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Title: Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo vol. II
Author: Graf, Arturo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo vol. II" ***


produced from images made available by Università degli
Studi di Torino - Sistema Bibliotecario d'Ateneo, Scienza
dell'antichità, filologico letterarie storico artistiche)



                                  ROMA
                  NELLA MEMORIA E NELLE IMMAGINAZIONI
                                  DEL
                               MEDIO EVO


                                   DI

                              ARTURO GRAF

   Prof. Ord. di Letteratura Italiana nella R. Università di Torino.

                          Roma caput mundi regit orbis frena rotundi.

                               Volume II.

             CON UN'APPENDICE SULLA LEGGENDA DI GOG E MAGOG



                                 TORINO
                            ERMANNO LOESCHER
                                 1883.

                 ROMA e FIRENZE presso la stessa Casa.



                          Proprietà letteraria

            _L'Editore si riserba il diritto di traduzione._

                 Torino — VINCENZO BONA, Tip. di S. M.



CAPITOLO XII.

Trajano.


Dante trova Trajano fra l'anime beate che nel cielo di Giove ricevono
premio e sono glorificate per avere amata ed amministrata la giustizia
nel mondo[1]. Un imperatore non battezzato, fatto partecipe della
felicità degli eletti, non è certo la meno strana fra le immaginazioni
e le favole di cui siamo venuti discorrendo sin qui, o discorreremo in
seguito. La storia autentica nulla ricorda che faccia parer degno di
tanta grazia Trajano; anzi narra di fatti che avrebbero dovuto renderne
odiosa alla Chiesa la memoria in perpetuo; giacchè egli fu persecutore
dei cristiani, e in molte cronache del medio evo si fa espresso
ricordo di ciò, e, con certa alterazione di verità, si dice che dalle
persecuzioni desistette più tardi per consiglio e per intercessione di
Plinio il Giovane[2]. Si sa inoltre ch'egli fu dedito al vino un po'
più dell'onesto, e non rifuggì da certi amori, in quel tempo non meno
latini che greci. Di ciò Dione Cassio non sembra fargli gran carico[3];
ma Gregorio Magno, se l'avesse saputo, l'avrebbe senz'alcun dubbio
lasciato stare all'inferno, d'onde, secondochè la leggenda racconta,
con perseverantissime preci gli venne fatto di trarlo. Più delle sue
colpe si ricordavano le sue virtù, e in particolar modo il grande amore
della giustizia[4]. Alessandro Neckam esprimeva un comune giudizio dei
tempi suoi quando diceva a tale proposito:

    Trajanum superis aequat clementia summa[5].

La leggenda comincia a lavorare intorno a Trajano già sino dal terzo
secolo. Molti atti di bontà gli sono attribuiti de' quali egli non
ebbe merito, e di cui altri rimane spogliato in suo beneficio. Chi più
vi scapita è Adriano[6]. Così la fantasia, coadiuvando la storia nel
perpetuare ed accrescere la buona riputazione di Trajano, preparava la
via alla leggenda celebre della redenzione di lui dall'inferno[7]. Il
documento più antico in cui questa leggenda si trovi riportata è la
Vita che del santo papa Gregorio scrisse Paolo Diacono, come sembra,
in Roma stessa, corrente l'anno 787. Ecco in breve la sostanza di
tale racconto. Trajano partiva per una spedizione guerresca, seguito
da numeroso esercito, quando una vecchia vedova, cui era stato ucciso
ingiustamente il figliuolo, gli si fece incontro domandando giustizia.
Trajano prometteva di esaudirla quando fosse tornato; ma, ripreso da
lei di tal negligenza, si fermò, e non volle più oltre procedere finchè
non le ebbe fatta ragione. Passando un giorno San Gregorio per il
Foro Trajano, vide le testimonianze e udì narrare la storia di quella
giustizia, onde cominciò a lacrimare per la pietà e a pregare Iddio
che volesse usare la sua misericordia verso quell'ottimo principe.
Così giunse al sepolcro di San Pietro, dove continuando a pregare
si assopì, e nel sonno ebbe per rivelazione che la sua preghiera
era stata esaudita; ma perchè si guardasse da indi in poi di pregare
per chi era morto senza battesimo, ebbe a soffrire il castigo della
sua tracotanza[8]. che Paolo Diacono abbia composta una Vita di San
Gregorio è certo, poichè egli stesso ne fa poi ricordo nella _Historia
Langobardorum_, e che la Vita scritta da lui sia quella medesima che,
sotto il suo nome, è venuta sino a noi non si può ragionevolmente
mettere in dubbio, sebbene sia stato da parecchi negato. Ma non è
men vero che sono da considerare come una interpolazione i capitoli
17-23, dove si narrano i miracoli più insigni di Gregorio, tra gli
altri quello della salvazione di Trajano. Tale racconto contraddice
formalmente a quanto lo stesso Paolo Diacono afferma in questo medesimo
scritto, che, cioè, San Gregorio avrebbe agevolmente potuto fare
miracoli, se gli si fosse offerta occasione[9]. Questa interpolazione
dev'essere del resto assai antica, giacchè si ritrova in presso che
tutti i manoscritti.

Nel IX secolo la leggenda è raccolta da Giovanni Diacono, che la
narra nella _Vita Sancti Gregorii Magni_ da lui composta[10]. Questo
racconto, confrontato col precedente, presenta alcune particolarità
e differenze notabili, ma mostra di derivare da una medesima fonte
con quello. Paolo, o l'ignoto interpolatore del suo scritto, non dice
d'onde attinga; Giovanni accenna espressamente a documenti scritti e
divulgati per le Chiese d'Inghilterra: _Legitur etiam penes easdem
Anglorum Ecclesias_, ecc. Poi nel suo racconto comincia a prendere
maggiore svolgimento il dialogo fra la vedova e Trajano, dialogo
che non mancherà mai nei riferimenti posteriori della leggenda, e di
Trajano non si dice che, provveduto alla vedova, mandasse sciolti i
rei, com'è narrato nella scrittura di Paolo, e non si accenna a nessuna
punizione inflitta dal cielo a Gregorio[11]. Nella breve Vita di questo
pontefice pubblicata anonima dal Canisio[12] il miracolo è similmente
narrato, e con le stesse parole quasi di Giovanni Diacono[13]. Tuttavia
scostandosi da costui in sul principio del racconto, l'autore di essa
ricorda che Trajano perseguitò ferocemente i cristiani, e dice che
San Gregorio lo trasse bensì dall'inferno, ma non però gli aperse le
porte del paradiso. Più antico di questi sarebbe il racconto contenuto
nella omelia _De iis qui in fide dormierunt_ (XVI), attribuita a San
Giovanni Damasceno, se veramente questo padre ne fosse l'autore. Ma che
non sia dimostra fra l'altro quanto in un luogo di esso racconto si
afferma, cioè che il miracolo era noto in tutto l'Oriente e in tutto
l'Occidente, cosa che Giovanni Damasceno non avrebbe potuto affermare
a mezzo del secolo VIII, quando nel IX vediamo Giovanni Diacono non
conoscere ancora altre fonti della leggenda che la relazione sparsane
per le Chiese d'Inghilterra[14].

Questa leggenda, di cui abbiamo veduto la prima forma e le
testimonianze più antiche, era destinata ad avere per tutto il medio
evo una grande e crescente celebrità. Parecchie ragioni cooperavano
a procacciarle favore; anzi tutto la qualità dei personaggi che vi
sono introdotti; da una parte un imperatore romano, dall'altra un
pontefice famosissimo e che porse argomento d'altre leggende alla
fantasia popolare; poi la stessa curiosità della favola; finalmente
la esemplarità sua. In tempi di fede assai viva, quando le coscienze
erano senza posa affaticate, o almeno molto spesso ricorse dal
pensiero dell'altra vita, e l'uomo era del continuo richiamato alla
considerazione delle mille pratiche e de' mille espedienti onde poteva
giovarsi per conseguire l'eterna salute, la storia di un principe
pagano, a cui era fatta grazia di uscire dall'inferno e di salire
tra i beati, non poteva non trovare avidi ascoltatori e ricordatori
fedeli. Quale prova più trionfale della efficacia della preghiera, che,
secondo la bella espressione di Dante, fa forza alla stessa divinità,
e quale più chiara dimostrazione che l'esercizio di una sola virtù può
ricomprare tutta una vita di colpe? I leggendarii abbondano di esempii
d'uomini sceleratissimi che riuscirono a salvarsi, o perchè in mezzo
a tutte le sceleraggini loro durarono devoti di Maria, o perchè con un
atto di pietà o di giustizia interruppero il corso delle loro nequizie.
Oltre a ciò la storia di Trajano, a cui un atto di giustizia acquista
il cielo, poteva essere ricordata come esempio illustre a quanti
hanno in terra il grave carico di reggere i popoli e di amministrar
la giustizia. Il medio evo ebbe dello stato un concetto essenzialmente
etico, e pose la giustizia primo fondamento della politica.

    Legem servare, hoc est regnare.
dice Vipone in uno de' suoi Proverbii composti nel 1027, o 1028,
e dedicati ad Enrico III. Dante pone in Giove i principi che
esercitarono la giustizia, e Calandre avverte nella sua Cronaca rimata
degl'imperatori:

    Tant faz je les princes savoir
    Que nus n'a tresor ne avoir
    S'il n'a justise et verite.

Però è da meravigliare che quello esempio della giustizia di Trajano
non si trovi ricordato in alcuno di quei trattati di cui ebbe copia il
medio evo, intesi a instituire i principi nella virtù e nelle dottrine
del buon governo, come sarebbero il _De regimine principum_ di Egidio
Colonna, e il _De regimine rectoris_ di Fra Paolino Minorita. Ma nel
poema francese di Girart de Roussillon, composto fra il 1330 e il
1348[15], si narra il fatto della giustizia di Trajano, e si dice
espressamente che il valoroso Gerardo, il quale nell'esercizio di tutte
le virtù cercava di seguire gli esempii degli uomini eccellenti, come
Romolo, Giulio Cesare Augusto, non dimenticò quello che aveva lasciato
al mondo Trajano:

    Trop bien li sovenoit de Trajain l'emperiere[16].

Dopo il riferimento fattone da Giovanni Diacono, che dovette scrivere
la sua Vita di San Gregorio tra l'872 e l'882, noi non troviamo, per
lo spazio di quasi tre secoli, altra testimonianza della leggenda di
Trajano, sino a giungere a quella che si trova nel _Polycraticus_ di
Giovanni Sarisberiense, finito di scrivere nel 1159. Questo è un fatto
molto importante, perchè dimostra che la nostra leggenda stentò gran
tempo a ottenere il favore che poi più tardi le fu così universalmente
consentito, e non si diffuse da prima fuori di quella Inghilterra
d'onde Giovanni Diacono l'aveva ricevuta, e dove ora la vediamo
novamente raccolta ed esposta da uno scrittore celeberrimo[17].

Giovanni Sarisberiense, dopo aver dichiarato di porre Trajano al di
sopra di Cesare, di Augusto e di Tito, entra a narrare la leggenda in
questa forma[18]: «Ut vero in laude Trajani facilius aquiescant, qui
alios ei praeferendos opinantur, virtutes ejus legitur commendasse
sanctissimus papa Gregorius, et fusis pro eo lachrymis inferorum
compescuisse incendia, Domino remunerante in misericordia uberi
justitiam, quam viduae flenti exibuerat Trajanus. Quum enim memoratus
Imperator jam equum adscendisset, ad bellum profecturus, vidua
apprehenso pede illius, miserabiliter lugens, sibi justitiam fieri
petiit, de his qui filium ejus optimum et innocentissimum juvenem
injuste occiderant. Tu, inquit Auguste, imperas, et ego tam atrocem
injuriam patior? Ego, inquit imperator, satisfaciam tibi quum rediero.
Quid, inquit illa, si non redieris? Successor meus, ait Trajanus,
satisfaciet tibi. Et illa: Quid tibi proderit si alius benefecerit?
Tu mihi debitor es, secundum opera mercedem recepturus. Fraus utique
est nolle reddere quod debetur. Successor tuus injuriam patientibus,
pro se tenebitur. Te non liberabit justitia aliena. Bene agetur cum
successore tuo, si liberaverit se ipsum. His verbis motus imperator,
descendit de equo, et causam presentialiter examinavit, et condigna
satisfactione viduam consolatus est. Fertur autem beatissimus Gregorius
Papa tamdiu pro eo fudisse lachrymas, donec ei in revelatione nunciatum
sit Trajanum a poenis inferni liberatum sub ea tamen conditione, ne
ulterius pro aliquo infedeli Deum sollicitare praesumeret».

In questo racconto si nota anzi tutto il maggiore svolgimento dato alle
ragioni con cui la vedova stringe Trajano a farle pronta giustizia:
esso è senza dubbio dovuto allo stesso Giovanni Sarisberiense, il
quale, discorrendo, in quella parte del suo libro, della epistola
indirizzata da Plutarco a Trajano, e del buon reggimento degli stati,
trovò opportuno d'insistere alquanto più sulla virtù capitale del
principe, che è la sollecita amministrazione della giustizia. Quanto al
rimanente del racconto Gaston Paris crede che Giovanni Sarisberiense
l'abbia composto traendone gli elementi, così dal racconto di Paolo,
come da quello di Giovanni[19]. Ma su ciò si può muovere un dubbio.
Giacchè Paolo e Giovanni derivano da una fonte comune i loro racconti,
non avrebbe potuto da questa medesima fonte derivare il suo Giovanni
Sarisberiense? Sarebbe così più semplicemente spiegato il fatto dei
riscontri di concetti e di parole che Gaston Paris viene notando.
Ai tempi in cui Giovanni Sarisberiense scriveva è molto probabile
che in qualche chiesa d'Inghilterra si conservassero ancora le
relazioni antiche a cui Giovanni Diacono accenna, per modo che non
fosse necessario ad uno scrittore inglese l'andare ad attingere
in libri di stranieri la notizia del miracolo; e d'altra parte mi
ripugna di ammettere che l'autore del _Policratico_, uso a conversare
coi classici, volesse torsi la briga di confrontar fra di loro due
scritture quali sono quelle di Paolo e di Giovanni, e studiarsi di
scegliere in ciascuna di esse le parole che meglio gli si affacevano.

Se alcuni tra i narratori che vengono dopo si attengono alla versione
di Giovanni Diacono[20], come fanno, fra gli altri, l'autore
degli Annales Magdeburgenses[21], Giovanni Bromyard[22], Teodoro
Engelhusio[23], Gotofredo da Viterbo[24], il numero di coloro che
seguitano la versione di Giovanni Sarisberiense è di gran lunga
maggiore. Quella per contro di Paolo Diacono ebbe pochi seguaci,
benchè lo scritto che la contiene fosse conosciutissimo. Tuttavia
da essa par che tragga principio quanto in alcuni racconti di tempo
posteriore si narra di un castigo toccato a San Gregorio, poichè di un
castigo sì fatto Giovanni Diacono e Giovanni Sarisberiense non dicono
parola. La narrazione di Paolo è inoltre recata per intero da Bonino
Mombrizio nella _Vita Sancti Gregorii papae_, la quale fa parte del
suo _Sanctuarium_. Il racconto di Giovanni Sarisberiense fu da Elinando
inserito nella sua cronaca, d'onde Vincenzo Bellovacense lo recò nello
_Speculum historiale_[25]. Gli è probabilmente dopo essere entrata in
questa celebre compilazione, e per suo mezzo, che la leggenda ottenne
maggiore diffusione ed entrò nel numero delle finzioni più famose del
medio evo. Dalla cronaca di Elinando, o dallo _Speculum_ di Vincenzo,
passa la favola nel _Fiore di filosofi_, attribuito contr'ogni ragione
a Brunetto Latini[26], e poi dal _Fiore_ passa nel _Novellino_[27].
L'autore del _Dialogus creaturarum_ che, come Dante, pone il fatto
di Trajano fra gli esempii di umiltà, cita, (cap. LXVIII), per una
delle due versioni che reca, Elinando: _Helinandus in gestis Romanorum
narrat_. Venuto in sulla prima balza del monte del Purgatorio Dante
trova una ripa _di marmo candido e adorno_, dove sono con arte
mirabile intagliati alcuni solenni esempii di umiltà, e con la scena
dell'Annunziazione, e con quella di Davide danzante davanti all'arca
santa, quella ancora di Trajano e della vedova. I versi impareggiabili
in cui tale scena è ritratta, benchè cogniti a tutti, vogliono essere
riportati per intero.

    Quivi era storïata l'alta gloria
      Del roman principato, il cui valore
      Mosse Gregorio alla sua gran vittoria:
    Io dico di Traiano imperadore;
      Ed una vedovella gli era al freno,
      Di lagrime atteggiata e di dolore.
    Intorno a lui parca calcato e pieno
      Di cavalieri, e l'aquile nell'oro
      Sovr'esso in vista al vento si movieno.
    La miserella intra tutti costoro
      Parea dicer: «Signor, fammi vendetta
      Di mio figliuol ch'è morto, ond'io m'accoro».
    Ed egli a lei rispondere: «Ora aspetta
      Tanto ch'io torni». E quella: «Signor mio,»
      Come persona in cui dolor s'affretta,
    «Se tu non torni?» Ed ei: «Chi fia dov'io
      La ti farà.» E quella: «L'altrui bene
      A te che fia se il tuo metti in obblio?»
    Ond'egli: «Or ti conforta, che conviene
      Ch'io solva il mio dovere, anzi ch'io mova:
      Giustizia vuole e pietà mi ritiene»[28].

Della seconda parte della leggenda dov'è narrata la salvazione di
Trajano, qui il poeta non fa che un cenno; ma egli poi trova, com'è
noto, l'anima dell'imperatore in Giove, tra quelle che hanno premio di
maggior gloria[29]. Il racconto che Benvenuto da Imola introduce nel
suo Commento, al c. X del _Purgatorio_, lascia dubbio se provenga dallo
_Speculum_, oppure dal _Polycraticus_.

Nei varii documenti passati in rassegna sin qui abbiamo veduto la
leggenda, o almeno la prima parte di essa, conservare la forma sua
primitiva; ma già molto prima di Dante, prima ancora, senza dubbio,
dello stesso Giovanni Sarisberiense, il lavoro di lenta e progressiva
alterazione che a mano a mano viene trasformando tutte le leggende, era
cominciato anche dentro di questa. Nella _Kaiserchronik_, composta,
com'è noto, verso il mezzo del XII secolo, i lineamenti principali
della leggenda rimangono immutati, ma la narrazione si allarga e si
arricchisce di alcuni particolari curiosi. Precede l'elogio di Trajano,

      Trâjânus was ein helt kuone
    unde milde genuoge[30]:

egli giudicava con pari giustizia il signore e il servo, non accettava
doni, e puniva di morte chiunque tentasse corromperlo con ricchezze;

    er hete ein kuniclîch leben[31].

Un giorno vennero messi ad annunziare a Trajano che i Normanni avevano
uccise le sue genti, erano penetrati nelle terre dell'impero, rubando
e incendiando, e tenevano il mare con le loro navi. Trajano raccolse
il suo esercito per passare il mare; in quella che stava per mettere
il piede nella staffa ecco farglisi incontro una vedova che con alte
strida gli domanda giustizia. Segue il consueto dialogo; ma in esso,
più che in altri racconti non si vegga, spiccano l'arditezza della
vedova e l'umiltà di Trajano: quella minaccia all'imperatore l'eterno
castigo, questi prega la vedova di lasciarnelo andare. Vinto poscia
dalle ragioni di lei, egli scavalca, fa cercare il colpevole per tutta
_Roma e Laterano_, lo fa condurre alla sua presenza. Costui non è
senza scusa: egli ha ucciso il figliuolo della vedova per vendicare il
proprio fratello che da quello gli era stato morto. Ma tale scusa non è
ammessa per buona da Trajano, che dice al reo: Se t'era stato ucciso il
fratello, tu dovevi ricorrere a me, dappoichè i Romani mi hanno scelto
a loro giudice. Tu hai sostituito il tuo al mio giudizio. Dopo di ciò
fa decapitare l'uccisore, e presenta il capo alla vedova che loda e
benedice l'imperatore. Questi allora si rimette in cammino, passa il
mare, sconfigge i Normanni, fa prigione il loro re e torna glorioso e
trionfante in Laterano[32]. Segue la narrazione del miracolo operato
a intercessione di San Gregorio, e qui appajono nella leggenda alcune
particolarità nuove sulle quali tornerò or ora.

Una delle variazioni presentate dal racconto della _Kaiserchronik_
non è senza importanza: il figliuolo della vedova non è più il
giustissimo ed innocentissimo giovane delle versioni più antiche;
ma è egli stesso un omicida; e Trajano punisce l'uccisore di lui,
non tanto perchè si sia lordato le mani di sangue, quanto perchè si
arrogò di farsi giustizia da sè, recando offesa per cotal modo alle
prerogative imperiali. Il motivo dell'azione di Trajano è più politico
che morale, e con esso assai malamente può conciliarsi la presentazione
che del capo del secondo uccisore è fatta alla vedova. La leggenda è
dissestata, e le varie sue parti non si raffrontano più come prima. In
questa medesima forma è essa narrata da Heinrich von München, il quale
segue verso a verso il racconto della _Kaiserchronik_[33].

Ma a tale punto una variazione di molto maggior rilievo, di cui si
hanno testimonianze del mezzo del secolo XIII, appare nella leggenda.
Dacchè la fantasia e degli eruditi e del popolo si era venuta
rappresentando Trajano come un tipo perfetto di principe giusto, voleva
la logica consueta della leggenda, e richiedeva in certo qual modo il
sentimento morale, che si esagerasse la gravità della prova per far
più bella la vittoria del principe e più luminoso l'esempio. Nella
tradizione più antica Trajano, con piegarsi ai prieghi della vedova
non incorre in danno alcuno, ma solo ritarda la sua mossa contro ai
nemici. L'uccisore ch'egli punisce gli è estraneo, ed anzi nel racconto
della _Kaiserchronik_ è reo anche verso di lui. La leggenda fa un salto
e mostra a un tratto nella persona dell'omicida lo stesso figliuolo
di Trajano. La nuova versione appare qua e là diversa, quando con
una, quando con altra movenza, ma nella forma sua più comune svolge
il seguente fatto: Il figlio di Trajano, trascorrendo col cavallo
per la città, uccide involontariamente il figliuolo della vedova;
Trajano vuol punire il suo proprio figliuolo di morte; ma richiestone
da colei, a lei lo concede, perchè le sia in luogo di quello che ha
perduto. Questa versione si trova nella cronaca di Giacomo Twinger di
Könighofen (XIV sec.) nella _Cronica von der hilliger Stat Cöllen_
(versione tedesca degli Annales Colonienses maximi) nelle Vite
dei Santi di Hermann von Fritslar[34], nel commento in prosa allo
_Speculum Regum_ di Gotofredo da Viterbo[35], in uno dei due racconti
compendiati da Giacomo da Voragine[36], in uno dei due compendiati
nel _Dialogus creaturarum_[37], nel Commento di Jacopo della Lana[38],
nel _Romuleon_[39], nella Cronaca di Giacomo da Varignana[40], nella
_Historia Imperialis_ di Giovanni da Verona[41], nel Commento di
Guglielmo Capello al Dittamondo[42], in certe redazioni più recenti dei
_Mirabilia_[43].

Di una versione strettamente affine a questa, ma nella quale, con più
rigorosa giustizia, Trajano faceva eseguire nella persona del proprio
figliuolo la pronunziata sentenza sono rimaste alcune scarse vestigia.
In una romanza spagnuola del secolo XIII si leggono questi versi[44]:

    Acuérdate de Trajano
    En la justicia guardar,
    Que no dejó sin castigo
    Su único hijo carnal:
    Aunque perdonó la parte,
    El no quiso perdonar.

Essi hanno un assai curioso riscontro nel racconto del _Novellino_
secondo la lezione del cod. Panciatichiano-Palatino, dove si dice: «Lo
Imperadore rivenne lo malificio; trovò che llo suo figliuolo l'avea
morto correndo lo cavallo isciaghuratamente. Fecene giustizia et non
volse pregho, poi cavalcoe et isconfisse li nimici».

Ma qui accade avvertire un fatto, il quale per la storia della leggenda
nostra non è senza importanza. La versione testè esaminata, dove
il figliuolo dell'imperatore è dato in compenso alla vedova, appare
già nel _Dolopathos_ latino di Giovanni di Alta Selva[45], salvo che
qui del principe giusto non si dice che sia Trajano, ma solamente un
re dei Romani, _quidam Romanorum rex_. Lo stesso silenzio quanto al
nome fu osservato nel _Dolopathos_ francese d'Herbers. Ora Giovanni
d'Alta Selva compose il suo libro negli anni fra il 1184 e il 1212,
e potrebbe nascer dubbio se la storia che egli racconta, e che altri
poi attribuiscono a Trajano, non fosse in principio del tutto estranea
a questo imperatore. Ma tale dubbio può essere facilmente dileguato
confrontando il racconto suo con quello di Giovanni Diacono, giacchè
il riscontro evidente di alcuni luoghi mostra che noi qui abbiamo
veramente dinnanzi l'antica leggenda di Trajano, tuttochè profondamente
variata e scompagnata dal nome di costui[46].

Corrente dunque il XII secolo la leggenda circolava sotto tre diverse
forme: quella del _Polycraticus_, quella della _Kaiserchronik_, quella
del _Dolopathos_. La seconda ebbe poca fortuna; molta n'ebbero per
contrario la prima e la terza; e questa, forse perchè ricevuta in
libri di minore autorità, palesa, a fronte di quella, maggior tendenza
alla variazione. In un racconto di Enenkel[47] l'unico figlio di
Trajano stupra una fanciulla; la madre di costei lo accusa e chiede
giustizia. Trajano, sopraffatto dal dolore, ma risoluto di compiere
il dover suo, si strappa i capelli e la barba, parla teneramente, ma
fermamente al figliuolo, gli annunzia la morte che lo aspetta. Indarno
s'inframmettono gli uomini di corte; indarno la vedova dice di voler
per denari rinunziare alla sua vendetta; Trajano si rimane nel suo
proposito; ma poi con un sottile ragionamento si persuade che senza
tor la vita al figliuolo può soddisfare alla giustizia togliendogli
gli occhi; e poichè padre e figlio sono una carne, fa strappare un
occhio al figlio e l'altro a sè. Questa variante nacque senza dubbio,
come fu già notato dal Massmann[48], per influsso della nota storia di
Zaleuco, che, narrata primamente da Valerio Massimo, trovasi ripetuta
in numerose scritture del medio evo.

Ma mentre varia nel modo che si è veduto la prima parte della leggenda,
dov'è narrata la giustizia di Trajano, varia anche la seconda, dov'è
narrato il miracolo; e come in quella si esagera il contrasto morale,
così in questa si esagera il meraviglioso. Non saprei dire chi sia
stato primo a narrare il nuovo miracolo a cui accenno; ma lo riferirò
con le stesse parole di Jacopo della Lana, che commentando il noto
luogo del canto X del Purgatorio così lo racconta: «Elli si legge
che al tempo di san Gregorio papa si cavò a Roma una fossa per fare
fondamento d'uno lavorio, e cavando li maestri, trovonno sotto terra
uno monumento, lo quale fu aperto, e dentro era in fra l'altre ossa
quello della testa del defunto, ed avea la lingua così rigida, carnosa
e fresca, come fusse pure in quella ora seppellita. Considerato li
maestri che molto tempo era scorso da quello die a quello, che potea
essere stato seppellito lo detto defunto, tenneno questa invenzione
della lingua essere gran meraviglia, e publiconno a molta gente. Alle
orecchie di san Gregorio venne tal novità, fessela portare dinanzi,
e congiurolla da parte di Dio vivo e vero, e per la fede cristiana,
della quale elli era sommo pontefice, ch'ella li dovesse dire di che
condizione fu nella prima vita. La lingua rispuose: io fui Traiano
imperadore di Roma, che signoreggiai nel cotale tempo, dappoi che
Cristo discese nella Vergine, e sono all'inferno perch'io non fui
con fede. Investigato Gregorio della condizione di costui per quelle
scritture che si trovonno, si trovò ch'elli fu uomo di grandissima
giustizia e misericordiosa persona; e tra l'altre novelle trovò, che
essendo armato e cavalcando con tutte le sue milizie fuori di Roma,
andando per grandi fatti una vedovella, ecc.». Francesco da Buti
ripete un po' più in breve questo stesso racconto; e il miracolo si
trova inoltre narrato nel _Fiore di filosofi_, nel _Novellino_, nel
già citato commento allo _Speculum regum_ di Gotofredo da Viterbo,
altrove. Ma esso non è nuovo tra le finzioni ascetiche, e prima di
apparire nella leggenda di Trajano aveva già avuto, senza dubbio, una
lunga storia. Di San Macario si racconta che andando una volta per
il deserto trovò un teschio, il quale, interrogato da lui, rispose, e
disse che al mondo era stato pagano, e gli diè contezza dell'inferno
dov'era relegata l'anima sua[49]. Werner Rolewing narra quanto
segue[50]: «Circa annum domini ut puto .M.CC. in Vienna repertum fuit
caput cujusdam defuncti, lingua adhuc integra cum labiis, et loquebatur
recte. Episcopo autem interrogante qualis fuisset in vita, respondit:
Ego eram paganus et judex in hoc loco, nec unquam lingua mea protulit
iniquam sententiam, quare etiam mori non possum, donec aqua Baptismi
renatus, ad coelum evolem, quare propter hoc hanc gratiam apud Deum
merui. Baptizato igitur capite, statim lingua in favillam corruit
et spiritus ad Dominum evolavit». Fra i miracoli della Vergine se ne
trovano due che narrano un fatto in tutto simile, salvo che il teschio
è non di pagano, ma di cristiano, e aspetta non il battesimo, ma la
confessione[51].

Del modo onde San Gregorio fu tratto a intercedere per l'anima di
Trajano si narra diversamente nelle diverse relazioni della leggenda.
I racconti più antichi di Paolo e di Giovanni accennano oscuramente a
qualche opera d'arte in cui fosse istoriato il fatto, e che sarebbesi
veduto nel Foro stesso di Trajano. Negli _Annales Magdeburgenses_
(_Chronographus Saxo_) composti in sul finire del XII secolo, ciò è
detto più chiaramente: «Nam in ejus foro, ubi cuncta Traiani insignia
facta espressa sunt, inter cetera hoc quoque mira celatura depictum
est, quod properanti sibi ad proelium, ecc.»[52]. I _Mirabilia_
nominano l'Arcus Pietatis, dinnanzi al Pantheon[53]. In un commento
alla _Divina Commedia_, il quale è in sostanza tutt'uno con quello
di Jacopo della Lana[54], si dice che San Gregorio vide la Storia
di Trajano dipinta in un tempio. In altri racconti si dice che San
{regorio lesse la storia di Trajano[55], oppure che se ne rammentò[56].

Già nella Vita di San Gregorio scritta da Paolo Diacono si fa
cenno di un castigo inflitto da Dio a quel pontefice per aver osato
d'intercedere per l'anima di un pagano, ma non si dice qual fosse. Nei
racconti posteriori anche di questo si volle avere più sicura notizia.
Gotofredo da Viterbo narra che, in punizione della sua petulanza,
Gregorio fu così malamente percosso dall'angelo che gli convenne poi
andar zoppo gran tempo. Fazio degli Uberti sa soltanto che Gregorio
_non fu dopo sano_[57]. Nel _Fiore di filosofi_ si dice[58] che «Dio
l'impuose penitenza o volesse istare due dì in purgatorio, o sempre
mai malato di febbre e di male di fianco. Santo Grigorio per minore
pena disse che volea stare sempre con male di febbre e di fianco».
Nella _Kaiserchronik_ l'angelo annunzia a Gregorio che la sua prece
è esaudita, che l'anima di Trajano gli sarà data in custodia sino al
dì del giudizio, ma che in pena della sua tracotanza dovrà soffrire
di sette diverse malattie e poscia morire; e come gli annunzia così
succede. Qui si ha un riflesso di qualche altra leggenda ascetica[59].

La leggenda di Trajano, considerata così nella sua forma più antica,
come nella più recente, ha parecchi riscontri fra le storie e le
leggende dell'antichità e del medio evo. Di atti di severa giustizia
compiuti da padri nella persona de' proprii figliuoli son troppi
esempii, e non accade qui di riportarne alcuno in particolare; ma
un qualche parallelo si può trovare anche al racconto di Paolo e di
Giovanni. Niceforo Patriarca (m. nell'828) narra il seguente fatto
avvenuto sotto il regno di Eraclio I[60]. Certo Vitulino viene a
contesa con una vedova sua vicina; nel tafferuglio uno dei figliuoli
di costei rimane ucciso dai servi di quello. Recando con sè le vesti
insanguinate del figlio, la donna va a Costantinopoli, incontra
l'imperatore per via, ferma il cavallo per le redini, e mostrando
le spoglie dell'ucciso domanda giustizia. Lo imperatore risponde
di volerci pensare. Dopo alcun tempo viene a Costantinopoli anche
Vitulino, e l'imperatore, esaminata la cosa, lo fa morire. Un fatto in
tutto simile a quello narrato nella prima versione della leggenda si
trova anche narrato di quel Saladino, il cui nome fu così popolare nel
medio evo. Qui probabilmente non d'altro si tratta che di una semplice
trasposizione.

Tale è, considerata nel suo svolgimento e nelle varie sue forme, la
leggenda di cui il medio evo venne circondando il nome di Trajano; ma
dal detto sin qui non si rileva nulla che valga a spargere un qualche
lume sulle origini e le ragioni di essa. Nel secolo VIII, o al più
tardi nel IX, ritenuto apocrifo il racconto attribuito a Paolo Diacono,
essa ci si mostra già interamente costituita; ma noi non sappiamo nè in
qual tempo, nè dove sia nata, nè quali idee, o quali sentimenti abbiano
influito nella sua formazione. Non sarà fuor di luogo il soffermarsi
alquanto a fare anche di ciò qualche indagine, sebbene non sia
possibile il venire ad altre conclusioni che di semplice probabilità.

Anzi tutto è da notare che nè Gregorio di Tours, nè Isidoro di
Siviglia, il quale da alcuno, benchè a torto, si pretese fosse stato
discepolo di San Gregorio, nè Beda, dicono nulla che neanche dalla
lontana accenni alla leggenda, sebbene tutti e tre parlino con molta
ammirazione, e qual più, qual meno diffusamente, del gran pontefice. Il
silenzio di Gregorio di Tours e d'Isidoro di Siviglia non proverebbe,
per ragioni che or ora vedremo, che la leggenda non fosse già nata;
ma non si potrebbe dire altrettanto del silenzio di Beda, se da altra
banda non si vedesse Beda aver taciuto, non il solo miracolo operato
in benefizio di Trajano, ma tutti gli altri ancora che si leggono nelle
posteriori Vite di San Gregorio.

La leggenda quale si ha nei racconti primitivi, è evidentemente
composta di due parti, l'una delle quali narra l'atto di giustizia
compiuto da Trajano, l'altra narra il miracolo della redenzione di
Trajano dall'inferno. Di queste due parti la prima è indubitabilmente
più antica, e nulla prova che abbia origine cristiana; la seconda
è molto più recente, e la sua origine cristiana è manifesta. Ciò è
provato ancora dagli stessi racconti di Paolo e di Giovanni, dove
si dice che, passando per il foro Trajano, San Gregorio apprese, o
ricordò, l'atto di giustizia dell'imperatore, e dove poi il fatto
stesso è narrato, secondo dice Giovanni, _sicut a prioribus traditur_.
Tutto ciò importa l'esistenza di una tradizione da lungo tempo fermata
ed universalmente conosciuta. Questa tradizione, che nei racconti
citati vedesi legata a un qualche monumento del Foro Trajano, esistente
ancora senza dubbio, ai tempi in cui Giovanni Diacono scriveva, doveva
essere nata in Roma stessa, dove risaliva forse a tempi molto remoti.
Non è improbabile che la sorgente prima di essa sia un passo delle
Istorie di Dione Cassio, il quale narra di Adriano un fatto molto
simile a quello attribuito poscia a Trajano. La sostituzione del nome
di questo a quello è cosa normalissima, secondo i processi generali
della leggenda; ma nel caso particolare, tenuto conto della riputazione
crescente di Trajano, appar quasi necessario. Se non che nel racconto
di Dione non trovandosi nulla che spieghi certe particolarità della
leggenda svolta e cresciuta, quali sarebbero la presentazione di
Trajano a cavallo, circondato dalle sue milizie, e in sul punto
di partir per la guerra, e il fatto stesso per cui si fa chiedere
giustizia dalla vedova, per aver ragione di tutta la tradizione bisogna
ricorrere ad altro. E gli è qui che si trae in mezzo la testimonianza
antica di quelle scolture nelle quali tutto il caso sarebbe stato
raffigurato, e in presenza delle quali fu di esso informato, o
si rammentò San Gregorio. Un bassorilievo rappresentante Trajano
vittorioso, cinto dai suoi cavalieri, e con la figura muliebre di una
provincia sottomessa inginocchiata dinnanzi al cavallo, figurazione
simbolica tutt'altro che insolita, suggerì senz'alcun dubbio le nuove
finzioni. Una congettura sì fatta, proposta già da parecchi, oltrechè
fondata nelle stesse testimonianze degli scrittori, è ancora sotto ogni
rispetto plausibile[61]. Ma il Foro Trajano, che, in parte almeno, si
conservò sino al secolo VIII, andò poscia soggetto a tali distruzioni,
che nell'XI e nel XII non se ne ricordava più nemmeno la situazione
precisa. Il bassorilievo in cui il popolo vedeva rappresentata
la storia di Trajano e della vedova, sparve insieme col resto; ma
poichè la leggenda era già formata, e la tradizione pertinacemente
la custodiva, il popolo stesso, senza dubbio, cercò tra le rovine
della sua città, un altro monumento, a cui novamente legarla. Ed ecco
introdursi nella leggenda l'Arco della Pietà, di cui fanno ricordo
recensioni meno antiche dei _Mirabilia_. Può darsi che il nome di Arcus
Pietatis fosse dato al monumento dopo appunto che la leggenda si fu
ad esso legata; ma si vuol notare tuttavia che in Roma sembra esservi
stato anche un altro arco dello stesso nome[62].

Sin qui della prima parte della leggenda; ma che si ha a dire della
seconda? dove e perchè prese essa nascimento? Notisi anzi tutto
che la credenza ivi espressa che un pagano possa esser salvo, non
è così singolare come potrebbe a primo aspetto parere. Senza voler
risalire sino ad Origene e ad alcuni de' suoi seguaci, da cui fu
considerata possibile persino la redenzione del diavolo, più e
più scrittori ecclesiastici si possono ricordare, che, come Glica,
Gabriele di Filadelfia, e Giorgio Coresio tra' Greci, credettero
i dannati potessero essere liberati per le preghiere dei fedeli.
Secondo la leggenda Santa Tecla liberò dall'inferno la propria madre
Falconilla. Dante pone in paradiso anche il pagano Rifeo, e Ugo da
San Vittore, che fu uno dei teologi più studiati dal poeta, dice che a
Dio non può mancar modo di salvare coloro che, senza peccato, vissero
prima di Cristo[63]. Il popolo che non si spaventa delle difficoltà
teologiche, va anche più oltre, e fa uscir dall'inferno e introduce
in paradiso tali che di tanta grazia non pajono in nessun modo
meritevoli. Mi basterà ricordare ciò che nel noto fabliau francese si
narra del giullare che perde, giocando con San Pietro, tutte le anime
dell'inferno, alla cui custodia era stato preposto, ed entra poi con
loro in paradiso; e ciò che la fiaba popolare racconta della madre
pessima di San Pietro, la quale sarebbe con l'ajuto del figliuolo
riuscita a salvarsi, se, per non poter soffrire che con lei si
salvassero anche gli altri dannati, non avesse stancata la misericordia
di Dio.

Gaston Paris crede che la seconda parte della leggenda possa trarre
la origine da un fatto veramente accaduto[64]. Non è improbabile, dice
l'illustre critico, che San Gregorio, ricordando le virtù di Trajano,
abbia provato vivo rincrescimento della perdizione di un così giusto
principe, abbia pregato per lui, ed abbia avuto una visione nella quale
gli parve di udire una voce dal cielo che gli annunziava esaudita
la sua preghiera. Certo un caso sì fatto non potrebbe dirsi nuovo
nella storia dell'ascetismo cristiano, nè la sentenza dallo stesso
San Gregorio pronunziata nel quarto libro dei suoi Dialoghi, che per
gli infedeli non si deve pregare, sarebbe argomento sufficiente per
escluderne in tutto la possibilità. Tuttavia la congettura mi sembra
poco probabile. Se Gregorio Magno avesse veramente avuto una visione
di tale natura, prima che in qualsivoglia altro luogo sarebbesi
risaputo in Roma, nè in Roma poi, dove l'altra leggenda di Trajano
era nata, se ne sarebbe così facilmente perduta memoria. Ora Giovanni
Diacono dice esplicitamente di desumere il suo racconto da documenti
divulgati per le Chiese d'Inghilterra, e soggiunge poi che mentre i
Romani aggiustavano fede a tutti gli altri miracoli che si narravano
del santo pontefice, di questo della redenzione di Trajano (_de hoc
quod apud Saxones legitur_) dubitavano fortemente. Gli è dunque in
Bretagna che ragionevolmente si deve cercare l'origine della seconda
leggenda; e quando si pensi che gli Angli andavano debitori a San
Gregorio della loro conversione al cristianesimo, e che la venerazione
per tanto benefattore doveva necessariamente accrescersi come più si
spandeva e si invigoriva la fede, non parrà strano che a costui fosse
tra essi, attribuito un nuovo miracolo, che le altre genti conobbero e
ammisero solo più tardi. Dico tra essi e non da essi; giacchè dell'atto
di giustizia per cui andava famoso in Roma il nome di Trajano nulla
potevano sapere i nuovi convertiti, mentre non lo potevano ignorare
l'apostolo Agostino e i compagni suoi che venivano da Roma. Dire con
sicurezza in quale occasione e per quali motivi il miracolo sia stato
immaginato non è possibile; ma se si ponga mente alle condizioni in
cui fu fatta quella missione, all'interesse che i missionarii potevano
avere di mostrare con un esempio luminoso quale fosse la potenza
spirituale di un pontefice, e di mostrare ciò particolarmente a re
barbari con l'esempio di un principe pagano salvato, per le preghiere
di un pontefice appunto, dall'inferno, si potranno forse scorgere
alcune delle ragioni della finzione. Se non che tutto ciò è semplice
congettura, e potrebbe anche darsi che la finzione avesse origini
molto più umili, e si dovesse tutta alla fantasia di qualche Sassone
pellegrino, che recatosi a Roma, piena la memoria delle virtù e dei
miracoli di San Gregorio, udita colà narrare la leggenda di Trajano, ne
togliesse argomento di un nuovo miracolo, e riportasse quindi ogni cosa
nel suo paese natale.

La leggenda di Trajano diede molto da pensare ai teologi; ma non è
questo il luogo di entrare in un minuzioso esame delle loro opinioni.
Già nei racconti di Paolo e di Giovanni si accenna ai dubbii che essa
suscitava negli animi. San Tommaso e Abelardo ammettevano il miracolo,
lo ammetteva Santa Brigida, lo ammettevano i teologi deputati dal
Concilio di Basilea (1431-1443) ad esaminare le famose _Rivelazioni_
di questa santa. Altri recisamente lo negavano, come lo negarono poi
il Bellarmino e il Baronio[65]. Coloro stessi poi che l'ammettevano
discordavano quanto al modo del suo compimento e circa la sorte toccata
a Trajano; e chi credeva che quest'imperatore non fosse veramente
mai andato all'inferno, ma fosse stato serbato alle preghiere di
San Gregorio; chi lo credeva in inferno tuttavia, ma pensava che
per misericordia di Dio egli non vi patisse più i tormenti a cui
sono soggetti tutti gli altri dannati; chi lo credeva bensì uscito
dall'inferno, ma non ammesso in paradiso; chi finalmente diceva che,
richiamato miracolosamente in vita, egli era stato battezzato da San
Gregorio, e, morto poi la seconda volta, era senz'altro salito alla
gloria celeste. Questa è l'opinione di Guglielmo di Auxerre e di Dante,
il quale fa dir di Trajano all'aquila simbolica in Giove:

               dallo inferno u' non si riede
    Giammai a buon voler, tornò all'ossa[66].

Questa opinione poteva essere confortata e confermata da molti esempii
di casi simili narrati nei leggendarii. Fra i miracoli della Vergine
figurano assai spesso storie di peccatori che, morti impenitenti, e
dannati, furono per la intercessione di lei richiamati in vita, e,
fatta debita penitenza, poterono salvarsi[67]. Gioverà finalmente
ricordare che San Gregorio, il quale, secondo un'altra leggenda
famosa del medio evo, nacque di amori incestuosi e diventò marito
della propria sua madre, ricomprato con asprissima penitenza e con
l'esercizio di ogni virtù il suo involontario peccato, riuscì a
salvare, oltre alla madre e a sè stesso, anche il padre dannato[68].

Altre leggende intorno a Trajano nell'occidente d'Europa non si sono
formate; ma in Rumenia le gesta del conquistatore della Dacia diedero
argomento, come anche quelle di Aureliano, a canti popolari epici, i
quali, disgraziatamente, non furono insino ad ora da nessuno raccolti.
Sia qui notato di passaggio che il noto apologo dell'animale senza
cuore, apologo che risale insino ad Esopo, e in varie forme si trova
narrato in molte scritture del medio evo, è nei _Gesta Romanorum_
riferito a Trajano[69].

I _Mirabilia_, descrivendo i monumenti principali del Foro di
Trajano uniscono insieme i nomi di questo imperatore e di Adriano
suo successore: «Palatium Traiani et Adriani pene totum lapidibus
constructum et perornatum, diversis operibus laqueatum, ubi est
columpna mirae altitudinis et pulchritudinis cum celaturis historiarum
horum imperatorum, sicut columpna Antonini in palatio suo. Ex una parte
fuit templum Traiani, ex alia divi Adriani». Abbiam veduto da altra
banda, come la leggenda di Trajano si formasse a spese di Adriano: in
grazia di questa connessione sia lecito di notare qui il poco che la
leggenda venne immaginando intorno a questo secondo imperatore.

In una versione inglese dei _Gesta Romanorum_ si racconta la seguente
storiella, in più altri modi narrata altrove[70]. Adriano fa un editto
che ogni uomo non più valido alle armi emigri dall'impero, e, se
trovato nell'impero sia messo a morte. Un figliuolo nasconde il padre,
de' cui ammaestramenti giovandosi diventa il più savio consigliere
dell'imperatore. Accusato da' suoi nemici riceve dall'imperatore
l'ordine di venirsene il dì seguente insieme col suo maggiore amico, il
suo maggior conforto, il suo maggior nemico. Per suggerimento del padre
si presenta col cane, col figliuolo, colla moglie. Costei lo accusa
d'aver trasgredita la legge; ma l'imperatore gli perdona.

Un'altra storia si legò al nome di Adriano, ed è quella del filosofo
Secondo. Costui essendo ancora giovanetto, aveva udito dire in iscuola
non trovarsi al mondo femmina onesta. Tornato dopo molti anni in
patria, vuol provare l'onestà della madre. A mezzo di una fantesca la
fa richiedere d'amore, e colei, che non lo riconosce, acconsente. Dorme
con lei una notte, senza commettere peccato, e la mattina si scopre. La
madre muore di vergogna, e Secondo, per espiare la propria imprudenza,
risolve di serbare il silenzio per tutto il tempo che gli resta a
vivere. Adriano venuto in Atene, ode parlare di lui, lo va a trovare,
lo interroga; ma, nè per blandizie, nè per minacce, può indurlo a
parlare. Ordina a un cavaliere di condurlo, per mostra, al patibolo, ma
di troncargli veramente il capo se, vinto dal timore, rompa finalmente
il silenzio. Secondo va al patibolo e non profferisce parola. Trajano
allora, preso d'ammirazione, lo prega di rispondere per iscritto ad
alcune sue domande, al che il filosofo accondiscende.

Questo racconto, di cui non si conosce l'origine, appare primamente in
un testo greco[71], d'onde passa in versioni latine[72], francesi[73],
italiane[74], spagnuole[75], ecc. Esso godette durante tutto il medio
evo della più grande celebrità. Di Secondo, filosofo di Armenia,
non altro si sa se non il poco che ne dice Filostrato nelle _Vitae
Sophistarum_: Suida lo confonde con Plinio Secondo il Giovine. Un
dialogo fra Adriano ed Epitetto[76], somigliante al precedente, non
passò ch'io sappia nelle letterature del medio evo. La letteratura
inglese possiede, in verso e in prosa, un dialogo, indicato come
opera di San Giovanni Evangelista, dove un fanciullo, per nome Ypotis,
istruisce l'imperatore Adriano nelle verità della fede cristiana[77].



CAPITOLO XIII.

Costantino Magno.


Costantino, primo imperatore cristiano, doveva in ispecial modo
richiamare l'attenzione dei posteri e provocare la leggenda. Con lui
cominciava un'era nuova nella storia della Chiesa e dell'impero, con
lui pareva finalmente assicurato, e per sempre, il trionfo della verità
sull'errore, adempiute, o almeno avviate al loro adempimento finale
e glorioso, le promesse antiche di una rigenerazione della umana
famiglia. Il cristianesimo cessava di essere una pura forza morale,
e diventava ancora una forza politica, atta a tramutare tutti gli
aspetti della vita della umanità. I cristiani da lui favoriti ebbero un
sentimento assai vivo del rivolgimento che si veniva operando sotto i
loro occhi, e questo sentimento parrebbe quasi che la leggenda avesse
voluto significar per figura, narrando di Sant'Elena che ritrova e
trae novamente alla luce il santo legno della croce, rimasto sepolto
per secoli sotto alle zolle del Calvario. Il cristianesimo che ha già
vissuto sì gran tempo occulto, come un germe fecondo affidato alla
terra, lascia finalmente le catacombe, e si espande libero e rigoglioso
alla vista del sole.

Costantino, onorato, in qualità d'Augusto, nei templi dei pagani, fu
posto nel novero dei santi dalla Chiesa d'Oriente[78]; sua madre è
venerata sugli altari dovunque sono adoratori di Cristo. Filostorgio
racconta che una statua del glorioso imperatore, la quale sorgeva sopra
una colonna di porfido a Costantinopoli, era adorata dal popolo, e
di questo culto fa cenno anche Teodoreto (m. nel 547)[79]. Nel medio
evo si credeva ancora di possedere, e si conservava come una preziosa
reliquia, la spada di Costantino. Atelstano, re d'Inghilterra, la ebbe
in dono, chi dice da Ugo re di Francia, chi dall'imperatore Enrico, chi
dall'imperatore Ottone I[80]; sotto lo stesso re Atelstano un conte di
Warwyck, per nome Gidone, uccise con essa un gigante Calubrando[81].
Nel pomo della spada era rinchiuso uno dei chiodi che servirono a
crocifiggere Cristo[82]. Nel popolo la memoria di Costantino era
conservata da molte chiese, o da altri monumenti che, a torto od a
ragione, si credevano costruiti da lui.

Le prime leggende sorgono intorno alla culla di Costantino, anzi
già involgono i suoi genitori Costanzo ed Elena. Il luogo della sua
nascita, del quale non si aveva certa contezza, e il modo del suo
nascimento, su che si avevano più disparate opinioni, esercitarono
per tempo le fantasie, e porsero il tema a parecchie finzioni e a
parecchi racconti romanzeschi: e se in questi, ajutando le oscurità
della storia, volentieri si ammise che Elena non fosse unita a Costanzo
con legittimo nodo, e che Costantino fosse un figliuolo naturale, si
può credere che non avvenisse senza la cooperazione di quella curiosa
tendenza che mostra spesso nelle sue leggende il popolo a dare agli
uomini insigni illegittimi natali.

Nel Contes dou roi Coustant l'Empereur (XIII secolo) si narra di
Costanzo, padre di Costantino, la seguente curiosa istoria[83]. Un
imperatore di Bizanzio, a nome Muselins, vagando una notte con alcuni
suoi cavalieri per la città, s'imbatte in un uomo, il quale, occupato
in pregar Dio, chiede alternatamente ad alta voce due grazie, l'una
all'altra contraria: la prima, che gli faccia sgravare felicemente la
moglie, soprappresa dalle doglie del parto; la seconda, che non conceda
a costei di partorire. L'imperatore interroga lo sconosciuto, il quale
risponde la sua contradditoria preghiera essergli stata suggerita dalla
scienza astrologica ch'egli possiede, e che gli mostra quali sieno
i buoni e i maligni influssi degli astri, e quale il punto del tempo
propizio o infausto al nascere. Soggiunge poscia d'avere ottenuto che
il suo figliuolo nasca in punto felicissimo, e che però questi sposerà
la figlia dell'imperatore e gli succederà nel dominio. L'imperatore
sdegnato si parte; poi manda un suo cavaliere a involare il bambino.
Avutolo, gli fende il ventre dallo stomaco all'ombelico, dopodichè si
accinge a strappargli il cuore; ma, ad istanza del cavaliere nol fa,
e ordina che così mezzo morto, sia gettato nel mare. Il cavaliere,
cui non regge l'animo di eseguire il crudele comando, depone il
bambino davanti la porta di un convento, e quivi lo lascia. I frati,
trovatolo ancora vivo, lo portano all'abate, e questi, fa chiamare
i medici, e domanda loro quanto vogliano per curarlo e guarirlo. I
medici chiedono cento bisanti, l'abate ne offre ottanta. La cura riesce
a bene, il bambino guarisce, e l'abate lo battezza ponendogli nome
Costante (Coustans) in considerazione degli ottanta bisanti che gli era
costato. Il fanciullo cresce in bellezza. Si dà caso che l'imperatore
viene a conoscerlo e a sapere chi egli è. Risolve novamente di farlo
morire, e dovendo partire per una spedizione contro i suoi nemici,
gli dà una lettera da recapitare al governatore di Bizanzio, la
qual lettera contiene una sentenza di morte. Prima di recapitarla
il giovinetto entra nel giardino imperiale e vi si addormenta. La
figliuola dell'imperatore lo vede, se ne innamora, legge la lettera,
e pensando di salvare il giovane e di soddisfare in pari tempo al suo
amore, a quella un'altra ne sostituisce, scritta da lei, con la quale
s'ingiunge al governatore di fare sposare al giovane la principessa.
Il governatore obbedisce agli ordini. L'imperatore, al suo ritorno,
trova il matrimonio già celebrato, e allora, rinunziando ai suoi tristi
propositi, riconosce Costante per figliuolo. Più tardi Costantino,
figlio di Costante, diede a Bizanzio il nome del padre[84].

Abbiamo qui un esempio della tendenza che ha la leggenda a propagarsi
in linea ascendente e in linea discendente, verso gli antenati, e verso
la progenitura dei suoi eroi; tendenza che così vigorosa si manifesta
nei cicli epici. Il nome di Costanzo è assai spesso scambiato con
quello di Costantino e di Costante; ancora si confonde spesso Costanzo
Cloro con Costanzo figliuolo di Costantino[85].

Non so a quale leggenda accenni Nennio nel seguente passo della sua
_Historia Britonum_: «Quintus Constantius Constantini Magni Pater
fuit, et ibi moritur, et Sepulchrum illius monstratur juxta urbem,
quæ vocatur Cair Costaint, ut literæ quæ sunt in lapide tumuli ejus
ostendunt; et ipse seminavit tria semina in pavimento superdictæ
Civitatis, ut nullus pauper in ea remaneret unquam, et vocatur alio
nomine Mirmantum[86]».

Veniamo ad Elena e al nascimento di Costantino. Suida, il quale fiorì,
come pare, nel X secolo, dice nel Lexicon (s. v. Κωνσταντῖνος ὁ μέγας)
che il fondatore di Bizanzio nacque di madre oscura, e che il padre lo
riconobbe a certi segni, e lo designò imperatore, posti in disparte gli
altri figliuoli, che aveva avuti da Teodora[87]. Egli accenna assai
più che non narri; ma dalle sue parole si rileva l'esistenza di una
tradizione, secondo la quale Costantino, nato d'illegittimi amori,
avrebbe vissuto alcun tempo lungi dal padre, ignorato, o dimenticato
da lui, e ne sarebbe poi stato riconosciuto, in forza di certi casi
che non son ricordati. Suida soggiunge di non voler ripetere le favole
che di Costantino aveva narrate Eunapio, parendogli che sconvenissero
a tant'uomo. Eunapio nacque {el 347, e sarebbe importante di poter
rintracciare sino a lui alcuna tradizione circa i natali di Costantino;
ma nei frammenti che delle storie di lui ci son pervenuti non si trova
più nulla intorno a questo imperatore. Lo storico pagano Zosimo, il
quale scriveva a Costantinopoli verso il 434, dice che Costantino
nacque da commercio che Costanzo ebbe con una donna non onesta, e non
isposata da lui secondo la legge[88]: prima di Zosimo, Eutropio s'era
contentato di dire che Costantino aveva avuto origine da un più oscuro
matrimonio[89], e Sant'Ambrogio aveva indicata la condizione della
madre dicendo costei ostessa, _stabularia_. Quest'ultima particolarità,
di cui non pare sia fatto cenno negli scrittori bizantini, riappare
poi più tardi negli svolgimenti della leggenda. Una tradizione di tale
natura non poteva essere fortuita, nè di origine in tutto fantastica;
essa doveva aver principio nel vero. La storia di Sant'Elena è ne'
suoi cominciamenti assai oscura. Si ammette comunemente ch'ella sia
nata a Drepano, città di Bitinia, in umile condizione, e che sposata da
Costanzo, divenne madre di Costantino, e fu poi ripudiata dal marito,
innalzato da Diocleziano alla dignità di Cesare[90]. Ma si capisce
che lo stesso Costantino prima, poi gli scrittori, specialmente quando
cominciò a formarsi la leggenda che attribuiva a Sant'Elena la gloria
immortale d'aver ritrovata la croce, siensi studiati di far dimenticare
certi fatti, o di colorirli altramente. Tuttavia la tradizione antica
che Costantino fosse figliuolo spurio di Costanzo non si perdette; anzi
passò d'Oriente in Occidente, dove porse argomento a nuove leggende.
Essa è riportata nel _Chronicon paschale_[91], ma è formalmente
contraddetta da Teofane Isaurico[92] e da Cedreno[93].

La gloria d'aver dato i natali a Sant'Elena fu ambita da varie province
e città. In Oriente Edessa, Drepano, la Giudea; in Occidente Treviri,
la Bretagna e l'isola di Sardegna[94] se la disputarono. Treviri andava
superba di parecchie reliquie insigni da Sant'Elena appunto, come si
credeva, donate alla sua Chiesa. La leggenda della invenzione della
croce, di cui io non intendo discorrere di proposito, antichissima
di origine, è narrata nel secolo VIII da Cinevulfo[95], nel IX da
Almanno[96], nell'XI o XII da Ildeberto Cenomanense, se pur così
s'ha da credere[97], nel XIII dal Voragine[98], ecc. Come più questa
cresceva e si diffondeva, più si sentiva il bisogno di purgare la
tradizione di quanto potesse direttamente o indirettamente offuscare
la riputazione della Santa; e da prima se ne levò ogni imputazione di
mal costume, poi si sostituirono al concubinato le legittime nozze,
finalmente si fece della povera _stabularia_ la figlia di un re. La
tradizione che faceva Sant'Elena nativa di Treviri, era già formata
nel IX secolo, giacchè il citato Almanno la riporta, ed ebbe poi,
più particolarmente in Germania, molto favore. La _Kaiserchronik_
racconta[99] che Costanzo sposò in Treviri la regina Elena, dalla quale
ebbe un figliuolo adorno di molte virtù, che fu Costantino. Costanzo
avrebbe poi voluto ripudiarla; ma vinto dallo amore del figlio,
le mandò ambasciatori e la invitò a raggiungerlo in Roma. Elena,
sdegnata, da prima rifiutò; ma poi si lasciò piegare dalle ragioni e
dalle istanze di Costantino, e andò a Roma, ove le fu fatto solenne
ricevimento.

Ma prima forse di questa tradizione un'altra ne era sorta, la
quale, prendendo senza dubbio argomento dalla dimora di Costantino
in Bretagna, fece nativa di questo paese, poi anche figlia di un
re Choel (Cloel, Coclo, Hoel, ecc.), la madre di Costantino. Tale
tradizione deve essere nata nel paese stesso al cui nome si lega; ma
riappariscono in essa alcuni dei dubbii più antichi, che già si trovano
nella tradizione greca, circa alla qualità delle relazioni passate
fra Costanzo ed Elena, in quanto che alcuni scrittori fanno di costei
la legittima sposa, altri la concubina di quello[100]. Giacomo da
Voragine conobbe così questa, come l'altra tradizione; giacchè, dopo
aver riferito ciò che di Sant'Elena racconta Santo Ambrogio, soggiunge;
«Alii vero asserunt et in quadam chronica satis authentica legitur,
quod ipsa Helena fuit filia Clohelis regis Britonum, quam Costantinus
(l. Constantius) in Britaniam veniens, cum esset unica patri suo, duxit
uxorem, unde insula post mortem Clohelis sibi devenit. Hoc et ipsi
Britones attestantur, licet alibi legatur, quod fuerit Trevirensis».

Enenkel non dice di dove Elena fosse; dice solo che ella era la più
bella delle venti donne dell'imperatore Costanzo, e che Costantino fu
il frutto del loro illegittimo commercio[101]. Ma le due tradizioni
testè ricordate ebbero nella leggenda svolgimenti più larghi e più
romanzeschi[102]. In un racconto latino d'ignoto autore, d'incerta
età, essa si lega a una sequela di casi avventurosi che io riferirò
brevemente[103]. Ai tempi di Costanzo imperatore, una vergine per
nome Elena, di nobile famiglia Trevirense, venne a Roma, trattavi
dal desiderio di visitare i santuarii degli apostoli. Un giorno,
traversando il ponte sul Tevere, Costantino s'imbatte in lei, che
andava con altri pellegrini alla sua via, e vedutala bellissima,
subitamente se ne innamora, e ordina ad alcuni suoi satelliti di
seguirla, e di significare al padrone della casa ove albergava che
a nessun modo la lasciasse partire sinch'egli non ne avesse fatto il
piacer suo. I suoi comandamenti sono osservati. I pellegrini, compagni
di Elena, adempiuti i voti, si partono; ella, accusata di furto dal
padron della casa, è trattenuta in custodia. L'imperatore si affretta a
compiere il suo divisamento; trovata la fanciulla sola e senza difesa,
la sforza; ma prima di partirsi da lei, sentendo alcuna pietà de'
suoi pianti, le fa dono di una fibula preziosissima e di un anello di
gran valore. Rimasta incinta, Elena non ardisce di più fare ritorno in
patria, e si ritrae a vivere con alcuni cristiani dabbene, provvedendo
col lavoro delle mani al proprio sostentamento. Venuto il termine,
essa dà alla luce un bambino, cui pone nome Costantino, celando a tutti
quello del padre. Il fanciullo, educato dalla madre, vien su bellissimo
d'aspetto, pieno d'ogni buon costume, benvoluto da tutti. In quel tempo
si combatteva tra l'imperatore dei Romani e l'imperatore dei Greci una
furiosissima guerra. Avvenne che due ricchissimi mercanti, nei quali
l'imperatore dei Greci aveva piena fiducia, e a cui soli era lecito
approdare per ragione dei loro commerci in Grecia, trovandosi in Roma,
s'imbatterono un giorno in Costantino, che era allora d'età di circa
dieci anni. La sua leggiadria, i suoi modi li fecero meravigliare.
Interrogatolo, e saputo dei casi suoi, essi tosto si accordarono in
un divisamento, dalla esecuzione del quale parve loro di dover trarre
grandissimo guadagno; ed era, che avrebbero preso con sè il fanciullo,
l'avrebbero condotto in Grecia, presentatolo a quell'imperatore come il
figlio dell'imperatore Costanzo, offerta in nome di costui la pace, e
chiesta pel giovinetto la mano della principessa di Grecia. Con la dote
di costei si arricchirebbero, e in pari tempo farebbero danno e scorno
ai nemici dei Romani. I mercanti conducono Costantino nella propria
casa, lo vestono onorevolmente, lo educan fra gli agi, tanto che il
figliuolo non si ricorda più della madre; la quale, perduto l'unico
suo conforto, passa i giorni nel pianto. Trascorsi tre anni e più, i
mercanti, stimando giunto il tempo da porre in opera il loro pensiero,
partono con le lor navi e, insieme con Costantino, giungono al _porto
dei Greci_. Quivi approdati, vestono il giovane d'abiti regali, e
mandati innanzi i lor messi, vanno al palazzo dell'Imperatore, che
fa loro solenni accoglienze. La frode è coronata di pieno successo,
e Costantino sposa la principessa, la quale è assai contenta di lui,
com'egli di lei. In capo di certo tempo, passato tra feste e tripudii,
i mercanti, avuta la ricchissima dote, chieggono licenza di tornare
a Roma, e partono insieme con gli sposi, non ostante le lacrime e i
funesti presentimenti del vecchio imperatore e della sua donna. Corso
già molto mare, ed essendo prossimi alla _regione dei Romani_, i
mercanti pensano di condurre a termine la loro perfidia, e sbarazzarsi
degli sposi, di cui non altro agognano che i tesori. Approdano a
un'isola deserta e selvaggia, e sotto pretesto di volervi passare
la notte, scendono in terra, ed alzano un padiglione, e preparano un
letto, dove, di nulla sospettando, i giovani vanno a coricarsi; poi,
quando questi sono immersi nel sonno, uccisa la loro famiglia, essi
salpano l'ancore e proseguono rapidamente il viaggio. Destatisi la
mattina seguente, e trovatisi soli, i due giovani si danno in preda
alla disperazione, e Costantino svela tutto il tradimento alla sposa,
che non per questo cessa d'amarlo; ma certi naviganti, che per buona
ventura si trovavano a passare in vicinanza dell'isola, li raccolgono,
e, celando quelli per prudenza i nomi e i casi loro, li conducono
al _porto dei Romani_. Giunti a Roma, vanno in traccia di Elena, la
quale, riconosciuto non senza qualche fatica il figliuolo, abbracciata
la nuora, piangendo lacrime di tenerezza, passa dal più inconsolabile
lutto alla più viva letizia. L'imperatrice di Grecia aveva dato
di nascosto alla figliuola, poco prima d'accomiatarla, un giojello
preziosissimo, col quale, se mai per alcun caso ella avesse a trovarsi
in angustie, potesse sopperire ai proprii bisogni. Questo giojello è da
lei consegnato alla suocera, la quale, vendutolo, con parte del denaro
che ne ritrae mette su un'osteria, e decentemente si vive insieme
con la nuora e col figliuolo. Questi intanto, seguendo l'indole sua e
la nobiltà della natura, si dà alla professione dell'armi, e in poco
tempo s'acquista grandissima riputazione. Viene il giorno natalizio
dell'imperatore. Costanzo, volendo festeggiarlo secondo il consueto,
convoca i senatori, i tribuni, i centurioni, i militi, bandisce
giostre e tornei. Costantino ne porta la palma su tutti. Meravigliato,
l'imperatore lo chiama a sè, gli domanda chi sia, e non tenendosi pago
delle sue risposte, ordina che conduca in sua presenza anche la madre
e la sposa. Le donne, vestite dei migliori panni che s'abbiano, sono
condotte a palazzo. L'imperatore le interroga alla lor volta, e tanto
stringe Elena, che questa finalmente promette di tutto svelargli. Dopo
alcun giorno in fatti, presi con sè l'anello e la fibula, torna alla
sua presenza, e racconta la propria storia, mostrando, a testimonio
del vero, i donativi imperiali. Costanzo si persuade che sì mirabili
casi non sieno seguìti senza la volontà del cielo; abbraccia Elena,
riconosce il figliuolo, manda ambasciatori all'imperatore di Grecia,
e punisce i mercanti come si meritano. Ordinata e aggiustata ogni
cosa, celebra solennemente, per la seconda volta, le nozze del
figliuolo colla principessa di Grecia, e stabilisce che gli sposi
debbano succedergli nell'impero romano, a quello stesso modo che dagli
ambasciatori venuti appositamente da Oriente si stabilisce che essi
debbano succedere nell'impero dei Greci. Così fu che Costantino riunì
sul suo capo le due corone dell'Occidente e dell'Oriente.

Non mi soffermo ad esaminare le particolarità di questo racconto, nè a
discutere il suo intendimento, se tant'è che ne abbia qualcuno; ciò che
più importa di far notare si è, parmi, il suo carattere essenzialmente
romanzesco, e il difetto di ogni nesso storico, difetto che si fa
scorgere sin dal principio. Di storico veramente altro non v'è che i
nomi di Costanzo, d'Elena e di Costantino; a questi sostituite altri
tre nomi quali che sieno e il racconto procederà al medesimo modo,
senza che sia bisogno di farvi la più piccola mutazione. Esso si
appoggia solamente in tre punti, non alla storia, ma alla tradizione,
in quanto che fa Elena nativa di Treviri, e Costantino spurio; e narra
di Elena che mise su osteria, ricordatosi certamente il suo autore
della stabularia di Sant'Ambrogio. È curioso anzi a tale proposito che
non vi si dica nulla di un matrimonio seguìto, dopo il riconoscimento,
fra Costantino ed Elena. Giunto al termine della sua storia l'ignoto
autore accenna ad altre leggende circa Costantino, ma rimanda chi
le vuol conoscere ai libri che le narrano[104]. Letto il racconto,
nasce spontaneamente nell'animo un dubbio: queste finzioni furono esse
sino dall'origine loro congiunte coi nomi di Costanzo, di Elena e di
Costantino, o furono ad essi aggregate solamente più tardi, quando
già, unite o separate, avevano circolato un tempo nella tradizione
orale e nella letteratura, servendo ad altri personaggi, o storici, o
fantastici?

Anzitutto è da avvertire che il racconto anonimo testè analizzato, è
bensì il più prolisso, ma non il solo, e molto probabilmente non il più
antico documento in cui quelle finzioni sieno rapportate a Costantino
e ai suoi genitori. Giovanni da Verona, di cui più volte già ebbi a
citare la inedita _Historia Imperialis_, le raccoglie e ad essi nel
medesimo modo le riferisce, salvo che di Elena fa, secondo l'altra
tradizione notata di sopra, non una nobile fanciulla di Treviri, ma
la figliuola del re Cloel di Bretagna[105]. All'una e all'altra delle
due tradizioni occidentali circa la patria di Elena quelle finzioni
dunque si legarono; ma è in sommo grado probabile che, in principio,
nè all'una, nè all'altra, esse andarono congiunte. Il racconto assai
compendioso di Giovanni da Verona passa nel _Catalogus Sanctorum_ di
Pietro de Natalibus[106] e di quivi nella versione italiana della
_Legenda aurea_ che va sotto il nome di Nicola Manerbi[107]. Nel
_Dittamondo_ di Fazio degli Uberti la favola è pure ricordata[108],
ma in forma così sommaria e stroncata, che chi non ne avesse notizia
altrimenti, non verrebbe a capo d'intenderla. D'onde Fazio abbia
attinto rimane dubbio; ma si raccosta ancor egli ai precedenti nel
fare Elena figliuola di Coel. Giacomo da Acqui narra egli pure la
favola[109]; ma nel suo racconto Elena è figliuola del re di Treviri.
Questi varii racconti, sebbene tutti si accordino nella sostanza, pure
presentano, così fra di loro, come per rispetto al racconto pubblicato
dall'Heydenreich, alcune differenze già notate da altri[110], e di
cui io debbo contentarmi di accennare qui solamente due o tre fra
le principali. In tutti Elena è cristiana sin dal principio. Non
battezzata ancora, essa va a Roma, tratta dal desiderio di vedere
la città degli apostoli, e contro il volere del padre: in vesti di
ancella, secondo Pietro de Natalibus; per comandamento degli stessi
apostoli Pietro e Paolo ricevuto in sogno, secondo Giacomo da Acqui;
perchè inferma, secondo Fazio degli Uberti. Ancora secondo Giacomo
da Acqui il padre di Elena si chiamava Flavio, il Re di Bizanzio
Valerio, onde fu che Costantino si chiamò per tre nomi Flavio Valerio
Costantino: vendute le gemme della nuora, Elena va ad abitare in un
magnifico palazzo rimpetto a quello dell'imperatore, e quando le par
giunto il tempo opportuno svela a costui spontaneamente il suo secreto.
Giovanni da Verona, Pietro de Natalibus e Nicola Manerbi dicono
ancor essi che Elena e gli sposi comprarono un palazzo e menarono
nobile vita: tutti affermano che Costanzo sposò Elena, particolarità
importante, taciuta, come s'è veduto, dall'Anonimo. Forse da un attento
studio comparativo delle differenze che i varii racconti presentano si
potrebbe trarre qualche argomento a congetturare in quale di essi sia
contenuta la versione più antica. Ma un tale studio condurrebbe assai
lungi, e il frutto che se ne avrebbe sarebbe assai scarso[111].

Ben più giova osservare come nella favola sieno due parti distinte,
l'una intercalata nell'altra, le quali non hanno necessaria connessione
fra loro, ma possono agevolmente separarsi, e furono senz'alcun
dubbio separate in principio: l'una, che narra della violenza fatta da
Costanzo ad Elena, del nascimento di Costantino, del riconoscimento
finale; l'altra che narra della frode ordita dai mercanti. Quella
certo assai prima di questa fu legata ai nomi di Costantino e dei
suoi genitori, e un documento assai antico ne fa testimonianza.
In una narrazione greca del martirio di Sant'Eusigno di Antiochia,
scritta, secondochè si può ragionevolmente presumere, non dopo l'VIII
secolo[112], è introdotto il santo in persona a raccontare il seguente
caso. Nel tempo che era ancora tribuno militare, tornando Costanzo
vittorioso da una spedizione contro i Sarmati, ebbe a sostare in
una locanda, dove trovò una fanciulla pagana, bellissima, per nome
Elena. Giacque con lei, e nel partirsi le regalò un peplo di porpora.
Tornato a Roma, dopo alcun tempo Costanzo fu incoronato imperatore.
Non avendo avuto dalla sua moglie legittima altri figliuoli che un
fanciullo imbecille, egli commise ai senatori di cercargliene uno
bello e intelligente da lasciare per suo successore. Per evitare
dissidii e gelosie i senatori mandano a cercare tale fanciullo fuori
di Roma. I messi giungono allo stesso albergo ove anni prima s'era
fermato Costanzo, e dove Elena, rimasta gravida di lui, aveva dato
alla luce un figliuolo bellissimo e di svegliato ingegno, fatto allora
già grandicello. Mentre essi si stanno a tavola, il fanciullo salta
sopr'uno dei loro cavalli. Per punirlo della sua tracotanza uno dei
messi gli dà uno schiaffo; ma allora la madre dice a costui: Non lo
percuotere, perchè è figlio dell'imperatore; e reca in prova di quanto
dice il peplo donatole da Costanzo. Meravigliati, i messi tornano
col fanciullo a Roma, il quale è dal padre riconosciuto per figlio,
e istituito erede dell'Impero. Niceforo Callisto, il quale fiorì,
come è noto, nel XIV secolo, reca nella _Historia ecclesiastica_[113]
un racconto da lui senza dubbio attinto a fonte molto più antica,
nel quale la parte storica è assai più copiosa che non nel racconto
posto in bocca a Sant'Eusigno, ma che, ad ogni modo, ha con esso
assai stretta attinenza. Costanzo giace con la figlia del suo ospite
a Drepano, mentre, per commissione degli imperatori Diocleziano e
Massimiano, va a procurare la pace coi Persiani, coi Parti, coi
Sarmati, ed altri popoli, che recano grave danno all'impero. La
fanciulla rimane incinta. In quella notte medesima Costanzo vede in
sogno il sole sorgere dall'oceano occidentale. Raccomanda all'ospite
suo di aver cura del bambino che sarà per nascere, e donato un peplo
alla fanciulla, si parte. Dopo alcuni anni, già fatto Augusto, Costanzo
manda ai Parti nuovi ambasciatori. Questi giungono a Drepano, e per
un caso molto simile a quello narrato da Sant'Eusigno, riconoscono
Costantino, la cui qualità è anche qui confermata dal peplo. Istruito
della cosa, Costanzo fa venire a Roma il figliuolo e la madre; ma
poi, per mettere quello al sicuro da ogni possibile insidia della
imperatrice Teodora, lo manda a stare con Diocleziano in Nicomedia.
Colà Costantino è educato nel palazzo imperiale, e abbraccia il
cristianesimo.

Ma la leggenda si trova ricordata o indicata anche altrove. Negli
atti greci di Sant'Artemio[114] si fa dire a Giuliano l'Apostata che
Costantino era nato da una donna volgare, in nulla dissimile dalle
meretrici, quando Costanzo non era ancor Cesare. Nella _Contextio
gemmarum_ di Eutichio, vescovo di Alessandria (m. 940), si narra
che Costanzo _sposò_ Elena in Mesopotamia, e che Elena era già
stata convertita al cristianesimo da Barsica, vescovo di Roa, e
che Costantino la lasciò gravida e se ne tornò a Bizanzio[115].
Quest'ultimo fatto, il quale mal si concilia con l'altro del
matrimonio, riporta senza dubbio alla tradizione più antica, dove
Costanzo avuta, senza nessun impegno da parte sua, la fanciulla,
se ne va poi liberamente. In Occidente Sant'Ambrogio, già citato,
e Sant'Aldelmo, non narrano la leggenda, ma vi alludono. Nella
orazione recitata l'anno 395 per la morte di Teodosio alla presenza
di Onorio, Sant'Ambrogio dice di Sant'Elena: «Stabulariam hanc
primo fuisse asserunt, sic cognitam Constantio seniori qui postea
regnum adeptus est. Bona Stabularia quae tam diligenter praesepe
Domini requisivit»[116]. Per Sant'Aldelmo Elena è già di Bretagna,
ma non ancora una principessa, anzi una concubina: «Dum Constantinus
Constantii filius in Britannia ex pellice Helena susceptus sceptris
imperii potiretur»[117].

Ricapitoliamo e concludiamo[118]. La leggenda che fa nascere Costantino
d'illegittimo commercio, e narra del suo riconoscimento da parte del
padre, dopo molti anni, per virtù di certi casi e di certi segni,
leggenda che forma una delle due parti del racconto dell'Anonimo, è
greca di origine, e risale, come dalle parole di Santo Ambrogio par che
si possa legittimamente dedurre, sino al quarto secolo. Tale leggenda
è molto diffusa in Oriente, dove si svolge, e si arricchisce via via
di elementi romanzeschi; ma passa poi anche in Occidente, e qui, meno
cognita e popolare, o si offusca, o si piega a nuove tendenze. Mentre
nella tradizione orientale Elena è una ostessa, nella tradizione
occidentale assorge a poco a poco al grado di patrizia e di regina.
Sant'Ambrogio ricorda la opinione di coloro che credevano Elena essere
stata una _stabularia_; ma questa opinione egli sembra più inclinato a
respingere che ad accogliere. Sant'Aldelmo nel secolo settimo traspone
già i fatti in Bretagna; e di Elena dice bensì che fu concubina di
Costanzo, ma non fa motto della sua condizione: nell'VIII Cinevulfo
ignora, o tace che Elena fosse Britanna. Più tardi Elena appare
come figlia di un re; ma la tradizione antica del suo concubinato la
perseguita ancora, come si vede dalle asserzioni contraddittorie degli
scrittori rammentati di sopra. Anzi la tenacità di quella tradizione
dà luogo nella nuova leggenda che si viene formando a incongruenze
curiose. Almanno nel secolo IX, così comincia a narrare la vita della
Santa[119]: «Beata igitur Helena, oriunda Trevirensis, tantae fuit
nobilitatis secundum honestatem et dignitatem praesentis vitae, ut pene
tota ingentis magnitudinis civitas computaretur in agrum sui praedii».
Soggiunge che il palazzo magnifico di lei esisteva ancora a' suoi
tempi incorporato nella chiesa di San Pietro Apostolo, e non gli pare
impossibile ch'ella traesse la origine da Elena greca, cui superava
grandemente di pregio. Poi, senz'avvedersi della contraddizione
gravissima, volgendosi a parlare di Costanzo, esce in queste precise
parole: «Interim dum ille feliciter et fortiter administraret belli
negotia, comperta incomparabili nobilitate, pulchritudine et potentia
Helenae in oculis Domini tam beatae, meditabatur ejus obtinere
coniugium, desiderans si forte posset, ex ea suscipere filium,
multaque illam, _licet in officio concubinali_, tractavit reverentia
ed honestate, cor regis in hoc Domino reparante». Data a Elena la
nobiltà del sangue, doveva sentirsi il bisogno di anticipare il tempo
della sua conversione, o di farla nascere a dirittura cristiana.
Già un esempio di ciò ci mostra in Oriente il racconto di Eutichio;
un'altra tradizione orientale racconta che Elena, la quale era nativa
di Edessa, fu, sino dall'infanzia, convertita al cristianesimo dal
vescovo di quella città. In pari tempo si dovette pensare a mutare la
scena dei fatti, e a togliere ad Elena la mala taccia di concubina,
divenuta incomportabile con la nobiltà del suo lignaggio e col fervore
della sua fede. Elena, Britanna, o Trevirense, va a Roma per ragion
di pietà, ed è quivi forzata dall'imperatore. Tale è la forma della
leggenda, tale il grado di svolgimento a cui essa si mostra pervenuta
nel racconto dell'Anonimo, e in quelli di Giovanni da Verona e di
Giacomo da Acqui. Che qui noi siamo in presenza dell'antica tradizione
orientale combinata con nuovi elementi, e piegata, in parte, a nuove
fantasie, non si può dubitare, chè a troppi segni vien fatto di
riconoscerla per quella medesima. Basti qui rilevare una particolarità
caratteristica. Mentre Giovanni da Verona, Giacomo da Acqui, Pietro
de Natalibus e Nicola Manerbi dicono che Elena, col figlio e la nuora,
andò ad abitare in un sontuoso palazzo e si diede a vivere nobilmente,
l'Anonimo dice invece che Elena comperò una casa e si mise a fare
l'ostessa: ora è questo un particolare evidentemente derivato dalla
tradizione orientale, e la sua presenza può, sino ad un certo punto,
dare argomento alla congettura che la versione dell'Anonimo sia più
antica che non quella degli altri narratori. Ma qui si vuole insistere
sopra un fatto già più sopra avvertito. La tradizione che, senza badare
alle differenze delle particolari versioni, ho chiamata orientale, nota
a Sant'Ambrogio, nota forse a Sant'Aldelmo, non sembra essere stata
molto diffusa in Europa, dove per lungo tempo non se ne trova più fatto
ricordo. La dimenticanza in cui essa si giacque agevolò senza dubbio di
molto il sorgere delle tradizioni occidentali che fecero Elena Britanna
o Trevirense, e sempre di nobilissima prosapia; il che non sarebbe così
facilmente accaduto se si fosse avuta in memoria la fanciulla pagana
trovata da Costanzo in un albergo, secondo il racconto di Sant'Eusigno,
o la figlia dell'ospite di Drepano, di cui parla Niceforo, o solamente
la _stabularia_ di Sant'Ambrogio. Parecchi storici parlano della figlia
del re Cloel, o della principessa di Treviri, moglie, o concubina di
Costanzo, assai prima di Giovanni da Verona, e di Giacomo da Acqui,
e dello stesso Anonimo, di cui del resto non si può con precisione
assegnare l'età; ma non ve n'ha nessuno che faccia il più piccolo cenno
di una leggenda circa la nascita e il riconoscimento di Costantino.
Quando questa leggenda ricomparisce nelle scritture dell'Occidente,
ricomparisce congiunta con un'altra finzione del tutto estranea ad
essa; e questo connubio non può essere l'opera della fantasia popolare,
ma bensì quella di un favoleggiatore solitario a cui occorse di
conoscere, o a Costantinopoli, o in alcuna scrittura greca, o forse
anche in alcuna scrittura latina andata perduta, o rimasta ignota sin
qui, la tradizione orientale.

La finzione nuova che si aggrega alla leggenda di Costantino, è da
questa al tutto indipendente in origine. Essa si trova separata, e
porge l'argomento alla _Storia o Leggenda di Manfredo imperadore di
Roma_[120]. Se si trovi anche in altre letterature del medio evo oltre
l'italiana, e se in questa medesima ve ne sieno stati altri racconti
oltre a quello qui ricordato, non si può nè negare nè affermare, ma
non è punto improbabile. Finalmente la leggenda complessa, quale si ha
nell'Anonimo e negli altri, forma il soggetto dell'_Urbano_ attribuito
al Boccaccio, e della storia di Selvaggio che si legge nel _Libro
Imperiale_, mutati per altro i nomi dei personaggi, ampliata la tela
del racconto, alterati in qualche parte gli avvenimenti.

Come s'è veduto, Giovanni da Verona dice di attingere il suo racconto
da una _Historia Britonum_, e Giacomo da Acqui dice di attingere il
suo da una _Cronica Trevirensis_. Che è da credere di tali asserzioni?
Le citazioni di fonti false, o immaginarie, sono così frequenti negli
autori del medio evo, che il dubbio circa la loro autenticità è,
generalmente parlando, sempre legittimo. Nota il Coen che di quante
opere posson cadere sotto la designazione di quei titoli non ve
n'ha nessuna che contenga la leggenda in discorso. Alcune ricerche
infruttuose da me fatte a tal uopo in Germania e in Inghilterra
avvalorerebbero l'opinione che nessuno storico inglese o tedesco
la narrò mai. Da altra banda, nel caso particolare, non v'è ragione
di mettere in dubbio l'autenticità delle citazioni di Giovanni e di
Giacomo, ma specialmente di Giovanni, il quale in questa parte è molto
esatto. Se non che nulla vieta di credere che essi abbiano avuto tra
mani storie interpolate, e interpolate forse qui in Italia stessa,
in pochi codici, d'onde la interpolazione non ebbe tempo, o non ebbe
occasione di propagarsi. Giovanni e Giacomo avrebbero in sostanza
narrata una leggenda italiana credendo narrare una leggenda inglese o
tedesca. Ho detto una leggenda italiana; ecco in breve le ragioni che
mi fanno propendere a crederla tale.

1º Per tutto il tempo che precede l'apparizione della leggenda
complessa narrata dall'Anonimo e dagli altri, noi non troviamo
nell'Occidente d'Europa che un solo scrittore il quale mostri di
conoscere la tradizione orientale che poi entra a far parte di quella,
e questo scrittore è un arcivescovo di Milano, Sant'Ambrogio. 2º Dei
tre manoscritti che si conoscono, contenenti il racconto dell'Anonimo,
due sono in Germania, conservati, l'uno nella Biblioteca Regia di
Dresda, l'altro nella Biblioteca del Ginnasio Albertino di Freiberg
(Sassonia); ma noi non ne conosciamo l'origine: il terzo si conserva
a Roma nella Chigiana. 3º Gli altri autori che narrano la leggenda
sono tutti italiani. 4º La finzione avventizia che in tutti questi
racconti si trova intrecciata con la tradizione più antica non occorre
separatamente che in un racconto italiano. 5º La leggenda complessa,
riferita ad altri personaggi, non si trova che in narrazioni italiane.

Ma lasciamo oramai questo tema, che ci ha trattenuti anche troppo, e
volgiamoci ad altre parti della ricca e varia leggenda costantiniana.

Nei racconti passati a rassegna sin qui Costantino, figlio di madre
cristiana, è naturalmente cristiano sin dalla nascita; ma se la ingenua
leggenda popolare, non d'altro curante che di piegarsi agl'impulsi del
sentimento e della fantasia, poteva a questo modo mentir sul viso alla
storia, altre leggende meno ingenue, e meno disinteressate, dovevano
andar più caute, e adoperare in modo che la storia potesse in qualche
parte almeno confermare le loro menzogne. Queste leggende racconteranno
come Costantino si convertì alla religione di Cristo, e circonderanno
questa conversione di fatti mirabili che per molti secoli terrannosi in
conto di storia autentica ed incontrastabile.

Non tocca a me rifare la storia dell'avvenimento memorabile che
s'intitola dalla conversione di Costantino, dire quanta parte nel
cristianesimo di questo imperatore abbia avuto il sentimento e quanta
la politica, discutere la significazione di certi suoi atti, come
l'editto di Milano, la convocazione del concilio di Nicea, la ingiusta
persecuzione onde ebbe a dolersi Sant'Atanasio. Tutto ciò porse già
da gran tempo, e porgerà ancora argomento a controversie da cui è
difficile escludere in tutto lo spirito di parte[121], ed è interamente
estraneo al proposito mio: io non debbo far altro che notare le
infondate credenze e le finzioni a cui la conversione di Costantino,
sino da tempo assai antico ebbe a legarsi, avvertendo che insisterò
meno su quelle che hanno carattere assai più di simulazioni storiche,
fatte, starei per dire, a caso pensato, che non di vere e proprie
leggende.

Ma prima di procedere oltre soffermiamoci a considerare un fatto che
non è fuori del nostro tema. Costantino non fu propriamente, secondo
la leggenda, il primo imperatore cristiano. Ebbi già occasione di
avvertire come dovesse essere un naturale istinto della coscienza
cristiana questo di far comparire cristiani quanti più imperatori fosse
possibile. Già Augusto aveva adorato il bambino redentore; già Tiberio,
Tito e Vespasiano avevano ricevuto il battesimo. Filippo, l'uccisor di
Gordiano, avrebbe abbracciato il cristianesimo, stando a quanto narrano
Eusebio, San Gerolamo, Orosio. Un tal fatto è assai poco credibile,
e diede luogo a molti dispareri[122]; ma il medio evo lo tiene in
conto di verità dimostrata, almeno nell'Occidente d'Europa. Certo
una così fatta leggenda avrebbe meritato assai più Alessandro Severo,
che nel suo Larario teneva, insieme con le immagini di Apollonio di
Tiana e di Orfeo, anche quelle di Abramo e di Cristo[123]. Nè parve
abbastanza farlo cristiano; si volle ancora farne un precursore di
Costantino nel donare liberalmente alla Chiesa[124]. In Oriente tali
leggende non ebbero fortuna. Efremio, che fiorì nella prima metà
del XIV secolo, dice che Filippo avrebbe voluto entrare nel grembo
della Chiesa di Cristo, ma i pastori di questa lo respinsero[125]; e
già prima Costantino Manasse (XII secolo) aveva affermato Costantino
essere il primo imperatore cristiano[126]. In Occidente la cristianità
di Filippo si provava con testimonianze e con fatti. Secondo Giacomo
Malvezzi al tempo di Filippo, _cristianissimo imperatore,_ fu dedicata
in Brescia la chiesa di San Pietro[127]. Ma anche altri imperatori
cristiani si ricordavano. A detta di Calendre, Adriano apprese le
verità del cristianesimo in un libro datogli da un Cadrasto, discepolo
degli apostoli, e Pompeo Pio, cioè Antonino Pio, fu istruito nella
fede dal filosofo Giustino[128]. A detta di Armannino Giudice _il primo
imperadore il quale fu cristiano fu uno ch'ebbe nome Giovanni._

Il fatto da cui prende le mosse la storia della conversione di
Costantino è la famosa apparizione della croce, narrata da Eusebio,
il quale afferma d'averne udito il racconto dalla bocca dello stesso
imperatore. Se l'uno o l'altro di essi abbia mentito non è qui luogo
d'andar ricercando: il fatto certo si è che, accingendosi contro
Massenzio al cimento delle armi, Costantino tolse per insegna, e fece
dipingere sugli scudi dei suoi soldati il così detto monogramma di
Cristo. Sulla significazione di un tale atto non insisto: avverto
solamente che il segno addimandato monogramma di Cristo si trova già
parecchi secoli prima del cristianesimo, che si ha qualche ragione
per credere ch'esso sia stato in origine un simbolo del sole, e che
Costantino professò un culto pel Sole, come tra l'altro si rileva
dalle monete[129]. Checchessia di ciò, la leggenda medievale, o
piuttosto una delle versioni di essa, mentre ricorda esattamente il
miracolo dell'apparizione, e narra del labaro e del santo segno dipinto
sugli scudi, perde di vista altri fatti di storia più consistente,
e sostituisce ad essi le sue proprie finzioni. Non è più contro le
milizie di Massenzio[130] che Costantino, fatto sicuro dell'ajuto del
cielo, va a combattere, ma bensì contro barbari invasori; e la pugna
avviene, non più sulle sponde del Tevere, ma su quelle del lontano
Danubio. Ottenuta la vittoria, Costantino, già cristiano d'animo, si fa
catechizzare e battezzare da San Silvestro, e manda sua madre Elena a
Gerusalemme a cercar della croce[131]. In un sermone a torto attribuito
a Beda, e su cui avrò da tornare, si fa accadere il miracolo, non
solamente quando Costantino era già battezzato, ma ancora dopo che
ebbe fondata Costantinopoli, e contro i Saraceni minaccianti la nuova
città. Altri, narrando altrimenti, cercavano di dare spiegazione di
altri fatti. In certe leggende francesi già citate si legge a questo
proposito[132]: «Or donques iassoice que Constantin eust eue si noble
victore par la vertu du signe de la croix, touteuoies il ne fist force
ne diligence d'enquerir de la vertu de ce signe, dont il aduint tantost
aprez qu'il deuint si meseau et si corrompu qu'il estoit horrible a
regarder». Ed ecco qui l'addentellato per la leggenda famosa che narra
di Costantino lebbroso, battezzato e guarito da San Silvestro, leggenda
religiosa e politica di capitale importanza, che s'impose in singolar
modo alla storia, e pesò non poco sui destini dell'umanità.

L'opinione di coloro che credono Costantino non mirasse ad altro che
a farsi della Chiesa un'utile ancella, pecca, senz'alcun dubbio, di
esagerazione; ma, nullameno, v'è in essa molto del vero. Chi dagli
editti di tolleranza, e poi, via via, delle nuove leggi, traeva più
visibile beneficio era, non già l'imperatore, ma la Chiesa; e mentre
questa, dalla sua stessa condizione di beneficata era costretta a dar
prova di deferenza e di sommessione, quegli era vie più sollecitato
ad esercitar su di lei un ufficio di patronato che, per quanto fosse
benevolo e rispettoso, pur tuttavia riteneva sempre, e non poteva non
ritenere, molti dei caratteri della sovranità. La Chiesa fece il poter
suo per uscire al più presto da quell'incomodo ed umiliante stato di
soggezione, e la leggenda si provò a far dimenticare che ci fosse mai
stato: secondo la leggenda il beneficato da prima fu Costantino, e non
la Chiesa; e quanto egli poi fece in favore di questa, e quanto più
s'immaginò che avesse fatto, non fu altrimenti considerato che come un
atto e una prova della sua riconoscenza.

La leggenda a cui qui accenno è molto antica e formata di più parti;
ma non tutte queste parti sono antiche egualmente. Vediamola anzitutto
nella sua forma piena e matura, quale si ha, per esempio, nella
_Legenda aurea_, e poi ricercheremo le sue origini, ed esamineremo le
sue attinenze e le sue variazioni.

Nel c. XII della _Legenda aurea_ Giacomo da Voragine racconta la
leggenda di San Silvestro. Comincia, secondo il solito, con dare
l'etimologia del nome del santo, e passa poi a dire dei suoi genitori,
di un primo miracolo da lui operato, della sua esaltazione al papato,
e di alcune altre cose che non importano ora al nostro soggetto.
Seguita la leggenda costantiniana. Costantino perseguita i cristiani,
e in punizione di ciò è colpito da una incurabile lebbra. I pontefici
degl'idoli gli consigliano di fare un bagno di sangue di bambini.
Tremila creaturine son raccolte a tal uopo; ma mentre Costantino
s'avvia al luogo preparato per il bagno, ecco farglisi incontro le
madri, co' capelli disciolti, e con pianti e con strida. Commosso,
Costantino fa fermare il carro che lo conduce, e dice agli astanti: la
dignità del popolo romano, la quale nasce dal fonte della pietà, non
permettere che si compia un atto così disumano; meglio essere per lui
morire, salvando la vita a tanti innocenti, che vivere ingiustamente
per la morte loro. Dopo ciò fa restituire i bambini alle madri, e
queste accomiata con doni. Tornato al palazzo, la notte seguente vede
in sogno San Pietro e San Paolo, che si dicono mandati da Cristo
per insegnare a lui, in premio dell'addimostrata pietà, il modo di
racquistar la salute. Faccia venire a sè Silvestro, il quale per paura
delle sue persecuzioni si sta nascosto nel monte Soratte, e Silvestro
gli mostrerà una piscina in cui immergendosi tre volte sarà guarito
d'ogni infermità. Quand'abbia ottenuta la grazia, distrugga i templi
degl'idoli, restauri le chiese di Cristo, e creda in lui. Svegliatosi,
Costantino manda i suoi militi a cercar di Silvestro, e inteso da lui
chi fossero i due che gli erano apparsi nel sonno, si fa catechizzare,
e dopo aver digiunato una settimana, e liberati i prigioni, riceve
il battesimo, dalle cui acque salutari è incontanente guarito. Allora
per sette giorni consecutivi promulga ogni giorno una legge in favor
della Chiesa e della fede; e la prima è che nella città di Roma Cristo
sia adorato qual vero Dio; la seconda, che chiunque bestemmia Cristo
sia punito; la terza, che chiunque fa ingiuria a un cristiano perda la
metà del suo avere; la quarta, che il Pontefice romano sia da tutti i
vescovi riconosciuto per capo; la quinta, che chiunque ripara in una
chiesa sia tenuto immune; la sesta, che nessuno possa costruir chiese
dentro le mura di una città senza averne ottenuta licenza dal vescovo;
la settima, che alla edificazione delle chiese si consacri il decimo
dei possedimenti imperiali. L'ottavo giorno l'imperatore va alla chiesa
di San Pietro, accusa le sue colpe, e dovendosi porre le fondamenta
della nuova basilica, prende a cavare con le proprie mani la terra, e
ne leva sulle proprie sue spalle dodici sporte. La madre di lui Elena,
udite tali nuove, da Betania, dove si trovava, gli scrive, lodandolo
d'avere rinunziato alla religione degli idoli, ma biasimandolo, perchè,
invece di adorare il vero Dio degli Ebrei, si è dato ad adorare un
uomo crocifisso. Costantino risponde, invitandola a condurre seco i
dottori ebrei, perchè possano disputar coi cristiani, e così si veda
chi ha la ragione e chi il torto. Elena viene, conducendo i suoi
dottori in numero di centosessantuno, fra cui ce n'ha dodici che di
eccellenza vincono tutti gli altri. A questi si oppongono Silvestro e
i suoi chierici, e giudici della disputa sono eletti di comune accordo
due gentili, assai giusti e onorati uomini, per nome l'uno Cratone,
l'altro Zenofilo. Dopo lunga ed ostinata contesa, rimasto vittorioso
Silvestro, Elena, gli Ebrei, i giudici, e molt'altri si convertono
al cristianesimo. Passati alcuni giorni, i pontefici annunziano a
Costantino che certo drago, il quale abitava in una profonda cavità
della terra, dacchè egli si era fatto cristiano uccideva ogni giorno
con l'alito più di trecento persone. Costantino chiede consiglio a
Silvestro; questi, dopo un'apparizione dello Spirito Santo, scende
con due compagni per centocinquanta gradini nella caverna, e lega
con un filo, e suggella col segno della croce la bocca del drago, che
aspetterà laggiù il ritorno di Cristo. Dopo di ciò tutto il popolo di
Roma si converte alla vera fede. Il racconto di Giacomo da Voragine
si ferma a tanto, ma altri racconti, su cui tornerò fra breve,
soggiungono che Costantino, per mostrar vie meglio la gratitudine
sua, e per lasciar più libera la Chiesa, cedette a Silvestro Roma e
tutto l'Occidente, con le insegne imperiali, e passò in Oriente, dove
ricostruì Bizanzio, e dal suo nome la chiamò Costantinopoli.

La leggenda narrata dal Voragine si trova più o meno diffusamente
riferita, nei Leggendarii di Pietro de Natalibus, di Bartolomeo
da Trento, di Bonino Mombrizio, e d'altri, entra a far parte delle
leggende di Sant'Elena e della invenzione della Croce, è ripetuta, o
ricordata, sin oltre il XVI secolo, da un infinito numero di scrittori.
Giovanni d'Outremeuse sa persino indicare il giorno preciso in cui
Costantino ammalò della lebbra, che fu l'ultimo del mese di Decembre
dell'anno 311[133]. Qualcuno poi aggiunge che a Costantino, guarito da
Silvestro, rimase in fronte una piccola macchia di lebbra a cagione di
certo idolo ch'egli continuava ad aver caro dopo la sua conversione:
distrutto l'idolo, la macchia disparve[134]. La leggenda, a narrar la
quale si spendono nella _Kaiserchronik_ non meno di 2800 versi, porse
anche argomento a misteri[135]. Dante le dava pienissima fede[136].

Nella leggenda complessa, testè riferita, sono, come ho detto,
più parti, le quali non hanno tutte la stessa origine e la stessa
antichità. La prima riflette la malattia, il battesimo, la guarigione
di Costantino. In essa non solo si narrano alcune cose che non si
trovano confermate dalla storia, ma parecchie ancora che alla storia
contraddicono formalmente. Costantino non fu mai ammalato di lebbra,
e non si fece battezzare da San Silvestro in Roma, ma in un castello
presso a Nicomedia, poco tempo prima della sua morte, da Eusebio,
vescovo ariano. Così, conformemente al vero, affermano Cassiodoro nella
_Historia tripartita_[137], San Gerolamo e Sant'Isidoro di Siviglia
nelle lor Cronache[138], Sant'Ambrogio[139], Prospero Aquitano[140],
Fredegario[141], ed altri più recenti. In Oriente Eusebio[142],
Socrate[143], Sozomene[144], Teodoreto[145], dicon del pari che
Costantino ricevette il battesimo solamente negli ultimi giorni di sua
vita in Nicomedia: alcuni spiegano un così lungo ritardo con dire che
desiderio di Costantino sarebbe stato di farsi battezzar nel Giordano.

La legenda che fa Costantino battezzato e guarito da San Silvestro
comparisce già, prima dell'anno 530, negli _Acta Silvestri_, giudicati
apocrifi nell'_Opus Carolinum_, dove Carlo Magno confutò le decisioni
del secondo concilio di Nicea[146]. Di questi atti esiste una
versione greca[147], la quale procacciò la diffusione della leggenda
in Oriente. Il Döllinger crede che la intera finzione, evidentemente
romana di origine, sia sorta verso il finire del secolo V, o in sul
principiare del VI, e indica del suo ritrovamento alcune ragioni
molto plausibili[148]. «L'avvenimento più importante e decisivo,
egli dice, dell'antichità, la conversione del dominatore del mondo
al cristianesimo, in qual altro luogo mai avrebbe dovuto succedere
se non nella stessa metropoli? Al supremo gerarca civile il supremo
gerarca ecclesiastico aveva dovuto aprire le porte della Chiesa. Non
si poteva credere che il pio Costantino, il figliuol di Sant'Elena,
il fondatore dell'impero cristiano, avesse lasciato spontaneamente
trascorrere l'intera sua vita senza ricevere il battesimo, rinunziato
al benefizio dei sacramenti, operato in guisa da non meritare nemmeno
il nome di cristiano». Questi presupposti della coscienza cristiana
erano già di per sè sufficienti a far nascere la leggenda; ma v'era pur
qualche fatto che poteva venir loro in ajuto. In Roma si mostrava un
Battisterio di Costantino, forse così chiamato in origine perchè fatto
costruire da lui: il popolo doveva facilmente immaginarsi ch'esso così
si chiamasse perchè Costantino v'era stato battezzato[149]. Alcuni
casi del pontificato di Simmaco, la contestazione fra il clero e
Teodorico, dovettero favorire il nascimento di una leggenda che tendeva
ad assicurare il primato e la inviolabilità del romano pontefice[150].
Eusebio, ed altri dopo di lui, raccontano che Costantino, essendo
infermo, andò a far certa cura di acque termali, prima di ricevere
il battesimo in Nicomedia, e questa notizia può aver dato occasione a
quanto la leggenda racconta della lebbra e del bagno di sangue.

Sant'Aldelmo[151], lo Pseudo-Beda[152], il _Liber Pontificalis_[153],
narrano la leggenda del battesimo romano, che, passata in Oriente, è
quivi accolta e difesa da parecchi scrittori, fra gli altri da Teofane
Isaurico, morto nell'817, o 818[154], e da Cedreno[155]. Il racconto
storico e vero si ritiene allora una calunniosa invenzione[156],
oppure si cerca di conciliarlo con la leggenda, ammettendo che, dopo
essere stato battezzato da San Silvestro, Costantino, inclinatosi
all'arianesimo, si facesse ribattezzare da Eusebio vescovo di
Nicomedia. Ma una conciliazione così fatta, di cui può vedersi a mo'
d'esempio un ricordo nella Cronaca di Eccardo Uraugiense, composta
verso il 1100[157], è dai più risolutamente respinta[158]. Parlando
di Costantino, Gotofredo da Viterbo dice nella particola XXII del
_Pantheon_, e X della _Memoria sæculorum_[159]:

    Baptizavit eum Silvester, idemque fatemur;
    Arrius hunc post hec corrupit, et inde dolemus,
      Scismate namque suo conmaculavit eum.
    Hoc fuit in villa, quam rite vocant Aquilonam,
    Quando rebabtizatus fedaverat ipse coronam:
      Scripta tripertita testificantur ita.

E Fazio degli Uberti[161]:

    Nell'acqua de la fe bis fu costui
      Lavato.

Finalmente è da ricordare un'altra, ma meno diffusa e meno importante
leggenda, secondo la quale Costantino sarebbe stato battezzato dal
papa Eusebio, leggenda evidentemente immaginata per far vacillare con
la uguaglianza dei nomi la tradizione storica che Costantino diceva
battezzato da Eusebio di Nicomedia. In appoggio di tale leggenda s'era
foggiata ed attribuita a quel pontefice una decretale, che esisteva
ancora nel XII secolo, ma che poi sembra sia andata perduta[162].
Questa leggenda, fra gli altri, accetta anche Pietro de Natalibus[163].

Alla conversione di Costantino, Giovanni Colonna fa immediatamente
succedere la conversione dei Romani[164]. Ricevuto il battesimo,
Costantino fece un discorso ai senatori e al popolo, udito il quale
e popolo e senatori gridarono: _Qui Christum negant male pereant,
quia ipse est verus deus. Et iterum iube qui thurificant diis urbi
pellantur_. Ma Costantino rispose, la fede non potersi imporre con
la forza, anzi dover essere spontanea. Qui abbiamo senza dubbio
una reminiscenza di quelle concioni che, se si deve prestar fede
ad Eusebio, più di una volta Costantino tenne al popolo. Ma nella
leggenda comune si narra, come abbiam veduto, di una disputa fra i
dottori ebrei e Silvestro, dopo la quale molti si convertirono al
cristianesimo. Questa disputa è già riferita nei documenti più antichi
della leggenda; la stessa conversione di Elena si fa dipendere da
essa[165]. Noi abbiamo veduto altre leggende fare Elena cristiana
sin dalla giovinezza; ma oltre che Eusebio dice esplicitamente Elena
essere stata convertita dal figlio, la leggenda che veniva raccogliendo
e inventando i titoli di benemerenza della Chiesa e le prove della
gratitudine di Costantino, non poteva concedere che costui avesse
ricevuto l'inestimabile benefizio della fede, anzichè dalla Chiesa,
dalla propria sua madre. Del resto una disputa consimile si ha nella
leggenda di Barlam e Josafat, dove Barlam dimostra a dottori caldei,
greci, egizii ed ebrei la falsità delle loro religioni.

