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Title: Novelle
Author: De Amicis, Edmondo
Language: Italian
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                                NOVELLE

                                   DI

                           EDMONDO DE AMICIS


                   GLI AMICI DI COLLEGIO. — CAMILLA.
            FURIO. — UN GRAN GIORNO. — ALBERTO. — FORTEZZA.
                            LA CASA PATERNA.


                         _QUINTA IMPRESSIONE._
    _della nuova edizione del 1878, riveduta e ampliata dall'autore_
                    CON SETTE DISEGNI DI V. BIGNAMI.



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                 1884.



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

  _Gli editori hanno compite tutte le formalità richieste dalla legge
     e dalle convenzioni internazionali per riservare la Proprietà
                letteraria e il diritto di traduzione._



A GONZALO SEGOVIA Y ARDIZONE


_Per ringraziarvi degnamente delle cortesi accogliente che mi faceste
in Siviglia, dovrei dedicarvi un libro, nel quale fossero descritte le
meraviglie della vostra bellissima città natale; ma poichè quel libro
non è anche fatto, e a me preme d'esprimervi la mia gratitudine, vi
prego di accettare queste povere Novelle. Possiate, leggendole, pensare
qualche volta all'amico lontano, echi quel desiderio affettuoso ch'io
sento di voi alla lettura dei vostri versi gentili. Vivete sano, e
godetevi i quadri del Murillo e il profumo degli aranci._

  Torino, 20 luglio 1872.

                                                               Vostro
                                                        E. DE AMICIS.



GLI AMICI DI COLLEGIO.


   [Illustrazione]


I.

Molti scrivono ogni sera quello che hanno fatto il giorno; alcuni
tengono ricordo delle commedie sentite, dei libri letti, dei sigari
fumati; ma c è uno su cento, su mille, che faccia una volta l'anno,
o che abbia fatto una volta in vita sua, l'elenco delle persone che
conosce? E non intendo dire di quei pochi, con cui si ha che fare, o
che si vedono, o a cui si scrive; ma di quel gran numero di persone,
viste altre volte, che forse non rivedremo, e che pur tornano ancora
alla mente molto tempo dopo che si son lasciate, a mano a mano più di
rado, fino a che scompaiono affatto, e non ci si pensa mai più. Chi
di noi non ha perduto la memoria di cento nomi e smarrito la traccia
di cento vite? Eppure è una gran perdita per l'esperienza, e io ne
son tanto persuaso, che, se ricominciassi a vivere, vorrei spendere
mezz'ora al giorno nel noioso lavoro di notar nomi e casi di persone,
anche le più indifferenti.

Che storia intricata e strana mi ritroverei tra le mani, se avessi
serbato ricordo di tutti i miei compagni delle prime scuole; e
continuato a chiederne notizie qua e là, via via che se ne presentava
l'occasio ne, e tenuto dietro, in qualche modo, alle vicende principali
di ciascuno! Ora, di quelle due o tre centinaia di ragazzi che
conoscevo, venti o trenta appena mi son rimasti nella memoria, e so
dove sono, e che cosa fanno; degli altri non so più nulla. Per qualche
anno ho avuto davanti agli occhi l'immagine distinta di tutti: erano
trecento visi rosei che mi sorridevano, e trecento giacchette che
mostravano ciascuna, più o meno, la condizione del babbo, da quella di
velluto del figliuolo del sindaco a quella infarinata del figliuolo
del fornaio; e mi pareva di sentirmi ancora sonar nell'orecchio, a
una a una, le voci di tutti; e vedevo il posto di ciascuno nei banchi
della scuola, e ricordavo parole, atteggiamenti, gesti. Ma a poco a
poco tutti quei visi si confusero in una sola striscia color di rosa,
tutte quelle giacchette in un color bigio uniforme, tutti quei gesti
in un tremolìo indistinto, tutte quelle voci in un mormorìo fioco; fin
che una nebbia fitta coprì ogni cosa, e anche il mormorìo tacque, e la
visione scomparve.

E mi dispiace, e molte volte mi piglia il desiderio di squarciar
quella nebbia, e di ravvivar la visione. Ma ohimè! non li troverei più
insieme; e se dovessi andarli a cercare a uno a uno, chi sa quanti giri
e rigiri mi toccherebbe fare, e dove metter piede, e tra chi! Forse
passerei da una sacrestia a una caserma, da una caserma a un'officina,
dalla officina allo studio d'un avvocato, dallo studio dell'avvocato a
una carcere, dalla carcere a un palco scenico, dal palco scenico, pur
troppo! al camposanto, e dal camposanto sur un bastimento mercantile
in un porto dell'America o delle Indie. Chi sa quante avventure, quante
disgrazie, quante tragedie domestiche, e mutamenti di visi e di costumi
e di vita, in così piccolo numero di gente e in così breve giro di
tempo!

Eppure, non son quelli gli amici che si desidera più caldamente di
rivedere. Non solo; ma se badiamo a discernere in noi il sentimento di
mesto desiderio che ci risospinge verso gli anni della fanciullezza,
da quello che ci pare ne sospinga verso i compagni di quegli anni, ci
meravigliamo di trovar questo così debole, e fors'anco di non trovarlo
nemmeno. E perchè ci dovrebb'essere, e forte? Stavamo sovente insieme,
eravamo allegri, ci cercavamo, ci desideravamo; ma le nostre anime
non si ricambiavano nulla di quello che le ravvicina e le stringe e vi
lascia una traccia. Le nostre amicizie si legavano e si scioglievano
con uguale facilità. Avevamo bisogno di un compagno che facesse eco
alle nostre risa e ci aiutasse ad arrampicarci sugli alberi e ci
rimandasse la palla con un colpo vigoroso; e a ciò serviva meglio il
più destro, il più chiassone e il più ardito; e questo, il più delle
volte, era l'amico più caro. Ma volevamo bene ai deboli? Domandavamo ai
malinconici: — Che cos'hai? — E se ci dicevano: — Il tale è morto — si
piangeva? Ah! non eravamo amici.

E sarà certo seguìto a molti di rivedere dopo quindici anni un
compagno delle scuole elementari. Si riceve una lettera, di cui non
si riconoscono i caratteri, si getta un'occhiata alla firma, e si
dà un grido: — Come! Lui! È vivo? — Si piglia il cappello e si corre
all'albergo. Oh certo che, mentre si corre, il cuore batte, e salendo
la scala s'affretta il passo con grande ansietà, e si ride, e si gode,
e non si darebbero quei momenti per tutto l'oro del mondo. Ma son
quelli i più bei momenti. Si entra nella stanza con impeto, si bacia un
uomo, nel quale, sì, a guardarlo bene, si ravvisa qualche tratto del
fanciullo d'una volta; l'uno domanda all'altro: — Che fai? — e l'uno
ricorda all'altro, in fretta e in furia, qualche bazzecola di quando
si andava a scuola e poi.... è finita. Cominciate a pensare: — Chi è
costui? Come ha vissuto, dacchè non ci siamo visti? Che cos'è seguito
in quell'anima? È buono, è tristo, è un credente, è uno scettico?
Io non ho niente di comune con lui, non lo conosco. Bisognerebbe
scrutarlo, studiarlo; ma dunque non è un amico! — E quel che pensate
voi, lo pensa lui, e la conversazione procede languida e fredda; e
forse dalle prime parole vi accorgete che avete battuto due opposte
vie; egli vi lascia trasparire una striscia del suo berretto frigio,
voi, secondo lui, la punta del vostro codino di monarchico; voi gli
date una tastatina sulla letteratura, egli a voi sul seme dei bachi
da seta; voi, prima di dirgli che avete moglie, gli domandate s'egli
l'ha; ed egli vi risponde: — Fossi minchione! — e finite col lasciarvi,
stringendovi la punta delle dita, e ricambiandovi un sorriso morto
appena nato.

Gli amici d'infanzia! Cari sì, sopra tutti, quando si siano vissuti
insieme anche gli anni della giovinezza; ma se no, che cosa sono fuor
che fantasmi? E l'infanzia stessa! Non ho mai potuto capire perchè
si rimpiangono da molti quegli anni, — anni in cui non si soffre, è
vero, ma non si pensa, non si lavora, non si crede, non si prorompe
in quegli scoppi di pianto ardente ed amaro, che purificano l'anima e
fanno rialzar la fronte altera e splendida di speranza e di coraggio
nuovo! Oh mille volte meglio soffrire, faticare, combattere e piangere,
che sfumar la vita in quel riso continuato e inconsapevole, che nasce
da nulla e di nulla si pasce e di nulla si turba! Meglio star sulla
breccia, sanguinosi, che in mezzo ai fiori, sognando.


II.

I primi e più cari amici gl'incontrai a diciassett'anni, in un superbo
palazzo, che ho sempre dinanzi agli occhi, come se ne fossi uscito
ieri. Vedo i grandi cortili, i grandi portici, le sale ornate di
colonne, di statue e di bassorilievi; e in mezzo a queste cose belle
e magnifiche, che richiamano al pensiero la reggia antica, lunghe
file di letti, di banchi di scuola, di panni appesi, di fucili, di
daghe. Cinquecento giovani sono sparsi pei cortili, per gli anditi,
per le scale; un sordo rumore, interrotto da grida acute e da risate
sonore, si spande fino ai più lontani recessi del vasto edifizio.
Che movimento! Che vita! Che varietà di tipi, di atteggiamenti, di
accenti! Giovani dalle forme atletiche con lunghi baffi irsuti e voci
stentoree, giovanetti smilzi e gentili come fanciulle; visi bruni ed
occhi siciliani nerissimi, e capigliature bionde e pupille azzurre
del settentrione; gesticolìo concitato di Napoletani, vocìo argentino
di Toscani, parlantina accelerata di Veneti, cento crocchi, cento
dialetti; di qua canti e conversazioni clamorose, di là corse, salti
e battimani; gente d'ogni ceto, figliuoli di duchi, di senatori, di
bottegai, di impiegati, di generali; una società bizzarra che ha un po'
del collegio, del convento e della caserma; dove si parla di donne,
di guerra, di romanzi, di regolamenti; dove si fanno pettegolezzi da
donnicciuole e si covano segrete ambizioni virili; una vita piena di
noie mortali e d'allegrezze sfrenate, una confusione di sentimenti, di
faccende e di casi dolorosi, stravaganti e amenissimi, da cui la penna
di un grande umorista potrebbe cavare un capolavoro.

È la Scuola militare di Modena nel 1865.


III.

Non posso pensare a quei due anni passati là, senza che mi assalga una
folla di ricordi, dai quali non riesco a liberarmi prima d'averli fatti
passar tutti, a uno a uno, come in una lanterna magica; ora ridendo,
ora sospirando, ora crollando il capo, ma sentendo che tutti mi son
cari, e che sin ch'io viva, non mi sfuggiranno mai.

Rammento sempre il primo dolore che ebbi dalla vita militare, pochi
giorni dopo ch'ero entrato nel collegio tutto ardente di poesia
guerriera, una mattina che ci diedero i berretti, e tutti gli allievi
della compagnia ne trovarono uno, e io solo non lo trovai, chè mi
eran tutti stretti; e il capitano stizzito si voltò verso di me e mi
disse: — Ma sa che è curiosa che per lei solo si debba far riaprire il
magazzino? — e un momento dopo soggiunse: — Testone! — Dio eterno! Che
seguì nel mio cuore in quel punto! E io debbo fare il soldato? pensai;
nemmen per sogno! piuttosto mendicare! piuttosto morire!

Mi ricordo pure d'un ufficiale, vecchio soldato, un po' corto, ma
buono, che mi guardava sempre sorridendo, sin dai primi giorni che
m'aveva visto, e io non sapevo capir perchè, e mi stizzivo, e volevo
chiedergli una spiegazione, e dirgli che non intendevo d'essere lo
zimbello di nessuno; quando una sera mi chiamò, e dopo avermi fatto
capire che gli era stata detta una _cosa_ di me, e ch'egli voleva
saper s'era vero, e che rispondessi francamente, perchè non era cosa
che mi facesse torto, finalmente, sorridendo, tossendo, guardandomi
di sottocchio, mi mormorò nell'orecchio: — È vero che lei è un
poeta? —

Mi ricordo delle insuperabili difficoltà che incontravo
nell'adempimento dei miei doveri manuali, specialmente nell'attaccare
i bottoni, chè mi scappava l'ago di mano a ogni punto, e finivo col
fare una rete di fili che parevan la tela d'un ragno, e il bottone
spenzolava più di prima, con gran risate dei miei compagni, profondo
sconforto mio e scandalo grave del sergente di squadra, il quale
mi diceva: — Lei sarà buono a trovar la rima, ma quanto ad attaccar
bottoni è ancora _indietro di cent'anni_; — terribile sentenza che
mi sbalestrava di punto in bianco nel secolo decimottavo, e non me ne
potevo dar pace.

Vedo ancora il vastissimo refettorio, dove avrebbe potuto far gli
esercizi un battaglione di soldati; vedo quelle lunghe tavole, quelle
cinquecento teste chinate sui piatti, quel movimento accelerato di
cinquecento forchette, di mille mani e di sedicimila denti; quello
sciame di camerieri che corrono qua e là, chiamati, sollecitati,
sgridati da cente parti; e odo quell'acciottolìo, quel mormorio
assordante, quelle voci mezzo strozzate fra i bocconi: — Pane! — Pane!
e mi par di risentirmi quell'appetito formidabile, quel vigore erculeo
di mandibole, quel rigoglio di vita e di allegria che mi sentivo
allora.

Muta la scena, mi ritrovo chiuso in una celletta al quinto piano, poco
più alta e poco più lunga di me, con una brocca d'acqua al fianco e
un pezzo di pan nero tra le mani, coi capelli arruffati, colla barba
lunga, coll'immagine di Silvio Pellico dinanzi agli occhi; condannato a
dieci giorni di prigione per aver fatto un discorso di ringraziamento
al professore di chimica, il giorno della sua ultima lezione,
_contravvenendo così al disposto dell'articolo tale del regolamento
che proibisce di prender la parola in pubblico_ a nome dei compagni. E
sento ancora il Maggiore che mi dice: — Non si lasci mai trasportare
dall'immaginazione nel corso della sua vita; — e mi cita l'esempio
del poeta Regaldi, suo antico condiscepolo, a cui seguì non so che
disgrazia per una scappata del genere della mia, e conclude che “la
poesia non ha mai fatto fare che delle bestialità.„

E in fine, mi riveggo intorno ogni cosa come se realmente rivivessi
quella vita, le compagnie che attraversano in silenzio, di notte, i
lunghi corridoi rischiarati da un lumicino in fondo; i professori in
cattedra che c'intronan le orecchie di Gustavo Adolfo, di Federico
il Grande e di Napoleone; le vaste scuole piene di visi immobili; i
grandi dormitorii oscuri, in cui si sente il suono di cento respiri;
il giardino, la piazza, i bastioni, le vie tortuose di Modena, i
caffè pieni di alunni che divorano paste, le porticine infilate alla
chetichella, i desinari in campagna, le scarozzate ai villaggi vicini,
gl'intrighetti, gli studii, le rivalità, le malinconìe, le inimicizie,
gli affetti.


IV.

Pochi giorni prima di dar gli esami per esser promossi uffiziali ci
venne concessa la libertà di studiare dove si voleva. Eravamo dugento
nel secondo corso, e ci sparpagliammo tutti per il palazzo, a cinque,
a sei insieme, come ci univa la simpatia, e cominciammo a sgobbare
disperatamente, ogni gruppo nel suo stanzino, giorno e notte, non
ismettendo che per parlare dei nostri esami e del nostro avvenire.

Quanta allegrezza in quei nostri discorsi, e che ridenti previsioni!
Dopo due anni di prigionìa, tutt'a un tratto, la libertà, le spalline
e il ritorno in famiglia. Ciascuno di noi, oltre la soddisfazione, che
era comune, di esser promosso uffiziale, n'aveva una sua particolare.
Per uno, era la soddisfazione di levare un carico alla famiglia che
viveva a stecchetto per mantener lui nel collegio, e di poter dire
di lì a pochi giorni: — Ho diciannove anni, e non ho più bisogno di
nessuno. — Per un altro, era il piacere di entrare un giorno, vestito
in grande uniforme, pestando i piedi e strascicando la sciabola, in
una casa silenziosa e tranquilla, dove l'aspettava un vecchio zio
generoso che lo aveva sempre amato e protetto. Per un terzo, era la
gioia di poter salire, col brevetto in tasca, una scala ben nota, e
picchiare imperiosamente a una porta dietro la quale, pochi momenti
dopo, avrebbe sentito una voce di fanciulla gridare: — E lui! — una
cugina, forse, da cui s'era accomiatato due anni prima, in presenza dei
parenti, confortato da quelle solite parole: — Va, studia, fatti uomo,
e poi si vedrà. — Ci pareva a tutti di vederci intorno dei bambini che
ci toccavano la sciabola, delle ragazze che ci facevano dei cenni, dei
vecchi che ci mettevano una mano sulla spalla, una madre che ci diceva:
— Come stai bene! — e avevamo un gran da fare per liberarci da tutta
questa gente e rimetterci a studiare di proposito, e dicevamo fra noi
stessi: — Sì, sì, verremo; ma per ora lasciateci in pace! —

Poi, ciascuno secondo la sua indole, le sue abitudini e i suoi
disegni, ci dicevamo i reggimenti, le provincie, le città, in cui
avremmo preferito d'esser mandati. V'era chi desiderava lo strepito e
l'allegria dei grandi carnovali di Milano, e non sognava che teatri e
balli e rumorose cene di amici. V'era chi sognava un villaggio ameno
della Toscana, sulla cima d'una collina, dove poter godere una bella
e quieta primavera, coi suoi trenta soldati, raccogliendo proverbi e
stornelli dalle contadine dei dintorni. Altri avrebbe voluto esser
mandato in un forte solitario delle Alpi, fra le rupi e i burroni,
per potervi ripigliare i suoi studii con raccoglimento profondo.
Uno prediligeva la vita avventurosa nelle foreste delle Calabrie, un
altro lo spettacolo d'una grande e operosa città di mare, un terzo
un'isoletta del mar Tirreno. Ce la ricorrevamo e spartivamo tutta,
questa Italia, un pezzo per uno, cento volte al giorno, come avremmo
fatto d'un nostro giardino; e ognuno di noi raccontava agli altri
le meraviglie del suo cantuccio, e trovavamo che eran tutti belli
e cari ad un modo. E poi, la guerra! Si sarebbe ben dovuta fare una
volta! Bastava il proferir questa parola per buttare i libri in un
canto e cominciare a dire e a dire, alzando gradatamente la voce, ed
accendendoci in viso. Per noi la guerra era come una visione sovrumana,
in cui la mente si perdeva con una specie di ebbrezza fantastica; era
un lontano orizzonte color di rosa, sul quale si disegnavano i profili
neri di montagne gigantesche; e su pei fianchi delle montagne salivano
con impeto schiere interminabili colle bandiere spiegate, al suono
di musiche allegre; e fra le migliaia degli assalitori, sui punti più
culminanti, spiccavano le nostre figure nette e distinte, lungo tratto
innanzi a tutti, colla sciabola brandita in alto; e sulle chine opposte
un precipitare spaventevole di soldati, di cavalli, di cannoni, verso
un abisso ignoto, tra le tenebre. Una medaglia al valor militare! Ma
chi non l'avrebbe avuta? Perdere la battaglia! Ma gl'taliani potevan
perdere? Morire! Ma che c'importava di morire? E si poteva poi morire,
noi, a diciannove anni! Chi sa che strani e meravigliosi casi ci
aspettavano! Chi sa che cosa avremmo veduto! Una spedizione lontana,
forse; una guerra in Oriente; non era mica morta la questione di
Oriente; chi sa! E si spaziava coll'immaginazione per mari e monti, e
si vedevano grandi apprestamenti d'eserciti e di flotte, e si ardeva
d'impazienza, e si diceva in cuor nostro: Oh! aspettate, lasciateci dar
l'esame, pochi giorni ancora, vogliamo venire anche noi! —

E finalmente si diedero gli esami, fummo promossi, e una bella mattina
del mese di luglio ci apersero le porte del Palazzo ducale, e ci
dissero: — Al vostro destino! — e noi, gettando tutti insieme un
altissimo grido, ci slanciammo fuori, e ci sparpagliammo, come uno
stormo di uccelli, per tutte le parti d'Italia.


V.

Ed ora?

Son passati sei anni, sei anni soli, e già ci sarebbe da scrivere un
romanzo lungo e vario e strano, se si volessero raccogliere e legare
insieme le vicende più notevoli occorse nella vita di quei duecento
compagni! Io che in questo spazio di tempo ne vidi molti ed ebbi modo
di procurarmi notizie degli altri, soglio sovente richiamarmeli tutti
alla memoria, ravvivarmene le immagini e interrogarli ad uno ad uno;
e quello che vedo e sento mi desta sempre nell'anima un sentimento di
meraviglia, misto di malinconia. Ed eccoli qui in folla, tutti.

Quelli che mi dan nell'occhio prima degli altri son certi uomini bruni
e barbuti, con un par di spalle poderose, che io non ricordo, pel
momento, d'aver conosciuti. Eppure mi sorridono, e sì, son veramente
quei giovanetti sottili e bianchi, che parevano fanciulle. Io domando:
— Siete voi? — ed essi mi rispondono: — Sì; — e io do un passo
indietro, sorpreso da quel sì sonoro e profondo, in cui non riconosco
più l'antica voce infantile. — E quest'altri? I lineamenti, in questi,
non son mutati, le forme son sempre quelle, ardite e robuste; ma il
sorriso è sparito, e gli occhi non scintillano più. — Che vi è occorso?
— domando. — A noi? — rispondono; — nulla. — Oh avrei preferito che vi
fosse accaduto qualcosa, per non vedere che il tempo, e un tempo così
breve, può di per sè mutare un volto in quel modo. Eccone altri. Dio
mio! anche questa mi tocca a vedere; uno, due, tre, cinque, possibile!
lasciatemi guardar meglio; ma certo! capelli bianchi! a ventisette anni
i capelli bianchi! — Dite, o come mai? — Danno una scrollata di spalle,
e tiran via. Poi vedo una lunga fila di amici miei, e molti, fra essi,
dei più scapati, chi con un bambino in braccio, chi con uno per mano,
chi con due. Quello lì ha preso moglie? Quello là è padre di famiglia?
Ma chi l'avrebbe creduto? — Altri sopraggiungono: alcuni col capo basso
e gli occhi rossi mi fanno un cenno; hanno un nastro nero intorno al
braccio. Altri passano colla fronte alta volgendo intorno uno sguardo
raggiante, e toccandosi il petto col dito: ah! il sogno delle nostre
notti di collegio, la medaglia al valor militare, fortunati loro! Altri
vengono innanzi a passo lento, pallidi, scarni, appena riconoscibili.
— Che cos'è? Che cosa avvenne? — Ahimè! Su quelle braccia e su quelle
gambe erculee, ch'essi ostentavano con giovanile alterezza sulle rive
del Panaro; in quelle membra tornite e rosee, che pareva non avrebbero
dovuto impallidire nè avvizzirsi mai; in quei corpi, che si sarebbero
potuti prendere a modello per rappresentare la salute, la freschezza
e la forza, ahimè! s'immersero i coltelli dei chirurghi a cercare le
palle tedesche, e dalle carni lacerate sgorgò il sangue a ondate, e
caddero le ossa recise. Poveri amici! Ma pure son rimasti tra noi a
raccogliere nell'affetto e nella gratitudine comune il premio del loro
sacrificio. — Ma dov'è il tale? — Morto in una marcia in Lombardia.
— Il tal altro? — Morto d'una ferita di mitraglia a Monte Croce. —
E quell'altro amico? — Morto d'una ferita di palla nell'Ospedale di
Verona. — E il mio vicino di banco? — Morto di colèra in Sicilia. — Oh
basta! non mi dite di più! —

Son passati tutti, s'allontanano, ed io mi slancio colla immaginazione
dalla parte opposta, sulla via che hanno percorsa, per cercarvi le
traccie del loro passaggio; e quante ne ritrovo, e quanto diverse!
Qui libri e carte sparse in terra, con su i concetti di battaglia
tracciati a mezzo, c versi coperti di freghi; un tavolino capovolto, e
un mozzicone di candela ancora fumante; i segni d'una veglia studiosa.
Là seggiole spezzate, frantumi di bicchieri e brani di vestiti di donna
sparpagliati. Più in là, in uno spazio di terreno nudo, due sciabole
insanguinate, e da una parte e dall'altra molte orme profonde e nel
mezzo un'impronta grande, come del corpo di un uomo caduto. Qua, nella
polvere, un tappeto verde lacerato, e intorno carte da gioco e dadi.
Più oltre, tra l'erba, una letterina profumata e un mazzetto di mammole
appassite. Da un altro lato una croce con sopra scritto: — A mia madre.
— E innanzi, innanzi, altri libri sparsi, altre lettere, altre carte
da gioco, divise militari smesse, ritratti di donne, conti di sarti,
cambiali, sciabole, fiori, sangue. Oh che vasta tela tesse la mente con
quei pochi fili scompigliati e rotti! Quanti affetti, quanti dolori,
quante lotte, quante pazzie, quante sventure s'intravvedono e si
comprendono! Certo anche molte virtù e molti atti generosi; ma quanto
più spreco di forza e d'avvenire!

E quando pure non si fosse sciupato nulla, quando non si fosse, in
questi sei anni, tolto un giorno nè un'ora al lavoro, quando non
avessimo aperto il cuore ad altri affetti che a quelli che innalzano
la mente e rasserenano la vita, avremmo pur sempre perduto una grande
e cara illusione, la quale dileguandosi, ha portato con sè una parte
della nostra forza e del nostro avvenire: l'illusione di quel lontano
orizzonte color di rosa, su cui si disegnavano i profili neri di
montagne gigantesche, e schiere interminabili lanciate all'assalto a
bandiere spiegate, al suono di musiche allegre.... Una guerra perduta!

E s'anco non avessimo perduto quest'illusione, non avremmo perduto
altro?


VI.

Io penso a me stesso, e dico: — Quale distanza da diciannove anni a
venticinque! Allora, dovunque andassi, ero il più giovane, chè i più
giovani di me non mostravano ancora il viso tra gli uomini; e non
mi vedevo mai intorno alcuno, di cui non potessi dire che qualcosa
m'invidiava: la gioventù, l'allegria, le speranze. Ed ora, dovunque
io vada, mi veggo accanto dei giovanetti che mi guardano e mi parlano
con quel riserbo rispettoso che s'usa coi fratelli maggiori; e con
essi, discorrendo, sento di dover fare uno sforzo per dare al mio
discorso una gaiezza che corrisponda alla loro, e non me ne so dar
pace, e li guardo e mi domando: — O di dove sono usciti costoro? — E
l'altro giorno accennando a un signore una sua bambina di sei anni, gli
dissi scherzando: — Chi sa! — ed egli mi rispose: — Signor no, ella
è troppo vecchio. — Ed io, sorpreso, tacqui, e feci subito il conto
colle dita, e poi mormorai melanconicamente: — È vero. — A diciannove
anni, non vedevo bambina di quell'età, ch'io non potessi dire: — Sarà
mia moglie! — ; la generazione che veniva su era ancora tutta per me;
ora per una parte del mondo io son già troppo avanti nel cammino della
vita. E l'avvenire, che allora m'appariva un non so che vago e lucente,
su cui la mia fantasia poteva disegnare le cose più belle e più care,
senza che la ragione ci trovasse mai a ridire: — Non può essere, —
ora comincia a delinearsi, a colorirsi, a prendere una forma, ed io
indovino presso a poco che cosa sarà, veggo la mia strada tracciata,
e la mia meta distinta, e addio grandezze e meraviglie! E gli uomini?
Dio buono, io non son mica per natura inclinato a diffidare, a veder
piuttosto il male che il bene nelle cose di questo mondo; al contrario;
nel mio piccolo non ho che a render grazie a tutti e di tutto, e
indispettisco spesso un mio amico, a cui dico ridendo: — Amo il genere
umano! — ed egli mi risponde: — Aspetta che verrà la tua ora anche
per te. — Eppure quanto ho già perduto di quel confidente abbandono
delle amicizie di diciannove anni, di quel sentimento di ammirazione
facile e schietto, che scattava come una molla, al più leggiero tocco,
per tutti gli uomini, di cui sentissi esaltare un merito, qualunque
fosse e da chicchessia! Due, tre disinganni son bastati a rallentare
la molla per sempre. Io mi domando già: — Sarà vero? — e il dubbio
mi rimanda indietro le calde e ingenue parole d'affetto che una volta
prorompevano mio malgrado. Molti libri, che mi fecero versar lagrime,
non me ne fanno versar più; molto più raramente d'una volta, leggendo
versi, mi trema la voce; non rido più di quel riso irresistibile e
sonoro, di cui echeggiavano un giorno le stanze più remote della mia
casa. E quando mi guardo nello specchio, è una mia illusione o una
realtà? mi accorgo che nel mio viso c'è qualcosa che a diciannove anni
non c'era, un non so che negli occhi, nella fronte, nelle labbra, che
non apparisce agli altri, ma che io vedo, e che mi turba. E mi ricordo
le parole del Leopardi: — _A venticinque anni incomincia il fiore della
gioventù a declinare._ — Ma come? io declino? son già sul pendio della
vita? ho già fatto tanto cammino? Ma sì! Dalla Scuola di Modena son
già usciti altri mille ufficiali più giovani di me, me li sento alle
spalle che rumoreggiano, che m'incalzano, e mi gridano: — Avanti! —
Ma è uno spavento! Lasciatemi respirare, fermatevi un minuto; che c'è
bisogno di divorare la via? Voglio star qui, immobile, saldo come una
colonna; indietro voi! Ma il terreno è inclinato e liscio, e il piede
scivola e non c'è dove aggrapparsi; compagni! amici di diciannove anni!
venite, stringiamoci, afferriamoci gli uni agli altri, non ci lasciamo
travolgere, resistiamo. Ah! mi manca il terreno sotto, maledizione!


VII.

Ma che! son vaneggiamenti foschi di giornate piovose; spunta il sole
e l'anima si rasserena col cielo. E sempre al breve scoraggiamento
segue uno stato d'animo, nel quale mi appare così folle e così
codardo quel turbarsi per un'alterazione del viso, e rimpiangere
l'allegria spensierata della prima giovinezza, e volersi ribellare
con uno sfogo di rammarico dispettoso alle leggi della natura, che
mi vergogno, mi scoto, mi risollevo, riafferro la mia fede, le mie
speranze, i miei propositi, e mi rilancio al lavoro con una risoluzione
piena di alterezza e di gioia. E in quei momenti mi sento la forza
di aspettare a fronte serena i trent'anni, i disinganni, i capelli
bianchi, i dolori, gli acciacchi, la vecchiaia, cogli occhi della
mente fissi dinanzi a me, lontano, in un punto luminoso che mi pare
che ingrandisca via via che procedo. E vo innanzi con più coraggio; e
a uno sciame di gente inebbriata e clamorosa che mi dice: — Con noi!
— rispondo fieramente: — No! — e a una folla di giovani malinconici,
che mi dicono, crollando il capo: — Forse non è vero! — rispondo,
senza allontanar gli occhi da quel punto, con una voce gioiosa e
entusiastica: — No! — e a una moltitudine di uomini gravi e superbi,
che toccandomi e accennandomi le loro carte e i loro libri mi dicono
con un sorriso di pietà e di dileggio: — È un sogno! — io rispondo
sempre guardando là, con un grido che mi prorompe dal più profondo
dell'anima, come se mi vedessi ricomparir dinanzi una persona morta: —
No! — Oh! in quel momento mi si venga pure a dire che debbo invecchiare
e morire; che m'importa? Io lavoro, io credo, io aspetto!


VIII.

E nella più parte di quei miei compagni è seguìta o segue la medesima
cosa. I volti si son fatti più serii, o come vuol che si dica il
Leopardi, più tristi; ma coi volti si son composti a serietà anche gli
animi. Dissi i mutamenti che mi addoloravano; ma ci sono anche quelli
che mi confortano. Incontro qualcuno dei miei compagni, di quei che
avevano meno giudizio e meno proposito, e mi meraviglio di sentirli
parlare, come parlano, di patria, di lavoro, di dovere da compiere,
di avvenire da preparare. Un rivolgimento generale s'è operato negli
animi, e, forse in virtù dei molti e grandi casi seguìti in questi
pochi anni, oltre che generale, precoce. In alcuni una segreta
ambizione, in altri la cura della famiglia, in molti la sazietà della
vita dissipata, in non pochi una schietta e spontanea passione per
gli studii, sorta all'improvviso in mezzo alla noia degli ozii della
guarnigione, hanno raccolto i pensieri vaghi, e composto ad uno scopo
le forze disperse; hanno indotto l'abito della riflessione, e rivolte
le menti ai grandi problemi della vita; hanno dato a tutti un perchè
di questa vita e segnato a tutti un cammino da percorrere, e tolto
il tempo di rimpiangere inutilmente il passato. Siamo entrati nella
seconda giovinezza, con qualche disinganno, con un po' di esperienza
e colla persuasione che la felicità, — quel poco che se ne può godere
quaggiù, — non si ottiene dibattendosi e tempestando e gridando al
cielo e alla terra: — La voglio! — ma si cava a poco a poco dalla più
intima parte dell'anima colla lunga costanza d'una quiete operosa.
Alle visioni splendide son succedute le speranze modeste; ai grandi
disegni, i saldi propositi; alla immagine sfolgorante della guerra, Dea
promettitrice di ebbrezza e di glorie, l'immagine dell'Italia, madre,
la quale non promette — e ci basta — che il conforto altero d'averla
amata e servita.


IX.

E l'animo nostro è uscito più forte dal dolore della guerra perduta.

A me par di vedere un giorno in cui da un capo all'altro del paese
si ripeterà il terribile grido: Vengono! — e noi balzeremo in piedi,
pallidi e alteri, rispondendo: — Li aspettiamo. — Allora, per le vie
delle nostre città, affollate di popolo, di soldati, di cavalli e di
carri, al suono del nome d'Italia, fra lo strepito delle armi e gli
squilli delle trombe, i miei dugento compagni si rivedranno, io li
rivedrò, molti per un'ora sola, alcuni forse per un solo momento,
di notte, davanti a una stazione di strada ferrata, al lume delle
fiaccole; ci rivedremo e ci saluteremo in silenzio, stringendoci la
mano fortemente, e guardandoci negli occhi. Non più grida, non più
canti, non più gioia clamorosa, non più sogni di marcie trionfali,
non più quel confidente e leggiero: — A rivederci, — con cui si
vela l'immagine della morte, e si alimenta, più che il coraggio, la
speranza; noi non ci diremo che: — Addio; — e quell'addio sarà una
promessa reciproca, un patto, un voto; quell'addio vorrà dire: — Questa
volta non si _deve_ ridiscendere la china della montagna; io rimarrò
sulla vetta, e tu pure. —

E sovente, precorrendo un lungo spazio di tempo, fantastico campi di
battaglia lontani, sui quali si giocano le sorti d'Italia. Volo col
pensiero di valle in valle, di colle in colle; e in tutti i passi più
difficili, e in tutti i punti più pericolosi, mi figuro un amico di
collegio, coi capelli grigi, già colonnello o generale, alla testa del
suo reggimento o della sua brigata; e mi compiaccio di figurarmelo nel
momento, in cui, assalito da molta forza nemica, dirige la resistenza.
Le due parti sono alle prese, ed egli, dalla cima di un'altura,
osserva il combattimento nella valle. Povero amico! In quel punto
forse si decide della sua vita e del suo onore; trent'anni di studii,
di sacrifizii, di speranze, stanno per essere coronati di gloria o
dispersi come un pugno di polvere, là su quella china verde che gli si
stende dinanzi; e tutto dipende da un nulla. Ed egli guarda, immobile,
pallido, ed ha tutta l'anima negli occhi, e la sciabola gli trema nella
mano convulsa. Io gli sono accanto e lo fisso nel viso, e acconsento
involontariamente con la persona a tutti i suoi tremiti, e sento tutto
quello ch'egli sente, lo intendo, vivo in lui. — Coraggio, amico; tu
hai infuso nei tuoi soldati la tua anima generosa, vinceranno, non ti
turbare. Quel movimento incerto che vedi là verso l'ala destra, non è
che un momentaneo scompiglio cagionato dall'ineguaglianza del terreno;
non danno indietro, no; senti, le grida risuonano più alte, i colpi
strepitano più fitti, l'ultimo battaglione è entrato anch'esso nel
combattimento, tutti i tuoi soldati combattono. — Ah! ora sì che i suoi
occhi corrono avidamente da un capo all'altro della linea; ecco, egli
si fa più pallido; questo è il punto! la sua vita pare sospesa....
— Che sono queste voci lontane? Che è quella fiamma che gli sale al
volto? quel sorriso? quello sguardo al cielo? Hanno vinto! Ma per Dio!
prima di partire, voltati, ferma quel cavallo, son io, senti, un tuo
amico di collegio, porgi le braccia, un bacio, ed ora va, vola tra i
tuoi soldati, e che Iddio t'accompagni. — Ha slanciato il cavallo di
carriera, è già in fondo alla valle, è sparito.

E chi sa, quanti dei miei compagni si troveranno un giorno, un'ora
della loro vita, in quel cimento! Chi sa che molti non abbiano a
illustrare il loro nome qualche grande servigio reso alla patria, che
alcuni di questi nomi non abbiano a diventar cari al popolo, che io
stesso non abbia una volta a veder passare per una strada di qualche
città italiana un mio antico vicino di studio, o di tavola, o di
letto, in grande uniforme di generale, sopra un bianco cavallo coperto
di fiori, in mezzo a due ale di popolo festante! E chi sa pure se
un giorno io non andrò a picchiare alla porta di alcuno di loro, per
gettargli le braccia al collo appena mi apparirà dinanzi, — pallido,
triste, invecchiato di dieci anni nel giro di pochi mesi; — se non
andrò da lui per confortarlo, per dirgli che la sentenza del paese
è stata ingiusta, che grande è ancora il numero di coloro che non
rovesciano sul suo capo tutta la colpa del disastro, che verrà tempo
in cui si calmeranno le passioni e si ritorneranno in onore le vittime
delle condanne avventate, che il suo nome è ancora rispettato e caro,
che non s'accasci, che ripigli animo e speri?

Ah! quando io penso alle fiere prove che molti di essi avranno a durare
nella vita, al bene che potranno fare al loro paese, all'inestimabile
prezzo cui dovranno pagare la loro gloria; quando penso a queste cose
io che lasciai l'esercito, sento che per non restare addietro ai miei
compagni nel pagare il mio debito di gratitudine alla patria, dovrei
faticare senza riposo, vegliare le notti sui libri, conservare con
rigorosa temperanza di costumi il mio vigore giovanile per rivolgerlo
fresco ed intero ai lavori della mente; menare una vita illibata per
acquistare il diritto di predicar la virtù, e mantenere viva e pura
questa fiamma d'affetto, di cui riesco qualche volta a trasfondere una
scintilla nel petto degli altri; studiare il popolo, i fanciulli, i
poveri, e scriver per loro; non lasciarmi sfuggir mai dalla penna una
parola ignobile, sacrificare tutte le mie fantasie al bene comune, non
disanimarmi mai per contrarietà, non ambir mai lodi, non desiderare,
non aspettare mai nulla, fuorchè il giorno in cui potessi dire a me
stesso: — Ho fatto quello che potevo, non sono stato inutile nella
vita, questo mi basta. —


X.

Che idea mi passa pel capo, ora che sto per finire! Vorrei aver qui
un giovinotto di diciasette anni, d'indole bona e di costumi gentili,
ma poco esperto, come a quell'età siam tutti, del cuore umano; e
mettendogli una mano sulla spalla, dirgli amichevolmente: — Vuoi tu
procurarti fin d'ora un argomento di pace e di serenità per l'avvenire?
Tratta i tuoi amici cogli stessi riguardi che useresti a una donna,
perchè, credi, non v'è offesa o parola amara o atto sgarbato fatto
ad alcuno di loro (sia pure scusabile e venga pure per lungo tempo
dimenticato) che un giorno non ritorni alla memoria, e non rincresca,
e non turbi. Dopo molti anni, ricordando i miei amici lontani, mi
rammento d'uno screzio che ci fu tra me e un di loro, di qualche
motto pungente che ricambiai con un altro, del proposito fatto e
mantenuto per molti mesi di non rivolgere la parola ad un terzo; —
fanciullaggini; — eppure, quanto sarei contento di non avere alcuna
di queste fanciullaggini da rimproverarmi! E benchè io sia sicuro che
non hanno lasciato traccia negli altri più che in me, quanto desidero
sempre che si presenti un'occasione di poter assicurarmene meglio,
dissipando quell'ultima ombra leggerissima che, per caso, vi fosse
rimasta! Quando s'arriva a quell'età in cui comincia ad apparir vicino
il termine della gioventù, e si pensa agli anni passati così presto, e
agli altri che passeranno più presto ancora, e al pochissimo bene che
s'è fatto, e al pochissimo che ci resterà ancor tempo di fare, quel
sentimento d'orgoglio, che ci rese qualche volta duri e incresciosi
agli amici, ci sembra una così meschina, risibile e spregevole cosa,
che, se si potesse, si tornerebbe indietro per riprendere daccapo
tutte le discussioni col tono più soave della nostra voce, per porgere
tante volte la mano in atto di chieder pace, quante sono le scrollate
di spalle che si diedero pel passato; per cercare gli amici offesi,
guardarli negli occhi, e dir loro:

— Non c'è più nulla, non è vero?... —


XI.

Cari amici! Non foss'altro che perchè vidi con voi, per la prima volta,
tutta la mia patria, come potrebbe il mio pensiero non correre sempre
a voi, e il mio cuore non desiderarvi? Quando dal bastimento vidi
biancheggiare lontano la immensa curva del golfo di Napoli, e giunsi
impetuosamente le mani, e risi, e pensai a mia madre, ed esclamai:
— È un sogno! — ; quando di sulla cima del colle del Noviziato
abbracciai, per la prima volta, con uno sguardo solo, la città di
Messina, lo stretto, gli Appennini, il Capo Spartivento, e dissi tra
me, con un sentimento quasi di tristezza: — Qui finisce l'Italia!
—, quando sulla vetta di Monte Croce vidi per la prima volta, di là
dalla vasta campagna brulicante di reggimenti tedeschi, le torri di
Verona, e tesi le braccia con uno slancio di gioia, gridando come se
temessi che ci fuggissero: — Aspettate; — quando vidi per la prima
volta, di sull'argine di Fusina, lontana, azzurra, fantastica, la
città di Venezia, esclamai colle lagrime agli occhi: — Divina! —
quando scorsi per la prima volta, dall'altura di Monterotondo, Roma,
circondata dal fumo delle nostre batterie, ed esclamai con un fremito:
— È nostra! — sempre ebbi accanto qualcuno di voi, che, preso dalla
stessa commozione, mi afferrò per un braccio, mi scosse, e mi disse: —
Com'è bella l'Italia! — ; sempre qualcuno di voi che alternò con me le
risa, le lagrime, i versi! Non v'è punto d'Italia, nè caso lieto, nè
commozione profonda, di cui io mi ricordi, senza che mi paia di sentire
il suono d'una sciabola, che dice: — Son qui! — senza che mi paia di
stringere la mano d'uno di voi, senza che io mi domandi dove quest'uno
si trovi, e che cosa faccia, e che cosa pensi, e se rammenti egli pure
i bei giorni passati insieme. Oh! potrò incontrare nella vita un gran
numero di altri amici intimi, fedeli, generosi, di cui mi si presentino
in folla, ogni momento, le immagini sorridenti; ma di là da questa
folla, di sopra a tutte quelle teste, lontano, vedrò sempre ondeggiare
i vostri pennacchi e luccicare i numeri dei vostri berretti; e mi
slancerò sempre verso di voi per dirvi: — Parliamo del nostro collegio,
dei nostri viaggi, di guerra, di soldati, d'Italia. —


XII.

Certo una gran parte di noi, antichi compagni di collegio, arriveremo
a vedere il secolo XX. Strana idea! Capisco bene che si passerà dal
mille novecento al novecento uno, come si sarà passati dal novantanove
al cento, e come si passa da quest'anno al venturo. Eppure, mi sembra
che allo spuntare del primo giorno del nuovo secolo si dovrà provar
la sensazione di colui che, giunto sulla vetta di un'alta montagna,
vede dinanzi a sè nuove terre e nuovi orizzonti. Mi pare che quella
mattina ci si dovrà rivelare qualcosa d'impreveduto e di meraviglioso;
che ci prenderà un senso quasi di spavento del trovarci tanto innanzi;
che ci parrà d'essere stati lanciati da una forza arcana da un orlo
all'altro d'un abisso smisurato. Fantasie! Io presento bene quello
che saremo noi in quegli anni; e non solo lo presento, lo vedo. Vedo
una sala con un camminetto in un canto, o meglio molte sale con molti
camminetti, e molti vecchi davanti al fuoco, seduti sur una poltrona,
col mento sul petto; e poco più in là un tavolino con un lume in
mezzo, e intorno una corona di ragazzi, che potranno essere figliuoli o
nipoti, e che a un dato momento si accenneranno l'un l'altro il babbo o
lo zio, dicendo piano: — Dorme; — e ridendo dell'espressione grottesca
che avrà preso nel sonno il nostro volto rugoso. E forse allora ci
desteremo, i ragazzi ci verranno intorno, e vorranno sentire, secondo
l'uso, racconti di tempi molti lontani, e ci domanderanno con viva
curiosità: — Zio, ha mai visto lei il generale Garibaldi? — Babbo, ha
mai osservato davvicino il re Vittorio Emanuele II? — Nonno, non le è
mai seguìto di sentir discorrere il conte di Cavour? — Ma sì, e come,
e quante volte! — Ma dica dunque, come erano? Somigliavano molto ai
ritratti? In che modo parlavano? — E noi diremo ogni cosa, e via via
ricordando, raccontando, descrivendo, la nostra voce riacquisterà a
poco a poco l'antico vigore, e ci s'infiammeranno le gote, e sarà per
noi una grande dolcezza il vedere quegli occhi vivaci accendersi, e
quelle fronti innocenti sollevarsi con un movimento altero, e quelle
mani piccine e bianche fare un cenno ad ogni nostra interruzione, come
per pregarci: — Dica ancora. —

E chi sa che sarà seguito allora sulla faccia della terra? Sarà re
d'Italia Vittorio Emanuele III? Ci saranno i bersaglieri a Trento?
Qualche nostro amico d'oggi, applicato al Ministero degli affari
interni, sarà governatore di Tunisi? La Francia sarà passata per un
altra trafila d'imperi, di repubbliche, di Comuni e di regni? Avremo
avuto la minacciata invasione dei popoli nordici? L'Inghilterra avrà
ricevuto anche essa il suo scappellotto? Avremo provato un po' di
Comune? Sarà nato un grande poeta? Si sarà riformata la Chiesa? Si sarà
rifatta Roma? Ci saranno ancora eserciti? Che saremo noi nel nostro
paese? Che avremo fatto? Come avremo vissuto?

Ah! qualunque cosa sia per accadere, e qualunque sia la sorte che
ci aspetta, se avremo lavorato, se avremo amato, se avremo creduto,
— le sere che, seduti in un seggiolone a braccioli sul terrazzino
della nostra casa, agli ultimi raggi del sole, penseremo alle nostre
famiglie, ai nostri amici, ai monti, alle colline, ai carnovali e
alle isolette del mar Tirreno che sognavamo in collegio; — ci turberà,
si, il pensiero di dover abbandonare tra breve tante care anime e una
così bella patria; ma ci splenderà pure sul volto quel sorriso queto
e sereno, che è come l'alba d'una giovinezza nuova, e che tempera
l'amarezza dell'addio colla tacita promessa: — Non per sempre!



CAMILLA.

RACCONTO.


   [Illustrazione]


I.

Una vecchia signora della città di***, avendo bisogno di una donna di
servizio, pregò per lettera una amica, che stava in una città vicina,
di mandarle la sua; quest'amica doveva abbandonar l'Italia tra poco.

La risposta non si fece aspettare, e fu affermativa. — La ragazza —
diceva la lettera — partirà domani. Non vi posso dare informazioni
intorno alla sua famiglia, perchè essa non me n'ha mai voluto dare,
e non ho potuto procurarmele io, perchè non mi ha nemmeno voluto dire
di che paese sia. Qualunque altra donna m'avesse voluto tenere questo
segreto, le avrei detto: — Tenetevelo, e andate pei fatti vostri. —
Con questa ragazza non n'ebbi il coraggio; mi parve fin dalle prime
così buona, onesta e gentile, che dovetti accettarla senz'altro.
Forse si avrà a vergognare dei suoi parenti, e per questo non vorrà
che si conoscano. Checche ne sia, sono profondamente persuasa che in
questo mistero essa non ci ha colpa. Ve la mando senza timore. Usatele
però dei riguardi, risparmiatele certe fatiche, perchè è debole e
malaticcia. È anche bellina, badate. —

La ragazza venne, si presentò alla signora timidamente, aveva un bel
sorriso, piacque, si accordarono. Si chiamava Camilla. Non era bella,
ma simpatica: un po' pallida e malinconica; sorrideva solamente quando
le parlavano, come per dovere di cortesia.

Sin dai primi giorni la signora cercò di saper qualcosa della sua
famiglia. Si turbò, diede risposte vaghe, pareva che quelle domande
le facessero male. La signora voleva sapere almeno dov'era nata. Essa
pronunziò il nome di un villaggio, il primo che le occorse alla mente,
con un'aria che diceva: — Non è questo; ma ve lo dico, per cavarmi di
imbarazzo. — Bastò: la signora non insistette di più; ritentò qualche
tempo dopo, ma collo stesso effetto; decise infine di non darsene
pensiero.

Ogni giorno si mostrava più diligente, più mansueta, più dolce. La
figliuola piccina della signora le aveva posto un affetto vivissimo;
la signora stessa non faceva che lodarsene e compiacersene con parole
che parevano ispirate da una calda simpatia; di che il marito soleva
canzonarla, dicendole ch'ella era un'anima romanzesca soggiogata dal
fascino del mistero; ma che il tempo avrebbe fatto la luce, e la luce
rischiarato Dio sa che cosa. Ma il tempo non rivelò nulla, e Camilla si
fece sempre più amare.

Aveva un solo difetto, se si può chiamare difetto una sventura: ed
era una estrema sensitività nervosa, che la faceva tremare a un rumore
improvviso, all'apparire inaspettato di una persona, a una voce che la
chiamasse da un'altra stanza, a qualunque movimento o suono o vista,
a cui non fosse preparata. Qualche volta le prendeva quasi male. Nè
letture di cose tristi, nè narrazioni di misfatti, nè descrizioni di
spettacoli, nei quali fosse la più lontana idea di un pericolo, si
potevano fare in sua presenza senza che dèsse così manifesti segni
di turbamento e di pena, da fare smettere il parlatore più ostinato.
Quando una, quando due volte al mese, non per altra cagione che per
queste scosse, era costretta a mettersi a letto, e a starci un par di
giorni, prima dolorosamente agitata e poi rifinita come da una lunga
malattia.

Una sera tutta la famiglia era raccolta nella sala da pranzo, e Camilla
seduta in un canto. Era notte avanzata; chi leggeva, chi scriveva,
nessuno parlava; non si sentiva fiatare. Sul terrazzino c'eran dei
vasi di fiori; e solo il rumore delle foglie scosse dal vento, e i
rintocchi lontani di una campana turbavano quel silenzio. A un tratto
s'udì in una stanza accanto un colpo forte come di cosa pesante caduta
dall'alto, e insieme un acutissimo grido. Quasi nello stesso punto un
altro grido, più acuto del primo, proruppe dalla bocca di Camilla.
La signora, il marito, i figliuoli, senza badare a lei, corsero
nell'altra stanza. — Non è nulla! — gridò dopo un momento la madre.
Era la bambina che, cercando al buio la corda del campanello per fare
uno scherzo, aveva urtato colla mano in un grosso martello appeso al
muro, e il martello le era caduto sui piedi. Tornarono subito nella
sala da pranzo e là videro Camilla distesa in terra. L'alzarono, le
sanguinava il viso; nel punto stesso che aveva gettato il grido, era
svenuta, e nel cadere aveva dato della fronte contro una seggiola.
La portarono a letto, rinvenne; ma le si manifestò subito una febbre
così violenta, che ne furon tutti spaventati. Quando potè parlare,
domandò che cosa fosse stato quel colpo e quel grido; glielo dissero;
dapprima pareva che non volesse credere, non era bene in sè, usciva
in esclamazioni senza senso. Poi parve che ricuperasse la ragione,
e allora, fattosi spiegare di nuovo quello che era accaduto, domandò
perdono dell'inquietudine di cui era stata cagione, e pianse. Cercarono
di consolarla. — Che c'è da piangere? — le domandò la bambina. Ed essa
piangendo più forte rispose: — Lo so io! —

Il giorno dopo mandarono pel medico. Il medico venne e, prima d'entrare
nella camera di Camilla, si fece raccontare tutti gli accidenti che
avevano preceduto la malattia. Entrato, esaminò la malata, le fece
qualche interrogazione intorno al suo stato presente, e poi le domandò:

— Dica: ha mai avuto nessun grande spavento nella sua vita? —

La ragazza si scosse violentemente, e di pallida che già era, diventò
pallidissima.

— Mi risponda sinceramente; le faccio questa domanda per suo bene.

— Nessuno spavento... — balbettò Camilla dondolando il capo, e fingendo
di cercare nella sua memoria.

— Me lo può assicurare? — ridomandò il medico.

— .... Sì.

— Mi perdoni se insisto, — il medico ripigliò. — Lei, forse, per
certe ragioni sue particolari, non mi vorrà dire la verità; ma lei ha
veramente avuto qualche grande spavento, che le deve aver fatto molto
male; me lo dica; una caduta? un pericolo corso da lei o da qualcuno
della sua famiglia? un delitto commesso in una strada o in campagna, di
cui lei sia stata spettatrice all'impensata? —

Camilla tremò forte come se le pigliasse la febbre; poi chiuse
gli occhi, e voltò la testa dall'altra parte lasciandola cadere
pesantemente sulla spalla.

La bambina mise un grido.

— Non è nulla, — disse il medico· — mi lascino solo; forse non vuol
confidare il suo segreto che a me. —

Fu lasciato solo.

Di lì a un quarto d'ora uscì, e tutta la famiglia gli si strinse
intorno.

— Non le ho cavato di bocca una parola, — disse il medico; — ma sono
più che mai persuaso che una grande commozione di spavento sia stata
la cagione della sua malattia; essa non vuol dir nulla; è segno che
c'è sotto qualcosa. La malattia è grave, il sistema nervoso ha avuto
una scossa funesta. La giovane, a quanto pare, era già prima di una
complessione fisica assai delicata; il colpo, che non avrebbe forse
offeso una persona robusta, è stato troppo forte per lei. Loro potranno
tentare di scoprir qualcosa; ma non è necessario; la natura della
malattia è abbastanza palese.

A un'ultima domanda direttagli mentre apriva la porta per uscire,
rispose sottovoce poche parole che fecero restar tutti pensierosi.

L'inferma andò peggiorando rapidamente. Spesso le venivano accessi di
delirio, a cui tenevan dietro spossatezze mortali e letarghi profondi.
Delirando parlava, e tutti raccoglievano ansiosamente le sue parole,
per veder di cavarne qualche lume sul fatto che essa mostrava di voler
nascondere. Ma non riuscirono a nulla. Osservarono però un atto che
faceva sovente, di coprirsi il volto colle mani e di scotere il capo
come vien fatto alla vista improvvisa di qualcosa che ci metta orrore.
Qualche volta si metteva a sedere sul letto e guardava qua e là pel
pavimento cogli occhi stralunati, come se ci fosse qualcosa di sparso
che si movesse. Tratto tratto, nei momenti di maggiore agitazione,
faceva un cenno per imporre silenzio, si cacciava una mano dietro
l'orecchio come per raccogliere meglio un suono lontano, e gridava con
un accento di terrore: — Giù! — Ma l'idea più strana, alla quale essa
tornava ogni momento, e qualche volta anche a mente tranquilla, era
che qualcuno cercasse di portarle via la sua roba: un par di vestiti
e un po' di biancheria, che eran chiusi in un piccolo baule accanto al
letto. Vi teneva l'occhio su continuamente; si sarebbe detto che aveva
là dentro qualche gran segreto. Un giorno disse che voleva bruciare
ogni cosa, e la bambina le rispose che non gliel'avrebbero permesso.
— Allora, — mormorò essa, — mi prometta che lo faranno appena sarò
morta. — Del resto, era sempre dolce e rassegnata, e non finiva mai di
ringraziare i suoi padroni delle cure che le prodigavano e dell'affetto
che mostravan di avere per lei. — Io lo so che debbo morire, — disse
un giorno alla signora... — ci son preparata; ma mi rincresce di morir
qui, e dar un dolore a loro che mi hanno fatto tanto bene... (e poi
guardando intorno) e rattristare anche la casa. Mi faccia una grazia,
mia buona signora! — proruppe finalmente con voce supplichevole; — mi
faccia portare all'ospedale! —

Una mattina, con grande stento e con molta segretezza, scrisse una
lettera. La signorina se n'accorse, e le disse di dargliela che
l'avrebbe fatta portare alla posta. Camilla ricusò, e la pregò invece
di far venir la portinaia, che non sapeva leggere. La portinaia
venne, e Camilla le mise la lettera in tasca, facendosi promettere che
l'avrebbe gettata in buca senza far vedere l'indirizzo a nessuno.

Intanto andava sempre più perdendo le forze, e il medico non le dava
più che pochi giorni di vita. Una sera, presa da que' soliti accessi di
febbre nervosa, dopo lunghi spasimi, ma colla mente serena e presente
a sè stessa fino all'ultimo momento, morì. Le ultime sue parole, colle
quali parve che volesse svelare qualcosa, non furono intese.

