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Title: Racconti e bozzetti
Author: Castelnuovo, Enrico
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Racconti e bozzetti" ***


                           ENRICO CASTELNUOVO


                          RACCONTI E BOZZETTI.


                         UN SIGNORE POSSIBILE.
                 ABNEGAZIONE. — RIMEMBRANZE DEL CADORE.
        IL RACCONTO DELLA SIGNORA ADELAIDE — UN RAGGIO DI SOLE.
                     IL COLPO DI STATO DI CLARINA.
                       IL COGNATO DELLA COGNATA.



                                FIRENZE.
                         SUCCESSORI LE MONNIER.
                                 1872.



                         Proprietà letteraria.



UNA RIGA DI PREFAZIONE.


Questi racconti, lettori carissimi, non pretendono punto di essere
una novità. Il primo è comparso molti anni addietro in un modesto
_Almanacco_, che, fra alcuni giovani veneziani, stampavamo ai tempi
del dominio austriaco; il penultimo ebbe gli onori dell'_Antologia_;
gli altri tutti videro la luce nella _Strenna Veneziana_, pubblicazione
annua, alla quale prendevano parte anche scrittori di merito, ma che,
come accade di tutte le Strenne, non poteva aspirare ad un'assai
larga diffusione. Si sa che nelle Strenne il contenente uccide il
contenuto, i cartoni soffocano lo stampato. Scendo a tanti particolari
per iscusare questo tentativo di risurrezione. Infatti, una seconda
edizione de' miei lavori non si spiegherebbe se non fosse chiarito che
una prima edizione propriamente detta non vi è mai stata.

Del resto, io non mi dissimulo che queste cosuccie possono aspirare
tutt'al più a esser giudicate mediocri. Ma siffatta considerazione non
mi scoraggia.

Nei primi bollori della giovinezza, quando si spera di arrivare al
sublime, si disdegna superbamente il mediocre, e si ripete quella
sentenza che dev'esser stata proferita a vent'anni: non essere, in
arte, permessa la mediocrità. Ognuno principia la vita con questo
convincimento, ognuno, senza voler confessarlo, ne mitiga la rigidezza
col maturarsi del senno.

A una sentenza assoluta che mi sembra fallace non ne contrapporrò
un'altra assoluta del pari, e non porrò quindi la riabilitazione della
mediocrità nell'arte come una tèsi generale. Credo invece ch'essa possa
valere per buona parte della letteratura e pel romanzo in ispecie;
credo che le opere eccellenti, come sarebbero, per esempio, _I promessi
sposi_ e _Davide Copperfield_, non debbano escludere mille altri libri
di gran lunga inferiori, intesi alla pittura del vero, benchè inabili
a riprodurlo con eguale efficacia. Quanto più si sparge l'abitudine
del leggere, tanto più cresce l'opportunità del romanzo, che, per
l'indole sua, è meglio atto a penetrare in tutte le classi sociali.
Ebbene; il romanzo che riesce a provocare un onesto sorriso, a spremer
dal ciglio una lagrima pietosa, a rinvigorire nell'anima un sentimento
gentile, a svegliare nell'uomo accasciato dall'assiduo lavoro le virtù
sopite della fantasia, quando pure non tocchi l'eccellenza dell'arte,
può presentarsi senza baldanza, ma senza rossore, e prendere il suo
posto nella folla delle opere letterarie. È un posto umile; però è un
posto che giova vedere occupato, come piace che nei teatri, oltre alle
poltrone ed ai palchetti, sieno occupate anche l'altre sedie.

Se questo volume adempierà almeno qualcheduna delle condizioni che
ho pocanzi accennate, io non mi gonfierò certo di superbia come il
tacchino che credeva d'esser pavone, ma neppure mi pentirò di averlo
dato alle stampe.

  _Venezia, 14 luglio 1872._

                                                            L'AUTORE.



UN SIGNORE POSSIBILE.


I.

Nel paese di *** venne a morire, non ha guari, un possidente
ricchissimo, il quale agli ozî beati dell'opulenza prepose l'attività
della vita campestre e, facendosi ammaestratore ed amico de' suoi
coloni, seppe volgere le dovizie al più nobile degli scopi, a quello
cioè di migliorare le condizioni materiali e morali de' propri simili.
Erede d'un pingue censo, egli stimò acconcio di porre sua stanza in
mezzo alle terre che gli appartenevano, e quantunque le fossero in sito
molto remoto, nè vi si vedesse nemmen da lunge il fumo della capitale,
credette però che l'animo e l'ingegno per esercitarsi pienamente
abbiano d'uopo soprattutto d'operosità e che per coloro, i quali
sanno riempiere la stoffa del tempo, il silenzio d'una villa non valga
meno del trambusto d'una città. Era nobile di _petite noblesse_, come
direbbero i Francesi, perchè suo padre, di famiglia gentilizia, aveva
osato insudiciare il blasone sposando un'onesta borghese: contuttociò
era così invalso l'uso presso i suoi aderenti e presso gli estrani
di chiamarlo il conte Alberto, che noi nel farne la biografia lo
nomineremo così, sebbene egli non celasse punto la sua origine mezzo
popolana.

Fu certo un dì memorando per gli abitanti di *** quello, in cui il
giovane signore prese possesso delle sue terre. I servi gallonati,
accorsi in frotta a rendergli omaggio, videro un uomo sul primo fiore
degli anni, di modi schietti, di vestire semplice, al quale parea
pesassero quelle dimostrazioni d'ossequio, e premesse invece assaissimo
d'investigare le condizioni della tenuta, lo stato e l'educazione dei
villici. Ahimè! le vecchie livree use alla famigliare insolenza d'un
patrizio mezzo rimbambito che non solea dimorar nella villa se non
due mesi di autunno, nè d'altro occupavasi che dei cavalli e dei cani,
mostravano gradire assai poco le sottili ricerche del nuovo padrone e
quel suo fare amichevole sì, ma pur decoroso e tanto diverso dai modi
del conte defunto. V'è alcuni signori che trattano il popolo con quel
tuono carezzevole, con cui si trattano i cagnolini, salvo sempre a
pigliarli a calci quando se ne presenti il destro, ed è pur doloroso
che siffatta costumanza incontri favore presso quelli che dovrebbero
esserne offesi: tanto può la consuetudine dell'obbedienza e della
servilità!

Lo stato della tenuta non porse invero argomento di consolazione
al conte Alberto. Essa era divisa in molti affitti, ma a prezzo sì
tenue che la rendita totale era minore assai di quello che avrebbe
potuto e dovuto essere; e d'altro lato i fittaiuoli, avendo a pagare
pochissimo, non si davano alcun pensiero d'introdurre miglioramenti di
sorta nella cultura. L'ignoranza delle cose agrarie era estrema: non
s'era estirpato nemmeno uno degli errori, dei pregiudizî d'un tempo;
aggiungasi a ciò la mancanza assoluta di capitali, il sistema degli
affitti brevissimi, onde i coltivatori non si affezionavano al suolo,
il difetto d'ingrassi, di strumenti rurali, di tutto. Ne' contadini
miseria somma, superstizioni d'ogni maniera, indolenza confitta
nell'ossa in guisa da doversi quasi adoperar la forza per mandarli al
lavoro. Nessun istinto di previdenza, nessuno spirito di associazione,
nulla, alla lettera.

Novanta su cento, a cui fosse caduta in sorte quella eredità, avrebbero
lasciato le cose nello _statu quo_, contentandosi di riscuotere le
rendite sempre laute abbastanza da consentire una vita opulenta.
Ma il conte Alberto era uomo di tempra diversa. Egli aveva radicato
nell'animo due convinzioni, che hanno il merito d'esser giuste e la
disgrazia d'essere impopolari: l'una che i ricchi non debbano starsi
con le mani alla cintola; l'altra che da una fortuna, per quanto
pingue ella sia, s'abbia a trarre il miglior frutto possibile e che
il beneficio vero e durevole recato alla società non venga già dallo
sperpero, ma bensì dall'acconcio uso delle proprie ricchezze. Invero
non era impresa da pigliarsi a gabbo quella di trovare il bandolo
d'una sì scarmigliata matassa. Il sistema degli affitti può parere ed
essere il migliore, come quello che crea in seno alle vaste proprietà
signorili un'industria decorosa ed indipendente, e spinge gli animi
all'emulazione e all'attività. Ma quando lo spirito d'iniziativa
sia morto del tutto, quando i fittaiuoli non abbiano nè danaro nè
cognizioni, ci par necessario, a rimetter le cose sulla buona via
che un padrone di volontà risoluta e d'ingegno illuminato prenda egli
stesso ad amministrare le cose sue, e con l'autorità di chi va dritto
e sicuro allo scopo, introduca le riforme opportune e susciti le
potenze latenti del suolo e l'energia sopita degli uomini. E appunto a
quest'ardua intrapresa s'accinse il nostro protagonista.


II.

V'è nei favori della rinomanza una solenne ingiustizia che non potrà
torsi giammai, perch'ella deriva dalla natura stessa delle cose. La
fama non guarda alle difficoltà superate, ma agli effetti ottenuti. Uno
scaltro diplomatico, che nato nelle corti s'esercitò di buon'ora alla
flessibilità delle schiene e agli artifizî della parola, corrà senza
dubbio quei lauri, a cui sospirerebbe invano un onesto cittadino sorto
fra mille difficoltà a qualche fortuna coi sudori della fronte e le
forze del fecondo intelletto. È il lamento di Figaro che querelavasi
d'aver dovuto, per vivere, spiegare più ingegno di quanto n'era occorso
per governare la Spagna due secoli; è il lamento di tutti coloro che,
partendo dai gradini più bassi della scala, si vedono precessi da
quelli che pigliarono le mosse dai gradini più alti. Ma l'uomo altero
d'un nobile orgoglio, l'uomo sicuro della propria coscienza dice: —
_Non importa._ — La gloria non dev'essere lo scopo dell'esistenza,
ma sì fare il bene senza desiderio di guiderdone, senza timore di
avversità.

Noi non affermeremo che il giovane signore siasi tenuto precisamente
questo discorso, il quale potrebbe parere un po' troppo solenne per
la occasione; ma gli è certo ch'egli mettevasi, senza speranza di
celebrità, ad un'opera molto più complicata di tante altre che fruttano
plausi ed allori.

Non gli fu difficile sciogliere verso un tenue compenso gli affitti
tuttora in corso, e aumentando i salari de' contadini rialzarne
lo spirito abbattuto e accenderli di nuova lena. Ma nel mentre
questo primo rimescolarsi destava la curiosità del paese e ognuno
pronosticava a suo talento sul nuovo venuto, alcuni atti del conte
Alberto suscitarono un clamore siffatto che ogni uomo meno intrepido
se ne sarebbe impaurito. Prima di tutto, conscio che l'abbondanza del
capitale è condizione _sine qua non_ d'una buona cultura, e che perciò
conviene proporzionare la vastità delle terre al danaro, di cui si può
disporre, egli vendette un buon terzo della sua tenuta, nè gli oracoli
del villaggio sapevano capirne il perchè. Come, apponevasi, egli vuol
restarsi fra noi, vuol fare l'agricoltore e comincia collo spacciare i
suoi fondi? Che logica è questa? Poi commise l'eresia di non permettere
che, secondo il vecchio costume, alcuni animali malati si recassero
alla porta della chiesa per ottenervi miracolosamente la guarigione:
oltraggio manifesto alla libertà di coscienza. Infine osò abolir le
livree e ristringere grandemente il numero dei corsieri di lusso,
mutandone una diecina con umili cavalli da lavoro. Il profeta Geremia
non si dolse con più patetiche note sulla caduta Sionne di quello
che si rammaricasse il sacrestano del villaggio sullo spento decoro
della tenuta di ***. Le generazioni si erano succedute nell'antica
possessione; ma nessuno aveva osato alienare una parte dell'avito
retaggio, nessuno per gretta spilorceria aveva spogliato i servi de'
loro abiti a galloni, nessuno aveva venduto i cavalli ed i cocchi.

Sparpagliate per le circostanti colline erano altre cinque o sei ville.
Appartenevano tutte a famiglie nobili, gonfie dei loro titoli e dei
pregiudizî di casta, le quali, vivente il conte Bernardo predecessore
d'Alberto, convenivano nel castello qualche sera d'autunno a giocarvi
il _tre sette_ o a discutere gravemente sul loro albero genealogico.
La dubbia nobiltà del padrone odierno, le audaci dottrine ch'ei non
peritavasi di sfoggiare, non consentivano certo a quegli aristocratici
puro sangue di varcarne le soglie. Uno soltanto, un vecchio marchese,
vi venne spinto dalla curiosità e fu accollo con gentilezza veramente
squisita; ma nell'uscire, accompagnato da uno degli antichi domestici
che più non aveva l'abito turchino coi bottoni d'oro, non potè
astenersi dal susurrare: — Dov'è il decoro, dov'è la dignità, quando i
servi si lasciano andar vestiti come tutti gli altri? — Ma! — sospirò
il servo quasi commiserandosi; chè pur troppo gli uomini s'attaccano
alla livrea. — E il padrone è molto spilorcio? — proseguì inanimito il
marchese. — Eh! lo dicono, — rispose l'altro; — ma a me in coscienza
non pare; pel salario, pel vivere si sta meglio di prima. — Diavolo! —
soggiunse il marchese stupito, e uscì borbottando.

L'arciprete del luogo era nato per non aver alcuna opinione.
Originario di quei dintorni e assunto da quindici anni alla suprema
dignità ecclesiastica del paese, egli era giunto alla cinquantina non
occupandosi d'altro che delle funzioni obbligatorie della chiesa,
e dell'allevamento d'una schiera numerosissima di polli, i quali
erravano in piena libertà pel verziere e lungo il vestibolo della
casa parrocchiale, senza però che il loro aspetto innocente potesse
temperare la dura condanna a cui erano sortiti. Aveva poco amore
alle prediche e, ci dispiace dirlo, poca eloquenza, nè sappiamo
quanta efficacia avessero i suoi sermoni sui devoti abitanti di
***. All'arrivo del conte Alberto nella villa, egli si recò a fargli
omaggio, e sentendo che il nuovo signore proponevasi di soggiornare
stabilmente colà, gli arrise la speranza di qualche lauto banchetto,
a cui verrebbe senza dubbio invitato. I primi provvedimenti del conte
che parvero sovversivi agli altri, a lui non fecero nè caldo nè freddo,
e con la massima maraviglia udì affermarsi da uno dei signorotti più
autorevoli del paese che il conte era un eresiarca, un emissario di
Satana, e che bisognava osteggiarlo in tutte le guise. — E ciò tocca
soprattutto a lei, — soggiunse il furibondo interlocutore: — a lei che
non deve lasciar che le male piante prendan radice, a lei ch'è preposto
alla cura dell'anime.... — Ma veramente Vossignoria forse esagera....
— Come, vuol insegnare a me, vuol dirmi ch'io non conosco gli uomini?
Glielo ripeto.... un Arnaldo da Brescia, un Lutero.... — Ah! in questo
caso poi, — disse Don Gaudenzio con un certo piglio che voleva essere
risoluto; — in questo caso poi.... — Guerra l'ha da essere. — Ma senza
dubbio, — rispose languidamente il prete, disegnando con la punta
dell'ombrello un circolo sulla sabbia.... — E intanto ella non deve
andare più in quella casa.... — Ma, capisce,... le convenienze.... — La
non ci deve andare, ce ne va del decoro.... — Sì, sì, ha ragione....
intendo, — e il nuovo Don Abbondio si sbarazzò più che in fretta del
fanatico personaggio tentennando il capo dolorosamente.

Le altre _notabilità_ del villaggio erano il farmacista, fine
diplomatico; il maestro di scuola, individuo a cui la fame aveva tolto
quasi il senso comune; il medico, uomo illuminato e in ottime relazioni
col conte Alberto; il sacrestano, pieno d'idee retrive e di virulenza
da energumeno; un certo signor Placido, organista di merito, ma
paurosissimo; un cotale Melchiorre, larva di deputato comunale. Come si
vede da questa rassegna, le massime liberali del conte potevano trovare
ben pochi fautori.


III.

Se fossimo agronomi, potremmo empire molte pagine a descrivere
gl'infiniti miglioramenti introdotti dal conte Alberto nella tenuta.
Ci basti dire che a poco a poco tutto il vecchio sistema di cultura
venne invertito. Non piccola parte dei campi fu ridotta a pascolo,
temperando con acconci lavori d'irrigazione i difetti naturali
del suolo; e ne avvenne che per la scarsezza di praterie in que'
dintorni parecchi possidenti si adattarono a pagare un compenso per
far pascolare colà il loro bestiame, dimodochè, oltre alla rendita,
le terre se ne avvantaggiavano per l'abbondanza degl'ingrassi. Si
accrebbe la piantagione dei gelsi, s'iniziò la coltivazione del lino
e della canape. Essendosi di gran lunga aumentata la quantità degli
animali, la cascina prese un insolito incremento, e le donne sottratte
al faticoso lavoro dei campi trovavano in quelle nuove occupazioni una
fonte d'attività e di guadagno. E molte altre idee balenavano spesso
alla mente del conte, ma se gli chiedevano quando volesse effettuarle,
egli rispondeva: — Una cosa per volta. — Quantunque avesse un fattore
ed abile e fidato assai, pure egli vigilava su tutto, provvedeva
a tutto. Soleva alzarsi per tempissimo, e a cavallo o talora anche
a piedi recavasi ne' punti principali della tenuta ad esaminarvi i
lavori fatti il dì prima, o ad impartirvi gli ordini per la giornata.
E durante quelle sue gite soffermavasi nelle abitazioni de' contadini,
e attendeva pazientemente ai discorsi della villana che filava sulla
soglia del casolare, e alla spensierata allegria dei bambini dispersi
nell'orto, e ne faceva argomento di considerazioni e di studio. —
Quanta serenità d'animo in quelle povere genti, ma pur anche quanta
imprevidenza e che larga dose di pregiudizî! A chi spetta l'incarico
d'illuminarle? Allo Stato, dicono molti. Ma lo Stato è poi sempre
illuminato abbastanza da poterglisi conferire l'ufficio che illumini
gli altri? E se pur è, ha egli tutti i mezzi per compiere efficacemente
un'opera di tanto peso? Che potrà far lo Stato? Aprir delle scuole o
per dir meglio perfezionare quelle che ci sono, esiger tutt'al più che
i contadini vi mandino i loro figliuoli, ma poi? Poi basta. Lo Stato ha
troppe faccende pel capo, e non può aver tutte quelle sollecitudini,
tutte quelle accortezze, tutta quell'annegazione necessaria a chi
voglia innalzare un edifizio su basi sicure. Quest'ufficio non potrà
adempiersi in ogni sua parte che da chi, oltre ad intenderne l'utilità,
vi abbia un interesse diretto: senza il pungolo dell'interesse vi
saranno tentativi parziali, non s'inizierà mai un'opera di generale
efficacia. Ora la educazione de' contadini a chi gioverebbe meglio
che ai possidenti? Sono essi quindi che dovrebbero mettersi a capo
d'un'impresa sì generosa, essi che guardando più in là del domani
dovrebbero comprendere che intima attenenza vi sia tra la condizione
dei coloni e il progresso dell'agricoltura. — Siffatte considerazioni
raffermavano sempre più il conte Alberto ne' suoi nobili proponimenti:
non lo arrestava la tema di essere frainteso, non la certezza dei
molti ostacoli onde gli si sarebbe intralciato il cammino, non quella
peritanza ch'è propria degli spiriti poco ambiziosi e gl'impaurisce
coll'idea degli errori che potranno commettere. Certo tutto quello che
farò, egli diceva in cuor suo, non sarà ottimamente fatto; ma che il
bene abbia a superare il male, oh! di questo me ne assicura la mia fede
nelle nuove idee, nella verità, nel progresso.


IV.

La scuola del villaggio era posta in mezzo ai campi fuori assolutamente
dell'abitato, e per giungervi c'era da fiaccarsi il collo tre o quattro
volte lungo i sentieri sassosi, o su ponticelli formati d'un tronco
d'albero spartito in due che traversavano i ruscelli ed i fossi.
Un casolare tenuto in piedi come Dio vuole, costituiva ad un tempo
l'edifizio destinato all'_istruzione pubblica_ e la dimora del maestro
e della sua numerosa famiglia. La stanza ove si raccoglievano i bimbi
era a pian terreno, e qualche maiale osava talvolta aprire col muso
la porta forse per approfittare della lezione. Ma i fanciulli non
la intendevano così, e traevano partito dal comparire della sconcia
bestia per alzare il vessillo della rivolta: chi si fingeva atterrito,
chi montava sulla panca come se arringasse le moltitudini, chi
raggomitolandosi nel miglior modo possibile spingeva l'audacia fino a
gettar qualche nocciolo di pesca sulla cattedra del _professore_. Era
come un guanto di sfida che il maestro raccoglieva coraggiosamente.
Egli ponevasi in tasca con aria di mistero quello strumento d'infamia
e brandendo uno scudiscio, che solea tenersi vicino, scendeva dal
suo posto a passo di carica e menava colpi a dritto e a rovescio.
Un osservatore giudizioso, vedendo quello spettacolo, si sarebbe
convinto sempre più della superiorità degli eserciti disciplinati
sulle moltitudini, abbenchè numerose ed ardite. Il maestro di scuola,
solo contro una cinquantina di ragazzi, sapeva ottener la vittoria per
la celerità dei movimenti, per la sicurezza degli scopi, per l'unità
del comando. I fanciulli debellati uscivano precipitosi della stanza
traendo urla da ossessi, il porco manifestava la sua disapprovazione
con ispaventevoli grugniti, e il vincitore non riposava sugli allori,
finchè non gli fosse svelato il furfante che osava lanciare un nocciolo
di pesca sulla sua cattedra. La sconfitta mette a galla i vizî degli
uomini e i delatori non mancavano mai. Severe punizioni erano inflitte
al colpevole, che per ultimo doveva chieder perdono a mani giunte e
protestare in nome di tutti i santi che _non l'avrebbe fatto più_.
Nondimeno simili scene ripetevansi quasi ogni giorno e sottraevano allo
_studio_ due lunghe ore. Molte famiglie ne pigliavano pretesto per non
mandare i loro bimbi alla scuola: poi c'erano i freddi dell'inverno,
poi gli ardenti calori della state, e così di seguito. Insomma, nel
paese il saper leggere era poco men che un miracolo; s'immagini quindi
lo scrivere. I numeri si conoscevano fino al 90 per merito del lotto,
giuoco grandemente morale ed educativo. Non che siffatta benedizione
vi fosse precisamente nel villaggio, ma i gonzi incaricavano il
portalettere di giocare per loro conto nella città, e il libro dei
sogni era gravemente discusso nella domenica e negli altri giorni
festivi.

A malgrado d'una condizione di cose sì miserevole, quando il conte
Alberto insistette presso alcuno degli _ottimati_ sulla necessità di
qualche provvedimento, le sue proposte furono malissimo accolte. Si
levò anzi un grido d'inquietudine, e per poco non si credette vederci
l'intervento di Satana. Alberto non si smarrì dell'animo, e poichè
il paese respingeva così sdegnosamente il suo consiglio, deliberò
d'occuparsi soltanto de' suoi coloni. Era nel centro della tenuta una
fattoria bella e spaziosa, ma costruita in guisa da riuscir piuttosto
un edifizio di lusso che non un locale acconcio al suo ufficio. Il
conte dispose due vaste sale all'uso di scuola, destinando l'una
all'insegnamento del leggere, dello scrivere e del far di conto, e
serbando l'altra per qualche lezione da darsi agli adulti su cose
elementari attinenti all'agricoltura. Per istruire i bimbi ottenne,
non senza difficoltà, l'aiuto del suo fattore, al quale sapeva male
di diventar maestro di scuola: il resto dell'insegnamento pesava per
intero sulle sue spalle, e non era peso sì lieve; altro è sapere, altro
spiegar popolarmente ciò che si sa. Nondimeno, triste e singolare a
dirsi, la parte più ardua dell'impresa era quella di trovar discepoli.
Nulla al mondo uguaglia l'albagia dell'ignoranza. La fondazione di
questa scuola fu accolla assai freddamente, e qualcuno se ne dolse
come d'una offesa recata al decoro dei contadini. — Questi signori, si
mormorava, vogliono farci sentire a ogni momento la loro superiorità.
Per che motivo il conte apre una scuola? Per dirci a un dipresso:
queste cose che voi ignorate, io le so, io sono un brav'uomo e voi
siete somari. Io vi farò toccar con mano la vostra nullità al mio
cospetto, e voi me ne ringrazierete per soprammercato.... — A malgrado
di queste insinuazioni maligne, la costanza e l'energia del conte
Alberto vinsero il punto. Tanto fece e disse per suscitar l'amor
proprio de' suoi coloni; tanto si adoperò perfino presso le madri
e i bimbi medesimi, che a lungo andare le lezioni sì nell'una come
nell'altra scuola poterono rallegrarsi di un uditorio sufficientemente
fiorito.

Un giorno che il concorso era più numeroso del solito, Alberto,
radunati insieme gli adulti e preso un tuono confidenziale, tenne ad
essi all'incirca questo discorso:

— Tra l'altre ragioni, per le quali io ho insistito che interveniate a
questa scuola, ve n'è una che non vi dissi finora e che pure, secondo
il mio modo di vedere, non è la meno importante. Io desidero che noi
altri ci comprendiamo a vicenda; siamo pur destinati a vivere insieme.
Ora m'è noto che parecchî de' miei atti incontrarono presso di voi una
severa censura. Io credo che abbiate torto, ma appunto perciò mi sta
a cuore di dimostrarvelo. E a tale scopo mi sono proposto di pigliare
una via lunga sì, ma infallibile, e invece di spiegarvi a dirittura il
perchè di questo e di quello, determinai di cominciare coll'insegnarvi
a leggere. La mia idea vi fa ridere? Eppure, vedete, la non è tanto
strana come par sulle prime. Ve lo proverò con un esempio. Quando
volete salire al secondo o al terzo piano d'una casa senza paura di
rompervi il collo, che cosa fate? Spiccate forse un salto? No, davvero;
vi contentate di salir la scala. Ebbene; anche nell'istruzione bisogna
andar su scalino per scalino, e tante cose non si capiscono o almeno
non si ritengono se non si hanno certe cognizioni elementari. Partendo
dal basso faremo meno strada, lo ammetto, ma avremo anche meno paura di
sdrucciolar per indietro. E di mano in mano che ascenderemo, vi darò
ragione dei fatti miei, e credo che in fin dei conti vi persuaderete
che il nuovo padrone tanto flagellato non operava così fuor di
proposito, come vi si vorrebbe far credere. Per me vi assicuro che
il giorno in cui ne sarete convinti, sarà uno dei più belli della mia
vita. —


V.

Cadeva un giorno d'estate quando il signor Placido, l'organista del
villaggio, tenendo in una mano un popone involto in un fazzoletto
turchino e nell'altra un rotolo di carte di musica, si avviava a casa
con passo affrettato. Giunto dinanzi al cancello della villa del conte,
egli, obbedendo all'indole rispettosa sortita da madre natura, si toccò
il berretto col dito; cerimonia che egli faceva costantemente senza
guardare nemmeno se alcuno potesse scorgerlo, giacchè, diceva egli, a
fare un atto di ossequio non ci si perde nulla. Quale fu il suo stupore
quando intese chiamarsi ripetutamente a nome, e alzando gli occhi tutto
scompigliato si trovò al cospetto del conte Alberto in persona, che gli
si rivolse con piglio cortese:

— Aspettava proprio lei, e s'ella mi favorisce, avrò a dirle una
parola. —

Il signor Placido era combattuto fra la riverenza e lo sbigottimento.
Da un lato il sentirsi parlare in tuono tanto benevolo da
un personaggio di sì alto affare solleticava l'amor proprio
dell'organista; ma dall'altro che si direbbe delle sue relazioni con un
uomo d'idee bislacche, sovversive, rivoluzionarie? Il signor Placido,
ci è d'uopo riconoscerlo, era grande partigiano dell'ordine; però la
riverenza prevalse. Ma il povero diavolo con le mani impacciate tra
il popone e la musica ebbe a durar molta fatica a levarsi il berretto
di capo e a prendere quell'atteggiamento rispettoso che si addicesse
all'occasione.

— Eccellenza, — ei borbottò alfine, alternando le parole e gl'inchini,
— io non era avvisato; ella vede in quale stato io mi trovi....

— Bando ai complimenti, signor Placido; io non son uomo che badi
al vestito. Entri, entri, chè già ci spicciamo presto. — E fattogli
amichevole violenza, lo costrinse ad entrar nel giardino e a sederglisi
accanto sopra una panchina di marmo posta al limitare del viale. Il
signor Placido cercò di farsi un po' disinvolto, depose a' suoi piedi
il popone e la musica, ma il cuore gli batteva per lo meno cento
battute al secondo.

— Ho un'idea che mi preme comunicarle, — riprese Alberto, — e conto sul
suo appoggio....

— Lei mi canzona, Eccellenza.... Come mai?...

— Oh! è cosa semplicissima.... Prima d'essere organista, ella, signor
Placido, non era forse istruttore d'una banda militare?

— Sì, Eccellenza, tal fui, ma sono passati tanti anni....

— Non importa, la non vorrà dirmi che la si è scordata la musica. Alle
corte, la mia idea è questa. Vorrei fondare una banda nella villa e
affidarne a lei l'istruzione. Acconsente? — Conforme al suo nome, il
signor Placido non era l'uomo dalle rapide determinazioni. A malgrado
di ott'anni vissuti nel servizio militare, un nonnulla bastava a fargli
perder la bussola: immaginisi quindi s'egli poteva risponder così su
due piedi alla proposizione di Alberto.

— Ma, Eccellenza, ecco.... direi.... l'idea è buona... anzi ottima....
nulla meglio della musica;... ma, vede.... sono occupatissimo.... sa...
certi riguardi....

— Bene, signor Placido, le lascio tempo a pensarvi; è giusto ch'ella
non voglia rispondermi così su due piedi.... ne riparleremo. Anzi la
impegno a venir domani a far colazione da me.... Qui poi non ammetto
obiezioni, la ci verrà senza dubbio.... Badi che se la mi manca, vo
sulle furie.... Intanto scusi se l'ho disturbata....

— Oh.... come? anzi un onore.... — rispondeva l'organista tutto confuso
e rosso come un gambero, e, riprendendo il suo popone e l'involto di
musica, usciva dal cancello voltandosi ad ogni momento per fare un
nuovo inchino.

— Che imbroglio!... che roba!... — andava borbottando fra sè e già
stava per prendere una scorciatoia fra' campi che lo conducesse diritto
a casa, quando per compiere i contrattempi della giornata il sacrestano
che passava appunto di lì e l'aveva visto uscir dalla villa, si mise a
gridare:

— Bravo, signor Placido, anche voi siete una bella banderuola! Che cosa
ci siete andato a far dal conte? —

L'organista covava da lungo tempo, non sappiam per quali cagioni,
una profonda stizza contro il sacrestano. Onde, a malgrado della sua
naturale timidezza, la costui impertinenza gli fece montare il caldo
alla testa, e rispose con piglio reciso e con volto arcigno:

— Non rendo conto a nessuno de' fatti miei, e meno a voi che agli
altri. — E prima che l'offeso si risentisse, egli studiando il passo
s'era già messo innanzi pei campi.

La sera il signor Placido si recò difilato dal parroco per chiedergli
consiglio. Ma questi se ne indispettì.

— O che bisogno c'era di venire a seccar me? Certo che se dovessi
darvi un consiglio, vi direi di non accettare;... ma no, anzi, il conte
potrebbe prendersela meco.... infin dei conti è meglio accettare. Se
ci fossero qui il marchese Taddeo e la baronessa Marina, essi direbbero
certamente di no... eh! senza dubbio, si lagneranno meco perchè non mi
sono opposto, ma non so che dire.... essi si levano dagl'imbarazzi e
stanno in città nove mesi dell'anno: _costui_ invece, cioè il signor
conte, sta qui e non posso disgustarmi seco, non posso. Insomma, —
concluse irritandosi visibilmente contro il signor Placido, — non
capisco per qual ragione siate venuto da me: che amore del prossimo,
quando siam negl'impicci, di volerci cacciar dentro anche gli altri!

— Ma, Reverendo, io volevo anch'esser sicuro del mio posto d'organista.

— O chi volete che ci metta al vostro posto? la gatta?... —

La discussione iniziata con tanto buon successo a casa del parroco si
continuò con maggiore vivacità in bottega del farmacista.

Il medico, già informato dei disegni del conte, gli appoggiò con
molto calore e insistette presso il signor Placido affinchè accettasse
l'incarico, dolendosi assai dei pregiudizi del paese che costringevano
il giovane signore a circoscrivere l'opera sua nella villa. Quanto
al signor Melchiorre, deputato comunale, parevagli che si sarebbe
dovuto ricorrere al suo consiglio, e che del resto siffatte cose non
producessero altro frutto che quello di crescere i bisogni della gente
e di aumentare quindi il numero degl'infelici. — Non negherò — egli
concluse in tuono d'importanza — d'aver letto che in qualche villaggio
d'Inghilterra esiste questa istituzione della banda; ma è un bene o un
male? Ecco la questione.... — E ripeteva con palese compiacenza: — Ecco
la questione.

— E qual è il vostro parere? — chiese il signor Placido al farmacista,
che stava pesando un'oncia di cassia ad una contadina.

— Oh! caro mio, i farmacisti sono neutri. Quando tutto il giorno si
devono preparare armi contro la morte, siam bene al disopra di queste
bagattelle.... Credetemi pure, sono piccolezze.... l'essenziale è qui.
— E proferendo queste parole guardava con nobile orgoglio alle scansìe
del suo negozio, tutte piene di vasi di medicinali schierati in ordine
di battaglia.

Stanco delle inutili ciarle, il signor Placido tornò a casa a
consultarsi seriamente con la moglie. Dopo un gran discorrere, dopo
aver pesato da una parte i rischi e dall'altra il guadagno: — Accetta,
— gli disse la fortissima, ma non formosissima donna. E il signor
Placido accettò. Da quel giorno il partito conservatore lo riguardò
come un apostata.


VI.

Trombe, tromboni, flauti, clarini, fagotti e tamburi giunsero in bel
numero nella villa con singolare commozione di tutto il paese, il quale
salutò i nuovi arrivati con molto schiamazzo.

Sul principio erano stuonature orribili, e noi non pretendiamo che chi
passava per la possessione avesse ad andare in visibilio sentendo i
mirabili accordi che uscivano dalle varie casupole de' contadini. Ma i
progressi vennero col tempo, e non andarono molti mesi che si riuscì a
provare qualche suonata intera.

Alberto diceva, e noi gli diamo piena ragione, che ogni modo onesto
di associare gli uomini è un modo di farli progredire; che la musica
gli associa e ingentilisce; che quelle nature rozze, alle quali non
si poteva pretendere di far gustare e la poesia e la pittura, erano
in grado di sentire la musica e di sollevarsi per essa a quel mondo
ideale, ch'è forse la vera patria dell'anima. Nè il conte volle
lasciar senza risposta le obiezioni che gli si facevano, e un giorno
alla scuola parlò a un dipresso così: — Mi si accusa di rendervi più
infelici suscitandovi nuove idee, ma io voglio farvi un'interrogazione.
Se voi, a cui natura diede il sacro lume degli occhi, foste stati
allevati in una stanza chiusa a ogni raggio di sole, è certo che non
avreste concetto della luce nè dolore d'esserne privi, come pure è
certo che vistala una volta non potreste farne a meno senza grave
danno; orbene, chi di voi rinunzierebbe allo spettacolo sublime dei
campi e del cielo, pur di non farsi un bisogno, al quale convien
dare perenne alimento? Così è delle facoltà dell'intelligenza. Dio
le ha poste in voi, Dio vi ha dotati della potenza d'intendere mille
nobilissime cose; ma senza l'educazione queste virtù giacevano inerti:
o vi par egli una sventura l'averle messe in movimento? Sicuro; vi
siete fatti nuovi bisogni, ma non vi sembra nello stesso tempo di aver
nuove forze? Non vi sentite più gagliardi di prima? Ma, Dio buono!
non v'è nulla al mondo che non tenda a compiersi: la rosa apre ad
uno ad uno tutti i suoi petali, l'albero mette tutte le fronde: che
più? il germe nascosto sotto la terra ha orrore delle tenebre, e si
trasforma, ed esce anelante agli aperti sereni; e l'uomo soltanto
dovrebbe ribellarsi a questa legge universale, egli solo dovrebbe
dire: — Signore, tenetevi tutti i vostri doni; so che avete riposto dei
tesori nell'anima mia, ma io non voglio affaticarmi a cercarli, voglio
morire zotico ed ignorante come son nato? — Però badate bene: oltre ad
essere una protesta sciocca ed irriverente, sarebbe anche una pessima
speculazione. Se voi poltriste nel sonno quando il sole è levato,
altri verrebbero sui vostri campi e mieterebbero le vostre spighe.
Il progresso è come il sole. Egli sorge e s'avanza senz'abbadare ai
dormienti, e chi non si scuote a' suoi raggi, tanto peggio per lui;
egli sarà calpestato da quelli che si muovono e si sveglierà troppo
tardi. Ma vi son molti che, anche ammettendo l'utilità della lettura,
mormorano contro la musica e soggiungono che l'è una cosa di lusso,
una raffinatezza da gran signori, e che i campi non si coltivano a
suon di chitarra. Questo lo sapevo benissimo, eppure credetemi che
non v'è alcuno esercizio più della musica accessibile a tutti. E
vi par poco d'esservi assicurati una ricreazione per l'ore d'ozio?
Il tempo bisogna occuparlo, e il difficile sta nell'occuparlo bene.
Ora, se invece di passare il dopo pranzo alla bettola vi radunerete
a studiare insieme un pezzo di musica, non ci avrete forse guadagnato
qualcosa? Ma, continuano i nostri dottori, che roba è quella _chimica
agraria_, quella _economia_ che si pretende insegnare? Amici miei, non
facciamoci mai paura dei nomi. _Chimica, economia_, possono parere,
a prima vista, parolone che non fanno per voi altri; ma ormai che
sapete di che si tratti, vi sembra che sia fuor di proposito l'averne
qualche nozione? È un levarvi dalla vostra sfera il dirvi di che
parti si componga il suolo che coltivate, e quali sostanze valgano a
renderlo più produttivo, e come l'aria e l'acqua e la luce influiscano
sulla fioritura delle mèssi? O se non le sapete voi queste cose, chi
deve saperle? È un levarvi dalla vostra sfera l'insegnarvi la virtù
che c'è nel risparmio e il vantaggio che ne deriva a tutti voi, se
nessuno v'impedisce di comperare le merci ove costano meno, senza
badare se siano del paese o non siano? Son pure atti della vostra vita
d'ogni giorno questi che la scienza prende a disamina, e non vi dorrà
d'andarvene col lume della ragione ove andavate finora a casaccio.
Insomma, amici miei, lasciamo che i maligni gracchino a loro posta, e
tiriamo innanzi. Sin che non ci faranno altre accuse che questo, non
c'è invero argomento da mortificarsene. —


VII.

Non andò molto che un grande avvenimento mise in subbuglio la villa.
Dopo qualche mese d'assenza il conte Alberto annunziò il suo ritorno,
avvisando però ch'ei non sarebbe solo, ma con _un'altra_. Il conte
s'era ammogliato, e si può immaginar quanti commenti si facessero
di questo suo matrimonio, e quante congetture per l'avvenire. Chi
diceva che una giovane, avvezza alla vita romorosa della capitale e
alle conversazioni ed ai teatri, non potrebbe trovarsi a suo agio in
un paesuccio così povero d'ogni consorzio, e turberebbe la pace del
marito co' suoi capricci; chi invece ne traeva lietissimo augurio, e
sperava che la presenza d'una gentile signora infonderebbe nuovo brio
nella villa. Il partito codino cercava, dal canto suo, di gettare
il discredito sulla futura contessa, e non v'è malanno che non le
cacciassero addosso. Nei villaggi la malignità abbonda e poco si bada
alla qualità dell'armi brandite, pur di ferire.

La giovane sposa, descritta in mille guise diverse secondo il
ghiribizzo di chi non l'aveva mai vista, comparve alfine a portare
la discussione sul _terreno dei fatti_. Non beltà sfolgorante, ma
leggiadria di volto e di forme; era tutta grazia nelle movenze, tutta
dolcezza nello sguardo e nei modi. Vi sono creature privilegiate, alle
quali natura diede di poter fare ogni cosa con garbo, e di mostrare
negli atti della vita più semplici l'eletto animo e l'armonia delle
facoltà. La Matilde, che così avea nome, era tra queste. Non umiliava
i suoi dipendenti nè con riserbo sdegnoso, nè con dimestichezza
affettata: chi crede tutti gli uomini uguali, può talvolta parer meno
affabile di chi, sentendo altamente del censo e del nome, cerca pure
di appianare le differenze con la famigliarità delle forme; ma per gli
spiriti ben fatti la fratellanza vale ancor meglio della pietà.

Quantunque nata e cresciuta in una capitale, Matilde amava la vita
campestre. E il conte Alberto comprese ottimamente che per non
fargliela venire a noia bisognava ch'ella non ne fosse semplice
spettatrice, ma si addimesticasse con quelle abitudini e con quegli
interessi. Le donne ricche, a' nostri tempi soprattutto in cui, la
Dio mercè, l'esigenze della vanità si son fatte men formidabili,
nè il _cavalier servente_ e lo specchio si dividono con tirannica
monotonia il pensiero femminile, son minacciate da due grandi malanni,
l'ozio e la noia. Le costumanze sociali hanno precluso alla nostra
compagna tante sorgenti d'attività, l'educazione ch'ella riceve suol
esser sì frivola, che quando non la soverchino le cure di numerosa
famiglia, il suo tempo è piuttosto consumato che adoperato. La è cosa
doppiamente funesta, e perchè mille germi fecondi inaridiscono nella
donna senza metter fiore, e perchè l'uomo viene a perdere un'alleata
operosa, la quale ha gl'istinti del bello e del vero, e se difetta
della pertinacia necessaria a condurre a termine le grandi imprese,
abbonda dell'entusiasmo necessario ad iniziarle. Abbandonata a
pernicioso influenze, per la mobilità della sua tempra inchinevole alla
superstizione ed al misticismo, ella riesce sovente un ostacolo, mentre
dovrebbe riuscire un aiuto, e quante volte alle dolcezze ineffabili
della carezza materna, alla soavità dei consigli d'amore si mescono
ammaestramenti, contro i quali protesterà più tardi l'animo nostro. Ma
la colpa è di chi sdegna seminare in quel suolo ferace, e per tema di
perdere uno scettro illusorio, non aiuta la debole creatura ad uscir di
pupillo.

Fortunatamente la vita campestre offre alla donna più modi assai del
vivere cittadino per adoprare utilmente le proprie forze. Nè Alberto
poteva consentire che sua moglie fosse una signora feudale alla foggia
antica, una di quelle dame che col falcone sull'omero si recavano alle
splendide caccie, beatificando di languidi sguardi i paggi svenevoli:
non in quell'atmosfera cortigianesca lo spirito si ritempra alle forti
virtù, non tra quelle molli consuetudini può esercitarsi l'ufficio vero
della donna.

La contessa Matilde aveva due campi d'attività innanzi a sè. Da un
lato ella poteva attendere alle bisogne della villa, e vigilare quella
parte di lavori campestri più particolarmente affidati alle donne,
quali sarebbero la coltivazione dei bachi, la filanda, la cascina,
ec.; dall'altro sarebbe stato ufficio non meno utile, non meno
lusinghiero pel suo amor proprio, il prendersi cura di quelle povere
contadine, e dirozzare alcun poco quelle bimbe lasciate crescere come
le male erbe. La giovane signora non esitò un istante ad assumersi
ambedue quest'incarichi: come padrona della tenuta, ella diceva suo
dovere di promuoverne gl'interessi; come donna, come patrocinatrice
delle sue dipendenti, pareale altrettanto necessario di accingersi
coraggiosamente a quell'ufficio educativo, checchè potessero dirne
e pensarne i fannulloni e i malevoli. Nè le chiacchiere mancarono.
Una brutta e scipita vecchia, che aveva fino allora congiunto i due
ufficî di levatrice e di maestra, venne a querelarsi personalmente
con la contessa, assicurandola di aver sempre tenute le bambine
legate alla sedia nel massimo ordine e meravigliandosi altamente
che si potesse fare qualche cosa di più. Il maestro di scuola
che pel numero scemato degli alunni soleva occuparsi con maggior
sollecitudine dell'agricoltura, stanco di quella parte da Cincinnato
tornò a rimescolarsi pe' suoi lesi diritti, e i due rappresentanti
dell'_istruzione pubblica_ strinsero alleanza offensiva e difensiva per
abbattere gl'inaspettati rivali. Che se l'opera loro riuscì inutile,
non tacque però la maldicenza paesana e nessuno poteva capacitarsi che
la villa dei conti *** fosse ridotta una scuola. Ma se ne capacitavano
a poco a poco i coloni, e quell'istruzione data alla buona, e più in
guisa di consiglio fraterno che d'insegnamento burbanzoso, sortiva già
ottimo effetto.


VIII.

Pochi mesi eran corsi dacchè la Matilde si trovava nella villa, quando,
coincidendo il tempo dei raccolti ubertosi assai più dell'usato, il
conte Alberto pensò di approntare una festa campestre in onore della
sua sposa. Era la ridente stagione, in cui la natura offre agli uomini
le sue ricchezze, e le spighe inchinandosi verso terra pel soverchio
del peso invitano alla mietitura. L'anno scende bensì la curva del
tempo, ma è vegeto ancora e robusto: invano il sole dardeggia sugli
alberi, invano il vento va scompigliando le fronde, non una foglia
ingiallisce, non una foglia strappata dai rami ingombra il cammino.
Le vigne, tenendosi l'una con l'altra pari a coppie gioconde di
danzatori, mostrano il lento rosseggiare dei grappoli; le pesche
pendono mature dal gambo, mentre, lontane annunziatrici del verno, le
mele acide ancora e scolorite si arrotondano sulla malinconica pianta.
Era la stagione, in cui pel cominciar delle pioggie qualche striscia
argentea serpeggia fra i ciottoli del torrente; era la stagione, in
cui la luna svela più ampio e luminoso il suo disco. Gli uccelli,
immemori delle offese dell'uomo, tornano fra le siepi a rallegrarlo
dei variati gorgheggi; la tuberosa ed il gelsomino, aprendo a gara
le candide foglie, riempiono l'aria delle più soavi fragranze, e la
_dahlia_ nascosta ancor nella buccia sta acconciandosi il magnifico
vestimento. I carri colmi di mèssi s'avanzano con maestoso incesso
verso le fattorie. — _Harvest home_, cioè la raccolta a casa, —
gridano i contadini inglesi con unanime entusiasmo; — _harvest home_,
— e mille feste rallegrano in quei dì le campagne. È il carnovale del
colono che nel tempo dei teatri e dei balli non ha altro spettacolo
che un tappeto di neve sul suolo, che un velo di nubi nel cielo, e fa
mostra d'animo scarsamente gentile chi non sia tocco da quelle semplici
solennità. E non soltanto nelle campagne, ma dappertutto le feste in
comune sono un gran sollievo per la povera gente. Noi altri, però,
che siamo gente _chique_, guardiamo con un sorriso di compassione que'
convegni popolari, e se qualcuno di noi v'interviene lo fa specialmente
per adocchiarvi le belle ragazze, giacchè fra i molti privilegi nostri
sulla _gentuccia_ v'è pur quello di poter insidiarne la pace e l'onore.
Oh! se pensassimo che i tapinelli, i quali vivono sotto un tetto
affumicato, affranti dalle diuturne fatiche, nell'incertezza perpetua
del domani, non hanno passatempo migliore di quelle riunioni, non
hanno altro modo per dimenticare il tedio della penosa esistenza, oh!
senza dubbio la celia ci morrebbe sul labbro. E invece d'irridere le
feste popolari, vorremmo anzi promuoverle, e chi sa se, opportunamente
dirette, non potrebbero informare a maggior gentilezza i costumi e
svegliare nell'anime più torpide il senso educativo del bello.

Una vasta prateria di recente falciata, a un angolo della quale
sorgeva l'edifizio disposto ad uso di scuola, e a cui faceva cintura un
lunghissimo pergolato, venne scelta come il sito più acconcio a quella
solennità campestre. Sotto il pergolato eran disposte due tavole; l'una
assai grande per gli adulti, l'altra minore pei fanciulli. La Matilde
si era fatta assegnare un posto in questa, pigliandosi l'arduo ufficio
di vigilare uno sciame di bimbi. Alcuni rivenduglioli girovaghi, che
avevano avuto sentore della festa, s'erano introdotti nella villa fino
dal dì precedente, e il conte aveva loro permesso di rizzare lo loro
_baracche_ nella prateria per far più variato lo spettacolo; ond'essi
alla mattina per tempissimo sfoggiarono le loro merci, che consistevano
per lo più in balocchi, in spilli, in ombrelloni rossi di lana e in
ghiottonerie d'ogni fatta. Accorsero anche de' suonatori, ma trovarono
il posto occupato, chè quasi a mezzo della prateria erasi costruito,
con assi di legno commessi insieme alla meglio, un palco, dal quale
la banda doveva esporsi al pubblico per la prima volta. Un'asta
levigatissima sorgeva a foggia di vessillo a pochi metri di distanza,
e in cima a quell'asta erano degli abiti nuovi e delle appetitose
salsiccie; guiderdone serbato a chi avesse agilità bastante a giungere
lassù. Questa gara della _cuccagna_, i suoni, il banchetto, le danze
che potevano continuarsi tino a tarda sera nelle due sale della scuola,
ecco tutti i sollazzi della giornata. Ma quel trovarsi insieme uomini,
donne, fanciulli in un dì d'allegria; quello smettere per poche ore
la zappa e la marra; quel vedersi convitati con tanta affabilità dai
signori del luogo; erano circostanze che nell'animo ingenuo dei villici
accrescevano a mille doppi il valore del divertimento. Il sole era
sorto da poco che già la prateria rigurgitava di gente: venivano le
famiglie intere, quali a piedi, quali, se abitavan discoste assai,
nel loro biroccino con l'asinello, oppure sopra un carro pesante
tirato da buoi. Curiosissimo era lo studio che traspariva in tutte le
vesti e l'acconciature; non v'era vecchia rimbambita che non avesse
rovistato ne' suoi armadî per cercare di mettersi in fronzoli. Delle
giovani, alcune avevano un fiore nel crine, altre tenevano sul capo un
_fisciù_; e le più eleganti erano adorne di un cappellino di paglia,
assettato in testa con una certa negligenza che manifestava vie più
l'artificio. I contadini erano divisi in due classi: i partigiani del
buon tempo antico, che non rinunzierebbero per tutto l'oro del mondo a
sfoggiare i loro polpacci, e quindi tengono i calzoni corti e stretti
al ginocchio; i progressisti, che hanno adottato le brache lunghe alla
moda cittadina. Ma questi erano ben pochi nel paese di ***.

La Matilde associatasi ai bambini ne dirigeva festosamente i giochi, e
le vispe creature che non sanno ancora di riguardi sociali, posta da
banda ogni timidezza, le carolavano intorno con clamorosa allegria.
Per una delicata sollecitudine di alcuni fra i coloni, tre fanciulle
delle più leggiadre in abito bianco, vagamente acconciate, la
presentarono d'un bel mazzo di fiori, mentre la banda intuonava una
_polka_, che il signor Placido aveva scritto apposta, intitolandola: —
_Matilde._ — Alle prime note si fece universale silenzio. Le femmine
interruppero il loro cicaleccio, i rivenduglioli cessarono dagli
striduli richiami, e, vedi miracolo! i bimbi stessi divennero zitti.
In mezzo alla dolce maraviglia, scolpita in viso a quelle turbe non
avvezze ad altre armonie che al suono dell'organo o al fracasso delle
trombe dei saltimbanchi, in quell'agitarsi di tante bionde testine,
chi poteva guardar pel sottile all'ispirazione musicale della suonata
o all'accuratezza dell'esecuzione? Gli applausi furono immensi, ed era
singolare sentir poi le donne bisticciarsi tra loro, poichè ognuno che
avesse congiunti o amici nella banda, attribuiva ad essi a preferenza
degli altri il buon esito della suonata.

Poco prima del pranzo la contessa, quale regina della festa, chiamò a
sè i fanciulli d'ambo i sessi ch'erano più lodati per la svegliatezza
dell'ingegno e la bontà del costume, e regalò ciascheduno d'un libretto
della Cassa di Risparmio da lire 20, avvertendo che se di lì a un anno
non lo avevano intatto, non si aspettassero più da lei nè un dono
nè un chicco. Soggiunse a un tempo che il giorno appresso avrebbe
tentato di spiegar loro che cosa fossero quei libretti e a che cosa
servissero. Diremmo una bugia asserendo che i bimbi ne restassero
assai soddisfatti: a sentirsi parlar d'un presente la loro fantasia era
volata tant'alto, che per poco non si aspettavano uno di que' castelli
di fate, onde avevano udito discorrere negl'invernali _filò_.[1]
Qualcuno nel vedersi in mano quel magro libretto sentiva imperlarsi
la lagrima sul ciglio, ma il pranzo fece porre ogni cosa in obblìo.
Finito il banchetto, che si chiuse con un brindisi entusiastico alla
salute degli sposi, la banda ricominciò le suonate ed ebbero principio
le danze, alle quali assistettero molte fra le _notabilità_ del
villaggio. Il parroco, per salvar capra e cavoli, giunse al _dessert_:
così poteva dire di non essere stato a pranzo, e insieme buscavasi
un dolce e un bicchier di vino: certo che gli uomini dei partiti
estremi condannavano siffatto temperamento, certo che il sacrestano,
rappresentante delle idee ultra-conservatrici, non solo non avea messo
piede nella villa in quel giorno, ma anzi s'era assentato dal paese
per fare una dimostrazione ostile al conte Alberto; però il parroco
diceva: — Male, malissimo, bisogna saper tenersi con tutti... io mi
pregio d'esser moderato. — E questa soddisfazione di sè ei la condiva
abbondantemente col vino della cantina del conte. Quanto al vecchio
marchese, che la curiosità spingeva ad ogni tratto nella villa e che
s'era tanto doluto della mancanza di livree, egli aveva assistito
alla festa con un sorriso di superiorità. E, voltosi al parroco, gli
bisbigliò all'orecchio: — Creda pure, Reverendo, che le feste vogliono
esser date da noi altri nobili di vecchia data. Non crede?... dica
liberamente. — Eh! credo. — Io una volta ho avuto nel mio palazzo i
professori d'orchestra di ***, nientemeno, capisce, Reverendo? Ma nelle
sale, s'intende, non già nei campi per far ballare un po' di plebaglia.
Sarà stata una festa ben migliore di quella d'oggi, non le pare?... —
Eh! sicuramente.... — Ma, fra noi due, che nessuno ci senta, queste son
pagliacciate belle e buone.... Via, mi dica la sua opinione.... — Ma,
secondo.... si.... capisce.... — Come? — La causa di questa evoluzione
era l'avvicinarsi del conte Alberto, al quale, non appena ei fu giunto,
don Gaudenzio e il marchese gridarono in coro: — Festa stupenda,
impareggiabile; ce ne congratuliamo col conte Alberto. —


IX.

_Les jours se suivent et ne se ressemblent pas_, dice il proverbio
francese, e chi avesse visitato la villa tre settimane dopo il dì
della festa, l'avrebbe trovata poco men che in aperta rivolta. E tutto
perchè? Per un trebbiatoio di frumento che il conte Alberto s'era
fatto venire in quei giorni, e dal quale i coloni traevano i più cupi
pronostici pel loro avvenire. Il fatto si è che i lavori accresciutisi,
l'incremento notabile della cascina, le cure richieste dal nuovo
prodotto della canape rendendo necessario un maggior numero di braccia,
avevano arrecato un rincaro non lieve nella mano d'opera, che per
buona parte doveva affidarsi a giornalieri. Ora la macchina, secondo
il solito, adempiendo il suo ufficio con risparmio di tempo e di spesa,
consentiva di sbarazzarsi de' lavoranti soprannumerarî e di ridurre le
mercedi a più equa misura. Nelle sue lezioni il conte aveva discorso
più d'una volta intorno alle macchine, ne aveva discorso con soda
dottrina e con argomentazione calzante; ma quando ci sia l'interesse
di mezzo, si trova sempre il modo di sottrarsi alle tirannie della
logica rifuggendosi nel terreno neutro delle eccezioni. Chi di noi
non ha sentito dirsi mille volte: — La cosa è giusta in teoria, ma in
questo caso... poste certe condizioni particolari, ci vogliono speciali
riguardi?... Non si possono nemmen dire arti vecchie; è un portato
spontaneo della natura umana, la quale ben di rado è così austeramente
giusta da ammetter di primo acchito quelle verità che sanno d'amaro.
Immaginatevi poi in un paese gretto, ignorante, ove le piccole ire
trovano buono ogni pretesto per farsi innanzi. — Ecco la conclusione
delle belle riforme del nuovo signore, dicevano alcuni; ecco la
filantropia di questi dottoroni, di questi filosofi.... sotto colore
di progresso insidiano l'esistenza del contadino, come s'ella non fosse
stentata abbastanza e penosa. Povera gente! Hanno sudato sangue, hanno
incallito le mani, hanno abbronzito le fronti per farvi più pingui le
mèssi, e un giorno, quando meno se lo aspettano, un congegno di ferro
si pianta in mezzo ai campi rigogliosi, in mezzo alle verdi praterie,
e dice a questa popolazione miseranda: — Va via: io mieto le spiche, io
falcio l'erba più a buon mercato di te. Va via: rinuncia i tuoi salarî,
lascia la casa dove sei nata, dove son morti i tuoi padri, va via;
cercati un altro tetto, un altro padrone che ti scaccerà anch'egli,
quando lui pure rischiari il lume della civiltà. — Son le solite
querimonie che da anni ed anni tendono a rinfocolare le ire dei creduli
volghi, a' quali il danno presente fa velo al giudizio e toglie ogni
facoltà di riposato consiglio.

A queste arringhe dissennate aggiungasi la mal celata esultanza
di quelli che godono sempre degl'imbarazzi altrui, gente che si
raggranella in ogni ordine sociale, nella turba infinita degl'indolenti
e degl'invidi. Pare a costoro di trovar una giustificazione della
propria inerzia nei malanni che incolgono agli operosi, ed hanno
eternamente sul labbro quella frase sapientissima — _Lo avevamo
predetto_, — come se la fosse una divinazione sublime il predire
che chi cammina potrà incespicare talvolta; mentre gl'immobili non
incespicano, ma vanno in putrefazione e marciscono l'aria che li
circonda.

Il sacrestano idrofobo, come sempre, voleva passare a vie di fatto e
rimestando nella folla quasi quasi lasciava intravvedere la possibile
alleanza delle sue campane, come se si trattasse d'un vespro. Gli
spiriti del villaggio non eran però così bellicosi, e l'intemperanza
stessa delle proposte chiudeva i germi d'una reazione. Quanto ai
_moderati_, e' non poterono mettersi d'accordo in verun partito. Anzi
il farmacista, sollecitato a dire almeno il suo parere, si contentò di
rispondere con tuono severo: — Mi maraviglio. —

A ogni modo, Alberto continuava ad essere in un brutto impiccio.
I contadini s'eran fatti disubbidienti, riottosi; i giornalieri
licenziati protestavano di non volersene andare, e il paese dava segni
assai chiari di plaudire alla loro insolenza. A malgrado dei beneficî
del conte, la popolarità non eragli per anco assicurata: i pregiudizî
hanno messo così salde radici nel cuore degli uomini, che chi li
combatte non può non suscitarsi contro un vespaio.

Il giovane signore ebbe però il buon senso di capire che i belli ed
eloquenti discorsi non giovano a nulla in tali casi; l'intelligenza che
nei momenti placidi serve a comprenderli, ne' momenti procellosi serve
a svisarli, le argomentazioni logiche s'interpetrano come sottigliezze
d'animo chiuso a ogni senso gentile, le parole amorevoli si dicono
artificî d'ipocriti. Soltanto innanzi alla tranquilla energia degli
uomini sicuri di sè ogni resistenza si spunta. E il conte non si lasciò
intimidire dallo schiamazzo de' malcontenti. Quanto ai contadini che
abitavano nella tenuta, egli però non volle licenziarne nessuno,
sebbene in sulle prime l'opera loro venisse ad essere diminuita
d'assai: egli prevedeva che l'impulso dato alla produzione con la
novità dei metodi agrarî avrebbe di certo ridomandato quelle braccia
che ora giacevano inerti, nè il risparmio di poche mercedi poteva
indurlo a metter sulla strada parecchie famiglie. E in questo generoso
proposito lo raffermarono anche le sollecitazioni della sua sposa.
Certo quel passaggio dalle vecchie abitudini ai nuovi sistemi più
fecondi, più logici, non si compie senza lagrime, non deve farsi senza
cautele, le quali vogliono forse esser maggiori nella campagna che
nella città. Si tratta di popolazioni meno aperte alle idee del secolo,
use a prendere speciale affetto alla terra che coltivano, alla capanna
che abitano, e per le quali un mutamento di sito ha talvolta tutte le
amarezze dell'esiglio. Si tratta di popolazioni che hanno chiuso il
loro orizzonte nel villaggio natìo, che vissute fuori dei grandi centri
sociali non acquistarono le svariate attitudini onde si adornano le
popolazioni urbane, a malgrado della più minuta divisione del lavoro.

Avvenne col tempo ciò che suol sempre accadere in siffatti casi.
Stimolato con più sapiente energia, il suolo rese di più: le derrate
riuscirono di miglior qualità e trovavano prontissimo spaccio su tutti
i mercati. Quindi si raddoppiò la lena, e allo sciopero del momento
tenne dietro un'attività non interrotta. A poco a poco macchine e
contadini finirono col mettersi d'accordo, quasi diremmo col prendere
ad amarsi. È noto come nei paesi industriali gli artigiani nutrano una
speciale affezione per le loro macchine: la celerità, la precisione,
con cui que' complicati congegni accudiscono al loro ufficio, hanno
qualche cosa che seduce ed affascina, e l'artigiano nell'accarezzare
la manovella che gli sta dinanzi, tributa un omaggio indiretto alla
potenza dello spirito umano. I rozzi coloni della villa, per quanto
venissero sollecitati a respingere le _invenzioni del demonio_, non
poterono alla lunga sottrarsi ad un certo senso di riverenza, il quale,
se non altro, valse a ridare la pace a quei luoghi, un di sì tranquilli
e allora agitati da sì bollenti passioni.


X.

E da questa pace il conte Alberto trasse animo a proseguire nel suo
generoso apostolato.

Non ultima cagione della miseria dei contadini è il loro difetto di
previdenza e la mala abitudine di prendere a fido le derrate necessarie
al loro mantenimento. È una consuetudine doppiamente funesta: prima di
tutto perchè espone que' poveri villici alle frodi de' trafficanti,
i quali sanno risarcirsi ad usura del ritardo posto ai rimborsi; poi
perchè quel comperare senza spendere seconda maggiormente gl'istinti
dello scialacquo, e solletica in certo modo la vanità personale del
contadino che ci mette amor proprio nel _trovar credito_. Non si
può dir quante famiglie siansi ridotte all'estremo dell'indigenza
mettendosi su questa via sdrucciolevole. Le polizze ingrossano, il
merciaio ne esige il pagamento, e si rifiuta a fornire i suoi generi
al debitore tapino; poi vengono gli atti, le oppignorazioni, ec., ec.
Come nell'infanzia dei popoli, così nei primi rudimenti dell'educazione
individuale convien far precedere l'idea e la pratica del risparmio
a quella del credito; se no, fa d'uopo rassegnarsi alla giudiziosa
interpretazione de' nostri villici, i quali sono singolarmente
mortificati, quando non restino oppressi sotto il peso dei debiti. A
sottrarre i suoi coloni alle conseguenze del funesto sistema, Alberto
si fece iniziatore d'una di quelle istituzioni che in Inghilterra, in
Francia, in Germania sorgono per impulso spontaneo del popolo, e fondò
nella tenuta un deposito di derrate alimentari, che dovevano spacciarsi
ai contadini della villa con un piccolo soprappiù di prezzo del costo.
V'era però fissa la norma che non vi si farebbe mai credito.

Dopo ciò, nuovi cicalecci e nuovi clamori. Il nobilume, che vegetava
tristamente nei dintorni sospirando invano il tempo che fu, levò un
grido di scandalo allorchè vide scender sì basso un successore dei
***. — Oh nipoti degeneri! Quando mai un aristocratico puro sangue,
un castellano dal blasone incontaminato avrebbe accudito all'umile
ufficio di bottegaio? È questa la beneficenza spilorcia, subentrata
alla larghezza di quelli che profondevano l'oro sul loro cammino? Un
giorno i nobili, abbassando il guardo dai cocchi dorati, inebriavano
le plebi con un benigno sorriso, e le plebi si stimavan felici per un
solo accento ad esse rivolto. Ormai questi novatori hanno rotto la diga
che li separava dal popolo; le acque del torrente si son rovesciate
sui campi: quando sarà che si arrestino? — Così parlava, profetando
sventure, il partito _legittimista_ del luogo, il quale, visto la
mollezza del parroco e dell'altre autorità paesane, raccoglievasi nei
mesi d'autunno presso la baronessa Marina, ch'era la più _coduta_ fra
le _bestie ragionevoli_ del villaggio. Però niuno sapeva proporre un
modo di mettere argine al male, per opporsi alla propaganda _diabolica_
del conte Alberto sarebbe stato mestieri di spender quattrini, e
allorchè si toccava questa corda raffreddavasi d'assai lo zelo de'
campioni dell'altare e del trono.

I _moderati_ avevano anch'essi la loro paroletta di biasimo circa
l'ultimo provvedimento del conte. — E' bisogna vivere e lasciar
vivere, — dicevano alcuni; — che ragione c'era di levar gli avventori
a' bottegai del villaggio, i quali son qui da tanto tempo e non hanno
altra entrata che la loro industria? Perchè cacciarsi dappertutto? Sarà
a fin di bene, lo vogliamo credere; ma in questo caso, per esempio,
gli è certo che si fa del male a delle famiglie.... — Quanto a' due
bottegai che avevano a subire la pericolosa concorrenza della nuova
istituzione, essi stimarono di non poter prendere miglior partito che
quello di domandare l'immediato rimborso de' loro crediti a quelli fra
i villici che gli avevano privati della loro ricorrenza, minacciandoli
di ogni sciagura ove non fossero pronti a pagare. E la minaccia avrebbe
sortito il suo effetto, se Alberto, senza por tempo in mezzo, non
avesse liquidato egli stesso le polizze de' suoi coloni, mandando
a vuoto la tattica degli avversari e insieme placandone l'ire con
l'insperato rimborso.

A fin d'anno il conte chiamò a sè i suoi contadini. — Miei cari, — egli
disse, — quando io ho fondato quel magazzino di derrate alimentari,
che diede tanto a discorrere, io non lo feci davvero per guadagnarci;
mi premeva soltanto che trovaste da vivere più a buon mercato, e vi
persuadeste con l'esperienza della virtù del risparmio. Se nello stesso
tempo ho pagato i vostri debiti a' bottegai, di cui eravate avventori,
lo feci perchè mi sembrava cosa dicevole e per gl'interessi altrui e
per la reputazione vostra, non perchè intendessi farvi una carità;
secondo me, la carità non deve farsi che quando non vi sia proprio
altro modo di giovare al suo prossimo, e la mia era un'anticipazione,
non un regalo. Voi cessavate di esser debitori degli altri divenendo
debitori miei. Non ve ne sbigottite, ve ne scongiuro. In primo luogo io
sono un creditore che aspetta; poi questo vostro debito è per alcuni
annullato, per tutti diminuito. Ed ecco in qual modo. A malgrado de'
prezzi mitissimi, a' quali si vendevano i generi nel mio magazzino,
a malgrado delle mercedi che ho dovuto pagare, pure ne rimaneva un
discreto utile, e questo utile veniva a voi, perchè, vi ripeto, io
mi sono assunto l'ufficio di vostro mandatario e non più. Or bene,
ripartendo il profitto in ragione delle somme spese da ciascuno di
voi, ho posto le singole quote a fronte del vostro debito nel modo che
vedrete dai conti che vi saranno consegnati or ora. Quelli tra voi che
non avevano alcun debito da soddisfare, sono invece miei creditori e
io pagherò loro l'importo ch'essi devono avere. Io spero che voi non
sarete malcontenti della mia amministrazione, quantunque io la creda
imperfetta da molti lati e soprattutto nel riparto degli utili. Vorrei
che voi stessi poteste mettere insieme tanta moneta quanta bastasse a
fare la speculazione da voi; allora in fin d'anno il profitto andrebbe
diviso proporzionatamente alla somma da voi investita nell'operazione,
e ciò sarebbe molto più giusto che non proporzionarla alla spesa. Ma
chi principia convien si rassegni a far le cose a mezzo, e l'essenziale
è per me di mettervi sulla buona strada.

— Ora concedetemi di ribatter le accuse che mi si fanno per essermi
ingerito in siffatta bisogna. V'assicuro ch'io non ne sono pentito
punto. Due o tre bottegai ne saranno stati danneggiati, lo ammetto; ma,
d'altra parte, quante persone non n'ebber vantaggio? Gli è un conto
semplice. Voi qui della villa siete, mettiamo, cinquanta famiglie.
Ora se ogni famiglia ha potuto risparmiare 20 centesimi al giorno
comperando gli alimenti più a buon mercato, ne viene che fra tutti ci
avete guadagnato in 360 giorni 3,600 lire. È come se vi fossero state
regalate, ma con la differenza massima che le vi vengono per diritto e
non avete a ringraziarne nessuno. Però tiriamo innanzi. Queste 3,600
lire le avete forse nascoste sotterra? No: ve ne siete valsi per
procurarvi qualche agiatezza di più, per provvedere a bisogni meno
urgenti delle vostre famiglie; ma a tal uopo vi fu pur necessario di
fare degli acquisti; onde vedete che se una o due botteghe ne hanno
sofferto, ve ne sono invece che se ne avvantaggiarono, dimodochè
pensando all'utile vostro non avete fatto il male altrui. Può darsi
invero che alcuno di voi, anzichè spendere tutto il danaro risparmiato,
lo abbia messo a frutto, ed io non potrei che approvare questo
pensiero. Ma non crediate che una somma messa a frutto voglia dire
una somma resa inoperosa: tutt'altro. Tanto le Casse di Risparmio
quanto i privati che ricevono tali depositi, sanno trarne partito e
farlo circolare con utilità generale. Inoltre non si dà un capitale
in mano di terze persone se non per ritirarlo al momento opportuno, e
comprendete quindi che verrà tempo in cui, adoperando il vostro danaro,
alimenterete in proporzione delle vostre forze qualche industria,
dando da guadagnare ad altri. In conclusione, statevi con animo
riposato, e abbiate per fermo che quegli, il quale con modi onesti
attende a migliorare le sue condizioni, non nuoce, ma giova sempre alla
società. —


XI.

Era cosa naturalissima che nel villaggio di *** non vi fossero libri.
Il solo stampato reso di pubblica ragione era il giornale ufficiale di
***, il quale era letto da tre persone per tre differenti motivi. Il
dottore lo scorreva per istare in giorno delle faccende politiche, il
deputato comunale per iscarico di coscienza, e il farmacista, che aveva
un figlio nella carriera de' pubblici impieghi, vi cercava la rubrica
delle nomine.... Pur troppo il foglio ufficiale era molto scemo, e se
i contadini non avessero avuto prospettiva di miglior lettura potevano
far a meno di andare alla scuola. Questa condizione deplorabile
suggerì al conte un pensiero arditissimo: quello cioè di fondare una
biblioteca popolare ad uso de' suoi coloni. Si procurò a poco a poco
alcune operette semplici ed istruttive, alcuni romanzi morali, e gli
andava prestando a quelli tra i villici che ne mostrassero desiderio,
offrendosi ad un tempo a spiegar loro quelle cose che non potessero
intendere. Non fu opera d'un giorno il destar l'amore della lettura in
quegli spiriti rozzi, usi a volgari sollazzi; ma chi propugna una causa
buona non può fallire allo scopo quando abbia pazienza, giacchè il bene
ha in sè una virtù indistruttibile che lo fa germogliare alla lunga ne'
terreni più sterili e più disadatti. E la lettura d'un buon libro pone
in movimento tante corde dell'anima, che chi ha cominciato a prendervi
gusto non può vincere il fascino e smettere la contratta abitudine.
Veder de' contadini con un libro in mano è cosa sì rara, ed era una
novità di tal fatta nel paese di *** che se ne fecero mille commenti.
— Guarda che dotti, — dicevano; — adesso sì che lavoreranno la terra
per bene. — Ma che brava gente, — bisbigliava un altro; — prima
maestri di musica, adesso dottori. L'è proprio la strada per diventar
contadini di garbo! — Però a queste accuse rispondeva trionfalmente
la florida condizione della tenuta, la quale e per la varietà delle
culture e per la quantità dei prodotti era raddoppiata di pregio,
dacchè il conte l'aveva avuta in retaggio. E quando fu annunciata
un'esposizione agraria in una città non molto discosta dalla villa, il
conte Alberto volle egli pure concorrervi, quantunque nel paese non vi
fosse idea veruna di siffatte cose, e nessun altro prima di lui avesse
mandato i suoi prodotti ad alcuna esposizione. Ed anche nella città
di *** parve singolarissimo che venisse un espositore da ***, e più
singolare ancora ch'egli fosse degno di premio: onde nel conferirgli
la medaglia i giudici si rallegrarono vivamente col giovane signore
per la coraggiosa iniziativa. Il conte nel parlarne a' suoi contadini:
— È una lode, — disse, — che viene in gran parte a voi, mentre tutte
le mie idee sarebbero morte infeconde se mi aveste negato l'opera
vostra. E ormai ch'io spero avervi convinto delle necessità di dare
un altro indirizzo all'agricoltura, della necessità di non respingere
i nuovi trovati, è mio intendimento di lasciare in vostra mano gran
parte di questa faticosa bisogna, e a quelli tra voi che vorranno
tentare la prova io concederò in affitto parte delle mie terre. Vi
sono dei paesi ove lo stato di fittaiuolo è oltre misura lieto e vi
si ammassano fortune notevoli: ivi l'agricoltura è tenuta in onore, e
le campagne non sono meno incivilite delle città, perchè si è compreso
come la diffusione dei lumi giovi tanto ai superbi quanto agli umili,
e come in ogni sfera sociale _sapere è potere_. Io desidero che per
merito vostro questa sentenza si avveri anche fra noi, e mi stimerò
ricompensato a dovizia delle mie fatiche se, saliti a miglior fortuna,
vorrete avermi ancora per consigliero ed amico. — La profferta del
conte inanimò all'esperienza alcuni di quelli che avevano raggranellato
qualche danaro, e conforto tutti nella speranza d'un migliore avvenire.
Tanto più che Alberto, ben sapendo quanto bisogno di capitali abbia
una florida agricoltura, offrì di anticipare egli medesimo, contro un
tenue interesse, le somme necessarie, e appianò quindi il formidabile
ostacolo che suole rendere inutili le assidue fatiche dei campagnuoli,
la mancanza del credito. Nè a questo male grandissimo si ripara
efficacemente cogli aristocratici istituti di credito fondiario:
conviene scendere un gradino più basso, conviene oltre ai possidenti
assistere i fittaiuoli. Se no, è un bel dire: o perchè non fate questo,
o perchè non seguile l'esempio della Scozia, dell'Inghilterra? Nerbo di
tutto è il capitale, e se gli agricoltori non han modo di procurarselo,
bisogna turarsi la bocca e lasciar che le cose vadano di male in
peggio.


XII.

I modi del conte Alberto; la saviezza de' suoi consigli, l'operosità
intelligente con cui egli presiedeva alle più minute bisogne, la sua
costanza nell'istruire il popolo e nel beneficarlo senza avvilirlo,
non potevano a meno di guadagnargli alla lunga la stima e l'affetto de'
suoi coloni, a malgrado dei pregiudizî ch'egli aveva feriti, a malgrado
dell'ire ch'egli aveva attizzate nei retrivi e nei pigri, i quali non
la perdonano mai a chi con l'attività e la pertinacia mette in maggior
risalto la loro indole molle, la loro inerzia fastosa.

Ma pareva che il conte dovesse eternamente appagarsi del ristretto
campo della sua tenuta, pareva che fra lui e il villaggio avesse a
sorger perenne una insuperabil barriera, quando un avvenimento, di
certo mollo doloroso, giunse a rompere il ghiaccio, a vincere tutte le
prevenzioni che tenevano sospesi gli animi di que' rozzi contadini.
Era un autunno squallido assai pegli ardori eccessivi del caduto
agosto; l'aria era grave e pesante, la natura, ci si conceda la frase,
pareva invecchiata innanzi tempo. E in mezzo a quella malinconia di
suolo e di cielo cominciò a manifestarsi in *** un'epidemia, la quale,
rincrudelita dal caro dei viveri, dal difetto dell'acqua, minacciava
di mietere a larga mano le vittime. I vari signori delle vicinanze,
quantunque ascritti a un'infinità di confraternite pie, non indugiarono
un momento a darsela a gambe, il deputato comunale morì, nè v'era
alcuno che provvedesse con sollecitudine ai bisogni del popolo, dove le
processioni e lo scampanìo ordinato dal parroco non si credano mezzi
sufficienti ad arrestare la diffusione d'un morbo. Il conte Alberto,
stimolato dalla gravità del caso a non domandar licenza a chicchessia,
prese in mano le redini di quel povero comune abbandonato; cercò con
serî provvedimenti di ovviare al contagio; richiamò dalla città un
medico di vaglia perchè assistesse il dottore del luogo, obbligandosi a
pagarlo egli medesimo; dispose che ogni giorno per tutta la dorata del
morbo i più poveri del villaggio avessero dalla sua fattoria una libbra
di buona farina, e non esitò a deviare per un istante da' suoi rigidi
principî circa la carità.

Una donna giovane e bella, la quale perchè moglie e madre mirabilmente
intendeva l'ufficio di consolatrice, non peritavasi di entrare nelle
case degl'infermi, prodiga di beneficî e di dolci parole; e il suo
apparire era salutato come l'apparir d'un raggio di sole fra le
tenebre, poichè la bontà è una luce perpetua, è un perpetuo sorriso.
Questa donna era la contessa Matilde. Com'ella assistesse i malati,
come confortasse gli afflitti, lo dicevano l'amore e la riverenza
di que' poveri campagnuoli, i quali, appena il morbo scomparve, si
associarono per farle un presente, nè certo la buona signora ebbe
regalo più gradito di quello. Nello stesso tempo non appena si trattò
di rieleggere il deputato comunale, che moltissimi misero innanzi il
nome di Alberto; e sebbene la consorteria retriva menasse un clamore
d'inferno, pure non potè far prevalere la propria influenza, e il
conte fa acclamato a grande maggioranza di voti. La commozione del
sacrestano fu tale all'udir la dolorosa novella, che per due giorni
consecutivi egli dovette abbandonar le campane in balìa dei ragazzotti
del villaggio, i quali ne facevano il più mal governo del mondo. Il
parroco, che essendo nato neutro non aveva la possibilità di diventare
apostata, complimentò il nuovo eletto con la stessa effusione che
avrebbe manifestato pel Khan dei Tartari, ove questi fosse sorto alla
prima dignità politica del paese. Quanto all'organista, convertito
ormai all'idee liberali, egli applaudiva a questa nomina come ad
una propria vittoria e, a chi gli ricordava le sue opinioni d'un
tempo, rispondeva che forse le apparenze lo avranno fatto giudicare
a sproposito, ma che nel fondo dell'anima egli aveva sempre amato,
desiderato e servito il progresso. I maligni ne dubitavano.

Esser deputati comunali d'un magro villaggio non è certo tal carica da
insuperbirne. Ma del bene si può farne dappertutto, e chi sdegna di
fecondare un piccolo lembo di suolo dicendosi nato a coltivar intere
contrade, o trova un comodo appiglio, o presume follemente di sè. Ma,
gran Dio! perchè vi sentite l'attitudine a qualche azione grandissima,
non farete una opera buona? Gli è come se alcuno non volesse salvare un
uomo che affoga, e si scusasse dicendo: — _Se fossero due!_ —

Nel suo ufficio il conte si adoprò ad utili scopi. Ripose su migliori
basi la scuola; provvide al miglioramento delle strade esistenti ed
alla costruzione di strade novelle; ottenne che la Cassa di Risparmio
d'una città vicina affidasse al comune una specie di succursale;
istituì una società di mutuo soccorso e una banca mutua fra' contadini,
quantunque l'amministrazione avesse estreme difficoltà; estese insomma
a tutto il villaggio la propaganda nobile ed illuminata, ch'egli
aveva fatto sino allora nella sua tenuta. Fu per le sue sollecitudini
che un tronco di strada ferrata venne a passare a poca distanza dal
villaggio; fu per suo impulso che parecchî possidenti di que' dintorni
si unirono per fondare una società di credito agrario; fu infine per
merito suo che sorse nel paese una piccola bottega di caffè, ove un
foglio di migliori intendimenti suppliva alla papaverica gazzetta.
Guai al nostro lettore se dovessimo descrivere per lungo e per largo
tutte le difficoltà che incontravano questi provvedimenti in apparenza
sì semplici: la non si finirebbe più. Lo _statu quo_ è così dolce,
certe idee hanno così profonde radici, che chi vuol combatterle deve
prepararsi a lunghe ed ardue battaglie.


XIII.

Come il conte Alberto e sua moglie potessero viver contenti sepolti
là in quel paesuccio, senza rallegrarne almeno la solitudine con le
feste e coi lauti banchetti, era un problema per molti. Esser ricchi
e non isfoggiare il lusso di fastosi equipaggi, e non udire i trilli
modulati delle _prime donne_, e non vedere i voluttuosi atteggiamenti
delle ballerine; esser ricchi e non sentirselo dir mille volle al
giorno dalla turba parasita dei cortigiani, e non profondere il suo
negli specchî di Francia, nelle porcellane di Sèvres e nei vasi del
Giappone, e non far la carità al suon di tamburi e trombe; esser
ricchi e non andare almeno due volte all'anno a Parigi per ammirarvi
i _boulevards_ che vengono su come funghi, e la costruzione del nuovo
edifizio dell'_Opéra_, è invero un modo assai gretto di comprendere
l'opulenza. Peccato che il conte Alberto fosse d'un diverso parere! —
Egli diceva che allietare la propria tavola con la presenza d'un amico
è cosa dolcissima, ma mutar la casa in _restaurant_ è un assurdo;
diceva che le gambe delle ballerine e le gole delle cantanti hanno
il loro merito, ma che non val la pena di mutar soggiorno apposta
per esse; diceva che i cortigiani sono come le mosche, le quali
si danno più pensiero delle vivande che delle persone; diceva che
sfarzo non vuol dir eleganza, e carità non vuol dir benefizio; diceva
finalmente che gli uomini non devono essere girovaghi come gli organi
di Barberia, e che dopo aver viaggiato quanto basta per estendere le
proprie cognizioni, fa d'uopo fermarsi stabilmente in un sito, giacchè
se movendosi si reca diletto e utile a sè, soltanto stando fermi si
giova agli altri. — Quanto alla Matilde, ella non diceva nulla....
ella era felice. Le sue gioie maggiori erano l'amore di suo marito e
de' suoi tre figlioletti; le sue occupazioni erano divise tra le cure
della famiglia, il dipingere, l'attendere in parte all'amministrazione
della tenuta, l'educare le sue contadinelle. Passava ore dolcissime
nel bello e vasto giardino, rallegrato a vicenda dalle limpide acque
correnti e dall'ombra di piante vetuste e dall'aperto delle praterie
smaltate di fiori. Oh! i fiori ella gli aveva tanto cari e li coltivava
ella medesima con sollecito affetto, ma non li voleva spiccati mai
dall'aiuole: erano così leggiadri a vedersi là sul loro gracile stelo,
era così misteriosa quella lor vita d'un giorno! perchè renderla ancora
più breve, perchè scolorire anzi tempo quei petali, su cui la luce si
riposava sì varia? All'imbrunire la famigliuola soleva raccogliersi sul
margine della riviera che traversava il giardino; i bimbi giocavano sul
pendio d'una collinetta vicina, empiendo l'aria di grida festevoli e
correndo di tratto in tratto presso i lor genitori a chiedere un bacio
o un sorriso. Oh! senza dubbio, i venerabili predecessori d'Alberto,
che avevano fatto della villa un convegno galante e qualche volta
un nascondiglio delle loro sozzure, sarebbero rimasti a guisa di
smemorati vedendo quel tenero idillio. Che cosa _bourgeoise_ è la vita
domestica! Lo schiamazzo di fanciulli indomiti rintrona l'aria che
anni fa mormorava dolcemente alle promesse d'amore: promesse sempre
fallite, ma che importa? Fuori che nell'autunno, in cui qualche amico
della città veniva a interrompere la solitudine di quel soggiorno, le
sale, già echeggianti all'armonie del cembalo e alle cadenze regolate
dei balli, risuonavano soltanto dei vagiti d'un bimbo in fasce e
degli amplessi d'una madre che gli porgeva le poppe; e la sera,
invece del baglior delle faci splendenti su cento bei volti, un'unica
lampada concentrava tutto il suo chiarore sopra una tavola, ove una
donna lavorava con l'_ago torto_ o un uomo era assorto in un libro.
Ma qualche volta gli sguardi di quelle due persone s'incontravano,
e un sorriso ne irradiava le fronti.... e pensare ch'erano marito
e moglie.... che prosa! Eppure Alberto e Matilde vivevano felici.
Le anime che vanno in traccia di grandi e continue commozioni, non
sono, a nostro credere, le più ricche, ma le più povere. Se ci si
concedesse l'immagine, vorremmo assomigliarle a camere disarmoniche,
ove la musica più sublime passa inavvertita, senza risonanza, senza
eco. Si, vi sono anime che non hanno risonanze. Nessuna impressione è
in esse durevole, nessun affetto vi lascia un solco profondo; perciò
si trovano sempre vuote e girano scapigliate pel mondo, implorando
qualcosa che le scuota, che le ravvivi. L'implorano dai ghiacci del
monte Bianco e dall'immensità dell'Oceano, dalle _grisettes_ di Parigi
e dalle rovine del Campidoglio, dai gorgheggi della Malibran e dalle
danze della Cerrito. Ma invano! Il mondo esterno ci appare come un
cadavere, se l'anima nostra non sa comunicargli il suo fuoco: qual
melodia potrà riprodursi da un'arpa, a cui mancan le corde? Se un
giorno la patetica cornamusa non sapesse più rendere i semplici canti
della sua Scozia, la crederemmo forse capace d'intuonarci la sinfonia
della Semiramide? Oh! davvero chi lascia spegnersi la fiamma interna
del cuore e dell'intelligenza e cerca altre fonti di vita, ci ricorda
il re Davide che chiamava la bella Sulamite a scaldargli la coltrice,
nè pensava che nulla tempera la rigidezza della morte. Quest'orrore
d'una esistenza tranquilla, questa smania dell'apparato scenico non è
piccola piaga per un paese. È essa che fa convergere tutte le forze
verso le capitali, e assottiglia quella schiera d'uomini laboriosi
senza schiamazzo che forniscono il loro ufficio coscienziosamente
per iscarico d'un dovere, non per sete di plauso. A somiglianza degli
edificî la società ha d'uopo soprattutto di fondamenti. Ora ella non si
appoggia nè sui facondi avvocati, nè sui medici egregi, nè sui pubblici
ufficiali, e nemmeno sugl'ingegni grandissimi. Gli archi maravigliosi
del Partenone non rapirebbero d'entusiasmo il pellegrino, ove il genio
della Grecia non avesse loro infuso l'attica grazia; ma e' non si
reggerebbero sotto il peso di tanti secoli, se non fossero costruiti
di solida pietra. Guai alle nazioni se, richieste delle loro glorie,
non potessero rispondere che con una filastrocca di nomi; guai alle
città se, oltre ai campanili, non potessero additare le case! Date
a un popolo agricoltori intelligenti, negozianti ricchi d'iniziativa
e d'onoratezza, industriali che abbiano lo spirito aperto alle nuove
idee; dategli volghi illuminati che s'inchinino meno innanzi a sconcie
superstizioni, ed abbiano una fede più viva nei loro destini, un senso
più alto dei loro doveri; dategli donne che plebee o patrizie intendano
il loro santo ministero d'amore, e avrete fatto davvero un popolo
grande. Onoriamo intanto tutte le opere virtuose, onoriamo l'attività
umana in qualsiasi campo ella si eserciti, quando le sia guida la
rettitudine degl'intendimenti; bando ai superbi disdegni: come leggera
polvere d'oro mista alle sabbie dei fiumi del tropico, forse v'è un
filo di poesia in ogni cosa onesta, v'è una musica in ogni onesta
parola. Sapete ove non è poesia e non è musica? In quel gelido scherno
che anzichè sferzare l'adulazione, l'ipocrisia, la bassezza, getta a
piene mani il ridicolo sulle nobili iniziative, e arresta i timidi e
conturba i gagliardi: in quel gelido scherno che irride alle dolcezze
della vita domestica, e finge ignorare che prima base delle virtù
cittadine sono le virtù casalinghe, che soltanto dove la famiglia è
rispettata, dove è inviolato il santuario dei lari, sorgono e durano le
libere istituzioni: in quel gelido scherno, che mentre mette in celia
le aberrazioni dei volghi grida ai pensatori — _Utopia_, — quand'essi
con ardimento di eroi, con fede di martiri, si scagliano per rovesciare
le vetuste carceri dell'intelletto e del cuore....


XIV.

E questa è forse la morale del nostro _Signore possibile_. Egli non
ha vinto battaglie, non ha soggiogato popoli, nè impiccato ribelli;
egli non ha ritratto con sublime pennello l'estasi dell'Assunta o la
tenerezza materna della Madonna della Seggiola, non ha cantato la fame
d'Ugolino o i begli occhi di Laura, non ha scoperto la rotazione della
terra intorno al sole; ma ha fatto del bene, perchè credeva nel bene,
perchè non gli era mai venuto in mente quell'aforismo: — _O esser
tutto o esser nulla_; — gli è bastato essere qualcosa e giovare a'
suoi simili. Perciò noi lo proponiamo a modello a tutti coloro che non
possiedono nè l'indole di Tamerlano (citiamo esempi antichi per non
comprometterci), nè l'ingegno di Dante, del Petrarca, del Tiziano, del
Copernico; ma che pur sentono di poter essere in questo dramma della
vita personaggi meno inutili de' _servi che non parlano_.

Che se tornassimo per un istante al nostro protagonista, diremmo
ch'egli coll'andare degli anni vendette parte delle sue terre ad alcuni
tra' suoi coloni più onesti e più abili, e a questa piccola proprietà,
sorta per opera di lui, fu largo di consigli e d'aiuti; che al
diffondersi di nuove macchine non tardò ad introdurle nella sua tenuta;
che divenne membro d'una importante associazione agraria; che infine
dopo avere, tra la sua famiglia, le sue occupazioni, i suoi studî,
vissuto come molti non fanno, fece quello che fanno tutti, morì.... E
se non fosse vissuto mai? Oh! allora il nostro scritto avrebbe almeno
un elemento di originalità; anzichè essere la biografia d'un morto,
sarebbe quella di un nascituro.

  _1864._



ABNEGAZIONE.

NOVELLA.


I.

In un giorno piovigginoso di novembre un baroccio carico di masserizie
era fermo dinanzi all'abitazione del signor Bernardo Mauri, onesto
negoziante della città di***. Intento a ricevere la consegna di quelle
suppellettili stava il signor Bernardo medesimo, e aveva seco una donna
attempatella e piagnucolosa, che ogni occhio esperto avrebbe giudicato
per una di quelle fantesche, le quali dal lungo vivere in una casa
acquistano una certa aria di padronanza insieme con un affetto molto
reale e molto efficace per coloro che hanno servito da tanti anni.
Però la Filomena, come si vedrà, non era fantesca di casa Mauri. In
quel momento ella vigilava lo scarico dei mobili con l'atteggiamento
di generalissimo che vede schierarsi in battaglia un esercito, dava
ammonizioni e consigli ai facchini del baroccio, senza che ciò le
impedisse di parlar continuamente col signor Bernardo.

— In parola d'onore, signor Bernardo, una ragazza d'oro. Così senza
idee, brava in tutto.... Mah!... Ehi, lì, buon uomo, andate piano con
quell'armadio. Io lo diceva sempre alla padrona buon'anima che gli era
poco in sesto, ma lei eragli affezionata come a un vecchio amico di
casa e non voleva staccarsene.... Adagino, adagino, mettetelo lì....
Ma, signor Bernardo, com'è andata quella famiglia!... A Ognissanti
finirono tre mesi dalla morte del povero signor Antonio, suo fratello,
che Dio lo abbia in gloria, e di lì a cinque settimane la signora si
mise a letto, e non si alzò più... Ih! Ih!... Ehi, non vedete quello
specchio come spenzola fuori del carro? Tiratelo giù a dirittura
che non vada in frantumi.... Povera Angelina!... Io che l'ho vista
nascere.... adesso doverla lasciare.... Oh! è una gran fatalità...
meschinella che sono.... —

E la Filomena si mise a singhiozzare con tale un accento di verità, che
il signor Bernardo ne fu commosso e le disse amorevolmente:

— Andiamo, Filomena, datevi pace, verrete spesso a trovarla, la non
è mica fuori del mondo.... E noi non siamo punto il diavolo da farvi
paura.

— Mi guardi il cielo dal pensarlo.... Ma l'è un'altra cosa, non l'avrò
più dinanzi agli occhi da mattina a sera.... non la vedrò più venir su
a poco a poco come un bocciuol di rosa.... Non posso proprio darmene
pace. —

Nel mentre che la Filomena si andava così querelando, una bella e vispa
ragazza di 16 anni era scesa dalle scale insieme con due omaccioni
grandi e grossi che parevano pendere dai suoi ordini.

— Prendete su il pianoforte, — diss'ella con la sua voce argentina, —
chè quando abbiam messo quello, la stanza è in assetto....

— Dio mio, Matilde, come sei trafelata! — esclamò il signor Bernardo
con ansietà.... — Va pianino, mia cara, non c'è poi ragione che tu ci
buschi un riscaldamento.

— Oh! babbo, non son mica smorfiosa io; — rispose sorridendo la cara
fanciulla.

Quand'ecco da un'altra parte dell'androne nascere un gran
parapiglia.... Prima uno strillo acutissimo poi delle grosse risate,
poi un gatto nero sguizzar fuori in istrada scomponendo e atterrando
i mobili, mentre i facchini battendo le mani gli gridavano dietro
— acchiappa, acchiappa — e una bambina settenne tutta sconcertata
aggrapparsi al vestito della Matilde.

— Ah! briccona dell'Amaliuccia, che cosa hai fatto? E dove t'eri
cacciata, chè non ti si vedeva nemmeno? —

La fanciulletta rispose ch'ella era scesa prima senza far rumore,
perchè il babbo non la sgridasse, che si era messa a frugar di qua e
di là, e che finalmente da un canterale era sbucato fuori soffiando e
arruffando i peli quel brutto bestione che le aveva fatta tanta paura.

Il racconto mise l'ilarità in tutti gli astanti, ad eccezione della
Filomena, la quale n'ebbe anzi un raddoppiamento di affanno. — Che
cosa c'è da ridere? — borbottava ella tra sè — povero Micio! povero
Micio! Anche per te l'è finita.... non mi verrai più intorno alle gambe
dimenando la coda, non passerai più le notti tranquillamente sulla
tepida cenere del focolare!... —

Ora se al lettore non ispiace salire due scale, noi seguiremo
la Matilde che, precedendo i due facchini, i quali portavano il
pianoforte, era entrata in una stanza ampia ed arieggiata, ove una
donna di servizio andava spazzolando frettolosamente la mobilia.

— Così va bene, — disse la Matilde con tuono di soddisfazione, quando
vide anche il pianoforte al suo posto.

— Credo anch'io, — soggiunse la serva, — la signora Angelina deve
starci da principessa.