Il miracolo del drago si trova già nei racconti più antichi, e ha
molti, ma molti riscontri nell'agiografia cristiana[166]. Nelle
numerose narrazioni che se ne hanno si trova spesso qualche variazione
rispetto al riferimento più antico. Amalrico Augerio dice, per esempio,
negli _Actus Pontificum_, che il drago aveva ucciso seimila persone, e
che San Silvestro lo legò _cum catenis aereis et fortissimis ferris_.
La _Kaiserchronik_ pone il drago in un monte Mendel (Mendelberg)[167];
Simeone Metafraste, Corrado di Würzburg[168], altri, nel Monte
Tarpejo, e qualcuno vi fu che volle anche narrare come il drago
fosse venuto a Roma[169]. I _Mirabilia_ e la _Graphia_ ricordano la
leggenda di San Silvestro e del drago immediatamente dopo quella di
Curzio, e ciò diede forse occasione a confondere l'una con l'altra,
come fa Armannino Giudice nella _Fiorita_[170]. _Infernus_ era il
nome, così della voragine di Curzio, come della caverna in cui si
credeva che San Silvestro avesse rinchiuso il drago. Senza dubbio
in origine la leggenda altro non fu che un'allegoria, dove il drago
stava a rappresentare il paganesimo, o fors'anche il demonio vinto
e reso impotente dal santo pontefice. Come in molt'altre religioni
e mitologie, così ancora nel cristianesimo il drago, o il serpente,
rappresenta il principio del male e delle tenebre; nelle tradizioni
religiose ed epiche di tutti i popoli lo spirito del male prende
volentieri la forma di serpente o di drago, e come uccisori di serpenti
e di draghi sono celebrati gli dei e gli eroi. Arimane assume forma
di drago, e così ancora molto spesso il diavolo[171]. Apollo uccide
il serpente Pitone, Odino uccide Fafnir; Giasone, Rustem, Siegfried,
Sigurd, Siegmund, Beowulf, Tristano, Gilles de Chin, altri eroi senza
numero uccidono draghi. Secondo una leggenda talmudica anche Salomone
vinse un drago. La leggenda di San Giorgio prese origine, senz'alcun
dubbio, da qualche pittura o altra rappresentazione allegorica. Eusebio
racconta che Costantino si fece ritrarre col segno della passione sopra
il capo e col diabolico drago precipitante nel mare[172]. Nella Vita di
San Silvestro, scritta da Simeone Metafraste, il drago è rappresentato
come una divinità in onor della quale i gentili celebravano esecrandi
misteri[173]. La leggenda fu nel medio evo fra le più celebri: Tommaso
di Stefano, detto il Giottino, ne fece soggetto di un affresco nella
cappella di San Silvestro in Santa Croce. Tutta del resto, la leggenda
di San Silvestro ebbe grandissima celebrità: verso il 1280 Corrado di
Würzburg la tolse ad argomento di un poema di 5220 versi[174].

Narrata la conversione di Costantino al modo che abbiam veduto,
e confermata con tanti miracoli la verità del cristianesimo, si
doveva necessariamente credere che la falsa religione non fosse più
tollerata nell'impero; e, in fatti, le storie, traviate dalla leggenda,
raccontano che Costantino fece chiudere, o addirittura abbattere,
i templi degl'idoli, e arricchì con le spoglie loro le chiese,
molte delle quali egli stesso veniva con lodevole zelo innalzando.
Ora, sebbene in ciò qualche cosa di vero vi sia, molto ancora si
esagerò[175]. Si attribuì a Costantino la costruzione delle sette
chiese più antiche di Roma[176], e, in generale, di ogni altra chiesa
di cui si ignorassero le origini; si ricordavano i doni ch'esse avevano
ricevuto da lui[177].

L'ultima parte della leggenda complessa che abbiamo esaminata sin
qui narra della cessione che di Roma e dell'impero d'Occidente fece
Costantino al Pontefice, e della traslazione della sede imperiale
a Bizanzio. La favola celebre della donazione, la quale è assai
più una falsificazione storica che non una leggenda, e di cui non
mi spetta parlare di proposito, dev'essere stata immaginata in
Roma, fra il 750 e il 754, quando i papi, avversarii acerrimi della
dominazione longobardica, cominciarono a nutrire il pensiero di
sostituire l'autorità propria a quella degl'imperatori d'Oriente,
la quale oramai altro non era che un'ombra[178]. S'inventò allora il
famoso Edictum Constantini, tante volte citato dai papi in sostegno
delle lor pretensioni, tante volle impugnato dai loro avversarii.
Costantino abbandonava Roma affinchè il papa potesse esercitarvi più
liberamente l'alto suo ministero[179], e partendo, poneva in sua balìa
tutto l'impero d'Occidente, e gliene trasmetteva l'insegne, e quella
corona che, così si dirà più tardi, egli aveva dallo stesso pontefice
ricevuta[180]. In Roma si mostrava il luogo dove l'imperatore e il
papa s'erano baciati e separati[181]. Tutti conoscono i versi in cui
Dante deplora la donazione ond'ebbe principio il pervertimento della
Chiesa[182]; ma altri infiniti la deplorarono al par di lui: secondo
una tradizione che credo tedesca, il giorno in cui Costantino cedette
Roma al Pontefice si udì in cielo una voce a gridare: Oggi nella Chiesa
è stato infuso il veleno[183].

Lasciata Roma, Costantino va a fondare Costantinopoli. Intorno a
questa fondazione parecchie leggende si raccolsero, le quali non
tutte s'accordano con la favola papale nel darne le ragioni. Nella
_Kaiserchronik_ si dice che Roma essendo afflitta dalla fame Costantino
prese la risoluzione di partirsi con molti dei suoi e lasciare la
città al papa[184]. Nel _Chronicon Salernitanum_ si racconta[185] che
Costantino, lasciando per divina ispirazione la città di Roma alla
Chiesa, si mise in mare insieme con la moglie, coi figli, con tutti gli
ottimati e con l'esercito, diretto a Bizanzio. Spinte da una burrasca,
due navi approdarono in Ischiavonia, e ottenutane licenza dagli
abitanti, i Romani fermarono loro stanza in Ragusa. Ma non potendo
soffrire l'oppressione dei Ragusei, tornarono indi a non molto in
Italia, e vennero a Melfi, onde poi furono detti Amalfitani. Parecchi
scrittori ecclesiastici narrano che Costantino erasi da prima accinto
a ricostruir Troja; ma una voce del cielo lo ammonì di non voler ciò
fare, e allora egli si volse a Bizanzio[186], o, secondo taluni, prima
a Calcedonia, poi a Bizanzio. Giraldo Cambrense dà come ragione del
divieto divino l'infame vizio della sodomia di cui Troja anticamente
sarebbe stata infetta[187]. Manasse racconta[188] che avendo Costantino
cominciato a edificare la città di Calcedonia, sopraggiunsero alcuni
grandi uccelli, i quali rapirono le pietre e le portarono a Bizanzio.
In certe _Vitae Cæsarum_ inedite, Gianmichele Nagonio dice[189] che
Costantino tentò di edificare una città, prima nell'agro Sardico,
poi nella Troade, da ultimo presso Calcedonia; ma quivi alcune aquile
rapirono le funi con cui gli architetti stavano spartendo l'area e le
portarono a Bizanzio.

Secondo altre tradizioni Costantino fu mosso a costruire, o per dir
meglio, a ricostruire Bizanzio, da certa visione ch'egli ebbe, e che
si trova narrata da parecchi. Ecco, in succinto, la narrazione che
ne fa Sant'Aldelmo[190]. Una notte, Costantino, che già si trovava
nell'antica Bizanzio, vide in sogno una vecchia decrepita, e che
all'aspetto pareva quasi morta. Così comandandogli San Silvestro,
Costantino la pregò di sorgere, e quella, alle sue parole, si mutò in
una bellissima e fiorente fanciulla. Costantino compiacendosi in lei,
la vestì della propria clamide, e le pose in capo la corona imperiale
sfolgorante di gemme; e udì la madre Elena dirgli: Costei sarà tua, e
non morrà sino che duri il mondo. Costantino, destatosi, non intendendo
il sogno, comincia per la preoccupazione dell'animo, e per la troppa
frugalità a macerarsi, finchè, trascorsa una settimana, preso da nuovo
sopore, vede in sogno San Silvestro che così gli parla: «La vecchia
decrepita è questa stessa città di Bizanzio, la quale è tutta ormai
una ruina. Sali in su quel tuo cavallo su cui, battezzato, visitasti
in Roma i santuarii degli Apostoli e dei martiri, prendi nella destra
il tuo labaro, e fitta la punta di esso in terra, allenta il freno al
cavallo, e lascia che vada dove l'angelo di Dio sarà per condurlo. Tu,
lungo la traccia che lascerà in terra la cuspide del vessillo, farai
costruire le nuove mura, e rinnovellerai la città, e la chiamerai
col tuo nome, e di tutte l'altre città la farai regina». Costantino,
svegliatosi, offre doni a Dio, si comunica, esegue punto per punto il
comandamento di San Silvestro, e costruisce la città, che dal suo nome
fu detta Costantinopoli. Lo stesso, salvo qualche leggiera diversità,
narra Guglielmo di Malmesbury, citando Aldelmo[191]. Un'altra leggenda,
più semplice, narrava che Costantino, mentre camminando, tracciava
la pianta della nuova città, era preceduto da un angelo[192]. Più
di un prodigio fece intendere che la nuova città era serbata ad alti
destini: alcuni narravano che al porre della fondamenta era apparsa
la Fenice. Nessuna città si costruì poi nel mondo che l'eguagliasse
in magnificenza: Nicolò Casola così racconta di Costantino e di
Costantinopoli nella sua Storia di Attila[193]: «Il se fist batisier
e fu granz ensuit e nos vos avons conte et puis s'en ala en Grece.
E portoit davant luy la saint croiz et toz cels qe a la sainte
cristientez voloient venir et vindrent furent sauvee de cois (_sic_)
e de voir e li autre furent danez e destruit. Il menoit avec lui si
grant chevalerie e si gran people qe la ou il venoit nuls ne li ousoit
contradire. Il fu sire e empereour en Grece. Il s'en aloit en (en)
Bisançe, et illec s'arestoit, illec il fist une citez la plus belle et
la greignor e la plus riche que de lors en avant fust faite ou secle.
Il la apeloit de son nom Constantinople. Qe vos diroge? illec fist il
son empire, e le tint de par l'apostoille de Rome e fu li pais apelle
Romanie por ce qe li Romains i remestrent». Attingendo a non so quali
fonti Bertran de Paris de Rouergue dice che Costantino consumò nella
edificazione di Costantinopoli centovent'anni;

    Cen vint an obret c'anc als no fet[194].

La leggenda narra inoltre qual modo tenesse Costantino per far
rimanere a Costantinopoli i patrizii romani, vogliosi di tornarsene a
Roma. Prima di condurli a combattere contro i Persiani, dice Michele
Glica[195], egli si fece consegnare da loro le anella, e queste mandò
a Roma, fingendo che i mariti ingiungessero alle proprie mogli di
venirli a raggiungere. Vedute le anella dei mariti le donne obbedirono,
e vennero a Costantinopoli, dove Costantino fece costruire palazzi
in tutto simili a quelli di Roma, così che quegli furono contenti di
rimanere. Codino narra questa medesima favola, e dice che grande fu
la meraviglia dei maestri delle milizie e dei patrizii quando, tornati
a Costantinopoli, vi trovarono le famiglie e le case loro[196]. Altre
leggende narrano di un'altra astuzia volta al medesimo fine. Costantino
aveva promesso ai patrizii di ricondurli a Roma. Instando essi perchè
la promessa fosse loro osservata, egli fece venire da Roma grande
quantità di terra, e sparsala per le piazze di Bizanzio (secondo altri
sul suolo di un'isola), e convocati poscia i patrizii, si dichiarò
sciolto dall'obbligo suo giacchè essi trovavansi sulla terra di Roma.

Nella _Kaiserchronik_ questo fatto è legato con l'altro delle
anella[197]: in un testo italiano esso è narrato come segue[198]:
«....... e per ch'elli (_Costantino_) avea giurato ai suoi baroni e
promesso di ritornare in terra di Roma, consappiendo che altrimenti nol
voleno seguitare, fece torre le navi e caricare della terra di Roma, e
fecela ispargere per le piazze, e propriamente per una, ed ivi fece suo
parlamento, e disse come elli era sciolto del sacramento il quale egli
avea lor fatto conciossia cosa ch'elli era in terra di Roma, e sapiate
c'allora si votò Roma di molta buona gente[199]».

Nel citato sermone indebitamente attribuito a Beda[200] si narra,
come già notammo, che quando Costantino ebbe costruita Bizanzio, i
Saraceni mossero contro di lui per combatterlo, e che egli, rassicurato
dall'apparizione della croce, venne con esso loro a battaglia, e ne
uccise moltissimi. Giovanni Lydgate ricorda nella sua versione metrica
del trattato del Boccaccio _De casibus virorum et feminarum illustrium_
una statua equestre tutta di bronzo, che sorgeva in Costantinopoli, e
rappresentava Costantino con una spada meravigliosa in mano in atto di
minacciare i Turchi[201].

Se le leggende di Costantino esaminate sin qui hanno tutte, qual
più qual meno, un appiglio nella storia, altre ve ne sono in tutto e
per tutto immaginarie, le quali non hanno con lui nessuna necessaria
attinenza, e non s'intende come e perchè siensi legate al suo nome.
Queste riflettono più particolarmente la sua vita privata di marito e
di padre, ad eccezione di una, che riferirò per la prima, nella quale
egli comparisce ancora come uomo pubblico, e più propriamente come
legislatore. Nel _Fiore di virtù_ la nota leggenda di Licurgo, che fece
giurare agli Spartani di osservar le sue leggi fino a che egli fosse
tornato, è attribuita a Costantino, e narrata ne' seguenti termini:
«Della virtù della constantia si legge nelle storie romane ch'el re
Constantino aveva ordinate certe lege al populo le quali gli pareva
troppo duro observare, et lo re pensava pure di fare che il populo
l'observassi perchè erano legge forte et giuste, et disse al populo: Io
voglio che giuriate d'osservare questo legge infino alla mia tornata:
in questo mezo io voglio andare et parlare a nostri iddei, et pregargli
che vi concedino licentia di mutarle secondo el vostro volere. Et
udendo questo el populo si gli giurò d'observare. Et allora lo Re si
partì et non tornò mai più acciocchè le leggi non si potessino ronpere,
ma sempre si observassino. Et quando egli venne a morte comandò che il
suo corpo fussi arso e facto in polvere et fussi gittato al vento accio
che il populo non si credessi mai essere absoluto di quello sacramento
che hauea facto se il corpo del re fussi stato riportato nella città.
Et così fu facto come lui comandò».

Nel Roman du Comte de Poitiers[202] si racconta in assai strano modo
come Costantino si ammogliò. Costantino è nipote di Nerone, trattenuto
prigioniero dall'ammiraglio di Babilonia. Egli vuole andare a liberare
lo zio; ma prima crede necessario di ammogliarsi, affinchè non manchi
un erede all'impero. Spedisce trenta messaggieri i quali debbono
percorrere tutte le terre soggette alla corona _dusques en la mer
Betée_, e avvertire tutti i cavalieri, re, principi, conti e duchi, che
vengano a Roma, senza fallo, entro la quindicina, recando ciascuno con
sè la sorella o l'amica, purchè sia vergine. All'ordine di Costantino
accorrono re e baroni con grandi cavalcate e sfoggiata magnificenza.
Tanta gente capita a Roma,

    Que les rues encortinées
    Furent à grant anui passées.

La città è piena di festa e di sollazzo:

    Li palais sambloit embrasés
    De cierges c'on ot alumés
    Cil haut borgois ont dras de soie.
    Ains mais à Rome n'ot tel joie.

Le fanciulle venute alla gara sono in numero di trenta. Costantino, il
quale giura per il suo _droit signor St. Pierre_, le fa entrar tutte

    Dedens le fort lor principar
    Que fist rois Juliiens César,

e ordina loro di spogliarsi ignude a fine di poter fare la sua scelta

    Par jugement et por otroi.

Alla prima che ricusi taglierà il capo. Le fanciulle, vergognose e
spaurite, obbediscono tremando, ed egli le bacia in bocca una per una.
Loretta, che

    Dame ert de Boulogne la crasse,

tra tutte la più bella e cortese, prima d'ogni altra domanda di potersi
rivestire, ed è prescelta da Costantino, il quale ammira non meno la
modestia che la bellezza di lei, ma dice, in pari tempo, che tutte
l'altre terrebbe assai volentieri, se fosse lecito il farlo. Si passano
in feste quindici giorni, e i baroni fanno ritorno alle case loro.
Ma giunge allora Sansone il Forte, insieme con sua sorella e cento
cavalieri. Costantino trova costei più bella assai di Loretta, e, tutti
andando d'accordo, la sposa, e Loretta sposa Sansone. I due matrimonii
si celebrano nella chiesa di San Pietro, e seguono altre feste, finite
le quali, Costantino parte da Roma con un poderoso esercito, prende
Babilonia, libera Nerone, occupa Gerusalemme, e conquista tutto
il paese sino all'Albero Secco. Costantinopoli gli apre le porte:
Parise, figliuola del morto imperatore dei Greci, s'innamora di Guido,
siniscalco di Costantino, e lo sposa. Guido diventa imperatore di
Costantinopoli, e Costantino se ne ritorna a Roma[203].

Ed ecco qui comparire una curiosa leggenda, la quale senza essere in
nessun modo connessa con la favola precedente, narra delle sciagure
domestiche di Costantino: Costantino fu ingannato dalla moglie,
ma prese dell'inganno aspra ed esemplare vendetta. Può darsi che
tale leggenda sia stata in una certa misura provocata dalla storia.
È noto che Costantino fece morire il proprio figliuolo Crispo ad
istigazione dell'imperatrice Fausta, che l'accusò di averla voluta
sedurre; scoperta più tardi la falsità dell'accusa, egli fece morir
lei soffocata in un bagno: ma alcuni padri raccolsero una tradizione,
secondo la quale Fausta, convinta di adulterio, sarebbe stata esposta
in un monte alle fiere. Tuttavia è ben più probabile che la leggenda
sia stata immaginata, o almeno appropriata a Costantino, in forza di
quella tendenza a denigrare il sesso più debole che è così largamente
espressa in tutte le letterature del medio evo, e per cui si fecero
apparire come ingannati, traditi, scornati da donne, uomini insigni,
quali, per non citare altri esempii, Aristotile e Virgilio. Nella
leggenda nostra l'imperatrice, di cui non è detto il nome, tradisce il
marito con un vile e mostruoso gobbo; scoperta la tresca, Costantino li
fa entrambi morire. Di questa favola occorre frequente il ricordo nei
poeti del medio evo. Bertran de Paris dice nel già citato _ensenhamen_
che, per dispetto di quello inganno, Costantino lasciò Roma e se ne
andò a Bizanzio. Egli rimprovera al giullare Guordo d'ignorare quella
storia:

    De Costanti l'emperador m'albir
    Que no sabetz com el palaitz major
    Per sa molher pres tan gran deshonor,
    Si que Roma 'n volc laissar e gurpir;
    E per so fon Constantinobles mes
    En gran rictat, car li plac que bastis,
    Que cen vint ans obret c'anc als no fe;
    E jes d'aisso non cug sapiat re.

Guiraut de Cabreira fa al giullare Cabra lo stesso rimprovero:

    De Costanti
    Non sabs c'on di.

Nell'_Auberi le Bourguignon_ si legge:

    Par femme sont maint homo abatu:
    Rois Constantine, qui tant estoit cremus,
    En fu hounis, ce aues vous seu,
    Par Segucon, qui moult ot court le bu;
    Ce fu uns nains petis et moscreus;
    .VII. ans la tint, ains qu'il fust parcheu[204].

La leggenda è inoltre ricordata nel _Tristan_[205], nel _Le Blasme
des Fames_[206], nella _Bible Gulot_[207]. Enenkel la racconta nel
suo _Weltbuch_ con alcune particolarità che non si veggono altrove
accennate, e che probabilmente, son frutto della sua fantasia[208].
Costantino commette ad un suo cancelliere di far coniare monete con
l'effigie imperiale ad esempio di Augusto. Il cancelliere aveva un
fratello sbilenco, ma molto ardito, il quale abitava in un sottoscala.
Costui riesce ad ottenere i favori dell'imperatrice, e la loro tresca
dura finchè viene all'orecchio di Costantino. Questi li coglie sul
fatto; trafigge con la spada la donna e calpesta lo sbilenco sotto i
piedi del suo cavallo. Il cancelliere, udita la morte del fratello, fa
coniar monete rappresentanti un uomo in atto di trafiggere una donna,
e ciò a fine di perpetuare l'infamia di Costantino, poi si parte dal
regno[209].

Enenkel dice che in Roma si vedeva un gruppo di pietra il quale
rappresentava Costantino a cavallo in atto di calpestare lo
sbilenco[210]: questo mi dà naturalmente occasione a parlare del
_Caballus Constantini_ di cui feci già altrove ricordo.

Col nome di _Caballus Constantini_, ma non con questo nome soltanto,
si designava nel medio evo la statua equestre di Marc'Aurelio, che si
vede ora dinnanzi al palazzo del Senatore in Campidoglio, ma che per
più secoli sorse nella piazza di San Giovanni in Laterano[211]. La
prossimità della chiesa costruita da Costantino fu causa, senz'alcun
dubbio, che alla statua si desse quel nome, e in grazia del nome essa,
sola di tutte le statue equestri di Roma, giunse intera, o quasi,
insino a noi[212]. Il nome di _Equus_ o _Caballus Constantini_ era
ancora in uso ai tempi di Paolo II, come risulta da certi mandati
di pagamento per restauri fatti alla statua negli anni 1466 e
1467[213]. Ai tempi di Andrea Fulvio si dubitava se la statua fosse di
Marc'Aurelio, o di Lucio Vero[214], ma gli è probabile che il popolo
continuasse a chiamarla di Costantino. Enenkel non è il solo a dire che
la statua fosse di pietra; Giovanni d'Outremeuse afferma il medesimo,
e dice che essa era stata portata da Costantinopoli a Roma[215].
Bartolomeo della Pugliola sa che la statua è di metallo, ma incorre
in un ben più grave errore, se, come non pare che possa dubitarsi,
nel seguente passo della sua Cronica intende parlare della statua di
Marc'Aurelio[216]. «Clemente III di Roma fu fatto Papa, il quale fece
il Chiostro del Monastero di San Lorenzo fuori delle mura di Roma, e
fece un palazzo molto alto in Laterano, e molto ornato. Ancora fece un
cavallo grandissimo di rame». Clemente III tenne la sedia pontificale
dal 1187 al 1191.

Il presunto Cavallo di Costantino comparisce più di una volta nelle
storie della città. Giovanni XIII (965-972) vi fece appendere un
prefetto pei capelli. Nelle feste che si celebrarono in Roma l'agosto
del 1347, quando furono conferite a Cola di Rienzo le insegne
tribunizie, il Cavallo di Costantino ebbe la parte sua: «Ibi fuit
equus Domini Constantini Imperatoris de metallo coopertus de varo,
ita artificialiter ordinatus, quod ex naribus egrediebatur vinum et
aqua continuo, et nemo videbat quomodo poneretur»[217]. Ciò che qui
si dice della statua coperta di vajo in occasione di pubbliche feste,
rende intelligibile un luogo del _Roman de Rou_, dove Wace racconta che
Roberto I, duca di Normandia, vide a Roma la statua di Costantino e le
fece dono di un manto[218]:

    Costentin vit, ki ert a Rome,
    De quiure fait, en guise de home,
    Cheual a de quiure ensement,
    Ne muet pur pluie ne pur vent.
    Pur la hautece et pur le honur
    De Costentin l'empereur,
    En ki num l'image est leuce
    E par ki num est apelee,
    La fist d'un mantel afubler,
    Del plus riche qu'il pot trouer.

Ma già i _Mirabilia_ e la _Graphia_ negano che la statua sia di
Costantino: «Lateranis est quidam caballus aereus qui dicitur
Constantini, sed non est ita, quia quicumque voluerit veritatem
cognoscere hoc perlegat». E soggiungono la seguente singolarissima
istoria. Al tempo dei consoli e dei senatori, un potentissimo re
dell'Oriente, venne in Italia, e assediata Roma dalla parte del
Laterano, afflisse i Romani con asprissima guerra. Allora un cavaliere
di molta prudenza e valentia propose ai consoli e ai senatori di
liberare la città, a patto che, condotta l'impresa a buon fine, gli
si dessero in premio 30000 sesterzii, e gli si ergesse una statua.
Accettata da quelli l'offerta, egli raccomandò loro di armarsi, e di
tenersi, verso la mezzanotte, pronti ad ogni suo cenno. Per più notti
consecutive aveva egli veduto quel re venire per suoi bisogni corporali
appiè di un albero, ed ogni volta una civetta che su quello si stava,
s'era messa a cantare. Uscito di città all'ora opportuna, sopra un
cavallo senza sella, trovò il re, e rapitolo a forza, non curando
i seguaci di lui ch'erano poco discosto, si volse verso la città: i
Romani, da lui chiamati, uscirono alla lor volta, ed ebbero allora sui
nemici facile vittoria. Al cavaliere fu mantenuta la promessa; gli
si fece la statua, e sul capo del cavallo si pose la immagine della
civetta, e sotto le zampe quella del re, ch'era di piccola persona. Il
nome del cavaliere non è indicato. Ranulfo Higden descrive la statua
allo stesso modo[219]. La supposta immagine della civetta posta sul
capo del cavallo altro non è che il ciuffo dei crini annodati in fra
gli orecchi. La figura del re nano, che più non si vede al luogo suo,
rappresentava certamente un qualche popolo soggiogato. Questa figura,
di cui più non s'intendeva nel medio evo il vero significato, fu
senza dubbio cagione che s'immaginasse la storia narrata da Enenkel,
accennata dagli altri.

Il capitolo XIV del _Libro delle Storie di Fioravante_[220] contiene un
racconto che concilierebbe il nome di Costantino con la narrazione dei
_Mirabilia_. Costantino è assediato in Roma da Dinasor, figlio del re
di Sassonia. In una battaglia i Romani hanno la peggio, e Costantino
stesso è scavalcato. Alcuni fuggiaschi s'imbattono in un pastore,
che, saputo della rotta, li forza a seguirlo sul campo. Trovato quivi
il cavallo di Costantino, gli monta sopra, va incontro a Dinasor, lo
tragge a forza di sella, e prigioniero lo conduce in Roma; poi torna
addietro e con un bastone sconfigge e volge in fuga tutti i _Saracini_.
Se ne va allora alle sue faccende, ma non trova più nè i buoi, nè le
vacche, i quali aveva lasciato per andare a combattere. Torna a Roma,
ed è con gran festa accolto da Costantino, il quale da indi in poi
lo tiene molto onorevolmente con sè. «E sì fecie venire i migliori
orafi di tutta cristianità, e fecie fare un cavallo di metallo, e
fecievi far su il villano col bastone in mano e co' calzari legati
in piè, e ogni cosa fecie fare di metallo, e il cavallo fecie fare
senza sella. Ecchì va a Roma sillo potè vedere, e vedrà sempre che
'l mondo si basterà»[221]. Non è improbabile che questo racconto sia
stato messo insieme per far concordare fra loro le varie tradizioni;
ad ogni modo, tanto in esso, quanto in quello dei _Mirabilia_, e
nell'altro di Enenkel, abbiamo nuovi esempii di leggende nate da falsa
interpretazione di monumenti.

Ranulfo Higden dice che la statua era detta di Teodorico dai
pellegrini, di Costantino dal volgo, di Marco o di Quinto Curzio dai
chierici[222]. Forse la ragione di quella prima denominazione non
è da cercare molto lontano. È noto che Carlo Magno fece togliere da
Ravenna, per portarla in Aquisgrana, una statua equestre metallica di
Teodorico. Tale statua rimase, qual che ne fosse il motivo, in Pavia,
dove fu lungamente tenuta in gran pregio e chiamata con lo strano nome
di Regisol. Essa molto rassomigliava a quella di Marc'Aurelio[223].
Qualche pellegrino, che veniva da Pavia, cominciò forse a chiamare,
per ragione della rassomiglianza, Cavallo di Teodorico quello che più
comunemente in Roma si chiamava Cavallo di Costantino. Ranulfo narra
di Quinto Curzio la nota storia di Marco, e anche con essa pone in
relazione il Cavallo[224]; mentre, come abbiam veduto, attribuisce a
Marco la storia narrata nei _Mirabilia_.

Il nome di Costantino si trova impegnato in parecchi altri racconti
favolosi e romanzeschi, nel _Koenig Ruother_, nella storia di Seghelijn
van Jerusalem, nei _Reali di Francia_, nella _Storia di Fioravante_.
Nel _Koenig Ruother_, poema composto verso la fine del XII secolo, si
narra come Rotari (Ruother), re di Bari e di Roma, al quale obbedivano
settantadue re, riuscì ad avere in isposa la figlia di Costantino, che
puniva di morte chiunque glie la chiedesse. Da quelle nozze nacque
Pipino, padre di Carlo Magno[225]. Questo racconto ha strettissima
relazione con quello della Vilkinasaga, dove, per altro, l'azione è
sostenuta da altri personaggi, a cui solamente più tardi debbono essere
stati sostituiti quelli del poema tedesco. Nel poema neerlandese di
Seghelijn van Jerusalem, questo eroe sposa Florette, figliuola di
Costantino, trova insieme con lei la croce, diventa imperatore, uccide
inconsapevole il padre e la madre, si fa eremita, e dopo quindici
anni di penitenza in un deserto è eletto pontefice sotto il nome di
Benedetto I[226]. Questa storia deriva senza dubbio da fonte francese.
Era naturale che si volessero far risalire certe genealogie sino a
Costantino, per certi rispetti, il più illustre fra gl'imperatori. Nei
_Reali di Francia_, nel _Libro di Fioravante_, nella _Flocents Saga_ si
narra come Fiovo (Flovent), figlio, o nipote di Costantino, fuggito da
Roma per avervi ucciso un uomo di grande affare, conquistò la Francia,
fece battezzare tutto il popolo, e fu stipite dei Carolingi e di altri
lignaggi illustri[227].

Sulla morte di Costantino ben poche notizie raccolse la leggenda.
Giovanni d'Outremeuse lo fa morir di veleno[228]; secondo la cronaca di
Giovanni di Londra (cod. dell'Herald's College) il suo corpo fu trovato
a Cair Segeint da Eduardo I nel 1383, lo che riporta ad un'altra
leggenda già indicata di sopra e riguardante, o Costanzo padre, o
Costanzo figlio di Costantino.

Trasportando a Costantinopoli la sede dell'impero Costantino aperse per
Roma l'era della decadenza, e i posteri, di ciò consapevoli, più di una
volta ne lo biasimarono. Già in alcuni versi antichissimi riportati
in un precedente capitolo[229] si deplora il trasferimento degli
antichi onori di Roma ai Greci. Quando risorse in Occidente l'impero,
Costantinopoli dovette essere considerata come un'usurpatrice,
e l'operato di Costantino dovette parere a molti illegittimo e
dissennato. Gotofredo da Viterbo, nella seconda metà del XII secolo,
esce contra di lui in questa invettiva[230]:

    Hunc alienigenam sibi Roma creavit alumnum,
    Cui dedit imperii solium per secula summum,
      Qui quasi morte ream post viduavit eam.
    Fraude dolo procores subtraxit ab Urbe Latinos,
    Et quasi captivos mox esse coegit Achivos,
      Constituens Romam rebus et arte novam.
    Transtulit imperium, Danais dedit ipse favorem,
    Dans alienigenis, quem Roma tenebat honorem,
      Romula destituens, Grecula regna colens.
    Spurius hic fuerat, quem pretulit aurea Roma;
    Interimens dominum, fertur rapuisse coronam;
      Cum foret ante bona, nunc fama mala volat.
    Non fuit augustus: minuit, non auxit honorem;
    Roma suis studiis fertur caruisse decore,
      Pressaque perpetuo Roma caduca dolet.

Costantino aveva data a Roma la fede, ma le aveva scemata la sovranità:
il danno quasi compensava il beneficio.



CAPITOLO XIV.

Giuliano l'Apostata.


La critica più recente ha risollevato il nome dell'imperatore Giuliano,
prostrato nella polvere dalla esecrazione di cinquanta generazioni
di credenti[231]. Se noi non possiamo lodare la sua disavveduta ed
intempestiva politica, specialmente poi quando la paragoniamo con
quella accortissima ed opportuna di Costantino, se non possiamo non
deplorare l'errore che gli fece credere possibile la restaurazione
di un ordine di cose irrevocabilmente condannato a sparire, possiamo
tuttavia scorgere ed apprezzare le cause molteplici che lo fecero
tale quale egli fu, e riconoscere, con imparziale giudizio, ch'egli
fu illuso assai più che colpevole, e che, ad ogni modo, l'infamia
che lo incolse è di troppo sproporzionata alla colpa. Le concordi
testimonianze di scrittori cristiani quali San Gregorio Nazianzeno,
Filostorgio, Rufino, Socrate, mostrano che Giuliano, se non impedì,
come avrebbe potuto, che altri commettesse violenze in suo nome, non
usò egli stesso violenza ai cristiani, e che, conformemente ai suoi
principii di tolleranza e di universale benevolenza, egli cercò di
attirare novamente all'antica religione i seguaci di Cristo più con
argomenti morali che con provvedimenti politici, più con lo scherno
che col rigore; magnanima moderazione in chi aveva la forza, ed era
continuamente da mille stimolato a farne abuso. Non si può negare che,
negli ultimi tempi del suo regno, egli, indispettito della lunga ed
ostinata resistenza, non abbia alquanto aggravata la mano sopra coloro
che frustravano le speranze da lui con lungo amore nutrite; ma gli è
pur vero che la Chiesa, nel tempo del suo maggiore rigoglio, avrebbe
da lui potuto apprendere quella solenne e santa verità, troppo spesso
da lei dimenticata, che le credenze religiose non debbono essere
imposte, e che una religione cessa di essere tale dal momento che non è
spontaneamente professata.

Da altra banda, non si può pretendere che la Chiesa, massime nascente,
facesse di Giuliano quel medesimo giudizio che la critica spassionata
ed imparziale dei giorni nostri ne viene ora facendo. La Chiesa
cominciava appena a raccogliere il frutto della sua lunga ed operosa
perseveranza, e a godere la pace comperata col sangue dei martiri,
quando, col salire di Giuliano al trono, si vide repentinamente
decaduta dal nuovo suo stato, e minacciata di nuovi e forse maggiori
pericoli. Certo, nel fondo degli animi viveva la fede che Cristo non
lascerebbe perire la sua sposa, e che il trionfo della verità fosse
irrevocabilmente segnato nei decreti della provvidenza; ma non si
sapeva quanto fosse per durare quell'era nuova di prove, e queste
dovevano ora tornar più amare ad uomini che avevano già gustata una
serena e placida securtà, e in cui la reazione, che moveva dall'alto,
offendeva, non più solamente un sentimento, ma ancora un diritto
acquistato e riconosciuto. La reazione stessa doveva considerarsi
come un ultimo tentativo degli spiriti tenebrosi per rovesciare la
Chiesa di Cristo, e risprofondare nell'errore il mondo, e l'uomo, che
se ne faceva promotore, doveva apparire come un loro vicario, e come
un figlio predestinato della perdizione. Storici e padri della Chiesa
dovevano chiudere gli occhi a quanto potesse naturalmente spiegare, o
scusare in parte i fatti, per non veder altro che un'opera di meditata
e diabolica iniquità, e Giuliano doveva apparire negli scritti loro, e
passar poi alla posterità più remota col nome infame di Apostata.

La leggenda, che s'affrettò dietro ai passi di Costantino, doveva
affrettarsi ancor più dietro a quelli di Giuliano; e condotta, com'era,
e governata da un solo pensiero, riuscire più unita e più omogenea,
sebbene non tanto copiosa. Essa nacque vivo ancora il protagonista;
e i lineamenti suoi principali già si veggon fermati nei primi
che la riferirono. In una perduta Vita di San Basilio, scritta da
Elladio[232], vescovo di Cesarea, essa era già probabilmente quale si
vede nelle orazioni famose di Gregorio Nazianzeno, poi si allargava e
variava passando in altre scritture ed altri autori, nella Vita di San
Basilio, attribuita ad Anfilochio, nelle Storie di Rufino di Aquileja,
di Filostorgio, di Socrate, di Sozomene, di Teodoreto, nei cronisti
bizantini, latini, volgari, ecc. Nel secolo VI se ne facevano due
romanzi in siriaco[233]. Come più scende e più la fiumana ingrossa.
L'esecrazione e l'orrore, invece di temperarsi col passar del tempo,
imperversano e crescono tuttavia. La coscienza cristiana del medio evo,
assai più che non quella dei primi tempi, preoccupata del diabolico,
assai più angustiata e più cupa, tende a far emergere dall'uomo il
mostro, e ad annerirne più sempre la vita. Giuliano quasi fa spallidire
Nerone. Nel poema _De inventione Sanctae Crucis_, attribuito a
Ildeberto Cenomanense, si dice di lui:

    Hic Costantino subiit, corvinus ovino:
    Hic lupus, hic agnus; hic Rex pius, illo Tyrannus;
    Hic datus est bellum fidei, paleisque flagellum:
    Quondam promissus grano, nunc tundere missus;
    In Judam siquidem Draco, spondens praelia pridem,
    Hunc presignavit, hunc pertulit, hunc stimulavit.
    Et vitiis totus constans et crimine fotus,
    Jam quasi portentum, jam Daemonis est monimentum.

E così di seguito per molti altri versi, fra' quali anche questi:

    Sed depravatur Julianus, sed cruciatur,
    Sed debucchatur, sed anhelat, sed superatur
    Hic vir inhumanus, hic pessimus, hic Julianus.

Nelle due già citate omelie di Gregorio Nazianzeno[234] i fatti
principali, parte storici, parte leggendarii, che si riferiscono
sono i seguenti. Giuliano e Gallo suo fratello, serbati da Costanzo
all'impero, sono educati in corte, attendono in particolar modo allo
studio della dottrina cristiana, e abbracciano lo stato ecclesiastico.
Ma in Gallo la fede è sincera, mentre è mentita in Giuliano; di che si
ha prova nella costruzione di certo tempio dai due fratelli intrapresa
in comune, dove l'opera del primo riesce a bene, ma non così quella
del secondo. Gallo è creato Cesare, e Giuliano comincia a coltivare
studii perversi, e a odiare i cristiani; il quale odio si fa maggiore
e si palesa senza ritegno quando, morto Gallo, egli è a sua volta
innalzato alla dignità di Cesare. Ottenuto l'impero, il tristo si
abbandona interamente a' suoi malvagi istinti e non serba più misura
nell'empietà. Una croce coronata gli appare miracolosamente nelle
viscere di una vittima, ma non per ciò egli si ravvede; dedito alle
arti inique della magia, scende, in compagnia di un filosofo o mago, in
una orrenda spelonca per consultare i demonii, i quali poi, spaventato
alla lor vista, volge in fuga con un segno di croce. Perseguita i
cristiani, favorisce gli Ebrei, e vuole sia ricostruito il lor tempio,
il che da varii prodigi è impedito. È incerto chi uccidesse Giuliano,
e varie credenze corsero a tale riguardo; ma, ad ogni modo, la morte
sua fu una punizione del cielo. Nella omelia XXI (c. 33) Gregorio dice
essergli stato riferito da alcuno come la terra non volesse ricevere,
ma rigettasse, il corpo di Giuliano, sorte toccata, com'è noto, a molti
altri insigni scelerati. Non ho bisogno di ricordare che Gregorio fu
compagno di studii di Giuliano, e poi avversario acerrimo. Le due
omelie, in cui egli dichiara di voler esporre, non tutte, ma solo
alcune sceleraggini di Giuliano, riboccano d'odio, e tradiscono un
animo assai mal preparato a recar delle cose sereno e giusto giudizio.

Nessuno dei fatti narrati o accennati da Gregorio di Nazianzo si
perde nei racconti di tempo posteriore: ma tutti, qual più, qual
meno, vanno soggetti a certe alterazioni, le quali, com'è naturale,
tendono sempre ad esagerarne la gravità, a farne spiccare vie più
gli aspetti caratteristici. È una delle operazioni capitali della
leggenda questa di far rilevare, di sopra un dato fondo di notizie o
di credenze, certe parti più importanti. Che alle favole più antiche
altre poi se ne dovessero aggiungere mano mano s'intende di leggieri.
Giuliano ebbe veramente nella gerarchia ecclesiastica il grado di
lettore, grado che importava il conferimento degli ordini inferiori,
e se alcuna particolarità della sua vita si poteva dimenticare, non
si dimenticava già questa, che tanto aggravava e faceva più esecrabile
la sua apostasia. Anzi, per aggravarla ancor più, si disse ch'egli era
stato monaco, ed aveva un tempo fatta la vita del chiostro[235]. Questo
errore muove, senza dubbio, da Socrate e da Sozomene, i quali dicono
che Giuliano, prima di dichiararsi, conduceva vita monastica[236]. Nel
Passio di San Fabiano si legge che Giuliano fu da Pimenio presbitero
ordinato suddiacono della Chiesa Romana, e nel Passio dei Santi
Giovanni e Paolo lo stesso Giuliano dice come avesse ottenuto il
chiericato, e come avrebbe potuto, qualora gli fosse venuto in talento,
salire ai supremi onori ecclesiastici[237]. La _Kaiserchronik_ giunge a
dire ch'egli fu cappellano del papa[238].

Giuliano fu veramente dedito alle pratiche superstiziose della teurgia
neoplatonica; ma le accuse atroci che gli si mossero contro non hanno
fondamento di sorta, e convengono assai meglio a Massenzio che non a
lui[239]. La favola degli dei bugiardi, o dei demonii, volti in fuga
con un segno di croce, è ripetuta da molti storici, così antichi, come
del medio evo; se non che alcuni di questi, come per esempio Eccardo
Uraugiense[240], seguendo la tradizione più antica, raccontano che tal
caso seguì quando egli, già adulto, e smanioso d'impero, vagava per la
Grecia in cerca di responsi; mentre altri, come Sicardo e Giacomo da
Voragine, lo pongono ai tempi della sua fanciullezza, con l'intenzione
senza dubbio di mostrar lui sino dalla più tenera età in commercio
coi diavoli[241]. Già Gregorio Nazianzeno dice che i demonii avevano
promessa a Giuliano la signoria di tutto il mondo. In uno dei due
romanzi siriaci ricordati di sopra, Giuliano, il quale è amico di un
mago per nome Magno, stringe un patto col diavolo, che gli promette
tale signoria per cent'anni. Giacomo da Voragine ed altri raccontano
che Giuliano, movendo contro i Persiani, spedì un demonio in Occidente
per averne certo responso, ma che, trattenuto a mezzo il viaggio per
dieci giorni consecutivi da un monaco che passò tutto quel tempo in
orazione, il demonio dovette tornarsene addietro senza avere eseguita
la commissione. La guerra mossa alla Chiesa si fece più strettamente
dipendere dalle relazioni che Giuliano aveva con gli spiriti delle
tenebre. Quando, essendo ancora fanciullo, o già adulto, Giuliano volse
in fuga i diavoli col segno della croce, il maestro, o il jerofante,
gli disse causa della lor fuga essere non il timore, ma l'esecrazione
in che avevano quel segno. Fatto imperatore, dice Giacomo da Voragine,
volendo egli perseverare nell'esercizio dell'arti diaboliche, procacciò
che il segno della croce fosse, quanto più era possibile, cancellato e
distrutto, e perseguitò i cristiani, temendo che altrimenti i diavoli
non sarebbero per obbedirgli. Di orribili pratiche di magia osservate
da Giuliano, di donne sparate per ispecularne i visceri, di bambini
trucidati, parlano già gli scrittori più antichi[242]: Giovanni Colonna
dice nel _Mare historiarum_ che si trovarono arche ripiene di teschi
umani e pozzi colmi di cadaveri. Tali pratiche non erano estranee
ai costumi dei tempi: Ammiano Marcellino racconta che nell'anno 363,
regnante appunto Giuliano, fu uccisa in Roma una donna per iscrutarne
le viscere.

Ciò che San Gregorio racconta della tentata, ma non riuscita
ricostruzione del tempio di Gerusalemme, è similmente ripetuto da
molti: Gotofredo da Viterbo così enumera nella particola XI della
_Memoria sacculorum_ i prodigi avvenuti in quella occasione[243];

    Templa tremunt, pavimenta ruunt et tigna sub illis
    Ignibus e celis pereunt exusta favillis,
      Exiliunt lapides, area sola manet.
    Igneus extemplo globus est emissus in illos
    Incendens homines vestes caput atque capillos,
      Astantesque viri iure cremantur ibi.
    Hec ne fortuitu mala provenisse putentur
    Signa crucis confixa sibi gestare videntur
      Gestant Iudei corpore signa dei.

Ma le imputazioni che sin qui abbiamo veduto fatte a Giuliano non
erano ancora pari all'odio che le provocava e le suggeriva; nuove e più
vergognose colpe gli si dovevano addebitare. L'imperatore che, volgendo
in beffa la dottrina evangelica della povertà, aveva spogliato dei loro
averi le chiese, doveva ben parer degno agli occhi dei credenti del
nome infame di ladro, ed era naturale che dello spogliatore pubblico si
facesse anche un ladro privato. Questa formidabile accusa negli storici
più antichi, per quanto inveleniti essi sieno, non è neppure accennata,
e non saprei dire quando nè dove primamente sia sorta; ma certamente
abbiamo anche qui uno di quei casi di arbitraria appropriazione di
racconti già popolari a persone cui essi innanzi erano interamente
estranei, che sono così frequenti nel mondo delle leggende. Si trattava
di addossar nuove colpe a Giuliano; se si trovava una storia che
paresse in qualche modo acconcia all'uopo, si prendeva e si trasponeva
di pianta. Giovanni da Verona e Giacomo da Voragine narrano, attingendo
dalla _Summa de officiis_ di Giovanni Beleth, che una ricca matrona,
angustiata da esazioni e vessazioni, dovendo partire, pose gran
copia d'oro in tre vasi di terra, e questi, coperto l'oro di cenere,
diede a Giuliano, ch'era monaco, in apparenza, di santa vita, perchè
glieli custodisse, con questa condizione che, s'ella tornasse, glieli
restituirebbe fedelmente, se non tornasse, elargirebbe il denaro ai
poveri. Partita la matrona, Giuliano toglie l'oro dai vasi, e vi mette
altrettanta cenere. Quella tornata in capo a certo tempo, Giuliano le
restituisce i vasi; accusato da lei d'averne sottratto l'oro egli nega,
e afferma d'averle restituito ciò che ha ricevuto, poi abbandona il
convento, e facendo uso delle male acquistate ricchezze si procaccia
fautori e ottiene il consolato. Ora, storie simili a questa sono molto
frequenti in tutte le letterature[244]. Del resto la favola è narrata
di Giuliano anche nella _Kaiserchronik_, ma con qualche diversità, come
vedremo tra breve, nella Cronaca di Sicardo, nel _Polychronicon_ di
Ranulfo Higden e altrove. Giovanni di Garlandia vi fa allusione in un
luogo del suo poema _De triumphis Ecclesiae_[245].

È naturale che nella leggenda Giuliano divenga assai più aspro ed
inumano persecutore dei cristiani che veramente non fu. Nel più antico
dei due romanzi siriaci testè ricordati egli è rappresentato quale
un persecutore ferocissimo sin dal principio del suo regno. L'_Alte
Passional_, che spende in narrare la sua vita circa seicento versi,
dice ch'egli ne fece morire moltissimi. In un mistero francese del
XIV secolo lo stesso Giuliano così ricorda ai suoi la persecuzione
esercitata contro ai seguaci di Cristo:

    ..... pour vostre loy
    Essaucier, ce savez vous bien,
    ay renoncie a crestïen;
    Et savez bien a quel martire
    je fas morir ceulx que j'oy dire
    Qui delaissent la loy paienne
    pour tenir la loy crestïenne;
    Et croy que qui penser voulroit,
    [qu'] esmerveiller moult se pourroit
    Des orribles tourmens et paines
    qu'a plusieurs personnes humaines
    Ay fait souffrir, qui ne vouloient
    croire en Jupiter, ains tenoient
    Que loy crestïenne vault miex.
    Vous l'avez véu a voz yex
    Quieulx tourmens fis je a Quirrace,
    a Gordïan et a Privache.
    C'est horreur de les raconter;
    et si vous dy bien sanz doubter
    Quanque de tieulx gens trouveray,
    mourir a martire feray;
    Il n'y ara pas de deffault[246].

Nel _Gallicanus_ di Hrotsvita, nella _Rappresentazione di San Giovanni
e Paolo_ di Lorenzo il Magnifico, Giuliano fa la solita figura del
tiranno tormentatore dei Cristiani.

Naturalmente ancora si doveva esagerare l'empietà di Giuliano: Ranulfo
Higden ne reca un esempio assai curioso[247]. «Item apud Antiochiam
vasa sacra et pallas altaris colligens sordibus ani sui foedavit; mox
vermes inde scaturientes posteriora Juliani adeo corroserunt ut quoad
viveret liberari non posset». Poi ne reca uno del prefetto di lui:
«Ejus quoque praefectus dum super vasa ecclesiae mingeret dixit — «Ecce
in quibus vasis Mariae filio ministratur!» — et repente os ejus versus
est in anum ejus, et egestionis organum effectum est». Con l'empietà di
Giuliano e con le sue tristi conseguenze si pose in relazione la festa
della purificazione della Vergine. In una delle tante raccolte dei
miracoli di costei si legge[248]: «Julianus imperator, cum inceperat
prius esse humanus et catholicus, postea factus est hereticus et
crudelis et ita inhumanus quod, ut creditur, propter eius perfidiam
et crudelitatem tellus exaruit, seges pauca, messis nulla et inedia
atque fames magna fiebat, unde immensa hominum multitudo subito mortua
cadebat». La Vergine allora fu larga agli uomini del suo soccorso, e in
ricordanza di ciò s'instituì la festa della purificazione.

Nella _Kaiserchronik_ la leggenda di Giuliano è narrata per disteso in
503 versi[249], con alcune particolarità curiose che non si riscontrano
altrove: prima di passar oltre fermiamoci alquanto ad esaminarne
il racconto. Si comincia con dire come Giuliano acquistò il regno.
Una onorata matrona romana aveva allevato Giuliano come suo proprio
figliuolo. Rimasta vedova, ella gli consegnò tutto il suo avere, perchè
glielo dovesse rendere a tempo opportuno; ma quando lo ridomandò,
Giuliano negò d'aver nulla ricevuto. Indarno la povera donna ricorse al
papa, nella cui corte, mercè l'oro non suo, Giuliano aveva acquistato
l'affetto di molti; ridotta all'indigenza ella dovette, per guadagnarsi
la vita, mettersi a fare la lavandaja, impastare il pane, e cucinare
per gli altri. Recatasi una sera a lavar certi panni nel Tevere,
trovò nell'acqua un idolo, che i pagani avevano tratto colà perchè i
cristiani non lo distruggessero, e a cui essi facevano preghiera ogni
mattina. La donna prese a lavare e a battere i panni sopra il capo
dell'idolo; ma il diavolo che in esso aveva ricetto, la pregò di non
fargli quello sfregio, le disse che egli era il dio Mercurio, e le
insegnò in che modo avrebbe potuto ricuperare il suo tesoro. Seguendo
il ricevuto consiglio, la matrona tornò dal papa, e accusò Giuliano,
che dello stesso papa era cappellano, e domandò giustizia. Il papa
impose a Giuliano di giurare; ma la donna chiese che il giuramento si
facesse in presenza e nel nome del dio Mercurio. Concedutole quanto
chiedeva, Giuliano, insieme con molti principi, si recò al luogo
indicato, e introdusse la mano nella bocca dell'idolo, che subitamente
stringendogliela provò esser vera l'accusa. L'idolo trattenne Giuliano
a quel modo fino alla sera, e quando tutti gli altri furono partiti,
lo rilasciò, e in compenso della sofferta vergogna gli promise
l'impero, con che egli rinnegò la fede cristiana, e si diede anima e
corpo a Mercurio. Morto l'imperatore, il diavolo cominciò a correre
tra i Romani, e a suggerir loro di eleggere Giuliano; e i Romani,
credendo che il consiglio venisse loro dal cielo, così fecero. Eletto
imperatore, Giuliano tolse dal Tevere l'idolo di Mercurio, e ordinò
che tutti l'adorassero: due duchi, per nome, l'uno Paolo, l'altro
Giovanni, avendo rifiutato di obbedire, furono per volere del tiranno
martirizzati. Dopo ciò, Giuliano con un poderoso esercito passò in
Grecia, e giunse presso a un convento, di cui era abate san Basilio, ed
essendo le sue genti strette dalla fame mandò a dire all'abate che gli
provvedesse vettovaglie. San Basilio, non avendo altro, mandò cinque
pani d'orzo; ma Giuliano indignato, promise che al suo ritorno farebbe
morire lui e i suoi frati, e devasterebbe il paese; dopodichè si partì.
Grande fu la costernazione e il turbamento dei monaci quando riseppero
le minacce di Giuliano, e San Basilio pregò molto fervidamente di ajuto
la Vergine. Giuliano aveva fatto martirizzare un principe chiamato
Mercurio, perchè cristiano, e San Basilio l'aveva fatto seppellir nel
convento. Ivi stesso si conservavano la lancia e lo scudo del martire.
La Vergine Maria apparve a San Basilio e lo riconfortò; poi a un suo
comando San Mercurio balzò fuor dal sepolcro, imbracciò lo scudo,
brandì la lancia, montò a cavallo, e raggiunto Giuliano gli trafisse
con un colpo il ventre. Giuliano cadde morto: il suo cadavere è a
Costantinopoli, immerso nella pece e nello zolfo, e vi starà fino al dì
del giudizio. Mercurio rientrò nella sua tomba, e San Basilio vide la
lancia ancor bagnata di sangue. Giuliano regnò due anni e cinque mesi;
tutta la cristianità si rallegrò della sua morte, e l'anima sua fu
trascinata dai diavoli all'inferno.

Come si vede, in questo racconto la storia della vedova che affida a
Giuliano il suo tesoro è notabilmente diversa da quella che abbiamo
più sopra esaminata. Le fonti a cui può aver attinto l'autore della
_Kaiserchronik_ non sono conosciute, ma è certo che le varianti della
favola non sono opera sua. Un racconto, che in molte parti riscontra
perfettamente col suo, si trova nel secondo romanzo siriaco, ancor
esso, come il primo, composto probabilmente nel secolo VI, e ad ogni
modo contenuto in un manoscritto che è sicuramente del VII. Eccone
in breve la sostanza. Giuliano ha frodato il patrimonio ad Eleutera,
figlia di Licinio, che già era stato avversario dell'imperatore
Costanzo. In qual modo ne la frodasse non si sa, perchè al romanzo
manca il principio. Eleutera accusa Giuliano all'imperatore; ma
quegli giura sul crocifisso e sull'ostia d'essere innocente, talchè
Costanzo minaccia dell'ira sua chiunque sarà tanto ardito di rinnovar
quell'accusa. Un giorno, entrata in una chiesa, Eleutera vi si
addormenta, e dorme sino a notte: destatasi, ne esce sola, e mentre va
per via, piangendo la sua sciagura, ecco venirle innanzi un demonio,
che le promette di farle riavere quanto ha perduto, purchè ella ottenga
dall'imperatore di far prestare a Giuliano un nuovo giuramento, in
presenza della statua che sta a custodia del pubblico oriuolo. Egli
allora, il demonio, ghermirà lo spergiuro, e più non lo lascerà finchè
non abbia tutto confessato. Eleutera, col favore dell'imperatrice,
ottiene da Costanzo che quel nuovo esperimento si faccia. Udita la
cosa, Giuliano ne informa il suo amico Magno il negromante, e tutt'e
due, di notte tempo, vanno a trovare la statua. Appena vede comparire
Giuliano, il demonio comincia a gridare, accusandolo di furto e
assicurandolo che avrebbe fatta palese a tutti la sua tristizia; ma
il mago riesce ad ammansarlo, tanto che da ultimo quegli promette a
Giuliano di farlo signore di tutta la terra, a patto che gli offra
incenso e lo adori. Giuliano acconsente, e tornato dopo tre giorni,
come dal demonio gli era stato prescritto, in compagnia di Magno,
questi fa comparire gran moltitudine di diavoli, che Giuliano,
spaventato, volge in fuga facendosi il segno della croce, ma che,
richiamati da Magno, tornano con a capo Satana. Giuliano si prosterna
dinnanzi ad essi. Satana ricorda ai suoi com'egli fosse già signore di
tutto il mondo, come Costantino avesse rinnegata la fede dei padri,
come per racquistare il perduto egli intende conferire la dignità
imperiale a Giuliano, che regnerà cento anni. Proclamato imperatore
Giuliano sacrifica, e i diavoli si prosternano dinnanzi a lui. La
notte seguente Magno e Giuliano vanno a un tempio di Belzebub, fuori le
mura della città, e quivi sventrano una schiava che avevano condotta
con sè, le traggon vivo di corpo un bambino di nove mesi, evocano gli
spiriti sotterranei, poi ripongono il bambino nel ventre della madre e
con incenso e legno di alloro abbruciano i due corpi sopra l'altare.
Eleutera insiste intanto perchè Giuliano presti il novo giuramento;
ma insorta una guerra coi barbari, l'imperatore affida a Giuliano il
comando de' suoi eserciti. Questi, con l'ajuto dei demonii, trionfa, e,
morto Costanzo, è fatto imperatore. Dopo ciò la storia racconta alcuni
fatti, in parte meravigliosi, i quali già molto tempo innanzi avevano
lasciato intendere quale mostro d'iniquità dovesse essere Giuliano.

Anche qui dunque, come nella _Kaiserchronik_, la storia della frode
si lega strettamente a quella delle diaboliche promesse. Senza dubbio
l'intera leggenda nacque in Oriente, d'onde, passata in qualche
racconto latino, si diffuse per l'Occidente; ma qui si scisse, si
alterò, e una delle sue parti, la storia del furto, stette da sè,
come abbiam veduto nei racconti di Giovanni da Verona e di Giacomo
da Voragine. Tuttavia, l'avventura dell'idolo che morde la mano
di Giuliano può darsi che sia d'invenzione del poeta tedesco, non
trovandosene cenno altrove: nei _Mirabilia_ si ricorda bensì, per
incidente, che Giuliano fu ingannato da un idolo, ma non si spiega
in che consistesse l'inganno. Eccone il passo: «Ad sanctam Mariam in
fontana templum Fauni, quod simulacrum locutus est Juliano et decepit
eum». La prova della mano introdotta a testimonio della verità nella
bocca dell'idolo, ha, del resto, numerosi riscontri. Nel portico della
chiesa di Santa Maria in Cosmedin, a Roma, si vede ancora una ruota di
pietra forata, che s'immaginò opera magica di Virgilio, o fu chiamata
Bocca della Verità, perchè si credette un tempo che chi, giurando il
falso, introduceva in essa la mano, non poteva più ritirarnela[250].
Secondo la leggenda, Virgilio fabbricò anche un serpente di metallo che
mordeva la mano agli spergiuri. Di immagini che in varii altri modi
scoprivano l'altrui colpa si trovano molti ricordi. Codino parla di
una statua munita di quattro corna, la quale girava tre volte intorno
a se stessa se avvicinata da un uomo che avesse la sposa infedele, e di
una statua di Venere che alle donne impudiche faceva scoprire le parti
vergognose[251]. Non sono rare le leggende in cui si narra di sante
immagini che fecero testimonio della verità: molto più raro certamente
quelle in cui tale officio è commesso al diavolo. Lutero racconta nei
_Tischreden_ la storia di un soldato che, frodato da un oste, riuscì ad
avere il suo mercè la testimonianza del diavolo in giudizio.

Quanto alla promessa d'impero che il demonio fece a Giuliano, l'autore
della _Kaiserchronik_ non è solo a parlarne; una promessa simile è
ricordata anche da Martino Polono, da Gobelino de Persona, da Giovanni
d'Outremeuse, da altri[252].

Ciò che nella _Kaiserchronik_, e in altre innumerevoli scritture, si
narra di San Basilio, e della morte miracolosa di Giuliano per opera
del santo martire Mercurio, non è punto accennato dagli scrittori
più antichi. Gregorio di Nazianzo si contenta di dire che sulla morte
dello scelerato varie voci erano corse; nel V secolo Socrate ricorda
il racconto, andato perduto più tardi, di un Callisto, secondo il quale
Giuliano sarebbe stato ucciso da un demone[253], fine solita poi di chi
vendeva l'anima al diavolo. Altri dubitava se l'uccisore fosse stato un
uomo od un angelo. Teodoreto, ricordando le varie opinioni accreditate
circa la morte di Giuliano, non dice verbo, nè di San Basilio, nè di
San Mercurio[254]. Eutropio che, secondo afferma egli stesso, prese
parte alla spedizione di Persia, dice che Giuliano fu ucciso da uno dei
nemici[255], e ciò è ripetuto da Orosio[256] e da altri. Il sofista
Libanio, suo amico e panegirista, asserisce ch'egli fu ucciso dagli
stessi cristiani ch'erano nel suo esercito[257]. Parecchi poi narrano
la visione di un Didimo[258] e la predizione di un monaco Giuliano[259]
riguardanti la morte del malvagio imperatore. Nel IX secolo la leggenda
di San Mercurio probabilmente non era ancora passata in Occidente,
giacchè Floro, diacono di Lione, non ne fa cenno nell'_Hymnus in Natale
Sanctorum Joannis et Pauli_, dove, quanto alla morte di Giuliano,
accoglie una delle tradizioni meno meravigliose e meno accette al medio
evo[260].

La leggenda di San Mercurio uccisore di Giuliano appare per la prima
volta nella vita di San Basilio attribuita ad Anfilochio[261]. Quivi
si narra che San Basilio andò co' suoi compagni incontro a Giuliano
quando questi, passando con l'esercito in Persia, si fermò a Cesarea.
Avendogli Giuliano detto: O Basilio, io ti superai nella filosofia; San
Basilio rispose: Così fosse che tu operassi da filosofo; e gli offerse
tre pani che aveva recati con sè. Giuliano, stimando quell'offerta
un insulto, ordinò che fosse dato in cambio al sant'uomo del fieno,
e giurò che al ritorno farebbe radere al suolo la città. San Basilio
fece note a' suoi concittadini le minacce dell'imperatore, e li esortò
a tutte raccogliere insieme le loro ricchezze, affine di placarlo
offerendogliele quando fosse tornato. Ordinò in pari tempo che tutto
il clero ed il popolo salissero sul monte Didimo, ov'era una chiesa in
onore della Vergine, e vi stessero tre giorni in digiuno e in orazione.
Una notte, mentre si esegue il suo comandamento, San Basilio vede in
sogno la Vergine sedente in un trono sul monte, in mezzo a numerosa
milizia celeste, e ode com'ella ordina a San Mercurio, che tutto armato
le compare dinnanzi, d'andare ad uccidere Giuliano. In quella medesima
notte ha tale visione anche il sofista Libanio. Destato, San Basilio,
con un solo compagno, scende in città, va al luogo dov'era seppellito
il martire Mercurio, e non vi trova più nè il corpo nè l'armi sue.
In capo di sette giorni Libanio stesso viene ad annunziare la morte
di Giuliano, si converte alla vera fede, e diventa compagno di San
Basilio.

Questa leggenda nacque senz'alcun dubbio in Oriente, e l'intendimento
suo principale è la glorificazione di San Basilio, che ha, come
s'è veduto, non piccola parte nel miracolo. Tuttavia essa non può
dirsi interamente nuova, perchè utilizza e trasforma in parte una
tradizione sicuramente più antica, ma molto meno diffusa. Sozomene
racconta[262] che un familiare di Giuliano, essendo in viaggio per
raggiungere il suo signore in Persia, si addormentò in una chiesa, e
vide in sogno molti apostoli e profeti, ragunati a consiglio, dolersi
delle molte ingiurie da Giuliano recate alla Chiesa, e discutere dei
provvedimenti da prendere contro di lui, e in capo di certo tempo
due di essi, confortati gli altri a star di buon animo, partirsi dal
consiglio; poi, il dì seguente, in un altro sogno, vide tornare quei
due e annunciare ai compagni che Giuliano era stato ucciso. L'idea
che suggerì questa finzione si è che uno scelerato come Giuliano non
poteva morire di morte naturale, anzi non poteva morire nemmeno di una
morte preordinata dalla provvidenza in forma, direi, generica e comune;
ma doveva morire per diretta intromissione, e per fatto personale
di qualche abitatore del cielo, mandatario, in certo qual modo, di
tutta la celeste famiglia, ed esecutore delle sue vendette. Affidare
pertanto a profeti e ad apostoli, a preparatori cioè, ed a fondatori
della Chiesa, il còmpito di levar dal mondo chi aveva posto ogni studio
a distruggere appunto la Chiesa, era, a tenore di leggenda, pensiero
sommamente logico, ma forse troppo alto e troppo sottile perchè dalla
comune dei credenti potesse essere facilmente compreso. Si ristrinse
allora l'orizzonte della finzione. L'ordine di uccidere Giuliano si
fece venire dalla Vergine, in luogo a lei sacro, per le preghiere
di un popolo a lei devoto, in occasione di un particolare pericolo
minacciato questa volta, non alla Chiesa propriamente, ma ad una città,
e il carico della vendetta si affidò a un martire, le cui ossa quella
città custodiva come preziosa reliquia, e che, essendo stato morto per
ordine di Giuliano, pareva naturalmente indicato per quell'ufficio,
e compieva in un tempo la propria vendetta e l'altrui. Oltre a
ciò, questa poetica e paurosa immaginazione di un morto che esce di
sepoltura, riveste l'armi sue, balza a cavallo, e insegue il suo nemico
finchè non l'abbia raggiunto ed ucciso, doveva cattivar gli spiriti e
perpetuarsi facilmente nella tradizione. Essa ci si perpetua in fatti,
e passata in Occidente, entra nella vivace famiglia delle leggende
celebri. Martino Polono, Vincenzo Bellovacense[263], Giacomo da
Voragine, Gobelino de Persona[264], Eccardo Uraugiense, l'autore dello
_Speculum exemplorum_[265], cent'altri, la ripetono; ma dipartendosi
spesso, come ben si può intendere, dalla tradizione primitiva. Così i
più tralasciano di dire che la nuova della morte di Giuliano fu recata
in Cesarea da Libanio, particolarità evidentemente immaginata per
acquistare maggior credito a tutta la favola[266]. In certo racconto
latino[267] si dice che la Vergine domandò prima agli angeli che le
stavano intorno chi volesse andare ad uccidere Giuliano, e nessuno
di essi rispondendo, ella comandò le si facesse venire Mercurio. Nel
_Chronicon Paschale_[268] la morte di Giuliano è narrata nel seguente
modo. Una notte, in sogno, costui vedo un uomo vestito d'abito
consolare ferirlo con un colpo d'asta in un tabernacolo, nella città di
Ctesifonte. Destato, si trova ferito sotto l'ascella e muore dicendo:
O Sole, tu hai ucciso Giuliano. Quella notte medesima San Basilio vide
nel cielo aperto Cristo comandare a Mercurio di uccidere Giuliano
e Mercurio obbedire. Giuliano aveva San Basilio in grande stima, e
si giovava de' suoi consigli e gli scriveva spesso. San Basilio fu
pregato dal clero di non divulgare ciò che aveva veduto[269]. Giovanni
Damasceno narra, attingendo da Elladio, che San Basilio si pose a
pregare dinnanzi a un dipinto in cui era figurata la Vergine insieme
con San Mercurio, e che così stando in orazione vide improvvisamente
sparire l'immagine del santo, e ricomparire poco dopo con l'asta
insanguinata[270]. Di solito si dice che quando succedette il miracolo
Mercurio era morto e seppellito da pochi giorni soltanto; secondo
Giacomo da Varignana invece egli era già morto da molti anni[271].
Chi veramente fosse questo San Mercurio, e se sia mai esistito, non si
sa. Certo, esso fu più conosciuto in Oriente che in Occidente. Narra
Matteo Paris che dinnanzi ad Antiochia i crociati furono soccorsi da
San Giorgio, da San Demetrio e da San Mercurio, che con un esercito
scesero dai monti circostanti[272]. E forse perchè non abbastanza
conosciuto in Occidente, alcuni scrittori che riportarono la leggenda
gli sostituirono quel Giuda che ajutò Sant'Elena a ritrovare la croce,
più noto sotto il nome di San Ciriaco[273]. Michele Glica prova che il
preteso miracolo di San Mercurio altro non è che una favola[274]. Del
resto, di morti che uscirono dal sepolcro per compiere alcuna opera, e
che vi tornarono, l'opera compiuta, sono infinite leggende.

Non so a quali fonti attinga l'Anonimo Magliabechiano quando dice
che Giuliano morì fulminato in Roma[275]. Altri, confondendo Giuliano
con Valeriano, fecero morire l'Apostata scorticato da Sapore, re di
Persia. Narra Agatia Scolastico, nella sua continuazione delle Istorie
di Procopio, che Sapore fece scorticare e salare Valeriano, e la pelle
di lui, conciata e tinta in rosso, ordinò fosse appesa in un tempio a
perpetua vergogna dei Romani. Circa il mille, Benedetto di Sant'Andrea
racconta che Giuliano fu scorticato, e la sua pelle servì a coprire
il trono dei re di Persia. Gotofredo da Viterbo fa toccare tal sorte
all'Apostata già morto per mano di San Mercurio[276]; ma Sicardo,
riferita la leggenda di San Ciriaco, un'altra ne soggiunge, secondo
la quale Giuliano sarebbe stato scorticato vivo[277]. Altri ripetono
questa favola accomodandola a modo loro[278]. Qui può essere inoltre
ricordato ciò che Valerio Massimo racconta di Cambise, il quale fece
scorticare un mal giudice, e della pelle di lui coperse la sedia
giudiziaria, affinchè l'esempio stesse in memoria ai successori[279].
Fazio degli Uberti pare che accenni ad una versione meno truculenta
della leggenda quando di Giuliano l'Apostata fa dire a Roma[280]:

    E di costui questa novella udío,
      Che poi che da Sapor fu vinto e morto,
      Il cor si sperse per disdegno rio.

Quanto alle parole pronunziate da Giuliano morendo, è noto che vi è
disparere tra gli scrittori. Alcuni narrano ch'egli, avventando il
proprio sangue verso il cielo, gridò: _Vicisti Galileae, vicisti!_[281]
altri che gridò: Saziati, o Nazareno![282]. Ma quella prima versione
rimase più popolare, e si ritrova nella _Legenda aurea_, nell'_Alte
Passional_, nella _Rappresentazione di San Giovanni e Paolo_, ecc.
Secondo Floro, Giuliano gridò:

    Ebibe nunc nostrum quem quaeris, Christe, cruorem,
        Atque avidus leto jam satiare meo.

Gotofredo è il solo che, insieme con queste, ponga in bocca di Giuliano
parole di pentimento e di preghiera:

    _O Nazarene, vincis, rex magne, minorem;_
    _Ecce triumphanti proprium tibi reddo cruorem;_
      _Parce michi misero, parcere namque soles_[283].

Giuliano ebbe sepoltura degna di sè. Chi dice che dalla sua tomba
usciva un insopportabile fetore; chi, come abbiam veduto, che il suo
corpo era immerso nella pece e nello zolfo[284]. Nel già più volte
ricordato mistero francese i diavoli lo portano all'inferno anima e
corpo; e vi fu persino chi volle sapere quale fu all'inferno il suo
castigo. Nell'_Eulogium_ si legge[285]: «Tradunt enim antiqui quod
sicut Herodes cum prole sua propter occisionem Johannis cruciantur
tempore perpetuo, sic Julianus cum tota parentela sua in inguine
(_igne_?) cruciantur in aeternum». Dante non conosce nè tal pena, nè
tal dannato[286].



CAPITOLO XV.

Gli autori latini nel medio evo.


Se gl'imperatori, buoni o tristi, che avevan governato il mondo,
combattuta o favorita la Chiesa, empiuta Roma dei monumenti del
loro fasto e della loro potenza, dovevano, in una età essenzialmente
fantastica, porgere argomento alle numerose leggende che siam venuti
esaminando sin qui; ad altre, non men numerose, lo dovevan porgere gli
autori latini; quegli autori, nelle cui pagine immortali pareva che
vivesse ancora e fremesse, insieme con la lingua, la grand'anima di
Roma, e i cui libri dispersi nella barbarie, quasi assi galleggianti
di nave sfasciata, furono pressochè unico mezzo e strumento di salvezza
alla naufragata coltura. Gli edifizii sontuosi innalzati dai Cesari, o
giacevano nella polvere, o ingombravano di moli rovinose la devastata
città; ma i libri dettati dai poeti e dagli storici, dai retori e
dai filosofi, serbavano intatto il primitivo splendore, e soli ormai
potevano fare piena e sicura testimonianza di quel glorioso passato
di cui il tempo veniva più sempre cancellando i vestigi e accrescendo
la nominanza. Essi erano la voce viva e imperitura di Roma; per essi i
tardi nepoti venivano a conoscere le proprie origini e favellavano con
l'antichissima progenitrice.

Una storia della varia fortuna delle lettere classiche, e più
particolarmente delle latine, nella età di mezzo, dalle invasioni
barbariche sino al Rinascimento, si desidera già da gran tempo, e
tornerebbe di massimo giovamento agli studii medievali; ma sinora
non altro s'è fatto in questa parte che illustrare alcuni speciali
argomenti, e raccogliere materiali per chi sia da tanto di mettere
insieme, e condurre a termine l'edifizio. Lungi da me il pensiero
di volere in queste pagine sopperire comechessia al difetto, o anche
di voler recare a quello studio un copioso contributo di notizie al
tutto nuove. Non sarebbe questo il luogo da ciò, e il mio intendimento
dev'essere, non tanto di dir cose nuove, quanto di raccogliere insieme
quelle, note o ignote che sieno, che meglio valgano a dare una idea
generale del modo onde nel medio evo furono studiati e giudicati gli
scrittori romani, e servano come di fondo alle trattazioni speciali di
cui verrò formando i capitoli che seguono.

Consideriamo prima di tutto le condizioni del fatto sotto l'aspetto
più generale. Roma, come potenza politica ed intellettuale, o
non esiste più, o esiste trasformata profondamente: i libri degli
scrittori suoi, salvo le alterazioni più o meno gravi che possono
avervi prodotte l'incuria e l'ignoranza dei copisti, o la temerità
ingenua degl'interpolatori, sono rimasti tali e quali. Essi continuano
a vivere, ma in un mondo che non è più il loro: figli della coltura
pagana, essi trovansi smarriti in un mondo rimbarbarito, e per
giunta cristiano. Ciò è quanto dire che la loro fortuna non può più
essere quella stessa di prima, e che i giudizii recati sopra di essi
debbono necessariamente risentirsi della mutata condizione della
civiltà e delle credenze. Tra gli scrittori latini e pagani da una
parte, e la barbarie e il cristianesimo dall'altra c'è opposizione e
incompatibilità. La barbarie, che in questo caso è più particolarmente
ignoranza, dà luogo agli errori di giudizio e alle pazze immaginazioni;
il cristianesimo, costituito nella Chiesa, personificato negli
scrittori ecclesiastici, sollecito della estirpazione delle false
credenze, dà luogo alla riprovazione morale. I libri e gli scrittori
pagani sono frantesi, travisati nella leggenda, dannati. Pur tuttavia
un sentimento d'invincibile e quasi inconscia ammirazione sussiste
per essi, e l'ignoranza non giunge in tutto a sformarli, e la fede non
riesce ad ucciderli.

Giudicare equamente la politica che la Chiesa tenne di fronte alla
coltura pagana non è cosa agevole, e i più si lasciano in così fatto
argomento traviare dalla passione. Voler sostenere che la Chiesa non
nocque a quella coltura è tanto assurdo quanto il non voler riconoscere
che la Chiesa doveva per sua propria istituzione combatterla. Lo
spirito del paganesimo era tutto nei poeti ch'esso aveva inspirati,
nelle arti che aveva suscitate e nodrite; e l'attrattiva dell'errore,
per se stessa quasi irresistibile all'uomo decaduto e nato nella
colpa, era fatta maggiore del pericoloso lenocinio della bellezza. San
Paolino di Nola in una epistola ad Ausonio pone in rilievo il contrasto
ch'è tra la fede cristiana e il culto della poesia dei gentili; e
quanti altri, prima e dopo di lui, non sentirono e non espressero
quel contrasto medesimo! A rigor di logica non si poteva essere buon
cristiano e compiacersi in pari tempo della lettura di Virgilio o di
Ovidio. Ciò nullameno, e mentre durava ancora la lotta fra la Chiesa
crescente e il decadente paganesimo, e dopo, quando la Chiesa potè
posare in sicura vittoria, sempre si trovò chi attese allo studio delle
lettere classiche, e chi quello studio venne commendando altrui. Gli
apologeti vi attesero per una imperiosa necessità del loro ufficio:
San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Girolamo, Sant'Agostino,
consigliarono, con varie cautele e restrizioni, la lettura degli
scrittori pagani. Ma a questi, altri esempii di contraria natura, e in
gran numero, si possono contrapporre; Teofilo, il celebro vescovo di
Alessandria, distruggeva quanti libri gli venivano alle mani, Gregorio
Magno faceva guerra sino alla grammatica[287].

Questa incertezza del sentimento cristiano di fronte all'antica
coltura ed ai suoi monumenti si perpetuò nel medio evo, così che
riesce molto difficile dire quanto la Chiesa abbia in quella età
nociuto, quanto abbia giovato alle lettere classiche. Che le ragioni
della decadenza erano, in parte, anteriori ai tempi in cui la Chiesa
cominciò ad operare con qualche efficacia in mezzo alla società pagana,
è riconosciuto da chiunque sia in grado di recare in tale argomento
un imparziale giudizio; e da altra banda si vuol considerare che
tutto, o quasi tutto quanto pervenne sino a noi delle lettere latine
fu conservato per la diligenza dei chierici[288]. Si ammiravano le
bellezze immortali di cui ridevano le pagine di quegl'insigni antichi
artefici del pensiero e della parola, ma se ne temevano le dolci
lusinghe. Lo spirito maligno, che nel sorriso di una bella donna, in
una coppa di vin generoso, nel profumo di un fiore, sapeva preparare
formidabili insidie, poteva bene servirsi di un esametro di Virgilio,
o di un coriambo d'Orazio per invescare le anime. Molti allora,
di fronte agli autori della classica antichità, si trovarono nella
condizione stessa di spirito di un amante timorato, combattuto fra
il desiderio della passione e l'orror del peccato. Pietro Damiano
(988-1072), il gran restauratore della monastica disciplina, dice in
un suo sermone[289]: «Olim mihi Tullius dulcescebat, blandiebantur
carmina poetarum, philosophi verbis aureis insplendebant, et Sirenes
usque in exilium dulces meum incantaverunt intellectum»; nelle quali
parole par che trepidi ancora un dolce ricordo e un rimpianto di
gaudii perduti. In altri l'abito dell'ascetica austerità, l'indole
cupa e morosa, l'angoscioso pensiero dell'eterna dannazione, mettevano
sospetti più gravi e più tristi paure, che si esprimevano con parole
di contumelia e di esecrazione. Nel VII secolo Sant'Andoeno chiama
scelerati Omero e Virgilio[290]; nel X, Leone, abate di San Bonifacio
e legato apostolico, rispondendo alle accuse d'ignoranza che i vescovi
della Gallia avevano nel sinodo di Reims mosso agli ecclesiastici
romani, dichiara in una epistola ai re Ugo e Roberto di Francia che
i vicarii e i discepoli di San Pietro non vogliono avere a maestri
Platone, Virgilio, Terenzio e gli altri del filosofico bestiame[291].
Ranulfo Glaber racconta nella sua Cronaca la storia di un grammatico
di Ravenna, per nome Vilgardo, molto studioso e sollecito degli antichi
autori, al quale una notte apparvero alcuni diavoli sotto le spoglie di
Virgilio, di Orazio e di Giovenale, e lo ringraziarono della diligenza
ch'egli adoperava intorno ai loro scritti, e gli promisero di farlo,
dopo morto, partecipe della propria lor gloria. Invanito per tali
promesse, egli cominciò a dire molte cose in pregiudizio della vera
fede, tanto che fu dannato per eretico[292]. Allo stesso modo assumeva
il diavolo la figura ora di questa, ora di quella antica divinità.
Il fatto sarebbe avvenuto ai tempi della dominazione longobardica;
e se da una parte dimostra quali sensi di esecrazione gli scrittori
pagani inspirassero nei più credenti, dimostra dall'altra come qualcuno
ancora vi fosse che, innamorato dell'opere loro, ne sognava la gloria.
Sant'Odone, abate di Cluny, fu trattenuto dal leggere le poesie di
Virgilio da certa visione che ebbe, in cui gli parve vedere un vaso
bellissimo di fuori e dentro pieno di serpenti, i quali uscitine
presero a circuirlo. Egli intese che i serpenti erano le false dottrine
dei poeti, e il vaso il libro di Virgilio[293]. Di Ugo Augustodunense,
a mezzo dell'XI secolo abate di Cluny, racconta Elinando[294] che un
giorno, dormendo, sognò d'avere sotto il capo una gran moltitudine
di serpi. Destatosi, sollevò il capezzale, e trovò che v'era sotto
un antico volume di Virgilio, gettato il quale, potè riposare
tranquillamente.

Alcuni più tolleranti consideravano lo studio delle lettere come
affatto inutile a chi aveva nelle Sacre Carte, e nei dogmi della Chiesa
la certa e inconcutibile verità; altri lo giudicavano invece dannoso al
buon costume e alla fede. Nello _Speculum exemplorum_ si racconta[295]
che San Francesco lanciò una formidabile maledizione contro un suo
discepolo, che, senz'avergliene chiesto licenza, ordinò uno studio in
Bologna. Tu vuoi, diss'egli al colpevole, distruggere l'ordine mio.
Io desiderava e voleva che ad esempio del mio Signore i miei fratelli
pregassero più che non leggessero. Il povero maledetto incontanente
infermò, e stando nel letto fu miracolosamente privato della vita da
una gocciola ignea e sulfurea piovuta dal cielo, la quale perforò il
suo corpo e il letto insieme. Il diavolo ne portò via l'anima. Nella
Satira X Jacopone da Todi prorompe in queste parole:

    Tal è, qual è, tal è:
    Non c'è religione.
    Mal vedemmo Parisi,
    Che n'ha destrutto Ascisi;
    Con la lor lettoria
    L'han messo in mala via[296].

I Domenicani, a dir vero, a dispetto della propria regola, la pensavano
diversamente, e Jacopo Passavanti era da' suoi superiori mandato a
studiare a Parigi. De' suoi studii profani fanno copiosa testimonianza
gli esempii tratti dalle storie e dalle favole antiche e introdotti
nello _Specchio della vera penitenza_, sovrattutto nella redazione
latina.

Se le regole di alcuni ordini monastici vietavano la lettura degli
scrittori pagani[297], le regole di altri ordini, non solo la
permettevano, ma della trascrizione dei codici facevano un obbligo
espresso[298]. Gli è a questo modo che i monaci del X, XI e XII secolo
resero alla coltura servigi indimenticabili[299]. Se non fossero
state le grandi abazie, dove si tenevano scuole di grammatica, e si
custodivano gelosamente quanti libri si potevano avere, non uno forse
degli scrittori latini sarebbe giunto insino a noi[300]. Invece di
biasimare i monaci perchè non considerarono gli scrittori pagani
a quel modo stesso che possiamo considerarli noi, bisogna lodarli
d'aver saputo conciliare in qualche misura l'amor delle lettere
col sentimento religioso, contraddicendo alcuna volta, nonchè allo
spirito, alla lettera stessa delle regole monastiche, e vedere in
questo fatto una prova della grande attrattiva che gli antichi volumi
serbavano nel medio evo, e dell'attitudine che gli uomini di quella
età avevano ancora a gustarne le profane bellezze. Non mancò mai
chi apertamente consigliasse la lettura dei classici, e molti che
palesemente la biasimavano e la sconsigliavano altrui, se ne giovavano
poi per proprio conto, e andavan superbi di potere ostentare negli
scritti la erudizione e l'eleganze attinte negli antichi volumi.
Più d'uno fu mosso a scrivere dall'esempio e dalla riputazione di
questo o di quell'antico[301]. I poeti, gli storici, i filosofi si
trovano continuamente ricordati, e le sentenze e le opinioni loro
citate e commentate; e ciò non solo in opere di argomento profano,
ma ancora, ed anzi più, in quello di argomento religioso, e di
spirito più particolarmente ecclesiastico, nei trattati teologici
ed ascetici, nei libri di educazione, negli scritti polemici. E non
è una delle cose meno curiose in tali opere trovare appunto citati
gli scrittori pagani insieme coi Padri, i libri loro insieme con la
Bibbia. Veggansi, per un esempio tra mille, gli _Ammaestramenti degli
Antichi_ di Bartolomeo da San Concordio, frate predicatore. Delle loro
sentenze morali si facevan raccolte, che sotto il nome di _Flores_
o _Flosculi_ s'inserivano poi dove venivano in taglio, come, per non
moltiplicare nemmeno qui gli esempii, si può vedere nello _Speculum
historiale_ di Vincenzo Bellovacense. Seneca, Cicerone, Giovenale,
persino Orazio, si citano col nome onorato di _ethici_; spesso si
trovano riportate le loro sentenze senza nessuna indicazione di nome,
ma accompagnate semplicemente dalle parole: _Ethicus ait_. Nel _Liber
moralizationum historiarum_ dell'Holkoth, su quarantasette moralità che
lo compongono moltissime traggono l'argomento da scrittori pagani, e
più particolarmente da Cicerone, Seneca, Tito Livio, Ovidio, Giovenale,
Plinio, Solino, Valerio Massimo. Certo, molto spesso chi cita non
conosce del suo scrittore altro che il nome, o qualche detto ricevuto
di seconda, o di terza mano; ma spessissimo ancora le citazioni sono
tratte direttamente dai testi. Ad ogni modo il fatto che più importa
qui si è, non la molta o poca, esatta od inesatta conoscenza degli
scrittori classici, ma il grande rispetto e la grande ammirazione
che si ha e si dimostra per essi. La loro riputazione di sapienza e
di veridicità è universale. Guglielmo d'Hirschau (m. 1091) riferisce
la opinione di alcuni che fondavano tutta la dottrina dei quattro
elementi sopra un verso di Giovenale[302], di quel Giovenale a cui
lo stesso Dante non osava contraddire senza scusarsene. Tale essendo
la riputazione degli scrittori latini, molti, per acquistar credito
all'opere loro, dovevano porre innanzi e fingere fonti latine; specie
chi scrisse allora di cose naturali ebbe in costume di spacciare sotto
i nomi di Plinio, di Solino, di Eliano, le favole più stravaganti.
Verrà un tempo in cui poeti cristiani, come Brunetto Latini, Dante,
Fazio degli Uberti, prenderanno a guida di simbolici viaggi scrittori
pagani, e con la scorta loro ammaestreranno, narreranno, descriveranno
_fondo a tutto l'universo_. Alcuni di questi saranno già entrati nel
regno dei cieli; altri, che _non ebber battesmo_, ma furono senza
peccato, si sottrarranno all'inferno e si porranno in luogo distinto,
scevri da pena e onorati[303]. Onorio Augustodunense, il quale fiorì
nella prima metà del XII secolo, e fu uomo di chiesa, come tutti quasi
i dotti d'allora, dice nel suo trattato _De animæ exilio et patria,
sive de artibus_[304], che l'esiglio dell'anima altro non è se non
l'ignoranza, la patria, per contro, il sapere. Dall'esiglio si ritorna
in patria per una via lungo la quale sono dieci città: Grammatica,
Retorica, Dialettica, Aritmetica, Musica, Geometria, Astronomia,
Fisica, Meccanica, Economia. Nella prima insegnano Donato e Prisciano,
nella seconda Cicerone, nella terza Aristotile, nella quarta Boezio,
nella quinta discepoli di costui, nella sesta Arato, nella settima
Igino e Giulio Cesare, nella ottava Ippocrate; nella nona e nella
decima non appare nessun particolare maestro.

Quale che potesse essere la naturale ostilità della Chiesa contro agli
scrittori pagani, il sentimento di ammirazione da questi inspirato
empieva gli animi, e non permetteva che certe condanne passassero
interamente dal concetto alla pratica. In uno dei suoi scritti dice
San Bernardo[305]: «Omnes placuerunt Deo in vita sua, vitæ meritis, non
scientiæ. Petrus, et Andreas et filii Zebedæi, ceterique condiscipuli
omnes, non de schola rhetorum philosophorumque assunti sunt». Ma poi
soggiunge: «Videar forsitan nimius in suggillatione scientiæ, et quasi
reprehendere doctos, ac prohibere studia literarum. Absit». Non si
dimentichi inoltre che una certa tradizione classica e pagana, assai
difficile a distruggere in tutto, sopravviveva, dove più, dove meno,
nelle province d'Europa soggette un tempo alla dominazione di Roma.
Essa ricompariva qua e là nella letteratura popolare, si perpetuava
in certe credenze e costumanze, si manifestava in certe propensioni
dello spirito, e, senza che altri se ne avvedesse, riusciva a mitigare
certi contrasti, faceva parere l'antico mondo, qual era rappresentato
negli scrittori, meno estraneo, meno disforme. Ciò avveniva più che
altrove in Italia, dove, meglio che altrove, s'era conservato l'antico
spirito latino, tanto che Ottone di Frisinga si meravigliava di trovare
in Lombardia la lingua, la urbanità, la sapienza dei Romani[306], e
dove in rozzissimi canti popolari del XI e del XII secolo abbondano le
reminiscenze di Roma, delle sue glorie, delle sue divinità[307]. Questo
persistere di una tradizione più viva e più gelosamente custodita
lascia intendere in parte perchè il Rinascimento avesse principio in
Italia, e dall'Italia si diffondesse nella rimanente Europa. Le scuole
di grammatica e di retorica non cessarono mai interamente, nè qui, nè
fuori, e, benchè molto mutate, pure per diritta filiazione si legavano,
risalendo di secolo in secolo, alle antiche scuole dell'impero. Ma
il vincolo più forte e più efficace tra l'antica e la nuova età, tra
il mondo pagano e il mondo cristiano, era quella bella e vigorosa e
trionfale lingua latina, che non fu meno operosa nella conquista delle
terre e dei popoli di quello fossero state le armi dei legionarii, e
che la Chiesa aveva consacrata, affidandole il solenne deposito delle
verità della fede, e facendola strumento augusto della preghiera. Per
lungo tempo essa disputa ai volgari nascenti e formantisi il mal certo
dominio; poi, quando questi hanno digià ottenuta la vittoria, non si
ritrae dal popolo se non a rilento, e non muore, ma si lega sempre più
intimamente a tutto il pensiero dei tempi, e, segno massimo della vita
nei linguaggi, seguita ad alterarsi e a variare, docilmente piegandosi
a tutte le necessità, procedendo con la storia di pari passo. In
latino si scrive, in latino si prega, in latino si predica; rozzi
canti latini corrono tra il popolo. Strano a dire, la lingua latina non
diventa veramente lingua morta se non quando comincia il Rinascimento.
La Chiesa parla lo stesso linguaggio degli antichi poeti, i metri
che avevano servito a celebrare Giove e Venere, servono ancora a
celebrare Cristo e Maria[308]. Come l'unità della lingua, che è vincolo
atto a tener moralmente congiunte per secoli più parti di un popolo
disgregato politicamente, non avrebbe anche in questo caso, a dispetto
di ogni altro contrasto, fatta palese la sua efficacia, e ajutato a
raccostare il lettore cristiano allo scrittore pagano, e agevolata la
conciliazione dell'antico e del nuovo spirito? La lingua latina era,
insieme con gli scrittori latini, quanto di meglio sopravvanzava del
dissipato retaggio di Roma: leggendo, parlando, scrivendo il latino,
l'uomo del medio evo poteva sentirsi cristiano e romano ad un tempo.
Ciò spiega perchè in quella età siasi data tanta importanza agli
studii grammaticali. Nè qui è da considerare la sola lingua latina.
Quanto nel medio evo potesse far meglio e più profondamente sentire
la partecipazione alla vita dell'antica Roma, e vie più stringere i
legami tra i nepoti e gli antenati, doveva tornare in beneficio degli
scrittori pagani, con abbreviare in certo qual modo le distanze,
promuovere le simpatie, levare i sospetti. Il diritto romano, almeno
in Italia, non era mai caduto in dimenticanza; anzi sembra che nella
tradizione e nella pratica di esso non siavi stata interruzione
mai[309]. Nella prima metà dell'XI secolo, Vipone, cappellano di
Corrado II e di Enrico III imperatori, lodava l'usanza che si aveva
in Italia di fare istudiare ai giovani il giure[310]. Chi invocava e
praticava la legge romana doveva considerare come illustri concittadini
suoi gli scrittori di Roma, e compiacersi in loro.

Questo stesso Vipone dice in uno dei suoi Proverbia:

    Notitia literarum lux est animarum;

parole che certamente pajono strane in bocca di un ecclesiastico, il
quale non avrebbe dovuto ammettere che ci fosse altra luce dell'anime
fuor di quella della parola divina che raggia dalla Sacre Carte. Ma è
indubitato che quelle parole esprimevano un sentimento comune a molti,
comprovato da altre testimonianze infinite. Pietro di Blois scriveva
verso il 1170 a un professore dell'Università di Parigi: «Priscianus
et Tullius, Lucanus et Persius, isti sunt dii vestri[311]». Ben
più strano del resto deve parere che la cognizione degli scrittori
classici, posseduta da un uomo di chiesa, potesse porgere argomento
di grandissima lode ad altri, lui morto. Nell'epitafio di certo
ecclesiastico italiano per nome Guido, morto probabilmente nel 1095, si
leggono, tra gli altri, anche i seguenti versi[312]:

    Leto Widonis moriuntur dicta Platonis,
    Leto Widonis doletur opus Ciceronis,
    Leto Widonis tacuerunt facta Maronis,
    Leto Widonis cessavit musa Nasonis.
    Pitagoras, Socrates, Plato, Tullius et Maro vates
    Quicquid senserunt, quicquid cuncti docuerunt,
    Hauserat hic totum, placet ergo fundere votum:
    Liber ab inferno regnet cum rege superno.

Non perchè cristiano, non perchè ministro della Chiesa, non perchè
giusto osservatore della legge divina, sembra qui questo Guido
meritevole del regno dei cieli all'anonimo epigrafista, ma perchè
copioso di poetica vena, ma perchè eloquente, ma perchè erudito
nell'antica sapienza.

In ogni tempo del medio evo gli ecclesiastici più riputati studiarono
nei classici, e chi volesse moltiplicare gli esempii potrebbe
facilmente riempierne un volume. Sant'Aldelmo, nato verso il 640,
conosceva molto bene gli autori latini, come del resto chiaramente
appare dai suoi scritti; e il suo biografo Faricio dice di lui: _Latinæ
quoque scientiæ valde potatus rivulis_. Degli ecclesiastici della
corte di Carlo Magno non è mestieri fare particolareggiato ricordo. Nel
secolo X Raterio, vescovo di Verona, leggeva con amore i poeti; intorno
al 1061 Benzone vescovo di Alba, nel _Panegyricus ritmicus_ dedicato
a Enrico III imperatore, nomina Virgilio, Lucano, Stazio, Pindaro,
Omero, Orazio (_noster Horatius_)[313], Quintiliano, Terenzio, molto
compiacendosi nella ostentazione del proprio sapere. Gonzone da Novara
(sec. X), accusato e deriso dai monaci di San Gallo per avere usato
un accusativo dove ci voleva un ablativo, scrive per difendersi una
lunga epistola ai monaci di Reichenau, nella quale fa pompa di tutta la
sua erudizione. In quel medesimo secolo, Vulgario, prete napoletano,
usa metri insoliti, sparge di grecismi, infarcisce di classiche
reminiscenze le sue poesie latine[314]. Nella scuola claustrale di
Paderborn si leggevano Virgilio, Lucano, Stazio, l'Iliade compendiata
da Pindaro Tebano. Gerberto spiegava ai suoi discepoli Virgilio,
Lucano, Terenzio, Giovenale, Stazio, Persio[315]. A tutti questi
chierici, e ad altri molti che si potrebbero ricordare, la poesia
classica doveva sembrare, come ad Alcuino, _un vino inebbriante_,
d'altro sapore certo, ma non men gradito al palato che il _miele
delle Sacre Scritture_[316]. In generale, nei secoli IX e X, che, del
resto, sono giustamente considerati come i più tenebrosi di tutto il
medio evo, l'antichità fu amata e studiata e conosciuta assai più di
quanto comunemente si creda. Ratieri da Verona dichiarava di non voler
promuovere ai sacri ordini nessuno che non avesse qualche letteraria
coltura[317]. Nel secolo seguente, e negli altri che precedono il
Rinascimento, lo studio delle lettere classiche va mano mano crescendo.

Ma i classici non solamente si studiavano, si imitavano ancora; e gli
epici antichi servivano di modello agli epici nuovi, e i lirici ai
lirici, alcuna volta con danno grave del sentimento cristiano così
camuffato di vesti non sue. Come imitassero i dotti della corte di
Carlo Magno è noto abbastanza. Nella seconda metà del IX secolo il
Franco Otfrid, educato, come si crede, nella scuola celebre di Fulda, e
discepolo di Rabano Mauro, era mosso a scrivere il suo poema di Cristo,
oltre che dall'esempio di Giovenco, di Aratore, di Prudenzio, da quello
ancora di Ovidio, di Lucano, di Virgilio. L'autore del _Waltharius_
imitava Virgilio in argomento profano, ma altri facevano lo stesso
in argomento sacro; Hrotsvitha imitava Terenzio. Più tardi Bernardo
di Chartres imiterà Lucrezio, presso che ignoto al medio evo[318],
Giovanni Sarisberiense imiterà Ovidio, altri, senza numero, imiteranno
quando l'uno, quando l'altro degli antichi scrittori, e spesso ancora
parecchi insieme. Non di rado l'imitazione passa il segno, e persevera
quando dovrebbe cessare, introducendo in soggetti sacri nomi, epiteti,
immagini sconvenientissimi. Questa usanza era del resto assai antica.
Circa il mezzo del IV secolo, Aquilino Giovenco chiama Cristo _proles
veneranda Tonantis_. Alcuino chiama i santi _cives Olympi, gens diva
Tonantis_; nella Vita Caroli Magni del Poeta Sassone si trova nominata
la musa, Febo è detto _initium mundi totius et anni_, e il l. V
comincia col verso:

    Pangite iam lacerae carmen lugubre Camenae.

Altri così fatti esempii, come pure di emistichi, di versi, d'intere
sentenze, tolti da' poeti latini e introdotti in iscritture, sia
di argomento sacro, sia di profano, sono a dirittura innumerevoli.
Le favole e i miti classici sono conosciuti universalmente, e gli
scrittori non si lasciano fuggir l'occasione di ricordarli, di
adoperarli anche, come esempii, a proposito di qualche ammaestramento
morale. Alcuni fra i più reputati, come Alano de Insulis, Giovanni
d'Hauteville, Alessandro Neckam, Giovanni Sarisberiense, ecc., hanno
della favola antica cognizione amplissima e veramente meravigliosa.
In un poemetto latino del X secolo pubblicato dal Niebuhr[319] son
nominati Venere, le Parche, Nettuno: in un altro del secolo XII,
conservato in un codice Vaticano, Ganimede ed Elena contendono della
loro bellezza[320]. Nelle _Geste dei Pisani a Majorca_ di Lorenzo da
Verona[321] (XII sec.), e nell'_Eulistea di Bonifacio, da Verona ancor
esso[322] (XIII sec.),_ si trovano parecchie reminiscenze di mitologia
classica. Dei Goliardi non fa d'uopo discorrere.

Se alcuna storia famosa dell'antichità, per esempio quella di
Edipo, con la quale riscontra in tante parti la nota leggenda di
Gregorio Magno, si fosse conservata, variando più o meno, anche
tradizionalmente, è dubbio[323]; ma non è d'uopo ricordare come
durante tutto il medio evo si rifacessero in lingue volgari le storie
di Troja, d'Alessandro Magno, di Ercole, di Giasone, l'_Eneide_, la
_Farsaglia_, la _Tebaide_[324]. L'ignoto Romolo, Galfredo, Ugobardo
Sulmonense, Maria di Francia, altri, rimettevano in circolazione le
vecchie favole di Esopo e di Fedro[325]. In pari tempo le traduzioni si
moltiplicavano: nel XIII secolo Riccardo d'Annebaut in Francia giungeva
sino a mettere in versi le istituzioni di Giustiniano[326].

Ci furono nel medio evo uomini che possedettero dell'antichità classica
una conoscenza veramente meravigliosa, come Giovanni di Salisbury, il
primo fra tutti[327], Giuseppe Iscano, Guntero, autore del _Ligurinus_,
Bernardo Silvestro, Alano de Insulis, Vincenzo Bellovacense, nel
cui solo _Speculum Naturale_ si citano trecentocinquanta autori. Ma
oltre che la conoscenza loro è, per dir così, tutta esteriore, e si
ferma alla lettera, e non penetra lo spirito dell'antichità, non ve
n'ha quasi nessuno che, parlando degli scrittori classici, non cada
in errori gravissimi, e alcuna volta a dirittura ridicoli. Giovanni
Sarisberiense fa due distinte persone di Svetonio e di Tranquillo[328],
e Vincenzo Bellovacense divide similmente in due Sofocle, confonde in
un solo i due Seneca, fa di Cicerone un capitano d'eserciti, scrive
Scalpurnus invece di Calpurnius[329]. Altri, meno eruditi, incappavano
in ispropositi ancor più solenni. Alard de Cambray, autore del _Traité
sur les moralités des philosophes_, credeva che Tullio e Cicerone,
Virgilio e Marone fossero persone diverse[330]; e, quanto a Cicerone,
lo stesso errore aveva già commesso Ermoldo Nigello[331]. Ranulfo
Higden chiamava Plauto _rhetor et doctor_[332].

Dove tali errori erano possibili, la fantasia, che volentieri si
esercita intorno alle cose di cui l'uomo non ha cognizione retta e
sicura, aveva buon giuoco. I grandi scrittori dell'antichità, presenti
sempre alla memoria del medio evo, non potevano sottrarsi al suo
potere. Si avevano i libri loro, ma s'ignoravano molte particolarità
della loro vita, e quanto maggiore era l'ammirazione che si professava
per essi, tanto più irresistibile doveva essere la tentazione di
supplire con la finzione al vero che s'ignorava. Spesso ancora una
immaginazione popolare, un concetto morale espresso in forma di
parabola, o altrimenti, si legava al nome di alcuno di quegli illustri,
senz'altro motivo che il desiderio di procacciare alla immaginazione
o al concetto, mediante quel connubio, più larga diffusione e maggior
credito. Gli è a questo modo che Socrate, Platone, Ippocrate,
Aristotile, Virgilio, ed altri, di cui farò parola a suo luogo,
entrarono in leggende, più o meno, secondo i casi, confacenti al loro
carattere, e non è a stupire se tra le fantasie che si spacciarono,
alcune se ne trovano assai stravaganti. Omero passa generalmente per
un mentitore, il quale, o non conobbe a dovere, o travisò i fatti
della guerra trojana[333]. Socrate in greco vuol dire _osservatore
di giustizia_[334]. Le due mogli che egli aveva lo picchiarono un
giorno per modo che poco mancò non ci lasciasse la vita. Allora riparò
con alcuni discepoli in un luogo campestre, e quivi scrisse di molti
libri[335]. Nella novella 61 del _Novellino_ (testo Gualteruzzi)
Socrate è fatto di Roma, e il consiglio della città commette a lui di
rispondere a certi ambasciatori di Grecia che domandavano dispensa dal
tributo[336]. Nei _Gesta Romanorum_[337] e altrove, si racconta che
l'imperatore Claudio diede la propria figliuola in isposa a Socrate,
a condizione che se quella fosse poi morta, egli, Socrate, si sarebbe
tolta la vita. Alcun tempo dopo la celebrazione del matrimonio, la
figliuola di Claudio inferma gravemente; ma, seguendo i consigli di un
vecchio, Socrate la guarisce, ed è dall'imperatore colmato di ricchezze
e di onori. Platone, il cui nome vuol dire _compito_, si piaceva molto
nei luoghi deserti, e quando piangeva la sua voce si udiva due miglia
lontano. Egli fu uno degli otto maggiori medici dell'antichità[338].
Era ricchissimo. Diogene andò un giorno alla casa di lui, e trovativi
letti sfarzosi, cominciò coi piedi imbrattati di fango a insudiciarne
le coltrici di porpora; poscia, partendosi, disse a Platone: Così
la tua superbia è abbattuta da un'altra superbia. Allora Platone
si ritrasse insieme coi suoi discepoli in un luogo deserto e
pestilenziale, «acciò che l'asprità del luogo rompesse la volontà della
lussuria della carne»[339]. Morì, secondo alcuni, per non aver saputo
risolvere certo enigma che gli era stato proposto[340]. Aristotile vuol
dire perfetto in bontà[341]. Da alcuni Aristotile fu creduto figlio del
diavolo, ma egli non fece contro alla teologia: morendo volle fossero
seppelliti con lui i suoi libri, dei quali si servirà l'Anticristo.
Alcuno diceva che egli fosse morto per non aver potuto intendere il
fenomeno del flusso e del riflusso del mare: giacchè, diss'egli, io
non posso comprendere te, tu comprendi me; e si gettò nell'acqua[342].
Non fa mestieri di ricordare qui la famosa storia di Aristotile
innamorato[343], nè la leggenda parimente notissima d'Ippocrate.
Tolomeo il Cosmografo è creduto un re, errore di cui facilmente si
scopre la causa[344].

Degli scrittori latini sarà parlato nei capitoli seguenti: qui basterà
riportare qualcuna delle stranezze che si spacciarono intorno ai meno
celebri. Sallustio era un gran signore non meno ricco che sapiente e
valoroso[345]. Cornelio Nepote, poco noto del resto nel medio evo,
sapeva tutti i linguaggi[346]. Macrobio, del cui sepolcro andava
superba la città di Parma[347], notissimo nel medio evo pel suo
commento al Somnium Scipionis, vestì sempre di bianco[348], ecc. Tanto
del resto i filosofi, quanto i poeti pagani, erano generalmente tenuti
in conto di astrologi[349], e non pochi passarono per maghi. Che a
qualcuno dei libri loro si attribuissero virtù meravigliose, non deve
parere troppo strano: nella Eneide si ricercarono oracoli; Enea Silvio
Piccolomini racconta che la lettura di Quinto Curzio guarì Alfonso di
Aragona re di Napoli da una grave malattia[350].

Un'altra fantasia la quale merita d'essere qui ricordata, era quella
che consisteva nell'attribuire qualità di cristiano al tale o tale
altro antico scrittore. Di questa vedremo in seguito alcuni esempii
assai notabili. Essa, oltre che soddisfaceva un sentimento assai
naturale in chi non poteva cessar di ammirare i pagani illustri,
riusciva praticamente assai utile, spuntando l'avversione della
Chiesa, e togliendo gli scrupoli alle coscienze timorate. La Chiesa
non poteva più ragionevolmente vietare, nè i credenti dovevano più
temere, la lettura di uno scrittore antico, quando questo scrittore
passava per cristiano. Le leggende in cui tale fantasia si figurava
erano di leggieri credute, nè la Chiesa aveva poi grande interesse a
sbugiardarle, chè anzi a lei doveva tornare gradito che fra i pagani
più celebri si moltiplicassero i testimoni della verità. In ogni tempo
insigni scrittori ecclesiastici ammisero che, assai prima della venuta
di Cristo, alcuni pagani eletti poterono, per divina grazia, avere come
un presentimento della redenzione, e una anticipata conoscenza delle
maggiori verità della fede. Giustino Martire, nell'Apologia prima,
rappresenta Socrate, Platone ed altri filosofi dell'antichità quali
cultori e seguaci dell'unica verità[351]. Sant'Ambrogio, Sant'Agostino,
San Giovanni Crisostomo pensarono che Socrate fosse salvo. San Tommaso
ammetteva che parecchi tra i filosofi pagani avessero avuto la fede
implicita. Chi più si avvantaggiava di questi sentimenti era Platone,
verso le dottrine del quale tanti Padri si sentirono istintivamente
attirati. Sant'Agostino ribatte in un luogo del trattato _De Civitate
Dei_[352], la opinione di coloro che credevano Platone avesse
conosciuto Geremia, o lette le scritture dei profeti, la quale opinione
aveva egli stesso precedentemente seguitata[353]; ma dice che il
filosofo greco divinò la Trinità[354]. Una divinazione così fatta fu
poi ammessa anche per Aristotile. Pietro di Blois credeva ancora che
Platone avesse studiato le scritture, e attintane la verità che nella
dottrina di lui si ritrova[355]. Nelle _Quaestiones_ pubblicate dal
Gretser sotto il nome di Anastasio Sinaita si dice, con riferimento
alla visione di certo Scolastico, che Platone fu salvo[356], e così
ancora si disse di Aristotile. Anche Abelardo ammetteva che molte
verità del cristianesimo fossero state note in anticipazione ai
filosofi antichi[357]. In un poema di Pietro di Vernon (XII sec.),
intitolato dal Roquefort _Les enseignements d'Aristote_, il filosofo
di Stagira ammaestra Alessandro Magno nella fede cristiana[358].
Nel _Dit d'Aristotle_ di Rutebeuf, Aristotile ammaestra Alessandro
Magno invocando la Vergine[359]. Di Socrate non si fa un cristiano a
dirittura, ma si dice che morì perchè non voleva adorare gl'idoli[360].
Cristiano invece fu fatto Giuseppe Flavio, e cristiani Virgilio,
Seneca, Lucano, Stazio, Plinio il Giovane, Silio Italico, come per
alcuni vedremo più particolareggiatamente in seguito. Claudiano fu
fatto cristiano da Sant'Agostino e da Orosio. La dottrina cristiana
si trova in Macrobio secondo Abelardo[361]. In un Mistero francese
Tiberio tiene consiglio sulla questione della divinità di Cristo, in
favore del quale parlano Terenzio, Boccaccio, Giovenale[362]. Molti
antichi avevano annunziato l'incarnazione del Verbo e la nascita del
Redentore[363].

