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Title: La sposa di Mènecle
Author: Cavallotti, Felice
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La sposa di Mènecle" ***


                           FELICE CAVALLOTTI


                                   LA
                            SPOSA DI MÈNECLE


                                COMEDIA
                        IN UN PROLOGO E TRE ATTI
                                CON NOTE



                                IN ROMA
              _Presso Forzani e C., tipografi del Senato_
                                EDITORI
                                  1882



                          PROPRIETÀ LETTERARIA
                  DEGLI EDITORI-TIPOGRAFI FORZANI E C.



Una delle arringhe giudiziarie, a noi pervenute, di Iseo (l'oratore
ateniese che fiorì sui principî del IV secolo avanti l'era volgare e fu
maestro a Demostene), arringa intitolata: _Della eredità di Mènecle_,
tratta di un caso giuridico che suggerì in germe la idea della presente
commedia e il nome del suo protagonista. Ed è curioso che dei tanti
grecisti i quali si son degnati di farmi, nelle _appendici_ critiche,
la lezione sulla commedia mia, sentenziando non verosimile il caso,
nessuno abbia mostrato tampoco di conoscere il buon vecchio oratore
Iseo almeno di vista. Mi sbaglio: l'uno di essi, più grecista degli
altri, sentendo proferito nella commedia quel nome, mi rimproverò
di avere alluso al discorso di Iseo dell'onorevole Zanardelli, e mi
ammonì paternamente che queste allusioni non sono roba di sapor greco!
Passiamo oltre... e veniamo al piato giudiziario che dovette decidersi
a quei tempi davanti ai giudici cittadini ateniesi.

Un giovine orfano adottato per figlio da certo Mènecle, al quale
avea dato la propria sorella in isposa, e divenuto, alla morte di
Mènecle, erede di lui, si vede contesa la eredità da un fratello del
defunto: il quale afferma in tribunale l'adozione non essere stata
legittima, ma carpita al vecchio, già imbecillito dall'età, per
mezzo di sua moglie, sorella all'adottato. Iseo scrive l'arringa in
favor di quest'ultimo e sostiene legittima la adozione e la eredità,
difendendo il giovine dall'accusa. Era questa poi falsa? Era vera? V'ha
chi inclina a quest'ultima ipotesi: e scorger vorrebbe nell'arringa
di Iseo la perizia di un avvocato abilissimo messa a servizio di due
giovani imbroglioni, sfruttanti la imbecillità senile di Mènecle. A
me la ipotesi pare molto avventata; dato che le cose stessero a quel
modo, bisognerebbe ammettere che causa cattiva di rado fu difesa con
migliori e più commoventi argomenti. Checchè ne sia, ecco i fatti,
quali l'accusato, nell'arringa che da Iseo per lui fu scritta, innanzi
ai giudici li espone: giusta la legge che agli accusati prescriveva di
perorare la propria causa in persona:

Due vecchi ateniesi, Epònimo del borgo di Acarne e Mènecle, erano uniti
da intima amicizia. Il primo morì lasciando quattro figli, due maschi
(di cui l'uno è l'accusato) e due femmine. La maggiore fu maritata dai
fratelli a certo Leucolofo. Quattr'anni dopo, quando la minore era già
in età da marito, al vecchio e ricco Mènecle morì la prima moglie: ed
egli andò dai due figli di Epònimo a chiedere in seconde nozze la lor
sorella, in memoria dell'amicizia antica che lo legava al loro padre
defunto. I due fratelli, in reverenza della memoria del genitore e
pensando interpretarne il voto, di gran cuore gliel'accordarono. Ed ora
lasciamo all'accusato la parola:

«Così collocate entrambe le sorelle, io e mio fratello, essendo
giovani, ci demmo alla milizia e partimmo per la Tracia sotto la
condotta di Ificrate. Quivi fattoci onore ed arricchitici, tornammo
qua e trovammo la sorella maggiore con due figliuoli, e la _minore
sposata a Mènecle, senza prole_. Questi, di lì a due o tre mesi, parlò
con noi, e _dettoci della sorella nostra un gran bene, si lamentò
della propria età e dell'essere senza prole. Disse non dovere essere
quello per lui il guiderdone della sua virtù, di invecchiare con lui
senza aver figli: era già abbastanza che fosse infelice lui._ Questo
parlare chiaramente mostrava che egli la _rimandava amichevolmente_:
perchè nessuno prega cui odia. Ei ci pregava di _rendergli un segnalato
servigio, dando la nostra sorella in moglie ad un altro col consenso di
lui_. E noi lo esortavamo a persuadere egli stesso la donna; e ove ella
avesse acconsentito, noi avremmo appagato il desiderio suo. _E quella,
sulle prime, non volle saperne; ma poi col tempo, benchè a malincuore,
acconsentì._ E così la maritammo a Elèo del borgo di Sfetto, e Mènecle
le restituì la dote...

«Passato da questo fatto alcun tempo, Mènecle meditava pur sempre tra
sè come scongiurare la mancanza di prole, _e come avere qualcuno che,
lui vivo, avesse cura della sua vecchiaia, e morto gli celebrasse le
esequie e i sacrifici ereditarî_. Aveva bensì un nipote, il figlio
di costui (l'avversario attore): ma essendo figlio unico, riteneva
disdicevole, adottandolo in figlio proprio, privar di prole mascolina
il fratello. E così stando, non vide altri a lui più prossimi di noi.
Quindi ci parlò dicendoci parergli giusto, postochè la fortuna non gli
aveva dato procrear prole dalla sorella nostra, avere almeno un figlio
dalla stessa famiglia, onde avrebbe amato aver prole per via naturale.
Questo udito, mio fratello assai lo ringraziò e lo approvò, dicendo
che alla vecchiaia e alla solitudine di lui certo abbisognava qualcuno
che di lui avesse cura e con lui convivesse nel borgo: «Per mio conto,
egli disse, tu sai che mi tocca star fuori in viaggio; ma ecco qui mio
fratello (me additando) che curerà le tue cose e le mie, se tu vuoi
adottarlo». E Mènecle approvò le sue parole, e in questo modo mi ebbe
figlio ed erede suo». ISEO, _Ered. Mènecl._, § 6-12.

È egli strano che, mentre sotto a questo racconto il Lallier non vede
altro che tutto un intrigo ordito dai figli di Epònimo, fratelli e
sorelle d'accordo, per impadronirsi dell'eredità di un vecchio ricco e
senza figli; mentre la stessa renitenza della fanciulla ad accettare
in sulle prime il divorzio gli pare aver l'aria di una commedia, e
gli strappa un sorriso d'incredulità (LALL., _La femme à Athènes_,
pag. 257 e seg.), al cuore di una donna invece abbia sorriso la poesia
dell'accettare questo racconto per vero e credere ad un esempio raro
e commovente di abnegazione, di generosità e di virtù? (CLARISSE
BADER, _La femme grecque_). Certo non è a dimenticarsi che questo è
il racconto di una sola delle due parti, l'accusato, e a noi manca,
per dar un giudizio, l'arringa dell'accusatore: e certo il figlio di
Epònimo, soccorso dalla consumata abilità di Iseo, non avrà trascurato
nel racconto, come qualunque accusato, di esporre i fatti sotto la luce
che più gli giovava per muovere i giudici in proprio favore. Ma ammesso
anche ciò, tutto il linguaggio dell'arringa ha pur sempre un accento
di verità che colpisce: e le poche parole che Iseo ha posto in bocca
al vecchio Mènecle sono tanto belle di semplicità, di naturalezza e di
commovente nobiltà d'animo, che l'arte, a cui nulla importa dell'esito,
qualunque fosse, di quel piato giudiziario di secoli fa, ancor meno
sente il bisogno di giudicarle _a priori_ una invenzione sfacciata, e
di credere gratuitamente che il grande oratore che preparava Demostene
ai magnanimi impeti e alle glorie della civile eloquenza fosse
l'ignobile patrocinatore di una ignobile mariuoleria.

Ora, _mutatis mutandis_, e messi gli accessorî da parte, intorno
a quelle semplici parole di Iseo si svolgono e favola e intreccio
della commedia presente. La quale nel pensiero dell'autore mirava a
innocentissimo scopo: e non quello già — Dioneguardi! — di scrivere
intorno al divorzio una commedia a tesi; genere di roba a cui l'autore
professa insuperabile repugnanza e ch'egli volentieri abbandona ai
moderni riformatori della società; ma senza tante pretese, fra le
cento e cento soluzioni del problema, escogitate in cento e cento
drammi, una affacciarne, esempligrazia, già scritta nel diritto e
nel costume antico, adatta a moderni casi, e sul teatro moderno non
comparsa ancora: e questa, ad argomento non di tirate nè prediche
filosofico-sociali, ma di una azione comica che ritraesse al vero la
vita intima greca del secolo di Menandro e profili e idee e affetti e
tipi della _nova commedia_ menandréa. L'autore però non avea pensato
ad un guaio: che quella vita intima d'allora, così diversa per chi la
guardi alla superficie, studiata dappresso, e minutamente, somiglia
in moltissime cose, come due goccie d'acqua si somigliano, alla vita
intima d'oggidì: e che molti di que' tipi, di que' caratteri, di quegli
affetti della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi negli
affetti e ne' tipi della società nostra riscontro meraviglioso: chè
appunto non per nulla fu gloria di Menandro lo avere studiato dentro di
sè e intorno a sè ed evocato sulla scena l'_eterno umano_, tutto ciò
che nelle passioni, e nei dolori e nei ridicoli ha di eterno la umana
natura: e per dirla con Manilio, «_data la vita umana in ispettacolo
ai viventi_» (MANILIUS, _Astronomicon_, lib. V. E già prima di lui,
Aristofane il critico esclamava: _O Menandro! O vita umana! chi di voi
due ha imitato l'altro?_).

E così avvenne che la mia povera _Sposa_ trasse seco dalla nascita la
condanna sua, al cospetto dei critici... che la sanno lunga: i quali
senz'altro, lì sui due piedi, con grande sussiego sentenziarono lei
non essere che una moderna sposina sotto spoglie mentite; e non avere
altro di greco fuor che le vesti ed il nome. Anzi qualcuno dei meno
arcigni tra questi andò più in là, e si degnò con indulgenza domandarmi
perchè mai, _dal momento che la mia era una commedia affatto moderna_,
avessi ricorso al travestimento e non avessi dato addirittura ai miei
personaggi moderni nomi, e messa la scena a Milano od a Cuneo. Eh, Dio
buono! i perchè sono tanti: e tra i cento anche questo, che a Milano
od a Cuneo, la soluzione pensata dal vecchio Mènecle, e a noi da Iseo
testificata, se anche risponde al sentimento nostro, con i codici
nostri non sarebbe stata possibile; sebbene anche a Milano ed a Cuneo
essa forse sarebbe, pure ai dì nostri, in moltissimi casi desiderabile.
E il mio Mènecle non essendo un moralista delle commedie a tesi, non
declama su le leggi come sono da farsi, ma si serve delle leggi come
sono già. Il che, per questi tempi di _verismo_, m'è parso anche più
vero.

Ma con quei critici sapienti, autorevoli, competenti e consumatori di
_enciclopedie_, dilungarmi in risposte non parmi del caso: e con le
loro nozioni profonde della vita greca e del mondo greco, di riuscire
ad intendermela dispero. Ai benevoli poi, i quali lessero nello
intendimento artistico dell'autore, e furono larghi alla _Sposa_ ne'
teatri d'Italia di accoglienze cortesi, a questi dedico il volume con
le note che l'accompagnano: soverchie certo a molti di loro per l'amore
che professano a questi studî: non soverchie all'autore per il rispetto
che deve all'arte sua.

                                                   FELICE CAVALLOTTI.



PROLOGO

   [Illustrazione: Scena]


_PERSONAGGI DEL PROLOGO_

  TESMOTETA (presidente del tribunale).
  BEOTO, accusatore.
  EUDEMONIPPO, autor comico, accusato
    (Eudemonippo: εύδαιμων, felice; ἵππος, cavallo).
  CANCELLIERE.
  ARALDO.
  1º, 2º, 3º GIUDICE.
  Altri GIUDICI (_eliasti_) che non parlano, e TESTIMONI.
  CUSTODE della _clessidra_, e ARCIERO scita
    in sentinella, che non parlano.

_L'azione del prologo ha luogo in Atene l'anno 300 avanti l'E. V.
(1º della 120ª Olimpiade) ossia 80 anni dopo l'epoca in cui è posta
l'azione della commedia._



                                PROLOGO

                       _UN PROCESSO ATENIESE_[1]


DICASTERO ATENIESE.[2]

  Aula del _Tribunale verde_ (_Batràchio_).[3] Pareti colorite in
  verde. Su alcune colonne sono scolpite in tavole le leggi penali.

  Verso il boccascena, a sinistra, è disposto il seggio elevato del
  Tesmoteta, che vestito di bianco e coronato di mirto, presiede.
  Accanto a lui, dai due lati, si stendono le gradinate o banchi di
  legno, coperti di stuoie (πίαδια)[4] per i giudici (_eliasti_)
  occupanti tutta la sinistra del palcoscenico, e supponentisi
  continuare in platea. Il recinto dei giudici è circoscritto nello
  sfondo da steccato o sbarre (δρυφάκτοις), di là dalle quali è
  lo spazio riservato al publico dei cittadini che frequentan le
  udienze: e più oltre in fondo, nel mezzo, l'ingresso, chiuso da
  un cancello (κιγκλίς).[5] Presso l'ingresso, guardato da una
  sentinella (_arciero scìta_),[6] sorge la statua o simulacro
  di Lico[7] ed è issata una piccola bandiera. Di fronte al
  Tesmoteta, nell'angolo tra lo sfondo e la destra della scena, due
  tribune elevate (βήματα), quella dell'_accusatore_ (_ringhiera
  dell'implacabilità_, ἀναίδεια) e quella dell'_accusato_ (_ringhiera
  della protervia_, ὕβρις). Presso alla ringhiera dell'accusato
  stanno i testimoni da lui citati. Dinanzi e vicino[8] alle due
  ringhiere, due vasi od urne pei voti, l'una di rame, coperta
  (urna del voto, κύριος κάδισκος), l'altra di legno, aperta (urna
  di controllo, ἂκυρος κάδισκος). Più innanzi, ma vicino sempre
  alle tribune, due tavoli, l'uno del _cancelliere_ o scrivano
  (γραμματεύς) su cui è il vaso (ἐχιῖνος) contenente i documenti
  e altri papiri distesi sul tavolo; sull'altro più piccolo la
  _clessidra_ od orologio ad acqua, regolata da un servo, soprastante
  alla stessa (ἐφ’ ὕδωρ).[9] Costui ha presso di sè due anfore, una
  grande contenente l'acqua, e una più piccola per attingerne le
  misure.


  All'alzarsi della tela, i due litiganti son ritti in piedi nello
  sfondo. Il Tesmoteta (in veste bianca e con la corona di mirto) è
  già seduto: gli Eliasti entrano e vanno a prendere i posti. Essi
  hanno tutti in mano un bastone (βακτηρία) verde anch'esso come il
  color del Tribunale, e terminante in pomo. Man mano entrano, avanti
  sedersi, ritirano dal Tesmoteta una tavoletta di cera (gettone
  di presenza, ούμβολον). L'Araldo ch'è sul davanti della scena,
  in veste bianca, sta bruciando nel tripode dei rami di mirto e
  dell'incenso.[10]


1º EL. (_prendendo posto_). Neh, Simone, speriamo la tengan corta...

2º EL. Spero bene. Un bel piatto di lenticchie[11] m'aspetta a cena. Se
l'accusato va per le lunghe, piangerà senza mangiar cipolle...[12]

TESMOT. Araldo, recita la preghiera e le imprecazioni.

AR. (_proseguendo ad ardere l'incenso_).[13] «O Giove e Febo Apollo, e
Pallade protettrice della rocca, e dèi Pizii, e dee Pizie, e Delìaci e
Delìache, assistete al giudizio, illuminate il voto. E se alcun giudice
abbia preso danari o doni dalle parti, o non le ascolti entrambe con
animo eguale, e non giudichi secondo le leggi e il giuramento,[14]
sia maledizione e ruina a lui e alla casa sua.[15] E se alcuno dei
contendenti o testimoni inganni i giudici, e asserisca o giuri cose
false, sia maledizione e ruina a lui e alla casa sua. Chi osserverà
il giuramento, gli sia ogni evento felice. Così piaccia a Giove, e a
Nettuno, e a Cerere».

TESMOT. ed ELIASTI (_in coro_). _Così piaccia_...

TESMOT. Araldo, vedi se vi son giudici ancora fuori. Appena si
incominci non entrerà più alcuno.[16]

AR. (_guardando e verso i cancelli e verso la platea_). Pare ci sian
tutti...

TESMOT. (_accennando verso l'ingresso_). Sian chiusi i cancelli. Chi
dei giudici fosse ancor fuori, perderà la paga...

4º EL. e altri GIUDICI (_in ritardo, che vengon correndo mentre la
sentinella sta per chiudere i cancelli_). Aspetta! aspetta!

1º EL. (_a quei che vengono di corsa_). Oh, oh, Carione! Zantia!
Presto, presto! se no, non bevi il latte del questore!...[17]

4º EL. (_sedendosi cogli ultimi arrivati_). Auff!... maledetta la
furia!... Buon dì, Simone...

TESMOT. Silenzio!... (_all'araldo_) È chiuso? Chiama i litiganti.

AR. Causa di Beoto, figlio di Blèpiro, del borgo di Tòrico...

BEOTO (_avanzandosi_). Presente!

AR. Contro Eudemonippo, figlio di Evalce, del borgo di Cefiso...

EUDEM. (_avanzandosi_). Presente!

TESMOT. Cancelliere, recita l'accusa.

CANCEL. (_leggendo_).[18] «Il giorno sei della luna crescente di
Munichione,[19] Beoto di Blepiro, Toricese, innanzi all'Arconte accusò
con giuramento Eudemonippo, autore comico, di leggi violate e corruzion
del costume, perchè nella commedia _La Sposa di Mènecle_, presentata
all'ultima gara delle feste Dionìsie,[20] mise in iscena cittadini col
loro nome, disse ingiuria a magistrati, e divulgò idee contrarie alle
leggi, alla famiglia, alle cose sante e stabilite della città. La pena
sia dieci talenti e il bando dalle gare teatrali.[21] Stia in carcere
fin che avrà pagato».[22]

TESMOT. Giudici, udiste l'accusa. Fu affissa nel termine prescritto,
sotto le statue degli eroi.[23] Le parti hanno dato il giuramento.[24]
Accusatore Beoto, monta in ringhiera.[25] Silenzio!...

  (Beoto sale lento la ringhiera, dispone le carte a sè davanti, ne
  passa alcune giù al cancelliere con cui scambia sottovoce brevi
  parole, per mostrargli quelle da tener pronte, poi si mette la
  corona in testa e si soffia il naso).[26]

3º EL. (_durante la pausa preparatoria i giudici disattenti van
chiacchierando fra loro_).[27] Sai, chi ho visto ieri? Alce la
sonatrice...

1º EL. Come? È qui?

3º EL. È tornata da Mileto, dove ha fatto fortuna. E come s'è fatta
bella!...

1º EL. Dove la sta?...

3º EL. Ih, che fretta! Dietro il Pritanèo. Zitto... Sentiam questo
chiacchierone...

TESMOT. Fate silenzio... attenti, giudici...[28]

2º EL. To' che si soffia il naso per tirar giù le idee! Ah, sì, se
crede che per tre oboli io voglia star qui fino a domani... (_al
servo che sta versando in più riprese l'acqua dall'anfora grande nella
piccola che serve di misura, e da questa nella clessidra_) Ehi, ehi,
quell'anfore tienle scarse![29]

BEOTO (_dopo messasi la corona, e aggiustate le carte, comincia a
parlare, appoggiandosi sul bastone[30] e rivolto al Tesmoteta_). O
giudici Ateniesi! La accusa testè letta mi dispensa...

1º EL. Forte!...

3º EL. Più forte!...

2º EL. Che voce da chioccia!...

BEOTO (_alzando la voce_) ... la accusa testè letta mi dispensa da
lunghe parole, e sarò brevissimo...

1º EL. Bravo!

2º EL. Bene!...

BEOTO. ... brevissimo... e mite: e regalo all'accusato tutta l'acqua
che m'avanza...[31]

EUDEM. Non so che farne...

BEOTO. ... perchè la evidenza dei fatti val meglio di ogni arringa
eloquentissima. Nè alcuno di voi creda, per l'olimpico Giove, che
privata invidia o rancore m'abbiano mosso all'accusa:[32] chè l'animo
nel muoverla mi piange...

3º EL. Poveretto!...

BEOTO. ... e pagherei volentieri, perchè i fatti non fossero, la multa
dell'accusator soccombente.[33]

2º EL. Eh, che generoso!...

BEOTO (_con accento e gesto di declamatore_). Ma in vedere costui
farsi giuoco dei patrii magistrati, e sommuovere con funeste massime
la città,[34] chiamando complici della iniqua opera le Muse, santo e
puro zelo d'indignazione mi prese per la offesa fatta a quelle dee: le
quali invoco e gli altri numi ed eroi tutelari di questo suolo, perchè
vendichino sè stessi, e voi, e le leggi, e i patrii templi, e i boschi,
e i domestici sagrifici...[35]

2º EL. (_interrompendolo_). Tira il fiato!...

BEOTO. Che se, per far breve, a poche leggi sole nella accusa mi
restrinsi, ben potrei portar qui tutto intero l'archivio di quante
leggi e sentenze si conservano nel tempio della gran madre degli
dei,[36] perchè questo impudentissimo tutte in una le calpestò. E tu,
che tanto osasti, sei ancora vivo? sei qui?

TESMOT. Neh, oratore, se è qui, mi par inutile domandarglielo. Bada
all'acqua...

  (Mentre Beoto parla, Eudemonippo è ritto in piedi a lato della
  propria tribuna, e prende annotazioni.)[37]

BEOTO. Ci bado!... non temere, sarò cortese con questo...
scelleratissimo. La commedia vi sta, o giudici, davanti: essa vi parli
per me. Vietano le leggi nostre, o Ateniesi, sian messe sulla scena
persone vere sotto il loro nome e dicasi ingiuria a magistrati: savio
divieto, perchè l'onore di questi è onor dei cittadini che li elessero,
e l'onor dei cittadini è patrimonio della Repubblica. E pur qui nella
commedia si nominano e Fania ed Elèo: e pur non ignorate che il vecchio
Mènecle fu eletto due volte tesmoteta, e andò ambasciatore ai Corintj
e governatore in Lesbo: giudicate voi, dopo tanta dignità di uffici,
qual parte nella commedia gli tocca di fare. Bellissima anzi, vi dirà
questo istrion da dozzina:[38] ma voi non sorprenderanno le sue parole,
perchè appunto la commedia è intesa a capovolgere ogni concetto e della
famiglia e della virtù. Vedo molti fra voi dalla testa calva o canuta,
i quali condussero in tarda età giovane sposa...

2º EL. (_scherzoso al vicino_). Neh, senti Glaucone!...

BEOTO. ... essi, essi diranno, per gli dei, se la condotta che a
Mènecle costui attribuisce, sia imitabile e seria, se degna di un
Arconte ella sia! Ad essi, ad essi, se a loro è pur caro sentirsi sui
freddi levigati avorî della testa la carezza di mano morbida e tepida,
e stringere la fresca dolce compagna fra le braccia antiche e dignitose
— ad essi, ad essi[39] io domando se meriti pena costui che dalla
scena osa propor simili esempî, e proporli in persona di un magistrato
che porta corona, affinchè l'esempio, reso più autorevole, porti più
presto, o vecchi giudici, nei talami vostri la solitudine...

  (Esclamazioni dei giudici).

1º EL. Eh, eh! senti?

2º EL. Come, come? La solitudine nei talami nostri? Questo osa quel
tristo?...[40]

BEOTO (_rilevando, con voce vibratissima, la interruzione_). Sì...
questo osa!... e difendeteli, difendeteli, i vostri talami, per gli
dei!...

2º EL. Ma anche per le dee, se occorre!... o sta a sentire!...

BEOTO. Io non so se io deva... non vorrei...

1º EL. Parla! parla! galantuomo!...

2º e 3º EL. Sì, sì, segui!... segui!...

BEOTO. Non vorrei eccedere nei diritti della accusa, fedele al mio
proposito di essere cortese con questo... solennissimo birbante...

1º e 2º EL. No, no, non esser cortese!...

BEOTO. Ma egli forse vi dirà che nei panni di Mènecle altro partito
non v'era da quello che egli inventò: e voi rispondetegli che miglior
partito era la morte...

1º EL. Sicuro!...

2º EL. Sicuro!

BEOTO. ... e che in quei panni ognun di voi preferirebbe morire...

1º e 2º EL. Cioè, cioè...

3º EL. Adagio, un momento...

BEOTO. Perchè la legge non vieta a chi versi in tristi impicci nel
mondo l'andarsene... (_passa un foglio al cancelliere_) dilla su,
cancelliere... tu (_al custode della clessidra_) ferma l'acqua...[41]

CANCEL. (_leggendo_). «Chi non voglia più vivere, lo annunzi al Senato:
gli esponga le cause: ottenutone il permesso, vada pure...»

3º EL. Ah, quando c'è il permesso, è un altro affare... ma io non lo
domando...

BEOTO. Come vedete, o Ateniesi, la via d'uscita e magnanima vi era:
magnanima costui poteva rendere la condotta di Mènecle: ma a lui
premeva sovvertir la famiglia, e dare ai vecchi mariti detestabile
suggerimento... Or io mi volgo tra voi, giudici, anche a color che
son giovani; a voi, che appena in quest'anno avete avuto la tabella e
prestato in Ardetto il giuramento:[42] e a voi domando, se baldanza di
mogli sia lecita in Atene, quanta costui nelle donne di Cròbilo e di
Fània ne pensò... Ben più modesto ufficio, saviamente, o Ateniesi, fra
noi si assegna alla sposa del cittadino: poichè abbiam le cortigiane
pei piaceri dello spirito e per gli affetti della vita... e abbiam le
mogli per crear figli legittimi e per la custodia della casa e della
roba.[43]

ELIASTI. Bravo! benissimo!

BEOTO (_segue riscaldandosi e battendo del pugno sulla ringhiera_).
Questa la legge, questo il costume, questa la base della città: se v'ha
chi altra ne sappia, la indichi, salga qua, gli cedo l'acqua.[44] Ma
costume, e legge, e città, che diverranno se manderete assolto costui
che insegna alle mogli ad alzar la voce, quando parla il marito?
O terra, o sole, o dei![45] Così tu, celibe, insidii dei mariti
l'autorità, e nulla avendo da far nella tua casa, metti sossopra la
loro?

1º e 2º EL. Ah, ma la vedremo!...

3º EL. Basta, basta! non dir altro!... lo aggiusterem noi!...

BEOTO (_rasciugandosi il sudore e ripigliando più calmo_). Ancora una
parola, e ho finito. Fu tempo, o Ateniesi, che le Muse tra voi furon
ministre di virtuosa e virile educazione: allora esse crebbero quegli
uomini che pugnarono a Maratona.[46] E vanno famosi quelli antichi
poeti, perchè insegnarono il vero, onorarono gli iddii, beneficarono
gli uomini: e trovarono molte leggiadre parole per dire molte utili
cose. Orfeo fondò i misteri, vietò le stragi; Museo insegnò i rimedi
delle malattie; Esiodo l'agricoltura e i tempi del seminare e del
raccogliere (_man mano che Beoto prosegue l'enumerazione degli esempi,
gli Eliasti danno in esclamazioni d'impazienza_). Omero perchè acquistò
gloria? perchè insegnò l'arte di schierar le truppe.[47] Tirteo? perchè
insegnò la politica. Così è del poeta ammaestrare gli adulti, come il
pedagogo i puttini:[48] per questo ordinammo che i poemi di Omero si
cantino nelle sante Panatenee:[49] per questo alzammo alle Muse, come
a benefattrici, gli altari. E voi tollerereste che questo sacrilego
ricorra ad esse per renderle seminatrici di guai? Ah, se da qui
tornando alle case vostre, le mogli o le sorelle vi domandassero:[50]
_Che cosa avete fatto quest'oggi?_ risponderete voi: abbiamo assolto
un poeta il quale pose in iscena mogli che si immischiano di quel
che non devono e che non fanno quello che devono? Ah no, per Giove
e per il trofeo e per i sepolcri della Tetràpoli![51] no, per gli
eroi che dormono sotto i pubblici monumenti! oggi... tornando a casa,
raccontereste la vostra sentenza: domani, tornando a casa... non
trovereste la minestra in tavola!... Pensateci!

  (Applausi degli eliasti. Beoto si leva la corona e scende
  pettoruto, con aria trionfante, dalla ringhiera).

2º EL. Ah, le mie lenticchie!...

1º EL. Questo è parlare!...

3º EL. Scusa... stavo scrivendo... che cosa ha detto?...

1º EL. Che se diamo a costui fava bianca, domani le donne non ci fan da
pranzo...

3º EL. Ma glie ne do cento di fave nere...[52]

TESMOT. Accusato, monta in ringhiera: e sii calmo: non mi andare fuor
degli ulivi.[53] L'accusatore è stato moderato nei termini e cortese.
Vedi di esserlo anche tu.

  (Grandi e prolungati rumori e voci fra i giudici, intanto che
  Eudemonippo monta in ringhiera e si mette la corona).

EUDEM. Ateniesi! Giudici!... A Giove...

  (Parla fra i rumori ostili).

ELIASTI (_in coro_). No, no!... Abbasso!

EUDEM. (_tentando fra i rumori, inutilmente, di farsi ascoltare_). A
Giove che ascolta i giuramenti e le ragioni... io domando...

2º EL. Ma che domande!... ma sentilo che parla di ragioni...

TESMOT. Fate silenzio!...

EUDEM. (_sforzandosi sempre tra i rumori di farsi udire_). Io domando
che se ingiusti...

1º EL. Ingiusti noi?... Oh sfacciato!...

3º EL. Noi ingiusti?... Prova mo' a ripeterlo!...

ALTRI ELIASTI. Basta! abbasso! abbasso![54]

  (Rumori prolungati, conversazioni clamorose tolgono all'oratore la
  parola).

EUDEM. (_a voce fortissima_). Una volta due uomini e un asino...

  (Si fa silenzio improvviso).

1º EL. Ohe, attenti!... una storiella!...[55] ssssss!...

ELIASTI. Ssssss! ssssss!

  (Silenzio generale completo).

EUDEM. (_ripiglia calmo_). Un asino e due uomini viaggiavano:[56]
l'uno, il padron della bestia, l'altro che l'aveva a nolo: e scottando
forte il sole, litigarono i due, a chi l'ombra dell'asino toccasse:
l'uno, il padrone, diceva aver noleggiato l'opera della bestia e non
l'ombra: l'altro replicava, l'ombra essere parte dell'opera...

  (Eudemonippo si arresta con lunga pausa).

1º EL. To'! to'! un bel caso da decidere!...

2º EL. E così?... (_a Eudemonippo che ha fatto pausa_) come è andata a
finire?...

3º EL. (_ed altri_). Come è finita? come è finita?...

EUDEM. È finita che i due han ricorso ai giudici in tribunale, e i
giudici li han sentiti imparzialmente tutti e due... quello che voi non
fate con me: e voi che state attenti, appena vi parlo di un asino...
potreste bene star attenti, or che vi parlo di... un altro!...

  (Indica l'accusatore: risate fra gli Eliasti).

2º EL. Bravo, per Giove! Sicuro! Ha ragione!...

1º e 3º ed altri EL. Sì, sì, parla!...

EUDEM. (_con voce pacatissima e gesto parco e corretto_). Non dubitate,
sarò cortese: e se di quante leggi violate ei m'accusò, tante menzogne
e stolidaggini gli proverò, bene io confido ei non sia per portar
fuori, col quinto dei voti, salve le spalle da qui: perchè sul vostro
animo incorrotto non han presa nè i grossi paroloni,[57] nè la truce
minaccia onde egli, per ispaventarvi, concluse. Paroloni e minacce
a lui dettate, s'intende (_ironico_), non da odio nè invidia, ma da
purissimo zelo dei costumi e dell'arte: così almeno vi assicurò: tu
intanto (_al cancelliere_) chiamami i testimoni.[58]

CANCELL. (_leggendo la lista testimoniale_). Callia di Stefano del
borgo di Alopéce, Pànfilo di Arìstide del borgo di Anagìro, Chèrea
di Lisìppo del borgo del Pireo... (_i testi citati si avanzano; il
cancelliere estrae dal vaso[59] la testimonianza e legge_) «Attestiamo
ch'eravamo in teatro alle feste Dionìsie quando Beoto, figlio di
Blepiro toricèse, oggi accusatore, presentò una sua commedia così
brutta che non giunse alla fine, perchè il popolo lo cacciò a fischi, e
per poco non lo lapidò...»[60]

EUDEM. Basta. Giurate che è vero?

I TRE TESTIMONI (_un dopo l'altro stendendo la mano sul tripode_).[61]
Giuro. Giuro. Giuro.

EUDEM. Ebbene, o giudici, io non nego che scevro da invidia e purissimo
sia lo zelo di Beoto: perchè la memoria delle sventure purifica, e i
fischi a lui toccati nell'arte furon tanti, che nessuno zelo può essere
più puro del suo. Ad una sua accusa vo' intanto rispondere: ch'abbia
per me sofferto ingiuria il vero. Voi tutti ricordate di Frìnico, il
poeta tragico che dilettò i vostri avi: chi sulla scena finse il vero
più di lui? Tutta la città egli commosse rappresentando la presa e la
distruzion di Mileto:[62] quand'egli mostrò l'orde persiane irruenti
al baglior degli incendî per la città devastata, e lo strazio dei
feriti e moribondi, e le jonie vergini strappate per i capelli agli
altari, le donne trafitte, i poppanti scannati sul seno delle madri,
tutti vinse la pietà, e per tutto il teatro fu altissimo pianto: ma
gli avi vostri condannarono Frìnico a fortissima multa, per averli
fatti piangere,[63] rappresentando troppo al vero quella disgrazia.
Giusta e savia condanna! Perocchè a noi le Muse abbiano concesso i
celesti doni a disvago e conforto dell'anima, non già ad intristirla
nella contemplazione pura e semplice dei mali.[64] E chi non sa che
uccisioni, e atti di ferocia, e pietosi casi avvengono tutti i giorni
intorno a noi?... Incontrai e vidi, qua venendo, un padre piangere
dirotto sul cadavere dell'unico figlio: io vi giuro, o Ateniesi,
che egli superava nella verità del pianto ogni istrione, e che nè
Sofocle nè Euripide mai non dipinsero un dolor come il suo: ed io non
chiedo riveder finto ciò che i miei occhi han visto già così vero! Ma
vollero i Numi che, a sollievo de' mali, noi alle Muse sagrificando
ci levassimo sopra dei dolori umani: e da dolori e da colpe e da
miserie, brutta discordante miscea, fuor balzasse un mondo di forme
belle e nascose, parlasse una arcana divina armonia, che i cuori umani
intendessero... e pure non fosse di quaggiù!... Questo vollero i nostri
poeti: per questo ammirammo la legge di Tebe che punisce l'artista se
dalla natura e dal vero non evoca le linee del bello. E tu calunnî,
o Beoto, quegli altissimi poeti che nominasti: non da utili verità nè
insegnamenti venne a loro la gloria, ma perchè le menti umane, sull'ali
de' lor canti leggiadri, sorgendo a più vaste e più lucide sfere,
ne ridiscesero migliori[65] e più gagliarde allo studio delle utili
cose!...

TESMOT. Accusato, tu divaghi, e l'acqua scorre!..

1º EL. Sì, sì, taglia corto!...

EUDEM. Grazie, Arconte.... non esco dal tema. Perchè forse è poi vero
che io abbia detto cose false e messa a capriccio la mia fantasia
nel posto delle leggi e del costume? Vero forse che io insegni nuovi
riti coniugali, libertà e diritti di donna e di moglie, a donna e a
moglie negati?... Ma, o tristo che m'accusi, perchè non accusi anche
l'ombre del vecchio Cràtino e del divino Aristofane, e di Antìfane,
e di Alessi, e di Filemone, e di Menandro nostro dai dolcissimi
amori, a cui le grazie conservino lunghi anni i geniali estri e la
vita? Provami che le mogli delle lor commedie sbugiardino le mogli
della mia: o trascinali anch'essi a questa ringhiera, e trascinavi
Aristotile e Senofonte, che qui nel suolo dell'Attica il nome di
sposa resero augusto e bello di più alti uffici, di cari diritti,
di nova dignità.[66] A voi intanto, o giudici, basti la pazienza
di udir la commedia, e raffrontarla alle leggi, se alcuna d'esse
violai. Tu (_al cancelliere_) brevemente recita queste: voi appresso
giudicherete quella. (_Al custode della clessidra_) Ferma l'acqua. (_Al
cancelliere_) E di' su.

CANC. (_legge_). «La donna è dal padre o dal fratel consanguineo o
dall'avo paterno data legittimamente in isposa a chi essi credono.
L'orfana erede è in balìa di chi n'ha il diritto o n'ebbe podestà dal
tutore».[67]

EUDEM. Ora la terza di Solone sull'orfane.

CANCEL. (_legge_). «L'orfana potrà reclamare che il parente più vicino
la sposi. Questi dovrà condur l'orfana in moglie o collocarla, dandole
cinquecento dramme di dote. Se nol fa, l'Arconte potrà obbligarvelo
sotto multa di mille dramme, sacre a Giunone».[68]

EUDEM. Continua l'altra.

CANCEL. (_legge_). «Anche se la donna fosse già maritata, e le muoia
il padre e non le restin fratelli, il prossimo parente la chiederà in
moglie, e il precedente matrimonio sarà sciolto».[69]

EUDEM. Queste, o giudici, le leggi nuziali, conservatrici delle stirpi.
Passa a quelle dei divorzî.

CANCEL. (_legge_). «Il divorzio ha luogo o per mutuo consenso de'
coniugi, o promosso dal marito o dalla moglie: se dal marito, è
ripudio: se dalla moglie, è abbandono.

«Se il divorzio accade per consenso mutuo o volontà del marito, non
esige intervento del giudice. Se è chiesto dalla moglie per incuria o
maltrattamenti del marito, la moglie presenta in persona la richiesta
scritta all'Arconte».[70]

EUDEM. Basta così. Queste savie leggi, o Ateniesi, a noi ha dato
Solone: voi direte se ad esse scrupolosamente conforme il tema della
commedia e la condotta di Mènecle non sia. Ben vero costui s'alza e vi
dice: A Mènecle, ne' panni suoi, per fargli onore, miglior partito era
scendere, volontaria ombra, fra i morti. E tu che lo affermi, l'avresti
fatto? Tu che adduci la legge, perchè non l'adduci intera?[71] Perchè
sapevi che, nel caso di Mènecle, il Senato di andar fra l'ombre
anzi il tempo non gli avrebbe data licenza. Leggila tutta... Occhio
all'acqua!...

CANCEL. «Chiunque a cui siasi fatta grave la vita, lo annunzi al
Senato, esponendone le cagioni: privazione di figli, perdita di
sostanze, corpo mutilato, o morbo incurabile...

EUDEM. Senti?...

CANCEL. .... e impetrato dal Senato il permesso, beva la cicuta e vada
pure».[72]

EUDEM. Hai udito le cagioni che la legge enumera? Mi dirai che l'avere
a sessantacinque anni una sposina di venti, sia compreso dalla legge
nella rubrica dei morbi incurabili?

BEOTO. Certo.

EUDEM. Ammettiamolo. Chi ti dice che lo ammetteranno, per proprio
conto, i senatori? E che a tutti poi accomodi di contar in piazza,
al Senato, malattie di forma così atroce? E se il permesso è negato,
perchè non parli della pena ai trasgressori?... Dilla tu.

CANCEL. «Se uno si uccida da sè senza licenza, la mano che questo fece,
sia seppellita separata dal corpo».[73]

EUDEM. E tu, difensor delle leggi, tu volevi da me sulla scena
l'esempio di un Arconte che le leggi offendesse, o scendesse col
moncherino alla barca di Caronte, senza la mano per pagar l'obolo e
ritirare il resto? Ma tagliati la tua che ha scritto più menzogne sulle
tabelle di quanti abbi capelli sulla testa!...

Che resta adunque delle accuse di questo tristo? Una sola. Aver messo
in iscena, contro la legge, cittadini Ateniesi col loro nome. Io non
dirò che la legge, se tale fosse, fu posta da Làmaco, uno dei Trenta
tiranni, quando la tirannide infuriava tra noi, e che le leggi dei
Trenta sono a ritenersi abolite...[74] Non dirò che l'attica Musa, nei
tempi d'oro della libertà nostra, ripudiò i freni come sacrileghi, e
Pericle istesso, provatosi a porne, vi rinunziò.[75] Non dirò...

TESMOT. Neh, accusato, quello che non dirai, lascialo da parte.

EUDEM. Ebbene, dirò che la legge, se tale foss'anche, costui non l'ha
letta neppure. Dimmela su.

CANCEL. (_legge_). «Làmaco disse e il Consiglio dei Trenta e il Senato
decretarono: non sia lecito porre in commedia fatti contemporanei,
o cittadini reali e viventi col loro nome. Il trasgressore qualunque
cittadino possa citarlo in giudizio, e scriva la pena».

EUDEM. Dunque la legge parla di fatti contemporanei: ora invece la
commedia risale ai dì della 100ma Olimpiade, quando Atene raccolse i
fuorusciti di Tebe, e Pelopida ed Epaminonda prepararono la riscossa.
La legge parla di cittadini viventi: ora ecco ben sessant'anni che
il buon Mènecle riposa nel sepolcro degli avi; ecco dieci anni che
Aglae lo raggiunse, veneranda vecchierella, benedetta dai figli dei
figli suoi. E se la legge dà al cittadin nominato facoltà di trarre in
giudizio chi lo nomina, io sbaglierò, ma parmi, o giudici, che per far
questo egli debba prima di tutto esser vivo... ti pare, o Arconte?...

TESMOT. Sì... mi pare...

EUDEM. Perchè ai morti non è data facoltà di querela, e all'infuori
di Orfeo, di Teseo e di Ercole non so chi altri fin qui sia tornato
dalle porte dell'Erebo. Così Mènecle potesse tornarne!... egli, pel
primo, pregherebbe, o giudici, a me propizio il vostro voto! (_prende
in mano un ramuscello[76] e lo stende verso i giudici_) Egli ve ne
pregherebbe, o voi giovani, per la memoria dell'atto suo generoso,
a cui resero giustizia qui in quest'aula istessa, innanzi a questa
effigie istessa di Lico eroe, i padri vostri, quando ad essi la parola
eloquente di Iseo la raccontò. Egli ve ne pregherebbe, o vegliardi, non
per lo squallore che costui vi minaccia, dei talami solitari, ma per i
giorni sereni e consolati di affetti cari, che a lui furono compenso
e letizia della tardissima età. Ben vero, egli non morse, il vecchio
Mènecle, alla mela cotogna che la legge invita gli sposi a mangiar
insieme, la notte delle nozze:[77] ben vero, per lui i bianchissimi
graziosi dentini di giovinetta non furono costretti a cercar nella
scorza del frutto sacro alla gamèlia Giunone, i solchi di denti gialli
e tarlati...

1º EL. al 2º. Come i tuoi...

2º EL. Eh già... de' tuoi no certo... non ne hai più...

EUDEM. Ma egli ebbe il conforto, raro concesso a mortali, nell'ora
suprema, di leggere in isplendide pupille il dolore di lagrime vere...
Ah no, o giudici, non voi irriderete alla preghiera che di sotterra il
buon vecchio vi manda per me: non voi raccoglierete la iniqua accusa di
questo furfante...

BEOTO (_al Tesmoteta_). Arconte!...

TESMOT. (_a Beoto_). Furfante... è un termine di giurisprudenza...

EUDEM. (_insistendo_) ... di questo furfante, leggi invocando dai
tiranni bandite, o la mia Musa incolpando di corrompere il costume. Ah
non cambiano i carmi il midollo nelle ossa umane! Da ottanta e più anni
dorme la vecchia commedia politica, tace e dorme la satira sfrenata,
lussuriosa di Aristofane, e non perciò del suo silenzio la città e i
costumi s'avvantaggiarono; oggi sovr'essi il mio collega Filìppide mena
di nuovo la sferza,[78] e non perciò delle sue sferzate città e costumi
miglioreranno. Poveri costumi, se non bastarono a salvarvi nè la parola
di Demostene, nè il sangue dei morti a Cheronea!... Voi tutti le avete
vedute le patrie fortune cadute in basso coll'andarsene delle patrie
virtù; le avete vedute le apostasie dei caratteri, e le fedi instabili
voltarsi al voltarsi dei venti, e i tribuni mutati in cortigiani; e
le 360 statue inalzate a Demetrio Falerèo, rovesciate all'indomani per
ergere gli altari al Poliorcète; e le supine adulazioni di Stratocle,
le bassezze buffonesche di Dromòclide,[79] e la caccia febbrile agli
uffici, alle ricchezze, ai vili onori: e la viltà fatta abitudine, la
menzogna eretta in legge, la ciarlataneria surta a costume: _queste
son le cose_, dirò anch'io col poeta, _queste son le cose, e non già le
commedie, che mandano il popolo in rovina!_[80] Condannatelo il poeta,
se offende le leggi della eterna bellezza!... ma voi... voi pensateci
per vostro conto a quelle eterne della virtù!...

  (Durante l'ultima parte dell'arringa, il Tesmoteta e i giudici
  danno segni visibili di stanchezza sonnolenta. Il Tesmoteta abbassa
  più volte la testa sul petto, rialzandola tratto tratto come chi
  combatte contro il sonno. Quando Eudemonippo ha finito e si leva la
  corona, il Tesmoteta rialza, scotendosi, vivamente il capo).

TESMOT. Finito?... (_vede Eudemonippo che si leva la corona_). Ah...
Passerem dunque, prima dei voti, alla recita della commedia in atti...
Or quindi, o giudici, l'arringa che udiste...