Fu convenuto allora di far nuove ricerche intorno alla famiglia, per
poterle almeno mandare la roba della giovane, non perchè si credesse
che i suoi parenti l'avrebbero in alcun caso richiesta per ciò che
valeva, ma perchè si supponeva che avrebbero avuto caro quel ricordo.
Si scrisse, si fece domandare, investigare; infine si pensò di aprire
il suo baule per vedere se ci fosse qualche lettera, o appunto, o
indizio qualsiasi di dove fosse nata e da chi. Il baule fu aperto in
presenza del medico e di tutta la famiglia. La signora tirò fuori
ad uno ad uno i panni e la biancheria. In fondo, in mezzo a due o
tre involti, si trovò una lettera aperta. La signora la prese e la
lesse: erano poche righe scritte da Camilla; una lettera cominciata e
lasciata a mezzo, senza intestazione. Diceva: “... Dopo quel giorno io
son sempre stata male, perdevo le forze e non reggevo più ai lavori
di campagna. Per questo in casa mi trattavano con cattivi modi e mi
dicevano che non ero più buona a nulla; e spesso anche mi rinfacciavano
il tuo caso, e mi facevano capire che sospettavano di me, che io ti
avessi consigliato. Questo sospetto finì di togliermi il coraggio,
e loro mi avrebbero forse cacciata di casa, perchè ero inutile; ma
io presi la risoluzione di andare a servire in città, e speravo di
trovare qualche buona famiglia che avesse compassione del mio stato,
e mi pigliasse in casa per i servizii che non vogliono tanta fatica; e
poi non potevo più stare in quella casa dopo quello che era accaduto,
perchè mi faceva paura, e soffrivo troppo. Ora eccomi qui in città e ho
trovato una buona famiglia: ma non dico nulla a nessuno, e non dirò mai
nulla; solamente a pensare che qualcuno lo sappia mi pare che avrebbero
orrore di me che non ci ho colpa; e non voglio nemmeno che a casa
abbiano mie notizie: io gli perdono, ma mi hanno trattato troppo male a
lasciarmi andar via sola, malata com'ero, e senza protezione....„

— C'è dell'altro scritto, — osservò il medico.

La signora voltò il foglio; c'era in fatti qualche riga, in fondo a
una pagina piena di cancellature, che nascondevano affatto lo scritto:
“Io ho poi fatto un involto di quel vestito e per levarmelo d'innanzi
agli occhi l'ho cacciato in fondo al baule. Sono passati tanti mesi e
sempre mi pare d'avercelo messo ieri, e non ho più avuto il coraggio di
toccarlo; che appena a stender la mano mi sento tremare tutta, e quasi
mi mancano le forze....„

— Vediamo l'involto, — disse la signora riponendo la lettera; e tirò
fuori dal baule un involto fasciato di carta. Stracciò la carta e
n'uscì un vestito di donna.

— Che cos'è questo? — gridò spaventata la signora, guardandolo da tutte
le parti.

Il medico si mise gli occhiali, prese il vestito, lo guardò qua e là
attentamente, e lasciandolo cadere in terra, disse: — È macchiato di
sangue. —

Questa scoperta diede luogo a un'infinità di congetture e di sospetti;
ma non rischiarò punto il mistero. La famiglia, d'altra parte, non fece
altre ricerche; e a poco a poco lasciò cadere la cosa in dimenticanza.
Quando una sera tardi — circa un anno dopo che avevano aperto il baule
— si presentò all'uscio uno sconosciuto chiedendo di parlare alla
signora.

La signora lo ricevette nell'entrata, insieme con suo marito e i suoi
figliuoli. Era un giovane sui venticinque anni, pallido, meschinamente
vestito, coi capelli lunghi, d'un aspetto dimesso come un povero; ma
con cert'occhi che non ispiravan punto fiducia.

Gli domandarono che cosa voleva.

Egli guardò intorno con un'aria attonita, come se riconoscesse la
casa, e mostrando un foglietto di carta che teneva in mano, domandò
umilmente:

— Son loro i signori***? —

Gli risposero di sì.

— Una volta — continuò egli — serviva qui una giovane, che si chiamava
Camilla, e che è morta.

— Che è morta, — rispose la signora fissandolo.

— E.... — domandò il giovane con voce commossa — com'era caduta?

— Com'era caduta? — ripeterono tutti maravigliati.

— O non è morta, — riprese il giovine, mostrando di nuovo la lettera;
— non è morta per conseguenza d'una caduta dalla finestra.... ed ebbe
appena il tempo di scrivermi?

— Che! — rispose la signora; — è morta d'una malattia nervosa, la
povera giovane; una malattia che la fece soffrire tanto tempo, morta
quasi di consunzione, per un grande spavento che si dice avesse avuto
non si sa quando; una disgrazia, che so? qualche terribile caso di
certo; — e lo guardava fisso.

Lo sconosciuto rimase qualche momento senza parola, colla bocca aperta
e cogli occhi spalancati; poi cominciò a contrarre il viso, a tremar
tutto, a guardar or l'uno or l'altro con un'espressione di angoscia; in
fine gettò un grido doloroso e si precipitò giù per le scale.

Gli si slanciarono dietro, volava, non lo raggiunsero.

Si può immaginare la curiosità, la trepidazione, i sospetti, che la
visita inaspettata di quell'uomo dovette far nascere. Per parecchi
giorni non si pensò e non si parlò d'altro; chi consigliava di riferire
il fatto alla Polizia, chi di andare in traccia dello sconosciuto
per la città, chi di ricominciare le ricerche intorno alla famiglia
di Camilla. Quando una sera, che c'era il medico, e si discorreva
sull'argomento solito, sentirono picchiare all'uscio, e dopo un poco la
voce della donna di servizio che diceva dall'altra stanza: — Signori,
vengano un momento loro: io ho paura. —

Tutti accorsero: era lo sconosciuto, più pallido e più malandato che la
prima volta, coi panni che gli cadevano a brandelli.

— Che volete qui? — gli domandarono.

Egli fissò la signora con tanto d'occhi, come se non l'avesse mai
vista, e disse:

— Son loro i signori***?

— Sì, ve l'abbiamo già detto, — rispose la signora.

— Una volta — continuò egli — serviva qui una giovane, che si chiamava
Camilla, e che è morta?

— O non vi si è già detto? — esclamarono tutti meravigliati.

— Perdonino, — mormorò il medico, facendo un cenno alla famiglia,
e avvicinatosi allo sconosciuto, lo prese pel braccio, e gli disse
amorevolmente: — Andatevene pei fatti vostri, buon uomo; qui non c'è
nulla per voi; andate. —

E lo spinse fuori adagio adagio, e chiuse la porta. Poi si voltò verso
la famiglia che aspettava una spiegazione, e disse: — Quel giovine è
diventato scemo. —


II.

Nella provincia di***, in Piemonte, v'è un villaggio, che la gente
dei dintorni chiama il villaggio dei _Musi duri_, per canzonare la
musoneria dei suoi abitanti. E debbono essere in fatti i più serii
della provincia, se è vero che la natura del luogo dove s'abita
produca sempre un qualche effetto sulle indoli e sugli umori; perchè
il villaggio è posto in una bassura profonda, scarsa di luce, quasi
sempre coperta di nebbia e circondata dì monti alti e rocciosi. Però
quel _duri_ s'addirebbe anche meglio alle teste che ai visi, perchè il
contadino di quella terra ha in sommo grado il carattere del contadino
piemontese; buono, onesto, operoso; ma in tutte le faccende di questo
mondo, in cui occorra di mutar parere, di cedere, di piegarsi, più
duro del granito. E come in mercato, per ridurlo a lasciarvi passare,
dopo avergli detto tre volte: — Permettete! — siete costretti a dare
cinque passi indietro, prendere una rincorsa di fianco, e urtarlo in
modo da sbalzarlo nel muro; così quando si tratta di sradicargli un
pregiudizio, di spuntargli una picca, di rimuoverlo da una risoluzione,
il più longanime e vigoroso ragionatore del mondo ci perde la pazienza
e la voce; e gli bisogna proprio concludere, come dicono le mamme ai
fanciulli testardi, che non c'è altro che tagliargli il capo. E son
così rigidi e cocciuti, ma non punto corti d'intelligenza. Stentano
ad intendere, sì, e stanno un pezzo cogli occhi imbambolati e la bocca
aperta prima d'afferrare un'idea; ma poi la imprigionano in quella loro
mente rozza, e ce la tengono, quasi gelosi della conquista, con una
stretta così tenace, e tanto la voltano e la rivoltano e la rimuginano,
che finiscono per possederla e comprenderla meglio d'un'intelligenza
aperta che l'abbia colta di volo. Ma questa loro tardità d'intelletto,
che essi sanno d'avere, e una tal quale grossolana astuzia che li fa
temere sempre d'essere gabbati dalla gente più destra, dà ai loro modi
e al loro linguaggio un che di monco, di gretto, di diffidente, che,
a primo aspetto, li fa giudicare assai peggio di quello che sono. Del
resto, hanno capito fin dalle prime, che per non essere messi in mezzo
dai furbi, una delle prime cose da farsi era imparare a leggere e
scrivere, e perciò hanno fatto buon viso alle prime scuole che furono
aperte nel villaggio, e ci mandarono i figliuoli, e finirono con
andarci anche i vecchi. In fondo è un villaggio, che beati noi se da un
capo all'altro d'Italia gli somigliassero tutti.

Pochi anni sono, in una casa di contadini posta all'estremità di questo
villaggio, accanto alla strada maestra, ci stava un giovane che per
la sua cocciutaggine e il suo cipiglio si poteva proprio dire che
fosse la espressione più fedele della natura di quella gente. Non era
un accattabrighe, nè un ipocrita, nè un vizioso; che anzi bazzicava
pochissimo cogli altri giovani del paese, e passava il più dei giorni
in casa, e non aveva mai fatto sparlare dei fatti suoi; ma spiaceva a
molti e di pochissimi era amico, non per altro che per l'orgogliaccio
ombroso e stizzoso che traspariva dai suoi modi e dalle sue parole.
Era uno di quelli che quando vi parlano, vi guardano il vestito, il
cappello, le scarpe, e vi girano cogli occhi intorno al viso, e non
vi fissano mai; sorridono e rassegano subito il sorriso; sbadigliano,
e strozzano a mezzo lo sbadiglio; muovono una mano e la lasciano in
aria come la mano d'un fantoccio; e ogni loro parola, o sguardo, o
gesto è pensato e stentato; e finiscono col metter nell'imbarazzo
anche voi, e non vedete l'ora di lasciarli, e voltandovi, quando li
avete lasciati, sorprendete il loro sguardo nel punto che, sorpreso,
vi fugge. Carlo era uno di costoro, e per questo spiaceva anche alle
donne, benchè non fosse punto sgradevole d'aspetto. Era una figura, che
nel villaggio, in mezzo alla folla che esciva di chiesa dopo la Messa,
tra quelle cento faccie dalle fronti schiacciate, dai ciuffi irsuti,
dai nasi torti e dal colore di terra cotta, tirava lo sguardo subito
pei suoi tratti regolari, per gli occhi grandi e per la pallidezza. Era
bassetto della persona e asciutto, ma d'apparenza robusta; e quel suo
continuo corrugar della fronte gli dava allo sguardo una espressione di
fierezza, che quando non era turbata dalla collera poteva piacere.

Egli aveva solamente il padre, che lavorava in una città lontana;
e viveva nel villaggio con certi suoi zii e cugini, tra i quali una
ragazza che si chiamava Camilla, rimasta orfana, e stata accolta in
casa dalla famiglia stessa che aveva accolto lui. Con questa ragazza
egli era vissuto fin da bambino, e com'è facile immaginare, appena
arrivato all'età, in cui si comincia a guardar con occhio diverso
il compagno di scuola e la figliola del portinaio, aveva preso, per
dirla colle contadine toscane, a discorrerle; ed essa a rispondere, e
la famiglia a lasciar correre, pensando che a suo tempo si sarebbero
potuti sposare.

Questa ragazza che aveva sedici anni (tre meno di Carlo), era
d'indole e di modi affatto diversi da lui. Ma l'affetto era nato colla
dimestichezza, quasi di nascosto, ed anco perchè gli estremi, posto che
si dice che si toccano, bisogna pure che s'avvicinino; e poi perchè
in lei, umile e affettuosa, c'era quel sentimento segreto che spinge
la donna verso gli uomini di natura aspra e violenta, quasi per un
bisogno naturale di versare in altri la dolcezza dell'animo proprio, un
desiderio di combattere e di soffrire, di espiare colpe altrui, di fare
scudo della propria bontà e dei proprii dolori, a chi ne ha bisogno,
contro i castighi del cielo. Carlo, a modo suo, le voleva bene; ma la
feriva spesso con parole durissime, o la spaventava con selvaggi impeti
di collera; il che seguiva per lo più quando essa, vivace e risoluta
nel combattere il male e nel propugnare il bene, lo affrontava in
qualche sua caparbietà colpevole, e col linguaggio stringente della
convinzione e dell'affetto gli faceva capire d'aver torto; onde il
suo orgoglio ferito, non sapendo come difendersi, assaliva. Ma le
battaglie duravan poco: essa implorava la pace; e quando quella stessa
sommissione, che era una maniera di vittoria, non tornava a inasprire
l'avversario, la pace era fatta. Qualche volta riusciva a frenarlo,
ad ammansirlo, a volgerlo al bene, e allora n'andava altera. E ogni
giorno più si stringeva a lui per quel che di chiuso, di misterioso
quasi, che v'era nel suo carattere; appunto perchè, come sempre segue,
il suo cuore era tenuto in una continua curiosità d'affetto, e sempre
immaginava che la parte nascosta fosse la migliore, e che a furia di
cure, di sommissione, di sacrifizii sarebbe riuscita a cavarla fuori e
a darle il di sopra.

La sera essi solevano stare insieme, davanti alla porta di casa:
Camilla, seduta, lavorando; egli ritto colle spalle al muro. Parlavano
poco, specialmente Carlo. Quando aveva la lingua sciolta era cattivo
segno: era certo un po' di bile compressa, cui aveva bisogno di dare
sfogo; e allora gli uscivan di bocca i discorsi più strampalati del
mondo: non lavorar più, fare il contrabbandiere, andare in un paese
straniero: e la ragazza a combatterlo fin che aveva fiato e speranza,
e poi lagrime. — Sono un cattivo soggetto, eh? — finiva per dir lui,
mezzo pentito; e Camilla, racconsolata subito da quelle poche parole,
gli rispondeva asciugandosi le lagrime: — Non lo credo... —


III.

Una sera, all'ora convenuta, egli le venne accanto più accigliato del
solito, e, strettale la mano, stette lungo tempo immobile, colle spalle
al muro, muto. Camilla lo guardò di sfuggita, e n'ebbe quasi paura: non
l'aveva mai visto così stravolto; era pallido e tremava.

— Che cos'hai? — gli domandò.

— Ho.... — rispose lui con impeto, senza voltare la testa — una
bagattella. Ho che cinque giorni fa, quando abbiamo ricevuto la notizia
che mio fratello maggiore era morto, non abbiamo pensato a una cosa!

— A qual cosa?

— Non ci abbiamo pensato nè io, nè tu, nè i miei parenti, nè il Curato,
nè un cane al mondo, e non par possibile, bisogna dir proprio che
avessimo la testa non so dove.

— Ma di' dunque!

— Dico, dico.... pur troppo che l'ho da dire: mi tocca andar a fare il
soldato, eccola detta. —

La ragazza gettò un grido e balzò in piedi.

— Ora lo sai che cos'ho, — soggiunse il giovane.

E poco dopo riprese: — È così. La legge, se non lo sai, quando ci son
tre figliuoli, piglia il primo e l'ultimo; e quando il primo muore,
lascia star l'ultimo e piglia il secondo; io sono il secondo, tocca a
me.

— Ma.... — disse la ragazza non ancora rinvenuta dal primo stordimento
— è vero?

— Se è vero! Me l'ha detto il Sindaco, e poi va a vedere, hanno
aggiunto il mio nome all'elenco. E non basta. Tra mio fratello e me
non c'era che un anno di differenza; a me, in giusta regola, sarebbe
toccata la coscrizione l'anno venturo; ma quest'anno, come saprai, e
se non lo sai te lo dico, fanno due leve in una volta, perchè sono in
credito d'una; per conseguenza siamo serviti. Tra un mese, via!

— Ma è possibile? — esclamò la ragazza con voce alterata.

— E come! — rispose il giovane con un sorriso rabbioso. — Ma non c'è
da darsene pensiero, sai! Che cosa sono cinque anni! Una bagattella!
Zaino, gamella, pan nero, e avanti! E viva il Re! —

E diede un così forte pugno nel muro che s'insanguinò le dita.

— Ma Carlo! — gridò Camilla afferrandolo; — cosa fai!

— Cosa faccio? — rispose egli con un riso convulso; — guarda cosa
faccio! — e fece un atto impetuoso come per darsi un pugno nel mento.
Ma fermò il braccio ad un tratto, diede in una risata ed esclamò: — Ah!
mi dimenticavo che non si stracciano più le cartucce coi denti; tanto
vale conservarli.

E si mise a passeggiare avanti e indietro canterellando colla voce
strozzata fra i denti.

Camilla pallida, fuor di sè dalla sorpresa e dal dolore, lo seguitava
senza parola, guardandolo cogli occhi spalancati.

— Cosa ne dici? — domandò Carlo fermandosi.

— Ma cosa ne ho da dire! — proruppe Camilla con voce tremante. —
Ti dico che mi sembra un sogno! Ti dico che non ci posso credere!
Ti dico che mi scoppia il cuore! — E gli gittò le braccia al collo
singhiozzando.

— Oh lasciami stare! — egli rispose bruscamente svincolandosi e
pigliando la via del villaggio; — ci vuol altro che tenerezze! —


IV.

Dopo un breve tratto di strada, Carlo incontrò un suo amico del
villaggio, un uomo sui trent'anni, alto e asciutto, cogli occhi lustri
e colla bocca torta in un atteggiamento sprezzante; il quale aveva nel
vestire una certa attillatura rara a vedersi in giovani di campagna:
capelli unti, cravattino, polsini e un par di grandissimi calzoni
stretti intorno al collo del piede. Era uno di quei tanti cattivi
contadini che hanno fatto malamente il soldato e che ritornano a casa
peggiori di prima: colla goffaggine indelebile della loro natura,
accresciuta dai vizii che presero in città e della spavalderia che
impararono in caserma; un misto di villani, di bravi e di beceri, che
puzzano d'acquavite e di pomata, e disprezzano “l'ignoranza.„

Costui, tornato in congedo al villaggio, aveva messo su una piccola
bottega di liquorista.

Veduto Carlo, si fermò, e senza accostarglisi, gli disse con un sorriso
compassionevole: — Lo so!

— E non c'è Cristi che tenga, eh? — soggiunse un momento dopo.

— Ci sei stato anche tu, — rispose Carlo.

— Gli è per questo, amico mio, che mi fai compassione! — Carlo rimase
muto, cogli occhi fissi a terra.

— E Camilla? —

Carlo crollò le spalle.

— Mah! — soggiunse l'amico allontanandosi; — ora ci sei tu nelle peste:
una volta per uno. —

Carlo si morse le labbra e tirò innanzi per la sua strada.

La voce s'era sparsa pel villaggio, egli era conosciuto, tutti lo
guardavano. Qualcuno di quelli che avevano domestichezza con lui,
vedendolo passare, si faceva sull'uscio della bottega, e gli gridava:
— Si va, eh? — Altri, sogghignando, dicevano: — E' darà giù quella
superbia! — E le ragazze: — Ora si vuol vedere Camilla! — Egli non
guardava nessuno, ma si sentiva addosso, per così dire, gli sguardi di
tutti; e in quel momento lo opprimeva assai meno il pensiero di dover
andare a far il soldato, che l'immagine di tutti quei sogghigni della
gente a cui era antipatico. — Se vi potessi pigliare uno alla volta! —
brontolava, premendo il manico del coltello. Andò a parlare al Sindaco,
rilesse l'elenco dei coscritti, e tornò a casa ch'era buio. Entrando,
vide Camilla in un canto che piangeva, e allora, ricordandosi del modo
brutale con cui le aveva dato la notizia della disgrazia, ne sentì
rimorso, se le avvicinò e le disse piano: — Non c'è mica da disperarsi,
poi.... Non è ancora sicuro.

— Come non è sicuro? — gridò la ragazza maravigliata.

— C'è anche la seconda categoria. — La ragazza stette pensando: seconda
categoria, numeri alti, numeri bassi, quaranta giorni, — tutte queste
idee le si affollarono nel capo confusamente.

— Mi potrebbe toccare il numero alto, — disse ancora Carlo.

— E allora non andresti! — esclamò Camilla.

— Ci andrei per quaranta giorni.

— Ma è proprio vero! — gridò la giovane con uno slancio di gioia.

— Sì; ma bisogna aver fortuna! — rispose Carlo.

— Ah sì! — gridò Camilla, — ma io pregherò tanto che Dio ci farà questa
grazia — e corse a rinchiudersi nella sua stanza.

Carlo fu preso da un sentimento di tenerezza che da molto tempo
non aveva più provato: ma poichè in lui anche i sentimenti teneri
pigliavano un'espressione di dispetto e di collera, strinse il pugno,
e, guardando il cielo stellato, mormorò a denti stretti:

— Ma è proprio una maledetta legge infame questa, che ci obbliga a
lasciar casa, parenti, amici, tutto, per andar a fare.... il galeotto!

In quel momento una voce nella strada gridò canterellando:

— E non c'è Cristi! —

Era l'amico liquorista che, passando, aveva veduto spiccare la figura
buia di Carlo sul fondo illuminato della stanza; Carlo ebbe un tremito.

— Zaino in spalla! — soggiunse la voce allontanandosi. E poco dopo:

— Pane colla muffa! —

E poi più lontano:

— E ferri corti! —

L'ultime parole furon seguìte da una risata, e poi tutto tacque nella
strada buia e deserta.


V.

Venne il giorno che Carlo doveva andare in città a estrarre il numero.
Partì la mattina presto per ritornare il giorno dopo alla stess'ora.
Camilla lo accompagnò fin sulla strada, davanti alla casa, e facendo
un grande sforzo, non pianse, e non profferì parola fino al momento
di separarsi. Era pallida, e aveva negli occhi i segni della veglia e
del pianto. Quando furono nella strada, raccolse tutto il suo vigore,
richiamò tutto il suo coraggio, e stringendo tra le sue una mano del
giovine, gli disse con voce tremante: — Torna subito. —

Carlo accennò di sì.

— E.... — proruppe essa con accento supplichevole — prendi un numero
alto! —

Carlo sorrise, la baciò e s'allontanò rapidamente; essa rimase immobile.

— Un numero alto! mormorò un'altra volta con voce dolce e tremante.

Carlo, già molto lontano, si voltò; Camilla fece l'atto di estrarre
il numero; poi convertì l'atto in un saluto; poi gli mandò un ultimo
addio.

Dopo un po' rientrò in casa, e gittandosi sopra una seggiola, spossata
dallo sforzo fatto, esclamò tristamente: — Ah, se il Re fosse qui a
vedere quello che ci costa, non la farebbe mica fare la leva! Gli è che
non lo sa, e non c'è nessuno che glielo faccia capire! —

Non è a dirsi in che stato d'animo passasse quel giorno e la notte
seguente. A momenti si sentiva rifinita che le pareva di non poter più
reggere fino al dì dopo; a momenti si sentiva dentro un'inquietudine,
una smania, che le metteva quasi il bisogno di lavorare con furia, di
affaticarsi, di stremarsi di forze, per cercare nella stanchezza un
po' di riposo. Pregava, leggeva, usciva pei campi, tornava in casa,
si buttava su tutte le seggiole, e sempre si vedeva davanti quella
mano sospesa in atto d'entrare nell'urna e di estrarre il biglietto.
Vedeva tutte quelle cartoline bianche, piegate, confuse, muoversi e
rimescolarsi sotto le dita di Carlo come se fossero animate. — Questa!
essa avrebbe voluto dire; — no, quell'altra! — No, per amor di Dio,
quella sotto! — Ogni pezzetto di carta che vedeva in terra, i numeri
scritti sui muri, qualunque oggetto che avesse una lontana attinenza a
quello che le riempiva l'anima, le metteva un tremito. improvviso nel
cuore. Due immagini, fra le altre, le si movevano di continuo davanti
agli occhi: un soldato che s'allontanava per una strada deserta, e si
faceva sempre più piccino, e spariva, e riappariva come un punto nero,
e tornava a sparire; e un giovane vestito da paesano che per la stessa
strada le veniva incontro cantando, con un numero sul cappello che
diventava man mano più grande, fin ch'essa poteva leggerlo bene, un
numero alto, il numero tanto sospirato, la sua salvezza, la sua vita.
E queste due figure s'incontravano, si confondevano, si tramutavano
l'una nell'altra con una vicenda rapidissima, che il cuore accompagnava
con successione ugualmente rapida di gioie e di terrori faticosi e
febbrili. E passò molte ore della notte pregando e piangendo.

La mattina dopo stette coi parenti ad aspettar Carlo davanti alla
casa. Dopo una lunghissima ora, si vide apparire nella strada, molto
lontano, un gruppo di gente, che fu riconosciuto subito al passo
rapido, ai cappelli biancheggianti, ai canti che l'aria portava or sì
or no all'orecchio, per il drappello dei giovani coscritti. Camilla
s'appoggiò al braccio d'una sua parente; il drappello s'avvicinò; la
ragazza e gli altri s'avanzarono.... Carlo non c'era!

I giovani passarono; avevan tutti il loro numero sul cappello; qualcuno
salutò Camilla; essa non ebbe fiato per domandar notizie di Carlo; uno
dei suoi parenti lo fece per lei.

— Carlo? — domandò a uno dei giovani rimasti addietro.

— È partito con noi, — rispose l'interrogato; — ma deve aver preso una
scorciatoia.

— E che numero prese? —

Il giovane, chiamato dagli altri, pigliò la corsa senza rispondere.

— Il numero? Il numero? — gridarono Camilla e tutta la famiglia.

— Ecco il numero! — tuonò una voce improvvisa alle loro spalle.

Tutti si voltarono: era Carlo. Camilla gettò un grido disperato: egli
aveva il numero sette.


VI.

L'amico di Carlo aveva fatto il soldato otto anni, aveva terminato il
suo servizio d'ordinanza sulla fine del mille ottocento sessantasette,
ed ora era libero affatto. Da soldato aveva appartenuto, in ispecie
dopo la guerra del sessantasei, alla classe dei “malcontenti politici„;
classe che un giorno si trovava soltanto fra gli ufficiali, che si
estese poi ai sergenti, e finì col metter radice anche fra i soldati.
Nell'ultimo anno del servizio era stato col suo reggimento di presidio
in una città, dove tra i giornali di parte repubblicana e i giornali
di parte monarchica sera agitata una lotta violenta a proposito
dell'esercito; e ci erano stati tirati dentro generali, colonnelli,
ufficiali di ogni grado; e s'erano trattate pubblicamente quistioni
delicatissime di disciplina, facendone un chiasso e uno scandalo
infinito. Come sempre segue in simili casi, via via che la discussione,
o piuttosto la battaglia, si infervorava, andava pure allargandosi;
cosicchè in breve, dall'argomento primo, ch'era l'alta amministrazione
dell'esercito, s'era venuti ai più minuti particolari dell'economia dei
soldato: prima del soldato in generale; poi del soldato di quei tali
reggimenti; prima accusando il _sistema_, il Governo, il ministro; poi
il generale di divisione, quel tal colonnello, quei tali capitani; si
eran nominate le persone, si eran citati i fatti, si eran convocati
dei giurì, si eran fatti dei duelli; e infine, dopo molto parlare,
scrivere, stampare e sfidare, la tempesta si era quietata e tutto era
rimasto nello stato di prima. Tutto fuorchè le teste dei soldati, le
quali eran cambiate. I soldati (quelli che sapevano leggere) avevano
preso gusto alla quistione e s'eran bravamente letti ogni giorno i
giornali; puniti per essersi lasciati sorprendere a leggerli, s'erano
messi a meditarli; puniti ancora, s'erano fatti ciascuno una raccoltina
dei numeri più caldi, e ci davano poi una scorsa ogni tanto, di
soppiatto, su per le scale della caserma nell'ora della pulizia, e
dietro gli alberi della piazza d'armi nell'ora del riposo. A furia
di leggere era rimasto in capo a ognun di loro un corredo di parole
e di sentenze, che venivano poi snocciolando man mano, a mezza voce,
coll'occhio bieco, quando l'ufficiale che li rimproverava avesse
voltato le spalle. Un capitano, che li consigliasse a non bazzicar
le bettole con cittadini che parlassero di monarchia e di repubblica,
era un uomo che aveva paura delle _idee nuove_. Un sottotenente che,
facendo un discorso alla compagnia, spiegasse che cos'è l'esercito,
quale è il suo mandato c quali sono i suoi doveri, in un modo che a
loro non garbasse, era un uomo che intendeva alla rovescia lo _spirito
delle istituzioni_. Al tale sergente che dava un ordine e troncava la
parola in bocca gridando: — Silenzio! — si rispondeva a fior di labbra:
— _Non sono un automa._ — Alla parola soldato si accompagnava sempre,
come aggiunto necessario, la parola _povero_, e certi sfoghi di collera
contro un superiore lontano si chiudevano immancabilmente con una frase
misteriosa che faceva scintillar gli occhi dei circostanti. — _Ha da
venire quel giorno._ —

Il nostro soldato era stato uno di questi, e dei più ardenti. Tornato
appena al villaggio, coll'animo ancora agitato e la memoria fresca
di quei fatti e di quelle letture, s'era dato a far propaganda delle
_idee nuove_. Messa su una piccola bottega di liquori, ne aveva fatto
il luogo di convegno dei malcontenti del villaggio. Là si leggevano
giornali, si parlava di _dilapidazione del pubblico Tesoro_ e di
_tratta dei bianchi_ e d'altre cose, che non tutti capivano; ma che
mostravano di sentir tutti profondamente. E il nuovo tribuno era la
voce più autorevole dell'assemblea non solo perchè dava spesso da bere
a credito, ma perchè aveva infatti un certo ingegnaccio di cattivo
soggetto, infarinato di linguaggio da gazzetta, e tenuto vivo e
eloquente da uno stato abituale di mezza cotta.

La sera del giorno in cui Carlo era tornato da estrarre il numero,
il nostro personaggio (si chiamava Marco) stava discorrendo con
tre o quattro coscritti in un canto della bottega. Gli domandavano
informazioni intorno alla vita del soldato, e lo stavano a sentire a
bocca aperta.

— Il male, capite, — diceva cacciando indietro il cappello come per
lasciar più libero corso al pensiero — il male è che i superiori non
studiano, e non sanno niente di niente. E quando manca questo qui, —
e si toccava la fronte coll'indice, — s'ha un bell'essere coperti di
galloni e di croci, ma si sarà sempre ciuchi. Siamo indietro, ecco la
gran quistione.

— E il mangiare? — domandò uno.

— La carne — rispose, accendendo il sigaro — è quasi sempre guasta; la
zuppa si dà ai poveri; di vino non se ne parla. —

— Come si vive allora? — domandarono quelli.

— Ognuno s'ingegna; si piglia l'esempio dai superiori, vedete: ruba
l'amministrazione militare, ruba l'intendenza, rubano gl'impresari,
rubano i furieri, rubano i medici, è una ruberia generale, campano
tutti alle spalle del soldato. —

Qualcuno gli domandò come si stésse a disciplina.

— Male.... i minchioni. I minchioni, vedete, nel mestiere del
soldato, hanno sempre tutte le disgrazie. Il pane e acqua, i ferri, le
sciabolate, son tutta roba per loro. Ma chi ha un poco di cervello e
un po' di fegato, è un altro par di maniche. Bisogna saper mostrare i
denti a tempo e luogo; anche i superiori hanno una pelle da conservare,
capite bene;... tutto sta nel non lasciarsi mettere il piede sul collo.
Un capitano aveva preso a fare le picche con me, e ogni settimana ero
dentro; era una vita che non poteva durare. Un giorno io lo presi a
quattr'occhi,... perchè, tenetevelo bene a mente, coi superiori non
ci vogliono testimoni; se c'è chi vede, si è fritti; soli, si nega
fino alla morte, e si salva la pelle. Lo presi a quattr'occhi, in un
corridoio, di notte, che non se l'aspettava, e là gliene dissi quattro,
vi assicuro io, di quelle che arrivano all'anima: “O lei finisce di
rompermi l'anima, o le giuro sulla mia sacra parola d'onore, che a me
mi toccherà una palla nella schiena, ma a lei quattro dita di baionetta
nella pancia, non c'è nemmeno l'Anticristo che gliele levi.„ Non
parlò più; se fiatava, l'infilavo come un ranocchio. Tutto sta lì: non
bisogna lasciarsi mettere il piede sul collo.

— E la guerra? — domandò un altro.

— La guerra, — rispose Marco, — non c'è che dire: alla guerra bisogna
fare il suo dovere. La patria è una sola, e il soldato è il difensore
della patria. Ma siamo sempre alle solite, che i generali non sanno
quello che si fanno. Figuratevi, un generale, nel sessantasei, mentre
si marciava verso Venezia, e c'erano forti da tutte le parti, un
generale di brigata, con tanto di galloni e di cordoni, e un'aria di
mangia-tedeschi che metteva paura; e questo è seguìto a me che ero
all'avanguardia, ed ero incaricato di avvisare quando si presentava il
nemico; ebbene quel generale non sapeva dov'era il forte.... non so,
un forte di primo ordine, che di là i Tedeschi ci potevano prendere a
cannonate quando volevano: ebbene il generale, che era solo, dovè far
la figura di domandarlo a me, — e si batteva la mano aperta sul petto,
— a me, semplice soldato, cosa da far venire il rossore sulla fronte,
e dire: “Ohè, voi, da che parte si trova il forte tale?„ E io a dover
rispondere: “Signor generale, il forte di cui parla, è quello là,
guardi dove segno col dito.„ E se non ci avessi badato io, ci conduceva
al macello. Che ve ne pare? Domando e dico se c'è sugo a far la guerra
in quel modo. —


VII.

All'undici di sera Marco era rimasto solo nella sua bottega rischiarata
da una lucerna, e leggicchiava un vecchio giornale: Carlo entrò.

— Numero sette, lo so; — disse Marco dandogli un'occhiata, senza
smetter di leggere.

Carlo gli sedette accanto senza far parola, e appoggiato un braccio
sulla tavola chinò la testa sulla mano.

— È una vita dura —, cominciò a dir Marco, lanciando all'amico uno
sguardo di compassione maligna. — Oh per dura è dura, te lo posso dir
io. È una vita che chi ne vuol parlare bisogna che l'abbia provata.
Io te lo dico per tuo bene, perchè non vorrei che andassi a fare il
soldato con un'idea falsa. È mio dovere d'amico di dirti la verità. É
una vita d'inferno. Immagina pure delle umiliazioni; non ne penserai
mai tante quante ne avrai da patire, va pur sicuro. Piangerai delle
lagrime di sangue, piangerai. Già, prima di tutto, se hai sentimento
d'onore, chi è soldato deve far conto di non averne. Caporali,
sergenti, tenenti, capitani, son tutta gente pagata apposta per darti
dell'asino e del mascalzone una volta l'ora — per turno. In piazza
d'armi, in presenza di mezzo mondo, ti mettono le mani sulla faccia,
e la gente si ferma e ride. Nelle marcie poi, quando si muore dalla
sete, che non s'ha più figura d'uomo, e si resta indietro o si casca
a traverso la strada, allora son pugni e piattonate che non ci son
per niente gli aguzzini nelle galere. Ho visto io un comandante di
compagnia in una marcia che c'era un soldato malato che non si poteva
reggere, e lui credeva che lo facesse apposta; ebbene, lo cacciò avanti
a spintoni e a calci, per mezzo miglio, fin che rotolò in un fosso, in
fin di vita. Cose da far diventar matti. E qualche volta danno anche
delle sciabolate di taglio. Non c'è pietà, mio caro. Il soldato è una
bestia. Prepara pure la schiena e la faccia. E chi si rivolta, o lo
cacciano in una prigione a farsi mangiar vivo dai topi o lo mandano in
una compagnia di disciplina dove gli rompono le ossa col bastone. Se
poi hai la disgrazia di ammalarti, non ti dico altro, tutti sanno cosa
sono gli ospedali militari. Se non guarisci più che presto, ti danno
il passaporto per il camposanto come due e due fan quattro, perchè,
capisci bene, non vogliono mica mantenere della carne inutile. Ne ho
visti dei miei compagni distesi là stecchiti su quei letti, cogli occhi
di vetro e la faccia color di cera! È vero che ti può anche capitar
la fortuna della guerra. Allora i tuoi superiori ci guadagnano un
grado e tu lasci le budella in mezzo a un campo di grano, se pure non
ti tocca prima di metterti in riga con una dozzina dei tuoi compagni
e di cacciare una palla nella schiena a un tuo amico, condannato
per “sbandamento in faccia al nemico.„ Credi, è proprio una vita da
galeotti. Per resisterci bisogna non aver sangue nelle vene. Vorrei
aver tanti scudi quanti dei miei compagni ho visti stracciare coi denti
la tela della branda e dar di mano alla baionetta per cacciarsela nella
gola. Per me, non lo dico per disanimarti, che non sarebbe un'azione
da galantuomo; ma andrei in galera, andrei a marcire in una prigione,
mi metterei a far l'assassino di strada, mi farei impiccare in mezzo
a una piazza, tutto piuttosto che tornar a fare il soldato. Ma già, se
mi richiamassero, piglierei la strada di Francia o di Svizzera. Ce ne
sono andati tanti altri! Cosa vuoi? Io proprio a pigliarmi dei pugni,
dei calci e delle sciabolate, non mi ci sento nato. In tutti i casi
avrei più caro pigliarmi una fucilata nel petto da un carabiniere alla
frontiera, chè almeno sarebbe una palla sola, piuttosto che pigliarne
dodici nella schiena dai miei compagni, al comando dell'aiutante
maggiore. Fatti coraggio, andiamo. Sono cinque anni, in conclusione, e
cinque anni... son lunghi, sì; accidenti che son lunghi! ma non sono la
vita.


VIII.

Il giorno dopo, all'ora solita, Carlo e Camilla si trovavano dinanzi al
portone. Essa aveva. gli occhi rossi; egli la salutò sorridendo.

— Sei allegro? — domandò Camilla.

— Sì.

— Si direbbe che hai già dimenticato che devi partire.

— Io non parto, — rispose francamente il giovane.

— Come non parti?

— Non parto — soggiunse egli, spiccando chiaramente le sillabe, — non
vado a fare il soldato.

— Ti metteranno in prigione! — esclamò Camilla fissandolo inquieta, chè
indovinava il suo pensiero.

— A lasciarsi prendere! — egli mormorò guardando in aria.

— Carlo! — esclamò la giovane smettendo il lavoro, — tu scherzi!

— Scherzo?... Vedrai.

— Carlo! — riprese Camilla — tu non pensi a quello che dici! Tu non mi
vuoi bene! Da quando in qua t'è venuta questa idea?

— L'ho sempre avuta.

— Non è vero!

— Come non è vero? — gridò Carlo voltandosi in tronco, e le diede una
di quelle terribili occhiate che le facevano morir la parola sulle
labbra. Camilla si rimise a sedere, appoggiò la fronte sulle mani,
e mormorò con voce umiliata: — Abbi compassione di me.... non mi far
soffrire.... dimmi che non dici davvero.

Egli le pose una mano sul capo in atto carezzevole, ma la ritirò subito
e stette pensando. Tacque per qualche minuto anch'essa, assorta nella
meditazione della nuova disgrazia che il disegno di Carlo le faceva
prevedere; poi s'alzò, e appoggiando le mani colle dita intrecciate
sopra una spalla del giovine, gli disse con tutta la dolcezza del suo
cuore e della sua voce:

— Io ho capito quello che tu hai in mente, e... guarda, so anche chi ti
ce messo quell'idea. —

Il giovane fece cenno di no.

— Non dir di no, Carlo, io non ti voglio metter male con nessuno;
dico soltanto per farti vedere che certe cose non ti credo capace di
pensarle. Tu mi vuoi bene, non è vero? —

Carlo accennò di sì.

— Dunque... un po' di pensiero di me, se è vero che mi vuoi bene, te
lo dovresti prendere. Vorresti lasciarmi sola? Capirai bene che io non
posso andare con te. Tu mi puoi dire che anche per andar a fare il
soldato mi devi lasciare. Lo so anch'io, ma è un'altra cosa. Se vai
a fare il soldato, io so dove vai e so anche quando torni; anno più,
anno meno, se non seguono disgrazie, è sicura; ma se parti per un altro
motivo... addio matrimonio; chi sa quando potresti tornare. E poi...
dove andresti? Oh Dio mio, non mi ci far pensare; bisognerebbe bene
che andassi in un altro paese; lo so dove vanno; passano i monti, ce
n'è già stati anche da queste parti di quei che disertano; ma si son
più visti? io sento dire che finiscon tutti male. E poi... se è per
il sostentamento della famiglia, tu sai, che, grazie al cielo, anche
se non ci fossi tu, per qualche anno non sarebbe una rovina; ma posto
pure che s'avesse bisogno di te... a esser fuor di paese, mi pare che
sarebbe la stessa. Perchè te n'andresti allora? Pel bene dei tuoi, o di
me, no;... ma già l'hai detto per farmi paura, Carlo, non è vero?

— Ma sai, — rispose Carlo con un sorriso forzato, senza guardarla, —
che si direbbe quasi che ci hai piacere ch'io vada a fare il soldato?
Di' la verità, ci hai piacere?

— Piacere! Ma, Carlo! Possibile che tu non possa dirmi una parola senza
farmi male al cuore? Non mi conosci ancora? Da quando mi hai dato la
notizia, sette giorni fa, non ho più avuto un momento di pace, tu lo
sai; non ho fatto che piangere e disperarmi... e poi guardami in viso,
come mi son ridotta; vedi che non penso che a te, che ti sto sempre
accanto, che appena ti vedo allegro mi consolo, e ogni volta che mi
dici una parola trista, cambio di colore; e in ricompensa della vita
che faccio, invece d'incoraggiarmi, di mostrarmi almeno un po' di
compassione, mi dici che ho piacere che tu parta!

— Non ho detto questo, io.

— L'hai detto e poi... Dubiteresti di me forse? Vuoi ch'io ti prometta
che per tutto il tempo che starai lontano non guarderò in viso nessuno,
nemmeno per un momento, come se non avesse gli occhi? Io son capace di
farlo, faccio magari un voto, io; tu non mi conosci ancora, vedrai. Io
son donna da venir qui, in questo posto, tutte le sere, cinque anni di
seguito, come se tu ci fossi sempre. Cinque anni? dieci, quindici anni
ti aspetterei, senza lamentarmi; senza farti mai il più piccolo torto,
nemmeno col pensiero. Ma purchè io sappia che tu sei in paese, che non
giri pel mondo come un disperato, che non c'è nessuno che ti cerca,
che fai il tuo dovere. Tutti gli altri vanno... Carlo, tu puoi capire
quanto mi costa dire questa parola; eppure sento che è mio dovere di
dirtela, e te la dico con tutto il cuore, senza esitare, anzi, guarda,
con una certa soddisfazione, come se fosse la parola di una preghiera:
Va tu pure! —

Quando siamo ostinati in un proposito, e specie in un proposito tristo,
la parola di chi vuol persuaderci a staccarcene, quanto più è amorevole
e dolce, tanto più indurisce l'ostinazione e inasprisce la resistenza.

— Va! va! — proruppe il giovane, scrollando le spalle; — s'ha un bel
dire: Va, quando si sta a casa! bisogna sapere che razza di vita è
quella che si va a fare!.... Va!

— Non t'impazientire, Carlo; sa Iddio se io m'immagino che sia una
bella vita! Per quanto sia brutta, non lo sarà certo quanto pare a
me; ma pure bisogna farsi animo. O che la vita che andresti a fare
fuor di paese sarebbe meglio? Ce ne sono state dell'altre ragazze che
discorrevano con giovani che dovevano andare soldati; ne conosco io più
d'una, le conosci anche tu. Ebbene, i giovani sono partiti, sono stati
lontani parecchi anni, qualcuno è anche andato alla guerra. Le ragazze
li aspettarono; in tutto quel tempo vissero ritirate; finalmente quelli
tornarono, si volevano più bene di prima, si sposarono, e ora vivono
in pace, senza rimorsi. Io non credo che sarebbero così contenti, se
fossero fuggiti, anche nel caso che avessero potuto tornare. E la vita
del soldato non era mica più brutta allora che adesso.... E poi se tu
fossi uno di quei deboli, come Pietro, il figlio del fornaio, che non
ha potuto resistere, e dicono che è morto in una marcia, non direi; ma
sei robusto, (lo guardò), e staresti anche bene.

— Sì, sì, tutte buone parole, — rispose il giovane con un leggiero
sorriso; — ma non fanno al caso: io non parlo di fatiche, io non ho
paura della fatica. Gli è questo qui, — e si picchiava sul cuore, — che
non se la sente di fare il soldato. Io non son fatto per servire, ecco.
I signori qui accanto m'avevano fatto la proposta di andare in città, e
a che patti! Hai visto se ho accettato; è il mio carattere, cosa vuoi?
coi superiori non me la dico, è impossibile. Figurati la schiavitù
del soldato! Mi sgridano, rispondo, e sai cosa succede. Io so che
vita è, me l'hanno detto, e poi tutti lo sanno; va una volta in piazza
d'armi e lo saprai anche tu. Io sento che se vado non torno; non è una
vita per tutti, tant'è vero che c'è di quelli che s'ammazzano dalla
disperazione. Andrei a lavorare nelle miniere, piuttosto; andrei magari
qui alla fabbrica di vetri, dove si sta tutto il giorno davanti alle
fornaci, e si perde gli occhi; andrei dove tu vuoi, anche a crepare;
ma a fare il soldato, no, non posso, è inutile, son fatto così: servire
non è il fatto mio.

— Servire! — disse timidamente la ragazza; — io non so, ma... per
quello che sento dire, e che pare anche a me, il soldato fatica e corre
anche dei pericoli; ma non serve nessuno. Chi serve?

— Tutti! — gridò il giovane, — tutti serve!.... Chi serve! —

Camilla tacque un momento, e poi disse a fior di labbra, incertamente,
come si dicon le cose sentite dire, più perchè ci son rimaste negli
orecchi, che per averle capite:... — Serve il Re.

— Un'altra ora! — rispose Carlo, cercando in sè stesso una risposta; —
il Re! Già, è sempre lì in caserma a far da protettore, il Re! È lì a
farti far giustizia, quando ti maltrattano a torto; a farti dare del
pane buono quando te lo danno colla muffa; e a far capire ai medici,
quando ti curano, che sei carne di cristiano? Ne sa dimolto il Re!

— Io non so; ma ho anche sentito dire che fare il soldato... è un onore.

— Ah, povera te, un onore! L'onore è per quelli che comandano, e
hanno i galloni d'oro e le tasche piene di quattrini; ma per il
povero contadino che va lì a sgobbare quel tanto e poi chi s'è visto
s'è visto, non c'è onore che tenga. Sai cosa c'è? C'è i ferri corti,
cara mia; ecco quello che c'è. E poi... (qui abbassò la voce e
riprese con accento molto significativo) tu non sai che vita fanno i
soldati. —

La ragazza lo guardò un momento incerta, come se non avesse capito, e
poi, abbassando gli occhi, mormorò:

— A me mi pare che chi vuole, può portarsi bene da per tutto.

— Già! Hai sempre una buona ragione da dire, tu! Tu accomodi tutto! Tu
vedi tutto bello!

— E tu non vedresti tutto tanto brutto — rispose Camilla con una certa
vivacità, — se non ci fosse chi ti fa vedere in quel modo!

— So di chi vuoi parlare, non è vero, e non dire una parola di più!

— Ma come vuoi ch'io parli allora? — proruppe essa con una voce, in cui
si sentiva il tremito dell'indignazione; e intanto le si gonfiavano
le vene del collo bianco e sottile. — Io ti dico quello che sento,
quello che mi dice il cuore e che mi par il tuo bene, e tu vai in
collera! Vuoi ch'io ti dica per forza quello che pensi tu? Comandami!
minacciami! Ma col cuore non me lo farai dire, non lo dirò mai, mi
ripugna... non posso!

— Ebbene! — disse Carlo con una voce che pareva tranquilla, ma con un
viso che la fece tremare; — vado, te lo prometto, vado; ma... sentimi
bene, te lo dico prima, e sta sicura che terrò la parola: io non sono
uno di quelli che si lasciano mettere il piede sul collo, io ci ho
del sangue nelle vene... mi conosci; ebbene, io, la prima volta che un
superiore mi fa una prepotenza, o mi dice una brutta parola, o mi mette
le mani addosso, fossimo anche in mezzo alla piazza d'armi, in mezzo
alla strada, in presenza di cento persone, di te, del tuo Curato, dei
tuoi parenti, di chi diavolo vuoi, com'è vero Dio gli spacco la testa
col calcio del fucile, e segua quel che vuol seguire! —

Camilla si coperse il viso con orrore; egli la guardò di traverso, con
quello sguardo di compiacenza bestiale che misura la ferita aperta
dalla parola: ma quasi nello stesso punto, per uno di quei rapidi
mutamenti del cuore che non sono rari in quelle nature violente, si
commosse alla vista di quella poveretta che singhiozzava, come se il
petto le si volesse spezzare.

— Camilla! — gridò con voce amorevole.

— Sì! — essa prese a dire singhiozzando, — vogliate bene a un giovane,
consacrategli tutto il vostro cuore, soffrite, tremate, consumatevi
per lui; tutto questo colla speranza che, quando egli si trovi in un
momento difficile, vi dia la consolazione di vedere che ha bisogno
di voi, che gli potete riuscir utile, confortarlo, incoraggiarlo; sì,
illudetevi; quel momento verrà, farete quanto potrete per persuaderlo a
non mancare ai suoi doveri: ebbene, allora, per ricompensa del vostro
affetto, egli vi risponderà che vuol fare... — e soggiunse a fior di
labbra — l'assassino! — e diede in uno scoppio di pianto più forte.

Carlo si chinò e la prese per una mano; essa approfittò di quel momento
per gridargli con voce supplichevole: — Promettimi che andrai! — e
l'afferrò per le braccia.

— Camilla! — esclamò egli, svincolandosi e allontanandosi rapidamente;
— sono un disgraziato! —

Camilla fece cenno che si fermasse, Carlo scomparve; allora essa
riabbassò il capo piangendo. In quel punto la scosse il suono d'una
voce lieta e amorevole che domandava: — Cosa c'è?

— Ah! il signor Curato! — esclamò Camilla. — Ho tanto bisogno di
lui, è buono, gli dirò tutto, mi farà coraggio, sia ringraziato il
cielo! —

E corse verso il vecchio prete colla confidenza e colla serenità d'una
bambina.


IX.

Carlo e Marco s'incontrarono due ore dopo in una strada del villaggio.

— Ho pensato una cosa, — disse Marco. — Sai in che mani t'hai a mettere
per quell'affare?

— Che affare? —

Marco fece un atto come per accennare un paese lontano.

— Hai capito.... Ebbene, sai in che mani t'hai da mettere se vuoi
uscirne bene? Te la do in cento a indovinare. Già non saresti il primo
ch'è passato per quella strada.... ma in specie ora che il battibecco
è più forte: se lui vuole, tra loro si scrivono di parrocchia in
parrocchia, ti trovi al sicuro prima d'accorgertene. Tu devi andare
da lui, dirgli il caso in cui ti trovi, e dargli una tastatina così
alla larga, senza arrischiarti. Se vedi che cede subito, e tu batti,
fin che il ferro è caldo; se fa l'indiano, avanti lo stesso, non è che
una finzione per non compromettersi il primo; se poi nega, addio, è
galantuomo, non ti tradisce, la peggio sarà di non averne cavato nulla.

— Ma di chi parli?, — domandò Carlo.

E l'amico fece intorno al capo un gesto buffonesco che voleva
rappresentare un cappello da prete.


X.

Il Curato, che gli abitanti del villaggio chiamavano famigliarmente don
Luigi, era un vecchietto d'una settantina d'anni, piccolo e nervoso,
con due occhietti vivissimi, che leggevano nelle anime, — dicevano le
divote, — come in un libro stampato; buon uomo e buon prete, indulgente
in confessionale, allegro a tavola, di viso rosso, di capelli bianchi
e di opinioni politiche tricolori; non diverso nella vita e nei modi
dagli altri curati di quelle campagne; dai quali però era tenuto in
pregio per una certa tintura di buone lettere, di cui aveva dato prova
anni addietro in parecchi sonetti dedicati all'arcivescovo e lodati
da un giornale della provincia come “fiori di buona poesia non meno
commendevoli per la nobiltà della forma che per la robustezza dei
concetti„. Lo sguardo pieno di benevolenza e la voce dolce temperavano
la severità dei suoi lineamenti e la rigidezza della sua andatura che
gli davano un po' l'aria di un maggiore giubilato. Ed era aperto e
affabile con tutti, e tutti gli volevan bene; Camilla, in ispecie,
la quale aveva preso con lui una grande domestichezza, perchè,
stando di casa vicino alla chiesa, aveva occasione di vederlo spesso
e di parlargli lungamente. Corse perciò da lui a dirgli ogni cosa,
della leva, dei disegni di Carlo e delle sue paure, scongiurandolo
che tentasse d'indurre il giovane a mutar consiglio, se non voleva
vederla morir di dolore. Il curato le promise di fare quanto poteva, e
soggiunse che avrebbe cercato Carlo egli stesso prima di sera.

Un'ora dopo Carlo picchiava all'uscio del prete.

Non sapeva ancora cosa avrebbe detto, non aveva neppur pensato al modo
di cominciare, si sentiva in cuore una grande trepidazione. Entrò e si
fermò in un angolo della stanza col cappello in mano.

Era una piccola stanza a terreno, allegra, piena di luce, con
quell'aspetto particolare delle stanze dei curati di campagna, che
fanno indovinare la chiesa accanto: le pareti bianche e nude, un
crocifisso sopra la porta, un vecchio quadro, un vaso di dittamo sulla
finestra, e un leggero odore d'incenso nell'aria.

Il Curato era seduto sopra un seggiolone davanti al tavolino e leggeva;
quando vide comparire il giovane, fece un atto di sorpresa.

— Ho da parlarle, signor Curato, — disse Carlo.

Il Curato lo fece sedere. — In che modo può avermi prevenuto? — pensava
intanto. — C'è sotto qualcosa. — E guardò attentamente Carlo, e gli
balenò un sospetto, e risolvette di chiarirsene subito.

— Sento che sei chiamato al servizio militare, — disse.

— Sì signore, — rispose il giovane fissandolo.

— E quando parti?

— .... Partirei dopo la visita sanitaria, fra una diecina di giorni.

— E.... — domandò il Curato lanciandogli un occhiata scrutatrice —
parti? —

Carlo non rispose, lo guardò. Il prete si confermò nel suo sospetto; e
dopo aver guardato un po' il libro colle sopracciglia aggrottate, alzò
il capo e disse con aria distratta:

— Dunque parti, e sei venuto a chiedermi un consiglio, non è vero?

— Lei m'ha capito.

— Credo d'aver capito, — rispose con serietà il prete, — e poi,
pigliando tutt'a un tratto un accento benevolo continuò: — Sicuro... tu
sei un bravo giovane, sei robusto, hai giudizio, farai il tuo dovere e
te ne tornerai a casa contento. Non ti domando neppure se sei più che
mai risoluto di mantenere la tua promessa a Camilla; sono anzi sicuro
che, in tutto il tempo che starai lontano da casa, terrai una buona
condotta e farai di tutto perchè, come ora, partendo, le porgi la mano
di un buon figliuolo, così al ritorno essa possa stringere la mano d'un
bravo soldato; dico bene? —

Il giovane, meravigliato, arrossiva e impallidiva, senza sapere che
rispondere e a che partito appigliarsi. A un tratto gli tornarono in
mente le parole dell'amico: “Se fa l'indiano, non è che una finzione
per non compromettersi il primo„; e gli balenò un raggio di speranza.
Si fece animo, e ruppe il ghiaccio d'un colpo.

— Ma io non vado a fare il soldato! — esclamò.

— Ah! — gridò il prete con un leggiero sorriso voltandosi a guardare
verso la finestra.

— L'avevo detto, io! — pensò Carlo; — eccoci al punto.

— E cosa pensi di fare? — domandò il Curato, sempre guardando fuori.

