, ma ad
un tempo reali, imagini di donna: Rachele e Lia, Lucia, Nostra Donna,
imagini sante; imagini umane, Matelda e Beatrice. L'azione del Poema
dantesco incomincia dal compianto di quella Donna gentile e divina
e dalla pietà di Lucia, verso l'uomo perduto fra i triboli della
vita reale; e nel trionfo di Maria, e nella preghiera degli uomini a
Lei, per la bocca dei Santi, si conchiude. Nel mezzo di quest'azione
stanno le altre due figure Matelda e Beatrice; sovrana, Beatrice:
ambedue, ministre della grazia di Dio nella conversione di Dante, cioè
dell'uomo, dalle miserie dai mancamenti dalle colpe dalle fallacie
della vita attiva, alle sublimi e consolatrici verità dello spirito.
Dinanzi a Beatrice, trascorsi dieci anni dal 1290 luttuoso, e dopo
ch'ella è fatta celeste simbolo della maggiore altezza a cui possa
ascendere l'umano mediante la contemplazione del divino; dinanzi a
Beatrice, «gloria della gente umana»;[289] Dante si accusa con lacrime
delle sue infedeltà. Infedeltà alla donna poetica, anche alla donna
forse; infedeltà al simbolo: l'uno e l'altra in Beatrice inseparabili.
Ma quella donna ha un nome: e il nome di Beatrice Portinari non si
cancella ormai più nè dalla storia del suo secolo nè dalla poesia
perenne dell'umanità.

  _Firenze, nel giugno del 1890._


NOTE

[190] _Parad._ XVI, 121.

[191] Vedi _Il R. Arcispedale di S. Maria Nuova. I suoi benefattori.
Sue antiche memorie. XXIII giugno MDCCCLXXXVIII secentesimo
anniversario della fondazione_. Firenze, 1888, pag. 7-8.

[192] MARCHIONNE DI COPPO STEFANI, _Istoria fiorentina_; III, CLVIII.

[193] Vedi nel mio Commento alla _Cronica_ di DINO; I, XX, 14.

[194] Da me integralmente pubblicata fra i Documenti all'_Esilio di
Dante_; Firenze, Succ. Le Monnier, 1881. Vedi a pag. 138, «de domo de
Portinariis», e poco appresso «Dante Alleghierii», fra i proscritti «de
Sextu Porte Sancti Petri.»

[195] Vedi il cap. V del mio libro _Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII.
Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante_. Milano, Hoepli,
1899.

[196] _Parad._ XVI, 94-99.

[197] Questi e altri personaggi di quelli anni, puoi vedere ritratti,
come ho saputo meglio, in più d'una delle citate _Pagine di storia
fiorentina per la vita di Dante_.

[198] Dell'antico linguaggio nuziale fiorentino, vedi illustrazione
d'alquanti esempî in alcune pagine (I, 1103-1107) dell'altro mio libro
_Dino Compagni e la sua Cronica_.

[199] § XXV, secondo la comune divisione primamente introdotta da A.
TORRI. Le edizioni del WITTE (1876) e del CASINI (1885, 1891) l'hanno
in alcune parti modificata.

[200] § cit.

[201] Vedasi _Vita Nuova_ § V, e l'illustrazione di A. D'ANCONA
(edizione pisana del 1884) a quel §. Vedi anche M. SCHERILLO, _Alcune
fonti provenzali della_ Vita Nuova _di Dante_; Napoli, 1889: e l'VIII
e il X de' suoi _Capitoli della biografia di Dante_; Torino, Loescher,
1896.

[202] _Vita Nuova_, § IV.

[203] Vedi le illustrazioni del D'ANCONA al § VI della _Vita Nuova_.

[204] Per questa frase del tempo, vedi il cit. mio libro su _Dino
Compagni_, I, 420 e 337.

[205] _Purg_. xxx.

[206] Di questa sovrapposizione dell'ideale al reale, nella poesia
amorosa de' nostri antichi, è cenno — cenno, com'egli suole, di largo
gesto comprensivo — in una bella pagina di GINO CAPPONI (_Scritti editi
ed inediti_; Firenze, Barbèra, 1877; I, 141-142); e l'addurla qui, non
dissonante da' concetti miei, mi è sommamente caro e prezioso: «.... la
Giovanna di Guido Cavalcanti, o la Beatrice di Dante, o la Selvaggia
di Cino, o la Laura del Petrarca. Intorno ad esse noi disputiamo
lite impossibile a risolvere, fatti incapaci come noi siamo a insieme
congiungere e comprendere in un pensiero solo la forma terrena e una
ideale bellezza, e ad innalzare l'affetto senza attenuarlo, svanito
fuori d'ogni realtà, sì ch'esso divenga concetto sterile della mente.
Collocò Dante la Beatrice sua ne' più alti seggi del Paradiso, accanto
alle donne che sono a noi più venerande; dunque era donna la sua
Beatrice: ma ell'era insieme viva immagine di quell'idea per cui la
vista dell'alta bellezza diviene affetto pei sommi veri, idea che non
ha quaggiù riflesso di sè più degno che in un bel volto a cui s'affacci
una pura anima di fanciulla. Nel sommo cerchio del Paradiso un seggio
vuoto era per Arrigo, perchè dall'uomo in cui sperava, Dante saliva
a quell'idea che nell'ordine politico era la cima de' suoi concetti.
Questo continuo trapassare che facean gli animi più elevati dalle
sensibili alle astratte e di qui alle divine cose, fu la poesia di
quell'età».

[207] § II.

[208] _Vita di Dante_, § III.

[209] § II.

[210] § III.

[211] _Vita di Dante_, § III.

[212] _Comento sopra la Commedia_, lez. I.

[213] §§ II, III.

[214] §§ II, V, VII, XIV, XXII.

[215] Questo pensiero di IACOPO BURCKARDT fu svolto da RODOLFO RENIER
nel suo Studio critico, _La Vita Nuova e la Fiammetta_; Torino,
Loescher, 1879.

[216] Vedi a pag. 161-162 del mio libro _Dante ne' tempi di Dante_;
Bologna, Zanichelli, 1888.

[217] § IX.

[218] Vedi, nella edizione Hoepli di questo Studio, alcuni dei molti
esempî che ne offrono gli Atti consiliari fiorentini di quelli ultimi
anni del secolo XIII.

[219] § VII.

[220] § X.

[221] Vedine pure gli esempî nella cit. edizione Hoepli di questo Studio

[222] _Parad_. XV, 118-120.

[223] Vedi nel mio Comento alla _Cronica_ di DINO; I, XVI, 19.

[224] Vedine esempî nella cit. edizione Hoepli di questo Studio.

[225] § XIX.

[226] La interpetrazione, diciam così, militare di quel § IX della
_Vita Nuova_ fu proposta e tenuta dal Todeschini, dal Witte, dal
d'Ancona; ed io la rafforzai e determinai, anche contro le obiezioni
di altro autorevole dantista Tommaso Casini, nella edizione Hoepli di
questo Studio.

[227] Vedi a pag. 172 e 164 del libro poc'anzi citato, _Dante ne' tempi
di Dante_.

[228] F. T. PERRENS, _Histoire de Florence_; Paris, Hachette; II
(1871), 281 e segg.

[229] Dopo il 1288, e quasi d'anno in anno fino alla pace del 1293.
Vedi _Una famiglia di Guelfi pisani_ ec. nel cit. libro _Dante ne'
tempi di Dante_, pag. 273-286.

[230] Riferito da CICERONE nel _De officiis_ (III, I) e nel _De re
publica_ (I, XVII).

[231] _Parad_. XVI, 151-154, 110-111; _Inf_. XXXII.

[232] «... disparve questa mia imaginazione subitamente, per la
grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sè».

[233] §§ V, IX, X, XII.

[234] §§ VIII, XXII.

[235] § XXXII.

[236] §§ III, XXIV, XXV, XXX, XXXII.

[237] § VI.

[238] § XXXV.

[239] § XL.

[240] § XLII.

[241] Vedi il cap. VI della _Introduzione_ di FRANCESCO MACRÌ-LEONE
alla sua edizione della _Vita di Dante_ scritta da G. BOCCACCIO;
Firenze, Sansoni, 1888.

[242] Lezione VIII.

[243] «... ad legendum librum qui vulgariter appellatur _el Dante_, in
civitate Florentiae, omnibus audire volentibus.» Così nella petizione e
provvisione del 1373 per la lettura pubblica della _Divina Commedia_:
fra i _Documenti_ (pag. 163-169) al cit. Discorso _Dell'esilio di
Dante_.

[244] Indicherò, poco appresso (cfr. pag. 134), la fonte, cortesemente
dischiusami, di queste notizie attinenti ai Bardi. — Ciò che i biografi
del Boccaccio già sapevano da documenti, era che il padre di lui,
Boccaccio di Chellino, stava pei Bardi a Parigi nel 1332. Vedi V.
CRESCINI, _Contributo agli studi sul Boccaccio_; Torino, Loescher,
1887; pag. 10.

[245] _Parad_. VII, 14. E «monna Vanna e monna Bice» in due luoghi
(uno ora dubbio: vedi a pag. 95 di questo volume, nota 10) del
_Canzoniere_ dantesco: Sonetti, «Io mi sentii...» e «Guido, vorrei...»
Alla contrazione di «Beatrice» in «Bice» dovette pur conferire, che la
forma del nome intero, come attestano instrumenti notarili, era anche
«Biatrice» e «Bietrice».

[246] LUIGI ROCCA, _Del Commento di Pietro di Dante alla D. C.
contenuto nel codice Ashburnham 841_: nel _Giornale storico della
letteratura italiana_; vol. VII, an. IV (1886), pag. 366-385. Vedi poi
quanto sul Commento di Pietro lo stesso prof. Rocca ha scritto nel suo
libro (pag. 343 e segg.), _Di alcuni Commenti della D. C. composti nei
primi vent'anni dopo la morte di Dante_; Firenze, Sansoni, 1891.

[247] _Notizie istoriche delle Chiese fiorentine_; VIII, 229-233.

[248] § XXIX.

[249] Vedi uno _Studio_ di FERDINANDO GABOTTO: _Il marito di Beatrice_;
Bra, 1890.

[250] Nel _Dino Compagni_, dove pure detti le altre notizie intorno a
messer Simone: I, 68, 194; II, 114.

[251]

    Denuda, o vereconda, il casto petto;
      dischiudi, o bella, il tuo più santo riso:
      il pargoletto, affiso
      ne la tua vista, i novi affetti impari.

    O de le semplicette alme sovrana
      gentile, o pia de' cuori informatrice,
      la steril Beatrice
      ceda a te, fior d'ogni terrena cosa.
    Talamo e cuna è l'ara tua.....

_Poesie di_ GIOSUÈ CARDUCCI; Bologna, 1902; a pag. 305-306, _Le nozze_.
— Gentili versi, che in una delle scaramucce polemiche sul centenario
di Beatrice corsero su pe' giornali, insieme con alcune parole del
Poeta (vedile ora a pag. 402 del volume XII delle _Opere_, sotto
il titolo _Beata Beatrice_), fastidito che si volesse la Beatrice
simbolica «ridurla o tornarla alle proporzioncelle d'una sposina di
secent'anni fa», a rischio di «peccare contro Dante, contro il medio
evo, contro l'austerità toscana». E questo è sentimento di verità
storica. E verità morale e d'arte è, che «i grandi poeti s'ispirano
all'anima loro, alla patria, a Dio»; ed altresí, se vogliamo, che «non
che le Beatrici facciano loro, son loro che fanno le Beatrici». Ma a
tutto questo non ripugna, nè storicamehte nè idealmente, che si ammetta
un primo affisarsi di Dante in una donna gentile, nella Beatrice, la
quale egli idealizza e simbolizza a sè stesso, ma che non per questo
cessa di essere donna viva e reale:

    costei, cui donna il vulgo e Beatrice
    chiama il poeta.....

e che è la «dolce beatrice del mio pensiero» a Francesco Petrarca;
la «vera beatrice», la «mia beatrice», di poeti minori (vedi la voce
«beatrice» nella V.ª edizione del _Vocabolario degli Accademici della
Crusca_). Trovo poi un cinquecentista (MATTIO FRANZESI, in _Rime
burlesche_, II, 127) scongiurare il Molza «per le Beatrici»: e quel
plurale favorirebbe la impersonalità della ispirazione femminile
poetica: ma chi sa che sorta di beatrici, quei verseggiatori di curia
romana!

[252] Vedili, con la ricordanza di madonna Nente, nell'edizione Hoepli
di questo Studio.

[253] Vedi le cit. mie _Pagine di storia fiorentina per la vita di
Dante_, pag. 136, 148, 154.

[254] Vedi nelle Note all'edizione Hoepli di questo Studio.

[255] Vedi nelle cit. Note alla cit. edizione.

[256] _Cronica di messer_ DONATO VELLUTI; pag. 44-45 dell'ediz. Manni.

[257] Vedi nelle cit. Note.

[258] Così scrivevo nel 90. Ma un terzo _messer_ Simone, cugino del
messer Simone di Geri di Ricco, venne a farsi conoscere da ulteriori
ricerche sui Libri mercantili dei Bardi, per opera di D. LUIGI
RANDI (_Il marito e i figliuoli di Beatrice Portinari, Lettera al
prof. Isidoro Del Lungo_; nella _Rivista delle Biblioteche_, an.
IV, 1892, num. 37-38): un _messer_ Simone di Giuliano di Ricco, che
il Randi trova marito e padre, e lo vuole marito della Portinari.
Dopo l'accertamento di quest'altro _messere_, la mia ragionevole
esclusione del Simone _non messere_ non era più sufficiente a far
marito della Bice Portinari _messer_ Simone di Geri; bensì rimaneva
sempre, a mio avviso, che il «messer Simone di Geri» era, fra il Due
e il Trecento, quello a cui, chi dicesse allora «messer Simone de'
Bardi», doveva pensare: e di ciò si veda, nelle Note all'edizione
Hoepli di questo Studio, pag. 97-99. Se non che e all'egregio Randi
e a me (ristampando nel 91 dall'Hoepli ciò che avevo dato alla _Nuova
Antologia_ nell'anno centenario 1890) sfuggì una preziosa testimonianza
sul marito di Beatrice, che e il Bandi ed io potevamo aver raccolta
a pag. 57 del libro da LUIGI ROCCA pubblicato (cfr. qui nota 57)
nel 1891 sugli Antichi Commenti al Poema; in uno dei quali si legge:
«mona Biatrice figliuola che fu [di Folco] de' Portinari di Firenze,
e moglie che fue di [messere Simone] di Geri de' Bardi di Firenze». E
questa è testimonianza positiva, la quale come rende superflue le mie
argomentazioni, così invalida quelle del mio cortese contradittore.
Il Rocca stesso ha richiamato l'attenzione degli studiosi su quella
testimonianza, in una sua lettera a me (_Beatrice Portinari nei
Bardi_), pubblicata nel _Giornale dantesco_, fasc. di luglio-ottobre
1903. Al Randi mi professo poi grato per qualche rettificazione, della
quale non ho mancato di avvantaggiare la presente ristampa.

[259] § XXIX: «Io dico che, secondo l'usanza d'Arabia, l'anima sua
nobilissima si partì nella prima ora del nono giorno del mese: e
secondo l'usanza di Siria, ella si partì nel nono mese dell'anno
perchè il primo mese è ivi Tisrin, il quale è a noi ottobre: e secondo
l'usanza nostra, ella si partì in quello anno della nostra indizione,
cioè degli anni Domini, in cui il perfetto numero nove volte era
compiuto in quel centinaio nel quale in questo mondo ella fu posta;
ed ella fu dei cristiani del terzodecimo centinaio.» Sull'autentica
lezione «Arabia», non «Italia», di quel passo, e sulla interpetrazione
(aiutatami dal collega Fausto Lasinio) della dicitura concernente
il giorno del mese secondo il calendario arabico, vedi nelle Note
all'edizione Hoepli di questo Studio.

[260] Di questa elaborata interpetrazione del passo dantesco mi fece
dubitare il ch. dott. E. Moore (_Bullettino della Società dantesca
italiana_, Nuova Serie, Vol. II, 1895, pag. 57-58): cioè, se dal
computo arabico intendesse Dante prendere addirittura il giorno nove
di quel loro mese, com'io ho affermato; o semplicemente (come il Moore
crede, confrontando il testo dantesco a un capitolo dell'_Astronomia_
d'Alfragano) che Beatrice, morta la sera dell'8 giugno nostro a un'ora
di notte dovesse, secondo quel computo, considerarsi come morta il 9,
perchè gli Arabi incominciano il loro giorno dal tramonto del nostro
precedente. Vedi anche PAGET TOYNBEE, _Ricerche e Note dantesche_;
Bologna, Zanichelli, 1899: pag. 54-57. Nella interpetrazione integrale
del giorno e mese consentiva meco il Casini in ambedue le pregiate sue
edizioni (Sansoni, 1885 e 1891) della _Vita Nuova_.

[261] Vedi sopra, a pag. 112; e più addietro, a pag. 16: e una pagina
(1105) del mio libro _Dino Compagni_ ec.: e nelle note all'edizione
Hoepli (pag. 101) di questo Studio, lo stanziamento di lire duemila,
fatto dal Comune per procurare matrimonî di pubblico interesse fra
Tosinghi e Lamberti.

[262] Così scrissi parecchi anni fa (cfr. anche a pag. 75), e così ora
conferma _Un nuovo documento concernente Gemma Donati_ (pubblicato
da U. DORINI nel _Bullettino della Società dantesca italiana_, N.
S., IX, 1902, pag. 181-84), dal quale, nell'assegnarsi certo credito
«domine Gemme vidue, uxori olim Dantis Allagherii et filie quondam
domini Manetti domini Donati», risulta che la dote maritale, a cui era
inerente il detto credito, le era stata costituita il 9 di febbraio
(un altro 9 dantesco, ma questo tutt'altro che mistico) del 1277
[1276 s. f.], anno undecimo di Dante, e secondo la consuetudine,
massime allora, dei matrimonî, men che undicesimo certamente di lei.
S'intende bene che le nozze, in siffatti casi, si protraevano fino
alla maturità dei coniugi. Ma ciò non toglie che nei due personaggi
del romanzo psicologico di _Vita Nuova_ la realtà storica ci offra,
secondo ogni apparenza, in Beatrice una giovine sposa il cui matrimonio
ha suggellato interessi guelfi tra Bardi e Portinari; e in Dante un
giovine guelfo, al quale sin da' primi anni era destinata sposa, da
famiglia di «vicini» guelfi, una di quelle che, sotto tali auspicî di
parte, i genitori (cfr. qui a pag. 16) «maritavano nella culla.»

[263] Nei sonetti «Guido, vorrei...» e «Io mi sentii...». Ma ora
credo non si possa tener conto che del secondo, se nel primo, invece
di «monna Bice» sia da leggere «monna Lagia»: vedi lo scritto di M.
BARBI, qui cit. a pag. 95, nota 10.

[264] Tanto che, per esempio, dicevano, come più largamente rilevai
nelle note all'edizione Hoepli, «la Bice, poi monna Bice, figliuola di
Bindo, fu maritata a Nolfo....»

[265] Vedi qui a pag. 76 e 96.

[266] Vedi, di tutta la _Vita Nuova_, il sommario fattone con diligenza
e finezza squisita dal Casini appiè della citata sua edizione.

[267] §§ VIII, VII, IX, XXIII, XXXII, e gli altri che sono qui indicati
a pag. 128-129.

[268] §§ I, II, XXVIII, XXII.

[269] J. MICHELET, _La mer_, IV, VII: «Quand la divine Béatrix inspira
Dante, son père fonda l'hospice de Santa Maria Nuova».

[270] Una gentile cultrice del bello, la signora Carlotta Ferrari da
Lodi, che presedè alle onoranze centenarie a Beatrice (_vedi A Beatrice
Portinari il IX giugno MDCCCXC, sesto centenario della sua morte, le
donne italiane_; Firenze, Succ. Le Monnier, 1890: e _Commemorazione
di B. P., Discorso letto a Firenze in Palazzo Vecchio il 16 giugno
1890_, fasc. 9-12, an. IX, vol. XI, della Rivista _La Cultura_), espose
le ragioni del suo dissenso da questa mia opinione in uno scritto
_intorno a Dante, Beatrice, Gemma Donati e la donna gentile.... e
le cagioni determinatrici dei maritaggi di quel tempo_; Firenze,
Rassegna Nazionale, 1897. Serbai copia di ciò che io, ringraziandola,
rispondevo: «... Quanto Ella adduce intorno a quella distinzione, così
difficile a delinearsi, tra la Beatrice persona e la Beatrice idea,
tra l'amore di uomo a donna e quello che io chiamai amore per rima,
è pensato con gravità di riflessione e squisitezza di sentimento. Io
credo tuttavia che amor di poeta (dissi _per rima_, ripigliando il
linguaggio d'allora), anche scevro dalle contingenze della vita reale,
potesse, per ascensione da idealità ad idealità, pervenire sino alle
altezze della visione, e, quando il poeta era Dante, questa visione
essere la Divina Commedia. Ciò che delle contingenze reali mi danno
le storie di cotesta età, non so alterarmelo in grazia di nessuna
grandezza individuale: perchè gli uomini d'allora vivevano con tale
intensità, di amori di emulazioni di odî, la vita l'uno dell'altro,
che, in quanto uomini, non avrebbero saputo nè voluto, nè i grandi
per conscienza di sè appartarsi, nè i minori per reverenza di loro
ritrarsi, dal contrasto quotidiano delle comuni energie. Ora io
affermai che anche i matrimonî facevan parte di questo conserto, mi
lasci dire, di _cose_, al quale, in altra sfera, sorvolavan le _idee_:
nè altramente che così, l'una collocata in quel mondo reale, l'altra
sovrastante in quel mondo ideale, mi riesce figurarmi storicamente
la Donati e Beatrice, che Ella, signora, atteggia l'una accanto
all'altra, e, inevitabilmente, in mezzo ad esse, un po' dell'una e un
po' dell'altra, il Poeta: io dico invece, l'uomo dell'una e il poeta
dell'altra. È più duro, ma, credo, il solo vero....»

[271] Vedila da me illustrata a pag. 435-461 del cit. libro _Dante ne'
tempi di Dante_.

[272] _Purg_. XXIII, 115-117.

[273] È il quarto; a pag. 450-451 del cit. mio libro: dove vedi anche a
pag. 460-461.

[274] § XXVIII.

[275] § XXXI.

[276] § III.

[277] Cfr. pag. 119-120.

[278] Dalla prima delle Canzoni della _Vita Nuova_ «Donne ch'avete
intelletto d'amore». La Pietà e l'Amore personificati agiscono
anche nel Sonetto di Cino «Muoviti, Pïetate, e va' incarnata...», e
nell'altro «Deh com'sarebbe dolce compagnia...».

[279] _Canzone di messer Cino da Pistoia a Dante per la morte di
Beatrice. Riproduzione fototipica in CC esemplari del dono offerto a
S. M. la Regina d'Italia dalle gentildonne fiorentine nella primavera
del MDCCCXC sesto centenario. Testo riveduto sui manoscritti da_ I.
DEL LUNGO. _Illustrazioni e fregi in miniatura di_ N. LEONI. Firenze,
fototipia Ciardelli. — Riprodussi, con nuove cure, il testo della
Canzone di Cino fra i _Documenti_ all'edizione Hoepli del presente
Studio.

[280] PETRARCA, _Rime_, III, IX.

[281] II, VI.

[282] Furono da me, dopo altri, rilevate nella cit. riproduzione della
Canzone di Cino.

[283] Canzoni di Cino, _Per la morte di Arrigo imperatore_ e _Per la
morte di Dante Alighieri_.

[284] Commento dell'OTTIMO, II, 539-540: al _Purg_. XXX, 121-123.

[285] _Trionfo dell'Amore_; IV, 31.

[286] Sonetto di Cino: «Infra gli altri difetti del libello, Che mostra
Dante signor d'ogni rima...».

[287] «Perch'io non spero di tornar giammai, Ballatetta, in Toscana...»

[288] _Parad_. XVII, 55-57.

[289] _Purg_. XXXIII, 115. Come Virgilio «gloria de' Latini»; _Purg_.
VII, 16.



LA DONNA ISPIRATRICE

    Parole dette nella solenne distribuzione dei premî alle alunne
  del R. Istituto della SS. Annunziata di Firenze, il 9 settembre
  1883.


  _Signore e Signorine gentili_,

In quella pagina, che nelle _Confessioni_ d'Aurelio Agostino è
una delle più belle, dov'ei fa l'elogio della madre diletta, della
madre santa, che gli è morta, si legge com'ella guadagnò il marito
a Dio con la eloquenza dei costumi, e ne ottenne riverente amore e
ammirazione. Altrove, questa medesima madre ci è ritratta piangente
per la partenza del figliuolo, o per gli errori di lui: e dalle materne
lacrime riconosce egli stesso in gran parte la propria conversione, e
l'avviamento a quella che fu grandezza confermata dai secoli.[290] Il
costume e l'affetto: tale è invero la doppia potenza, con che la donna
è signora nella famiglia; quella è, nella storia umana, la parte che è
sua.

Nè, ciò affermando, si nega già alle facoltà intellettuali della
donna di potere non pur cooperare ma competere con le virili, nel dare
effetto a quelle opere ond'è attestata la porzione divina di nostra
natura. È anzi certo che la stessa delicatezza della fibra, tutt'altro
che menomare o svigorire quelle facoltà, le acuisce e quasi le snoda a
maggiore agevolezza e penetrazione: il che un antico nostro espresse
acconciamente, con dire che le donne «più acuto hanno l'intelletto e
più sùbito».[291] E il Parini, nell'Ode per laurea di donna:[292]

    E so ben che il tuo sesso,
    tra gli ufizi a noi cari e l'umil arte,
    puote inalzarsi, e ne le dotte carte
    immortalar sè stesso.

Ma nel mirabile ordine, con che le cose della natura tendono ai fini
disegnati dalla Provvidenza, coteste facoltà, che l'uomo rivolge al
conseguimento del vero, o all'utile applicazione dei dedotti principî,
o all'imitazione di esso secondo gli eterni ideali, la donna le
effonde nel sentimento, che è a lei scienza ed arte inconsapevoli.
Così all'uomo si appartiene di provvedere con fatica alle più gravi
e sostanziali necessità della vita domestica: alla donna, consolare
di amorose cure tale fatica, addolcirla, premiarla. Questo per legge
eterna, e contro ogni sorta di antiche o novelle utopie immutabile.
Le eccezioni luminose a cosiffatta legge si chiamano nella storia
d'Italia, alla quale mi giova restringer gli esempî, Caterina
Benincasa, Vittoria Colonna, Selvaggia Borghini, Maria Gaetana Agnesi,
Clotilde Tambroni, Maria Giuseppa Guacci, Caterina Franceschi Ferrucci:
nelle quali, ben si avverta, quanto maggiore l'altezza dell'ingegno,
tanto più strettamente vediamo custodirsi la gentilezza, la modestia,
la pietà femminili.


Che l'esercizio di questo suo ufficio nella famiglia e nella civil
comunanza, che il possesso di questa sua cara giurisdizione, li abbia
alla donna rivendicati e fatti sicuri il Cristianesimo, non fu mai
impugnato nemmeno da coloro, i quali rimpiansero, spesso anche con
generosi intendimenti, le virtù della società antica, fra le cui rovine
si aprì la strada il Vangelo: nè quelli stessi, pe' quali l'idea
cristiana segna regresso e servitù, oserebbero disconoscere questa
fra le altre sue benemerenze verso la umana libertà. Dove la civiltà
cristiana fu contrastata o deviata, ivi la donna è rimasta schiava:
ogni volta che nel mondo moderno le arti e le lettere, affascinate
dagli splendori immortali della classicità, hanno in una forma o in
un'altra paganeggiato, la donna ha disceso un gradino: ai dì nostri
medesimi, una certa arte, una certa letteratura, non cristiane,
sulla cui bandiera il Poeta d'Evangelina[293] leggerebbe qualche
cosa di simile a un _Più basso, Più in giù_, nulla forse hanno di più
caratteristico e di più essenziale, che la mancanza di rispetto alla
donna.


Pel costume, adunque, e per l'affetto, quali è venuta educandoli
quella civiltà che ormai da diciannove secoli governa gli umani
destini, pel costume e per l'affetto, la donna ha nel mondo signoria
sua propria; superiore di molto a quanta possano, e possono benissimo,
conquistargliene l'ingegno, gli studî, la partecipazione alle opere
virili. Pel costume e per l'affetto, la bellezza delle forme da fallace
prestigio addiviene suggello e specchio della interiore bontà, da
pericolosa attrattiva si muta in virtù salutare e benefica. E questa,
vi dicevo, com'è la vita vera della donna e di lei degna, così n'è
la storia reale e sua propria. Ma chi questa istoria racconta? chi ne
raccoglie i documenti? o meglio, i documenti dove si trovano essi?

Imperocchè non sono i fatti esteriori, non sono i nomi, non gesta
strepitose, non genealogie coronate, non tragici amori o ambizioni
o eroismi o delitti, le testimonianze di questa continua e segreta
azione, mediante la quale la donna asserisce efficacemente sè medesima.
Nella istoria palese e visibile ha essa pure la parte sua, commisurata
alla virile in proporzione delle respettive attitudini e condizioni.
Ma di cotesta, della storia che si racconta e si scrive, che negli
archivî si seppellisce e ne' libri si ravviva, la donna sarà sempre,
in confronto del suo compagno, operatrice più parca. Alla storia
delle battaglie e dei congressi, delle successioni e delle alleanze,
delle prepotenze e delle frodi, del sospetto e dell'odio, la donna
operatrice darà sempre, e mi pare che debba rimanerne contenta, scarso
e inadequato contributo. Se però de' fatti umani potesse scriversi
con eguale larghezza la storia interiore, se quella delle famiglie
connettere con la storia della nazione, se da ciò che la creatura umana
ha fatto si potesse sempre con sicurezza indurre ciò che ha pensato e
sentito; nel campo di questa istoria, tutta affettiva, tutta morale,
primeggerebbero, mie cortesi ascoltatrici, le vostre figure: la figura
della donna che ispira.


Non s'ispira solamente i poeti: nè gli occhi di Beatrice si volgono
solamente per muover Virgilio, nè solamente risplendono per sollevar
Dante di sfera in sfera nelle immensità del Paradiso. Tutto quanto
è cura affettuosa intorno a noi, ci è ispirazione al bene, conforto
all'operare, sprone verso l'alto: e delle cure affettuose siete voi,
madri, sorelle, spose, figliuole nostre, che avete il segreto. A
quell'aureola che nella poesia del medioevo italiano circonda la donna,
non tutti i raggi somministra l'«amor ch'a cor gentil ratto s'apprende»
e che «a nullo amato amar perdona»: molta di quella luce è senz'altro
dalla idealità femminile, da ciò che un altro grande Poeta ha chiamato
l'eterno Femmineo, e di cui gli aspetti sono ben più che uno solo.
Disputano oggi della personale realtà di quella nostra gentile che vi
ho nominata: dubitandosi, se veramente fu la figliuola del buon Folco
Portinari, a cui Dante pensasse narrando i melanconici amori della
sua giovinezza, ed effigiandola divina nell'azione del sacro Poema;
ovvero se alla Beatrice simbolica, quale nel Poema è di certo, manchi
la persona di donna viva e vera, che le porge quel soavissimo fra tutti
i libri, la _Vita Nuova_. Ma chi dimandasse piuttosto, se nella loro
Beatrice, qualunque ella fosse, giovinetta o donna, vicina o lontana,
per amichevole consuetudine di famiglie avvicinata o sospiratone pur il
suon della voce, invocata a compagna o in altro stato senza colpevole
desiderio ammirata; ma per ciò stesso, viva, innanzi tutto, e reale;
non raccogliessero forse que' nostri grandi e buoni maggiori il fiore
de' loro affetti verso la donna; degli affetti incerti e vaghi dell'età
prima, de' disinganni, delle memorie, de' pentimenti; degli affetti
raffermati e sanzionati nella famiglia, e dalle gioie del focolare
e della culla e dai lutti della bara consacrati per sempre; chi, pur
dubitando, dimandasse di ciò, parrebbe fantastico solamente a coloro,
che di quella vita, nella quale la pratica sapeva alla fantasia e al
cuore lasciare tanto e sì utile luogo; di quella età, i cui ultimi
simboli furono le statue di Michelangiolo pensose; giudicano coi
criteri della nostra, che ideale, oggimai non più soltanto della
critica, ma anche a un po' per volta dell'arte, andiamo costituendo, in
terreno arido e infecondo, il perchè e il percome.

La ispirazione ha segrete le vie, perchè sue sono quelle del cuore.
E quando, fanno ora poche settimane, in un giorno, come oggi questo
a Voi, di allegrezza ad altro egregio Istituto fiorentino, io sentivo
rileggere, con voce tremante d'affetto, ad una cara giovinetta lombarda
la ballata ultima di Guido Cavalcanti:

    Perch'io non spero di tornar giammai,
    ballatetta, in Toscana;

quel lamentevole addio alla patria, all'amore, alla vita; e pensavo
che moglie di quell'uomo era stata una figliuola di Farinata degli
Uberti, il ghibellino salvatore della guelfa Firenze; — sposa datagli
(e si chiamava Bice), fanciulli ancora ambedue, in un istante di tregua
alle cittadine fazioni, fra altri consimili parentadi sperati pegno di
futura concordia; madre poi a lui di figliuoli, fra le cui braccia e
della moglie potè, quasi appena tornato nella sua Firenze, morire in
pace; — pensando io tutto questo di Guido, mi pareva non indegno, me
lo perdonino i critici, che nell'antico amante di monna Vanna, quale
fu il nome della sua donna poetica allorchè e' piangeva in quei versi,
e li mandava alla «bella sua donna», la vena segreta e vera di tanta
tenerezza, di tanto accoramento, di tanta pietà, fosse piuttosto il
desiderio affannoso della patria insieme e della vedovata famiglia.


In queste ispirazioni il poeta sparisce, e rimane l'uomo; e all'uomo,
non al poeta, si rivolge la donna; ed ogni donna gentile è, e sola la
donna può essere, ispiratrice. Quando il Buonarroti, mortagli Vittoria
Colonna, scrive quelle parole che, così semplici, uscite da tale anima,
sono sublimi, «Mi voleva grandissimo bene, e io non meno a lei: Morte
mi tolse uno grande amico»,[294] il divino artista e la gentildonna
e poetessa, cantata unica dall'Ariosto,[295] ci paiono discendere
dalle loro altezze, e farsi eguali ai tanti altri che nel mondo amano
e soffrono, operano e muoiono. Ma per quelle parole, quanti versi
amorosi, massime di quel secolo, si potrebbero lietamente gittare!
saggio questi, più o men pregevole o curioso, d'arte, o troppo spesso
d'artifizio; documento umano quelle, a cui la qualità delle persone
accresce, ma non dà essa, il valore: nè tutte le figure retoriche di
que' petrarchisti valgono quell'una grammaticale di Michelangiolo,
«uno grande amico»; nè l'ardimento severo di questa figura saprebbero
mai intendere gl'insidiosi pedanti che vanno oggi teorizzando su ciò
ch'e' chiamano l'emancipazione della donna. Così le convulsioncelle
de' cosiddetti moderni bozzetti, e i fremiti e i sussulti e le
arroganti trivialità di certa che vorrebb' essere poesia d'amore,
non una sola valgono di quelle pagine di prosa toscana, dove l'altro
grande scultore, sulla cui tomba recente piange l'Italia, narra una di
quelle istorie non destinate agli annali del mondo, nelle quali umile
protagonista signoreggia la donna. La donna ispiratrice di Giovanni
Duprè[296] fu una povera popolana del nostro San Piero, propriamente
dell'antico sestiere dove aveano le case i Portinari, gli Alighieri, i
Donati.


Di tale opera della donna nella vita intima delle famiglie, delle
cittadinanze e delle nazioni; opera segreta, continua, universale, e a
cui questi stessi caratteri tolgono ch'ella abbia altra istoria fuor
della memore riconoscenza de' cuori bennati; conserva Firenze nostra
testimonianze in un libro e fors'anche in un palagio de' suoi più belli
e famosi. In fronte a quel libro, ben a ragione il valentuomo che lo
compose, rivendicando agli archivî l'ufficio di servire alla storia
anche del costume e dell'affetto, scrisse: «Alle donne italiane. Le
quali prego leggano questo volume col cuore». Ma nella più nobil parte
di quel palagio ben si addirebbe un ricordo di questa donna, che nel
cuore de' figliuoli esuli, e distratti dai venturosi commerci in città
e paesi diversi, tenne vivo con le sue lettere il desiderio della
città nativa; con fanciulle fiorentine procurò il loro accasamento;
con diligenza di padre, rimasta vedova ancor giovanissima, con senno
virile, ne curò gl'interessi, e le piccole e travagliate sostanze
custodì ad essere principio e base d'immensa fortuna; ne sollecitò
coi voti e con le pratiche la revocazione dall'esilio, la quale ella
chiedeva a Dio pel supremo conforto della sua vita; e ottenutala, morì
madre consolata, suocera e nonna felice. Diciotto anni appresso, nel
1489, il maggiore de' figliuoli, divenuto oramai uno de' più grandi
mercatanti di quel tempo, e cittadino in patria dei primi, gettava le
fondamenta del palagio che vi ho detto. Chi sa forse se ciò sarebbe
stato, senza quella buona pia vecchia che dormiva e dorme in pace
sotto le volte di Santa Maria Novella! Libro prezioso coteste sue
Lettere a' figliuoli,[297] scritte nella bella lingua che dal Trecento
i quattrocentisti non letterati seppero raccogliere tuttavia pura e
potente; prezioso per la sua schiettezza e originalità. Perchè, se
del Giornale di una madre, scritto proprio giorno per giorno da una
madre vera sui piccoli avvenimenti del suo figliolino, si rallegrava
il Tommaseo[298] come di cosa opportunissima alle sue fine osservazioni
di psicologia pedagogica, quanto più l'onorando uomo si compiacerebbe,
per altri rispetti, di questa raccolta, unica che si conosca, di vere
lettere materne! egli che fra i suoi ispiratori, accanto a Dante e a
Virgilio, poneva la madre![299] Lettere materne: e non di una madre
dotta o saccente, od anche soltanto osservatrice, ma di una buona
mamma, d'una brava massaia, e null'altro; non solamente non scritte per
essere pubblicate, ma da non poterlo nè essa nè i vissuti con essa,
in pieno secolo decimoquinto, creder possibile mai; non documento
di stile, ma di pensieri e di sentimenti, nudi d'ogni ancorachè
tenue involucro letterario, anzi abbelliti (che nessun letterato ci
senta!) da sgrammaticature efficaci; non componimento epistolare,
ma puramente e semplicemente lettere: nelle quali, per bocca della
gentildonna di Firenze ancora repubblicana, parla, come se noi proprio
lo udissimo sulle piazze e per le vie d'oggi, il popolo fiorentino di
quattrocent'anni fa. O giovinette, quelle tra Voi che rimarranno in
Firenze, quando passano dinanzi a quel maestoso palagio, non ammirino
solamente il Superbo cornicione, il cortile elegantissimo, architettati
dal Cronaca, non sole le semplici e grandiose linee disegnate dal
Maianese, e agli angoli le lumiere dell'ingegnoso Caparra; ma sia
bello a Voi, giovinette, pronunziare in quell'ammirazione il nome di
una madre, il nome di Alessandra Strozzi. E Voi che in altre regioni
d'Italia nostra diletta custodirete entro il pietoso e gentile animo
le ricordanze di questa, quando fra gli altri splendori della città di
Dante, vi risovvenga di quel monumento, anche Voi benedite a quel nome;
altere di esser donne, poichè alla donna Dio concesse di poter tanto,
se vuole.