CANCELL. (_udendo un certo rumore si è mosso dal suo stallo e
si è appressato ai giudici per vedere che cos'è... poi fa segno
maliziosamente all'arconte additandoli, e continuando la frase di lui_)
... li ha già persuasi... (_addita i giudici_) Dormono.

TESMOT. Dormono? (_vivamente all'accusato_). Recita, ch'è il momento
buono!...


  (CADE RAPIDAMENTE LA TELA).


NOTE

[1] Per quanto riguarda i tribunali d'Atene, gli ordinamenti e riti
giudiziari, forme del processo, ecc., ecc., rimandasi alle fonti
precipue e alle sparse notizie in DEMOSTENE, ESCHINE, ISOCRATE, LISIA,
ISEO, LICURGO e tutti gli altri oratori attici; e in ARISTOFANE e negli
SCOLII _ad Aristof._, in ispecie alle _Vespe_, alle _Aringatrici_,
alle _Tesmoforìe_, al _Pluto_. Confr. SCHÖMANN, _Antich. greche_;
_Antiquitates jur. publ._; _De Areopago et Ephetis_; _De sortitione
judicum_; _De Dicasteriis_; MEIER e SCHÖMANN, _Der Attische Prozess_;
PERROT, _Droit public d'Athènes_; MATTHIAE, _De judic. athen._;
HUDTWALKER, _De arbitr._; MEURSIUS, _Themis attica_; PETIT, _Legg.
att._, ecc., ecc.

[2] All'infuori dell'Areopago e degli altri quattro tribunali speciali
dei magistrati detti _Efeti_ (_Pritaneo_, _Delfinio_, _Palladio_ e
_Freatte_) giudicanti delle cause di omicidi volontari e involontari
in genere (δίκαι φονικαί) giudicavano di tutte l'altre cause civili
e penali i giudici popolari o cittadini giurati, 6000 di numero
(_dicasti_ od _eliasti_), scelti a sorte ogni anno fra tutti i
cittadini non minori dei trenta anni, e integri di fama e di diritti
politici e civili (ἐπίτιμοι). Cinque mila erano giudici effettivi;
mille supplenti. Distribuivansi i 6000 in 10 tribunali, ossia sezioni
o decurie (δικαστήρια), quant'era appunto il numero delle tribù (SCOL.
in ARISTOF., _Pluto_); e _dicastero_ diceasi non pur la sezione,
ma anche il luogo o tribunale a ciascuna assegnato per tenervi i
giudizi. Designavansi le 10 sezioni per una lettera dell'alfabeto,
dall'Α alla Κ, che veniva scritta in rosso sulla porta del tribunale
rispettivo: indi, _giudicare nella lettera tale_ (εν τινι γράμματι
δικάζειν) equivaleva essere assegnato a questo o quel tribunale (cfr.
ARISTOF., _Plut._, V. 277). Così ogni anno, insieme alla estrazione
dei giudici cittadini (fatta dai Tesmoteti, per tribù) estraevasi a
sorte anche la lettera indicante il dicastero a cui ciascun d'essi era
assegnato. Compiuta la sortizione, a ciascun giudice veniva data una
tabella di bronzo (πινάκιον) con su scrittovi il suo nome e la lettera
del dicastero assegnatogli, e impressovi il _gorgònio_, stemma della
città. Questa tabella era il distintivo della sua carica di quell'anno,
e il cittadino giurato la recava seco ogni giorno di giudizi, alle
estrazioni mattutine dei dicasteri di quel dì. Perocchè non sempre,
e ben rado, tutti e 10 i tribunali simultaneamente sedevano; ma
nei giorni che v'erano cause a trattare, tutti i giudici cittadini
convenivan la mattina nell'agora, dove l'arconte estraeva dall'urna
a sorte tante lettere o sezioni a seconda del numero de' processi di
quella giornata, e a sorte assegnava in quali tribunali le sezioni
estratte dovessero raccogliersi a giudicare. Poi, siccome ciascun
tribunale distinguevasi da un colore suo proprio, così ai giudici
delle sezioni estratte per quel dì veniva consegnato un bastone di
forma speciale (βακτηρία, σκίπων) terminante in una specie di globulo
(βάλανον); bastone dell'uguale colore del dicastero assegnato, e
colla lettera del medesimo pure scrittavi sopra (ARISTOF., _Vesp._,
v. 727; SCOL., V. 1105; SCOL., _Pluto_, 277). Oltre questo bastone
che serviva ai giudici per sapere a quale dicastero recarsi e per
farvisi riconoscere alla porta, il Tesmoteta, presidente del tribunale,
consegnava a ciascuno d'essi una _téssera_ (σύμβολον), che l'egregio
Mariotti a torto confonde col πινάκιον dinanzi accennato. Quello era il
distintivo della carica annua, e ognuno dei 6000 eliasti l'aveva con sè
(quel che sarebbe pei deputati nostri la medaglia); il σύμβολον invece
era un _gettone di presenza_ che al giudice veniva dato per andare a
ricevere la mercede del giudizio.

Quanto al numero dei giudici popolari sedenti in ogni causa, i giudici
effettivi essendo 5000, risultava il numero ordinario per ciascun
tribunale di 500 giudici. Se però di cause gravi trattavasi, adunavansi
anche due, tre o più sezioni in un tribunale solo: e s'aveano così
tribunali sedenti di 1000 o 2000 giudici, o magari composto di tutte
e dieci le sezioni riunite. Viceversa, per le cause minori, talvolta
neppure raccoglievasi una sezione intera. Due o tre centinaia anche
bastavano: solo curando dispari il numero per evitare nei voti la
parità. E innanzi alle porte del tribunale destinato s'estraeva di
giudici o supplenti quanti per quella tal causa bisognavano (ISOCR.,
_Areopag._, c. 20). Cfr. SCHÖMANN, MEIER, ecc.

[3] Distinguevansi, come sopra fu detto, ciascuno da un proprio colore,
i tribunali ove recavasi volta per volta l'una o l'altra delle 10
sezioni o _lettere_ a giudicare (SCOL. in ARISTOF., _Vespe_; POLLUCE,
VIII). E pare il lor numero fosse anche più dei 10 (senza contar
l'Areopago e i 4 altri degli _Efeti_); la maggior parte situati intorno
a l'Agora o Foro. Due di essi dal colore prendevano anche il nome, come
appunto il _Verde_ (Βατραχιοῦν) e il _Rosso_ (Φοινικιοῦν), nominati in
Pausania, I, 28. Oltre questi, ricordansi il _Trigono_ o _Triangolare_,
il _Metioco_ o _Callio_, il _Nuovo_, il _Maggiore_, il _Medio_ e il
_Liceo_, presso al tempio di Lico. Anche l'_Odeone_ serviva a giudizi
popolari (ARISTOF., _Vespe_). Ma il più noto di questi tribunali era
l'_Eliea_, che era un luogo spazioso a cielo aperto, come indica il
nome: probabilmente lo si sceglieva a preferenza quand'era il caso di
raccogliere più sezioni insieme per i giudizi più gravi; ond'è che il
nome di _eliasti_, particolare ai giudici che andavano a sedervi, passò
nell'uso come sinonimo di _dicasti_, ad indicare complessivamente tutti
i giudici cittadini, anche degli altri dicasteri.

Il _Batrachio_ qui nominato fu da taluno per errore confuso col
_Parabisto_, ch'era un altro tribunale ove sedevano gli _Undici_,
magistrato esecutore delle sentenze di morte, e sovrastante al giudizio
dei furti.

[4] Cfr. ARISTOF., _Vespe_, v. 90. POLLUCE, VIII, 133.

[5] Cfr. ARISTOF., _Vespe_, v. 775, 830. «Vuoi tu citare senza che vi
siano gli steccati, che primi a noi sogliono apparire tra le cose sacre
del giudizio?» _ibid._

[6] A un picchetto di questi arcieri, per lo più traci o sciti, era
affidato, durante l'udienza, l'ordine nella sala, e il mantener la
quiete fra il publico numeroso dei curiosi. POLLUCE, VIII, 131. MEIER,
_Att. Pr._

[7] Lico, figlio di Pandione, antico re d'Atene, pare venisse
onorato di culto particolarmente come patrono dei giudizî. Sorgeva
il suo simulacro all'ingresso della maggior parte dei tribunali e
precisamente nel luogo dove i giudici uscendo riscotevano i tre oboli.
Cfr. in ARISTOF., _Vespe_, l'apostrofe dell'eliasta Filocleone: «O
Lico signore, eroe a me vicino, tu al pari di me sempre t'allegri
per le lagrime degli accusati e solo degli eroi volesti aver sede
appo chi piange», v. 389 seg. Cfr. v. 819. Presso alla statua di Lico
radunavansi anche, innanzi al giudizio, gli eliasti che si lasciavan
corrompere e che vendevano il voto alle parti, per contrattare colle
medesime il prezzo.

[8] «Conviene che ognuno di voi, giudici, si faccia vicino alla
ringhiera (ἄχρι τοῦ βήματος) per dare un voto santo e giusto...»
DEMOST., _Falsa legaz._, 441.

[9] POLLUCE, VIII, 113. ESICHIO, SUIDA. Cfr. MEIER, _Att. Pr._, 716.

[10] Premettevasi alla udienza (che cominciava la mattina per tempo,
ogni processo dovendo finirsi nel dì) una purificazione religiosa e una
preghiera recitata dall'araldo. ARISTOF., _Vespe_. «Ora alcuno porti
subito il fuoco e rami di mirto ed incenso, per porgere innanzi tutto
le preghiere agli dei» v. 860 seg.

[11] Cfr. ARISTOF., _Vespe_, 811 seg., v. 906.

[12] ARISTOF., _Lisistr._, v. 798.

[13] Per i criteri da me seguiti nel compilare il testo di questa
formula, cfr. ARISTOF., _Tesmof._, v. 331-371; _Vespe_, v. 863 segg.
DEMOST., _C. Aristocr._, 652-653; _C. Timocr._, 746-747; _Corona_, 319,
28. ANDOCIDE, _Misteri_, 13, 23.

[14] V. la formula del giuramento annuo degli eliasti, in DEMOST.,
_C. Timocr._, 746: «Darò il voto conforme alle leggi e ai decreti
del popolo ateniese e del Senato dei Cinquecento. Nè voterò per la
tirannide nè per l'oligarchia. Nè se alcuno opprimerà la libertà del
popolo o parlerà o voterà contro di essa, io lo consentirò, come
non consentirò la remissione dei debiti privati nè la spartizione
delle terre o delle case. Non richiamerò i fuorusciti o i condannati
a morte; nè scaccierò i cittadini residenti in città, contro le
disposizioni delle leggi, del popolo e del Senato. Non lo farò, nè
consentirò lo faccia altri. Non nominerò a magistrato chi non abbia
dato conto di altri uffici esercitati... Nè due volte nominerò pel
medesimo magistrato il medesimo cittadino, nè consentirò ch'egli
eserciti due ufficj nello stesso anno. Non accetterò doni per il
giudizio nè permetterò che altri, me consapevole, ne accetti, nè
consentirò artificj o frodi. Non ho meno di trent'anni di età.
Ascolterò l'accusatore e il difensore con animo eguale e sentenzierò
sulla questione. — Sarà giurato in nome di Giove, Nettuno e Cerere e
imprecato la ruina a sè e alla casa sua in caso che siano violate le
cose dette. Per contro a chi le osserverà, molte prosperità verranno».
Quanta sapienza civile di popolo libero in poche linee! Questo
giuramento era prestato al cominciar d'ogni anno, in luogo spazioso
detto Ardetto, in riva all'Ilisso, dai cittadini che vi si radunavano
per l'estrazione a sorte dei 6000 giudici dell'anno. Cfr. SCHÖM.,
_Sort. jud._

[15] ἐπαρᾶσθαι ἐξώλειαν ἑαυτᾧ και οἰκήᾳ τῇ ἑαυτου, DEMOST., _C.
Timocr._, 746. ἐπιορκοῦντι δ’ἐξώλη αὐτὸν ειναι καὶ γένος. ANDOC.,
_Mist._, κακῶς ἀπολέσθαι τοῦτον αὐτὸν κᾠκίαν, ARISTOF., _Tesmof._, v.
349.

[16] Cfr. ARISTOF., _Vespe_, v. 891. Cominciato il giudizio, (la
mattina per tempo), i giudici arrivati in ritardo restavano esclusi, e
così perdevan la paga. Cfr. _Vespe_, v. 775: «E se anche t'alzerai da
letto a mezzogiorno, nessun Tesmoteta ti _farà più chiudere fuori dei
cancelli_».

[17] Così era detta per celia la paga dei tre oboli, che i giudici
pigliavano. κωλακρέτου γάλα πίνειν, ARISTOF., _Vespe_, V. 724.

[18] Sulle formule di accuse, cfr. gli esempi varî in DEMOSTENE e negli
altri oratori: e l'accusa contro Socrate in PLATONE, _Apologia_, e
quella contro Alcibiade, PLUT., _Alcib._ Cfr. ARISTOF., _Vespe_, 894.

[19] _Munichione_, il 10º mese attico (dal 15 aprile al 15 maggio). Sul
lunario ateniese, cfr. note all'_Alcibiade_.

[20] Cfr. ESCHINE, _C. Ctesif._ DEMOST., _Corona_.

[21] La pena ora era lasciata dalla legge al giudizio dell'Eliea
(cfr. DEMOST. _C. Mid._ PLAT. _Apol. Soc._), ora iscritta nella legge
stessa che contemplava il reato e nel testo dell'accusa proposta. Cfr.
DEMOST., _C. Timarc._ ARISTOF., _Vespe_, 897.

[22] ἔως δέ τοῦ ἀποτῖσαι εὶρχθήτω. DEMOST. _C. Timarc._, 3, 17.

[23] Si affiggevano in publico, tempo innanzi il dibattimento perchè
ognuno interessato potesse prenderne notizia: «affinchè ognuno
leggesse sotto le statue degli eroi: Eutemone Lusiese diè querela
di posto abbandonato a Demostene Peaniese». DEMOST., _C. Midia_.
Quest'affissione era prescritta anche per le leggi che i cittadini
proponevano, avanti sottoporle al Senato e all'assemblea: «Se
bisogneran nuove leggi, i Tesmoteti le scrivano nelle tavole e le
espongano innanzi alle statue degli eroi, all'esamina di ognuno».
ANDOC., _Misteri_.

[24] Questo giuramento (ἀντομωσία) era dato dalle due parti innanzi al
Tesmoteta nell'istruttoria del processo precorrente il dibattimento,
l'accusatore giurando della verità dell'accusa, l'accusato della
propria innocenza. Cfr. PLAT., _Apol._ MEIER, _Att. Pr._, 624.

[25] αίγα, κάθιξε. σὺ δ’ἀναβὰς κατηγόρει. ARISTOF., _Vespe_, 905. Era
prescritto per legge che ciascuna delle due parti perorasse da sè la
propria causa (QUINT., _Inst._, II): gl'incapaci a difendersi da sè,
si faceano scrivere da altri o da parenti o da avvocati di grido che ne
facean professione (_logògrafi_) le arringhe che poi per proprio conto
recitavano. Cfr. _Vite X Or._ DEMOST., _C. Leocar._ Tutt'al più, a
volte concedevasi che la parte limitasse il suo discorso a un semplice
esordio, dopo il quale cedeva la parola a un amico od orator di
mestiere che parlasse per lui (_sinègoro_). Così nella orazion contro
Neera Teomnesto accusatore, dopo un breve proemio, cede la parola al
proprio parente Apollodoro. Gli oratori parlavano dalla ringhiera,
in piedi e postasi in capo la corona; quando non era il loro turno di
parola, sedevano; e finito di parlare, deponevano la corona. ARISTOF.,
_Eccles._, v. 163. Cfr. MEIER, _Att. Pr._, 707.

[26] «Prima di parlare mettiti in capo questa corona. Fate silenzio,
state attenti. Ecco, _già si spurga il naso, come usano gli oratori_,
(χρέμπτεται γὰρ ἤδη, ὃπερ ποιοῦσ’. οἱ ῥήτορες) È probabile che farà un
lungo discorso». ARISTOF., _Tesmof._, 381, 382. _Ecclesiaz._, v. 131.

[27] Cfr. BARTHEL., _Anac._, cap. 18. A dar meglio idea dell'attenzione
dei giudici nel corso del dibattimento, ARISTOFANE ti mette in iscena
per ischerzo anche il vecchio eliasta che durante le arringhe delle
parti sta mangiando la minestra (_Vespe_, v. 906).

[28] Σίγα, σιώπα, πρόσεχε τὸν νοῦν. ARISTOF., _Tesmof._, 381.

[29] Colla clessidra (che noi chiameremmo orologio ad acqua, benchè
non fosse precisamente la stessa cosa, cfr. MEIER, _Att. Pr._, 715)
misuravasi, com'è noto, il tempo concesso alle arringhe delle parti
nei processi d'importanza. Nei processi inconcludenti e in alcuni di
data specie, come la querela di maltrattamento, non s'usava clessidra
(cfr. _Harpocr._) e la misura del tempo lasciavasi probabilmente
al discreto giudizio del presidente. Questi eran detti _processi
senz'acqua_. Secondo la maggiore o minor gravità della causa variava
la quantità e misura dell'acqua accordata; tante anfore per la tal
causa, tante anfore per la tal'altra. Così per es. nella querela
di _falsa ambasceria_ (παραπρεσβείας γ.) eran concesse a ciascuna
parte undici anfore (ESCHIN., _Falsa amb._); nelle cause di eredità
concedeasi a ogni parte un anforeo, e nelle repliche la metà, ossia tre
coe (DEMOST., _C. Macart._) L'acqua veniva fatta misurar dall'arconte
all'udienza, come vedi nell'orazione contro Macartato. Nella misura
dell'acqua non era compreso il tempo impiegato alla lettura degli atti,
leggi, decreti o testimonianze: perciò l'oratore, quando stava per far
dare lettura di documenti, o chiamar testi, ordinava al custode della
clessidra di fermar l'acqua. (πίλαβε τὸ ὕδωρ, cfr. DEMOST., _C. Stef._,
1103; _C. Eubul._, 1305, ecc. ISEO, _Ered. Menec._, 221, ecc.)

[30] «Procura di arringare in bel modo, appoggiandoti con decoro sul
bastone». ARISTOF., _Ecclesiaz._, v. 150.

[31] «Se alcuno vuol contraddirmi, venga qua, gli cedo l'acqua».
DEMOST., _Falsa legaz._ «Quelli che mi affermano menzognero, vengano
qua, si servano dell'acqua mia (_parlino nella mia acqua_, ἐπὶ τοῦ ἐμοῦ
ὕδατος) per isbugiardarmi testimoniando». DEMOST., _C. Eubul._ «Indichi
Eschine le sue proposte in pro della patria; se ci sono, le palesi e io
gli cedo l'acqua». DEMOST., _Corona_. Cfr. ANDOC., _Mist._

Per esempio opposto, in altre arringhe demosteniche l'oratore lamentasi
spesso che a dir tutto non gli basti l'acqua. «A voler isbugiardare
i testimoni l'acqua non mi basterebbe». DEMOST. _C. Stef._; I. _C.
Neera_; _C. Macart._, ecc.

[32] L'ipocrisia di questi esordî era in voga tra gli oratori, allora
come oggi: tanto più frequente e necessaria in città dove l'accusa
publica, fatta diritto di ciascun cittadino, allettava gl'ignobili
sicofanti a servirsene a lucri e a vendette personali. «Non per desio
di litigi, in nome degli dei, introdussi o giudici questa causa contro
Beoto». DEMOST., _C. Beot._ «Nessuno di voi, Ateniesi, si avvisi che
per privata inimicizia io venga qua accusator di Aristocrate». DEMOST.,
_C. Aristocr._ «Non per ruggine nè voglia di litigar con Leocrate ho
dato questa accusa contro lui, ma perchè reputavo vergogna lasciar
libero nella piazza un tanto vitupero della patria». LICURGO, _C.
Leocr._ Cfr. LISIA, _C. Filone_, ecc.

[33] L'accusatore che ritirava una publica accusa da lui promossa,
o che non otteneva nei processi il quinto dei suffragi pagava nelle
cause civili un obolo per ogni dramma, ossia la multa del sesto della
somma in litigio; nelle cause penali, come questa, era multato in 1000
dramme, più la perdita del diritto di accusare e di star in giudizio.
(DEMOST., _C. Teocrine_; _Corona_). Nelle cause religiose era aggiunta
anche l'infamia.

[34] Cfr. PLAT., _Apol. di Socr._

[35] Su queste invocazioni, cfr. LICURG., _C. Leocr._; DEMOST.,
_Corona_; ARISTOF., _Ecclesiaz._, v. 171.

[36] Il tempio di Cibele (_Metròo_), nell'agora presso il Senato,
era anche l'archivio ove custodivansi le leggi scolpite in pietra e i
decreti del popolo. «Ditemi, o cittadini, se un uomo entrato nel tempio
della gran madre vi raschiasse una sola legge, non lo uccidereste voi?»
LICURGO, _C. Leocr._ «La sua rinunzia si conserva fra le scritture
pubbliche nel Metroo, dove sono affidate alla custodia di un cittadino.
Ivi sta scritto il decreto col nome suo». DEMOST., _Falsa legaz._, 381.

[37] «_Bdelic._ Ed io noterò semplicemente per memoria quanto egli
dirà». ARISTOF., _Vespe_, 540, 559. Così i giudici come gli oratori
eran forniti dell'occorrente per prender note. Cfr. _Vespe_, 529:
«tosto qui alcuno mi porti il mio cofanetto» (κθστη, ch'era la cartella
con l'occorrente per iscrivere, tavolette e stili, σανίδας καὶ γραφάς,
_Vespe_, 848).

[38] τριταγωνιστής, _istrione da terze parti_, una delle garbatezze
più frequenti che gli avvocati tra loro si regalavano, dacchè era
venuto di moda, col moltiplicarsi dei giudizi e dei rétori, l'enfasi
del declamare e gesticolare. D'altronde (e ciò valga per questo ed
altri epiteti delle arringhe di Beoto ed Eudemonippo), gli oratori
attici in genere e Demostene in ispecie, non brillavano precisamente
per l'eccessiva urbanità. Merita conto di notarlo per coloro che usano
spesso a rovescio la parola _atticismo_ e si imaginano che l'atticismo
antico consistesse, anzichè nella purezza dell'idioma, nell'uso delle
frasi gentili. Basti un esempio per tutti, la graziosa raccolta di
paroline dolci che Demostene regala al suo avversario Eschine, tutte di
un fiato, in un solo discorso: «Che core, o istrion da dozzina, doveva
essere il mio, quando io consigliavo la città?» (_Corona_, 297); e
poi da capo: «Che gli Dei e gli uomini tutti ti annientino, scellerato
cittadino, istrione da terze parti!» (_Cor._, 335); e poi: «Ciarliero,
imbroglione, pestifero vasello di frodi, copista che va declamando
paroloni a somiglianza d'un tragico» (_Cor._, 269); e avanti ancora:
«Ma può mai darsi un più ribaldo ed esecrabile calunniatore di costui?»
(_Cor._, 298) e seguita: «se andava attorno cogli altri, solenne
birbante è costui...» (_Cor._, 300). E i complimenti non finiscono lì:
sebbene per un discorso solo potrebbe parere che bastino.

[39] Superfluo avvertire che l'eloquenza dell'accusatore Beoto (per
contrapposto a quella di Eudemonippo) è qui presentata come quella
appunto d'un sicofante declamatore e tronfio, giusta la descrizione di
Demostene (_Cor._, 269).

[40] Giudici che interrompono l'oratore o interloquiscono nell'arringa
— cfr. DEMOST., _C. Stef._, I, 1128; _C. Macart._, 1060; _C. Spudia_,
1033; _C. Beot._, 1022, 1024.

[41] ἐπίλαβε τὸ ὕδωρ. DEMOST., _C. Stef._, I, 1103; _C. Eubul._, 1305,
7; e altrove. ISEO, _Ered. di Mènecle_, 221; _di Pirro_, 21, ecc. Cfr.
nota 30.

[42] La lettura dei documenti e delle leggi citate in appoggio
era fatta all'udienza, non dall'oratore, ma dal cancelliere. V. in
DEMOSTENE e negli altri oratori. Della tavoletta o πινάκιον, distintivo
degli eliasti, V. sopra, n. 2: del _giuramento degli eliasti in
Ardetto_, n. 15.

[43] τὰς μὲν γὰρ ἑταίρας ὴδονἦς ἕνεκ’ ἔχομεν.... τὰς δὲ γυναῖκας τοῦ
παιδοποιεῖσθαι γνησίως καὶ τῶν ἔνδον φύλακα πιστην ἔχειν. DEMOST., _C.
Neera_, 1386.

[44] «Chi vuol contraddirmi, sorga e _parli nella mia acqua_» ἀναστὰς
ἐν τῷ ἐμῷ ὕδατι, εἰπάτω. DEMOST., _Falsa leg._, 359; _Cor._, 274.

[45] DEMOST., _Cor._, 269, 273 e in cent'altri luoghi.

[46] Cfr. ARISTOF., _Nubi_, v. 986.

[47] Cfr. ARISTOF., _Rane_, v. 1030-1036.

[48] τοῖς μὲν γὰρ παδαρίοισιν — ἔστι διδάσκαλος ὅστις φράξει, τοῖς
ηβῶσιν δὲ ποιηταί. AR., _Rane_, 1054.

[49] «Io voglio citarvi anche i versi di Omero, il qual poeta fu
tenuto così eccellente dai nostri padri, che per legge decretarono
recitarsi le poesie di lui solo e non d'altri, ogni cinque anni, nelle
Panatenee». LICURGO, _C. Leocr._ Eliano fa autore di questa legge
Ipparco, il figliuol di Pisistrato, il primo che portò i poemi omerici
nell'Attica. Cfr. PLAT., _Ipparco_.

[50] Cfr. DEMOST., _C. Neera_, 1382: «τί δέ καὶ φήσειεν ἂν ὒμῶν ἕκαστος
εὶσιὼν πρὸς τὴν ὲαυτοῦ γυναῖκα ἢ θυγατέρα... ἐπειδὰν ἔρηται ὑμᾶς ποῦ
ἦτε, καὶ εἲπητε ὅτι ἐ δικάξομεν, ecc., ecc.» Cfr. ARISTOF., _Lisistr._,
V. 512 seg.

[51] Cfr. DEMOST., _Corona_, 297: ’Αλλ’ ουκ ἔστιν, οὐκ ἔστιν... μὰ τοὐς
Μαραθῶνι, ecc., ecc.

[52] Si davano i suffragi ne' giudizi in varie maniere, per via di
piccole conchiglie, o per lo più di fave o di pietruzze (ψ ῆφοι)
bianche per l'assoluzione, nere per la condanna: oppure per mezzo di
pallottoline (σπόνδυλοι), le une nere e forate, le altre bianche ed
intere; le forate per condannare, le intere per assolvere. ESCH., _C.
Timarc._; LUCIANO, _Apol. Paras._

[53] «Bada che l'ira nel rispondergli non ti porti di là dagli ulivi»,
ἐκτὸς τῶν ἐλαῶν. ARISTOF., _Rane_, 995.

[54] «Perchè egli era il primo a parlare, stravolse la lite, e col
leggere molte cose e col mentire commosse i giudici di guisa, che non
vollero neanche udire la mia voce. Così condannato all'ammenda della
sesta parte, senza aver ottenuto di far la mia difesa, me ne andai
triste e malcontento». DEMOST., _C. Stefano_, I. In simili casi i
giudici vociferavano in coro al malcapitato di scendere dalla tribuna,
gridandogli: _abbasso! abbasso!_ κατάβα, κατάβα, κατάβα ARISTOF.,
_Vespe_, 979. E così nelle _Vespe_ è preso dal vero perfettamente il
bozzetto satirico del vecchio eliasta, impaziente di condannare dopo
udita una parte sola: «_Bdelic._ Per gli dei, o padre, non pronunziar
la sentenza prima di aver udite tutte e due le parti. _Filoc._ Mio
caro, la cosa e già chiara e parla da sè». _Vespe_, 920.

[55] «Dimmi un po' quali lusinghe non può un giudice ascoltare?...
Chi piange la sua miseria; chi ci narra favole e qualche storiella
da ridere di quelle di Esopo; chi fa il buffone affinchè io rida e
deponga, nel giudicare, lo sdegno». ARISTOF., _Vespe_, v. 564. Cfr. v.
1259.

[56] V. PLUTARCO, _Demostene_. Cfr. le note al mio _Alcibiade_, p. 215.

[57] «Costui si vanta tanto della sua voce, che confida di far con
essa molta impressione su di voi. Ma sarebbe assurdo che, mentre lo
scacciaste a fischi dal teatro, qui gli faceste lieta accoglienza
soltanto per la sua voce sonora». DEMOST., _Falsa legaz._ Cfr.
_Corona_, 269.

[58] Κάλει μοι τοὺς μάρτυρας. DEMOST., ecc. I testimoni non deponevano
all'udienza, ma vi confermavano con giuramento le testimonianze
scritte, date da essi nell'istruttoria o quelle loro deferite
dall'oratore anche avversario. «A conferma del mio dire addurrò
in testimonio Aristofane Olintio. Chiama Aristofane e _leggi_ la
testimonianza di lui». ESCHINE, _Apol._ «Chiama Egesandro per cui
scrissi la testimonianza più modesta che non chiedano i suoi costumi...
ma so bene che spergiurerà». ESCHINE, _C. Timarco_.

[59] ἐχῖνος. (HARPOCR.; SCOL. in ARIST., _Vespe_, 1427). Era un vaso
di terra o di metallo nel quale si deponevano e custodivano i documenti
presentati nella istruttoria del processo. Cfr. MEIER, _Att. Pr._, 691.

[60] Cfr. DEMOST., _Falsa legaz._ «Sarebbe assurdo che mentre voi,
giudici, udendo costui (Eschine) rappresentare Tieste e le sventure
di Troja, lo cacciaste di teatro a fischiate, e quasi lo lapidaste,
tanto ch'egli abbandonò l'arte dello istrione, ora ch'egli, non già
sulla scena, ma coi fatti danneggia la repubblica, gli faceste lieta
accoglienza» p. 449.

[61] «I testimoni parlino senza paura e giurino _toccando le cose
sacre_». LIC., _C. Leocr._ Il giuramento veniva dato secondo i casi
espressamente a voce («_giuriamo: eravamo presenti_» DEMOST., _C.
Stef._, 1, 1109), oppure anche tacitamente, confermando col solo gesto
la testimonianza scritta o già giurata prima nell'istruttoria: come
nell'esempio in DEMOST., _C. Midia_, 560.

[62] Anno 498 av. l'E. V. (_Olimp._, 70, 3). Nell'anno stesso dello
avvenimento rappresentò Frinico in Atene la sua tragedia: _La presa di
Mileto_.

[63] ERODOTO. Cfr. MÜLLER, _Ist. Letterat. Gr._, II, 35; BECQ DE
FOUQUIÈRES, _Aspasie_.

[64] Cfr. un passo del comico Similo, _ex inc. fab._, presso STOBEO, 60.

Rispetto alle teorie estetiche qui svolte da Eudemonippo, giovi
confrontare anche tutta la scena della contesa fra Eschilo ed Euripide,
nelle _Rane_ di ARISTOFANE. Caratteristico e curioso in ispecie quel
passo: «_Eurip._ Forse che non esposi in iscena la storia di Fedra
esattamente vera come stava? _Eschil._ Sì, per Giove, l'hai esposta
come stava. Ma ciò che è turpe il poeta deve celarlo, non esporlo,
nè metterlo in iscena» v. 1052-3. Tanto è vero, che certe polemiche
di oggidì, e certe teorie veriste nelle quali taluni si credono avere
inventata la polvere da sparo, giravano già nel mondo dell'arte qualche
secolo prima che nascessero i veristi della giornata.

[65] «_Esch._ Per che cosa si deve ammirare il poeta? _Eurip._ Perchè
prepara cittadini migliori alla città». ARISTOF., _Rane_, 1008-9.

[66] Vedi in ARISTOTILE, _Morale a Nicomaco_, VIII. Cfr. _Polit._, I,
cap. 1, 5; II, cap. 2; e in SENOFONTE, _Economico_, VII, lo squisito
bozzetto della moglie d'Iscomaco. Cfr. fra le molte opere moderne, che
trattarono della posizione morale e giuridica della donna di famiglia
ateniese, l'eccellente studio di LALLIER, _La femme dans la famille
athénienne_.

[67] DEMOST., II, _C. Stef._ Cfr. MEURSIUS, _Themis Attica_, 34.

[68] MEURSIUS, _Them. Att._, 35. Cfr. TERENZIO, _Phormio_; DIOD. SIC.,
XII.

[69] ISEO, _Eredità di Pirro_, § 64.

[70] PLUT., _Alcib._, VIII; CRATINO, _La bottiglia_, framm. PETIT,
_Leg. Att._; SCHÖM., _Antiq. Jur. Pub._, 343; MEIER, _Att. Pr._, 558;
MARIOTTI, _Demost._, III, 541.

[71] Di oratori travisanti o mutilanti furbescamente il testo delle
leggi che citavano, vedi esempio: «Non ti vergogni di accusarmi per
invidia e scambiar leggi e smozzicarle, invece di allegarle intere a
chi ha giurato di sentenziare secondo le leggi?» DEMOST., _Corona_,
268.

[72] LIBANIO, _Decl. X._ cfr. MEURSIUS, _Them. Att._, 52.

[73] ἐὰν τις αὺτόν διαχρήσεται, τὴν χεῖρα, τὴν τοῦτο πράξασαν, χωρὶς
τοῦ σώματος θάπτομεν. ESCHINE, _C. Ctesif._

[74] «Le cose operate sotto i 30 e le sentenze date, private o
pubbliche, non siano valide». DEMOST., _C. Timocr._ Vedi nella stessa
arringa anche il testo del decreto di Diocle.

[75] Al tempo di Pericle, e mentre più fioriva il poeta comico Cratino,
nell'anno 440 av. l'E. V. fu portato primamente un decreto, che frenava
la libertà degli scherzi nelle commedie. Questo decreto prese il nome
da Morichide, ch'era l'arconte di quell'anno. Ma questo decreto fu
abrogato di lì a soli 3 anni, nel 437, essendo arconte Eutimene. Venne
posteriormente, a regolare la licenza sfrenata degli attacchi, un
decreto così detto di Siracosio, che proibiva attaccare i cittadini
direttamente per nome (μὴ κωμῳδεῖν ὀνομαστὶ): ma il divieto proteggeva
gli uomini politici come tali, non come privati. E che il decreto,
nel fiorire della democrazia ateniese, subisse larghissimi strappi,
lo prova ampiamente la virulenza degli attacchi di Aristofane contro
il demagogo Cleone, nelle _Vespe_. Ma allorquando la libertà ateniese
cadde, per la disfatta di Egospotamo, e Sparta impose ad Atene la
oligarchia dei trenta tiranni, era evidente che la commedia, colla
libertà nata e cresciuta, dovesse seguirne per la prima le sorti. E
così Lamaco, forse più che altro richiamando in vigore e completando
con più rigorose sanzioni quel decreto caduto in dissuetudine, recò
alla commedia antica l'ultimo colpo con il decreto ch'ebbe nome da lui
e che vietava assolutamente porre in iscena i viventi. Cfr. CAPPELLINA,
_Pref. ad Aristof._; SCHLEG., _Letter. dram._; MÜLLER, _Istit. lett.
gr._; MEURSIUS, _Them. Att._ II, 20; PETIT, _Leg. Att._, 79.

[76] «Vedo qualcuno sedente al tribunale e protendente il ramoscello
dei sùpplici». ARISTOF., _Pluto_, 382. Tutto era buono agli accusati
per cercar perorando d'impietosire i giudici: e se il ramoscello de'
supplicanti non bastava, si faceano venir intorno i vecchi parenti,
le mogli, i bambini, come vedi in ESCHIN., _Apol._ Tutta questa
perorazione o digressione supplichevole di Eudemonippo appartiene
appunto al genere di quelle di che gli oratori ne' giudizi popolari
dell'Eliea facean maggior uso, ma che erano rigorosamente vietate
davanti al tribunale dell'Areopago. Cfr. MEIER, _Att. Pr._, 719.

[77] Prescrisse Solone, che «la sposa rinchiusa collo sposo in una
stanza, a mangiar abbia con lui una mela cotogna, e sia obbligato il
marito della ereditaria di giacere con essa almeno tre volte il mese».
PLUT., _Solone_.

[78] Il processo, non bisogna dimenticarlo, ha luogo intorno ai tempi
di Demetrio Poliorcete nel breve intervallo di respiro lasciato alla
democrazia ateniese, fra il cader delle sorti di questo principe e
il ristabilirsi definitivo del giogo macedone. A quell'epoca fiorì
Filippide, poeta comico della commedia nuova, acerbo flagellatore nelle
sue commedie delle smaccate, vergognose adulazioni prodigate a Demetrio
dal popolo ateniese, e in ispecie dai demagoghi cortigiani Stratocle e
Dromoclide. Vedi i suoi versi riferiti in PLUTARCO, _Vita di Demetrio_,
c. 12.

[79] PLUTARCO, _Vita di Demetrio_, c. 26.

[80] Ταῦτ ακαταλύει δῆμον, οὐ κωμωδία. FILIPPIDE, presso PLUTARCO,
_Vita Demetrio_, 12.



ATTO PRIMO


PERSONAGGI DELLA COMMEDIA

  MÈNECLE, vecchio eupatrida ateniese (65 anni).
  ÀGLAE, sua sposa, giovinetta (sui 19 o 20 anni).
  ELÈO, giovine ateniese.
  FÀNIA, fratello di Aglae.
  CRÌSIDE, sposa di Fània.
  CRÒBILO, marito di
  MÌRTALA, ricca ereditiera (_epiclera_) (sui 45 anni).
  BLÈPO, servo di Mènecle.
  DÈLFIDE, ancella di Aglae.
  TRATTA, vecchia fantesca.
  DÀMOCLE, fuoruscito tebano.

_L'azione ha luogo in Atene, in casa di Mènecle, nel 379 avanti l'E.
V. (2º della 100ª Olimpiade), l'anno che Pelòpida coi fuorusciti tebani
liberò Tebe._



ATTO PRIMO

  Stanza interna, da lavoro, d'un gineceo ateniese, riccamente
  decorata. Ingresso nel mezzo, dalla porta e corridoio (μέαυλος),
  che mette dal gineceo all'appartamento del marito. Da un lato altra
  porta, che mette alle altre stanze riposte del gineceo.[81]


SCENA I.

AGLAE _e_ MÈNECLE.

  (Aglae sta seduta a un tavolino di lavoro, con un canestro di fiori
  accanto, intrecciando una corona. Mènecle dall'altro lato della
  stanza sta terminando di rotolare un papiro, poi cammina su e giù
  pensoso e rannuvolato, tenendo il rotolo in mano).


AGL. (_dal suo tavolino di lavoro, parlando seduta e intenta al
lavoro_) Hai terminato?

MÈN. (_passeggiando, e con voce secca_) Sì.

AGL. (_sempre chini gli occhi sul lavoro_) Sei ben triste, Mènecle,
stamattina. Si direbbe ti sii imbattuto nell'ombra di qualche eroe
taciturno[82], o la Terra questa notte t'abbia mandato qualche infausto
sogno...

MÈN. (_passeggiando su e giù, le mani di dietro, serio e brontolando
fra sè_) Sarà...

AGL. Pure hai vegliato ad ora tarda. La vecchia Tratta m'assicurò che
alla terza vigilia della notte c'era ancora lume nella tua stanza.

MÈN. (_c. s._) E Tratta farà meco i conti, se la colgo a spiare i fatti
miei...

AGL. Vedi come sei! Una volta eri cortese. Da qualche tempo non ti
si può parlare. Fui io a dirle che scendesse a dare un'occhiata,
udendo rumor di passi nella stanza tua. Dubitavo stessi male... ti
abbisognasse qualcosa...

MÈN. (_sempre passeggiando come assorto in pensieri, e brusco nel
parlare_) Grazie. E s'anco mi fosse bisognato, dei servigi delle
vecchie non so che farne...

AGL. (_sempre cogli occhi al lavoro, e con voce calma, quasi
indifferente_) Ma la mi disse che stavi scrivendo... Se no mi sarei
alzata io... Forse quella lettera? (_additando il rotolo che Mènecle
ha in mano. Mènecle si stringe nelle spalle e non risponde_) Qualche
affare urgente?

MÈN. (_c. s._) Può darsi.

AGL. Del tuo dicastero?

MÈN. Non so.[83]

AGL. E avrai a far molto oggi?

MÈN. Non saprei.

AGL. Eccomi ben informata!... (_sollevando il capo dal lavoro_) Mi puoi
favorire quel libro lassù...

MÈN. (_prende un rotolo nel luogo indicatole da Aglae e legge il
titolo esterno_) _Amori di Piramo e Tisbe_... (_fra sè_) (Non sono i
nostri...)

AGL. No... l'altro...

MÈN. (_c. s. leggendo il titolo esterne_) _Le Trachìnie_... e la
_Medea_.

AGL. Quello.

MÈN. Vuoi rileggere come Dejanira si disperò dell'abbandono di
Ercole, e Medea del divorzio di Giasone?... Erano due stupide...
(_nell'avviarsi verso Aglae col libro in mano, legge macchinalmente
quel che gli vien sott'occhio_):

      «Arse Achelòo per me: come potea
    Donzelletta mirar l'orrido aspetto?
    Ed io per me chiedea
    Aspra ed acerba morte,
    Piuttosto che a quel mostro esser consorte».[84]

Un'altra stupidaggine!... (_consegna il libro ad Aglae_).

AGL. (_prendendo il libro_) Tanto per ingannare il tempo!... Queste
giornate di ecatombèo[85] sono sì lunghe!...

MÈN. (_si ferma un momento a guardarla, poi torna a camminare
concitato, come combattuto da qualche pensiero, poi le si fa appresso e
la chiama_) Aglae!...

AGL. (_pacatissima, continuando a leggere_) Mènecle!...

MÈN. Ti ricordi di quel che tuo padre al letto di morte ci raccomandò,
ad entrambi, quando a me ti affidava?

AGL. (_senza distor gli occhi dalla lettura e dal lavoro della corona,
con voce pacatissima_) Me ne ricordo...

MÈN. Che cosa ci disse?...

AGL. A me disse: sii casta e virtuosa... deferente al marito...
pietosa agl'infelici... ossequente agli Dei...; a te... (_si arresta
d'improvviso_).

MÈN. (_vivamente_) A me... Aglae?...

AGL. A te... non ricordo.

MÈN. Non importa. Me ne ricordo io. A me disse di farti felice.

AGL. (_sempre leggendo, e come distratta_) Ah, sì!...

MÈN. Aglae!... (_dopo una pausa di esitanza_) lo sei?

AGL. (_alzando il capo_) E me lo chiedi? Nulla qui mi manca degli agi
della vita: ho servi, cagnolini, fantesche: specchi di Brindisi[86]
e tappeti di Babilonia,[87] ed ori e gemme, e vesti milesie e veli di
Còo: tu mi provvedi di tutto per le feste di Minerva[88] e per le sante
Tesmoforìe; vo per te rispettata fra le donne libere di Atene, ottengo
i primi onori nelle cerimonie della gran dea: per te posso adempiere
al voto di mio padre, beneficar gl'infelici e dar sagrificj alla sua
tomba...

MÈN. (_sospirando_) E d'altro?

AGL. E se... (_si arresta_).

MÈN. (_insistendo_) E se?...

AGL. E se qualcosa ancora mancasse alla felicità mia, non sarebbe un
tentare Adrastea chiedere felicità compiuta, cosa non concessa agli
umani? Sola io sarei nata sotto astro sì benigno, io sola avrei avuto
a condizioni diverse dagli altri quest'aria che respiro, da raggiungere
sulla terra ogni mèta dei desiderj?...[89]

MÈN. (_crollando il capo_) Ahimè! tu parli come parlerebbe Socrate...
ma Socrate, oltre alla molta sapienza, aveva anche il naso rincagnato
e gli occhi loschi... e sessantacinqu'anni sulla gobba...: tu non hai
nessuno di questi privilegi. E se le donne ragionano colla testa così
bene alla tua età, che cosa faranno a sessanta?

AGL. (_lavorando_) Ragioneranno anche meglio.

MÈN. Eppure, se tuo padre, morendo, avesse portato sotterra il
desiderio di una felicità maggiore per te? Se a quella ch'ei per te
imaginava, di laggiù vedesse che una parte ne manca, credi che la sua
ombra non ne avrebbe dolore... rimorso forse?...

AGL. Mènecle! che discorsi son questi?... Decisamente la veglia di
stanotte non t'ha messo l'umore allegro...

MÈN. (_fra sè_) (Può essere!) (_secco_) Che ne sai tu!...

AGL. Io so che mio padre, memore de' tuoi beneficj, mi ha a te
affidata, morendo, come a nuovo padre della famiglia:[90] tu hai
pensato ai funebri paterni, alla educazione mia: hai sposata l'orfana
secondo il rito: m'hai chiesto prima se ero contenta: ho detto sì: se
non avevo altre mire in cuore, ho detto no: di che vuoi l'ombra paterna
si dolga? chi vuoi m'abbia a compiangere...

MÈN. Eh, a quindici anni se ne dicono tanti di sì e di no... (_fra sè,
indispettito, con un gesto vivo d'impazienza, picchiando sul tavolo col
rotolo che ha in mano e che gli cade per terra senza ch'ei vi badi nè
lo raccolga_) (Finge... e non c'è verso...) Pure, ieri, ti ho sorpresa
con una lagrima...

AGL. Sì, piangevo pensando a quella povera Cesira, di cui è giunta
notizia che le è morto, lassù in Tracia, il figlio...

MÈN. Ma ier l'altro la notizia non era giunta, e, quando rientrai,
stavi intrecciando, come oggi, delle rose,[91] e c'eran più nuvole
sulla tua faccia, che non sull'Egèo... quando fa nuvolo.