— Eh! lascia andare, Teresa, che nessuno può darle più la sua casa e i
suoi genitori. —

La stanza aveva nella sua semplicità un aspetto seducente davvero. Una
carta messa di fresco rivestiva le pareti, il soffitto era dipinto
d'un ceruleo chiaro con qualche arabesco turchino, le cortine ed il
letticciuolo erano bianchi di bucato. Sopra il letto pendeva un bel
ritratto a fotografia della madre dell'Angelina. La Teresa andava
mormorando fra i denti che a quel posto ci sarebbe stata meglio
un'immagine sacra, ma la Matilde le dava subito sulla voce:

— Non ti pigliar tanti affanni: ognuno la pensa a suo modo, e so che
l'Angelina avrà più piacere così. —

Il pianoforte era messo tra l'intervallo delle due finestre, e le
altre suppellettili, che consistevano in un armadio, uno scrittoio, un
piccolo tavolino da lavoro, uno specchio e qualche seggiola di noce,
erano disposte in bell'ordine tutto intorno alla stanza. Le finestre
riuscivano sull'ultimo lembo del borgo, in cui era situata la casa
Mauri, e dominavano anche un vasto tratto di campagna. Il fiume che
attraversava la città, entrava appunto da quella parte: dall'argine
sinistro una strada fiancheggiata di platani ne seguiva le volubili
giravolte, e si perdeva nella pianura; a destra le rive erano più
basse e formavano nel mattino il convegno animatissimo delle lavandaie
che venivano a farvi il bucato, e dei carrettieri che vi abbeveravano
i loro cavalli. Tutto intorno il terreno era frastagliato di case e
d'ortaglie: lontan lontano una striscia fuggente di fumo e un fischio
acutissimo annunziavano parecchie volte al giorno il passaggio di un
convoglio di strada ferrata.

Quando parve alla Matilde che la stanza fosse in perfetto ordine,
le diede un'ultima occhiata di compiacenza, poi ne uscì insieme
colla Teresa, e col passo leggiero e saltellante di chi è contento
di sè, scese una scala di pochi gradini, spinse leggermente un uscio
socchiuso, ed entrando con mezza la persona in un salottino, fece un
cenno col capo e parve chiamar fuori qualcuno.

Di lì a pochi secondi, una nobile e svelta figura di giovinetta tutta
vestita a bruno risaliva insieme colla Matilde il breve tratto di
scala, e preceduta da lei entrava nella stanza, che abbiamo veduto or
ora prepararsi per la nuova ospite.

L'Angelina, chè tale era il nome della fanciulla abbrunata, gettò
nella camera un rapidissimo sguardo, e poichè la vide addobbata con sì
amorevole cura, e ravvisò sopra il suo letto la dolce immagine materna,
sentì inondarsi gli occhi di lagrime e, abbandonandosi fra le braccia
della Matilde, esclamò con voce commossa:

— Qui c'è stato un angiolo.... e tu sei quello. —

Era commovente il vedere quelle due giovinette così avvinte in
dolcissimo amplesso. Nell'età ch'è tutta sogni e speranze, nell'età,
in cui si parla del dolore come di un paese remoto che s'è inteso
nominare appena da qualche venturoso pellegrino, nell'età che ride e
folleggia, que' due cuori battevano pure di compassione e d'angoscia.
L'Angelina, maggiore d'età e più alta della persona, nascondeva nel
seno della cugina la sua soave fisonomia malinconica, e per le gote
della Matilde scendevano non rattenute grosse lagrime, che davano
un'insolita espressione al suo volto fiorente di gioventù e di
salute. In quell'istante stringevasi forse un tacito patto fra loro,
un patto di sovvenirsi di vicendevole aiuto nelle traversìe della
vita, di ricambiarsi secondo gli eventi le parti di confortata e
confortatrice. E chi avesse detto loro: il destino insidierà la vostra
gentile alleanza e, senz'ombra di colpa, una di voi spargerà di fiele
l'esistenza dell'altra, sarebbe stato respinto da entrambe come un
demone tentatore.

Intanto si bussò all'uscio. Era la Filomena che tutta lagrimosa veniva
a prender commiato dalla padroncina. L'Angelina frugò nell'armadio,
e ne trasse un paio d'orecchini, che diede per memoria alla vecchia
fantesca.

— Ci rivedremo, non è vero, mia buona Filomena?

— Oh! s'immagini, padroncina.... — rispose la povera donna; poi,
abbassando la voce in modo che la Matilde non la sentisse, soggiunse: —
Tutto sta che questi qui di casa mi vogliano. La signora Clara mi pare
una certa donna....

— Zitta, Filomena, — interruppe l'Angelina, mettendole il dito indice
sul labbro e guardandola con un tuono fra la preghiera e il comando.

— Basta, basta, voglia il Signore ch'ella si trovi bene; —
borbottò l'altra. E, rinnovati gli amplessi, si avviò verso l'uscio
singhiozzando, non senza notare in cuor suo che l'armadio non teneva
perfettamente il mezzo della parete, che il letto sarebbe stato meglio
dalla parte opposta, e che il pianoforte era due dita troppo distante
dal muro.


II.

Ora, per istringere conoscenza con altre due persone della famiglia
Mauri, andremo nel salotto, dal quale abbiamo visto uscir poco fa
l'Angelina. Lettore, non t'è mai accaduto di studiare le relazioni che
esistono fra l'addobbo d'un quartiere e la gente che vi abita? Il color
delle stoffe, la natura delle litografie che pendono dalle pareti, la
qualità dei gingilli che ornano le _étagères_, non t'hanno mai parlato
allo spirito, non t'hanno aiutato a proferire un giudizio sui padroni
e soprattutto sulle padrone di casa? Fa ora il conto di venir meco
nel salotto da pranzo di casa Mauri, e di vedervi un sofà di damasco
giallo a rabeschi vicino a sedie di lana violetta; cortinaggi bianchi
a festoni color del mare, che danno alla stanza l'aspetto d'un uomo con
gli occhiali verdi; un camminetto con sopra due candelabri di bronzo e
una statuina di terra cotta rappresentante un arciere svizzero; e tutto
all'intorno in certe cornici di legno, alle quattro dita, i ritratti di
re Vittorio e del Garibaldi accomunati con quelli di Sua Santità, di
monsignore reverendissimo vescovo della diocesi, e della celeberrima
Diana di Poitiers: e poi dimmi se ti pare che la signora Clara Mauri
abbia ad essere una donna assestata. Che se poi ti cadono sott'occhio
i bicchieri grandi e piccini, e le stoviglie, messe in mostra nella
credenza, e le massiccie posate d'argento che fanno sfoggio dì sè sulla
tavola preparata accanto a tovagliuoli, i quali sembrano fregiati
dell'Ordine della _Giarrettiera_, non potrai a meno di esclamare: —
Qui ci dev'esser danaro, ma non ci sono abitudini di eleganza e di buon
gusto, ma la ricchezza non ha dirozzati gli spiriti. —

Vedi, lettore, come siam poco compiti! Abbiamo esaminato con una
curiosità minuta tutte le suppellettili della stanza senza por mente
a due donne che, sedute l'una di faccia all'altra ad un tavolino da
lavoro, sono occupate caritatevolmente a dir male del prossimo.

La signora Clara Mauri, ch'è la più attempata tra le due, è una
portentosa mole di femmina. A cominciare da' capelli, che, tra suoi
e non suoi, le fanno una montagna sulla fronte, per finire col piede
che voluttuosamente riposa sopra un piumino, tutto è in lei grandioso,
sovrabbondante. Il singolare si è che con questa esuberanza di forme
la signora Clara si è fitta in capo di essere romantica e sovente
trae profondi sospiri dal petto, il quale in siffatti suoi eccessi di
sentimentalismo si contrae e si gonfia a guisa d'un mantice, producendo
una rivoluzione nelle numerose pieghe del vestito ch'ella vorrebbe
liscio e aderente alle membra come una buccia di cocomero, e che
invece per colpa della sarta è sempre ondeggiante come Il fogliame d'un
cavol fiore. La signora Clara è incrollabile nella convinzione di aver
trentacinque anni e ama far cadere il discorso su questo argomento, e
dice con aria compunta: — Non son più giovane; ho trentacinque anni.
— Per mantenere le proporzioni di età, la Nella, che è la primogenita
della famiglia, ha dovuto arrestarsi sui diciotto, con grande stupore
della Matilde, la quale non sa intendere come in un paio d'anni
ella diverrà coetanea della sorella maggiore, e con non meno grande
meraviglia del signor Bernardo, che s'avvede d'esser solo a invecchiare
nella casa. La signora Clara a' suoi tempi poteva passare per una
bella donna. E invero il signor Bernardo che, mingherlino com'era,
amava le femmine massiccie, l'aveva presa proprio per inclinazione. A
sentir le male lingue, quel suo matrimonio era stato fatto _honestatis
causa_, e per dare un editore responsabile a certa bambina che s'era
presa la libertà di nascere senza il consenso de' superiori; ma
noi non porgeremo benevolo ascolto alla maldicenza. Comunque sia,
la Nella, ch'era appunto la bambina in discorso, si è ormai posta
in regola col Codice civile, e queste investigazioni sul passato
son vere indiscretezze. La Nella che, ufficialmente, ha 18 anni, ne
conta invece 23 sonati ed è una ragazza tutta smorfie e caricatura,
sempre a due dita dallo svenimento e dalle convulsioni, alta, smilza,
pallida, di fisonomia piuttosto poco simpatica che brutta. È bionda,
cogli occhi un tantino cisposi, e una bocca così grande che par la
linea dell'equatore. Del resto con un po' di buona volontà si potrebbe
metterla fra le donne passabili, se l'affatturato di ogni sua posa e
d'ogni movenza non disgustasse profondamente. Tra madre e figliuola
regna un accordo perfetto, in ispecie quando si tratti di dichiarare
che nessuno le uguaglia in delicatezza di sentimenti.

— È fredda, anzi freddissima, — esclamava con accento convinto la
signora Clara. — Io nelle sue condizioni avrei preso una malattia di
tre mesi....

— E poi — rispondeva in tuono compunto la figliuola — anche con noi non
ti pare che dovrebbe essere più espansiva? Vedersi accolta con questa
premura!... Invece appena risponde, appena ci guarda.

— Ma se non ha nemmeno notato ch'io mi son vestita a bruno da capo a
piedi per andarle incontro.

— E quando le ho offerto di respirare un'ampolla di essenze, mi ha
appena ringraziato coi denti stretti....

— Eh! Nella mia, a questo mondo si semina il bene e si raccoglie il
male.... Non tutti sentono nella stessa maniera....

— Ehi! si va a pranzo si o no? — Questa domanda prosaica era mossa dal
signor Bernardo che si trovava nell'andito.

— Quel benedetto uomo di tuo padre è sempre lo stesso, — sclamò la
signora Clara, rivolta alla figlia; — per me il pranzo è l'ultima cosa,
per lui la prima.

— Oh! padrone mie riveritissime, — esclamò con voce gioviale il signor
Bernardo entrando nella stanza, in cui credeva di veder radunata
l'intera famiglia. Ma quando s'accorse che non v'erano se non sua
moglie e la Nella, allungò il muso e, cambiando registro, chiese: — Ove
sono la Matilde, l'Angelina e l'Amalia?

— Verranno, verranno, datevi pace, — rispose la degna consorte; — o che
vi fa male trovarci sole?

— Per carità, non mi fate delle vostre solite, chè non ho punto voglia
di piagnistei.

— Belle maniere, ammirabili.... Auff! che uomo!... Almeno in queste
giornate dovreste avere un po' più di riguardo.

— Eh? — proruppe con un accento di vera meraviglia il signor Bernardo,
che non poteva intendere tanta afflizione della moglie per la perdita
della cognata. Poi alzando le spalle si avviò verso l'uscio. Sennonchè
in quel momento l'arrivo della minestra, e l'aspetto giocondo
dell'Amaliuccia, che saltellante veniva dietro alla serva, mutarono il
corso alle sue idee. Di lì a pochi secondi entrarono nella stanza anche
la Matilde e l'Angelina, e tutti sedettero a tavola. L'Angelina prese
posto fra la Matilde e il signor Bernardo. Aveva asciugato le lagrime
e ravviati i capelli sulla fronte; era accurata del vestito e composta
della persona, chè il dolore non poteva toglierle la grazia nativa.
Ben se ne avvidero la signora Clara e la Nella, e si bisbigliavano
all'orecchio: — Che lusso! — La Nella s'era accostumata a non credere
più avvenente di lei la Matilde, e a giudicare effetto di quel suo fare
poco rimesso gli sguardi che le rivolgevano a preferenza gli studenti
della città nel passar sotto le finestre di casa Mauri per recarsi in
campagna; ma la superiorità dell'Angelina era così visibile che ella
non poteva, se non riconoscerla, non presentirla. Forse col tempo e con
l'opera di sottili ed arguti ragionamenti la si sarebbe persuasa, come
sempre, di esser la più bella e la più garbata tra le fanciulle del
paese; ma adesso l'Angelina si atteggiava come una rivale pericolosa,
ed è agevole immaginarsi se la Nella potesse farle buon viso. E madre e
figliuola tacitamente consentivano di non risparmiarle, in quanto fosse
da loro, umiliazione veruna.

Il pranzo procedette silenzioso: l'Angelina mangiava pochissimo, e
rispondeva solo con qualche cenno del capo alle domande che le venivano
mosse. Sennonchè, quando si fu alle frutta, non so quale facezia del
signor Bernardo, che usava ogni amorevolezza alla nipote, valse a
rischiararle per un momento la fronte e a farla sorridere a fior di
labbra. Aveva diciotto anni!

Ma la benevola zia, che teneva in pronto lo strale, stimò giunto
l'istante di slanciarlo e, rivolta al marito, gli disse:

— Come siete delicato, Bernardo! Vi paion giorni questi da tormentare
l'Angelina co' vostri scherzi? —

La povera giovinetta intese il senso maligno di quelle parole; si fece
rossa rossa in viso, allontanò con una mano il piatto di frutta che le
stava dinanzi, e si pose l'altra sugli occhi per rattenervi le lagrime
che ne scendevano copiosamente.

— Vedete che cosa ci avete guadagnato, l'avete fatta piangere; —
disse la signora Clara al marito, alzandosi di tavola, mentre la Nella
estraeva di tasca la sua solita bottiglia di essenze.

— Che colpa ci ha il babbo? — chiese ingenuamente l'Amalia, e il signor
Bernardo proruppe anch'egli:

— Mi pare che potreste un po' tacere, mia cara signora moglie, e non
farmi perdere la pazienza

— Che uomo! che uomo! — borbottò la signora Clara, e uscì della stanza
con la Nella, chiudendo dispettosamente l'uscio dietro a sè.

La Matilde non aveva proferito parola; ma lo sguardo di rimprovero
da lei lanciato alla madre palesava a sufficienza ciò che si passasse
nell'animo suo.


III.

Di quanti fastidii dovesse essere amareggiata l'esistenza dell'Angelina
nella sua nuova dimora, ognuno potrà di leggieri immaginarlo. Pure
alla malignità della zia, alla invidia stizzosa della cugina maggiore,
ella non opponeva che una calma amorevole, e cercava di confortarsi
nell'affetto del signor Bernardo e in quello vivissimo che le
portavano Matilde ed Amalia. L'intimità con la Matilde cresceva ogni
dì, perchè la buona ragazza si mostrava tanto più sollecita verso
la cugina, quanto più s'accorgeva dei bisbetici umori di sua madre
e di sua sorella. L'Angelina non era per lei soltanto un'amica, una
confidente; era un tipo, sul quale ella aspirava di modellarsi e
che facea tanto contrasto con l'artificiale di alcune persone di sua
famiglia, ch'ella, anima candida e ingenua, non poteva non sentirvisi
attratta con un misto di tenerezza e di riverenza. E poi l'Angelina
non poteva ella esser maestra alla Matilde? All'educazione di questa
non aveva preseduto una madre ornata di tutti que' pregi onde acquista
gentilezza la donna; nè il signor Bernardo, gran galantuomo, ma tutto
assorbito dalle sue faccende e corto d'intelligenza anzichè no, poteva
reggere al confronto del padre dell'Angelina riputatissimo, oltre che
per la onesta operosità della sua vita, anche per la coltura generale
del suo spirito. La Matilde, poveretta, uscita di collegio sapendo,
come accade, un pochino di tutto e nulla bene, pendeva attonita dal
labbro dell'Angelina, che non era certo un'arca di scienza, ma aveva
cognizioni meglio digerite, e di cui ella sapeva meglio rendersi conto,
perchè ne aveva inteso discorrere nella sua famiglia e vi aveva pensato
nei silenzî della sua cameretta. Le due ragazze lavoravano insieme,
insieme leggevano, e si ripassavano insieme le loro lezioni di musica.
Avevano il medesimo maestro; ma l'Angelina era ormai espertissima
sonatrice, e una sera in casa Mauri, dinanzi ad una ventina di persone,
toccò il cembalo con tanta arte e tanta passione, che tutti ne rimasero
attoniti e la Nella ne andò sulle furie. Perchè, in fatto di musica,
ella presumeva assaissimo, in ispecie per una certa sinfonia degli
_Arabi nelle Gallie_, ch'ella sonava a memoria e che faceva andare
in visibilio sua madre. Ora gli elogi fatti alla cugina la punsero
proprio sul vivo, e da quella volta non vi furono più trattenimenti
musicali in casa Mauri, e la Nella si recava invece con la genitrice
in qualche società amica a buscarsi applausi co' suoi _Arabi nelle
Gallie_. Tutte cose che davano molto sui nervi alla Matilde e
pochissimo all'Angelina, la quale presceglieva che la lasciassero
cheta nella sua stanza e non le togliessero la cara compagnia della
Matilde, della sua _indivisibile_, come ironicamente la chiamavano in
famiglia. La piccola Amalia aveva preso anch'ella a volere un gran bene
all'Angelina che si prendeva tanta cura di lei, e ogni mattina, prima
ch'ella andasse alla scuola, le allacciava il vestito e il nastro del
suo cappellino di paglia, e ogni sera le faceva leggere di così belle
novellette e la sovveniva di consiglio e d'aiuto in quello scabroso
affare delle _aste_, che le parevano il non _plus ultra_ della scienza
umana. Onde la vispa bambina, quando era in casa e non poteva correre
e saltare pel cortile, saliva volentieri nella stanza dell'Angelina e
vi passava delle buone mezz'ore, comunicando parte della sua schietta
ilarità alle due ragazze, che stavano confidandosi i molesti sentimenti
del loro animo. Così in casa Mauri s'eran disegnati due gruppi, uno
della signora Clara e della sua primogenita, l'altro della parte più
giovane della famiglia; ed a questo gruppo più giovane, più ingenuo,
più franco, il signor Bernardo veniva a chiedere qualche minuto di
distrazione. Pover'uomo! Ingolfato in un pelago d'affari superiori
alla sua intelligenza ed alle sue forze, ignaro egli stesso se fosse
ricco quanto alcuni credevano, il suo umore naturalmente gioviale
aveva perduto il suo brio, e non sapeva più trarre argomento di riso
dalle freddure della consorte. La quale ora più che mai lo infastidiva
con le sue nenie, e lo diceva ironicamente ammaliato anch'egli
dall'Angelina, e lo rimproverava a bassa voce di aver introdotto in
casa una serpe, che con tutte le apparenze della dolcezza e della
santità metteva la disunione in famiglia. Certo che se v'era accusa
infondata l'era appunto questa. L'Angelina s'era mostrata buona,
amorevole, piena di cortesie e di delicati riguardi per tutti di casa,
e se l'accoglienza della zia le rendeva più cari i silenzî della sua
stanza e la compagnia di quelli che veramente l'amavano, non una parola
acerba l'era sfuggita dal labbro, non una rampogna, non un lamento.
Forse ella non s'accorgea delle offese che perchè il cuore le diceva:
— Perdona. — Ma soffermiamoci alquanto, se il lettore ce lo consente,
a dipingere questa gentile fanciulla, che è pur la protagonista del
nostro racconto, e della quale non ancora ci siamo occupati con un poco
d'agio. Così un pittore che ha segnato nella mente i contorni d'una
soave figura tiene in pronto per ritrarla la matita e il pennello,
ma temendo sempre ch'ella non gli riesca quale l'ha nello spirito,
si occupa intanto degli accessori del quadro e serba per ultimo la
difficile prova. L'Angelina era alta della persona, ma non più che
a donna si convenisse; bianchissima la carnagione, e ben tornite
le membra; i folti capelli, di un biondo che traeva al castagno, le
si spartivano docili sulla fronte nè ampia troppo, nè angusta; gli
occhi avea bruni e profondi e leggermente velati da quella specie
di nebbia vaporosa, che tanto dona di voluttà e di mistero; l'arco
delle ciglia bello e corretto, quale avrebbe potuto desiderarlo uno
spasimato dell'arte greca. Contuttociò l'Angelina non era una Venere.
I critici più sottili avrebbero potuto notare in lei qualche linea
del volto troppo rigida e risoluta, e la bocca, che pur si fregiava di
candidissimi denti, un tantino più grande del necessario, e il mento
non affatto perfetto. Sennonchè il migliore di lei veniva dall'anima.
Un pensiero, un affetto, una passione che le colorasse le guance,
o le strappasse un gesto, un sospiro, un sorriso, raddoppiava nella
giovinetta i pregî della fisonomia e della persona. Lettore, tu se'
troppo pratico di siffatte bisogne, e io non debbo ammonirti che, senza
questi chiaroscuri della espressione, la bellezza è cosa statuaria
e non più, è il marmo, in cui Pigmalione tenta invano d'infonder la
scintilla vitale. E quale di noi, se fu colpito da un vago sembiante
di donna, non attese con ansioso desiderio che il volto leggiadro o
lampeggiasse d'un riso, o si ottenebrasse per cura importuna? V'ha
però anche nell'espressione un confine, oltre il quale l'allegria
diventa sguaiataggine, il dolore diventa spasimo e delirio. Soltanto in
certe nature privilegiate, e l'Angelina era tra quelle, questa misura
può serbarsi senza sforzo, senza violenza, per un innato istinto del
bello e dell'armonia. L'Angelina era educata a tutte le squisitezze
del sentimento, e le corde delicatissime dell'anima sua vibravano ad
ogni tocco leggiero; pure la ingenua grazia, ch'era parte di lei, non
si scompagnava mai da' suoi atti e dalle sue movenze. Ella non aveva
d'uopo dello specchio per raccogliere entro la bruna rete di seta il
fitto volume della sua chioma, senza che ne scappasse fuori un capello,
o per allacciarsi il vestito senza tradire la fretta o la negligenza.
Chi la vedeva di volo non poteva a meno di esclamare: — Com'è elegante!
— Chi la osservava più riposatamente doveva dire: — Com'è semplice! —
Una tinta di dolce malinconia soleva esserle diffusa pel volto, non di
quella malinconia querula e dispettosa che tedia gli altri e sè stessi;
ma di quella che trae origine da un'indole riflessiva, e non esclude
le serene allegrezze della vita e la spontanea compartecipazione ai
piaceri altrui. Saper partecipare ai dolori è nobilissima, ma non è
compìta virtù; le anime elette sanno partecipare come agli affanni,
alle gioie, come ai timori, alle speranze, come alle lagrime, al
riso. Nel breve corso de' suoi diciott'anni l'Angelina aveva molto
goduto e sofferto, e l'esperienza aveva nutrito in lei quella soave
disposizione alla simpatia che stringe di cari nodi gli umani. Oh!
la vita le si era pur dischiusa gioconda; nè carezze, nè agî erano
mancati alla sua cuna. Ella si ricordava ancora la casa ove nacque,
e il giardinetto ove correva bambina vigilata dall'attento occhio
materno. Si ricordava l'allegro salottino del pian terreno, ove suo
padre alzandola fra le braccia le faceva ammirare attraverso i vetri
colorati delle imposte le aiuole bizzarramente tinte di giallo, di
rosso, di violetto; mentre la genitrice, giovane, bella, elegante,
moveva rapidissime le agili dita sui tasti del pianoforte, e la
Filomena accomodava i fiori freschi nel vaso di _Sèvres_ posto sul
tavolino. Indi il pensiero le tornava a una notte angosciosa, nella
quale certi figuri dal volto sinistro avevano frugato ogni angolo
della casa, e condotto con loro il padre di lei, l'uomo amato, riverito
da tutto il paese. E si ricordava di sedici lunghi mesi trascorsi in
febbrile ansietà e della domanda da lei rivolta un giorno alla madre:
— Il babbo ha egli fatto qualche cosa di male che ce l'hanno condotto
via con sì cattiva maniera? — A cui quella, divinamente infiammandosi
in viso, aveva risposto: — Oh! no, fanciulla mia, tu non la puoi capire
la ragione, per la quale il tuo babbo è tribolato; ma sappi ch'egli
aveva in mente di gran belle cose, e che tu devi volergli più bene
di prima. — Ma tornerà presto? — Oh se tornerà! — Il dì del ritorno è
venuto: oh, quanto era bello! Avvenimenti incredibili si erano successi
con la rapidità della folgore, una vita nuova pareva commuovere la
città, le bandiere tricolori sventolavano da ogni finestra, le piazze,
le vie erano gremite di gente, era un abbracciarsi, un baciarsi,
un correre, un saltare a guisa di forsennati. Quand'ecco tra il
suono di allegre fanfare, tra le acclamazioni di un popolo immenso,
avanzarsi, agitando i fazzoletti, un gruppo d'uomini dall'aspetto
pallido e macilento, dal vestire dimesso, ma raggianti le fisonomie
di commozione e di gioia. Ed ella e sua madre in mezzo a quel gruppo
avevano ravvisato un caro volto, avevano segnato un punto in mezzo a
quella mobile onda di teste, e correndo a precipizio giù dalle scale,
e fendendo la folla che spontanea e riverente si apriva a far largo,
avevano toccato quel punto, s'erano gettate fra le braccia dell'uomo
sospirato affannosamente per sedici lunghi mesi. Come il babbo suo
l'aveva trovata grande, e seria, e giudiziosa! Non era più la bambina
che voleva ad ogni istante esser sollevata da terra per veder le
aiuole del giardino attraverso i vetri colorati del salotto: quei
sedici mesi ne avevano fatta un'altra persona, tutta riflessiva e
pensosa. Pure così ella era cresciuta felice, piena l'anima d'affetti
e d'armonie, adorando i suoi genitori e da loro trepidamente adorata.
Delle sue amiche la più cara era la Matilde, quantunque avesse due
anni meno di lei, e fosse d'indole più chiassosa e più inchinevole
ai giuochi dell'età sua; ma la bontà dell'animo, la quale avevano
comune, creava tra loro un vincolo indissolubile di simpatia. La Nella
non le piaceva, nè ella piaceva a lei, e sua madre e sua zia erano
di natura così diversa, che le due famiglie non potevano vivere in
una certa intimità. Sennonchè, quando il padre venne a morire, e la
genitrice ebbe l'interno presentimento che di corto dovrebbe seguirlo,
un pensiero terribile angustiò la povera donna: quello dell'abbandono,
in cui sarebbe restata la sua figliuola. E mandò pel cognato, tutore
dell'Angelina fino dalla morte del fratello, e a lui raccomandò
l'orfana derelitta, e che la prendesse in sua casa, e l'avesse in conto
di una sua creatura. Di che, assicurata da lui, spirò più tranquilla.

L'Angelina aveva una piccola sostanza, co' frutti della quale poteva
supplire alle spese del suo mantenimento e provvedersi quel poco di
vestiario che le occorreva; onde, seppur ella era ospite dello zio, non
era però di peso a nessuno: chè, se fosse stato altrimenti, non v'ha
dubbio che quell'anima caritatevole della signora Clara glielo avrebbe
ricordato dieci volle al giorno; non senza spacciare a' quattro venti
la propria magnanimità. Felice lei, chè così non apprese quanto sappia
di sale lo pane altrui, e parendo beneficata le fu più agevole di
essere benefattrice.


IV.

In verità, per quel che ne bisbigliavano gl'indiscreti, le faccende
del signor Bernardo Mauri prendevano una cattiva piega. Il credito
cominciava a sfuggirgli e la matassa de' suoi affari era divenuta
così arruffata, che non sarebbe riuscito forse nemmeno ad un uomo più
avveduto di lui di trovarvi il bandolo. Per rimediare a un operazione
cattiva se ne faceva una peggiore, e si camminava sul vuoto, come
avviene pur troppo a' negozianti, che, o non vogliono persuadersi
d'un primo sbilancio, o non sanno fermarsi a tempo. D'altra parte, lo
spreco della famiglia non iscemavasi punto. Senz'avere nè il gusto,
nè le abitudini della vera eleganza, la signora Clara possedeva il
segreto di spendere, per vestirsi male e per addobbare malissimo la sua
casa, più di quanto avrebbe speso una bella damina a mettere sè e il
suo quartiere all'ultima moda. Il signor Bernardo era un uomo debole
e nemico delle beghe domestiche: non istimava sua moglie, ma nemmeno
sapeva resisterle, e piuttosto che sentir le querimonie di lei e della
Nella, allentava i cordoni della borsa. Quelle due benedette donne gli
davano continua molestia per la preferenza da lui mostrata per Angelina
e Matilde, ed egli sperava di farle tacere appagando i loro capricci.
E poi accade assai volte che sull'orlo del precipizio non si badi alle
spese. Quando le cifre del _deficit_ si contano per migliaia, che cosa
fa qualche centinaio di lire più o meno? Ne avvenne che proprio in quei
momenti critici casa Mauri s'era arricchita d'una nuova bestia, e una
carrozza a due cavalli aveva preso il posto del modesto biroccino usato
per tanti anni, e la signora Clara era occupatissima per far mettere un
gallone d'oro alto cinque dita intorno al cappello del suo cocchiere,
quando la bomba scoppiò, e il signor Bernardo dovette sospendere i suoi
pagamenti. Chi avesse veduto il pover'uomo nel giorno che per la prima
volta in sua vita gli toccò respingere una cambiale da lui accettata,
si sarebbe fatto un'idea di certi dolori che vanno a ferire quanto v'è
di più sacro — l'onore. — Il signor Bernardo era lì immobile, seduto
innanzi al suo scrittoio, con la testa fra le mani, pallido, sparuto,
senza lagrime e senza parola. Due commessi silenziosamente sommavano
cifre in due gran libroni aperti, e, dopo averne riportati i risultati
finali sopra un foglio di carta, li mettevano sott'occhio al loro
principale, che nè dava, nè chiedeva spiegazioni. Aveva sembianza di
automa, tanto avea fissa e cristallina la pupilla, tanto macchinali
i movimenti della persona. Nella mattina, appena ebbe sentore della
catastrofe, la signora Clara scese in banco, ma le prime parole che le
furono dette la fecero cadere in deliquio, onde fu mestieri che i due
commessi abbandonassero per un istante i loro libroni, e s'accingessero
a ricondurre ne' suoi appartamenti la venerabile padrona di casa.
Ma nè il deliquio della consorte, nè i baci della figliuola, nè i
conforti dell'Angelina valsero a scuotere il signor Bernardo dal suo
abbattimento. Convenne che la Matilde gli usasse amorevole violenza
per farlo salire al piano superiore nell'ora di pranzo. E che pranzo fu
quello! La signora Clara, presa dalle sue solite convulsioni, era nella
stanza assistita dalla Nella; l'Amalia, povera piccina, usa a correre e
a saltare, piangeva senza sapere il perchè; e la Matilde e l'Angelina
s'affaccendavano inutilmente per far prendere un pochino di brodo al
signor Bernardo, il quale non apriva bocca se non per esclamare: —
Povere creature mie! — Povere creature mie! —

Il dì seguente l'Angelina si alzò per tempissimo, e appena lo zio scese
in banco vi si avviò anch'essa con passo lieve e sollecito, e prima
quasi ch'egli se ne avvedesse gli era seduta vicino e avea strette
nelle sue mani le mani di lui.

— Angelina! — diss'egli con accento di viva sorpresa, non senza fissare
con curiosa tenerezza il volto malinconicamente espressivo della bella
fanciulla.

— Sì, zio, sono io stessa; — rispose ella seria e composta. — Vorrete
voi porgermi ascolto senza dirmi indiscreta?

— Parla, nipote mia.

— Zio, vorrei che m'insegnaste la maniera di farmi dichiarar
maggiore. —

Nella mente conturbata del signor Bernardo balenò in quell'istante un
pensiero ch'egli si peritava ad esprimere.

— Potremo pensarvi, ragazza mia;... però, sai, le tue ventimila....
insomma quello che ti hanno lasciato i tuoi genitori, nessuno può
toccarlo:... è intatto. —

Una tristezza profonda, indescrivibile, quale di chi si vede mal
giudicato, si dipinse sul volto dell'Angelina. Ella chinò il capo e
disse con voce sommessa:

— Zio, gli uomini devono esser molto cattivi, devono avervi fatto molto
male.

— Angelina, spiegati per amor di Dio.

— Scusate se sono importuna.... un'altra domanda....

— Quale?

— Potreste dirmi a quanto ascenda la somma che non siete in grado di
pagare ai vostri creditori? —

Il signor Bernardo tornò a figgere gli occhi nel viso dell'Angelina,
cercando inutilmente d'indovinare il senso arcano delle sue parole:
poi, reprimendo un sospiro, presa una carta ch'era sullo scrittoio,
la consegnò senza dir motto alla nipote, e si nascose la faccia tra le
mani.

La cifra segnata in fondo di quel foglio parve maravigliare
dolorosamente la giovine.

— Non basta, — diss'ella con l'accento di chi vede annientarsi un suo
disegno.

— Ma che cosa non basta? — chiese ansiosamente il signor Bernardo.

— Ohi Dio mio! nulla: speravo che le cose nostre potessero accomodarsi,
e mi sono ingannata.... Non basta.

— Ma dunque, — proruppe il signor Bernardo colto da una subita idea; —
ma dunque tu avevi in animo qualche gran sacrifizio?

— Io.... no... O non siete voi il fratello del mio povero babbo? Non
sono io della famiglia? La Matilde non è essa la mia migliore amica?
Io pensavo se vi era modo di rimettere in sesto le nostre faccende,
valendoci di quella piccola somma che mi appartiene. Pur troppo era
un'illusione.

— Ma tu vaneggi, Angelina, — sclamò lo zio. — Tu credevi dunque che io,
tuo tutore, potessi consentire a travolgere nella mia rovina anche la
tua poca sostanza, il frutto di tanti anni di lavoro di tuo padre, di
tanti anni di economia della tua genitrice? Angelina, lo sei un vero
miracolo di bontà e d'abnegazione; ma quando pure ciò che tu mi offri
bastasse a pareggiare fin l'ultimo mio debito, no, Angelina, io non
l'accetterei, io non potrei accettarlo. O che è permesso a un uomo che
affoga di trascinar seco anche quelli che stanno a riva?

— Ebbene, zio, se vi foste creduto umiliato da un mio dono, io vi
avrei pregato di accettare quel danaro come un imprestito. Me l'avreste
restituito più tardi col frutto del vostro lavoro.

— Il mio lavoro! — sclamò il signor Bernardo, soprappreso nuovamente da
funesti pensieri. — E come ricomincierò io la vita a sessant'anni? dove
troverò l'energia che mi basti a superare tutte le difficoltà della
mia nuova esistenza? Oh! Angelina: le molle della mia attività sono
infrante; io lo sento che non sono più buono a nulla....

— Zitto là, zio mio, — interruppe l'Angelina, mettendogli la mano sulla
bocca. — E sarà pure necessario che ci mettiamo tutti a far qualche
cosa, se si vuol campare.

— Ma tu, Angelina, non hai bisogno di nulla. Bene o male, puoi vivere
del frutto di ciò che è tuo, inviolabilmente tuo, di ciò che formerà la
tua dote.

— Oh, non vogliate mortificarmi! Prima delle vostre disgrazie m'avete
voi detto mai: — Questo è tuo, questo è mio? — Non m'avete voi accolto
come una figliuola? Quando io sono entrata nella vostra casa, io non
intesi di entrarvi come ospite, nè d'essere una cosa distinta dagli
altri di famiglia.... Ciò ch'è mio è di tutti.

— Anche di quelli che non ti trattano bene?

— Nessuno mi tratta male, — rispose l'Angelina, abbassando gli occhi.

— Orsù, Angelina, — concluse il signor Bernardo alzandosi in piedi,
— la tua visita mi ha fatto un gran bene.... ho visto che ho una
figliuola di più, e — soggiuns'egli tristamente — forse migliore
di qualchedun.... — Ma qui uno sguardo dell'Angelina gl'impose di
troncare a mezzo la frase. — Insomma, tu lo vedi, la tua offerta non è
accettabile: prima di tutto sarebbe una goccia nel mare; e poi quel tuo
danaro è un deposito sacro.

— E non son forse sacri anche gli altri vostri debiti? —

Il signor Bernardo riflettè un istante, poi disse con voce sicura: —
Meno di questo. — E poichè l'Angelina accennava a voler replicare, —
È proprio inutile che ne discorriamo, nipote mia; — egli concluse. —
Metti in calma quella tua testolina,... e il cielo provvederà. — Ciò
detto, le prese il capo con ambe le mani e la baciò in fronte.

Allorchè l'Angelina ebbe risalite le scale, pensando in quale altro
modo le sarebbe dato giovare alla famiglia dello zio, trovò nella sua
stanza una donna venuta a visitarla. Era la Filomena. Com'era naturale,
la catastrofe di casa Mauri fu il primo argomento dei suoi discorsi.

— Giù quando in una casa non c'è ordine, nulla fa maraviglia.
Figuratevi! Con le idee della signora Clara sarebbe andato in rovina
anche il più ricco uomo di questa terra.... E quel grullo di suo
marito, scusi sa, che pur di levarsi le seccature le avrebbe dato anche
il Duomo di Milano! Oh! si doveva vedere. Già io lo diceva sempre. In
quella famiglia c'è venuto il capogiro.... la non può durare.... E ora,
padroncina, s'ella volesse badare a me, che pur troppo, con tutto il
rispetto, lei ha un cervellino che vuol fare a suo modo, s'ella volesse
badare a me, non ci starebbe più un momento in questa Babele....

— Oh! Filomena...

— Mi lasci dire... ella non ci starebbe più un momento, e col frutto
di quel po' di ben di Dio che ha ereditato da suo padre, ci sarebbe
da campare in santa pace.... Io verrei a servirla per nulla.... sì,
giuro alla Madonna santissima, che non vorrei un centesimo pur di stare
vicino alla mia padroncina.

— Ma insomma, Filomena, finiamola.

— Eh! capisco.... son gusti.... lei si trova meglio con quelli che la
maltrattano....

— Basta così, Filomena, tu vaneggi....

— Punto, punto, — incalzò la fantesca, concitando la voce e piantandosi
le mani ai fianchi: — o in fin dei conti crede che non sappia io come
stanno le cose? Me ne informo sempre dalla donna di casa, dalla Teresa,
che quella è una donna a modo.... seppur nelle spese qualche volta....
ma basta.... nessuno è senza peccato,... e so per filo e per segno
tutto quello che fanno, tutto quello che dicono, e tutto quello che
pensano....

— Ma è una parte odiosa codesta....

— Oh! quando ci va di mezzo il bene della mia padroncina! E la Teresa
mi dice che la trattano come un cane.... oh! non stupisca,... e che
soprattutto fra la signora Clara e quel bel mobile della Nelluccia,
per rincarare la dose, vanno dicendo male di lei.... sì signora.... e
spargono ai quattro venti che lei è un'egoista, e che non pensa che a
sè, e a guardar la luna, e a far venire delle ubbie in capo.... —

L'Angelina s'era ritta in piedi pallida pallida, e con tuono
tranquillo, ma risoluto, si rivolse alla Filomena:

— Non una parola di più.... Checchè dicano, e checchè pensino sul conto
mio, io non voglio saperlo.... so quello che faccio io, e mi basta....
E se tu hai a venire a riferirmi de' pettegolezzi, senti, Filomena,
sebbene m'hai vista bambina, e mi hai tenuta fra le tue braccia, e hai
assistito i miei poveri genitori, te lo giuro, che non ti vo' veder più
in vita mia.... Per quello che hai detto oggi ti perdono, e va via. —
Ella stese la mano alla vecchia che la baciò tutta in lagrime, e usci
mortificata borbottando: — Che bel compenso! Che bel compenso! Oh la
gioventù! —

Rimasta sola, l'Angelina si lasciò ricader sulla seggiola nei più
profondo abbattimento. Ella aveva avvilito, aveva quasi scacciato
da sè come calunniatrice e pettegola una donna, della cui fede non
poteva dubitare; aveva spezzato forse per sempre l'ultimo anello che
la ricongiungeva ai dolci giorni della sua fanciullezza, e quale era
il guiderdone de' suoi sacrificî? No, tutto ciò che quella donna avea
detto non era falso. In quella casa v'era alcuno che non l'amava,
che mentr'ella spontanea voleva immolare la sua fortuna al bene della
famiglia, la diceva egoista e insidiatrice della quiete domestica....
Ma a che pro dunque?... Questo dubbio s'affacciò un istante allo
spirito della giovinetta, ma l'indole generosa di lei prevalse ai
freddi calcoli della ragione, ed ella uscì dalla lotta più gagliarda
di prima. Si alzò con subito movimento per cercare della Matilde.
Sennonchè essa entrò in quel punto nella stanza, e l'Angelina con
affettuoso abbandono le gettò le braccia al collo.

— Come va, Matilde?

— Così.... sono stata fino adesso presso alla mamma, che è a letto co'
suoi soliti incomodi.... Ma tu che cos'hai?... mi sembri commossa.

— Nulla.... ti do un bacio. — E sorridendo fra le lagrime, soggiunse: —
Non te n'hai mica a male?... —


V.

Quando il signor Bernardo nel suo colloquio con l'Angelina disse di
non sentirsi più buono a nulla, il poveretto esprimeva una cosa che
era pur troppo vera. La difficoltà di comporre amichevolmente le sue
faccende, il contegno ostile di alcuni creditori, la diserzione de'
più fidati amici, e sopra tutto il pensiero del suo buon nome perduto,
gli travagliavano l'animo siffattamente da renderlo inetto ad ogni
lavoro. Non si riconosceva più. Aveva serbata la consuetudine di
scendere la mattina per tempo nel banco, ma ivi giunto abbandonavasi
sul suo seggiolone, rimanendovi immobile e muto, sinchè taluno non
venisse a scuoterlo. Alle domande che gli erano rivolte rispondeva con
monosillabi, i due commessi che attendevano ancora alla liquidazione
dell'azienda dovevano regolarsi di proprio capo, tanto ardua impresa
era quella di levargli una parola di bocca. Pur tratto tratto
pareva risentirsi, e cercava fermare la mente su qualche disegno
per l'avvenire, e si alzava, e gli si spianavano per un istante
le rughe della fronte; ma di lì a poco lo vinceva la diffidenza di
sè, e ritornava nel posto e nell'atteggiamento di prima. In casa,
e specialmente con le due figliuole minori e con l'Angelina, era
affettuoso, tenero come al solito: ma nè i baci dell'Amalia, nè
le carezze della Matilde, nè lo sguardo amorevole, nè la parola
confortatrice della nipote avevano virtù che bastasse a ravvivare le
sue fibre intorpidite. E quando mercè il sacrificio di tutto il suo
avere e per le cure operose di un legale, amico di casa, gli venne
fatto di accomodare le cose sue senza lo scandalo dell'azione dei
tribunali, il suo spirito anzichè sollevarsi si accasciò maggiormente.
Che se prima si cullava per qualche minuto nell'illusione di poter
riguadagnare un giorno a sè il nome d'un commerciante senza macchia,
alla sua famiglia gli agî di una tranquilla esistenza, ora che facea
d'uopo di romper gl'indugî e mettersi all'opera, si sentiva troppo
disuguale all'impresa, e dalla difficoltà di risorgere misurava la
profondità della caduta. E invero n'aveva ben donde. È agevole perdere
le abitudini della economia, non così quello dello scialacquo, e
in casa Mauri non v'era nè tanta forza d'animo, nè tanta virtù di
rassegnazione da sapersi acconciare alle vicende della fortuna. Le
facoltà della famiglia si riducevano ormai a qualche migliaio di lire
della dote della signora Clara e al frutto del piccolo patrimonio
dell'Angelina. Poco importa al lettore se la signora Clara per una
innocente dimenticanza affermava che tutto il dispendio pesava sulle
sue spalle, e che non vi sarebbe stata altra donna al mondo così pronta
a sacrificarsi pel bene altrui. Forse in cuor suo ella sentiva di
andar debitrice di moltissimo alla nipote, ma appunto per questo le si
mostrava più fredda che mai. Non dovrebbe essere, ma pure è così: a
venire in uggia ad una persona non c'è più sicuro modo che quello di
renderle servigio. Il beneficato sbuffa come Encelado sotto il peso
immane della riconoscenza e se ne sta all'erta per trovare i secondi
fini della liberalità altrui, e se può scoprire mille difetti al
benefattore, gli è come se avesse guadagnato un terno al lotto. Eppure
chi rinunzierà per questo alle dolcezze di sovvenire alle miserie, di
alleviare i dolori? Non certo anime soavi come l'Angelina, per le quali
l'abnegazione diventa un'abitudine, per guisa da non accorgersi nemmeno
ch'ella è una virtù. Il peggio si era che, alla lunga, con quelle
entrate riusciva impossibile di tirare innanzi. Dal signor Bernardo non
potevasi più sperar nulla: s'era provato, riprovato più volte, e non
gli reggevan le forze; egli lo diceva con indescrivibile malinconia: —
Sono diventato un mobile della casa e nulla più. — Intanto gl'imbarazzi
crescevano; ogni giorno conveniva pensare a diminuire qualche spesa;
oggi licenziare il maestro di musica, domani rinunziare a un vestito,
un altro giorno a un piatto a tavola, e poi? Quando si fosse dato
fondo alla dote della signora Clara, che cosa sarebbe rimasto? Non un
centesimo fuori della sostanza dell'Angelina. Ora la giovinetta, che il
giorno dopo la catastrofe aveva offerto allo zio tutto il suo avere,
affinch'egli se ne servisse a pagare i suoi debiti e a ricominciare
con maggior lena la via, non si sentiva più l'animo inchinevole a tanto
sacrificio. Ella era pronta a dividere co' suoi ospiti anche l'ultimo
tozzo di pane, pronta a vivere in più umile dimora e a vestire più
dimessa; ma le ripugnava l'idea di veder travolta quell'ultima àncora
di salvezza, di veder dileguarsi senza frutto la scarsa eredità de'
suoi genitori. Aveva retto l'ingegno quanto buono il cuore, ed ella
intendeva che il dare tutto il suo non servirebbe che a procacciare
alla famiglia qualche anno di agiatezza, in fondo ai quale ed ella e
gli altri troverebbero la miseria e forse l'indigenza. È agevole però
immaginare se di questa sua saggezza non si mormorasse in famiglia.
La signora Clara pareva tutta trionfante di poter dire al marito: —
Vedete a che cosa si riduce la virtù della vostra protetta! Offerte
d'ogni maniera, quando sapeva che non avreste nulla accettato; ma ora,
al punto in cui siamo, non fiata nemmeno e la ci lascerà andare in
rovina senza tenderci una mano. Diavolo! La vuol serbare intatta la sua
dote. O che non l'ho sacrificata io la mia dote? Eh! l'ho sempre detto
io che non si doveva fidarsi, e che ci eravamo presi a riscaldare una
serpe.... Già voi non fate nulla, non tentate nemmeno di sollevare le
vostre creature, e questa è la causa più grande de' nostri guai....
— Il pover'uomo, mortificato com'era e conscio de' suoi torti e della
sua impotenza, mal riusciva a difendere la nipote così ingiustamente
assalita, e forse mentre vedeva a pochi passi il precipizio e sentiva
di non poterne recedere, maravigliavasi anch'egli che l'Angelina,
la dolce Angelina, da lui stimata il buon genio della famiglia, non
accorresse sollecita a tendergli le braccia, ad aiutarlo nelle sue
nuove strette. Nè alla fanciulla sfuggivano siffatte mormorazioni sul
conto suo, ma ell'era tanto sicura della propria coscienza da non darvi
peso alcuno e da non far conto delle accuse. Anzi da qualche tempo
il suo volto s'era fatto più sereno, e le raggiava dagli occhi una
ilarità inconsueta. Usciva talvolta di casa soletta, e al suo ritorno
aveva sempre un sorriso sul labbro ed era tutta amorosa e scherzevole
verso la piccola Amalia, che le balzava incontro come bambino alla sua
nutrice. Figuratevi se di queste sue passeggiate la signora Clara e
la Nella facevan commenti: la Matilde stessa non ne sapeva lo scopo.
V'era certo qualche amorazzo, qualche scandalo, che il cielo ci scampi
e liberi, e la signora Clara aveva già deliberato di venire in chiaro
della tresca, allorchè tutto divenne palese. L'Angelina, profittando di
alcune antiche conoscenze di casa sua, s'era procurata delle lezioni di
musica, col frutto delle quali ella pensava sovvenire a' bisogni più
urgenti della famiglia, e se non l'aveva detto a nessuno, era perchè
nessuno ponesse ostacoli al suo divisamento. Non ambiva le lodi. Che il
signor Bernardo le rivolgesse uno sguardo amorevole, che la Matilde le
saltasse al collo baciandola in fronte, era sufficiente guiderdone per
lei. E che le importava se la bisbetica zia trovava da ridire in quel
suo atto d'indipendenza, e giudicava disdicevole a una ragazza fregiata
del nome Mauri di far la maestra di musica? e se ripeteva qua e là
che l'era un cervellino balzano e che voleva far le cose a modo suo, e
mentre non le mancava nulla di nulla, pur d'emanciparsi s'era buttata a
quel mestieraccio? Del resto la signora Clara soggiungeva: — S'accomodi
pure, che in fin de' conti non è se non mia nipote, e il suo tutore è
quel grullo di mio marito; a me preme soltanto che la non si confonda
con le mie figliuole, le quali, finchè vivo io, non andranno certo a
guadagnarsi il pane in quella maniera.... Tutt'al più, se si trattasse
d'essere istitutrici in una famiglia principesca!... —

Eppure dal dì che, orfana e derelitta, aveva dovuto ricoverarsi sotto
un tetto che non era il suo, l'Angelina non si era mai sentita così
tranquilla come allora che una vita operosa occupava le sue giornate, e
la cresceva nella stima di sè stessa. Ella benediceva la memoria della
sua povera mamma, che aveva educato in lei la naturale inclinazione
alla musica e fin da bambina l'aveva tenuta per tante ore al suo
pianoforte, e ripensava con entusiasmo al precetto sì spesso ripetuto
dal padre suo: — Non esservi nulla di più onorevole che il lavoro;
nulla che meglio del lavoro doni vigore al corpo, calma allo spirito,
dignità all'esistenza. — Ella usciva ogni mattina alle otto, col suo
vestito semplice, ma decente e quasi elegante, col suo passo svelto
e sicuro, co' suoi diciannove anni sulla fronte, e percorreva senza
trepidanza le vie più popolose della città, guardata da molti, non
seguita mai da nessuno. I modi elettissimi e la rara abilità nell'arte
sua le procacciavano le più liete accoglienze nelle famiglie ov'ella
era introdotta, e le sue discepole, che la tenevano in conto d'amica,
facevano a gara per usarle ogni specie di cortesia, e chi l'avrebbe
voluta seco al teatro, e chi al ballo, e chi in villa. Però l'Angelina
non accettava nulla; chè per tutto l'oro del mondo non sarebbe entrata
in una società che non era la sua, nè avrebbe consentito a divertirsi,
mentre la sua buona Matilde se la passava malinconicamente nella
solitudine della sua stanza. Infatti se l'umore dell'Angelina s'era
da qualche tempo reso più giocondo che non fosse per l'addietro, un
mutamento contrario erasi operato nel carattere della Matilde. La
vispa fanciulla aveva perduto da un pezzo la sua ilarità clamorosa: il
suo spirito s'era per così dire accasciato sotto il peso di assidui
pensieri; e dagli atti, e dall'aspetto, e dalle parole le traspariva
un profondo disgusto degli altri e di sè. Vedere l'apatìa della sua
famiglia che lasciava ad una estrania l'incarico di riparare alle
proprie follie, e imbandiva sul desco il pane guadagnato dai sudori
altrui, era cosa che feriva nel vivo i suoi nobili istinti. Ed ella
sentiva in cuor suo che di queste colpe era complice, e ch'ella,
giovane e vigorosa, avrebbe dovuto seguire l'esempio della cugina e
porsi al lavoro. Ma una volta ch'ella aveva lasciato trasparire questo
suo pensiero, aveva sollevato contro di sè una tempesta di rimproveri e
di contumelie. La signora Clara aveva un'idea tutta sua sul decoro del
proprio casato, e perchè nella sventura altro non rimaneva che un nome
senza macchia, ella diceva sempre che non si avesse a compromettere
permettendo che le figliuole scendessero ad opere mercenarie. Inoltre
la Matilde non era di quelle nature energiche che negli ostacoli
rinvigoriscono i loro propositi, e, innanzi ad una opposizione così
risoluta, sentì fiaccarsi la sua volontà e divorò in silenzio le sue
lagrime. Invero ella era divenuta assai infelice. Dacchè l'Angelina
erasi fatta necessaria in famiglia, e con la tranquilla fermezza del
suo carattere aveva inspirato rispetto ne' più renitenti, gli umori
bisbetici della signora Clara e della sua primogenita si sfogavano
sulla Matilde, la quale non poteva scendere nel salotto comune senza
vedersi fatta bersaglio di mille accuse e mille punture. Le apponevano
a colpa la sua ammirazione appassionata per la cugina, quasichè in casa
non vi fosse altro di buono e di bello che quella ragazza, quasichè
fosse da imitarsi in tutto e per tutto. Già ora le pesava di non potere
starsene più l'intera giornata insieme colla sua indivisibile; le
pesava di dover lavorare in compagnia di sua madre e di sua sorella.
Figuratevi! Loro erano ignoranti, e l'Angelina era un'arca di scienza,
che a passar un'ora seco ci s'imparava lo scibile umano. E poi il
pianoforte dell'Angelina, che aveva trent'anni, era mille volte
migliore di quello della Nella, giunto recentemente dalla più reputata
fabbrica di Vienna, e per sonar bene bisognava proprio salire una scala
e andare nel santuario della Dea. Del resto, era d'uopo confessarlo,
l'Angelina aveva i suoi meriti; ma ella, la Matilde, di che cosa
tenevasi, quali erano le sue particolari virtù?... Così martoriavano
la povera giovinetta a colpi di spillo, ed ella intanto con febbrile
celerità passava l'ago attraverso il suo ricamo, battendo convulsamente
sullo sgabello il suo piccolo piedino e soffocandosi per non
piangere. Ma quando l'Angelina ritornava a casa verso l'ora di pranzo,
affaticata, eppur vispa e serena, col suo rotolo di musica sotto il
braccio, con le sue cartoline di dolci in tasca per la vezzosa Amalia,
la Matilde sentiva il bisogno di sfogare tra le braccia di lei il
dolore represso, e dirle quanto amaramente soffriva.... E l'Angelina,
che appena erasi accorta delle ingiustizie commesse a riguardo suo, non
poteva a meno di risentirsi delle offese fatte all'amica, e si andava
persuadendo che, fuori del suo povero zio e della Matilde, non v'era
altri in quella casa, cui mettesse conto di sacrificarsi.


VI.

Era circa un anno che l'Angelina trovavasi in casa Mauri, quando
un nuovo ospite venne a rompere la vita uniforme della famiglia e
a complicare alquanto le fila di questa troppo semplice istoria.
Un lontano congiunto del signor Bernardo, ricco possidente del
Bresciano, aveva un figliuolo, il quale, interrotti gli studî a cagione
dell'ultima guerra nazionale, desiderava ora riprenderli nella riputata
Università di ***. Il padre che teneramente lo amava, quantunque
avesse preferito di averlo compagno nella cura de' suoi beni, pure
non seppe opporsi alla sua volontà; e per affidare a buone mani il suo
Vittorio, e per fare un bene ai Mauri, di cui conosceva le strettezze,
deliberò di metterlo presso di loro, a pensione. E poichè egli era
uomo liberalissimo, le condizioni pattuite furono tali da recar non
piccolo sollievo agl'imbarazzi della famiglia, di che la signora Clara
si rallegrò, specialmente nell'idea di torsi alla uggiosa superiorità
dell'Angelina. La casa ove abitavano i Mauri, comoda e spaziosa
e loro conservata anche dopo i rovesci commerciali dalla benevola
indulgenza del proprietario, aveva una stanza isolata nell'appartamento
medesimo ov'erano le camere dell'Angelina e della Matilde, ma da
queste divisa dal pianerottolo della scala. Fu quella la stanza che
si destinò a Vittorio, dopo averla rimessa a nuovo e fornita in gran
parte con alcuni mobili che l'Angelina aveva portati seco e ch'ella
non adoperava. Non era la prima volta che Vittorio veniva in casa
Mauri. Orfano della genitrice in tenerissima età, egli aveva costume
di seguire il padre nelle sue frequenti escursioni, e così aveva
visitato ripetutamente la città di *** e i congiunti che vi dimoravano.
Sennonchè l'ultima sua venuta risaliva a due lustri addietro. Però
egli si ricordava benissimo della Matilde, di due anni più giovane di
lui, e della Nella che in quel tempo gli era alquanto superiore d'età
e sdegnava di mescolarsi coi piccini, e ora invece gli ripeteva con
particolare compiacenza di essere stata sua compagna negl'innocenti
giuochi infantili, quantunque a mala pena se ne rammentasse perchè era
bimba affatto. Comunque sia, Vittorio tornava presso i suoi parenti
grande di persona e tarchiato di membra, la fronte abbronzata dal sole
dei campi, il mento adombrato dalla prima lanugine, l'occhio nero,
espressivo, profondo. Lettori e lettrici, non turatevi le orecchie
per carità, se io vi dico che la sua venuta fece passare una corrente
elettrica attraverso quella nidiata di ragazze. E non perchè egli fosse
bello di virile bellezza, e gli accrescesse attrattiva la memoria dei
corsi pericoli; ma, lasciatemelo confessare, perchè egli era uomo,
era giovane. Non ribelliamoci alle leggi della vita, non cerchiamo lo
scandalo nelle più semplici rivelazioni del cuore, e per soverchio di
scrupolo non diamo all'arte l'incarico di ritrarci, anzichè creature
umane, figure velate e vaporose, che quando riescono a modo rendono
immagine di fantasmi, e, se il tocco dell'artista non è delicato,
hanno sembianza di accappatoi. Bando alle metafore! Quale di noi,
nella bella età tra i quindici e i venti, non popolò il suo mondo
ideale di leggiadre figure femminili, e se vagheggiò la gloria, e se
amò la virtù, e se si cullò nella speranza dei domestici idillî, non
evocò dal suo pensiero una donna che fosse di questa gloria compagna,
di questa virtù consigliera, di queste gioie casalinghe ministra? E
quale di noi al fruscìo di una veste, al disegnarsi di un'elegante
persona fra i crepuscoli della sera, non sentì un battito arcano che
gli fece amare la vita? O colpito per via da una di quelle apparizioni
vertiginose che non mancano mai all'adolescente, perchè acquistano il
loro fascino dallo stato febbrile del suo spirito, non credette per un
istante di aver trovato l'ideale de' suoi sogni, di aver dato forma e
sostanza alle sfumature della sua fantasia? Ebbene: mettiamoci un poco
nei panni dell'altra metà del genere umano, e facciamo a noi stessi
l'onore di credere che quelle medesime creature dell'immaginazione,
che turbano dolcemente i nostri sogni, agitano anche quelli delle
nipoti d'Eva; sennonchè, mentre a noi piace vestirle di lunghi abiti
bianchi e cingerne la fronte di fiori e di veli armonicamente commossi
dagli zeffiri, esse invece s'appagano d'una acconciatura meno poetica
e forse forse danno un posticino nelle loro visioni anche al cappello
alla _Metternich_, anche alla cerimoniosa _marsina_. Noi uomini, in un
accesso di galanterìa che svela il nostro orgoglio, abbiamo esclamato:
— _L'ideale è donna_ — e atteggiandoci a tiranni persino nelle regioni
dell'arte, ci siamo dimenticati che le nostre gentili compagne potevano
proferire una diversa sentenza, e, pur lusingando la nostra vanità,
distruggere l'edificio da noi eretto con sì sicura baldanza.

Però lasciamo andare le digressioni e torniamo al nostro argomento.
Può darsi benissimo che la Nella vagheggiasse in Vittorio un marito:
nè la Matilde, nè l'Angelina vi avevano sul momento pensato. Era
senz'avvedersene che tutte e due mettevano un po' di più cura nel loro
abbigliamento; e prima del pranzo, e prima di uscire alla passeggiata,
a cui talvolta Vittorio le accompagnava, correvano frettolose allo
specchio a ravviarsi i capelli, ad aggiustarsi il vestito, e poi
vispe vispe e saltellanti scendevano la scala a raggiungere il loro
_cavaliere_. Era senz'avvedersene che l'Angelina era divenuta più
pensosa, e la Matilde avea racquistato parte dell'antica ilarità; così
diversamente operava su due cuori di giovinette l'arrivo d'un garzone
ventenne.

Vittorio era in quell'età che all'anime e agl'ingegni non affatto
volgari dona una esuberanza di orizzonti e di vita, in quell'età a
cui sorridono i sogni della gloria e dell'amore, e non v'è mèta così
sublime che il pensiero non la tocchi e non la oltrepassi. Le membra
sono giovani, spigliate, vigorose come l'intelletto, e a simiglianza
degli echi che si rispondono dalle varie parti d'una valle, le vario
facoltà dell'individuo s'intendono e armonizzano fra loro. Oggi è
voluttà senza pari arrampicarsi per l'erta d'un monte, e immobili e
con le braccia conserte ascoltare il muggito del torrente e i cento
romori della campagna: domani è fonte di entusiasmo ineffabile l'aprire
le pagine di un nuovo libro e avviarsi con un poeta amico ai dolci
pellegrinaggi della fantasia. Anni d'impazienze generose e di audaci
propositi, nei quali noi disegniamo, per così dire, il programma della
nostra esistenza, non dubitando nemmeno se ci verrà dato di mantenerlo.
Quanti sono allora che paiono grandi, e son tali davvero, perchè hanno
il sentimento delle cose belle, e nobili ed alte! Guardate un albero
al principiar della ridente stagione. Com'è largo di promesse, come
trapunto di fiori che possono divenir frutta! Si direbbe che i rami non
basteranno a reggerne il peso. Ebbene: guardate quell'albero stesso di
lì a qualche mese. Esso è grave invero e superbo del suo portato; ma
il numero delle frutta, che oggi lo fanno inchinare al suolo a guisa
d'ombrello, non può nemmeno paragonarsi al numero dei fiori che lo
adornavano a primavera. Delle frutta sperate molte non nacquero mai,
molte morirono tristamente, non si sa quando, non si sa come: un'ora
di tempesta, una notte di brina, sono le epidemìe della natura: molte
non seppero venire a maturità; o mancò loro un raggio propizio di sole,
o non ebbero forza di assorbire i succhi vitali; e si nascondono tra
foglia e foglia, pallide, rachitiche, dispettose come vecchie zittelle.
Saranno forse l'ultime che rimarranno sul ramo, perchè la morte poco
si cura di quelli che furono suoi insino dal nascere. Così è l'albero
della vita. I fiori a centinaia vi si contano nell'aprile: le frutta
belle, appetitose, mature, vi si contano appena a diecine nel luglio.
Come! di tanti che si mossero a un punto, e avevano tutti una stella
sulla fronte, un sorriso sul labbro, così pochi sono arrivati? La
morte, inesorabile mietitrice, ne ha tanti falciati sul suo cammino?
Oh! non era solamente la morte. A chi mancò l'energia dei propositi, a
chi la perseveranza contro le avversità; i più, quando videro spegnersi
la fiamma fulgidissima, ma passeggiera, che nell'alba degli anni
spande i suoi raggi per l'universo, non ebbero la virtù di accendere
la fiaccola modesta che non abbaglia, ma rischiara, che non lascia
forse indovinare in sulle prime la mèta, ma vi ci guida, segnando
di non dubbia luce il cammino. In tal guisa divennero le pallide e
tisiche frutta dell'albero, e invano, quando l'autunno farà più rare le
foglie, godranno senza contrasto il beneficio della pioggia e del sole:
l'esperienza sarà come un germe gettato sopra il duro macigno: vi si
posa, non vi s'insinua.

Noi non diremo a quale specie d'uomini appartenesse Vittorio, se a
quelli che toccano la mèta o a coloro che s'arrestano a mezza via;
chè dopo il periodo di tempo compreso in questa novella lo abbiamo
perduto d'occhio: certo ch'egli era tra i più promettenti; di fantasia
vivacissima, d'intelligenza pronta ed arguta. Sennonchè gli mancava
forse quella che gl'Inglesi chiamerebbero solidità di carattere, e
che si manifesta nella perseveranza de' propositi, nella tenacità
irremovibile in alcuni principî. Buono ed onesto, era però un tantino
incostante e leggiero, v'era un po' di fatuo ne' suoi entusiasmi,
un po' di sfumato nelle sue convinzioni. Ad ogni modo, era bello,
ardito, poetico, aveva una cicatrice sul petto, ricordanza di recenti
battaglie.... a venti anni che può desiderarsi di più? Il suo umore,
come in tutte le nature ricche, era dotato di una grande elasticità,
e passava più volte in un giorno dalla schietta giovialità a una
tal quale malinconia, che cresceva dolcezza ed espressione alla sua
fisonomia. Amava smisuratamente i versi, e aveva divorato i volumi
di quasi tutti i migliori poeti d'Europa, chè appunto per conoscere
alcuni capolavori nel loro idioma originale erasi accinto allo studio
delle lingue straniere. Versi ne faceva anch'egli, però nulla più
che mediocri, e anzi soleva alzarsi dal suo scrittoio con la fronte
annuvolata, ben sentendo come le idee gli morissero nell'inchiostro,
e la penna mal sapesse seguire la foga de' suoi pensieri. Del resto
chi non fa versi, e cattivi versi, a vent'anni? Quanto ai suoi codici,
chè Vittorio era studente di legge, egli non se ne dava troppo
pensiero, e assai più sovente vedevasi aperto sul suo tavolino un
volume del Leopardi, o del Musset, o del Byron, che non il Regolamento
di procedura penale o il Trattato di diritto romano del celebre
professore.... Molto spesso, dopo essersi quasi addormentato sopra
uno di que' grossi e sapientissimi libri, balzava dalla seggiola e
si recava nella stanza dell'Angelina, ove a certe ore convenivano la
Matilde e l'Amalia. L'Angelina era per solito al suo pianoforte, tutta
intenta in qualche musica nuova, e quella bricconcella dell'Amalia le
sedeva a fianco sopra un trespolo, facendo di tratto in tratto scorrere
le sue piccole dita sui tasti, con certi suoni scordati ch'era uno
spasso a sentirla; mentre la Matilde ricamava accanto alla finestra.
All'entrare di Vittorio, che, confessiamolo, amava meglio che gli altri
badassero a lui che non di badare agli altri, le due ragazze smettevano
le loro occupazioni, e anche l'Amalia lasciava in pace i tasti del
cembalo, e il giovane non si faceva pregare a declamare qualche strofa
o a narrare qualche avventura della sua campagna. Non sarà stato tutto
oro di zecca, ma perchè egli aveva l'arte del porgere, e poichè de'
rischi ne avea corsi davvero e ne avea toccata una buona ferita, le
fanciulle pendevano dalle sue labbra e lo tempestavano di domande. Ed
egli si compiaceva di tener viva la curiosità delle cugine, e l'affetto
destato in due leggiadre ed ingenue giovinette gli accresceva valore
ai suoi proprî occhi: era il mirto che s'intrecciava all'alloro.
Poi, diciamo le cose come sono, egli era soddisfattissimo che quelle
ragazze fossero due, invece di una sola. Non aveva intendimento nè di
sedurle, chè l'onestà del suo animo rifuggiva pur anco dal pensiero di
tale infamia; nè di sposarle, chè troppo gli era cara la sua libertà,
e troppo sentivasi alieno dal matrimonio. Ed egli, mostrandosi ad
un tempo cortese e galante verso di entrambe, teneva per fermo di
assicurare sè dalle tentazioni e loro dalle lusinghe, acquistandosi
intanto verso i suoi condiscepoli il vanto di giovane in grazia del bel
sesso.


VII.

Anzi un bello spirito della scolaresca lo chiamava Paride contrastato
dalle tre Dee, mettendo nel conto anche la Nella, che vi si sarebbe
acconciata assai volentieri, ma ch'era proprio fuori di combattimento.
Il suo sentimentalismo non aveva fatto che destare l'ilarità di
Vittorio. Gli piaceva in Matilde la franca giovialità del carattere,
in Angelina l'indole riflessiva e dolcemente meditabonda; ma la Nella
con que' suoi sospiri e quella sua facilità alle convulsioni gli
pareva in ritardo di un secolo. Era una provinciale che aveva preso
le mode della città cent'anni dopo che la città se n'era scordata,
una cameriera svenevole dei tempi di Luigi XV, trapiantata non si sa
come in mezzo al secolo XIX. La signora Clara che, come si è visto,
aveva una predilezione speciale per la sua primonata, non sapeva
darsi pace che il gusto degli uomini si fosse pervertito in guisa da
non apprezzare tanta squisitezza di modi e di sentimento, e le si
accresceva ognor più quel superbo disprezzo del mondo e dei tempi,
col quale ella confortava da un pezzo i disinganni amorosi della sua
Nella. E in verità, aver dato a una propria figliuola un nome così
romantico, e vederla costretta a sfogare la sua poesia in un eterno
monologo, è cosa da far venire la stizza anche a persone più tranquille
e assennate che non fosse la signora Clara. Chi subiva gli effetti
di queste beghe domestiche era pur sempre la Matilde; chè l'Angelina,
sebbene la più docile, e buona, e rimessa fanciulla del mondo, aveva
nell'aspetto e nei modi una certa quieta dignità, che faceva morire
sul labbro le rampogne e i sogghigni. Ahi! la Matilde non poteva più
dimenticare la freddezza materna nelle festose carezze del padre.
Fin da quando ell'era piccina, allorchè la sua mamma la sgridava,
ella scendeva in banco, ed era certa di veder farlesi incontro tutto
sorridente e amorevole il suo buon genitore, che la teneva seco e le
dava da scartocciare de' vecchi campioni, non senza visibile scandalo
del signor Menico, l'antico commesso. Ella metteva ogni cosa sossopra,
e più d'una volta il rispettabilissimo signor Menico, mentre stava
per intestare in bella scrittura rotonda le partite del suo registro,
mordendosi il labbro inferiore e facendo fare due giri in aria alla
sua penna d'oca, come uccello carnivoro che svolazza intorno alla
preda, ebbe a ricevere un urtone al gomito che gli scompose le idee,
e nel luogo delle cifre meditate mise una larga macchia d'inchiostro.
Erano dolori terribili pel signor Menico, ma la bambina dava in uno
scroscio di risa, e suo padre, pur rimproverandola, non poteva a
meno di parteciparne la ilarità. E adesso il banco era deserto e la
polvere si ammonticchiava sui vecchi scaffali, e ii librone, testimonio
delle arditezze calligrafiche del signor Menico, era chiuso forse per
sempre. Il povero signor Bernardo, nè abbastanza rassegnato contro le
ingiurie della fortuna, nè abbastanza energico da trovarsi nuove fonti
di lucro, menava la più misera vita che idear si possa. Errava senza
riposo di stanza in stanza, pallido, taciturno, con gli occhi bassi
e con le guance infossate: ora prendeva sulle ginocchia l'Amalia, ora
saliva nella cameretta della Matilde, ora moveva incontro all'Angelina,
quando il passo svelto e spigliato di lei facevasi sentire su per
le scale, ora infine mettevasi a sedere nel salotto da pranzo, ove
lavoravano sua moglie e la Nella; ma dappertutto lo inseguiva una cura
assidua e molesta. Così la Matilde, sola gran parte della giornata,
fatta segno all'ironia di sua madre e della sorella maggiore, non
vedendo da un lato che malignità, dall'altro che malinconia, sentivasi
oppressa dall'atmosfera in cui viveva. L'Angelina glielo aveva
susurrato più volte all'orecchio. — Conveniva ch'ella desse uno scopo
alla sua esistenza, conveniva ch'ella dicesse: — Io mi sacrifico
per rendere meno amari gli ultimi giorni del padre mio. — Invece di
starsene immobile a subire rampogne immeritate, tentasse anch'ella
di render proficua la sua educazione, cercasse lezioni di ricamo;
ella, l'Angelina, gliele avrebbe procurate, e stesse pur certa che
sua madre avrebbe finito col darsene pace. Forse, chi sa? l'esempio
della figliuola avrebbe rianimato anche il signor Bernardo; forse la
Matilde, divenuta utile, operosa, avrebbe potuto dirgli quelle parole
che l'Angelina non aveva diritto di proferire, avrebbe potuto ravviarlo
sul cammino dell'attività e del lavoro.... — La Matilde ascoltava
con affetto, con entusiasmo quasi, le ammonizioni della cugina, e
intendeva la saggezza de' suoi consigli e proponevasi di seguirli;
ma poi il pensiero delle difficoltà l'arrestava, e ricadeva scorata
nelle sue irresolutezze. Ella non voleva confessarlo a sè medesima,
ma pure un'altra idea meno generosa andava facendosi signora del suo
spirito; quella di uscire più presto che fosse possibile di casa sua,
di entrare in una nuova famiglia. Ognuno di noi ha un limite, oltre al
quale non giunge la sua potenza d'annegazione e di sacrifizio; finchè
non si tocchi quel punto, l'esercizio della virtù riesce facile e
dolce, e male acquista rilievo la diversità dei caratteri. Un'esistenza
tranquilla, dalle pacate commozioni e dai placidi affetti, avrebbe
reso malagevole al più acuto osservatore di giudicare se fosse maggiore
la bontà dell'animo in Angelina o in Matilde: erano entrambe piene di
simpatia per gli altrui dolori, entrambe create ad intendere la soavità
dell'amicizia e la consolazione di ricambiate confidenze. Sarebbero
state tutte e due ottime spose, ottime madri. Ma non bastava! La sorte
imponeva di più, e qui si fece palese la diversa tempra dell'animo
loro. L'Angelina resse alla prova; la Matilde lottò, lottò, e quindi
si lasciò trascinare dalla corrente. Accade poi, che chi tenia un
sacrifizio maggiore delle sue forze, se non gli vien fatto di compirlo,
subisce per rimbalzo una specie di reazione, che lo fa più sollecito
di sè stesso, men curante degli altri. Questa mutazione operavasi
lentamente in Matilde. Poichè s'avvide di non poter seguire gli esempi
e i consigli dell'Angelina, di non potere al pari di lei sfidar la
resistenza della famiglia, e i pregiudizî del mondo, e la fatiche
d'una vita affannosamente operosa, ella, senza saperlo, si ripiegò su
sè medesima, e cedette alla cura del proprio avvenire. Un sentimento
naturale alla sua età ed al suo sesso erasi impadronito di lei fin
da quando venne in casa Vittorio. Non era un sentimento tranquillo
come l'amicizia, nè febbrile come l'amore: era quel non so che di
vago e sfumato, che a vent'anni avvicina i giovani alle fanciulle e
le fanciulle ai giovani: era quella specie di crepuscolo ch'è ad un
tempo tramonto ed aurora, perchè in esso volge al suo termine l'età
ingenua e fidente, e sorge l'età delle gagliarde commozioni, ricca di
ebbrezze e di disinganni. Ed ora, dopo alcuni mesi che Vittorio le
stava dappresso, la giovinetta sentiva farsi ogni dì più tenace il
vincolo di simpatia che la legava all'ospite suo; e già le balenava
al pensiero di poter nel lontano avvenire associare la propria sorte
alla sorte di lui e diventare sua sposa. Oh! un cervellino di donna
va rapidissimo nelle sue immaginazioni.... Quanto a Vittorio, egli si
era messo a un giuoco assai imprudente. Per la vanità di farsi credere
ben accetto a due ragazze leggiadre ed oneste, egli aveva usato verso
le due cugine quei modi che, se non toccano i limiti della passione,
oltrepassano quelli della cortesia; aveva sperato che, corteggiandole
entrambe, nessuna delle due avrebbe preso troppo sul serio la cosa,
ed ora trovavasi al punto, che l'una lo vagheggiava già per marito,
e l'altra.... oh! entro il cuore dell'altra era ben più difficile
di leggere! L'Angelina non sapeva forse ella stessa veder chiaro nei
suoi affetti e nei suoi pensieri.... Pure la sua pace se n'era ita....
E perchè? Era forse una passione irresistibile che l'attraeva verso
Vittorio? — No. — Le aveva egli parlato d'amore? — Schiettamente mai.
— Erasi egli servito con lei di espressioni diverse da quelle ch'egli
usava con la Matilde? — Nemmeno. — Ad ogni modo era un fatto che certi
discorsi preferiva farli a lei anzichè alla cugina. Con la Matilde
rideva più spesso, è vero, e se nelle passeggiate del dopo pranzo la
volubile fanciulla, abbandonandosi a un accesso d'infantile allegria,
si metteva a correre per la campagna, egli la inseguiva scherzoso, e
cogliendo un fiore del prato glielo intrecciava nei bruni capelli. Con
lei invece aveva più di riserbo. Ma a lei amava discorrere dei suoi
studî e declamare i suoi versi; a lei più volentieri parlava della
sua casa e dei ricordi della sua infanzia. Con che minuta diligenza le
descriveva le varie parti della sua tenuta, le vaste praterìe irrigate
artificialmente, i vigneti che rivestivano il pendìo meridionale della
collina, i gelsi piantati attorno al verziere; le ampie sale, ove il
filugello compieva le maravigliose trasformazioni; l'uccellatolo, in
cui passava lunghe ore insieme con suo padre; la cascina, nella quale
era un moto, un andirivieni continuo, e le villanelle, cantando a
piena gola, preparavano i solidi pani di burro, che poi recavansi a
vender sul mercato della città. Un giorno Vittorio, nel chiudere il
suo discorso, disse sospirando: — Sapete che cosa ci manca alla bella
tenuta di mio padre? Ci manca una donna ordinata, operosa, che tenga
le redini delle faccende, che si occupi un poco più de' coloni, che
pensi alla loro educazione, al loro avvenire. Mio padre è un uomo
angelico, ma è soprattutto un uomo d'affari, e certe cose non gli
vengono in mente.... oh! se fosse viva la mia povera mamma! Io avevo
sei anni quando l'è morta, e me ne ricordo come d'un caro sogno:
eppure ho presente un giorno che mi condusse seco alla scuola da lei
istituita pei figliuoli dei contadini.... Era in una sala terrena della
fattoria, era il giorno degli esami: ella vestiva un abito di lana
color cenere, a un dipresso come il vostro, e non aveva altro ornamento
che una dalia rossa nei capelli.... Com'era dolce il suo aspetto,
come insinuante la sua parola, come affettuoso il suo sorriso! Que'
piccini la guardavano con un misto di venerazione e di tenerezza, ed
io, seduto a' suoi piedi.... oh! me ne rammento come se fosse oggi....
provavo un senso d'orgoglio, che non sapevo spiegarmi. Ella morì poco
dopo, e fu un lutto profondo in tutta la villa. Ogni casolare ne pianse
come di affanno domestico, chè più non si vide nei giorni del dolore e
della malattia una pallida e bionda persona venirne ministra di soavi
conforti, e più non s'udì una voce amorevole intenta ad estirpare i
mille pregiudizî delle ignoranti contadinelle. La scuola rimase aperta
ancora per qualche tempo, ma nessuno più invigilava, acciocchè i
bambini la frequentassero, e in pochi mesi rimase deserta e fu chiusa.
La memoria della donna esemplare vive però tuttora nell'animo di
que' fidi coloni, e non si può parlarne senza spremer loro le lagrime
dagli occhi.... — Ed erano lagrime sincere quelle che versava Vittorio
nel rammentare sua madre perduta da sedici anni. L'Angelina, orfana
anch'ella, mal poteva frenare la sua commozione. Pure quelle confidenze
le lasciavano un senso d'infinita dolcezza nell'animo: ella le serbava
gelosamente come si serba un tesoro, come si educa un fiore, nè v'era
dono al mondo che più di questo potesse esserle caro. Così almeno ella
pensava. Però una sera Vittorio, tornando a casa, portò un cartoccio di
chicchi all'Amalia, una polka nuova alla Nella, un mazzolino di gaggìe
alla Matilde e una dalia rossa all'Angelina. Tutti sorrisero di questo
singolare presente, ma l'Angelina si fece color di porpora, e si ritirò
nella sua stanza, mettendo la dalia in un bicchier d'acqua sopra il suo
tavolino. E immobile, e senza parola, seduta dinanzi a quel fiore, con
la mano sinistra abbandonata sulle ginocchia, e premendo con l'indice
della destra il labbro inferiore ed il mento a guisa di chi sta
meditando, si lasciò andare ai voli arditi della fantasia. E si ricordò
dei colloquî avuti con Vittorio, e di quanto egli le avea detto circa
il suo podere, e della dalia rossa che adornava, sedici anni addietro,
i capelli della madre di lui, e del bene che una donna, ordinata,
operosa, potrebbe fare nella vasta tenuta, e per un istante le venne
l'idea di essere ella medesima l'angelo tutelare di quei luoghi, di
prendere il posto della genitrice di Vittorio, tanto desiderata e
compianta.... Stolta ch'ell'era!... Vittorio godeva d'ogni agiatezza,
ed ella non possedeva che una tenue sostanza.... Vittorio, bello,
giovane, elegante, ben d'altro curavasi che di farla sua sposa. Pure
egli avrebbe fatto assai meglio a non recar con sè quella dalia!...


VIII.

Due giorni dopo, una delle migliori discepole dell'Angelina la
trascinava quasi a forza in un suo luogo di villeggiatura, poco
discosto dalla città, affinch'ella vi passasse una settimana.
L'Angelina non soleva accettare nessuno de' mille inviti che le erano
fatti: ma questa volta le istanze furono sì vive, che il rifiuto le
sarebbe parso troppo scortese. La famiglia della sua amica villeggiava
in una tenuta con vaste adiacenze, e nel visitarne lo varie parti
l'Angelina corse tosto col pensiero alla descrizione che dei suoi
poderi le avea fatta Vittorio. Anche qui v'erano le ampie praterie
cinte da lunghi filari d'alberi, anche qui le sale spaziose per
l'allevamento del baco da seta, anche qui la cascina col continuo
andirivieni delle gaie contadinelle. E quella vita sempre operosa,
eppur sempre tranquilla, della campagna le piaceva fuor di misura, e
senza volerlo ella andava dicendo a sè stessa, che ove si fosse dato
il caso improbabilissimo che si avverasse un certo suo sogno, avrebbe
avuto campo di far mostra della sua attività e delle sue abitudini
massaie. Allorchè queste idee le frullavano pel capo, ella diventava
riflessiva e meditabonda, e la sua scolara, vispa fanciulla di 14
anni, che le faceva da Cicerone, e ora la conduceva nel tepidario, ora
sulle sponde della riviera artificiale che attraversava il giardino,
ora nel boschetto d'acacie che fronteggiava la strada maestra, non
sapeva intendere la distrazione di lei e delicatamente gliene moveva
rimprovero. Ella risentivasi a guisa di chi si desta di balzo, e
sorrideva delle proprie fantasie. Pure quei pochi giorni le trascorsero
rapidissimi e deliziosi. Alla vigilia della sua partenza, il fattorino
della posta le recò una lettera della Matilde, che le mise nell'animo
una curiosità mista d'inquietudine. La lettera suonava così:

  «Angelina mia cara,

«Vo contando le ore e i minuti che passeranno prima del tuo ritorno,
giacchè puoi immaginarti che vuoto ci sia in casa nostra quando ci
manchi. Ho visto il povero babbo bussare due volte all'uscio della tua
stanza, non ricordandosi più della tua assenza, e venirne via tutto
sconcertato. Egli ti tiene in conto di sua figliuola.

»E di me che dovrò dirti, cara Angelina? Sai ch'io ti voglio più bene
che a una sorella, e per questo serbo a te la prima confidenza d'una
grandissima novità.... una confidenza che non ebbero da me nè il babbo,
nè la mamma, nè nessuno al mondo. È vero che fo fondamento sul tuo
aiuto!... Sei stata tante volte il mio angelo tutelare, che tal sarai
certo una volta di più. Debbo dirti di che si tratta?... Ma no, ma no.
Vi sono cose che vengono più facilmente sul labbro che sulla penna.
Dunque a domani.

»Io non so se mi sia malinconica o allegra. È un misto curioso. Ora
vedo tutto bello, ora grossi nuvoloni mi passano innanzi agli occhi,
e mi viene una gran voglia di piangere. Quando tu mi sarai vicina,
prenderò da te un po' di quella calma, ch'è tanto necessaria allo
spirito.

»L'Amalia e il babbo ti mandano un bacio. La mamma e la Nella sono
sempre un pochino bisbetiche, ma ci vuol pazienza.

»A domani: fa di essere a casa per l'ora del pranzo.

»Un abbraccio

                                                          _dalla tua_

                                                            MATILDE.»

L'Angelina lesse e rilesse il singolare messaggio, sperando di trovarne
la chiave. Quale poteva essere questa gran confidenza, di cui la
Matilde serbava a lei le primizie? Era certamente un segreto del cuore,
era una passione amorosa. Ma per chi? Qui l'Angelina andava contando
sulle dita i giovani di qualche intrinsechezza con la Matilde; ma,
con sua grandissima noia, quando aveva portato l'indice della mano
destra sul pollice della sinistra e contato _uno_, non le veniva
fatto di andare più innanzi. E quell'uno era Vittorio. Dio buono! Di
tanti uomini che vi sono al mondo, doveva essere proprio Vittorio il
prescelto? E l'Angelina ritornava da capo, e si sforzava di richiamare
alla sua fantasia i nomi di tutti gli uomini al disotto dei trent'anni,
che aveva visti in casa Mauri; ma o non le venivano a mente, o li
ritrovava tutti inferiori a Vittorio. Però chi rassicurava che, ne'
sette giorni della sua assenza, la Matilde non avesse conosciuto
qualcuno, e non si fosse accesa subitamente di questo _incognito_?
Era una meschina scappatoia: pur l'Angelina facea di tutto per esserne
soddisfatta, e si infastidiva de' dubbî che ad ogni momento tornavano a
darle travaglio.

Il giorno appresso i suoi ospiti la fecero ricondurre in città in una
sontuosa carrozza, e adagiata sovra i morbidi guanciali di essa ella
lasciava libero il volo alla sua fantasia, e inebbriavasi ne' sogni
d'una felicità senza nube. Ma di tratto in tratto le si oscurava la
fronte come per cura molesta, e allora traeva dal taschino del suo
vestito la lettera della Matilde, e ne pesava ogni riga ed ogni parola,
cercando se di là donde le era venuta l'inquietudine, potesse venirle
il conforto. Fatica gettata: quel foglio non diceva nulla di più, e le
nuove letture non facevano che dar esca al fuoco.

Giunta in città, la prima persona ch'ella vide fu Vittorio. Egli
tornava a casa per l'ora del pranzo, e il romore delle ruote, e il
calpestio de' cavalli che s'appressavano, lo fecero trattenere un
istante sulla porta. Quando ravvisò l'Angelina, la sua fisonomia
manifestò il piacere grandissimo ch'egli aveva di rivederla, corse
sollecito ad aprir lo sportello della carrozza e con ambe le mani
l'aiutò a scendere.

— Finalmente siete ritornata.

— Finalmente? Se la mia assenza dura appena da una settimana!

— Ebbene: perdonate ai vostri amici, se loro è parsa tanto lunga. —

L'Angelina si fece rossa: pur quell'accoglienza la rendea giubbilante
e dissipava i suoi dubbî. Ascese frettolosamente le scale, e sul
pianerottolo trovò la Matilde e l'Amalia che le saltarono al collo,
baciandola e ribaciandola con vivissimo affetto. Volse alla Matilde uno
sguardo scrutatore, ma quella, portando l'indice al labbro, le accennò
che tacesse. Ricambiati i saluti col resto della famiglia, e in ispecie
con lo zio che l'abbracciò teneramente, salì un istante nella sua
stanza a mutar di vestito e a ravviarsi i capelli. Sul davanzale della
finestra, e precisamente tra i vetri e le persiane, vide un bicchiere
con entro la dalia che le aveva regalata Vittorio nove giorni addietro.
La dalia non è de' fiori che appassiscano più presto, ma quella lì, che
stava da una settimana nella medesima acqua, può immaginarsi se fosse
languida ed avvizzita. Pur non le bastò il cuore di gettarla via, la
prese delicatamente fra le dita, la mise in una tazza d'acqua fresca
che era sul tavolino, e stette qualche minuto a contemplarla. Poi diede
un'altra occhiata allo specchio, e scese nel salotto da pranzo. Dopo il
desinare, che trascorse più silenzioso del solito, e durante il quale
le diede argomento di novella inquietudine l'imbarazzo dei commensali,
e in ispecie di Vittorio e della Matilde, ritornò nella sua stanza,
seguita dalla cugina, e, non senza mostrare nella voce e nel gesto una
certa commozione, sedette presso di lei alla finestra a ricevere la
confidenza del suo segreto.

La Matilde, come accade sempre in tali casi, era tutta confusa e non
trovava la via di principiare: eppure era dinanzi alla sua amica,
alla sorella del suo cuore. Finalmente fece uno sforzo supremo, e con
mille perifrasi, e chinando il capo, e arrossendo, proferì la solenne
parola. Ella amava Vittorio. Da quando? Non saprebbe dirlo: forse dal
primo giorno che lo vide. Come se n'era accorta? Nemmen questo sapeva:
quell'amore le si era insinuato dolcemente nell'anima, l'aveva cinta
d'una rete invisibile, ed ora ella lo sentiva, nessun altro partito
le rimaneva che quello di subirne le leggi. E del resto perchè avrebbe
dovuto sottrarvisi? era forse indecoroso questo suo affetto? No, cerio.
O forse il gelido soffio del disinganno minacciava distruggere le sue
speranze? No, il cuore le diceva ch'ella era riamata.

Mentre la Matilde parlava, l'Angelina erasi fatta bianca come la
pezzuola che teneva alla bocca e che andava logorando coi denti: a
guisa di nuvole varie di forma e di tinta, che passano rapidissime
sopra un cielo tempestoso, le sensazioni più diverse s'erano dipinte
sul suo pallido volto. Sennonchè la pietà naturale alle anime gentili
come la sua prevaleva agli opposti affetti, e atteggiava la sua
fisonomia ad una espressione malinconica, eppur rassegnata, a un
cordoglio profondo, eppure scevro di acrimonia e di rancore. Però alle
ultime parole della Matilde le sue guance si colorarono lievemente, gli
occhi, volti a terra ed immobili, si sollevarono con trepida ansietà, e
con voce tenue ed incerta ella chiese:

— Ma quali prove hai tu del suo amore? —

Allora la Matilde cominciò una minuta descrizione di tutto ciò che
s'era passato fra lei e Vittorio sino dal giorno dell'arrivo di lui in
casa, e gli sguardi ricambiati, e le parole del giovane ora scherzose,
ora serie, ma sempre più che cortesi, e certe sue delicate attenzioni
che con le persone indifferenti certo non si usano, e di cui invece
egli era prodigo verso di lei. E disse come nell'ultima settimana
egli le si era mostrato più gentile che mai, e come l'aveva difesa
vivacemente in uno sciagurato diverbio nato una di quelle sere tra lei
e sua madre e sua sorella, e come essendosi ella rivolta a lui tutta
commossa e avendogli chiesto — _Mi proteggerete voi sempre?_ — egli le
avesse risposto — _Sempre_, — e strettale la mano con tanta effusione
che un senso ineffabile di voluttà le avea ricercato tutte le fibre.
Queste cose ella andava raccontando, ed altre che forse erano inezie,
ma che sommate insieme non facea maraviglia se aveano turbato il suo
cuor di fanciulla.

L'Angelina, che in sul principio pareva racconsolata, vedendo che
non si trattava di una seria e formale dichiarazione d'amore, ma
solo di comuni galanterie, era a poco a poco ricaduta nel primiero
abbattimento. Vittorio, ben è vero, non aveva detto nulla d'esplicito
alla Matilde: ma a _lei_ che cosa avea detto di più? Con qual titolo,
con qual diritto poteva ella opporsi alla felicità dell'amica? Forse
perchè Vittorio in un momento d'espansione le aveva regalato un flore,
forse perchè le aveva sorriso al ritorno, o perchè le aveva declamati
i suoi versi, o perchè le avea confidato le cure e i dolori della sua
fanciullezza? O doveva ella architettare un inganno per disingannare la
Matilde, e sforzare le tinte, e dir ciò che non era? O con un eccesso
di franchezza strappare il velo che nascondeva a lei medesima i segreti
del suo cuore, e proclamarsi amante di Vittorio e dichiarar guerra alla
sua rivale? Ciò rifuggiva affatto dal carattere dell'Angelina. Ella era
energica sì, ma solo nell'effettuazione del bene; operava risolutamente
quelle cose soltanto, della cui bontà non avea dubbio alcuno
nell'animo. E poi troppo era aliena dalle violente manifestazioni de'
suoi sentimenti. Per lei anche la passione più viva doveva avere la
sua verecondia e non fare sfoggio di sè agli occhi del mondo. Inoltre
quello ch'ella soffriva le facea presupporre ciò che avrebbe sofferto
la Matilde in condizione uguale alla sua, ed ella, avvezza alla parte
pietosa del Cireneo, non sapeva risolversi a far pesare sovra un'altra
i proprî dolori.

Pur non si ristette dall'ammonire la Matilde. — Bada — le diceva — di
non t'illudere, di non fabbricarti un mondo che svanisca ad un soffio
come una bolla di sapone. Gli uomini, vedi, si trastullano molte volte
con noi, ci pigliano per il passatempo di una giornata, d'un'ora, e
mentre, senz'accorgersene forse, gettano nel nostro cuore il seme d'una
di quelle passioni che durano tutta la vita, pensano a nuove galanterie
e a nuovi trionfi.

— Oh! no, — sclamava la Matilde interrompendola; — sarebbe troppo
crudele. Vittorio non può esser fatto così.... Oh! quando tu la
proverai, Angelina, quando tu la proverai questa febbre d'amore (chè
non devi sperar di scamparne, bella e seducente come tu sei), quando
uno sguardo appassionato t'avrà fatto battere il cuore d'un battito
nuovo, t'avrà aperto lo spiraglio di non più visti orizzonti, oh!
allora tu intenderai che cosa sia il timore di veder dileguarsi ad un
tratto tutte le proprie speranze... Oh! non dev'essere permesso. Ci
dev'essere una legge del cuore che lo vieta agli onesti.... E Vittorio
è onesto, sai.... —

E così dicendo si mise una mano sugli occhi rattenendo a stento i
singhiozzi.

L'Angelina le si fece più presso, e, curvata innanzi sulla seggiola di
lei, rimosse dolcemente quella mano che le facea velo alle pupille, e
la guardò fisa, e con un accento pieno di tenerezza le chiese:

— Ma l'ami tu veramente? —

— Oh! se l'amo! — rispose la Matilde unendo le palme, e levando gli
occhi al cielo. E soggiunse, a compire le rivelazioni che lo aveva
fatte prima: — Senti, Angelina, io in questa casa non ci posso più
stare. E dal dì che Vittorio mi lasciò intravvedere la sua simpatia per
me, una speranza dolcissima mi si pose nell'anima, quella d'uscire di
qui, ove mi si vuole inutile e uggiosa, per entrare in una famiglia ove
potrò farmi amare, ove potrò esser buona a qualcosa. Le tue virtù io
non le possiedo; io non sono al pari di te un angelo di rassegnazione
e di sacrifizio.... Qui divento cattiva, ma se Vittorio mi farà sua,
se mi sarà consentita la nobile attività della madre di famiglia....
oh! te lo giuro, Angelina, che mi ricorderò del tuo esempio, e sarò
degna di te.... Tu m'aiuterai a correggermi de' miei difetti, Angelina,
tu mi trarrai da quest'angoscia, non è vero? tu parlerai a Vittorio,
gli dirai quello ch'io soffro.... Non negarmelo, Angelina mia; le tue
parole possono avere un gran peso, perchè se v'ha persona ch'_egli_
stimi grandemente, tu sei quella.... Oh! se si compissero i miei sogni,
— soggiunse quindi nell'atto di chi segue un'idea vagheggiata dalla
fantasia, — potremmo esser tutti felici! Sì: perchè tu verresti a stare
con noi, ed io vorrei usarti un'ospitalità da regina per renderti in
parte almeno il bene che tu m'hai fatto.... Ma, che cos'hai, Angelina,
che piangi così?... —

E infatti l'Angelina piangeva. Aveva frenato la sua commozione nel
ricevere la confidenza d'un amore che dissipava tante sue dolci
speranze, aveva serbato la calma, mentre la Matilde la scongiurava di
parlare a Vittorio in favore di lei; ma quando la inconscia fanciulla
venne ad offrirle l'ospitalità nella futura sua casa, sentì scoppiarsi
il cuore e inondarsi il viso di lagrime. Temè d'essersi tradita, ma per
buona ventura la Matilde aveva pigliato la cosa in tutt'altro senso, e
le disse:

— Tu sei commossa, Angelina, sei commossa per me, non è vero? — E
così dicendo s'era abbandonata fra le braccia della cugina, e le due
giovinette piansero insieme. L'Angelina ruppe il silenzio la prima.