Di ricordanze s'intesse, ogni giorno che passa, l'umana vita: le
quali v'ha chi le getta dietro le spalle, e campa alla giornata; ma
i migliori gelosamente le raccolgono, e ne fanno cibo all'anima che
anch'essa vuole il suo pane, e pel più eletto tesoro le trasmettono
a chi vien dopo. Risalire per le ricordanze ne' tempi che furono, e
con le anella de' fatti rannodare le tradizioni, è della storia il più
bello e più morale attributo, e il più educativo. Ed io, ritraendo a
Voi, giovinette, in questo luogo d'educazione, cose nostre antiche, tra
le quali la ragione de' miei studî più caramente mi trattiene; e dalla
storia domestica desumendo colori al concetto naturale delineatovi
della donna; ho creduto corrispondere nel modo che migliore potessi al
cortese ed onorevole invito di essere oggi il vostro oratore. Questo
è a voi giorno di grande allegrezza; perchè da un lieto presente
vi affacciate ad un avvenire, che pe' verginali animi vostri ha
l'attrattiva dell'ignoto. Nella mia parola suona, co' suoi memori
echi, il passato. O giovinette, avvezzatevi sin d'ora a ripensare, a
ricordare! I misteri, dei quali è pieno l'avvenire, si schiudono meno
improvvisi, men paurosi, a chi più avvisatamente li affronta: l'ora,
il momento, che ci sfuggono nell'atto che li viviamo, fanno sentir meno
rapida la loro fuga a chi non tutto in quelli si adagia. La meditazione
del passato ci frutta esperienza, c'infonde forza e rassegnazione, ci
fa giudici meno agli altri severi che a noi medesimi, ci raccomanda la
carità, c'insegna la gratitudine.


E della gratitudine, che vi farà memorabile questa casa stata per sì
dolci anni la vostra; dove Voi avete portato dal seno della famiglia
caste aspirazioni a verità, bontà, bellezza, e ne ritornate, speranza e
orgoglio dei vostri, adorne di utili cognizioni, di gentili discipline,
di virtuosi propositi; della riconoscenza, che oggi più che mai sentite
obbligarvi ai valorosi insegnanti, alle savie ed amorevoli educatrici,
ai gentiluomini egregi che il Governo del Re deputò alla direzione di
questo celebre Istituto; una parte, ahimè, di cotesta gratitudine è
dovuta oggi a una tomba!

Un posto nella odierna solennità rimane qui vuoto: ed è quello che per
ventun anno ha tenuto onoratamente, come tanti altri ufficî in servigio
e decoro del suo paese, il commendatore Giuseppe Pelli Fabbroni.
Uomo di quella generazione che accolse ed alimentò le speranze del
nostro risorgimento, combattè per esso a Curtatone (balzano i cuori
a questo ricordo di gloria italiana) e vi fu gravemente ferito. Alla
operosità, al fervore pel pubblico bene, non conobbe confini; e parve
moltiplicarsi, per sopperire agl'incarichi che la pubblica fiducia
non si stancò di commettergli. Fra i più cari ebbe questo: e al
miglioramento delle norme e degli ordini onde gli studî e l'educazione
vostra sono regolati, attese indefesso: nè solamente con lo zelo ch'e'
poneva in tutte le cose di dovere, ma con l'affetto scrupoloso d'un
ottimo padre di famiglia.

Come a padre Voi ripenserete a lui, come benefattore lo ricorderete:
e in tale sentimento, e nei somiglianti a questo, la vostra anima si
conserverà quale gli educatori e i parenti vostri augurano e sperano
che sempre si mantenga: buona e serena. Per siffatto modo, il bene
frutta e perpetua il bene: perchè la voce amorevole di chi ci ha
indirizzato a virtù, séguita, pur che noi prestiamo intento l'orecchio,
a parlarci dal mondo eterno, e ci accompagna per le vie e fra gli
ostacoli di questo, confortatrice fedele.


NOTE

[290] _Le Confessioni di_ SANTO AURELIO AGOSTINO _volgarizzate dal
canonico_ ENRICO BINDI; Firenze, Barbèra, 1869.

Libro IX, cap. IX: «.... allevata nel pudore e nella sobrietà, e fatta
da te, o Signore, docile a' genitori, piuttosto che da essi docile a
te, come prima fu in età da ciò andossi a marito, al quale servì come
a signore, e si studiò di guadagnarlosi coll'eloquenza de' costumi
onde tu la facesti bella, e le cattivasti dal marito amore riverente e
ammirazione.»

V, VIII: «.... dolorosamente pianse la mia partenza, e mi venne dietro
infino al mare.... E che cosa ti chiedeva ella, mio Dio, con tante
lacrime, se non che tu non permettessi la mia partenza?...»

III, XI: «E tu stendesti la tua mano dall'alto, e cavasti fuori l'anima
mia della profonda caligine, mentre per amor mio piangeva dinanzi a te
la madre mia, tua serva fedele, più che non piangano le altre madri
la morte corporea de' loro figliuoli. Conciossiachè per la fede e lo
spirito che le infondevi, ella vedeva la mia morte; e la esaudisti,
o Signore. Tu la esaudisti, nè avesti a schifo le lacrime di lei,
allorchè sgorgando bagnavano la terra sotto ai suoi occhi, dovunque
ella si mettesse a pregare; tu la esaudisti....

«.... corsero un nove anni ne' quali seguitai a voltolarmi in quel
fondo fangoso e in quel buio d'errore, provandomi spesso a levarmi
su, e ricadendo più sconciamente: mentre frattanto quella casta, santa
e mortificata vedova (come le vuoi tu), facendosi sempre di più viva
speranza, ma non però men pronta al gemito e a' sospiri, non finiva mai
nelle continue orazioni di piangermi dinanzi a te, e le preghiere di
lei salivano nel tuo cospetto....».

[291] F. SACCHETTI, _Nov._ CLXXIX.

[292] _Ode VIII, La laurea._ A Pellegrina Amoretti d'Oneglia, laureata
in ambe le leggi nell'Università di Pavia l'anno 1777.

[293] E di _Excelsior_, E. W. Longfellow.

[294] _Le lettere di Michelangelo Buonarroti ecc. per cura di_ GAETANO
MILANESI; Firenze, Succ. Le Monnier, 1875.

[295] _Orlando furioso_, XXXVII, 15-21.

[296] _Pensieri sull'arte e Ricordi autobiografici di_ GIOVANNI DUPRÈ;
Firenze, Succ. Le Monnier: vedi i capitoli III e IV, e poi tante altre
care pagine dov'è ricordata la sua Mariina.

[297] ALESSANDRA MACINGHI NEGLI STROZZI. _Lettere di una gentildonna
fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli, pubblicate da_ CESARE
GUASTI. Firenze, Sansoni, 1877.

[298] _Giornale scritto da una madre_; a pag. 198-213 del volume _La
donna_; Milano, Agnelli, 1868.

[299] «S'io dovessi a pochi ridurre il principal merito
degl'insegnamenti che Iddio mi diede, e ch'io non ben seppi mettere
a profitto, nominerei mia madre, Virgilio, Dante, e il popolo di
Toscana». Dalle _Memorie poetiche_, a pag. 488 di _Ispirazione e Arte,
Studi di_ NICCOLÒ TOMMASEO; Firenze, Le Monnier, 1858.



NEL RINASCIMENTO E NEGLI ULTIMI ANNI DELLA LIBERTÀ

    Alla _Società fiorentina di pubbliche letture_ il 28 aprile, e
  per le _Scuole del Popolo di Firenze_ il 26 maggio, del 1892.

    Vedi l'avvertimento a pag. 2.


I.

Pel San Giovanni del 1473, al consueto festeggiar cittadino si
aggiungeva la solennità del ricevimento fatto, come la Repubblica
artigiana soleva e i Medici favorivano, con principesca magnificenza
a Eleonora d'Aragona figliuola del Re di Napoli, la quale andava
sposa ad Ercole d'Este, duca di Ferrara e di Modena.[300] Entrata in
Firenze il 22 giugno, ella trovava nel suo massimo sfoggio la mostra
che delle proprie ricchezze avevano apparecchiata le botteghe dei
mercatanti; assistè alla processione delle Compagnie co' fanciulli
vestiti di bianco in forma di «agnoletti»; vide i «dificî» o macchine
fantasmagoriche, che in sulla Piazza della Signoria rappresentavano
Storie dell'Antico Testamento e del Nuovo; vide l'offerta che al
tempio del Santo Patrono portavano la Signoria e gli altri magistrati
del Comune e delle Arti, le Compagnie del Popolo coi gonfaloni,
Parte Guelfa, e poi i Signori e Comuni sottoposti o raccomandati,
recanti palii, ossia drappi, di gran pregio e bellezza e grandi ceri
istoriati e fioriti; e con l'olivo in mano l'offerta de' prigioni e
de' condannati (quella a cui Dante non si sottomesse); e finalmente,
nel pomeriggio del dì 24, i barberi, già prima offerti ancor essi, che
correvano il palio di San Giovanni, un palio ricchissimo di broccato
d'oro, dal Prato su per la Vigna pel Mercato e pel Corso verso Porta
alla Croce, tal quale noi che non siam più giovani possiamo ricordarci
d'aver veduto. Ma nessun di noi potrebbe da' ricordi suoi giovanili
evocare ciò che nel 1473 fu dato a godere, in quelle feste, a madonna
Eleonora: un ballo là, su que' prati donde i barberi pigliavano le
mosse, un ballo alla dolce aria profumata de' giardini e delle loggie,
in uno de' palagi, quello de' Lenzi, dov'è oggi la Galleria Pisani,
che fronteggiavano coteste estreme parti della città, la Vaga Loggia,
verdeggianti lungo le rive dell'Arno. Tacciono di quel ballo i diarî:
sulle cui aride pagine, a ogni modo, voi cerchereste inutilmente,
Signore gentili, descriversi dal giornalista di quattro secoli fa gli
abbigliamenti delle vostre antenate; e sotto quali colori d'abito e
con qual dottrina di linee, presentassero esse al desiderio de' loro
innamorati quelle bellezze, che all'ammirazione nostra sopravvivono
nelle tavole del Botticelli e negli affreschi del Ghirlandaio. Un ballo
fiorentino de' tempi del Rinascimento; non dominato e quasi sopraffatto
dallo scintillio de' doppieri, ma lumeggiato soavemente dal sole che
di là dal Pignone tramonta; nè turbinato fra le vorticose battute
orchestrali, ma sposato, sulle corde flebilmente amorose del liuto
e della viuola, alle gentili baldanze ottonarie della Canzonetta che
appunto dal Ballo s'intitola; meritava cronista un poeta. Permettetemi
ch'io vi traduca dal latino di Angelo Poliziano quel Corriere del mondo
elegante d'allora: distici levigatissimi, dove le realtà della vita
s'intrecciano con le concezioni dell'arte, il vero col fantastico, il
fiorentino il cristiano con la classica paganità; circola l'aria che
respiravano i letterati nella Firenze del magnifico Lorenzo.[301]

«Apollo con la rosea faccia ha menato il giorno che riconduce la festa
del selvaggio Batista San Giovanni; quando alla città che fu colonia
di Silla ferma le candide vestigia, per riposarsi dal lungo cammino,
la figlia del Re, che, lasciata la città delle Sirene, va sposa ad
Ercole. Festeggiano a gara il suo arrivo fanciulli, giovani e vecchi,
e le matrone e splendide di fresca bellezza le spose: tutta la città
si anima, d'ognidove rumoreggia l'allegria. V'è una strada che i
Sillani» (i Fiorentini, parafrasati in latino) «chiamano Pantagia,»
(Borgognissanti, ribattezzato in greco) «dove sorge splendido un tempio
dedicato a tutti i celesti. Colà s'inalza superbo il palagio de' Lenzi:
ivi presso ride la verde distesa de' prati, e de' colori primaverili
si dipinge fiorito il terreno. Quivi, mentre i corsieri scalpitanti
aspettano, in sulle mosse, il canoro segnale della tromba Tirrena, la
regal fanciulla si abbandona ai sollazzi delicati della danza; ed ecco
atteggiarsi le gentili donne al tempo misurato e all'intreccio de'
balli. Innanzi alle altre ninfe risplende Albiera bellissima, e di sua
bellezza sparge a sè dintorno il tremulo splendore. Mossi dal vento
diffondonsi i capelli sulle candide spalle, i neri occhi raggiano di
luce soave: pare, fra le sue compagne, la stella del mattino, il cui
rossore purpureo vince gli astri minori. Giovani e vecchi ammirano
Albiera: sarebbe di ferro chi non si commovesse a quella verginale
bellezza: lietamente, plaudendo, col cenno, con gli sguardi, con la
voce, tutti lodano Albiera.»

Albiera di Maso degli Albizzi era una giovinetta fra i quindici e i
sedici anni, fidanzata a Gismondo della Stufa. S'ammalò, subito dopo
quel ballo, e in capo a pochi giorni morì. «Ahi povera Albiera!»
sentite ancora il suo poeta: «così giovinetta, rubata ai genitori, allo
sposo! Va' ora, e confida nelle umane fortune! Ecco disfatte da morte
crudele, o Albiera, le tue bellezze: disfatto il tuo viso di gigli e
rose; i tuoi occhi gioiali, dove Amore accendeva le sue fiaccole; i
capelli, che o scioglievi abbondanti, e parevi Diana cacciatrice, o
raccoglievi in diadema d'oro, ed era l'acconciatura di Citerea: gli
Amorini, le carezzevoli Grazie, ti facevano bella, senza che tu il
sapessi: ogni virtù ti adornava, modestia e serietà di contegno, senno,
pudore, lealtà, gioialità, bel costume, bel tratto, schiettezza: tutto
ormai divenuto un pugno di cenere!»

In altre parti della elegia lunghissima è mitologizzata la malattia
e la morte d'Albiera. La sua bellezza ha attirato il bieco sguardo
di Nemesi, la dea che con misteriosi decreti governa le umane
vicende. Ritirasi la giovinetta alle sue case, finito il ballo, in
sull'annottare; nell'ora, o Signore, nella quale a voi, pe' balli
vostri, cominciano appena le operazioni della toeletta. E coricata
ch'ella è, si appressa al suo letto la Febbre, nume orribile, del
quale e del suo corteggio vi risparmio la descrizione, e che Nemesi ha
sospinto verso quella povera casa. I genitori, i fratelli, lo sposo,
pendono per dieci giorni ansiosi dal viso dell'inferma, pallido e
trasfigurito. Ella dà gli estremi addii a que' suoi cari e alla vita,
che, incominciatale appena, sente sfuggirle; e muore fra il pianto
disperato della sua casa. Il lutto e la pietà de' cittadini circondano
il corpo inanimato. La morte ha ricomposto il suo volto a pace soave:
pare che dorma. La «ninfa», vittima della dea Nemesi e della dea
Febbre, ha esequie cristiane; e il distico ovidiano di messer Angelo
colorisce anche quelle. Ecco il trasporto; ecco con la nera coltre
la bara: ella distesavi su, coi capelli recisi, e in capo una umile
ghirlanda. Le salmeggiano intorno i preti; le campane suonano a morto:
segue, in veste di lutto, la cittadinanza; fra quella, lo sposo,
che tutti si mostrano a dito, compassionando. La chiesa di San Pier
Maggiore arde di ceri, è profumata d'incensi: si fa l'assoluzione e
la benedizione: e le tombe degli Albizzi, in quella stessa chiesa, si
aprono a ricevere la giovine fidanzata; forse, come si soleva, in abito
di monacella: il che non dice il Poeta; ma que' capelli tagliati ce ne
danno, a mio avviso, argomento più che probabile.

La musa latina dell'umanismo fiorentino consacrò, non con la sola
elegia e con altri minori epicedî del Poliziano,[302] il nome
d'Albiera: elegiaci e ricordanze su quella morte e quei funerali
abbondano,[303] in copia anche maggiore che pei funerali della bella
Simonetta, morta soli due anni dopo la fanciulla degli Albizzi. Ma alla
Simonetta Cattaneo, genovese, venuta nel 69 sedicenne sposa in Firenze
a Marco Vespucci pur sedicenne,[304] e mancata di mal sottile nel 76,
l'arte dette anche in altre forme gli onori dell'apoteosi. E mentre
delle fattezze verginali di Albiera non ci è rimasta testimonianza
(salvo se qualche benemerito investigatore riuscisse a trovare il busto
marmoreo nel quale sappiamo dal Poliziano[305] averla fatta rivivere
lo sposo), per la Simonetta, invece, si è impacciati a scegliere
fra più d'uno il ritratto vero: o vuoi quello che è nella Galleria
de' Pitti, attribuito a Sandro Botticelli, di una bionda delicata,
dal collo assai lungo, dal viso intento e gentilmente pensoso, in
acconciatura modesta e casalinga, da riferirsi piuttosto a un mezzo
secolo innanzi; — o vuoi l'altro, sotto il quale è stato apposto il
nome di lei («Simonetta Ianuensis Vespuccia»), e che si conserva in
Francia nella galleria di Chantilly, creduto del Pollaiuolo o di Piero
di Cosimo, ed è essa pure una figurina delicata e gentile, ma di gaia
e vivace bellezza, nudi il collo (anche di questa assai lungo) e il
seno e le spalle, i capelli tirati all'indietro e avvolti in giri
artificiosi con grande intrecciamento di perle e pietre, e pendente
sul petto un monile intorno al quale si rigira un aspide; — o invece
uno, di tutt'altra conformazione ed espressione, figura massiccia e
baldanzosa, che nel Museo di Berlino vorrebbe pur essere «la bella
Simonetta» del Botticelli; — o che dovessimo ravvisarla in una delle
figure allegoriche di quella misteriosa Primavera, guidati da certi
singolari riscontri che la composizione del fantasioso maestro offre
con le _Stanze_ del Poliziano, dove è ritratta e designata per nome
(pur nell'atto di trasfigurarla in Ninfa delle più autentiche), e
poeteggiata, con buona pace del marito Vespucci, come innamoratrice
di Giuliano de' Medici, appunto la Simonetta Cattaneo; — o che
infine, come par più probabile, la poetica coppia si sia trafugata
nell'altro botticelliano, mal denominato «Venere e Marte», della
Galleria di Londra, la cui figura femminile ricorda un'altra bella
«ignota», del Museo di Francoforte, che sarebbe ancor essa, pur di
mano di Sandro, la Simonetta.[306] Or qualunque di queste femminili
figurazioni si fosse la giovane sposa, certamente bellissima, che
nell'aprile del 76 moriva, basti a noi, pur lasciando d'altri suoi
celebratori in latino e questa volta anche in volgare,[307] che il
Poliziano facesse di lei la mitologica eroina delle sue _Stanze_;[308]
che per la morte sua scrivesse pure epigrammi funebri, d'alcuno de'
quali il magnifico Giuliano de' Medici, il bel «Iulio» delle _Stanze_,
proponeva il concetto;[309] e che Lorenzo, a sua volta (il che mostra
del tutto ideale e poetico il culto dei due fratelli alle bellezze
della Vespucci), tragga, o finga d'aver tratto, dalla morte di lei
il motivo a platonizzare poeticamente sull'anima ritornata alle
stelle.[310] Lorenzo era a Pisa, e dai Vespucci medesimi riceveva di
giorno in giorno le dolorose notizie.[311] Morta, un suo familiare
gli scriveva:[312] «La benedetta anima della Simonetta se ne andò a
paradiso come avrete inteso. Puossi ben dire, che sia stato il secondo
Trionfo della Morte: chè veramente, avendola voi vista così morta come
la era, non vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fosse in vita.
_Requiescat in pace._» E Lorenzo, essendo (così ci racconta) una serena
nottata primaverile, e andando con un amico a diporto, e parlando di
quella morta, si affisa a un tratto in una stella che mai non gli par
d'avere veduta così lucente, e «L'anima di quella gentilissima» esclama
«o è trasformata in questa nuova stella, o si è congiunta con essa»;
e un'altra volta, pure in cotesta primavera, passeggiando per una
delle sue splendide ville, osserva il girasole, anzi Clizia, l'antica
innamorata del Sole, «la sera restar col viso volto verso l'orizzonte
occidentale, che è quello che le ha tolto la visione del sole, insino
che la mattina il sole la rivolge all'oriente»; e ci vede una immagine
del nostro destino quando perdiamo chi si ama, che è di rimanere «col
pensiero rivolto all'ultima impressione» della «visione» perduta; ma
l'orizzonte nostro occidentale, donde il tramonto non ha ritorno, è la
morte.

È, del resto, notabile come in que' tempi che tante erano, e così
vigorosamente svolte, e così spesso violente, le energie della vita,
la morte circondasse di tanta poesia, sebbene caricata di tanta oziosa
mitologia, agli occhi e al cuore di cotesti uomini l'ideale femminile:
notabile come quei travestimenti di donne viventi in ninfe posticcie,
pe' quali l'imitazione artistica del vero perdeva miseramente
tanto tesoro di realtà, si arrestassero, cotesti travestimenti, o
s'impacciassero dinanzi alla santità delle tombe; quando, secondo la
figurazione polizianesca della morte della Simonetta,[313] l'amante, o
il poeta,

    vedea sua ninfa, in trista nube avvolta,
    dagli occhi crudelmente essergli tolta.

In uno degli epigrammi funebri di messer Angelo per la Simonetta, e
proprio in quello a cui dette il concetto Giuliano de' Medici,[314]
«tranquilla in sul punto di morte, si volge, la ninfa, a Dio, in lui
confidando»; curiosa ninfa, a dir vero, che si raccomanda l'anima:
come singolar mortorio, altresì, quello che portava verso la chiesa
d'Ognissanti, alla cappella de' Vespucci, la Simonetta, se intanto,
strada facendo, Amore, proprio il figliuolo di Venere piovuto non si sa
come in quell'accompagnamento, saettava tuttavia, standocene a un altro
di cotesti epigrammi,[315] saettava da' chiusi occhi di lei pur col
ricordo del loro splendore.

Meglio ispirato il Poeta mediceo faceva da un'altra tomba di sposa
ventenne (cominciammo da un ballo, o Signore, e ci siam persi fra le
tombe; ma il geniale argomento, ancorachè caduto, come vedete, nelle
mani d'un conversamorti, ci ricondurrà, vi prometto, alle gioie e ai
travagli della vita), da un'altra tomba di giovine sposa minor sorella
dell'Albiera, e ancor essa bellissima, Giovanna degli Albizzi moglie
a Lorenzo Tornabuoni, morta nel dare alla luce il secondo figliuolo,
faceva il Poliziano uscire la voce di lei, così:[316] «Gentilezza di
sangue, bellezza, un figliuolo, ricchezze, amor coniugale, ingegno,
costume, animo, mi facevan felice: felicità, che la Parca perfida, a
viepiù inacerbirmi la morte, mi addimostrò piuttosto che darmi.» Ma
buona e pietosa forse possiamo noi oggi dire la Parca, che risparmiò
a Giovanna di vedere soli nov'anni appresso, nel 97, ne' tempi del
Terrore Piagnone, decapitato a ventinove anni il suo Lorenzo come
cospiratore mediceo.[317] Memorie d'infinita pietà a chi guardi,
sulle medaglie coniate in onore di lei, le sue forme gentili, e ne'
rovesci simboleggiate le sue virtù, o con le tre Grazie, scrittovi
intorno Castità Bellezza Amore, o con la figura virgiliana della
ninfa cacciatrice;[318] a chi nella cappella che fu de' Tornabuoni,
in Santa Maria Novella, la riconosce, nei meravigliosi affreschi di
Domenico Ghirlandaio, in quella bionda giovanissima gentildonna, che
riccamente vestita di broccato d'oro campeggia nella storia della
Visitazione;[319] a chi potesse pur di Giovanna rivedere un altro
ritratto, della stessa mano del Ghirlandaio, che col nome della
madonna Laura petrarchesca da un palagio fiorentino trasmigrò ad altri
lidi;[320] o a chi rimpianga certi preziosi affreschi, che in una
villa suburbana del pian di Mugnone tornarono, pochi anni or sono, alla
luce, solamente per esser divelti e travalicati e (sento dire) sciupati
oltralpe.[321] Quanta gentilezza del Rinascimento fiorentino dovette
accogliersi fra le pareti di quella villa che nei Tornabuoni rimase dal
1469 al 1541, e fu dunque villa di Giovanni Tornabuoni, quando questi
e in Firenze e in Roma, quasi ambedue egualmente medicee, era forse
il principale agente della fortuna sì mercantile e sì politica della
poderosa famiglia; quando ei faceva nel 1490 scoprire quella magnifica
sua cappella, e ci faceva scrivere dal Poliziano la data, «anno 1490,
nel quale la città bellissima, nobile per ricchezze, vittorie, arti,
edificî, godeva di abbondanza, di salute, di pace»;[322] quando nel
giugno dell'86 le nozze del suo Lorenzo con la bella Giovanna, da
Lorenzo stesso dei Medici conciliate, erano festa non pur domestica
ma cittadina.[323] Veniva la sposa a Santa Maria del Fiore, in
mezzo a un corteo di cento fanciulle delle maggiori famiglie, e di
quindici giovinetti vestiti d'un'assisa: assistevano al darsi l'anello
cavalieri così cittadini come di fuori, e un ambasciatore di Spagna
al Pontefice. Un Guicciardini e un Castellani accompagnavano la sposa
alle case de' Tornabuoni, presso alle quali la piazza di San Michele
Berteldi (oggi piazza San Gaetano) era «messa a palco» per uso di
festeggiamento e di ballo: e di là tornati gli sposi alle case degli
Albizzi, s'imbandiva suntuosamente la cena, essendo messo il terreno
del palagio egualmente a palco pel ballo, che a lume di doppieri si
alternava, durante l'intera notte, co' virili giuochi d'una sfarzosa
armeggeria. Più riposate dolcezze offriva ai giovani sposi la villa.
Qui viene ad essi il Poliziano, tenerissimo del giovine Lorenzo fin
quasi a ieri suo valente discepolo; il Poliziano[324] che con affetto
quasi paterno si compiace d'ogni suo trionfo, così nelle lettere
classiche, specialmente greche (delle quali spera che toccherà presto
la cima); come nel poetar volgare, magari anche all'improvviso; come
nelle giostre della piazza di Santa Croce: viene l'umanista dottissimo
a intertenersi de' cari studî, a leggere que' suoi stupendi poemetti
latini le _Selve_, una delle quali l'_Ambra_, d'argomento omerico
insieme e mediceo, è dovuta a te (scrive dedicandogliela) per l'un
titolo e l'altro: viene a esaminare e interpretare le antiche medaglie,
della cui raccolta in casa Medici il numismatico erudito e diligente è
appunto Lorenzo Tornabuoni: al quale, e al maestro suo, chi dubiterebbe
(certi di ciò) d'attribuire, con altre, le medaglie fatte eseguire
in onore della sposa diletta? Ma il vecchio Tornabuoni, che guarda
con occhio d'immenso affetto que' giovani capi, ahimè destinati sì
da presso alla morte, non pago che il Ghirlandaio li ritragga nelle
mirabili storie della cappella, in un'altra di quelle meraviglie
dell'arte li vuole, sulle mura di quella stessa sua villa, per mano
del Botticelli, consacrati alla ricordanza de' secoli. «Dipignetemi, o
maestro, questa sala a buon fresco; e il Poliziano nostro, qui, darà,
come suole, il concetto d'alcuna di quelle esquisite allegorie nelle
quali sì fieramente vi compiacete». E il Botticelli, in due storie
sulla medesima parete della sala, come sulla medesima parete della
cappella in due separate storie il Ghirlandaio, ritraeva i giovani
sposi. Nell'una, il cui fondo è una selva assai folta, — che ricorda
quello dell'altra allegoria di Sandro polizianesca, la Primavera, —
Lorenzo Tornabuoni, vestito dell'abito civile fiorentino, con la folta
e morbida capigliatura distesa, si avanza, condotto per mano da una
donna di modesto e gentil portamento, verso un circolo di altre sette
donne, acconciate (come anche l'introduttrice) fantasticamente, e
che pe' varî emblemi di che ciascuna d'esse è fornita, simboleggiano
certamente le sette Arti liberali; delle quali quella che alle altre
sovrasta e par che presegga, fa a lui cenno di accoglienza amorevole.
Nell'altra storia, Giovanna, cara figura delle più vivamente lumeggiate
di verità bella che siano uscite da pennello di quattrocentista, con
un viso che dice davvero quelle virtù che leggemmo scritte sul suo
sepolcro, atteggiata a semplicità affabile e graziosa, porge con ambe
le mani e le braccia protese un pannolino spiegato, nel quale quattro
gentili giovinette, che si avvicinano a lei, sono per deporre fiori. E
anche questa volta, vestita del costume fiorentino del tempo la persona
della sposa; ma a fantasia le quattro che probabilmente son figurate
per virtù proprie di lei. Ai piedi respettivamente sì dello sposo e sì
della sposa, un bambino, che regge uno stemma: soave augurio nuziale
all'avvenire della famiglia.


II.

In tali imagini il sentimento e l'arte, che da questo s'informa,
effigiavano, mentre fioriva l'umanismo mediceo, la donna. Alla
quale, nelle realtà della vita e dell'esser suo, sola, io credo, di
tali omaggi era accessibile e gustata e compresa quella parte che
prendeva consistenza in figure consacrate dalla religione, sotto le
volte maestose delle chiese d'Arnolfo e di Brunellesco, piovente la
luce misteriosa, per le grandi bifore da' vetri colorati in istorie,
sugli affreschi e le tavole di Masaccio e di Benozzo, de' Lippi e de'
Ghirlandai, d'Alessio Baldovinetti e di Piero di Cosimo, sui marmi e
sui bronzi di Mino, di Donatello, del Ghiberti, del Verrocchio, del
Pollaiuolo. Da quelle figure, genuflesse alla preghiera, o nel sonno
della morte distese, o atteggiate vive all'azione delle leggende
evangeliche, sollevavansi le pie e gagliarde anime femminili a ciò che
nel tempo è di qua e di là dal momento che si vive; congiungevansi i
ricordi, gli affetti, le glorie umane della famiglia, con le speranze
immortali. E questa poesia, sentita nel cuore, sapeva anche trovar
forma nella parola, la forma paesana e casalinga della Lauda e della
sacra Rappresentazione, per opera di Antonia Pulci e di Lucrezia
Tornabuoni ne' Medici. L'Antonia, nata dei Giannotti, moglie e cognata
di poeti,[325] in famiglia che tutti erano cosa de' Medici, potè con
madonna Lucrezia madre del magnifico Lorenzo conferire le sue ascetiche
ispirazioni nell'atto di fermarle in quello stampo fra drammatico ed
epico, pel quale la Rappresentazione ha corrisposto con tanta pienezza
all'istinto plastico della fantasia popolare; e madonna Lucrezia, fra
un canto e l'altro che Luigi Pulci le recitasse del suo _Morgante_,
e altresì fra l'una e l'altra delle provvide cure per le quali casa
Medici le dovè tanto, scriveva senza pretenzione di letterata le
religiose canzonette pe' Laudesi, o riduceva in ottave o in ternarî le
istorie bibliche, delle quali poi facevan delizia negli ozi fiesolani e
di Careggi i suoi nipotini.[326]

Gentili donne non letterate, nello stretto senso professionale e (con
vostra buona grazia, e senza che troppo debba rincrescervene) non
femminile, della parola; le quali serbando nette d'erudizione le mani
delicate, coglievano dall'arte il fior dell'affetto, e pur conversando
coi dotti umanisti e coi barbassori che la caduta di Costantinopoli
aveva addotto fra noi, si stavano col popolo nel vestire, delle forme
che egli intende e crea, il pensiero e l'affetto; dalla realtà, quale
il popolo per linea diritta la vede, cavar fuori e animare il fantasma.
Le giovinette istituite nel latino e nel greco, non era difficile
trovarle nelle case principesche o signorili di Lombardia e di
Romagna: era una, fra le altre, delle splendidezze cortigiane di quelle
regioni.[327] Una addirittura «meraviglia di donna» umanista, la trovò
il Poliziano a Venezia: Cassandra Fedele; e la salutò entusiasticamente
col virgiliano, _O decus Italiae virgo!_[328] Ma i grandi cittadini
della nostra Firenze, anche della oligarchia più elevata, e molto più
i Medici che a combattere quell'oligarchia, e sulle ambizioni di lei
insediare la propria, usavano artifizi democratici, rimasero (dico gli
Albizzi, i Ricci, gli Strozzi, i Rucellai, ed essi i Medici), anche
attraverso agli splendori dell'umanismo, principalmente e visibilmente
mercanti: e la donna, nelle loro case, fu pur sempre e soprattutto la
donna di grandi mercatanti, donna massaia, avvisata, e più che della
libreria e del medagliere curatrice dell'azienda domestica, o, se
volete anco, della credenza, del celliere (com'allora dicevasi), della
colombaia, del pollaio.

Una letterata, anzi letteratissima (che però non ha lasciato libri),
ebbe Firenze in quel secolo, ma non da alcuna delle grandi famiglie,
sibbene nella figliuola d'un Cancelliere della Repubblica, venuto,
come tanti altri, dal contado alla città, e qui arricchitosi e fatta
fortuna. Ella fu la bella Alessandra di messer Bartolommeo Scala:[329]
alla quale due di quei barbassori greci, il Lascari e il Calcondila,
furon maestri; un altro, venuto in Italia umanista e soldato, Michele
Tarcaniota Marullo, fu suo marito; e spasimato di lei il Poliziano
(nonostante tutti i canonicati e priorati e pievanie, di cui poco
degnamente lo rincalzavano i Medici; e nonostante, altresì, il suo
collo torto e l'occhio losco e il naso sformato e gli anni ormai
quasi quaranta), spasimato di lei, e per cagion di lei nemico feroce
e con terribili giambi laceratore del marito e del padre.[330] Non
vi meraviglierete che una passione amorosa fra persone di questo
calibro si sfoghi in greco. Si rappresenta nientemeno che una tragedia
di Sofocle, l'_Elettra_: protagonista, Alessandra Scala; cronista
teatrale, con tutti addosso gli entusiasmi d'una passione, ahimè, non
corrisposta, il povero Poliziano in sei distici di squisita fattura,
che vi traduco liberamente: «Una mirabile Elettra, la giovinetta
Alessandra: mirabile nel pronunziare, essa italiana, la lingua d'Atene,
nella intonazione vera della voce, nel curare l'artificio della scena,
nel ritrarre fedelmente il carattere, regolare lo sguardo, il gesto,
il movimento; nel conservare al linguaggio della passione il decoro,
nel suscitare col volto in lacrime la pietà degli spettatori. Tutti
ne fummo percossi; ma oh che invidia sentii io nel cuore, quand'ella,
stringendo al seno Oreste, gli dice, — T'ho io fra le braccia? — ed
egli, — Oh così tu m'abbia sempre!» Un passo ancora, ossia un altro
epigramma greco, e il critico drammatico, l'ammiratore entusiasta,
si scuopre amante. «Ho trovata, ho trovata, quella che volevo, che
sempre cercavo; l'amor mio sospirato, quella che vedevo ne' sogni:
una fanciulla d'intègra bellezza, di adornezza non accattata ma
naturale; una fanciulla, culta di greco e di latino, eccellente nella
danza, eccellente nella musica; de' cui pregi, velati dalla modestia,
contendono a gara le Grazie. L'ho trovata: ma a che pro, se appena
una volta l'anno posso io, che di lei ardo, vederla?» Ma l'Alessandra
era in grado, non solamente di ricevere omaggi in greco, sì anco in
greco rispondere; e rispondeva così: «Nulla di più bello, che la lode
d'un valentuomo: ed oh qual gloria a me dalla lode tua! Quanto ai tuoi
sogni, bada, interpretali bene: tu non puoi aver trovato in me quanto
dici. È sentenza del divino Omero: — Avvicina un Dio i consimili. —
Or troppa è fra te e me la dissomiglianza. Imperocchè tu sei come il
Danubio, che da occidente a mezzodì, e poi di nuovo verso oriente,
diffonde largo corso di acque. Glorioso filologo, tu discacci le
tenebre dai monumenti di più lingue: greca, romana, ebraica, etrusca.
Ercole dell'erudizione sei a gara chiamato, per le tue fatiche intorno
a testi di astronomia, di fisica, di aritmetica, di poesia, di leggi,
di medicina. I miei scritti di fanciulla son cosette leggiere, come
i fiori e la rugiada. Io accanto a te, perchè so un poco di lettere!
Ma sarebbe com'a dire, secondo il proverbio, la zanzara accanto
all'elefante, perchè han la proboscide tutt'e due; la gatta accanto
a Minerva, per via degli occhi cerulei.» Che ve ne pare? Fu mai con
maggior dottrina, o con più squisita crudeltà, rimesso al suo posto
un adoratore stagionato? Non credete voi che messer Angelo abbia
questa volta dovuto imprecare alle similitudini, alle perifrasi, alle
antonomasie, e a tutto il resto dell'arsenale retorico? mandare al
diavolo i proverbî greci, e magari anche le sentenze del divino Omero?
Persiste tuttavia, come pur troppo avviene le più volte in simili casi;
e persiste, il che è assai meno frequente, in greco: «Tu mi mandi, o
Sandra, le pallide violammammole: e io nell'amore di te impallidisco
e mi struggo. Fiori e foglie, imagine gentile della tua primavera; ma
il dolce frutto io vorrei!» Al che Alessandra non risponde; anzi: «Nè
vederti, o Alessandra, mi è permesso più, nè ascoltarti: ma almeno,
due versi di risposta.» E finalmente (del buon gusto poi di questa
pensata lascio a Voi, Signore e Signorine, il giudizio): «O giovinetta,
gradisci per la tua chioma questo pettine d'osso: così potessi io avere
i capelli del tuo bel capo.» I capelli d'Alessandra Scala, come già
quelli dell'Albiera sul feretro che la portava in San Pier Maggiore,
furono (questa credo non ve l'aspettereste) recisi più tardi sulle
soglie di quello stesso convento, dove, rimasta vedova del suo greco,
ella si fece monaca benedettina, e vi morì giovanissima nel 1506.