AGL. Pensavo che quanto quelle rose tanto dura la bellezza della donna.
Ogni cosa il tempo si porta via presto quaggiù: e a noi non resta che
il ricordo delle gioie godute...

MÈN. (_fra sè comicamente_) (Ne gode molte!)

AGL. ... il resto è polvere: polvere di Pericle, di Codro e di
Cimone.[92]

MÈN. Decisamente ti sei data alla filosofia. Io avrò l'umor nero: ma
Eràclito il lagrimoso, al tuo confronto, metteva in corpo l'allegria...

AGL. Ma sei tu che vai a cercare certi discorsi... Bel modo di occupar
la mattina... E vai oggi al tribunale?...

MÈN. Oggi al Metichèo non c'è seduta... (Finge... non c'è verso!)

AGL. Resti?...

MÈN. No... ho da uscir lo stesso. Addio...

AGL. (_dal suo posto_) Addio...

MÈN. (_s'avvia, poi torna indietro_) Se venisse Elèo, bisogna dirgli
che ho avuto lettere da Tebe, da Epaminonda... Poi già gli parlerò
io... (_ritorna ad avviarsi, poi si sofferma da capo, dinanzi a un
tavolo_) Ah, è questo lo specchio che t'ha regalato Crìside? (_prende
dal tavolo uno specchietto di bronzo, a fregi d'oro, e ne esamina il
manico intagliato_) Graziosa questa piccola Afrodite!... (_si specchia,
lisciandosi la barba_) Che bella luce!... Oh, Aglae!... vieni qua!...
(_Aglae si alza e va verso lui_) Più in qua!... così!... (_tenendo
dell'una mano lo specchio, dell'altra avvicinando Aglae a sè, e la
testa di Aglae a contatto della propria, così che i due volti, l'un
presso l'altro, nello specchio si riflettano entrambi_) Guarda!...
che quadretto!... (_porta colla mano lo specchio un po' a distanza,
per meglio contemplarvisi; e con l'altra mano libera si liscia la
barba bianca poi la ripassa dolcemente sulla chioma bionda di Aglae_)
Il vecchio Titone ha sposato l'Aurora e l'oro del Pattòlo si è fuso
con l'argento del Làurio!... (_con gesto ed accento comicamente
espressivi_) Che bel matrimonio!... (_s'avvia_) Addio Aglae... Che bel
matrimonio!... (_esce_).


SCENA II.

AGLAE _sola, poi_ DELFIDE.

  (_Uscito Mènecle, Aglae rimane alquanto in piedi immobile dov'ei
  l'ha lasciata, una mano nell'altra, gli occhi a terra, pensierosa
  e triste; poi dato un lungo sospiro, a capo chino e passo lento
  torna al suo posto a sedersi_) Eh!... (_siede, riprende il lavoro,
  chiama_) Delfide!... (_Delfide, giovanetta, entra_) Leggimi
  qualcosa... (_Delfide si siede su di uno sgabello a pie' di
  Aglae_).


DELF. Qui al segno?

AGL. Come credi...

DELF. (_leggendo_)

        «Venere è nell'aria,
    È nei flutti del mar. Ciò che respira
    Tutto nasce da lei: semina e dona
    Essa l'amor che a tutti noi diè vita...»[93]

AGL. Lascia! lascia... mi annoia!...

DELF. (Peccato!... è così bello!...) Qui, nella Medea ci è un altro
segno... (_leggendo_)

      «Di quanti esseri mai
    Hanno una mente, e un'anima, noi donne,
    Siam noi le più infelici...»

Padrona, perchè?...

AGL. Perchè lo dice il libro...

DELF. (_scuote, in atto incredulo la testa e prosegue la lettura_)

                    «... ad uom donate
    Nel primo fior degli anni... ei, se s'annoia
    In sua casa, esce fuori: e fra gli amici
    E fra la gente le sue noie oblìa...
    Ma noi...»[94]


SCENA III.

_Dette, e_ TRATTA, _poi_ ELÈO

(_il resto della scena_, AGLAE _ed_ ELÈO _soli_).


TR. (_affacciandosi sulla soglia_) Padrona...

AGL. Che c'è?

TR. Elèo ha domandato del padrone... Credevo fosse ancora qui...

AGL. Non importa. Passi.

TR. Allora lo richiamo. Partiva già... (_Tratta esce_).

AGL. (_a Delf._) Va pure... (_Delfide esce_). (_Aglae si guarda nello
specchio, dandosi una rapida occhiata all'acconciatura, poi va incontro
ad Elèo che compare, fermo, serio, sulla soglia_) Salute, Elèo...
(_affabilissima_) Ci lasciavi senza pur farti vedere?...

EL. (_cortese, ma molto serio_) Di Mènecle cercavo.

AGL. È uscito or ora...

EL. (_accennando a ritirarsi_) Perdona... Ritornerò.

AGL. (_vivamente_) Ma se attendi per poco, credo potrai vederlo, perchè
oggi non è giorno di giudizî... Non sei più il pupillo di Mènecle, ma
la casa di Mènecle è ancora sempre casa di Elèo... Credo anche abbia a
parlarti, per lettere avute da Tebe...

EL. (_inoltrandosi_) Da chi?

AGL. Da Epaminonda, mi pare.

EL. Ah!...

AGL. (_tornando a sedersi al suo posto e ripigliando il lavoro della
ghirlanda_) È amico di Pelopida... il capo de' Tebani qui rifugiati,
questo Epaminonda, n'è vero?...

EL. (_serio_) Credo.

AGL. (_seguendo il lavoro_) Ne ho udito parlar tanto bene. E perchè
resta in Tebe, sotto i tiranni, invece di rifugiarsi qui, coi compagni,
a viver libero?...[95]

EL. Lo ignoro.

AGL. Vi è qualcosa, qualche impresa per aria?

EL. Non so.

AGL. (_sorridendo_) Ah! Si vede che sei già uomo serio. Anche Mènecle,
quando gli parlo, risponde come te. Infatti, noi donne maritate, più
in là del fuso e del telaio, e sorvegliar i lavori delle fantesche, per
che cos'altro mai saremmo al mondo?...

EL. Oh, per molte altre cose!... E poi tu non sei come l'altre...

AGL. (_scherzosa_) Già! dei complimenti! Mi sovviene Etèocle che
sgrida le Tebane: _Curi gli affari — l'uomo! E voi donne, bestie
insopportabili — state nei vostri lari!..._[96]

EL. (_serio_) Sei ingiusta. Non avevo inteso d'offenderti.

AGL. E nè io di rimproverarti.

EL. (_imbarazzato, serio, sull'andar via_) Se permetti, ripasserò tra
breve a veder Mènecle...

AGL. Come credi — già che brami di andartene. Vorresti essere così
gentile da passarmi quelle rose e quei mirti, là, in quel canestro...
(_Elèo_ _eseguisce_) Sto intrecciando, come vedi, una corona da
appendere ad una cara tomba... là, dove sai; là... fuori porta
Diomèa.[97] Lo rammenti che domani ricorre il dì della morte di mio
padre?

EL. Lo rammento.

AGL. Povero vecchio! Almeno questa l'avrà proprio dalle mie mani: e
non comperata là al mercato de' fiori, da quelle ragazze che fanno
ghirlande... e tant'altre cose. Oh i morti non san che farne di quelle
corone. Li ho colti io tutti questi... sai. Ti ricordi i dì delle
feste, quando m'aiutavi...

EL. (_reprimendo un sospiro_) Sì... (_accennando novamente di prender
congedo_) Allora...

AGL. (_continuando la sua frase senza dargli tempo a seguire_) Oh,
allora anche tu eri molto più allegro... e molto più gentile di
adesso... e non facevi quel muso lì, che pare stii consultando qualche
vecchia maga di Tessaglia, di quelle che fan di notte con le bacchette
gli incantesimi...[98] Rammenti quando si correva per gli orti di
Colòno e su per il poggio di Cerere, a cogliere i narcisi delle due
dee, da riempire i canestri per la festa? E quella volta che ti sei
nascosto, là dietro al monumento di Teseo,[99] e m'hai fatto paura
credendo veder l'ombra di Edìpo, aggirarsi nel sito dove la terra lo
ingoiò? Come eri allegro!...

EL. (_serio, sospirando_) Allora era un tempo!...

AGL. E adesso è un altro, lo so. Ma non è una ragione per far torto
a quelle memorie, (_sempre proseguendo il lavoro della ghirlanda_).
Ecco... a quest'ora m'avresti già dato la baia per la mia poca abilità
nell'intrecciar questa ghirlanda... tu che volevi dar sempre il tuo
parere e trovavi sempre da dir la tua... «_Ohibò, queste rose non son
messe bene! Ohibò, qui ci andrebbero viole... così... e qui mirti...
così..._» — e _ohibò! ohibò!_ e _così, così,_ tanto per insegnarmi a
farle, il sapientissimo incontentabile si divertiva a disfarmele...
È vero che oggi Elèo, figlio di Leòstene, di corone non insegna più a
farne... ma ne conquista...

EL. Aglae!...

AGL. Oh, so tutto... Sappiamo, sappiamo delle prove di valore là
sull'Ellesponto... Eppure forse in quei giuochi, in quelle corse,
quando a cogliermi fiori t'arrampicavi sospeso in aria sul burrone a
picco per farmi strillar dallo spavento, là hai fatto allora le prime
prove del coraggio che ti rende oggi invidiato fra i giovani d'Atene, e
per cui d'averti avuto a pupillo va orgoglioso Mènecle mio...

EL. (_che ha seguìto con compiacenza mal repressa il discorso di Aglae,
all'ultime parole si lascia sfuggire un piccolo movimento di malumore e
dispetto_) Grazie. Dirai a Mènecle tuo... (_in atto di avviarsi_).

AGL. Ma Mènecle sarà dolente, e mi sgriderà quando saprà che t'ho
lasciato partire come un forestiero dalla casa ov'egli ti crebbe
e ti amò come un figlio... Nè Giove Ctèsio,[100] nè gli altri Dei
famigliari, custodi della casa di Mènecle, non han molto a lodarsi
della memoria tua...

EL. Aglae! che ne sai tu?... No, no, non temere, dillo pure a Mènecle
_tuo_ che il cuore di Elèo non dimentica... È ancora qui scritto il
giorno che Mènecle m'abbracciò e mi disse: Elèo, tu non hai più padre;
egli è morto da valoroso a Nemèa;[101] tuoi genitori da oggi avrai la
patria e l'arconte...[102] io li rappresenterò...

AGL. Tristi cose richiami... Se non erro, quel giorno tu eri da mio
padre... fu là, in casa nostra, che Mènecle ti venne a prendere e
ti disse quelle parole... e tu piangevi... e _qualcun altro_ del tuo
dolore piangeva... Ma tu decisamente quest'oggi non sei cortese...

EL. Aglae!...

AGL. (_china sul suo lavoro, senza volgersi ad Elèo e senza guardarlo_)
Oh sì... se non erro... anch'io ero là... in quella triste sera...

EL. (_con accento dolce, affettuoso_) E — non piangere, mi dicevi; papà
assicura che coloro che cadono in battaglia non muoiono, ma vanno nelle
isole dei beati. — Oh là certamente la sua ombra si sarà abbracciata
con quella del padre tuo... Aglae, ma tu... (_vedendo che Aglae ha
dismesso il lavoro ed è rimasta col capo appoggiato fra le mani,
pensierosa e triste_).

AGL. Io... nulla. Quelle memorie...

EL. Perdona...

AGL. Oh anzi... la mia anima trova in quelle memorie una dolcezza
amara. Povero papà mio! Non credi che domani egli la udirà, come la
udiva or sono cinque anni, la voce della sua piccola Aglae?

EL. Aglae... io pure ci sarò...

AGL. ... della sua piccola Aglae (_come parlando con sè medesima e
seguitando il lavoro: con voce mestissima_) che gli verserà acqua
lustrale, e fresco latte sulla tomba,[103] e gli dirà: hai fatto male
ad andartene, e a lasciarmi qui piccina, sola, sola: tu m'indovinavi
fin l'ultimo de' pensieri; ed ora non c'è più nessuno, neppur di quelli
a cui volevi bene, che se ne occupi. Adesso sono tutti cittadini
illustri... persone serie... e la tua Aglae chi vuoi la prenda sul
serio?...

EL. (_con voce di affettuoso rimprovero_) Neppure Elèo...

AGL. Già. Neppure Elèo... (_proseguendo a discorrere con sè stessa,
e avendo quasi le lagrime nella voce_) e quindi non lamentarti, papà
mio, se questa corona non è bella come quelle di una volta; mi ci
sono ingegnata da sola... ora non abbiam più maestri sapienti...
non si corre più per gli orti di Colòno... Ma al cuore si guarda...
al cuore... e non al dono... n'è vero, Elèo?... (_mentre così parla
con voce quasi rotta dal pianto, Elèo ha messo mano ai fiori e ne va
scegliendo ed intrecciando alcuni_) Ah! non sciuparmeli!...

EL. (_proseguendo la sua occupazione, senza guardar Aglae_) E che cosa
domanderai ai Màni di tuo padre?

AGL. Gli domanderò che dia ad Atene, agli amici... propizj gli
eventi...[104] a Mènecle... (_con lungo sospiro di rassegnazione_)
lunghi anni di vita... a te...

EL. (_c. s._) A me...?

AGL. A te mandi una bella sposa che ti torni allegro... e ti
faccia perdere quel muso lungo, serio serio... da Anassàgora
inciprignito...[105] (_Elèo fa un gesto di dispetto e dà uno strappo
ai fiori_) Ahi! ahi... no, così, che me li rovini!... (_ripigliando la
frase di prima_) e tanti bei piccini che, quando fai quella faccia, si
mettano a strillare tutti insieme... A me poi... (_sospende il lavoro
e s'appoggia coi gomiti sul tavolo in atto di riflettere_) vediamo!...
A me... (_sospirando_) A me già... niente piccini... (_si arresta
improvvisamente per tornar a badare a quello che fa Elèo_) Ma hai
capito di lasciar stare!... di non buttarmeli sossopra!... Guarda che
sgarbato confusionario!... Cattivo!...

EL. (_con voce insinuante_) Ma qui ci andrebbe dell'edera perchè
spicchino sul verde cupo le rose...

AGL. Già... (_vivamente, prendendo dell'edera e raggiustando la
ghirlanda_) Così... ti pare?...

EL. E non c'è neppure, tra le rose e l'edera, un corimbo di narcisi...
neppur uno dei fiori cari alle due dee sotterranee...[106] Ci
starebbero così bene!...

AGL. Grazie della novità. Ma roba comperata non so che farne, e nel
giardino, giù, non ne abbiamo. Magari! mio padre li amava tanto...

EL. Quei bei narcisi... là... della rupe di Colòno, dove tanti ce
n'era...

AGL. E dove c'era, per coglierli, da scavezzarsi il collo. Sicuro che
a Colòno ce ne sono!... Anche in Macedonia, anche in Tracia, anche in
Persia ce ne saranno!... Però, se è vero che i morti ci leggono nel
cuore... (_nel volger lentamente l'occhio dal lavoro, verso Elèo, a
prima giunta non lo vede più_). Elèo!... (_Elèo che alle parole di
Aglae si è improvvisamente mosso per correr via di soppiatto, trovasi
già sulla porta. Aglae si alza vivissimamente_) Ah!...

EL. (_scena muta fra Aglae ed Elèo. Elèo ad Aglae mostrandole la
ghirlanda, con voce commossa_) Neppure uno... di quelli là... Non
sarebbe bello... non sarebbe bello!... (_s'avvia ad uscire, poi
tornando sui suoi passi vivamente, prende per una mano Aglae,
e guardandola affettuoso, le soggiunge con voce lenta, rotta
dall'emozione_) Se è vero che i morti ci leggono nel cuore... essi lo
sanno... che non è un delitto... la memoria! (_fugge via_).

  (Aglae è rimasta un minuto presso la soglia, pensierosa,
  tristissima; poi s'abbandona su di uno scanno, e cela il volto
  nelle mani).


SCENA IV.

AGLAE e CRÌSIDE.


CRÌS. (_entra vivissima e gaia, e corre ad abbracciare Aglae_) Buon dì,
cara Aglae!

AGL. (_andandole incontro e baciandola_) O mia buona Crìside!...

CRÌS. Sempre lavori?...

AGL. Passo le ore.

CRÌS. Ho incontrato il giovane Elèo che usciva correndo come un
disperato verso porta Ippade, sulla via di Colòno!... (_gesto vivo di
Aglae_) O aurea Venere! altro che quelli che corron lo stadio!...

AGL. È stato qui dianzi a cercar di Mènecle...

CRÌS. Che? è andato a Colòno il tuo Mènecle oggi?

AGL. Oh no... ma... (_sviando il discorso_) ma che grazie dovrò dirti,
o mia Crìside, del tuo dono sì caro e gentile? (_va a prendere lo
specchio_) Ma sai che è bello! tanto bello! perfino adulatore!...

CRÌS. Ah, nessuno ti adulerà più di quello che Venere ti ha adulato nel
nascere... Tranne il cinto d'oro, tutti i suoi doni t'ha dato...[107]
Così t'avesse dato... anche di meglio impiegarli...

AGL. (_con affettuoso rimprovero_) Crìside!...

CRÌS. (_maliziosa_) Ma sai che questo specchio ha anche una virtù tutta
sua?

AGL. Davvero?

CRÌS. (_scherzosa_) Esso riflette anche ciò che non si vede: ti svela i
più bei contrasti pittorici che mente d'artista possa immaginare...

AGL. (_vivissima_) Ah! sì! me ne sono accorta!

CRÌS. (_con aria di malizia affettuosa_) Allora, sai ciò che esso dice
in questo momento? Che il sorriso del tuo volto è come il rovescio
della tua anima: l'uno vorrebb'essere sereno, come lo sguardo della
dea, tua protettrice; l'altra è triste come l'occhio della Parca. È
un filo di luce che non sa rompere la nuvola. Questo dice lo specchio,
e... nevvero... Aglae, che lo specchio... indovina?

AGL. (_dopo una pausa, voltando discorso_) E... come sta tuo marito?

CRÌS. Tuo fratello... bene... grazie agli dei... ma non è la rispo...

AGL. (_interrompendo_) E da un po' non si lascia vedere... perchè?

CRÌS. Esce così di rado... È tanto occupato in casa...

AGL. Molte aringhe per clienti da stendere?... Molti affari
dell'Eliea?...

CRÌS. (_esitante_) Oh sì... molti affari! molti!... fin troppi...

AGL. E ti vuol bene sempre?

CRÌS. Sì... almeno... me lo dice...

AGL. Ah...! quando te lo dice?

CRÌS. (_con accento ingenuo_) Oh varie volte!... La mattina, per
esempio, quando apro gli occhi, e prima che mi alzi... poi... mentre
mi alzo e mentre le fantesche mi vestono... mentre mi pettinano...
e quando offro alla dea le divozioni del mattino... o quelle del
vespero... e poi... così... alla sera... quando mi corico... me lo
ripete fino a che mi sono addormentata... e poi... quando dormo...
nella notte... per isvegliarmi...

AGL. (_con serietà scherzosa_) Infatti... son varie volte. E... ti
bastano?

CRÌS. (_comicamente ingenua_) Sì... sì...

AGL. Ah... proprio...?

CRÌS. Ecco... dirò... alle volte... lì al momento... mi pare quasi...
sì... che siano come troppe!... Ma poi nel dirmelo (_abbassando gli
occhi con grazia sorridente ed ingenua_) siccome cambia tanto la
voce... me lo dice in tante maniere diverse... con negli occhi tante
espressioni diverse... così mi pare sempre una cosa diversa... che...
insomma... fa piacere...!

AGL. (_scherzosamente seria_) Ah, già! sicuro!... i discorsi variati
piacciono sempre...

CRÌS. Oh, sì... tanto! Perchè, sai, quando non sa più come dirmelo in
prosa, così per cambiare... anche in versi me lo dice...

AGL. Ah!...

CRÌS. L'altra sera aveva studiato tanto... e io, nella notte, tanto
di muso!... la mattina, nello svegliarmi, ho trovato questo sotto
all'origliere:

    Studiai del Meònio le pagine
      Per dirti d'amor nova idea:
      Quai dolci parole, nell'isola,
      Ulisse a Calipso dicea:

        D'amore in che accenti Anadiòmene
      Col frigio pastor favellò:...
      Studiai del Meònio le pagine...
      E... _t'amo!_ altro dirti non so.

    Frugato ho ne' canti d'Orfeo
      Per dirti d'amor novo stile:
      Com'egli, fra 'l pianto letèo,
      Chiamasse la sposa gentile:...

        Qual voce a' suoi cantici amanti
      La selva e 'l leon trascinò:...
      Frugato ho d'Orfeo tutti i canti...
      E... _t'amo!_ altro dirti non so.

        L'ho chiesto di Saffo al lamento
      E al vecchio dai brindisi d'oro:
      Ognun rispondeami: lo sento...
      Ma come insegnartelo... ignoro.

        E frugo!... e altre immagini chiamo!...
      Ah!... un lampo qui alfin balenò!
      Ah!... eccola! eccola!... è: _t'amo!..._
    (_battendosi la fronte come chi trova un'idea_)
      La nova parola ch'io so.

  (_Mentre Crìside va leggendo questi versi da un biglietto che
  s'è tolto dallo stròfio, Aglae apre e sfoglia, come rileggendo
  distratta, il libro che stava leggendo prima_).

Ti piacciono?

AGL. Sì...

CRÌS. Che cos'hai lì? (_guardando_) Le _Trachinie_ di Sofocle! Dejanira
abbandonata!... Oh che brutti argomenti!...

AGL. (_con serietà scherzosa_) Ah, sì!... c'è meno varietà che ne'
tuoi... E come dicevi... Fania dunque è tanto occupato... Sono queste
le molte occupazioni...

CRÌS. Già!... anche queste!

AGL. (_comicamente seria_) Tutto il tempo che avanza è per i clienti
dell'Eliea...

CRÌS. (_comicamente ingenua_) Oh, tutto!...

AGL. (_c. s._) I clienti sono ben serviti. Sicchè, di quelle preziose
notizie che ti dà tuo marito... tu non resti priva... se non quando
esci di casa... come oggi...

CRÌS. Oh no... mi verrà certo a momenti qui a raggiungere...[108]

AGL. Ah, bravo Fania!... e dimmi... (_sorridente con gesto espressivo_)
quando...?...

CRÌS. Oh, quello... (_nasconde tra sorridente e vergognosa la faccia
sulle spalle di Aglae_) quello... vedi... c'è tempo... (_vivamente
ripigliando_) Ma tu che mi fai tutte queste domande, non hai però
ancora risposto alla mia. Cattiva! tu scherzi... ma a nasconderti alla
tua Crìside non ci riesci...

AGL. Già... lo specchio...

CRÌS. No, no, è inutile. Tu non sei allegra... non lo sei mai...

AGL. Io qui in casa non ho per distrarmi tutte quelle tali novità della
giornata...

CRÌS. E questo è il male! e qualcuno ne ha colpa; e un po' anche tu —
oh sì, per Cerere, anche tu — che per distrarti non fai nulla! Stai
sempre chiusa invisibile come la Pitonessa... L'altro mese nè alle
feste Scire nè alle Targelie non t'han veduta... all'ultima gara delle
tragedie neppure... in casa mia da un mese non metti piede...

AGL. Dovrei venire a disturbare i profondi studî letterari di tuo
marito?

CRÌS. (_affettuosamente corrucciata_) Aglae!... (_Si sente di dentro la
voce di Fania che domanda:_ È qui da Aglae?) (_con gioia_) Oh eccolo!
la sua voce!

AGL. (_con serietà canzonatoria_) È un pezzo che non vi vedete?

CRÌS. Oh, è già quasi da un quarto d'ora!... (_accorgendosi dal volto
di Aglae dell'intenzione motteggiatrice_) Cattiva!...


SCENA V.

_Dette e_ FANIA.


FANIA (_entrando_) Oh sorellina!... Crìside!...

AGL. (_cortesemente canzonatoria_) Oh fratellino!... Che miracolo!...
Dopo un mese! Qualche buon genio m'ha fatto uno sternuto!...[109]

FAN. Cara Aglae... perdona... sai... tanti affari...

AGL. (_guardando maliziosamente Crìside_) Sappiamo!... sappiamo!...

CRÌS. Fania!...

FAN. (_ad Aglae_) Come stai? Come sta Mènecle?

AGL. Grazie. Benissimo.

FAN. (_a Crìside_) E tu... così... sei scappata via... senza dirmi
niente... brava!...

CRÌS. Non la finivi mai...

AGL. Via... non rimproverarla...

FAN. Oh no, ma... (_a Crìside, serio_) Ma ero ben buono io
d'accompagnarti...

CRÌS. Già... per il gran viaggio da porta Ceràmica a venir qui...

FAN. (_con paternale serio-amorevole_) Non è per questo... ma una
moglie giovane non istà bene uscir per Atene in visite senza il
marito...[110] n'è vero, Aglae?

CRÌS. (_con civetteria, parlando ad Aglae_) E il marito correr dietro a
tutti i passi della moglie come un can segugio di Laconia dietro l'orma
della lepre... n'è vero, Aglae, che non istà bene neppur questo?

AGL. (_con serietà comica_) A meno che la lepre sia contenta...

CRÌS. (_brusca, con civetteria_) Oh questo poi!...

FAN. Crìside!...

CRÌS. Zitto là!... per Aglàuro! Siam le nipoti di Teseo...[111] e non
siam le schiave dei mariti... noi...

FAN. (_sorridente_) Lo si vede! Però Solone, veramente ha disposto che
la brava moglie ateniese dovrebbe star sotto al marito...

CRÌS. (_rifacendogli la voce_) E Temistocle, ateniese, stava sotto alla
moglie,[112] eppure sconfisse i Persiani... ed era quel Temistocle che
era...

AGL. (_a parte, li guarda sospirando_) Eh! almeno loro si divertono!...

CRÌS. ... e mio marito Fania, se fossero verità tutte quelle bugie che
mi dice, dovrebbe imparare dal vincitore di Salamina...

AGL. Come si sconfiggono i Persiani?

CRÌS. No... come si trattano le mogli. Essere forti contro gli
uomini... bel merito!... Essere deboli con noi... quello è il bello!

AGL. (_a Crìside_) Veramente, sai, mi pare che un po' di Temistocle
abbia già imparato...

CRÌS. (_con civetteria stizzosa_) Oh, non abbastanza!... E poi un
bravo marito dovrebbe essere anche un bravo fratello... (_abbraccia
affettuosamente Aglae_) e io non voglio, sai, che egli ti trascuri...
povera Aglae!... E s'egli ti trascura ancora, io trascurerò lui!...
Guardala, Fania, che ciera triste!... (_tenendola abbracciata_) Oh tuo
padre... vostro padre... sia pace alla sua ombra... ma ha avuto un gran
torto verso te...

AGL. (_con voce di rimprovero_) Crìside!

  (Fania, alle parole di Crìside, si tira pensieroso e serio in
  disparte).

CRÌS. Oh, le due dee mi guardino dal dir ingiuria alla sua memoria...
Epònimo fu prode e virtuoso, ma sbaglia tante volte su nell'Olimpo
Giove, sbagliano anche sulla terra i virtuosi... ed Epònimo (_si guarda
intorno_) — Mènecle non c'è — non fu previdente pel tuo destino... Se
egli che ti amava tanto, tornasse dagli Elisi...

AGL. Se tornasse dagli Elisi, vedrebbe che Aglae non chiede e non
ha alla sua memoria verun conto da chiedere. (_con voce incisiva, a
Fania_) N'è vero, Fania? (_Fania non risponde, e rimane in disparte,
pensieroso, a testa china_) Mio padre mi affidava, morendo, all'uomo
che gli salvò in campo la vita, lo riscattò dalla prigionia di
guerra, lo soccorse nella povertà, raccolse il suo ultimo sospiro. Se
affidandomi a Mènecle ha consultato il suo cuore, mio padre ha compiuto
il debito suo...

CRÌS. (_seria, fissando Fania_) E allora gli altri non han compiuto il
loro...

AGL. E perchè? Mènecle, oltre amico, era il solo lontano congiunto che
la legge chiamasse a sposar l'orfana... o farle la dote.[113] S'egli
non trovò altri degni di me, osservando la legge, Mènecle ha compiuto
l'ufficio suo... Non ho ragione, Fania?

CRÌS. Già, la legge!... È bello osservar la legge, per iscaldarsi le
mani fredde al sole di sedici primavere!...

FAN. No, no, Crìside, ha ragione Aglae. Sono io forse, che il mio
ufficio di fratello, nel dar l'assenso, non l'ho compiuto...[114]

CRÌS. (_a Fan._) Già... lo sapevo... brutto egoista!... Per te però ci
hai ben pensato.

FAN. Oh Crìside, ti giuro...

CRÌS. (_dandogli sulla voce_) Zitto là! ne discorreremo. (_ad Aglae,
con voce affettuosa_) Ma dimmi un po'... almeno Mènecle...

AGL. Oh... Mènecle... non ho niente a ridire. Fa quello che è in lui...

CRÌS. Quello ch'è in lui!... Non è molto!...

AGL. Ci vediamo del resto, da qualche tempo in qua, così poco... Adesso
poi, tra gli affari della Eliea e quei di Tebe, ancora meno...

CRÌS. Per cui... sempre sola?...

AGL. Sola.

CRÌS. E il tuo cuore?

AGL. È tranquillo.

CRÌS. La tua mente?

AGL. Riposa.

CRÌS. I sensi?

AGL. (_vivissima, nervosa_) Dormono.

CRÌS. (_alzandosi_) Ebbene... alla tua età... con queste belle
giornate... con questo sole... io non dormirei...

AGL. Perchè Fania ti sveglia... me l'hai detto.

CRÌS. (_a Fania, sottovoce_) Meriteresti, per l'aurea Venere, che
invece di me, ti avessero dato in moglie la vecchia Mìrtala! Provar un
po' anche tu... che gusto!...

FAN. Zitta!... (_si sente di dentro la voce di Cròbilo_) È qui suo
marito...


SCENA VI.

_Detti_, CRÒBILO, _un momento_ BLÈPO.


BLÈPO. (_annunziando, dalla soglia_) Cròbilo di Stefano Colonèo.

AGL. Oh, avanti!...

FAN. (_mentre Blèpo esce per introdur Cròbilo, si appressa ad Aglae e
le parla in disparte_) Però Mènecle dovrebbe anche comprendere certe
cose... e trattarti un po' meglio...

AGL. (_sorridente_) Farmi delle poesie amorose, e pormele, quando
dormo, sotto il cuscino?

FAN. Crìside!

  (Apostrofa Crìside un po' brusco, e si bisticcia sottovoce con lei,
  mentre entra Cròbilo).

CRÒB. Salve, gentile Aglae!... La bella Venere ti guardi...

AGL. Vicino Cròbilo, sii il benvenuto.

CRÒB. Vezzosa Crìside, Fania, buon dì. (_vedendoli discorrere a parte_)
(Bella coppia di tortore di Sicilia!)[115] E il nostro caro Mènecle non
è in casa?

AGL. È uscito da poco. Per lui venivi...?

CRÒB. Oh... per lui... per te... e per lei...

AGL. Tua moglie?

  (Durante questo dialogo con Cròbilo, Fania e Crìside si bisticciano
  amorosamente in disparte).

CRÒB. Già... la mia caaaaara moglie!... Mi disse che la ti veniva a far
visita e che passassi a prenderla, sull'ora sesta. A quel che pare è in
ritardo...

AGL. Attendila dunque...

CRÒB. Grazie. Avrà lavorato più del solito col minio e coi cosmetici...
o si sarà indugiata a fare la sua chiaccheratina solita con le
vicine... Ah, quando la comincia... l'è come il disco di bronzo
appeso agli alberi dell'oracolo di Dodòna! se appena lo tocchi del
dito, _diiiinnnnnn!!!_ ti suona per tutto un giorno: anzi il bronzo
finisce prima: ma lei, finito il giorno, la mi va avanti anche la
notte!...[116] O Giove miracoloso, che delizia!

AGL. Eppure, bisogna dire che tu avessi gran bisogno di consultarli,
gli oracoli, poichè questo disco ci sei andato a picchiare..

CRÒB. Pur troppo. Si fossero i corvi portata via la prònuba che m'ha
sedotto a queste nozze!...[117]

AGL. (_scherzosa_) Senti Fania...

FAN. Che c'è?

AGL. Cròbilo maledice alla prònuba del suo matrimonio... E tu alla tua?

FAN. (_guardando Crìside amorosamente e abbracciandola_) Io prego i
Numi che le donino i beni della terra...[118]

AGL. (_a Cròbilo, scherzosa_) Senti? questi son mariti!

CRÒB. (_ad Aglae, scherzoso, additandole Crìside_) Vedi...? queste sono
mogli...

CRÌS. (_va ad abbracciar Aglae_) Aglae! (_discorrono insieme_).

FAN. (_a Cròbilo, mentre Aglae e Crìside conversano fra loro_) E la tua
che cos'è?

CRÒB. La mia... la mia... come si chiamano quelle che rubarono le cene
di Fineo?

FAN. Le arpìe...

CRÒB. Bravo! Fa conto... con le ali di meno, e la dote di più.[119]

FAN. È sempre qualcosa. (_batte sulla spalla a Cròbilo_) Cròbilo,
Cròbilo, anche il cavallo scita sprezza la biada che vuol
mangiare.[120] Mi dicono che la biada era discreta... Quattro
talenti...

CRÒB. (_continuando annoiato_) ... e una possessione nell'isola di
Egìna...

FAN. ... vigneti e terreni aratorî...

CRÒB. ... che rendono all'anno centodue mine. La mi fa il conto tutti
i giorni sulle dita... e si lagna che suo padre li facea rendere di
più...[121] O Giove Olimpio!... Felice chi è ricco del suo![122] Per
noi altri mariti poveri, i tesori delle mogli son carboni!...[123]
Se sapevo di far questa vita, preferivo condur a pascere le capre sul
Fellèo!...[124]

FAN. Sei sempre a tempo... corri...

CRÒB. Non c'è premura.

CRÌS. (_interrompendo il discorso con Aglae, e voltandosi a Cròbilo e
Fania_) E così, Fania, Cròbilo non ha ancor finito di contar tutti i
difetti di sua moglie?[125]

FAN. Pare di no...

CRÒB. Tutti!... Ci vorrebb'altro... È il catalogo di Esìodo!...

CRÌS. E glie la fai, di', a tua moglie, l'enumerazione del catalogo?

CRÒB. A mia moglie?... eh!... quello ci mancherebbe!

CRÌS. E perchè?

CRÒB. Perchè Giove ha dato agli uomini gli occhi per vederci, e non per
farseli cavare dalle mogli...

CRÌS. Ma sai, o Cròbilo, che non è molto lusinghiero, a noi mogli tutte
quante in generale, saper che gl'incliti mariti ci fanno l'occhio del
pesce morto in casa, e fuori di casa se ne vanno... a recitarci que'
tuoi panegirici?!... Fania, spero bene...

CRÒB. Bella Crìside! ma Venere mi guardi dallo sparlar delle mogli in
generale! qui, innanzi ad Aglae e innanzi a te!... ma ti pare?!...
Le mogli, eh si sa, ce n'ha di buone e di cattive... La va a chi
tocca... Anzi, di regola, le mogli sono una bellissima istituzione:
è appunto per confermare la regola che ci sono le eccezioni... e
queste non divertono... Del resto, vedi benissimo, non c'è moglie
cattiva a cui non si possa contrapporne una modello... Citami, nelle
tragedie, Clitennestra... uxoricida fin che vuoi... ma io ti rispondo
con Penelope. Fedra era incestuosa... ma Alceste era virtuosissima.
Su Medea, cuor di tigre, c'è molto da ridire: ma, dall'altra parte...
dall'altra parte... (_si interrompe con tutta naturalezza, come chi
finge cercar nella memoria e non trova_) ora non saprei. Elena! peggio
di una civetta!... ma invece... invece... (_c. s._) adesso mi verrà
in mente... Ermione! tracotante e sanguinaria; Creùsa, egoista e
vendicativa; Menalippe, adultera... ma all'opposto... all'opposto...
(_c. s._) che so io... insomma, se lo dicevo che le eccezioni fermano
la regola!...[126]

CRÌS. (_ironicamente rispondendo all'ironia comica di Cròbilo_) E a
quel che pare... fermano anche di preferenza la tua memoria...

  (Durante questo dialogo, Aglae e Fania discorrono fra loro).

CRÒB. Ah, sicuro!... (_sospirando comicamente_) perchè è su di esse che
faccio un corso di studî pratici...

CRÌS. (_ironicamente suggestiva_) E quelle mogli delle tragedie ti
servono poi per i confronti teorici...

CRÒB. Precisamente. Una consolazione... come un'altra.

CRÌS. Perchè?

CRÒB. Perchè di sì... Per esempio, tu, Fania... sei storpio...

FAN. (_risentito_) Io?... Lo sarai tu.

CRÒB. (_calmo_) Supponiamo che lo sii. Sei storpio... e te ne
affliggi... perchè non puoi correr dietro a Crìside... ma vai a teatro,
vedi in iscena Filottète, che è più storpio di te, e ti consoli.[127]
Tu, Crìside, sei tradita indegnamente da Fania...

CRÌS. (_furiosa_) Eh? tradita? io?! bada a quel che dici...

CRÒB. (_calmissimo_) È un'ipotesi...

CRÌS. Ma io non so che farne delle tue ipotesi... intendi?

CRÒB. Bene, bene. (_con flemma, correggendosi_) Tu, Aglae, sei tradita
indegnamente da Mènecle... è una ipotesi...

AGL. (_pacatissima, con mesto sorriso_) Va pur là... non mi arrabbio...
io...

CRÒB. (_a parte_) (Poveretta! si capisce!...) sei costernata, disperata
del tradimento...

AGL. Oh, questo poi...

CRÒB. È un'ipotesi... (_tra sè_) (sbagliata a quel che pare...)

CRÒB. Ma vai a teatro e vedi Medea tradita da Giasone ancor più
indegnamente di te... e contemplando la di lei sventura, eccoti
confortata della tua. Ebbene anch'io... io... come mi vedi... sono un
marito disgraziato... e tutti i giorni mando alle stelle dei sospironi
grevi, che Giove, se non fosse sordo, sarebbe obbligato a sentirli:
ma vado alla tragedia, e sento Agamènnone, dentro le quinte, che
strilla _ahi! ahi!_[128] perchè sua moglie nel bagno gli sta facendo
la festa... allora mando un sospiro più leggiero, e dico: pazienza!...
fino a qui mia moglie non è venuta ancora... e speriamo non ci venga...


SCENA VII.

_Detti e_ MÈNECLE _con_ MÌRTALA.


MÈN. (_entrando ha raccolto e frainteso le ultime parole di Cròbilo_)
Oh altro se ci viene...

CRÒB. (_dà un balzo, spaventato_) Eh!...

MÈN. È già qui. L'ho incontrata sulla porta...

CRÒB. (_sospirando_) Ah!... Che maniera di spaventar la gente!

MÈN. E te la conduco. Non temere... non temere! Oh, Fania! Crìside! che
buon vento!

CRÌS. e FAN. (_rendendo il saluto_) Mènecle!...

MÈN. (_verso la porta_) Avanti, Mìrtala!...

MÌRT. (_entrando corre ad Aglae_) Oh cara Aglae!...

AGL. (_restituendole l'abbraccio_) Mìrtala!...

MÈN. (_a Mìrtala_) C'era qui tuo marito che già s'impazientava credendo
tu non venissi...

CRÒB. (_confermando a denti stretti_) Già...

MÈN. Questi son mariti...

FAN. (_a Cròbilo sottovoce, canzonatorio, additandogli Mìrtala e
rifacendogli le parole di prima_) Queste sono mogli. Tienla da conto...

MÌRT. (_a Mènecle, accennando Cròbilo_) Oh, non lo lodare tanto!...
Farebbe anche lui delle sue... se io non lo vegliassi un poco... il mio
caro marito...

CRÒB. (_con compunzione comica_) Ma tu mi vegli sempre... un poco...
(_fra sè_) come Argo...

MÌRT. (_squadrandolo con diffidenza_) Per fortuna... e forse non quanto
basta...

CRÒB. (_vivissimamente_) Oh... ti giuro che basta...

MÌRT. Vedremo! vedremo!...

  Mìrtala ripiglia il colloquio con Aglae. Cròbilo con Mènecle.

CRÌS. (_a Fania sottovoce, accennandogli Mènecle ed Aglae_) Hai visto?
Rientrando... nemmeno l'ha salutata... Poveretta!...

FAN. Oh, ma domani mi sentirà.

CRÌS. Eh già... se non ti fai sentir tu... mi faccio sentir io. Non ho
peli sulla lingua... io![129]

FAN. Lo so...

CRÌS. È una vergogna!... Neppure la guarda!... O cosa crede di avere?
Una moglie o un pezzo di legno? Andiamo via. Mi fa male. M'accompagni?

FAN. Certo. (_a Mèn._) Addio, Mènecle.

MÈN. Come? arrivo ora, e te ne vai?

FAN. Accompagno Crìside. (_fissa Mènecle con volto serio_) Ci vedrem
domani.

CRÌS. (_ad Aglae_) Cara Aglae, addio...

AGL. Di già?

MÈN. (_guardando di sottecchi Fania dopo le parole, seco scambiate_)
Che cos'ha costui? Mi guarda scuro con certi occhiacci, come guardasse
l'erba origano...[130] Uhm!... (_va a discorrer con Cròbilo_) E
dunque...

MÌRT. (_a Crìside che sta salutando Aglae_) Come, come?! Crisiduccia...
ci lasci?

CRÌS. Dovrei lasciare andar Fania solo?

MÌRT. Ah questo no... i mariti... brava gente... ma a tenerli d'occhio
non si sbaglia... lo so io.

CRÌS. (_a Mìrtala, sorridendo_) Io non lo so... ma per non
isbagliare... me lo porto via... (_ad Aglae, sottovoce_) Dà retta a
me... di crucciarti non val la pena... ti verrò a trovare, e a farti
cambiar vita.

AGL. (_abbraccia Crìside_) La cambierò. Sta tranquilla.

CRÒB. (_salutando_) Vezzosa Crìside...

CRÌS. Sta sano, Cròbilo. (_sottovoce, ironica_) E sii felice... con la
tua Mìrtala...

CRÒB. Eh?

CRÌS. (_scherzosa, interrompendolo, e rifacendogli la frase di prima_)
È un'ipotesi...

FAN. (_salutando_) Aglae, ci rivedremo.

MÌRT. (_sospettosa, a Cròbilo_) Che cosa ti diceva Crìside?...

CRÒB. Che la felicità umana è un'ipotesi...

MÌRT. L'hai chiamata vezzosa... va là che ho sentito...

CRÒB. E non lo è?...

MÌRT. A me però non l'hai mai detto... ch'io ti senta dirglielo ancora
una volta...

CRÌS. (_che si è con Fania avviata ad uscire, torna verso Cròbilo,
e gli dice sottovoce, beffarda_) Completalo poi quel tuo catalogo...
Ermione era arrogante, ma Mìrtala è dolce. Elena era adultera... ma
Mìrtala è fedele... (_ridendo lo lascia_) Ah, ah!...

MÈN. (_vedendo Crìside allontanarsi_) Crìside?

CRÌS. (_a Mènecle_) Con te sono in collera, e non ti saluto.

MÈN. (_cortesemente scherzoso_) La pace quando?...

CRÌS. (_fissandolo_) Quando in Atene non ci saran più egoisti...

MÈN. Ossia, siccome gli egoisti finiranno col mondo, quando per
indicarli avran trovata una parola nuova...

CRÌS. (_a Fania ch'è già sull'uscio_) Fania!... (_dandogli il braccio,
e suggerendogli_) Ah, eccola, eccola! è...

FAN. (_dandole un bacio e proseguendo subito_) «t'amo! — la nova parola
ch'io so!...» (_escono abbracciati_).


SCENA VIII.

AGLAE, MÌRTALA, CRÒBILO, MÈNECLE.


MÈN. (_vedendo il bacio_) Eh...! non fan complimenti. Quelli son
felici... e sanno l'arte di star al mondo!...

MÌRT. (_a Cròbilo, additandogli Fania e Crìside che s'allontanano_) Li
vedi?... impara!... Che nozze!...[131] Ah se tu fossi un marito come
Fania...

CRÒB. (_a parte_) (Ah se tu fossi una moglie come Crìside!...)
Imparerò... (_va a discorrere con Mènecle che passeggia pensieroso su e
giù_).

AGL. (_partiti gli sposi è rimasta cogitabonda e triste, poi s'è
rimessa lentamente al lavoro_) (Elèo fra breve ritornerà...)

MÌRT. (_ritorna verso Aglae_) E così, t'abbiamo aspettata all'ultima
festa delle Scìre...[132] non ci mancavi che tu!... peccato!... c'erano
le più belle matrone d'Atene... c'ero io...

AGL. Ah!...

MÌRT. E se avessi visto, sulla strada da Atene a Sciro, che folla!...
mio marito, dalla gran gente, poveretto!... corse rischio di
perdermi...

MÈN. (_a Cròbilo sottovoce, canzonandole_) Vai in cerca di rischi...

MÌRT. Se non me l'attaccavo stretto stretto alle costole...

AGL. (_velatamente ironica_) Si sarà divertito...

MÌRT. Oh... mezzo mondo!...

CRÒB. (_Sbadigliando_) Tanto! tanto!...

MÌRT. Ma sai chi ci ho visto? (_Mìrtala parla colla rapidità delle
vecchie chiacchierone_) Cleonìce... quella magra, col naso lungo...
la moglie di Nìcida, da lui ripudiata tre mesi fa. Sai, dicevano la si
fosse ritirata alla campagna, per tôrsi alla vergogna del ripudio...

AGL. Poveretta!...