— Acquetati, Matilde, prendi un po' di riposo; domani riparleremo
a miglior agio, ora è tardi, io sono un po' stanca.... a domattina,
sai....

— Ma dunque non mi prometti nulla? Vuoi abbandonarmi?

— Oh! Matilde, dubiteresti di me?

— Giammai, giammai, — rispose la Matilde con un accento convinto, che
scosse profondamente l'Angelina.

In quella sonarono le dieci; chè il colloquio delle due giovinette
aveva durato più di quattr'ore, e, senza che se ne avvedessero, le avea
sopraggiunte la sera. Era una bella e limpida notte di agosto: l'aura
olezzante di caprifoglio e d'acacia entrava per le finestre spalancate,
la luna nel pieno suo disco tenea luogo di ogni altra face. Le due
ragazze si alzarono in silenzio, e l'Angelina, ch'era un po' all'ombra,
tenea fise le pupille nella Matilde, il cui volto era rischiarato
dalla luce fredda e scintillante ad un tempo che inondava la stanza. Ed
era egli realmente un effetto di luce che la trasfigurava così, o era
il soffio creatore della passione? L'Angelina non l'aveva mai veduta
sì bella, e, tali sono le contraddizioni del cuore umano, ella, già
quasi deliberata all'estremo dei sacrificî, pur tremava che Vittorio
entrasse in quel punto e fosse colpito dalle grazie peregrine della sua
rivale. La ricondusse fino alla soglia e poi si trascinò al suo letto,
come glielo concedevano le forze stremate e lo spirito agitatissimo,
e si gettò boccone sulla sponda celandosi il volto fra le mani, e
tentando raccogliere i suoi pensieri. Ma non le venne fatto, e si alzò
nuovamente, e si approssimò alla finestra per prendervi una boccata
d'aria: guardò il cielo limpidissimo e la campagna rischiarata dalla
luna e la tremula striscia del fiume che si perdeva nella pianura, udì
il sibilo acuto della strada ferrata che solcava i campi lontani, e
il gracchiare della stridula cicala tra le foglie degli alberi, e il
gemito amoroso della colombella sotto la gronda ospitale, aspirò il
profumo dei fiori che confidano alla notte i loro segreti, sentì il
concerto armonioso che governa il creato, e non sorrise, e non pianse,
e non disse parola. Poi si staccò dal balcone come se vi soffocasse,
e rientrando nella stanza urtò col gomito nel tavolino: qualche cosa
ne cadde e si ruppe. Si chinò al suolo e la sua mano toccò frantumi
di vetro ed un fiore. Era appunto la dalia, a cui ella poche ore prima
aveva voluto prolungar l'esistenza, era la dalia che a lei significava
amore e speranza. L'Angelina non era superstiziosa, ma le parve che
quella tazza in frantumi, che quel fiore caduto, volessero dirle: —
Destati: il tuo sogno è finito. — Rizzossi in piedi, e stette qualche
minuto a contemplare gli avanzi della sua cara illusione, come si
contemplano le rovine d'un antico edifizio; indi si lasciò cadere sopra
una seggiola, e proruppe in dirottissimo pianto. In quel punto s'intese
qualcuno salir con rapido passo la scala, zufolando uno de' più
popolari motivi del _Ballo in maschera_. Era Vittorio che ritornava dal
teatro. L'Angelina involontariamente sollevò il capo e tese l'orecchio.
Ma non sentì altro che aprirsi e richiudersi l'uscio della stanza di
Vittorio: in un istante tutto era tornato nel silenzio di prima.


IX.

Eppure Vittorio non era un libertino volgare che si compiace del male
che fa intorno a sè: era un poco leggiero, un po' spensierato, e non
altro. Egli andava lieto di destare la simpatia delle due cugine,
e forse anco di suscitare un senso di rivalità fra di loro; ma non
supponeva nemmeno che quella simpatia dovesse mutarsi in amore, ma
credeva, ed era questo il suo inganno, che due cuori inesperti di
giovinette potessero arrestarsi a tempo sullo sdrucciolevole terreno,
sul quale egli medesimo le aveva poste. Era però tanto accorto da
avvedersi ormai dell'errore commesso, e l'avvenuto di quegli ultimi
giorni gli era stato una rivelazione. Bisognava assolutamente ch'egli,
pur rimanendo cortese, si ristesse dalle soverchie assiduità verso la
Matilde per non dar pascolo a funeste illusioni. O forse non sarebbe
stato conveniente di venire a dirittura a una spiegazione franca e
sincera, e chiarire alla giovinetta com'egli intendeva di essere
buon amico e nulla di più? Gli balenò alla mente anche l'idea di
incaricare del delicato messaggio l'Angelina, ch'era d'indole così
buona e discreta: poi se ne ricredette, e giudicò miglior consiglio di
non appigliarsi a un troppo precipitoso partito, e di stornare invece
adagino adagino il pericolo. Finalmente si soffermò a indagare un poco
i segreti del suo cuore. In quell'arrisicato gioco d'equilibrio, a
cui s'era messo per solo istinto di giovanile galanterìa, era egli ben
certo di non avere piegato nè da una parte, nè dall'altra? Era certo
di essere così scevro d'ogni occupazione seria dell'animo, com'era
per lo addietro? In verità non faceva d'uopo d'un lungo esame per
accertarsi che nessuna passione violenta s'era impadronita di lui. Non
c'è pericolo che chi domanda a sè stesso: — Sono innamorato? — sia sul
punto d'impazzir per amore. Ma che cosa volete? Quelle due immagini
di donne, di così diversa bellezza, eppur entrambe sì belle, non gli
volevano uscir dallo spirito. E mezzo assopito com'era, cedendo alla
vanità naturale del suo carattere, gli sembrava di essere il pastore
dell'Ida in mezzo alle Dee: e quando gli passava innanzi la Matilde
gaia, espansiva, con le pupille nere e i neri capelli che spiccavano
sulla sua carnagione bianchissima, egli stava lì per darle la palma;
ma poi più contegnosa nella gioia, più composta nella malinconia e gli
occhi pieni di pensiero e d'affetto gli si affacciava l'Angelina, ed
era un fascino irresistibile che lo attraeva verso di lei. Qual fosse
la catena che vincolava la libertà de' suoi movimenti, non avrebbe
saputo dirlo egli stesso: pur libero affatto non era, pur non era
uscito della mischia senza ferita. E quanto più mulinava il modo di
rompere quei fili invisibili, tanto più il suo pensiero vi si smarriva
e le contraddizioni del suo carattere gli suscitavano mille difficoltà
imprevedute. Così nulla concludendo, finì coll'addormentarsi e col
rimandare al mattino la soluzione dell'arduo problema.

Neppur la Matilde passò la più placida notte del mondo. La repentina
violenza della sua passione le avea messo la febbre addosso, ed ella
si rivoltolava tra le coltri senza poter chiudere occhio. A' dubbî
suscitati dall'Angelina non voleva badare affatto, ma contro sua
voglia essi ritornavano a molestarla come la mosca importuna che par si
compiaccia nell'infastidirvi. Non era forse vero ch'ella aveva troppo
rapidamente aperto il cuore alla speranza, e che supponeva in Vittorio
un affetto, di cui egli non le aveva dato nessuna valida prova? E
bisognava pur venirne a capo e sapere a che cosa attenersi. Ma qui il
timore di una verità incresciosa la disanimava dal far più profonde
indagini; ed ella preferiva lasciar parlare la voce del cuore, che le
diceva: — Non è possibile ch'egli non ti ami. — Strano a pensarsi: in
mezzo a' suoi dubbî non le venne mai quello che l'Angelina potesse
amar ella Vittorio; è la più semplice ipotesi che ultima s'affaccia
allo spirito. Ma v'era anche un altro motivo che sviava la sua fantasia
da questa supposizione. L'Angelina aveva tanto avvezza la famiglia al
sacrifizio di sè, da non lasciar nemmen campo all'idea ch'ella potesse
opporsi come un ostacolo alla felicità altrui. Il mondo è fatto così.
A chi opera il bene una volta tanto piovono le lodi e le testimonianze
di riconoscenza; ma quando il praticare il benefizio diventa una
consuetudine della vita, diventa del pari una consuetudine pel
beneficato il riceverlo: non si tien conto all'uomo delle buone azioni
che ha fatto, ma si biasima acremente di quelle ch'egli non volle o
non seppe compiere: l'annegazione, che per gli altri è una virtù, per
lui è un dovere. In questa maniera, se la Matilde avesse supposto che
il povero cuore dell'Angelina osava battere degli stessi battiti suoi,
e che a lei, derelitta nel vasto universo, balenava il desiderio d'un
nuovo affetto, d'una nuova esistenza, ella non avrebbe lasciato certo
di chiamarla ingrata e cattiva. Ma non vi pensava, e del modo col quale
l'Angelina avea accolto le sue rivelazioni, accagionava la maraviglia
e null'altro, e non metteva in dubbio che in lei avrebbe trovato una
discreta confidente, un efficace strumento dell'amor suo.

Sfortunata Angelina! Ella era rimasta lungamente nella posizione,
in cui l'abbiamo lasciata, dinanzi al suo tavolino, dinanzi alla sua
tazza infranta, alla sua dalia appassita; aveva intesa, e l'era parsa
una crudele ironìa, la voce di Vittorio che canticchiava mentr'ella
piangeva, e sentiva pesarle tremenda sull'anima l'inesorabilità del
destino. Qual'era stata la sua vita da due anni in qua? Un sacrifizio
continuo d'ogni giorno, d'ogni ora, d'ogni minuto. Ella aveva diviso
il suo pane con gli altri; aveva con l'opera sua servito ad alimentare
la vanità di due donne sciocche e bisbetiche, quali erano la signora
Clara e la Nella; aveva forzato il labbro al sorriso per rasserenare la
fronte annuvolata del suo povero zio; erasi acconciata con lieto animo
alle privazioni, e mai non l'era sfuggita una parola di rimprovero,
e mai un lamento. E che ne aveva ella avuto in ricambio? Da alcuni
la indifferenza superba, dagli altri quell'amore egoista ch'è largo
soltanto di carezze e di smorfie, ch'è sempre pronto a chiedere e
restìo sempre ad offrire. Ed ora, a suggellare tanti suoi sacrifizî,
le si domandava di rinunziare alla speranza onde la vita è bella a
vent'anni, alla speranza d'essere amata! Ed era la Matilde, l'amica
sua prediletta che glielo chiedeva, come a renderle più arduo il
rifiuto, era essa che distruggeva il primo sogno di felicità ch'ella
aveva formato in due anni! Era dunque scritto lassù ch'ella, povera
sfortunata, non dovesse aspirare a cosa alcuna nel mondo, e immolarsi
sempre, e morire! Sì; un vago presentimento di morte andavasi
insinuando a poco a poco nell'animo dell'Angelina. Con l'ultimo
olocausto ch'ella si apprestava ad offrire, sentiva che le sarebbero
venute meno le forze, che la spossatezza si sarebbe resa signora di
lei. Ebbene! questo pensiero della morte, questa idea di sottrarsi per
sempre ai disinganni ed alle lusinghe, le metteva una calma infinita
nell'anima e la persuadeva, quasi senza ch'ella se ne avvedesse, alla
novella prova d'annegazione ch'era domandata al suo cuore. No; la
Matilde non avrebbe avuto a dolersi di lei: ella avrebbe soffocati i
suoi sentimenti, e quanto possedea d'eloquenza e d'affetto lo avrebbe
speso a commovere Vittorio in favore della cugina. Una risoluzione
presa, col deliberato proposito di mantenerla, ridona, almeno per
qualche istante, la calma allo spirito. Così l'Angelina, poichè si
fu acquetata in questo partito, riebbe un poco dell'antico vigore.
Benchè fosse innanzi nella notte e la luna accennasse al tramonto, e
qua e là nella campagna cominciasse a ridestarsi la vita che precede
i primissimi albori; ella chiuse le imposte, e si gettò sul letto
cercandovi il sonno. L'ospite invocato non venne, ma venne invece
quell'assopimento, che, se anche non ristora le forze, calma, attutisce
l'agitazione morale, quell'assopimento che non sospende la volontà, ma
ne diminuisce gli effetti. L'Angelina vide la luce del giorno entrare
nella sua stanza attraverso le imposte, intese come in un confuso
ronzìo l'orologio della torre vicina battere successivamente le sette,
le otto, le nove; ma la spossatezza delle membra le fece richiudere le
palpebre e voltarsi da un altro lato. Una vocina squillante la scosse
da quella specie d'incubo che la teneva inchiodata sulla coltrice. Era
la piccola Amalia che aveva messo pian piano la testa per lo spiraglio
dell'uscio, e battendo le mani con aria di infantile importanza,
proruppe:

— Ah! bellissima. Stamane mi tocca far lo svegliarino della famiglia.
La Matilde dorme, Vittorio non s'è ancora visto fuori di stanza, e
tu, che sei sempre in piedi innanzi degli altri, nemmeno ti sogni
d'alzarti.

— Sii buona, — rispose l'Angelina, che fin dalle prime parole
aveva dato segno d'esser desta; — aprimi le imposte e fa un po' da
donnina. —

L'Amalia eseguì prontissima l'ordine avuto; ma, quando l'aria e la luce
ebbero inondata la stanza, si avvide del disordine insolito che v'era,
ed esclamò ridendo:

— O che hai fatto baruffa col gatto stanotte? Guarda un po'....
un bicchiere in pezzi.... una dalia per terra che pare un pollo
spennacchiato, e tutto _sans dessus dessous_, come direbbe la mia
maestra di francese. —

L'Angelina si sforzò di far il viso ridente, e soggiunse:

— Orsù, poichè stamane sei una persona tanto assestata, metti un po' di
regola in questo _caos_. —

La fanciulla seria seria s'accinse al suo ufficio.... Rimise al posto
il tavolino e le sedie, prese fra la punta del pollice e dell'indice
i pezzi del bicchiere infranto, e li raccolse sul davanzale della
finestra; poi si pose a esaminare gravemente la dalia, e volgendosi
all'An- gelina disse:

— E questa? —

L'Angelina fece uno sforzo, poi rispose:

— Buttala via.

— Guarda, guarda, l'è quella stessa che ti regalò Vittorio tante sere
fa.... Glielo dirò io che bel fine ha fatto il suo fiore, — soggiunse
poi tra lo scherzevole e il malizioso, chè la loro malizia l'hanno
anche le bambine di nove anni. — In verità che mi par peccato.

— Oh, ma insomma — interruppe l'Angelina che in quel frattempo erasi
alzata — non vuoi più finirla? — E senza celare un po' di dispetto,
prese il fiore di mano all'Amalia e lo gettò dalla finestra.

— Ih! che furie! — sclamò la fanciulla fisando attentamente il volto
della cugina, che nella pallida tinta e nelle occhiaie infossate
serbava le tracce dell'agitazione di quella notte.

— Ma che cosa t'è accaduto? Se vedessi come sei scomposta in viso!
Parrebbe che tu avessi pianto. —

L'Angelina s'affacciò allo specchio e non potè nascondere la sua
commozione vedendosi tanto mutata: in poche ore le parve d'aver vissuto
dieci anni.

— Sono stata alla finestra sino a molto innanzi nella notte, —
diss'ella per giustificarsi in faccia all'Amalia; — l'aria era umida,
avrò preso del freddo.... Ma non perdiamo tempo in chiacchiere, aiutami
a fare un po' di _toilette_. — E sforzandosi di pigliare un tuono ilare
e disinvolto, si gettò sopra una sedia, sciogliendo le lunghe e folte
trecce de' suoi capelli che scesero giù fino a terra, e soggiunse:

— Vediamo se le tue manine son buone a dipanare questa matassa. —

Nell'età dell'Amalia ogni cosa serve di spasso, e l'impresa a cui ella
si era posta tra il comico e il serio, le diede argomento alle più
grasse risate, e lo fece lasciar da banda le sue domande sulle cagioni
del turbamento dell'Angelina.

Frattanto, nel piano inferiore della casa, la signora Clara aveva
chiamato a grave colloquio il marito. Le simpatie che s'erano
manifestate tra la Matilde e Vittorio rendevano necessario un sollecito
provvedimento. Se Vittorio fosse stato un ragazzo a modo, egli non si
sarebbe certo lasciato sfuggire un partito come la Nella, i cui pregî
di tanto avanzavano quelli della Matilde, e soprattutto avrebbe chiesto
consiglio a lei, alla madre, alla padrona di casa, verso la quale
ostentava invece così villana indifferenza. Ma Vittorio non era che un
uomo volgare: ella erasene accorta da un pezzo. Nondimeno, poichè era
ricco, e di ciò dovevasi pur tener conto, se vuole assolutamente sposar
la Matilde, che se la sposi; ma lo dica schietto e non si prenda giuoco
della famiglia che, se non per parte del signor Bernardo, almeno per
parte di lei, Clara Mauri nata Morelli, doveva essere rispettata....
E sul termine di questa filastrocca la signora Clara si lasciò cadere
maestosamente sopra una sedia a bracciuoli, facendosi fresco col
fazzoletto. Dopo pochi secondi di pausa e come a guisa di conclusione
soggiunse: — Ora tocca a voi. Dicono che siete il capo della famiglia;
dunque parlate col signor Vittorio, chè già io con quello sventato non
ci trovo gusto a discorrere, e poi venitemi a riferire il successo del
vostro colloquio. —

Il povero signor Bernardo, che nemmeno ne' suoi bei tempi era stato
un uomo di spirito, era molto meno adesso, dopo i suoi disastri
commerciali. Nondimeno il cuore gli teneva luogo qualche volta
dell'ingegno; aveva a tratti a tratti quella intelligenza del
sentimento, che è il privilegio dei buoni, e loro dà modo di non parere
ottusi del tutto. Solo nella famiglia, egli aveva un vago presentimento
della simpatia dell'Angelina per Vittorio. Quando però la signora Clara
ebbe da lui la timida rivelazione di questo dubbio, ella non rattenne
più la sua collera. E gestendo furiosamente: — Vorrei un po' vedere
— proruppe — che quella sfacciata pettegola si permettesse di far
all'amore in casa mia e di rubare i partiti alle mie figliuole. Oh!
sta a vedere che quel damerino del signor Vittorio avrà negletta una
giovane come la Nella, ed ora metterà in un canto anche la Matilde, per
far piacere a lei, alla signora maestra di musica! Non son chi sono
se non li mando fuori della porta tutti e due, ove sia vera una cosa
tale....

— Eh! per carità, — interruppe il signor Bernardo, che per quieto
che fosse non poteva a meno di essere indispettito della burbanza
della moglie, — non la prendiamo in tuono sì alto. Voi sapete meglio
di me che senza l'Angelina saremmo stati bene imbrogliati a campare:
toglieteci ora per soprassello anche la pensione che ci paga Vittorio,
e poi vi farete i vostri cappellini con la sporta del pesce.

— Che cappellini! che sporta! — sclamò fiammante di sdegno la signora
Clara, alzandosi in piedi in tutta la maestà della sua poderosa
persona. — Io che ho sacrificato la mia dote, e, ciò che più monta, la
mia gioventù, il mio spirito, il mio brio, le mie relazioni, tutto per
causa della vostra dabbenaggine. Ah! vi sta bene di prendere il tratto
innanzi e accusar me.... Avete trovato un pane per i vostri denti....
imbecille.... babbeo!... —

E senza nemmen terminare la sua perorazione uscì furibonda della
stanza, chiudendo con violenza dietro a sè tutti gli usci, siccome
era suo costume, e si recò a consolare la sua primogenita, alla quale
toccava la sorte della biblica Lia, senza speranza alcuna di trovare un
Giacobbe che la prendesse in iscambio.


X.

L'Angelina, che per quel giorno non si sentiva disposta a uscire per
le sue solite lezioni, aveva già visto la Matilde e promessole ch'ella
nel dopopranzo avrebbe parlato a Vittorio. Sarebbesi colto il momento
della passeggiata: la Matilde avrebbe fatto in guisa da rimanere un po'
addietro con l'Amalia, lasciando agio in quel frattempo all'Angelina
di costringere Vittorio a spiegarsi. L'Angelina faceva a simiglianza di
que' capitani, che, vedendosi in una posizione arrischiata, stimano non
poterne uscire che con un coraggio disperatissimo e tagliano i ponti
dietro a sè, per levarsi la tentazione di retrocedere. Dacchè le era
d'uopo sacrificarsi, ella voleva che il suo sacrifizio fosse compiuto
in maniera da non lasciarle via di sottrarvisi, nè oggi, nè domani, nè
mai. Nulla poteva meglio conferire allo scopo che il farsi ella stessa
interprete della Matilde, che il ragionare a Vittorio in favore di lei.
Ferma in questo proposito, ella si mise al pianoforte a studiarvi un
nuovo pezzo di musica, quando si bussò all'uscio della sua stanza. Era
il signor Bernardo.

— Vengo a renderti una vecchia visita, — egli le disse, prendendole
affettuosamente ambe le mani. E poichè ella lo guardava in atto
di persona che non sa raccapezzarsi: — Sì, — soggiunse, — vengo a
restituirti una visita che fu la più dolce che io mi ricevessi in
mia vita. Ti ricordi di quel giorno, in cui, colpito dalla più atroce
delle sventure che possano affliggere un negoziante onorato, e caduto
in quell'abbattimento da cui pur troppo non potei più rialzarmi, tu
venisti a sorprendermi nel mio banco, semplice, ingenua, amorevole?
Tu mi offrivi di sacrificarmi tutto il tuo avere, pur di salvare il
mio nome. Era un'illusione, ma un'illusione sublime, degna di te. Nè
tu potesti compiere il tuo olocausto, nè io lo avrei permesso: ma un
altro ne compisti, che non fu minore di questo. Tu hai immolato al bene
della mia famiglia la tua libertà, hai faticato per noi, hai diviso con
noi il tuo pane, senza che tu te ne lamentassi, senza che gli altri ti
dessero in cambio tutta la gratitudine, tutto il rispetto che meritavi.
Ma non discorriamo di ciò. Io vengo oggi a te col cuore di un padre a
farti una confidenza e una domanda. —

L'Angelina lo interruppe vivamente:

— So che cosa volete dirmi, e confido che nemmeno questa volta avrete
a dolervi della vostra nipote. Matilde ama Vittorio: ella diverrà sua
sposa.... son io medesima che me ne sono assunta l'impegno.

— Angelina, — soggiunse lo zio, guardandola con infinita tenerezza,
e congiungendo le mani come in atto supplichevole, — al suo letto di
morte mio fratello mi ti ha raccomandata con le lagrime agli occhi: di
lì a poco tua madre, in estremo di vita, mandò anch'ella a chiamarmi,
e con voce affannosa mi parlò di te e della solitudine in cui saresti
rimasta, e ti confidò alle mie cure come un sacro deposito. Io,
accettando quel legato d'affetti, m'obbligavo a provvedere alla tua
felicità, come a quella d'un'altra figliuola, a farti del mio tetto
un asilo che ti tenesse luogo dei lari domestici: ho io adempiuto
quest'obbligo? No. Se in questa casa vi furono sacrifizî da compiere,
chi più ne ha compìti? Se vi furono privazioni da soffrire, chi
più ne ha sofferte? Oh! Angelina! io lo sento: se i tuoi genitori
mi chiedessero conto di te, io dovrei chinare il capo per infinita
vergogna.

— Oh!... che dite mai, zio mio?

— Ed ora — continuò il signor Bernardo — ho il presentimento che tu
stai per compiere un nuovo sacrifizio, il maggiore forse di tutti.

— Io?... — interruppe l'Angelina, piegandosi innanzi con la persona e
cercando di padroneggiare la sua commozione.

— Sì; tu così sollecita a parlare a Vittorio in favore della Matilde,
sei ben certa di non amarlo tu stessa? —

Un fremito impercettibile le corse tutte le membra, un leggiero
incarnato le apparve sulle pallide guance, con la mano sinistra strinse
forte la spalliera della seggiola come se quel movimento convulso le
desse vigore a sostenere l'interna battaglia, e, senza dir parola, chè
non le sarebbe stato concesso in quel tumulto d'affetti, costrinse il
labbro ad un languido sorriso d'incredulità, e crollò il capo in segno
di diniego.

Il signor Bernardo proseguì: — Investiga bene il tuo cuore. Non
a Matilde soltanto Vittorio fu prodigo di gentilezze e di cure.
Con la spensieratezza dell'età sua, io lo vidi ora con l'una, ora
con l'altra di voi ugualmente cortese, egualmente sollecito: forse
non ama nessuna: forse ama te.... La Matilde, io la conosco, è più
volubile, più leggiera; un primo disinganno d'amore la farebbe soltanto
soffrire; ma tu, povera Angelina, tu sei di ben altra natura.... tu ne
morresti. —

Ciò che il signor Bernardo diceva era vero, terribilmente vero. Ma
l'Angelina aveva ormai raccolto tutte le sue forze, come il duce che
concentra i suoi battaglioni nella lotta suprema, ed ancora una volta
era uscita vittoriosa dal paragone.

— No, — rispos'ella ricomponendo il sembiante alla calma: — nè io amo
Vittorio, nè Vittorio ama me. Forse i nostri caratteri non s'intendono.
Forse egli è troppo leggiero ed io ebbi la sventura di nascer troppo
riflessiva.... Che volete?... Bisogna pigliar la gente com'è. Ve ne
supplico, zio mio, non insidiate la felicità della vostra figliuola....
Se sapeste come quel suo cuoricino s'è acceso, come la sua fantasia
corre dietro al sogno avventuroso del suo primo amore.... Vedete....
pochi minuti prima che veniste voi, ella era in questa stanza e si
faceva rinnovare da me la promessa di parlare a Vittorio.... Avrebbe
dovuto confidarsi prima a voi, a sua madre, lo so; ma, se non lo fece,
siatele indulgente.... Un'amica discreta che ha l'età nostra, che
può partecipare ai nostri sentimenti, è una gran calamita pei nostri
cuori di fanciulle. Insomma — concluse l'Angelina con una sforzata
disinvoltura — è un affar fatto, e non se ne parli più.... prendetevi
le cose in pace, Vittorio diverrà vostro genero. — E poichè le parve
che nel dir quest'ultime parole la sua voce minacciasse velarsi e una
lagrima le spuntasse sul ciglio, si rivolse vivamente con la persona
verso il pianoforte, e come se il suo discorso non fosse stato che una
lunga parentesi, tornò a correre con le dita sui tasti, ripigliando la
sonata ove l'aveva interrotta.

Il signor Bernardo non persuaso, ma però impotente a smuovere un così
fermo proposito, si alzò lentamente dalla seggiola, e appoggiando la
mano alla spalla dell'Angelina:

— Hai nulla da soggiungermi? — le chiese.

— Oh! sì!... — proruppe ella commossa, volgendo la persona e alzando il
viso verso di lui: — ho da ringraziarvi, e chiedervi un bacio. —

Il signor Bernardo si piegò sulla giovinetta seduta, e cintole
amorevolmente il capo fra le mani, la baciò più volte in fronte con
affetto infinito. Indi soggiunse: — Non vuoi proprio null'altro?

— Nulla, — ella disse con voce sicura, ma tenendo le pupille rivolte
al suolo. Il signor Bernardo, prendendola leggiermente pel mento, la
costrinse a guardarlo in viso. Ella potè ancora frenare le lagrime che
le facevano groppo nelle palpebre, e fisarlo senza tradirsi. Egli non
disse più molto, ma uscì crollando il capo e asciugandosi gli occhi
umidi di pianto.

Il successo di questo colloquio salvò l'Angelina da un'altra visita:
quella della signora Clara, che aveva già pronto il suo intervento
armato presso la nipote. E fu meglio così: chè la dolcezza dell'indole
non escludeva nell'Angelina un senso di nobile orgoglio, e ciò ch'ella
concedeva spontanea agl'impulsi del proprio cuore e alle preghiere
degli altri, mal lo avrebbe consentito a brutali comandi. Oh! ella
moveva incontro a una prova così terribile, che le faceva mestieri di
tutte le proprie forze per non restar soccombente. Ed ella il sentiva;
e dolevasi talvolta seco medesima dell'essersi profferta a ciò, che
ad altri sarebbe costato molto meno di fatica e d'angoscia. Ma un più
maturo consiglio la faceva raffermarsi nella presa deliberazione, come
la sola, che una volta messa ad effetto potesse chiudere il varco
a ogni debolezza, a ogni pentimento. Uscì di rado della sua stanza
in quel giorno, non cercò di Vittorio, che vide solo alla sfuggita
e salutò freddamente; ma s'intrattenne a lungo con la Matilde,
la quale nel trovarla così accalorata per lei aveva ripreso tutta
l'antica fiducia, tutta l'antica espansione, e andava consultandola
sul modo d'interpretare ogni parola, ogni sguardo del giovano amato.
Sennonchè, quando l'Angelina non concordava seco nelle interpretazioni,
ella si rannuvolava tutta, e le diceva: — Tu vuoi farlo apposta
per indispettirmi. — L'Angelina sorrideva allora malinconicamente,
assentendo col capo; ma l'altra, non soddisfatta nemmeno di questo
modo, prorompeva in un gesto d'impazienza: — Insomma, non istartene lì
come un automa; di' la tua opinione. — Capricci d'innamorati!

Vittorio non era così poco avvezzo all'odor della polvere da non
sentire qualche cosa nell'aria, e non intendere che quello doveva
essere un giorno di lotta. Glielo diceva un certo che di mistero in
tutti della famiglia, ma glielo dicevano in ispecie le reticenze
della Matilde, la quale pareva volesse aizzarlo a discorrere, o
piuttosto a compire le frasi ch'ella, con quell'arte sopraffina che
l'amore insegna alle fanciulle, lasciava a bello studio interrotte.
Ed egli si schermiva alla meglio, desideroso com'era di sfuggire una
battaglia campale, e di stancare le forze del nemico in tante piccole
avvisaglie. Aveva operato con leggerezza, ne conveniva; ma era ella
questa una buona ragione per lasciarsi pigliare alla rete, e diventare
un candidato ufficiale al matrimonio, egli che, fino a quel punto, di
matrimonio non aveva voluto sentirne discorrere? Mentre si abbandonava
a queste riflessioni, non supponeva nemmeno da qual parte dovesse
venirgli l'assalto più formidabile.


XI.

Nell'alzarsi da tavola l'Angelina, dopo aver fissato in volto ora lo
zio e ora la Matilde, si avvicinò a Vittorio e gli disse:

— La Matilde ed io vogliamo fare una lunga passeggiata fuori della
città: abbiamo confidato in voi per accompagnarci, e non ci mancherete,
spero, tanto più ch'io debbo parlarvi. —

Vittorio assentì con quella galante sollecitudine che gli era propria,
e l'Angelina rivoltasi allora all'Amalia:

— Verrai con noi, non è vero, se il babbo e la mamma te lo
permettono? —

La bambina tutta giubilante corse a domandare l'assenso de' genitori,
e, ottenutolo, salì in quattro salti la scala, s'acconciò il cappellino
di paglia e la mantelletta color di rosa, e fu in un batter d'occhio
nell'androne.

Di lì a pochi minuti la comitiva incamminavasi lungo il viale de'
platani, che costeggiava l'argine del fiume. Il sole volgeva lento
al tramonto; e i suoi raggi scendevano obliquamente sulla strada
attraverso i rami frondosi di quelle piante. Di tratto in tratto una
vettura passando rapidissima sollevava un nembo di polvere, e allora
uno strato grigio copriva le più basse ed esposte foglie degli alberi,
sinchè una lieve carezza di vento spazzava ogni cosa, ridonando al
verde la sua primiera vivacità. E lo strepito fuggitivo d'una carrozza,
e l'apparire a lunghi intervalli di qualche pedone affaticato,
rendevano più spiccata la solitudine ed il silenzio di quell'ora.

Vittorio s'accostò all'Angelina nell'atto di chi dice: — Sto agli
ordini vostri. — Ella accettò il suo braccio; e studiò il passo in
guisa da lasciare indietro alquanto la Matilde e l'Amalia, a cui già
questa giterella in campagna pareva inferiore all'aspettazione ch'ella
ne aveva. Procedettero alcuni istanti in silenzio, l'una ruminando
tra sè com'ella dovesse principiare il discorso, l'altro pensando che
cosa potesse uscire da siffatto mistero. L'Angelina ruppe il ghiaccio,
dicendo fra lo scherzevole e il serio:

— Sarà meglio bandire gli esordî, non è vero?

— Oh! sì, — rispose Vittorio; — veniamo pure all'argomento senza
preamboli.

— Ebbene: sia dunque senza preamboli. Voi avete sulla vostra coscienza
una colpa.

— Una colpa?

— Sì; agli occhi di molti potrà anzi parere una virtù; agli occhi miei,
agli occhi degli onesti è una colpa, e gravissima. Però, acquetatevi;
sta in voi ripararla, e — soggiunse la ragazza con un sorriso a fior
di labbro — l'espiazione è il contravveleno del peccato. Voi avete
turbato la pace di una fanciulla, al suo cuore ingenuo e fidente
avete insegnato un affetto nuovo, che se può aspirare alla dolcezza
del ricambio, è fonte di commozioni ineffabili; se deve rinchiudersi
in sè medesimo, è piaga logoratrice di tutta la vita. Oh! vi leggo
la risposta negli occhi: — Che ho io fatto per rapire la calma a
quella giovinetta? In che offesi il candore dell'animo suo? Quali
sono le parole che diedero alimento alle sue speranze? — Oh! signor
Vittorio! vi sono fra gli uomini consuetudini di libertinaggio, che
un'anima ingenua non conosce; vi sono mutue tolleranze, che un cuore
verginale non intende. Se la Matilde (ch'è inutile tacerne il nome)
vi era indifferente, perchè corteggiarla? E se una più viva simpatia
vi attirava verso di lei, in quale altro modo credevate di poterla
amare, che come si amano le oneste fanciulle? — Si fece rossa in viso,
e colta da un pensiero repentino: — Vi fa maraviglia — diss'ella — la
mia esperienza precoce. Oh! Vittorio! io non ho nè padre nè madre, sono
sola sulla terra, e la solitudine è maestra di molte cose, e non tutte
liete nè belle. La necessità ci sforza a sfuggire, conoscendoli, que'
pericoli che una mano provvida avrebbe sviati da noi lasciandoceli
ignorare. Ma appunto per questo, appunto perchè siamo meglio armati
contro le insidie che si possono tendere a noi, ci corre il debito di
vigilare sulle persone che amiamo. Per questo, o Vittorio, io prendo
le parti della Matilde, per questo io vi discorro di lei. Ella vi
ama. —

Si fece silenzio. Vittorio teneva il capo rivolto a terra, e andava
spingendo innanzi col piede i ciottoli della strada. L'Angelina
continuò con voce sempre più dolce ed insinuante:

— Sì: ella vi ama, e voi non potete ignorarlo. Non fatevi questo
torto, Vittorio; non isforzatemi a credere che voi non leggete in
viso d'una fanciulla la simpatia che le avete inspirata. Ebbene: se
non vi sentivate l'animo inchinevole ad un amor serio, se più dei
vincoli che possono render l'uomo felice avete caro l'isolamento che
lo lascia libero e signore di sè, perchè non vi siete voi allontanato
di qui, non avete cercato un pretesto per togliervi da un luogo, dove
non potevate che compromettere o voi o gli altri? Ed ora chi, se non
voi, risanerà quella fanciulla del male che le avete fatto? Pochi
mesi or sono ella era gaia, spensierata, contenta; oggi è malinconica,
inquieta, combattuta fra speranze e timori; oggi è forse alla vigilia
d'uno di que' disinganni terribili, che spargono un'ombra sinistra su
tutta la vita. Pochi mesi fa, era confidente nel bene e nella virtù;
ora voi state per versare sull'anima di lei il freddo scetticismo che
uccide gli affetti, che la farà un giorno sposa men tenera e madre
meno sollecita. No, Vittorio, non sarebbe un'azione onesta. Voi siete
nobile, generoso; voi non potete fallire al vostro dovere.

— Al mio dovere? — disse Vittorio. — Ma voi dunque credete realmente
che il mio dovere sia di sposare oggi la Matilde?

— Di prometterglielo oggi, di farlo quando potrete; — rispose
l'Angelina con voce ferma e tuono riciso.

— In verità — soggiunse Vittorio — voi siete la più fredda e rigida
ragionatrice ch'io mi conosca. Ora vogliate porgermi ascolto. Io non
vi dirò in questo momento quali siano i miei sentimenti: ma mettiamo,
così per ipotesi, ch'io abbia commesso davvero qualche leggerezza, che
qualche mia parola, qualche mio atto abbiano potuto accendere questo
fuoco improvviso nel cuore della Matilde; stimate voi forse ch'io avrei
riparato a ogni cosa, sposandola? Ma se non l'amassi?... Angelina,
voi nata alle gioie domestiche, voi che della famiglia avete un'idea
così alta, potete voi intendere un matrimonio senza amore e credere
che la felicità sorrida a quei vincoli che la convenienza sola ha
creati? Consultate il vostro cuore. L'amarezza d'un disinganno non vi
sarebbe più tollerabile che il lungo avvicendarsi di giorni monotoni,
che l'assidua convivenza con persone, le quali paressero rimproverarvi
la pertinacia del vostro affetto? Una casa, attraverso la quale non
passa mai il soffio dell'anima, ove non v'ha ricambio di confidenze, nè
bisbiglio di parole soavemente amorose; una casa, ove la tavola in poco
è dissimile da quella di una sala di _restaurant_, non vi sembra peggio
che un deserto? No, Angelina, io non la offrirei questa felicità ad un
amico. Meglio, mille volte meglio, soffrire atrocemente una volta, che
sentirsi appiccicata alle membra questa camicia di Nesso. —

Quale pur fosse l'effetto prodotto sull'Angelina da questa mezza
confessione che le faceva Vittorio di non amare la Matilde, ella non lo
lasciò trasparire: anzi, con un calore onesto e sincero, riprese:

— Ma voi confessate adunque di esservi preso giuoco di lei? Era per
soddisfare una vostra vanità che voi le usavate ogni sorta di cortesie;
era per una vostra vanità che se gli occhi di lei cercavano i vostri,
il vostro sguardo le moveva incontro con sì manifesta compiacenza; era
per una vostra vanità infine che scendeste paladino in sua difesa,
e quand'ella commossa vi disse: — _Voi dunque mi proteggerete_, —
stringendole affettuosamente la mano le avete risposto: — _Sempre?_
— Ed ora fingete ignorare le ferite che avete aperte, e poichè vi si
chiama a versar sovr'esse un poco di balsamo, vi circondate di mille
reticenze, e come vinto da un senso di sublime delicatezza: — _Oh_ —
dite — _se non l'amassi, se non avessi la virtù di farla felice!_ — Ah!
sta bene, signor Vittorio; dunque basterà questo scrupolo, perchè un
uomo possa abbandonar la fanciulla, a cui egli primo insegnò la febbre
d'amore, e menar vanto anzi di tale suo atto, come d'una splendida
azione? E la poveretta, così amaramente disingannata, non potrà
nemmeno dolersene, ma dovrà far manifesta la sua gratitudine a chi, non
sentendosi d'amarla, non la volle incatenata a sè con vincolo eterno!

— Angelina, — rispose Vittorio, e v'era nella sua voce l'accento di
chi riconosce il suo fallo, — voi siete inflessibile come la Dea della
Giustizia, ed io non voglio contrastare la bontà delle vostre ragioni.
Ma vediamo un po' come stanno le cose. Io sono un povero peccatore,
e lo dico sul serio, che di questi torti ne ha parecchi sull'anima. È
un vizio mio, o se mi siete indulgente, è un vizio dei tempi: questa
galanteria superficiale che voi condannate con tanta energia e con
sì rara potenza di convinzione, è accolta nel mondo non solo col
compatimento, ma persino col sorriso sulle labbra. Ebbene, la coscienza
anche più onesta subisce l'influsso dell'atmosfera che la circonda; ciò
ch'ella sente intorno a sè maledetto e vituperato, le par sempre più
grave di ciò ch'ella vede tollerato e plaudito. Io in quest'atmosfera
ci vivo, e non sono di tanto superiore al comune degli uomini da
potermene sottrarre a tutti gli effetti. Vedete se vi apro l'animo mio:
è una confessione che vi faccio, e, quantunque non isperi d'essere
assoluto, pure non la farei a niun altro così franca ed esplicita.
Voi mi dite oggi: — Avete operato male verso la Matilde, e vi corre
il debito di riparare. — Ma chi mi assicura che tra le fanciulle, a
cui posso a fior di labbro aver discorso d'amore, non ve ne sia alcuna
che più della Matilde soffra e si dolga di me? Non è vanità che mi fa
parlare così: voi medesima mi avete detto che un cuore di giovinetta
facilmente si accende. Ebbene: se pur questa fanciulla non ha trovato
così vicino a sè un'amica, a cui confidar le sue pene, o s'ella, come
si suole dei dolori profondi, le tenne chiuse gelosamente in sè stessa;
chi vi dice che, s'io debbo ad alcuno un'espiazione, non la debba a
lei, e non mi corra l'obbligo d'indugiare un poco prima di precludermi
assolutamente la via a lenire la sua sventura?

— Oh! — proruppe l'Angelina sforzandosi di sorridere — ciò vuol dire
che farete un giro pel mondo, cercando la più infelice delle vostre
vittime per immolare a' piedi di lei la vostra libertà? Son baie
codeste: siete a due passi da colei che vi ama e soffre per voi, e
andate in traccia di un'amante ipotetica, a cui avete parlato non si sa
quando, che avete visto non si sa dove, che non ha svelato a nessuno i
suoi sentimenti, che forse non esiste nemmeno....

— Ma s'ella esistesse? — sclamò Vittorio con calore — se anzichè
essere un sogno della fantasia fosse una creatura viva e palpitante,
se anzichè abitatrice d'una terra remota fosse poco lungi di qui, se io
l'avessi fatta soffrire più forse della Matilde, se io l'amassi di più;
che direste allora? —

L'Angelina diè un balzo; ma, ricomponendosi tosto, chiese con voce che
si sforzava d'esser ferma e sicura: — Ma s'ella esiste, siete voi certo
ch'ella vi ami? —

Vittorio sollevò il capo che teneva chinato a terra, e guardando
fissamente l'Angelina rispose: — Quello di cui son certo si è ch'io
non l'era increscioso, e che alle mie parole ella porgeva benevolo
ascolto, e ch'io l'ho veduta trascolorarsi in viso al racconto delle
mie campagne, e ch'ella è sventurata e senza amici e senza parenti nel
mondo, e ch'ella non mi perdonerà mai la mia leggerezza. Perchè io, non
chiesto, non incoraggiato da lei, l'ho cercata nella solitudine della
sua stanza, ho turbato i silenzî della sua anima verginale, e la posi a
parte de' miei affetti e de' miei ricordi domestici e de' miei sogni di
poeta, e le apersi il cuor mio come ad una sorella....

— Amatela dunque come una sorella, — interruppe l'Angelina, nel cui
animo s'era combattuta una di quelle lotte titaniche che durano un
minuto, e che un volume non basterebbe a descrivere.

— Angelina, — proseguì Vittorio con accento appassionato, — voi che
forse la conoscete questa donna, non potreste dirmi una men desolante
parola, non potreste perorare presso di lei la mia causa? Oh! scendete
un istante da quella specie di Olimpo, in cui oggi per la prima volta
vi vedo, arbitra severa ed inesorabile de' falli altrui, lasciate
parlare il vostro cuore; la virtù del sacrifizio non è virtù unica al
mondo, ve n'è un'altra più dolce, più soave, più umana, la virtù della
simpatia che ci fa, amati, riamare.... Angelina.... —

La povera fanciulla, mentre Vittorio parlava, sentivasi come colta da
quella vertigine che assale chi si trova sull'orlo di un precipizio. È
un senso indistinto di voluttà e di terrore, è un desiderio affannoso
di sottrarsi al pericolo, e nel medesimo tempo una strana tentazione
di gettarvisi a corpo morto. L'aria che vi saetta sul viso, e gli
alberi, e i monti, e le case che vi rotano intorno vorticosamente, e
l'ampio firmamento che vi si stende sul capo, tutto insomma coopera
a sospendere in voi l'azione della volontà, a farvi vivere come in un
sogno. Ma se per avventura il piede vi manca, se l'idea del vuoto vi si
affaccia allo spirito, un gelo improvviso vi corre per l'ossa, vi si
drizzano i capelli sulla fronte, e la vostra mano s'aggrappa convulsa
al primo oggetto che vi si presenta. Così l'Angelina, trasportata in
un mondo fantastico dalle parole di Vittorio, vedeva passarsi dinanzi
agli occhi mille immagini confuse, credeva d'udire mille suoni diversi,
e pur indovinando il pericolo non aveva forza di sfuggirlo. Ma, quando
intese proferire appassionatamente il suo nome, quando sentì la mano
di Vittorio che cercava la sua, il pensiero dell'abisso imminente
le balenò repentino all'anima, si ricordò della Matilde che in lei
confidava e ch'ella tradiva con la semplicità del silenzio, e una
voce che partiva dal profondo del cuore le susurrò all'orecchio: —
Vergognati! — Si svincolò da Vittorio come atterrita, e accennandogli
con la mano che s'allontanasse, — Basta così, — disse con voce
angosciata, — basta così. Se quella donna ha potere alcuno sull'anima
vostra, ella v'impone di dimenticarla; e se la sua stima v'è cara, ella
vi scongiura di far felice la Matilde. —

— Ma ella ha dunque un cuore di sasso? — proruppe Vittorio accendendosi
in volto. — A che le servono la gioventù e l'avvenenza, s'ella è
chiusa a quei sentimenti che ingentiliscono il suo sesso? Oh! è agevol
cosa a chi è fatto di gelo il predicare agli altri il sacrifizio e
l'abnegazione.... Ma no; non è possibile: quale io l'ho conosciuta,
ell'era buona e mite, e pronta a commuoversi delle sofferenze altrui;
il suo volto leggiadro, i suoi begli occhi profondi rivelavano
un'anima ricca di commozioni e di affetti. No, voi non siete la fedele
interprete del suo cuore.... quando — continuò Vittorio, colpito da una
subita idea, e strascicando le parole come se la lingua gli si fosse
disseccata sul palato — quando ella non ne ami un altro.... —

L'Angelina fece un movimento rapido, come di chi si risente d'un'accusa
non meritata: ma bentosto padroneggiò la sua commozione, e in quel
dubbio che l'aveva offesa, vide una tavola per isfuggire al naufragio,
e l'afferrò con disperato proposito, e freddamente rispose: — E se
fosse così? —

Com'ebbe proferite queste parole, le parve di sentirsi sopra un terreno
più saldo, e attese con calma il nuovo infuriare della procella.
Sennonchè in quel momento si vide vicine la Matilde e l'Amalia. Il
volto della Matilde esprimeva una dubbiezza affannosa; i suoi occhi
correvano incerti da Vittorio all'Angelina, e dall'Angelina a Vittorio,
e il silenzio con cui ella era accolta non le faceva augurare nulla
di buono. Certo discorso ambiguo dell'Amalia circa il fiore buttato
via con dispetto dall'Angelina le tornava al pensiero, per quanto si
adoperasse a scacciarlo; il sospetto insidioso la rodeva internamente
e vi fu un istante, nel quale le due fanciulle si misurarono con lo
sguardo. L'Angelina intese ciò che passava nel cuore della Matilde, e
non tentò una spiegazione, e non mormorò una scusa; ma nell'atteggiarsi
della persona, e nel fiammeggiare degli occhi le apparve tutta la
onesta baldanza dell'animo. Fu la Matilde la prima ad abbassare la
fronte, arrossendo di sè medesima. Quando la rialzò, la sua fisionomia
non mostrava altro che una trepida ansietà, un bisogno intenso di
confidarsi e di piangere......


XII.

A chi non è accaduto di trovarsi talvolta in una compagnia, sulla quale
pesi la plumbea cappa dell'equivoco e dell'imbarazzo? Una parola men
che opportuna sfuggita ad alcuno dei presenti, una notizia inattesa,
raccontata fuor di proposito, bastano assai spesso a produrre questi
stati difficili, i quali spengono il buon umore nella più gaia comitiva
del mondo. Nel caso nostro l'imbarazzo aveva ben più serie cagioni.
L'Angelina, per ischietta che fosse, non poteva dir tutto alla Matilde,
nè parlare in guisa da toglierle ogni speranza; e la Matilde dal canto
suo sentiva che nelle confidenze della cugina vi era qualche cosa
di sforzato e qualche cosa di taciuto, e i sospetti, che lo sguardo
dell'Angelina aveva dispersi, tornavano a darle martello. Di Vittorio
è agevole intendere com'egli dovesse essere confuso e scontento di
sè. Con l'Angelina egli non aveva mentito. Ella non gli era stata mai
indifferente, e il vederla così giovane e bella perorare la causa di
un'altra con una sollecitudine tutta materna, gliela aveva resa mille
volte più cara. Favellandole d'amore in modo sì trasparente, egli aveva
obbedito a un impulso reale del proprio cuore, che in quell'istante
sentivasi affascinato dalle elette virtù e dalla peregrina avvenenza
della giovinetta: pure il suo affetto, non maturato nel silenzio,
non cresciuto solo e senza rivali, era esso forse degno di lei, anima
candidissima, nata piuttosto a chiudersi in sè, romita e sdegnosa, che
a piegarsi a passioni volgari? E poi ch'ella aveva respinto questo suo
amore, quale altro sentimento poteva provare per lui che il disprezzo?
Che altro poteva crederlo, se non un libertino svenevole, che, per
sottrarsi ai doveri dell'uomo onesto verso una donna, si mostrava
spasimante di tutte? Oh! il disprezzo dell'Angelina gli era grave fuor
di misura. E la Matilde che avrebbe pensato di lui? Ella lo amava!
E perchè egli non aveva accettato con lieto animo l'offerta di un
cuore, di cui egli solo aveva insidiato la pace? La Matilde non era
forse ella pure bella e virtuosa, non ne aveva egli mille volle lodato
a' suoi compagni di scuola e i bruni capelli, e gli occhi neri, e la
vispa persona, e la doppia fila di bianchissimi denti che ne faceva
sì attraente il sorriso? Perchè disdegnando un affetto che, per così
dire, gli veniva incontro spontaneo, ne aveva cercato un altro che
gli si rifiutava con tanta alterezza? E qui sopraggiungeva un nuovo
pensiero. L'Angelina aveva lasciato trasparire di amare qualcuno. Era
uno strattagemma di difesa? Era una verità? E in quest'ultimo caso,
chi poteva essere l'incognito amante? Onde venuto? E da quando?...
Se la Matilde non gli fosse piombata addosso in quel modo, forse egli
avrebbe potuto venire a capo dell'arcano, forse ottenere dall'Angelina
una men dura ed assoluta risposta. Ed ora, quale stato era il suo
in casa Mauri? Non gli conveniva d'uscirne al più presto? Così egli
passava d'una in altra interrogazione, senza trovar mai risposte che
lo soddisfacessero, e non avendo di ben chiaro e preciso altro che il
concetto dell'amor proprio ferito, e quell'indefinibile disgusto di sè
che nasce dal sentimento de' proprî torti.

In tal maniera l'Angelina, la Matilde e Vittorio ritornavano dalla
poco lieta passeggiata campestre, taciturni, discosti alquanti passi
l'uno dall'altro, a guisa di congiurati. L'Amalia che, dopo essersi
ripromessi mari e mondi da questa gita, vi si era invece indicibilmente
annoiata, piagnucolava di stanchezza e di tedio, e se talora con
la felice volubilità dell'età sua passava dalle lagrime al riso,
seguendo con gli occhi il volo d'una farfalla o il tuffarsi d'una rana
nel fosso, quando s'accorgeva che nessuno le dava retta, tornava a
brontolare ed a piangere.

Il sole era tramontato, lasciando parte del suo manto di luce a
certe nubi rossastre che si disegnavano nelle più pittoresche fogge
del mondo sugli ultimi lembi dell'orizzonte. Del resto, il cielo era
limpidissimo: soffiava una brezza ristoratrice, pronuba ai connubi
delle piante e dei fiori; i platani dimenavano gravemente il capo; e
le spighe dorate dei campi s'agitavano con un fruscìo pettegolo, pari
a quello che fanno le insegne spiegate al vento: il fiume, secondo i
movimenti del terreno, ora celato, ora aperto allo sguardo, menava con
un moto impaziente e con un sordo ribollimento le sue acque torbide
e gonfie, urtando con violenza le barche legate alla riva. La strada
era quasi deserta, chè la moda aveva in quell'estate assegnato a
convegno della società elegante una passeggiata dal capo opposto della
città: non vi s'incontrava che qualche drappello di contadini reduci
dai campi; qualche coppia d'amanti desiderosi della solitudine, e
qualche modesta carrozza, diretta alla vòlta d'una o d'altra villa
del circondario. Tra i virgulti d'una siepe, o dietro un muricciuolo,
vedevasi spuntare la canna d'un fucile e il cappello di feltro di
un dilettante di caccia, che col suo sigaro in bocca se ne stava
silenzioso spiando il cielo, in cui passavano a stormo gli spensierati
uccellini. Di tratto in tratto udivasi uno sparo, una nuvoletta di
fumo si levava nell'aria, e un cane sbucava fuori dalle macchie, con
le orecchie tese, con le narici enfiate, ed ora correva attraverso
i campi, ed ora scendeva rapidissimo per la china sdrucciolevole
dell'argine, riportando a' piedi del padrone la preda ancor palpitante
e dibattentesi pietosamente negli spasimi dell'agonia. A ciascuno di
quegli spari gli augelletti, che giravano innumerevoli per l'aria, si
stringevano sgomenti fra loro con un pigolìo lamentevole, e, come li
consigliava l'istinto, spingevansi alto alto nel firmamento, che, visto
dal basso, rendeva immagine d'un ampio padiglione turchino, punteggiato
di nero. Poi le povere bestioline, o vinte dalla stanchezza o
facilmente dimentiche, tornavano a raccogliere il volo verso la terra,
e allora ricominciava la sinistra armonia delle schioppettate. A poco
a poco anche quel suono cessò: i cacciatori col fucile ad armacollo
ritornavano in città, seguìti dai loro cani, e il verde dei campi e
l'azzurro del cielo andavano prendendo una tinta ognor più uniforme, e
le colline lontane si ravvolgevano in un tenue vapore, e gli alberi si
disegnavano in masse opache, su cui principiava a deporsi la rugiada
della sera. Insomma si avvicinava la notte, e la nostra comitiva era
ancora mezzo miglio dal sobborgo della città. L'Amalia inseguiva due
lucciolette, che, librate sulle loro piccole ali luminose, avevano
sembianza di due pallide stelle, e ora stringevansi l'una all'altra
come se volessero abbracciarsi, e ora si discostavano rapidamente,
tenendosi tuttavia nella medesima direzione lungo l'argine del fiume.
La fanciulletta, sventatella com'era, non badava troppo al pericolo, e
stava per perder l'equilibrio e rotolar giù dalla costa, se la Matilde,
avvedutasene a tempo, non le era tosto ai panni e non l'afferrava pel
lembo del vestito. Volle sfortuna che nel rispingere la sorellina verso
la strada non s'accorgesse d'una subita svolta del terrapieno, e il
piede le sdrucciolasse nel vuoto, onde cadde boccone sul pendìo esterno
dell'argine. Atterrita mise uno strido e cacciò le mani nell'erba,
ma l'erba, umida per la rugiada, non le offrì alcun punto d'appoggio,
anzi le agevolò la discesa, e in men che non si dice si sentì investita
dall'acqua e travolta dalla corrente. Un urlo terribile di spavento, un
grido angoscioso di _aiuto_ si levò per l'aria e scosse gli abitatori
dell'altra parte della riviera. Lumi apparvero nell'interno delle case,
e la gente affacciata alle finestre ripeteva, come per eco ripercossa,
il grido di — _Aiuto_. — L'Angelina era balzata sulla cima dell'argine,
pallida, con la fisonomia stravolta; aveva appiccicata alle vesti
l'Amalia, che chiamava Matilde in mezzo a un singhiozzo convulso. E che
facea Vittorio, e dov'era? — Vittorio, Vittorio! — proruppe l'Angelina
disperatamente. In quel punto, chinando il trepido sguardo verso il
fiume, vide, o le parve, un'altra persona alle prese con l'onda, ma
non nell'atto di chi sta per sommergersi; bensì come quegli che, sicuro
delle sue forze, s'avventura intrepido e quasi a sollazzo nell'infido
elemento. Col moto affrettato, eppur regolare, delle braccia, fendeva
rapidissimo l'acque, e ognor più guadagnando sulla corrente accostavasi
alla Matilde che ancora si dibatteva, sorretta dall'aria raccolta entro
l'ampio volume delle sue vesti. Intanto la gente accalcavasi sulle
due rive, ma non uno osava gettarsi nel fiume e accorrere in aiuto
de' pericolanti. Fra la folla eran divisi i pareri, e chi supponeva
che i caduti nella riviera fossero due, e chi, apponendosi al vero,
giudicava che l'uno tentasse il salvamento dell'altro: tutti però
erano d'accordo nel temere che la corrente travolgerebbe entrambi
nella sua furia. E già alle grida, alle alte querele si mescevano i
commenti, tra le donne in ispecie, e taluna osservava trattarsi di due
amanti, a cui le famiglie non permettevano di unirsi in matrimonio,
e che perciò morivano insieme; e tal'altra diceva che il fidanzato
aveva gettato nell'acqua la sposa per gelosia, ma, pentitosi tosto,
si slanciava a salvarla o a perire con essa. E queste cose dette in
modo dubitativo venivano poi affermate in gran pompa e ingrandite
secondo la fantasia del narratore. Ma intanto che questi pensieri e
queste parole si ricambiavano nello spazio di pochi secondi, i due
punti neri che stavano nell'acqua eransi avvicinati, e n'era successa
una specie di lotta a corpo a corpo. Chè la Matilde, quasi fuori de'
sensi per l'acqua che le era entrata dalla bocca, dagli occhi, dalle
narici, obbediva soltanto all'istinto della propria conservazione, e
s'era aggrappata al suo salvatore in modo da togliergli il movimento
e il respiro. Vi fu un momento che scomparvero entrambi: poi uno,
divincolatosi, ricomparve a galla, aspirando affannosamente una boccata
d'aria. Un grido di raccapriccio si levò fra gli astanti, e taluno se
ne andava pe' fatti suoi, dicendo: — Tutto è finito; — e tal altro,
accennando col dito, crollava il capo e bisbigliava al vicino: — Non
c'è più caso. Vedete: laggiù ci sono i mulini, la corrente si fa ancor
più rapida, e sfido il più gagliardo uomo del mondo ad uscirne. — In
quella, che è che non è, s'ode levarsi dal fiume una voce: — È salva.
— Era Vittorio; chè l'intrepido nuotatore non era altri che lui, e
il lettore se lo sarà immaginato, il quale, dopo infinite fatiche,
aveva potuto afferrar la Matilde per i capelli e trarla a terra. A
quella parola — è salva — rispose un immenso applauso, e una barca,
che finalmente erasi mossa dalla spiaggia e portava il così detto
soccorso di Pisa, fu accolta a risate ed a fischi. L'Angelina piangeva
dirottamente dalla consolazione, e copriva di baci la piccola Amalia,
anch'ella tutta in lagrime ed in singhiozzi. Molti scendevano con
cautela l'erta dell'argine per aiutare Vittorio a salire. Ma quegli,
tenendo fra le braccia la Matilde come si terrebbe un bambino di pochi
mesi, ringraziava col capo e saliva la costa senza appoggiarsi ad
alcuno. E alle congratulazioni che gli venivano fatte del suo coraggio
e della sua vigoria, rispondeva: — Se ho potuto tirarmi fuori dalle
acque del Volturno in mezzo a quel serra serra, vedono che non c'è
grande bravura a uscire illesi di qui. — La Matilde era svenuta: i
capelli grondanti le scendevano giù per le spalle, e sotto le vesti,
che inzuppate d'acqua le si aderivano alle membra, disegnavansi gli
eleganti contorni della bella persona. Vittorio, posto un ginocchio
a terra, l'adagiò soavemente sull'erba, tenendole sollevato il capo
con la mano sinistra e posandole la destra sul cuore per sentirne i
battiti; mentre l'Angelina, curva sopra la giacente, la scaldava del
suo respiro, e ad ogni istante alzava gli occhi verso Vittorio per
attingere dal suo sguardo sereno quella fiducia ch'ella non aveva
ancora interamente riacquistata. Quanto all'Amalia, ella non voleva
mai staccarsi dalle vesti di lei. Un capannello di curiosi erasi
fatto attorno a quel gruppo, e ognuno diceva la sua, e ognuno dava
un consiglio, e v'erano soprattutto due o tre donnicciuole che non
rifinivano di parlare: — Bisogna metterla con la testa all'ingiù. —
Oibò; anzi bisogna tenerla ritta. — Tutt'altro; il miglior modo è di
farla stare sul fianco. — E così di questo tuono. L'Angelina intanto,
zitta zitta, erasi accinta a slacciare il vestito della Matilde;
sennonchè, vedendo in quel crocchio degli uomini, si fermò un istante e
rivolse loro uno sguardo mezzo supplichevole, che pareva significare:
— Sarebbe più dicevole che se ne andassero. — Alcuni intesero; altri
no. Vittorio, o per delicatezza, o perchè credesse di esser più utile
in altro modo, si allontanò un momento, e l'Angelina, discinta ch'ebbe
la Matilde, le gettò addosso la sua mantiglia, e tornò a far di tutto
perchè si risentisse. E in fatto la fanciulla diè segno di ritornare
in sè; mosse prima un braccio, poi l'altro, aperse a stento gli occhi,
li girò un istante languidamente, e li richiuse di nuovo, trasse un
lungo sospiro, fece insomma quanto bastava per rassicurare ognuno
sul conto suo. — Ora ci vorrebbe una carrozza, — disse l'Angelina
in modo da essere intesa da quelli che le stavano attorno, nella
speranza che taluno volesse prestare un soccorso più efficace che
non rimaner lì a cicalare. Ma tosto si udì un romore di ruote. Era
Vittorio, che, procuratosi un'umile vettura scoperta in una fattoria
lì presso, ov'egli aveva qualche conoscenza, accorreva a gran trotto
per ricondurre a casa la Matilde ed il resto della comitiva. La Matilde
fu collocata con molta cura nel biroccino: le ravvolsero i piedi e
parte della persona in una ruvida coperta di lana; le acconciarono
il capo sopra un gran mucchio di paglia, affinch'ella non risentisse
le scosse del tragitto: l'Angelina le si assise a fianco; l'Amalia
dirimpetto; Vittorio salì in un batter d'occhio sulla serpe della
vettura, e, scuotendo le redini e agitando la frusta, mise in movimento
il cavallo, non senza ricambiare prima un saluto affrettato colla gente
ivi raccolta, che gridava: — Buon viaggio: il Signore gli accompagni.
— Vittorio pensava, con un giusto sentimento d'orgoglio, che, se non
fosse stato lui, la povera Matilde si sarebbe affogata da un pezzo, e
non è a dirsi quanto egli fosse contento dentro di sè. La strada era
sicura e il cavallo tranquillo, ond'egli a ogni tratto allentava le
redini, e girandosi sul fianco guardava nell'interno della carrozza.
L'aria fresca della sera aveva fatto rinvenire la Matilde, non però
tanto ch'ella si facesse giusto concetto delle sue impressioni.
Schiudeva un istante gli occhi, ma poi le palpebre le si riabbassavano
nuovamente, a cagione dell'estrema debolezza, e ricadeva come in un
sopore. La luna, uscita appena da un gruppo di nuvolette bianche e
sottili, le mandava in viso la sua candida luce, rivestendola di nuova
e arcana bellezza. Nè a Vittorio ella era mai sembrata tanto avvenente.

A cinquanta passi dalla casa trovarono il signor Bernardo
inquietissimo, ed è agevole immaginare il suo stupore vedendoli
arrivare in quel modo. La vettura gli passò innanzi rapidissima, e
forse, se non era Vittorio che con la mano gli accennava che stésse
tranquillo, e l'Angelina che gli gridava: — Non è nulla, non è nulla,
— non si sarebbe nemmeno accorto della Matilde mezzo svenuta. Ma quei
gesti e quelle parole, che dovevano rinfrancarlo, gli diedero una
trafittura al cuore. Temè d'una disgrazia, gli occhi gli caddero sopra
la figliuola, e con un sudore freddo per tutta la persona e con le
gambe barcollanti s'affrettò a ritornare a casa. La vettura era appena
entrata nell'androne, e tutta la famiglia era lì facendo ressa intorno
alla Matilde, le cui guance cominciavano a tingersi d'un rossore
febbrile. Non diremo delle domande angosciose, delle spiegazioni date
e ripetute, dei sussulti nervosi della signora Clara e della Nella,
nè delle smorfie che la fantesca faceva dietro a loro, ogni volta che
davano segni di cadere in deliquio. Diremo soltanto che il medico,
chiamato senza indugio, assicurò svanito ogni pericolo, pur che la
fanciulla stésse qualche giorno in riposo. E diremo che in quella sera,
mentre ancora tutti le erano presso il letto, la Matilde, girando gli
occhi attorno, li riposò sul giovine di nostra conoscenza, che l'aveva
salvata, e le sue prime parole furono: — Grazie, Vittorio. —


XIII.

Nessuna cosa al mondo può far parer tanto bella la vita, quanto il
compimento d'una buona azione. L'uomo più stanco, più infastidito dalle
noie diuturne, nel momento che ha la coscienza di aver operato il bene,
d'aver sollevato un infelice, d'aver salvato un amico, sente che in
questo fiume amaro della esistenza v'è qualche vena di dolce, e che, se
la vostra fortuna vi dà di trovarla, o la vostra virtù di scoprirla, ne
avete un largo compenso a mille giorni di tedio e d'ambascia. V'ha poi
certe nature venturose, per le quali la compiacenza del bene operato
s'accresce in ragione dei rischi affrontati per compierlo. Per anime di
questa tempra il pericolo è di per sè solo una voluttà e un'attrattiva:
l'averlo sfidato senza impallidire le riempie d'una nobile fiducia, le
arma d'un generoso disdegno contro le insidie dei vili e le calunnie
dei tristi.

A sollevare gli spiriti abbattuti di Vittorio nulla poteva capitar
più a proposito dell'avvenimento, nel quale per poco non perdette la
vita. Dopo il suo colloquio con l'Angelina egli si sentiva umiliato,
rimpiccolito a' suoi proprî occhi, e se lo avessero chiamato a dir la
sua opinione sul modo, in cui s'era condotto, si sarebbe qualificato
egli medesimo per un collegiale senza giudizio. Ed ecco ad un tratto
mutarsi la scena. In pochi minuti era parsa l'indole risoluta della
sua anima, la vigoria del suo braccio, la sua freddezza in mezzo a'
cimenti. La famiglia, dalla quale egli presentiva di dover allontanarsi
come ospite increscioso, gli era invece prodiga meritamente d'ogni
dimostrazione di riconoscenza; la fanciulla, verso la quale egli aveva
operato con sì imperdonabile leggerezza, gli andava debitrice del più
grande dei benefizî, e colei, di cui temeva il disprezzo, non poteva a
meno di mitigare il suo giudizio dopo una di quelle prove d'audacia che
tanto piacciono a un cuore di donna.

Però questo non era l'unico cangiamento che si fosse fatto in Vittorio.
Nè le grazie della Matilde, nè il sapersi amato da lei, erano bastati
a vincere la sua freddezza. Ma ora un vincolo nuovo erasi stretto fra
lui e quella fanciulla; tra le anime loro erasi formato un ricambio di
commozioni e d'affetti: avevano entrambi palpitato l'uno per l'altro:
egli, nel sottrarla al pericolo; ella, nel vederlo sfidare la morte per
lei. E Vittorio, seduto alla sponda del suo letto di convalescente,
mirava con un senso di dolcezza ineffabile i rosei colori della
salute ritornarle alle guance, e il primiero sorriso spuntarle sul
labbro; e gli pareva che la voce di lei suonasse inusatamente soave,
e che una insolita luce le brillasse negli occhi. Ed era ben egli che
l'aveva salvata, senza di lui la gentile creatura poserebbe immobile
sotto un pugno di terra, nè il lieve incarnato colorirebbe più le
sue gote, nè intorno alle labbra le scherzerebbe il sorriso, nè le
sue pupille risplenderebbero di fulgidi raggi. Ella era opera sua:
egli l'aveva richiamata alle dolci aure vitali, l'aveva restituita
al mondo che si contrista, quando la falce di morte miete la gioventù
e la bellezza. Ella era opera sua; era parte di lui, come il profumo
è parte del fiore, come la statua è parte dell'ingegno che la evocò
dal gelido marmo. Per questo il beneficio avvince più tenacemente
chi lo compie che chi lo riceve: nel trepido amore che ci lega alla
persona beneficata da noi, è quell'arcana e pur possente attrazione
che ci tira verso tutte quelle cose, nelle quali abbiamo spirato un
soffio dell'anima nostra. Così nella simpatia che la Matilde destava
in Vittorio, era una commozione intensa e profonda, ben diversa dalla
leggiera galanterìa, che in altri tempi l'aveva avvicinato a lei.
Quante volte, dopo averla a lungo contemplata nel suo letticciuolo
con mezza la persona fuori delle coltri, col suo candido giubboncino
succinto fino al collo, coi capelli raccolti entro una rete bianca di
filo, con la testa sorretta da due o tre guanciali che le formavano
una specie di nicchia intorno al capo ed al busto, quante volte,
dopo averla contemplata silenziosa, serena, raggiante in viso d'una
dolce speranza, si sentì gli occhi pieni di lagrime e non seppe il
perchè! Non una parola di quanto era successo precedentemente alla
sera avventurosa, che abbiamo descritta, si ricambiava tra la Matilde
e Vittorio: si sarebbe detto che la loro conoscenza non risalisse
più in là di quel giorno. E invero, perchè la Matilde avrebbe
dovuto ricordarsi delle contraddizioni, delle reticenze, delle mille
incertezze di una settimana addietro, se l'idea d'essere stata salvata
dall'uomo ch'ella aveva sì caro la riempiva d'una ineffabile voluttà?
Ed egli perchè avrebbe favellato di que' giorni, che gli rammentavano
soltanto la sua frivolezza e la sua continua mutabilità di propositi?
Così pure, benchè talvolta rimanessero soli per qualche minuto, e
tal'altra avessero agio di parlarsi all'orecchio, non correva tra loro
parola alcuna d'amore. Non ne avevano bisogno. Amore era l'atmosfera
che gli avvolgeva, amore era nei loro sguardi, nel loro sorriso, nella
dolcezza infinita del loro accento: il dirsi scambievolmente — io ti
amo — era proprio una cosa superflua. Il medico, uomo esperimentato,
che visitò la Matilde ne' due o tre dì della sua convalescenza,
mentre tastava per consuetudine il polso alla fiorente ammalata, non
poteva trattenersi dal mandare un'occhiatina a Vittorio, e si lasciava
scappare maliziosamente un — Va benissimo: è stata una malattia acuta
che le ha conferito. — Il curioso si era che la Matilde non voleva
guarire. Stava tanto bene così! Era circondata di cure: aveva quasi
sempre Vittorio al suo fianco: che poteva desiderare di più?

In casa Mauri l'era omai una cosa intesa. A una spiegazione formale
niuno era ancora venuto, ma eran corse fra Vittorio e la signora Clara
quelle mezze parole, che equivalgono alle note ufficiose dei giornali
governativi e indicano lo stato delle cose. Il signor Bernardo se
ne stava in disparte: aveva l'idea fissa che quel matrimonio darebbe
l'ultimo crollo alla povera Angelina. Intanto alcuni dei così detti
amici di famiglia, che non s'eran fatti vedere dopo il fallimento,
avendo inteso che la Matilde trovava un eccellente partito, tornavano
a far capolino nella casa e si profondevano in elogî de' due
fidanzati, e in tenerissime dimostrazioni d'affetto verso la Matilde,
che dicevano degna d'ogni fortuna. Non mancava poi chi, per iscavar
terreno, susurrava all'orecchio della signora Clara, che persone
pettegole avevano nel passato sparso la voce di qualche simpatia tra
il signor Vittorio e la giovinetta Angelina, ma che già nessuno vi
aveva prestato fede, visto la manifesta superiorità della Matilde su
tutte le ragazze immaginabili. La signora Clara rispondeva con certe
smorfie particolari, borbottando: — S'imagini, si figuri, non faccio
per dire, ma ho due figliuole in casa che lasciano poco adito ad
ammirare le estranie. — Qualcheduno allora cadeva in una goffaggine
grandissima, obiettando timidamente: — Però l'Amalia è ancor fanciulla.
— A cui la signora Clara, punta sul vivo, replicava: — Ma io ho inteso
parlare della Nella! — E il mal capitato interlocutore si mordeva
le labbra. Intanto giravano intorno i vassoi coi rinfreschi pegli
amabili visitatori, e chi sapeva che molta parte della spesa domestica
aggravava il bilancio dell'Angelina, poteva trarne argomento a curiose
riflessioni. Insomma l'agiatezza pareva ritornata in famiglia. La
signora Clara, che su Vittorio aveva fatto tutt'altri conti, andavasi a
poco a poco rassegnando: alla fin fine, l'era madre tanto della Matilde
quanto della Nella, e seppure prediligeva una delle sue figliuole, non
poteva dolersi della buona ventura dell'altra. E poi ella si gonfiava
all'idea di andare in qualità di suocera nella villa di Vittorio,
di approfittare delle sue carrozze, de' suoi cavalli, e soprattutto
de' suoi servitori in livrea. Ah! quest'affare della livrea le stava
proprio sul cuore, e le venivano le lagrime agli occhi quando si
ricordava che giusto in que' giorni, in cui ella avea trasformato in un
cocchiere _comme il faut_ lo zotico servitore di casa, era successa la
disgrazia del fallimento. E la Nella? La Nella assicurava che Vittorio
non le piaceva punto punto, e confortavasi ricambiando patetici sospiri
coi maturi celibi, che venivano talvolta a visitare sua madre.

Nell'autunno capitò il padre di Vittorio. Le lettere del figlio, il
suo prolungato soggiorno in città nella stagione delle vacanze, lo
avevano insospettito del vero, ed era veniva di persona a vedere come
stavano le cose. Era un uomo sulla cinquantina, alto, rubizzo, pieno
di salute e di vigorìa. Dissimile dal signor Bernardo nella naturale
intelligenza, nell'attività indefessa, pure ricordava i bei tempi di
quello nella onesta giovialità del carattere, e nella squisita bontà
che avea comune con esso. Non vedeva che cogli occhi del suo Vittorio,
e perciò se gli altri si sgomentarono del suo arrivo, Vittorio non se
ne sgomentò punto, conscio che i suoi desiderî erano legge al padre
suo. Il signor Antonio, che così nomavasi, sapeva benissimo che in casa
Mauri v'erano due ragazze da marito; ma sapeva anche che vi si trovava
una cugina non priva di dote, e non gli sarebbe spiaciuto che, se il
suo figliuolo doveva innamorarsi, s'innamorasse almeno di quella che
aveva quattro soldi da parte, invece che della Matilde, la quale, senza
sua colpa, era, come dicono, al verde. Sicchè vi furono, e più forse
che Vittorio non se l'aspettasse, obiezioni, prediche, paternali, musi
lunghi tre palmi, e soprattutto un certo ritornello, che al giovane
non faceva punto buon sangue: — Ma perchè non ti sei innamorato di
quell'altra? — Però, alla fine dei conti, il signor Antonio non volle
smentire la riputazione dei padri di commedia, e diede il consenso.
La cosa doveva rimaner segreta per qualche tempo, ma figuratevi!
tutti la sapevano già prima che avvenisse. Allora si centuplicarono
le congratulazioni, le visite, i rinfreschi, e nella casa si fece
quel brio, quel movimento che s'accompagnano sempre cogli sponsali
d'una ragazza. Prima i regali del fidanzato, poi un andirivieni di
scatole d'ogni misura, con pizzi e oggetti di biancheria pel corredo,
ed ora c'era da attendere alla crestaia, ora alla modista, o che so
io. Quanto al danaro, era Vittorio che lo provvedeva in gran parte;
e per procurarselo, gli convenne ricorrere allo strattagemma di far
credere a suo padre di avere vecchi debiti da saldare. Il buon uomo
strepitava, s'imbestialiva, dava dello scapestrato a Vittorio; ma poi
rabbonivasi, e, secondo il solito, finiva col pagare, dicendo: — Io li
guadagno e tu li mangi, bemobile che sei. — L'umiliazione reale era per
la famiglia Mauri, ma il solo signor Bernardo la sentiva profondamente:
la signora Clara non davasene nemmeno per intesa; la Nella aveva ben
altro pel capo, occupata com'era a un dotto parallelo fra gli uomini
maturi e i giovinastri della giornata, e quanto alla Matilde, o non
se n'accorgeva, o faceva le viste di non se ne accorgere. L'Amalia si
rimpinzava di dolci, e se ne metteva anche nelle tasche del vestito
per portarne all'Angelina, la quale scendeva molto mal volentieri nel
salotto comune. E siccome a proposito dell'Angelina e di Vittorio mi
aspetto dai lettori un nugolo di domande, così piglio fiato e rispondo.


XIV.

Vittorio si trovava verso l'Angelina nel difficile stato d'un uomo
che ha fatto un _fiasco_. Ora le ripulse di questo genere possono
avere due conseguenze affatto opposte. O stuzzicano la vanità e, se la
passione è viva e profonda, ne raddoppiano il vigore e fanno quindi
rinnovare gli assalti, o lasciano nell'animo quel po' di ruggine che
viene dall'esserci mostrati deboli verso qualcheduno che non si cura di
noi. Una dichiarazione d'amore, quando non riesca, ha sempre un lato di
ridicolo; una donna che non volle esser complice, può sempre divenire
accusatrice, ed è per lo meno una testimone importuna dei nostri
momenti di oblio. È certo che se null'altro fosse sopraggiunto nella
sera che l'Angelina respinse l'amore offertole, Vittorio non avrebbe
levato l'assedio, ma strettolo anzi con inesorabile pertinacia. Ma il
trambusto avvenuto dipoi aveva mutato corso alle sue idee e a' suoi
sentimenti: l'affetto vivissimo che gli destava la Matilde, i non dubbî
segni della riconoscenza e della tenerezza di lei, avevano dato una
nuova piega al suo animo. Più che il desiderio del trionfo lo premeva
il rancore del torto avuto, e tutto ciò convertivasi in un manifesto
imbarazzo nel suo trattare con l'Angelina. La poveretta se ne avvedeva,
e non saprei davvero se la riuscita più che compiuta de' suoi disegni
l'aveva messa di troppo buon umore. Ciò ch'ella aveva promesso di fare
verso la Matilde, ella l'aveva fatto lealmente, l'aveva fatto a prezzo
della sua sincerità ch'ella avea cara più d'ogni cosa al mondo, l'aveva
fatto a prezzo de' suoi sentimenti più intimi, e non era bastato a
smuover Vittorio. Che importava che il caso volesse metterci la sua
zampa e far nascere tutto quel parapiglia? Non era una crudeltà della
fortuna questo congiurare a' suoi danni?

Vi son certi sacrificî che si compiono con animo risoluto, appunto
perchè ci seducono con la loro grandezza. Il bisogno di raccogliere
tutta la nostra energia per uno sforzo supremo, e la voluttà di
vincere, sempre potente anche quando si vinca a danno di sè medesimi,
impediscono ne' primi istanti che il dolore ne soverchi. Ma quando s'è
riportato il trionfo, nè dura più la febbrile ansietà della lotta, e
il sacrificio compìto non reca mai un eguale tributo di riconoscenza,
oh! allora comincia davvero lo scoramento; allora una indefinita
tristezza s'impadronisce dell'anima nostra. Così avvenne all'Angelina.
L'era bastata la forza a domare la sua passione nascente, ella aveva
potuto perorare la causa di un'altra; ma adesso ella non si sentiva
da tanto di assistere allo spettacolo di una felicità che le costava
tutte le speranze dell'avvenire. La felicità è cieca come l'amore: a
simiglianza del fanciullo che folleggiando per la campagna calpesta le
macchie di fiori, ella procede nel suo cammino spensierata e obliosa,
e non si cura di ciò che schiaccia sotto i suoi piedi, o di ciò che
offende con la clamorosa allegria. La Matilde non aveva altro in
bocca che l'amor suo, e di questo ragionava con l'Angelina e de' suoi
disegni per l'avvenire, oh! quanto diversi da quelli che l'Angelina
s'era formati nel segreto del suo cuore a' dì beati, in cui ella pure
inebbriavasi in un sogno d'amore. Alla Matilde non sorrideva l'idea
della vita campestre, ed ella sperava d'indurre il suo Vittorio a
trasferirsi in città, ove col suo ingegno avrebbe potuto farsi un nome
e uno stato, e, chi sa? diventar col tempo un personaggio importante,
forse forse prefetto. Poi, seguendo i capricci della sua fantasia,
saltava a discorrere del suo vestito di nozze, mettendo sul tappeto
la grave questione se convenisse meglio ch'esso fosse di velo o di
_moire_, se con lungo strascico o senza. L'Angelina era sulle brage,
e quando la Matilde usciva, ella, cosa insolita, si sentiva sollevata
d'un peso e trovava almeno il refrigerio del pianto. E lì dalla sua
finestra mirava allontanarsi lungo il viale di platani la Matilde e
Vittorio, l'una al braccio dell'altro, col passo lieve ed elastico
di chi ha la letizia nell'animo e vede sparsa di rose la via. Quante
volte aveva anch'ella percorso quel viale a fianco di Vittorio, quante
volte gli sguardi e le parole di lui le avean fatto balenare innanzi
agli occhi i larghi orizzonti della felicità! Era appunto su quel
sentiero, era sotto quegli alberi, era presso a quell'argine, che
Vittorio le aveva fatto intendere di amarla, e ch'ella l'avea ributtato
armandosi d'una menzogna. Così, immobile, appoggiata al davanzale
del balcone, ella se ne stava senza parola lungo tempo dopo che i due
amanti s'erano dileguati, nè più si udiva il suono festevole delle loro
voci. Era allora che talvolta la sorprendeva lo zio, ed ella appena
sentiva muovere il saliscendi dell'uscio, si rasciugava gli occhi,
e componevasi alla più tranquilla cera del mondo. Non tanto però che
allo sguardo amorevole del signor Bernardo sfuggisse l'assidua cura,
da cui ell'era logorata. L'Angelina non diceva molto, non lagnavasi
mai, tentava distrarsi approfittando, più che non solesse una volta,
di alcuno fra gl'inviti che le faceano le sue discepole: eppure ella
dimagrava ogni giorno, ogni giorno si faceva più profondo il solco
del dolore sul suo pallido viso. Tutto rianimavasi in casa Mauri,
tutto aprivasi a una vita nuova; solo l'Angelina e il signor Bernardo
non ne sentivano gl'influssi. Ella cercava invano di farsi maggiore
dell'interno travaglio, egli dal soffrire di lei vedevasi tolta ogni
gioia per la contentezza della figliuola. Non v'era dubbio alcuno;
l'Angelina aveva amato Vittorio prima della Matilde. Ma qual rimedio a
sì malaugurato avvenimento? Appunto questa impossibilità del rimedio lo
turbava a mille doppî. Ed egli richiamava alla mente le raccomandazioni
del fratello e le lagrime della cognata al suo letto di morte, e gli
pareva udir la voce angosciosa di que' cari defunti chiedergli conto
della loro creatura. Oh! ma ella non gli serbava rancore, e se il
suo labbro aveva ancora sorrisi, erano per lui, e se aveva un resto
d'allegrezza nell'anima, lo serbava pei momenti de' loro colloquî.
Il signor Antonio, il padre di Vittorio, provava anch'egli un vivo
affetto per l'Angelina, e le dava la preferenza sulla sua futura nuora,
e continuava a maravigliarsi come Vittorio non si fosse innamorato di
lei. Sennonchè, a vederla così pallida, così affilata, gli veniva il
sospetto ch'ella godesse di mal ferma salute, e questa era una ragione
sufficiente a giustificare Vittorio.

Passarono le settimane, passarono i mesi. Vittorio, presa la laurea, si
assentò insieme col padre per preparare gli appartamenti alla sposa.
Erasi deciso che, almeno per qualche tempo, Vittorio dimorerebbe
nella sua villa, e i sogni della Matilde circa il soggiorno nella
capitale erano andati in fumo. Vittorio si trattenne lontano dalla
sua fidanzata quindici giorni, e ogni mattina il fattorino della posta
recava alla Matilde una bella lettera in carta color di rosa, profumata
di _patchouli_, ch'ella leggeva tutta d'un fiato, e di cui faceva
poi sentire frammenti all'Angelina, non senza riportarle fedelmente
i saluti che le mandava Vittorio. Un dì le lettere furono due: oltre
alla solita per la Matilde ve n'era una del padre di Vittorio pel
signor Bernardo. In quella lettera il signor Antonio offriva, senza
tanti preamboli, al futuro suocero del figlio suo una occupazione
commerciale di non grande rilievo, ma sufficiente a procacciargli di
che mantenere la sua famiglia, senza dover nulla a nessuno. Era una
improvvisata, che il lettore può immaginarsi se riuscisse gradita
ad un uomo corto sì, ma delicato e dabbene come il signor Bernardo.
Non potè a meno di correr subito dall'Angelina a confidarle la sua
esultanza, e a portare ai sette cieli la bontà e la rettitudine del
padre di Vittorio, che con la sua provvida offerta lo facea rinascere
a nuova vita e lo rendeva utile a qualche cosa. La commozione sincera
dello zio toccò l'Angelina: eppure, lo credereste? ripensandovi, ella
provò nell'anima più vivo che mai quel senso pauroso d'isolamento onde,
a suo malgrado, ella era da qualche tempo assalita. L'aiuto ch'ella
recava alla famiglia de' suoi congiunti era sempre uno stimolo alla
sua attività, e le avea fatto parer cento volte più belle le ore del
lavoro e della fatica. Persino le bizzarrie della signora Clara e della
sua primogenita ella subiva con ispirito sereno, allorchè, consultando
il suo cuore, sentiva rispondersi: — Tu paghi col benefizio il male
ch'altri ti fa. — Era orgoglio? Era egoismo? Volesse il cielo che tali
fossero tutti gli egoismi e tutti gli orgogli del mondo! Finchè in
casa Mauri v'erano dolori da lenire, confidenze da ricevere, consigli
da porgere, la presenza dell'Angelina aveva un valore, uno scopo;
ma adesso? La Matilde, la dolce amica d'infanzia, era sposa, ebbra
di contentezza e d'amore; l'Amalia, secondo il costume dell'età sua,
preferiva la vispa ilarità della sorella alla tranquilla, ma profonda
mestizia dell'Angelina, e il signor Bernardo, l'ultimo ad esultare di
quei lieti eventi domestici, s'era rasserenato pur esso all'idea di
ritornare alla onesta operosità del passato. Ella sola era malinconica,
ella sola era sventurata in mezzo ai felici, e le sembrava di non poter
essere agli altri che un imbarazzo, o un peso, o un rimorso. Andava
svogliata alle consuete lezioni, e le sue discepole già susurravano
che la non pareva più quella; non che si ristessero però dall'amarla,
tanto era dolce e buona e indulgente. Ma tutti dicevano: — L'Angelina
sta male, l'Angelina dovrebbe far una cura seria; — oppure: —
L'Angelina ha qualche grande affanno nascosto. — E l'affanno nascosto
la poveretta l'aveva, ma non era soltanto il suo amore sventurato:
era l'insieme del suo stato, era la solitudine del suo cuore. Nelle
nature squisitamente temprate come la sua, lo spirito di gran lunga
prevale alla materia, e la vita, per mantenersi, domanda con più
angosciosa insistenza l'alimento dell'anima che quello del corpo.
Era appunto l'alimento dell'anima che andava mancando all'Angelina,
e la vita le veniva meno per insufficiente ricambio d'affetti. Se
la Matilde fosse stata infelice, se la piccola Amalia avesse avuto
bisogno di lei, se il signor Bernardo fosse rimasto nel primiero
abbattimento, forse l'Angelina avrebbe vissuto, avrebbe vissuto per
loro. Ma così le mancava una mèta: non poter giovare significava per
lei non poter vivere. Oh! certo, il mondo è vasto, e fuori di casa
Mauri vi sarebbero state altre piaghe da rimarginare, altre lagrime da
tergere; ma dovevasi esigere che ella, a vent'anni, andasse di porta
in porta ad offrire il balsamo de' suoi conforti? Ella non chiudeva in
sè la tempra venturosa dell'eroina, la quale, più che per l'uomo, si
sacrifica per il genere umano: era sortita agli affetti domestici, alle
casalinghe abitudini. Perchè non aveva, come hanno le altre fanciulle,
una famiglia, di cui esser l'angelo tutelare; perchè, come l'altre
fanciulle, non l'era dato allegrarsi nella speranza d'un tetto, ove il
suo cuore si aprirebbe alle semplici gioie di sposa e di madre? Perchè
il disinganno l'aveva colta proprio alla soglia dell'esistenza?

Non era una malattia, su cui potesse arte di medico o virtù di
farmachi: l'Angelina finiva per una occulta stanchezza, per un
infiacchimento generale della persona. Chi l'aveva innanzi agli occhi
ogni giorno non accorgevasi di questo rapido deperire, ma chi la
vedeva dopo qualche intervallo n'era dolorosamente colpito. Vittorio,
reduce presso la sua fidanzata, mise l'inquietudine nella famiglia,
chè lo stesso signor Bernardo, per inquieto che fosse sul conto
della nipote, era ben lungi dal creder vicino il pericolo. L'Angelina
ricevette la visita del dottore senza stupore e senza sgomento, nè
si turbò vedendolo annuvolarsi in volto e manifestare nell'aspetto
una penosa incertezza. Quand'egli sedette al tavolino per iscrivervi
una ricetta, lo guardò con un mesto sorriso, e quando le portarono la
pozione ch'egli le aveva ordinata, la prese con indifferenza, come cosa
da cui non aveva nulla da sperare e nulla da temere. La Matilde, il
signor Bernardo e Vittorio fecero ressa intorno al medico per sentirne
i pronostici: ed egli, coscienzioso e sincero, disse che il male
dell'Angelina aveva per lui qualche cosa di arcano, che non v'erano
sintomi chiari, ma v'era una strana prostrazione di forze, di cui egli
non sapea dissimularsi la gravità. Chiese se vi potessero essere cause
morali a un tale abbattimento. Il signor Bernardo si scosse, ed era per
esporre il dubbio che da tanto tempo gli stava sull'anima; ma alzando
gli occhi vide la Matilde affisare con sì trepida ansietà il suo
fidanzato, che sentì compassione di lei, e l'amor paterno prevalse in
lui ad ogni altro affetto. Non isfuggì al dottore quell'imbarazzo, ma
da uomo accorto e discreto com'era, fece mostra di non avvedersene, e
disse soltanto: — Interrogherò la malata. — Vittorio lo accompagnò fino
all'uscio, ripetendogli: — La interroghi, la interroghi presto. — Egli
si ricordava delle parole misteriose proferite dall'Angelina nel suo
colloquio, e che sembravano accennare a un'occulta passione.

Da quel dì la stanza dell'Angelina era divenuta il convegno di
quasi tutta la famiglia Mauri. La buona giovinetta erasi trascinata,
finchè le forze glielo aveano concesso, nel salotto da pranzo; ma
ora il medico le aveva ordinato il più assoluto riposo, nè del resto
l'estrema debolezza le avrebbe concesso di scendere la scala. Passava
le ore del giorno in una sedia a braccioli, accurata nel vestito e
nell'acconciatura, e tanto più serena e tranquilla, quanto più il male
faceva progressi e quanto più nel volto degli altri s'esprimeva un
dolore disperato d'ogni conforto. Diceva di non soffrire, e forse era
vero, e alla Matilde e a suo zio che le stavano presso, non potendo
frenare le lagrime, stringeva teneramente la mano, e volgeva il più
amorevole de' suoi sorrisi. Ma nè dinanzi allo zio, nè alla Matilde,
nè al medico, che pur la interrogò con sottile artifizio, si lasciò
sfuggire un accento che tradisse il suo segreto.

E intanto ella affievolivasi sempre più, e se l'aria era un po' fredda,
e il tempo un po' umido, non si sentiva d'alzarsi e si tratteneva in
letto l'intera giornata. Alla sponda di quel letto era sempre il signor
Bernardo, e ogni momento le metteva la mano sulla fronte per sentirne
il calore, e la fissava con uno sguardo che vi straziava l'anima. Le
stava a' piedi una donna, una nostra antica conoscenza, la vecchia
Filomena, con certi occhi invetriati, con una certa immobilità nella
fisonomia, da mettere paura. Teneva le labbra strette che pareano
inchiodate, e le mani incrociate sulle ginocchia non si toglievano
da quella positura, se non per acconciare le coltrici della malata
o per porgerle da bere o per accomodarle meglio i guanciali sotto il
capo. Ogni due ore la Filomena senza dir parola, e si sarebbe creduto
impossibile in femmina tanto ciarliera, scendeva in cucina a preparare
ella stessa la minestra per la povera inferma, e in mezzo alle pentole
ritrovava un po' della sua antica eloquenza per bisticciar con la
fantesca di casa, la Teresa: poi risaliva muta come prima, soffiando
nel brodo della scodella. La Filomena non vedeva la sua padroncina
da oltre un anno, chè la sua smania di pettegoleggiare le aveva fatto
dar l'ostracismo; ma appena seppe l'Angelina malata, supplicò che le
fosse concesso di assisterla, ed ora vegliava dì e notte presso di
lei, reprimendo, pur di starle vicino, e l'angoscia che le strappava
il cuore, e quell'abitudine di discorrere, anche da sè sola, che le era
divenuta una seconda natura.

Mancavano poche settimane al termine fissato per le nozze di Vittorio
e Matilde, e già dibattevasi in famiglia se le si dovessero differire
a cagione dell'Angelina, quando l'inferma manifestò il desiderio di
parlare agli sposi. Fece la sua _toilette_ di malata con più cura del
consueto, ordinò alla Filomena che le accomodasse i capelli come soleva
una volta, s'acconciò sulle spalle e sul petto a guisa di sciallo un
fazzoletto di seta azzurra, e postasi a sedere e atteggiato il volto
al sorriso ricevette i due fidanzati, che le si presentavano innanzi
lagrimosi e compunti. Era soltanto il presagio dell'imminente sventura?
O era anche un senso indistinto d'inquietudine e di rimorso? Fu
l'Angelina che ruppe il silenzio.

— Non le differirete mica le vostre nozze, — diss'ella con accento
dolcissimo; — non lo permetterei a ogni modo, e poi.... non ve ne
sarà bisogno.... — E com'essi si peritavano a chiederle spiegazione
di questa frase: — Non ve ne sarà bisogno, — soggiunse, — perchè
l'Angelina non tira innanzi tanto.... Oh! via, non piangete, non fate
fanciullaggini.... Venite qui piuttosto, qui vicino a me. — Le si
appressarono col capo basso, con gli occhi gonfi di pianto. L'Angelina
pose la mano sulla spalla della Matilde: — Fatti animo, Matilde mia, tu
stai per diventar moglie, e il mio povero babbo mi diceva spesso che
le buone mogli devono presentarsi dinanzi ai loro mariti con aspetto
sereno. Una donna ilare è un tesoro inapprezzabile per una famiglia....
E voi, Vittorio, — riprese volgendosi al giovane, — amatela questa
mia buona Matilde. Siamo cresciute insieme, abbiamo durato insieme le
prove dell'avversità, e io vi posso dire ch'ella merita un'esistenza
men travagliata, e che di tutte le cure onde vorrete circondarla,
non ve n'è una, di cui ella non saprà compensarvi con l'amor suo. Oh!
Vittorio, promettetemi di amarla sempre e di fare quanto sta in voi per
renderla pienamente felice. —

Così dicendo staccò dalla spalla dell'amica la sua mano bianca,
affilata, e la stese verso Vittorio, che se la portò alle labbra e la
coperse di baci e di lagrime. Non proferì parola, ma il suo silenzio
era più espressivo d'ogni risposta.

La malata si colorò lievemente, gli occhi le brillarono d'un mesto
splendore, parve sorpresa da una commozione superiore alle sue forze,
e si lasciò ricadere sull'origliere. Però si ricompose prestissimo, e
dopo aver frugato sotto i guanciali, ne trasse un monile di granate a
due giri, da cui pendeva un piccolo medaglione d'oro. Lo pose al collo
della Matilde, che nell'eccesso del dolore appena era conscia di sè,
dicendole: — Eccoti il mio regalo di nozze. In quel medaglione troverai
de' capelli; son miei.... serbali per memoria dell'Angelina.... — La
Matilde, soverchiata dall'angoscia, cadde ginocchioni a piè del letto,
abbandonando il capo sulla coltrice, e rompendo in singhiozzi. Anche
Vittorio singhiozzava col viso nascosto fra le mani. Lungo le guance
pallide dell'Angelina scorrevano in silenzio le lagrime: v'era una
serenità celeste nel suo dolore.