III.

Se non che l'arte, la poesia, non sono esse la poesia della vita:
possono, della vita, adombrare con le loro imagini, o idealizzare,
la realtà; ma quelle imagini dalla realtà si distaccano, hanno
propria esistenza, alla quale la realtà rimane estranea od anco può
contraddire. Beatrice è donna; addiviene angelo, simbolo, ente: Laura
è moglie e madre; la poesia la restituisce, libera, alle idealità
dell'amore. Le idealità del Trecento, paesane e cristiane, e umane
almen tanta parte quanta è umano lo spirito, il Rinascimento le aveva,
sin dove potè, sopraffatte con l'umanesimo della materia, con la
sua mitologia, co' suoi ninfali, co' suoi baccanali, incominciando
a svolgere dal dischiuso gomitolo dell'antichità classica quel filo
che, sottile ma tenace, si continuò poi per tutta la poesia italiana,
non pure sino alle _Grazie_ d'Ugo Foscolo, che al rito delle sue Dee
sugli «aerei poggi di Bellosguardo» consacrava sacerdotessa anche
una gentildonna fiorentina,[331] ma sino all'_Urania_ del Manzoni,
che precedè gl'_Inni sacri_ e i _Promessi sposi_. Nella poesia del
Quattrocento, dal Boccaccio al Poliziano e a Lorenzo, le ninfe
Simonetta e Ambra non sono che due figure spiccate dall'idillio
fiesolano, nel quale messer Giovanni ha classicizzato e paganeggiato,
con gli amori d'Affrico e di Mensola, le origini di Firenze.[332] Da
Poggio a Caiano per Careggi e Montughi fino a Settignano e Maiano,
lungo tutto questo nostro subappennino gentile, le Driadi e le
Amadriadi, le Naiadi e le Napee, con tutta quanta la fauna del loro
corteo mascolino, danzano allegramente alla luce misteriosa de'
pleniluni, che pur si diffonde sulla Badia medicea di Brunellesco, e
da' finestroni della vecchia cattedrale di Fiesole investe le animate
sculture di Mino, lumeggia della cristiana aureola la Vergine e i Santi
di frate Giovanni Angelico. Muore in una sua villa, forse a Quarto,
una giovine gentildonna, che a prezzo della propria salva la vita al
suo bimbo pericolante nel crollare d'una tettoia del contadino. E la
cronaca cittadina, compilata sulla cetra dei latinisti, esalta questa
devozione di madre alla sua creatura, sapete come? con inveire contro
gli Dei Lari che non hanno sorretta quella tettoia, contro le divinità
campestri le quali hanno attratta in villa la bella Alba (un'altra
Albiera), che Venere avrebbe dovuto proteggere; con l'imprecare alle
Parche, tuttavia non senza consolarsi pensando che laggiù, fra le ombre
elisie, Alba, la più bella di tutte, usurperà il regno a Proserpina:
e tutto questo pur descrivendo, e non senza efficacia, la madre
presente all'eccidio della giovine figliuola, e che ne perde i sensi;
e lo strazio del marito, che, lontano da Firenze, torna quando la sua
povera moglie è ormai sotterra, e vuole a forza alzare la pietra di
quella sepoltura, e che le care sembianze siano restituite una suprema
volta al suo disperato dolore.[333] La famosa brigata delle gentili
donne fiorentine, che fuggendo i dolori e i pericoli della pestilenza
del 1348 è dal gran novelliere immaginata ritrarsi in una di quelle
vallette fiesolane, ci perde i nomi con che sono state battezzate in
San Giovanni, per divenire Pampinee o Neifili, e le loro fantesche
Misia Licisca Stratilia, e Sisisco il cuoco, e Panfilo Filostrato
Dioneo la fauna de' loro amatori:[334] con tanta verità, quanta ne è
in cotesto calunniare la donna, sia di quello sia di qualunque altro
secolo, apponendole che, dove si soffre e si muore ella se ne vada
in campagna, invece di rimanere ferma e fedele al suo posto.[335]
Tanta verità in ciò (Voi non mel concedereste se lo affermassi, o
donne gentili), quanta nella bizzarria germogliata, non si sa come, in
testa al buon Franco Sacchetti, d'una _Battaglia delle belle donne di
Firenze con le vecchie_,[336] le giovani schierate sotto il gonfalone
di Venere, le vecchie sotto quello dell'infernale Proserpina; il tutto
in quattro cantàri d'ottave mal connesse, con volgare strazio d'ogni
nobile affetto e un pocolino anche del buon senso, che informa invece
così finamente le novelle di quel medesimo Franco. Tanta verità in
coteste cose, quanta (per tacer d'altre volgarità siffatte) nella
fantasia, incarnatasi bensì in una delle prose più belle di nostra
lingua, _Le bellezze delle donne_; le quali bellezze don Agnolo
Firenzuola immagina, in un'altra brigata boccaccevole, siano da quel
suo Celso, che è poi lui stesso senza la cherica, analizzate pezzo
per pezzo, più o meno velati, sulla persona di quelle sue (al solito
sbattezzate) monna Lampiada, monna Amorrorisca, e Verdespina, e
Selvaggia, ascoltatrici e interlocutrici: anatomia estetica, possibile
forse ad eseguirsi laggiù nella Magna Grecia in servigio di Zeusi
quando dipingeva la sua Elena, ma non già in Prato, nell'orto della
badia di Grignano, l'anno di grazia millecinquecento tanti, in una
veglia, quale quella vuole pur essere, di donne non dimentiche di sè
medesime.[337]


IV.

Non era quella, nè poteva essere, la poesia della vita fiorentina fra
il XIV e il XVI secolo. Fantasticata su' libri, e in libri foggiata,
essa non attinge nè attiene alla vita vera di quell'età; nè vera è la
donna che su quel mitico fondo, tutto romano e greco, nulla medievale,
campeggia. Vera, invece, dalle descrizioni, o siano poetiche o meglio
se in prosa schietta fiorentina, de' conviti nuziali, delle armeggerie,
delle giostre, vera e viva ci sorride, e onestamente baldanzosa, e di
quelle cavalleresche e cortigiane onoranze seco medesima sodisfatta
e superba, la donna. Non mancano anche in cotesti suntuosi apparati
lo iddio Amore, gli Amorini (convertiti bensì, il che ha un po'
del trovadorico, in spiritelli), le Ninfe; sibbene come ornamento
esteriore, fregio posticcio, parvenza fugace; non come espressione
mitologica d'un sentimento, o quasi (direi co' filosofi) espressione
essoterica d'una dottrina. Ma la figurazione dominante e caratteristica
è dalla cavalleria medievale, e s'atteggia e si drappeggia nelle
persone e nelle foggie di castellani e di principi, d'uomini d'arme,
di donzelli, d'araldi e di paggi, di dame crudeli e di servi d'amore,
con seco le grandi o gentili memorie delle crociate, de' passaggi
imperiali, della «santa gesta» de' Paladini: le donne (ha cantato
Dante[338])

    le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi
    che ne invogliava amore e cortesia.

Siamo in piazza Santa Croce il 7 febbraio del 1468; e si fa la
giostra[339] della quale Lorenzo de' Medici scriverà ne' suoi
_Ricordi_: «Per eseguire e far come gli altri, giostrai in sulla piazza
di Santa Croce»; e ne noterà la spesa in fiorini diecimila di suggello:
«e benchè d'anni e di colpi non fussi molto strenuo, mi fu giudicato
il primo onore, cioè un elmetto fornito d'ariento, con un Marte
per cimiero.» Entrano in campo i giostratori: Medici, Pitti, Pucci,
Vespucci, Benci, Pazzi, e altri molti; qual più qual meno riccamente
forniti: con magnificenza più che regale, Lorenzo alla divisa de' gigli
d'oro di Francia, e in sua compagnia il fratello Giuliano, coperti
d'oro, d'argento, di perle, di pietre d'ogni sorta preziose: ciascun
cavaliere accompagnato da trombetti e paggi e uomini d'arme, e giovani
gentiluomini a cavallo tutti vestiti sfarzosamente alla divisa di
quello; brigate per ciascuno di poco meno che un centinaio di persone;
e ciascun cavaliere col suo stendardo, nel quale fra emblemi e segni
diversi, e per lo più tra verde di prati e fiori di verzieri, la
dama del cuore. Questa, leggermente velata di bianco, con ghirlanda
di quercia in mano, e a' piedi legato con catene d'oro un leopardo;
quella, in abito di ninfa, che riceve nel grembo le foglie d'un faggio
battuto dalla tempesta, e le dà mangiare ad un daino; quell'altra,
vestita di bianco e di verde, che le saette d'Amore infocate spenge
nel fonte che scorre a' suoi piedi; un'altra, vestita di paonazzo, che
quelle stesse saette fa in pezzi e ne semina il prato: ma la dama di
Lorenzo, irraggiata dal sole traverso ai colori dell'iride, vestita di
drappo alessandrino ricamato a fiori d'oro e d'ariento, coglie d'un
ramo di lauro rinverdito sull'arido tronco, e ne fa ghirlanda, e ne
sparge foglie all'intorno; il suo motto, in lettere di perle grosse
da gioiellare, _le tems revient_. E molto lontano da Firenze, in Roma,
nell'austerità baronale del palagio degli Orsini, pensava a lui in quel
giorno una giovane donna, che non era nè forse le rincresceva di non
essere la dama del suo stendardo, perchè si apparecchiava ad essere la
madre de' suoi figliuoli. «Lorenzo è molto occupato in questa giostra,
chè già da tempo non ò avuto sue lettere»; ha detto ella, la Clarice,
un mese innanzi, a uno de' Tornabuoni venuto a recarle le nuove di lui:
ed ora, appena corrono a farle sapere «come Lorenzo à fatto la giostra,
e n'è uscito sano e con grandissimo onore», e che «s'è aoperato tanto
degnamente quanto sia possibile di dire», e che «giammai fu paladino
facessi quello à fatto Sua Magnificenza», risponde soavemente: «Ora
che s'è fatto la giostra, non avrà più scusa da recare, che non venga a
Roma questa quaresima.» E in occasione della quaresima, la madre le ha
fatto «levare panno pagonazzo di Londra per una gonna a la romanesca»,
che crede quel fidato Francesco Tornabuoni «non istarà punto male»;
e così si propongono, madre e figliuola, di «andare vicitando tutti
questi perdoni, pregando Iddio per Lorenzo»: ma la madre insiste
ch'e' venga, perchè «vuole che voi vegiate la vostra mercanzia, avanti
l'abbiate a casa; la quale ogni giorno migliora»: della qual locuzione
figurata non so se proprio si abbellisse il parlare della nobilissima
matrona, o s'ella fiorisse spontanea nella lettera del mercante cliente
al mercante magnifico.[340]

Un anno e quattro mesi dipoi, il 4 giugno del 69, le nozze di Lorenzo
e di Clarice si celebravano in Firenze con grande solennità, la quale
incominciava con due interi giorni di offerte a casa i Medici dal
contado e dalle città di Toscana; offerte la cui consistenza sommò,
per citar qualche cifra, a un centocinquanta vitelle, paia di capponi
paperi e pollastri più di duemila, vini nostrali e forestieri a botti,
e simili altre gentilezze, che Lorenzo partecipava largamente alla
cittadinanza, anche prima d'imbandire, dalla domenica al martedì, ben
cinque conviti, che empivano le loggie e i giardini del palagio di via
Larga, con le mense distribuite fra giovani donne in compagnia della
sposa («cinquanta giovani da danzare» dice l'informazione[341]), e
le donne di più età con madonna Lucrezia; e così in tavole separate
i «giovani che danzavano» e gli uomini di più età. Dalla domenica
mattina, quando la sposa, partitasi dalla casa degli Alessandri «a
cavallo, in sul caval grosso che donò a Lorenzo il re di Napoli»,
entrava fra nobilissimo corteo nella casa maritale, mentre festeggiato
di musica lieta si tirava su alla finestra il simbolico ulivo; sino
alla mattina del martedì, quando «andò a udire messa a San Lorenzo»,
con in mano uno de' mille doni nuziali, «uno libriccino di Nostra
Donna, maraviglioso, scritto a lettere d'oro in carta d'azzurro
oltremarino, coverto di cristallo e d'ariento lavorato»; Clarice
Orsini, trasportata avvolta sollevata in quel profumo di gioventù, di
bellezza, di grazia, di forza; ricevuta nelle sale che Cosimo, Piero
e Lorenzo avevano impreziosite dei tesori dell'antica arte e della
risorta; circondata, sovraccarica, dagli splendori d'una ricchezza
che, anche non ostentata anzi voluta dissimulare, tuttavia impacciava
quasi sè medesima; regina degli omaggi che il fiore delle intelligenze
di tutto il mondo tributava a questa famiglia, la cui potenza era
soprattutto l'ingegno; potè ben comprendere ch'ella era venuta sposa al
primo cittadino, non che di Firenze, d'Italia.

E lasciamo stare se a quella gaiezza un po' sbrigliata della città
popolana, allo scetticismo elegante di quei letterati già bell'e
cortigiani, a quelle transazioni fra il cittadino e il cliente che
corrompevano intorno al patrono tanto vecchio sangue repubblicano, se
a questo e ad altro che poi dovette offendere la sua romana alterezza
e i suoi sentimenti di moglie e di madre,[342] ella ripugnò sin da
principio, e ne contrasse quel malinconico cruccio che avvolse tutta
la sua virtuosa esistenza domestica; lasciam pure che invece del
Poliziano, il quale ella giunse perfino a cacciare di casa,[343]
preferisse di vedersi intorno ser Matteo Franco, buona pasta di
cappellano e di sonettiere faceto, nelle cui fiorentinissime lettere
madonna Clarice, circondata da' suoi figlioletti, è viva e parlante
figura;[344] ma non saprei tuttavia credere, che, giovinetta sposa,
ella non abbia dovuto gustare, di quella popolana gaiezza, di quella
eleganza addottrinata, di quei cortigiani ritrovi, quanto parlava così
vivacemente ai sensi e alla fantasia, in feste, per esempio, simili
a questa, che pochi anni avanti, nel 64, aveva empito del suo fragore
gioioso una intera notte del carneval fiorentino.

«Notizia d'una festa fatta la notte di carnasciale, per una dama
la quale fu figliuola di Lorenzo di messer Palla degli Istrozi. La
detta festa fu fatta da Bartolomeo Benci, come innamorato di detta
dama.»[345] Ve la riassumo, il più che potrò con le parole stesse
della _Notizia_ contemporanea, che sono una pittura. Bartolommeo
Benci ha ordinato, con altri otto giovani di principali famiglie,
un'armeggeria notturna, l'ultima notte di carnevale, in onoranza,
prima alla dama sua, poi, come sentirete, a ciascheduna delle otto
respettive dame de' suoi compagni. Ciascuno di essi otto è a cavallo,
ricchissimamente forniti: ciascuno ha trenta giovani intorno a sè,
vestiti alla propria divisa, con torchi in mano, e altri otto intorno
alla briglia. Il Benci poi, col bastone di «Signore e Capitano della
Compagnia», è «in su 'n uno cavallo che la natura nollo potre' fare
più bello; con fornimento e sella e briglia tutto di chermisi, ricamato
di molte argenterie tanto riccamente quanto fare si potè: e lui in su
detto cavallo, con uno giubone di perle ricamato e gioie, con due alie
alle spalle, d'oro e più altri colori. E intorno al detto Signore era
quindici gentili giovani a piè; tutti con gonnellini di raso chermisi
foderati d'ermellini, con calze pagonaze: a' quali esso Signore donò a
ciascuno. E oltre a questo, aveva intorno detto Signore centocinquanta
giovani, tutti vestiti a una sua divisa, cioè gonnellini e calze verdi,
con falconi nel petto e di drieto, d'ariento, che gittavano penne
per tutto el gonnellino: e' quali centocinquanta giovani ciascuno
aveva uno torchio acceso in mano.» Portatori e pifferi circondano il
Trionfo d'Amore, che è alla testa: un Trionfo «alto braccia venti,
composto in modo che, guardandolo, si rimaneva abagliato: co' molti
ispiritegli d'amore con archi in mano; e in alcune parti l'arme de'
Benci, e in altri luoghi la divisa del padre di detta dama: co' molte
campanellette e sonagli d'ariento, e varie cose. Era composto, detto
Trionfo, d'alloro, mortina, arcipresso, abeto e scope, cose tutte
verdi e calde, apropriate all'amore. E, per abreviare, in sulla cima di
detto Trionfo era un cuore sanguinente, aceso in fiamme di fuoco, che
del continovo ardevano; con certi razi» che a suo tempo dovevano esser
lanciati. Muove la brigata (tutto ben computato, oltre un cinquecento
persone) dalla Piazza de' Peruzzi, dopo una lauta cena in casa di
Bartolommeo, e va alle case degli Strozzi da Santa Trinita: due Benci e
due Strozzi regolano a cavallo l'andata. La Signoria ha fatto bandire,
che nessuno quella notte giri a cavallo per la città, fuor di cotesta
armeggeria; e che in essa o a cagion d'essa, «se per disgrazia alcuno
fusse morto, chi l'ammazza sia sanza pena e sanza bando»: il che è
detto «un obviare a' casi cattivi che potrebbero nascere». E così,
«giunti a casa della dama, feciono la mostra. E apresso, ciascuno corse
ritto in sulla sella, secondo uso d'armeggeria, con uno dardo in mano,
dorato. E dipoi ancora, ciascuno corse con una lancia busa, dorata; e
ruppono a piè della finestra dov'era detta dama. La quale si mostrava
in mezo di quattro torchi acesi, con tanta graziosa onestà che una
Lucrezia basterebbe. E fatto questo, el Trionfo era fermo sulla piaza,
dirimpetto alla finestra dov'era detta dama: e al Signore fu ispiccate
l'alie e gittate in sul Trionfo; e in quel punto, era ordinato che
a detto Trionfo s'apiccassi el fuoco: e così arse, con tante grida e
suoni che insino alle stelle andava el romore. E i razi che v'erano su
erano artificiati in modo che pareva che quegli ispiritegli d'amore,
ch'erano in su detto Trionfo, co' l'arco che gli avevano in mano gli
saettassono. E così acesi, per l'aria volavano apresso alla dama:
alcuno n'andava in casa della detta dama, che si istima glien'entrassi
alcuno nel cuore, per compassione del detto amante. E fatto questo,
el detto Signore Amante, partendosi con tutta la compagnia, per non
volgere le spalle a detta dama, fece che sempre el cavallo andava
indrieto, tanto che più nolla potè vedere. E partiti di quivi, andorono
a rompere le lancie e armeggiare a casa le Dame di ciascuno de' suoi
Compagni, cioè degli otto nominati. Dipoi tornorono tutti dalla
Dama del Signore, e feciolle una mattinata co' molti suoni e gra'
magnificenza; e questo si dice mattinata, perch'era presso a dì. E
dipoi si partirono, e acompagnorono el Signore, cioè Bartolomeo Benci,
a casa, nel modo e forma come s'erano partiti nel prencipio. E 'l detto
Signore aveva ordinato molte confezioni, e fece tutti convitare co'
gra' magnificenza». A chi poi rimanesse la curiosità (mi sia permesso,
gentili ascoltatrici, supporla), se a que' nove armeggiamenti sotto le
finestre delle nove case abitate dalle nove dame, corrisposero a suo
tempo nove bei matrimoni, rispondo: che quanto ad alcuna delle amorose
coppie, no certo, per la ragione molto stringente che il cavaliere
aveva moglie, il che fa altresì lecito ammettere che anche qualcheduna
delle respettive dame avesse, per ulterior respettivo, marito:
quanto a qualche altra coppia, potrebb'anch'essere; ma a chiarirlo,
bisognerebbe, come de' cavalieri, avere i nomi delle otto dame; e
questi la _Notizia_, che vi ho riassunta, non ce li dà. Quanto poi
alla coppia che più forse vi preme, mi rincresce dovervi notificare,
che la Marietta Strozzi, nonostante tutta quella bersagliatura di
razzi amorosi fra la quale le finì il carnevale del 1464, sette anni
dopo andava sposa (e già aveva seguìta fuor di Firenze la madre) ad
un Calcagnini di Ferrara; e l'anno appresso, nel 72, l'aligero, e
poi spennacchiato, capitano Bartolommeo Benci sposava la Lisabetta
Tornabuoni, una sorella di quel confidente a Roma tra la Clarice Orsini
e Lorenzo de' Medici.

Molte dolci memorie, del resto, dovè lasciare la bella Marietta Strozzi
nella città nostra,[346] lontano dalla quale il padre suo esule (come
per lungo tempo, dopo il trionfo de' Medici, furono, di generazione in
generazione, gli Strozzi) era morto di ferro, e per l'esilio di lui
aveva dovuto pure starsene fuori la madre, virtuosissima e austera
donna, Alessandra de' Bardi:[347] e in questa quasi orfanezza, la
fanciulla si trovò forse più libera che alla condizione sua non
convenisse:[348] almeno in quell'inverno del 64, nel quale, poche sere
avanti l'armeggeria, sentite quest'altra sua avventura carnevalesca,
e che cosa era possibile a farsi, senza scandalo, da una giovine
fiorentina in que' tempi. Vi traduco (liberamente anche questa
volta) da una lettera, elegantemente latina, di amichevoli confidenze
giovanili tra Filippo Corsini e Lorenzo de' Medici:[349] «... E mentre
ti scrivo, la neve cuopre quasi tutta la città: tedio per molti e
cagion di starsene; ma per altri cagione di darsi moto e piacere. Sappi
infatti che Lottieri Neroni, Priore Pandolfini e Bartolomeo Benci,»
(daccapo il nostro allegro Capitano) «Cogliamo il destro, hanno detto,
di usare qualche bel tratto. E subito, a due ore circa di notte, si
son presentati alla casa della Marietta Strozzi, seguìti da una gran
moltitudine accorsa da ogni dove, per fare a gettarsi la neve con
lei. Gliene han data la sua porzione, e hanno incominciato. Immortali
Dei, che spettacolo! e come descrivertelo, Lorenzo mio, con questa
debole prosa? Gran pompa d'innumerevoli fiaccole; squillar di trombe,
dolcezza di flauti; pubblico appassionato e plaudente. E che trionfo,
quando alcuno degli assalitori riusciva a sparger di neve il viso, come
neve candido, della fanciulla! Ma che dico sparger di neve? un vero e
proprio trarre al bersaglio era quello, e di tiratori valentissimi!
La Marietta poi, così leggiadra e destra in quel giuoco, bella come
tutti sanno, ne uscì con immenso onore. Ma i gentili giovani non si
partirono da lei, che prima non le donassero molto nobilmente per loro
ricordo. E così, con grande contentezza di tutti, il piacevole giuoco
ebbe fine.» Un epigramma del Poliziano (l'ultimo che vi citerò da quel
florilegio aneddotico del Quattrocento fiorentino che sono, più assai
che le volgari, le sue poesie greche e latine) dice così: «Neve sei,
o fanciulla, e giuochi con la neve. Giuoca: ma deh, prima che la neve
s'imbratti, fa' che si sgeli.»[350] L'erudito, che oggi legge questo
complimento amoroso, ricorda i molti altri, d'antichi e d'umanisti,
che sul medesimo argomento si contengono nell'_Antologia latina_,
e l'ha per un'imitazione a freddo (è proprio il caso di dir così)
dall'antichità classica. L'aneddoto che vi ho narrato mostra, invece,
che questa almeno fra le tante imitazioni umanistiche aveva riscontro
nel vero attuale; ossia, che quel bizzarro costume era spontaneamente
rifiorito, come anche altre parti della vita antica, nell'allegra
democrazia del Rinascimento: finchè la inamidata prammatica delle
Corti, la Riforma protestante correggitrice e il conseguente reattivo
disciplinamento della morale cattolica, più tardi infine la filosofia
civile e la rivoluzione bandita e guerreggiata in nome di principii
universali, non ebber mutata la faccia del mondo.

Ma finchè quelle gazzarre, quelle feste davvero popolari, que'
fantastici apparati, que' simboli abbaglianti, ebber vita, nè corteo di
spose, nè armeggiamento per dame, nè giostra di amorosi cavalieri, ebbe
mai tanta cittadina solennità, quanta uno sposalizio, ben diverso da
tutti gli altri d'allora e di poi: lo sposalizio dell'abbadessa di San
Pier Maggiore; sposalizio che si ripetè tante volte (salve eccezioni)
quanti Vescovi ebbe per secoli parecchi la Firenze e del Medioevo e
del Rinascimento ed anche del Principato Mediceo, poichè lo sposo della
badessa era (_honni soit qui mal y pense_) messere lo Vescovo.

Quella chiesa e monastero di San Pier Maggiore, che furono delle
maggiori antichità sacre di Firenze, se, come pare, nella lor forma
primitiva risalivano al secolo quarto; che detter nome a una porta e a
un sestiere della città, abitato e maledetto da Dante; non sono più.
Si restauravano nel secolo XI, e si afforzavano con addossarli alle
mura del secondo cerchio: si abbelliva la chiesa, a mezzo il secolo
XIV: si sconciava, come tante altre, mediante le cappelle patrizie
a marmi e stucchi di tutti i colori, nei secoli del barocco. E tutto
oggi è sparito. E il tempo, che «traveste l'uomo e le sue tombe»,[351]
a malapena ha rispettato nell'Arco di San Piero il nome (salvo i
possibili attentati onomastici dei moderni edili) il nome del titolare.
Quali rovine, quali ossa, calpestiamo noi, passando da quell'arco!
Delle nostre conoscenze d'oggi, le due belle Albizzi si sono fatte
polvere colaggiù sotto: e si addormentò in pace con esse la monacella
grecista, la quale, se morendo ancor ella giovine, non ebbe tempo di
maturarsi, arcigna e rugosa superiora, per quelle nozze episcopali,
potè bensì esercitare la sua mondana erudizione, ahimè non più sulle
immortali pagine d'Omero e di Sofocle, ma sul grosso notarile latino
degli autentici privilegi di coteste mistiche nozze, che risalivano
(dicono que' notari) «a tanto tempo quanto è di là da memoria
d'uomini». L'ingresso del novello sposo della Chiesa fiorentina si
faceva ritualmente dalla porta di San Pier Gattolini, oggi Romana: due
famiglie, di grandi e tradizionali attinenze (da Dante proverbiate) con
la mensa vescovile, avevano, i Visdomini e i Tosinghi, il privilegio,
siccome «vicedomini della sedia vacante», di riceverlo e accompagnarlo
sino al monastero, dove, simbolo della Chiesa fiorentina, lo attendeva
la badessa. Si celebravano, a istanza di lei, nella chiesa le nozze,
inanellando il Vescovo la sposa con un ricchissimo anello, «un anello
d'oro con uno zaffiro» nelle nozze del 1301: e a questo sembra si
rimanesse, nel Rinascimento, la forma delle nozze più modesta. Ma
nel secol di Dante, il vescovo saliva dalla chiesa, a braccio dei
visdomini, sin proprio alla camera della badessa: dove gli era offerto
in dono un letto suntuosamente montato; e la camera per quel giorno,
durante intere ventiquattr'ore, uscendone lei, diveniva camera di lui,
sin che, la mattina appresso, i soliti visdomini gli venivano incontro
col clero, e lo conducevano in Domo e lo insediavano. Tutta Firenze
accorreva a quello sposalizio.[352] Oltre le due ricordate famiglie
visdominali, altre ancora, e delle principalissime, Albizzi, Pazzi,
Strozzi, rivestite di privilegi e diritti in questa o quella parte
del cerimoniale, avevano da quello sposalizio frequenti occasioni
di contestazioni, di proteste, di gare.[353] Alla badessa rimaneva
il cavallo col quale era venuto il vescovo: ai Bellagi un tempo, poi
per eredità agli Strozzi con gran trionfo di tutto il parentado, la
sella.[354] La Chiesa fiorentina aveva avuto il suo pontefice, e la
città una festa di più, nella quale era toccata la sua parte, e che
parte essenziale! alla donna.


V.

Ma traverso a tutte quelle ideali trasformazioni che l'arte le
apponeva, e a questa vissuta poesia di festeggiamenti e di pompe,
quale fu poi nel segreto della vita reale, tra le pareti domestiche,
figliuola e sorella, moglie e madre, quale, nella Firenze di quell'età,
fu la donna?

Scoperchiare i tetti delle case, e sorprendere senz'essere introdotti
la gente che attende tranquillamente a' fatti suoi, e peggio poi le
signore, si è creduto, fino a pochi anni fa, un privilegio di quel
personaggio che sapete, _le Diable boiteux_, sollevato da Renato
Le Sage alla cattedra d'uno de' più grandi e maligni professori di
filosofia morale che il mondo abbia avuto. Fino a pochi anni fa,
quando a me, sfogliando con paziente amore le carte dei Medici avanti
il Principato, occorse di scoprire un'anticipazione del Diavolo zoppo
di Le Sage nella persona d'un cortigiano de' più cari a Lorenzo e a'
figliuoli suoi, e che con uno di questi, divenuto papa Leone X, finì
cardinale di Santa Chiesa: l'autore della _Calandra_, il Bibbiena;
che in un Prologo a cotesta sua famosa commedia, rimasto inedito[355]
anzi fra le cancellature del primo getto, immagina di fare un giro da
camera a camera femminili, invisibile per forza d'incanto, e mette al
nudo una serie di scenette bizzarre che accadono in questa o in quella,
sul punto del recarsi le donne a una veglia che si fa quella sera
in Firenze. Rassicuratevi: io non voglio entrar terzo fra il giulivo
Cardinale e il diavolo; se già non vi pare che sia ormai posto preso da
messer Guido Biagi, quando l'altro giorno v'introdusse con sì garbata
erudizione, e così intimamente, nelle segrete cose della vita privata
dei nostri vecchi.[356]

E qui cade un'avvertenza e una dichiarazione. Quel tanto che la novella
e la commedia fiorentina del Quattrocento e (molto più largamente) del
Cinquecento potrebber dare al ritratto della donna, io credo contenga
troppa meschianza o di classico, o di boccaccevole, o di idealmente
satirico: nè ebbe quell'età, come nel Sacchetti ebbero il Due e il
Trecento da Giano ai Ciompi, un novelliere storico. Io non so in
verità, quanto a buon diritto si possano accettare anche solo come tipi
della famiglia in un dato momento della storia di Firenze, i personaggi
della _Mandragora_: ma è poi certissimo che la buona Marietta Corsini
moglie di Niccolò Machiavelli nulla ebbe, povera donna, di simile con
quella alla quale egli, nel suo _Belfagor_, fa sposare il diavolo, e
poi ridurlo a tale disperazione, ch'e' se ne torna a rotta di collo
all'inferno.[357]

E una leggenda di amor coniugale e materno, delle più poetiche e
commoventi, parrebbe, se non fosse dramma pur troppo vero e dramma
sanguinoso, il fatto di Annalena, che lo stesso grande istorico
consacrò alla memoria de' posteri con parole di somma reverenza.[358]
Giunge un messo alle case di Annalena Malatesta, oltrarno, là dove il
popolo memore dice ancora «da Annalena», e le annunzia: «Madonna, il
marito vostro messer Baldaccio lo hanno morto a ghiado nel Palagio
de' Signori, e precipitato dalla finestra, e mòzzagli la testa come
a traditore e malfattore». Ed ella, che al venturiero d'Anghiari,
valoroso e brutale come condottiere ch'egli è, ha dato, sposa poco
più che tredicenne, il cuore e la fede, e piegata sul suo petto di
ferro l'alterezza gentilizia del sangue che le scende nelle vene
da Paolo Malatesta, — il cognato a cui la poesia di Dante fa eterni
l'amore e la pena, il bacio colpevole e l'amplesso infernale; — essa,
l'Annalena, che da quel Baldaccio è già madre d'un bambinello; corre,
povera donna, a' Signori, al magistrato crudele che l'ha vedovata, e
per quella creatura innocente riesce a salvare, col pianto, da confisca
i suoi beni. Poi quel figliuolo, il suo Guidantonio, nel quale tutta
la vita della madre fanciulla si era raccolta, le muore; ed ella,
ancor giovanissima, si trova sola, e già vissuta, nel mondo. E allora
Annalena, fatta donna dal dolore, di quella sua casa in lutto fa
chiostro, in quelle mura chiude per sempre e consacra il breve romanzo
della sua giovinezza, le sue nozze e la sua maternità, le amorose
imagini e le micidiali, i ricordi d'una culla e di due bare; nelle
stanze stesse dove fu madre, ritorna vergine a Dio, e madre di vergini
invecchia soavemente.[359] Affettuosa madre, e compassionevole agli
splendori e alle lusinghe del mondo; se uno degli umanisti celebratori
di Albiera,[360] proprio a lei, ad Annalena ormai quasi cinquantenne,
rivolgeva una di quelle elegie latine, e le chiedeva la preghiera sua e
delle sue monacelle per la morta degli Albizzi, «per la giovinetta» le
dice «che tu hai amato come una tenera madre ama l'unico suo»: parole
non so dire se pietose o crudeli, che il latinista forse scandiva
senza pensarci su, ma che dal cuore della vecchia monaca avran fatte
risalire agli occhi le lagrime della giovine madre. Il monastero
d'Annalena, la quale morendo a sessantaquattr'anni lo raccomandava a
Lorenzo de' Medici, fu sin da' suoi principii tutto cosa della potente
famiglia: e nelle stanze abitate già dalla fondatrice, dalla vedova del
condottiero, ebbe asilo e salvezza, ne' tempi grossi pel nome mediceo,
un fanciullo che doveva essere il principe di quelli armigeri, Giovanni
delle Bande Nere.

Ma se cerchiamo la donna, a cui la sventura non invidia nè rapisce la
famiglia, la donna che della famiglia è ornamento e conforto, esempio
e ispirazione, forza e provvidenza, la donna di casa, la moglie e
la madre; alla storia di lei danno tipi ideali, però in necessaria
relazione con la realtà, come pel medioevo più alto i libri di
«reggimento o costume o castigamento» femminili,[361] così per questo
secolo XV i trattati di _Governo della famiglia_: o con intendimento
piuttosto civile e secolare, quale è nel libro che si abbellisce de'
nomi di Agnolo Pandolflni e di Leon Battista Alberti,[362] e in quella
parte che è didattica delle care pagine di Vespasiano cartolaio;[363] o
con prevalenza del sentimento religioso, siccome nella _Cura familiare_
del beato Giovanni Dominici, diretta a una valente gentildonna,
Bartolommea degli Alberti.[364] Quel tipo ideale o, diciam meglio,
tradizionale, e derivato dalle memorie delle «buone e care» delle «care
compiute et oneste» donne,[365] che tanta fragranza di gentili virtù
spargono nelle _Cronache domestiche_ del Trecento,[366] Vespasiano lo
effigiò, e anche con un po' di retorica a suo modo lo colorì, tra le
figure illustri dell'età sua, in Alessandra de' Bardi,[367] la moglie
di Lorenzo di messer Palla Strozzi, e madre della vispa Marietta.
L'Alessandra è ritratta da Vespasiano[368] «bellissima e venustissima
del corpo, quanto gnuna n'avesse la città di Firenze»; vantaggiata di
statura tanto, da fare a meno delle «pianelle», supplemento prezioso,
pare, per altre fanciulle men favorite di proporzioni: educata dalla
madre sua «con ogni diligenzia» (maggiore, forse è da credere, che
l'esilio del marito e le altre vicende della famiglia non consentissero
poi a lei nell'educazione di quella sua figliuola) dall'«amare e temere
Iddio indotta a uno moralissimo vivere»: avvezza a «mai perdere tempo
che ella non fusse occupata», a «mai colle serve di casa non parlare,
se non in presenza della madre»; e «la prima a levarsi la mattina in
casa esser lei»: ammaestrata in «tutte le cose s'appartengono sapere a
una donna, che abbia aver cura di famiglia; e massime a lavorare d'ogni
cosa, e di seta e d'altro, come s'appartiene alle donne», e «imparare
tutto quello che, bisognando, potesse viverne», e a «saper fare
ogni cosa e sapere insegnare», dal leggere sino a «ogni minima cosa»
attinente alle faccende domestiche. «Rarissime volte era mai veduta o a
uscio o a finestra» (ah Marietta!), «sì perchè non se ne dilettava, e
perchè occupava il tempo in cose laudabili. Menavala la madre, il più
dei dì, la mattina a una grandissima ora a udire la messa, tutte col
capo coperto, e col viso ch'appena si vedevano». Ma questa stessa, che
comincia forse quasi a parervi una monachina di casa, fatta poi sposa,
e venendo a Firenze una ambasciata imperiale, sentite se sapeva, come
le faccende femminili, altrettanto far bene gli onori, non pur della
casa, ma della città, e d'una città che si chiamava Firenze, la quale
«in questo tempo» dice il buon Vespasiano «era abbondante e di virtù
e di ricchezze, e la fama sua era per tutto il mondo»; città che «a
quelli ambasciadori parve un altro mondo, rispetto alla grande quantità
di uomini nobili e degni che v'erano in quel tempo, e non meno donne
bellissime del corpo e non meno della mente; perchè, sia detto con
pace di tutte le donne e terre d'Italia, Firenze in quel tempo aveva le
più belle e le più oneste donne fussino in Italia, e di loro per tutto
il mondo n'era «la fama». E descrive un ballo che a quei gentiluomini
dell'Imperatore fu offerto dalla Signoria, in Piazza, sopra un palco
dal lato del Palazzo verso Condotta, con grande apparato di spalliere,
e pancali, e arazzi, e festoni; e i primi giovani della città, vestiti
tutti a un'assisa di drappi verdi ricchissimi, e calzatura di pelle
sino a' fianchi; e le fanciulle e le spose, con ricche vesti accollate
fregiate di perle e di gioie. Alla onoranza di ciascun ambasciatore
deputate due dame; che pel primo di essi sono l'Alessandra, maritata
in quello stesso anno (era il 1432, ed ella n'aveva appena diciotto),
e una Francesca Serristori. Dopo il ballo, si porta in giro la
colezione: ed ecco l'Alessandra servire ella stessa gli ambasciatori,
«con una tovaglina di rensa in sulla spalla..., con una ismisurata
gentilezza..., facendo riverenza con inchini infino in terra, naturali
e non isforzati, che pareva che non avessi fatto mai altro». Poi, ballo
di nuovo; e infine, accompagnamento degli ambasciatori all'albergo,
ciascuno d'essi dando di braccio alle due belle fiorentine, una di qua
e una di là, Alessandra alla diritta: e giunti alla porta dell'albergo,
«il primo ambasciadore si cavò uno bellissimo anello di dito, e donollo
all'Alessandra; di poi se ne cavò un altro, e donollo alla compagna».
Dopo di che, «salutati le giovani e i giovani gli ambasciadori», furono
le giovani riaccompagnate alle case loro.