MÌRT. Ah sì, aspetta!... è ricomparsa alla festa, fresca, fresca,
come niente fosse... e si pavoneggiava in gran lusso... con tanto
di veste cimbèrica e di stivaletti persiani...[133] E poi i poeti
cantano che la moglie ripudiata porta il rossore in fronte!...[134]
Oh la sfacciata!... Oh, a proposito di vesti, un favore ti avrei a
chiedere... sei tanto buona.

AGL. Ma parla...

MÌRT. Quella tua tònaca bianca di bisso di Amòrgo,[135] con lo
strascico... Vorrei farmene una eguale anch'io, per la festa di Venere
Colìade...[136]

AGL. (_a parte_) (O care Grazie!).

MÌRT. Se non t'increscesse mostrarmela, per copiar le misure...

AGL. Oh già... t'anderan bene... Ma subito!... Se vieni nella mia
stanza di là...

MÌRT. Grazie!... Ora, ora, prima di andar via... (_con malizia,
abbassando la voce_) E così spierò anche i segreti del vostro nido...

AGL. Nido?... che nido?

MÌRT. (_maliziosamente sorridente_) Eh, già... il vostro...
(_accennandole Mènecle_).

AGL. (_con indifferenza_) Ah! due nidi...

MÌRT. Come?...

AGL. Il mio qui sopra... e il suo... da basso.

MÌRT. (_stupefatta_) Eh??... non istate insieme?...

AGL. È tanto occupato... sai...

MÌRT. Occupato il giorno... va bene;... ma... e la notte?

AGL. La notte... lui scrive... lavora...

MÌRT. E tu?...

AGL. (_con accento vibrato_) Io... dormo.

MÌRT. E la mattina?...

AGL. Dorme lui... e lavoro io...

MÌRT. O Dee santissime!... ma senti, Cròbilo?!

CRÒB. Che cosa?

MÌRT. Aglae qui mi conta che Mènecle di notte la lascia sola per
lavorare...

CRÒB. (_fra sè_) (Oh, oh!) (_con segni adesivi del capo_) Benissimo!...

MÌRT. (_scrutandolo con faccia scura_) Perchè benissimo?

CRÒB. Perchè il pensiero di noi uomini, per levarsi su, su, su, nelle
alte sfere, ha bisogno del silenzio notturno e della solitudine... e
quindi...

MÌRT. (_ironicamente suggestiva_) E quindi lasciando la moglie sola nel
vedovo talamo...

CRÒB. ... la moglie se ha sonno, riposa più tranquilla... e il marito
ha le idee più lucide.

MÌRT. (_con calma simulata_) E se sonno la moglie non avesse?...

CRÒB. Accende il lume e conta i travicelli del soffitto... esercizio
che rinforza la memoria: o va alla finestra a veder il tesmotèta che
passa colla ronda...[137] e il golfo e l'Acròpoli illuminati dalla
luna...

MÌRT. (_ironica, frenandosi a stento_) Infatti... l'altra notte... per
esempio... che sei rincasato alla terza vigilia...

CRÒB. Non era ancora...

MÌRT. (_rincalzando_)... alla terza vigilia, l'ho vista anch'io la
ronda e l'Acròpoli a chiaro di luna...

CRÒB. N'è vero, com'è poetico?

MÌRT. Già! (_prorompendo_) Provati un'altra volta a tornar a casa a
quell'ora, e poi... la ronda e la luna te la do io...[138]

MÈN. Che cosa c'è? Che cosa c'è? Ulisse e Penelope che si bisticciano?

CRÒB. Niente niente! si discorreva dell'ora che si alza la luna...

MÌRT. (_a Mèn._) E Penelope dimostrava ad Ulisse che è un'ora in cui i
mariti potrebbero benissimo tralasciare di pensar tanto e far invece...
qualche cosa d'altro. Che già, per quel che fruttano i loro profondi
pensieri, la Repubblica non ci perderebbe gran che: anzi l'andava
meglio quando i mariti cecròpidi coltivavano le mogli un po' di più, e
di giudizî e di decreti ne impasticciavano un po' meno... Quelli eran
tempi!... quand'ero fanciulla io...

CRÒB. (_a parte_) ... e i Greci assediavano Troja...

MÌRT. ... e macinavo l'orzo di Minerva, e nelle feste Braurònie
rappresentavo l'orsa di Diana...[139]

CRÒB. (... al naturale...)

MÌRT. ... allora, ah sì, non c'era pericolo che mio padre tornasse a
casa dopo il tramonto e facesse a sua moglie il muso scuro con tanti
pretesti di tabelle e palle nere e leggi e processi per la testa...
Adesso, a furia di decreti e novità mandano la Repubblica a soqquadro;
e guardali lì, che par tornino dall'averla salvata a Maratona!... Ah se
governassimo noi donne...

CRÒB. (Poveri noi...)

MÈN. (_ironico_) ... gli uomini filerebbero la lana...

MÌRT. ... e la lana ci scapiterebbe, ma le leggi ci guadagnerebbero.
Già anche oggi (_parla con Mènecle_), al solito, avrete tirato colle
vostre unghiaccie delle gran righe lunghe sulla cera[140] e data
qualcun'altra delle vostre sentenze storte...

MÈN. Tranquìllati... oggi è vacanza...

MÌRT. Se non è oggi, sarà stato ieri...

  Come s'è detto, durante questo dialogo, Aglae è seduta intenta al
  suo lavoro.

MÈN. Ah, ieri sì...

MÌRT. Sentiamo!...

MÈN. Oh, una causa molto semplice. A Fillide, la giovinetta moglie del
vecchio Fràstore Egilièo, è morto il padre due mesi fa. Malgrado tutto
l'amor figliale, gli occhi per troppo piangere la ragazza non se li è
sciupati, e questo è quel che capita ai padri, quando maritano, per
interesse, a controgenio le figliuole. È andata ai funerali col suo
vecchio marito, senza troppo graffiarsi il viso, con lui è intervenuta
al banchetto funebre dei novendiali,[141] quel tanto insomma che la
legge ordina ai figliuoli, e niente più. Che è, che non è, salta fuori
un bel pezzo di giovine, certo Màntia, ammogliato alla vecchia Pànfila:
e asserendosi solo superstite parente dell'orfana fanciulla, invoca il
diritto dalla legge, di pigliarsela in isposa...[142]

CRÒB. To' che felice idea!...

MÌRT. Oh, il birbante! già, sarà stato d'accordo con quella
civettuola...

MÈN. Fosse d'accordo o di suo capo, vattelapesca. Il fatto è che la
ragazza, messi in un piatto di bilancia i sessant'anni del consorte
vecchio, nell'altro i ventitrè del cuginetto nuovo, trovò la domanda
di quest'ultimo immensamente ragionevole. Non così il venerando marito
di lei e la veneranda mogliera del nostro giovanotto: ai quali proprio
non entrava in testa che s'avessero a disfare due matrimonî per cavarne
fuori un terzo a loro spese...

MÌRT. Per Venere! Se avean ragione!...

MÈN. ... e per farla valere, appunto, si misero insieme, poichè il
giovine stette duro a far la lite...

MÌRT. ... quella sfacciatella avrà soffiato sotto...

MÈN. (_aderendo_) — ... la sfacciatella soffiava sotto — e chiesero
all'arconte che la domanda dell'improvvisato cuginetto fosse respinta,
contestandone la parentela. Ma sì! il cuginetto era assistito da un
avvocato coi fiocchi, il vecchio Isèo, il quale squadernò davanti
ai giudici un albero genealogico, in linee rette, oblique, laterali
e trasversali, che risaliva sino a Codro per via di femmine e per
via di maschi sino a Teseo: un albero rispettabile. Di più, esibì la
testimonianza dei servi, i quali, posti ai tormenti,[143] dichiararono
aver una volta udito il padre della fanciulla, nel contrattar la
compera di un asino, chiamar parente il padre del giovine. Di più, la
ragazza interrogata, abbassando gli occhi con molta ingenuità e grazia
pudica, confermò anch'ella questa circostanza...

CRÒB. Dell'asino?

MÈN. (_confermando e battendogli sulla spalla_) Dell'asino.

MÌRT. (_impaziente_) Insomma... la conclusione...

MÈN. La conclusione — ecco... l'albero, veramente, era un po'
imbrogliato... ma il vecchio Isèo ci mise tanta eloquenza — «_giudici,
guardate questo! considerate quest'altro!_»...

MÌRT. Che i corvi se lo mangino!...

MÈN. ... e quei due giovani, a vederli, lì insieme, tutti e due,
biondi, rosei, mandandosi certe occhiate — dritte, laterali e
trasversali — come quelle dell'albero, pareano così fatti l'una per
l'altro...

MÌRT. (_furiosa_) E quindi...

MÈN. E quindi Isèo, in uno slancio oratorio, imposte le mani sulle due
giovani teste, le avvicinò (_mentre sta dicendo questo con inflessione
espressiva di voce, getta occhiate verso Aglae, come volesse fermarne
l'attenzione. Aglae infatti, alta la testa, e sospeso il lavoro, pur
senza guardar Mènecle, mostra di essere molto attenta_)... e citò
il verso di Omero che _Giove vuol congiunti i simili coi simili_;
e il tribunale per non far torto nè ad Omero nè a Giove, giudicò
ch'eran proprio cugini autentici e che il giovine avea diritto di
divorziar dalla vecchia, e di portar via al vecchio la giovanetta.
I due vegliardi cascarono ululando nelle braccia uno dell'altro, la
giovanetta abbassando gli occhi con molta ingenuità e grazia pudica
rivolse all'antico sposo un commovente sguardo d'addio, e sospirando...
si rassegnò.

MÌRT. (_indignata_) E tu o Giove, che cosa fai là sopra, che non
punisci queste infamie commesse in tuo nome?

MÈN. (_pacatissimo_) Vedi, hai torto d'invocar Giove. Forse in quel
momento era occupato anche lui colla piccola Ebe... a far dei torti
alla veneranda Giunone. Son cose che succedono in cielo e in terra..

MÌRT. Ma tu, tu, come hai votato?

MÈN. Ecco... io ci vedo poco... ma mi hanno assicurato che proprio
le linee trasversali andavan bene,[144] e quindi per non guastarle —
mancando un voto alla maggioranza — ho dato il mio.

AGL. (_con iscatto repentino, vibratissimo di voce_) Bravo Mènecle!...

CRÒB. (_contemporaneamente, sottovoce per non farsi udir da Mìrtala_)
(Bravo Mènecle!)

MÈN. (_udendo Aglae, con un sospiro_) (Volevo dire!...)

MÌRT. (_ad Aglae_) E tu lo lodi, tu lo lodi! Mettiti nei panni di
quella povera moglie abbandonata...

AGL. Mi metto nei panni di quell'altra.

MÈN. Ma che abbandono! che abbandono! Cosa credi, che i giudici abbiano
cuor di macigno? Quando Isèo s'accorse che il suo albero sui giudici
faceva un effettone e che i due vecchi rischiavano restar soli, per
ultimo argomento, tirò fuori... (_pausa, segni di attenzione_) un altro
albero...

CRÒB. Ma era una foresta questa arringa!

MÈN. Proprio così... un altro albero, dal quale appariva come qualmente
il vecchio abbandonato fosse parente in quarto o quinto grado della
vecchiarella derelitta: onde Isèo concluse, e il Tribunale accolse,
i lor precedenti matrimonî doversi sciogliere anche per ciò: che
la settantenne Pànfila essendo... orfanella, la legge obbligava il
vecchietto a sposarla per la perpetuazione della stirpe. E stese le
mani sulle due teste venerande, ripetè il verso di Omero: che _Giove
ama congiunti i simili coi simili!_... Ah che oratore! che oratore!

MÌRT. (_mal frenando la stizza_) Aglae, nei processi di tuo marito
ci son troppi alberi... e a viaggiar pei boschi si incontrano i
malandrini... Se credi, son da te...

AGL. (_alzandosi_) Come vuoi...

CRÒB. (_ad Aglae sottovoce, mentre questa, prima d'uscire, sta mettendo
a posto qualcosa sul suo tavolo_) Mi raccomando... non le mostrar
tutta la guardaroba... perchè poi a me tocca di portarla... e... vesti
chiuse... vesti chiuse... riparano dai freddi...

AGL. (_a Mènecle, nell'andarsene con Mìrtala_) Tu sei a casa oggi?

MÈN. (_asciutto_) No.

AGL. Sei via a cena?

MÈN. (_c. s._) Sì.

AGL. Tornerai presto?

MÈN. Forse. (_Aglae s'allontana senza dir parola. Quando ella è già
sull'uscio, Mènecle la richiama_) A proposito, è stato qui Elèo?

AGL. (_ferma sull'uscio, dopo una pausa, come risovvenendosi_) Ah... sì!

MÈN. Perchè non dirmelo...?

AGL. (_fredda_) Non me l'hai chiesto.

MÈN. Ha detto ove andava?...

AGL. No.

MÈN. Tornerà?

AGL. (_imitando il forse precedente di Mènecle, con accento
espressivo_) Forse! (_esce con Mìrtala_).


SCENA IX.

MÈNECLE _e_ CRÒBILO.


CRÒB. (_comicamente, a parte_) (Che tenerezze!) (A MÈNECLE) Non si può
dire che tra marito e moglie sprechiate eccessivamente il fiato... Vi
parlate sempre così?

MÈN. Quasi sempre.

CRÒB. Non vi anderà giù la voce. E, dimmi, il giorno che l'hai
sposata, l'hai almeno avvertita delle tue abitudini di... eloquenza
domestica?...

MÈN. Non ci ho pensato.

CRÒB. Eppure, scusa sai, ma mi sembra... era forse il caso di
pensarci... essendo tu quel galantuomo che sei... che tutta Atene
conosce...

MÈN. (_vivissimo_) E chi, chi ti dice ch'io non lo sia?...

CRÒB. Lo sei! lo sei! per Ercole! l'han fino scritto col carbone sui
pilastri del Ceràmico...[145] Appunto...

MÈN. Appunto... se si è galantuomini e si è fatta una minchioneria, non
si seguita a sospirarne tutto l'anno e ingrassarci sopra... (_parlando,
fissa l'occhio su Cròbilo_)... Si fa di meglio... Ci si ripara...

CRÒB. Eh?

MÈN. (_energicamente incalzando_) Altrimenti sui pilastri del Ceràmico
potrebbero scrivere... di me... o di te... anche questo: Mènecle...
o Cròbilo, il tal giorno è stato un imbecille... e adesso ci trova il
_tornaconto_ a rimanerlo... E questo, per mio conto, non voglio che lo
si dica... _non voglio_... intendi...

CRÒB. Intendo un bel niente.

MÈN. Intenderai con comodo.

CRÒB. Quando?

MÈN. Prima della luna nuova.

  Dette queste parole appoggiandovi sopra con accento vibrato,
  s'avvia ad uscire.

CRÒB. (Che diamine sta mulinando?) Te ne vai?...

MÈN. Ho da fare... alla cancelleria dell'Arconte. (_si fruga indosso
cercando qualcosa che non trova_) (Dove l'ho messa?) (_torna verso
Cròbilo_) Però ti avverto di una cosa. Sai che Aglae per via di
madre vien dalla famiglia dei Brìtidi;[146] io per via di padre dagli
Almeònidi...

CRÒB. Lo so...

MÈN. Il padre suo poi era cugino di Cimone, la madre mia cugina di
Pericle: il suo proavo paterno combattè insiem col mio a Salamìna... le
linee laterali si estinsero...

CRÒB. (_lo guarda stupìto, senza comprendere_) Eh?...

MÈN. Era solo per dirti che le nostre genealogie rispettive sono
perfettamente in chiaro: e non c'è pericolo che ci spuntino intorno
cugini nuovi, come i funghi sui fusti delle piante...

CRÒB. E così?

MÈN. E così... io non sono il vecchio Fràstore che fece giudizio senza
suo merito: io sono Mènecle, che so far giudizio da me — e il merito
sarà mio — _tutto mio:_ — e non occorreranno cugini in ritardo (_lo
fissa in volto_) che abbiano bisogno di sbarazzarsi di qualche moglie
avanzata dal diluvio di Deucalione. E se i vecchi stanno male con le
giovani, i giovani che han le vecchie... se le tengano!... (_lo saluta
e se ne va: durante l'ultima parlata, Mènecle ha continuato a frugarsi
in dosso: nell'andarsene, fruga sempre e borbotta fra sè_) (Dove l'ho
messa, per Ercole!... Ah... che l'abbia lasciata là...) (_s'avvia, poi
torna bruscamente verso Cròbilo e gli ripete battendogli sulla spalla_)
I giovani che han le vecchie... se le tengano!... (_borbottando sempre
esce_).


SCENA X.

CRÒBILO _solo_.


(_Facendo gesti e segni d'uomo che è riuscito a comprendere_). La
morale della favola, si direbbe quasi che sia per me... Non importa!...
Ah, ah, ora comprendo!... Così... per modo di dire... l'amico Mènecle
prepara alla sordina un bel divorzio!... Peuh!... È una soluzione come
un'altra... Non è molto onorifica per Aglae, ma è abbastanza onesta
per lui... Meglio che farla vivere in quel modo!... E Aglae, si vede,
non ne sa ancora niente!... Per quanto sì... non le debba riuscire un
complimento, scommetto non le parrà vero di ricuperare la libertà!...
E con la dote di Mènecle,[147] e con quel visino, e quei due occhioni,
non le sarà difficile trovare chi la faccia discorrere un po' di più.
Perchè, infine, è una gran bella ragazza!... Che occhi! che linee! che
curve!... Pare la Venere degli Orti! To'! io non ci avevo mai fatto
attenzione, ma proprio... più la si guarda dappresso, più è bella!...
Mènecle, ad ogni modo, poi che s'è deciso a questo passo, dovrebbe
almeno prepararvela. Quasi, quasi, se non fosse... (_passeggiando, si
ferma, come venutagli un'idea_) Ma sì... per Bacco!... e perchè no?

  (Aglae e Mìrtala, in questo mentre, rientrano).


SCENA XI.

AGLAE, MÌRTALA, CRÒBILO, _un momento_ TRATTA.


AGL. (_rientra discorrendo con Mìrtala_). Oh, trattienla quanto vuoi!...

MÌRT. (_con un involto in mano_). Grazie!..

AGL. (_a Cròb._). È già uscito Mènecle?

CRÒB. Or ora... (_senza por mente a Mìrtala che sta raggiustando il suo
involto, contempla di sottecchi Aglae e parla fra sè_). (Quel nasino
grazioso che guarda in su!).

AGL. Niente lasciò detto?

CRÒB. No... Parea cercar delle carte... (_continuando a sbirciar
Aglae_). Che bei capelli biondi!... Con quella acconciatura oggi par
fin più bella del solito!... Sicuro!... è più bella del solito!... Che
boccone per quello a cui tocca!...

  (Nel volgersi, mentre è immerso in queste riflessioni, si trova
  faccia a faccia con Mìrtala, che gli pon su le braccia l'involto da
  portare).

MÌRT. Mi fai piacere di tenermelo...

CRÒB. (_con una smorfia e un lungo sospiro_). E a me ecco che cosa
tocca!...

MÌRT. Bada a non la sciupare...

CRÒB. No, no... (_annasando l'involto_) Hu!hu! che profumo!... Ma di'
un po', Mìrtala, la ti andrà poi bene?

MÌRT. (_accennandogli Aglae_). E non vedi, orbo, che abbiam la stessa
taglia?

CRÒB. Ah sì!... (orbo, quando t'ho preso!) Hu! hu! che odor
d'ambrosia!... Che profanazione!...

AGL. (_passata presso il tavolo a cui Mènecle era seduto sul
cominciar dell'atto, e visto un rotolo caduto per terra, lo raccoglie
sorridente_). To'!... nel grande accalorarsi per la mia felicità, ha
dimenticato fin le sue carte!... Che mi dicevi Cròbilo? che Mènecle
cercava delle carte?...

CRÒB. Appunto... frugava...

AGL. E allora saran queste che gli son cadute o ha dimenticato qui. Sai
dove andava?...

CRÒB. Alla cancelleria dell'arconte.

AGL. Le darò a Blèpo che glie le porti...

  (Fa per chiamare).

MÌRT. È inutile. Dà qui. Passiamo ora di là noi.

AGL. Grazie allora...

  (Le passa il rotolo con indifferenza).

MÌRT. Così gli dirò anche, a quel rusticone, che non è questo il modo
di andarsene...

AGL. Non gli dire nulla. È il suo carattere.

MÌRT. Bel carattere!... Anche gli Sciti lo hanno così:[148] ma non
isposano donne d'Atene. Se fosse mio marito... vedrebbe! Già, tu
sei troppo buona... Vorrei veder io che Cròbilo stesse su la notte a
consumarmi l'olio della lucerna, senza neanche saper quel che scrive...
E tu ti fidi?...

AGL. Completamente.

MÌRT. (_scrollando il capo_). Basta!... contenta tu!... (_a Cròbilo,
maliziosa, mostrandogli il rotolo_). Neh, Cròbiluccio, che avessimo
senza saperlo, a far la parte... tu di Mercurio... e io di Iride?...

CRÒB. (O Dei! che vaga Iride!) Peuh! Mercurio portator di fagotti...

MÌRT. Vieni dunque. Addio Aglae.

AGL. Addio.

CRÒB. (_sbirciando sempre Aglae_). (Che cara creatura! Eh, se
sapesse!...)

MÌRT. (_a Cròbilo_). Vieni?... (_nell'avviarsi ad uscire con
Cròbilo, va curiosando nell'interno del rotolo; d'un tratto si ferma
esclamando_) Oh, cara Venere!... (_si volta verso Aglae_) Ma voi altri
due fate all'amore di nascosto? e invece di parlarvi, vi scrivete?...

AGL. (_non comprendendo_). Eh?

MÌRT. Ma le carte degli affari non saran queste. Questa è per te.

AGL. (_sorpresa_). Che cosa?...

MÌRT. Ma sì!... qui nell'angolo dice: _Mia cara Aglae!_... guarda!
guarda!... (_Aglae osserva dove Mìrtala le indica_). Ma allora, poi
ch'è per te, puoi aprirla in coscienza: gli risparmi la fatica...

CRÒB. (_a parte, avendo seguìto la scena_). Volevo ben dire! Capirai
prima della luna nuova! È la lettera di partecipazione. Ora ho
capito...

AGL. (_indifferente, prende il rotolo, lo esamina un minuto
esternamente, poi senza aprire lo torna a deporre_). Leggerò poi...
(_fra sè_) (Sarà la ripetizione dei discorsi allegri di stamane!)

CRÒB. (_inquieto, a parte_). Ma se non legge... bisognerebbe...

MÌRT. (_ad Aglae maliziosamente_). Ho capito... segreti fra coniugi...
Rispettiamoli!... Vieni, Cròbilo?...

CRÒB. Vengo!... (_segue lentamente Mìrtala; mentre ella esce,
s'appressa rapido ad Aglae e le dice affrettato, sottovoce, con accento
drammatico_). So tutto. Coraggio. Sei giovane, sei bella. Venere ti
proteggerà... (_allontanandosi, la torna a guardare_) (Che nasino! È
più bella del solito!)

MÌRT. (_mentre Cròbilo, già avviato ad uscire, si indugia di
soppiatto nella contemplazione di Aglae, Mìrtala sulla soglia si volge
amorosamente al marito, e ad un tratto lo abbraccia scoccandogli un
sonoro bacio e ripetendo con caricatura amorosa il verso di Crìside_).
«_T'amo!..... È la nova parola ch'io so_».

  (Cròbilo, strappato improvvisamente alla sua contemplazione dal
  bacio di Mìrtala, con una smorfia comica lo subisce, e mandando un
  sospiro di rassegnazione disperata, si lascia da Mìrtala trascinar
  via).


SCENA XII.

AGLAE _sola_.


AGL. (_Ha accolto con un movimento di dispetto e di fierezza le
ultime parole di Cròbilo_). Che ha inteso dire?... Ah, già!... qui
tutti han preso il vezzo di compiangermi!... Perfin le vecchie! Una
vera gara di pietà! Grazie! non so che farne!... (_torna lentamente,
pensierosa, al suo lavoro e riprende in mano la corona_). Qui metteremo
i narcisi di Elèo... Povero Elèo!... Fino a Colòno... là sulla rupe...
me li è andati a prendere... Dunque la piccola Aglae non è del tutto
dimenticata... E voleva fingere! Serbarmi rancore!... Perchè fingere
con Aglae?... Che colpa ne ho io?... Ah Mènecle, Mènecle, co' tuoi
benefici ti sei preso tutto, è tua la mia vita... ma la memoria del
cuore... di questa neppur gli Dei mi possono chiedere conto. Quanto
alla mia felicità, di cui Mènecle si prende scrupolo e mi parla e mi
scrive... (_prende in mano il rotolo e lo svolge macchinalmente_) glie
ne domando conto forse io?... (_spiega e legge_) È diretta proprio a
me. (_la scorre dapprima sbadatamente e indifferente, poi si fa più
attenta_) Che cos'è questo?... (_legge:_) «Di casa, la notte al nove
della luna calante di Ecatombèo, anno IV della 99ª Olimpiade.» L'ha
proprio scritta stanotte! «Mia cara Aglae!... Il giorno che leggerai
questa mia, i tuoi rapporti meco saran mutati da quelli dell'ora in
cui la scrivo...» (_fra sè, interrompendosi_) Eh... peggio di quel
che sono!... «e forse in quel giorno non ti dorrà il poter dare della
condotta di Mènecle giudizio meno amaro di quello che oggi parla
segretamente in cuor tuo». Che ne sa? «Il cancelliere ti darà questo
scritto, dopo la sentenza dell'arconte che avrà disciolto le nostre
nozze... per domanda tua!...» (_esclamazion di stupore_) Che!... mia
domanda?... io domandarlo?... «Depositato da ora presso lui, ti sarà
allora documento della verità delle mie parole...» (_s'arresta sempre
più stupita_) Che vuol dir ciò?... (_scorre rapidissimamente il resto
della lettera, con segni di crescente sorpresa e commozione: terminato,
rimane assorta, la testa fra le mani, asciugandosi una lagrima_).
Povero vecchio!... povero vecchio!... (_si alza vivamente e passeggia
concitata_). Così... io avevo l'orgoglio di credermi generosa verso
Mènecle... ed è lui che mi soverchia in generosità!... Tutti, tutti, mi
umiliano! Soverchiare Aglae!... Ah! la vedremo!...

  (Rinchiude, e va per riporre al posto di prima il rotolo, ma in
  quel punto si affaccia Tratta).


SCENA XIII.

AGLAE, TRATTA _ed_ ELÈO.


TR. (dalla soglia) Elèo!...

AGL. Ah!... (_momento di pausa, di perplessità e lotta interna
vivissima. Poi risolvendosi_) Passi.

EL. (_entra vivacissimo e reca dei corimbi di narcisi_). Aglae!...
li ho colti là... dove tu sai... (_Aglae non risponde, è triste,
pensierosa — Elèo, interdetto, depone i fiori_) Che hai?

AGL. (_mesta, chinando lo sguardo_). Nulla. Leggevo una lettera... di
Mènecle... per me. La puoi leggere anche tu... Leggi.... continua pur
forte!...

  (Elèo, guardandola tra sorpreso ed esitante, prende lentamente
  la lettera, che ella gli stende, la legge e poi ripiglia a voce
  forte la lettura al punto che Aglae gli ha segnato. Aglae segue la
  lettura, profondamente commossa).

EL. (_leggendo_). «Quando tuo padre morente affidavati a me, tu eri
fanciulla quattordicenne appena. Accorrevano, allettati dalla dote
ch'io t'avrei fatto, i concorrenti: ma pel tuo cuore di fanciulla l'ora
della scelta non era suonata: e libera e felice bramavo la tua. Ed io
dissi fra me: che tre o quattro anni a te restavano prima d'affacciarti
alle soglie vere della vita, e non più di tre o quattr'anni — ero
anche malfermo di salute a que' dì — mancavano a me per abbandonarle.
Pensai che sposandoti a un estraneo in quell'età, io rinunziavo in mani
ignote un incarico sacro; che la mia casa poteva offrirti, pei tuoi
anni verdissimi, asilo, fino al dì che la mia morte t'avrebbe trovata,
giovane e bella, erede delle mie fortune, padrona della scelta del cuor
tuo, e in grado di porne le condizioni...»

AGL. (_ad Elèo_). Che ti sembra?

EL. (_triste e serio_). È leale. (_prosegue la lettura_) «... Se in
quel mio desiderio sia entrato anche un desiderio egoistico: veder
consolata la mia vecchiaia dal tuo sorriso, lo squallore del mio
inverno da un ultimo raggio di sole, oh Aglae, io non oso domandarlo a
me stesso: non oso cercar tra le pieghe del mio cuore più nascose, in
quell'unico mesto desiderio, l'unico mio torto verso di te...»

AGL. (_asciugando una lagrima_) Povero vecchio!...

EL. (_prosegue a leggere_). «Ve lo hai letto tu forse? Non so. So che
in queste nozze il cuor tuo volle scorgere un debito verso l'ombra
paterna: le accettasti prima colla ingenuità della gratitudine;
le subisti poi colla abnegazione del sagrificio... Non volli
disingannarti. Per la educazione del tuo animo quella prova era troppo
bella. Nella Parca liberatrice confidavo perchè fosse breve. Ma ecco,
l'ora che io pensavo è suonata; e trova te fatta donna, nello splendore
dei doni di Venere; e trova me vecchio e vivo e senza il diritto
di prevenire la Parca.[149] Sciupar con un vecchio il tuo aprile,
invecchiar senza gioie nè di sposa, nè di madre, non era questo ch'io
promisi, non può essere questo il premio alla tua virtù.[150] Ma s'io
ti dicessi ora ciò, se pregandoti di recar teco delle mie fortune
quel che in mia mente è già tuo, io ti offrissi di sciogliere di mutuo
accordo le nozze, la tua fierezza, resa dall'idea del sacrifizio più
altera, rifiuterebbe sdegnosamente».

AGL. (_a sè_). Certo!...

EL. (_segue a leggere_). «... Valermi della legge, e liberar te
col ripudio? triste felicità la tua sarebbe, comperata a prezzo del
peggior degli affronti.[151] Sola una via mi restava. Scioglierti
dagli scrupoli verso di me: obbligarti a ricorrere all'arconte tu
medesima. Sei nervosa, impaziente, irascibile: pensai di stancare la
tua pazienza. Sei virtuosa e leale: il giorno che il tuo cuore sentirà
prepotente il bisogno di vivere, tra l'abbandonarmi lealmente a fronte
alta e l'ingannarmi, il tuo cuore, ne sono certo, nella scelta non
esiterà. Quando leggerai queste righe avrai scelto, e mi perdonerai
questi giorni di tedio e l'inganno dell'esserti parso egoista,
duro, scortese. Me lo perdonerai pensando alla triste solitudine che
m'attende[152], e in cui non avrò altro conforto che di saperti felice,
e aver sciolto la mia promessa alla cara ombra del padre tuo.

                                                           «MÈNECLE».

AGL. (_Elèo lascia cadere il foglio, mestissimo in volto. Aglae ha da
qualche minuto in mano e sta contemplando i fiori di Elèo: alle ultime
parole della lettera, se gli è già venuta accostando: nel punto in cui
egli termina, con atto dolce e amorevole gli ripresenta i ramoscelli
di narciso. Elèo vorrebbe rifiutare, ella insiste con gesto muto,
amorevole di preghiera; Elèo riprende i fiori ad occhi bassi, senza dir
parola. Aglae prosegue con voce lentissima e dolce_). Vedi bene che a
quell'ombra non potrei più offrirli... (_lunga scena muta fra i due_).
Non sarebbe bello!... Non sarebbe bello!...

  (Saluto lungo e silenzioso. Elèo si allontana lentamente ed esce.
  Aglae ricade sulla sedia, celando il volto nelle mani).


  CALA LA TELA.


NOTE

[81] Per la topografia della casa ateniese, rimandasi alle descrizioni
di VITRUVIO (_Archit._, VI) e ai lavori archeologici moderni che
le illustrano. Chi non voglia sciupar tempo in minute ricerche, può
farsene un'idea abbastanza chiara ed esatta dai disegni topografici,
per es., dell'opera di GUHL e KÖRNER, _Leben der Griechen und
Römer_, fig. 90-91, o da quelli aggiunti all'_Anacarsi_. La stanza da
lavoro di questa scena è una, s'intende, dell'appartamento segregato
femminile, propriamente detto (γυναικωνῖτις); occupato dalla padrona
di casa e dalle sue donne, e generalmente posto nella parte posteriore
della casa; appartamento al quale non accedeano gli uomini tranne
i parenti, o gli estranei che ne aveano il permesso dal marito. Da
queste stanze riposte del gineceo (ove la moglie attendeva alla sua
toletta, o ai lavori delle fantesche, o alle occupazioni geniali del
ricamo, del tesser ghirlande, della musica ed altre, o riceveva le
amiche), da queste un corridoio (_metaulo_ o _mesaulo_) metteva appunto
direttamente alla sala aperta comune (πρόστας o παραστάς) che dava
sul cortile o peristilio (ἀυλή), e ch'era destinata ai ricevimenti di
famiglia, ai sagrifici domestici o ai pranzi quotidiani. In questa sala
comune nella quale era il domestico altare, e la quale segnava come il
confine tra il gineceo e gli appartamenti anteriori occupati dal marito
(ἀνδρωνῖτις), supporrassi la scena dei due atti successivi.

[82] «_Tremo e mi mordo le labbra, per presentimento di disgrazia,
come quei che passano allato ad un qualche silenzioso eroe_». ALCIFR.,
_Lett._, III, 58. La antichissima superstizione greca imaginava lo
spazio fra la terra e la luna abitato dagli _eroi_ o _genj_, esseri di
sostanza fra l'umana e la divina; i quali talora, siccome mediatori
tra gli dei e gli uomini, scendeano in terra a mescolarsi fra questi
ultimi, ma senza parlare. E infesti a coloro in cui imbattevansi, era
credenza che il loro incontro portasse disgrazia.

[83] Cfr. ARISTOF., _Lisistrata_: «_Lis._ Nella guerra e nel tempo
passato, voi uomini non ci lasciavate a noi donne aprir bocca...:
e spesso in casa vi udivamo prendere cattivi partiti in affari
gravissimi. Quindi col dolore nell'anima, ma col sorriso sul labbro,
v'interrogavamo: Che avete determinato oggi nell'assemblea? E
il marito: Che fa a te questo? Non vuoi tacere? Ed io mi taceva.
_Provveditore._ Saresti stata battuta, se non tacevi. _Lis._ Ma poi,
udendo qualch'altra vostra decisione anche peggiore, domandavamo al
marito: Perchè far questo? E quegli, squadrandomi con occhio bieco,
dicevami: Se tu non tessi la tua tela, ti dorrà a lungo la testa. Sta
agli uomini aver cura della guerra». v. 507-520.

[84] V. SOFOCLE, _Trachinie_, v. 9-17.

[85] Luglio-agosto. V. il lunario attico nelle note all'_Alcibiade_.

[86] «_Ut omnia de speculis peragantur, optima apud majores fiebant
Brundusina stanno et ære mixtis_». PLIN., XXXIII, 9. Questi specchi
di Brindisi, lodatissimi, fatti di bronzo e di stagno, finchè, come
dice lo stesso Plinio (XXXIV, 17) si usarono d'argento persin dalle
ancelle, sono verosimilmente la stessa cosa degli specchi chiamati,
forse per error di copista, d'_Abrotesio_, in ALCIFR., _Lett._, III,
66. Caratteristiche poi, nella toletta delle signore ateniesi, erano
di questi specchi certe forme piccole, rotonde, per lo più con manico
riccamente lavorato, e raffigurante, il più delle volte, l'effigie di
Venere Afrodite. Cfr. GUHL e KÖRNER, p. 217, fig. 227. Mènecle ne parla
più innanzi.

[87] Calisseno rodio, pr. Aten. _Deipnos._ — v. TEOFR., _Caratt._, 5.

[88] Su la parte grandissima che nella vita della donna di famiglia
ateniese aveano le divozioni, le feste e le pratiche religiose d'ogni
genere, e su quel che costavano, di occhi del capo, ai poveri mariti,
abbondano i tratti nei comici e altrove. «Ogni Iddia di cui si celebra
la festa è una maledizione pei mariti: i poveri uomini non ne conoscono
neppure i nomi: le Coliadi, per es., e le Genetillidi, e la dea Frigia,
e la processione d'infelice amore sul pastore (_Adonie_)». LUCIANO,
_Amori_. E in MENANDRO: «Ahimè — sclama un marito — la mia donna spende
dieci mine in profumerie: e le occorrono scatole d'oro per chiudervi
i sandali... In casa la mi faceva cinque sacrifici al giorno: e ad
ogni sacrificio, sette schiave in circolo, picchiavan ne' cimbali,
mentre altre mandavano gli urli rituali. Son soprattutto gli dei che
ci rovinano, noi altri mariti: sempre delle feste a cui far le spese!»
MEN., _Mysogin._, fr. 3. Cfr. i frammenti di un'altra commedia di
MENANDRO, _La sacerdotessa_ (‘Ιέρεια), ove un marito cerca distogliere
la moglie dalla manìa delle pratiche religiose per il culto di Cibele.

[89] «Solo di tutti gli uomini, o Trofimo, tua madre t'ha posto
al mondo sotto astro sì propizio che tu possa conseguir co' tuoi
sforzi lo scopo di ogni tua brama, e condurre tutte le tue imprese
a buon fine? T'ha forse qualche Iddio assicurato con promesse questo
privilegio? S'è così hai ragione di indignarti: poichè questo Iddio
t'ha ingannato e t'ha usato una ingiustizia. Ma se tu hai ricevuto alle
stesse condizioni di noi quest'aria che respiri e che è a noi comune,
ti bisogna far uso della ragione e sopportare con più coraggio questa
sventura...» MENANDRO, _fram. inc._; MEINEKE, _fr. com. gr._, IV, 227.

«Iscrizione: _Ai numi soli è dato — ogni successo aver felice appieno —
l'uomo quaggiù non ha contrasto al fato._ Non odi, o Eschine, che aver
prosperi successi è solo degli Dei?» DEMOST., _Corona_.

[90] Nel diritto attico «la donna _è maritata legittimamente dal padre,
dal fratello consanguineo, dall'avo paterno_» (DEMOST., _C. Stef._, II,
1134) che, succedentisi in ordine di diritto, ponno dar la ragazza a
chi loro talenta (cfr. PETIT, _Leges att._, VI, 1). Il padre può dar
la figlia in isposa lui vivente (DEM., _C. Spud._, 1024; _C. Neera_,
1345) o legarla per testamento. «Demostene mio padre lasciò la sua
sostanza di 14 talenti, me di 7 anni, la sorella di cinque, e la madre
nostra. In punto di morte, tra sè consigliandosi sul come disporre di
noi, affidò _tutte queste cose_ a questo Afobo e a Demofonte nipoti
suoi.... _A Demofonte poi sposò la mia sorella_ e diede subito due
talenti». DEM., _C. Afob._, I, 814. Questo diritto del padre, o di
quelli che in sua mancanza lo rappresentavano, è subordinatamente
esercitato anche dal primo marito, il quale può pur esso morendo
designare per testamento il proprio successore nel talamo. Così, nel
passo testè citato, Demostene soggiunge che il padre suo legò sua mamma
in moglie ad Afobo (_C. Afob._, I, 814); e così Pasione lega morendo
la propria moglie a Formione (DEM., _per Form._, 946, 953; _C. Stef._,
I, 1110; _C. Stef._, II, 1133), sempre per disposizione testamentaria.
— Cfr. DESJARDINS, _Condition de la femme dans le droit civil athén._,
mémoires lus à la Sorbonne. — LALLIER, _La femme dans la famille
athénienne_.

[91] «I nostri mariti tornando a casa ci guardan con l'occhio del
porco, tante malizie costui (_Euripide_) ha insegnato loro: sicchè
se una moglie sta intrecciando una corona, subito si crede che la
sia innamorata...» (ἐάν τις χαὶ πλέκῃ γννή στέφανον, ἐρᾶν δοχεῖ) —
ARISTOF., _Tesmofor._ V. 395-401.

[92] σποδὸς δὲ τἄλλα, Περικλέης, Κόδρος, Κίμων — ALESSI (poeta comico
della commedia di mezzo) nel _Maestro di nequizie_ (’Ασωτσδιδάσκαλος).
MEIN., _fr. com. gr._, III, 395.

[93]

    Φοιταᾴ δ’ἀν αὶθέρ’, ἔστι δ’εν θαλασσίφ
    κλύδωνι Κύπρις, πάντα δ’εκ ταύτης ἔφυ.
    ‘Ηδ’ ἐστιν ὴ σπείρουσα καὶ διδοῦσ’ ἔρον,
    οὖ πάντες ἐσμὲν οὶ κατὰ χθόν’ ἒκγονοι.
                     EURIP., _Ippol._, v. 447-450.

[94] EURIP., _Medea_, v. 230-247.

[95] Fu nell'anno 379 av. l'E. V. (2º della 100ma Olimp.) che lo
spartano Febida, d'accordo cogli oligarchici tebani, si impadronì a
tradimento della rocca di Tebe (Cadméa) e della città, rovesciandone
il governo democratico e instaurandovi la tirannide spartana. I Tebani
di parte democratica che poteron salvarsi — circa 400 — rifugiaronsi
ad Atene: tra questi fuorusciti «Pelopida, e Ferenico, e Androclide,
i quali fuggiti essendo, furono unitamente agli altri condannati in
esilio. Ma Epaminonda sen restò nel paese, trascurato venendo come uomo
che applicandosi alla filosofia, non si ingeriva punto nelle faccende,
e ch'essendo povero non potea far cosa alcuna». (PLUTARCO, _Pelop._)
E di questa presunta innocuità avvantaggiandosi Epaminonda, da Tebe
mantenea le segrete comunicazioni co' fuorusciti e attendea per il
giorno della riscossa «a riempiere di sensi coraggiosi la gioventù
tebana e ad addestrarla a lottar coi Lacedemoni». (Ibid.) — Cfr.
SENOF., _Ellen._

[96] ESCHILO, _Sette a Tebe_, v. 181, 200-1.

[97] «O Minerva Promacorma! Bramo ch'altri mi calpesti disteso morto
sotto un monticello, fuor della porta Diometide o dell'Ippade, anzichè
sopportar più a lungo le gran delizie del Peloponneso». ALCIFR.,
_Lett._, III, 52. Gli Ateniesi non usavano seppellir alcuno dentro le
mura. La porta _Diometide_ o _Diomea_, nel quartiere di questo stesso
nome, conduceva al Cinosargo, a levante della città; la porta _Ippade_
(nominata nella scena appresso) metteva a settentrione, sulla via di
Colono e di là a Tebe.

[98] Cfr. ALCIFR., _Lett._, II, 4.

[99] SOFOCLE, _Edipo a Colono_.

[100] Giove _Ctesio_ (κτήσιος) ossia Giove _posseditore_ o _donatore_,
custode della domestica proprietà; del numero degli Dei penati,
principalissimo: aveva altare nelle case, o se ne teneva un idoletto
nelle dispense. «Il Dio di Dodona comanda che a Bacco popolare si
faccia un sagrificio perfetto; ad Apollo _scacciamali_ si immoli un
bue; liberi e servi s'inghirlandino e vachino dai lavori un giorno
intero; anche a Giove Ctesio sia sacrificato un bue bianco». DEMOST.,
_C. Midia_. — E in una arringa di ISEO è descritto un vecchio che
celebra sacrificio, circondato dai figli di sua figlia. «Alle Dionisie
campestri egli ci conduceva con lui, e con lui celebravamo tutte
le feste. Quando sacrificava a Giove Ctesio, ed era per lui l'atto
religioso più importante, non ammetteva nessuno schiavo nè estraneo;
compiva da sè tutte le cerimonie; noi l'aiutavamo, maneggiando gli
oggetti sacri, ponendo sull'altare le viscere; ed egli, come a l'avo
conviensi, supplicava il Dio di accordarci la salute e un tranquillo
possesso della nostra fortuna». ISEO, _Ered. di Cirone_, § 15-16.

[101] La battaglia sanguinosa di Nemea, dove gli Ateniesi, alleati
coi Tebani, Argivi e Corinzî furono sconfitti dagli Spartani, accadeva
nel 394 av. l'E. V., ossia 15 anni prima dell'epoca in cui è supposta
questa scena. Gli alleati vi erano forti di 24 mila opliti e 1550
cavalli; i Lacedemoni vincitori avevano 13.500 uomini soli: ma la
mancanza d'accordo tra i capi portò la disfatta dei primi, che vi
perdettero 2500 uomini. I vincitori ebbero 1100 morti.

[102] «Comandano le leggi che l'arconte abbia cura dei pupilli».
DEMOST., _C. Timarc._ — «Legge: l'arconte abbia cura degli orfani e
delle orfane ereditarie (_epiclére_); e delle case vuote; e delle mogli
che rimangono nelle case dei mariti defunti, e che dicono di essere
gravide». DEMOST., _C. Macart._, 1076. — Indi il tutore rappresentava
l'arconte, verso il quale rispondeva della tutela; e mancando
agli obblighi di questa, poteva esser tratto in giudicio o punito
dall'arconte d'ufficio. — Cfr. SCHÖM., _Ant. gr._; PETIT, _Leg. att._,
VI, 7; MEURS., _Them. att._, II, 10.

[103] V. ESCHILO, _Coefore_; SOF., _Elettra_; EURIPIDE, _Ifig. in
Aul._, ecc.

[104] «_Elettra._ I parentali — libamenti spargendo sulla tomba — qual
grata prece proferir degg'io? — Come il padre invocar?... Di' pur, come
t'ispira — la riverenza alla paterna tomba... _Coro._ Prega, il licor
versando, ai fidi amici — fausti tutti gli eventi... _Elettra._ Qual
altro aggiungerò? _Coro._ D'Oreste — ti risovvenga ancor che lunge ei
sia». — ESCHILO, _Coef._, v. 86-88, 108-115.

[105] «Dicesi che Anassagora di Clazomene (il filosofo che fu
maestro di Socrate) non fu mai veduto ridere, e neppur fare il minimo
sogghigno: Aristosseno parimenti fu nemico del ridere, ed Eraclito
piagneva per ogni cosa della umana vita». ELIANO, _V. Stor._, VIII, 13.