Ma anche chi non credeva alla ortodossia degli antichi scrittori
aveva modo di scusare, ed anzi di rendere plausibile la lettura dei
libri loro, immaginando che in questi fossero nascoste, sotto il velo
delle favole e sotto i poetici ornamenti, profonde ed ottime verità
morali. Il pensiero e il sentimento cristiano inclinano spontaneamente
all'allegoria e al simbolo. Sin dalle origini, l'arte delle catacombe
è tutta simbolica; la liturgia ecclesiastica è un complicato sistema di
allegorie e di simboli. Assai presto nelle Scritture si distinsero due
sensi, il letterale ed il mistico, suddiviso quest'ultimo in anagogico,
allegorico, morale. Secondo Occam gli Evangeli avevano quattro sensi,
istorico, allegorico, tropologico ed anagogico[364]. Esagerandosi
sempre più questa tendenza, si finì con interpretare allegoricamente
tutta la storia e tutta la natura, concepite oramai non altrimenti che
come un immenso sistema di segni e di simboli del soprassensibile.
Allora la poesia fu considerata anzi tutto come un linguaggio più
sottile e più nobile, il cui principale ufficio consisteva in velare
di acconce forme le auguste verità teologiche e morali. Per Alano de
Insulis la poesia è una verità recondita celata sotto una corteccia
di menzogna[365]. Sul limitare del Rinascimento Dante e il Petrarca
credono ancora che lo spirito della poesia stia essenzialmente
nell'allegoria. L'alto concetto che universalmente si aveva della
sapienza dei pagani, doveva indurre a credere che nei versi loro
fossero chiuse le più sublimi dottrine[366]. Di tale credenza vedremo
alcuni esempii più oltre: qui basterà ricordare che Dante e il Petrarca
e il Boccaccio intendevano nella Eneide anche un senso allegorico, e
che Dionigi da Borgo San Sepolcro, monaco agostiniano, volgeva a senso
tropologico parecchi scrittori pagani, tra gli altri Virgilio, Ovidio,
Seneca.

I poeti, cui si attribuiva tanta recondita sapienza, ragionevolmente
non si sarebbero più dovuti distinguere dai filosofi, e in fatto
molto spesso incontra che sotto il nome comune di filosofi, si
trovino compresi tutti gli scrittori pagani. Nel Romans de tous les
philosophes, Alars de Cambray pone tra i filosofi Terenzio, Lucano,
Persio, Orazio, Giovenale, Ovidio, Sallustio, Virgilio, Macrobio[367],
e in simile modo si trovano mescolati coi filosofi i poeti e gli
storici, in molti di quei numerosissimi trattati del medio evo, dove
si pretende di dare il fiore dell'antica sapienza[368]. In altri per
contro si nota una certa tendenza a raccogliere solamente i detti
e gli esempii di quelli che più precisamente possono addimandarsi
filosofi[369]. Chi non era troppo inclinato a scorgere per entro ai
versi dei poeti una risposta allegorica, non poteva, specie se di
sentimento religioso un po' austero, non fare una certa differenza
tra poeti e filosofi, e porre questi sopra quelli in dignità. Non
accade esaminare ora quale contegno la Chiesa tenesse di fronte alla
filosofia antica: esso non fu sempre di una maniera; ma ciò che si
può dire in generale si è che la prova filosofica ripugna all'indole
del cristianesimo, ch'è tutto fondato sulla fede. Sant'Agostino, che
fu da prima molto infervorato per la filosofia, finì che vi rinunziò,
e dichiarò i filosofi greci essere assai più meritevoli di riso
che di confutazione, e disse che la sola vera filosofia era la vera
fede. Atanasio il Grande confessava che, come più egli si sforzava
di speculare sulla divinità di Cristo, meno la intendeva, e ammoniva
di credere senza cercar le prove. Nel 1228 Gregorio IX rimproverava
ai dottori della Università di Parigi di essere piuttosto teofanti
che teologi, e li esortava a non adulterare il verbo divino con le
finzioni dei filosofi. San Bernardo chiama i filosofi vani e curiosi,
e cent'altri li giudicano nel medesimo modo e anche peggio. A voler far
troppo il _loico_ si correva pericolo di perder l'anima, come prova la
storia di quello scolare che, dopo morto, apparve al suo maestro con
una cappa tutta coperta di sofismi indosso, storia francese narrata
anche dal Passavanti. Ma, da altra banda, era già stato riconosciuto
sino dai primi apologeti, che la filosofia pagana conteneva parecchi
germi di verità, ed è indubitato che il pitagoreismo, il platonismo,
lo stoicismo hanno col cristianesimo qualche notabile relazione.
Abelardo poteva giungere a dire che il cristianesimo altro non è che un
volgarizzamento delle dottrine esoteriche dei filosofi antichi. Platone
e Aristotile pagani governano il pensiero cristiano, e di loro, e degli
altri antichi sapienti si parla con la più profonda ammirazione[370]:
non di rado si trovano ad essi attribuite sentenze tratte dalle Sacre
Scritture[371]. Nel XII e nel XIII secolo la riputazione dei filosofi,
e più specialmente di Aristotile, cresciuta oltremisura, offusca quella
dei poeti; i Cornificiani, contro di cui Giovanni Sarisberiense scrisse
il _Metalogicus_, disprezzavano i classici, e ogni altro studio che non
fosse di logica e di dialettica. Nella Bataille de septs arts di Enrico
d'Andely la Grammatica, raccolti i suoi campioni, Omero, Claudiano,
Donato, Persio, Prisciano, e altri poeti, va a combattere contro la
Logica e Aristotile[372].

Ma ciò che più monta qui di notare si è una certa distinzione di
carattere morale fatta tra i filosofi e i poeti, tra coloro che
avevano divinato qualche parte della verità rivelata e coloro che
avevano rivestito di tutte le seduzioni dell'arte gli errori del
gentilesimo. Abelardo, così largo verso i filosofi, era severissimo
contro i poeti[373]. Una delle miniature che nel manoscritto originale
accompagnavano l'_Hortus deliciarum_ della Badessa Herrad di Landsperg
(XII secolo) era, a tale proposito, molto istruttiva: e dico era,
giacchè quel manoscritto credo sia andato distrutto nell'incendio della
Biblioteca di Strasburgo, dove si conservava. In quella miniatura
erano rappresentate, tra due cerchi concentrici, da sette donne,
contraddistinte da opportuni emblemi, le sette arti. Dentro al cerchio
minore una figura sedente in trono e coronata rappresentava lo Spirito
Santo, tra le mani del quale un breve con la scritta:_ Omnis sapientia
a Deo est. Soli quod desiderant facere possunt sapientes_. La corona,
sopra la quale tre teste figuravano l'Etica, la Logica, la Fisica,
recava l'iscrizione _Philosophia_. Alla destra dello Spirito Santo si
leggeva: _Septem fontes sapientie fluunt de philosophia qui dicuntur
liberales artes_; alla sinistra: _Spiritus sanctus inventor est septem
liberalium artium que sunt grammatica, rethorica, dialectica, musica,
arithmetica, geometria, astronomia_. Sott'esso erano figurati Socrate
e Platone con la seguente scritta: _Naturam universe rei queri docuit
Philosophia; Philosophi primum ethicam, postea phisicam, deinde
rethoricam docuerunt; Philosophi sapientes mundi et gentium clerici
fuerunt_. Fuori dei due cerchi che rappresentavano il dominio delle
sette arti quattro figure erano designate quali _Poete vel magi spirito
immundo instincti_. A ciascuno parlava nell'orecchio un corvo, figura
del demonio, inspiratore di perverse dottrine. Li accompagnava la
scritta: _Isti immundis spiritibus inspirati scribunt artem magicam
et poetriam idest fabulosa commenta_[374]. Ma questi ed altri tali
giudizii, i quali movevano da una fede troppo angusta ed ombrosa, non
potevano prevalere contro il sentimento dei più, contro l'uso e la
tradizione. Le favole dei poeti serbavano tanta attrattiva che, da sè
sola avrebbe potuto vincere ogni ripugnanza religiosa e morale; ma la
ingegnosa leggenda veniva in ajuto, e con pietose menzogne procacciava
la conciliazione dei poeti e della Chiesa, ed apriva ai pagani le porte
del cielo.



CAPITOLO XVI.

Virgilio.


Infra tutti i poeti dell'antichità il più celebre, il più ammirato nel
medio evo è Virgilio, e la leggenda sua è, tra quante se ne formarono
intorno agli scrittori pagani, la più complessa e meravigliosa[375];
meravigliosa per modo e, a primo aspetto, così disforme dall'uomo a cui
si è avvinta, così contraria a tutto quanto sappiamo di lui, che a più
d'uno venne dubbio non essere il Virgilio di cui vi si narra, quello
stesso che fu in ogni tempo salutato principe della poesia latina, ma
un altro, di tutt'altri tempi, e di tutt'altra condizione[376]. Ora un
tal dubbio non è più guari possibile. Certo, molti dei fatti riferiti
nella leggenda appartennero in origine ad altri personaggi leggendarii,
coi quali si può dire che il Virgilio favoloso siasi in una certa
misura confuso; ma il medesimo incontra in molt'altre leggende di
uomini illustri, ed è indubitato che nella intenzione di tutta intera
la favola, il Virgilio operatore di prodigi è quel medesimo che fu
famigliare di Augusto e scrisse l'Eneide. E gli è questa identità
per l'appunto che conferisce alla favola tanta attrattiva e tanta
importanza, e muta in degno soggetto di studio e d'indagine scientifica
quanto altrimenti non sarebbe che pascolo a una oziosa curiosità.

Si noti anzi tutto una cosa. La leggenda virgiliana non è nella storia
delle fantasie e delle finzioni cui porsero argomento, nell'età di
mezzo, gli scrittori pagani, un fatto unico, e nemmeno un fatto che
mostri insoliti caratteri, od abbia nelle origini sue alcunchè di
straordinario. Molti altri antichi scrittori patirono nella leggenda
trasformazioni simili a quella cui andò soggetto Virgilio, sebbene
per nessun altro la trasformazione sia proceduta tant'oltre. Ma la
differenza sta solamente nel grado, nella quantità, non nella qualità;
in fondo il fenomeno è sempre lo stesso; e si può dire con piena
sicurezza che tutti gli antichi scrittori sarebbero stati trasformati
in quella stessa misura che Virgilio, se tutti, nel medio evo, si
fossero trovati nelle condizioni in cui egli ebbe a trovarsi. Ciò
posto, rimane esclusa ogni idea d'arbitrio. La leggenda virgiliana è
pur sempre, come ogni altra leggenda, frutto della fantasia; ma questa
fantasia non lavora nel vuoto ed a caso, anzi si appoggia da ogni banda
alla tradizione, ai fatti, alla vita reale; il Virgilio taumaturgo
non è più il Virgilio poeta, ma discende da questo, e a questo pur
sempre ritorna, e se l'uno non avesse scritto l'Eneide, non si sarebbe
attribuita all'altro la fabbrica della _Salvatio Romae_. Nella leggenda
di lui, come in ogni altra leggenda consimile, si trova ancora, senza
dubbio, del fortuito, dell'accidentale, ma in cotal forma tuttavia che
il fortuito e l'accidentale è sempre contenuto dentro alla necessità
generale, e starei per dire storica dell'intera finzione. In questo
caso, come in cent'altri, bisogna ricordare che la leggenda è una
fiorita della storia.

Chi si fa a narrare della fortuna di Virgilio nel medio evo deve porre
studio a due fatti, e cioè, prima alla celebrità impareggiata ed alla
ammirazione di cui egli fruì in quella età, poscia alla successiva
formazione della leggenda. La celebrità di Virgilio è quella che porge
al nascere della leggenda la occasione principale, come la opinione
del suo ineguagliato e più che umano sapere le porge, presso che
sempre, la base. Nella leggenda stessa sono da sceverare più parti,
le quali differiscono tra loro, non solamente per la diversità dello
spirito che le informa, e per la varia natura delle finzioni in che
si esplicano, ma ancora per la diversità delle cause da cui traggono
l'origine. Anzi tutto è da distinguere la parte che più propriamente
concerne Virgilio profeta e quasi cristiano, da quella che più
propriamente concerne Virgilio mago, e in questa seconda parte sono
da sceverare due diverse e contrarie tendenze, secondochè Virgilio è
considerato in essa come mago benefico che usa di una scienza giusta e
legittima, tuttochè soprannaturale, oppure come mago maligno, stretto
in riprovevole colleganza con le potestà tenebrose. In generale questa
seconda tendenza si manifesta posteriormente alla prima, e segna la
degenerazione della leggenda. Gli è quasi superfluo avvertire del resto
che le finzioni della prima parte della leggenda, spesso si compongono
e si legano con quelle della seconda.

Nella storia pertanto delle vicende a cui va soggetto Virgilio nel
medio evo, sono quattro diversi temi di studio che vogliono essere
successivamente esaminati: 1º la riputazione dello scrittore e la
fortuna delle opere di lui; 2º la leggenda di Virgilio profeta di
Cristo; 3º la leggenda di Virgilio mago; 4º la degenerazione della
leggenda virgiliana.

Nelle poche pagine serbate al presente capitolo io non posso dar
luogo ad una tale trattazione del primo tema quale dall'importanza
sua sarebbe richiesta, e però, per quanto vi si riferisce, rimando il
lettore al primo volume dell'opera del Comparetti, dove esso è trattato
con tale un'ampiezza di dottrina, e con tanta sicurezza di critica da
disanimar chicchessia dal ritentare la difficile impresa. Mi contenterò
pertanto di alcuni cenni più necessarii.

La fortuna di Virgilio nel medio evo è intimamente connessa con quella
degli studii profani, ed è, in sostanza, la stessa di tutti gli altri
scrittori latini, salvo che, primeggiando egli su tutti, ed essendo,
in certo qual modo, il più autorevole e legittimo rappresentante
dell'antica coltura, in lui, e nell'opere sue, viene a sperimentarsi
più risoluto quel contrasto degli spiriti, quell'urto di simpatie e
di avversioni, in che il medio evo cristiano si travaglia di fronte
all'antichità pagana. Durante ancora il miglior tempo di Roma la gloria
di Virgilio aveva oscurato quella di tutti gli altri poeti, e quello
passato, e sopravvenuta la decadenza, non era punto venuta meno;
che anzi, sebbene ormai fossero in tutto mutate le condizioni della
coltura, e venisse mancando sempre più la retta e viva intelligenza
dell'arte antica, egli tuttavia soprastava alle tenebre che salivano,
ed era universalmente considerato quale colonna della scuola, maestro
sommo di grammatica e di retorica, principe d'ogni sapere. Con tale
riputazione massima acquistata mentre ancor sussisteva il mondo romano,
Virgilio passa nel medio evo, e la conserva, e per alcuni rispetti
l'accresce: egli è fra tutti gli scrittori pagani il più letto. Le
ragioni di tale fortuna sono certamente parecchie. In parte è da dire
che il medio evo seguitava obbediente la tradizione, in parte che esso
serbava ancora aperto il senso alle lusinghe di quell'arte squisita e
sovrana; ma, senza dubbio, alla riputazione del poeta conferiva ancora
in grande misura il soggetto stesso dell'Eneide, l'opera maggiore di
lui. L'Eneide è l'epopea di Roma. Sia qual esser si voglia il giudizio
che di essa reca la critica, nessuno potrà negare che in uno dei suoi
maggiori difetti, quello che le viene dalla origine essenzialmente
erudita, o dall'essere, come altri dice, epopea artificiale anzichè
naturale, non istia pure la ragione precipua della sua vera grandezza.
L'Eneide è l'epopea di una matura civiltà e di una società venuta nel
pieno rigoglio della sua vita storica, di una società che con piena
coscienza di sè e vivo sentimento degli alti destini a cui è chiamata,
celebra se medesima e le origini proprie. In nessun'altra epopea del
mondo si trova una simile fusione delle memorie supposte di un popolo,
con l'attuale e vivo pensiero di esso. Si disse che nella Eneide
fanno difetto, insieme con lo spirito popolaresco, anche gli elementi
della tradizione popolare; su ciò non è possibile, credo, far certo
giudizio; ad ogni modo è innegabile che l'idea reggitrice di tutto
il poema è un'idea altamente nazionale, l'idea romana per eccellenza.
Nel medio evo, quando Roma ridiventa centro a tutta la vita dei tempi,
il poeta che aveva cantato le origini dell'eterna città, e celebrato
quell'Enea che dalla Provvidenza era stato eletto a padre dell'impero,
e a preparare il santo luogo al successor di S. Pietro, non poteva
non esser fatto segno di culto speciale; e quando Dante lo sceglie a
guida nella prima parte del meraviglioso suo viaggio, noi intendiamo
di leggieri che tale dimostrazione di onore è da lui data, non solo
al profeta supposto di Cristo, ma ancora al poeta sapiente che narrò
i gloriosi principii di Roma, di Roma, sede dell'impero, culla della
Chiesa.

Chi volesse ricercare nelle letterature del medio evo, e più
specialmente nella latina, le prove dell'ammirazione di cui godette
allora Virgilio, si porrebbe a un lavoro senza fine, tante sono le
reminiscenze, tanti sono gli esempii manifesti d'imitazione che
si trovano per entro agli scrittori[377]. Qualche esempio della
irresistibile attrattiva che le poesie di lui esercitavano sugli animi
abbiamo già veduto nel capitolo precedente, alcun altro ne vedremo in
seguito. La imitazione amorosa di esse comincia già nella letteratura
latino-ecclesiastica più antica, sussistente ancora l'impero, e si
prosegue poi per tutto il medio evo. I poeti della corte di Carlo
Magno imitavano, oltre all'Eneide, anche l'ecloghe e le Georgiche.
Di tratto in tratto i vecchi scrupoli della coscienza cristiana
si palesavano anche contro di esse, e si ripetevano i biasimi già
espressi da San Gerolamo, ma più per mostrare l'irresolutezza degli
spiriti, il contrasto della fede e del sentimento, che non per venire
a qualche effetto nella pratica. Alcuino sconsigliava ai suoi giovani
discepoli la lettura di Virgilio, ma era egli stesso un discepolo del
poeta pagano, e in parecchi suoi scritti le reminiscenze virgiliane
non iscarseggiano. Del resto due ragioni concorrevano a mitigare
l'avversione che altri, come cristiano, potesse avere contro Virgilio;
la prima, che da molti veramente si credeva avere il poeta annunziata
nella quarta sua ecloga la venuta di Cristo redentore; la seconda,
che era opinione non meno diffusa l'Eneide contenere, sotto il velo
dell'allegoria, sublimi verità morali. Abbiamo già veduto come la
coscienza cristiana si giovasse di questi due espedienti, supposizione
di una fede più o meno esplicita negli scrittori, interpretazione
allegorica delle opere loro, per giustificare lo studio delle lettere
classiche. L'interpretazione allegorica dell'Eneide si comincia a
fare dagli stessi pagani e si seguita poi dai cristiani; l'altre
opere di Virgilio contengono anch'esse arcane e riposte verità[378].
Il cristiano Fabio Planciade Fulgenzio, non posteriore, come sembra,
al VI secolo, nello strano suo scritto intitolato _De continentia
Vergiliana_, si fa dichiarare, in una maniera di visione, dallo stesso
Virgilio, il soggetto proprio dei dodici libri dell'Eneide, il quale
è la rappresentazione della vita umana e il figurato trionfo della
sapienza e della virtù sull'errore e sulle passioni. Bernardo di
Chartres e Giovanni di Salisbury serbano presso a poco la medesima
interpretazione, e la serba ancora Dante, e la serbano in pieno
Rinascimento Leon Battista Alberti e Cristoforo Landino. Poteva
pertanto, senza incorrere in troppo solenne stravaganza, il famoso
gesuita Hardouin, che dichiarava apocrife presso che tutte le antiche
scritture, affermare nel secolo XVII l'Eneide essere fattura di un
benedittino del trecento, e l'avventuroso viaggio di Enea figurare il
viaggio di S. Pietro a Roma.

Virgilio regnava sovrano nelle scuole dove si attendeva agli studii
di grammatica e di retorica, e fuori di quelle scuole, a chi si
piccava di più peregrino sapere, porgeva argomento di speculazioni che
usurpavano il nome di filosofiche. Letto, commentato, interpretato,
Virgilio personificava in sè, non solo la grammatica e la retorica,
ma tutto ancora il sapere dei tempi. Già Macrobio lo celebra come
autore enciclopedico, _tanto profondo nella scienza quanto ameno
d'ingegno_[379]. Donato assicura che egli attese allo studio della
medicina e della matematica, e pieno di ogni scienza lo dice Servio.
Questa riputazione di onniscienza vien via crescendo nel medio evo, e
se per Dante Virgilio è il _savio gentil che tutto seppe_, e il _mar di
tutto il senno_, nel _Dolopathos_ è il maestro amoroso e prudente che
col suo sapere educa e in pari tempo salva il discepolo.

La grande opinione che si aveva del sapere di Virgilio conferiva
naturalmente a rafforzar la credenza che il poeta avesse presentito
alcun che della venuta di Cristo. Nè, in fatti, si poteva ammettere che
un uomo qual egli era, versato in tutte le discipline più arcane, fosse
rimasto interamente al bujo di un avvenimento che doveva rinnovare
il mondo. Aggiungasi che una comune tendenza degli spiriti portava ad
ammettere, come già notammo, che non pochi fra gli antichi, o per una
speciale grazia del cielo, o per virtù del proprio ingegno, avessero
indovinato qualche parte della verità bandita poi dal cristianesimo, e
questa parrà certo ragione più che sufficiente a spiegare come i versi
sibillini della IV ecloga, dove si parla della nascita di un fanciullo
divino e del rinnovamento del mondo, potessero essere considerati
quali una profezia circa la nascita di Cristo e il diffondersi della
nuova fede[380]. «L'autorità somma», dice il Comparetti, «di cui
godeva Virgilio come scrittore di un sapere straordinario, come primo
fra gli antichi poeti ed anche come il migliore sotto il rapporto del
buon costume, fece impressione su molti teologi cristiani, i quali
trattarono a fidanza con lui meglio che con altri poeti pagani, e
non isdegnarono citar la sua parola, sia in appoggio di taluni grandi
principii del cristianesimo, sia a dimostrare che egli era fra i pagani
colui che meglio a queste verità si era avvicinato»[381]. Lattanzio
ammette che Virgilio abbia annunziata la venuta di Cristo[382]. Nella
_Oratio ad Sanctorum coelum_[383], l'imperatore Costantino, o forse
Eusebio sotto il nome di lui, si studia di provare che nella quarta
ecloga Virgilio ha veramente profetizzato quella venuta; e tale
opinione, contraddetta da San Girolamo, e più tardi da Sant'Isidoro,
è accolta da Sant'Agostino[384]. Prudenzio fa suoi in parte i versi
famosi contenenti il vaticinio[385]. Nel medio evo quella opinione
è universalmente accettata, e Virgilio, insieme con la Sibilla e coi
profeti, comparisce nei Misteri, specialmente della Natività, a fare
contro la Sinagoga testimonianza della divinità di Cristo. In un
mistero latino, dell'XI secolo, il _Praecentor_ dice a Virgilio:

    Vates Maro gentilium
    Da Christo testimonium.

E Virgilio risponde:

    Ecce polo demissa solo nova progenies est[386].

Se non che la supposta profezia dava luogo a due diverse opinioni,
secondochè si credeva fatta dal poeta inconsapevolmente, in virtù
di una ispirazione divina della quale il poeta stesso altro non era
che il recipiente passivo, oppure si credeva fatta da lui con piena
consapevolezza, e come credente. A quella prima opinione, che è, come
vedremo, la seguitata da Dante, si lega un'altra curiosa credenza,
secondo la quale San Paolo avrebbe pianto sulla tomba del grand'uomo,
lamentando di non essere giunto in tempo per convertirlo. In certo
inno che, durante ancora il secolo XV, si usava di cantare in Mantova
ad onor di San Paolo, sono i seguenti versi, che esprimono il dolore
dell'apostolo:

    Ad Maronis mausoleum
    Ductus, fudit super eum
    Piae rorem lacrymae;
    Quem te, inquit, reddidissem,
    Si te vivum invenissem,
    Poetarum maxime![387]

Secondo l'altra opinione Virgilio fu egli stesso cristiano. Giovanni
d'Outremeuse, che ne fa anche un legislatore dei Romani, giunge a dire
che egli annunziò ai senatori la venuta e la passione di Cristo[388],
insegnò la dottrina della Trinità a certi egiziani, affermando
la propria fede, e si fece battezzare in punto di morte[389]. Ma
molto prima, senza dubbio, vi furono spiriti, i quali non seppero
capacitarsi, che il buono e gentile Virgilio non fosse salvo.
Bellissima, e a tale riguardo molto istruttiva, è la leggenda che si
narra in una vita di San Cadoco, diversa da quella pubblicata dai
Bollandisti (24 Gennajo). Una volta San Cadoco, il quale fiorì nel
V secolo, era in compagnia di San Gilda sulla riva del mare. Egli
teneva sotto il braccio il volume di Virgilio, nel quale era solito di
ammaestrare i suoi discepoli, e piangeva in silenzio. Perchè piangi?
gli chiese San Gilda. Piango, rispose quegli, perchè l'autore di questo
libro che io amo, e mi porge così vivo diletto, è forse dannato alle
pene eterne. Senz'alcun dubbio, soggiunse San Gilda. Dio non giudica
questi favoleggiatori diversamente dagli altri uomini. In quel punto
medesimo una folata di vento involò il libro e lo lanciò nel mare.
Grande fu la costernazione di San Cadoco, il quale fece voto di non più
mangiare nè bere finchè non gli fosse rivelato qual sorte serba Iddio a
coloro che nel mondo cantarono come cantano gli angeli nel cielo. Preso
dal sonno, egli udì una voce soave che diceva: Prega, prega per me; non
istancarti di pregare, affinchè io possa celebrare in eterno cantando
la misericordia del Signore. Il giorno seguente il santo ritrovò nel
corpo di un salmone il libro di Virgilio, e il poeta senza dubbio fu
salvo[390]. Non mancò, del resto, chi giudicò Virgilio un vero pagano
e un figlio del diavolo. Abbiam veduto già quali fantastici terrori il
suo volume potesse inspirare[391]: Enenkel dice di lui:

    er was ein rechter heiden;
    an rechtem glouben was er blint;
    er was gar der helle kint[392].
Egual fortuna toccò ad Aristotile, da alcuni giudicato salvo, da altri
irremissibilmente dannato[393].

Se per un processo normale, e quasi necessario, della coscienza
cristiana Virgilio poeta pagano si trasforma in un profeta di Cristo,
per un processo consimile dello spirito romantico e fantastico che
domina tutta quanta la vita nel medio evo, il poeta si trasforma in
mago. La base su cui si fonda tutta la favola della magia di Virgilio
è la grande opinione che si ha del costui sapere. Per questo rispetto
è da dire che nella tela amplissima delle finzioni virgiliane non v'è
discontinuità, e che tutte, in ultima analisi, si possono ridurre
a uno stesso principio, ch'è quello della impareggiabile celebrità
di Virgilio. Mi duole di dovermi qui scostare dalla opinione del
Comparetti, il quale troppo recisamente separa, a mio credere, quella
ch'egli chiama la leggenda letteraria di Virgilio da quella che dice
popolare, alla quale ultima solamente attribuisce le finzioni tutte
che riguardano il mago[394]. «Chi domandasse», sono le sue proprie
parole, «se di per sè solo il tipo scolastico di Virgilio dovesse
senz'altra occasione, per trasformazione naturale e per associazione
d'idee, cambiarsi in quel tipo di mago che poi descriveremo, io non
esiterei a rispondere di no. Che l'antico _savio_ si cambi in _mago_
è fatto di cui rari sono gli esempi, e quando accade ha luogo per
puro cambio di nome e in modo momentaneo; non v'ha antico che arrivi
mai a quel largo e completo ciclo di leggenda biografica che ebbe
il Virgilio mago». Qui v'è luogo a più di una osservazione, e non
ispiacerà, spero, al lettore, che io mi vi soffermi alquanto, essendo
la questione di non picciol momento pel tema che ci occupa. Che nessun
antico abbia avuto mai il largo ciclo di leggenda biografica che ebbe
Virgilio è fatto innegabile, e che in parte si spiega con la maggiore
nominanza di questo, in parte con altre ragioni a cui verrò fra poco;
ma non mi pare si possa con egual sicurezza sostenere che il tipo
scolastico di Virgilio non avrebbe potuto per semplice trasformazione
naturale, e per associazione d'idee, cambiarsi nel tipo di Virgilio
mago, chè anzi credo si debba francamente affermare il contrario. Una
naturalissima associazione d'idee portò sempre gli spiriti nel medio
evo a confondere in uno il mago ed il savio, giacchè qualunque scienza
eccedesse allora i termini della più comune coltura, si stimava magia,
non solo dagl'intelletti più grossi, ma da quelli ancora più intendenti
e più colti. Gerberto, Ruggiero Bacone, Alberto Magno furono tenuti
in conto di maghi, e degli antichi troviamo aver corso la medesima
sorte nel medio evo, oltre ad Apollonio Tianeo, la cui leggenda
presenta non pochi tratti di somiglianza con quella di Virgilio, anche
Platone, Aristotile e forse altri. Nel _Libro Imperiale_ abbiam veduto
trasformato in _grande negromante_ lo stesso Giulio Cesare[395]. Nel
_Romans d'Alixandre_ si parla di una colonna eretta da Platone in
Atene, la quale colonna, alla cento piedi, aveva in cima una lampada
che rischiarava tutta la città[396]. Questo Platone fantastico, profeta
anch'egli di Cristo, come abbiam veduto, e operatore di meraviglie, è
un perfetto parallelo di Virgilio profeta e mago, salvo che la leggenda
di lui rimane per così dire in embrione, mentre quella di Virgilio si
svolge e si accresce. Di Aristotile si narrava, come ho già accennato,
che volle sepolti con sè i suoi libri, e perchè nessuno più potesse
giovarsene, rese il proprio sepolcro inaccessibile, storia narrata
poi con qualche diversità anche di Virgilio[397]. Qui pure la leggenda
prende argomento dalla gran fama del sapere di Aristotile, a cui nel
medio evo, quasi che le opere da lui veramente composte non paressero a
quella fama adeguate e sufficienti, altre strane scritture, secondo il
gusto dei tempi, si attribuivano. Il Mandeville racconta nel favoloso
suo libro che sul sepolcro di Aristotile i gentili avevano alzato un
altare e ogni anno vi celebravano una festa, stimando di avere da lui
la sapienza. Qui si tratta, non di leggenda popolare, ma di letteraria,
giacchè ogni sospetto di leggenda popolare è escluso dal nome stesso di
Aristotile[398]. Il poeta tedesco Rumeland nomina Platone, Aristotile,
Ippocrate e Virgilio quali maestri di meraviglie.

Senza punto uscire dalla tradizione letteraria, qualunque reputato
scrittore poteva giungere ad assumere carattere di mago, ma più, o
meno, secondo che mille diverse ragioni, o la fortuna portavano. A
mio credere, nel caso di Virgilio era assai difficile che, o prima
o poi, il gran concetto che si aveva del sapere del poeta non desse
luogo alla opinion di magia. Quanto della sua dottrina si leggeva negli
scrittori più antichi, in Macrobio, in Servio, in Donato, predisponeva
a tale credenza. Nel c. III della _Vita_ Donato mostra Virgilio
provveduto di una cognizione pressochè miracolosa dei pregi e dei
difetti degli animali; Apulejo afferma che nell'ecloga VIII Virgilio
mostra amplissima conoscenza delle pratiche di magia. Il nome stesso
del poeta pareva ai fantastici etimologi del medio evo contenere la
indicazione di una sterminata dottrina, e Marone si faceva venire dal
mare, cui quella dottrina era pari in vastità[399]. I prodigi che,
secondo antiche testimonianze, avevano accompagnato la nascita di
tant'uomo, dovevano ancor essi sollecitare gli spiriti a mettere costui
sempre più in alto, in una sfera a sè, dotandolo di virtù e di potenze
negate alla comune degli uomini, giacchè in tempi di grande scadimento
intellettuale quei prodigi dovevano parere soverchi se intesi solo a
segnare la nascita di un grande poeta, ma convenienti a qualcosa di
più straordinario e di men naturale. Il medio evo non era più in grado
di intendere perchè alla nascita di un semplice poeta, e fosse pure il
principe dei poeti, dovesse turbarsi l'ordine di natura, mentre gli
doveva parer ragionevole che ciò accadesse nascendo colui che sulla
stessa natura avrebbe poi esercitato il suo meraviglioso potere. Il
nome della madre Maja, quello supposto di Majus o Magius, avo materno
di Virgilio, nome che avrebbe anche assunta la forma Magus, potevano
facilmente far nascere l'idea che nella famiglia del poeta ci fosse
come una tradizione di magia; e il sesto canto dell'Eneide, dove si
descrive la discesa di Enea all'Inferno, doveva contribuire ancor esso
ad accreditare sempre più la credenza che Virgilio avesse relazione
col mondo degli spiriti, e dell'opera degli spiriti potesse a suo
talento giovarsi. Si sapeva inoltre che, prima di morire, egli aveva
lasciato l'ordine di bruciar l'Eneide; e poichè in tempi di barbarie
intellettuale non è agevole intendere, che un poeta voglia distruggere
l'opera propria per non avere in essa raggiunto la vagheggiata
perfezione, doveva nascere il dubbio che con quell'ordine Virgilio
avesse voluto privare la posterità della conoscenza de' suoi mirabili
secreti, cosa questa, come abbiam veduto, esplicitamente affermata
di Aristotile, ma affermata anche di altri maghi gelosi del proprio
sapere. Già appo gli antichi era venuto in uso di aprire, in casi
dubbii, i libri di Virgilio, e di considerare come un responso il primo
passo in che il lettore si abbattesse; e questa pratica, conosciuta
sotto il nome di _Sortes Virgilianae_, fu conservata nel medio evo,
insieme con altre pratiche simili, alle quali si facevano servire le
Scritture e le Vite dei Santi. Tutti questi fatti e queste ragioni mi
pare dovessero aver forza sufficiente a far nascere, dentro la stessa
tradizione letteraria, la leggenda di Virgilio mago, sebbene per condur
poi questa al grado di svolgimento che in effetto raggiunse, fossero
necessarii, come or ora vedremo, fatti e ragioni d'altra natura.

Quale fosse il tipo di Virgilio per cotal modo formatosi nella
tradizione letteraria mostra il _Dolopathos_ di Giovanni di Alta
Selva, di cui fu pubblicato or sono pochi anni, il primitivo testo
latino[400]. Questo romanzo altro non è, come è noto, che una
versione del popolarissimo racconto dei _Sette Savii_, ma con proprie
particolarità, fra cui la introduzione di Virgilio nella favola
come uno dei personaggi principali. Il contenuto di esso è, in brevi
parole, il seguente. Dolopathos, re di Sicilia ai tempi di Augusto,
e sposo di una figliuola di Agrippa, ha un figlio per nome Luscinio,
la cui educazione affida a Virgilio, _famosissimo poeta_, il quale,
_nativo di Mantova in Sicilia_, fioriva in Roma a quel tempo. Virgilio
comincia ad insegnare al discepolo i primi elementi del sapere, compone
per esso un libretto in cui, in forma compendiosissima, è raccolta
tutta la dottrina delle Sette Arti, gli fa conoscere certe regole in
virtù delle quali, osservando i pianeti, e i mutamenti dell'aria, può
conoscere qualunque cosa avvenga nell'universo, e nulla insomma gli
lascia ignorare di quanto egli sa. Fatto pari al maestro, il discepolo,
usando dell'acquistata sapienza, conosce i secreti pensieri degli
uomini, e in grazia di tale conoscenza scampa da grave e imminente
pericolo; ma questo passato, un altro già ne prevede Virgilio, il
quale a scongiurarlo, impone al discepolo, che si accinge a far
ritorno nella casa paterna, di serbare il più rigoroso silenzio fino
a che egli stesso, Virgilio, non l'abbia raggiunto. Il nuovo pericolo
doveva venire dalla stessa matrigna di Luscinio, la quale Dolopathos,
perduta la prima moglie, aveva di fresco sposata. Luscinio osserva il
comandamento del suo maestro. Giunto in corte del padre non pronunzia
parola checchè gli si dica. La nuova regina, innamoratasi di lui,
lo conduce nelle sue stanze, sotto pretesto di volerlo togliere al
suo ostinato silenzio, e gli confessa la propria passione. Respinta
dal giovane, ella, indispettita, lo accusa di averle voluto usare
violenza, di che sdegnato altamente il padre lo vuol far morire.
Ma per sette giorni consecutivi sette savii, raccontando ciascuno
ogni giorno una novella, riescono a ritardare l'esecuzione della
sentenza, finchè sopraggiunto l'ultimo giorno Virgilio proscioglie
il giovane dall'obbligo del silenzio, e fatta palese la verità, la
regina è bruciata viva. La storia seguita dopo ciò narrando la morte
di Dolopathos e di Virgilio, la venuta di Cristo, la conversione di
Luscinio, che prende nel battesimo il nome di Prisco, e lasciato per
sempre il regno, se ne va in pietoso pellegrinaggio a Gerusalemme.
L'autore chiude il racconto pregando il lettore di non pensare ch'egli
abbia scritte cose incredibili od impossibili, e invitando chi ciò
pensasse a dire egli stesso come potessero i maghi di Faraone mutar le
verghe in serpenti, e far uscire dalle paludi le rane, e mutar l'acque
del Nilo in sangue, come potesse la Pitonessa suscitar Samuele, e come
Circe mutare in bruti i compagni di Ulisse.

Qui Virgilio non è ancora il facitor di miracoli e il fabbricator di
telesmi della leggenda più matura, ma presenta già molti dei caratteri
del mago, e di magia sa più particolarmente quanto l'autore narra di
lui morente, che per tal modo strinse nel pugno quel suo libretto, ove
tutta era chiusa la dottrina delle Sette Arti, che nessuno fu poi buono
a strapparnelo[401]. Anche questa favola avrà più tardi svolgimenti
curiosi, come vedremo. Giova intanto notare che il carattere mostrato
qui da Virgilio si è quello dell'uomo virtuoso che adopera la scienza
sua e il più che naturale potere in difesa della virtù e della
giustizia, carattere che poi lungamente conserva nella leggenda, e
che solo poteva accordarsi con la riputazione di lui, quale dalla
tradizione letteraria era stata consacrata. E che qui noi ci troviamo
veramente di fronte alla tradizione letteraria non può nascer dubbio;
anzi tutto perchè quella introduzione di Virgilio in un racconto che
aveva già la sua forma fissata tradisce a primo aspetto l'arbitrio
letterario, mentre attesta una volta di più la celebrità del poeta;
poi ancora perchè il monaco autore del libro si rivela ad ogni passo
uomo sufficientemente provveduto della comune coltura del tempo suo. Il
Comparetti fa giustamente osservare che nel _Dolopathos_ «il concetto
di Virgilio ci si presenta in quell'ultimo gradino dell'idea letteraria
che più si approssima al livello popolesco»[402], ma, in pari tempo,
che è tanto reale la conoscenza che l'autore di esso ha di Virgilio
«che la cornice cronologica dell'opera sua è stata da lui inventata,
secondo richiedeva l'introduzione di un tal personaggio in essa»[403].
Il suo tipo di Virgilio è quale poteva risultare «dall'idea scolastica,
veduta dal punto di vista liberamente fantastico del romantismo»[404],
talchè sotto quella figura così travestita del poeta «c'è il Virgilio
delle scuole medievali, il Virgilio dei grammatici e degli autori di
compendii delle sette arti»[405].

Quando il Comparetti recava tali giudizii conosceva del _Dolopathos_ la
sola versione francese fatta nel XIII secolo da Herbers, e inclinava
a credere che il testo latino, di cui il Mussafia aveva già fatto
conoscere l'esistenza, potesse essere una riduzione del francese[406].
Ch'esso sia, non riduzione, ma originale, è ora fuori di dubbio, e la
composizione sua si può con molta probabilità far risalire all'anno
1184 o 1185[407], che è quanto dire ad un tempo in cui la leggenda di
Virgilio mago propriamente detta, non era ancora largamente diffusa
in Europa. Il Virgilio del _Dolopathos_ non mostra d'aver ricevuto in
nessun modo gl'influssi della leggenda popolare, la quale anzi, a più
di un segno, si vede essere stata interamente ignorata dal monaco di
Alta Selva. Per non allungar troppo il discorso mi basterà di recarne
una sola, ma convincentissima prova. La leggenda popolare, d'accordo
con la tradizione letteraria, colloca il sepolcro di Virgilio in
Napoli, dove porge argomento a più di una favola; Giovanni d'Alta Selva
dice invece che l'urna d'oro che raccoglieva le ossa di Virgilio, fu da
Luscinio posta in quella Mantova di Sicilia di cui il poeta era nativo.
Gli è inutile di andare a ricercare per quale strano errore Giovanni
d'Alta Selva ponesse Mantova in Sicilia; ma ciò prova abbastanza
ch'egli non conobbe la leggenda popolare, di cui quella parte appunto
dove si parla della sepoltura di Virgilio, ebbe tale notorietà che nel
XII secolo un trovatore di Provenza poteva fare intendere che parlava
di Virgilio con solo dire:

    . . . . . cel que jatz on la ribeira
    lai a Napols[408].

La tradizione letteraria poteva dare il Virgilio del _Dolopathos_, ma
poteva anche dare, e diede probabilmente, un Virgilio più meraviglioso
e più simile al Virgilio mago della leggenda. Su di ciò avrò a tornare
quanto prima; ma facciamoci ora a considerare la leggenda in una nuova
sua fase, che è quella della immaginazione popolare, e vediamo quali
nuove finzioni essa ci presenti, e sino a che punto meriti il predicato
di popolare, e sia da distinguere e da separare dalla tradizione
letteraria. Le finzioni che più rigorosamente si tengono dentro i
limiti di questa, o non si localizzano, oppure derivano da sorgenti,
dirò così, non localizzate: nascono un po' qua un po' là, fluttuano
nell'ambiente letterario del tempo, e non escono, in generale, dai
libri. Ma ecco che ad un tratto noi vediamo penetrare nella leggenda
una forte corrente di finzioni nuove, le quali mostrano fra loro
una certa continuità, si distinguono per certi caratteri speciali
e spiccati, e provengono da un unico luogo. Questo luogo è Napoli,
ed esse costituiscono quella che più particolarmente il Comparetti
addimanda leggenda popolare di Virgilio. Vediamo anzi tutto quali
sieno le finzioni in discorso; la storia loro ci presenta, fra l'altre,
questa singolarità, che, nate in Italia, esse sono, assai prima che da
Italiani, raccolte e divulgate per l'Europa da stranieri.

Corrado di Querfurt, nella già citata sua epistola ad Arnoldo di
Lubecca, scritta nel 1194, ne riferisce parecchie. Corrado aveva
ricevuto dall'imperatore Arrigo VI suo signore, l'ordine di smantellar
Napoli, ciò che fu da lui puntualmente eseguito. Nella citata epistola
egli accenna al fatto, e dice come a scongiurarlo non avesse giovato
certa ampolla in cui, per arte magica, Virgilio aveva rinchiusa
una immagine della città da lui fondata. I Napoletani tenevano quel
talismano in gran conto, e credevano che durando esso intero, nessun
danno poteva incogliere la loro città. Corrado che afferma d'averla
avuta tra mani, soggiunge che l'ampolla aveva forse perduta la sua
virtù in causa di una piccola fenditura che vi s'era fatta. Ma nella
città di Napoli altri miracoli di Virgilio si vedevano: un cavallo di
bronzo che mentre durava nella sua integrità aveva virtù di preservare
i cavalli dal fiaccarsi la groppa; una mosca pure di bronzo che teneva
lontane da Napoli tutte le mosche; una porta detta Ferrea, dietro la
quale Virgilio aveva chiuso tutti i serpenti, copiosissimi in quella
regione, la quale porta egli, Corrado, aveva temuto di distruggere,
dubitando che i serpenti non uscissero a molestare di bel nuovo la
popolazione; un macello in cui la carne si serbava fresca lo spazio di
sei settimane; una statua di bronzo con l'arco teso, la quale, prima
che certo villano le facesse scoccar la freccia, frenava le eruzioni
del Vesuvio. Corrado fa anche ricordo dei bagni costruiti da Virgilio
in vicinanza di Baja, i quali guarivano da tutte le infermità; e delle
ossa di Virgilio, custodite nel Castel dell'Ovo, dice che, esposte
all'aria, avevano virtù di far turbare il cielo, sconvolgere il mare, e
provocare improvvisa procella, cosa da lui medesimo sperimentata[409].

Gervasio di Tilbury, il quale fu a Napoli nel 1190, parla ancor egli
di Virgilio e dei miracoli da lui operati in pro' di quella città, nei
suoi _Otia imperialia_[410], scritti nel 1212. Egli omette le favole
del palladio della città e del cavallo di bronzo, riportate da Corrado,
ma altre ne narra, da costui ignorate, o taciute, mentre nel riferire
le rimanenti s'accorda col suo predecessore, salvo qualche variante
di maggiore o minore rilievo, su cui non importa che io mi trattenga
altrimenti, ma che dimostra come l'uno e l'altro scrittore attingesse
direttamente dalla tradizione popolare, mutevole sempre ed incerta. Le
favole da lui riferite, e di cui non si trova traccia nell'epistola di
Corrado, riguardano due teste di marmo pario poste da Virgilio ad una
delle porte della città, l'orto di Virgilio sul Monte Vergine, e la
famosa Grotta di Pozzuoli. Quanto al primo miracolo l'autore assicura
di averne fatto sperimento egli stesso. La testa di destra aveva
aspetto ilare e ridente, quella di sinistra addolorato e torvo; chi,
varcando la porta, passava a destra, menava a prospero fine tutte le
sue faccende; chi per contro passava a sinistra, scapitava in tutte le
cose sue e rimaneva defraudato d'ogni speranza. Nell'orto di Virgilio,
posto fra aspri dirupi sul Monte Vergine, erano molte qualità di erbe,
fra cui l'erba Lucia (_herba Lucii_), che aveva virtù di restituire la
vista alle pecore cieche; ivi stesso era una statua di bronzo con una
tromba in bocca, la quale respingeva le ceneri e i vapori vomitati dal
Vesuvio. Nella Grotta di Pozzuoli, in grazia dell'_arte matematica_ di
Virgilio, nessun nemico poteva nuocere all'altro.

Nei racconti di Corrado di Querfurt e di Gervasio di Tilbury, Napoli
ci si presenta come un gran focolajo di leggende virgiliane; ma se
questi due scrittori furono i primi a diffondere largamente per
l'Europa quelle favole, non furono però i primi a conoscerle e a
registrarle. Nel suo _Polycraticus_[411], messo in luce nel 1159,
Giovanni di Salisbury, il quale aveva viaggiato tutta l'Italia, narra
per disteso la storiella della mosca di bronzo, non senza alcune
particolarità importanti, su cui mi converrà ritornare, e nel 1180
allude alla medesima storiella l'autore di una poesia satirica contro
gli ecclesiastici[412]. Alessandro Neckam nel suo trattato _De naturis
rerum_[413], compilato, secondo ogni probabilità fra il 1180 e il
1190, ricorda, oltre al macello che conservava illesa la carne, alcuni
altri miracoli operati da Virgilio, de' quali non si trova fatto il
benchè minimo cenno nè da Corrado, nè da Gervasio, il che dimostra
quanto la leggenda fosse copiosa, e lascia luogo al dubbio che di
altre finzioni, per non essere state raccolte da nessuno scrittore,
siasi perduta ogni traccia. Egli dice che essendo Napoli infestata da
infinite sanguisughe, Virgilio la liberò immergendo in un pozzo una
sanguisuga d'oro, e soggiunge che dopo molti anni, estratta questa
dal pozzo, l'antico flagello ricominciò ad affliggere la città; parla
poi dell'orto di Virgilio, cinto da un muro di aria immobile, e di un
ponte aereo di cui il poeta si serviva a suo senno. Ricorda i bagni
di Salerno e di Montepulciano, da lui costruiti, e del macello dice
che per virtù di certa erba postavi da Virgilio, la carne che v'era
stata rinchiusa cinquecento anni fu trovata freschissima ed ottima al
gusto, mentre Corrado non parla che di sei settimane, e Gervasio non
fissa nessun termine di tempo, e attribuisce la virtù miracolosa ad un
frusto di carne dallo stesso Virgilio chiuso in una parete del macello.
Finalmente, cosa di non poca importanza in tale argomento, Alessandro
Neckam è, degli scrittori di quella età le cui opere sono insino a noi
pervenute, il primo a riportare la tradizione che faceva costruire
da Virgilio la _Salvatio Romae_, di cui ho lungamente parlato a suo
luogo[414].

Alessandro Neckam non pare che sia mai stato a Napoli, e nemmeno
in Italia; ma appunto per ciò la sua testimonianza ha un valore
particolare, perchè prova che la leggenda di Virgilio mago, se non
era ancora così universalmente nota come ebbe ad essere poi, tuttavia
era già uscita dall'Italia, e per raccoglierla non era più necessario
di venir sino a Napoli. Corrado di Querfurt e Gervasio di Tilbury non
narravano dunque cose in tutto nuove, ma cose ancora imperfettamente
e da pochi conosciute. La sua testimonianza, del resto, si accorda
pienamente con quella più antica di Giovanni di Salisbury, e con
quelle più recenti di Corrado e di Gervasio, per mostrar Napoli teatro
principalissimo della operosità magica di Virgilio, giacchè, se si
tolgono i bagni di Montepulciano, il ponte aereo, di cui non è detto
dove fosse, e la _Salvatio Romae_, le altre meraviglie sono da lui
tutte collocate in Napoli.

Ma a questo punto può nascere un dubbio. Le leggende che pongono in
Napoli le meraviglie operate da Virgilio sono esse stesse napoletane,
oppure sono leggende nate un po' qua e un po' là per l'Europa, le quali
solamente localizzano in Napoli i fatti che narrano? c'è veramente una
leggenda popolare di Virgilio, o le favole che di lui si narrano altro
non sono che immaginazioni di letterati? La opinione del Comparetti,
che fermamente crede ad una leggenda popolare napoletana, raccolta
e poi diffusa dagli scrittori in Europa, ma distinta e indipendente
dalla tradizione letteraria, fu impugnata da Guglielmo Vietor[415], ma,
secondo ch'io penso, in parte almeno, a torto. La leggenda napoletana
popolare ci fu, ma non fu per avventura così sciolta dalla tradizione
letteraria come sembrò al Comparetti, e non è provato che sia stata
tutta popolare sin dalle origini, mentre alcuna particolare finzione
potè nascere nell'ambiente letterario e passar quindi a dimesticarsi
tra il popolo.

Esaminiamo un po' più attentamente la questione.

Corrado di Querfurt parla come testimonio oculare di alcune almeno
delle meraviglie che descrive; egli dice di avere avuto tra le mani
l'ampolla, in cui Virgilio aveva per arte magica chiusa una immagine
della città, e di essere stato spettatore della turbazione degli
elementi che provocavano le ossa del poeta esposte all'aria: Gervasio
di Tilbury si fa narrare da un arcidiacono napoletano, Giovanni
Pignatelli, la favola delle due teste di bronzo ricordata pur ora. Ma
tanto Corrado, quanto Gervasio, non sono scrittori nelle cui parole si
possa avere gran fede, giacchè, non solo essi accettano alla cieca,
e rinarrano qualsiasi fanfaluca più stravagante, ma spesso ancora
mentiscono per conto proprio nel modo più grossolano e palese[416]. A
rigore può dunque nascere il dubbio che Corrado siasi sognata l'ampolla
magica, della cui esistenza egli è, del resto, unico mallevadore, che
Gervasio abbia inventato il suo colloquio coll'arcidiacono Giovanni
Pignatelli, e forse l'arcidiacono stesso, e che nè l'uno nè l'altro
abbia mai veduto nè il famoso macello, nè il cavallo di bronzo, nè la
Porta Ferrea, nè l'altre meraviglie di cui raccontano, per la ragione
semplicissima che tali meraviglie non esistevano altrove che nelle
favole in cui se ne parlava, e che, per ipotesi, avevano potuto essere
immaginate da uomini i quali non conoscessero Napoli altrimenti che di
nome. Ora, se alcune almeno di tali meraviglie non fossero veramente
esistite in Napoli, bisognerebbe senz'altro rinunziare alla congettura
di una leggenda popolare: giacchè, se le favole di origine letteraria
ed erudita possono reggersi da sè, senz'altro appoggio, nella fantasia,
le finzioni veramente popolari amano di legarsi a qualche cosa di
reale, e il più delle volte anzi traggono appunto la origine da una
realtà, sotto l'impero di una credenza, o di un sentimento, malamente
veduta o malamente interpretata. Il Vietor dice a tale proposito[417]:
noi non dobbiamo considerare le singole leggende «come legate, in
generale, a capi d'arte napoletani, ma bensì come fondate sul concetto
che i letterati avevano del soprannaturale sapere di Virgilio,
specialmente in matematica e in medicina». A questa affermazione se
ne può contrapporre un'altra più probabile e più legittima, e dire
che quella grande opinione del sapere di Virgilio, scontrandosi con
certi capi d'arte esistenti in Napoli, dava origine a quelle leggende.
E l'esistenza di alcuni almeno tra i capi d'arte in discorso non si
può ragionevolmente mettere in dubbio. Il cavallo di bronzo esisteva
veramente, e la testa di esso conservasi ancora nel Museo Nazionale
di Napoli. Le due facce di pietra, ricordate di sopra, un vecchio
scrittore napoletano che fioriva nella prima metà del XVI secolo,
Giovanni Scoppa, assicura di averle vedute. I bagni di Pozzuoli furono
un tempo celebri per tutta l'Europa[418]. E per la stessa ampolla
descritta da Corrado si ha qualche buona ragione di credere che non
fosse cosa di pura invenzione[419].

Ma altre ragioni si possono addurre in appoggio dell'opinione del
Comparetti, circa l'esistenza di una leggenda popolare e napoletana
di Virgilio. Supponiamo per un momento che tale leggenda non sia mai
esistita: ecco, subito viene alle labbra una domanda: com'è che la
leggenda letteraria, nata non si sa dove, ma certamente in luoghi
diversi, inventata non si sa da chi, ma certamente da parecchi,
giacchè in nessuno degli scrittori citati sin qui trovasi intiera,
come va che così ostinatamente si rivolge a Napoli, e fa Napoli sede
di tutte le sue meraviglie? Perchè, risponde il Vietor, nella Vita
di Virgilio si leggeva che il poeta andava assai di rado a Roma,
e a Napoli attendeva a' suoi studii di matematica e di medicina, e
quivi era stato sepolto[420]. La ragione è assai debole. Più che alla
Vita si sarebbe posto mente all'Eneide, dove Roma si vede stare in
cima a tutti i pensieri del poeta; e se la leggenda letteraria fosse
proceduta tant'oltre, quant'era mestieri, le finzioni concernenti
Virgilio mago si sarebbero senza dubbio legate alla città da lui
celebrata nell'immortale poema. Si guardi inoltre all'indole comune
delle leggende che fanno capo a Napoli; uno solo è il pensiero che
le inspira. In esse tutte Virgilio apparisce quale il protettore,
il genio tutelare di quella città; e un tal fatto, quanto riesce
naturale a chi ammette l'esistenza di una leggenda popolare formatasi
appunto in Napoli, altrettanto deve parere strano a chi non ammette
altra leggenda che la letteraria, parto di fantasie interessate alla
maggior glorificazione di Virgilio, ma indifferenti alla salute di una
città che forse nemmen conoscevano. La preoccupazione costante della
sicurezza e della prosperità di Napoli, così manifesta in tutte le
finzioni ricordate di sopra, par tanto più caratteristica, quanto più
si vede scemare nelle finzioni di tempi posteriori, dove la potenza
magica di Virgilio non solo si esercita sopr'altro teatro, ma spesso
ancora è adoperata con tutt'altri intendimenti e volta a tutt'altri
fini. A ragione dice però il Comparetti la parte più antica della
leggenda di Virgilio mago dover essere «l'idea di un protettorato che
Virgilio esercitò in vita sua sulla città di Napoli»[421]. Che se noi
vogliamo andare a cercare la ragione e l'origine di tale idea, non
dobbiam molto dilungarci per questo, e il Comparetti ben si appone
senza dubbio quando afferma «che la presenza a Napoli del sepolcro
di Virgilio, è uno dei fatti principali che spiegano la permanenza
del nome di lui nelle tradizioni del popolo napoletano»[422]. Una
opinione d'ignota origine, ma riferita sino dal 1136 da Alessandro
di Telese, secondo la quale, in premio di quel distico che comincia
_Nocte pluit tota_, Virgilio ebbe in feudo da Augusto Napoli e la
Calabria, contribuiva per parte sua a confermare quella idea del
protettorato[423].

Il sepolcro di Virgilio in Napoli godette nell'antichità di grandissima
nominanza. Stazio lo chiama un tempio, e vanto di Napoli lo stima
ancora nel V secolo Sidonio Apollinare. È assai probabile che tale
nominanza continuasse lungo il medio evo, e che in Napoli si mostrasse
un sepolcro, a ragione o a torto detto di Virgilio. Fatto sta che
a mezzo del XII secolo le ossa del gran poeta, o quelle che per
tali passavano, erano ricercate come preziosa reliquia. Giovanni
di Salisbury parla di un Ludovico, da lui conosciuto, il quale dopo
molte vigilie e digiuni e fatiche, avrebbe voluto in premio del suo
inutile esilio, riportare in Francia, non lo spirito, ma le ossa di
Virgilio[424]. Gervasio di Tilbury narra per disteso il fatto accennato
appena da Giovanni, ma aggiungendovi, senza dubbio di suo capo,
molte particolarità romanzesche[425]. Certo maestro inglese, uomo di
straordinario sapere, ottiene dal Re Ruggiero di Sicilia di potersi
impadronire delle ossa di Virgilio _in qualunque luogo del regno si
trovino_. Va a Napoli, scopre per arte magica il sepolcro del poeta,
sconosciuto al popolo, e vi trova, insieme colle ossa un libro di
_arte notoria_. Ma il popolo, pensando _alla speciale affezione che
Virgilio aveva avuto per la città, temendo che dalla sottrazione delle
ossa di lui possa venirgli qualche gran danno_, non vuole gli sieno
tolte, e solo concede al maestro il libro. Richiesto costui che cosa
volesse fare dell'ossa, risponde che voleva per incantesimi forzarle a
rivelargli tutto il sapere di Virgilio. Le reliquie del poeta furono
messe in un sacco e custodite dietro una grata di ferro nel Castello
di mare, o Castello dell'Ovo. Gervasio assicura di aver veduto alcuni
estratti del libro. In questo racconto è certa la domanda delle ossa,
probabile la ragione di essa, ma falsa certamente l'asserita ignoranza
del popolo napoletano circa il luogo dove era, o si credeva sepolto
il poeta[426]. Ad ogni modo esso concorre a provare che tra il popolo
Virgilio passava già per una specie di genio tutelare e benefico, e
questa credenza appunto era quella che dava origine alla leggenda.

Ma l'esistenza della leggenda popolare si conferma ancora per altre
prove e per altre testimonianze. Cadente il secolo XIV, Bartolomeo
Caracciolo, detto Caraffa, cavaliere napoletano, compose una _Cronaca
di Partenope_, per dichiarazione dello stesso autore compilata sopra
diverse cronache[427]. Egli narra le favole riguardanti Virgilio, non
perchè vi creda, ma per non _fraudare la fama de lo ingeniosissimo
Poeta, o vera o falsa_[428]. Attinge, per sua stessa confessione, da
Gervasio, da un Alessandro, che non può essere altri che Alessandro
Neckam, del cui trattato _De naturis rerum_ è tuttavia da credere che
egli conoscesse solamente una redazione alterata e interpolata, ma
ancora, e questo vuol essere notato, dalla bocca stessa del popolo. Ciò
non può essere posto in dubbio, giacchè, non solo nelle favole ch'egli
ha comuni con Gervasio e con Alessandro si notano alcuni particolari
che appartengono evidentemente ad una tradizione propria e speciale,
alquanto diversa da quella raccolta dagli scrittori; ma ancora,
nelle favole che egli è solo a riportare, l'origine napoletana e il
carattere popolaresco sono così patenti che non so come si potrebbero
con qualche apparenza di ragione negare. Valgano quali esempii quella
del pesciolino fatto intagliar da Virgilio sopra una pietra nel luogo
denominato appunto _Pietra del Pesce_[429], per benefizio del qual
talismano Napoli fu poi sempre copiosa di pescagione, e l'altra del
giuoco di Carbonara ordinato dal medesimo Virgilio. La esistenza
della leggenda popolare conferma inoltre il medesimo scrittore quando
dice che la Grotta di Pozzuoli era dal _volgo_ addimandata Grotta di
Virgilio (dal volgo, non dai letterati), e quando infine, scusandosi
delle molte favole riferite sul conto del poeta, avverte: «Io potria
del dicto Virgilio dicere multe altre cose, le quali ho sentito
dicerese de tale homo, ma perchè in major parte mi pareno favolose,
et false, non ho voluto al tutto implire la mente de li homini de
sogni». E si ponga mente che qui l'autore parla, non di cose lette,
ma di cose udite dire. In sul finire del secolo XIV c'era dunque in
Napoli una leggenda popolare di Virgilio, e s'inganna a partito il
Vietor quando asserisce che tale leggenda cominciò solo a spargersi
tra il popolo napoletano nel principio del secolo presente[430]. Come
spiegare il fatto? come credere che della leggenda viva e rigogliosa in
Napoli circa il 1380, non ci fosse nemmen vestigio due secoli innanzi,
quando Corrado di Querfurt e Gervasio di Tilbury la raccolsero? d'onde
vi sarebb'essa venuta? come ci si sarebbe diffusa? Per ispiegare il
fatto, chi non ammette la esistenza di una leggenda popolare primitiva,
e la continuità della tradizione, deve necessariamente ricorrere ad
una ipotesi assai meno fondata e plausibile, e dire che la leggenda
sia passata, in successo di tempo, dal dominio letterario nel dominio
popolare. Assolutamente parlando, un fenomeno di tal sorta non è per
nulla impossibile, e ce ne ha degli esempii; ma nel caso presente non
so in qual modo avrebbe dovuto seguire. Quando la leggenda apparisce
per la prima volta nella letteratura napoletana, il popolo di Napoli
già la conosce. Bisognerebbe dunque dire che questo popolo la ricevesse
dalla letteratura straniera, e più particolarmente dalla latina, di
carattere, essenzialmente erudito. Quanto una tale congettura possa
dirsi probabile ognuno giudichi da sè. Ma pure, ammessa in principio la
cosa come possibile, non s'intende perchè il popolo dovesse innamorarsi
di quella leggenda, il popolo che si suppone ignaro, o non curante
del nome di Virgilio, e a cui naturalmente non avrebbe dovuto garbare
gran fatto che finzioni straniere si sovrapponessero qua e là a' suoi
monumenti, intorno ai quali egli doveva pure avere, come ogni altro
popolo ha, le sue vecchie credenze e la sua tradizione costituita.

La fede nella potenza tutelare e benefica di Virgilio è il principio
di cui si genera la leggenda popolare, ma in pari tempo è l'anello
che unisce questa leggenda alla tradizione letteraria. I due fatti,
non solo non si escludono, ma anzi il primo suppone il secondo, e
tutt'a due a vicenda s'illustrano. Se non fosse stata la tradizione
letteraria, e se in questa tradizione non si fosse continuamente
ravvivata la memoria e magnificato il nome di Virgilio, non sarebbe
nato nel popolo quel sentimento di affettuosa ammirazione che,
fecondato dalla fantasia, genera le leggende. Si può tener per fermo
che quanti forestieri colti giungevano in Napoli nel tempo che la
leggenda prese a formarvisi, domandavano di vedere, tra l'altre
meraviglie della città, anche la tomba di quel Virgilio che fu non
solo il principe dei poeti, ma ancora il maggiore dei savii, e uno
dei profeti di Cristo. La tomba di lui diveniva segno di pietosa
venerazione, non altrimenti che se fosse stata di un santo; e come
nella ingenua credenza dei tempi le tombe dei santi erano considerate
palladii delle città, così ancora fu considerata la tomba di Virgilio,
e come i santi si mutavano in protettori, così qui si mutava in
protettore il poeta. Giustamente dice il Comparetti: «Il popolo
adunque non faceva altro a Napoli se non trarre conseguenze materiali
dal concetto che i letterati d'allora si formavano di Virgilio, e
questo era tale che i letterati stessi non si maravigliavano di quei
racconti[431]». E che la primitiva leggenda della magia di Virgilio
venga fuori in certo qual modo dalla tradizione letteraria prova ancora
il carattere di questa magia, dove, in tempi di cupa superstizione,
nulla appar di diabolico: solamente più tardi, nella leggenda
degenerata, Virgilio è messo in relazione con gli spiriti delle
tenebre.

Ma al concetto di Virgilio mago la tradizione letteraria sarebbe
giunta anche da sè, e forse abbiamo la prova in mano che veramente
vi giunse. Gli è difficile credere che così non avvenisse in un tempo
in cui sapere e magia sonavan quasi sinonimi; e il Comparetti separa
troppo, mi sembra, la leggenda popolare dalla tradizione letteraria,
che così potentemente aveva contribuito a farla nascere[432]. La
leggenda in questo caso non fa che accelerare e rendere più intensi
certi processi della tradizione. Nel medio evo, tra pensiero popolare e
pensiero letterario o erudito, non v'è quella sostanziale disparità, e
quella separazione profonda che solo appartengono a tempi d'illuminata
coltura, dominati dallo spirito critico; e nella letteratura di quel
tempo entrano liberamente e si adagiano le più bizzarre fantasie e le
più insensate credenze della tradizione popolare. Non solo, quando la
leggenda popolare di Virgilio è già nota e divulgata per l'Europa, noi
vediamo crescere una leggenda puramente letteraria di lui, la quale non
esce dai libri, e può, in una certa misura, dirsi provocata da quella;
ma sino dalle origini possiamo vedere qualche segno di una leggenda
letteraria che spontaneamente si forma. In una biografia del poeta,
contenuta in un codice Marciano del secolo XV, si dice che Virgilio fu
gran mago e molto atteso all'arte magica, come dimostra quell'ecloga:
_Pastorum musa Damonis et Alphesiboei_. Qui la fama della magia di
Virgilio riposa dunque non sui telesmi da lui costruiti, ma solamente
sugli scritti[433]. Alessandro Neckam, detto, come s'è veduto innanzi,
di alcune mirabili cose operate da Virgilio, descrive la _Salvatio_ da
lui attribuita al poeta. Ora, come si è mostrato a suo luogo[434], la
_Salvatio_, la cui leggenda non pare sia di origine popolare, non fu
attribuita a Virgilio se non molto tardi, e tale attribuzione si deve
senz'alcun dubbio ad un letterato. Se questi sia lo stesso Alessandro,
od altri più antico, nessuno è che possa dire con sicurezza, e così non
si può nemmen dire se essa sia stata provocata dalla leggenda popolare,
o sia sorta spontanea. Giovanni di Salisbury è il primo che racconti la
favola della mosca di bronzo, ma nel suo racconto essa ha un carattere
manifestamente letterario che va poi perdendo più tardi. Ecco in fatti
le sue parole: «Fertur vates Mantuanus interrogasse Marcellum, quum
depopulationi avium vehementius operam daret, an avem mallet instrui
in capturam avium, an muscam informari in exterminationem muscarum.
Quum vero quaestionem ad avunculum retulisset Augustum, consilio
ejus praelegit ut fieret musca, quae ab Neapoli muscas abigeret,
et civitatem a peste insanabili liberaret». Quelle reminiscenze di
Marcello e di Augusto accennano assai più ad origine letteraria che
popolare[435]; ma può darsi benissimo che la finzione, sorta da prima
in Napoli come un prodotto letterario, passasse poi nel popolo, e
si sciogliesse dai nomi, non abbastanza noti al volgo, di Augusto
e di Marcello. Fatto sta che Corrado e Gervasio non li ricordano
nemmeno[436].

La leggenda di Virgilio mago, fatta com'era per piacere agli spiriti
creduli e fantastici, che è quanto dire alla quasi totalità degli
uomini di quel tempo, incontrò in Europa favore grandissimo, e venne
crescendo rapidamente. Le favole che la componevano erano di tal
natura, che, ricevute nelle menti, altre subito ne suscitavano simili a
sè, nè perchè una generazione così fatta dovesse cessare eravi ragione,
altra da quella che fosse per nascere dalla sazietà, e dal volgersi
del pensiero ad altro indirizzo. L'elenco delle meraviglie attribuite
a Virgilio s'allunga smisuratamente. Già Elinando, copiato da Vincenzo
Bellovacense, parla di una torre costrutta dal poeta, la quale, quando
vi si sonavano le campane, oscillava seguendo il moto di quelle,
miracolo da lui posto in dubbio per questa ragion solamente che al
tempo di Virgilio le campane non erano ancora inventate[437]. In Napoli
stessa alcune favole nuove è probabile che prendessero nascimento;
altre forse si trasformarono. Quella che narra dell'ovo consacrato
da Virgilio e chiuso dentro un'ampolla, dal quale dipendeva la sorte
del Castello dell'uovo e della intera città[438], è senza dubbio la
stessa già narrata con qualche diversità da Corrado di Querfurt. Se
non che la leggenda di nuova formazione, la quale non è più popolare,
ma letteraria, palesa sin dal principio una curiosa tendenza, e molto
significativa, che è di scostarsi da Napoli per far capo a Roma. Tal
fatto conferma sempre più le origini popolari della leggenda che diremo
napoletana. Nelle opere numerosissime in cui, dopo il secolo XII, si
accoglie, in tutto o in parte, la leggenda virgiliana, si continua
a far ricordo delle meraviglie onde le finzioni più antiche avevano
dotato Napoli, ma le meraviglie nuove che s'inventano vanno per lo più
ad accrescere il numero di quelle per cui andava famosa Roma. Durante
questo nuovo periodo della leggenda si vengono a legare a Virgilio
non poche finzioni, le quali innanzi erano appartenute ad altri, o
si trasportano a Roma alcune di quelle che già erano appartenute a
Napoli. Io non istarò a riferire tutte queste strane immaginazioni,
chè l'angustia dello spazio non mel consente, e, da altra banda, non se
ne leva un grande costrutto; ma ne ricorderò rapidamente alcune delle
principali.

In molte di esse Virgilio conserva il suo carattere di genio tutelare
e benefico, ed esercita l'arte sua in benefizio di Roma come già
l'aveva esercitata in benefizio di Napoli. Virgilio accese a Roma un
fuoco, il quale ardeva costantemente, e a cui veniva a scaldarsi senza
nessuna spesa la povera gente. Lo custodiva una statua di rame con un
arco teso, la quale recava scritto in fronte: _Se alcun mi percuote io
tiro_. Avendola un tale percossa, quella scoccò la freccia, che spense
il fuoco per sempre[439]. Ancora fece Virgilio a Roma quattro grandi
statue di pietra, e le pose in cima a quattro torri, a rappresentare
le quattro stagioni, e ogni volta che, una stagion finita, un'altra ne
cominciava, la statua che rappresentava la stagion passata, gettava
a quella che rappresentava la nuova una palla di ottone, e così si
conosceva appuntino quando le stagioni mutavano[440]. Fece parimente
due statue di rame che il sabato si lanciavano alternativamente una
palla[441]. A Virgilio fu inoltre attribuita la fattura di quella
statua che portava scritto sul dito _Percute hic!_[442], come pure
quella dei due cavalli di bronzo che nel Circo di Tarquinio Prisco
eccitavano i cavalli alla corsa, e la fabbrica del Colosseo[443]. Ma
l'opera principale di Virgilio in pro di Roma era la _Salvatio_, sia
che questa si facesse consistere in un edifizio in cui erano raccolti
i simulacri delle nazioni soggette, o in uno specchio custodito in una
torre. Di questa meraviglia, avendone io già parlato distesamente, non
faccio qui altre parole.

Una menzione particolare si meritano i telesmi costruiti da Virgilio
in servizio della verità e della giustizia. Il più celebre è quello
della così detta _Bocca della verità_, di cui ho già fatto ricordo.
Chi, giurando il falso, introduceva in quella bocca la mano, non
poteva più ritrarnela; ma una donna seppe con certa sua astuzia render
vana la prova[444]. Nei _Faictz merveilleux de Virgille_ la bocca
si trasforma in un serpente di rame che ha la stessa virtù. In una
_Histoire des Pisans_, scritta in francese nel secolo XV, e conservata
nella Biblioteca di Berna, si parla di due colonne, opera di Virgilio,
in cima alle quali apparivano le immagini di tutti coloro che avessero
rubato o fornicato[445]. Giovanni d'Outremeuse dice che Virgilio
fece a Roma un uomo di rame a cavallo, con una grande bilancia in
mano, utilissimo ai mercanti. In un piatto della bilancia si poneva
la mercanzia che si voleva vendere e nell'altro si poneva il prezzo.
Quando questo aveva raggiunto il giusto valor della merce, il piatto
che lo conteneva subito traboccava[446].

Ma la leggenda che si allarga in pari tempo si altera. L'immagine
di Virgilio, che nelle finzioni più antiche appare nella luce più
pura, in alcune delle nuove finzioni comincia ad offuscarsi. Un primo
sintomo di tale offuscamento si ha nelle immaginazioni in cui si vuole
spiegare la origine della scienza magica del poeta, e nelle quali si
appalesa il progressivo sfiacchirsi della tradizione letteraria. Nella
leggenda primitiva il bisogno di tale indagine non si sente ancora; la
magia di Virgilio, scevra di qualsiasi reità, è il portato naturale
del suo alto sapere. Per nessuna delle sue opere mirabili Virgilio
ricorre all'ajuto di potenze malvage; a lui basta la cognizione delle
proprietà delle cose, basta il suo sapere di astrologia, di matematica,
di medicina. Ma un tale concetto della magia di Virgilio era destinato
irremissibilmente a corrompersi in mezzo ad una società ignorante
o superstiziosa, propensa a scorgere in qualunque cosa paresse
trascendere i termini della natura, l'opera di potestà tenebrose ed
inique, e che la stessa scienza considerava come cosa diabolica.

Giustamente osserva il Comparetti che se «nella sua prima forma
napoletana, la leggenda di Virgilio non poteva parlare di arti
diaboliche, perchè ripugnava al sentimento popolare dei Napoletani il
credere che la loro città andasse debitrice ad arti siffatte di tutti
quei pretesi benefizi, e se Virgilio, figurando in essa come protettore
di Napoli, non poteva essere posto in una luce poco onorevole per lui e
per la città, tutto ciò non aveva ragione di essere quando la leggenda
uscendo di Napoli si diffuse in Europa[447]».

A poco a poco la taumaturgia onesta di Virgilio doveva mutarsi in
riprovevole necromanzia, e questa si doveva immaginare acquistata da
lui nel modo che nella comune credenza reputavasi consueto. Ed ecco
farsi in mezzo la idea volgare del libro in cui il poeta avrebbe
imparati tutti i secreti dell'arte sua. Già Gervasio di Tilbury parla,
come abbiam veduto, di un libro di _arte notoria_ trovato dentro la
tomba di Virgilio, ma non ne dice altro, e quel libro poteva essere
opera dello stesso Virgilio, come il ristretto delle Sette Arti
ricordato da Giovanni di Alta Selva. Questa era una notizia troppo
vaga, che non soddisfaceva abbastanza la curiosità, e non andò molto
che se ne parlò più esplicitamente. Nel poema anonimo tedesco di
_Reinfried von Braunschweig_[448] si narra una strana storia di un
gran negromante per nome Zabulon, il quale, dimorando sul Monte della
Calamita, aveva letta nelle stelle la venuta di Cristo milledugento
anni prima che accadesse, e per impedirla aveva scritto parecchi libri
di negromanzia e di astrologia, delle quali scienze egli era inventore.
Poco tempo prima che Cristo nascesse, Virgilio, uomo di singolare
virtù, saputo di questo mago e delle sue arti, navigò alla volta del
Monte della Calamita, e mercè l'ajuto di uno spirito potè impadronirsi
dei tesori e dei libri di lui. Venuto il termine prescritto la Vergine
partoriva Gesù. In questo racconto, il quale comparisce anche in un
altro poema tedesco, il _Singerkriec uf Wartburc_, i fini che muovono
Virgilio, il quale serba in parte il carattere suo leggendario di
profeta di Cristo, sono in tutto lodevoli; ma in altri non è già più
così. Heinrich von Müglin narra in una sua poesia[449] come Virgilio,
con molti nobili signori, partì da Venezia sopra una nave tratta da
due grifoni. Giunta la nave al Monte della Calamita, Virgilio trova
chiuso in una fiala un demonio, il quale, a condizione d'essere posto
in libertà, gl'insegna come possa impadronirsi di un libro di magia
che si trova in una tomba. Avuto il libro ed apertolo, Virgilio vede
comparirsi davanti ottantamila diavoli, e comanda loro di costruirgli
subito una buona strada, dopo di che se ne torna tranquillamente
coi suoi compagni a Venezia. Sul punto di partire Virgilio invoca la
Vergine, e durante il viaggio egli e i compagni si raccomandano a Dio;
qui, se non abbiam più il profeta, abbiamo ancora l'uomo devoto, ma
l'alterazione doveva proceder più oltre. Enenkel dice che il poeta, il
quale altro non era che un figlio dell'inferno, imparò le arti della
magia liberando dodici diavoli chiusi in un fiasco.

Nel _Virgilius_ inglese, il quale è una versione piuttosto libera dei
_Faictz merveilleux de Virgille_, Virgilio ottiene il libro magico da
uno spirito ch'ei libera trovandosi a studiare nella città di Toledo,
ove ponevansi nel medio evo le scuole classiche di magia. Avuto il
libro, Virgilio riesce a far rientrare lo spirito nell'angusto suo
carcere con quell'astuzia medesima che si vede usata da un pescatore
in un racconto delle _Mille e una Notte_, intitolato _Il pescatore
ed il Genio_[450]. Anche in Italia, sebbene la tradizione classica vi
durasse alquanto più pura, nacquero intorno alla origine della magia di
Virgilio immaginazioni simili alle precedenti. Bonamente Aliprando fa
studiare il poeta in Milano, in Cremona, in Grecia,

    Dove de ogni scienza se imparava,

e d'onde

    A Mantova ritornò scienzato;

ma poi narra come si facesse portare da Roma a Napoli il suo libro di
negromanzia dal discepolo Milino, il quale, avendolo aperto viaggio
facendo, contro il divieto del suo maestro, vide comparire gran
moltitudine di spiriti, a cui ordinò di selciare la strada che appunto
conduce da Roma a Napoli. Bartolomeo Caracciolo dice (c. XXXII) che
Virgilio imparò quanto seppe nel libro di un gran filosofo Chironte,
da lui trovato dentro una grotta del Monte Barbaro, dove il detto
Chironte era sepolto. Nel suo racconto l'avventura non presenta nulla
di diabolico: in Napoli l'antica riputazione di Virgilio durava ancora
e non permetteva che il pervertimento della leggenda procedesse troppo
oltre.

Ma una ben curiosa finzione che viene a legarsi alle precedenti è
quella che mostra San Paolo desideroso di acquistare il libro magico
che Virgilio aveva voluto sepolto con sè. Geloso del proprio sapere,
Virgilio aveva provveduto a che esso non potesse trasmettersi ad altri.
Questo sentimento di gelosia è dalla leggenda attribuito anche ad altri
illustri dell'antichità; per esso Ippocrate uccise il proprio nipote,
per esso volle Aristotile, come abbiamo già veduto, che con lui fossero
sepolti i suoi libri. Secondo l'autore della _Image du monde_ San
Paolo,

    Qui moult sot dos ars de clergie,
    Ainz qu'il créust le filz Marie,

tanto cercò che trovò un sotterraneo, illuminato da una lampada e da
due ceri accesi, nel quale nessuno osava addentrarsi, tanto la via
che vi conduceva era tenebrosa ed angusta, piena di vento e di tuono.
San Paolo si spinse innanzi tanto che potò vedere Virgilio, seduto
in cattedra, un cero a destra, un cero a sinistra, ammonticchiati
tutto intorno i suoi libri, molto belli e pomposi. Il poeta ne teneva
stretto uno nella mano destra, come per singolare amore, e davanti a
lui era un arciere con l'arco teso, puntata la freccia alla lampada. In
sulla entrata del luogo erano due uomini di rame, di orrido aspetto,
i quali, con due gran magli di acciajo martellando senza posa contro
terra, impedivano che altri passasse. San Paolo riuscì a chetare i
due martellatori, ma allora l'arciere, scoccata la freccia, mandò la
lampada in pezzi, e incontanente tutto si ridusse in cenere. Questo
racconto è tutto formato di elementi tratti di qua e di là da altre
leggende: l'arciere che spegne la lampada l'abbiam già trovato in
una storia dei _Gesta Romanorum_, le statue martellatrici che stanno
a custodia di ponti o di castelli sono frequentissime nei romanzi
cavallereschi.

Non è a meravigliare se, data alla magia di Virgilio una origine
diabolica, si vede il poeta cominciare a usar di quest'arte in modo
men retto e men lodevole. Nella leggenda primitiva Virgilio non adopera
l'arte sua altrimenti che per giovare altrui. Non solo egli non se ne
serve in vantaggio proprio, ma si astiene da ogni ciurmeria magica,
da ogni dimostrazione frivola o inutile di potere. Nella leggenda
degenerata lo si vede qualche volta fare atti o burle da giocoliere.
Bonamente Aliprando racconta come il poeta, trovandosi con un suo
compagno ospitato in una povera casa, non avendo di che cenare, fece
che uno spirito gli recasse le vivande dalla mensa di Augusto, il
quale ebbe a meravigliare vedendosele sparire dinnanzi[451]. Giovanni
d'Outremeuse dice che Virgilio usava di fare a' suoi banchetti
molti varii e mirabili giuochi. Ma la leggenda che più manifesta
l'alterazione del concetto in cui da prima il medio evo tenne Virgilio,
è quella divulgatissima che narra dell'inganno fattogli da una donna e
della vendetta ch'egli ne prese. In essa non solo la magia, ma ancora
i costumi di Virgilio sono mostrati sotto una luce assai sfavorevole,
giacchè il timido poeta, quegli che per la sua ritrosia meritò di
chiamarsi _parthenias_, v'è rappresentato come un seduttore, il quale
ha il castigo che si merita. Si vuol osservare tuttavia che le ragioni
di questa favola non sono da cercare solamente nell'alterazione cui era
andata soggetta la figura leggendaria di Virgilio, ma ancora in quel
sentimento di ostilità contro la donna che è così diffuso nel medio
evo, e in quella, direi, quasi idea fissa degli scrittori ascetici e
non ascetici di considerare le donne, la cui prima progenitrice aveva
distrutta la felicità sulla terra, come esseri pieni di ogni malignità
e di ogni frode, insidiatrici irresistibili degli uomini, causa di mali
infiniti in questo mondo e della eterna dannazione nell'altro. Ora,
la prova migliore e più persuasiva che si potesse dare della potenza
delle loro seduzioni e della sottigliezza delle arti loro si era di
mostrar colti ai lor lacci uomini insigni per virtù o per sapere,
un medico come Ippocrate, un filosofo come Aristotile, un mago come
Virgilio[452].

Narra dunque la favola che Virgilio, innamoratosi della figliuola
dell'imperatore[453], la sollecitò perchè volesse accondiscendere
alle poco oneste sue brame. Colei fece mostra di consentire, e disse
al poeta di trovarsi la notte, alla tale ora, appiè di certa torre,
dove ella lo avrebbe fatto entrare per una finestra, tirandolo su
in un canestro. Non mancò alla posta Virgilio, ed entrato che fu
nel canestro, la fanciulla si mise a tirarlo in su; ma tiratolo un
tratto, legò la fune, e se n'andò pe' fatti suoi, lasciando il povero
innamorato sospeso in aria. La mattina seguente tutta Roma corse a
vedere così nuovo spettacolo, con iscorno massimo del buon savio,
il quale ricondotto a terra, pensò a trarre di così grave ingiuria
adeguata vendetta. E subito, ricorrendo alle arti sue, fece sì che in
Roma furono spenti tutti i fuochi, e annunziò al popolo che nessuna più
potrebbe aver fuoco nella città se non andasse a prenderne sulla stessa
persona e nelle parti più secrete della figliuola dell'imperatore. E
così come a lui piacque bisognò si facesse. La malcapitata fanciulla fu
posta in piazza e a spese del suo pudore rifornì di fuoco la città.

Non mi soffermo ad esaminare più da vicino questa notissima favola,
la quale ebbe nel medio evo grandissima voga, ricorre frequentissima
in tutte le letterature di quella età, e trovasi rappresentata assai
spesso dalle stesse arti figurative, e persin nelle chiese. Avvertirò
solamente, cosa che fu già notata dal Comparetti, essere essa
manifestamente composta di due parti diverse, di diversa origine, e che
in alcuni racconti compajono anche disgiunte. L'avventura del canestro,
prima forse che a Virgilio, si trova attribuita ad Ippocrate, e la
vendetta consistente nello spegnimento dei fuochi si trova, parecchi
secoli prima che se ne facesse autore Virgilio, narrata di un mago
Eliodoro vissuto nel secolo VIII in Sicilia. Le varianti sono, com'è
naturale assai numerose[454]. Un fatto strano, ma che dimostra appunto
come la leggenda sia composta di parti eterogenee, si è che Virgilio
nella prima di esse, lì dove patisce la burla, non si palesa per nessun
segno quel potentissimo mago che poi si mostra nella seconda[455].
Non è questa del resto la sola avventura d'amore che si attribuisca
al poeta; nei _Faictz merveilleux de Virgille_ si racconta come,
abbandonata la propria moglie, egli ebbe l'amicizia della figlia del
sultano di Babilonia[456].

Nullameno Virgilio comparisce ancora in parecchie finzioni quale un
patrocinatore della morale e del buon costume, e, più particolarmente,
quale un nemico degli adulteri. Nei _Faictz merveilleux_ si racconta
ch'egli fabbricò una statua, e la sospese alta nell'aria, di modo che
quei di Roma non potevano aprire uscio o finestra senza vederla, e
aveva tale virtù che toglieva alle donne ogni disonesta voglia, del che
quelle furono assai malcontente, e si adoperarono con la moglie stessa
di Virgilio perchè distruggesse l'incanto. Nei _Gesta Romanorum_[457]
si racconta certa storia di un soldato, che la moglie e un suo amante
chierico cercano di far morire per arte magica, ed è salvato da un
negromante. In una redazione tedesca dei _Gesta_ questo negromante è
Virgilio[458]. In un racconto di Hans Sachs Virgilio si trova alla
corte del re Artù. Il re, sospettando della fedeltà della moglie,
chiede al poeta di volerlo chiarir del suo dubbio. Virgilio fabbrica
per arte magica un ponte di tal virtù che gli adulteri passandovi
sopra cascano inevitabilmente nell'acqua. In una festa bandita da
Artù, cascano in acqua, al passare del ponte, molte dame e molti
cavalieri, ma lo passano senza impedimento la regina e un cavaliere
di cui Artù sospettava. La costoro innocenza è così dimostrata. Il
solenne anacronismo di questa favola non deve parere troppo strano: in
altri racconti si fa vivere Virgilio sotto il re Servio Tullio, o sotto
l'imperatore Tito.

La leggenda primitiva e popolare di Virgilio non abbraccia che alcuni
anni della vita del poeta e propriamente quelli spesi a dotare di opere
mirabili di pubblica utilità la sua diletta città di Napoli. Per il
rimanente la leggenda non osava ancora sostituirsi alla tradizione
letteraria. Le finzioni che la costituivano avevano certo già molto
del fantastico, ma queste finzioni medesime, ricevute per vere dagli
scrittori, erano, in certo qual modo, contenute dentro un contorno
e una cornice di verità storica, e il mago in esse non occultava il
poeta. Ma allargandosi sempre più la leggenda, come in ogni luogo e
sempre è tendenza costante delle leggende, le finzioni vennero a poco a
poco occupando, se così mi si lasci dire, tutto intero il quadro della
vita del poeta, la stessa cornice si nascose sotto la esuberanza loro,
e il poeta sparì interamente dinnanzi al mago. Vengon fuori allora
alcune nuove biografie, interamente fantastiche, le quali abbracciano
tutta la vita di Virgilio, dalla nascita alla morte, ma di vero non
ricordan più nulla o quasi nulla. Tali sono la biografia che Giovanni
d'Outremeuse introduce nel primo volume del suo _Myreur des histors_, e
quella contenuta nel libretto famoso intitolato _Faictz merveilleux de
Virgille_.

Per dare un'idea dello spirito che governa il racconto di Giovanni
d'Outremeuse, il quale asserisce che la vita di Virgilio fu scritta
da Cicerone e da Ovidio, basterà dire che in esso l'autor dell'Eneide
è figliuolo di Geda, sorella di Pompeo, e di Gorgilo, re di Bugia
in Libia e fratello del re Gregorio che fu console di Roma[459].
I _Faictz merveilleux de Virgille_ godettero di molta celebrità, e
furono tradotti e pubblicati in inglese, in olandese, in tedesco; una
versione islandese è rimasta inedita. In questo libro Virgilio, al cui
nascimento tutta Roma tremò, è figlio di un cavaliere di Remo, figlio
di Remo e nipote di Romolo[460], e della figliuola di un senatore di
nobilissimo lignaggio. Della fama poetica e delle opere di lui non vi
si trova neppure un cenno. Riesce utile a tale proposito il confronto
fra queste biografie assolutamente romanzesche e quella contenuta nel
rozzo poema di Bonamente Aliprando. In essa Virgilio è bensì il mago
della leggenda, ma è ancora

    Filosofo e poeta di grandezza,

autor della _Bucolica_, della _Georgica_, della _Eneide_.

Giovanni d'Outremeuse, l'anonimo che compose i _Faictz merveilleux_
e il traduttore inglese di questi raccontano in modo assai diverso la
morte di Virgilio. Quegli, raccogliendo favole già note, accozzando,
amplificando, narra assai per disteso una storia che io raccolgo qui
in brevi parole[461]. Virgilio aveva con molto artificio costruita
una testa di rame, la quale rispondeva a tutte le suo domande[462].
Consultatala una volta intorno la propria salute, quella lo avvertì
di ben guardare la _sua testa_. Virgilio, frantendendo la risposta,
credette si trattasse di ben custodire la testa magica, si espose nel
mese di luglio all'ardore del sole, e fu colto da una congestione
cerebrale, che in capo di due anni lo condusse al sepolcro[463].
Sapendo prossima la sua fine Virgilio volge l'anima a Dio, mette in
iscritto tutta la fede cattolica, e prepara ogni cosa per la sua morte.
Costruisce un gran vaso di terra e di cenere, e vi pone dentro terra
preparata, e molte erbe di così fresca natura, che, senz'acqua, durano
sempre verdi; poi fa una cattedra di cipresso, tutt'adorna di gemme,
sulla quale è rappresentata la storia della Vergine dalla salutazione
angelica sino all'assunzione. Quando non gli rimane più che un giorno
da vivere, Virgilio appresta un gran banchetto, invita molti baroni,
rallegra la festa con molti giuochi, e annunzia ai commensali la
propria morte, e la imminente venuta del Redentore, esortandoli tutti
a farsi battezzare come appena sia giunto il tempo[464]. Egli stesso
si battezza, dopo di che gli ospiti prendono da lui comiato. Ma qui
val meglio lasciar la parola all'autore, giacchè le cose ch'egli narra
sono alquanto difficili a dire «Virgile..... prent son terrien aux
herbes et le mist desus la chaire qui fut traweit en fons, puis prist
une buse d'erain qui al unc de chief oit unc coviercle qui tant couroit
le terrien et les berbes, et l'autre chief de la buse si ranpoit desus
parmi le trau de la chaire. Et Virgile s'assit sur le trau; se li
entrat la buse en trau de son fondement, si qu' ilh entrat bien dedens
son ventre plus de II palmes. Apres ilh avoit pareit son lachenieres de
tous libres de toutes scienches, et par devant li at poiseit I libre
de theologie. Si astoit noblement vestus d'onne bleu robe. Si avoit à
son seniestre bras une grant fenestre tout ovierte, par où les gens
le regardoient cascon jour, et disoient que ilh n'astoit mie mors,
ains estudioit com devant, car ilh avoit son capiron sour ses eux».
Cinquantanove anni dopo, San Paolo viene a Napoli, chiede di Virgilio,
va a trovarlo, ma, appena l'ha tocco, il corpo del poeta si scioglie in
cenere.

Nei _Faictz merveilleux_ si narra che Virgilio, operati i suoi molti
miracoli, un giorno, con alcuni compagni, andò in barca a diporto, ma
soprappreso da una spaventosa burrasca fu tratto in alto mare, così
che di lui non s'ebbe mai più novella. «Et tous les clerz et escolliers
de la cité de Naples et Romme et toutes nations et contrées en furent
moult troublez et dolens». Nel _Virgilius_ inglese la fine del poeta si
racconta in tutt'altro modo[465]. Dopo aver promesso all'imperatore di
Roma di fare molt'altre cose meravigliose[466], Virgilio si pensò di
ringiovanire. A tale scopo si fece tagliare in pezzi da un suo fidato
servitore, salare, e mettere dentro una botte, d'onde in capo di nove
giorni sarebbe risorto giovane. Passati sette giorni, l'imperatore
non vedendo Virgilio, che aveva carissimo, entra in sospetto, va al
castello del poeta, e trovato il corpo nella botte, uccide il servitore
da lui creduto omicida del suo signore. In quel punto medesimo un
bambino ignudo balza fuor della botte, e fatti tre giri allo intorno,
gridando: Sia maledetta l'ora che ci venisti, sparisce. Lo stesso
racconto si ha nella olandese _Historie van Virgilius_[467].

Così moriva Virgilio mago, a cui i fati non consentivano una seconda
giovinezza; ma Virgilio poeta tornava alla vita, e la sua seconda, e,
giova credere, immortale giovinezza cominciava col Rinascimento[468].



CAPITOLO XVII.

Cicerone, Catone, Orazio, Ovidio, Seneca, Lucano, Stazio.


Se noi ci facciamo ora a considerare alcuni altri fra i principali
scrittori latini, troveremo essersi ripetuti per essi nel medio evo
quei fatti medesimi che abbiamo già veduto prodursi per Virgilio;
e cioè, raccostamento più o meno risoluto dello scrittore pagano al
cristianesimo, con alcuni esempii di vera conversione, esagerazione del
sapere, e qualche volta esagerazione sino al segno in cui il sapere
diventa magia. Se non che le finzioni nate loro d'attorno, o per non
aver essi avuto il necessario grado di celebrità, o per altra ragion
che si sia, non acquistano la pienezza di concetto di cui altrimenti
sarebbero state capaci, rimangono slegate, e non riescono a formare una
vera e propria leggenda, come nel caso di Virgilio.

Il primo a farcisi innanzi è Cicerone, il quale godette di grandissima
fama nel medio evo, come maestro insuperabile di una delle sette arti,
la retorica. Già sino dai primi tempi della Chiesa il principe degli
oratori latini, le opere del quale erano diligentemente studiato dagli
apologeti desiderosi di rafforzare le ragioni della verità col sussidio
dell'eloquenza, fu considerato come uno degli scrittori pagani le
cui dottrine meno ripugnavano al cristianesimo; e non solo vi furono
scrittori cristiani che in trattare argomenti della fede adottarono la
forma di questa o quell'opera sua, ma ve ne furono ancora che delle
sue stesse dottrine si giovarono. Cicerone affermò ripetutamente e
con ardore la immortalità dell'anima, e Arnobio ricorda che molti
gentili lo presero in odio, perchè giudicavano i suoi scritti essere
favorevoli al cristianesimo, tanto che alcuni più zelanti chiesero
al Senato di farli per questa ragione proibire[469]. Sant'Agostino
confessa schiettamente di dovere all'_Ortensio_ la sua conversione a
Dio e alla vita spirituale[470]. Sant'Ambrogio compose il suo trattato
_De officiis ministrorum_ a imitazione del _De officiis_ di Cicerone,
accettandone la dottrina e solo piegandola al concetto cristiano ed
ecclesiastico[471]. Stando così le cose, a molti certo dovette parere
eccessivo il giudizio di riprovazione contenuto in quel sogno famoso,
o visione che si voglia dire, di S. Gerolamo, a cui il giudice supremo
rimproverò d'essere non un cristiano, ma un ciceroniano[472]. Nel
medio evo, dovunque sono scuole di retorica, Cicerone è in grande
onore. Beda fece una copiosa raccolta delle sentenze di lui, e sul
_De inventione_ compose Alcuino il suo trattato di retorica per la
scuola palatina di Carlo Magno. Lupo di Ferrières paragonava fra loro
con mente di critico varii codici delle epistole ciceroniane[473],
e Pascasio Radberto confermava il giudizio dei secoli chiamando
Cicerone il re dell'eloquenza[474]. A questa eloquenza si prestava
quasi un carattere sacro. _O quam Tullii venerabilis facundia summis
desideriis est collocanda_, si trova detto nel trattato _De disciplina
scholarium_, falsamente attribuito a Boezio[475]. Parlando della Città
di Retorica nel già citato scritto _De animae exilio et patria_, Onorio
Augustodunense dice: In hac urbe Tullius itinerantes ornate loqui
instruit, quatuor virtutibus scilicet prudentia, fortitudine, justitia,
temperantia mores componit[476].

Cresceva intanto l'opinione che il sommo oratore avesse potuto
partecipare al gran benefizio della Redenzione, egli che delle verità
del cristianesimo aveva già avuto, prima che Cristo nascesse, qualche
presentimento. Si pretendeva che egli avesse tradotto la famosa
profezia della sibilla Eritrea, nella quale si annunzia la venuta del
Redentore[477], e Lupo di Ferrières ricorda in una sua epistola[478]
un tal Probo, che voleva ammessi tra i beati Cicerone, Virgilio,
_ceterosque opinione eius probatissimos viros_. Qual gloria per la
Chiesa poter strappare all'inferno un tant'uomo! e che dolore per
coloro che si beavano nella lettura dei suoi libri immortali il pensare
ch'egli era dannato per l'eternità! Il Petrarca si affliggeva di ciò
ch'egli non fosse stato cristiano e il primo padre della Chiesa[479],
ma in una sua prefazione alle _Tusculane_ Erasmo sostiene ch'egli si
salvò[480].

Durante tutto il medio evo Cicerone passa per il maestro massimo
dell'eloquenza, alcuna volta anzi a dirittura per l'inventore di essa;
e sotto questo aspetto si può dire che la sua riputazione fu maggiore
allora che non nell'antichità. In piena barbarie letteraria, nel secolo
IX, Almanno dice che a degnamente celebrare con la parola i fatti e la
virtù di Sant'Elena ci sarebbe voluta più eloquenza che non ne avesse
Cicerone; e parecchi secoli dopo, Alessandro Neckam, volendo fare un
grande elogio di Sant'Agostino, lo pareggia per eloquenza a Cicerone,
ma lo fa maggiore di animo[481]. Nel _Tesoretto_ il Latini si contenta
di ricordare quella grande eloquenza

    Del buon Tullio Romano
      Che fue 'n dir sovrano;

ma Fra Guidotto, o chi altri si sia il vero autore, afferma in
principio del _Fiore di Rettorica_, che Cicerone _fu maestro e
trovatore della grande scienzia di Rettorica, e che fu d'arme
maraviglioso cavaliere, franco del coraggio, armato di grande senno,
fornito di scienzia e di grande discrezione, ritrovatore di tutte
cose_. Eccoci già all'onniscienza di Virgilio; un passo ancora, e di
dietro all'oratore sarebbe cominciato a spuntare il taumaturgo.

Non è pertanto a meravigliare se di regola, nel medio evo, e poi anche
dopo, a Rinascimento compiuto, Cicerone vien posto innanzi a Demostene.
Il Petrarca, detto nel _Trionfo della Fama_[482], come all'apparir di
Cicerone fiorisse l'erba, soggiunge:

      Dopo venia Demostene, che fuori
    È di speranza omai del primo loco.
    Non ben contento de' secondi onori.

E questo era pensiero comune, espresso da molti, e tra gli altri anche
da Alfonso de la Torre, scrittore spagnuolo che fiorì nella prima
metà del XV secolo. Descrivendo egli in una sua curiosa composizione,
intitolata _Vision delectable,_ il palazzo della donzella Retorica,
dice che in certa sala erano i ritratti dei retori più famosi, da una
parte i greci, tra cui Gorgia, Ermagora e Demostene, _primeros abuelos
é habitadores de aquella tierra_, e da un'altra i latini, fra' quali
Cicerone, a cui la donzella da quelli e da questi discesa, somigliava
più che a nessun altro; _al qual paresçia la doncella más que a
ninguno_. Ma anche tra i filosofi teneva Cicerone onoratissimo seggio,
e non mancò chi volle farlo primo tra questi, com'era già primo tra i
retori[483]. Così fa Alars de Cambrai nel già citato _Romans de tous
les philosophes_, dove a Salomone non concede che il secondo posto:

    Tulles qui moult fu sages clers,
    De totes clergies plus fers
    Que tout autre maistre de pris,
    Est premiers esleus et pris.
    Apres est nomes Salemons
    Qui tant sot, ce juge li mons,
    C'om ne trouast nul plus sage home
    Ent trestout l'empire de Rome.

Vero è che facendo due diverse persone di Tullio e di Cicerone, mentre
a quello dà il primo posto, a questo dà solamente il settimo:

    Li sepmes et nom Cicerons,
    Cil n'estoit mie trop enbrons,
    A meruelles estoit haities,
    Prex et cortois et afaities.

Come potesse nascere un error di tal fatta trattandosi di un nome di
tanta celebrità non è facile a spiegare, ma Alars non era il primo a
commetterlo. Abbiam veduto come già v'incappasse Ermoldo Nigello[484],
il quale forse nemmeno fu il primo, e dopo Alars v'incappò anche il
Gower[485]. D'onde tragga origine la favola della grande inimicizia
di Cicerone e di Sallustio narrata nel _Fiore di filosofi_ (testo del
Palermo) e anche altrove, non so immaginare[486].

Che anche intorno a Cicerone si sarebbe potuto formare, qualora
non fossero mancate le condizioni favorevoli al suo nascimento,
una leggenda meravigliosa simile a quella di Virgilio, è provato da
quanto Giovanni Boccaccio racconta di certa fonte che scaturiva in
prossimità di Pozzuoli, e conservava ancora al suo tempo il nome di
fonte di Cicerone, le cui acque si stimavano efficaci contro il mal
d'occhi[487]. Se il grand'oratore avesse avuto il sepolcro in alcuna
città illustre, e se questo sepolcro fosse stato conosciuto e celebrato
come la fama di tant'uomo chiedeva, gli è assai probabile che ancor
egli avrebbe cominciato ad assumere nella fantasia popolare qualità di
protettore e di taumaturgo, comechè poi, per far difetto certe altre
condizioni, potesse la leggenda rimanersi chiusa entro limiti assai
meno larghi che non sien quelli della leggenda di Virgilio[488].

Il medio evo, non solo narra degli scrittori latini molte favole, ma
attribuisce anche la qualità di scrittore a chi non l'ebbe, come mostra
l'esempio di Catone l'Uticense. Catone godette in quella età della
più alta riputazione di virtù e di saviezza. Angilberto detto Omero,
volendo fare un grand'elogio di Carlo Magno, dice:

    Inclyta nam superat preclari dicta Catonis;

e infinite altre volte si vede Catone preso a termine di confronto
parlandosi di uomini saggi e virtuosi[489]. In alcune redazioni del
romanzo dei _Sette Savii_ egli è uno di questi, e Guiraut de Borneil,
in quella sua pazza poesia che comincia _Un sonet fatz malvatz e bo_,
dice di sè stesso:

      Detorn mi vai e deviro
    Foudatz, e sai mais de Cato;

nei quali due versi, come anche negli altri di quella poesia, è da
notare che il poeta si studia di venir affrontando fra di loro le
cose più disparate e i concetti più antitetici che gli cadessero
in fantasia, e che non si poteva immaginare un contrasto maggiore
di quello che nasceva dal raffronto della pazzia con la proverbiale
sapienza catoniana.

Catone si trova citato in iscritture d'ogni maniera, non solo insieme
con gli altri autori pagani, ma ancora insieme coi libri sacri, coi
profeti, con gli scrittori ecclesiastici, e sempre come autorità di
prim'ordine[490]. Si esagera al solito il suo sapere, e si fa di lui
l'uomo più dotto de' tempi suoi[491], e alla sua gran dottrina e alla
sua gran virtù[492] si danno più lodi assai che non al suo valore
guerriero[493]. La sua riputazione si fondava in parte su quanto di lui
narravano le istorie, ma molto più si fondava su quei famosi distici
morali, creduti universalmente opera sua.

Chi sia il vero autore di questi distici non è noto. Le varie
attribuzioni che se ne fecero a Catone il Censore, a Cicerone, a
Seneca, ad Ausonio, a un Dionisio Catone forse non mai esistito, sono
tutte arbitrarie. Certo si è che dell'Uticense non sono, e che non
fossero, già da qualcheduno si dubitava sino dal XII secolo[494].
Composti probabilmente nel IV[495], essi furono intitolati col nome di
Catone, non perchè questo nome dovesse essere creduto da altri quel
dell'autore, ma perchè esso parve titolo confacente all'argomento
morale del libro, senza che si possa dire quale dei due Catoni più
noti avesse in mente chi così lo intitolava. Scambiare il titolo pel
nome dell'autore era errore assai facile nel medio evo, e poichè dei
due Catoni, l'Uticense, ricordato nella Farsaglia, nelle istorie
romanzesche di Giulio Cesare, nelle cronache, si conosceva assai
più che non il Censore, era naturale che non a questo, ma a quello
si attribuisse l'opera[496]. E a togliere di mezzo ogni dubbio, in
parecchie delle traduzioni che se ne hanno in varie lingue volgari, si
dà un cenno della vita del supposto autore, si dice come fosse rivale
di Cesare, e come per non patire la costui tirannia si togliesse la
vita[497].

Pochi libri ebbero nel medio evo, e anche dopo, la diffusione e la
celebrità dei _Distici_. Lo provano anzi tutto gl'innumerevoli codici,
alcuni dei quali dell'VIII, IX e X secolo, poi le infinite versioni
che se ne fecero in tutte le lingue d'Europa. Si voltarono in versi
latini rimati[498], si parafrasarono in greco[499]; Filippo da Bergamo
vi fece sopra una moralizzazione intitolata _Speculum regiminis_,
Erasmo li commentò. Già nell'XI secolo Notker ne faceva una traduzione
tedesca. Da Isidoro di Siviglia[500] ad Alcuino[501], da Alcuino ad
Abelardo[502], innumerevoli scrittori ne parlano, li citano, li lodano.
Poi vengono le imitazioni, il _Cato novus_, il _Cato interpolatus_,
l'_Ethica Ludulphi_, il _Facetus_, il _Novus Catho moralisatus_[503],
i _Chastimens_ francesi, il _Winsbeke_ tedesco, ed altre simili
scritture. I _Distici_, che il giullare doveva conoscere al paro dei
poemi cavallereschi e delle belle canzoni d'amore[504], facevano testo
in materia di morale, e godevano di molto favore nelle scuole[505],
d'onde solamente nel passato secolo cominciarono ad essere banditi.
Strano davvero che tal sorte dovesse toccare fra genti cristiane, e in
tempi di massimo fervore religioso, al supposto libro di un pagano, il
quale, per giunta, si era tolta di propria mano la vita[506].