Il biografo quattrocentista, che sul declinare del secolo scriveva
di questa e d'altre donne fiorentine della generazione antecedente
(l'Alessandra morì nel 65), non finisce mai di far paragoni tra esse e
le donne fiorentine del tempo suo, deplorando lo scadimento del costume
e delle consuetudini più virtuose e severe. In questi lamenti, un po'
di parte va fatta certamente all'abito che fu e sarà sempre di tutti
i tempi, del rimpiangere, per questo o quel rispetto, il passato;
un'altra poca, inoltre, alla disposizione di Vespasiano a trovar che
ridire su troppe cose (figuratevi che una volta vuole e prescrive[369]
che le donne «imparino a non parlare, massime in chiesa» egli dice;
e poi, come se fosse poco, soggiunge «e in ogni altro luogo»): pur
tuttavia, fatte queste eccezioni, e lasciando lo scherzo, io credo che
que' suoi lamenti, specialmente quando li formula, com'è spesso, in
osservazioni positive, attengano a condizioni reali; e propriamente
a quella mutazione che anche nella vita domestica, di cui la donna è
custode e gli atti suoi sono specchio, avevano indotto le splendidezze,
a un poco per volta sempre più cortigiane, di quei Medici, la cui
potenza attraeva oramai, volere o non volere, con l'interesse e la
fortuna delle famiglie, anche gli affetti, le speranze, i disegni,
che più disposta e inchinevole ad accogliere, in pro della famiglia, e
fomentare è la donna.

«Ricòrdoti che chi sta co' Medici sempre ha fatto bene, e co' Pazzi el
contradio; che sempre sono disfatti»: così scriveva (e s'era solamente
al 1461, diciassette anni prima della sanguinosa congiura) un'altra
Alessandra pur maritata negli Strozzi,[370] e che essa pure, come la
Bardi, dagli esilii di quella famiglia ebbe lunghi dolori al suo cuore
di moglie e di madre, ma altresì la consolazione, prima che morisse,
di veder restituiti alla patria, e molto per la efficace materna opera
di lei, i figliuoli, e il maggior d'essi gettare alla grandezza della
sua famiglia quelle fondamenta delle quali è superbo monumento il
loro meraviglioso palazzo: Alessandra Mancinghi negli Strozzi, alla
quale un altro monumento con la pubblicazione delle sue _Lettere ai
figliuoli esuli_, che io vorrei avere autorità di raccomandarvi e farvi
care, o Signore, componeva, ne' dì nostri, Cesare Guasti, erudito e
scrittore degno d'interpretare que' dolori, quelle consolazioni, quelle
grandezze.[371]

Lo avvicinarsi ai Medici anime elette come quelle della Macinghi
Strozzi, matrona del cui costume e pietà avrebber potuto compiacersi
la bontà di Antonino arcivescovo o la fierezza di Girolamo Savonarola
(e a qualche pratica durezza, piuttosto de' tempi che sua, conviene,
ciò ripensando, essere indulgenti), lo avvicinarsi, dico, di tali
anime e famiglie (ne cito un'altra, i Rucellai) ai Medici, mostra
che l'opera di questi era stata non tanto di corruzione, quanto di
acquistare potenza fra i cittadini, prendere dello Stato (è la frase
del Machiavelli,[372] e del tempo) quanto a mano a mano ne veniva ad
essi concesso, cosicchè la forza loro sormontasse invincibilmente su
tutte le altezze, preponderasse su tutte le resistenze, schiacciasse
quasi fatalmente tutto ciò che si levasse contro di loro. «Co' Medici,
e non co' Pazzi!» A quell'affettuoso ammonimento materno risponde
tragicamente, a breve distanza d'anni, nel maggio del 78, un'altra
voce di donna, anzi lo schianto d'un cuore, d'un cuor di figliuola,
ne' giorni che l'uccisione di Giuliano de' Medici e le ferite di
Lorenzo erano, nel sangue de' congiurati e di chiunque paresse averli
comecchessia favoriti, vendicate come delitti contro la patria. La
figliuola d'uno di costoro, giovine sposa di vent'anni, Ginevra di
Piero Vespucci (cognata della bella Simonetta; e Piero, uomo, del
resto, di poco senno, era stato un tempo deditissimo a Lorenzo, e
giostratore nel 64 in Santa Croce con lui, e armeggiatore col Benci
sotto le finestre della Marietta), scrive, la Ginevra a Lorenzo, queste
parole spezzate dal pianto. La lettera è inedita,[373] e sfuggita alle
ricerche e curiosità erudite. «Amantissimo in luogo di buon padre.
La cagione di questi dolorosi versi si è perchè ieri non vi potei
parlare come desideravo, per potervi pregare e ricordare l'amore e
benivoglienza avete portata in questa casa, e le parole e promesse
fatte a me, e l'umanità dimostrami, quando mi chiamasti sorella: e però
vi priego vogliate accettare e' mie' prechi, e ogni amore e promesse
rivolgere in questo, e avere misericordia e compassion di noi tutti.
Vorrei vi fussi di piacere considerare la condizione di mio padre, e
specchiarvi in me, e non considerare quello che fa in ogni suo caso,
chè non è solo in questo. E priegovi quanto più posso, mi facciate
questa grazia; e questo si è, me lo rendiate senza altro segno, e che
la penitenzia di questo peccato sia quella che à avuta: chè quando
penso, della età che gli è e poco sano, come è stato buon pezo, e ora
di nuovo, colla febbre, essere dove egli è, e avere e' ferri in piè;
che quando ci penso, mi scoppia el cuore. Priegovi abiate pazienza se
questi versi vi danno tedio, e priegovi per l'apportatore mi mandiate
qualche buona risposta; però che chi misericordia fa misericordia
aspetti: e priego Idio vi metta in cuore, me lo rimandiate istasera:
e se io fussi con Voi, tanto vi pregherei me lo renderesti: e ora
di nuovo ò inteso à avuta della fune. Priegovi non ci vogliate fare
disperare più. Ginevra isventurata».

Invero, la vita di quelle donne, quale la rivelano e l'aureo volume
del Guasti (che, potendo essere a mano di tutte, io mi son proposto
di lasciare pressochè intatto alla curiosità del cuor vostro, Signore
e Signorine[374]) e le pubblicazioni che di altri documenti femminili
si sono venute facendo, non solamente si vede essere tutta per la
famiglia; ma che quelle poderose famiglie, Medici, Strozzi, Salviati,
Rucellai, Guicciardini, Soderini, Ridolfi, debbono a coteste donne non
piccola parte della forza che ebbero, a fare quello che fecero.[375] Il
Savonarola, che sulla caduta della supremazia Medicea tentò costruire
saldamente l'edificio del governo popolare, sentì quanto importasse al
suo intendimento avere a ciò profonde basi nella famiglia: pensò, come
la prima delle sue riforme, la riforma del costume; e si rivolse alle
donne. E non tanto, intendo, alle mistiche, quali erano una Visdomini,
una Gianfigliazzi, una anzi due Rucellai; com'a dire le Giacobine di
quello che poc'anzi ho chiamato Terrore Piagnone; giacobine, bensì,
che poi finivano monache, anzi una di esse Beata.[376] Ma alle madri
proprio di famiglia, il Savonarola si rivolgeva:[377] alle donne e
a' fanciulli, che è quanto dire alle forze dell'affetto materno,
si rivolgeva, come a instrumenti politici, con la fede con cui
l'avversario suo papa Borgia si appoggiava alla spada e al pugnale del
suo Valentino. «O donne e fanciulli, la vostra riforma non è ancora
vinta. Dite da mia parte alla magnifica Signoria, che questa non è
cosa umana ma di Dio; e fateli questa imbasciata: che la racconcino
se vi è cosa che non stia bene, e che gli diano la sua perfezione;
e che se non lo faranno, e si faranno beffe delle opere di Dio o le
contradiranno, che il Re gli punirà. E diteli che non sono Signori,
ma ministri del Signore e del Re nostro Cristo.... A voi, padri e
madri, dico: confirmate questa cosa a' vostri figliuoli, perchè non
vi è dentro se non buon vivere. Altrimenti Dio ha apparecchiato la
punizione a chi contradirà alle cose sue. Io ve lo dico certo, tenetelo
a mente.»[378] Il magnanimo frate fu arso; e il profeta, smentito dai
fatti: ma molta parte di quella generazione informata da lui rimase
fedele a _Popolo e Libertà_, l'antico grido del Comune glorioso: e
que' fanciulli, che nei carnevali de' Piagnoni avean ballato intorno al
Bruciamento delle vanità (cotesto bruciamento altra cosa è approvarlo,
ed altra intenderlo pel suo verso[379]), que' fanciulli, fatti uomini,
sostennero e combatterono, dalle mura di Firenze assediata, contro il
Papa e l'Imperatore, le ultime battaglie della libertà italiana.

Un'egual gagliardia di sentimenti e di opere; un intenso sforzo di
tutte le energie morali, e un cupo raccoglierle e quasi appuntarle
alla vita pratica, al riuscire; durante que' trentacinqu' anni, che
intercedono fra il rivolgimento del 1494 e la caduta della Repubblica
nel 1530, animano del pari l'un campo e l'altro: gli eredi e
rivendicatori della libertà manomessa; e gli eredi e sostenitori delle
splendide ambizioni di chi la vuole ormai sopraffatta. Anche sulle
manifestazioni dell'arte, e nella elaborazione del pensiero, incombe
il travaglio dell'ignoto avvenire. Il giardino mediceo di San Marco,
dove il Poliziano erudiva ne' miti ellenici i pittori e gli scultori,
e nella storia carlovingia Luigi Pulci, e il Ficino cercava in Platone
conciliazioni feconde tra la civiltà pagana e la fede di Cristo,[380]
quel giardino è deserto. Ora è il Machiavelli che nelle conversazioni
degli Orti Oricellarî[381] idealizza le togate figure di Roma
antica, e ne entusiasma i giovani che congiureranno contro i Medici,
mentr'egli da quella grande nostra storia romana dedurrà dottrina di
Stato, destinata a chi, in tristi tempi con tristi mezzi, sappia far
trionfare, per la salvezza d'Italia, un'idea generosa. Ma i Medici,
ne' quali egli vagheggia il suo principe, muoiono giovani: e sulle
loro tombe Michelangiolo scolpisce il Pensiero doloroso e la Notte.
Ben diverso trionfo, e non generoso, alla fortuna della loro famiglia
preparano, fattone strumento le somme Chiavi, Leon X e Clemente VII:
ma per tutto cotesto periodo, di resistenza e di contrasto, durante
il quale difesa, ritorni, congiure, cacciate, si alternano, per poi
conchiudersi in quella caduta da eroi sulla quale irraggia la sua luce
il Ferruccio, la vita civile e la domestica non sono più ne possono
essere il gaio vivere, a sicura letizia intonato, nel quale, da Cosimo
a Lorenzo, Firenze avea sorbito lentamente la dissuetudine dalla
libertà. I carnevali del magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, come
lo chiamano i contemporanei del nipote suo Lorenzo, che col ducato
d'Urbino anticipa ai Medici il titolo ond'è per coronarsi in Firenze
la loro secolar cupidigia, quei carnevali non tornano più: nè valgono
a rattizzarli le Compagnie del Broncone e del Diamante, nelle quali,
sotto le imprese e i motti e l'auspicio di que' passati splendori, si
raccoglie a darsi piacere la gioventù pallesca.[382] I tempi non sono
più quelli, nè per Firenze, nè pur troppo, dopo la calata di Carlo
VIII, per tutto il resto d'Italia.

E la donna? Fedele custode delle sue tradizioni, in cotesta vita che
è divenuta tutta una guerra guerreggiata di foschi interessi, essa ha
vegliato e veglia agli interessi del focolare: specialmente la madre.
Quando il magnifico Lorenzo perdette la sua, «Ho perduto» scrisse
«non solamente la madre, ma un unico refugio di molti mia fastidii
e sollevamento di molte fatiche, uno instrumento che mi levava di
molte fatiche.»[383] «Tornate a vostra madre che con tanto desiderio
vi aspetta»; scriveva la Macinghi Strozzi:[384] e ai figliuoli
esuli la voce di quella valente vecchia era come la voce cara della
patria, della patria che riapriva loro le braccia, per tanti anni
sì crudelmente serrate. E così la Lucrezia come l'Alessandra hanno
quasi con le loro proprie mani fatto i matrimonî de' loro figliuoli;
sottoponendo al sindacato del loro occhio materno, nelle possibili
nuore, tutto, dalla persona all'animo, ai costumi, al parentado, alla
dote: e fra le passate in rivista dall'Alessandra è, con non troppo
favore, la bella Marietta delle armeggerie e della neve.[385] Ora la
Maria Salviati, vedova del gran capitano Giovanni delle Bande Nere,
attende alla futura grandezza del suo Cosimo, che a diciott'anni
improvvisamente duca di Firenze, saprà, educato da quella donna di alto
animo,[386] sottomettere o schiacciare i nemici, se anche si chiamino
Filippo e Piero Strozzi, deludere o respingere le pericolose ambizioni
de' partigiani, se anche si chiamino Francesco Guicciardini. Al buon
avviamento, prima, poi alla salvezza, del suo sciagurato figliuolo
Lorenzino de' Medici, si adopera inutilmente la Maria Soderini: ed
essa e le figliuole bellissime, entrate negli Strozzi, la Laudomia e
la Maddalena, e dagli Strozzi entrata nei Ridolfi la Maria figliuola
di Filippo, il gran gentiluomo del secolo, parteciperanno, con gli
accorgimenti animosi e le ispirazioni de' loro cuori di madre, di
sorella, di moglie, all'affaticarsi infruttuoso, non però ingeneroso,
de' fuorusciti, contro l'afforzamento del principato mediceo.[387]
Protesterà, contro la violenza e il tradimento che lo hanno insediato,
la figliuola d'uno di quei fuorusciti, Giulia di messer Salvestro
Aldobrandini; che nella corte d'Urbino richiesta da Fabrizio Maramaldo
di ballare con lui, «Levatemivi dinanzi,» gli risponde «voi che
ammazzaste così vigliaccamente il Ferruccio».[388] Ma tra le vittime
del novello principe cadrà una gentile di quella schiera, Luisa
Strozzi; sulla cui tragedia, e su quella che pochi anni appresso
involge nel mistero la morte del padre suo Filippo,[389] aleggiano
sinistramente le parole dell'ava veggente: Chi è contro a' Medici,
sarà disfatto. Parole, del resto, che nella casa degli Strozzi non ha
ascoltate una Medici stessa, la madre della Luisa, la Clarice moglie
di Filippo e cospiratrice zelante alle fortunose ambizioni di lui;
anima, piuttosto che di donna, d'uomo e dei più fieri di quel fiero
Cinquecento; la quale ai giovinetti bastardi, nelle cui mani, sotto
i non dissimili auspicii di papa Clemente, il moto popolare del 1527
trova le redini della signoria medicea, ha rinfacciato la passata
grandezza de' suoi antenati, fondata sul favore del popolo; e in nome
di questo, nel palagio de' Medici, essa una Medici autentica, ha loro
additata e quasi intimata la via dell'esilio.[390]

Forti donne, alle quali può l'uomo di cui portano il nome commettere
con fede le faccende domestiche, de' figliuoli e del patrimonio, della
casa e della villa: come messer Luigi Guicciardini, mentr'è fuori
Commissario pei Medici, alla sua monna Isabella, una massaia stupenda,
che io mi onoro d'aver rivelata dalle sue lettere campagnuole:[391]
commettere e raccomandare la custodia del palagio, e il decoro della
casata; che alle mani della moglie di Pierfrancesco Borgherini, madonna
Margherita, saranno sicuri.[392] E quando un Della Palla, incettatore
per re Francesco di Francia di tesori artistici dalle case della nostra
città, si presenta con mandato (pur troppo!) dei Priori alla casa di
monna Margherita, a mercanteggiare una sua camera, meravigliosa pe'
lavori di Iacopo da Pontormo, quella davvero nobilissima gentildonna lo
riceve così: «Adunque vuoi essere ardito tu, Giovambattista, vilissimo
rigattiere, mercantuzzo di quattro denari, di sconficcare gli ornamenti
delle camere de' gentiluomini, e questa città delle sue più ricche
ed onorevoli cose spogliare, come tu hai fatto e fai tuttavia per
abbellirne le contrade straniere ed i nemici nostri? Io di te non mi
meraviglio, uomo plebeo e nimico della tua patria; ma dei magistrati
di questa città, che ti comportano queste scelerità abbominevoli.
Questo letto che tu vai cercando per lo tuo particolare interesse e
ingordigia di danari, come che tu vada il tuo mal animo con finta pietà
ricoprendo,» cioè di conciliare a Firenze assediata la benevolenza del
Re, «è il letto delle mie nozze, per onor delle quali Salvi mio suocero
fece tutto questo magnifico e regio apparato, il quale io riverisco
per memoria di lui e per amore di mio marito, ed il quale io intendo
col proprio sangue e con la stessa vita difendere. Esci di questa casa
con questi tuoi masnadieri, Giovambattista; e va', di' a chi qua ti
ha mandato comandando che queste cose si lievino dai luoghi loro, che
io son quella che di qua entro non voglio che si muova alcuna cosa
e se essi, i quali credono a te uomo dappoco e vile, vogliono il re
Francesco di Francia presentare, vadano e sì gli mandino, spogliandone
le proprie case, gli ornamenti e' letti delle camere loro. E se tu sei
più tanto ardito che tu venga per ciò a questa casa, quanto rispetto
si debba da' tuoi pari avere alle case dei gentiluomini, ti farò con
tuo gravissimo danno conoscere.» La conservazione o, se anche vogliamo,
l'amplificazione di queste generose parole di donna in una pagina del
buon Vasari, mi pare debba riconciliarci alquanto con l'oratoria dei
Cinquecentisti. Ma voi, quando nel Palagio del Podestà passate innanzi
ad un mirabile cammino in pietra di Benedetto da Rovezzano, che da
una sala appunto delle case che furono de' Borgherini colà trasferito,
è ormai assicurato al patrimonio intangibile della nazione italiana,
siate superbe, o gentildonne fiorentine, della vostra concittadina; e
se mai occorresse, ricordatevi dell'esempio ch'ella vi ha dato.[393]

Che se la Margherita e l'Isabella favoreggiano, e la Maria Salviati
Medici rappresenta essa stessa potentemente, quella parte medicea dalla
quale, almeno in quel truce epilogo delle sue ambizioni, rifuggono
le simpatie di noi tutti (compreso, senza dubbio, l'apologista
dotto e sagace, per la cui eloquenza ha in questa sala rivissuto una
genialissima ora di vita il magnifico Lorenzo[394]); se la Clarice
Medici Strozzi, e le gentildonne de' fuorusciti, agitano in petto,
insieme con altre passioni più nobili, gl'interessi altresì e i
rancori di ambizioni men della medicea fortunate; non mancano poi
alla libertà che muore, non mancano dal popolo che per lei combatte
senz'altra ambizione nè amore che non sia essa stessa la libertà, le
sue eroine. Eroine anonime, come le dà la plebe, generosa de' nomi non
meno che del sangue (così non ne fosse prodiga anche a chi la inganna
e la sfrutta!); anonime, e nella veglia del malinconico inverno de'
casolari affigurate in leggenda. Tale la Lucrezia Mazzanti figlinese,
che nei gorghi del suo Arno cerca scampo alle brutali violenze della
soldataglia imperiale e papale:[395] matura sposa quarantenne, ma
che il popolo vuole restituita alla poesia dell'intatta giovinezza,
mentre alla novella Lucrezia romana dedicano il loro latino gli ultimi
umanisti del Rinascimento, che il Bruto cesaricida esalteranno in
Lorenzino de' Medici.[396] E dalle popolari memorie, nella storia del
tempo raccolte, effigiò modernamente il Guerrazzi, quando ne' duri anni
della servitù d'Italia volle essere l'Omero della libertà fiorentina,
quella che egli denominò monna Ghita setaiola in Borgo San Friano:[397]
«alta della persona, magra, adusta dal sole, sicchè sembrava di colore
del rame; i muscoli del collo grossi e protuberanti, le vene turgide,
le labbra vermiglie e, comunque tacessero, agitate; le narici ansose,
gli occhi fulgidissimi, perpetuamente volgentisi da un lato all'altro;
i contorni del volto squadrati, la faccia ossuta»; una Parca di
Michelangiolo: la quale, vedova e povera, dà alla difesa della patria
le buccole d'oro delle dónora maritali, e il figliuolo unico; «il mio
Ciapo di sedici anni e otto mesi, perchè deve entrare ne' diciassette
come si arriva alla festa di San Zanobi»; dopo fattogli giurare sul
Crocifisso il giuramento con che la Spartana consegnava al figliuolo
lo scudo: O con questo, o su questo. Ultima espansione da cuore di
madre popolana, dell'amor di patria nel sacrifizio della famiglia.
Succederanno i tempi, ne' quali il popolo italiano dovrà dimenticare
d'avere una patria, cercar nelle gride (povero Renzo!) il diritto
d'avere una famiglia: e agli oppressi dalla doppia tirannide, politica
e sociale, non rimarrà altra voce, se non il pianto di Lucia che dice
addio ai suoi monti.[398]


VI.

La libertà repubblicana è caduta: e su quelle rovine han fatto le
loro paci, la Chiesa di Roma, che per entro alla corruzione secolare
e alle pagane eleganze ha giocata la sua unità, e il sacro Romano
Impero, le cui idealità medievali son fatte cosa, una brutta cosa,
nella greve signoria di Carlo V spagnuolo, del monarca su' dominii
del quale il sole non tramonta. Splendori di corti, di pensiero, e di
roghi, illumineranno l'età che incomincia, della quale il mio tema
varca, sfiorando le soglie, e destinata o Signore, alle Conferenze
del prossimo anno. Nei sozzi e atroci drammi coniugali dei duchi e
granduchi Medici e de' loro cortigiani, ultima che ritragga dell'antico
«femminile» fiorentino, bella, culta di lettere, esercitata nella
poesia, nella musica, nell'uso di più lingue, del volgar nostro
intendentissima, gentile d'animo, è l'infelice Isabella Medici
Orsini.[399] Altre gentili ospita il chiostro; il chiostro, talvolta
cercato e invocato, troppo più spesso destinato alla inconsapevole
innocente fanciullezza da quelle tirannidi gentilizie, scellerate
e codarde, delle cui vittime la Geltrude del Manzoni è vendetta
immortale.[400] E nel chiostro, da uno ad un altro trafugandola
gelosamente, i repubblicani fiorentini dell'Assedio avean custodita
Caterina de' Medici: come utile ostaggio, speravano; e non sapevano
di serbarla a ben altre fortune. «Andate e dite a que' miei padri e
signori, che io intendo d'essere monaca, e di starmi in perpetuo con
queste mie reverende madri»; mandava ella a dire alla Signoria:[401]
l'aspettavano invece il trono di Francia, e le guerre civili di
religione, e la _Saint-Barthélemy_.

Ma ai dolci silenzi della meditazione pietosa sulle umane colpe e
sventure, agli entusiasmi verso Dio buono, ai terrori di Lui giusto,
era nata Caterina de' Ricci, che in San Vincenzio di Prato si chiude
giovanissima, negli anni duranti i quali per un'altra di quel casato,
la Marietta Ricci Benintendi, duelli di non degno amore intermezzano
le battaglie della libertà, e il nome d'un'altra Ricci, Cassandra, è
vituperato fra le tresche e nel sangue.[402] Caterina nel chiostro
ricovera le ultime tradizioni e gli affetti de' seguaci di frate
Girolamo; appiè dell'altare, sul quale ella un dì sarà santa consacra
la religione del martirio di lui: e dal chiostro, non ripudiata
l'umana fraternità, a' suoi di casa parla, nelle _Lettere_, parole di
pace, di conforto, d'amore; ai prelati suoi superiori, di reprensione
reverente, ove occorra; agli uomini che tra le cure civili o mercantili
si travagliano, parole di virtù operosa e che si affisa nell'alto; di
giustizia, ai principi; di miti e caritatevoli affetti, alle donne;
e delle due che furono le mogli di Francesco de' Medici, ama Giovanna
d'Austria infelice, prega e fa pregare Dio per Bianca Cappello.

Nè con l'infoscarsi, sempre più cupo, de' tempi, col sempre più
gravemente incombere sulla libertà politica e del pensiero la domestica
e la straniera tirannide, manca nei chiostri, alla pietà verso chi
rimane nel mondo, il cuor della donna: o l'abbiano esse lasciato,
o esso il mondo le abbia allontanate da sè, quelle buone sentono e
fanno suoi i dolori della famiglia alla quale appartennero. Sulla
collina d'Arcetri si raccoglie a morire, quasi prigioniero, il grande
liberatore del pensiero moderno, Galileo: ma presso alla villa del
Gioiello, che oggi nel suo nome ci è sacra, vegliano su lui, dal
convento di San Matteo, l'affetto e la preghiera d'una santa creatura,
che data a lui dall'amore, egli è forse colpevole di avere, sin
dalle fasce, destinata all'espiazione; della sua Virginia, che egli
ha voluto sia suor Celeste: ed ora ella viene a lui, non potendo di
persona, con le _Lettere_ nelle quali quella cara anima è sopravvissuta
anche a noi:[403] e si accuora dei suoi dolori, e trepida delle sue
malattie; e si prostra reverente al suo divino intelletto che «penetra
i cieli»; e in una rosa, che gli manda nel cuor dell'inverno, vuole
intravegga, di là dal «breve e oscuro inverno della vita presente, la
primavera dell'eternità»; e s'addossa ella le penitenze spirituali
impostegli dal Sant'Ufìzio; e al ricevere un suo libro, o al sapere
di onoranze resegli, esulta; e vorrebb'essere «in una carcere assai
più stretta di quella in che si trova» per far libero lui; nè le duole
di esser monaca, se non quando sente ch'egli è malato, per non potere
assisterlo; e dovendo come le altre monache scegliere fra i Santi il
Santo «suo devoto», non altri sa scegliere, con sublime profanità di
figliuola, che il padre suo, il padre che prega Dio le sia conservato,
«perchè dopo di lui non mi resta altro bene nel mondo». E quando
cotesto martirio di amor filiale incarcerato ha il suo termine, e a
trentatrè anni ella muore, il povero glorioso vecchio sentirà spezzato
il più caro vincolo che ancora lo congiungesse col mondo; più dura e
crudele gli pesa ora la guerra indegna che in lui è fatta ai diritti e
all'avvenire dell'umanità: e di lì a breve, cieco, infermo, degnato di
concessioni umilianti come a colpevole ravveduto, fattagli elemosina
di licenze e di permessi come a tollerato dai potenti della terra,
egli che ha rivelato i misteri del cielo, nel presentire la morte,
«Mi sento» esclama «mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta
figliuola!». Nè so se la donna abbia mai scritta nella propria storia
una pagina che valga cotesto grido paterno, uscito dal cuore di
Galileo.


VII.

Le libertà repubblicane caddero, e successero i tempi infausti
della servitù: ma al terzo secolo da quella caduta il sepolcro si
è dischiuso, e la libertà d'Italia risuscitò da morte. E la donna
italiana, così da Firenze come da ogni altra città e villaggio e
borgata della patria che è nostra, ha dato a quel risorgimento i dolori
del sacrificio e del martirio, le ansietà delle trepidanti speranze,
il pensiero e il lavoro degli uomini ch'ella ha amato e ispirato,
la vita propria, il sangue de' suoi figliuoli: da Eleonora Fonseca a
Teresa Confalonieri, dalla madre dei Ruffini alla madre dei Cairoli:
all'Italia han dato il fior dell'ingegno, la Guacci, la Turrisi
Colonna, la Ferrucci, la Brenzoni, la Paladini, la Percoto, la Milli,
la Mancini, la Fusinato.[404] O madri toscane, o spose, o sorelle, o
figliuole, che da Curtatone e Montanara alla rivendicazione di Roma le
sante battaglie della libertà orbarono de' vostri cari; o gentildonne
animose, o buone popolane, della nostra Firenze; la tradizione con le
forti donne dell'antica nostra istoria è per voi ricongiunta.

Nè più tardi d'ieri, da una collina le cui vigne e gli uliveti
ombreggiavano una tomba recente, è disceso un feretro, che da
quella tomba trasferiva, così volendo la nazione, in Santa Croce,
e restituiva al sepolcro degli avi suoi, de' Priori e Gonfalonieri
della nostra Repubblica, la salma di Ubaldino Peruzzi, nella cui
persona, il 27 aprile di trentadue anni fa, Palazzo Vecchio tornò al
suo antico signore, il Popolo fiorentino. Pia custode di quella tomba
gloriosamente vuota, è rimasta una Donna:[405] che tanto seppe, tanto
potè, nei pensieri e negli affetti di lui; che lo animò, lo aiutò alle
onorate fatiche, ne' dubbi lo consigliò, gli confortò i patimenti,
gli consolò le ingiustizie, gli allietò i trionfi. Storia, che in
tutti i paesi civili, in tutte le età, è la storia vostra, o Signore;
che compendia i diritti e i doveri vostri verso le due grandi non
distruggibili società, delle quali voi siete l'anima immortale: la
famiglia e la patria.


NOTE

[300] _Ricordi storici de'_ RINUCCINI; Firenze, 1840; pag. CXXI-XXII.
Pei particolari delle feste di San Giovanni al tempo della Repubblica,
vedi CESARE GUASTI, _Le feste di San Giovanni Batista in Firenze_;
Firenze, Loescher e Bocca, 1884.

[301] Nella VIIª fra le _Elegiae_ del POLIZIANO, a pag. 238-248 delle
sue _Poesie latine e greche_ pubblicate per mia cura; Firenze, G.
Barbèra, 1867.

[302] Vedi nel cit. volume delle _Poesie latine_ del POLIZIANO, a pag.
145-147.

[303] Di Bartolommeo Scala, l'epitaffio in nome del padre di lei; che
riferii, con altra epigrafe, nel cit. volume polizianesco a pag. 145.
Di Naldo Naldi, _Eulogium in Albieram Albitiam morientem, ad Sismundum
Stupham eius sponsum_, e una sequela di epitaffi. Di Ugolino Verini,
_in Albieram_. Di Alessandro Bracci, _Epigrammata in Albieram Masi
Albitii filiam, puellam formosissimam, immatura morte peremptam_. E
adespoti, più altri epitaffi, epigrammi, ec. E poi in prosa, epistole
consolatorie allo sposo, di Marsilio Ficino, di Carlo Marsuppini,....
Da farne, insomma, un volume, se meritasse la pena, compulsando i
codici Laurenziani (sulla scorta del _Catalogus_ del Bandini), e un
Corsiniano 582, e i _Carmina illustrium poetarum italorum_ (Florentiae,
1719-1726).

Nel Catasto fiorentino del 1470 (_San Giovanni, Chiave_, c. 199) questa
è la «portata» di «Maso di Luca di messer Maso, malsano, di anni 42:
madonna Caterina sua donna, gravida, d'anni 30; Luca suo figliuolo,
d'anni 14; _Albera sua figliuola_; Maria sua figliuola; Danora sua
figliuola; Bartolomea sua figliuola; Lisabetta sua figliuola; Giovanna
sua figliuola». E nel _Libro dei morti_ dal 1457 al 1501: «L'Albiera di
Tommaso di Luca degli Albizi, riposta in San Piero Maggiore, a dì 15 di
luglio 1473». (_Archivio fiorentino di Stato_).

[304] Quel giovenile matrimonio è registrato nel Catasto fiorentino del
1469-70 (_Santa Maria Novella, Unicorno_, II, c. 213): «Marco di Piero
di Giuliano Vespucci, d'età d'anni XVI. Simonetta di messer Guasparri
Catani sua donna, d'anni XVI». Taluno ha dubitato dell'età di questo
marito: ma il confronto con altre portate ai Catasti (del 58, dell'80,
del 95) comprova che Marco Vespucci era proprio nato nel 1453. Dalla
Simonetta non apparisce aver avuto figliuoli; sì dalla seconda moglie,
che fu nel 1478 Costanza Capponi.

[305]

    Vivebam, fato sum rapta Albiera; coniux
      Sismundus vitam reddidit en iterum:
    Nam faciem et claram caelato marmore formam,
      Ingenium et mores carmine, restituit.

[306] Sui ritratti della Simonetta, non che sulla interpetrazione della
_Primavera_ del Botticelli, vennero riassunte autorevolmente le diverse
e disputate opinioni da _I. B. Supino_, _Sandro Botticelli_ (Firenze,
Alinari-Seeber, 1900), pag. 31-37, 69-82. Cfr. anche E. MÜNTZ,
_Histoire de l'Art pendant la Renaissance_, II (_Italie, L'âge d'or_),
pag. 636-38, 641; Paris, 1891.

[307] I soliti epitaffi, come per l'Albiera, ed epigrammi latini:
di Piero Dovizi da Bibbiena, di Tommaso Baldinotti pistoiese, di
Francesco Borsellini, nel cit. codice Corsiniano. E poi: una _Elegia
di Bernardo Pulci fiorentino, della morte della diva Simonetta, a
Iuliano de' Medici_; e dello stesso Bernardo un sonetto petrarchevole,
_La diva Simonetta a Iulian de' Medici_; e di un veronese Francesco
Nursio Timideo, pur terzine elegiache intitolate latinamente _Carmen
austerum in funere Symonettae Vespucciae florentinae, ad illustrissimum
Alphonsum Calabriae ducem_: da vedere nello scritto di A. NERI, _La
Simonetta_, nel _Giornale storico della letteratura italiana_; vol. V,
1885, pag. 131-147, riassunto nell'_Illustrazione Italiana_, n.º 13 del
1886.

[308] Vedi _La Giostra di Giuliano_, nel mio libro _Florentia_
(Firenze, Barbèra, 1897) a pag. 391-393.

[309] «In Simonettam», a pag. 149-150 della cit. mia edizione delle
_Poesie latine e greche_. Quello nel quale «Iulii est sententia a me
versibus inclusa» dice così:

    Aspice ut exiguo capiatur marmore quicquid
      mortali possit a superis tribui.
    Hic Simonetta iacet, cuius mortalia cuncta
      concipere immensum non poterant animum:
    quam neque mors potuit visa exterrere, Deumque
      mox petiit cui se nympha dedit moriens.

[310] Vedi _Alcune prose di Lorenzo de' Medici per dichiarazione e
storia de' suoi Sonetti e delle Canzoni_, nel volumetto (Firenze,
Barbèra, 1859) delle _Poesie_ di L. DE' M. per cura di G. Carducci; a
pag. 35 e segg.

[311] _Carte Medicee avanti il principato_ (nell'Archivio fiorentino
di Stato), filza XXXIII: lettere da Firenze di Piero Vespucci, suocero
della Simonetta, al magnifico Lorenzo a Pisa, che gli aveva mandato il
suo proprio medico.

    _18 aprile 1476_ — .... La Simonetta si sta quasi nelli medesimi
    termini che quando Voi partisti, et poco v'è di meglioramento.
    Attendevisi et per maestro Stefano et per ogni homo cum
    diligenzia, et così sempre si farà....

    _20 aprile._ — .... Pochi dì fa vi scrissi e avvisa'vi del male
    di Simonetta; el quale, per grazia di Dio, e per virtù di maestro
    Stefano mediante Voi, è alquanto meglio, chè à meno febre e meno
    rimessione, ed à meno afanno del petto, mangia meglio e dorme
    meglio: e per quanto dicano e' medici, el male suo sarà lungo,
    e pochi rimedi ocorre fare, se none buono governo. E sendo stato
    cagione di questo bene, tutti noi e sua madre, che è a Piombino,
    asai vi ringrazia e ubrigati vi siamo della dimostrazione
    avete fatto di questo suo male; e non volendo peccare nella
    ingratitudine verso el maestro, di nollo tenere qui quanto
    potrebe durare el male, e anche nonn è molto neciesario, e anche
    perchè non potremo sodisfare con pagamento tale obrigo per la
    imposibilità nostra; e per tanto vi priego mandiate per detto
    maestro Stefano, e avisate quello se gli à a dare, che venerdì
    santo venne. E noi senpre siamo presti a fare ogni cosa dove
    richiede el debito nostro, e masime avendo riguardo a conservare
    ogni vostro onore, come questo e ogni altro. Aspetterò da voi
    aviso, e tanto seguiremo....