— Io?... —

Stette un po' pensando e rispose in fretta: — Il mondo è largo. —

— Tu non sai una cosa — disse allora il curato, voltandosi verso
Carlo, e sorridendo benevolmente, come se non avesse compreso
affatto il significato delle sue ultime parole. — Non sai che io sono
stato cappellano militare per cinque anni, dal cinquantaquattro al
cinquantanove. Cinque anni filati, cappellano del primo reggimento di
fanteria, brigata Re. È così. Sono stato anch'io mezzo soldato e te
ne posso dire qualche cosa. È vero che d'allora in qua le cose son
molto cambiate... e dicono in meglio. Ma credi a quello che ti dico
io: non è una brutta, dura, scellerata vita che per i cattivi soldati.
Per gli altri è un tutt'altro mestiere. Tutto sta a cominciar bene.
Una volta che un giovane s'è messo in buona vista dei superiori,
è sicuro del fatto suo: non sente più il peso della disciplina. Ma
bisogna essere allegri, franchi, leali. I superiori perdonano tutto
a quelle belle faccie aperte di bravi soldati e di galantuomini, che
hanno magari il diavolo in corpo e ne fanno una grossa ogni tanto; ma
che a guardarli, bisogna dire per forza: — Ecco un uomo! — In tutti
i reggimenti ce n è un certo numero di questi lestofanti, che fanno
dannar l'anima ai superiori, e che pure, ogni volta che la sgarrano,
tutti chiudono un occhio. In cinque anni ne ho conosciuti molti. Mi
ricordo, fra gli altri, d'un certo Farinelli, di cui gli ufficiali
vecchi di quel reggimento debbono ancora ricordarsi. Era un pezzo di
giovane più alto un palmo di te, largo così, che s'era fatto mettere
a doppia razione.... Era la scapestrataggine incarnata! Scappava di
notte, rischiava la vita, metteva sottosopra la compagnia; ma era tanto
buon figliuolo, che si faceva ben vedere da tutti. In marcia portava
gli zaini di quelli che non ne potevano più; in caserma cantava sempre,
saltava come un capriolo, rompeva una pietra con un pugno; se c'era
una rissa, era quello che la faceva finire a scappellotti; sempre il
primo a gettarsi negli incendi, sempre il primo a cacciarsi nell'acqua
per salvare un compagno, furbo, sfrontato, pronto a rispondere, che
nessuno gli poteva tener testa; incapace di mentire se l'avessero
coperto d'oro; un soldato modello in servizio, un demonio fuori.
Aveva il vizio di bere. Ma quando aveva bevuto, stava in riga così
impalato, che i superiori, invece di punirlo, bisognava che ridessero.
Tutto il reggimento lo conosceva. Il suo capitano diceva che con
cinquanta mascalzoni come lui si sarebbe sentito di dare le pacche a
un battaglione d'austriaci. Mi ricordo che una volta il colonnello,
ch'era una bella figura di vecchio soldato, con una cicatrice sulla
fronte, passando in rivista il reggimento, si fermò a guardare quel
bel giovane ardito che lo fissava con due maledetti occhioni pieni di
fuoco, e non potè trattenersi dal dirgli: — Ma sai che hai un gran bel
muso di soldato, tu! — Indovina un po' cosa gli rispose quel malanno? —
_E'l so a facesia gnanca, sor coronel_ — (E il suo non scherza nemmeno,
signor colonnello). — E il colonnello restò un momento stupito, ma
poi rise e non disse nulla. Quelli son soldati! Ce n'era poi degli
altri, come ce n'è sempre, affatto diversi, proprio l'opposto; ma
non meno bravi soldati per questo. Soldati tranquilli, che passavano
i loro cinque anni senza farsi sentire, come ombre; il primo giorno
come l'ultimo; sempre i primi a mettersi in riga, sempre i primi a
rientrare in quartiere, mai una macchia sul cappotto, mai una parola
più alta dell'altra, mai un soldo di debito sulla _massa_, mai malati,
mai di cattivo umore, soldati che in cinque anni non ricevevano nè una
_consegna_ nè un rimprovero, e che il comandante della compagnia non
si sarebbe accorto che c'erano, se non ci fosse stato il loro nome sui
ruoli; giovani che parevano nati con la divisa addosso e col fucile in
mano, e che dovessero fare i soldati per tutta la vita. Mi ricordo d'un
capitano che ne aveva una decina nella compagnia e che mi diceva: — Se
io avessi sempre una compagnia tutta di soldati come quelli, vivrei
vent'anni di più. In parola d'onore, se mi domandaste a chi voglio
più bene, a quei ragazzi lì o ai miei figliuoli, sarei imbarazzato a
rispondere. Che cosa te ne pare?

Carlo ascoltava con la faccia bassa e pensierosa.

— E posso parlare, vedi — continuò il curato — perchè i soldati
piemontesi di quel tempo, non dico per vantarmi, ma li ho conosciuti
proprio dentro. Allora era un altro par di maniche. Anche soldati
avevano religione e si confessavano. Venivano al servizio colle
medaglie benedette ai collo, eran giovani semplici, alla buona, forse
un po' di grossa pasta; ma per quello che è tempra d'uomini, (e batteva
colla nocca dell'indice sopra un calcafogli di pietra) duri come
questo. Molti venivano a farmi le loro confidenze. Un buon cappellano,
allora, serviva a qualche cosa. Ce n'era di quelli che, nei primi
giorni, venivano a dirmi che non potevano reggere a quella vita. —
È inutile — dicevano — il coraggio ci manca; lontani da casa, questa
disciplina, senza amici, per tanto tempo, ci prende la disperazione.
— E io rispondevo sempre: — Coraggio, figliuoli. Ve ne prego in nome
della vostra famiglia, dei figliuoli che avrete un giorno, del paese in
cui siete nati, del Re che vi ha dato questa divisa, fatevi coraggio.
Voi adempite un grande dovere. Non c'è di doloroso che i primi mesi.
Quando sarete vecchi, sarete altieri di poter dire che siete stati
soldati; degli amici ne troverete, vi abituerete alla disciplina,
sentirete meno le fatiche. Un po' di forza e di pazienza per un altro
mese, e vedrete. — E volevo che lo promettessero, lo promettevano e se
ne trovavano contenti. Altri si sfogavano in confessione contro certi
superiori che non li potevano vedere e li mettevano al punto di fare
uno sproposito. E io ripetevo sempre: — No, figliuoli, non dite, non
pensate queste cose. Non c'è superiore che possa volervi male. È un
malinteso. Se qualcuno vi perseguita, è perchè v'ha giudicato male.
Fatelo ravvedere. Fate il vostro dovere, e guardate sempre il superiore
in faccia, con rispetto, ma colla testa alta, coll'anima negli occhi,
senza rancore, e parlategli col cuore in mano, come a vostro padre.
Vedrete che cambierà pensiero e vi renderà giustizia. — E quanti
mi vennero poi a ringraziare di questi consigli! Venne una volta un
soldato congedato apposta per dirmi che il suo capitano, che li aveva
sempre trattati male, lui e altri sette o otto che partivano in congedo
insieme.... ebbene, che quel capitano, che tutti dicevano ch'era un
cane, gli aveva detto, il giorno ch'erano andati a salutarlo a casa: —
Qualche volta vi sarò parso un uomo bestiale, che urlavo e castigavo
a torto; ma se ve ne ricordate, era sempre nei giorni di pioggia, e
la cagione eccola qui: è questo lavoro che ho nel petto, che mi hanno
fatto i tedeschi a Novara — ; e senz'altro, scoprendosi il petto, aveva
mostrato un'orribile ferita che lo martoriava da dodici anni. E allora
tutti si erano ricreduti e gli avevano domandato scusa. Bisogna andare
adagio, caro mio, a giudicare e a condannare. Mi ricordo sempre d'un
soldato di Saluzzo, che era perseguitato da un ufficiale, e lo odiava
a morte, e diceva, quando scoppiò la guerra, che alla prima occasione
si sarebbe fatto giustizia. Ebbene, si trovarono per l'appunto sul
campo di battaglia insieme, l'uno accanto all'altro, in un momento
che fioccavano le palle. Ora senti che cosa è avvenuto. A un certo
punto, il soldato si sente dare dall'ufficiale una gran piattonata
sulla testa. Era troppo, perdio! Il sangue gli monta alla testa,
caccia un urlo di rabbia, e si volta, acciecato, per dare un colpo di
baionetta.... Cosa vede? L'ufficiale pallido che barcollava cercando
dove appoggiarsi. Una palla l'aveva colpito nel fianco mentre gridava
avanti colla sciabola in aria, e la sciabola, cadendo, aveva battuto
sulla testa del soldato. — In un momento — mi raccontò lui stesso —
mi fuggì tutto l'odio dal cuore. Lo afferrai, lo tenni un momento su,
poi lo distesi sull'erba, m'inginocchiai per premergli la mano sulla
ferita. Ma era inutile. La ferita era mortale. Lui mi guardava, senza
lamentarsi, cogli occhi larghi e fissi. Pareva che volesse domandarmi
perdono dei torti che m'aveva fatti. — Tenente — io gli dissi — si
faccia coraggio! Sarà una cosa leggiera. — Ma sì! gli occhi gli si
velavano. E mentre mi chinavo per guardar la ferita, lui mi mise una
mano sulla testa e me la fece scorrere sulla guancia fino alla spalla,
come per farmi una carezza. Io alzai la testa e gridai: — Tenente! —
Era morto. E allora mi parve d'averlo sempre amato! — Che ne dici eh?
Son soldati questi? Sono uomini da fargli di cappello, sì o no?

Carlo rimaneva sempre immobile, cogli occhi fissi sul pavimento,
sforzandosi, ma inutilmente, di far parere che la sua serietà non fosse
altro che malumore.

— E li ho visti alla prova nel cinquantanove, quei giovani — riprese il
curato dopo aver dato un'occhiata alla finestra, per mostrare che non
s'occupava dell'impressione che le sue parole avessero potuto produrre.
— Allora c'erano anche i provinciali, uomini dai ventisei ai trentadue
anni, la maggior parte con moglie e figliuoli. Ma che soldati! Li
ho visti passare, il giorno di San Martino, quando il reggimento
sfilava davanti al colonnello per andare al fuoco. I giovani erano più
spensierati, i provinciali un po' più tristi; ma avevano tutti il cuor
saldo ad un modo, e gridavano un: — Viva il re! — caro mio, che sarebbe
bastato quello a far capire che la battaglia non si poteva perdere. Il
colonnello diceva di tanto in tanto: — Coraggio, miei bravi ragazzi!
Coraggio, tutto andrà bene. — Io li benedivo dentro di me, col cuore
un po' stretto, pensando a quanti non sarebbero più tornati. Poco dopo
cominciarono a fischiare le palle. Non voglio far lo spaccone; dico
la verità: quando sentii i primi fischi, che parevano grida di gatti
arrabbiati, mi mancarono le gambe. Ma subito mi feci forza. Misi la
mano sotto la tonaca, strinsi il crocifisso che avevo sul cuore e mi
dissi: — Don Luigi! Questo è il gran momento per far vedere che un buon
prete è anche buon soldato. — Dopo pochi minuti, cominciarono a farsi
i primi vuoti nelle file. Cosa mi toccò di vedere, santissimo Iddio!
Si vedevano quei poveri giovani, mentre la compagnia andava avanti,
fermarsi tutt'a un tratto, dare un giro, così, colle braccia per aria,
e cader giù d'un colpo, col fucile ancora stretto nel pugno. Bisogna
esserci stati per capire quello che si prova, l'animo che ci vuole,
quando si vedono là nel grano, nell'erba, in mezzo alle siepi, dentro
ai fossi, quelle faccie bianche bianche cogli occhi fissi, e daper
tutto armi e cheppì sparpagliati e sangue. Principiai a correre dagli
uni e dagli altri. Mi chiamavano. — Qui, qui, cappellano. — Son qui,
— rispondevo — son qui, figliuolo. — Mi afferravano per le mani, mi
facevano inginocchiare in terra, non volevano più che mi scostassi. Io
facevo coraggio ai feriti, benedivo i moribondi. Che morti ho vedute,
caro mio! che serenità! che rassegnazione! Ce n'eran di quelli che,
prima di spirare, facevano ancora un segno in aria, colla mano, così,
in segno d'addio al reggimento che s'allontanava. Alcuni mi vollero
lasciare un ricordo. Ho qui in una scatola un anello e una ciarpa
rossa; un contadino del Monferrato, povero giovane, voleva darmi i
suoi orecchini, e s'andava toccando le orecchie colla mano che non gli
serviva più, per levarseli. A momenti non sapevo più dove mi fossi.
Le lagrime mi oscuravano la vista, avevo le mani bagnate di sangue,
correvo qua e là come un insensato. Ma non ne ho mica visto nessuno
sai, dare indietro! C'eran dei bersaglieri feriti, che si tenevano
abbracciati ai tronchi degli alberi, con uno sforzo disperato, per
vedere il loro battaglione che combatteva sulle alture. Ho visto un
artigliere, un pezzo di giovanotto biondo, ferito in una spalla e
scamiciato, che s'appoggiava al muricciolo di un pozzo, e per dar
coraggio ai soldati che passavano, faceva l'atto di spruzzarli del
proprio sangue, come per benedirli, ridendo e gridando: — Prendete;
è sangue versato per la patria; vi porterà fortuna! — Ho assistito
un povero soldato di cavalleria, che era agli estremi, e mi lasciò i
suoi ultimi ricordi. Aveva in tasca una lettera per sua moglie, con
dieci lire dentro, che il giorno prima voleva impostare a Lonato, e
non aveva potuto. Me la diede e volle che gli promettessi che l'avrei
mandata. Quando l'ebbi promesso, parve più tranquillo. Soffriva molto.
Era bianco come questa carta, e di tanto in tanto metteva un lungo
lamento. Fece un ultimo sforzo per accennare che mi chinassi. Io mi
chinai e misi l'orecchio vicino alla sua bocca. Allora mi disse con un
filo di voce: — Se mai avesse occasione di passare per il mio paese...
sono di Castelnuovo Calcea... mi chiamo Antonio Calvi... mi farebbe una
grazia... cercherebbe mio padre... e mia moglie... se domandano come
son morto... — e dicendo questo mi mise un braccio intorno al collo per
sostenersi — dirgli che son morto da buon soldato... con coraggio...
che ho patito... quasi niente... e che quando sarà grande... Beppino...
il mio povero bimbo — e poi soggiunse con uno sforzo: — glielo dicano.
— A questo punto lasciò andar giù il braccio, battè del capo indietro,
contro un sasso, e addio... tutto fu finito. Ha inteso? Questi sono
giovani da prendersi ad esempio, anime forti e grandi da portarne il
nome nel cuore per tutta la vita!

Carlo continuava a tacere, tenendo il mento sul petto; ma il tremito
delle mani con cui faceva girare il cappello, mostravano che qualche
commozione, o almeno una forte lotta di sentimenti opposti gli si
doveva esser destata nel cuore.

— Ma non ho mica visto soltanto delle cose tristi — continuò il curato,
passandosi una mano sugli occhi — ... chiacchero un po' troppo; ma è un
difetto dei vecchi che si può perdonare. Tu avrai sentito parlare di
Giovanni Bassi, quello che era in artiglieria, che si distinse tanto
nella guerra del 60 e 61, al Garigliano; che si offerse spontaneo
a portare un ordine del generale sotto una tempesta di palle, e poi
prese una bandiera, per cui gli diedero la medaglia d'oro e tutte le
gazzette ne parlarono. Lo avrai sentito nominare, è uno che fa onore
qui al paese; ora son sei anni che è in Francia, e nel villaggio non
c'è più che suo cugino, il carrettiere. Ma tu non puoi ricordarti di
quando tornò a casa, dopo la guerra. Ebbene, è stata una scena che
tutti quelli che vanno a fare il soldato bisognerebbe che l'avessero
vista. Qui ci aveva lasciato suo padre vecchio, la moglie e una bambina
di due anni che si chiamava Luigina, ed era un amore. Era partito nel
58. Una volta partito, venne una guerra dopo l'altra, non potè più
avere permessi, non tornò che nel 62 a servizio finito. La notizia del
suo gran fatto la diede il sindaco. Il padre e la moglie vivevano da un
pezzo in grande ansietà per mancanza di notizie. Una bella mattina gli
capita a casa il sindaco: stavano in faccia a San Giacomo. Entra; li
trova tutti e due, al solito, tristi, e dice: — È molto tempo che non
avete notizie di Giovanni? — Quelli s'alzano spaventati e rispondono
— Son due mesi! — Ebbene — dice il sindaco — il vostro Giovanni....
— È morto! — gridano tutti e due. — Che morto! — risponde il sindaco.
Cento volte vivo, grazie al cielo! Leggete un po' questa gazzetta. — La
donna apre la gazzetta, c'era un segno rosso, comincia a compitare....
figurati la meraviglia e il piacere! C'era tutto per disteso, nome e
cognome, colla relazione del fatto, medaglia d'oro, ordine del giorno
e che so io. Quelle due povere creature, da principio, rimasero come
stupide, e poi parevano matti. Pensa un po'! La medaglia d'oro che non
la danno proprio che ai più bravi tra i più bravi, una cosa grande,
tanto che un soldato colla medaglia d'oro è quasi come un principe, che
tutto l'esercito lo conosce e non c'è nessuno, in fatto d'onore, che
sia al di sopra di lui. La notizia si sparse subito da per tutto. Tutti
correvano a vedere il padre e la moglie di quel gran soldato. Venivano
persino i villeggianti qui dei dintorni, e mandavano dei regali. La
casa dei Bassi era piena d'ogni ben di Dio, e amici di qua e amici
di là, tutti li portavano in palma di mano. Era un trionfo continuo.
Poi vennero le lettere di lui, poi le comunicazioni delle Autorità
e poi la notizia che la classe del trentasette era mandata a casa.
Immagina quel buon vecchio, quella povera donna che da cinque anni non
vedevano più il loro Giovanni! Finalmente arrivò l'ultima lettera che
diceva: tal giorno, tal ora. Fu una festa. Il Bassi doveva arrivare
alla stazione della strada ferrata, che allora era a un miglio di qui.
S'accordarono tutti d'andargli incontro. Venuto quel giorno, si radunò
gran gente, andarono a prendere il vecchio, la donna, e la Luigina,
che non conosceva suo padre, si può dire, e s'era fatta grande, aveva
sette anni, e una signora l'aveva vestita come una principessa; e tutti
insieme s'incamminarono verso la stazione. C'erano più di duecento
persone, colla musica, e una bandiera; c'era il sindaco, c'erano dei
signori, e io accompagnavo la sposa che pareva smemorata, e piangeva,
e le compagne le dicevano: — Eh, Teresina, non te lo saresti pensato
quando facevate all'amore sotto l'olmo di San Giacomo! — Alla stazione
lasciarono entrar tutti dentro, fin sulle rotaie. Chi aveva una
bottiglia per essere il primo a dargli da bere, chi aveva portato dei
sigari, chi dei mazzetti, e la Luigina aveva intorno un cerchio di
gente che l'accarezzava, e le diceva: — Or ora vedrai tuo padre per la
prima volta. — Finalmente si sentì il fischio: dovettero tener su il
vecchio, che gli mancavan le gambe, e il sindaco prese per il braccio
la Teresina che si sentiva male. Il treno arriva, si ferma, scendono
quattro o cinque soldati, tutti li circondano — dov'è Giovanni Bassi?
Non è venuto? dov'è andato? Bassi! Bassi! — Eccolo! si sente gridare
— e s'affaccia al vagone lui in persona, un gran soldato nero, bello,
allegro, colla medaglia d'oro sul petto; salta giù, riconosce, manda
un grido, afferra in una bracciata padre e moglie e lì comincia a
tempestar baci sulle due teste, che pareva matto, mentre suonava la
musica e tutti gridavano e si pigiavano per arrivare a toccarlo. Quando
a un tratto si sente tirare per la tunica, si volta, vede un visetto
e due manine che si sporgono.... Non la riconosce subito. — Luigina!
— gridano tutti. Io ero stato sbalzato indietro, non vidi nulla; ma
sentii un grido che m'andò al più profondo dell'anima e che non ho
mai più dimenticato; il grido della gioia più grande, più meritata,
più santa che possa provare il cuore dell'uomo; la gioia del soldato
valoroso che ritorna in seno alla sua famiglia e può dire ai suoi
figliuoli: — Su questo petto contro cui vi stringo, la patria ha messo
un segno della sua gratitudine e della sua ammirazione.

Detto questo, lanciò uno sguardo di sottocchio a Carlo, e vedendolo
commosso, pensò di mandarlo fuori coll'impressione viva ed intera delle
sue parole. — Ora va — gli disse amorevolmente, sospingendolo verso
l'uscio — e torna a salutarmi prima di partire.

Carlo, commosso vivamente, tentò di metter fuori qualche parola tanto
per salvare le apparenze dell'amor proprio; ma non gli riuscì che di
balbettare qualche sillaba senza significato; si lasciò spingere fino
alla porta, non potè resistere a un impulso del cuore che gli fece
dire: — La ringrazio — e poi uscì bruscamente, umiliato e stravolto.

— La buona semenza nel cuore — disse tra sè il curato chiudendo la
porta — io te l'ho messa; il resto è affar tuo.


XI.

Carlo si fermò in mezzo alla strada, convulso, e rimase qualche minuto
in uno stato di tremenda incertezza. In quei pochi minuti si decise
la sorte della sua vita. La prima idea che gli venne fu di correre da
Camilla e gridarle: — Sì, andrò a fare il soldato, son pentito, sono
un altro, perdonami quello che t'ho fatto soffrire e non si parli
più del passato. — Ma non aveva ancor finito di dire a sè stesso
quelle parole, che già la rabbia di sentirsi vinto, il suo orgoglio
selvaggio, e quella feroce voluttà del dispetto che era dominante
nella sua natura, avevano preso il di sopra. Stette ancora un momento
piantato là, ansante, come se avesse fatto una lunga corsa, e poi disse
risolutamente: — No, no, no! Non son che parole! Son tutti d'accordo
per volermi alla catena! È inutile, è un avversione del sangue, non
posso, non sarà, dovessi ridurmi a vivere come un bandito o come un
cane. — E tornò difilato alla bottega dell'amico.

Questi, appena Carlo ebbe finito di riferire i discorsi del curato,
diede una scrollata di spalle, tirò fuori dal cassetto un giornale
spiegazzato e sucido, lo spiegò sul tavolino e: — Senti questo — disse
— io non ti domando altro che di sentir questo, e poi farai quello che
vorrai.

E cominciò a leggere:

“.... Noi abbiamo veduto cogli occhi nostri fino a quale eccesso di
furore bestiale possa trascinare l'uomo codesto zelo insensato di
disciplina, che si pone fra le più elette virtù militari. Un reggimento
di fanteria tornava da una esercitazione campale faticosissima; i
soldati digiuni cadevano stremati di forze; invano i superiori si
scalmanavano per farli andare innanzi. Allora il colonnello radunò
tutti gli ufficiali e disse loro: — Assolutamente, all'ora tale,
bisogna arrivare; si servano della sciabola. — E gli ufficiali si
precipitarono tutti ad un tempo sopra i soldati, gridando: — Animo! Su!
Avanti! — pestando i piedi e agitando le sciabole nude. Pochi soldati
poterono alzarsi; i più rimasero stesi in terra. Allora le sciabole
fendettero l'aria, e cadde una tempesta di piattonate sulle schiene,
sulle teste, sulle braccia di quei poveri infelici che chiedevano
pietà; e colle piattonate i calci, e coi calci gl'impropèri soliti:
— Poltroni! Canaglia! Carogne! — Risposero qua e là grida di lamento
e di sdegno; e gli ufficiali a tirar fuori i taccuini, a notare i
nomi, a minacciar ferri, consiglio di disciplina, reclusione, galera.
Alcuni soldati, levatisi a stento, stramazzavano daccapo, e su questi
si precipitavano i medici, gridando: — Impostori! — e scotevanli e
strascinavanli fin che s'accorgessero che avevano il viso livido e
le membra irrigidite. Altri, ripreso l'andare, barcollavano sotto
l'immane peso dello zaino, e ingombravano la strada ai compagni, così
che gli ufficiali indispettiti finivano per liberarsene, buttandoli
nella polvere con un urtone. Altri, fermatisi per asciugarsi il volto
sanguinoso, toccavano nuove percosse dagli ufficiali, che vedeano in
quell'atto una protesta. Il reggimento, così camminando, arrivò a una
porta della città. Ne uscì in quel punto un aiutante di campo a cavallo
e s'avanzò di carriera verso il colonnello. Dopo un istante si propagò
un grido fra gli ufficiali: — Il principe! Il principe! — Il reggimento
fu fermato e schierato in un baleno; i soldati ch'erano indietro,
cacciati innanzi a spinte, quelli stesi in terra afferrati pel collo
e tirati su. Fu dato il comando: — Presentate le armi! — Il principe
si avanzò, bello, fresco, allegro, seguito da cinque ufficiali che
guardavano le signore alle finestre; diede uno sguardo di compiacenza
alle prime compagnie, fece un complimento ai primi capitani; e non era
ancora arrivato davanti al mezzo del reggimento, quando di fila in fila
corse una voce sommessa, come un ordine ripetuto, e dopo un istante, da
quei mille petti sfiniti, da quelle mille bocche arse, uscì un grido
lungo, stanco, straziante, accompagnato da un sorriso di sarcasmo
amaro, un grido che aveva qualcosa della risata d'un pazzo e del
rantolo d'un affogato: — Viva il principe! — Il colonnello fu invitato
a pranzo....„

Arrivato qui, ripiegò il foglio e disse: — Hai capito? I preti ti danno
delle chiacchiere; io ti do delle verità sacrosante e stampate. Che
cosa te ne pare?

Carlo non rispose, e rimase per lungo tempo immobile colle braccia
incrociate sul petto e cogli occhi fissi sul giornale. La sua
risoluzione, però, non era ferma ancora quanto egli voleva far
credere a sè stesso. Qualche cosa di bello e di grande gli era passato
nell'anima ed egli se ne sentiva ancora sconvolto e quasi sgomentato.


XII.

Ma la parola fredda, sarcastica e perfidamente ostinata di Marco
non tardò a vincere le ultime resistenze del suo cuore. Per più
giorni, quello gli stette accanto, continuando a stillargli il veleno
nell'anima; lo conduceva la sera a passeggiare per i viottoli dei
monti intorno al villaggio; e là gli tesseva flemmaticamente, l'un dopo
l'altro, lunghi racconti di prepotenze, di sevizie, di disperazioni,
e di soldati impazziti o suicidi, esponendo con voce compassionevole
mille particolari irritanti, fin che strappava dalla bocca della
sua vittima un grido di sdegno o di rabbia, e allora soggiungeva in
tuono di consolazione: — che non erano però casi di tutti i giorni.
— E così Carlo s'andava fortificando sempre più nella risoluzione di
sottrarsi a qualunque costo alla leva. Ma quando fissava la mente nel
pensiero della diserzione, l'idea delle difficoltà, dei pericoli e
dell'incertezza del suo avvenire lo spaventava. E una sera non potè
trattenersi dal dirlo all'amico, col quale, fin allora, s'era mostrato
sempre fermo e tranquillo nel proposito di disertare. Passeggiavano per
i fianchi d'un monte; il sole era tramontato; nessuno dei due parlava.
Carlo guardava sotto, nella valle, il suo piccolo villaggio, dove
cominciava a brillare qualche lume, e da cui gli veniva all'orecchio
un gridìo confuso di ragazzi. Il pensiero che tra pochi giorni avrebbe
dovuto dire addio, forse per sempre, a quella valle, a quelle case, a
Camilla, a tutte le memorie della sua famiglia e della sua infanzia,
gli strinse il cuore tutt'a un tratto con una grande violenza; si
fermò; mise un sospiro profondo, e passandosi una mano sulla fronte
che gli bruciava. — Eppure — esclamò con voce commossa — partire...
abbandonar tutto, tutti... andare... chi sa dove... chi sa per quanto
tempo... solo per il mondo... inseguito... ah! è troppo dura, sento
proprio che è troppo dura! —

Marco lo guardò e non rispose.

Si rimisero in cammino.

Fatti alcuni passi, l'amico brontolò con un accento ostentato di
noncuranza, come se dicesse una cosa affatto indifferente:

— Non ci sarebbe mica bisogno di girare il mondo.

— In che maniera? — domando Carlo fermandosi, in atto di seria
curiosità.

Marco lo guardò fisso e poi gli domandò alla sua volta: — Sei un uomo?

Carlo fece un gesto.

— Ebbene — disse Marco, e mettendogli la bocca all'orecchio, pronunciò
alcune parole sommesse.

— Mai fin ch'io viva! — gridò Carlo tirandosi indietro bruscamente e
facendo un atto vigoroso di rifiuto.

— Mai. — rispose pacatamente l'amico — è una parola presto detta. La
cosa merita qualche riflessione. Non si tratta mica della vita. Io ho
creduto di darti un suggerimento d'amico. Mi pare che sarebbe un mezzo
d'accomodar tutto. Pensaci. Del resto, vedi, io me ne lavo le mani.
Nelle peste ci sei tu in fin dei conti, non ci sono mica io.

E continuarono a scendere, verso il villaggio, in silenzio; Marco
tranquillo; ma Carlo profondamente agitato.

— Potrei contare sopra di te? domandò questi, con una voce che non
pareva la sua, quando furono sul punto di separarsi.

— Tutto quello che può fare un buon amico e un uomo d'onore — rispose
Marco mettendosi una mano sul petto — ti prometto che lo farei.

Carlo gli fissò negli occhi un lungo sguardo, gli strinse la mano e
disparve.


XIII.

Passaron cinque giorni che furono per Camilla un'angoscia continua.
Carlo passava una gran parte della giornata coll'amico; con lei parlava
di rado e poco; ma incontrandola le porgeva sempre la mano o le faceva
una carezza: cosa insolita. Essa però non si lasciava illudere. In
quegli atti affettuosi le pareva di scorgere come un bisogno ch'egli
sentisse di farle coraggio e di darle forza a sostenere la prova; non
gli vedeva più nel viso la sospensione d'animo dei giorni passati;
gli vedeva la trista fermezza d una risoluzione presa. Egli passava
molte ore solo, seduto all'ombra d'un albero, pensando, colla testa
appoggiata sopra una mano; parlava spesso e gestiva da sè; e qualche
volta contraeva il volto, come all'apparizione improvvisa d'una
immagine orribile. Camilla, tremando, ne seguiva cogli occhi ogni passo
e ogni gesto; appena egli usciva di casa, correva nella sua camera a
vedere se ci fosse nulla di mutato; lo fermava a volte sull'uscio, gli
teneva dietro, si faceva scacciare, lo cercava, lo chiamava. — Cosa
pensi? — gli domandava dieci volte l'ora. Ed egli rispondeva sempre; —
Nulla! —

Venne la vigilia del giorno della visita: il dì appresso Carlo doveva
andare in città, al Consiglio di leva, per esser visitato dai medici.
La mattina, appena alzato, era un po' più inquieto e un po' più pallido
del solito. Uscì per tempo, ritornò poco dopo, armeggiò qualcosa nella
sua camera, e uscì daccapo. Camilla corse per vedere; la porta della
camera era chiusa; essa pensò che avesse preparato i suoi vestiti
per partire. Non c'era più dubbio: voleva disertare nella notte. Lo
rivide qualche ora dopo, immobile in mezzo a un campo, colle braccia
incrociate sul petto; lo vide un'altra volta nella strada coll'amico;
sull'imbrunire tornò a casa. Camilla lo fermò accanto alla porta, lo
afferrò per le mani, e gli disse a bassa voce, risoluta, con un accento
in cui si sentiva tutto lo strazio dell'anima sua: — Carlo, io non
posso più vivere così! Dimmi che farai il tuo dovere! Non mi ridurre
alla disperazione! Te ne scongiuro, parla, dimmi cosa pensi!

— Nulla.

— Non è vero! Tu vuoi fuggire!

— No!

— Sì, lo capisco, lo so, tu vuoi fuggire stanotte! Tu sei senza pietà!
Tu vuoi farmi morire!

— Zitta! — mormorò Carlo guardando intorno.

— Non posso tacere, ho bisogno di parlare, se ho da morire non voglio
morire tacendo! Carlo! — e cadde in ginocchio — io non mi alzo di qui
se tu non mi giuri prima che non m'abbandoni, che andrai in città, che
farai il soldato, te ne scongiuro, in nome del bene che ti voglio, in
nome di tuo padre, di tua madre, di Dio!

— Lo giuro, — disse Carlo, facendole cenno che abbassasse la voce.

— Lo giuri? — gridò Camilla balzando in piedi, e mettendogli le mani
nelle spalle, — giuralo un'altra volta.

— Lo giuro.

— Giuralo per tua madre!

— Lo giuro per mia madre, per mio padre, per chi vuoi, centomila volte;
che cosa t'ho da dire di più? —

Camilla lo guardò fisso, lasciò cadere le braccia e mormorò in accento
di profonda costernazione: — Non ti credo, hai qualche cosa negli occhi
che non mi lascia credere. Va! — gridò con un impeto improvviso, dando
in uno scoppio di pianto. — Sei un tristo! Sei un uomo senza cuore! Va!
Va pure! Lasciami morire!... Ah no! no, Carlo, fermati! per pietà! — e
lo fermò e gli gettò le braccia al collo; — perdonami! Io non posso più
vivere così! Abbi compassione della tua Camilla!

— Per quanto ho di più sacro al mondo, Camilla, — esclamò Carlo,
sciogliendosi da lei e allontanandosi; — ti giuro che non fuggo! —

Camilla senza badare a quest'ultime parole, colta all'improvviso da
un'idea, si ravviò i capelli, si asciugò gli occhi, e corse difilata
alla casa del Curato. Entrò, si gettò ai suoi piedi; gli raccontò ogni
cosa, concluse: — Sono nelle sue mani, salvi me dalla disperazione e
lui dalla rovina. —

Il Curato pensò lungamente prima di rispondere; poi domandò se Carlo
era andato a casa: Camilla rispose di sì. — Allora va, — disse, —
e vedi di non lasciarlo uscire per un'ora; al resto ci penso io.
— Camilla uscì di corsa. Il Curato prese il cappello, andò dal
maresciallo dei carabinieri ch'era un vecchio e franco soldato, e lo
pregò amichevolmente di far guardare la casa di Carlo durante la notte,
e gliene spiegò la ragione. Il maresciallo, mettendo fuori una grossa
voce (non la sua naturale, ma una artefatta che usava solamente in
servizio), chiamò due carabinieri, diede l'ordine brontolando, e poi
soggiunse tra sè, accendendo la pipa: — Eppure il cuore me lo diceva
che un giorno o l'altro avrei dovuto aver da fare con quella faccia
proibita.


XIV.

Erano le nove di sera. La famiglia di Carlo e di Camilla stava in una
piccola stanza a terreno, intorno a una tavola; Camilla era seduta in
un canto, dove arrivava appena il lume d'una lucerna, che serviva per
tutti. Carlo era nella sua camera; una piccola camera a terreno nella
casa dei padroni, che si trovava dirimpetto a quella dei contadini,
dove stava Camilla, e c'era l'aia framezzo. La poveretta, benchè il
Curato non le avesse detto che cosa intendesse di fare per distogliere
il giovane dalla sua risoluzione, pure confidava. Si affacciava tratto
tratto alla finestra, la nebbia era fitta: non si vedeva nè stelle,
nè campagna; la sola finestrina illuminata della stanza di Carlo
rompeva l'oscurità. Camilla la guardava fissamente, senza quasi batter
palpebra, e ora le pareva che s'allargasse come la bocca d'una grande
fornace, e si movesse verso di lei; ora la vedeva rimpiccolirsi fino a
parere appena un punto luminoso, che s'andava allontanando. Tutto era
quieto nell'aria, pei campi, in ogni parte; non si udiva che qualche
rara voce lontana, o un tintinnìo di sonagli che mandava qualche tardo
armento dalla via.

A un tratto gli parve di sentire un passo sull'aia; guardò
attentamente, e vide in fatti muoversi qualcuno. Le balenò il sospetto
che fosse Carlo, fece un passo come per slanciarsi fuori; ma s'accorse
nello stesso punto che l'uomo andava verso la casa, e disse tra sè:
— È il Curato! — e respirò. Dopo qualche momento vide' due ombre
nere disegnarsi sulla parete della stanza di Carlo, e ripetè: — È
lui! —

Era invece Marco.

Camilla si rimise a sedere nel suo cantuccio dicendo ai suoi parenti: —
il Curato è andato a trovar Carlo. —

I parenti che avevano letto anch'essi in viso a Carlo il pensiero di
qualche diavolerìa, benchè non se ne curassero gran fatto, risposero: —
Bene, purchè riesca a mettergli la testa a segno. —

Dopo un po' s'alzarono tutti insieme e si congedarono da Camilla,
dicendole: — Se viene il Curato fallo entrar tu, e digli che siamo
andati a letto, che s'era stanchi, e ci compatisca, e dàgli la buona
notte per noi. Tu, piccino, resta a fargli compagnia.

Il fratello di Carlo rimase.

Un minuto dopo picchiarono all'uscio. Camilla andò ad aprire; era il
Curato. Lo guardò in viso, per leggergli a che fosse riuscito. Egli
che, passando, aveva visto i due carabinieri di sentinella, soddisfatto
dell'opera sua, sorrise. Camilla, notando quel sorriso, pensò: — C'è
riuscito! — e gli prese una mano, e gliela baciò con uno slancio di
gioia e di gratitudine.

Il Curato sedette in mezzo a Camilla e al ragazzo, al chiarore della
lucerna, e cominciò a discorrere per veder di tenerli un po' allegri.
Camilla lo interrompeva a quando a quando per sentire se si faceva
rumore sull'aia.

Il Curato discorreva di Carlo.

— È una dura vita — diceva — la vita del soldato, chi non lo sa? Ma
bisogna pigliarla come una prova che Dio vuol fare di noi, per vedere
se siamo abbastanza forti nella virtù e nel bene, da resistere alle
tentazioni e superare i pericoli. C'è poco merito a esser buoni e
virtuosi in un villaggio, dove si lavora dalla mattina alla sera, e
s'è circondati da persone che ci vogliono bene, e ci danno l'esempio
dei buoni costumi e della divozione; il male, in questo caso, bisogna
andarlo a cercare, o cavarlo tutto da noi medesimi; e non c'è bisogno
d'una gran forza per non fare nè l'uno nè l'altro. Il difficile
è di mantenersi nella buona strada in mezzo a gente che batte la
cattiva, e cerca di tirarvici anche voi; e colui che vi si mantiene,
quegli sì che ha acquistato un gran merito dinanzi a Dio! C'è dunque
piuttosto da considerarla come una fortuna, che come una disgrazia,
questa occasione ch'egli ci offre di renderglisi accetti in un modo
particolare, serbando il cuore puro e onesto del buon campagnuolo sotto
il cappotto del bravo soldato! E Carlo, vedete, sarà l'uno e l'altro,
perchè Carlo è così un po' chiuso e fiero, ma in fondo è un giovane
che ha religione, e chi ha religione vera ha coraggio; e lasciate
pur dire che per esser bravi soldati bisogna non credere a nulla e
ridersi di chi crede qualche cosa. Per andare incontro alla morte col
cuor fermo e sereno, bisogna vedere qualcuno al di là che ci faccia
segno: — V'aspetto! — e arrischia con più coraggio questa vita colui
che crede che ce ne sia un'altra, di quegli che perdendola, crede di
perder tutto, e deve fare il sacrificio senza la promessa del premio. E
credete pure che di queste cose non si ride tanto in guerra, quanto se
ne ride in pace. Quando l'esercito piemontese....

— Non ha inteso una voce, signor Curato? — interruppe Camilla.

Il Curato tacque e stette un minuto coll'orecchio intento; poi
continuò: — Non è nulla. Quando l'esercito piemontese si trovava in
Crimea, c'era il colèra. I soldati morivano a trenta, a quaranta, a
cinquanta il giorno. Si diceva che la guerra sarebbe durata anni cd
anni; nessuno sperava più di tornare in patria; erano tutti rassegnati
a morire senza rivedere le loro famiglie, tutti scoraggiti, tristi.
Eppure, ogni domenica, allo spuntar del sole, al suono dei tamburi e
delle trombe, quel piccolo esercito si radunava in una gran pianura
deserta, si disponeva su tre lati, lasciando il quarto vuoto e lì
c'era un altare e si diceva la messa. I generali stavano accanto
all'altare. Di tanto in tanto le file serrate dei reggimenti si
aprivano qua e là per lasciar portar via i soldati presi dal male. La
banda suonava le arie, che ricordavano a tutti quei poveri giovani
il loro paese lontano, e i begli anni passati a casa; il cielo era
sereno, e splendeva un sole che faceva luccicare tutte le baionette;
si sentiva lontano lontano il rimbombo delle cannonate dei Russi; era
uno spettacolo che persino il bravo generale La Marmora, che comandava
a tutti i nostri soldati e voleva mostrarsi un uomo di ferro, molte
volte, quelli che gli eran vicini gli vedevano colare le lacrime giù
per la faccia. Ebbene, quelli che ci son stati lo assicurano: non c'era
nessuno, in quel momento, che non sentisse il bisogno di sollevare
il cuore e la mente a Dio, e che non pronunciasse qualche parola di
preghiera. Generali, soldati, vecchi, giovani, sani, feriti, avevano
tutti un solo sentimento e un solo pensiero: — Buon Dio, proteggi le
nostre famiglie lontane, la nostra vita, la nostra bandiera; ispiraci
forza e coraggio; e accordaci la grazia di rivedere il nostro caro
Piemonte! — E finita la funzione tornavano tutti ai loro accampamenti
coll'anima più serena e col cuore più forte....

In quel momento s'udì un rumore: tacquero tutti e tre, e stettero
ascoltando: nulla; regnava il più profondo silenzio. Si sentiva appena
muovere le foglie d'una vite stretta all'inferriata della finestra.

Tutt'a un tratto, quel profondo silenzio fu rotto da una voce
sconosciuta che veniva dalla stanza di Carlo e che gridò sonoramente:

— Giù. —

Camilla impallidì: vi fu un altro momento di silenzio.

Poi un'altra volta risonò quel grido di malaugurio: — Giù! —

E subito dopo un colpo forte come di una pesante caduta dall'alto, e
nello stesso punto un altissimo grido di dolore seguìto da un lungo e
sordo lamento.

Il Curato, Camilla, il ragazzo, agghiacciati dallo spavento, si
slanciano sull'aia verso la camera di Carlo.

Non sono ancora arrivati alla porta che sentono dall'altra parte della
casa un colpo di fucile.

Presi da nuovo spavento, quasi fuori di sè, gettando alte grida, si
precipitano verso la porta; la porta è chiusa. Picchiano, gridano:
nessuno risponde. Nella camera di Carlo c'era sempre il lume.
Ricominciano a picchiare: nessuna risposta. Gridano aiuto, e arriva
allora un carabiniere, esclamando: — È preso!

— Chi è preso? — domandarono ad una voce Camilla ed il Curato.

— S'è sentito un grido, — rispose il carabiniere, — un grido come
d'un uomo assassinato, e un momento dopo un uomo è saltato giù dalla
finestra nel campo, e via di corsa. Noi dietro gridando: — Ferma!
— E lui non risponde e continua a correre. Noi abbiamo pensato: — È
l'assassino. — Si grida ancora: — Ferma! — Non risponde. Allora il mio
compagno ha tirato un colpo di pistola, l'uomo è caduto, siam corsi;
era Marco il liquorista, la palla gli ha spezzato il braccio.

— Carlo! Carlo! — prese a gridare disperatamente Camilla, picchiando
coi pugni e raschiando colle unghie la porta.

Sopraggiunsero in quel punto i contadini con vanghe e accette e in
pochi momenti atterrarono la porta, e si precipitarono nella stanza,
Camilla la prima. Videro Carlo steso supino sul letto: guardarono il
tavolino era sparso di sangue; guardarono in terra, un lago di sangue;
s avvicinarono al letto, era tutto macchiato di sangue. A un tratto
Camilla si sentì qualcosa sotto un piede, si chinò, lo raccolse,
guardò.... e gettando un urlo straziante di terrore e di ribrezzo,
cadde svenuta.

Aveva raccolto il dito indice della mano sinistra di Carlo.



FURIO.


   [Illustrazione]


I.

C'era una volta un giovine bello e non sciocco, e nemmeno vano, che è
più raro; o vano forse, ma in una certa sua maniera aperta e faceta,
che piaceva. E non di quei belli, che c'è chi li trova così così, e a
qualcuno anche non piacciono; era bello per tutti. Si sarebbe potuto
paragonare a uno di quei giovani tanto frequenti nei romanzi francesi,
e tanto rari, per fortuna, nel mondo reale, che per tutto dove passano
lasciano una traccia di dissidii coniugali, di malinconie di ragazze,
di collere d'innamorati; e ad ogni atteggiamento che pigliano, il
romanziere gli fa cader su da qualche spiraglio un raggio di luna o
di sole, e gli appiccica una similitudine tirata da qualche quadro
illustre.

A pensare che era stato assuefatto da bambino a sentirsi passare
sotto il mento la mano bianca delle signore, a esser baciucchiato
dalle ragazze, a vedersi sempre intorno i genitori in adorazione, a
farsi perdonare qualunque monellerìa con un atto grazioso, era una
meraviglia il vederlo cresciuto così senza fumi, senza leziosaggini,
buono, franco, alla mano, che si faceva voler bene da tutti, o almeno
non dispiaceva a nessuno. Quando gli dicevano uno scherzo sulla
sua bellezza, egli stesso ne scherzava, senza che da nessuna delle
sue parole trasparisse un barlume di vanità, e svelava, con molta
semplicità, certe sue finezze dongiovannesche, d'effetto provato,
asseriva, e immancabile; e contraffaceva, con molta grazia, gli
atteggiamenti e i modi proprii, spingendo sempre la cosa fino a tal
segno di ridicolo da escludere affatto ogni sospetto d'artifizio.

Una sera, a una cena di amici, perchè gli avevano detto che la
bellezza, nell'uomo, non conta nulla, che lo spirito è tutto, e che lo
spirito, a voler esser giusti, e lo sfidavano a negarlo, era la parte
meno notevole in lui, proruppe esilarato: — Già, tutti dicono così; ma
poi che cosa si vede in effetto? Il rovescio, si vede. Nei romanzi,
tutti gli uomini che fanno qualcosa di grande o di buono sono belli;
tutte le donne si struggono d'avere dei figliuoli belli; gli aiutanti
di campo si cercano belli; i commedianti bisogna che sian belli, gli
oratori, belli, i re, belli; e di un poeta bravo, ma brutto, si dice:
— Me lo figuravo diverso; — e il Byron si curava più del suo viso che
della sua gloria, e il Leopardi avrebbe dato tutto il suo greco per un
paio di occhi da incapriccire Nerina, e il Petrarca si dà del bello da
sè, _forma non glorior excellenti, sed_.... ma sono un bell'uomo; e il
Guerrazzi, sotto la maschera del suo Orazio, dice addirittura che le
ragazze si voltavano indietro a guardarlo; e il Murat, coi fucili alla
gola, pensava ancora a parer bello dopo morto; e ci sono delle città
dove i prefetti brutti non ce li vogliono; e Cristo si dipinge bello,
e gli angeli, perchè riesca più comodo di amarli, si rappresentano
grandi e snelli come cavalleggieri di Saluzzo, o tondi e coloriti
come le mele lazzeruole; eternamente brutti nei romanzi, nei quadri e
nell'immaginazione della gente i cretini, i birbanti, e voi. —

L'indole sua aveva poi questo di singolare, che a volte egli si sentiva
come scontento, e più che scontento, vergognoso quasi dei suoi pregi
esteriori; ma neanche vergognoso, un sentimento come di disistima di
sè, provava; appunto perchè, come gli avevan detto gli amici, in lui
lo spirito era tanto da meno della persona, o per dir più giusto, la
gente ne teneva tanto meno conto. Era d'ingegno aperto e sveglio, e
non senza quel che di vivo e d'arguto, a cui si dà nome di spirito; ma
di ben altra levatura avrebbe dovuto essere, perchè viso e cervello
fossero alla pari. Quella sproporzione gli pareva ridicola, qualche
volta umiliante; e diceva: — La mia anima è come una contadina zotica
vestita da signora elegante. — È innamorato? — gli domandava un giorno
la sua vecchia padrona di casa, vedendolo triste; — eh via! non si dia
pensiero: lei è un bel ragazzo.... — Io sono un bel fantoccio, — egli
rispondeva, e in quel momento pensava a una ragazza piantata da lui che
una volta gli aveva scritto: — Lei ha sbagliato a nascere coll'anima;
lo avremmo potuto mettere in una galleria. — E questo suo sentir
meschino di sè lo pigliava sovente all'improvviso, come un mal di capo,
in mezzo a una brigata d'amici, in specie se c'erano delle donne, e
allora ammutoliva, pigliava il cappello, e via: chè già gli pareva
d'aver detto tante sciocchezze, tanti spropositi, tante assurdità, da
colmar la misura della più generosa tolleranza. Del resto, tutte queste
debolezze provavano ch'egli era assai da più che non si credesse egli
stesso; per lo meno un cervello sano e un cuore gentile; un po' matto,
quand'era allegro, e quand'era triste, un po' acre; buon giovane, in
fondo.

Aveva ventott'anni, i capelli biondi, la laurea di avvocato, un po'
di ben di Dio, e uno stranissimo nome ch'egli non poteva soffrire:
Riconovaldo.

Ed ora comincio il racconto.


II.

Erano le sei della mattina. Furio spalancò le imposte della finestra,
ed entrarono ad un punto nella sua camera un raggio di sole ed
un'ondata d'aria odorosa, che gli diede un fremito di piacere
soavissimo. Guardò il cielo, i monti, il giardino della villa, battè il
pugno sul parapetto, dicendo: — Bello! — e pensò che aveva quattordici
anni, e sentì che amava immensamente la vita. Un insetto saliva su
per lo spigolo della persiana: egli allungò la mano per buttarlo giù;
— Ma no, — disse subito: — oggi è giorno di grazia; vivi! — Rise, si
appoggiò alla finestra a contemplar la campagna e canterellava.

In quel punto comparve sotto le sue finestre una carrozza vuota; una
donna di servizio uscì di casa e aprì lo sportello, e tre piedi lunghi
e asciutti si posarono l'un dopo l'altro sul montatoio, e tre persone
asciutte e lunghe salirono e sedettero in fretta, il padre, la zia e la
sorella di Furio.

Furio s'era ritirato un po' indietro.

— Tra due ore si torna, — disse il padre alla donna di servizio.

— Colla signora! — rispose questa con un'espressione di timida
allegrezza.

— Colla signora nuora, — soggiunse il primo con un sorriso dignitoso di
compiacenza; e fatto un cenno al cocchiere, il legno si mosse.

— Un momento! — gridò la zia con voce stridula.

Il cocchiere fermò, e dalla carrozza si alzò un lungo braccio secco
con un dito lungo e nodoso che, dopo aver tremolato un po' nello spazio
come la canna di uno spegnitoio di chiesa, si fissò verso la finestra
di Furio; e la voce di prima gridò:

— Vestiti e scendi immediatamente! —

Furio scomparve.

— Non importa — disse il padre in tono conciliativo, — lascialo a casa,
è un impiccio di meno.

— Voglio che venga!

— Via, non perdiamo tempo, è già tardi.... Avanti, cocchiere! —

Il legno ripartì. Furio si fece alla finestra, e vide ancora da lontano
quel lungo dito formidabile appuntato contro di lui a guisa di una
freccia, e una fila di dentoni digrignanti, che parevano la tastiera
d'un pianoforte. Il legno scomparve; il ragazzo rimase qualche minuto
immobile, cogli occhi a terra, mortificato. Ma ad un tratto sentì un
delizioso odor di fumo lasciato giù dal cocchiere; si scosse, corse in
un angolo della camera, tirò fuori un sigaro da un buco della parete,
l'accese, e si mise a passeggiare. Pensava che di lì a due ore sarebbe
arrivata sua cognata, la moglie del suo fratellastro, ch'egli non aveva
mai vista, e ch'era, a quel che dicevano in casa, una bella signora,
grande, bionda, ben vestita; e aveva piacere che venisse. Ma non un
piacere schietto e tranquillo; perchè egli era timido, e un poco orso,
come gli diceva sua sorella, o piuttosto zotico e sciocco addirittura,
come gli assicurava la zia; e il pensiero di aver da comparir dinanzi
a quella signora, in presenza di altri, di pieno giorno, e doverla
guardare in viso, e doverla salutare, e doverle rispondere, lui che,
in quelle occasioni, perdeva la bussola e non riusciva ad accozzar due
parole, questo pensiero lo turbava un po'. A fissarvisi, si sentiva
arrossire, solo com'era nella sua cameretta; figuriamoci là nel momento
solenne.


III.

Del resto, chi volesse sapere che maniera di vita sarebbe venuta a
trascinare in quella villa la cognata di Furio, lo dice questa lettera
scritta da suo fratello, che c'era stato l'anno prima una diecina di
giorni, a uno dei suoi amici intimi.

“.... Il ragazzo, Furio, è tornato a scuola in città, ch'è a un'ora
di qui, il giorno dopo ch'io arrivai. Per quel poco che potei vedere,
mi parve il miglior soggetto di casa; ma non gli vogliono bene. Sua
sorella, Candida, sta tutto il giorno tappata in camera; e non ti
saprei dir bene di che cosa sappia; ma a far la vita che fa, bisogna
che sappia di poco; si consuma; ci si vede già il patito, e non ha
ancora vent'anni. Cattiva non la direi; sai, è una di quelle slavature
di ragazze, che se ne vedono tante fra le maestre di pianoforte e le
guardarobe degli orfanatrofii, senza fibra, senza sangue, senza curve,
che vivono e muoiono caste nello stesso modo e per la stessa virtù che
le figurine di gesso. Alta, smilza, un viso affilato di beghinetta,
pettinata come una madonna, coi capelli lisci e appiccicati; non è
brutta, se si vuole; ma nulla più. Per me, è come se non ci fossi;
non mi parla, non mi guarda, si direbbe che non mi vede. Così mi tocca
star tutto il giorno testa testa coll'uno o coll'altro di questi due
vecchi, uggiosi tutti e due da stancare quanti hanno avuto il vanto
della pazienza da Giobbe in poi. E ispirano anche più stizza che uggia.
Lui è ispettore del Demanio, in vacanza; cavaliere. Pianta, quattro
stanghe in uno di quei busti di legno dei barbieri da contadini, e
n'avrai un'immagine; grande gravità, grande albagìa, gran testa di
legno, ignorantissimo e vanissimo; di quella vanità goffa e meschina
che matura specialmente negli uffizi governativi. Fondi un usciere
presuntuoso con un sindaco di villaggio che la pretenda a grand'uomo:
n'esce lui con quel palo in corpo, con quelle gote gonfiate, con
quel perpetuo sorriso di pietà. È cortese; ma di quella cortesia che
si crede necessaria come velo modesto dell'importanza, e affabile
temperamento dell'autorità; cortesia che casca giù dall'alto, e dice:
— Mi degno. — Credo che abbia poco cuore, o che il cuore gli si sia
intorpidito, per disuso. E la sorella, peggio. Di figura, è una megera;
e anche più d'anima, se l'ha; di qualche anno sopra la cinquantina;
secca allampanata, tutta punte, con una faccia bronzina, di quelle
faccie lucide che par che ci abbian dato una mano di vernice. Il
carattere l'ha tutto espresso nella bocca; la quale non è una bocca,
ma un taglio lungo e sottile, fatto con una temperinata, sempre chiuso,
anche quando parla, ch'è di rado, grazie al cielo. È vedova anch'essa,
come suo fratello, e fortunati i morti: ma credo che non se ne sia mai
accorta, non deve aver mai sentito nulla, è un foglio di cartapecora
male incartocciato; e poi lunatica, inquieta e brontolona. In verità
io non so capire perchè lì dentro ci debba essere un'anima immortale!
La sera egli scrive le sue cose d'ufficio, la sorella fa la calza,
io suono il pianoforte, leggo, parlo; nessuno dei due alza la testa;
solamente lui, di tratto in tratto, mi dà un'occhiata di sopra gli
occhiali, e con quel suo odioso sorriso protettore mi risponde. —
Sicuro! — e daccapo a scrivere. Credi, mi sento brulicar qualcosa su
per le dita....„ La lettera era sottoscritta Riconovaldo.


IV.

Di là a due ore la carrozza ricomparve dinanzi alla villa. Il gonfio
ispettore, sceso in fretta pel primo, porse una larga mano rugosa, in
cui s'immerse e disparve la manina bianca di una bella signora, che
saltò giù con un atto molle ed elegante. Poi smontò la zia, respingendo
l'aiuto offertole dalla donna di servizio, poi Candida. Tutti insieme
entrarono in un'allegra stanza a terreno, che serviva da salotto da
pranzo, e si buttarono sulle seggiole e sulle poltrone, rifiniti dal
caldo.

— Dunque, — domandò la signora appena ripreso fiato, scotendo e
ravviando con tutt'e due le mani la sua folta capigliatura bionda; —
dov'è questo ragazzo?

— A proposito, e Furio? — domandò il padre alla zia. — Come non è qui?
Furio! — gridò affacciandosi alla finestra.

E la zia di sulla porta: — Furio! —

— Ora lo vado a pigliar io, — borbottò montando la scala; —
malcreato! —

Ci fu qualche minuto di silenzio; si sentì sopra il passo affrettato
della zia, poi lo scoppio della sua voce, poi un altro rumor di passi
più fitto, e poi di nuovo giù per le scale una sfuriata di acerbe
parole:

— Vanitoso sciocco! — gridava la vecchia, fermandosi ad ogni scalino,
e ripigliando fiato a ogni parola; — guardate se par possibile! Un
ragazzaccio di quindici anni! Per sua cognata, poi! E mentre stanno giù
ad aspettarlo!

— Che cos'è stato? — domandò il padre sbadatamente.

— Figuratevi, — rispose la zia, ferma sulla porta, come per impedire
al ragazzo di entrare prima ch'essa avesse finito la sua invettiva;
— vado su, m'avvicino in punta di piedi alla sua camera, e me lo
vedo là, con uno specchio davanti e uno di dietro, che si lisciava i
capelli come un damerino, e aveva messo sossopra ogni cosa: biancheria,
panni, spazzole, saponi, boccette; pareva il cassettone di una
sposa.... —

La signora rideva.

— Ma questo non è nulla, — proseguì la zia, dando un'occhiata verso la
scala, dove la povera vittima stava aspettando; un puzzo indiavolato di
sigaro, da non poterci respirare: ha fumato!

— Oh! — interruppe il padre fingendo un atto di collera.

— Ma gli ho dato una lezione! — la vecchia riprese, e faceva l'atto di
dare uno schiaffo; e poi, rivoltandosi verso la scala: — Animo, avanti!