Nel _Livre du Chevalier de la Tour Landry_[507], si narra in relazione
coi Distici una curiosa storia, la quale tuttavia non mette conto di
qui riferire minutamente. Catone «qui fut si saige qu'il gouverna toute
la cité de Romme, et fist moult d'auctoritez, qui encore sont grans
memoires de lui», è presso a morte. Egli aveva, già da tempo, composto
pel figliuolo Cathonet il suo libro famoso di ammaestramenti morali,
ma in quel punto volle dargli tre altri consigli molto importanti.
Cathonet, benchè sapientissimo, e in tutto degno del padre, non osservò
i primi due, e volendo provare il terzo, fa nascere parecchie avventure
nelle quali è involto. Il tutto dimostra sempre più la saviezza di
Catone[508].

Gli è curioso che nei romanzi dove si celebra sommamente Giulio
Cesare anche di Catone si facciano moltissime lodi. A ciò forzava la
Farsaglia, conosciutissima e tenuta in gran conto. Giovanni di Tuim
in un luogo della sua Istoria dice che Pompeo, Marcello e Catone si
opposero a Cesare per grande invidia che gli portavano[509], ma altrove
usa tutt'altro linguaggio: «Catons, ki mout estoit de grant cuer et ki
mout amoit a garder honour ne desous autrui ne deignoit iestre et haoit
si Cesar pour le francisse des Rommains k'il voloit abatre et abatoit
a son pooir»[510]. E narrata la morte di quel grande amico di libertà,
riporta i lamenti che ne fecero i suoi seguaci e le lodi con che lo
celebrarono[511].

Tuttavia, sebbene della fine di Catone si narrasse generalmente
il vero, pure anche intorno ad essa corse qualche favola, di cui è
difficile indicare la origine. Così nel _Novellino_[512] si riporta
un lamento contro la Fortuna, il quale Catone fece stando in carcere,
e ciò che lo stesso Catone disse parlando in nome di essa Fortuna.
Nel _Fiore di filosofi_ poi, riportate alcune massime di Catone, si
dà questa veramente strana notizia: «Cato, pensando che l'anime sono
perpetue, per rincrescimento di due quartane sè medesimo uccise per
trovare migliore vita». D'onde l'autore del _Fiore_ abbia tratto questa
peregrina notizia non so, ma essa si legge anche in un trattato latino
_De vita et moribus philosophorum_[513]: «Catho Marchus Portius stoicus
philosophus et poeta latinus claruit Rome Virgilii tempore..... Hic
animas esse perpetuas existimans tandem tedio duplicis quartane seipsum
occidit ut meliorem vitam inveniret». Ranulfo Higden attribuisce il
fatto al famoso retore Marco Porcio Latrone, maestro di Ovidio, e amico
di Seneca[514].

Nei Distici morali Catone appar già quasi cristiano; ma per questo
rispetto la trasformazione piena non avviene, come tutti sanno, se non
nella Commedia di Dante, dove il filosofo pagano, _violento contro a
se stesso_, è preposto alla guardia delle anime purganti, e serbato,
dopo l'universale giudizio, alla gloria eterna del paradiso. Ogni
qual volta parla di Catone Dante usa parole di massimo rispetto. Nel
_De Monarchia_[515] loda il suo amore ardentissimo di libertà, che
lo indusse a sottrarsi con la morte alla servitù; nel _Convito_ lo
pone fra coloro che ebbero _alcuna luce della divina bontà, aggiunta
sopra la loro buona natura_[516], e prorompe in queste parole: _E
quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio che Catone?
Certo nullo_[517]. Queste ultime parole sono molto importanti,
giacchè in esse non si fa nessuna eccezione nemmeno per i Padri della
Chiesa e per i Santi. L'ammirazione di Dante era sorretta da quella
di tutta l'antichità. Cicerone, Sallustio, Orazio, Seneca, Lucano,
Floro, Valerio Massimo, Manilio, tributano a Catone le più gran lodi;
Lattanzio lo considera come il capo della sapienza romana. Descrivendo
nel l. VIII dell'Eneide lo scudo preparato da Vulcano per Enea,
Virgilio dice che tra le molte figure che lo fregiavano vi si vedevano
pure le anime dei giusti governate da Catone:

    Secretosque pios; his dantem jura Catonem[518].

Le lodi degli antichi e l'esempio di Virgilio debbono certamente
aver contribuito a far sì che Dante eleggesse Catone a così grave e
nobile officio[519]; ma è da altra banda indubitato, che questi aveva
per lui un valore essenzialmente simbolico, a cui l'antichità non
poteva pensare. Catone che, per amore di libertà, rinunzia alla vita,
simboleggiava assai bene l'anima, che per riacquistare la perduta
innocenza, la quale è vera libertà di contro alla servitù del peccato,
rinunzia al mondo, o penando si purga; e però non gli si disdiceva
l'esser fatto custode del Purgatorio, dove appunto, con rientrare nella
divina grazia, le anime riacquistano la libertà perduta[520]. Dante
non dice in nessun luogo che Catone avesse presentito la verità del
cristianesimo, e fosse stato cristiano in anticipazione come Rifeo,
nè che fosse tornato in vita come Trajano per ricevere il battesimo.
Virgilio quando prega l'austero custode di gradire la venuta del poeta
peregrinante, non gli dice se non:

    Libertà va cercando, ch'è sì cara,
      Come sa chi per lei vita rifiuta.
    Tu il sai; che non ti fu per lei amara
      In Utica la morte, ove lasciasti
      La veste che al gran dì sarà sì chiara[521].

Una cosa pare non avvertisse Dante, ed è che, combattendo per la
libertà, Catone faceva contro a quell'impero che la Provvidenza aveva
contemplato e voluto.

Non meno di Catone fu celebre nel medio evo Seneca. Le sue _Naturales
Quaestiones_, erano assai conosciute, e se ne giovavano quanti
scrivevano di cose naturali; più conosciute ancora erano le opere
sue di morale, e, in fatti, egli figura allora essenzialmente come
moralista. Dante non lo chiama altrimenti che Seneca morale, e _morall
Senec_ lo chiama Giovanni Lydgate[522]. Alano de Insulis dice di lui
nell'Anticlaudiano:

    More suo Seneca mores ratione monetat
    Optimus excultor morum, mentisque colonus[523].

Seneca è citato più spesso ancora di Cicerone e di Catone, e in certe
scritture ricorre a ogni passo. Veggansi, per un esempio, il _Giardino
di Consolazione_ di Bono Giamboni, il _Liber consolationis et consilii_
di Albertano da Brescia, la _Summa de arte praedicatoria_ di Alano de
Insulis. Ma già sino dall'anno 567 negli Atti del secondo Concilio di
Tours si citava come di Seneca una sentenza che negli scritti suoi non
si trova e che solo si rinviene in quel _Liber de moribus_ falsamente
a lui attribuito, e tanto caro all'età di mezzo, nel quale con molte
massime tolte allo scrittore latino, molte ancora ne sono che non gli
appartengono. Nel secolo XIV Landolfo, arcivescovo di Amalfi, cita,
insieme coi Santi Padri e con gli scrittori ecclesiastici, anche Seneca
nelle sue postille agli Evangeli[524]. Da molti egli era tenuto più
gran filosofo che non Platone ed Aristotile, e ciò non solamente in
Ispagna, dove tale opinione era suggerita in qualche modo dall'amor di
patria[525], ma anche altrove. Il Petrarca, il quale indirizzò a Seneca
una delle sue epistole famigliari[526], e affermò che Plutarco non
aveva trovato nessuno da porgli a riscontro, non la pensava altrimenti.
Le sentenze tratte da Seneca empiono quasi mezzo il libro intitolato
_Floresta de los philòsophos_, che Fernan Perez de Guzman compose
nella prima metà del XV secolo. Un poemetto provenzale di insegnamenti
morali, composto probabilmente nella seconda metà del XIII, in un
codice della Biblioteca dell'Arsenale in Parigi è intitolato: _Aysso
es le libre de Senequa_[527]; e sotto il titolo di _Seneca Leren_
va un dialogo olandese di 780 versi, nel quale un padre ammonisce
ed ammaestra il figliuolo che si lamenta della propria sorte[528].
Seneca era dunque tenuto uno dei maggiori sapienti dell'antichità;
in certa novella[529] si narra come i Romani commettessero a Seneca
di rispondere agli ambasciatori dei Galli che cercavano di essere
dispensati dal tributo, storia che abbiamo già veduto narrata di
Socrate. A titolo di stranezza sia qui ricordato che Seneca è fatto
contemporaneo di Avicenna, di Averroe e di Algazel nella _Virgilii
Cordubensis philosophia_[530].

Gli scritti autentici di Seneca, nei quali si vede professata una
filosofia tutt'altro che repugnante al cristianesimo, anzi molte
volte con questo pienamente conciliabile, sarebbero forse bastati di
per sè soli a far nascere nel medio evo la credenza che anche questo
scrittore latino fosse stato cristiano, o almeno in intima relazione
coi cristiani e informato delle loro dottrine, se già l'antichità
non avesse immaginata una tal favola, e prodottine i documenti in
una serie di epistole che si supposero scambiate fra il filosofo
maestro di Nerone e l'apostolo delle genti San Paolo. In esse il
filosofo e l'Apostolo apparivano legati dai vincoli di una sincera e
salda amicizia, e quegli, se non faceva esplicita professione di fede
cristiana, si mostrava grande ammiratore di questo, e molto benevolo
ai seguaci di Cristo, e cristiano insomma nell'animo. Queste epistole
esistevano già, ed erano anzi molto diffuse nel IV secolo, secondo
prova la testimonianza di San Gerolamo, la più antica che intorno ad
esse siaci pervenuta. San Gerolamo, non solo non dubita della loro
autenticità, ma per esse solamente s'induce a introdurre nel suo
catalogo degli scrittori e dei santi anche il filosofo di Cordova, al
che l'opere certe di costui non l'avrebbero mosso[531]. Pochi anni dopo
Sant'Agostino ricorda anch'egli quelle epistole, ma per incidente, e
con notabile noncuranza[532]; e che egli le tenesse apocrife lascia
intendere abbastanza un luogo del _De Civitate Dei_[533], dove
Seneca è giudicato molto severamente. Se a queste due si aggiunge
la testimonianza contenuta nella relazione apocrifa della morte dei
santi Pietro e Paolo, la quale va sotto il nome di S. Lino papa, e
che, almeno nella redazione in cui è sino a noi pervenuta, si palesa
certamente posteriore a San Gerolamo, il novero delle testimonianze
antiche concernenti il supposto carteggio di Seneca e di San Paolo,
è interamente esaurito, e per più secoli non se ne trovano altre. In
questa apocrifa scrittura si dice che _l'institutore dell'imperatore_
(Seneca non si nomina per proprio nome) fu legato di amicizia con
San Paolo, in cui vedeva essere scienza divina, e tanto aveva cara la
conversazione di costui che quando non poteva altrimenti, conversava
con esso per lettera, e si aggiunge che di alcuni scritti dell'apostolo
diede lettura all'imperatore[534].

Come si vede, nell'antichità cristiana, del cristianesimo di Seneca
e dell'autenticità delle epistole di costui o di San Paolo, non sono
molti, nè molto fervidi sostenitori. Non più così nel medio evo,
dove la favola improvvisamente riapparsa, dopo essere stata (così è
forza credere) lungamente obliterata, acquista universale credenza e
notorietà senza pari. Freculfo è il primo, per quanto le indagini hanno
sinora mostrato, che nel IX secolo ne faccia novamente ricordo; ma
poi essa si ritrova nella più parte dei cronisti e in infiniti altri
scrittori, come, per citarne alcuni, in Onorio d'Autun, in Ottone di
Frisinga, in Pietro Comestore, in Giovanni Sariberiense, in Tolomeo
Lucense, in Luca di Tuda, in Vincenzo Bellovacense, in Martino Polono,
in Sant'Antonino, in Pietro de Natalibus, in Gualtiero Burley[535].
E tanto più il medio evo doveva essere disposto ad ammetterla in
quanto che si credeva che San Paolo avesse lungamente viaggiato per
conoscere i più gran savi![536]. In sul limitare del Rinascimento il
Boccaccio credeva ancora che Seneca fosse stato cristiano[537]; ma già
il Petrarca, che pur giudicava autentiche le epistole, aveva espresso
contraria opinione[538], e Dante, com'è noto, pone il filosofo tra i
pagani illustri nel Limbo. Se non che questa era l'eccezione. Abelardo
affermava Seneca aver confessato che il distributore di tutti i beni
è lo Spirito Santo[539], e Giovanni Sarisberiense si sdegnava contro
coloro che non veneravano Seneca nel debito modo[540]. Pietro di Cluny
inseriva un passo del carteggio del filosofo e dell'apostolo nella
sua lettera _ad Petrobrusianos_, e Giacomo di Magne ne trascriveva
una parte nel suo _Sophologium_. Vi fu persino chi giunse a fare
del maestro di Nerone uno dei settantadue discepoli. Così la favola,
promossa dalla universale credenza, andava ingrossando.

Ma le epistole che noi possediamo, e che, prese in complesso, sono
un'assai povera e sciatta cosa, sono esse quelle medesime di cui
fanno ricordo San Gerolamo e Sant'Agostino?[541] e se sono, come
si spiega che un uomo della levatura e del sapere di San Gerolamo
le scambiasse per autentiche, mentre la falsità loro è per tal modo
evidente che coloro stessi i quali tuttavia stimano di poter credere
al cristianesimo di Seneca, e all'amicizia sua e di San Paolo, negano
recisamente che esse sieno opera di questi due uomini? La questione
fu molto dibattuta, e sino a questi ultimi tempi i critici che vi si
cimentarono si divisero sistematicamente in due partiti, l'uno, di
coloro che negavano le epistole sino a noi pervenute essere quelle
stesse già divulgate nel IV secolo, l'altro, di coloro che affermavano
invece essere quelle medesime appunto. Ma ultimamente un critico
tedesco, Eugenio Westerburg, mostrò che tra queste due opinioni poteva
aver luogo una terza, e provò, in modo da levare ogni dubbio (cosa
che non s'intende come prima di lui non fosse già caduta in mente a
qualcuno) che le quattordici epistole formanti il famoso carteggio non
sono una produzione sola, ma bensì due diverse produzioni, separate da
un intervallo di parecchi secoli[542].

Io non posso qui tener dietro alla sua discussione, e mi basterà di
recarne in breve le conclusioni. Le quattordici epistole si sceverano
in due gruppi, uno minore che comprende quelle segnate coi numeri X,
XI, XII, l'altro maggiore, che comprende tutte le altre. Tra questi
due gruppi appare grande diversità, così di sostanza come di forma.
Nel primo (ep. XII) Seneca si mostra invelenito contro Nerone, il
persecutor dei cristiani, l'incendiario di Roma, e, sebbene non lo
nomini, lo dice destinato all'inferno; nel secondo Seneca è amico
di Nerone, e questi ammira certe lettere di San Paolo, lettegli dal
filosofo. Le epistole del primo gruppo sono datate ed esattamente
datate, salvo un leggiero errore, che forse non è originale; quelle
del secondo non sono, ad eccezione delle ultime due, dove è indicata
una coppia consolare non mai esistita. Finalmente la latinità delle
epistole formanti il primo gruppo, è assai migliore di quella delle
epistole formanti il secondo. Le tre epistole del primo gruppo sono
avanzo del carteggio primitivo, conosciuto da San Gerolamo e da
Sant'Agostino, le undici del secondo sono un carteggio nuovo, e questo,
trovandosi in esso (ep. IX) citato, col titolo di _liber de verborum
copia_, la _Formula vitae honestae_ di Martino Dumiense, morto il 580,
deve essere stato composto non prima del VI secolo. Senonchè, notandosi
che la favola non ricomparisce se non nel IX, gli è probabile che il
carteggio sia stato composto solamente ai tempi di Carlo Magno.

Non una dunque, ma due falsificazioni letterarie si ebbero, alle
quali porse argomento la presunta amicizia di Seneca e di San Paolo,
la seconda provocata dalla prima, dopochè questa, per ragioni a noi
ignote, fu mutilata della sua maggior parte e rimase lungamente,
sembra, del tutto dimenticata. Ma quale la ragion prima, quale la fonte
delle finzioni che si contengono in esse? Parlando della più recente
il Westerburg mostra come assai probabilmente essa faccia capo, insieme
con la _Passio Petri et Pauli_, ad uno scritto, o andato perduto, o non
ancora disseppellito, in cui tendenze ebionitiche, avverse a San Paolo
sarebbero state mitigate da uno spirito gnostico e conciliativo[543].
È noto chi fossero gli Ebioniti, e quale contegno ostile assumessero
di fronte all'apostolo delle genti, il quale, mentre essi tenevansi
stretti alla tradizione giudaica, da questa tradizione si scostava,
e pareva voler procacciare una conciliazione della filosofìa
coll'Evangelo, e della coltura etnica con le tendenze della nuova fede.
In origine, il Simon Mago della leggenda altri non è che San Paolo, di
cui si vuole sfatare il nome a fronte di San Pietro. Gli è pertanto
assai ragionevole il credere che la favola dell'amicizia di Seneca e
di San Paolo sia stata immaginata fra gli Ebioniti, per far nascere
sospetto sulla fede e sulla onestà di costui, e in questa favola
primitiva, non solo con Seneca, ma con Poppea ancora, e con lo stesso
Nerone, l'apostolo doveva apparire strettamente legato. In essa certo
si manifestava lo spirito ostile che l'aveva provocata. Nel carteggio
più recente di tale spirito non è rimasto vestigio; ma San Paolo vi si
mostra ancora famigliare ed amico dell'imperatrice, designata col nome
di _domina_, e Nerone, se non più come suo protettore, vi figura almeno
come suo ammiratore. L'ipotesi del Westerburg è dunque, per quanto
concerne questo secondo carteggio, molto plausibile; ma io non credo
si possa più dire altrettanto quando l'autore vuole applicarla pure
al carteggio più antico, facendo anche questo di origine ebionitica.
Anzi tutto il frammento che c'è n'è rimasto è troppo scarso perchè si
possa fare sicuro giudizio dell'indole sua; in secondo luogo l'indole
che in questo frammento ci si manifesta è, come ho notato, a dirittura
contraria a quella che mostra il carteggio più recente. Quivi Seneca ha
in odio Nerone, e San Paolo non si vede avere con la corte di costui
sospette relazioni. Senza escludere dunque nemmeno in questo caso la
possibilità di una remota origine ebionitica, meglio che non nell'altro
dissimulata da una successiva elaborazione del tema tradizionale,
si deve dire che nulla forza ad ammettere una origine così fatta,
e lasciare aperto l'adito ad un'altra congettura, la quale facesse
nascere la finzione da uno spirito non ostile in nessun modo a S.
Paolo, e da quella generale tendenza, di cui abbiamo già veduto altri
effetti, a convertire a dirittura, o a far inclinare al cristianesimo
i pagani più illustri. Tertulliano e Lattanzio notarono negli scritti
di Seneca non pochi pensieri e non poche massime che molto bene si
accordano con la fede; era pertanto cosa naturalissima che qualcuno
tentasse di raccostare vie maggiormente a questa fede il filosofo, e
facesse nascere la opinione che il meglio della dottrina di costui,
non era se non frutto degli ammaestramenti di un apostolo di Cristo.
E può darsi ancora che le epistole sieno state immaginate e scritte
con l'intenzione di mostrare tra il filosofo e l'apostolo un'amicizia
di tutt'altro carattere che quella non fosse di cui andavano forse
calunniosamente favoleggiando gli Ebioniti.

Non è da meravigliare se ad uno scrittore generalmente tenuto in conto
di cristiano si volle nel medio evo attribuire qualche opera che,
meglio di quelle da lui veramente composte, recasse l'impronta della
dottrina cristiana. Così è che noi vediamo andare sotto il suo nome
quel trattato delle quattro virtù cardinali, altrimenti detto _Formula
honestae vitae_, che si conosce essere opera di Martino Dumiense.
Brunetto Latini, Albertano da Brescia, lo stesso Boccaccio, altri
moltissimi, ne lo tenevano autore[544], mentre altri gli attribuivano
un trattato _De documentis et doctrinis_ e una raccolta di proverbii
dove sono in gran numero detti e sentenze tratti da scrittori
cristiani.

La morte di Seneca è ricordata da tutti i cronisti, non senza favole,
come si può di leggieri immaginare. Essa era uno dei maggiori delitti
imputati a Nerone. Nel IX secolo il vescovo Modoino, ricordando in
una lettera consolatoria a Teodulfo molti esempii d'illustri infelici,
ricorda anche Seneca:

    Vulnera saeva suo fertur sumpsisse tyranno
      Seneca precipuus caede Neronis obiit[545].

La ragione che da parecchi si dava della sua morte è abbastanza
curiosa. Nerone, diventato imperatore, ricordando le battiture
ricevute da Seneca quand'era fanciullo, concepisce contro il maestro
odio implacabile, e volendo di lui sbarazzarsi gli lascia solo la
scelta della morte. Seneca si fa aprire le vene in un bagno. Così
narrano Vincenzo Bellovacense[546], il Königshofen, altri. Hermann
von Fritslar racconta invece che Nerone fece morir Seneca per invidia,
essendo questi dalla gente stimato più savio di lui[547]. Nel _Roman
de la Rose_, si legge una ragione molto più strana: Nerone fa morire
il maestro perchè non vuole più fargli riverenza, e dal fargliela
non può più trattenersi, tanta è, sino dalla infanzia, la forza
dell'assuefazione[548]. L'autore dell'_Aquila volante_, dice che
Seneca rimproverava continuamente a Nerone l'uccision della madre,
«unde lo imperatore turbato contro Seneca lo fece anegare nel veneno».
Nella _Cronica degli imperatori romani_ si dice semplicemente[549]:
«..... seneca de Cordubia pare de lucan poeta commandador de Neron,
de vita e de scientia preclaro, per salassadura de vena per caxon de
veneno per commandamento de Neron si morì». Altrove la storia si ha
più complicata. Nerone dà facoltà a Seneca di scegliere l'albero a
cui dev'essere impiccato, poi lo minaccia, o lo fa minacciare con una
spada ignuda, finalmente gli concede la morte nel bagno. Così si narra
nella _Leggenda aurea_[550] e nel _Grosse Passional_[551]; così ancora
da Giovanni d'Outremeuse[552]: nell'_Aquila volante_ anche questa
versione è indicata. Enenkel racconta che Nerone, forzato che ebbe
Seneca a morire, fece abbacinare il figliuolo di costui[553]. La morte
del filosofo si trova narrata inoltre nel _Novellino_[554]. Giacomo
da Voragine, il quale ha la smania delle etimologie, nota: «et sic
quodam praesagio Seneca nomen habuit quasi se necans, quia quodammodo
licet coactus manu propria se necavit». Non mancò finalmente chi anche
nella morte del pagano filosofo volle avere le prove della cristianità
di lui. Nella sua grande opera _De scriptoribus latinis_, inedita
la più gran parte, Secco Polentone, racconta che Seneca, essendo nel
bagno, invocò Cristo sotto il nome di Giove liberatore, si battezzò da
se stesso, e compose pel suo sepolcro un epitafio che faceva chiara
testimonianza della sua fede; Hans Sachs narra anch'egli di questo
battesimo[555].

Volgiamoci ora a qualcuno dei poeti che, dopo Virgilio ebbero maggior
fama nel medio evo.

Orazio parrebbe non aver dovuto molto gradire a quella età, e pure, non
solo egli è assai conosciuto, ma è anche molto stimato, principalmente
per le sentenze morali. Alcuino si fregiava del nome di Flacco. In
un luogo della Vita di Sant'Adalardo, Pascasio Radberto afferma che
Virgilio, uso a farsi bello dell'altrui, rubò un verso ad Orazio, il
quale era molto di lui più antico. Nell'_Ecbasis Captivi_, composta
nel X secolo, si hanno come ho già notato, più di 250 versi tolti di
peso al Venosino. Uno scrittore di quel medesimo secolo, il quale
probabilmente del poeta non conosceva altro che una raccolta dei
soliti _Flores_, lo chiama con nome in vero assai strano, _quasi
monachus_[556]. Eccoci già sulla via della conversione, o a dirittura
della santificazione, via non facile a correre in compagnia dell'autore
di certe odi e di certe satire. Ma lo stesso Giovanni Sarisberiense,
che lo conosceva assai bene, lo chiama col nome di _ethicus_, col quale
chiama anche Giovenale, e del resto si han le prove in mano che alcuna
delle odi amorose del poeta fu cantata da monaci con accompagnamento di
melodie sacre[557]. Abelardo pone Orazio tra i filosofi pagani citati
dai dottori della Chiesa. I versi famosi del poeta dove è descritta la
Morte, che indifferente picchia alla porla dei palazzi come a quella
delle capanne, dovevano molto andare a genio a una età costantemente
preoccupata del pensier della morte. Notker già li ricorda nel secolo
IX:

    ut cecinit sensu verax Horatius iste,
      caetera vitandus lubricus atque vagus:
    Pallida mors aequo pulsans pede sive tabernas
      Aut regum turres, vivite, ait, venio![558]

Elinando li imita in quei _Vers de la mort_ famosi nel medio evo, e
ingiustamente attribuiti a Thibaut de Marly[559]:

      Mors, tu abas a. I. seul ior
    ainsi le roi dedens sa tor
    com le poure dedens son toit[560].

Le satire e le epistole di Orazio erano molto lette nelle scuole del
medio evo, e assai più che non le odi e gli epodi. Tra i manoscritti
Harlejani del Museo Britannico si conserva un Orazio dove le odi
sono omesse. Ugo di Trimberg, nel suo _Registrum multorum auctorum_,
qualifica i primi di _libri principales_, e i secondi chiama _minus
usuales quos nostris temporibus credo valere parum_; ma le odi e
gli epodi imitava, narrando la vita, il martirio, la traslazione, i
miracoli di San Quirino, Metello di Tegernsee nella prima parte dei
suoi _Quirinalia_, composti nella seconda metà dell'XI secolo[561].

Uno degli annotatori della _History of english poetry_ del Warton
afferma che nel territorio di Palestrina il popolo ha tuttora Orazio in
concetto di mago possente e benefico[562]. Non mi riuscì di accertarmi
della cosa; ma alcune parole del Petrarca, rilevate dall'Hortis[563],
provano che una tradizione intorno ad Orazio continuava n vivere
nel medio evo. Nel trattato della vita solitaria[564] il Petrarca
ricorda certo campo che, dopo tanto tempo, e tanti possessori mutati,
conservava ancora il nome di Campo d'Orazio.

Dopo Virgilio il poeta latino più letto e più gustato nel medio evo fu
certamente Ovidio, e che così avesse da essere s'intende di leggieri.
Le Metamorfosi dovevan porgere pascolo assai gradito alla curiosità
di tempi avidi di meraviglioso, e l'Arte amatoria e i Rimedii d'amore
dovevano ottener molto credito in mezzo ad una società che dell'amore
faceva quasi la principale occupazione della vita, e quando fioriva
una poesia che non s'inspirava d'altro sentimento che dell'amore.
Certo, per altra parte, le lascivie e le disonestà di cui riboccano
i libri del Sulmonense, dovevano offendere il sentimento religioso,
e provocare l'avversione degli spiriti timorati; ma noi abbiam già
veduto, e vedremo ancor meglio fra poco, che con l'ajuto dell'allegoria
si potevano coonestare molte cose, e ritrovare sotto la oscenità
delle parole o delle immagini la moralità dei pensieri. Se non altro,
l'allegoria era un velo, che, senza nasconderle, dissimulava alquanto
le nudità, e permetteva ai ben pensanti di contemplarle senza rimanerne
scandolezzati. Finalmente le stesse pitture troppo vive che abbondano
nei versi del più facile fra i poeti latini, dovevano trovar molti
ammiratori, e non tutti fra i laici:

    Vivere Naso facit quando per ora jacit,

trovasi detto in una poesia dell'XI secolo, opera probabilmente di un
canonico della cattedrale d'Ivrea, il quale non pare che avesse troppa
inclinazione all'ascetismo[565]. Del resto, per dare alle cose il loro
giusto valore, non bisogna dimenticare mai che gli uomini del medio
evo spesso pare non abbiano nessuna facoltà di discernimento, e che
quel loro spirito farraginoso e fantastico di nessuna contraddizione
si offende, di nessuna mostruosità si spaura, ma le cose più disparate
accozza insieme e confonde, senza addarsene nemmeno. Spesso nei
bassorilievi che adornano le chiese del miglior tempo dell'arte
gotica si veggono ritratti soggetti oscenissimi. La festa dell'asino
celebravasi in chiesa. Un frate poteva passare la mattinata a
trascrivere con amorosa sollecitudine sulla pergamena un'elegia di
Catullo, e l'ore dopo il mezzodì a copiare il salterio. E che dire di
uno che in diciott'ore d'ininterrotto lavoro copiava i _Remedia amoris_
di Ovidio _in onor della Vergine?_ Un frate sì fatto poteva ancora
fiorire in pieno Rinascimento, nell'anno di grazia 1467, e lasciò il
documento irrefragabile dell'opera sua[566].

Fra i dotti che frequentavano la corte di Carlo Magno Ovidio godeva
di grandissima riputazione: parecchi lo imitavano; uno di essi andava
superbo del nome di Nasone, per il quale soltanto è da noi conosciuto.
Come più si va innanzi e più la sua fama cresce, e v'è chi si studia
di scolparlo di certe accuse e di farlo parere migliore che veramente
non fosse. In un manoscritto della Biblioteca di Zurigo, nel verso
_hoc est quod pueri tangar amore minus_[567], il _minus_ fu mutato in
_nihil_, ed una mano pietosa notò in margine: «ex hoc nota quod Ovidius
non fuerit sodomita[568]». Non è vero che Ovidio fosse uno scostumato.
Vincenzo Bellovacense reca nel suo _Speculum historiale_[569],
un'amplissima raccolta di _flores morales_ tratti da tutte le opere di
lui, e Alars de Cambrai, annoverandolo fra i filosofi, dice:

    Ovides li tresime estoit
    Qui molt noblement se vestoit
    Et molt par fu de bones mors,
    En ses liures parla d'amors.

Corrado di Megenberg gli attribuisce uno dei versi famosi della
IV ecloga che avevano procacciato a Virgilio la dignità di profeta
di Cristo[570]. Gli scrittori ecclesiastici non si fanno scrupolo
di citarlo: Fra Paolino Minorita, parlando nel _De regimine
principum_[571] della educazion dei figliuoli, a canto a una citazione
dell'Ecclesiaste reca un esempio tratto da Ovidio. Al par di Virgilio
il poeta degli amori poteva essere tolto a duce e a maestro: Brunello
Latini, nel _Tesoretto_, si fa da lui liberare dalla tirannia
dell'amore; nel _Romam des trois pelerinages_, composto da Guglielmo di
Guilleville nella prima metà del secolo XIV, Ovidio ammaestra l'autore
circa le maggiori verità della fede. Un altro po' e anche Ovidio
diventava cristiano.

Della celebrità che Ovidio godeva più particolarmente come poeta non
fa mestieri arrecar molte prove. Abbiam già veduto che il Gower dà a
lui la gloria di aver condotto a perfezione la lingua latina. L'autore
del _Jüngere Titurel_, volendo citare esempii celebri d'intelligenza,
d'arte, di forza, cita Aristotile, Salomone, Ovidio, Ercole[572].
Ma Ovidio era anche annoverato tra i filosofi, e in una _moralità_
olandese si parla di lui come se fosse un astronomo. Non sei tu, dice
un personaggio allegorico all'uomo, stato creato col capo eretto per
contemplare il corso del cielo che Ovidio ci fece comprendere?[573]
nelle quali parole si trova facilmente la reminiscenza di un verso
famoso del primo libro delle _Metamorfosi_.

Le favole intorno ad Ovidio sono assai scarse, quasichè le molte da
lui narrate bastassero a far sazie le fantasie. Nel XIV secolo si
mostravano in Roma gli orti e il palazzo di Ovidio[574], ma nessuna
leggenda sembra esser nata loro d'attorno. Qualche solitaria fantasia
solamente troviamo circa il nome e circa l'esiglio. In una breve poesia
latina[575], dandosi un cenno della vita e delle opere del poeta, si dà
anche ragione del nome: Publius indica la pubblica fama; Naso e Ovidius
traggono origine dal naso e dal vedere[576]. Giovanni dei Bonsignori
nelle sue _Allegorie ed esposizioni delle Metamorfosi,_ scritte negli
anni 1375-77, e più volte stampate, spiega altrimenti e con non meno
libera fantasia: «Publio fu detto dal nome della sua chasa, che furono
chiamati Publei, Ovidio fu detto dal suo proprio nome: tanto è a dire
Ovidio quanto dicitore di tutte le chose del mondo intendono (sic) il
mondo meritevolmente. Poi fu detto Nasone per ciò che si chome pello
naso odoriamo ogni chosa, chosì Ovidio ogni chosa mondana volse odorare
e sapere[577]».

Dell'esiglio del poeta si fa spesso ricordo, e non meno delle altre
opere di lui erano conosciuti i _Tristi_. Teodulfo ed Ermoldo Nigello,
essendo in disgrazia, li imitavano nelle loro elegie; nel secolo XIII
Albertino Mussato ne traeva un centone. Modoino nel suo già citato
_rescriptum_ afferma che Ovidio fu relegato ingiustamente:

    Pertulit an nescis quod longos Naso labores,
    Insons est factus exul ob invidiam;

ma altri la pensavano altrimenti. Curioso a tale riguardo è il racconto
che si legge in una delle continuazioni della cronaca di Rudolf von
Ems. Ovidio era cancelliere e primo scrivano di un re. Scoperta la
colpevole amicizia di lui e della regina, il re lo fa mettere in una
nave, gli fa dare, richiestone, penna, inchiostro e pergamena, e lo
abbandona solo in balìa delle onde. La nave, tratta dai venti, vaga
pei mari; ma intanto Ovidio scrive il libro di Troja, e riuscito ad
approdare lo manda al re che gli perdona. Questo libro si chiama
_Ovidius de Pontus_; scritto da prima in _lingua pagana_, esso fu
tradotto poi in latino e in tedesco. Qui non si tratta, come potrebbe
a primo aspetto sembrare, di una semplice confusione: un libro di
Troja si trova attribuito ad Ovidio anche nei _Gesta Romanarum_ ed
altrove. Esso è, per avventura, quello stesso che si crede composto
da un Bernardo Floriacense, vissuto nel X secolo, e che è sino a noi
pervenuto col titolo di _Elegia de excidio Trojae_. Brunetto Latini
credette, pare, che Ovidio fosse stato, per ordine d'Augusto, rinchiuso
in un carcere, giacchè, parlando dell'_Ibis_, così dice in un luogo
del suo _Tresor_: «Et sachiez que Ovides li très bon poetes, quant li
empereres le mist en prison fist .i. livre où il apeloit l'empereor par
le non de celui oisel; car il ne savoit penser plus orde creature». Non
so poi come Brunetto conciliasse questa supposta invettiva dell'_Ibis_
con la sommessione servile espressa dal poeta nei _Tristi_ e nelle
_Epistole dal Ponto_, nè so del pari d'onde egli traesse quella curiosa
notizia.

Ovidio non riuscì, come altri compagni suoi di poesia e di paganesimo,
a entrare nel grembo della Chiesa, tuttochè Guglielmo di Guilleville
lo facesse molto versato nelle dottrine cristiane. In certa novella
latina[578] si racconta che due scolari si recarono una volta al
sepolcro di lui per averne qualche ammaestramento, _eo quod sapiens
fuerat_. Uno di essi domandò qual fosse il verso più efficace da esso
poeta composto, e una voce gli rispose:

    Virtus est licitis abstinuere bonis.

L'altro domandò quale fosse il verso peggiore, e gli fu risposto:

    Omne juvans statuit Jupiter esse bonum.

Udite le risposte, i due scolari pensarono di pregare per l'anima
del poeta; ma questi, essendo dannato, e conoscendo che a lui nulla
giovavano le preghiere, gridò loro:

    Nolo Pater Noster; carpe, viator, itor.

In questo racconto sono da notare due cose: la ragione dell'andata
degli scolari al sepolcro, la quale presuppone non solo una grande
scienza in Ovidio, ma ancora una certa potenza magica, a lui
sopravissuta, e inerente in certo modo alle sue ossa, e il desiderio
di riscattare dall'inferno l'anima del grande poeta. Anche qui ci si
manifestano dunque le due principali tendenze con che la fantasia del
medio evo si esercita intorno agli scrittori dell'antichità.

Non è proposito mio di discorrere qui partitamente della fortuna
che Ovidio ebbe nel medio evo come scrittore, e di tener dietro alle
vicende de' varii suoi libri. Altri attese già a tale studio importante
con la erudizione e la diligenza che il soggetto richiede[579]: io
mi terrò pago di alcuni rapidi cenni. Tutte le opere di Ovidio sono
nel medio evo conosciute e citate, la più gran parte anche imitate e
tradotte; il gran numero di quelle che a lui sono allora indebitamente
attribuite fa testimonianza del molto favore onde gode il poeta[580].
I trovatori di Provenza, che della poesia latina avevano assai scarsa
cognizione, citano Ovidio abbastanza spesso, e spessissimo lo citano
i troveri francesi e i minnesinger tedeschi[581]: più di rado invece i
lirici italiani del primo secolo. La sua celebrità viene principalmente
dalle _Metamorfosi_ e dai libri amatorii: egli è in pari tempo la
fonte inesauribile delle favole e il gran maestro dell'amore. Peire de
Corbiac dice nel suo _Tezaur_[582]:

    Faulas d'auctors sai ieu a miliers et a cens,
    mais c'anc non fes Ovidis ni Tales lo mentens.

Chi s'intendesse con questo Talete l'autore non so. Golia in quella
curiosa visione da lui descritta nell'_Apocalypsis_, e già altrove
ricordata, vede, fra molti altri antichi autori, anche Ovidio, lo
spacciatore di favole,

    Pascentem fabulis turbas Ovidium.

Ma contro il _fabularium Sulmonensem Ovidium_ si scaglia Guido de
Columna nella _Historia destructionis Trojae_. Giovanni Lydgate, nel
suo poema intitolato _The temple of glass_, descrive un tempio di vetro
sulle cui pareti sono istoriati i casi di Medea e Giasone, di Adone e
Venere, di Piramo e Tisbe, di Teseo, di Dedalo, insieme con quelli di
Enea e di Didone, di Penelope, di Alceste, di Griselda, di Tristano
ed Isotta, e d'altri parecchi[583]. Nella prima parte del _Pome del
Bel Fioretto_ Domenico da Prato descrive una fonte di marmo istoriata.
Accennate due di quelle storie il poeta soggiunge:

      Molte più storie v'è ch'io non ho conte,
    D'Ovidio e de' poeti intorno intorno[584].
Nel _Roman de Flamenca_ sono ricordate le favole di Piramo e Tisbe,
d'Ero e Leandro, di Cadmo, di Giasone, di Ercole, di Fillide e
Demofoonte, di Narciso, di Orfeo ed Euridice, di Dedalo ed Icaro[585]:
esse correvano per le bocche dei giullari.

Delle _Metamorfosi_, che andavano sotto il nome di _Ovidius magnus_,
o _major_, in latino, di _Ovidio maggiore_ in italiano[586], di _Ovide
le Grant_ in francese, si fecero assai per tempo versioni in francese,
in tedesco, in italiano. Le _Metamorfosi_ erano tenute libro capitale,
e Alfonso X di Castiglia dice nella _Grande e general historia_[587]
che esse erano pei gentili ciò che la Bibbia pei cristiani. Una
vecchia traduzione francese, porta per titolo: _La bible des poetes
methamorphoze_[588]. L'allegoria prestava compiacente il suo officio
per dissimulare o attenuare l'impressione di quanto in esse poteva
offendere gli animi onesti e morigerati. Già Teodulfo, vescovo di
Orleans, uno degli uomini che più illustrarono la corte di Carlo
Magno, credeva che in Ovidio, sotto le gaje e licenziose parvenze della
favola, si nascondessero verità profonde, e Dante perseverava in tale
credenza[589]. Moralizzare con l'ajuto dell'allegoria le _Metamorfosi_
fu, nel medio evo, occupazione gradita di letterati. Roberto Holkot,
Pietro Berchorio[590], Filippo di Vitry, o piuttosto Cristiano
Legouays de Sainte-More[591], Guglielmo di Nangis in vario modo vi
attesero[592]. In Italia Dionigi da Borgo San Sepolcro compose sulle
_Metamorfosi_ certe tropologie che da Clemente VIII furono condannate.
Un Giovanni Virgilio, che non so se sia tutt'uno col Giovanni del
Virgilio amico di Dante, fece delle _Metamorfosi_ una esposizione
allegorica[593], e una traduzione con allegorie ne dava Giovanni
de' Bonsignori, più volte stampata[594]. Secondo quest'ultimo autore
«_Mettamorfoseos_ è nome grecho, e dicesi da _meta_, ch'è vochabol
grecho, che viene a dire in gramaticha la scienza; _morfoseo_ è anchora
nome e vochabolo grecho, e viene a dire in gramaticha latina mutato; e
chosì rilieva in tutto trasmutazione».

Ma non tutte le favole di Ovidio maggiore piacevano a un modo; ce
n'erano alcune assai più dell'altre conosciute e gradite, per esempio
quelle di Narciso e di Piramo e Tisbe. Pietro Cantor, che morì nel
1197, dice, parlando in un luogo del suo _Verbum abbreviatum_ di certi
preti che, recitata una messa, non ricevendo nessuna oblazione, tosto
ne cominciano una seconda, e qualche volta una terza e una quarta: «Hi
similes sunt cantantibus fabulas et gesta, qui videntes cantilenam
de _Landrico_ non placere auditoribus, statim incipiunt de Narcisso
cantare: quod si nec placuerit, cantant de alio[595]». La favola di
Narciso è ricordata da Guiraut de Cabreira, da Bernart de Ventadorn,
da Peirol, nel _Roman de Flamenca_, nel _Roman de la Rose_, nei
_Carmina burana_, dal Gower, dal Chaucer, dal tedesco Heinrich von
Morungen ecc. ecc. Essa porge argomento a un racconto del _Novellino_,
e ad una novella francese in versi[596]. In questa il soggetto è
curiosamente accomodato al gusto romantico dei tempi: la mitologica Eco
cede il luogo alla figliuola di un re, la bella Dana, che s'innamora
del giovinetto Narciso, vedendolo un giorno tornar dalla caccia, a
cavallo. Tutto lo svolgimento dell'azione è conforme alle tradizioni
della letteratura amatoria e cavalleresca del tempo in cui scrisse
l'autore[597].

La commovente storia di Piramo e Tisbe è ricordata da Guiraut de
Cabreira, da Arnaut de Marueil, da Rambaut de Vaqueiras, da Elias
de Barjois, da Peire Cardenal, da Arnaut de Carcasses, da Raimon de
Durfort, nella tenzone di Rufian e Izarn, nel _Roman de Flamenca_,
nel _Roman de la Poire_, nei _Gesta Romanorum_, da molti poeti epici
e lirici francesi italiani, tedeschi, inglesi. Essa aveva, come
esempio, una gran forza nelle cose d'amore, e i nomi di Piramo e Tisbe
si citavano insieme con quelli dei più fedeli e più illustri amanti,
Ero e Leandro, Lancilotto e Ginevra, Tristano ed Isotta. Quanti non
espressero, in una od in altra forma, il pensiero da Pier delle Vigne
significato alla sua donna in quei versi:

    E direi come v'amai dolcemente
    Più che Piramo Tisbe.

Due poeti latini del medio evo la rinarravano in nuovi versi, la
rinarrava il Chaucer, la rinarrava Dirk Potter, la rinarravano gli
autori sconosciuti di un poemetto francese, di uno olandese, di una
novella italiana[598]. Onorevole ricordo dei due amanti infelici fa
il Boccaccio nell'_Amorosa Visione_[599] e nel _De claris mulieribus_
ne rinarra la storia. Persin nelle chiese s'istoriava il lacrimevole
caso. Nella cattedrale di Basilea esso si vede scolpito sulle quattro
facce di un capitello, opera del secolo XII[600]. Può darsi del resto
che anche in esso si scoprisse un'allegoria, giacchè il leone nel
simbolismo cristiano è spesso figura del diavolo[601].

Anche la favola di Orfeo ed Euridice, la quale, oltre che da Ovidio,
era stata narrata da Virgilio nel IV delle _Georgiche_, fu molto
conosciuta, e in parte per le medesime ragioni. Essa porse argomento
a una novella francese in versi, a un poemetto inglese, a un poemetto
popolare italiano molto volte stampato: l'Orfeo del Poliziano non cade
qui in considerazione. Ma essa si prestava ancora meglio di molte altre
alla interpretazione allegorica. Già Boezio, narrandola in fine del
l. III _De Consolatione_, se ne giova come di una parabola atta a fare
intendere che l'anima, la quale vuole darsi a Dio, deve rinunziare al
mondo, e non più rivolgere ad esso il desiderio e lo sguardo. In una
versione francese del trattato De consolatione, opera probabilmente
di un italiano, e scritta nel secolo XIV, il racconto di Boezio è
stranamente alterato, ma in modo da farlo più conforme ai gusti di
allora. Orfeo passa la vita a piangere sulla tomba della sua diletta
Euridice. Una notte un diavolo gli apparisce, ed egli tosto domanda di
poter andare con lui all'Inferno, per rivedere la sposa. Il demonio
acconsente, gli fa da guida, e quando Orfeo ritrova nel tenebroso
regno la sua donna, tutta la famiglia dei diavoli si smascella dalle
risa al vedere i segni della sua incomposta letizia. Orfeo chiede di
poter ricondurre seco la sposa, e i diavoli, che meditano di fargli una
strana burla, glielo concedono, a patto che egli, Orfeo, non si volti
indietro per nessuna cosa che veda, o che oda. Orfeo si parte insieme
con la sposa, e la sua felicità non ha pari; ma i diavoli non tardano a
suscitargli dietro un così spaventoso fracasso, che egli, sgomentato,
si volta, e perde novamente il suo amore. Così parimente succede a
coloro che in compagnia della loro donna, la Verità, se ne vanno verso
il Paradiso, e cammin facendo si lasciano vincere dalla tentazione di
rivolgersi novamente al mondo[602].

Molte altre delle favole narrate nelle _Metamorfosi_ si trovano
ricordate qua e là, in iscritture di diversissima indole, a far
testimonianza della riputazione del libro. Nei _Gesta Romanorum_ si
moralizza sulla favola di Argo[603]. Quella di Dedalo ed Icaro, che
pure si prestava molto bene alla moralizzazione, è ricordata da Guiraut
de Calanson, da Richart de Barbezil, da Bertran de Paris, nel _Roman de
Flamenca_, nel _Roman de la Rose_. La storia romantica degli Argonauti
doveva andar molto a genio all'uditorio dei giullari. Essa è ricordata
spesso, e anche nel _Fierabras_, dove si fa del Colco un'isola:

      l'ille de Corcoil, dont on a moult parlé,
    Là ou Jason ala, là û fu endité,
    Por l'ocoison d'or fin, ce dient li letré[604].

Benoit de Sainte-More la narra nel _Roman de Troye_. Una _Historia di
Giasone e Medea_, poemetto popolare di 124 ottave, fu stampato la prima
volta in Firenze nel 1557[605].

Ma la riputazione maggiore Ovidio la godeva come autore dei libri
amatorii; egli era nelle cose d'amore autorità indiscutibile. Gli è
per questo che Alano de Insulis lo chiama _Amorigraphus_[606]. Ovidio
era il maestro a cui doveva ricorrere chiunque desiderasse d'intendere
addentro le secrete arti d'amore. Già nei _Disticha Catonis_ si dice:

    Si quid amare libet vel discere amore legendo
    Nasonem petito.

E questo consiglio si ripete naturalmente nelle traduzioni. Brunetto
Latini nel _Tesoretto_ mette in mostra anzitutto il poeta degli amori:

    Vidi Ovidio maggiore,
      Che gli atti dell'amore,
    Che son così diversi,
      Rassempra e mette in versi;

e Don Amor dice all'Arciprete di Hita[607]:

      Si leyeres Ovidio el que fue mi criado,
    En él fallaràs fablas, que le hobe yo mostrado,
    Muchas buenas maneras para enamorado.

Francesco Imperial, in una poesia composta nel 1405 per la nascita
dell'infante che poi fu Giovanni II re di Castiglia, augura tra l'altre
cose al fanciullo di essere _mas sabidor de amor que Nason_[608].

Chi aveva letto i libri amatorii del Sulmonense non poteva essere
ignorante della scienza d'amore; l'una cosa escludeva l'altra. Gli
è per ciò che in certa poesia italiana, fatta tutta, ad imitazione
di certe poesie provenzali, di concetti contraddittorii e di versi
contrapposti, l'anonimo autore per dare ad intendere com'egli abbia il
cervello a soqquadro, dice fra l'altro:

    E de l'amore no' so dir ragione,
    Ed aggio letto verso dell'Onvidio[609].

S'è visto che, per designare più particolarmente l'autore delle
_Metamorfosi_, si diceva Ovidio maggiore. Quando si diceva Ovidio,
senz'altro, pare s'intendesse più propriamente dell'autore dei libri
amatorii. I versi testè citati danno di tale uso del nome un esempio, e
Cino da Pistoja comincia un sonetto a Onesto Bolognese, dicendo:

    Se mai legesti versi de l'Ovidi;

dove del nome di Ovidio si fa il medesimo uso.

L'_Ars amandi_ fu tradotta in tutte le lingue. In Francia essa fu
tradotta e imitata più volte[610], e primo a tradurla fu nel XII
secolo Chrestien de Troies, che diede pure una versione dei _Remedia
amoris_, secondochè si rileva dalla sua stessa testimonianza[611].
Una versione italiana dei _Remedia_ fu fatta da Andrea Lancia nel
secolo XIV[612], e di quel medesimo secolo forse è anche una versione
anonima dell'_Ars amandi_, stampata la prima volta dal Riessinger
in Napoli[613]. I _Remedia_ si ritrovano, abbreviati, in un poema
francese del secolo XIV, intitolato _Les èchechs amoureux_[614], e
molti degli ammaestramenti amatorii del poeta metteva in una specie di
_fabliau_ un tal Guiart[615]. Le citazioni da tutti i libri amatorii
sono innumerevoli. Veramente parrebbe che il medio evo, il quale
escogitò quella sottilissima, e diciam pure fastidiosissima metafisica
dell'amore che tutti sanno, non dovesse trovar troppo di suo gusto quei
libri, fatti assai più in servigio della pratica che della teorica; e
pure i _corali amadori_ e le _donne fine_ se ne beavano. In un poemetto
olandese di Florio e Biancofiore, composto da Dideric van Assenede
nel XIV secolo, si dice che i due giovani innamorati leggevano l'arte
amatoria di Ovidio[616], e lo stesso si dice in una versione islandese
in prosa di quella storia celeberrima[617], e nel _Filocopo_ del
Boccaccio.

Delle altre opere del poeta, tutte anch'esse molto conosciute,
tralascio di parlare: noterò solo che nei _Mirabilia_ i _Fasti_ sono
indicati col nome strano di _Martyrologium Ovidii de Fastis_.

Grande era dunque la riputazione di Ovidio; ma non poteva essere,
da altra banda, che la molta disonestà dei suoi libri non desse
argomento di avversione e di biasimo a parecchi. Sebbene più di un
poeta cristiano dei primi secoli lo avesse, senza scrupoli, imitato
quanto alla forma, la sostanza de' suoi versi repugnava troppo alla
coscienza cristiana. Dice Sant'Isidoro nel trattato _De summo bono_ che
il poeta pagano che più si deve fuggire è Ovidio: vero è che nemmen
egli si tiene dal citarlo spesso. Così Cristina di Pisan, che pure
nella sua epistola _au dieu d'amour_ si giova con frequenza dell'_Arte
amatoria_[618], raccomanda al proprio figliuolo di non leggere nè il
_Roman de la Rose_, nè quella:

    Se bien veulx et chastement viure
    De la Rose ne lis liure,
Ne Ouide de l'Art d'amer, Dont l'exemple sert a blasmer.

Ma ben più innanzi era andata Maria di Francia, la quale nel _Lai de
Gugemer_[619] descrive una pittura dove è rappresentata Venere in atto
di dare alle fiamme il libro _De arte amandi_, e scomunicare chi lo
legge, o ne segue gli ammaestramenti.

    Vénus la dieuesse d'amur,
    Fu très bien mis en la peinture,
    Les traiz mustrez è la nature,
    Cument hum deit amur tenir,
    E léalement è bien servir.
    Le livre Ovide ù il ensegne,
    Coment cascun s'amour tesmegne,
    En un fu ardent les jettout;
    È tuz iceux escumengout,
    Ki jamais cel livre liraient,
    Et sun enseignement fereient.

Certo si è ad ogni modo che queste scomuniche di Venere fecero poco
frutto.

Un poeta, ancor esso molto letto e molto amato nel medio evo, è Lucano.
La _Farsaglia_ è allora tra i libri classici più conosciuti, e tutte
le storie romanzesche di Giulio Cesare ne dipendono. Come gli altri
poemi dell'antichità, essa va soggetta a rifacimenti, i quali tuttavia
presentano questo di particolare, che l'alterazione fantastica del
modello è in essi assai minore che in altri. Bensì, come ebbi già
occasione di avvertire, si muta lo spirito generale dell'opera, che
di avverso a Cesare diviene favorevole. Giovanni di Tuim e Giacomo di
Forez, de' quali ebbi già a parlare, si dichiarano, e sono veramente
in sostanza, semplici traduttori e continuatori di Lucano; anzi nei
loro racconti sparisce pressochè interamente il poco meraviglioso
che nel poema latino si trova, cosa certo abbastanza singolare. Così
il passaggio del Rubicone è da essi descritto con la più grande
semplicità. Cesare è trattenuto alquanto da difficoltà puramente
naturali, giacchè «par les flueves et par les plueves cele riviere
estoit fors issue de son canal[620]»; la famosa prosopopea di Roma è
soppressa di pianta[621]. Nel XIV secolo la _Farsaglia_ si traduceva
in catalano[622]; alcune opere, come i _Faictz des Romains_, e i _Fatti
di Cesare_ attingevano da essa e insieme da Sallustio, da Svetonio, da
altri.

La celebrità del poema veniva essenzialmente dal soggetto in esso
trattato; ma il medio evo non sarebbe poi stato in caso di avvedersi
della inferiorità del suo autore di fronte ad altri poeti latini.
Si sa che gli antichi non fecero grande stima di Lucano come poeta:
Quintilliano disse di lui schietto schietto: «Oratoribus magis quam
poetis annumerandus[623]». Tuttavia nel medio evo ci fu chi lo mise
sopra Virgilio. Nel XIII secolo l'anonimo autore di una Vita di
Sant'Osvaldo in versi latini, nomina, quali i tre principali poeti,
Omero, Gualtiero di Chatillon e Lucano[624].

Il Benedettino Otlone, nato circa il 1013, morto nel 1072, o 1073,
portava sempre, prima che prendesse in avversione gli studii profani,
il suo Lucano con sè[625]. Onorio Augustodunense discerne quattro
generi nella poesia, i quali sono Tragedia, Commedia, Satira e Lirica.
Per tragedia intende, come comunemente s'intende nel medio evo, la
poesia epica: _Tragoediae sunt quae bella tractant_; e volendo citare
un esempio di questa poesia, cita Lucano[626]. Già altrove ho riportato
il verso dell'_Apocalypis Goliae_:

    Lucanum video ducem bellantium.

Eberardo Bituriéense si contenta di dire, paragonando Lucano e Stazio:

    Lucanus clarae civilia bella lucernae
      Imponit, metro lucidiore canit[627].

Alars de Cambrai pone Lucano pel quinto tra i filosofi:

    Li quins est apeles Lucans
    Qui sot de musique et de cans
    Et a merveilles fu cortois,
    Cil savoit bien totes les lois.

Anche Guiot de Provins lo pone nel novero dei filosofi, tra Virgilio
e Stazio. Il Chaucer pare che lo consideri piuttosto come storico
che come poeta, giacchè nella sua _House of Fame_ lo mostra sopra una
colonna di ferro, in compagnia di parecchi storici. Per Dante Lucano è
l'ultimo dei grandi poeti che ritrova nel Limbo[628].

Stazio non ebbe minor fama nel medio evo, e fu per giunta annoverato
tra i santi. Le _Selve_ non si conobbero che assai tardi; ma la
_Tebaide_ fu travisata al solito nel _Roman de Thèbes_[629], e nella
_Story of Thebes_ di Giovanni Lydgate, e largamente usufruita per la
composizione della _Teseide_ dal Boccaccio e del _Temple of Mars_ dal
Chaucer. Konrad von Würzburg, nel suo grande poema della guerra di
Troja, attinse non poco dall'_Achilleide_[630]. Nel _Carmen de Ernesti
Bavariae ducis fortuna_, composto fra il 1206 e il 1233, Oddone dice
che sullo scudo del duca Ernesto erano figurate le storie tebane[631].

Nel medio evo si credette comunemente che Stazio fosse nativo di
Tolosa, cagionato l'errore dal confondersi il poeta col retore Stazio
Surculo o Ursulo, come fa ancora il Boccaccio nella Vita del Petrarca.
Dante e il Petrarca partecipano del comune errore. Nel già citato
trattato manoscritto _De vita et moribus philosophorum_, quell'errore
apparisce in buona compagnia, giacchè vi si legge: «Stacius autem
Cecilius poeta socius et contemporaneus Ennii poetae, natione Gallus,
Mediolani obiit. Huius est sententia ista, ut ait Agelius (_Aulus
Gellius?_): Inimici pessimi sunt illari fronte et corde tristi.
Hic duos filios habuit poetas metricos, scilicet Achimenidem (l.
_Achilleidem_) et Thebaidem».

Tutti ricordano l'incontro di Dante con Stazio nel c. XXI del
_Purgatorio_. Il poeta latino dice dell'esser suo, e narra poi nel
canto seguente come dalla lettura della IV ecloga di Virgilio fosse
tratto a credere in Cristo, e ricevesse il battesimo, benchè tenesse
celata la sua fede. Si credette nel medio evo che, avendo voluto
ammansare l'ira del gran persecutor di cristiani Domiziano, egli avesse
pagato col martirio il suo zelo, ed era per questo annoverato tra i
santi. Nella _Tebaide_ si leggono due versi che dovevano molto andare a
genio ai cristiani, e favorir l'opinione che il suo autore fosse nemico
dell'idolatria:

    Nulla autem effigies, nulli commissa metallo
    Forma dei, mente habitare et pectore gaudet.

Dante è forse il solo che leghi ai versi famosi di Virgilio la
conversione di Stazio; ma ciò facendo egli non seguitava una fantasia
puramente arbitraria. Nella _Image du monde_[633] si accenna a
conversioni operate appunto da que' versi:

    Si ot de ceulx qui par lor sens
    Prophetisierent le saint temps
    De la venue Ihesucrist,
    Si comme Virgiles qui dist,
    Qui fu au temps Cesar de Romme,
    Dont maint deuindrent puis preudomme,
    Dist qu'une nouuelle lignie,
    Etc.

Narra inoltre la leggenda che i tre pagani Secundiano, Marcellino
e Veriano si convertirono al cristianesimo in virtù di que' versi
famosi[634].



CAPITOLO XVIII.

Severino Boezio.


Delle varie leggende di scrittori che siamo venuti esaminando sin
qui, alcune, anzi le più, se pure riuscirono a passare la soglia del
Rinascimento, sono ora in tutto morte, e appartengono di pien diritto
alla storia delle immaginazioni del medio evo; altre si sono lasciate
dietro un leggiero strascico, che va, ogni giorno più, dileguando: la
leggenda di Boezio invece vive tuttora, e sebbene i fondamenti della
sua credibilità non sieno gran che più saldi di quelli dell'altre, pure
tuttora si afferma e ricalcitra alla critica.

La celebrità di Boezio fu grande nel medio evo, sostenuta non meno
dalle opere autentiche di lui che da quelle suppositizie, attribuitegli
nella credenza ch'egli fosse stato un teologo o un martire della fede.
Per lungo tempo non si conobbe della filosofia di Aristotile se non
quello che se ne poteva leggere nelle versioni e nei commentarii di
Boezio, i quali ultimi, disgraziatamente, diedero l'indirizzo agli
studii logici nel medio evo. Boezio è il primo degli scolastici.
Le altre opere sue che si conservavano, intorno all'aritmetica ed
alla musica, facevano testo, ed erano universalmente usate nelle
scuole. Onorio Augustodunense, descrivendo nel già citato suo libro
_De animae exilio et patria_ le due città di Aritmetica e di Musica,
dice che nella prima insegnava Boezio, e nella seconda cantavano
cori ammaestrati nelle sue dottrine. Della grande venerazione in cui
egli era tenuto può far fede, tra molti altri, il seguente fatto.
Nell'anno 996 l'imperatore Ottone III volle avere nella sua reggia
l'effigie di Boezio, al qual proposito Gerberto, che fu poi papa
Silvestro II, il più dotto uomo de' tempi suoi, compose alcuni versi,
a modo d'iscrizione, ne' quali si fa del filosofo latino un magnifico
elogio[635]. Nell'_Image du monde_ si dice[636] che Platone ed
Aristotile non iscrissero nulla in latino,

    Car andui furent Sarrazin[637].

Ma poi venne Boezio,

    Ung grans philosophes et sages,
    Qui aprist de pluseurs langages,
    Et qui droiture moult ama.
    Cil de lor liure translata,
    Grant partie on mist en latin;
    Mais il vint ancois en la fin
    Qu'il les eust translates tous;
    Dont ce fu domages a nous.
    Puis en ont autre translate,
    Qui furent bon clerc et letre;
    Mais cil en translata le plus,
    Que nous auons encor en us,
    Et fist maint bon liure en sa vie
    De moult haute philosophie,
    Qui nous ont encor bon mestier
    Pour nous enuers dieu adrecier.

Durante tutto il medio evo Boezio fu tenuto pel più grande filosofo,
e pel più autorevole savio dopo Aristotile[638]. Una curiosa
testimonianza dell'alto concetto in che s'aveva la saviezza di lui
trovasi in una novella del _Pecorone_[639], dove egli è introdotto ad
ammaestrare coi suoi consigli Janni, che non poteva far masserizia, e
Ciucolo, che aveva moglie perversa.

Ma il fondamento principale della gloria di Boezio nel medio evo
lo porgeva il trattato _De consolatione philosophiae_, di cui sono
innumerevoli codici. Lo spirito di umiltà e di rassegnazione ond'è
tutto informato questo libro singolare, il sentimento vivo, che ad ogni
istante vi si appalesa, della vanità delle cose terrene, l'aspirazione
ad un vero assoluto, e ad una felicità che non è di questo mondo, gli
assicuravano il gradimento di una età che il sommo della perfezione
poneva nell'ascetismo; e la conoscenza delle condizioni in cui il libro
era stato scritto contribuiva a farne più venerato l'autore[640]. Molti
in quelle pagine, piene di una serena mestizia e di un alto sentimento
di morale dignità, cercarono e trovarono consolazione ad acerbi dolori.
Eberardo Bituricense dice nel terzo carme _De versificatione_:

    Eximia ratione beat Boethius, ut det
      Solamen misero philosophia viro.

Dante, poichè ebbe perduto _il primo diletto_ della sua anima,
Beatrice, rimase immerso in tanta afflizione che nessun conforto gli
valeva. «Tuttavia, racconta egli stesso, dopo alquanto tempo, la mia
mente, che s'argomentava di sanare, provvide (poichè nè il mio, nè
l'altrui consolare valea) ritornare al modo che alcuno sconsolato
avea tenuto a consolarsi. E misimi a leggere quello, non conosciuto
da molti, libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato
s'avea»[641]. Alberto della Piagentina, più comunemente detto Alberto
Fiorentino, tradusse il libro di Boezio nel 1332, mentre era chiuso
nelle carceri di Venezia, dannato a quasi dieci anni di quella pena, e
il traduceva per consolarsi della sua sciagura[642]. Cristina di Pisan,
profondamente afflitta per la perdita dello sposo, ebbe anch'ella
conforto da quel libro[643]:

    Et lors me vint entre mains
    Un livre que moult amay,
    Car il m'osta hors d'esmay
    Et de desolacion:
    C'iert de consolacion
    Boece le prouffitable,
    Livre qui tant est notable.

Nel _Troilus and Cresseide_ del Chaucer, Pandaro conforta Troilo,
abbandonato dalla donna amata, con argomenti tratti dal _De
Consolatione._ Spesso nelle versioni è richiamata l'attenzione del
lettore sulla efficacia e la virtù consolatrice del libro[644].

Tutto il medio evo lavorò intorno ad esso. Chentigerno Giasconense,
morto, secondo si crede, nel 560, pare che vi facesse su un
commento[645], e lo commentarono poi Asser, vescovo di San Davide,
intorno all'890, Bruno, monaco di Corbia, poscia vescovo di Colonia,
Guglielmo di Conches, Nicola Triveth[646], Ugolino Malabranca da
Orvieto nella seconda metà del secolo XIV, ed altri che sarebbe
lungo noverare. Le traduzioni in tutte le lingue sono a dirittura
innumerevoli. A me basterà di ricordare l'anglosassone antichissima,
attribuita, ma a torto, ad Alfredo il Grande (m. nel 900)[647], la
tedesca di Notker, appartenente al principio dell'XI secolo[648],
la francese di Jean de Meung[649], l'inglese del Chaucer, che
probabilmente tradusse, non dall'originale, ma da una traduzione
francese, la spagnuola di Pero Lopez de Ayala (1332-1407). Le
versioni italiane, sino a quella di Benedetto Vacchi, sono assai
numerose[650]. Il testo latino fu uno dei primi libri stampati[651].
Ma non solo commentatori e traduttori, esso trovò anche imitatori in
gran numero, sia quanto alla forma, sia quanto alla sostanza. Arrigo
da Settimello lo imitò nel suo trattato _De diversitate fortunae
et philosophiae consolatione_[652], Albertano da Brescia nel suo
_Liber consolationis et consilii_. Pedro de Luna (Benedetto XIII) nel
libro intitolato _Vitae humanae adversus omnes casus consolationes_,
Giovanni di Tambacco nel _De consolationibus theologiae_. Intorno
al 1120 un benedettino francese per nome Eccard scrisse un trattato
_De Consolatione monachorum_, dove la prosa alterna co' versi; e
ad imitazione del libro di Boezio componeva Alano de Insulis il suo
_Liber de planctu Naturae_. Brunetto Latini nella descrizione che della
Natura fa nel Tesoretto imita quella che della Filosofia fa Boezio. Ma
il monumento più singolare che della propria venerazione per Boezio
ci abbia tramandato il medio evo, è quel curioso frammento di poema
provenzale, parte parenetico, parte narrativo, a tutti i romanologhi
cognitissimo, perchè uno dei più antichi documenti romanzi sino a
noi pervenuti, nel quale Boezio apparisce come un predicatore della
parola di Dio e come un martire, e in cui era tutto forse riprodotto il
trattato _De Consolatione philosophiae_. Di esso dovrò riparlare.

Tanta riputazione era nel medio evo fondamento più che bastante ad
alzarvi sopra qualsiasi leggenda, massime poi quella che tramutava
Boezio, tuttochè laico, in un dottore della Chiesa e in un santo.
Cominciamo anzi tutto dall'esaminare questa leggenda, che ancora
atteggiasi a storia, nella sua totalità, poscia ci faremo a considerare
alcune particolarità e varianti caratteristiche di essa.

La formola sua più generale è la seguente: Boezio, strenuo campione a
parole e a fatti della fede cattolica, incorre nell'ira di Teodorico,
ariano e persecutor della Chiesa. Relegato, chiuso in un carcere, egli
sostiene con cristiana rassegnazione gl'immeritati patimenti, e, da
ultimo, suggella col sangue il martirio. L'anima sua è fatta partecipe
della gloria e dei gaudii del paradiso. Tale è la forma sotto cui la
leggenda ci si porge nella _Divina Commedia_. Dante pone l'anima di
Boezio nel Sole, dove dimorano l'anime beate dei dotti in divinità.
L'autore del _De consolatione philosophiae_ ha compagni di beatitudine
San Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Dionigi
l'Areopagita, Isidoro di Siviglia, Beda, e altri parecchi; ed è lo
stesso San Tommaso, il principe dei teologi, che lo addita al Poeta:

    Or se tu l'occhio della mente trani
      Di luce in luce dietro alle mie lode,
      Già dell'ottava con sete rimani.
    Per vedere ogni ben dentro vi gode
      L'anima santa, che il mondo fallace
      Fa manifesto a chi di lei ben ode.
    Lo corpo ond'ella fu cacciata giace
      Giuso in Cieldauro, ed essa da martiro
      E da esilio venne a questa pace[653].

Io non posso entrare in una discussione particolareggiata della
leggenda, argomento già troppe volte trattato, ma bisogna che mi limiti
a raccoglier qui le prove più convincenti e che più perentoriamente
appunto dimostrano l'esser suo di leggenda[654]. Prima di ogni
altra cosa è da osservare che i fatti asseriti in essa non sono
indissolubilmente legati tra loro, e che non tutti rivelano egualmente
a primo aspetto il loro carattere leggendario. Ciò che in essa si
narra del martirio di Boezio è di sì notoria falsità che non ha
mestieri di lunga confutazione. Lo stesso Boezio dà le ragioni della
sua disgrazia. Egli fu da malvagi calunniatori accusato di tramare
contro Teodorico, di essere desideroso di cose nuove, di serbare con
l'imperatore Giustino secreta intelligenza. L'aver levato la voce in
difesa di altri senatori accusati gli volse contro le ire del principe
barbaro, ch'egli chiama bensì _rex avidus communis exitii_, ma non mai
un persecutor dei cattolici. Boezio dichiara apertamente di soffrire
per la causa della giustizia, non per quella della religione. La sua
sola testimonianza basterebbe a sbugiardare la leggenda del martirio;
ma ad essa si può aggiungere quella degli storici più antichi, provante
come la leggenda non sorse subito, o sorta, non subito si diffuse.
Procopio, contemporaneo, dice assai chiaro nel l. I della _Historia
Gothorum_ che Teodorico fece morire Simmaco e Boezio per false accuse
di delatori invidiosi, i quali gli diedero a credere che i due senatori
tramassero contro di lui: di motivi religiosi neppure un cenno.
L'Anonimo Valesiano, il quale dovette scrivere non molto dopo il mezzo
del VI secolo, parlando del supplizio di Boezio e di Simmaco, non dice
nulla, egli cristiano, della loro fede cristiana, nè fa intendere
in nessun modo che avessero per essa sofferto il martirio[655].
Gregorio di Tours e San Gregorio Magno non fanno nessun ricordo di
Boezio martire; Beda non lo considera come tale nel suo Martirologio;
e poichè questi scrittori conoscevano pienamente l'autore del _De
consolatione philosophiae_, il loro silenzio prova che essi nulla
sapevano del supposto martirio di lui, o che se avevano notizia di una
falsa tradizione, forse già nata, a tale riguardo, non le davano fede.
Anzi quello di Beda, più che silenzio, si può chiamare a dirittura una
testimonianza in contrario, giacchè di papa Giovanni, chiuso per ordine
di Teodorico nelle carceri di Ravenna, e quivi morto, questo scrittore
dice espressamente che diede la vita per la fede, mentre di Simmaco e
di Boezio, la cui fine era stata molto più clamorosa e più tragica,
dice soltanto che Teodorico li fece morire. Chè se la tradizione
fosse stata già nota, o se avesse avuto in sè qualche argomento di
credibilità, tale e tanta era sin da allora la riputazione di Boezio,
che il martirio di lui sarebbe stato registrato solennemente, come
fatto da onorarsene tutta la Chiesa. Nel l. VII aggiunto alle Istorie
di Eutropio, Paolo Diacono chiama Simmaco e Boezio cattolici, ma non
martiri[656]. Nella già citata versione anglosassone dei metri di
Boezio attribuita ad Alfredo il Grande, e senza dubbio antichissima,
si dice che il filosofo scrisse lettere all'imperatore di Oriente per
invitarlo a rifarsi signore di Roma. Avvertito della trama, Teodorico
lo fece rinchiudere in carcere. Adone di Vienna, nel IX secolo, è
il primo che riconosca in Simmaco ed in Boezio due martiri[657];
ma nel secolo seguente Gerberto, nella riportata iscrizione, parla
del consolato e degli studii e della preclara morte di Boezio; del
martirio e della santità non fa motto. Anche dopo che fu cognita
in tutta Europa, la leggenda del martirio non fu da tutti accolta e
creduta[658].

Vediamo ora l'altra parte della leggenda se sia più plausibile.
Senz'esser martire, Boezio potrebb'essere stato un fervente cristiano,
un teologo di molta levatura, uno strenuo campione della ortodossia,
e autore di opere teologiche importanti, degno in tutto d'essere
tenuto un santo e venerato sugli altari. La quistione dell'autenticità
degli scritti teologici di Boezio è evidentemente subordinata ad
un'altra: Boezio fu egli, o non fu cristiano? Se non che sul valore
della parola _cristiano_ bisogna intendersi prima di tutto. Nel
senso più lato e generico, cristiano è chiunque abbia, mediante il
battesimo, ricevuto il segno indelebile: nel senso più vero e proprio,
cristiano è solamente colui che vive in ispirito nel dogma. Come
fu cristiano Boezio? Che nella famiglia degli Anicii, a cui egli
apparteneva, fosse antichissima e diffusa la professione della fede
cristiana è certo; che Boezio fosse nato da genitori cristiani, e
avesse ricevuto il battesimo, e fosse cresciuto nella fede, non v'è
ragione di dubitare, anzi v'è ogni buona ragione di credere, e così
ancora ch'egli visse ostensibilmente nel grembo della Chiesa, ed ebbe
in Roma nome di cristiano. Ma altrettanto e più certo si è che egli
fu cristiano solamente di nome, e che dedito in tutto alla filosofia,
visse indifferente a qualsiasi religione positiva, e non ne professò
nessuna nell'animo suo, sebbene le sue stesse dottrine filosofiche e il
perdurante influsso della educazione ricevuta lo dovessero piuttosto
inclinare al cristianesimo che non al politeismo pagano. In nessuna
delle opere, ond'è sicuramente riconosciuto autore, Boezio manifesta
o indica come che sia la propria credenza religiosa; ma la maggiore e
la più famosa tra quelle, il trattato _De consolatione philosophiae_,
già col titolo prava che egli non ne aveva nessuna, o piuttosto che
la filosofia era la sola religione da lui professata. Si ricordi in
quali condizioni e perchè fu composto il libro della Consolazione
filosofica. Perduti gli agi e gli onori, relegato, dubbioso della sua
sorte, o già sicuro di prossima e trista fine, Boezio cerca conforto
a tanto e così doloroso rivolgimento di fortuna. Che altro avrebbe
potuto fare nel caso suo un qualsiasi, ancorchè mediocre cristiano,
se non rivolgersi al Dio crocifisso, al consolatore degli afflitti,
al redentore dei perduti, e cercare nelle promesse indefettibili di
lui la virtù della rassegnazione e la speranza che mutano in trionfi
le sciagure di quaggiù? A chi ricorre invece Boezio? Alla filosofia, a
quella filosofia che il Vangelo aveva o sbugiardata, o resa superflua.
In tutto il suo libro non una parola che accenni ai dogmi più solenni
della fede, non un passo delle Scritture riportato, non il nome di
Cristo segnato almeno una volta; tutta la inspirazione è filosofica
e profana dal principio sino alla fine. E dovrem noi credere che con
sì fatta preparazione si accostasse alla morte un cristiano fervente,
un flagellatore dell'ariana eresia, l'autore di trattati trinitarii
e cristologici? La incompatibilità dello spirito che informa quel
libro e dello spirito cristiano fu già da gran tempo avvertita, e
pose a dura prova più di un ingegno desideroso di toglier quella
contraddizione. Sin dal X secolo Bruno, monaco di Corbia, commentandone
un luogo, avvertiva trovarsi nel libro _alcune cose contrarie alla
fede cattolica, e fiutarvisi il velen dei filosofi_[659]. Giovanni
Sarisberiense lo loda, e ne commenda la lettura, ma dice schietto che
esso non esprime il Verbo incarnato, ossia che non vi si trova dentro
lo spirito cristiano. Il Glareano fu talmente colpito del contrasto
che è fra il trattato della _Consolazione filosofica_ e le presunte
opere teologiche di Boezio che, ritenute queste per autentiche, dubitò
non quella fosse apocrifa[660]; e il Bertius immaginò che il trattato
dovesse avere un sesto libro, nel quale, se non fosse stato prevenuto
dalla morte, Boezio avrebbe parlato della vita eterna, e si sarebbe
dimostrato, qual era, cattolico[661].

Fatte delle opere tutte che vanno sotto il nome di Boezio due
classi, l'una delle filosofiche, l'altra delle teologiche, si vede
essere in questa la dimostrazione amplissima di una fede onde manca
nell'altra qualsiasi vestigio. Se una singolarità così fatta possa
avere plausibile spiegazione altra da quella che si ottiene negando
recisamente l'autenticità delle opere teologiche, vegga chiunque ha
piena la libertà del giudizio, e non è, o dagli interessi particolari
di una Chiesa, o da una poco sennata sollecitudine della gloria di
Boezio, tratto a far di costui un teologo e un santo per forza. Dopo
di che non fa mestieri ch'io entri nella critica speciale di tali
opere, nè sarebbe questo il luogo da ciò. Chi vuol saperne di più in
proposito, e vedere come i principii filosofici stessi annunziati nelle
opere teologiche discordino da quelli professati nelle opere autentiche
di Boezio, ricorra al libro già citato del Nitzsch. A maggior prova
della falsità delle prime ricorderò solamente che Ennodio, Cassiodoro,
Isidoro di Siviglia, Beda, non ne fanno parola, e che la più antica
testimonianza che di una di esse si trovi è di Alcuino, e riguarda
il libro _De unitate Trinitatis_[662]. Come si può egli ammettere
che quegli scritti, chiamati poi a tanta celebrità, rimanessero così
ignoti, o così poco noti almeno, da non trovarsene fatta nessuna
memoria per lo spazio di due secoli e mezzo circa, quanti ne corrono
dalla morte di Boezio al tempo in cui Alcuino scriveva, mentre le
altre opere del romano filosofo, non solamente erano conosciute, ma
formavano anzi la base della coltura ed erano il sussidio massimo degli
studii? Considerata la cosa anche sotto questo aspetto bisogna dire
di necessità, o che le opere teologiche suppositizie furono composte a
medio evo già fatto (VII-VIII secolo), o che, congettura più probabile,
composte prima, esse furono attribuite a Boezio molto più tardi. Ma
checchè sia di ciò, l'attribuzione delle opere in discorso, la quale
mostra quanta fosse un tempo la fama di Boezio, ha mestieri essa stessa
di spiegazione[663]. Indaghiamo come la leggenda della santità e del
martirio di Boezio possa essere sorta, e tale spiegazione ci si porgerà
da sè.

Tutti sanno che negli ultimi anni di sua vita Teodorico perseguitò
i cattolici, e giunse a far morire in carcere lo stesso papa
Giovanni. Questa persecuzione, la quale contraddice a tutta la sua
precedente politica, fu la conseguenza quasi necessaria dell'accordo
novamente stabilito nel 518 fra l'imperatore d'Oriente, che in allora
era Giustino, e la Chiesa di Roma. Questo accordo poteva esser
causa di molti pericoli per la dominazione gotica in Italia, che
gl'imperatori d'Oriente sopportavano assai di mal animo. Teodorico
era ariano. Egli scorse un segno precursore di maggiori offese nelle
vessazioni ingiustificate a cui gli ariani andarono soggetti negli
stati dell'imperatore. Tuttavia l'animo suo era inclinato alla
conciliazione. Egli mandò suo legato a Costantinopoli lo stesso
Giovanni a procacciarla; ma le pratiche non sortirono, qual che ne
fosse la cagione, l'effetto desiderato da lui, ed egli, insospettito
e inasprito, cominciò a dar opera alle minacciate rappresaglie. Di
ritorno a Ravenna Giovanni fu rinchiuso in un carcere dove, l'anno
526, cessò di vivere. Egli passò per martire: ma ognuno può vedere che
le ragioni le quali spinsero Teodorico a provvedimenti severi contro
lui e contro la Chiesa furono, non già religiosi, ma politici. A quei
provvedimenti non si può a rigore dar nome di persecuzione, ma è certo
che persecuzione dovevano parere a coloro che in un modo o in un altro
n'erano colpiti.

La disgrazia e la morte di Boezio, avvenuta, secondo la opinione più
probabile nel 524, cadono appunto nel tempo di questa persecuzione,
durante il quale era naturalissimo che agli occhi dei cristiani
molti atti di Teodorico paressero avere per prima o per sola ragione
l'odio contro la Chiesa. In Teodorico i cristiani non vedevano più il
politico, il principe geloso del proprio potere, cui credeva, a torto
o a ragione, minacciato; vedevano solamente l'eretico inteso a far
trionfare a danno della Chiesa la propria credenza. Boezio era uno
dei loro. Uomo d'illibato costume e di grandissima fama, qual altra
colpa gli si poteva apporre, se non di essere cristiano, e qual altro
scopo poteva aver Teodorico nel togliergli la vita, se non di privare
la società cristiana di uno de' suoi membri più illustri? Ho detto
già che Boezio in Roma doveva vivere ostensibilmente nel grembo della
Chiesa; ben pochi del resto a quel tempo sarebbero stati in grado di
penetrare il segreto della sua coscienza. Gli è assai probabile che
fra gli stessi contemporanei moltissimi vi furono (non certamente i
più colti e i meglio informati) che considerarono la morte di Boezio
come un martirio. Nel famoso dittico di Monza, reputato opera del
secolo VI[664], si vede Boezio in atto d'uomo afflitto e sofferente,
seduto sopra un letto, in carcere forse: nella mano destra egli
stringe un rotolo su cui è scritto: _In fide Jesu maneam_; ai piedi
ha una pergamena, che vuol essere la difesa sua contro Basilio, e il
libro De _consolatione philosophiae_; nessuno dei libri teologici,
che probabilissimamente non erano nati ancora[665]. Non v'è nulla in
questa curiosa rappresentazione che direttamente accenni a martirio; ma
l'aspetto tristo di Boezio, e la scrittura della difesa contro Basilio,
mostrano che l'artista ha voluto rappresentare il filosofo dopo la
disgrazia, e quelle parole _In fide Jesu maneam_ richiamano assai bene
alla mente la condizione del martire che sollecitato a rinnegar la sua
fede irremovibilmente vi persevera.

Così, senza dubbio, ebbe a formarsi il primo ordito della leggenda,
la quale non tardò poscia ad avere il ripieno. Non è impossibile, e
nemmeno improbabile, che i resti mortali di Boezio sieno stati raccolti
da mani pietose, e deposti in luogo, se non illustre, almeno onorevole
e sacro. Ciò che mille e mille volte erasi fatto per i corpi di martiri
oscuri, sotto la dominazione di persecutori efferati, si può credere
che si facesse per quello di un uomo celeberrimo, sotto il dominio di
un principe che fu d'indole mite e generosa, e che, se le storie non
mentono, ebbe a pentirsi della commessa ingiustizia. Può darsi che
sin da allora la tomba di Boezio, di cui Pavia si vanta posseditrice,
fosse onorata di una certa venerazione; ma questa venerazione, per
estendersi, per diventare un culto, abbisognava di certe condizioni che
non le mancarono lungamente.

Finchè durò la dominazione gotica l'arianesimo ebbe favore ed appoggio;
ma quella cessata, e succedutale la longobardica, l'eresia fu novamente
depressa in Italia. Liutprando, grandissimo fautore del cattolicismo,
ristaurò, o riedificò in Pavia l'antica chiesa di San Pietro in Ciel
d'Oro, e per accrescerle lustro e riputazione fece venir di Sardegna,
e vi depose, il corpo di Sant'Agostino e di altri santi. Può darsi che
il corpo di Boezio già riposasse in quella chiesa; può darsi che lo
stesso Liutprando ve lo facesse trasportare da luogo meno onorevole;
e quando a ciò fare non lo avesse indotto la opinione della santità di
Boezio, altre ragioni potevano indurlo. Era atto di giudiziosa politica
il denigrare quanto più fosse possibile il governo di Teodorico; e
di quanto si abbassava la riputazione di costui, di tanto conveniva
esaltare quella degli uomini che ingiustamente egli aveva fatto segno
dell'ira sua. Con onorare Boezio s'infamava Teodorico. Un biografo di
Boezio, il Barberini[666], narra sulla fede di un antico manoscritto,
non mai fatto di pubblica ragione, che l'anno 722 Liutprando ritrovò
il sepolcro di Boezio, con una iscrizione che or ora vedremo. Di
che autorità fosse il codice in discorso, andato, sembra, smarrito,
nessuno può dire: ma le testimonianze più antiche non fanno cenno
di ritrovamento. Paolo Diacono dice bensì che Liutprando fece venire
dalla Sardegna, devastata dagli Arabi, il corpo di Sant'Agostino; ma di
Boezio non fa parola[667]. Ora, egli che altrove parla di Boezio come
di un cattolico, se fosse vero quel ritrovamento, ne avrebbe dovuto,
pare, saper qualche cosa, non potendosi ammettere che un tale fatto,
il quale concerneva un uomo di tanta celebrità, potesse avvenire senza
che se ne levasse rumore; e notisi che Paolo Diacono fu cresciuto ed
educato alla corte di Pavia, e compose i sei libri della _Historia
Longobardorum_ a Monte Cassino, intorno al 790, settant'anni circa
dopo il supposto ritrovamento. Agnello, nel suo _Liber pontificalis
Ecclesiae Ravennatis_, composto verso il mezzo del IX secolo, non
dice altro se non che Boezio e Simmaco, uccisi insieme, furono
insieme chiusi in un'arca che sussisteva ancora al suo tempo[668].
L'Anonimo Ticinense, nel _De laudibus Papiae_, così parla della chiesa,
dell'epitafio e del santo[669]: «Ecclesia S. Petri in Coelo-aureo,
quam amplificavit Liutprandus Rex Longobardorum, atque dotavit. In
qua jacet Corpus Beatissimi Augustini Episcopi Hipponensis Doctoris
eximii, qui multas ibi virtutes ostendit; et corpora BB. MM. Luxorii,
Ciselli, Camerini, Robustiani et Marci, nec non B. Apiani Episcopi et
Confessoris, quae omnia translata sunt de Sardinia illuc cum corpore
B. Augustini per dictum Regem; cujus Regis illic etiam Corpus quiescit
translatum de Ecclesia S. Adriani per abatem Olricum. Item Corpus
Severini Boëtii Philosophi viri Dei, qui in praefata Urbe exul a Roma
Librum de Philosophiae Consolatione composuit, qui Liber manu sua
conscriptus usque ad haec fere tempora ibi servatus est, et in hac
Urbe ipso Boëtius trucidatus occubuit, sicut patet in versibus, in ejus
tumulo scriptis qui sic dicunt:

    Hoc in Sarcofago jacet ecce Boëtius arcto
    Magnus et omnimodo orando magnificandus homo.

In fine vero sic scriptum est:

    Qui Theodorico Regi delatus iniquo
    Papia senium ducunt in exilium.
    In quo se moestum solans dedit inde libellum,
    Post ictus gladio exiit a medio.

Del ritrovamento non fanno ricordo nè il Gualla nella sua storia della
Chiesa Pavese, nè il Sacco nella sua storia di Pavia; e però non si
ha nessun buon argomento per asserire che il sepolcro di Boezio fosse
stato interamente dimenticato in Pavia e che Liutprando lo ritrovasse.

Bensì è da ammettere che solo dopo la restaurazione della chiesa
di San Pietro in Ciel d'Oro, e la traslazione del corpo, o i nuovi
onori avuti da Liutprando, Boezio cominciasse a fruire di una più
ferma e larga riputazione di santità. L'epitafio di cui l'Anonimo
Ticinense è il primo a riportare alcuni versi, e che altri altrimenti
riferiscono[670], fu fatto porre assai probabilmente dallo stesso
Liutprando. Giulio Marziano Rota[671], il Barberini testè citato, e
alcun altro, pretendono che sia anteriore; ma certo, mentre durava
la signoria dei Goti non si sarebbero messe nell'epitafio di chi era
accusato di aver voluto rovesciare quella signoria, le ingiuriose
parole che vi si leggono contro Teodorico, e che così naturalmente vi
trovavano luogo sotto un re longobardo. Inoltre è assai ragionevole il
credere che Liutprando volesse onorare con nuovo e più solenne epitafio
il sepolcro del filosofo e del martire. Se la iscrizione intera
riportata testè in nota fosse autentica, essa conterrebbe la più antica
allusione che si conosca alle opere teologiche di Boezio. Cominciò
allora, come dissi, a diffondersi e a vie maggiormente confermarsi la
opinione della santità di Boezio, il nome del quale fu da indi in poi
registrato nei Martirologi e nei Cataloghi di Santi al 23 di Ottobre.
L'attribuzione di opere teologiche fu una conseguenza logica di quella
opinione, sia prima, sia dopo la più solenne canonizzazione seguìta per
fatto di Liutprando. La santità di Boezio dalle sue opere autentiche
non si sarebbe potuta rilevare, nè si sarebbe potuta trovare in esse
la ragione del suo martirio. Era quasi necessario l'immaginare ch'egli
avesse con opere di molta autorità, difendendo i dogmi della Chiesa
cattolica e combattendo gli eretici, e in più particolar modo gli
ariani, provocata l'ira di Teodorico, e poichè nel medio evo (ne abbiam
veduti sin qui troppi esempii), facilmente si dava qualità di reale a
quanto s'immaginava, era assai naturale che quell'opere o prima o poi
comparissero.

Tutte queste, a dir vero, son congetture; ma chi voglia spiegare in
qualche modo la nascita della leggenda, e mostrare a chi è di contrario
avviso che i fatti asseriti in essa possono essere intesi anche da
chi non li ritiene per veri, è pur forza, mancando le testimonianze
storiche, procedere per via di congetture. Ad ogni modo quelle che qui
si sono prodotte potranno parere abbastanza plausibili, sorrette come
sono dagli esempii conformi di molte altre leggende, e la stessa loro
normalità e semplicità le farà parer più accettabili. Riepilogando
in brevi parole il detto sin qui, si ha il seguente risultamento.
Boezio, nato di genitori cristiani, battezzato, cresciuto nel grembo
della Chiesa, era universalmente tenuto in concetto di cristiano,
sebbene, dedito in tutto alla filosofia, egli fosse alieno da qualsiasi
religione positiva. Caduto in disgrazia, e punito di ingiusta morte,
nel tempo che Teodorico si era dato ad affliggere con atti ostili la
Chiesa, fu creduto da quanti non erano in grado di meglio conoscere la
ragion delle cose, che in Boezio fosse stato colpito il cattolico, e
che la sua morte fosse stata un martirio. Tale opinione durò forse più
particolarmente in Pavia, dove si può credere che gli avanzi di Boezio
fossero stati onorevolmente conservati; ma non si avvalorò, non si
diffuse, se non dopochè Liutprando ebbe procacciato nuovo lustro alla
Chiesa Pavese. L'attribuzione delle opere teologiche fu una conseguenza
della opinione di santità[672].

Al Jourdain, di cui ho testè ricordato lo scritto, parve di dover
ricorrere ad un'altra ipotesi, secondo che io penso, non necessaria.
Il Boezio santo e martire non sarebbe l'autore del _De consolatione
philosophiae_, ma un altro, solamente con lui confuso. Nel secolo
VI vi furono quattro vescovi che, come il filosofo, portarono il
nome di Boezio, tra' quali uno che fu vescovo d'Africa, esiliato e
morto in Sardegna. Il Jourdain crede che il corpo di costui sia stato
trasportato, insieme con quello di Sant'Agostino e di altri santi, di
Sardegna in Pavia, dove diede occasione alla leggenda. Egli sarebbe
l'autore dei libri teologici attribuiti poscia al filosofo. Tale
ipotesi, anzi tutto, non è necessaria, perchè parmi, o m'inganno, che
il filosofo avesse tutte le qualità necessarie per trasformarsi in
santo da se stesso. Altri scrittori latini abbiamo veduto compiere una
trasformazione sì fatta, che ne avevano assai meno ragione di Boezio.
Inoltre essa è poco probabile. Della morte e della sepoltura di Boezio
si conservava memoria nel secolo VIII, come provano le testimonianze
di Agnello e di Paolo Diacono, ed è difficile ammettere che lo scambio
avvenisse con un vescovo omonimo sì, ma morto di morte naturale e
sepolto in Sardegna. Del resto il dittico di Monza è sempre lì che
prova nata la opinione della santità del filosofo un pezzo prima
che avvenisse la supposta traslazione del vescovo. Che qualcuno dei
libri teologici sia opera di costui può darsi, ma non vi è modo nè di
affermarlo, nè di negarlo. Che il vescovo, ammessa la sua traslazione,
abbia esercitato qualche influsso sulla leggenda del filosofo può darsi
del pari, ma è del pari impossibile a provare. Lo stesso dicasi per
San Severino vescovo di Colonia, riguardo al quale sono da notare due
fatti molto curiosi, che potrebbero dare appiglio a facili congetture,
e cioè che nel Martirologio dell'Usuardo egli è registrato al 23 di
Ottobre, nel qual giorno abbiam veduto cadere appunto la commemorazione
di Severino Boezio, e che ivi stesso si dice avere egli strenuamente
difeso la sua Chiesa contro la infestazione dell'ariana eresia[673].

Veduto come, secondo probabili congetture, dovesse aver nascimento e
crescere la leggenda di Boezio, vediamo ora sotto quale aspetto questa
leggenda medesima ci si presenti in alcuno dei più antichi documenti
che la raccolsero. Ho già parlato del frammento di poema provenzale, la
cui composizione indubitabilmente risale al X secolo. Noi vi troviamo
la leggenda della santità e del martirio di Boezio pienamente accolta e
confermata. Dopo un breve esordio parenetico e morale, l'ignoto autore
entra a narrare la storia di Boezio. Gli uomini erano pieni d'ogni
tristizia, e Boezio, desideroso di correggerli, predicava loro, e li
ammoniva che credessero in Dio, il quale aveva sofferto passione per
essi, e tutti li avrebbe redenti[674]. Non fecero frutto le sue parole
e i nemici suoi lo perdettero. Boezio fu di bella persona, e pieno di
tanta sapienza che nessuno v'era in Roma che gli si pareggiasse. Egli
era conte di Roma, e in tanta grazia appo l'imperatore Manlio Torquato
(_Mallio Torquator_)[675], che in suo nome governava tutto l'impero. Ma
morto il buon imperatore Manlio, ecco in Roma l'eretico Teodorico, il
quale non credeva in Dio. Boezio, che aveva amaramente pianta la morte
del suo primo signore, non volle riconoscere come tale il miscredente,
non volle avere da lui l'investitura dei proprii tenimenti. Egli lo
ammoniva anzi; ma Teodorico, pien di mal animo, mal sopportando le
sue rimostranze, pensò al modo di disfarsi di lui. Egli simulò lettere
dalle quali appariva che Boezio invitava i Greci a passare il mare, e a
venirsi a prendere Roma, ch'egli avrebbe data loro nello mani. Accusato
di tradimento, Boezio fu tratto nel Campidoglio in mezzo ai suoi
pari e sottoposto a giudizio. Coloro ch'egli aveva più beneficato lo
abbandonarono: egli fu condannato e chiuso in carcere. Lo stesso libro
_De consolatione philosophiae_ porge materia al resto del frammento,
che, disgraziatamente, non passa oltre il verso 258. Senza dubbio
il poema finiva con la narrazione della morte di Boezio, e forse con
indicazioni, che per noi sarebbero state di molto interesse, circa la
sepoltura e la canonizzazione.

Ciò che v'ha di più singolare in questo strano racconto, dove non è
fatto nessun ricordo nè di Simmaco, nè del papa Giovanni, si è la
combinazione abbastanza ingegnosamente procacciata degli elementi
storici coi leggendarii: le cause apparenti della disgrazia di Boezio
sono su per giù quelle stesse che la storia conosce, ma le vere sono
la miscredenza di Teodorico e lo zelo del filosofo per la fede. Nella
_Kaiserchronick_, per contrario, ogni motivo religioso è soppresso,
anche per Simmaco e per il pontefice[676]. Al tempo di Teodorico erano
in Roma Boezio, Seneca (l. Simmaco) e un papa per nome San Giovanni.
Questi tre mandarono messi all'imperatore Zenone, significandogli come
all'onor suo disdicesse che un uomo di vili natali tenesse l'impero di
Roma. I messi, colti per via, confessarono ogni cosa. Teodorico fece
venire i colpevoli, _chierici e laici_, a Pavia, e gettatili in un
carcere ve li fece morire di fame.

Passiamo ora a considerare alcune particolarità e varianti della
leggenda, delle quali non ci si porse sin qui opportunità di
discorrere. Io ho nelle pagine che precedono implicitamente accettata
la opinione che fa di Pavia il luogo della relegazione, della morte,
della sepoltura di Boezio. È questa la opinione più probabile e
più universalmente ricevuta[677]. La tradizione a tale riguardo è
antichissima in Pavia, dove durò sino al 1584 una torre, chiamata Torre
di Boezio, appunto perchè si credeva che in essa fosse stato chiuso il
filosofo. In memoria, pare, dello ingiusto castigo ivi sofferto da lui
fu chiamata anche Fraudulenta[678]. Ai tempi di Alessandro Neckam il
sepolcro di Boezio era considerato come cosa da cui ridondava a Pavia
grandissimo onore[679]. Ma, a tacere di alcune opinioni critiche di
moderni[680], da parecchi si credette nel medio evo che Boezio fosse
stato ucciso e sepolto in Ravenna, opinione evidentemente suggerita
dal sapersi che nelle carceri di Ravenna era morto il papa Giovanni, e
dalla tendenza della leggenda a stringere in un gruppo, e a far morire
per le stesse ragioni, e quindi anche nello stesso luogo, Giovanni,
Simmaco, Boezio. Agnello dice Simmaco e Boezio sepolti nella stessa
arca in Ravenna, dove era anche sepolto il loro uccisore Teodorico.
Balduino Ninoviense dice che Boezio fu relegato in Ravenna, e quivi
scrisse il trattato _De consolatione philosophiae_[681]; e tale
opinione fu ricevuta anche dal Tritthemio[682].

Intorno al modo della morte di Boezio corsero nel medio evo varie
opinioni. Agnello, Freculfo, Paolo Diacono, Anastasio Bibliotecario,
altri, lo dicono decapitato; l'Anonimo Valesiano racconta che Eusebio,
prefetto della città di Pavia, per ordine di Teodorico sottopose
Boezio a tortura, e tanto gli fece serrare intorno al capo una corda,
che ne schizzarono gli occhi, e poi lo fece morire sotto il bastone,
se per bastone dev'essere intesa la voce _fustis_ qui adoperata
dall'Anonimo[683]. Abbiamo veduto che, secondo la _Kaiserchronik_,
il papa Giovanni, Simmaco e Boezio furono fatti morire di fame.
Anche qualche altra favola, men razionale, si spacciò e circa il
modo, e circa la ragione della morte di Boezio. Giovanni da Verona,
nella inedita sua _Historia imperialis_ ne riporta una secondo la
quale Teodorico non v'avrebbe avuto parte alcuna, e Boezio sarebbe
stato libero in Pavia. Ecco le sue proprie parole[684]: «De huius
morte diversi diversa scripserunt..... Alii dicunt quod dum Boetius
esset Papie contigit quod inter duos fratres orta est pro patris
hereditate dissensio. Cumque questio delata fuisset ad Boetium utpote
iurisconsultum, secundum leges sententiam tulit, et uni fratrum
victoriam litis, alteri vero perditionem iudicavit. Tunc frater qui
succubuerat, missis satellitibus, Boetium quadam mane orantem in
ecclesia beati Petri ad Celum aureum occidi fecit».

Era assai naturale che si cercassero nuove prove della santità di
Boezio, e che nella biografia di lui s'introducessero nuovi fatti,
inventati di pianta, ma che venivano modificando il carattere dell'uomo
come le fantasie e gl'ideali dei tempi portavano. Si sapeva che Boezio
aveva sposato Rusticiana, figlia cristiana del cristiano Simmaco; ma
questa non parve essere compagna abbastanza degna del teologo insigne
e del martire venerato. Onde che s'inventò e gli si pose a fianco
una Elpidia, sua prima moglie, figlia del senatore Festo, autrice di
due inni in onore dei santi Pietro e Paolo, morta poco dopo il suo
matrimonio, e sepolta come il suo sposo in Pavia. Secondo Ranulfo
Higden questa Elpidia era nientemeno che figliuola del re di Sicilia.
Ma un'altra cosa doveva stare più a cuore agl'inconscii favoleggiatori
del medio evo. Boezio era un teologo, era un martire, ma non era un
chierico. Ciò doveva parere sconveniente in tempi in cui, se non tutta
la santità, almeno tutta la scienza era nei chierici. Bisognava che
Boezio, console di Roma, e gran feudatario dell'impero secondo il
poema provenzale, si rassegnasse a entrare in religione e a ricevere
gli ordini. Nella Vita di San Placido martire, scritta da Gordiano
Monaco, e interpolata da Pietro Diacono, si narra che Boezio, Simmaco
ed altri uomini insigni di Roma recaronsi a Monte Cassino, e furono
da San Benedetto ricevuti nella società dei suoi monaci[685]. Notisi
che Boezio e Simmaco furono messi a morte tre anni prima che San
Benedetto andasse a Monte Cassino. Gordiano fioriva intorno al 541,
ed è difficile credere che a così poca distanza di tempo egli osasse
spacciare una fanfaluca così solenne; Pietro Diacono fioriva verso il
1120, e non è improbabile che l'onore della invenzione si appartenga
a lui. Un bel pezzo dopo, il Tritthemio accoglieva la favola,
temperandone tuttavia la soverchia assurdità[686].

La prova più evidente della santità è il miracolo, e la pietosa
fantasia dei credenti era naturalmente tratta ad immaginare qualche
miracolo a cui appoggiare la santità di Boezio. Tutti conoscono il
prodigio con cui San Dionigi illustrò la propria morte, e sbalordì i
suoi carnefici; a Boezio ne fu attribuito uno in tutto simile. Narra
l'Anonimo Ticinense che il filosofo martire, decollato, si tolse la
propria testa fra le braccia, e la portò dal luogo della decollazione
sino alla Chiesa di San Pietro in Ciel d'Oro. Francesco da Buti narra
con più particolari come «andando (Boezio) una mattina a la chiesa,
a la volta d'uno cantone li fu dato uno colpo tra 'l capo e 'l collo
dai suoi emoli che ne mandò il capo, lo quale capo elli ricevè nelle
sue mani e ripuoseselo in sul collo et andò alla chiesa, et tanto
visse ch'elli si confessò et rimissesi nelle mani del sacerdote»[687].
In questa uccisione, come in quella di cui narra Giovanni da Verona,
Teodorico non c'entra per nulla; il supplizio si muta in un assassinio;
si noterà ancora che qui Boezio è libero di girar per Pavia, mentre,
secondo la più vulgata tradizione, egli vi fu chiuso in carcere. Dice
in fatti Francesco da Buti che Boezio era in Pavia relegato e posto
in esilio dal re Teodorico. Il Gualla racconta anch'esso il miracolo,
attenendosi alla versione dell'Anonimo Ticinense, che, secondo
l'affermazione sua, sarebbe stata quella di antichissime cronache
pavesi (_pervetustis etiam Ticini cronicis attentantibus_); ma fa ancor
egli menzione dei ricevuti sacramenti. Giulio Marziano Rota vi mette
qualche fioritura: richiesto dal carnefice chi gli avesse troncato il
capo, Boezio rispose: Gli empii[688].

Se non fosse stata la leggenda della santità e del martirio,
sufficiente di per sè ad occupare le fantasie, un'altra leggenda
sarebbe forse sorta intorno al nome di Boezio, ancor essa molto
consentanea ai gusti e alle tendenze del medio evo, quella cioè del
sapere e del potere magico. Le ragioni da farla nascere non mancavano.
Una delle accuse lanciategli contro dai suoi nemici si fu appunto
l'accusa di magia, e da essa, come dalle altre, Boezio si difese.
In una di quelle famose epistole scritte in nome di Teodorico[689],
Cassiodoro fa a Boezio grandissime lodi pel suo meraviglioso sapere,
gli raccomanda certi orologi da mandare a Gundibaldo, re dei Burgundi,
ricorda un serpe e alcuni uccelli con sommo artifizio dal filosofo
fabbricati. L'autore del poema provenzale dice di lui:

    No cuid qu'e Roma om de so saber fos;

e l'apocrifo libro _De disciplina scholarium_, fa dire allo stesso
Boezio come, per ragione di studio, passò diciott'anni in Atene.
Facilmente dunque avrebbe potuto sorgere in Pavia, che si gloriava di
conservarne le ossa, una leggenda di Boezio mago, come una leggenda
di Virgilio mago era sorta in Napoli; ma a che sorgesse si opponeva
il fatto universalmente conosciuto che in Pavia Boezio era stato
relegato e chiuso in carcere e ucciso da ultimo. Con questa qualità di
paziente male si sarebbe potuta accordare la qualità di mago: Boezio
mago sarebbe come Virgilio uscito miracolosamente dal carcere e avrebbe
delusi i suoi persecutori. Oltre di ciò, a lui santo la qualità di mago
sarebbe stata oramai disdicevole; poteva ancora trasformarsi in mago il
filosofo Boezio, il martire San Severino più nol poteva.

Abbiamo veduto quali, secondo la leggenda, furono gli ultimi casi del
perseguitato; vediamo ora quale, secondo la leggenda medesimamente,
fu la fine del persecutore. Questa fine, comechè da varii variamente
narrata, è degna dei misfatti che la provocano; essa è sempre
considerata come una giusta vendetta del cielo.

Notiamo anzi tutto uno stranissimo errore, ma tale tuttavia che a
fronte della scienza storica del medio evo non sembrerà certamente
eccessivo. Fredegario distingue il Teodorico che fece morire Boezio
da un altro, di cui, facendo due persone di una, racconta la storia
abbastanza romanzesca. Di quel primo dice: «Theodoricus cum Papam
Romae Apostolicum virum Joannem sine culpa morte damnasset, et
Symmachum Patritium, nullis causis existentibus itemque trucidavit,
ira percussus divina, a germano suo Gaiserico interficitur»[690]. Qui
il fatto narrato è falso, ma semplice e naturale; Procopio comincia
ad entrare nel meraviglioso. Racconta questo storico[691] che, dopo
aver fatto morire Boezio e Simmaco, un giorno, a mensa, Teodorico
credette di riconoscere nella testa di un gran pesce che i donzelli
gli avevano posto dinnanzi, la testa di Simmaco, che lo guardava
torva e minacciosa. Ammalatosi pel terrore, narrò ogni cosa al suo
medico Elpidio, e, deplorando la commessa ingiustizia, in brev'ora
morì. Procopio soggiunge benignamente che l'uccisione di Boezio e
di Simmaco fu la prima e l'ultima ingiustizia da Teodorico commessa.
Qui si parla di sola morte del corpo e non disperata; ma questa non
doveva sembrare punizione sufficiente a quella Chiesa che serbava
ancor viva la memoria delle offese ricevuto dal principe eretico,
e la leggenda ecclesiastica inesorabile passa oltre a narrare della
morte dell'anima. Teodorico dev'esser dannato. Gregorio Magno a cui,
essendo pontefice, doveva sembrare immane la colpa del re che aveva
osato rinchiudere e far morire in un carcere un vicario di Cristo,
racconta[692], raccogliendolo da altre bocche, il caso di un solitario
dell'isola di Lipari, che aveva veduto il papa Giovanni e Simmaco
precipitar Teodorico nella bocca di quel vulcano. Ora è noto che le
bocche dei vulcani erano universalmente credute nel medio evo spiracoli
dell'inferno. Questa paurosa favola incontrò molto favore e si trova
ripetuta da infiniti. Valafredo Strabone forse vi allude nel suo
poemetto _De imagine Tetrici_, quando dice:

    Tetricus Italicis quondam regnator in oris
    multis ex opibus tantum sibi servat avarus
    at secum infelix piceo spatiatur Averno,
    cui nihil in mundo, nisi vix fama arida restat,
    quamquam thermarum vulgus vada praeparet olli,
    hoc sinc nec causa, nam omni maledicitur ore,
    blasphemumque dei ipsius sententia mundi
    ignibus aeternis magnaeque addicit abysso.