    _26 aprile._ — Magnifice ac praestantissime vir, compater
    honorandissime ec. Scripsivi nelli giorni passati del
    melioramento della Simonetta, el quale invero non ha perseverato
    come io credetti et come saria stato nostro desiderio. Questa
    notte sono stati alla disputa maestro Stephano et maestro Moyse,
    di darle una medicina; la quale concluseno doverseli dare, et
    così le hanno data. Non si pò ancora comprendere che fructo farà:
    Dio voglia che facci quanto desideriamo! Et perchè altra volta
    io vi scripsi della incomodità mia circa alla mercè et salario
    di maestro Stefano, et da voi non ho risposta alcuna, non m'è
    parso pigliare partito alcuno; et ancora per otto giorni lo
    stare suo mi piace, chè pure in questo termine si doverà vedere
    quello debba sequire: benchè non limito detto termine, se non
    cum conditione che la intenzione vostra sia così; di che mi sarà
    caro due versi di risposta di vostro parere. Questi medici sono
    del male suo discordi: maestro Stephano dice, epsa non essere
    nè etica nè tisica, et maestro Moyse tiene el contrario: non so
    chi meglio sene vede. Raccomandomi alla M. V. Florentiae, xxij
    aprelis MCCCCLXXVI. M.tie V. quicquid est Petrus Vespuccius
    eques.

[312] Sforza Bettini; Firenze, 27 aprile 1476 (_Carte medicee av. il
princ._, cit. filza XXXIII).

[313] _Stanze per la Giostra_; II, 33.

[314] Cfr. nota 10.

[315]

    Dum pulchra effertur nigro Simonetta pheretro,
      blandus et exanimi spirat in ore lepos,
    nactus Amor tempus quo non sibi turba caveret,
      iecit ab occlusis mille faces oculis.
    Mille animos cepit....

[316]

    Stirpe fui, forma, natoque, opibusque, viroque
        felix, ingenio, moribus atque animo.
    Sed cum alter partus iam nuptae ageretur et annus,
        heu! nondum nata cum sobole interii.
    Tristius ut caderem, tantum mihi Parca bonorum
        ostendit potius perfida quam tribuit.
            Ioannae Albitiae uxori incomparabili
                Laurentius Tornabonus
                    Pos. B. M.

_Poesie lat. gr._ cit. pag. 154-155.

[317] Quanta pietà, su que' cinque decapitati ma in particolare sul
giovine Lorenzo, in questa linea di diario contemporaneo!: «.... de'
quali ne 'ncrebbe a tutto el popolo.... E féciogli morire la notte
medesima, che non fu senza lacrime di me, quando vidi passare a'
Tornaquinci, in una bara, quel giovanetto Lorenzo, inanzi dì poco».
_Diario fiorentino_ di LUCA LANDUCCI, ed. Del Badia; Firenze, Sansoni,
1883; pag. 156-57.

[318] Due sono le medaglie in onore di Giovanna. Identico in ambedue
il ritratto, scrittovi in giro, «Ioanna Albiza uxor Laurentii
de Tornabonis»: e alla figurazione dell'un rovescio, «Castitas.
Pulchritudo. Amor»; dell'altro, «Virginis os habitumque gerens et
virginis arma». Vedi a pag. 442-43 dello scritto di E. RIDOLFI, cit.
nella seguente nota.

[319] Non Ginevra Benci, ma Giovanna Tornabuoni. Vedi ENRICO RIDOLFI,
_Giovanna Tornabuoni e Ginevra de' Benci nel coro di S. Maria Novella
in Firenze_; nell'_Archivio Storico Italiano_ Ser. V, to. VI, an. 1890;
pag. 448 segg.

[320] Lo ebbero i Pandolfini, per eredità dai Tornabuoni, nel loro
palazzo di Via San Gallo, sino a quasi un cent'anni fa; ora è in
Inghilterra: vedi a pag. 444-49 del cit. scritto di E. Ridolfi. Il
quale alla descrizione della tavola del Ghirlandaio soggiunge: «Dietro
la persona vedevasi appeso alla parete un filo di coralli ad uso di
collana, sotto il quale in una cartelletta il seguente distico, che per
la grazia sua potrebbe ben essere dettato dal Poliziano.... _Ars utinam
mores animumque effingere posset! Pulchrior in terris nulla tabella
foret. 1488._»

[321] Affreschi della villa Lemmi, scoperti nel 1882. Vedi il
cit. scritto di E. RIDOLFI, pag. 439-42; e I. B. SUPINO, _Sandro
Botticelli_, pag. 92-96; e CAVALCASELLE E CROWE, _Storia della pittura
in Italia_ (Firenze, Succ. Le Monnier), VI, 1894, pag. 258-262.

[322] «An. MCCCCLXXXX, quo pulcherrima civitas, opibus victoriis
artibus aedificiisque nobilis, copia salubritate pace perfruebatur.»
Vedi a pag. 169 delle cit. _Poesie lat. gr._

[323] I particolari della descrizione che segue sono forniti
dall'Ammirato, riferito nel cit. scritto di E. RIDOLFI, pag. 438-39.

[324] Vedi, nel mio cit. volume delle _Poesie latine e greche_
la dedicatoria della IIIª fra le _Sylvae: Ambra, in poetae Homeri
enarratione pronuntiata_; MCCCCLXXXV: pag. 333-335: ed ivi, dalle
_Epistolae_ pur del Poliziano, riferito ciò che risguarda Lorenzo
Tornabuoni.

[325] Antonia di Francesco Giannotti fu moglie a Bernardo Pulci,
fratello di Luca e di Luigi. Scrisse le _Rappresentazioni sacre di
Santa Guglielma, Santa Domitilla, il Figliuol prodigo, San Francesco_.
Vedi A. D'ANCONA, _Origini del teatro italiano_; Torino, Loescher,
1891; I, 268-69: e F. FLAMINI, _La vita e le liriche di Bernardo Pulci_
nel periodico _Il Propugnatore_, Nuova serie, vol. I (1888), pag.
224-25.

[326] Su madonna Lucrezia vedi _Lucrezia Tornabuoni donna di Piero di
Cosimo de' Medici, Studio_ di G. LEVANTINI-PIERONI: Firenze, Successori
Le Monnier, 1888: e _Le Laudi di Lucrezia de' Medici per cura di_
GUGLIELMO VOLPI; Pistoia, 1900. A lei a Careggi scriveva da Fiesole,
nell'estate del 79, il Poliziano (a pag. 72 del cit. mio volume di
_Prose volgari e Poesie latine_ ecc.): «Madonna Lucrezia, o vero
Lucrezia,» cioè la nipotina «aveva apparato a mente tutta la Lucrezia»
cioè «laude e sonetti e ternarii» della nonna. In alcun altro di que'
documenti della vita domestica medicea, è nominata fanciullescamente
«Lucezia» quella che al Varchi (_Stor. fior._, VI, XXXIX) doveva
parere «la più degna e la più venerabile matrona, che forse giammai per
nessun tempo in alcuna città si trovasse». Ed enumera poi tutte le sue
attinenze di sangue e di parentela; il che mostra com'e' sentissero
la parte pur della donna nella storia civile: «figliuola di Lorenzo
de' Medici, sorella carnale di papa Leone, cugina di Clemente, zia
d'Ippolito cardinale de' Medici e di Lorenzo duca d'Urbino, moglie
di Iacopo e madre di Giovanni Salviati cardinale, suocera del signor
Giovanni [delle Bande Nere], avola materna del duca Cosimo».

Delle letterine scritte dai bambini di casa Medici, e delle materne
della Clarice moglie di Lorenzo, con altri documenti domestici, si
potrebbe fare un bel mazzolino, chi lo legasse poi con garbo. Io
raccolsi (per nozze Bemporad-Vita; Firenze, 1887) le _Letterine d'un
bambino alunno di messer Angelo Ambrogini Poliziano_, cioè Piero de'
Medici. Aggiungi: _Nonna, Mamma e Nipotina. Lettere femminili di casa
Medici_ (1477-1479); Firenze, Civelli, 1892. E _Affetti di famiglia nel
Quattrocento, Spigolature di_ GUGLIELMO VOLPI; Firenze, 1891, estr. da
_Vita Nuova_, II, 50.

[327] Vedi I. BURCKHARDT, _La civiltà del secolo del Rinascimento in
Italia_, trad, da D. Valbusa; Firenze, Sansoni, 1876; II, 166-69: e G.
VOIGT, _Il Risorgimento dell'antichità classica_, trad, da D. Valbusa;
Firenze, Sansoni, 1888-97; I, 439-40, 589: e VITTORIO ROSSI, _Il
Quattrocento_; Milano, Vallardi; pag. 41-42. E a pag. 291 del mio libro
_Florentia_; Firenze, Barbèra, 1897.

[328] Così ne scriveva al magnifico Lorenzo, da Venezia il 20 giugno
1491: «_Item_, visitai iersera quella Cassandra Fedele litterata, e
salutai ec. per vostra parte. È cosa, Lorenzo, mirabile, nè meno in
vulgare che in latino: discretissima, _et meis oculis etiam_ bella.
Partì' mi stupito.... Verrà un dì in ogni modo a Firenze a vedervi;
sicchè apparecchiatevi a farli onore.» A pag. 81-82 delle _Prose
volgari_ ec. da me pubblicate.

[329] Vedi nel mio cit. volume polizianesco di _Poesie lat. e gr._,
a pag. 199-204, 214, 215; e V. ROSSI, _Il Quattrocento_; Milano,
Vallardi; pag. 275.

[330] Vedi nel cit. volume gli epigrammi _In Mabilium_ (contro il
Marullo), pag. 131-140: e a pag. 273-74 l'ode in _Bartholomaeum
Scalam_.

[331] La prima delle tre, Eleonora Nencini. Le altre due: Maddalena
Marliani Bignami di Milano, e Cornelia Rossi Martinetti di Bologna.
Nell'Inno secondo dei Frammenti del Carme _Le Grazie_.

[332] Per l'Ambra, vedi nel cit. volume la IIIª delle _Sylvae_,
intitolata _Ambra_, con allusione alla villa medicea del Poggio a
Caiano; e fra i poemetti di Lorenzo (ed. Carducci, pag. 261-277) quello
pure intitolato _Ambra_. Del Boccaccio poi vedi il _Ninfale fiesolano_,
i cui protagonisti, Affrico e Mensola, finiscono tragicamente ne' due
ruscelli così anc'oggi chiamati.

[333] La pietosa storia di questa sposa giovinetta (_puella_; nel
senso generico di donna giovine: come anche _fanciulla_, vedi il quinto
Vocabolario della Crusca), di nome «Alba» o «Albiera», ma non sappiamo
di chi figliuola nè a chi moglie, morta appena a vent'anni, è diluita
negli slombati distici dei due umanisti fiorentini e medicei, Naldo
Naldi e Ugolino Verini.

Canta il Verino (Cod. Laurent. XXXIX, XLII, c. 27-28):

      _De Albera puella quae sub porticu attrita est._
    Tam dira heu miseris fati mortalibus instat
      sors? heu quam magnum porticus ausa nefas!
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Porticus annoso ligno subfulta vigebat,
      quod carie attrivit longa senecta malo.
    Rusticus hic imbrem atque aestus vitare solebat
      nam _tusca hanc quartus signat ab urbe lapis_.
    Venerat huc multis comitata Albera puellis,
      infoelixque illic dum manet illa perit.

    Porticus ingentem traxit collapsa ruinam:
      pignora dum protegit, concidit ipsa parens;
    occidit, et caro vitam servavit alumno,
      carior et nati quam sua vita fuit.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quid lachrymae, quid vota, pii valuere mariti?
      quid quod eras Scalae vatis amica tui?

E poi:

_Epitaphium Alberae puellae_

    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Vix me bisdenos numerantem, porticus, annos,
      dum ruit, elysias compulit ire domos.
    Alberae fuerat nomen mihi, lector amice:
      ne pigeat tumulo collachrymare meo.

E Naldo Naidi (Cod. Laurent. XXXV, XXXIV), che viva l'afiligge con
ismaniosi elegiaci (c. 4-6, 7-9, 11, 18-20), nè può saperla andata in
campagna a bagnarsi senza restarne in timore, che, mentre le faranno
corteggio le ninfe aquatiche, non le abbiano a dar noia quelli sguaiati
de' Satiri silvestri, canta egli pure l'

_Eulogium in Albam morientem_

    Vos igitur mortis causas praebetis acerbae;
      estis et exitio, rura, molesta gravi.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Nam dum rura colit, prima est abrepta iuventa,
      dum ruit in tenerum trabs inimica caput.
    Quid labor heu fuerat, fugeret dum cara puella,
      labentem murum substinuisse Lares?
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Nam dum forte cupis nimia pietate puellum
      pellere ab extremis, Alba benigna, malis,
    occidis infelix, fato moritura severo,
      dum cadit in tenerum dira ruina caput.
    Heu quis tunc matri, cernenti talia, sensus,
      qualis in exangui corpore vita fuit,
    candida cum natae morientia viderat ora,
      ferre nec extremo tempore posset opem?
    Et nisi quod subito stupuit devicta dolore,
      in medio linquens languida membra solo,
    non potuit tanto cernens superesse dolori,
      sed fuit in natae morte casura, parens.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Nona dies aderat, crudeli funere rapta
      cum iacuit gelido cara puella thoro,
    cum venit absentis miseras ad coniugis aures,
      uxorem fato succubuisse gravi.
    Ut rediit tandem, rumore accitus amaro,
      sensit et in tristi condita busta solo,
    arserat impatiens uxoris membra pudicae
      visendi subito, qualiacunque forent.
    Instabant cuncti graviter ne vellet amici
      flaccida iam longa membra videre mora:
    attamen e nigro promatur ut illa sepulchro,
      vicerunt miseri vota dolenda viri.
    Ergo ubi dimotus, qui cygnea colla tegebat,
      atque palam, gelidus, fecerat illa lapis,
    qualia viventis patuerunt ora puellae,
      candida nec turpi commaculata situ.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    An quoque te livor carpit, Venus aurea, divam,
      et premit invidia pectora sancta gravi?
    Sic est: heu carae nocuit pia forma puellae,
      invidia superas nec caruisse deas.

[334] _Decameron_, Introduzione.

[335] Non disdico quanto scrissi. È bensì vero, che nel medioevo, e
suoi strascichi, la carità pubblica parve quasi respingere da sè la
pietà femminile, relegata, spesso crudelmente, nei chiostri. Nella
peste del 1630 e 33 in Firenze, l'uso che gli Ufficiali della Sanità
facevano delle donne era di «rinchiuderle», cioè vietar loro d'uscire
di casa, salvo che potessero andare in carrozza loro propria. E una di
esse, che anche era una brava donna, se ne sfogava nientemeno che con
Galileo: «Qua si fa la quarantena per noi altre povere donne, per la
quale sono passati già venti giorni: e questa mattina è andato il terzo
bando per altri dieci giorni, con speranza che S. Giovanni ci scarceri
e dia libertà; ma purchè giovi: e sia fatta la volontà del Signore».
Lettera de' 14 maggio 1633; la 2507 nel _Carteggio_ galileiano
(Edizione nazionale, to. XV, 1904, pag. 122): cfr. i n. 2477, 2479,
2503, 2511, 2534.

[336] Nel _Saggio di Rime di buoni autori_ ec.; Firenze, 1825.

[337] _Delle bellezze delle donne, Discorsi due_; nel secondo de'
quali si legge: «Ma ditemi il vero: non vi par egli che questa nostra
dipintura (_della perfetta bellezza d'una donna_) sia riuscita, nella
mente vostra, più bella con quattro di voi, che la famigerata Elena di
Zeusi con cinque Crotoniate? E questo è un fortissimo argomento, che a
Prato sono oggi molto piú belle le donne, ch'elle non erano in Grecia
anticamente». Del resto, al trattato umanistico del Firenzuola avevano
preceduto, intorno a quel leggiadro argomento, le graziose goffaggini
medievali, di forma tra il popolano e il dottrinale. Vedi, per esempio:
_El costume de le donne, con un Capitolo de le_ XXXIII _bellezze_ (per
cura di S. MORPURGO); Firenze, Libreria Dante, 1889. Della sede e scena
dei dialoghi Firenzoliani dove oggi il Collegio Cicognini, vedi CESARE
GUASTI, _Memorie di Giuseppe Silvestri_; Prato, 1874; II, 5-6.

[338] _Purg._ XIV, 109-10; _Inf._ XXXI, 17.

[339] Vedi, per quanto qui riferisco sulla Giostra del magnifico
Lorenzo, le indicazioni contenute a pag. 407-408 del cit. mio libro
_Florentia_.

[340] Mi piace riferire (parte della prima, e della seconda l'intero)
le due lettere di Francesco Tornabuoni al magnifico Lorenzo, dei 4 e
degli 11 gennaio 1469 (le pubblicai per nozze Levi-Bondi: _La fidanzata
di Lorenzo de' Medici_; Firenze, Landi, 1897).

    .... E' non manca mai giorno, che io non sia a vedere la vostra
    madonna Clarice, che mi fa impazare; che ogni giorno me ne pare
    meglio: lei bella, e piena di tutti i buon costumi, e à uno
    spirito mirabile; e sono circa viij giorni che l'à cominciato
    a imparare a ballare, c'ogni giorno à imparato un ballo: che
    non li è prima mostro, che l'à imparato. Maestro Agnolo l'avea
    pregata che la dovessi scrivervi di suo' mano, e per niente non
    lo volea fare: io l'ò tanto pregata, che per amore mio disse
    essere contenta farlo; ma ben mi disse che voi dimostravi essere
    molto occupato in questa giostra, chè dapoi è venuto Donnino non
    à avuto vostre lettere. Poi che voi non la potete vicitare con
    la persona, fatelo almanco con lettere spesso, chè gliene date
    gran consolazione. E in effetto, voi avete la più digna compagna
    d'Italia....

    X.º Al nome di Dio, adi xj di febraio 1468 (_stil fior._).

    Magnifice vir et maior honorandissime. Questo dì c'è suto
    lettere di Giovanni Tornabuoni, come avevi fatto la giostra,
    e n'era uscito sano e con grandissimo onore V. M. La qual cosa
    subito ebbi intesa, l'andai a dire a la vostra madonna Clarice,
    e li portai una lettera di Giovanni, che non vi potrei dire la
    consolazione n'ebbe: che sono iiij giorni non s'è rallegrata
    se none oggi, perchè stava continovamente in sospetto di V. M.
    per rispetto de la giostra; e ancora à avuto un poco di doglia
    di testa, e subito intese questa nuova li passò la doglia, e
    sta tutta allegra. E di madonna Madalena non vi dico nulla, chè
    sarebbe impossibile a dirlo con quanta consolazione e allegreza
    sta, e solo li resta avere una consolazione: e questo ène, che
    voi vegniate fin qua questa quaresima, chè dice che vuole che
    voi vegiate la vostra mercanzia avanti l'abiate a casa: la quale
    ogni giorno migliora. In questa fia una lettera sua. Madonna
    Clarice non à voluto scrivere, e àmi detto che io vi scriva per
    suo' parte che v'à da dire un grandissimo segreto, e che non si
    fida di persona, nè lo vuol fare per lettera perchè dubita non ne
    fussi fatto mal servigio: e in effetto, vi chiama a più potere, e
    dice, ora s'è fatto la giostra, non arete più scusa da arecare. E
    a V. M. si raccomanda, e vi priega la raccomandiate al magnifico
    Piero e a madonna Contessina e a madonna Lucrezia e a la Bianca
    e a la Nannina e a Giuliano. Ieri levai panno pagonazo di Londra
    per una gonna a la romanesca, perchè questa quaresima vuol
    Madonna che la vadia a la romanesca, che credo non istarà punto
    male, e vuole andar vicitando tutti questi perdoni, pregando
    Iddio per voi.

    Per questa terra non si fa altro che dire de la gran magnificenza
    avete fatto, e massimo de la persona, che si dice vi siate
    aoperato tanto degnamente quanto sia possibile di dire, e che
    giamai fu paladino facessi quello à fatto V. Magnificenza, che
    ciascheduno se n'è ralegrato grandemente, e massimo li amici
    vostri. Messere Giovanfrancesco figliolo del Marchese di Mantova
    si raccomanda a V. M., e per Dio se n'è molto rallegrato e
    avutone grandissima consolazione, confermandovisi sempre parato
    ai piaceri di V. M.

    Per questa non m'accade a dire, se non che sempre mi raccomando
    a V. M., che l'altissimo Iddio di male guardi e la conservi in
    felicità.

    Vostro Francesco di Filippo Tornabuoni in Roma.

La fidanzata scriveva a Lorenzo il 28 gennaio: e ne rispetto la
grafìa, che è ben diversa in altre lettere della Clarice dopo fattasi
fiorentina:

    Magnifico consorte, recommandatione etc. Ho hauta una vostra
    lettera, e inteso quanto scrivete. Che a Voi sia cara la mia
    lettera me piace, como a collei che sempre desidera fare cosa
    che ve sia grata. Et più dite, che avete poco scritto: remagno
    contenta a tanto quanto vi piace, governandome sempre in bona
    speranza. Madonna mia matre ve benedice. Piacive recomandarme a
    vostru et mio patre, a vostra e mia matre, e a quelli altri che
    vi pare. Sempre me recomando a Voi. A Borna, die xxviii gennaio
    1469. Vostra Clarice de Ursinis.

E il 25 febbraio, dopo che Lorenzo stesso le aveva scritto della
giostra, rispondeva:

    Magnifico consorte, recommandatione etc. Ho auta una vostra
    lettera, la quale a mi è molto grata, dove mi avi sate de la
    giostra, che havete hauto l'onore. A mi molto mi piacce che
    sia sodisfato l'animo vostro in quelo che v'è sì a piacere; et
    se le horationi mia sonno hesaudite in questo, me è caro, como
    a culei che desidera fare cosa che ve sii a piaccere. Pregovi
    me recommandate a mio patre Piero, a mia matre Lucretia, et
    a madonna Contissina, et tucti l'altri che ve pare. Io mi
    recommando a Voi. Non altro. In Roma, die XXV febr. 1469. Vostra
    Clarice de Ursinis.

Caratteristico de' costumi, non meno che squisito per pittura dal
vero, è quanto, due anni prima, aveva scritto da Roma, nel marzo del
67, madonna Lucrezia al marito Piero de' Medici, dopo aver messo gli
occhi sulla Clarice come buon partito pel loro figliuolo. Così le due
letterine della fidanzata, come questa della Tornabuoni, le pubblicò
Cesare Guasti (_Tre lettere di Lucrezia Tornabuoni a Piero de' Medici
ed altre lettere_, ec.) per nozze Uguccioni-Del Turco; Firenze, tip. Le
Monnier, 1859.

    .... Giovedì mattina, andando a San Piero, mi riscontrai in
    madonna Maddalena Orsina, sorella del Cardinale, la quale avea
    seco suo' figliuola, d'età d'anni 15 in 16. Era vestita alla
    romana, co'l lenzuolo; la quale mi parve, in quello abito, molta
    bella, bianca e grande: ma perchè la fanciulla pure era coperta,
    non la pote' vedere a mio modo. Accadde ieri che andai a vicitare
    il prefato monsignor Orsino, il quale era in casa la prefata suo'
    sorella, che entra in nella sua; quando, fatto per tuo' parte con
    suo' Signoria le debite vicitazioni, vi sopraggiunse la prefata
    suo' sorella colla detta fanciulla; la quale era in una gonna
    istretta alla romana, e sanza lenzuolo: e stemoci gran pezzo a
    ragionare; e io posi ben ment' a detta fanciulla. La quale, come
    dico, è di ricipiente grandezza, e bianca, et à sì dolce maniera,
    non però sì gentile come le nostre; ma è di gran modesta, e da
    ridulla presto a' nostri costumi. Il capo non à biondo, perchè
    non se n'à di qua (_cioè, a Roma non son comuni le bionde, che
    erano le più pregiate di bellezza_): pendono i suoi capegli in
    rosso, e n'à assai. La faccia del viso pende un po' tondetta;
    ma non mi dispiace. La gola è isvelta confacientemente, ma mi
    pare un po' sotiletta o, a dir meglio, gentiletta. Il petto
    non potemo vedere, perchè usano ire tutte turate; ma mostra di
    buona qualità. Va col capo non ardita come le nostre, ma pare
    lo porti un po' innanzi: e questo mi stimo proceda perchè si
    vergogniava; chè in lei non vego segnio alcuno, se non per lo
    star vergogniosa. La mano à lunga e isvelta. E tutto racolto,
    giudichiamo la fanciulla assai più che comunale; ma non da
    comparalla alla Maria, Lucrezia e Bianca (_loro figliuole_).
    Lorenzo lui medesimo l'à vista: e quanto esso se ne contenti,
    tu lo potrai intendere. Io giudicherò che tutto che tu et lui
    ditirminerete sia ben fatto, e me n'accorderò. Lassiamne Idio
    pigliar il meglio partito.... Tua Lucrezia.

E in altro foglio di sua mano soggiungeva:

    Come ti dico per letera di mano di Giovanni (_Tornabuoni, suo
    fratello_), noi abiàno vista la fanciulla, con buono modo e sanza
    dimostrazione; e quando la cosa nonn'abia avere effetto, non ci
    si metterà nulla del tuo, chè nallo ragionamento s'è avuto. La
    fanciulla à dua buone parti, ch'è grande e biancha: non à uno
    bello viso, nè rusticho; à buona persona. Lorenzo l'ha veduta:
    intendi da lui se la li piace; chè ci è tante altre parti, che
    s'ella soddisfacessi a lui, ci potremo contentare. El nome suo è
    Clarice. Lucretia tua.

[341] _Delle nozze di Lorenzo de' Medici con Clarice Orsini nel 1409;
Informazione di Piero Parenti fiorentino_: Firenze, tip. Bencini, 1870.

[342] Vedi nel mio libro _Florentia_, a pag. 212 e 307.

[343] Vedi la XXIIIª delle lettere del Poliziano, da me date nelle sue
_Prose volgari_.

[344] Vedi _Un cappellano mediceo_, a pag. 422 e segg. del mio
_Florentia_.

[345] _Nota dell'armeggeria fatta da Bartolommeo Benci alla Marietta
degli Strozzi il 14 di febbraio 1464 in Firenze_; Firenze, tip.
Galileiana, 1876: pubblicata, per nozze Paoli-Martelli, da A. GHERARDI
con lettera dedicatoria illustrativa.

[346] «Ritrasse di naturale» scrive di Desiderio da Settignano il
Vasari (IV, 228) «la testa della Marietta degli Strozzi; la quale
essendo bellissima, gli riuscì molto eccellente»: e dal Boschetto degli
Strozzi, fuor di Porta S. Frediano, è oggi nel loro palazzo in città.
Altri ha creduto riconoscerla in un busto, pure strozziano, che è nel
Museo di Berlino. «Ad Laurentium Strozam de Mariettae sororis laudibus»
sono distici del solito eulogista mediceo Naldo Naldi, nel codice
Laurenziano XXXV, XXXIV, c. 15-17.

[347] Fra le _Vite_ di contemporanei scritte da Vespasiano da Bisticci,
è anche quella dell'Alessandra Bardi Strozzi: ma vedi di lei anche
nell'aureo libro di CESARE GUASTI sull'altra degna donna entrata
nell'altro ramo della grande famiglia, Alessandra Macinghi negli
Strozzi: _Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai
figliuoli esuli_; Firenze, Sansoni, 1877; pag. XII-XV.

[348] Nel cit. carteggio domestico pubblicato dal Guasti, si può vedere
(pag. 589-90, 594-96) com'era giudicata la Marietta, quando si trattò
di farne la moglie d'uno de' figliuoli dell'Alessandra, Lorenzo. A
questo Lorenzo, che n'era innamorato fino a dare per certo che o lei
o nessuna, il fratello maggiore Filippo scriveva nel 69: «Confessoti
che sia da mettere per bella fanciulla, o vuoi dire donna, e che ha
buona dota: ma in opposito mi pare vi siano tante parti, che pesono
assai più che le buone. Di prima faccia, a chi lo sentirà parrà che
noi vi manchiamo di riputazione, perchè la mercatanzia non va, tanto è
soprastata e suta percossa» (allude a trattative d'altri matrimoni) «e
costì e altrove; e l'essere trasandata di tempo, e sanza padre e sanza
madre,» (era morta nel 65) «e fuori di casa sua, essendo bella, non
sarebbe gran fatto che ci fussi qualche macchia. Poi penso, ec.»

[349] È del febbraio 64, a Lorenzo, giovine di diciott'anni, a Pisa,
nell'Archivio fiorentino di Stato, _Carte Strozzi Uguccioni_, filza
CIII, a c. 72. Questo e qualche altro po' del latino che, leggendo
alle signore, tradussi, non disdice forse all'argomento umanistico....
nè ormai a leggitrici parecchie, che vengon sapendo di latino più di
taluni laureati.

    .... ea ad te scribam, quae neque ah amicitia nostra aliena sunt,
    simulque in legendo tibi aliquam voluptatem possint afferre.
    Cum enim haec scribebam, nix totam pene urbem oppleverat: quam
    aliis taedio atque languori, aliis exercitio atque voluptati,
    fuisse scias; sed in primis incredibili voluptati fuit Laucterio
    Neronio, Priori Pandolfino et Bartholomeo Bencio, spectatissimis
    sane nostrae civitatis hominibus. Hi enim, hac oblata rerum
    opportunitate, in id convenerunt, ut aliquid memoria dignum
    ederent. Quapropter, circiter secundam horam noctis, ante aedes
    Strozzae puellae, cum summa hominum frequentia, nam ad id undique
    populus confluxerant, se obtulerunt, scilicet parati et simul
    iacere atque recipere quasi ad invicem multam nivem. Partiti
    igitur sunt cum puella nivem. Quod spectaculum, Dii immortales!
    nam pro dignitate, et innumerorum funalium luminibus, et tubarum
    clangore atque tibiarum suavitate, exornatum erat. Hic autem
    vereor ne mea inculta oratione assequi possim quid ea nocte meis
    oculis conspicatus sum. Quid enim dicam de variis circumastantium
    studiis? quid de multorum applausu? Liceat haec breviter
    perstringere, mi Laurenti, cum assequi nostris verbis nequeamus.
    Quisque enim illorum aliquid egregium se adeptum putabat, si nive
    niveae puellae faciem conspersisset, adeo ut facile diceres,
    hanc totam rem non nivis ludum fuisse, sed potius sagittatorum
    certamen ad scopon, tanta gloria pugnabant! Ipsa vero puella ita
    se gessit, ob summam, quae in illa est, ludendi venustatem atque
    dexteritatem, non dicam ob pulchritudinem quae satis omnibus
    innotescit, ut probata ab omnibus atque commendata discederet.
    Adolescentes vero ii, qui tam liberaliter luserant, nullo pacto
    prius, quin digno munere eam afficerent, discedendum putarunt.
    Itaque discessum est, ut unusquisque sibi accumulatissime
    satisfecisse videretur...»

[350]

    Nix ipsa es virgo, et nive ludis. Lude; sed ante
      quam pereat candor, fac rigor ut pereat.

A pag. 143 delle cit. _Poesie lat. e gr_. Vedi ivi da me indicati
altri consimili ghiribizzi nivali. Del resto si hanno, de' giuochi di
neve, anche riscontri medievali popolari. Nei Sonetti di Folgore da
San Gimignano (_Le Rime_ ec.; Bologna, 1880; pag. 5) per la Brigata
spendereccia senese, uno de' divertimenti invernali dev'esser di

    uscir di fora alcuna volta il giorno,
    gittando della neve bella e bianca
    a le donzelle che staran dattorno.

E uno dei _Canti carnascialeschi_ fiorentini (Firenze, 1559; pag. 61),
dei tempi appunto della Marietta, è il _Canto della neve_, gentilissima
cosa, come bastano questi versi a mostrare:

    Chi vuol con questa neve trastullarsi,
    o belle donne, ei non è tempo a starsi.
    La bella neve, donne, oggi v'invita:
    l'è oggi bianca, e doman fia fuggita;
    e così fa la vostra età fiorita:
    chè tosto è vecchia; e poi bisogna starsi.

[351] FOSCOLO, _Sepolcri_, vv. 20-22.

[352] Delle nozze episcopali fiorentine ebbi a far cenno nella prima di
queste monografie, a pag. 28. Sono descritte in un frammento di Cronaca
del 1342, pubblicato dietro a quella domestica di Donato Velluti, da
D. M. MANNI (Firenze, 1731), che alcune pagine della sua prefazione al
libro spende su questo argomento, riferendone autorità di scrittori
e di documenti. Dal latino notarile di quei documenti e di altri,
concernenti il matrimonio della badessa di San Piero, si atteggiano
pittorescamente costumi e figure di coteste età singolari.

In quelle nozze del 1342, il vescovo novello viene (così descrivono
memorie d'un Libro della famiglia Visdomini, riferite dal Manni) viene
da Porta Romana. Gli vanno incontro «con tube e cennamelle e altra
sorta strumenti» il Potestà e il Capitano con tutti i loro cavalieri
e giudici, e grande popolo dietro: così pure, tutti i canonici e
il clero e le fraterie, processionalmente. Alla porta i Visdomini e
i Tosinghi (le quali due famiglie sono i «visdomini» del vescovato
fiorentino, i proverbiati da Dante [_Parad_. XVI, 112-114] del «farsi
grassi» in sede vacante) scendono da cavallo, e «con serto e ghirlande
in capo» aspettano 1 vescovo. All'arrivo di lui, che viene, «parato
pontificalmente con mitra e piviale», e passa a cavallo la porta,
quattro dei suddetti visdomini lo ricevono sotto un palio di drappo
dorato retto su quattro bigordi o aste da giostra: altri due, in
ufficio di «addestratori», prendono il freno del cavallo. E così, da
Porta Romana la comitiva giunge a San Pier Maggiore. Scende il vescovo
da cavallo: e i visdomini «lo ricevono nelle loro braccia, e con esso
vanno all'altare»; e poi, mentr'e' si para, «sempre lo tengono fra le
braccia», aiutandolo a vestirsi, e «vanno con esso fino alla camera, e
dentro la camera, della badessa». Ivi il vescovo trova «un bellissimo
letto che la badessa ha fatto fare per lui», e in quello si riposa a
piacer suo. Poi esce di camera, e viene nel chiostro, dove si fa il
banchetto. Il cavallo del vescovo resta alla badessa. Il giorno dipoi
tornano i visdomini alla camera dov'è rimasto il vescovo; e al solito
inghirlandati lo accompagnano in chiesa all'altare e lo insediano
solennemente: poi viene il clero, vengono i religiosi, e lo conducono,
scalzo, da San Piero a Santa Reparata, dove prende possesso.

Centoventuno anni dopo, il 27 agosto 1473, il vescovo (anzi
allora l'arcivescovo) arriva a San Piero, siede pontificalmente;
la badessa gli s'inginocchia dinanzi, supplicandolo di «essere
da lui spiritualmente sposata»; egli «con ilare faccia» le dà
l'anello; un Albizzi ha il privilegio di tenere il dito della sposa
nell'inanellamento. Della camera, del letto, della notte nuziale,
l'istrumento notarile non dice nulla.

Le nozze episcopali in San Piero le aveva anche Pistoia: vedi
_L'ingresso in Pistoia del vescovo Matteo Diamanti, e il suo sposalizio
con la badessa di San Piero il 30 maggio 1400; Descrizione di un
contemporaneo;_ pubblicata da C. GIGLIOTTI (Camaiore, 1898) per nozze
Rostagno-Cavazza.

[353] Nelle nozze del 1301, lo stesso notaro che si roga dell'anello,
ha testè ricevuto una protesta del sindaco e procuratore del monastero,
con riserva di diritti ec., perchè al pranzo nuziale in San Piero
sono stati ammessi, e delle due famiglie visdominali e de' canonici,
più di quelli che soli n'avevano il diritto. La cerimonia del
1383 è accompagnata da tumulti e proteste, e seguita da un lodo di
giurisperiti.

[354] Di questa sella, «anzi sella e freno», vedi le lettere XIVª e
XVIª della Macinghi Strozzi, e relative annotazioni del Guasti. Ne'
tempi dell'Alessandra pare che la cerimonia andasse un po' in disuso:
ma non mancano testimonianze del secolo successivo. Una _elucubratio_
su tale argomento, di Dionisio Lippi pievano di Castelfiorentino, ha
occasione dall'ingresso del 1567.

Queste mie noterelle 352, 353, 354, si appoggiano a documenti
dell'Archivio notarile, o contenuti nel così detto _Bullettone_ o Libro
dei visdomini, che si conserva nell'Archivio arcivescovile di Firenze.

[355] Ora da me pubblicato in _Florentia_, pag. 357 e segg.

[356] Nella conferenza che ebbi occasione di indicare a pag. 56, nota
10.

[357] Vedi P. VILLARI, _Niccolò Machiavelli e i suoi tempi_; I, 393;
III, 194-196.

[358] «E restata Annalena priva del figliuolo e del marito, non volle
più con altro uomo accompagnarsi; e fatto delle sue case un munistero,
con molte nobili donne che con lei convennero si rinchiuse, dove
santamente visse e morì. La cui memoria, per il munistero creato e
nomato da lei, come al presente vive, così viverà sempre». _Istorie
fiorentine_, VI, VII.

[359] Vedi G. ZIPPEL, _Le monache d'Annalena e il Savonarola_; nel
fasc. di ottobre 1901 della _Rivista d'Italia_.

[360] Il solito Naldo Naldi: _Ad Annalenam feminam castissimam_ (Codice
Laurenziano XXXV, XXXIV):

    Surge, liber; nigram tristis nunc indue vestem
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
                  atque Annae casta sacella pete.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Quae surgunt fesulis .... suffulta columnis
      candida tempia petes spirituamque domum.
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    . . . . . . . Annalenam .... visas
    . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
    Vestales ........ spectabis in ordine castas,
      fundentes sacras in sua vota preces.

E dopo avere fatto piangere e disperarsi, nel cenobio d'Annalena,
quella sua poesia poveraccia, soggiunge:

    ...... non est minor ille supremum,
      sit quamvis sapiens, quem capit Anna dolor.
    Dicitur haec etiam lachrymas fudisse pudicas
      Albitiae fato virginis acta gravi.
    Nec mirum: sic Anna piam dilexit alumnam,
      pignora sola velut anxia mater amat.

E conchiude che, tra la pia Annalena e la poesia di esso Naldo, faranno
a gara, per l'Albiera, l'Annalena di pregare, e la poesia di cantare,
per farla star meglio di là e di qua.