Il povero ragazzo, che aveva sentito tutto, veniva giù adagio adagio,
umiliato, confuso, coi capelli in disordine, con una vecchia cacciatora
indosso, chè la zia non gli aveva lasciato tempo di mutarsi, senza
solino, senza cravatta, come un povero. Arrivato sulla porta, la zia
lo cacciò dentro con uno spintone; egli si trovò davanti alla signora
che gli era venuta incontro; la guardò, la vide ridere, si fece color
del fuoco, si sentì mancar la parola, abbassò la testa e stette lì
immobile, col respiro sospeso, nell'atteggiamento d'un condannato.

— Saluta dunque la cognata! — disse la zia.

— Signora!... — mormorò egli con un fil di voce; ma non gli riuscì di
alzare la testa.

— Signora! — ripetè la vecchia spietata contraffacendolo; — e non hai
nient'altro da dire a tua cognata? alla sposa di tuo fratello, che non
hai mai veduta? Bell'accoglienza da fare a una parente! Compatitelo,
Iride, è un ragazzaccio zotico, è sempre stato in campagna, non ha mai
visto nessuno....

— Eh, già, — soggiunse il padre guardando fisso Furio, come avrebbe
guardato un gatto imbalsamato dentro una vetrina, — già, a quell'età
siamo stati tutti così, non si sa nè muoversi nè parlare; ma poi, col
tempo....

— Costui non cambierà, sai; — la zia soggiunse, — è impossibile; si
vede proprio che non c'è nato.

— O perchè? — disse la signora con un accento amorevole di difesa.

E tutti e tre continuarono a guardarlo. Oramai la vergogna del povero
Furio faceva pietà, il sangue gli era salito al viso tanto che gli
occhi ne parevano velati, la testa gli pesava come se fosse di piombo;
si vedeva che soffriva. La signora se n'accorse, si voltò da un'altra
parte ridendo, e mutò discorso. Furio scomparve.

Ma bravo! Era un mese che vi rallegravate al pensiero che una bella
signora sarebbe venuta a rompere la monotonia uggiosa delle vostre
ferie campestri; un mese che andavate fantasticando i discorsi che le
avreste fatti e le cose carine che v'avrebbe risposte; un mese che,
passando davanti allo specchio, vi fermavate, e non andavate più al
sole per non farvi più nero; un mese che vi logoravate i denti colle
polveri, la testa coi pettini e l'unghie colla limettina; un mese
che vi lamentavate colla sorella dei vostri vestiti, che vi parevan
grossolani e disadatti, e avreste voluto aver tutto bello e fine per
far onore all'ospite aspettata; un mese che contavate i giorni e le
ore che dovevan passare prima ch'ella arrivasse, e vi promettevate
che sareste stato con lei amabile e gentile, e le sareste riuscito
simpatico, e vi sareste fatto voler bene; ed ora, al momento di
cominciare, vi presentate in quel modo, colla impronta d'un ceffone
sul viso, colla testa irta come un'istrice, vergognoso, muto e cocciuto
come il più tanghero scolaretto del vostro Ginnasio!

Fu un momento molto amaro pel povero Furio. Uscito di casa, s'andò a
gettar sotto un albero, col cuore stretto e gli occhi pieni di lacrime,
sdegnato contro di sè, contro la cognata. contro tutti. — Non voglio
più comparire davanti a quella signora, — diceva tra sè; — soffro
troppo a far di quelle figure, mi sento venir male, non vado più,
piuttosto scappo, tanto non mi vuol bene nessuno. —

In quel punto una voce stridula in tono di comando si fece sentir dalla
villa: — Furio, a colazione!

Furio si sentì rimescolare il sangue, balzò in piedi, e così nel primo
impeto dello sdegno rispose con voce soffocata: — No! —

E si slanciò per fuggire: fu trattenuto. Era Candida.

— Candida, sei tu! — esclamò il ragazzo con voce commossa.

Candida gli aperse le braccia, e Furio vi si gettò trattenendo a stento
un singhiozzo.

Candida era buona e lo amava.


V.

Quei tre o quattr'anni che passano tra l'infanzia e la giovinezza, son
pieni di sconforti e di malinconie, come quando si comincia a sentir
che s'invecchia. L'anima, smaniosa di affollarsi alla vita, se la vede
chiusa da ogni parte, e si dibatte in una prigionìa affannosa. Come
il germe, a primavera, tenta la scorza che lo ravvolge, e s'agita
impaziente, così in quegli anni l'uomo si sente chiuso nel ragazzo,
e ne freme. Ha bisogno d'aria e di luce, e vorrebbe levarsi a volo;
e urta le ali nelle pareti domestiche, e le ripiega rintuzzate e
dolorose. Vede sotto di sè un piccolo mondo di bambini, dove si
gioca, si ride, si canta, si folleggia, e non vi può più discendere;
vede di sopra un altro mondo più vasto, dove si pensa, si lavora, si
combatte, si ama, e non vi può ancora salire. Intravvede già, come
dietro un velo, la donna, bella, cara e misteriosa, argomento segreto
di desiderio e di sogno; e la donna si china a baciare i bambini, si
volta a guardare gli uomini, e a lui passa accanto, e non lo vede. Egli
vorrebbe attirare quello sguardo, parerle bello, piacerle; e non è che
un bambino allungato, con una grossa testa su due spallucce misere,
e un busto cascante su due stecchi di gambe, da cui saltan fuori due
ginocchioni angolosi. Sente i primi stimoli della vanità, vorrebbe
esser ben vestito, elegante: e gli fanno portare i panni smessi di
suo fratello maggiore, e gli taglian le cravatte nei vestiti vecchi di
sua sorella, e non si fidano ancora di lasciargli in mano l'orologio.
Vorrebbe esser preso per un ometto e contar per qualcosa; e se apre la
bocca in mezzo alla gente, o dice una freddura, che cade inosservata,
o dice uno sproposito, e gli dan sulla voce. Vorrebbe essere garbato
e piacevole; e se capita in un salotto non sa come rigirarsi, urta in
una seggiola, mette i piedi sullo strascico di una signora, e pesta
un callo al padrone di casa. Vorrebbe esprimere quel che gli bolle
dentro, aprire il suo cuore, sfogarsi; e scrive versi che fanno ridere
il maestro, e il babbo glieli strappa di mano, e gli mette sotto il
naso un trattato d'aritmetica. Vorrebbe agitarsi, svagarsi, girare,
veder cose nuove; e deve tornare a casa alle otto a scartabellare il
dizionario latino, in un cantuccio della sua stanza, solo, mentre sente
il fruscìo dei vestiti delle sue sorelle, che si preparano pel teatro
o pel ballo. Sconfortato, umiliato, ora s'insinua in mezzo alla gente
per implorare uno sguardo e un sorriso; ora si chiude in sè stesso,
indispettito e selvatico, e come stanco degli uomini e della vita. E
allora seguono le lunghe ore di solitudine passate alla finestra, di
notte; o in campagna a guardare tra i fili dell'erba; e la sua fantasia
viva e irrequieta si slancia avidamente in un avvenire sconfinato
ed arcano, pieno di grandi disegni e di grandi speranze. Allora
egli si finge una vita a modo suo; casi mirabili e strani, lotte,
pericoli, trionfi, viaggi, aurore di cieli ignoti, e vasti giardini
taciti, popolati di fantasime care. Ma poi quella splendida visione
lo rattrista e lo stanca, ed egli riabbraccia con impeto la vita; si
rigetta in mezzo allo strepito dei sollazzi infantili; se ne sdà, non
pago, e si volge appassionato agli studii; irrequieto, li abbandona, e
cerca il riposo dello spirito nelle fatiche smodate del corpo; il suo
mondo fantastico gli si mescola nella mente col reale, e lo assalgono
nelle tenebre improvvise paure, da molto tempo perdute; terrori
religiosi impensatamente ridesti; poi freddezze feroci che gli armano
la mano contro gli animali innocenti, e ardimenti insensati che lo
spingono sull'orlo dei tetti e sulla cima degli alberi; poi malinconie
profonde che gli fanno cercar le braccia della madre, e piangere sul
suo seno lacrime calde e pacificatrici.

L'eccessiva timidezza di molti ragazzi di quell'età proviene appunto da
ciò, che essi hanno dentro tutto quel tumulto di pensieri e d'affetti,
e voglion tenerlo celato, e treman sempre che altri lo scopra, e li
stimi più ragazzi di quel che sono; essi medesimi credono che quello
sia un resto di fanciullaggine, e se ne vergognano; mentre è invece la
prima scintilla della giovinezza che li feconda e li trasforma.


VI.

Furio era appunto in su quegli anni; e di natura caldo e tenerissimo,
ne sentiva più che altri le inquietudini. Ma non aveva più madre,
egli che ne avrebbe avuto bisogno più d'ogni altro; e suo padre per
lui non contava nulla. Suo padre non lo capiva; lo credeva un ragazzo
mal riuscito. Accortosi fin dai primi saggi della scuola che in lui
non c'era la materia di un burocratico, nè d'un banchiere, nè d'un
appaltatore di strade ferrate, e persuaso che fuor di lì non ci
fosse salute, aveva detto tra se: — Farà quel che potrà; — e l'aveva
abbandonato al suo destino, per rivolgere tutti gli affetti e tutte le
cure al fratello maggiore, figlio della sua prima moglie, ingegnere,
uomo della sua stampa, o presso a poco. A chi gli domandava come
riuscisse negli studii il ragazzo, egli rispondeva in tono trascurato
o compassionevole, agitando la mano aperta dinanzi alla fronte: —
È una testa un po'... vaga, tende al vago, non si ferma sulle cose,
non le approfondisce.... — E non lo amava; era una creatura troppo
diversa da lui; egli credeva sinceramente che facesse torto alla sua
prosapia. Invece Furio aveva ingegno; ma ne aveva tanto che non se
ne potevano accorgere alla scuola; e poi non c'era chi l'animasse
a studiare. In casa, ogni suo sfogo di affetto e ogni sua scappata
fantastica erano stati presi, fin dai primi anni, più come indizii di
vocazione drammatica o di istintiva goffaggine, — erano incerti fra
i due, — che come manifestazioni di buon cuore e d'ingegno. La zia lo
aveva avuto sempre per uno stupido, e perchè lui, umiliato e tormentato
di continuo, non le voleva bene, anzi l'aveva in uggia e gliene dava
segni chiarissimi, così essa lo credeva anche perverso, e sempre più
inasprendosi, sempre più l'inaspriva. E Furio, chi l'avesse saputo
intendere ed amare, sarebbe stato un buonissimo ragazzo; ma per quei
due vecchi gretti e diacciati egli era quel che per la gente ignorante
sono certi geroglifici orientali, che chiudono una bella sentenza, e
son presi per uno scarabocchio di ragazzi.

Aveva una corporatura superiore all'età sua; ma benchè, a primo
aspetto, gli si dessero due o tre anni di più, chi appena lo guardasse
in viso, vedeva che era ancor fanciullo. Con altri parenti sarebbe
stato bello: non già che non fosse; ma, cresciuto sotto quella dura
persecuzione della zia, aveva preso a poco a poco una cert'aria cupa
e sospettosa, che gli stava male. Pareva sempre che ruminasse qualche
cosa di cattivo. Il sole della campagna l'aveva fatto bruno come un
soldato. Era sottile, ma robusto, e un po' curvo di quella cascaggine
naturale agli anni di grandi cresciute. Aveva una capigliatura folta
e sempre scomposta che gli cascava sulla fronte, e ch'egli ributtava
indietro con un atto vigoroso del capo, come il cavallo la criniera. E
quando non aveva dentro il dispetto o l'amarezza di qualche sfuriata
della zia, gli occhi gli splendevano pieni di dolcezza, e le labbra
grosse e vermiglie gli si aprivano ad un sorriso così tra l'affettuoso
e il melanconico, che spiccava più caramente su quella sua fisonomia
risentita e quasi rozza. Aveva due grandi mani che teneva sempre
nascoste; e si vergognava del suo vestire, chè non sapeva mettersi
niente addosso, e la roba gli si affagottava e gli scappava da tutte le
parti.


VII.

Furio, pregato e ripregato da Candida, acconsentì d'andare a far
colazione cogli altri. — Animo, Furio, — gli diceva la sorella mentre
andavano, e l'accarezzava, — asciugati bene gli occhi, che nessuno
s'accorga di nulla, e non ti pigliar soggezione della cognata, ch'è una
donna alla buona, e ti vuol bene, e non badare alla zia. — Ma Furio,
via via che si avvicinava alla villa, si sentiva mancare il cuore, come
se andasse alla tortura. Entrò ch'erano già a tavola, sedette senza
guardar nessuno, e cominciò a mangiare cogli occhi bassi. Parlavano
del fratellastro. Suo padre interrogava Iride d'un certo progetto di
ponte, ch'essa non aveva mai sentito nominare. La zia le domandò quando
sarebbe arrivato suo fratello, ed essa rispose che sarebbe arrivato
fra tre giorni. Entrarono in altri discorsi, e Iride cominciò a parlare
quasi sempre lei sola. Furio, cogli occhi sul piatto, non movendosi se
non quanto bisognava per mangiare, la stava a sentire tutto intento e
maravigliato. Aveva una curiosa maniera di parlare. A momenti faceva
una vocina di bimba, lenta e soave; a momenti parlava lesto e tronco
come un soldato; era un discorrer tutto a salti, con mille variazioni
di tono, ora allegro, ora serio, ora annoiato, e poi certe risate
improvvise e sonore, che non si capiva come c'entrassero; e certe
mosse, certe scrollate di spalle, certi colpi della mano sulla tavola;
pareva che avesse addosso l'argento vivo, e le frullassero pel capo
cento capricci il minuto.

Quando stavan per finire, Furio, un po' incoraggito che l'avevan
lasciato in pace fino allora, risolvette di guardar sua cognata.
Cominciò a spinger gli occhi innanzi fino a guardarle le mani: erano
piccole e bianche come le mani d'una bambina; poi si fece animo ancora,
e sollevò lo sguardo.... Cielo, che angelo!

— Non credevo che fosse già così grande, — uscì a dire la signora.

Furio si sentì un tremito e abbassò il volto; tutti gli occhi, fuorchè
quei di Candida, si fissarono su di lui.

— Oh! per lungo è lungo, — disse il padre, guardandolo con quella sua
aria di compatimento.

— Le male erbe crescono, — soggiunse la zia.

Furio era rosso come una fragola.

— E come è bruno! — osservò Iride.

— Bruno? — rispose la zia; — bel bruno! nero come un beduino. —

Il padre rise, Candida s'alzò. Furio, colle sopracciglia aggrottate, e
un labbro stretto fra i denti, fissava le punte della sua forchetta.

— E guardate che mani! — disse ancora la zia, pigliandogli una mano per
mostrarla a Iride.

Furio diventò pallido, strinse il pugno, e lo svincolò bruscamente.

— Eh! — gridò la zia, alzando una mano; Furio si schermì il viso col
braccio; la mano scese, Candida la fermò; in quella s'udì fuori il
rumore d'una carrozza e il suono d'una voce.

— Riconovaldo! — esclamò Iride, balzando in piedi. Riconovaldo era già
nel salotto; tutti, fuori che Candida, gli corsero incontro. La bella e
serena figura di quel giovane esercitava un tale fascino, che, al primo
vederlo, persino il padre e la zia, per lo più duri e freddi, fecero
un atto di allegrezza. Iride gli saltò al collo, e Furio, ancora tutto
turbato, gli strinse la mano.

— E Candida? — domandò il giovane, guardando intorno.

Candida venne avanti lentamente e gli porse la mano con aria
d'indifferenza.


VIII.

Furio non aveva mai visto tanto da vicino una signora così bella;
ragazzine sì, ma alla sfuggita, e poi sopra un giovinetto della sua età
le ragazzine non fanno molta impressione, perchè non gli paiono ancora
donne: le signore, invece, insieme con la intera grazia femminile hanno
tutte per lui qualcosa del fascino delle regine. Furio passeggiava pel
giardino, pensieroso. Aveva sempre dinanzi quel viso e quei due occhi
grandi e celesti che s'erano incontrati coi suoi. — Che bella signora!
— diceva a mezza voce, col tono di chi fa un complimento. E poi rideva
e ripeteva le parole e gli accenti di lei che lo avevano tanto colpito,
e soggiungeva: — Curiosa! — Le foglie stormivano e gli pareva come di
sentirsi alle spalle il fruscìo del vestito d'Iride. Uscendo dalla
villa, le era passato vicino, quasi da toccarla, e aveva sentito un
leggero profumo, e gli pareva che quel profumo gli fosse venuto dietro
e l'accompagnasse. Sedette all'ombra d'un albero, e disse a bassa voce
quasi senza accorgersene: — Mammina. — Subito si domandò come gli fosse
venuta sulla bocca quella parola, e rispose a sè stesso: — Sì.... se
essa fosse mia madre.... — Pensò un momento, e si meravigliò di trovar
così poco gusto in quel pensiero; benchè Iride, ch'era sui trentanni,
avrebbe ben potuto esser madre di lui che n'aveva quattordici. E
poi pensava quanto sarebbe stato felice se Iride gli avesse voluto
bene come a un fratello; ma era impossibile. — Se una volta fosse in
pericolo, — uscì a dire, — se cadesse nel lago (sul confine del podere
c'era un lago) e io le salvassi la vita! — Poi rise e soggiunse: —
Ma perchè dovrebbe cadere nel lago? — Pensava come a una cosa strana
che Iride aveva un marito, e che questo marito era suo fratellastro,
e che non era bello. — La comanda? — domandò a sè stesso con grande
curiosità. E fantasticava che mai si dovessero dire quando eran soli:
se il marito le facesse delle carezze, e lei che cosa diceva allora.
Accanto a lui c'era un fiore di campo, alto e diritto, e il vento ora
lo piegava lentamente, ora senza piegarlo lo scoteva tutto, che pareva
una persona irrequieta. Furio l'osservò e disse: — Sembra Iride. — Poi
si spinse innanzi sulle mani e sulle ginocchia, e si specchiò in un
ruscello che passava per di là. Rialzò la testa e si guardò una mano,
di sopra e di sotto, e sospirò. Tutt'a un tratto si levò in piedi e si
mise a correre pei campi.


IX.

Iride e suo fratello erano nel salotto da pranzo, soli; Iride, seduta
vicino alla finestra, in modo che se ne vedeva la testa dal giardino. —
Curiosa quella Candida, — diceva Riconovaldo; — ha qualcosa di sua zia;
vedesti come m'ha ricevuto? La stessa scena dell'anno passato.

— Le avevi fatto qualcosa? — domandò la sorella.

— Nulla, sono stato qui dieci giorni e non le ho parlato che tre o
quattro volte; si vede che non le vado a genio.

— Vorrei vedere! — rispose Iride con un sorriso.

In quel punto entrò Candida col lavoro in mano e andò a sedere accanto
a Iride, senza alzare gli occhi. Iride e il fratello si ricambiarono
uno sguardo. Questi stava in piedi, appoggiato alla tavola, a un passo
dalla seggiola di Candida.

Riconovaldo le domandò che cosa facesse; essa, senza alzare gli occhi,
gli porse il ricamo.

— State tutto il giorno in casa? — ridomandò il giovane, dopo aver dato
un'occhiata al lavoro.

— Quasi, — rispose Candida.

— Passeggerete la sera; il giardino è bellissimo: andate a passeggiar
tutti insieme, o voi sola? M'immagino che conosciate qualche vicino.

— Una volta; ora son mutati quasi tutti, e non si conosce più nessuno.

— Nessuno! E come passate tutta la giornata? Vi occuperete molto dei
fiori; ho visto che n'avete il terrazzino pieno.

— Sì.

— E infatti i fiori....

Iride s'accorse che suo fratello, punto di quella freddezza, stava
per isnocciolare un complimento di cattivo gusto, e glielo ricacciò in
bocca con uno sguardo.

Allora egli prese un panchettino, lo portò dinanzi a Candida, e
sedette, in modo che veniva a riuscir colla testa poco sopra alle
ginocchia di lei; e lei, se poteva ancora non guardarlo, non poteva più
non vederlo, perchè aveva proprio la sua fronte a un palmo dalle mani.
Candida corrugò leggermente le sopracciglia.

— Stasera ci condurrete a vedere il giardino, non è vero? — domandò il
giovine; — verrete a fare un giro con noi.

— Se vi piace, — essa rispose.

— E a voi non piace? —

Candida non rispose.

— Sì o no?

— Sì. —

Riconovaldo diede un'occhiata a sua sorella, che significava: — Vedi?
Non avevo ragione di dire che non mi può vedere? —

Subito dopo fingendo di voler guardare da vicino il ricamo, abbassò la
testa in maniera che i suoi bei riccioli biondi toccarono le mani di
Candida. Essa le ritirò subito e fece l'atto di alzarsi.

— Ve n'andate? — domandò il giovine stupito.

— No, — rispose, — volevo solamente alzarmi — e risedette spingendo
indietro la seggiola.

In quel punto un soffio di vento portò via di sulla finestra il
fazzoletto d'iride, e lo spinse nel giardino; essa non se n'accorse.

— Vi do noia, Candida? — domandò con affettata dolcezza Riconovaldo.

— Perchè noia? — rispose Candida in tono distratto; — io non m'annoio
mai quando lavoro.

— Temevo.... Vi dispiacerebbe ch'io sonassi? —

— Non c'è motivo perchè mi debba dispiacere.

— Ma io desidererei d'esser certo che vi piace.

— Ebbene, mi piace.

Il giovane s'alzò indispettito, andò a sedere al pianoforte che era in
un angolo del salotto, e cominciò a sonare con molta vivezza e molta
grazia. Iride guardava Candida per vedere se la musica le facesse
qualche effetto; ma il suo viso era sempre impassibile; continuava
a lavorare colla testa bassa, senza neanco dar segno di sentire. A
un tratto Riconovaldo si fermò, si voltò a guardarla, diede un colpo
stizzoso sulla tastiera e s'alzò esclamando; — È un'indegnità... questo
pianoforte.

— Con permesso, — disse allora Candida, e se n'andò lentamente e
freddamente come era venuta.

Il giovane rimase in mezzo al salotto colle braccia incrociate sul
petto e gli occhi fissi alla porta per dove Candida era uscita. Iride
diede in uno scroscio di risa.

— In verità, — uscì a dire il fratello, — io non ci capisco nulla!

Poi gli balenò un'idea: Ch'io le paia stupido! — E restò pensieroso:
una volta entratogli nella testa quel sospetto, per lui era finita:
addio serenità.

— Ho perduto il mio fazzoletto, — disse Iride guardandosi intorno. Poi
corse alla finestra, e guardò fuori, non c'era più.


X.

Furio non tornò in casa che all'ora del desinare. La scena dolorosa
seguita a tavola la mattina gli aveva messo nel cuore molta amarezza, e
gliene restava ancora, e con questa, più che mai, la vergogna; ma pure
egli aveva sul viso qualcosa di sereno, e Candida, vedendolo, se ne
accorse e se ne rallegrò segretamente. Il desinare passò per lui senza
gravi accidenti. Solamente Riconovaldo, che gli era vicino, di tratto
in tratto gli batteva la mano sulla spalla, dicendogli: — Ebbene,
giovinotto? — E allora tutti gli occhi gli si fissavano addosso, e
lui avrebbe voluto sprofondare sotto terra; ma il giovine, vedendolo
arrossire e confondersi, sviava pietosamente il discorso, e col
discorso gli occhi fulminei della zia. Iride era vivacissima, e parlò
molto e di molte cose; in ispecie di certi intrighi di famiglie sue
conoscenti, con una libertà di osservazioni e di parole, che fece più
volte torcer la bocca a suo fratello, corrugare la fronte a Candida, e
inarcare le ciglia alla zia. Due o tre volte il padre, discorrendo con
lei, tirò il discorso sopra suo marito; ma essa lo lasciò cadere con
estrema indifferenza. Quando s'alzarono da tavola, aveva il viso rosso
che pareva un fiore.

Pioveva; stettero tutta la sera nel salotto. Furio, mezzo nascosto
in un cantuccio, al buio, poteva guardar bene sua cognata senz'esser
veduto, e ne profittò, tenendole gli occhi addosso tutta la sera,
sempre più meravigliato di quel suo parlare e di quei suoi modi tanto
lontani da tutto quello ch'ei si fosse mai immaginato delle signore.
Era grande, diritta e leggera come una figura d'arcangelo. Alle volte
s'alzava di scatto da sedere, e attraversava a passi lenti il salotto
colla testa alta, scotendo le spalle con un certo garbo trascurato,
ma pieno d'alterezza, che pareva una regina capricciosa. Non trovando
qualche cosa che cercasse, si mordeva la punta d'un dito, incrociava
le braccia sul seno, dava in certi atti d'impazienza febbrile, che
pareva una bambina stizzita. Faceva poi tratto tratto un certo suono
colle labbra come soleva Furio alla scuola per far andar in bestia il
maestro. A momenti, mentre lavorava, socchiudeva gli occhi e sporgeva
il labbro di sotto come in atto di disprezzo; poi dava in una risata
sonora, accorgendosi di aver fatto uno sbaglio nel suo lavoro, e nel
ridere piegava all'indietro la testa come se qualcuno gliela tirasse
giù per le trecce. Era di carnagione bianchissima, e aveva le labbra
sporgenti e rosse, che tormentava continuamente coi denti. Suo fratello
aveva un piccolo cane; essa di quando in quando gli stringeva il muso
con una mano, e chinandosi come per guardarlo negli occhi, gli diceva
coi denti serrati: — Caro! —

Il padre leggeva un giornale, la zia faceva la calza, Candida teneva
un libro in mano senza mai alzar gli occhi; tutti, tranne Furio, erano
seduti intorno alla tavola grande, rischiarati da un lume solo. Quei
due bei giovani, in mezzo a quell'altre figure, facevan l'effetto
che fanno a prima vista nello studio di uno scultore due belle statue
finite in mezzo a molti abbozzi di creta.

— Non c'è dubbio, — diceva tra sè Riconovaldo, guardando Candida
alla sfuggita; — è così: — e l'immagine di quel tal fantoccio di cui
aveva parlato alla sua padrona di casa, gli ballava davanti con una
persistenza spietata. — Oh! ma gliela farò vedere! Stupido del tutto
non lo sono, per Dio! — Prese un giornale, lo scorse, lesse due o tre
righe di un articoletto che parlava d'Istituti d'educazione, e uscì a
dire coll'accento di chi propone una quistione:

— Io credo che i ragazzi e le ragazze dovrebbero essere educati
insieme; andare a scuola, studiare, divertirsi sempre insieme, alla
rinfusa, come se non ci fosse differenza di sesso.

— Come! — esclamarono ad una voce i due vecchi, spalancando gli occhi.

— Sicuro, — egli rispose, e poi tra sè: — Ora è il punto di farle
vedere che non sei quel che le pari; — sicuro; ma per capire questo
principio bisogna capire i ragazzi, se no, è inutile; e i ragazzi
c'è molti che non li capiscono, perchè per capirli bisogna studiarli
e per studiarli bisogna amarli, e per amarli bisogna aver qualcosa
qui, e molti qui non ci hanno nulla. Ma io credo che se spesso c'è
da lamentare che gli uomini e le donne stanno male insieme da grandi,
sia perchè non sono stati punto insieme da bambini. Curiosa questa di
tenerli divisi nei primi anni con tanto scrupolo, mentre poi hanno
da passare la vita uniti! Succede che la forza che li spinge gli
uni verso gli altri, quanto più è frenata, più cresce, e poi quando
s'allenta la mano, la congiunzione si fa con violenza, ed è male; come
i ragazzi quand'escon di collegio che in un mese di scioperataggine si
rifanno delle privazioni di dieci anni. Dicono: mandiamo i ragazzi a
scuola dove imparano a conoscer per tempo gli uomini, chè la scuola è
un'immagine della società. Bell'immagine della società se non c'è la
molla, che è la donna! E poi se non si piglia per tempo quel non so che
di fine e di morbido, direi quasi, nei modi e nel parlare, che ci vuole
per stare in mezzo alle donne per bene, è difficile che si pigli in
seguito; qualcosa di ruvido e di volgare resta sempre. Bisogna imparar
presto a conoscere il verso del sesso gentile, se no poi, quando c'è
di mezzo la passione, non se ne cava più un costrutto, e si vede degli
uomini con tanto di barba, dei talentoni, che colle donne fanno una
figura compassionevole, perchè si trovano come ad avere in mano uno
strumento misterioso senza sapere da che parte rigirarlo. Per me, son
fortunati quelli che vennero su da ragazzi in mezzo a un esercito di
cugine: hanno tutti qualcosa di gentile o di dentro o di fuori. Messi
in compagnia delle bambine, i ragazzi si studierebbero di piacere,
senza nemmeno sapere perchè, e piglierebbero quelle maniere garbate e
cortesi, che a poco a poco diventano qualità dell'animo. Anche quella
libertà trascurata del parlare, che poi si muta in abitudine e non si
perde più, credo che sarebbe un po' corretta, e sarebbe un gran bene.
Ma poi, guardate anche un bambino d'ott'anni, quand'è con una bambina
di sette: gli si sveglia subito un certo sentimento di superiorità
protettrice, che gli dà qualcosa di generoso e lo inorgoglisce. Così
per me non c'è nulla di più caro di quell'aria di donnina savia che
piglia una bambina, quando passeggia a braccetto d'un ragazzo dell'età
sua. Nell'uno come nell'altro sentimento v'è un germe di virtù che
quanto prima fiorisce, tanto meglio. E appunto in questo modo io credo
che si ritardi il progresso di certe idee, perchè l'immaginazione
lasciata sola divora presto la strada, e il ragazzo che fantastica la
donna da sè, nove volte su dieci la guasta. Educazione comune: io son
di questo parere. Poi si diventa grandi, si va lontano, si dimenticano
a poco a poco i nomi e i visetti delle compagne d'infanzia; ma si
vedono sempre, in confuso, tutte quelle testine bionde; e in mezzo alle
tempeste della vita quelle manine ci salutano da lontano. Io da ragazzo
picchiai per la strada un monello più forte di me, perchè aveva toccato
un ricciolo a mia cugina, mentre l'accompagnavo a scuola; vi giuro che
questo ricordo m'ha salvato dal far più tardi parecchie bricconate. Che
cosa ne dite? —

Qui tacque, e guardò Candida; ma essa aveva abbassato tanto la testa,
e non potè vederla in viso. — Mi pare che tu abbia ragione — gli disse
la sorella, che non gli aveva affatto badato; la zia restò muta; il
vecchio fece il suo solito risolino di consenso benevolo, e brontolò: —
Sì... c'è qualcosa di vero.

— Furio! — disse a un tratto Iride.

Furio balzò in piedi.

— Mi son cadute le forbicine.

— Eccole, — disse Furio porgendogliele ed aveva il viso acceso. Iride
prese le forbici, lo guardò e disse tra sè: — Curioso!

— Sciocco! — soggiunse la zia, che pure lo guardava.

E Riconovaldo, pronto: — Caro! — e lo baciò.

E così i due vecchi incartapecoriti toccarono la loro prima sconfitta.


XI.

La mattina dopo, Candida tirò in disparte suo fratello e gli disse con
piglio amorevole:

— Perchè ti confondi in quel modo, quando Iride ti guarda o ti parla?
Che c'è da vergognarsi? Non sta bene; chi sa che cosa le farai
pensare... Le farai pensare che sei cattivo, perchè sono soltanto
i ragazzi cattivi che si vergognano. Bisogna che tu sia un po' più
disinvolto; è una tua parente, in fin dei conti, è tua cognata e
— accentuando le parole — potrebb'essere tua madre. E poi non istà
neanche bene guardar la gente così fisso, che pare non si sia mai visto
nessuno; e tu ieri sera la guardavi così; e dovresti invece tenerla
come una sorella, con cui fossi sempre vissuto insieme, e portarti con
lei come ti porti con me. —

Furio, a cui non passava per la mente che sua sorella gli avesse letto
nell'anima, intese quelle sue parole alla lettera, e rispose: — Sì, — e
poi domandò ingenuamente; — Ma tu perchè non guardi mai Riconovaldo, e
quando parla non lo stai nemmeno a sentire?

— Perchè... —

Mentre Candida cercava una risposta, comparve Iride con un vestito
scollato di mussolina bianca, che lasciava vedere le sue spalle
bianchissime. Candida fece un segno impercettibile di maraviglia
spiacevole e guardò Furio. Furio vide in confuso qualche cosa di
bianco, e disparve.


XII.

Poche ore dopo, Iride stava appoggiata a una finestra del salotto da
pranzo, colle spalle volte alla campagna, e diceva: — Ma che proprio
non ci sia modo di sfranchire un pò questo ragazzo? — In quel momento
sentì il passo di Furio che scendeva le scale, e soggiunse subito: —
Ora mi ci metto io. —

Furio entrò di corsa, credendo che non ci fosse nessuno; appena
entrato, si fermò.

— Vieni qua, — disse risolutamente Iride, vedendo ch'egli si voltava
per tornare indietro.

Furio la guardò stupito.

— Qua, — ella ripetè in tono scherzevole di comando; Furio, adagio
adagio, le venne vicino.

— Ancora, — soggiunse Iride sorridendo.

Furio s avvicinò fino quasi a toccarla, col viso acceso, cogli occhi
bassi, colle sopracciglia corrugate che pareva che soffrisse: non
aveva che un leggiero sorriso sulle labbra, forzato, tanto per non
parere un orso addirittura. Iride lo guardava con un'attenzione piena
di curiosità, come per leggergli dentro, chè quella confusione le
cominciava a parere strana davvero.

— Dove andavi? — gli domandò dolcemente, dopo un po', togliendogli
di sulla manica della giacchetta un non so che di bianco, rimastovi
appiccicato. Furio seguì con occhio attento e stupito quella mano, e
poi rispose timidamente:

— In giardino.

— Sul lago? — dimandò essa di nuovo, come distratta, per dare al
dialogo un certo tono di famigliarità; e si chinò a guardargli l'altra
manica, come se vi avesse visto una macchia. Furio intravvide di su
in giù quello stupendo volume di capelli biondi, e rispose con voce
malferma:

— ... Sul lago.

— Ma guardami dunque! — esclamò Iride con allegra vivezza; — ti faccio
paura? —

Furio si scosse e le lanciò uno sguardo che voleva dir cento no,
franchi, sonori, risoluti; poi riabbassò gli occhi più confuso.

— Oh che strano ragazzo! — proruppe Iride con uno scoppio di risa; e
piegando all'indietro la testa e giungendo le mani, scopriva tutto il
collo bianco e le braccia bellissime.

— Ma perchè non ti pettini mai?

— ... Mi pettino, — rispose balbettando il ragazzo.

— Ma sei sempre così arruffato! — soggiunse Iride, e gli passò una mano
sul capo. Furio diede un guizzo, piegò sotto come una verga di giunco,
e il suo rossore disparve.

— E adesso? — dimandò la signora, ritirando la mano.

— ... Che? — mormorò Furio, ricomponendosi.

— Che cos'hai?

— ... Nulla.

— Guarda come ti sei messo la cravatta. Se fossi tua madre, vedo che
avrei un gran da fare per darti un po' di garbo. Ecco, guarda come si
fa, fermo un momento: così... e così... —

E nel piegare e ripiegare la cravatta andava ripetendo quei _così_ con
una vocina lenta e carezzevole, a pause, come si fa ai bambini quando
non voglion lasciarsi vestire. Tutt'ad un tratto tirò indietro le mani
e domandò: — Perchè tremi?

— Non tremo, — rispose in fretta il ragazzo.

— Ma sì che tremi, e sei diventato pallido!

— Io no.

— Ti dico di sì, figliuol mio; tu non ti senti bene, hai bisogno
d'aria, dammi il braccio, e andiamo a fare una passeggiata nel
giardino. —

Furio, esitando, le porse il braccio; la condusse, a passo incerto,
fino alla porta, e lì l'affare si fece serio: doveva passar prima lui?
prima lei? tutt'e due insieme? a braccetto o divisi? Iride, ridendo,
passò la prima. — Ah! questo cavaliere... — esclamò poi, riprendendo il
braccio del poveretto tutto vergognoso; — andiamo, via. —

Furio, che non aveva più quegli occhi dinanzi, ritornava a poco a poco
padrone di sè e incominciava ad afferrare colla mente la sua felicità;
ma, oh Dio! fatti dieci passi, cracche, le ha messo il piede sul
vestito; Iride guarda, è stracciato.

— Ma guarda come cammini! — esclamò con voce stizzosa, arrossendo. —
Non vengo più, ecco! — E si sciolse bruscamente dal braccio del suo
cavaliere; ma subito ritornò verso di lui sorridendo, e gli disse:
— Povero Furio, come sei rimasto male! — Poi, porgendogli la mano,
soggiunse: — Qua, facciamo la pace. —

Furio pose la sua destra tremante nella piccola mano d'Iride, e
continuò a camminare più impacciato che mai. Andavano per un viottolo
fiancheggiato da due alte siepi. Iride fece qualche domanda al piccolo
cognato intorno alla sua scuola, alle sue occupazioni, alla campagna,
di quelle solite domande che si fanno ai ragazzi senza badare alla
risposta, e poi, ridendo, lo interrogò della zia: — Un po' durotta, eh?
— e l'interruppe per accennargli un fiore, che glielo pigliasse. Furio
lo prese e lo teneva in mano per non saper come porgerlo.

— Animo, sii gentile, e mettilo qui, per bene. —

E si voltò di fianco e chinò con molta grazia la testa, perchè glielo
mettesse nei capelli; Furio glielo mise.

— Dio mio! — gridò Iride, spaventata, dopo pochi passi; — che strada è
questa? —

Aveva messo un piede sull'orlo d'un fossetto pieno d'acqua e c'era
scivolata dentro un buon palmo. Con un leggero sforzo tirò fuori il
piede tutto stillante. Allora Furio si buttò in ginocchio, e prima col
fazzoletto e poi coll'erba del sentiero strappata in fretta e furia,
cominciò a fregare lo stivaletto con una foga disperata.

— No, no, basta, — andava dicendo Iride: — basta, Furio, grazie, non ti
affaticare, tanto son tutta bagnata, bisogna ch'io mi vada a cambiare,
basta, lascia pure. —

E andava ritirando il piede, stretto intorno alla noce dalla mano del
ragazzo, come da un cerchio di ferro.

— Ma basta! — proruppe Iride con uno scoppio di risa.

Furio si alzò tutto rosso, sudante e glorioso, e quando Iride si fu
allontanata, diede in un riso represso, si strinse un dito fra i denti,
si stropicciò forte le mani, battè i piedi, rise di nuovo, e alzando
gli occhi al cielo esclamò con trasporto di contentezza:

— Oh Dio! Dio! Come sono felice! Non c'è nessuno più felice di me sopra
la terra!


XIII.

A Iride non era nemmeno passato per la mente che sotto quella
gran timidezza del ragazzo si nascondesse qualcosa; e non c'è da
meravigliarsene. I ragazzi noi li crediamo sempre più ragazzi di quel
che sono. E questo, perchè, al solito, vedendoli e trattandoli, non ci
è presente alla memoria il grado vero d'intelligenza e di sensitività
che avevamo noi all'età loro. Se ci fosse presente sempre, ci
ricorderemmo, per esempio, quasi tutti che, da bambini, abbiamo sentito
far dei discorsi, in presenza nostra, che noi ora, alla presenza
d'altri bambini, non ripeteremmo; e allora coloro che li facevano,
erano fermamente persuasi che noi non gl'intendessimo; e gl'intendevamo
invece quanto loro, e facevamo le viste di no. L'intelligenza dei
fanciulli precorre quasi sempre l'accorgimento dei genitori o degli
educatori, o di chiunque abbia ragione di tenerli al buio di qualche
cosa per un certo tempo; le cautele vengono quasi sempre tardi; e
fra quando cominciano a capire e quando si comincia a sospettare
che capiscano, tutti i fanciulli sono più o meno ipocriti, e la loro
ipocrisia è tanto più fina e profonda, quanto più viva e più spesso
delusa la curiosità.

Lo stesso segue degli affetti.

Un ragazzo di quattordici anni! Chi gliel'avesse detto, a Iride,
ell'avrebbe dato in uno di quei suoi scoppi di risa freschi e sonori,
che facevano restar a bocca aperta il suo piccolo schiavo.


XIV.

Riconovaldo, più che stizzito, offeso dalla indifferenza crescente
di Candida, continuava a rodersi dentro, ad almanaccare la maniera
di vincerla, a tentar anche d'irritarla, se non altro, e di farsi
detestare a viso aperto; pur ch'ella smettesse di portarsi così,
come se non s accorgesse di lui. Poichè dice bene il Leopardi, che
gli uomini tollerano l'odio, e talvolta pure se ne gloriano; ma ad
un segno o ad un sospetto che abbiano di noncuranza, pochi sono così
forti che restino immobili, e non si diano con ogni mezzo a cercare
di liberarsene, discendendo anco, se occorre, ad atti vili. E più
che in altri doveva questo esser vero in lui, che, oltre al naturale
sospetto d'esser preso per una testa piccina e un'anima vuota, aveva la
coscienza altera della sua bellezza, e non si vedeva nemmeno guardato.

Visto che anche il suo tentativo oratorio era andato fallito, si
persuase di quello che Iride gli aveva detto di Candida; ch'essa, cioè,
sotto quell'apparenza modesta e dimessa, covasse dell'orgoglio e della
pretensione; il che avviene più di sovente in chi meno vi ha diritto
e lo dà meno a vedere. Per questo pensò di scegliere altra strada,
e cominciò a fare il noncurante anche lui; ma Candida era sempre più
fredda; e gli fu forza di smettere. Allora invelenì davvero, e andò
più in là; cominciò a pungerla, parlando a sua sorella, con ogni sorta
di allusioni fanciullescamente maligne. Un giorno si lasciò andare a
questa: Candida era presente, e sua sorella gli domandò d'una certa
signora vedova di sua conoscenza, perchè non si rimaritasse.

— Che vuoi che si rimariti quella creatura di carta pesta? — rispose
Riconovaldo coi denti stretti. — Non se n'accorge mica lei di non aver
marito; è una di quelle donne che vivono fuor delle leggi della natura;
anzi, a voler parlar giusto, non è neanco una donna. Per meritare il
nome di donna, non basta mica averne le forme; bisogna averne l'anima,
gli affetti, le tendenze, e una donna che non ha tutto questo, non
è una donna, come non son donne le bambole, le mummie, le statue, e
quei vestiti interi che pendono dagli attaccapanni nelle botteghe dei
mercanti di stoffe. —

Ma Candida persisteva; non faceva un atto di risentimento, non dava un
segno d'impazienza; era indifferente e impassibile come una pietra;
e sì che qualche volta Iride, indispettita anch'essa da quei modi,
aggiungeva le sue alle punzecchiature del fratello, ed era un'alleata
formidabile. Riconovaldo, punto fino a mordersene le dita, e incaponito
sempre più nel suo proposito, mutò strada ancora una volta. A poco a
poco raddolcendosi, e fingendo di pentirsi, o pentendosi davvero, del
suo procedere scortese e maligno verso Candida, cominciò a farle la
corte, come lui la sapeva fare, con quella grazia e quella finezza;
prima alla lontana, timido; poi apertamente, caldo e soave; qualche
volta quasi supplichevole. Ma Candida mostrava di non badar alla sua
dolcezza più di quel che avesse badato alla sua malignità.

Riconovaldo, disperato di riuscire, ferito nel più vivo nell'amor
proprio, arrabbiato, volle vendicarsi voltando la cosa al faceto, e
seguitò a far la corte a Candida come l'avrebbe fatta a una vecchia di
settant'anni per divertire una brigata di amici; con certi inchini,
certi accenti, certi modi sdolcinati e grotteschi, che gli sarebbero
stati bene colle scarpe a fibbia e la parrucca incipriata. E nello
stesso tempo si buttò dietro le spalle tutti i precetti educativi
del Tommaseo, che in presenza delle ragazze non bisogna prendere
atteggiamenti sbadati, nè sdraiarsi con cascaggine patrizia, nè
avvicinarsi tanto che sentano gli aliti e cose simili. Ma Candida
sempre si tirava indietro, o torceva la testa e voltava le spalle, o
s'alzava e se n'andava via.

Un giorno le presentò un mazzolino di fiori avvizziti e senza odore;
quella volta essa corrugò le ciglia e arrossì; ma subito si ricompose,
e senza far atto di sprezzo o di dispetto, buttò il mazzolino in un
canto.

E i giorni passavano così e Riconovaldo sempre più si accaniva, non
però senza comprendere, di tratto in tratto, quando la passione taceva,
ch'egli aveva torto, e che la sua condotta era puerile e villana. In
quei momenti egli provava per quella povera ragazza un tale sentimento
di pietà, che quasi era per correre a domandarle perdono; ma al
primo rivederla, così rigida e cocciuta, addio pentimento: la bile si
risollevava più che mai.

Altro che ricrearsi un poco a spese di Candida, riscalducciandola con
qualche sorriso e qualche parolina, come n'aveva fatto disegno nel
partire per la villa!

Iride intanto continuava a fare il chiasso con Furio, ogni giorno,
come quella volta della passeggiata. Erano venuti in una certa
dimestichezza; Furio sera fatto un po' più disinvolto; era beato; Iride
gli comandava come a un paggetto, gli faceva fare mille faccenduole di
casa, lo teneva tutto il giorno in moto a sua disposizione. — Furio!
— gridava, e subito si sentiva un: — Eccomi! — allegro e vibrato, e un
passo precipitoso, e Furio era là, davanti a lei, ansante e infiammato.
Più stava insieme con lui, e più Iride lo trovava curioso, chè non
sapeva capire certi suoi mutamenti improvvisi di colore e di umore,
e se ne divertiva; e vedeva ch'era buono e gentile, in fondo, e gli
voleva bene. Ma quello stargli sempre così vicina, con quel viso, con
quegli occhi, con quel benedetto vestito, con quella sbadata libertà di
maniere, e in campagna, era un guaio.


XV.

Sulla facciata della villa, al primo piano, ricorreva un terrazzino
lungo e continuo, sul quale davano le finestre della camera di Furio;
a sinistra, quelle della camera d'iride; a destra, nel mezzo, quelle
del padre. Dinanzi all'ultima finestra d'Iride, nell'angolo, c'erano
quattro o cinque grandi vasi di fiori, e un buon tratto della ringhiera
era coperto dagli ultimi pampini d'una vite piantata nel giardino.
Era un cantuccio tutto coperto di foglie, nel quale non penetrava mai
raggio di luce; una persona vi si sarebbe potuta rimpiattare senza
essere vista nè dal giardino nè dalle finestre.

Furio, una sera ch'era andato a dormire, mentre tutti gli altri stavano
ancora sotto a discorrere, si svegliò, oppresso dal caldo, dopo due
ore di sonno, e si fece alla finestra mezzo vestito per respirare un
po' d'aria fresca della notte. La notte era quieta e chiara che pareva
giorno. Gli alberi del giardino, illuminati dalla luna, apparivano
distinti, foglia per foglia, fino ai più lontani, come alla luce del
sole. Furio, all'aspetto di quella splendida pace del cielo, si sentì
entrare nel cuore una dolce malinconia; guardò lungamente il giardino,
i sentieri lontani, le case sparse, i colli; poi incrociò le braccia
sul parapetto della finestra, chinò la testa, e stette un pezzo così.

Quando si riscosse, credette che fosse molto tardi e che tutti
dormissero. Come spinto da una mano misteriosa, scavalcò il parapetto,
e senza quasi pensarvi andò avanti sul terrazzino. A un tratto si
accorse d'esser vicino alla finestra della camera d'Iride, e gli corse
un brivido da capo a piedi; ebbe paura. Le finestre erano aperte e la
camera buia; pensò che già dormisse, gli parve di udire il respiro, si
sentì salire una fiamma alla testa, si mosse per tornare indietro...
Magli mancò l'animo: avrebbe potuto far rumore e svegliarla; era vicino
ai fiori, sedette, e si nascose. In quel punto sentì un suono confuso
di voci giù nella sala da pranzo. Gli si agghiacciò il sangue. Non
erano ancora andati a dormire, andavano allora, si davano la buona
notte; che fare? tornare a letto? farsi scorgere? No, impossibile;
fermo lì, e zitto. Il cuore gli batteva forte. Dopo un minuto, sente
un passo leggiero venir su per le scale, due o tre porte si aprono
e si chiudono l'una dopo l'altra, man mano più vicine; ecco il lume;
l'ultima porta s'apre, Iride è nella sua camera, mette il candelliere
sul tavolino, s'affaccia alla finestra. Furio trattiene il respiro, si
preme una mano sul cuore dalla paura ch'essa lo senta battere; Iride
è lì, sopra di lui; s egli stende un braccio la tocca, ne sente il
profumo, vede in confuso il bianco del suo vestito. — Oh per carità,
va via! — dice il povero ragazzo tra sè. Iride si leva dalla finestra,
canterella, tace, ricomincia, va e viene per la camera, si riavvicina
al parapetto, ritorna dentro, mormora qualche parola indistinta...

Intanto s'è levato un po' di vento che spande intorno un delizioso odor
di giardino. Le foglie della vite e dei fiori stormiscono rendendo il
suono d'un bisbiglio concitato, tenero, supplichevole, che par che
dica: — Iride, Iride, Iride. — E tutta la campagna tace e la luna
splende.

Furio restò un po' di tempo immobile coi gomiti appoggiati sulle
ginocchia e la testa fra le mani. Poi a poco a poco le sue gambe si
rilassarono, la testa gli ricadde da un lato, si distese in terra
supino e s'addormentò.

— Ma vedi che testa! Anche stassera mi son dimenticata di chiudere! —
disse Iride, e scese dal letto e s avvicinò alla finestra. — Che buon
odore di fiori! — esclamò respirando l'aria viva, e s appoggiò sul
parapetto. A un tratto balza indietro, gettando un leggero grido. —
Cielo! che sarà mai? — Si riaccosta alla finestra, tende l'orecchio:
un respiro! Il coraggio della paura la prende, s'affaccia risoluta,
guarda: — Chi vedo! Furio! Che sia svenuto! — Si veste in fretta, esce
di corsa, arriva in punta di piedi all'angolo del terrazzino, e si
china a guardare il ragazzo. Dalla cintura in su era tutto illuminato
dalla luna; aveva i capelli in disordine, la bocca semiaperta e le
guancie ancora umide di lacrime. — Dorme, — disse Iride dopo averlo
guardato attentamente; — pare che abbia pianto... Ora gli asciugo le
lacrime e si sveglia. — Adagio adagio allungò il braccio per pigliargli
il fazzoletto ch'egli si teneva fermo sul petto con una mano aperta,
nell'atto di chi preme qualcosa sul cuore. Iride glielo prese, lo
guardò. Come! il suo fazzoletto! il fazzoletto ch'essa credeva d'aver
perduto! Stette un po' sopra pensiero, e poi esclamò: — Ma è possibile?
— Restò qualche minuto immobile a guardar Furio che seguitava a
dormire, poi tornò lentamente alla sua camera, si riaffacciò alla
finestra, lasciò ricadere il suo fazzoletto, e chiuse.

Furio si destò, si guardò intorno, e di nuovo gli parve che le foglie
della vite e dei fiori, agitate dal vento, gli dicessero all'orecchio:
— Iride, Iride, Iride. —


XVI.

A una donna che avesse avuto un briciolo di cervello, la scena di
quella sera sarebbe bastata a fare tutto capire, e anche mettendola
solo in sospetto, l'avrebbe indotta a mutar modi col ragazzo. Ma Iride
era tanto leggiera che in lei la curiosità vinse immediatamente la
prudenza. E non seppe reprimere nemmeno un sentimento di compiacenza
vanitosa, che le sorse nel cuore così vivo da non lasciarla nemmeno
riflettere ch'era un sentimento colpevole e pericoloso. Non già ch'essa
potesse pigliar sul serio l'amore di Furio; ma una donna, chiunque
l'ami, se ne tiene; e tanto più era naturale che se ne tenesse lei
capricciosa e vanissima. E poi ci trovava da divertirsi: porgergli
la mano e vederlo arrossire; appoggiare il braccio sul suo e vederlo
scotersi; dirgli: caro! e vedere i suoi occhi risplendere; aver lì un
ragazzo da poterne fare quel che voleva con un'occhiata, era una cosa
amena. Poi per quietare la propria coscienza aveva mille scuse: non
era giusto di volere un po' di bene, e dimostrarglielo, a quel povero
ragazzo trascurato e aspreggiato, e pure così buono, dolce e avido
d'affetto? Non sarebbe mica stata benevola e carezzevole con lui a fin
di male; non sarebbe neanco stata in dovere, per così dire, di dubitare
che del male gliene potesse fare; davanti alla sua coscienza non faceva
che esercitare un sentimento di pietà consolatrice, un sentimento
materno, irreprensibile; essa non doveva saperne nulla di ciò che
potesse sentir per lei quel poverino; che c'era dunque da ridire? Ora
si rendeva ragione di quella strana timidezza, di quei turbamenti, di
quei tremiti, di quei rossori. — Questa è nuova davvero! — ripeteva tra
sè la mattina, scendendo le scale, — un bambino di quattordici anni!...
mio cognato! — e rideva.


XVII.

Quella mattina, Candida, appena levata, cercò premurosamente di
Furio, lo condusse in un angolo della sala da pranzo e gli disse
nell'orecchio:

— Cosa facevi ieri sera sul terrazzino, nell'angolo dei fiori? —

Furio si scosse e arrossì.

— Furio! — esclamò Candida con voce affettuosa, — non ci andar più.

Furio la guardò fingendo una grande meraviglia.

— Non ci andar più, Furio, — ripetè Candida, abbassando la voce: — da'
retta a me, da' retta a tua sorella che ti vuol bene, promettimi che
non ci andrai più...

— Ma dove? — domandò Furio abbassando il capo.

— Oh! tu mi capisci, tu sai quello che voglio dire, non guardarmi così,
fa quel che ti dico io, Furio; non mi posso spiegare di più;... ma tu
m'intendi, tu mi vuoi bene; non star tanto insieme con Iride, non andar
più a passeggiare con lei, sta qui con me, ascoltami...

— Taci! esclamò vivamente il ragazzo.

Iride entrava in quel momento guardando Furio con occhio intento
e scrutatore; e questi, ancora tutto sconvolto dalle parole di sua
sorella, guardò lei nella stessa maniera, per scoprire se la notte non
si fosse accorta di nulla. Stettero così un po' di tempo guardandosi
tutt'e due, tanto che Candida, perduta la pazienza a veder così poco
giudizio in sua cognata, esclamò con accento di leggero rimprovero:

— Ma Iride! —

Ma subito le mancò il coraggio di proseguire e scomparve.

Iride, senza neanco badarle, s'avvicinò lentamente al ragazzo, gli posò
le mani sulle spalle, ritirò un po' indietro la testa e lo fissò negli
occhi.

Furio, senza staccar gli occhi da lei, chè pareva affascinato, si levò
dalla spalla adagio adagio quelle due mani che lo brucciavano, e si
coperse il viso col braccio.

L'atto, lo sguardo, il rossore erano stati tali da non lasciare più
dubbio, e per la prima volta, che fu anche l'ultima, Iride fece un atto
di prudenza: tirò indietro in tempo una mano che aveva già distesa per
una carezza pietosa, e se n'andò lentamente, senza voltarsi.


XVIII.

A mezzogiorno, Furio se ne stava nel giardino seduto all'ombra d'un
albero; ancora tutto commosso dalla scena della mattina. Splendeva
un sole ardentissimo e tutto era quieto. Non stridore di cicala, non
canto d'uccello, non volo di farfalla, non voce, non moto nè vicino nè
lontano: pareva che la natura dormisse. Allora la campagna si anima
d'una vita fantastica, come di notte. Si sentono suoni indefiniti
come di lunghe grida lontane; soffi, fruscii, bisbigli, ora a molta
distanza, ora nell'orecchio, qui, là, non si sa dove, da ogni parte.
Par che nell'aria ci sia qualcuno o qualcosa che fluttua e che s'agita,
che si avvicina, che si scosta, che ritorna, che ci rasenta, che
s'allontana. A un tratto si sente accanto un ronzìo d'insetto; passa,
e tutto tace. S'ha una scossa, ci si volta: è caduta una foglia. Sbuca
una lucertola, si ferma, che par che stia a sentire, e come impaurita
da quel silenzio, si rimbuca. La campagna ha non so che di solenne
e di triste come un mare solitario; e la testa si abbassa come per
forza, mentre l'occhio socchiuso vaga per le valli oscure e pei cupi
recessi che la fantasia languida gli rappresenta tra i fili dell'erba
e i granelli della terra. Furio solo vegliava a quell'ora. Il vecchio
impiegato dormiva in camera sua, supino sul letto, colla fronte tutta
in sudore e un andirivieni di mosche sul naso; e la zia, smessa la
calza, s'era anch'essa addormentata sulla seggiola, ritta interita sul
busto, colle braccia incrociate come un idolo e le labbra sporgenti in
atto dispettoso.

Furio non aveva visto Iride da più di due ore, e non sapeva dove fosse.
S'alzò da sedere e cominciò a girar pel giardino. Il giardino era vasto
e tutto piantato d'alberi fittissimi come un boschetto. Egli guardava
lontano fra tronco e tronco se biancheggiasse da nessuna parte un
vestito di donna, quando l'occhio gli cadde su poche foglie di rosa
sparse sull'erba. Dopo quelle, poco lontano, ce n'era dell'altre,
e via via a perdita d'occhi era una lunga striscia color di rosa.
Furio seguitò quella traccia, andò un po' innanzi diritto, poi svoltò
a destra, svoltò a sinistra, girò, rigirò, arrivò quasi in fondo al
giardino; all'improvviso non vide più foglie, rivolse gli occhi intorno
e diede una voce di sorpresa. Iride, stesa sull'erba ai piedi d'un
albero, dormiva.

Non dormiva; fingeva.