I ripetitori al vulcano dell'isola di Lipari sostituiscono ora l'Etna,
ora il Vesuvio[693]. A tal pena non fu condannato del resto il solo
Teodorico; parecchi altri ebbero nella leggenda egual sorte, come, a
ragion d'esempio, Bertoldo V, duca di Zäringen, e Attone, vescovo di
Magonza[694].

Altri narrano d'altri castighi. Giovanni da Verona, in uno dei racconti
che riferisce a tale proposito, fa che Teodorico spiri l'anima in man
dei demonii; ma prima descrive la morte sua spaventosa, prodotta da
inaudito e formidabile morbo. Ricordati alcuni orrendi prodigi che
avvennero circa quel tempo, egli così si esprime[695]: «Set omnipotens
deus noluit pati ulterius ut fidei vere cultores deprimerentur. Nam
tyrannus Theodoricus, mox ut sententiam contra catholicos dictavit,
divina sententia punitus est. Statim enim gravissimo ventris profluvio
egrotans, ad instar Arrii auctoris eius, intra triduum omnia viscera
cum pulmone, iecore et splene et aliis precordis egessit, et die
dominico, quo se credebat invadere catholicorum ecclesias, regnum
finivit, et animam in manu demonum exalavit». Secondo certi racconti
germanici, Teodorico non sarebbe mai morto, ma sarebbe solamente
sparito in modo meraviglioso, e per virtù diabolica, di tra i viventi.
In una delle redazioni della _Vilkina Saga_[696], il prodigio è narrato
nel seguente modo. Un giorno che Teodorico, essendo già vecchio, ma
valido ancora, s'era bagnato nel luogo che da lui appunto prese il nome
di bagno di Teodorico, uno dei suoi famigli gridò: «laggiù corre un
cavallo nero di tanta bellezza e vigoria ch'io mai non vidi l'eguale».
Udite tali parole Teodorico balza fuori dell'acqua, si copre alla
meglio, e domanda che tosto gli sieno condotti il suo proprio cavallo e
i suoi cani. Ma tardando questi a venire, egli salta sul cavallo nero,
il quale tosto si mette a fuggire più rapido di un uccello. Lo insegue,
ma indarno, con tutti i cani sguinzagliati, il miglior cavaliere della
scorta. Teodorico, sentendo essere nel cavallo che lo invola alcunchè
di soprannaturale, si sforza di scendere, ma non gli vien fatto. Il
cavaliere da lungi gli grida: «Signore, perchè corri tu in cotal guisa,
e quando farai ritorno?» e quegli risponde: «È il diavolo stesso che mi
porta. Tornerò quando piacerà a Dio e alla Vergine Maria». Da allora
in poi di Teodorico non s'ebbe più nuova; ma gli uomini di Germania
dicono essersi risaputo per visioni, che Dio e la Vergine, cui egli
ricordava nelle sue preghiere, gli usarono misericordia. Secondo un
vecchio poema tedesco, l'_Etzels Hofhaltung_, ossia la Corte di Attila,
Teodorico, per aver bestemmiato Dio, fu, vivo ancora, rapito dal
diavolo sotto figura di un cavallo, e portato nella deserta Romania,
dove dovrà combattere coi serpenti sino al giorno del giudizio[697].
Secondo un altro racconto tedesco, quando furono morti tutti gli eroi
dei Nibelunghi, un nano si presentò a Teodorico e lo invitò a seguirlo.
Questi andò con lui, e nessuno mai ha più saputo s'egli viva ancora,
e in qual parte del mondo si trovi[698]. In alcuni luoghi di Germania
il capo della Caccia furibonda, il Cacciatore selvaggio (_der wilde
Jäger_), è Berndietrich, cioè Teodorico. In quella medesima forma
appajono parecchi altri grandi colpevoli; ma anche Artù, Carlo Magno,
Carlo V.[699].

In Germania la leggenda si mostrò in generale molto indulgente per
Teodorico: l'eroe sparisce invocando i nomi di Dio e della Vergine; il
suo castigo, non gravissimo, durerà sino al dì del giudizio. In Italia,
come già per un esempio solenne abbiamo veduto, essa fu ben più severa.
E non poteva non essere, giacchè là dove cresceva il grido della
santità di Boezio, doveva crescere parimente l'infamia di Teodorico,
e il desiderio di ottenere sopra costui più esemplare vendetta. La
leggenda del cavallo diabolico e rapitore nacque probabilmente in
Italia, d'onde passò in Germania, e quivi, incontrandosi con tradizioni
d'altra natura, e nelle quali suona glorioso il nome di Teodorico,
ebbe a temperar di necessità il suo spirito d'odio e di vendetta.
In Verona Teodorico era creduto figlio del diavolo, e la leggenda lo
ricacciava all'inferno, ond'era uscito. Nella _Historia Imperialis_
di Giovanni da Verona si legge a tale proposito il seguente curioso e
notabile passo[700]: «Hic est Theodoricus, quem Veronenses appellant
Diatrichum[701], de quo fabulose fertur a personis vulgaribus quod
fuit genitus a diabolo, et regnavit Verone, et fecit fieri arenam
veronensem; et postmodum, misso nuntio ad infernum, recepit a patre suo
diabolo equum unum et canes, et dum hec munia Theodoricus accepisset
tanto gaudio repletus est, quod de balneo in quo lavabatur, solum
involutus linteamine, exiens, equum ascendit, et statim nunquam
comparuit, set per silvas adhuc de nocte venari dicitur et persequi
nimphas[702]». A canto alla porta di San Zeno in Verona è un antico
bassorilievo il quale rappresenta e ricorda ancora questa fantastica
avventura, sebbene i versi latini che l'accompagnano e lo spiegano non
contengano il nome di Teodorico[703].

La Germania faceva di Teodorico, il prode guerriero, uno degli eroi
della sua epopea nazionale; ma in Italia la Chiesa, secondando il
sentimento della nazione, faceva del principe barbaro ed eretico
un dannato, e non ne lasciava posare le ossa[704], mentre innalzava
all'onor degli altari il martire Boezio, detto l'ultimo dei Romani. Con
Boezio trionfavano congiuntamente il cattolicismo e la romanità.



CAPITOLO XIX.

Gli dei di Roma.


Il medio evo, che serbò viva, se non fedele memoria degl'imperatori,
i quali avevan fatto di Roma la regina del mondo, e degli scrittori
che con l'opere l'avevano illustrata, non poteva in tutto dimenticare
quelle antiche e fastose divinità sotto il cui patrocinio la città
eterna era nata e cresciuta a tanta gloria. Negli scrittori stessi
di cui si leggevano assiduamente e si trascrivevano i libri, e
massimamente poi nei poeti, ricorrono senza fine i nomi degli dei, si
narrano le mirabili storie del cielo, si descrivono feste e pratiche
religiose. Abbiam veduto che alle _Metamorfosi_ di Ovidio fu dato
allora il nome di Bibbia dei pagani, e che con quello di _Martirologio_
furono designati i _Fasti_.

Per ispegnere una religione la quale per secoli abbia governato la
coscienza e la vita ci vogliono i secoli; anzi, a dir vero, essa non
si spegne propriamente se non in parte, mentre in parte si trasforma,
e continua a vivere, occulta, od assimilata alla nuova fede che la
tolse di seggio, e questa non consegue il trionfo definitivo se non
con rimettere, in parte, della sua originale schiettezza ed alterarsi
più o meno. Sinchè dura il periodo acuto della lotta le due contrarie
credenze rimangono diligentemente sceverate; la più debole, se
glielo imponga la necessità dei tempi, si ritrae dalla vita pubblica,
abbandona i suoi santuarii, si fa clandestina; ma nel profondo delle
coscienze permane intera, ed è anzi fatta più risoluta e più rigida
dalla stessa contraddizione: la più forte le subentra, e mentre
recisamente nega il dogma nemico, si afferma nel proprio carattere
e si tiene immune da ogni contagio. Ben altrimenti procedono le cose
quando all'èra della lotta astiosa sia succeduta l'èra della pacifica
diffusione e della confermazione ordinata. Allora le due contrarie
credenze vengono a più intimo contatto, e negli spiriti, in cui l'una
deve sostituirsi all'altra, avvengono combinazioni e fusioni d'ogni
maniera: le memorie durano tenacissime e la sostituzione non si fa mai
intera ed assoluta.

Così appunto intravenne al cristianesimo e al paganesimo. Cacciati dal
cielo e dai templi, i numi di Roma si raccolsero intorno ai lari dei
loro fedeli; cacciati dalle città si ritrassero nei boschi e nei campi;
ma passarono secoli e secoli e la figura sanguinosa del crocifisso
non riuscì a far dileguare interamente dinnanzi a sè quegli splendidi
fantasmi che le arti a gara avevano dotato di tutte le seduzioni.
Essi cedevano a poco a poco alla forza vittoriosa che li incalzava,
ma riapparivano spesso inopinatamente nei luoghi dove avevano fatto
già sì lunga dimora, ed anche quando se n'erano dileguati per sempre,
lasciavano dietro a sè lungo strascico di memorie, e di lontano
esercitavano sulla nuova fede irresistibili influssi.

Una storia del cristianesimo, non quale appare nella dogmatica
ecclesiastica, ma quale si venne veramente foggiando nella credenza
popolare, mostrerebbe di che natura e di che forza sieno stati quegli
influssi; non essendo questo il luogo per entrare in così lunga e
malagevole indagine, mi contenterò di alcuni brevi cenni, che, se non
altro, basteranno a caratterizzare il fenomeno.

Non si può negare che ad una mente educata nel politeismo il dogma
cristiano non dovesse parere assai scarso di attrattive. Il Dio
trino ed uno, posto ad incommensurabile altezza sopra la umanità,
imperscrutabile e severo nella sua solitudine, facilmente atterriva chi
era uso a vedere un popolo intero di dei mescolarsi continuamente cogli
uomini, chi dei accoglieva sotto il suo tetto e alla sua mensa. Se il
nuovo convertito non era, come nella più parte dei casi certamente non
era, uno spirito eletto, in cui la nuova verità trovava pronto e facile
consentimento, quanti dubbii, quanti terrori doveano tener dietro alla
conversione! Era quasi impossibile che egli non provasse un senso
di angustia e di sfiducia, posto faccia a faccia con quel terribile
giudice che non si placava come gli dei delle genti per sacrificii e
per arti di sacerdoti. E non era stato ancora conferito al ministro
dell'altare l'ufficio d'intermediario perpetuo tra Dio e il credente,
e non era stata inventata ancora la confessione auricolare. La chiesa
catechizzante avvertì il difetto e provvide: il culto di Maria fu
un'utile concessione fatta dal cristianesimo al paganesimo. Dopo il
decreto del concilio di Efeso che dichiarava la Vergine essere madre
di Dio, per molti cristiani la religione consistette essenzialmente nel
culto di lei, e i pagani, i quali intendevano meglio assai questo culto
che non quello che si tributava a Dio, e nella Vergine vedevano una
specie di divinità più prossima alla terra, e più simile a quelle che
già avevano famigliari, ebbero maggiore facilità a convertirsi[705].
Se non che quel culto medesimo non potè serbarsi così puro come avrebbe
dovuto; i pagani, quasi senza avvedersene, trasfusero in esso non poche
pratiche della loro vecchia religione, e nelle loro fantasie più d'un
attributo di antiche divinità, e più specialmente di Venere e di Diana,
passò alla Vergine. Tutti sanno quanto il culto di costei, in alcuni
paesi d'Europa, conservi ancora del pagano. Certe feste della Madonna,
soprattutto nel mezzogiorno d'Italia, sembrano trarre la origine da
antiche feste di Cerere, e conservano ancora spiccatissimo il carattere
primitivo.

Il culto dei santi, che sono come tanti mediatori tra il cielo e la
terra, agevolò ancor esso potentemente il trapasso dal politeismo
al cristianesimo. Per essi il cielo si ripopolava in certo modo di
semidei, i quali, non soltanto potevano giovare grandemente agli uomini
come intercessori appo la Divinità suprema, ma ancora come potenti
elargitori di grazie per proprio conto. Essi prendevano il posto delle
singole divinità proscritte, ne ricevevano gli attributi, ne adempievan
gli ufficii, e fruivano del culto una volta ad esse tributato. Come
gli antichi dei si erano distribuiti gli ufficii molteplici del
governo delle cose, così se li distribuirono i santi, ed ogni santo
ebbe un particolare còmpito ed esercitò un particolar patrocinio[706].
Naturalmente ve n'ebbe anche qualcuno che succedette nei cómpiti meno
onorevoli di certe antiche divinità, mentre altri pajono esser venuti
su solamente perchè provocati dalla esistenza di divinità al cui culto
non si voleva rinunziare, ovvero sono quelle divinità medesime alquanto
trasformate e designate con altro nome[707]. Molte feste di santi,
celebrate con riti particolari dal popolo, altro non sono in origine
che feste pagane; e alcune delle solennità massime del calendario
cristiano si legano similmente con antiche solennità, tra l'altre
forse quella stessa principalissima del Natale, come da parecchi
fu sostenuto[708]. Così non picciola parte del vinto paganesimo si
trasfondeva nella nuova religione[709].

Ho detto che le reminiscenze duravano tenacissime. Nel 692 il concilio
_in Trullo_ biasima e vieta la celebrazione di feste pagane ancora in
vigore; ma poi per lungo tempo, così in Oriente, come in Occidente,
negli atti dei concilii, nelle Vite dei Santi, in altre scritture di
sacro argomento, si trova fatto ricordo frequentissimo di costumanze e
di riti pagani, alla totale abolizione dei quali indarno si affaticava
la Chiesa. L'_Indiculus superstitionum et paganiarum_, compilato dal
concilio di Leptines nel 743, e parecchi capitolari di Carlo Magno
mostrano come le antiche superstizioni ancora durassero nell'VIII
secolo. In quel secolo medesimo in Roma, e proprio sulla piazza di
San Pietro, si festeggiava ancora, con riti pagani, pubblicamente,
il primo giorno di Gennajo, come si rileva da una epistola di San
Bonifacio, apostolo di Germania e vescovo di Magonza, al pontefice
Zaccaria[710], il quale in una sua risposta dice d'avere abolita la
detestabile usanza. Nel bel mezzo del secolo X Attone II, vescovo di
Vercelli, biasima le superstizioni e le costumanze pagane che ancora a'
suoi tempi si osservavano dai contadini il primo di Gennajo, il primo
di Marzo, e nelle feste di San Giovanni e di San Pietro e Paolo[711].
Cent'altre testimonianze simili a questa potrebbero essere facilmente
prodotte.

È noto quanti simboli e quante forme la mitologia classica abbia
fornito all'arte cristiana dei primi secoli. Apollo, Bacco, Amore
e Psiche, altre divinità, si veggono raffigurate sopra gli antichi
sarcofaghi cristiani, Amore e Venere sopra gli anelli nuziali. Cristo
si trova rappresentato in figura di Giove, di Apollo, di Orfeo, di
Ercole; la Vergine Maria in figura di Venere. L'inferno cristiano
è interamente foggiato sul Tartaro pagano, e col nome di Tartaro lo
chiamano già Prudenzio[712], Claudio Mario Vittore[713], altri fra gli
scrittori ecclesiastici più antichi, poi molti e molti nel medio evo.
Le pene furono immaginate, in parte almeno, ad imitazione delle pene
antiche. Si lasciarono scorrere per l'inferno il Flegetonte, il Cocito,
lo Stige; si mantennero ai loro posti Caronte con la barca, Cerbero,
i Centauri e gli altri mostri[714]. Del Tartaro descritto da Virgilio
sembra ricordarsi Giacomino da Verona quando nei rozzi suoi versi
dipinge la città infernale, tutta murata di sassi e di monti, solcata
per lo mezzo da

                       aque entorbolae
    Amare plui ke fel, de veneno mescene[715].

Nel _Roman de la Rose_ si pongono ancora all'inferno Issione, Tantalo,
Sisifo, le Danaidi, Tizio[716]. Alano de Insulis pone a dominare
nelle _tartaree sedi_ Erinni, Aletto, Megera[717]. Che nell'inferno di
Dante ricompajono i fiumi del Tartaro e Cerbero e Minosse e le Furie e
Plutone è notissimo a tutti.

Non pochi nomi di antiche divinità rimanevano nella tradizione,
o facevano parte di certi nomi di luoghi; e qua e là un resto di
superstiziose credenze legavasi ad essi, o a qualche reliquia non
distrutta dal tempo. In Sicilia le bocche vulcaniche, le quali, come
ho già detto, comunemente si credevano essere spiragli dell'inferno,
chiamavansi _ollae Vulcani_[718]. In Roma ad ogni tempio antico si
legavano i nomi di una o più divinità, a cui, a ragione o a torto,
si pretendeva che quel tempio fosse stato dedicato[719]. In Firenze
fu conservato sino al XIV secolo un simulacro mutilato di Marte, dal
quale si credeva dipendere la salute della città[720]. L'antichissimo
culto fallico, del cui perpetuarsi dolevasi Sant'Agostino[721], passò
nel medio evo, e dura ancora ai giorni nostri, e nemmeno i nomi della
oscena divinità si perdettero. In sul principiare del secolo XII vigeva
ancora in Sassonia e in Lorena un culto di Pripelaga, ossia di Priapo,
e presentemente, nel centro della Francia, si venera un Saint Phallier,
il quale ha virtù di rendere feconde le donne[722]. In una Vita di San
Cesario, vescovo di Arles, si fa menzione di un demonio chiamato Dianum
dai campagnuoli[723], e per lungo tempo fu divulgata credenza in alcune
parti di Europa che Diana guidasse di notte la tregenda delle streghe.
Nella leggenda di San Niccolò si narra di un inganno che Diana, cioè
il diavolo, tentò di fare a certi naviganti che andavano a visitare il
santo[724].

In generale, la esistenza degli antichi dei non si nega, ma si fa
di essi altrettanti demonii, che, come tali, possono mostrarsi agli
uomini e nuocer loro, ed hanno ancora, come ebbero in antico, templi
e adoratori. Nei romanzi del medio evo, specialmente francesi, le
divinità che si pretendono adorate dai Saraceni sono, insieme con
Maometto e Tervagante, Giove, Apollo, il Baratro; ma in quelli
che trattano soggetti antichi il meraviglioso mitologico è, in
genere, soppresso, o attenuato, o umanizzato. Nel _Tournoiement de
l'Antechrist_ d'Huon de Mery (XIII secolo) gli dei della mitologia
figurano in modo assai curioso nell'esercito dell'Anticristo[725].
Altri, seguendo la opinione antichissima, credevano che gli antichi dei
fossero stati uomini. Nel l. VIII, c. 21 delle _Etimologie_ Isidoro di
Siviglia, spiegando le origini del paganesimo, dice che si cominciò
con innalzare simulacri agli uomini insigni per virtù e per valore,
e che poi i demonii si fecero adorare in quei simulacri. Egli ricorda
molte divinità e dà ragione dei nomi loro. Tale dottrina trovasi anche
largamente esposta nella _Fiorita d'Italia_ di Frate Guido da Pisa. Va
da sè che le nozioni intorno alle divinità di cui ricordavansi i nomi,
come intorno al culto prestato loro dagli antichi, erano assai poco
esatte, anzi molto fantastiche. Non sarà fuor di luogo il riportare qui
quanto a tale proposito si legge nella _Kaiserchronik_[726].

Prima che credessero nel vero Dio i Romani adoravano sette dei in
onore dei sette giorni della settimana. Chi non osservava il precetto
religioso era, o affogato, o bruciato vivo: da Roma quella fede si
diffuse in tutto il mondo. La domenica (_sunintac, Sonntag_, giorno del
sole) i Romani onoravano il sole con grandi processioni e luminarie.
Il lunedì i Romani sacrificavano alla luna, e accendevano lampade
in tutte le vie della città, e ciò per ottenere da lei belle notti.
In quel giorno si sacrificava anche ad Apollo. Il martedì era sacro
a Marte, e in esso giorno si raccoglievano tutti i cavalieri, con
loro elmi ed usberghi, scudi e spade, e facevano sacrifizii di gran
pregio, e giostravano e torneavano, e le belle dame erano spettatrici
dei loro giuochi. Ciò facevano essi per ottenere grazia da quel dio,
che li rendesse vittoriosi nelle loro guerre, e perchè credevano che,
protetti da lui, nessuno potesse loro nuocere. Il mercoledì tutto il
popolo si raccoglieva nel Foro (mercato), dove, sopra una colonna, era
una immagine di Mercurio. I Romani usavano di offrire a questo dio una
parte di tutto quanto compravano o vendevano, affinchè favorisse i loro
mercati. Il giovedì si celebrava la festa più solenne. C'era in Roma
un tempio magnifico, tutto sfavillante di oro, nel quale erano venti
arcieri (di metallo) e si faceva piovere per certe fistule. Esso era
sacro a Giove, un gran dio, e mai non si cessava di bruciarvi incenso
per fargli onore[727]. Il venerdì era sacro a Venere, la quale aveva in
Roma un tempio sontuoso, ornamento della intera città. Qui usavano le
meretrici, e i dissoluti; e ricchi, o poveri che costoro si fossero,
vi trovavano buona accoglienza; ma gl'incorrotti e le vergini non vi
dovevano entrare. Il sabato finalmente si celebrava la festa di Saturno
e di tutti i diavoli, a cui era consacrato un pomposo tempio, chiamato
Rotonda. Quando avevano fatte in esso le loro preghiere, i Romani si
davano al bel tempo e agli spassi, e ognuno cercava di mostrarsi nei
giuochi da più degli altri e di farsi onore. Il tempio fu da papa
Bonifacio intitolato alla Vergine. Noi abbiam già veduto che, secondo
un racconto dei _Mirabilia_, il Pantheon era sacro a Cibele e a tutti
i demonii[728]. Secondo Enenkel, il quale ripete, derivandole dalla
_Kaiserchronik_, tutte queste favole intorno agli dei che i Romani
adoravano, la Rotonda era sacra a Venere, e ci si trovavano dugento e
più letti apparecchiati[729].

Ma la divinità pagana di cui si serbò più accesa la ricordanza
nel medio evo fu Venere: il suo mito allora, non solamente non è
dimenticato, ma è ancora vivo ed operoso nella coscienza del popolo,
e si arricchisce di nuove finzioni. Contro nessuna delle antiche
divinità si mostrò così ostile il sentimento e così sollecita l'opera
distruttrice dei primitivi cristiani come contro Venere: nessuno degli
altri numi offendeva al par di lei il pudore della coscienza cristiana.
Ma proporzionato all'odio dei nemici era l'amor dei seguaci, e il
culto di Venere fu uno degli ultimi a sparire dalla faccia dell'Europa
convertita alla nuova fede. Non si dimentichi che la dea degli amori
passava per essere la madre di quell'Enea da cui riconosceva Roma
le sue origini; che in Roma stessa, e nelle province, i templi a lei
dedicati erano sempre tra i più sontuosi[730], e che finalmente il suo
culto doveva tornare in ispecial modo gradito alla corrotta società
dei primi secoli dell'impero. Venere aveva osato di far sovrapporre
al monte dove si consumò la passione di Cristo un nefando suo tempio,
che fu distrutto per ordine di Sant'Elena, madre di Costantino. Nel
VII secolo, quando della grandezza romana durava appena una confusa
reminiscenza, il culto di lei tuttavia fioriva in Gallia, e certo anche
in altre province dell'antico impero; nel IX i Mainoti della Laconia
adoravano ancora ostinatamente Venere e Nettuno[731]. In qualche parte
d'Italia si professa un culto per una Santa Venere ignota, sotto alle
cui sembianze si nasconde forse l'antica divinità. Costantino Copronimo
(719-75) fu accusato di avere in conto di divinità e di adorare
Venere[732]. Lo scelerato papa Giovanni XII (956-64), se sono vere
certe accuse che gli furono mosse contro, aveva in costume d'invocare
Giove e Venere[733]; e il re Ugo di Francia, che finì santamente nel
947, in un convento di Arles, una vita piena di nefandezze, pare che
avesse una grande ammirazione per le divinità dei gentili, giacchè a
tre sue concubine aveva imposti i nomi di Giunone, Venere, Semele[734].

Del culto poetico che il medio evo tributò a Venere si potrebbe
scrivere una lunga dissertazione. Nella poesia dei Goliardi le prove
di esso ricorrono ad ogni passo[735]. Nella _Confessio Goliae_ si
dice[736]:

    quicquid Venus imperat labor est suavis,
    quae numquam in cordibus habitat ignavis.

Nelle _Stanze_ dell'Arciprete di Hita ha parte di rilievo Venere, di
madre tramutata in isposa di Amore,

    Señora doña Venus muger de don Amor[737].

Nel _Roman de la Rose_ Venere è descritta nel seguente modo[738]:

    Ce est la mère au diex d'Amors,
    Qui a secoru maint amant.
    Ele tint un brandon flamant
    En sa main destre, dont la flame
    A eschauffée mainte dame.
    El fu si cointe et si tifée,
    El resembloit déesse ou fée:
    Du grant ator que ele avoit,
    Bien puet cognoistre qui la voit,
    Qu'el n'ert pas de religion.
    Ne feré or pas mencion
    De sa robe et de son oré,
    Ne de son trecéor doré,
    Ne de fermail, ne de corroie,
    Espoir que trop i demorroie;
    Mès bien sachiés certainement
    Qu'ele fu cointe durement,
    Et si n'ot point en li d'orgueil.

In un poemetto francese del XIII secolo, intitolato _De Venus la deesse
d'amor_[739], Venere, che viene in soccorso di un amante infelice,
cavalca una mula meravigliosa, di varii colori, con bardatura e
fornimenti di grandissimo pregio. Gli uccelletti ajutano la dea a
salire in sella e la raccomandano a Dio[740]. In un poemetto italiano
intitolato _La visione di Venus_[741] Venere apparisce la notte _a
guisa d'angioletto_ a un suo fedele. Sovente in compagnia di Venere
comparisce Cupido, e quanto spesso poi questi comparisca da solo, e
in quante diverse guise non fa mestieri di ricordare[742]. Nei sogni
dell'astrologia i pianeti esercitarono influssi convenienti all'indole
delle divinità di cui portavano i nomi, e chi nasceva sotto l'influsso
di Venere era naturalmente inclinato all'amore[743]. A tale proposito
si nota che il nome di Venere significa lussuria. Matfre Ermengaud,
discorrendo dei pianeti, dice[744]:

      Le quins planeta dissenden
    Es dig Venus propriamen,
    Que vol dire luxuria.

E il _Dil des Planètes similmente_:

    Le vendredi vient de Venus:
    Venus sénefie luxure[745].

Non è egli curioso che Dante, dopo aver ripreso l'errore degli antichi,
i quali credettero

    Che la bella Ciprigna il folle amore
    Raggiasse, volta nel terzo epiciclo[746],

ponga appunto nel pianeta di Venere le anime beate di coloro che in
vita furono proclivi all'amore?

Ma, come ho già accennato, Venere non vive nel medio evo solamente
nelle tradizioni classiche della poesia; essa vive ancora, fatto ben
più importante per noi, nella memoria e nella credenza del popolo, e
vi genera nuovi miti. Se non che, mutate di pianta le condizioni dei
tempi, e trasformato lo spirito, questi miti non sono più sereni ed
amabili, quali sarebbero convenuti alla madre gioconda degli amori,
ma inquieti e paurosi, quali convenivano oramai a colei che la nuova
religione aveva, già da gran tempo, precipitata dal suo seggio di
gloria. Venere ha patito la sorte di tutti gli altri dei, e si è
trasformata in demonio; ma nel demonio che la nuova fede ha dannato
agli abissi, e che reca in fronte il marchio della riprovazione, si
riconosce ancora l'antica bellezza, e si ritrova il fascino delle
seduzioni irresistibili.

Nell'_Anticlaudianus_ Alano de Insulis introduce Venere moribonda a
ricordare le proprie imprese e a deplorare la perdita dell'antica
potenza[747]; ma era un errore il suo: Venere aveva ancora lunghi
anni da vivere, e la sua potenza era tuttavia formidabile. Come or ora
vedremo, si poteva prendere alla lettera l'avvertimento che un ignoto
lasciò scritto in un codice antico dell'Escuriale[748]:

    Sub Veneris latere debet nemo latere
    Nam mala Venere plurima devenere.

Venere, la più potente delle divinità, era divenuta un potentissimo
demonio[749].

Ed ecco presentarcisi due delle più belle, immaginose e significative
leggende che il genio del medio evo abbia create; quella celeberrima di
Tannhäuser; e l'altra, assai meno nota, ma non però meno curiosa, del
giovane patrizio di Roma. Cominciamo da questa.

Il più antico scrittore che la narri, senza però dire a quali fonti
attinga, è il cronista inglese Guglielmo di Malmesbury, il quale
fioriva intorno al mezzo del XII secolo. Ecco, tradotto, il suo
racconto[750]. Un giovane cittadino romano, ricco di molto censo, e
nato d'illustre famiglia senatoria, avendo condotto moglie, invitò
gli amici a banchetto. Levate le mense, e stimolata coi vini più
spiritosi l'ilarità, uscirono i commensali in un prato, desiderosi di
alleggerire danzando, o sbalestrando, o in altri giuochi esercitando
il corpo, gli stomachi aggravati dal cibo. Lo sposo, re del convito,
e maestro del giuoco, chiese una palla, e trattosi l'anello nuziale,
lo appose al dito steso di una statua di bronzo ch'era ivi presso. Ma
poichè tutti i compagni, giocando, in lui solo inveivano, affannato ed
acceso si ritrasse primo dal campo, e volendo riavere il suo anello
trovò piegato sulla palma della mano il dito della statua. Avendo
quivi penato un pezzo senza potere, nè strappare l'anello, nè frangere
il dito, taciuta la cosa ai compagni, affinchè, lui presente, nol
deridessero, o, assente, non involassero l'anello, in silenzio se ne
partì. Tornatovi poscia con alcuni suoi familiari a notte scura, ebbe
a stupire vedendo raddirizzato il dito e tolto l'anello. Tuttavia,
dissimulato il danno, si lasciò dalle carezze della sposa rasserenare,
e, giunta l'ora di coricarsi, si adagiò accanto a lei. Ma, come appena
si fu adagiato, sentì alcun che di nebuloso e denso voltolarsi fra sè e
lei, la qual cosa si poteva sentire, ma non vedere. Vietatogli da tale
impedimento l'amplesso, udì una voce che diceva: «Giaciti meco, dacchè
oggi pure tu m'hai sposata. Io sono Venere, a cui tu ponesti l'anello
in dito; io ho l'anello in poter mio, e più nol renderò». Spaventato
da tanto prodigio, nulla osò, nulla potè rispondere il giovane, e
passò insonne la intera notte, esaminando tacitamente nell'animo il
caso. Corse gran tempo, e in qualunque ora tentasse egli di accostarsi
alla sposa, sempre sentiva e udiva il medesimo; del rimanente era
validissimo e atto a checchessia. Finalmente, mosso dalle querele
della moglie, scoperse ogni cosa ai parenti, i quali, avuto consiglio
fra loro, ne informarono un prete suburbano per nome Palumbo. Aveva
costui virtù di suscitare per arte di negromanzia figure magiche, e
d'incutere terrore nei demonii, facendoli servire a quale officio più
gli piacesse. Pattuita pertanto la mercede, che doveva esser grande,
e tale da riempiergli d'oro la borsa quand'egli fosse riuscito a far
congiungere gli sposi, usò il supremo dell'arte sua, e composta una
epistola, diedela al giovane dicendo: «Va alla tale ora di notte al
crocicchio, dove la via si divide in quattro, e poni mente a ciò che tu
vedrai. Passeranno di colà molte figure umane, d'ambo i sessi, d'ogni
età, d'ogni grado e condizione, alcune a cavallo, altre a piede, quali
con la fronte volta alla terra, quali col ciglio superbamente levato,
e quante sono insomma le forme e le sembianze dell'allegrezza e della
tristezza, tutte le potrai vedere espresse nei volti e nei gesti loro.
Non favellare a nessuna, quando pure esse favellino a te. Seguirà
quella turba uno di maggiore statura degli altri e più corpulento,
sedente in un carro: a lui porgi silenzioso l'epistola, e incontanente
sarà appagato il tuo desiderio, purchè tu faccia tanto d'essere d'animo
risoluto». Il giovine si avvia, come gli era stato prescritto, e stando
la notte a ciel sereno, sperimenta la verità di quanto avevagli detto
il prete, chè nulla non mancò alle promesse. Fra gli altri che di là
passavano vide sopra una mula una donna vestita a uso di meretrice,
sparsi i capelli giù per le spalle, e stretti in capo da un'aurea
benda. Teneva colei in mano una verga d'oro, con la quale governava la
cavalcatura, e per la tenuità delle vesti mostrandosi quasi ignuda,
faceva ostentazione d'atti impudichi. Che più? L'ultimo, che pareva
il signore, ficcando i terribili occhi nel giovane, dal carro superbo,
tutto composto di smeraldi e di perle, chiede la causa del suo venire;
ma quegli, nulla rispondendo, stesa la mano, porge la epistola. Il
demonio, non osando disprezzare il noto suggello, legge lo scritto, e
tosto, levate le braccia al cielo, «Dio onnipotente», esclama, «insino
a quando soffrirai tu la iniquità di Palumbo?» E senza por tempo
in mezzo mandò due de' suoi satelliti perchè ritogliessero a Venere
l'anello, la quale, dopo molto contrastare, finalmente lo rese. Così
il giovane, venuto a capo del suo desiderio, potè finalmente godere
dei sospirati amori; ma Palumbo, com'ebbe udito la lagnanza che di lui
il demonio aveva mossa a Dio, intese esser prossima la sua fine; per
la qual cosa, fattisi di suo arbitrio troncar tutti i membri, morì con
miserevole penitenza, avendo confessato al papa e a tutto il popolo
le inaudite sue sceleraggini. Guglielmo conchiude la sua narrazione
dicendo come ancora al tempo suo, in Roma, e in tutta la circostante
provincia, le madri raccontassero tale storia ai figliuoli, affinchè ne
fosse tramandata ai posteri la memoria.

L'immaginosa leggenda, appropriata quanto altra mai al gusto e alle
credenze dei tempi, si divulgò per tutta l'Europa, e fu raccolta
e rinarrata da molti altri scrittori, tra' quali basterà ricordare
Vincenzo Bellovacense[751], Matteo di Westminster[752], Radulfo da
Diceto[753], Enrico di Knyghton[754], Giovanni Bromton[755]. Guglielmo
di Malmesbury, da cui direttamente o indirettamente attinsero tutti
costoro, non dà nessuna indicazione circa il tempo in cui si suppone
avvenuta la strana avventura; non così quelli che vennero dopo di
lui. Vincenzo Bellovacense la dice avvenuta circa l'anno dodicesimo
dell'impero di Enrico III, ossia intorno al 1050, Matteo di Westminster
nel 1058, Radulfo da Diceto nel 1036, Giovanni Bromton nell'ultimo anno
di Edoardo il Confessore, ossia nel 1066, e circa quel medesimo tempo
Enrico di Knyghton. Inoltre Guglielmo tace il nome del giovane e della
sposa, che da Giovanni Bromton sono chiamati Lucio ed Eugenia. Enrico
di Knyghton dà al giovane il nome di Luciano.

Fermiamoci alquanto ad esaminare il racconto di Guglielmo di
Malmesbury, a rilevarne lo spirito, a sceverarne gli elementi. Anzi
tutto egli dà la leggenda come italiana, afferma che si raccontava
comunemente a' suoi tempi in Roma e nel circostante territorio, e noi
non abbiamo ragione per mettere in dubbio le sue parole, sebbene sia
ragionevole il credere che, una volta uscita d'Italia, la leggenda
mutasse alcun poco l'indole primitiva e ricevesse qualche nuovo
elemento.

Il carattere che in esse presenta Venere merita di essere attentamente
considerato. Venere è un demonio, ma tale tuttavia che, non solo
non ha in sè la orridezza, ma nemmeno la consueta ferità e malignità
diabolica. Essa è innamorata, e vuol fruire dell'amor suo: non usa
nessuna violenza al giovine, nè sfoga l'ira sua sulla sposa; ma si
oppone a che il matrimonio sia da essi consumato, e si fa forte del
suo diritto, che pretende siale stato conferito dal giovane mediante
l'anello. Ricorderò a tale proposito come nel medio evo il solo sposo
desse l'anello alla sposa, e come per antichissimo diritto romano lo
sposo che avesse donato alla sposa l'_anulus pronubus_ si considerasse
regolarmente impegnato. E notisi che nel concetto della leggenda
Venere non si prevale artificiosamente di un atto per se medesimo
insignificante, e a cui ella fingerebbe di dare la forza che in realtà
non può avere: l'anello di cui ella è in possesso le conferisce il
diritto, e per farla chetare bisogna ritorle l'anello. Così non si
poteva ricuperar dall'inferno chi avesse venduta l'anima al diavolo
se prima non si riaveva la scritta del contratto. Ora, in questa
bella, dolce e appassionata figura di demonio, che noi ritroveremo
di bel nuovo più oltre, splende, o m'inganno, un riflesso dell'antica
divinità. La Venere medievale innamorata del giovane patrizio romano
fa ripensare alla Venere antica innamorata di Adone. Un concetto, direi
così benevolo, di Venere, non poteva sorgere che a medio evo avanzato,
spenti i ricordi della lunga ed asprissima lotta fra cristianesimo e
paganesimo, e ridischiuso il senso al prestigio della bellezza antica.
In tempi di lotte ancora accese, o di ancor desti sospetti, il demonio
Venere sarebbe stato dipinto con più foschi colori. Prospero Aquilano,
morto nel 463, racconta nel suo trattato _De promissionibus et
praedictionibus Dei_[756] la curiosa storia di una fanciulla cristiana,
la quale, per aver osato di paragonarsi con una statua di Venere in
Cartagine, fu, per opera diabolica, affetta di tale una malattia
nella gola che per lo spazio di settanta giorni non potè prendere
cibo veruno, fino a che, condotta in chiesa, e fatta partecipe della
comunione, fu liberata.

Veniamo alla statua. L'antichità, oltre a quello famoso di Pigmalione,
narra parecchi casi di persone che s'innamorarono di statue, casi che
non hanno relazione col nostro[757]. Luciano, Plinio, Valerio Massimo,
Clemente Alessandrino fanno ricordo di un giovane che, innamoratosi
della Venere di Prassitele in Gnido, sfogò sopra di lei la propria
libidine; ma la dea non si commosse, pare, alle prove della sua
passione. Nella leggenda nostra il giovane non è punto innamorato
della statua, ma la statua è evidentemente concepita come un idolo,
ossia come il simulacro di una divinità, legato a lei con una specie
di vincolo arcano e vitale, per modo che la promessa fatta ad esso
valga come fatta alla divinità che rappresenta. Il caposaldo della
leggenda dev'essere appunto una statua esistita in Roma, e nulla
v'è che contrasti a questa congettura. I cristiani non distrussero
tutti i simulacri di antichi numi che poterono avere nelle mani; essi
dovevano muovere guerra più aspra a quelli delle divinità impudiche,
in particolar modo a quelli di Venere, come pare che già facesse
Costantino Magno[758]; ma anche di questi molti se ne salvarono. Può
darsi che nell'XI secolo una statua di Venere sia stata ritrovata
in Roma, e abbia dato origine e argomento alla leggenda: se si ha da
credere a Ranulfo Higden, o a quel Gregorio della cui autorità egli si
prevale, una tale statua si ammirava veramente in Roma nel XIII secolo.
Ecco in qual modo egli la descrive[759]: «Fuit et imago Veneris eo
modo quo quondam nudo corpore Paridi se ostendebat, ita artificiose
composita ut in niveo imaginis ore sanguis recens natare videretur».
Salvo la esagerazione di quest'ultime parole, nel resto non è nulla
che non possa essere agevolmente creduto. S'immagini ora che un tale
ritrovamento veramente fosse avvenuto nell'XI secolo in Roma. Le
reminiscenze dell'antichità non erano in tutto spente; si sapeva ancora
chi fosse stata Venere, quale fosse stato il suo ufficio, e forse nella
plebe durava ancora qualche tradizione, qualche pratica superstiziosa
dell'antico culto. La statua fu ammirata per la sua bellezza, ma fu
in pari tempo guardata con sospetto, come quella a cui poteva andar
congiunta tuttavia una misteriosa potenza. S'immagini che, presso al
luogo dov'essa fu collocata, la felicità di due giovani sposi sia stata
turbata da un accidente naturalissimo, ma che molto spesso nel medio
evo fu creduto effetto di malìe; assai agevolmente se ne poteva far
ricadere la colpa su quella statua di Venere; e poichè a esercitare
quelle malie la gelosia era motivo principalissimo, si poteva
immaginare che Venere fosse innamorata del giovane e gelosa. L'anello
posto in dito alla statua può esser fatto vero, può essere fatto
immaginario, ideato per dare al tutto più consistenza; e la guarigione
del giovane può essere succeduta ad alcune pratiche magiche poste in
opera per ottenerla. La leggenda sarebbesi formata così in modo assai
facile e spontaneo, e nulla v'è nelle sue parti essenziali che possa
legittimamente far dubitare dell'origine italiana. Il Baring-Gould
sostiene[760] che la particolarità dell'anello fu suggerita da credenze
religiose dei popoli teutonici e scandinavi, e ricorda che la dea
Freya si rappresentava con un anello in mano, e ricorda un mito della
dea Thorgerda Hörgabruda, la quale non si lascia togliere un anello
dal braccio; ma non v'è nessuna necessità di ricorrere a così remote
origini.

La tregenda descritta da Guglielmo di Malmesbury ha molti riscontri.
In Germania e in Francia chi vedeva passare il _wildes Heer_, o la
_maisnie Hallequin_, doveva, come il giovine Romano, serbare il più
profondo silenzio. Vedervi mescolata Venere non deve fare meraviglia.
Sant'Agostino fa ricordo di una credenza[761], secondo la quale
le streghe si riunivano la notte guidate dal Demonio, da Diana, da
Minerva e da Erodiade, e tale credenza si conservò a lungo nel medio
evo. L'esercito furibondo in Germania qualche volta è capitanato
da Holda che si confuse con Venere[762], qualche volta dallo stesso
demonio[763], e tra le incisioni che adornano i _Sermones et varii
tractatus_ di Geiler von Keisersberg, nella edizione che se ne fece a
Strasburgo nel 1508, una ve n'ha che rappresenta il duce dell'esercito
seduto in un carro, come nel racconto di Guglielmo. Nella leggenda
di San Basilio, vescovo di Cesarea, si narra di un mago che diede a
uno schiavo una epistola per il diavolo; con essa lo schiavo doveva
ottenere che fosse soddisfatto certo suo desiderio. Ciò che nel
racconto di Guglielmo si dice della penitenza e della morte di Palumbo
ricorda quanto della penitenza e della morte di Gerberto fu narrato
dalla leggenda.

La _Kaiserchronik_ contiene[764] un lungo racconto, indipendente
da quello di Guglielmo, e in cui l'avventura testè narrata si fa
accadere bensì in Roma, ma ai tempi dell'imperatore Teodosio, e con
particolarità che altrove non si hanno. Eccone in breve la sostanza.
C'erano in Roma due giovani fratelli adoratori degl'idoli. Una
volta che l'uno di essi, per nome Astrolabio, giocava alla palla con
alcuni compagni, avvenne che la palla andò a cadere dietro il muro
antico di un tempio. Astrolabio diè la scalata al muro, e quando
fu dall'altra parte vide una statua bellissima che gli fe' cenno
con la mano. Era quella una statua di Venere. Il giovane preso da
subitanea ed irresistibile passione, si tolse di dito l'anello, e
lo diede alla statua in pegno di perpetuo amore. I compagni suoi,
entrati con violenza, contro il volere dei sacerdoti, nel tempio,
lo ritrovarono assai tramutato; egli non fece parola di quanto gli
era occorso; ma tutto pieno del suo diabolico amore, da quell'ora
non bevve, non mangiò, non dormì più, e tutti temettero che presta
morte lo dovesse incogliere. Un giorno il giovane innamorato si
fece animo, andò a trovare Eusebio, il cappellano dell'imperatore, e
narratogli il caso, gli chiese consiglio ed ajuto. Eusebio da giovane
aveva studiato negromanzia ed era assai versato in quest'arte. Egli
evocò il diavolo e gl'ingiunse di riportargli l'anello che il giovane
aveva donato alla statua; ma non potendo ottener ciò, si fece portare
egli stesso all'inferno, e non senza molta fatica ricuperò l'anello.
Da ultimo costrinse il diavolo a svelargli in che fosse riposta la
maligna potenza della statua: questa potenza era procacciata da certe
erbe nascoste sotto di essa. Risaputa la cosa, il papa Ignazio fece
consacrare la statua in onore di San Michele[765]. Il giovane guarì, e
insieme con molti altri ricevette il battesimo.

Questo racconto non è certo meno antico di quello di Guglielmo, e
tutt'a due debbono considerarsi come versioni diverse di uno stesso
tema leggendario. Tuttavia la versione dello storico inglese mi sembra
dover essere la più genuina: ciò che, per tacer di altro, nel racconto
tedesco si dice delle erbe magiche nascoste sotto la statua, rende
inutile l'anello dato in pegno, e guasta tutto il concetto della
leggenda.

Nelle favole demonologiche del medio evo, e più particolarmente in
quelle dei succubi, si potrebbero trovare alla leggenda di Venere
innamorata parecchi riscontri. Ettore Boezio racconta il caso di
un bellissimo adolescente che per molti mesi fu perseguitato da
un succubo, bellissimo anch'esso, il quale, ogni notte, penetrava,
tuttochè fossero chiuse le porte, nella stanza di lui, e con blandizie
lo provocava all'amplesso[766]. Cesario di Heisterbach racconta la
storia seguente[767]. Un mago di Toledo fu richiesto da certi scolari
svevi e bavaresi di dar loro un saggio dell'arte sua. Non essendogli
stato possibile di scusarsi, egli li condusse in un campo, tracciò
loro intorno con una spada un cerchio, e severamente ammonitili di non
uscirne, e di non dar cosa alcuna a coloro che erano per comparire,
come pure di nulla accettare da essi, evocò i demonii. Tosto compajono
questi in figura di cavalieri, e con varii giuochi si studiano di
allettare i giovani a uscire dal cerchio. Tornata vana la prova,
ricompajono in figura di avvenenti e procaci fanciulle, e danzando
rinnovano le provocazioni. Uno di essi, con usare più lenocinii degli
altri, e con isporgere un anello d'oro, riesce a trarre uno dei giovani
fuori del cerchio, e incontanente sparisce con lui, e spariscono
ancora tutti gli altri demonii. Minacciato nella vita dai compagni
dell'incauto, il mago ricorre al principe dei demonii, il quale
convocato il concilio infernale, dopo molto discutere ordina che il
giovane sia rimesso in libertà.

Ma il riscontro più curioso alla leggenda nostra lo porge un'altra
leggenda del medio evo, nella quale, rimanendo invariate molte delle
altre particolarità, alla dea Venere si sostituisce la Vergine Maria.
Non saprei chi possa essere stato il primo a riferirla, ma Vincenzo
Bellovacense, che, come s'è veduto, riferisce anche l'altra, la narra
nei seguenti termini[768]. Alcuni giovani chierici giocavano alla
palla dinnanzi a una chiesa. L'uno di essi, temendo che nel giuoco non
gli si avesse a spezzare un anello che in pegno di carnale amore gli
aveva donato l'amica, entrò in chiesa per quivi deporlo; ma veduta
una bellissima immagine della Vergine, le s'inginocchiò davanti, e
salutatala, disse: «Veramente sei tu più bella assai di colei che
mi diè quest'anello, e però io rinuncio a lei, e faccio proposito di
servire e di amare te sola, a patto che tu me ne ricambii con l'amor
tuo». Profferite tali parole, il giovane si tolse l'anello, e lo inserì
nel dito steso della statua, la quale, volendo mostrare di accettare
il patto, ripiegò il dito. Meravigliato il giovane, chiama i compagni
e narra loro l'accaduto, ed essi lo esortano a rinunziare al mondo e a
dedicarsi tutto al servizio della madre di Dio. Ma il giovane, traviato
dalle ricchezze, dopo non molto, mentendo alla fatta promessa, condusse
moglie. Ed ecco, la prima notte delle nozze, apparire al dormiente per
ben due volte la Vergine, rimproverargli la mancata fede, mostrargli
l'anello, minacciargli severissimo castigo. Colto da paura e da
pentimento, quella medesima notte abbandonò il giovane ogni cosa sua,
e si ritrasse a vivere in un eremo, dove per fin che gli durò la vita
servì alla sua signora ed amica.

Questa medesima storia si trova pure narrata da Jacob van Maerlant
nello _Spigel historiael_, nello _Speculum exemplorum_, da Pelbarto
nello _Stellarium coronae gloriosissime Virginis_[769], da Gualtiero
di Coinsi nei _Miracles de Nostre Dame_[770], e da altri parecchi.
Ma assai probabilmente essa altro non è che una versione raffazzonata
di una leggenda più antica, e raffazzonata a imitazione di quella di
Venere. Pottone o Bottone, abate Prunvenigense, il quale fiorì nel
XII secolo, narra nel c. XVI del suo _Liber de miraculis sanctae Dei
genitricis Mariae_[771], il caso di un chierico di Pisa, molto devoto
della Vergine, il quale, essendosi lasciato indurre a tor moglie,
fu dalla Vergine, in una chiesa, aspramente rimproverato, dopodichè
egli abbandonò ogni cosa, e benchè nessuno sapesse mai dove andasse a
riparare, si credette che si fosse tutto consacrato al servizio di Dio
e della madre sua. In questo racconto, nè del giuoco della palla, nè
dell'anello si fa menomamente ricordo. Storie di matrimonii mistici
di giovani con la Vergine, come anche di gravi punizioni da questa
inflitte ai mancatori di fede, non sono rare nel medio evo. Tommaso
Cantipratense una ne racconta in cui la Vergine fa morire un giovane
a lei devoto il giorno stesso in cui egli deve tor moglie[772]. Una
leggenda che ha qualche somiglianza con quella del chierico e della
Vergine si racconta anche di Sant'Agnese[773].

Veniamo ora alla leggenda di Tannhäuser.

In un monte della selvosa Turingia, il quale da tempo immemorabile,
è chiamato l'Hörselberg, s'apre in luogo precipitoso ed impervio una
profonda caverna, dalla cui bocca, forse per moti incomposti d'acque
sotterranee, prorompono strani e formidabili fragori. Per questa
ragione, appo gli scrittori latini dei passati secoli, il monte
si trova indicato col nome di _Mons horrisonus_, e risale forse a
remotissima antichità la popolare credenza, viva tuttora, che fa di
quella bocca uno spiraglio dell'inferno. Ma da essa non solamente
rumori spaventosi, qualche volta si udivano uscire anche gli echi
soavi di musiche lontane, e spesso sul suo limitare si vedevano belle
e provocanti immagini di donne che allettavano i viandanti a seguirle.
Dentro a quel monte Venere aveva la sua corte e la sua numerosa
brigata.

Un nobile cavaliere di Franconia, per nome Tannhäuser, vassallo
d'amore, e trovatore lodato di rime, passava una volta davanti alla
misteriosa caverna, quando, in sulla entrata di essa, vide una donna
d'incomparabile bellezza, che con voce ammaliante e atti di seduzione
lo invitava a sè. Altri non era costei che la stessa Venere, _Frau
Venus_. A dispetto degli avvertimenti della coscienza, Tannhäuser,
attonito, affascinato, segue i passi dell'innamorato demone, e con esso
discende nelle viscere della terra. Quivi lo attende una vita di gaudii
ineffabili, quante squisitezze sa immaginare l'amor più sollecito,
quanti portenti sa compiere un'arte a cui gli elementi obbediscono.
Ma passan più mesi; è trascorso un anno, e Tannhäuser, dalla cui
mente cominciano a dileguarsi i vapori della lunga ebbrezza, pensa
al suo errore, sente le crescenti punture del rimorso e il terrore
della eterna dannazione, ridesidera la libertà e la compagnia dei
suoi simili. Con l'ajuto della Vergine Maria, da lui invocata, riesce
a fuggire dalla perigliosa dimora, e messosi in via, a quanti preti
incontra si confessa e chiede l'assoluzione. Ma tutti, spaventati della
immanità della colpa, lo rimandano al papa, che ha la suprema potestà
di sciogliere e di legare. Tannhäuser va a Roma, si getta ai piedi di
papa Urbano IV, implora perdono e benedizione; ma il papa, tradendo il
suo ministero, lo respinge duramente e gli dice: «Quando quest'arida
verga ch'io ho tra le mani rinverdirà e fiorirà allora ti assolverò dal
tuo peccato». Tannhäuser, come la disperazione lo consiglia, rinunzia
alla incominciata penitenza, e ritorna alla sua caverna, a Venere, ai
suoi esecrabili amori. Intanto, per subitaneo miracolo, fiorisce la
verga tra le mani del papa, che, atterrito e pentito, manda messi per
tutta la cristianità a cercar novella del peccatore; ma tardo troppo è
il suo zelo e tarda ogni indagine: Tannhäuser è dato per tutti i secoli
in potestà di Venere.

Il caso mirabile si suppone seguito circa l'anno 1260, nel bel mezzo
della Germania fatta già da più secoli cristiana. Divulgato prima, e
con pertinace memoria, dalla poesia popolare, fu rinarrato da un secolo
in qua, con molta varietà di sentimenti e d'intenzione, da parecchi
poeti tedeschi, fra gli altri dal romantico Tieck, e da quell'Heine il
cui temperamento poetico non si può con un solo epiteto definire[774].

La leggenda di Tannhäuser è genuinamente tedesca; ma la immaginazione
di un monte, supposto asilo di Venere, non è forse tale in origine.
Essa si trova anche in Italia, e può darsi che dall'Italia sia
passata in Germania. Di un Monte di Venere presso il lago Nursino
parlano Enea Silvio Piccolomini in una epistola e Adriano Romano
nel _Theatrum urbium_[775], ed è assai ragionevole il credere che la
memoria dell'antica divinità si serbasse piuttosto in Italia che non
in Germania. Tuttavia è da notare che in Germania vi furono parecchi
Monti di Venere, che il nome di Venus vi divenne nome di famiglia,
e che qualche altra leggenda vi si ebbe in cui comparisce l'antica
divinità. Anzi nel XIV secolo ci doveva essere l'uso d'invocarla questa
divinità, giacchè Corrado di Megenberg dice del pianeta Venere che
inclina all'amore, come alcuni avessero in costume di dire: Venere
ajuta! i quali non sapevano che cosa Venere si fosse[776]. Ricorderò
ancora che secondo un poema tedesco già citato, il _Wartburgkrieg_,
Felicia, figliuola della Sibilla, e Giunone vivono con Artù nel cavo di
un monte[777]. La leggenda di Tannhäuser può inoltre essere raccostata
a quella di Uggiero il Danese, trattenuto da Morgana nell'isola di
Avallon, e ad altre di simil tenore.

Checchessia del luogo di origine delle leggende esposte nelle pagine
precedenti, riman provato per esse che il ricordo di Venere si agitava
ancora negli uomini del medio evo, e commoveva alla creazione di nuovi
miti le fantasie.



CAPITOLO XX.

Roma e la Chiesa.


Roma, dominatrice dell'antico mondo, diventa centro della cristianità,
e sede della suprema potestà religiosa. Un tal fatto ha gran peso nei
destini della Chiesa, e l'un primato intimamente si lega con l'altro.

A me non tocca rifare la storia della lunga e ostinata lotta che il
cristianesimo ebbe a sostenere, non solo contro il gentilesimo, ma
contro ancora la più gran parte delle istituzioni, costumanze, e forme
di vita onde constava la civiltà pagana, e nemmeno mi si appartiene
di rinarrare il suo trionfo, e come la Chiesa si venisse costituendo
e come crescesse la sua potestà. Tale cómpito spetta agli storici
del cristianesimo: io debbo contentarmi di ricordar di passata alcuni
fatti più peculiari nei quali le due entità storiche e morali che si
chiamano Roma e la Chiesa vengono a più stretto raffronto, e mostrare
quali influssi vicendevolmente l'una esercitasse sull'altra, e come
ne nascessero certe opinioni e fantasie largamente diffuse poscia nel
medio evo e molto vivaci.

I sentimenti che i cristiani dei primi secoli professarono per Roma
furono in diversi tempi molto diversi. Tanto che l'impero durò pagano,
i cristiani odiarono Roma, considerata da essi quale la metropoli
della paganità, e come il regno della corruzione. Nell'_Apocalissi_
e nell'epistola prima di San Pietro, Roma è chiamata con l'ingiurioso
nome di Babilonia, come assai spesso nei libri talmudici, e tal nome
le è dato pure da parecchi padri[778]. Arnobio la dice posta per la
distruzione del genere umano[779]. Ma poichè l'impero si fu convertito
mutò interamente la disposizione degli animi. Prudenzio giudica Roma
la più grand'opera della Provvidenza[780]. Se per l'impero si pregò
dai cristiani in ogni tempo[781], venne stagione in cui la integrità
e la durata di esso parvero necessarie alla conservazione, o almeno
alla prosperità della Chiesa. Nella messa romana degli ultimi tempi
appunto dell'impero, sono frequenti preghiere intese a scongiurare il
crescente pericolo delle invasioni barbariche, e vi ricorrono frasi
come le seguenti: p_rotege romani nominis ubique rectores; — Hostes
Romani nominis et inimicos catholicae professionis expugna; — Statum
Romani nominis ubique defende_[782]. San Gerolamo all'udire l'entrata
di Alarico in Roma prorompe in quel grido del salmista: _Deus, venerunt
gentes in haereditatem tuam_! Ciò nullameno, anche in tempi posteriori
si riscontra intorno a Roma una certa ambiguità di giudizii, di modo
che ora la sua santità, ora la sua sceleraggine è proclamata. Il sangue
dei martiri, e più particolarmente dei principi degli apostoli l'aveva
grandemente santificata; ma la ingiusta lor morte le era pur causa di
perpetua infamia. Basti all'uopo nostro un esempio. Nella _Invectiva in
Romam_, composta nella prima metà del X secolo, si trova il seguente
passo, dov'è curioso il raccostamento che si fa tra Romolo e Remo e
San Pietro e San Paolo: «O Roma, conditores tuos Romulum et Remum,
quos unus uterus gessit, tua menia ut simul regnarent, non receperunt,
sed fratricidio tabefacta neci unum tradidisti, alterum quirinali
gladio capitales tibi leges impertiendo volvens....... imo tocius
orbis hominibus dominos Petrum et Paulum, apostolorum principes, unum
crucifixisti, alterum gladio inter omicidas capite truncasti[783]».

È noto come i pagani imputassero ai seguaci di Cristo i mali tutti
che affliggevan l'impero: intemperie, morbi, carestie, ruine,
guerre disastrose, di tutto si dava colpa alla nuova religione, la
quale aveva tolto di seggio gli antichi numi, protettori di Roma.
Sant'Agostino deve ancora ribattere queste infondate accuse[784]. Ma
gli apologeti non si contentano di mostrare con le prove alla mano che
assai prima della introduzione del cristianesimo Roma era soggiaciuta
egualmente a gravissime calamità; essi sostengono ancora che tutta
la prosperità passata era un beneficio fattole dalla Provvidenza
in considerazione soltanto degli alti e nuovi destini che le si
preparavano. Conformemente a tali vedute componeva Orosio i sette
libri delle sue storie _adversus paganos_, primo saggio che siasi
tentato di una filosofia della storia. Nel c. 22 del l. VI egli dice
espressamente che Cristo fu quegli che levò al sommo della potenza e
della gloria la città sotto alla cui signoria aveva fermato di sortire
i natali[785]. Ma già nel secondo secolo Melitone, vescovo di Sardi,
aveva fatto notare che l'impero e il cristianesimo eran sorti ad un
tempo, e che di poi la prosperità di Roma era grandemente cresciuta.
A questo modo tutta intera la storia della città, a cominciar dalla
fondazione, appare come la esecuzione di un gran compito sacro,
per cui la città medesima e le istituzioni sue e l'opere rimangono
dignificate e santificate. Così i cristiani, mentre per una parte non
potevano non esecrare la metropoli del paganesimo e quella potestà
imperiale che tanto avversa si mostrava alla loro fede, non potevano,
per l'altra, non nutrire un sentimento di venerazione per la città
predestinata, e di gratitudine per l'impero che aveva preparato il
mondo all'avvenimento del cristianesimo. Cristo, dicevasi, aveva
voluto nascere soggetto di Roma; ma per rendersi degna di tanto onore
Roma aveva dovuto compiere l'ardua impresa di fare dei molti popoli
della terra un popolo solo, pronto a ricevere la nuova dottrina.
Nessuno forse esprime meglio e più categoricamente di Prudenzio questi
concetti, in cui la storia di Roma veniva assumendo un carattere al
tutto nuovo che doveva poi serbare lungamente[786].

Questi concetti sono comuni nel medio evo. Abbiamo veduto che
cosa la leggenda narrasse di Augusto, dell'_Ara Coeli_, del famoso
censimento[787]. Si disse ancora che quando nacque Cristo fu costruita
una _Via Regia_, la quale metteva in comunicazione tutte le province
dell'impero, anzi tutti i regni del mondo[788]. Poi al cómpito di Roma
si diede, com'era naturale, maggiore estensione: non solo essa aveva
dovuto preparare il mondo alla venuta del Redentore, ma aveva dovuto
preparare la sede alla suprema potestà ecclesiastica, al papato. Abbiam
pure veduto a suo luogo che cosa la leggenda narrasse delle ragioni che
avevano indotto Costantino a togliere da Roma la sede dell'impero e a
fondare Costantinopoli[789]. Secondo Dante Roma e l'impero

    Fùr stabiliti per lo loco santo
    U' siede il successor del maggior Piero[790].

A giudizio dell'ignoto autore di certi versi del X secolo, già da me
riportati altrove[791], Roma sarebbe precipitata nell'ultima ruina
senza il favore dei santi apostoli Pietro e Paolo.

All'opinione che a Roma fosse stato dalla Provvidenza commesso il
glorioso ufficio di preparare il mondo alla venuta di Cristo un'altra
naturalmente se ne legava, della quale già ebbi a recare più esempii,
e cioè che in Roma stessa, o qua o là nel suo vasto dominio, si fosse
avuto qualche presentimento dei mirabili fatti che in processo di tempo
si dovevano compiere, oppure come una vaga consapevolezza dell'opera
a cui suo malgrado la intera paganità lavorava. Di qui quelle curiose
immaginazioni, di cui toccai già a più riprese, della statua di Romolo
dallo stesso Romolo eretta, o di una statua alzata da Virgilio, o del
tempio della Pace, e simili, che precipitano la notte in cui nasce il
Redentore. Sant'Agostino dice in un luogo del _De Civitate Dei_[792]
che l'asilo concesso da Romolo a tutti i banditi in Roma fu un simbolo
della rimessione dei peccati che unisce tutti i fedeli nella città
celeste, e Santa Brigida attribuisce, com'ebbi già a ricordare, un
vago sentimento della vera fede ai Romani dei tempi di Romolo[793]. Le
sibille, i cui oracoli Roma credeva congiunti con istretti e vitali
legami alla propria sua storia, avevano annunziata la nascita e la
passione di Cristo. Bandita e già divulgata la nuova fede, si fanno
convertire ad essa principi, scrittori, tutta la paganità.

Grande importanza, sin dalle origini, ebbe Roma nel concetto cristiano
e nelle aspirazioni della Chiesa nascente. Si riconosceva in lei il
grande e necessario organo della fede. Il cristianesimo non poteva
gloriarsi d'aver trionfato finchè non avesse trionfato di Roma, sede
suprema di tutte le potenze del paganesimo: dalla città che dominava
il mondo si poteva solo sperare di diffondere sul mondo la nuova
dottrina. Gli è per questo che San Lorenzo, nell'inno postogli in bocca
da Prudenzio, prega Cristo di voltare alla sua fede Roma che aveva
sottomesse le genti. Alla conquista morale di Roma volse pertanto
il cristianesimo tutte le sue forze, e si può certamente dire che,
dove non fosse stata la Eterna Città, tutt'altri sarebbero stati i
suoi destini. A lei necessariamente dovevano tendere i principi degli
apostoli[794], e se col finire del terzo secolo la primazia della
Chiesa di Roma è riconosciuta in tutto l'Occidente, e si distende poi a
mano a mano su tutto l'orbe cristiano, non fu estraneo a questo trionfo
il fatto della primazia della città che dettava, o aveva dettato leggi
al mondo. Il primato storico e politico di Roma conferì potentemente
a far nascere il primato ecclesiastico, che altrimenti, quando questo
non avesse avuto fondamento in altro che nei fatti della storia
ecclesiastica, veri o presunti, avrebbe potuto essere, con ragioni non
del tutto cattive, rivendicato da alcun'altra città[795]. Le Chiese
di Alessandria, di Antiochia, e di Gerusalemme erano state lungamente
pari a quella di Roma in dignità, e se primato doveva sorgere, gli è
evidente che esso avrebbe dovuto appartenere alla città dove Cristo
era morto e risorto, e d'onde gli apostoli s'erano sparsi a predicar
l'Evangelo; alla città ch'era stata teatro principalissimo dell'opera
della redenzione e culla della fede. Cristo era da più di San Pietro,
e Roma, per quanto santificata dal sangue dei martiri, non aveva in sè
luogo così sacro che potesse stare a paragone del Calvario. Se pertanto
la storia del cristianesimo avesse potuto svolgersi in tutto conforme
alle sue tendenze ideali, Gerusalemme e non Roma avrebbe fruito del
primato, avrebbe ricettato in sè la suprema potestà ecclesiastica:
ma quella storia obbedir doveva anche ad altre necessità. Roma
naturalmente volgeva, attirava a sè tutte le forze più vive della nuova
società religiosa, e qualora San Pietro, il capo degli apostoli, non
vi si fosse recato, e non vi avesse sparso il suo sangue in suffragio
della fede, come per antica e tenacissima tradizione assevera la Chiesa
di Roma, la leggenda, obbedendo ad una logica assai rigorosa, doveva
farcelo andare e morire. E s'intende facilmente come la città che da
secoli comandava al mondo non potesse nemmeno in materia di religione
essere da meno di un'altra. Roma conferiva naturalmente il primato
alla Chiesa formatasi dentro alle sue mura: per fatali leggi storiche
la città imperiale doveva diventare la città papale. L'esempio di
Costantinopoli conferma quest'asserzione. La Chiesa di Costantinopoli
veniva in dignità immediatamente dopo quella di Roma, e ciò perchè
Costantinopoli, città imperiale ancor essa, era come un'altra Roma. Il
concetto della cattolicità è molto antico nel cristianesimo, è anzi,
se vuolsi, inerente alla sua stessa natura; ma non v'è dubbio che
esso fu grandemente favorito dalla cattolicità politica di Roma; nè
forse sarebbe stato così agevole assuefare la intera società religiosa
a considerar Roma come naturale suo centro, se già non fosse stata
assuefatta da lunga pezza a considerarla tale la società politica. Ma
la cattolicità non era più l'esclusivo privilegio di Roma dacchè era
sorta Costantinopoli, ed è perciò che i patriarchi di Costantinopoli,
e i sinodi raccolti tra le mura dell'augusta città, si dissero così
volentieri ecumenici, usurpazione di qualità e di titolo contro cui
non cessò mai di protestare la Chiesa di Roma. Se l'impero fosse
stato diviso in due parti, con due diverse metropoli, sino dai tempi
di Augusto, assai probabilmente la cristianità si sarebbe sin dalle
origini scissa in due Chiese indipendenti, e tutt'a due pretendenti
alla legittimità; se non fosse stata Costantinopoli, detta la Nuova
Roma, probabilmente lo scisma di Oriente non sarebbe avvenuto, la
Chiesa greca non avrebbe osato di levarsi a fronte della Chiesa romana.
E se il papato non avesse avuto sua sede in Roma, non avrebbe poi nel
medio evo preteso all'universale dominio, non avrebbe disposto come
di cosa sua della corona imperiale. Gregorio VII, che considerava
lo stato quale una fattura diabolica, e quali creature del diavolo
i principi, diceva: _Quibus imperavit Augustus, imperavit Christus_.
Così non faceva più bisogno di ricorrere alla favola della donazione
costantiniana: gli apostoli avevano legittimamente conquistato Roma in
nome di Cristo, e la potestà imperiale oramai non poteva venir che da
loro[796].

Roma consideravasi come la metropoli necessaria della cristianità,
come la sola città degna di ospitare tra le sue mura il capo visibile
della fede. La Chiesa cristiana, cattolica, apostolica, romana, una e
indivisibile, non poteva avere sua principal sede fuori di Roma; e se
le vicissitudini storiche la forzarono mai a cercare altrove un asilo,
tale necessità parve sciagura massima di tutto il mondo cristiano. A
quanti rimpianti, a quante accuse non diedero argomento la traslazione
e il lungo fermarsi della Santa Sede in Avignone! I papi avevan dritto
su Roma, e Roma aveva dritto al pontificato. Fuori di Roma scemava
la potestà dei pontefici, traviava la fede. In un quadro che Cola di
Rienzo mostrò al popolo romano per farlo avveduto del proprio stato,
una figura allegorica rappresentante la fede cristiana era accompagnata
dalla scritta:

    O sommo Patre, Duca e Signor mio!
    Se Roma pere dove starajo io?[797]

Il paradiso era stato chiamato col nome di Gerusalemme celeste; Dante
lo chiama col nome di Roma, facendosi dire da Beatrice:

    E sarai meco senza fine civo
    Di quella Roma onde Cristo è Romano[798].

E quante cose da Roma pagana non mutuò la Chiesa! Il nome stesso del
pontefice essa ne prese a prestito, e il nome delle sue basiliche.
Consacrandoli a Dio, o ai santi, rese perpetui i templi pagani e i
simulacri degli antichi dei[799]. La statua di San Pietro, che si
venera nella Basilica vaticana, deriva, come si crede, dalla statua
di Giove Capitolino, fatta rifondere, secondo alcuni da Leone Magno
in ringraziamento della liberazione di Roma dal furore di Attila, e
secondo altri dall'imperatore Costantino, o da alcuno dei più prossimi
suoi successori. I primi cristiani usarono di rappresentare Cristo
col laticlavo: Gregorio Magno è chiamato console di Dio nell'epitafio
composto da Pietro Oldradio[800].

Roma aveva perduta, gli è vero, la sua antica potenza, ma un'altra ne
aveva acquistata in compenso, di gran lunga maggiore. Roma pagana era
stata signora della terra; Roma cristiana era signora del cielo[801].
Che virtù aveva mai la spada di un Mario, o di un Cesare, paragonata
con la formidabile arma dei papi, con la scomunica? Ben diceva Alfano,
monaco di Monte Cassino, e a cominciare dal 1038 arcivescovo di
Salerno, in una poesia dedicata a Gregorio VII[802]:

      Quanta vis anathematis!
    Quicquid et Marius prius
    Quodque Iulius egerant
    Maxima nece militum,
    Voce tua modica facis.

Per l'uso di quest'arma ricuperava Roma, a dir d'Alfano, i suoi diritti
sul mondo. Che importava se i monumenti giacevano nella polvere,
se ogni giorno che passava faceva sparire un vestigio dell'antico
splendore? Altri onori, altri ornamenti risarcivano la città di questi
danni. Sulle rovine della Roma antica era sorta la _Nova Roma_, e
questa si vantava pari a quella, non solo in dignità, ma anche in
bellezza.

    Roma vetusta fui, sed nunc nova Roma vocabor.
      Eruta ruderibus, culmen ad astra fero,

si leggeva scritto sul tempio di Bellona secondo i _Mirabilia _e la
_Graphia_. San Giovanni Crisostomo celebrava Roma, non per la sua
magnificenza, ma perchè aveva dato ricetto a San Pietro e a San Paolo;
e in un inno antico si legge:

    O Roma felix, quae duorum principum
    Es consecrata glorioso sanguine,
    Horum cruore purpurata, ceteras
    Excellis orbis una pulcritudines[803].

In grazia ancora degli apostoli Roma era stata fatta degna
di accogliere in sè la doppia potestà temporale e spirituale,
dell'imperatore e del pontefice[804]. Ed era comune credenza che
l'occidente avesse ricevuta da Roma la fruttifera semenza della
fede[805]. Roma meritava tuttavia e conservava il titolo augusto di
_mater gentium_.



CAPITOLO XXI.

L'impero nel medio evo.


La dimostrazione più solenne, e nel medesimo tempo più curiosa della
potenza degl'influssi che Roma, o, per dir meglio, la memoria di lei,
esercitava sulle credenze, sulle aspirazioni, sulla vita intera del
medio evo, la porge il perpetuarsi della potestà imperiale in quella
età, quando tutte le condizioni più necessarie della sua esistenza
sono già da gran tempo mancate. Roma non è più che una ingente
ruina; i popoli soggetti un tempo al suo dominio hanno fondato nuovi
stati, nuove monarchie, e vivono indipendenti; della grande unità
politica, procacciata a prezzo di tante fatiche e di tanto sangue,
più non resta vestigio; non che la religione, la stessa civiltà di
Roma è perduta; e pure l'impero, quell'impero sotto a cui Roma toccò
il sommo della gloria e della potenza, continua a sussistere, quasi
che la sua esistenza sia, per un arcano decreto della Provvidenza,
fatto indipendente dal tempo e dallo spazio, e superiore a tutte le
vicissitudini della storia.

Certo, quest'impero, di solito, non è che un'ombra, od un simbolo, ed
i suoi mezzi materiali di dominazione non rispondono in nessun modo
al titolo amplissimo della ostentata sovranità. Ma ombra, o simbolo,
esso serba tuttavia una meravigliosa potenza morale, che quanto meno
si appoggia alla forza dell'armi, o degli ordinamenti, tanto più alto
concetto fa concepire della virtù indestruttibile serbata dal nome
e dalla tradizione di Roma. Dopo quella del pontefice, la dignità
imperiale è la maggiore in terra, e non pure i principi, ma i popoli
ancora se la contendono, e le emulazioni e le contese per cagion sua si
susseguono sin verso il mezzo del secolo XVII. Pur di accrescere lustro
e favore alla sua causa, a Cola di Rienzo pareva bello scoprirsi,
o spacciarsi figliuolo naturale di Enrico VII di Lussemburgo[806].
L'impero è giudicato necessario alla vita del genere umano, starei
per dire alla economia del creato, e per tosto avvedersi della parte
che ebbe nella storia del medio evo basta ripensare un istante alle
lotte secolari degl'imperatori e dei papi. Fantasma di signoria, esso
durò lo spazio di mille anni[807]: secondo la leggenda non avrebbe
dovuto finire altrimenti che col mondo soggetto ad esso. Tale vita
gl'infondevano la tradizione romana e la coscienza della cristianità.

Cominciamo dall'esaminare alcune credenze che nel medio evo ebbero
corso circa l'impero antico, e poi vedremo quali fossero i caratteri
più spiccati del nuovo, e quali fantasie gli si raccogliessero intorno.

Abbiamo già veduto come per primo imperatore passasse comunemente
Giulio Cesare[808]. Le eccezioni sono assai rare, e qui mi basterà di
notare che Corrado Bottone afferma nel suo _Chronicon Brunsviciensium
picturatum_, scritto in dialetto sassone verso la fine del XV secolo,
esservi stati prima di Cristo tre imperatori, Pompeo, Crasso e Giulio
Cesare, i quali si divisero il dominio. Del resto l'impero romano era
stato profetizzato già da Noè e da suo figlio Jonito, ed anzi Nembrot
aveva mandato il proprio figliuolo Camese in Italia sperando così di
poterlo assicurare alla sua discendenza[809]. Esso era l'ultimo dei
quattro imperi simboleggiati dalla statua che Nabuccodonosor vide in
sogno, e dalle quattro fiere di una delle visioni di Daniele[810].
Gli altri tre erano il babilonico, il persiano, il macedonico[811].
Il regno dei Romani corrispondeva alle gambe ferree della statua,
perchè, siccome il ferro vince in durezza tutti gli altri metalli, così
l'impero di Roma doveva vincere tutti gli altri imperi[812]. La potestà
era discesa da un impero all'altro, e nel romano doveva rimanere sino
al cominciamento del regno celeste, nel quale tutte le potestà della
terra si sarebbero risolute[813]. Si scorge in questa immaginazione
la tendenza generale del medio evo a far dell'impero una istituzione
assoluta, superiore alle vicende storiche, soggetta sì a tramutar
di sede, ma invariabile nella sostanza. Nello _Speculum regum_[814]
Gotofredo da Viterbo tesse la storia della potestà imperiale e dei
lignaggi imperiali, che egli fa risalire sino a Nembrot e ai tempi
della umanità rinascente, dopo il diluvio. Nembrot regnò prima in
Babilonia ed ebbe otto figliuoli, dei quali il primo, Crete, fu signore
in Creta. Crete generò Celio, Celio generò Saturno, Saturno generò
Giove. Ciò accadeva ai tempi di Abramo e di Isacco e di Giano, che fu
primo re d'Italia. Giove usurpò il regno al padre, e dominò su tutti
i re e tutti i popoli della terra. Da Giove, che fu, per valore e per
sapienza, impareggiabile, vengono i Trojani, vengono i re, Alessandro
Magno fra gli altri, vengono le leggi, la filosofia, l'arte della
guerra, il trivio e il quadrivio. Roma e l'impero riconoscono i suoi
principii da lui:

    Iuraque mundana sunt a Iove condita clara;
      Menia Romana Iuppiter ipso parat.

L'impero romano, a dispetto di tutti i travolgimenti, a dispetto delle
stesse invasioni barbariche, non aveva patito interruzione: quello del
medio evo consideravasi come la naturale e legittima continuazione
dell'antico. Carlo Magno era un successore di Giulio Cesare e di
Augusto; Filippo di Svevia prendeva il nome di Filippo II a causa
di Filippo Arabo, che aveva regnato prima di lui[815]. Il cronista
Freculfo esprimeva una opinione da cui il medio evo tutto intero
doveva scostarsi, quando giudicava chiuso l'antico ordine di cose e
cominciatone un altro; e lo stesso dicasi del monaco di San Gallo, che
considerava Carlo Magno quale signore di un nuovo impero[816].

Nè Carlo Magno, nè il papa Leone, intesero, come noto, di restituire
un impero di Occidente distinto e separato dall'impero di Oriente,
o piuttosto di restituire una potestà imperiale diversa da quella
degl'imperatori greci. Per essi quella potestà è una e indivisibile.
Allorchè Costantino VI, fanciullo ancora, fu deposto dalla propria
madre Irene, il trono, non essendovi altro legittimo successore, fu
di diritto considerato come vacante, e Carlo Magno fu dalle necessità
stesse della propria politica tratto ad occuparlo[817]. Nè tale
occupazione poteva parere illegittima, dappoichè per essa Roma tornava
ad essere, almeno di nome, la sede di quella potestà che a lei per
diritto assai più che a Costantinopoli apparteneva. Vedremo del resto
or ora che altre ragioni di legittimità non mancavano.

Certo gli è cosa assai strana che il fatto clamoroso e gravissimo
del ritorno della potestà imperiale in Occidente ed in Roma, o,
come si disse, della sua traslazione dai Greci ai Franchi, abbia
lasciato così poche tracce nelle finzioni epiche del medio evo.
Mentre numerose _chansons de geste_, per non guardare che alla sola
letteratura francese, celebrano le gesta tutte, reali o immaginarie,
di Carlo Magno, non ve n'ha nessuna che narri quel fatto, nemmeno
episodicamente; e sì che la fantasia avrebbe potuto agevolmente
arricchirlo di particolarità romanzesche e farne degno argomento di
epica narrazione. La leggenda assai antica, e già sorta nel X secolo,
di una spedizione, o di una prima crociata, condotta da Carlo Magno in
Terra Santa, mostra questo principe in relazione con gl'imperatori di
Oriente; ma non fa ricordo della traslazione della potestà imperiale.
Narrando tale leggenda Benedetto del Soratte dice[818] che Niceforo,
Michele e Leone, imperatori a Costantinopoli, sospettarono che Carlo
Magno volesse privarli della signoria, là dove questi strinse con
essi buona e salda alleanza. Ma di quel sospetto non è fatto ricordo
nella pretesa Storia del viaggio di Carlo Magno a Gerusalemme, scritta
in latino nell'XI secolo, probabilmente da un monaco dell'abazia di
San Dionigi in Francia, e accettata poi comunemente per vera sino
al Rinascimento[819]. Nella _Chanson de Roland_ Orlando, presso a
morte, enumera le imprese compiute per suo zio, e ricorda d'avere
assoggettato al suo dominio anche Costantinopoli[820]. Nella
_Karlamagnus-Saga_ invece si racconta che avendo Carlo Magno ajutato
l'imperatore d'Oriente contro i Saraceni, questi per gratitudine,
avrebbe voluto diventar suo vassallo, ma che Carlo non lo sofferse.
Suo vassallo diventa invece davvero l'imperatore Ugone in un curioso
poemetto francese assai noto, in cui è narrato, con particolarità
ben diverse da quelle della leggenda più antica, un viaggio di Carlo
Magno a Gerusalemme e a Costantinopoli[821]. Questo silenzio della
leggenda sembra tanto più singolare quanto più viva si sa essere stata
l'impressione che sull'animo dei contemporanei fece l'incoronazione di
Carlo Magno in Roma. Basterà ricordare a tale proposito l'entusiasmo
manifestato da Alcuino, il quale, prima che Carlo Magno assumesse
il titolo d'imperatore e d'Augusto, affermava essere la imperiale la
più alta potestà sulla terra, e il nuovo incoronato chiamò col nome
significativo di Flavio Anicio Carlo[822]. Una solenne glorificazione
del grande avvenimento si sarebbe senza dubbio avuta nel _Carmen
de Carolo Magno_ di Angilberto detto Omero, se questo poema fosse
compiuto, ciò che assai probabilmente non è. Giova tuttavia avvertire
che nei poemi francesi Carlo Magno è detto indifferentemente re o
imperatore.

Nella _Kaiserchronik_[823] la traslazione dell'impero è narrata per
disteso, ma in modo assai strano, e in tutto contraddicente alla
verità storica. Possedeva l'impero il greco Costanzo (l. Costantino),
figliuolo d'Irene, donna di grandi virtù. Una notte costei sognò di
trovarsi, insieme col figliuolo, dentro una nave, in mare: la nave
affondava e Costantino periva; ella riusciva a salvarsi, ma un orso
la rapiva e la trascinava in un bosco. Dopo questo sogno, madre e
figlio vanno a Roma, recando con se grandi tesori. Colmati delle
loro liberalità i Romani li accolgono festosamente; ma, facinorosi e
crudeli, tornano poi ben presto ai loro tristi costumi. È ucciso un
senatore: Costantino fa decapitare due dei colpevoli; ma gli amici
di costoro assaltano il palazzo, trascinano la madre e il figlio in
un campo, e loro strappano gli occhi e tagliano il naso. Da allora
la potestà imperiale fu tolta ai Greci per sempre[824]. L'impero era
vacante. La corona fu deposta sull'altare di San Pietro, e i signori
di Roma, adunatisi tutti insieme, giurarono di non più eleggere un
imperatore del loro sangue. C'era allora una usanza, che i giovani
di nobile lignaggio andavano a passare alcun tempo in corte di Roma,
e quando vi avevano ricevuta la spada, ossia erano stati armati
cavalieri, tornavano ai loro paesi. Un re possente, per nome Pipino,
aveva due figliuoli, dei quali l'uno si chiamava Leone, l'altro
Carlo. Leone, recatosi prima del fratello in Roma, v'era stato fatto
papa; ma dopo alcun tempo, mosso da una voce che gli parla in sogno,
Carlo chiede ed ottiene dal padre di andare a Roma ancor egli. Quivi
giunto, è incoronato re, e parte dopo aver promesso al papa di fargli
racquistare tutti i suoi diritti. Lui partito, i Romani prendono il
papa e gli strappano gli occhi: in questa parte il racconto non si
scosta troppo dalle storie e si riscontra, sino ad un certo segno col
poema di Angilberto. Carlo torna verso Roma con un immenso esercito,
occupa la città, punisce i colpevoli, e incoronato imperatore fa
valere la sua potestà che gli era stata già prima annunziata da un
angelo[825]. Carlo Magno fu il primo imperatore tedesco[826].

Anche secondo il racconto della _Kaiserchronik_ dunque Carlo Magno
altro non è che il successore di Costantino VI, e successore tanto più
legittimo in quanto che lo stesso Costantino ha sua sede in Roma. La
continuità dell'impero non patisce eccezioni, nè allora, nè dopo. Vero
è che, compressa l'effimera tracotanza di Crescenzio, Ottone III e
Gerberto annunziarono pomposamente al mondo l'avvenuta ricostituzione
dell'impero di Occidente; ma dicendo ricostituzione, essi intendevano
dire che l'impero era stato reintegrato in tutti i suoi diritti e in
tutte le sue prerogative, e non pensavano che fosse cessato mai[827].

Ma la traslazione dell'impero dai Greci ai Franchi, dai Franchi ai
Germani, si legittimava anche con altri argomenti. Anzi tutto si poteva
discutere se gl'imperatori di Oriente, inquantochè avevano nelle
vene sangue greco, fossero, sebbene successori di Costantino Magno,
imperatori legittimi. Il primo fondatore di Roma, e l'autore diretto
dell'impero romano era Enea, Trojano. Roma era come una nuova Troja,
naturalmente nemica dei Greci, e ripugnava che un Greco portasse la
corona imperiale. Negli ultimi tempi si giunse a considerare l'impero
greco come essenzialmente diverso dal latino, come contrapposto ad
esso, e nella conquista che i Turchi, ancor essi, secondo la leggenda,
di sangue trojano, fecero di Costantinopoli, si vide la tarda, ma
giusta vendetta dell'eccidio di Troja[828]. Ma c'era di più. I Franchi,
nei quali passava la potestà imperiale, erano anch'essi Trojani di
origine, come tutte le genti germaniche in generale, e avevano ricevuto
quel nome, che vuol dire audaci, combattendo e vincendo in servizio
di Roma, gli Alani[829]. Da Troja erano usciti due gran lignaggi,
il latino e il germanico: Carlo Magno apparteneva ad entrambi, e per
tal modo raccoglieva in sè tutto il diritto di cui Troja era come la
prima sorgente. Nessun imperatore poteva essere più legittimo di Carlo
Magno[830]. Gli è cosa degna d'essere notata che, mentre in antico non
si credette punto necessaria agli imperatori la qualità di latini, nel
medio evo si pose ogni studio a farli di sangue trojano, ch'era come
dire di sangue latino.

Non solo Germani e Romani erano di una stirpe, eran fratelli, ma i
principi di Germania erano più nobili di quelli di Roma, perchè, e
per parte di padre, e per parte di madre, venivan da Priamo, mentre
i romani venivano da Priamo soltanto per parte di madre[831]. Ad essi
dunque doveva spettare con preferenza l'impero. Ma non si dimentichi
che al di sopra di tutti i diritti storici, veri o presunti, la
coscienza cristiana del medio evo era condotta ad ammettere un
diritto divino, la stessa volontà di Dio, a più riprese manifestata
assai chiaramente, e in conformità della quale, secondo chiedeva la
necessità dei tempi, l'impero doveva tramutarsi d'uno in un altro
principe, d'una in un'altra gente. L'impero altro non era in sostanza
che una delegazione di poteri divini, fatta con intendimenti speciali
e pel raggiungimento di scopi determinati. Esso non era sorto, diciam
così, _causa sui_, ma per preparare il mondo alla venuta di Cristo
e alla diffusione delle nuove dottrine: sorto e costituito, esso non
durava per fini suoi proprii, ma per tutelare la Chiesa e agevolarne
il còmpito. Ogniqualvolta all'esercizio di così alta missione si
addimostrava necessario il trasferimento, per ineluttabile decreto
della Provvidenza il trasferimento avveniva[832]. Nel già citato poema
di Ugo d'Alvernia, e in altre versioni della medesima istoria, si
narra come l'impero passasse ai Tedeschi. I Saraceni assediavano Roma.
Il papa chiese ajuto ai Francesi, e non avendolo potuto ottenere, lo
chiese ai Tedeschi, promettendo loro l'impero. I Tedeschi scendono in
Italia, ma poco stante vi scendono anche i Francesi, mossi da Ugone.
In Roma i due eserciti vengono alle mani, poi i Francesi sconfiggono
da soli i Saraceni e liberano la Città Santa. Il papa, legato dalla
fatta promessa, si trova in grande imbarazzo. Per consiglio di Ugone
si commette alla fortuna dell'armi la decisione del piato, con questa
condizione tuttavia, che non abbia la Francia in nessun caso a perdere
la sua indipendenza. Combattono, da una parte, centocinquanta baroni
tedeschi, fra cui Tommaso di Lussemburgo, dall'altra, centocinquanta
baroni francesi, fra cui Ugone. Si sterminano a vicenda, e al fine
della pugna rimangono soli vivi, ma spiranti tutt'e duo, Tommaso ed
Ugone. Ugone muore alcuni istanti prima, e l'impero tocca ai Tedeschi.

Ma i Francesi non si acchetarono mai ai decreti della sorte o
della Provvidenza. Nel secolo XVI Guglielmo Postel, nella sua opera
intitolata _Histoire mémorable des expéditions des Gaulois_, rivendica
ai Francesi il primato, e sostiene che ad essi soli appartiene il
legittimo impero; nel XVII l'Aubery, nel suo trattato intitolato _De la
prééminence de nos roys, et de leur préséance sur l'empereur et le roy
d'Espagne_, afferma soli legittimi imperatori essere i re di Francia.
E pure della perdita essi non dovevano accusar che sè soli. Nel poema
intitolato _Le Coronement Loeys_[833] Carlo Magno, pieno d'anni e di
gloria, desideroso finalmente di quiete, risolve di cedere la corona al
figliuolo. Chiama costui in sua presenza, e ricordatogli quali sieno
i doveri di un re, gli mostra la corona deposta sopra un altare e gli
dice:

    Fils Looys, vez ici la corone?
      Se tu la prens, emperere es de Rome.

Ma l'imbelle Luigi, figlio indegno di tanto padre, vinto da sgomento,
lascia cadere in terra l'emblema augusto che doveva recarsi in capo.
I degeneri Carolingi non eran più fatti per tal fardello: giustamente
sottentran loro gli Ottoni.

Voluto ed istituito dalla Provvidenza, deputato a tutelare la Chiesa
e ad agevolare all'uman genere il raggiungimento degli alti suoi
fini, l'impero assumeva un carattere peculiare di santità che molto
ne accresceva il prestigio. Già i gentili ebbero il concetto della
santità dell'impero; ma, naturalmente, un concetto molto diverso da
quello che n'ebbero poscia i cristiani. Tertulliano riconosce quella
santità, ma la deriva dall'ufficio che all'impero credeva fosse
stato commesso dalla Provvidenza. Primo a farla palese al mondo e
ad affermarla era stato lo stesso Cristo, che volle nascere e morire
soggetto dell'impero, e disse: Date a Cesare quel che è di Cesare[834].
Questa testimonianza solenne sarà più tardi molto spesso invocata[835],
e l'ammetteranno così coloro che fanno derivare l'autorità imperiale
immediatamente da Dio, come coloro che la fanno derivare dal
pontefice. Ma il titolo di _santo_ fu dato all'impero ufficialmente
per la prima volta, a quanto pare, da Federico Barbarossa, e nella
dieta di Roncaglia non mancò chi propose di dichiarare eretici
coloro che all'impero non riconoscessero carattere di sacro e di
universale. All'elezione dell'imperatore, come a quella del pontefice,
presedeva lo Spirito Santo, e Carlo Fabri dava per custodi ai sette
Elettori dell'impero i sette angeli principali[836]. L'inviolabilità
dell'impero, sebbene non fosse ammessa da tutti, era la logica
conseguenza della sua santità[837], e come l'imperatore era il supremo
gerarca temporale del mondo, così l'impero era la fonte di ogni diritto
politico e civile.

Io non mi distenderò troppo lungamente, chè il soggetto mio nol
comporta, a discorrere del concetto che il medio evo si fece della
potestà imperiale, e delle dottrine che si escogitarono allora circa
ai limiti di essa e al modo dell'esercizio. Ma alcuni rapidi cenni,
più particolarmente intesi a richiamar l'attenzione sulla diversità
che passava tra il concetto nuovo e l'antico, non saranno qui fuori di
luogo.

Quando fu restituito, o, se così vogliam dire, traslato l'impero
nell'800, la sovranità di Carlo Magno, procacciata con l'armi, si
stendeva su buona parte dell'antico dominio di Roma. Il vasto e ben
signoreggiato territorio era ottima base per novamente assidervi
sopra la potestà imperiale, una potestà reale e concreta, non ideale
ed astratta. Ma mutata in breve la condizione delle cose, guasta e
disfatta, per colpa dei tralignati suoi successori, l'opera di Carlo
Magno, l'impero non fu più che un'anima senza corpo, una volontà
senz'organi. Fa meraviglia la sproporzione che passa sovente allora
tra il diritto proclamato, e generalmente riconosciuto in teorica,
e il potere reale di certi imperatori senza terra, senza denari,
senz'armi, e a cui la stessa Roma, la metropoli nominale dell'impero,
chiude in faccia sdegnosamente le porte. L'impero ridotto a tale, con
le pretensioni larghissime e l'angustissima base, rende immagine di
una piramide capovolta, che si regga per un miracolo di equilibrio, e
che un soffio basti a mettere in terra. E pure esso dura per secoli, e
attraversa i tempi più calamitosi e più difficili del medio evo. Gli è
che una forza poderosissima, la forza delle credenze, lo sorregge e lo
tutela.

Già da molti fu detto che il medio evo, età cui fece difetto in
singolar modo la critica, non ebbe, come di molte altre cose non ebbe,
un giusto concetto dello stato, e che tutta la sua politica fu una
politica artificiale o chimerica, ignara, o sprezzante, della realtà
storica o delle storiche necessità. Questa sentenza è vera, ma vuol
essere temperata con una considerazione. Le idee onde essenzialmente
si giova il medio evo per la costruzione delle sue dottrine politiche,
non sono idee puramente fantastiche, vaganti fuori della vita, sono
idee morali e religiose intimamente legate con essa, sono forze della
coscienza e della storia. L'impero, quale la coscienza d'allora lo
concepisce, non è una mera utopia, ed errerebbe di grosso chi volesse
metterlo in fascio con la repubblica di Platone e con la Città del
Sole del Campanella, o con altre sì fatte concezioni essenzialmente
subjettive di spiriti solitarii. L'impero non nega gli ordini
esistenti, ma in parte si sovrappone ad essi, e in parte si compone
con essi. Nel mondo, su cui esso deve esercitare la sovrana sua
potestà, ci sono nazioni e principati e città, c'è la Chiesa madre dei
credenti: esso a nessuna di queste cose sottentra, nessuna toglie di
luogo, ma con tutte s'accorda pel raggiungimento di uno scopo che non è
terreno. Non dimentichiamo che pel medio evo cristiano la politica non
poteva essere intesa al solo conseguimento dei beni materiali e della
prosperità temporale, ma doveva ancora adoperarsi pel conseguimento
del sommo bene e della eterna felicità. Secondo la coscienza del medio
evo l'impero doveva essenzialmente consistere in una potestà giusta
e sovrana, investita di un alto còmpito morale, scevra d'ogni terrena
cupidigia, regolatrice universalmente rispettata ed infallibile della
vita del genere umano. Esso era una forma più alta di reggimento e
di legge. Il suo diritto veniva da Dio e la forza materiale non era
necessaria sanzione de' suoi precetti se non in quanto la tristizia dei
tempi lo richiedesse; data una umanità più disciplinata e virtuosa,
l'impero avrebbe potuto sussistere ed esercitare il suo officio
senz'altra forza che quella della legge morale. _Ad imperatorem
totius orbis spectat patrocinium_, dice Ottone di Frisinga[838]:
_Imperator est animata lex in terris_, è detto in un documento del
1230[839]. S'intende pertanto come nel medio evo una potestà imperiale
non sorretta da vasti dominii, non suffragata dalla forza dell'armi,
potesse nulladimeno parer degna di riverenza e aver gran peso nelle
cose del mondo. Nè si dica che ciò avveniva soltanto in virtù di una
illusione degli spiriti, remota da ogni possibile realtà, giacchè il
papato era lì per provare come una potestà puramente spirituale fosse
in grado di estendere senz'altro ajuto sul mondo un formidabile ed
incontrastato dominio[840].

Si vede quale divario corresse tra l'impero secondo il concetto antico
e l'impero secondo il concetto del medio evo. Pei Romani dei tempi
di Augusto e di Trajano l'_imperium Romanorum_ era l'insieme delle
province conquistate con l'armi, era la numerosa famiglia delle genti
soggette ed obbedienti a Roma. La conquista era il suo principio e il
suo diritto; la forza, l'opulenza, la gloria, erano gli aspetti e i
momenti suoi principali; il fine massimo la esaltazione di una città
il cui nome figurava tra quelli degli dei, o di un imperatore adorato
sugli altari. Di un còmpito morale qualsiasi non si vede che Roma si
desse gran fatto pensiero. Cicerone parla della dominazione romana come
se fosse piuttosto patrocinio che signoria[841], e Virgilio ricorda ai
suoi concittadini la missione di civiltà e di giustizia loro affidata
dal cielo[842]; ma questi erano pensieri che passavano per la mente
di pochi, poeti o filosofi; la comune coscienza non se ne inspirava
e gl'imperatori ben di rado mostrarono di ricordarsene. Ad ogni modo
il còmpito morale di Roma non si estendeva oltre i limiti della vita
presente e della storia: tenere in pace il mondo per amore o per forza
dopo averlo soggiogato in guerra, imporre ai popoli vinti la lingua
e la civiltà propria, gratificarli col titolo pomposo di cittadini
romani, tali erano i più alti fini civili a cui l'antico impero
potesse mirare. L'impero del medio evo a ben più arduo ufficio aveva
a sobbarcarsi: esso doveva procacciare che gli uomini vivessero, non
conformemente ad una legge sua propria, ma conformemente alla legge
divina, e che i cittadini della terra diventassero cittadini del cielo.
L'imperatore aveva, come il papa, cura d'anime. L'impero antico serviva
a se stesso ed era lo strumento della propria grandezza; l'impero del
medio evo serviva a Dio ed era un organo della Provvidenza.

Il medio evo spiritualizzò l'impero secondochè era dalla sua coscienza
richiesto. La mente in cui il concetto di questo impero spiritualizzato
appare più sublime e più chiaro è la mente di Dante. L'impero fu
istituito da Dio a perfezione della vita umana; tale perfezione non si
può ottenere senza la monarchia unica ed universale. Una è la umanità,
uno il suo còmpito: due sono i fini a cui essa tende; l'uno la felicità
terrena, l'altro la felicità eterna. Quel primo fine è necessariamente
sottordinato al secondo, e la felicità terrena, la quale nasce dal
buon reggimento e dall'ordinato e virtuoso vivere civile, in tanto
solo è degna di essere procacciata in quanto agevola il conseguimento
dell'altra. Senza il peccato dei primi nostri parenti, dal quale ebbe
cominciamento ogni nostra sciagura, gli uomini di per sè avrebbero
raggiunto l'uno e l'altro fine; ma pervertita la lor natura, essi
abbisognarono di due guide sicure che li scorgessero a conseguirli.
Queste due guide sono l'imperatore e il papa, entrambi istituiti da
Dio con proprii e separati uffici, i quali ogniqualvolta si confondono
insieme, sono causa di sciagura al mondo. L'unico imperatore dev'essere
signore di tutta la terra; ma il suo dominio è piuttosto un dominio
sovrano che un dominio diretto. Sotto la sua legge continuano a regnare
i principi, la cui potestà e le cui azioni egli contiene dentro i
limiti del diritto e della giustizia. Egli deve fare in modo che sieno
serbate fra gli uomini la pace, la giustizia, la libertà, condizioni
prime ed indispensabili della felicità terrena. La vacanza dell'impero
è cagione d'irreparabile ruina; da un imperatore aspetta il mondo
salute. Tale è la dottrina che Dante espone nel libro _De Monarchia_,
nel trattato IV del _Convito_, in alcune delle sue epistole, in molti
luoghi della _Commedia_, la dottrina che seguì e propugnò tutta la sua
vita[843]. E la dottrina di Dante è ancora, in sostanza, la dottrina
del Petrarca[844].

Qui si possono notare altre differenze tra l'impero antico e l'impero
del medio evo. L'unità dell'impero antico nasceva da un fatto di
conquista, dallo imporsi di una città e di una gente a tutte le terre e
a tutti i popoli; l'unità dell'impero del medio evo si faceva risalire
all'unità di Dio, e all'opera unica della redenzione compiuta in
benefizio di tutti gli uomini. L'impero antico arrivava al concetto di
umanità raccogliendo sotto una medesima legge le varie genti; l'impero
del medio evo moveva dal concetto di umanità come da principio che lo
spiegava e lo giustificava.

Ma se necessario alla salute dell'uman genere era l'impero, non meno
necessario era il papato, a cui anzi si accordava volentieri, in
ragione della qualità del suo ufficio, la preminenza. Imperatore e
papa erano tutt'e due vicarii di Dio: dice Dante con frase pittoresca
che le due potestà di Pietro e di Cesare si biforcavano da Dio
come da centro comune[845]. Nè i due grandi partiti, Ghibellino e
Guelfo, negavano l'uno la potestà di cui l'altro era fautore: il loro
contendere era solo circa i limiti rispettivi, e il grado d'entrambe.
Federico II diceva che le due potestà, la sacerdotale e l'imperiale,
erano state da Dio medesimo istituite sin dal principio per compiersi
a vicenda[846]. I papi incoronavano gl'imperatori, e all'occorrenza si
dichiaravan vicarii dell'impero vacante. Su molte monete del IX e del X
secolo si vede da una parte l'effigie del papa e dall'altra l'effigie
dell'imperatore. Finalmente è da notare che tra l'impero, quale il
medio evo lo concepisce, ed il papato sono non poche somiglianze ed
analogie: la gerarchia civile, con a capo l'imperatore, era modellata
sulla gerarchia ecclesiastica, con a capo il papa.

Tuttochè per molti rispetti assai diverso dall'antico, l'impero del
medio evo era pur sempre, e si voleva che fosse l'impero romano. Nè a
torto così si voleva, giacchè se è lecito congetturare che una dottrina
d'impero universale sarebbe sorta ad ogni modo nel medio evo, quale
naturale e necessario portato della coscienza cristiana, anche quando
non ci fosse stato l'esempio dell'impero antico, è tuttavia difficile
ammettere che quella dottrina potesse mai di per sè sola tradursi in
fatto. Nell'impero romano del medio evo, esistente in realtà, ha grande
e incontrastabile parte la tradizione romana[847]. Sieno quali esser
si vogliano i travolgimenti e i mutamenti delle cose, sia qualsivoglia
la nazione di colui sul cui capo sta la corona imperiale, l'impero, che
non può perire, è e rimane sempre romano. Nel secondo libro dell'Africa
il Petrarca introduce Scipione, il quale saputo come un giorno lo
scettro imperiale verrà a mani di barbari, si duole di questa che gli
sembra grandissima vergogna del nome latino; ma il padre lo conforta
dicendo:

        Depone, precor, lacrimaeque metumque
    Vivet honos Latius, semperque vocabitur uno
    Nomine Romanum imperium[848].

La traslazione della sede imperiale a Costantinopoli, se ai più
parve nel medio evo un atto ragionevole e giusto, col quale si
procacciava alla Chiesa la libertà e la sovranità necessaria, ad altri
sembrò, com'ebbi già occasione di avvenire, un atto illegittimo, una
solenne ingiuria fatta a Roma. E però nella restituzione dell'impero
d'Occidente si vide e si salutò con gioja il ritorno della potestà
imperiale nella sua propria e legittima sede. È vero che in questa sede
essa non posò più mai, ma è pur vero del pari che ad essa ebbe sempre
a tendere più o meno, e che con essa fu sempre in qualche modo legata.
Roma è la metropoli nominale dell'impero, e in Roma gl'imperatori
ricevono la corona. Anzi Ottone III e Lodovico il Bavaro ebbero in
mente di fermar di nuovo in Roma la sede della suprema potestà civile.
Nell'interno della corona imperiale era scritto il verso famoso: _Roma
caput mundi regit orbis frena rotundi_, e la Bolla d'oro del 1356
prescriveva che gli elettori dovessero sapere il latino, e che non
potesse essere eletto imperatore chi non avesse cognizione della lingua
di Roma.

Tutti sanno con quanto ardore Dante rivendichi ai Romani l'imperial
potestà[849]. Non usurparono essi, ma con ragione e diritto si tolsero
l'impero del mondo. Il popolo romano fu, al pari di quello d'Israele,
un popolo eletto da Dio, e questa elezione esso meritò per la nobiltà
sua e per le grandi virtù. Dio stesso la fece manifesta con solenni
miracoli, come quello dello scudo che ai tempi di Numa cadde dal cielo,
e quello dell'oche capitoline che salvarono la rocca dai nemici, ed
altri parecchi. In ogni tempo i Romani procacciarono il bene dell'uman
genere, anche con disagio e danno lor proprio, e furono egualmente
remoti da cupidigia e da crudeltà. Parecchi popoli e principi tentarono
in varii tempi di occupare l'impero, ma non venne lor fatto, giacchè
non era la esaltazione loro nei disegni della Provvidenza, ma bensì
quella dei Romani. Però chi nega che l'impero appartenga di pien
diritto ai Romani contraddice alla manifesta volontà della Provvidenza.
Nè diverso da Dante pensava e ragionava il Petrarca, a cui la potestà
imperiale pareva inseparabile da Roma, e pareva danno massimo del
mondo l'assenza da Roma così dell'imperatore come del papa. A Dante
Roma senza Cesare rende immagine di una vedovella derelitta[850],
e similmente al Petrarca Roma abbandonata ad un tempo dai suoi due
_sposi_, dai suoi due lumi[851]. Nella canzone da Pietro o da Jacopo
Alighieri indirizzata al papa ed all'imperatore si prega questi due
nocchieri del mondo di rifermare in Roma la loro sede, e ci fu un'ora
che Lodovico il Bavaro potè far concepire grandi speranze in Italia
che la sede imperiale vi sarebbe stata rifermata davvero[852]. La
fantasia popolare, che volentieri immagina come esistente ciò che
dovrebbe essere, traduceva in fatto quanto si desiderava dai più: in
molti racconti popolari, come, ad esempio, nella _Historia della Reina
d'Oriente_ del Pucci, l'imperatore e il papa dimorano tutt'e due in
Roma. Del resto, che l'imperatore fermasse novamente sua stanza in Roma
era desiderio assai antico. In una sua poesia Anselmo il Peripatetico
esclama:

    Christe preces intellege, Romam tuam respice
    Romanos pie renova, Vires Romae excita.
    Surgat Roma imperio Sub Ottone tertio![853].

A Cino da Pistoja pareva che Roma non avesse più ragione di essere,
dappoichè non reggeva più il mondo. In uno de' suoi sonetti egli dice:

    A che, Roma superba, tante leggi
      Di senator, di plebe, e degli scritti
      Di prudenti, di placiti e di editti
      Se 'l mondo come pria più non correggi?

Veduto così brevemente che cosa fosse l'impero del medio evo, e
quali idee e quali sentimenti si facesse nascere intorno, facciamoci
ora ad esaminare alcune particolarità curiose di quello che si
potrebbe addimandare il suo apparecchio simbolico. E cominciamo dalla
incoronazione dell'imperatore.

Normalmente la incoronazione doveva farsi in Roma, per le mani
del pontefice, nella basilica di San Pietro. Lodovico il Bavaro
contravvenne al diritto, e suscitò grande malcontento, quando nella
Dieta di Magonza, adunatasi nel 1338, fece deliberare che a conseguire
legittimamente la dignità imperiale la incoronazione in Roma non
fosse più necessaria. Il rituale delle cerimonie era stabilito per
consuetudine. Senza troppo distendermi a darne la descrizione,
mi basterà riportar qui testualmente ciò che Benzone dice della
processione imperiale: «Processio vero Romani imperatoris celebratur
talibus modis. Portatur ante eum sancta crux gravida ligni dominici,
et lancea Mauricii. Deinde sequitur venerabilis ordo episcoporum,
abbatum et sacerdotum, et innumerabilium clericorum. Tunc rex indutus
bysino podere, auro et gemmis inserto, mirabili opere, terribilis
calcaribus aureis, accinctus ense, adopertus Frisia clamide, imperiali
veste, habens manus involutas cyrothecis lineis cum anulo pontificali,
glorificatus insuper diademate imperiali,

    Portans in sinistra aureum pomum,
    Quod significat monarchiam regnorum,
    In dextera vero sceptrum imperii
    De more Iulii, Octaviani et Tiberii;
    Quem sustentant ex una parte papa Romanus,
    Ex altera parte archipontifex Ambrosianus.
    Hinc et inde duces, marchiones et comites,
    Et diversorum procerum ordines.