[361] Come quello ch'ebbi altra occasione di citare (pag. 232, nota
38), pubblicato da S. MORPURGO, _El Costume de le donne_ ec. Per tutta
una letteratura medievale, italiana e francese, di «castigamenti» o
«reggimenti» domestici o femminili, alla quale esso appartiene, vedi la
recensione fattane da E. GORRA, nel _Giornale storico della letteratura
italiana_; XIV, 269 segg.

[362] Quello che fu lungamente conosciuto per _Trattato del Governo
della famiglia_ di AGNOLO PANDOLFINI, dialogizzante in esso co'
figliuoli e nipoti, è oggi restituito, come libro terzo, all'opera
_Della famiglia_ di LEON BATTISTA ALBERTI: e ciò specialmente dopo
il bel libro di GIROLAMO MANCINI, _Vita di L. B. Alberti_; Firenze,
Sansoni, 1882.

[363] _Vite di uomini illustri del secolo XV_; ediz. L. FRATI, Bologna,
1892-93. Al tema nostro più strettamente attiene la parte che il buon
Vespasiano assegnò alle _Donne illustri_, scrivendo distesamente la
Vita dell'Alessandra Bardi negli Strozzi, e incominciando il _Libro_,
biografico insieme e didattico, _delle lode e commendazione delle
donne, mandato a madonna Maria donna di Pierfilippo Pandolfini_: nella
citata edizione, III, pagg. 245 segg. Non dissimilmente ispirata,
sebbene in tutt'altre circostanze di vita civile, apparisce una
_Defensione delle donne_ (Bologna, Romagnoli, 1876) di anonimo, uomo di
chiesa, di dicitura piuttosto toscana, ma che scriveva in Mantova pur
in quella seconda metà del Quattrocento. Non appartengono, o ben poco,
al tema di questo mio libro, ma pure si congiungono comecchessia a
quella foggia di scritture, le _Difese delle donne_, la _Nobiltà delle
donne_, e simili altre compilazioni cinquecentistiche, sulle quali vedi
la dotta bibliografia di SALVATORE BONGI, _Annali di Gabriel Giolito
de' Ferrari_ (Roma, 1890-97), I, 246-49.

E qui anche ritorna (cfr. nota 38) il nome del leggiadro monaco
Firenzuola, coi _Ragionamenti d'amore_ premessi alle _Novelle_,
e preceduti dalla _Epistola in lode delle donne_ a messer Claudio
Tolomei, sentenziatore che le donne siano «persone, alle quali più
si converrebbe cercare quante matasse faccian mestieri a riempire una
tela, che entrare per le scuole de' filosofanti». Ma la filosofia del
Firenzuola era, invero, troppo più femminile che monastica. E così
quando messer Giovanni Boccacci esalta (_Corbaccio_, pag. 57-58) i
colloqui spirituali con le Muse, quanto potrem noi credergli ch'ei li
preferisse daddovero a quelli con le donne di questo mondo? sebbene
e' metta a carico di queste la trivialità de' loro discorsi: «e quanta
cenere si voglia a cuocere una matassa d'accia, e se il lino viterbese
è più sottile che 'l romagnuolo, e se troppo abbia il forno la fornaia
scaldato, e la fante lasciato meno il pane levitare, o che da provveder
sia donde vegnano delle granate che la casa si spazzi, o quel ch'abbia
fatto la notte passata monna cotale e monna altrettale, e quanti
paternostri ell'abbia detti al predicare, e s'egli è il meglio alla
cotale roba mutar le gale o lasciarle stare....»: il che tutto, o quasi
tutto, non guasta a noi l'«ideale nella realtà» della donna di casa del
buon tempo antico e di tutti i tempi.

[364] _Regola del governo di cura familiare, compilata dal beato_
GIOVANNI DOMINICI _fiorentino de' Frati Predicatori_; ediz. Salvi,
Firenze 1860.

[365] Affettuoso abitual modo di ricordarle, che già rilevai a pag. 64,
nota 96.

[366] Alle già fino dal Settecento date a stampa, di Donato Velluti,
di Giovanni Morelli, di Bonaccorso Pitti, altre oggi e _Croniche
domestiche_ e _Ricordanze_ si potrebbero aggiungere: incominciando dal
ristampare, con migliori cure, quelle tre, e restituendole a quel loro
vero titolo, di _Croniche domestiche_, che è quanto dire presentandole
per ciò che veramente esse sono.

[367] Vedi qui a pag. 61, nota 95. Anche il Burckhardt (op. cit., II,
167) attribuisce tale significato e valore alla biografia della Bardi
scritta da Vespasiano.

[368] Nella cit. ediz., a pagg. 257, 258, 259, 263, 266, 267, 268.

[369] «... la seconda regola» (di due, date da San Paolo) «della quale
ell'hanno grandissimo bisogno, è questo, ch'elle imparino, e massime in
chiesa, a non parlare. E io vi aggiungo, e in ogni altro luogo; perchè
con questo mezzo del parlare favellano molti mali...» _Proemio alla
Vita di Alessandra Bardi_, pag. 256.

[370] Nella XXVIª delle già citate _Lettere_, pag. 256.

[371] _Lettere di una gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli
esuli_, pubblicate da CESARE GUASTI; Firenze, Sansoni, 1877.

[372] _Istorie fiorentine_; IV, XVI.

[373] Archivio fiorentino di Stato; _Carte Medicee avanti il
principato_, XXII, 347. Era la Ginevra moglie, da due anni, di Bernardo
Bartolini Salimbeni.

[374] Mi è caro ricordare come una fra le gentili che mi ascoltavano,
pubblicasse tre anni dipoi pagine nelle quali Cesare Guasti avrebbe
potuto riconoscere non infruttuosa la dedica da lui preposta al
suo libro: «Alle donne italiane — le quali prego — leggano questo
volume — col cuore». Il libretto di quella gentile s'intitola: GIULIA
FRANCESCHINI, _Le Lettere di Alessandra Macinghi Strozzi_; Firenze,
Stab. tip. fiorentino, 1895.

[375] Delle _Donne di casa Medici avanti il principato_ (Contessina,
Lucrezia, Clarice, Alfonsina, Maria Salviati) ha raccolto le memorie,
dall'edito e dall'inedito, una studiosa alunna dell'Istituto Superiore
fiorentino di Magistero femminile, signorina Berta Felice; ed io
benauguro della non lontana pubblicazione. — La Macinghi Strozzi è
rivissuta nel libro del Guasti. — Di Maria Salviati nei Medici, di
Maria Soderini nei Medici, di Maria Strozzi nei Ridolfi, vedi qui
appresso, note 87, 88. — Nella Isabella Guicciardini effigio io,
in questo stesso libro, _Una madrefamiglia del Cinquecento_. — Ne'
Rucellai, famiglia di gran valentuomini in quell'età di transito da
repubblica a principato, e fra questo e quella ondeggiante, entrò la
Nannina Medici sorella del magnifico Lorenzo, moglie di Bernardo uom di
stato e umanista; e seguaci fervorose pur vi ebbe il Savonarola (vedi
appresso nota 77).

[376] Vedi P. VILLARI, _La storia di G. Savonarola_; II, CXCIJ. E ne'
_Documenti e Studi intorno a G. Savonarola per cura di_ A. GHERARDI
(Firenze, Sansoni, 1887, a pag. 216) si legge che all'invito per la
prova del fuoco, a provar vera, contro le scomuniche, la dottrina del
Frate, erano «tanti che desiderano entrare in questo fuoco, che è uno
stupore, così secolari come religiosi, come femine et giovanetti. In
modo, che invitando iermattina in pubblico fra Domenico a questo, si
levorono a un tratto molte donne gridando: Io, Io....»

Una di coteste donne è credibile fosse la «diletta in Cristo sorella,
ancilla del Nostro Signore», alla quale, senza ne apparisca altramente
il nome, fra Domenico Bonvicini, il più animoso dei seguaci del
Savonarola e uno de' due suoi compagni di rogo, scriveva:

    Sorella mia in Christo domino dulcissima. Le nostre cose sono da
    Dio: et se Voi starete umile, e non le comunicherete con molti,
    nè le direte se non forzata o per grande utilità, pregando il
    Signore che non vi lasci ingannare; se farete, dico, queste tre
    cose, non vi si mescolerà mai alcuno errore, e cresceranno in
    magior lume e grazia. Dunque pregate Dio che mi mandi uno demonio
    come egli ha mandato a Voi; ciò è di quella ragione spirito,
    della quale ragione avete Voi; perchè io vorrei essere spiritato
    come siete Voi. De', fate d'essere exaudita. Oh quanta cecità
    della Chiesa nel tempo presente! poi che e' ministri di quella
    non sanno discernere tra la luce e le tenebre qual differenza
    sia, cioè tra 'l pazzo e lo spiritato; e tra lo spiritato di
    Dio spirito santo, e lo spiritato del demonio spirito maligno.
    Ma io mi credo che la passione e disordinata affezione, e poca
    allegrezza del bene e della grazia del fratello, faccia a molti
    dire quel che per nessuno modo essi non credono. E basti....

GUIDO BIAGI, _Spigolature savonaroliane_ (per nozze Rostagno-Cavazza;
Firenze, 1898), a pag. 9-10. È probabile che costei fosse monna
Bartolomea Gianfigliazzi; «la quale avea sue divozioni e sua spiriti,
secondo diceva»; così il Savonarola nel processo (VILLARI, loc. cit.);
«ma» soggiunge «a questa non prestava molta fede, perchè li pareva
pazza.»

Le due Rucellai savonaroliane furono una Cammilla, venuta dai Bartolini
Davanzi, e una Marietta entrata negli Albizzi (vedi L. PASSERINI,
_Genealogia e Storia della famiglia Rucellai_; Firenze, 1861; pagg.
130-131). La Cammilla, scioltasi dalla vita coniugale (prima annuente,
poi renuente, il marito), si fece terziaria domenicana col nome di suor
Lucia; e nel _Diario sacro_ ec. fiorentino, ch'ebbi occasione di citare
a pag. 59, è sotto il 28 ottobre: «Beata Lucia Bartolini Rucellai
domenicana». Se di tempra _giacobina_ fosse costei, lo mostra una
pagina del Processo savonaroliano (VILLARI, II, CLXJV, CCXXVIJ), che
si riferisce al truce episodio (vedi sopra, nota 18) della condanna e
decapitazione dei cinque Medicei nel 97: «Filippo Arrigucci, che allora
era de' Signori, voleva gittare dalle finestre del Palazzo Bernardo del
Nero, che era allora Gonfalonieri di Iustizia: e in quel tempo il ditto
Filippo mandò a dimandare madonna Camilla de' Rucellai quello si aveva
a fare allora; e lei gli mandò a rispondere che lei aveva avuto in
revelazione, che gittassero dalle finestre Bernardo del Nero....».

[377] Vedi fra i citati _Documenti e studi_ del Gherardi, come
scriva, il 25 maggio 1495, una Guglielmina della Stufa al marito Luigi
Commissario per la Repubblica in Arezzo: «Fra Girolamo, stamani, ci à
rafermo el bene che noi avemo avere che non mancherà per nulla, ma che
prima abbiamo avere del male; e perchè el male sia meno, ci ha detto
faciamo quaresima da qui a lo Spirito Santo, e stiamo in orazione;
e che non dubita che messer Domenedio è piatoso, che ci alegerirà le
nostre fatiche che avemo avere. Sì che qua ognuno stimo la farà. El
simile devereste far Voi, a ciò che Dio ci liberasse da tanti affanni
e tribulazione che si trova questa città e, per dire meglio, tuto el
mondo».

Ma singolare documento savonaroliano e femminile è la _Lettera
di una Monaca a fra Jeronimo Savonarola_, pubblicata (per nozze
Carnesecchi-Bini; Firenze, 1898) da Guido Biagi; dove è sollecitata «la
riforma delle donne» quasi con senso di gelosia, che il riformatore si
occupi meno di loro, che «degli uomini e de' fanciulli».

                                    ✠ yhs.

    _Debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim
    secundum carnem vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta
    carnis mortificaveritis, vivetis_. Ad Romanos, 8 cº.

    Essendo noi, reverendissimo in Christo Yhesu padre diletto,
    debitori non alla carne, ma per mortificare le opere della carne
    collo spirito e vivere; e questo desiderando moltissime persone,
    e maxime le fanciulle, le quali zelanti e fervide che l'onore di
    Dio in loro sia magnificato, avuto più volte da Voi predicando
    consiglio e documenti si debbino reformare ad uno onesto e
    semplice vivere, e con ardente caritate e mirabile fervore
    eccitate a fare la reforma; pare a loro che, poi eccitasti et
    a reformare cominciasti li uomini et i fanciulli, delle donne
    non vi curiate. E benchè siàno manco degne, non è però che da
    Dio non siàno molto amate, poi che di donna volse nascere, e
    la Chiesa dice: _Intercede pro devoto femineo sexu_. Le quali
    vorrebbono, per zelo di iustizia, fussi pregato notificare e
    pubblicare questa reforma, acciò possino el desiderio nel quale
    si ritruovono perficere. E sapete non essere manco virtute il
    conservare lo acquistato, che il congregare: _immo_, più; come
    dice Jovanni Cassiano nelle sue Collazioni. Et avendo voi assai
    tempo laborato e ben seminato, è necessario provedere non venisse
    lo inimico omo per seminare la zinzania; e maxime che viene il
    tempo della state, e le fanciulle di nuovo si rivestono: vorrebon
    sapere che foggia e forma abbino a fare. Sapete che 'l senso
    tira: se non provedete con questa reforma, transcorreranno in
    troppa dilazione. Sì che, per caritate, siate contento più presto
    potete manifestarla. Non altro. Christo Yhesu sempre sia in
    vostra guardia. La nostra sorella et io, vostre sempre spiritual
    figliuole, vi preghiamo nelle vostre orazione di noi facciate
    memoria; e così tutta la casa nostra è al vostro comando. Addì 2
    di maggio, l'anno di salute MCCCCLXXXXVI.

    Per la Vostra in Christo spiritual figliuola Margarita di
    Martino.

[378] _Predica_ dei 15 maggio 1496; a c. 42-43 dell'edizione di
Venezia, 1540.

[379] Vedi VILLARI, op. cit., I, 505-511; II, 95. In una _Canzona_ (da
me ripubblicata; Firenze, 1864) _d'un Piagnone pel Bruciamento delle
vanità nel carnevale del 1498_, la quale al Tommaseo (_Dizionario
estetico_, pag. 910) parve palinodia insieme e parodia dei canti
carnascialeschi Medicei, fra le cose che il fiorentino piagnone dice a
Carnevale, mentre questi si accinge a tramutarsi da Firenze, convertita
cristiana, a Roma curiale e pagana, è anche:

    Le tue donne vane e stolte
    sonsi mai contra te volte,
    che l'avevi fatte erede?

E Carnasciale risponde:

    Ciascun m'ha per derelitto;
    fin le donne m'hanno afflitto,
    rinegando la mia fede.

[380] Vedi in iscorcio quelle e altre figure in _Mecenate e Cliente
medicei_, a pag. 206 segg. del cit. mio libro _Florentia_.

[381] P. VILLARI, _Niccolò Machiavelli e i suoi tempi_; III, 44 segg.,
77, 136 segg.

[382] Vedi _Carnasciale postumo_, a pag. 412-421 del mio cit.
_Florentia_; e _Repubblica medicea_, a pag. 143-149 delle mie
_Conferenze fiorentine_ (Milano, Cogliati, 1901).

[383] A pag. 68-69 del cit. Studio di G. LEVANTINI-PIERONI su Lucrezia
Tornabuoni.

[384] Lettera LIXª, de' 15 novembre 1465, a pag. 517: «.... l'angiolo
Raffaello,.... come guardò Tubbiuzzo da pericoli e da inganni, e poi lo
rimenò al padre e alla madre,.... così rimeni voi a vostra madre, che
con tanto disiderio v'aspetta».

[385] Vedi sopra, a pag. 236-37, nota 348.

[386] Anche questa madre fiorentina ci fu rivelata da Cesare Guasti,
quando illustrò coi documenti _Alcuni fatti della prima giovinezza
di Cosimo I de' Medici_ (ora negli _Scritti storici_, vol. I delle
_Opere_, a pagg. 91 segg.). Vedi poi L. A. FERRAI, _Cosimo de' Medici
duca di Firenze_; Bologna, Zanichelli, 1882: PIERRE GAUTHIEZ, _Jean des
Bandes Noires_; Paris, 1901.

[387] Anche in quel dramma finale della libertà fiorentina, la parte
che, madre e sorella, figliuola e nuora, ha la donna, accennata già
pur negli storici contemporanei, emerge oggi e rileva dalle belle
monografie di L. A. FERRAI, _Lorenzino de' Medici e la società
cortigiana del Cinquecento_, Milano, Hoepli, 1891; e di PIERRE
GAUTHIEZ, _Lorenzaccio_, Paris, 1904.

[388] Questo _Aneddoto della corte d'Urbino_ fu, con parole degne e
della donna e della patria, tratto fuori dagli _Opuscoli_ di SCIPIONE
AMMIRATO, e ravvivato, da PIETRO GIORDANI; _Opere_, ed. Gussalli, VIII,
136-37.

[389] Le due tragedie strozziane sono state modernamente riprodotte, in
un dramma, il _Filippo Strozzi_ del Niccolini, e in un romanzo (qual ei
si sia) di Giovanni Rosini, la _Luisa Strozzi_. Su «la fine della Luisa
Strozzi, involta ancor oggi in profondo mistero, senza speranza di
squarciare il fitto velo che la ricopre», vedi L. A. FERRAI, op. cit.
pag. 146-49.

[390] Clarice, figliuola di Piero del magnifico Lorenzo de' Medici
e dell'Alfonsina Orsini, rinnovava il nome della nonna. «Altiera
e animosa donna» la ritrae il Varchi (_Stor. fior._ III, V), che
alla vigilia della cacciata Medicea del 1527, va in lettiga, «come
cagionevole» ch'ella era (e morì l'anno dopo) al palagio dei Medici;
e rinfaccia ai due giovinastri, Ippolito e Alessandro, che ivi
rappresentano indegnamente quel gran nome, come e quanto «i modi che
essi hanno tenuti e tengono siano dissimili a quelli che hanno tenuti i
loro maggiori»; e che «i suoi antenati avevano tanto potuto in Firenze,
quanto aveva conceduto il popolo; e alla volontà di quello avevano
ceduto, andandosene; e essendo richiamati dalla volontà di quello,
erano altre volte ritornati: e così giudicava che fusse da fare al
presente».

Col nome di Clarice Medici Strozzi è fra le _Rime diverse di alcune
nobilissime donne, raccolte da_ L. DOMENICHI (Lucca, 1559), questo
madrigale patriottico a Firenze:

    Flora, ninfa superba,
    che di Dïana sprezzi
    l'arco le reti le fontane e l'erba,
    non viver tanto in vezzi;
    chè, a te stessa increscendo,
    cangi la propria forma in strani lezj.
    Già, se il vero io comprendo,
    poco stimi i pastor che t'ebber cara,
    poco la libertà c'ognuno apprezza:
    tal che, la tua bellezza
    pigliando nova forma, or non più rara
    sarai, nè altrui sì cara.
    Di ciò mi doglio, e il mio dolor sia vano,
    che l'amaro tuo fin non è lontano.

Madrigale che ne ricorda un altro, nel quale pur sotto imagine di donna
amorosa, ma con ben altro vigor di linee e profondità di sentimento,
Michelangiolo Buonarroti raffigura, com'è il titolo appostogli dal
Guasti editore delle sue _Rime_ (Firenze, F. Le Monnier, 1863),
«Fiorenza e gli esuli fiorentini». Versi che in sè hanno alcun che di
sacro mistero, da ricordare, dell'immortale artefice, le Laurenziane
figurazioni dell'agonia della patria.

(_Gli esuli fiorentini alla Patria_)

    Per molti, donna, anzi per mille amanti
    creata fusti, e d'angelica forma.
    Or par che 'n ciel si dorma,
    s'un sol s'apropia quel ch'è dato a tanti.
    Ritorna a' nostri pianti
    il sol degli occhi tuoi, che par che schivi
    chi del suo dono in tal miseria è nato.

(_La Patria agli esuli_).

    Deh! non turbate i vostri desir santi:
    chè chi di me par che vi spogli e privi,
    col gran timor non gode il gran peccato.
    Chè degli amanti è men felice stato
    quello, ove 'l gran desir gran copia affrena,
    ch'una miseria di speranza piena.

[391] _Di villa, Lettere di Isabella Guicciardini al marito Luigi negli
anni 1535 e 1542_. Per nozze Guicciardini-Martelli. Firenze, Succ. Le
Monnier, 1883. Vedi in questo volume qui appresso.

[392] VASARI, _Vite_, XI, 268.

[393] Ripeto, dopo alquanti anni, queste parole, con la speranza
altresì che il Governo, ammaestrato da dolorose esperienze, cooperi
efficacemente, mediante provvedimenti degni dell'onor nazionale, alla
buona volontà e al sentimento gentilizio delle nostre antiche famiglie.

[394] _Lorenzo il Magnifico, Conferenza d'_ERNESTO MASI; fra quelle su
_La vita italiana nel Rinascimento_; Milano, Treves, 1893.

[395] VARCHI, _Stor. fior._, X, XXVII. All'Incisa di Valdarno, un marmo
ricorda: _1529, Lucrezia de' Mazzanti | donna d'alto cuore | plebea |
dagli amplessi aborrendo | di soldato alla patria nemico | inviolata
| qui nell'Arno | annegossi nè a lei | maggiore dell'altra Lucrezia |
i tempi consentirono un Bruto | e la Repubblica fiorentina | periva.
|| Questa memoria | dopo 309 anni | Antonio Brucalassi | poneva_.
Egisto Sarri, pittore del cui nome Figline si onora, raffigurava, con
fedeltà storica, nelle belle matronali forme di popolana nobilissima
quel femminile eroismo, in un quadro che si conserva presso il cav.
Giovanni Magherini Graziani. Il capitolo VI dell'_Assedio di Firenze_
del Guerrazzi è intitolato «Lucrezia Mazzanti».

[396] VARCHI, _Stor. fior._, XV, XXIII. Della iscrizione latina di esso
Varchi per la «Lucrezia etrusca,» vedi nell'_Assedio_ del Guerrazzi la
Nota al cit. cap. VI.

[397] Nel cap. VII dell'_Assedio_, immaginando e colorendo di suo
sopr'un accenno di IACOPO NARDI, _Istorie di Firenze_, VIII, LV.

[398] _Promessi sposi_, cap. VIII.

[399] _Isabella Orsini duchessa di Bracciano, Racconto di_ F. D.
GUERRAZZI.

[400] Nei capitoli IX e X dei _Promessi Sposi_.

[401] NARDI, _Istorie di Firenze_; IX, I.

[402] Le _Lettere spirituali e familiari di_ S. CATERINA DE' RICCI
per cura di C. Guasti (Prato, 1861), e quelle _alla Famiglia_ per cura
di A. Gherardi (Firenze, 1890), hanno avvivato i lineamenti umani di
questa donna fiorentina del buon tempo antico, inalzata agli onori
della santità. Delle altre, ben diverse, due Ricci fa cenno il Guasti
a pag. VI del Proemio al suo libro. E da _Marietta de' Ricci, ovvero
Firenze al tempo dell'Assedio_, s'intitola un coacervato di romanzesco
e di erudizione, di A. ADEMOLLO e L. PASSERINI; Firenze, 1811 e 1845.

[403] Vedi il bel libro di ANTONIO FAVARO, _Galileo Galilei e Suor
Maria Celeste_; Firenze, Barbèra, 1891.

[404] Sulla tomba di Maria Alinda Brunamonti Bonacci, è oggi pio
doveroso ufficio aggiungere anche il suo nome.

[405] Emilia Peruzzi nata Toscanelli: anche lei passata! Vedi E. DE
AMICIS, _Un salotto fiorentino del secolo scorso_; Firenze, G. Barbèra,
1902 Nella cappella domestica della Torre all'Antella essa fece
scrivere: _Dal 9 Settembre 1891, | XLIº anniversario delle nostre nozze
felici, | al 27 aprile 1892, | che Firenze memore ti richiese nella
sua Santa Croce, | posasti qui presso la madre | alla pia ombra del
sacrario domestico, | o mio Ubaldino. || Ma se disgiunte nell'estrema
quiete le ossa, | la concorde anima d'Emilia tua | tornerà a te in
quell'angelico tempio | che solo amore e luce ha per confine._ Ma anche
la lapide, che ora in quella cappella cuopre le ossa di Lei, aspetta
d'essere sollevata; e il sepolcro gentilizio di Santa Croce l'attende.



UNA MADREFAMIGLIA DEL CINQUECENTO

(ISABELLA SACCHETTI GUICCIARDINI)


I.

Firenze, 5 luglio 1535.

Carissimo Luigi, Ho aute dua vostre: alle quali risponderò brevissimo,
perchè sono occupata, chè domattina, a Dio piaccendo, andiamo a buona
ora in villa: e sono soprastata per conto della Simona[406]... E così
andréno a Popiano[407] col nome di Dio, che gli piaccia darci grazia
vi stiàno sani. E di là come potrò vi scriverrò; e come arò ordinato
le cose più necessarie, vi manderò el garzone colle cose chiedete:
e bisognerà rimandarlo presto, per attendere alle faccende. E se
manderete un altro buono asino, condurò biada in Firenze e delle altre
cose, el più si potrà, pel verno.

Non altro. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi. Addì 5 di luglio 1535.

                                                 Isabella in Firenze.

La brigata di Messere[408] dice vuole venga sabato a otto.

  (Fuori) _Al magnifico signore_
        _Comessario d'Arezo_
      _Luigi Guicciardini consorte onorando_
                                     _in Arezo._


II.

Poppiano, 6 agosto 1535. yhs

Carissimo Luigi, Ho auta con piacere la vostra de' 29 del passato, che
troppo mi pareva essere istata sanza vostre lettere. La stanza[409] qui
è bella e piaceci; ma ci sono caldi grandissimi, e col sole non si può
uscire di casa e poca via andare, che non si sudi forte.

El grano è inbucato la maggior parte, chè cominciava a riscaldare.
Del venderlo, se n'è mandato el saggio a Firenze, e farassi quanto
iscrivete: a Dio piaccia se ne pigli el migliore partito, che non mi
pare punto la nostra usanza. Degli asini, userò colle parole diligenzia
sieno ben governi, e con più destreza potrò m'ingegnerò che loro e
'l garzone perdino poco tempo, e con some che si mantenghino.[410] Le
stoviglie di legno saranno utile, se ne provederete qualcuna, per le
volte[411] di qui e di Firenze: arche,[412] per ora ci è abastanza.

Parmi discorriate bene di pensare prima alla Simona che a nessuna
dell'altre faccende: e pensate che io non ho altro desiderio che
vederla, a' dì vostri e mia, assettata dove ella ha a stare, e a
Dio piaccia aiutarcela porre in luogo ne siamo consolati.[413] Se
dopo questa faccenda ci avanzerà tenpo e denari, non ci mancherà che
farne.[414]

Pensate che delle cose che io conoscerò che sieno utile, che io le
ricorderò a' lavoratori; ma posso poco andare veggendo, rispetto a'
caldi: e pensate che la vecchiaia fa el debito suo. Di questa settimana
che viene, vedrò se io potrò avere uno, e comincerò a fare rassettare
qualcuna di queste cosette de' viottoli e 'l vivaio.

La Simona dice vi scriverrà. Gli occhi sua non sono ben guariti: la
mattina sono rossi e grossi più che l'ordinario negli orli loro; e
tutto istimo venga da superfruità e superchio di sangue mal purgato.

De' pesci non si è presi co' ritrosi,[415] perchè mi paiono questi
lavoratori tanto infaccendati da sera e mattina, che io non ho volsuto
affaticargli. Come aranno finito rassettare queste aie, facciàno
pensiero votare el lavatoio e farlo rimondare, e pigliare e' pesci
più grossi, e rimetterenvi e' piccini, perchè infatti, come dite voi,
portono pericolo.[416] E venerdì mattina passato mi parve avessino una
mala burasca, e non ho potuto sapere da quello si venga. La mattina a
buona ora v'andò una delle nostre serve, e trovòne fuori della fonte,
e assai alle prode che si lasciavono pigliare e andavano boccheggiando
per la acqua. Anda'vi io a vedergli, e parvemi vi fussi di be' pesci:
pigliàmone circa a dua libbre, che furono buoni. Feci molto rimore,
e dimandai e' lavoratori, e pareva che tutti si maravigliassino; e
dicevono che pel caldo fanno alcuna volta così, per esser assai materia
al tondo del lavatoio, e nel lavarvi temono: che forse potrebbe essere;
e se ogni volta vi si lavassi avenissi così, lo crederrei; ma non hanno
più fatto così, nè prima nè poi.

Piero dice che de' pistacchi se n'appiccò uno: de' pini n'andò uno in
su, e poi fu roso da un baco: e' fighi e' peschi dice istanno bene.

Credo certissimo che la stanza mia costì[417] v'are' fatto avanzare
qualche iscudo più; se non altro la spesa di qua: chè tenere la casa
aperta come bisogna non si può fare senza ispesa, come vedrete. E la
iscusa della casa costì accetto per averlo inteso da altri: benchè,
secondo m'è stato detto, v'è stato più brigata che non siàno noi.
Pertanto che io me lo reco per una vostra buona usanza; chè siate
istato in luoghi capacissimi, di casa e d'ogni altra cosa, èssene
istato el simile. Possomi dolere in questo caso della natura e della
fortuna: e prima della natura, che non mi fece con quelle parte a voi
sufficiente;[418] e poi della fortuna, acozarci insieme. Or sia come si
voglia: tutto à fatto Idio, e a lui piaccia sia con salute della anima
vostra e mia. Chè a poco altro che alla Simona e questo, penso: chè
oramai mi veggo presso al tempo del rendere e' conti di questo viaggio
presso a finito.

Bisogna lasciare passare questi terribili caldi, e intanto sarà finito
rassettare questi grani, che domani si misurerà l'utimo[419] grano; e
parmi sarà questo d'Andrea circa 12 o 13 moggia. Per la prima vi potrò
dare lo 'ntero di tutto.

Ora bisognerà pensare alla vendemia. Bisogna ricerchiare qualche
tino; e racconciarci le botte dello aceto che ce l'ò trovato tutto
guasto, no so quello s'è volsuto dire; e fare segare quel ciriegio, che
benchè molte volte l'abbi ordinato non s'è fatto. Vedrò ora condurre
e ordinare queste faccende, se io potrò; ma dubito che la partita mia
non impedisca: perchè l'ordinare e non ci essere, non riesce; e se
io avessi visto e pensato a tante cose che io ci veggo da fare, non
so se io m'avessi ordinata questa gita.[420] Veggo che voi n'avete
voglia, e non vorrei iscontentarvene; e se io dovessi lasciare ogni
cosa andare in perdizione, e voi diliberiate che io venga, lo farò:
e non potrò passarvi 15 dì che io non ritorni qui, chè ci lascerò
molte cose. Ciò che mi dà più noia che altro, si è che io non ci ò una
serva da lasciarci, di tenpo,[421] per 15 giorni. Messere non mi pare
vogli ci rimanga la Caterina, e lei non ci vuole rimanere, perchè gli
parrebbe esser troppa sola quando non ci fussi Messere.[422] Andrànose,
se io vengo, tutti, prima mi parta di qua. La Simona di Messere[423]
gli parve troppo caldo, e per ancora non ci è venuta, e non penso
altrimenti ci venga nè qui nè costì. Di mettere qui uno per queste
faccende che ci occorreranno, non veggo persona a proposito.

Del cacio s'è condotto el migliore, cioè el primaticcio, in Firenze:
quello mi trovo qui non è molto bello. Arei caro sapere quante coppie
ne vorresti,[424] e così indigrosso quante libbre, che lo iscierò del
meglio.

Io non pensavo più a quel male, perchè non ne dicevi più nulla.... E
secondo mi disse maestro Lionardo,[425] non sono da darsene pensiero.

Duolmi abbiate tante brighe co' servidori. È cosa fastidiosa, e non
siate solo; chè è così per tutto. Bisogna alle volte soportare qualche
cosa. Dipoi avesti Ottaviano, mi pare senpre abbiate auto che fare;
faceva così in casa: ha una mala lingua, e comettitore di scandoli,
e bestiale, e sanza pensare a nulla. Siàno tutti pieni di difetti:
bisogna soportarsi l'un l'altro, tanto che ci morréno.

Ho fatto l'anbasciata vostra a' lavoratori. E' fighi non hanno
pidocchi: so' ispenti. E' melaranci sotto la grotta ve n'è parecchi che
ànno messo: quegli de' nocciuoli v'è 2, gli altri sono secchi: hogli
fatti alcuna volta anaffiare.

Io non dirò per questa altro. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi.
Addì 6 d'agosto 1535.

                                                  Isabella a Popiano.

  (Fuori) _Al magnifico signore_
            _Comessario d'Arezo_
          _Luigi Guicciardini consorte onorando_
                                    _in Arezo._


III.

Poppiano, 30 novembre 1542. yhs

Carissimo Luigi, Ho auto tre vostre; una de' 7, e de' 13 e 18:
risponderò a tutte le cose mi paranno di più inportanza.

E prima, quanto a' vini, n'è istato qui poco per tutto. Da Ripalto e 'l
Mulino non potetti averne più, per la causa vi scrissi allora; e l'uno
e l'altro sono molto poveri. Apaionmi legate persone;[426] e parmi
che Giovanni abbi poco el capo a starvi: e pochi giorni sono mi disse
che non era el bisogno suo el podere, che dura assai fatica, e per
essere in sulla strada patisce assai danni da' pecorai; e che mi voleva
aiutare trovare lavoratore, io gli aiutassi trovar podere. Io gli
risposi non m'impacciavo d'allogare, e che gli aspettassi voi. Dissemi
che ve lo iscrivessi, acciò che a bell'agio potessi assettarvi. Dissi
non ve lo iscriverrei, perchè ora non era tempo. Non l'ò poi rivisto.

Quelle vite mostravano meglio che altrove. Non so poi come s'andassi.
Usossi la possibile diligenzia.

Rileggete la mia lettera, e vedrete che io vi dissi che alla botte
del vecchio erono iscoppiato e' cerchi. E così l'avessi io venduto
tutto, che ne serbai tanto che io pensavo, e mi riusciva, averne per
insino a Pasqua e dipoi; ci avevo una bottina di stretto, che l'avevo
disegnato per la serva per insino a vebraio, e restavamene 12 barili.
Ma sorte volse, che iscoppiò l'utimo cerchio della botte, e la mattina
si trovò tutto in terra. Pensate se mi dolfe; chè era buono, e aronne
a ricomperare qualche poco, e del vecchio ho compero qualche fiasco, e
alcuna volta n'ò da Firenze.

Dispiacemi assai, vi stiate con tanto disagio e fastidio quanto mi
scrivete. Bisogna facciate come iscrivete che io faccia io: pigliarsi
queste faccende per piacere,[427] e non si straccare el manco sia
possibile, e isperare nel tempo che vola. E per tutto dove uomo si
truova, in questo mondo è iscontenti; e maximo nell'età nostra,[428]
che ogni cosa c'infastidisce. El tutto istà, ci riposiàno nella futura
vita.

Delle legne pel forno non ho ancora fatto tagliare, rispetto a questi
tenpi, che mai ci è fatto altro che piovere poi tanto tempo; e sonci
tante triste vie, che non si posson condure. Somi servita di quelle
crono intorno a' Casini, e della sanza che non ho seco poco obrigo, e
la quercie della strada, con qualche altre cose secche; tanto ci andiàn
vivendo comodamente. Non ho fatto bucati, nè atteso a inbiancare accia
come soglio. Se 'l tenpo istessi qualche dì, che si potessi, farei
tagliare come mi scrivete.

L'olio rinviliò lunedì passato soldi 20, come da Messere penso arete
inteso, chê a lui ne scrivo. Secondo che io intendo, oggi per la
acqua non s'è passata la Pesa; e penso non vi sia istato mercato.[429]
Bisognerebbe che voi dicessi, Com'è al tal pregio, datelo: perchè varia
per mercato assai, e passa 2 mercati prima se n'abbi la risposta.
Al fattoiano[430] ho detto quanto iscrivete; e quando el tenpo
servirà,[431] non mancherà di quello potrà: chè non è mai rimaso libero
di quella mano, e ispesso gli dà gran noia. Al Tozo parlai de' pali:
dissemi che fra un mese vedrebbe provedergli. La gora e' pescaiuoli
dal Mulino si fornì a' 21 del presente:[432] è poi venuto due piene:
diconmi à provato benissimo quello s'è fatto. Ma, secondo m'è detto,
quel mugnaio è tanto dappoco, che io dubito non vi mantenga quel luogo:
perchè ispesso bisogna rassettar la gora; e non fa nulla. Voi arete
inteso quanto sia parso a Bastiano da Enpoli da fare, circa al vivaio e
la fossa.

Circa al portarsi e' lavoratori meco, non me ne posso per insino a
ora dolere più che l'anno passato. E de' porci ànno conperati 3 per
uno: Piero à ispeso 31 lire, e' Casini 35; sono maggiori e da farsi
più grossi, a detto di questi contadini.[433] Le vostre inbasciate ho
tutte fatte loro, circa le fosse e l'altre cose m'avete iscritto: e
tutto mi dicon fare, e pare che loro desiderino partirsi vostro amico.
Delle ghiande ci è poche per tutto: e quella[434] dal Mal fastello, che
suole esser, quando n'è assai, coperta la terra, non ve n'ò mai viste
un centinaio; e così quella da' capperi. Vagliono un grosso lo staio, e
meglio. Io ho conperato un porcellino, che m'è costo lire 9 e soldi 12,
per amazarlo questo carnovale, chi ci sarà. Chè m'è tocco di molte mele
tanto cattive, che non sono da cavarne nulla; chè sono istate tanto
disutile e istrane, che non sono se non per dare a' porci; e penso che
le consumi, con parecchi istaia di ghiande che io ci avevo. E penso sia
la carne per insalar qui; e per in Firenze potrete provedere voi, se
costà sarà buono insalare.