Furio rimase là a guardarla a bocca aperta, lontano sette o otto passi.
Era vestita di bianco, e intorno a lei tutto verde cupo; spiccava
come un cigno sulla sponda erbosa d'un lago. Stava distesa come sur
un letto, con un braccio nudo piegato sotto la testa, l'altro steso
lungo il fianco, e tutt'un piede scoperto. Teneva il viso rivolto dalla
parte di Furio, e il suo labbro inferiore abbassato scopriva i dentini
uniti e bianchi. Il volume delle treccie allentate pareva che fosse sul
punto di sciogliersi e di spandersi intorno a ondate d'oro. Respirava
frequente; aveva l'occhio semiaperto e fisso, come lo tengon molti
dormendo, e le gote color di rosa vivo.

Furio stava guardandola cogli occhi spalancati e le mani per aria in
atto di meraviglia. Egli non aveva mai visto dormire una bella donna, e
notava per la prima volta quella grazia più spiccata e più molle che il
sonno dà alle forme femminili, e l'atteggiamento infantile di quel bel
viso immobile. Il cuore gli tremò, gli corse una scintilla per tutte le
fibre e si stese come una nebbia fra Iride e i suoi occhi.

— Eccola, — mormorava colle labbra tremanti e cogli occhi umidi, —
Iride, la mia buona Iride, quella che mi vuol bene, che mi protegge,
e sta sempre con me, e mi fa passare tante ore contente; quella che mi
compatisce e mi perdona... io così in questo modo, che non sono nemmeno
degno di starle vicino, e lei così bella... Eccola là... Iride, dormi,
io ti guardo, sei tanto bella, sei il mio angelo, io ti voglio bene che
non so che cosa farei per te, guarda; io sono contento; io bacerei dove
tu metti i piedi, cara Iride. —

Tirò fuori in fretta il fazzoletto e lo baciò dicci o dodici volte
avidamente.

— Dormi, non ti svegliare, Iride; io ti guardo, starei sempre qui a
guardarti. —

Corse a un roseto là presso, strappò in furia molte rose e le andò a
gettare ai suoi piedi.

— To', prendi, ti copro di fiori, tu devi dormire in mezzo alle rose,
tu che sei così bella. —

S'inginocchiò ai suoi piedi e le baciò due o tre volte il vestito,
continuando a dire tra sè: — Cara Iride! mia bella, mia buona Iride!

Iride si mosse: Furio balzò in piedi e si fece tutto di fuoco. Essa
fingeva sempre di dormire; ma nel muoversi s'era sciolta da una specie
di mantiglia che parte le era stesa sotto e parte le avvolgeva il
seno. Furio indietreggiò a quella vista, con gli occhi fissi su di lei;
si passò una mano sulla fronte, si cacciò indietro i capelli con una
scrollata di capo, e poi si slanciò a traverso i campi di corsa. Andava
come se fosse inseguito, pareva che il terreno si facesse elastico
per dargli l'impulso, divorava la strada; arrivò a un fosso, cadde, si
bagnò, si rialzò, e via, via, come portato dal vento; sale il colle,
scivola, si rialza, si aggrappa agli sterpi, arriva sulla cima, e giù
dall'altra parte a lunghissimi salti, seguitato dalle pietre urtate
che franano, pestando piante e solchi, empiendo la valle silenziosa di
grida: — Animo! — Là! — Così! — Coraggio! — Ed eccolo in fondo, steso
sull'erbe, supino, spossato, cogli occhi al cielo e la mente smarrita
in una certa ebbrezza fantastica, come se fosse precipitato in fondo
all'abisso.


XIX.

Da quel giorno Furio cominciò a vivere in uno stato di esaltazione
continua. Il nuovo contegno di Iride, un po' meno allegra di prima, ma
più affettuosa, e come sempre occupata da un pensiero, non potendolo
attribuire a un semplice sentimento di sollecitudine e di pietà, perchè
non credeva d'essersi lasciato scoprire, lo prendeva come segno d'un
principio d'affetto uguale al suo, e questa idea lo metteva tutto
sossopra. Sino allora il non avere alcuna speranza, neanco lontana,
d'una corrispondenza, la certezza d'esser tenuto nulla più che un
ragazzo, e cercato così per distrazione, come un giocattolo; quello
stesso fare leggiero, a scatti e a frulli, che Iride aveva usato con
lui, era bastato a frenarlo, a mantenerlo un po' in quiete, a fargli
fare almeno uno sforzo per dissimulare quello che sentiva. Ma ora
quella speranza, che il suo ardentissimo desiderio mutava facilmente
in certezza, lo faceva uscire di sè; egli si sentiva come lanciato
tutt'a un tratto dall'infanzia nella giovinezza; si sentiva uomo,
caldo, fiero, tempestoso; s'agitava, andava, veniva, correva; cercava
Iride, la fuggiva, ritornava subito a cercarla, le si strisciava
intorno tremante, sussultava sotto il suo sguardo, la divorava cogli
occhi senza proferir parola, non trovava riposo la notte, usciva in
esclamazioni solo, soffriva, piangeva.

In riva al lago, in mezzo a un gruppo d'alberi, v'era una statua di
pietra annerita e muscosa, che rappresentava una donna dormente, in una
positura simile a quella d'Iride quand'era stesa ai piedi dell'albero
quel giorno. Posava sopra un piedestallo; ma essendosi dovuto rialzare
il terreno intorno all'acqua, il piedestallo era scomparso sotto la
terra nuova. Due o tre volte, sull'imbrunire, quand'era più agitato,
Furio si andò a stendere sull'erba, accanto a quella statua, viso a
viso, e rimase lungamente a guardarla, fingendosi coll'immaginazione
che fosse viva e sua, e portasse quel caro nome: bizzarrìe che si fanno
anche da grandi.

A Candida nulla sfuggiva; essa aveva notato quella crescente
inquietudine di suo fratello: sospettò di qualche imprudenza d'Iride
e risolvette d'impedire a qualunque costo che la cosa finisse peggio.
In quella la zia ricevette una lettera che annunziava di lì a due
giorni l'arrivo di suo nipote Carlo, il marito d'Iride. Candida, a
quella notizia, si turbò. Carlo così sospettoso, era impossibile che
non s'accorgesse di nulla! E con que' suoi modi duri e violenti, che
cosa non sarebbe potuto seguire! Perciò si mise a cercare un'occasione
di trovarsi sola con Furio per qualche tempo, per potergli tenere un
discorso lungo e serio. Ma Furio, accorto, ogni volta ch'essa riusciva
ad afferrarlo, le sguisciava di mano, e scappava a nascondere la sua
“casta porpora„ in qualche cantuccio solitario.


XX.

La sera dopo, ch'era quasi già buio, dopo aver aspettato inutilmente
che Iride scendesse dalla sua camera, Furio uscì di casa e andò a
sedersi davanti alla statua. Due ore prima, incontrandolo per la scala,
Iride gli aveva preso il mento fra il pollice e l'indice, e gli aveva
detto: — Come va, piccino? — E lui, sceso giù, sera scarmigliato i
capelli con tutt'e due le mani, in furia, così, non ne sapeva il perchè
nemmeno lui... per sfogo.

— Iride! — diceva egli alla statua con voce stanca, come sognando, ed
era già buio fitto; — io non posso più... ti voglio troppo bene; se
sapessi quel che provo qui! Io ti farei il servitore, guarda; andrei a
mettermi sotto i tuoi piedi, quando monti in carrozza. Se mi dicessero:
— Fatti tagliare un dito e Iride ti vuol bene, — io mi farei tagliare
il dito, e starei sempre accanto a te. Cara! con quei begli occhi
grandi, e i capelli biondi, e buona. — E poi dopo aver pensato un po':
— Che bella signora! Ti potessi sempre vedere, starei anche chiuso in
prigione. Ma tu andrai via, e qui non ci sarà più Iride. Oh Dio, e cosa
farò io, quando non ci sarà più Iride! Resterò solo! Ma io non posso
più adesso restar solo! Io non posso... Io muoio di malinconia, solo.
Oh no! non te ne andare, Iride! non mi lasciar solo! —

E quasi piangendo cingeva con tutt'e due le braccia il collo della
statua e le abbandonava il capo sulle spalle. All'improvviso si sentì
entrar due mani nei capelli e scorse qualcosa di bianco. Balzò in
piedi, indietreggiò, vide Iride seduta, mandò un gridò, cadde in
ginocchio, si sentì stretto intorno al collo.... — Iride! Iride! —
esclamò a voce bassa e concitata; — no, senti, per carità, non lo far
per burla, io sono un povero ragazzo, io non ho altri che te, io t'amo,
tu non lo sai, davvero, angelo, no, t'amo, per carità, Iride.... —
Si sentì tirar giù il capo sulle ginocchia di lei, la vide chinare il
viso, sentì un profumo, un alito caldo, le labbra. — Dio! — mormorò con
voce spenta; e Iride, il cielo, il lago, gli alberi ondeggiarono, si
confusero e sparvero, ed egli restò senza vita.


XXI.

La mattina dopo, Candida, che da due giorni si doleva di un forte mal
di denti e aveva risoluto di liberarsene a ogni costo, doveva partire
con suo padre per la città.

Riconovaldo la incontrò per la scala, mentre scendeva per andarsene, e
la prese per una mano.

— Lasciatemi stare, — disse Candida, cercando di svincolarsi.

Riconovaldo le prese per forza anche l'altra mano.

— Lasciatemi stare, — ripetè la ragazza più severamente.

Il giovane cercò d'incrociarle le braccia.

— Lasciatemi, Riconovaldo! — gridò la terza volta facendosi pallida, e
alzando fieramente la testa.

Il giovane la lasciò andare, sforzandosi di ridere; ma un sentimento
impetuoso di dispetto e di rabbia gli offuscò la ragione, e disse con
voce soffocata: — Stupida! — Poi disparve soffocato dalla vergogna.


XXII.

Verso le otto della sera dovevano arrivare insieme dalla città Candida,
suo padre e il fratello Carlo. A Iride, per procurarle il piacere
della sorpresa, non era stato detto nulla dell'arrivo del marito. Furio
non sapeva nulla nemmeno lui; alle sei era stato mandato dalla zia a
portare una lettera a una villa vicina, e ritornando doveva trovare a
casa, a sua insaputa, il fratello.

Riconovaldo, la sera, passeggiava pel giardino sconfortato e triste.
In vita sua non gli era mai toccata un'umiliazione pari a quella che
Candida gli aveva inflitto poco prima, su per la scala, e nei giorni
addietro, ad ogni ora, ad ogni minuto, senza remissione, duramente e
spietatamente. Non c'era più dubbio per lui; gli era parso uno stupido,
un tristo, un ragazzaccio presuntuoso e insolente, quello che era, in
una parola. Già egli se l'era sempre sentito; era nato coll'anima per
isbaglio, quella ragazza aveva detto giusto; gli amici, ridendo, gli
facevano intendere la verità; egli era l'ultimo degli uomini; un bello
schizzo d'uomo; un fantoccio. La vergogna, la stizza, il rodimento
gli erano cresciuti a segno da mutargli il viso che pareva quello d'un
altro, pareva brutto; si sentiva brutto; si sentiva di fuori com'era
dentro; era annientato. E tutto questo per Candida, per quel bel cesto
di ragazza senz'anima e senza forma di donna, insipida, sgarbata e
orgogliosa.... Egli l'odiava.

Mentre era su questi pensieri si sentì chiamare improvvisamente per
nome, e voltandosi, vide la donna di servizio; una buona vecchia che
serviva in quella casa da vent'anni.

— Sono due ore che la cerco, — disse la donna — e son parecchi giorni
che ho da domandarle una cosa: mi permette? —

Il giovine accennò di sì.

— Una cosa che più ci penso e meno la capisco, e c'è solamente lei che
me la possa spiegare. Ma bisogna che venga con me subito, perchè non
c'è tempo da perdere. —

Riconovaldo s'alzò; la vecchia, precedendolo, lo condusse alla villa,
gli fece salir la scala, apri la porta della camera di Candida e gli
disse: — Entri. —

Il giovane la guardò meravigliato.

— Entri, entri; se non entriamo qui, non mi posso far capire. —

Il giovane entrò e guardò intorno; era una camera semplicissima; le
pareti nude, un lettino bianco, poche seggiole, e un tavolino accanto
alla finestra con su qualche libro.

La vecchia chiuse la porta, si venne a piantare in mezzo alla camera,
in faccia a Riconovaldo, e cominciò con aria di mistero:

— La signora Candida è una ragazza tranquilla, non è vero?

— Così m'è sempre parsa, — rispose il giovane, senza capire a che
potesse condurre quella domanda.

— Non ha mica nessun dispiacere nella famiglia?

— No, ch'io sappia.

— È anche una giovane di.... giudizio, seria; voglio dire che non ha
uno di quei naturali, che hanno tante, a capricci; è sempre ad un modo
lei colla gente, non è vero?

— È verissimo.

— E qui in campagna non conosce altra gente che suo padre, sua zia, suo
fratello, lei e la cognata, non è vero?

— Nessun altri.

— Oh dunque, — esclamò la vecchia dopo un momento di riflessione, —
come mai è tanto cambiata da un tempo in qua?

— Ma se dicevate adesso che è sempre ad un modo.

— Colla gente sì; ma quand'è sola e anche quando ci son io, no.

— E cosa fa quand'è sola?

— Oh se sapesse! Senta. Ma.... prima di tutto; sa lei che ci siano dei
libri che fanno piangere come disperati?

— Dove sono questi libri?

— Eccone uno. —

La vecchia tirò il cassetto del tavolino, prese un libro e lo porse a
Riconovaldo.

— _Storia di Sibilla_, — lesse il giovane sul frontespizio; — è un
romanzo, e con questo?

— Fa molto piangere?

— Può far piangere.

— Da disperati?

— Oh Dio! da disperati no; qualche lacrima, così, come se ne versano
tante.

— Allora guardi; ci devono essere dei segni; legga qui. — E le indicò
una pagina piegata, dove ci eran tre righe segnate coll'unghie.

Riconovaldo lesse da sè: — “Miss o' Neil era una ragazza grande,
magra, angolosa, che camminava con una regolarità e una rigidezza
d'automa....„

— E ora qui.

— “.... Brutta fino quasi al ridicolo, la gente si capisce, non l'aveva
punto assuefatta male. Circondata sempre d'un'atmosfera glaciale,
sempre imbarazzata e nervosa come persona che cammini sotto sguardi
malevoli ed ironici....„

— E qui.

— “.... Voi non lo potete mica sapere tutto quello che io soffro,
povera bambina, voi non lo potete.... è impossibile! Immaginatevi
ch'io sono sola al mondo, più sola d'un'altra, perchè sono brutta e
spiacevole, e questo mi condanna a esser sempre sola, senza affetto,
senza marito, senza figliuoli! E io sarei stata una così buona madre,
sapete, Sibilla, una così tenera madre!„ —

Riconovaldo, leggendo, s'era turbato; quand'ebbe finito, chiuse il
libro e rimase pensieroso.

— Ma che diavolo dice quei libro? — domandò la donna.

Il giovane non rispose

— Io era qui quando la signorina leggeva, e leggendo quella pagina
lì, piangeva, e faceva i segni coll'unghia, e poi, quando andai
fuori, diede in un pianto dirotto, e seguitò a piangere per tutta la
sera. —

Riconovaldo continuava a tacere, cogli occhi immobili a terra, come
trasognato.

— E poi tante altre cose, — riprese la donna. — Una sera venne su in
fretta, che pareva più allegra del solito, e cominciò a scrivere, a
scarabocchiare, a stracciar fogli e ci stette fino a notte avanzata,
che non pareva mai contenta del suo lavoro; e poi per che cosa? Avesse
almeno scritto una lettera! Di tanto scrivere, la mattina non c'era
altro che un fogliolino di carta pieno di sgorbi e di cancellature,
nascosto in fondo al cassetto...

Così dicendo la vecchia aperse il cassetto, prese il foglio e lo porse;
Riconovaldo lesse a stento tra frego e frego: — “.... Bisogna capirli,
bisogna studiarli, ma per studiarli bisogna amarli.... I ragazzi....
Quando il cuore si apre.... la compagnia delle bambine della sua
età....„ Cos'è questo? — gridò il giovane colla voce tremante,
passandosi una mano sulla fronte; scorse il foglio da capo a fondo,
c'era tutto il suo discorso di quella sera intorno all'educazione dei
ragazzi.

— Ma questo è niente! — disse ancora la vecchia; — o mi dica un po'
lei, come può venire in mente ad una ragazza di fabbricarsi un mazzetto
di questa fatta e di custodirlo come un gioiello? —

E ciò dicendo levò dalla cassetta e mostrò a Riconovaldo un mazzetto di
fiori secchi col gambo lungo un palmo, legati malamente come un mazzo
d'insalata. Riconovaldo riconobbe il mazzetto che aveva regalato per
ischerno a Candida, e ch'essa aveva buttato in un canto.

— Che gliene pare? — soggiunse la vecchia scotendolo per un braccio,
che pareva estatico. — E dire che baciava questi fiori come se glieli
avesse regalati l'innamorato! Mi spieghi dunque tutto questo.

— Un momento, — rispose il giovane, correndo nel canto della finestra
per esser libero coi suoi pensieri. Egli era giusto e buono; la
scoperta di quel segreto gli scosse tutto quello che aveva di più
gentile e di più generoso nell'anima; un impeto di gioia, una piena
di dolore amaro, uno struggimento profondo di tenerezza e di pietà gli
presero il cuore ad un punto, gli occhi gli s'empierono di lacrime, il
petto gli ansava, ed egli mormorava tra sè concitato: — M'ingannavo,
dunque! Essa è buona, è santa, mi amava; la ragione della sua freddezza
è in quelle parole del romanzo; non poteva sperar nulla, credeva
impossibile ch'io la ricambiassi, si voleva sottrarre al pericolo, si
voleva vincere; taceva, soffriva, piangeva, mi perdonava, scriveva le
mie parole, baciava i miei fiori, e io la credevo senza cuore, io la
pungevo, io la schernivo, io l'ho insultata; io che non son degno di
baciarle il vestito, io ho insultato lei, quella giovane disgraziata,
quel povero angelo senza speranze e senza conforto; io sono un
vigliacco!

— Signor Riconovaldo, — disse improvvisamente la vecchia, — è arrivata
la carrozza; se ne vada via subito; guai a me se Candida lo vede qui!
Ho appena tempo di riporre i libri.

— Andatevene.

— Ma no; lei mi vuol far sgridare; per carità vada via, a momenti
Candida è qui, la scongiuro, se ne vada!

— L'aspetto.

— Ah! no, signore, per carità.... Dio! Eccola qui!

— Oh Candida! Candida! — proruppe Riconovaldo con un accento
profondamente doloroso e supplichevole, correndole incontro colle mani
giunte; — perdono, mia povera Candida, perdono! —

Candida capì a volo, e indietreggiò gettando un grido.

— No, Candida! — continuò affettuosamente il giovine pigliandola per
mano, e conducendola in fretta vicino alla finestra, — non mi sfuggire;
perdonami; tu sei buona, tu sei un angelo; ho visto un libro, i fiori,
quel foglio di carta; io non sapevo nulla, io non potevo immaginare;...
io sono stato un indegno; tu sei buona, Candida, perdonami; io non
posso vivere con questo rimorso nell'anima; sarebbe una disperazione;
non sono cattivo, Candida; te lo sarò parso, ma non lo sono, te lo
giuro; parlavo per dispetto, credevo che tu mi disprezzassi e mi
sentivo offeso; perdonami, dimmi che ti scorderai tutte le mie parole;
io t'ho fatto del male, lo so, sì; tu neghi, perchè sei buona, ma t'ho
fatto del male; se tu non mi perdoni, vivrò sempre col crepacuore e
colla vergogna; io t'ho insultata, Candida; perdonami....

— Riconovaldo! — esclamò Candida con voce manchevole, cercando
di sciogliersi dalle sue braccia. — Non è niente vero... vi siete
ingannato.... lasciatemi....

— .... Tu sei offesa, — egli continuò con voce affannosa, baciandole il
vestito a ogni parola, — tu non mi vuoi perdonare, è giusto; ma io non
voglio lasciarti così, è impossibile, non saprei più che far di me, non
mi potrei più soffrire, sarei troppo spregevole anche ai miei occhi; mi
parrebbe sempre di vederti piangere, mi saresti un ricordo doloroso per
tutta la vita, io non posso andarmene senza il tuo perdono; Candida, te
ne scongiuro, perdonami... cara, buona Candida....

— Sì, perdono.... — mormorò con voce semispenta la ragazza,
posandogli la mano sulla fronte per tenerlo lontano — ma andatevene,
andatevene....

— No, perdono non basta, Candida; dimmi qualche altra parola; tu
non hai detto perdono col cuore; dimmi che mi perdoni tutto, che
dimenticherai tutto, che non mi credi un indegno, che le mie parole non
ti faranno piangere, che le terrai come parole d'un insensato, dette in
un momento di passione; io volevo essere stimato da te; io non posso
sopportare l'idea che tu mi disprezzi, tu che sei tanto buona; dimmi
che mi stimi ancora, te ne scongiuro; ho bisogno del tuo perdono e
della tua stima!...

— La mia stima! — gridò Candida, frenando un vivo slancio d'affetto.

— Sì, sì, Candida, dimmi questa benedetta parola; dimmi così: —
Riconovaldo, io ti perdono e ti stimo.

— Ebbene, sì! — esclamò essa, fissando i suoi occhi ardenti e soavi in
quelli gonfi di lacrime del giovine; — io ti perdono, io ti stimo... ti
stimo, e ti.... stimo! — soggiunse a bassa voce.

— Candida! — gridò il giovine balzando in piedi con rapidità fulminea,
e stringendole la testa tra le mani; — tu volevi dire un'altra parola;
dilla! —

E Candida gli bisbigliò all'orecchio: — T'amo! — e nascosto il viso
contro la spalla di lui, diede in un pianto disperato.


XXIII.

In quel punto furono scossi da uno strepito sul terrazzino dalla parte
della camera d'Iride; sentiron prima la voce di Furio, poi quella di
Carlo, poi il suono d'un potentissimo schiaffo, un grido d'Iride, un
rumore concitato di passi.

— Ah! l'avevo preveduto! — gridò Candida, slanciandosi fuori della
camera; il giovane la seguì.

Furio, inconsapevole dell'arrivo di Carlo, tornando ch'era già notte
alla villa, e vedendo il lume nella camera d'Iride, e lei appoggiata
alla finestra colle spalle verso la campagna, era corso in punta di
piedi sul terrazzino, era salito adagio adagio sul parapetto, e l'aveva
baciata nei capelli, dicendole appassionatamente: — Caro angelo! — Il
marito, ch'era nella camera, l'aveva rovesciato con uno schiaffo fuori
della finestra, a viso in giù, sopra i vasi dei fiori.

Furio, atterrito, fremente, col volto sanguinoso, pallido come un
cadavere, si precipitò per le scale in cerca d'un rifugio. Carlo lo
inseguì; il ragazzo si cacciò nella prima stanza a terreno, ma non
fece a tempo a chiuder la porta; il fratello entrò minacciando; egli,
forsennato per lo spavento, afferrò un fucile da caccia in un canto
e si mise in guardia colle spalle alla parete; Candida apparve sulla
porta, Carlo incalzò più sdegnato; Furio, dando indietro ancora,
urtò il calcio del fucile nel muro, il colpo partì, la ragazza
scappò gettando un altissimo grido, Riconovaldo le volò dietro, Carlo
scomparve... Furio lasciò cadere il fucile e restò là solo, immobile,
pietrificato.

Seguì qualche minuto di silenzio profondo.

Riconovaldo ricomparve sulla porta e disse freddamente:

— Candida è ferita nelle dita.

— Ferita! — gridò disperatamente il ragazzo cacciandosi le mani nei
capelli, e poi slanciandosi di corsa: — Oh Dio! presto! subito! Bisogna
fasciarle la mano!

— No, — soggiunse il giovane fermandolo, — bisogna tagliarle il
braccio. —

Furio svenne.


XXIV.

La mattina appresso Iride e suo marito partirono; in poche parole era
stata chiarita ogni cosa; la condotta sconsiderata della signora era
stata indovinata e posta fuori di dubbio alla prima; nè lei nè Carlo
potevano più rimanere alla villa.

Furio ritornò in sè molto tardi; riavutosi dallo svenimento, lo aveva
preso una febbre violenta. Quetata la febbre, e con essa il delirio,
egli si trovò nella sua camera solo e circondato da un profondo
silenzio come se la villa fosse stata abbandonata. Il pensiero di quel
che era accaduto la sera lo assalì all'improvviso, lo prese un'angoscia
disperata, e pianse amaramente per molte ore, esclamando fra i
singhiozzi: — Candida! mia povera Candida! Che cosa ho mai fatto! — e
desiderava di morire.

Stette per molte ore solo, senza sentire il suono nè d'un passo nè
d'una voce, oppresso da uno sgomento indicibile.

A un tratto si spalancò la porta della sua camera. Egli balzò a sedere
sul letto; ma non vide nessuno, non sentì nessuno; la porta pareva
stata aperta da un fantasma.

Passò qualche altro minuto.

Sentì un rumore di passi lenti e gravi; tremò; qualcuno saliva su per
la scala; passò suo padre davanti alla porta, senza guardare; passò
la zia, passò il medico di casa, passò un signore sconosciuto, passò
Riconovaldo, tutti silenziosi, col capo basso, tristi. Egli tese
l'orecchio, sentì che salivano al secondo piano, e restò immobile col
respiro sospeso. Allora gli tornarono in mente quelle parole: — Bisogna
tagliarle il braccio; — e cominciò a tremare violentemente in tutta la
persona.

Dopo pochi minuti s'affacciò qualcuno alla porta e disse:

— È finita. —

Allora Furio gettò un grido straziante e cacciò la testa sotto le
coperte prorompendo in singhiozzi disperati.


XXV.

In quel frattempo Riconovaldo condusse nel salotto da pranzo i due
vecchi, e li fece sedere davanti a sè, dicendo che lo stessero a
sentire senza interromperlo.

— Vi ho fatti venir qui — cominciò con viso e accento severo — per
dirvi che la cagione di tutto quello che è accaduto siete voi. —

Il vecchio si rizzò.

— Lasciatemi dire, — riprese Riconovaldo; — v'ho da dire una cosa
che nessuno vi disse mai, o che voi non voleste mai capire. Ed è che
per Furio voi non avete mai avuto cuore, che lo avete disconosciuto,
trascurato, e tenuto in casa come un estraneo, credendovi sciolti
da ogni dovere verso di lui con dargli da mangiare e da dormire...
Lasciatemi parlare... L'avete creduto sempre uno scemo, ed è pieno
d'ingegno; perverso, ed è pieno di cuore; e rivende in tutto e per
tutto voi, suo fratello, me, tutta la mia stirpe e tutta la vostra.
Voi lo avete sempre umiliato; gli avete turato la bocca ogni volta che
v'ha domandato un po' d'affetto; l'avete tenuto qui per comodo vostro
sei mesi dell'anno, come una fiera in un parco, a inselvatichirsi nella
solitudine e a istupidirsi nella noia; gli avete fatto respirare per
quattordici anni, non l'aria pura e benefica della famiglia, ma quella
fredda e pesante d'una casa d'ospizio, come se l'aveste raccolto per
la strada, o ve l'avessero dato a convitto; non avete avuto un palpito
insomma, non vi siete dati una cura, non vi siete preso un pensiero, un
solo pensiero per lui. Nessuna meraviglia dunque che questo ragazzo,
con tanto affetto nell'anima, a cui s'impedì sempre l'uscita, l'abbia
poi versato tutto con impeto alla prima occasione; nessuno stupore
che le prime parole affettuose abbiano trovato in lui un'eco troppo
viva, se non glien'avevate mai fatta sentire nessuna; nulla di più
naturale che il primo viso di donna che gli si parò dinanzi, gli
abbia fatto dar di volta al cervello, s'egli non n'aveva mai visti, se
era stato sempre lontano dalla gente, se era sempre vissuto in mezzo
ai campi come un eremita. Sacrificate una volta i vostri comodi, se
avete cuore e giudizio, andate a stare in città, conducetelo con voi
nelle case dei vostri conoscenti, fatelo stare in mezzo alle bambine,
sfranchitelo, incoraggiatelo, amatelo, e fategli capire che lo amate,
e penetrate un po' nell'anima sua e nella sua testa, chè non tutti
son fatti a un modo e non bisogna giudicar tutti da noi. E finitela
con questa maniera d'educazione che vuol mantenere l'autorità colla
freddezza e la disciplina coll'umiliazione, e non fa altro che soffocar
l'amor proprio, indurire il cuore, alimentare la diffidenza, seminar
l'avversione e l'ingratitudine. È un'educazione da collegi. La casa non
è un collegio. Nella casa non ci devono essere nè freddezze, nè odii,
nè ipocrisie, nè oppressioni; nella casa si corregge, si consiglia, si
prevede, si dà dei buoni esempi, e si ama, e così si compie il proprio
dovere, si educano i figliuoli, si preparano gli uomini e si lavora per
la società. Scusate se sono stato un po' duro, e ora andiamo a terminar
questa scena.

Tutte queste cose erano state dette con tanto calore, con tanta forza,
con un accento così fermo di persuasione, e tanto spedito, che i due
vecchi, sopraffatti, non solo non trovarono modo d'interrompere,
ma nemmeno quand'ebbe finito non riuscirono lì su quel subito a
infilar due parole. L'ispettore avrebbe ben voluto dire, con aria di
rassegnazione, che c'era _qualchecosa di vero;_ ma il giovane lo spinse
leggermente fuori del salotto, senza lasciargli il tempo di rifiatare.


XXVI.

Riconovaldo s'affacciò alla porta della camera di Furio e lo chiamò per
nome.

Furio, pallido e trasfigurato che metteva pietà, venne innanzi tremando
e vacillando.

— Animo — disse il giovane — ora è tempo che tu venga a veder tua
sorella.

— Oh! no! — esclamò il ragazzo con voce di pianto, retrocedendo; — non
posso! non ho coraggio!

— Vieni! — ripetè Riconovaldo con accento imperioso. — È nostro dovere
d'importelo e tuo dovere d'obbedire.

Furio obbedì; Riconovaldo lo prese per mano e lo condusse sopra; il
padre e la zia lo seguirono.

Sul punto d'entrare nella camera di Candida, Furio si sentì mancar
le gambe; il giovine lo sorresse e gli disse: — Coraggio! — ed
entrarono.

La camera era quasi buia; Candida era a letto tutta coperta fino al
mento; Furio gettando un grido disperato si lanciò verso di lei, ma si
arrestò ad un tratto e cadde in ginocchio, singhiozzando: — Candida!
Candida! io ti volevo tanto bene... perdono! —

Candida tirò fuori un braccio e fece l'atto di cingergli il collo;
Furio s'alzò, chinò il viso sulla spalla di lei, esclamando con voce
soffocata: — Oh Dio! Dio! che cosa ho fatto! che cosa ho fatto! — ed
essa gli posò la mano sul capo e stettero un po' di tempo così.

All'improvviso Furio si sentì sul capo un'altra mano, e balzò indietro
atterrito.

Candida, sorridendo, gli tese tutt'e due le mani sane e intatte come le
aveva sempre avute.

Furio guardò, si passò una mano sugli occhi, girò lo sguardo intorno,
lo rifissò sulle mani di Candida, cominciò ad ansare, a gemere, a
sorridere, a mormorare qualche tronca parola, ad agitarsi tutto come
preso da febbre, e poi, tutto a un tratto, raccolta con grande sforzo
la voce, proruppe in un altissimo grido di gioia e si gettò fra le
braccia di sua sorella.

— Povero Furio! — essa gli disse, accarezzandolo affettuosamente,
— perdonami; ho fatto tutto questo per tuo bene; il dolore che hai
sofferto per cagion mia t'ha guarito; ora sei contento e tranquillo; ma
ho sofferto anch'io tanto per te; pensa quel che mi dev'esser costato
il farti penare così! Riconovaldo m'aiutò, persuase il babbo e la zia,
eravamo tutti d'accordo; tu mi perdoni, Furio, non è vero? —

Furio senza staccar la bocca dal viso di Candida accennò di sì.

— Ed ora, — uscì a dire Riconovaldo, — io ne ho già parlato al babbo e
alla zia; Furio verrà a fare un piccolo viaggio con me, per compenso di
quello che gli abbiamo fatto soffrire. —

Furio si gettò al collo di Riconovaldo. Questi si accostò a Candida,
cinse con un braccio la testa di lei, coll'altro la testa di Furio,
se le serrò tutt'e due contro il petto, e dopo aver guardato un pezzo
i due vecchi meravigliati di quell'atto, sorrise e disse: — Non avete
ancora capito che c'è qualche faccenda da accomodare? —

E allora Candida nascose dietro al capo di Furio il suo viso purpureo e
radiante di fidanzata.



UN GRAN GIORNO.


   [Illustrazione]


La famiglia G*** era in villeggiatura, a poche miglia da Firenze,
quando l'esercito italiano si preparava ad andare a Roma. L'impresa
non era veduta di buon occhio. Il padre, la madre, le due figliuole
grandi, cattolici ardenti e patriotti tranquilli, volevano i _mezzi
morali_. — Noi — diceva la signora agli amici — di politica non ce ne
intendiamo, io poi meno di tutti; e se dovessi dirvi proprio chiaro e
netto perchè la penso come la penso, mi troverei imbarazzata. Ma, che
volete? Io ho un presentimento nel cuore, mi sento dentro una voce, un
tremito, un qualche cosa che mi dice: — A Roma in codesto modo non ci
s'ha da andare, non ci si deve andare, non ci si può andare. —
Io mi ricordo del quarant'otto, mi ricordo del cinquantanove, mi
ricordo del sessanta; ebbene, in quei giorni, non ho mai avuto paura,
non mi son mai sentita nel cuore quest'ansietà che mi ritrovo adesso,
pensavo sempre che la dovesse finir bene.... Ma questa volta, Signori
miei, avete un bel dire, io vedo del buio nell'aria, e di molto! Voi
ridete.... Pregate il cielo che un giorno o l'altro non s'abbia da
piangere. A me quel giorno non par molto lontano.

Il solo che non la pensasse così, di tutta la famiglia, era il
figliuolo: giovane di vent'anni, che appunto in que' giorni rileggeva
la storia romana, e bolliva. Per questo, in casa, proferire il nome di
Roma era attaccar battaglia, e ce n'era già stata una vivissima, dopo
la quale avevano convenuto di non toccare mai più quel tasto.

Una sera, ai primi di settembre, ricevettero un giornale _ufficioso_,
in cui si dava per certo che i soldati italiani avrebbero passato
il confine. Il giovane gongolò. Il padre lesse l'articolo, stette un
po' sopra pensiero e poi, crollando la testa, brontolò: — No! — e poi
daccapo: — no! — e una terza volta: — no, no, no!

— Ma scusi, babbo! — esclamò il figliuolo infiammandosi.

— Non ricominciamo! — interruppe amorevolmente la madre. E per quella
sera non ci furono altre parole. Ma il guaio serio seguì la sera
dopo, poco prima d'andare a letto, quando il giovane, con una faccia
franca, senza preamboli, come se fosse la cosa più naturale del mondo,
manifestò l'intenzione d'andar a Roma coll'esercito.

Fu un grido generale di sorpresa e d'indignazione. E poi una tempesta
di rimproveri e di minaccie: — Che non eran cose da poter onestamente
desiderar di vedere; che purtroppo già ne toccava a ciascuno,
come italiano, una parte di colpa, senza bisogno d'aggiungervi la
responsabilità di testimonio oculare, e che qui e che là, e che infine
tutto si poteva concedere e perdonare ad un giovane bennato, fuorchè
la smania (furon parole della madre) di andar a vedere _bombardare un
povero vecchio_. Bella guerra! bella gloria davvero! —

Quand'ebbero finito, il giovane strinse i denti, fece in pezzi un
giornale, s'alzò con impeto, accese un lume, e andò a chiudersi nella
sua camera, pestando i piedi come un attore italiano quando fa il re
furibondo.

Ma dopo una mezz'ora, cheto cheto, in punta di piedi, ritornò nella
stanza da pranzo. Non c'era più che il padre e la madre, silenziosi e
melanconici. Egli domandò scusa al padre, che si lasciò stringere la
mano brontolando; e poi ritornò verso la camera. La madre l'accompagnò.

— Dunque mai più di codeste idee, non è vero? — gli disse
amorevolmente, ponendogli le mani sulle spalle.

Il figliuolo le rispose con un bacio.

E il giorno dopo passava il confine degli Stati Pontificii.


In casa, appena se n'accorsero, furono lagrime, furori, invettive,
proponimenti di non volerlo più vedere, di non alzarsi nemmeno quando
ritornasse, di lasciar passare un mese senza dirigergli una parola,
di dar di frego al capitolo _minuti piaceri_ nel bilancio domestico, e
cento altre cose. Per parte della madre, parole; ma nel padre propositi
serii. Non era uomo da transigere; era buono, ma duro, e qualche volta,
nelle sue collere, tremendo; e il figliuolo lo sapeva e lo temeva.
Come dunque si fosse potuto risolvere a fargliene una così grossa,
non si poteva spiegare. Le notizie del venti settembre non fecero che
inviperire vie più padre e madre. — Ci sentirà, — dicevano a denti
stretti, — ha da venire! — Le parole, i gesti, il contegno da tenersi,
tutto era pensato e preparato: doveva essere una lezione solenne.

La mattina del ventidue, stavano tutti nella sala da pranzo, leggendo,
quando sentirono un gran picchio nella porta, e subito dopo videro il
figliuolo, rosso, ansante, abbronzato dal sole, dritto e immobile sulla
soglia.

Nessuno si mosse.

— Come! — esclamò il giovane, incrociando le braccia, con aria di gran
meraviglia. — Non sapete la novità? —

Nessuno rispose.

— Non v'hanno detto nulla? Non è venuto nessuno da Firenze? Siete
ancora al buio di tutto? —

Nessuno fiatò.

— La presa di Roma.... — s'arrischiò a dire di lì a un po' una delle
ragazze, dopo aver consultato il babbo con un'occhiata — .... la
sappiamo.

— Come! Nient'altro?

— .... Nient'altro.

— Ma che presa di Roma! — proruppe il giovane con un grido che fece
tremare tutti quanti; — che presa di Roma! Ve la porto io dunque la
notizia! —

Tutti si alzarono e gli corsero intorno.

— Ma com'è possibile, — continuò egli a gridare agitando le mani, —
com'è possibile che non sappiate nulla? Non s'è sparsa la voce per la
campagna? Non si son radunati i contadini? Che cosa fa il Municipio?
Oh! questa è inconcepibile davvero! Sentite dunque, mettetevi tutti
intorno a me, vi racconterò tutto; mi batte il cuore che non posso
quasi parlare....

— Ma che è stato?

— Niente! Non vi dico niente! Voglio raccontarvi le cose per filo e per
segno, mi voglio sfogare, voglio che sappiate il fatto a poco a poco
come l'ho visto io.

— Ma son le feste dei Romani?

— È il plebiscito?

— L'arrivo del Re?

— Ma no! ma no! È ben altra cosa!

— Ma parla!

— Ma sedete!

— O come non s'è saputo nulla qui?

— Ma che volete ch'io sappia? Quello ch'io so è che portarvi pel primo
questa notizia è il più gran piacere che abbia provato in vita mia....
Sono arrivato stamani a Firenze, si sapeva tutto, son partito subito; —
chi sa, — pensavo, — forse la nuova non sarà ancora arrivata a casa;...
mi manca quasi il fiato!

— Di' dunque tutto, subito — esclamarono la madre e le ragazze
mettendosi a sedere intorno a lui. Il padre era rimasto in disparte.

— Sentirai, mamma! — cominciò il giovane. — Cose da fare impazzire.
Venite più in qua, così. Della mattina del ventuno sapete ogni cosa,
non è vero? Entrarono gli altri reggimenti; folla, grida, musiche, come
il giorno prima, fino alle dodici. Alle dodici, come per accordo preso,
lo strepito cessò, prima nel Corso, poi nell'altre strade grandi, e a
poco a poco per tutto. I drappelli dei cittadini si fermavano, facevano
crocchio e parlavano sotto voce; poi si sparpagliavano in tutti i
versi, salutandosi l'un l'altro, col fare di chi deve rivedersi poco
dopo. Pareva che fosse corsa la voce di prepararsi a qualche gran cosa.
La gente, incontrandosi, si parlava in fretta, e poi via, ciascuno
per conto suo. Da un capo all'altro del Corso era un affaccendarsi
generale; chi entrava nelle case, chi usciva, chi chiamava dalla
strada, chi rispondeva dalle finestre; i soldati scappavano di qua e di
là come se avessero sentito una chiamata; passavano ufficiali a cavallo
di trotto; passavano uomini e ragazzi con fasci di bandiere sulle
spalle e tra le braccia; tutti frettolosi e affannati, che parevano
inseguiti. Io, che non sapevo nulla, e non conoscevo nessuno, guardavo
in viso ora l'uno ora l'altro, tanto per veder d'indovinare qualcosa.
Tutti parevano allegri, ma non dimostravano più l'allegrezza viva e
sfrenata di prima; tutti lasciavano trasparir un pensiero, un dubbio,
quasi un'ansietà; si capiva ch'era gente che macchinava qualcosa.
Infilai una delle strade secondarie, andai oltre, mi fermai su due o
tre crocicchi: in ogni parte lo stesso spettacolo; gran gente, gran
moto, gran fretta, e un non so che nel modo di parlare e nei gesti,
che avevo già notato nel Corso, come se tutto quell'armeggìo si volesse
fare di nascosto a qualcuno, benchè fosse visibile a tutti. Passavano
gruppi, drappelli, centinaia di uomini e di donne insieme, e non si
sentiva un grido; andavan tutti dalla stessa parte, come a un luogo
convenuto....

— Dove andavano? — domandarono il padre e la madre.

— Aspettate. Ritornai verso il Corso. Quanto più andavo innanzi,
sentivo crescere un rumor sordo e continuo, come d'una gran folla.
Arrivai: il Corso era pieno di gente, tutti fermi e rivolti verso
il Campidoglio, come se aspettassero qualche cosa di là. Da piazza
del Popolo a piazza di Venezia era tutt'una calca da non potervisi
muovere. Si bisbigliava qua e là: — Or ora vengono. — Vengono di
laggiù. — Chi viene di laggiù? — La colonna principale. — Viene la
colonna principale. — Eccola. — No. — Sì. — A un tratto la folla si
agitò con grande impeto, si gridò da tutte le parti: — Son là, — e in
men che non si dica la via rimase sgombra nel mezzo come al passare
di una processione. Tutte le teste si scoprirono. Io, che ero rimasto
indietro, mi feci strada a furia di gomiti, e guardai.... Mi par di
sentire il fremito che mi corse da capo a piedi in quel punto. Venivano
innanzi generali in grande uniforme, signori in abito nero con ciarpe
tricolori; in mezzo ai signori e ai generali, ragazzi, donne e uomini
laceri e scamiciati; dietro operai, contadini, donne coi bimbi in
collo, soldati di tutte le armi, signore eleganti, studenti, famiglie
intere strette in piccoli gruppi tenendosi per mano per non perdersi;
tutti affollati, pigiati in modo da poter appena camminare; e pure non
si sentiva che un bisbiglio monotono come un ronzìo; silenzio dalle due
parti della strada, silenzio alle finestre: era uno spettacolo solenne;
faceva tra meraviglia e spavento; io ero estatico.

— Ma dove andavano? — domandarono con più viva insistenza il padre, la
madre e le figliuole.

— Lasciatemi finire! — riprese il giovane. — Mi cacciai in mezzo. E
con me vi si cacciarono man mano tutti quelli che stavano addossati al
muro a destra e a sinistra. Figuratevi che serra serra! La folla pareva
proprio un torrente, occupava tutti gli spazii; e ondeggiando sbalzava
gente, come onde, nelle botteghe, nei portoni, da ogni parte dove vi
fosse un po' di posto. Man mano che si andava, altre turbe di popolo
si versavano nel Corso dalle vie laterali, affollate anche quelle da un
capo all'altro; e la processione continuava a scendere dal Campidoglio,
e correva voce che nel Campo Vaccino vi fossero ancora migliaia di
persone. Gran gente arrivava da piazza di Spagna, gente da via del
Babbuino, gente da piazza del Popolo. Avevano tutti qualcosa in mano,
chi ghirlande di fiori, chi rami d'ulivo e d'alloro, chi bandiere, chi
cenci legati in cima a bastoni; qualcuno portava persino immagini sacre
spiegate con due mani al di sopra della testa; iscrizioni, emblemi,
ritratti del Papa, del Re, dei Principi, di Garibadi; una varietà, una
mescolanza, una confusione di persone e di cose, come credo non si sia
mai vista sotto il sole; e sempre e per tutto quel bisbiglio sommesso,
quell'andar lento, quella serenità, quella dignità, così strana e
maravigliosa in tanta moltitudine, che mi pareva di sognare. —

Tutta la famiglia si strinse intorno al giovane senza far parola.

— .... A un certo punto mi accorgo che la folla ha svoltato a sinistra:
tutti dietro. Adagio adagio con gran fatica, pigiati, oppressi, urtati
da tutte lo parti, senza poter muovere le braccia, respirando a stento,
si arriva, di strada in strada, sulla piazzetta dinanzi al ponte
Sant'Angelo. Il ponte era stipato di gente; la folla si perdeva di là
dal fiume verso San Pietro; tutta la sponda destra era un formicolaio.
Il passaggio del ponte fu un affar serio; ci si mise più d'un quarto
d'ora; i disgraziati che erano ai lati, spinti dalla gente del mezzo,
dalla paura d'esser buttati giù, si attaccavano disperatamente alle
spallette, e mandavano grida di spavento; si dice che siano seguite
delle disgrazie. A poco a poco si arrivò di là. Tutte le strade che
menano alla piazza rigurgitavano. Quando si fu all'imboccatura d'una
delle due strade che vanno diritte alla Basilica, s'udì a un tratto
un gran fragore sordo, cupo, come quello d'un mare in burrasca, che
ora pareva lontano, ora vicino, e veniva verso di noi a ondate. Era
la moltitudine accalcata in piazza di San Pietro. La folla si spinse
innanzi con più impeto; gli uni sugli altri, portati, travolti, su su,
fin che s'arrivò sulla piazza.... Dio eterno! se aveste veduto! Uno
spettacolo da sbalordire. Tutta quell'immensa piazza piena zeppa, tutta
nera, tutta brulicante, non c'era più piazza, era un mare. Tutt'intorno
fra le quattro file delle colonne, sulla gradinata della chiesa, sotto
il portico, sul gran terrazzo della facciata, sulle gallerie della
cupola, sui capitelli, sui pilastri; e dietro, alle finestre delle
case, sui balconi, sui tetti, sopra, sotto, a destra, a sinistra, da
per tutto dove una creatura umana poteva posare il piede, o attaccarsi,
o sospendersi, da per tutto teste, braccia e gambe spenzoloni,
bandiere, gesti, voci. Tutta Roma era là.

— Oh Dio!... E il Vaticano? — domandarono le donne con grande
trepidazione.

— Era chiuso. Sapete che un braccio del Vaticano dà sulla piazza,
e lì c'è l'appartamento del Papa. Tutte le finestre eran chiuse,
pareva un palazzo abbandonato; pareva, in quel momento, che avesse
l'espressione d'una persona, fredda, rigida, impassibile, che guardasse
giù con l'occhio spalancato ed immobile. La moltitudine guardava in su
rumoreggiando. Si vedeva da una parte, verso la gradinata, un grande
armeggìo di ufficiali e di signori, che pareva dessero degli ordini,
ripetuti poi di bocca in bocca. L'agitazione andava crescendo. Eran
tutti a capo scoperto: teste bianche di vecchi, teste brune di soldati,
teste bionde di bambini; splendeva un bel sole; mille cose, mille
suoni, mille colori ondeggiavano e si confondevano su quella immensa
folla; le bandiere, i ramoscelli, i cenci sventolati, erano sbattuti
qua e là, come se galleggiassero sull'acqua; il rimescolamento era
tale, che pareva ardesse il foco sotto terra. Tutt'a un tratto s'udì e
si propagò un grido da tutte le parti: — I ragazzi! I bambini! Avanti
i bambini! — Pareva una cosa convenuta. In un punto solo, da ogni
Iato della piazza, si videro sollevare i bambini al di sopra della
teste, e le donne e gli uomini che li tenevan su, fendere la calca;
tutti diretti verso il Vaticano; i ragazzi più grandi farsi strada
da sè, scivolare fra le gambe della gente, a dieci, a venti insieme,
stretti per mano; in pochi minuti, parte colle proprie gambe, parte
spinti, parte portati, centinaia di bimbi, tutto un popolo di creature
sino allora nascoste, si trovò affollato in un angolo della piazza;
e intanto un gridìo assordante di donne: — Badate! — Largo! — Il mio
bimbo! — Di lì a poco un altro grido, più forte, più imperioso: — Le
donne! Le donne! — Un altro rimescolìo, un altro rompersi della folla
in tutti i versi. Poi un terzo grido più formidabile: — L'esercito!
I soldati! Avanti! — E di nuovo un sottosopra indicibile; ma in ogni
parte ad un tempo, risoluto, rapido; nessuna delle difficoltà e delle
lungaggini che si vedono in casi simili; tutti s'affaccendavano e
servivano allo scopo; era una foga, un impeto, e pure un accordo
meraviglioso; pareva che quella folla innumerevole fosse ordinata
e ammaestrata. A poco a poco si rallentò il movimento, il chiasso
si quetò, le braccia si abbassarono, tutti si guardarono intorno, e
si vide ch'erano spariti, come per incanto, i bambini, le donne, i
soldati. Stavan tutti da una parte della piazza, a destra, divisi
in tre grandi schiere, dalla porta di San Pietro fino a mezzo
il colonnato, rivolti verso il Vaticano, stretti ed immobili. La
moltitudine proruppe in un fragorissimo applauso.

— Ma il Vaticano! — domandò per la terza volta la famiglia, tutta a una
voce.

— Sempre chiuso e quieto come un convento; ma aspettate. All'improvviso
l'applauso cessò, e si videro tutte le teste voltarsi indietro, e
bisbigliare: — Silenzio! Silenzio! — La parola corse fino in fondo
alle due strade che sboccan nella piazza. Il bisbiglio, di lì a poco,
cessò affatto, e si fece una quiete, un silenzio, come io non avrei mai
creduto che fosse possibile fra tanta gente: era qualcosa di sovrumano.
In mezzo a quel silenzio, parve improvvisamente di sentire un vocìo
leggiero, che non si capiva cosa fosse; un suono vago, diffuso, come
se venisse dall'alto; a mano a mano, insensibilmente, crebbe; prima un
alzarsi di voci qui, poi là, poi più lontano, incerte, discordanti; di
lì a poco più unite, più risolute; infine, come per incanto, confuse; e
un solo canto tremolo, argentino, soave, si levò al cielo, echeggiando,
come la voce d'una legione d'angeli. Erano migliaia di fanciulli che
cantavano l'Inno a Pio IX del 1847.

— Oh! Dio buono! — esclamarono la madre e le figliole, giungendo le
mani.

— Quel canto si ripercosse nel cuore di tutti, scese proprio a toccare
in fondo all'anima quello che v'è di più tenero; si sentì correre un
fremito per la folla; si vedeva un gran moto di braccia e di mani,
come di chi vuol parlare e non può; non si udiva che un mormorìo
confuso. — Santo Padre, — pareva che si volesse dire da tutti, —
guardate, sentite, sono i nostri bambini, sono i vostri figliuoli,
che vi cercano, che v'invocano, che implorano la vostra benedizione;
sono anime innocenti; arrendetevi alla loro voce; benediteli; fate
che la patria e la fede siano un sentimento solo nei loro cuori; una
vostra parola, Santo Padre, un vostro cenno, un vostro sguardo solo
che annunzi il perdono e la pace, e saremo con voi, per voi, tutti,
ora, sempre, per sempre! Sono i nostri bambini, i vostri figliuoli!
— Migliaia di bandiere s'agitavano in aria, il canto tacque, seguì un
profondo silenzio....

— Ebbene? — domandarono tutti affannosi.

— Sempre chiuso, — continuò il giovane. — S'alzò il canto delle donne.
Si sentiva un tremito profondo in quella immensa voce; vi si sentiva
un qualche cosa che prorompe soltanto dal seno delle madri; pareva
piuttosto un grido che un canto; era soave e solenne. La gente, alle
prime note, rimase immobile; subito dopo cominciò ad agitarsi, come
mossa da un ardore irresistibile; le grida coprivano quasi il canto.
— Sono le nostre madri, — si diceva, — le nostre spose, le nostre
sorelle. Santo Padre, ascoltatele; esse non hanno mai avuto odio nè ira
nel cuore; esse hanno sempre amato e sperato; esse credono e pregano;
esse vi domandano di poter insegnare ai loro figliuoli il nome vostro
insieme con quella d'Italia. Santo Padre, una vostra parola risparmierà
loro molti dubbi dolorosi e molte lagrime amare; benedite le nostre
famiglie, Santo Padre! —

Gli ascoltatori interrogarono collo sguardo e col gesto.

— Chiuso, — rispose il giovane — sempre chiuso. Ma allora proruppe
un canto fragoroso e accelerato, a cui seguì un nuovo e più violento
rimescolìo; erano i soldati. — Sono i nostri soldati, — dicevano
tutti tra se, — saranno i vostri; sono i figliuoli delle campagne e
delle officine; essi, Santo Padre, veglieranno alle vostre porte e
scorteranno i vostri passi; essi, nati nella vostra terra, essi che
udirono da fanciulli il vostro grido sublime di libertà, e combatterono
contro lo straniero col vostro nome e con quello del loro Re sulle
labbra e nel cuore; benediteli; voi li troverete stretti intorno al
vostro trono nell'ora del pericolo, pronti a morire; una parola, Santo
Padre, e queste spade, questi petti, questo sangue, son vostri! Essi
vi domandano la benedizione della patria! Ricordatevi, Santo Padre,
il vostro grido sublime!... — Una finestra del Vaticano s'aperse.
— Allora il canto cessò, tacquero le grida, silenzio. Alla finestra
non v'era anima viva. Vi fu qualche istante, in cui il respiro della
moltitudine pareva sospeso. Si vide come un'ombra muoversi alla
finestra, ma dentro, in fondo, e sparire. Parve di veder passare della
gente, di sentir dallo strepito. Tutte le faccie, tutti gli occhi erano
fissi, immobili là. A un tratto tutta la moltitudine, come ispirata,
stese tutta insieme le braccia verso il palazzo, migliaia di donne
levarono in alto i bambini, i soldati alzarono i cappelli sulla punta
delle baionette, tutte le bandiere sventolarono, centomila voci si
sprigionarono in un solo tremendo grido: — Viva! Viva! Viva! — Alla
finestra del Vaticano si vide spuntare qualcosa, muoversi, luccicare,
sollevarsi in aria di colpo.... Dio eterno! — gridò il giovane
lanciandosi al collo di sua madre — era la bandiera italiana! —

Dire l'allegrezza, la gioia, l'entusiasmo di quella buona gente, è
impossibile. Il giovane aveva parlato con tanto calore, s'era tanto
innamorato del suo medesimo inganno che a poco a poco era arrivato
fino a non accorgersi più che inventava; e veramente gli si erano
inumiditi gli occhi e gli tremava la voce. Perciò nemmeno un'ombra
di sospetto passò per la mente ai suoi genitori e alle sue sorelle.
Si abbracciavano, ridevano, piangevano. Da quanti dubbi, da quanti
scrupoli, da quante battaglie dolorose fra il cuore d'Italiani e la
coscienza di Cattolici, si trovavano liberati! La conciliazione tra la
Chiesa e lo Stato! Il sogno di tanti anni! Che tranquillità d'animo a
allora in poi! Che bella vita d'amore e di accordo! Che respiro libero
e sicuro! — Sia benedetto il cielo! — esclamò la madre, lasciandosi
cader sur una seggiola, stanca dalla commozione. E poi daccapo tutti
insieme intorno al giovane, chi pigliandogli una mano, chi tirandolo
pei panni.

— È proprio vero?

— Non è un sogno?

— Continua, racconta tutto, il Papa, la gente, che cosa è stato....

— .... Quel che seguì allora, — riprese il giovane con voce stanca, —
a dirvela schietta io non lo so, non me ne ricordo; fu un tale scoppio
di grida, un sottosopra, una frenesia, un delirio tale, che solamente
a pensarci, anche adesso, mi si confonde la testa. Io non mi vidi più
altro intorno che braccia e bandiere alzate, che mi nascosero ogni
cosa. Una gomitata che ricevei nel petto in uno di quei terribili
rimescolamenti della folla, mi tolse quasi il respiro. Dopo qualche
momento mi parve di essere un po' più al largo e mi gettai in una delle
strade che menano al ponte, per uscir fuori da quella confusione. Da
tutte le strade di Borgo Pio il popolo si precipitava con altissime
grida sulla piazza. Si disse poi che la folla s'era slanciata alle
porte del Vaticano per irrompere dentro; i soldati l'avevan dovuta
contenere prima col petto, poi a forza di braccia, infine coll'armi;
si parlava di gente rimasta soffocata nel serra serra. Dentro, nel
Vaticano, che cosa sia seguìto per ora non si sa; si diceva che il Papa
aveva dato la benedizione dalla finestra. Io non lo vidi. Affranto,
sfinito, arrivai sul ponte e lo passai. Sempre accorreva gente da
ogni parte, chiamati dalla notizia del grande avvenimento, che s'era
propagata colla rapidità del lampo. Grossi drappelli di cavalleria
accorrevano di trotto serrato. Guide e aiutanti di campo, mandati a
portar ordini di qua e di là, correvano le strade gridando. La gente
rispondeva dalle finestre. Vecchi decrepiti, malati, donne coi bimbi
fra le braccia, s'affacciavano a' terrazzini, scendevan nella strada,
interrogavano, si meravigliavano, si baciavano.... Io arrivai al Corso.
All'improvviso s'udì un rimbombo terribile dalla parte del Pincio,
poi un altro dalla parte di Porta Pia, poi un terzo dalla parte Porta
San Pancrazio; erano tutte le batterie d'artiglieria dell'esercito
italiano che salutavano il Pontefice con una salva precipitosa. Dopo
poco s'udirono i rintocchi della campana del Campidoglio, poi man mano
le campane di cento chiese, che si confusero in un concerto grandioso.
La folla da Borgo Pio si riversò con impeto sfrenato sulla sinistra del
Tevere, invase in pochi momenti le strade, le piazze, le case; scoprì
gli stemmi papali ch'erano stati coperti; portò in trionfo busti di
Pio IX, ritratti, bandiere; migliaia di persone si fermarono davanti
ai palazzi dei patrizi romani più noti per devozione al Pontefice e
proruppero in applausi, e quelli si presentarono sui balconi e misero
fuori le bandiere nazionali.... Un momento, lasciatemi riprendar
fiato. —

Ripreso ch'ebbe fiato, subito l'incalzarono con nuove domande: — E poi?
E il Vaticano? E il Papa?