[106] «Carico di corimbi in questo loco — _il fiorente narciso —
ghirlanda delle due gran Dive antica_ — tuttodì si nutrica — di celeste
rugiada...» SOFOC., _Edipo a Colono_. — Su le due dee sotterranee,
Cerere e Proserpina, V. note all'_Alcibiade_.

[107] τὴν μὲν ἅπασι τοῖς ἐαυτῆς φιλοτίμοις κεκόσμηκεν Αφροδίτη, μόνου
τοῦ κεστοῦ φεισαμενή. ARISTEN., _Lett._, I, 10.

[108] «_Che cosa vi è di più dolce per un marito che una sposa secondo
il suo cuore, che cosa di più dolce, sopratutto nella gioventù?_»
ANTIFONTE, pr. STOB. _Flor._, LXVIII. Superfluo avvertire qui, una
volta per tutte, quello che Eudemonippo ha già accennato nel prologo:
che se la _Sposa di Mènecle_ è stata scritta da lui nella 120ª
Olimpiade, vale a dire quando Menandro fioriva, e Aristotile aveva
fatto scuola, egli è alla luce dei lavori della commedia nuova e delle
pagine più belle dello Stagirìta, che s'hanno a studiare, nei novi
costumi e sentimenti di quell'epoca, i novi ideali della famiglia,
dell'affetto coniugale e dell'amore; e i richiami alle caste dolcezze
amorose, e le scene di tenerezza fra giovani fidanzati e sposi, giunte
fino a noi negli sparsi frammenti greci, e nelle pitture più delicate
di Terenzio. _Fabula jucundi nulla est sine amore Menandri._ Nella
dignità cresciuta del matrimonio la moglie ritrova al 4º secolo un
posto quasi nuovo fino allora per lei: e nella femmina, presa per
confinarla nel gineceo a procrear figli, appare per la prima volta
la compagna amante dell'uomo. Ed ecco Aristotile dichiarare che «_la
tenerezza è naturale fra il marito e la moglie_, l'uomo essendo da
natura ancor più incline alla vita in due che non alla vita sociale; e
in questa tenerezza ritrovarsi molto profitto e molte dolcezze insieme
riunite». (AR. _Eth. Nicomac._, VIII, 14). Che più? Eccolo altrove
premunir i giovani sposi _contro l'eccesso della tenerezza_, contro
la intimità spinta al punto da divenire una abitudine tirannica e un
bisogno inquieto, sì che poi non diventi loro impossibile di staccarsi
un minuto l'un dall'altro; e insegnar loro a padroneggiarsi così da
bastare l'uno all'altro, anche colla sola memoria, quando l'un d'essi
è lontano! (ARISTOT., _Econom._, I, 4). — Però il mio Fània meritava
le attenuanti, se i moniti di Aristotile (ch'era in que' giorni un
bambino) non eran fatti per lui.

[109] «’Ὀλβιε γαμβρ’ ἀγαθός τις ἐπέπταρεν ἐρχομένῳ τοι». _O felice
sposo, qualche buon genio a te veniente sternutò._ TEOCR., _Id._, 18. —
_Hoc ut dixit amor, sinistra ut ante — dextra sternuit adprobatione._
CATULLO. — Sullo sternuto, or buono or cattivo augurio, cfr. note
_Alcibiade_, 157.

[110] Cfr. SCHÖMANN. _Ant. greche_; LALLIER, _La femme dans la famille
athénienne_. — TEOFR., _Caratt._, 22.

[111] _Siam le nipoti di Teseo e non siam le schiave dei mariti._
Cfr. in SENOFONTE le ammirabili pagine (_Econom._, VII) dove Iscomaco
spiega alla sua sposa giovinetta i doveri e i diritti della moglie; e
com'ella non dee considerarsi la schiava, bensì la compagna del marito,
e avente ella stessa nel domestico governo la sua parte di sovranità.
(_Econ._, VII, 13 e seg.) E con che delicata e viva imagine, Iscomaco
paragona questa sovranità della moglie nella casa a quella della regina
delle api; e come insiste mostrando alla donna sua gli uffici del
marito e della moglie, essere diversi ma grandi del pari, «si da _non
potersi discernere chi vaglia più la donna o l'uomo!_» «E finalmente
— ei le soggiunge — cosa sopra tutte le altre dolcissima, quando nel
compimento degli uffici tuoi, ti farai conoscere di maggior valore che
non son io, tu ti valerai, o moglie mia, dell'opera di me, come di un
tuo ministro; nè dubiterai che nel tempo avvenire abbi ad essere meno
riverita». _Econ._, VII, 41-2. Siamo già evidentemente nelle idee ben
lontani dalla posizione umiliante e servile assegnata alla donna di
famiglia nella antica legislazione ateniese! È vero che al tempo di
Senofonte, tra questo ideale e la generalità del costume, del divario
ancora ne poteva e ne doveva correre: ma la parola dell'epoca è detta
e la nuova missione della donna della famiglia è cominciata. Verrà
tra breve Aristotile a paragonare i diritti della sposa coi diritti
sacri e augusti del supplice che ha deposto il ramo d'olivo sull'ara
domestica, e che acquista con ciò verso il marito i privilegi della
inviolabile ospitalità. (ARIST., _Econ._, I, 4). E verranno tra breve i
comici della commedia nuova a lamentarsi delle usurpazioni di autorità
commesse dalle mogli sui mariti, e a far ridere il pubblico alle spese
dei mariti tiranneggiati!

[112] _E Temistocle ateniese stava sotto alla moglie._ «Diceva
Temistocle scherzando che suo figlio, ancora piccino, era il più
potente di tutti i Greci. Gli Ateniesi comandano ai Greci; io comando
agli Ateniesi; _sua madre comanda a me_, e lui comanda a sua madre».
PLUT., _Temist._, 18; cfr. PLUT., _Prec. matrim._ — E in una commedia
di Menandro: «Ecco un uomo di cui ognun vanta la felicità in piazza:
ma appena varcata la soglia di casa sua, è il più infelice di tutti._
Sua moglie è la padrona di tutto:_ essa comanda e litiga senza posa».
MENANDRO, _Piloti_, fr. 2.

[113] Vedi la legge citata nel _Prologo_, pag. 26.

[114] Il fratello consanguineo succede in diritto al padre nel disporre
della sorte dell'orfana da maritare. V. sopra nota 10. — Cfr. DEMOST.,
_C. Onetore_, 865, 866; _C. Eubulide_, 1311; _C. Beoto_, II, 1010.
ISEO, _Eredità di Mènecle_, § 5-9.

[115] Colombi di Sicilia, allevati e tenuti in pregio nelle case
ateniesi. TEOFR., _CARATT._, 5.

[116]

    ’Εὰν δὲ κινήσῃ μόνον τὴν Μυρτίλην
    ταύτην τις, ἢ τιτθὴν καλᾖ, πέρας οὐ ποιει
    λαλιᾶς. τὸ Δωδοναῖον ἄν χαλκίον,
    ὃ λέγουσιν ἠχεῖν, ἀν παράψηθ’ ὁ παριών,
    τὴν ὴμεραν ὅλην. καταπαύσαι θᾶττον ἢ
    ταύτην λαλοῦαν˙ νύκτα γὰρ προσλαμβάνει.

MENANDRO, _La suonatrice di flauto_. (’Αῤῤ ήφορος ἤ αὐλητρίς) pr. STEF.
BIZ. — MEIN., _Fr. Com. gr._, IV, 89.

[117] Le arie di alterigia e le pretese che le ricche ereditiere
recavan seco insiem con la dote nella casa maritale doveano realmente
dar non poco fastidio ai signori mariti ateniesi, se fornirono così
larga materia agli scrittori comici della antica commedia e della nuova
(le imitazioni di Terenzio comprese): dove si incontrano ad ogni piè
sospinto le lamentazioni dei poveri mariti.

    Εἴθ’ ὤφελ’ ὴ προμνήστρι’ ἀπολέσθαι κακῶς
    ἥτις με γῆμ’ ἐπῆρε τὴν σὴν μητέρα

«_Ahi, fosse perita di mala morte la pronuba che m'indusse a sposar
la madre tua!_» ARISTOF., _Nubi_, v. 41. «Oh Dei! che sproposito ho
io mai fatto a sposar per i suoi sedici talenti questa Crobila, una
donnicciuola alta un cubito! È mai possibile di sopportare una tanta
arroganza? Per Giove Olimpo, e per Minerva, ohibò!» MENANDRO, _La
collana_ (πλόκιον), pr. AUL. GEL., II. — MEIN., _Fr. Com. gr._, IV,
189. «Questa vita del matrimonio m'è odiosa! — Perchè l'hai presa
per il cattivo verso... Se passi il tempo a lagnarti de' suoi guai,
senza mettere in bilancia i compensi, ti desolerai eternamente». MEN.,
_L'odiator delle donne_ (Μισογόνης) pr. STOB., LXIX. — MEIN., _Fr.
Com. gr._, IV, 164. «Han fatto bene a dipinger Prometeo inchiodato
allo scoglio... È lui che ha creato le donne... Una donna è migliore a
sotterrarsi che a sposarsi». MENANDRO, _fram. inc._ — MEIN., _Fr. Com.
gr._, IV, 228. «Maledetto il primo che inventò di prender moglie! E poi
il secondo, e il terzo, e il quarto e tutti quelli che l'imitarono!»
MENAND., _La ragazza bruciata_. (’Εμπιπραμένη) pr. ATEN., XIII. —
MEIN., _Fr. Com. gr._, IV, 114.

E la litania dei lamenti non finisce qui: vedine qui sotto degli altri
(note 39, 41, 42): e potrei aggiungerne ancora: ma pare che bastino.

[118] τὰ τῆς γῆς ἀγαθά. — ALCIFR., _Lett._, II, 3.

[119] ’Ὲχν δ’ἐπίχληρον Αάμιαν «_Ho (sposato) una strega con la dote_
(esclama lamentosamente in Menandro un vecchio marito): non te l'ho
già detto? Non te l'ho già detto? Casa e campi mi vengono da lei: e m'è
toccato per averli di prendere anche lei insieme: e questo, o Apollo, è
il peggior dei mali!» MEN., _La collana_ (Πλόκιον), pr. AUL. GEL., I. —
MEIN., _Fr. Com. gr._, IV, 191.

[120] PLUTARCO. _Proverbii_ — E poco diverso dai Greci diciamo anche
noi: _chi sprezza vuol comprare_.

[121] TERENZIO, _Formione_: «_Nausistrata._ In verità mio marito
amministra senza una cura al mondo i poderi bene acquistati dal padre
mio: chè egli ne ricavava, senza manco, due talenti l'anno d'argento:
vedete che differenza da uomo ad uomo! — _Demifone._ Due talenti! —
_Nausis._ Proprio! due talenti! e sì le derrate non valeano uno per
cento d'adesso». v. 788-790. — Cfr. sopra, nota 37, framm. del Πλόκιον.

[122] Πατρῷ’ ἒχειν δεῖ τὸν χαλῶς εύδαιμονα «_Fortunato quegli che è
ricco dell'eredità del padre!_ poichè delle cose che entrano in casa
colla moglie il possesso non è nè sicuro nè allegro». MEN., _inc.
fab._, fr. 54. «Se siete povero e sposate una donna ricca, vi pigliate
una padrona e non una moglie: vi riducete alla condizione di essere a
un tempo e servo e povero». ANASSANDRIDE, _incert. fab._ «O tre volte
infelice chiunque essendo povero conduce moglie!» MEN., Πλόκιον, pr.
STOB., LXVIII. «Alla fronte superba e alle sue arie tutti si voltano
a guardar Crobila: poichè è ben nota mia moglie, dalla ricca dote, o
piuttosto la padrona che mi possiede!» MEN., Πλόκιον, pr. AUL. GEL.,
II, 23. «La moglie di lui è la padrona di tutto: essa comanda e lo
strapazza senza posa». MEN., _Piloti_, (Κυβερνῆται).

[123] «_Ma il nostro tesoro è stato carboni_ (ἄνθρακες ὸ θησαυρὸς
ἦσαν) come dice il proverbio». LUCIANO, _Zeusi_. «Se sapessi ch'ella
ha rivolto ad altri il suo amore, tutti i tesori mi diventerebbero
cenere». ALCIFR., _Lett._, II, 3.

[124] Cfr. ARISTOF., _Nubi_, v. 71.

[125] Disposizione degli attori in iscena:

AGLAE, CRÌSIDE — CRÒBILO, FANIA.

[126] V. un frammento dei tempi della commedia di mezzo in EUBULO,
Χρύσιλλα. — MEIN., _Frag. Com. græc._, III, 260. — Cfr. in ARISTOFANE,
_Tesmofor._, v. 545-550: ed EURIPIDE, _Androm._, _Jon_, _Ippolito_,
_Alceste_, ecc.

[127] V. un frammento di un altro poeta della commedia di mezzo:
«L'uomo è animale infelice per natura, ma ha trovato a' suoi dolori
questo conforto (il teatro): poichè la mente, dimentica dei propri mali
nel compatire i mali altrui, vi si diletta e si istruisce insieme.
Vedi prima, se vuoi, i tragici come giovano a tutti! Imperocchè il
povero venendo a sapere che vi è stato Telefo più povero di lui, già
più facilmente sopporta la mendicità; l'infermo per qualche insania
considera Alcmeone; oppur soffre di oftalmia? I figli di Fineo sono
ciechi. Morì il figlio al padre? Niobe lo consola. O qualcuno e
zoppo? Si specchia in Filottete. O un altro è vecchio e sfortunato? Lo
ammaestra Eneo. Qualunque cosa infine uno soffra, maggiori stimando le
altrui calamità, meno delle proprie si lagna». TIMOCLE, _Le Baccanti_
(Αιονυσιάξουσαι), pr. STOB., _Flor._, 124. — MEIN., _Frag. Com. græc._
III. 592. Al quale frammento di Timocle, G. Guizot, nello studio
su Menandro (pag. 135), contrappone lo scherzo di Voltaire nella
novella _Les deux consoles_: «Songez à Hécube, songez à Niobé, dit le
philosophe — Ah, dit la dame, si j'avais vecu de leur temps, et si,
pour les consoler, vous leur aviez conté mes malheurs, pensez vous
qu'elles vous eussent ecouté?».

[128] ὢμοι... ὢμοι, ESCHILO, _Agamenn._ v. 1343-5.

[129] λίοπη γλῶσσα (ARISTOF., _Rane_, v. 826), _lingua scortecciata_
ossia _senza pelo_ dicevano anche i Greci, allo stesso modo nostro, di
chi sa bene adoperarla.

[130] «_Io mi mostrerò forte e coraggioso e guardante l'orìgano_»
βλέποντ’ ὀρίγανον, ARISTOF., _Rane_, v. 602: ossia _guarderò torvo
e brusco_. Modo proverbiale, derivato fra i Greci dall'odor acre di
quell'erba.

[131] Su le pretese e il bisticciare e il rimbrottar continuo con che
le mogli dotate molestavano i mariti, vedemmo abbondare in Menandro e
ne' comici della commedia nuova gli esempi. — Cfr. LALLIER, _La femme
dans la famille athénienne_. — BENOIT, _Sur la Comédie de Ménandre_.

[132] «A quella di noi donne che partorisse un uomo utile alla città,
legislatore o capitano, era giusto le si desse qualche premio, e il
primo seggio nelle feste Stenie e nelle _Scire_, e nelle altre che
noi donne sogliamo celebrare». ARISTOF. _Tesmof._, v. 834. «Tu lampada
sarai a parte dei presenti consigli, che furon presi dalle amiche mie
nelle feste Scire». ARISTOF. _Eccles._, v. 18. Si celebravano dalle
donne in onor di Minerva le Scire o _feste dell'ombrella_, ai dodici
del mese detto appunto _sciroforione_ (giugno-luglio), sulla via da
Atene a Sciro ov'era il tempio di Minerva Scirade. Il sacerdote portava
nella processione un ombrello bianco.

[133] «Che mai di buono farem noi donne, noi che sediamo con chiome
tinte di biondo, portiam tuniche color di croco, e siam cariche di
ornamenti e vestiam cimberiche a strascico (κιμβερίκ’ ὸρθοστάδια) e
peribàridi ai piedi?» ARISTOF., _Lisistr._, 45. — τὼ Περσικά, ibid.,
230. Eran calzari di gala, alla persiana.

[134] EURIP., _Medea_, _Androm._ — ANASSANDRIDE, _Inc. fab._ Vedi
avanti la nota 69.

[135] Simili al bisso (ch'era una specie di tessuto di lino) ma assai
più fini erano i tessuti rinomati che l'isola di Amorgo forniva
per certe tonache o camicie di donna, di straordinaria finezza
e trasparenza, e che dal luogo d'origine si chiamavano ἀμόργινα.
ARISTOF., _Lisistr._, v. 150; Scol. in ESCHINE, _C. Timarco_, 97.

[136] Sotto il nome di _Colìade_ (dal borgo attico di Colias ov'era
il tempio) e di _Genetìllide_ (come preside agli atti sessuali) avea
Venere speciali onoranze di riti lascivi femminili. «Se alcuno le
avesse convocate (le donne) nel tempio di Pane, di Venere Colìade
o di Genetìllide, non si potrebbe più passare per la gran copia dei
timpani». ARISTOF., _Lisistr._, v. 1 seg. «Sposatala, giacevo con lei
che olezzava di unguento di croco, di baci con la lingua tra le labbra,
di ghiottornie, di Colìade e di Genetìllide». ARISTOF., _Nubi_, v. 41
seg.

[137] Era devoluta ai _tesmotéti_ (gli ultimi sei de' nove arconti)
oltre la presidenza de' giudizi, de' comizi elettorali, ecc., anche
la sorveglianza dell'ordine e della quiete pubblica. Per che di notte
l'uno di essi per turno andava in ronda per la città. Vedi ULPIANO,
nei _Commenti a Demostene_, orazione _Contro Midia_: e fu probabilmente
durante il suo giro di ispezione, che il tesmoteta di cui ivi si parla,
per essersi inframmesso in un parapiglia, a soccorso di un suonatore,
toccò la sua parte di bastonate.

[138] Per brevità, nella recita, da questo punto si ometta il brano di
scena che segue, da qui saltando addirittura a pag. 123, alle parole di
Cròbilo:

CRÒB. (_sotto voce ad Aglae che s'allontana con Mìrtala_) Mi raccomando
non le mostrar tutta la guardaroba, ecc.

[139] «Fanciulla di sette anni, portai nella processione di Minerva i
sacri arnesi; di dieci, macinai l'orzo di Minerva nostra signora; poi,
vestita dell'abito color di croco, simboleggiai l'orsa di Diana nelle
feste Brauronie; quindi, fatta fanciulla leggiadra, portai il canestro
sacro con un monile di fichi secchi al collo». ARISTOF., _Lisistr._,
641 seg. In queste parole della _Lisistrata_ è brevemente riassunta la
prima educazione delle fanciulle ateniesi di distinta nascita.

[140] Cfr. ARISTOF., _Vespe_, 103-4; 850. Rendevano i giudici, come
s'è detto, le sentenze ne' giudizi in varie forme, oltre quelle
dei ciottoli neri e bianchi, o delle palline forate ed intere (v.
_Prologo_, nota 52). Era anche uso segnar la condanna col tirar righe
lunghe sulla cera delle tavolette. Questo però non toglieva l'uso de'
ciottoli o delle pallottole, necessario a ogni modo, per lo scrutinio
de' voti: come vedi nel passo citato delle _Vespe_: «e per severità
tirando una lunga riga in segno di condanna, rientra in casa con le
unghie impiastricciate di cera: e temendo gli vengano meno i ciottoli,
per aver modo di dare il voto, mantiene in casa un litorale». v. 103
seg.

[141] Sul banchetto funebre che, in onor dell'estinto, al nono e al
trigesimo giorno dalla morte, celebravasi, in vesti bianche di lutto,
da' parenti suoi, cfr. ISEO, _Eredità di Cirone_; DEMOSTENE, _Corona_;
POLLUCE, I, 7, ecc. La trascuranza ne' figli, delle onoranze funebri
ai genitori era punita dalle leggi e portava seco interdizione civile.
SENOF., _Memorab._

[142] ISEO, _Ered. Pirro_, § 64. Cfr. _Prologo_, pag. 27.

[143] Le deposizioni degli schiavi nei giudizi, non erano assunte e
tenute valide come prove, se non estorte coi tormenti (βασανίξειν)
dagli inquisitori a ciò destinati (βασανισταὶ), in presenza dei
rappresentanti delle parti che scrivevano il deposto per unirlo agli
atti. Ε βάσανος dicevasi, oltre il supplicio, anche la deposizione
de' servi col supplicio strappata: a differenza di μαρτυρία ch'era
la testimonianza de' liberi. (Potevano in casi eccezionali anche
i liberi cittadini esser posti a tortura, ma solo per espresso
decreto del popolo: così Mantiteo e Apsefione, senatori, a stento la
scansano, abbracciando supplici l'altare. ANDOC., _Misteri_). Quello
dei contendenti che vi aveva interesse _provocava_ a ciò l'avversario
(πρόκλησις εὶς βάσανον) esibendo di dare ai tormenti i proprî schiavi
o disfidando l'avversario a dare i proprî. Accettar la _provocazione_
o _richiesta_ non era obbligo: ma ricusarla induceva presunzione
sfavorevole al ricusante. «Voi tutti sapete che le provocazioni furono
create per quelle cose che non si possono produrre innanzi a voi.
Quando non può farsi investigazione innanzi a voi, ha luogo per via
di tormenti la provocazione». DEMOST., I, _C. Stef._ «_Io gli chiesi
pei tormenti tre sue ancelle_ informate del fatto e dei danari che
Afobo e la donna possedevano: acciocchè a dimostrazione del vero, non
fossero i soli ragionamenti, ma le prove della tortura. La qual mia
proposta, approvata da tutti i presenti, fu ricusata da lui. Ora voi
per le pubbliche e le private cose reputate la tortura, fra tutte, la
più degna di fede: e ovunque siano servi e liberi e occorra raccogliere
indagini, non vi valete delle testimonianze dei liberi, ma tormentando
i servi cercate ritrovare la verità. E fate bene, o giudici: poichè
dei cittadini testimoni già parecchi furono colti in falso: _ma dei
tormentati nessuno fu mai convinto di non aver detto la verità durante
la tortura_». DEMOST., I, _C. Onetore_, dove il massimo oratore ripete
quasi alla lettera un passo di ISEO suo maestro (_Ered. di Cirone_). E
altrove: «Or come può non essere che questi testimoni abbian deposto il
falso? dacchè neanche ora _ardiscono concedere il corpo della schiava_,
che testificarono già offerto da Teofemo, e _così confermare col
fatto_ la verità della lor testimonianza. Consegnando della schiava il
corpo, non se ne trarrebbero co' tormenti le prove per le quali Teofemo
ingannò i giudici?... Sola la femmina trovatasi presente avrebbe detto
il vero, non già testificando con la tabella (in iscritto), ma con la
più salda e sicura delle testimonianze, coi tormenti cioè. I motivi
dunque coi quali (Teofemo) ingannò i giudici appariscono falsi, chè
non osa consegnare il corpo della schiava, e invece ama meglio mettere
al cimento il fratello e il cognato per falsa testimonianza, anzichè
mediante il corpo della schiava scagionarsi». DEM. _C. Everg._ 7-9. —
E Licurgo oratore: «Nell'atto di accusa io aveva citato i testimonî,
chiedendo si tormentassero gli schiavi di Leocrate. Ma Leocrate
respingendo la provocazione, si accusa traditor della patria. Sì: egli
_con lo scansare la prova degli schiavi_ consapevoli de' fatti suoi,
confessò la verità della querela. E ignora alcun di voi che nelle
controversie l'esame degli schiavi e delle schiave e il tormentarli
quando sanno la cosa è tenuto secondo giustizia ed è comune a tutti?
Or dunque io fui sì lungi dall'apporre a Leocrate falsa accusa, che a
mio carico volevo venire alla prova, tormentando gli schiavi di lui:
ma egli per sua mala coscienza nol sofferse. Eppure i suoi _schiavi
e le schiave avrebbero_ più facilmente negato che dato falsa accusa
al padrone». LICURGO, _C. Leocrate_. — Ecco invece un esempio di
provocazione all'opposto: «Pensai che innanzi tutto convenisse provocar
costui (l'avversario) per convincerlo. E in qual modo? Volli dargli
(all'avversario) un mio giovanetto, che sapeva di lettere, acciò fosse
posto ai tormenti. Or non poteva esso avversario tacciarci di falsatori
con l'investigare la verità, tormentando il giovinetto? Ma _egli
ricusò_». DEMOST., _C. Afobo, falsa testim._ Cfr. DEMOST., _C. Neera_
e altrove. Ho citato questi passi, e tralascio citarne altri, degli
oratori, a dare un'idea caratteristica e precisa di quel che fosse la
tortura de' servi ne' giudizi ateniesi e il valore grande che vi si
attribuiva. Certo bisogna riportarsi all'idee antiche sugli schiavi, e
al diritto antico che li riguardava come cose e cadaveri, per concepire
come tanta crudeltà paresse la cosa più naturale del mondo anco agli
animi più miti, e in Atene stessa, ove la legge era ad essi più benigna
che altrove, fino a dar loro il diritto di richiamarsi degl'ingiusti
maltrattamenti. (Cfr. note all'_Alcib_.) Che però le deposizioni degli
schiavi tormentati meritassero tutta quella fede che ISEO e DEMOSTENE
sembrano attribuirvi a parole, e che facea dar ad esse maggior peso
delle testimonianze de' liberi, pareva già dubbio, nella sua profonda
intuizione dell'essere umano, ad ARISTOTILE, il quale nella _Retorica_
discute di questo metodo di prova i vantaggi e i danni: e trova potersi
«ad ogni sorta di tormenti obiettar questo: che sforzano a dire tanto
il falso che il vero, e che i torturati o stanno forti e non dicono la
verità o per impazienza facilmente dicono il falso, affine di uscire
più presto dal martirio» (_Retor._, I, 13). Ancora è ad osservarsi che
nelle arringhe pervenuteci, quanto son frequenti le _provocazioni_
a questa prova, altrettanto lo sono (come per esempio in _tutti_ i
passi sopracitati) le _ricusazioni_; e non sembrando verosimile che
debban tutte attribuirsi a paura della prova, e che i contendenti
potendo giovarsene se ne privassero così leggermente, è a credere che,
nel fatto e nella consuetudine, un sentimento più umano correggesse
in parte la ferocia della legge, e che la così detta _provocazione_,
così frequente nelle arringhe, fosse il più delle volte, e lo andasse
diventando sempre più ai tempi di ARISTOTILE e posteriori, una forma
retorica, dagli oratori usata più per ispauracchio e per crescere
efficacia alla argomentazione, che per seria intenzione di vederla in
atto. E giova il pensarlo, affinchè quel passo truce che DEMOSTENE,
nell'arringa contro Onetore, ripeteva con le parole stesse di ISEO
(quasi farlo interamente suo gli ripugnasse), ci trovi indulgenti verso
il sublime oratore: tanto più se si pensi che DEMOSTENE, così corrivo
a provocare a parole con questa prova gli altri, o per conto altrui,
quando vi fu provocato egli stesso nella gravissima lite con ESCHINE, e
accettarla probabilmente gli conveniva, con nobili parole a sua volta
la ricusò. «Venga qui il carnefice — grida ESCHINE — e dia i tormenti
innanzi a voi.... Se Demostene si chiarirà mentitore, condannatelo alla
pena di confessare innanzi a tutti che egli è maschio-femmina e non
libero. Conduci alla ringhiera gli schiavi.... (_provocazione_); ma
DEMOSTENE rifiuta l'uso dei tormenti, perchè _non vuol dipendere dai
tormenti de' servi_.» ESCHINE, _Ambasceria_. Caratteristiche parole
che, forse, già in DEMOSTENE adombrano il pensiero di ARISTOTILE, e,
molti secoli più tardi, di BECCARIA.

[144] Per essere un pretesto umoristico, questo di Mènecle era
abbastanza legittimo. Cfr. DEMOSTENE, nell'arringa contro Macartato,
per l'eredità di Agnia: «Innanzi tutto avevo deliberato, o giudici,
di scrivere in una tavoletta i parenti di Agnia per modo che fossero
tutti notati ad uno ad uno: ma poi stimai che _quella tavoletta non si
potrebbe veder bene da tutti i giudici e massime da quelli che siedono
più lontani_». _C. Macart._, § 18.

[145] Al Ceràmico era la passeggiata del bel mondo ateniese, e le
scritte sui pilastri e sui muri vi facevano l'ufficio della cronaca
cittadina delle nostre gazzette. Ivi i buontemponi e i maldicenti,
con epigrammi ed iscrizioni col carbone, si divertivano a mettere in
piazza i fatti del prossimo; e gli innamorati talora vi scrivevano
le loro dichiarazioni amorose alle belle, come ce ne restano esempi a
Pompei. «Leggi quel ch'è scritto sui muri del Ceràmico, dove i nostri
nomi stanno sui pilastri.... E trovai questa scritta là dove s'entra
a destra verso il Dìpilo». LUCIANO, _Dialoghi delle cortigiane_. «Ho
pensato scrivere sul muro del Ceràmico dove Architele suol passeggiare:
_Aristeneto contamina Clinia_». LUCIANO, _ibid._

[146] Famiglia dei _Britidi_, v. DEMOSTENE, _C. Neera_, 1365. Sugli
_Almeonidi_, l'illustre famiglia di Pericle e di Alcibiade. Vedi note
all'_Alcib._, atto I, n. 37.

[147] «E così la maritammo ad Elèo del borgo di Sfetto, e Mènecle le
restituì la dote». ISEO, _Ered. di Mènecle_, § 9. Il divorzio infatti
portava seco la restituzione della sostanza dotale alla moglie o
alla famiglia di lei. «La legge vuole che se uno ripudia la moglie,
restituisca la dote ovvero paghi l'interesse di nove oboli; a chi
ha la donna in cura concede facoltà di muover lite nell'Odeone per
gli alimenti». DEMOST., _C. Neera_, 52. «È obbligato dalla legge a
restituir la dote con l'interesse a ragion di nove oboli». DEMOST., _C.
Afobo_, 17. Questa restituzione era però esclusa (e l'egregio MARIOTTI
omise nel suo Codice ateniese di notarlo) nel caso di colpa della
moglie, come si vede dalla stessa arringa contro Neera: «In vederla
Frastore nè costumata, nè a lui obbediente, e informato ch'ella non era
figlia di Stefano, ma di Neera, e perciò reputandosi ingannato, entrò
in ira contro tutti costoro, e mal soffrendo l'ingiuria e l'inganno,
scacciò di casa la donna sua gravida, che aveva tenuta circa un anno,
_e non le restituì la dote_». _C. Neera_, 1362, cfr. 1363. Ma questo di
Frastore con la cortigiana Neera non era evidentemente il caso del buon
Mènecle mio.

Del resto quest'obbligo della restituzione della dote era in Atene
non disprezzabile freno alla estrema facilità e moltiplicazione de'
divorzi. Più di un marito bramoso di sbarazzarsi della moglie, e
al quale la legge ne apriva cento vie, s'arrestava solo dinanzi al
pensiero di ritornar povero o all'impossibilità di fare la restituzione
impostagli. Indi la prudente riflessione di un personaggio di EURIPIDE:
«Delle ricchezze che la moglie porta in casa non si gode: _non servono
che a rendere il divorzio più difficile_». EURIPIDE, _Melanippe_, fr.
31.

[148] Cfr. LUCIANO, _Dialoghi delle etére_. — ARISTENETO, _Lettere_.

[149] Sulle idee dei Greci intorno al suicidio, caratteristica ed
eloquente fra tutte la pagina di PLUTARCO nella vita di Cleomene,
ossia le parole ch'ei pone in bocca a questo re. Disfatto in battaglia,
perduto il trono, costretto a fuggire da Sparta sua, mentre Antigono
è già alle porte, l'eroico re, al suo compagno d'armi, il prode
Tericione, che consiglia il suicidio, risponde: «Vile che sei, credi
esser magnanimo e generoso _perchè insegui la morte che è la più
facile delle cose umane_ e che è sempre in poter nostro? Bisogna che
la morte che si elegge non sia la fuga da un'azione, ma un'azione essa
medesima: _nessuna maggior vergogna del non vivere e non morir che per
sè._ Quando la _speranza di esser utile ancora alla patria nostra ci
lascierà, allora soltanto ci sarà facile morire_».

[150] Οὔκουν ἔφη δεῖν ἐκείνην τῆς χρηστότητος τῆς ἑαυτῆς τοῦτο
ἀπολαῦσαι, ἄπαιδα καταστῆναι συγκαταγηράσασαν αὑτῳ ISEO, _Ered. di
Mènecle_, § 7.

[151] Per quanto il divorzio in Atene fosse reso dalle leggi e dall'uso
un caso affatto ordinario e frequente, esso non colpiva perciò meno
duramente l'onore e l'amor proprio della donna, per lo meno nei casi
in cui era il marito che di suo proprio impulso lo promoveva. Già
abbiam visto (_Prologo_, pag. 27) che in questi casi il divorzio era
nella legge stessa qualificato _ripudio_ (ἀπόπεμψις): e il sentimento
pubblico s'accordava colla legge, nella spiegazione umiliante di
quella parola. Ed EURIPIDE, ne' cui drammi, sotto la larva delle
favole antiche, le idee e i costumi dell'età sua si rispecchiano, per
questo fa dire a Medea: «_Non onorevoli_ (ossia _vituperosi_) _sono i
divorzj alle donne_» (οὐ γαρ εὐκλεεῖς ἀπαλλαγαι γυναιξὶν) _Med._, 236.
E altrove nella _Andromaca_, fa dire a Menelao, di sua figlia Ermione
parlando: «Io non voglio che mia figlia sia privata del talamo: poichè
_tutte le altre cose_, che la donna soffra, sono di minor conto: ma
_perdendo il marito, perde la vita_» (ἀνδρος δ’ἁμαρτάνουσ’ ἁμαρτάνει
βιου). EURIPIDE, _Androm._, 370-4. E il comico Anassandride, dei tempi
della commedia di mezzo, nel passo più sopra citato: «_Difficile_
e _ripida_, aspra (χαλεπὴ καὶ προσάντης), è o figlia la via del
ritorno alla casa del padre dalla casa del marito, per qualunque donna
costumata: poichè ell'è una via che porta seco l'ignominia» (ὁ γἁρ
δίαυλός ἐστιν αισχύνην ἔχων). ANASS., _Inc. fab._, 5.

[152] «Bastare, disse, _che fosse infelice lui solo_» ἱκανὸς γὰρ, ἔφη,
αὐτὸς ἀτυχῶν εῖναι. ISEO, _Ered. di Mènecle_, § 7.



ATTO SECONDO


ATTO SECONDO

  Casa di Mènecle. Sala aperta comune (προστάς o παστάσ) che dà sul
  peristilio; riccamente dipinta e decorata con ricco mobilio. A
  destra le colonne del peristilio che supponesi aprirsi da questo
  lato, e immettere per le quinte di destra agli ingressi esterni; a
  sinistra l'ingresso dal _metaulo_ che immette alle stanze interne
  del gineceo. Nello sfondo altra porta che mette alla stanza da
  letto θαλαμος. Nell'angolo a sinistra della sala, il piccolo altare
  domestico. Una panòplia è appesa alla parete.


SCENA I.

AGLAE _e_ TRATTA.

  (Aglae traversa rapidamente la scena, dalla porta laterale di
  sinistra, quella del gineceo, alla porta di mezzo ch'è nello
  sfondo: a mezza via si arresta, e chiama forte.)


AGL. Tratta!

TR. (_affacciandosi dalla porta di sinistra_) Padrona!

AGL. Appena vien Fània da mio marito, avvertimi. Va! (_Tratta
rientra_). E dunque... Fània, da fratello affettuoso, compiangendomi,
pensa a parlare per me; Mènecle, da marito magnanimo, compiangendomi,
pensa a liberar me; Cròbilo, da amico leale, compiangendomi, pensa a
consolar me. E se Aglae la compianta li burlasse tutt'e tre? (_esce per
la porta di mezzo_).


SCENA II.

MÈNECLE _e_ BLÈPO.

  (Mènecle leggendo una carta, seguito da Blèpo, entra dal peristilio
  a destra).


MÈN. (_leggendo_) «Scegliere fra essere o non essere. O si è marito o
non si è. Se essere non volevi, non dovevi diventarlo». Ma bravo, per
Giove, mio cognato Fània! Platone non avrebbe ragionato meglio! (_si
volge a Blèpo_) E che t'ha detto Fània nel darti questa?

BL. Che ripassava.

MÈN. Che ombra fa?

BL. Un piede[153].

MÈN. Oh, oh! quasi mezzodì! Sarà qui a momenti. Va. (_lo richiama_)
Aspetta. Ed è tornato, n'è vero, in mia assenza, Elèo?

BL. No.

MÈN. Come no? e queste carte? chi te l'ha date?

  (Accennando altre carte che ha in mano).

BL. Lui.

MÈN. Quando?

BL. Stamattina.

MÈN. Dove?

BL. Qui.

MÈN. Dunque è venuto, imbecille!...

BL. Grazie.

MÈN. (_impazientito_) È venuto sì o no?

BL. Venuto sì, tornato no.

MÈN. (_lo guarda sorpreso_) Eh?...

BL. (_con far grave e sentenzioso_) _Venire_ non è lo stesso di
_tornare_. E se uno viene, non torna. E se uno torna, non viene. Però
si può dire: _In questo suol vengo e ritorno_, come Eschilo fa dire ad
Oreste esule[154].

MÈN. (_guardatolo attonito, se gli appressa, tra serio e canzonatorio_)
Bravo!... E, dimmi in grazia... dove e quando hai imparato queste belle
cose?...

BL. (_con gravità_) Ieri, passando dal Liceo, da uno di quei filosofi
che ci stanno. E delle altre cose ancora...

MÈN. (_ironico_) Ah!... sei divenuto un savio... dunque?

BL. (_sentenzioso_) No, padrone. Perchè ciò che diviene non è[155],
e non può essere nel momento che diviene: altrimenti, se fosse già,
non diverrebbe, o, se diviene, diviene un'altra cosa: e quello che
è, se potesse divenire, allora l'essere diventerebbe eguale al non
essere, mentre il non essere è diverso dall'essere, come dice Ercole in
Euripide[156]. E per scegliere quindi fra l'essere...

MÈN. (_continuando ironico_) ... e il non essere... Ferma un momento.
E dimmi un po'... hai scopato le stanze stamane?... e la casa è
all'ordine?... è?

BL. Sicuro che è.

MÈN. (_fissandolo_) Ma potrebbe anche non essere, visto come impieghi
il tempo. Vedi questo? (_gli mostra un grosso bastone_) Cosa credi che
sia? essere o non essere?

BL. (_tirandosi a rispettosa distanza_) Vedo. È un bastone... è...

MÈN. Ne convieni? Ebbene, se ti sento fare ancora di queste scoperte,
e bazzicar quei galantuomini che mangiano fichi nel Liceo[157], questo,
che è un bastone, ti annunzio che può _divenire_ uno spianatoio per le
tue spalle, pur non cessando di _essere_ un bastone. M'hai inteso?

BL. Perfettamente.

MÈN. Vedi che lo sei, un savio!... Va.

  (Blèpo esce, facendo comiche smorfie).


SCENA III.

MÈNECLE _solo_.


Per gli Dei e per i démoni!... L'amico Isocrate ha ben ragione di
pigliarsela con que' maledetti sofisti![158] Ancora un po' e questo
mariuolo mi rifaceva la lezion di Fània! (_passeggia su e giù_) Del
resto, mio cognato non potea venir in mezzo più a proposito. Tanta
fatica di meno. La cosa va più liscia che non avrei sperato... Oh
eccolo!...


SCENA IV.

MÈNECLE _e_ FÀNIA.


FÀN. Buon dì, Mènecle...

MÈN. Salute, cognato mio... (_disinvolto_) Sicchè tu vieni a dirmi che
hai scoperto che tua sorella non è felice con me, e a rimproverarmi...

FÀN. (_impacciato_) Non a rimproverarti... Ma se felice ella sia,
domandalo a te stesso, alla tua coscienza...

MÈN. (_disinvolto_) Ben detto!... E dimmi: perchè non l'hai domandato
tu prima... alla gran madre... alla natura?

FÀN. Mènecle!

MÈN. Ah tu credevi che il vecchio Mènecle, un cittadino pieno di
meriti...

FÀN. Oh certamente...

MÈN. Grazie. Vedi che andiam d'accordo... un cittadino pieno di grandi
meriti, noti a tutta Atene (_si interrompe sospirando comicamente_) —
da dieci olimpiadi! — avesse a dare, a una giovinetta di diciott'anni,
le emozioni che tu dài alla tua Crìside, ammannendo alla di lei
fantasia... i suoi grandi meriti per imbandigione!?... Bel pasto!... e
sostanzioso... per una mensa coniugale!

FÀN. Questo io non dissi... ma...

MÈN. Ah! c'è un ma...

FÀN. Ma io sperai che non per nulla, sulla soglia della tua casa,
il giorno che Aglae vi entrò, stessero appese, in lieto augurio, le
ghirlande di antico alloro intrecciate alla giovane édera: e che in
quel dì non fossero indarno comparse le due cornacchie all'altare.
Vi hanno premure delicate, cure affettuose, conforti... che anche un
uomo...

  (Fa pausa come cerchi la parola).

MÈN. Tira via... Di' pure... maturo. Sono stato in Sicilia con tuo
padre...

FÀN. Ebbene sì... che anche un uomo... inoltrato sul cammino del
tempo...

MEN. (Ama le perifrasi!)... Grazie...

FÀN. ... al pari degli altri _può_, e più degli altri, _deve_ dare ad
una giovane compagna; e che potrebbero compensarla...

MÈN. (_prosegue ironico la frase_) ... di quell'altre che le
mancassero. Benissimo. E insomma...

FÀN. (_impazientito_) Oh insomma io dico che tu trascuri Aglae. Non hai
premure per lei. Aglae non è contenta. Aglae non è felice...

MÈN. (_a parte sospirando_) (Pur troppo!)

FÀN. E non è questo che sperava mio padre, non è questo che speravo
io...

MÈN. Già, già! lo so, quello che tu credevi, che tu speravi. Tu
speravi che io rinnovassi il miracolo di Jolao, quando nel furor della
battaglia ricuperò le forze giovanili[159]. Speravi che Giunone Nuziale
non si pappasse i sagrifici a ufo, e bastassero i cestelli di fichi a
portar nella casa nostra le gioje, e bastasse la focaccia di sésamo a
portarvi la fecondità![160] Speravi che io ti facessi zio di una bella
corona di nipotini, di amorini vispi, ricciutelli, paffutelli, per
indennizzarti di quelli che ancora aspetti dalla tua Crìside... dopo
dieci mesi che l'hai sposata. Uh vergogna! vergogna!...

FÀN. Ma io ti dirò...

MÈN. (_interrompendolo_) Ma io ti dirò che il padre di Crìside, quando
te l'ha data, ha ben pronunciato le parole sacramentali: _Ti consegno
mia figlia, perchè ne nascano figli legittimi:_[161] e tu l'hai
promesso e giurato. Aglae, quando io la sposai, era orfana, e quindi
io... quella promessa non l'ho fatta a nessuno.

FÀN. (_risentito, accorgendosi dell'intonazione comica di Mènecle_)
Mènecle! ti prego, per Giove! di cessare lo scherzo...

MÈN. Sì, giusto, invoca Giove, ch'è il custode de' giuramenti. Te
la darà lui... Ma vedi, bizzarria de' giudizi!... Il buon Mènecle,
quell'asino di Mènecle, tra sè e sè, avea pensato: Che cosa mai di
bello può fare un marito vecchio in casa di moglie giovane?! Che cosa
di bello può mai, se non lasciarle mancare quel meno che è possibile, e
starle, quel più che è possibile, fuori dei piedi? O dovrà trastullarsi
a provarle indosso la veste color di croco e gli stivaletti regalatile
per la festa della Dea? Sarebbe, qui tra noi, amareggiarle il regalo.
O farle delle mani arcolaio e reggerle i fili di lana, intrattenendola
di quel che s'è discusso nell'assemblea e sotto i portici? Anche Ercole
filava per Onfale, ma era giovine, _ed era Ercole_: e pure Onfale ci
si annoiava. Non resterebbe che raccontarle ancora la mia campagna
di Sicilia di 36 anni fa, e la battaglia di Catania, e la strage al
passaggio del fiume Asinaro, e come innanzi di arrendermi ammazzai
quattro nemici, e come fummo rinchiusi nelle Latòmie e come scappai...
Ce n'è per tre sere... e poi? a furia di raccontargliela, mia moglie la
sa a memoria. Un giorno, per cambiare, mi provai a rifarle la storia,
e cominciai: _Appena fummo arrivati sulla riva del fiume_... lei non
mi lascia finire e impazientita tira via: «Appena foste arrivati sulla
riva del fiume, le retroguardie avvisarono la presenza di un nugolo
di nemici; Nicia passò a cavallo sulla fronte delle schiere, le trombe
risonarono...» e _patatì_... e _patatà_... la sapeva meglio di me. Ma
che stizza, che stizza, ci metteva!... Quando arrivò al punto della
fuga dalle Latòmie, ho avuto fin paura che pel dispetto vi appiccicasse
una variante e invece di farmi fuggire, la mi facesse prendere e
accalappiare!... (_pausa, indi sospirando_) Eh, forse per lei sarebbe
stato meglio!

FÀN. Mènecle, tu sei proprio ingiusto verso Aglae. Io so che ella ti
stima... e...

MÈN. (_rompendogli la parola in bocca_) E gli Dei glie ne daranno
merito. Alle corte. (_con accento reciso_) Tu non puoi dirmi nulla
ch'io già non sappia e non vi puoi aggiungere che delle sciocchezze.
Io ho fatta una corbelleria, e tu vieni a dirmene cento. Ma io posso
disfare la mia, e tu puoi risparmiare le tue. L'arconte pronuncierà il
divorzio...