Sic imperator incedit ad processionem; nulla humana lingua potest
explicare talem gloriam tantumque honorem. Etc.[854]. A proposito delle
vesti dell'imperatore delle quali è qui fatta menzione, giova avvertire
che, per quanto era possibile, si cercò di serbar loro l'antica foggia
romana, e che in suggelli del X secolo si vedono ancora gl'imperatori
effigiati con la tunica e il manto[855].

L'aquila, che Dante chiama _pubblico segno e uccel di Dio_[856],
l'aquila romana, è pur sempre il segno e il simbolo dell'impero. Carlo
Magno fece porre un'aquila di bronzo sul vertice del suo palazzo in
Aquisgrana[857], e a cominciare da Enrico III lo scettro imperiale
fu sormontato da un'aquila[858]. Narrasi nel _Libro Imperiale_ che
il primo ad usare di tal segno fu Giove quando cacciò Saturno, e
noi abbiamo veduto che sino a Giove si facevano da taluno risalire
le origini dell'impero. Enea poi fu quegli che lo portò di Troja in
Italia[859]. Armannino Giudice dice che Romolo e Remo lo tolsero per
impresa[860]. Secondo Giovanni Villani Pompeo portò aquila d'argento in
campo azzurro, Giulio Cesare aquila d'oro in campo vermiglio, Ottaviano
aquila nera in campo d'oro, e come Ottaviano poi tutti gli altri
imperatori[861]. Giova avvertire a tale proposito che nel medio evo si
credette i Romani avere usato bandiere e stendardi simili in tutto a
quelli d'allora. Descrivendo il bassorilievo che rappresentava il caso
di Trajano e della vedova, Dante dice che ci si vedeva l'imperatore
circondato di cavalieri, e che

                          l'aquile nell'oro
    Sovresso in vista al vento si movieno[862];

dove qualcuno volle assai malamente correggere: _l'aquile dell'oro_.
In un manoscritto francese della Biblioteca Nazionale di Torino[863]
un elenco dei re e degl'imperatori romani è accompagnato da una serie
di miniature rappresentanti gli stemmi dei varii principi. L'aquila
nera è a tutti comune, ma non così altre imprese e figure. Augusto,
Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, hanno sullo scudo un grifone rosso
in campo giallo; Trajano, Adriano, Antonino Pio, Marc'Aurelio, Commodo,
un grifone nero in campo bianco. Decio ha lo scudo a liste orizzontali
bianche e rosse. Diocleziano ha per impresa una nave; Costantino il
Grande un bucefalo bianco in campo rosso, e così ancora suo padre,
i suoi figli e Giuliano l'apostata. Uno dei mosaici del Triclinio
Lateranense a Roma rappresenta Carlo Magno in atto di ricevere dalle
mani di Cristo la bandiera dell'impero, o l'orifiamma. Questa bandiera
è rossa, ma l'aquila non vi figura. Durante il medio evo l'aquila
imperiale fu sempre effigiata con una testa sola. Gioverà finalmente
notare che nei _Phisiologi_ e nei _Bestiarii_ del medio evo si narrano
dell'aquila molte meraviglie, tra l'altre questa, che quando essa è
vecchia può ringiovanire immergendosi in un fonte che scaturisce dalle
parti di Levante. L'aquila, che godeva di tal privilegio, e che, al
morale, si considerava quale un simbolo di Cristo, era per tutti i
rispetti degna di rappresentare l'impero sussistente in perpetuo e
cristiano.

Ma una potestà così augusta quale si era la potestà imperiale, e
così intimamente legata con tutto l'ordine delle cose, aveva mestieri
d'altri segni ancora e d'altri simboli che figurassero e manifestassero
l'alta sua dignità e il provvidenziale suo officio. Facciamoci a dir
brevemente qualche cosa dei principali.

Sotto il nome generale d'_insignia_ si comprendevano due classi
di oggetti attinenti strettamente all'impero ed alla persona
dell'imperatore, ed erano i _clenodia_ e le _reliquiae. Clenodia_[864]
erano più propriamente le insegne significative della imperial potestà,
come la corona e lo scettro; _reliquiae_, certe reliquie di massimo
pregio, le quali conferivano alla santità, e in pari tempo alla forza
e alla stabilità dell'impero. Le insegne dell'impero si trovano ora
sparse qua e là, a Vienna, a Parigi, a Roma, a Madrid, a Pietroburgo, a
Milano, a Monza, a Palermo, in altre città ancora; ma per la più parte
tuttavia sono rimaste in possesso della Casa d'Austria[865].

Grande era la importanza che alle insegne si attribuiva nel medio
evo, nè un imperatore poteva considerarsi in legittimo e definitivo
possesso del suo grado finchè non le avesse ottenute. Lodovico il Pio,
volendo, presso a morte, trasmettere in Lotario la potestà imperiale,
fece a costui recapitare le insegne. Per contro si vide alcun principe
pretendere alla imperial potestà solo perchè aveva le insegne in suo
dominio[866]. Nel famoso _Chronicon Norimbergense_, lodata grandemente
la città di Norimberga, si dice: «Pallium enim, enses, sceptrum, ponia
coronamque Karoli Magni Nurembergenses in eorum archivis observant, que
in coronatione novi regis ob sanctitatem et antiquitatem auctoritatem
prestant».

Gotofredo da Viterbo enumera sei insegne principali[867]:

    Ut scriptura tonat, crux, ensis, scepter, corona,
    Lances, palla bona nobis insignia donant.

Il nome di corona apparteneva propriamente alla sola corona imperiale;
le corone dei re chiamavansi _circuli_. La rotondità simboleggiava il
cerchio della terra; ma anche l'oro e le gemme avevano significazione
simbolica. «Corona imperatoris est circulus orbis. Portat ergo Augustus
_coronam_, quia declarat se regere mundi monarchiam. Corona quoque
dicitur victoria, unde et victores coronabantur, et Augusti _victores
orbis_ dicebantur. Arcus super coronam curvatur, eo quod Oceanus mundum
dividere narratur»[868].

Delle gemme dice Gotofredo da Viterbo[869]:

    Iulius instituit gemmas superesse corone,
    Ut preciosa foret lapidum gravidata decore:
      Nunc liber exponet quid sibi gemma volet.
    Quatuor in cunctis sunt insita punctis
    Duricies, virtus, splendorque colorque:
      Hec qui Cesar erit mistica nosse velit.
    Duricie constans, virtute refertus honestus,
    Et bona fama color, splendor sine crimine questus:
      Quatuor ista geret qui diadema feret.

Ad un _solitario_ che brillava nella corona imperiale si attribuivano,
come del resto a molte gemme nel medio evo, virtù magiche. Walther
von der Vogelweide lo chiama la stella polare dei principi[870]. Nella
_Graphia_ si parla di dieci corone imperiali; ma più particolarmente
degno di nota è quanto vi si dice della ferrea e dell'aurea. «Octava
ferrea..... quia Pompejus, Julius, Octavianus atque Trajanus, cum
Romanis, per ferrum subjugaverant totum orbem terrarum...... Decima
corona est aurea, gemmis et margaritis ornata; quia sicut aurum
reliquis metallis splendidius est, et quo plus aere repercutitur plus
fulget, ita imperator omnibus hominibus qui sub celo sunt, clarissimus,
illustrissimus, splendidissimus. Hanc Diocletianus imperator,
visa aurea corona regis Persarum, primus romanis imperatoribus
tradidit.....»[871]. È noto ciò che la leggenda narra della famosa
corona ferrea, formata con uno dei chiodi che servirono a crocifìggere
Cristo[872]. Nella orazione _De obitu Theodosii Magni_, scritta l'anno
395, Sant'Ambrogio racconta che Sant'Elena, ritrovati quei chiodi, di
uno fece fare un freno, di un altro un diadema, e li mandò al figliuolo
Costantino[873]. Il freno è simbolo di reggimento, il diadema di
sovranità, e tutt'e due sono fatti con istrumenti della passione di
Cristo: anche in ciò si palesa la idea fondamentale del nuovo impero,
e il suo carattere essenzialmente religioso. Luigi il Pio, figlio di
Carlo Magno, fu incoronato con una corona che Stefano V aveva portato
da Roma. Essa era d'oro e adorna di gemme: Ermoldo Nigello dice che era
la stessa corona di Costantino[874].

Lo scettro era insignito dell'aquila romana, ma di esso non troppo si
parla; un'insegna e un simbolo di grande importanza era, per contro,
il globo aureo che nelle occasioni solenni gl'imperatori tenevano nella
mano sinistra. Esso raffigurava l'orbe terraqueo, tutto intero soggetto
alla sovranità imperiale[875]. Un globo sormontato da una Vittoria
alata apparteneva già alle insegne degli antichi imperatori romani,
ma, dopo il trionfo del cristianesimo, alla Vittoria fu sostituita la
Croce, vincitrice e dominatrice del mondo. Una statua di Costantino,
eretta in cima a una colonna di porfido nel Foro che da lui appunto
prendeva il nome, in Costantinopoli, recava nella destra un ingente
pomo aureo con infissavi la croce, e con questa iscrizione: _A te
Cristo Dio raccomando questa città_[876]. Nell'Augusteo Giustiniano
era rappresentato a cavallo, con un globo sormontato dalla croce
nella mano destra, e nessun'arme[877]. La _Graphia_ fa risalire l'uso
del globo aureo sino ad Augusto[878]; ma il globo che figurava tra
le insegne dell'impero nel medio evo si diceva fatto per ordine di
Benedetto VIII e da questo pontefice presentato a Enrico II[879]. A
dir d'alcuni esso era pieno di terra raccolta dalle quattro plaghe del
mondo per significare la universalità del dominio imperiale[880]; altri
invece, per una di quelle tante antitesi care al medio evo, dicevano
che era pieno di cenere, a significare la vanità della stessa potenza
imperiale[881]. Nella leggenda dei Re Magi, che il carmelitano Giovanni
d'Hildesheim scrisse in latino nel XIV secolo[882], si narra, al cap.
23, dei doni che i tre Re presentarono al bambino Gesù. Il re di Nubia
e di Arabia, Melchiorre, offerse trenta denari e un pomo aureo. Questo
pomo, che figurava il mondo, era stato di Alessandro Magno, il quale
l'aveva fatto formare con monete d'ogni specie, appartenenti ai tributi
che la terra tutta gli pagava. Alessandro lo portava sempre in mano
per lasciare intendere che egli aveva il mondo in sua balìa. Appena
presentato a Gesù, esso si sciolse in polvere ed in cenere[883].

Molto spesso si trova ricordata, come una delle principali e più
preziose insegne, la lancia dell'impero, sebbene le notizie intorno ad
essa sieno molto confuse e contraddittorie. Non bisogna dimenticare, a
tale proposito, che era stato costume di parecchie genti germaniche,
e fra l'altre dei Longobardi e dei Franchi, di consegnare al re
proclamato un'asta come simbolo di sovranità, e che la _quiris_ aveva
avuto grande importanza nelle tradizioni romane. La lancia dell'impero
si credeva avesse appartenuto in origine a Costantino, ma si confuse
poi con la lancia di cui fu trafitto Cristo in croce per man di
Longino, ed anche con una lancia di San Maurizio, capitano della famosa
legione tebea[884]. Essa era considerata come un _firmamentum imperii_,
e Gotofredo da Viterbo così ne parla[885]:

    Subjicit imperio bello gestata potentes,
    Motibus ipsius nequeunt obsistere gentes,
      Haec ubi bella movet vincere cuncta solet.
    Lancea sancta solet regnorum vincere lites,
    Ipsa facit proceres Romanos esse Quirites,
      Ex hoc Caesar habet, quod sibi regna favent.

In varii modi si racconta come essa fosse acquistata al patrimonio
dell'impero. Secondo alcuni Rodolfo, re di Borgogna, l'ebbe in
Italia da un conte Sansone, e la cedette, per amore, o per forza,
all'imperatore Enrico I; secondo altri fu Ottone I quegli che
l'acquistò da Bosone, re d'Arles. Eccardo Uraugiense così la
descrive[886]: «..... quae (_lancea_), excepta ceterarum specie
lancearum, novo quodammodo opere, novaque elaborata arte et figura,
iuxta mediam spinam habuit utrobique quasi fenestram, et in media spina
cruces ex clavis, manibus et pedibus salvatori nostri domini Jhesu
Christi affixis».

Ma, come dissi, questa supposta lancia di Costantino fu poi
identificata con la lancia di Longino, comunemente designata col
nome di _Lancea Christi_, la quale, secondo la più diffusa credenza,
non fu ritrovata che ai tempi della prima crociata[887], ma che la
pietosa fantasia dei credenti immaginò conosciuta e posseduta dalla
cristianità molto tempo innanzi. In fatto, la lancia che insieme col
bacino figura nei romanzi del Santo Graal, sarebbe appunto la lancia
di Cristo. Carlo Magno l'avrebbe posseduta, e poi altri principi dopo
di lui. Guglielmo di Malmesbury racconta[888] che Ugo, re di Francia,
mandò al re Adelstano d'Inghilterra, insieme con altri doni di massimo
valore, la spada di Costantino Magno, nel pomo della quale era infisso
uno dei chiodi che avevano servito a crocifiggere Cristo, la lancia di
Carlo Magno, che si credeva essere quella stessa che aveva trafitto il
fianco di Cristo, e che al fortunato suo possessore aveva procacciato
le vittorie più strepitose, il vessillo del martire Maurizio, del
quale vessillo s'era il medesimo Carlo Magno servito per dissipare
gli eserciti dei Saraceni in Ispagna[889]. Secondo la _Chanson de
Roland_, della sacra lancia Carlo Magno non avrebbe posseduto altro
che la punta, incrostata nel pomo della sua famosa spada Joyeuse[890].
Ma la lancia dell'impero si trova anche indicata col nome di _lancea
Mauricii_[891], senza dubbio per un'altra confusione. A Boleslao,
quando fu incoronato re di Polonia, Ottone III diede la lancia
di San Maurizio e uno dei santi chiodi[892]. Di questa lancia non
si parla nè da Valafredo Strabone nel suo _Hymnus de Agaunensibus
martyribus_[893], nè dal Voragine nella leggenda di San Maurizio e de'
suoi compagni[894], e nemmeno da Hermann von Fritslar. Tra le insegne
dell'impero figuravano pure il vessillo e la spada di San Maurizio
e una pretesa spada di Carlo Magno; di quel vessillo si credeva in
Germania che giovasse per la difesa, ma non per l'offesa[895].

Figuravano finalmente, secondo varii racconti, tra le insegne
dell'impero, la famosa spada Durendal, che l'arcangelo Michele aveva
recato a Carlo Magno dal cielo, e che da Carlo Magno fu poi donata ad
Orlando, la spada di Attila, che un tempo era stata di Marte[896], e
la spada di Costantino. Il nome di Costantino è spesso occorso nelle
pagine che precedono, e la leggenda mostra di dare grande importanza
alle insegne che venivano da lui: non si dimentichi che Costantino era
considerato quale il fondatore dell'impero cristiano.

Delle numerose reliquie che conferivano dignità e forza all'impero
non mi soffermo a discorrere; alcune di esse si credevano acquistate
dallo stesso Carlo Magno a Gerusalemme e a Costantinopoli. In un
poemetto tedesco d'incerta età, ma del secolo XIV probabilmente[897],
si può vedere quale importanza si desse alle reliquie dell'impero.
Quivi si narra, tra l'altro, una storia che, in parte, si trova pure
narrata in uno dei racconti del Novellino. Il Prete Gianni manda
all'imperatore Federico II un ambasciatore, e lo fa presentare di
parecchie cose mirabili, di una veste di pelle di salamandra, di
una bottiglia piena dell'acqua della fontana di giovinezza, e di un
anello d'oro che procaccia vittoria, e nel quale sono tre pietre, di
cui la prima impedisce che l'uomo anneghi quand'anche stesse un anno
intero sott'acqua, la seconda lo rende invulnerabile, la terza lo fa
invisibile. Istruito della potenza e magnificenza del Prete Gianni,
l'imperatore convoca tutti i principi soggetti alla sua dominazione,
tien corte plenaria, e fa vedere all'ambasciatore le sante reliquie
dell'impero, la croce, i chiodi, la lancia, la camicia della Vergine,
la corona di spine, la veste di Cristo[898]. Vedutele, l'ambasciatore
confessa che tutta la ricchezza del suo signore non è che fango a
paragone di quella ricchezza.

Preordinato dalla divina Provvidenza e coadiutore dell'opera della
redenzione, l'impero romano, riconsacrato nella verità della fede,
non poteva venir meno. Strettamente legato ai destini dell'uman
genere, esso doveva durare sino a che questi destini non venissero a
compimento; vicariato di Cristo, esso doveva, come la Chiesa, attendere
il Cristo, senza che, frattanto, le porte dell'Inferno potessero
prevalere contro di esso. L'impero romano non sarebbe cessato che col
chiudersi del grande dramma dell'umanità, e prossimamente al giorno
in cui tutte le podestà delegate sulla terra sarebbero tornate al loro
fattore, giudice supremo, e da indi innanzi unico principe. Tale è già
l'opinione degli apologeti e dei padri. Preghiamo per gl'imperatori,
esclama Tertulliano[899], preghiamo per l'impero di Roma, giacchè per
essi solo sono ritardate le imminenti calamità della fine del mondo. E
un'altra volta dice: Tanto durerà il mondo quanto durerà l'impero[900].
Pensieri consimili si trovano negli scritti di Lattanzio, di Origene,
di San Gerolamo, di San Giovanni Crisostomo, di altri molti. Nel
commento alla seconda epistola di San Paolo ai Tessalonicensi, già
attribuito a Sant'Ambrogio, ed ora a Ilario Diacono, si legge: «Non
prius veniet Dominus quam regni Romani defectio fiat, et appareat
Antichristus qui interficiet sanctos, reddita Romanis libertate, sub
suo tamen nomine». Questa ancora è la costante opinione del medio
evo. Agostino Trionfo la mantiene nella sua _Summa de potestate
ecclesiae_[901]. Nel trattato _De ortu, progressu et fine Romani
imperii_ di Angilberto di Admont si dice che l'impero di Roma, il quale
toccò l'apice della potenza e della gloria sotto Ottaviano Augusto, ai
tempi della venuta del Redentore, deve da indi in poi andare scadendo
continuamente sino alla venuta dell'Anticristo. Nel _Ritmaticum
querulosum_ di Lupold di Bebenburg si afferma che l'Anticristo non può
nascere finchè sussiste l'impero romano in cui nacque il Salvatore.

Ma di ciò più diffusamente nel capitolo che segue.



CAPITOLO XXII.

La fine di Roma e del suo impero.


La leggenda non si appagò di rintracciare nel più remoto passato le
origini favolose di Roma e d'infiorare di mille svariate immaginazioni
la sua storia e i suoi fasti; essa volle ancora seguitarne i destini
nel tempo avvenire, presagirne gli ultimi casi e la fine. È questa
un'altra prova, da aggiungere alle molte già contemplate, della
sollecitudine viva ed instancabile onde Roma era fatta segno.

Gli antichi Romani credettero che Roma dovesse durare in eterno. Le
parole VRBS ROMA AETERNA, o semplicemente ROMA AETERNA, si trovano su
monete ed iscrizioni; eterna è chiamata la città da Tibullo, da Ammiano
Marcellino, da Frontino, da Ausonio[902]. Giove, nell'Eneide[903],
annunzia che l'impero dei Romani sarà senza fine:

    His ego nec metas rerum, nec tempora pono,
    Imperium sine fine dedi.

Rutilio Namaziano avverte Roma di non temere i fusi delle Parche:

    Porrige victuras Romana in saecula leges,
      Solaque fatales non vereare colos[904].

Ma nelle credenze religiose, così dei Romani, come dei Greci, una vera
dottrina escatologica non si trova. La loro religione era più fatta per
provvedere alle minute e cotidiane necessità della vita pratica che
non agl'interessi generali e finali dell'umanità. Se il genere umano
dovesse una volta sparire dalla faccia della terra, se la terra stessa,
se il mondo dovessero, in un lontano ed incognito avvenire, mutar
l'esser loro, o andar distrutti, essi nè sapevano, nè si curavano di
sapere. Tutt'altrimenti nel cristianesimo, dove la visione meravigliosa
o terrifica dei tempi apocalittici è come un fondo di scena invariabile
dinnanzi al quale si viene svolgendo il dramma della umanità. Per la
coscienza cristiana niuna cosa terrena può essere eterna, dappoichè
la terra stessa, in un avvenire già forse imminente, è condannata
a perire. Roma perirà anch'essa, e il suo impero cesserà di reggere
l'uman genere.

Ma non prima che il mondo sia per essere travolto nell'ultima rovina.
Una credenza così fatta s'imponeva, in certa guisa, da sè stessa
agli spiriti. Non doveva quella città, non doveva quell'impero, che
erano stati ordinati a bella posta per preparare il mondo alla venuta
del Redentore, sussistere sopra la terra, quando vi sarebbe apparso
il più fiero nemico di costui? Non dovevano essi, in quei giorni di
massimo pericolo, proteggere quella Chiesa che avevano veduto nascere
e crescere all'ombra loro? Gli animi si sentivano racconsolare al
pensiero che gli ultimi viventi, saldi nella fede di Cristo, avrebbero
avuto alleati nelle terribili battaglie contro le potestà delle tenebre
l'invitta città che aveva soggiogato il mondo, e un imperatore coronato
fra le sue mura della corona dell'universale dominio.

San Gerolamo dice che Roma deve durare sino al principiare del regno
celeste[905]. Prima di lui Lattanzio, non solo aveva espressa la
medesima opinione, ma era anche andato più oltre, attribuendo in certo
qual modo a Roma una virtù arcana, per la quale conservavasi il mondo,
che, altrimenti, sarebbe precipitato a pronta ruina. Egli annunziava
l'universale giudizio per l'anno 436, ma assicurava in pari tempo che
di esso non era a temere finchè Roma si sorreggeva[906]. Tertulliano
diceva similmente la fine del mondo essere ritardata dalla presenza
dell'impero romano; e allora Roma e l'impero erano una sola e medesima
cosa[907]. Sì fatte credenze avevano radice nella seconda epistola di
San Paolo ai Tessalonicensi, nell'Apocalissi, negli Oracoli sibillini.
In questi la distruzione di Roma si trova ripetutamente annunziata
per l'anno 948 dalla fondazione, e doveva essere compiuta da Nerone,
veniente dall'Asia. Dione Cassio ricorda che un oracolo sibillino
turbò le menti degli uomini al tempo di Tiberio, annunziando la
distruzione di Roma per l'anno 900[908]. Lattanzio fa menzione di un
antichissimo re dei Medi, il quale, gran tempo prima della guerra di
Troja, vide in sogno la distruzione di Roma. Nell'Apocalissi la fine
di Roma è collegata alla fine del mondo, ma in tutt'altra maniera,
con tutt'altri intendimenti. L'autore dell'Apocalissi nutre per Roma
un odio implacabile. Non solo la città, per lui, non ha nessuna santa
missione da compiere, ma contrasta anzi al volere di Dio, e l'impero
è una esecrabile e diabolica istituzione, causa principalissima della
iniquità onde il mondo è ripieno. Roma distrutta, incatenato Satana
per mille anni, incomincerà il millennio, cioè il regno degli eletti
governati da Cristo in terra. Trascorsa quella età, Satana sarà
liberato, e si risolleverà nel mondo il regno del male. Seguiranno
allora le incursioni di Gog e Magog, alle quali terrà dietro il
giudizio e la rinnovazione della terra e del cielo[909]. Alcune parti
della visione apocalittica passeranno nelle immaginazioni escatologiche
dei tempi susseguenti, ma non l'odio contro Roma. Abbiam già veduto
che cosa pensasse Lattanzio in proposito; assai prima che seguisse nel
IV secolo la conciliazione della Chiesa e dell'impero, i sentimenti
della Apocalissi ostili a Roma cominciarono ad essere ripudiati. Quei
sentimenti avevano una origine essenzialmente giudaica e difficilmente
potevano accogliersi nel petto di chi, pur essendo cristiano, era nato
e si sentiva romano, o aveva largamente attinto ai fonti della coltura
pagana[910]. Secondo le varie opinioni dei rabbini, Roma, quando sieno
maturi i tempi, sarà distrutta, o dai Persiani, o dagli Ebrei, o dallo
stesso Messia[911].

Dopo le incursioni dei barbari la credenza che Roma fosse serbata
a maggiori e misteriosi destini doveva, in certo modo, trovarsi
avvalorata dalla prova dei fatti. A più riprese Roma era stata
espugnata, saccheggiata, incendiata, ma non distrutta. E se i barbari
non erano stati buoni di cancellarla dalla faccia della terra, non
era egli ragionevole il credere che per le mani degli uomini essa non
sarebbe perita più mai? A questa credenza, non iscossa, anzi sorretta
dallo spettacolo delle recenti rovine, deve legarsi una profezia di
San Benedetto, che si trova ricordata più di una volta, e secondo la
quale Roma sarebbe perita, non per forza di genti nemiche, ma per forza
di calamità naturali, di procelle e di terremoti[912]. Ho già fatto
altrove ricordo di una profezia, riferita da Beda, la quale fa durare
Roma quanto il Colosseo, e il mondo quanto Roma[913]. Nelle profezie
riguardanti i pontefici, attribuite a Malachia Ibernico, il quale morì
l'anno 1148, a proposito del ventesimo pontefice si dice che, dopo
mille tribolazioni, Roma sarà distrutta e avrà luogo il giudizio.
Nel 1655 fu pubblicato a Londra un opuscolo nel quale si ammoniva
gl'inglesi residenti a Roma di uscirne, giacchè la città sarebbe stata
distrutta l'anno 1666, e quarantacinque anni più tardi sarebbe seguita
la fine del mondo[914]. Oggigiorno ancora vive tra il popolo a Roma una
credenza, secondo la quale la statua equestre di Marco Aurelio si va
di nuovo lentamente indorando, e quando sarà tutta indorata il mondo
finirà[915].

Ma la distruzione di Roma fu anche annunziata a più riprese
indipendentemente dalla fine del mondo e in contraddizione con le più
antiche credenze. L'impero non essendo più necessariamente e di fatto
congiunto con la Città, si poteva credere che essa fosse venuta meno
alla propria missione, che l'esistenza sua più non fosse necessaria
al mondo. Di qui le molte profezie che le minacciano imminente ed
irreparabile rovina; ma queste profezie non hanno, in generale, nessun
carattere di popolarità, come l'aveva quella che legavasi al Colosseo;
muovono da giudizii di singoli, e da cause meramente morali, proprie
dei tempi in cui nascono, e non acquistano mai, anche perchè troppo
frequenti, molta diffusione ed autorità. Santa Brigida, in una delle
sue Rivelazioni, annunziava che Roma sarebbe stata distrutta in pena
della grande corruzione della Chiesa. Santa Francesca Romana prediceva
il medesimo nel 1436; gli Spirituali, che tanto diedero da fare
all'Inquisizione, s'aspettavano di veder Roma consunta dal fuoco come
un'altra Sodoma[916]. Nel vaticinio di un anonimo sono questi versi:

    Roma diu titubans longisque erroribus acta
      Corruet et mundi desinet esse caput[917].

Martino Lutero annunziò, nonchè la caduta del cattolicismo, la
distruzione ancora di Roma.

Ma, o con Roma, o senza Roma, l'impero romano durerà indubitabilmente
sino alla fine dei secoli. Questa credenza è antichissima, e, dopo
essere stata universale nel medio evo, passa e continua a vivere per
lungo tempo ancora nell'età moderna. Alcune peculiarità sue si alterano
e si mutano col mutar dei tempi, ma il concetto sostanziale rimane
invariato.

Il germe di essa trovasi già in Lattanzio[918]. Fondandosi
essenzialmente sull'autorità delle Sibille, Lattanzio annuncia con
terribili parole la desolazione e la irreparabile rovina di Roma.
Precederà la venuta dell'Anticristo una età sciagurata, piena d'ogni
calamità e d'ogni nequizia. Imminente la conclusione dei tempi,
Dio manderà sulla terra un suo grande profeta, il quale sarà ucciso
dall'Anticristo. La potenza di costui non avrà più limiti, e durerà
il flagello quarantadue mesi. I giusti ripareranno nella solitudine,
e il figliuolo della perdizione moverà contro di essi, e li circonderà
con le sue milizie, sino a che Dio mandi un re dal cielo a disperderli
con ferro e con fuoco. Questo re non è altri che Cristo, la cui venuta
sarà annunziata dal cadere di una spada celeste. Durerà la carnificina
dall'ora terza sino al vespero, e il sangue correrà a torrenti. Per
quattro volte si rinnoverà la pugna, e da ultimo l'Anticristo sarà
fatto prigione, e insieme con tutti i suoi seguaci abbandonato a giusto
castigo[919].

Qui l'imperatore romano non comparisce ancora; ma poichè già si credeva
che l'impero romano dovesse durare sino alla fine del mondo, non era
possibile che prima o poi non si desse anche all'imperatore una parte,
e una parte cospicua, in quelle supreme battaglie della umanità.
L'Anticristo, maestro di false dottrine e conquistatore, era a un tempo
stesso nemico della Chiesa e nemico dell'impero.

Metodio, nelle _Revelationes_, descrive a questo modo gli ultimi
tempi. Nel settimo millenario i figliuoli d'Ismaele (i Saraceni,
a' quali forse solo nelle redazioni più recenti si aggiungono i
Turchi) usciranno dal deserto e si rovesceranno sopra la terra. Nulla
potrà resistere all'impeto loro: numerosi come le cavallette, essi
ridurranno in cattività tutto il genere umano, distruggeranno le
chiese, empieranno il mondo di abbominazione e di lutto. I cristiani
rinnegheranno la fede, e la più gran parte dei viventi morrà per
ferro, fame, pestilenza. Ma allora sorgerà il re dei Greci, ossia dei
Romani, in gran furore, e piomberà sui barbari trionfanti e tripudianti
nella tracotanza della vittoria e tutti li vincerà, assoggettandoli
a durissima servitù. Avrà allora principio un'èra di letizia e di
pace, nella quale gli uomini, senza timore o sollecitudine alcuna,
vivranno giocondamente. Ma indi a non molto si spalancheranno le porte
di aquilone, e le genti scelerate e bestiali, chiuse da Alessandro
Magno tra i monti, irromperanno sopra la terra, e prima espugneranno
la città di Joppe. Al loro furore non sarà difesa. L'imperatore romano
si ritrarrà in Gerusalemme, e vi starà dieci anni e mezzo, compiuti
i quali apparirà nel mondo l'Anticristo. E come questi sarà apparso,
l'imperatore salirà il Golgota, sulla cui cima sarà confitta la croce,
e si torrà la corona dal capo, e la porrà sulla croce, e stendendo le
mani al cielo rassegnerà a Dio l'imperiale potestà. La croce, con la
corona insieme, sarà assunta in cielo. L'Anticristo trionfante ucciderà
i profeti Enoc ed Elia, mandati contro di lui, e soggiogherà tutta la
terra, e ne sarà padrone; dopodichè verrà Cristo vendicatore, e, vinto
e ucciso l'avversario, procederà all'universale giudizio.

Prima di passare oltre ad esaminare alcune forme più recenti di questa
leggenda, o credenza che si voglia dire, fermiamoci a fare su quella
datane da Metodio qualche breve considerazione. Metodio, o chi altri
si sia l'autore delle _Revelationes_ che vanno sotto il suo nome, è
il primo a parlare in modo preciso delle ultime vicende e della fine
dell'impero. Sia che egli immagini di suo capo, sia che riproduca
immaginazioni forse già nate tra il popolo, non si può non ammettere
che quella parte della predizione che più particolarmente riguarda
l'impero sia di origine bizantina[920]. Metodio intende parlare di un
imperatore greco (_rex Graecorum sive Romanorum_), giacchè l'impero
romano per lui altro non è che l'impero d'Oriente, e la profezia
che mette innanzi altro scopo non ha, come del resto tutto il libro
delle Revelationes, che di provare il primato di Costantinopoli e
di glorificare l'impero d'Oriente. I fatti predetti da lui debbono
accadere nel settimo millenario dalla creazione del mondo: ei li poneva
pertanto in tempo abbastanza remoto da quello in cui scriveva (VIII-IX
sec.)[921].

I figliuoli d'Ismaele di cui parla Metodio sono i Saraceni, ond'era
sempre minacciato di rovina l'impero. Ma i Saraceni sono da lui
introdotti nella finzione per ragioni storiche manifeste, e in iscambio
d'altre genti, che, del resto, vi operavano il medesimo. San Cirillo,
vescovo di Gerusalemme nel IV secolo, dice in un suo scritto[922]
che l'Anticristo troverà l'impero di Roma diviso in dieci regni,
e che ucciderà tre re e si assoggetterà gli altri sette. Questa
opinione, espressa anche da San Gerolamo, era opinione comune che
aveva radici assai remote ed antiche[923]. Ma i Saraceni di Metodio
saranno vinti dallo stesso imperatore, alla cui vittoria succederà,
come abbiamo veduto, un'èra di letizia e di pace. Qui abbiamo una
evidente trasposizione del millenio di felicità che, secondo la
opinione dei chiliasti, doveva arridere ai giusti risuscitati, sotto
il reggimento, di Cristo. Anche la badessa Ildegarde, famosa ai tempi
dei papi Eugenio, Anastasio IV, Adriano IV, Alessandro III, e che
molto profetò circa la fine del mondo e l'Anticristo, fa succedere a
una età felice, di virtù e di concordia, un'età calamitosa in eccesso,
durante la quale, smembrato l'impero romano, ogni provincia si reggerà
da sè. Le genti rinchiuse da Alessandro Magno, ossia i popoli di Gog
e Magog, continuano a figurare in tutte le posteriori versioni della
leggenda[924]. Quanto all'Anticristo, che, sotto un certo aspetto, è il
protagonista di tutta l'azione, Metodio lo trova già nell'Apocalissi,
e noi lo vediamo ricomparire con gli stessi caratteri, e operare al
medesimo modo in tutte le versioni successive.

Gli innumerevoli trattati che intorno a questo figliuolo della
perdizione ci ha lasciati il medio evo fanno fede dell'ansietà e del
terrore che destava negli animi il pericolo sempre imminente e al tutto
inevitabile della sua venuta[925]. Si ricordavano i segni che dovevano
fare conoscere al mondo la funesta sua apparizione, e ponevasi mente
se già non se ne vedesse qualcuno. Si moltiplicavano e si aggravavano
colla fantasia gli orrori degli ultimi tempi. Ogni po' correva per
la cristianità la spaventosa notizia della nascita già avvenuta, o
prossima ad avvenire, dell'uomo fatale. Intorno al 380 Martino, vescovo
di Tours, credeva ch'egli fosse già nato, e così credeva poi intorno
al 1080 il vescovo Ranieri di Firenze, e alcuni decennii più tardi
l'arcivescovo Norberto di Magdeburgo. Nel 1412 Vincenzo Ferrer sapeva,
e lo scriveva al papa Benedetto XIII, che il gran nemico dell'uman
genere era già d'età di nove anni[926]. Ai tempi d'Innocenzo VI un
frate dell'ordine dei Minori ne annunziava la nascita per l'anno 1365.
Arnaldo di Villanova la prediceva per l'anno 1376 in un trattato _De
speculatione adventus Antichristi_. La rovina di Roma, che allora
doveva inevitabilmente seguire, sarebbe stata annunziata dalla caduta
del Ponte Molle e dalla sommersione dell'Asia. Nel 1470 fu trovata
nella chiesa del Santo Sepolcro in Gerusalemme una profezia che diceva:

    Cum fuerint anni transacti mille quingenti
    Et decies terni post partum virginis almae
    Tunc Antichristus nascetur daemone plenus.

Ma a chi asseriva che l'Anticristo fosse già nato, o prossimo a
nascere, si poteva rispondere, e si rispondeva con un assai valido
argomento: l'impero romano tuttavia si reggeva. Assono, abate
di Moutier-en-Der, morto nel 992, dice nel suo trattato _De vita
Antichristi_, per lungo tempo attribuito a Rabano Mauro, e sul quale
dovrò tornare quanto prima, che la fine del mondo non era così prossima
come si reputava allora da molti, giacchè al tempo dell'apparizione
del grande avversario l'impero doveva essere in piena dissoluzione,
cosa che non avverrebbe insino a tanto che ci fossero dei re di
Francia, dovendo uno di essi negli ultimi tempi portare la corona
imperiale[927]. Sei secoli dopo questo argomento conservava ancora
molta forza. Uno storico francese, Canon Moreau, racconta come l'anno
1599 si spargesse improvvisamente la voce che l'Anticristo era nato in
Babilonia. Tale novella empiè di terrore le popolazioni. Tuttavia molti
vi furono che non vi diedero fede, i quali, tra le altre ragioni in
contrario, adducevano anche questa che l'impero sussisteva ancora; al
che si rispondeva dagli altri non sussistere esso oramai altrimenti che
di nome.

La leggenda imperiale che noi abbiamo veduto comparire in Oriente
nelle Rivelazioni di Metodio, comparisce ben presto anche in Occidente.
Delle versioni varie che qui se ne formano Metodio è, direttamente o
indirettamente, la prima fonte[928]; ma s'intende bene come in esse non
possa più ritrovarsi lo stesso spirito della leggenda orientale. Per
gli occidentali l'impero romano è l'impero d'Occidente, e l'imperatore
degli ultimi tempi è, non più un imperatore greco, ma un imperatore
francese o tedesco. Questa sostituzione era razionale e necessaria.

Ordinariamente si ammette che le Rivelazioni di Metodio non furono
conosciute nell'Occidente prima del XII secolo, e ciò è vero se
s'intende di una conoscenza diretta[929]. A cominciare da quel tempo se
ne moltiplicarono le traduzioni e le parafrasi latine, in molte delle
quali la leggenda si vede alterata nel modo che ho indicato testè. Ma
certamente gran tempo innanzi alcune almeno delle immaginazioni che vi
si contengono furono conosciute dagli occidentali, e quelle in ispecial
modo che riguardano gli ultimi avvenimenti, sebbene già in qualche
parte alterate. Assone, nel già citato suo libro, composto circa il
948[930], dopo aver parlato degli ultimi tempi in modo conforme alla
tradizione dei padri, dice che l'ultimo imperatore, il quale sarà un
Carolingio (l'impero non era ancora passato ai Tedeschi) riunirà sotto
la sua dominazione tutta la terra, abbatterà tutti gl'idoli, forzerà
i pagani a ricevere il battesimo, e nei templi alzerà la croce di
Cristo. Seguirà allora un'èra di letizia e di prosperità grande, e si
convertiranno gli Ebrei. I popoli di Gog e Magog usciranno dalle loro
sedi e faranno incursione sopra la terra, ma l'imperatore, radunato
il suo esercito, li vincerà e distruggerà. Compiuto il centesimo e
duodecimo anno del suo impero, egli andrà a Gerusalemme, e deporrà la
corona, offrendola a Dio Padre e a Cristo suo figliuolo. Dopo di ciò
verrà l'Anticristo.

Assone cita, come sua fonte, non Metodio, ma certi oracoli sibillini,
i quali indubitabilmente scaturirono dalle Rivelazioni. Essi
sussistono tuttavia in due recensioni diverse, e poco si dilungano
dalla comune loro sorgente[931]. Confrontandole col testo di Assono
si può vedere come la leggenda si andasse modificando secondo il
senso, dirò così, occidentale. In una di quelle due recensioni si
dice che l'imperatore _dei Romani e dei Greci_ uscirà da Bizanzio per
distruggere gl'Ismaeliti; nell'altra l'imperatore è sempre un _rex
Romanorum et Graecorum_ ma Bizanzio non è più ricordata; Assone non
chiama l'imperatore altrimenti che _rex Romanorum_, e dice che sarà
un re di Francia, un Carolingio, il cui nome comincierà con C. Notisi
inoltre che, secondo Metodio, le genti di Gog e Magog correranno
trionfalmente la terra, mentre secondo l'oracolo sibillino ed Assone,
esse saranno debellate e distrutte dall'imperatore. Dopo Assone,
attingono da quell'oracolo il vescovo Benzone[932], Gotofredo da
Viterbo[933], Matteo di Westminster[934]. Benzone chiama la Sibilla
Calliopea; Gotofredo Tiburtina, o Albunea, e dice che, invitata a
Roma dal senato, predisse gli eventi futuri sino alla fine del mondo.
Il racconto profetico di Assone si ritrova più particolarmente in un
antico poemetto inglese di 723 versi, intitolato _Anticrist and the
Signs before the Doom_[935].

Assone ajutò potentemente a divulgar la leggenda, la quale si venne
modificando ancora via via, secondo richiedeva la condizione dei
tempi, o il sentimento dei ripetitori. Trasportato l'impero dai
Francesi ai Tedeschi, era naturale che dell'ultimo imperatore si
facesse, non più un Francese, ma bensì un Tedesco. E tedesco è egli
già in un trattatello _De Antichristo_ che certo Alboino dedicò ad
Ariberto arcivescovo di Colonia in sul principiare dell'XI secolo[936].
Nulladimeno abbastanza spesso l'imperatore si rimane francese. Così
in un poemetto tedesco sull'Anticristo, dove la leggenda è narrata
sulla fede di San Gerolamo, che la trovò scritta in un libro a Roma.
L'ultimo imperatore andrà a Gerusalemme recando seco le insegne
imperiali, e deporrà la corona sul Monte Oliveto[937]. Angilberto,
abate di Admont, appoggiandosi a un testo assai alterato di Metodio,
dice che l'ultimo imperatore, franco di nazione, non potendo resistere
agl'Ismaeliti, appenderà lo scettro, la corona e lo scudo all'Albero
Secco, e morrà offrendo l'anima a Dio[938]. Secondo Angilberto la
venuta dell'Anticristo sarà preceduta da una generale _discessio_, per
cui prima le province si ribelleranno all'impero, poi le varie chiese
all'autorità del pontefice, e finalmente i popoli abbandoneranno la
fede[939].

Metodio dice che l'imperatore deporrà la corona sulla croce, Assone
ch'egli la offrirà a Dio, l'anonimo autore dell'_Entecrist_ che la
deporrà sul Monte Oliveto, Teolosforo che la deporrà sul sepolcro di
Cristo, Angilberto che l'appenderà, insieme con lo scettro e lo scudo,
all'Albero Secco.

Di questo Albero Secco (_arbor sicca, arbre sech, dürre Baum,
drye Tree_) si trova spesso fatta parola nelle cronache, nei poemi
romanzeschi e nelle relazioni di viaggi del medio evo; ma le notizie
intorno ad esso, e intorno al luogo in cui sorgeva si accordano in
generale assai poco. Si sapeva solo che trovavasi in mezzo ad una
regione deserta dell'estremo Oriente, e che il rintracciarlo era
cosa assai malagevole. Le mappe di quel tempo lo segnano insieme con
l'altre meraviglie dell'Asia. Secondo una delle tante favole in corso,
esso trovavasi invece nell'antica città di Susa, cinto gelosamente
di mura, custodito da gran numero di soldati. Chi potesse appendere
ai suoi rami lo scudo si farebbe soggetti centoventicinque principi
dell'India, sino al paese dei Mori[940]. Quando nel XIII secolo si
seppe in Occidente delle grandi vittorie riportate dai Mongoli in
Asia, corse subito la voce che il loro Can avesse appeso lo scudo ai
rami dell'Albero Secco, e avesse con ciò fatte irresistibili l'armi
sue. Nei romanzi francesi l'_Arbre Sec_ è ricordato il più delle volte
per indicare grande distanza, o paesi lontani ed ignoti. Nel _Jeu de
saint Nicolas_ di Giovanni Bodel tra i personaggi è un _amiral du
Sec-Arbre_, o _d'outre le Sec-Arbre_. Nel poema tedesco intitolato
_Sibillen Weissagungen_, del quale dovrò riparlare tra breve, pare che
l'Albero Secco si ponga in prossimità del Santo Sepolcro. Più sovente
col nome di esso s'indicava la provincia di Corasan. Nè tale incertezza
si aveva solamente quanto al luogo ove sorgeva, ma ancora quanto alla
qualità e al vero nome della pianta misteriosa. Marco Polo che ne parla
nella Relazione de' suoi viaggi[941], la descrive, non già come un
albero secco, ma come un alloro verde, ricco di fogliame e ferace di
frutti; e dice che il vero suo nome è, non _Arbre sec_, ma _Arbre sol_,
e che quest'_Arbre sol_ è quello stesso Albero del Sole, che, insieme
con un Albero della Luna predisse la immatura morte ad Alessandro
Magno. Di tali alberi si parla in tutte lo storie romanzesche del
Macedone, e Marco Polo dice che gli abitanti della contrada in cui
sorgeva l'antica pianta, narravano Alessandro esser quivi venuto a
battaglia con Dario[942]. Come nascesse questa confusione dell'Albero
del Sole con l'Albero Secco non è agevole dire; ma se Marco Polo,
ed altri con lui, sostituirono l'Albero del Sole all'Albero Secco,
qualcuno anche vi fu che sostituì l'Albero Secco all'Albero del Sole.
In molte delle storie favolose di Alessandro Magno si racconta come il
grande conquistatore trovò, nella selva appunto dove sorgevano quelle
arbori fatidiche, anche un albero tutto secco sul quale si stava la
Fenice[943]. In un breve racconto latino composto probabilmente intorno
al 1300[944], si narra di un soldato, fatto prigione dai Saraceni,
il quale liberato dopo molti anni da una donna innamoratasi di lui,
giunse, peregrinando con alcuni compagni, sino in India nel paese del
Prete Gianni. Essi chiesero a costui di poter visitare l'Albero Secco,
di cui tanto avevano udito parlare, e che sorgeva ne' suoi stati. Il
Prete Gianni rispose loro il vero nome di quello non essere Albero
Secco, ma sibbene Albero di Set, giacchè Set l'aveva piantato, e li
fece condurre al luogo ove sorgeva, raccomandando tuttavia loro di
non passare più oltre, se pur desideravano di fare ritorno in patria.
L'albero piantato da Set con tre semi dell'albero paradisiaco della
scienza del bene e del male, datigli da un angelo, è famoso ancor esso
nella leggenda. Giunti in vista della pianta miracolosa, i pellegrini
ebbero a meravigliare, tanto parve loro bella. Era essa di smisurata
grandezza e mirabile figura, vestita di foglie d'ogni colore, carica di
varie maniere di frutti, popolata di ogni sorta d'uccelli. Esalava da
essa un soavissimo odore, e le foglie tra loro percotendosi, levavano
una dolcissima melodia che si sposava col canto degli uccelli. Uno dei
pellegrini si separò dai compagni e passò oltre, verso un luogo che
vedeva aprirglisi dinnanzi pieno d'ogni delizia; gli altri tornarono
addietro. Secondo il Mandeville l'Albero Secco sarebbe una quercia
antica quanto il mondo, sorgente sul monte di Mambre, poco discosto
dalla città di Ebron, e inariditasi al tempo della morte di Cristo,
quando inaridirono improvvisamente tutti gli alberi della terra. Un
principe dell'Occidente conquisterà la Terra Santa, e farà celebrare
una messa sotto l'Albero Secco, il quale tosto si ricoprirà di foglie
e di frutti. Il Mandeville narra inoltre delle meravigliose virtù della
pianta[945].

Io non dubito che, in origine, l'Albero Secco non sia lo stesso
albero del Paradiso terrestre, il quale nelle leggende medievali
si rappresenta appunto come tutto spogliato di foglie[946]. Solo
ammettendo tale identità s'intende perchè la leggenda conduca l'ultimo
imperatore ad appendere scettro, corona e scudo ai rami dell'Albero
Secco, il quale non è in nessun altro modo legato all'impero. Con fare
che quell'imperatore deponga la corona sulla croce, Metodio lascia
intendere quanto strettamente, secondo il concetto dei tempi, fosse
congiunto l'impero all'opera della redenzione. Ma l'opera stessa
della redenzione, non era, per dir così, se non un fatto secondario,
se non una conseguenza di un altro fatto, il quale, per rispetto alla
storia della umanità, poteva veramente considerarsi come primitivo ed
iniziale. Questo fatto era la trasgressione dei primi parenti, della
quale l'arbore vietata fu in pari tempo cagione e strumento. Dalle
radici della pianta fatale era venuta fuori tutta la storia del genere
umano. Senza di essa non ci sarebbe stata la redenzione; tanto è vero
che, secondo la leggenda, la croce fu fatta del suo legno. Senza di
essa non ci sarebbe stata nè Roma, nè l'impero. Tornando all'Albero
Secco l'impero torna alle sue radici, e si chiude il ciclo delle umane
vicende. Con appendere a' suoi rami lo scettro, la corona e lo scudo,
l'imperatore gli restituisce i frutti che la umana temerità ne colse.
Appendere la corona alla croce, o appenderla all'albero del cui legno
la croce fu formata, era in fondo la medesima cosa. Giova ricordare a
tale proposito che, secondo una delle interpretazioni più plausibili,
la _pianta dispogliata_ che Dante trova nel Paradiso terrestre[947],
significa appunto l'impero. Però deve parere abbastanza strano che
in un _Enndkrist_ tedesco, compilato principalmente sopra un'opera
intitolata _Compendium theologiae_, e stampato nel secolo XV, si ponga
in relazione con l'Albero Secco non l'imperatore, ma l'Anticristo,
che miracolosamente lo fa rifiorire. Notisi finalmente che, secondo la
opinione di alcuni, l'Albero Secco era irreperibile, o inaccessibile il
luogo ov'esso si trovava, come appunto dicevasi del Paradiso terrestre.

Tutta quest'azione vasta e meravigliosa degli ultimi tempi, la quale
noi abbiamo veduto dipingersi nella leggenda profetica, doveva sembrare
buon argomento di dramma in un tempo in cui, dalla creazione dell'uomo
al giudizio universale, si rappresentava sulla scena la storia intera
dell'uman genere. Tuttavia, sebbene parecchi Misteri dell'Anticristo
sieno pervenuti sino a noi, quell'azione non si trova riprodotta che
in uno solo[948]. Composto in Germania, questo mistero fu conservato
in un codice di Tegernsee del XII secolo, e pubblicato, prima dal
Pez[949], poi dal Zezschwitz[950], finalmente da Guglielmo Meyer[951].
Esso è latino, come sono, in generale, i misteri più antichi. Eccone
brevemente il contenuto.

Sulla scena si vedono: a oriente, il Tempio del Signore, la sede del
re di Gerusalemme, la Sinagoga; ad occidente, la sede dell'imperatore
insieme con quelle del re di Germania e del re di Francia; la sede del
re dei Greci; dalla parte di mezzogiorno, la sede del re di Babilonia
e della Gentilità. Aprono l'azione il re di Babilonia e la Gentilità
cantando le lodi del politeismo. Segue la Sinagoga, che celebra l'unico
Dio e detesta Cristo. La Chiesa, coronata, assistita dalla Misericordia
e dalla Giustizia, seguita, a destra, dal papa col clero, a sinistra,
dall'imperatore con le milizie, minaccia l'eterno castigo a chi
non osserva il suo dogma. Entrano i varii re, seguiti dalle proprie
milizie, e cantando ciascuno, dice la rubrica, parole all'esser suo
convenienti. Tutte queste potestà vanno a sedersi nei troni loro; ma un
trono rimane disoccupato, e così ancora il tempio. Allora l'imperatore
manda i suoi messi ai singoli re per invitarli all'obbedienza e al
pagamento dei tributi. Egli afferma i diritti dell'impero:

    Sicut scripta tradunt hystoriogravorum
        totus mundus fuerat fiscus romanorum.
        Hoc primorum strenuitas elaboravit,
        sed posterorum desidia dissipavit.
        Sub his imperii delapsa est potestas,
        quam nostrae repetit potentiae majestas.
        Reges ergo singuli prius instituta
        nunc romano solvant imperio tributa.

I messi vanno a trovare primamente il re di Francia: ma questi nega di
sottomettersi, e pretende che l'impero si appartiene di diritto a lui:

    Illud enim seniores galli possederunt,
    atque suis posteris nobis reliquerunt.

Il litigio si decide con l'armi; il re di Francia è vinto, ma
reintegrato, quale vassallo dell'impero, nel suo regno. Il re dei Greci
e il re di Gerusalemme riconoscono la sovranità dell'imperatore. Ma il
re di Babilonia, messosi in animo di distruggere il cristianesimo, si
leva in armi, e va ad assediare Gerusalemme, dov'ebbe culla la nuova
credenza. L'imperatore accorre in ajuto della minacciata città, e
vinto e fugato il re di Babilonia, entra nel tempio, e quivi, dinnanzi
all'altare, toltasi la corona di capo, rassegna l'impero a Dio:

    Suscipe quod offero, nam corde benigno
    tibi regi regum imperium resigno,
    per quem reges regnant, qui solus imperator
    dici potes, et es cunctorum gubernator.

Incalzano gli avvenimenti. Ritornato l'imperatore nella sede
_dell'antico suo regno_, ridivenuto, cioè, semplice re di Germania,
ecco in iscena l'Anticristo armato, il quale all'Ipocrisia e all'Eresia
che lo accompagnano commette di pervertire il mondo. Ajutato da' suoi
seguaci, egli usurpa il trono del re di Gerusalemme, e scaccia la
Chiesa dal tempio, dove s'era posata. Dopo di ciò manda suoi messi ad
intimare obbedienza ai principi. Il re dei Greci e il re di Francia
diventano suoi uomini ligi; ma il re di Germania nega altamente
di sottomettersi, e prese le armi, sconfigge l'Anticristo e i suoi
alleati. Se non che l'Anticristo opera allora alcuni falsi miracoli,
ed anche il re di Germania finisce col credere in lui. Col suo ajuto
l'Anticristo vince il re di Babilonia, dopo di che si fa annunciare
alla Sinagoga quale il Messia, ed è da essa riconosciuto. Vengono i
profeti Enoc ed Elia, che svelano la sua falsità, e annunziano la
imminente venuta di Cristo. L'Anticristo li fa morire; ma mentre,
seduto in trono, convoca principi e popoli per essere adorato, scoppia
sopra il suo capo un fragore, ed egli precipita. La Chiesa trionfa, i
pervertiti riabbracciano la fede.

In questo dramma l'imperatore romano è rappresentato come il tutor
naturale della Chiesa e della umanità, sebbene anch'egli da ultimo si
converta all'Anticristo. Non è egli strano che, secondo una leggenda
assai antica, di cui già feci ricordo[952], e che nel medio evo ottiene
ancora credenza, l'Anticristo, o un suo precursore, debba essere
appunto un imperatore romano? Nerone non era mai morto, e doveva
tornare in sulla fine dei tempi, ed affliggere la Chiesa di Cristo
di mali inauditi[953]. Del resto qualche altro imperatore romano
passò per essere l'Anticristo, come, ad esempio, Federico II, e così
anche qualche papa, come Gregorio VII, Pasquale II, Innocenzo IV. Ma,
conformemente a un'altra leggenda, di cui qui cade in acconcio dire
qualche cosa, anche l'ultimo imperatore, campione della Chiesa e della
umanità, sarà un imperatore redivivo, anzi non mai morto, ma occultato
per decreto della Provvidenza, e conservato agli estremi cimenti.
Ministro della giustizia divina, egli tornerà improvviso al mondo,
riformerà la Chiesa e i costumi della pervertita umanità, passerà in
Terra Santa, riconquisterà il sepolcro di Cristo, e deporrà finalmente
sul Monte Oliveto, o appenderà ai rami dell'Albero Secco le insegne
della sua potestà. A questo ritorno una leggenda faceva seguire una
spaventosa battaglia, a cui prenderebbe parte tutta l'umanità vivente;
un'altra leggenda faceva seguire una nuova età dell'oro[954]. Ma
chi sarebbe il campione prescelto da Dio? Alcune finzioni dicevano
Carlo Magno, il glorioso difensore della Chiesa, il vincitore dei
Saraceni. Carlo Magno uscirà dal monte nelle cui viscere, ignoto a
tutti, aspetta il giorno segnato, e andrà a sospendere il suo scudo
a un pero inaridito, che rinverdirà in quell'ora. Seguirà tra buoni e
malvagi la maggior battaglia che mai sia stata combattuta nel mondo, e
Carlo Magno vincitore regnerà sopra una nuova età[955]. Altre finzioni
dicevano Federico II[956], e ciò deve parere abbastanza strano, perchè
lo scomunicato Svevo, grand'avversario del Papato, e cristiano di assai
dubbia fede, assume da prima nella leggenda la qualità di Anticristo.
Ma in questa leggenda sono da considerare, per così dire, due gradi,
l'uno che può chiamarsi guelfo, e ha principio, come pare, in Italia,
per opera di Gioachino di Fiore e de' suoi seguaci; l'altro ghibellino,
e si svolge interamente in Germania. Salimbene riferisce nella sua
Cronaca un detto di Sibilla che i Joachimiti applicavano a Federico
II, e che il Voigt considera a ragione quale primo principio della
leggenda: «Oculos eius morte claudet abscondita, scilicet gallicana
gallina, supervivetque sonabit et in populis, vivit et non vivit, uno
ex pullis pullisque pullorum superstite». Dice lo stesso Salimbene
che per ragione di quell'oracolo molti non credettero alla morte di
Federico II[957]. La credenza che costui debba essere l'Anticristo
genera l'altra ch'egli non sia mai morto, ajutando forse in ciò la
già cognita leggenda di Nerone[958]. In sul principio il suo ritorno
è temuto, non desiderato; la cronaca rimata di Ottocaro, composta
fra il 1300 e il 1317, è il primo documento in cui si palesi lo
spirito ghibellino che volge a gloria di Federico la ostilità contro
il clero. A poco a poco quegli che nella leggenda era entrato come
Anticristo ci si trasforma e diventa un secondo redentore del mondo.
Primo il cronista Giovanni di Winterthur, morto il 1348, riferisce una
credenza, ch'egli rigetta, ma che aveva corso tra il popolo, secondo
la quale Federico II doveva tornare con grande possanza per riformare
la Chiesa, dopo di che passerebbe il mare e deporrebbe la corona sul
Monte Oliveto, o sull'Albero Secco[959]. In un _Meistergesang_ del
mezzo del secolo XIV si annunzia prossima un'èra di grandi calamità
e di grandi sceleraggini. Verrà allora, mandato da Dio, il possente
e mite imperator Federico, che appenderà all'Albero Secco lo scudo,
e l'Albero Secco rinverdirà. Egli conquisterà il Santo Sepolcro, e
ricondurrà la Giustizia nel mondo. Per le sue armi tutti i regni dei
miscredenti saran soggiogati, e saran debellati gli Ebrei. Inoltre
egli moverà guerra al clero, distruggerà i chiostri, mariterà le
monache[960]. In questa poesia l'ultimo imperatore è, non campione, ma
avversario della Chiesa corrotta; per contro, in un'altra, una sibilla
annunzia a Salomone che in sulla fine dei tempi un imperatore, per nome
Federico, il quale sarà stato tenuto in serbo da Dio, raccoglierà il
popolo cristiano intorno a sè, combatterà a gloria della religione,
riconquisterà il Santo Sepolcro. Dopo che egli avrà appeso lo scudo
all'Albero Secco, che si vedrà rinverdire, comincerà un'èra felice,
e tutti i popoli si convertiranno alla fede, e vivranno in pace fino
a che venga l'Anticristo[961]. I papi Onorio III e Gregorio IX non
si sarebbero mai immaginati che il principe da essi fulminato con le
scomuniche dovesse fruire di tanta glorificazione. Finalmente quella
leggenda si trova anche nel poema tedesco pubblicato dallo Zarncke, e
da me ricordato più sopra[962]. Quivi si narra che, durante una caccia,
l'imperator Federico, usando della virtù di certo anello mandatogli
dal Prete Gianni, sparve improvvisamente dagli occhi di tutti, e
nessuno più ne seppe novella. Ma egli tornerà un giorno, e stenderà
novamente il suo dominio sopra tutta la terra di Roma, e darà noja agli
ecclesiastici, e riconquisterà la Terra Santa, e appenderà lo scudo
all'Albero Secco. Di quella sparizione, dice l'autore, si legge nella
_Cronaca romana_, ma di quel ritorno solo i vecchi contadini fan fede;
il che non era vero, perchè, come abbiam veduto, se ne faceva fede
anche in parecchie scritture.

Questa leggenda di Federico II si viene variando sempre più in
progresso di tempo; secondo una delle molte versioni lo Svevo doveva
ricomparire ai tempi di Carlo V e ajutare costui a riconquistare
Costantinopoli e Gerusalemme. Altre profezie correvano che a dirittura
a Federico II sostituivano Carlo V. Volfango Lazio, filosofo, medico e
rettore un tempo della Università di Vienna, stampò nel 1547 un libro
di 170 pagine per provare che l'imperatore, il quale sulla fine dei
tempi doveva soggiogare il mondo, era Carlo V, e citò in appoggio della
sua asserzione profeti, santi e sante, sibille, astrologi, fin anche
il mago Merlino. Ma in Germania si credette inoltre che un imperatore
romano, ministro dell'ira di Dio, dovesse punire Roma delle molte sue
sceleraggini, distruggendola col ferro e col fuoco. La profezia fu
applicata anche a Carlo V, e tutti sanno quello che egli, o le sue
soldatesche fecero per non ismentirla.

Nella leggenda apocalittica di cui siam venuti esaminando sin qui lo
svolgimento e le varie forme, abbiam trovato i nomi di varie genti
contro alle quali dovrà combattere l'ultimo imperatore. Alcune di
queste genti mutano col mutare dei tempi. I Saraceni cedono il luogo
ai Turchi nuovi e più formidabili nemici[963]. Gog e Magog spariscono
da molte delle versioni più recenti. Quelli che più ostinatamente vi
rimangono sono gli Ebrei, i quali dovranno, convertendosi, suggellare
il trionfo di Cristo. Ma anche gli Ebrei avevano le loro leggende circa
gli ultimi tempi, e circa la parte che v'avrebbero avuta Roma e il suo
impero; e, com'è naturale, queste leggende sonavano molto diverse dalle
leggende cristiane, sebbene in qualche punto concordasser con esse.
Nel libro Afkáth rósel si dice che nove mesi prima della venuta del
Messia l'impero di Roma si stenderà sotto tutto il cielo; ma nel Jalkut
chàdas si legge che al tempo della venuta di costui tutti i popoli si
ribelleranno all'impero. Il Messia vincerà l'imperatore e ricondurrà
gli Ebrei nella Terra Promessa[964].

Roma cadrà, cadrà l'impero, ma non prima che il mondo stesso sia
per dissolversi. Finchè non si spenga nel cielo, il sole illuminerà
le ardue mura del Colosseo. Prima che si chiuda il cielo dei tempi
l'impero romano stenderà novamente la sua dominazione sopra tutta la
terra e ridarà alle genti un'èra gloriosa di prosperità e di pace. Poi
sopra le sue rovine si leverà l'Anticristo; ma quando non vi saranno
più storici per narrarne i fatti, nè poeti per celebrarne le glorie,
quando la terra stessa sarà dileguata nel nulla, la corona dei Cesari
risplenderà ancora sulla croce di Cristo, e il nome della città regina
risonerà senza fine

    In quella Roma onde Cristo è Romano.



APPENDICE

La leggenda di Gog e Magog.

(V. cap. XXII, pag. 474, 479, 482, 486, 487, 505).


La leggenda di cui io intendo parlare qui alquanto
particolareggiatamente fu nel medio evo tra le più diffuse e vivaci.
Nessun'altra per certo si sparse sopra più gran parte di mondo,
giacchè essa fu cognita in tutta Europa, in gran parte dell'Asia, e in
tutta l'Africa settentrionale, dovunque regnò, in una delle sue forme
massime, il monoteismo. Nata nel sesto secolo avanti Cristo, essa
traversò tempi diversissimi, si adattò a disparatissime civiltà, si
accomunò a genti semitiche, ariane, turaniche, e dopo quasi 2500 anni
di vita dura ancora, se non in tutto, in buona parte almeno del suo
antico dominio. Essa è leggenda a un tempo stesso religiosa, epica,
geografica, etnologica. Tre religioni, il giudaismo, il cristianesimo,
il maomettismo, le porgono il loro valido appoggio: la sua portata,
se così possa dirsi, fantastica e morale, è enorme, giacchè essa si
addentra nell'avvenire e va a raggiungere la catastrofe apocalittica,
e a smarrirsi nella visione della eternità. Nel suo lungo cammino,
variando e ampliandosi, essa si scontrò e si connesse con altre
leggende, celeberrime fra tutte quelle di Alessandro Magno e del
Prete Gianni; d'onde una molteplicità di relazioni, e una diversità di
movenze e d'incidenti, tra cui non è troppo agevole raccapezzarsi.

Quando pure ne avessi l'intendimento, io non potrei discorrere di
sì fatta leggenda con tutta l'ampiezza che il soggetto comporta.
Essendo questa un'appendice, intesa principalmente ad illustrare
un tema già toccato innanzi, non mi pare che si convenga il darvi
luogo a tante particolarità e minuzie quante se ne potrebbero
ragionevolmente richiedere in una dissertazione autonoma, salvo a
voler fare dell'appendice quasi un altro libro; da altra banda una
trattazione compiuta vorrebbe indagini lunghe e faticose per entro
a molte letterature orientali, come a dire l'arabica, la persiana,
l'armena, la siriaca, la turca, a me tutte inaccessibili direttamente.
Mi contenterò dunque di venir seguitando gli svolgimenti massimi della
intera finzione e di ricercare alquanto più addentro alcune forme e
peculiarità di essa, lo studio delle quali mi parrà meglio confarsi
con lo scopo che io mi sono proposto in questo pagine. A tale uopo
dividerò la intera leggenda in tre diverse parti, corrispondenti
a tre principali gradi del suo svolgimento, e la prima chiamerò
_Leggenda biblica_, la seconda, _Leggenda epica_, la terza _Leggenda
storica_, avvertendo tuttavia di non voler dare a queste denominazioni
una significazione troppo più precisa che la cosa per se stessa non
comporti. Da ultimo darò un cenno di quello che più particolarmente
potrebbe chiamarsi il mito geografico. Per leggenda biblica intendo
quella che si viene configurando nelle Sacre Carte, nella tradizione,
diremo così, scritturale, e nella letteratura patristica; per leggenda
epica, quella che più tardi si trova interpolata nella storia favolosa
di Alessandro Magno; per leggenda storica, quella che, senza staccarsi
dalle sue origini, nè sciogliersi dalle connessioni incontrate, di poi,
si lega a fatti storici e a particolari credenze del tempo in cui si
viene formando. Va da sè che non tornerò su quelle parti della finzione
di cui io abbia già prima discorso.


§ I.

_La leggenda biblica._

Le più antiche vestigia di quella che poi sarà la leggenda di Gog e
Magog si trovano nell'Antico Testamento. Il nome di Magog comparisce
per la prima volta nel Genesi (X, 2) come quello del secondo figlio
di Jafet, ed è appropriato anche al popolo che discende da lui. Di
Gog non è ivi fatta menzione; ma nei Numeri (XXI, 33, 34, 35) e nel
Deuteronomio (III, 1 segg.) è ricordato un gigante per nome Og, re di
Basan, vinto ed ucciso da Mosè. Se il nome di Og abbia attinenza con
quello di Gog è cosa che lascio esaminare ad altri.

Quali genti designasse col nome di Magog l'autore del Genesi noi non
sappiamo, ma egli non rannetteva ad esso nessuna tradizione o credenza
particolare. Ricordato per semplice ragion genealogica ed etnografica,
quel popolo non veniva in più stretta relazione col popolo d'Israele,
non acquistava ingerenza nei fatti di questo. Anzi è da credere che
quel nome non contenesse in origine, e per molto tempo di poi, nessuna
designazione particolare e precisa, ma solo una designazione generica e
vaga, e che riferito per consuetudine a genti poco note e lontane, esso
fosse capace di ricevere quella più opportuna applicazione diretta che
dagli avvenimenti storici potesse essere suggerita.

La leggenda, o, a dir meglio, la prima immaginazione da cui quella
mosse, comincia a prender forma in Ezechiele, e sino dalle origini sue
mostra il carattere apocalittico che serberà poi lungamente traverso
alle variazioni successive. Nelle profezie di costui è una vera e
propria apocalissi, nella quale formidabili sciagure si minacciano
al popolo d'Israele (XXXVIII e XXXIX). Gog, re del paese di Magog,
piomberà a capo di moltitudine sterminata su quel popolo pervertito,
e, strumento dell'ira divina, ne farà lacrimevole scempio. Egli verrà
co' suoi giù dal settentrione, e raccoglierà ancora sotto di sè i
popoli della Libia e dell'Etiopia, e tutti gl'idolatri e i pagani della
terra. Ma compiuta la lor missione, i barbari soggiaceranno a lor volta
all'ira del cielo e saranno tutti distrutti.

Quando profetava tali calamità Ezechiele aveva presente alla memoria la
terribile invasione degli Sciti, che sul finire del VII secolo a. C.
desolò la Palestina, e di cui era stato spettatore. Il dominio da lui
assegnato a Gog corrisponde esattamente, sotto il rispetto geografico,
a quello che, dopo la invasione appunto, fu il dominio degli Sciti,
e la descrizione ch'egli fa dei barbari seguaci di colui concorda in
tutto con quella che degli Sciti fa Geremia (I, IV, V, VI). Nè basta.
Il nome stesso di Gog pare sia stato suggerito ad Ezechiele da quella
invasione, giacchè sopra certi cilindri del regno di Assurbani-Abal,
contenenti relazioni storiche di questo principe, è ricordato il nome
Gàgu, quale nome del re degli Sciti[965].

La leggenda fatidica così presentata da uno dei profeti maggiori, da
quello tra tutti le cui parole più profondamente scossero gli animi dei
contemporanei e dei posteri, non poteva più smarrirsi. Il popolo, a'
cui futuri destini essa veniva a legarsi, non doveva più dimenticarla,
anzi doveva nella tradizion vivace che la custodiva, svolgerne e meglio
determinarne alcune parti, accrescerne in generale la portata: di guisa
che, offerendosi, in successo di tempo, nuova occasione a predizioni
apocalittiche, quella leggenda doveva in modo assai naturale venire
a prendervi posto e acquistare nuova e maggiore importanza. E tale
occasione non mancò. Sei secoli circa dopo Ezechiele noi ritroviamo Gog
e Magog nell'Apocalissi, e, salvo alcuna alterazione di poco conto, la
leggenda loro è quella stessa di prima. Parlando degli ultimi tempi
l'autore dell'Apocalissi dice (XX, 7-10) che, consumati i mille anni
della sua prigionia, Satana, prosciolto, trarrà a sè le genti che
sono sparse ai quattro angoli della terra, cioè Gog e Magog, il cui
numero è come l'arena del mare, e le condurrà a combattere i fedeli
di Dio. Esse si riverseranno sulla faccia della terra, e stringeranno
d'assedio la città di Gerusalemme, finchè il fuoco celeste piomberà
su di loro e le divorerà, e Satana e il falso profeta e la Bestia,
precipitati nel profondo d'inferno, saranno dati in preda ai tormenti
senza fine. L'Apocalissi, informata di uno spirito essenzialmente
giudaico, attingeva senza dubbio questa parte della visione sua dalla
tradizione giudaica. Ma se noi la paragoniamo con la fonte prima,
ch'è la profezia di Ezechiele, ci avvediamo subito di una variante, la
quale si perpetua poi nella leggenda. Ezechiele nomina esplicitamente
Gog quale re di Magog; nell'Apocalissi invece Gog e Magog sono due
popoli. Si potrebbe credere che San Giovanni, o chi altri sia l'autore
dell'Apocalissi, ponendo a capo dell'ultima ribellione del male lo
stesso Satana, e non avendo pertanto più bisogno di un particolare
condottiero delle genti reprobe, avesse scientemente e di suo arbitrio
tolto di mezzo il re Gog, divenuto inutile, e adoperato il nome di
costui, il quale, già da gran tempo fermato nella tradizione, non
poteva esserne facilmente espulso, a denotare genti compagne a quelle
di Magog. Se non che tale ipotesi è subito contraddetta dal fatto
che nelle leggende giudaiche nate, senza dubbio in varii tempi, dalla
immaginazione primitiva, e nelle maomettane che da quelle derivano,
i nomi di Gog e Magog compajono tutt'a due quali nomi di popoli;
e poichè non è da credere che gli Ebrei volessero accettare da un
libro cristiano quella variazione fatta al testo biblico, gli è forza
ammettere che l'autore dell'Apocalissi la traesse egli dalla tradizione
giudaica, per ragioni che sarebbe assai malagevole rintracciare,
alterata a quel modo. Ma dove l'Apocalissi più si discosta da Ezechiele
si è nello stabilire le connessioni, le ragioni, il tempo di quella
minacciata irruzione di genti barbare. La profezia di Ezechiele non
si stende oltre il consueto orizzonte storico e morale delle profezie
giudaiche in genere, e l'avvenimento vaticinato da costui può dirsi
assai più un avvenimento di storia particolare che non di storia
universale. Il profeta non ha l'occhio che al suo popolo, il solo
eletto, e la irruzione ch'egli ad esso minaccia non è se non una delle
tante prove, poniamo pure che sia più grave dell'altre, con cui Jehova
il corregge e lo richiama sulla retta via. Quando abbia, con soffrire
il meritato castigo, purgato le molte sue colpe, il popolo d'Israele
tornerà nel primo suo flore, e i nemici suoi, strumenti inconsci della
giustizia divina, saranno spersi e distrutti. Il tempo che condurrà
tali vicende non è dal profeta indicato; esso appartiene forse ad
un avvenire lontano ancora, ma è ad ogni modo compreso nella serie
dei tempi storici, a' quali non si pone preciso e sicuro fine. Ben
altrimenti nell'Apocalissi. Non più il popolo d'Israele, ma la Chiesa,
cioè la comunità universale dei credenti, dovrà un giorno sottostare
alla minacciata invasione, e questa non sarà il giusto castigo di Dio,
provocato dalle reità della terra, ma un ultimo conato di Satana, volto
a distruggere, sulla terra appunto, il regno di Dio. E ciò avverrà
dopo il millenio; e quando questa prova suprema sarà superata, si
chiuderà l'ordine dei tempi, e sarà rinnovato il mondo, e comincerà
il regno senza fine della Gerusalemme celeste. Tale nuovo riferimento
e tale nuova projezione della leggenda sono, senza dubbio, l'opera
personale dell'autore dell'Apocalissi, sia pure che a lui ne potesse
anche venire qualche incitamento d'altronde[966]. Finalmente, se col
nome di Magog, nella profezia di Ezechiele, sono più particolarmente
designati gli Sciti, come dagli avvenimenti del tempo era in maniera
assai ovvia suggerito, nell'Apocalissi ogni designazione reale e
diretta di tale natura pare che debba fare difetto. Tuttavia qui cade
in acconcio una considerazione. Se è vero, come ormai sembra fuori
di dubbio, che l'autore dell'Apocalissi muova, nel motivare e nel
costruire la sua visione escatologica, dagli stessi fatti de' tempi
suoi, e che l'Anticristo da lui prodotto sulla scena paurosa degli
ultimi giorni altri non sia che il Nerone redivivo della leggenda
popolare romana, non è certo improbabile che egli abbia avuto dinnanzi
alla mente alcun'altra particolarità di questa leggenda medesima; ed
anzi che per alcuna ciò veramente accadesse abbiamo nella scrittura di
lui le irrefragabili prove. Nel c. XVI, v. 12, di essa si legge che un
angelo disseccherà il corso dell'Eufrate per dar passaggio ai re che
dall'Oriente moveranno in soccorso della Bestia, cioè di Nerone. Ora è
questa una allusione manifesta a quella parte della leggenda popolare
dove si narrava il ritorno trionfale di Nerone alla testa dei Parti.
Questi pertanto, nella mente dell'autore dell'Apocalissi, dovevano
apparire quali i naturali seguaci e fautori dell'Anticristo, quali
i campioni predestinati del male, e forse una cosa sola con le genti
di Gog e Magog. E poichè, secondo gli antichi geografi, i Parti erano
legati in istretta parentela con gli Sciti, l'autore dell'Apocalissi
sarebbe venuto, per una coincidenza curiosa, a designare coi nomi
di Gog e Magog presso a poco quella razza medesima che col solo nome
di Magog era stata designata da Ezechiele. Ma è questa una semplice
congettura su cui non giova fermarsi più lungamente.

Dalla profezia di Ezechiele e dall'Apocalissi la leggenda di Gog e
Magog passa nella gran corrente della letteratura patristica, dove
noi la ritroviamo, ma nella forma, com'è del resto naturale, che essa
aveva presa in quest'ultima scrittura. L'opinione che per il Magog
della prima e per il Gog e Magog della seconda dovessero intendersi
gli Sciti, opinione, per quanto riguardava Magog, già da lungo tempo
accolta nella tradizione delle scuole giudaiche, si conferma e si
universalizza. Giuseppe Flavio, il quale parla dei soli Magogi della
etnografia del Genesi, dice che da essi ebbero origine gli Sciti,
alla cui gente appartengono anche i Sarmati e gli Alani[967]. San
Gerolamo ricorda così fatta opinione, ma dice espresso che essa è
più specialmente seguitata dai Giudei e dai cristiani giudaizzanti:
«Judaei et nostri judaizantes putant Gog gentes esse scythicas, immanes
et innumerabiles, quae trans Caucasum montem el Maeotidem paludem et
prope Caspium mare ad Indiam usque tenduntur»[968]. Andrea, vescovo
di Cesarea (V sec.?) la ricorda invece come una opinione seguitata
da alcuni degli antichi, e dice gli Sciti chiamarsi con altro nome
Unni[969]. Sant'Agostino nega recisamente che per Gog e Magog sia da
intendere una gente barbarica particolare[970]; ma, ciò nulla meno,
la opinione giudaica continuò ad essere la opinione prevalente[971].
Vero è che, insieme con questa, altre opinioni ebbero corso. Secondo
Eusebio, Magog e Celti erano tutt'uno; nei Libri Sibillini Gog e Magog
sono identificati cogli Etiopi. All'irrompere dei barbari nell'impero
romano molti certo dovettero credere che questi fossero gl'invasori
annunziati dalle profezie. «Scio quendam Gog et Magog ad Gotorum nuper
in terra nostra vagantium historiam retulisse», dice San Gerolamo[972];
e Sant'Ambrogio accoglie la credenza qui accennata[973], la quale,
dopo il V secolo, si ritrova nel Talmud di Gerusalemme e in altri
libri giudaici[974]. Teodoreto, per contro, crede che la profezia
di Ezechiele siasi avverata al tempo dei Maccabei, o dopo il ritorno
degl'Israeliti dalla schiavitù di Babilonia.

Di Gog e Magog si ragiona, com'è naturale, in tutti i commentarii
sopra l'Apocalissi, ma le immaginazioni che li riflettono si vanno
mano mano adattando alle nuove credenze, o seguono i nuovi indirizzi
della coscienza cristiana. Avvenuta la conciliazione tra la Chiesa e
l'Impero nel IV secolo, l'Apocalissi, la quale era tutta piena di un
odio implacabile contro Roma, perdette molta dell'antica sua voga, ed
anzi la Chiesa d'Oriente la dichiarò senz'altro libro apocrifo[975].
Dopo Lattanzio, il quale fu veramente l'ultimo dei grandi chiliasti,
il chiliasmo che è la dottrina fondamentale dell'Apocalissi, andò del
continuo perdendo aderenti, e i Padri più insigni, come San Gerolamo
e Sant'Agostino, apertamente e con disprezzo lo rigettarono. In
pari tempo si veniva elaborando su altre basi che non fossero quelle
dell'Apocalissi, una più complessa dottrina dell'Anticristo, la quale
doveva necessariamente alterare, per la parte sua, l'ordinamento e
l'economia del gran dramma escatologico. Soppresso il millennio, le
parti già disgiunte dall'azione si raccostavano. Mentre nell'Apocalissi
l'Anticristo, precipitato insieme col falso profeta nello stagno dello
zolfo ardente (XIX, 20), più non comparisce nell'azione ultima che
al millennio sussegue, e nella quale Satana sommuove da solo le genti
barbare, nella nuova immaginazione che si viene formando Satana lascia
il luogo e l'opera all'Anticristo, sotto a' cui ordini quelle genti
allora naturalmente vengono a porsi.

Ma gli è probabile che nemmeno dopo queste alterazioni la leggenda
avrebbe mai conseguito nella coscienza popolare molta perspicuità
e risonanza. Come leggenda essa aveva un grave difetto: era troppo
speculativa e dottrinale, e mancava di quella salda base storica, di
que' nessi efficaci col mondo cognito senza di che le leggende han
corta vita. La fantasia non sapeva come rappresentarsi quei popoli
di Gog e Magog di cui nè la stanza, nè l'essere, nè i costumi si
conoscevano. Nessuno mai li aveva veduti; essi erano come fuori del
mondo, e poteva nascere il dubbio, e nacque veramente in alcuno,
che non fossero già uomini, ma simboli, e personificazioni delle più
perverse tendenze della umana natura. La leggenda abbandonata a se
stessa avrebbe pertanto languito nella dubbiosità di una immaginazione
incircoscritta, e non avrebbe mai avuto l'importanza che ebbe di poi,
e non si sarebbe mai così efficacemente mescolata alla vita presente e
reale, come si mescolò, se non si fosse in buon punto scontrata e fusa
con un'altra finzione, che le comunicò nuovo vigore e la sostentò di
quanto le aveva fatto sino allora difetto. Qui si chiude propriamente
la leggenda biblica e s'apre la leggenda epica.


§ II.

_La leggenda epica._

Alessandro Magno è indubitabilmente il massimo degli eroi leggendarii.
Nata mentr'egli era ancora in vita, o subito dopo la sua morte, la
leggenda meravigliosa delle imprese da lui compiute, e delle corse
avventure in Europa, in Africa, in Asia, non cessò di crescere e
di metter sempre nuove propaggini, sino a Rinascimento inoltrato
in Occidente, e per un tempo anche più lungo in Oriente, dove la
generazione delle nuove favole dentro di essa dura forse tuttora.
Io non ho da ricercare in qual modo siasi venuta formando questa
complessa e vigorosa leggenda; ma tra le finzioni innumerevoli, varie
per origine, per età, per carattere, di cui essa si compone, una ve
n'ha che appartiene al mio argomento, e a cui fa d'uopo rivolgere
ora l'attenzione. Secondo questa finzione, presa nella forma sua già
matura, e avuto riguardo al solo concetto generale di essa, i popoli di
Gog e Magog furono da Alessandro Magno rinserrati fra le gole di monti
insuperabili, d'onde non usciranno se non imminente la fine del mondo,
per dare ajuto all'Anticristo.

Si potrebbe credere che il serramento di Gog e Magog sia stato
attribuito ad Alessandro Magno solo in virtù di quella generale
tendenza che portava gli spiriti ad accrescere sempre più il numero
delle meravigliose imprese compiute dall'eroe, e senza che vi fosse
nessuna più particolare ragione per farlo. Ma sarebbe questo un errore.
Alessandro non entra direttamente nella leggenda di Gog e Magog, ma
vi entra attraversando un'altra leggenda, la quale fu in origine del
tutto estranea a quella. Nella finzione epica testè enunciata, vengono
a comporsi insieme due diverse finzioni, le quali vissero un tempo
separate; l'una è la leggenda biblica, di cui ho parlato, l'altra è
una leggenda eroica di cui, prima di procedere oltre, è mestieri dir
qualchecosa.

Che Alessandro Magno avesse rinchiuso tra' monti alcuni popoli bestiali
e ferocissimi, è tradizione antica abbastanza: ma questi popoli, sia
che se ne dica, sia che se ne taccia il nome, nulla hanno di comune
da prima con Gog e Magog. Anzi, da principio, non si parla nemmeno di
popoli rinchiusi; ma solo di certe porte ferree costruite da Alessandro
Magno per vietare ai possibili invasori il passo conosciuto sotto
il nome di Porte Caspie, nel Caucaso. Giuseppe Flavio racconta che
gli Alani invasero la Media passando per le Porte Caspie, le quali
Alessandro aveva munite di porte ferree, accordatisi col signore del
passo, che era il re d'Ircania[976]; ma non dice, come altri dirà
molto più tardi, che gli Alani fossero stati in qualche modo rinserrati
da Alessandro Magno[977]. Di porte ferree che munivano il passo, non
delle Porto Caspie, ma delle Caucasee, parla anche Plinio, il quale
tuttavia non dice che fossero opera di Alessandro[978]. Il primo
forse che faccia esplicita menzione di genti rinchiuse da Alessandro,
è San Gerolamo, il quale nella epistola LXXXIV _ad Oceanum de morte
Fabiolae_, descrive il terrore onde fu invaso l'Oriente all'annunzio
che gli Unni avevano forzato i claustri e le difese già innalzate
dal Macedone, _ubi Caucasi rupibus feras gentes Alexandri claustra
cohibent_, e seminavano sui loro passi la rovina e la morte. Non un
accenno alla credenza che questi barbari potessero essere quegli stessi
d'Ezechiele e dell'Apocalissi[979], dei quali il nome non è qui nemmen
pronunziato. Questa epistola fu dettata intorno al 400, ed io ho detto
San Gerolamo esser forse il primo che riferisca in forma esplicita la
leggenda delle genti rinchiuse, giacchè di un altro testimone di essa
non si sa con piena certezza quand'abbia scritto, sebbene s'ammetta dai
più che verso la fine del secolo VI. È questi Egesippo, il quale in un
luogo della sua storia _De bello judaico_ dice la città di Antiochia
andar debitrice della sua sicurezza ad Alessandro Magno, il quale
con munire le Porte Caspie, tolse ogni passo a quelli che eran tra i
monti, _omne interioribus gentibus interclusit iter_[980]. Procopio
parla delle porte e di una fortezza fatta costrurre da Alessandro Magno
per vietare il passo agli Unni, ma non dice che per quelle difese gli
Unni rimanessero rinserrati[981]. Fredegario racconta che l'imperatore
Eraclio, assalito e vinto dai Saraceni, non sapendo a qual altro
partito appigliarsi, fece aprire le porte di bronzo di Alessandro
Magno, e chiamò in suo ajuto centocinquantamila barbari, i quali
tuttavia non furono da tanto da ripristinare le sorti della guerra,
anzi furono ancor essi disfatti; ma non dice propriamente che dentro
a quelle porte i barbari fossero tenuti prigioni, per modo che da
nessun'altra parte potessero erompere e fare scorreria[982].

Se noi esaminiamo queste varie e progressive testimonianze della
finzione eroica più antica, vediamo non solo che in esse non è fatto
cenno di Gog e Magog, nè allusione alcuna alla credenza che i barbari
di cui si ragiona abbiano alla fine del mondo a formar la milizia di
Satana, o dell'Anticristo (e troveremo più in là altre testimonianze,
assai più recenti, dove del pari non è cenno, nè allusione alcuna di
tal maniera); ma vediamo ancora la credenza che Alessandro Magno avesse
rinchiusi quei barbari in modo da segregarli dalla rimanente umanità,
credenza che poi si fa molto risoluta e precisa, non palesarsi in
alcune di esse se non assai timidamente e in forma al tutto indecisa.
Gli è che la finzione si va costruendo a poco a poco, e noi possiamo
senza fatica rifarcene in mente il probabile processo. Si cominciò
con attribuire ad Alessandro Magno la costruzione di alcuni ripari
intesi a mettere l'Asia centrale al sicuro dalle irruzioni delle genti
nomadi e barbare del settentrione. Questa prima immaginazione non
richiedeva nessuno sforzo di fantasia, anzi doveva nascere spontanea,
e starci per dire che era necessaria. Nelle gole del Caucaso, sole vie
per le quali chi muove dalla pianura del Don e del Volga può avere
accesso alla Persia, vedevansi gli avanzi di antiche difese, opera
forse di alcuni predecessori di Dario, o a dirittura dei monarchi
di Ninive e di Babilonia. Era cosa più che naturale attribuire a
chi aveva assoggettata alla sua potestà tanta parte dell'Asia la
costruzione di ripari che assicuravano il pacifico godimento della
conquista, e aggiungere alle glorie di chi aveva compiute tante
e così mirabili imprese, anche questa d'aver posto alla furia dei
barbari aquilonari, propriamente lì dove il suo impero cessava, un
insormontabile ostacolo. Ciò facendo la leggenda seguiva una delle
usanze sue più caratteristiche ed universali, che è quella appunto di
venir raccogliendo sopra e intorno all'eroe prediletto, con torlo ad
altri, tutto quanto possa accrescere a costui lustro e riputazione.
Ma la leggenda non doveva fermarsi a tanto. Stimolata dalla crescente
vaghezza del meraviglioso, ajutata dall'ignoranza della condizione
geografica della regione transcaucasea, e dalla opinione implicita
che Alessandro Magno non dovesse far quasi nulla che fosse nell'ordine
puramente naturale delle cose, essa venne crescendo sopra gli stessi
suoi rudimenti, ed elaborò la favola, che doveva poi essere accetta
universalmente, dei popoli rinchiusi ed inaccessibili. Gli storici
non narrano di nessuna azione importante di Alessandro Magno, la
quale abbia avuto a teatro il Caucaso, o che il Caucaso concernesse
in modo diretto. Arriano ricorda, senza più, che Alessandro valicò le
Porte Caspie[983]; Quinto Curzio che l'esercito del Macedone spese
diciassette giorni in traversar la giogaja[984]; ma secondo alcune
tradizioni georgiane, di cui non è possibile stimare l'antichità e
rintracciare la origine, Alessandro Magno invase le vallate meridionali
del Caucaso e in ispazio di sei mesi espugnò tutte le città e le
castella che v'erano[985].

Formata che fu, e cominciando a diffondersi rapidamente, la
leggenda dei popoli rinchiusi venne a offrirsi da sè a una
quantità di collegamenti varii, e a provocare soprattutto una serie
d'identificazioni (delle quali alcune si sono già notate), di quei
presunti rinchiusi con le tali o tali altre genti barbariche. Non
si vede, a primo aspetto, quali ragioni potessero provocare la
identificazione di essi con gli apocalittici Gog e Magog; ma ragioni ci
erano, e noi le troveremo più oltre. Noto intanto che nelle fantasie
poteva, e doveva anzi, nascere una certa inquieta curiosità di sapere
perchè quei popoli formidabili, di cui si annunciava l'irruzione
irresistibile, aspettassero gli ultimi giorni per rovesciarsi sulla
faccia della terra; quali ostacoli li trattenessero intanto, e
impedissero loro di farlo prima; dove fossero propriamente le sedi
loro. L'arcivescovo Andrea, già citato, dice di essi: «Quare sola
quoque Dei manu et potestate coërceri dicuntur, ne toto terrarum orbe
potiantur, suoque eundem imperio subiugent, idque usque ad Antichristi
satanaeque adventum». Certo, la mano di Dio era più che bastante a
frenare quelle generazioni bestiali; ma chiunque conosce l'indole e
le inclinazioni della fantasia creatrice di leggende, della popolare
e della non popolare, sa quanto essa si compiaccia ed abbisogni del
concreto e del definito, e come volentieri sostituisca le cose ai
concetti, i segni visibili e tangibili alle idee. La mano, o diciam
più giusto, la volontà di Dio, era un ritegno troppo generico e troppo
ideale, non atto abbastanza a prender forma nella fantasia; e come si
sentì il bisogno di cingere di un muro, o di un vallo di fiamma, perchè
non vi penetrassero gli uomini, il Paradiso terrestre, quando a ottener
tale effetto il solo divieto divino bastava; così del pari si sentì
il bisogno di cingere i popoli di Gog e Magog di ripari materiali, da'
quali fosse loro fisicamente impossibile di uscire. E il giorno in cui,
in una leggenda che appunto narrava di genti indomabili e bestiali,
si trovarono i ripari opportuni, si presero senz'altro e se ne fece
quell'uso che la fantasia richiedeva. Così una nuova leggenda di Gog
e Magog prendeva posto tra le leggende di Alessandro Magno; ma ciò
avvertito in forma più generale, è d'uopo ricercare ora quali sieno i
più antichi documenti di essa, quale il luogo ov'ebbe probabilmente a
formarsi, e quali le ragioni particolari del suo nascere.

Il più antico monumento scritto, di data certa, in cui la nuova
leggenda compaja è il Corano. Quanto alla pretesa Cosmografia di Etico
Istrico, tradotta di greco in latino da San Gerolamo, e pubblicata dal
Wuttke nel 1853, nella quale la leggenda nostra è narrata, io credo
assai più sicuro farla posteriore che non anteriore al Corano, e però
mi riserbo di parlarne più oltre[986]. Nel Corano dunque si narra che
Zul-Carnein, dopo essersi spinto fino al luogo dove tramonta il sole,
tornò addietro, e giunse al luogo dove il sol nasce, e quivi tra due
montagne trovò genti di cui a mala pena poteva intendere la favella, le
quali lo pregarono di volerle ajutare contro i popoli di Gog e Magog
che loro devastavano le terre. Zul-Carnein promise di costruire un
riparo che li proteggesse dai nemici. A tale uopo fattosi portare gran
quantità di ferro, n'empiè il valico dei monti, e arroventata poi, con
l'ajuto dei mantici, quella massa, e infusovi sopra bronzo liquefatto,
costrusse un muro che per nessun modo quei di Gog e Magog avrebbero
potuto superare o forare. Compiuta l'opera, lo stesso Zul-Carnein
avvertì che, quando il tempo ne fosse venuto, prossimo già il giudizio
universale, Dio disfarebbe il muro in polvere e tutti i popoli si
confonderebbero[987].

Se non che Maometto nomina qui, non Alessandro Magno, ma Zul-Carnein,
e se questo Zul-Carnein sia tutt'uno con Alessandro Magno, ovvero
sia da lui interamente diverso, è questione che fu disputata a
lungo, prima tra gli stessi scrittori maomettani, poscia, e sino
a tempi recentissimi, tra gli orientalisti europei. Io non entrerò
in questo ginepraio, ma noterò solamente, non richiedendosi di più
al proposito mio, che il lungo processo della critica sembra avere
ormai definitivamente confermata la opinione di chi nel Zul-Carnein
o Bicorne del Corano, della rimanente letteratura arabica, e dei
rabbini, riconosce lo stesso Alessandro Magno. Per quanto riguarda la
discussione particolareggiata dell'argomento rimando il lettore agli
scritti dei dotti che vi attesero di proposito[988].

Se nel Corano noi troviamo la nuova leggenda pienamente costituita,
se anzi vi troviamo accennata, come or ora vedremo, la sua notorietà,
almeno tra un popolo, abbiamo, parmi, più che sufficiente motivo per
credere che nel VI secolo essa fosse già sorta. Certo Maometto non
ne fu l'inventore; ma d'onde l'ebbe egli? Potrebbe dubitarsi se dai
cristiani o dagli Ebrei, giacchè egli conversò con gli uni e con gli
altri, e nella sua dottrina accolse credenze così di quelli come di
questi; ma fu sua cura di togliere qualsiasi dubbio in proposito. Nel
c. XXI si scorge chiaramente un riflesso dell'Apocalissi: ma quanto
al racconto del c. XVIII, si avverte espressamente che deve servire a
dar soddisfazione agli Ebrei, i quali sarebbero per fare a Maometto
alcuna interrogazione intorno a Zul-Carnein. La leggenda era dunque
una leggenda ebraica; vediamo in qual modo gli Ebrei, nei cui libri la
ritroviamo, dovessero essere condotti ad immaginarla.

La leggenda primitiva dei popoli rinchiusi da Alessandro Magno,
quella in cui Gog e Magog non figurano ancora, si diffuse certamente,
qualunque fosse il suo luogo d'origine, non meno in Asia che in Europa,
dove noi ne abbiamo ritrovati i documenti più antichi. A seconda
delle condizioni speciali di ciascuna provincia ov'essa penetrava,
degli avvenimenti storici particolari che vi si svolgevano o vi si
preparavano, delle apprensioni o dei timori ond'erano occupate le
menti, doveva quella leggenda assumere varii aspetti, piegarsi a
varie e mutevoli connessioni. In Europa era cosa naturalissima che i
rinchiusi da Alessandro s'identificassero ora con una, ora con un'altra
stirpe di barbari. In Gerusalemme stessa, d'onde San Gerolamo scriveva
la citata epistola _ad Oceanum_, pare che fossero identificati con
gli Unni. Ma questa doveva essere una identificazione temporanea,
provocata dalla invasione, e che agevolmente poteva essere sostituita
con altra, una volta l'invasione passata. Ora, in fatto d'invasioni,
quella certo di cui in condizioni ordinarie più si dovevano preoccupare
gli Ebrei era l'annunciata e inevitabile di Gog e Magog. Può darsi,
cosa che dalle parole di San Gerolamo non appare, che in Giudea si
credesse da taluno essere appunto gli Unni le genti di Gog e Magog;
ma tale credenza facilmente cadeva quando vedevasi il seguito degli
eventi non corrispondere alla profezia di Ezechiele. L'invasione di Gog
e Magog era ancor da venire, e poichè gli Ebrei non conoscevano altre
genti più scelerate e più degne d'esser divise dal resto della umanità
che le genti di Gog e Magog, non era ad essi necessario un grande
ardimento di fantasia per immaginare che queste e non altre fossero
le genti rinchiuse da Alessandro Magno. A ciò si aggiunga che nella
stessa profezia di Ezechiele gli Ebrei potevano credere di scorgere
come un'allusione a quanto più partitamente si narrava nella leggenda
di Alessandro, giacchè, parlando della invasione irresistibile dei
barbari, questo profeta dice: I monti si fenderanno, precipiteranno le
rupi, sarà atterrato ogni muro.

Gli Ebrei non ebbero se non a lodarsi del modo onde furono trattati
dal gran conquistatore, il quale, secondo che narra il loro maggiore
storico, concesse loro parecchi privilegi e una parte della città di
Alessandria, venerò il nome dell'unico Dio, onorò in singolar modo il
sommo sacerdote, sacrificò nel tempio, lesse in Ezechiele che l'impero
dei Greci succederebbe a quello dei Persiani, e molti Ebrei accolse
nel suo esercito, i quali gli si erano spontaneamente profferti[989].
Si può credere che Alessandro non abbia veramente fatte in pro degli
Ebrei, o in onore della loro credenza, le cose tutte che qui si
ricordano; ma quanto maggiore è in esse la parte della invenzione,
tanto maggiore ancora è la prova della stima in cui gli Ebrei dovevano
avere l'uomo a cui le attribuivano; nè a questa stima, che si può
credere validamente fondata nella opinione popolare, potevano recar
detrimento grave gli avversi giudizii di alcuni rabbini, ai quali molti
altri più se ne contrapponevano favorevoli. Non era egli naturale che
gli Ebrei attribuissero a questo loro benefattore anche il serramento
di Gog e Magog? E notisi che, sebbene sia, in generale, molto difficile
dire quali elementi della leggenda di Alessandro Magno abbiano
avuto origine tra gli Ebrei[990], gli è nullameno fuor di dubbio che
parecchie finzioni di essa son opera loro, come, per citare un esempio,
quella del viaggio dell'eroe al Paradiso terrestre[991].

Qual fosse propriamente la forma e l'indole della leggenda giudaica
mi pare che si vegga in un racconto delle _Revelationes_ dette di
Metodio, racconto di cui, in grazia appunto di ciò, credo di dover
fare ora parola, posto che l'ordine cronologico gli assegnerebbe
altro luogo. Il narratore descrive anzi tutto la turpitudine e la
bestialità delle genti di Gog e Magog, le quali sono use cibarsi di
topi, di serpenti e di altri animali immondi, di feti abortivi, o non
ancora formati nell'alvo materno, e non seppelliscono i morti, ma li
divorano. Alessandro Magno, veduti i loro costumi, temendo che abbiano
a riversarsi, quando che sia, sulla _Terra Sancta_, e a contaminarla,
le spinge tutte verso il settentrione, e raccoltele fra i monti detti
Ubera aquilonis, supplica Dio di volerlo ajutare, e Dio l'esaudisce,
e in sulla uscita fa raccostare i monti alla distanza di dodici
cubiti, e Alessandro chiude il passo con porte di bronzo rivestite di
_assurim_ (sic), di guisa che, nè col ferro, nè col fuoco si possono
distruggere, e le stesse arti magiche e diaboliche, in cui quelle
genti sono esperte, non possono nulla contro di esse. Con Gog e Magog
sono da Alessandro rinchiusi altri ventitrè popoli di pari essere, e,
quando sia prossima la fine del mondo, usciranno tutti e conquisteranno
la terra d'Israele, _secundum Ezechielis Prophetiam quae dicit:
In novissimo die consummationis mundi exiet Gog et Magog in terram
Israel_[992]. Il pensiero che governa questo racconto è essenzialmente
ebraico, e non lascia dubbio circa la fonte a cui Metodio, o chi
per esso, lo attinse. Costui, sebbene cristiano, si direbbe che non
abbia conosciuto l'Apocalissi. La sola ragione che muova Alessandro a
rinchiudere i popoli abominevoli è il desiderio di liberare la _Terra
Sancta_ dal pericolo della loro invasione; la sola terra di cui si dica
che sarà conquistata da essi quando usciranno alla fine del mondo, è
la terra d'Israele. Per certo una leggenda cristiana avrebbe detto
altrimenti, nè si sarebbe a questo modo occupata di soli interessi
ebraici. Quello stesso vocabolo _assurim,_ per quanto qui possa
essere adoperato a sproposito, accenna a fonte ebraica[993], e così
ancora la inesatta citazione di Ezechiele, nella quale noi ritroviamo
alcune particolarità della tradizione presentataci dall'Apocalissi,
ma che l'Apocalissi stessa derivava da fonti ebraiche, cioè a dire la
conversione di Gog in popolo e il rinvio della catastrofe alla fine del
mondo.

La leggenda giudaica formata doveva, per ragione delle cose stesse
narrate in essa, trovar facile accesso appo i cristiani, divulgarsi
rapidamente, ed entrare, prima, o poi, nelle storie romanzesche di
Alessandro Magno. Noi la troviamo nello Pseudo-Callistene[994]; ma
quando v'entrò? A tale domanda non si può dare sicura risposta, ma
solamente probabile. Quando propriamente sia stato composto il romanzo
che va sotto il nome di Callistene non è noto. Nella sostanza esso non
è certamente posteriore al terzo secolo; ma molte favole ora contiene,
le quali vi s'introdussero solamente più tardi, nelle rinnovazioni
e nei rifacimenti cui andò soggetto. Nelle redazioni più antiche,
in quella, per esempio, del codice Parigino Nº 1711 (la recensione
A del Müller), la nostra leggenda non si trova, come non si trova
nella versione latina di Giulio Valerio, che il Mai stimò del terzo
o quarto secolo, della fine del IV, o del principio del V, il Müller,
molto più recente il Letronne, nè nell'_Itinerarium Alexandri_[995], e
nemmeno nella versione armena pubblicata dai Mechitaristi in Venezia
nel 1842, e giudicata da essi appartenere al V secolo; mentre nella
versione siriaca la leggenda è solo narrata in una specie di appendice
evidentemente aggiunta più tardi[996]. La leggenda compare in due
recensioni dello Pseudo-Callistene (indicate con B e C dal Müller) le
quali non si possono far più antiche del VII od VIII secolo[997], e in
cui sono inseriti parecchi altri racconti manifestamente ebraici; anzi
l'una di esse (C) sembra essere opera di scrittore ebraico, o cristiano
siriaco[998].

Nella recensione (B) presa dal Müller a base della sua edizione,
la leggenda si presenta sotto una forma molto affine a quella che
ci occorre nelle _Revelationes_[999], ed è Alessandro, che in una
lettera alla madre Olimpia racconta tutto il fatto. Alessandro trovò
molti popoli, i quali mangiavano carne umana e bevevano il sangue.
Temendo non avessero a contaminare il mondo (non più la sola Terra
Santa, come nelle _Revelationes_) invocò l'ajuto del cielo, e mosse
loro guerra, e ne fece grande strage, conquistando il loro paese. I
superstiti, fuggendo, giunsero tra due giogaje di monti (gli stessi
_Ubera aquilonis_ delle _Revelationes_), le quali spingono le cime
oltre le nubi, e si stendono parallelamente, come due muraglie, verso
il settentrione, sino al gran mare. Alessandro volse una fervida
preghiera a Dio[1000], e raccostatisi per divino miracolo i monti,
chiuse l'uscita con una porta di bronzo larga venti cubiti, alta
sessanta, rivestita di una sostanza che resiste così al ferro come
al fuoco, e dinnanzi alla porta alzò un riparo, costrutto di grandi
pietre, anzi di rupi, ciascuna delle quali era alta venti cubiti e
lunga sessanta, saldate con istagno e con piombo, rivestito il tutto di
quella medesima sostanza di cui aveva già rivestita la porta, la quale
chiamò Porta Caspia. Nè pago di ciò eresse a Oriente e ad Occidente
altre due muraglie, e per tal modo rinchiuse quivi ventidue popoli coi
loro re[1001]. Del loro prorompere al tempo dell'Anticristo non è fatta
parola.

L'esame delle due versioni della leggenda, quali si hanno nelle
_Revelationes_ e nello Pseudo-Callistene mi pare conduca a questo
giudizio, che tra esse non è dipendenza diretta, ma che tutt'e due
vengono, mediatamente o immediatamente, da una medesima fonte; e se
noi paragoniamo queste due versioni con quella del Corano dovremo
dire che fra esse tutte vera diversità sostanziale non c'è, e che
le differenze incidentali che vi si notano sono certamente dovute,
sia alla incertezza ed instabilità stessa della tradizione, sia alla
diversa natura dei libri che quella tradizione accoglievano, ed a cui
bisognava pure che la leggenda in una certa misura si piegasse. Ad ogni
modo, quello che si potrebbe addimandare il nucleo della leggenda, il
rinserramento cioè di genti scelerate e nefande per opera di Alessandro
Magno, si ritrova incolume in tutte e tre, e si può star sicuri che per
questa parte le tre versioni riproducono fedelmente la leggenda quale
si deve credere che già prima fosse nata in Giudea.

Se ciò si ammette, come pare a me che si debba ammettere, dovrà
necessariamente giudicarsi spuria e depravata la versione che si
trova nella già citata Cosmographia di Etico Istrico, versione che non
sembra essere passata in altre scritture, che certamente non visse in
nessuna forma di tradizione, e che reca in fronte i chiari segni di una
elaborazione fantastica in tutto personale[1002]. Nè a tale proposito
importa di risolvere la questione della maggiore o minore antichità del
libro[1003], dappoichè non fu certamente esso a diffondere la nostra
leggenda in Europa; anzi, vedendo che la leggenda non vi si diffonde
se non nella forma delle _Revelationes_ e dello Pseudo-Callistene,
bisognerebbe congetturare (ed altri argomenti in appoggio non
mancherebbero) che esso venisse in luce quando la leggenda era già
divulgata in quella forma, e non lasciava più luogo a una versione
sostanzialmente diversa. Ecco in breve il racconto del supposto Etico,
di cui del resto non è sempre possibile cogliere il senso a pieno, e
dove anzi è più di una contraddizione[1004]. I Turchi, della stirpe
di Gog e Magog, abitano in certe isole, o spiagge (rinchiusi?) fra
monti, contro gli ubera aquilonis[1005]. Sono uomini ignominiosi,
incogniti, mostruosi, pieni di ogni mal costume, usi a cibarsi di
cose abbominevoli, i quali non si lavano mai, non conoscono nè il
vino, nè il sale, nè il frumento, e adorano Saturno[1006]. Essi hanno
in una grande isola dell'oceano una città vastissima e munitissima,
chiamata Taraconta. Al tempo dell'Antecristo, che chiameranno _deum
dierum_ (_deorum?_), faranno grandi devastazioni _cum semine pessimo
eorum prosapia reclusa post portas Caspias_. Chi avesse chiuso questo
pessimo seme dietro le porte Caspie non è detto. Invano tentò più volte
Alessandro di vincerli in guerra, e meditò di rinchiuderli con alcun
ingegno, chè per la vastità del mare e la grandezza dei monti non gli
venne mai fatto, e stette tutta la vita in grande pensiero di ciò, non
sovvenendogli alcun buon provvedimento. Un guazzabuglio sì fatto si
sottrae ad ogni critica. Noterò solo che, secondo la recensione B dello
Pseudo-Callistene, Alessandro, compiuta la impresa contro Gog e Magog,
si volse contro ai Turchi e agli Armeni, e ne uccise un gran numero
insieme col loro re chiamato Can[1007].