— .... Non so.... Non vi dico quello che era di bello, di grande,
di meraviglioso Roma la sera. La notte era serenissima, e ci fu una
illuminazione quale non s'è vista mai, credo, da che mondo è mondo:
il Corso pareva tutto di foco; le chiese piene di gente con preti
che predicavano; nelle strade musiche, canti, balli; cittadini che
parlavano al popolo nei caffè e nei teatri. Volli vedere un'altra
volta la piazza di San Pietro. S'era sparsa la voce che Sua Santità
aveva bisogno di riposare; Borgo Pio era quieto come in una delle
notti più quiete; la piazza era rischiarata dalla luna; una folla
silenziosa stava raccolta intorno alle due fontane e sulle gradinate;
molti seduti in terra, molti coricati; una gran parte, i più rifiniti
dalle fatiche e dalle commozioni della giornata, dormivano; donne,
soldati, bambini, alla rinfusa; centinaia di persone inginocchiate, e
qua e là sentinelle di tutti i Corpi, con bandierine e croci piantate
nella canna del fucile. Il terreno era sparso di bandiere, di foglie,
di fiori, di cappelli perduti nel trambusto; le finestre del Vaticano
erano illuminate; non si sentiva una voce; pareva che tutta quella
gente trattenesse il respiro. Partii di là commosso, esaltato, pensando
a tutto quello che avevo visto, all'effetto che avrebbe prodotto la
notizia in Italia, nel mondo, in voi altri, in te, specialmente, babbo;
mi trovai alla stazione quasi senza avvedermene, c'era una confusione,
un gridìo assordante; salii sul treno, si partì, ed eccomi qua. La
notizia è arrivata ieri sera a Firenze; mi dissero che fu un delirio;
il Re è partito per Roma; la notizia s'è già sparsa per tutta la
terra. —

A questo punto si lasciò cader sulla seggiola e tacque in atto di
chi non ha più fiato in corpo. Poi s'alzò improvvisamente e scappò a
intercettare i giornali che dovevano arrivare alla villa alle undici,
sicchè la famiglia serbò la sua cara illusione fino a sera. Il desinare
fu allegrissimo, il giovane continuò ad affastellare particolari su
particolari, e la madre e gli altri, contentezze su contentezze,
benedizioni su benedizioni. Quando tutto a un tratto si sentì un
passo accelerato su per le scale, e poi una rumorosa scampanellata.
Di lì a un minuto la porta s'aperse, e un prete lungo, asciutto, col
viso pallido e la bocca torta, comparì sulla soglia. Era un prete
arrabbiato, che la famiglia conosceva di fresco, e pel quale non aveva
gran simpatia; ma che pure rispettava ed accoglieva in casa, più per
ossequio all'abito che alla persona. Tutti, tranne il giovane, gli
corsero intorno, gridando: — Ebbene! Ha sentito la gran notizia! Tutto
è finito, grazie al cielo! È stata la mano di Dio! Che cosa ne pensa?
Parli, racconti!

— Ma che notizia? — dimandò il prete, guardandoli in viso uno per uno
con un par d'occhi stralunati.

Gli dissero tutti insieme, in fretta e in furia, delle feste, del
perdono, della conciliazione.

Il prete guardò tutti con l'aria di chi temesse d'esser capitato in
mezzo a un crocchio di matti; poi fulminò con un'occhiata il giovane,
ed esclamò con un sorriso maligno di trionfo:

— Non c'è ombra di vero, per fortuna!

— Non c'è ombra di vero! — gridarono tutti, voltandosi verso il
figliuolo.

Questi, senza scomporsi, fissò il prete, e con un accento misto
di tristezza e di sdegno gli disse: — Ma, reverendo, non dica: per
fortuna! Lei è italiano; dica: Peccato che non sia. —

Tutti gli altri rimasero per qualche momento come sbalorditi; ma poi,
voltandosi di nuovo verso il prete, e piccati, come sempre segue,
più contro chi aveva tolto che contro chi aveva dato l'illusione,
ripeterono quasi involontariamente: — Sicuro! dica piuttosto: Peccato!

— Io? — rispose il prete, torcendo verso il suo petto un lungo dito
nodoso; e poi con voce acre e vibrata: — Io non lo dirò mai!

A quelle parole il vecchio, ferito bruscamente nel dolce sentimento che
lo esaltava, perdette, com'era solito, i lumi, e stendendo il braccio
verso il prete, si lasciò sfuggire dalla bocca un: — Via! — che risonò
in tutta la casa come una pistolettata.

Il prete disparve chiudendo la porta con impeto. Il giovane gettò le
braccia al collo del padre; e questi, mettendo le due mani sulla testa
del figliuolo, esclamò con un accento triste e affettuoso: — .... Ti
perdono.



ALBERTO.


   [Illustrazione]


I.

Era bello vedere il giardino della piazza d'Azeglio la sera d'una
giornata di primavera, due anni fa, quando Firenze era ancora
Capitale. Vi convenivano centinaia di fanciulli, molti di famiglie
fiorentine, la più parte di famiglie d'impiegati d'ogni provincia; era
il ritrovo delle Italiane e degl'Italiani più piccini e più belli che
avevano condotti in quella città il Parlamento, i Ministeri e l'altre
istituzioni dello Stato, il fiore dell'innocenza e della gaiezza
della Capitale. Le madri, le governanti, le bambinaie stavan sedute
sulle panche a destra e a sinistra dei viali; i bambini correvano in
mezzo; nel centro del giardino sonava la banda. Fino all'imbrunire era
un moto e un gridare continuo. Frotte di ragazzi uscivano di dietro
ai cespugli, si sparpagliavano ridendo, s'inseguivano e ridevano,
correvano a giri e rigiri come le rondini, e ridevano sempre, cadevano,
sempre ridendo, e si rialzavano, e ricominciavano a darsi dietro. Qua
una bimba perdeva il pettine, là un'altra la pezzuola, qualcuna si
fermava per farsi riabbottonare lo stivaletto. Da un lato all'altro dei
viali si chiamavano ad alta voce, e in un momento si sentivano cento
nomi di santi, di guerrieri, d'imperatori, di poeti: — Maria! Ettore!
Pompeo! — Non si capivan tutti fra loro. — Che hai detto? — domandava
una toscana, chinandosi verso una lombarda che le aveva diretto la
parola passando. Formavan dei cerchi a dieci insieme tenendosi per
mano, e si mettevano a girare, e andavano tutti a gambe levate, e alle
bambine più grandi si scioglievano i lunghi capelli, e le piccine
piangevano. Tratto tratto, due che s'erano bisticciati andavano a
chieder giustizia, seguiti da un piccolo drappello di curiosi, al
tribunale di qualche mamma seduta in disparte. Altri, spossati dalla
corsa, col viso infiammato, ansanti, riposavano sull'erba fin che
avessero ripreso nuova lena per ritornare ai giuochi. E lontano, tra le
siepi e gli alberi, si vedevano altre frotte di bambini biancheggiare
un momento, poi sparire, poi riapparire; e da ogni parte si alzavano
voci di gioia, di rimprovero, di meraviglia, di comando, e ad ogni
passo si udivano accenti diversi che, richiamando alla memoria le
diverse provincie, facevano passar dinanzi agli occhi una sequela
rapidissima di visioni: il Canal grande, il Vesuvio, San Pietro,
Superga. Il giardino Massimo d'Azeglio faceva esclamare, quasi con un
senso nuovo di maraviglia e di piacere: — Oh qui si vede che l'Italia è
fatta davvero! —

Una sera d'aprile del 1870, in una parte del giardino, dove il
formicolìo dei fanciulli era più fitto, stava seduto sur una panca,
solo, colle braccia incrociate sul petto, un giovane sui vent'anni,
decentemente vestito, d'aspetto malaticcio, che pareva che dormisse.
Stava appoggiato col capo all'indietro, come se guardasse il cielo. A
un tratto, essendosi mosso leggermente per prendere un atteggiamento
più comodo, gli cadde il cappello dietro la panca, e dal cappello saltò
fuori un non so che di forma quadrata e di color rosso, simile a quelle
buste, in cui si mettono le carte geografiche. Egli non se ne accorse
e continuò a dormire. Alcuni ragazzi, passando, urtarono coi piedi in
quell'oggetto e lo spinsero cinque o sei passi più in là.

Dopo alcuni minuti il giovane si svegliò, e accortosi di avere il capo
scoperto balzò in piedi e guardò intorno. Vide il cappello, lo prese,
vi guardò dentro, si turbò, e cominciò a cercare attentamente intorno
alla panca.

Poi si fermò, e voltando gli occhi in giro, dimandò con voce inquieta:
— C'è nessuno che abbia visto qui, accanto alla panca, un oggetto
rosso, grande così, di cartone? —

Due o tre donne si voltarono.

— Vorrebbero farmi la gentilezza, — soggiunse il giovane, — di
domandare ai loro bambini? —

Le donne rivolsero qualche domanda a mezza voce ai bambini che avevano
intorno, e poi fecero cenno di no.

— Perdonino, — ripigliò il giovane con voce commossa, avvicinandosi
alle donne, — è impossibile, l'oggetto m'è caduto di dosso un momento
fa; mi facciano il piacere, domandino ancora, cerchino....

— O che s'ha a cercare? — usci a dire in tono dispettoso una donna; —
quando s'è detto no, è no; è bell'e finita.

— Ma lei, — esclamò allora il giovane con accento più di dolore che
di stizza; — lei non sa che cosa io abbia perduto! Potrebb'essere un
oggetto prezioso! Potrebbe.... No, si fermino, — soggiunse con tono
supplichevole verso due altre donne che se n'andavano, — si fermino un
momento, le prego, mi aiutino,... non dimando che un momento! —

Si cominciava a radunar gente, le donne chiamarono i bambini e
s'allontanarono.

Il giovane gridò ancora una volta: — Un momento! Mi facciano questo
favore! — Poi riprese a cercare qua e là, quasi correndo, e parlando
tra sè a mezza voce.

— Ha perso dei denari? — gli domandò un tale.

— No! — rispose, continuando a girare sempre più in fretta.

— Ha perso un anello? — domandò un altro.

— No! —

La gente s'allontanò a poco a poco.

Stanco di cercare inutilmente, il giovane si rimise a sedere,
prendendosi il capo tra le mani e scuotendolo in atto sconsolato.

Era già quasi buio, il giardino deserto e silenzioso; non si udivano
che le voci lontane degli ultimi bambini che andavan via.

— Senti, — diceva al suo compagno un monello ch'era rimasto ad
osservare il giovane di dietro alla cancellata del giardino, —
piange. —

Sentì queste parole un signore che passava, guardò dentro il giardino,
entrò, e s'avvicinò alla panca.

— Che cos'ha? — domandò al giovane.

Questi non rispose.

— Posso far qualche cosa per lei? — ridimandò l'altro. — Mi dica che
cos'ha; non glielo domando mica per semplice curiosità....

— Grazie, — rispose il giovane coll'accento di chi vuol terminare un
discorso.

— Mi dispiace — ripigliò il signore — di non ispirarle fiducia. In ogni
caso, qui c'è il mio indirizzo. Si faccia coraggio. —

Ciò detto se n'andò. Il giovine guardò intorno a sè e vide un biglietto
da visita sulla panca; se lo mise in tasca, e riprese l'atteggiamento
di prima.

In quel punto si sentì l'orchestra fragorosa del teatro Principe
Umberto.


II.

Ci sono in tutte le grandi città certe trattorie a terreno, composte
d'una sala e d'una cucina con un'avviso sulla porta che dice: _pensione
a quaranta lire il mese_. Si somiglian tutte: la sala è lunga e
stretta; in una parete si vede il busto del Re; in un canto un padrone
di cattivo umore, e in giro due o tre camerieri coi panni sudici, e
coi capelli scarmigliati, che servono di mala grazia. Gli avventori
sono quasi tutti giovani, che fanno il loro meschino desinare senza
discorrere e senza alzar gli occhi. Non sono poveri, non sono operai,
non sono studenti, non sono impiegati; è difficile determinare la
classe sociale a cui appartengono. Son gente che vive alla giornata,
sparsi pei fondachi, per gli Ufficii dei giornali e pei Ministeri; che
ogni tanto, man mano che l'occasione del lavoro manca da una parte e si
presenta dall'altra, mutan posto, occupazioni e nome; oggi procaccini
di gazzette, domani revisori di conti, un altro giorno scrivani
straordinarii. Dormono in una cameretta al quarto piano, fumano un
sigaro al giorno, e vanno una volta al mese al teatro. Alcuni hanno i
capelli lunghi; molti, l'inverno, son senza pastrano, e portano intorno
al collo una sciarpa di lana o uno scialle vecchio; spesso s'incontrano
fuor di città in qualche strada deserta, soli. Ce n'è degli scioperati;
ma molti pure che risparmiano dieci lire sulle cento che guadagnano al
mese; e le mandano a casa, o le mettono da parte. E sono i primi, per
lo più, a levare di mezzo alla strada un ragazzo, quando sopraggiunge
una carrozza, o a rialzare un vecchio caduto in terra, o a separare due
monelli che si picchiano. Alcuni hanno sul viso un espressione costante
di tristezza e guardan la gente in modo che par che rinfaccino a tutti
qualcosa; altri invece hanno una fisonomia che esprime serenità, pace,
sentimenti miti e benevoli. Tutti poi, o quasi tutti, mostrano di
tempo in tempo qualche viva allegrezza di cui può esser cagione una
lettera d'un parente lontano, o una buona parola d'un capo d'uffizio
o l'aver trovato una camera che costi cinque lire di meno al mese. Vi
sono nature ammirabili fra questa classe di giovani; cuori eletti, vite
nobilissime piene di sacrifizii e di dolori terribili, sopportati senza
lamento e in segreto.


III.

Il giovane del giardino d'Azeglio era di questi. Si trovava da pochi
mesi in Firenze, impiegato come scrivano nello studio d'un avvocato che
gli dava novanta lire al mese. Era nato a Palermo, dove aveva fatto
i suoi primi studii, e perduto in tenera età il padre e la madre. Di
parenti non gli era rimasto che uno zio, il quale l'aveva raccolto e
mantenuto a malincuore per alcuni anni; e poi gli aveva fatto intendere
poco amorevolmente che in casa c'era una persona a suo carico. Allora
il giovane, sollecitato da un amico di Firenze a venire in cerca
d'un impiego nel gran mare della Capitale, se nera partito da Palermo
con qualche centinaio di lire, e molte speranze. Ma arrivato in riva
all'Arno, dopo molto scendere e salire per l'altrui scale, aveva dovuto
dare un addio alle speranze, e contentarsi di campare copiando. L'amico
se n'era tornato in Sicilia dopo poche settimane, e il povero scrivano
era rimasto solo nella città sconosciuta.

Toccava appena i vent'anni, ma ne dimostrava assai di più, come tutti
quelli che han cominciato per tempo a faticare per vivere. Aveva
l'intelligenza aperta e pronta, e non mancava d'una certa cultura,
benchè fosse stato costretto a lasciar le scuole, quando appunto
cominciava a capire e a studiare. Gli era rimasto in capo quello che
rimane generalmente a coloro pei quali il passaggio dell'adolescenza
alla giovinezza segna l'abbandono dei libri per le faccende; qualche
data istorica, qualche verso di Dante, e i nomi degli scrittori
contemporanei più popolari. Ma aveva quell'accorgimento modesto e
guardingo, comune a pochi, col quale, non oltrepassando mai i confini
del proprio sapere, si riesce a tenerli sempre nascosti; e si può
parlare di ogni cosa, senza mai dire uno sproposito, o si sa tacere in
maniera, che non paia vergognosa l'ignoranza.

Le sue novanta lire al mese gli bastavano; con quaranta mangiava in una
piccola trattoria, con diciotto aveva trovato una cameretta al quarto
piano, in una via appartata, in casa di una povera famiglia, che viveva
d'una piccola pensione e dei pochi quattrini della dozzina. Questa
famiglia era composta d'una vecchia, vedova d'un impiegato fiorentino,
quasi sempre malata; e d'una ragazza di diciott'anni, che non faceva
altro che assister sua madre.

Questa aveva fatto qualche difficoltà a ricevere in casa il nuovo
inquilino; e perchè non c'eran mai stati che dei vecchi, coi quali
poteva parlare dei suoi malanni, ed anco averne qualche aiuto, quando
occorreva, più che di parole; e perchè, d'altra parte, un giovane
avrebbe fatto chiacchierare il vicinato, e dato a lei la noia di
dover tenere gli occhi aperti. Ma Alberto, fin dalla prima volta che
l'aveva visto, le era parso così quieto, così raccolto, così pari pari,
che s'era indotta, dopo un po' di esitazione, a dargli la camera. La
figliuola, dal canto suo, non aveva fatto nessuna istanza, nè mostrato
desiderio ch'egli entrasse in casa a preferenza d'un altro; ed anche
per questo essa aveva acconsentito.

— Non ha di discreto che gli occhi, — aveva detto la figliuola il
giorno della sua entrata in casa.

Era un inquilino che dava poca noia. Tornava verso le nove della sera,
dava la buona notte, e andava a letto subito; la mattina, al levar
del sole, era già fuori. Così entrando, come uscendo, non faceva il
più piccolo rumore. Nella sua camera, quando la madre e la figliuola
entravano per rifare il letto, ogni cosa era al suo posto come l'avevan
lasciata il giorno prima; pareva che non ci fosse stato nessuno. I
mobili erano spolverati, i panni spazzolati e piegati; alle donne
non restava quasi nulla da fare. Pochi vestiti; scarsa biancheria e
di qualità infima, due o tre libri, un piccolo baule, eran tutto il
suo corredo; ma in ogni cosa c'era l'impronta d'una cura continua e
rigorosa, d'una lotta ostinata della spazzola, del sapone e dell'ago,
contro il tempo, le seggiole e i tavolini dello studio. — Povero
giovane, — esclamava la vecchia, — si vede che è corto a quattrini; ma
non gli manca il giudizio. — La figliuola, i primi giorni, le diceva
che per essere tanto assestato a vent'anni, bisognava non aver sangue
nelle vene, e che a lei gli uomini che rubavano il mestiere alle donne,
non le piacevano; ma dopo aver ripetuto molte volte queste parole,
una mattina aveva soggiunto: — Eppure, un giovane che vive in questo
modo.... è simpatico! —

Era quasi trascorso un mese, dacchè il giovane era entrato in quella
casa, e fra lui e le sue ospiti non eran corse altre parole che
il solito buon giorno e buona notte. Una sera la madre fu presa da
un accesso forte del suo male consueto, e il giovane venne pregato
d'andare a chiamar il medico. Andò, tornò col medico, e, dopo che
questi fu partito, restò nella camera accanto al letto della malata.
La ragazza doveva scendere nella strada a pigliar certe medicine
dallo speziale dirimpetto. Prima di scendere levò il lume di sulla
tavola, perchè sua madre pativa la luce, e lo pose a piè del letto,
accanto al giovane; poi s'avviò per uscire. Arrivata sull'uscio,
approfittò del buio che la nascondeva, per voltarsi a guardare il suo
inquilino. — O chi è quello là? — domandò a se stessa maravigliata.
Il lume, rischiarando di sotto in su il volto del giovane, gli dava
una sfumatura alla pelle e una vivezza d'espressione così nuova, che
appariva quasi trasformato. — Par bello, — soggiunse la ragazza, e
discese. Quando risalì, cominciò a discorrere, guardandolo. A ora tarda
si separarono, ed essa ripetè tra sè stessa: — Non ha proprio altro di
bello che gli occhi.... e la voce. —

Così, a poco a poco, ora per effetto d'un lume posto in un certo
punto, ora per la espressione insolita d'un atteggiamento, ora per il
suono particolare d'una parola, il giovane si venne mutando ai suoi
occhi a tal segno, che in capo a due mesi non le pareva più quel d'una
volta, accolto sulle prime con indifferenza e guardato non di rado con
dispetto.

La madre di tratto in tratto cadeva ammalata, e ogni volta egli andava
pel medico, e restava poi accanto al letto, quando la figliuola doveva
uscire. Così nacque fra loro una certa dimestichezza. La vecchia aveva
cominciato ad aprir gli occhi; ma non vedendo assolutamente nulla
che le desse motivo di tenerli aperti, li aveva richiusi. Ringraziava
spesso il suo inquilino delle cure che le prestava, e ne discorreva
affettuosamente colla figliuola. Finirono col far conversazione ogni
sera, tutti e tre, intorno al tavolino da lavoro; la madre parlando per
lo più dei pettegolezzi delle vicine, ii giovane della sua Palermo, la
ragazza di bazzecole, tanto per farsi veder sorridere e poter guardare
negli occhi il suo ascoltatore, mentre egli guardava lei. Oltre
gli occhi discreti e la voce bella, essa aveva scoperto il sorriso
simpatico e le maniere “proprio gentili„.

Una sera stavano affacciati tutti e due alla finestra guardando giù;
era buio e pioveva, e non si vedeva anima viva. A un tratto balenò
in fondo alla via una luce viva e tremula; eran le fiaccole della
Compagnia della Misericordia. — Che serata melanconica! — mormorò la
ragazza, voltando le spalle alla finestra; — è una di quelle serate che
verrebbe voglia di addormentarsi e di non svegliarsi più... Non l'ha
mai provato lei questo sentimento? —

Il giovane sorrise, poi mormorò: — Lei ha ancora sua madre; come le
possono venire in mente queste idee?

— E lei non l'ha più?

— Io non ho più nessuno. —

La ragazza fu scossa dall'accento di queste parole, lo guardò, e disse
a bassa voce: — Non lo aveva mai detto. —

Dopo un altro momento domandò: — Non ha neppure fratelli? —

— No.

— Avrà degli amici in Firenze....

— Nemmeno.

— Ma come si fa a vivere senza voler bene a nessuno?

— E chi le dice ch'io non voglia bene a nessuno?

La ragazza lo fissò, sorrise, mosse una mano per ravviarsi i capelli,
non potè, era imprigionata; mosse l'altra, era stretta anche quella;
chinò gli occhi, li rialzò, non v'era più alcuno; fuggì essa pure.
Da quel giorno, in quella casa, tutto mutò: pensieri, visi, atti,
discorsi; la madre aprì una terza volta gli occhi, ma cogli occhi anche
il cuore ad una speranza lontana; le conversazioni si protrassero ogni
sera fino ora più tarda; la dimestichezza divenne intimità; e solo una
volta ci fu un po' di malumore da una delle due parti. La madre propose
al suo inquilino di fargli il desinare in casa: egli rifiutò; ma dopo
due giorni si ristabilì la pace.

I due giovani eran tutt'e due piccoli e bruni; egli serio, essa
allegra, e più bella; e si chiamavano Alberto e Giulia.


IV.

Alcuni giorni prima che seguisse il caso del giardino d'Azeglio,
una sera, un po' avanti l'ora solita, Alberto tornò a casa col viso
stravolto, e si chiuse nella sua camera senza dir parola. La mattina
seguente si levò per tempo, e cercò d'uscire non visto; ma la ragazza,
che stava in guardia, lo fermò in tempo, e prima con un piglio
scherzoso di comando, poi con un accento commosso di preghiera, tentò
di farsi dire quello che gli era accaduto. Alberto, più serio, ma anche
più affettuoso del solito, le rispose che non gli era seguito nulla,
che la sera innanzi sera sentito un po' male, e che il riposo della
notte l'aveva rimesso. Ma era ancora pallido, e aveva gli occhi rossi.
Giulia non credette. Pregò ancora, lo prese per mano, versò qualche
lagrima, ma inutilmente; il giovane le strinse la mano e la guardò con
tenerezza, e poi uscì senza dir parola. Da quel giorno in poi non parve
più quello di prima. Anche le sue abitudini mutarono; tornava a casa
ora molto più tardi, ora molto più presto che per il passato, parlava
più di rado; e quantunque facesse uno sforzo continuo per parere, se
non allegro, tranquillo, si capiva, al solo guardarlo, che era agitato
e triste. La ragazza lo supplicava: — Parli! mi dica che cos'ha! non
mi faccia soffrire! — E lui ancora più caldamente pregava Giulia che
non si desse pensiero di quel suo cangiamento, ch'era effetto d'un
malessere passeggiero. Ma intanto ogni giorno diventava più pallido e
più melanconico, e lo sforzo che faceva per sorridere e per parlare,
appariva sempre più evidente e più doloroso. La sera della scena
del giardino tornò a casa per tempo, e Giulia lo pregò ancora, più
teneramente che mai, di parlare; egli le rispose con voce stanca e
tremante; — Fra qualche giorno.... oggi è impossibile; — e si chiuse
nella sua camera, lasciando la povera ragazza desolata. La mattina
dopo, prima che le donne si destassero, era già fuor di casa.


V.

La madre, benchè non avesse il capo ad altro che ai suoi malanni, s'era
accorta del mutamento seguìto in Alberto, e ne aveva parlato più d'una
volta colla figliuola; ma non le pareva cosa da doversene gran fatto
impensierire. — È una di quelle malinconìe, — diceva, — a cui tutti i
giovani vanno soggetti; qualche altro giorno e passerà. — Giulia però,
che aveva l'occhio fine e l'affetto divinatore, non era dello stesso
parere; il cuore le presagiva qualche cosa di sinistro; e l'ansietà
le era cresciuta a tal segno, che, sentendo di non poter più durare
in quello stato, risolvette di farsi dire la verità ad ogni costo,
avesse pur dovuto minacciare Alberto di togliergli il suo affetto e di
staccarsi per sempre da lui.

Venne la sera. Giulia e la madre cenavano, sedute l'una di fronte
all'altra, ai due lati d'un tavolino, rischiarato da un piccolo lume a
olio. La madre aveva fasciato il capo in modo che le si vedeva appena
il viso, e stava tutta raggomitolata in un vecchio seggiolone, col
mento sull'orlo del piatto e gli occhi socchiusi; sulla parete opposta
s'allungava l'ombra di Giulia, con una gran capigliatura disordinata;
la stanza era quasi buia, e non vi si sentiva che il monotono tic tac
dell'orologio.

A un certo punto sentirono un passo su per la scala, la porta s'aprì,
comparve Alberto.

— Finalmente! — esclamarono ad una voce le due donne.

Alberto sedette vicino alla tavola, Giulia lo guardò e gettò un grido:

— Dio mio! cos'ha? —

Alberto sorrise sforzatamente e rispose con dolcezza: — Non ho nulla.

— È impossibile! Lei ha un viso smorto che fa paura! — esclamò Giulia
alzandosi.

— La prego.... — mormorò Alberto, pigliando Giulia per la mano; — si
metta a sedere.... le assicuro.... che non ho nulla.... —

Giulia sedette, ma spinse da parte il piatto e incrociò le braccia con
un atto dispettoso.

— Vuol provare un dito di vino? — domandò la vecchia.

Alberto ringraziò, facendo cenno che non voleva, e poi cominciò a
guardar Giulia con un'espressione di tenerezza così triste, e stando
in un atteggiamento che rivelava una prostrazione dell'animo così
profonda, che la ragazza non si potè più contenere, s'alzò, accese un
lume, e disse risolutamente alla vecchia: — Scusa, mamma, bisogna ch'io
parli un momento con Alberto. —

La madre, alzando gli occhi a fatica, guardò lei e il giovane, e disse
a fior di labbra: — Malinconìe; — Alberto entrò nella camera colla
ragazza, lasciando la porta aperta. Appena entrato, si abbandonò sur
una seggiola; Giulia sedette davanti a lui, e prendendogli una mano fra
le sue, gli disse a bassa voce, e presto:

— Mi confidi quello che ha, glielo domando per l'ultima volta, così è
impossibile andare avanti.... Non mi dica che non si sente bene; non
mi basta; io voglio sapere il perchè non sta bene; una cagione ci ha
da essere, qualcosa le dev'esser seguìto; la prego, me lo dica, non mi
faccia più vivere in pena, ho già sofferto abbastanza; non ha fiducia
in me? e se non confida i suoi segreti alle persone che le vogliono
bene, a chi li andrà a confidare? —

Alberto, per tutta risposta, le baciò la mano; essa la ritirò.

— Vuol che glielo dica — riprese — che cosa le è accaduto? — L'ho
indovinato. Lei ha avuto qualche grosso dispiacere allo studio. Un
superiore le ha fatto un rimprovero a torto, lei s'è risentito, l'altro
le ha detto qualche parola offensiva, e lei per non perdere l'impiego
ha dovuto tacere, e per questo lei soffre; mi dica un po' che non è
vero, se può? Mi sostenga un po' che non ho indovinato!

— No, — rispose con voce debole Alberto, riprendendo la mano di Giulia.

— Allora.... — questa riprese — lo so io il perchè. Il perchè è un
altro. Vuole che glielo dica francamente? Lei ha giocato! — E lo guardò
fisso. — Lei ha giocato, ha perduto, e adesso ha dei debiti che non
sa come pagare. Mi confessi che il fatto è questo. Ma allora perchè
non me l'ha detto subito? Doveva capire che quel poco che possiamo
far noi, per cavarla d'impiccio, siamo disposte a farlo con tutto il
cuore. Per conto mio, veda, se non ci dovesse rimaner in casa altro che
un pagliericcio per dormire e quattro cenci per coprirci.... No, non
sorrida, lei non può immaginare il male che mi fa il suo sorriso; io
non dico nulla che non sia pronta a fare domani, subito, questa sera,
se lei ci vuol mettere alla prova,... io conosco mia madre. Mi dica che
ha giocato, via —

Alberto fece cenno di no col capo, e si coprì il viso con tutt'e due le
mani.

— Ma che può esser dunque? — continuò Giulia, facendogli tirar le
mani giù; — qualche promessa che ha fatto a sè stesso, e che ora le
rincresce di non poter mantenere? Un progetto, per esempio, che lei
aveva in capo, e che per eseguirlo aspettava, che so io? un avanzamento
nel suo impiego; e questo non è venuto, e lei ha perso ogni speranza? È
così? Un progetto, in cui entravo io forse? Dio buono, guardi che cosa
mi fa dire! Ma se fosse questo, io le darei la mia parola, le giurerei
qui, in questo momento, per quello che ho di più caro al mondo, che il
bene che le voglio sarà sempre uguale, qualunque cosa le accada e in
qualunque stato si trovi.... Lei non ha che vent'anni! C'è tanto tempo
ancora! Non ci sarebbe da darsi pensiero per il tempo! —

Alberto mise una mano sulla spalla della ragazza, la guardò negli
occhi, e mormorò: — Cara Giulia! se ti dicessi quello che ho.... ti
affligerei troppo! Lasciami solo, te ne prego, ti prometto che un
giorno ti dirò tutto; ora non posso, non ne ho il coraggio.... —

Giulia s'alzò improvvisamente, corse alla porta, guardò nell'altra
stanza: sua madre dormiva. Richiuse l'uscio, tornò, e si gettò in
ginocchio dinanzi ad Alberto.

— Per l'ultima volta, — proruppe con voce di pianto, — te ne scongiuro:
dimmi quello che hai! —

Alberto stette qualche momento sopra pensiero, guardandola; poi si
scosse, come se si fosse risoluto a parlare; aprì la bocca....

— Dunque! — esclamò vivamente Giulia.

— Guardami.., — ripose Alberto con un filo di voce.

Giulia si fece un po' da parte, affinchè il lume battesse in pieno nel
viso d'Alberto; lo guardò attentamente, e poi, afferrandogli tutt'e due
le mani, esclamò spaventata: — Ma tu soffri molto! Tu hai bisogno del
medico, Alberto! Che hai? che ti senti? —

Alberto lasciò cadere il capo sopra la spalla di Giulia.

— Mio Dio! — disse questa, tentando inutilmente di sollevarlo — Mamma!
mamma!

— No, non la chiamare, — mormorò Alberto senza alzare il capo, e
mettendo le braccia intorno al collo della ragazza inginocchiata; —
.... ti dico tutto.

— Presto!

— Senti, — continuò il giovane colla voce così bassa che appena si
sentiva; mi costa uno sforzo che tu non puoi immaginare.... il doverti
dire.... Non mi rincresce mica per me, Giulia, ma per te.... Tu mi
perdonerai.... Io credevo d'avere il coraggio.... di tacer sempre; ma
il coraggio mi manca.... io tradisco tutti i miei proponimenti.... ho
aspettato fino all'ultimo.... dimmi che mi perdonerai!

— Oh sì! sì! — rispose Giulia piangendo; — ma parla!

— Ebbene.... ho da dirti una cosa.... che non ti posso dire
guardandoti.... appoggia la testa qui.... così.... —

Giulia appoggiò la testa sul petto del giovane, e questi avvicinò
le labbra al suo orecchio. Stettero qualche tempo immobili in
quell'atteggiamento: essa col viso rivolto in su, e gli occhi
socchiusi, come se dormisse; egli col capo chino e i capelli sparsi
sulla fronte. Non si sentiva che il respiro affannoso di Giulia, e
un gemito monotono della madre che dormiva nell'altra stanza. Era
la prima volta che egli la teneva fra le braccia in quel modo, e per
qualche momento la dolcezza di quell'abbraccio fu in tutti e due così
viva, che quasi sospese in loro il senso del diverso dolore che li
agitava; le guancie di Giulia si soffusero di rossore, e le sue labbra
si apersero con un leggero sorriso; Alberto la baciò, e subito tirò
indietro il viso come se si fosse scottato; tornò in sè, mise un gemito
tronco, e riabbassando il capo in atto di profondo abbandono, mormorò
nell'orecchio a Giulia: — Ho fame! —

Giulia balzò in piedi gettando un grido, e restò immobile, chinata,
intenta, cogli occhi fissi in quei d'Alberto.

Questi si coperse il viso, ed esclamò con accento sconsolato: — Ah, non
lo dovevo dire, Giulia! Perdonami! —

La ragazza gittò un altro grido acuto, straziante, cadde in ginocchio
dinanzi ad Alberto, lo baciò, si rialzò, si guardò intorno, si cacciò
le mani nei capelli, diede in uno scoppio di pianto, e gridò: — Io
divento pazza! — Corse alla porta, chiamò ad alta voce: — Mamma! Mamma!
— Rivenne indietro e ribaciò Alberto, si slanciò nell'altra stanza
singhiozzando, ritornò a passi concitati tenendo il grembiale aperto
colle due mani, vacillò e cadde.

In quel punto s'affacciò sull'uscio la madre.

Alberto, pallido, cogli occhi fissi su Giulia, colle braccia penzoloni,
pareva fuori di sè; Giulia stava inginocchiata, col capo abbandonato
sulle ginocchia di lui, immobile; sul pavimento, intorno a loro, erano
sparsi dei pezzi di pane e delle frutta, che la ragazza s'era lasciata
sfuggire cadendo.


VI.

Lo studio in cui lavorava Alberto, era in una delle strade più
solitarie di Firenze. Vi lavoravano con lui tre o quattro giovani,
tra praticanti e scrivani, coi quali aveva poca dimestichezza, perchè
troppo diversi da lui di natura e di abitudini. L'avvocato, a cui
apparteneva lo studio, era un uomo sulla cinquantina, d'aspetto
severo, di modi bruschi e di poche parole; ma buono, si diceva, e
giusto, e qualche volta anche affabile coi suoi sottoposti; a patto
però che non gli contradicessero mai, che aspettassero la riparazione
d'un torto, quando ne facesse, dal suo pentimento spontaneo, senza
sollecitarlo con richiami o con proteste; galantuomo, in una parola,
salvo l'orgoglio e l'indole irascibile, che lo facevan più temere che
amare. Nei suoi giovani, anche più dell'operosità e del raccoglimento,
gli piaceva la deferenza manifestata col contegno modesto e colle
parole ossequiose; e perciò non gli era mai andato molto a genio
Alberto, che soleva obbedire tacendo, salutare senza sorridere e
rispettare senza inchinarsi. L'altro scrivano (eran due) era più
nelle sue grazie, e a questo egli affidava di preferenza i lavori
straordinarii che davano qualche piccolo guadagno, oltre lo scarso
assegnamento mensuale. Questi era premuroso, sorridente, pieghevole;
preveniva, con una rapidità mirabile, ogni suo atto; rifletteva, colla
prontezza d'uno specchio, ogni suo sorriso; ripeteva, colla fedeltà
dell'eco, l'ultima parola d'ogni sua frase; vestiva con un certo
garbo; non portava quei soprabitini e quei calzoncini slavati e spelati
d'Alberto, che pareva tenessero i punti per miracolo, e rinfacciassero
continuamente all'avvocato la meschinità dello stipendio e la miseria
dello stipendiato. Questi era intimamente e apertamente il prediletto.
Per la qual cosa Alberto lo guardava bieco, non per invidia della
predilezione, chè non era anima capace d'invidia; ma per l'ostentazione
maligna che quegli faceva dei suoi privilegi, con un perpetuo
leggerissimo sorriso di benevolenza protettrice, più insolente che la
superbia. Aveva qualche anno più d'Alberto, era mingherlino, sempre
vestito da zerbinotto, gaio, parolaio, seccante.

Era una mattinata piovosa degli ultimi di marzo, sette giorni prima
che seguisse in casa di Giulia il fatto che s'è raccontato; faceva
freddo ed era stato acceso il fuoco in tutti i camminetti dello studio.
Alberto scriveva in una stanza accanto a quella del principale, poco
distante dall'altro scrivano, il quale si alzava di tratto in tratto
per andarsi a riscaldare. All'improvviso si presentò sulla soglia del
suo gabinetto l'avvocato, e col solito cipiglio accennò ad Alberto che
aveva bisogno di lui. Alberto s'alzò e corse nel gabinetto. L'avvocato
sedette davanti alla sua scrivanìa, ch'era di fronte al camminetto, e
cominciò a cercare tra i suoi fogli, dicendo: — Ho da darle una cosa
a copiare. — Alberto stava ritto nella posizione d'un soldato, un
passo discosto dalla sua seggiola. — Non c'è, — disse l'avvocato, e,
chiudendo con impeto un grosso libro di conti che gli stava dinanzi,
s'alzò ed uscì. Tornò poco dopo con un foglio di carta in mano,
dicendo: — Eccolo, — lo porse ad Alberto, e fece un atto della mano che
voleva dire: lo copii. Alberto ritornò nella sua stanza e cominciò a
copiare. Dopo pochi momenti sentì nel gabinetto dell'avvocato un romore
confuso come di libri e di fogli messi sossopra, voci d'impazienza,
sbuffi, e poi silenzio; di lì a poco di nuovo il romore, più forte e
più affrettato di prima, e poi daccapo silenzio; finalmente udì il suo
nome. Corse nel gabinetto e si piantò come sempre dinanzi al tavolino,
dicendo: — A' suoi ordini. —

L'avvocato lo guardò. Alberto, non abituato allo sguardo di quell'uomo,
a cui sapeva di non esser simpatico, arrossì.

— Mi dica la verità, — disse l'avvocato severamente, abbassando gli
occhi sulla scrivanìa.

Il giovane lo guardò stupito. L'avvocato fissò lui di nuovo, corrugò
le sopracciglia, parve un momento incerto, e poi ripigliò con tono
risoluto:

— Mi dica la verità.... e resterà sepolta fra me e lei per sempre.

— Non intendo! — rispose il giovane sorridendo.

Ci sono dei momenti sfortunati, pur troppo, in cui basta il più
fuggevole indizio a mutare un vano sospetto in una certezza profonda,
risoluta, cieca, che strappa dal labbro parole fatali.

— Qui — disse con vivacità l'avvocato — c'era un biglietto da cento
lire.

— Oh! — esclamò il giovane diventando pallido, e facendo un gesto
vigoroso come per respingere da sè quel sospetto.

L'avvocato lo fissò come per leggergli nell'anima.

— Signor avvocato! — gridò Alberto con una voce che non pareva più la
sua — le proibisco di guardarmi in quel modo!

— Ci sono io solo, — rispose imperiosamente l'avvocato, — io solo che
posso dire qui: proibisco! Ed io le proibisco di rimetter più piede nel
mio studio!

— Ma badi a quello che fa, in nome di Dio! — gridò Alberto con un
accento supplichevole e disperato.

L'avvocato, fremendo, gli accennò la porta.

Erano accorsi gli altri giovani; Alberto li guardò, guardò di nuovo
l'avvocato, fece uno sforzo per parlare, non potè, si diede un gran
colpo sulla fronte, ed uscì a passi concitati.

— Se ne vadano! — disse bruscamente il principale ai giovani; e fu
lasciato solo. Rimase immobile, pallido, cogli occhi fissi sulla
porta. L'ira sbollì presto, lo assalì un dubbio improvviso, si rimise
a cercare in fretta e in furia sul tavolino, sotto, intorno, tra i
libri; non trovò nulla, mise un respiro, si abbandonò sulla seggiola
ansando. — Era qui — mormorò battendo la mano su tavolino — qui, ne son
certo come della mia esistenza, non mi posso essere ingannato! — E poi
ricominciò a pensare e a cercare.

Dopo quel giorno Alberto non ricomparve più, e l'avvocato non ne fece
più parola. Credendo che nessuno avesse sentito le parole che erano
state la cagione del diverbio — qui c'era un biglietto da cento lire
— non rivelò questa cagione a nessuno. Ricercò il biglietto, ma sempre
inutilmente; perdette ogni dubbio; ebbe anzi a momenti l'intenzione di
far cercare il giovane per costringerlo a confessare. Ma quando gli si
presentava l'immagine di quel volto trasfigurato e pallido, e di quel
gesto imperioso, un senso di timore segreto, più forte quasi della sua
certezza, lo stornava dal suo disegno.

Questa era stata la cagione del cangiamento seguìto in Alberto, e
di tutto quello che gli era avvenuto dipoi. Non era più tornato
allo studio, e non aveva più incontrato nessuno di coloro che
v'appartenevano.

E Giulia, in quella sera della fame, aveva saputo ogni cosa.


VII.

In quel tempo abitava in un quartierino elegante di via Santa Reparata
un giovanotto napoletano, venuto a Firenze a farvi studi di lingua,
e a consultare documenti per un'opera di critica letteraria, a cui
aveva posto mano da lungo tempo. Era in Firenze da più d'un anno e
vi conosceva molta gente; ma usava con pochi e a sbalzi, secondo lo
governava l'umore variabilissimo, e una passione violenta per gli
studii, interrotta di quando in quando da uno slancio impetuoso verso
la vita svagata. La sua casa era l'espressione fedele della sua indole
e della sua vita. C'eran molti libri, tutti in un monte sopra un
tavolino, slegati, con copertine e fogli sparsi; in cima al monte dei
libri la biancheria pulita, portata un'ora innanzi dalla stiratora;
sulla biancheria un cappello a cilindro colla traccia della spazzola
passata contro il verso del pelo; un gran ritratto di Lodovico Ariosto,
il suo poeta prediletto, appeso a una parete, e sotto il ritratto
una carta geografica, staccata da uno dei due chiodi che la tenevano,
coll'estremità inferiore immersa in un calamaio dimenticato sopra una
seggiola. Sulla stufa, sui tavolini, sul letto, da per tutto, vestiti,
fogli, brani di giornale, sopraccarte strappate; e un nuvolo di polvere
per tutto dove si désse un soffio o si battesse la mano.

Eran l'undici della mattina d'uno dei primi giorni d'aprile, e il
nostro giovane si alzava dal letto, cogli occhi gonfi, il capo pesante
e la bocca amara. Guardatosi un momento nello specchio, entrò nel
salotto che gli serviva di studio, buttò fuor della finestra una
forcina da capelli che trovò sul pavimento, tirò un lungo e sonoro
sbadiglio, e si abbandonò sopra una poltrona, con una gamba sull'altra
e le braccia incrociate, pensieroso. A un tratto vide una lettera sul
tavolino, la prese, l'aprì, guardò la firma, e cominciò a leggere.

Le prime righe non le capì, tanto aveva la mente intorpidita dal sonno.
Ma a poco a poco il senso gli si fece chiaro.

“.... Vediamo, — diceva la lettera; — di che si può dolere lei in
questo mondo? Che cosa le manca? La salute? ne ha da sciupare. Il
denaro? n'ha quanto basta. La stima pubblica? pochi alla sua età
n'hanno avuta di più. Gli amici? ne ha molti e sinceri. L'ingegno? è la
sua qualità più spiccata. L'amore? non ha che a cercarlo. Che le manca
dunque? Vuole che io glielo dica quello che le manca? La disciplina.
Lei è troppo padrone del suo tempo, per l'età che ha; è troppo
libero, ha troppo pochi doveri da compiere, troppo pochi sacrifizii
da fare; e di qui nascono le sue malinconìe, le sue svogliatezze e
le sue lamentazioni, che sono veri oltraggi alla Provvidenza. Me lo
creda: se lei avesse, come molti altri giovani, da guadagnarsi il pane
lavorando, se avesse una famiglia a cui pensare, una madre ammalata da
assistere, o che so io, non le resterebbe mica il tempo per iscrivere
lettere come quella che ha scritto a me in un abbandono di stanco
tedio leopardiano. Lei ha bisogno di disciplina, le ripeto, di freno.
Intraprenda uno studio severo, faticoso, che la costringa a pensare,
a star lì colla testa, come disse uno scrittore che le piace; e si
faccia una legge di studiare quelle tante ore il giorno, e in quelle
date ore; e vi si attenga, e si domini, e lasci da parte, almeno per
qualche tempo, i libri che le accendono l'immaginazione. E sopra tutto
si prefigga una regola di vita sicura e costante; non viva così alla
giornata, oggi col Musset tra mano, domani col Lamennais, la sera a
crapula cogli amici, la mattina dinanzi alla porta del convento di
Fiesole a meditare sulla vanità dei piaceri umani. Lavori molto e
ogni giorno, e non soltanto intorno a ciò che le piace; si formi il
disegno d'un'opera vasta che l'obblighi a ricerche lunghe e pazienti,
e cominci subito piantando un formidabile _voglio_ in mezzo all'anima,
_come salda colonna adamantina_. E si persuada una volta per sempre
che quel po' di felicità che si può godere in questo mondo sta nella
quiete, nell'ordine, nella sicurtà della coscienza; e che il volersi
ribellare a questa legge, gli è come dibattersi in una gabbia di
ferro, della quale si potranno fare scricchiolar le sbarre con uno
sforzo gigantesco, torcerle anche, insanguinarle; ma non uscirne mai.
Non isciupi la sua salute, il suo ingegno, e codesto cuore ardente
e gentile in una lotta inutile; si raccolga, si fortifichi, e le
malinconìe spariranno, e vi sottentrerà un'allegrezza operosa, che le
farà parer bella la vita.„

Il giovane scrollò le spalle. e buttata la lettera in un canto, riprese
l'atteggiamento pensieroso di prima. Dopo un po' si scosse, aprì un
libro e cominciò a leggere. Poi richiuse il libro e lo buttò nel muro;
prese un foglio pieno d'appunti e lo fece in pezzi; si alzò, e si mise
a passeggiare a passi rapidi. Poi si fermò e disse con dispetto: — Ma
che faccio io qui a rodermi l'anima? Animo, fuori, alla luce del sole,
in mezzo agli uomini, a vivere da uomo, maledetto topo di biblioteca! —
E corse nell'altra stanza per vestirsi. In quel punto sentì picchiare
all'uscio, s'infilò un vestito e tornò nel salotto, gridando: —
Avanti. —

La porta s'aprì e spuntò un viso ch'egli non conosceva.

— Avanti, — ripete in tono brusco il giovane, vedendo che lo
sconosciuto esitava.

— Perdoni, — domandò questi timidamente, — è lei il signor***? — e
disse il nome.

— Son io — rispose il giovane napoletano.

— Lei ebbe la bontà — mormorò umilmente il nuovo arrivato — di darmi il
suo biglietto da visita, giorni fa, nel giardino Massimo d'Azeglio.

— Come! — esclamò l'altro con allegra maraviglia — lei è quel signore
ch'era seduto sulla panca?

— Quello stesso, — rispose Alberto.

Il napoletano gli porse una seggiola, e gli disse con accento di
curiosità: — Mi dirà ora che cosa le era seguito! Ma prima di tutto, a
che debbo il piacere di vederla? In che la posso servire?

Alberto esitò un istante, e poi disse in fretta arrossendo: — Avrei da
farle un discorso lungo.... Prima però la debbo pregare di perdonarmi
se quella sera corrisposi così male alla sua bontà.... Non sapevo più
quel che mi facessi....

Il giovane lo costrinse a sedere.

— Mi dica quello che m'ha da dire, francamente.

— La ringrazio, — disse Alberto facendo l'atto di stender la mano
ma ritirandola subito; — io ebbi prima d'ora l'intenzione di venir
da lei; non me n'ero mica dimenticato, glielo assicuro; ma mi
mancò il coraggio, perchè.... il favore, di cui avrei avuto bisogno
nei giorni passati, mi sarebbe costato uno sforzo troppo grande a
domandarglielo.... Ora però.... È vero che forse ora vengo a darle una
noia anche maggiore....

— Non mi parli di noia; — disse con vivacità il giovane, a cui la
fisonomia aperta e severa di Alberto aveva ispirato fin da principio
una piena fiducia; — mi dica quello che m'ha da dire, liberamente, come
a un amico.

— Ebbene, le dirò ogni cosa, — cominciò Alberto, e detto prima il suo
nome, e com'era venuto a Firenze, e come vi era vissuto fino allora,
e dove stava e con chi, raccontò per filo e per segno, colla voce
tremante e il viso acceso, il fatto che gli era seguito nello studio.

Il giovane napoletano fece un atto di meraviglia e di dispiacere.

— Non conosco quest'avvocato, — disse poi, interrompendo Alberto
che voleva continuare; — ma perchè lei non è tornato, quando poteva
supporre che quel signore fosse più tranquillo? Perchè non è andato
almeno a vedere, o non ha almeno cercato di sapere se il biglietto fu
poi ritrovato o no?

— Sarebbe stato inutile — rispose Alberto. — Se l'avvocato avesse
trovato il biglietto, io lo conosco, è collerico, violento, ma
onesto: m'avrebbe fatto cercare e chiesto scusa. Il biglietto non
fu più ritrovato. Egli è certamente persuaso che l'abbia preso io, e
soltanto una prova palpabile potrebbe persuaderlo che s'è ingannato.
Ma lei comprenderà che questa prova non si può dargliela. Io credo che
veramente il biglietto fosse sul tavolino poco tempo prima ch'entrassi
io nella stanza; sarà scivolato in mezzo ad altri fogli, e qualcuno
l'avrà scoperto poi e se lo sarà tenuto; sarà caduto nel fuoco e si
sarà bruciato; che vuole che io le dica? Si danno dei casi.... In ogni
modo andando a domandare una soddisfazione, non avrei ottenuto nulla.
Non c'era testimoni, egli era persuaso di quello che asseriva, io
non avevo amici in Firenze che potessero attestare la mia onestà; si
sarebbe creduto a lui e non a me....

— E poi, — domandò il napoletano con affettuosa premura, — che seguì di
lei?

— Poi.... — riprese l'Alberto, abbassando la voce — .... Eran gli
ultimi giorni del mese; io non avevo ancora preso lo stipendio, non
mi eran rimaste in tasca che poche lire.... Bisognava pensar subito al
modo di vivere.... Mandai un dispaccio a mio zio di Palermo, dicendogli
che avevo estremo bisogno di un pronto soccorso.... Non ricevetti
risposta. Cercai lavoro in parecchi ufficii, anche di giornali, che
mi dessero da copiare, da tagliar notizie, da correggere stampe; ma
dappertutto mi fu risposto che pel momento non avevano bisogno di
nessuno, e che ripassassi dopo qualche settimana. Si figuri! Io che
avevo, non dico i giorni, ma le ore contate.... Se mi fosse rimasto
almeno lo stipendio d'un mese, in un mese qualche cosa da fare avrei
trovato; ma non avevo più che ventisette lire, e mi toccava a pagare la
pigione della stanza, che solevo pagare posticipata, e piuttosto che
mancare.... Sarebbe stato un levare il pane di bocca a quella povera
donna e alla sua figliuola, che vivono a stecchetto, e desinano, si
può dire, colle mie diciotto lire; non ci pensai neppure un momento.
Che fare? Bisognava tirare a vivere il più che potevo con quelle
nove lire, e intanto continuare a cercare. Ebbi un momento l'idea
di ricorrere ai miei compagni, perchè non conoscevo altri; ma lei
capirà che in questi casi si metton tutti dalla parte del capo, e
chi sa! m'avrebbero voltato le spalle o fatto anche peggio; e poi mi
ripugnava di ricomparire dinanzi a loro senza potermi giustificare....
I primi due giorni desinai alla trattoria, perchè mi spettava ancora
la pensione che avevo già pagata, e poi.... Di continuare a mangiar
lì a credito non c'era neanco da parlarne, perchè nelle trattorie di
quella classe, dove non vanno altro che poveri diavoli e bricconi, se
non si paga non danno nulla. Dunque non c'era via di mezzo, bisognava
rassegnarsi. Ebbene, ora le dirò una cosa che lei stenterà a credere,
ma che pure è vera. Con nove lire non potevo tirare innanzi più di
sei o sette giorni, mangiando pane e frutta; lo capivo bene; sapevo
bene che sarebbe presto venuto il momento, che non avrei avuto più
un soldo. Eppure, non so, non ci potevo credere; mi pareva sempre di
sentirmi dentro una voce che diceva: — È impossibile! — Chi sa, dicevo,
che cosa può accadere in questo frattempo! — Man mano che quel giorno
s'avvicinava, io sempre più speravo in qualche avvenimento imprevisto
che mi venisse a togliere da quello stato. E quando mi domandavo: — Ma
quale avvenimento? — Ma mille, — mi rispondevo da me stesso. Poteva
capitare a Firenze lo zio, potevo ricevere una lettera con denaro,
dovevo trovare sicuramente qualcuno che mi facesse lavorar subito
e mi pagasse giorno per giorno. Ma più cercavo e meno trovavo, e il
viver così di pane e di frutta mi cominciava a far male, e quello che
mi rincresceva di più, in casa s'erano accorti che qualche cosa di
straordinario mi doveva essere seguito, e io non sapevo come liberarmi
dalle continue domande. Che cosa mi faceva soffrire quella ragazza,
quando veniva lì a pregare e piangere, lei non se lo può immaginare!
Cento volte fui sul punto di dirle ogni cosa, ma mi trattenni; a
chiunque altri l'avrei detto; a lei non potevo; mi pareva che sarei
morto di vergogna. Venne finalmente il giorno, in cui spesi l'ultimo
soldo.... Ebbene, appunto quel giorno avevo più che mai la certezza
che qualche cosa mi dovesse capitare. — Patir la fame? — dicevo tra
me. — Ah! ho bisogno di provarla io, per crederci! — La sera andai
a casa più presto, dormii un po' agitato; ma la mattina mi svegliai
pieno di speranza, e uscii prestissimo. La coscienza di non aver fatto
nulla da meritare un'umiliazione come quella, mi dava una forza, un
coraggio, di cui lei non si può fare un'idea; uscii, e senza quasi
accorgermene mi diressi verso la Stazione. Non so perchè, m'ero fitto
in capo che dovesse arrivare mio zio, o un amico di Palermo. Il treno
arrivò, la gente uscì, e io guardai tutti, uno per uno.... Ma le dico:
una cosa strana! Se m'avesse scritto qualcheduno: — Arriverò il tal
giorno, alla tal'ora, viemmi ad aspettare, — io non avrei aspettato
con più speranza. Non vidi nessuno, tornai indietro, e cominciai ad
andare e venire dalla piazza del Duomo alla piazza della Signoria,
per via Tornabuoni, per via Porta Rossa, per via Cerretani, guardando
in viso tutti quelli che passavano, come se cercassi qualcuno. Venne
mezzogiorno, passò l'ora della colazione, non me n'accorsi neppure.
Solamente la mia immaginazione si faceva sempre più viva, e senza
accorgermene affrettavo sempre più il passo, come se mi premesse
d'arrivar presto a un appuntamento. Andai alla Posta, domandai se
c'eran lettere; non ce n'era. Uscendo dalla Posta, mi venne un'idea;
salii nella Biblioteca, chiesi un libro e mi misi a leggere. Non so
come, la lettura mi assorbì tanto che mi scordai del mio stato e il
tempo mi passò di volo. A un tratto sentii un rumore, che mi fece
quasi paura; la gente riponeva i libri e s'avviava verso la porta; si
chiudeva la Biblioteca. Me ne andai. Era l'ora del desinare. Per le
strade si cominciava a vedere quel movimento solito della sera; gli
impiegati uscivano dai Ministeri, e c'era un andirivieni di carrozze
per ogni parte. Cominciai a vedere la gente entrare nelle trattorie,
e quello fu il momento più triste; mi prese una malinconìa che quasi
mi sentivo voglia di piangere; era la prima volta in vita mia che non
potevo desinare! Pensavo a mia madre, a Palermo, a quand'ero ragazzo,
e mi pareva di non esser quella stessa persona di una volta, che
tornando dalla scuola a casa trovavo sempre la tavola apparecchiata.
Mi si cacciò addosso una smania, una febbre, mi misi quasi a correre, e
arrivai trafelato nel giardino della piazza d'Azeglio....