FÀN. (_vivissimo, stupefatto_) Che?!...

MÈN. Ell'era, per legge, in tua balìa avanti le nozze. Tu sei il
guardiano della felicità sua. Aglae da te l'ebbi. Ridomandala tu[162].

FÀN. Io?... mai!

MÈN. E allora... (_se gli appressa grave, severo_) con che cuore e
perchè me la accordasti?

FÀN. (_imbarazzato_) Perchè tu lo sai... fu l'ultimo desiderio del
padre nostro...

MÈN. E perchè Mènecle era ricco e liberava innanzi alla legge te dal
peso della custodia e della dote. (_moto di Fània che Mènecle calma
col gesto_) Non siam noi soli vecchi gli egoisti!... E non per nulla
i vegliardi ritornan qualche volta fanciulli[163]. Che meraviglia,
se anche al povero Mènecle, a cui, con tutta la sua sapienza, passano
ancora alle volte, di sotto ai capelli bianchi, certe ubbìe giovanili,
che meraviglia se al povero Mènecle un lampo di distrazione... di
reminiscenze... in ritardo, abbia offuscato un istante il cervello? Ma
tu che fanciullo non sei, tu nella età che sente la voce della natura e
i bisogni della gioventù — e ci hai pensato per tuo conto — potevi ben
pensarci anche per tua sorella! e difendere lei contro lo sbaglio di
tuo padre... e me contro me stesso.

FÀN. Ma ti giuro per gli Dei che se...

MÈN. Non incomodare gli Dei! Aspetta: tu mi giuri che gli Dei vogliono
l'obbedienza ai genitori. E per questo, ti sei sposata bravamente la
tua Crìside, di cui eri innamorato come un gatto, disobbedendo a tuo
padre che voleva accasarti colla figliuola di Eufrànore. Agli Dei
certamente ti sei riservato di chiedere della disobbedienza perdono.
Poichè, tanto, dovevi domandargliela per una, non disturbavi Giove di
più, a far la domanda per due. A questo, _allora_ non ci hai pensato:
_ora_, ti vengono gli scrupoli. E poichè la tua Aglae la vuoi felice,
trovi giusto che in premio della sua virtù, ella consumi il caro
fiore de' verdi anni con chi felice non la può rendere!...[164]. (_con
forza_) Questo tu trovi giusto... e vai nell'Elièa a far da giudice! Io
no! e s'ebbi un torto verso quella fanciulla, saprò ripararlo... per
tutti gli Dei! (_calmandosi e asciugandosi la fronte_) Fai tirar giù
dall'Olimpo gli Dei anche a me!

FÀN. (_vedendo Mènecle riscaldarsi, impressionato dalle sue parole,
gli parla affettuoso e pacato_) Mènecle, io sarò stato ingiusto: tu
però ora lo sei con te stesso. Se torto vi fu nel passato, in faccia
a mia sorella, fu mio: ma tu che di Aglae e della sua felicità ti dai
pensiero, pensi tu che ella, così fiera, sarà più felice, il giorno
ch'ella vedrassi restituita la sua libertà a prezzo di un affronto al
suo amor proprio? e che il divorzio non chiesto da lei avrà dato il suo
nome in pasto alla maldicenza della città?...

MÈN. Sì... se non chiesto da lei... Ma e chi... (_si appressa a Fània
e continua, dopo una pausa, a bassa voce_) chi impedisce a lei di
chiederlo?... E a te di suggerirglielo?...

FÀN. (_esitante e sorpreso, quasi in nube indovinando il pensiero di
Mènecle_) Che?... e tu credi...

MÈN. Io credo che Giove non m'abbia permesso di salvar Epònimo dal
carcere di Siracusa, per far della mia casa un carcere a vita alla sua
figliuola. Oh, Fània, la vecchiaia è incresciosa a sè stessa, ma lo è
ai giovani doppiamente. Capisco la legge di quei di Ceo[165] che davano
ai vecchi la cicuta per fare ai giovani un po' di posto. Io, della
cicuta, per ora... faccio anche senza: ma se ai canuti la solitudine è
triste, meglio per Mènecle il vivere infelice da solo, senza il rimorso
che per sua colpa si viva infelici in due...[166].

  (Tanto Mènecle che Fània son commossi).

FÀN. (_stringendogli la mano_) O Mènecle! Se Aglae sapesse...

MÈN. Aglae non dee saper nulla. Sicchè le consiglierai di andar
dall'arconte?[167]. Parlerai ad Aglae?...


SCENA V.

MÈNECLE, FÀNIA _e_ AGLAE.

  (Aglae si è già affacciata alla soglia verso la fine della scena
  precedente ed udendo parlar di lei si è ritratta indietro. Si
  avanza alle ultime parole di Mènecle).


AGL. Di che?...

MÈN. e FÀN. Lei!...

FÀN. Buon dì, Aglae.

MÈN. (_imbarazzato, cercando darsi aria disinvolta_) Oh, la nostra
Aglae!... (_a Fània sottovoce_) (Zitto ora!)

AGL. _La nostra Aglae_, a quanto sembra, vi dava materia a discorrere.
Cercavate la pesta del lupo...[168] ed è presente.

MÈN. (_scherzoso, cercando sviare il discorso_) Eh, se tutti i lupi
fossero come te, Atene non li perseguiterebbe tanto...[169].

AGL. (_fra sè_) (Voltan discorso! Soverchiar Aglae! la vedremo!) Sei
gentile, Mènecle, stamattina...

MÈN. Eh, ti pare? Sicchè...

AGL. (_a Fània_) Sicchè di che cosa avevi a parlarmi?...

FÀN. (_imbarazzato, mentre Mènecle gli fa gesto di tacere. Aglae finge
di non accorgersene_) Oh, cose da nulla...

AGL. (_volgesi a Mènecle, con accento vibrato, insistente_) Di che
aveva egli a parlarmi?...

FÀN. Oh nulla!... Avevo espresso qui a Mènecle il desiderio che tu
venissi a teatro nelle prossime feste Lenée. Sai, concorreranno, per le
tragedie, Sofocle il giovine e il nipote di Eschilo, Astidamante...

AGL. (_ironica_) Ah...

MÈN. (_confermando_) Già...

FÀN. Tuo marito mi faceva delle obiezioni: e che forse per quel giorno
non avrebbe potuto...

MÈN. Appunto...

AGL. (_interrompendo, con accento vibrato_) Non è vero!

MÈN. (_per cavar l'altro d'imbarazzo_) Ma lascia andare! non vedi che
scherza!... Se gli avevo già detto di sì! Lo pregavo a chiederti se
volevi andare con lui in compagnia di Crìside...

AGL. (_con forza_) Non è vero! Ah, insomma volete finirla di infilzar
bugie?

MÈN. (_fra sè_) (Non c'è verso! Saltiamo il fosso!) Ebbene, poichè vuoi
saperlo a tutti i costi, tuo fratello, qui presente, mi rimproverava
che io ti trascuro un po' troppo...

AGL. Ah!... (_guardando alternativamente Fània e Mènecle a cui rivolge
la parola_) È qui tutto?... E... d'altro?

MÈN. Che tu meni, per cagion mia, vita triste... che io non sono un
marito adatto per te...

FÀN. Oh questo poi!...

AGL. (_a Fània_) Questo gli hai detto? E fai di queste scoperte? E
il dì che seguisti il mio cocchio di nozze conducendomi qui, non
hai ordinato di dar di volta ai cavalli?[170] M'avevi allora in
tua autorità e non ci hai pensato: oggi più non mi hai... e te ne
occupi?...

FÀN. (_sorpreso, fra sè_) (Così ora parla? Chi più la capisce?)

AGL. (_a Mènecle_) E tu... che gli hai risposto?

MÈN. Io... io... gli ho risposto che... veramente... come fratello, non
ha tutti i torti... che però... il torto mio...

AGL. (_energicamente interrompendo_) E chi, per le Dee, e con che
diritto, ha pensato a fartene? Mio fratello forse?... (_a Fània_) E chi
t'ha incaricato?

FÀN. (_impacciato_) Nessuno... ma il mio amor di fratello...

MÈN. (_passando vicino a Fània, rapido e sottovoce_) Bravo! bravo! dài
sotto!...

AGL. Amor di fratello?... Tardi lo senti...

FÀN. Presto o tardi, — è un fatto che non vi vedete quasi mai, peggio
che foste due coniugi spartani; che tu stai chiusa, sola, tutto il
giorno, lui quasi tutto il giorno fuor di casa...

AGL. E che? è forse mio marito un uomo infermo, un uomo invalido, un
uom decrepito...

MÈN. (_dà un balzo per sorpresa_) (Eh!?... che cosa dice?) (_vorrebbe,
tra il serio e il comico, objettare qualcosa ad Aglae, che non gliene
dà il tempo_) Ecco... veramente...

AGL. (_rompendogli la parola e proseguendo il parlar con Fània_) ...
sì... è forse un uom decrepito, che debba serrarsi in casa a far la
guardia alla moglie da mattina a sera, come quei mariti imbecilli
che rubano ad Argo il mestiere, e trovano così il modo più sicuro di
rendersi alle mogli odiosi e insopportabili?[171].

MÈN. (_a sè_) (Ah! volevo dire! ha gusto ch'io stia via!).

AGL. E credi tu, figlio di Epònimo, che la figlia di Epònimo sarebbe
contenta, mentre Atene ha tanto bisogno di lui, di vederselo tutto il
dì ai fianchi...

MÈN. (_fra sè ribadendo maliziosamente_) (Si tradisce!...)

AGL. ... occupato nel gineceo a filar lana o a contar storielle milésie
alle fantesche? Credi ch'ella andrebbe superba, mentre i tempi per la
città si fan scuri, del vederlo sotto i propri occhi sciupar negli ozî
femminili il vigore del braccio e della mente, quel che gli resta del
fiore dell'età?

MÈN. (_gesto comico di sorpresa_) (Eh!) (_ad Aglae_) Ecco...
veramente... puoi dire un fiore... stagionato... Proprio, precisamente,
un giovane di primo pelo non sono...

AGL. (_interrompendolo_) E per questo mi sei caro...

MÈN. (_la guarda trasecolato, poi scotendo il capo_) (Non capisco più!).

AGL. (_rincalzando_) Bella cosa, al confronto di costoro, i giovani
della giornata! Bella gioventù da innamorar donne libere![172].
Agatòne, Dìnia, Stefano, Dercillo! azzimati, unti, leccati,
dinoccolati, cascanti[173], non san far altro che studiar le pose
quando camminano e quando stan fermi, e andar in giro con cicale in
testa e specchietti indosso e boccettine di Tùrio, che puzzano di
profumerìa lontan due stadî; e prendono i bagni caldi e si coprono
di pelliccie di Sardi per ripararsi dai primi freddi, e passano
tutto il dì e la notte per le bische e nelle case delle danzatrici e
suonatrici di flauto; smorti per le lascivie e per le orgie, consunti,
fracidi a vent'anni; poi, a sentirli discorrere a teatro o per le vie,
impertinenti, presuntuosi, ignoranti come Libétrj, imbecilli più di
Margìte che aveva studiato tante cose e non ne sapeva nessuna...[174].

MÈN. (_fra sè_) (Qui ha ragion da vendere...)

AGL. (_proseguendo senza interruzione e con energia_) ... E sono i
giovani eroi che gloriosamente poi scapparono a Neméa ed a Coronéa! Ma
quando Atene fu nel bisogno, e volle salvi i suoi Dei e le sue donne,
ci vollero _questi_ (_batte sulla spalla di Mènecle_) per cacciare i
trenta tiranni e gli Spartani, e per liberare la città![175].

MÈN. (_fra il comico, il modesto e il commosso_) Grazie, grazie!
(_a sè_) (Come parla! proprio figlia di suo padre!... Ed io avere il
coraggio di sacrificarla!... Ohibò!).

AGL. (_si volge a Fània, parlandogli più calma_) Hai visto, o Fània, i
nuovi oboli di rame? Son nuovi di conio e biondi, lucidi che sembran
d'oro... pur guarda come han pessima la impronta! Osserva invece le
vecchie dramme di argento del Làurio: sono usate, ma non adulterate,
e serban la impronta stupenda e resistono al suono... La stessa
differenza, fa conto, è oggi, in Atene, fra le vostre zazzere bionde...
e queste barbe d'argento...[176].

MÈN. (_comico, guardando Fània con sussiego d'approvazione_) Già!

FÀN. (_attonito fra sè_) (O sta a vedere che se n'è adesso innamorata!).

AGL. O Mènecle, io ho visto sul tuo petto le tue superbe cicatrici:
esse valgono meglio delle bellezze di Antìnoo...

MÈN. (_sorpreso, e pur con comica modestia compiacendosi_) Eh? questo
poi...

AGL. (_proseguendo, a Mènecle_) Io ho letto il tuo ultimo discorso
all'assemblea: quanto cuore, quanto fuoco, quanto slancio giovanile!
Chi di quei giovani sarebbe stato capace di farlo?

MÈN. Oh, Elèo, per esempio...

AGL. (_nella foga del dire, resta al nome di Elèo improvvisamente
interdetta e lì per lì s'interrompe: poi, padroneggiandosi, ripiglia_)
Sì... forse Elèo... Intanto oggi tutta Atene, o Mènecle, è piena del
tuo nome, ed io ne vado superba, come se parte della tua gloria si
riflettesse sopra di me. Oh, grazie (_con effusione stringendogli la
mano che egli commosso si lascia prendere_) per questo conforto che mi
dai...

MÈN. (_sospirando, e come meditando il senso dell'ultime parole di
Aglae_) (Conforto! Ah sì, ne ha bisogno! povera fanciulla!...).

AGL. (_proseguendo affettuosa e tenendo nella sua la mano di Mènecle_)
Ti ricordi le parole che ti disse mio padre: «Tu sarai l'olmo che
proteggerà la giovane édera...»

MÈN. (_comicamente sospirando e guardando in aria_) Un olmo antico!...

AGL. (_ribattendo subito_) ... e perciò robusto.

MÈN. (_sottovoce a Fània, dandogli di soppiatto un forte pizzicotto_)
Ma parla un po' anche tu...

FÀN. (_strillando_) Ahi! ahi!...

AGL. (_che s'è accorta, sorridendo a Fània_) E se robusto non fosse, ti
farebbe strillare in quel modo?...

FÀN. (_irritato dal pizzicotto e prorompendo_) Sì, strillo, perchè
tu ti lamenti in cuor tuo e poi qui adesso, in sua presenza, per
generosità lo difendi... e al modo ond'ei ti tratta, non lo merita, non
lo merita, non lo merita!... E io sono una bestia a pigliarmela a petto
e a perdere il mio tempo per buscarmi in compenso delle ramanzine!...
Lamentati ancora! (_ad Aglae_) e aspetta ch'io me ne occupi un'altra
volta!...

AGL. Oh, bravo, per Cerere! farai bene!...

FÀN. (_ad Aglae stizzito_) Tientelo, godilo il tuo Mènecle!... e
amatevi sempre così, che gli Dei vi premieranno!... (_a Mènecle
passandogli vicino_) (Già che andate così bene intesi, sbrigatevela da
voi!...).

  (Esce concitato, liberandosi da Mènecle che vorrebbe trattenerlo).


SCENA VI.

MÈNECLE _e_ AGLAE.


MÈN. (_a sè_) (Bravo!... e lascia me nelle peste!... Pure da qui
bisogna uscirne. Animo Mènecle, sii onesto! (_guardando Aglae, e
parlando sempre fra sè_) Dopo tutto quel bene che pensa di me, _doppio_
obbligo di essere con lei galantuomo!).

AGL. (_a sè_) (Ora a noi! soverchiar Aglae!) (_a Mènecle che passeggia
borbottando_) Mènecle!

MÈN. Che c'è?

AGL. Io ho preso le tue parti...

MÈN. (_interrompendo, brusco_) Hai fatto male.

AGL. Sarà. — ... e non ho voluto dirti nulla di sgradevole in presenza
di mio fratello: ma tu _sai_ che egli ha ragione... (_accentando anche
più_) lo _sai_.

MÈN. (_a sè_) (Oh, ci mettiam bene!) Se lo dici, lo saprò...

AGL. (_battendo sulle parole_) Non _saprò_: lo _sai_. Tu fai peggio che
trascurarmi...

MÈN. Eh?...

AGL. Tu fai peggio che lasciarmi sola: e il tuo tempo non lo dai tutto
alla città.

MÈN. (O sta a sentire!) A chi?

AGL. Ieri fosti con Lisia, l'oratore, e con Neèra, la di lui amica, in
casa di Filostrato Colonèo...[177].

MÈN. (È matta!... O sta a vedere, che per distrarsi, la si provasse a
far la gelosa!... (_fa un gesto vivo, come balenatagli improvvisamente
un'idea_) Buono!...) (_ad Aglae con voce ferma_) E che male ci
sarebbe!... Può darsi! Si aveva a parlare io e Lisia di affari di
Stato...

AGL. Ma Filostrato è scapolo; e Neèra _non è_ uomo di Stato; e con
Neèra ci erano due altre di lei compagne...

MÈN. Ah!

AGL. ... venute da Corinto...

MÈN. (_casca dalle nuvole, ma cerca far il disinvolto_) Può darsi.

AGL. ... e in casa degli scapoli, e in certe compagnie, è difficile
trattar bene gli affari dello Stato; e alla sera ci fu banchetto; e
i banchetti dove ci son di quelle donne finiscon tardi... (_gesti di
Mènecle sorpreso_) ... e finiscon _male_...

MÈN. (_disinvolto, c. s._) Può darsi...

AGL. (_con forza_) Ah? Ma _può darsi_ che Aglae non ne sia contenta...

MÈN. (_trasecolato, di sorpresa in sorpresa_) (O spiriti! che diamine
salta a costei?!)

AGL. (_incalzando_) Può darsi che Aglae se n'abbia a male! (_con
accento drammatico_) Così impieghi, o Mènecle, i doni che gli Dei ti
hanno dato?

MÈN. Eh? (Peccato che me li han dati da un pezzo!)

AGL. (_proseguendo incalzante_) Ah, lo so che la gloria di un nome
ha sempre un fascino per le donne; lo so che le forestiere venute da
Corinto sono curiose di conoscere questo Mènecle di cui si parla per
Grecia; (_continui segni di stupor comico di Mènecle, Aglae prosegue
con simulata energia_) ma io so anche quale fu il giuramento delle
nostre nozze, e ti credevo, se non più fedele verso me che lo ebbi, più
religioso verso gli Dei che lo hanno ascoltato!

  (Va corrucciata a sedersi).

MÈN. (_a parte_) (Decisamente, è matta. Elleboro ci vuole.[178]
(_guardandola di sottecchi_) Eppure... come è bella mia moglie quando è
in collera!)

AGL. Tu non rispondi? Non rispondi?

MÈN. (_a sè_) (Tanto fa. Le discolpe le farem poi. È la via che se
n'esce).

AGL. Il tuo silenzio... è eloquente. Ah, non basta, o Mènecle, andar
illustre nella città, col nome scritto su la colonna![179]. Non bastano
i meriti in faccia alla patria, quando in faccia ai domestici lari,
oblii la santità delle sue leggi!...

MÈN. (Anche questo!) (_si volta risentito, come risoluto a difendersi_)
Oh questo poi... (_si reprime_) (Se mi difendo, guasto).

AGL. (_afferrando la sua interruzione_) Questo poi è grave — volevi
dire! E mentre io traggo sola le lunghe giornate nel ginecèo, pensando
a ciò che farà Mènecle per la Repubblica, — Mènecle divide il tempo fra
la Repubblica... e l'altre cure: e quando rientra ha sulla fronte le
rughe...

MÈN. (_a parte, comicamente_) (Lo credo).

AGL. (_completando la frase_) ... le rughe dei grandi pensieri...

MÈN. (_a parte, comicamente_) (Un'attenuante...)

AGL. ... per nascondere tra le lor pieghe i rimproveri della coscienza:
in casa degli altri, per le altre, i sorrisi, le carezze, i calici...

MÈN. (Cosa mi tocca sentire! Pazienza! siamo alla fine!)

AGL. ... le canzoni, le ghirlande convivali; per la povera Aglae non
sorrisi, non ghirlande, non carezze: ma la solitudine, l'abbandono,
la noia!... (_prorompendo_) Ah, no! per le due Dee! io non posso più
vivere così...

MÈN. (Meno male. Al divorzio ci siamo).

AGL. No!... (_proseguendo con più forza_) no... io non posso più
adattarmi a questa umiliazione...

MÈN. (Ci siamo! Va dall'arconte!...)

AGL. ... e io finirò con...

MÈN. (_sospeso alle labbra di lei, aspettando la risposta ansioso_) ...
con...?

AGL. ... finirò... con... l'ammalarmi!... (_Mènecle resta lì di botto,
sconcertato_) Oh, quanto sono infelice!...

  (Dà in pianto, abbandonandosi sopra una sedia).

MÈN. (_sorpreso, comicamente imbarazzato_) Questa conclusion non
m'aspettavo... Ohimè, che imbroglio!... Aglae!...

AGL. (_senza rispondere, continuando a singhiozzare_) Quanto sono
infelice!...

MÈN. (Adesso fa piangere anche me!...) (_seguitando a guardarla e
parlando fra sè, le si appressa_) No... senti Aglae...

AGL. (_seguendo a singhiozzare_) Lasciami... ho voglia di piangere...

MÈN. (_osservandola_) (Eppure... com'è bella mia moglie quando
piange!...) (_dà un sospiro lungo_) (Eh! avessi cinque olimpiadi di
meno!) (_passeggia, poi si ferma, giungendo le mani al cielo_) (O
Nettuno marino!... Quale strega di Frigia o di Tessaglia mai, tirando
il mio oroscopo, m'avrebbe detto: Mènecle, tu passerai per molte prove;
scamperai dai campi di battaglia e dalle tempeste; dalle spade dei
nemici, dalle calunnie dei sicofanti e dal morso degli oratori[180];
dai mostri del mare, dalle miniere e dalla schiavitù... e quando
avrai il crine inargentato e il corpo stanco... farai piangere una
donna... di gelosia!...) (_seguita a guardarla di sottecchi_) (Com'è
bella!... Dopotutto, già... lo ha detto lei: appetto ai giovani della
giornata...) (_si dà un'occhiata alla persona, una guardatina in uno
specchio, lisciandosi con compiacenza la barba_) (noi possiamo passare
per belli avanzi...) (_si appressa ad Aglae e le parla amorevole,
insinuante_) Eppure, Aglae, se tu leggessi qui dentro, vedresti...

AGL. No... no... non voglio veder nulla...

MÈN. (Ma fa sul serio!) (_guardandola affettuosissimo, le prende nelle
proprie una mano che essa non ritira_) Ma e dunque... sarebbe proprio
vero... che vorresti ancora un po' di bene al vecchio Mènecle? (_parla
esitando_) Oh se!... (_come via cacciasse un pensier lusinghiero_) no..
no..

AGL. (_ritirando la mano e levando vivamente il capo_) Se... cosa?
Prosegui... confessa...

MÈN. Ma che confessare!... Volevo dire che sono meno bugiardo, meno...
vizioso di quel che credi... (Stavolta dico la verità). Ma che vuoi,
la tua affezione, mi pare un sogno... di quei sogni cari e ingannevoli
della sera... Sai che essa sarebbe una troppo grande consolazione per
questo povero vecchio!... Che io non potrei augurarmi, in questo triste
tramonto, una più alta gioia sulla terra, del sapere, che quel giorno
che per me sarà l'ultimo... (_Mènecle qui parla lento, interrotto,
sinceramente commosso_) tu sarai là... al mio capezzale... a dirmi
l'ultimo addio: che dalle tue labbra, e non da prefiche bugiarde,
udrò la preghiera al conduttore dell'anime;[181] che le tue mani mi
comporranno nel domestico sepolcro e la mia povera ombra avrà qualcuno
sulla terra che si ricordi di lei!...[182]

AGL. (_commossa dalla sincerità dell'accento di Mènecle, si abbandona
del capo e della persona sul petto di lui. Mènecle la sorregge
amorosamente delle braccia_) Oh, Mènecle!

MÈN. (_pausa. Mènecle, sorreggendo Aglae, esclama tra 'l mesto e 'l
comico_) (Cose che capitano ai vecchi!... Qui ci vorrebbe Zeusi a
dipingere il quadro!...) E tu Aglae... a questo guerriero cadente...

AGL. (_risollevando il capo_) Aglae non dimenticherà mai ciò che questo
guerriero cadente ha fatto per la sua famiglia, pel padre suo...

MÈN. Ah! (_si distacca vivissimamente da Aglae, rabbuiandosi_) (L'avevo
detto che si sagrificava!... Ed io bestia... stavo per dimenticarlo...
Ah, per gli Dei, sarei indegno di aver fatto versare quelle lagrime! Il
dado è tratto!)

AGL. Che hai?...

MÈN. (_con accento di repentina risolutezza_) No, Aglae, la tua
gratitudine serbala ad altri. Tra me e tuo padre non ci fu che un
ricambio... e il debitore sono ancora io... Tu sei troppo buona e
virtuosa... e io... non ti merito... _Non ti merito._ Avevi ragione.
Sono indegno di te. (È fatta!).

AGL. Che? Dunque confessi...

MÈN. (_concitato_) Sì, sì... confesso... tutto quel che vuoi...

AGL. Ci sei stato...

MÈN. Ci sono stato... (Ora mi mangia...)

AGL. E ci ritornerai...

MÈN. Secondo i casi...

AGL. E tu credi di far subire a me la sorte di Dejanira... la sorte
della moglie di Alcibiade... o di quella povera moglie del tuo amico
Lisia, con le cui amiche discuti gli affari... Ma io non sono Dejanira;
io non sono la moglie di Lisia, che vede, tace e sopporta; io non sono
la sposa di Alcibiade che torna indietro dall'arconte insiem con lui...

MÈN. (L'ho detto! Stavolta ci viene!).

AGL. (_incalzando_) ... io non son nata a tollerare affronti... e io...
intendi... (_fa una pausa_) io...

MÈN. (È fatta!) (_vivissimamente, sospeso_) E tu...

AGL. E io... farò come fai tu.

  (Sbalzo di sorpresa di Mènecle. Aglae è corsa verso l'uscio che
  mette alle di lei stanze).

MÈN. Eh?... (_correndole dietro per richiamarla_) Aglae! Aglae!...

AGL. (_dall'uscio, ribattendo con forza sulle parole e sillabandole_)
Io farò come fai tu... e quello che fai tu!

  (Entra rapidamente nelle sue stanze e gli serra a chiave l'uscio in
  faccia).

MÈN. No... senti...

  (Aglae è già sparita. Mènecle resta lì trasecolato. Quadro).


SCENA VII.

MÈNECLE _solo_.


MÈN. Oh santissimi Numi! (_passeggia, poi si ferma tentennando il
capo_) Destini umani! (_torna a passeggiare, di tratto in tratto
fermandosi_) Vi han mariti che si attaccano alle mogli come l'ostriche
allo scoglio e se le vedono guizzar via di mano come anguille di
Copàide. Provatevi invece a liberarle... ed ecco in che maniera vi
rispondono!... _Farò come fai tu!... e quello che fai tu!_... Peuh! se
facesse proprio come me... non sarebbe gran male. (_riflettendo torna
a passeggiare_) Ma pare che colei l'abbia intesa diverso... Pensa di
me certe cose!.. Chi diamine gliele ha messe in testa!.. _Quello che
fai tu!_ Adagio! e se a me, fin che son suo marito, non convenisse
un bel niente che ella faccia... quel ch'ella crede faccia io?... Se
non garbasse a Mènecle di diventar la favola d'Atene? Eppure già, se
le resto insieme... Non si manda a ritroso nè l'acqua dei fiumi[183],
nè l'istinto di donna di vent'anni!... (_torna a passeggiare, poi si
ferma_) Però, quel dirmelo sulla faccia... Generalmente, le donne,
quando lo fanno, hanno la delicatezza di non dirlo... E tutte le smanie
son venute adesso... perchè sì, fino a ieri, non glien'era importato
mai... E tutta quella foga d'accusarmi!... non potrebbe esser maggiore
se fosse una giustificazione ch'ella cercasse alla coscienza!...
E allora... la filosofia di prima... la sfuriata d'oggi... (_di
improvviso riscotendosi_) Ma qui, per Minerva, c'è sotto qualcosa!


SCENA VIII.

MÈNECLE _ed_ ELÈO.


EL. (_entra affrettato_) Buon dì, Mènecle!... Arrivo tardi?

MÈN. (_lo saluta distratto_) Oh no... anzi...

EL. Ho fatto tutto. Sono stato da Pelopida, da Lisia e da Iseo... Iseo
e Lisia parleranno all'assemblea per appoggiarti, i fuorusciti di Tebe
confidano in te. Pur troppo la intimazione di Sparta, di espellere
i fuorusciti, incontra favore tra gli amici della pace... La lotta
nell'assemblea sarà viva...[184].

MÈN. (_distratto, seguita a borbottare fra sè_) (Farò come fai tu...).

EL. ... e per battere gli avversarî non ci vorrà meno dell'autorità
della tua parola. Per Giove! da Teseo in poi i diritti della ospitalità
furon sempre sacri ad Atene; e questo ingrandirsi minaccioso di Sparta
alle nostre porte, e la sventura stessa de' fuorusciti reclama che
Atene dia lor soccorso... n'è vero?

MÈN. (_distratto, soprapensiero_) E dunque bisogna darlo.

EL. Pure son tanti che ti parlano dello stato misero della flotta,
delle perdite recenti, dell'imprudenza del tirarci addosso una guerra,
se diamo ai profughi aiuto... ti pare?...

MÈN. (_distratto sempre e assorto ne' suoi pensieri_) Allora non
bisogna darlo.

EL. (_risentito e sorpreso_) Mènecle!

MÈN. (_riscotendosi all'apostrofe di Elèo_) Cioè... volevo dire...
perdona... non avevo sentito bene. (_borbotta fra i denti_) «Farò come
fai tu...» Dunque dicevi...

EL. Dicevo che il soccorrere i fuorusciti, che vennero a noi col
ramoscello de' supplici e si sedettero presso le nostre are[185], mi
pare un dover sacro...

MÈN. (_riscotendosi_) Sicuro, mio bravo Elèo!... (_gli stringe forte la
mano_) Per il trofeo di Maratona![186] sicuro ch'è dover sacrosanto...

EL. Grazie! La tua parola nell'assemblea deciderà. Oh sì, dopo il voto
dell'integro, del virtuoso Mènecle, vedrai che la maggioranza verrà
dietro... e tutta Atene farà quel che fai tu...

MÈN. Eh? (_con movimento vivissimo, fra comico e irritato_) (Non
bastava lei! anche quest'altro!... Anche tutta Atene vuol fare quel che
faccio io! È un contagio!) Ma dunque...

EL. Dunque l'ora scorre e gli amici tebani m'aspettano. Corro a portar
loro le parole tue.

MÈN. E non passi a salutare Aglae?...

EL. (_si fa in volto serio e scuro_) No... sono atteso... è tardi...

MÈN. È tanto di cattivo umore stamattina, che...

EL. Ragione di più per lasciarla tranquilla. Falle tu i miei saluti.
(_tra serio e mesto_) Passando per la tua bocca, le giungeran meno
discari...

MÈN. (Bravo! Se tu sapessi!...) Basta: come vuoi. Siamo intesi.
Salutami Pelopida.

EL. Addio (_esce_).


SCENA IX.

MÈNECLE _solo_.


MÈN. (_seguendo dell'occhio Elèo che allontanasi_) Bravo giovine!...
valoroso e leale! Contrasti bizzarri! Costui nell'età degli svaghi
pensa alle cose serie: e Mènecle nell'età... dei raffreddori, trascura
gli affari serî, per... per... (_non finisce la frase, tornando al
corso insistente dei suoi pensieri_) Ma colei m'ha messo una pulce qui
nell'orecchio... Per Ercole! ne va del mio onore!... Ah, se arrivo a
cogliere quel tale... oh, quello, parola di Mènecle, non mangia più
aglio nè fave nere...[187].


SCENA X.

MÈNECLE, MÌRTALA _e_ BLÈPO.


BL. Padrone. C'è qui Mìrtala, la moglie di Cròbilo Colonèo.

MÈN. Uh, quella seccatura! Anche oggi! Di me o di Aglae cerca?...

BLÈPO. Non so.

MÈN. Bravo asino!...

BL. (_dalla soglia, impassibile_) Padrone!...

MÈN. Eh?...

BL. Poco fa m'hai detto savio.

MÈN. Ho sbagliato. Falla entrare.

BL. (_nell'uscire per introdur Mìrtala, borbotta sentenziosamente fra
sè_) Essere l'uno... o essere l'altro!...

MÈN. Cosa vuole questa vecchia chiacchierona!

MÌRT. (_entra affannata, frettolosa_) Buon dì, Mènecle!...

MÈN. (_andandole incontro_) Giove ti salvi! (_Mìrt. è imbarazzata:
getta attorno occhiate inquiete, sembra aver qualcosa sull'animo_)
Della mia Aglae cercavi? Neh, (_a Blèpo ch'è rimasto sulla soglia_)
Blèpo, conducila. (_a Mìrtala_) Ti vedrà tanto volentieri. È là nelle
sue stanze...

MÌRT. Sola?

MÈN. Soletta.

MÌRT. E non l'hai ancora visto... stamattina...?

MÈN. Chi?...

MÌRT. Lui... mio marito...

MÈN. Da ieri non l'ho visto...

MÌRT. Credevo fosse qui...

MÈN. T'aveva detto che veniva?

MÌRT. No... ma...

  (Rimane colla parola sospesa: è visibilmente imbarazzata,
  agitatissima).

MÈN. Che c'è?

MÌRT. Oh Mènecle!

  (Rompe in uno scoppio di pianto e gli casca abbandonata nelle
  braccia).

MÈN. (_trasecolato_) (Anche questa! Preferivo l'altra!... Però adesso
il quadro è... più intonato).

BL. (_avanzandosi, serio, impassibile, a fianco di Mènecle che non
l'ha veduto, e che sostiene nelle braccia la vecchia piagnucolante_)
Padrone... consolala!

MÈN. (_collerico, voltandosi, in vederlo_) Tu qui ancora?...

BL. Vado, vado... (_avanti andarsene, gli ripete con accento comico di
preghiera_) Consolala! (_declamando_) «Soave è amor, ma troppo acerba
cosa!» lo dice Euripide nell'_Ippolito_[188].

MÈN. (_minaccioso, con la vecchia piangente sempre su le braccia_) Te
lo do io ora l'Euripide.

BL. (_tranquillo, grave_) Vado, vado.

MÌRT. (_singhiozzando_) Ah, Mènecle, quanto sono infelice!...

MÈN. (Anche lei! Sono il consolatore universale!...)

BL. (_dalla soglia, guardando i due, con far sentenzioso_) Ha ragione
Eschilo:

    Empie i letti di pianto amor di sposa
    E fa che dolor aspro il cor le stringa,
    Poichè il marito la moglie bramosa
    Ahi, disertando, la lasciò solinga[189].

(_Mènecle voltandosi, lo vede lì ancora, gli getta un'occhiata
minacciosa. Blèpo dall'uscio, sempre tranquillo e grave_) Vado! vado!

  (Esce, seguitando a declamare, con aria drammatica «Ahi,
  disertando, la lasciò solinga...»).


SCENA XI.

MÈNECLE _e_ MÌRTALA.


MÈN. Via, Mìrtala, calmati...

MÌRT. O Mènecle, io perderò la pazienza con colui...

MÈN. Ed egli dice che tu metti alla prova la sua...

MÌRT. (_levando il capo irritata_) Questo ha detto? Per Venere, la
pagherà!...

MÈN. No, no, lascia star Venere! (Se ti sentisse!) Avrà commesso
qualche leggerezza, ma poi... (Via, si difende anche il lupo.)[190].

MÌRT. Leggerezza, dici? Se in due giorni non ha passato due ore nel
gineceo?

MÈN. (_guardandola, fra sè_) (Veramente, basterebbero!) Via...

MÌRT. Ma dove credi sarà andato?...

MÈN. Mah!... al suo tribunale!...

MÌRT. Ohibò! ci sono stata!... oggi è chiuso...

MÈN. All'adunanza della _fratria_ per le iscrizioni delle
nascite...[191].

MÌRT. Ci sono stata!... Oggi adunanza non ce n'è....

MÈN. Alla banca di Pasione, là al Pireo...

MÌRT. Ne vengo ora...

MÈN. (_fra sè comicamente_) (Fa un giro di ispezione nella Grecia!)

MÌRT. Pasione oggi celebra la festa dei Lari, e non tien banco.

MÈN. E allora... _nessun può dir cosa ne fu di Edipo!_[192].

MÌRT. (_piagnucolosa_) Oh Mènecle! ho paura che Cròbilo mi tradisca...

MÈN. Ma se è più casto di Melanione... e non può veder l'altre donne!

MÌRT. Oh anche Timone odiava gli uomini, ma le donne di soppiatto le
cercava!...[193].

MÈN. (_di sottecchi squadrandola_) (Non tutte!)

MÌRT. Ma qui proprio non è venuto...?

MÈN. E dàlli!... Doveva venire?...

MÌRT. No... ma... perchè... vedi... io parlo poco...

MÈN. Sappiamo!...

MÌRT. Ma sai... le donne, quando si fissano... (_Mìrtala parla
esitante; dopo una pausa prende Mènecle a parte e gli parla con far
misterioso_) Mènecle, Venere mi guardi del pensar male di nessuno. Tu
hai, grazie a Giove, una moglie virtuosa. Ma sai, anche a Penelope,
quando Ulisse non c'era, i Proci le andavan dietro. Tu non sei Ulisse,
ma tua moglie la trascuri... e hai torto...[194].

MÈN. (_si è fatto d'improvviso serio e scuro, attentissimo_) Va pure
avanti...

MÌRT. E il pensarci, fin ch'è tempo, mi par meglio per te... per lei...
e per me...

MÈN. (_di scatto_) Cròbilo?...


SCENA XII.

_Detti e_ BLÈPO _sulla porta_.


BL. Cròbilo!

MÌRT. Ah!

MÈN. Furfante, mi fai l'eco?

BL. No, padrone.

MÈN. Lui qui?...

BL. (_imitando l'eco_) Qui.

MÌRT. (_smaniosa_) L'ho detto io! Oh il perfido! Non son Mìrtala se...

MÈN. (_serio_) Calmati. E lascia fare a me. È meglio tu vada.

BL. (_a parte, declamando sentenziosamente_) «Meglio è l'andar quando
il restar non giova!»

MÌRT. Oh Mènecle, ma tu...

MÈN. Fidati a me... Va, va presto...

MÌRT. Oh, mi raccomando... il mio Cròbilo...

MÈN. Sta sicura. Te lo renderò... Da questa parte... Addio.

  (Mìrtala esce dalla parte del gineceo, non dall'ingresso del
  peristilio).


SCENA XIII.

MÈNECLE, CRÒBILO.


MÈN. (_dopo accompagnata Mìrt. e messala fuori, risalendo la scena_).
Altro se te lo renderò, bella Elena, il tuo Paride... Lui!... Ma il
bel Paride stavolta discorrerà col re di Sparta... (_a Blèpo_) Fallo
entrare.

  (Blèpo esce ed entra Cròbilo dal peristilio).

CRÒB. (_entra assai espansivo_) Oh Mènecle! salute!...

MÈN. (_Mènecle lo riceve padroneggiandosi, con cortesia forzata,
velatamente ironica_) Buon dì, Cròbilo.

CRÒB. Passavo di qua, venendo dai Portici, e ricordatomi che posdomani
c'è assemblea, ho detto: Oh, entriamo dal nostro Mènecle, che sa tutto,
a saper che c'è di nuovo...

MÈN. (_lo scruta di soppiatto_) E a me, ora, il mio démone m'aveva
detto: Ecco Cròbilo che passa e che entra...

CRÒB. Già, l'amico sente sempre l'odor della pesta dell'amico...

MÈN. (_con intenzione ironica, scrutandolo_) E un amico come te...

CRÒB. Per tutti e dodici gli Dei! Voglio credere!...

MÈN. (_proseguendo, suggestivo, velatamente ironico_) ... val più d'un
tesoro. Grazie[195].

CRÒB. E non faccio per dire, sai, ma quando per via mi sento alle
spalle: To' quello che passa è Cròbilo Colonèo, l'amico di Mènecle...
dell'inclito Mènecle... mi pare di essere più alto un cubito. Cròbilo,
l'amico di quel Mènecle che operò tanti prodigi in campo, che fece
passar tante leggi nell'assemblea, che governò le isole... per Ercole,
sai che tutto ciò empie la bocca!... E dà una certa autorità... certi
vantaggi...

MÈN. (_con intenzione, ironica_) Ah già! molti!...

CRÒB. Vedi, iersera ho fin questionato per te. Tu sai che io ho molte
idee mie, ma infine, con le tue van d'accordo. È così bello aver sempre
coi grandi uomini qualche cosa in comune...

MÈN. Già, già. (Bello e... comodo).

CRÒB. Bene, si discorreva degli affari di Tebe e de' profughi.
Quell'asino di Eucare pretendeva che Atene faria bene a levarseli
da' piedi: e dalla sua eran parecchi. Io gli rispondo come va, e gli
espongo... così in breve... giusto le stesse riflessioni che tu mi
facevi l'altra sera... il pericolo di una guarnigione spartana qui a
due passi, nella Cadmea, l'urgenza di ristabilir in Grecia l'equilibrio
compromesso dalla pace di Antalcida, e far di Tebe un antemurale per
chiudere a Sparta gli sbocchi del settentrione... eccetera, eccetera...
insomma tutti quanti gli astanti si arresero alle riflessioni nostre...

MÈN. (_correggendo_) Alle mie...

CRÒB. Sì, le mie, le nostre!... Ma Eucare, quell'asino, duro: e io
«_Ti prego a credere che quando io e il mio amico Mènecle esponiamo un
parere, ci abbiamo prima studiato sopra_...» Ohibò! come soffiar in una
rete[196]. Allora mi scappa la pazienza: Senti, gli dico, ci vuole un
bel coraggio ad ostinarsi, quando io e il mio amico Mènecle dichiariamo
che è così e così: e per aver questo coraggio, bisogna prima aver
guadagnate due corone come noi...

MÈN. (_correggendolo_) Come me...

CRÒB. Sì... come te... come noi...

MÈN. (_ironico_) Ah!...

CRÒB. Aver fatto tante leggi come noi...

MÈN. (_correggendo ancora_) ... Come me...

CRÒB. (_senza più badargli_) ... presieduto giudizii come noi,
governate le isole come noi... (_Mènecle accompagna i noi, con gesti
del capo, di adesione ironica_) Ma se ti dicevo che quel poter parlare
dei grandi uomini come di noi stessi, aver con essi tutto in comune...

MÈN. Sicuro... sicuro... (Ora capisco...)

CRÒB. (_terminando la frase_) ... è una gran bella cosa!...

MÈN. Fino a un certo punto.

CRÒB. (_a mo' di conclusione del suo dire, abbraccia forte Mènecle_)
Qua un abbraccio.

MÈN. (_liberandosi_) Più adagio. Le costole non sono in comune. Del
resto, dici bene, dal momento che l'amicizia è il mettere in comune
tutte le cose...[197] (_parla velatamente ironico_) come dice il
proverbio, comune la nave, comune il pericolo...[198].

CRÒB. Precisamente.

MÈN. (_a parte_) (E perciò imbarca sulla nave anche le mogli).

CRÒB. Oh, e Aglae come sta? la nostra cara Aglae...

MÈN. (_a parte_) (L'ho detto!) La _mia_ cara Aglae sta bene... (Bisogna
insegnargli il singolare degli aggettivi possessivi!) Sicchè anche
tu sei del parere delle _Aringatrici_ di Aristofane! Sai, quella
scena dove Prassàgora inaugura il governo delle donne e fa il suo
discorso-programma: «Prima di tutto noi donne metteremo in comune
la terra, il danaro e ciò che ciascuno ha; tutti possiederanno pani,
pesci, focaccie, tonache, vino, corone e lenticchie...»

CRÒB. (_facendo vivi segni di adesione e proseguendo la citazione
a memoria_) «se alcuno vede una fanciulla, e gli va a genio, può
pigliarsela dalla Comune, senza spesa...

MÈN. (_proseguendo_) «le donne faran figli per chi ne vuole...»[199].

CRÒB. (_con ripetuti e vivi segni di adesione_) Benissimo!
Benissimo!... Oh per me, al sistema di Prassàgora ci sto subito...
(_maliziosamente a Mènecle_) Queste son massime da mettere nell'arche
insiem coi pomi!...[200]. E senti: se noi governassimo ancora le
isole...

MÈN. (_suggestivo_) Tu cederesti la tua Mìrtala a chi la vuole...

CRÒB. (_approvando sempre con calore_) Benissimo!

MÈN. (_c. s._) Io cedo a chi la vuole la mia Aglae...

CRÒB. Benissimo!... Per la compagnia che le fai...

MÈN. (_frenandosi, e proseguendo l'ironia suggestiva_) Per Mìrtala mi
presento io...

CRÒB. Benissimo! E io faccio come fai tu.

  (Gesto vivissimo di collera in Mènecle).

MÈN. (Anche lui!) (_piantandosi in faccia a Cròbilo, — e fattosi
d'improvviso scuro in volto e minaccioso_) Ma... e se io... non
dividessi le teorie di Prassàgora? E se a noi che abbiamo governato le
isole, non piacessero queste teorie di governo?

CRÒB. (_lo guarda tra attonito e spaventato_) Eh? (Che diamine gli è
saltato in mente?...)

MÈN. (_rifacendosi calmo d'un tratto_) Vieni qua.

  (Lo conduce a uno scrittoio, tira fuori alcune carte, e le scorre
  leggendole, con accento pacato e bonario, mentre Cròbilo lo guarda
  trasecolato, senza comprendere).

CRÒB. Che cosa sono?