Alcuni dì appresso la inferma volle alzarsi, e le sue gracili dita
corsero ancora una volta sui tasti del pianoforte. Sonò un concerto
della _Norma_, e veramente al mirarla coi capelli ondeggianti, con
la lunga veste bianca, con quel volto che aveva la trasparenza e il
color della cera, la si sarebbe detta una visione notturna dei boschi
druidici. Sull'imbrunire si coricò chiedendo che le si aprissero le
finestre per respirar l'aria della campagna. E così, contemplando il
sole che tramontava, inebbriandosi nell'odor delle viole di primavera
(che era appunto sul finir dell'aprile), esalò l'anima soavissima fra
le braccia dello zio e della vecchia sua Filomena.

La Filomena rimase come impietrata: convenne strappare a forza il
signor Bernardo dalla stanza della defunta, perch'egli non voleva a
verun costo abbandonare quella tepida salma.

Sulla scrivanìa dell'Angelina fu trovata una lettera, con cui ella
disponeva della sua modesta sostanza. D'un terzo lasciava erede la
Filomena: destinava gli altri due terzi all'Amalia, con espressa
condizione che il capitale fosse messo a frutto sino al momento, in cui
la fanciulla andasse a marito.

Un mese dopo successero le nozze di Vittorio e Matilde; nè mai più
mestamente si compì la solenne cerimonia. I pochi convenuti notarono
nel volto di entrambi gli sposi i segni di una cura profonda, e tutti
furono maravigliati del pianto dirotto, in cui proruppe il signor
Bernardo, allorchè la figliuola si pose in dito la gemma nuziale.
Sulla veste bianca della Matilde spiccavano, singolare ornamento, le
granate, ultimo dono dell'Angelina, quasi a ricordare quanta parte di
lutto offuscasse quella giornata. Soltanto la signora Clara e la Nella
parevano abbandonarsi alle più gradite impressioni: la signora Clara
esultava pensando che porzione della ricchezza della figliuola verrebbe
di riflesso su lei, e la Nella faceva gli occhietti a un impiegato
in pensione molto azzimato e coi capelli tinti e ritinti. L'Amalia
era malinconica e taciturna: anch'ella dolevasi nel suo cuoricino
dell'amica che non vedrebbe mai più.

  _1867._



RIMEMBRANZE DEL CADORE.


I.

  Una riga d'esordio. — La città di Vittorio. — Un panegirico
  dell'acqua. — Due laghi. — Longarone e la Punta. — L'edificio di
  seghe del Wiel. — Il bacino della Piave. — Codissago e le zattere.
  — Castello e gli scalpellini. — Fine della sinfonia e principio
  dell'opera.

_Conosci tu il paese dove fioriscono i cedri, e i belli aranci d'oro
splendono sotto il frascato?_ È questo il grido che il Goethe pose
sulle labbra della sua _Mignon_, e che fa tuttavia balzar di desiderio
i buoni Tedeschi sospiranti affannosamente tra le nordiche brume al
cielo sereno e al clima primaverile della nostra Italia, prediletta
figlia del sole.

Ma noi che i cedri li sappiamo a memoria, e i belli aranci d'oro li
sentiamo gridar per le vie a pochi centesimi l'uno, ci prenderemmo
volentieri lo svago di seguire un'altra _Mignon_ che ci dicesse:
_Conosci tu la terra degli abeti e dei larici, la terra ove lo
scrosciar del torrente si confonde collo strido dell'aquila?_ Ebbene,
o lettore, senza che tu esca d'Italia, tu puoi soddisfare questa
curiosità del tuo spirito. Io non sono certo una _Mignon_; pur mi ti
offro a compagno, e t'invito a venir meco in Cadore. Che tu abiti in
riva alle lagune o sui margini del Bacchiglione e del Brenta, che tu
sii avvezzo a contemplare il tramonto del sole dalla baia incantata di
Napoli o dai colli di San Miniato e di Fiesole; credilo a me, due o tre
giorni in Cadore ti lasceranno una gradita impressione.

Diamoci la posta in Conegliano, piccola, ma ridente città edificata sul
pendìo d'un poggio. La si direbbe mollemente seduta a bearsi dei raggi
del sole che la cingono di tepore e di luce. Io potrei parlarti del suo
Castello e del Castello Collalto, e delle leggende di spettri che vi si
uniscono, e dei ricordi di Gaspara Stampa e del suo amante infedele. Ma
il tempo è prezioso, e tiriamo innanzi.

A Conegliano bisogna abbandonare la strada ferrata che si dirige
verso il Friuli, e prendere la postale di Belluno. Una buona carrozza
ti conduce in un'ora a Ceneda, che ormai s'è congiunta con la vicina
Serravalle e forma, insieme con questa, la città di Vittorio. Ceneda
e Serravalle erano divise da ire antiche ed irreconciliabili, e il
non aver mai visitato il paese rivale era un titolo di patriottismo
per molti fra gli abitanti di ciascuna delle due ville. Le cagioni
di questi grandi sdegni io non le so, e a chi legge probabilmente non
importa saperle, ond'io posso astenermi dal visitare gli archivi, e dal
consultare gli eruditi del luogo; tanto più che con eroico proposito
le due borgate pensarono di seppellire i loro rancori in un felice
connubio, e rinunziarono al proprio nome per prenderne uno comune —
VITTORIO. — Che Vittorio sia per diventare la _Washington_ dell'Italia?
Non oserei fare pronostici. Sinora l'è una città lunga lunga, la quale
ti dà l'immagine di una biscia tagliata a mezzo e congiunta nelle sue
parti da alcuni sottili filamenti. E invero il non breve tratto di via
che correva fra Ceneda e Serravalle è pressochè deserto d'abitazioni,
se non fossero due edifizî che rendono testimonianza della unione, e
sono l'Ufficio postale ed il Municipio. Com'è naturale, per non far
torto a nessuna delle due frazioni, questi due edifizî pubblici sorgono
a giusta metà della strada, e danno agli abitanti la consolazione
di dover fare un viaggio per arrivarvi. Vi sono città popolate e
importanti, che per la loro conformazione topografica rendono poco
faticoso il percorrerle da un capo all'altro: Vittorio ha sciolto
felicemente l'arduo problema d'essere una città piccola e sottile di
popolazione, e di non permettere a un buon galantuomo di misurarla
a piedi nella sua lunghezza senza correr rischio di buscarci un
riscaldamento.

Chi non ha voluto saperne della unione si fu un vetusto cipresso che
sorgeva all'entrata di Serravalle. Conservatore come tutti i vecchi,
quand'egli ha visto cader le antiche barriere che separavano le due
rivali, ebbe un accesso di crepacuore e morì! Allorchè io passai di
là nel maggio, egli durava ancora in piedi per forza d'inerzia; ma ad
ogni occhio un po' esperto riusciva agevole lo scorgere che gli umori
vitali non iscorrevano più per le sue fibre irrigidite, e che l'opaco
manto delle sue foglie aveva perduto ogni freschezza. Forse oggi il
suo tronco ha già sentito la scure, e quei rami, alla cui ombra si
riposarono tante generazioni d'abitanti di Serravalle, gemono nel
camminetto d'un cittadino di Ceneda.... Ironie della sorte!

Su su per una via spalleggiata di portici bassi ed angusti, che
costituisce quasi tutto il paese di Serravalle, esci finalmente
all'aperto, e ti sembra d'uscire da uno spegnitoio per entrare in
mezzo alla luce. Già in tutti que' siti, ove la natura è veramente
pittoresca, le città mi hanno l'aspetto d'usurpatrici, a cui la
gioconda campagna dice con piglio burbanzoso — _levati dal mio sole_.
— Quei colori freddi, quegli orizzonti ristretti, quei rettilinei di
pietra impassibili come battaglioni al _presentat-arm_, sono per me
tante stonature, raffrontati con le curve or leggiadre, or maestose
delle colline e dei monti, con l'ampio padiglione del cielo, con quel
fremito di vita che anima tutto, dalla foglia tremolante sul ramo
all'acqua cristallina che si rompe sui sassi.

Oh! l'acqua, la grande incantatrice! Dipingiti per un momento la
natura quale una donna bella, capricciosa, elegante, e poi dimmi se
non ho ragione di chiamar l'acqua il suo finimento di gioie. Ecco:
ella si spiana in un lago, ed è la _broche_ di brillanti; scende
romorosa dall'alto, ed è il pendente a faccette che scintilla alla
luce; si devolve placida tra i margini d'un fiume, ed è il monile di
perle che consente all'arco delicato del collo. Quando il gioielliere
vuol vantare il diamante, dice ch'esso _ha una bell'acqua_, nè certo
troverebbe al suo pensiero espressione più acconcia di questa.

All'uscita di Serravalle l'acqua ti si affaccia subito allo sguardo.
Prima la senti strepitare fra le ruote dei molini e delle cartiere,
poi queta ed immobile forma i così detti _laghetti_ di Serravalle
che bagnano le falde di monti vestiti di faggi, indi s'allarga in un
lago, cui fu dato il nome lugubre di _lago morto_. La superficie n'è
tersa e levigata come d'uno specchio; non l'agita una corrente, non
la increspa una brezza, non la solca uno schifo. I monti all'intorno
non sono altissimi, ma aridi e nudi, e sparsi solo qua e là di qualche
macchia d'erba che dà maggior rilievo alla sterilità del tutto, come un
ciuffo di capelli sulla testa d'un calvo. A vederli riflessi nel lago
essi hanno un non so che di fantastico che ti colpisce: sia il colore
dell'acqua, sia la immobilità strana di quelle immagini capovolte,
ti sembra d'essere in un mondo di apparizioni, e ne provi un senso di
freddo e di turbamento. Però, quando salendo la strada che fiancheggia
il monte hai girato mezzo lago, dal punto elevato in cui ti trovi e
dov'è la villa di Fadalto, volgi lo sguardo alla vallata percorsa, la
prospettiva cangia d'aspetto; chè nel fondo del quadro il bel verde
dei colli di Serravalle ti conforta la pupilla e fa un contrasto assai
pittoresco con le tinte sabbionacee delle alture che si specchiano nel
_lago morto_. Ma io non ti vo' condurre passo passo lungo il cammino,
e mi contenterò di farti fare una breve sosta sulle rive d'un altro
lago, quello di Santa Croce. Non è nè ampio nè sinuoso come i laghi
di Lombardia, non è seminato tutto intorno di giardini e di palazzi
signorili, ma vi spira un alito di pace, un soffio di poesia casta e
serena, che forse esso perderebbe ove fosse meno isolato, meno deserto.
Non v'ha dubbio: all'economista piacerebbe assai più vederlo solcato
da vapori che vi portassero il moto delle idee e del lavoro; non v'ha
dubbio: quello scorgervi soltanto qualche battello che mena da una
sponda all'altra le famigliuole delle povere villette circonvicine, è
segno di civiltà primitiva; pure chi sente il fascino della solitudine
e del silenzio non può abbandonarne le rive senza un desiderio
vivissimo di ritornarvi. Io pensavo a quei laghi dell'Alta Scozia
descritti dalla musa pacata e malinconica del Wordsworth, vi pensavo
contemplando il raccolto paese, vi pensavo udendo il tintinnìo della
greggia che brucava l'erba proprio sul margine estremo delle acque, e
quanto, oh! quanto avrei dato per essere poeta e rappresentare ciò che
mi passava nell'animo. Era uno splendido mattino di maggio. L'azzurro
senza nube del cielo si rifletteva con una tinta più carica sul terso
cristallo dell'onda, i monti verdeggiavano per una ricca vegetazione
di primavera, e sparsi lungo le falde o sul pendìo di quelle alture
si disegnavano gruppi di casupole strette intorno al loro campanile
come intorno a un vessillo. Sono paesetti di pochi abitanti che si
assottigliano ancor più per la continua emigrazione delle donne, le
quali vanno per balie, e dei maschi che scendono nella città a farvisi
manovali o domestici. Ma pure nelle lunghe assenze non dimenticano
il loro lago, il tugurio affumicato, il campicello bagnato dei loro
primi sudori, e accorti e massai vanno raggranellando un po' di moneta
per aggiungere un lembo al podere, una pietra alla casa, un giumento
alla stalla, e poter morire tranquilli intorno al focolare domestico
circondati dai nipoti, a cui commettono le tradizioni d'una vita
modestamente operosa.

I cavalli, rinfrescati per una mezz'ora nella piccola villa di Santa
Croce, riprendono con maggior lena il cammino verso Longarone, a cui si
giunge dopo non breve tratto di via, percorsa quasi sempre in salita.
La Piave, che ti sarà fedele compagna per buona parte della tua gita
in Cadore, ti si fa incontro poco dopo il lago di Santa Croce, e da
Capo di Ponte la vedi stendersi serpeggiando di vallata in vallata e
dileguarsi lontana dietro i monti del Bellunese.

Longarone è una borgata importante, abitata da gente ricca, onesta,
industriosa. È, per dirla con voce francese, l'_entrepôt_ del
Cadore. Posta alla soglia di questa provincia montuosa, ella vi si fa
dispensiera dei prodotti della pianura e sparge nelle valli circostanti
il grano che la terra avara non vi produce che in minima copia, e
le stoffe modeste destinate a vestire quelle popolazioni massaie.
Addossata ai monti, non ha ampiezza di prospettiva se non da un lato,
cioè alla destra di chi viene da Santa Croce: ivi si stende ampio e
bellissimo il bacino della Piave, della cui vista magnifica non puoi
però godere pienamente se non discendi alla così detta _Punta_, ov'è
posto l'edificio di seghe del Wiel.

Ogni edificio di seghe è, per così dire, una sintesi della vita
cadorina: là il prodotto principale di que' luoghi, il legname, subisce
le sue trasformazioni; là i robusti alpigiani compongono la zattera,
l'avventurosa viaggiatrice dei fiumi e delle lagune. A Longarone non
siamo ancora in Cadore; ma, visitando il grandioso opificio del Wiel,
puoi farti un concetto di tutti quelli che incontrerai poscia sulla
strada di Perarolo e che non ne reggono il confronto nè per lo spazio
che abbracciano, nè per l'importanza delle opere idrauliche, a cui
diedero origine. Il Wiel vi si è messo dentro con passione d'artista;
ha voluto domar la natura, ha fatto strade, e canali, e bacini che
ti danno l'idea d'essere in un piccolo arsenale marittimo, e nei
quali l'acqua non mugghia impetuosa, non corre veloce a somiglianza
d'un convoglio in ritardo, ma queta, placida, carezzevole, lambe le
pareti del suo carcere e serve di rifugio alle zattere in costruzione.
All'opificio arrivi per un sentiero scosceso tagliato nel monte, e,
giunto che tu vi sia, ti spingi sotto a una tettoia di legno, che
par di quelle che si vedono a certe stazioni di strada ferrata. Ivi
si trovano le seghe, ivi è l'arca santa del tempio. Sotto gli assiti
che servono di pavimento corre rapidissima l'acqua, e, secondo che
s'innalza o s'abbassa un sostegno, irrompe in cascata romorosa o si
devolve cheta e tranquilla senza strepito alcuno. Nel primo caso, com'è
naturale, le seghe lavorano, nel secondo fanno sciopero. Allorchè sono
in moto, senti uno schiamazzo d'inferno, e non è da maravigliarsene,
poichè l'opificio ha 17 seghe, ciascuna delle quali appronta una
tavola ogni otto minuti, e poichè in quel recinto sono raccolti circa
cento operai. Non ti attendere da me la descrizione dei congegni, coi
quali si forma il legname. Tra i bernoccoli della mia povera testa
non c'è quello della meccanica, ed io non m'arrischierei a descrivere
una macchina semplicissima per tema di farmi dar la baia dal più
ottuso studente di un Istituto tecnico. Ti dirò soltanto che il tronco
dell'albero svestito della corteccia, appena che fu reciso dalla
pianta, viene tagliato in pezzi lunghi circa 12 piedi, ognuno de' quali
si accomoda sopra una specie di letto di tortura, ove la lama dentata,
mossa dalla sottoposta corrente, s'avanza inesorabile, lasciando ogni
volta dietro a sè una tavola lunga, uguale, levigata. Com'è facile
a immaginarsi, la convessità dell'albero fa sì che la sega, tanto
nel primo suo viaggio quanto nell'ultimo, separi dal tronco schegge
irregolari che servono come legna da fuoco, o, flessibili come sono, si
adoperano per connettere insieme le zattere. I ritagli minori, le così
dette _segature_, non avevano sinora un uso determinato: in piccola
parte servivano per concime, le più andavano disperse. Sembrerebbe però
che ormai dovessero esser serbate a miglior destino. Alcuni ingegneri
francesi, che visitarono l'opificio del Wiel e presero seco una certa
quantità di queste segature, le trovarono alte ad aggregarsi nuovamente
insieme mediante non so quale preparato chimico, in modo da produrre
un legname d'un ordine inferiore, ma solido e compatto in modo che
l'industria possa trarne profitto. Io non mi farei mallevadore di
siffatta scoperta; ma so che la potenza dell'industria moderna risiede
appunto in questa virtù di far sì che nulla vada perduto, di scoprire
un'utilità in ciò che prima giudicavasi imbarazzante e superfluo. È
una specie di riabilitazione anche questa, ed è una riabilitazione
assai più discreta e ragionevole di quella che si vorrebbe mettere
in voga nel mondo morale. Difatti, mentre i romanzieri cercano di
persuaderci che le signore dalle camelie hanno in sè gli elementi
delle donne più virtuose e castamente appassionate, gli industriali
si contentano d'assegnare un posto modesto agli antichi rifiuti delle
officine. E mi ricordo che il Rossi di Schio, quell'esimio uomo che
tutti conoscono, lesse una volta una saporita Memoria all'Istituto
veneto circa il partito che si ricava dai vecchi e frusti tessuti, i
quali sin a poco tempo fa erano retaggio incontrastato delle tignuole,
e adesso, sfilacciati nuovamente, tornano a subire il processo
della fabbricazione. I panni che ne derivano sono però d'una qualità
ordinaria, e il Rossi non si sognò nemmeno di esaltarli come il _nec
plus ultra_ della specie.

Ma sento già richiamarmi al mio dovere di parlare del Cadore e non
d'altro.

L'operazione che bene o male vi ho descritta non serve che alla
formazione delle tavole, le quali secondo la loro spessezza prendono
nel commercio nomi diversi. Il legname serbato alle travature non passa
per la prova della sega, ma è uguagliato con l'ascia. Quanto a quello
che si destina per gli alberi dei bastimenti, esso è piuttosto raro
in Cadore ed è fornito dal solo bosco di Somadida. Io non ne ho veduto
nell'opificio del Wiel.

Il modo di trasporto praticato in Cadore pei legnami rende necessario
di sottoporre la tavola a una perforazione ai due capi, senza la
quale i singoli pezzi non potrebbero connettersi insieme e formare la
zattera. Una tale perforazione è però una cosa che dà molto a pensare
ai negozianti, perchè sui mercati, ove essi inviano i loro legnami,
trovano la concorrenza di quelli che, venuti da altri paesi per strada
ferrata, sono intatti in tutta la loro lunghezza, e preferiti a questo
titolo dai compratori. E questa, come vedremo più tardi, non è l'ultima
fra le cagioni del decadimento del commercio cadorino.

Lettore carissimo, se per avventura tu visiti le segherìe del Wiel, e
il cortese ed intelligentissimo direttore dell'opificio t'invita a una
breve sosta nella casa del proprietario situata a pochi passi di là,
non te lo far dire due volte: accetta l'invito, ed entrato che tu sia
nel salotto terreno di quella semplice, ma elegante dimora, affacciati
alla finestra e guarda dinanzi a te. A' piedi ti corre la Piave e
si perde via via nell'ampia vallata; al tuo fianco è l'edificio di
seghe coi suoi diversi scompartimenti, col suo moto vario, continuo,
operoso, e tutto intorno scorgi monti o vestiti di verde, o aridi
e ignudi, o per la lontananza vaporosi e sfumati, o coperti la cima
di nevi. Quel piccolo borgo alla tua sinistra, proprio sulle sponde
del fiume, è Codissago, abitato tutto da conduttori e costruttori di
zattere. Son veri anfibî, e a ogni tratto li vedi lanciarsi nell'acqua
e immergervisi fino alla cintura, sia per imprigionare una tavola che
si è divisa dalle compagne, sia per ravviare la zattera impacciata in
qualche sinuosità della riva: poi ripigliano il loro posto affidando
al sole, se c'è, la cura di rasciugare i loro panni grondanti. Alcuni
di essi appartengono a opificî che si trovano più in su nel Cadore;
e dopo poche ore di sonno devono nel colmo della notte abbandonare la
loro casetta di Codissago e dirigersi verso Perarolo lungo il cammino
deserto, ove non altro che lo scrosciar del torrente risponde al suono
uniforme dei loro passi. In mezzo a questa esistenza che non conosce
riposo si fanno modeste fortune, e fra gli abitanti di Codissago vi
sono famiglie agiate, che non abbandonano però il mestiere paterno e la
zattera tradizionale.

Volgendo ora lo sguardo dal lato opposto, scorgi sul pendìo d'un monte
il campanile e la chiesa di Longarone, e più in alto e sospese quasi
sulla tua testa come nidi di rondini le villette di Pirago, d'Igna,
di Crosta, che a chi le mira dal basso paiono volersi precipitar
giù e prendere un bagno nella Piave. Ma se questa voglia del bagno
non se la possono cavare, fanno la cura della doccia e si lavano
il capo abbondantemente nelle irrefrenate pioggie d'autunno. Sul
dorso del monte si distinguono i solchi profondi scavati dall'acqua,
a cui non bastano più gli sfogatoi consueti, e vi fu un anno, nel
quale un piccolo diluvio afflisse que' luoghi e poco mancò che uno
scoscendimento della roccia non travolgesse nel fiume quei gruppi
di case. Certo che in novembre una gita colà non deve aver soverchie
attrattive; ma nel maggio un vero soffio primaverile anima tutta la
valle, e ti seducono come una cara promessa gli alberi fruttiferi
in fiore, e i tralci ricchi di pampini, tanto più belli a vedersi
inquantochè siamo nel punto estremo, in cui alligni la vite da questa
parte d'Italia.

Chi, dalla Punta, ascende l'erta che mette a Castello, non può
resistere alla gran tentazione che ha rovinato Orfeo e la moglie di
Lot, quella cioè di guardare dietro a sè e godere ancora una volta del
magnifico panorama. E quanto più in alto egli sale, tanto più il quadro
gli si presenta compiuto, sinchè un gran martellar sulla pietra che gli
ferisce le orecchie richiama ad altri oggetti la sua attenzione. Siamo
a Castello, il paese degli scalpellini. La pietra dura che si trova in
grembo a quei monti ne alimenta l'industria, e viene anche esportata
per la costruzione di vasche per fontane e di pilastri solidissimi, uno
de' quali regge imperterrito un ponte sulla Piave, proprio in faccia
alla casa del Wiel. Gli abitanti di Castello sortirono una speciale
attitudine all'architettura, e le case del villaggio furono edificate
di loro mano, e non mancano di regolarità e di buon gusto. Certo essi
non possono avere attinto che dallo spettacolo della natura il senso
artistico che li governa. Parrebbe a prima vista che delle arti diverse
l'architettura fosse quella che meno dovesse ispirarsi agli aspetti
stranamente mutevoli del mondo esterno, ella che tende a costringere
l'ideale nel letto di Procuste d'una linea castigata e severa; ma
v'è nella natura un così ammirando conserto di amabile varietà e di
rigida simmetria, che il compasso può trovarvi le sue proporzioni nella
guisa medesima che il pennello vi trova i colori. Chi ne dubitasse,
non ha che a considerare la relazione che passa fra i grandi stili
architettonici e la natura de' paesi ov'ebbero origine. Non era
soltanto l'allegria spensierata e voluttuosa dell'Olimpo greco che
faceva sorgere i tempî, modelli di grazia e di venustà; il capitello
corintìo fu, dicono, suggerito da un vaso di fiori, e furono certo
i pergolati odorosi, ove le fanciulle menavano in giro le danze, che
insegnarono a curvare in arco la pietra, e diedero il tipo ai lunghi
colonnati fuggenti. E così non era soltanto lo spiritualismo cristiano
che creava le chiese gotiche misteriosamente solenni: nella guglia
eminente che fendeva le nuvole era un ricordo dei nordici abeti; nella
oscurità del sacro recinto era una reminiscenza delle patrie selve,
contese ai raggi del sole.

Sennonchè ai poveri abitanti di Castello non cadde certo in pensiero di
essere iniziatori d'una rivoluzione nell'architettura, nè di edificare
monumenti durevoli nel loro umile villaggio. Manca loro lo studio,
manca il moto assiduo d'una civiltà che ne fecondi l'ingegno, e devono
sudare per vivere alla giornata. Alla popolazione che s'addensa non
forniscono più sufficiente lavoro le cave di pietra, e ogni anno,
a dieci, a venti per volta, quegl'industri alpigiani abbandonano
il loro paesello e trasmigrano per lo più verso la Transilvania,
ove s'impiegano come manovali nelle strade ferrate che si stanno
costruendo. Mi dicevano, che in non lungo tratto di tempo fossero
partiti da Castello oltre a 700 abitanti.

E adesso, o lettore, ne partiremo noi pure, non già per recarci in
Transilvania, ma per entrare in Cadore, di cui siam giunti alla porta.
Ora soltanto s'alza la tenda: finora non abbiamo assistito che alla
sinfonia, ma era la sinfonia del Guglielmo Tell.


II.

  Si entra in Cadore. — Termine. — Gli abeti ed i larici, e studî
  psicologici relativi. — Rivalgo e la difesa del Cadore nel 1848.
  — Pietro Fortunato Calvi. — Perarolo. — La chiusa dei legnami. —
  Tai e il suo albergo. — L'oste di Tai e il giuoco delle palle. —
  Il cappello degl'impiegati regi in Italia. — Scorsa nell'interno
  del paese. — Il monte Antelao. — Un'ora di passeggiata sulla strada
  d'Ampezzo. — Pensieri malinconici.

Chi discorre de' paesi nordici senz'averli mai visitati non sa farsi
altra idea che di nevi perpetue e di desolati scopeti, e ignora
le grazie infinite, e le belle tinte, e i vaghi splendori di una
natura settentrionale. La natura è una elegante damina che ha il suo
guardaroba d'estate e il suo guardaroba d'inverno, e riesce seducente
del pari circonfusa di pelli, o ravvolta di bianchi veli ondeggianti.
Di là da Castello ella è in _deshabillé_ affatto: ha smesso il vecchio
manto senza indossare il nuovo: la si direbbe quasi peritosa di vestir
l'aspetto d'altri climi in una terra così profondamente italiana.
E la via corre fra montagne alte, e dirupate, e sterili, ove appena
tra sasso e sasso spunta qualche filo d'erba germinato per caso dagli
atomi fecondi ivi deposti dal vento. La Piave gorgoglia a una certa
profondità sotto il livello della strada, ma la senti senza poter
vederla, celata com'è dalla configurazione del terreno. Qua e là
un'apertura nella roccia t'indica che sei a una delle cave di pietra,
e difatti il suono argentino dello scalpello ti ferisce l'udito e ti
accusa la vicinanza di operai invisibili.

Non passa molto però che tu esci da quelle Forche Caudine, e la scena
si allarga notabilmente. A Termine, che è il primo paese del Cadore per
chi viene dalla parte di Longarone, il letto della Piave si amplia,
e monti men desolati succedono alle squallide crode sospese sul capo
del viaggiatore durante il breve tratto dopo Castello. Un ponte di
legno attraversava una volta il fiume in quel punto, mettendo dalla
parte opposta alla strada maestra: ora non ne rimangono che frammenti
nei tratti ove l'acqua corre più profonda. Il resto si passa a guado,
e mi ricordo d'aver visto delle villanelle che vi diguazzavano fino
alle ginocchia con infantile voluttà. Dalla cima del monte scende
un'abbondante cascata.

A mano a mano che tu procedi, la corrente ti move incontro più rapida
e vedi passarti innanzi con la celerità della slitta le zattere uscite
dall'uno o dall'altro degli opificî che si succedono lungo tutta la
via.

Ed ecco lentamente le pendici di quelle alture si imboscano, e l'aria
odorata di resina ti venta sul viso, e ti sorgono maestosi dinanzi allo
sguardo l'abete ed il larice. Chi non conosce questi due bellissimi
alberi, a cui toccò in sorte la forza e la grazia? Chi non conosce
il colore delle loro foglie, e la simmetria mirabile di quei rami
che vanno lentamente digradando sino al vertice e danno alla pianta
l'aspetto della piramide? L'abete col suo verde cupo ha qualche cosa
di più maestoso e fantastico: la pallida tinta del larice ti attrae e
ti riposa più dolcemente la pupilla. Sono alberi aristocratici, e per
dirti una mia bizzarra similitudine, a vederli l'uno vicino all'altro
e' mi rendono immagine di svelte coppie di ballerini che s'avanzano a
passo di _quadriglia_. L'abete è il _cavaliere_ in cerimonioso abito
nero, il larice è la _dama_ che tiene sollevate le falde del bianco
vestito per non averne impaccio alla danza. Non mescetevi ai loro
convegni, o semplici e modeste piante della pianura e del colle: se
vedeste com'essi guardano dall'alto del loro blasone perfino i tassi e
le mughe, che pur sono della famiglia! Son proprio patrizi puro sangue:
sin nel bisbiglio delle loro fronde v'è qualche cosa di compassato, sin
nel dondolarsi delle loro cime v'è un tal quale riserbo aristocratico
che non vuol saperne di troppa dimestichezza. Però badiamo bene: essi
non appartengono ad una nobiltà frolla e degenere, ma hanno la tempra
robusta delle stirpi privilegiate che si rinvigoriscono nei disagi
e nelle fatiche. Durano imperterriti i rigidi inverni del Cadore, e
in mezzo all'imperversare di quella natura selvaggia ed indomita ben
puossi applicar loro il verso di Dante:

    . . . . . . . . . non mutò aspetto,
    Nè mosse collo, nè piegò sua costa.

L'abete conserva intatto il suo color verde cupo, che fa vivo contrasto
col bianco della neve raccolta sopra i rami a festoni; il larice rimane
anch'egli ritto e impassibile, e solo perde una parte delle sue foglie
che diventano rossicce. Superbi come sono, anelano però ad una cosa,
a un raggio di sole; e come colui che tra la folla si mette in punta
di piedi per godere d'uno spettacolo gradito, così l'albero cresciuto
in plaga meno propizia o tenuto nell'ombra dal libero germoglio di più
felici compagni si schiude faticosamente il varco in mezzo a tutti gli
ostacoli, e, sia pur con l'ultima cima, riesce a confortarsi nel tepore
e nella luce dell'astro desiderato.

O che villaggio è questo, mezzo arso e distrutto, ma che pur non
porta i segni nè d'incendio, nè di devastazione recente? È Rivalgo;
e questo nome richiama una folla di pensieri alla mente. Son corsi
vent'anni, dacchè l'austriaca ferocia mise a ferro ed a fuoco quella
povera villa, e i Cadorini non vollero più riedificarla, pensando che
all'efferatezza straniera non potesse rizzarsi condegno monumento
che lasciando intatta l'opera sua. Ebbene: intorno a quelle travi
annerite, a quelle muraglie sconnesse, si agita una fantasmagoria
varia e grandiosa, e il severo paese d'intorno ti si anima tutto, e
la breve, ma splendida, epopea della difesa del Cadore ti si affaccia
dinanzi come cosa viva e presente. E odi i canti patriottici del 1848,
e le campane che suonano a stormo, e vedi i gagliardi alpigiani con la
coccarda tricolore sul petto, armati di fucili irrugginiti o di falci
correre alla difesa delle valli native, ed ogni gola di monti essere
una nuova Termopili, ed ogni scontro un trionfo. E allorchè il nemico
s'avanza, li vedi arrampicarsi sui greppi, appiattarsi dietro gli abeti
ed i larici, e di là tempestar l'invasore, o sfracellandolo sotto i
massi di pietra divelti alla roccia, o prendendolo di mira coi loro
moschetti. L'acqua della Piave riconduce verso il Bellunese i cadaveri
dei soldati austriaci, nefasto presagio a coloro che devono prenderne
il luogo, e che nel lasciare il quartiere sogliono farsi raccomandare
l'anima dal prete, disperati ormai del ritorno. È muto lungo le sponde
il romor delle seghe, è muto nelle foreste l'alterno picchiar della
scure; ma l'eco ripete di valle in valle gl'inni di guerra, e le urla
selvagge dei Croati che d'ogni sconfitta si vendicano, portando la
rovina ove passano. Così fu arso Rivalgo il 28 maggio 1848.... Ma chi
è che ha disciplinato quella massa d'uomini, di donne, di fanciulli,
chi è che ha ordinato quella eroica difesa? Tutta la popolazione
combatte, è vero; ma i soldati non sono che quattrocento, ma il duce
che li guida a Venas, alla Chiusa, a Rucorvo, alla Tovanella non è
che uno solo, Pietro Fortunato Calvi. È giovane, è bello di virile
bellezza, e il suo spirito indomito raddoppia in tutti coloro che lo
circondano l'ardimento e la fede. E per quaranta giorni l'oste nemica
si frange contro la cittadella inespugnabile delle valli cadorine,
sinchè un passo mal guardato le consente d'irrompere entro quella terra
di prodi, e di render vane le previdenze e gli sforzi dei difensori.
Onde, nell'umile borgo di Lorenzago, Pietro Fortunato Calvi s'accomiata
dai suoi, e ne scioglie la generosa falange per correre altrove a nuove
battaglie. È il 4 giugno 1848. Sette anni ed un mese dopo quel giorno,
il 4 luglio 1854, Pietro Fortunato Calvi lasciava la vita in Mantova
per mano del boia. Egli scontava col capestro le sublimi impazienze
dell'amor di patria, sdegnoso di proferire una parola che l'avrebbe
salvato. Per ventidue lunghi mesi pregustò a sorso a sorso la morte
nelle tetre carceri, ove l'avevano preceduto il Poma, il Tazzoli, lo
Zambelli, il Canal, e tanti altri che suggellarono la loro fede col
sangue; nè mai gli venne meno il coraggio, nè mai lo vinse il dubbio
nell'avvenire d'Italia. I giudici restavano stupefatti di questa tempra
d'uomo così dissimile dalla loro, e gli ufficiali della fortezza,
nei quali la disciplina militare non avea spento il senso delle cose
nobili e grandi, parlavano con riverenza del martire intemerato. Narra
il prete Martini[2] che, quando Pietro s'avvicinò alla carrozza che
doveva condurlo al supplizio, molti di loro gli si fecero intorno e
lo abbracciarono teneramente. Tanto poteva in quegli animi l'invitta
costanza del Calvi, il nome del quale è ormai raccomandato alla
storia![3]

Ma della difesa memorabile del Cadore non rimane che la tradizione
serbata gelosamente nei cuori di quegli alpigiani: nessuno si curò, e
pare impossibile in una popolazione che ha senso e fantasia d'artista,
di raccogliere gli sparsi frammenti della gloriosa epopea; nessuno
si curò di evocar la leggenda, che in questo caso sarebbe più vera
del diario d'un fedele cronista, perchè riprodurrebbe la vita e gli
entusiasmi di un popolo. I monti del Cadore, le sue valli, i suoi
torrenti, il suo cielo, che bel fondo ad un quadro, entro il quale si
moverebbero le animose schiere dei volontarî, stretti intorno alla
maschia figura del Calvi! Giova almeno sperare che, come la difesa
dei Vosgi nel 1814 ebbe un'eco lontana negli stupendi racconti degli
Erkmann-Chatrian, così i fasti del Cadore nel 1848 troveranno di qui a
cinquant'anni chi gl'illustri con le scritture e ne divulghi la notizia
a' meno versati nella patria storia. Però non potrebbe essere narratore
efficace chi prima non avesse percorso da capo a fondo quei siti
pittoreschi, chi non tingesse la sua penna nel colore locale. Onde, o
lettore, continuiamo la nostra gita, e chi sa ch'essa non t'invogli a
rifarla da te a miglior agio, per attingervi le ispirazioni del poeta e
del romanziere.

La strada da Termine a Perarolo costeggia per la massima parte la
Piave, ed è in continua salita. Se non che i viaggi di montagna
han sempre dell'inaspettato, e quando credi di toccare il vertice
d'un'alpe, t'avvedi d'essere alle falde di monti assai più elevati,
e quando stimi di esser giunto al fondo d'una vallata, ti trovi sopra
un altipiano donde scopri a' tuoi piedi nuove valli e nuove pianure.
Così, ascesa l'erta che ti conduce a Perarolo, anzichè misurare con lo
sguardo un immenso orizzonte, ti vedi stretto entro una cinta di monti.
Ed è forse quest'angusta cornice che ti scolpisce nell'animo più vivo
che mai il bel paese di Perarolo. Ponendoli sulla spianata dinanzi alla
chiesa, moderna opera dell'architetto Negrin, vedi irrompere frettolosa
la Piave e accogliere il tributo d'un largo torrente che si precipita
dalla tua sinistra e porta il nome di Boite; indi piegar leggermente
a levante e perdersi fra le montagne, seguendo la via che hai prima
percorsa. Due ponti traversano i due torrenti antecedentemente al loro
connubio; quello gettato sulla Piave riesce ad un gruppo di capanne di
legno, nere, affumicate, con le scale e i ballatoi esterni alla foggia
svizzera, che producono un effetto assai pittoresco, sospese come sono
su quelle acque biancastre e mugghianti, e contrastano coi pochi, ma
lindi fabbricati di Perarolo, ove si trovano alcune dimore di signorile
eleganza, come quella del senatore Costantini. I monti d'intorno sono
tutti vestiti di pini, d'abeti, di larici, di mughe, ed hanno una tinta
cupa che dà maggior risalto a qualche striscia di neve che ne incorona
le cime.

Dopo Perarolo si sale nuovamente e gli orizzonti s'allargano. Dalla
strada che gira intorno al monte domini ancora per un buon tratto
Perarolo, il Boite, Caralte, e sempre giù giù, serpeggiante fra balze
e dirupi come un nastro che si svolge capriccioso, vedi la Piave. E
appunto nella Piave scorgi la chiusa dei legnami detta _Cidolo_, sulla
quale ti dirò due parole di spiegazione. Allorchè l'albero è reciso
dal ceppo, esso viene assoggettato alla così detta operazione dei
_segni_, la quale consiste nell'incidere sopra ogni tronco un'impronta
particolare che serva a indicarne il proprietario. Indi, dai boschi,
i singoli pezzi sono gettati nel fiume e affidati alla corrente. Si
raccolgono entro il _Cidolo_ o la chiusa; e di là a certi tempi vengono
rimessi in libertà e procedono nel loro viaggio. A mano a mano che
passano davanti agli opificî di seghe, ciascuno riconosce dal segno
i pezzi che gli spettano, o li prende, lasciando che gli altri tirino
innanzi. È dogma del commercio cadorino di rispettare religiosamente i
_segni_, nè accadde mai a memoria d'uomo che alcuno facesse suo un solo
tronco d'albero che non gli appartenesse.

Ma ecco il campanile di Pieve e le rovine del vecchio castello, antica
sede del Governo cadorino. Due castelli sono lo stemma del Cadore:
l'uno è appunto questo di Pieve; l'altro sorgeva nell'ultimo lembo del
territorio cadorino, ora in potestà dell'Austria.

Però quando credi d'esser vicinissimo a Pieve, la via se ne dilunga
piegando a sinistra, e ti trovi invece nel piazzale di Tai, ove
sboccano altre due strade, quella che viene da Pieve ed Auronzo, e
quella di Cortina d'Ampezzo. Sebbene fra Tai e Pieve corra circa un
mezzo chilometro, pure questi paesi sogliono confondersi insieme e sono
realmente riguardati come una sola cosa. Fa il conto che Tai e Pieve
formino la Buda-Pest del Cadore. Tai è la città commerciale. Pieve è la
città politica. Tai è la città degli alberghi (veramente non ve n'ha
che uno). Pieve è la città dei pubblici ufficî, quando se ne eccettui
però l'ufficio telegrafico, che ha la sua ultima stazione a Tai. Come
Longarone, ch'è alle porte del Cadore, v'introduce le derrate che
riceve dalla pianura, così Tai, che si trova nel centro, è il fondaco
naturale di tutti quei distretti, pei quali Longarone è situata troppo
lontana. Convengono colà gli abitanti dei comuni dell'Ampezzano e di
quelli d'Auronzo, e sul piazzale dinanzi all'osteria, all'insegna del
Cadore, vedi arrestarsi sovente il biroccino del Tirolese, che con la
piuma bianca al cappello viene a spendere le sue _Bank-Noten_ e ad
aggiungere dell'altra carta alla carta, da cui è inondato il Regno
d'Italia. Oh! l'osteria all'insegna del Cadore, co' suoi letti di
ferro e le lenzuola di bucato, con le cortine diligentemente inamidate
e bianchissime, col soffitto senza ragnateli e con le pareti senza la
inevitabile vaschetta dell'acqua santa che ti perseguita nelle locande
di villaggio, può esser davvero maestra di decenza a certi alberghi
di città! Vi si conservano poi singolari abitudini patriarcali. Per
esempio, un forestiere di riguardo, e capisci che a Tai io passavo
per tale, può esser certo che durante il pranzo avrà la compagnia
dell'oste, il quale è anche il negoziante del luogo, uomo dalla
faccia rubiconda e serena, che ti esilara l'animo, e ha i caratteri
dell'onestà e dell'agiatezza. Intanto una delle padrone ti serve a
tavola, la saliera di lusso esce dallo scaffale della credenza, e ti
si ammanniscono porzioni di carne da farti credere uno di quegli eroi
d'Omero che sotto le mura di Troia si divoravano placidamente grossi
quarti di vitello e di bove. Tra un boccone e l'altro discorri di
politica, del ministero Menabrea, del corso forzoso e del prezzo della
rendita; poi, se sei uomo d'affari, cerchi d'insinuarti destramente
nell'animo del tuo interlocutore, che, come ti dissi, è persona
facoltosa, e gli esalti le mille virtù della tua casa di commercio,
e gli parli del petrolio, dello zucchero d'Olanda e di quello di
Germania, e tenti di concludere qualche negozio. Ma l'oste, ch'è
persona riflessiva, si mette in guardia e si riserba di esaminare,
vedere, ponderare, ec. ec.; si lagna degli scarsi consumi, nega di aver
moneta, e chiude il discorso con la frase consueta: — _Pochi affari,
signor mio, pochi affari._ — In questo mezzo arriva la posta, recando,
fra le altre cose, anche la _Gazzetta di Venezia_. L'oste naturalmente,
da quell'uomo saggio e stagionato ch'egli è, ha una grande venerazione
per questo periodico; nondimeno, per uno speciale atto d'ossequio, si
dà premura d'offrirtelo prima ancor di spiegarlo, e t'invita a leggerlo
all'aria aperta sopra uno dei sedili di paglia, che, il dopo pranzo, si
mettono fuori della locanda. Ivi si riuniscono, all'imbrunire, alcuni
fra' più notabili personaggi dei luoghi vicini e tengono conferenze
politiche e sociali, mentre altri più giovani e vigorosi giocano la
partita alle bocce, il _cricket_ degl'Italiani. I giuocatori non son
tutti del paese; vi si mescolano due o tre impiegati d'altre provincie
addetti agli ufficî di Pieve. L'impiegato, gracile vegetale del Regno
d'Italia, non è difficile a ravvisarsi fra mille. Io l'ho riconosciuto
a Tai da un distintivo infallibile, il cappello a cilindro unto alla
base. L'osservatore filosofo sa che il cappello di quel genere è
richiesto dalla dignità dello Stato, e che nel luccicare dell'unto sta
scritto in lettere cubitali: — _Il mio stipendio non mi permette di
comperarmi un cappello nuovo._ — Mentre le bocce rotolavano saltellando
sullo stradale, que' poveri impiegati discorrevano fra loro di
emolumenti, di traslocazioni e delle altre miserie di _monsù Travet_.
L'oste assisteva in piedi al progresso della partita, con le gambe
aperte come quelle d'un compasso che vuol descrivere un circolo, e con
le mani unite dietro la schiena, tenendo in pugno un grosso bastone di
legno che con la punta radeva il suolo: di tratto in tratto accorrevano
a fargli festa le nipotine, che poi sguizzavano rapidissime entro
un orto chiuso da un basso steccato e posto a fianco della locanda.
In verità, a me pareva d'assistere alla bella scena dell'_Ermanno e
Dorotea_ del Goethe, quando l'oste del _Leon d'oro_, insieme coi più
ragguardevoli cittadini, s'intratteneva delle cose del giorno.

L'osteria _al Cadore_ è per Tai un edifizio cospicuo, a cui non saprei
quale altro potesse agguagliarsi fuori dell'ufficio telegrafico che
vi sorge dappresso. È l'ultima stazione telegrafica di questo lembo
d'Italia, e ad allontanarsene si prova un senso d'infinito rammarico.
Sinchè quel filo misterioso ci segue, non v'è terra così remota ove noi
non ci sentiamo in famiglia; quand'esso ci abbandona, siamo assaliti
da una nostalgia inquieta e profonda: ogni stormire di foglia ci pare
debba annunziarci qualche sventura. Al davanzale d'una delle finestre
dell'ufficio stava appoggiata e sporgente con mezza la persona una
giovane vestita con eleganza cittadinesca; aveva, se non m'inganno,
un succinto abito bigio, il camicino e i polsini inamidati, e una
fettuccia di seta rosa intorno al collo. Era, senza dubbio, la moglie
dell'ufficiale telegrafico, e assisteva con una certa aria di tedio
alla partita che si giuocava sulla spianata davanti all'albergo;
tantochè, se non fosse una temerità poco lodevole a voler leggere in
viso alla gente, io avrei trovato scritto sulla fronte di lei: — _A
Tai mi ci annoio moltissimo._ — E, diciamola schietta, se per chi vi
passa due o tre giorni, quelli son luoghi d'incanto, chi vi rimane per
lunghi mesi ha bisogno di possedere la scienza della vita in sommo
grado. Non portando le abitudini e le raffinatezze della città, si
può passarsela tollerabilmente in mezzo ai monti: conviene diventar
panteisti, immedesimarsi con quella natura splendida ad un tempo e
selvaggia, attendere alla cascina e al verziere, e saper tenere lunghi
ragionamenti con la pecora che torna dal pascolo e con la pèsca che
s'indora sul ramo. Signora _telegrafista_, la mi perdoni, ma mi sembra
che con la sua leggiadrìa, e co' suoi polsini, e col suo camicino
bianco, e con la sua fettuccia rosa, ella questa scienza della vita non
l'abbia.

A un passo dall'ufficio telegrafico trovi una viuzza che sale sul
monte. Da una parte e dall'altra di questa via angusta e fangosa
sorgono le abitazioni di Tai. Sono di legno, e di quell'architettura
che abbiamo già osservata a Perarolo; i tetti di cortecce d'albero
sovrapposte sporgono in fuori per un buon metro, e hanno una pendenza
notevole, come suolsi nei paesi nordici ove bisogna agevolare lo
scolo alle nevi. I fumaiuoli non si usano, e il fumo esce dalla porta
annerendo le gallerie, le pareti esterne e le scale, ciò che, a dire
il vero, non coopera a dare un aspetto di decenza al villaggio.
Il pian terreno d'ogni casa è una specie d'arca di Noè, ov'hanno
domicilio gli animali domestici, e si vede che la popolazione di Tai
partecipa piuttosto ai gusti del Michelet che non segua i precetti del
Mantegazza, e concede sotto il suo tetto un posticino alle bestie.
— _Chicchirichì._ — Dal pollaio senti la nota misurata ed acuta del
vigile gallo, mentre vi risponde in chiave di baritono il paziente
e rassegnato bove dalla sua stalla, il porco grugnisce a mezza voce,
e l'asino, il tenore dei quadrupedi, innalza al cielo il suo raglio
patetico. Qua e là passeggia dinanzi al noto abitacolo il grave
tacchino, impettito come un senatore, la gallinella con passo leggiero
di danzatrice va beccando rasente alle siepi.

Però, anzichè occuparsi della gallina, sarà miglior consiglio alzare
il capo e fissare lo sguardo al monte Antelao, il re di quella catena,
la cui cima torreggia dominatrice sopra altri monti minori. Dicono i
Cadorini che, se il suo comignolo è vestito di nubi, la pioggia non è
lontana, e non conviene avventurarsi a troppo lunghe gite. Io, dopo
le debite osservazioni, ridiscesi la via percorsa e lasciai passare
un breve acquazzone camminando su e giù pel vestibolo dell'albergo,
e gettando di tratto in tratto l'occhio nella cucina, ove parecchî
uomini, vestiti a foggia di montanari, seguivano attenti il bollire
del riso nella pentola, e il giro uniforme dello spiedo sopra le
brage. Piovigginava ancora quando uscii all'aperto, e deliberai di
fare una passeggiata dalla parte che mena a Cortina d'Ampezzo. Le
nuvole s'erano diradate alquanto; non così però che il grigio non
prevalesse ancor all'azzurro. Le montagne s'erano liberate il capo
dalla benda che le teneva nascoste; ma, anzichè spiccare sulla curva
d'un orizzonte limpido e trasparente, disegnavano i loro contorni sopra
un fondo cinereo, mentre larghe falde biancastre si appiccicavano ai
loro fianchi come brandelli di una vesta sdrucita. Talora lasciavano
vedere soltanto le cime, e a mirarle così isolate, con quella loro
tinta fredda d'inchiostro di China punteggiata qua e là dalle nevi,
avevano qualche cosa di lugubre e di sinistro. Le avresti dette spettri
giganteschi che, celata la persona in un ampio lenzuolo, si fossero
alzati dalle loro tombe per godere ancora una volta lo spettacolo di
questo piccolo mondo. Il vento scomponeva gli ordini di quelle masse
di nubi che ora procedevano serrate, ora sciolte, ora s'incontravano
evitandosi rapidamente, ed ora cozzavano e si mischiavano insieme.
Dalle pensili selve usciva un gemito malinconico, malinconico come il
cielo velato, malinconico come l'ora che transita fra il giorno e la
notte. E io andavo innanzi senza avvedermene, lasciavo alla mia destra
Nebiù, piccola villa tutta fra i monti, e in faccia mi si prospettava
Valle, grosso paesotto, e un po' più in là Venas, posta sul ciglione
d'un monte non elevato, da cui si direbbe volesse spiccare il salto di
Saffo. Stupendo paese, abbenchè ivi tu non senta il romoreggiare della
Piave, e la strada sia meno variata, e le pendici dei monti, coltivate
a frumento o a praterìa, non abbiano punto dell'arido come in altri
luoghi del Cadore. Voci di fanciulli si sollevavano dietro a quegli
alberi, gruppi festevoli ruzzolavano pel verde declivio di quelle
alture, e qua e là le campane suonavano l'_Ave Maria_. È l'ora dei
raccolti pensieri, è l'ora in cui l'anima sospira affannosamente alle
cose lontane o perdute. Come se la brezza increspa la superficie d'un
lago, discerni solo confusamente ciò che vi dorme nel fondo, così nella
lotta diuturna della vita talora il passato si nasconde o si vela. Ma
come se l'acqua si spiana, gli oggetti ch'ella ricopre si disegnano con
netti contorni, così nella solitudine e nel silenzio acquistano rilievo
le memorie dei tempi fuggiti. E l'anelito che ti fa evocare i diletti
estinti sembra pago un instante, e li vedi affacciarsi al tuo sguardo
e sorriderti, e schiudere le braccia all'usato amplesso. Oh! non così,
immagine fuggitiva ed eterea, non così io credevo incontrarti su questi
monti, mia sorella, mia sposa, Emma mia. Anima soavemente innamorata
del bello, perchè non eri tu meco a ritrar sulla tela i varî aspetti di
questa natura sublime? Poveretta! I tuoi pennelli giacciono polverosi
nel loro cassetto, i tuoi disegni sono intatti nella cartella; ma la
tua mano bianca e gentile non mescerà più i colori sulla tavolozza,
non prenderà più la matita. Mia buona Emma, mia perduta da un anno!
Così giovane, così leggiadra, così pura, perchè involarti da me?
Non eravamo sempre vissuti insieme, non avevamo cominciato ad amarci
bambini, giocando insieme nella sala o sul terrazzo della tua dimora?
Il tuo nome non chiudeva per me ogni dolcezza? Ed ecco, oggi io non so
più scriverlo senza che la guancia mi si bagni di pianto, non so più
sentirlo proferire dagli altri senza che un fremito mi corra tutte le
membra. E vorrei che la mia prosa negletta acquistasse, parlando di
te, un inusato fascino, onde come in nitido cristallo vi si potesse
specchiar la tua immagine e invaghire di sè chi svolge le carte di
questo volume. Nè ti dolga, schiva com'eri di lodi, s'io consacro alla
tua memoria questa pagina disadorna, e faccio pubbliche le tue virtù e
il nostro amore. No, io non disturberò la tua pace con vanti superbi;
mi basti richiamare sulla tua tomba un sospiro e una lagrima di chi
sente la religione della famiglia, e sa che vuoto lasci nel mondo il
dileguarsi d'una di queste dee casalinghe, ministre di sacrificî e di
affetti. O giovani madri, che vi vedete saltellare intorno una nidiata
di bambini, e li vedete crescere dal vostro soffio nudriti, dall'ombra
vostra difesi, come teneri arbusti che isolati non reggerebbero nè
all'impeto del vento, nè alla sferza del sole, possa un Nume tutelare
serbarvi a que' cari angioletti. Ma se voi li lasciate, chi prenderà il
vostro posto? Di che canzoni culleremo i loro sonni, di che racconti
intratterremo la loro infanzia? Dalla _ninna nanna_, con cui la
balia addorme il lattante, fino al volumetto di novelle, sul quale il
fanciullo impara a sillabare, per tutto è il nome materno: il mondo
non ha previsto il caso che i bambini non avessero madre. Miei poveri
orfanelli, aprendo il libro della vita, voi troverete lacerata una
pagina; la pagina che vi avrebbe compensato di tante altre, o stolte, o
ingannatrici, o nefande; la pagina, su cui avreste riposato lo sguardo
nei giorni dell'abbattimento e dello sconforto; la pagina, nella quale
era scritto a lettere d'oro: — _Amore materno!..._ —

E tu perdona, o lettore, s'io ti parlai de' miei lutti. Vi sono tanti
che riempiono interi volumi dei loro panegirici vanitosi, ch'io spero
meritare indulgenza se ho consacrato poche parole al mio dolore....


III.

  Una modesta dichiarazione. — La leggenda del Cristo. — L'asina di
  Balaam e i bovi cadorini. — La capitale del Cadore. — Aspetto della
  natura dopo Pieve. — Le donne al lavoro dei campi. — Il torrente
  Molinà e la villa di Calalzo. — I cimiteri di villaggio. — Lozzo
  di Cadore e le sue rovine. — I Tre ponti. — Fatto d'armi del 14
  agosto 1866. — Il patriottismo dei Cadorini. — Auronzo. — Un modo
  primitivo di dibattere la cosa pubblica. — Un gabinetto di lettura
  fra i monti. — La questione dei boschi. — Un ripiego da capocomico.

Come puoi credere, il paese di Tai non offre trattenimenti serali.
Il viaggiatore non ha da far nulla di meglio che coricarsi per esser
vigile e pronto ai primi chiarori dell'alba.

Una delle gite più frequenti pei forestieri che vengono a Tai è
quella sul monte Antelao. Si alzano per tempissimo e vanno a vedere
dalla pendice del monte il levarsi del sole. Potrei fartene anch'io
una descrizione di fantasia, piena d'entusiasmi a freddo, e di punti
ammirativi concepiti nel calamaio; ma, nell'accingermi a questa breve
monografia, ho giurato a me stesso di non compiacere in nulla ai
capriccî della immaginazione, e di non descrivere che quello che ho
veduto realmente. Ora la mia gita in Cadore fu così precipitosa, ch'io
non potei dilungarmi dalla strada postale, e mi dichiaro di per me
un _touriste_ di terzo o quarto ordine. Viaggiare presto, viaggiare
in carrozza seguendo l'itinerario della diligenza, è rinunziare
spontaneamente ad ogni azione sopra i lettori che vorrebbero sentirsi
narrare le cavalcate sull'asino, le ardue discese giù per i greppi, le
colazioni sull'erba, le cacce al camoscio, e che so io? Io mi scuserò
co' due versi di messer Lodovico Ariosto:

    Nè che poco io vi dia da imputar sono,
    Chè quanto posso dar tutto vi dono.

Credo del resto che il carattere di quel paese, il colorito naturale di
que' luoghi possano colpirsi anche senza gite troppo particolareggiate.

Intanto non fa punto mestieri di abbandonar la strada maestra per
recarsi al famoso santuario del Cristo di Cadore. È una delle poche
superstizioni di un paese che nel suo complesso è sveglio, e può valer
la pena di spendervi alcune parole.

Salendo da Tai a Pieve, e quando hai fornito per tre quarti il tuo
cammino, t'imbatti in una chiesetta bianca con peristilio romano e
con un affresco di pessimo gusto sulla facciata. Se domandi che cosa
sia quella chiesa e che cosa significhi quell'affresco, ti guardano
strabiliati, come se l'ignorarlo fosse una grandissima colpa, e poi ti
raccontano questo edificantissimo avvenimento. Accadde una volta che
de' bifolchi aravano in quel sito la terra co' loro buoi, quand'ecco i
laboriosi quadrupedi arrestarsi ad un tratto, nè voler più muover passo
per quanto i loro conduttori li evangelizzassero con buone ragioni e
con la dialettica persuasiva delle bastonate. L'asina di Balaam, narra
la Bibbia, si trovò essa pure in condizioni uguali; ma, da quella
bestia di spirito ch'ell'era, seppe almeno, per adoperare una frase del
volgo, _dire i suoi sentimenti_. Citerò un brano del dialogo (_Numeri
XXII_): _.... Ed ella disse a Balaam: Che t'ho io fatto che tu m'hai
percossa già tre volte?_

_E Balaam disse all'asina: Io t'ho percossa, perchè tu m'hai beffato;
avessi pure in mano una spada che ora t'ucciderei._

_E l'asina disse a Balaam: Non sono io la tua asina, che sempre hai
cavalcata per addietro fino a questo giorno? Sono io mai stata usata di
farti così? Ed egli disse: No._

Non sembra che i bovi cadorini sfoggiassero una sì persuasiva
eloquenza; sembra invece che, sordi ad ogni maniera d'argomenti,
s'inginocchiassero con grande compunzione, onde la loro pietà inusitata
insospettì gravemente i pastori, che si accinsero a scavare la terra in
quel punto. Scava, scava, trovano, oh meraviglia! una cassa di legno.
La schiodano, ed ecco, composto fra gli assiti del cataletto, un Cristo
in croce, coi capelli lunghi, con la testa china alquanto sul petto. E
quei capelli sono ancora cresciuti, e quella testa s'è chinata ancora
di più, quasi a dar testimonianza della sua natura miracolosa. Fu
quindi deciso che quello era Cristo crocifisso in persona, e si lasciò
all'altro Cristo di Betlemme la briga di accertare la propria identità,
cosa della quale egli non pare essersi finora occupato. Intanto nel
luogo, ove successero questi fatti singolari, si eresse un tempietto
votivo, il Cristo vi venne collocato con grandissima pompa, e cominciò
a rimeritare i devoti con una buona quantità di prodigi. Occorreva la
pioggia? S'invocava il Cristo, ed ecco egli disserrava le cateratte
del cielo. Occorreva il sole? Ed ecco il Cristo col suo soffio
onnipotente diradava le nuvole e faceva apparire il più bel sereno che
si potesse desiderare. Quindi un pellegrinaggio continuo al santuario,
quindi una miriade di offerte che, a quanto mi disse argutamente
un Cadorino, consentono al Cristo miracoloso di vivere di rendita.
I pellegrini vengono anche di lontano, e sogliono lasciar le loro
bisacce nel peristilio ed entrar nel tempietto umili e scalzi; prima
di partire, se non appartengono ai 17 milioni d'illetterati, scrivono
il loro nome sulla facciata della Chiesa, accompagnandolo talvolta con
iscrizioni ascetiche. Sono, qual più qual meno, portenti di sintassi e
d'ortografia, e mi colpì fra le altre la seguente:

   QUI BALDASSARE CHELLI TOSCANO DI PRATO COL FILIO EMILIO E SUA
   CONSORTE NINA VENNE PER DEVOSIONE.

Nello scorrere queste righe in istile epigrafico non potei a meno di
chiedere a me stesso se per avventura il signor Baldassare Chelli,
toscano di Prato, fosse salito in Cadore a spargervi _notizia della
buona lingua_, secondo il desiderio di Alessandro Manzoni e del
ministro Broglio.

Comunque sia, queste singole leggende de' varî paesi, nel mentre
attestano lo spirito superstizioso dei volghi, tendono al grande
accentramento cattolico, a cui mira la Chiesa. È il municipalismo
introdotto nella fede, è un tentativo di autonomia nel campo
dell'unità. Il giorno che si forma uno di questi miti nel cuore del
popolo, la gerarchia ecclesiastica non può a meno di sentirsene
scossa: la fede esce di carreggiata, e anzichè tenersi entro i
margini prescritti, cerca i suoi conforti nelle creazioni avventicce
del momento e del luogo. Ma come opporvisi? Il prete di campagna,
o partecipi egli pure alla credenza comune, o cerchi farne suo
pro per uscire alquanto di tutela e sottrarsi alle ferree spire
che lo costringono, e acquistar maggiore importanza presso i suoi
parrocchiani, si leva assai di rado a combattere le superstizioni
nascenti, e con animo volonteroso ministra all'altare dedicato
all'idolo che sorge. La Chiesa lo sa e lascia correre. Talora fa le
viste di non avvedersene, talora concede il diritto di cittadinanza
a questa o quella delle nuove leggende, e impone a' suoi dugento
milioni di fedeli la fanfaluca che ha dovuto accettare da un gruppo di
cinquanta pastori. Sottili arti d'impero, nelle quali Roma è maestra.

Dal santuario del Cristo a Pieve corrono appena cinque minuti.

Pieve è quasi per intero costrutta di pietra, e sebbene i vetturali,
che vogliono risparmiare ai loro ronzini un buon tratto di salita,
sostengano che non vi si alloggia nemmeno per idea come nell'_osteria
al Cadore_, ella ha un aspetto molto più signorile di Tai. Ha
guarnigione [cinquanta o sessanta bersaglieri], ha pubblici ufficî, e
quindi impiegati; ha Pretura, e quindi avvocati e legulei. La piazza è
sufficientemente ampia e regolare; ha un carattere antico e contiene
i due monumenti più ragguardevoli di Pieve, la casa di Tiziano e la
chiesa. Della casa ove nacque il grande pittore dell'_Assunta_ e del
_San Pietro Martire_, non saprei dirti nulla, tranne ch'ella serve
a una vendita di vino al minuto, ciò che non mi sembra invero troppo
dicevole. Quanto alla cattedrale, che contiene due dipinti di Tiziano,
essa è piccola, ma non inelegante.

Chi viaggia con la diligenza non può recarsi più in là di Pieve, perchè
l'impresa che aveva cominciato con lo spingere le corse fino ad Auronzo
non vi trovò il suo utile, e dovette far le sue colonne d'Ercole della
capitale del Cadore. Però la strada, sebben più deserta, non è meno
varia e pittoresca: anzi, quanto più t'inoltri, tanto più folto di
abeti e di larici è il dorso dei monti, e più spesso lo sguardo ti
si riposa sopra il molle declivio degli altipiani coltivati parte a
cereali, parte a prateria. E là su quelle praterie e su quei campi vedi
disegnarsi i gruppi dei contadini e delle villanelle intenti al lavoro.
Delle donne moltissime sono adoperate pei trasporti, o della legna, o
del concime, o del fieno, o anche di pesantissime pietre che servono
alle costruzioni, e tu le vedi curve sotto la rustica _gerla_ contesta
di vimini, che devi certo conoscere, se ricordi le povere femmine
che dall'Alto Friuli scendono fra noi a limosinare, portando in quel
recipiente di paglia ciò che le madri hanno di più prezioso, i loro
bambini. Nel Cadore trovi _gerle_ di tutte le dimensioni, e parrebbe
che anch'esse avessero la loro infanzia, tanto ve n'ha di piccine,
adatte a fanciulletti di cinque o sei anni. Quando non attendono a'
trasporti, le donne si mescono invece ne' campi al lavoro degli uomini.
Nella prima giovinezza, chè la fatica affretta in loro il corso degli
anni, sono bellissime di aspetto e di forme. Vestono semplici assai: le
ripara dal sole, o un cappello di paglia a larghe falde, o una pezzuola
avvolta intorno al capo, o rossa o celeste; un corpetto turchino senza
maniche fa spiccare le giuste proporzioni del busto; la gonnella più
oscura sollevata intorno alle anche, mentre vangano la terra, lascia
scoperta la sottana bianca come le maniche e come gli orli della
camicia ch'escono fuori del corpetto. Per lo più vanno scalze, o,
secondo il costume contadinesco, camminano portando i sandali in mano
per calzarli sulla strada maestra o ne' siti di maggiore riguardo.
Dopo Pieve il passaggio di carrozze è assai limitato, e perciò, come
i contadini del piano, quando guizza dinanzi a loro un convoglio di
strada ferrata, così quelle leggiadre montanine si fanno uno spettacolo
del transito d'un cocchio, e incrociate le mani sopra la zappa, oppure
tenendo il rustico arnese con la destra e appoggiando sul manico il
gomito sinistro, piegano la testa sull'avambraccio e guardano in
vaghissimo atteggiamento. Ho anch'io un'estetica esclusiva, e non
so idearmi la donna bella e poetica altro che splendida di seta,
o circonfusa di veli; ma gli è che le figure della nostra fantasia
aristocratica si disegnano tutte sopra un fondo convenzionale: o fra la
mezza oscurità di un salotto elegante, o fra i sentieri odorati di un
parco: ma la bella alpigianina, in mezzo a quei monti, a quel cielo, a
quelle pietre, sta bene vestita così; il paese che la circonda fa parte
del suo abbigliamento.

Ma eccoci a uno de' punti più pittoreschi del Cadore. A una svolta
della strada ti si apre inaspettato al fianco un angusto e profondo
burrone, stretto fra due coste del monte, entro il quale devolvesi
romoreggiante il torrente Molinà. Strepitano al basso i molini messi
in giro dall'acqua, e fa singolare contrasto col candor delle spume,
con la tinta fredda dei sassi e col malinconico colore degli abeti, il
verde vivo di qualche falda di terra coltivata a praterìa proprio al
lembo ultimo della sponda. In alto e alla sinistra di chi si affaccia
al parapetto della strada, il villaggio di Calalzo con la sua chiesetta
candida di neve, col suo campanile coperto di lavagna, pensile sulla
pendice d'un monte, pare intenda l'orecchio al gorgogliare dell'onda.

Indi la via prosegue con un'alternativa di salite e discese. Per lunga
pezza scorgi Pieve, di là da una vallata, o da monti più bassi; poi
incontri Vallesella, Donnegge, e ti additano il campanile di Lorenzago,
ove il Calvi s'accommiatò dagli amici, e quinci e quindi altre villette
vagamente sparse, quali sul vertice, quali sulla china d'un monte. Mi
ricordo una cosa semplicissima che mi colpì. A pochi metri da ciascuna
di quelle ville miri un recinto rettangolare chiuso da un muro bianco
e basso. È il cimitero. Quanto più commovente e più bello delle moli
superbe che raccolgono migliaia di estinti l'uno all'altro ignoti!
Colà almeno dormono insieme quelli che un giorno lavoravano insieme,
e la zolla senza nome è distinta fra mille più che il marmo istoriato
dei sontuosi cimiteri. Colà almeno, se qualche fremito di vita corre
attraverso le fredde reliquie, i defunti sentono le care e note favelle
nella capanna vicina, e nelle lunghe sere d'inverno, quando la neve
imbianca le povere croci, odono il ronzìo del consueto _filò_ entro
la tepida stalla, e indovinano la primavera al tintinnìo delle capre
erranti pei monti, e la state all'allegra canzone dei mietitori. Colà
almeno la religione della famiglia, sopravvissuta al naufragio di
tutti gli Olimpi, ha più facili i suoi riti pietosi, e l'alpigiano che
sfronda gli abeti o mena la vaccherella su pegli scoscesi sentieri,
vedendosi a' piedi il tranquillo recinto del camposanto, pensa a' suoi
diletti che ivi dormono l'eterno sonno, e tempra con soave malinconìa
la fierezza dell'animo.

L'aspetto d'un cimitero dispone lo spirito a tetri pensieri; ma v'è
qualche cosa di molto più lugubre, ed è l'aspetto della devastazione
e della rovina. Esso ti si presenta a Lozzo, villa distrutta poco men
che da capo a fondo da un incendio il 15 settembre 1867. Lo spettacolo
che essa mostrava nel maggio successivo, in cui gli abitanti erano già
innanzi nell'opera di ricostruzione, poteva darti un'idea della orrenda
catastrofe, facile del resto a immaginarsi, quando si pensi che le case
erano pressochè tutte di legno e che l'incendio divampò nella notte.
Facevano ingombro alla via le travi carbonizzate e i monti di sassi
destinati a rifabbricare più solidamente il villaggio, e alcuna delle
abitazioni di pietra non soggiaciute a quella ruina portava i segni
del guizzo capriccioso della vampa intorno alle muraglie sgretolate.
Le case erano ancor senza tetto; la popolazione viveva di giorno
sulla strada, e la notte trovava ricovero in qualche capanna ospitale
nelle vicinanze. Così quelle genti, colte dalla sventura in autunno,
avevano dovuto lasciar trascorrere i lunghi mesi del verno, avevano
dovuto lasciar che le nevi coprissero le macerie del loro paese, prima
di poter ricomporre di propria mano il povero nido. E fu davvero per
un miracolo di carità dei luoghi vicini, che riuscirono a durare i
rigori della stagione e a serbar vigorose le braccia e non accasciato
lo spirito. In mezzo a quella scena che ti ricorda le irruzioni
barbariche, causa di tanti lutti all'Italia, vedi ancora volti sereni,
odi le voci festive delle fanciulle che attingono al fonte, e le risate
clamorose dei bambini che giuocano sopra i mucchi di sassi.

A poche miglia da Lozzo trovi una specie di chiusa detta dei Treponti.
La strada si biforca: il braccio destro entra nel Comelico, il sinistro
va verso Auronzo. Dalla destra viene impetuosissima la Piave e in
quel sito accoglie le acque d'un altro torrente, che scende dal lato
opposto, l'Ansei. Il nome dato a quel luogo è dovuto appunto a tre
ponti di pietra, o, a meglio dire, a un ponte che si tripartisce e
con due delle arcate traversa le fiumane ancora divise, con la terza
le valica dopo il loro connubio. Tutto intorno sorgono monti alti
e scoscesi, fitti d'abeti sulla sponda dell'Ansei, aridi e nudi su
quella della Piave, quantunque chi penetri nel cuore del Comelico veda
nuovamente imboscarsi il terreno. In questa gola si combattè nel 14
agosto 1866 l'ultima scaramuccia fra Italiani ed Austriaci. Venivano
questi da Auronzo sotto il comando del generale Mensdorff Pouilly, ed
erano in numero di 4000, impazienti di forzare il passaggio, ignari
ancora dell'armistizio concluso due giorni innanzi. Avevano a fronte
pochissimi volontari cadorini, male vestiti e male armati, che, sebbene
colti alla sprovveduta, opposero una pertinace resistenza, spargendosi
qua e là dietro gli abeti lungo il dorso del monte che bagna le falde
nell'Ansei, e mantenendo un fuoco micidiale da bersaglieri contro le
masse nemiche. Vi furono da ambo i lati morti e feriti, vittime inutili
d'una lotta che non aveva più scopo. Un oste del luogo, vecchio coi
capelli bianchi, certo più che sessantenne, che quel giorno aveva
anch'egli brandita la sua carabina e preso parte alla pugna, me ne
disse le vicende con ardor giovanile, e l'inatteso approssimarsi
degli Austriaci, e lo sgomento delle donne, e il piglio risoluto dei
_nostri_, e il primo sangue versato, e il giungere al campo austriaco
d'una staffetta portante la novella dell'armistizio. Come mi piaceva
sentire in bocca al valoroso vegliardo quella frase — _i nostri!_ —
Com'era bello quel suo infiammarsi nel racconto del breve conflitto!
Certo nell'animo di lui non era sceso ancora lo scoramento, onde quasi
menano vanto tanti Italiani. La luna di miele della libertà dovrebbe
durare secoli: a noi sembrò più dicevole di chiuderla nella cerchia
coniugale d'un mese e di atteggiarci poscia a mariti noiati.

In Cadore il patriottismo è sano e vigoroso, convinto che dopo aver
toccato una mèta

    Ch'era follia sperar

sarebbe delitto il mettere a repentaglio gli acquistati beni con le
discordie intestine e con le violenti diatribe, convinto che non v'è
gloria passata che basti a far perdonare la colpa di porre a cimento
le sorti della propria contrada. Perciò in quella terra veramente
eroica, in mezzo a quegli uomini veramente d'azione, non mi accadde di
sentir vituperato il Governo come solevasi dell'austriaco, nè di veder
fatti segno al pubblico sprezzo tutti coloro che sorsero a qualche
rinomanza in Italia. I difetti delle nostre amministrazioni e de'
nostri uomini si conoscono in Cadore non meno che altrove; ma i lamenti
che se ne muovono non prendono quel tuono d'acrimonia che distingue
in molte parti della Penisola le opposizioni, nè indossano quel manto
d'intolleranza che nega il patriottismo a chiunque si faccia lecito
di non osteggiare l'Autorità. E ciò che più conforta chi giunge dalle
città atrabiliari e dalle campagne indifferenti della pianura, si è
la pienezza della fede nei patrî destini, si è il sentirsi affollati
d'interrogazioni sulle vicende politiche e sull'avvenire economico del
paese; non già da ricchi possidenti del luogo, ma da poveri coloni, che
una cinquantina di miglia più in giù non saprebbero se non assordarci
di piagnistei sulla malattia delle uve e la gravezza delle imposte.

Oserò io dirlo? A quest'ultimo lembo della Penisola che, in ogni
moto di popolo, fu o un covo d'insorti, o un rifugio di profughi, a
questa regione alpina, ove dai 1848 al 1866 si congiurò in ogni casa,
giovò forse non esser gonfiata dagli articoli del giornalismo e dalle
arringhe dei _meetings_. Che pur troppo sinora in Italia pubblicisti
e tribuni fecero più male che bene alla patria. Come que' membri dei
consigli di disciplina della Guardia Nazionale che vestirono la divisa
di giudici, perchè non volevano aver le noie di militi, così una gran
parte di essi assunsero l'ufficio di dispensatori di luce per ismettere
l'uniforme di cittadini, per sottrarsene ai doveri, per giustificare
coi fremiti furibondi i tepidi e patologici affetti.

E adesso, chiudendo la parentesi, rimettiamoci in via, e dai Treponti
dirigiamoci al punto estremo del nostro pellegrinaggio, ad Auronzo.
Dopo Treponti si perde la compagnia della Piave, che, come abbiam
visto, vien giù dal Comelico, e la strada solitaria costeggia sempre
l'Ansei, passando in mezzo a un bosco di abeti. Uscendo dal fitto degli
alberi, ti si apre al guardo un altipiano di ricca e bella verdura,
cinto, ma non oppresso da monti, in mezzo al quale spiccano le candide
muraglie della chiesetta d'Auronzo e i tetti bassi ed affumicati delle
capanne di legno. Pieve arieggia uno de' soliti borghi della pianura,
Tai è composta di poche case, Calalzo non è che un gruppo di meschini
tugurî; ma Auronzo, paesotto piuttosto grosso e diviso in due parti
(_villa piccola_ e _villa grande_), ha un suo aspetto particolare con
quelle abitazioni quasi tutte di legno, con que' vicoli che salgono
con leggiero declivio sul pendio d'un monte, con quei mulini che vi
romoreggiano mossi dalla corrente, con quell'abbondanza di acqua che
vi zampilla in fontane, vi scorre in ruscelli, vi mugge in torrenti.
Nella mia qualità di cittadino delle lagune, al veder tanta ricchezza
di fonti, intorno alle quali le fanciulle d'Auronzo, ignude le
braccia, piegata la persona, s'affaccendano a fare il bucato, pensai
all'interminabile questione dell'acquedotto veneziano, lunga come
quella d'Oriente, complicata come quella dello Schleswig-Holstein, e
invocai sulla mia patria una vena della linfa cadorina per far tacere
una volta il cicaleccio e spegnere gl'incendi del nostro giornalismo.

Chi lo direbbe? Anche Auronzo «la divisa dal mondo ultima _Auronzo_»
ha una questione municipale. Qua e là vidi scritto col gesso —
_Abaso il segetario_, — e deplorai vivamente che nessun giornale del
luogo potesse con sagge e temperate polemiche, come si costuma fra
noi, illuminare l'opinione pubblica, e che gli abitanti d'Auronzo
non avessero alcun _organo indipendente_, su cui far valere le loro
ragioni. È davvero una cosa umiliante, tanti secoli dopo Panfilo
Castaldi e il Guttemberg, di non possedere un torchio e una scatola di
caratteri di stampa, coi quali annunziare a tutti i popoli della terra
che i propri concittadini son ladri e balordi, egoisti quando rifiutano
i pubblici uffici, impudenti quando gli accettano.

Frattanto alcuni degli abitanti d'Auronzo cercano consolarsi della
grave mancanza, formando un nucleo di società, che per sì piccola villa
è veramente prezioso. Si radunano in dieci o dodici in una specie di
gabinetto di lettura, ove ricevono i giornali di Venezia e di Firenze,
e così, giuocando e ciarlando, ingannano le lunghissime sere d'inverno,
e non si coricano che a mezzanotte, cosa da fare stupire chi consideri
che in alcuni mesi dell'anno il sole non rischiara quella valle per più
di tre ore al giorno, e una lastra di ghiaccio copre costantemente le
vie.

Una questione ben più grave della municipale tiene sospesi gli animi in
Auronzo, ed è quella della divisione dei boschi. In tutto il Cadore la
maggior parte della proprietà boschiva è in mano ai Comuni, ma tra i
Comuni più ricchi v'è quello d'Auronzo, ove, per singolare contrasto,
la popolazione è poverissima, e s'è avvezzata ormai a vivere di
sussidî. Ivi noi vediamo una miniatura del _pauper_ inglese, dell'uomo
cioè che, nella piena vigorìa dell'età, rinunzia alle compiacenze
del lavoro per chiedere burbanzoso i sussidî del suo Comune, come si
chiede una imposta. Perciò alcuni opinano che sarebbe saggio consiglio
di venire a un riparto dei boschi, i quali, dicendosi comunali,
sono, a rigore, proprietà dei singoli abitanti. Ma un provvedimento
sì radicale incontra gagliardi oppositori, mentre sembra a molti che
questa specie di legge agraria rovinerebbe il paese, affidando la
conservazione dei boschi a gente cupida di farne danaro, e improvvida
quindi dell'avvenire, e dimentica, o per accidia, o per ignoranza, di
quelle cure che un tal genere di proprietà richiede. I boschi sarebbero
distrutti, e con essi la principale, l'unica fonte di ricchezza del
luogo, e i coloni tornerebbero al vecchio mestiere di poveri, senza
poter affidarsi all'antica liberalità del Comune, ormai esausto di
mezzi. Vorrebbesi quindi da molti che la proprietà rimanesse indivisa
qual'è nelle mani del Municipio; ma che questo, anzichè volgerne i
profitti a mantenere un accattonaggio legale, sapesse convergerli a
far sorgere fonti di lavoro agli abitanti, a promuovere, per esempio,
l'industria mineraria, ristretta ora alle vicine cave di zinco. Di
tale questione, che si dibatte in Cadore con una vivacità che sente
dell'acrimonia, io mi son fatto semplice espositore: confesso però che
mi sembrerebbe incauto non poco un riparto di beni fra una popolazione
che non diede caparra alcuna di alacrità, ma fu avvezza sinora ad
aspettare la manna dal cielo.

Ed ora, giunto al termine della mia rapida corsa, dedicherò brevi
pagine, se il lettore me lo assente, ad alcune considerazioni generali,
le quali suppliranno alle immense lacune descrittive della mia
monografia. Nella medesima guisa, quando al teatro, per una ragione
o per l'altra, il capocomico non può far rappresentare l'ultimo atto
d'una commedia, manda uno dei suoi subalterni ad annunziare al colto
pubblico e all'inclita guarnigione che vi supplirà con una farsa non
compresa nel programma. Per solito il pubblico fischia; io ti prego, o
lettore, di non fare altrettanto, se in luogo di condurti in Comelico,
o al bosco di Somadida, o al pensile lago di Mesurina, dove si mangiano
di ottime trote, ti ammannisco una piccola dissertazione economica.
Tu non ignori che ormai l'economia politica è diventata uno di quei
pascoli comunali, ove una volta ciascuno menava gli armenti senza
pagar nulla a chicchessia. Come cent'anni fa si scriveva un sonettino
od un madrigale, così adesso si scrive una Memoria sul pauperismo, sul
risparmio e sul sistema cooperativo. Lasciami pagar questo tributo al
mio secolo.


IV.

  Un'erudizione a buon mercato. — La proprietà e l'amore dei litigî
  in Cadore. — I boschi. — L'oligarchia dei negozianti di legname.
  — Loro spirito stazionario. — La _tariffa_ dei legnami. — I
  _punti neri_ del commercio cadorino. — Progetti per arrestarne
  la decadenza. — La pastorizia. — Necessità di diffonderla. —
  Una dissertazione economica a proposito di un _beefsteak_. — Le
  attitudini dei Cadorini. — Perorazione finale.

Comincio con facilissima erudizione. Il Cadore, come tutti sanno, è
situato nel Settentrione delle provincie venete, e forma parte del
Bellunese. Posto sulla pendice delle Alpi Rezie, è una delle cittadelle
naturali d'Italia. Dopo varie vicende, fece nel 1420 atto spontaneo
di dedizione alla Repubblica di San Marco, dalla quale ebbe in cambio
ampli privilegî ed una larghissima autonomia, che avvezzando il
popolo al governo della cosa pubblica ne acuì maggiormente la pronta
e sottile intelligenza. Può dirsi anzi che Venezia non esercitasse
sopra il Cadore che un semplice protettorato. Il paese si reggeva
con leggi proprie: la sua _Magnifica Comunità_, eletta per centurie a
suffragio di popolo, radunavasi in Parlamento ogni mese e costituiva
il potere legislativo, mentre il potere esecutivo era affidato a
quattro _Consoli_ e ad un _Vicario_, nominati dallo stesso _Consiglio_.
Rappresentava la Repubblica un _Capitano_ residente nel Castello di
Pieve, il quale assisteva bensì alle adunanze del _Consiglio_, ma
senza diritto di voto. Quest'ordine di cose durò fino al 1797. Indi
i Cadorini seguirono le alterne fortune di Venezia, alla quale li
stringe inalterabile affetto e dal cui risorgimento economico molto
s'aspettano. Il numero degli abitanti è ora di circa 40,000, ripartiti
in cinquanta villaggi, gente robusta di membra e di spirito, calda
di nobili sensi, immaginosa, faconda, ospitale; vero fenomeno per chi
conosce il gretto contado della pianura veneta. È raro il Cadorino che
non sappia leggere, e, cosa mirabile, il Comune di Pieve manteneva
scuole pubbliche fino dal 1300! Ed è pur difficile trovar quivi chi
non possieda un campicello e una casa, tanto vi è divisa la proprietà.
Ne derivano vantaggi e danni: citerò fra questi lo scarso progresso
dell'agricoltura e la smania de' litigî, che pare congenita nel
piccolo possesso e che qui s'alimenta dalla sottigliezza dialettica
della popolazione, la quale cita il Codice a memoria e ne discute
gli articoli; tantochè se il Racine fosse stato in Cadore, si direbbe
ch'egli vi avesse trovato i tipi dei suoi _Plaideurs_. A tante cause
non bastano i pochi avvocati, e un discreto numero di legulei va
ronzando intorno ai bisticciantisi, e soffia nel fuoco, e prolunga le
questioni fuor di misura.

La produzione agraria del Cadore supplisce appena al consumo di due o
tre mesi, onde non è concesso agli abitanti di vivere dei frutti del
possesso, e devono impiegarsi nei boschi o negli edificî di seghe.

I boschi fanno la vera ricchezza del Cadore e occupano una superficie
di pertiche censuarie 718,089:44.[4] Sono per la massima parte
proprietà dei Comuni o delle Chiese: alcuni sono di privati: uno
solo, quello di Somadida, appartiene all'Erario, per dono fattone
dalla Comunità cadorina alla Repubblica veneta nel 1463. I Comuni,
di triennio in triennio, aprono le aste per vendere i loro prodotti
boschivi, e negli anni addietro i negozianti che vi concorsero, vi
fecero immensi profitti, onde in mezzo al possesso frastagliato, alle
consuetudini democratiche del Cadore, si costituì un'oligarchia di
famiglie opulenti. Sennonchè le dovizie assai rapidamente accumulate
hanno seco gravi inconvenienti, quello fra gli altri grandissimo
di assopire le ardite iniziative, di non tener desto lo spirito ai
bisogni e alle mutazioni dei tempi. Questo è un rimprovero che, salvo
alcune eccezioni, può farsi ai ricchi negozianti del Cadore. Essi
non hanno inteso la legge di progresso che governa tutte le cose, e
videro in ogni innovazione un'insidia alla loro supremazìa. Citerò un
fatto. Per insinuazione di alcuni di loro venne, durante il dominio
austriaco, sospesa per qualche tempo la linea telegrafica di Tai,
la quale, rendendo di pubblica ragione giorno per giorno il listino
della Borsa di Vienna, li disturbava in certi loro affari di cambio.
Le così dette _tariffe_ dei legnami sono uno specchio fedele della
stazionarietà cinese di questa gente. Quali erano cinquant'anni fa,
tali sono adesso. La loro unità di valore è la lira austriaca, la loro
unità di misura è il _bollo_ e l'_oncia_, la loro lingua è il dialetto
veneziano, tantochè vi vedi scritto _Refudi_ invece di _Rifiuti_,
_Roversi_ in luogo di _Rovesci_. Le cifre sono immutabili; ma siccome
anche i legnami vanno soggetti alla legge dell'offerta e della domanda,
così le variazioni di prezzi si convertono in aumenti o ribassi dalla
tariffa. I legnami scelti che vanno per la Puglia subiscono un aumento,
che oltrepassò qualche anno fa il 22 per cento, ed oggi è dal 15 al 20:
la massa però va soggetta a un ribasso, che talvolta supera il 26 ed
il 30. Comunque sia, un forestiero che consulti la tariffa, principia
col non intendere l'idioma, in cui essa è scritta, e, quando se l'è
fatta spiegare, termina col saperne quanto prima, perchè gli manca
il dato regolatore dell'aumento e del ribasso. Così una _tariffa_ di
legnami, assurda nel suo titolo, perchè tariffa significa immobilità,
assurda nella sua lingua, nelle sue misure e nella sua moneta, che non
sono nè la lingua, nè le misure, nè la moneta italiana, esige almeno
altrettanti commenti, quanti ne voglia uno de' canti più astrusi della
_Divina Commedia_.

È naturale che con tanta grettezza e con tanti intralci un commercio
non possa a lungo prosperare, ed infatti il commercio cadorino è
seriamente minacciato. Su molti degli antichi mercati il legname del
Cadore trova la concorrenza formidabile di quello della Stiria, della
Carintia, del Tirolo, della Norvegia, e persino dell'America, e non
è che la robustezza della sua fibra, e un po' anche la tradizione,
che gli consentano di mantener con decoro la lotta. Qui pure la
strada ferrata ha prodotto una rivoluzione. I legnami della Carintia
e del Tirolo, appena recisi, vengono messi nella strada ferrata,
e non subiscono quindi nè la perforazione ai due capi, che produce
una perdita per ogni pezzo, nè i ritardi d'un viaggio fluviale, nè
i danni della troppo lunga immersione; a quelli della Norvegia e
dell'America giova il modico prezzo, a tutti il sistema più semplice di
contrattazione.

Credo sarebbe vana speranza quella di rimettere nell'antico suo fiore
il commercio dei legnami cadorini. Nel Levante, nelle Isole Jonie ed
altrove, esso godeva di una specie di monopolio, perchè le tradizioni
onnipotenti della Repubblica di San Marco ne incatenavano il commercio
alle antiche vie, e perchè i mezzi imperfetti di comunicazione
rendevano o difficile, o impossibile la concorrenza straniera. Ma è
opera gettata l'affannarsi sulle tracce dei monopolî perduti. Ormai
non si può impedire che Trieste, la quale, favorita per tanti anni dal
Governo austriaco, e, diciamolo pure, anche dalla maggiore operosità
de' suoi abitanti, sorse vigorosa a fronte della nostra Venezia,
continui ad approfittare della strada (_Südbahn_ e sue diramazioni)
che la congiunge alla Carintia e alla Stiria, ed a spargere co' suoi
vapori i legnami lungo le coste adriatiche e mediterranee; nè si può
arrestare la concorrenza dell'America, che, sbarazzandosi con la scure
il cammino verso l'Oceano Pacifico, slancia in Europa le reliquie delle
foreste che le facevano impaccio, e vince col basso prezzo gli ostacoli
delle distanze e dei noli. Il commercio dei legnami in Cadore ha tre
_punti neri_; il prezzo superiore a quello delle altre provenienze,
la lentezza del trasporto, la perforazione delle tavole. La prima
difficoltà è forse la meno ardua a superarsi, perchè i Comuni possono
ribassare il prezzo dei loro prodotti boschivi, e i negozianti devono
contentarsi di men lauti profitti in un tempo, nel quale ogni traffico
vede assottigliati i proprî utili, ed è legge inesorabile lavorar molto
per guadagnar poco. Più malagevole sarà l'accelerare il trasporto e il
lasciare intatte le tavole, perchè ad ottener ciò converrebbe poter
valersi della strada ferrata. Ora un tronco di strada ferrata che da
Conegliano per Vittorio si spingesse direttamente attraverso il Cadore
e andasse ad unirsi col ramo della Pusteria, divisato dall'Austria per
arrivar poscia alla linea del Brennero, sarebbe certo cosa immensamente
proficua, ma non conviene dimenticare gli ostacoli e il dispendio
d'una tale impresa, che dovrebbe far superare ai convogli pendenze
assai forti. Nondimeno varrebbe certamente la pena che gli uomini
dell'arte studiassero il problema, e vedessero se i vantaggi di questa
linea ferroviaria non ne compenserebbero in larga misura la spesa.
Un altro disegno, assai degno di menzione, è quello di fondare in
Venezia un grandioso edificio di seghe a vapore. Con un deposito sempre
compiutamente assortito, con un lavoro non interrotto, esso ovvierebbe
al gravissimo inconveniente del ritardo che soffrono ora le commissioni
date in Cadore pegl'intralci naturali della fluitazione, aumentati
talora o dai ghiacci, o dall'improvviso ingrossamento delle acque;
tantochè, mentre chi si provvede in Stiria, in Carintia, in Tirolo, sa,
per così dire, il giorno preciso, nel quale riceverà la sua merce, chi
l'aspetta da Perarolo o da Longarone deve acconciarsi a imprevedibili
indugî. Non fa mestieri di spender molte parole per dimostrare che un
opificio di questo genere produrrebbe una rivoluzione nel commercio del
Cadore. L'esattezza e la celerità del lavoro, il risparmio della mano
d'opera dovuto all'azione dei grandi motori meccanici, basterebbero
di per sè soli a dar la prevalenza al nuovo opificio in confronto di
quelli ch'esistono lungo la Piave: vi si aggiungerebbero però altri
vantaggi di non minore importanza. Sparirebbe la perforazione, perchè
il legname, anche arrivando ugualmente per via fluviale, sarebbe
affidato alla corrente in tronchi anzichè in tavole, e i singoli
pezzi potrebbero quindi venir commessi insieme in modo diverso:
si conserverebbe la bianchezza apprezzata su molti mercati, e, per
ultimo, sarebbe evitato il deperimento che la tavola subisce per la
fluitazione sino a Venezia. Ma, d'altro canto, non v'ha dubbio che
interessi particolari verrebbero offesi, e il capitale fisso investito
negli edificî di seghe soffrirebbe un subitaneo deprezzamento. Quanto
ai lavoranti, essi potrebbero o trasferirsi in Venezia, ove il nuovo
opificio offrirebbe loro più larghe mercedi, o attendere ai depositi
di legname, che rimarrebbero in Cadore. Comunque sia, ammettendo pure
la possibilità d'una crisi passeggiera, non sarebbe da combattersi a
questo titolo un'utile iniziativa; solo converrebbe provvedere a quei
modi che rendessero meno penosa la transizione.

A tal uopo nulla sarebbe più opportuno che il vivificare le altre
fonti di ricchezza del Cadore. Chi percorre questa regione alpina,
ammira, negl'intervalli lasciati dai boschi, la bella e ricca verdura
stendentesi talvolta sino alle estreme giogaie dei monti elevati, e
non sa intendere come non abbia ad esservi in fiore la pastorizia, e
come il paese non sia la cascina del Veneto. La Scozia e la Svizzera
s'affacciano spontanee al pensiero del viaggiatore; la Scozia e la
Svizzera, che hanno col Cadore tanta analogia di paese e sono entrambe
sì rinomate pei loro pascoli e per la bontà delle carni, del latte,
dei burri e dei formaggi che producono. Il Cadore non può, certo,
aspirare a gareggiar con esse da questo lato, perchè sarebbe follìa
che esso atterrasse i boschi per coltivare a prato i terreni; ma forse
gli converrebbe sfruttar meglio i pascoli esistenti, importando nuovo
bestiame, e soprattutto fornendosi delle razze migliori che gli mancano
affatto. La pastorizia, la quale rappresenta uno dei primi passi della
giovane umanità, è tornata in singolare onore presso i popoli più
innanzi nell'incivilimento, dappoichè gli scienziati hanno scoperto
che le nazioni sono tanto più potenti, quanto maggiore è la quantità
di _beefsteaks_ che consumano. E siccome è impossibile esigere che il
cittadino mangi _beefsteak_ solo per patriottismo, conviene che gli
si ammanniscano carni abbastanza saporite da mettere d'accordo il suo
palato con la sua coscienza. Queste ed altre considerazioni io faceva
meco medesimo al cospetto del _beefsteak_ che vidi portarmi alla
locanda di Tai e che, fisiologicamente, sarà stato un buon riparatore
di forze, ma, gastronomicamente, non era un buon cibo; ciò che prova
che l'allevamento del bestiame è ancora indietro in Cadore.

Un progresso razionale, continuato, in questa industria non può
certo operarsi dal più della popolazione cadorina che ha un possesso
omeopatico, e gran parte dell'anno sta nei boschi, o per le _taglie_
o pei _segni_. oppure è occupata nelle seghe; ma bisogna che vi si
accinga di proposito alcuno di que' ricchi che sono in istato di
portarvi un sussidio di tempo, di capitali e di studi. Io sono di
parere che chi si ponesse all'opera, oltre a recare un beneficio al
paese, otterrebbe un largo compenso alle proprie fatiche, e mi figuro
talvolta ciò che, col solo pungolo dell'interesse individuale, farebbe
un gruppo d'Inglesi che dovesse soggiornare in questa contrada, e come
presto esso vi diverrebbe maestro di fortunate iniziative, di diuturna
solerzia e di virilità persino nelle manifestazioni dell'opulenza.
Indi le cacce ardimentose, indi le stalle riccamente fornite, indi
l'allegro movimento della cascina, i cui prodotti diverrebbero materia
d'esportazione.