E' tetti bisognava farli acconciare d'agosto. Poi che io ci sono,
fatta fu la vendemia, mai ci è fatto altro che piovere; e non s'è
ancora potuto fare s'acconcino, come el tenpo serve.[435] Gli usci
non ho fatto acconciare. Nel prencipio che io ci fu', non potetti
avere legnaiuolo; e poi m'è parso e' dì piccoli e male opere,[436]
chè bisognava condurci legnaiuolo da Castelfiorentini o da Firenze.
E bisognerebbe fare queste panche, uno uscio alla corte grande, tutte
queste finestre inpannate, e molte altre cose, volendoci abitare come
le persone:[437] e per sì piccola cosa[438] non m'è parso porti la
spesa condurci un maestro, in questi tempi istrani. Se saréno questa
istate sani, e si vegga poterci istare in pace, si potrà allora
condurci un buon maestro, e a tutto dare opera; e ora avere pazienzia,
come s'è fatto quest'altre volte.

Voi mi dite mandarmi iscritto di questi debitori, che dicono ànno
avere; che l'arò caro: però non vo' pagare, se voi non mi dite che
abbino avere. Quel di Vanozzo, intendo dice non esser pagato della vite
s'ebbe da lui; da Benedetto Canbi intendo avesti non so che trave che
non s'è pagata, adoperossi alla casina; Meo Giorli dice v'aiutò non
so che opere, che non fu pagato: pertanto arò caro rivediate tutto, se
potete; e quanto più presto, meglio, acciò possi ispedire tutte queste
faccende.

Sapete che quando ci venne cotesto medico, che voi eri qui, che io
vi dissi m'era parso uomo di buona qualità: e parmi esser certa che
avendo e' medici nel prencipio cavato sangue a Messere, gli arebbe
giovato assai, perchè l'orine sua erono rosse e torbide, e 'l viso
rosso assai, e massimo come mangiava. Maestro Marcantonio istette
sospeso e non volse. E' mia accidenti non accade vi dica, perchè gli
sapete a punto. El lattovaro m'à fatto pigliare maestro Giovanbatista,
si chiama mitridato istenperato nella malvagìa. Me l'ò trovato buono
el purgarmi:[439] benchè nel pigliare isciloppi e medicine, pareva
mi nocessi per allora; discostandomi poi dalle purgazione, ho visto
m'erono istate buone. El mitridato ho usato la vernata; la state no.

Quanto alla vostra de' 12, non accade dirvi altro, se non el grano
è cavato della buca iscema e istà bene: e l'ò tutto fatto vagliare,
e porre in camera della casina, dispersé el vecchio e nuovo. Se voi
volete si venda, avisate. Del vecchio s'arebbe 33 soldi, del nuovo
35. Del vecchio ve n'è qualche poco del bucato: parmi che el vagliarlo
gli abbi giovato; par meglio assai. Francesco Caradori non ho visto se
non una volta poi ci sono. La comessione de' pali detti al Tozo, come
mi dicesti; e promisse provedergli. E' vini bianchi si sono mutati
all'ordinario, e la vernaccia è quasi chiara: non mi pare molto buona
quest'anno; fu anno assai migliore. El greco credo sarà buono: non è
ancor chiaro.

Se Cavalcante[440] ci verrà, l'arò caro, per intendere di vostro
essere: benchè, per quanto a questa mi scrivete, resto coll'animo
posato, e di nuovo da Messere intendo esser seguitato el miglioramento;
tanto che io penso siate al tutto libero: e così piaccia a Dio. Vero è
che e' tenpi sono contrarii a riaersi, e maximo le persone di tenpo; e
come dite, penso vi paia fare adagio: che è ragionevole.[441]

Quando Messere vorrà dalle monache quello mi scrivete, farò quanto
bisognerà. Non posso pensare chi vi s'abbi inpedito che voi non abbiate
di questa faccenda fatto a vostro modo, s'era di tanto utile quanto voi
mi scrivete.

Ebbi la vostra de' 18 pel garzone andava a San Casciano; che mi fu di
piacere assai, per intendere el vostro miglioramento esser seguitato
tanto, che vi pare esser quasi ritornato nel vostro solito essere. Le
cose mi ricordate m'ingegnerò tutte exequire, quelle potrò. Ho dipoi
una altra vostra de' diciotto, che mostra partirsi Cavalcante a dì 19:
el che penso pel tenpo contrario non si partissi; perchè non intendo
sia arrivato.

El vivaio e la fossa non si sono cominciati, rispetto a' tenpi e
l'openione di Bastiano da Enpoli, come da Messere e da lui penso arete
inteso. A' lavoratori ho fatto tutte le 'nbasciate vostre, delle
fosse aperte, e delle ulive si rassettino e guardino gli ulivi; ma
ci è istato tanti tenpi molli e rovinosi, che non si sono per ancora
tocchi ulive nè guatati e' pedali per còrre o ricòrre. Oggi, che
siàno all'utimo del mese, ci è bellissimo tenpo, e trae buon vento:
se reggerà, si vedrà; ma non ci ò fede, chè siamo presso all'utimo
della luna.[442] Se la luna nuova tornassi con questo tenpo, mi parebbe
d'averci buona isperanza: e andando dicenbre e gennaio di buon tenpo,
si seminerebbe dimolte cose; e forse che e' pregi del grano e biade
non farebbono altro. Qui ho auto qualche chiesta del grano, e a questi
tenpi se ne sare' venduto qualche staio: el che non ho fatto, perchè
e Messere e Gregorio mi consigliorono si stessi qualche mercato a
vedere; e così s'è fatto. Arò caro intendere l'openione vostro[443]
el più presto sia possibile, perchè siàno presso a Pasqua, e apressasi
el tenpo da partirsi di qui. Delle fave s'è venduto e vendesi qualche
istaio; che cominciai a darle a soldi 22, e ora l'ò vendute 29, ma
poche staia.

Ser Antonio[444] vi bisogna avere per iscusato, perchè à una infermità
tanto crudele, che ne increscerebbe alle pietre; e ispesso si sente
gridare non altrimenti si facci una donna sopra parto; è iscuro e tanto
tribolato, che ispesso chiama la morte. Getta per quelle vie dell'orina
tanto sangue, che, secondo mi dice la sorella, va ispesso per insino al
saccone. Alcuna volta dice messa, e va per casa; non se gli vede febre.
Dice essersi fatto cercare,[445] e che gli è detto non pietra ma una
fistola in quelle parte; ed è possibile viva in questo martoro qualche
poco di tenpo. Idio gli dia pazienzia e forteza a soportare tanta
tribulazione nella quale e' mi pare sia.

Io non vo' dirvi per questa altro, chè ci ò iscritto su più giorni.
Rincrescemi pure questo tanto iscrivere, e a Messere, e la Simona,[446]
e opere, e grani;[447] tanto che le mia faccenduze mi vanno in
disordine, e me ne istracco troppo. Pertanto abbiatemi per iscusato, se
io non vi scrivo ispesso, come forse vorresti e io ancor vorrei: ma non
posso tanto. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi. Addì 30 di novenbre
1542.

                                                 Isabella a Poppiano.

  (Fuori) _Al magnifico Comessario di Castracaro_
            _Luigi Guicciardini consorte onorando_
                                  _in Castracaro._


IV.

Poppiano, 12 e 13 dicembre 1542. yhs

Carissimo Luigi, Ho auta una vostra de' 23 del passato, e una de' 5 del
presente; e in questa risponderò all'una e all'altra quanto occorrerà.

E prima, quanto alla prima, abbiàno da ringraziare Idio siate riuscito
a bene e assai presto della malattia mi contate avere auta, che non
pare fussi di piccola inportanza.[448] Idio senpre ne sia ringraziato.
Dell'orazione per voi, non si manca; pure che Idio l'accetti: bisogna
l'aiuto vostro, e sanza quello credo che altro poco vaglia etc.

Circa la gora e' pescaiuoli, non vi sono istata e non posso dirvi a
punto dove si sieno.[449] Solo vi dirò che io mandai per quel mugnaio
da Castelfiorentini, che ispesso veniva in Firenze a voi, che à nome
Michele e chiamasi Ispina d'oro sopranome, e parmi persona molto
pratica con questi fiumi e dassai persona; e lui dette el disegno
della gora e de' pescaiuoli: disse che per quest'anno non si pensassi
facessi danno; e per due o tre piene, sono venute poi, ànno retto bene,
e dicono che ànno fruttato bene, e riparato al danno che pareva volessi
far l'acqua. Vero è che Bongianni[450] v'andò, e disse gli sare' parso
da farne un altro nel mezo di dua vi sono fatti: e dipoi ebbi la vostra
de' 5 del presente gliene parlai, parendomi desiderassi voi che se ne
facessi un altro; e forse che lui ve n'aveva iscritto; e a lui pare
che per ora non sia da fare altro e istare a vedere una altra piena.
Sono testè l'acque molto girate, e' dì minori di tutto l'anno,[451] ed
è da fare simili lavori per necessità. Quel maestro da Enpoli v'andò,
e aprovò quello vi s'era fatto esser a proposito, e non ragionò vi
bisognassi altro. Io non vi sono istata, chè sono istate le vie tanto
triste, e troppo lunga a me a farla a piede. Ispesi 6 ducati d'oro
d'opere e ferri e per tutto quello bisognò: e prima in dua volte ispesi
12 lire, che fu tutto gittato via; e non si può errare, avere in simil
lavori parere da chi à pratica di quello che altrui à di bisogno.[452]
Questo mugnaio è molto debolino d'animo d'ingegno e di cervello e
di persona: e bisognerebbe tenervi uno che sempre rassettassi ora
le pale e ora e' marmi; e non so come vi si pagherà, chè m'è detto è
poverissimo. Io farò seco quello potrò.

Circa el grano della buca piena, sono forse 15 giorni che io la feci
aprire, e cavossene tanto che v'entrò Pieretto e null'altro: cercossi
tutto intorno intorno la paglia, trovossi asciutta; e andossi colle
canne per insino al fondo, e per tutto si trovò asciutto. E così lo
tenni 3 o 4 giorni, e ricercossi di nuovo; e trovandolo asciutto per
tutto, rimessesi el cavato, e riturossi, e così s'è. Quel della buca
iscema si cavò, e tutto lo feci vagliare, ed è in sul palco della
camera della casina. Venduto non se n'è, perchè non ho auto bisogno
di denari, e perchè e' non ci pareva perdessi istando qualche poco a
vedere: arebbesene 32 e 33 soldi. Delle fave ho vendute qualche istaio,
e così se ne vende, 22 soldi 28 e 26.

Sapete che io vi scrissi che Francesco di ser Cione non poteva darvi
denari, e che vi darebbe terra: rileggete la mia prima lettera. Dal
Pogna ebbi lire 6; da Gregorio ho auto lire 87; lire 27 ebbi da ser
Antonio che gli aveva riscossi da Francesco di ser Cione, e 'l resto mi
disse quanto di sopra è detto.

E' vini bianghi stanno bene: el maggior male ci sia è che sono pochi,
e non buoni come sogliono. A' lavoratori ho fatto l'anbasciata vostra:
dicono, gli aquai e ogni altra cosa istar bene, e che ànno cura e'
bestiami no paschino dove dite. Attendono a ricòrre l'ulive; e da
Sant'Andrea in qua ci è istato assai buoni tenpi: prima ci era acqua,
nebbia e umido, come iscrivete esser costà.

E' lavoratori nuovi ci vennono per San Simone, che ci era Messere.
Dipoi non ci è venuto quel de' Lotti; quel di Pieretto ci è istato
2 volte, e l'utima fu per Sa' Niccolò; che mi dissono fasciorono e'
piantoni, perchè non temessino el freddo: dopo la vendemia seminorono
certe biade usano in que' tenpi, che è vena: ora attendono all'ulive.
De' poderi vecchi per ancora non ci fanno altro. Delle pere ci fu
poche: toccòmene 2 bigoncie, vendute che furono le cosime.[453] Feci
conto essermi tocco, di tutte le frutte, lire 34 e soldi 10. Delle
mele m'è tocche circa 40 bigoncie; ma sono tanto triste e brutte, che
se ne caverà poco: honne vendute un monticello a soldi 8 la bigoncia;
non l'ò ancora misurate. Del mugnaio, cercando, forse si troverebbe
qualche cosa; ma non vorrei entrare in queste ragione faccende, non ci
sendo voi: e così ho detto a Giovanni da Ripalto. Del lavoratore che
torna dove Piero, mi pare un bel promettitore, e fassi di buono animo
a far bene ogni cosa: se riuscirà a fatti, andrà bene; e a questo voi
ci sarete, a Dio piaccendo: se riuscirà, n'arò piacere assai. Questo
de' Lotti parla poco, e poche volte io l'ò visto: par sensata persona.
Bisogna giudicare alla giornata; come dice el proverbio, Non ti conosco
se io non ti maneggio: e puossi male vedere se non si pruova. Delle
ulive ci è poche; el fattoiano pensa ci sia un trenta barili d'olio in
questi 2 poderi. A ser Antonio feci l'anbasciata vostra, che l'ebbe
cara: vive, el poverino, co molto tormento. Se ci capiterà Francesco
Caradori, gli dirò quanto iscrivete: non l'ò visto se non un tratto,
poi ci sono.

Quanto alla vostra de' 5, m'è istato grato lo intendere siate dello
stomaco e de altre vostre indisposizione quasi al tutto rettificato;
che n'ò auto piacere. A Dio piaccia conservarvi, e voi sappiatevi
riguardare. Cavalcante non ho visto, benchè io abbi inteso sia istato
15 giorni in Firenze: pensate se io l'arei visto volentieri! Parmi che
vi rincresca molto le faccende e la stanza,[454] che v'andasti così con
fastidio e malvolentieri, e penso v'abbi a rincrescere tutto questo
tenpo: ma vorrei che voi facessi come voi dite a me che io facci io,
che voi vi pigliassi coteste faccende per piacere. Pensate voi che
io abbi un gran contento e ispasso, trovarmi qui co due fanticelle, e
poco altri rivedere e con altri parlare, e 'l più del tempo iscrivere,
e pagare opere, e vendere, e tener conti? e tutte queste faccende
rincrescono alle persone di tenpo. Bisogna in questo mondo, chi ci
vuole avere contenti, pigliarsi piacere delle cose che dispiacciano,
altrimenti si starebbe senpre in tormento; e pensare che 'l tenpo
vola, chè siamo già al terzo di questo camino. Io vo ispesso a vedere
ser Antonio; e quando io lo veggo in quelle pene, mi pare essere una
signora, pensando che posso dormire e mangiare e avere qualche riposo.
Pertanto, quando siàno a questo, ringraziàno Idio.

La terra della fossa tutta seminorono e' lavoratori, come lo dissi
loro: el bottino non si rienpie per esser seminato sopra la terra
l'aveva a rienpiere; e se io l'avessi a fare, vi porrei qualche cosa
in quella buca: e volendo voi pure che la fossa si facci, bisognerà
lasciare ire el grano. La fonte getta dimolta acqua, quasi a bocca d'un
mezo barile, e 'l lavatoio senpre trabocca, e pare istrano esser tanto
basso, per esservi assai acqua; e 'l vivaio si mantiene pieno: credo
che meglio si raccorrebbe la vena della acqua, quando non fussi tanta
dovizia.

Quando Bongianni farà fare la buca iscrivete, pagarò l'opere. E'
pali non si sono auti: el Tozo mi disse gli provederebbe, ma che
non si tagliono per insino a gienaio; e così intendo dal fattore di
Cavalcante, che n'à a provedere per Bongianni. Io non ho conperato
legne, e ho fatto fare di queste pel podere, e quando si tagliò pe'
pali di Vergignio[455] certi resti, e pel forno quelle mi scrivesti, e
non patisco: chè el tenpo è in modo, si può ire a torno. Del vino, ho
fatto venire da Firenze di quel di Paterno, che era bonissimo, e alcuna
volta n'ò conperato a Montagnana: e ingegnerommi patire manco che io
potrò.

E per questa non voglio dirvi altro: chè è tardi, e ancora ho a cenare.
A voi mi raccomando. El Signore sano vi conservi. Addì 12 di dicenbre
1542.

                                                 Isabella a Poppiano.

La stima de' porci venduti si scontrò con quella mandasti. Per la
vostra de' 7 di novenbre, mi dite mandarmi, come vi sentivi meglio, e'
conti di questi che dicono avere aver da voi: che è questo di Vanozo
per conto della vite; e intendo avete a pagare un legno s'ebbe da
Benedetto Canbi, che si misse nella casina; Meo Giorli dice gli avete
a pagare una opera; el fabro dice gli avete a pagare 2 libbre d'aguti e
certo vino dette alla Maria, che è un pezo io pensavo l'avessi pagato.
Arei caro intendere da voi se tutti questi ànno avere quanto vi scrivo:
sono piccola cosa, e a tutti sodisfarò, chè penso sieno tutte cose
dimenticate: e chi à avere la pensa forse altrimenti; e non è bene.
Pertanto arei caro, el più presto potete me ne dessi notizia: perchè
oramai sare' tempo di ritornare in Firenze; chè siàno a Pasqua, e le
faccende sono presso a finite. Per di qui sabato saranno finito e'
tetti; che erono condotti in modo, mi costerà 3 ducati o meglio questo
lavoro, tra calcina, tegoli e mezane, e opere; ma staranno bene. Ser
Antonio è istato da domenica in qua un po' meglio, e istamani à detto
messa; e raccomandasi a voi.

A' 13 ho fatta questa agiunta.

  (Fuori) _Al magnifico signore_
            _Comessario di Castracaro_
          _Luigi Guicciardini consorte onorando_
                           _in Castracaro._


V.

Firenze, 9 gennaio 1543. yhs

Carissimo Luigi, Ho aute 3 vostre, che non risponderò per ora a quelle.
Solo vi dirò come domani sarà otto giorni che io tornai da Popiano: e
là su mi governai, co riposo e buona vita, con pollo pesto e istillato;
e migliorai tanto che parve a Messere e a Bongianni che io ne venissi,
pensando se l'accidente mi fussi ritornato, sarei istato in piggior
grado.[456] E se ser Antonio fussi istato sano, o vi fussi istato un
altro buon religioso apresso, mi mettevo a ristio ancora per qualche
giorno: ma non vi esendo, mi lasciai consigliare. E pensate che el
travaglio del partire, e la mutazione della aria, e molte visitazione,
mi parse fermassi el miglioramento. E istommi così trista per camera,
come molte volte m'avete vista, con deboleza di capo, occupazione
di cuore (e non ci è ordine lo possi con nulla vincere), debilità di
matrice; che el corpo la ganba e 'l cuore, tutto questo lato manco, mi
sento travagliato; con poco gusto del cibo: el vino mi piace, e assai
ne piglio conforto; e sono buoni, come da Cavalcante intenderete, che
tutti di villa e di Firenze gli ha asaggiati, bianghi e vermigli. E
quando lui arrivò a Poppiano, istavo bene, e meglio m'ero sentita che
io fussi istata un pezo, come da lui intenderete; tanto che io ispesso
pensavo che le natura facessi in questa età suo isforzo: caminavo
legiermente, e dormivo benissimo e mangiavo, e così ogni altra mia
operazione, assai meglio che l'anno passato. La sera che Cavalcante
arrivò, la mattina tutta cominciai andar sozopra. Vero è che el tenpo
si mutò, e féssi freddo grande; e benchè io avessi de' panni, lo
sentivo assai al capo e tutta la persona.

Mandai per maestro Giovanbatista per dirgli e' mia difetti: e quando ci
venne, disse volermi vedere cor un poco d'agio, chè aveva faccenda; per
allora non volse badare, chè aveva faccenda: non l'ò poi visto, e non
me ne sono curata, per tanto istia posata qualche dì, che possi meglio
giudicare e' mia difetti. Farò che ci verrà: e se vedete costì el
vostro medico, intendete da lui quello gliene pare. E così doverresti
parlargli per conto della Simona e di Pierantonio; chè l'ò trovata
sì grassa, che vi so dire l'acqua della Porretta non la disecca.
Pierantonio si sta come si suole...

Voi mi dite v'avisi quello vale la carne; che n'ò parlato con Cecco
dalle porte: dicemi costerà lire 10½ a tòrla dal beccaio. Pertanto che
a me parebbe ne insalassi costì 4 peze più che so ne insalerete per
voi, valendo quello m'avete iscritto. Mi pare migliore ispesa far così:
per in villa s'insalerà quel porcello conperai, che sarà 150 libbre o
circa.

El grano vecchio non se n'è venduto, e non se ne troverrà più che 24
e 25 soldi lo staio, perchè ogni cosa è rinviliato. L'olio Messere n'à
venduto 20 barili, lire 7 soldi 2.

Non dirò per questa altro. A voi mi raccomando. Cristo vi guardi e sano
vi conservi. Addì 9 di gennaio 1542.[457]

                                                 Isabella in Firenze.

Ritenuta[458] per insino a stasera, che ho auta la vostra degli otto,
che m'è istata gratissima: duolmi solo lo intendere abbiate auto
iscesa[459] già 2 notte. Avisate ispesso come istate. Da Cavalcante
intenderete di mio essere. E la Simona e la Caterina[460] ci sono
istate da poi tornai. Io non insalerò qui carne, come da Cavalcante
intenderete; e così del tagliare le legne a Poppiano: e darete aviso
di quello vi paia da fare e quando. Non dirò altro. Attendete a
riguardarvi, e così farò io. Idio ci dia grazia ci rivegiàno sani.

  (Fuori) _Al magnifico signore_
            _Comessario di Castracaro_
              _Luigi Guicciardini consorte onorando_
                                      _in Castracaro._


XXI NOVEMBRE MDCCCLXXXIII.

PER LE NOZZE

DI

ANNETTA DE' CONTI GUICCIARDINI

COL NOBIL GIOVANE

CARLO MARTELLI.

A chi ha letto queste pagine di carteggio familiare così schiettamente
donnesche, sì urbanamente fiorentine, con tal semplicità assennate,
con tanta dignità affettuose, se non dove un po' di malinconia talvolta
le annebbia, chiedo di poter comunicare alcuno de' pensieri che a me,
cavandole dagli originali,[461] si aggiravano per la mente. E prima
lo chiedo a Lei, gentile ANNETTA, che non isdegnerà riporre questo
libretto fra i preziosi ricordi della casa donde esce, figliuola e
sorella dilettissima, per adornare del suo ingenuo sorriso, allegrare
del suo tenero affetto, confortare della sua mite e serena bontà, la
nuova famiglia, che alla sposa desiderata apre festeggiante le braccia.
Le memorie della casa sono sacre ad ogni animo bennato: e il lustro
del nome, la nobiltà dei natali, ne impongono più gelosa la custodia,
quando esse non sono patrimonio solamente domestico ma cittadino. Pio
culto, pel quale da secolo a secolo le tradizioni si rannodano, gli
esempi rinverdiscono, e si avvicinano in certo modo e congiungono gli
spiriti. Nè con altri intendimenti io ho quasi chiamata partecipe alla
gioia delle sue nozze questa onoranda matrona dei Guicciardini, moglie
di Luigi, cognata di quel Francesco il quale fra le glorie italiane è
delle maggiori e che per volger d'età non tramontano.

E pensavo, trascrivendo per Lei queste lettere, quanto la Isabella
ritragga in atto di quell'ideale di donna, che ne' loro libri di
governo familiare delinearono i nostri buoni antichi. I quali, «avendo
sopra tutte le cose per la più gioconda il far bene i fatti propri»
(diciamolo con le parole dell'aurea fra quelle scritture), ma non
per essi dimenticando il dovere di «attendere e servire alle cose
pubbliche», volevano ripartiti acconciamente i carichi e le incombenze,
e lodavano «chi alla donna sua lascia il governo della casa e delle
cose minori, e per sè ritiene ogni faccenda virile e debita agli
uomini»; di guisa che «l'uomo rechi a casa, la donna serbi e difenda
le cose e sè stessa con timore e sospezione; l'uomo difenda la casa la
donna e i suoi e la patria, non sedendo, ma esercitando l'anima e il
corpo, con virtù con sudore e con sangue.» Così madonna Isabella, pel
marito Commissario in Arezzo, in Romagna, in Pisa, in Pistoia, curava
le faccende domestiche; e gliene scriveva di villa queste lettere, che
tanto è a dolere non ci siano rimaste in maggior numero, quant'è certo
che il marito, uomo di poco facil contentatura, le aveva carissime.
«Quando sarai stata qualche dì a Poppiano, scrivimi come vi stanno le
cose,» leggiamo in una sua «.... e se la frasconaia posta questo anno
mette bene, et e' capperi et e' nocciuoli posti questo anno,.... e come
mostrono li ulivi e le vite....». Ed ella medesima a lui: «Abbiatemi
per iscusato, se io non vi scrivo ispesso, come forse vorresti e io
ancor vorrei....».

Intendo le difformità che i mutati tempi pongono tra il vivere,
anche domestico, di ora e di allora: leggi, costumanze, istituzioni,
dissimili; differenza di sentimenti, impressioni, affetti; relazioni
sociali altramente determinate; civiltà che dell'invecchiamento ha
le migliorie e le magagne; agi alla vita procacciati dalle gloriose
vittorie dell'umano ingegno sulla natura; animi e corpi diversamente
temperati: nè Ella certamente ritornerebbe oggi di villa in città, nel
modo che all'ava sua, ancorachè di salute mal ferma e di età inoltrata,
pareva non disadatto, cioè «sulla mula», lasciando stare la lettiga
come morbidezza troppo squisita. Nonostante tuttociò, sia lecito a noi
poveri studiatori di carte antiche, vagheggianti a lume di lucerna gli
splendori di quelle età, credere che anche nel pratico della vita,
fatta pur ragione di quante diversità ed eccezioni si vogliano, le
memorie de' nostri vecchi possano utilmente risuscitarsi; che possa
qualche volta una gentildonna del secolo decimonono rammentarsi
opportunamente di ciò che facevano e come facevano quelle che hanno
portato il suo nome tre o quattrocent'anni fa. Al qual proposito mi
sembra che in queste pubblicazioni nuziali dall'antico, delle quali è
ormai invalsa la lodevole usanza, sarebbe gentil cosa si preferissero
scritture, non dirò sempre di donne, ma che abbiano comecchessia del
domestico: lettura più da sposi; e contributo alla storia, sì de' fatti
e sì delle parole, non meno importante di qualsivoglia altro.

  PIERO
  di Iacopo di Piero di Luigi
  1454-1513
  m. Simona di Bongianni Gianfigliazzi.
  |
  | — FRANCESCO
  |  1482-1540
  |  m. Maria d'Alamanno Salviati.
  |  |
  |  | — SIMONA
  |  |  1509-1512
  |  |
  |  | — SIMONA
  |  |  m. Piero Capponi
  |  |
  |  | — LUCREZIA
  |  |
  |  | — LAUDOMIA
  |  |  m. Pandolfo Pucci.
  |
  | — LISABETTA
  |  m. Alessandro Capponi.
  |
  | — DIANORA
  |  m. Giov. Arrigucci.
  |
  | — GIROLAMO
  |  1497-1555.
  |  Senatore nel 1551.
  |  m. Costanza de' Bardi.
  |
  | — BONGIANNI
  |  1492-1549
  |
  | — BONGIANNI
  |  † 1490 fanciullo.
  |
  | — IACOPO
  |  1480-1552
  |  oratore per la Repubblica e a quella
  |  rimasto devoto, m. Cammilla de' Bardi.
  |
  | — MADDALENA
  |  m. a) Bartolommeo Nasi.
  |     b) Iacopo Vettori.
  |
  | — COSTANZA
  |  m. Lodovico Alamanni.
  |
  | — LUIGI
  |  1478-1551.
  |  m. ISABELLA di Niccolò Sacchetti 1480-1559.
  |  |
  |  | — GUGLIELMETTA
  |  |  † 1509 fanciulla.
  |  |
  |  | — MARGHERITA
  |  |  m. a) Francesco Tornabuoni
  |  |     b) Piero Bini.
  |  |
  |  | — PIERO
  |  |  1511-1527
  |  |
  |  | — LORENZO
  |  |  1505-1509
  |  |
  |  | — NICCOLÒ
  |  |  1500-1557
  |  |  m. Caterina di Lorenzo Iacopi.
  |  |  |
  |  |  | — Cinque figliuoli, tra' quali
  |  |  |  una Isabella e un Francesco.
  |  |
  |  | — SIMONA
  |  |  m. Pierantonio de' Nobili.

Nei fatti chi prendesse occasione d'entrare dal carteggio di
Luigi Guicciardini, troppe cose avrebbe a mano; e lungo anche
sol l'accennarle. Quella famiglia, de' cinque figliuoli di messer
Piero,[462] aspetta uno studio, e darebbe materia importante a un
volume: e della vita di Francesco e degli atti suoi temo non si darà
con sicurezza un giudizio compiuto, se prima non si faccia, poichè
lo possiamo, un tal libro. Il quale mostrerebbe in che modo e per
quali vie, entro agli animi di alcuni cittadini, e de' più valenti,
l'amore della libertà e della patria e della roba si contemperassero
nella devozione alla fortuna, di lunga mano preparata e quasi casa
per casa, de' discendenti di Cosimo e Lorenzo de' Medici; e darebbe
delle ambizioni, che ci paiono oggi pressochè parricide, non di messer
Francesco Guicciardini solamente ma anche di altri altrettanto famosi,
le ragioni di fatto, se non la morale giustificazione. Di quel libro
personaggio principale sarebbe Luigi; e documenti importantissimi, le
lettere fra lui e il figliuolo messer Niccolò, nel quale la famiglia
presumeva rinnovare (secondochè parve ai contemporanei) con la dignità
di dottore la grandezza dello zio Francesco: ma da questa era Luigi,
almanco per certe qualità, un po' meno lontano. Fiero uomo Luigi
Guicciardini; ed ebbe occasione di dimostrarlo: con lode di valore e
di fermezza, quando si trovò Gonfaloniere di Giustizia nell'aprile del
27 a reggere la città che si rivoltava contro i Medici; con biasimo
di crudeltà, quando Commissario mediceo a Pisa nel 30, ricevuta la
città dal suo predecessore per la Repubblica, fece lui morire fra'
tormenti. Nè quelle sue lettere, che sono a stampa, scritte al fratello
dopo caduta la libertà, discordano da tali atti; come la descrizione,
ch'ei volle dedicata a Cosimo duca, del _Sacco di Roma_ lo chiarisce
avverso a quella prepotenza straniera o, come dicevano, di barbari,
della quale i Medici avrebber voluto, e fu impossibile, non aver a
valersi nell'assoggettamento della patria. Ma sarebbero da cercare i
suoi dialoghi e trattati; che ne scrisse e di politici (in alcuno de'
quali pare intendesse vendicarsi del Machiavello, che l'avea figurato,
tra gli altri medicei, nell'_Asino d'oro_), e di altro argomento
intitolandoli dagli Scacchi. «Luigi se ne stava in villa,» scrive al
Varchi il Busini, dandogli notizie della cittadinanza nel 27 ai tempi
della libertà, «dove compose gli _Scacchi_, agguagliando quel giuoco
a un buon padre di famiglia»: ma in effetto cotesto trattato (che si
conserva fra i manoscritti Magliabechiani), dedicato a sua Eccellenza
esso pure, è una «comparazione degli Scacchi all'Arte militare»; e mi
par da rincrescerne, e da desiderare che il Busini non avesse sbagliato
nell'attribuire a Luigi ciò ch'e' credette, al vedere, cosa da lui:
perchè, invero, lassù in villa, cioè a Poppiano, nel vecchio riparo
de' suoi maggiori, con la valente sua donna, erano luogo e compagnia
adattissimi a scriver bene di quella materia familiare, come dimostrano
le Lettere che io oggi do in luce.

Alle quali ogni discreto concederà volentieri il pregio delle parole: e
parole vuol dire cose parecchie e importanti. Perocchè la parola, o la
congegni il magistero d'uno scrittore o nel vivo de' fatti si atteggi
spontanea, ha, come testimonianza storica, tanto grande valore morale,
quanto forse nessun altro de' segni con che all'uomo è dato figurare
il pensiero e l'affetto: massime se di secoli, come a noi i tre primi
della nostra cultura, durante i quali lo scrivere, sì meditato e sì
usuale, esemplava dalla consuetudine de' parlanti tuttavia incorrotta
le schiette e native proprietà dell'idioma. Non so se cento, od anche
meno, anni più tardi ci occorrerebbe in lettere di donna fiorentina
una così graziosa pittura villereccia, come in queste di madonna
Isabella, nè con tanto senso del vero. Leggendole, noi la vediam
proprio, quell'accigliata massaia, tra le fantesche e i lavoratori, e
i mugnai, e i maestri muratori, e i fattori, e gli opranti, assegnare,
distribuire, pagare, registrar partite, riveder conti, conferire
col cognato Bongianni, che di que' fratelli era come chi dicesse il
castaldo; poi scrivere un po' per giorno, tra l'una faccenda e l'altra,
le sue lunghe e particolareggiate lettere al marito, e riferirgli,
e dimandare, e rammentare, e suggerire, e proporre: e il grano, e il
vivaio, e la gora, e la vendemmia, e il vino e l'olio, e il forno e
le legna, e il mercato a San Casciano, e le bestie da soma col garzon
che le mena, e le provviste invernali compresovi un porcellino per
insalare, e i lavori alla casa e alle fosse e al mulino; e poi le
ragioni di chi dee dare e chi avere, e' contadini che lasciano i poderi
e i nuovi che vi tornano, e chi son eglino, e i discorsi con loro che
par di esserci presenti; e poi confortare il povero prete di Poppiano,
afflitto da malattia disperata; e tribolarsi con le fanti, pur
raccomandando al marito d'aver egli pazienza co' servitori; e dietro a
tutto questo, «le sue faccenduzze», che teme per tanto lavorìo e tanto
scrivere debbano «andarle in disordine». Ma ell'era donna da riparare
a tutto, e da avanzarle tempo e lena per pensare e alla figliuola
sua Simona, prima da maritare e maritar bene, in modo da «esserne
consolati», poi allogata e da doverle mandar le nuove e riceverne; e
al suo messer Niccolò, i cui fatti le importano, alla madre, più di
ogni altra cosa del mondo; e al marito, cui consiglia della salute,
o ammonisce di cose più alte, o lo rimbrotta che in quelle sue
commesserie non gli piaccia portarla seco e far una casa sola, come
e' farebbe (dice amaramente) se gli fosse toccata moglie più degna; ma
in quella stessa lettera non crede poter lasciar la villa e le «molte
cose» nemmeno per una visita promessagli di quindici giorni, salvo che
proprio egli voglia così, chè allora verrà, anche se «dovessi lasciare
ogni cosa andare in perdizione».

La vena del malumore trapela spesso da queste lettere, «essendo lei di
natura» scriveva Luigi al figliuolo «che si accuora assai le cose che
non li vanno per el verso»; ed ella stessa al marito, «Pensate che io
non posso istare coll'animo in pace, chè sapete che io penso sempre al
peggio»; e in quasi tutte essa fa un lungo discorrere de' suoi malori:
ma come quelli non le impedirono di arrivar presso agli ottanta (nata
de' Sacchetti nel 1480, morì, dopo una vedovanza di otto anni, e due
dopo al figliuolo, nel 1559), così quella sua natura alquanto rubesta
e inquieta e crucciosa non la faceva sdare nè rimetter punto della
operosità di madrefamiglia e massaia. Del resto le lettere di Luigi
mostrano che l'austerità de' loro caratteri non impediva l'amore.
«Benchè sia vero» le scriveva una volta dalla Romagna «che io sia
qui chiamato da ogniuno Signore, e che ciascuno mi stia inanzi senza
nulla in capo, e che abbi quelli servidori voglio, e che secondo el
paese non mi manchi le cose ragionevole, nondimeno hai a tenere per
certo, che infiniti dispiaceri ci ho avuti d'animo per le cose di
costì e qui, e che non ci ho una ora di riposo o consolazione alcuna,
chè non che altro chi ordinariamente conversa meco non mi satisfa;
e che arei più senza comparazione piacere potere vedere le cose mie,
te e la brigata, e parlare alli amici mia, e vedere le cose di villa,
che queste signorie e sberrettate, et altre cose ci sono qua e che ci
posso avere. Però mi pare mille anni ogni ora, potere venire costì per
8 giorni almeno.» E altra volta, che ella da buona moglie e madre si
sgomentava di certe grosse spese domestiche, così egli, anche allora
Commissario, piacevolmente e con affettuosa confidenza la rassicurava:
«Circa alle spese grande abbiamo avuto questo anno, e per l'advenire
aréno ancora, per finire le muraglie e fornire le case, è verissimo;
e se non fussi questa sorte abbiamo avuto, non aremmo potuto reggere
a cosa alcuna, non che fare tutto; che penso si finirà ogni cosa e
fornirà le case bene, e si porrà da canto qualche danaio, e più somma
non pensi, per le cose che potessino accadere: e se non ho trovato qui
una cavetta d'oro, come scrivi, ci ho trovato una certa vena che getta
in modo dolcemente che col tempo comparisce; e sta' di buona voglia,
chè a tutto si riparerà facilmente.... Stammi un tratto allegra, e
pensa che questa volta siamo usciti del fango, e resteremo in modo che
non ci potremo dolere della sorte; perchè le cose ragionevole non ci
mancheranno, e presumi che questa vena che getta sopperirà a tutto. A
Iddio piaccia possiamo goderci insieme lo stato nostro, e che noi siamo
sani.» E tutto il carteggio di Luigi con la sua «carissima Isabella»,
o dove parla di lei, è improntato di affetto e stima e fiducia e
reverenza grandi, con bizzarra mescolanza di altro, come per esempio le
superstizioni astrologiche; secondo le quali e' le designa e prescrive
i giorni e le ore a punti di luna e di stelle, per andare o stare,
partire o tornare, e perfino sgomberare stanze, votar la cantina, far
manipolare medicamenti dallo speziale.

Alcuni tratti di queste lettere di madonna Isabella ricordano la più
viva e fiorita lingua de' comici e novellieri di quel secolo; in altri
potrebbe il lessicografo abbellirsi di voci e locuzioni specialmente
attinenti a cose di villa; ve n'ha infine che ci offrono pensieri
e sentimenti espressi con singolare potenza. La discendente dai
collaterali di Franco Sacchetti, la cognata di Francesco Guicciardini,
non fa torto al suo sangue nè al suo parentado.