MÈN. (_ritornato calmissimo_) Sono carte firmate da me. Alcuni ricordi
del _nostro_ governo dell'isole, quand'ero in Lesbo e vi applicavo
le leggi di Atene. Guarda qui. (_piglia una carta e poi ne spiega,
discorrendo bonariamente, a Cròb. il contenuto_) Sentenza nella causa
di Lisicle. Un bel giovanotto — come te — certo Lisicle, che abitava
in Metinna, avea tresca con la moglie di Stefano. Stefano il marito
lo seppe e un bel giorno, sul fatto te li colse, là presso la marina,
in un bel luogo verde, ombroso, sacro alle ninfe e agli amori: il
quadretto era poetico molto, ma a Stefano pare piacesse poco: perchè
ricorse a te... cioè a me... cioè a noi. E _noi_ abbiamo condannato
Lisicle in via di clemenza alla pena esemplare del rafano[201].
(_sbalzo di spavento di Cròbilo: Mènecle finge non accorgersene, e
prosegue tranquillissimo_) Stette a letto soltanto cinque mesi...

CRÒB. (_spaventato_) Ohimè!...

MÈN. Il medico Dionda, anima pia, lo curò: ed io ho curato il medico
con una multa di mille dramme[202]. (_Mènecle passa tranquillamente a
un'altra carta fingendo non accorgersi delle esclamazioni di spavento
di Cròbilo_) Altra come sopra. Sentenza per la morte di Eutemòne. Certo
vecchio, Nicarco, trascurava la moglie, e il leggiadro Eutemòne se ne
approfittava. La notte il marito dormiva al pian di sopra, la moglie
al pian terreno, col pretesto di far la pappa al bimbo: quando, una
notte, a cucinar la pappa del bimbo, il marito sorprese Eutemòne: e,
senza complimenti, te lo ammazzò. Fu processato per omicidio[203] — ed
ecco la sentenza di assoluzione, con parole di lode, da me firmata, a
incoraggiamento e sprone dei mariti futuri...

CRÒB. (_spaventato giungendo le mani_) O santo Giove, rettor delle
stelle!... e _tu_ hai fatto...

MÈN. (_correggendolo, ironico_)... non io... _noi, noi_.

CRÒB. Che maniera di governare!

MÈN. Questo abbiam fatto noi (_accenna sè e Cròbilo, beffardamente
appoggiando sul_ noi) quando governavamo le isole... (_battendogli
sulla spalla — e con accento minaccioso, vibratissimo_) Tieni il
ricordo in serbo... E metti anche questo nell'arca, insiem coi pomi!


  CALA LA TELA.


NOTE

[153] Vedi, sul gnomone, note all'_Alcibiade_, atto II.

[154] ‘Ἠκω γὰρ ἐς γῆν τήνδε καὶ κατέρχομαι. — Cfr. ARISTOF., _Rane_, v.
1128.

[155] Cfr. PLATONE, dial. _Parmenide, Eutidemo, Sofista_. — Già
abbiamo visto i sofisti in Atene fatti segno alla satira della commedia
antica, nelle _Nubi_ di ARISTOFANE, che ebbe il torto di confondere
tra i sofisti Socrate, il loro grande derisore. Era però una satira
e una celia che volgeva al serio, perchè in fondo era una reazione
dello spirito conservatore contro le nuove idee filosofiche, e mirava
alla sostanza di queste, attaccandole come novatrici, pericolose
e sovvertitrici della religione e de' costumi; onde lasciava tale
solco dietro di sè, che a distanza di anni potea tradursi nella
accusa di Melito. Al tempo della commedia di mezzo, specialmente
rappresentata dal comico Antifane, (e che comincia a fiorire giusto
intorno all'epoca dei personaggi della mia _Sposa_) sofisti e filosofi
hanno nella vita e nella società ateniese un posto e un'importanza
anche maggiori; e la satira contro di essi sul teatro continua — e i
sofisti nella commedia ne fan larghe spese — è però divenuta una celia
innocua che si prende spasso delle loro arie d'importanza, delle lor
sottigliezze e distinzioni cavillose, come di un tema qualunque di
scherzo: e pur non senza riflettere la segreta lenta influenza che le
nuove dottrine filosofiche dagli orti di Academo vanno irradiando sui
costumi. Di queste satire sui sofisti hai esempio in un frammento del
_Pitagorico_ di ARISTOFANE (fr. 3. MEIN., _Frag. com. græc._, III,
362) e in un altro frammento di ANTIFANE, in un dialogo tra padre e
figlio — quegli non dotto e questi discorrente nel gergo sofistico
— dialogo che ricorda le scene comiche delle _Nubi_ tra Strepsìade e
Filippide tornato dalla scuola di Socrate; e col quale hanno riscontro
le goffaggini sofistiche di Blèpo in questa scena (cfr. ANTIFANE,
Κλεοφάνης; MEIN., _Fr. com. gr._, III, 64). Più acre giudizio de'
sofisti al tempo della mia commedia, e cioè non dei veri filosofi ma
dei rètori spacciatori di vuote e presuntuose ciancie filosofiche, hai
nell'arringa contro i medesimi, del contemporaneo oratore Isocrate. —
Vedi poi, circa i sofisti in Atene, anche le mie note all'_Alcibiade_,
att. II, n. 35, 36, 37.

[156] EURIP., _Alceste_, v. 528.

[157] «Che pazzie le son queste? E cosa mi conti, che l'uom savio
deva bazzicar nel Liceo co' sofisti, gente magra, che digiuna, vive di
fichi?» ANTIFANE, _Cleofane_.

[158] Vedi le orazioni di ISOCRATE, _Contro i sofisti_ e l'_Elogio di
Elena_.

[159] SOFOCLE, _Eraclidi_. — LUCIANO, _Dial. dei morti_, 5.

[160] Qui e più sopra si accennano alcuni simboli e riti delle
cerimonie nuziali fra' Greci, e in particolare nell'Attica. Tali le
corone di lauro e d'edera conteste, appese alla porta della casa
nuziale, grazioso emblema dell'union coniugale, e della debolezza
femminile chiedente protezione alle virili virtù del marito,
simboleggiate nella fronda sacra al genio e al valore. Tali, nel
sagrificio a Giunone (‘Ἠρητέλεια) e agli altri Dei nuziali (sagrificio
che precedeva le nozze) il fausto apparir di due tortore o due
cornacchie all'altare; promettenti quest'ultime, come simbolo di
longevità e fedeltà, il prolungarsi dell'amore tra gli sposi fino
agli anni tardissimi. Tali ancora i cestelli di fichi e d'altre frutta
che venivano imposti un momento sul capo degli sposi, al toccar della
soglia maritale, in augurio di letizia e di prosperità: e altro augurio
di più intime gioie, le gioie della fecondità, era la focaccia di
sesamo spartita ai convitati, nella cena nuziale che in casa dello
sposo coronava fra canti e danze e suoni e fiaccole la festa.

[161] Παίδων σπόρῳ τῶν γνησίων δίδωμὶ σοι τὴν ἐμαυτοῦ θυγατέρα —
Cfr. il passo di DEMOST., _C. Neera_, 1386, citato nella nota 48 al
_Prologo_: e ALCIFRONE, nelle _Lettere_: «Mio padre e mia madre teco,
ereditiera qual sono, in matrimonio mi strinsero, _per la seminagione
di figli legittimi_. ἐπὶ παίδων ἀρότῳ γνησίων — lib. I, 6.

[162] Vedi nel _Prologo_ della commedia, pag. 26, il testo della legge,
ch'è menzionata da DEMOSTENE, nell'orazione seconda _Contro Stefano_,
1134. Il diritto ch'essa dava ai fratelli — venendo a mancare il padre
— di disporre della sorella e darla in moglie a chi volessero, non era
esaurito neppur da un primo matrimonio. ISEO, _Eredità di Mènecle_, §
5, 9 — cfr. DEM., _C. Onet._, I, 865-6. _C. Eubulide_, pag. 1131.

[163] «_Il vecchio torna fanciullo un'altra volta_». PLATONE, _Leggi_,
I, 646, a.

[164] Cfr. il passo già citato dell'orazione di ISEO, _Ered. di
Mènecle_, § 7.

[165] «Ammiro, o Fània, la legge di quei di Ceo, la quale vuole, che
quando non si può più viver bene, non si continui a viver male».
MENANDRO, _Framm. inc._ Dove il comico ateniese allude alla legge
che, al dir di STRABONE, nell'isola di Ceo, prescriveva di dar a
bere la cicuta ai vecchi che avevano oltrepassato i sessanta, perchè
lasciassero agli altri il posto di cui essi non potevano più godere.
STRABONE, X, 486.

[166] ἱκανὸς γὰρ, ἔφη, αὐτὸς ἀτυχῶν εἶ ναι. ISEO, _Ered. di Mènecle_, §
7.

[167] Poteva la moglie, promovendo l'_azione per maltrattamento_
(κακώσεως δίκη) innanzi l'arconte, chiedere essa il divorzio dal
marito; come vedi nella legge addotta da Eudemonippo nel _Prologo_,
pag. 27. E s'intende che in questo caso (il solo in cui pel divorzio
occorreva l'intervento dell'arconte che lo pronunziasse), esso lasciava
immune la riputazione e l'onor della donna. Si comprendevano poi sotto
quel titolo di _maltrattamento_ (κακώσεως) in genere le accuse di
infedeltà o trascuranza. Come vedi nello scoliaste di ARISTOFANE, al v.
399 dei _Cavalieri_: «Cratino si suppone maritato alla Commedia: questa
vuol divorziare di lui e promovergli un'_azione per maltrattamento_
(κ. δ.). Gli amici di Cratino la supplicano di non agir alla leggiera e
le domandano la cagione della sua collera; essa si lamenta amaramente
di Cratino _perchè la trascurava_ e si dava all'ubbriachezza». —
E PLUTARCO nella _Vita d'Alcibiade_: «Ipparete essendo virtuosa e
amante del marito, contristata in vedere ch'egli usava con cittadine e
forestiere, partitasi da casa, andò dal fratello: di che non curandosi
Alcibiade, anzi seguendo il suo costume, bisognò si deponesse la
scrittura del divorzio presso l'arconte, non da altri ma da lei stessa.
Presentatasi pertanto ella stessa, secondo la legge, sopravvenne
Alcibiade, e presala la menò a casa, senza che alcuno osasse di
opporsi». _Alc._, 8. Cfr. ALCIFRONE, _Lett._, I, 6.

[168] «_Vicina è la moglie_. Quando l'orsa è presente, non s'hanno a
cercar le pedate». ARISTEN., _Lett._, II, 12.

[169] Per distruggere i lupi che infestavano l'Attica, Solone stabilì
un premio: «a chi portasse un lupo, diede cinque dramme, a chi
una lupa, una dramma». PLUT., _Solone_. — Cfr. Scol. in ARISTOF.,
_Uccelli_.

[170] Dopo il primo banchetto nuziale in casa della sposa, questa
veniva la sera condotta alla casa maritale in corteggio di gala tra
canti d'imeneo e suon di flauti, seduta in cocchio tra un parente suo
e un _paraninfo_ o padrino dello sposo, ch'era di solito qualche intimo
amico o parente dello stesso. Vedi la caratteristica descrizione di un
corteggio nuziale, in un frammento di arringa di Iperide, in difesa
di Licofrone, framm. 155, § 2-4. La sorella di Diossippo, il celebre
atleta, viene data dal fratello in moglie a Carippo; e lungo il corteo,
Licofrone, segreto amante, a quel che pare, della sposa, trova modo
di appressarlesi e raccomandarle _di non aver rapporti col marito e
di non lasciarsi da lui toccare_. Ma di ciò accusato, Licofrone nega,
per bocca di Iperide, il fatto, cercando dimostrarne l'impossibilità:
«E qual uomo saravvi in questa città così scempio da prestar fede a un
simile racconto? Giacchè era necessario, o giudici, che prima venissero
il mulattiere e il conduttor del corteggio innanzi al carro conducente
la sposa: poi dietro il carro seguissero i fanciulli che la scortavano
e Diossippo (fratello di lei): poichè anche costui (il fratello) la
accompagnava, per averla egli collocata in matrimonio... E io sarei
giunto a tale grado di pazzia, che in mezzo a tanti uomini che la
scortavano, e fra questi Diossippo e il suo compagno negli esercizi
di lotta Eufreo, uomini fortissimi, avrei osato far di tali discorsi
a donna di lignaggio, e farmi udire da tutti, senza tema di perir lì
subito strangolato?»

[171] «Il marito che tien sua moglie sotto catenaccio si crede esser
prudente ed è matto: perchè se una di noi ha posto il suo cuore fuor
della casa coniugale, essa s'invola più ratta di freccia e di uccello:
e ingannerebbe i cento occhi di Argo». MENANDRO, _Framm. inc._

[172] L'appellativo di _libera_, ἐλευθέρα, corrispondente in questo
caso al latino _ingenua_, designava in genere, quasi titolo nobiliare,
la cittadina ateniese avente stato di famiglia, la donna onesta di
libera nascita, e come tale circondata di rispetto, e sola ammessa
alle sacre Tesmoforìe; per opposto alle cortigiane (ἑταίραι) e alle
_forestiere_ (ξέναι) che gli Ateniesi, scapoli e maritati, liberamente
e pubblicamente corteggiavano, ma alle quali era proibito, sotto
severissime pene, con cittadini ateniesi il matrimonio; ed erano
interdette le feste delle _Due Dee_. — Vedi, p. e., nel passo sopra
citato di Iperide: «Che folle temerità sarebbe stata la mia di
non vergognarmi di rivolgere di tali discorsi a donna libera?» οὐκ
ῂσχυνὀμῃν τοιούτους λόγους λέγων περὶ γυναικος ἐλεμθέρας; _Framm._,
155, 4. Cfr. per l'antitesi quel passo di Menandro: «È difficile,
o Panfila, a donna di famiglia (ἐλεμθέρᾳ γυναικὶ) lottar con una
meretrice (πόρνῃ)». MEN., _Framm. inc._, 36. — All'ἐλεμθέρα, passata
a nozze, corrisponde anche l'omerico e il tirtaico κουριδίη ἄλοχος
indicante la moglie legittima, nata libera da liberi genitori, per
contrapposto alle nate di condizione servile (παλλακαὶ). — Cfr. anche
le note all'_Alcibiade_.

[173] In questo ritratto della effeminata gioventù ateniese,
troppo degenere dagli avi nei tempi che non per niente volgevano
rapidamente alla decadenza della libertà e della Repubblica, piacque
a parecchi ravvisare allusioni contemporanee. Naturalmente io non
sono padrone delle interpretazioni altrui: e se v'ha chi crede si
possano applicar le mie parole, si serva. Vuol dire che Clistene,
lo svenevole bellimbusto satireggiato da ARISTOFANE, in tutti i
tempi ha fatto scuola: e se v'hanno giovani in Italia a cui paia di
ravvisare nel ritratto sè medesimi, me ne rincresce e auguro alla
mia patria gioventù migliore. Ma che le parole di Aglae siano a ogni
modo un ritratto esattissimo di certa gioventù d'Atene de' tempi
suoi, su questo non cade dubbio; e rimando chi voglia accertarsene ad
ARISTOFANE, specialmente alle _Nubi_, v. 961 eseguenti; a ISOCRATE,
nell'_Areopagitica_, e a TEOFRASTO, _Caratteri_. — Cfr. DIONE CRISOST.,
_Regno_, pag. 167.

[174] πολλ’ ἠπίστατο ἔργα, κακῶς δ’ἠπίστατυ πάντα (PLATONE, I,
_Alcib._) _sapeva molte cose, ma le sapeva tutte male_ — così l'omerico
proverbio girava per Grecia intorno a _Margìte_, protagonista di un
poema antichissimo (forse il più antico esempio di poesia comica),
non pervenuto a noi, e che ARISTOTILE attribuisce ad OMERO. Era il
tipo comico di un solennissimo sciocco che presume di saperla lunga; e
commette, credendo dar prova di finissimi accorgimenti, stolidaggini
d'ogni genere; era forse o senza forse il lontanissimo arcavolo
di Bertoldino. — E il nome usavasi, tra' Greci, per antonomasia, a
sinonimo d'imbecillità. «Una tal cosa (una così enorme stoltezza) non
l'avrebbero commessa neppure Ercole impazzito, e neppure Margite il
più stolido di tutti gli uomini». IPERIDE, _Framm._, 155, 5. «Credi
di parlar con un Margite, per darmela a bere così grossa?» LUCIANO,
_Ermotimo_.

[175] Cfr. ARISTOF., _Nubi_, v. 986.

[176] Cfr. ARISTOF., _Rane_, v. 718-726.

[177] Vedi la orazione contro Neera, che, sia essa o non sia di
DEMOSTENE, rimarrà sempre uno dei quadri più interessanti e istruttivi
della vita privata ateniese nel secolo quarto av. l'E. V. «Prima
voglio narrarvi come Neera fosse in balìa di Nicarete (_una padrona
di postribolo_) e come facesse traffico del corpo suo per chi volesse
averne diletto. Or convien sapere che Lisia il sofista era amante di
Metanira (_altra delle ragazze alunne dello stabilimento d'_educazione
_di Nicarete_) e volle, oltre i dispendî che faceva per lei, iniziarla
nei misteri: pensando che tutte le altre spese andavano a guadagno
della padrona, ma i danari della festa avrebbero profittato alla
ragazza. A questo effetto pregò Nicarete di condurre seco alla festa
dei misteri Metanira, per esservi iniziata. E queste vennero: ma
Lisia non le introdusse nella propria casa, per vergogna della moglie
che aveva (_meno male! che marito prudente!_), e ch'era figliuola di
Brachillo e nipote sua, e della madre già vecchia che abitava con lui.
Condusse invece Metanira e Nicarete nella casa di Filostrato Colonete,
giovine scapolo e amico suo. E venne in compagnia di esse questa Neera
che già aveva messo la sua persona a guadagno». (DEMOST., _C. Neera_,
1351-1352). O non sembra una pagina di costumi odierni, dello Zola?

[178] Πῖθ’ ἑλλέβορον, _bevi elleboro_, ARISTOF., _Vespe_, v. 1489.
Molto usavano gli antichi l'elleboro per medicina de' matti e de'
farneticanti: indi il modo proverbiale tra loro: «Tu sei matto, o
Tantalo, e par che davvero hai bisogno di bere una buona dose di
elleboro». LUCIANO, _Dial. dei morti_, 17. Cfr. ibid., 13. «Perchè
con l'elleboro non ti cavi la pazzia?» DEMOST., _Corona_. «Di elleboro
hai d'uopo, e non di quel vulgare, ma proprio di quello della focense
Anticira, tanto sei fuor di te stessa». ALCIFR., _Lett._, III, 2.
Anticira nella Focide era nota per la gran copia di elleboro. _Tribus
Antyciris caput insanabile_, ORAT., _ad Pison._

[179] Scriveansi su le colonne i nomi dei cittadini illustratisi
per alte gesta o eccezionali benemerenze, in pace o in guerra; come
si legge essersi fatto per Conone «al quale solo fu scolpita nella
colonna questa iscrizione: _Dopo che Conone ebbe liberato i collegati
dagli Ateniesi._» DEMOST., _Contro Leptine_. Ma nella stessa orazione
è accennata una iscrizione ricordante i beneficî resi alla città da
Leucone, governator del Bosforo, per aver soccorsa Atene di granaglie
nella carestia, e favoriti i mercanti ateniesi: «e affinchè durasse la
memoria in esempio scolpiste le iscrizioni su le colonne nel Pireo e
nel Tempio». E ancora iscrivevansi sulla colonna i nomi dei cittadini
che per chiari servigi resi alla città con l'armi o col consiglio
ottenevano, fra altre ricompense, anche la esenzione dai pubblici
incarichi (liturgìe) — come da un decreto di Alcibiade nella stessa
orazione ricordato. (Delle ricompense ai benemeriti, semplicissime e
rare nei migliori tempi della repubblica, moltiplicatesi e divenute
costose col decadere delle antiche virtù, ho parlato già altrove, nella
monografia _Alcibiade e il secolo di Pericle_).

[180] «Giusto mi pare l'antico proverbio: _Se vedi un sasso guarda
ben sotto che forse non vi sia un oratore che ti morda_». ARISTOF.,
_Tesmof._, v. 529. Il proverbio veramente non diceva _un oratore_, ma
_uno scorpione_: la sostituzione satirica di ARISTOFANE caratterizza
la manìa delle pubbliche e private accuse, che invadeva lo Pnice e i
tribunali.

[181] πομπαῖος, _guidatore dell'anime dei morti_ (EURIP., _Ajace_, v.
832); altro dei molti appellativi di Mercurio, detto, come tale, anche
_sotterraneo_, κθονιος, AR., _Rane_, 1126, 1145.

[182] ἐσκόπει ο Μενεκλῆς ὃπως... ἔσοιτο αὐτῷ ὃστις ξῶντά τε
γηροτροφήσοι καὶ τελευτήσαντα δάψοι αὐτὸν καὶ εἰς τὸν ἔπειτα χρόνον τὰ
νομιξόμενα αὐτῷ ποιήσοι... — ISEO, _Ered. di Mènecle_, § 10.

[183] «Io m'aspetto che i fiumi vadano all'insù, mentre tu alla tua
età e con una caterva di figli ti se'invaghito di una suonatrice...»
ALCIFR., _Lett._, III, 33. «Tornano all'insù de' sacri fiumi le
sorgenti». EURIP., _Medea_, 410.

[184] La ospitalità data da Atene a Pelopida e agli altri profughi
tebani ivi postisi in salvo allorchè Tebe venne in mano ai Lacedemoni
(v. atto I, nota 15), doveva naturalmente riuscire — anche per la
vicinanza di Atene a Tebe — più che sospetta e molesta agli oligarchi
tebani ed a Sparta. «Inteso avendo Leontide (un degli oligarchi) che
gli esiliati se ne stavano in Atene, cari alla moltitudine e onorati da
tutti gli uomini onesti e dabbene, tese loro insidie nascostamente... I
Lacedemoni scrissero pur lettere agli Ateniesi, ingiungendo ad essi di
non accogliere nè incitar più oltre quegli esuli, ma scacciarli dalla
città, come dichiarati per nemici comuni dagli alleati. Gli Ateniesi, e
per indole umana e per antichi obblighi di gratitudine, punto a' Tebani
ingiuriosi non furono. Peraltro, Pelopida, incitava i profughi e dicea
loro come bella nè pia cosa non era che trascurassero la patria in
servitù, e paghi solo dell'esser salvi, pendessero dalle determinazioni
degli Ateniesi (di scacciarli sì o no), sempre alla mercè di que'
parlatori facondi che atti erano a persuadere il popolo...» PLUTARCO,
in _Pelopida_.

[185] Cfr. TUCIDIDE, I, 26; ESCHILO, _Supplici_; EURIPIDE, _Supplici,
Eraclidi_, ecc.

[186] Cfr. ARISTOF., _Lisistrata_, v. 285; DEMOST., _Corona_, 297.

[187] Νῦν προς ἔμ’ ἴτω τις, ἵνα μή ποτε φάγη σκόροδα, μηδὲ κυάμους
μέλανας ARISTOF., _Lisistr._, 690.

[188] «_Fedra_. Che cos'è questa cosa che dicono degli uomini, _amare?_
— _Nutrice_. La più soave, o figlia, e la più acerba cosa insieme».
EURIP., _Ippol._, v. 347-8.

[189] ESCHILO, _Persiani_, v. 133-139, v. la versione del Bellotti,
qui, in bocca di Cròbilo, raccorciata.

[190] «_È giusto difendere anche la causa del lupo_», proverbio.
PLATONE, _Fedro_.

[191] Tutti gli anni, nelle feste Apaturie, uno o più giorni eran
consacrati alla iscrizione delle nascite avvenute nel corso dell'anno.
I figli nati di giuste nozze (da padre e madre cittadini) venivano
introdotti nella _fratria_ o curia del padre, e previo rito sacro, e
dato dal padre giuramento della legittimità della nascita, venivano
dal capo della fratria iscritti nel registro della stessa; la quale
iscrizione era il documento della legittimità ed equivaleva alle nostre
dichiarazioni di nascita all'ufficio di stato civile. (SCHÖMANN, _Ant.
Jur. Pub._, 193). — Cfr. DEMOST., _C. Eubulide_, 1313, 1315. ISEO,
per _Eufileto_, § 3. Questa iscrizione usavasi anche a legittimare gli
adottati. (DEMOST., _C. Macartato_): e non è da confondere con l'altra
iscrizione, sui registri lessiarchici, dei giovani ateniesi pervenuti
all'età di 18 anni: che conferiva l'esercizio dei diritti civili e di
una parte dei politici.

[192] SOFOCLE, _Edipo a Colono_, v. 1655-6.

[193] Nella _Lisistrata_ di ARISTOFANE un coro di vecchi, per fare
istizzire le donne, racconta: «C'era una volta un giovine di nome
Melanione, il quale, fuggendo le nozze, andò nel deserto e sui monti:
ivi dava la caccia alle lepri, tendeva le reti e aveva un cane: e per
odio contro le donne non fece più ritorno alla sua casa. E noi non
siamo men casti di Melanione». LIS., 785 seg. E al coro dei vecchi,
nella stessa scena, il coro delle donne, di ripicco, risponde: «C'era
una volta un certo Timone, uomo implacabile, avvolto la faccia in
ispide spine, progenie delle Furie. Questo Timone se ne fuggì per odio,
imprecando molte cose alli uomini malvagi. Così egli odiava voi uomini
sempre malvagi... _ma delle donne era amantissimo_». _Lis._, v. 808
seg.

[194] Superfluo qui osservare, intanto che me ne ricordo, una volta per
tutte, con l'autore dell'_Anacarsi_ (v. 28) che la vita ritirata delle
donne ateniesi nel gineceo non deve poi intendersi per quella completa
clausura che hanno creduto taluni: e non impediva loro di ricevere in
casa i parenti e quegli amici del marito ed estranei che dal marito
ne aveano il consenso. — Nella _Lisistrata_ di ARISTOFANE c'è anche di
meglio: e il _provveditore_ si lamenta che sian gli stessi mariti che
procacciano alle mogli certe distrazioni: «Noi uomini abbiamo aiutato
le donne a diventar malvagie. Noi andiamo alle botteghe degli artieri
e diciamo: orefice, della collana che mi avevi fabbricata, ballando
ier sera la mia donna, cadde la ghianda del fermaglio. Io devo navigar
per Salamina. _Tu se hai tempo fa in ogni modo di recarti da lei verso
sera_, e riponle la ghianda al luogo suo. Un altro ad un calzolaio
giovine... così parla: o calzolaio, la correggia preme alla mia
donna il dito mignolo del piede che è tenero assai. _Tu va a lei sul
mezzogiorno_, e rilassala alquanto, sicchè si faccia più larga. E così,
da queste cose hanno origine quell'altre somiglianti...» _Lisistr._, v.
404-420.

[195] «Meglio un amico sulla terra e innanzi ai nostri occhi che un
tesoro sotterra e lungi da noi». MENANDRO, _Citarista_, fr. 3. «Nulla
è più prezioso di un amico sicuro: nè ricchezza, nè regno». EURIP.,
_Oreste_, v. 1155.

[196] «Quando tu mi parli, tagli la fiamma, soffii nella rete, ficchi
un chiodo nella spugna». ARISTEN., _Lett._, II, 20.

[197] κοινὰ γὰρ τὰ τῶν φιλων Così Pilade a Oreste, in EURIP., _Oreste_,
v. 735 — verso passato in uso proverbiale. Cfr. ALCIFR., _Lett._, I, 7.
ENEA SOFISTA, _Lett._, VI. PROCOP. SOF., CXIX.

[198] ARISTEN., _Lett._, I, 17.

[199] ARISTOF., _Ecclesiazuse_, v. 597 seg., 605 seg. Cfr. il _Pluto_.

[200] Nei cassettoni e negli armadi delle vesti e biancherie usavano
metter pomi, per dar a quelle il buon odore. Indi il coro delle _Vespe_
in ARISTOFANE: «Di que' poeti che studieranno dire e trovar cose nuove,
tenete in serbo le sentenze e riponetele nelle arche insiem coi pomi
(ἐσβαλλετε τ’ ἐς τὰς κιβωτοὺς μετὰ τῶν μήλων). Se farete ciò per l'anno
intero, le vostre vesti avranno odore di senno». _Vespe_, 1055-59.

[201] «_E l'adultero perirà con un bel rafano nel di dietro_.» ALCIFR.,
_Lett._, III, 62.

Varie e severe _ab antico_ in Atene le pene che colpian l'adulterio
(μοιχεία) consumato e tentato, adultero e adultera in una. Mi limito
a qui raccogliere, coordinandole, le disposizioni principali del
diritto penale ateniese su la materia — i limiti di queste note non
assentendomi più lungo discorso.

Tralascio parlar delle pene circa i mariti adulteri. Dacchè le leggi
permettevano ai mariti il commercio con le meretrici e il tener
concubine per averne prole, anco legittimabile (DEM., _C. Neera, C.
Aristocr._): e la domanda di divorzio, fatta dalla moglie in persona
davanti all'arconte promovendo azione per maltrattamenti (κακώσεως
δίκη), era la sola risorsa e sanzione penale che alle mogli restava
contro il marito infedele.

Passo alle donne adultere e ai loro drudi.

                            UOMINI ADULTERI.

§ 1. Solone con legge «permise uccidere l'adultero a chi lo cogliesse
sul fatto» PLUT., _Sol._

«Fu colto (Agorato) in flagrante adulterio (ἐλήφθη μοιχός) pel qual
delitto la legge scrive la morte in pena». LISIA, _C. Agor._, 66.

Eufileto all'adultero Eratostene da lui sorpreso nella stanza
conjugale: «Non io sto per ucciderti, ma la legge della città che tu
per lascivia dispregiasti». LISIA, _Uccis. Eratost._, 26.

§ 2. Adulterio, e come tale punito, non era quello solo commesso colla
moglie. «Se alcuno ucciderà un altro cogliendolo presso la moglie, o
_la sorella_, o _la concubina mantenuta per averne figliuoli_, non sarà
reo d'omicidio». (DEM., _C. Aristocr._, 637).

«All'Areopago è prescritto non condannar per uccisione chi colse
l'adultero presso la moglie sua. E questo il legislatore stimò giusto
_tanto per le mogli legittime quanto per le concubine_ (παλλακαῖς):
certo, se avesse avuto pene più gravi per la violazione delle mogli,
le avrebbe poste: maggiori dell'uccidere non avendone, irrogò la stessa
per adulterio con moglie o concubina del pari». LISIA, _Ucc. Eratost._,
30, 31.

§ 3. Adulterio, e come tale passibile di morte, intendevasi quello
preceduto da seduzione. Stuprare una moglie, violentandola, era reato
minore e punito di sola multa. «La legge comanda che se uno avrà
stuprato a forza uom libero o fanciullo paghi multa doppia che se
stuprasse un servo: se poi avrà stuprato a forza una donna maritata,
sopra le quali è permesso uccidere l'adultero colto in fatto, incorra
la multa medesima. Tanto, o giudici, quei che aggrediscono colla forza,
il legislatore stimò degni di minor pena di quei che ricorrono alle
blandizie persuasive: poichè quelli dannò nel capo, questi con multa
sola». LISIA, _Uccis. Eratost._, 32.

§ 4. Se non ucciso sul fatto, poteva l'adultero essere punito con altre
pene e tradotto in giudizio. Esigevasi però sempre per le stesse e per
la traduzione in giudizio _la flagranza_. «έλήφθη μοιχὸς», LISIA, _C.
Agor._, 26. «ἐφ ῇ ἂν μοιχὸς ἄλω». DEMOST., _C. Neera_, 1374. — «μοιχὸς
ἑάλω... ἄνθρα ἐν ἄνθροις (_membra in membris_) ἒχων» LUC., _Eunuc._ —
«_Et hoc est quod Solon et Draco dicunt:_ ἐν ἒργῳ». ULPIANO.

§ 5. La flagranza riguardava l'adulterio non solo consumato, ma anche
tentato, e non compiuto per circostanza indipendente dalla volontà
dell'adultero. «Punisce la legge come adultero non solo chi commise in
fatto l'adulterio ma anche chi lo volle o tentò (βουληδέντα)» — MASSIMO
TIR., _Diss._ II.

§ 6. Il marito che non uccide l'adultero, e intende punirlo d'altra
pena, si impossessa della persona dell'adultero legandolo: o
rilasciandolo libero, solo dietro malleveria. Su la legittimità
della cattura, e quindi sul merito dell'accusa d'adulterio, decide
il tribunale. «Se alcuno avrà messo ingiustamente i lacci ad un
altro come adultero, questi lo accusi ai Tesmoteti: e _se_ vincerà e
apparirà legato ingiustamente, sia libero, e sciolti i mallevadori da
obbligo; se invece è chiarito adultero, i mallevadori riconsegninlo
all'accusatore». — DEM., _C. Neera_, 1367.

§ 7. Le pene sussidiarie, _in luogo e vece dell'uccisione_, sono
a piacer del marito o _pecuniarie_ o _corporali_. Può il marito
accontentarsi di una multa. «_È legge l'adultero multarsi in danaro_».
ERMOGEN., _De invent._, II, 1. — «_È legge l'adultero pagare o
morire_». — AUCT. _Probl. Rhet._ «E quegli (l'adultero Eratostene)
mi prega, mi supplica di non ucciderlo, _ma di ricever denaro_ in
componimento». LISIA, UCC. ERAT., 25. «Stefano sorprende Epeneto come
adultero e gli estorce trenta mine: delle quali avuti mallevadori,
lasciò andar libero Epeneto, tenendosi certo del danaro». DEM., _C.
Neera_, 1367.

§ 8. Le pene corporali, in luogo dell'uccisione, potean essere di
vario genere a piacer del marito: e inflitte nello stesso recinto del
tribunale giudicante sulla legittimità della cattura. «Se è chiarito
adultero, i mallevadori riconsegninlo all'accusatore, il quale, lì
nello stesso tribunale _può far su di lui, purchè senza spada, ciò che
vuole, secondo conviensi ad adultero_». (ἄνευ ἐγχειριδιου χρῆσθαι ὄ τι
ἄν βουληθῆ ως μοιχῳ). DEMOST., _C. Neera_, 1367.

§ 9. Nella antecedente designazione sono comprese le pene:

α. _dell'accecamento._ «Stabiliva la legge potersi impunemente accecare
(τυφλοῦσθαι) l'adultero colto in fatto». AUCT., _Probl. Reth._, c. 58.
«_Adulteros deprehensos licet excœcare_». CUR. FORTUNATIANUS, _Rhet.
Scol._

β. del _marchio_ rovente. «ἔξεστι στιξειν τοὺς μοιχούς». HERMOG.,
_Part. Stat._ — νόμος τὸν μοιχὸν στιξειν. MARCELLINUS.

γ. del _rafano_ (ῥαφανιδωσις). Faceasi star carponi l'adultero e
pelategli le natiche con cenere calda, gli si ficcava nel podice un
rafano de' più grandi. SUIDA, alle voci ραφανιδωθὴναι e μοιχὸς. —
ALCIFR., _Lett._, III, 62. — In luogo di un rafano si usava anche un
pesce detto _mugile_. CATULLO, carm. XV.

§ 10. Il marito che _uccide_ con pene corporali l'adultero non ucciso
sul fatto, risponde di omicidio. — ἄνευ ἐγχειριδίου, DEMOST., _C.
Neer._, loc. cit. «Chi bollando l'adultero, lo uccide, è reo di
omicidio». HERMOG. e MARCELL., loc. cit.

§ 11. È condannato il medico che cura gli adulteri, castigati col
marchio o col rafano. «’Ιατρὸς, τὰ τῶν μοιχῶν ίώμενος στίγματα,
κρίνεται» SOPATER.

§ 12. Vietato è all'adultero l'ingresso ne' templi. SOP., _in Hermog._

                            DONNE ADULTERE.

§ 13. Lecito è uccidere l'adultero (colto sul fatto) e l'adultera
insieme. HERMOG., _Part. St._ — MARCELLINUS, in CICER., _Rhetor._, II.

§ 14. Il marito che non uccide l'adultera (colta in fatto) è però
obbligato a ripudiarla. «Quando abbia sorpreso in fatto l'adultera, chi
la sorprende non potrà più dimorare con la moglie: e se dimorerà con
essa, sia punito d'infamia». DEMOST., _C. Neer._, 1374.

§ 15. La donna adultera ripudiata non ha dritto alla restituzione della
dote. «_È legge che la dote dell'adultera_ resti al marito». SOPATER.
_Divis. Quæst_. Cfr. LIBANIUS, _Declam._, 35. — «Trovando la moglie non
costumata e reputandosi ingannato, la scacciò, gravida, di casa e non
le restituì la dote». DEMOST., _C. Neera_.

§ 16. «_Legge dell'adulterio._ Nè alla moglie (per adulterio ripudiata)
sia lecito entrar nei pubblici templi, se è stata trovata col drudo:
e se vi entri, ognuno possa maltrattarla a piacere, tranne che
ucciderla». DEMOSTENE, _C. Neer._, 1374. «Perciocchè, se una donna è
stata colta con l'adultero, non può più entrare nei templi per vedere
e supplicare, come può fare una straniera e un'ancella, a cui lo
consentono le leggi. E se le adultere vi entrano in onta alle leggi,
ognuno può maltrattarle a suo talento, purchè non le uccida. E se la
legge eccettuò la morte, mentre volle impune ogni altro maltrattamento,
questo fece perchè non volle contaminati i templi». DEMOST., _C.
Neer._, ibid. «Solone, dei legislatori il più glorioso, scrisse all'uso
antico decreti solenni sul buon costume delle donne. Imperocchè alla
moglie presso la quale sia stato sorpreso l'adultero non consente
adornarsi, nè entrare nei pubblici templi, affinchè con la sua presenza
non corrompa le donne oneste. Che se vi entri e se si abbigli, ordina
al primo capitato di lacerarle le vesti e di strapparle gli ornamenti
e di batterla, purchè non la uccida nè la ferisca. Così il legislatore
vitupera questa donna e le crea una vita peggior della morte». ESCHINE,
_C. Timarco_, § 183.

§ 17. La moglie accusata d'adulterio può discolparsi dando il
giuramento d'innocenza al pozzo di Callicoro. «A Mnesiloco Peanese
scopersi le impudicizie di sua moglie: ed egli che aveva ogni modo di
appurar la cosa (o uom proprio di zucchero!) ripose tutto nell'affar
del giuramento. Pertanto la donna condussero al pozzo di Eleusi detto
Callicoro: ivi spergiurò e del delitto purgossi». ALCIFR., _Lett._,
III, 69.

                              SUI LENONI.

§ 18. Ai lenoni era inflitta la morte. «Solone comanda accusarsi i
lenoni, e convinti dannarsi nel capo: perchè alle persone desiderose
di peccare ma vergognose e dubbiose di trovarsi insieme, danno
sfacciatamente e per prezzo occasione ed agio al delinquere». ESCHINE,
_C. Timarco_.

[202] Vedi nota antecedente sotto il numero 11.

[203] Cfr. l'orazione di Lisia, in difesa di Eufileto, sulla _Uccisione
di Eratostene._



ATTO TERZO


ATTO TERZO

  Scena come nell'atto precedente


SCENA I.

MÈNECLE _e_ DÀMOCLE _tebano_.


DÀM. Mènecle, i profughi lasciano questa notte Atene; ma le tue parole
di ieri all'assemblea rimarranno scritte nel cuore dei Tebani.

MÈN. Tebe e i suoi profughi nulla mi devono. Tebe accolse me profugo al
tempo dei 30 tiranni; ho sciolto il debito della ospitalità. In quanti
partite?

DÀM. Pelopida, io ed altri dieci. Il resto dei profughi attenderà, per
seguirci, nostre notizie al confine[204].

MÈN. Lo sapete che in Tebe i tiranni son sulle guardie, che la città è
ben munita, e che la impresa vostra è temeraria?

DÀM. Le nostre braccia sono gagliarde, i nostri petti sono sicuri, le
armi imbrandite per i Lari sono sante. Giove le guiderà.

MÈN. E Giove dunque vi protegga. Bravi figlioli! Vorrei aver vent'anni
di meno per essere con voi!... E avrò vostre nuove?

DÀM. O da Tebe liberata... o dagli inferni.

MÈN. (_lo abbraccia_) Addio. (_Dàmocle esce_) Moriranno tutti ma
moriranno bene.


SCENA II.

MÈNECLE _solo._


(_Passeggia meditabondo_) Ora a colei... Quel maledetto sospetto
non mi dà tregua. Poc'anzi la fantesca parea sulle mosse. Blèpo sarà
ancora alla guardia... Decisamente non mi riconosco più. È bastato
quel sospetto molesto per mandare i miei buoni propositi all'aria!...
E Giove scrutatore dell'anime m'è testimonio s'essi eran sinceri!...
Ci tenevo tanto alla soddisfazione di poter dire: ho schiuso io nuove
gioie, nuovi orizzonti al di lei cuore! Se ella invece ci ha già
pensato da sè, la mia diventa una generosità da far ridere Atene alle
mie spese...


SCENA III.

MÈNECLE _e_ BLÈPO.


MÈN. (_ansioso_) E così?...

BL. La vecchia è in trappola.

MÈN. Da quando?

BL. Ora, ora. Usciva di casa frettolosa: e io salto fuor dal vestibolo:
_Alto là, gentil comare, arresta il passo, e vieni un momento con me._
E lei: _Impertinente! Sgombra dai piedi! Devo andar per la padrona!_
Ed io, prendendola delicatamente: _Anderai dopo; intanto (comicamente
declamando) inoltra, inoltra Alceste nella reggia d'Admeto!_ E lei:
_Se non mi lasci la pagherai! — Io te lasciar? giammai!... Vieni, o
fanciulla, e al mio signor rispondi — e dammi il foglio che nel grembo
ascondi!_

MÈN. (_irritato_) Ah! la finisci?...

BL. Ho finito.

MÈN. E il foglio?

BL. È qua (_Mènecle afferra ansioso il foglio_).

MÈN. E la vecchia?

BL. È là.

MÈN. Entri! (_passeggia, concitato, stringendo il foglio con mano
convulsa_) Per i fulmini di Giove! non eran dunque sospetti... (_fa per
aprire il foglio, poi si arresta_) ho paura di aprirlo. Sentiam costei!


SCENA IV.

MÈNECLE, TRATTA _e_ BLÈPO.


TR. (_ancora di dentro, piangente, trascinata da Blèpo_) Santissime
dee! Mi vuoi lasciare, furfante!...

BL. (_di dentro, declamatorio_) Calma, calma, o fanciulla! Umana cosa
è il pianto! (_entra, tenendo per un braccio la vecchia_) Ecco, o
padrone, la vezzosa Tratta...

TR. (_a Blèpo_) Scoppia!...

BL. ... che da un'ora mi tormenta, perchè vuole parlare con te. (_a
Tratta, con far tragico_) Parla! favella!

TR. (_piagnucolando_) O padrone! padrone! lo giuro a Venere che non
ho fatto nulla e costui mi ha indegnamente maltrattata! (_Blèpo fa
gesti comici negativi, come scandalizzandosi dell'asserzione_) Fammi
ragione...

MÈN. Comincia a dar ragione di te mezzana indegna!... Scegli tra lo
staffile e il dire la verità...[205].

BL. (_ripetendo con far tragico_) Scegli!

TR. O padrone, sì la dirò, la verità, ma ne attesto le Dee che
sono innocente! Io glie lo davo il foglio, e questo sfrontato senza
lasciarmi tempo, ha allungato apposta le mani sul mio seno...

BL. Seno, lo chiama! Non le credere...

MÈN. (_a Blèpo_) Taci, furfante. Esci. (_imperioso_)

BL. Ecco la ricompensa!... (_va via declamando_)

    _E fuor di casa le fantesce indegne_
    _Van del marito a trafficar lo scorno!..._[206].

Seno, lo chiama!...


SCENA V.

MÈNECLE _e_ TRATTA.


MÈN. Alle corte. E bada a non mentire. Da quanto tempo fai questo
ufficio di... Iride messaggiera?

TR. Che le Furie mi portino via, se non è questa soltanto la seconda
volta.

MÈN. Ah!... (_frenandosi_) E quando... la prima?

TR. L'altro ieri.

MÈN. (Il cuore me lo diceva!) E, n'è vero... da Cròbilo?

TR. Sì, padrone.

MÈN. E Aglae t'avrà detto di non dir nulla...

TR. Oh no! niente la mi disse...

MÈN. Ed ora da Cròbilo ci tornavi...

TR. No, no, padrone...

MÈN. Come no? Questo foglio non lo portavi a Cròbilo?

TR. No.

Mèn. Neghi ancora? A chi dunque, sfacciata? O confessa, o...

TR. A Elèo.

MÈN. (_balzando di sorpresa_) Elèo?!! Eh? O quanti ne ha? Elèo?...
(_lunga pausa. Mènecle si passa la mano sulla fronte, guarda la
vecchia, guarda il papiro, fa per isvolgerlo, trema di svolgerlo,
s'arresta ancora_) No... no... tu menti... non è possibile!

TR. Buttami dalla torre del Ceràmico[207] se non è vero che ad Elèo lo
portavo...

MÈN. (_con accento lungo, doloroso_) Anche Elèo!... (_si copre,
angosciato, delle mani il volto: poi, cupo, a Tratta_) Va. Più tardi
con te aggiusteremo i conti... Blèpo!... (_a Blèpo che si affaccia_)
Tieni costei sotto custodia!...

TR. Venere santa!

BL. Non temere... (_trascinandola via_) Venere ti ascolterà... Io
attentare al tuo onore!... (_escono continuando la vecchia a lamentarsi
e Blèpo a sermoneggiarla_).


SCENA VI.

MÈNECLE _solo_.