Certo un alto ufficio è assegnato agli uomini, che con dovizia di
mezzi e d'affetto imprenderanno a risanare il Cadore dal malessere
che lo affligge. Sia che essi tentino d'arrestar sulla sua china
il periclitante commercio dei legnami, sia che vogliano introdurre
in quella regione montuosa le abitudini della pastorizia, sia che
s'occupino a ravvivare altre industrie, come la mineraria[5] e
quella degl'intagli di legno, per la quale i Cadorini hanno rare
disposizioni,[6] da per tutto incontreranno difficoltà, ma da per
tutto anche elementi di buon successo e di compiacenza. Da un lato le
opposizioni inevitabili degl'interessi offesi, la resistenza passiva
d'un popolo schivo, forse, in sulle prime di essere disciplinato, e
non sempre operoso del pari che intelligente; ma dall'altra parte, nel
popolo medesimo quella svegliatezza d'ingegno che, a lungo andare, non
può a meno di renderlo accessibile ai savî consigli, e quell'indole
franca e leale che, quando accoglie un'idea, raccoglie senza reticenze
e senza sottintesi. E le solide virtù e i semplici costumi di queste
genti le renderebbero immensamente adatte a svolgere nel proprio grembo
tutte quelle istituzioni onde s'onora la civiltà moderna, e che appunto
non mettono salda radice ove non trovino il fondamento dell'onestà. Un
Cadore seminato di piccole Banche alla foggia scozzese o tedesca, di
Unioni di mutuo soccorso, di Casse di risparmio, di Società di consumo,
è oggi un sogno e non più, ma potrebbe essere una realtà fra pochi
anni, purchè alcuno accendesse la scintilla animatrice. Oh, fra tanti
che in Cadore sortirono il grave carico dell'opulenza, dispensiera,
a chi ben l'intenda, più di cure che d'agî, non ve n'ha un solo che
senta quest'ambizione? Non ve n'ha un solo che, prescegliendo il
soggiorno di queste Alpi agli ozî delle città, ponga qui sua dimora e
spenda qui l'attività dell'ingegno e quella più efficace del cuore? Ho
detto che, se per avventura un gruppo d'inglesi dovesse abitare questa
contrada, opererebbe immensamente per la trasformazione del paese,
ma certo l'Italia non manca di cittadini atti a pugnare ed a vincere
nell'arringo della civiltà e del lavoro. Io auguro al Cadore un uomo
come Alessandro Rossi di Schio, il quale, vigile sempre, e non iscorato
mai nell'avversa fortuna e non imbaldanzito mai ne' trionfi, ottenne
la più bella ricompensa, a cui possano aspirare gli spiriti generosi,
quella di far suonare alto e rispettato il nome del suo borgo natale.

Che se il Cadore avrà qualcheduno che gli somigli, io spero, o lettore,
che fra alcuni anni noi rinnoveremo sotto migliori auspicî questa gita
attraverso i monti.[7]

  _1868_.



IL RACCONTO DELLA SIGNORA ADELAIDE.


— Ma voi, signora Adelaide, perchè non vi siete mai maritata? —

Una bella giovane da' diciannove a' vent'anni, elegantemente vestita,
faceva questa domanda, che alcuni diranno indiscreta, a una donna
che pareva essere sulla cinquantina, e il cui volto serbava le tracce
di un'antica avvenenza insieme con quelle di molte lotte e di molti
dolori.

Era una limpida sera d'estate. Le due donne sedevano l'una dirimpetto
all'altra nel vano della porta che da un salotto a pian terreno
riusciva in giardino. Un lume a _Carcel_ posto sulla mensola spargeva
intorno a sè un moderato chiarore, tanto da far risaltare gli addobbi
signorili della stanza: nel mezzo un tavolino rotondo con alcuni
giornali ed alcuni libri, tra cui due fascicoli della _Revue des deux
mondes_; sul davanti a pochi passi dall'uscio stava il pianoforte
aperto, con un quaderno di musica spiegato e con due candele spente
sul leggìo. Di fuori nel giardino, un'aiuola di tuberose diffondeva le
più acute fragranze, che si mescevano ai miti profumi della modesta
gaggìa addossata alla muraglia. Un boschetto di carpini disegnava a
grandi linee i pittoreschi contorni sull'azzurro del cielo stellato,
e col lieve stormir delle fronde pareva rispondere amorosamente alla
carezza dell'aria tepida ed odorata. L'ora ed il luogo erano propizî ai
colloquî confidenziali.

Però, allorchè la leggiadra e florida Lina proferì le parole poste
in principio, la signora Adelaide si scosse leggermente, e una nube
improvvisa parve ottenebrarle la fronte. Nondimeno ella si ricompose
prestissimo, e atteggiata a un mite sorriso

— Volete voi proprio saperlo? — disse, indirizzandosi alla giovane.

— Pur che a voi non incresca il narrarlo.

— No, ottima Lina, io sento che con voi, così buona meco e indulgente,
io dovevo essere più schietta da un pezzo e nulla tacervi. Ora poi che
siamo alla vigilia di separarci, sento che avete il diritto di leggere
le più riposte pagine della mia vita. Discorriamone a dirittura, chè
poche sere ancora ci restano ai fidati colloquî. Tra otto giorni la mia
buona Lina sarà diventata la contessa degli Aldi, e si troverà chi sa
quante miglia lontana dai suoi colli e dal suo giardino. —

Lina strinse la mano alla signora Adelaide, e le disse con un accento
pieno di candore:

— Oh, come potrò adattarmi a vivere senza di voi?

— Vi ci adatterete, figliuola mia, chè posso chiamarvi con questo nome,
vi ci adatterete. A molte cose l'animo s'avvezza quando è felice. E voi
sarete tale, non ne ho dubbio alcuno. Ma non usciamo d'argomento. Voi
desiderate conoscere la storia di questa vecchia zittella, ed eccomi
qui a raccontarvela.


I.

— Diciannove anni fa, amica mia, la brutta e cascante Adelaide che
conoscete (non mi fate di no col capo) era una giovane piena di
vanità, di petulanza, di alterigia, e, per quello che assicuravano,
di ricchezza. Cento bocche mi dicevano bella, e, ve lo confesso, io
ero persuasa che dicessero la verità. Questi capelli che si vanno
inargentando rapidamente, erano d'un castagno scuro, e così folti,
così lunghi, ch'io consumavo un'ora il giorno a pettinarli. Le mie
guance, potete ben crederlo, non avevano rughe, ed erano tinte d'un
lieve incarnato che dava maggior risalto alla bianchezza della mia
carnagione. La costante irrequietezza del mio spirito, che in quei
tempi traboccava di vita, riflettevasi ne' miei occhi mobili sempre
e ridenti. E poi, per non tediarvi con questo sfoggio di vanità
retrospettiva, mi basterà soggiungervi ch'io stavo per compiere i
ventiquattr'anni, e a ventiquattr'anni, per parer brutte, via, bisogna
essere molto.

Poche ragazze ebbero una libertà così grande come la mia. Avevo
perduta la madre prima di compiere i tre lustri, in quell'età, cioè,
nella quale la mano che ci guidò nei primi passi, che sviò dal nostro
sentiero le spine, sarebbe più necessaria che mai per proteggerci
da nuove insidie e nuovi pericoli. Mio padre mi amava teneramente,
ciecamente forse, ma assorto nei suoi affari non poteva dare a me
che una piccolissima parte della giornata. Egli mi aveva fornito
di tutti i maestri possibili. Italiano, francese, inglese, tedesco,
ricamo, musica, ballo, disegno, storia naturale, persino matematica,
non v'era cosa ch'io non dovessi imparare. Io me ne vendicai col non
imparar nulla. Quanto a governanti, non ne volli sapere. N'ebbi due,
una francese ed una inglese. Licenziai la prima con la scusa che
parlava troppo, e la seconda con quella che non parlava punto; ma in
sostanza perchè entrambe mi davano ombra, ed erano un freno alla mia
autocrazia. A sedici anni io facevo in casa alto e basso ch'era una
meraviglia. Ordinavo a mio talento che si attaccassero i cavalli e
che mi si conducesse da qualche amica, o sul Corso a fare spese, davo
le disposizioni pel pranzo, preparavo gl'inviti per le nostre festine
del Carnovale, e guai se non m'obbedivano! La sarta e la crestaia
pendevano da' miei cenni, e il babbo pagava le polizze. O che mio padre
era forse un uomo debole? Tutt'altro. Aveva in certe cose una volontà
tenacissima; ma erasi fatta tacitamente fra noi una specie di divisione
di poteri, onde io non era più una vassalla, ma una viceregina.

Molto persone venivano in casa nostra, specialmente forestieri,
raccomandati a mio padre, ch'era uno de' banchieri più rispettabili di
Milano e che spesso li tratteneva a pranzo con noi. In quelle occasioni
io sfoggiavo tutta la mia abilità musicale, che non era molta, e tutta
la mia civetteria, che non era poca, o cinguettavo con singolare
compiacenza in inglese o in francese mendicando la lode dei nostri
ospiti, e poi gonfiandomene, come un tacchino che fa la rota. Tra lo
scendere frequente in banco, e il conversare con negozianti, io andavo
acquistando dimestichezza col linguaggio degli affari, e non ancora
ventenne seguiva con una tal quale curiosità le oscillazioni dei valori
pubblici nei listini di borsa della _Gazzetta_, allora _ufficiale_,
di Milano. Avrei potuto divenire una donna alla foggia americana, se
non fossi stata immensamente frivola, e non avessi avuto un disdegno
teorico pel danaro.

Con centinaia di conoscenti che salivano e scendevano le nostre scale,
noi non avevamo che un solo amico di famiglia, il notaio Anastasi. Era
un uomo celibe, attempatello, basso, calvo, con gli occhiali d'ottone,
piuttosto grosso e tarchiato, che discorreva soltanto dei suoi codici
e delle sue procedure, e mi faceva venir sonno ogni volta ch'io lo
vedevo. Io sentivo per esso una profonda antipatia, ma era un argomento
da non toccarsi con mio padre, che invece ne andava pazzo. E veramente
la mia avversione era cieca. Quando se ne levi la noia della sua
compagnia, il signor Anastasi non mi aveva usato che gentilezze. Ogni
anno al 3 di marzo, cioè al mio anniversario, io mi vedevo arrivare
una scatola di dolci e un mazzo di camelie legato da un nastro di
raso bianco con le mie iniziali ricamate a oro. Era un omaggio del
signor Anastasi che mi si protestava sempre umilissimo servitore, e
mi rammentava almeno due volte alla settimana ch'io dovevo contrarre
uno splendido matrimonio, poichè aveva una dote di dugento mila
lire. La venerazione della ricchezza, che è la malattia del secolo,
erasi appiccicata anche al dabben uomo, il quale sapeva far cadere
a ogni tratto il discorso sul nome de' suoi clienti più doviziosi e
dimenticavasi d'esser miope, quando s'imbatteva per via nella carrozza
del conte Berengari suo patrono ed amico. Eppure, vedete, allorchè
penso come, a malgrado delle sue debolezze, il notaio Anastasi
avesse un'integrità senza macchia, un animo disposto agli affetti,
e una lucidissima intelligenza, allorchè penso ciò che gli debbo,
io arrossisco d'averlo trattato per sì lungo tempo con una specie di
ripulsione. Che torto abbiamo, Lina mia, ad esser troppo esigenti con
coloro che ci avvicinano durante la nostra giovinezza! Noi non tardiamo
ad accorgerci che i difettucci, verso cui fummo tanto severi, erano
una cosa ben lieve a confronto dell'indifferenza, dell'egoismo che ne
circondano con l'avanzarsi degli anni.

Io crescevo intanto non solo con le abitudini dell'autocrazìa, ma anche
con quelle dell'opulenza. Tavola squisitamente imbandita, scuderia con
superbi cavalli, rimesse con carrozze di lusso, domestici in livrea, e
perfino un ragazzino, una specie di paggio, a mia intiera disposizione.
Ogni autunno mio padre lasciava per un mese gli affari, e mi conduceva
a una sua bellissima villa sul Lago Maggiore fra Intra e Pallanza.
Quello era il mio paradiso, e non potrò mai dimenticare il terrazzo
odoroso di cedri e d'aranci, da cui io fissavo lo sguardo a vicenda sul
limpido specchio del lago, sulle incantevoli isolette Borromee e sui
calvi cocuzzoli de' monti più alti e lontani. Oh le belle cavalcate
lungo la costiera, oh le romantiche gite in barchetta, mentre la
brezza vespertina increspava la superficie delle acque e gonfiava
la vela! Come mi parevano brevi i trenta giorni trascorsi in mezzo a
quell'incanto di cielo!

Sennonchè, ritornata in Milano, altre distrazioni mi attendevano. E
così, alternando la vita fra le feste della città e le delizie della
campagna, io stentavo a credere che vi fossero al mondo privazioni
e miserie: ero liberale per indole, non per simpatia, e la mia mano
s'apriva più che il mio cuore.

Non saprei dirvi in quale età intesi susurrarmi le prime parole di
galanterìa, ma fu certo prestissimo. Non me ne maravigliai, non me
ne commossi; abbastanza accorta da non cadere, abbastanza fredda
da non amare. Mio padre, la cui famiglia principiava e compivasi in
me, non aveva fretta di darmi marito: io che nella casa paterna ero
più assoluta d'una czarina, non mi sentivo punto disposta a mutar
domicilio. Ma il notaio Anastasi ripeteva sovente ch'era oramai
necessario ch'io mi maritassi, e che se la mia famiglia non aveva eredi
maschi, conveniva almeno ch'io dessi a mio padre la consolazione di una
nidiata di nipotini. Io lasciavo dire, e ridevo.

Così andarono le cose precisamente fino a pochi mesi prima ch'io
compissi i ventiquattr'anni, fino al tempo, cioè, dal quale avrei
dovuto cominciare il mio racconto, se non mi fosse sembrato necessario
farvi un tantino di prefazione.

Io che sono una vecchia zittella ho il diritto di dirlo: una ragazza
di ventiquattr'anni è molto facilmente una creatura antipatica, ed è
tale soprattutto quando è ricca e leggiadra. Non vi paia un paradosso.
Io ho conosciuto molte donzelle in quell'età critica: ne conobbi
anche parecchie di ammirabili, ma erano povere, nobilitate dal lavoro,
santificate da un grande scopo nell'esistenza: o una vecchia madre da
mantenere, o fratellini da educare, o un affetto da custodire. Però, in
generale, a mio parere, ventiquattr'anni son troppi per una ragazza.
Quando all'infanzia che ignora, all'adolescenza che sogna, succede
l'età che a poco a poco vuol saper tutto e sa tutto, io credo sia
giunta per la donna l'ora di diventare sposa e madre. È biasimevole,
è turpe il costume di gettar la fanciulla in braccio a un marito
appena che ella esca d'un chiostro; ma ciò che lo fa biasimevole e
turpe, si è l'aver costretto uno spirito ardente entro quattro mura,
in un'atmosfera viziata, in un mondo di pettegolezzi, d'invidie, di
gelosie, ove le passioni sviate dal loro alveo naturale si pervertono
e guastano miseramente. È certo che una fanciulla cresciuta lì dentro è
disadatta a prendere in una nuova famiglia il posto che le si compete,
se non fa prima un tirocinio nel mondo reale. Ma chi, come voi, fu
educata nelle pareti domestiche, in mezzo allo spettacolo di affetti
miti e soavi, chi, come voi, conobbe della vita quel tanto che a
vereconda donzella si convenga conoscerne, non ha bisogno, credetelo,
di passare attraverso una fase dell'esistenza, in cui si sollevano ad
uno ad uno i veli che nascondono il vero. Ora, non dico l'innocenza dei
prim'anni, chè sarebbe stoltezza il pretenderlo, ma i pudichi silenzi
del labbro, ma la castità incorrotta dell'animo, ma la compostezza
dei desiderî e dei modi abbandonano inesorabilmente la fanciulla a una
certa età. Senz'avvedersene ella prende parte a discorsi che non le si
addicono, senz'avvedersene ella lascia i crocchi dell'altre ragazze per
frammischiarsi a quelli delle giovani spose, e nessuno più s'impone
al suo cospetto riserbi, che hanno un grande valore anche quando
l'ometterli non apprenderebbe nulla di nuovo.

Sebbene io possa dire con legittimo orgoglio di non aver mai violato
il decoro della donna, non so ripensare ai miei ventiquattr'anni senza
essere scontenta di me. Ma un grande cambiamento doveva in brevissimo
tempo operarsi nell'animo mio.

Nell'autunno del 1849 un giovane piemontese, che aveva preso parte
alla guerra dell'indipendenza, mi fu presentato nella nostra villa sul
Lago Maggiore. Il suo nome era Gustavo: il cognome a voi non importa
conoscerlo, a me giova tacerlo. Egli parve a me, ed era infatti,
diverso da tutti gli altri giovani ch'io avevo visti fino allora. Nei
ritrovi eleganti io m'ero imbattuta, nella parte più frivola della
società, in uomini superbi d'un censo, o d'un titolo, o del nodo di una
cravatta, o di un paio di baffi bene arricciati, o della grazia con
cui sapevano comandare una contraddanza. Gustavo non era bellissimo
della persona, ma la sua fisonomia era animata ed espressiva, le sue
abitudini serie e studiose, il suo ingegno pronto e versatile, il
suo modo di porgere pieno di efficacia e di leggiadrìa. Sfuggiva i
convegni clamorosi, e i suoi trattenimenti favoriti erano le lunghe
passeggiate solitarie, e la tranquilla e piacevole discussione sui
più svariati argomenti. Mio padre strinse amicizia col padre di lui
ch'era un possidente piuttosto agiato, e così la dimestichezza fra
Gustavo e me fu agevolata da quella che regnava fra i nostri genitori.
Quanti giri su e giù nel giardino, che belle mezz'ore trascorse
insieme sul terrazzo fiorito, col cielo immenso sul capo, col lago
placido ai piedi! In uno all'arte del porgere. Gustavo possedeva
quella gentilissima dell'ascoltare, che invoglia alle confidenze, che
vince gli sgomenti, che dona l'eloquenza al labbro più impacciato e
più timido. Quand'io ero seco, non so se maggiormente mi compiacessi
nel seguire i suoi discorsi o nel vedermi prestare orecchio benevolo,
mentre parlavo. Una corrente di simpatia si formava tra noi: mi sentivo
migliore di animo e d'ingegno, acquistavo la coscienza di un mondo
diverso da quello ov'ero vissuta, di un ordine d'idee più elevato di
quello, entro i cui angusti confini io m'ero mossa fino a quel punto. E
mi dolevo meco medesima della mia educazione frivola e tutta apparenza,
e pensavo quanto migliore avrei potuto essere di quei ch'io fossi se mi
avessero allevata in modo diverso. A poco a poco vagheggiavo ciò che
avea prima spregiato, schernivo ciò che prima era stato l'oggetto di
tutti i miei sogni.

Gustavo era per me un uomo così superiore, ch'io, orgogliosa per
natura, non sapevo nemmeno concepire la speranza ch'egli potesse
abbassarsi fino a me. Quand'egli mi disse d'amarmi, credei morirne di
contentezza. Non sono morta, e invece corsi da mio padre, e mi gettai
come pazza nello sue braccia. Egli mi accolse sorridendo, e mi disse:

— So tutto.

— Come?

— Sì, certo. Gustavo fa le cose per bene. Credi tu ch'egli ti avrebbe
fatta una dichiarazione senza prima parlare con me? —

Io era sì strana, che questa rivelazione mi diede più noia che
compiacenza. Un amore che era passato per la trafila dell'autorità
paterna mi sembrava meno romantico. Potete immaginarvi che siffatte
ubbìe non mi durarono che pochi secondi, e mi abbandonai quindi alla
gioia più pura che avessi provato in mia vita.

Fummo fidanzati, e il notaio Anastasi venne a stender la scritta
nella nostra villa sul Lago, dove mio padre prolungò di un mese il suo
soggiorno. Eravamo allora nell'ottobre del 1849: il matrimonio doveva
succedere nel marzo del 1850, e precisamente il 3 di quel mese, il
giorno cioè che io compivo i ventiquattr'anni e diventavo maggiore,
secondo le leggi austriache allora vigenti nelle provincie lombarde.
Portavo in dote al mio sposo la sostanza di 200 mila lire ereditate da
mia madre. Taluno fece le meraviglie che mio padre non contribuisse dal
suo lato ad arrotondare la somma: quanto a me, la cosa riusciva affatto
indifferente. Gustavo aveva fretta di ammogliarsi, non solo perchè
mi amava, ma perchè il tempo voleva così. Non istupite. È indicibile
il numero dei matrimoni successi nei primi tempi che seguirono le
peripezie del 1848-49. Il grande dolore di tutta la nazione per le
catene ribadite, pei disinganni sofferti, pareva additare come unico
porto la famiglia. Il momento d'una riscossa appariva a' più speranzosi
come cosa remota: bisognava cercar l'oblio dei dolori pubblici nelle
gioie tranquille delle pareti domestiche.

Lina, non occorre ch'io vi dica quante commozioni, quante dolcezze
provi una fidanzata che ami davvero il futuro compagno della sua vita.
Io m'ero prefissa uno scopo, quello di divenir per ogni lato degna di
Gustavo. Non era soltanto l'amore, era anche l'ambizione; però, non
me lo negherete, un'ambizione nobile e pura. Mi accinsi allo studio
coll'ardore di chi deve farsi uno stato. Nelle lingue avevo cercato
fino a quel momento la vernice che vuolsi dalla società: allora
invece procurai d'intenderne l'indole, di conoscerne la letteratura,
e ogni sera io comunicavo le mie impressioni a Gustavo, pendendo con
trepida riverenza da' suoi giudicî. Egli rivedeva i miei quaderni,
raddrizzava le mie idee, mi confidava le lotte che s'erano agitate
nel suo pensiero, e l'assiduo alternarsi di focosi entusiasmi e di
gelidi scoramenti, m'intratteneva delle sue rimembranze scolastiche,
de' suoi trascorsi infantili; tutto con una grazia, di cui non ricordo
l'uguale. Poi si discorreva dell'avvenire, e il fantasticare non aveva
confino. Però il presente era per me il tipo ideale della felicità, e
dopo che l'immaginazione stanca e trafelata aveva raccolte le ali, io
concludevo che noi non dovevamo fare altro che rimanere così. In questo
punto non eravamo d'accordo. Gustavo era ambizioso: egli mi diceva
che un uomo devo spingersi innanzi, e che la stima di cui si gode e
l'autorità che si possiede sono elementi essenzialissimi di felicità.
Sopra un'altra cosa v'era dissidio fra noi. Si discorreva un giorno
di ricchezza. Io chiesi: — Che cosa importa esser ricchi? — Baie! — mi
rispose Gustavo; — tuttociò che porge modo, sia di soddisfare i proprî
desiderî legittimi, sia di aiutare gli altri, è da tenersi in gran
conto. Ricchezza vuol dir potenza, e la potenza, quand'è bene usata,
è cosa da non apprezzarsi mai abbastanza. — Gustavo aveva ragione:
pure m'infastidiva che i suoi discorsi fossero sempre così assennati,
e ch'egli fosse così positivo. È vero ch'egli aveva ventott'anni e non
era un bambino; ma un po' di giovanile spensieratezza sarebbe stata sì
bella!

In me era accaduta una trasformazione singolare. Nella mia adolescenza
io avevo divorato centinaia di romanzi, nè per ciò aveva mai
manifestato un'estrema sensività. Appena fidanzata, mi ero messa sul
sodo, mi ero accinta a letture serie, e da un punto all'altro, quando
meno si sarebbe aspettato, sentii destarsi in me l'amor del fantastico.
Non so rendermene ragione se non supponendo che la mia intelligenza
sonnecchiasse, per risvegliarsi soltanto quando l'amore fece nascere
in me la passione dello studio. Pare che lo spirito, entrato tardi
in possesso delle sue facoltà, si diriga per quella via che è più
consentanea a' suoi gusti senza badare alla voce ed al freno che
vorrebbero condurlo. Un grande ingegno guidato da una grande volontà è
uno spettacolo degno d'ammirazione; è Bucefalo che obbedisce alla mano
di Alessandro, ma, bisogna confessarlo, è uno spettacolo raro. Molti
riescono a star bene in sella, ma gli è che invece di cavalcare un
destriero cavalcano un asino.

Comunque sia, alla vigilia di diventar donna di famiglia, io ero
diventata una ragazza romantica. Ne aveva le subite accensioni, e le
languidezze improvvise, e la esagerata facilità delle impressioni,
e la febbre di desiderî indefiniti, confusi, mal noti a sè stessi.
Gustavo me ne faceva rimprovero, e avrebbe voluto ch'io tornassi gaia e
festosa come per lo addietro. Soprattutto gli doleva la mia eccessiva
misantropia. — Non potremo mica vivere come due amanti, — egli mi
andava dicendo, — e la mia sposina dovrà fare gli onori della nuova
casa come fece quelli della casa paterna. — Anche qui Gustavo aveva
ragione, e a me spiaceva ch'egli avesse ragione. È una gran noia quella
di non poter mai dar torto ai proprî interlocutori.

Il sole veduto col telescopio ha delle macchie, e Gustavo, esaminato
da vicino, aveva a' miei stessi occhi qualche piccolo neo. Certo egli
mi amava sinceramente, ma mi sapeva male che in mezzo a tanto amore
egli serbasse intatto tutto il suo criterio: avrei voluto vedergli fare
delle pazzie, ed egli non ne faceva nessuna. Era troppo poco. Un'altra
lieve nuvoletta nel mio orizzonte era la scarsa simpatia ch'io nutriva
pe' miei futuri suoceri. Ho avuto sempre un trasporto molto mediocre
pei parenti, a proposito dei quali mi venne spesso un'idea singolare,
lo pensai cioè che se ad Eva avessero ordinato di mangiare il pomo,
anzichè proibirglielo, ella avrebbe perduto egualmente il Paradiso. Il
pomo imposto le sarebbe stato altrettanto funesto del pomo proibito.
Ebbene: i parenti erano per me il _pomo imposto_ dell'esistenza. Ne
amai alcuno di vivissimo amore, non ostante che fossero parenti, non
perchè erano. Questi qui, sebbene usassero meco cortesissimamente,
mi sembravano gretti, volgari, servili coi ricchi, spregiatori de'
poveri, e vicino ad essi il mio cuore chiudevasi come le foglie
della sensitiva. Mio suocero in ispecie mi destava una invincibile
ripulsione. Era un uomo che aveva toccata la settantina, ma mostrava
appena i sessanta; alto, vegeto, rubicondo, e sempre ridente, ma d'un
riso in cui non era nè candore, nè benevolenza. E, strano a dirsi, mi
pareva ch'egli esercitasse tacitamente un grande impero sopra Gustavo.

Vi sarà facile immaginare però che ciò non alterava che lievissimamente
la mia felicità.

Alla fine di ottobre ci separammo. Io tornavo in Milano a sollecitare
il mio corredo di sposa, egli recavasi in Torino a prepararmi il
quartiere. In quel tempo non era agevol cosa l'andar su e giù dal
Piemonte alla Lombardia, ma Gustavo era riuscito a ottenere un
passaporto e veniva regolarmente a stare con noi ogni domenica. Tutti
gli altri giorni ci scrivevamo. La lontananza, quantunque piccola, le
assenze, quantunque brevi, crescevano la mia passione, e ogni giorno
io mi sentivo infiammata d'un amore più vivo per Gustavo. Egli poi
nelle sue lettere era più espansivo che mai, e in ogni sua gita a
Milano mi si mostrava più sollecito, più tenero, più affettuoso. Io
era veramente fortunata e tutti si congratulavano meco della mia buona
ventura. I più rimessi dicevano: — Non è un partito principesco, non
è un gran signore, ma un giovane così amabile, di così bei modi, di
tanta cultura, d'un così splendido avvenire! — Io ne insuperbivo e ne
scrivevo a Gustavo, il quale, convien confessarlo, non insuperbivane
punto.

In quei giorni di suprema felicità un'unica cosa mi dava martello, ed
era il pensiero di mio padre. Egli rimaneva solo nel mondo, affidato
a gente mercenaria che gli sarebbe stata intorno per dissanguarne la
borsa, ma non per recargli efficaci conforti. Egli aveva un numero
infinito di conoscenti, ma di amici veri non credo potesse contare che
il notaio Anastasi, galantuomo a tutta prova, ma poco amena persona.
Mio padre aveva un carattere bizzarro. Facile alle prime confidenze
che procurano gli aderenti, era alieno quanto mai da quelle che fanno
gli amici. La sua tenerezza egli l'aveva concentrata in me. Io non ero
soltanto la sovrana della sua casa, ma anche quella del suo cuore.

Ed io scorgevo per non dubbî segni ch'egli sentiva profondamente
la perdita che stava per fare. Poveretto! Me partita, chi sarebbe
andato ogni mattina a interrompergli con celie infantili le monotone
occupazioni del banco? Chi dopo pranzo, quand'egli stanco degli affari
della giornata s'adagiava sul canapè, avrebbe sollevato il suo spirito
destando sul pianoforte le armonie ch'egli aveva sì care? Chi la sera
gli avrebbe tenuto compagnia nel suo palchetto alla Scala, ove, s'io
non c'ero, egli soleva assopirsi? Chi si sarebbe frapposto tra lui e la
verbosa eloquenza dell'Anastasi, il quale ogni giorno aveva un _caso
pratico_ (come dicono i legali) da raccontare, un cliente ricco da
magnificare, e un articolo del Codice da citare?

A mano a mano che s'avvicinava il tempo delle mie nozze, mio padre
diveniva più tristo e pensoso, quantunque cercasse dissimularmi in ogni
modo la sua preoccupazione. E quando io m'affaticavo a persuaderlo
che Gustavo ed io saremmo stati spesso in Milano, egli sorrideva
malinconicamente e mi baciava.

Nondimeno, per uno strano contrasto, egli pareva voler affrettare,
anzichè indugiare, il mio matrimonio. E se molte cose da porre in
assetto lo avessero conceduto, io sono di parere ch'egli avrebbe
accorciato il termine prefisso. A pranzo stava in lungo ed insolito
silenzio, ed alzatosi da tavola, anzichè invitarmi a sedere al
pianoforte, mi pregava d'uscir seco per qualche passeggiata. Più che
i siti solitarî cercava le vie affollate e chiassose, e quel frastuono
di carrozze e quell'andirivieni di gente gli servivano di distrazione
e rasserenavano il suo spirito. Se poi alcuni de' suoi conoscenti gli
si facevano dappresso, egli riprendeva tutto il suo buon umore, e con
una loquacità e un fare espansivo assai più dell'usato si metteva a
discorrer loro delle mie nozze vicine, e gl'invitava a rammentarsi di
lui quand'egli fosse rimasto solo, e ad andarlo a visitare nel suo nido
deserto.

L'affezione figliale mi rendeva sospettosa, ma dall'altro canto una
tendenza dell'animo, che è naturale ai felici, mi aiutava a cacciare
via i sospetti. È così comodo il persuadersi che nulla verrà ad
abbattere il bell'edifizio del vostro avvenire, che nessuna nuvola
turberà l'azzurro del vostro cielo, che nessun inciampo si frapporrà al
vostro cammino! Possibile, io mi dicevo, che mio padre abbia un dolore
segreto! Possibile ch'io, che conosco tutte le vie del suo cuore, non
riesca a strapparglielo! E poi egli mi rispondeva in modo da acquetare
i miei dubbî. L'idea d'essere per separarsi da me non era essa
sufficiente cagione al suo turbamento? E nel contrasto tra questa idea
e quella che pur gli si doveva affacciare della mia felicità, non era
una giustificazione bastevole alla frequente mutabilità del suo umore?
V'era poi un altro sintomo rassicurante. Dopo alcune parole ch'io
gli avevo rivolte, la sua malinconia s'era, al meno a' miei occhi, di
molto attenuata: egli aveva ancora momenti tetri, ma si ricomponeva
prestissimo, ed anzi una domenica Gustavo, ch'era a pranzo con noi,
mi confessò che da lungo tempo egli non aveva veduto mio padre così
sereno.

Chi diveniva serio e lugubre come un epitaffio era il notaio Anastasi.
Io avevo seco una grande dimestichezza che trascendeva di leggieri
sino all'impertinenza, e mi ricordo d'avergli detto un giorno: —
Per carità, notaio, vi par egli d'esser così ameno, quando siete del
vostro umore naturale, per aggiungervi anche un granellino di patetico?
Sareste innamorato? — M'accorsi d'aver soverchiato la misura ed era
per chiedergliene perdono e stendergli la mano, quando incontrai un
suo sguardo, nel quale non v'era risentimento, ma compassione. La mia
alterezza ne fu punta, le parole mi morirono tra le labbra, e, come
avviene quasi sempre in chi ha torto, stetti imbronciata tutta la
sera. Però il dì appresso tornammo amici, e la frequenza delle visite
che l'Anastasi faceva a mio padre m'inspirava a poco a poco una reale
affezione per lui. E io arrossivo di non aver avuto bastanti riguardi
per quest'uomo, che non era stato estraneo ad alcun nostro evento
domestico, malinconico o lieto, e che per la lunga consuetudine poteva
oggimai dirsi di famiglia. Ve lo confesserò io? Vista sotto una nuova
luce, la sua onesta fisonomia mi pareva meno volgare; udite con una
prevenzione più benevola, le sue citazioni del Codice mi riuscivano
meno uggiose: chi sa che alla lunga, per una singolare contraddizione
del cuore umano, io non finissi col giudicarlo bello e romantico?

Così il giorno delle nozze s'avvicinava a gran passi, senza che alcun
incidente venisse a turbare la lieta aspettazione dell'animo mio.
Non ch'io avessi potuto estirpare ogni dubbio, non che io non mi
angustiassi talora pei mutamenti operatisi nel carattere di mio padre
altra volta così riservato, e tranquillo, ed eguale, ed ora facile a
passare dalla più scapigliata allegria alla tristezza più profonda,
dall'abbandono più espansivo alla irritabilità più nervosa; ma in fine
le mie ombre non prendevano corpo, e nulla mi dava ragione di credere
che fossero altra cosa che ombre.

Una settimana prima delle nozze Gustavo condusse in Milano i suoi
genitori, che presero alloggio da noi. Egli ritornò a Torino, dove
aveva in quei giorni una importante causa da discutere (obliai dirvi
che Gustavo era avvocato, e, tra' giovani, uno de' più promettenti
della capitale); e sarebbe tornato a Milano soltanto il mattino del 3
marzo, cioè poche ore prima del nostro sposalizio che doveva celebrarsi
alle 6 della sera.

Le accoglienze di mio padre a' miei suoceri furono, più che cortesi,
festevoli. Ma io m'accorsi ben presto che la sua ilarità non era tutta
spontanea e che, quand'egli restava solo, la nube di tristezza, che per
tanto tempo gli aveva oscurata la fronte, si addensava più fitta che
mai, e le mie inquietudini riacquistarono l'antico vigore. Mio suocero
invece era d'una serenità olimpica, e a vederlo in così buon essere si
sarebbe detto ch'egli stava per andare a nozze. Cantava, rideva, e si
abbandonava di tratto in tratto a lazzi di gusto molto equivoco che
lo divertivano assai, ma che indispettivano me. E in mezzo a queste
apparenze di bonarietà v'era negli atti suoi, nei gesti, negli sguardi
qualche cosa di freddamente imperioso, di calcolatore, di maligno che
mi metteva i brividi addosso. Sua moglie era un monumento parlante
del suo dispotismo. Quantunque di tre lustri almeno più giovane di
lui, ella pareva aver gli anni di Matusalemme; quantunque affermassero
ch'ella era stata avvenente, era divenuta così smilza e macilenta da
incuter paura. Si sarebbe detto che ella avesse perduto a brandelli
le proprie carni, conservando soltanto la pelle e l'ossa. È naturale
ch'io non avessi mai avuto agio di osservarla attentamente come in quei
giorni, nei quali ella era mia ospite, e v'assicuro che le impressioni
ch'io ne ricevevo erano un misto di pietà e di disistima. Io non sapevo
intendere quella docilità pecorina che non si risentiva, nè degli
scherni, nè dei modi acri e brutali, e che provava anzi una certa
voluttà nel far palese la sua condizione umiliante. Certo Gustavo aveva
della dignità della donna un'idea affatto diversa.... ma se non fosse
così, ma s'egli avesse a rivelarmisi sotto la stessa luce del padre
suo!... A questo solo pensiero tutti gl'istinti della ribellione si
destavano in me.

Il giorno destinato al mio matrimonio era il sabato. Il giovedì mattina
io m'ero alzata di pessimo umore: però l'aspetto sorridente di mio
padre aveva contribuito molto a rasserenarmi; la sua giovialità mi
sembrava più schietta, meno forzata del consueto. Ricevetti una lunga
lettera da Gustavo che mi narrava i particolari del suo dibattimento,
e mi esponeva la tela della difesa ch'egli aveva preparata pel giorno
dopo, per _la vigilia cioè_, com'egli scriveva, _del più bel giorno
della mia vita_. Io ero altera de' suoi trionfi: mi pareva di vederlo
dominare col gesto l'assemblea, di sentirlo tuonare generosamente in
patrocinio della infelice ch'egli doveva difendere innanzi ai giurati.
Trattavasi d'una povera giovane che in un istante d'oblìo aveva tentato
d'uccidere l'uomo, da cui era stata sedotta, resa madre, e poi vilmente
tradita.

Stavamo desinando, quando il domestico consegnò un biglietto a mio
padre. Lo vidi aprirlo con mano convulsa, leggerlo rapidamente e
impallidire. Ma fu il pallore d'un attimo; in men che non si dice egli
aveva ripreso la compostezza di prima. Però la cosa non doveva essere
sfuggita nemmeno a mio suocero, poichè i suoi occhi manifestavano
un'inquieta curiosità. Io giurai a me stessa di trovar la chiave
di questo enigma. Dopo pranzo dovetti uscire con mia suocera, e per
giustificare la mia preoccupazione accusai un improvviso dolore di
capo. Avevo toccato un cattivo tasto, poichè la buona donna vi andava
soggetta, e me ne discorse con grande diffusione, suggerendomi tutti i
farmachi immaginabili, e dicendo almeno due volte al minuto: — Speriamo
che passerà. — E in fatto, per non sentirne altro parlare, feci sì che
passasse, e nel rientrare in casa mi dichiarai bella e guarita.

Il salotto era illuminato e v'era già qualcheduno. Altri molti
si aspettavano. Mio padre stava addossato alla stufa in festevole
colloquio con due persone. Era tranquillo; tutt'al più si sarebbe
potuto dire ch'egli fosse un po' sofferente di salute. Mio suocero
giocava al _domino_ con un suo compatriota ch'era venuto a visitarlo.
Amici del babbo ed amiche mie, figli degli amici del babbo, e madri
delle mie amiche capitarono in frotta a passar con noi la serata:
mancava però la cravatta bianca, il vestito nero ed il faccione
rotondo dell'Anastasi. A me toccò simulare allegria e disinvoltura;
pregata andai al cembalo; poi dispensai il tè, ricevendo complimenti,
congratulazioni, baci e strette di mano. Il meno ch'io poteva fare
in ricambio era di sorridere.... sorridere con l'angoscia che mi
dilaniava.

Quando piacque al cielo, gli ospiti se ne andarono e ciascuno si
ricondusse alla propria stanza. Io aveva maturato il mio progetto:
attendere pochi minuti, e volar poscia nella camera del babbo. La sua
sorpresa, le mie lagrime, le mie carezze lo avrebbero indotto senza
dubbio ad aprirmi l'animo suo.

Avvezza a percorrere la mia casa con passo sicuro, con fronte alta e
serena, non so dirvi quel ch'io provassi nel traversarne gli anditi
in punta di piedi a guisa del delinquente che ha violato l'altrui
dimora. Uno strano senso di terrore mi dominava tutta, le fantasie
più lugubri mi si affacciavano allo spirito, la mia immagine riflessa
in uno specchio, la mia ombra fuggente sulla parete mi mettevano un
tremito addosso, il fruscìo delle mie vesti mi suonava sinistramente
all'orecchio: io ero diventata superstiziosa come la contadina che,
transitando la sera pel suo campicello, pensa ai racconti dell'ava
e vede intorno a sè spettri e fantasmi. Nell'aprire una porta mi si
spense il lume; ciocchè accrebbe in sulle prime il mio sgomento, ma
produsse tosto una salutare reazione. Vergognai della mia pusillanimità
e proseguii a tentoni. L'uscio della camera di mio padre era sbarrato:
vi regnava un perfetto silenzio. Entrai trattenendo il respiro.... mi
provai a chiamare: la voce mi morì soffocata nella strozza.... pure mi
feci forza e gridai replicatamente: — Babbo, babbo. — Nessuna risposta.
Io mi sentivo venir meno, ma guidata da quel po' di virtù visiva che
resta all'occhio anche nell'oscurità appena vi si sia avvezzato, mi
approssimai al letto, palpandone le coltri. Non v'era nessuno e la
intatta rimboccatura delle lenzuola rendeva evidente che non v'era
neppure stato nessuno. La mia ragione smarrivasi: nondimeno ebbi
ancora bastante lucidezza di spirito da pensare che mio padre poteva
essere nel suo studio, e, raccolte le poche forze che mi restavano,
ripresi al buio il mio affannoso pellegrinaggio. Per arrivare allo
studio conveniva scendere una scaletta interna: la scesi, sempre
nell'oscurità, e giunta sul pianerottolo mi persuasi ch'io non avevo
errato nel mio giudizio. Udii un bisbiglio, e mi parve distinguer le
voci di mio padre e del notaio Anastasi. Tranquillata dalle più lugubri
apprensioni, io mi sentivo però il cuore batter sì forte, che per
reggermi mi convenne appoggiarmi alla parete. Temetti che fosse chiuso
a chiave anche l'uscio dell'antistudio, ma non era; e potei entrare,
ed accovacciarmi dietro un paravento e porger l'orecchio a ciò che si
diceva nella stanza attigua. Introdurmivi io pure, ammesso che la porta
non ne fosse assicurata di dentro, sarebbe stata cosa inopportunissima:
avrei prodotto uno scompiglio e perduto il destro di sapere il mistero
che mi stava sì a cuore; il mistero, pel quale io non rifuggivo
dall'indelicatezza di origliare ad un uscio.

Ebbi subito agio di convincermi che due soli erano gl'interlocutori,
Anastasi e mio padre. In sulle prime il dialogo mi sfuggiva; ma poi,
sia che dentro si alzasse la voce, sia che uno sforzo della volontà
aguzzasse in me il senso dell'udito, riuscii ad afferrare una buona
parte del colloquio, e, quantunque si trattasse d'affari, l'ho qui
scolpita in mente come se uno stile l'avesse incisa nel marmo.

— Dunque, — diceva mio padre, — voi credete che col Miragli non sia
sperabile di venir a un componimento.

— Pur troppo ne son sicuro, — rispose l'Anastasi; — egli mi dichiarò
stasera che non accetterà altro che l'integrale rimborso in contanti.

— Trovar danari è impossibile.

— Impossibile, — riprese il notaio. — Inoltre, signor Giorgio, a un
vecchio amico voi permetterete il dirvelo francamente, ciò che voi
fareste pel Miragli andrebbe a danno degli altri vostri creditori.
Quando voi abbiate liquidato tutta la vostra sostanza, vi resterà
sempre un _deficit_ di 200 mila lire. Se per avventura voi trovaste
oggi a prestito questa somma per rimborsare il Miragli, non avreste
evitato ciò che disgraziatamente è inevitabile, ma sareste colpevole
di una ingiusta preferenza, di cui non so se i tribunali potrebbero
chiedervi conto, ma di cui vi chiederebbe conto per certo l'opinione
pubblica e la vostra coscienza. —

Io credevo di sognare: però lo stupore e l'angoscia non facevano che
accrescere l'intensità della mia attenzione.

Udii di nuovo la voce di mio padre che diceva: — Avete ragione. — Poi
successe un silenzio o piuttosto un bisbiglio confuso, nel quale io
non potevo distinguere parola. Indi mi giunsero di nuovo all'orecchio
queste frasi proferite in tuono concitato, confuso: — Che orrore! Che
orrore!... Il fallimento! Alla mia età.... Dopo tanti anni di oneste
fatiche, dopo tanti anni di riputazione intemerata!... — Una sedia si
mosse: credei che il colloquio fosse finito, e mi rannicchiai paurosa,
ansante nel mio nascondiglio. Ma l'uscio non ancora si aperse, e intesi
soltanto il passo di mio padre che andava su e giù per la stanza.
— Sentite, Anastasi, — egli soggiunse con qualche solennità, — le
cambiali scadono domani. Avete almeno ottenuto _da quell'uomo_ ch'egli
non le protesti sino a lunedì dopo che mia figlia sarà partita col suo
sposo? La legge glielo consente.

— Egli mi diede la sua parola d'onore, — rispose l'Anastasi.

— Adelaide esce di minorità sabato, o per meglio dire alla mezzanotte
di venerdì, ch'ella nacque appunto in quell'ora. Sarà vostra cura di
farla entrare in possesso della sostanza che le ha lasciato sua madre
e che formerà la sua dote.... Oh! io avrei dovuto accrescere il suo
patrimonio, e invece è un gran che se le rendo intatto ciò che mi
lasciò per lei la mia povera Maria. —

Il nome della madre mia proferito in quel momento, il pensiero che in
tanta rovina mi mancavano le supreme consolazioni del bacio materno,
ruppero il freno alle lagrime ch'io aveva rattenute fino a quel punto.
Io mi sentii le guance inondate di pianto: nondimeno una forza maggiore
di me mi teneva incatenata al mio posto.

— Signor Giorgio, — rispose l'Anastasi dopo brevissima pausa, e con
la voce perplessa ed incerta di chi si perita ad esprimere un proprio
concetto, — signor Giorgio, non vi venne mai il pensiero di confidarvi
a vostra figlia ed a vostro genero?..; Le dugento mila lire della
signora Adelaide.... —

Mio padre diè fortemente col pugno sul tavolo, e proruppe con accento
pieno d'ira e di fuoco, — Voi delirate, Anastasi. Turbare a mia
figlia i giorni più cari della sua vita? Mettere a repentaglio la sua
felicità? Espormi al caso ch'ella, offrendomi ogni suo avere, dovesse
perdere il matrimonio che forma lo scopo de' suoi pensieri....

— Perdere il matrimonio! Voi credete il signor Gustavo tante venale....
Oh no! egli è giovane....

— Se tal non fosse lui, sarebbero i suoi. O che vi pare che suo padre
sia un modello di abnegazione e di disinteresse? Via, Anastasi, non
mi fate il poeta, voi lo sapete meglio di me che conto bisogni fare
degli uomini, quando si tratti di siffatte questioni. Basti, e per
sempre, di ciò... Almeno, quando Adelaide saprà l'accaduto, ella sarà
lungi di qui, fra le braccia dell'uomo che adora, e le cure del nuovo
stato e le impressioni di luoghi non mai veduti le renderanno meno
penoso l'annuncio. Del resto io saprò attenuarle il vero per modo
ch'ella supponga soltanto un momentaneo sconcerto. E prima ch'ella
ritorni dal suo viaggio, lo spero, le mie faccende saranno sulla via
di accomodarsi.... Per ora io non chiedo altro, se non che il cielo mi
dia tanta forza da non tradirmi al cospetto della mia figliuola. Ella
già presente qualche guaio: conviene che il mio contegno ed anche il
vostro, Anastasi, siano tali da dissipare ogni dubbio. Non vi fu mai
simulazione più santa di questa. —

Le voci ricaddero nuovamente in un indistinto ronzìo; poi intesi mio
padre dire: — Andiamo.

— Sì, — rispose il notaio. — Domattina passerò da voi dalle sette
alle nove. Più tardi ho qualche occupazione e non potrò muovermi dallo
scrittoio. —

L'uscio dello studio si aperse. Precedeva mio padre tenendo il lume
in mano. La sua faccia illuminata dai raggi della candela sembrava
ancora più pallida: nondimeno egli mi parve meno turbato che non fosse
nella mattina; il suo passo era lento, ma sicuro, il suo sguardo aveva
qualche cosa di risoluto e virile che metteva riverenza ed ammirazione.
O egli si era rassegnato da stoico, o egli lottava da eroe. Il notaio
Anastasi lo seguiva a capo chino, e divorando in silenzio una lagrima
che gli scendeva giù per la guancia. Quest'uomo, al quale io non avevo
portato altra affezione che quella inspirata dalla lunga consuetudine,
quest'uomo ch'io avevo creduto onesto sì, ma volgare e incapace
d'intendere nulla al di là de' suoi codici, mi si mostrava sotto una
luce affatto nuova. Oserei dirlo? Vi fu un punto, nel quale il mio
animo si sentì attratto verso di lui più che verso mio padre. Mio padre
aveva dubitato di Gustavo; egli lo aveva difeso.

Accovacciata nel mio cantuccio li vidi passare per l'antistudio ed
uscire. Dovevo io scoprirmi? Dovevo gettarmi ai piedi di mio padre per
dirgli ch'io non avrei mai permesso il suo disonore, finchè restava un
centesimo nella mia borsa, una stilla di sangue nelle mie vene? Fui in
forse un istante, ma mi ricredetti subitamente: io non potevo salvare
mio padre che contro sua voglia; perchè, adunque, metterlo in guardia?

Mi ricondussi faticosamente alla mia stanza; con quali impressioni, con
quali pensieri lascio a voi immaginarlo. Ho io bisogno di notomizzare
innanzi a voi il mio cuore? Innanzi a voi, così intelligente, così
buona? Vi dirò: figuratevi d'essere ne' miei panni: ecco tutto.
Figuratevi, vicina alle nozze come voi siete, d'essere, com'io fui,
colpita da una di quelle notizie che mutano a un tratto le condizioni
dell'animo, e possono mutare del pari il corso agli eventi. Avete
un pensiero in cima a tutti gli altri; l'uomo che sta per essere
vostro marito: ebbene, questo pensiero deve andare in seconda linea;
a vostro padre dovete pensare: a vostro padre che voi credevate
opulento, rispettato da tutti, serbato a una vecchiezza tranquilla, e
che invece è povero e dovrà sostenere le contumelie degli avversari
e degl'indifferenti, e la inerte commiserazione dei tepidi amici, e
perdere il frutto d'una vita intemeratamente operosa. Non è un sogno.
Eravate alla soglia della vostra casa per uscirne lasciandovi un tesoro
d'affetti, e portandone con voi un desiderio pacato, una reminiscenza
soave, ed ecco a un punto un imperioso dovere vi ci trattiene e vi
dice: — Il vostro posto è qui, e sarà forse qui anche domani, e fosse
pure per tutta la vita, voi non potreste lasciarlo senza commettere una
viltà pari a quella del soldato che viola la sua consegna. —

Occorre ch'io vi dica che quella notte non chiusi occhio?... Occorre
ch'io vi dica che non mi spogliai? Che non mi gettai nemmeno sul letto,
ma che, sebbene il clima fosse rigidissimo, mi parve a più riprese di
soffocare e spalancai la finestra? Quante volte chiamai mia madre!...
ella era morta da undici anni!... Quante volte invocai la presenza
di Gustavo, e poi contraddicendomi da me stessa augurai ch'egli non
venisse, sinchè _tutto non fosse finito_. Allorchè l'alba, una gelida
e triste alba di marzo, cominciò ad imbiancar l'orizzonte, io avevo già
fisso in mente il mio disegno. Concedetemi di raccogliere le mie idee,
e proseguirò il racconto. —

Lina accostò la sua sedia a quella della signora Adelaide, pose la sua
nella mano di lei, e susurrò con voce commossa:

— Povera amica; quanto avete dovuto soffrire! —


II.

Era già levato il sole — continuò la signora Adelaide — allorchè,
per non insospettire la cameriera che sarebbe entrata di lì a poco,
mi misi a letto. Quand'ella venne, le ordinai di far approntare la
mia carrozza. Io esercitavo in casa una così assoluta padronanza, che
quella gita ad ora strana non poteva dar ombra a nessuno. Non era la
prima volta ch'io uscivo di buon mattino per qualche spesuccia.

Abbigliatami in fretta, salii nella carrozza, dicendo al cocchiere che
mi conducesse sul Corso. Mentre io comperavo non so qual bagattella
in un negozio, una mia antica conoscente, ch'erasi da alcuni anni
stabilita in provincia, mi si gettò al collo baciandomi con effusione,
e dicendo: — Ho inteso che sei prossima a nozze. Accetta di volo le
mie congratulazioni. — Poi con un fare tra il serio e il gioviale
soggiunse: — Sono diventata _madama_ anch'io, sai? Eccoti mio marito.
— E mi presentò un bel giovane, alto della persona, che s'era tenuto
modestamente in disparte. Ribaciai la mia amica, rivolsi un complimento
dozzinale al suo compagno, e risalita in carrozza gridai: — Dal
banchiere Miragli, — nominando la via da me conosciutissima ove questi
abitava. La mia amica e il suo sposo parevano ammirar la bellezza
del mio equipaggio, e nel saluto ch'essi mi fecero, allorchè i miei
cavalli si misero al trotto, credetti scorgere quella deferenza quasi
involontaria, con cui la gente di mediocre fortuna guarda coloro
che sono, o ch'ella stima opulenti. Temei d'essere stata un po'
aristocratica, un po' fredda, e spinsi la testa fuori della portiera
per far un nuovo cenno del capo alla giovane coppia, ma essi non mi
abbadavano più. — Camminavano a braccio l'uno dell'altro, discorrendo e
sorridendosi amorosamente. I loro occhi non s'incontrarono coi miei, il
mio movimento passò inosservato. Essi erano felici! Ed io?...

Quando la carrozza si arrestò dinanzi alla dimora del Miragli, io
sentii un gran tremito per tutta la persona. Io non avevo nè ponderato,
nè discusso meco medesima la condotta da tenere; una sola cosa mi stava
chiara e distinta nel cervello, ed era la mèta, a cui dovevo arrivare.

Mi feci precedere dal mio biglietto di visita, su cui avevo scritto
che si trattava di cosa urgentissima. Un servo gallonato venne a farmi
discendere assai cerimoniosamente dalla carrozza, mi accompagnò lungo
un andito senza finestre che riceveva luce da una parete a cristalli
appannati e m'introdusse in un gabinetto elegantissimo, ove mi disse
che il signor _Cavaliere_ non mi avrebbe fatto attendere che pochi
secondi. Oggi il banchiere Miragli è cavaliere de' Ss. Maurizio e
Lazzaro, allora era cavaliere di Francesco Giuseppe, e se ne teneva.

Non era la prima volta ch'io vedevo questo signore. Egli veniva qualche
sera a trovar mio padre nel suo palchetto alla Scala, e le nostre
carrozze s'incrociavano ogni giorno sul Corso. Sua moglie e le sue
figliuole mi erano antipatiche al sommo, e la nostra conoscenza non
era arrivata più in là di un compassato cenno del capo. Figuratevi
poi che cosa io pensassi in quel momento del signor Miragli. Egli
era per me un mostro d'infamia, un rifiuto dell'umanità, un essere
così sozzo e perverso che il peggiore non avrebbe potuto immaginarsi.
Indi, procedendo cogli anni e con la triste esperienza della vita,
si attutirono in me gli entusiasmi e gli sdegni, ed anche del signor
Miragli feci più equo giudizio. Egli era soltanto un uomo inteso a
tutelare gelosamente il proprio interesse. E, invero, perchè avrebbe
dovuto sacrificarsi alla felicità mia, alla felicità di mio padre?
Quali obblighi aveva egli verso di noi?

Egli non tardò a comparire. Teneva in mano il mio biglietto di visita,
guardandolo sotto gli occhiali con un certo atto sospettoso, come
volesse dire: — Che diavolo viene a fare costei? —

Io ero troppo sollecita della dignità mia, della dignità di mio padre
per ismarrire un solo istante il mio contegno tranquillo e severo.

Il banchiere che, quantunque toccasse la cinquantina, pretendeva ancora
di far l'elegante, mi sciorinò alcuni complimenti; ma io, che non era
in vena di cerimonie, entrai diritta nel cuore dell'argomento.

— Io sono venuta qui — dissi — per sottoporle francamente una domanda e
farle francamente una mia proposta. Posso sperare nel signor cavaliere
Miragli un'uguale franchezza? —

Egli, spintosi innanzi sulla sedia con mezza la persona a guisa di chi
si accinge ad ascoltare attentamente, fece col capo e con la mano un
cenno affermativo, ed io continuai.

— È vero ch'Ella è creditore di mio padre per la somma di 200 mila lire?

— Scusi, — rispose il banchiere, — non intendo come ciò che si
riferisce alle relazioni di due uomini d'affari tra loro, possa formare
oggetto del nostro colloquio.

— Non saprei — interruppi — di che cos'altro dovrebbe occuparsi il
nostro colloquio, se non di ciò che riguarda gli affari di lei con mio
padre. Del resto poco vale lo schermirsi. Io so che la faccenda è così.

— In tal caso, è vero, — riprese il Miragli, giuocherellando coi
gingilli dell'orologio.

— È vero che questo credito è rappresentato da alcune cambiali, le
quali scadono oggi?

— Ma.... Signorina!...

— È inutile il voler nasconderlo, perchè lo so.

— Allora non mi resta che dire: è vero.

— È vero — continuai senza scompormi — ch'Ella rifiuta ogni proroga ed
esige di esser pagato immediatamente e interamente?

— Le confesso, o Signora, ch'io persisto nel credere inutili queste
spiegazioni. È penoso ad un uomo di onore, come io credo di essere,
il dover mettere in discussione proponimenti che ormai non possono più
esser mutati.

— Nè io intendo ch'Ella li muti, — risposi, sollevando il capo
con alterezza. — Io non vengo qui a implorar grazia, ma a trattare
d'affari. —

Il banchiere prese un occhialetto che gli pendeva al collo, e poichè
n'ebbe sovrapposte le lenti a quelle degli occhiali si mise a guardarmi
più attentamente che mai. V'era nella sua fisonomia qualche cosa che
esprimeva o una immensa commiserazione o una immensa maraviglia. Se
taluno fosse in quel momento disceso nel cuore del signor cavaliere
Miragli, scommetto che vi avrebbe trovata la convinzione ch'io presto
o tardi diverrei pazza. Siccome però poteva accadere ch'io parlassi
del miglior senno, non gli conveniva render troppo patente la sua
incredulità. E soltanto, come esponendo un suo dubbio, egli riprese:

— Io temo, Signorina, che la sua ben naturale inesperienza d'affari non
Le permetta di considerare l'importanza della somma che quelle cambiali
rappresentano, nè la difficoltà di trovarla così su due piedi.

— Ebbene, signor Cavaliere, — ripresi, — io non sono certo in grado
di pagare oggi per intero la somma, di cui Ella è creditore; ma sono
venuta a chiederle se Ella accetterebbe la mia firma in sostituzione a
quella di mio padre. —

Il cavaliere Miragli tornò a fissarmi nell'atto di chi sta dinanzi ad
un visionario. E riprendendo a poco a poco il tuono dell'uomo d'affari:

— Scusi, — mi disse, — Ella oggi è minorenne e non può assumere
impegni: domani, s'io non erro, va sposa al signor avvocato, — e
proferì il nome del mio fidanzato, — onde non saprei davvero....

— Ah! — interruppi con fredda ironia, quantunque l'allusione al mio
matrimonio mi avesse fatta impallidire. — Ella mi tratta come una
fanciulla, e suppone ch'io non fossi preparata alle sue obbiezioni. Le
dirò ch'io nacqui, e veda un po' se sono precisa, appena scoccata la
mezzanotte del 2 marzo 1826. Adunque poche ore mi mancano a compire
i ventiquattr'anni e ad esser padrona di me. Le mie nozze sono
stabilite pel dopopranzo di domani, per cui v'è un breve periodo di
tempo, nel quale io ho la potestà piena delle mie sostanze, e la piena
responsabilità dei miei atti. —

Nel mentre che io parlavo, il banchiere aveva avvicinato la sua sedia,
e il suo volto non esprimeva più la curiosità ironica di chi ascolta
le chiacchiere d'uno sconclusionato, ma l'attenzione vigile e intensa
dell'uomo che sente proporsi un affare serio.

Io continuai: — Approfittando di questo intervallo, nel quale non
dipendo che da me medesima, io Le offro (perchè non m'è dato svincolare
da un momento all'altro ogni mio avere) di sottoscrivere quelle
obbligazioni ch'Ella stimerà necessarie a coprire il suo credito. Il
nome di mio padre deve restare senza macchia.

— Ma, e questa sua sostanza? — bisbigliò perplesso il banchiere.

— Signore, — diss'io alzandomi in piedi, — io non soglio offrire che
quello che possiedo, nè ora scenderò a inutili particolari. Ha Ella
piena fiducia nel notaio Anastasi?

— Pienissima, — egli rispose inchinando il capo.

— Ebbene, egli potrà chiarirle i fatti miei più ch'io non voglia o
non debba. A mezzanotte io sarò nel suo studio. Vi si rechi e porti
con sè le cambiali. Se le parole dell'Anastasi non la convinceranno,
s'Ella non avrà la certezza che un impegno assunto da me sia una piena
guarentigia per Lei, Ella conserverà i suoi diritti, e sarà come se il
nostro colloquio non fosse succeduto. —

Il Miragli promise che non mancherebbe al convegno, e si confuse in
proteste di ammirazione.

Nell'accompagnarmi all'uscio soggiunse a mezza voce, quasi
vergognandosi di sè stesso: — Spero che i documenti.... compresa la sua
fede di nascita.... —

Non lo lasciai finire, ma lo fulminai con uno sguardo così pieno di
disprezzo e di orgoglio, che le parole gli morirono sulle labbra.

Egli mi porse la mano: io ritirai la mia e feci atto d'uscire. Però
mi rivolsi un momento indietro, e dissi con voce ferma: — Silenzio con
tutti, s'intende.

— Si figuri! — rispose; poi mi precesse nell'andito e richiamò il servo
in livrea che m'aveva fatto discendere dalla carrozza. Ci accomiatammo
con un semplice cenno del capo.

Dopo il banchiere, il notaio. In pochi minuti il cocchio mi mise alla
porta dell'Anastasi: in pochi secondi fui nel suo studio.

Quand'io, senza punto farmi annunciare, me gli presentai dinanzi,
egli era tutto assorto nell'esame di alcune carte che stavano sul suo
tavolino. Al fruscìo della mia veste alzò il capo, e sul suo volto si
dipinse una sorpresa che confinava con lo sgomento.

— Voi qui?

— Io stessa, — risposi; — e mettendo il chiavistello all'uscio,
soggiunsi: — Ho bisogno d'un abboccamento da sola a solo con
voi. —

La fisonomia del notaio si scomponeva sempre più: egli si levò gli
occhiali, mi piantò in viso uno sguardo indagatore, e accostando una
scranna alla sua poltrona m'invitò a sedere.

Non vi ripeterò il nostro colloquio ne' suoi particolari. Io, donna
e inesperta, io, la cui sorte pendeva da un filo, ero tranquilla e
serena; egli, uomo d'affari, era invece agitato come se avesse avuto la
febbre. Fu più volte sul punto d'interrompermi; ma io lo trattenni d'un
gesto, e narrai tutto, tutto ciò ch'io avevo inteso la sera precedente,
tutto ciò che avevo detto allora allora al banchiere Miragli, tutti
gl'impegni ch'io aveva presi con l'incrollabile determinazione di
mantenerli ad ogni costo.

Quand'ebbi finito, il buon uomo si portò ambe le mani al capo in atto
di profonda disperazione.

— Adelaide, — egli proruppe, chiamandomi confidenzialmente per nome,
come gliene dava diritto la lunga dimestichezza, — ciò che avete
fatto è una pazzia, sublime forse, ma sempre pazzia, e io non posso
e non debbo esserne complice. Via, calmatevi, — soggiunse, prendendo
nelle sue le mie mani agitate da un tremito nervoso; — state a sentire
anche me, come io stetti a sentir voi. — Egli allora, riacquistata
tutta la lucidezza della sua mente, fredda e ordinata come le carte
del suo archivio, mi svolse una serie di considerazioni, in cui era
innegabilmente un lato di giusto, ma che m'irritavano appunto per
quello di giusto che contenevano. — Io volevo immolarmi per salvare
l'onor di mio padre, — egli diceva; — ma quest'onore non era punto
in questione. Checchè avvenisse, tutti avrebbero saputo che mio padre
soccombeva a un rovescio di fortuna, e il suo passato n'era la miglior
guarentigia. Col mio sacrificio io mettevo a repentaglio la sua
pace, la sua vita forse. Ma io ignoravo adunque che, più ancora della
sventura imminente, lo turbava il pensiero ch'io di questa sventura
potessi esser partecipe prima di aver assicurato il mio avvenire?
Inoltre, era egli in mia potestà il disporre così delle mie sostanze?
Legalmente non v'era dubbio: io non rimanevo padrona assoluta di me che
nelle poche ore, le quali scorrevano tra il momento in cui io compivo
i ventiquattr'anni, e quello in cui andavo a marito, e di quelle poche
ore io potevo dispor da sovrana. Ma, alla fine dei conti, libera al
cospetto del Codice, era io tale moralmente? Non appartenevo io già
all'uomo che doveva viver meco, meco formare una famiglia? Non dovevo
io per lo meno consultarlo prima di prendere una deliberazione di tanto
rilievo? Era in facoltà mia di consumare, lui assente ed ignaro, un
patrimonio destinato a' nostri figliuoli? E poichè prima delle nozze
era per me un debito sacrosanto di dirgli ogni cosa, non avevo io
considerato quanto fosse più delicato, più nobile il far precedere la
confessione al fatto, che farla seguire? —

I suoi argomenti non mi commossero. Io non sapevo che una cosa: che mio
padre era sull'orlo del fallimento, e che io avevo i mezzi di salvarlo.
Ogni irresolutezza era per me, più che una colpa, un delitto. Pure io
non potevo a meno di chiedere a me stessa, perchè mi ripugnasse in modo
così strano e invincibile l'idea di confidare tutto a Gustavo. Io non
ne avevo il tempo per lettera, è verissimo; ma Gustavo sarebbe stato
in Milano il mattino del dì successivo, e poichè il banchiere Miragli
era deciso a non protestar le cambiali sino al lunedì, nella giornata
di sabato, prima dell'ora delle nozze, v'era agio di accomodare ogni
cosa. In tal modo io mi sarei risparmiata la giusta accusa di mancare
di fiducia verso l'uomo ch'io amavo più sulla terra, ed avrei associato
quest'uomo all'adempimento del mio dovere. Tutto ciò era evidente:
nondimeno io mi sentivo incrollabile nel mio proposito. Era forse il
dubbio che Gustavo mi distogliesse dall'adempiere un obbligo sacro? Era
la vanità di serbarmi intera la lode di una nobile azione, e di farmene
una specie di manto, entro cui presentarmi teatralmente atteggiata
innanzi al mio sposo? Non vi maravigli, Lina, il mio dire. Voi siete
una natura schietta ed ingenua, io ero invece un carattere pieno di
bizzarrie e di contraddizioni, uno di quei caratteri che amano la
virtù, ma la vogliono cinta d'un apparato scenico.

Ad ogni modo, gli è certo che tutte queste ragioni cospiravano per
mantenermi irremovibile nel mio proponimento. — O siatemi complice, —
dissi all'Anastasi, — o mi avrete nemica. Che cosa io farò, l'ignoro io
medesima; ma voi mi avrete ferita, provocata per modo da spingermi ad
ogni pazzia. E, invero, se per poche ore io son libera da ogni potestà,
se sono padrona assoluta di me, dovrò forse cadere sotto la sovranità
vostra? Quali sono i vostri titoli? Voi vi rifiutate di assistermi?
Ebbene, io cercherò chi tenga le vostre veci. Mancano forse altri
uomini di legge in Milano? E mi credete così spoglia d'ogni energia da
non saper far valere i miei diritti? io mi ero rivolta a voi come ad un
amico, a cui si confida ciò che si è fatto, non come a un consigliere,
a cui si chiede ciò che deve farsi. Voi mi conoscete, sapete la
tenacità de' miei propositi. Ve lo chiedo per l'ultima volta, volete
assistermi? —

L'Anastasi giunse fino alle lagrime. Egli mi disse, piangendo, che
il secondarmi gli costerebbe l'amicizia di mio padre, mi scongiurò di
attendere almeno sino alla venuta di Gustavo; ma tutto invano. Quando
mi vide così risoluta si alzò, e con una spontaneità di movimento, e
una delicatezza di parola, di cui non l'avrei creduto capace, mi stese
ambe le mani e mi disse:

— Ebbene, poichè lo esigete, sia pure così. Io vi ho veduta nascere, vi
tenni fra le braccia bambina, e non posso lasciarvi in questo istante
della vostra vita. Voi siete una ragazza ammirabile di virtù e di
sacrificio, ma avete giocato sopra una carta il vostro avvenire. Voglia
il cielo che abbiate a vincere la partita. —

Suggellammo la pace, convenendo sul modo d'incontrarci la sera. Era
cosa facilissima. L'Anastasi doveva farmi conoscere il mio stato
economico; bastava quindi fissare il nostro abboccamento per la
mezzanotte.

Giunsi in casa a tempo della colazione e trovai mio padre un po'
maravigliato, ma non inquieto della mia assenza. Io ero in quel
primo momento ancora più ansiosa di veder riuscito il mio disegno
che trepidante per l'avvenire. Intanto i preparativi per le nozze
procedevano con affannosa alacrità. Servi ed operai erano tutti intesi
a dar l'ultima mano al salotto da pranzo e a quello di ricevimento:
per le scale e pegli anditi si disponevano acconciamente vasi di
sempreverdi; nella cucina s'udiva il brulichìo d'un laboratorio
chimico, e il cuoco di casa in berretto e giubba bianca andava su e
giù trafelato, impartendo ordini concisi e assoluti a' suoi quattro
aiutanti. Ad ogni istante un servo in livrea capitava da parte dell'una
o dell'altra delle nostre conoscenze a portare o un biglietto di
visita, o un mazzo di fiori, o un astuccio con qualche regalo per
me. Ed io ero la regina della festa, e dovunque io passavo era un
inchinarsi rispettoso, un sospendere momentaneamente il lavoro per
farmi ossequio. Io ero la gran tormentata, ed ora la crestaia mi
provava l'acconciatura, ora la sarta mi accomodava in dosso il vestito
da nozze, un vestito di seta bianco, accollato, con uno strascico
lungo due braccia. Tutti avevano una parola di congratulazione, una
parola d'augurio per me: io dovevo avere un sorriso per tutti. E
quando la cameriera mi fece passare in rassegna il mio corredo, un
corredo de' più ricchi e assortiti che mai una sposa avesse recato
seco, e quand'ella mi chiese quali oggetti dovesse riporre nella
valigia pel mio viaggio di nozze, mi toccò risponderle con fronte
serena, e dissimulare la tremenda agitazione dell'animo. Oh Lina, vi
sono battaglie che non si vedono, eppur sono più difficili a vincersi
di quelle che decidono le sorti degl'Imperi! Soffocare un gemito
che sta per irrompervi dal petto, frenare una lagrima che sta per
discendervi dal ciglio, supplire con l'energia della volontà alla forza
delle membra che vi abbandona, ecco una serie d'imprese che non danno
gloria, ma costano sudori di sangue. Io quel giorno di martirio senza
confine potete credere, se la petulanza di mio suocero mi producesse
un effetto gradevole. Egli mi era sempre attorno canticchiando e
saltellando, nonostante i suoi settant'anni, e dicendo sempre: — Gran
bella cosa il matrimonio per una ragazza, non è vero? Più bella per
loro che per noi, poveri uomini, che ci lasciamo prendere al laccio.
— E rideva sgangheratamente. Sua moglie poi non sapeva staccarsi
dall'esame del mio corredo e mi faceva di tratto in tratto le sue
critiche. I fazzoletti di _battista_ non erano abbastanza fini, i
collarini non erano tutti di buon gusto. Se avessi veduto il corredo di
lei, trent'anni addietro! Bisogna dir proprio che allora si lavorasse
meglio!...

Ma non ci perdiamo in minuzie. Dopo pranzo, secondo il nostro accordo,
venne il notaio Anastasi. Bisbigliò alcune parole all'orecchio di mio
padre, che parve annoiato, e sclamò a voce alta: — Che ora siete andato
a scegliere! — L'altro insistette con qualche calore, onde mio padre si
rimosse dalle sue obbiezioni. Venne verso di me, mi trasse in disparte
e mi disse: — Lo sai? stasera compi ventiquattr'anni. Ho piacere che
tu riveda da te stessa i tuoi conti. Quell'originale dell'Anastasi
afferma di non esser libero che alle undici e mezzo, onde convien fare
il comodo suo. Per quell'ora ho già ordinato la carrozza. Vuoi essere
accompagnata?... —

Ci sarebbe mancato altro! Risposi subito che sarei andata sola, e il
pericolo fu sventato.

Di lì a qualche minuto l'Anastasi si mosse facendomi un cenno. Io
l'accompagnai all'uscio della scala e seppi che il banchiere Miragli
era stato nello studio di lui, e che ogni difficoltà era rimossa. Non
restava che firmare. Nel lasciarmi, il notaio mi disse con amarezza:
— È la prima volta in vita mia ch'io inganno un uomo; e quest'uomo
è un amico, è vostro padre, e siete voi che mi avete indotto a
ingannarlo.... —

Io esultavo all'idea che tutto era appianato: ogni altra cosa
scompariva pel momento a' miei sguardi. Rientrai nel salotto col passo
più elastico, con la fisonomia più serena, onde mio suocero mi piantò
in viso gli occhi e mi chiese: — Ehi, sposina, che vuol dire quell'aria
di trionfo? —

Mi schermii alla meglio, e andai a sedere proprio dirimpetto
all'orologio a pendolo ch'era collocato sulla mensola. La sfera dei
minuti procedeva abbastanza sollecita, ma come mi pareva tarda quella
delle ore! Alla fine scoccarono le undici. Mi dileguai in silenzio dal
salotto, mi acconciai in fretta uno scialle e un cappello, e scesi nel
cortile, ove la carrozza era pronta ad aspettarmi. Non erano ancora
le undici e mezzo quando io fui nello studio del notaio. I suoi due
commessi sonnecchiavano nell'anticamera; egli era solo dinanzi allo
scrittoio col capo appoggiato ai gomiti e nascosto fra le mani. Una
lampada, la cui campana era rivestita di un paralume di color verde,
concentrava tutta la sua luce sulle carte del tavolino lasciando in
ombra la stanza, che così buia, così silenziosa, aveva qualche cosa
di lugubre che vi stringeva l'animo. Il _tic-tac_ uniforme di un
orologio infisso alla parete contribuiva a quell'insieme di tristezza,
inesplicabile, eppur gagliarda e profonda.

Quand'io entrai, l'Anastasi si scosse, guardò l'orologio e disse:
— Avete anticipato. Però il banchiere non tarderà a giungere.
Intanto vostro padre m'incaricò di farvi vedere il conto della sua
amministrazione. —

E mi squadernò dinanzi una pagina irta di cifre. Io la rispinsi senza
nemmeno gittarvi l'occhio. — Ciò che fu fatto da mio padre e da voi —
risposi — non ha bisogno della mia approvazione. Solo permettetemi di
chiedervi ancora una volta: la mia sostanza basta a salvarlo? —

— Basta. Ora ecco la vostra fede di nascita, — soggiunse il notaio.
— Era necessario levarne una copia per dare al cavalier Miragli una
guarentigia della validità de' vostri atti. Le pratiche occorrenti
per liberare il vostro avere, che è depositato presso il Tribunale,
non esigeranno che un mese tutto al più, per cui abbiamo convenuto
col signor cavaliere che voi sottoscriverete delle obbligazioni pel
15 aprile; ma che, ove mi riesca d'aver prima il danaro, io gliene
anticiperò il pagamento. Questa poi — continuò il notaio, mostrandomi
un'altra carta — è una istanza di vostro padre, con cui si dichiara
che siete divenuta maggiore, e si domanda che sia messa a vostra piena
disposizione l'eredità materna.... —

Un rumore di passi annunziò l'arrivo del banchiere Miragli. Era
umile come un agnello e dolce come uno zuccherino; nè rifiniva mai di
scusarsi pel breve ritardo, e di attestarmi la sua ammirazione pel mio
affetto filiale. Contemporaneamente egli scorreva con lo sguardo le
carte che il notaio andava passandogli, leggendone in fretta alcuni
tratti. Udii una frase della fede di nascita, che suonava così.... _Nei
primi istanti del giorno 3 marzo 1826, e precisamente pochi secondi
dopo scoccata la mezzanotte del 2 nell'orologio di Piazza dei Mercanti,
la signora Maria Dossi, moglie del signor Giorgio Nerli, banchiere di
questa città, diede alla luce una creatura di sesso femminile, a cui
venne imposto il nome di Adelaide._ Il cavaliere Miragli trasse di
tasca il suo cilindro, dicendo: — Non sono che le undici e tre quarti,
— e ripose il documento sul tavolo. Indi soggiunse: — Vediamo il
resto. —

Di mano in mano ch'egli aveva esaminato una carta, la riconsegnava al
notaio che alla sua volta me la metteva sotto agli occhi, affinchè
io ne prendessi cognizione. Vidi così le quattro obbligazioni ch'io
dovevo sottoscrivere e che importavano 50 mila lire per ciascheduna,
più gl'interessi, e vidi pure una minuta di procura, con la quale io
abilitavo l'Anastasi a ritirare per conto mio la sostanza depositata
presso il Tribunale.

Scoccò la mezzanotte all'orologio dello studio. A quel suono tanto
naturale e tanto aspettato parve che tutti e tre fossimo sotto
l'influsso di una scossa elettrica, e invero tutti e tre ad un punto ci
alzammo dalla sedia. Il notaio si approssimò alla finestra e l'aperse,
quantunque soffiasse un vento umido e freddo. Gli orologi della città
ripetevano ad uno ad uno i dodici rintocchi, che segnano il termine
di un giorno e il principio del dì vegnente, e il suono dell'orologio
di Piazza dei Mercanti, ch'era fra i più vicini, spiccava distinto
dagli altri. Nessuno di noi proferiva parola. Quando furono trascorsi
oltre dieci minuti dopo l'ultimo squillo, il notaio Anastasi richiuse
l'imposta, e rompendo pel primo il silenzio, disse laconicamente: — È
tempo. —

Si fece all'uscio della stanza, e chiamò più volte i suoi due commessi
che entrarono barcollando e stropicciandosi gli occhi, e s'addossarono
alla stufa in aspettazione di nuovi ordini. Quindi mi pregò di sedere
al suo tavolino e di apporre la mia firma alle quattro obbligazioni,
ciocchè io feci senza esitare. Allora, ad un cenno, si avanzarono i
due così detti giovani di studio, due veri automi, e sottoscrissero
una dichiarazione con cui si certificava che, alla presenza di loro,
_testimoni validi e idonei_, io avevo firmato le obbligazioni il giorno
3 marzo 1850, venti minuti dopo lo scoccare della mezzanotte del 2. In
questo intervallo, il banchiere Miragli estraeva dal portafoglio alcune
cambiali e le stendeva spiegate dinanzi al notaio. Questi si alzò, e
inforcati gli occhiali che aveva deposti alcuni minuti addietro, prese
a considerarle accuratamente e a confrontarle con un polizzino ch'egli
teneva nella mano sinistra. Parve che l'esame riuscisse soddisfacente,
perchè l'Anastasi disse: — Va bene. — Allora il banchiere, tuffata la
penna nel calamaio, scrisse con la massima rapidità una o due parole
sul dorso di ciascuna di quelle cambiali e le passò al notaio, che
gli consegnò alla sua volta le mie quattro obbligazioni. Il più era
fatto: non mi rimase che a sottoscrivere la procura all'Anastasi,
alla presenza dei due soliti testimonî sonnacchiosi ed _idonei_. Dopo
di ciò, il banchiere prese commiato dichiarandosi lietissimo che la
faccenda si fosse composta senza scandalo, e attestando la sua alta
stima per mio padre e per me. Rimasi sola col notaio. La sua fisonomia
era pallidissima e stravolta.

— Che avete, per amore del cielo? — gli chiesi.

— Adelaide, voi siete contenta, non io. Abbiamo salvato il negoziante,
ma abbiamo tradito il padre. E di voi, povera giovane, che cosa
avverrà?

— Oh amico mio, — risposi, — la notte scorsa a quest'ora voi avete
difeso Gustavo: e oggi, innanzi a me, dubitereste di lui? —

Eppure un dubbio tremendo mi si era insinuato nell'animo, e il domani
mi appariva pieno di funesti presagi.

Il notaio mi consegnò le cambiali di mio padre e mi accompagnò sino
alla carrozza. Allorchè fui per salirvi, nulla più mi rattenne;
compresi di quanto io andava debitrice a quest'uomo, e gli porsi la
mano sclamando: — Grazie, di quanto avete fatto per me. —

Egli mi baciò in fronte commosso; indi, simulando un sorriso, mi disse:
— Addio, addio; a rivederci domani. —

A casa mia tutti erano coricati da mio padre in fuori. Io seppi
infingermi ancora e rispondere adeguatamente alle sue inchieste. Egli
mi ricondusse nella mia stanza dicendomi: — È l'ultima sera che tu
dormi nella tua cameretta: che tu possa esser felice nella nuova dimora
quanto fosti qui. — La sua voce tremava, i suoi occhi erano pieni di
lagrime; io mi sentivo scoppiare il cuore, pensando ai diversi affetti
che dovevano combattersi in lui, allo sforzo titanico col quale egli mi
nascondeva le sue angosce, e fui a un punto per rivelargli ogni cosa.
Ma io avevo giurato a me stessa che il primo che avrei posto a parte
del mio segreto sarebbe stato Gustavo, e non mi lasciai sfuggir parola
dal labbro. Però s'egli si fosse confidato meco, se in quell'istante
supremo mi avesse resa manifesta l'intima cagione delle sue pene,
avrei potuto dal canto mio nascondergli il vero? Questo io temevo
grandemente, poichè ormai il dado era gettato e io volevo condurre
ad effetto il mio proposito. Sennonchè le idee di mio padre presero
subitamente un altro indirizzo.

— Vedi, Adelaide mia, — egli mi disse, facendomi sedere accanto a sè,
dinanzi a un mio tavolino da lavoro, — io penso adesso a trentanni
fa, allorchè quella, che fu poi la tua povera mamma, venne confidente
e serena nelle mie braccia. Ell'era bella, sai? la tua mamma, e
ti somigliava non già in tutte le linee del viso, ma negli occhi e
qui specialmente, nell'arco delle sopracciglia. Del resto devi ben
rammentartela, ch'eri ormai grandicella quando l'è morta, sebbene da
lungo tempo la sua avvenenza fosse andata a male. Oh! bisognava vederla
da fidanzata.... — Si passò il fazzoletto sugli occhi, e poi trasse
di tasca un astuccio che conteneva un ritratto in miniatura. — Questo
ritratto — soggiunse, sorridendo in mezzo alle lagrime — mi ricorda
un curioso incidente. Prima ancora che tra la povera Maria e me ci
fossimo spiegati, io frequentavo la casa di lei insieme con un mio
amico pittore, il quale, essendo la giovane bellissima, la corteggiava
anch'egli alcun po', quantunque senza frutto e senza speranza. Una
sera, più per celia che per altro, mentre eravamo seduti attorno ad un
tavolino, si mise a gettar giù alcuni segni, come volesse ritrarla;
ma parendogli di non riuscirvi, slanciò lunge da sè la matita con
impeto subitaneo, e ripiegato il pezzo di carta che conteneva quegli
abbozzi stava per metterlo in tasca. Io invece avevo calcolato che
quelle quattro linee resterebbero a me, e con la rapidità del lampo
posi la mano a impedire ch'egli mandasse ad effetto il suo divisamento,
onde ne nacque una piccola lotta fra noi. Tira di qua e tira di là,
la carta si lacerò, ma la vittoria fu mia, perchè a lui non rimase
che una scantonatura del foglio. La ragazza battè le mani e si lasciò
scappare un _bravo_ che mi fece diventar rosso come una bragia.
Usciti che fummo, il pittore mi disse: — Lo sai ch'io sono un poco
superstizioso. Quanto è accaduto stasera è per me un avvertimento di
lasciarti il campo libero affatto con la Maria. Però, siccome la mia
riputazione d'artista mi preme e due fiaschi son troppi, m'impegno,
ove tu operi da senno e la giovane diventi tua fidanzata, a fartene un
ritratto coi fiocchi, dovessi pur metterci un mese di lavoro. — Allora
ne risi e diedi del visionario al mio interlocutore; ma la faccenda
andò proprio così. Dopo gli sponsali, l'amico mio volle ad ogni costo
mantenere la sua promessa, e in pochi giorni condusse a termine questa
miniatura, veramente ammirabile e somigliante per modo che più non si
potrebbe desiderare. — In mezzo a queste parole, egli aveva sollevato
la sua cara reliquia sino all'altezza della fiamma della candela, e la
contemplava in soavissimo rapimento. Ed io pure ero assorta in quella
visione così inaspettatamente evocata, in quella stupenda figura di
donna dalle labbra vermiglie su cui scherzava il sorriso, dagli occhi
azzurri, profondi, espressivi, dai capelli che parevano oro filato.
Era ben la mia mamma, però molto più fresca e più lieta e più bella
di quando io l'avea conosciuta. Dunque mio padre l'aveva amata molto,
abbenchè ne parlasse di rado, e io non mi rammentassi mai una eguale
espansione. Oh! con che leggerezza si accusa alcuno di aver obliato
le persone più caramente dilette! Non è vero: esse riposano intatte
nel santuario delle memorie, e sdegnano mescersi al tumulto quotidiano
dell'esistenza, alle cose che vengono e passano; ma negl'istanti
solenni, ma nei raccoglimenti profondi, o noi andiamo a svegliarle, o
di per sè stesse si svegliano, e sono là più giovani, più vive degli
affetti vivi e recenti, e ci conducono in quel mondo di sogni che (chi
lo sa?) è forse la patria dell'anima. Potete credere che nell'emozione
di quei ricordi noi piangemmo lungamente insieme, mio padre ed io. Egli
sorse pel primo, svincolandosi dall'amplesso. A un tratto si percosse
la fronte con la mano, e sclamò: — Smemorato ch'io sono: ho in tasca
una lettera del tuo sposo e dimenticavo di consegnartela: la portò un
forestiero or ora arrivato da Torino: eccola. —

E, come se non volesse disturbare il colloquio di due amanti, uscì
frettoloso.

— _Domattina alle otto sarò in Milano, sarò da te, la mia diletta
Adelaide_ — così cominciava la lettera di Gustavo. Indi seguiva un
racconto vivace, animato, del suo dibattimento ch'era finito con un
vero trionfo per lui. La Corte aveva dichiarata innocente la donna da
lui difesa, i giudici si erano congratulati seco della sua eloquenza,
il pubblico, nonostante le ingiunzioni del Presidente, si era lasciato
andare all'entusiasmo più clamoroso. _Ma non degli applausi ricevuti_,
— egli concludeva, — _ma non della popolarità di un giorno: ciò di cui
mi compiaccio si è l'idea di aver fatto il mio dovere._

Oh! s'egli aveva un concetto tanto elevato del proprio dovere,
poteva egli fallirmi il domani? Se mi amava ricca e felice, poteva
abbandonarmi povera e sventurata?

I pensieri che sogliono turbare il sonno alla fanciulla che sta per
mutare destino non angustiarono i miei riposi. Io invece pensavo che il
giorno dopo a quell'ora sarei sommamente lieta, o sommamente misera e
derelitta. Se Gustavo apprezzava il mio sacrifizio, se pur di farmi sua
egli consentiva a mantenermi col suo lavoro, a rinunciare agli agî che
dà l'opulenza, qual ventura era da paragonarsi alla mia? La coscienza
di aver salvato mio padre, la certezza di possedere un uomo di cuore
uguale all'ingegno, sarebbero bastati a riempirmi l'animo di dolcezza
ineffabile. Ma se il contrario accadeva? Oh povera me, povera la mia
fede nel bene, la mia fede nella virtù!

La temperatura erasi nella notte fatta più rigida, e nella mattina
cadeva a fiocchi la neve. Che brutto giorno di nozze! Prima delle otto
io ero in piedi, aveva indossato uno de' più eleganti vestiti del mio
corredo, m'ero acconciata i capelli con insolita cura, e lo specchio
lusinghiero mi diceva: — Sei bella. — Oh! io volevo esser bella
davvero, volevo esser seducente, incantevole. Io non avevo ormai altre
armi che la grazia della parola, che il fascino dell'avvenenza: mi
sarebbero esse bastate? Sopra il divano della mia stanza da letto stava
il mio bianco vestito di sposa, stava la mia candida ghirlanda di fiori
di cedro: chi avrebbe saputo dirmi s'essi erano là come una promessa, o
come un'ironìa?

Avevo appena terminata la mia _toilette_, quando una carrozza
s'arrestò nel cortile. Era desso: era Gustavo. Tutte le porte si
aprivano dinanzi allo sposo, dinanzi al re della giornata. Mi mossi
ad incontrarlo; ma le forze che mi avevano sorretto fino a quel punto,
che mi avevano aiutato a superare le commozioni angosciose delle ultime
quarantott'ore, mi vennero meno ad un tratto, e allorchè Gustavo entrò
nella stanza io caddi, più che non mi gettassi, nelle sue braccia.

Sgomento, sorpreso, egli mi adagiò sopra una scranna e fu per chiamare
soccorso. Almeno mi parve, poichè questo pensiero mi restituì il
vigore perduto, compresi la necessità di rimaner sola con Gustavo, e
ricomponendomi tosto, e provandomi a sorridere, dissi: — Sto bene, sai?
fu un capogiro. —

Egli mi guardava con inquietudine, e mi prendeva la mano, e mi
carezzava i capelli, e a poco a poco quasi senz'avvedersene era in
ginocchio a' miei piedi, coi suoi begli occhi fissi nei miei, con
l'anima non distratta da altri pensieri, ma conversa in me tutta
quanta.

Oh come io mi sentivo felice! Oh perchè quei momenti dovevano passar
così rapidi?

Io stessa ruppi l'incanto. — Gustavo, debbo parlarti.

— Ah! dunque tu hai qualche segreto, — egli rispose impallidendo — Per
amor del cielo, Adelaide, levami da questa incertezza. —

Egli era sempre inginocchiato dinanzi a me; io gli posi una mano
sull'omero, e con voce più ferma ch'io non avrei creduto, gli rivelai
ogni cosa, soffermandomi anche sulla subitaneità dell'accaduto che
m'aveva impedito di attenderlo a concertarmi seco. Mentre io parlavo,
il suo volto esprimeva un misto d'ammirazione, d'ansietà, di dolore. —
Gustavo, — conclusi, — io non sono più la fidanzata di ieri: sono una
nuova Adelaide povera, derelitta, infelice, che non può costringerti a
farla tua sposa. Ecco, essa ti rende la tua libertà.... —

— La mia libertà? — egli interruppe. — Oggi che mi ti mostri più
grande che mai, oggi che la sventura ti ha colpito, presumi ch'io
t'abbandoni? —

Oh! queste parole erano dolci, soavi, ineffabili; ma la fisonomia
di Gustavo svelava un pensiero affannoso, profondo che ne scemava il
valore.... Infatti egli tosto soggiunse: — Mio padre sa nulla, gli hai
detto nulla? — E si alzò, girando intorno uno sguardo perplesso come
chi vede crescersi in mano le difficoltà....

— A tuo padre? — risposi; — ma se non ho nemmeno parlato al mio? Ma non
dovevo io a te la mia prima confidenza? —

Gustavo camminava su e giù per la stanza. Di tratto in tratto la sua
fisonomia prendeva un'espressione singolare, come di chi si vergogna
di qualche proprio pensiero, e vuol far prevalere in sè stesso più
generosi consigli. Dopo alcuni secondi mi si arrestò dinanzi e mi
disse:

— Adelaide, tu hai salvato tuo padre, posso io tradire il mio? —

Io tremai. Che significava questo preambolo?

Egli continuò. — Posso io tacergli il vero? —

Non l'affetto, non l'angoscia, non lo sgomento dell'avvenire, che già
mi si pingeva coi più tetri colori, valsero a frenare in me un senso
d'ira e di dispetto. — E chi ti chiede questa viltà? — interruppi con
amara alterezza, sorgendo io pur dalla sedia. — O sono io forse tale
che accetterei d'esser tua a prezzo d'un inganno? Gustavo, così mi
conosci? —

Egli mi si accostò e mi susurrò nell'orecchio: — Adelaide, quanto sei
migliore di me! — Poi ricadde nella sua incertezza, e soggiunse in
tuono di domanda: — Non è meglio discorrergli subito?...

— Ma sì, ma sì, — risposi mal dissimulando la mia impazienza. — Usciamo
per carità da queste angustie. —

Si avviò con passo deciso, ma prima di richiuder l'uscio dietro a sè,
mi rivolse ancora la parola: — Non ti sgomenterai se mio padre fa un
po' di strepito. Ha un carattere tanto bisbetico!... —

E senz'attendere altra risposta s'incamminò rapidamente verso il
quartierino ch'era assegnato alla sua famiglia.

Quando fui sola mi gettai sul canapè nascondendo la faccia tra i
guanciali. Sino da quel punto tutto era finito per me. Nel turbamento,
nelle incertezze di Gustavo io vedevo scritta la mia sentenza. Io
ero giovane, non avevo quell'abitudine dell'abnegazione onde uno
s'immola quasi senza avvertirlo: io sentivo la grandezza del sacrificio
compiuto, e mi pareva che l'uomo destinato ad esser mio sposo dovesse
pagarmi largo tributo di entusiasmo e di ammirazione. Nel caso suo,
io sarei caduta ai piedi di chi mi si fosse rivelato capace di tanto;
avrei detto: Questa donna non mi reca più una fortuna, ma essa mi
scopre il tesoro del suo cuore; nel caso suo avrei provato un senso
d'orgoglio nel farla mia a malgrado di mio padre, di tutti. L'affetto
vero non teme la lotta: esso forse la cerca e giganteggia in mezzo agli
ostacoli. Ma Gustavo aveva paura; bisogna ben dirla questa parola,
per quanto aspra ella sia, egli aveva paura della rampogna paterna.
E nell'ora che io m'aspettavo di vederlo deliberato a combattere
col proponimento di vincere, lo scorgevo invece timido, incerto,
oscillante, chiedente a me inspirazioni e consigli. Oh Lina! e ci
dicono il sesso debole?

Non so quanto io rimanessi così. So che alla fine l'impazienza mi
vinse, e provai il bisogno di scacciare con commozioni forse più tristi
e violente i pensieri che mi tormentavano. Uscii della stanza, dopo
aver preso meco le funeste cambiali ch'io dovevo restituire a mio
padre. Tant'era ch'io mi aprissi pienamente seco. Io avevo appena messo
piede in un salottino, sul quale riuscivano le camere dei miei suoceri
quando una porta si spalancò e ne uscì Gustavo con gli occhi stravolti,
con la chioma disordinata, con un pallore di morte sul viso. Quando
avvertì la mia presenza, mi si gettò incontro esclamando: — Che hai tu
fatto, Adelaide?

— Il mio dovere, — risposi risoluta.

Io non avevo ancora terminate queste parole, quando comparve il padre
di Gustavo, altrettanto infiammato nel volto quanto suo figlio era
pallido.

— Ah! siete qui, signorina, — egli gridò in tuono brutale; — voi che
avete aspettato d'aver preso il merlo alla rete prima di rivelargli che
appartenete ad una famiglia rovinata. —

V'era tanta sfrontatezza in quest'affermazione, ch'io sollevai il capo
sdegnosamente senza rispondere.

Però anche Gustavo sentì che suo padre aveva soverchiato la misura, e
disse vivamente: — Questa è una menzogna.

— Sì, sì, — riprese l'altro senza scomporsi; — ma intanto si vorrebbe
ch'io dessi il mio consenso al matrimonio di Gustavo con la figliuola
d'uno spiantato....

— Non ve ne date pensiero, — interruppi; — è Adelaide che ritira il suo.

— Che dici mai? — esclamò Gustavo avvicinandomisi.

— O Gustavo, — gli risposi con amarezza, — la vostra facondia l'avete
lasciata ieri al Tribunale di Torino: per difendere una donna colpevole
avete trovato accenti che non sapete più trovare per difendere la
vostra fidanzata. Siete sempre così, voi avvocati: avete l'eloquenza
del sofisma, non quella dell'affetto. Andatevene, andatevene, o
Gustavo, Adelaide vi ha reso la vostra parola....

— No, Adelaide, tu deliri, — egli proruppe; — io solo sono padrone
della mia volontà, e saprò farla trionfare. —

Vi confesso la mia debolezza. Ho fin da bambina tanto usato e abusato
del verbo _volere_, che mi accostumai a crederlo la parola più nobile
del dizionario. Un uomo che dice _voglio_ si è sempre rialzato al mio
cospetto, e perciò questo lampo inaspettato d'energia nel linguaggio di
Gustavo mi aveva racceso un fioco lume di speranza nell'anima.