Quel mugnaio dappoco, che non ispira punta fiducia alla giudiziosa
signora, ci par di vederlo: «molto debolino d'animo, d'ingegno, e
di cervello, e di persona»: dove ciò che un valga, e per le facoltà
morali e per le intellettive e per le animali e per le fisiche, è
annoverato e distinto a capello, con proprietà inappuntabile. Piena
di gentilezza, ed espressa come meglio non si potrebbe, è questa
sentenza (da altra lettera, di quelle che lascio inedite) sul correr
troppo a credere, massime se vi si mescola l'apprensione per coloro
che ci son cari: «Sempre si dice e pensa più che non è; e chi sente e
teme non può fare non gli dispiaccia». E in un'altra, più da giovane,
del 1517: «Sapete che la mia condizione è, sempre pensare a quello
che io non vorrei». E prima aveva detto che contro tali apprensioni
ricorreva alla «orazione»: ma «el timore era maggiore, perchè mi
pareva meritare ogni male»; con finir poi a riconoscere, lietamente
e grata, «esser Iddio più misericordioso che giusto.» È parlante il
ritratto di quel servitore che dà tanta briga al magnifico Commissario
in Arezzo: «faceva così in casa: ha una mala lingua, e commettitore di
scandali, e bestiale, e senza pensare a nulla»: e qui l'Isabella, senza
di certo volerlo, danteggia garbatamente (vedi _Inf._ XXVIII, 35);
cioè attinge anche questa volta (confronta a pag. 253) dalle medesime
sorgenti popolari donde il Divino Poeta; come altrove gli rivendica
una desinenza dalla tirannia della rima (vedi _Inf._, XXXIII, 120),
quando ripetutamente scrive «fighi» e non «fichi». Rivendicazione più
compiuta che non quella filologica del Nannucci (_Nomi_, pag. 64),
il quale di altre desinenze in _igo_ per _ico_ adduce esempi, ma non
proprio di _figo_. (E nelle lettere del cognato Bongianni, _grego_; e
qui a pag.269, 275, _bianghi_: _bianchi_, invece, a pag. 263). E que'
suoi contadini? l'uno «un bel promettitore, e fassi di buono animo
a far bene ogni cosa: se riuscirà a fatti, andrà bene» (e soggiunge
modestamente, «a questo voi ci sarete, a Dio piacendo»); l'altro
«parla poco, par sensata persona». E d'ambedue poi si rimette alla
più antica sapienza del mondo: «Bisogna giudicare alla giornata; come
dice il proverbio, Non ti conosco se io non ti maneggio; e puossi
male vedere se non si pruova.» Così dov'ella descrive il vivaio de'
pesci, toccatole non sa da chi: e alle sue grida e «molto rimore», i
lavoratori «pareva che tutti si maravigliassino», e le dicono ragioni,
ma non la persuadono. E dov'ella è tutta dolente per la «botte del
vecchio» che s'è sfasciata: così «l'avess'ella venduto tutto! chè
pensava, e le riusciva, averne per insino a Pasqua e dipoi, e era
buono, e aranne a ricomperare....». E dove al marito ritrae sè medesima
malaticcia, «così trista per camera, come molte volte m'avete vista»; e
in altra lettera, delle inedite, «e così per casa mi sto tristerella»:
quando poi a scrivere dei malanni proprî o degli altrui la si mette a
distesa, ne fa relazioni da disgradarne il Redi.

Ma l'animo suo e la parola sanno, quand'ella vuole, levarsi in alto:
anzi è osservabile, non meno del continuo inframezzare alle cure
materiali i pensieri e gli affetti della famiglia, il temperare che
ella fa talvolta alcuna di quelle sue uscite un po' acrimoniose con un
quasi correttivo morale. Così a quel sinistro ritratto del servitore
Ottaviano soggiunge subito: «Siamo tutti pieni di difetti; bisogna
sopportarsi l'un l'altro, tanto che ci morremo». Di quel ch'ell'è
malcontenta, se ne conforta sperando meglio da Dio; «a Dio piaccia se
ne pigli il migliore partito, che non mi pare punto la nostra usanza»;
da Dio, nel cui nome tutte le sue lettere incominciano e finiscono. E
il sentimento di Dio e del dovere e della morte e dell'eterno empie di
sè e annobilisce questi altri tratti: «Or sia come si voglia: tutto
à fatto Iddio, e a lui piaccia sia con salute dell'anima vostra e
mia. Chè a poco altro che alla Simona e questo penso: che ormai mi
veggo presso al tempo di rendere e' conti di questo viaggio presso
a finito.... — Bisogna facciate come iscrivete che io faccia io:
pigliarsi queste faccende per piacere, e non si straccare el manco
sia possibile, e isperare nel tempo che vola. E per tutto dove uomo
si truova, in questo mondo è iscontenti; e massimo nell'età nostra,
che ogni cosa c'infastidisce. El tutto istà, ci riposiamo nella
futura vita.... — Dell'orazione per voi, non si manca; pure che Iddio
l'accetti: bisogna l'aiuto vostro, e sanza quello credo che altro poco
vaglia.... — Vorrei che voi facessi come voi dite a me che io facci
io, che voi vi pigliassi coteste faccende per piacere.... Bisogna in
questo mondo, chi ci vuole avere contenti, pigliarsi piacere delle
cose che dispiacciono, altrimenti si starebbe sempre in tormento;
e pensare che 'l tempo vola....». E in una delle inedite, al marito
Commissario in Pistoia nel 37 per le stragi intestine di Cancellieri e
Panciatichi: «A Dio piaccia por fine a tante discordie e tribulazioni,
che sono causa de' pericoli successi. Confortovi istiate isvegliato con
cotesti cervegli, e pensare a tutto quello possi nascere; e considerate
donde sono nate tante loro angustie; e sopra tutto raccomandarsi a
Dio, che ci mostri el lume e la via, chè mi pare siamo in tempi da
avere bisogno dell'aiuto suo.» Ma l'aiuto di Dio quei valenti uomini e
donne, nell'atto che l'invocavano, se ne facevano degni menando attorno
gagliardamente le mani: «col suo aiuto aiutarci,» sono pur parole della
Isabella «e isperare in lui».

Tale la gentildonna dei Guicciardini, il cui nome, le cui ricordanze,
mi parvero buon auspicio alle nozze di Lei, ANNETTA gentile. Nomi e
ricordanze di generazione in generazione si mutano e si rinnovano: ma
ch'e' non passino com'ombra e fumo, e se ne conservi la tradizione
e l'esempio, questa è la religione della famiglia. Degli Dei falsi
e bugiardi, i Lari e Penati sono i soli che sopravvivono: pietà
di figliuoli e di nepoti alimenta di soavi aromi, conforta di aure
avvivatrici, la sacra fiamma di questo mito immortale.

  _San Donato in Collina, nell'ottobre del 1883._


NOTE:

[406] Loro figliuola, indisposta di salute. Era l'ultima di sei. Gli
altri: Margherita, maritata ne' Tornabuoni (1519), poi (1533) ne' Bini;
Piero, morto giovinetto nel 27; Guglielmetta e Lorenzo, morti fanciulli
nel 1509; e messer Niccolò, legista assai riputato e lettore poi nello
Studio Pisano, senatore nel 1554, oratore a papa Paolo IV, commissario
ducale a Pisa, dove morì nel 57.

[407] «Poppiano o Popiano nella Val di Pesa, castellare con villa
signorile e chiesa parrocchiale.... Ebbe antica signoria in cotesto
luogo di Poppiano la patrizia famiglia fiorentina de' Guicciardini,
alla quale tuttora appartiene la ròcca ridotta ad uso di villa, con
varî poderi intorno, oltre il giuspatronato della chiesa parrocchiale
di Poppiano.» Così il Repetti (_Dizionario geogr. fis. stor. della
Toscana_), il quale accenna inoltre alla tradizione, raccolta dal
Verino nel suo poema genealogico, che i Guicciardini siano «originarî
di cotesto Poppiano»; e ricorda che lassù pure, in una fattoria dello
Spedale degl'Innocenti, villeggiò don Vincenzio Borghini.

[408] Nel carteggio domestico di Luigi è, col titolo di _messere_,
che si dava propriamente ai dottori in legge, indicato egualmente e
il fratello Francesco, il grande storico e statista, e (come qui) il
figliuolo Niccolò. _La brigata_, intendi la famiglia di lui, che dal
1526 aveva in moglie la Caterina di Lorenzo Iacopi. Vedi a pag. 256.

[409] lo stare, il soggiorno.

[410] con some discrete, non troppo gravi, per modo che le bestie non
si strapazzino.

[411] cantine.

[412] casse di legno, specialmente da riporvi grano o altre biade. Nel
qual senso, non bene rilevato dai vocabolari, hanno _arca_ il Boccaccio
(IV, X), l'Ottimo, e in locuzione figurata Dante (_Parad._, XII, 120;
XXIII, 131).

[413] Quell'affettuosissimo della Beatrice dantesca (_Inf._, II, 69)
«L'aiuta si ch'io ne sia consolata», suona in bocca di altre donne
fiorentine: la Nostra qui, e d'un secolo innanzi l'Alessandra Macinghi
negli Strozzi (_Lettere a' figliuoli_ pubblicate da C. Guasti, pag.
72): «Prego Iddio gli dia tal virtù e grazia, ch'io ne sia consolata»;
e anch'essa parlando di figliuoli, consolazione suprema, davvero, o
tormento.

[414] Del maritare la Simona così scriveva, pur di que' giorni (15
settembre 42 da Arezzo), Luigi al figliuolo Niccolò: «Circa alla
Simona non dirò altro, se non che sono molto inclinato a Bernardo
Vettori; perchè altri non truovo che mi piacci tanto per ogni conto
quanto lui. Quello de' Ridolfi debbe avere el capo a gran dota, più
che non doverrebbe essendo molto ricco. Se fussi vivo Pier Francesco
Ridolfi, l'arei fatto tentar da lui, perchè era amico di Lionardo
suo avolo: non ci essendo, bisogna pensare ad altri mezzi. Credo
che l'essere mio costì gioverebbe: pure lo star qui non doverrebbe
nuocere. La importanza è risolversi, e non guardare in 300 scudi più
per acconciarla bene, essendo l'ultima. Però va' disegnando di qualcuno
spicciolato e non così nominato, purchè sia ricco, non ignobile, et
abbi cervello: chè essendo tu costì, «e parlandone con Piero Bini, non
potrà essere non troviate, delli due sopradetti e quello de' Nerli,
chi sia a proposito.» Ella sposò poi, come vedremo, Pierantonio di
Pierfrancesco de' Nobili, uno _spicciolato_, ossia d'una di quelle
minori famiglie che Luigi e gli altri, al pari di lui, appartenenti a
famiglie, come dicevano, grosse o di consorteria, guardavano d'alto in
basso (cfr. F. GUICCIARDINI, _Opere inedite_; III, 130, 239).

[415] Cestella da pescare, della quale vedi la Crusca, che però ne ha
solo un esempio del Burchiello.

[416] risicano d'esser presi da altri.

[417] il venire io e la famiglia a stare con voi costì in Arezzo. Dove
Luigi era Commissario.

[418] con tali qualità che fossero sufficienti, adequate, ai vostri
meriti. Lo dicevano volentieri di spose. Così la Strozzi, descrivendo
le bellezze della figliuola fidanzata (pag. 6): «.... in verità non
ce n'è un'altra a Firenze fatta come lei, ed ha tutte le parti».
Dove l'editore di quelle _Lettere_, che l'hanno anche altrove, cita
in raffronto ciò che della futura nuora scriveva (vedi in questo mio
libro, a pag. 236) Lucrezia Tornabuoni ne' Medici: «La fanciulla à dua
buone parti, ch'è grande e bianca....»

[419] ultimo; nè altramente anc'oggi in contado.

[420] se io avrei fissata questa gita ad Arezzo (per fargli una visita).

[421] attempata. Confronta a pag. 263 e 271: le «persone di tempo».

[422] Il figliuolo Niccolò e la Caterina Iacopi sua moglie: vedi la
nota a pag. 252.

[423] Cioè una delle tre figliuole di messer Francesco l'istorico,
maritata a Piero Capponi. Aggiunse _di messere_ (confronta la
cit. nota) nell'interlinea. Ambedue i fratelli avevano rinnovato
in una figliuola il nome della propria madre, Simona di Bongianni
Gianfigliazzi.

[424] Oggi si farebbe a forme: ma di que' secoli, anche la Strozzi ha
«quattro coppie di marzolini»; e il Firenzuola, «una coppia di questo
cacio»; e nelle lettere di Michelangiolo, «Io ho avuto i raviggiuoli,
cioè sei coppie».

[425] Uno de' molti medici co' quali monna Isabella si consigliava.
Confronta le lettere III e V.

[426] persone (i contadini di que' due poderi) da non sapersi trarre
d'impaccio, di poca conchiusione, poco svelte. È in una lettera del
Machiavelli a Francesco Guicciardini, parlandogli di uomo tardo a
risolversi, irresoluto: «Io non mancai dimostrargli che quelli rispetti
erano vani,... e combatte'lo un pezzo; tanto che se egli non fosse un
uomo un poco legato, io ci arei drento una grande speranza».

[427] Sentenza, nientemeno che di Tacito: ma l'Isabella, che la ripete
a pag. 271, l'aveva probabilmente imparata dal figliuolo dottore:
vedi la lettera di lui a pag. 267. «Negotia pro solatiis accipiens»,
ha il grande Annalista (IV, XII): e il nostro Davanzati, «pigliandosi
per conforto i negozi»; tutt'altro che preferibile, mi pare, alla
inconsapevole traduzione della sua concittadina.

[428] da vecchi.

[429] a San Casciano.

[430] Colui che dirige i lavori del fattoio, ossia del luogo dove si fa
l'olio.

[431] quando sarà il tempo opportuno, quando ne sarà il tempo, a suo
tempo. Quest'uso del verbo _servire_, che ricorre anche nella pagina
seguente e a pag. 274 in nota, è nuovo ai Vocabolarî: vivo anc'oggi nel
contado.

[432] Gora è propriamente Un canale pel quale si deriva l'acqua de'
fiumi o torrenti, trattenuta e sollevata mediante pescaie, e se ne
rivolge il corso ad uso di mulini od altro simile. I pescaiuoli poi
sono Piccole pescaie costruite attraverso alla gora, per trattenere le
acque di essa e così impedire le corrosioni dell'alveo e de' cigli. Qui
si parla (vedi anche a pag. 272) delle acque del torrente Virginio o
Vergigno, sulla cui destra sorge Poppiano; e ne aveva scritto a Luigi
anche messer Niccolò, appunto dieci giorni innanzi, da Firenze: «Al
Vergigno s'è acconcio la gora e quasi el resto.»

[433] di questa gente del contado. I _contadini_ proprio del podere,
sino ai tempi dell'Isabella si chiamavano, e così ella fa quivi stesso
e in altri luoghi di queste lettere, _lavoratori_ (vedi la Crusca, Vª
impressione).

[434] quercia, sottintendi. _Mal fastello_ è, come altri di sopra,
nome di luogo in que' loro possessi; e consimile indicazione è pure
la seguente, _da' capperi_. Noterò poi qui che io stampo _ghiande_,
sebbene la penna, facile del resto a trascorrere, dell'Isabella
abbia _chiande_; e lo stesso dico di _pacherà_, _custo_, _ciornata_,
e cosiffatti. Ho rispettato altre sue grafie, dissuete ma che hanno
ragion d'essere.

[435] secondo che il tempo sia opportuno a ciò, per quanto il tempo lo
permetta. Confronta a pag. 260.

[436] i giorni corti; e perciò le opere, ossia il lavoro d'una
giornata, scarso e mal adeguato alla mercede. Così nell'_Agricoltura_
del Crescenzio (I, XIII) il padrone «fa ragione col villano, ovvero
castaldo, delle opere e de' dì»: schietta frase, che ricorda Esiodo.

[437] Cioè, con agio. Arguta frase, per ciò che sottintende: ma non
credo che la gentildonna facesse più che pigliarla dal popolo.

[438] com'è la sola acconciatura degli usci.

[439] mi ha fatto bene quando mi sono purgata, quando mi è occorso
prender purganti. Forse _al purgarmi_ o _in el purgarmi_.

[440] Cavalcante Cavalcanti, tutto cosa di Luigi e della famiglia. È
ricordato frequentemente nelle loro lettere.

[441] cosa naturale, e perciò da non isgomentarsene.

[442] Grande osservatrice delle fasi lunari era l'Isabella, sì per
le faccende della villa e si pel governo della salute. In altra sua
lettera, da Poppiano, al figliuolo: «... Ècci istato 2 giorni tenpo
terribile di vento e freddo. Vedréno tenpo lascerà questa quintadecima
(_luna piena_), e come tratterà me, e piglieréno qualche partito el
quale migliore ci parrà.»

[443] _Opinione_ di gen. masc. (nè l'Isabella ha mai altramente) fu
comune agli antichi, massime nell'uso del popolo. Il quale in _la
opinione_, pronunziato come si suole _l'opinione_, frantendeva l'art.
masc. _lo_; e taluna di consimili confusioni fra articolo e prima
sillaba del nome mantiene ancor oggi, specialmente nel contado.

[444] Il prete di Poppiano, che faceva anche gli affari del suo
«onorando patrone», come si ha da una lettera che gli scriveva il 28 di
ottobre di quello stesso anno. Vedi anche qui, a pag. 269.

[445] visitare.

[446] La figliuola, la quale si era maritata a Pierantonio de' Nobili.

[447] e segnare giornate d'opranti, e partite di grano.

[448] Di ciò gli scriveva anche la figliuola Simona: «yhs. Carissimo
e onorando padre ec. Non risposi alla vostra de' 30 di settenbre, chè
lasciai sopperire a Pierantonio, che allora so vi rispose lui; e dipoi
non v'ò iscritto per non vi infastidire, chè, tra el male avete auto
e l'altre faccende penso che v'abiate, avevi brighe troppe. Quanto
sia istato el dispiacere abbi auto del male vostro, credo che apresso
ve lo possiate pensare, e massimo essendovi tanto discosto, che con
altro che co l'orazione vi potevo aiutare; e pensate che a questo non
mancai di farne nè di farne fare: chè subito che intesi el male vostro,
mandai a parecchi monasteri a far fare orazione per voi, e fra l'altre
alle monache degli Angioli, che so ne fanno continuamente e con più
amore che l'altre, perchè v'ànno più obrigo; che n'ebbono ancora loro
dispiacere e grande. Pure ora per la grazia d'Iddio intendo voi stare
benissimo, che a Dio piaccia mantenervi sano lungo tempo, acciò ci
possiamo rivedere e godere, el tenpo che ci abbiàno a stare, in pace e
con allegreza, che a me pare mil'anni che voi torniate; e così madonna
Isabella, che è ancora in villa e non so quando si voglia tornare,
che quest'anno v'à 'uta una cattiva stanza, rispetto al tanto piovere
che à fatto: pure ora da 4 dì in qua s'è un poco diritto el tenpo, e
non doverebbe ora indugiar troppo a tornare, perchè, di questo tenpo,
non dura. Non dirò per questa altro, salvo che a voi del continuo mi
raccomando, e così Pierantonio, che stiamo tutti bene: a Dio piaccia
mantenerci, e così voi; e 'ngegnatevi di riguardarvi da tutte le cose
sapete vi nuocono, acciò vi mantegniate sano. Nè altro. A voi di nuovo
mi raccomando. Cristo di mal vi guardi. Di Firenze, il giorno 3 di
dicenbre 1542. Vostra figliuola Simona.»

Messer Niccolò poi gliene aveva filosofato in questa forma, che lo
ritrae mirabilmente con tutta quella dottorevolezza che i contemporanei
gli attribuiscono: «.... Quanto al male, dice maestro Marcantonio
(chè maestro Giovanni Batista non è ancora tornato) che del polso
non tegnate molto conto, perchè Galeno ne' vecchi non ne tiene conto
alcuno; e dell'altre cose vi andiate regolando più con la buona vita
che con le medicine. Et a me pare savio consiglio, rispetto all'età
vostra et a quella del medico che vi consiglia; che non vorrei facessi
sperienzia su' casi vostri del cervello suo: e fidomi più su la
prudenzia vostra che su la dottrina sua, chè uno medico ha bisogno di
experienzia e prudenzia oltra la scienzia. Ma di questo non dirò altro,
se non che il tedio dell'animo e del corpo el pigliare le faccende
per piacere ve lo caverà assai, e sopra tutto el leggere qualche cosa
sacra, che a me a cotesto difetto ha sempre molto giovato, e maxime
la Bibbia. E Cornelio Tacito dice di Tiberio, _quod summebat solatium
a negociis_. Pur che non abbiate troppa voglia di ringiovanire con
e' rimedi, che da el lapide in fuora tutti vi invecchieranno. E se
avete Marco Tullio _de senectute_, leggetelo; chè mi dilettò assai,
leggendolo fanciullo, et a voi credo piacerà e diletterà assai, ma
ingegnatevi intenderlo bene. Quanto alle cose di villa....» E qui
viene alla materia della quale si dilettava tanto madonna Isabella, e
poi alle cose pubbliche, intorno alle quali padre e figliuolo hanno un
carteggio da dirsi veramente prezioso per la storia di quelli anni. Non
però, che prima di finire la lettera (la quale è de' 20 novembre 42 da
Firenze), non afferri altre occasioni di sentenziare e citare: «....
chè _nemo dat quod non habet_, e come dice la Canzona di Daniel, _Ogni
animal fa simil creatura_....»; la quale ultima sentenza, a chiunque
ella appartenga, doveva far paternamente compiacere di sì profusa
dottrina il magnifico Commissario.

[449] Vedi a pag. 260.

[450] Cognato dell'Isabella, e quello tra i fratelli Guicciardini,
che tutto attendeva alle cure domestiche. Non ebbe moglie. Fra le sue
lettere, che molte sono anch'esse villerecce e assai belle [ed io ne ho
poi pubblicate col titolo di _Lettere d'un campagnuolo fiorentino_], se
ne hanno di que' medesimi giorni da Poppiano, a Luigi e a Niccolò.

[451] «.... e eravamo nel più basso tempo dell'anno» DINO COMPAGNI, II,
X. Vedi la lettera precedente, a pag. 261.

[452] Identica locuzione in uno degli antenati dell'Isabella (FRANCO
SACCHETTI, nov. CCXIV): «E non si può errare, che l'uomo in questa
vita faccia col suo e lasci stare l'altrui». Noi oggi, con simile
intendimento, diciamo, _non si sbaglia_; in costrutto con l'infinito,
mediante la prep. _a_, come l'Isabella (che ve la sottintende), e
altrove (nov. CLXXXVII) lo stesso Franco: «E però non si può mai
errare a porsi nel luogo del compagno, e fare la ragion sua come la sua
propria; e così facendo, rade volte, vivendo, incontra all'uomo altro
che bene».

[453] Sorta di pera autunnale.

[454] l'uffizio e la dimora, in Castrocaro di Romagna dov'era
Commissario.

[455] Il torrente, del quale vedi a pag. 260 in nota.

[456] Questo suo male, che in altre lettere chiama «l'accidente
grande», o «quel mal grande», e che ogni tanto l'assaliva con maggior
violenza che «que' piccoli», le aveva disturbato gli ultimi giorni di
villa. Sentiamolo da alcune delle lettere che ne scriveva, fra il 19
e il 25 dicembre, al figliuolo Niccolò in Firenze: «yhs. Carissimo
figliuolo, Ieri vi scrissi di mio essere: dipoi mi so' istata
all'usato, e istòmi volentieri nel letto calda; se io mi lievo, mi
sento le ganbe debole; e' polsi s'alterano, e non potrei istar troppo
levata; mangio bene e non dormo male. Da domenica in qua non ho auto
accidente d'inportanza, salvo che in questo levarmi; chè se io istessi
alla dura, dubito non venissi: e qualche volta mi sento, come altre
volte ho fatto, certo freddo nel capo tra l'osso e 'l cervello. Io
pensavo esser oggi guarita, e potere fare le mie faccende: e in fatti
e' non mi riesce. Non so come farò; non posso indovinare quello s'abbi
a essere: o indrieto o inanzi. Ma quando io penso esser ne' 62 anni,
mi fa pensare a più cose. Qui è istato oggi un tenpo terribile, e 'l
maggior vento mi paia mai averci sentito, e rotti tegoli enbrici e
rovinato e iscomesso ciò che in 15 giorni s'era assettato; e bisognerà
da capo rifarsi. El fattoiano mi dice che parendovi da dare l'olio per
uno ducato, crede arebbe uno che lo torre' tutto; benchè a San Casciano
non valse tanto: domani s'intenderà quello che farà. Non dirò altro. A
voi mi raccomando, e pregate Idio per me. El Signore sano voi conservi.
Addì 22 di dicenbre 1542. Isabella a Poppiano. (_Fuori:_ Egregio
dottore messer Niccolò Guicciardini figliuolo carissimo, in Firenze).»
E due giorni dipoi: «yhs. Carissimo figliuolo, Ebbi la vostra, e per
quella mi dite che bisognando verrete voi, la Caterina, la Simona: e
lo credo, e sonne certa, e tutti vi ringrazio, e bisognando vi si farà
intendere. Dammi noia alcuna volta questo battito al cuore, e qualche
triemito; e se non fussi questo freddo, mi starei alcuna volta levata.
Se accadrà cosa che inporti, vi si farà intendere, se non fussi qualche
cosa istrana che l'uomo non pensassi; io non so indovinare. Penso,
se 'l tenpo mi serve, venirne presto, e farassi un poco di senprice
cataletto, chè la lettina non sono usa; e forse potrei migliorare
di sorte torrei la mula....» E in poscritta, non dimenticando mai
la masserizia: «Voi non avete risposto dello olio.» Se non che la
famiglia, inquieta, insisteva perch'ella si rimettesse in città. E la
buona massaia, che pure aveva scritto «.... istommi così tristerella, e
pensate che del tornare io me ne istruggo, e ch'io vorrei esser costì»,
a quelle insistenze, mezza scorruccita, replicava: «yhs. Carissimo
figliuolo etc. È vero che ieri e oggi mi sono istata comodamente, come
vi scrissi, e non bisognava pigliassi briga venire; perchè bisognando
che io me ne venissi, ci è Bongianni e Cavalcante che tutto potrebbono
ordinare; e benchè voi vegnate domani, mi sarà tranbusto e non piccolo,
esser a ordine giovedì. E pensate che questo avere ogni dì a pensare a
nuova fantasia e iscrivere, non mi giova niente. Io farò quello potrò,
e Idio m'aiuti: di venire o non venire, la rimetto in voi. Sono tenpi
freddi, e voi non siate molto gagliardo; non vorrei avessi disagio
e malassi: chè infatti inporta più e' casi vostri che el mio. Io non
posso sapere se 'l miglioramento s'andrà inanzi o indrieto, perchè di
sana vedete come mi fa: e pensate che io arei più caro esser malata
costì che qui: ma poi che la mia sorte vuole così, bisogna pigliare
que' partiti che altri pensa sieno meglio, sanza tanto tribolarsi. Io
non vo' più tanto iscrivere e leggere, e fate di me quel che vi pare;
chè un sano, faccendo a questo modo, amalerebbe. Non altro. Cristo vi
guardi. Addì 25 di dicenbre 1542. Isabella a Poppiano.» Ma il corruccio
della massaia si sente, dalla lettera al marito, aver presto ceduto
il luogo all'affetto materno, riconoscente verso le premure e le
apprensioni del suo caro Messere e delle giovani spose, che l'avean
rivoluta in Firenze.

[457] Di stile fiorentino.

[458] Ciò che segue è in foglio a parte o, come dicevano, polizzino.

[459] costipazione, infreddatura, reuma: e dicevano _scesa_, perchè si
credeva che il catarro scendesse dal capo nelle altre membra.

[460] La figliuola e la nuora.

[461] Nelle _Carte Strozziane_ del R. Archivio di Stato in Firenze.
Vedine l'_Inventario_, pubblicato per cura della R. Soprintendenza
degli Archivi Toscani.

[462] Vedi nella seguente pagina l'Alberetto, che non sarà inopportuno
alla migliore intelligenza delle Lettere di madonna Isabella.



UN'ALTRA LETTERA

DELLA ALESSANDRA MACINGHI STROZZI


Questa lettera (dall'originale autografo, nell'Archivio fiorentino di
Stato, Carte Strozzi Uguccioni, filza 249) fu pubblicata per mia cura
in Nozze Strozzi-Corsini (14 aprile 1890: edizione di CCC esemplari,
col facsimile della lettera; Firenze, tip. Carnesecchi), e ripubblicata
in Nozze Guasti-Boccardi (25 aprile 1892: edizione di C esemplari;
Firenze, tip. Carnesecchi). All'edizione del 1890 premessi il cenno che
qui riproduco:

«Cesare Guasti trascrisse, sfuggitagli, e noi sulla sua trascrizione
confrontata all'originale esempliamo, questa Lettera da soggiungersi
alla seconda fra le settantadue che della Alessandra Macinghi negli
Strozzi egli pubblicò nel 1877; libro ormai noto e caro agli studiosi
e ad ogni anima gentile.[463] E che sia questa una delle più belle,
basti ch'ella è una delle più materne; e perciò di ottimo auspicio la
sua pubblicazione nelle nozze di discendenti da quello che il Guasti
chiamava «il più storico ramo degli Strozzi»,[464] e dava giusto
merito alla veneranda gentildonna di averlo ella conservato a Firenze,
opponendo contro le partigiane proscrizioni la costanza paziente di
madre, e quella virtù soave a un tempo e gagliarda, per la quale, a'
giorni tristi, più tenace nell'animo femminile è, come la fede nel
meglio, così la speranza.

Di tali sentimenti e virtù anche questa lettera è documento
nobilissimo: i personaggi della quale, Filippo, a cui è diretta,
e Lorenzo primo e secondo geniti della valente vedova, e Matteo
garzoncello che presto, poveretta!, doveva morirle, e Niccolò Strozzi
cugino del padre loro e che di padre adempiva le parti, e Iacopo
fratello di Niccolò, e la Caterina maritata a Marco Parenti, e la
Alessandra che fu poi a Giovanni Bonsi, chi voglia conoscerli anzi come
vive persone conversarli, cerchi il libro al quale ci pare aver qui
dato breve, ma assai accettevole, appendice.

La lettera a cui questa vien dietro è quivi stesso indicata, «A dì 4
di questo ti scrissi»; e così alcune cose qui accennate ricevono luce
da quella o dalle illustrazioni che il Guasti vi appose. Aggiungemmo,
com'egli fece a tutto il volume, qualche noterella dichiarativa.»


  _A Filippo degli Strozzi, in Napoli._

Al nome di Dio. A dì 8 di novenbre 1448.[465]

A dì 6 di questo ebi una tua de' dì 16 del passato, alla quale farò per
questa risposta.

Tu mi di' de' fatti di Matteo, come t'ha scritto una lettera di nostro
istato: ed è vero; e stiàno ancora peggio che non dicie. Iddio lodato
di tutto. E dell'aver mostro la lettera a Nicolò, a' fatto bene: però
che lo stato nostro è noto alli strani, ben debb'esser noto a quegli
che ci sono parenti e continovamente ci aiutano: chè Nicolò non à
ora a dimostrare la buona volontà inverso di voi, chè senpre è stato
di buon animo a farvi del bene; ed èciene di te tale isperienza,
che ne so' chiara; e tu più di me ne deb'essere chiaro. Tu di' che,
veduto che qua Matteo, sì per amore[466] della morìa, che porta
pericolo a starci, e sì perchè e' perde tenpo e non fa nulla, Nicolò è
contento[467] lo mandi costà, e ch'io lo metta in punto. Egli è vero
che qua è cominciato la morìa, e chi à 'vuto d'andare in villa se
n'è ito; e ancora pelle ville n'è morti, e quasi per tutto il contado
ne muore quand'uno e quand'un altro; e la brigata si sta per ancora
in villa; e credo, non faciendoci altrimenti danno, che torneranno
ora a Firenze. Istimasi che questo verno non farà troppo danno, ma
che a primavera comincierà a fare il fracasso: che Idio ci aiuti! e
Matteo m'à sentito dire che, sendoci morìa, non ò danari da partirmi:
ed è vero. Io non so come io me lo mandassi, chè è piccolo, ancora à
bisogno del mio governo, ed io non so come mi vivessi; che di cinque
figliuoli, rimanessi con una, cioè l'Alesandra, che ogni ora aspetto
maritalla: che il più possa istar meco non sono du' anni; che quando
vi penso, n'ò un gran dolore, di rimanere così sola. E dicoti che a
questi dì andò Matteo in villa di Marco, e stettevi se' dì, ch'io non
credetti tanto vivere ch'e' tornassi; e non avevo chi mi faciessi un
servigio; che mi pareva esere inpacciata sanza lui, poi[468] mi scrive
tutte le lettere. Da altra parte, ebbe in questa state un gran male,
e credetti che morissi: ma il buon governo lo scanpò. E ragionando col
maestro[469] dell'andar di fuori, mi disse: Voi l'avete poco caro, se
lo mandate; però ch'egli è di gientile conpressione;[470] e se avessi
un male fuor del vostro governo,[471] sì mancherebbe: sicchè, se
l'avete caro, nollo partite sì tosto da voi. E per questo, e perch'io
me ne vego bisogno, me n'uscì il pensiero. È vero che, or fa un anno,
n'avevo voglia: ma avevo ancora la Caterina in casa, che non mi pareva
eser sì sola. Ma poi senti' come Lorenzo si portava tristamente,[472]
e che d'amendue avevo avuto tanto dolore, che sendo morti no n'arei
avuto maggiore ch'i' ò, tra una cosa e l'altra, diliberai non ne mandar
più fuori, se grande bisogno non vi era: e l'ò detto co Marco e con
Antonio degli Strozi. Amendue mi dicono per ora nollo mandi: ma se pure
a primavera ci sarà la morìa grande, come si stima, esendo migliorata
a Siena e per tutto il camino per ensino a Roma, lo potre' mandare:
chè sarebbe pazzia la mia a mandallo ora, chè ora siàno nel verno; chè
diliberando mandarlo, nollo metterei per via: sicchè per ora non vi
porre pensiero. So i' meglio di niuno il bisogno vostro; e che se voi
non ve ne guadagniate, non bisogna istare a fidanza d'altro. Io per
me m'ingegnerò, per ogni modo e masserizia, di mantenervi questo poco
ch'i' ò, se 'l Comune non me lo toglie; chè non posso più difendermi.
Idio sia quello che m'aiuti; e a voi dia virtù e santà, come disidero.

Del lino, istarò a tua fidanza;[473] e se me lo mandi, mandami drentovi
libbre 10 di mandorle per la quaresima; che verranno bene nella balla
del lino. Chiegotele perchè sento costà n'è buono mercato, e qua son
care. Fa' di mandarmele, chè so è poca ispesa.

Di Marco, t'aviso ch'è buon giovane, e molto bene tiene la Caterina,
e tutti se ne porta bene,[474] e molto me ne contento; chè è di buona
virtù; ma à troppa gravezza, chè à da undici fiorini. Tutto à pagato
per ensino a qui, e se non peggiora, ne sono molto contenta di lui: che
Idio gli dia della suo' grazia. La Caterina non è per ancora grossa;
che al tenporale che è, l'ò molto caro:[475] ma istà magra della
persona, che somiglia suo padre. Idio la faccia pur sana.

A dì 4 di questo ti scrissi: manda' la sotto lettere[476] di Marco;
e perchè il fante si partì prima ch'io non credetti; credo l'arai a
un'otta con questa. E per quella ti scrissi della casetta di Nicolò
Popoleschi, che s'è venduta a Donato Ruciellai, che ci è a confini,
cioè in sulla corte, che per verun modo non si vole lasciare uscire
di mano. Filippo, rispondi presto, chè lo voglio iscrivere a Iacopo a
Bruggia.

Nè altro per questa. Idio di male ti guardi. Per la tua Allesandra fu
di Mateo degli Strozi in Firenze.

Fa' d'esser ubidente a Nicolò, e di fare il debito tuo inverso di lui,
e d'eser conosciente del bene che vi fa. Chè se così farai, anco io
viverò contenta. Che Idio per sua misericordia te ne dia grazia. A
questi dì iscrisse Matteo una lettera a Lorenzo a Vignone.


NOTE:

[463] Più volte citato e indicato in questo mio libro. _Alessandra
Macinghi negli Strozzi. Lettere di una gentildonna fiorentina del
secolo XV ai figliuoli esuli, pubblicate da_ CESARE GUASTI. In Firenze,
G. C. Sansoni editore, 1877.

[464] A pag. IX del _Proemio_.

[465] Ricevuta il 28 di novembre.

[466] per cagione.

[467] desidera, ha caro.

[468] poichè.

[469] col medico.

[470] complessione.

[471] fuori della vostra custodia; senz'essere custodito da voi.

[472] non stava bene di salute; era malato.

[473] mi rimetterò a quanto tu sia per fare.

[474] e si porta bene con tutti.

[475] Cioè che non sia incinta, essendo tempo di morìa.

[476] acchiusa in lettere.



INDICE

  Nei primi secoli del Comune                                Pag.   1
    Note                                                           55
  Da Dante al Boccaccio                                            67
    Note                                                           95
  Beatrice nella vita e nella poesia del secolo XIII              105
    Note                                                          149
  La donna ispiratrice                                            157
    Note                                                          171
  Nel rinascimento e negli ultimi anni della libertà              173
    Note                                                          225
  Una madrefamiglia del Cinquecento                               249
  Un'altra lettera dell'Alessandra Macinghi Strozzi               293



ERRATACORRIGE


  Pag. 46 Lionora;[88]                 correggi  Lionora;[98]
   »   50 di messer Folco                 »      di Folco
   »   57 di Manetto                      »      di messer Manetto
   »   59 nota[41] — La data de' «17 ottobre, a pag. 105»
          dell'Elenco di L. Santoni, è erronea. La vera è
          «17 dicembre, a pag. 128» del medesimo Elenco;
          dove anche altre cose, oltre quel doppione, sarebbero
          da raddirizzare.
   »  132 si volle                     correggi  sì volle
   »  149 Dell'antico                     »      [9] Dell'antico
   »  154 Nei sonetti                     »      [74] Nei sonetti
   »  211 vendicati                       »      vendicate
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Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate a
pag. 303 (Erratacorrige) sono state riportate nel testo.





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