La leggenda che abbiamo sin qui esaminata, voglio dire la leggenda
giudaica, si divulgò non meno in Europa che in Asia, passò in
iscritture innumerevoli, e in breve tempo prevalse; ma non per questo
la leggenda più antica, quella in cui Gog e Magog non comparivano
ancora, fu in tutto dimenticata.

Non parlo della storia romanzesca di Alessandro Magno che va sotto
il titolo di _Historia de proeliis_, riportata di Costantinopoli, nel
X secolo, dall'Arciprete Leone, nella quale si ha un racconto dove i
nomi di Gog e Magog, e delle altre genti rinchiuse non sono indicati;
questo racconto è nel rimanente quello stesso dello Pseudo-Callistene;
ma Beniamino Tudelense dice nell'Itinerario che la regione degli Alani
è cinta da monti altissimi, i quali non hanno altra uscita che le
porte ferree costrutte da Alessandro Magno[1008], e il falso Giosippo
Gorionide racconta, stranamente parafrasando un passo già ricordato
di Giuseppe Flavio, la storia seguente[1009]. Alessandro, temendo gli
Alani, gente fortissima e irresistibile, li aveva chiusi tra i monti
che cingono la lor terra, la qual cosa essi, non vaghi di cercare
stranie contrade, lasciarono fare liberamente, sebbene fosse loro
agevole d'impedirlo. Ma sopraggiunto un anno di massima carestia, non
trovando nel proprio paese di che sfamarsi, essi pregarono gl'Ircani
di voler loro aprire i passi, affinchè potessero uscire a procacciarsi
i necessarii alimenti. Acconsentirono gl'Ircani, ed essi, usciti,
si volsero, predando e devastando, alla Media. Il prefetto del re
dei Medi, non osando far resistenza, mandò ad offrir loro la pace, e
s'impegnò di somministrare gli alimenti onde abbisognavano, a patto che
non gli guastassero le terre. Gli Alani risposero di non volere da lui
se non che li sostentasse per un mese, tanto che maturassero nella lor
terra i prodotti, passato il quale avrebbero fatto ritorno alle case
loro: non abbisognare d'altro essi, così diversi da ogni umano costume.
Il prefetto, ringraziatili di loro buona disposizione, li nutrì tutto
un mese (erano in numero di 755,140) di miglio cotto, e di carne di
cani, asini, topi; purchè fosse carne essi si contentavano. Trascorso
il mese, si mossero per far ritorno alle loro abitazioni, quando a
Tiridate, re d'Armenia, venne in animo di affrontarli e di combatterli.
Mal gliene incolse, perchè nella battaglia perdette trecentomila dei
suoi, e poco mancò non rimanesse egli stesso prigione, mentre degli
Alani non perì neppur uno. Dopo di ciò gli Alani tornarono indisturbati
nella loro regione. Uditi tali casi l'imperatore Tito ebbe desiderio di
sperimentare contro di essi la sua potenza, ma non potè, avendo perduto
nella guerra giudaica il fiore delle sue milizie. Quanto qui si dice
degli animali dati in pastura agli Alani rimanda al racconto delle
_Revelationes_, o dello Pseudo-Callistene.

Ho detto che la leggenda in cui prendono posto Gog e Magog prevalse;
ma, passando d'una in altra scrittura essa ebbe ad alterarsi, e
alcuni tratti suoi furono in particolar modo esagerati, o conformati
al sentimento e alla condizione dei varii popoli che raccolsero. Non
entrerò a questo proposito in troppi particolari per non dilungarmi
più di quanto l'opportunità richiegga; ma accennerò ad alcune tendenze
che in successo di tempo si vanno svolgendo dentro alla leggenda, e ad
alcune singole immaginazioni più degne di nota.

Abbiamo veduto quale orribile descrizione si faccia dei popoli
rinchiusi nelle _Revelationes_ e nello Pseudo-Callistene[1010]. Tale
descrizione trae senza dubbio la origine dall'odio che gli Ebrei
dovevano nutrire per le genti incognite da cui tanti mali aspettavano;
ma passata poi la leggenda nel dominio d'altri popoli, quella
orribilità fu piuttosto accresciuta che diminuita, e alcuna volta
finisce che i rinchiusi si tramutano in esseri addirittura fantastici.
Spesso si trovano confusi coi pigmei o coi giganti. Edrisi dice[1011]
che le genti di Magog sono di piccolissima statura, non oltrepassando
i ventisette pollici. Hanno viso interamente rotondo, grandi orecchie
che loro cascano sulle spalle, e tutta la persona coperta di una
specie di peluria. In un antico poema siriaco[1012] quei di Ogûg e
Mogûg sono giganti di sei o sette cubiti, che si lavano col sangue,
bevono sangue e mangiano carne umana. Goffredo di Monmouth chiama
Goëmagot, o Gogmagot, un gigante di venti piedi, che con alcuni suoi
compagni tenta di contrastare a Bruto il possesso di Albione[1013].
Nello _Scià-namè_ di Firdusi si dice che quei di Gog e Magog hanno
nera la lingua, nero il viso, gli occhi color di sangue, zanne simili
a quelle del cinghiale, corpi pelosi, grandi orecchie da elefante,
dell'una delle quali, quando si coricano, fanno guanciale e dell'altra
coperta. Ciascuna femmina partorisce mille figliuoli. Corrono come
onagri. In primavera si nutrono di serpenti e ingrassano; in estate di
erbe e smagriscono; grassi, urlano come lupi; magri, la loro voce si fa
tenue come quella dei colombi[1014]. Nel poema tedesco di Apollonio di
Tiro, opera di Heinrich von der Neuenstadt, si trova una descrizione
la quale, per mero caso senza dubbio, più di una volta si accorda con
la descrizione di Firdusi[1015]. Gli uomini di Gog e Magog hanno nove
piedi di altezza, dei quali sei nelle gambe, muso canino, tinto sotto
gli occhi di verde e di giallo, con grande bocca, da cui esala un puzzo
come di latrina[1016]. La voce loro è come di lupo, e sono così veloci
nel corso che un cavallo non può seguitarli. Si cibano di lupi, di
cani, e di carne umana.

Ibn Khaldun dice che quei di Gog sono di alta statura, e quei di Magog
invece assai piccoli. Hanno poi, come pare, in comune, volto rotondo,
zanne sporgenti, piccoli occhi, favella che rassomiglia a un sibilo, e
il costume di divorarsi fra loro[1017]. In alcune descrizioni si dice
per giunta, come nelle _Revelationes_, che essi sono cultori dell'arte
magica[1018], e in una delle tante redazioni delle epistole del Prete
Gianni, che essi chiusero Alessandro in Macedonia, e lo misero in
prigione[1019].

Il paese di Gog e Magog è per lo più descritto come degno de' suoi
abitatori, inospite, selvaggio, sterile, esposto a tutte le intemperie
e ai geli del settentrione, frequentato da mostri, traversato persino
da un fiume infernale; ma alcuna volta esso è anche descritto come
ubertoso e favorito di clima più mite. Edrisi dice il paese molto ben
coltivato e i suoi abitatori provveduti di numerose greggi; ma poi
soggiunge, citando l'autore del Libro delle Meraviglie, che per esso
scorre un fiume, in fondo al quale arde un fuoco perpetuo, e in cui
gli abitanti gettano i prigionieri, i quali, prima che abbiano tocco il
fondo, sono rapiti da grandi uccelli, tratti in certe caverne e quivi
divorati. Non aggiungo ora altre particolarità circa il paese di Gog e
Magog, perchè avrò da tornare quanto prima sull'argomento.

Del muro costruito da Alessandro Magno si parla in modo più o meno
particolareggiato. Il racconto più diffuso a tale riguardo è quello di
Firdusi, che, per altro, riproduce in sostanza il racconto del Corano.
Alessandro, visitate le montagne, fece raccogliere in grandissima
quantità rame, bronzo, calce, pietre, legname e tutto quanto
richiedevasi all'opera. Dal mondo intero accorsero allora i muratori
e i magnani, e quando tutto fu in pronto si diede mano al lavoro. La
struttura del muro procedeva a questa guisa: prima si metteva uno
strato di carbone, poi uno di ferro, e tra i due un po' di rame, e
sopra il tutto dello zolfo; e quando il muro, largo dugento cubiti,
ebbe raggiunta la sommità dei monti, ci si versò su un mescuglio
di nafta e di burro, e accatastata in sulla cima gran quantità di
carbone, si diè fuoco alla massa, e l'incendio fu promosso coi mantici
da centomila fabbri ferrai. Ma Yakub parla solamente di una porta di
ferro e di bronzo, lavoro di dodicimila operai, compiuto in sei mesi.
Per contro nel _Romans d'Alixandre_ di Lambert di Tors e Alexandre de
Bernay il muro è di materiali ordinarii, ma

    tant par fu bien sieriés que riens ne l' pot desfaire[1020].

Quanta fede si desse, più particolarmente in Asia, alla esistenza
di Gog e Magog e del muro che li rinchiudeva, mostra la seguente
storia narrata da parecchi scrittori arabici, e fra gli altri da Ibn
Khordadbeh e da Edrisi[1021]. Il califfo Wâttek billah vide una notte
in sogno aperta la muraglia costruita da Alessandro. Spaventato da
tale visione, chiamò Salam l'interprete, e gl'ingiunse di porsi in
viaggio, di ritrovar la muraglia, e di recargliene preciso ragguaglio.
A tal uopo gli diede cinquanta compagni con cento muli, gran quantità
di denaro, e provvigioni per un anno. Salam e i compagni si pongono
in viaggio, traversano varii paesi, e da ultimo una regione sparsa di
rovine di antiche città, conquistate e distrutte dai popoli di Gog e
Magog. Giungono finalmente a certi castelli prossimi alla muraglia,
custoditi da uomini che parlano arabico e persiano, e ad una città
popolata di musulmani. Due parasanghe più oltre trovano la muraglia,
e su per una montagna, che domina un precipizio, una formidabile
costruzione di ferro e di rame, con una porta di due imposte, alta
cinquanta cubiti, larga cento. A venticinque cubiti dal suolo la tiene
sprangata un catorcio dello spessore di un cubito, della lunghezza
di sette. Ogni venerdì il comandante di quella fortezza, e dieci
altri cavalieri, tutti armati di grevi magli, vanno a picchiare per
tre volte sul catorcio, affine di lasciar intendere a quei di dentro
che la porta è ben custodita, e allora si ode, di solito, un rumore
confuso, prodotto dalla folla raccolta dietro a quella. Lì accosto, in
un campo trincerato di trecento miglia di superficie, si vedono ancora
gl'istrumenti e parte dei materiali che servirono alla costruzione
del muro. Interrogati da Salam se mai avessero veduto alcuno di quei
rinchiusi, gli abitanti risposero d'averne veduti a più riprese sui
merli del muro, e che una volta un vento impetuoso ne fece cadere tre
dalla lor parte. Essi erano alti ventidue pollici allo incirca. Salam
potè riportare al suo signore la consolante notizia che il muro di
Alessandro Magno era ancora in buono stato e che nulla faceva presagire
la prossima uscita dei popoli rinchiusi.

Vero è che i rinchiusi non si stavano con le mani in mano, ma si
adoperavano come meglio potevano per uscire di prigionia. Il cronista
Tabari, narrata la leggenda in termini che molto si accostano a quelli
del Corano e di Firdusi, soggiunge un'assai strana notizia. Quei di Gog
e Magog si affaticano senza posa per distruggere il muro metallico,
ma non possono venirne a capo. Sprovveduti di più acconci utensili,
essi vi lavorano intorno con le lingue, che hanno ruvide a modo di
raspe, e leccando il muro un intero giorno lo riducono dello spessore
di un guscio d'uovo. Allora, ristando dall'opera, gridano trionfando:
Certamente domani noi lo avremo in tutto disfatto. Ma nella notte il
muro racquista miracolosamente lo spessore di prima. E ciò si ripete
tutti i giorni, e si ripeterà, finchè, essendo prossima la fine del
mondo, uno dei rinchiusi, mosso da divina inspirazione, suggerirà ai
compagni di non più dire al sopravvenir della notte: Certamente domani
noi lo avremo in tutto disfatto; ma bensì: Domani noi lo disfaremo, se
piace a Dio. E allora essi compieranno l'opera da sì gran tempo tentata
invano[1022].

L'opinione che i popoli di Gog e Magog fossero Sciti continua ad essere
professata da molti anche in questo nuovo grado della leggenda, il
grado, cioè della leggenda che ho addimandata epica[1023]. Ma altre
identificazioni non mancano coi Goti[1024], con gli Unni[1025], con gli
Ungheri[1026], coi Turchi[1027], alle quali mi basta accennare. Fra
gli Ebrei ci fu persino chi identificò Gog e Magog coi Romani[1028].
Ma la opinione più curiosa, e più meritevole d'intrattenerci alquanto,
è quella che confuse Gog e Magog con le dieci tribù che Salmanassar,
o il suo successore Sargon, espugnata nel 721 innanzi Cristo
Samaria, fece trasportare a settentrione della Mesopotamia, al di là
dell'Eufrate[1029]. Una identificazione così fatta potrebbe apparire
a prima giunta non da altro suggerita che dall'odio dei cristiani
contro gli Ebrei; ma se questa ragione non mancò, ce ne furono anche
dell'altre. Assai per tempo si diffuse tra gli Ebrei la credenza
che le dieci tribù vivessero in una regione remota ed incognita,
d'onde farebbero ritorno al tempo del loro Messia. Questa leggenda
si trova già interamente costituita nell'apocrifo quarto libro di
Esdra. Quivi si narra che, trasportate al di là dell'Eufrate, le dieci
tribù fermarono il proposito di segregarsi da tutte le altre genti,
e di spingersi oltre in alcuna regione incognita della terra, dove
gli uomini non avessero mai abitato, per ivi serbare incorrotti la
religione e i costumi degli avi. Postesi in viaggio, giunsero dopo un
anno e mezzo di cammino nelle nuove lor sedi, d'onde faranno ritorno
alla fine dei tempi, per raccogliersi intorno al Messia, quando contro
costui si congregheranno dalle quattro plaghe del mondo le genti. La
leggenda ricomparisce nel XLII capitolo del _Carmen apologeticum_ di
Commodiano, dove il Messia è Cristo, e dove si dice che alla fine del
mondo le dieci tribù torneranno dalla loro ignota dimora, vinceranno
l'Anticristo Nerone, e libereranno Gerusalemme. Se la credenza avesse
potuto prevalere nella forma datale da Commodiano, qualsiasi confusione
tra Gog e Magog e le dieci tribù sarebbe stata impossibile, ed anzi
si sarebbero avute tra i cristiani, come si ebbero tra gli Ebrei, due
diverse leggende, l'una, del popolo malvagio e rinchiuso, destinato
ad ajutar l'Anticristo, l'altra, del popolo virtuoso (rinchiuso, o non
rinchiuso) destinato ad ajutare Cristo. Ma era assai difficile che la
credenza prevalesse in quella forma. I cristiani, in generale, dovevano
vedere mal volentieri che si desse a Cristo, nella fine dei tempi una
milizia ebraica, ed essere, per contro, dispostissimi ad ammettere sul
conto delle dieci tribù la stessa opinion degli Ebrei. Il Messia degli
Ebrei pei cristiani non poteva essere se non l'Anticristo, e le dieci
tribù che l'avrebbero seguitato prendevano necessariamente il posto di
Gog e Magog, o si univano ad essi[1030].

Nel medio evo questa leggenda assunse varie forme, giacchè, secondo
certi racconti, Alessandro fu quegli che precisamente chiuse le dieci
tribù; secondo altri, Alessandro le trovò già rinchiuse, ma saputo
dell'esser loro, fece la clausura più rigorosa e più aspra. Lorenzo de
Segura, dice nel _Poema de Alejandro_ che il Macedone trovò gli Ebrei

      Tras mas altas sierras, Caspias son llamadas.
    Que fueras un portiello non havia y mas entradas.

Sono essi uomini sparuti e vili, non atti alle armi. Alla preghiera
di Alessandro si congiunsero i monti; ma i rinchiusi usciranno prima
della fine del mondo e devasteranno tutta la terra[1031]. Il Mandeville
dice che alla preghiera di Alessandro Dio fece serrare i monti tutto
intorno alla regione dove erano gli Ebrei, salvo che da una parte,
dov'è il Mar Caspio; ma per la via del mare, i rinchiusi, i quali
fuori del proprio non conoscono altro linguaggio, non si attentano di
fuggire. Gli Ebrei non posseggono altra terra in tutto il mondo, ed
anche per quella pagano tributo alla regina delle Amazzoni, la quale
fa molto bene custodire l'unico passo[1032]. Questo consiste in un
sentiero angusto, che dura quattro leghe, e non vi si trova acqua, ma
dragoni e serpenti ed altri animali velenosi in gran copia, tanto che
non vi si può passare se non durante l'inverno[1033]. Se mai alcuno dei
rinchiusi vien fuori non sa parlare con altre genti; ma tutti usciranno
al tempo dell'Anticristo, per la qual cosa gli Ebrei di tutto il mondo
imparano l'ebraico, sperando di potersi allora intendere con essi e
guidarli contro ai cristiani. Qualichino da Spoleto dice che, secondo
la opinione di alcuni, fra le genti rinchiuse da Alessandro Magno
c'erano anche le dieci tribù. Nel _Jüngere Titurel_ si parla degli
Ebrei chiusi tra monti che superano in altezza l'arcobaleno; ma non
si dice che Alessandro Magno fosse quegli che ve li rinchiuse[1034].
Ranulfo Higden dice, per contro, che venuto ai Monti Caspii Alessandro
trovò i discendenti delle dieci tribù, i quali gli chiesero licenza
di potersene uscire di là; ma egli, saputo come quivi fossero stati
chiusi in punizione dei loro peccati, _inclusit eos artius, molibus
bituminatis aditum obstruens_[1035]. Secondo un'altra opinione
Alessandro Magno avrebbe rinchiuse, oltre alle genti di Gog e Magog,
anche le dieci tribù[1036]. Teolosforo di Cosenza nega recisamente
tutta la favola[1037]. Nel 1540 un supposto re di quegli Ebrei venne
in Europa, andò a trovare Francesco I e Carlo V, cercò di guadagnar
proseliti alla sua religione, e fu per ciò arso vivo in Mantova.

Non dev'essere confusa con la precedente un'altra leggenda secondo la
quale l'imperatore Claudio, durante una gran carestia, fece espellere
da Roma tutti gli Ebrei con molta parte della popolazione meno
valida, e li fece chiudere in luogo recondito, dai quali rinchiusi poi
discesero gli Unni[1038].


§ III.

_La leggenda storica._

Sparsesi, verso il mezzo del XII secolo, in Europa, le prime nuove
del Prete Gianni e della sua grande potenza, la leggenda di Gog e
Magog non tardò ad avere nuove connessioni e nuovi ampliamenti. Questo
principe era cristiano; il suo regno, di cui non bene si conosceva
la situazione, si stendeva sopra molta parte dell'Asia, e volentieri
vi si comprendevano le terre incognite e remote di cui parlavano
gl'itinerarii; di lui, e della condizione de' suoi paesi non poche
meraviglie narravansi; era pertanto assai naturale che tra lui e le
genti rinchiuse di Gog e Magog si stabilisse per tempo una qualche
relazione[1039]. Così avviene che di Gog e Magog noi troviam fatta
menzione in alcune delle epistole che si pretesero scritte dal Prete
Gianni a sovrani di Europa.

Di tali epistole, che ebbero una straordinaria diffusione e furono
tradotte in tutte le lingue, già parla nella sua Cronaca, all'anno
1145, Ottone di Frisinga. Ma nelle redazioni più antiche la leggenda
di Gog e Magog non si trova per anche ricordata; essa penetra solamente
nelle redazioni più recenti[1040]. In queste il Prete Gianni narra del
rinserramento di quelle genti per opera di Alessandro Magno in modo
conforme al racconto dello Pseudo-Callistene; ma aggiunge che esse
sono soggette al suo dominio; e che egli se ne giova nelle sue guerre,
facendo loro divorare i nemici, dopo di che le rimanda nelle lor sedi.
Usciranno al tempo dell'Anticristo e soggiogheranno Roma e tutta la
terra[1041].

Ma la dominazione del Prete Gianni sopra le genti rinchiuse non doveva
essere di lunga durata, e queste non dovevano aspettare la fine del
mondo per fare la minacciata irruzione. Le prime mosse dei Tartari in
sul cominciare del secolo XIII, e le rapide conquiste di Gengiscan,
impressionarono profondamente la cristianità tutta quanta; le notizie
confuse ed esagerate che ne giungevano, le descrizioni strane che si
facevano di quelle genti e dei loro costumi, accesero le fantasie, e
la paura ajutando, si credette che Gog e Magog fossero usciti dalle
lor sedi, e avessero dato principio all'opera di devastazione. Il
nome originale di Tatari fu modificato e se ne fece Tartari, suggerita
l'alterazione dal Tartaro, d'onde pareva che i nuovi barbari dovessero
esser venuti[1042].

Le relazioni dei viaggiatori confermarono quella credenza. Giovanni
del Pian dei Carpini, mandato nel 1245 da Innocenzo IV in Asia, con
la missione di distogliere i Tartari appunto dalle loro scorrerie in
Europa, e, dove fosse possibile, di convertirli alla fede cristiana,
raccontò de' costumi loro, al suo ritorno, non poche cose le quali
si accordavano con quanto si sapeva di Gog e Magog, tra l'altro
che quando alcuno di essi veniva a morire i parenti si congregavano
per cibarsi delle sue carni. Secondo quanto egli riferiva, il Can
dei Tartari si sarebbe chiamato Cuynè o Gog, e suo fratello Magog.
Guglielmo Rubruquis o Ruysbroeck, mandato da Luigi IX di Francia a
prendere accordi col Gran Cane per una futura crociata, confermò quanto
dell'antropofagia aveva narrato il suo predecessore. Il Joinville dice,
narrando di questa ambasceria, che i Tartari stessi raccontarono ai
messi del re di Francia come il paese d'onde essi erano venuti fosse
un gran deserto di sabbia, nell'ultimo Oriente, prossimo ai monti tra
cui stavano rinchiusi Gog e Magog[1043]; e l'armeno Hayton conferma
questa opinione dicendo nel suo Liber de Tartaris[1044] «Regio illa
in qua Tartari primitus habitabant, est sita ultra magnum montem de
Belgian, de quo monte fit mentio in historiis Alexandri». Marco Polo
afferma che la porta costrutta da Alessandro Magno non fu fatta per
trattenere i Tartari, i quali a quel tempo non esistevano ancora, ma
bensì i Comani, e dice che i popoli di Gog e Magog, i quali egli pone
nel regno del Prete Gianni, dalle genti vicine erano chiamati coi nomi
di Ung e Mongul[1045]. Ma la leggenda aveva già identificato i Tartari
con Gog e Magog, o con le dieci tribù di Ebrei che alla lor volta
erano state identificate con questi. Federico II dice in una epistola
a Enrico III d'Inghilterra che i Tartari sono discesi dalle dieci
tribù rinchiuse da Alessandro Magno. Ricoldo da Montecroce riferita,
nel suo Liber peregrinationis[1046], questa medesima opinione, adduce
alcuni argomenti in favore e contro di essa, e avverte che i Tartari
stessi diconsi discesi da Gog e Magog: «Vnde ipsi dicuntur Mogoli,
quasi corrupto vocabulo Magogoli»[1047]. Il Villani l'accolse[1048], ed
essa penetrò anche in qualche versione dello Pseudo-Callistene e della
_Historia de proelis_, come per esempio nei _Nobili fatti di Alessandro
Magno_. Il Malvenda in principio del secolo XVII la sosteneva
ancora[1049].

E qui ci si fa innanzi un'altra immaginazione, di cui non saprei
indicare la origine, ma che sembra essere nata in questo terzo stadio
della leggenda, ossia della leggenda che io ho addimandata storica,
giacchè si lega con la irruzione dei Tartari. Il muro e la porta,
di cui abbiamo veduto in alcuni racconti crescere a dismisura la
grandezza e la forza, non pajono più sufficienti a trattenere i popoli
rinchiusi, e ad essi aggiungonsi certe trombe fatte costruire dallo
stesso Alessandro Magno con tale artificio che investite dal vento
suonano, e fanno credere a quei di dentro che un'oste numerosa stia
sempre a custodia dei ripari. In nessuno degli scrittori orientali di
cui ho potuto aver conoscenza si trova cenno di questo nuovo ingegno:
solo il rabbino Giuseppe Kimchi, il quale fiorì nel XII secolo, ricorda
nell'inedito suo commentario sopra gli ultimi profeti una immaginazione
affine, dicendo di aver letto in certo libro che sulle mura di ferro
della sua fortezza Alessandro pose certi simulacri di ferro anch'essi,
con grande artificio operati, i quali percotendo senza intermissione
con magli e scuri tenevano in soggezione i rinchiusi[1050]. Il primo,
per quanto io so, che faccia parola di quelle trombe è il già citato
Ricoldo da Montecroce, il quale, narrando dei Tartari rinchiusi, dice
che come alcuno di essi si appressava alla fortezza di Alessandro
Magno, udiva tale un tumulto d'uomini e di cavalli, e tanto clangore
di trombe, che esterrefatto fuggiva, e soggiunge: «Hoc autem erat
artificio venti». I Tartari conobbero finalmente l'inganno e uscirono a
questo modo. Uno di essi, cacciando, inseguiva una lepre. Incalzata dai
cani, questa si rifugiò dentro la fortezza, e il Tartaro, trascinato
dall'ardor della caccia, stava in dubbio se dovesse penetrarvi a sua
volta, quando un gufo si mise a cantare sopra la porta. Allora il
Tartaro disse tra sè: Non può essere abitazione umana là dove la lepre
ripara e il gufo canta. E cercato il luogo, e scoperto l'inganno, tornò
verso i suoi e disse loro che se essi acconsentivano a riconoscerlo
per re, egli li avrebbe liberati. I Tartari uscirono liberamente, e da
allora in poi ebbero in molto onore le lepri e i gufi, e delle penne
del gufo usarono adornarsi il capo. Senza dubbio Ricoldo raccolse
questa favola durante il suo viaggio in Asia, giacchè la prima parte
di essa, quella dove si parla delle trombe, è viva ancora, o almeno era
non molti anni fa, nella Russia meridionale[1051].

Giovanni Villani racconta la storia altrimenti, e non dice nulla
del cacciatore e della lepre. Le trombe che tenevano in soggezione
i Tartari, turate dai gufi che presero a farvi dentro i lor nidi,
cessarono a poco a poco di sonare[1052]. Giovanni Fiorentino trasporta
di pianta nel Pecorone la narrazione di Giovanni Villani[1053], e Fazio
degli Uberti accenna in modo assai stronco, secondo il suo solito,
alla leggenda, tanto che se di questa non s'avesse altrimenti notizia,
non si potrebbe intendere il significato delle sue parole[1054]. A
farmi credere che il primo a divulgare in Europa questa favola delle
trombe sia stato Ricoldo da Montecroce, sta il fatto che gli scrittori
in cui noi la ritroviamo da prima sono italiani, e che solamente più
tardi pare che anche fuori d'Italia se ne sia avuta cognizione. Nella
famosa carta catalana del 1375, pubblicata primamente dal Buchon e dal
Tastu[1055], in uno spazio circoscritto dai Monti Caspii si vedono
le figure di Alessandro Magno e di due Mori che suonano la tromba,
accompagnate dalla scritta: Aquests son de metall, e aquests feu fer
Alexandri, rey gran e poderos. Ai tempi del Mercator pare che più non
si ricordasse l'idea primitiva della finzione, giacchè questo geografo
nota nella sua mappa: _Hic in monte collocati sunt duo tubicines aerei
quos verisimile est Tartari in perpetuam vindicatae libertatis memoriam
eo loci posuisse, qua per summos montes in tutiora loca commigrarunt_.

Ciò che Ricoldo narra della lepre fuggente trova riscontro in parecchi
altri racconti, i quali tuttavia discordano in vario modo dal suo. Il
Mandeville e Giovanni d'Outremeuse dicono che al tempo dell'Anticristo
i rinchiusi usciranno perseguitando una volpe. Notisi a tale proposito
che secondo il racconto di Giorande, gli Unni, nati dal commercio di
certe maghe scitiche o gotiche con ispiriti abitatori dei deserti,
vissero lungamente nella solitudine, sulla costa orientale della Palude
Meotide, finchè un giorno alcuni cacciatori, inseguendo una cerva,
traversarono le paludi e conobbero altre terre e altre genti.

Fatto il Prete Gianni signore di Gog e Magog, e identificati poi
Gog e Magog con i Tartari, bisognava che alla uscita di costoro la
leggenda si acconciasse a far morire il Prete Gianni, o a fare almeno
che gli antichi suoi soggetti trionfassero di lui. Qui abbiamo, a dir
vero, l'incontro di tre leggende, la leggenda cioè di Gog e Magog, la
leggenda del Prete Gianni e la leggenda particolare di Gengiscan, e dal
loro congiungimento vien fuori una specie di appendice, sulla quale mi
soffermerò appena. In molte cronache del medio evo si narra del fabbro
Gengiscan, e del modo da lui tenuto per farsi signore dei Tartari, e
poi delle varie sue imprese, il tutto non senza molte favole, come si
può di leggieri immaginare. Secondo una di tali favole la prima sua
impresa, quella che doveva spianar la strada alle altre, fu di assalire
il Prete Gianni. Se non che circa i casi di questa guerra gli storici,
o per dir meglio i favoleggiatori, van poco d'accordo. Ricoldo da
Montecroce dice che i Tartari si divisero in tre torme, e che l'una
di queste, capitanata da Gengiscan (Camiustan) invase il Catai, dove
fu morto il Prete Gianni[1056]. Guglielmo Rubruquis, il Joinville,
Marco Polo raccontano tutti della vittoria riportata da Gengiscan
sopra il Prete Gianni; ma rientrando per altra via nella storia, Marco
Polo identifica il Prete Gianni con Une Can, mentre il Rubruquis fa
di Une Can un fratello del Prete Gianni. Secondo Giovanni del Pian
dei Carpini, questi non soggiacque, ma respinse anzi l'esercito dei
Tartari, guidato da un figliuolo di Gengiscan, valendosi a tale uopo di
certe statue cave di rame, piene di sostanze infiammabili, espediente
già adoperato da Alessandro Magno contro gli elefanti di Porro. E
bisogna dire che questa fosse la versione più giusta, giacchè due o
tre secoli dopo noi troviamo quel medesimo Prete Gianni (il quale, tra
l'altre meraviglie, aveva anche nelle sue terre d'Asia la fontana di
gioventù) a capo di un vasto e florido reame in Etiopia.

Se la identificazione dei popoli di Gog e Magog e dei Tartari fosse
stata universalmente accettata, la leggenda nostra avrebbe dovuto
perdere gli antichi suoi nessi con le credenze correnti circa la venuta
dell'Anticristo e la fine del mondo. Ma quella identificazione non
fu da tutti accettata, e molti continuarono a credere che dietro ai
ripari costrutti da Alessandro Magno il popolo formidabile descritto da
Ezechiele, il popolo dell'Apocalissi, stesse aspettando l'ora segnata
alla sua incursione. E forse qualche strascico della vecchia tradizione
dura ancora tra i volghi d'Europa.

Veduto come avesse origine e per quali gradi si movesse la leggenda
nostra; come, uscita dalla storia, si rannestasse alla storia, e come
cercasse in varii modi di assestarsi sotto il rispetto etnografico,
resta che noi diamo un rapido sguardo a quello che più particolarmente
si può addimandare il mito geografico, il quale da me nelle pagine che
precedono fu toccato appena. Sarò compendioso, non richiedendosi al
proposito mio una trattazione troppo distesa e minuta.


§ IV.

_Il mito geografico_[1057].

Abbiam veduto che il Magog di Ezechiele doveva corrispondere alla parte
settentrionale ed orientale dell'Armenia, divenuta stanza degli Sciti
dopo la invasione. Nell'Apocalissi, per contro, non è nè designata, nè
sottintesa nessuna regione particolare; le genti di Gog e Magog saranno
congregate dai quattro angoli della terra; e questa senza dubbio
sarebbe poi stata sempre la immaginazione corrente se la leggenda di
Gog e Magog non si fosse scontrata con la leggenda di Alessandro Magno.

Nella nuova leggenda nata da questo congiungimento i popoli di
Gog e Magog occupano una regione reale e assai ben determinata
dell'Asia. Essi sono chiusi nelle gole del Caucaso, o al di là
di questa giogaja di monti, e le Porte Caspie sono l'unico passo
per cui si possa accedere a quella regione, od uscirne, passo
murato e munito da Alessandro Magno. Se l'attribuzion dei ripari
ad Alessandro era in tutto immaginaria, i ripari a cui alludeva la
favola esistevano veramente, ed esistono in parte tuttavia. Il muro
di Alessandro altro non era che il muro di Derbent, chiamato dagli
Orientali Sadd-i-Iskander, costruito, secondo alcuni scrittori, da
Cosroe Anuscirvan, secondo altri costruito gran tempo innanzi, e poi
restaurato da Yezdegerde II e da Anuscirvan[1058]. Parecchi viaggiatori
occidentali parlano della città di Derbent come di città edificata da
Alessandro Magno[1059], e sul luogo stesso questa tradizione è ancor
viva. Certo si è che il muro servì in origine a quello scopo medesimo
per cui più tardi se ne attribuì la costruzione ad Alessandro Magno, la
difesa cioè dell'Asia centrale contro i barbari del Settentrione[1060].

Assai per tempo nella tradizione i Monti Caspii presero il luogo
del Caucaso, sia che allo scambio desse occasione la stessa loro
prossimità, sia che il nome della Porta Caspia traesse più facilmente
con sè quello dei primi che non quel del secondo. Ma alla lunga non era
possibile serbare ai confini stessi della Persia, in regione troppo
frequentata e cognita, la terra inaccessibile di Gog e Magog. In sul
finire del VII secolo gli Arabi invasero l'Armenia e la Georgia, e
traversarono il Caucaso senza nulla trovare di quanto le leggende
narravano, e senza che il famoso muro di Alessandro Magno valesse
a trattenerli. Allora fu pure giuocoforza trasportare questo muro e
le genti che si supponevano da esso rinchiuse, in parte più remota
del mondo; e da prima si trasportarono nell'Ural e nell'Altai, dove
pare che nell'anno 844 andasse a rintracciarli Salam[1061], e poi,
allargandosi a mano a mano la zona delle terre cognite, sempre più
verso Oriente e Settentrione, sino a toccar le spiagge del grande
oceano che si credeva cingere tutta la terra. I geografi arabi ammisero
per la più parte questa trasposizione, confermata poi dalla universale
credenza del medio evo. Il modo proverbiale italiano _in Oga Magoga_
accenna per lo appunto a regioni lontanissime, sconosciute e fuori
d'ogni consorzio umano; ed equivale al _dusqu'au Sec Arbre_ dei
Francesi. Nel IX secolo Alfargani faceva cominciare, a oriente, il
settimo clima dalla regione di Gog, ponendo questa agli ultimi confini
della terra, dove poscia la ponevano anche Edrisi, Ibn-al-Vardi,
Abu-Rihan e gli altri[1062]. Essa era bagnata dall'oceano che tutto
cerchiava la terra, e si stendeva sotto quella misteriosa zona delle
tenebre di cui tanto avevano favoleggiato gli antichi e di cui tanto
ancora si favoleggiò nel medio evo[1063].

Nulladimeno la più antica opinione, la quale poneva oltre il Caucaso,
oppure oltre i Monti Caspii i popoli rinchiusi, non fu smessa
interamente, tanto che in pieno secolo XV Fra Mauro doveva nei seguenti
termini confutarla: «Alguni scrive che ale radice del monte Caspio,
over pocho lontan, sono queli populi i qual, come se leze, sono
seradi per Alexandro Magno. Ma certo questa opinion manifestamente è
erronea, e da non esser sostenuta per algun modo, perchè certo l'è sì
noto la diversità de le nation che habitano circa quel monte, ch'el
non è possibile che tanta numerosità de populi ne fosse ignoti, cum
sit che tute quele parte sono assai domestege per esser frequentade
sì dai nostri come da altre nation, che sono Zorzani, Grezi, Armini,
Cercassi e Tartari, e molte altre generation de populi, i qual fano
continuamente quel camin. Unde se questi populi fosse de li rechiusi
credo che se queli ne avesse notitia ancora seriano a nui noti. Ma
essendo questi tal populi ne la extremità de la terra, come ne son
certissimamente informato, adevien che anchor tutte queste nation
de sopra nominate non ne ha mazor notitia de nui. Perhò concludo
che questi populi siano molto lontani dal monte Caspio, e siano,
come ho dito, ne la extremità de la terra tra griego e tramontana,
e sono circumdati da monti asperimi e dal mar ocean quasi da tre
bande»[1064]. Se non che c'era modo di conservare l'antica opinione
senza urtare negli argomenti di Fra Mauro; bastava a tal uopo prendere
i Monti Caspii, e il mar Caspio per giunta, e trasportarli di pianta
nell'India, o in quella delle regioni dell'Asia dove paresse più
opportuno di porre le genti di Gog e Magog, nè questa era impresa da
spaventare i geografi del medio evo. Gervasio di Tilbury dice senza
ambagi: «In India est mons Caspius, a quo mare Caspium vocatur, inter
quem et mare Gog et Magog, ferocissimae gentes, a Magno Alexandro
inclusae feruntur»; e questa opinione è poi seguitata da molti[1065].
Giova tuttavia fare osservare a tale proposito che all'India, nel medio
evo, non si davano i confini che essa ha nella geografia moderna, e
che la smania di far di Gerusalemme il centro del mondo portava come
conseguenza la trasposizione, e più particolarmente il discostamento
di molte regioni dell'Asia allora conosciuta. Ma secondo un'altra
opinione, più universalmente accetta, i monti Caspii e il mar Caspio si
trasponevano all'estremo limite settentrionale ed orientale dell'Asia.
Allora il mar Caspio non facevasi chiuso, ma aperto e in comunicazione
con l'oceano, conformemente alla credenza dei più degli antichi. Qui
può essere inoltre ricordata la opinione che identificava il muro di
Alessandro Magno con la gran muraglia della Cina, opinione seguita da
parecchi fra gli Orientali[1066], e fra gli Occidentali da Marco Polo e
da qualcun altro.

Sarebbe cosa agevole raccogliere ed esporre qui le varie particolarità
concernenti il paese di Gog e Magog, le quali si trovano nelle carte
del medio evo; ma io credo che al proposito mio alcune poche e sommarie
indicazioni possano bastare. Di solito il paese di Gog e Magog è
rappresentato in forma di penisola, bagnata da tre parti dall'oceano,
chiusa verso terra da una giogaja di monti. Ora esso si trova a oriente
e ora ad occidente del mar Caspio; ma spesso ancora in tutto separato
da questo. Qualche volta la penisola si vede cinta di monti anche
dalla parte del mare[1067]. In alcune carte la penisola è divisa in
due distinte province, l'una abitata da Gog, l'altra da Magog; in altre
la forma di penisola sparisce pur rimanendo molte altre particolarità.
Più raro è il caso che il paese di Gog e Magog sia un'isola[1068]. In
alcune carte, come, per esempio, in quella di Andrea Bianco (1436)
Gog e Magog sono in una penisola non da altro separata dal Paradiso
terrestre che da un golfo di mare. Non so se un tale raccostamento
possa essere stato, almeno in parte, suggerito dall'idea che da quella
plaga della terra dove Satana aveva pervertito Adamo dovessero uscire
gli ultimi campioni di Satana e le milizie dell'Anticristo.



Aggiunte e correzioni al volume I.


CAPITOLO II.

Pag. 70-1. — Tra i libri che si possono far rientrare nella categoria
dei _Mirabilia_, e più particolarmente dei _Mirabilia_ della seconda
maniera, merita una menzione speciale quello tedesco di Nicola Muffel,
cittadino cospicuo e magistrato norimbergese, il quale fu a Roma nel
1452, per la incoronazione di Federico V, e pubblicò, di ritorno in
patria, una descrizione della città da lui visitata (_Nikolaus Muffels
Beschreibung der Stadt Rom herausgegeben von Wilhelm Vogt, Biblioth.
d. litter. Ver._, Stoccarda, 1879). L'opuscolo può fare, per la mole,
tre volte quello dei _Mirabilia_; ma l'autore non attinse nè da questa,
nè da altra scrittura, sibbene _da ottime persone_, come dice egli
stesso, e la intenzione sua nello scriverlo fu principalmente di far
cosa grata ai devoti. La materia è distribuita in tre parti. Nella
prima si enumerano le sette chiese ed altre delle principali, e si
dà la indicazione delle indulgenze che vi si fruiscono. Le chiese di
Roma sommavano anticamente a millecinquecentocinque, come ci fanno
sapere i papi San Silvestro e San Gregorio; ma furono poi la più parte
distrutte. Il Battisterio di San Giovanni in Laterano era in origine,
secondo alcuni, il bagno di Costantino. Accennasi la donazione fatta da
costui alla Chiesa. La descrizione delle basiliche è piuttosto diffusa,
e spesso minuto il ragguaglio delle reliquie che vi si custodiscono.
Per entro alla descrizione parecchie leggende sacre. Nella seconda
parte si dice delle stazioni, argomento che molto stava a cuore ai
pellegrini. Nella terza si parla di altre chiese meno importanti
e di monumenti profani, parecchi dei quali sono designati con nomi
insoliti, o forse travisati, per modo che non sempre s'intende quali
sieno veramente. Le terme sono sempre chiamate cantine, e di quelle
di Diocleziano sono nominati autori Termanus e Dyoclecianus. La
importanza principale l'opuscolo la deriva dalle leggende profane di
cui fa memoria, e che si vede essere state conservate nella tradizione
orale anche quando erano già quasi sparite dagli scritti, e cadute nel
dispregio dei dotti. Per giunta alcune di esse vi appajono sott'altra
forma di quella che hanno nei _Mirabilia_. Del cavallo più comunemente
detto di Costantino narra che fu fatto in onore di un contadino per
nome Settimio Severo, vincitore del re che tra' piedi dello stesso
cavallo vedevasi effigiato (p. 14). Anche nel racconto inserito nella
_Storia di Fioravante_ si parla di un contadino (V. cap. XIII, p.
115-6). La famosa pigna di bronzo dorato fu portata dagli spiriti
maligni da Troja a Costantinopoli, e da Costantinopoli a Roma, dove
servì a chiudere il foro dello cupola del Pantheon, finchè un santo
pontefice non ordinò agli spiriti di trasportarla in Vaticano (p. 19).
Nella chiesa di San Pietro è l'altare su cui celebrando la messa il
papa Gregorio liberò l'anima di Trajano dall'inferno (p. 25). Nella
sfera d'oro che è in cima all'obelisco vaticano sono rinchiuse le
ceneri degl'imperatori Augusto e Tiberio (p. 26-7). Romolo e Remo sono
sepolti nella piramide che è accosto alla porta di San Paolo (piramide
di Cestio; v. cap. III, p. 107-8). Essi fecero costruire il loro
sepolcro a quel modo affinchè non potessero andarvi sopra i cani; ma
alcuni credono che quivi riposi Cajo Cesare, come da una iscrizione
è indicato (p. 28-9, 49). Tra la chiesa di San Pietro e il Ponte
Sant'Angelo sorge il _doner purck_ (castello del tuono, mole adriana).
Lo fece costruire un imperatore a cui era stato predetto che morrebbe
di fulmine. Egli usava ripararvi; ma un giorno essendovisi recato
mentre il cielo era sereno, fu colpito dal fulmine improvvisamente ed
ucciso (p. 29, 49). Anticamente, nel tempio che ora si chiama Maria
Rotonda, erano gl'idoli di tutti i paesi, disposti intorno a Pantheon,
idolo del mare, e a Diana, idolo della caccia. Quando una provincia
si ribellava, l'idolo suo voltava a questa le spalle. Il tempio fu
consacrato in onor della Vergine da San Gregorio (p. 46-7). Visione di
Augusto e leggenda di Ara Coeli. Nella sfera d'oro che è in cima alla
guglie, dinnanzi alla chiesa di Ara Coeli (?), è sepolto Augusto (p.
51-2). Leggenda del sepolcro di Nerone e della chiesa di Santa Maria
del Popolo (p. 53). Anche di un altro supposto sepolcro di Nerone è
fatto ricordo (p. 62). Presso all'arco di Tito, o nell'arco stesso,
è murata la pietra su cui stette la druda dell'imperatore, quando
i Romani dovettero procacciare sulla persona di lei il fuoco di cui
abbisognavano (p. 57). È questa la nota favola di Virgilio e della
figliuola dell'imperatore, la quale qui si trasforma di figliuola in
druda. L'editore, non avendo, come pare, cognizione della favola, cade
qui in uno strano errore, giacchè interpreta il _pull_ del testo per
_ampul, ampulla_, mentre evidentemente non è se non una forma antica
del moderno _Buhle_. L'autore chiama _spiegelpurck_, o castello dello
specchio, il Colosseo, dove dice che si facevano i giuochi, e dove era
uno specchio in cui vedevasi tutto quanto si faceva nel mondo (p. 57).
Qui pare siensi confusi insieme il Colosseo e la così detta _Tor de'
Specchi_, la quale è la _Tour del Miraour_ di certi racconti francesi.
L'autore nomina anche il _Wunderpurck_ (ibid.) senza che si possa
intendere se con quel nome egli voglia, come nelle versioni tedesche
dei _Mirabilia_, indicare il Colosseo, oppure alcun altro monumento
cospicuo.


CAPITOLO III.

Pag. 86-9. — Un opuscolo del dott. Carlo Giambelli (_Sulle
falsificazioni Anniane, breve saggio critico_, Torino e Pinerolo, 1882)
mi fece accorto di cosa che m'era sfuggita, e cioè che il Giambullari
attinge quanto viene narrando di Noè dal trattatello dello Pseudo
Beroso, _De his quae praecesserunt inundationem terrarum_, inserito
da Annio da Viterbo nelle sue _Antiquitates variae_. Intorno ad Annio
da Viterbo e alle sue presunte scoperte di antiche scritture s'è
molto discusso, e chi pensò che facitore di questo fosse egli stesso,
e chi lo accusò solo di avere scambiate per autentiche scritture
manifestamente apocrife. Checchè sia di ciò, certo è che la favola
della venuta di Noè in Italia non fu inventata da lui, giacchè essa si
trova un gran pezzo innanzi nella _Graphia_. Se poi l'Hescodius citato
da questo sia tutt'uno con quel falso Beroso non si può nè affermare nè
negare.

Pag. 93-100. — Nell'anonimo frammento del poema francese di _Brut_
pubblicato da C. Hofmann e C. Vollmöller, la storia di Romolo e Remo è
narrata in modo assai romanzesco (_Der Münchener Brut_, Halle a. S.,
1877, v. 3817 e segg.). Proca ebbe due figliuoli, Amulio e Numitore.
Venuto a morte, egli vuole che l'uno dei figliuoli abbia il regno,
l'altro le ricchezze. Amulio rimette in Numitore la scelta, e questi
avendo anteposte le ricchezze al regno, quegli si riman re. Ma il buon
accordo non dura a lungo. Sospettando voglia spogliarlo della signoria,
Amulio sbandisce il fratello, e i due figliuoli di lui Sergesto e
Silvia tiene presso di sè con animo di disfarsene, giacchè un indovino
gli aveva annunziato che da discendenti di Numitore gli sarebbero tolti
il regno e la vita. In fatti, dopo non molto, Amulio uccide Sergesto
a tradimento in un bosco, e Silvia costringe a farsi sacerdotessa di
Vesta. Un giorno, essendo andata ad attingere acqua pei bisogni del
tempio. Silvia si addormenta presso alla fonte, e nel sonno ha una
meravigliosa visione, oscuro presagio della futura grandezza di chi
deve nascere da lei. Giunge in quella un cavaliere, il più valoroso
nell'armi che vivesse a quel tempo, chiamato Marte, figliuolo di Giove.
Costui, colta la donzella nel sonno, la stupra e la rende incinta. In
capo di nove mesi nascono Romolo e Remo; ma Amulio ordina che sieno
gettati nel Tevere e la madre fa sotterrare viva. Acca Larenzia, pe'
suoi costumi detta lupa, nutrisce ed alleva i gemelli, i quali, fatti
grandi, e venuti in nominanza, uccidono Amulio e fondano la città di
Roma, popolata principalmente di ladroni. A tal punto s'interrompe
il racconto e il poema. La storia di Romolo e Remo si narra anche
nell'olandese _Leken Spiegel_ (l. I, c. 42-3; _Werken uitgegeven door
de Vereeniging ter bevordering der oude nederlandsche Letterkunde_,
Leida, 1844-8). I due gemelli sono salvati dalla lupa, poi allevati
da Acca Larenzia. Romolo fondò Roma dopo la morte di Remo (non si dice
come questi morisse), in un luogo ove sorgevano già undici città. Roma
ebbe molte porte e il suo muro girava quarantadue miglia. Fu popolata
di tutta la nobiltà d'Italia. Sia qui notato che la leggenda di Romolo
e Remo ne suscitò qualcuna simile a sè nel medio evo. L'eroe di un
poema romanzesco francese, Guglielmo di Palermo, fu, da bambino, rubato
da un lupo manaro (_loup-garou_) e portato in una foresta vicino a
Roma, dove gli preparò un lettuccio nella sua tana, e per più giorni
lo nutrì, finchè un pastore, avendolo trovato, lo portò a sua moglie,
che lo allevò. Non manca uno zio, il quale, prima del caso desiderava
la morte del bambino (_Guillaume de Palerne_, pubblicato dal Michelant
per la _Société des anciens textes français_, Parigi, 1876, v. 51-260,
342-61).

Pag. 104. — A proposito del parricidio, che macchia le origini di Roma,
e di altre uccisioni che poscia infamarono la città, si legge nella
_Bible de Guiot de Provins_ (v. 743-56, ap. BARBAZAN e MÉON, _Fabliaux_
etc.):

    Des Romains n'est-il pas merveille
    S'il sont fox et malicieux,
    La terre le doit et li lieux:
    Cil qui primes i assemblerent
    La felonie i aporterent.
    Romulus son frere i ociet,
    Qui trop grant crualté i fist;
    Et Julius Cesar i fu
    Murtri, ice est bien séu.
    Qui tot le mont avoit conquis:
    Nus ne fu onques de son pris;
    Et Neirons i ocist sa mere,
    Et puis Seint Pol, enprès Saint Pere;
    Et Saint Lorenz i fu rostiz.


CAPITOLO IV.

Pag. 111-3. — Sulle meraviglie del mondo nel medio evo scrisse testè H.
Omont, nella _Bibliothèque de l'École des Chartes_, v. XLIII, 1882, p.
40-59. L'autore ripubblica corretto il trattatello attribuito a Beda,
ed altri sei, quattro latini o due greci, tutti riguardanti le sette
meraviglie.

Pag, 133. — Il Pantheon fu anche da taluno creduto un bagno. V.
VINCENZO BONGHINI, _Dell'origine di Firenze_, in _Discorsi varii_, ed.
dei classici italiani, v. I, p. 453-4, n.

Pag. 136. — Tra gli edifizii maggiori di Roma io dimenticai di
ricordare il Settesoglio, del quale, come degli altri, si narrarono
meraviglie. Questo monumento ero il Settizonio, già ricordato da
Sparziano nella Vita di Settimio Severo; ma il nome di Septizonium
già nell'antichità si corruppe in Septizodium, Septidonium. Più tardi
si ebbe Septemsolium, Septem Solia, Septisolium. Septa Solis, Sedes
Solis, Septem Viae. Quest'ultima forma si trova già nell'Anonimo
Einsiedlense. Nel secolo XVI si trovano anche i nomi di Schola
Septem Sapientium, di Scuola di Virgilio e di Sette Isole (V. JORDAN,
_Topographie der Stadt Rom im Alterthum_, v. II, p. 511-2). I nomi di
Schola Septem Sapientium e di Scuola di Virgilio si debbono, parmi,
alla tentata connessione della storia del Dolopathos con uno dei più
cospicui monumenti della città. Nella _Descriptio plenaria_ si dice:
«Septizonium fuit templum Solis et Lunae, ante quod fuit templum
Fortunae». Nella _Graphia_: «Arcus stillans post Septa Solis»; ma più
oltre; «Septisolium fuit templum Solis et Lunae». In alcune recensioni
più moderne dei _Mirabilia_ si legge: «Septisolium quod VII ordinibus
columnarum subnixum fuit templum Solis et Lunae, mirae pulcritudinis
et altitudinis. Habebat ordines columpnarum unum super alium, unde
Ovidius: regia solis erat sublimibus alta columnis» (V. ULRICHS,
_Codex topographicus_, p. 136). L'Anonimo Magliabechiano dice: «Ad
septem solia fuit templum omnium septem scientiarum, et posito quod
aliqui velint dicere templum Solis fuisse, vel domum Severi Afri: sed
derivatio sua est septem artium scilicet septem omnium scientiarum:
et sic creditur et dicitur et affirmatur per diaconum Aquilegiensem».
Il Petrarca scriveva in una epistola a Giovanni Colonna: «Severi
Aphri Septizonium, quam tu sedem Solis vocas, sed meum nomen in
historiis scriptum lego». Si distinse anche un Septemsolium major da
un Septemsolium minor. Ma la finzione più curiosa circa le origini
e le meraviglie del Settesoglio trovansi nel _Libro Imperiale_,
dove, narrata la venuta di Selvaggio e di Lucida in Roma, si passa
a dire come Lucida comperò i terreni e le case che erano tra il
Palazzo maggiore e il Colosseo, e quelle disfatte, fece costruire uno
_hedifizio di maraviglioso lavoro..... lo quale divenne bellissimo et
alto, et fu chiamato Septemsolia et dipoi el tempio del Sole et della
Luna_. Il libro descrive prima, come abbiam veduto a suo luogo, il
Palazzo maggiore e il Colosseo, poi passa a descrivere nel seguente
modo il Settesoglio (lib. IV, Cod. della Nazionale di Firenze, II, IV,
281, f. 52 v.). «_Come fu fatto Septemsolia_. Lo palazzo di Lucida et
di Selvaggio fu hedifichato fra questi confini, et era in questa forma.
La faccia dinanzi fu quaranta braccia largha, nel mezzo della quale
era una porta di metallo di maravigliosa grandezza. Le mura erano due,
l'uno inanzi all'altro et l'uno di lungi dall'altro diece braccia.
Lo muro di fuori fu alto venti braccia, et lo secondo fu alto cento.
Sopra lo muro di fuora fu fatto uno ordine di alte et belle colonne,
sopra delle quali erano fermate volte et habitazioni trasportate in
fuori, le quali volte si fermavano al maggiore muro drento, et così
andavano queste colonne di grado in grado fino in sette ordini, et però
si chiamò Septemsolia, cioè sette habitazioni. Drento del secondo muro
erano belle et magnifiche habitazioni, gli usci delle quali rispondeano
fralle dette colonne». L'edifizio fu condotto a termine in un anno,
tanto sollecitamente vi fece Lucida lavorare d'attorno. Più oltre si
narra della venuta in Roma di certo Tabilio, messo di Archelao, padre
di Lucida. Prima di tornarsene in Tarsia, ond'è venuto, Tabilio visita
i monumenti di Roma, «il quale, vedendo sì bello et sì ornato palazzo,
molto si maravigliava come in sì poco tempo Lucida aveva fatto tanto
lavorare. Poi andò righuardando il Coliseo e Palazzo maggiore, e il
Tempio della Pace, et raghuardati tutti li hedifizi di Roma dicie: Per
certo tutto l'altro mondo non è niente a rispetto di Roma». In un altro
capitolo, dopo narrato come Archelao e Numedia, genitori di Lucida,
venissero ancora essi in Roma per assistere alle rinnovate nozze di
costei con Selvaggio (Maximo), scopertosi figliuolo dell'imperatore
Ellio, si dice in qual modo Septemsolia diventasse il tempio del Sole
e della Luna (f. 63 r.). «_Come fu edificato il tempio del Sole et
della Luna_. Passato l'anno, Archelao et Numedia si voglono partire;
ma prima che partano fanno alli dii solenne sacrificio, poi domandano
allo imperadore di grazia che a memoria di tale ystoria si debbi fare
uno venerabile tempio, di che Ellio fu contento assai, et di ciò si
rimette in Maximo et Lucida, li quali ferono fare tempio di quella loro
habitazione di Septemsolia. Fornito lo tempio, si levò quello filosofo
d'Asia, il quale, quando vidde insieme Maximo ed Lucida in Tarsia,
disse che aveva veduto il sole et la luna, et però disse: Signori, in
rimembranza di sì belli donzelli abbi nome questo tempio Tempio del
Sole et della Luna, et così fu fatto, imperò che fino durò l'idolatria
sempre si adorò il Sole et la Luna».

Pag. 147. — Anche l'Arciprete di Hita dice che Virgilio lastricò il
Tevere di rame. St. 256:

        Todo el suelo del rio do la cibdad de Roma
    Tiberio agua cabdal que muchas aguas toma,
    Fisole suelo de cobro, reluse mas que goma.

Pag. 148. — Abulfeda dice che la chiesa di San Pietro è lunga seicento
cubiti e larga altrettanto, e si diffonde a parlare della magnificenza
di essa. _Géographie_, traduzione di M. Reinaud, Parigi, 1848, t. II,
parte 1ª, p. 280-1. Egli cita Edrisi, ma nel trattato di costui non si
trova riscontro alle sue parole.

Pag. 149. — La favola degli stornelli apportatori di ulivi non fu
solamente connessa con Roma. Racconta il Mandeville nella Relazione
de' suoi viaggi che l'olio ond'erano alimentate le lampade nella chiesa
di Santa Caterina in Alessandria, si faceva con olive recate una volta
l'anno dai corvi, dalle cornacchie, dagli stornelli e da altri uccelli.


CAPITOLO V.

Pag. 152. — Guillaume de Lorris dice nel _Roman de la Rose_, parlando
di una gemma che preserva da qualsiasi veleno, v. 81-2:

    Ele vausist a un prodomme
    Miex que trestous li ors de Romme.

Non solamente Roma si ebbe in concetto di ricchissima, com'era più
naturale, ma ancora tutta la Romania, in quanto ai stimava partecipe
delle sorti di Roma.

    Car ne vausissent point pour l'or de Romenie
    Perdre le demoisel qui tant ot baronnie,

si legge nel _Bastars de Buillon_, ed. di A. Scheler, Bruxelles, 1877,
v. 3483-4.

Pag. 155. — Calendre narra nella sua Cronaca degli imperatori come
l'opulenza di Roma crescesse a dismisura dopo il ritorno di Augusto e
de' suoi dall'Egitto (_Romanische Studien_, v. III, p. 114).

    Molt aportent argent et or,
    N'i a si povre n'ait tresor
    D'or et de pierres precieuses,
    De dras a oevres gracieuses,
    Et si vos di que mainte genz
    Les faisoient plus bien vaignenz
    Por le lor dont ont convoitie
    Qu'il ne firent por amistie.
    Or est Rome molt anrichie,
    Mes onques ne fu estanchie
    D'avarice de covoitie.
    Lors i ot an a la mitie
    Mellor marchie qu'un n'et devant;
    Ce voit an avenir sevant,
    Li vilanis dit a sa rescosse:
    Bons marchiez tret argent de borsse.
    Molt fu Rome planteureuse
    Et de viandes abondeuse,
    De totes pars li biens acort,
    N'i a celui ne tiegne cort,
    Tant avoient richesce et bien.

Qui sarebbe da dire qualche cosa delle feste, dei giuochi e delle
pompe romane, della cui magnificenza si trova fatto ricordo abbastanza
frequente, ma che s'immaginano in tutto simili alle feste, ai giuochi,
alle pompe del medio evo. Valga come esempio il seguente racconto
del _Libro Imperiale_, dove si descrivono le feste con cui furono
solennizzate dai Romani le nuove nozze di Selvaggio e di Lucida (cod.
cit., f. 62 r. e v.). «_Della gran festa fatta per li Romani_. Quando
la novella fu sparsa per lo paese et per le provincie li baroni da
presso et da lungha venivano a Roma per fare festa. Et li Romani tutti
in comune fecero loro brighate, et fecero coprire tutte le piazze et
le mastre strade a seta, et beato parea colui il quale poteva magior
spese fare. Quivi si vedevano infiniti balli di giovani et di donne
in diversi modi danzare. Vedeansi li giovani Romani et altre brighate
rompere loro aste et gittare bandiere di diversi colori. Li baroni
facevano loro giostre a due insieme, a quattro et a dieci. Quivi
facevano giuchi con charri, li quali erano coperti a seta, armati di
molte bandiere, et l'uno contro voltando le ruote verso l'altro, et
così spezzavano l'uno contro l'altro l'aste, et li huomini che erano
drento in quello muovere gittavano fuori infinite bandiere. Apresso
feciono in più luoghi bellissime fonti et condotti che gittavano in
aria buono et perfetto vino. Poi facevano correre diversi pali. Apresso
di rami coprivano le piazze come selve, mettendovi d'ogni generazione
cacciagione, cioè cinghiali, cervi, lepri, et altre selvagge fiere,
come sono orsi, leopardi, scimie et pantere, et d'intorno andavano
levrieri traendo le fiere delle selve, et li huomini andavano d'attorno
con l'arme facendo grandissime grida. Li baroni, li chavalieri et
le donne stavano alli balconi per righuardare queste cose. Quivi si
provavano li valenti giovani nelle giostre, perchè combattevano per
amore, andando per Roma a uno, a due, a cinque, a dieci, a venti,
siccome ferono poi li cavalieri erranti di loro arte, li quali dalle
legende di questa storia presero forma. Altro giuocho era di elefanti
con torri, nelle quali stavano huomini contrafatti che andavano
baciando donzelle. Questi andavano per la terra, et tutti faccendo loro
feste. Et molti altri giuchi vi furono, li quali saria impossibile a
rachontare. Vedeansi le donne et li giovani danzare con tale allegrezza
che parea il paradiso aperto fosse; ma sopra tutti andava Lucida
danzando, ora nel modo grecho, ora nello ebraicho, ora nel modo latino,
perchè in tutti i modi era bene experta, et veramente pareva uno
sole, però che niente celava sua beltade. Vestiva di diversi colori di
porpore, che se n'era fornita a Vinegia, et la madre n'aveva portati.
Assai lungho saria a racontare la festa, che saria incredibile, la
quale durò sei mesi, cominciando il mese di maggio». Feste e giuochi
simili facevansi in Roma in occasione dei trionfi, secondo è detto nel
_Dittamondo_, l. II, c. 3, e veramente usavano in tutta Italia nel XIV
secolo. Più particolarmente famose erano le feste del Monte Testaccio
in Roma e le feste del Mese di Maggio in Firenze (V. MANZI, _Discorso
sopra gli spettacoli, le feste e il lusso degli Italiani nel secolo
XIV_, Roma, 1818).

Pag. 160, n. 16. — Di un Monte Barbaro, nella cavità del quale Virgilio
trovò il libro di negromanzia di Chironte, parla Bartolomeo Caracciolo
nel c. XXXII delle suo _Chroniche de la inclita cità de Napole_.

Pag. 171. — Anche l'arco di Trajano in Benevento ebbe nome Porta Aurea.

Pag. 173. — Della opulenza di Augusto parecchi altri fanno ricordo.
Descrivendo la tenda di Morgana, Maria di Francia dice nel _Lai de
Lanval_, v. 81-6:

    La Reïne Sémiramis
    Quant ele eut unques plus avoir
    Et plus poisçance et plus savoir;
    No l'Emperère Octévian
    N'esligascent le destre pan.

È noto che un imperatore Ottaviano di Roma comparisce nel poema e
nel romanzo in prosa di _Florent et Othovien_, di cui sono versioni
in parecchie lingue. Quest'Ottaviano nulla ha che fare con l'antico;
tuttavia pare che derivi da questo la grande riputazione di ricchezza.
Nel poema di _Charles le Chauve_, che inedito si conserva nella
Bibliothèque Nationale di Parigi, dicesi di lui:

    ... puis fu empereur d'un nobile roion,
    Li plus riche d'avoir qui fu en Pré-Noiron.
    L'avoir Otavien nombrer ne séist-on,
    De cel Otavien que riche clamoit-on
    Etc.

_Hist. litt. d. l. Fr._, t. XXVI, p. 123.


CAPITOLO VI.

Pag. 193-4, n. 16. — Il poema di Guglielmo le Clerc, _Les joies Nostre
Dame_, fu pubblicato per intero nel v. III della _Zeitschrift für
romanische Philologie_.

Pag. 198. — Prima di Filippo Mouskes parla della statua di Maometto
l'autore dei primi cinque capitoli della così detta Cronaca di Turpino,
c. IV.

Pag. 209, n. 48. — V. anche intorno agli specchi magici WARTON, _Hist.
of the engl. poet_., ed. dell'Hazlitt, v. II, p. 343-5, e Du Méril,
Mélanges archéologiques et littéraires, p. 470-1.

Pag. 213. — Nel secolo XIII c'era ancora chi lamentava la distruzione
della _Salvatio_. Il trovero tedesco Sigeher dice che se l'impero
avesse avuto ancora le sue statue il mondo non sarebbe stato allora a
così mal partito:

    swelch vürste dem riche solte wesen dienerschaft,
    des vilde mueste liuten
    san, als der dem riche valschez herze truok.
    het' Roemesch riche der bilde noch genuok,
    der wart der werlde nie so not, so hiuten.

VON DER HAGEN, _Minnesinger_, v. II, p. 362, col. 1ª.


CAPITOLO VIII.

Pag. 248, n. 1. — Brunetto Latini dice nel _Tesoretto_:

    Giulio Cesare maggiore,
        Lo primo Imperadore,
    Già non campò da morte.

Anche il Boccaccio ebbe Giulio Cesare in conto di primo imperatore.
Nell'_Amorosa Visione_ si legge:

    Vedevavisi appresso quanto e quale
        Già fosse stato Cesare tenendo
        In prima in Roma offizio imperiale.

Pag. 251. — Delle lodi di Giulio Cesare si potrebbero empiere molte
pagine. Wace dice nel _Roman de Brut_, v. 3909-18:

    Julius Cesar li vaillans,
    Li fors, li pros, li conquerans,
    Qui tant fist et tant faire pot,
    Que tout le monde conquist et ot;
    Onques nus hom, puis ne avant,
    Que nous saçon, ne conquist tant.
    César fu de Rome emperere,
    Sages et pros et bon donère;
    Pris ot de grant cavalerie
    Et letrés fu, de gran clergie.

Nè minore encomio ne fa Heinrich von Weldeke nella sua _Eneide_, v.
13183-93:

        Von dem kunne Rômuli
    und von Ascânjô Jûif
    wart ein hêre geboren
    an allen tugenden ûs erkoren
    under allen sînen mâgen,
    die doch grôser êren phlàgen,
    das was Jûljûs Cêsàr.
    daz mach man sagen vor wâr,
    daz er der werlde vil betwank.
    ez wàre ze sagene al ze lank,
    was er wunders worbte.

Pag. 255. — Il titolo di _Flos mundi_ è quivi erroneamente attribuito
alla cronaca catalana, secondo avverte il Suchier in un luogo del primo
volume dei suoi _Denkmäler provenzalischer Literatur und Sprache_, ma
io credo che l'error mio sia stato provocato da un errore del catalogo.
Essa cronaca è in sostanza tutt'uno con quella pubblicata dall'Amer
sotto il titolo _Compendi historial de la Biblia_, Barcellona, 1873. Il
racconto romanzesco della nascita di Giulio Cesare si trova, oltrechè
in questa, al c. 83, anche in una Bibbia guascona (o piuttosto una
storia fatta sulla Bibbia?) contenuta nel cod. A, f, 4 della Biblioteca
di Ginevra. A proposito del nome di Cesare leggesi nel _Fiore di
filosofi_ (testo del Cappelli, p. 22-3): «Julio Cesare fu tagliato di
corpo alla madre, e perciò fue chiamato Cesare. E dicen uno filosofo
che quegli che nascono in quel modo sono più avventurati che l'altra
gente». Nelle _Novelle antiche_ del Biagi (LXXXIII, p. 36) la favola è
trasportata, certamente per isbaglio, a Scipione l'Africano.

Pag. 257. — La letteratura popolare olandese possiede un curioso
libretto, intitolato _De schoone historie van Julius Caesar en de
Romeynen_, del quale non sarà qui fuor di luogo il dare un cenno. Ne
parla il Mone (_Uebersicht der niederländischen Volks-Literatur älterer
Zeit_, p. 85-6) che ne dà per disteso il lunghissimo titolo. Egli non
ne registra che una sola edizione, che è quella stessa posseduta da
me (Tot Gend, by J. Begyn, s. a., in-8º, 80 pagg. a 2 col., in parte
got., fig.), ma altre ce ne furono certamente, giacchè questa reca nel
frontispizio: Van nieuws overzien en op vele plaetsen verbeterd. Fa da
prefazione una breve Vita di Giulio Cesare, storica nella sostanza,
e nella quale si dice che la susseguente narrazione è tratta, anzi
tutto dai libri dello stesso Cesare, poi ancora da vecchie scritture
conservate in chiostri e collegi. In una noterella è riportata la
favola dell'estrazione dal ventre materno: «Julius _was gesneden
uyt zyns Moeders Lichaem naer haere dood, en daerom is hy_ Caesus
_genaemt, dat is Gesneden, maer maermals noemde men hem_ Caesar, _en
naer hem zyn alle Keyzers_ Caesars _genaemt_». Il racconto comincia
con la spedizione di Cesare nelle Gallie, e più particolarmente nella
Gallia Belgica, così denominata dalla città di Belgis, fondata da Bavo,
fratello di Priamo. Si narrano per disteso le guerre ivi combattute.
Prendono parte all'azione un Ursarius e un Andromadas, re entrambi
dei Belgi, ed altri personaggi favolosi. Segue la spedizione di
Giulio Cesare in Bretagna, poi si narrano le altre imprese compiute
in Gallia, il ritorno in Roma, la morte. Si aggiunge un compendio
della storia posteriore, più particolarmente del Belgio, e un cenno
circa la diffusione della fede in questa provincia. Chiude il racconto
una notizia delle città belgiche principali. Qui a piè di pagina è
un'avvertenza che dice doversi il libro usare per l'insegnamento nelle
scuole: «Deze Historie van JULIUS CAESAR zal tot onderwys der Jongheyd
mogen herdrukt en in de Schoolen geleert worden. F. J. MALFROID.
_Kanonik der Kathedrale Kerke van S. Baefs, Boekkeurd_.». Da ultimo è
una breve descrizione dei Paesi Bassi e dei costumi dei loro abitanti.
Altre storie e leggende nazionali potrebbero essere ricordate.
Vincenzo, vescovo di Cracovia (m. nel 1223) racconta nella Cronaca
(ap. BIELOWSKY, _Monumenta Poloniae_, t. II) che il figlio del secondo
Lescek vinse Giulio Cesare in tre battaglie. Questi diede al vincitore
la propria sorella Giulia in isposa, la quale edificò due città, Julius
e Julia. Da tali nozze nacque un figliuolo che ebbe nome Pompilio.
Giulia fu poi ripudiata, ma Pompilio succedette al padre nel dominio.

Pag. 265-6. — Parlando della città di Astronomia, Onorio Augustodunense
dice nel suo trattato _De animae exilio et patria_: «In hac Julius
computum explicat, per quem annos saeculi per seriem Regum enumerat»
(ap. PEZ, _Thes. anecd. noviss._, t. II, parte 1ª, col. 231). In un
poema francese del computo, opera di un Ra[u]f de Linhom, conservato in
un manoscritto di Glasgov, si dice del mese di Febbrajo:

    Ore fet ben a demander
    Pur quai l'em fist amenusier
    Plus fevrer que un autre mois;
    Pur la noblie de deus rois
    La reson vous [en] voil mustrer:
    Car chescun an, en fevrier
    Li Bugres et li mescreans
    Ové leur femmes, of (sic) leur enfans
    A Belzebub e à Pluton
    Fesoi[e]nt sacrifice et doun;
    Et pur le fet que firent cil
    Fust fevrer tenu plus vil
    Et de jours amenuser (sic)
    Car trop i avoit le maufee.

Vi si dà anche l'etimologia del nome delle calende:

    Jadis solai[e]nt la gent
    De Romme [tot] communement
    En chescun mois le jour premier
    Partot gran feste celebrer,
    Et chescun autre escrivoit
    Ke acun (_sic_) don que à lui fesoit
    Ke bon eür Deu lur donast
    Tant com cel mois durast;
    Et cel jour, pour si grant bounté,
    Jour de Kalendes fust nomé,
    Car ceo mot en gru _kalon_
    En romauntz est à dire bon.

(PAUL MEYER, _Deuxième rapport sur une mission littéraire en Angleterre
et en Écosse, Archives des missions scientifiques et littéraires_, 2ª
serie, v. IV, p. 161-2). — Il medio evo conosceva commentarii _De bello
gallico_ e _De bello civili_; ma molti ignoravano che fossero quegli
stessi composti da Giulio Cesare, e li attribuivano a Giulio Celso,
che in luogo di Giulio Cesare si trova spesso citato (v. HORTIS, _Studj
sulle opere latine del Boccaccio_, p. 413-4).

Pag. 271. — Oltre a Siviglia, Giulio Cesare avrebbe fondato in Ispagna
le città di Toledo, Segovia e Saragozza (V. la citata Cronaca catalana
pubblicata dall'Amer, c. 83). Il Wesemann, in uno scritto intitolato
_Caesarfabeln des Mittelalters_, Löwenberg in Islesia, 1879 (Progr.),
distribuisce le leggende nate in Germania intorno a Giulio Cesare
in tre classi; la prima, riguardante le città di cui Giulio Cesare è
supposto fondatore; la seconda, riguardante gli ordinamenti introdotti
da lui; la terza, riguardante pretese discendenze da commilitoni suoi.
Egli parla più particolarmente (p. 727) delle leggende della prima
classe; le città principali che si dissero fondate da Giulio Cesare
sono Jülich, Merseburg, Lebusa, Magdeburg, Jülin, Wolgast, Deutz,
Lüneburg, Harzburg.

Pag. 278. — Alle altre strane favole intorno alla uccisione di Giulio
Cesare può essere aggiunta anche la seguente. In un luogo della
_Chanson de Roland_ del cod. Marciano CIV, 7, 4 (f. 78 v.) la morte
di Cesare è da Carlo Magno imputata agli antenati di Gano, tutti
traditori:

    Ses antesur firent ingresme fellune,
    E fellunie tutor ave in costume.
    In Capitoille de Rome ço 'n fe une:
    Iullio Çesar onçient il per ordre;
    Puis ont il malvas sepolture,
    Chi in fogo ardent et angosas mis fure.

Pag. 295. — Abulfeda ricorda l'obelisco vaticano, ma non dice che
servisse di sepoltura a Cesare. Ecco le sue parole, nella versione
citata (t. II, parte 1ª, p. 281): «Hors de l'église (_de St. Pierre_),
à un des coins, il y a une grande colonne placée sur quatre assises
de bronze; ces assises sont carrées et chacime de leurs faces a douze
condées. La colonne diminue en s'élevant; au sommet est une autre
colonne de bronze, surmontée d'une colonne d'or d'environ une brasse
de diamètre, et qui lance des éclairs et des rayons de lumière. On
aperçoit la boule à douze milles de distance, et elle indique la place
de l'église».

Pag. 296. — Alano de Insulis dice nel _Liber Parabularum_, c. I:

    Omnia Caesar erat, sed gloria Caesaris esse
    Deslit, et tumulus vix erat octo pedum.

Pag. 298-9. — Alla storiella narrata da Giovanni Fordun trovo un
riscontro nel _Roman de Brut_ di Wace, dove è detto (v. 4289-310) che
Giulio Cesare fece costruire sulla costa di Francia una torre, e vi
raccolse i suoi tesori, e vi albergò per più sicurezza.

Pag. 300. — Di Cesario, figliuolo di Giulio Cesare e di Cleopatra,
narrano DIONE CASSIO, _Hist. rom._, XLVII, 31, e PLUTARCO, _Caes._, 49.


CAPITOLO IX.

Pag. 321. — Alla leggenda dell'altare eretto da Augusto al primogenito
di Dio può far riscontro quanto un'altra leggenda racconta di Dionigi,
detto poscia Areopagita, il quale, mosso da un interno avvertimento,
eresse un altare _Deo ignoto_, e fu più tardi convertito da San Paolo.
Tale leggenda narrasi già negli Atti degli Apostoli. V. gli _Acta
Sanctorum_, t. IV di Ottobre, p. 696-855.

Pag. 325. — Oltre il Tempio della Pace, Guillaume le Clerc ricorda un
altro edifizio sontuoso che diede segno della nascita del Redentore
(_Les joies Nostre Dame_, v. 155-66, 472-8):

    Un mult riche paleis volsu,
    Le greignor, qu'unkes veist home,
    Aveit en la cité de Rome.
    Cil qui le fist fu bon mestre.
    Plus i aveit de mil fenestres,
    Veire, si jeo l'osoe dire,
    Mien escient plus de dous mire;
    Tutes de quivre e de metal,
    Chescun en son dreit fenestral.
    Overtes estaient le jur
    E closes en la tenebrur.
    . . . . . . . . . . . .
    E les fenestres del pales,
    Qui al vespre fermees furent,
    Contre la mie nuit s'esmurent,
    Lur barres a force rumpirent;
    Tel noise e tel bateiz firent,
    Que de la pour s'enfueient
    Tut cil qui la tumulte oeient.

Forse quest'edifizio con più di duemila finestre è il Colosseo. Ad
ogni modo il prodigio qui ricordato appartiene alla leggenda di Giulio
Cesare.

Pag. 326, n. 55. — Thelesin annunzia la venuta di Cristo anche nel
_Roman de Brut_ di Wace, v. 4972-89.


CAPITOLO X.

Pag. 338. — Il Galvani parla abbastanza a lungo della leggenda della
rana in una lezione _Sopra un luogo del Dittamondo di Fazio degli
Uberti, Lezioni accademiche_, Modena, 1839-40, v. II, p. 109-26.
Toccato di alcuni luoghi di storici antichi che possono aver dato
la prima idea della favola, egli riporta un passo di Aldrovando (_De
quadrup. Digit. Ovip._, l. I) dove si dice della possibilità che rospi
si generino nel corpo dell'uomo, e reca testimonianze d'altri scrittori
in proposito; poscia cita la cronica di Amaretto Monelli, dove la
leggenda è ricordata, e riporta un sonetto sino allora inedito di Cino
da Pistoja (?) il quale comincia:

    Come li Saggi di Neron crudele
        Ingravidare il fero d'una rana.

Ricorda inoltre che della favola è fatto pur cenno nell'_Anatomia sopra
la Zucca del Doni_, preposta alla edizione che di questa si fece in
Venezia nel 1592, e opera di Jeronimo Gioannini Capugnano. I documenti
più antichi, dove la leggenda trovasi primamente narrata o accennata,
gli rimasero ignoti.

Pag. 349. — Nerone comparisce anche in un altro mistero francese: _Le
Mystère de Monseigneur Saint-Pierre et Saint-Paul, contenant plusieurs
autres vies, martires et conversions de Saints, comme de Saint-Étienne,
Saint-Clément, Saint-Lin, Clete, avec plusieurs grands Miracles faits
par l'intercession des dits Saints, et la Mort de Simon Magus avec la
perverse vie et mauvaise fin de l'Empéreur Néron, comment il fit mourir
sa mère, et comment il mourit piteusement_.

Pag. 352. — Nel _Dialogus creaturarum_, 87, si legge: «Avari in inferno
bibunt aurum liquefactum. Unde refert quidam philosophus, quod Nero
imperator visus est in auro liquefacto se apud inferos balneare, et cum
vidisset cuneum advocatorum, dixit iis: venite, venale genus hominum,
et mecum hic balneamini, quia vobis partem optimam reservavi».

Pag. 356. — Filippo di Thaun pare che alluda a Nerone diavolo, anzi
padre dei diavoli, quando dice nel _Bestiaire_:

    La nuit unt poesté de traveiler malfé,
    Ke il sunt fiz Noirun, que nus nier apelum.

Non di rado nei poemi francesi i Saraceni sono chiamati _la geste
Noiron_, a quel modo che sono anche detti _la geste Mahon_.

Pag. 358. — Se per l'Anticristo dell'Apocalissi debba intendersi
Nerone fu molto disputato in questi ultimi tempi; ma l'opinione di
coloro che lo affermano sembra essere la più fondata. Scopertamente
quale Anticristo apparisce Nerone nell'_Ascensio Isaiae_, nel _Carmen
apologeticum_ di Commodiano, e nel commento che fece dell'Apocalissi
Vittorio di Pittavio. Lattanzio (_De mortibus persecutorum_, II) dice
che, secondo la insensata credenza di alcuni, Nerone doveva precedere
l'Anticristo. V. inoltre SULPIZIO SEVERO, _Dialogus de virtute
S. Martini_, l. II, _Historia sacra_, III, 30; SAN GEROLAMO, _In
Danielem_, XI, 30; SANT'AGOSTINO, _De civitate Dei_, XX, 19. Nel secolo
XIV, Giovanni di Parigi, domenicano, sente ancora il bisogno di negare
che l'Anticristo possa essere Nerone.



Aggiunte e correzioni al volume II.


CAPITOLO XIII.

Pag. 73. — Nell'ultima parte dello scritto più volte citato, comparsa
quando più che la metà dei fogli del presente volume era già stata
tirata, il Coen ammette ancora egli che la leggenda complessa di
Costantino siasi formata in Italia (v. _Arch. d. Soc. rom. di St.
pat._, v. V, p. 525-31). Ricercando inoltre nelle varie leggende di
Sant'Elena e di Costantino la parte di verità storica che vi può essere
nascosta, egli viene a queste conclusioni, le quali, di lor natura,
non possono essere se non ipotetiche (p. 512): Patria di Elena fu
Drepano; Elena fu un'albergatrice; Elena non fu moglie legittima di
Costantino. Da una _Dichiarazione_ dello stesso Coen vengo a sapere
aver intrattando l'Heydenreich illustrato ancor egli la leggenda del
_Libellus_ con uno scritto intitolato: _Der Libellus de Constantino
Magno eiusque matre Helena und die übrigen Berichte über Constantins
des Grossen Geburt und Jugend_, nell'_Archiv für Litteraturgeschichte_,
v. X, 1881.

Pag. 77-9, n. 53. — La favola qui indicata già si trova in Simeone
Metafraste. Non in tutte le leggende di Santa Caterina Massenzio è
signore di Alessandria, dove, per diritto, avrebbe dovuto regnare
la santa, figliuola dell'immaginario re Costo. Giacomo da Voragine
dice senz'altro: «Cum autem Maxentius imperator omnes tam divites
quam pauperes ad Alexandriam convocaret, ut ydolis immolarent, etc.».
Hermann von Fritslar dice che, avendo intrapresa una grande spedizione,
Massenzio capitò nel paese di Santa Caterina (_Das Heiligenleben_, ed.
Pfeiffer, p. 253). Secondo una leggenda tedesca in versi (XIII-XIV
secolo), pubblicata dal Lambel, la inimicizia tra Costantino e
Massenzio nasce di cagion religiosa. Massenzio, adoratore degl'idoli,
prende a odiare Costantino, il quale è grande fautore dei cristiani
e cristiano egli stesso. I due rivali si muovono guerra. Vinto sotto
Roma, Massenzio ripara in Alessandria, dove promulga l'empio suo editto
(v. 616-712, nella _Germania_ del PFEIFFER, v. VIII, parte 2ª). Secondo
una leggenda francese di un codice della Bibliothèque de l'Arsenal in
Parigi, e una leggenda metrica in dialetto veronese, pubblicata dal
Mussafia, Massenzio, imperatore di Roma, s'innamora di Caterina per
fama, e la manda a chiedere in isposa al re Costo. Si reca poscia egli
stesso in Alessandria, e vi bandisce una gran corte, e impone a tutti
di adorare gli idoli (_Zur Katherinenlegende, Sitzungsb. d. k. Akad.
de Wiss. in Wien. phil.-hist. Cl._, v. LXXV, 1873, p. 257-8, 264). Tra
le _Rime genovesi della fine del secolo XIII e del principio del XIV_,
pubblicate dal Lagomaggiore (_Archivio glottologico italiano_, v. II)
è un componimento (il XII) intitolato _De sancta Kathelina virgine_.
Un _grande imperator_ _de Roma_, del quale si tace il nome, vuol fare
sposare Santa Caterina a un suo figliuolo, ma egli non ha che fare,
sembra, con Massenzio, di cui si dice più oltre:

    un gran Maxem imperaor
    enn Alexandria era alantor,

e che ordina al popolo di sacrificare agl'idoli, secondo il solito. In
una _Lauda_ pubblicata da TELESFORO BINI (_Rime e prose del buon secolo
della lingua_, Lucca, 1852, p. 81), si fa Massenzio innamorato della
Santa, poi, non avendo potuto ottenere quanto desiderava, invelenito
contro di lei:

      Sai che Massenzio crudo,
    Vergine d'alto stato
    Ch'era di pace nudo
    Con pensier maculato,
    Essendo vulnerato
    Di te, donna gentile,
    Dalla sua mente vile
    Mostrò la gran rapina.

      E quando vide poi,
    Vergine immaculata,
    Che gli onest'atti tuoi
    Dimostrava infiammata
    Di Jesu Innamorata
    L'amore e falso segno
    Rivolse in gran disdegno
    Per farti esser tapina.

La leggenda pubblicata dal ZAMBRINI (_Collezione di leggende inedite
scritte nel buon secolo della lingua_, Bologna, 1855, v. II, p. 141-52)
non è se non una versione scorciata del racconto del Voragine. Gioverà
qui di avvertire che la leggenda di Santa Caterina di Alessandria è
tutta immaginaria. Nel IX secolo alcuni cristiani d'Arabia trovarono,
dicesi, sul Monte Sinai, il corpo incorrotto di una fanciulla, e, a
parer loro di una martire, cui diedero, di proprio capo, il nome di
Caterina, che tanto vale quanto immacolata. Più tardi fu inventato
il re Costo e tutto il rimanente. I Latini ebbero dai Greci, nell'XI
secolo, la leggenda, la quale diede argomento di non brevi dispute
agl'istoriografi. Durante tutto il medio evo il santuario della
supposta martire sul Sinai fu uno dei più celebri e dei più frequentati
dai pellegrini (V. il _Viaggio al Monte Sinai_ di SIMONE SIGOLI).

Pag. 93. — Rileggendo un passo dell'_Apocalissi_ mi si fa manifesta la
origine e la significazione dell'allegoria del drago incatenato nelle
viscere della terra da San Silvestro. Nel c. XX dell'_Apocalissi_ sono
i tre versetti seguenti:

1º Et vidi Angelum descendentem de coelo, habentem clavem abyssi, et
catenam magnam in manu sua.

2º Et apprehendit draconem, serpentem antiquum, qui est diabolus, et
satanas, et ligavit eum per annos mille.

3º Et misit eum in abyssum, et clausit, et signavit super illum ut
non seducat amplius gentes donec consummentur mille anni: et post haec
oportet illum solvi modico tempore.

La leggenda non fa dunque se non sostituire il pontefice all'angelo.
Tale sostituzione non era fatta a capriccio, giacchè con la conversione
di Costantino, e col trionfo della Chiesa, procacciato appunto da San
Silvestro, si poteva credere veramente che fosse cominciato il millenio
della prigionia di Satana e della felicità del gregge di Cristo sopra
la terra. Quella tra le non poche versioni e redazioni della leggenda
di San Silvestro dove il drago assume più risolutamente qualità di
demonio, e dove è più intero conservato il concetto dell'_Apocalissi_,
parmi sia la italiana pubblicata da Michele Melga (_Storia di S.
Silvestro_, Napoli, 1859), dove San Pietro dice, tra l'altre cose, a S.
Silvestro: «Incontanente che tu, Silvestro, giungnerai allo dragone, e
tu dirai cotali parole: Jesu Cristo, nato della Vergine per virtù dello
Spirito Santo, el quale fu crocifisso e sopellito, e risucitò dalla
morte; el quale andò in cielo, e siede dalla mano dritta del suo padre;
el quale verrà nella fine del mondo a giudicare e giusti e pecatori, sì
ti manda comandando, Settanas, el quale abita in questa cava, sì debbi
espellere di qui alla fine del mondo, e non debbii nuocere a persona».

Pag. 94-6, n. 98. — Secondo tradizioni napoletane Costantino andò a
Napoli in compagnia di San Silvestro, vi stette circa un anno, e vi
edificò sette chiese, che furono le sette prime parocchie, e poi alcune
altre ancora.


CAPITOLO XV.

Pag. 181-2, n. 58. — Scems Ed-din Abu Abdallah di Damasco, il quale
fiorì nella seconda metà del secolo XIII, annovera Tolomeo fra i re
saggi e possenti che tracciarono le divisioni dei climi. A. F. MEHREN,
_Manuel de la cosmographie du moyen âge_, Copenhagen, 1874, p. 14.


CAPITOLO XVII.

Pag. 290. — Nel c. 125 della già più volte citata Cronaca catalana
si applica a Nerone ed a Seneca una storiella assai diffusa, e che di
molti in molti diversi libri si trova narrata. Nerone promette a tre
suoi cavalieri di farli regnare dopo di lui se rispondono a tre quesiti
ch'egli proporrà loro; se non rispondono li farà morire. I tre quesiti
sono: _Que fa deu al cel? Quantes jornades va lo sol en un dia? La mia
persona quant val?_ Aspettando la risposta, Nerone fa custodire i tre
cavalieri in un palazzo. Seneca, il quale si trova in Ispagna, viene
a risapere per astrologia tutto il fatto; va a Roma, e suggerisce ai
cavalieri le risposte, le quali appagano l'imperatore. Costui conosce
da ultimo Seneca, e lo riceve nella sua grazia.


CAPITOLO XVIII.

Pag. 351, n. 41. — L'imperatore Mallios Torquator trova spiegazione
in una Vita latina di Boezio, pubblicata dall'Obbarius innanzi alla
sua edizione del _De Consolatione philosophiae_. In un luogo di essa è
detto: _Boetius iste de familia fuit Torquati Mallii nobilissimi viri_.
L'autore del poema provenzale intese per familia la servitù, e un uomo
di grand'affare, come Boezio, non poteva essere a' servigi d'altri che
di un re, o di un imperatore. HOFMANN, _Ueber die Quellen der aeltesten
provenzalischen Gedichtes, Sitzungsb. d. k. bayer. Akad. d._ Wiss.,
1870, v. II, p. 175-6.


CAPITOLO XXI.

Pag. 466. — Secondo una leggenda riportata da Mattia di Edessa Goffredo
di Buglione avrebbe posseduto la spada di Vespasiano.


CAPITOLO XXII.

Pag. 476-7. — Il ch. Dott. F. Novati mi fa avvertito che i due versi:
_Roma diu titubans_ ecc., dati da me come anonimi, fanno invece parte,
secondo risulta dal cod. Marciano Z, L, CCV (sec. XIV; v. VALENTINELLI,
_Bibl. manusc_., v. II, p. 7) di un carme del celebre poeta inglese
Galfredo di Vinsauf, o di Vinosalvo (XIII sec.), intitolato:
_Vaticinium de Italia per Federicum II evertenda_. Essi trovansi
inoltre, con alcuna variante, nel codice Chigiano E, VI, 80 (sec.
XIV) contenente la raccolta delle lettere scritte da Pier della Vigna
in nome di Federico II. Quivi si hanno i due brevi componimenti che
seguono.

_Litera missa pape per imperatorem Fredericum._

    Roma diu titulans, longis erroribus aucta
        Corruet et mundi desinet esse caput.
    Fata dicunt stelleque monstrant aviumque volatus,
        Tociusque subito malleus orbis ero.

_Responsiva pape Frederico._

    Nitis in cassum navem submergere Petri,
        Fluctuat set numquam mergitur illa navis.
    Fata silent stelleque tacent aviumque volatus,
        Solius est proprium scire fata dei.
    Fama refert, scriptura docet per acta(?) locuta,
        Est tibi vita brevis, pena perennis erit.

Questi versi hanno interesse anche per la leggenda che veniva
tramutando Federico II in Anticristo, o in riformatore della Chiesa.


  FINE DEL SECONDO VOLUME E DELL'OPERA.



Indice analitico delle materie.


Il numero romano indica il volume, l'arabico la pagina, e vale tanto
per il testo, quanto per le note.

     ABGARO, I, 387-9.

     ABSBURGO. Casa d', I, 30-1.

     ACQUEDOTTI in Roma, I, 140.

     ADRIANO, I, 240, 385; II, 3, 35, 43-5, 76, 455.

     AGBARO, v. Abgaro.

     AGNESE (S.), leggenda di, II, 402-3.

     ALBERO SECCO, II, 107, 491-6, 500, 502, 503.

     ALBESTON, I, 145.

     ALBINO SCOLARE, suoi _Collectanea_, I, 62.

     ALESSANDRO MAGNO, I, 214-8; II, 177, 186, 517-48.

     ALESSANDRO SEVERO, II, 75-6.

     AMORE (Cupido), II, 373, 374, 385-6.

     ANGUILLARI (famiglia), I, 30.

     ANONIMO di Einsiedeln, I, 59.

     ANONIMO Magliabechiano, I, 63-71.

     ANTICHITÀ ritrovate, I, 17-8.

     ANTICRISTO, II, 181, 490, 501, 502, 503, 516, 523, 545, 549,
     557, 587; — a capo degli dei del paganesimo 377-8; — non può
     nascere tanto che sussiste l'impero romano, 469; — sua venuta
     alla fine del mondo, 478, 479, 480, 481, 482, 486, 488-9,
     499; — Credenze intorno ad esso, 482-4.

     ANTONINO PIO, II, 76, 455.

     ANTONIO, I, 282-3.

     APOLLO, II, 373, 374, 377, 378, 380.

     AQUILA imperiale, II, 453-5.

     AQUISGRANA, I, 18.

     ARA COELI, leggenda di, I, 309-18, 319-21, 323; II, 566,
     579-80.

     ARATO, II, 167.

     ARCA di Noè, monumento in Roma così chiamato, I, 85-6.

     ARCHELAO, I, 377, 392.

     ARCHIMEDE, II, 167.

     ARCO della Pietà, II, 24-5, 31, 36-7.

     ARCO di Portogallo, I, 159-60.

     ARCO di Tito, I, 400, 566-7.

     ARCO di Trajano in Benevento, II, 574.

     ARENA di Verona, I, 128.

     AREZZO, I, 26.

     ARISTIPPO, II, 190.

     ARISTOTILE, II, 165, 166, 167, 179, 181, 183, 184, 185, 186,
     189, 191, 192, 194, 210, 213-4, 223, 224, 299.

     ATTILA, I, 221-2, 271; II, 466.

     AUGARO, v. Abgaro.

     AUGUSTO, v. Ottaviano Augusto.

     AURELIANO, II, 42.

     AUSONIO, II, 270.


     BACCO, II, 373.

     BARBARI, danni che recarono a Roma, I, 44.

     BASILIO (S.), II, 136-7, 141, 143, 144, 147, 148, 397.

     BENEDETTO canonico, suo _Liber politicus_, I, 62.

     BIBLIOTECHE nel medio evo, II, 161-2.

     BIZANZIO, V. Costantinopoli.

     BOCCA della Verità, II, 139-40.

     BOEZIO, II, 167, 183, 189, 262, 586; — sua celebrità nel
     medio evo, 322-5; — riputazione onde godeva il trattato
     _De Consolatione philosophiae_, 325-7; — autori che vi
     lavorarono d'attorno, 327-8; — imitatori di esso, 329; —
     leggenda che fa di B. un dottore della Chiesa e un santo,
     330-9; — opere teologiche a lui attribuite, 337-40; — origine
     della leggenda, 340-50; — se B. sia morto martire, 332-4;
     — se sia stato cristiano, 335-7: — spirito del trattato
     _De Cons. ph._, 336-7; — luogo ove B. fu sepolto, 343-6; —
     iscrizione sul suo sepolcro, 345-7; — congettura del Jourdain
     circa l'origine della leggenda, 349-50; — la leggenda nei
     documenti più antichi, 350-2; — varianti e particolarità di
     essa, 352-9; — luogo ove B. fu relegato ed ucciso, 352-4;
     — sepolcro di B., 353, 354; — morte, 354-5; — Elpidia, sua
     moglie, 356; — B. monaco, 356-7; — miracoli da lui operati,
     357-8; — suoi studii e suo sapere, 358-9.

     BOLOGNA, origine di, I, 28.

     BRESCIA, origine di, I, 28.

     BRUTO, I, 276, 277, 282, 299-300.


     CADMO, II, 305.

     CAIFAS, I, 377.

     CALENDE, I, 266; II, 578.

     CALIGOLA, I, 238, 454.

     CALPURNIO, II, 178.

     CAMESE, figlio di Nembrot, I, 85, 86, 87-8.

     CAMPIDOGLIO, I, 184-8, 201-2, 204, 280, 284-5, 324, 378; — in
     Firenze, 268-9.

     CAMPO MARZIO, I, 46.

     CAPITOLINO (clivo), I, 77.

     CAPYS, I, 272-3.

     CARLO MAGNO, I, 6, 13, 20, 31, 240, 275-6; II, 262, 365, 373,
     424, 427, 465, 466, 467; — imperatore romano, 428, 434, 453;
     — suo ritorno alla fine dei tempi, 500-1.

     CARLO V, suo ritorno alla fine dei tempi, II, 504-5.

     CARONTE, II, 375, 378.

     CASSIO, I, 276, 277, 299-300.

     CASTELLUM CRESCENTII, v. Castel Sant'Angelo.

     CASTEL SANT'ANGELO, I, 134, 179-80. V. Mausoleo d'Adriano.

     CATERINA (S.), II, 77-9, 571, 583-5.

     CATILINA, I, 266-71.

     CATONE il Censore, II, 270.

     CATONE Uticense, II, 183; — sua grande riputazione di virtù e
     di saggezza, 268; — citato 269; — suo valore guerriero, 270;
     — distici a lui attribuiti, 270-4; — sua rivalità con Cesare,
     271-2, 275; — favola di Cathonet suo figliuolo, 274-5; — sua
     morte, 275-6; — C. e Dante, 276-8.

     CAVALLI marmorei, I, 141-3.

     CAVALLI varii, I, 143-5.

     CAVALLINO Giovanni, sua Polistoria, I, 72-7.

     CAVALLO di Costantino, II, 111-17, 566.

     CELIO, I, 77.

     CENCIO Camerario, suo libro de' censi, I, 62.

     CENTAURI, II, 374.

     CERBERO, II, 374, 375, 377.

     CERERE, II, 371.

     CESARE, v. Giulio Cesare.

     CESARIO, figlio di G. Cesare, I, 300; II, 579.

     CESARIO, padre di G. Cesare, I, 301.

     CESI (famiglia), I, 30.

     CHIESA cristiana, che cosa mutuasse da Roma, II, 418.

     CHIODI di Cristo, II, 459-65.

     CHIUSI, più antica di Roma, I, 28.

     CIBELE, II, 381.

     CICERONE, I, 267; II, 157, 164, 166, 167, 171, 178, 183,
     189, 190, 194, 254, 270; — sue dottrine non repugnanti al
     cristianesimo, 259-60; — suo libro _De officiis_ imitato da
     Sant'Ambrogio, 260; — C. e San Gerolamo, 260-2; — maestro di
     retorica e principe degli oratori, 261-2, 263-5; — cristiano
     e salvo, 262-3; — gran filosofo, 265-6; — diverso da Tullio,
     266; — fonte di C., 267; — figliuola di C., 268.

     CIMELII romani, I, 155-6.

     CIRCO MASSIMO, I, 135-6.

     CITTÀ che si vantano più antiche di Roma, I, 27-8.

     CLAUDIANO, II, 186, 192.

     CLAUDIO, I, 240, 372, 375; II, 180, 454, 548.

     CLENODIA, V. Insegne imperiali.

     CLEOPATRA, I, 249, 300, 328.

     COLA DI RIENZO, I, 51-2.

     COLISEO, V. Colosseo.

     COLONNA ANTONINA, I, 51, 145-6.

     COLONNE di Salomone, I, 145.

     COLONNESI (famiglia), I, 29.

     COLOSSEO, I, 116-8, 191, 192-3; II, 567; — guasti cui andò
     soggetto, I, 118-20; — sue meraviglie 122-8; — creduto tempio
     del Sole, 122-4; — creduto opera di Virgilio, 125; — confuso
     con la Mole Adriana, 125.

     COLOSSO di Nerone, I, 120-2.

     COMMODO, II, 425.

     COMUNI italiani, loro origine, I, 21.

     CONTI di Pola, I, 29.

     CONTI (famiglia), I, 30.

     CORNELIO NEPOTE, II, 182.

     CORONA ferrea, II, 459.

     CORONE imperiali, II, 457-9.

     COSROE, cielo artifiziato da lui costruito, I, 128.

     COSTANTINO MAGNO, I, 234; II, 455, 459, 460, 463, 464, 466,
     565, 583; — ragioni della sua leggenda, 46; — stimato santo,
     47; — sua spada, 47; — edifici da lui costruiti, 47-8; —
     sua nascita e suoi primi casi, 48, 52-4, 57-61, 64-73; —
     sua conversione, 73-91, 138; — sue monete, 77; — leggenda
     del labaro, 76-80; — C. lebbroso, 80, 81, 82, 84, 85; —
     suo battesimo, 82, 85, 86-90; fonda Costantinopoli, 83,
     87-86, 98-104; — benefica la Chiesa, 94-6; — chiese che si
     dicono da lui edificate, 94-6; — donazione da lui fatta alla
     Chiesa, 96-8; — leggenda di Licurgo a lui riferita, 105-6;
     — storia romanzesca del suo matrimonio 106-8; — ingannato
     dalla moglie, 108-10: — altre leggende varie in cui egli
     è impegnato, 118-9; — sua morte, 119; — suo nome esecrato,
     119-20.

     COSTANTINOPOLI, II, 87-8, 98-104, 415, 416.

     COSTANZO CLORO, II, 48, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 60, 61, 64,
     65, 66, 67, 69, 71; — leggenda intorno alla sua nascita,
     48-51; confuso con Costanzo II, 50; — sua sepoltura, 51-2.

     COSTANZO II, II, 137, 138, 139.

     CILASSO, I, 352; II, 425.

     CRISTIANESIMO annunziato, I, 327-8; — presentito fra i
     pagani, II, 412-3. V. Pagani.

     CUPIDO, v. Amore.


     DANAE, II, 175.

     DANAIDI, II, 375.

     DECIO, I, 239, 455.

     DEDALO ed Icaro, II, 304, 305, 310.

     DEMOCRITO, II, 167.

     DEMOSTENE, II, 264, 265.

     DESCRIPTIO plenaria totius urbis, I, 63.

     DIANA, II, 371, 376-7, 396.

     DIDONE, II, 304.

     DIECI tribù d'Israele esigliate, II, 544-8.

     DIGNITÀ romane ambite, I, 13.

     DIOCLEZIANO, I, 228-9, 239, 241-2; II, 53, 66, 455, 459.

     DIODORO SICULO, II, 167.

     DIOGENE, II, 167, 180, 190.

     DIONIGI AREOPAGITA, II, 579-80.

     DIRITTI e privilegi romani, I, 32.

     DIRITTO romano in Italia, II, 170.

     DIVINITÀ PAGANE, II, 375-82. V. Giove, Diana, Venere, ecc.

     DOMIZIANO, I, 240.

     DONATO, II, 107, 193, 194, 268.


     EDIPO, II, 176.

     ELENA, II, 175.

     ELENA (S.), II, 46, 47, 67, 78, 82, 86, 91, 100, 459; — sua
     qualità e sua relazione con Costanzo, 52-4, 55-61, 62, 63,
     64, 68, 69, 70; — luogo ove nacque, 54.

     ELIANO, II, 165.

     ENEA, II, 165, 166, 304, 454.

     ENEIDE, rifatta, I, 78, 177.

     EPICURO, II, 167.

     ERACLIO, I, 243-4; II, 377, 520-21.

     ERCOLE, II, 177, 299, 305, 374, 377.

     ERMETE, II, 183.

     ERODE, I, 370, 400; II, 377.

     ERODIADE, II, 396.

     ERO E LEANDRO, II, 305.

     ESEMPII tratti dalle storie romane, I, 56.

     ESOPO, II, 177.

     EUCLIDE, II, 183, 194.


     FAVOLE antiche conosciute, II, 175-7.

     FAUSTINIANO, I, 246.

     FEDERICO II, II, 467, 587; — suo ritorno alla fine dei tempi,
     501-4.

     FEDRO, I, 177.

     FESTE in Roma, II, 572-4.

     FIESOLE, sua origine, I, 28, 266, 267, 268, 271.

     FILIPPO (imperatore romano), II, 75.

     FILLIDE E DEMOFOONTE, II, 305.

     FILOSOFI dell'antichità: scritture in cui se ne raccolgono i
     detti, II, 188-90; — rispetto che si aveva per essi, 191-2.
     V. Scrittori.

     FILOSOFIA antica, come giudicata, II, 190-1.

     FINE del mondo, II, 471-4, 475-6, 477-8, 479-80, 496-9, 500,
     503-5.

     FIORE dei filosofi, II, 14-17.

     FIRENZE, sua fondazione, I, 266-71.

     FOCA, I, 243-4.

     FORO romano nel medio evo, I, 49-50.

     FRANGIPANI (famiglia), I, 29.

     FURIE, II, 375.


     GALBA, I, 238.

     GALLIENO, I, 242-3.

     GANIMEDE, II, 175.

     GENNAJO, leggenda intorno al nome di, I, 219-20.

     GENOVA, sua origine, I, 27.

     GIANO, I, 81.

     GIANO, re d'Epiro, I, 219-20.

     GIASONE, II, 177, 304, 395, 310-11.

     GIOVANNI DA VERONA, sua Historia Imperialis, I, 236-7.

     GIOVE, II, 175, 374, 377, 378, 380, 381, 382, 383, 418, 453.

     GIOVENALE, II, 158, 164, 173, 183, 186, 189.

     GIOVINIANO, I, 246.

     GIUBILEO del 1300, I, 57.

     GIULIANO L'APOSTATA, II, 455; — giudizio che di lui reca la
     storia critica, II, 121-2; odio che inspirò, 122-3, 124-5;
     — origine e svolgimento della sua leggenda, 123-4, 125-6;
     — qualità e grado che egli ebbe nella Chiesa, 125, 126-7; —
     sue relazioni con gli spiriti maligni, 125-6, 128-30, 136,
     138-9, 140; — sua morte, 126, 136-7, 141-50; — parole da lui
     pronunziate morendo, 150-1; — sua sepoltura, 151-2.

     GIULIO CESARE, I, 93, 170-1; II, 107, 167, 250, 252, 271,
     272, 275, 315, 316, 451, 454, 470; — primo imperatore, I,
     248-9; II, 425, 575; sua celebrità, I, 249-52, 302; II,
     575-6; — storie romanzesche de' suoi fatti, I, 252-3; — suo
     nome, 253-5; — sua nascita, 253-5; II, 575; — guerre da lui
     combattute, I, 255-8; II, 575-6; — onori a lui tributati, I,
     258-9; — trionfi, 259-65; — suo governo, 265; — riformatore
     del calendario, 265-6; II, 577-8; — suoi libri I, 265-6; II,
     577-8; — fondatore di Firenze, I, 271-2; II, 578-9; — sua
     morte, I, 272-9; II, 569, 579; segni che l'annunziarono, I,
     273-5; — congiura ordita contro di lui, 276; — ragioni della
     uccisione, 276-8; — luogo ove fu compiuta, 278-9; funerali,
     279-87; — sepoltura, 286-98; II, 566, 579; — valore, I,
     288-9; — amori con Cleopatra, 300-1; — sua famiglia, 300-2; —
     versi posti in bocca a lui morto, 303-7.

     GIUNONE, II, 383.

     GIUSEPPE D'ARIMATEA, I, 380, 382, 392, 396, 422.

     GIUSEPPE FLAVIO, I, 394-5; II, 186.

     GIUSTINIANO, II, 177, 270, 460.

     GLOBO aureo degl'imperatori, II, 460-2.