— Ah! si pretende fare la volontà propria, — gridò il vecchio con
piglio ironico, — si pretende ribellarsi. Va benone; ma allora il
signorino penserà anche a trovarsi una casa propria, a mantenersi da
sè.... La dev'esser bella davvero con le sue abitudini da sibarita,
con la sua delicatezza; oh! la dev'esser bella a vederlo misurare le
spese con la sua signora consorte e abituarsi alle privazioni... Alle
privazioni, lui! Povero grullo. Via, datti pace, le non son virtù per
te, cresciuto fra due guanciali. Oh! recitare un discorsone da far
piangere i sassi, scrivere un paio di colonne su quei fogli di carta
sporca che si chiaman giornali, questo sì lo saprai fare; ma lavorare
per vivere come ho fatto io nella mia gioventù, ma patire.... via,
levatela dal capo.... Se non ti mancassero che le frutta a tavola,
sarebbe anche troppo per te.... —

Guardai in viso Gustavo. Io temevo che insulti sì bassi e triviali
gli facessero smarrire la ragione e dimenticare che l'insultatore
era suo padre. Io temevo di vederlo slanciarsi contro l'uomo che lo
feriva nella sua dignità, e che aggiungeva il sarcasmo all'offesa.
Ma Gustavo era impassibile. Le sue membra tremavano, le sue labbra si
erano contratte; però egli non si lasciò sfuggire nè un accento, nè un
gesto.... In verità io non capisco gli uomini, talora audaci fino alla
temerità, talora timidi fino alla vigliaccherìa.

Nondimeno ignoro se Gustavo si sarebbe scosso, quando apparve mio padre
attratto dal suono di quell'alterco. Io sentii, più che non vedessi,
i suoi occhi fissi in me per interrogarmi, e corsi a lui dicendogli: —
Babbo, usciamo di qui, la dignità di entrambi lo vuole.

— No, — egli rispose con fermezza, quantunque una tremenda ansietà
gli fosse dipinta nel volto, — no; a me occorre sapere prima di tutto
la cagione di questo diverbio nel mattino d'un giorno di nozze. E
se s'insulta mia figlia, _nè altri sorge a difenderla_, — e calcò su
queste parole ch'erano rivolte a Gustavo, — non voglio mancare io al
mio dovere. —

Ciò ch'io paventavo sopra tutto, accadde. Il vecchio sordido ed
egoista, che avrebbe dovuto diventare mio suocero, si svincolò da
Gustavo che voleva trattenerlo e avanzandosi di qualche passo, e
gestendo furiosamente, urlò a piena gola:

— Ve lo dirò io di che si tratta, o signore. Gli è ch'io non voglio
esser vittima d'una truffa; gli è ch'io non voglio consentire al
matrimonio di Gustavo con la figlia d'un fallito.

Rinuncio a descrivervi la scena che successe. Mio padre cadde fulminato
sopra una seggiola. Gustavo accorse in suo aiuto, ed egli lo respinse,
non volendo vicino altri che me. I servi, quali col pretesto di portar
soccorso, quali senz'altra scusa che la curiosità, si affollarono
nella stanza. Era comparsa allo spiraglio dell'uscio anche la madre di
Gustavo in gran cuffia coi nastri color di rosa e abito di seta verde,
senza decidersi nè a venire innanzi nè a ritirarsi, combattuta com'era
tra l'istinto femminile e la paura del marito che le faceva segno di
rientrare. Nel mentre che io spruzzavo d'acqua la fronte di mio padre,
andavo susurrandogli con rotti accenti: — No, babbo, sai? non sei
fallito.... È una vile menzogna.... Fui informata di tutto e ho salvato
tutto.... —

Egli si scosse, e sollevandosi con mezza la persona sulla sedia, e
afferrandomi per le braccia: — Hai salvato tutto!... tu?... Ma come?...
Spiegati.... —

Io mi liberai a fatica da quella stretta e trassi di tasca le cambiali,
aggiungendo: — Il Miragli è pagato.

— Pagato? — egli riprese — ma da chi? — Ebbe una subitanea intelligenza
della cosa, e presami per mano con un movimento convulso, nervoso: —
Saresti tu forse? — egli gridò con voce tremante per la commozione....
E perchè io non facevo motto, soggiunse: — Tu che ti saresti rovinata
per me? Adelaide, dimmi che non è vero, che non può esser vero....

— Ne parleremo più tardi, — risposi. — Ora ripiglia l'usata
tranquillità.... —

Ma mio padre non mi lasciò finire, e fattosi innanzi per modo che io
sentivo l'ardor della sua fronte.... — Tu non lo neghi, — proruppe,
— dunque è così, dunque io ho spezzato il tuo avvenire, dunque tu
sei povera?... Ora, ora intendo ogni cosa. — Ma io non lo permetterò
giammai,... io ricorrerò al Tribunale contro siffatta mostruosità. Chi
abusò della tua buona fede dovrà pagarne il fio....

— No, padre mio, — dissi con accento tranquillo e sicuro, — no; nessuno
abusò di me, io non fui ingannata da nessuno. Il Tribunale non potrebbe
trovar la menoma irregolarità in ciò ch'io feci, perchè operai sempre
d'accordo col notaio Anastasi.

— Col notaio! — gridò mio padre fuori di sè. — Ah sciagurato! —

Questa rivelazione parve produrre sull'animo suo un effetto ancora
maggior della prima, ed egli si abbandonò ad una collera, di cui io non
sapevo intendere la ragione. Si alzò per rientrare nella sua stanza,
ma le gambe non fecero l'ufficio loro, e convenne sostenerlo. Non volle
però, cosa incredibile, nemmeno esser sorretto da me, e si appoggiò al
braccio di un vecchio servo di famiglia. A un tratto si volse indietro,
e: — Che cosa fate qui? — chiese a Gustavo e a suo padre. — Questa non
è casa per voi, è la casa di un uomo rovinato. —

Gustavo gli si avvicinò con piglio sommesso, dicendo: — Voi mi
giudicate male, signor Giorgio. —

Un amaro sorriso sfiorò le labbra di mio padre, che non si degnò
nemmeno rispondere; ma soggiunse: — E dire che mia figlia lo amava
tanto! —

Io seguivo macchinalmente mio padre lungo gli anditi che conducevano
alla sua stanza, lo seguivo oppressa, sbalordita dalle commozioni
accumulate sull'animo mio, simile a chi dopo una grave caduta sente
un dolore per tutta la persona, ma non sa ancora discernere che membro
abbia contuso o ferito.

Prima ch'io giungessi alla soglia della stanza paterna, sentii una mano
toccarmi leggermente la spalla. Era Gustavo.

— Adelaide, — egli mi disse, — puoi tu credere ch'io ti lasci
così? Puoi credere che il nostro bel sogno sia svanito per sempre?
Io partirò, ma per poco; io partirò per farmi uno stato libero,
indipendente, per poter offrirti una casa _mia_, ove _nessuno_ osi
insultare alla santità del tuo sacrificio, alla grandezza della tua
povertà. Adelaide, mi aspetterai, mi ridonerai la tua stima?... —

Io sentivo scorrermi per le vene una insperata dolcezza; ma fui forte,
e risposi:

— Gustavo, voi lo sapete, io vi ho reso la vostra libertà.... —

Egli mi pose vivamente una mano sulle labbra, è interruppe: — No,
Adelaide, non parlarmi così. Dammi ancora del _tu_, come quando mi
amavi, come un'ora fa. Oh! non volgere gli occhi altrove. Non sono
poi tanto colpevole. Dio buono! È egli possibile che un'ora sola abbia
distrutto un amore come il nostro? —

Non dissi parola, ma le lagrime che mi scendevano giù per le gote
attestavano la mia debolezza. Egli era là presso di me, l'alito del
suo respiro si confondeva col mio, la mia mano aveva tentato invano di
sottrarsi alla sua, un bacio ardente sfiorò la mia bocca.... Mi scossi
svincolandomi dalle sue braccia, e accennando a Gustavo che partisse,
sclamai: — A rivederci. —

Egli si portò alle labbra la mia mano che teneva stretta, e col volto
raggiante mi disse: — Grazie, Adelaide, a rivederci. —

Si dileguò. Immobile dietro i cristalli della finestra vidi la carrozza
che lo conduceva lontano.... Intorno a me era un silenzio di morte;
solo la neve a piccoli fiocchi gelati flagellando i vetri dava un suono
simile al battito di un orologio.... Uno strato candidissimo copriva
il davanzale della finestra e i tetti delle case circostanti....
le guglie acuminate del Duomo tutte vestite di bianco spiccavano
fantasticamente sul cielo grigio e uniforme.... Nella via sottoposta
la gente affaccendata passava e ripassava senza strepito alcuno....
pareva come un muoversi d'ombre in un mondo di sogni.... Oh! certo io
sognavo.... Era quello il mio giorno di nozze, il mio giorno di festa e
di trionfo?... Avevo io inteso veramente echeggiare le stanze d'insulti
e di minacce brutali?... Il mio sposo era egli veramente partito?...
Eppure io sentivo ancora sulle labbra il suo bacio, e mi suonava
nell'orecchio la sua voce amorosa....

Io andavo vaneggiando così, quando intesi chiamarmi a nome: — Adelaide,
povera Adelaide! —

Mi volsi in sussulto, staccandomi dalla finestra. Era il notaio
Anastasi. Le lagrime che mi si erano cristallizzate negli occhi
irruppero a un punto e m'abbandonai a un pianto sfrenato. Caddi nelle
braccia dell'amico fedele, e obbedendo al mio pensiero dominante,
esclamai in mezzo ai singhiozzi: — Oh! tornerà, sapete, tornerà.

— Sì certo, Adelaide, — egli mi rispose con dolcezza; — ma vostro
padre? —

Mio padre! Io l'avevo dimenticato. Ed egli febbricitava nella stanza
vicina.


III.

Il mio racconto è ormai così lungo, che mi conviene stringerne le fila
e non discendere a troppo minuti particolari. Non vi dirò adunque dello
scompiglio della mia casa in quel giorno, finito tanto diversamente
da ogni ragionevole previsione; non vi dirò delle chiose petulanti
dei servi, delle indiscrete ambasciate dei maligni, delle visite
inesorabilmente rispinte, dei regali rinviati ai donatori, delle tavole
levate prima d'imbandirle, dei pretesti con cui tentammo coprire
il vero e far credere che si trattasse soltanto di una brevissima
proroga, non vi dirò nulla di tutto ciò; chè la vostra imaginazione può
formarsene un'idea e indurre quello che dovesse passarmi nell'animo.
Nondimeno, come accade assai spesso, i miei pronostici della vigilia
non s'erano avverati. O sommamente felice, o misera sommamente, era
stato il mio presagio. Ebbene, la fortuna, pur volgendomi avversa, non
mi aveva tolto ogni raggio di speranza; tant'è vero che il cuore umano
assai di rado ha disseccate le fonti del conforto, e, come il naufrago
all'alghe, s'aggrappa ai più deboli appoggi per non sommergere affatto.
Io ho osservato che la logica rigida ed inflessibile ci abbandona nella
pratica della vita, ed è gran ventura, perchè essa ci condurrebbe agli
estremi nei nostri atti e nei nostri sentimenti. La contraddizione
qualche volta ci salva da noi medesimi: essa è l'ultimo nostro rifugio,
quando il dolore ci uccide, o la fatalità ci trascina alla colpa.
Disprezzare, odiare il mio sposo, s'egli esitava a farmi sua per
la mutata fortuna, ecco ciò ch'io avevo creduto agevole e naturale.
Stolta! Non si disprezza e non si odia così presto, quando si è amato
davvero. Il cuore si ribella contro questo proposito della volontà, e
lungamente e tenacemente resiste, e co' suoi mille artifizî scompiglia
gli argomenti della ragione. Pensando a Gustavo, e potete immaginarvi
ch'io vi pensavo sempre, io non ne rammentavo la perplessità, le
indecisioni colpevoli, non ne rammentavo la timidezza codarda al
cospetto della brutale arroganza paterna; ma ne ricomponevo con la
fantasia le ultime parole e le carezze prima di lasciarmi, quando, in
fine, nessuno lo costringeva a promettermi ciò che non avesse in animo
di mantenere. Io sentivo che non era abbastanza, sentivo che Gustavo
non era più l'uomo che avanzava per me tutti gli altri, e nondimeno io
volevo riacquistar la mia fede, volevo sperare. Una lettera di Gustavo
ricevuta il giorno dopo la catastrofe era discesa come un balsamo sulle
mie piaghe: un mese addietro avrei desiderato molto di più, un mese
addietro quella lettera mi sarebbe parsa troppo concisa, troppo fredda,
ma il dolore è tanto meno esigente quanto è più grande.

Sennonchè io avevo ben altre cagioni d'affanno. Lo stato di mio
padre m'angustiava fuor di misura. Egli non sapeva perdonarmi di
averlo salvato a spese della mia felicità, ed era poi inesorabile
verso il notaio Anastasi. Quello ch'io feci per riconciliarlo con
l'uomo, il quale aveva mostrato tanta abnegazione, tanto affetto per
noi, è incredibile. Eppure andò molto prima che le mie sollecitudini
riuscissero a buon fine, e spesso mi accadde di dover ricevere io
sola il notaio, perchè mio padre rifiutava di vederlo. Il povero
Anastasi, avvezzo a riguardare la casa nostra come casa sua, avvezzo
ad esservi accolto a braccia aperte, non sapeva darsi pace di così
ingiusto trattamento, e se ne doleva meco e mi rimproverava quasi di
avergli usato violenza. Nondimeno egli occupavasi alacremente della
liquidazione de' nostri affari.

E qui era per me una sorgente di umiliazioni giornaliere, continue.
V'è qualche cosa assai più doloroso che l'esser poveri: è il divenir
tali, è il dover rinunciare ad uno ad uno a tutti quegli agî della
vita, che la lunga consuetudine ci fa credere altrettante necessità.
La sostanza di mio padre bastava a supplire ad ogni suo debito, ma
ad un patto soltanto, quello cioè di dare a tal uopo tutto il nostro
avere, di vendere ciò che avevamo più caro. La nostra bella casa di
Milano, le nostre carrozze, i nostri cavalli, il nostro villino sul
lago, pieno per me di ricordanze soavi a un tempo ed amare, erano tanti
amici, da cui faceva mestieri staccarsi. Mi ricordo sempre le lagrime
che ho versato, quando il notaio mi annunziò la vendita della villa,
dicendomi che se aveva qualche oggetto che mi stesse più a cuore,
potevo andarmene a prenderlo. Egli mi accompagnò nella mestissima
gita, e invero io avevo bisogno di qualcheduno che mi desse coraggio,
tanto ero divenuta negli ultimi tempi impressionabile e sensitiva.
Era sullo scorcio d'aprile. I tepidi fiati di primavera avevano già
desta la natura sopìta, e le pendici ammantate di verde, e i giardini
odorosi di fiori facevano bella mostra di sè sul morbido specchio
del lago incantevole. Ella era lì la bianca casetta testimonio de'
miei giuochi, confidente del mio amore; ella era lì sul suo piccolo
promontorio vestito di muschi, e pareva protendersi per veder meglio
la barca che le riconduceva ancora una volta l'ospite antica. Le
imposte erano tutte spalancate, e alcuni uomini andavano disponendo
sopra il terrazzo i vasi di limoni che avevano passato l'inverno
nello stanzone degli agrumi. Quando toccai la riva, visitatrice
inattesa, fu un grido di meraviglia: — La signorina, la signorina! —
Tonio, il vecchio giardiniere, mi corse incontro, e mi baciò la mano,
tentando dirmi chi sa quante cose, ma non riuscendo ad aprir bocca
per la commozione. L'ispido cane di guardia si mise a scuotere con
tale violenza la sua catena, e a mettere un guaìto così lamentevole,
che convenne scioglierlo e lasciarlo venire a farmi festa. Grande e
grosso com'era, mi seguiva sommesso come un pulcino, alzando di tratto
in tratto i suoi occhioni verso di me, quasi volesse interrogarmi.
Percorsi in silenzio tutto il giardino, sospingendo col piede i
ciottoli degli ombrosi sentieri, ove avevo tante volte passeggiato
con _lui_, riposandomi sui rustici sedili di legno, ove sì spesso ci
eravamo soffermati insieme in soavi colloquî, contemplando la superba
_magnolia_, i cui fiori giganteschi, agitati dal vento d'autunno,
avevano versate sul nostro capo sì deliziose fragranze; mi trattenni
un quarto d'ora, indovinate davanti a che? davanti a una lunga fila
di formiche che, traversando diagonalmente un piccolo viale, andavano
e venivano frettolose da due punti ignoti del pari per me. Dacchè io
villeggiavo sul lago, avevo veduta quella singolare processione, che
m'era stata sempre oggetto di curiosità e di maraviglia. Un giorno,
passando di là con Gustavo, egli mi aveva descritto assai per disteso
i costumi di quei mirabili insetti, e adesso io richiamavo al pensiero
l'istruzione ricevuta. Mossami alfine, salii nella casa, e rividi
la mia nitida stanza di vergine e la contigua cameretta da studio,
intorno alla cui finestra s'arrampicava una pianta d'oleandri fioriti,
e il salottino co' suoi vetri a colori che davano al giardino sì
vaghi e fantastici aspetti, col suo pianoforte, sul quale stavano i
quaderni di musica ammonticchiati l'uno sull'altro, con le sue belle
litografie appese alle pareti; indi ridiscesi, e visitai la cucina
e il pollaio. Il giardiniere mi pregò che entrassi un istante nella
sua abitazione, ove sua moglie malaticcia avrebbe voluto vedermi, e
avendo io acconsentito all'inchiesta, non vi so dire che dimostrazioni
d'affetto mi facesse la povera donna. L'assisteva la più giovane delle
sue figliuole, una ragazza che contava due o tre anni meno di me, e a
cui io aveva insegnato a leggere e a scrivere. Lasciò per un minuto
la madre, e corse a prendere i suoi scartafacci per mostrarmi che,
anche me assente, si manteneva in qualche esercizio. — O signorina, —
soggiunse congiungendo le mani, — quanto, quanto le debbo! E adesso chi
ripasserà le mie lezioni? — Abbi pazienza, — risposi, — anche i nuovi
padroni piglieranno a volerti bene. — Fece una smorfia col labbro e
crollò le spalle in segno d'incredulità; poi, passandosi la mano sugli
occhi, riprese: — Oh! chi l'avrebbe potuto prevedere? — La malata le
fece segno che tacesse, ed io uscii di là dopo aver voluto a ogni costo
lasciare un piccolo ricordo a lei e alla figliuola.

La nostra villa era stata venduta con tutte le sue suppellettili; ma
il notaio Anastasi, nello stipulare il contratto, mi aveva riservato il
diritto di ritirarne qualche oggetto, che, senza avere un valore reale
pei nuovi proprietarî, avesse per me un valore morale grandissimo.
Presi cose di poco pregio, come reliquie di un passato irrevocabile....
Oh! io avrei voluto portar meco le piante, i sassi, le aiuole di
quel mio paradiso! Tonio un po' imbarazzato, un po' confuso e tenendo
il cappello per la falda e facendolo andare attorno fra le due mani
come una girandola, mentre io mi disponevo alla partenza, mi disse: —
Signorina, forse sono troppo ardito, ma ho pensato.... ho creduto che
non le spiacerebbe portar seco un altro ricordo del giardino. Un bel
vaso di geranî, di quelli, sa? che abbiamo piantato l'anno scorso....
l'ho messo da parte per lei.... sicchè.... se crede.... lo collochiamo
in barca. — E vedendo ne' miei occhi il più ampio consenso alla sua
gentile richiesta, si allontanò un paio di minuti, e fu tosto da me col
magnifico vaso di fiori.... — Che bel colore, non è vero? — soggiunse,
esaminando la pianta con compiacenza d'artista. — Io credo che a
cinquanta miglia d'intorno non vi siano geranî simili a questi. — Indi
col passo d'un giovane di venticinqu'anni scese alla riva, e gettatosi
in barca vi accomodò il suo tesoro, raccomandando ai remiganti che
lo tenessero d'occhio e non lo urtassero col piede. Ci allontanammo
rapidamente. Udii ancora per qualche minuto il vecchio cane abbaiare
sulla scalinata, ravvisai il giardiniere e la sua figliuola che
sporgevano con la persona dal parapetto del terrazzo per accompagnarmi
più lontano con lo sguardo; poi la sponda si ripiegò su sè stessa,
e la barca, che andava via via costeggiando, perdette di vista la
villa. — Addio, mio bel lago, — potevo esclamare anch'io come Renzo e
Lucia, quando solcavano le acque di Lecco, — addio, pendici ridenti,
addio, montagne incoronate di nubi, addio, isolette confortate dal
profumo degli aranci e dei cedri; forse vi vedrò ancora, ma l'anima
infantilmente serena che s'inebbriò al vostro aspetto, ma l'anima
innamorata che vi confidò i suoi battiti più segreti, ma l'antica
Adelaide è morta e nessuno potrà farla risorgere... —

Il mio viaggio era compiuto; io avevo, mesta pellegrina, risalutato il
mio tempio, ed ora mi attendevano nuovi fastidî e nuove amarezze.

— Siete più forte di quello che crediate voi stessa, — mi disse il
notaio Anastasi, allorchè, il giorno seguente, mi ricondusse alla mia
casa in Milano. — Abbiate coraggio; chi la dura la vince. —

Intanto, anche in Milano convenne ridursi in un'abitazione più conforme
al nuovo stato. Non più i soffitti dipinti, non più le pareti a
stucco, non più le porte con fregî dorati, non più i morbidi tappeti.
Or tutto era decente, ma modesto e dimesso, e le poche mobiglie di
lusso, che rammentavano lo sfarzo di un tempo, nuocevano alla simmetria
dell'insieme.

Nella nuova casa come nell'antica, nel nuovo come nell'antico stato,
la mia volontà faceva legge, e mio padre, che anche quando aveva piena
la sua energia e il suo vigore non attentava al mio scettro domestico,
ora poi si lasciava dirigere in ogni cosa da me. Io ripagavo l'autorità
che m'era concessa con un assiduo tributo di cure, di sollecitudini, di
previdenze. A ventiquattr'anni si può cangiare abitudini e sfidare le
strettezze e i disagî; ma una esistenza non si ricomincia a sessanta,
non si avvezza l'animo alle privazioni nell'età che si fanno più
sentire i bisogni.

Quando, mercè l'opera infaticabile del notaio Anastasi, fu condotta
a termine la liquidazione dei nostri affari, e i creditori di mio
padre ebbero incassato fino all'ultimo centesimo, ci rimase del gran
naufragio una sostanza di cinquantamila lire. Era più assai ch'io non
avessi sperato; era un'esistenza, se non comoda, almeno tranquilla,
assicurata a mio padre. Ma qui io aveva contato soverchiamente sul mio
potere.

Mio padre aveva un'idea fissa; rifarmi la dote. Approfittando del
poco capitale che gli era rimasto, delle sue estese relazioni e del
credito che non poteva mancargli dopo sì evidenti prove d'integrità,
egli voleva slanciarsi novellamente negli affari e ritentar la
fortuna. Questa sua deliberazione mi faceva terrore. Allorchè si può
contrapporre alle cresciute difficoltà la baldanza della giovinezza,
è lecito ripromettersi il buon successo; ma come sperarlo quando si va
alla battaglia con lo spirito e con le membra affralite? L'esperienza
non basta. Ella insegna talvolta ad evitare gli scogli, ben di rado
ci guida nel porto, ella ci toglie le illusioni, ma non ci assicura
il trionfo. Che non feci e non dissi per rimuovere mio padre dal
suo proposito? In altri tempi l'alleanza del notaio mi sarebbe
stata preziosa, ma l'Anastasi non godeva più in casa mia dell'antico
credito: si diffidava di lui, perchè egli aveva cooperato a salvarci
dal disonore e dalla rovina. Certo questa del babbo era una grande
ingiustizia, nè io potevo non riconoscerlo, sebbene mi fosse facile
intendere ch'ella dipendeva da uno sviscerato amore per me e dalla
pietà del mio destino compromesso così da quanto era accaduto.

Comunque sia, le mie esortazioni non valsero, e mio padre vinse il
suo punto, e tornò ad aprire il suo banco. Ma, Dio buono, quanto le
cose erano diverse da prima, come tutto procedeva lento e stentato,
come gli affari erano tardi a ravviarsi! Io ne discorrevo sovente con
l'Anastasi, che crollava il capo sfiduciato. — È una nobile idea quella
di vostro padre, — egli diceva, — ma ci vorrebbero vent'anni di meno
per condurla ad effetto. Forse non ci sarebbe che un modo; ma io sono
uno scimunito, ed è inutile parlarne. —

E per quanto io insistessi, non potevo cavargli una sillaba di più.
Solo una volta egli soggiunse: — Può darsi che venga un giorno, in cui
ve lo dica. —

Ma bisogna pure ch'io torni a favellarvi del mio amore. Esso si era
trasformato, ma, quale pur fosse, non occupava il mio cuore meno
di prima. Ora c'era dentro un po' d'orgoglio offeso, e quindi un
po' di puntiglio e di amarezza, e la mia pertinacia nello sperar la
vittoria s'accresceva della sfiducia e della disapprovazione degli
altri. Anzi io non so dirvi nemmeno se la mia fede fosse tutta vera
e spontanea; poichè il mio animo era sempre in guardia contro tutti e
contro sè stesso. _Tornerà_: ecco la parola ch'io avevo pronta sulle
labbra ad ogni inchiesta che mi fosse rivolta, ad ogni sguardo che
m'interrogasse.

Le lettere di Gustavo giungevano non sempre puntuali, ma pure
abbastanza frequenti. Talora erano brevi, ma egli si scusava con le
occupazioni che gli crescevano in mano e ch'egli non poteva trascurare,
perchè ne andava di mezzo il nostro avvenire. Io pensavo che, s'egli
era così occupato, non ci sarebbe poi voluto tanto a conquistarsi
questo benedetto stato ed a farmi sua; ma se io gliene scrivevo, egli
trovava sempre una buona ragione per tirare in lungo la faccenda.
Non bisogna farsi una famiglia se non si è in grado di farla vivere
comodamente, egli mi andava ripetendo, ed è meglio aspettare qualche
anno che rovinarsi per troppa fretta. Chi m'avrebbe indotta a credere
alcun tempo addietro che siffatte dichiarazioni così fredde, così
positive, non mi avrebbero impazientita e tolta ogni illusione? Eppure,
sebbene io mi fossi già persuasa che l'amore di Gustavo era di quelli
che vogliono assicurarsi i quattro piatti a tavola, e i dolci, e le
frutta, io mi rassegnavo, io dicevo: — Aspettiamo. — Quanto io ero
mutata da quella d'un giorno!

In questa maniera passò il 1850, e, pare impossibile, anche il 1851.
Io non avevo più riveduto il mio fidanzato. — Non ti capiterò innanzi
agli occhi, — egli mi aveva scritto, — che quando potrò farlo in modo
da scancellare nell'animo di tuo padre la sinistra impressione del
giorno funesto, in cui ci siamo lasciati.... — A me sembrava che tanti
scrupoli non fossero molto a proposito; eppure soffrivo e tacevo.

Nei primi mesi del 1852 fui a un punto di guastarmi col notaio
Anastasi, il quale mi rivelò il suo famoso progetto per rimettere in
piedi le fortune commerciali della mia casa. Era nel banco un giovane
Savoiardo assai probo, assai intelligente d'affari, assai ben veduto
dal padre mio. Egli veniva talvolta a desinare con noi, e mi usava
quelle cortesie dozzinali che ogni uomo usa ad una ragazza che non
sia brutta. Il vedermi sovente gli avea fatto acquistare una tal
quale dimestichezza, e perciò qualche parola che da altri mi sarebbe
sembrata un po' troppo arrischiata, da lui mi sembrava uno scherzo e
nulla più. Non so che castelli in aria si facesse il notaio: so che
un bel giorno, presami da parte con quel fare tra il misterioso e il
solenne ch'egli assumeva in certe occasioni, mi disse: — Se quel vostro
benedetto cuore non volesse essere impegnato per forza, io farei una
gran bella cosa. Voi avreste un marito, vostro padre un socio e....
— Non lo lasciai finire, o almeno egli vide sulla mia fronte qualche
cosa che lo dissuase dal terminare il periodo. — Non se ne parli più,
— ripigliò egli dopo una pausa, e mi stese la mano per far pace.... — A
condizione, — io risposi, — _che non se ne parli proprio più_. —

Quantunque noi siamo il sesso gentile, io credo che non ci troviamo
mai imbarazzate nel commettere un'asinaggine, allorchè ci piaccia
commetterla. Trattai il mio Savoiardo con insolita e immeritata
sgarbatezza, sebbene mi accorgessi che i miei modi spiacevano assai
a mio padre e al notaio. Ma, Dio buono! Io avevo rinunciato a tutto:
dovevo rinunciare anche al mio cuore?

Una mattina il giovane non si fa vedere in banco, e invece mio padre
ne riceve una lettera, ov'egli con molte scuse e molte proteste gli
confessa che ha ceduto alla tentazione di una vita più avventurosa e
che sta per imbarcarsi per Montevideo. Nulla più di così. Ma la posta
del giorno dopo recò un messaggio per me, che conteneva all'incirca
le seguenti parole: — _Signora Adelaide! Non vi avrei domandato cosa
alcuna, ma voi non potevate proibirmi di amarvi. Pure, poichè la mia
presenza turbava la vostra pace, ho deciso di partire per l'America,
ove ho uno zio che da più anni mi desidera seco. Siate felice._

Lacerai la lettera, indispettita, confusa, irritata contro quest'uomo,
contro Gustavo, contro me stessa. Ciò che specialmente io non sapevo
perdonare al Savoiardo era la nobiltà della sua condotta. Dacchè
Gustavo era caduto (e quanto!) dall'ideale ch'io me n'ero fatto, non
volevo che altri al mondo mi paresse migliore di lui. Oh Gustavo,
Gustavo, di che amore t'ho amato!

Questo avvenimento fu una contrarietà gravissima per mio padre.
Non solo egli aveva preso a voler bene al suo commesso, ma ne aveva
bisogno, e non sapeva adattarsi alla sua mancanza. E m'era agevole
intendere ch'egli, pur tacendo e astenendosi da ogni allusione, mi
faceva colpa dell'accaduto. Così, in mezzo a tante amarezze, con tanto
bisogno che io aveva di conforti, mi vedevo negata l'ultima gioia delle
soavi espansioni domestiche, e nella solitudine della mia stanza io
andavo spesso chiedendo a me medesima se il mio sacrificio ad altro non
dovesse riuscire che a togliermi la tenerezza paterna.

Intanto la mia costanza era serbata a una novella e durissima prova.
Gustavo mi scrisse che essendogli proposto l'ufficio di segretario
d'ambascerìa a Londra, ufficio estremamente onorifico, perchè mostrava
la fiducia riposta in lui dall'eminente diplomatico che doveva
recarsi colà qual ministro degli Stati Sardi, egli aveva deliberato
di accettarlo, fermo però nel proposito di non rimanere assente che un
anno. Reduce in patria, avrebbe pensato davvero a farmi sua. Ch'io non
mi sgomentassi.... egli mi amava sempre, egli sapeva i suoi obblighi,
ma poichè sventuratamente la nostra unione era stata differita,
tant'era portarla al momento ch'egli sarebbe stato in grado di offrirmi
tutti gli agî della vita. Questo viaggio avrebbe giovato molto alla sua
carriera e alla sua istruzione; ch'io ne accogliessi dunque la notizia
senza troppo rammarico. Era suo desiderio di venire in Milano: ma non
osava. La parte da lui presa in alcuni recenti fatti politici avrebbe
potuto cagionargli impicci serî. Mi mandava un bacio per lettera.

Mi guardai intorno tutta trasognata. Era possibile? Un altro anno
d'attesa! Ma non era meglio licenziarmi addirittura?

Sennonchè mio padre e il notaio strepitarono siffattamente contro
Gustavo, che non potei a meno di prenderne le difese, e tanto mi
vi scaldai, che finii col persuadermi che non solo essi avevano
torto nell'insultare il mio sposo, ma che avevo torto io stessa nel
dubitare di lui. E a quella guisa che intorno al letto di un infermo
si moltiplicano le parole di conforto e di speranza, quanto più si fa
grave e minacciosa la malattia; così io mi mostravo più ostinata nella
mia fede, quanto più sentivo malato il mio povero cuore. Era una fede
sospettosa, irritabile, che non ammetteva le obbiezioni e che quindi mi
rendeva anelante alla solitudine ed al silenzio.

Oh come si appassivano in siffatte angustie la mia gioventù e la
mia bellezza! Oh com'erano divenuti sconfortanti i responsi del mio
specchio, già così lusinghiero e cortese!

Non sono le lagrime abbondanti quelle che solcano il viso; è la stilla
che lentamente s'imperla sul ciglio e cola tarda e furtiva giù per
la gota sin che viene a morire sugli orli d'un labbro infocato: non
è la sventura che giunge, colpisce e passa, quella che affretta il
corso degli anni; è l'ambascia d'ogni giorno, è l'assiduo pensiero del
futuro, è la desolata certezza che dallo spuntar del mattino al cader
della sera non verrà mai una buona novella a consolare lo spirito....

E tutte le cose volgevano in peggio; gli affari, l'umore e perfino la
salute di mio padre. Non credo ch'egli corresse a rovina (chè s'era
astenuto da ogni speculazione arrischiata), ma i lavori scarsi e
meschini non bastavano a coprire lo spese. Altro che rifar la mia dote!
La piccola somma che ci era rimasta dopo la liquidazione, erasi già
notevolmente assottigliata, e in pochi anni se ne sarebbe ito anche
il resto. Eravamo simili a naufraghi che vanno consumando le loro
provvigioni senza che una striscia bruna nell'orizzonte gli affidi
nella speranza di toccare la spiaggia.

E certo deve venire il momento, in cui que' poveri naufraghi, perduti
nell'immensità dell'Oceano, sentano gelarsi il sangue al pensiero
della vita che fugge, e delle care cose che non vedranno mai più.
Allora l'energia del volere non supplisce più alla lena delle braccia
affralite: essi depongono il remo, e ristanno dagli inutili sforzi
e s'abbandonano ai capriccî dell'onda. Così mio padre, impotente a
vincere, era a poco a poco soverchiato dall'idea che tante sue fatiche
non riuscissero a nulla, e rimaneva le lunghe ore taciturno, inoperoso,
perplesso. E quando io mi inchinavo su lui per iscuoterlo e per
dargli coraggio, egli diceva: — Io t'ho rovinata, figliuola mia, ma
v'è qualcheduno più colpevole di me. — Indi ripigliava: — Oh potessi
perdonargli prima di morire! —

Morire! Questa parola sinistra veniva ormai spesso sulle labbra del
babbo; sembrava ch'egli volesse addomesticarsi con l'idea della morte
e prepararvi quelli che l'amavano. E invero egli era invecchiato di
parecchî lustri in due anni. Camminava curvo della persona, era sparuto
e pallidissimo, e la voce gli si era fatta cupa e cavernosa come di chi
soffre per qualche malattia organica. I medici dicevano non esservi
nulla da temere pel momento; ma insistevano sulla necessità di molti
riguardi, giacchè v'era una seria minaccia alla _spina dorsale_.
Quantunque egli mal volesse concederlo, quel suo bisogno di una vita
riposata rese necessario di andar man mano liquidando gli affari, e
potete credere se ciò si facesse senza sacrificî. — A conti chiusi —
mi disse l'Anastasi — io credo che le cinquantamila lire si saranno
ridotte appena a ventimila. — Bella prospettiva per l'avvenire. Ormai
io non ero più sicura nemmeno che non mi toccasse a lavorare per
vivere.

Pur troppo quel tanto che avevamo sarebbe stato più che sufficiente
fin che campasse mio padre. Dico pur troppo, giacchè la salute di
lui peggiorava con molto maggiore rapidità che i medici non avessero
previsto, e se non si riusciva a porre argine al male, la crisi
sarebbesi fatta attendere ben poco. S'ebbe un consulto con quel
costrutto che potete credere. Si crollò molto il capo, si dissero
molte parole lunghe ch'io non intesi, e finalmente ci si prescrisse di
partire senza indugio per uno Stabilimento idropatico assai rinomato
del Piemonte. Il recarmi in quel paese, il passar presso Torino, ove
tre anni addietro (chè in mezzo a queste tristezze eravamo giunti sino
alla primavera del 1853) avrei dovuto andare sposa adorata e felice,
mi destava, ve lo confesso, un senso invincibile di repulsione. Ma io
non potevo nemmeno esitare e feci subito i miei preparativi di viaggio.
Scrissi a Gustavo che mi dirigesse le sue lettere (erano divenute
così rare!) allo Stabilimento di***, concertai col notaio Anastasi
che ad ogni urgenza lo avrei avvisato, affinchè non mi lasciasse sola
nei pericoli e nelle angustie, e poi con volto sereno mi accinsi al
mio ufficio di guida e d'infermiera al povero malato. Nello scrivere
a Gustavo non potei a meno di pingergli la tristezza del mio stato,
e la solitudine dolorosa che l'avvenire mi preparava, e gli ricordai
i suoi giuramenti e la mia costanza e la necessità di troncare sì
lunghi indugî e di farmi sua. Era la prima volta ch'io mi abbassavo a
pregare, ma la sventura aveva spezzato il mio orgoglio, ed io più non
riconoscevo me stessa.

Lo Stabilimento ove ci recammo era in una situazione assai pittoresca
e, più che amena, maestosa. Sorgeva sopra un'altura, in mezzo a una
corona di monti, quali vestiti di abeti e di castagni, quali aridi e
coperti di neve. Da una rupe vicina scendeva a balzi capricciosi una
cascata limpidissima e fredda come il ghiaccio, una parte della quale,
sviata dal suo letto, veniva ad alimentare le docce dello Stabilimento.
E lo strepito dell'acqua, e il fischiare del vento tra i rami dei faggi
che ombreggiavano la parte superiore del colle, erano i soli romori di
quei luoghi tranquilli e deserti. Il villaggio, che consisteva in un
gruppo di casolari intorno a una chiesa, stava a un quarto di miglio
più basso, ed era nascosto da una svolta della strada, nè dava altro
segno di sè che mediante i rintocchi della campana che batteva le
ore o chiamava i fedeli alla preghiera. E qua e là, o nel fondo della
vallata, o sulla pendice di un monte, altri gruppi di case ed altri
campanili rendevano testimonianza della presenza dell'uomo che, convien
confessarlo, in mezzo a quella natura superba pareva la più piccola
e meschina cosa del mondo. I gioghi a levante erano poco elevati, e
perciò lo sguardo misurava da quella parte un largo spazio di cielo
e l'alba veniva a salutarci assai presto. Una montagna dirupata ed
altissima chiudeva invece la vallata a ponente, affrettandoci almeno
di due ore il tramonto. Ed era uno strano spettacolo il vedere il sole
sfolgoreggiar lungamente sul cocuzzolo di quell'alpe e dardeggiare
i suoi raggi sulle cime prospettanti, passando sopra i nostri capi e
lasciandoci nelle tenebre. Così, mentre una parte della vallata era
involta dal mite e vaporoso chiaror del crepuscolo, la parte opposta
si trovava immersa già nella notte, e qualche lumicino, che si moveva
silenzioso come lucciola errante, empiva l'anima di malinconìa e di
mistero.

Allo Stabilimento non ci si andava senza cagioni piuttosto serie, ed
esso non era quindi uno di quei ritrovi romorosi, nei quali convengono
tutti gli sfaccendati, e le occupazioni della galanterìa pigliano buona
parte della giornata. Ivi si pensava davvero a curarsi, e il sussiego e
il riserbo degli ospiti rispondevano perfettamente al regime claustrale
che ci era imposto. Tanti rintocchi di campanello per la doccia, tanti
per la colazione, pel desinare, per la cena, tanti per la passeggiata.
Dalle una alle due tutti coloro che si reggevano sulle gambe andavano
su e giù lungo il viale d'ipocastani che fiancheggiava l'edifizio,
silenziosi come Certosini e avviluppati nel loro mantello a ogni alito
di vento che spirasse fra gli alberi. Un po' più d'espansione v'era,
come al solito, dopo il desinare. Allora parecchî dei commensali si
raccoglievano nel salotto vicino a leggere i giornali e a chiacchierare
alquanto. Nello stesso salotto faceva mostra di sè anche un pianoforte
vecchio e polveroso, ma guai a toccarlo! c'era sempre qualcheduno dei
presenti soggetto al mal di nervi o al dolore di capo, che minacciava
d'andare in convulsioni se non lasciavate in pace la tastiera. Alle 9 e
mezzo della sera poi si spegnevano tutti i lumi, e di buono o mal grado
ciascuno doveva ridursi nella propria stanza.

Sono pochi i malati, ai quali i primi giorni di una nuova cura non
paiano recar giovamento. Giova soprattutto il mutar cielo e clima
e abitudini. Lo svago dello spirito, la speranza di riafferrare la
vita che fugge, esercitano una influenza benefica sul corpo fievole e
affranto, e gli ridonano un soffio dell'antico vigore.

Anche mio padre, poichè fu riposato dalle fatiche del viaggio, sentì
alquanto scemate le sue sofferenze, e nella settimana che succedette al
nostro arrivo potè uscire più volte appoggiato al mio braccio e venire
a pranzo alla tavola rotonda e mangiare con discreto appetito. Invero
il medico dello Stabilimento avea crollato il capo con piglio serio
e pensoso dopo aver visitato l'infermo, e udito da me la descrizione
della sua malattia; ma chi non sa che il desiderio riesce ad aggiustare
a suo modo i più tristi pronostici?

E poi l'animo mio era improvvisamente disposto a veder tutto color di
rosa. In un giornale di Torino io avevo letto che il plenipotenziario
piemontese a Londra avrebbe lasciato il suo posto entro due mesi, e
ciò significava per me il ritorno di Gustavo e l'adempimento della
sua promessa. Era strano invero che Gustavo non s'affrettasse a darmi
la lieta novella, era strano che, dopo la descrizione da me fattagli
del mio misero stato, egli non mi mandasse una riga; ma forse la
lettera era stata diretta a Milano, o si era smarrita per via, o si
era intercettata alla posta austriaca. In quel tempo siffatti sconci
accadevano spesso. Comunque sia, il bisogno di credere a giorni meno
sconsolati mi aveva racceso in cuore la fede, e m'era persino riuscito
d'infonderla nel padre mio, già così pertinacemente ostile a Gustavo.
— Lo vedrai, babbo, — io dicevo, — egli tornerà, egli mi farà sua, e tu
non avrai più a turbarti pel mio avvenire. —

Povera illusa! Quanto presto il disinganno doveva tener dietro a questi
augurî baldanzosi e felici!

Il dì seguente a quello in cui mi cadde sott'occhio l'annunzio,
cagione per me di tanta allegrezza, mio padre respirava le dolci aure
del tramonto, seduto su una poltrona a ruote ch'io avevo sospinta
nel giardinetto su cui riusciva il salotto da pranzo. Egli era un
po' taciturno, ma sereno; io, ritta dietro a lui e appoggiata coi
gomiti alla spalliera della poltrona, contemplavo in silenzio la
cresta acuminata della montagna che ci sorgeva dinanzi, e volavo col
pensiero oltre a quei gioghi, oltre ai confini d'Italia, affrettando
col desiderio il ritorno del mio sposo. Tre o quattro signori sedevano
a pochi passi di là intorno a un tavolino, sorseggiando il caffè e
discorrendo di politica. Era tra loro il marchese di Villa Gioconda, un
vecchio aristocratico piemontese, fornito di alquanta boria patrizia,
ma, in fondo, vero gentiluomo nell'aspetto e nei modi. Egli aveva presa
più volte cortese parte allo stato di mio padre, ed era fra' pochi
ospiti dello Stabilimento, con cui si fosse ricambiata qualche parola.
Ma quel giorno (era il 15 di maggio, nè dimenticherò mai quella data)
doveva venirmi da lui lo strale che mi ferì senza speranza di salvezza.

— Sapete ciò che mi si scrive da Torino? — diss'egli rivolto al gruppo
che lo circondava. — Che il conte*** nostro ambasciatore a Londra, dopo
essergli andati falliti i matrimonî principeschi che sognava per la
figliuola, stia per concludere una _mésalliance_, dandola in isposa al
suo segretario. — E lo nominò.

Quest'annunzio così improvviso ed inaspettato mi piombò addosso come
un fulmine. Un grido era sul punto d'irrompermi dal petto, ma con uno
sforzo potente seppi frenarlo, e si convertì in un gemito cupo, sordo,
profondo. Non caddi, perchè fui in tempo di afferrare con ambe le mani
la spalliera della poltrona, alla quale io ero appoggiata, e tenermivi
stretta, mentre tutti gli oggetti circostanti mi traballavano intorno
vertiginosamente. Mio padre, pallido come uno spettro, s'era girato
con mezza la persona sulla scranna, e mi guardava con occhi stravolti,
e tentava balbettar qualche parola che il labbro non riusciva ad
articolare.

La commozione destata in noi dal suo discorso non era certo sfuggita
al marchese, ed io lo intesi soggiungere in fretta: — Del resto è
un pettegolezzo che probabilmente non avrà nulla di vero. — Indi,
scostatosi da' suoi interlocutori, ci si fece dappresso, e con nobile
delicatezza fingendo ignorar la cagione del nostro turbamento, e
volendo per quanto fosse in lui riparare al male che ci aveva fatto,
mi disse: — Parmi, signorina, che suo padre soffra più del consueto.
S'egli non isdegna il mio appoggio per risalire alle sue stanze,
eccomi agli ordini suoi. — Nello stesso tempo si chinò verso il
malato offrendogli il braccio, e poichè quegli non oppose resistenza,
lo portò, più che non lo accompagnasse, sino all'uscio del nostro
quartiere. — Ora le manderò il medico, — riprese prima di accomiatarsi.
— E dacchè ella è sola e angustiata, povera signorina, io la prego che
voglia disporre in questi giorni del marchese di Villa Gioconda. —

Per quanto io ammirassi siffatto riserbo, non potei a meno di
prorompere: — Marchese, ciò ch'ella diceva a' suoi amici, è proprio
vero? —

— Le giuro sull'onor mio, — egli rispose, — ch'io non ne so nulla di
certo. È forse una chiacchiera di caffè riferita per lettera, e da me
stolidamente ripetuta. Si faccia animo, ottima signora, e non mi serbi
rancore. —

Io non chiesi, egli non disse di più. Scese le scale, e di lì a pochi
minuti fu da noi il dottore dello Stabilimento. Cominciò col domandarmi
se questo peggioramento repentino fosse da ascriversi a cause morali,
e concluse che se non c'era modo di tranquillare l'animo evidentemente
agitato dell'infermo, era pur troppo assai difficile di stornare una
prossima crisi. Questi suoi presagî erano, ben s'intende, annacquati in
molte parole che miravano a temperarne l'effetto: io però non m'illusi
un istante. Poscia il medico mi confessò ch'io pure ero molto stremata
di forze, e avevo il polso febbrile.

Sorrisi amaramente, e risposi: — Non ho tempo io d'esser malata. —
E invero che cosa erano le sofferenze del mio corpo in paragone di
quelle dello spirito? Io ero dunque ingannata, tradita, abbandonata
per sempre! La mia gioventù era ormai sul tramonto, la mia bellezza era
sfiorita, io ero alla vigilia di rimaner orfana e derelitta nel mondo,
e l'uomo ch'io avevo tanto amato ricambiava così la mia fede!

La sera stessa spedii una lettera all'Anastasi, supplicandolo di
accorrere senza indugî. E lì dinanzi alla mia scrivanìa m'accinsi più
volte a vergare un altro foglio, senza che mai mi riuscisse venirne a
capo. Era in me tanto dolore, tanto sdegno e tanto disprezzo, che il
mio stile mi pareva a vicenda troppo appassionato, troppo offensivo e
troppo sarcastico. Anche in questo caso la notte portò consiglio. Che
notte!

Il marchese di Villa Gioconda volle a tutti i costi che un suo fidato
domestico vegliasse al letto di mio padre. Era uno di quei vecchi servi
delle case patrizie che tengono cara la loro livrea come un soldato
tien cara la bandiera del reggimento, e che si getterebbero a dirittura
nel fuoco pei loro padroni. Egli aveva assistito nelle loro malattie
non so quanti dei Villa Gioconda, e aveva imparato quelle previdenze
che non sogliono avere gl'infermieri di professione.

Mio padre fu straordinariamente agitato. Le parole: _infame,
traditore.... povera Adelaide_, gli uscivano continuamente dal labbro,
e quando io m'accostavo al suo capezzale, non voleva saperne di
conforti, e finiva sempre col dirmi: — Sono io la causa di tutto; —
oppure: — Quell'uomo mi fa morir disperato. — Era una pena indicibile
il vederlo così, e il medico anch'esso ne fu dolorosamente colpito. Oh
che non avrei fatto pur di renderlo più quieto e tranquillo, a quali
sacrifizî non mi sarei mostrata disposta! Certo gli avevo anch'io i
miei rimorsi. Perchè ostinarmi in un amore impossibile, perchè non
indovinare i desiderî del mio genitore, perchè non seguire i consigli
dell'Anastasi, porgendo benevolo ascolto al giovane commesso di studio
che mi aveva dimostrato un affetto tanto pieno di riverenza e di
dignità? Ma ormai come espiare le mie colpe? A che mezzi, a che pietosi
inganni appigliarsi, perchè mio padre chiudesse gli occhi con l'anima
meno angosciata? Solo Gustavo avrebbe potuto rasserenarlo, smentendo la
notizia del suo matrimonio; ma come ricorrere a lui, ma come invitarlo
a smentire ciò che pur troppo il cuore mi diceva esser vero?

Eppure, o Lina, appunto a lui io ricorsi. Albeggiava appena quand'io,
profittando di un breve sonno dell'infermo, mi posi al tavolino, e
con mano rapida e convulsa vergai questa lettera: — _Gustavo! Si è
diffusa qui la novella che stiate per prender moglie. Non ti chiedo
per me nè spiegazioni nè scuse. Ma se volete ch'io vi perdoni, se
vi resta qualche dolce memoria dei giorni trascorsi, non mi negate
un'ultima grazia. Mio padre, affetto da malattia insanabile, è agli
estremi di vita, e il pensiero del mio avvenire, che, ve lo prometto,
saprò affrontare da donna coraggiosa ed onesta, raddoppia gli spasimi
della sua agonia. Gustavo, secondatemi. Appena vi giunga questo
foglio scrivetemi una lettera, negando quanto si è affermato di voi,
e promettendo che non mi abbandonerete giammai, e mi farete vostra
fra poco. In quella lettera che, se mi giunga in tempo, io mostrerò
a mio padre, acchiudetene un'altra che contenga la verità pura, senza
reticenze e senza comenti, e vivete certo che, quale ella sia, saprò
sopportarla con animo gagliardo e virile.... Non temete di frodi....
Adelaide vi par nata a siffatte bassezze? E, soprattutto, affrettatevi.
Ogni indugio può tornare funesto e rendere inutile la pietosa bugìa.
Io vi giuro che non vi domanderò nulla più sulla terra e che ricambierò
con augurî di lunga felicità quello che mi avete fatto soffrire. Che se
non consentiste alla mia preghiera, io direi, o Gustavo, che ogni senso
di compassione è spento nell'animo vostro._

Non vi descriverò uno per uno i giorni che seguirono all'invio di
questo messaggio, ond'io non aveva confidato il tenore che al notaio
Anastasi, il quale, fedele alla sua promessa, era accorso al mio
invito. Il prezioso amico vegliò meco al letto paterno, tentando invano
di sollevare lo spirito del povero malato, a cui il pensiero del mio
abbandono non lasciava più tregua.

— O come mai, Anastasi, — diceva mio padre, — voi che non avevate fede
in Gustavo, quando ancora si poteva averne, come mai volete ora lottare
contro l'evidenza?... Mia sventurata Adelaide, — egli soggiungeva
poi indirizzandosi a me, — _quell'uomo_ ha saputo annebbiare la tua
intelligenza serena, e tu speri ancora in lui, tu l'ami ancora. Ma non
t'avvedi ch'è inutile?... Senti, Adelaide, non è la morte che mi fa
paura; ma vorrei che il _codardo_ fosse punito.... vorrei, morendo,
poter dire: _mia figlia è vendicata_. —

— No, padre mio, — io rispondevo, — tu non morrai, ma se pur ti piace
fermarti su questa lugubre idea, non alimentare pensieri di vendetta:
non son degni di te che nella tua esistenza non hai fatto che il
bene: credilo ad Adelaide tua, il conforto giunge sovente quand'è meno
atteso, e ho qualche cosa in cuore che mi dice: _il conforto è vicino_.
Una parola sfuggita al marchese di Villa Gioconda, una parola, alla
quale egli stesso non attribuisce importanza veruna, avrà dunque potere
di conturbare siffattamente il tuo spirito? Ho scritto io stessa a
Gustavo, sai? e la sua risposta non tarderà molto a venire.... —

Questi e simili discorsi io andavo facendo dì e notte, con che sforzo,
con che angoscia dell'animo lascio a voi il pensarlo. Quando la
stanchezza mi vinceva, il notaio Anastasi prendeva il mio posto presso
mio padre e si studiava egli pure di ripetergli con altre parole le
assicurazioni ch'io gli aveva date. Pietosa cospirazione intorno al
letto di un moribondo!

Eravamo già al decimo giorno dacchè io avevo spedita la mia lettera
per Londra, nè la malattia aveva fatto progressi rapidissimi.
L'abbattimento morale pareva forse più grande del fisico. Non per
questo il medico rasserenava la fronte, nè mi confortava a sperare.
— È un'esistenza che pende da un filo, — egli mi diceva talora, — può
durare dei mesi, e può spezzarsi quando men si crede. —

Quella mattina noi stavamo, l'Anastasi ed io, ciascuno da una parte del
letto intenti a distrarre l'infermo assorto ne' consueti pensieri.

— Voi mi perdonerete, Anastasi, — diceva mio padre, stendendo al notaio
la mano tremula e scarna; — voi mi perdonerete se non fui sempre giusto
con voi. Ho errato, lo so, e riconosco l'errore. Quand'io non sia più
(non vale ribellarsi a ciò ch'è inevitabile), fate le mio veci presso
la mia figliuola. Ch'ella non sia derelitta nel mondo, abbandonata da
_tutti_. E tu, poveretta, non voler persistere in una fede ch'è cecità.
Prima che tu senta il peso degli anni, apri il cuore agli affetti.... O
chi non amerebbe la mia Adelaide, sol che sperasse di esserne riamato?
_Uno solo_ poteva tradirla, ed ella ha scelto quell'uno!... Codardo....
egli non osa nemmeno confessare il suo fallo.... non osa nemmeno
risponderti! —

Io chinai il capo tacendo. Era vero!

In quella, mi giunse all'orecchio un suono di passi affrettati. Si
bussò alla porta; corsi io stessa ad aprire. Un cameriere mi consegnò
una lettera al mio indirizzo, sopra cui stava scritto _urgentissima_.
Veniva da Londra: era _sua_. Non vi so dire quel ch'io provassi: so che
la lettera ch'io attendevo da tanti giorni era nelle mie mani, e che
io non aveva il coraggio di porvi gli occhi. Nondimeno, fattami forza,
ne infransi il suggello, e ne scivolò un piccolo bigliettino che andò
a cadere a' miei piedi. Lo raccolsi avidamente nascondendolo in seno,
giacchè prima di apprendere la mia sentenza io volevo vedere se Gustavo
mi avesse reso l'ultimo servigio, di cui lo avevo pregato. E invero
Gustavo nella sua lettera aveva pressochè trascritto le mie parole:
cattivo augurio per me. Allora, quasi lacerandolo con le dita tremanti,
apersi il bigliettino: non conteneva che tre righe: — _Avete ragione:
sono indegno di voi. Il destino ha voluto dividerci; ma voi, lo so,
non potete, non dovete perdonarmi. Eccovi la lettera che desiderate:
l'affido alla vostra lealtà._ — Mi sfuggi un grido, onde il notaio mi
fu tosto vicino, e mio padre, che non poteva vedermi a cagione di un
paravento tra il suo letto e l'uscio, chiamò due volte angosciosamente:
— Adelaide! Adelaide! — Ripigliai possesso di me, e fingendo che la mia
commozione derivasse da soverchio di gioia, risposi: — Babbo, c'è una
lettera di Gustavo! — Indi, fattami al suo letto, e abbandonandomivi
quasi con la persona, abbenchè mi si velasse la voce e le pupille mi si
annebbiassero, lessi tutto di seguito: — _Cara Adelaide, ciò che ti si
disse di me è falso. Non isposerò altra donna che te. Io ti ho amata
sempre, io non ho mutato propositi e sarò presto in Italia e ti farò
mia. Che il tuo genitore rassereni lo spirito e non dubiti che tu non
abbia ad esser felice col tuo Gustavo._ —

Mio padre, che in questo frattempo s'era ritto sui guanciali facendosi
puntello di un braccio, mi strappò la lettera di mano esclamando: —
Vuoi tu ingannarmi? — Poscia gridò con voce affannata: — Un po' di
luce, un po' di luce! —

Il notaio, appressatosi alla finestra, ne sollevò alquanto la
tendina, dimodochè un raggio di sole attraversò la stanza, venendo
a morire nella corsìa del letto dalla parte opposta a quella in
cui io mi trovavo. Due volle il malato si soffregò le palpebre col
dosso della mano sinistra, mentre la destra teneva aperto il foglio
avvicinandolo agli occhi. Il sudore che gli stillava dalla fronte
rendeva testimonianza di quanto gli costasse quello sforzo supremo,
quella lotta della volontà contro i sensi ormai riluttanti all'antico
ufficio. Era uno spettacolo angoscioso che teneva sospese in me tulle
le potenze dell'anima, che m'impediva in quell'istante di pensare ad
altro, di veder altro, di rammentare altra cosa nel mondo. Tutto ad
un tratto un sorriso celeste trasfigurò il volto dell'infermo; egli
aveva distinto le parole della lettera: _sarò presto in Italia e ti
farò mia_, e le ripeteva con accento ineffabile. E, come parlando fra
sè, soggiungeva: — Gustavo, mi hai fatto molto soffrire, ma oggi ti
perdono, e muoio felice. — Grazie, — sclamai, cadendo in ginocchio a'
piedi del letto, e nascondendo la faccia tra le coltri, — grazie per
_lui_. — Le mani di mio padre si posarono sul mio capo, e non so perchè
il loro contatto mi facesse rabbrividire. Alzai gli occhi; le pupille
di lui brillavano di una luce che non era terrena, la sua testa era
piegata alquanto dalla mia parte con una immobilità spaventosa. Misi un
urlo di raccapriccio.... Il notaio lasciò cadere il lembo della tendina
ch'egli tenea sollevato: una mezza oscurità verdognola come il colore
dei cortinaggi involse la stanza e il letto del malato, rendendone
più sinistro il pallore.... L'Anastasi mi trascinò nell'anticamera e
adagiatami sopra un sofà, esclamò: Povera Adelaide, _egli_ è morto
_credendovi_ felice! — Felice! Ed io torcevo ancora fra le dita
convulse il bigliettino che segnava irrevocabilmente la mia condanna.

Le forze umane hanno un limite, e quel limite le mie forze lo avevano
toccato. Orbata del padre, tradita dal fidanzato, e a ventisett'anni
sola nel mondo, oh era questo un cumulo di sventure che avrebbe
prostrato omeri più vigorosi de' miei!

Or che accadesse di me io non so dirvi se non per quello che me ne
dissero gli altri, tanto ho di quel tempo una confusa visione, una
reminiscenza confusa. Come io abbandonassi quella stanza funerea,
come da quelle solitudini alpine ritornassi a Milano, come languissi
colà malata più mesi, ve lo giuro, o Lina, io non sarei in grado
di narrarvelo. A me parve di uscire da un lungo sonno, d'essermi
addormentata ancora giovane e bella per destarmi vecchia e cadente
e grinzosa. L'Adelaide vispa, petulante, leggiadra se n'era ita per
sempre: in vece sua v'era una donna oppressa dal peso delle memorie,
col cuore tanto disingannato da non poter provare un novello amore,
col volto così sfiorito da non ispirarne. A ventott'anni io ne
mostravo poco men di quaranta, a ventott'anni qualche capello bianco
m'inargentava la chioma. Talora io chiedevo a me stessa come l'età
mi avesse sorpresa, e come le gioie di sposa e le dolcezze di madre,
e tutto ciò che dà pregio all'esistenza femminile, fossero cose
ch'io dovevo ignorare per sempre. Nella mia casa, che il mio scarso
peculio aveva resa ancor più modesta, io non vedevo, per così dire,
che il notaio Anastasi. Fedele alla promessa da lui fatta a mio padre
moribondo, egli mi teneva in conto di figlia, e veniva a passar la
sera, addormentandosi sovente, bisogna ch'io lo confessi, mentre io
leggevo un libro o attendevo a un lavoro. La bontà squisita dell'animo
suo e le prove d'amicizia verace ch'io ne avea ricevute, rendevano
quell'uomo sacro per me: ma il suo dialogo non bastava a dissetare il
mio spirito, nè ad alleggerire il tedio che mi pesava sul capo. Egli
aveva ripreso la vecchia abitudine di parlare delle sue faccende e
de' suoi clienti, e per quanto io cercassi di dare un'altra piega al
discorso, egli con mille giravolte artificiose sapeva ritornare al
suo tema prediletto. Procedendo di questo passo sentii ch'io sarei
diventata una mummia; temetti, vi dico la verità, di perdere sino il
desiderio d'una vita meno monotona, meno vuota d'affetti, e sovra
ogni altra sventura mi atterrì il pensiero di questo intorpidirsi
dell'ingegno e del cuore.

Intanto l'Anastasi venne a morire, e mi si fece intorno un vero deserto.

Fu allora che, per un'avventurosa sorte, ebbi agio di conoscere la
vostra famiglia. Vidi i vostri genitori, coppia mirabile per sensi
dilicati e gentili, vidi voi che in quei tempi eravate una bionda e
gracile pargoletta, e mi rammento come si stringesse presto amicizia
fra noi due, e come spesso correste festosa a pigliarmi pel lembo
dell'abito e a nascondere fra le mie ginocchia la vostra testina
ricciuta. E rientrando in casa mia, le stanze mi parevano più fredde,
più squallide, più deserte che mai, e io mi corrucciavo di quel
silenzio, e tornavo a chieder ricetto nella vostra dimora, come torna
al suo nido la rondine.

La vostra mamma, scorgendo la simpatia che legava voi e me, mi disse
una mattina, con quella sua cara schiettezza: — Signora Adelaide,
voi che siete tanto.... (e qui c'era un complimento ch'io non voglio
ripetere) sareste disposta ad assumervi l'educazione della mia
Lina? —

Io risposi di sì, e.... il resto voi lo sapete. Ero rimasta senza
famiglia, ed ebbi la vostra; ero senza uno scopo nell'esistenza, e
il pensiero di svolgere in voi le facoltà dell'animo e dell'ingegno
riempì il vuoto del mio cuore; ero senza ambizioni, ed ebbi quella
della vostra riuscita. Ai molti disinganni della mia giovinezza potei
contrapporre l'affetto vostro costante, la fiducia, non ismentitasi
mai, di chi vi confidò alle mie cure. Ora voi mi lasciate, e m'è tolta
con voi sì larga parte di consolazioni e di compiacenze. Ma ho imparato
frattanto che anche le vecchie zittelle possono trovare un posto
nel mondo, quando invece di chiudersi nel guscio dell'egoismo, sanno
spendere quei tesori d'affetto che si raccolgono in cuore a ogni donna.
Ai miei quarantatrè anni, che a prima vista paion sessanta (state
quieta con quella vostra testina che fa segno di no), io mi sento meno
desolata, men vecchia di quello ch'io non fossi a ventotto ed a trenta,
e poichè di questo mutamento io vo debitrice a voi ed ai vostri, vedete
se potevo far meno, per ricambiarvene, che raccontarvi la mia storia.

— Ma.... e _di lui_, — chiese sommessamente la giovinetta, — avete mai
saputo nuova?

— Oh Lina! Egli è salito assai alto, e salirà ancora di più, perchè non
gli manca nè l'ambizione che aspira ai grandi successi, nè l'ingegno
che sa conseguirli. Io non l'ho riveduto. Però, sono ormai undici anni,
in una delle nostre gite a Milano, essendo con voi fanciulletta ai
Giardini Pubblici, fui colpita dalla leggiadria di due bambini vestiti
con rara eleganza. Uno d'essi correndo venne a urtare contro di me,
onde la governante, una francese, lo ammonì severamente. Io le chiesi
chi fossero quelle vispe creaturine che la tenevano in tante faccende.
Ella ne proferì il nome. Era il nome di _lui_.... Avrebbero potuto
esser miei figli!... Il dì seguente noi partimmo di Milano.... —

La signora Adelaide proferì queste parole con voce tremula e velata,
e si alzò repentinamente dalla sedia per non lasciarsi vincere dalla
commozione.... — O la splendida sera! — soggiunse tosto levando gli
occhi al firmamento. Ed era infatti una splendida sera. La luna nel
pieno suo disco erasi levata nitida e argentea sopra le brune masse del
boschetto di carpini, una brezza soavissima temperava gli ardori estivi
e faceva dondolare voluttuosamente le tuberose sul gracile stelo.
Una sola nuvoletta piccola, candida, sottile come un fiocco di cotone
che un bambino solleva con l'alito, seguiva a poca distanza l'astro
malinconico: sarebbesi detto che la regina delle notti si faceva portar
dietro il suo velo da invisibili ancelle. Tra le fronde del boschetto
gli usignoli gorgheggiavano a piena gola, coprendo coi loro trilli
armoniosi il gracchiar monotono delle cicale sparse per la campagna.
Lina intese il tacito invito della signora Adelaide, e sorta in
piedi, e copertosi il capo con una pezzuola bianca per ripararsi dalla
rugiada, pose il braccio sotto il braccio di lei e si avviò seco lungo
i capricciosi sentieri del giardino.

Noi non seguiremo le due donne nella loro passeggiata notturna; chè, se
alla leggiadra Lina piace di sentirsi ripetere le confidenze della sua
compagna, noi crediamo che ai lettori basterà di aver inteso una volta
_il racconto della signora Adelaide_.

  _1869._



UN RAGGIO DI SOLE.

NOVELLA.


L'ultimo lembo dello strascico d'un vestito di seta spariva dietro
l'uscio del salotto di casa Mellari. Una signora innanzi negli anni,
ma con la fisonomia piena di vivacità giovanile, seguiva il dileguarsi
di quello strascico con uno sguardo lungo, tenero, appassionato; uno
sguardo, quale non hanno se non le madri per le loro figliuole e le
nonne per le loro nipoti. Ed era appunto una nipote della padrona di
casa colei che aveva lasciato in quel momento la stanza.

La signora Anna, moglie del professore commendatore Everardo Mellari,
sola in un angolo della camera, sedeva ad un tavolino, su cui stavano
alcuni libri legati, un servizio da tè, un astuccio da lavoro e un
moderatore di porcellana acceso; perchè, se non lo abbiamo ancor
detto, lo diciamo adesso, erano le dieci di sera. Intorno ad un
tavolino molto più grande, collocato proprio nel mezzo dell'ampio
salotto, rischiarato da una lucerna appesa al palco, e tutto sparso
di opuscoli e di giornali, discutevano di economia e di giurisprudenza
sei uomini, con certe inflessioni nasali e una maestosa solennità degna
di chi è socio di cinque Accademie almeno. Le sentenze si succedevano
a regolari intervalli come le cento e una salve d'artiglieria alla
nascita d'un principino. Vuole però giustizia che si facciano in quel
gruppo le debite distinzioni. Delle sei persone ivi raccolte quattro
avevano aspetto fossile, e il più fossile di tutti era un giovine non
ancora trentenne, uno di quei gingillini della scienza che camminano
servilmente sulle orme altrui, e si credono dotti, quando hanno letto
una memoria papaverica dinanzi a un'assemblea sonnacchiosa. A costoro
par grave non avere che venti a trent'anni, e simulano i modi e la
posatezza dell'età matura, gonfi, pettoruti, noiosissimi. Sul loro
labbro non v'è sorriso, nei loro occhi non v'è luce, nella loro parola
non v'è affetto, mummie prima di nascere.

Il professore commendatore Everardo Mellari, che al momento della
nostra narrazione passava la sessantina, aveva avuto anch'egli il gran
torto di non prendere la vita che da un lato solo, dal lato cioè dello
studio e della meditazione, trascurando quella verità detta senza
reticenze dal Giusti:

    Se fa conoscere — le vie del mondo,
    Oh buono un briciolo — di vagabondo!

Però in lui una intelligenza elevata, una dottrina profonda e un
cuore ottimo e tenace nelle amicizie, facevano perdonare quel po' di
compassato e di convenzionale che era nel suo carattere. Quanto alla
persona, ella somigliava all'indole ed all'ingegno, ed era quindi
piuttosto poderosa che graziosa.

Dissimile affatto dagli altri, e tale che si sarebbe detto una
stuonatura in quel concerto di dottoroni, stava in piedi appoggiando
una mano alla spalliera della seggiola del professore Everardo, e
tenendo con l'altra dinanzi agli occhi un giornale, senza apparire
troppo concentrato nella lettura, il signor Maurizio Dardi, il più
vecchio e fidato amico di casa Mellari. Anch'egli fra i sessanta e i
settanta, ma ritto, sottile, aitante delle membra, con una fisonomia
briosa ed ironica spesso, con uno sguardo vivo, intelligente, pieno di
fuoco, con capelli che ormai quasi bianchi del tutto conservavano la
curva elegante della giovinezza e si arricciavano di tratto in tratto
con una tal quale aria di provocazione come se volessero dire: — Oh se
sapeste quante manine gentili ci hanno fatti scorrere fra le loro dita.
— Dal complesso poi della persona tuttora attraente e dal vestire lindo
ed accurato si vedeva l'uomo che aveva molto vissuto nella più eletta
parte della società.

Il signor Maurizio aveva egli pure seguìto con lo sguardo il
dileguarsi del vestito di seta, e quando l'uscio si fu richiuso, con
un movimento rapidissimo si fece accosto alla signora Anna, trasse
un profondo sospiro dal petto come chi si sente sollevato da un peso,
e, avvicinando una sedia al tavolino, disse: — Si può fare un po' di
conversazione con voi, signora Anna? —

Ella che se ne stava fantasticando si scosse, e con un sorriso pieno di
benevolenza: — Figuratevi! — rispose. — Vi confesso anzi che mi pareva
impossibile di vedervi in mezzo a tanti uomini serî.

— Grazie del complimento. Però, ve lo dico col cuore in mano, vostro
marito solo lo digerisco, ma in compagnia con quegli altri no e poi
no. Everardo mi va ripetendo sempre che io sono uno scapato come a
vent'anni, e che egli stesso non sa spiegarsi come, tanto dissimili
d'indole, noi abbiamo potuto rimanere amici tutta la vita. E in verità
la cosa fa meraviglia anche a me.... Ma, vedete, ad Everardo io perdono
tutto.

— Oh bella! siete voi che perdonate? — interruppe la signora Anna.

— Certo, perchè, in fin dei conti, queste esistenze seppellite in mezzo
alla polvere delle biblioteche sono esistenze sbagliate. Bandire il
sorriso dalla vita val quanto bandire il sole dall'universo.

— Oh diamine! Siete sentenzioso.... Su via, cattiva lingua, di chi
avete a dir male stasera?

— Di molte persone; ma, se non vi dispiace, mi contenterò di una sola.

— Molti i chiamati e pochi gli eletti. — osservò sorridendo la signora
Anna. — E chi è oggi l'eletto?

— È una _eletta_.

— Una donna?

— Per l'appunto.

— E chi dunque?

— Voi stessa.

— Io!

— Sì signora.... Credete davvero ch'io sia stato ad ascoltare in
tutto questo frattempo le dissertazioni sulle imposte indirette di
quell'amenissimo dottor Belgini, che, se si sta alla fede di nascita,
ha ventinove anni e se si vede e si sente, ne ha almeno sessanta?

— Ma via, screanzato, parlate piano.

— Oh! siate certa che non ci odono; — rispose il signor Maurizio,
accostando però la sedia a quella della sua interlocutrice e abbassando
alquanto la voce. Indi continuò:

— O vi par forse probabile ch'io abbia prestato una grande attenzione
agli apoftegmi giuridici partoriti con tanta disinvoltura dal
consigliere Marino, il quale, allorchè ha parlato, si volta a destra e
a sinistra come per dire: _avete mai inteso nulla di simile?_ —

La signora Anna fece uno sforzo per non ridere, e con un tuono
malizioso soggiunse a mezza voce:

— Non c'è forse il commendatore Brullo?

— Oh! — proruppe il signor Maurizio — quello è un bell'originale. Non
v'è cosa che non gli sia accaduta, non v'è paese, in cui egli non sia
stato, non v'è idea che prima di venire agli altri non fosse venuta
a lui. In casi eccezionali egli fa delle transazioni. Stasera, per
esempio, si discorreva della Groenlandia. Egli osservò: _io dovevo
andarvi_. Maravigliato d'un tuono tanto rimesso: _eppure io tenevo per
fermo_, diss'io, _che ci foste già stato_. Credete forse ch'egli abbia
capito ch'io mi burlassi di lui? Tutt'altro. Prese le mie parole per un
complimento.

— In fin dei conti poi c'è Everardo, — concluse la signora Mellari con
accento serio e senza ironia di sorta.

— Ah sì, c'è Everardo, — rispose con l'accento medesimo il signor
Maurizio, — e ad Everardo faccio di cappello; ma, ve lo ripeto, a
quattr'occhi, e quando posso levargli la crosta dell'accademico. Via,
non v'impazientite. Ricevendo in casa sua de' pedanti gli tocca divenir
qualche volta pedante anche lui per ospitalità.... Ma, insomma, voi mi
fate parer maldicente....

— Oh poveretto, non siete mica tale! — esclamò la signora Anna. — E, a
proposito, non dovevate dir male di me?

— Ah! questo sì, e comincio subito. —

La signora Anna avanzò alquanto la sedia, e appoggiando il gomito al
tavolino fece puntello al mento con l'avambraccio, e si pose in atto di
benevola aspettazione.

— Dovete dunque sapere — principiò il signor Maurizio con un tuono
scherzoso che temperava l'asprezza apparente delle parole — dovete
dunque sapere, mia cara amica, che io ho inteso gran parte del vostro
colloquio con vostra nipote, e che fra voi e lei avete detto delle
solenni corbellerìe.

— O sentiamole un po' queste solenni corbellerìe.

— Non mi negherete che la Evelina vi dicesse male di suo marito.

— Male poi no.... Faceva alcune rimostranze.

— Or bene: quanto a me che del matrimonio....

— Risparmiatemi le vostre teorie. Già si sa che voi l'avete a morte col
matrimonio.

— Falsissimo. Io la credo un'ottima istituzione a benefizio dei celibi.
Che cosa farebbero i celibi se non vi fossero gli ammogliati?

— Eh! vergognatevi di questo cinismo.

— Sono meno cinico di quel che credete, amica mia, e mi sarebbe facile
il provarlo. Ma ora ripiglio il filo del discorso. Quanto a me, dunque,
che sono un celibe ostinato ed impenitente, non ho nulla a ridire, se
una moglie si lagna di suo marito. Ciò sta nell'ordine naturale delle
cose. Ma io mi pongo dal lato vostro, di una donna cioè che ha un culto
per l'istituzione del matrimonio, e non posso a meno di strabiliare
vedendo come voi lasciate tener quei discorsi a vostra nipote, e
abbiate anzi tutta l'aria di secondarli.

— Oh! se non avevate che a farmi questo sermone, mio venerabile signor
censore, potevate davvero risparmiarvi la briga. In primo luogo, io non
ho secondato niente affattissimo; e poi, appunto perchè tengo che il
matrimonio e la famiglia sieno cose sacrosante, m'irrito quando ne vedo
fraintesi gli obblighi dall'una parte o dall'altra.

— Queste sono frasi. Io credo invece che il matrimonio, per non finire
in una catastrofe, debba essere un lungo esercizio di reciproca
tolleranza. Tolleranza, intendiamoci, non già del vizio e della
dissolutezza, ma di tutti quei difettucci, di tutte quelle imperfezioni
che ciascuno dei due coniugi vede certamente nell'altro. Or via,
veniamo al fatto: di che cosa si lagna vostra nipote?

— Sapete che siete curioso? Io potrei mandarvi pei fatti vostri, e
non dirvi nulla: ma voglio esser tre volte buona, e vi risponderò
schiettamente che Evelina ha ragione. Un uomo che ha una sposa come
Evelina, un fiore di gioventù, di bellezza, un angelo di bontà e
d'innocenza; un uomo che possiede una donnina siffatta e la trascura, e
non le consacra tutto ciò che v'è di migliore nella sua anima e nel suo
ingegno, meriterebbe.... eh! lo so io che cosa meriterebbe. Il meno che
possa toccargli è che sua moglie si dolga di lui.

— Voi siete una Vestale che conserva il fuoco sacro. Ancora bollente
come a vent'anni! Io vi ammiro.

— Eh! ammiratemi meno, e ascoltatemi più. O che vi pare che Evelina
avrebbe ad esser contenta? A sedici anni appena la maritano (e un
po' di colpa ne ho anch'io) a un giovane sui cinque lustri, operoso,
distinto, onesto; ma tutto pieno della sua ambizione, tutto occupato
dei suoi buoni successi. Egli è ora di qua, ora di là, oggi a Firenze,
domani a Milano, doman l'altro a Napoli, sempre a raccogliere applausi
e a mietere allori, a proferir discorsi, a tener conferenze, e che
so io; e dopo quindici mesi di matrimonio è molto se sta tre giorni
la settimana presso sua moglie per annoiarla con racconti delle sue
glorie e de' suoi trionfi. Oh! caro mio, non v'è nulla di più egoista
dei così detti uomini grandi, non v'è nulla di più gretto e meschino.
Nel santuario della casa che dovrebb'essere aperto agli affetti, alle
confidenze, alla celia, essi portano la loro vanità personale; al
pettegolezzo senza malizia e senza conseguenze della vita domestica
essi sostituiscono il pettegolezzo pieno d'acrimonia e di fiele della
vita pubblica e letteraria, e fanno cento volte desiderare il modesto
impiegato, l'umile uomo d'affari che, dopo adempito il suo ufficio
quotidiano, reca alla sua famiglia la parte migliore di sè; il sorriso
del suo labbro, la poesia schietta della sua anima. Perchè questa è la
gran differenza tra gli uomini comuni e quelli di maggior levatura: che
i primi cercano di piacere alla moglie, perchè sanno che non possono
avere applausi da nessuno fuori di lei; gli altri, abbagliati dallo
splendore che li circonda, non vedono che tenebre e squallore nelle
pareti domestiche.

— Per bacco! — proruppe il signor Maurizio — stasera voi siete più
eloquente del Mirabeau. Ma mi permettete di rispondervi?... In quello
che voi dite c'è molto di vero, non v'ha dubbio, ma l'arma che avete
brandita è un'arma a due tagli, e badate di non ferirvi da voi. Quando
una giovane possiede, come Evelina, uno sposo di un merito superiore,
ella non ha che un mezzo per non divenire infelice. Ella non può
impedirgli di raccogliere i frutti del suo ingegno e della sua dottrina
e di essere acceso dalla febbre del buon successo: ella deve lasciarsi
irradiare dalla sua luce, ella deve associarsi alle sue ambizioni. La
neutralità l'è proibita, perchè nella moglie l'esser neutrale vuol dire
essere ostile. S'ella non si riscalda pei trionfi del marito, il marito
la trascura, ed ella finisce coll'odiar quella gloria che avrebbe
dovuto riflettersi su di lei. I due coniugi vivono allora in due mondi
diversi, le loro anime non hanno punto di contatto, e, credetemelo
pure, mia ingenua amica, quando i corpi sono costretti a stare insieme
senza che le anime si confondano, non può nascerne altro che il tedio
scambievole.... Ma via, siamo giusti; come volete che un uomo, esposto
a tutte le seduzioni del mondo, blandito, accarezzato in mille guise,
riesca a trasformarsi di punto in bianco, e diventi semplice, modesto,
spensierato, appena egli abbia varcato la soglia domestica? Ma una
moglie saggia previene i pericoli, e poichè non può mutare il marito,
muta sè stessa.

— Oh! volete farne un'erudita?

— Che! Voi sapete meglio di me come una donna di garbo possa prender
parte agli studî di suo marito senza perder nulla della grazia e della
semplicità nativa. Tutto sta che la sua trasformazione le sia dettata
dall'affetto verso il consorte, e non dalla smania di sdottorare con
gli altri: chè in quest'ultimo caso non avete già dinanzi a voi una
persona colta, ma una noiosa pedante sul fare di quelle che si vedono
spessissimo nella società italiana, così diversa dalla società inglese
e tedesca, ove l'eleganza dei modi, le aspirazioni ad un ideale elevato
sono le cose più naturali e spontanee del mondo.

— Ma voi parlate sempre degli obblighi della donna: l'uomo non ne ha
dunque nessuno?

— Sì che ne ha; ma io vi ragiono dal lato della felicità e della pace
coniugale. E vi dico con la convinzione più profonda che l'uomo, anche
se fallisce a' suoi obblighi, può trovar nella gloria, nell'ambizione,
nel buon successo mille compensi; ma la donna, se non sa crearsi la
felicità nel tetto domestico, non vi trova che la sventura o la colpa.

— Di che frasi sonore mi rintronate il capo! La colpa! Le donne
virtuose sanno rimaner tali anche nell'infelicità.

— Nell'infelicità sì, — rispose vivamente il signor Maurizio,
sorridendo a fior di labbro, — e quando un grande dolore, quando un
grande disinganno occupa l'animo, io credo che la donna abbia in questo
disinganno e in questo dolore una salvaguardia contro le tentazioni.
Nel _Paolo Forestier_ dell'Augier v'è un tipo di donna, la quale, per
vendicarsi dell'uomo che adorava e che l'ha abbandonata, si getta nelle
braccia di un altro ch'ella disprezza, appunto nel giorno e nell'ora,
in cui deve accadere il matrimonio del suo primo amante. È un concetto
bizzarro che si fonda sopra l'ipotesi d'un fatto possibile forse, ma
non verosimile. Ciò che invece, a mio parere, mette la donna sempre al
limitare della colpa si è quella condizione malaticcia dell'animo che
non è la gioia e non è il dolore, vaga, indefinita, vaporosa come il
crepuscolo, piena di desiderî che non sanno acquistar forma e contorno,
piena di malinconìe che non hanno nome e non saprebbero spiegarsi a sè
stesse. Una donna che dice — _sono incompresa_, — molte volte comincia
col non comprender sè stessa, ed è in quello stato di perplessità che
costituisce un eterno pericolo. Chi non sa che cosa si voglia accetta
facilmente gli esperimenti, perchè suppone che l'ideale sognato possa
capitare quando meno si crede. Gli è appunto il caso della vostra
Evelina. L'è sfuggita una frase ch'io colsi benissimo: — Capisco — ella
disse — che fra lui e me non c'è modo d'intendersi. Ora, questa frase,
sia che racchiuda un profondo scoramento o una smisurata superbia,
rivela in vostra nipote l'intenzione di lasciare che le cose vadano per
la loro strada. La sua anima non è più occupata da suo marito....

— Ma chi vi dice queste cose?

— Lasciatemi finire. Il suo cuore è una casa vuota, e una casa vuota
può sempre trovare un pigionale nuovo.

— Oh! Maurizio, — sclamò la signora Anna alquanto risentita, e facendo
atto di alzarsi in piedi. — Basta di ciò. Voi sapete quanta libertà
abbiate in questa casa, e come io vi consideri più che di famiglia:
ma ogni confidenza ha un limite, e io non posso concedervi queste
supposizioni sul conto di Evelina. Sermoneggiate me quanto vi piace, ma
lasciate stare quell'angiolo.

— Via, non siate cattiva, — rispose il vispo vecchietto, tenendo la
signora Anna pel lembo dell'abito, e non permettendole di muoversi
dalla seggiola. — Rispetto la vostra tenerezza di nonna, e non vi dirò
per questa sera nulla più sul conto di Evelina. Ma, senza insistere
sul caso speciale, vi ripeto che degli angeli ne ho visti perder l'ali
parecchî, e molte virtù naufragare, e molte altre salvarsi per un
accidente; che so io? per un soffio di vento o per un raggio di sole.

— Che cosa c'entrano il vento ed il sole?

— Oh se c'entrano! — soggiunse il signor Maurizio, stropicciandosi
le mani — volete proprio che ve la racconti la storia d'un raggio di
sole? —

La signora Anna sorrise, diè una rapida occhiata all'orologio che stava
sulla _consolle_ e segnava le 10½, e poi, voltasi al suo interlocutore:
— Avete una voglia matta — rispose — di narrare una delle vostre
storielle che sono assai più numerose de' giorni dell'anno. Posso
concedervi tre quarti d'ora. Ma patti prima, mio caro. Voi avete
l'abitudine delle impertinenze, e io non ne voglio; avete certi
frizzi di cattivo genere, e io non amo sentirli; onde, o voi state
nei termini, o andate a raccontare le vostre frottole al caffè od al
casino.

— Accetto le condizioni. E anzi perchè non vi sia il caso che io le
dimentichi, vi prego, ogni volta ch'io stessi per uscire di strada, di
richiamarmi all'ordine come se voi foste il presidente di un'assemblea.
— Si guardò attorno, e, adocchiato sul tavolino un paio di forbici, le
sospinse fino alla signora Anna, dicendole: — Questo sarà il vostro
campanello. Quando voi alzerete queste forbici, capirò che bisogna
ch'io renda più castigate le mie espressioni.

— Siete pure il gran fanciullone, — sclamò la signora Anna. — Ora
parlate.

— Adagino, adagino. Ho pur io una condizione da imporvi.

— Sentiamola un po'.

— Che quando io serbi quei modi di gentiluomo che mi prescrivete,
voi mi lascerete andare sino al fondo della mia storia, anche se per
avventura si trattasse di cosa che vi fosse già nota.

— O come potrebbe essere?

— Chi sa? Non è poi impossibile che l'abbiate udita raccontare da
qualchedun altro.

— E in questo caso vi sta proprio a cuore di farne la seconda edizione?

— Mi sta.

— Ebbene, sia pure come vi aggrada.

— Ho la vostra parola?

— Ma sì, ma sì: vi occorre altro?

— Datemi la mano?

— Dio buono! Quante formalità! Si direbbe che voleste iniziarmi a
qualche loggia massonica. Eccovi la mano. —

La signora Anna porse al Dardi una manina che l'età non aveva nè troppo
dimagrata, nè troppo ingrassata; una manina giovane, se si potesse
usare questa frase, tanto n'erano ben tornite le forme, e morbide e
delicate le tinte, e pieni di una nervosa irritabilità i movimenti. Il
lepido vecchio parve molto compiacersi di quella stretta, e poich'ebbe
tenuta per alcuni secondi nella sua destra la destra della signora Anna
si soffiò due volte il naso, e si raschiò la gola come chi si accinge
a una perorazione accademica. Ella intanto, da avveduta massaia,
accendeva la macchina del tè, dicendo scherzosamente: — Perchè non
accada ch'io pigli sonno durante la vostra chiacchierata, mi preparo a
bevere una nuova tazza.

— Questa disgrazia non accadrà, maligna che siete, me ne fo
mallevadore. E comincio. Vi avviso però che quello ch'io faccio è il
racconto d'un racconto. Un amico, a cui la faccenda è toccata, me la
narrò in tutti i suoi particolari. È una storia vera, capite?

— O che bella verità, passata per due filtri; quello dell'amico e il
vostro.

— La storia risale a poco meno di quarant'anni addietro, — continuò il
signor Dardi senza occuparsi dell'interruzione. — Il mio amico che ora
è vecchio come me.... e come voi, era allora giovane e bello com'era
io.... e come eravate voi in quel tempo.

— Questo non ha che fare.

— Egli aveva di poco finito i suoi studî all'Università, lasciandovi
fama d'ingegno piuttosto vivace che peregrino, di coltura piuttosto
varia che profonda. Comunque sia, in un tempo che alle Università si
studiava pochissimo, egli poteva ragionevolmente passare tra i giovani
più valenti, e quelli che erano tali davvero lo accoglievano a braccia
aperte nei loro crocchî, ove il suo buon umore costante contribuiva
a tener allegra la brigata. E, fra parentesi, vi contribuiva anche un
po' la sua borsa, perchè egli era ricco e gli studenti ricchi possono
contarsi come le mosche bianche. In complesso l'era davvero una eletta
brigata di giovani, disseminatasi poscia qua e là secondo le necessità
della vita o i capriccî dei caso. Per una di quelle bizzarrìe che
non sono sì rare, il mio amico s'era legato di più intimo affetto con
quello che, fra tutti gli altri del gruppo, si discostava maggiormente
da lui pel carattere. Quanto egli era festevole e spensierato,
altrettanto l'amico suo era serio e meditabondo, nè la tempra del loro
ingegno era meno dissimile di quella della loro indole. L'uno andava
qua e là succhiando il miele da tutti i fiori, amava la poesia, la
musica, la pittura; l'altro coltivava con assiduità piuttosto germanica
che italiana gli studî filosofici, giuridici, storici. Ma, singolare a
dirsi eppur vero, quegli che possedeva una natura d'artista aveva un
fondo di scettico incorreggibile, l'altro sotto le gelide apparenze
celava una buona fede da non potersi immaginar la maggiore. Quanto
alla severità della sua indole, e alla rigidezza claustrale de' suoi
costumi, vi basti sapere che non c'era mai stato caso mentre eravamo
studenti insieme all'Università ***.

— O che cosa c'entrate voi?

— Avete ragione. Adopero la prima persona credendo di far parlare il
mio amico.

— Che amicizia! La vi fa persino dimenticare la vostra identità
personale, come dicono nei giornali di giurisprudenza di mio marito.
Proprio come Oreste e Pilade!...

— Via, mi fate perdere il filo con le vostre malignità. Che cosa
dicevo? Ah! dicevo che gli sforzi fatti per addomesticarlo erano
falliti, che non era stato possibile di renderlo soggetto alle
debolezze della sua età! A ventitrè anni egli era.... —

La signora Anna mosse un momento le forbici e il signor Maurizio cambiò
tuono.

— Ma ciò poco importa. Nemmeno le questioni politiche, e qui spero
che mi lascerete parlare, l'occupavano più che tanto. In quel tempo
singolare, nel quale dalle poesie del Baffo e del Buratti (oh! non
fate smorfie, perchè le avrete lette anche voi) si passava alle liriche
del Berchet; e alla porta dei tepidi teatri e delle sale sfoggiate vi
aspettava talora la sedia di posta che doveva condurvi allo Spielberg;
in quel tempo, in cui pareva non esservi posto nella vita che per
la _farsa_ e per la tragedia, il nostro originale era riuscito a
tenersi ugualmente lontano dalle seduzioni del mondo elegante e da
quelle allora assai più nobili, ma assai più pericolose, delle società
segrete. E non era diffidenza, chè, come dissi, il suo animo era alieno
dai sospetti, e non era viltà, chè egli non aveva sortito natura
codarda; era soltanto quella sua grande passione dello studio che
soverchiava in lui gli altri affetti e gli altri pensieri, e lo rendeva
noncurante di molte cose che esercitavano un fascino sulla comune dei
giovani.

Potete immaginarvi come rimanessero i suoi compagni, quando seppero
un giorno ch'egli era perdutamente innamorato. Come! E di chi? Queste
domande correvano di bocca in bocca, e per uno o due giorni tutti
malignavano dicendo: — Sta a vedere che grossa corbellerìa egli ha
commesso!

— _Egli!_ — interruppe la signora Anna. — Abborro gli anonimi.

— Volete proprio che ci mettiamo in regola con lo stato civile? Ebbene:
il mio amico lo chiameremo Ugo, e all'amico del mio amico imporremo
il nome di Alberto. Alberto adunque, poichè di lui si parla in questo
momento, non aveva commesso quella grossa corbellerìa che gli si
attribuiva. Certo egli aveva avuto un gran torto ad innamorarsi sul
serio, ma almeno non s'era appigliato nè ad una brutta, nè ad una
civetta, nè ad una stolida; com'era pur verosimile in uomo che aveva sì
poca pratica di queste faccende.

— O che non aveva forse gli occhi questo signor Alberto?

— Occhi da erudito, mia cara Anna, buoni da decifrar palimsesti, e
capaci di fermarsi con maggior compiacenza sopra un'inscrizione in
lingua sanscrita che sulle forme divine della Venere di Milo. A ogni
modo, la fanciulla amata da Alberto era tale da affascinare qualunque
anima d'artista. Non ve ne farò la descrizione. Mi basterà dirvi che
gareggiavano in lei la bellezza, l'ingegno e la grazia. Era una grazia
schietta, spontanea, che spirava da tutta la persona come profumo da
fiore, era un ingegno vivo, elegante, poetico, era una bellezza piena
a un tempo d'abbandono e di fuoco, di soavi malinconìe e di celesti
sorrisi.... E quella fanciulla non aveva, io credo, che sedici a
diciassett'anni....

— Ih! come vi riscaldate: si direbbe che parlaste di una vostra
innamorata di ieri.

— Cara mia, le cose paiono vicine o lontane secondo che sono più o meno
scolpite nella memoria....

— Parlerete, io spero, della memoria del vostro amico.

— Certamente, — rispose il signor Maurizio con disinvoltura, quantunque
quella inchiesta suggestiva lo avesse un po' sconcertato. — Ma io
m'investo de' casi suoi.

— Siete pure il prezioso amico, — notò con un filo d'ironia la signora
Anna. — Ma, a proposito, il nome di questa Dea?

— Chiamiamola Giulietta.

— Oh! c'è un Romeo?

— Può darsi; non precipitate.

— Già capisco tutta la vostra storia peregrina. È uno dei soliti
innamoramenti.

— Ma per carità, mi avete promesso di non interrompermi. Lasciatemi
adunque tirare innanzi. La bella Giulietta, sorpresa dalla
dichiarazione di un giovane ch'ella aveva conosciuto il dì innanzi,
cominciò coll'esserne sgomenta; ma poi quella sua anima delicata e
gentile non potè a meno di rispondere a un affetto così vivo ed onesto,
così rispettoso nella sua violenza, e così lusinghiero per l'amor
proprio di lei. In generale anche lo donne leggiere e che non vanno
pazze per l'ingegno piegano il capo dinanzi al buon successo: e Alberto
era fra i giovani più celebrati della Università e tra quelli, a cui si
augurava un più splendido avvenire. L'indole severa del suo intelletto
e dei suoi studî non era invero tale da affascinare una giovinetta
sedicenne; ma dall'altra parte come respingere un uomo del suo valore?
Come ributtarlo da sè, s'egli, tra mille, aveva scelto lei, modesta ed
oscura? Ecco perchè la fanciulla, pur non partecipando all'entusiasmo
del suo amante, porse orecchio benevolo alle sue parole e promise a sè
stessa che col tempo lo avrebbe ricambiato di uguale trasporto. Come si
rimovessero gli ostacoli frapposti dalla famiglia, come il matrimonio
si concludesse, quando Alberto aveva appena ricevuta la laurea, sono
cose, di cui non mette conto tener parola. Eppoi sapete ch'io non posso
scendere a troppo minuti particolari per non tradire il segreto che mi
è confidato. Questo bensì vi dirò, che gli amici di Alberto, dopo le
sue nozze, si sentirono sollevati da un gran peso sullo stomaco, perchè
egli gli aveva noiati fuor di misura coi racconti della sua gelosia,
de' suoi dubbî e delle sue escandescenze. In alcune anime l'amore
scende come una pioggia benefica sulla terra preparata a riceverla; le
compie, le rallegra, le avviva, le fa capaci di spargere intorno a sè
una gioia pacata e serena: in altre invece esso irrompe come l'uragano
sopra un suolo granitico, in cui l'acqua non filtra lentamente, ma
s'arresta alla superficie formando larghe pozze e rigagnoli: anzichè
assimilarsi al loro organismo, l'amore crea in queste anime uno stato
inquieto, morboso e toglie alle loro manifestazioni quel gentile
riserbo, quella verecondia soave che le mostra ricordevoli, oltre che
del proprio pudore, anche del pudore dell'essere amato. Alberto era,
nelle sue confidenze, pettegolo, indiscreto, qualche volta persino
brutale; tanto lo sgomentava la trasformazione esterna che s'era
operata in lui, tanta era la disarmonia, da lui non perfettamente
compresa, fra questa passione e il resto dell'esser suo.