— Come! Era quella sera! — gridò con voce commossa il suo intento
ascoltatore; — e lei non mi disse nulla?

— Il giardino era pieno di bambini, e non le dico che sentimenti e
che pensieri mi facesse nascere la loro allegria. Cavai di tasca il
ritratto di mia madre e lo guardai un pezzo; poi, non so perchè, lo
nascosi colla sua busta nel cappello e mi misi il cappello in capo;
mi sentivo debole e stanco, volli provare a dormire, e m'addormentai.
Nel sonno il cappello mi cadde, il ritratto, credo, schizzò fuori;
passò qualche ragazzo; in una parola, quando mi svegliai, il ritratto
non c'era più. Domandai, pregai le donne ch'eran là presso che
interrogassero i bambini, che m'aiutassero a cercare: fu inutile, la
gente se n'andò ed io rimasi solo. La perdita di quel ritratto, in quel
momento, nello stato in cui mi trovavo, fu un dolore inesprimibile
per me, mi parve un cattivo augurio, mi sentii mancare il coraggio,
m'accorsi allora per la prima volta d'essere veramente solo nel mondo,
e molto disgraziato! Allora venne lei....

— Ma perchè non parlò? ripetè il giovane con slancio.

— Ebbi la tentazione, ma mi mancò il coraggio; il solo pensare che
avrei dovuto cominciare col dire: — Ho fame, — mi faceva morire la
parola in bocca. Però le sue parole mi confortarono un poco. Tornai
verso il centro della città: v'eran già tutti i lampioni accesi, le
botteghe illuminate e le strade piene di gente. Molti uscivano dalle
trattorie allegri, col viso rosso, parlando forte. Io andavo e andavo,
senza saper dove nè perchè, come in sogno. Incontrai qualcuno dei
giovani che desinavano con me alla trattoria, mi salutarono ridendo,
e facendomi un cenno come per dire: — Come mai non ti si vede più? —
Uno mi domandò se volevo andare al teatro. Passeggiai fino a tardi,
poi decisi di tornare a casa, col proposito di farmi animo e di dire
ogni cosa alla padrona e alla figliuola. — È necessario, — dicevo
tra me. — Che diranno? Non lo so; diranno quello che vorranno, io non
voglio morire. — Ma via via che mi avvicinavo, sentivo sempre più che
non avrei ardito di parlare. Entrai, salutai, aprii la bocca per dire
la prima parola, ne dissi un'altra, e addio, andai a letto. Stentai
ad addormentarmi, ma poi dormii profondamente, e sognai mille cose
orribili. Mi svegliai ch'era ancora buio, e nel primo momento non mi
venne il pensiero dello stato in cui mi trovavo; mi colpì poi tutt'a
un tratto, e balzai a sedere sul letto, spaventato. Allora feci mille
progetti: andarmi a presentare al Sindaco, raccontargli la mia storia;
no, meglio al Prefetto; meglio ancora andar difilato dal mio antico
principale, e dirgli francamente, con quell'accento che viene dal
cuore: — Sono innocente! — Tutto mi pareva naturale, facile; mi prese
un'impazienza invincibile, mi vestii in fretta e uscii. Ma ahimè!
allo spuntar del sole tutti i bei progetti svanirono; passai davanti
al Municipio; guardai la sentinella, e tirai innanzi; andai fin sulla
porta di due o tre Uffici di giornali, ma non osai entrare; mi pareva
che, appena entrato, tutti insieme, guardandomi, avrebbero detto: — Ma
lei ha fame! — Decisi di fermare il primo conoscente che incontrassi,
e di domandargli in prestito qualche lira; ne incontrai parecchi,
li fermai, mi domandarono se non mi sentivo bene. — Che! — risposi,
fissandoli con sospetto; e mi lasciarono. Passò il mezzogiorno:
allora cominciai a sentirmi dentro uno sfinimento, un languore che
quasi non mi potevo più reggere; le gambe mi tremavano, e la fantasia
lavorava lavorava come se avessi la febbre; pensavo alle cose più
stravaganti, a persone, a luoghi, a fatti d'altre volte; avevo nel
capo una confusione e una vertigine che temevo di diventar pazzo. Poi,
a poco a poco mi prese come una rabbia, un odio contro tutti quelli
che vedevo; mi parevan tutta gente senza cuore, che m'avesse fatto del
male. — Ma è possibile? — dicevo tra me; — sono proprio io che mi trovo
ridotto a questi estremi? Ma chi sono io? Che ho fatto? io ho diritto
di mangiare! Io voglio vivere! — Più tardi mi prese un dolore acuto
al petto, un'oppressione, uno strazio, come se mi stiracchiassero le
viscere. Mi sedetti non so dove, mi rialzai, mi sentivo mancare, presi
una risoluzione disperata, andai incontro a un uffiziale, lo fermai,
gli dissi risolutamente: — Signore.... — Egli mi guardò, io ritornai
in me, gli domandai l'ora, me la disse, e continuai la mia strada. Mi
venne il pensiero d'uccidermi, lo scacciai, e vi sottentrò subito, non
so in che maniera, l'immagine della figliuola della padrona di casa,
la quale mi parve la mia salvezza. Era già notte, affrettai il passo
quanto potevo, rientrai in casa, lottai ancora un pezzo, finalmente
m'uscì di bocca quella maledetta parola: — Ho fame! — Fu una scena
straziante, caro signore; quelle due povere donne si misero a piangere
in un modo da schiantare il cuore.... Ma detta quella parola, non
si poteva più tirarla indietro... Fu ieri sera.... Stamani, appena
levato, pensai che dovevo mettermi a cercar lavoro, mi ricordai del suo
biglietto da visita, e son venuto a raccomandarmi a lei. Ecco la mia
storia, e perdoni se l'ho tediata con un discorso triste. —

Il giovane napoletano, che aveva ascoltato con profonda attenzione,
gli strinse la mano, e gli disse con voce commossa: — La ringrazio. —
Poi s'alzò in fretta, corse nell'altra camera, alla finestra, e alzando
gli occhi umidi al cielo, esclamò con voce commossa: — Ed io mi credo
infelice e mi rodo l'anima e trovo che la vita è una lotta, e non mi
sento la forza di sostenerla? Ah miserabile, insensato ed ingrato!


VIII.

Riccardo (il giovane, di cui s'è taciuto il nome fin qui) cominciò
quello stesso giorno a parlare ed a scrivere ad amici e a conoscenti,
per veder di trovare un impiego ad Alberto. E vi si mise con tanto
ardore, e con un così fermo proposito di riuscirvi, che quasi non gli
rimase altro pensiero e altro desiderio nell'anima; e le sue malinconìe
sparirono, e gli rinacque l'allegrezza. Aveva uno scopo, nel quale
il cuore, la volontà e la coscienza si trovavano d'accordo; e non ci
voleva altro per ridestare la parte più nobile di lui, che da qualche
tempo sonnecchiava. L'immagine d'Alberto gli stava sempre dinanzi,
e oltre la pietà gentile che gl'ispirava, gli faceva comprendere
e stimare per la prima volta i grandi favori, di cui la natura e
la fortuna erano state larghe con lui. — Insomma, — diceva sovente
sorridendo, — questo giovine m'ha dimostrato matematicamente che io
devo esser felice! Ah, quella scellerata abitudine di guardar sempre
sopra noi stessi! — Ma benchè avesse molti amici, e facesse quanto era
in lui per conseguire il suo intento, fin dai primi passi intoppò in
tanti ostacoli e perdè tante illusioni, che si dovette persuadere che
l'impresa era assai più difficile di quel che sul primo momento aveva
creduto.

Da ogni parte egli trovava una concorrenza impreveduta e formidabile,
e andava man mano scoprendo, con un sentimento di meraviglia e di
spavento, l'immensa miseria larvata, decente, istruita, e ancora
pudibonda, che affluisce nelle grandi città capitali, e fluttua
alle porte degli Uffici e dei palazzi; una moltitudine, non prima
conosciuta da lui, di gente capelluta, barbuta e macilente, d'impiegati
destituiti, di professori disoccupati, di commessi licenziati, di
ufficiali espulsi, di scrittori falliti, di vecchi, di malati, di
rovinati, che presentano come documenti commendatizi libri, raccolte
di giornali, cicatrici, bambini, polizze del monte di pietà e lettere
di deputati e di senatori; bisogni, dolori, sventure, appetto alle
quali la condizione in cui si trovava Alberto, giovane, sano e senza
famiglia, poteva ancora parere una condizione fortunata. Su tutte le
vie in cui si metteva, trovava un serra serra d'affamati; e si perdeva
d'animo vedendo che non era quasi mai la raccomandazione dignitosa
d'un uomo stimato, quella che otteneva la preferenza; ma il sorriso
della signora leggiera, l'insistenza sfrontata del ciarlatano, la
paroletta detta in buon punto a tavola fra il dolce e lo Sciampagna,
l'armeggiamento, l'intrigo. Ma nel conoscere o nel sentir parlare
di tanta gente per cui era una grande fortuna il trovar modo di non
morir di fame, e in quella stessa difficoltà grandissima di trovare un
pezzo di pane per il suo protetto, egli provava una compiacenza nuova
ed acuta, un godimento saporito della sua pace e dei suoi comodi; un
maggior gusto nel rannicchiarsi nella sua poltrona, al caldo, dopo
un buon pranzo, col giornale in mano, pensando a quella povera gente
“capelluta, barbuta e macilente„ che aveva incontrato lungo il giorno
per le scale delle banche e dei ministeri; un sentimento che egli non
voleva spiegar bene a sè stesso, ma di cui qualche volta si vergognava
improvvisamente, sdegnandosi che gli fosse entrato nel cuore, a
intorbidargli la sorgente della pietà vera e nobile, la quale, egli
diceva, dev'essere un dolore. Ma per quanto facesse, egli non riusciva
a scernere, in quella nuova contentezza di sè medesimo, ciò che gli
veniva dalla coscienza, da ciò che gli veniva dall'egoismo, per poter
respingere la parte impura, e godere soltanto della soddisfazione
legittima, serenamente. E se ne rodeva. “Così fatto è questo
guazzabuglio del cuore umano„.


IX.

Intanto metteva ogni cura nel nascondere ad Alberto la mala riuscita
delle sue ricerche; o almeno, per ogni speranza fallita, gliene faceva
balenare una nuova, confortandolo con allegre parole; e quanto più
andava penetrando nella sua anima onesta e buona, tanto più fortemente
s'infervorava nel suo proposito. Ma Alberto non s'illudeva. Da
qualche parola incerta, da alcuni turbamenti fuggevoli del suo giovine
protettore, gli trapelava la verità; e man mano che si sentiva crescere
per lui l'affetto e la gratitudine, la speranza gli veniva meno, e
colla speranza quella po' di serenità, a cui gli s'era aperta l'anima
dopo i giorni della disperazione. Egli tornava a prevedere molto triste
il suo avvenire. Giulia e sua madre lo avevano indotto, e più che
indotto, costretto a viver con loro come un fratello e un figliuolo;
ed egli non dubitava punto ch'esse si sarebbero sobbarcate lietamente
ad ogni sacrifizio per continuare a tenerlo in casa, finchè non avesse
trovato un mezzo di sostentamento. Ma come gli sarebbe bastato l'animo
di approfittare più a lungo di quella generosità? Egli aveva accettato
la loro offerta, s'era arreso alle loro preghiere, colla speranza di
potere uscir tra pochi giorni da quello stato, e affrettarsi a pagare,
a prezzo di qualunque privazione, il suo debito di gratitudine. Ma
i giorni passavano, e la sua condizione non mutava. Ogni volta che
egli sedeva a tavola, per quanto quelle due buone donne cercassero di
rallegrarlo in tutti i modi possibili, gli si stringeva il cuore. Quel
sentimento d'alterezza, che l'abbandono, la disperazione e la fame
avevano fatto per poco tacere, ora gli si ridestava più vivo e più
geloso di prima; e quel sedersi alla tavola altrui senza pagare gli
cominciava a parere un'umiliazione insopportabile. Egli capiva i mille
sacrifizii che quelle due povere donne facevano per lui; e l'idea di
costringerle a vivere in quel modo, forse per qualche mese ancora, lo
spaventava. Avrebbe potuto valersi delle offerte di Riccardo, e pagare
la pigione e la pensione con quei denari. Ma egli era certo che Giulia
spontaneamente, e la madre per consiglio di Giulia, non avrebbero mai
accettato un centesimo che potessero immaginare gli fosse stato dato da
altri. Questi pensieri lo rendevano di giorno in giorno più triste. E
questa tristezza era cresciuta ancora dalla previsione d'un giorno non
lontano, in cui avrebbe dovuto a qualunque costo allontanarsi da quella
casa, separandosi da Giulia, quando appunto cominciava a stimarla, ad
amarla, ad ammirarla più di quello che avesse mai fatto pel passato;
quando cominciava a sentirsi stretto a lei da tanti dolori; quando
oramai la vita non gli pareva più bella e più desiderabile che per
lei. Una sera mentre stavano desinando, e Giulia si sforzava di parere
allegra, egli proruppe in singhiozzi.


X.

Quella stessa sera la famiglia dell'avvocato era tutta radunata nella
stanza da pranzo, intorno a una tavola coperta d'un tappeto verde e
rischiarata da un grande lume. Il padre scriveva senza alzar mai gli
occhi di sulla carta, la madre leggeva, e in un canto giocavano e
discorrevano i tre figliuoli: una bambina d'ott'anni, bionda, bianca
e rosea come una bambino inglese, e due ragazzini, l'uno di poco più
di sei anni, l'altro di cinque. La bambina avea i capelli sciolti,
e tratto tratto, ridendo, scoteva il capo con un atto grazioso per
ricacciarli dietro le spalle. Ad ogni movimento del padre taceva
all'improvviso, e faceva cenno ai fratelli che tacessero; poi
ripigliava a parlar sotto voce e a ridere. Nel punto che guardava
il padre cogli occhi intenti, la bocca socchiusa e una mano sospesa
nell'atto di dire: — Silenzio, — era bella come un angiolo; e la madre,
in quel punto, l'osservava.

Sulla tavola, dalla parte dei ragazzi, v'era un biglietto da una
lira; il bambino più grande lo prese, e avvicinandolo alla fiamma
della candela, e guardando timidamente suo padre, disse sottovoce alla
sorella: — E se lo bruciassi?

— Ebbene, — questa rispose ad alta voce, con un accento, in cui si
sentiva la soddisfazione di poter insegnare qualche cosa; — purchè non
lo bruciassi tutto, si potrebbe ancora spendere. —

Il ragazzo disse che non lo credeva.

— Ma certo! — ripigliò la bambina; — io lo so.

— Come fai a saperlo?

— Lo so, perchè l'ho sentito dire, e c'eri anche tu, il giorno che
s'andò al Poggio Imperiale; e se ti ricordi, quel signore che ci
accompagnò fino a Porta Romana, che discorreva con Carlotta, le diceva
appunto che un suo amico aveva trovato un biglietto da cento lire quasi
tutto bruciato, e gliel'aveva dato a lui, perchè andasse a farselo
cambiar alla Banca con uno intero. E quei della Banca avevano visto che
nel biglietto bruciato c'era un nome, che so? un numero, e il numero
mostrava che il biglietto una volta era stato buono, e per questo
glielo cambiarono. Hai capito?

— Signori che accompagnano Carlotta — pensò la madre, stringendo le
labbra.

L'avvocato guardò sua moglie e disse sottovoce: — Hai sentito?...

— Non è vero, babbo, — domandò la bambina, — che i biglietti bruciati,
quando ne rimane un pezzo, quelli della Banca li ripigliano?

Il padre accennò di sì, e ricominciò a scrivere. Di lì a un momento
guardò intorno come se cercasse qualcosa; poi s'alzò, prese un lume e
uscì dalla stanza.

Allora la madre si rivolse alla bambina: — Amalia, va a dire a Carlotta
che venga nella mia camera, perchè le ho da parlare. —

Ciò detto s'alzò e uscì anch'essa; Amalia corse a far l'imbasciata a
Carlotta, ch'era la governante.

Pochi momenti dopo rientrarono tutt'e due nella sala; l'avvocato non
era ancora tornato.

— O dove sia andato? — domandò la signora. — Amalia, va a veder
dov'è. —

Mentre l'Amalia s'alzava, suo padre ricomparve; lo guardarono: era
turbato.

— In che modo, — egli domandò, fissando ora sua moglie ora la bambina,
— in che modo si trova in casa nostra quest'oggetto? —

E mostrò non so che di forma quadrata e di color rosso che teneva in
mano.

Amalia si fece color di porpora.

— Amalia, — disse il padre, — vieni con me. —

La bambina s'alzò tutta tremante, ed egli la prese per mano e la
condusse fuori della sala, lasciando la signora e i due ragazzi
attoniti. Di stanza in stanza, il padre e la figliuola arrivarono in
uno stanzino basso, senza finestre, ingombro di mobili vecchi e di
casse, e lì si fermarono.

Il padre avvicinò il lume ad un angolo, e accennando un buco aperto nel
muro, domandò ad Amalia:

— Sei tu che hai nascosto qui quest'oggetto?

— .... Sì, — rispose la bambina.

— Quanto tempo fa?

— .... Un mese. —

Il padre stette un po' pensando; poi riprese Amalia per mano, la
condusse in una stanza vicina, sedette, e domandò:

— Come t'è venuta in mano questa busta? —

La bambina diede in uno scoppio di pianto.

— Di' la verità, — egli soggiunse.

Allora Amalia, tremando, piangendo, balbettando, raccontò che una sera,
nel correre con alcune sue compagne pei viali del giardino Massimo
d'Azeglio, e proprio nel momento in cui girava attorno a una panca,
aveva urtato col piede in quell'oggetto, e senza immaginare che potesse
essere altra cosa che un pezzo di cartone, se l'era messo in tasca,
perchè era rosso e le piaceva. Poi, ripassando da quella parte, aveva
visto un giovane che si lamentava con le governanti, perchè i bambini
gli avevano portato via una cosa, ed essa aveva capito che si trattava
appunto dell'oggetto preso da lei, e voleva restituirlo; ma s'era già
radunata tanta gente, e il giovane montava sempre più in collera, e
lei non si sentiva più il coraggio di farsi innanzi. A un tratto la
donna che l'aveva accompagnata al giardino, ch'era la governante dei
bimbi d'una signora vicina, l'aveva presa per mano e condotta via,
dicendo; — Andiamo, se no succede uno scandalo; — e allora lei s'era
pentita tanto tanto di non aver restituito l'oggetto, e avrebbe voluto
ritornare indietro; ma era tardi. Però, arrivando a casa, e scoprendo
che in quella cosa rossa c'era un ritratto, aveva deciso di restituirlo
a qualunque costo, e per molte sere, tornando nel giardino, se l'era
sempre portato in tasca, sperando di ritrovare quel signore. Ma quel
signore non s'era più fatto vedere, e lei, perduta ogni speranza,
aveva nascosto il ritratto nello stanzino, senza dir nulla a Carlotta,
pensando: — Chi sa! un giorno forse lo incontrerò, e allora glielo
potrò rendere.

— Avevi mai visto quel signore? — domandò il padre.

— Mai, mai — rispose la bambina — è stata quella la prima e l'ultima
volta.

Suo padre, dopo averla un po' fissata negli occhi, le fece cenno che
se n'andasse; ed essa col volto ancora lagrimoso, ma tutta contenta
di averla passata così liscia, scappò come un uccello. L'avvocato
rimase pensieroso, col ritratto in mano. Egli l'aveva trovato in
un buco dello stanzino, per caso, cercando un altro oggetto. Data
un'occhiata all'immagine, aveva guardato il rovescio del cartone, e
fatto subito un segno di viva sorpresa. Sul rovescio v'era scritto:
— A mio figlio Alberto. Maria P. — ; il nome dello scrivano ch'egli
aveva cacciato. Sotto questo nome v'era scritto in grossi caratteri: —
29 marzo, 27 lire. — Fitto, 18, pagato. — Resto: 9. — Queste nove lire
erano ripartite, cominciando dal primo giorno d'aprile, in sette parti
uguali, l'un numero sotto l'altro, come per fare una somma, e accanto
a ciascun numero era scritto in carattere minuto: — Pane e frutta. —
L'ottavo giorno d'aprile era ancora segnato con un 8, ma senz'altra
indicazione di spesa; v'erano scritte invece colla matita le seguenti
parole: — A vent'anni! Dio mio! —

Scorrendo quei numeri e quelle parole, l'avvocato era diventato
pallido; ma subito gli era venuto il sospetto che quel ritratto fosse
stato messo là a bella posta, perchè gli cadesse sott'occhio. Allora
era rientrato nella stanza da pranzo, aveva fatto quella domanda, e,
visto il rossore d'Amalia, chiesto e saputo ogni cosa.

— Dunque non è un artifizio! — disse tra sè, appena rimasto solo. —
Questo ritratto è capitato qui per caso! Questo scritto dice la verità!
Questo giovane non aveva denari, non poteva aver rubato, era innocente;
ed io l'ho offeso, umiliato, cacciato, condannato alla miseria e alla
fame! Ora bisogna ritrovarlo questo disgraziato! — soggiunse con voce
commossa, balzando in piedi. — Bisogna andarlo a cercare, subito,
dovunque sia! —

Qui si fermò, passandosi una mano sulla fronte. — Ma la prova, — disse,
— la prova che mi sono ingannato, la sicurezza intera e assoluta chi me
la dà? Che fu del biglietto? Chi può averlo preso fuorchè lui? —

E si rimise a sedere pensieroso. — Fosse caduto nel fuoco! —
soggiunse dopo un po'. — Si fosse bruciato, mentre io uscivo dal
gabinetto? —

Quella parola “bruciato„ gli richiamò alla memoria il discorso
d'Amalia, il giovane che aveva accompagnato Carlotta, l'amico, la
Banca;... gli balenò un vago sospetto. Si alzò per andare a chiamare la
bambina; in quel momento entrò sua moglie.

— Senti, — gli disse questa sorridendo, — ho parlato con Carlotta, e le
ho domandato chi fosse il signore che si dà la premura di accompagnarla
quando conduce al passeggio la bambina. Non si turbò nè punto nè poco,
e mi rispose, con una disinvoltura ammirabile, che quel giovane è una
persona per bene, e per provarmi ch'è per bene davvero, mi disse ch'è
intimo amico d'un tuo scrivano che gode della tua più grande simpatia.

— Quale scrivano? — domandò l'avvocato. La signora disse il nome
dell'antico collega d'Alberto.

— E le domandai pure — soggiunse — che cosa fosse quell'imbroglio
del biglietto. E lei mi ha detto che il fatto era veramente come
Amalia l'aveva raccontato; ma che neanco in questo non vedeva nulla
di male, perchè il biglietto era stato trovato in mezzo a una strada,
e quel signore, prima di farlo cambiare, aveva cercato inutilmente il
proprietario.

— Ma chi l'ha trovato il biglietto?

— Il tuo scrivano, quello che t'ho nominato. —

L'avvocato rimase sopra pensiero.

— Ma il ritratto? — domandò la signora.

— Va, — disse improvvisamente suo marito, — va a domandare ad Amalia
quanto tempo fa e in che giorno quel tale gli parlò del biglietto.

La signora andò.

— Il tuo riverito scrivano — tornò a dire dopo un minuto, affacciandosi
alla porta — ha fatto cambiare il biglietto uno degli ultimi giorni di
marzo.

— Ah! — gridò l'avvocato, — non c'è più dubbio, dunque!

Così dicendo, preso da un sentimento improvviso di pietà e di rimorso,
stropicciò colle mani convulse il ritratto, e poi, fissando gli occhi
nell'immagine di quella povera madre, le lasciò cader sopra una lagrima
e le chiese perdono.


XI.

La mattina seguente, Riccardo usciva di casa per tempo, e si dirigeva
verso lo studio dell'Avvocato d'Alberto. Riuscite vane tutte le
altre sue speranze di trovare un impiego al povero giovane, egli
s'era domandato se non fosse meglio il tentare di farlo riammettere
nello studio, procurandogli così, col pane di cui aveva bisogno, una
riparazione d'onore, alla quale aveva diritto. — L'avvocato — egli
pensava strada facendo — non ha ritrovato il biglietto, perchè, se ciò
fosse, Alberto m'assicura che avrebbe riparato all'errore. Si potrebbe
dunque fargli credere che è stato ritrovato molto tempo dopo, oggi
stesso, da un altro impiegato dello studio, col quale io mi metterei
d'accordo per inventare qualche storiella verosimile. Se il biglietto
vero è caduto in mano di qualcuno, questi non verrà certo a dirci: —
L'ho trovato io, e voi siete impostori; — perchè se non l'ha restituito
finora, non potrà più restituirlo. Ma bisogna trovare chi si presti
all'inganno. Ma chi si vorrà rifiutare, quando io vada là e dica: — Vi
do la mia parola d'onore, tutti i miei amici sono disposti a darvi la
loro parola d'onore che questo giovane non può aver rubato? E poi...
e poi, se anche la cosa non riesce, sarà sempre bene che l'avvocato
sappia che quel disgraziato giovane ha qualcheduno che lo stima e che
lo crede innocente.

Era una giornata umida e malinconica che pareva promettere una
settimana di pioggia. Arrivato in piazza del Duomo, Riccardo vide
molta gente affollata intorno al campanile di Giotto, particolarmente
ai due cancelli che chiudono lo spazio tra il campanile e la chiesa.
Senz'avvicinarsi, domandò a un tale che cosa fosse accaduto.

— S'è buttato giù un uomo dalla cima del campanile, — rispose
l'interrogato, con quell'accento forzato di pietà e quel sorriso di
compiacenza satanica, che si vede in faccia alla maggior parte dei
curiosi, in simili occasioni.

— È morto subito? — domandò Riccardo.

— Si figuri! — rispose l'altro, sorridendo di nuovo — s'è sformato! c'è
un lago di sangue! Vada a vedere.

Riccardo tirò via; ma non aveva fatto ancora dieci passi, che tornò
indietro in fretta e ridomandò con inquietudine alla persona di prima:

— Chi è quest'uomo che s'è buttato giù?

— Un tal Rivarolo, dicono; un impiegato, un uomo sui quarant'anni; se
vedesse come s'è conciato il viso! È una cosa che fa orrore. Io fui dei
primi a vederlo. S'avvicini prima che lo coprano.

Riccardo riprese la sua strada.

Dopo pochi minuti arrivò allo studio. Aveva già pensato con chi
parlare, e perciò, entrando, domandò addirittura al custode chi fosse
l'impiegato più giovane. Il custode gli disse il nome dello scrivano
che noi conosciamo, e Riccardo, dandogli un biglietto di visita, lo
pregò d'andarlo a annunziare.

Dopo un momento lo scrivano comparve. Era una figura meschina e
volgarissima, improntata di quella goffaggine sdolcinata dei giovani di
negozio, che sdottorano di mode colle signore. Attillato, come sempre,
e sorridente, s'inchinò, fece entrare Riccardo in una stanza, chiuse la
porta, e domandò con voce ossequiosa:

— In che posso servirla?

Riccardo era un bel pezzo di giovane, bruno e tarchiato, con un par
d'occhi che saettavano e quel fare vivo ed aperto del gentiluomo
napoletano, che mette in imbarazzo la gravità un po' tozza dei
settentrionali. Appena si trovò di fronte allo scrivano (sul quale però
non aveva il menomo dubbio), gli fissò in viso, secondo il suo costume,
uno sguardo fine e profondo, che lo costrinse a fare un leggerissimo
inchino.

— Io sono un amico d'un suo conoscente — disse poi in tuono pieno di
cortesia — il signor Alberto P., che fu per qualche tempo scrivano in
quest'ufficio.

Lo scrivano s'inchinò di nuovo.

— Son venuto qui — riprese Riccardo — non mandato da lui, ma a sua
insaputa, spontaneamente, per impulso di coscienza, a pregar lei di
aiutarmi a compiere un dovere.

Lo scrivano fece un atto interrogativo.

— Il signor Alberto, come lei saprà, — proseguì Riccardo — è stato
accusato d'aver rubato un biglietto di cento lire sul tavolino del suo
principale.

Il giovane mise un sospiro come per dire: — Pur troppo!

— Ebbene — soggiunse con accento risoluto Riccardo — l'accusa è falsa.

Lo scrivano gli fissò in viso uno sguardo turbato; ma non vedendo su
quel viso nemmeno l'ombra d'un secondo pensiero, si rassicurò, e fece
un cenno rispettoso che voleva dire: — Inclino a crederlo anch'io.

— Io conosco il signor Alberto, — Riccardo proseguì — lo conosco da
molto tempo, intimamente, e lo credo incapace di commettere un'azione
indegna; me ne rendo mallevadore come d'un mio fratello; altre cento
persone, se occorresse, sarebbero pronte ad affermare lo stesso, la
perdita del biglietto sarà una cosa inesplicabile; ma il signor Alberto
è innocente. Ora egli si trova ridotto all'estrema miseria, e per
di più disonorato. Di questa ingiustizia non avrà colpa che il caso,
voglio credere; ma tanto più è dovere di tutti quelli che conoscono
quel povero giovane, di fare tutto il possibile per restituirgli quello
che ha perduto. Bisognerebbe trovar modo di farlo riammettere nello
studio, persuadendo il signor avvocato che egli è innocente. Lei che
è giovane, che ha cuore, che conosce quel povero infelice, m'aiuti
lei. Facciamo fra tutti quello che si può far di meglio. Le assicuro
che sarà una buona e nobile azione. Vediamo di trovare un modo per
persuadere il suo principale.

Lo scrivano guardò attentamente Riccardo, e sentendosi sempre più
rassicurato, esclamò con voce sospirosa e pietosa: — Ma come trovarlo
questo modo, Dio buono! Non c'eran testimoni, il biglietto non s'è più
ritrovato, nessuno ha saputo dare una spiegazione.... Dio lo volesse
che si trovasse una spiegazione!

— Ma si può trovare — riprese Riccardo, incoraggiato dalla disposizione
benevola del giovane — si può inventare! Dal momento che lei ed io
siamo persuasi che il signor Alberto è innocente! Possiamo combinar
tutto fra noi due, senza che ne sappia nulla nessuno nè ora nè mai.
Creda, caro signore, che glie ne sarei grato per la vita!

E dicendo questo gli afferrò le mani e glie le scosse con uno slancio
del cuore.

— Ma cosa dire! cosa inventare! — rispose lo scrivano, grattandosi il
capo e fingendo di cercare.

— Si dice che il biglietto è stato ritrovato — esclamò Riccardo con
vivacità — e si presenta all'avvocato un biglietto di cento lire! Il
biglietto lo metto io; lei si presenta all'avvocato, fingendosi tutto
contento d'aver trovata la giustificazione d'un amico, e gli dice: —
Ecco il biglietto che lei credeva rubato, l'ho trovato io!

— ... Io? — domandò lo scrivano, turbandosi leggermente.

— Ma che cosa c'è di più naturale? — ripigliò Riccardo infervorandosi e
pigliando la mano del giovane.

— Ma... — rispose questi esitando — ... ritrovare un biglietto...
intatto... dopo tanto tempo... dove? in che maniera?... come spiegare
che sia scomparso?

— Ma si può spiegare benissimo! Combiniamo la spiegazione insieme.
Ecco qui, per esempio. Quando l'avvocato s'alzò per uscire dal suo
gabinetto, — dove il signor Alberto rimase solo per qualche momento,
— alzandosi, fece scivolare il biglietto giù dal tavolino. Vicino al
tavolino c'era il caminetto acceso. Il biglietto cadde sulla bragia
e si bruciò quasi intero. Il custode lo raccolse la sera con altri
pezzetti di carta, con cui era confuso, e buttò ogni cosa in una cesta.
Lei, cercando una lettera smarrita, è andato a metter mano nella... Ma
perchè le pare tanto strana? —

Riccardo, alzando improvvisamente gli occhi in viso allo scrivano, vi
aveva colto a volo un'espressione così inaspettata di turbamento, che
s'era lasciato sfuggire quella brusca interrogazione. Senza pensarci,
egli aveva proposto di dar per vero quello che era in fatti accaduto,
con la sola differenza che la mano nella cesta lo scrivano ce l'aveva
messa il giorno dopo lo smarrimento del biglietto, invece di mettercela
quel giorno stesso, come Riccardo proponeva.

— Perchè le pare tanto strana? — ripetè questi, fissando più
attentamente lo scrivano.

Ma costui aveva perduto affatto la bussola.

Invece di rimediare alla meglio alla prima imprudenza, stette un
momento senza rispondere, rosso, confuso, guardando qua e là per il
pavimento, e poi rispose di mala grazia:

— No... Io non voglio mettermi in questi impicci...; e non voglio...
far nascere dei sospetti!

— Dei sospetti? — domandò con grande meraviglia Riccardo. — Sospetti di
che? su chi?

— Sospetti... — balbettò lo scrivano, al colmo della confusione — sulla
mia onoratezza.

— Sulla sua onoratezza? — esclamò Riccardo guardandolo bene in faccia.
— Ma che diavolo dice?

— Sì signore! — rispose ad alta voce lo scrivano, che accortosi del
passo falso, avrebbe voluto rimettersi in piedi, ma non sapeva più
dove aggrapparsi, e parlava a caso. — Sospetti sulla mia onoratezza!
La mia onoratezza è al di sopra di tutti i sospetti! Sono abbastanza
conosciuto! Nessuno può dir nulla sul conto mio! Ne domandi ai miei
colleghi, al mio principale, a chi vuole! Non son discorsi da farsi!
Io non c'entro e non ci voglio entrare! Ha capito? E il signor Alberto
pensi ai fatti suoi e lasci in pace chi lo lascia in pace! E sia un
discorso finito!

Riccardo diede in una sonora risata.

— Ma sa — disse poi incrociando le braccia e allargando le gambe — che
si direbbe che il ladro sia lei?

Lo scrivano si fece smorto, e retrocedendo verso la porta, gridò con
voce soffocata:

— Badi a quello che dice!

— Ah! ora comincio a capire! — rispose Riccardo rimettendosi il
cappello, e slanciandosi avanti.

Ma a un tratto s'arrestò. Una mano sconosciuta aveva afferrato il
braccio dello scrivano sul limitare della porta. Questi si voltò
bruscamente e vedendosi in faccia l'avvocato, diede un guizzo indietro,
e rimase un momento colle spalle al muro —, impietrito.

— Ebbene.... sì — mormorò poi con un filo di voce — son io!

E s'allontanò lentamente, strisciando la schiena alla parete, come un
ragazzo minacciato d'una pedata.


XII.

Giulia, quel giorno, si era levata per tempo, dopo un sogno breve
e agitato da sogni dolorosi. La sera prima Alberto le era parso più
sconsolato del solito; più d'una volta essa l'aveva sorpreso colle
lagrime agli occhi, e dopo averlo lungamente confortato a farsi
animo, non ne aveva avuto altra risposta che: — Oh Giulia! io non
posso più vivere così! — Essa s'era addormentata col cuore trafitto
da queste parole, e svegliandosi le era parso di sentirsele mormorare
all'orecchio.

Si vestì in fretta e andò a picchiare all'uscio della stanza
d'Alberto, aspettando quel solito: — Avanti, — detto con voce stanca
e melanconica. Non udì risposta; picchiò di nuovo: nulla; allora
aperse ed entrò. Alberto non c'era. Giulia stette un pezzo immobile
e pensierosa, cogli occhi fissi sulla candela quasi intieramente
consumata. Poi s'avvicinò alla finestra e guardò fuori: il cielo era
bigio e chiuso; un vago presentimento di sventura le entrò a poco a
poco nel cuore; tornò nella sua stanza, sedette, appoggiò il capo sopra
una mano, e ricominciò a pensare, immersa in una profonda malinconia.

Dopo un po' comparve sua madre, e sedette di fronte a lei, senza far
parola.

Picchiarono all'uscio; Giulia andò ad aprire, ed una vecchia vicina
mise il viso dentro, dicendo: — Sapete la novità?

— Non so nulla, — rispose la ragazza.

— S'è buttato giù un uomo dal campanile del Duomo.

— Quando? — domandò subito Giulia.

— Ieri sera.

— No, stamani! — uscì a dire un'altra donna, che arrivava in quel punto
sul pianerottolo con un fagotto sotto il braccio; — stamani, mi hanno
detto; fra le sei e le sette.

— Chi era? — domandò Giulia.

— Chi lo sa! — risposero ad una voce le due donne.

Giulia stette un po' pensando, poi disse tra sè: — Ma che! — e sorrise;
poi si rifece pensierosa.

— Che cos'è seguito? — domandò sua madre.

— S'è gettato giù un uomo dal campanile del Duomo, — le rispose Giulia,
rientrando nella stanza.

La madre fece un atto d'orrore, e fissando gli occhi in viso alla
figliuola, dopo un po' d'esitazione, disse a bassa voce, con impeto: —
Dio mio!... Che non fosse....

— Chi? — gridò Giulia.

— Il signor Alberto! — mormorò la vecchia atterrita.

— Il signor Alberto? — rispose la ragazza con un accento indefinibile
di sorpresa e di spavento; — ma bada a quello che dici, mamma! Sei
pazza?... Certe cose non si dovrebbero nemmeno pensare! — e si mise à
piangere.

— Sapete, — disse in quel punto un'altra donna, fermandosi dinanzi
alla porta, — dicono che l'uomo che s'è buttato dal campanile sia un
impiegato.

— E io vi dico, — gridò Giulia, slanciandosi verso la porta — che
ci lasciate vivere in pace! Andate in un altro luogo a far di questi
discorsi! Ma, Dio mio! — soggiunse poi, avvicinandosi a sua madre; —
avrebbe ben potuto dire una parola prima di uscire, e non lasciarci
qui a pensare di lui chi sa che cosa! Bel modo d'andarsene senza
dir nulla!... Sentite! — gridò correndo di nuovo sul pianerottolo, e
fermando le donne che se n'andavano brontolando; — scusate! dite ancora
una cosa! — Poi tornò verso la madre: — Mamma! non so perchè, ho paura!
— Poi daccapo verso le donne: — Ma chi v'ha detto che sia un impiegato?
Quando s'è buttato? Perchè?

— Per miseria, — risposero le donne; — si capisce!

— Per miseria! — gridò Giulia con una voce straziante.

— Ma che avete? — domandarono le vicine.

— Che cos'ho! — rispose la ragazza col viso pallido e alterato. — Ho
che mi piglia la disperazione, capite? Ho che non so più quel che mi
faccia!

— O che ha paura che sia il giovane che sta qui?

— Ma sì! — rispose Giulia, girando come una forsennata per la stanza in
cerca del suo scialle; — non l'avete ancora capito?

— Ma non può essere! — esclamarono le vicine. — La si cheti! Non sarà
lui! — e cercavano di trattenerla.

— Lasciatemi passare! — gridò Giulia, slanciandosi verso la porta.

— Ma non è lui! — gridarono in coro le vicine e la madre, trattenendola
per le braccia. — Ma dove vuoi andare? Chetati, per carità! Non è lui!

— Lasciatemi andare, — urlò la ragazza fuori di sè, — o vi mordo!

Con un supremo sforzo si svincolò dalle donne e si slanciò sul
pianerottolo.

Due sconosciuti l'arrestarono.

— È in casa il signor Alberto? — le domandò uno di quelli.

Giulia dètte indietro d'un passo lo guardò, e rispose con voce
affannosa:

— No! Chi è lei?

— Io sono l'avvocato B*** — rispose questi, guardandola meravigliato.

— Ah sì? — gridò Giulia fissandolo con uno sguardo di pazza; — e lei
ardisce di metter piede in questa casa!... Assassino! —

Ciò dicendo gli si slanciò addosso, e lo percosse con la chiave nel
viso.

Poi cadde fra le braccia delle donne, esclamando: — No! non era un
ladro! — e svenne.

— Se ne vada, — disse in fretta Riccardo all'avvocato. — Non è bene
che stia qui, spiegherò tutto io, sarò a casa sua tra poco — E si
chinò sopra Giulia, mentre l'avvocato scendeva le scale, sbalordito,
rasciugandosi il viso grondante di sangue.


XIII.

Poche ore dopo Riccardo non c'era più e Alberto era tornato a casa.
Con sua gran meraviglia egli trovò Giulia serena e sorridente. Prima la
guardò un pezzo, almanaccando; poi le domandò la cagione di quella sua
serenità. Giulia gli mise in mano un biglietto, dicendogli che lo aveva
portato un signore. Alberto lesse: — “Il signor Alberto è pregato di
recarsi questa sera alle sette in via (c'era detto la via, il numero e
il piano), dove sarà data una risposta alla sua domanda di due giorni
fa; spero favorevole. Riccardo.„

— Che domanda è? — chiese Giulia.

— La domanda d'un posto di scrivano in un ufficio d'ingegnere, —
rispose Alberto con tristezza. — Andrò.... a sentirmi dire la solita
cosa: — Ripassi tra un mese.

— Ma chi ci sta in quella casa?

— Non lo so. —

Giulia fece un atto di contentezza, ripetendo: — Non lo sa! —

E Alberto non proferì più parola.


XIV.

Alle sette egli tirava il campanello della casa indicata nel biglietto
di Riccardo. Gli venne ad aprire un servitore con un lume in mano,
gli fece attraversare due o tre stanze, e apertagli una porta lo pregò
d'entrare e di attendere qualche momento.

Alberto entrò, e il servitore chiuse e disparve. Era una bella sala
con un ricco tappeto, rischiarata da un lume splendido posto sopra un
tavolino nel mezzo. Alberto sedette e guardò. Le pareti erano ornati di
specchi e di quadri, i tavolini coperti di fiori, di libri dorati, di
ninnoli; in un canto, sopra una snella colonnetta, sorgeva una statua
d'alabastro con un braccio teso, che pareva accennasse lui; in ogni
parte luccicava qualcosa. Era molto tempo ch'egli non aveva visto una
sala così signorile e così bella. Toccò la spalliera d'una poltrona
che aveva accanto: era di velluto. Guardò ai suoi piedi: c'era una
pelle di tigre. Si voltò: vide una grande campana di cristallo con
sotto un orologio di bronzo. Per tutto dove voltava lo sguardo, c'era
un oggetto che costava almeno tre volte il suo stipendio di un mese.
Egli stette un pezzo osservando ogni cosa con una curiosità infantile:
i fiori dei ricami, le cornici degli specchi, i cordoni dei campanelli,
i candellieri, i guanciali, i rabeschi. Poi si sentì preso da una
tristezza indefinibile. Quello splendore l'offendeva come uno scherno
alla sua miseria; quella statua che lo segnava a dito, gli faceva
l'effetto d'una persona viva che gli dicesse: — Va via!; — il pensiero
che tra qualche momento sarebbe comparso qualcuno, lo turbava; avrebbe
preferito aspettare ancora; avrebbe voluto nascondersi, uscire in
punta di piedi; si pentiva quasi d'esser venuto. — Che faccio io qui?
— pensava. — Che cosa spero? Come può curarsi di me la gente felice
che abita in questa casa? — Gli parve di sentire un fruscìo, sospettò
che fosse una signora, balzò in piedi, e, guardandosi nello specchio,
s'accorse che aveva arrossito. Sedè di nuovo e stette coll'orecchio
teso. Finalmente gli venne addosso come un'inquietudine, una rabbia
di esser costretto a star lì solo, in mezzo a quella ricchezza che
l'umiliava, in quello stato d'aspettazione dolorosa. Ricordò le molte
volte che aveva aspettato, da un mese a quella parte, in altre case,
lunghe ore, per sentirsi poi rispondere: — Non abbiamo bisogno di
nessuno. — Gli tornarono alla mente i sorrisi compassionevoli dei
servitori e degli uscieri, quando lo vedevano andar via col capo
basso; gli atti d'impazienza di coloro, a cui s'era rivolto con
preghiere; tutti i disinganni, tutti i sacrificii d'amor proprio,
tutte le umiliazioni sofferte in presenza di gente sconosciuta; gli si
affollarono tutti questi ricordi, e quelli dei giorni che aveva patito
la fame, e l'oppressero. E si domandò se avrebbe dovuto trascinare
ancora per lungo tempo una così triste vita, perchè la trascinava, che
delitto aveva commesso, quale condanna pesava sul suo capo. — Ma io non
domando che di lavorare, — disse poi in un impeto di sdegno sconsolato:
— dovrò dunque morir di fame? Dovrò rubare? Dovrò uccidermi? — Balzò in
piedi, si sentiva addosso una smania che non aveva provata mai, avrebbe
spezzato quanto gli cadeva sott'occhio. — Oh, infine, disse poi con
voce soffocata, guardando con occhio bieco verso la porta, — io sono
stanco! Che cosa fanno questi signori? Animo, fuori, gente senza cuore!
C'è qui un mendico che aspetta! —

Stette aspettando un minuto, e poi afferrò il cappello e si mosse per
uscire.

In quel momento sentì venire dalla stanza accanto una musica sommessa e
dolce che gli parve di un pianoforte toccato da una mano leggerissima.
Si fermò e si rimise a sedere. La musica a poco a poco si fece più
rumorosa, poi di nuovo sommessa, poi forte un'altra volta; pareva un
mormorìo di persona commossa che dicesse cose tenere e liete ad un
amico melanconico, e le dicesse presto, con affanno, trattenendolo;
pareva un misto di voci di donne e di bambini che confortassero un
povero; gli ricordava la voce concitata di Giulia, quando diceva: — No,
non parlar così, fatti coraggio, spera ancora. —

Alberto appoggiò il capo sopra una mano e pensò a Giulia con un
sentimento di triste tenerezza.

All'improvviso s'aprì una porta; egli si scosse e s'alzò.

Una ragazzina bionda, bianca e rosea, vestita di bianco, coi capelli
sciolti, s'avanzò timidamente verso di lui, seguìta da due bambini,
uno di sei e l'altro di quattr'anni, che vennero a piantarglisi davanti
cogli occhi attoniti.

La bambina si fermò a due passi da Alberto, aprì un foglio colle mani
tremanti, e disse arrossendo, con voce sommessa:

— Ho da leggere la lettera.

— Che lettera? — domandò Alberto, maravigliato.

— La lettera — rispose la bimba — che ha scritto il babbo un momento
fa, e me l'ha data perchè venissi a leggerla qui, dal signore che
aspettava nel salotto.

— E chi è il suo babbo? — domandò Alberto guardando intorno a sè.

La bambina pronunziò il nome di suo padre.

Alberto balzò indietro, come se avesse ricevuto un urto nel petto.
Il sangue gli si rimescolò da capo a piedi. Si ricordò in un momento
di tutto: dell'accusa di ladro, della miseria, della fame, di tutte
le angoscie che pativa da tanto tempo per cagione di quell'uomo; e si
sentì soffocare dalla rabbia e dall'odio. Sul primo momento fu tentato
di afferrare quella lettera, di lacerarla e di gettarla sotto i suoi
piedi; e distese la mano... Ma incontrò lo sguardo timido e gentile
della bambina, e si frenò; di rosso si fece pallido, si passò una mano
sulla fronte che ardeva, si ricompose, e disse con voce mutata:

— Legga pure.

La bambina cominciò a leggere:


“Signor Alberto! Ho avuto la prova della sua innocenza; e ho saputo
nello stesso tempo quali furono le conseguenze del mio deplorabile
errore, quanto lei sofferse per cagion mia e che nobile cuore sia
il suo. Ora io ho un dovere da compiere: quello di supplicarla di
ritornare al mio studio, almeno una volta, perchè io possa dichiarare
solennemente, in presenza sua e di tutti i miei dipendenti, che sono
vergognato e desolato d'avere, in un momento d'aberrazione, calunniato
un onest'uomo. Ma questo non basta. Poichè l'offesa è stata mortale,
io debbo pronunciare la parola che suol costare maggior sacrifizio
all'orgoglio; ma la pronunzio senza sforzo, senza esitazione, colla
fronte alta, col cuore sulle labbra, cogli occhi gonfi di lagrime che
mi fanno bene: — Signor Alberto, mi perdoni! — È un uomo vecchio che
domanda perdono a un giovane di vent'anni, è un padre che lo domanda
per mezzo dei suoi bambini. Li baci in fronte tutti e tre, signor
Alberto. Io non le domando altra risposta. Se quando tornerò a casa,
essi mi diranno: — Ci ha baciati! — io dirò tra me: — M'ha perdonato! —
e me li stringerò al cuore con uno slancio di gioia e di riconoscenza.„


La bambina tacque e alzò i suoi belli occhi azzurri e umidi in viso ad
Alberto.

Questi rimase qualche momento sbalordito, respirando con affanno, e
guardando intorno a sè come per assicurarsi che quella era una realtà
e non un sogno. Poi tutta l'anima sua si rischiarò improvvisamente,
tutto quello che aveva in fondo di buono e di generoso gli venne su
con un impeto irresistibile, strappò il foglio dalle mani d'Amalia,
lo guardò, lo stropicciò colle mani convulse, sorrise, e poi gridò con
voce tremante e sonora: — Ma sì! Perdono! Perdono! Perdono! — Dicendo
questo, si gettò sui bambini, se li strinse tutti e tre contro il petto
e cominciò a far cadere sulle tre testine bionde una pioggia di baci
appassionati.

In quel punto si aperse una porta e comparì sulla soglia l'avvocato.

Alberto si slanciò verso di lui.

L'avvocato lo arrestò con una mano. Quella mano mostrava un ritratto.
Il giovane guardò e gettò un grido di meraviglia e di gioia: — Mia
madre!

Allora l'avvocato allargò le braccia dicendo con voce commossa: — Qua,
povero Alberto! — e Alberto gli si gettò al collo singhiozzando.



FORTEZZA.


   [Illustrazione]


I.

— Guarda, — mi diceva poche sere sono un amico accennandomi da una
finestra di casa sua, che guarda sur una piccola piazza, un terrazzino
al quarto piano della casa di fronte; — vedi quell'uomo? — Guardai,
e vidi un uomo seduto in un canto, con un braccio disteso sulla
ringhiera; ma non ne raccappezzai la fisonomia. — Quell'uomo, — riprese
l'amico, — m'è antipatico a tal punto, che mi venne più volte l'idea
di cambiar di casa non per altro che per procurarmi la consolazione
di non averlo più da vedere. Tu mi domanderai perchè, e io ti dirò che
non gli ho mai parlato, che non ho mai sentito la sua voce, che non so
chi sia, che non so che cosa faccia, che non so che viso abbia, perchè
la mia vista non arriva fin là, neppure col canocchiale. Quell'uomo
m'è antipatico, perchè ogni sera, a quest'ora, infallibilmente,
s'alza da tavola e si va a sedere in quel canto; e ogni sera, collo
stessissimo movimento d'automa, mette una gamba sull'altra e stende
un braccio sulla ringhiera. Non c'è caso che muova mai la gamba prima
che il braccio, Dio ne guardi! Prima il braccio e poi la gamba. È
già un uomo uggioso per questo, me lo concedi? Ma questo è il meno.
Ogni sera, una donna che par sua moglie, prima ch'egli si alzi, va a
metter la seggiola al posto, gli porta la pipa, gliela mette in mano,
gliel'accende ogni sera, — e ogni sera lui si lascia servire, impettito
e tronfio come un Sultano, senza fare il menomo atto per prevenirla,
senza dar nemmeno a vedere ch'egli s'accorga d'esser servito. Poi....
ogni momento ha un bisogno, e la donna s'alza, scappa, ritorna con
una bibita o qualcos'altro; e lui piglia e tracanna e si forbisce i
baffi, con un gusto di sibarita egoista, senza darsi nemmeno la noia
di restituire il bicchiere. Poi.... vengono amici a visitarlo, e lui
non fa mai l'atto d'alzarsi, e sì che sta saldo in piedi e passeggia
qualche volta sul terrazzino franco e sciolto come noi due. Non guarda
mai giù, nè sù, nè intorno; non saluta; insomma, lui par fatto e messo
lì, perchè il mondo gli giri intorno; lui fa l'idolo; lui è nato
per farsi guardare e servire. E tu ridi! Per me son cose che fanno
odiare un uomo; son fatto così; un altro non ci bada, io mi ci rodo.
Io credo di conoscer quello là come conosco te. Vuoi sapere chi è?
Io non lo so ma te lo dico come se lo sapessi. Quell'uomo là — e così
dicendo appuntava il dito verso quell'uomo, guardandolo fisso come per
cavargli dagli occhi il segreto — è un bottegaio bindolo, che comincia
ad ammassar quattrini, e cova già fin d'ora la boria di quando sarà
arricchito; e ha sposato quella donna per risparmiare la paga d'un
fattorino in bottega e d'una serva in casa, e la tratta un po' peggio
d'una serva e non molto meglio d'un fattorino; è spilorcio, fuorchè
per soddisfare la sua golosità; potrebbe stare al terzo piano, e sta
al quarto per economia, benchè non abbia figliuoli e non desideri
d'averne; disprezza tutto quello che non è bottega; dà del ladro
a tutti i ministri, del ciuco a tutti quelli che studiano e dello
straccione a tutti quelli che hanno meno quattrini di lui.... E tu
ridi! Tu non sai che l'antipatia è indovina! Io, vedi, sarei felice se
mi si presentasse l'occasione di fargli una sgarbatezza; m'è odioso;
sarò un visionario, un maligno, quello che tu vuoi; ma quando il cuore
mi dice: — Quello là è un figuro; — io l'ho in tasca; e bisogna che lo
dica e mi sfoghi. —

Bisogna conoscere questo giovanotto di vent'anni, buono, irrequieto
e stizzoso, ed essere assuefatti alle sue bizzarre sfuriate contro i
fantasmi ch'egli stesso si crea, per poter credere che abbia detto
d'un fiato, e senza ridere, quella filastrocca di parole vane. Io
guardavo intanto il supposto bottegaio, e la donna seduta dinanzi a
lui sur un panchettino, colle braccia incrociate sulle ginocchia, in
atto contemplativo; e come ho miglior vista del mio amico, mi parve di
scorgere che l'uomo avesse una quarantina d'anni, e la donna poco più,
benchè nè dell'uno nè dell'altra potessi ravvisare i lineamenti. Mi
feci dare il canocchiale e lo appuntai verso la donna. Prima mi ballò
dinanzi un faccione confuso; poi si fissò e lo vidi distintamente. Era
proprio un viso di donna rassegnata a una vita di sacrificio: aveva i
capelli grigi, la fronte rugosa, gli occhi grandi e melanconici; un
non so che di grave e di raccolto, che rivelava un'abitudine antica
di soffrire. — Par che l'amico abbia indovinato, — dissi in cuor
mio, e rivolsi il canocchiale verso l'uomo. In quel punto egli si
voltò, e mi presentò tutto il viso. — Chi vedo mai! — esclamai tra me
stesso; — ma è possibile? — Allungai il canocchiale, riguardai. — Ma
è lui! Non c'è dubbio! E quel viso visto cento volte nei ritratti! —
E allora mi rivenne in mente un fatto da lungo tempo dimenticato, e
quasi nello stesso punto, il principio e la fine del racconto che il
lettore troverà più innanzi. L'amico mi domandò: — Ebbene? È o non è
un viso di bindolo, di screanzato e d'orgoglioso? — Io non potei più
sorridere, come prima, alle sue parole; gli risposi che veramente non
era un uomo simpatico; ma che mi pareva d'averlo visto altre volte;
che volevo levarmi la curiosità di sapere chi fosse; che sarei andato
a chiedere informazioni di lui. Il giorno dopo, infatti, andai difilato
a fargli una visita, col pretesto di saper chiaramente il fatto che lo
riguardava, perchè, come gli dissi, avevo l'intenzione di scriverlo.
Abituato a ricevere siffatte visite, mi accolse cortesemente, mi
raccontò ogni cosa con grande indifferenza, come se parlasse d'un
altro, mi parlò della donna (non moglie) che aveva con sè, delle
abitudini della sua vita. — Stiamo insieme da dieci anni, — disse
concludendo; — io ho della pazienza, essa pure, e si vive.... come
Dio vuole. Le mie due grandi consolazioni sono la stima della gente
e la devozione di questa povera disgraziata. — Andai a casa, scrissi
tutta la sera e tutta la mattina seguente, e il giorno dopo mi recai
dall'amico col manoscritto. Era l'ora che il “bottegaio„ stava a
pigliar il fresco sul terrazzino. Dopo qualche altra chiacchiera,
si rivenne a parlare dell'antipatia. — Amico, — gli dissi, — hai
preso un granchio. — È impossibile! — egli rispose colla sua vivacità
abituale. — Lasciamo gli scherzi, — io ripresi; — ti prego di leggere
questi fogli: è un racconto storico, che ho scritto in questi giorni;
il personaggio principale è il tuo “bottegaio„ antipatico; ti do la
mia parola che, salvo i necessarii artifizii dell'esposizione, non ho
alterato d'una sillaba la verità. — L'amico prese i fogli e cominciò
a leggere. Dopo un po' alzò gli occhi, guardò l'uomo del terrazzino,
poi me; e riprese la lettura. Via via che andava innanzi, guardava
sempre più spesso me e l'uomo, l'uomo e me; e si faceva sempre più
serio. Giunto all'ultime righe, gettò un grido di meraviglia, balzò
in piedi, mi afferrò una mano e disse con voce commossa: — Mi dai la
tua parola d'onore che è vero? — Te la do, — gli risposi. — E che è
lui? — domandò ancora. — Che è lui, — ripetei. Senza dir altro, prese
il cappello e uscì a passi concitati. Io mi affacciai alla finestra e
lo vidi attraversar la piazza e infilar la porta della casa di fronte.
Dopo qualche minuto notai che l'uomo del terrazzino era sparito. Di lì
a poco ricomparve, e un momento appresso il mio amico riattraversò la
piazza. — Io ti conosco! — dissi tra me, correndo ad aprir la porta; io
lo so quello che sei andato a fare! — L'amico comparve sulla soglia.
— Tu, — continuai ad alta voce, — sei andato a baciare in fronte
quell'uomo! — Egli mi guardò, sorrise, e poi gettandomi le braccia al
collo mi rispose con un grido d'allegrezza: — No, perchè n'ero indegno;
sono andato a baciargli la mani.