(_Passeggia concitato, stringendo febbrilmente il papiro, e dando in
rotte esclamazioni_) Eppure l'accento di colei non mentiva... Elèo!...
Elèo ch'io credevo il più leale dei giovani!... Ch'io amavo, e da
cui mi credevo amato come da un figlio!... Ma a questa mia età, non
vi è dunque più un solo volto d'amico, un solo affetto sincero sulla
terra?... Povero imbecille!... i giovani hanno fretta e non aspettano
che la mano gelida di un vecchio rechi loro la felicità! se la pigliano
da sè... (_terge una lagrima_) Eppure costava loro sì poco l'attendere!
Glie l'avrei ritardata di sì poco!... Addio, mio bel sogno!
Coraggio!... (_apre la lettera_) È proprio lui!... (_Si butta a sedere
e riprende a leggere. Sul principio della lettura, legge forte il_
GRAZIE DELLA TUA _con cui comincia e che gli strappa un'esclamazione
e un movimento d'ira: poi riprende convulso la lettura, ma subito alle
parole successive la sua fisonomia comincia a rasserenarsi e gli sfugge
qualche esclamazione rotta di commozione e di sollievo_).

  «Elèo!...

«Grazie della tua. Se verrai oggi, sia dunque la tua venuta per dirmi
addio, in presenza dì Mènecle _nostro..._ (_a sè, commosso_) (Sono
ancora il loro Mènecle! Meno male!) Sì, io ti ringrazio di avere
sentito alla stessa ora, nel cuor tuo, la parola che a me veniva
sul labbro. Aglae ed Elèo non devono più incontrarsi sotto lo stesso
tetto, fino a che Mènecle vive (_fra sè, approvando, con inflessione
fra comico e intenerito_) (Ciò è onesto!) Ah sì, mio Elèo, noi non
possiamo obliarlo ciò che dobbiamo a quella testa canuta. (_Mènecle
si asciuga una lagrima_) Ed io più di te: tu lo sai, tu, testimone
della sua astuzia magnanima, per indurmi a riprendere una libertà,
che facesse lieti i miei giorni serbando illibato il mio nome...
(Come? come?) tu che meco leggesti il suo affettuoso addio... (Oh! i
mariuoli!) (_Mènecle sorride di gioia e commozione_) O Elèo! Vide la
Grecia eroi ed eroine, e sagrifici illustri: non mai ne vide di più
veri e più nobilmente modesti! È dolce la morte per la patria, sapendo
di dare ai secoli il nome: è dolce a vent'anni la morte per la donna
amata, sapendo di averne l'amore: nessun Greco dai capelli bianchi
affrontò per una fanciulla ciò che è ben peggio della morte: vivere
vecchio, solo e sconsolato. (_Mènecle vinto dall'emozione, s'asciuga
una lagrima e sorride_) (Ma come sa scrivere quella birichina!) Oh,
io rimarrò con Mènecle fino all'ultimo de' suoi giorni... (Se io lo
permetterò!) superba che tu mi approvi... (Ah lui approva! Bravo!)
Farò di tutto per consolare quell'anima generosa che ha amato troppo
in gioventù per non sentir bisogno di qualcosa che le rammenti il
passato. Vedi, ieri, col solo aver dato al suo cuore la occupazione
della gelosia... (La briccona!) il povero vecchio pareva tutto
cambiato: a quest'ora, scommetto, non pensa già più al suo triste
disegno, inseguendo questa piccola cura che lo molesta e lo alletta,
gli sveglia il ricordo di emozioni antiche. Forse già sospetta di
Cròbilo: e io tollero per ora le visite di quell'imbecille... (Cròbilo
fa progressi!...) che anch'oggi verrà... Ma non confondiam la commedia
con le cose serie. Addio, Elèo, addio, amico. Gli Dei ti proteggano...
e ti serbino un giorno... (Ti serbino...?) (_Mènecle che man mano verso
la fine è venuto leggendo sempre più rapido e sicuro, con volto ilare
e accento concitato per gioia ed emozione, giunto a questa parola,
improvvisamente si arresta, ritorna scurissimo in volto e depone il
foglio con espressione angosciosa. Una visibile lotta si combatte nel
suo animo. Parecchie volte fa atto di padroneggiarsi per continuar
a leggere il resto della frase, e altrettante esita. Infine con uno
sforzo penoso ma risoluto pone l'occhio sulla carta, e alle parole
che terminano la frase e la lettera balza in piedi con un urlo di
gioia_)... all'onor della Grecia!» Ah! Molto ben detto.

(_Mènecle, rasserenato, contento, passeggia su e giù discorrendo seco
con vivacità febbrile_) Ma non si dirà mai che Mènecle a sessantacinque
anni si è lasciato sopraffare in generosità da due fanciulli! E quella
birichina che s'intende di burlarmi, la burlerò io!... Bravi figliuoli!
Che Giove vi benedica — per il bene che volete a questo povero
vecchio... (_dopo una pausa, intenerito_) e per quello che vi volete
tra di voi! Quanto a quella buona lana di Cròbilo — l'imbecille Cròbilo
— eh, se stesse a lui, non lo è poi tanto — farà i conti con Aglae... e
con sua moglie... (_va all'uscio e chiama_) Blèpo!


SCENA VII.

MÈNECLE, BLÈPO _e_ TRATTA.


MÈN. (_a Blèpo_) Conduci qua la vecchia. (_Blèpo esce_) Questa lettera
a ogni modo è troppo bella e merita che Elèo la veda! Queste cose... a
quell'età... fanno bene!... educano il cuore dei giovani!...

BL. (_di dentro_) Coraggio! che il padrone è allegro! Tergi l'amaro
pianto!...

TR. (_ancora piagnucolosa_) Oh mio buon padrone...

MÈN. Non tante smorfie... Riprendi questa lettera e riportala al suo
destino. E Aglae non sappia che m'hai parlato.[208]

TR. Sì, sì, padrone!

BL. (_a lei che se ne va, nell'uscire assieme_) Vedi? «_dopo le nubi —
nella reggia d'Admeto il sol risplende..._»

TR. (_a Blèpo nell'andarsene_) Lo vedi se ero innocente, o birbante?...

BL. (_fingendo indignarsi, con posa tragi-comica_) Fanciulla!...

TR. Faccia da gufo!...

BL. Vezzosa Venere!... io attentare al tuo seno!... (_vanno via
bisticciandosi, la vecchia collerica e Blèpo gravemente canzonatorio_).


SCENA VIII.

MÈNECLE _solo_.


Ed ora... Oh! il gnomone segna la nona... Se Cròbilo ha da venire, a
momenti sarà qui. Adesso gli lascio più tranquillo il posto... e lo
servo io... Ah, eccolo... l'_imbecille Cròbilo_... (_s'avvia ad uscire
dalla porta interna, ch'è nel mezzo_) Non guastiamogli i progressi!...
Quanto ai due ragazzi poi... (_Nello andarsene, si arresta ad un
tratto, essendosi fermato il suo sguardo sopra una vecchia panòplia
appesa alla parete. La sua faccia, dianzi rasserenata, si è rifatta
seria, triste, pensosa. Sembra assorto in qualche improvvisa idea.
Distacca macchinalmente dalla panòplia una vecchia spada, la sfodera,
e l'esamina lungamente_) Quanta ruggine!... (_cogitabondo, brandisce
due o tre volte la spada, squassandola, come per provar la forza
del braccio. Poi, come soddisfatto della prova, con gesto rapido, la
rinfodera, la rimette a posto, va concitato ad un tavolo, scrive poche
righe, poi chiama_) Blèpo! (_Blèpo compare_) Questo a Pelopida!...
(_gli consegna una tavoletta quindi va via ripetendo con accento di
soddisfazione commossa_) Quanto ai due ragazzi poi... (_esce_).


SCENA IX.

CRÒBILO _solo_.


(_Voce di fantesca di dentro_) Aspetta qui — verrà a momenti.

CRÒB. (_si avanza guardingo, pauroso, dal peristilio a destra, in
punta di piedi, spiando intorno_) La piazza è deserta. (_rassicurato_)
Meno male!... (_tentennando il capo_) Curiosa! La mi fa venir qui —
evidentemente è un convegno — e invece di ricevermi nelle sue stanze,
la mi riceve nell'aula comune... Basta! speriamo avrà preso le sue
misure... Non ci avrei nessun gusto di incontrar Mènecle. Mi squadrava
ieri e mi contava quegli atti di ferocia, con una disinvoltura...
Brrrr!... Mènecle sarà un buon amico, ma non è uomo mite nell'arte di
governo... e non è quello il sistema di cattivarsi le popolazioni!...
Ma già, nelle sue cose è un po' strambo... non l'ho mai capito troppo
bene... Quello che capisco benissimo è che Aglae con lui non se la
intende... Ah, ella è qui... Numi! come è bella! par Venere che esce
dalle spume!


SCENA X.

CRÒBILO _e_ AGLAE.


AGL. (_entrando con far cordialissimo, disinvolto_) Salute, buon
Cròbilo!...

CRÒB. (_misterioso_) Ssssss!...

AGL. (_forte, mostrando sorpresa_) Che è?...

CRÒB. Ssssss! (_sottovoce, facendole segno di parlar più piano_) C'è
del nuovo.

AGL. Nuovo di che?...

CRÒB. (_con gesti_) Tu non sai...

AGL. Che cosa?

CRÒB. Mènecle... (_parla esitante, sconcertato dalla tranquillità con
cui Aglae lo guarda_) ha dei sospetti...

AGL. (_disinvolta_) Fa benissimo. È il dovere di un marito di averne.

CRÒB. (_sconcertato_) Eh? (Cosa dice?...) E... tu...?

AGL. E il dovere di una moglie è di lasciarglieli.

CRÒB. (_tentennando il capo, fra sè_) (Comincio... a non capire). (_ad
Aglae_) Ah... già...

AGL. (_senza darsi per intesa della sua sorpresa_) Meglio in faccia
a Giove custode dei giuramenti essere moglie sospettata... (_moto
di compiacenza di Cròbilo_) ... anche ingiustamente... (_gesto di
disappunto di Cròbilo_) dal marito, che essere marito ingiusto colla
moglie...

CRÒB. (_rasserenasi_) (Ora mi raccapezzo!) Ah sì! Mènecle è ingiusto,
più che ingiusto... con te... (E governava le isole in quel modo...!
Prudenza! Battiamo largo!...) Però, se egli pensasse a risarcire...

AGL. Credi tu che gli anni di una fanciulla sciupati nella solitudine
si risarciscano?... Tu non sai...

CRÒB. So, so!... (Povera ragazza!) Ma tu sola non sei... vi hanno cuori
che ti sanno compiangere...

AGL. (_con accento vibratissimo, sdegnoso_) Compiangere?... Aglae non
ha bisogno di compianto. Alla mia età, si sente; alla mia età si _ama_,
intendi?...

CRÒB. (_guardandola con compiacenza_) (Eh! come lo dice!...)

AGL. (_incalzando_) Alla età mia, c'è qui dentro un cuore che batte,
c'è un'anima che ferve, che soffre, che s'irrita, che ha bisogno del
suo lembo di mondo e di cielo!... E quando la povera anima piange
trovandosi al buio, quando si lagna perchè trovasi al chiuso... la _si
compiange!_ Bel conforto! tenetevelo!

CRÒB. (Ha ragione!) No... Aglae... senti...

AGL. (_non dandogli retta, e in vista di sempre più accalorarsi_) No...
non è questo che essa chiedeva! Questa oscurità mi intristisce: datemi
la mia parte di luce! questo chiuso mi soffoca: datemi la mia parte
di aria!... _Aprite! aprite! Questo volevo!..._ (_si abbandona come
spossata dallo sforzo, su di una sedia: poi dopo una pausa, volgendosi
a Cròbilo_) Oh, Cròbilo... perdona... mi dimenticavo e ti ho annoiato
co' miei lamenti...

CRÒB. Annoiarmi! ma va avanti!... ma va avanti! Parlano in tua bocca le
Sirene!

AGL. E or che ci penso, ho avuto torto di rispondere alla tua... e di
farti venir qui...

CRÒB. Perchè?

AGL. Perchè il favore che avevo a chiederti...

CRÒB. (_fra sè, malizioso_) (Pretesti!...).

AGL. ... tu non puoi farmelo...

CRÒB. (_concitato, insinuante, carezzevole_) Ecco... vedi... ciò si
chiama essere ingiusti... Aglae, non hai mai udito dire che le anime
colpite dalla stessa sventura tendono, per istinto, a ravvicinarsi? Io,
dianzi, ti ascoltavo commosso...

AGL. (_a parte_) (Brutto ipocrita!) E tu...

CRÒB. E chi ti dice che anch'io non sia uno spirito sofferente che
inseguiva uno splendido ideale, strappatogli dalla triste realtà? Il
mio ideale era un'anima che comprendesse la mia... si chiamava: la
bellezza, la felicità, l'amore...! la realtà si chiama... (_con voce
cupa_) Mìrtala!...

AGL. (_a parte_) (Qui ci vorrebbe lei!)

CRÒB. Io, vedi, m'ero detto: Ecco, o Cròbilo, gli Dei t'hanno dato la
generosità, la virtù...

AGL. (la modestia...)

CRÒB. ... tu hai da essi una bella missione nel mondo. Troverai sulla
tua strada la menzogna, e la smaschererai; troverai la sapienza, le
strapperai i segreti; troverai la gloria, le darai le corone; troverai
la virtù, la assisterai; la sventura, la consolerai...

AGL. (... tua moglie, la tradirai...)

CRÒB. ... Aglae, tu sei sventurata... e mi vuoi togliere il conforto di
esercitare sulla terra... la mia missione?

AGL. Oh no... ma...

CRÒB. Ne dubiti...

AGL. No, ma, vedi, è una missione pericolosa la tua. L'ultima volta
che fui a Corinto, passando in lettiga dalla piazza del mercato, vidi
la casetta di Antifonte l'oratore, quello, sai, che Atene condannò
a morte poco tempo prima di Socrate... E mi fermò la scritta che era
ancora sulla porta: «_Ufficio di consolazioni. Qui dimora Antifonte, il
quale ha la virtù di guarire con parole gli addolorati_...»[209] La tua
missione medesima! e l'umanità glie n'è stata così riconoscente, che lo
ha condannato a bere la cicuta...

CRÒB. Alla quale noi rinunziamo! L'umanità è stata sempre ingrata. Ma
Antifonte guariva con le parole... e non coi fatti...

AGL. (_suggestiva, velatamente ironica_) E tu invece... _uomo di
fatti_, sei!... Ma da quando questa missione il tuo buon demone t'ha
suggerito di esercitarla?... Fino a ieri nulla ne seppi... e poi,
Aglae, supposto avesse bisogno di un consolatore, vorrebbe prima
accertarsi che sia quello veramente che ebbe quest'incarico dai Numi:
che sappia indovinar nella sua anima ogni fremito de' suoi desiderî,
ogni sussulto delle sue speranze, ogni lagrima dei suoi dolori...
(_dopo dette queste parole con voce insinuantissima, mutando a un
tratto bruscamente accento_) ... vedi bene che tu non puoi essere
quello...

CRÒB. (_vivissimo_) E se lo fossi?...

AGL. Se lo fosti anche... non ne troveresti il tempo...

CRÒB. (_incalzante_) E se lo trovassi?...

AGL. (_fingendosi perplessa_) Se lo trovasti... (_con pentimento
brusco_) E poi no...

CRÒB. Mettimi alla prova...

AGL. Davvero? E tu sai...

CRÒB. So tutto.

AGL. E acconsentiresti...

CRÒB. Se acconsento!... (_fra sè, un po' sconcertato_) (Consentire??...
che diamine?...)

AGL. Oh grazie!... Perchè capisci... dal momento che tu sai tutto...

  (Batte su queste parole con insistenza maliziosa).

CRÒB. (_impaziente, incalzantissimo_) Tutto, tutto...

AGL. Non ci sei che tu... E tu dunque gli parlerai?... quando?...

CRÒB. (_sbalordito_) Parlare... a chi?...

AGL. (_con tutta naturalezza_) Ma a lui...

CRÒB. (_sempre più sbalordito_) Già... già!... Ma... lui... chi?...

AGL. Ma a Mènecle...

CRÒB. Eh?!... (_dà uno sbalzo di spavento_) (Quella ci mancherebbe!...
con quel po' po' di sentenze!...) (_sconcertatissimo, e pure
sforzandosi nasconder l'imbarazzo_) Ah... già, già... Ma...

AGL. (_fingendo non accorgersi del suo turbamento_) Ma tu vedi che da
qui bisogna uscirne, per le Dee!... bisogna uscirne!... Esiti? Ah!...
lo sapevo...

CRÒB. (_con uno sforzo_) Ma ti pare?!... Niente affatto!...
(_facendo la voce risoluta e cercando farsi coraggio_) Cròbilo non
indietreggia... e se tu lo vuoi... (_vorrebbe dir qualche cosa, ma gli
manca il coraggio_) Ma permetti una parola...

AGL. (_impaziente_) Cosa?...

CRÒB. ... nel tuo interesse... mi pare... non ti pare... parlargli
io... fare uno scandalo...

AGL. Scandalo? (_fingendo sorpresa_) Scandalo il dirgli che fa male a
trattare così la sua compagna, sposata innanzi agli Dei patrî ed agli
Dei del focolare?... il dirgli, coll'autorità di un amico, che non son
questi i giuramenti innanzi all'arconte; scandalo il dirgli che sua
moglie soffre...

CRÒB. (_balzando sbalordito_) Eh?!

AGL. ... scandalo il ricondurmelo?...

CRÒB. (_sbalordito più che mai_) (O Febo! o spiriti! lo ama!) E... e...
questo era... che volevi?

AGL. (_mostrando a tutta prima sorpresa della sua sorpresa_) E
che altro... dunque... imaginavi?... Ah!... (_quasi un pensiero
le balenasse, si fa improvvisamente scura in viso, e s'appressa a
Cròbilo, figgendogli gli occhi in faccia, e parlandogli con voce lenta,
severissima_) Che altro imaginavi che il labbro di Cròbilo, marito di
Mìrtala, potesse osar di confessare all'orecchio di Aglae, la sposa di
Mènecle?...

CRÒB. (_interdetto, confuso_) Io... nulla... nulla... Ma le tue
parole... questo invito...

  (Da qualche istante è entrata in iscena Mìrtala introdotta adagio
  da Blèpo, che le fa dei gesti maliziosi, sulla soglia, additandole
  Cròbilo; vedendo questi, Mìrtala si arresta, e ritraesi alquanto).

AGL. (_seria e dignitosissima_) Il mio invito fu un torto... se ebbi
torto di crederti amico leale di Mènecle e mio... Ma se Mènecle...

CRÒB. (_spaventato, supplichevole_) No!... no!... (_concentrandosi e
meditabondo, coll'indice sotto il naso_) (Ma dunque... avrebbe quasi
l'aria di essere una canzonatura?!...)

AGL. (_proseguendo_) Ma se tua moglie... fosse qui... (_Aglae s'è
accorta della presenta di Mìrtala_) se ti sentisse... che cosa direbbe
di questa tua improvvisa meraviglia?...

CRÒB. (_prorompendo, con voce risoluta, irritata_) O per gli Dei! se
mia moglie mi sentisse... le direi...


SCENA XI.

_Detti e_ MÌRTALA (_già in iscena da qualche minuto_).


MÌRT. (_si è avanzata dalla soglia lentamente, e non vista da Cròbilo,
le si è posta a lato, senza guardarlo, ritta, la testa alta, le mani
sui fianchi_) Sentiamo!

CRÒB. (_voltandosi con ispavento alla voce di Mìrtala_) (Mia moglie!
son morto!) (_cercando ricomporsi dalla paura, e uscirne, alla meglio,
con accento garbato_) Niente!... direi che la sposa di Mènecle ha dato
a Cròbilo una prova di stima e di fiducia che lo onora... (_a denti
stretti_) (Questa non me l'aspettavo!) Cara Mìrtala, sai... (_tenta
parlarle con fare sciolto e sorridente, ma lo sguardo minaccioso di
Mìrtala, fisso su di lui, lo sconcerta_) (Che occhiacci! Giove me la
mandi buona!)

MÌRT. (_con voce lenta e severa, squadrandolo_) So... E spero che
l'incarico lo adempirai... (_abbraccia Aglae_) Grazie, buona Aglae! Non
dubitavo di te.[210] Eh, pur troppo noi donne siam sempre circondate
di insidie!... Quanto a questo Alcibiade sbagliato... (_squadrando
Cròbilo_) regoleremo i conti a casa...

AGL. A tempo sei giunta, cara Mìrtala. Ma sii buona con Cròbilo. Io
gli chiesi un favore che egli meglio d'altri può rendermi... fui forse
indiscreta... ma la sua bontà fu maggiore della mia indiscrezione...
(_a Cròb. cordialissima_) Grazie, Cròbilo! (_velatamente ironica,
affabile_) Oh, sì, gli Dei ti hanno data una ben nobile missione!
Troverai la sventura, la soccorrerai;... le mogli abbandonate... ai lor
mariti le renderai...

CRÒB. (_con ismorfie_) (Nella mia missione questo non c'era...)

AGL. Sicuro, Mìrtala, ei m'ha promesso di rendermi il mio Mènecle... è
un'anima bella, il tuo Cròbilo... Sii buona con lui.

MÌRT. Non dubitare, non dubitare. Se non fossi buona, gli avrei portato
quattro talenti di dote...

CRÒB. (_premuroso, tentando ingraziarsela_) E la possessione di
Egìna... terreni aratorî di prima qualità...

MÌRT. (_fissandolo severissima_) Precisamente. E che i colòni
trascurano e abbisognano molto di sorveglianza. Ci andremo insieme...

CRÒB. (_con esclamazione comica di angoscia_) (Ohimè!... l'esilio!...
come Aristide... ma almeno Aristide era solo!...)

MÌRT. Frattanto, in attesa di parlar con Mènecle, ti rincrescerebbe
accompagnarmi?

CRÒB. Ma eccomi!... (_fra sè, ripetendo dolorosamente_) (L'esilio!...
come Temistocle!)

MÌRT. Addio Aglae...

AGL. Addio Mìrtala. Grazie, Cròbilo...

CRÒB. (_con uno sforzo sopra di sè_) Nulla, nulla, mio dovere...
(Decisamente... era proprio una canzonatura!...) (_ad Aglae_) Nulla!...
(_a Mìrtala_) Eccomi... (_con comica angoscia_) (L'esilio!... come
Alcibiade!)

  (Si lascia macchinalmente condurre via da Mìrtala, con aria di
  suprema dolorosa rassegnazione).


SCENA XII.

AGLAE _sola_.


(_Seguendo Cròbilo dello sguardo_) Imparerai meglio un'altra volta la
missione del consolatore... (_pausa; poi fattasi triste, pensierosa,
sospirando_) Eppure, soltanto la povera Aglae lo sa, se il suo cuore
avrebbe oggi bisogno davvero di conforto!... Coraggio!... Fra breve
egli sarà qui a dirmi addio... Povero Elèo! (_leva dallo strofio un
piccolo papiro e legge_)

    Te fuggo com'esule che disse l'addio...
      Ma volge la testa tornando a guardar!...
      E fugge... ma il segue più lungo il desio...
      E fugge... ma indietro vorrebbe tornar!
    Mia triste, mia triste battaglia del core!
      Scrutarla non cerchi pupilla di uman!
      Lasciatemi questo mio povero amore!
      Per viverne solo, lo porto lontan!

Egli è qui!... Venere santa, dammi forza tu!..


SCENA XIII.

AGLAE _ed_ ELÈO.


AGL. (_con effusione triste_) Elèo!...

EL. Aglae! Ebbi la tua. (_commosso, cercando padroneggiarsi e parer
calmo_) Grazie... Reco gli addii a Mènecle e a te.

AGL. (_triste, commossa_) E tu parti...

EL. Stanotte.

AGL. (_vivamente inquieta_) Per dove? con chi?

EL. Con Pelopida tebano e i compagni suoi. (_esclamazione di
Aglae_) Tebe accolse mio padre esule al tempo dei tiranni: è
giusto che nell'ora delle sue sventure, il figlio paghi il debito
dell'ospitalità...[211]

AGL. (_vivissimamente_) E tu...

EL. E io seguirò i fuorusciti nella più santa delle imprese.

AGL. (_dolorosamente esclamando_) O Dee!

  (Si abbandona sur un sedile, sopraffatta dall'emozione e piange).

EL. Avresti preferito sapermi vivere, da te lontano, una vita oscura,
ignava, ingloriosa? Ignavia per ignavia, tanto allora varrebbe la
colpa!...

AGL. (_asciugandosi gli occhi e cercando padroneggiarsi_) No, no!
Perdona... hai ragione... Ma tu sei eroe, figlio di eroi, ed io, dopo
tutto, non sono che una fanciulla. Perdona. Vedi. Sono forte ora.
(_parla con voce rotta, reprimendo i singhiozzi_) Ti guardino i Numi!
Oh nessuna preghiera sarà mai loro salita più fervida delle mie! Ti
guardino i Numi! E ricordati di Aglae!..

EL. Ricordarmi?! La tua lettera verrà meco come la voce del buon
genio mio. Le tue parole mi han fatto triste insieme e superbo. Tutta
la mia esistenza, dissi a me stesso, mi parrà spesa bene, se sarà
spesa a meritarmele. Quando le ore mi passeranno più tristi, dirò:
Coraggio!... la stima di Aglae è con te. Quando la lontananza mi parrà
più incresciosa, penserò che è per Aglae che l'affrontai: e che, se al
mio nome, tra i Greci, verrà qualche gloria, Aglae lontana lo saprà.
Così avrò una ambizione nella mia vita, una luce sulla mia via. E se un
giorno sentissi le forze mancarmi, e farmisi uggiosa la luce cara del
dì... vorrà dire che Aglae m'avrà dimenticato...

AGL. Oh Elèo! sei cattivo! e non dovresti esserlo con la povera
Aglae in quest'ora!... Ecco, io avevo preparato un bel ricordo che
avrebbe fatto qualche volta sovvenire ad Elèo la sua piccola sorella
d'infanzia: così Aglae, pensavo, fida restando al dover suo, potrà
viaggiar senza rossore in compagnia dell'amico de' suoi primissimi
dì... (_mentre Aglae parla, come fra sè, con voce carezzevole,
infantile, ha nelle mani un piccolo ritratto all'encausto, che si è
levato dallo strofio, e che va guardando_) vedrà con lui altro cielo
ed altre città della Grecia: e come egli la vedrà sempre sorridergli
così... dello stesso sorriso, fissarlo sempre con lo stesso sguardo,
come uguali rimarran sempre queste dipinte sembianze, così uguali per
Elèo rimarranno la memoria ed il cuore di Aglae...

EL. (_vivissimamente, facendo atto di prenderle il ritratto dalle
mani_) Il tuo ritratto!... Oh grazie!

AGL. (_con umore_) Grazie niente. Mi hai detto quelle brutte parole...

EL. Aglae!

AGL. Ho fatto male a dirti di venire. Era meglio non vederci... Va...
lasciami...

EL. Ma non prima di aver meco questo pegno, che non darei (_glie lo
toglie con affettuosa violenza: Aglae se lo lascia togliere, senza
guardar Elèo_) pei tesori della terra! non prima di averti detto che
Elèo parte, ma la sua mente e la sua anima rimangono qui:... qui,
presso al piccolo domestico altare, dove orfano appresi ad amare i soli
esseri che mi amarono al mondo e ad accettare per essi il dolore... a
comprendere, per essi, il sacrificio!... (_con trasporto vivissimo_) Oh
andassi fino agli ultimi confini del mondo ed agli Espèridi... lascierà
prima Pallade la nostra rupe, che queste soglie, ove tu vivi, il mio
pensiero!...

AGL. No, no, Elèo!... capisco di chiedere troppo... troppo più che
io non deva, al tuo cuore ed alla tua memoria... Tu sei bello, sei
giovane, e non potrai, non dovrai vivere sempre solo...

EL. (_con rimprovero_) Aglae!...


SCENA XIV.

_Detti e_ MÈNECLE.

  (Mènecle si è affacciato dalla porta nel fondo, mentre Elèo ed
  Aglae proseguono il lor dialogo sul davanti della scena. Rimane
  muto, le braccia conserte, il volto tra pensieroso e sorridente,
  sulla soglia a guardarli).


AGL. No... lasciami dire... Non ti accuso... Il tempo non muterà la tua
tempra, ma muterà molte cose intorno a te... Mènecle vivrà, e glielo
auguro, buon vecchio! molti anni...

EL. (_melanconico_) Oh... anch'io...

AGL. ... e il giorno che io sarò libera di nozze, io non sarò più una
ragazza per te. Breve è la stagion della donna — e s'ella non la coglie
— passata quella, se ne sta seduta a consultar gli auguri[212]. Le rose
della giovinezza in quel dì saranno svanite, e a te, nel fior degli
anni, non resterebbe a sposar che la memoria e l'ombra di colei che fu
un tempo la bella Aglae... una brutta vecchia grinzosa... Oh, sarebbe
troppo pretendere...

MÈN. (_di dietro, tentennando il capo_) (Infatti...)

AGL. ... e faresti la figura di Cròbilo. Direbbero che m'hai sposata
per godere la mia dote, la eredità di Mènecle. No, no, promettimi
solo che il giorno in cui il tuo cuore sarà stanco di attendere...
rimanderai ad Aglae questo ricordo...

EL. Fino a che tra i viventi mi rischiari il sole, questo ricordo starà
con me. Verrà con me nella pugna, poserà con me sotto la tenda. Oh
gli anni possono involarci la cara giovinezza, spegnere le febbri, i
delirî dei sensi, ma non ispegneranno un affetto reso puro e santo dal
sagrificio...

MÈN. (È nato per far l'oratore!...)

EL. (_con forza_) ... prima che io rinneghi la fede di questo affetto,
possa Nettuno farmi morire come Ippolito... e casto come lui!...

MÈN. (Povero ragazzo! te ne accorgeresti!...)

AGL. (_buttandosi al collo di Elèo_) Oh... lasciamo questi giuramenti...

MÈN. (To'! ha più giudizio di lui!...)

AGL. Sia dell'avvenire e del cuor tuo quello che gli Dei vorranno.
Io ti ringrazio del conforto che m'hanno dato le tue parole. Esse
mi renderanno più forte in questa prova... Che se vi avessi a
soccombere... (_con voce triste, infantile_) dirò a Mènecle che mi
faccia un bel sepolcro tutto bianco... bianco... e tu ci verrai...

EL. Oh taci! Non parlar di morire; dimmi che in te la memoria di
quest'ora non morirà... Me lo prometti?

AGL. (_volgendosi all'altare domestico_) Qui all'ara del Dio che ci
ascolta...

EL. E mi giuri che se Mènecle...

AGL. (_senza guardar Elèo, esitante, gli occhi a terra_) ... il buon
vecchio Mènecle...

MÈN. (Poverina! ci ha aggiunto anche il buono!..)

AGL. (_arrestandosi e riprendendo premurosa_) ... che noi dobbiamo
amare, finchè vive, come fosse nostro padre, n'è vero?

EL. (_triste, a capo basso_) Oh, sì... come un padre...

AGL. (_riprendendo esitante il filo della frase_) ... se il buon
vecchio Mènecle ci venisse un giorno rapito dalla Parca triste...

EL. ... inesorabile!...

AGL. ... scellerata!...

MÈN. (_c. s._) (Si sfogano colla Parca... meno male...)

EL. ... e che io fossi vivo...

AGL. E io anche...

EL. E tutti due...

AGL. E tutti due quella perdita... amara... (_appoggia la voce
sull'amara, quasi volesse correggere un pensiero colpevole: Elèo
assente col gesto_) ci trovasse ancor giovani... in età da marito...

  (Sempre esitante, a occhi bassi, come avesse paura o rimorso di
  compier la frase)

MÈN. (Giustissimo!... a maritarsi vecchi, ecco ciò che succede...)

EL. Quel giorno dunque...

AGL. Che il buon Mènecle...

  (Mènecle si avanza fra i due giovani).

MÈN. (_proseguendo la frase, a voce alta_) ... andrà all'altro mondo...

EL., AGL. (_sgomentatissimi entrambi al vederlo_) Ah!...

MÈN. ... speriamo, neh, figlioli, che sia lontano — quel giorno
piangeremo prima amaramente la sua partenza e poi potremo sposarci
senza scrupolo. Ma sentite, neh! (_picchiandosi lo stomaco_) che
polmoni e che cassa di stomaco! Ce n'è ancora per trent'anni!... Se
aspettate me state freschi!

AGL. (_buttandosi alle sue ginocchia_) Oh perdono, Mènecle!...

EL. (_idem_) Perdono... padre mio...

AGL. Ti giuro, per le Dee, che...

MÈN. (_rialzandoli entrambi con affabilità affettuosa_) Su, su,
ragazzi!... ma che giuramenti e che perdoni! So tutto... Grazie a te,
Elèo, della tua lealtà; grazie, Aglae, della tua fedeltà al tuo dovere.
Soltanto, speriamo (_con bonarietà comica_) non mi farai più dell'altre
scene di gelosia...

AGL. (_mortificata chinando gli occhi_) Mènecle!...

MÈN. No, no — non ti rimprovero... benchè, per Giove, lo meriteresti,
per insegnarti a frugare nelle carte del marito e a leggerne le
lettere...

AGL. (_sorpresa, mortificata_) Ah!...

MÈN. ... e a scriverne dell'altre ai giovinotti, a sua insaputa...

AGL. (_mortificata_) Come... tu...?

MÈN. (_con bonarietà comica e imperiosa_) Silenzio!... Sappiamo tutto.
Se la moglie fa la curiosa, il marito ha diritto di fare il curioso...
(_a Elèo_) Neh, ricordalo bene anche tu, una volta che sii suo
marito...

AGL. (_supplichevole_) Oh... Mènecle!...

MÈN. Silenzio!...

EL. (_interpretando anch'egli come ironia le parole di Mènecle_)
Mènecle, punisci me... ma risparmia a me ed a lei le tue ironie...

MÈN. Ma che ironie?!! Le _tue_ vuoi dire. È una moglie divisa in due
— a me in corpo, a te in effigie — non è un'ironia? E cosa credi,
che Mènecle sia feroce come Teseo, da lasciar morir casto il povero
Ippolito? Cosa credete (_ad entrambi_) che Mènecle sia così egoista,
così disonesto, così imbecille da accettar la elemosina del vostro
sagrificio? (_Mènecle, stando in mezzo ai due giovani, ha proferito
queste parole con impeto e voce brusca; i due giovani, sotto la
sfuriata del vecchio, tengono mortificati la testa e gli occhi bassi;
quando al finir delle sue parole s'attentano a levarli furtivamente
verso di lui credendolo in collera, s'accorgono che Mènecle sorride
del loro inganno, e li guarda affettuoso facendo lor cenno, delle
due braccia, di appressarglisi_) Voi altri siete così matti che
lo avreste anche mantenuto... ma poi... poi, neh? (_si volge ad
Aglae affettuosamente canzonandola e rifacendole la voce_) le forze
mancavano... e ci voleva il sepolcro bianco... tutto bianco... (_con
rimprovero comicamente brusco_) farmi far di queste spese!... Ohibò!...
Tu... (_sempre ad Aglae_) in castigo della burla che m'hai fatto, — e
tu in castigo (_ad Elèo_) del non avermi mai detto niente — quando si
ama la moglie si avvisa il marito — vi mariterete... E così imparerete.

AGL., EL. (_gettandosi entrambi commossi al collo di Mènecle_) Ah
Mènecle, mai!

MÈN. (_con voce grave, liberandosi dall'abbraccio dei due, piangenti
di commozione_) Preferireste vivere, aspettando senza volerlo,
senza saperlo, la morte mia?... (_ad Aglae_) Oggi tu ed io andremo
dall'arconte, a deporre la scritta del divorzio insieme: e ci verrai
a fronte alta, perchè tu rimani nella mia famiglia... (_movimento
di Aglae e di Elèo_) già, nella mia famiglia... tu sposi mio figlio
adottivo...[213].

AGL., EL. Ah!...

MÈN. (_proseguendo, ad Elèo_) ... se non ti rincresce passare dalla tua
nella mia tribù,[214] verrai meco dai fràtori del borgo di Alopéce,
e sarai iscritto nel registro della fràtria mia, come mio figlio, —
erede con lei (_accennando Aglae_) delle mie fortune, partecipe delle
cose sante e sacre[215]. Porterai in nome Làmaco: il nome di mio padre
caduto da valoroso a Samo... e nella famiglia di Mènecle al nome non si
mente...

EL. (_abbracciandolo commosso_) Padre! padre mio!...

  (Aglae piange col volto nelle mani. Elèo vorrebbe dir qualcosa.
  Mènecle indovina il suo pensiero e lo previene).

MÈN. Quanto al tuo partire... c'è tempo...

EL. (_sorpreso_) Che?

MÈN. Pelopida... gli ho parlato io. Non ne vuol seco più di undici.
(_con inflessione grave e seria_) Li ha scelti già... (_gesto vivo di
protesta di Elèo_) Non temere! Verrà il tuo giorno...

AGL. Oh Mènecle, la tua generosità...

MÈN. No, no, adagio, a parlare di generosità. In questo mondo la si
scambia con la imbecillità; ed io invece, andate là, che i miei conti
li ho fatti bene. Povero vecchio abbisognante, per i miei tardi giorni,
di un affetto che li consoli, dovrei amareggiarmelo col pensiero che
il mio vivere impedisce la vostra felicità? E che questa idea vostro
malgrado si inframmetterà tra me e voi, vi renderà a vostra insaputa
l'affezione a Mènecle un peso? Scambierei questo affetto vostro, così
sincero e così puro, col bel conforto di sapere che il dì quando la
Parca (_sorridendo ad Aglae_) — _la scellerata Parca!_ — mi farà quel
tal servizio, un sospiro non confessato di sollievo sfuggirà dai petti
delle due sole persone che mi voglion bene? E mentre è sì dolce il nome
di padre, dovrei vivere tutti i dì fra il dolor di non esserlo... e la
tema di divenirlo!... scambiar la paura di avere un figlio con la gioia
tranquilla di lasciarne, partendo, qui... due?

EL., AGL. (_vivissimamente_) Partendo?

MÈN. (_ad Aglae con voce affettuosa_) Non sei più sola... Che resto
a far qui? Ricordi le tue parole? «Quando fu il dì del bisogno, ci
vollero questi vecchioni per liberare la città e le sue donne!» Laggiù
a Tebe ci è bisogno. (_con inflessione mesta, solenne, ai due giovani
che fan per trattenerlo e lo guardano attoniti, commossi_) Ci vogliono
questi!... Vivere liberando donne, morire liberando città!

  (Quadro).


  CALA LA TELA.


NOTE

[204] Dopo che il tebano Pelopida ebbe persuasi i suoi compagni di
esilio all'impresa di partirsi da Atene per muovere alla liberazione di
Tebe «mandaron essi nascostamente a Tebe ad avvertire dei loro disegni
gli amici ch'eran ivi rimasti: tra questi Carone ed Epaminonda.....
Stabilitosi quindi il giorno dell'impresa, parve bene ai profughi
che l'un d'essi, Ferenico, raccogliendo gli altri, facesse sosta in
Triasio, e che pochi de' più giovani arditamente si arrischiassero di
entrare in città: e se a questi incogliesse mai qualche sinistro dalla
parte de' nemici, gli altri tutti aver cura dovessero de' figliuoli
e de' padri loro. Il primo che si esibì ad andarci fu Pelopida, e poi
Melone e Dàmocle e Teopompo, stretti fra loro co' vincoli d'amicizia e
di fede, ed emuli sempre della gloria e del valore. Essendo _dodici_ in
tutto, dopo aver abbracciato quelli che restavano addietro, e mandato
innanzi un messo a Carone, si incamminarono succintamente vestiti...
_ecc. ecc._» PLUTARCO, in _Pelopida_.

[205] Cfr. nell'arringa di Lisia per _la uccision di Eratostene_, il
racconto del marito Eufileto: «Tornato a casa, ordinai alla fantesca
di seguirmi in piazza; e condottala ad uno de' miei famigliari, le
dissi che sapevo tutto quel che succedeva in casa mia. A te, quindi,
soggiungevo, sta lo sceglier fra i due: o passata per le verghe esser
condannata a rigirar la mola, tra patimenti senza fine, o confessando
la verità andar illesa, e aver da me il perdono de' tuoi delitti. E
quella sulle prime negava fermamente e diceva facessi pure di lei quel
che volevo; lei non saper nulla: ma quando nominai Eratostene, e dissi
che costui era il frequentatore di mia moglie, allora si sbigottì,
giudicando che io sapessi tutto. E cadendo alle mie ginocchia, e
fattasi da me promettere che non le avrei fatto del male, confessò...»
— _Uccis. Erat.,_ 18-20.

[206] Cfr. EURIPIDE, _Ippolito_, 645-650.

[207] Cfr. ARISTOF. _Rane_, 130 seg. — Dalla torre alta del Ceràmico
buttavano la face per dare il segnale della _corsa delle lampade_: di
che nelle note all'_Alcibiade_.

[208] Cfr. LISIA, _Uccis. di Eratost._, 21.

[209] PLUTARCO, _Vite dei X Oratori_, in _Antifonte_.

[210] Cfr. ALCIFR., _Lett._ 1, 29. Glicera, di Menandro gelosa, scrive
a Bacchide: «Conosco, o Bacchide, la reciproca amicizia che passa tra
di noi due: ma d'altra parte, o carissima, temo non tanto di te, che
ti so di costumi onesti, quanto di lui stesso: chè egli è donnajuolo
al sommo. Ma tu mi taccierai di ombrosa... Deh, scusa, diletta amica,
simili gelosie da amanti...».

[211] Furono gli Ateniesi benevoli ai profughi Tebani, «ricompensar
volendo i Tebani: perocchè questi principalmente contribuito aveano
a ristabilirsi in Atene il governo popolare e avean decretato che se
alcuno portando l'armi contro i tiranni passasse per la Beozia, nessuno
di quelli che ivi abitavano mostrar dovesse di sentire o veder cosa
alcuna». PLUT., in _Pelopida_. Cfr. SENOF. _Elleniche_, lib. II.

[212]

    τῆς δέ γυναικὸς ὁ καιρός, κἂν τούτου μὴ ’πιλάβηται
    οὐδείς ἐθέλει γῆμαι ταύτην, ὀττευομένη δὲ κάθηται.
                        ARISTOF., _Lisistrata_, 596-7.

[213] Frequenti e legittime erano nel dritto attico le adozioni —
permesse però solo a quelli che non avean figli propri (ISEO, _Ered.
d'Aristarco_, 9) — a fine di preservare da estinzione il casato.
«Dopo ciò (cioè dopo collocata in matrimonio ad altri la moglie)
pensava Mènecle al come evitare la mancanza di figli e aver chi lo
curasse nella vecchiaja, e morto gli rendesse le esequie e i sagrifici
dovuti in avvenire. Aveva bensì un nipote, il figlio di costui: ma
essendo figlio unico, ritenea disdicevole privar di prole mascolina
il fratello. E così essendo non vide altri più prossimi di noi...
E in questo modo Mènecle mi ebbe figlio ed erede suo». ISEO, _Ered.
Mènecle_, § 10-12. «Tutti quelli che son per morire si preoccupano di
ciò, che le loro case non restino solitarie, ma vi sia chi renda ai
loro Mani i sacrifici funebri, e le altre giuste cose: per il che se si
trovino senza figli, procurandosene per adozione, ne lasciano. Nè già
privatamente così stabiliscono, ma la stessa repubblica questo sanci:
mandando all'arconte di _aver cura che le case non restino solitarie_».
ISEO, _Eredità di Apollodoro_, § 30. Lo che voleva dire che se uno
moriva senza figli nè proprî nè adottivi, e senza testamento, pensava
l'arconte a istituirgli tra i prossimi congiunti, un figlio adottivo ed
erede.

Pel rimanente, le adozioni si facevano o appunto per testamento, o
_inter vivos_. In questo secondo caso (ch'è quel del nostro Mènecle e
di Elèo) l'adottante procedeva, così come usavasi pei neonati, alla
presentazione del figlio nella propria confraternita (_fratria_) e
all'iscrizione sul registro della stessa, formante il documento di
legittimità.

«Venuta la festa Targelia, mi introdusse innanzi all'altare tra i
fratori. A questi è legge che chiunque introduce un figliuolo o proprio
o adottivo, fa fede, in nome delle cose sacre, ch'egli introduce un
figlio d'una cittadina, legittimamente nato ed adottato. Compiuto ciò,
nullameno i fratori fan lo squittinio: e se essi giudicano alla stessa
maniera, allora solamente lo iscrivono nel registro pubblico». ISEO,
_Ered. di Apollodoro_, § 15-16.

[214] Il figlio adottato non poteva più tornar nella sua famiglia
paterna (così Mènecle nell'arriga d'ISEO, ha scrupolo adottando il
nipote di privar del figlio il fratello, IS., _Ered. Mèn._, 10), ed
entrava a far parte della tribù dell'adottante, che gli imponeva a
suo piacimento nuovo nome. (Ordinariamente, poi, i figli portavano il
nome dell'avo paterno: lo stesso avveniva per gli adottati). «Se uno
t'interrogasse: Dimmi, Beoto, come sei venuto nella tribù Acamantide
e diventato del demo di Torisio e figliuolo di Mantia ed erede delle
sostanze da lui lasciate? Non altro potresti dire, fuorchè: _Mi adottò
Mantia_. E se soggiungesse: dov'è la prova o la testimonianza? — Mi
menò tra i fratori — risponderesti. — Con qual nome? — Con quello di
Beoto. — Chè con questo fosti introdotto. Ora se il padre tornando a
vita ti mettesse al partito o di conservare il nome che ti diè o di non
ritener lui per padre, non sarebbe discreto?» DEMOST., _C. Beoto_, per
il nome, § 30, 31.

[215] Τῶν πατρώων ἒχεις τὸ μέρος. ἱερῶν, ὁσίων μετέχεις DEM., _C.
Beoto_, per il nome, § 35.


                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                  DEGLI EDITORI-TIPOGRAFI FORZANI E C.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, in
particolare per quanto riguarda gli accenti, alquanto variabili
nell'originale. Sono stati corretti senza annotazione minimi errori
tipografici.





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