Allorchè egli divenne marito, le tendenze ingenite del suo animo e del
suo ingegno ripresero il disopra. Come coloro che, dormendo, ricevono
una impressione fisica che si mesce ai loro sogni, tantochè quando
si svegliano, ogni altra parte del sogno svanisce fuori di quella
impressione che è viva e reale; così Alberto, ritornato in sè stesso,
vide dileguarsi l'incanto che lo avea posseduto e solo restargli
a fianco, bella e gentile, più che desiderata compagna, la moglie.
Ambizioso per indole, Alberto scorgeva in lei piuttosto un inciampo che
un aiuto alla sua carriera, e gli mancava l'arte di nascondere affatto
ciò ch'egli sentiva. Giulietta invece, la quale, come accade alle
fanciulle virtuose, aveva, dopo il matrimonio, preso a voler più bene
che mai all'uomo che aveala fatta sua, rimase profondamente mortificata
di questo cambiamento; ma col riserbo misto di dignità ch'era il fondo
del suo carattere non si faceva scorgere, o chiudeva in sè il suo
dolore. Tanto inesperta da non prevedere ciò che era avvenuto, ella
non sapeva per anco, a malgrado della sua intelligenza, scoprire i
mezzi di ripararvi. Non sapeva ancora che, mescolandosi agli studî ed
alle aspirazioni di suo marito, divenendo un valido sussidio de' suoi
lavori, ella avrebbe potuto riafferrare quell'amore che le fuggiva. Le
afflizioni senza lamento non hanno nemmeno la soddisfazione d'essere
intese dagli altri, o, se sono intese, porgono un facile appiglio a chi
vuol far le viste di non avvedersene. Chi non si lagna non soffre, dice
l'egoista, e chi ha la vita troppo affollata di occupazioni è spesso
egoista. Il tempo, che è la stoffa del lavoro e della produzione,
è anche la stoffa dei sentimenti. Se chi nulla fa nulla aggiunge al
capitale materiale della società, chi non riposa mai non aggiunge nulla
al suo capitale di gentilezza e di simpatia. A ciò gli economisti non
hanno pensato.

Non erano corsi due mesi dalle nozze, che Alberto e Giulietta vivevano
in un'orbita diversa: egli tutto inteso a' suoi studî; ella in una
solitudine malinconica che lasciava libero campo ai pellegrinaggi
della sua fantasia. Quantunque non ne andasse pazza, avrebbe gradito
i piaceri delle sue coetanee, i teatri, le feste, i convegni geniali;
ma suo marito o non aveva agio di condurvela, o conducendola, si
rincantucciava con tanto di muso in modo da toglierle tutto il
divertimento. Nondimeno ella avrebbe potuto passarsene. Spirito culto,
riflessivo, tranquillo, ella anelava essenzialmente a quella felicità
che nasce dal continuo ricambio d'impressioni e di pensieri tra due
persone che si apprezzano e s'amano, e, sposandosi, aveva creduto che
questa felicità non dovesse mancarle. Veggendosi delusa nella sua
aspettazione, si sentiva simile a chi s'accorge a mezzo il cammino
d'avere smarrito la via, nè sa qual nuovo sentiero debba prendere per
arrivare alla mèta. Intanto compieva da sè la manchevole educazione del
chiostro, faceva disordinatamente, febbrilmente, accatastando lettura
su lettura, gli studî ch'ella aveva sperati comuni con suo marito. Già
libri non ne mancavano nella sua nuova dimora.

Aveva, più che le abitudini, gl'istinti dell'eleganza, e abbenchè
uscisse di rado assai, era sempre accuratissima nel vestito e
nell'acconciatura. Questa sua innata eleganza ella aveva saputo
infondere non in tutta la casa, ma in uno stanzino che era il suo
nido, il suo tempio. Era uno stanzino appartato del primo piano,
a cui si giungeva anche per una scaletta laterale che da un andito
contiguo metteva in giardino. Le pareti d'un azzurro chiaro erano
fregiate di stucchi bianchi, e pure a stucchi era il palco leggiermente
arcuato.... —

La signora Anna si scosse e chiese: — O come sapete voi tutti questi
particolari?

— Oh bella! Me gli ha detti l'amico. Ma vi prego di non farmi perdere
il filo del racconto. La finestra del gabinetto (ve n'era una sola,
ma grande) dava sul giardino cinto da un muro basso e di là dal quale
erano altri giardini più vasti, più signorili, con bellissimi abeti.
In un punto la verdura era men fitta e lo sguardo indovinava un ampio
orizzonte. I mobili.... debbo parlare anche dei mobili?

— Come siete noioso! Lasciateli lì i mobili, e venite al punto.... O
se non volete venirci presto, smettiamo, chè già capisco che non val la
pena di continuare.

— Via, non v'impazientite. L'avete forse udita già questa storia? A
ogni modo dovete stare ai patti e lasciarmi dire. Sarebbe la prima
volta che manchereste alla vostra promessa.

— È vero. Proseguite, ma senza digressioni.

— Sarà difficile, perchè non è mio costume. La mia fantasia va
sempre caracollando e non mai di galoppo. Ella ama far sosta qua e
là, e cogliere i fiori pendenti dagli arbusti lungo la via: le corse
precipitose alla Mazeppa non son fatte per lei.... Però torniamo a
bomba, lasciando stare i mobili. Vi chiedo grazia soltanto per una
biblioteca d'acero a lustro, piccina, graziosa, elegante, che era
l'altare di quel tempietto, tutto silenzio e raccoglimento. La giovane
vi teneva i suoi libri, una cinquantina di volumi al più, ma scelti
e legati con ottimo gusto. Ed ella stava lì soletta le lunghe ore
del giorno, ora leggendo, ora fantasticando alla finestra, certa,
o quasi, di non veder giungere suo marito fino all'ora del pranzo.
Visite ne faceva poche, e quindi poche ne riceveva, perchè le era
troppo tedioso il sentirsi dire che una sposina non doveva fare una
vita così ritirata, e perchè abborriva da quel sistema comodissimo che
hanno tante mogli di lasciare sparlar dei loro mariti senza negar nè
assentire.

Il mio amico, che abbiamo detto di chiamar Ugo, non abitava la medesima
città, ma veniva di tratto in tratto a visitare il suo compagno di
studî, ed era accolto festosissimamente anche dalla Giulietta, che
vedeva una volta tanto una faccia aperta e gioviale. In quelle sue
visite, che non solevano durar più di tre o quattro giorni, egli
alloggiava sotto il tetto di Alberto, portandovi un soffio di vita,
un'eco del mondo esterno, a cui quella casa pareva chiusa del tutto.
Ugo era elegante, frequentava i teatri, le conversazioni, e quindi non
gli mancavano mai argomenti da discorrere. Figuratevi! Erano quelli i
tempi della Pasta e della Malibran, della _Norma_ e dell'_Otello_. La
Giulietta, che amava tanto la musica, non aveva mai potuto persuader
suo marito a uscir per una settimana da quella loro misera cittadina
di provincia e condurla a vedere gli spettacoli della capitale. Onde,
quando Ugo gliene parlava, ella sentiva venirsi l'acquolina in bocca, e
pendeva da' suoi labbri con una curiosità piena di commozione. Non c'è
da maravigliarsi di questa parola. A' quei tempi in Italia i trionfi
musicali destavano un vero entusiasmo. Lo dissi già prima: non c'erano
che due cose da fare: o cospirare, o divertirsi; o andare in carcere, o
andare al teatro.... semprechè non si preferisse di andare in entrambi
i luoghi. Alberto chiamava frivolezze questi discorsi; ma, in ogni
modo, poichè egli aveva ottimo cuore, riceveva l'amico suo a braccia
aperte, e quando questi gli diceva a quattr'occhi ch'egli aveva torto
a trascurare sua moglie, giovane, bella, adorna di tutte le virtù,
gli dava un mondo di ragioni, scusandosi soltanto col pretesto delle
sue mille faccende e della serietà de' suoi studî. Comunque sia, la
presenza d'Ugo, ch'era forse uomo un po' leggiero, ma certo vivacissimo
e pronto d'ingegno, era una vera provvidenza per quella casa. Per la
Giulietta egli non provava che una viva amicizia, e poi la sincera e
devota affezione che lo legava ad Alberto avrebbe soffocato nell'animo
di lui ogni altro sentimento. Quanto maggiore la sicurezza, tanto
maggiore la confidenza: confidenza fraterna, e quasi infantile.... Io
non capisco, mia cara amica, perchè andiate agitandovi sulla seggiola,
mentre non mi sembra di dir cosa che sia o possa parervi sconvenevole
punto. Perciò vi supplico che ve ne stiate buona e tranquilla, poichè
la mia eloquenza, per mantenersi, vuole il raccoglimento dell'uditorio.

— Siete un grande originale, — rispose la signora Anna, sorridendo
fuggevolmente. — E se vi déssi una tazza di tè, non mi risparmiereste
la seconda metà della vostra storia?

— Accetto la tazza, ma continuo. —

La signora Anna diè una scrollatina di testa come se volesse dir
nuovamente: _Che matto!_ e versò il tè al suo lepido interlocutore.

— Un giorno — riprese il signor Maurizio tra un sorso e l'altro — il
mio amico arrivò inatteso in casa d'Alberto, e quindi più festeggiato
che mai. Si deliberò di fare pel dì vegnente (ch'era una domenica)
una gita a una villa poco discosta, e si passò la sera pregustando il
divertimento del domani. La Giulietta non era mai stata più ilare, nè
Alberto più espansivo, nè Ugo più amabile....

— Ve l'ha detto lui?

— Sicuro!

— Beati gli uomini franchi!

— Il mattino del dì appresso (era in primavera avanzata, poco importa
il mese) Ugo fu in piedi all'ora stabilita, e fece la sua _toilette_
con grande accuratezza e sollecitudine vicino alla finestra aperta
della sua stanza che dava anch'essa sopra il giardino. Faceva un
bellissimo tempo: però l'orizzonte non era tutto sereno, e qualche
nube percorreva il cielo con insolita rapidità a simiglianza di persona
affaccendata. La moda di quarant'anni addietro, e voi lo sapete meglio
di me, non era la moda dell'anno 1870, e se il mio amico vi comparisse
dinanzi acconciato nella foggia di quel dì, voi non potreste certo
trattenere una sonora risata. Un cappello di paglia con cupola alta
e larghe tese orizzontali, un vestito color caffè con le maniche
attillatissime e col bavero di smisurata altezza, una cravatta bianca
che si attortigliava al collo come il serpente del Laocoonte, e che
scendeva a riempire tutto lo sparato del panciotto chiaro di fondo
e stampato di gran fioroni gialli, un paio di calzoni d'una tinta
sentimentale stretti alla gamba, ecco a un dipresso il figurino del
mio amico in quel giorno memorabile. E in quel giorno, ve lo assicuro
io, egli era bello, e aveva ben ragione di sorridere guardandosi
nello specchio. La giovinetta che acquista la coscienza della propria
bellezza non può vincere un vago presentimento di arcani pericoli, e
in mezzo all'orgoglio del sapersi regina chiede talvolta a sè stessa
se il suo scettro non sarà bagnato di lagrime. Nei mille occhi che
l'affisano, nelle mille labbra che si muovono a susurrarle una parola
gentile, ella indovina un'insidia al suo pudore, alla pace dell'animo
suo; insidia che tanto più la sgomenta, quanto più le versa nel
cuore un'incognita voluttà. L'uomo invece, a torto o a ragione, non è
assalito da questi scrupoli: l'avvenenza è per lui un dono che non ha
mistura d'amarezza; un sorriso non gli fa salire i rossori sul volto;
uno sguardo non gli fa chinare la fronte. Nel suo aspetto raggiante è
la gioia del dominio o la certezza della conquista; sulla sua bocca sta
il grido di Schiller: — _Ich bin ein Mann, wer ist es mehr?_ Io sono un
_uomo_, chi tal è più di me? —

Ecco ciò che Ugo, contemplandosi nello specchio, andava in quel mattino
ripetendo a sè medesimo.

Mise il capo fuori della finestra, aspirò a larghi sorsi l'aria
frizzante della campagna, e cominciò a solfeggiare la deliziosa romanza
dell'_Anna Bolena_:

    Oh! non voler costringere
    A finta gioia il viso,
    Son belle le tue lagrime
    Siccome il tuo sorriso,

con quel che segue. Proprio sotto la sua finestra un'imposta si aprì, e
un bel visino arrovesciato apparve sul davanzale. Era Giulietta.

— Bravissimo! — sclamò la giovane con quella sua vocina melodiosa ed
insinuante.

— Oh diamine! già vestita, — rispose Ugo balzando subitamente, senza
saperne il perchè.

— Ma certo; e già nel mio santuario, — soggiunse Giulietta, accennando
al suo gabinetto da lavoro e da studio. — Quegli che non è pronto è
Alberto, il quale, per miracolo, vuol terminare una scrittura prima di
partire. Anzi dovreste fare una bella cosa, andare a sollecitarlo voi
stesso; già a me non mi abbada. — Guardò l'orologio e disse: — Sono
le sette e mezzo. Mi pare che bisognerebbe mettersi in carrozza fra
un'ora. Andate, andate. — Fece un cenno garbato col capo, sorrise in
modo da mostrare, certo senza volerlo, una doppia fila di denti candidi
come l'avorio, e sparì.

Vi sono cose curiosissime a questo mondo. Ugo aveva visto Giulietta
un centinaio di volte, e la gli era sembrata, come a tutti, un'assai
avvenente donnina: ma, bella come in quel momento, egli non l'aveva
trovata mai. Del resto, bella o brutta, egli non ci aveva che fare. Si
guardò un momento nello specchio, e scorse un leggiero rossore diffuso
sulle sue guance; onde divenne ancora più rubicondo, perchè arrossì
di avere arrossito. Nondimeno, obbediente al comando ricevuto, fece in
quattro salti le scale, e andò nello studio dell'amico.

Alberto era difeso da un intero sistema di fortificazioni. Aveva
dinanzi a sè un tavolino, su cui i libri stavano ammonticchiati
l'uno sull'altro sino ad altezze portentose; ai lati due scaffali
pieni anch'essi di libri e di scartafacci. La poderosa persona era
sprofondata in una scranna a bracciuoli assai bassa e larga, foderata
di pelle nera, e tre o quattro sedie appoggiate al tavolino con le
due gambe anteriori all'aria come persone svenute costituivano le
opere avanzate della fortezza. Alquanto miope, egli teneva la testa
china in modo da toccar quasi col naso la carta; con le dita sudicie
d'inchiostro si carezzava i capelli che parevano acquistare a poco a
poco dimensioni spropositate come il can barbone di Fausto.

Ugo non potè trattenersi dal ridere, quando entrò nella stanza. Ma
Alberto non si scompose punto, e rivolto all'amico: — Vuoi udire —
gli disse — questo brano d'una Memoria sulla legislazione mineraria
che debbo mandare stasera all'_Antologia_ di Firenze? Io muovo dalla
considerazione che il possessore del soprassuolo....

— Senti, — interruppe Ugo, — la tua considerazione sarà giustissima;
ma mi pare che non sarebbe mal fatto di rimandare la legislazione
mineraria ad un altro giorno, e di disporsi alla partenza. Si fa, o non
si fa questa gita?... Ebbene: che cosa c'è?

— Nulla, nulla, — rispose Alberto, sollevando alquanto il capo e
ravviando la chioma disordinata; — penso alla grande mutazione che si è
fatta in te da qualche tempo a questa parte. Tu non ti appassioni più
per niente, e basta discorrerti di una questione seria, perchè tu mi
scappi di mano come un'anguilla. O dove sono i bei giorni, nei quali
si passavano insieme lunghe ore a ragionare de' nostri studî? Allora
si trovava pur la maniera di vincere il tuo scetticismo. Lasciatelo
dire.... tu ti sciupi, l'aria della città ti fa male, la vita elegante
ti ammazza l'intelligenza, gli amici scipiti ti riducono al loro
livello.... —

Così dicendo tuffò la penna d'oca nel calamaio, e poi la portò con
tanto impeto sulla carta che ne cadde una grossa goccia d'inchiostro,
la quale imbrattò tutto il foglio. Con la rapidità del lampo, Alberto
vi corse sopra con la lingua, lo che finì col dare a quella macchia
l'aspetto di una stella cometa.

— Grazie pe' miei amici, che sono, o erano almeno, anche i tuoi, —
disse Ugo con un grande inchino. — E a proposito di che mi fai questa
patetica perorazione? Io capito qui a ricordarti un impegno che hai
preso iersera con me e con Giulietta.... capito anzi per ordine di
lei... —

Alberto fece una piccola smorfia col labbro, tantochè l'altro
soggiunse: — Non ti darà noia, spero, a sentir parlar di tua moglie?

— Hai ragione, hai ragione: il torto l'ho io che mi sono ammogliato....
E non mica per lei — continuò poscia in un tuono di onesto candore....
— non mica per lei che è un angiolo, ma per me che non ero fatto
pel matrimonio. Ho bisogno di studiare, ho bisogno di farmi una
riputazione.... altro che di andare a spasso con donne. —

La signora Anna si morse le labbra, e proruppe: — Proprio così diceva?

— Proprio così? Vi fa maraviglia forse?

— Punto, punto: continuate. —

Il signor Maurizio non se lo fece ripetere un'altra volta, e riprese: —
Ma Ugo era invece un uomo estremamente compìto, e lascio pensare a voi
se rimproverò il suo amico di queste sue parole. Fatto si è che, a capo
di cinque minuti, Alberto, che s'era ritto in piedi ed era uscito fuori
delle sue fortificazioni, pose una mano sul braccio di Ugo (che la
sbirciò con inquietudine per vedere s'ella fosse sporca d'inchiostro)
e concluse così il suo discorso: — Fammi questo piacere; sinchè io
termini di scrivere, e in meno d'un'ora spero d'essere sbrigato, va
a tener compagnia alla Giulietta, e pregala che mi scusi, e dille che
dopo verrò con voi altri, e staremo tutta la giornata di buon umore. E
non si parlerà più di cose serie.... —

Le ultime parole furono proferite spingendo leggiermente Ugo verso
l'uscio, tantochè questi capì l'antifona, e se la svignò.

Egli si avviò per un corridoio che conduceva ad un salottino, dal
salottino passò in un'altra stanza, ascese pochi gradini, e si
trovò dinanzi a un gabinetto che aveva l'uscio aperto. Era quello il
soggiorno preferito da Giulietta. Ella sedeva con un libro in mano
volgendo il dorso alla porta in modo da non poter vedere chi entrava.
Però, al suono dei passi d'Ugo, girò rapidamente la testa, e si fece
rossa, e disse: — Oh! siete qui?

— Appunto; e non dovevo rendervi conto della mia ambasciata?

— È vero: e dunque?

— Vuol finire un lavoro, ma promette che in un'ora sarà sbrigato. —

Giulietta scrollò leggiermente le spalle in atto di impazienza,
mormorando: — Sempre così. —

Vi fu un momento di silenzio, durante il quale Ugo fisò uno sguardo
abbastanza lungo sulla simpatica donnina. «Vergini e spose, griderei
io, se per avventura fossi un predicatore, diffidate degli sguardi
lunghi. Gli occhi che cominciano a guardare con curiosità finiscono
a guardare con desiderio; e allora....» Ma qui non siamo in chiesa, e
posso risparmiarvi il sermone. Vi dirò piuttosto che la mia Giulietta,
sempre cara e leggiadra, era quel giorno più seducente che mai. Ella
indossava un abito di mussolina _lilla_, col corpetto tagliato sul
davanti dell'incollatura e guernito intorno intorno di una trina
sottile e candidissima, la quale armonizzava col roseo della fresca
carnagione. Una lista di raso violetto oscuro, movendo dal punto in cui
si chiudeva il corpetto, scendeva sino alla cintura, snella, attillata
e stretta da un nastro della medesima stoffa e del medesimo colore:
indi bipartivasi, e così divisa in due si prolungava sul dinanzi fino
alla base del vestito. Le maniche erano, secondo la moda d'allora,
rigonfie nel mezzo e strettissime ai polsi. Ella era calzata....

— Per carità, Maurizio, si direbbe che aveste copiato un figurino, —
interruppe la signora Anna.

— Se non volete saperne della calzatura, mi permetterete almeno di
parlarvi dei capelli, neri, lucidi e fini ch'era una maraviglia
a vederli. Essi non erano imprigionati in una di quelle bizzarre
acconciature che si usavano allora, ma si sollevavano a buffi sulla
fronte, per ricader poscia dietro la nuca in apparente disordine
e avvolgersi intorno ad un bel pettine di tartaruga, così piccino
ch'io non so — diceva il mio amico — come esso potesse essere argine
sufficiente a quel mare in tempesta. Un bocciuolo di rosa ch'era tra i
primi della stagione, colto forse il mattino stesso da una pianticella
precoce, faceva capolino al lato sinistro poco sopra l'orecchio,
staccandosi con leggiadro contrasto dalla tinta delle chiome d'ebano.
In verità, avere una sposa così e preferirle la legislazione mineraria,
come faceva il nostro amico, è un peccato imperdonabile, pel quale non
v'è al mondo sufficiente penitenza.

— Ebbene, prendete una sedia — disse Giulietta — e fatemi un po' di
conversazione. Se no, io finisco col perder l'uso della parola.... Non
siete mica dotto voi? — soggiunse poscia con una specie di sgomento
infantile.

— Non sono davvero, — rispose Ugo sorridendo. — Ma, perdonate, non istà
a voi di mostrarvi tanto sospettosa della dottrina, cinta come siete da
biblioteche e, quel che più vale, con un libro in mano.... —

In fatti ella aveva sulle ginocchia un volumetto socchiuso sull'indice,
nell'atto di chi interruppe solo momentaneamente una sua lettura.

— Ah! questo libro — ripigliò la giovane — è un libro anche per voi che
siete poeta. —

E glielo porse aprendolo appunto alla pagina, su cui teneva il dito.

Ugo lesse:

    _O mes lettres d'amour, de vertu, de jeunesse,..._

— _Les feuilles d'automne_; una primizia, — disse poi continuando a
leggere.

— Una primizia affatto. L'ebbi ieri dal libraio. Io non me ne intendo,
ma mi pare tra le più belle cose di Vittore Hugo. Ma quel mio benedetto
Alberto non ci ha gusto per questa roba: ha sfogliato il libro in
fretta e in furia, e poi lo gettò in un canto senza che si capisse se
gli sia piaciuto sì o no.

— Ha torto.

— Non è vero? — proruppe vivamente Giulietta — ha grandissimo torto,
perchè la poesia, quando è bella, è qualche cosa che tocca l'animo e ci
fa più grandi e più buoni. Vedete; io non so stancarmi di leggere quei
versi che vi stanno sotto gli occhi, e (mi direte fanciulla) ho frugato
nei miei cassetti, ho riveduto i miei vecchi quaderni, e provai quello
che prova il poeta....

— Sì, ma egli richiama i suoi diciott'anni, e voi, se è lecito
investigare l'età di una donna, gli avete appena sentiti suonare....

— Forse, — rispose Giulietta; — ma in noi la vita è più precoce, e i
nostri quattordici anni corrispondono ai vostri diciotto. O le soavi
fantasie, o i cari sogni de' miei quattordici anni! Lungo i corridoi
del convento, nel giardino, sotto il pergolato, a braccetto d'un'amica
o in frotte di cinque o sei seguite a stento dal passo grave e ammonite
invano dalla voce nasale d'una monaca gialla e stecchita; che schietta
allegria, che ridda irrequieta di speranze, di desiderî, d'affetti!
Come si deludeva la disciplina claustrale, come si subiva senza rancore
e senza tedio quella sequela interminabile di pratiche religiose
che ci erano imposte! La campana del convento veniva ad ogni tratto
a interrompere il corso dei nostri pensieri, ma non ne lacerava la
tela. Le fantasie accarezzate dall'anima sotto i rami frondosi delle
acacie e dei carpini, mentre il vento mormorava, e gli uccellini,
cantando, saltavano d'arbusto in arbusto, ci seguivano poscia pei
bruni corridoi e sui rustici banchi della chiesa. Nella mezza oscurità
delle ampie navate, nel raggio di luce che, scendendo dal finestrone a
colori, andava a spezzarsi sul fusto d'una colonna o sugli angoli d'un
confessionale, c'era un mondo misterioso ed affascinante che riempiva
di sè il nostro spirito, che ci faceva sorridere e piangere quasi tutto
ad un tempo. Le labbra mormoravano intanto la solita salmodìa, ma la
mente era altrove; il prete cantava Messa, ma noi stavamo più compunte
di viso che d'anima. E si sospirava alla cara libertà, e al calar della
sera, guardando il muro che ci contendeva tanta parte dell'orizzonte,
si gridava tra noi fanciulle: — O non cadrà mai quel maledetto muro,
o non potremo mai andare dove ci piace e adoperare a pro di qualche
cosa e di _qualcheduno_ tutto quello che sentiamo qui dentro? — E chi
avrebbe voluto esser Giovanna d'Arco, e chi Santa Teresa, e chi Laura o
Beatrice, perchè, di contrabbando, erano entrati in convento Dante e il
Petrarca, e, Dio cel perdoni, anche l'Ariosto.... —

Giulietta s'interruppe un'istante, arrossì leggiermente e poi ripigliò:
— E si diceva: la bella cosa che dev'essere l'avere un poeta che
sia tutto per voi, e vi scriva versi che passeranno all'immortalità;
onde dopo tanti secoli il vostro nome confuso col nome di lui ricorra
frequente su mille labbra gentili e faccia piangere de' cari occhi
malinconici! E come dev'esser bello il morire per esso, lo spirare
l'ultimo fiato fra le sue braccia!... oh insomma quante deliziose
sciocchezze si dicevano in quel tempo!... —

La giovane, discorrendo, si era accesa singolarmente nel volto, e
l'ondeggiare delle bianche trine sul petto mostrava quant'ella fosse
agitata.

Ugo non sapeva che rispondere, perplesso dinanzi a questa volubile
facilità di parola, ma guardava trasognato la sua interlocutrice che
gli appariva sotto una luce affatto nuova.

— E in quell'età — proseguì ella, abbassando la tendina per ripararsi
dal sole che cominciava ad entrar nella stanza — in quell'età la penna
corre spontanea sulla carta per riprodurvi le idee che vi germinano
nella mente, spesso puerili, ma più spesso generose; maligne mai,
poichè a me pare che il tempo della malignità principii quando si
principia a dubitare di sè. Credere in sè medesimi vuol dire credere
anche negli altri.... — Tacque un momento, giocherellò col fiocco della
tendina, quindi bisbigliò a mezza voce... — E poi? —

Ugo, sempre più attonito, notò timidamente: — O sareste divenuta
scettica così presto? —

Ella scosse il capo con una certa espressione di tedio, e disse: — Che
so io?... vorrei vedere l'effetto che produrrebbe ad uno il diventar
più piccolo della persona, se mai questo fenomeno fosse possibile. Io
tengo per fermo che sarebbe un effetto analogo a quello che si prova
nel sentirsi diminuir l'animo e l'ingegno. Ciò accade a me. Sì, sì; non
istudiate una galanteria; ciò accade a me con una progressione che mi
sgomenta. La mia immaginazione s'è fatta sterile, il mio cuore alberga
rancori, sospetti che un giorno non avrebbero potuto allignarvi.

— O Giulietta, — proruppe Ugo, — voi sposina di pochi mesi, voi che
avete ottenuto ciò che dev'esser l'ideale di una fanciulla par vostra,
unendo la vostra sorte alla sorte d'un uomo degno di voi, avete già di
questi scoramenti nell'anima? —

Ella sorrise tristamente, dicendo: — Ma sono scorata appunto perciò,
appunto perchè, avendo conseguìto ciò che dovrebbe essere la felicità,
mi sento oppressa da una malinconìa nuova e invincibile. Ho unito la
mia sorte a quella d'un uomo che avrebbe onorato del suo nome ben altra
donna che me. Eppure, che sono io nella sua vita? Ho io saputo prendere
il posto della più piccola fra le sue ambizioni?... O miei poveri
sogni, come siete svaniti! — E accompagnò la frase con quel gesto della
mano e quel movimento delle labbra, con cui suolsi accennare a una cosa
che sfuma.

Io vorrei pigliare a quattr'occhi il più virtuoso uomo che vi sia sulla
terra, intendiamoci bene, un uomo che abbia vissuto, e che in omaggio a
una virtù ideale non abbia soffocato tutte le proprie passioni; vorrei
avere sovr'esso una potestà che lo inducesse a nulla celarmi, e vorrei
chiedergli quale effetto egli provasse sentendo una donna attraente
e leggiadra lagnarsi, in un istante di soave abbandono, della sua
esistenza coniugale. Scommetto cento contr'uno ch'egli mi risponderebbe
che nella sua prima impressione vi fu un lampo di gioia satanica. Egli
l'avrà prontamente repressa, io l'ammetto, e qui sta la differenza tra
l'uomo onesto e chi non è tale; ma non avrà potuto far sì che quelle
rivelazioni non lusingassero il suo amor proprio, non gli aprissero
l'anima a una speranza colpevole. Questa donna che vi mette a parte
delle sue sofferenze ha dunque un alto concetto di voi, questa donna
che vi parla del vuoto del suo cuore crede dunque che voi potreste
riempirlo!... Mia cara amica, Ugo era virtuoso, ma uomo.... Ed ora
permettetemi di prendere un'altra tazza di tè. —

La signora Anna si era fatta pensosa: appoggiando il gomito al tavolino
sosteneva con una mano il capo, e con l'altra moveva macchinalmente le
forbici che le stavano dinanzi.

— E non potreste venire a dirittura alla morale della vostra
storia? —

— Oibò, oibò, — rispose il signor Maurizio, aprendo la chiavetta della
macchina e chinandosi alquanto a guardar con occhio di compiacenza lo
spillo dorato che si precipitava nella tazza. — Protesto contro chi mi
volesse togliere la parola. — E continuò: — Ugo era virtuoso, ma uomo,
ho detto poco fa. E quello stato cominciava a riuscirgli piuttosto
imbarazzante. Inoltre a una certa età vi è una paura che assedia
l'uomo: è la paura d'essere ridicolo. Ora, prendetevela col mondo
finchè volete, ma non vi è dato negarmi che un giovanotto, il quale si
lascia sfuggire il destro d'insinuarsi nell'animo d'una bella donna,
passa per ridicolo in faccia alla maggior parte de' proprî simili.

— Povera Giulietta! — egli mormorò dolcemente avvicinandosele alquanto.

Ella lo guardò, e poi gli chiese: — Non sarete mica così se prenderete
moglie, voi?

— Se trovassi una Giulietta, no certo. —

La giovane si fece rossa rossa e vi fu un istante di silenzio. Indi
balzò subitamente dalla sedia e disse:

— Scendiamo in giardino. Sentite come fa fresco. —

Ugo la precesse officioso nell'andito, aprendo per lei l'uscio a
vetri che dava sulla scaletta. Scesero entrambi. Ai due pilastri
dell'ultimo gradino erano due vasi di geranî. Giulietta si abbassò con
la persona ad odorarne i fiori cosparsi di rugiada: i capelli bruni le
svolazzavano sul collo candidissimo, le trine ondeggianti lasciavano
indovinare allo sguardo le curve delicate del seno. Una panchina
di marmo si trovava all'altro capo del giardino sotto un padiglione
d'acacie. Giulietta prese la via più breve per giungervi, attraverso un
praticello smaltato di margherite: l'erba era umida, ond'ella raccolse
le vesti, e le tenne sollevate alquanto sopra il piede. Si assise
sulla panchina e Ugo le fu vicino. Di repente cominciò a soffiare un
vento gagliardo, e grandi masse di nubi si videro avanzarsi rapidissime
sull'orizzonte. Il sole brillava per un istante in uno squarcio azzurro
del firmamento, poi tornava a nascondersi, poi faceva capolino di
nuovo, sinchè scomparve del tutto. Gli alberi dondolavano il capo
con un gemito sordo, la polvere saliva con un moto turbinoso, le
gallinelle sbucando dai cespugli correvano sbigottite a ripararsi nel
pollaio. Ugo e Giulietta si affrettarono a tornare in casa: stettero
in forse se dovessero prendere un'altra scaletta che metteva allo
studio di Alberto, ma questi comparve sulla soglia per assicurare le
imposte sbattute e fe' loro segno che lo lasciassero ancora un poco
tranquillo. Onde ritornarono dond'erano venuti, con una mano tenendosi
uniti, con l'altra facendosi scudo agli occhi contro la polvere.
Quand'ebbero salito i pochi gradini che conducevano al gabinettino di
Giulietta, si volsero indietro un istante come per guardare l'insieme
dello spettacolo.... Io non so se tutti lo provino, ma mi sembra che
il trovarsi all'aperto allo scoppiare d'un uragano abbia un fascino
indescrivibile.... Si direbbe che la vita fisica si raddoppi. Spirar
quell'aria frizzante e piena d'elettricità che v'investe la persona
e gli abiti, veder tutte le cose mutar tinte e contorni secondo
l'oscurarsi o schiarirsi del cielo, e il rabbonirsi o l'imperversare
del vento, essere, insomma, in mezzo a tutta quella commozione della
natura, vi fa provare, non so perchè, un senso d'orgoglio. È un
orgoglio irragionevole, lo capisco, perchè in fin dei conti non si
compie già un atto di coraggio, ma non sarà la sola cosa, di cui non si
possa rendersi ragione a questo mondo.

I due giovani non poterono rimanere a quel modo che pochi secondi.
La temperatura s'era fatta più rigida, il cielo più buio, la pioggia
sembrava imminente, e anzi aveva principiato a caderne qualche grossa
goccia isolata. Si ritirarono di nuovo nello stanzino di Giulietta, e
si posero un istante al davanzale della finestra, rapiti in apparenza
dalla scena che avevano dinanzi agli occhi, ma in fatto assorti in ben
altri pensieri. Pure nemmen lì poterono trattenersi, quantunque negli
ultimi lembi dell'orizzonte ricomparisse il sereno, e la pioggia avesse
cessato; tanta era ancora la furia del vento.

— Che tempo indemoniato! — disse Giulietta con un accento di vaga
inquietudine. E si ritrasse alquanto.

— È vero, — rispose Ugo seguendola. La finestra si chiuse con impeto
e poco mancò che le impannate non andassero in frantumi. La rosa che
Giulietta aveva intrecciata ai suoi capelli cadde a terra col gambo
spezzato. Si chinò a raccoglierla, ma Ugo era stato più pronto di lei e
l'aveva ghermita, dicendo: — Lasciatela a me.... — Intanto l'uscio, che
fino a quel punto aveva serbato un'assoluta neutralità, si serrò per
propria iniziativa con grande furia e fracasso.

Giulietta si scosse impaurita, tanto che il suo compagno credè bene di
sorreggerla.

Ella si svincolò, e disse con voce rotta e velata: — O Dio, si soffoca.
— Fece alcuni passi verso la porta smarrita, confusa; poi si arrestò ad
un tratto e ruppe in un pianto dirotto.

— Giulietta, Giulietta, che avete mai? — sclamò Ugo, correndo a
sostenerla.

Fece un debole tentativo per allontanarlo da sè, ma quindi ristette
come persona sfiduciata delle proprie forze e si lasciò condurre sul
divano.

— Giulietta, Giulietta, perchè piangete? — continuava a chiedere Ugo,
piegandosi su di lei e sfiorandole con la bocca i capelli.

Ella sollevò alquanto il viso, egli si abbassò un poco di più: le
loro mani s'erano intrecciate, le loro labbra stavano per toccarsi;
quand'ecco.... il più virtuoso e impertinente raggio di sole che si sia
mai cacciato nei fatti altrui, inondò d'un tratto la stanza.

Una bomba che scoppia in mezzo a un gruppo di soldati non produce un
effetto più subitaneo. Quasi nello stesso punto Giulietta ritrasse
il viso vergognosa, sgomenta, supplichevole, e Ugo rizzandosi con
la persona lasciò andare la mano di lei ch'egli teneva nella sua
mano. Molti e molti anni dopo egli mi confidava i pensieri che gli
erano passati nell'anima in quell'istante solenne. Vi sono di questi
momenti che decidono dell'avvenire, e nei quali le impressioni più
disparate si succedono, si accumulano, si combattono nella mente con
la rapidità della folgore, lasciandovi un solco che il tempo non potrà
scancellare. E benchè la vecchiezza inesorabile lo abbia raggiunto,
infiacchendogli le membra, imbiancandogli la chioma, Ugo rivive ancora
a quei sentimenti, a quelle impressioni. Egli la vede ancora, la donna
bellissima, com'ella era in quel giorno, spaventata, indifesa contro
le seduzioni ch'ella infantilmente aveva evocate, la vede ancora con
la chioma disordinata, con gli occhi pieni di lagrime, di voluttà, di
terrore, con le labbra scolorite, tremanti, che parevano dire: — Se tu
non hai pietà di me, io non ho più forza per resistere. — Ugo rammenta
ancora la lotta breve, ma terribile ch'egli dovette durare, quando a
fronte della sperata ebbrezza dei sensi egli pensò all'ignominia, di
cui stava per macchiarsi, sorprendendo la virtù di una soave ed ingenua
creatura; al disprezzo eterno ch'egli avrebbe provato di sè medesimo
se avesse tradito l'ospitalità di un amico d'infanzia, al lutto che
sarebbe piombato per colpa sua in quella casa. Due voci gli parlavano
al cuore: l'una gli diceva — _osa_, — l'altra lo ammoniva — _fuggi_.
— Beato lui che ascoltò la voce più onesta, beato lui che, composto
il volto a una dignità dolce a un tempo e severa, potè fisar con ferma
pupilla la smarrita giovinetta, e prendendole ambe le mani, sclamare:
— _Perdonate!_ — Uscì frettoloso di quella stanza senza più guardar
dietro a sè, e sceso nello studio dell'amico suo subì pazientemente
la lettura della sua Memoria sulla legislazione mineraria, facendo le
viste di approvarla, quantunque avesse ben altro pel capo. Il tempo
minaccioso aveva fatto metter da parte la gita ideata, onde Ugo ed
Alberto s'intrattennero a lungo di vari argomenti. Non oserei dire
che le risposte d'Ugo fossero tutte a proposito, ma l'altro era così
dolcemente maravigliato di poter discorrere de' suoi soggetti favoriti,
che non s'accorgeva nemmeno delle distrazioni del suo interlocutore.
Il fruscìo d'una veste femminile interruppe quel colloquio, e una
vaga e spigliata personcina comparve sulla soglia. Era Giulietta. Ugo
impallidì, ma, quand'ebbe posto gli occhi sulla donna leggiadra, vide
ch'ella non serbava più traccia del passato turbamento, ch'ella era
tornata la semplice e leale Giulietta del tempo addietro. E si propose
di non esser da meno di lei. Ella si fece strada in mezzo a quella
grande confusione di seggiole, e venne direttamente verso suo marito
che, infatuato nella discussione com'era, avrebbe avuto una voglia
matta di corrucciarsi, ma fu disarmato dalla bellezza di lei e da un
certo che di malinconico che v'era nel suo sorriso.

Giulietta pose una mano sulla spalliera della seggiola, e guardando
gli scartafacci pieni di scancellature che stavano in disordine sul
tavolino, chiese: — Si potrebbe sapere che cosa hai scritto di bello
questa mattina? —

Egli si girò con mezza la persona, e fissando sua moglie con faccia
sorridente, le porse l'ultimo foglio che aveva vergato, e le disse: —
Guarda.

— Oh, Dio buono! — sclamò Giulietta — chi vuoi che possa capir nulla in
mezzo a tutti questi sgorbî?

— E bisogna pur che capiscano, — rispose Alberto, — perchè questo
manoscritto, come tu lo vedi, deve andare a Firenze.

— Impossibile, impossibile; ce ne va di mezzo il tuo decoro.

— Carina mia, convien fare di necessità virtù. Sai pure che non ho
segretario. —

Giulietta si chinò verso suo marito, e bisbigliò a mezza voce: — E se
mi provassi io medesima a copiare questi tuoi geroglifici? Tu lodavi
tanto la mia calligrafia. —

Alberto la guardò trasognato. — È la prima volta che tu mi fai una di
queste offerte.

— Perchè è la prima volta che tu mi fai una di queste confidenze.

— Ma parli proprio sul serio?

— Serissimamente. —

Alberto, egoista come tutti gli uomini affaccendati, non se lo fece
dire due volte, ma dando anzi una più larga interpretazione alle parole
di lei, soggiunse vivamente: — Sei la più cara e gentile sposina del
mondo. Dunque sarai proprio il mio segretario?

— Veramente non avevo detto questo, — osservò ella con grazia; — ma,
insomma, non voglio dire di no.

— Ah! mio caro Ugo, — proruppe Alberto fuori di sè per la contentezza,
— quando tu capiti in casa mia, ogni cosa mi va a seconda. —

Ugo scrollò le spalle un po' infastidito di questo complimento, e
la Giulietta si fece di porpora. Ma Alberto, da buon marito, non
vi pose mente, e fu per tutto il giorno d'una festività insolita ed
esemplare, manifestata in ispecial modo nella disinvoltura, con cui
lasciò mettere in canzone da Ugo i suoi difettucci d'erudito. E in Ugo,
si vedeva a mille miglia, l'allegria non era mica di schietta lega.
Mordace per indole, egli condiva in quella occasione i suoi frizzi
con qualche granellino di dispetto. Bisogna scusarlo. Certo egli si
era levato con onore da una grande difficoltà, certo egli doveva, per
esser imparziale seco medesimo, confortarsi nel plauso della propria
coscienza; ma via, siamo sinceri, alla sua età le non son già quelle le
vittorie che si accolgono con entusiasmo. A quella guisa che le città
non fanno luminare per ricevere un esercito, il quale si sia ritirato
spontaneamente da un assedio ingiusto, i giovanotti di venticinque a
ventisei anni non menano troppo scalpore d'un'avventura lasciata andare
per riguardi di moralità. Malissimo, direte voi, e avrete ragione; ma
il mondo è così e non si cambia.

Si accomiatò da Giulietta con una cordialità senza affettazione e
con un riserbo senza imbarazzo. Aggiunger parole sarebbe stata una
goffaggine, e nè dall'una parte nè dall'altra si fece allusione
all'accaduto.

Però Ugo lasciò scorrere parecchi mesi prima di rivedere i suoi
amici, per quanto Alberto lo sollecitasse con lettere frequenti,
e si maravigliasse del suo strano contegno. Finalmente, non senza
peritanza, cedette all'invito. Alberto era sempre lo stesso; espansivo,
affettuoso, ma in pari tempo pieno di sè e de' suoi studi e della sua
crescente riputazione, e beato di poter lasciare sdrucciolare fuori
delle tasche del soprabito o dei calzoni le lettere degli uomini
illustri che mantenevano seco una corrispondenza epistolare. Giulietta
invece appariva grandemente mutata. Forse ella era meno florida e men
bella di prima, ma una calma più soave le si diffondeva sul volto;
forse il suo sguardo era meno affascinante, ma più fermo e più sicuro.
Si capiva ch'essa non ondeggiava più fra cento immagini vaporose e
sfumate, ma mirava invece a una mèta, a uno scopo.

Stava assai di rado nel suo antico salottino e invece soleva
trattenersi lunghe ore nello studio di Alberto che oramai aveva bisogno
di lei. E quello studio aveva cangiato interamente aspetto. Non v'era
più lo spaventevole disordine del tempo addietro, nè le sedie con le
gambe all'aria, nè i libri sparsi in confusione sul tavolino come le
rovine d'una città devastata, nè la parete tutta piena di macchie
d'inchiostro. Un occhio attento, una mano discreta avevano saputo
riparare a questi guai, e rimettere i libri nei loro scaffali, e ridar
pace e simmetria alle sedie, e regolare i bruschi movimenti della penna
di Alberto, che quando si trovava fra le sue dita aveva un fremito
nervoso e mandava spruzzi d'inchiostro da tutte le parti. Insomma in
quella stanza si sentiva il soffio vivificatore della donna.

E la donna c'era; raccolta, composta, per lo più taciturna, quantunque
serena; ella era lì aiutando suo marito senza ostentazione e senza
pedanteria, e assegnando a sè una parte femminile e modesta: quella
del buon angelo della casa. Il suo ingegno naturalmente perspicacissimo
s'era nudrito di nuove cognizioni vivendo in quell'atmosfera di studî;
ma ella non lo lasciava parere, e nulla aveva perduto della semplicità
d'una volta.

Allorchè il mio amico fu per prender congedo, Alberto gli strinse la
mano, e gli disse:-Fra sette mesi ci sarà una persona di più in casa
nostra. Ricordati che tu devi esser padrino al neonato.-

Ugo esitò un istante, ma quando s'incontrò nello sguardo tranquillo
e sicuro di Giulietta capì che il passato era svanito per sempre, che
_quel cattivo quarto d'ora_ non sarebbe mai ritornato. Se la sua vanità
ne fu punta, la sua coscienza ne rimase più tranquilla, e rispose di
sì.... Ah! cara Anna, ma se non ci fosse stato quel raggio di sole?...
Oh! nel corso della sua vita ormai lunga e volgente al suo termine, se
sapeste quante volte l'amico mio si è fatta questa domanda; se sapeste
quante volte egli ha benedetto quel raggio di sole che salvò lui dalla
colpa e una cara persona dall'onta, che gli permise di guardare l'amico
suo senza vergogna e di stringergli la mano senza rimorso! —

La signora Anna, ch'era stata silenziosa ed immobile per alcun tempo,
si scosse, e disse con una certa commozione: — Ma al vostro amico non
è mai venuto in capo che la virtù di quella donna potesse resistere
anche senza l'aiuto d'un raggio di sole? Egli la stima sì poco da voler
ascrivere a un caso fortuito s'ella non macchiò il suo onore, s'ella
non tradì la sua fede?

— Cara Anna, — rispose il signor Maurizio, — voi avete nella vostra
piccola biblioteca un romanzo ch'è tra i più belli che si pubblicassero
in questi ultimi anni. _Monsieur de Camors_. Rileggetevi l'episodio
della signora Lescande, buona, vereconda, tenerissima di suo marito,
eppur così miseramente caduta. Non sempre la purezza dell'animo e la
severità dei principî bastano a salvare la donna, che è tanto meno
preparata alla difesa, quanto più è inconsapevole del male. La donna
sregolata cerca la colpa, ma s'avvede quand'ella viene; la donna
onesta la fugge, ma non riconoscendo nè gli aspetti ch'ella riveste,
nè le sorprese ch'ella prepara, la incontra talvolta per via, allorchè
stima d'esserne le mille miglia lontana. Date per compagna alla virtù
una operosità feconda e contenta di sè, e ne avrete fatto una ròcca
inespugnabile.

— Or via — disse la signora Anna con un garbato movimento del capo, e
prendendo la mano al suo interlocutore — or via, gettiamo la maschera.
Voi avete voluto darmi una lezione rifacendo, un po' a vostro modo, una
storia di quarant'anni addietro. La mia memoria è meno felice della
vostra, e vi confesso che molti degl'incidenti da voi narrati, o mi
sono sfuggiti, o non mi sembrano d'una scrupolosa esattezza. Nondimeno
la lezione io me l'era meritata, e ve ne ringrazio. La Giulietta, di
cui parlate, può aver avuto un momento di debolezza, ma non ebbe e non
avrà mai difficoltà di confessare i propri errori. La Dio mercè, essi
non sono di quelli che hanno bisogno d'esser ravvolti d'un pietoso
mistero. Ella non si rammentava d'essere stata salvata da un raggio di
sole, ma si rammenta bensì che non trovò la pace dell'animo, finchè non
diede uno scopo alla propria esistenza, un sicuro indirizzo ai propri
pensieri. È vero, Maurizio; sotto la vostra buccia di scettico si
nasconde un animo nobile ed elevato, e non è la prima volta ch'io debba
far tesoro dei vostri consigli. È vero, i pericoli che minacciavano
Giulietta quarant'anni fa, minacciano forse oggi Evelina, e non tutti
gli uomini possono aver la lealtà del vostro Ugo....

— Dite piuttosto che non sempre capita un raggio di sole così a
proposito.

— Non ischerziamo: lasciatemi creder piuttosto che i due personaggi
del vostro racconto avevano entrambi abbastanza virtù da arrestarsi
sull'orlo del precipizio....

— Ma di che diamine andate discorrendo da mezz'ora a questa parte?
— uscì a dire il professore Everardo, che aveva chiuso in quel punto
una sapientissima dissertazione sull'_habeas corpus_ inglese, e che
finalmente stava per alzarsi dalla seggiola.

— Oh bella, — rispose sorridendo il signor Maurizio, — si discorreva
d'un milione di cose. E si diceva, oltre al resto, che il marito della
tua nipote ha un grandissimo torto.

— E quale, di grazia? — soggiunse Everardo avvicinandosi.

— Quello di somigliarti,... di ricordarsi di tutto, fuorchè di avere
una moglie.

— Ma io di mia moglie me ne sono ricordato.

— Ah! sì, — soggiunse la signora Anna, — da quando ella si è risoluta a
farti da segretario.

— E perchè Evelina non potrebbe far lo stesso con suo marito?

— Lo farà, lo farà; vedrò io medesima di persuaderla. Me ne ha
consigliato Maurizio.

— Pare impossibile, — osservò il professore; — Maurizio con
quell'affettazione di spensieratezza ha sempre buoni consigli da dare.

— Sicuro, e se fossi stato in tempo di darne uno a te e a tuo nipote,
vi avrei dato quello di non prender moglie.

— E perchè?

— Perchè siete bravissime persone, arche di scienza, membri di più
Accademie, insigniti di più Ordini, ma non siete nati per fare i
mariti. Via, non ti corrucciare, — concluse il signor Maurizio,
levandosi da sedere, e mettendo una mano sulla spalla del professore
Everardo; — gli uomini grandi vedono troppo da lontano, son presbiti, e
invece per esser mariti bisogna veder da vicino, esser miopi.

— L'ho sempre detto anch'io, — osservò con gravità il commendatore
Brullo, aspirando una grossa presa di tabacco.

— C'era da scommettere — borbottò il signor Maurizio — che l'aveva
detta lui anche questa! —

Il dottor Belgini, imperturbabile come Farinata degli Uberti, disse
dopo essersi raschiato in gola: — Del resto, caro professore, io non
sono interamente della vostra opinione sul carattere e le origini
dell'_habeas corpus_.... —

La signora Anna guardò alla sfuggita l'orologio e stimò opportuno
di chiamare a raccolta: — Signor Belgini, del vostro _habeas corpus_
parlerete un altro giorno: intanto, se non vi dispiace, venite tutti a
bevere una tazza di tè. —

Si avvicinarono al tavolino, e con dottrinale posatezza sorbirono la
bibita aromatica preparata dalla padrona di casa.

Nell'uscire, Ugo si fece all'orecchio della signora Anna e con un tuono
semiserio le disse: — Ricordatevi del raggio di sole. —

  _1870._



IL COLPO DI STATO DI CLARINA.

NOVELLA.


Quando Clarina se ne avvide, cominciò coll'esserne maravigliata, poi
gliene dispiacque, e finalmente, a forza di pensarvi, giudicò che la
cosa era naturalissima, che doveva farsi, e doveva farsi anzi col mezzo
suo.

— Se ne avvide? E di che? E che modo di raccontare è questo? —

Il lettore ha ragione. Mi pento, e comincio secondo le regole.

                             . . . . . . .

Il salotto da pranzo non è nè troppo grande, nè troppo piccolo, è
ammobiliato senza lusso, ma con discreta eleganza: un lume a petrolio
in mezzo alla tavola vi spande un sufficiente chiarore.

Regna un silenzio profondo, interrotto soltanto dal crepitar della
fiamma nel camminetto. In una poltrona vicina alla tavola è sdraiato il
signor Emilio, bell'uomo che a vederlo non mostra più di quarant'anni,
sebbene abbia già qualche capello grigio in testa, e qualche piega
un po' risentita sulla fronte. Del resto, ha fisonomia, oltre che
simpatica, intelligente e leale. Tiene in bocca il sigaro, in mano una
gazzetta, ma nè fuma, nè legge.... _il rêve_, come dicono i Francesi, o
_el fila caligo_, come si dice espressivamente in Venezia. Dirimpetto
a lui, e fissandolo ad ogni tratto senza lasciarsi scorgere, è seduta
la Clarina, avvenente ragazza sui diciotto, seppure gli ha, con occhi
pieni a un tempo di vivacità e di dolcezza, labbretti di rosa fatti
apposta per sorridere e per dare e ricever baci, e folli capelli
di color castagno; colore che dai poeti (ad eccezione dell'Aleardi
nell'_Ora della mia giovinezza_) non si vuol celebrare, ma che
incornicia in guisa mirabile un leggiadro visino. È pallida alquanto,
ma non datevi pensiero, io non ho punto intenzione di farvela morir
tisica, e se la fu malata, oggi sta perfettamente. Infine mi onoro di
presentarvi l'Angelica, zittellona che ha compìto ormai i nove lustri,
che tiene il _quid medium_ tra la cameriera e la dama di compagnia,
che ha visto nascere la Clarina e morir la povera mamma di lei, e che è
trattata a buon dritto come un membro della famiglia. Oltre all'affetto
sviscerato pe' suoi padroni, l'Angelica va distinta per tre qualità:
un abborrimento smisurato pel matrimonio, una tenerezza grandissima per
un pingue gatto soriano che porta il nome singolare di Artaserse (nome
impostogli dalla padroncina in un momento di fervore per la storia di
Persia) e un'abitudine inveterata di dormire tutte le sere d'inverno
dalle sette alle otto col sullodato animale sulle ginocchia nella
stanza ove stanno Clarina e suo padre, a cui l'Angelica dice di voler
tenere compagnia. Altro che compagnia! Ella dorme come un serpente
boa dopo che si è ben pasciuto. In questo momento però ella è tuttora
svegliata, quantunque il capo cominci a divenirle grave, e il silenzio,
in lei inusato, accenni all'approssimarsi di Morfeo. Artaserse con
occhi semichiusi le sonnecchia in grembo, e solo di quando in quando
mette fuori la lingua a leccarsi i baffi, umidi ancora di qualche
ghiotto manicaretto. Le corse precipitose e un miagolìo erotico di
altri gatti sul tetto delle case vicine rompono la quiete della stanza.
L'Angelica dà un balzo sulla sedia con notabile incomodo del tranquillo
Artaserse, il quale si sente minacciato nella sua posizione. Nondimeno
la bestia, se oso chiamar così un quadrupede tanto stimato, ritrova
presto il suo centro di gravità, e l'Angelica, cacciandogli la mano
entro il morbido pelo e carezzandogli il muso con quell'espansione
che non volle usare con nessun uomo al mondo, esclama: — Beato te,
Artaserse, che non hai di queste seccature! — Il ben pasciuto animale
non si dà pensiero dell'allusione offensiva, ma torna a socchiudere
gli occhi e a russare. Il signor Emilio sorride fuggevolmente, e la
fanciulla dà una scrollatina di spalle.

Suonano le sette all'orologio dell'andito. È l'ora che l'Angelica e il
suo micio sogliono addormentarsi davvero, è l'ora delle confidenze tra
padre e figliuola.

Ma stasera le labbra di entrambi sono suggellate. _Tic tac, tic tac_;
battono i secondi, passano i minuti, le ultime bragie scoppiettano nel
camminetto, i due dormienti empiono la stanza del loro grave respiro,
ma la Clarina ed il signor Emilio non dicono una parola.

Finalmente Clarina si alza dal suo posto, comincia col dare
un'occhiatina al termometro appeso alla parete vicino alla credenza,
poi fa un rapido cambiamento di fronte, e sfiorando appena il tappeto
co' suoi piedini leggieri, va a sedersi accanto al signor Emilio, gli
mette un braccio intorno al collo, gli leva di bocca il sigaro e di
mano il giornale e bisbiglia: — Babbo. —

Egli alza su lei il viso atteggiato a infinita dolcezza, le ravvia con
la mano i bruni capelli sulla fronte, e dice: — Clarina mia, ti senti
proprio bene stasera?

— Come un pesce. O perchè sono un po' pallida mi crederesti ancora
malata?

— Dunque non c'è proprio più nulla, nulla?

— Ma nulla affatto. Vuoi vedermi ballare?

— Eppure, via, non me lo nascondere, non sei del tuo umore consueto.

— Oh bella! A vederti così serio gli è naturale. Me ne sono accorta,
sai....

— Di che? — interruppe il signor Emilio, arrossendo subitamente.

— Del tuo cangiamento d'umore, — rispose Clarina, facendosi rossa
anch'ella.

— Ah!... — sclamò egli, come se fosse sollevato d'un peso. — T'inganni,
Clarina.

— No, babbo, è così.... Oh! ma io non sono indiscreta; so che non ami
di essere interrogato su questo proposito, e mi taccio.... È un tuo
difetto, ma ci vuol pazienza. Del resto, è vero, non son ilare nemmeno
Io.... Penso....

— A che cosa?...

— Non saprei spiegarlo, è una folla di pensieri che mi si accumulano in
mente.... Ma, prima di tutto, penso ad _una_ che non ho conosciuta....

— A tua madre, povera Clarina?

— Si, babbo, e quando rifletto che sei rimasto così solo....

— Solo, bimba mia? Non ci fosti sempre tu?

— Oh! l'è un'altra cosa, — mormorò la fanciulla, chinando gli occhi a
terra, e mettendosi un dito sul labbro. — Chi sa ch'io non sia invece
un inciampo?...

— Clarina, — proruppe con accento severo il signor Emilio, — t'ho io
mai dato il diritto di parlarmi così? Vaneggi forse stasera?

— Babbo, babbo, non prendere in mala parte le mie parole; — disse
supplichevole la vezzosa giovinetta, chiudendogli la bocca con un bel
bacio. — Credimi, ho tanti peccati verso di te.... Voglio dire.... ma
mi lasci proprio cominciar da principio?

— Su, parla, la singolare fanciulla che sei.

— Son quindic'anni e più, non è vero? da _quella sera_. La povera mamma
così bella e buona e giovane domandava di me. — _La Clarina dorme_,
— le dissero. Ella sorrise con mestizia, susurrò a fior di labbra: —
_Or ora dormirò anch'io_; — si volse dolcemente sul fianco, portò la
mano sotto il capo, e si _addormentò_.... per sempre.... Nella stanza
contigua, pargoletta di due anni e mezzo, dormivo io pure, ma d'un
sonno diverso.... Ero io pure piegata da un lato, avevo io pure la mano
sotto la testa, precisamente come _lei_.... Me lo disse tante volte
l'Angelica.... Tu, poichè tentasti invano di rianimar co' baci quella
tua cara, ti trascinasti fino alla mia cameretta, e là, abbandonata
la persona sopra una sedia vicino al mio letticciuolo, posasti il
capo stanco sulla mia coltrice, cercando nelle linee del mio viso le
sembianze della povera estinta, e sentendo nel mio respiro un alito
della sua vita. L'Angelica, occupata in più tristi cure, non venne mai
nella stanza, tanto solitaria, tanto fievolmente rischiarata, quanto la
stanza vicina era piena di moto e di luce sinistra. L'alba, penetrando
attraverso le persiane, trovò me dormente e te vigile accanto, e
quand'io mi svegliai, fu per te il mio primo sorriso che, subito dopo,
per quel che mi assicurano, si mutò in pianto dirotto. Vedendo poscia
altri bimbi in condizioni simili, mi parve capire che in quell'età la
sventura non s'intende, ma s'indovina.... non si sa perchè si pianga,
ma si sente bisogno di piangere.... Tutti questi particolari io li ebbi
in parte da te, in parte dall'Angelica; se non son veri, dimmelo....

— Sono verissimi; ma non so perchè tu mi faccia questo discorso....
Sono ricordi penosi....

— Devi permettermi di parlare: ho il cuore che mi trabocca.... Quando
siamo rimasti così, tu ed io, tu avevi venticinque o ventisei anni:
t'eri ammogliato giovanissimo. Eri bello, gagliardo, intelligente,
operoso; potevi avere il mondo per te, potevi ricominciare la vita
come si ripiglia una strada un momento interrotta.... ma c'ero io, così
piccina, così gracile, eppure così insuperabile intoppo....

— Oh! Clarina....

— Sì, intoppo. Perchè nessuno si frapponesse tra noi due, tu hai
voluto rimanere solo; perchè io non dovessi subire le vicende di una
esistenza avventurosa, tu ti sei negato il soddisfacimento di ogni
onesta ambizione: potendo essere, pur che tu lo volessi, felice e
celebre, hai scelto di essere derelitto ed oscuro.... Oh! lo so, lo
so quello che tu vuoi dire: che il mio amore ti compensava di tante
altre cose.... E fino a un certo punto lo credo anche.... ma non
è tutto.... io ero cresciuta amandoti di un amore appassionato, ma
sospettoso, egoista. Non solo credevo di poter bastare a quanto v'era
d'affetto nell'anima tua, ma mi pareva anzi che tu non avessi diritto a
domandare di più; che tu dovessi appagarti de' miei sorrisi, divertirti
de' miei giuochi, andar pazzo pe' miei capriccî. Ero superba, ma ero
anche gelosa di te. I giorni che tu venivi a prendermi a scuola erano
per me giorni di festa. Quando tu t'inchinavi a baciarmi in presenza
delle mie compagne, io mi guardavo intorno pavoneggiandomi tutta, come
se volessi dire alle altre: — Quale è di voi che abbia un così bel
babbo? — Vedi; tu hai conservato la tua elegante persona, sei ancora un
bell'uomo, non c'è che dire (non ridere!), ma c'è qualche impertinente
filo bianco nella tua chioma, c'è qualche leggiero principio di rughe
sulla tua fronte.... Allora, dieci o dodici anni fa, eri nel tuo pieno
splendore....

— Oh che bimba! — disse il signor Emilio, carezzandole i capelli!

— Ma — continuò imperturbata la Clarina — ma se tu poi pigliavi sulle
ginocchia un'altra fanciulla, e aneli' ella per quel tuo fascino arcano
ti sorrideva festosa, non ti so dire quanta stizza io provassi. Già
te ne sarai accorto, perchè io non facevo complimenti.... Un giorno
solenne per la mia vita fu quello, in cui, divenuta oramai grandicella
(avevo, credo, dieci anni), potei uscire di casa attaccata al tuo
braccio. Mi conveniva stare un po' in punta di piedi, ma avrei fatto
altro che quello! Io credo che mi sarei fatta volentieri precedere per
le vie da un tubatore che annunziasse ai popoli la grande novella.
Ben se ne rammenta l'Angelica, che sa quali esigenze io avessi in
quel dì pel vestito e l'acconciatura. A forza di star dinanzi allo
specchio mi persuasi (vedi vanità) che, se io andava superba del mio
_cavaliere_, tu non potevi essere scontento della tua _dama_. Lungo la
strada s'incontravano signori e signore, a cui tu facevi bellissime
scappellate, mentre io salutavo con un sorriso di degnazione. Mi
ricordo di aver tossito due volte passando dinanzi alla fruttaiuola
che stava sul canto per richiamar la sua attenzione sull'importante
spettacolo. Ma la volgarissima donna, occupata a smerciare un panierino
di fragole, non se ne diede nemmeno per intesa. Dopo quel giorno
io non credo d'averti lasciato tranquillo una settimana. Bisognava
far sempre quella famosa passeggiata, bisognava sempre mostrarsi al
colto pubblico. Già io non sapevo nemmeno concepire che tu potessi
desiderarti un miglior trattenimento di quello del condurmi a
passeggio, o quando tu mi adducevi un'occupazione o un impegno, io mi
annuvolavo subitamente. Era però ben altra cosa, se qualche sera tu
ti proponevi di rimanere in casa a tenermi compagnia. Allora, s'era
d'estate, ci mettevamo sul bel terrazzo che dà in giardino, lì in
mezzo a quelle piante di limoni che spandono una sì grata fragranza;
e, s'era d'inverno, stavamo qui in questo salottino, proprio come
adesso, sennonchè l'Angelica allora non pigliava sonno così facilmente.
Ed io t'interrogavo sul passato, e tu mi parlavi della mamma, e me la
descrivevi con tanta evidenza che mi pareva sempre d'averla dinanzi
agli occhi, bella, elegante, gioconda. E ad ogni uscio che s'apriva e a
ogni fruscìo di veste che mi feriva l'orecchio, mi pareva impossibile
che non dovesse esser _lei_, proprio _lei_ che mi venisse dinanzi e
dicesse: — Son qui, Clarina. M'hai aspettato un pezzo, non è vero?
ma ormai starò sempre sempre con te. — E così del suo soffio e della
sua imagine io avevo popolata la casa, e spesso mi faceva l'effetto
come s'ella fosse davvero con noi.... E allora m'accorsi che le mie
gelosie eran per lei, che io doveva custodire in nome di lei le pareti
domestiche da ogni intromissione profana. Con questo pensiero mi
parve di nobilitare il mio ufficio di guardiana ombrosa ed arcigna.
L'Angelica mi secondava benissimo, e tengo per fermo che due creature
meno ospitali di noi non potessero trovarsi in tutta Italia, a cercarle
col lumicino. Non puoi immaginarti che profonda antipatia io sentissi
per quella signora Agliani, che è poi andata a stabilirsi in Torino.
Con la scusa ch'eravamo condiscepole con la sua bimba, e che, per
cagion nostra, vi eravate incontrati più volte alla scuola, ella
t'invitò a farle visita.... che sfacciataggine!... e poi, sempre per
accompagnare quella sua figliuola lunga e sottile come un giunco, ella
veniva ogni momento nel nostro giardino, e raccontava ch'era vedova,
senz'appoggi, col cuore vuoto, ec. ec. Che cosa me n'importava a me
di questa roba? Basta, babbo, purchè tu non mi sgridi, ti confesserò
che un giorno instigai l'Angelica a metterle farina invece di zucchero
nella tazza di caffè....

— Oh che sgarbata! — disse il signor Emilio tra il serio e il faceto.

— Più tardi l'Angelica mi raccontò che la signora Agliani aveva messo
gli occhi su te per farsi sposare, ma che tu non hai voluto nemmeno
pensarvi per cagion mia.... Eppure, babbo, quando di fanciullina
divenni ragazza, e si svegliarono in me nuove fantasie e nuove idee,
e mi si affacciarono agli occhi i languidi barlumi d'un mondo ancora
inesplorato, e sentii l'irrequietezza dei quattordici a' quindic'anni,
principiai ad accorgermi che per te dovevano esservi altri orizzonti,
altri desiderî, altre speranze. Ma il primo movimento dell'animo mio
non fu generoso: fu un accrescimento di sospetti. Mi pareva sempre che
tu dovessi dirmi da un momento all'altro: — Cara la mia Clarina, io
ti voglio un gran bene, ma tu non mi basti. — E se tu parlavi a bassa
voce con l'Angelica, e se facevi ridipinger le stanze, o ricevevi
un'ambasciata inattesa, io ero lì con tanto d'occhi e d'orecchi con
la paura di una rivelazione sgradevole. Oppure entravo nella mia
cameretta, e pensavo alla mia mamma, e piangevo....

— Sciocchina! — interruppe il signor Emilio. — Perchè immaginarti ciò
che non era? O, in ogni modo, perchè non venir franca da me e dirmi:
— Babbo, _nessun altro_ deve entrare in casa nostra: _Clarina non lo
vuole!_

— Ah! perchè? perchè? Perchè in mezzo a tutto ciò io sentivo una
specie di rimorso del mio egoismo; e avrei voluto esser più buona, più
ragionevole, più generosa,... ma non c'era caso.

— Andiamo, bimba mia, datti pace, io ti voglio bene ugualmente, e se tu
mi hai preso per confessore, io ti assolvo. Ti basta? —

Con queste parole, il signor Emilio diede un gran bacio a Clarina e
fece atto d'alzarsi. Ma ella premendogli la mano sulla spalla gl'impedì
di muoversi, dicendo.... — Che! Che! Siamo ancora al principio....

— Al principio, di che cosa?

— Oh bella! del mio racconto.

— Davvero? Parla allora.

— Ti ricorderai che la mia selvatichezza aveva qualche eccezione. Due
anni fa io andavo ancora al Collegio. Ero una delle alunne più grandi
e quindi più saggie, di quelle che ricevono le confidenze delle maestre
e tentano d'isolarsi dalle loro condiscepole. In quel tempo appunto si
allontanò dalla scuola per prender marito quella bella e sentimentale
signora Adelina che c'insegnava il francese e la musica. Io ero vissuta
con lei in qualche dimestichezza, e anzi ci fu un tempo che ella
esercitava su di me un fascino irresistibile. Non so che cosa nasca
in voi altri uomini quando siete adolescenti; so che in noi giovinette
accade spesso di provare un non so che di romantico, d'ineffabile per
qualche persona del nostro sesso che riempie alcune delle condizioni
del nostro ideale. Ci dispiace quasi di non essere uomini per poter
dirle: — Se siete malinconica, io cercherò di farvi sorridere; se siete
sola, io vi terrò compagnia; se avete bisogno d'affetti, io v'amerò; —
eccola la parola.... l'ho detta.

— Sai, Clarina, che stasera per una ragazza....

— Parlo troppo, non è vero? Me ne accorgo anch'io, ma bisogna che tu
mi lasci parlare.... Oh la signora Adelina! Con quella persona svelta,
con quegli occhi neri, grandi, soavi, con quell'aspetto così gracile,
con quel viso così pallido! Ah! il pallore e la gracilità, non lo nego,
avevano gran parte nella mia simpatia. Ci sarebbe voluto poi di tratto
in tratto qualche leggero colpo di tosse, e non già una malattia di
consunzione (Dio guardi!).... ma una lontana minaccia. Da questo lato
la signora Adelina era alquanto restìa a compiacermi, ella non aveva
mai un dolore di capo, mai un po' di languore, ed era fornita di un
grande appetito. Nondimeno io l'ero sempre ai panni, e m'aspettavo ogni
giorno che dovesse accaderle qualche strepitosa avventura. Perciò,
in mezzo a tutta la mia ammirazione, non volevo condurla troppo
spesso a casa, parendomi che nulla dovesse resistere alla sua virtù
affascinatrice.... Fetonte non ha fatto un maggior capitombolo di
quello che io mi facessi un giorno, in cui la signora Adelina mi chiamò
da parte annunciandomi ch'ella voleva dirmi qualche cosa in segreto.
Mi preparai ad una rivelazione straordinaria, superba fuor di misura
dell'onore, di cui mi si credeva degna. Supponevo che vi sarebbero
lagrime, svenimenti e singhiozzi, o, quanto a me, ero già commossa
in anticipazione. La signora Adelina mi condusse nel salotto, dove la
direttrice soleva ricevere le famiglie delle alunne, e ivi con faccia
più ilare che non avrei voluto mi disse:

— Dunque, la mia bimba, ci lasciamo.

— Oh! — fec'io con voce tremula.

— Sì, cara, io mi marito. Il mio sposo non è nè troppo giovine,
nè troppo bello; ma è benestante, ha fondi proprî, ha uno stato
assicurato, e io non potevo aspettarmi meglio di così.... Che cos'hai,
Clarina?

— Nulla.... il dispiacere della vostra partenza, — balbettai confusa.

— Coraggio, coraggio! — rispos'ella ridendo — verrai a trovarmi a X***
nella nostra farmacia.... —

Di male in peggio. Quest'uomo nè bello, nè giovane, era anche
farmacista! E Adelina consentiva a sposarlo, e Adelina non si strappava
i capelli, e Adelina non isveniva nelle mie braccia!

T'assicuro, babbo, che questo fu uno de' maggiori disinganni della mia
vita.

— Senti, Clarina, — interruppe il signor Emilio, — tu racconti le cose
con bastante buon garbo, ma io non so intendere ove tu voglia riuscire.

— Pazienza, e arriveremo. Quindici giorni dopo la partenza della
signora Adelina giunse nella scuola la istitutrice che doveva
sostituirla. Grande curiosità nelle alunne, soddisfazione poca. Già
era impossibile agguagliare la signora Adelina. La nuova venuta, la
signora Fanny, doveva essere più vicina ai trenta che ai venti, e
dicevano anzi che anche i trenta la gli avesse passati. Il tipo di lei
non era perfettamente italiano, e invero era nata di madre inglese.
Era piuttosto alta della persona, aveva gli occhi azzurri, e i capelli
biondi che le scendevano in lunghe anella sul collo. Questa dei capelli
era forse la sua maggior bellezza, era certo l'unica sua vanità. Il
suo volto era alquanto affilato, e aveva un fondo di malinconìa: sulla
sua fronte era la traccia di molti dolori patiti, mista a un non so che
di risoluto e virile che imponeva il rispetto. Vestiva semplice, quasi
dimessa, e non mi ricordo d'aver visto mai un colore smagliante nel suo
abbigliamento. Poichè ella adempiva egregiamente l'ufficio suo, e, da
questo lato, convien dirlo senza reticenze, era di gran lunga superiore
alla signora Adelina, non tardò a conciliarsi la stima di tutta la
scuola. I suoi modi dolci, benchè un po' riservati, l'assennatezza
de' suoi discorsi, da cui traspariva una cultura fuor del comune, ne
facevano un perfetto contrapposto della signora Adelina così gaia, così
giovanilmente spensierata, così proclive a scherzare con noi.

Avvezza a chiedere la tua opinione in tutto, e a farne un grandissimo
conto, t'interrogai anche riguardo alla signora Fanny, dopo un primo
colloquio che tu avesti seco. Tu mi rispondesti con breviloquenza
telegrafica.

— Ti pare una signora di garbo?... io chiesi.

— Molto, — fu la tua risposta.

— E bella?

— Punto. —

Era quello ch'io desideravo. La signora Fanny, donna di assai garbo,
ma punto bella, poteva essere ammessa in casa nostra. Clarina decideva
così nella sua onnipotenza. E così avvenne. Siccome io lasciavo allora
la scuola, la signora Fanny avrebbe continuato a darmi lezioni di
lingua inglese e di musica. Più io la conoscevo, e più la compagnia
di lei m'era gradita e istruttiva, e perchè tu pure avevi agio di
apprezzarla nel frequenti colloquî, una certa dimestichezza si andò
formando tra voi. Oh! quantunque siano passati ormai tanti mesi, non
dimenticherò mai una sera del penultimo autunno....

— Quale, Clarina?

— La signora Fanny veniva anche allora, come viene adesso spessissimo,
a visitarci verso le otto. Quella sera faceva un tempo magnifico,
spirava un'aria mite, il cielo era d'una limpidezza cristallina.
Sedemmo tutti e tre sul terrazzo. Di discorso in discorso, tu fosti
tratto a raccontare del tuo matrimonio e della tua felicità così
presto svanita. Incuorata dalla tua espansione, la signora Fanny volle
ricambiartene con uguale confidenza e ti narrò d'un suo unico amore
finito miseramente. Ella era stata più infelice di te, perchè non aveva
convissuto nemmeno un giorno con la persona diletta. Una palla a San
Martino le aveva ucciso sul colpo il fidanzato: ella non aveva potuto
nè chiudergli gli occhi, nè deporre un fiore sulla sua tomba. Era una
storia semplice come la tua: nulla di singolare, nulla di fantastico;
ma questi due dolori così schietti e sinceri che per un momento si
mischiavano insieme nello sfogo delle confidenze reciproche, avevano in
sè una potenza ammaliatrice, contro cui io non sapevo resistere. Mentre
voi parlavate, io piangeva in un angolo del terrazzo. Tu ti alzasti
il primo e porgendo la mano alla signora Fanny le dicesti: — Abbiamo
tutti e due delle memorie da custodire, una specie di fuoco sacro da
alimentare: ciò forma fra noi un vincolo fraterno. — Ella non rispose
nulla, ma strinse la mano che tu le offrivi, passandosi il fazzoletto
sugli occhi. Poi si alzò anch'ella dalla sedia, venne presso di me e
mi baciò io fronte. Io le gettai le braccia al collo abbandonandole il
capo sulla spalla, e lasciai sgorgare le mie lagrime liberamente.... Tu
eri rientrato nella stanza.....

Oh come io mi sentivo meglio dopo quel vostro colloquio! S'era formato
tra voi un legame che nulla turbava, che non feriva nessuna delle
mie ricordanze, che non destava nessuno dei miei timori. Il cammino
della mia vita, dal quale tu avevi con tanta sollecitudine sviato gli
ostacoli e le amarezze, mi era reso ancora più facile: io avevo un
altro braccio, a cui appoggiarmi; un altro cuore, in cui versare ciò
che traboccava dal mio.... Egoista! Egoista! Sciocca ed egoista!

— Perchè ti accusi in tal guisa, Clarina? Ciò che ti rese tanto felice
non esiste egli ancora? Non siamo sempre ottimi amici, la signora Fanny
ed io? Non ti vuol ella il bene d'una volta? E che può farti pentire se
tu cerchi in sì caste commozioni la tua felicità?

— La mia felicità? Ma sono io sola sulla terra, ma non ho obblighi che
con me stessa, ma non ho da guardare che a me sola? E tu non ci sei per
nulla nella mia vita?

— O che c'entro io in tutto ciò?

— Senti, babbo, bisogna proprio che tu non mi giudichi male da quel che
ho fatto sinora.... Adesso mi son ravveduta....

— Ma tu parli per indovinelli, Clarina.

— Mi spiegherò, purchè tu mi lasci discorrere tutto d'un fiato, purchè
tu non m'interrompa, e non faccia nè _ih_ nè _oh_ nè esclamazioni di
sorta alcuna.... Tu ti ricordi benissimo il caso stragrande che si fece
da te e dall'Angelica della mia ultima malattiuccia.... Quanto a me,
credo che non ci fosse il menomo pericolo....

— Oh! ce n'era, ce n'era; — uscì a dir vivamente il signor Emilio,
rannuvolandosi in viso, e stringendo a sè la ragazza come per tema di
qualche novella insidia. — Non lo disse forse anche il medico?

— Bella ragione! Ma ciò poco monta. Fatto si è che pareva non dovessero
esservi nè cure nè riguardi sufficienti per me. E io te ne ringrazio,
sai? e ne ringrazio anche l'Angelica, la quale per una figliuola non
avrebbe potuto fare di più. In quei giorni la signora Fanny veniva
spessissimo a informarsi di me, a salutarmi, e vedendo quante brighe
tu e l'Angelica vi davate per amor mio, e come vi negavate il sonno
e il riposo, s'offerse a partecipare in giusta misura con voi le
fatiche e le veglie. O perchè ella cogliesse meglio nel segno, o
perchè fosse di carattere meno apprensivo, fatto si è ch'ella era
molto più tranquilla, e quindi poteva con minor dispendio di forze
prestare opera efficacissima. Ella volle rimanere parecchie notti nella
mia stanza, sempre fedele esecutrice delle prescrizioni del medico,
sempre indovinando ogni mio desiderio. Quand'io la vedevo pender
su me e rassettarmi le coltri, e bagnarmi le tempie infuocate dalla
febbre e guardarmi con que' suoi occhi intelligenti e tranquilli, e
calarsi giù giù sul mio capezzale fino a che qualche riccio de' suoi
capelli biondi veniva a sfiorarmi la fronte, mi pareva come se fosse
la povera mamma che vegliasse presso il mio letto.... Già la malattia
aveva traversato quella che voi chiamate la crisi, e piegava verso
una soluzione felice; nondimeno io mi sentivo immensamente debole: i
miei giorni trascorrevano in lunghi sopori, i miei occhi s'aprivano a
fatica, ond'io scorgevo, come attraverso un velo di nebbia, gli oggetti
che mi passavano innanzi, e, pure avendo la coscienza di quanto mi
avveniva d'intorno, non sapevo uscire della mia condizione d'inerte
spettatrice....

Era una di quelle notti. La signora Fanny aveva a poco a poco lasciato
cader la testa sulla sponda del mio letto: ella dormiva vicino a me:
io sentivo il suo dolce respiro aleggiarmi tepidamente d'intorno, io
sentivo la fragranza della sua morbida chioma diffusa.... La lampada
da notte posta sopra un tavolino in un angolo spargeva una luce
tremula e fioca nella stanza, allungando talora con guizzi improvvisi
l'ombra delle sedie, degli armadî e del letto. L'uscio si aperse.
Eri tu, nè me ne maravigliai: quelle tue visite erano cosa solita.
Ti approssimasti in punta di piedi, mi mettesti la mano sulla fronte;
poscia, inchinandoti lieve lieve su me, mi baciasti a fior di labbra
la bocca. La signora Fanny era sempre assopita. Tu sei rimasto alcuni
secondi immobile a contemplarci; poscia ti vidi abbassarti di nuovo, e
deporre rapidamente un bacio sopra i capelli di lei. — (Qui la Clarina
pose la mano sulla bocca del signor Emilio che voleva parlare). —
Ti rizzasti con un moto subitaneo, sospettoso quasi, e uscisti della
camera.... Quello ch'io provai non so dirtelo.... nel primo istante fu
maraviglia....

— E di che mai, Clarina? — interruppe il signor Emilio, allontanando la
mano, con la quale ella voleva chiudergli le parole in bocca. — Seppur
quello che credi aver visto non è un parto della tua fantasia, che cosa
vi sarebbe da stupire se io mi fossi lasciato vincere dalla commozione
vedendo un'estranea far teco le veci di madre?

— No, babbo.... Il dì appresso, quando il medico ti disse che potevi
lasciare ogni apprensione, ti vidi nella tua contentezza baciar
l'Angelica, quantunque avesse attorno un grande odor di cipolla, e
perfino la zia Lena, quantunque fosse più brutta del consueto;... ma
era un altro modo di baciare....

— Orsù Clarina, tu fai discorsi inutili, e anche un poco sconvenienti
ad una ragazza.

— Ci vuol pazienza. Ho cominciato, e bisogna che dica tutto, e che tu
ascolti tutto. Descrivere lo stato dell'animo mio in quella notte, dopo
che tu uscisti della mia stanza, sarebbe impresa assai ardua. Dissi
che il mio primo sentimento fu di maraviglia. È vero. La dimestichezza
formatasi tra la signora Fanny e te non aveva mai passato quel limite,
oltre al quale comincia la galanterìa. V'era nella vostra amicizia un
non so che di contegnoso che pareva dire: — Fino a questo punto, sì;
più in là, no. — Alla maraviglia (perchè dovrei negarlo?) successe
un granellino di rancore verso la signora Fanny. La donna ch'io amavo
senza sospetto, la donna, alla quale io avevo parlato e contavo parlare
tante volte ancora della mia mamma, s'intrometteva invece fra me e
lei, distruggeva il mio bel sogno, diveniva una rivale di quella che
io non avevo mai conosciuto, ma che avevo imparato da te ad amare con
tutte le potenze dell'anima. Io sentivo sotto le palpebre chiuse gli
occhi gonfiarmisi di lagrime, io sentivo affollarsi nella mia mente
i rimproveri che avrei indirizzato alla signora Fanny, appena che ne
avessi avuta la forza. Ma, in verità, questa forza l'avrei mai avuta?
Non sarei stata disarmata dalla dolcezza e dalla serena mestizia del
suo volto? Da quella fronte severa che il dolore aveva potuto solcare,
ma che la vergogna non aveva mai fatto arrossire?...

Nel mentre io m'abbandonavo a questa fantasia, ella si era svegliata,
quasi vergognosa che il sonno l'avesse colta, e dopo d'essersi piegata
su di me per veder s'io dormivo (e, tra per la mia debolezza, tra per
gli affetti che si combattevano nell'animo mio, io fingevo davvero
di dormire) guardò l'orologio, tolse la _veilleuse_ dal tavolino e
schiudendo le invetriate la posò sul davanzale e la spense: indi,
aperti alquanto i registri delle persiane, lasciò entrare nella stanza
un po' d'aria e di luce. Appoggiata allo stipite della finestra, stette
colà qualche minuto, immobile, ritta, pensosa, stringendo sul petto
la veste discinta.... I primi chiarori dell'alba facevano risaltare
di più il pallor naturale del suo viso, la brezza mattutina agitava
lievemente i suoi biondi capelli che le scendevano giù pel collo in
vago disordine. Nel fissarla attentamente, con un occhio, a cui le
inattese rivelazioni di quella notte accrescevano la virtù indagatrice,
io m'accorsi che, se la signora Fanny non era bella, le traccie
della bellezza v'erano ancor sul suo viso, ma sepolte, per dir così,
sotto lo strato che vi avevano deposto i lunghi anni di patimenti.
E non so s'io m'ingannassi, ma mi pareva che qualche lampo almeno di
quell'avvenenza dovesse brillar nuovamente, solo che la gioia tornasse
nell'anima alla poveretta. A che pensava ella in quell'istante? Forse
a' bei sogni di fidanzata, quando ella intrecciava la ghirlanda pel suo
giorno di nozze? Forse al campo sanguinoso di San Martino, ove il suo
diletto cadeva per non rialzarsi mai più? O sospirava vedendosi omai
al confine estremo di giovinezza, con le rose del volto sfiorite, con
l'anima deserta d'affetti, e costretta a viver sempre d'una memoria?
O sentiva un arcano bisogno d'amare, d'essere amata prima che il tempo
inesorabile gliene contendesse perfino la speranza?... Povera signora
Fanny! Una lagrima le colava lentamente dal ciglio: ella si passò la
mano sulla guancia per asciugarla, poi si tolse bruscamente alla sua
fantasia, e tornò da me. Io feci le viste di svegliarmi allora, e
pentita d'aver, fosse pure un istante, accolto nel mio cuore sentimenti
ingenerosi verso di lei, feci uno sforzo supremo, e presa la mano
ch'ella mi tendeva, la portai alle labbra coprendola d'ardentissimi
baci.

— Calmati, calmati, Clarina mia, — mi diss'ella; — perchè agitarti così?

— Perchè sento — io risposi — che non potrò mai rendervi la centesima
parte di quello che avete fatto per me.

— E che ho fatto, piccina? Non è mica un merito quello di volerti
bene. E poi, noi altre vecchie zittelle, dobbiamo pure affezionarci a
qualcheduno. E quando vediamo soffrire creature giovani, leggiadre come
tu sei, ci pare, assistendole, di assistere i figli che avremmo potuto
avere. —

Sedette vicino a me, carezzando la mano che io lasciavo cader penzoloni
dal letto, e non aggiunse parola.

Io ero ancora troppo fievole per continuare il colloquio, ma
fissavo con occhi intenti quel suo volto pensoso, e quand'ella si
alzò nuovamente, e dinanzi allo specchio ricompose alquanto il suo
abbigliamento e ravviò sulla fronte i capelli disordinati, io le tenevo
sempre dietro con lo sguardo e, più ancora, con l'anima. E pensavo
agl'incidenti di quella notte, e ad un'altra esistenza isterilita in
gran parte per colpa mia. Sì, v'era un'altra persona che s'avvicinava a
quello stadio della vita, in cui le maggiori dolcezze non sono più che
una memoria ed un desiderio; v'era un'altra persona che per me aveva
logorato i suoi anni più belli, compressi i suoi palpiti più ardenti,
anticipato l'età, in cui ogni passione si spegne naturalmente.... Oh!
babbo: ho bisogno di dirtelo? Quella persona eri tu. Espiare i miei
torti, riparare a due sventure in un tempo, qual nobile impresa non
era la mia? Quanto più io ero stata fino allora sospettosa, egoista,
tanto più sentivo corrermi l'obbligo di essere ormai il buon angelo
della casa, di farmi uno stromento di quella felicità che avevo voluto
impedire. Ebbene, babbo, da quell'istante io non ebbi altro pensiero.
Ciò che tu provassi per la signora Fanny ormai io lo sapevo....

— Ma tu t'inganni, Clarina, ma tu deliri; — proruppe il signor Emilio,
visibilmente commosso.

— No, non m'inganno e non deliro, e nulla potrebbe sradicare questo
convincimento dall'animo mio. Quello ch'io non potevo sapere ancora
con ugual sicurezza era ciò che pensasse la signora Fanny. Da
quell'istante, usando un'arte ond'io non mi credeva capace, spiai
accortamente ogni suo atto, ogni parola, ogni sguardo.... e infine....

— Infine, che cosa? — chiese il signor Emilio, mal potendo nascondere
la sua agitazione.

— Zitto! — gridò Clarina, tendendo l'orecchio.

Il campanello di strada aveva suonato, il gatto Artaserse con un
immenso e incivile sbadiglio si era ritto sulle quattro zampe arcuando
portentosamente la schiena, tanto da parere un dromedario, l'Angelica
s'era scossa ella pure, dicendo con rara ingenuità: — Oh!... hanno
suonato.... Ero lì lì per addormentarmi.... — intanto s'intese aprire
e poi chiudere l'uscio della scala, e un passo di donna si fece sentire
nell'andito.

— È proprio la signora Fanny che viene a farci la sua solita visita, —
disse Clarina, muovendosi in fretta per andarle incontro.

— Bada, Clarina, — interpose serio serio il signor Emilio, — che non
voglio fanciullaggini. E tutta la cicalata di questa sera dev'esser
come non avvenuta.... Già, io uscirò di casa.... E si alzò in piedi,
inquieto, turbato.

— Un momento, un momento, — susurrò la vispa ragazza con accento deciso.

Era appunto la signora Fanny, vestita a bruno, e con una fascia di lana
violetta intorno al capo e alla bocca.

— Come siete rossa in viso, signora Fanny! — sclamò Clarina, aiutandola
a levarsi d'intorno lo scialle e la fascia. — Fa proprio freddo fuori?

— Si gela.

— Ebbene; mettetevi presso al camminetto. Su, Angelica, falle
posto. —

La zittellona si levò un po' brontolando, e tenendo fra le braccia il
preziosissimo micio che dava segni non equivoci di disapprovazione.

Mentre la signora Fanny stava per sedersi, la Clarina disse con
indifferenza e come se si trattasse d'una cosa da nulla:

— A proposito, signora Fanny, la sapete la notizia?

— Quale?

— Che il babbo è sul punto di riprender moglie. —

Queste parole caddero nella stanza come un fulmine, e gli effetti da
esse prodotti ebbero un carattere di _contemporaneità_ che non si può
rendere nella narrazione.

— Misericordia! — gridò l'Angelica esterrefatta, lasciando cadere il
pingue Artaserse, che, sorpreso dell'insolito trattamento, corse a
rifugiarsi sotto la credenza soffiando in un modo affatto ostile.

Il signor Emilio diè un balzo, prorompendo in tuono di rimprovero: —
Clarina! —

Ma intanto la signora Fanny era divenuta bianca come un lenzuolo, e
aveva afferrato convulsamente con una mano la spalliera della seggiola,
mentre si passava e ripassava l'altra mano sugli occhi, come per
diradare la nebbia che vi si andava addensando.

Clarina le fu addosso in un attimo, e gettatele le braccia al collo (la
signora Fanny s'era lasciata cader sulla scranna) le disse con lagrime
dirotte: — Oh! perdona; lo sapevo che tu dovevi essere la mia mamma.
Era il babbo, cattivo! che, pur volendoti bene, non si persuadeva a
niun costo di ciò ch'io avevo indovinato.... —

La signora Fanny mise un grido ineffabile, e questa volta svenne
davvero.

Le furono tutti attorno: l'Angelica che non capiva sillaba
dell'avvenuto, il signor Emilio, ormai inabile a simulare, e di
null'altro sollecito che di confermare le indiscrezioni della
figliuola, e la Clarina finalmente, giuliva, trionfante, come un
generale che ha vinto una battaglia.

Il resto ve lo potete immaginare. Solo vi dirò che, al finire di
quella sera così piena di commozioni, il signor Emilio, abbracciando
teneramente Clarina, le disse: — Sai che il tuo si può chiamare un
_colpo di Stato?_

— Lo so, ma se fossero tutti di questo genere, il mondo non avrebbe a
lagnarsene. —


La nuova famiglia è felicissima. L'Angelica tenne alquanto il broncio
al nuovo ordine di cose, ma infine vi si è _ralliée_, come direbbero
in Francia. Il più riluttante fu il gatto Artaserse, che per parecchi
mesi si rinchiuse in un superbo _Non possumus_ a simiglianza del Santo
Padre, e non si riconciliò che per merito di un piumino assai soffice,
sul quale la signora Fanny gli permise di fare il suo chilo. Quanto
alla Clarina, ella ha adesso diciannove anni e mezzo ed è tuttora
fanciulla. Non so s'io mi illudo, ma mi pare che non dovrebbe essere
antipatica, e qualcheduno dei gentili lettori potrebbe farla sua
moglie. Pel preciso indirizza rivolgersi.... ah! ma questa sarebbe
un'indiscrezione, non voglio commetterla.

  _1870._



IL COGNATO DELLA COGNATA.

BOZZETTO.


— È arrivato nessun telegramma all'indirizzo _Fausto Garleni_? —
chiesi, entrando nell'ufficio del capo stazione.

(Qui l'autore apre una parentesi per avvertire che chi parla qui
in prima persona non è lui, ma un suo amico che gli raccontò questa
storia.)

Il capo stazione discorreva con un signore tra i quaranta e i
cinquanta, vestito da provinciale, ma non senza pretensione, che
appena mi vide entrare si ritirò in disparte con un umile inchino come
di chi vuol propiziarsi. Allorchè io pronunziai il mio nome, questo
signore fece un gesto di piacevole sorpresa; pur non gli diedi retta,
aspettando la risposta del funzionario da me interrogato. Questi,
grosso, corto, con gran fedine nere, diede un'occhiata sul tavolino,
chiamò l'impiegato del telegrafo, e mi domandò:

— Il dispaccio doveva proprio essere fermo in stazione?

— Certamente.

— Allora non v'è nulla.

— Ebbene, — diss'io, — pazienza. —

E feci atto di andarmene, riprendendo l'ombrello e il microscopico
sacco da viaggio che aveva deposto in un angolo. Io non mancavo da casa
mia che da pochi giorni, e dovevo ritornarvi appunto colla corsa della
notte. Ma per una certa faccenda, che non ha nessuna importanza, avevo
lasciato l'ordine che mi telegrafassero a X***, se per avventura m'era
necessario di prolungar la mia assenza.

— Se capita, — soggiunse il capo stazione, — dove devo farglielo
avere? —

Ah! non ci avevo pensato. E, in verità, essendo la prima volta ch'io
mi recavo nella piccola X***, e non conoscendovi alcuno, ero proprio
imbarazzato. Ma il signore, che parlava prima col capo stazione, volle
togliermi d'impiccio e movendomi incontro:

— Mi perdoni, — disse: — ella è proprio il signor cavaliere Fausto
Garleni?

— A' suoi comandi. — (Che cosa volete? Sono cavaliere senza mia colpa.
Fui nominato su proposta del Ministro dell'istruzione pubblica per
aver sanificato alcuni terreni paludosi e presentato delle magnifiche
barbabietole a un'Esposizione di orticultura.)

— Ma quando lei è il signor Fausto Garleni, — continuò l'incognito
con voce più insinuante, — io sono Antonio Meravigli,... vale a dire,
scusi, perchè capisco che non è spiegarsi bene,... vale a dire ch'io
sono un po' suo parente. —

Invero questo nome di Meravigli non m'era nuovo, ma io non rammentavo
più nè come nè quando avessi udito farne menzione.

— Vedo ch'ella non si raccapezza, — egli ripigliò imperturbato, — e
mi spiego. Io sono cognato di sua cognata. Mia moglie è sorella della
signora Angela che ha sposato il suo signor fratello, avvocato nella
Pretura di ***.

— Ah! ora capisco, — risposi. — Senza dubbio ebbi occasione di sentir
parlare di lei; ma sono così smemorato!

— Ed è un pezzo che non vede il suo signor fratello?

— Parecchi mesi. Siamo entrambi pieni di faccende.

— A ogni modo — disse il signor Meravigli con un accrescimento di
officiosità, e strappandomi a forza di mano il sacco da viaggio — a
ogni modo, ella mi permetterà di congratularmi di questo lieto caso che
mi fa fare la conoscenza di una persona così distinta, e lascerà ch'io
mi metta a sua disposizione piena ed intera in quanto possa occorrerle
in questo paese. Intanto, se viene il dispaccio, si porterà a casa mia.
Grazie al cielo, — soggiunse poi pavoneggiandosi un poco, — mi è lecito
dire che sono qui ben visto da tutti, autorità e cittadini. Non è vero,
Roberti? — E si rivolse al capo stazione.

— Verissimo, — riprese l'altro, ch'era conciso quanto il signor
Meravigli era prolisso.

— Senta, signor Meravigli, — dissi io un po' sconcertato da quell'onda
d'offerte e desideroso solo di liberarmi da siffatto eccesso di
cortesia: — ella può credere s'io sia lieto di aver fatta la sua
conoscenza (non ero punto, ma son cose che si dicono); però lo scopo,
pel quale io mi trovo qui, è assai semplice e non permetterò certo
ch'ella si scomodi per cagion mia. Ove mi occorra davvero, non dubiti
ch'io farò conto delle sue gentili profferte. —

E così dicendo mi chinai per riprendere il mio sacco, ch'era divenuto
il perno della battaglia.

— Ah! nemmeno per idea, nemmeno per idea; — interruppe il degnissimo
signor Meravigli, schermendosi con abilissima tattica. — Non sarà mai
detto che il fratello di mio cognato si trovi qui senza ch'io lo abbia
introdotto presso mia moglie e la mia Romilda. —

Misericordia! pensai fra me e me, questo è un colpo di fulmine. E con
molto poca galanterìa risposi: — Sarebbe un onore; ma, com'ella sa,
mi trovo qui per affari, e sarò occupato tutte le ore del mio breve
soggiorno.

— Ma come? Se mi disse testè che non si tratta che di una
bagattella.... Via, via, sia buono. E intanto mi conceda di offrirle la
mia carrozza per andare in città.... Ci sono quasi due miglia, e c'è un
sole che abbrucia e una polvere che sale fino al ginocchio. —

Così dicendo, il signor Meravigli mi prese per un braccio e, condottomi
ad una finestra che riusciva sulla strada, alzò un momento la tendina
verde che vi faceva riparo. Vista orribile! La strada si protendeva in
linea retta, bianca, senz'alberi, animata soltanto da qualche nugolo di
polvere sollevato dal vento. Un unico veicolo si trovava fermo dinanzi
alla stazione con un cocchiere mezzo addormentato, e un ronzino che
andava cacciandosi di dosso le mosche coi moti impazienti delle zampe e
del capo.