II.

Era l'estate dell'anno 1861, allorchè la fama delle imprese
brigantesche correva l'Europa; quei giorni memorabili, quando il
Pietropaolo portava in tasca il mento di un “liberale„ col pizzo
alla napoleonica; quando a Montemiletto si seppellivan vivi, sotto
un mucchio di cadaveri, coloro che aveano gridato: — Viva l'Italia;
— quando a Viesti si mangiavano le carni dei contadini renitenti
agli ordini dei loro spogliatori; quando il colonnello Negri, presso
Pontelandolfo, vedeva appese alle finestre, a modo di trofei, membra
sanguinose di soldati; quando il povero luogotenente Bacci, ferito
e preso in combattimento, veniva ucciso dopo otto ore di orrende
torture; quando turbe di plebaglia forsennata uscivan di notte dai
villaggi, colle torcie alla mano, a ricevere in trionfo le bande;
quando s'incendiavano mèssi, si atterravano case, si catturavan
famiglie, s'impiccava, si scorticava e si squartava; e a tener vivo e
ad accrescere l'eccidio miserando venivan dalla riva destra del Tevere
armi, scudi e benedizioni.

Uno degli ultimi giorni di luglio, poco dopo il levar del sole, per una
valle deserta della provincia di Capitanata, andava verso San Severo un
carabiniere a cavallo, il quale era partito la notte da quella città
per andar a recare al comandante d'una “colonna mobile„ un ordine del
colonnello. Egli portava sotto l'abbottonatura della tunica una lettera
di risposta a quell'ordine, nella quale il comandante diceva che si
sarebbe recato alle otto della mattina in un recesso d'un monte vicino,
dove aveva saputo essere solita a riparare una mano di briganti che da
qualche tempo infestava quelle terre. Il portator della lettera era un
uomo sui trent'anni, alto, asciutto, con due occhietti scintillanti e
due baffetti aguzzi, e quella ruga diritta in mezzo alle sopracciglia,
che rivela abitudine di riflessione; la sua fisonomia spirava una
gravità prematura, alla quale il grande cappello nero a due punte dava
quasi un riflesso di tristezza; e il suo rigido atteggiamento, e le
sue mosse franche e recise, attestavano un vigor d'animo rispondente
ai bisogni dei tempi e dei luoghi. Andava di trotto per un sentiero
serpeggiante, voltando il capo ora di qua, ora di là, a guardare i
pascoli abbandonati, i monti rocciosi, il cielo limpidissimo, senza
udire altro rumore che lo scalpitìo del suo cavallo e il tintinnìo
della sua sciabola.

A un tratto, passando in mezzo a due siepi alte e fitte, vide un
lampo e sentì un colpo di fucile. Mentre gira il cavallo e afferra
la pistola, il cavallo vacilla; nell'atto ch'egli abbassa il capo per
veder se è ferito, si sente afferrar di dietro; nel punto che si volta
indietro, un uomo balza fuor dal cespuglio dond'era partito il colpo,
e gli è sopra; dietro a lui, come un'ombra, un terzo; non ebbe tempo nè
di sparare, nè di saltar giù, nè di mettersi in guardia; fu scavalcato
e steso in terra. Qui provò a resistere, si divincolò, percosse, morse;
ma non potè alzarsi; spossato, si arrese, e si lasciò disarmare. Nella
furia, però, del dibattersi, avvolto da un nuvolo di polvere, avea
potuto con un movimento rapidissimo mettersi la lettera in bocca, senza
che se n'accorgessero i suoi assalitori. Gli legarono le mani dietro
al dorso; lo alzarono in piedi; gli appesero al collo in fretta e in
furia la sciabola, il mantello rotolato, la valigietta della sella;
trascinarono il cavallo dietro la siepe, e poi via a traverso i campi,
spingendo lui sbalordito e barcollante, con un frastuono infernale di
bestemmie, di minaccie, di percosse, di risa.


Dopo una corsa di mezz'ora, essendo omai lontani dalla via battuta
abbastanza da non aver più a temere sorpresa, rallentarono il passo.
Erano arrivati alle falde dei monti, in mezzo agli alberi, in un luogo
dove non si vedevan case, nè capanne, nè alcun segno d'abitazione. Il
carabiniere, curvo sotto il peso dei suoi arnesi, non dava segni nè di
terrore, nè d'ira; e il suo volto, pallido, ma non alterato, mostrava
l'animo consapevole della sorte che l'attendeva, e il cuore preparato
a riceverla. Egli non ignorava che cader nelle mani dei briganti, in
quei giorni di rappresaglie feroci, era la morte; perciò in lui c'era
già un po' della calma solenne della morte; e chi non l'avesse saputo,
al solo guardarlo negli occhi avrebbe detto. — Quell'uomo va a morire.
— Il brigante che gli andava innanzi, si voltava di tratto in tratto a
lanciargli un'occhiata tra la curiosità e il sospetto. Quello che gli
camminava al fianco, e che pareva il capobanda, guardava pure ora il
prigioniero, ora il compagno, e ricambiava con questo un sorriso di
trionfo.

— To', — disse poi tutt'ad un tratto, appendendo il suo fucile al collo
del carabiniere; — portamelo.

— Porta anche il mio, aggiunse quello che andava innanzi, e fece lo
stesso.

— E tu? — dimandò il capobanda, voltandosi verso il terzo brigante che
veniva dietro, e che pareva il più giovane.

— Io? — questi rispose; — io preferisco tenermelo... non si sa mai!

— Gaglioffo! — borbottò l'altro, lanciandogli un'occhiata sprezzante;
poi si voltò verso il carabiniere e gli disse: — Amico! — battendogli
una mano sulla spalla; — ora ci dirai dove andavi! —

Il carabiniere non rispose.

— Oh! oh! — esclamò il brigante, chinandosi a raccogliere una
verghetta. — Hai inteso? — e gli diede una vergata sulle mani.

Il carabiniere tirò innanzi senza rispondere.

— Parlerai, poveretto, — riprese il brigante, buttando via la verga;
— comincian tutti come te, e tu finirai come gli altri. Sei di carne
e d'ossa tu pure; quando sentirai pungere, griderai anche tu; va
tranquillo! —

Ciò dicendo, gli diede un urtone per fargli infilare un sentiero lungo
la sponda d'un rigagnolo; andarono diritti un pezzo, poi passarono
un piccolo ponte, girarono attorno a un poggio, e cominciarono a
salire per una viottola angusta su per un monte erto e roccioso. Il
carabiniere, stretto intorno al collo dalle bertelle dei fucili,
imbarazzato dall'aver le mani legate, soffocato dall'uniforme,
grondante di sudore, saliva a sbilancioni, inciampava nei sassi,
cadeva in ginocchio, e si rialzava a fatica, per tornare a cadere; e
i briganti lo picchiavano, lo malmenavano, lo spingevan su a pedate,
schernendolo, urlando: — Su, poltrone! Voialtri, quando ci cogliete, ci
legate ai vostri cavalli! Una volta per uno, piemontese! —


Su, a mezzo il fianco del monte, erano aspettati. In un punto dove
la roccia era tutta bricche, scoscendimenti e precipizi a filo, con
appena qualche striscia di cespi e d'arbusti aridi, sotto una rupe
cava e ricurva a guisa di volta, si stendeva un breve tratto di terra
piano, cinto intorno intorno di macigni, parte franati dall'alto, parte
— i più piccoli — spinti a forza di braccia tra i primi, in modo da
formare con quelli una specie di baluardo. La rupe serviva di tetto e
di parete a una capanna di legno, che occupava una quarta parte dello
spazio chiuso. Sulla faccia interna dei macigni erano state incavate
delle nicchiette, per riporvi roba, e degli scalini, dall'alto dei
quali si vedeva giù tutta la china. S'entrava là per un'apertura poco
più larga d'un uomo. Fuori, non appariva indizio di luogo abitato;
dentro, pareva insieme una tana, un ridotto e un corpo di guardia.
Nelle nicchie v'eran bicchieri, tazze di latta, tegami, pani, coltelli;
dalle punte sporgenti dei macigni pendevano sacche e fiaschette; in un
angolo c'era un mucchio di cenere e di tizzoni, e la roccia, di sopra,
affumicata; sotto la capanna, paglia e panni ammontati. A guardar su,
oltre la rupe, e dietro, e ai lati, non si vedevano che roccie, fessi
profondi, e massi enormi quasi sospesi in aria, con qualche raro albero
che appariva appena come un ciuffo d'erba. Sotto, i fianchi rotti del
monte; più in là, pianura, e lontano, altri monti.

Un uomo, ritto sull'ultimo gradino d'una scaletta, coi gomiti
appoggiati sul macigno, e il viso nascosto dietro due pietre, tra le
quali sogguardava come attraverso una feritoia, stava aspettando la
compagnia. Quando scorse il carabiniere, battè la mano, in segno di
contentezza, sur una delle due pietre; e prese a seguitare coll'occhio
intento ogni suo passo, accompagnando ogni percossa che gli vedeva
dare, con un gesto e una bestemmia, come per accrescere forza al
percussore e dolore al percosso.


Quando furono a pochi passi dal ridotto, scese e gli andò ad aspettare
alla porta. — Arrivarono. — Il carabiniere, cacciato dentro con uno
spintone, stramazzò in mezzo al recinto; entrarono in furia gli altri,
ansando, sbuffando, buttando qua e là borse, capelli, armi; sedettero
intorno, sui sassi, e stettero un po' di tempo silenziosi, per
riprender fiato ed asciugarsi il sudore.

— Eccone uno! — esclamò poi il capobanda, voltandosi verso il compagno
che era uscito a riceverlo.

— Bell'e vivo, — rispose questi. Poi, data un'occhiata al prigioniero e
visto che avea gli sproni, domandò al capo: — E il cavallo?

— Non me ne parlare! — rispose il capo indispettito; — bisognerà che
faccia in pezzi questa maledetta carabina: ho colto la bestia invece
dell'uomo. — E qui fece in poche parole il racconto dell'accaduto.

— Non importa, — disse l'altro; — è stato un colpo da maestro. —

S'avvicinò al carabiniere, lo aiutò ad alzarsi, e dopo averlo fissato
un po' in viso con un'aria di stupida curiosità, gli tolse di dosso i
fucili, il mantello, la sciabola; poi gli levò il cappello, lo guardò
di sopra e di sotto, sorrise e lo buttò in un canto. Il carabiniere,
rifinito, si appoggiò alla capanna, e cominciò a guardare i briganti,
ad uno ad uno, collo sguardo lento e grave d'un malato, il cui pensiero
spazii già di là dalla vita. I briganti si misero a frugare nella sua
valigietta.


Erano davvero ceffi degni del luogo e delle opere. Quello che pareva il
capo, era un uomo sulla quarantina, basso della persona; ma corpulento,
con una grossa testa, le spalle che toccavan le orecchie e le gambe
arcate con due polpacci enormi; e dalla fronte ai piedi tutto largo,
corto, tozzo, piatto, che pareva un gigante rientrato in sè stesso,
che si fosse gonfiato di tanto, di quanto s'era accorciato; e nero,
barbuto, baffuto e capelluto, in modo che non gli si vedeva che due
dita di fronte e il sommo delle guancie. Degli altri tre, due parevan
fratelli: avevano la stessa fronte angusta, lo stesso naso rincagnato,
gli stessi occhi volpini, la stessa bocca senza labbra, curva in forma
di semicerchio rivolto in giù, e lo stesso mento aguzzo e sbarbato; e
l'uno e l'altro piccoli e nervosi. Tutti e tre aveano negli occhi quel
non so che di cupo, di furbo, di lubrico, di spiritato, che esprime
la mostruosa stravaganza di cotali nature miste di superstizione e
di ferocia, di coraggio temerario e di abbietta vigliaccheria. Un po'
cascanti sulla vita, avevano nel gesto e nel passo, e anche nei loro
impeti d'ira, qualcosa della leggerezza molle delle tigri. Portavano un
cappello a pan di zucchero, due alte ghette, e una giacchetta ampia ed
aperta sul davanti, e tra la giacchetta e i calzoni usciva in giro, a
sgonfietti, un po' di camicia, stretta da una larga fascia azzurra. Il
quarto brigante, che pareva il più giovane, aveva un viso più umano;
ed era anch'egli piccolo e sbarbato come i due che avevan aria di
fratelli.

— Adesso — disse il capobanda, quando ebbe finito di visitar la valigia
— fategli metter giù gli stracci, poi mangeremo due bocconi, e poi...
la vedremo. —

I due fratelli s'avvicinarono al carabiniere, e uno gli slegò le
braccia, mentre l'altro gli teneva il pugnale dinanzi al petto. Le due
braccia slegate caddero penzoloni come le braccia d'un cadavere.

— Giù l'uniforme, — disse uno dei briganti.

Il carabiniere li guardò, e stette qualche momento perplesso, colla
fronte corrugata e un labbro stretto fra i denti.

Il brigante più giovane lo guardava con tristezza.

— Tu — disse a costui il capo, che stava seduto presso la porta — va al
tuo posto! —

Il giovane, come obbedendo ad un ordine abituale, salì la scaletta, da
cui uno dei briganti aveva veduto venire i compagni; appoggiò i gomiti
sul macigno, mise il viso fra le due pietre, e rimase immobile.

— Giù l'uniforme, — ripeterono i due briganti, alzando tutti e due
insieme la mano.

— Dategli una ceffata, che gli lasci il segno delle dita! — gridò il
capo.

Il carabiniere si scosse come se fosse stato punto in una piaga, poi
chinò la testa in atto di rassegnazione, e si tolse l'uniforme. I due
briganti la presero; frugaron nelle tasche, nelle maniche, da ogni
parte; poi la gettarono sotto la capanna. Uno di essi frugò ancora il
prigioniero nelle tasche dei calzoni, e disse al capobanda: — Nulla!

— Accidenti a lui! — questi rispose; — legatelo al ferro. —

I due manigoldi legarono il carabiniere colle mani intrecciate sul
dorso a un grosso uncino piantato in uno dei pali della capanna.
L'infelice era bianco come un morto e batteva i denti come pel ribrezzo
della febbre.

I tre briganti cavaron dalle nicchie un po' di provvigione da bocca,
sedettero sopra tre sassi, e cominciarono a mangiare, discorrendo
tranquillamente, a sbalzi e a proposizioni tronche, come si fa quando
si bada più a quello che si mangia che a quello che si dice.

— Hai sentito le notizie di Casalvecchio?

— L'affare di Don Alessio?

— Già; dugento ducati di taglione.

— Pagati?

— Pagati.

— Che chiappa!

— E trecento ducati al Sindaco.

— Furon discreti. Tra lui e suo fratello han di gran terre. Lungo il
Fortore, per due miglia, è suo.

— Ma la più bella è stata a Biccari: sei cavalli, cinque fucili, mille
ducati e otto sacchi di cacio-cavallo, d'un sol colpo. — Qui buttò una
buccia d'arancio addosso al carabiniere, dicendo: — To'.

— E sento — riprese un altro — che c'è stato dei guai a Cerignola.

— Tra la banda di Salvatore Codipietro e i Piemontesi. Furono
acciuffati all'impensata. È stato uno spionaggio del Sindaco. Sette
presi.

— Col capo?

— No.

— Fucilati? —

Il brigante fece cenno di si.

— Madonna! — esclamò l'altro, e si voltò verso il carabiniere: — Hai
inteso, eh? Ma vi renderemo la pariglia, non dubitare. Ha da venire
il giorno che a ogni albero della campagna penderanno le budella d'un
piemontese. Da' tempo. —

E tracannò un bicchier di vino.

— Guarda, — disse un altro, accennando il carabiniere ai compagni, —
sta pensando.

— A che pensi? — domandò il capo, forbendosi i baffi.

— A màmmata? — ridomandò il primo.

— Dove la lasciasti?

— Sentiamo. —

E si voltarono tutti e tre a guardarlo. Il povero giovane chiuse gli
occhi, stette un po' così, e poi li riaperse grandi ed umidi, e guardò
lontano, di là dai monti.

I tre briganti risero.

— Ma il più bello — disse uno — è che non parla.... O che sarà?...
Superbia?

— Modestia, — rispose l'altro con un riso sguaiato.

— Paura, — aggiunse il capobanda.

Il carabiniere scosse la testa come per dire di no-

— Ah! no? — esclamò il brigante, balzando in piedi; — ora vedremo. —
E poi ai due compagni, con piglio risoluto: — Costui andava a portar
qualche ordine per farci coglier nel covo. Abbiamo perduto anche troppo
tempo. Facciamolo sputare.

— Facciamolo sputare, — risposero gli altri, alzandosi.

Il carabiniere si scosse, e alzò la testa in atto di chi dice: — Son
preparato. — I tre briganti gli si piantarono dinanzi. Chi avesse
osservato, in quel momento, il giovane che stava alla vedetta, lo
avrebbe visto tremar come una foglia e voltarsi indietro, per non farsi
scorgere, a poco a poco, col viso bianco dal terrore. Il capobanda se
n'accorse, e gli accennò con un gesto imperioso che badasse al dover
suo: quegli riprese l'atteggiamento di prima.

— Dunque, — prese poi a dire il capo, rivolgendosi al carabiniere, con
un accento che non ammetteva più indugi, — di dove venivi? —

Il prigioniero corrugò le sopracciglia e fissò il brigante con uno
sguardo profondo che annunziava una volontà più risoluta della sua, e
non rispose.

Il brigante, senza dir altro, gli menò un così violento pugno sotto il
mento, che s'intese uno scroscio come se gli avesse spezzati i denti. —
Risponderai ora? —

Il carabiniere abbassò la testa, lasciò colare il sangue che gli
empiva la bocca; poi, rialzando gli occhi in viso al brigante, con
un'espressione d'imperturbata alterezza, fece cenno di no.

Il brigante si morse le labbra, ricambiò coi due compagni un sorriso
forzato; poi, con tutta calma, pose la mano in tasca, trasse un
coltello, l'aperse, sbottonò la camicia al carabiniere, e gli mise la
punta della lama sotto la fontanella della gola. La vittima fece un
movimento convulso come se la lama fosse già entrata. — Nessuna paura,
— mormorò il brigante; — e fece scorrere il coltello, lentamente e
leggermente, dal collo fino alla cintura, come avrebbe fatto sopra una
tavola per tracciarvi una linea. Sul petto dello sventurato apparve
una lunga riga rossa, somigliante a un taglio di rasoio, che subito
disparve sotto le goccie di sangue che ne spicciarono fuori; e le
goccie filarono giù, come lagrime, sotto i panni e sopra, sino a terrà.

— Ah! ah! — gridò con voce bestiale il capo; — lo cominci a vedere, eh?

— Guarda come corre! — disse l'altro.

Il giovane brigante si coperse il viso colle mani.

— Parli ora? — ridomandò il capo.

Il carabiniere guardò sgocciolare il sangue, poi alzò la testa, fissò
gli occhi in viso al brigante, e colla medesima espressione di prima
fece cenno di no.

I tre aguzzini si guardarono in viso con un'aria più di stupore che
d'ira.

— Ma vuoi dunque morire, imbecille? — urlò improvvisamente il
capobanda, mettendo il suo viso contro quello del carabiniere, in modo
quasi da toccarlo, e scotendo una mano aperta accanto alla guancia
di lui. — Non vedi che sei qui, nelle nostre mani, solo, e che ti
possiamo sventrar come un cane? Cosa speri? Che ti vengano a liberare?
Dì qualche cosa! Fa sentire la tua voce! Metti fuori almeno una
parola! —

Il carabiniere rimase muto.

Preso da un accesso di rabbia, uno dei briganti alzò il coltello; ma
il capobanda gli trattenne il braccio, dicendo: — No, il coltello!
— e afferrò un fucile: — Questo bisogna che provi! — e alzata
l'arma da terra, gliela battè con tanta forza sui piedi, che l'ossa
scricchiolarono, il misero gettò un acutissimo lamento, e si contrasse
tutto come preso da epilessia. Ma quasi nello stesso punto, traendo
forza dal dolore, battè il piede offeso in terra, alzò la testa, e
gridò con un ruggito: — No! —

I briganti lo afferrarono tutti e tre insieme pel collo, e stavan
per fargli schizzar gli occhi dal capo, quando il giovane che faceva
da sentinella, reso audace dall'orrore che non potea più vincere,
gridò con voce e viso di forsennato: — Eh, ammazzatelo una volta,
per dio! Tirategli una fucilata nella testa! Che serve farlo tanto
patire? —

I tre briganti, colpiti più dalla sua audacia che dalle sue parole,
si voltarono a guardarlo in atto di stupore; ma fu un breve stupore.
Il capo si slanciò sul giovane temerario, e con un pugno nella nuca
gli fece battere la testa sul macigno. Il giovane, sbalordito, riprese
senza far parola l'atteggiamento di prima; ma nel punto stesso che
gettava lo sguardo giù pel fianco del monte, fece un leggero atto di
meraviglia, si sporse più innanzi, e restò immobile, cogli occhi fissi.
Il capo dei briganti non se ne accorse, e tornò verso la vittima.
Era livido, digrignava i denti e tremava; i suoi stessi compagni lo
guardavano con trepidazione. Pose una delle sue grosse mani sul capo
del carabiniere, alzò l'altra con l'indice teso in atto di minaccia, e
guardandolo di sbieco cogli occhi iniettati di sangue, mormorò con voce
strozzata:

— Senti... In mal'ora t'è venuta l'idea di fare il cocciuto con me...
Tu non sai chi sono... Io ho fatto rizzare i capelli sulla testa a
gente che aveva più fegato di te.... Tu non hai idea di quello che son
capace di farti soffrire... Io son capace di pugnalarti fino a domani
senza toglierti la vita.... di ridurti a non aver più figura d'uomo....
di strapparti gli occhi dal capo.... Sai quello che è seguito agli
altri.... non mi mettere al cimento.... di' quello che devi, prima che
mi monti il sangue alla testa....

Dicendo le ultime parole, gli levò la mano dal capo, — la guardò, —
c'eran dei capelli. Indispettito, glieli buttò nel viso e gli rimasero
attaccati alla bocca. Il carabiniere, per liberarsene, sputò. I
briganti presero quell'atto come uno spregio, e non si contennero
più. Gettando tutti e tre insieme un grido di rabbia, chinando il
capo, torcendo gli occhi, gli si slanciarono addosso come tre fiere,
e cominciarono colle punte dei pugnali, coll'unghie, coi denti, colle
ginocchia, coi piedi, a torturarlo, in fretta e in silenzio; or l'uno
or l'altro sostando un momento per riprender fiato; dicendosi l'un
l'altro: — Adagio! — per avvertirsi di non ucciderlo; e pestavano,
punzecchiavano, mordevano, e cadevano in terra stille di sangue, brani
di camicia, ciocche di capelli; e non s'udiva che il respiro affannoso
dei tre carnefici, e il rumor dei pugnali che s'urtavano, e il singulto
secco della vittima; erano accecati, ebbri, imbestialiti; non parevano
più tre uomini, ma un mostro di tre corpi avviticchiato ad un uomo:
presentavano tutto quello che posson avere insieme di orribile la
demenza, la viltà e la ferocia.

— Non lo uccidete ancora! — ricominciò a gridare il giovane con
grande affanno, voltandosi e rivoltandosi rapidissimamente ora verso
i briganti, ora verso la campagna, e alzando a grado a grado la
voce come se volesse coprire un rumore che s'avvicinava. — Non lo
uccidete ancora! Aspettate! Dirà tutto! Se lo uccidete, non saprete
nulla! Provate ancora una volta! Ha fatto segno che vuol parlare! Lo
ucciderete poi! Gli darò io una pugnalata nel cuore, se non gliela
darete voi! Mettete giù i pugnali! Picchiate solamente coi pugni! Non
vedete che muore? —

Senza cessar di gridare lanciò un'occhiata fuori, vicino, al piede
del baluardo; poi balzò in mezzo al recinto, e mutando tutto ad un
tratto viso e intonazione di voce, gridò con un accento d'inesprimibile
disprezzo:

— Ah! vigliacchi! Tre contro un moribondo!

— Dannazione! — urlò il capo dei briganti, slanciandosi col pugnale
alzato contro di lui.

— È tardi! — questi rispose con un fremito di gioia, e accennando la
porta, gridò: — Guarda! —

Nel punto stesso che gli altri due briganti, avvertiti dalle parole
del giovane, gettavano in fretta e in furia un ampio mantello addosso
alla vittima, e mentre il capo afferrava il fucile per gettarsi contro
il nemico misterioso che s'avanzava, scoppiò uno strepito d'armi, di
passi, di voci, balenarono baionette e canne di fucile dinanzi alla
porta, sopra i macigni, sull'alto della rupe; e irruppe dentro uno
stuolo di carabinieri, che in un baleno circondò, oppresse, disarmò
e buttò a terra quanti trovò nel recinto. Seguirono alcuni momenti
di silenzio, durante i quali non si udiva che il respirar grosso e
frequente dei carabinieri trafelati.

— Soccorrete il moribondo! — gridò all'improvviso il giovane brigante,
che stava inginocchiato anche lui, come gli altri, colle mani
appoggiate in terra, sotto la baionetta d'un carabiniere.

— Qual moribondo? — domandò il capitano, facendosi innanzi, polveroso
ed ansante.

— Là! nell'angolo! — rispose il giovane, accennando.

Tutti si voltarono a guardare: nessuno scopriva nulla.

— Sotto il mantello! ripetè il brigante.

Il capitano, seguìto dagli sguardi di tutti, s'avvicinò alla capanna,
afferrò il mantello e lo buttò in terra. Un grido generale d'orrore
risonò alla vista di quell'orrenda cosa. L'infelice prigioniero,
inginocchiato in terra, colle braccia ritorte indietro, e il capo
spenzolante sul petto, era tutto lividi e piaghe e sangue, che parea
scorticato; e faceva uno sforzo per alzare la testa.

— Slegatelo subito! — gridò il capitano. — Dategli da bere! —

Tre carabinieri accorsero, lo slegarono, lo posero a sedere, e
cominciarono ad esaminar le ferite; gli altri, acciecati dall'ira,
percotevano i briganti col calcio del fucile.

— Giù le armi! — gridò il capitano. E poi, voltosi verso il giovane
brigante: — Parla tu! —

Il carabiniere che lo teneva gli permise d'alzarsi in piedi.

— Quando fu preso quell'uomo? — domandò il capitano; — di' la verità
prima di morire.

— Quell'uomo — cominciò il giovane con voce affannosa, tremando
ancora d'orrore e di spavento... — quel carabiniere... l'hanno preso
stamani... l'hanno condotto qui... l'hanno legato... volevano che
parlasse... lui non voleva... non parlò... gli saltarono addosso... Io
ho veduto! Mio Dio! Mio Dio!

— Ma tu chi sei? — gridò il capitano, strappandogli il cappello.

Tutti si voltarono ed esclamarono: — Una donna!

— Sì! — gridò questa come una forsennata; — sono una donna... m'hanno
rubata... son quindici giorni... mi misero il coltello alla gola...
m'hanno condotta con loro... Ma io non mi sono macchiata le mani
di sangue, no! lo giuro! io li accompagnava soltanto perchè non
m'uccidessero! Io sono di San Severo... sono una povera contadina...

— Perchè non hai tirato una fucilata nella testa a uno di costoro?

— Non ho avuto coraggio... mi avrebbero messa alla tortura... Bisogna
vedere quello che fanno... Credevo di diventar pazza... Se aveste
visto... Ma lui (e accennava il ferito), lui è stato un Dio... ha
sofferto tutto... non ha detto una parola! non una parola!

— Trascinate questi vigliacchi ai piedi della loro vittima! — gridò il
capitano.

I carabinieri trascinarono i tre briganti dinanzi al ferito, a cui era
stata fasciata la testa con una pezzuola che gli cuopriva il viso.

— Son qui io! — gridò il capitano, chinandosi verso l'infelice, che
cominciava a ridar segni di conoscenza; — sei salvo! sei in mezzo
ai tuoi compagni! fatti coraggio! guarda! i tuoi assassini sono
inginocchiati davanti a te! —

Il carabiniere alzò lentamente la testa e si scosse tutto. Poi stese
una mano, la posò sulla testa del capo dei briganti, la ritrasse,
sorrise colla bocca insanguinnata — sporse il capo innanzi — e gli
sputò sulla faccia.

— Cos'è questo? — dimandò il capitano, raccogliendo un non so
che bianco e molle che gli era parso veder cadere dalla bocca del
disgraziato.

— ... La... risposta... al colonnello... — rispose il ferito con un
filo di voce.

— Al colonnello di San Severo? La mia risposta? Quella che t'ho data
questa mattina? —

Il carabiniere accennò di sì.

Il capitano si slanciò su di lui, gli mise un braccio intorno al collo
e lo baciò sulla fronte; poi balzò in piedi e gridò ai suoi soldati:
— Inchinatevi davanti a questo valoroso, figliuoli! Egli portava al
colonnello la mia lettera che annunziava la nostra partenza, l'ora
e dove andavamo; se i briganti la leggevano, eran salvi; la mise in
bocca, e non parlò per non tradirsi, e sopportò i tormenti in silenzio!
È un eroe! È un martire! È un'anima grande!

— Sì! — gridarono tutti i carabinieri insieme, con una voce che veniva
dal più profondo dell'anima.

— Baciategli i piedi, vigliacchi! — gridò il capitano ai briganti.

L'uno dopo l'altro, strisciando in terra come serpi, baciarono i piedi
al ferito.

— Capitano! — gridò allora la donna, fissandolo con due occhi di pazza;
— io potevo dar l'avviso, quando voi venivate... non lo diedi, vi
lasciai venire... Fatemi una grazia in compenso... Io sono una donna
perduta... Io non posso più tornare a casa... Fatemi fucilare con
costoro!

— No! — gridò con un estremo sforzo il ferito.

Tutti si voltarono.

— Voi... — continuò l'infelice con voce fioca, tendendo una mano
sanguinosa verso la donna, — dovete fare un'opera di misericordia...

— Quale? dite! Dio mio! Io ve lo domando per carità! — gridò la donna,
gettandoglisi ai piedi colle mani giunte.

— ... Accompagnarmi... — mormorò l'infelice.

— Dove? — domandò là donna.

— Da per tutto! —

Tutti si guardarono meravigliati.

— Cosa volete dire? — ridomandò la donna.

— Voi non le avete viste tutte... le mie ferite... — rispose il
carabiniere; — Guardate! —

E sollevò il fazzoletto che gli copriva la fronte. Tutti s'avvicinarono
ansiosi, guardarono, e gettarono un grido straziante di orrore e di
pietà. Lo sventurato era cieco.

— Alla morte! — urlarono allora tutti i soldati, percotendo i briganti
coi fucili e coi piedi. — Alla morte! — La voce del capitano non riuscì
a dominare il tumulto; i carabinieri si slanciarono fuori, travolgendo
gli assassini nella corsa precipitosa.

— Farete... quest'opera... di misericordia? — domandò il ferito alla
donna, quando furono soli.

Questa alzò gli occhi al Cielo e disse: — La mia vita è vostra. —


Allora si strinsero la mano, e una fragorosa scarica, che scoppiò giù
nella valle, parve salutare il nobilissimo patto, che lega da dieci
anni la donna pietosa all'eroe.



LA CASA PATERNA.

DALLE MEMORIE DI WILELM VAN MINDEN.


   [Illustrazione]


.... M'era già venuto più volte il desiderio di fare una corsa a
Kalmert per rivedere la casa dove nacqui e i luoghi dove passai i
primi quindici anni della mia vita. Ma sempre, al momento di partire,
m'era mancato il coraggio. In quella città era seguito l'avvenimento
che aveva dispersa la mia famiglia, in quella casa avevo provato il
primo grande dolore della vita, — c'era morto mio padre; — temevo
perciò di risentire, tornandovi, un'emozione troppo dolorosa. Così
avevo rimandato la mia gita d'anno in anno, sperando sempre che l'anno
dopo mi sarei sentito più forte; e n'erano passati venti: vale a dire
tutta la parte migliore della mia vita. Ma una mattina di gennaio,
finalmente, avendo scoperto, pettinandomi, una ciocchetta di capelli
bianchi che sino allora era stata nascosta sotto un pietoso ricciolo
biondo, dissi risolutamente a me stesso: — È tempo, — e partii la
mattina stessa per poter tornare a Bois-le-Duc la sera. Vent'anni!
— pensavo durante il tragitto, guardandomi nei vetri del vagone; la
pinguedine, la barba e il sole di Borneo, m'hanno molto cangiato;
nessuno mi riconoscerà; nessuno verrà a distrarmi dallo scopo triste e
caro insieme del primo viaggio; posso andar là col cuore in pace. — E
infatti le mie previsioni non furono deluse.

Nevicava; la campagna era tutta bianca; il treno, quasi voto; i miei
compagni di viaggio, appena arrivati a Kalmert, montarono in carrozza
e disparvero; io m'incamminai tutto solo verso la città, e arrivai
in cinque minuti, agitato da una curiosità e da un'impazienza penosa,
all'imboccatura della strada principale.

Qui mi fermai, e guardai dinanzi e intorno a me con un grande stupore.

Riconoscevo la strada e gli edifizi; ma ogni cosa mi pareva stranamente
cangiata; la strada divenuta strettissima; le case rimpicciolite; i
muri invecchiati, non di venti anni, ma d'un secolo; tutto diventato
nero, squallido, lugubre; mi pareva una città colpita da un grande
infortunio, nella quale anche gli edifizi fossero afflitti e
pensierosi. Andai innanzi, riconoscendo ad ogni passo una cantonata,
una finestra, una porta, una bottega, che mi ridestavano cento
reminiscenze infantili, e mi trovai presto nel cuore della città, in
mezzo a una folla di signori e di signore che uscivano dal duomo;
poi chè era domenica, e appunto il momento in cui terminava, come
vent'anni prima, la messa signorile di mezzogiorno. In meno di cinque
minuti, riconobbi cento persone; ma come cangiate! Nei primi momenti
non mi parve credibile che venti anni avessero potuto trasfigurare
una popolazione in quella maniera; e pensai che qualche sconosciuto
malanno avesse aiutato l'opera distruggitrice del tempo. Quelli che
avevo lasciati coi capelli neri, eran diventati grigi; quelli che
avevo lasciati grigi, eran diventati bianchi; questi s'era incurvato, a
quello s'erano infiacchite le gambe; il tempo, passando su quella gente
come un nemico rabbioso e capriccioso, aveva qui schiacciato un occhio,
là strappato una zazzera, a uno rotto i denti, a un altro vuotate le
guancie. Vedevo dei miei compagni di scuola, una volta sottili come
un filo, impinguati in maniera da non esser più riconoscibili fuori
che all'espressione del viso; delle ragazzine, che avevo viste andar
alla scuola, leggere come farfalle, colla colazione nel canestro,
diventate pezzi di donne gravi e lente, circondate di bambini; signore
che avevo lasciate sfolgoranti di gioventù e d'allegrezza, avvizzite,
rugose, col capo basso e un velo nero sul viso; famiglie già numerose,
ridotte a tre o quattro persone; faccie che erano sparite affatto dalla
mia memoria; larve di miei antichi maestri delle scuole elementari,
che credevo già sotterrati da dieci anni; giovanotti che avevo
visti bambini in braccio alle fantesche, piantati in atteggiamenti
dongiovanneschi davanti ai caffè; una ragazzaglia sconosciuta, una
serie di coppie matrimoniali imprevedute e imprevedibili, un gran
numero di persone allungate, raccorciate, arrotondate, assottigliate,
scontorte, ingiallite, imbellite, rimminchionite; e malgrado la quasi
eguaglianza dei cangiamenti in meglio e dei cangiamenti in peggio,
quasi tutti mi parevano annoiati o tristi, e provavo un sentimento di
pietà vedendoli svoltare coppia per coppia, famiglia per famiglia, in
quelle stradette tortuose e oscure, e sparire gli uni dopo gli altri
sotto le porte basse di quelle piccole case. Dopo pochi minuti restai
quasi solo.

Attraversai parecchi vicoli cupi, fiancheggiati da casupole di cattivo
umore, e riescii in _quella_ strada e vidi _quella_ casa.

Provai un'emozione viva; ma la vinsi subito.

Cercai con gli occhi la porta di casa del pollaiolo, del lattaio, del
fruttivendolo, dell'oste: erano tutte o chiuse o socchiuse; la strada
era deserta; la neve quasi intatta.

Passai innanzi al portone del cortile di casa mia, e m'affacciai alla
porticina: non vidi nessuno.

Entrai: la porta della casetta del portinaio era chiusa; andai innanzi
lentamente sotto un lungo pergolato che riesciva in faccia alla scala.

E fin qui non sentii che un po' di batticuore. Ma quando mi trovai
dinanzi al portico della casa, in quel piccolo spazio dov'era affollata
la parte maggiore e più intima dei miei ricordi; quando vidi la porta
dell'uffizio di mio padre, quella scala, quel terrazzino, quelle
finestre contornate di viti, — tutto ancora tal quale l'avevo lasciato;
— allora mi sentii oppresso improvvisamente da una violenta emozione, e
i miei occhi si riempirono di lacrime.

Guardai alle finestre: non v'era nessuno. Mi voltai indietro, verso la
casetta del portinaio: nessuno. Tutte le porte erano chiuse, e tutto
era bianco di neve, e continuava a nevicare.

Come mi balzava il cuore! Quanta gente c'era per me in quella
solitudine! I vecchi medici di casa attraversavano a passo lento
il cortile, le fantesche morte scendevano la scala colla sporta al
braccio, i miei amici di infanzia saltellavano sotto il portico, il
mio ripetitore di latino faceva capolino in fondo al pergolato, mio
padre usciva dall'uffizio rimettendo gli occhiali nell'astuccio, mia
madre mi faceva cenno dalla finestra che non stessi a pigliare il
sole di mezzogiorno, mia sorella inaffiava i fiori nel giardino, mio
fratello leggeva forte nella sua stanza, il mio vecchio gatto nero
si arrampicava su per le viti, i miei passeri cantavano nelle loro
gabbiette verdi, le porte e le finestre s'aprivano e si chiudevano;
tutto si moveva, tutto parlava, tutto mi guardava; ed io stavo là sotto
quei mille sguardi e in mezzo a quelle mille voci, sopraffatto da un
sentimento inesprimibile di tenerezza, di malinconia e di stupore, e
incerto se dovessi trattenermi o fuggire.

Un po' di neve che cadde da un albero sopra i miei piedi, mise in
fuga tutti quei fantasmi, e mi risentii sicuro di me stesso. Allora
cominciai a considerare attentamente il luogo. Come tutto era diventato
piccino! Quella casa, che m'era sempre parsa un grande edifizio, non
era che una casetta di villaggio; il pergolato, che m'era sempre parso
altissimo, lo toccavo quasi col cappello; il muricciuolo dell'orto che
non ero mai riuscito a saltare, potevo scavalcarlo senza scompormi;
mi pareva di essere diventato un gigante, sentivo che la mia persona
era d'ingombro; e non so perchè, questo mi rincresceva. Provavo quasi
tristezza d'essere tanto ingrossato. Mi pareva che tutti gli oggetti
che mi circondavano dovessero dire: — Chi è quell'omaccione? noi non
lo conosciamo. — Certi sfondi, certi prospetti lontani del giardino e
del cortile, s'erano ravvicinati; i muri di cinta s'erano ristretti;
non mi sapevo dar ragione d'aver veduto per tanti anni, in quello
spazio così angusto, delle vaghe immagini di steppe, di valli e di
strade senza fine, e d'aver provato un certo sentimento di viaggiatore
avventuroso andando, nei giorni di pioggia, da un'estremità del cortile
all'estremità opposta del giardino. Toccai la cancellata del giardino;
era aperta, entrai. La neve copriva i sentieri, le spalliere di
mortella, le aiuole, i fossi; ma riconobbi ogni cosa al primo sguardo.
Rividi la finestrina dell'uffizio di mio padre, alla quale, ventitrè
anni prima, una mattina d'aprile, egli s'era affacciato, dicendomi
con voce fresca ed allegra: — Wilelm, in questo momento compisco
settantaquattro anni! — Rividi il capanno di gelsomini sotto il quale
m'ero preparato alla mia prima confessione, e dov'ero rimasto molte ore
immobile e pensieroso il giorno in cui, tornando dalla scuola, avevo
visto per la prima volta un cadavere. Rividi il piccolo canneto da cui
per parecchi anni avevo tratto spade e lancie per il piccolo esercito
di monelli cenciosi che combattevano sotto il mio comando contro i
_vigliacchi_ della parocchia di Sant'Ambrogio. Dietro ogni cespuglio
s'alzava un fantasma; pullulavano da ogni parte centinaia di ricordi:
ricordi di persone morte, di parole dette da gente dimenticata, di
scene miste di realtà e di sogno, di certi giochi di luce, di mattinate
piovose, di fragranze dell'aria, di letture, di fantasticherie, di
rimorsi infantili, di proponimenti di cangiar vita, di certi rami di
piante incurvati in una certa direzione, di certi insetti visti in quel
dato punto del tronco d'un albero, dei primi improvvisi e misteriosi
rimescolamenti del sangue provati nel veder venire verso di me, in
mezzo al verde e all'ombra, la figura leggera e bianca d'una cugina di
tredici anni che avevo sognata la notte. E più andavo innanzi, più le
immagini mi si presentavano fitte e vive. Non badavo più alla neve, non
pensavo più che qualcuno potesse vedermi dalle finestre e prendermi per
un matto o per un ladro. Tutta la mia mente e tutto il mio cuore erano
nel passato. Mi pareva che molte voci sommesse mi chiamassero per nome,
o mi dicessero mille cose incomprensibili in suono di lamento, ed io
rispondevo confusamente, giustificandomi e promettendo non so cosa, e
guardavo intorno con un sentimento di rispetto e di pietà come se quel
giardino fosse un camposanto, e quei rialti di neve nascondessero dei
morti.

Così arrivai sotto una tettoia in fondo al giardino, sedetti, rivolto
verso le finestre, e mi misi a pensare. I miei pensieri mi conducevano
a un sentimento amaro della vanità delle cose umane. — Ah, come sono
invecchiato! — dicevo tra me. Se quando scorrazzavo ragazzo in questo
giardino, qualcuno m'avesse predetto quello che poi è accaduto, mi
sarebbe parso d'essere chiamato ad una felicità immensa. Eppure, io
sono da questa felicità assai più lontano ora di quello che lo fossi
in quegli anni. Sono partito di qui pieno di speranze e d'ambizioni,
temendo quasi che la vita non fosse abbastanza lunga e la terra
abbastanza vasta, per quello che avevo da operare e da godere; ed ecco
che, dopo pochi anni, tornando qui ancor giovane, non ho più altro
desiderio che d'andar a terminare la mia gioventù lontano dai rumori
del mondo, in una villetta solitaria, colla mia famiglia e i miei
libri! Molte fatiche, qualche piacere, una passeggiera soddisfazione
d'amor proprio, e tutto è finito. Partito appena per il grande viaggio,
son già sulla via del ritorno. Non aspiro più ad altro che alla pace
della coscienza e della vita. Non sento più nemmeno l'amarezza del
disinganno. Falsi amici, false speranze, vanità, gloriole, piccoli
piaceri e piccolissime passioni della vita vissuta finora, li vedo ai
miei piedi, e li guardo senz'ira e senza rammarico. Non disprezzo,
non accuso nulla e nessuno, non mi credo migliore dei miei simili;
non sento altro che una immensa sazietà, una profonda stanchezza, un
invincibile bisogno di solitudine e di silenzio. Chi ama il mondo, si
slanci innanzi, s'apra la via, trionfi, splenda e s'inebrii; l'invidia
non trarrà più dal mio cuore un sospiro. Io non domando più altro
al mondo che un po' di verde e un po' d'aria, e a Dio la forza di
resistere alla disperazione il giorno in cui rimanessi solo sopra la
terra....

In quel momento vidi comparire dietro i vetri d'una finestra un viso di
cui i fiocchi fittissimi della neve velavano la fisonomia.

Mi parve che mi guardasse.

Pensai allora che era mio dovere o d'andarmene o di salir su a dar
spiegazione della mia presenza in quel luogo. Questa riflessione
mi diede coraggio a fare quello che da principio non avrei osato: a
chiedere il permesso di visitare l'interno della casa.

Uscii dal giardino, salii le scale e bussai alla porta, che
s'aperse subito, mostrandomi un viso meravigliato, che evidentemente
m'aspettava. Era il padron di casa; un uomo sui cinquant'anni, d'aria
benevola; dietro il quale faceva capolino una signora attempata, di
fisonomia dolce e triste, che pareva sua moglie.

Dissi il mio nome ed esposi il mio desiderio, spiegandolo.

Il mio nome non riuscì nuovo, la mia voce commossa spiegò i miei
sentimenti meglio delle parole; fui invitato ad entrare.

Entrai.

Oh care, benedette, indimenticabili pareti della mia povera casa!
Fuorchè i muri, tutto era mutato; ma riconobbi subito ogni cantuccio,
e rividi ogni cosa al suo posto come al tempo della mia infanzia.
Mille voci insieme mi chiamavano da tutte le parti: — Wilelm! Wilelm!
Wilelm! È qui — è lui — è tornato — è il piccolo Wilelm! E la mamma?
E i fratelli? dove sono? dove sei stato? che cos'hai fatto? — Ma
fin dai primi momenti l'immagine di mio padre sopraffece tutte le
altre memorie. Lo vedevo apparire sulla soglia di tutte le porte, lo
sentivo camminare dietro tutte le pareti; era da per tutto; lo vedevo,
come riflesso da cento specchi, in cento immagini; qui seduto al
tavolino, occupato a rigare i miei quaderni di scuola; là appoggiato
al camminetto, in atto di declamarmi dei versi di Vondel; più in là
inteso a fissare al muro un quadretto in cui aveva messo un mio schizzo
informe di battaglia, fatto a cinque anni, e festeggiato da lui come la
rivelazione d'un genio. Ogni angolo, ogni palmo di parete mi ricordava
un suo lavoro, una sua parola, una sua abitudine. E più andavo
innanzi per quelle stanze rischiarate d'una luce smorta ed eguale dal
riflesso della neve, più la sua immagine si faceva viva, tanto che,
in qualche momento mi corse un brivido per le vene, come se voltandomi
improvvisamente, dovessi rivederlo davvero. Rividi la stanza dove mia
madre gettò un grido disperato quando il nostro vecchio medico, uscendo
dalla camera di mio padre, le disse con voce sommessa: — Si faccia
coraggio, buona signora... è finita! — Passando per la stanza accanto,
rividi me, di sei anni steso sul letto, moribondo di crup; mio padre
un po' più in là che mi faceva il ritratto a matita, asciugandosi gli
occhi di tratto in tratto, e mia madre inginocchiata al mio capezzale,
che mi teneva per mano, e soffocava i singhiozzi nelle coltri. Quante
immagini, quante reminiscenze di malattie, di dolori, di spaventi,
di racconti di fate, di giocattoli rotti, di vecchie vesti di mia
madre e di mia sorella, che erano sparite da anni ed anni dalla mia
memoria! Entrando in ogni nuova stanza, ero costretto a fermarmi, come
per resistere all'ondata di memorie che mi veniva incontro impetuosa,
e mi soverchiava. Una finestra delle ultime stanze mi ridestò una
reminiscenza vaga, come d'un sogno, di non so che diverbio, cagione
di molte lagrime, che ebbi con un mio fratello, maggiore di me, morto
a cinque anni, del quale non rammento più che due grandi occhi neri
che mi guardavano sempre. Di stanza in stanza, la mia memoria s'andava
rischiarando, come per il diradarsi d'una nebbia, dietro la quale mi
riapparivano i primissimi albori dell'intelletto e della coscienza,
e capivo per la prima volta il perchè di molte manifestazioni del mio
carattere, seguite anni e anni di poi; e su quel fondo luminoso della
mia infanzia, si muovevano e s'aggruppavano confusamente le figure
del mondo vario e tumultuoso, conosciuto da adulto e da uomo; profili
eleganti di belle patrizie, teste gloriose di poeti, visi arditi e
cari di soldati, città e mari lontani, e camerette piene di carte e
di libri, in cui io avevo sudato e pianto, sospirando mia madre; e mi
sentivo crescere nel cuore un rimorso, non so di che, una tristezza,
uno sgomento, una voglia di buttarmi in terra e di piangere, che mi
soffocava. Arrivai finalmente all'ultima stanza. — È la nostra camera
da letto — disse il padrone di casa, aprendo la porta. Era la camera
dov'era morto mio padre. Mi fermai sulla soglia, mi sentii mancare
il coraggio. Avevo intravvisto un letto nello stesso angolo dov'era
stato quello di mio padre, e mi pareva ch'egli dovesse trovarsi ancora
là, immobile e bianco, col crocifisso in mano, in mezzo a due ceri
accesi. Il padron di casa capì e si fece indietro discretamente. Io
mi precipitai solo nella camera e mi gettai in ginocchio ai piedi del
letto. Oh! non scorderò mai più, mai più quel momento! Mi parve di
risentire nella mia mano la mano fredda di quel povero vecchio, mi
parve che fosse spirato allora, mi tornarono in mente le sue ultime
parole, i suoi ultimi gesti, il suo ultimo sguardo, che cercava me,
il piccolo Wilelm, l'ultimo dei suoi figliuoli, ch'egli lasciava non
ancora avviato nel mondo, e di cui parlava sempre con rammarico nei
suoi ultimi giorni! Allora soltanto, ricordando la sua lunga vita di
lavoro e di sacrifizi, compresi che cosa valesse quell'uomo; sentii
tutto quello che gli doveva il mio cuore e la mia mente; riconobbi
che non l'avevo amato abbastanza, che il mio sentimento per lui era
stato più di rispetto che di tenerezza, che ero stato ingiusto, ch'ero
stato ingrato, e gliene domandai perdono a mani giunte, piangendo a
calde lagrime, e baciando disperatamente la sponda del letto, come
aveva baciato quindici anni prima la sua mano inanimata! Poi rimasi
là qualche tempo a meditare, e in quei momenti si decise la sorte
della mia vita. Riavuto dalla prima stretta del dolore, mi domandai
perchè mi rimanesse nel cuore una così grande tristezza, perchè da
tanto tempo mi sentissi quasi stanco della vita, perchè, guardando
all'avvenire, lo vedessi così vuoto e così malinconico, perchè fino
i più ridenti ricordi dell'infanzia mi amareggiassero l'anima, che
cosa avrei dovuto fare per ravvivare la mia gioventù moribonda e per
risuscitare le mie speranze morte, che cosa mi mancava, che nuova vita
avrei dovuto intraprendere. E allora da tutte le stanze di quella
casa, dal giardino, dal portico, dal cortile, tutte quelle medesime
voci che m'avevano salutato all'entrare, mi risposero tutte insieme:
— Wilelm, e lo domandi? Bisogna riedificare il tempio caduto, rifare
la casa antica, rimettere tutto al suo posto, risuscitare il piccolo
Wilelm d'una volta e i suoi piccoli fratelli, ricomporre i giocattoli
spezzati, tornare a rigare i quaderni di scuola e a declamare i versi
di Vondel! Bisogna ricominciare il cammino, Wilelm! — Mille volte
m'era già venuto questo pensiero; ma questa volta me lo diceva la mia
casa, era un consiglio che mi dava il mio vecchio giardino, era una
preghiera che mi mormorava mio padre morto, e per la prima volta la
mia anima vi rispose con uno slancio d'amore e di risoluzione. In un
momento, come per incanto, la mia mente si rischiarò; tutto intorno
parve trasfigurato; un nome da molto tempo caro al mio cuore mi venne
sulle labbra come un grido di gioia; lo pronunziai tre volte: — Lijsse!
Lijsse! Lijsse! — guardandomi intorno come se lo spirito di mio padre
fosse là e mi sentisse; poi balzai in piedi e uscii dalla stanza
ringiovanito, forte, sereno, colla fronte radiante dell'aurora d'una
nuova vita. E mentre mi congedavo dal mio ospite, mentre ripassavo per
le altre stanze, scendendo le scale, passando sotto al pergolato, mi
pareva che le mille voci della casa mormorassero in suono di festa: —
Addio, Wilelm! addio, Wilelm! È lui, — è il piccolo Wilelm, che va a
rifabbricare il tempio caduto, che va a rifare la casa antica, che sta
per ricominciare il cammino! A rivederci, Wilelm! — E quando arrivato
in fondo alla strada, mi voltai per guardare l'ultima volta la casa,
tutta velata dai fiocchi della neve che cadeva sempre più fitta, e
fissai lo sguardo alla finestra dell'ultima stanza, mi parve di vedere
l'immagine di mio padre che mi benedicesse, dicendo: — Addio, piccolo
Wilelm! Sii benedetto, figliuol mio, che vai a fabbricarmi una nuova
casa e a prepararmi una nuova vita! A rivederci presto, Wilelm! — E
appena arrivato a Bois-le-duc corsi dal padre di Lijsse a fargli la
domanda che aspettava da tanto tempo.

Ed ora son passati, da quel giorno, altri quindici anni; ne ho
quarantacinque, e la mia testa è tutta grigia. Ma ho rifabbricato
il tempio caduto e quasi tutti i miei desiderii sono compiuti. Sto a
Deventer, in una bella casa, che ha un piccolo portico, un giardino con
la tettoia in fondo, e un lungo pergolato. Dalla stanza a terreno dove
sto scrivendo vedo il piccolo Wilelm di dieci anni che fa il chiasso
nel cortile coi suoi compagni di scuola, vedo la sua piccola sorella
Iulia che inaffia i fiori del giardino, sento il mio primogenito
Albert che legge forte nella sua camera al primo piano, e la mia buona
Lijsse che dalla finestra grida a Wilelm di non star a prendere il
sole di mezzogiorno. Vedo il ripetitore di latino quando passa sotto
il pergolato, vedo il gatto di casa che s'arrampica su per le viti,
vedo la vecchia donna di servizio tornar dal mercato colla sporta sotto
il braccio; i passeri cantano nelle loro gabbiette verdi, le porte
s'aprono e si chiudono, tutto si muove, tutto parla, tutto è pieno di
allegrezza e di vita, e tutto mi ricorda la casa antica di Kalmert. Io
stesso m'accorgo d'aver preso a poco a poco le abitudini di mio padre,
la sua andatura, i suoi gesti, la sua intonazione di voce. E qualche
volta ho una strana illusione: mi par d'esser proprio lui, ringiovanito
di vent'anni, e che il mio spirito sia passato in quel piccolo Wilelm
che vedo nel cortile; e vedo un terzo piccolo Wilelm che verrà dopo il
mio, e un altro che verrà da quello, e via via, una fila sterminata di
piccoli Wilelm che si perde lontano lontano in un orizzonte azzurrino,
e mi par di essere immortale e felice. Eppure penso sovente alla morte;
ma non come al tempo della mia gioventù, con un sentimento di tristezza
o di terrore; ci penso tranquillamente, come un lavoratore contento di
sè, seduto a una mensa gioviale, pensa che più tardi andrà a riposare
dalle sue oneste fatiche sopra un guanciale non visitato da cattivi
sogni. Solamente io dico sempre tra me: vorrei morire di primavera,
nell'ultima stanza di casa mia, colla finestra aperta sul giardino, con
la mia Lijsse accanto, con tutti i miei figliuoli intorno, colla forza
di riconoscerli, di chiamarli per nome, di abbracciarli a uno a uno
fino all'ultimo momento, e di dire a tutti con voce distinta, prima di
chiudere gli occhi: — Figliuoli, quando avrete trentanni e comincierete
a sentirvi stanchi della vita, rifabbricate la casa e ricominciate il
cammino!

  FINE.



INDICE


  Gli amici di collegio               Pag.  1
  Camilla                              »   51
  Furio                                »  161
  Un gran giorno                       »  271
  Alberto                              »  301
  Fortezza                             »  401
  La casa paterna                      »  439



_OPERE DI E. DE AMICIS_

Edizioni Treves, in-16.


  _La vita militare_. Nuova edizione del 1880 riveduta
    e completamente ritusa dall'autore con l'aggiunta
    di due nuovi bozzetti. 4.ª impressione                  L. 4 —
  _Novelle_. Nuova edizione riveduta e ampliata.
    5.ª impressione
                                                            »  4 —
  _Olanda_, 7.ª edizione                                    »  4 —
  _Marocco_. 9.ª edizione                                   »  5 —
  _Costantinopoli_. 12.ª edizione                           »  6 50
  _Ricordi di Londra_. 8.ª edizione                         »  1 50
  _Ricordi di Parigi_. 4.ª edizione                         »  3 50
  _Ritratti letterari_. 2.ª edizione                        »  4 —
  _Poesie_. 3.ª edizione                                    »  4 —
  _Gli Amici_. 2 volumi. 8.ª edizione                       »  7 —


Edizioni illustrate, in-8.

  _Marocco_. Con 171 disegni di Stefano Ussi e C.
    Biseo                                                   L. 15 —
  _Costantinopoli_. Con 202 disegni di C. Biseo             »  20 —
  _La Vita Militare_. Con disegni di V. Bignami,
    E. Matania, D. Paolocci, e Ed. Ximenes                  »  15 —


IN PREPARAZIONE:

Sull'Oceano.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come
le grafie alternative (desse/désse, innaffiare/inaffiare e simili),
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.





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