Quella era senza dubbio la carrozza del signor Meravigli.

L'_omnibus_ era partito subito dopo l'arrivo della corsa, e lo stesso
dicasi dei pochi _fiacres_ che si trovavano colà.

Era colpa mia. Quella disgraziata fermata in stazione mi aveva
rovinato, e oramai lo schermirsi era impossibile. Inoltre una
passeggiata di tre quarti d'ora sotto un sole di giugno mi dava non
poco sgomento.

Accettai quindi l'offerta della carrozza, sperando di levarmi
d'impiccio con una visitina a madama Meravigli e a quella Romilda,
ch'io non sapevo ancora chi fosse.

Il generale Moltke non sarà stato più superbo della riuscita de'
suoi concetti militari che non fosse il signor Meravigli della mia
sommissione.

— Sia lodato il cielo! — egli esclamò con volto raggiante, porgendomi
la mano che gli restava libera. — Può dirsi che nessun forestiere
di riguardo sia venuto a X***, senza mangiare una zuppa in casa
Meravigli e conoscere la mia Romilda, e non ci sarebbe voluto altro
che una persona, la quale mi è quasi parente, fosse passata di qui
inavvertita. —

La situazione si aggravava fuor di misura. Non era più una visita da
fare, ma una zuppa da mangiare; insomma un pranzo bell'e buono fra
gente sconosciuta e, secondo tutte le apparenze, ridicola in grado
superlativo.

Deliberai di tentare un ultimo sforzo in carrozza, sperando che
quand'io fossi seduto troverei quell'energia che mi mancava quand'ero
in piedi.

Intanto, ricambiato un saluto col capo stazione, al quale il signor
Meravigli bisbigliò qualche parola all'orecchio, mi avviai o piuttosto
mi lasciai condurre dal mio ospite verso il modesto veicolo che stava
ad attendermi. Il cocchiere dormiva profondamente, e il cavallo ne
aveva profittato per tirar la vettura verso il margine della via, dove
c'era un po' d'erba da rosicchiare.

Uno spintone al braccio ed una chiamata sonora di _Luigi! Luigi!_
scossero il sonnacchioso auriga. Egli aprì una bocca enorme ad un
enorme sbadiglio, si rizzò sulla cassetta della carrozza, mi guardò
con occhio di curiosità senza nemmeno toccarsi il berretto, e prese in
mano le redini che aveva abbandonate e che penzolavano sul dorso del
tranquillo quadrupede.

E così, dopo alcune delle frasi solite: _Passi Lei — Anzi Lei — Oh la
prego_, ec. ec., mi trovai proprio nella vettura del signor Antonio
Meravigli a fianco di questo degno cittadino.

Che debbo dire? Faceva caldo, io ero un po' stanco dal viaggio di
strada ferrata, e nell'assidermi sui guanciali della carrozza provai un
sentimento insolito di benessere. Riflettei meco stesso che nemmeno un
pranzo in casa Meravigli sarebbe stato il finimondo, e i miei propositi
di resistenza andarono via via indebolendosi. Tutt'al più avrei
combattuto per l'onore delle armi.

— Oh! che fortuna per me — disse il signor Meravigli, stropicciandosi
le mani per la contentezza — di poter condurre dinanzi a Romilda un
uomo come il signor cavaliere Fausto Garleni. —

E vedendo ch'io mostravo di non capir troppo chi fosse questa Romilda:

— Ah! scusi, — proseguì; — siccome siamo quasi parenti, mi pare
impossibile che non ci conosciamo un po' più. La Romilda, diamine! è
mia figliuola. —

E lo disse in modo da far vedere che se ne teneva grandemente.

— Un bel nome! — interposi, tanto per non restarmene mutolo.

— Ah! ecco, — soggiunse il signor Meravigli un po' imbarazzato. — Il
vero nome della mia figliuola non era questo. La si era battezzata per
Orsola (capisce quei riguardi che si hanno in famiglia; era il nome
della mia povera madre), ma la fanciulla, appena fu giunta all'età
di ragione, mostrò una grande antipatia per esser chiamata così, e
andava sempre gonfiandosi la bocca di certi nomi, belli se vuole,
ma disusati, come Ermengarda, Ildegonda, Elettra, Antigone e simili.
Finalmente s'incapriccì di questo di Romilda, e deliberammo secondarla.
Le assicuro io, una figliuola che non si trova l'uguale a cercarla
col lumicino. Già il suo forte è lo studio. Per le faccende di casa la
non ci ha gusto, ma scrive come un angelo.... In versi poi.... Tutte
le prime celebrità d'Italia ne sono estatiche.... Insomma ho un gran
piacere ch'ella la conosca.... —

La pazienza asinina, con cui io andavo acconciandomi alla mia sorte,
fu alquanto turbata da questo nuovo incidente. E in vero i mali mi
si accumulavano sul capo con la rapida progressione delle tragedie
greche. L'incontro del signor Meravigli era una noia, il demone della
ospitalità che lo possedeva era una grave molestia; ma l'accademia di
poesia estemporanea, che mi si presentava oramai allo spirito come una
cosa inevitabile, era una sciagura bella e buona. Mi dichiarai onorato
grandemente di far la conoscenza di sì maravigliosa donzella; ma tentai
di abbreviare il supplizio, dicendo al mio Anfitrione:

— Se non le dispiace, quando io avrò fatto il mio dovere con la sua
famiglia mi permetterò di prendere licenza per isbrigar la faccenda che
mi condusse in questo paese.

— Cioè.... prender licenza.... spieghiamoci. Son io che mi farò un
piacere di accompagnarla. Non faccio per vantarmi, ma conosciuto
favorevolmente come sono io presso tutti gli uffizî, credo che potrò
agevolarle di molto il suo incarico.... E, se non sono indiscreto, di
che cosa si tratta? —

Glielo dissi in breve con malinconica rassegnazione.

— Alla Pretura! — egli esclamò battendo le mani. — Ma allora, si
figuri, è presto fatto. Il pretore è amicissimo mio. — Guardò con
prosopopea il suo orologio ch'era attaccato ad una catena d'oro grossa
due dita, e soggiunse:

— Sono le dieci. Adesso il pretore non ci sarà all'ufficio. Andremo
verso l'una. —

In mezzo a queste chiacchiere eravamo entrati in città. Il signor
Meravigli dava prove evidenti della sua famigliarità coi proprî
concittadini, salutando ad ogni piè sospinto i passanti o quelli
che stavano ingannando l'ozio sulla soglia della bottega. In questo
ricambio di saluti, nei quali il signor Meravigli manteneva una certa
aria di protezione, io pure ricevevo per lo più delle dimostrazioni di
ossequio. A un punto ci arrestammo. Credetti giunto il momento funesto
di presentarmi alla poetessa di casa Meravigli, e intesi tutta la
gravità del mio stato. Polveroso, sudato, istupidito dal caldo e dalla
noia, io ero senza dubbio destinato a fare una ben misera figura. Mi
ravviai nondimeno i capelli, tastai il nodo della cravatta.... ma non
avevamo toccata ancora la mèta.

Da una farmacia all'insegna del _Coniglio_, situata sotto un porticato,
uscì frettoloso e dimenando i fianchi un uomo di mezza età, piccolo
di persona, con un berretto nero, sotto cui spuntavano alle tempie due
ciocche di capelli rossicci, e il signor Meravigli, rivoltosi a lui ed
a me, col suo più beato sorriso fece la seguente presentazione:

— Il nostro signor Angelo Storni, chimico e farmacista. Il distinto
cavaliere Fausto Garleni fratello di mio cognato, l'avvocato Alessandro
Garleni.... Capite, caro amico, — soggiunse quindi parlando al
farmacista, — che quando si ha la fortuna di avere in X*** una persona
di tanto merito non gli si risparmia una zuppa in casa Meravigli. Anzi,
a questo proposito — egli continuò offerendo una presa di tabacco al
signor Storni che era fermo allo sportello della carrozza, tenendo con
la mano sinistra il berretto sollevato alquanto sul capo e guardandomi
come una bestia rara — a questo proposito sapete bene che in siffatte
occasioni vi è sempre posto per voi alla mia tavola. Alle quattro e
mezzo in punto, secondo il solito. Avvertitene anche il dottore Trigli.
Ah! non mi ricordavo. Il cavaliere ha una faccenda da sbrigare alla
Pretura. Potete dirgli voi s'io sia amico del pretore.

— Eh! amicissimo, — rispose l'altro.

— Vede, signor Garleni, che a me non si sfugge. Sarei ingiusto verso il
mio paese se non mi compiacessi della benevolenza che tutti hanno per
me, certo senza mio merito....

— Oh, che dice mai?... Anzi meritissimamente, — proruppe il farmacista.

— Un caro uomo il nostro Storni, — riprese con aria di superiorità il
signor Meravigli; — ma un adulatore. Se lo lasci dire, un adulatore.
Si figuri ch'egli non sa darsi pace ch'io non sia stato fatto ancora
cavaliere.

— Sicuro — sclamò il signor Storni — sicuro che non so darmene pace. È
una ingiustizia, è una....

— Zitto, zitto, — interruppe il modesto signor Meravigli, mettendo
una mano sulla bocca all'oratore. — Non vi lasciate trasportare
dall'amicizia. —

E, ordinato al cocchiere che si movesse, salutò con un cenno della mano
il signor Storni e poi bisbigliò a mezza voce:

— Che originale! Io cavaliere! E con che meriti? — Non trovandomi
in grado di rispondere a tale inchiesta, abbassai il capo in atto
riflessivo.

Di lì a un paio di minuti eccoci a una casa bianca con le persiane
abbassate, che il signor Meravigli mi dice essere la sua. Entriamo per
un portone laterale e ci arrestiamo in una rimessa, ove un contadino
viene ad aprire lo sportello, e una fantesca rubiconda con le maniche
rimboccate si avanza verso il portone con diplomatica solennità.
Nascosto dietro un uscio un fanciullo in giubboncino corto fa delle
boccaccie e dei gesti poco rispettosi verso di me, ma il signor
Meravigli non se ne accorge.

Mentre il signor Meravigli dà in fretta alcuni ordini alla tarchiata
fantesca che sembra il capo di stato maggiore della casa, e sta ad
ascoltare le disposizioni del suo padrone con le braccia arrovesciate
sui fianchi, io mi scuoto la polvere del vestito, consegno il mio sacco
e il mio ombrello al contadino e mi preparo docile come un agnello a
subir la grave penitenza che mi è destinata.

Finalmente, con mille scuse pel piccolo ritardo, mi si invita a salire
un brevissimo ramo di scala che dal cortile mette al così detto pian
terreno dell'abitazione.

— Agnese! Romilda! Agnese! — gridò l'eccellente uomo, introducendomi
in un salottino e pregandomi di attendere, finchè egli fosse andato a
chiamare le sue signore.

La stanza non aveva nulla di particolare, nè io perderò il tempo a
descriverla. E poi queste descrizioni sono un esercizio di lingua che
noi non Toscani non facciamo mai impunemente, nemmeno tenendo aperto
dinanzi a noi il libricciuolo del Fanfani: _Una casa fiorentina da
vendere._

Rimasto solo, guardo le litografie appese alle pareti e sto per mettere
la mano sopra un _albo_ di ritratti, quando un fruscìo di vesti mi
annunzia l'approssimarsi delle Dee.

L'uscio si spalanca, il signor Meravigli precede affannoso, trafelato.
Seguono le due donne.

— Mia moglie, mia figlia, il cavaliere Garleni. —

La signora Agnese Meravigli indossa un vestito di mussolino color
pistacchio, porta un _fisciù_ nero al collo, e le maniche a sbuffi di
velo bianco che lasciano scorgere due braccia poco meritevoli di essere
effigiate in marmo dallo scalpello di Fidia. Ha circa quarant'anni,
è magra, appuntita, nè grande, nè piccola, di carnagione olivastra,
di capelli scuri, piuttosto radi, che cominciano a inargentarsi qua e
là. La sua fisionomia è volgarissima, il suo sorriso insulso, porge la
mano tutta d'un pezzo, obliquamente, nel modo che i barcaiuoli sogliono
immergere il remo nell'acqua, e appena data la ritira, con una certa
furia e come se volesse dire: — Via, anche questa è fatta. — Parla....
ah! è graziosissima, vorrebbe parlare la lingua e non sa, parlerebbe il
dialetto e non può.... sua figlia glielo impedisce....

Sì, senza dubbio, la divinità della casa è Romilda.

La musa, che non è ancora ventenne, veste un abito bianco, succinto,
accollato, con le maniche abbottonate ai polsi: ha capelli neri che le
scendono a ricci sulle spalle e sul collo, il naso piuttosto grande,
e occhi che non sarebbero brutti se non cercassero troppo sovente
di parere ispirati. È magra come ben si addice ad una che si ciba di
poesia, ha statura giusta, e cammina con una singolare affettazione
tenendo sollevato con la mano il lembo anteriore del vestito, e
appoggiando appena la punta del piede quasi sdegnasse ogni contatto con
la terra. Parla con lentezza, calcando le doppie e facendo grande abuso
di diminuitivi. Allorchè apre la bocca lei, i suoi genitori tacciono
e rimangono estatici. Se la signora Agnese intromette qualche frase
nel discorso, la dotta Romilda è sulle spine, e quando la genitrice
si lascia sfuggire una sconcordanza (lo che avviene sovente), la
giovinetta è piena di fremiti grammaticali, che talora si rivelano con
una correzione detta a fior di labbro, ma stizzosamente.

— Ed è la prima volta che viene in questo _paesuccio_? — chiese Romilda
con una intonazione patetica.

— La prima, — io risposi, — e mi pare molto allegro.

— Oh mio Dio! polvere e fango, un soggiorno impossibile.

— Tu sei molto severa pel tuo paese, — osservò timidamente il signor
Meravigli.

— Non favellarmene, o babbo, — proruppe ella con uno scontorcimento
che voleva essere grazioso; — a voi altri che non sapete alzarvi un
_pocolino_ più in su delle vostre _faccenduole_ può anche parere, ma
chi chiude in seno anima d'artista qui deve morir d'asfissia.... Già
prevedo che questa sarà la mia fine. —

E così dicendo lasciò cadere la testa come un limone

    Troppo grave al picciuol che lo sostiene,

e incrociò le braccia sulle ginocchia in atteggiamento di vittima.

I coniugi Meravigli parvero dolorosamente colpiti da questo lugubre
pronostico e mi guardarono quasi chiedessero conforto a me.

— Però — io osservai alla povera Saffo — la solitudine è propizia agli
studî, ed ella, che ama la poesia, può attendere al culto delle Muse
meglio qui che tra i clamori di una gran città.

— È quello che mi scriveva ier l'altro anche.... (e nominò un letterato
italiano di qualche grido) — ma questa non è la solitudine. Oh così pur
fosse! Qui mi sembra di essere a Recanati come il gran Leopardi che vi
logorò la sua anima. —

Povero Leopardi, io pensai, che similitudine lusinghiera per te!

— Veda, — interpose il signor Meravigli, — io potrei anche adattarmi
a mutar paese; ma oltre che difficilmente troverei un luogo ove fossi
così ben voluto da tutti, autorità e cittadini, come son qui, gli è che
non so dove andare. I miei poderi gli ho in questi dintorni, gli altri
due miei figliuoli che, pur troppo! non hanno il talento di Romilda, si
compiacciono in questa vita mezza di campagna e mezza di città....

— Via, via, smettiamo; — disse Romilda con un sorriso smorto e con
l'aria di persona che è sempre avvezza a sacrificarsi per gli altri.
— E lei, signor Garleni, coltiva pure le lettere? E, se è lecito, si
occupa di poesia lirica, didascalica, o epica? —

Mi affrettai a rispondere ch'io non ero altrimenti un vate, ma solo
scribacchiavo di tratto in tratto qualche bagattella, e per lo più in
prosa.

— Ah! la prosa, lo confesso, mi pare non basti alle anime di fuoco. Le
mie _cosuccie_ io le ho sempre scritte in versi.

— E gli farai sentire qualcheduno de' tuoi lavori al signor cavaliere,
non è vero, Romilda? Son certo ch'egli ne avrà piacere. —

Messo così fra l'uscio e il muro, sfido io a risponder di no. I
paladini della sincerità ad ogni costo mi fanno una rabbia da non
dirsi. Se a questo mondo si dovesse spiattellare tutto quello che si
pensa, io credo che non vi sarebbe cittadino, il quale potesse passar
ventiquattr'ore senza essere picchiato. Non nacqui con la voluttà
del martirio e debbo umilmente riconoscermi reo di alcune piccole
transazioni. Non mai a fine inonesto, lo giuro; non mai una lusinga
mi fruttò onori o ricchezze. Detto ciò a scarico di coscienza, tiro
innanzi.

— Il signor Meravigli si è bene apposto, — io risposi, mettendo insieme
una frase cruschevole per essere all'altezza della situazione. — Se la
signora Romilda volesse aver la bontà.... —

La signora Agnese dopo i primi complimenti era rimasta muta come
un pesce. In quel momento però ella stimò opportuno di rompere il
ghiaccio. Avvicinò la sedia a quella della Romilda, e, passandole un
fazzoletto sulla fronte, uscì in queste parole:

— Mi sembra che tu _sei_....

— _Sia_, — disse Romilda.

— Che tu sia un po' sudata, — continuò la signora Agnese senza
scomporsi. — Sarebbe forse meglio che _ti_ leggessi più tardi....

— _Tu_, — proruppe la giovinetta con mal celata impazienza.

— Per esempio, dopo pranzo.

— Sì, sì, — esclamò il signor Meravigli, — è verissimo; adesso fa
troppo caldo. Dopo pranzo ci sarà anche qualchedun altro.

— Fate voi, — disse Romilda. — Del resto son _cosine_, sa. Fu troppo
buono il.... (e pronunziò il nome d'un altro letterato), il quale me
ne scrisse quasi entusiasticamente. Anzi credo d'aver la lettera nel
taschino del vestito. —

Com'era naturale, l'aveva e me la porse.

Era un panegirico.

— Vedo ch'ella ha il suffragio di critici distintissimi....

— Oh! non mi gonfio per questo. So di far male e desidero la censura.
Nessuno è più tollerante di me verso la critica. Non mancarono
i biasimi alle mie poesie. Chi le trovava oscure, chi esagerate,
chi una cosa e chi l'altra. _Poveracci!_ Come s'io non avessi uno
stile perspicuo, e non mi studiassi soprattutto di esser naturale.
Dicano pure quello che vogliono, ma ch'io non sia chiara, ch'io sia
esagerata!... —

Così la signora Romilda Meravigli dava prove luminose della sua
tolleranza.

Il dialogo andava languendo. O la dotta giovane si era disingannata sul
mio conto, o ella era occupata nella gestazione di qualche capolavoro.
La madre di lei colse l'opportunità per uscire del suo silenzio e dirmi
a bassa voce, in un linguaggio che avrebbe lasciato largo campo alle
osservazioni della figliuola, quanto ella fosse superba di Romilda, e
quanto dissimile da quel portento fosse l'altra sua prole.

— Non a tutti è concesso essere uguali, — diss'io filosoficamente.

— È quello ch'io ripeto sempre a Romilda. —

Non potendo dimenticare lo scopo della mia gita a X***, mi permisi di
rinfrescarne la memoria al padrone di casa.

Egli si drizzò tutto d'un pezzo come quei fantocci, sotto cui si fa
scattare una molla, e mi disse:

— A sua disposizione, signor cavaliere. Basta prendere il cappello ed
andarsene. —

Com'io mi alzavo in piedi, Romilda si scosse, arrovesciò alquanto il
capo sulla spalliera della seggiola e mi porse languidamente la destra
con un fare sentimentale. — A rivederci, signor Garleni. —

La signora Meravigli venne ad aprirmi l'uscio, si lasciò stringer la
mano con la stessa annegazione di prima e mi disse elegantemente: — _Si
conservi._ —

Mutar noia è, fra le disgrazie, una delle minori, e quando io uscii di
quella stanza mi parve di respirare. Il cortile era deserto, e solo una
gallina passeggiava su e giù con grande prosopopea, sostando di tratto
in tratto come a far le sue riflessioni, poi scrollando vivamente il
capo e tirando innanzi. Forse ella pensava alle compagne che, poco
addietro, applicavano seco il metodo peripatetico, ed ora bollivano
nella pentola in mio onore.

Il pretore era un uomo molto loquace, il quale mi porse tutte le
informazioni che mi occorrevano; ma mi fece perdere in ciarle tre
quarti d'ora, abbenchè io ad ogni pausa tentassi d'andarmene. Perchè
il degno funzionario aveva tra gli altri meriti quello di tener le
mani sul vestito dei suoi interlocutori, sia levandone qualche filo
bianco che vi si trovasse per avventura, sia afferrandoli per la
falda acciocchè non partissero. Ogni volta ch'io accennavo a fare un
movimento sulla seggiola, egli prendeva un lembo del mio soprabito,
ond'io dovevo acconciarmi all'immobilità per non mettere a repentaglio
una parte così importante dei miei indumenti.

Mentre l'egregio funzionario parlava, il signor Meravigli ascoltava con
aria di soddisfazione, e non già per riverenza ch'egli avesse di quel
personaggio, ma sibbene perchè quel personaggio cantava le lodi di lui
su tutti i tuoni. Ed io appresi in questo modo che il signor Meravigli
era comandante della Guardia Nazionale, e ch'era stato sindaco e tale
avrebbe potuto essere ancora, solo che lo avesse voluto, ma era troppo
modesto.

— Gran virtù la modestia, — soggiunse il pretore; — ma in uomini come
il signor Meravigli la modestia è un peccato. —

Il signor Meravigli strinse con effusione la mano del suo panegirista.

— Del resto — disse il signor pretore, socchiudendo gli occhi con
maliziosa importanza — del resto le cose municipali qui non vanno bene.
Bisognerebbe che tutti fossero come il nostro signor Antonio. —

Il signor Antonio fece un mezzo inchino biascicando un lunghissimo _Oh!_

— Abbiamo già avuto in due anni cinque crisi municipali, provocate
tutte da un monumento.

— Un monumento! — esclamai.

— Sicuro; d'un nostro concittadino fucilato nel 1849 dagli Austriaci.
Non c'è stato mai verso di mettersi d'accordo sul luogo, in cui
collocarlo.

— Ma scusi, — obbiettai, — non si va a' voti?

— Sì signore; ma non essendovi nel nostro regolamento comunale alcun
articolo che vieti di riproporre in Consiglio le cose già votate,
il giorno dopo una decisione presa in un senso i fautori del partito
opposto si presentano compatti, rimettendo all'ordine del giorno la
loro proposta, e trionfano.

— Così la non si finisce più, — diss'io.

— È precisamente quello che ho sempre detto.

— E nemmeno i giornali vanno mai d'accordo, — osservò il signor
Meravigli.

— Ah! si stampano anche qui giornali?

— Sicuramente; due: il _Riscatto_ e la _Rinnovazione intellettuale_.
Il primo esce la domenica ed è governativo; il secondo si pubblica
il giovedì, e quantunque non si occupi di politica, si vede che tende
all'opposizione. Non si possono soffrire, ma vanno a gara per inserire
nelle loro colonne i versi della signora Romilda. —

Il signor Meravigli s'inchinò.

Felicissimi abitanti di X***! dissi fra me, che possono leggere nelle
loro due effemeridi i parti poetici di sì illustre scrittrice.

Quando a Dio piacque, ci fu dato muoverci. Compresi che il pretore era
anch'esso uno dei commensali, e che tali sarebbero pure altre persone
ch'io non avevo vedute e che rappresentavano l'eletta del paese. Non
ti dispiaccia, o lettore, se cominciando da quel momento io ruminai
un brindisi, che però prometto e giuro di non trascrivere su queste
pagine.

Le bellezze di X*** non mi trattennero gran fatto. Il signor Meravigli,
mentore assiduo ed infaticabile, mi condusse nella cattedrale, nel
teatro, nel casino di società, nell'accademia dei _Ben Pasciuti_,
nel viale di platani ove tre volte per settimana suonava la banda
cittadina, e ove almeno c'era un po' di moto e d'allegria.

Fatta questa gita, nella quale io manifestai il mio alto aggradimento
delle cose vedute, ci avviammo nuovamente verso casa Meravigli.

Erano fermi sulla soglia due degl'invitati, il farmacista Storni e
un personaggio nuovo, il dottore Trigli. Se i cappelli avessero una
fisonomia, io direi che il lucidissimo cilindro del farmacista pareva
altrettanto sorpreso di trovarsi su quella testa, quanto pareva la
testa di portar quel cappello. Il povero Storni aveva sempre le mani in
moto per rassettarselo, e le due ciocche rossiccie, che spuntavano con
tanta grazia di sotto all'usato berretto, si trovavano invece a disagio
con quell'insolita acconciatura. Era evidente che al signor Storni,
come a Napoleone III, non conferiva il _coronamento dell'edificio_.
Nulla dirò adesso del dottore: mi parve tosto parlatore facondo ed era
di fatto, nè aveva la maldicenza meno pronta della parola.

Nel salotto ove, a mo' di presentazione, mi fu sciorinata una
filastrocca di nomi, i raccolti si dividevano in due gruppi. Da una
parte, intorno a Romilda, gli uomini dotti; dall'altra, intorno alla
signora Agnese, i personaggi di minor rilievo. Fra questi mi colpì
primo un fanciullo dai dieci agli undici anni, ch'era quello appunto
ch'io aveva visto il mattino far le boccaccie dietro una porta.
Gli stava presso una ragazzina forse tredicenne che si lasciava
sermoneggiare da una donna di mezza età, la nobile signora Prassede
Altamura, discendente dagli antichi feudatari d'un borgo vicino, e
risoluta di non maritarsi fintanto che un patrizio d'alto lignaggio
non volesse offrirle la sua mano e un nome che valesse quello degli
Altamura. Non essendosi presentato nessuno, ella conservava il bene
prezioso della sua verginità, tanto più secura da ogni insidia, in
quanto che ella era brutta e senza quattrini. All'altro lato della
signora Agnese sedeva un signore attempatello con pochi capelli grigi
aderenti alle tempie, senza un pelo di barba, con certi occhi scimuniti
che parevano scattare fuori dell'orbita e con ciglia rade e quasi
invisibili. Quella fisonomia così squisitamente imbecille mi restò
impressa per lungo tempo. La mi ricordava qualche cosa ch'io non sapevo
definire, finchè, giorni fa, al pranzo di nozze d'un amico, visto
imbandire un grandissimo pesce lesso, balzai sulla seggiola con un moto
invincibile di riconoscimento. Era ben desso, era il signor Baldassare
Alieni, possidente di X***; o se non era lui, era per lo meno il suo
fratello di latte.

Vorrei trattenermi in questo crocchio abbastanza comico, dove la
signora Agnese trovandosi lontana dalla sua Romilda parla il dialetto;
vorrei esaminare lo sgarbatissimo Toniotto, disperazione de' suoi
genitori; vorrei soprattutto studiar davvicino la Eloisa, sorella
minore della sapiente Romilda, tenuta in poco conto dalla famiglia,
eppure dall'aspetto simpatico, e pieno d'una malinconia soave.... ma
l'astro della casa mi chiama: eccomi a' tuoi piedi, o Romilda!

— Il direttore della _Rinnovazione intellettuale_ desidera una speciale
presentazione, — disse la dea, additando con aria di regina un uomo
di mezzana statura, vestito di panni neri, alquanto sgualciti. — Il
dottor Augusto Romoli si occupa specialmente di questioni didattiche,
— ella soggiunse; poi inchinò alquanto il capo, appoggiando la
fronte su due dita della mano sinistra, e sospirò: — Oh le venture
generazioni! —

Posto in tal modo il problema educativo, si tacque.

Se io avessi veduto nella città di X***, nonchè un fiume, un corso
d'acqua qualunque, avrei creduto fermamente che il signor Romoli ne
fosse uscito in quel punto. La chioma nera, lunga e distesa, la barba
pur nera che gli adombrava buona parte del viso e i cui peli scendevano
in linea convergente fino ad unirsi in un pizzo a quattro dita sotto il
mento, i vestiti lucidi per tarda età ed attillati alla persona, tutto
insomma gli dava l'aspetto di un annegato.

Non istetti molto ad accorgermi che il signor Romoli era di opinione
repubblicano.

— Miserrima Italia! — egli sclamò — che credi di esser libera ed
una. —

Osservai rimessamente che, dacchè avevamo anche Roma, quanto all'unità
non c'era obiezione possibile.

— Che unità! che unità! — gridò egli accendendosi in volto. — Unità
di schiavitù! unità di vergogna! Dov'è il rispetto agl'ingegni onde
vanno segnalati i popoli degni d'avere una patria? Eh, signore! Io
lessi quattro anni fa un discorso sulla _Rinnovazione intellettuale in
Italia_, lo mandai ai quattro Ministri dell'istruzione pubblica che si
sono succeduti.... crede ella che se ne siano nemmeno accorti? Eppure
insigni uomini, a cui trasmisi quel mio lavoro, gli fecero lusinghiere
accoglienze, come può vedersi anche nell'ultimo numero del mio
periodico, che mi pregio di offrirle insieme con un esemplare del mio
discorso. —

Così dicendo, mi porse entrambi i preziosi oggetti. Sfogliai il
giornale che si pubblica in fascicoli di otto pagine, e mi fu argomento
di non lieve maraviglia il vedere che gli articoli s'intitolavano quasi
tutti allo stesso modo: _Della rinnovazione intellettuale, discorso
letto dal professore Augusto Romoli all'Accademia dei Ben Pasciuti
il 4 maggio 1867. — Giudizî d'illustri Italiani_; oppure: _Sulle idee
pedagogiche del professore Romoli — lettera al Direttore_; o infine:
_Sulla necessità di riformare l'istruzione in Italia secondo le idee
esposte dal professore Romoli nel suo discorso del 4 maggio 1867_. Onde
mi persuasi sempre più dell'esistenza dei _ruminanti intellettuali_.
Chiamerei con questo nome coloro, e non sono pochi, i quali avendo
un giorno della loro vita esternato un'idea, o messo in carta quattro
righe, o pronunziato in un'adunanza poche parole, fanno di quell'idea,
di quello scritto, di quelle parole il perno della loro esistenza e vi
tornano su le migliaia di volte, tanto per riuscire a persuadere anche
gli altri che hanno realmente o detto o fatto qualche cosa di grande.
Costoro abusano della facile condiscendenza degli uomini illustri, che,
quando si sentono lodati, lodano, e si cacciano attorno ai potenti
ed ai celebri mendicandone lettere e dichiarazioni lusinghevoli, di
cui si fanno sgabello per mettere in mostra la loro stolida vanità.
E i potenti ed i celebri, pur di levarsi la seccatura, profondono a
cotali pigmei incoraggiamenti, onde il campo degli studî si popola di
miserabili ortiche. Che il professore Augusto Romoli non abbia trovato
ascolto presso il Governo, è per me oggetto di gradevole meraviglia, e
proporrei una lapide commemorativa con la seguente epigrafe:

              AI QUATTRO MINISTRI DELL'ISTRUZIONE PUBBLICA
           CHE NON DIEDERO RETTA AL PROFESSORE AUGUSTO ROMOLI
                           IL POPOLO ITALIANO
                             RICONOSCENTE.

Mentre il signor Romoli mi spiegava il suo concetto di riforme, mi era
seduto dall'altro lato il signor Guglielmo Osteolo, cavaliere de' Santi
Maurizio e Lazzaro, uomo ricco, negoziante accorto, che si spacciava
come protettore delle lettere e delle scienze. Egli approfittò
della prima pausa del dottor Romoli per chiamare sopra di sè la mia
attenzione.

— Veda, signor cavaliere, — egli mi disse, — io non so intendere
coloro che, per essere negli affari, fanno divorzio dagli studî. Nei
limiti delle mie forze ho sempre cercato, lo confesso, di coltivarmi lo
spirito, specialmente per quanto riguarda le discipline economiche. E
poi, per chi sappia guardar le cose un po' a fondo, il commercio non si
associa egli benissimo con gli studî?

— Senza dubbio, — risposi.

— Certo che bisogna saperlo esercitare, bisogna metterci dentro qualche
cosa che non sia il vile interesse. —

Guardai attentamente il signor Osteolo. Egli non mi aveva aspetto di
filantropo.

— Posso dire senza ostentazione — continuò questo negoziante modello
— che negli affari ho sempre cercato piuttosto il decoro che l'utile.
Avrei potuto ritirarmi da molto tempo, chè, grazie al cielo, una
discreta fortuna l'ho messa da parte; ma (che vuole?) l'idea di
giovare al paese, di dare un buon esempio, mi ha consigliato a restare.
Sono così pochi quelli che lavorano in Italia! E glielo assicuro in
coscienza mia, quando vedo altre case che sorgono e mi contrastano
il terreno, non ne ho dispiacere: tutt'altro. Purchè lo facciano con
delicatezza, con onestà, sarei io il primo a stringer loro la mano,
dicendo: — Bravissimi! Ben fatto, per Dio!... Sono così; non c'è merito
alcuno, ma sono così. —

E nel pronunziare queste parole apparve tanto commosso della propria
bontà ch'io sono sicuro che, se un uomo potesse baciar sè medesimo,
il signor Osteolo in quel momento si sarebbe baciato con la massima
effusione.

— Del resto il signor Romoli sa s'io faccio quanto posso per favorire i
veri ingegni. —

Il signor Romoli s'inchinò in atto di approvazione, dicendo: — Così
fossero tutti!

— Le mie occupazioni mi conducono in giro per la provincia, e posso
assicurare che non v'è caffè dei villaggi vicini ch'io non abbia
associato alla _Rinnovazione intellettuale_. Il giornale è buono,
tende a rialzare la moralità e l'intelligenza pubblica; dunque va
diffuso: questo è il mio ragionamento. E se ciò mi costa qualche
sacrificio pecuniario, sia pure. Non dobbiamo tutti sacrificarci pei
nostri simili? E poi, sono fatto così; non c'è merito, ma son fatto
così. —

E il signor Osteolo e il signor Romoli si diedero una stretta di mano
tanto vigorosa, che al negoziante scivolò di tasca un piccolo involto
di carte.

— Scommetterei che sono fogli di pensione comperati al cinquanta per
cento, — mi bisbigliò all'orecchio il dottor Trigli che stava ritto
dietro la spalliera della mia seggiola.

La malignità umana è pur grande. Ecco un uomo che io mi sarei dipinto
come un martire del lavoro e della benevolenza, se il ghigno amaro di
Mefistofele non fosse venuto a cacciarsi tra me e la mia visione e non
le avesse dato di botto le linee poco seducenti di uno strozzino.

Discorrere di tutti i personaggi che si trovavano nel salotto mi
parrebbe superfluo. Oltre a quelli già menzionati v'era il capo
stazione, a cui il signor Meravigli dimostrava la necessità di avere un
sindaco, schermendosi delle offerte che gli venivano fatte, acciocchè
accettasse egli medesimo la carica. Due signori che m'erano stati
presentati, ma il cui nome m'era sfuggito, subivano le dissertazioni
del signor Romoli e intesi che l'uno di essi diceva:

— È chiaro; così non si può andare innanzi. —

La signora Agnese e la sua vicina, avendo probabilmente esaurito ogni
soggetto di dialogo, guardavano insieme il soffitto, la Eloisa si era
dileguata, il signor Baldassare Alieni teneva l'occhio rivolto con una
impazienza mal celata dalla timidezza verso l'uscio, da cui doveva
venir l'annunzio del pranzo, e Toniotto era accovacciato dietro la
seggiola di questo signore con una tranquillità che pareva pochissimo
conforme alla sua età e alla sua indole.

Finalmente s'intese la parola aspettata: _È in tavola_.

Sorgo, offro il mio braccio a Romilda, e sto per aprire la marcia.
Un mugolìo lamentevole si leva dall'angolo, ov'è seduto il signor
Alieni. Cielo! quel simpatico cittadino sarebbe colto da improvvisa
indisposizione? Fatto si è ch'egli non può alzarsi. Si accorre in suo
aiuto. Il signor Alieni è accuratamente legato alla seggiola.

— Ecco, — dice il mansueto uomo con voce tremula, — forse mi sarò
legato io stesso giocherellando sbadatamente col vestito.

— Che vestito! Se c'è un gomitolo di spago.... —

Il signor Meravigli padre si spicca dal braccio della nobil donna
Prassede Altamura, e ghermisce per un orecchio il signor Meravigli
figlio, il quale era seduto placidamente sopra uno sgabello come se il
fatto non fosse suo.

Romilda, che è tuttora a braccetto a me, congiunge le mani ed esclama:
— Dire ch'è mio fratello! —

Il signor Meravigli figliuolo subisce la strappata d'orecchi con
rassegnazione spartana, e guardando fiso il signor Alieni gli fa con la
mano quel segno che vuol dire: — Aspetta che me la pagherai. —

Se il lettore è un poco filosofo non istupirà che il signor Toniotto
Meravigli, dopo aver legato alla seggiola il signor Alieni, voglia
anche fargliene pagare le conseguenze, perchè queste son cose che si
vedono tutti i giorni.

Quanto al signor Alieni, egli, crescendo in mansuetudine con le
circostanze, dice:

— Lo lasci stare, caro Antonio, lo lasci stare, non è stato lui, credo
d'essere stato io medesimo; sono tanto sbadato!... —

Ma il signor Antonio non abbandona la preda, e, anzi, chiedendo
licenza, passa avanti di tutti, e porta il delinquente fuori di stanza,
rincarando la dose con alcuni scappellotti, che però strappano appena
un sordo muggito alla vittima.

Romilda si copre gli occhi con la mano per non vedere questa vergogna
domestica, e il signor Romoli osserva che, se i ragazzi fossero educati
col metodo suggerito dal suo discorso, non accadrebbero siffatte cose.

Siamo a tavola. Ho alla mia destra Romilda e dall'altra parte il signor
Osteolo. Il professore Romoli è alla destra della poetessa ed ha per
vicino il farmacista Storni. La nobile signora Prassede Altamura è
fra lo Storni e il pretore. Dirimpetto a noi sta la signora Agnese,
avente per suoi cavalieri da un lato il capo stazione, dall'altro il
dott. Trigli. Segue il personaggio, il quale nel colloquio col signor
Romoli aveva dichiarato che così non si può andare innanzi e che seppi
chiamarsi il signor Falco. La ragazza Meravigli, la cui fisonomia mi
riesce sempre più simpatica, è fra questo signore e suo padre. Il
signor Alieni è invece alla sinistra del capostazione, e l'idea di
essere a tavola lo ha trasfigurato. Egli si frega lo mani in silenzio
dopo di aver passato un lembo del tovagliuolo sotto il colletto. Il
signor Antonio, che, come si addice al padrone di casa, è a capo di
tavola, si trova cinto e quasi nascosto da monti di piatti e zuppiere
d'ogni dimensione.... Vedo un posto vuoto a breve distanza da me e
quasi in faccia al signor Alieni. La spiegazione non si fa attendere.
Entra in salotto da pranzo la Caterina (che è la fantesca di nostra
conoscenza) e chiama la signora Agnese. Quella si alza e viene a
confabulare con l'autorità culinaria della casa. Sono a pochi passi da
me e colgo questo dialogo:

— Signora, Toniotto ha già rovesciato due casseruole, pensi adunque che
cosa si deve farne, perchè in cucina non lo voglio sicuramente. —

Il signor Meravigli è chiamato a consulta. Egli tira fuori il capo
dalla selva dei piatti che lo nasconde agli sguardi umani, e, pur
dispensando la minestra alla Maria, vispa contadinotta che serve a
tavola, rivolge la sua attenzione al grave problema. La signora Agnese
parla il dialetto, e usa frasi poco parlamentari verso il turbolento
figliuolo, piaga della sua vita.

— Che c'è da fare? — dice il signor Meravigli, alzando un po' troppo il
cucchiaione della minestra, mentre la Maria avvicinava la zuppiera per
evitare disgrazie. — Che c'è da fare? Mettiamolo pure a tavola, ma che
sia buono. —

Detto ciò, il signor Meravigli padre uscì della stanza per rientrarvi
col signor Meravigli figlio tirato per un orecchio. A quanto pare,
quest'è precisamente il manico dell'ultimo rampollo della famiglia.

— Domanda scusa a tutti questi signori, — intuona solennemente il
signor Antonio.

— Domando scusa, — ripete Toniotto con voce nasale e con una singolar
cantilena.

— Domanda scusa in particolare al signor Bartolommeo, — soggiunse il
padre.

Il signor Alieni diè un balzo sulla seggiola e parve assai conturbato
di sentirsi tirare in campo, mentre egli non anelava che a poter
pranzare in silenzio.

— Domando scusa in particolare al signor Bartolommeo, — tornò a dire
con aria di canzonatura il ragazzo. E vi aggiunse di proprio un _Cu!
Cu!_ che non entrava menomamente nella giaculatoria paterna.

— Non importa, non importa, caro Toniotto.... ottimi amici come prima;
— si affrettò a sclamare il signor Alieni, facendo cenni con la mano
che volevano significare — Tenetelo più lontano che sia possibile. —
Nello stesso tempo si sforzò di sorridere, ma non gli riuscì, e fece
una smorfia come se avesse inghiottito un chiodo.

Il tacito, ma ardente desiderio del poveruomo non fu secondato, perchè
il recalcitrante fanciullo venne fatto sedere nel posto vuoto, che,
come avvertimmo innanzi, era pressochè dirimpetto a quello del signor
Alieni. Una nube di profonda tristezza si stese sulla fronte del
fabbriciere.

Io ero il coppiere di Romilda. Ella mi diceva sempre, mentre io le
versavo il vino nella tazza: — Un _ditino_, nulla più che un _ditino_.
— Però questi _ditini_ mi tenevano in perpetue faccende, giacchè la
poetessa sorseggiava continuamente il bicchiere.

La qualità caratteristica del banchetto non era la squisitezza
delle vivande, ma l'abbondanza delle porzioni. V'era qualche cosa di
omerico nei pezzi di carne che i commensali divoravano con suprema
disinvoltura. Al giungere d'ogni pietanza io vedevo fissi sopra
di me gli sguardi dei coniugi Meravigli, i quali venivano in aiuto
delle cortesi insistenze della fantesca. Il signor Antonio diceva
invariabilmente:

— Prenda, signor cavaliere, prenda senza complimenti. —

La signora Agnese dal canto suo osservava al marito con aria compunta:
— Se non prende, vuol dire che non aggradisce. —

Ed io, per aggradire, mi rimpinzavo.

Grazie al cielo, non tardai a sperimentare la verità della teoria
svolta dal Torelli nella sua _Fragilità_ circa gli alleati impreveduti.
Qualche cosa di assai morbido venne a cacciarmisi fra le gambe,
e io vidi con indicibile compiacenza che gli era un gatto. Nè la
mia soddisfazione provenne soltanto dalla stima grandissima che ho
per l'egregio animale che fu confidente del Richelieu e amico del
Chateaubriand, ma ben anco dall'essermi subito venuto in mente ch'egli
poteva riuscirmi di grande sollievo nelle mie strette. In fatti, pur
continuando a dialogare con la poetessa Romilda e coll'economista
Osteolo, io seppi dispor le cose in maniera che di tratto in tratto
qualche grosso pezzo di carne scivolasse nella bocca del quadrupede,
il quale, per alcun tempo, come fosse d'intesa meco, divorava la sua
parte in silenzio. Non oserò dire che la cosa fosse conciliabile col
_Galateo_, ma nessuno ha l'obbligo di schiantare.

Sennonchè, come disse il Petrarca:

    Cosa bella mortal passa e non dura.

Il mio collaboratore, imbaldanzito della deferenza mostratagli, mi
poneva ogni momento le due zampe anteriori sulle ginocchia. Non era
cosa gradevole; pur non me ne dolsi, finchè una volta, avendo per
inavvertenza abbassato troppo la mano, l'intelligente animale vi mise
sopra le ugne con uno di quei movimenti subitanei e aggraziati, di
cui il gatto ha il segreto. Il giovinetto spartano che, avendo rubato
una volpe, seppe tenerla nascosta in seno senz'alzare un lamento,
abbenchè ella gli dilaniasse le viscere, era un eroe, un eroe ladro, se
vuolsi; ma le leggi di Licurgo non guardavano tanto pel sottile, e anzi
giudicarono degno di premio l'atto audacissimo. Io sono un galantuomo,
nè ruberei una volpe per tutto l'oro del mondo. Ma se giungessi a tale,
e la bestia mi cacciasse i denti nelle carni, protesto che la lascerei
andare pe' fatti suoi. La graffiatura del gatto mi fece alzar vivamente
la mano, e mi strappò di bocca un _Ahi!_ I miei vicini di tavola
intesero il mio lamento. — Il micio! il micio! — proruppe Romilda
in tuono patetico. — Che animalaccio! Via, che lo chiudano nella
sbrattacucina. — I coniugi Meravigli balzarono in piedi con doloroso
stupore. — E le ha proprio fatto male? Che fatalità! Per amor del
cielo, perdoni. Maria, Caterina, via il gatto.... Ma scusi, sa.... Ha
bisogno di lavarsi la mano?... Veda, fa sangue. —

In mezzo alla commozione universale destata dalla mia disavventura,
il piccolo Toniotto rideva sgangheratamente senza che lo sguardo
fulmineo del genitore potesse metter freno alla sua ilarità. Con la
condiscendenza propria dei vigliacchi, il signor Alieni per ingraziarsi
il suo dirimpettaio faceva anch'egli il bocchino da ridere. Certo
in questo incidente egli ravvisava un diversivo a qualche martirio
inflittogli dall'_enfant terrible_ della casa. E infatti io mi ero
accorto che il degnissimo signor Bartolommeo faceva di tratto in tratto
uno di quei movimenti rapidi, convulsi che si fanno, quando si sente la
punzecchiatura d'un insetto. Era invece il naso del fabbriciere preso
di mira da certe pallottole di mollica di pane preparate accuratamente
dall'amabile Toniotto, e slanciate con una precisione che avrebbe fatto
di lui un ottimo tiratore di fionda.

La nobil donna signora Prassede Altamura fece udire la sua voce.

— È un bel gatto, — ella disse con l'aria di persona che se ne intende;
— ma il più bel gatto, di gran lunga il più bel gatto, un gatto
magnifico era quello del defunto conte Gaspare mio fratello, sia pace
all'anima sua. Si dice che le bestie non si commuovano, ma io so che
il giorno in cui morì mio fratello, l'ultimo maschio degli Altamura,
il gatto si cacciò sotto il letto, e non volle prender più cibo, e
dopo due giorni seguì il suo padrone. — E a questo punto si passò
il rovescio della mano sugli occhi, non si sa se piangendo l'ultimo
maschio degli Altamura, o il gatto fedele.

— Era nobile il gatto? — chiese il dottor Trigli.

L'erede dei feudatari si strinse nelle spalle infastidita.

— In fin dei conti — osservò il professor Romoli — anche dagli animali
domestici si potrebbe trar partito per l'educazione. Ma — soggiunse
toccandosi la fronte con le dita — a che vale che vi siano le idee,
se non v'è il mezzo di porle ad effetto? Che cosa fa il Governo, o
piuttosto che cos'è il Governo? Per me lo Stato libero non dovrebbe
essere che un gran campo sperimentale, sul quale gl'ingegni fossero
messi in grado di svolgere i loro concetti. Senza di ciò, quale è il
prezzo della libertà? Niente.

— Niente — disse assentendo il farmacista — ossia niente e molto;
niente, perchè non rende, molto, perchè costa. E io la tassa della
ricchezza mobile non la posso mandar giù.... —

Il professore parve assai poco soddisfatto dell'appoggio datogli dal
signor Storni.

— Non è questo, non è questo; — borbottò egli, scrollando le spalle.

— Ecco, — osservò il conciliativo signor Meravigli: — mi pare che vi
sia una via di mezzo. Che il Governo abbia torto a non prendere in
considerazione uomini del valore del signor Romoli, questo è fuori di
dubbio.... —

Un mormorìo adesivo si fece intendere tutto intorno alla tavola.

— Ma che dall'altra parte possa sostenersi che la libertà non giova
a nulla, mi sembra esagerato. Non dico per me, che, trattato con ogni
deferenza dalle autorità locali, non oserei affermare di aver ricevuto
particolari favori dal Governo centrale....

— Se è quello che ho sempre detto, — interruppe il farmacista; — si
profondono onori a tutti, e una degna persona come il nostro signor
Antonio non deve ancora esser nominato cavaliere....

— Silenzio, Storni, — gridò severamente il signor Meravigli, — non
impiccioliamo in questa maniera le grandi questioni. Dato anche, e non
concesso, che il Governo mi avesse un po' trascurato, dovrei forse per
questo cambiare la mia bandiera politica? In fin dei conti, udo dei
primi obblighi del cittadino non è quello di sacrificarsi? Eh, signori,
la mia fede è troppo antica.... Esaltato mai, liberale sempre!

— Verissimo, — esclamò lo Storni.

— No, no, caro Storni, non c'è da farsene vanto; ma vi ricordate
come spesso, durante il dominio straniero, io esternassi nella vostra
farmacia idee sovversive. Il signor Alieni era allora un poco perplesso
nello sue opinioni.... —

A sentir pronunciare nuovamente il suo nome, il signor Alieni fece un
salto a guisa di pesce gettato ancor vivo nella padella, e rosso come
un gambero balbettò in tuono piagnucoloso: — Ma, caro amico,... io
perplesso.... non mi fate questo torto.... non vorrei che i signori
credessero.... —

Il signor Meravigli aveva intanto smarrito il filo del discorso e non
trovava più modo di raccapezzarsi. Onde il professor Romoli prese egli
la parola, e sciorinò una lunga perorazione in favore delle istituzioni
repubblicane.

— In teoria sono repubblicano anch'io, — disse il signor Meravigli; — e
chi non è repubblicano? Ma in pratica, oh! in pratica non sono davvero.

— Ah! io comprendo soltanto le repubbliche di Grecia, — esclamò
Romilda, — e per me il mondo non ha fatto che peggiorare d'allora in
poi.

— Sommessamente non sono del suo parere, — esclamò il cavaliere
Osteolo, tenendo sospesa la forchetta, — per me credo al progresso.
Il commercio aumenta, le verità economiche si fanno strada,
l'industria....

— Che industria? che verità economiche? che commercio? — urlò come un
ossesso il signor Falco. Monopolio, intrigo, contrabbando!...

— Oh! oh! — disse il signor Osteolo.

— Oh! oh! oh! — soggiunse il signor Meravigli.

— L'ho detto e lo confermo in barba ai moderati.

— Bene! — interruppe il signor Romoli.

— La società presente è condannata a perire. I Governi sono ladri,
ladri i Ministri, ladri i negozianti più o meno cavalieri.

— Signor Falco! — gridò il cavaliere Osteolo — ha ella voluto
offendermi? — E senza lasciar tempo all'altro di aprir bocca, rispose
da sè medesimo alla propria inchiesta. — Non lo ha voluto? Tanto
meglio. Prendo la questione dall'aspetto generale, e sostengo che
la classe dei negozianti è onestissima. — E così dicendo, agitava
furiosamente una coscia di pollo arrosto.

— E io sostengo che una rivoluzione sociale è imminente e che la
_Comune_ aveva ragione. —

Il signor Meravigli, che voleva far da paciere, si arrestò inorridito
dinanzi a questa parola della _Comune_ e si nascose fra i suoi piatti.

La maggioranza dei commensali disapprova il linguaggio del signor
Falco. La signora Prassede si fa il segno della croce e si copre
il viso col tovagliuolo; Romilda mi prega di spruzzarle un po'
d'acqua sulla fronte, io temo che nasca un precipizio:... ma, come
seppi dappoi, il signor Falco è un uomo inoffensivo che va soggetto
periodicamente a queste esplosioni, e che poi si calma da sè.

— Can che abbaia non morde, — mi disse dopo pranzo il dottor Trigli. —
Il feroce signor Falco è un _comunista_ ricco, che in fin dei conti è
molto più conservatore di me, e che nelle elezioni amministrative vota
coi clericali. —

In mezzo a tutte queste escandescenze demagogiche il pretore nella sua
qualità di pubblico funzionario s'era tenuto in un prudente riserbo.
— Avrei potuto protestare contro le eresie del signor Falco, — egli
mi osservò dopo tavola; — ma sono d'un temperamento tanto focoso che
sarei certo diventato un basilisco. E allora si fa peggio. Io devo
sempre tenere a mente che quello che dico e che faccio compromette il
Governo! —

Quanto al signor Alieni, dopo aver preso la parola, come direbbero,
_per un fatto personale_, egli si era studiosamente astenuto dalla
discussione. Il suo pensiero era altrove. Al bombardamento regolare
ch'egli sopportava in silenzio dallo sgarbato Toniotto, s'era aggiunta
una nuova tribolazione. Fosse malignità della fantesca, o puro caso,
fatto si è ch'egli era sempre l'ultimo servito. I suoi occhi seguivano
con ansietà melanconica i piatti che andavano in giro, e quando vedeva
ritardare il suo _turno_, la sua fisonomia assumeva l'atteggiamento
che deve aver avuto quella del profeta Geremia, mentre contemplava le
rovine della città _già così piena di popolo_.

Il pranzo procedeva verso il suo termine, e secondo il costume diveniva
sempre più animato.

Alle frutta si versò lo sciampagna. Era il momento dell'eloquenza.

Il professor Romoli prese la parola per primo e propinò alla
salute della famiglia Meravigli, cogliendo la bella opportunità per
intercalare nel brindisi l'esordio del suo discorso _Sulla rinnovazione
intellettuale in Italia_. Il signor Osteolo bevette alla prosperità dei
commerci aventi a guida il decoro e il bene del paese. — Questo — egli
concluse alzando il calice — questo fu sempre il commercio da me amato
e praticato, ed i più pingui lucri non avrebbero potuto darmi ugual
compiacenza. —

Era ben naturale che il signor Meravigli facesse il suo discorsetto.
Narrò come, sempre, contro i suoi meriti, egli fosse stato ben veduto
in paese dai cittadini e dalle autorità; come questa benevolenza fosse
il maggiore suo conforto, la sua maggiore dolcezza. Soggiunse che, da
quando la fortuna aveva voluto largirgli una figliuola del merito di
Romilda, egli aveva stimato necessario di aprir la sua casa a tutte
le persone cospicue che venivano in X***, e a questo proposito tessè i
miei elogî, annunziò ch'io ero quasi suo parente, e continuò per alcuni
minuti nella onesta ricerca di un punto fermo, che non gli fu dato
trovare.

Liberarsi dal rispondere era impossibile. Ma ho promesso al lettore
di non riprodurre il mio brindisi, e non mancherò certo alla data
parola. Dirò soltanto che citai tre versi di Dante, uno del Petrarca,
e uno giocoso del Guadagnoli, che paragonai il signor Meravigli
all'Arabo ospitale che accoglie lo straniero nella sua tenda, che feci
un'allusione galante a Romilda e che conclusi col proporre un viva alla
salute della città di X***, e de' suoi abitanti.

L'effetto prodotto dalla mia arringa fu inarrivabile; il signor
Meravigli corse ad abbracciarmi, Romilda dichiarò che mi avrebbe
risposto se la commozione non glielo avesse impedito. Ma i suoi nervi
erano così delicati, che tutto li metteva a soqquadro. Il professore
Romoli, e il mio vicino, cavaliere Osteolo, mi diedero segni non dubbî
del loro alto aggradimento.

Calmatasi questa effervescenza così lusinghiera al mio amor proprio,
m'accorsi di qualche curiosa novità. Il capo stazione, che aveva
serbato fino allora un contegno singolarmente tranquillo, era
soprappreso da una ilarità repentina ch'egli sfogava intercalando
parole francesi nei suoi discorsi e chiamando la fantesca
_Mademoiselle_. — _Eh bien! qu'est-ce que tu as, Marie? Est-ce que tu
ne crois pas à mon amour? Je bois à la santé de Mademoiselle Marie,
la belle servante de la maison Meravigli!_ Signori, crederebbero forse
ch'io fossi ubriaco, _ivre?_ Ah! s'ingannano, _vous vous trompez_; non
è vero, Maria, _ma chatte?_ —

E nel pronunciare queste frasi egli era in piedi tenendo la domestica
per un lembo del vestito, mentre con l'altra mano alzava il calice
dello sciampagna e ne versava il contenuto sulla testa della signora
Agnese Meravigli, la quale riceveva quest'abluzione come se avesse
fatto la cura idropatica.

— Ah! signor Garleni, che cosa le pare? — chiese Romilda, nascondendosi
il volto con ambe le mani.

Tentai confortarla, dicendole che è difficilissimo evitare in un pranzo
cotal genere d'incidenti.

V'era però un altro spettacolo non meno degno di considerazione.
Durante il mio brindisi il giovane Meravigli s'era cacciato sotto
la tavola e s'era messo a tirare per le gambe il signor Bartolommeo,
che, con l'usata mansuetudine, non faceva lagnanze, ma si contentava
di starsene sulla difensiva, tenendosi stretto ai bracciuoli della
seggiola. Se io fossi stato il commendatore Pasquale Stanislao
Mancini, i cui discorsi cominciano all'alba e finiscono al tramonto,
il pover'uomo avrebbe senza dubbio dovuto abbandonare la posizione;
ma poichè io mi sono un ben più modesto oratore e la mia arringa
non durò che pochi minuti, lo spiritoso ragazzo, accortosi di non
poter più contare sulla distrazione dell'adunanza, lasciò la sua
preda, e il signor Alieni potè riprendere il periclitante equilibrio
con quell'aspetto di compiacenza infinita che la provvida natura fa
succedere nell'uomo alle grandi tribolazioni. A ragione il Leopardi
cantava:

        .... Uscir di pena
    È diletto fra noi.

Una delle sentenze, con le quali è costume d'instillare negli animi
l'idea della caducità umana, è quella che _ogni cosa che ha principio
ha termine_. Era quindi naturale che anche il banchetto Meravigli
finisse.

Romilda, ch'era la vera padrona di casa, diede il segnale d'alzarsi
e tutti gli altri le tennero dietro, o, per maggiore esattezza di
linguaggio, si provarono a tenerle dietro. Come avviene degli eserciti,
che nelle marcie perdono sempre un buon numero di sbandati; così
nel passaggio tra il salotto da pranzo e quello in cui si doveva
bere il caffè, andò dispersa parte della comitiva. Il pretore e il
farmacista appena alzatisi di tavola si abbracciarono senza un perchè
al mondo, e rimasero alcuni secondi in questo atteggiamento patetico.
Il signor Alieni, grave, obeso, con occhi piccini e col tovagliuolo
al collo, mossosi a guisa d'un vascello che leva l'àncora, cercava a
passi tardi una poltrona elastica ch'egli sapeva dovervi essere nel
corridoio fra le due stanze, e, trovatala, vi si lasciò cadere con
tutto il peso della sua persona, e in un attimo si addormentò, russando
profondamente. Quanto al capo stazione, egli voleva a tutti i costi
aiutare Maria a sparecchiare la tavola, e prendendola ogni momento per
la cintura, gridava: — _Ah Marie, ma belle!_ —

Io, sanissimo e di mente e di corpo, come il lettore può credere,
porgevo il braccio a Romilda, la quale, fosse effetto del pranzo o
d'altro, vi si riposava con un certo abbandono che avrebbe potuto
essere voluttuoso; il signor Meravigli accompagnava la nobil donna
Prassede Altamura, che diceva come il conte Gaspero suo fratello
solesse ripetere costantemente: essere lecito al nobile l'ubriacarsi,
non al plebeo; la signora Agnese era per un momento rimasta sola, visto
la distrazione del dottor Trigli e le voglie erotiche dell'altro suo
vicino, il capo stazione; ma l'officioso signor Osteolo si era fatto
un dovere di supplire alla manchevole galanteria dei due cavalieri
accompagnandosi alla gentil dama, che gli faceva gli occhietti teneri.

Il caffè è già bevuto, Romilda è seduta sopra una scranna d'onore
davanti a un tavolino, su cui sta un bicchier d'acqua, l'adunanza
è atteggiata ad una aspettazione piena di rassegnazione, i coniugi
Meravigli sono in faccende intorno alla figliuola, il terribile
Toniotto è costretto a rimanere nel salotto durante tutta l'accademia,
sia per inebriarsi nei parti poetici della sorella, sia per non
tormentare i sonni del mansueto signor Alieni. Il pretore e il
farmacista si sono sciolti dal loro amplesso e riuniti al grosso della
comitiva. Sono però entrambi addossati allo stipite di un uscio e si
tengono con le braccia intrecciate come i due Aiaci nell'opera _La
belle Hélène_. Con le mani nelle tasche del panciotto, il signor Falco
siede vicino alla nobil donna Prassede Altamura e fa delle boccaccie,
che originariamente erano destinate ad esser sbadigli.

Io ho vicino a me la piccola Eloisa. Ella mi passò dappresso, mentre io
prendevo il mio posto dirimpetto a Romilda, e la chiamai per nome.

Parve sorpresa, ma non turbata: si fece rossa, pur non si schermì
affatto, e si lasciò prendere per la mano. In verità v'è nel suo
portamento qualche cosa di sì composto e aggraziato, che il mio
sguardo stanco della caricatura e volgarità dei signori Meravigli
e de' loro ospiti non sa staccarsi da quella personcina modesta e
vereconda, da quel volto non bellissimo, ma intelligente, e diffuso
d'una cara espressione di gentilezza e di bontà malinconica. Eloisa
porta il vestito corto come si usa dalle fanciulle, e in fatto ella
è tuttora fanciulla; però in quel periodo della fanciullezza che
confina con l'adolescenza. I suoi capelli d'un castagno scuro sono
lisci e finissimi, e le scendono giù dalla nuca raccolti in due lunghe
treccie....

— Eloisa, tirati in là, non dar noia al signor Garleni, — disse Romilda.

— Ma sono io che l'ho pregata di starmi vicino; è un mio gusto.

— Romilda fece una smorfia, come volendo dire: — Un gusto
scipito! —

Intanto il signor Meravigli chiudeva la finestra dietro alla poetessa,
affinchè il fresco non le facesse male, e la signora Agnese le porgeva
un quaderno, rasciugandole col fazzoletto i sudori della fronte, e
dicendole:

— _Fai a pianino_, cara, non _investirti_ troppo. —

Romilda fe' un gesto di languido assentimento, e prese il quaderno....
Ci siamo!... Ma le mancava ancora qualche cosa.

— Toniotto! Eloisa! — ella gridò in tuono imperativo — datemi lo
_sgabellino_ che è lì in quel _cantuccio_. —

Prima che i nominati potessero muoversi, l'ordine era stato eseguito
dai signori Romoli e Osteolo, slanciatisi sulla preda con nobile gara.

— _Disutilacci!_ — sclamò Romilda rivolgendosi al fratello e alla
sorella — _Disutilacci!_ O che non potevate muovervi voi? Come siete
tardi! Non si direbbe che ci corre lo stesso sangue nelle vene. —

Eloisa chinò il capo senza rispondere. Si capiva ch'ella era avvezza a
queste rampogne e che stimava inutile ogni tentativo di giustificarsi.

Ts! ts! ts! La declamazione ha principio.

Nessuno fiata. Il primo canto è dedicato all'Italia. Come il Leopardi,
l'autrice domanda armi:

    A me pur date un brando, un moschetto!

— Che sentimenti! — disse il pretore che rientrava in sè.

— E che versi! — esclamò il professor Romoli.

Il signor Meravigli in punta di piedi fa il giro della stanza, e viene
per di dietro a battermi sulla spalla.

— Che cosa le pare, eh?

— Ah! bellissimo, — rispondo io in sussulto.

Eloisa, che mi stava ritta vicino e ch'io teneva per mano, rivolse i
suoi occhi espressivi verso di me, quasi per indagare la sincerità del
mio elogio.

Silenzio! Si ricomincia. Dopo la poesia politica, la poesia elegiaca,
sentimentale. Vi furono _il mesto salice_, _la candida luna_, _l'onda
tremula_, _la pallida vergine_ e _il biondo menestrello_.

Alla qual parola, non so per che associazione d'idee, Toniotto diè in
uno scoppio di risa così clamoroso che il padre, montato in furore, lo
cacciò a forza dalla stanza, consegnandolo a Caterina.

Finalmente udimmo un sonetto _sulla morte di Cleopatra_, tèma pieno
di attualità, un altro che voleva essere spiritoso _sul secolo di
ferro_, e un terzo _sull'educazione_, ch'era ispirato dal discorso
del professor Romoli, e commosse siffattamente l'esimio pedagogo da
costringerlo a soffiarsi il naso parecchie volte per aprire un varco
indiretto alle lagrime.

Terminata la declamazione tra unanimi applausi e grugniti accademici,
i coniugi Meravigli abbracciarono la loro figliuola, le rasciugarono
nuovamente il sudore e le raccomandarono di star quieta alcuni minuti
e di ricomporsi. Indi la signora Agnese chiamò Eloisa e la condusse
a dare un bacio alla sorella, dicendole: — Quand'è che _ti_ diverrai
simile a Romilda? —

Il signor Antonio, recatosi in traccia di Toniotto, lo rimenò per un
orecchio gridandolo indegno di appartenere ad una famiglia, nella quale
si trovava un essere superiore come Romilda. — Ma pur troppo — egli
soggiunse in un accesso di umiltà — sono degno io di tanta figliuola? E
n'è degna la mia Agnese? Quand'io me le paragono trovo che a lei sola
dovrebbe essere rivolta la benevolenza, di cui tutti mi colmano in
questo paese.

— Ah no! — esclamò il farmacista con aria tragica — illustre la figlia,
ma non meno illustre il genitore....

— No, Storni, non crescete la mia mortificazione; — interruppe il
signor Meravigli con un gesto espressivo.

— Non sono poeta, — confessò candidamente il signor Osteolo, — e le mie
preferenze, com'è noto, sono pegli studî economici e pel commercio bene
esercitato, ma i versi della signora Romilda vanno al cuore. E il cuore
io lo rispetto.... quello prima di tutto. —

Il dottore Trigli si avvicinò alla nobil signora Prassede e le chiese
la sua opinione.

— Ah! — rispose ella con singolare modestia — da quando è morto
mio fratello il conte Gaspare, io non giudico. Lui sì ch'era un
buongustaio! E se non fosse, che, com'egli diceva, un nobile non deve
esporsi a esser criticato, io credo ch'egli avrebbe potuto stampare
cose.... cose.... —

E lasciò incompiuta la frase, ma si capiva ch'ella intendeva dire:
_cose molto superiori a quelle che abbiamo sentite testè_.

Intanto il sole volgeva al tramonto e dalle due finestre ch'erano
rimaste aperte veniva il dolce refrigerio d'un po' d'aria fresca che
invitava ad uscire.

Onde, allorchè il signor Meravigli propose di andare al caffè del
viale dove suonava la musica, un raggio di soddisfazione ineffabile si
diffuse sul volto della maggioranza degli astanti.

Non di tutti però. Romilda sostenne che era _tardino_ e che al caffè
non vi si trova che _gentuccia_; che, del resto, dopo che si era
_costretta_ a declamare i suoi versi, ella aveva tutto il sistema
nervoso in agitazione e sentiva il bisogno d'un _pocolino_ di calma.
Il professore Romoli si scusò dicendo che doveva pensare al prossimo
numero del suo periodico _La Rinnovazione intellettuale_, e la nobile
signora Prassede annunziò la sua intenzione di ritirarsi a casa, non
convenendo a lei, zittella, di recarsi ad un caffè ove, pur troppo, il
conte Gaspare suo fratello non poteva più accompagnarla, ed ove ella
non aveva poi alcuna speranza di iniziare qualche relazione che venisse
a _un risultato onorevole_.

Queste parziali obiezioni non tolsero però che la passeggiata si
effettuasse. Romilda venne raccomandata alle cure di Morfeo, nè mi
soffermerò a descrivere la cerimonia del commiato ch'io presi da lei;
il professore e la signora Prassede se ne andarono pei fatti loro;
il signor Alieni rimase a dormire nel corridoio, e il capo stazione,
che abbiamo lasciato alle prese con la Maria, aveva finito collo
svignarsela per una porta laterale e col correre al suo ufficio, ove
non avrebbe tardato a riprendere la sua gravità consueta.

La signora Agnese, salita un momento nella sua stanza, ricomparve
indi a poco del tutto trasformata. Ella indossava un vestito di velo
di color giallo fino alla cintola e rosso _solferino_ dalla cintola
in giù, come quelle _granite_ metà d'arancio e metà di lamponi che si
prendono nei caffè. La sua acconciatura, non meno singolare, consisteva
in un cappellino di paglia con due enormi piume dei due colori
dell'abito che ondulavano maestosamente come spighe giunte a maturità,
e due nastri verdi che le scendevano, svolazzando, giù per la schiena.

— Non ho altra vanità da quella dei cappellini in fuori, — ella mi
disse, quand'io le offersi il braccio. — Sarà una debolezza, ma che
vuole? Mi pare che ciò che distingue veramente la donna di buon gusto
sia l'acconciatura. —

Il viale di platani presentava un aspetto animatissimo; gli ultimi
raggi del sole proiettandosi orizzontalmente si rompevano attraverso
i rami e le fronde dei begli alberi regolari, e le più vaghe, e
fantastiche, e mobili ombre del mondo si disegnavano sul terreno. La
gente, quale percorreva in frotta i due sentieri laterali riserbati ai
pedoni e coperti di ghiaia minutissima, quale raccolta in capannelli,
faceva siepe intorno alla banda. Gli equipaggî non brillavano nè per
copia nè per eleganza; però v'era un certo viavai di vetture guidate
da Automedonti più o meno esperti che venivano a far mostra della
loro destrezza dinanzi al caffè. Ivi era il fiore della cittadinanza,
ivi lo sfarzo supremo delle _toilettes_. La mia qualità di forestiero
mi concedeva il diritto d'una escursione critica, e inforcatomi il
_pince-nez_, mi posi a girar tra le sedie e i tavolini col dottor
Trigli per Mentore. Non mi farò a ripetere le maldicenze di questo
personaggio, il quale conosceva tutti ed era conosciuto da tutti. Solo
mi colpì la descrizione ch'egli mi fece d'una coppia che sedeva in
disparte e aveva nella fisonomia un misto di boria e di noia. Erano
marito e moglie, giovani entrambi, vestiti con una ricercatezza che
rivelava l'opulenza, ma faceva a' pugni col buon gusto, e preoccupati
soprattutto di parer _chiques_. Si trovavano a X*** da poco, mi
disse il Trigli, ed era la quarta città, in cui avessero fermato il
loro soggiorno nel corso d'un anno, non avendone per anco trovata
alcuna, nella quale potessero godere in pace i titoli ambiti di conte
e contessa. Conte e contessa! Non erano davvero, ma si rodevano di
rabbia perchè tali fossero certi loro cugini, e appunto perciò avevano
abbandonato il loro paese e si trascinavano di luogo in luogo, sperando
che troverebbero un sito, in cui esser creduti sulla parola. Pur
sembrava una fatalità. Nè lo scrivere i dolci titoli sui biglietti da
visita, nè il cinguettare francese tra loro, nè il sedere in un angolo
appartato del caffè per non contaminarsi con la plebe, nè l'aggiungere
alla stupidità e svenevolezza propria la svenevolezza e stupidità della
_haute_, era bastato a far loro conseguire l'intento. Dappertutto si
scopriva l'inganno, e i poveri patrizî in _fieri_ restavano corbellati.
L'aristocrazia non li voleva per un conto, la borghesia non li voleva
per l'altro, ed essi rifacevano i loro bagagli e cercavano spiagge più
propizie e ospitali. Singolare pellegrinaggio, che dovrà esser tenuto
in gran conto da qualche filosofo venturo, il quale studii il tèma
della trasmigrazione dei popoli.

Mentre il Trigli rispondeva a due signore che lo chiamavano a nome, e,
secondo tutte le apparenze, lo interrogavano sull'esser mio, la mia
attenzione fu attirata da un'altra parte. Annunziata dall'argentino
tintinnìo dei sonagli, usciva di mezzo alla folla, saltellando
allegramente, una capretta di pelo folto e lunghissimo color caffè,
seguìta da un contadino, vecchio d'anni, ma d'una vecchiezza rubizza
ed alacre, come poteva vedersi dall'occhio vivo e dal passo agile e
svelto. Egli portava una giubba verde-mare, le brache di ruvida tela
bigia chiuse al ginocchio, le calze turchine attillate in guisa da
lasciare scorgere due polpacci assai sodi e massicci, le scarpe con
fibbie d'ottone, e in testa un cappello di paglia a larghe falde, sotto
cui spuntavano alcune ciocche di capelli bianchi. Nella mano teneva
una bacchetta sottile destinata a spingere o a guidare la sua bestia;
ma poichè il docile animale non aveva bisogno nè di eccitamento nè di
freno, egli se ne serviva piuttosto per galanterìa, come i _dandies_
delle città si servono della loro mazza col pomo dorato. La Eloisa,
che sedeva al caffè, si levò d'un balzo, e, apertosi un passaggio
fra la gente, raggiunse la bestiuola ed il suo guardiano che parevano
entrambi conoscerla. Vidi ch'ella palpava il collo alla capretta, la
quale alla sua volta torceva il muso e cacciava fuori la lingua per
lambirle la mano, senza però che quest'incontro l'arrestasse punto sul
suo cammino. Era invece Eloisa che si era accompagnata alla piccola
comitiva. Procedettero tutti e tre in mezzo alla strada per alcun
tratto; indi, ormai oltrepassata la folla, si posero per uno dei due
sentieri laterali. La signora Agnese, infatuata a discorrere con due o
tre donne, non aveva posto mente al subito involarsi della figliuola;
il signor Antonio, dal canto suo, era occupato a tener desti il pretore
ed il farmacista, i quali ad ogni tratto lasciavano cadere la testa
pesante dal sonno. Mi prese vaghezza di seguir la simpatica fuggitiva,
e studiai il passo per avvicinarmele. E, invero, s'io non mi fossi
affrettato, l'avrei perduta di vista, chè, indi a poco, ella ed i suoi
compagni presero un viottolo chiuso fra due siepi. Fu colà appunto
ch'io la raggiunsi. Ella sentì che alcuno camminava dietro di lei,
e si voltò. Come mi scorse, si tinse di porpora e parve visibilmente
confusa. Il contadino e la capretta si fermarono anch'essi un istante,
e il vecchio si levò il cappello di testa.

— Eloisa, — io le chiesi, — ove vai? — (Potrei esserle padre, onde non
v'è nulla di sconveniente nella formula confidenziale del _tu_.)

Abbassò gli occhi a terra, ma non certo come fa chi deve confessare una
colpa. Indi balbettò con un forzato sorriso:

— Vado qui vicino, dalla Brigida.

— O chi è la Brigida? — soggiunsi, ponendomele a fianco e camminando
con lei.

— Una povera donna che sta lì. — E segnò col dito una capannuccia
nell'interno dei campi.

— Mi lasci venir teco?

— Venga, — disse; ma poi un po' dubbiosa: — Conosce la Brigida?

— Io, no; ma posso conoscerla ora.

— Poverina! è malata, — sospirò la fanciulla, e una lagrima le scorse
lenta lenta giù per la guancia.

Passammo sopra un tronco d'albero tagliato a mezzo e gettato a guisa
di ponticello attraverso un fosso, e la fronte malinconica di Eloisa
si spianò alquanto vedendo ch'io mostravo sì poco coraggio in quel
tragitto.

— Si fa così, — ella esclamò ridendo, e fu in due salti alla parte
opposta.

Appena lo squillo argentino dei sonagli giunse alla casupola, ch'era
la mèta del nostro pellegrinaggio, un bambino che giocherellava sulla
soglia ci corse incontro tutto ilare e frettoloso, mi guardò un po'
infastidito, ma senza mettersi in soggezione, si lasciò sollevare
per di sotto le ascelle dalla Eloisa, che gli stampò un bacio in
fronte, poi, svincolatosi, fece mille feste alla capretta. Poteva
avere cinque o sei anni al più, ed era, nella negligenza del vestito
e dell'acconciatura, bellissimo. Indossava pochi stracci che gli
lasciavano scoperta parte delle membra, camminava scalzo, e vispo così
che pareva avesse le ali. Anche i cenci acquistavano vaghezza sulla sua
personcina.

— E come sta la mamma, Gigi?

— Meglio, — egli rispose con quella beata spensieratezza della sua età,
nella quale si dice _meglio_, perchè non si può intendere _peggio_.

Eloisa scrollò il capo, e continuò:

— Ci fu il dottore a vederla?

— Sì, stamane. —

E il bimbo ricominciò a saltellare intorno alla capretta, finchè fummo
entro un piccolo campicello incolto, chiuso da canne, ove sorgeva la
capanna della Brigida. Un porcellino girava su e giù col muso a terra,
come persona inquieta. La porta era aperta, e la luce, omai scarsa, del
crepuscolo entrava per quella nell'unica stanza che serviva da camera
da letto, da cucina, e da tutto. Gli occhi discernevano a stento da una
parte un focolare, dall'altra qualche cosa che somigliava ad un letto.

Si fece udire una voce debole e velata.

— È lei, padroncina?

— Son io, Brigida, come va?

— Al solito, padroncina, al solito. —

E, com'io stavo sulla soglia, ed ella vide certo una figura sconosciuta
disegnarsi nel vano della porta, chiese faticosamente:

— C'è qualcuno con lei?

— Un amico del babbo.

— Oh Vergine Santa! — sclamò la Brigida — e nessuno gli dà una sedia, e
in questa camera, con questo disordine....

— Non vi affannate, buona donna, — dissi io avvicinandomi, — ho
accompagnato Eloisa; ma non voglio cerimonie.

— Ah! solo ch'io potessi alzarmi qualche ora al giorno, cercherei di
mettere un po' in assetto la stanza.... Mi fa una pena a veder tutto
sossopra.... Ma la padroncina lo sa.... non ho che l'Orsola, la quale
mi fa la carità di passar la notte meco perchè non resti sola. —

E qui fu assalita da una tosse cupa, profonda, che faceva male a
sentirla.

Il contadino intanto aveva condotto la capretta fin presso al letto,
e le aveva munto dalle poppe una gran tazza di latte, che Eloisa gli
prese di mano e volle dare ella stessa all'inferma, non senza aver
prima acceso un lumicino posto sopra una scansìa che sovrastava al
letto.

— Dio buono, — bisbigliò la Brigida, — vuol disturbarsi lei? —

E, ansando, si pose a sedere reggendosi sopra uno dei gomiti, mentre
con la mano che aveva libera, aiutata dalla Eloisa, portava il
bicchiere alla bocca.

Povera donna! Com'era scarna, com'erano affilate quelle sue dita, e
che rossore di cattivo augurio sulle sue guance! Del resto era giovane
e forse non sarà stata brutta; ma ormai su quel giaciglio, con quei
capelli scomposti, con quelle pupille già vitree, con quel breve
respiro, non destava che un senso d'infinita pietà.

Ella beveva a sorsi, affannosamente, e, ad ogni sorso, se Eloisa
non l'avesse sostenuta, avrebbe certo lasciato cadere la testa sul
guanciale, tanto le si vedeva dipinta la stanchezza sul viso. La
capretta era lì immobile davanti al letto, col muso all'insù, cogli
occhi fisi nella malata, da far parere ch'ella medesima ne avesse
compassione. Gigi, sollevando una delle sue gambine, si provava a
mettersi a cavallo della buona bestia, che lasciava fare; ma Giuseppe
(era il nome del contadino):

— Bada — gridò — che tu non me la schiacci, — e lo fece smettere.

E la madre dal suo letto ammoniva: — Gigi, Gigi, sii tranquillo.... —

Indi rompeva in uno scoppio di pianto. — Povera creatura! povera
creatura!...

— Via, Brigida, fàtti animo, — disse amorevolmente Eloisa.

Ma l'altra non tralasciava di piangere e soggiungea singhiozzando:

— O.... se non fosse per lui.... me ne importerebbe assai a me di
morire!... Già.... per quello che ho goduto quaggiù.... che altro
posso desiderare che un po' di pace?... Ma è lui.... è lui.... povero
bambino.... lui.... che resta solo nel mondo.

— Domani lo volete il latte, Brigida? — chiese Giuseppe, appena la si
fu un po' calmata.

— Domani! — ella rispose — oh! no.

— E perchè? — domandò Eloisa.

— Ah! padroncina.... — e le mormorò qualche cosa all'orecchio.

Credetti indovinare, e chiamai la fanciulla.

— Eloisa, — le dissi, porgendole una moneta d'oro, — per tutto quello
che avete di più caro al mondo, fategliela accettare, e che quella
povera donna abbia almeno il refrigerio della sua solita tazza di
latte. —

Si fece raggiante in viso, e (non esagero) parve che volesse saltarmi
al collo, ma si ricompose, e posta una mano sulla spalla di Giuseppe:

— Va, va pure.... ma torna domani, sai?... Sì, Brigida.... L'amico del
babbo ha accomodato tutto.... —

E, fattale luccicare davanti la moneta, la ravvolse accuratamente in
una cartolina e gliela pose sotto il guanciale, ch'era il luogo più
sicuro ov'ella potesse tenerla, mentre la malata si profondeva in
ringraziamenti, che è superfluo ripetere.

— Oh! signore, — soggiunse la poveretta, — se sapesse che cosa io debbo
a quest'angelo qui... — E additava la Eloisa.... — E Dio mi darà la
grazia che quand'io abbia raggiunto il mio uomo, ch'è in Paradiso da
due anni, la pensi lei a far sì che il mio Gigi non abbia da morire di
fame, nè diventi, chè sarebbe ancor peggio, un ragazzo scostumato....

— Ma, Brigida, — interruppe Eloisa, — perchè disperare?

— E vuol ch'io speri ancora dopo tre mesi che ho la febbre ogni giorno,
e son ridotta a segno di non potermi quasi più muover nemmeno nel
letto? Ho sperato, sa? ho sperato un pezzo, e quando mi dicevano che
la primavera mi avrebbe ristorato le forze, l'ho creduto, e quando mi
dicevano che il sole mi avrebbe corretto il sangue, sono stata con
le mie prime febbriciattole addosso, seduta lì sulla porta, col mio
lavoro in mano e con questa benedetta creatura vicino, che avrebbe
voluto ch'io giocassi e corressi con lui per i campi.... E mi ricordavo
di que' bei tempi, in cui accompagnavo lei a spasso, e avevo anch'io
l'ali ai piedi per seguirla, e non c'era dubbio di stancarsi, o tutt'al
più, se la si stancava lei, io me la prendevo bravamente sulle spalle
e la riconducevo a casa come un fagotto.... Già ci sgridavano talvolta
tutte e due; ma in fin dei conti non si era fatto nulla di male, e
si pigliavano le lavate di capo senza troppo scomporsi.... Ma! così
tornassero quegli anni!.... —

E qui, non potendone più, si coperse il viso col lenzuolo, e pianse
nascostamente.

Il bimbo, che fino a quel punto non aveva posto mente alle lagrime
materne e pareva dimentico della tragedia che gli si svolgeva
dinanzi, colpito da non saprei quale divinazione, allorchè vide la
sua genitrice cacciare il capo sotto la coltre, e starsene lì quieta,
tutta celata allo sguardo, ci fissò gli occhi in volto con una dolorosa
inquietudine, poi si slanciò sulla sponda del letto e si mise a
strillare disperatamente:

— Mamma! mamma! —

E quand'ella a quelle grida tirò fuori la testa, egli le gettò le
braccia al collo, piangendo a calde lagrime e un po' guardando lei,
un po' guardando dalla nostra parte con una cotale espressione mista
di dolor disperato e di sfida, quasi ci volesse dire: — Oh! chi potrà
portarmela via? —

L'inferma, alla sua volta, con una forza, di cui la non si sarebbe
detta capace, s'era voltata sul fianco e ravvolgeva le mani nei bruni
e ricciuti capelli del suo bambino, divorandolo cogli occhi e tenendosi
immobile, con le labbra serrate, con atteggiamento di statua, se non le
fosse apparsa la vita nell'ansare del petto e nel fuoco delle pupille.

Li quietammo entrambi, la Brigida con buone parole, il bambino col
promettergli un vestitino nuovo che Eloisa stava lavorando di nascosto
per lui, e col fargli veder sua madre che, poveretta! s'era forzata
a sorridere. E così, perchè omai s'era fatto buio, uscimmo di là
coll'anima straziata da quella scena. A pochi passi ci scontrammo con
una vecchierella (era l'Orsola) che veniva, secondo il costume, a tener
compagnia alla malata.

— Andate, andate, Orsola, chè la v'aspetta, — disse Eloisa.

— Oh! signorina, è lei? — rispose l'altra. — Vado, vado; ma ho paura
che ci sia più bisogno di prete che di altro.... Mi si strappa il cuore
pensando al povero Gigi.... Basta; il Signore provvederà.... —

E si allontanò.

Già tremolavano le prime stelle nel firmamento, le lucciolette
cominciavano a scintillare lungo le siepi e l'aria era piena dei suoni
e delle fragranze, di cui è dispensiera la notte.

— E ti sgrideranno, Eloisa, perchè hai fatto così tardi?

— Forse, — fu la sua risposta.

E senz'aggiunger parola si mise a studiare il passo, camminando a testa
china, come assorta ne' suoi pensieri.

Eravamo già entrati nel viale e si vedeva benissimo il caffè coi lumi
accesi, tuttavia gremito di gente.

— Senti, Eloisa, — io le dissi, — se accadrà sventura alla povera
Brigida, trova modo di farmelo sapere, e vedrò di aiutarti circa al
bambino.

— Dice davvero? — sclamò la fanciulla, levando verso di me i suoi begli
occhi, entro i quali brillavano due lagrimette.

— E puoi credere ch'io scherzi su questa cosa?

— Ma allora — proruppe ella con una cara ingenuità — è stata una gran
bella combinazione la nostra visita, e seppur mi sgrideranno ci vorrà
pazienza.

— Oh, eccoli qui! — gridò il signor Meravigli, che s'era mosso dal
caffè appena ci aveva visti da lungi. — Ma, caro cavaliere, dove s'è
lasciato condurre da questa bimba senza giudizio? Mi figuro già che
sarai andata dalla tua Brigida, quella smorfiosa, che per un fil di
febbre si è incaponita di dover morire....

— Oh, babbo! la sta proprio male!...

— Male! male! La si era avvezza a far la signora in casa nostra, ecco
il guaio. Ma, in verità, tu non avevi miglior trattenimento da offrire
al signor cavaliere? E io che contavo presentarlo a tutte queste
signore, che sarebbero andate a gara di fare la sua conoscenza.

— Eloisa! Eloisa! — chiamò alla sua volta la signora Agnese. — Brava!
bravissima! Non lo sapevi che a quest'ora devi leggere il _sfoglio_ a
Romilda? Non hai proprio cuore. Tua sorella è sola, e tu vai a zonzo.
Ah! io non sarei indulgente come tuo padre. —

Stimo inutile dilungarmi a riferire la mia eloquente perorazione in
favore dell'imputata, a cui si accordò grazia mercè mia, non senza
dichiarare che nel perdonar con tanta facilità c'era un po' di mancanza
di riguardi verso Romilda.

Ma, grazie al cielo, l'ora della corsa era prossima e io dovevo prender
congedo dai miei ospiti. L'ufficioso Meravigli dichiarò naturalmente
che mi avrebbe accompagnato alla stazione, ove aveva già fatto portare
dal servo il mio meschino bagaglio. Quanto alla signora Agnese, ella
doveva tornarsene a casa con Eloisa e Toniotto, il quale era entrato
nel caffè con grande sgomento dei camerieri; ma, contro al solito,
invece di fare insolenze s'era disteso sopra un sofà di paglia e
dormiva di profondissimo sonno.

— Al _bene_ di rivederla — mi disse la signora Agnese, porgendomi la
mano col solito garbo — e grazie _del vantaggio della sua conoscenza_.

— Ehi, Storni, — urlò il signor Meravigli, scuotendo il povero
farmacista addormentato, nel modo in cui si scuoterebbe un mulo, — non
vedete che il cavaliere parte? non venite alla stazione? —

Il degno uomo sbadigliò un lunghissimo _Ah_ e stirò ambe le braccia.

— I miei rispetti, signor cavaliere, — borbottò quindi con voce
mal sicura, e guardandosi intorno con occhi imbambolati, — i miei
rispetti.... Ah! se ne va?... Buon viaggio e felice ritorno.... Già
chi vive s'incontra.... Alla stazione.... se ci verrei.... altro! ma
bisogna che vada al _Coniglio...._ Oh! oh! oh! — E in tre colpi con
grande sforzo fu in piedi, e se ne andò traballando e ripetendo: —
Felicissima notte. —

Il dottor Trigli e il pretore avevano dovuto allontanarsi. Il signor
Osteolo col suo _aplomb_ consueto volle anch'egli essermi a fianco fin
ch'io partissi.

— Le manderò, se non le dispiace, alcune idee, che ho gettato in
carta alla buona, sopra le riforme delle dogane. Sono i miei studî
prediletti.... Quando posso staccarmi un po' dagli affari, è per me
una distrazione l'occuparmi di cose economiche. Eh! se non ci fosse
di mezzo l'interesse del paese, stralcerei la mia casa, e, secondo
le mie deboli forze, vedrei anch'io di aggiungere la mia pietruzza
all'edifizio, a cui loro scienziati lavorano.... Ma il decoro del
commercio è per me una gran cosa; non so che dire, son fatto così.

— In coscienza, cavaliere, non le pare che l'uomo, il quale sposerà la
mia Romilda, potrà chiamarsi felice? — mi disse con tuono indagatore il
signor Meravigli.

— Beato, — io risposi, tanto per finirla con una parola breve.

— L'essenziale starà nel trovare la persona adatta. Sarà difficile....

— Difficilissimo, — ripetei macchinalmente.

— Perchè, veda, — continuò l'altro, passando il suo braccio sotto il
mio e gestendo con la mano che gli restava disponibile: — in primo
luogo ci vuole una persona istrutta, assai istrutta, istruttissima; ciò
è fuor di questione. Come potrebbe vivere la Romilda con uno zotico,
con un ignorante? In secondo luogo è necessaria una persona agiata.
La mia figliuola, con quel talento che ha, deve forse far da cucina e
attendere alle bisogne casalinghe? Nemmeno per idea. In quanto all'età
sarei meno esigente.... Romilda non ha simpatia pei giovinotti di primo
pelo. È vero ch'ella ha diciannove anni soltanto, ma anche se il marito
ne avesse sedici o diciassette più di lei....

— Ah! è troppo, — interruppi.

— Non è troppo, mi creda, quando la persona sia ben conservata.... —
E, nel pronunziare queste parole, il signor Meravigli mi guardava con
quell'atto amorevole, con cui una buona massaia guarda un bel tacchino
posto in mostra dal pollaiuolo.

Che idea!... Siamo alla stazione, sento un campanello, mi svincolo in
gran fretta dal braccio del mio compagno che mi grida dietro non so che
cosa, e mi slancio allo sportello del bigliettinaio.

— Un biglietto per ***.

— Lo vuole per questo treno? Se aspetta un quarto d'ora c'è il
_diretto_.

— No, devo partire con questo.

— Badi che l'altro arriva prima a ***.

— Non importa, vi dico, voglio partire subito. —

L'impiegato mi dà il biglietto borbottando: — Uhm! per poche
lire! —

Non mi curo dell'insinuazione, lietissimo di potermela finalmente
svignare.

— Ma, caro cavaliere, — gridano in coro i signori Meravigli ed Osteolo
che mi avevano raggiunto, — c'è un equivoco. Questo che parte non è il
treno _diretto_, ma il treno _omnibus_.

— Lo so, — risposi, — ma mi piacciono i treni _omnibus_.

— Oh diavolo! — osservarono con qualche sorpresa i due signori.

— Mi duole — rispose il signor Meravigli — perchè avrei voluto
terminarle il mio discorso. —

Intanto s'intese la parola sacramentale _Partenza_.

— Duole anche a me, — dissi in fretta, porgendo la guancia ai baci del
signor Meravigli e del signor Osteolo; — ma ci rivedremo senza dubbio.

— Bravo; questo è parlar bene.... Solamente desidererei sapere una
cosa. Che pensa ella in massima del matrimonio?

— Ah! — risposi accomiatandomi — applico a mio modo un noto proverbio
arabo e dico: Il matrimonio è di argento, e il celibato d'oro.

— Eppure io la convincerei.... —

Non intesi altro, perchè ero già salito in un vagone.

— Signor cavaliere! signor cavaliere! — gridò una voce di fuori,
quand'io avevo già preso il mio posto fra un ecclesiastico e una donna
di colossali dimensioni.

Chiesi licenza e mi affacciai alla finestra. Era il capo stazione che
aveva riacquistata la padronanza di sè medesimo, e non parlava più in
francese.

— Mi permetta in primo luogo ch'io la saluti, — egli disse, — poi che
le consegni il suo sacco da viaggio e il suo ombrello ch'ella aveva
dimenticato, e lasci per ultimo ch'io le dia da parte del professore
Romoli questo piego. Buon viaggio, perchè il convoglio si muove. —

Sul piego c'era incollato un biglietto di visita con la seguente
leggenda: «_Il professore Augusto Romoli_ si permette di accompagnare
al signor cavaliere Fausto Guarleni cinquanta esemplari del suo
discorso _Sulla rinnovazione intellettuale in Italia_, pregandolo di
volerli dispensare alle persone che crederà più opportune. Con molte
scuse e ringraziamenti.»

Seccatore! Sedetti di nuovo, e presi sonno. E, dormendo, la mia
fantasia mi ricondusse al tugurio di Brigida, al suo bambino, e alla
buona Eloisa.

Sono ormai scorsi quattro mesi, e confesso ch'io m'ero quasi
dimenticato di questa mia gita. Ma iersera mi capitò una letterina
col bollo di X***. Era scritta con molta concisione e con bella
calligrafia, e suonava così:

   _Pregiatissimo signor Fausto. — La povera Brigida ha languito
   per altri quattro mesi ed è morta questa mattina. Il bambino
   non ha nessuno. Io farò quello che potrò. Si ricordi della sua
   promessa._

                                                   _La sua affez._
                                                 ELOISA MERAVIGLI.

Non ho presa alcuna deliberazione; ma non fallirò certo alla mia
promessa.

Eloisa non mi parla nè della illustre Romilda, nè della signora Agnese,
nè del signor Antonio, cognato di mia cognata. Segno che stanno tutti
benissimo. Chi vuole andarli a vedere prenda un biglietto di strada
ferrata per X***. Io non ho intenzione di tornarvi per ora.

  _1871._

FINE.



INDICE DEL VOLUME


  Una riga di Prefazione                        Pag.   I
  Un signore possibile                                 1
  Abnegazione. _Novella_                              55
  Rimembranze del Cadore                             175
  Il racconto della signora Adelaide                 233
  Un raggio di sole. _Novella_                       329
  Il colpo di stato di Clarina. _Novella_            379
  Il cognato della cognata. _Bozzetto_               405



NOTE:


[1] Nel Veneto si chiamano così i convegni dei contadini nelle stalle o
nelle rimesse durante le serate invernali.

[2] Il Confortatorio di Mantova. Mantova, 1867, vol. II, cap. XCIV.

[3] Del Calvi dettò una breve, ma splendida biografia il mio amicissimo
Antonio Tolomei di Padova, nell'occasione che le ossa del martire
furono ricondotte in Briana di Noale, sua patria.

[4] Vedi l'opuscolo del dottor Girolamo Costantini: _Il Cadore e i suoi
boschi._ — Venezia, Antonelli, 1864.

[5] In Cadore si lavoravano in antico parecchie miniere: ora si lavora
soltanto quella presso Auronzo, che dà un largo prodotto di zinco al
capitalista tedesco che la tiene in affitto.

[6] Quantunque non appartengano al Cadore, ma al contiguo distretto
di Zoldo, citerò come insigni artefici d'intaglio i fratelli Panciera
Besarel.

[7] Un Cadorino che si occupa con intelligente affetto del suo paese,
e che, se gli bastassero i mezzi, coopererebbe grandemente a farlo
risorgere, è il sig. Giovanni Antonio Talamini, che in alcuni suoi
scritti, pubblicati ne' giornali o in opuscoli separati, accennò ai
mali che affliggono il Cadore e ai rimedî che potrebbero opporvisi.
A' suoi consigli amichevoli io mi pregio di aver largamente attinto,
e colgo pure questa occasione per render grazie ai Sigg. Evaristo
Talamini, direttore dell'edificio di seghe in Longarone, e Luigi
Rizzardi, avvocato in Auronzo, che mi furono cortesi di franche
accoglienze e di esatte notizie.



Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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