     GOG E MAGOG, I, 258; II, 474, 479, 482, 486, 487, 505; —
     diffusione e celebrità della leggenda, 507-8; — partizione
     di essa, 508-9; — Magog nel Genesi, 509; — Gog e Magog in
     Ezechiele, 509-10; — nell'Apocalissi, 511-14; identificati
     con gli Sciti, 514-5, 543; — coi Celti, 515; — con gli
     Etiopi, 515; — coi barbari invasori dell'impero romano, 515;
     — con gli Unni, 527, 543; — la leggenda nelle _Revelationes_
     attribuite a Metodio, 528-30; — G. e M. rinchiusi da
     Alessandro Magno, 518-36, 549, 552-3; — la leggenda nello
     Pseudo-Callistene, 530-2; — in Etico Istrico, 533-5; — G. e
     M. identificati con gli Alani, 536-7; — descritti, 537-40;
     — paese da essi abitato, 540, 557-63; — muro e porta che li
     rinchiudevano, 540-3; — identificati coi Goti, 543; — con
     gli Ungheri, 544; — coi Turchi, 544; — coi Romani, 544; — con
     le Dieci Tribù d'Israele, 544-8; — soggetti al Prete Gianni,
     549; — identificati coi Tartari, 550-5; — vincitori del Prete
     Gianni, 555-6.

     GORDIANO, I, 240.

     GRAPHIA aureae urbis Romae, I, 56; — scrittori che da essa
     attinsero, 65-7; — sua composizione, 60-2. V. _Mirabilia
     Romae_.

     GREGORIO MAGNO, I, 33; II, 156, 360, 418, 566; — leggenda del
     suo nascimento, 176.

     GROTTA di Posilipo, I, 219.


     HESODIUS, I, 84; II, 567.


     IGINO, II, 167.

     IMPERATORE romano: sua incoronazione nel medio evo, II,
     451-2; — sue vesti, 452-3; — sue gesta nella fine del mondo,
     479-90; — fatte argomento di dramma, 496-9.

     IMPERATORI romani, I, 234-5; — loro armi ed imprese, II, 455;
     — imperatori immaginarii, I, 245-6.

     IMPERO romano, I, 230, 233-4; — profetizzato, 86, 87; — i
     cristiani pregavano per la sua conservazione, II, 408-9; —
     l'impero nel medio evo, 423-4; — credenze circa l'impero
     antico, 424-5; — i quattro imperi, 425-6; — storia della
     potestà imperiale, 426-7; — continuità dell'impero, 427-8,
     432-3; — impero d'Occidente rinnovato, I, 31-2; II, 428-33;
     — traslazione della potestà imperiale, 433-7; — missione
     provvidenziale dell'impero, 435; — litigi pel possedimento
     della potestà imperiale, 437-8; — santità dell'impero, 438-9;
     — concetto che di questo ha il medio evo, 439-47; — durata
     dell'impero sino alla fine del mondo, 468-9, 471-2, 477;
     — leggende che vi si rannettono, 477-82, 505; — l'impero
     esecrato nell'Apocalissi, 473-4.

     INFERNO pagano, II, 374-5.

     INSEGNE imperiali, II, 456-68; — importanza che loro si dava,
     456-7.

     IPPOCRATE, II, 166, 179, 181, 214, 247, 250, 251.

     ISSIONE, II, 375.

     ISTITUZIONI romane conservate e rinnovate, I, 21, 32-3.

     ITINERARII romani del medio evo, I, 57.


     KAISERCHRONIK, I, 235.


     LANCIA dell'impero, II, 463.

     LANCIA di Cristo, II, 463, 464.

     LANCIA di San Maurizio, II, 465.

     LATERANO, I, 340, 342-4.

     LEGGENDA degli scrittori, II, 153-4.

     LEGGENDA dei trenta denari, II, 462.

     LEGGENDE imperiali, I, 238, 244.

     LENTULO, I, 376.

     LIBANIO Sofista, II, 141-2, 144, 146, 151.

     LIBER AUGUSTALIS, I, 237-8.

     LIBRO IMPERIALE, I, 236-7.

     LINGUA latina nel medio evo, II, 169-70.

     LUCANO, II, 167, 171, 172, 173, 174, 186, 189, 190; — sua
     Farsaglia, 177, 315; — sua celebrità, 317-8.

     LUCCA, I, 26.

     LUCREZIA, I, 224-5.

     LUPA, impresa di Siena, I, 21.


     MACROBIO, II, 182, 189.

     MAGOG, v. Gog e Magog.

     MARC'AURELIO, II, 455.

     MARCO CURZIO, I, 225-7, 238; II, 117.

     MARCO (S.), II, 422.

     MARTE, II, 375, 377, 380, 382, 568.

     MASSENZIO, II, 77-79, 583-4.

     MASSIMIANO, I, 228-9, 240-2.

     MAURIZIO (S.), II, 465-6.

     MAUSOLEO di Adriano, I, 133-4; II, 566.

     MAUSOLEO di Augusto, I, 328-30.

     MEDEA, II, 304, 310-11.

     MERAVIGLIE del mondo, I, 111-3; II, 569.

     MERAVIGLIE di Roma secondo gli scrittori arabici, I, 146-50;
     — secondo i rabbini, I, 150-1.

     MERCURIO, II, 136-7, 377, 380, 382.

     MERCURIO (S.), II, 137, 141, 142, 143, 147, 148-9.

     MILANO emula di Roma, I, 18-9: — sua origine, 28; — sua
     descrizione, 67.

     MINERVA, II, 396.

     MIRABILIA ROMAE, I, 56; II, 565, 566; — scrittori che
     attinsero da essi, I, 65-7; — composizione dei M., 60-2; —
     recensioni, 62-3; — autore, 63-5; — celebrità, 65, 67, 68;
     — testo, 68-9: — alterazioni, 70; — trasformati, 70-2; —
     tradotti, 70-1.

     MOLE ADRIANA, v. Mausoleo di Adriano.

     MONTE di Venere, II, 405.

     MONTEMARIO, I, 110.

     MONTE TESTACCIO, I, 154.

     MONUMENTI di Roma, I, 45; — distrutti 49-51.

     MUZIO SCEVOLA, I, 224-5, 239.


     NARCISO, II, 305, 307.

     NEMBROT in Italia, I, 81.

     NERONE, I, 382, 394; II, 106, 107, 250, 286, 288, 290-2,
     454, 473, 500, 502, 586; — sua scelleratezza, I, 332-4; —
     delitti imputatigli, 334-5; — suo lusso e sua prodigalità,
     335-7; — sue dissolutezze, 337-8; — sua gravidanza, 338-45;
     II, 580-1; — amico di Cristo, I, 345-7; — fa morire S. Pietro
     e S. Paolo, 347-9; — sua morte, 349-50; — sua dannazione,
     351-2; II, 581; — suo sepolcro, I, 353-5; II, 566; — sue
     apparizioni, I, 355-6; — si trasforma in diavolo, 356-7;
     II, 581; — opinione che non fosse mai morto, I, 357; — deve
     tornare in qualità di Anticristo, 357-9; II, 513-4, 581; —
     luoghi denominati da lui, I, 359-60.

     NERVA, I, 239.

     NETTUNO, II, 175, 377, 383.

     NICODEMO, I, 384, 392.

     NOÈ uno dei fondatori di Roma, I, 80-9; II, 567; — altre
     leggende che lo riguardano, I, 90-1.

     NOMI romani, I, 13.

     NOVA ROMA, II, 420-1. V. Roma nova.


     OBELISCO vaticano, I, 287, 288-98.

     OMERO, II, 167, 172, 177, 179, 181, 192.

     OPULENZA di Roma, I, 152-3, 181; II, 571-2.

     ORAZIO, II, 157, 158, 172, 183, 186, 189, 190; — sue poesie,
     293-5; — trasformato in mago, 295-6.

     ORFEO ED EURIDICE, II, 305, 309-10, 374.

     ORIFIAMMA, II, 455.

     ORIGINI romane di città, I, 25-7.

     ORIGINI romane di famiglie, I, 29-31.

     ORIGINI trojane, I, 22-5; II, 433-5.

     OTTAVIANO AUGUSTO, II, 250, 451, 454, 455, 460, 534, 566;
     — sua opulenza, I, 171-80; II, 574; — sua potenza, I, 308;
     — nascita, 308-9; — celebrità, 309; — istruito del prossimo
     nascimento di Cristo, 311-2; — sua visione, 313-7, 319-21; —
     sua bellezza, 318; — adora Cristo, 318; — suoi vizii, 318-9;
     — sua crudeltà, 319; — costruisce il Tempio della Pace,
     321-3; — sua morte, 328; — suo sepolcro, 328-30.

     OTTONE, I, 238.

     OVIDIO, II, 155-6, 164, 167, 171, 174, 183, 188, 189, 190,
     254; — sua grande celebrità, 296-8, 299; — imitato, 297-8;
     — sua costumatezza, 298; — citato, 298-9, 303; — maestro di
     dottrina cristiana, 299; — suoi orti e suo palazzo in Roma,
     299-300; — fantasie circa il suo nome, 300; — fantasie circa
     il suo esiglio, 300-2; — suoi _Tristi_, 300-1; — storia della
     guerra di Troja a lui attribuita, 301; — dannato, 302-3; —
     sue _Metamorfosi_, 303, 305-11; — sue favole, 304-5; — suoi
     libri amatorii, 311-4; — esecrato, 314-5.


     PAGANESIMO, avanzi di esso nel medio evo, II, 368-76.

     PAGANI che annunziarono la venuta di Cristo, II, 208.

     PALATINO (monte), I, 76.

     PALAZZI di Roma, I, 110, 136-8.

     PALAZZO MAGGIORE, I, 113-6.

     PALLANTE, suo corpo ritrovato in Roma, I, 93.

     PANTHEON, I, 130-33, 180-1, 191-2; II, 566.

     PAOLO (S.), II, 207-8, 247-8, 257, 422; — suo carteggio con
     Seneca, 281-9.

     PAPIRIO, I, 228.

     PARCHE, II, 175.

     PAVIA, I, 19, 26, 67-8.

     PELLEGRINI in Roma, I, 56-8.

     PENELOPE, II, 304.

     PERSIO, II, 171, 173, 193.

     PIETRO (S.), II, 422; — se sia stato in Roma, 414, 415; — sua
     chiesa, I, 148; II, 571; — sua statua, 418.

     PIETRO (S.), e Paolo (S.), I, 347-9, 382; — II, 82, 373, 409.

     PILATO, I, 345, 346, 347, 369, 370, 371, 372, 373, 374, 375,
     376, 377, 378, 380, 381, 382, 385, 388, 390, 398; — poemetto
     francese su di esso, 416-28.

     PINDARO, II, 172.

     PINDARO TEBANO, II, 173.

     PIRAMO E TISBE, II, 304, 305, 307, 308-9.

     PISA, I, 153.

     PITAGORA, I, 228; II, 171, 183, 190, 194.

     PLATONE, II, 158, 171, 179, 180-1, 183, 184, 185, 189, 191,
     194, 212-3, 214, 323.

     PLINIO IL GIOVANE, II, 186.

     PLINIO IL VECCHIO, 177; II, 164, 165.

     PLUTONE, II, 375, 378, 379.

     POETI dell'antichità: considerati come filosofi, II, 188-90;
     — stimati assai meno dei filosofi, 193-4; — V. Scrittori.

     POMPEO, I, 240, 258, 266, 267, 269, 275, 425, 454.

     PONTI in Roma, I, 140-1.

     PONZIANO, I, 239.

     PORTA AUREA in Ravenna, I, 170-1.

     PORTA METRONIA, I, 154.

     PORTA SEPTIMIANA, I, 76.

     PORTICUS AD NATIONES, I, 203.

     POTENZA di Roma, I, 183-4.

     PRETE GIANNI, II, 467, 548-57.

     PRIAPO, II, 376.

     PRISCIANO, 167, 171, 188, 190, 193.

     PROSERPINA, II, 378-9.

     PSICHE, II, 373.


     QUINTILIANO, II, 172, 186, 194.

     QUINTO CURZIO, II, 183.


     RAVENNA, I, 26, 28.

     REGIONARII, I, 6.

     RELIQUIE spettanti all'impero, II, 456, 466-8.

     RE MAGI, II, 461-3.

     REMO, II, 255; — ucciso dal fratello, I, 101-6; II, 568-9; —
     fondatore di Reims, I, 101-2, 104. V. Romolo e Remo.

     REPUBBLICA romana, I, 230-3.

     ROMA: suo primato, I, 9-13; — sua figura, 10; — come
     rappresentata nelle carte geografiche del medio evo, 11; —
     rappresenta tutta l'antichità, 11-2; — patria comune, 12-3;
     — suoi nomi, 13, 182; — glorificata, 14-7; — paragone di
     ogni grandezza, 18; — suo scadimento, 33-7: — sua leggenda,
     38-9; — vilipesa, 39-43; — R. papale, 40-3; — sua popolazione
     nel medio evo, 45-6; — sua decadenza morale ed economica,
     45-8; — sua insalubrità, 48-9; — sue rovine, 51-5, 109; —
     tradizioni antiche circa la origine di essa, 78-80; — sua
     fondazione, 81-9, 90, 91-2, 92-3; — opulenta e magnifica
     sino dalle origini, 100; — varie genti che la popolarono,
     100-1; — muro di cui la cinse Romolo, 100-1; — sua potenza,
     183-4; — espugnata, 219-22; — R. e Alessandro Magno, 214-8;
     — sospesa a un filo di seta, 329; — odiata dai cristiani
     dei primi tempi, II, 408; — infamata dal fratricidio e
     dalle persecuzioni contro i cristiani, 409; — sua missione
     provvidenziale, 410-2; — R. conferisce potentemente a
     far nascere il primato della Chiesa, 413-7; — metropoli
     necessaria della cristianità, 417; — sua grandezza e potenza
     come tale, 419-22; — da essa si diffonde la fede, 421-2; —
     metropoli necessaria dell'impero, 448-51; — sua eternità,
     470-1; — durerà sino alla fine del mondo, 472-6; — distrutta,
     474-7; — sua distruzione annunziata, 587.

     ROMA CAPUT MUNDI, I, 6-9.

     ROMA NOVA, I, 18-9.

     ROMA SECUNDA, I, 18-9.

     ROMANI illustri, I, 4-5, 20-21, 36-8.

     ROMANIA, I, 2; II, 572.

     ROMOLO, II, 255, 413; — ucciso dal figlio di Remo, I, 101-4;
     — leggenda di R. narrata da Metodio, 106-7; — R. in guerra
     con Davide, 101, 219.

     ROMOLO E REMO, II, 409, 454; — loro storia cognita ai
     trovatori, I, 93-4; — racconti romanzeschi intorno ad essi,
     II, 567-8; — loro nascita, I, 94-6; — nutriti da una lupa,
     96-7; — costruiscono Roma, 101, 104; — loro sepolcri, 107-8;
     II, 566. V. Romolo, Remo.


     SALLUSTIO, II, 167, 182, 189, 266-7.

     SALVATIO ROMAE, I, 188-213, 226, 230; II, 575; — in
     Campidoglio, I, 188-90, 197; — formata di statue, 188-90; —
     nel Pantheon, 191-2; II, 566; — nel Colosseo, I, 191, 192-3;
     — nel Tempio della Concordia, 191-2, 193-5; — in connessione
     col Tempio di Giano, 193-5; — in San Giovanni in Laterano,
     195; — in luogo non designato con nome particolare, 195-6;
     — statue che la componevano, 196-8; — immaginazioni affini,
     198-9; — origine della leggenda, 199-206; — la S. consistente
     in uno specchio, 206-8; — distrutta, 209-13.

     SAPIENZA romana, I, 227, 228-9.

     SATURNO, II, 378, 381.

     SAVELLI (famiglia), I, 30.

     SCETTRO imperiale, II, 460.

     SCHOLA SEPTEM SAPIENTIUM, v. Settizonio.

     SCIPIONE, II, 270, 447.

     SCRITTORI classici: come giudicati nel medio evo, II, 154-5,
     157; — come giudicati dalla Chiesa, 155-6, 167-8; — terrori
     superstiziosi da essi inspirati, 157, 158-9; — citati,
     163-4; — tenuti in gran conto e in grande riverenza, 164-7;
     — studiati, 172-4; — imitati, 174-5; — strani errori intorno
     ad essi, 177-8; — leggende e stravaganze, 179-87; — creduti
     astrologi, 183; — fatti cristiani, 183-4; — presentirono il
     cristianesimo, 184-7; — l'allegoria nei loro scritti, 187-8.
     V. Poeti, Filosofi.

     SCUOLA DI VIRGILIO, v. Settizonio.

     SCUOLE nel medio evo, II, 169.

     SECONDO, filosofo, II, 44-5, 194.

     SEGNI che annunziarono la venuta di Cristo, I, 321-7.

     SEMELE, II, 383.

     SENATO romano, I, 33.

     SENECA, II, 164, 178, 183, 186, 188, 189, 194, 265, 268,
     270, 586; — considerato principalmente come moralista,
     279; — citato 279-80; — stimato uno dei maggiori savii
     dell'antichità, 280; — carteggio di lui con S. Paolo, 281-9;
     — sua morte, 290-3.

     SETTE SAVII in Roma, I, 228.

     SETTESOGLIO, v. Settizonio.

     SETTIZONIO, II, 569-71.

     SIENA, I, 26.

     SILIO ITALICO, II, 186.

     SILVESTRO (S.), II, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 88, 91,
     100-1; — lega un drago, 83, 87-8, 91-4, 586.

     SIMMACO, II, 333, 334, 344, 352, 356, 360, 361.

     SIMON MAGO, I, 346-9, 351, 382; II, 288.

     SISIFO, II, 375.

     SOCRATE, II, 167, 171, 179-80, 184, 185, 186, 190.

     SOFOCLE, II, 178.

     SOLINO, II, 164, 165.

     SORTES VIRGILIANAE, II, 216.

     SPADA di Carlo Magno, II, 466.

     SPADA di S. Maurizio, II, 466.

     SPECCHI MAGICI, I, 208-9; II, 575.

     STATUA di Nabuccodonosor, II, 425-6.

     STATUA di Romolo, II, 413.

     STATUE che additano tesori, I, 161-71.

     STAZIO, II, 167, 172, 173, 186, 190; — sua _Tebaide_, 177,
     318; — sua _Achilleide_, 318; — sue Selve, 318; — nativo
     di Tolosa, 319; — sua celebrità, 319; — cristiano e salvo,
     320-1.

     STORIA romana nelle cronache, I, 4.

     STORIE antiche rifatte, II, 176-7.

     STUDII classici nel medio evo: giudicati inutili, II, 159;
     — nocivi, 159-60; — coltivati da religiosi, 160-3, 172; —
     vietati, 161; — avuti in gran pregio, 171-4.

     SVETONIO, II, 178.


     TANNHAEUSER, leggenda di, II, 403-6.

     TANTALO, II, 375.

     TARTARO, v. Inferno pagano.

     TAVOLA argentea di Carlo Magno sulla quale era incisa la
     pianta di Roma, I, 6.

     TELESMI che custodiscono città, I, 198-9.

     TEMPIO della Concordia, I, 191-2, 193-5, 323.

     TEMPIO della Pace, I, 321-3.

     TEMPIO del Sole e della Luna, v. Settizonio.

     TEMPIO di Bellona, II, 421.

     TEMPIO di Giano, I, 193-5.

     TEMPIO di Marte, I, 288-9.

     TEMPIO di Minerva, I, 280-1, 330.

     TEMPLI di Venere, II, 382, 383.

     TEMPLI in Roma, I, 110, 134-5.

     TEODORICO, II, 87, 116, 117, 332, 333, 334, 340, 341, 343,
     347, 348, 351, 352; — restauratore, di Roma, I, 44-5; — sua
     morte e dannazione, II, 359-67.

     TEODOSIO, I, 240, 241.

     TERENZIO, II, 158, 172, 173, 174, 186, 189, 194.

     TERME in Roma, I, 137, 139; II, 566.

     TESEO, II, 304.

     TESORI in Roma, I, 157-9, 161-5; — dei sette re, 160-1; —
     di Augusto, 171-80; II, 574; — inviolabili, I, 146-7; — di
     Augusto inviolati, 178-9.

     TESORI scoperti, I, 156-7.

     TEVERE: sue acque salubri ai cavalli, nocivo agli uomini, I,
     140; — lastricato di rame, I, 147; II, 571.

     TIBERIO, I, 240, 241, 330, 371, 372, 375, 376, 377, 378, 379,
     380, 381, 382, 383, 386, 387, 389, 390, 391, 392, 398; II,
     186, 451, 454, 566; — vendica la morte di Cristo, I, 377-81.

     TITO, I, 240, 245, 369, 371, 391, 392, 394, 396, 398, 399,
     400; II, 253, 537; — sua generosità, I, 402; — sua morte,
     492; — vendica la morte di Cristo, 391-2.

     TITO LIVIO, II, 164, 167.

     TIZIO, II, 375.

     TOLOMEO, II, 166, 181-2, 194, 586.

     TORINO, sua origine, I, 28.

     TORRE di Boezio in Pavia, II, 353.

     TORRE di Nerone, I, 355-6.

     TOTILA, I, 268, 271.

     TRADIZIONE romana, I, 1-2, 21-2; II, 168-9.

     TRAJANO: persecutore dei cristiani, II, 1-2; — leggenda
     della sua liberazione dalle pene dell'inferno, 3, 34, 566;
     — origini di essa, 34-40; — opinioni dei teologi intorno ad
     essa, 40-1.

     TREVIRI, I, 18, 28-9, 229.

     TRIBUTI pagati a Roma, I, 153-4.

     TRIONFI romani, I, 33; II, 572.


     UBERTI (famiglia), I, 29.

     ULISSE, II, 176, 177, 206.


     VALERIO MASSIMO, II, 164, 166, 186.

     VEGEZIO, II, 183.

     VENDETTA di Cristo, I, 345-7; — celebrità della leggenda,
     365-8; — sue origini, 368-78; — la _Cura sanitatis Tiberii_,
     379, 388-90; — la _Vindicta Salvatoris_, 391-6; — schema
     della leggenda, 401; — redazioni latine, 403-4; — redazioni
     francesi, 404-6; — redazioni italiane, 407-12; — redazioni
     provenzale, catalana, spagnuola, portoghese, 412-3; —
     redazioni tedesche, 413-4; — redazioni neerlandesi, 414; —
     redazioni anglo-sassoni e inglesi, 415; — misteri, 415; —
     poema francese, 429-30.

     VENERE, II, 175, 304, 371, 374, 381; — suo mito specialmente
     ricordato, 382-3; — culto poetico ad essa tributato, 383-4;
     — descritta, 384-5; — suo pianeta, 385-6; — trasformata
     in demonio, 387-8; — leggende medievali in cui comparisce,
     388-406; — la leggenda del giovane patrizio romano, 388-97;
     — statua di V. in Roma, 389, 394-6, 397-8; — la leggenda
     di Astrolabio, 397-8; — leggende affini alle precedenti,
     390-402; — leggenda di Tannhäuser, 403-6.

     VERONICA, I, 378, 381, 382, 383, 384, 385-6, 387, 388, 390,
     392; — sua leggenda, 383-6.

     VESPASIANO, I, 239, 240, 369, 371, 391, 392, 394, 396, 398,
     399; II, 587; — suo matrimonio, 401-2; — vendica la morte di
     Cristo, 391-2.

     VESSILLO di San Maurizio, II, 465.

     VILGARDO; grammatico da Verona, storiella che di lui si
     racconta, II, 158.

     VIRGILIO, I, 169, 196, 206-8, 213, 219, 272-3, 297, 301,
     357; II, 139-40, 155, 157, 165, 167, 171, 172, 173, 174,
     178, 179, 183, 186, 188, 189, 190, 263, 293, 319, 413, 567,
     574; — leggende paurose in cui è introdotto, 158-9; — sua
     celebrità e leggenda, 196-9; — riputazione di cui godette nel
     medio evo, 200-4; — profeta di Cristo, 204-7; — pianto da S.
     Paolo, 207-8; — cristiano, 207-8; — salvo, 208-9; — pagano
     e dannato, 209-10; — mago, 210-26, 237-58; — suoi nomi,
     214-5; — suo carattere nel _Dolopathos_, 216-21; — sepolto in
     Sicilia, 220-1; — sue opere meravigliose in Napoli, 222-6;
     — la leggenda popolare napoletana, 226-36; — sepolcro di V.
     in Napoli, 231-3; — la tradizione letteraria, 236-7; — altre
     meraviglie operate da V., 225, 226, 240; — meraviglie da lui
     operate in Roma, 241-3; — innamorato e ingannato si vendica,
     249-52; — leggenda allargata e depravata, 254-5; — morte di
     V., 255-8.

     VIRTÙ romane, I, 222-7.

     VITELLIO, I, 238-9.

     VOLUSIANO, I, 380, 381, 382, 388, 392, 396.

     VULCANO, II, 375.


     ZALEUCO, II, 28.



INDICE

dei Capitoli del secondo Volume.


  CAPITOLO XII.
  Trajano                                            _pag_.   1

  CAPITOLO XIII.
  Costantino Magno                                      »    46

  CAPITOLO XIV.
  Giuliano l'Apostata                                   »   121

  CAPITOLO XV.
  Gli autori latini nel medio evo                       »   153

  CAPITOLO XVI.
  Virgilio                                              »   196

  CAPITOLO XVII.
  Cicerone, Catone, Orazio, Ovidio, Seneca,
    Lucano, Stazio                                      »   259

  CAPITOLO XVIII.
  Severino Boezio                                       »   322

  CAPITOLO XIX.
  Gli dei di Roma                                       »   368

  CAPITOLO XX.
  Roma e la Chiesa                                      »   407

  CAPITOLO XXI.
  L'impero nel medio evo                                »   423

  CAPITOLO XXII.
  La fine di Roma e del suo impero                      »   470

  APPENDICE.

  La leggenda di Gog e Magog                            »   507
    § 1. La leggenda biblica                            »   509
    § 2. La leggenda epica                              »   517
    § 3. La leggenda storica                            »   548
    § 4. Il mito geografico                             »   557

  Aggiunte e correzioni al volume I                     »   565
  Aggiunte e correzioni al volume II                    »   583

  Indice analitico delle materie                        »   589



NOTE:


[1] _Parad_., c. XX, v. 44-48.

[2] Plinio il Giovane, mandato a reggere la provincia di Bitinia,
scrisse una lettera a Trajano per chiedere quali modi egli dovesse
tenere nel procedere contro ai cristiani. Nel Passio di sant'Ignazio
Trajano fa un'assai trista figura (V. la _Legenda aurea_ del VORAGINE,
c. 36: lo stesso nel racconto di un codice coptico che si conserva
nel Museo egizio di Torino). Sant'Agostino non lascia di ricordare,
fra le dieci persecuzioni che sino al tempo suo avevano afflitto la
Chiesa, anche quella di Trajano, che era stata la terza. (De Civ. Dei,
t. XVIII, c. 52). NICEFORO racconta nella _Historia ecclesiastica_,
l. III, c. 23, la storia seguente. Espugnata Antiochia, Trajano fece
mettere a morte, insieme con altri cristiani, cinque vergini, e ordinò
che delle ceneri di queste, miste con bronzo, si facessero vasi da
servire nelle pubbliche terme da lui costruite. Avvenne che chiunque
andava per lavarvisi era soprappreso da repentino malore. Conosciuta la
causa di ciò, Trajano ordinò si provvedessero alle terme altri vasi,
e di quelli, rifusi, fece fare cinque statue che rappresentavano le
cinque vergini, e furono erette davanti alle terme.

[3] _Hist. rom._, LXVIII, 7.

[4] Un esempio di tale amore riporta lo stesso Niceforo, l. c.

[5] _De laudibus divinae sapientiae_, dist. V, v. 231.

[6] Cf. C. DE LA BERGE, _Essai sur le règne de Trajan_, fasc. XXXII
della _Bibliothèque de l'École des hautes études_, 1877, p. 292.

[7] V. intorno a tale leggenda G. Paris, _La légende de Trajan_ nel
fasc. XXXV della _Bibliothèque de l'École des hautes études_, 1878,
p. 261-298. Di questo lavoro eccellente dell'illustre erudito mi sono
molto giovato nel presente capitolo, sebbene me ne scosti in alcune
conclusioni. V. inoltre MASSMANN, _Kaiserchronik_, v. III, p. 753-64
e D'ANCONA, _Le fonti del Novellino in Studi di critica e storia
letteraria_, Bologna 1880, p. 330-1.

[8] _Vita S. Gregorii Magni_, 22, ap. MABILLON, _Acta sanctorum ordinis
S. Benedicti_, sacc. I, p. 387-8. Precede il racconto di altri miracoli
operati dal santo pontefice. Ecco il testo: «Idem vero perfectissimus
et acceptabilis Deo Sacerdos, cum quadam die per forum Trajani,
quod opere mirifico constat esse extructum, procederet, et insignia
misericordiae ejus conspiceret, interque memorabile illud comperiret,
videlicet quod cum idem orbis princeps in expeditionem circumvallatus
militum cuneis pergeret, ibidem obviam habuerit vetustissimam viduam
senio simulque dolore ac paupertate confectam, cujus lacrymis atque
vocibus sic conpellatur: «Princeps piissimo Trajane; ecce hic sunt
homines qui modo mihi unicum filium, senectutis videlicet meae baculum
et omne solatium, occiderunt, meque una cum eo nolentes occidere,
dedignantur etiam mihi pro eo rationem aliquam reddere.» Cui ille
festinato, ut res exigebat, pertransiens: «Cum rediero, inquit, dicito
mihi, et faciam tibi omnem justitiam.» Tum illa «Domine, inquit, etsi
tu non redieris ego quid faciam?» Ad quam vocem substitit, et reos
coram se adduci fecit. Neque cum suggeretur a cunctis accelerare
negotium, gressum a loco movit, quousque et viduae a fisco quod
juridicis sanctionibus decretum est, persolvi pro re fecit, demumque
supplicationum precibus et fletibus super factis suis poenitentes
viscerali clementia flexus, non tam potestate quam precatu et lenitato
vinctos Praetorialibus catenis absolvit. Hujus rei gratia compunctus
venerabilis Pontifex, coepit lacrymosis gemitibus secum inter verba
precantia haec siquidem Prophetica et Evangelica revolvere oracula:
«Tu Domine dixisti: _Judicate pupillo, defendite viduam et venite et
arguite me_. Et alibi: _Dimittite et dimittetur vobis_. Ne immemor
sis quaeso. Peccator ego indignissimus propter nomen gloriae tuae et
fidelissimae promissionis tuae, in hujus devotissimi viri facto pietati
tuae humiliter supplico». Perveniensque ad sepulchrum Beati Petri, ibi
diutius oravit, et flevit, atque veluti somno correptus, in extasim est
raptus. Quo per revelationem exauditum se discit, et ne ulterius jam
talia de quoquam sine Baptismate sancto defuncto praesumeret petere,
promeruit castigari».

[9] Cap. 17. «Iam vero utrum aliquibus vir iste tanti meriti miraculis
claruerit, superfluo quaeritur, quod luce clarius constat quod is qui
virtutum signa suis meritis valuit aliis quocque Christo largiente
acquirere, si exegisset opportunitas, facilius poterat haec etiam
ipse promereri». L'interpolazione comincia subito dopo con le parole
_Sed ne his_, ecc. V. BETHMANN, _Paulus Diaconus Leben und Schriften_,
nell'_Archiv der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde_ del
Pertz, v. X, 1851, p. 305. Ad ogni modo l'argomento migliore per negare
l'autenticità a quei capitoli lo porge il fatto che Giovanni Diacono,
sebbene conosca la Vita scritta da Paolo, non solo non attinge da essa
quanto narra di Trajano, ma non fu neppure cenno di un racconto di
Paolo che a quella leggenda si riferisca.

[10] L. II, c. 44, ap. Mabillon, op. cit., sacc. I, p. 415-6.

[11] Legitur etiam penes easdem Anglorum Ecclesias, quod Gregorius per
forum Trajani, quod ipso quondam pulcherrimis aedificiis venustaret,
procedens, judicii ejus, quo viduam consolatus fuerat, recordatus atque
miratus sit: quod scilicet, sicut a prioribus traditur, ita se habet.
Quodam tempore Trajano ad imminentis belli procinctum vehementissime
festinanti, vidua quaedam processit debiliter dicens: Filius meus
innocens, te regnante peremptus est: obsecro, ut quia eunt mihi
reddere non vales, sanguinem ejus legaliter vindicare digneris. Cumque
Trajanus, si sanus reverteretur a proelio, hunc se vindicaturum per
omnia responderet, vidua dixit: Si tu in proelio mortuus fueris, quis
mihi praestabit? Trajanus dixit: Ille qui post me imperabit. Vidua
dixit: Et tibi quid proderit, si alter mihi justitiam fecerit? Trajanus
respondit: Utique nihil. Et vidua: Nonne, inquit, melius tibi est, ut
tu mihi justitiam facias, et tu pro hoc mercedem tuam recipias, quam
alteri hanc transmittas? Tunc Trajanus ratione pariter, pietateque
commotus, equo descendit, nec ante discessit, quam judicium viduae per
semel imminens profligaret. Hujus ergo mansuetudinem judicis asserunt
Gregorium recordatum ad sancti Petri Apostoli Basilicam pervenisse:
ibique tamdiu super errore tam clementissimi Principis deflevisse,
quousque responsum sequenti nocte cepisset, se pro Trajano fuisse
auditum, tantum pro nullo ulterius pagano preces effunderet.

[12] _Lectiones antiquae_, ed. del Basnage, t. II, parte II, p. 261.

[13] L'identità dura per tutto il tratto del racconto di Giovanni
Diacono compreso fra le parole: _Quodam tempore Trajano — pro nullo
ulterius pagano preces effunderet_.

[14] V. la dissertazione V del Lequien in testa al primo volume delle
opere di san Giovanni Damasceno nell'edizione da lui curata, p. LXIV,
col. 1.

[15] Da non confondere col poema provenzale di Girart de Rossilho, del
quale esiste un frammento di versione francese pubblicato dal MICHEL,
_Gerard de Rossillon_, Parigi 1856.

[16] _Le Roman en vers de très-excellent, puissant et noble homme
Girart de Roussillon_, pubblicato dal MIGNARD, Parigi, 1858, v. 2970.

[17] Tuttavia non è improbabile che prima di Giovanni Sarisberiense,
e fuori d'Inghilterra, da qualcun altro sia stato fatto ricordo della
leggenda. È da deplorare a tale proposito che i Bollandisti non abbiano
stimato opportuno di pubblicare un poema assai antico della vita di
Gregorio, scritto in forma di dialogo, in versi leonini, e del quale
si dà un brevissimo saggio nel vol. II del mese di Marzo degli _Acta
sanctorum_, p. 122, col. 2ª.

[18] _Polycrat_., l. V, c. 8.

[19] L'auteur du _Policraticus_ parait, comme je l'ai dit, avoir eu
sous les yeux les deux versions anciennes: il a emprunté à Paul le
nombre pluriel des meurtriers, les expressions _quum rediero_ (dans
Jean _si sanus reverteretur_) et si _non redieris_ (dans Jean _si tu
in proelio mortuus fueris_); il a pris à Jean l'épithète d'innocent
donnée au fils, l'amplification du dialogue (qu'il a lui-même varié et
allongé en partie, bien qu'en supprimant la réplique de Trajan: _utique
nihil_), et enfin la mention du cheval. Il a ajouté de son chef, outre
les réflexions insérées dans le dialogue, un détail pittoresque: la
veuve arrête l'empereur à cheval en le saisissant par le pied. Dissert.
cit., p. 264.

[20] Citati dal MASSMANN, _Kaiserchronik_, v. III, p. 753 e da Gaston
Paris, p. 263.

[21] Ap. PERTZ, _Scriptores_, t. XVI, p. 112.

[22] _Summa praedicantium_, lett. J, XIII, 8.

[23] Ap. LEIBNITZ, _Scriptores rerum brunsvicensium_, t. II, p. 1025.

[24] _Speculum Regum_, ap. PERTZ, _Script._, t. XXII, v. 948-68.
Gotofredo aggiunge al racconto di Giovanni alcune particolarità:

    Prelia gesturus procedit ab Urbe monarchus,
    Pontis aput Tiberim properans dum transiit arcus,
        Obvia stat vidua, mota querela sonat.
    _Stes_, ait illa, _meum reddens ulciscere natum;_
    _Nam morior, dum sic video cervice necatum._
        _Hoc scelus imperium vindicet: ecce capud._
    Cesar ait: _Pugnabo prius studeamque redire._
    Illa refert: _Si non redeas, quo vindice fiet?_
        _Nec Deus hic laudem te meruisse sciet._
    Rex stetit attonitus; iubet ut vindicta feratur.
    Post abiit, set non rediit quia marte necatur,
        Unde sibi laudem, rex meruisse datur.
    Hoc pietatis opus dum Gregorio memoratur,
    Ingemuit pro morte viri, digne lacrimatur,
        Orat, ut alma Dei dextera parcat ei.
    Dum iacet in precibus, stans angelus increpat illum:
    _Scis quia non habuit baptismatis ille sigillum,_
        _Quomodo cum lacrimis dona neganda petis?_
    _Ast homo tu pacis opus expetis hoc pietatis,_
    [_Quo semel indulto, non amplius ista petatis,_]
        _Iste modo requiem te lacrimante capit._

Per quanto io so, Gotofredo, e un suo commentatore di cui dirò più
oltre, sono i soli che facciano morire Trajano in guerra. Confrontisi
col racconto che lo stesso Gotofredo introduce nel _Pantheon_, partic.
XV, ap. PISTORIUS, _Rer. germ. script._, ed. dello Struvio, t. II, p.
258.

[25] L. XI, c. 46. Notisi tuttavia che in questo luogo Vincenzo
Bellovacense narra la sola prima parte della leggenda, quella cioè che
si riferisce all'atto di giustizia di Trajano, mentre della seconda,
che concerne il miracolo, tocca appena di volo molto più innanzi, nel
c. 22 del l. XXIII, raccontando la vita di san Gregorio. Ciò importa
non poco alle cose che seguono. La cronaca di Elinando pare sia andata
perduta, meno i cinque ultimi libri (erano in tutto quarantanove) che
furono pubblicati, e nemmeno per intero, nel t. VII della _Bibliotheca
patrum Cistercensium_ del Tissier. In alcuno dei libri perduti era la
storia di Trajano. Se Vincenzo abbia trascritto senz'altro le parole di
Elinando è dubbio; ma la dicitura di alcuni testi che citano Elinando
direttamente farebbe credere che Vincenzo v'avesse fatta qualche
piccola alterazione.

[26] Il _Fiore di filosofi e di molti savi_ fu pubblicato primamente
dal Nannucci, che lo attribuì, con assai poco fondamento, all'autore
del Tesoro. (V. _Manuale della letteratura del primo secolo della
lingua italiana_, 3ª ed., Firenze, 1874, p. 300-23; il racconto
_Della giustizia di Trajano_ sta a p. 315-6); poi dal Palermo nella
_Raccolta di testi inediti del buon secolo_ stampata a Napoli nel
1840; finalmente da Antonio Cappelli, _Scelta di curiosità letterarie_,
disp. LXIII, Bologna, 1865. Qui il racconto della giustizia di Trajano
(Troglano) sta a p. 58-61. A proposito della falsa attribuzione
di questo scritto fatta a Brunetto Latini, v. SUNDBY, _Brunetto
Latinos Levnet og Skriften_, Kopenhagen, 1869, p. 54-5; CAPPELLI,
op. cit., prefazione, p. XVI-XVIII; D'ANCONA, op. cit., p. 258-9.
Gli è certamente per una svista che Gaston Paris dice il racconto del
_Fiore di filosofi_ derivare dal racconto del _Policratico_. Ecco le
sue proprie parole: «C'est sans doute directement du Policraticus que
notre récit avait passé dans une compilation latine qui ne s'est pas
encore retrouvée, mais dont nous possédons une traduction italienne,
intitulée _Fiore di filosofi_, et attribuée sans motifs suffisants à
Brunetto Latino. L'auteur, qui écrivait certainement au XIII siècle,
a traduit exactement son original, ajoutant seulement quelques mots à
la seconde réplique de la veuve. Trajan lui dit: «E s'io non reggio,
e' ti soddisfarà il successore mio». Elle répond: «_E io come il
so? E pognamo ch'elli lo faccia,_ a te che fia se quell'altro farà
bene?» A la fin aussi, le traducteur italien (ou peut-être déja le
compilateur latin qu'il traduisait) a cru devoir ajouter: «E poscia
salio a cavallo, e andò alla battaglia e sconfisse li nimici». — Anzi
tutto è da chiedere: ci fu egli una compilazione latina di cui il
_Fiore di filosofi_ non sarebbe se non la versione? Il Sundby, citato
dal Paris a questo punto, dice solo, parlando in generale (op. cit.,
p. 52) che le raccolte di detti di filosofi di cui vanno largamente
provvedute le letterature del medio evo risalgono a sorgenti latine,
e ciò non si può mettere in dubbio. Ma da questa sorgente comune il
_Fiore di filosofi_ pare che siasi scostato appunto a proposito della
storia di Trajano, della quale in altre raccolte consimili non si trova
fatto ricordo (V. l'op. cit. del Sundby, p. 52-4, e i testi spagnuoli
pubblicati dal KNUST, _Mittheilungen aus dem Eskurial, Bibl. d. litter.
Vereins_, 1879). Che poi il racconto inserito nel Fiore derivi da
quello dello _Speculum_ e non da quello del _Policratico_, si può
dimostrare agevolmente con un confronto di testi. A tal uopo io reco
qui parallelamente i due primi, ponendo in corsivo quanto, essendo a
entrambi comune, non si riscontra nel terzo, il che, se non è molto, è
pur tuttavia sufficiente a far pienissima prova.

  SPECULUM HISTORIALE

  (_Ed. principe di Giov. Mentellin._)

  Hic aliquando cum profecturus ad bellum iam equum ascendisset,
  vidua quaedam apprehenso pede illius miserabiliter lugens iusticiam
  sibi fieri de his qui filium ejus iustissimum et innocentissimum
  occiderant prosceba(n)t. Tu, inquiens, Auguste, imperas, et ego
  tam atrocem iniuriam pacior? Ego, ait ille, satisfaciam tibi cum
  rediero. Quid si non redieris? ait illa. Successor, inquit, meus
  satisfaciet tibi. At illa: _Quomodo hoc sciam?_ Quod et si facturus
  est, quid tibi proderit si alius bene fecerit? Tu michi debitor
  es, secundum opera tua mercedem recepturus. Frans autem est nolle
  reddere quod debetur. Successor tuus iniuriam pacientibus _vel
  passuris_ per se tenebitur; te non liberabit iusticia aliena.
  Bene agetur cum successore tuo si liberaverit seipsum. His verbis
  motus Traianus descendit de equo, et causam vidue presencialiter
  examinavit, et condigna satisfactione viduam consolatus est.

  FIORE DI FILOSOFI

  (_Testo del Nannucci._)

  Trajano fue imperadore molto giusto, ed essendo uno die salito
  a cavallo per andare alla battaglia colla cavalleria sua, una
  femmina venne e preseli l'un piede, e piangendo molto teneramente
  domandavalo e richiedevalo che li facesse diritto di coloro, che
  l'aveano morto uno suo figliuolo, il quale era _giustissimo_, sanza
  cagione. E _quegli_ rispose e disse: Io ti soddisfarò quando io
  reddirò. E quella disse: E se tu non riedi? E que' rispose: E s'io
  non reggio, e' ti soddisfarà il successore mio. E quella disse:
  _E io come il so?_ e pognamo ch'elli lo faccia, a te che fia, se
  quell'altro farà bene? tu mi se' debitore, e secondo l'opere tu
  sarai giudicato: frode è non volere reddere quello che l'uomo dee;
  l'altrui giustizia non libera te, e ben sarà al successore tuo
  s'elli liberrà se medesimo. Per queste parole mosso l'imperadore
  scese da cavallo e fece la giustizia e consolò la vedova, e poscia
  salio a cavallo, e andò alla battaglia, e sconfisse li nemici.

Le parole _E io come il so?_ non sono dunque aggiunte dall'autore del
_Fiore di filosofi_, ma tolte, insieme col resto, da Elinando o da
Vincenzo Bellovacense. Ho citato il testo del _Fiore_ pubblicato dal
Nannucci, perchè è quello a cui si riferisce il Paris; ma il testo
del Cappelli si accosta ancor di più allo _Speculum_, giacchè dove
questo dice _filium ejus justissimum et innocentissimum_, esso traduce
correttamente per intero _un suo figliuolo ch'era giustissimo e senza
colpa_, e dove lo _Speculum_ dice: _Successor tuus iniuriam pacientibus
vel passuris per se tenebitur_, proposizione a dirittura saltata nel
testo del Nannucci, esso pone: _Lo successore tuo a quelli che hanno
ricevuto e riceveranno ingiuria sarà tenuto per sè_. Ora quel _vel
passuris_ nel racconto del _Policratico_ non si trova. Erra similmente
il Bartoli quando, raffrontati fra loro i testi della _Legenda
aurea_, del _Fiore_ e del _Novellino_, dice (_I primi due secoli
della letteratura italiana_, Milano, 1873, p. 294) che il racconto del
_Fiore_ deriva dalla _Legenda aurea_. Ecco finalmente un'altra prova,
se d'altre prove è pur bisogno, della derivazione del racconto del
_Fiore_ dallo _Speculum_. Ho già detto che nel c. 46 del l. XI Vincenzo
Bellovacense narra la giustizia di Trajano, non la sua salvazione, la
quale è narrata nel c. 22 del l. XXIII. Ora, per questa seconda parte
della leggenda, l'ignoto compilatore del _Fiore_ non si attiene alla
tradizione più antica e più comune, ch'è quella stessa accolta da
Paolo, da Giovanni e poi dal Sarisberiense; ma ne accetta un'altra,
dove al primo miracolo se ne aggiunge un secondo, e che io esporrò tra
breve. Il difetto del racconto di Vincenzo Bellovacense spiega questo
rivolgersi del compilatore ad altre fonti.

[27] Circa le attinenze del _Novellino_ col _Fiore_ v. D'Ancona,
op. cit., p. 257-8; BARTOLI, _I primi due secoli della letteratura
italiana_, p. 293-4 e _Storia della letteratura italiana_, v. III,
p. 213-6. Nel _Novellino_, come nel _Fiore_ (testo del Nannucci),
manca la corrispondenza delle parole dello Speculum: _Successor tuus
iniuriam pacientibus vel passuris per se tenebitur_; comune per contro
ad entrambi è la notizia soggiunta in fine al racconto della fatta
giustizia, che Trajano cavalcò e sconfisse i suoi nemici, la quale
nello _Speculum_ non si trova; comune del pari la nuova tradizione
circa il miracolo alla quale ho accennato. Notisi tuttavia che nel
racconto LVIII del testo Panciatichiano-Palatino appare una variante
della leggenda, di cui non è traccia nel _Fiore_, e di cui parlerò
più oltre; quella cioè che l'uccisore del figliuolo della vedova sia
lo stesso figlio di Trajano. V. BIAGI, _Le novelle antiche dei codici
Panciatichiano-Palatino 138 e Laurenziano-Gaddiano 193_, Firenze, 1880.
Ma tale redazione del racconto è posteriore all'altra.

[28] _Purgat._, c. X, v. 73-93.

[29] Qual è la fonte a cui attinse Dante? Già il Nannucci avvertì (op.
cit., ed. cit., v. II, p. 315, n. 10) che Dante usa quasi le medesime
parole del _Fiore di filosofi_, e il riscontro in più particolar
modo fra le parole: _a te che fia, se quell'altro farà bene?_ di
questo, e le rispondenti: _L'altrui bene A te che fia?_ del poema,
difficilmente si può ritenere fortuito. Nullameno, poichè quell'uso
del verbo essere non è senz'altri esempii, potrebbe pur darsi che così
l'autore del _Fiore_ come Dante avessero tradotto a un medesimo modo
il _quod tibi proderit si alius bene fecerit_ che si trova anche nel
_Policratico_, senza che ci fosse imitazione per parte del poeta. Vero
è che le parole _Intorno a lui parea calcato e pieno Di cavalieri_,
le quali non hanno riscontro nello _Speculum_, nè nel _Polycraticus_,
parrebbero rimandare ancor esse al _Fiore_, dove è fatta espressa
menzione della _cavalleria_ che accompagna Trajano (_la sua grande
cavalleria_ nel _Novellino_); ma esse si riscontrerebbero ancor più
con quelle di Paolo Diacono che dice: _circumvallatus militum cuneis
pergeret_; e d'altra banda il Paris fa giustamente osservare (p. 267,
n. 2) che l'ultimo verso, _Giustizia vuole, e pietà mi ritiene_, ha con
le parole di Giovanni Diacono _ratione pariter et pietate commotus_
tale somiglianza che difficilmente può essere creduta casuale. Il
Mazzoni, non conoscendo altre relazioni della leggenda, credeva che
Dante avesse potuto derivare il suo racconto dallo _Speculum regum_ di
Gotofredo da Viterbo. V. _Della difesa della commedia di Dante_, ed. di
Cesena, 1688, v. I, p. 600-1. Chi vuol vedere come un altro poeta, di
poco posteriore a Dante, ma per forza d'ingegno troppo lontano da lui,
narrò il medesimo fatto, legga i seguenti versi che appartengono al già
citato _Roman de Girart de Roussillon_ (v. 2971-2994):

    Une fois fut montés pour aller en bataille;
    Quar grans besoings estoit, bien le sauoit sans faille,
    Vist une poure femme vesue vers li venant,
    Merci criant, le prist par le pié maintenant,
    Et dist: Drois emperieres, vainge moi de la mort
    D'ung mien cheualier filz c'ung tiens mortriers m'a mort.
    Tu m'es sires, mes juges, fai moi tantos droiture:
    Li cuers me partira se ne vainges m'injure.
    Li rois dist: Tres bon droit te ferai au retour.
    — Et se tu ne reuiens, qui me fera cel tour?
    — Mes successors, dist-il, t'en fera droit auoir.
    — Lasse moi tres dolante, ce ne puis je sauoir!
    Et s'il le faceoit bien, que te profiteroit
    La venjance et le bien c'ung autre me feroit?
    Tu es mes debitors, tu me dois auoier
    Si que de bon merite recoures bon loier.
    Tes successors sera pour li propre tenus:
    S'il fait bien enuers Dieu sera tres bien venus,
    Ja droiture d'autrui no te deliurera:
    Qui bien fera ou monde cilz touz biens trouera.
    — Quant li rois out oï, du cheual declina,
    La cause de la vesue tres bien examina,
    Selonc droit com bons juges sentence rapourta,
    La poure bien dolente tres bien reconforta.

Il verso _Lasse moi tres dolante, ce ne puis je sauoir!_ mostra che
il poeta attinse dallo _Speculum_. V. KÖHLER, _Die Beispiele aus
Geschichte und Dichtung in dem altfranzösischen Roman von Girart de
Roussillon_, in _Jahrbuch für romanische und englische Sprache und
Literatur_, Neue Folge, v. II, p. 20.

[30] V. 5879-80.

[31] V. 5865-78.

[32] V. 5893-6039.

[33] V. MASSMANN, _Kaiserch_., v. III, p. 762-4.

[34] Id., ibid., p. 753-5.

[35] Ap. PERTZ, _Script_., t. XXII.

[36] _Legenda aurea_, c. XLVI, 10.

[37] Cap. LXVIII. Avvertasi che la _Legenda aurea_ e il _Dialogus_
hanno la stessa identica dicitura.

[38] Qui, ma anche altrove, non è la vedova a chiedere il figliuolo di
Trajano, è Trajano che pone nell'arbitrio della vedova o di tor quello
per suo, o di far eseguire la sentenza: «Or vedi costui che è mo mio
figliuolo, è quello che ha commesso l'omicidio. Qual vuoi tu innanzi
o ch'ello mora, o ch'io tel dia per tuo figliuolo? E sappi certamente
ch'io il ti darò sì libero ch'io non avrò più a fare in lui, nè elli
in me, e sarà così tuo suddito, come se tu l'avessi portato nel tuo
corpo».

[39] L. IX, c. 30.

[40] Cod. dell'universitaria di Bologna, 432. Trajano dà il figliuolo
alla vedova dotandolo riccamente: «Et adoctollo molto nobilmente
dipartendolo da se».

[41] Giovanni da Verona cita Giacomo da Voragine.

[42] L. II, c. 6.

[43] PARTHEY, _Mirabilia Romae_, p. 7-8. Per mostrare come si venissero
alterando intanto anche altre parti della tradizione riporterò qui
il racconto dei _Mirabilia_. «Sunt praeterea alii arcus qui non
sunt triumphales sed memoriales, ut est arcus Pietatis ante sanctam
Mariam rotundam, ubi cum esset imperator paratus in curru ad eundum
extra pugnaturus, quaedam paupercula vidua procidit ante pedes eius,
plorans et clamans: domine, antequam vadas mihi facias rationem,
cui cum promisisset in reditu facere plenissimum ius, dixit illa:
forsitan morieris prius, imperator hoc considerans praesiliit de curru,
ibique posuit consistorium, mulier inquit: habebam unicum filium, qui
interfectus est a quodam iuvene, ad hanc vocem sententiavit imperator:
moriatur, inquit, homicida et non vivat, morietur ergo filius tuus,
qui ludens cum filio occidit ipsum, qui cum duceretur ad mortem mulier
ingemuit voce magna: reddatur mihi iste moriturus in loco filii mei,
et sic erit mihi recompensatio, alioquin numquam me fateor plenum
ius accepisse, quod et factum est, et ditata multum ab imperatore
recessit». Qui il nome di Trajano è taciuto, com'è taciuto nel
_Dolopathos_; ma in altri testi dei _Mirabilia_ quel nome si ritrova,
e, per contro, l'uccisore non è più figliuolo dell'imperatore. Così
in un codice della Casanatense, segnato D, V, 13, al f. 148 r.: «.....
arcus pietatis ante sanctam Mariam Rotundam, ubi accidit quedam istoria
de paupere muliere cuius filius occisus erat a filio vicine sue, que
petiit ius sibi fieri ab imperatore Traiano peracto ire ad exercitum,
ecc.». Il nome di Trajano è taciuto anche da Giovanni d'Outremeuse,
il quale deriva evidentemente il suo racconto dai _Mirabilia_, ma
dice inoltre, raccostandosi a qualche fonte tedesca (v. i racconti di
Königshofen e della Cronaca di Colonia in Massmann, op. cit., v. III,
p. 754) che la vedova sposò il figlio dell'imperatore. V. _Ly myreur
des histors,_ v. I, p. 64.

[44] _Romance de la embajada que envió Danes Urgel, marques de Mántua
al Emperador_, ap. WOLF e HOFMANN, _Primavera y Flor de Romances_,
Berlino 1856, v. II, p. 200; DURAN, _Romancero general_, v. I, p. 213.

[45] _Johannis de Alta Silva Dolopathos sive de rege et septem
sapientibus_, pubblicato dall'OESTERLEY, Strasburgo e Londra, 1873, p.
62-3.

[46] Basterà recarne un esempio. Giovanni Diacono dice: _Tunc
Trajanus ratione pariter, pietateque commotus equo descendit, nec
ante discessit_, ecc.; e Giovanni di Alta Selva: _Motus rex tam
ratione vidue, quam etiam misericordia, dilato iterum bello ad urbem
regreditur_. Del resto il racconto, così del _Dolopathos_ latino come
del _Dolopathos_ francese, si mostra in più parti diverso dai racconti
posteriori, dove appare la stessa versione della leggenda. Un falco del
figliuolo del re uccide la gallina della vedova; il figliuolo di costei
uccide il falco, il figlio del re uccide lui. Il re lascia in facoltà
della vedova o di far morire, o di adottare il reo. Costei si apprende
al secondo partito, ed è menata a vivere in corte. Herbers allunga
il racconto di Giovanni di Alta Selva, ma senza aggiungere nulla di
nuovo. Nè quegli, nè questi fa cenno di un miracolo qualsiasi operato
in favore del giusto re. Può darsi che lo stesso Giovanni d'Alta
Selva, nutrendo forse come teologo quegli stessi dubbii in proposito
che altri nutriva sino dai tempi di Giovanni Diacono, abbia a questo
modo mutilato la leggenda, e per togliere di mezzo l'impaccio di una
connessione stretta già fermamente, abbia a dirittura taciuto il nome
di Trajano.

[47] Riportato dal Massmann, op. cit., v. III, p. 760-2. Anche qui la
giustizia di Trajano è celebrata altamente:

    Ein künic Trajânus hiez
    bì sînen zîten er vür sich nieman liez
    an grôzem gewalt,
    wan sîn gewalt was manicvalt.
    er rihte alsô starc,
    der im hiet geben tûsent marc
    von lûterem golde
    er rihte nicht wan als er solde.
    ez waere herre oder kneht
    er rihte niht wan nàch reht
    vriunt und mâgen und kindelîn
    kunden im sô liep niht sîn.

[48] Ibid., p. 755.

[49] _Legenda aurea_, c. XVIII.

[50] _De antiquorum Saxonum ritu_, l. I, c. 3, ap. LEIBNITZ,
_Scriptores rerum Brunsvicensium_, t. III, p. 611-2.

[51] V. i _Miracoli della Vergine_ stampati senza indicazione di luogo
l'anno 1489, c. XVIII e XX. Di una testa che sul campo di battaglia
di Nicopoli parlò e domandò di confessarsi narra il Bonfinio, _Rerum
hungaricarum_, dec. III, l. 3. Parecchi altri esempii di teste parlanti
v. in KORNMANN, _De miraculis mortuorum_, s. l., 1610, parte IV, cc.
XVIII, XIX. La immaginazione che il membro per cui fu compiuta alcuna
buona opera si serbi dopo la morte incorrotto è molto comune. A Venezia
si conserva intatto il braccio di san Giorgio che uccise il drago.
Tommaso Cantipratense racconta che l'occhio di san Lodovico, vescovo
Catalanense, fu trovato incorrotto dopo molti anni passati dalla sua
morte, e ciò perchè il santo aveva con isguardo sdegnoso respinto
l'invito disonesto di una regina di Francia (_Bonum universale de
proprietatibus apum_, l. II, c. 30, § 33). Parecchi narrano che avendo
Giuliano l'Apostata ordinato di bruciare le ossa di san Giovanni
Battista e di spargerne al vento le ceneri, tra le ossa fu trovato
intero ed incorrotto il dito con cui esso Giovanni accennò Gesù Cristo
dicendo: _Ecce agnus Dei_. (Kornmann, op. cit., parte III, c. X).
Per altro accade anche spesso che il membro incorrotto sia un membro
colpevole.

[52] Ap. PERTZ, _Script_., t. XVI, p. 112.

[53] Nel già citato commento allo _Speculum regum_ invece di Arcus
Pietatis si ha Porta Pietatis, e si dice che questa porta era presso a
un ponte, che non si nomina. San Gregorio vedendo le sculture di quella
porta s'informò di Trajano e de' suoi fatti. Narrata la giustizia di
Trajano, Giacomo da Varignana soggiunge: «Et per recordancia di questa
cosa fo facta una statua de ramo et posta in piaça. Nella quale con
meraviglioso artificio sono intagliate queste chose, aciò che li facti
del glorioso principe Traiano fossero perpetua recordança de soma pietà
et iusticia».

[54] _Commento alla Divina Commedia d'anonimo fiorentino del secolo
XIV_, nella _Collezione di opere inedite o rare dei primi tre secoli
della lingua_, Bologna 1866-74, v. II, p. 175.

[55] BALDUINO NINOVIENSE, Chronicon, p. 592 (_Collection des chroniques
belges inédites_): «Sanctus papa Gregorius primus, cum hoc et caetera
pietatis ejus studia legisset, miseratus quod tanta ejus pietas in
oblivione esset coram Deo, multum deflevit pro anima ejus». Balduino
dice che la vedova domandò giustizia a Trajano, ma non significa di
che.

[56] Vn iour aloit Saint Gregoire par le marchie de Romme si lui
souuint de Traien l'empereur qui fut droiturier en sa vie et deuant
toutes les autres choses si lui souuint d'une iustice que il fist vne
foys a une veuue dame. _De monseigneur Saint Gregoire_, cod. Fr. 413
della Bibliothèque Nationale di Parigi, fol. 129 r., col. 2ª.

[57] _Dittamondo_, l. II, c. 6.

[58] Testo del Nannucci; alquanto diversamente nel testo del Cappelli.

[59] Alberto Magno racconta, e Tommaso Cantipratense ripete, (_Bonum
universale de apibus_, l. II, c. LI, 11), la storia di un sant'uomo, il
quale essendo infermo, e chiedendo in grazia di poter morire, gli fu
per un angelo del Signore data la scelta fra il morir subito e passar
poi tre giorni in purgatorio, e il penare un altro anno infermo per
salire poi diritto in paradiso. Il sant'uomo elegge di morir subito, ma
sperimentate un giorno solo le pene del purgatorio, domanda di tornare
in vita e sostenere l'altra prova. Esempii simili a questo narrano
sant'Antonino e Pietro Reginaldetto.

[60] _Breviarium historicum_, ed. di Bonna, 1837, p. 8-9.

[61] V. Gaston Paris, dissert. cit., p. 289-94.

[62] V. JORDAN, _Topographie der Stadt Rom im Alterthum_, v. II, p.
118. Parmi che il Paris (p. 293-4) dia troppo poca importanza a quanto
nei _Mirabilia_ è detto dell'Arcus Pietatis. Gli è vero che nelle
recensioni più antiche di questo libro non si fa cenno della leggenda
di Trajano e dell'arco, ma nè esse, nè le posteriori registrano tutto;
e d'altra banda non si può ammettere che in codici scritti da Romani in
Roma siasi lasciata passare una indicazione a cui non corrispondessero
in qualche modo i fatti e la credenza popolare. I _Mirabilia_ non
fanno motto di bassorilievi, nè d'altre sculture, e dicono solamente
che l'arco fu innalzato a ricordanza dell'atto di Trajano; ma si può
credere che senza una qualche opera di scalpello con cui, o bene o
male, si potesse far riscontrare la leggenda, questa non si sarebbe
legata all'arco. In quella scoltura il presunto Trajano era forse
rappresentato, non a cavallo, ma sedente in un carro.

[63] _Adnotationes elucidariae in Evangelium Johannis_, c. XV, 22.

[64] Dissert. cit., p. 295-7.

[65] V. su questo argomento la citata dissertazione del Lequien,
la nota di Consalvo Durant al c. 13 del l. IV delle _Revelationes_
di santa Brigida, ed. di Anversa, 1611, p. 222-3; la dissertazione
XXVII nel volume XIV delle opere di Alfonso Salmeron; ma soprattutto
lo scritto dello spagnuolo ALFONSO CHACON, _Tractatus de liberatione
animae Trajani imperatoris a poenis inferni precibus sancti Gregorii
P. M._, Roma, 1589, scritto che godette di molta riputazione e fu
stampato anche tradotto in italiano (Siena, 1595) e in francese(1607);
BRUSCO, _Redarguitio historiae de anima Trajani ex inferni suppliciis
liberata_, Verona, 1624; PREUSER, _Dissertatio de Trajano imperatore
precibus Gregorii Magni ex infero liberata_, Lipsia, 1710.

[66] _Parad_., c. XX, v. 106-7.

[67] V. per esempio GONZALO DE BERCEO, _Milagros de Nuestra Señora_,
VII; GAUTIER DE COINSY, _Miracles de la Vierge_, l. II. Storie simili
si trovano in _Ildefonso Toletano_, _Liber miraculorum sanctae Mariae
Virginis_, cod. 946 della Bibliothèque de l'Arsenal in Parigi, f. 3 v.
a 4 r., e in Valperto di Ahusla, Liber miraculorum Virginis Mariae,
cod. lat. 4350 della Biblioteca Regia di Monaco, f. 14 r. Vincenzo
Bellovacense racconta nel l. XXII, cap. 97 dello _Speculum historiale_
il seguente miracolo. San Maclonio, o Macute, insieme con san Brandano
ed altri uomini santi, si mise una volta in mare per ricercare certa
isola denominata Ima, la quale somigliava al Paradiso terrestre. Dopo
sette anni di navigazione giunsero ad un'altra isola, dove trovarono
uno smisurato sepolcro che conteneva il corpo di un gigante. Per le
preghiere di san Maclovio il gigante risuscita, dice come fosse stato
idolatra, come fosse dannato, e impetra il battesimo che gli è dal
santo impartito. Dopo non molto tempo il gigante rimuore e i santi
uomini ne raccomandano l'anima a Dio. Nella Vita anonima di san Cadoco
si narra similmente come per le preghiere del santo un gigante, la
cui anima era già dannata in inferno, risuscitò, e, dopo aver condotto
vita esemplare, fu salvo. (_Acta Sanct_., t. II di Gennaio, p. 605).
Racconta il PASSAVANTI, _Specchio della vera penitenza_, dist. V, c.
3, la storia di una donna, la quale morì senza confessarsi di certo suo
peccato. Tornata l'anima al corpo per intercessione di san Francesco, e
compiuta la confessione, fu salva.

[68] V. la _Vie du pape Grégoire le Grand_ pubblicata dal LUZARCHE,
Tours, 1857, in fine, e il _Gregor auf dem Steine_ di HARTMANN VON AUE,
v. 3735-8 in GREITH, _Spicilegium vaticanum_, Frauenfeld, 1838, p. 303.

[69] Cap. 83, ed. dell'Oesterley. La favola si trova narrata
da Fredegario nel VII secolo, da Aimoino verso il 1000, poi
nella _Kaiserchronik_, ecc. V. GOEDECKE, _Deutsche Dichtung des
Mittelalters_, Hannover, 1854, p. 628; J. GRIMM e A. SCHMELLER,
_Lateinische Gedichte des X. und XI. Jh._, Gottinga, 1838, p. 343-4.

[70] _The early english versions of the Gesta Romanorum, English Text
Society_, Londra, 1879, p. 45-6. Nel _Dolopathos_ di GIOVANNI DI ALTA
SELVA il caso si pone ai tempi dei primi re di Roma. V. MUSSAFIA nei
_Sitzungsberichte_ dell'Accademia di Vienna, phil.-histor. cl., v.
LXIV, p. 595 segg.

[71] Pubblicato per intero primamente dall'ORELLI, _Opuscula Graecorum
veterum sententiosa et moralia_, Lipsia, 1819-21, v. I, p. 208-13.
V. inoltre REVILLOUT, _Vie et Sentences de Secundus d'après divers
manuscrits orientaux_, Parigi, 1873.

[72] V. VINCENZO BELLOVACENSE, _Speculum historiale_, l. XI, c.
70 seg.; SANT'ANTONINO, _Historiarum_ P. I, tit. VII, c. IV, § 1;
GUALTIERO BURLEY, _Liber de vita ac moribus philosophorum poetarumque
veterum._

[73] Una versione francese contiene il cod. Fr. 1553 della Bibl. Nat.
di Parigi. La storia è riferita da GIOVANNI D'OUTREMEUSE, _Ly myreur
des histors_, v. I, p. 537-42.

[74] Versioni italiane si hanno nel _Fiore di filosofi_, nelle _Novelle
antiche_ pubblicate dal Biagi e in molti manoscritti.

[75] V. _Capitulo de las cosas que escribio por respuesta el filosofo
Segundo a las cosas que le pregunto el emperador Adriano_, in KNUST,
_Mittheilungen aus dem Eskurial_, p. 498-506. Il racconto si ha pure
nella Cronaca di Alfonso il Savio, parte I, c. 120.

[76] FABRICIUS, _Bibliotheca graeca_, t. III.

[77] La redazione in versi credo sia tuttora inedita (V. WARTON,
_History of english Poetry_, ed. dell'Hazlitt, v. II, p. 183). La
redazione in prosa fu ristampata a Londra dall'Halliwel nel 1860.
Essa è intitolata: _The wyse child and the emperor Adrian; a dialogue
resembling that of Salomon and Saturn._

[78] Il suo nome è registrato anche in alcuni calendarii d'Occidente.
V. HOSPINIANUS, _De Fest. Christ_., f. 52 b. Dante pone Costantino
in Giove, tra gli spiriti _sommi_ che formano l'occhio dell'aquila
simbolica. _Parad_., c. XX, v. 55-7. Non so so nel popolo, in qualche
parte dell'Europa occidentale, siavi ora nessuna credenza intorno alla
santità di Costantino. A Neumagen, l'antico Noviomagus, si crede che
in quel luogo Costantino vide in cielo la croce e le famose parole: _In
hoc signo vinces_.

[79] _Hist. eccles_., l. I, c. 34.

[80] V. il _Livere de reis de Brittaine_, p. 18-20, il _Livere de
reis de Engletere_, p. 64, e il _Liber monasterii de Hyda_ edito da E.
Edwards (_Rer. Brit. m. ae. script._), p. 117. V. anche più oltre al c.
XXI.

[81] ENRICO DI KNYGHTON, _De eventibus Angliae_, l. I, c. V, ap.
TWYSDEN, _Historiae anglicanae scriptores X_, v. II, col. 2323-4.

[82] Nel medio evo i cavalieri cristiani cercavano di accrescere la
virtù dell'armi loro mediante qualche preziosa reliquia. La spada che
Orlando aveva ricevuto in dono da Carlo Magno conteneva nel pomo un
dente di San Pietro, sangue di San Basilio, capelli di San Dionigi, un
frusto della veste della Vergine. _La chanson de Roland_, v. 2345-8.

[83] Questa novella, in prosa, fu pubblicata dal MOLAND e dal
D'HÉRICAULT nelle _Nouvelles françoises en prose du XIII siècle_,
Parigi, 1856. Ebbevene anche una versione poetica, pubblicata dal
WESSELOWSKY, _Le dit de l'empereur Coustant,_ nella _ Romania_, v. VI
(1877), p. 162-9, ancor essa del XIII secolo. L'editore fece seguire
al testo uno studio circa l'indole e le attinenze della leggenda (p.
169-98), nel quale sono molte buone osservazioni, ma anche alcuni
errori che furono già rilevati da altri.

[84] Il racconto in verso differisce in qualche punto da quello in
prosa, sebbene in sostanza concordi con esso, e mostri di provenire
dalla medesima fonte. L'imperatore di Bizanzio si chiama Floriiens
invece di Muselins. Marito alla figliuola dell'imperatore Augusto,

            qui tint Rommenie
    Et le roiaume d'Italie
    Qui Lombardie est appiellee,

egli ebbe il dolore di perdere la sposa, che svisceratamente amava, e
che gli lasciò un'unica figlia chiamata Sebelinne o Sebile. Il medico
chiamato a curare il bambino domanda dugento bisanti, ma poi di cento
si contenta.

[85] Il Wesselowsky cade in un grave errore quando pone la leggenda
testè riferita fra quelle concernenti la giovinezza di Costantino,
e crede che il nome di Constant serva a designare costui: ..... _le
nom du héros principal est Constant; il s'entend que c'est Constantin
le Grand, puisque le nom de Constant y est mis en rapport avec la
dénomination de Constantinople_. (P. 170). Anzi tutto si vuol notare
che nelle leggende le quali veramente riguardano la nascita e la
giovinezza di Costantino, è fatta sempre debita menzione, così di
Elena, come di Costanzo, i quali nel racconto francese non compajono
nè punto nè poco. Poi, quanto nello stesso racconto si dice del nome di
Costantinopoli prova appunto che Constant è Costanzo e non Costantino.
Nel testo in prosa si legge in fine: _Et engendra li enperères Coustans
en sa fame un oir marle ki ot a non Constentins, ki fu puis molt
preudom. Et si fu puis la cités apielée Coustantinoble, pour son père
Coustant ki tant cousta, ki devant avoit esté apielée Bisanche_. Il
testo in verso non fa menzione di Costantino, ma dice che i cittadini
di Bizanzio mutarono, in onor di Costanzo, il nome della loro città:

    Pour ce que si nobles estoit
    Et que nobles oevres faisoit,
    L'appielloient Coustant le noble:
    Et pour çou ot Coustantinoble
    Li cyté de Bissece a nom,
    Qui encore est de grant regnom.

Tanto nel racconto in prosa, quanto nel racconto in verso, Costanzo
è cristiano sino dall'infanzia, e, divenuto imperatore, converte alla
fede i suoi popoli. Queste sono particolarità evidentemente trasportate
dal Costantino leggendario a Costanzo, ma che non mostrano punto
che Costanzo sia Costantino. La leggenda di Costanzo rimane in tutto
estranea alla leggenda della nascita e della infanzia di Costantino;
essa altro non è che la nota fiaba popolare del _fanciullo fatale e
della lettera scambiata_, diffusa non meno in Asia che in Europa, e
qui, per una delle solite fantasie, appropriata a Costanzo.

[86] Cap. XXI, ap. GALE, _Historiae britannicae et anglicanae
scriptores XX_, v. I, p. 103. In altre edizioni della Historia Britonum
ciò si trova narrato di Costanzo figliuolo di Costantino; la città
si chiama Cair Segeint, e i tre semi sono di oro, argento e bronzo.
_Nennii Historia Britonum. Ad fidem codicum manuscriptorum recensuit
Josephus Stevenson_, Londra, 1838, § 25.

[87] Οὖτος ἐξ ἀφανῶν τίκτεται τῷ βασιλεῖ Κωνσταντίῳ, γνωρισθεὶς δὲ τῷ
πατρὶ κατά τινας γνωρίμους τρόπους· ὃς κατά τινα τύχην ἔγνω τοὺς τόπους
καταλιπεῖν, ἐν οῖς διέτριβεν, ἐξορμῆσαι δὲ πρὸς τὸν πατέρα Κωνστάντιον,
ἐν τοῖς ὑπὲρ τας Ἄλπεις ἔθνεσιν ὄντα καὶ Βρετανίᾳ συνεχέστερον
ἐνδημοῦντα. θεασάμενος δὲ αὐτὸν ὁ πατὴρ χειροτονεῖ βασιλέα, τοὺς ἐκ τῆς
Θεοδώρας ὐἱεῖς καταλιπών, ἰδὼν αὐτὸν εῦ ἔχοντα σώματος.

[88] _Historiae novae_, I. II, 8, 9: ἐξ ὃμιλίας γυναικὸς οὐ σεμνῆς οὐδὲ
κατὰ νόμον συνελθούσης.

[89] _Brev. hist. rom._, I. X, 2: Constantinus Constantii filius ex
obscuriore matrimonio.

[90] V. gli _Acta Sanctorum_, v. III del mese di Maggio, p.
548-80; HARTMANN, _Dissertatio historica de Helena Constantini
Magni imperatoris matre_, Marburgo, 1733; DOUHET, _Dictionnaire
des légendes_, p. 513-23; LUCOT, _Sainte Hélène mère de l'empereur
Constantin, d'après des documents inédits_, Parigi, 1877.

[91] Ed. di Bonna, v. I, p. 517.

[92] _Chronographia_, ed. di Bonna, 1839-41, v. I, p. 24.

[93] _Histor. comp_., ed. di Bonna, v. I, p. 476: ἀλλὰ καὶ τὸ ὡς
νόθον διαβάλλειν αὐτόν πασης κακίας ἐστίν. Se Costantino sia nato
spurio discusse lo Scaligero nelle note ad Eusebio, e discussero poi
più altri. V. WEIDENER, _Dissertatio historica de Constantino Magno,
qua illum honeste et ex legitimo matrimonio natum contra G. Arnoldum
vindicatur ac defenditur_, Rostock, 1702.

[94] Per quanto concerne quest'ultima pretensione v. TOLA, _Corona
de los triumphos de los santos del regno de Sardeña, en el cual se
prueba con algunas breves y succintas razones que S. Elena, madre del
emperador Constantino Magno, fue Sarda,_ Roma, 1653.

[95] V. il poema di Sant'Elena pubblicato insieme con quello di
Sant'Andrea da Giacomo Grimm a Cassel nel 1840.

[96] _Vita Helenae, Acta Sanctorum_, v. III del mese di Agosto, p.
580-99.

[97] _De inventione Sanctae Crucis, Opera_, ed. del Beaugendre, col.
1255-60.

[98] _Legenda aurea_, c. LXVIII (ed. del Grässe), _De inventione
sanctae crucis_.

[99] V. 7623-96. La tradizione è ricordata anche da Ottone di Frisinga
e da Hermann von Fritslar. V. MASSMANN, _Kaiserchronik_, v. III, p.
847.

[100] Jean de Waurin dice (_Recueil des chroniques et anchiennes
istories de la Grant Bretaigne_, l. II, c. 43) che Costanzo sposò Elena
in legittime nozze; nell'_Eulogium_ si dice invece (v. I, p. 337) che
la tenne come concubina, il che è ripetuto da Jacob von Königshofen.
In una _Historia Brutonum_ in anglosassone, scritta da Laghamon,
contemporaneo di Gualtiero Mapes (cod. Cottoniano Caligula, A, IX, f.
64 v.), il re Coel dà la figliuola in isposa, e cede in pari tempo
il regno a Costanzo. Goffredo di Monmouth racconta invece nella sua
_Historia Britonum_, l. V, c. 6-11 (seguito da WACE, _Roman de Brut_,
v. 5713-77), che avendo il duca Coel di Colcester ucciso Asclepiodoto,
ed essendo salito sul trono di Bretagna, da Roma fu mandato Costanzo,
al quale Coel diede prova di sommessione, e chiese di poter essere
investito del regno in qualità di vassallo. Prima che si fermassero i
patti, morto Coel, Costanzo tolse la corona, e sposò Elena, figlia di
quello. Pietro di Langtoft nella sua cronaca (v. I, p. 76) narra presso
a poco lo stesso. A tutta questa tradizione manca qualsiasi fondamento
storico. V. WRIGHT, _The Celt, the Roman and the Saxon, Londra_, 1875,
p. 143.

[101] VON DER HAGEN, _Gesammtabenteuer_, v. II, p. 579.

[102] Non so quale tradizione siasi seguita in una _Historia di Santa
Elena_, stampata in Siena senza indicazione di anno (XVI secolo), la
quale non mi venne fatto di vedere.

[103] _Incerti auctoris de Constantino Magno eiusque matre Helena
libellus, e codicibus primus edidit Eduardus Heydenreich_, Lipsia,
1879. Per quanto concerne questa pubblicazione, che lascia non poco
a desiderare, vedi un eccellente scritto di Achille Coen, intitolato
_Di una leggenda relativa alla nascita e alla gioventù di Costantino
Magno_, nell'_Archivio della Società Romana di Storia patria_, v. IV
(1881), p. 1-55, 293-316, 535-61; v. V, p. 33-6. Mentre scrivo questa
nota, esso non è ancora finito di pubblicare.

[104] «Qualiter autem Constantinus mortuo suo patre Constantio in
Romano imperio et mortuo suo socero in Graecorum imperio successerit
et factus fuerit totius saeculi monarcha, qualiter a Sancto Silvestro
papa a lepra curatus et ad fidem Christi conversus fuit ac usque ad
mortem suam in utroque imperio potentissime regnavit et qualiter sancta
Helena, mater Constantini, Hyerosolimam iverit et sanctam crucem ibidem
invenerit, require in suis locis». Notisi che l'autore non si avvede
per nulla della contraddizione in cui cade quando dice che Costantino
fu convertito da San Silvestro, dopo aver rappresentato Elena in tutto
il racconto quale ottima cristiana.

[105] Cod. della Vallicelliana D, 13, f. 67 v., col. 2ª, a 69 v., col.
2ª.

[106] L. VII, c. 73.

[107] Cap. LVII, ed. di Milano, per Ulderico Scinzenzeler, 1487.

[108] L. II, c. 11.

[109] _Chronicon Imaginis Mundi, Monumenta Historiae patriae_, t. III,
p. 1390-2.

[110] V. il già citato scritto del Coen, p. 29-50.

[111] Giovanni da Verona cita come sua fonte una _Historia Britonum_,
Giacomo da Acqui una _Cronica Trevirensis_. L'Anonimo comincia con una
piccola introduzione, la quale non ha nulla che fare col racconto che
segue, e non cita fonte di sorta. Vedremo più oltre che cosa sia da
pensare delle due fonti citate da Giovanni e da Giacomo.

[112] LAMBECIUS, _Commentarii de August. Biblioth. Caes. Vindobonensi_,
v. VIII, p. 100 e segg.; _Acta Sanctorum_, t. cit., p. 551; Coen, p.
296 segg.

[113] L. VII, c. 18; _Acta Sanctorum_, ibid.; Coen, p. 300-7.

[114] _Acta Sanctorum_, t. VIII del mese di Ottobre, p. 854 segg.

[115] Traduzione latina di Edoardo Pockoke, Oxford, 1658-9, v. I, p.
408.

[116] Riferito il passo di Sant'Ambrogio, il Coen soggiunge molto
opportunamente (p. 312-3): «In questo non è da notarsi soltanto la
parola _stabulariam_; meritano attenzione anche due altre: _asserunt_
e _cognitam_; la prima di queste sembra indicare che la notizia
dell'essere nata Elena una albergatrice era ripetuta con insistenza
(non dice l'autore _ajunt_ o _dicunt_) da parecchi e specialmente da
coloro che volevano e credevano con ciò denigrare la memoria di lei; la
seconda pare scelta per ricordare velatamente e decentemente la specie
dei rapporti passati fra Elena e Costanzo. Inoltre la proposizione
_qui postea regnum adeptus es_t non può essere un inciso destinato a
spiegare di qual Costanzo si tratti, cosa che non avea bisogno alcuno
di essere spiegata; essa suona _priusquam regnum adipisceretur_; e ciò
forse è un modo indiretto di rammentare anche l'altra ragione per cui
Elena era da alcuni reputata inferiore a Teodora, alla sposa imperiale
di Costanzo».

[117] _De laudibus virginitatis_, c. 25, nella ed. della _Bibliotheca
Patrum_ di Lione, t. XIII; c. 48, nella edizione delle Opere di
Sant'Aldelmo data dal Giles, Oxford, 1846.

[118] Per la discussione delle testimonianze e per il pieno svolgimento
del tema di cui si è trattato sommariamente qui sopra, v. la
dissertazione del Coen.

[119] Cap. I.

[120] Pubblicata dal Zambrini di su un codice Magliabechiano del
secolo XIV nella prima dispensa della _Scelta di curiosità letterarie_,
Bologna, 1861. V. Coen, p. 535.

[121] Degli autori che negli ultimi tempi trattarono tali questioni
v. più particolarmente KEIM, _Der Uebertritt Constantins des Grossen
zum Christenthum_, Zurigo, 1862; ZAHN, _Constantin der Grosse und
die Kirche_, Hannover, 1876; UHLHORN, _Der Kampf des Christenthums
mit dem Heidenthum_, 3ª ed., Stoccarda, 1879; BURCKHARDT, _Die Zeit
Constantin's des Grossen_, 2ª edizione, Lipsia, 1880.

[122] V. tra l'altro KOEBER, _Dissertatio de Philippo Arabe, utrum
primus christianus imperator fuerit an potius Constantinus Magnus?_
Gera, 1680. Orosio dice di Filippo (_Histor._, l. VII, c. 28): «.....
Christianus annis admodum paucissimis ad hoc tantum constitutus fuisse
mihi visus est, ut millesimus Romae annus Christo potius quam idolis
dicaretur». Che Filippo fosse cristiano ammisero il Baronio e l'Huet,
negò il Pagi.

[123] LAMPRIDIO, _Vita Alexandri Severi_.

[124] GOTOFREDO DA VITERBO, _Speculum Regum_, v. 1026-31:

    Suscipit imperium populo plaudente Philippus;
    Iste prior cesar voluit cognoscere Christum
        Et dedit ecclesiis predia lata suis.

[125] ἄλλως προέδρων τόνδε μὴ δεδεγμένων. _Caesares_, ap. MAI,
_Scriptores veteres_, v. III, 6. Secondo la tradizione vulgata Filippo
fu respinto dalla chiesa finchè non ebbe purgato i suoi peccati.

[126] πρῶτος ἀνάκτων τῷ Χριστῷ προσκολληθεὶς γνησίως. _Compendium
chronicon_, v. 2329.

[127] _Chronicon_, dist. III, c. 5.

[128] V. SETTEGAST, _Calendre und seine Kaiserchronik_, nei _Romanische
Studien_ del Böhmer, v. III, p. 121.

[129] V. Zahn, op. cit., p. 13-5. Le monete costantiniane diedero luogo
a molte dispute. L'Eckhel affermò giustamente non potersi argomentare
da esse che Costantino nutrisse odio contro le vecchie credenze e
grande amore per le nuove; il Tanini mostrò che in esse era la prova
di una singolare confusione di paganesimo e di cristianesimo; il
GARRUCCI si studiò di confutare le loro opinioni nel suo _Esame critico
e cronologico della numismatica costantiniana_, Roma, 1858. V. anche
ALESSANDRO VISCONTI, _Dissertazione sopra la cristianità di Costantino
Magno, Dissertazioni dell'Accademia Romana di Archeologia_, v. VI,
1835, p. 209-28.

[130] Nella leggenda di Santa Caterina, che in prosa e in verso si ha
in tutte le letterature del medio evo, Massenzio è rappresentato quale
signore di Alessandria, dove convoca tanto i ricchi quanto i poveri
perchè sacrifichino agl'idoli. V. la _Legenda aurea_, c. CLXXII (167),
ed. del Grässe. Reco qui il principio di un testo francese in versi
della leggenda, contenuto nel cod. M, VI, 7 della Nazionale di Torino.
In esso Massenzio è un usurpatore che si rifugia in Alessandria dopo
essere stato vinto da Costantino. È noto invece che Massenzio annegò
nel Tevere insieme con molti de' suoi.

      Nous trouuons en notre escript
    Q'ung empereur fu iadis
    Qui Constantin fu appellez.
    Cilz ot ung filz vaillant assez:
    Le filz ot le nom de son pere
    Et apres lui fu emperere.
    Il tint l'empire en grant repos,
    Moult fut preudons et de bon los,
    En moult grant pris tint sainte eglise
    Et moult ama le dieu service.
    Il vint en la terre de France,
    Mais par sa longue demourance
    Lui deust estre mesaduenu,
    L'empire en deust auoir perdu,
    Car ses barons qui adonc estoient (_sic_)
    Leur laulte vers lui fausserent,
    Contre leur droiturier seigneur
    Maxence ont fait empereur.
    Quant Constantin oit ces nouuelles,
    Qui ne lui furent pas bien belles,
    Arrier vint plus tost que il peust,
    Atant de gens comme auoir peust,
    A Maxence se combaty
    La mercy dieu et le vaincquy.
    L'emperere Maxentius,
    Quant en bataille fu vaincus,
    Tout desconfit s'en va fuyant
    Iusques en Alixandre la grant
    Pour estre sire du pays.
    Par Alixandre fist crier,
    Et par sa terre commander,
    Qu'au tier iour chacun soit pres
    Pour aourer ses Mahommes,
    Et qui ne venra la aourer
    Il leur fera les chiefz copper.
    Ecc.

Così ancora nella leggenda francese in versi composta da Suor
Dimence (v. _Hist. lit. d. l. Fr._, t. XXVIII, p. 253-61) e in
una leggenda anglosassone. (V. EINENKEL, _Ueber den verfasser der
neuangelsächsischen legende von Katharina_, nell'_Anglia_, v. V, p.
110). Parlando di Massenzio Roma dice a Fazio degli Uberti nel l. II,
cap. 13 del _Dittamondo_:

    Qui passo a dirti la mortal ruina
      Che di qua fece di ciascun cristiano,
      Ed oltre mar ancor di Caterina.

Nel _Florilegium Casinense_, in appendice alla _Bibliotheca
Casinensis_, t. III, 1877, p. 74-6, 184-7, sono pubblicati due racconti
latini del martirio di Santa Caterina. Nel primo figura da persecutore
Massenzio, nel secondo Massimiano.

[131] V. la _Legenda aurea_, c. LXVIII[64], il _Sanctuarium_ di Bonino
Mombrizio, _Sanctae crucis inventio_, il poema _De inventione sanctae
crucis_ attribuito a Ildeberto Cenomanense, ecc. Narrando questa storia
gli scrittori non andarono troppo d'accordo. Chi dice che Costantino si
fece battezzare da San Silvestro e chi da Eusebio; quale attribuisce
il fatto a Costantino e quale a Costanzo suo padre. Non è possibile
di sbrogliare in breve queste confusioni, intorno alle quali veggasi
il già citato capitolo della _Legenda aurea_. Noto qui di passaggio,
non un riscontro, ma una derivazione. Secondo una leggenda tedesca,
San Giorgio apparve in Terra Santa ad un langravio di Turingia e gli
consegnò un vessillo segnato di una croce, dicendogli: In questo segno
vincerai. RICHTER, _Deutscher Sagenschatz_, Eisleben, 1877, fasc. II,
p. 12.

[132] Cod. L, II, 11 della Nazionale di Torino, f. 145 r.

[133] _Ly myreur des hystors_, v. II, p. 54.

[134] V. i _Mirabilia Romae_ del PARTHEY, p. 48.

[135] V. la la _Rappresentazione di Costantino imperatore, San
Silvestro papa e Sant'Elena_, molte volte stampata, e finalmente anche
dal D'ANCONA, _Sacre rappresentazioni dei secoli XIV, XV e XVI_, v. II,
p. 187-234. Un _Miracle de Saint Sevestre_ è tra i _Miracles de Nostre
Dame par personnages_ pubblicati da Gaston Paris e Ulysse Robert,
Parigi, 1876-8, v. III, p. 186-240.

[136]

    Ma come Costantin chiese Silvestro
      Dentro Siratti a guarir della lebbre.

_Inferno_, c. XXVII, v. 94-5. La leggenda è narrata anche nel l. I dei
_Reali di Francia_, ma con alcuna variante. Temendo la persecuzione,
San Silvestro lascia il monte Soratte e ripara in Aspromonte, dove poi
Costantino lo manda a cercare. Questi deve lavarsi col sangue di sette
fanciulli. Il cavaliere mandato da Costantino a cercare San Silvestro
si converte per certo miracolo di una rapa cresciuta appena seminata.

[137] L. III, c. 12.

[138] S. GEROLAMO, _Chronicon_, ad a. 340; ISIDORO DI SIVIGLIA,
_Chronicon_, a. ab. o. c. VMDXXXV. Notisi per altro che il passo del
secondo, ove di ciò si parla, manca in alcuni manoscritti.

[139] Nella orazione _De obitu Theodosii_ Sant'Ambrogio dice bensì che
Costantino si fece battezzare nell'ultimo tempo di sua vita, ma non
muove dubbio circa la ortodossia della sua fede, mentre San Gerolamo
apertamente lo dice infetto di ariana eresia.

[140] _Chronicum, Nepotiano et Facundo Css_., nella edizione parigina
delle Opere, 1711, col. 727.

[141] _Chronicon_, l. II, c. 42, ap. CANISIUS, _Lectiones antiquae_,
ed. del Basnage, t. I, parte 1ª, p. 180.

[142] _Vita Constantini_, l. IV, c. 24, 61, 62.

[143] _Hist. eccl_., l. I, c. 39.

[144] _Hist. eccl._, l. II, c. 34.

[145] _Hist. eccl._, l. I, c. 32.

[146] V. PIPER, _Einleitung in die monumentale Theologie_, Gotha, 1867,
p. 217, 318, 322.

[147] Pubblicata dal COMBEFIS, _Illustrium Christi Martyrum lecti
triumphi_, Parigi, 1660, p. 258-336.

[148] _Die Papstfabeln des Mittelalters_, Monaco, 1863, p. 53 e
seguenti.

[149] Ibid., p. 53. Questo, che è il battisterio di San Giovanni in
Laterano, si trova ricordato da molti scrittori del medio evo. Giovanni
Colonna dice nel _Mare Historiarum_, cod. Vatic. 4963, f. 261 r., col.
2ª: «Vas autem illud pulcerrimum ubi Constantinus baptizatus est, in
quo adhuc squame lepre lapidi adherentes apertissime apparent, quas
pluries propriis aspexi oculis, est autem vas illud quod vulgari
appellatione concha dicitur ex integro lapide politissimo, quem
Constantinus in tam magni beneficii memoria pulcerrime fecit ornari».
Una descrizione più particolareggiata del vaso si trova nei _Mirabilia
Urbis Romae_, di Stefano Planck.

[150] Döllinger, op. cit., p. 55.

[151] _De laudibus virginitatis_, c. XXV.

[152] _Sermo de inventione Sanctae Crucis_, Opera, Colonia, 1612, t.
VII, col. 356. Il racconto di Beda differisce notabilmente da tutti
gli altri. Chi uccide il drago è, non San Silvestro, ma Costantino,
che per infezione del veleno ammala di lebbra. Prescrittogli il bagno
di sangue, e abborrendo egli dalla uccisione dei bambini, ode in sogno
San Pietro e San Paolo promettergli la guarigione per opera di San
Silvestro. Chi va a cercare il papa è Sant'Elena. Battezzato e guarito,
Costantino passa in Levante, fonda Costantinopoli, vince con l'ajuto
del cielo i Saraceni, e manda sua madre a Gerusalemme a cercarvi la
croce.

[153] XXXIV, _S. Silvester_. V. anche tre inni latini, contenuti in
un codice Vaticano del IX secolo, e pubblicati dall'OZANAM, _Documents
inédits pour servir à l'histoire littéraire de l'Italie_, Parigi, 1850,
p. 236-41.

[154] _Chronographia_, ed. di Bonna, 1839-41, v. I, p. 24-5.

[155] _Histor. comp._, ed. cit, v. I, p. 476.

[156] Erigero, abate Leobiense, scriveva, verso il 1000, in una
epistola ad Ugone monaco: «Dicunt autem haeretici baptismum eum
(_Constantinum_), ut in Jordane baptizaretur, differre voluisse, sed
in Nicomedia praeventum morte noviter ab Eusebio Ariano baptizatum
esse. Verior autem est historiae Graecorum assertio, ubi habetur
ab haereticis propter invidiam christianorum, quod de concubina
sit natus, et rebabtizatum confictum esse, cum et baptisterium ejus
quo a Sylvestro baptizatus est, adhuc Romae appareat, et pragmatica
ipsius omnem veritatem contineat». Ap. MARTENE ET DURAND, _Thesaurus
anecdotorum_, t. I, col. 118. Ma Elipando di Toledo scriveva ad
Alcuino: «Guardati di fare del glorioso re Carlo ciò che Ario fece di
Costantino». _Alcuini Opera_, ed. Froben, p. 868.

[157] _Chronicon universale_, ap. PERTZ, _Script_., t. VI, p. 112.

[158] Riferisco qui per curiosità quanto a tale proposito si legge
nella già citata _Cronica degl'imperatori romani_ pubblicata dal
Ceruti, p. 46-7: «Algun a dito che Constantin in lultimo tempo de
la vita soa fo rebatizado da Eusebio veschouo de Nicomedia, e per la
dotrina soa Martiano (sic) se conuerti; ma questo da Constantino ven
dito mendosamente, imperzo chel beato Grigolo in lo registro so quando
el parla a Mauritio, ello lu appella de bona memoria in la ystoria
tripartita. La sua morte e li soi fatti ven trouati boni[160], e soura
lo salmo XIII el beado ambrosio disse quello esser de gran merito
apresso de dio, imperzo che lo primo da li imperadori la via de la fe
e de la deuocion alli principi ello lassa, e ysidoro in le Cronice
suoe reprouando queste chosse, al pestuto disse quello beadamente
auer terminado; onde li Griexi anumera Constantino in lo cathalogo
de li santi, e con solennita la festa de quello a XXI di de mazo. Ma
quelle chosse, le quale mendosamente del predito Constantino e dito, do
Constanzo so fyo tute verasie ven trouade, ecc.» La difesa e l'elogio
di Costantino seguitano ancora per un buon tratto: come si vede, le
testimonianze recate nel testo son tutte falsate meno quella di San
Gregorio.

[159] Cf. lo _Speculum Regum_, ap. PERTZ, _Scriptores_, t. XXII, v.
1074 segg.

[160] Leggi: In la ystoria tripartita la sua morte e li soi fati ven
trouati boni.

[161] Dittamondo, l. II, c. 13.

[162] Döllinger, op. cit., p. 57-8.

[163] _Sanctuarium, Inventio sanctae crucis._

[164] Loc. cit.

[165] Secondo la _Kaiserchronik_, v. 10383-4, ricevettero allora il
battesimo più di 400.000 pagani; la versione in prosa dice a dirittura
1.300.000. Nell'anno 315 Silvestro ebbe veramente una disputa con gli
Ebrei.

[166] Dei troppi santi uccisori, o domatori di draghi, ricorderò San
Giorgio, San Vittore, San Secondo d'Asti, Sant'Amando, Santa Vittoria,
San Materno, Sant'Ilarione, Sant'Ammone, Santa Marta, San Marcello.
Ai tempi di Arcadio e di Onorio il vescovo Donato uccise un drago
sputandogli in bocca. Parecchi storici narrano che ai tempi di Leone
IV apparve in Roma, dentro certe caverne, un terribile basilisco, che
col fiato appestava la città: il pontefice ne lo cacciò. Roma fu più
volte afflitta da simili mostri. Della famiglia Anguillara si racconta
che prese il nome da due nobili romani, i quali uccisero uno smisurato
serpente che era cresciuto in un luogo vicino a Roma, detto Malagrotta,
e spopolava con l'alito quel contorno.

[167] V. 10596. Heinrich von München dice Wendelberg. MASSMANN,
_Kaiserch_., t. III, p. 859.

[168] Vedi più oltre.

[169] V. Massmann, op. cit., t. III, p. 861.

[170] Cod. Marciano cl. IX, XI, f. 114 r. Era una grocta sopto terra
nella quale era uno gran serpente, lu quale tucta Roma tenea in pagura.
Quando illo uscia de quilla fossa cupa el suo feto l'ayro corrompea
et quanti ne trovava tucti ad morte li mectea. Allora dixero li savii
nevini che se alcuno fosse che intrar volesse in quilla grande grocta
ove lu serpente stava quilla pestilentia tutta cessaria. Uno cavaleri
fo c'avea nome Metello, lu quale in conspectu de tucta la gente armato
sopra un bon destrieri intrao in quilla grocta ove de lui mai non se
seppe novella. Allora cessao et mai non apparse più quillo serpente
dello quale yo dixi.

[171] Per esempio, nella leggenda di Santa Margherita.

[172] _Vita Constantini_, l. III, c. 3.

[173] LIPOMANO-SURIO, _De vitis Sanctorum_, Venezia, 1581, v. VI, p.
337.

[174] Pubblicato da Guglielmo Grimm, Gottinga, 1841. Una _Storia di San
Silvestro_, testo del XV secolo, diversa dalla leggenda volgarizzata
del Voragine, pubblicò il Melga in Napoli nel 1859.

[175] Cf. LASAULX, _Untergang des Hellenismus_, Monaco, 1854, p. 32;
THOMAS, H., DYER, _A History of the city of Rome its structures and
monuments_, Londra, 1865, p. 284.

[176] Esse sono: San Giovanni in Laterano, San Pietro in Vaticano, San
Paolo fuori le Mura, Santa Croce in Gerusalemme, Santa Agnese fuori
Porta Nomentana, San Lorenzo fuori le Mura, San Pietro e Marcellino. La
sola che a Costantino possa essere attribuita con qualche fondamento
è quella di San Giovanni in Laterano, che lungamente, in parte per
ragione di tali origini, si arrogò il primato sopra tutte le chiese
dell'orbe cattolico. In essa si leggevano un tempo i seguenti versi (v.
ONOFRIO PANVINIO, _Le sette chiese di Roma_, Roma, 1570, p. 138).

    Agnoscant cuncti sacro baptismate functi
    Quod domus haec munda, nulli sit in orbi secunda
    Nam cum Papalis locus hic sit, et cathedralis
    Primatum mundi meruit sine lite rotundi,
    Contendat nemo secum de iure supremo,
    Omnis ei cedit locus, et reverenter obedit:
    Hunc Constantinus in coelum mente supinus
    Lepra mundatus intus forisque novatus
    Fundavit primus, factum quod in ordine scimus,
    Et series rerum cogit nos scribere verum,
    Christi successor primus, fideique professor
    Petrus ab hac sede laxavit retia praedae
    Clave potestatis recludens regna beatis.

In un frammento storico pubblicato dal Muratori nel t. III delle
_Antiquitates italicae_, c. VII, col. 279, si narra come nel rifare
il tetto di San Pietro fu trovata una trave de' tempi di Costantino.
_«Quanno lo tetto vecchio se posava, fonce trovato uno esmesuratissimo
trave de mirabile grossezza. Io lo vidi. Dieci piedi era gruosso:
tutto era affasciato de funi per la moita antiquitate. Per la granne
grossezza era tanto durato questo trave. Era de Abeto, come li aitri. E
fonce trovato scritto de lettere cavata così, quasi dica_: Quesso ene
de quelli travi, li quali puse in quesso tetto lo bono Constantino.
_Era antico, quanto che_ l'Alleluia». La chiesa di Sant'Agnese si
diceva costruita da Costantino a richiesta di Costanza sua figliuola,
che al sepolcro di quella santa era stata guarita da grave infermità.
Costanza vi fondò un monastero che Costantino dotò con arredi sacri
e grandi possessioni (TOLOMEO LUCENSE, _Historia ecclesiastica_,
l. V, c. 3, ap. MURATORI, _Scriptores_, t. XI, col. 824). Che la
basilica di San Paolo fu edificata da Costantino afferma già Prudenzio
nel _Peristephanon_, carm. XII. Quanto a quella di San Pietro si
diceva che per adornarla Costantino avesse spogliato dei marmi il
preteso sepolcro di Remo vicino a Sante Maria in Cosmedin. Anastasio
Bibliotecario dice nella Vita di San Silvestro che Costantino costruì
la basilica di San Pietro ad istanza di questo pontefice, e lo stesso
dice della basilica di San Paolo. In generale le testimonianze più
antiche a questo riguardo pajono essere le sue. V. oltre alla citata,
anche l'altr'opera di ONOFRIO PANVINIO, _De basilica Vaticana_, ap.
MAI, _Spicilegium romanum_, t. IX; CIAMPINI, _De sacris aedificiis a
Constantino Magno constructis_, Roma, 1693; FEA, _Lezione sopra quattro
basiliche romane dette costantiniane, Atti dell'Accademia Romana_, v.
III, 1829, p. 75-99. Per le costruzioni di Costantino a Gerusalemme
v. UNGER, _Die Bauten Constantin's des Grossen am heiligen Grabe zu
Jerusalem, nell'Orient und Occident_, v. II, p. 177-232, 385-456. In
certi miracoli della Vergine, che manoscritti si conservano nel Museo
Britannico, si narra di un miracolo avvenuto nella costruzione di una
_meravigliosa chiesa_ che in onore della Vergine appunto Costantino
faceva edificare. PAUL MEYER, _Rapport sur une mission littérarie en
Angleterre, Archives des missions scientifiques et littéraires_, 2ª
serie, v. III, p. 308.

[177] Così nei _Gesta pontificum romanorum_, nel _Liber politicus_
di Benedetto canonico, nei _Mirabilia_ (ed. del Parthey, p. 31-2).
Nel libro intitolato _Le cose maravigliose di Roma_ si legge: «Furono
ancora in detta chiesa (_di San Giovanni in Laterano_) le infrascritte
cose, che oggidì non vi sono. Costantino Magno vi pose un Salvatore che
sedeva di 320. libre, dodici Apostoli di cinque piedi l'uno, i quali
pesavano lib. 50. l'uno, vn'altro Salvatore di libre 140. e quattro
Angeli li quali pesavano 105. libre, le quali erano d'argento. Vi pose
ancora quattro corone d'oro, con li delfini di libre 15. e sette altari
di libre 200». E più oltre, dove si parla della chiesa di San Pietro:
«Et prima Costantino Magno pose sopra il sepolcro di San Pietro una
Croce d'oro di libre 150. quattro candelieri d'argento, sopra i quali
erano scolpiti gli Atti degli Apostoli, tre calici d'oro di libre 12.
l'uno, e vinti d'argento di libre 50. et una patena d'oro, et una lampa
d'oro di libre 35 et all'altare di s. Pietro fece vn Incensiero d'oro
ornato di molte pietre preziose».

[178] Vedi per tutto quanto importa all'argomento DOELLINGER, _Die
Schenkung Constantins_, nel già citato libro _Die Papstfabeln des
Mittelalters_, p. 61-106.

[179] Ermoldo Nigello dice nel _Carmen elegiacum_, l. IV, v. 271-2:

    Constantinus uti Romam dimittit amore,
        Constantinopolim construit ipsa sibi.

Ap. PERTZ, _Scriptores_, t. II, p. 506. Incinaro afferma che Costantino
lasciò Roma a Silvestro ad onore e gloria dei Santi Pietro e Paolo
(_Epist_. III, c. 13). Filippo Mouskes dice nella Cronaca rimata che
per lasciare più libertà alla Chiesa

    L'empire de Romme et l'iestre
    Donna Constentins St-Selviestre.

(V. 30901-2). A mezzo del secolo XI Leone IX riportava per intero
l'atto di donazione nel suo scritto contro Cerulario e Leone vescovo
di Acrida, e diceva che Costantino «cunctos in Romana sede pontifices
non solum imperiali potestate et dignitate, verum etiam infulis et
ministris adornavit imperialibus, valde indignum fore arbitratus
terreno imperio subdi, quos divina maiestas praefecit coelesti».
Ma sarebbe superfluo di moltiplicare tali esempii. In pieno secolo
XVI, più di cinquant'anni dopo che Lorenzo Valla aveva scritto la
sua celebre declamazione _De falso credita et ementita Constantini
donatione,_ il Vida, in una poesia _Divo Silvestro Pont. Max._,
celebrava ancora il presunto atto di Costantino:

    Coeli secutus prodigia optimus
      Caesar, relicta sede Quiritium,
      Tellure decessit Latina,
      Sedem aliis positurus oris.
    Urbem potentem Romulidum tibi,
      Lateque regnandum Latium ferox
      Concessit ultro posterisque
      Perpetua serie insecutis.

[180] Bonitone, vescovo di Sutri, morto nel 1089, dice in un luogo del
suo trattato _Ad amicum_ (l. II, ap. JAFFÉ, _Monumenta Gregoriana_,
p. 606): «Igitur Constantino á Silvestro sanctae Romanae ecclesiae
episcopo baptizato et ab eodem imperiali diademate sublimato, clausa
sunt templa, etc.».

[181] _Descriptio plenaria totius urbis_: «...... arcus Romanus inter
Aventinum et Albiston, ubi beatus S. Silvester et Constantinus osculati
sunt et diviserunt se».

[182] _Inf_., c. XIX, v. 115-7; _Parad_., c. XX, v. 55-50.

[183] Massmann, op. cit., v. III, p. 860-1.

[184] V. 10427-33.

[185] Ap. PERTZ, _Scriptores_, t. III, p. 511-2.

[186] V. SOZOMENE, _Hist. eccles_., l. II, c. 3. Cf. ZONARA, _Annales_,
l. XIII, c. 3, e ENEA SILVIO PICCOLOMINI, _De his quae Federico III
imperante gesta sunt commentarius_, ap. FREHER, _Scriptores_, t. II, p.
43.

[187] _Descriptio Kambriae_, l. II, c. 7 (_Opera, Rerum Britannicarum
scriptores_, v. VI, p. 215): «Legitur enim quia Constantinus imperator,
occidentali imperio beato Silvestro et successoribus suis cum urbe
relicto, Trojam reaedificare proponens, ibique orientalis imperii caput
erigere volens, audivit hanc vocem, — «Vadis reaedificare Sodomam »;
— et statim mutato consilio versum Bizantium vela pariter et vexilla
convertit; ibique imperii sui caput constituens, urbem eandem felici
suo nomine decoravit».

[188] _Compendium chronicum_, v. 2336-47.

[189] Cod. Marciano Zanetti, lat. CCCCVII, f. 6 v. a 7 r.

[190] _De laudibus virginitatis_, c. XII (XXV nella ed. del Giles).

[191] _Gesta regum Anglorum_, l. IV, § 354.

[192] CODINO, _De aedificiis Constantinopolitanis, Excerpta de
antiquitatibus Constantinopolitanis_, ed. di Bonna, p. 75.

[193] Cod. Marciano lat. cl. X. XCVI, f. 20 r. e v.

[194] Nell'_ensenhamen_ pubblicato dal BARTSCH, _Denkmäler der
provenzalischen Literatur_, Stoccarda, 1856, p. 85-8. Ciò che di
Costantinopoli si narra in una leggenda serba merita d'essere qui
brevemente riportato. Un imperatore, cacciando, trova una testa
di morto, e vi passa su col cavallo. La testa gli grida: Perchè
mi calpesti? Benchè morta posso nuocerti ancora. L'imperatore la
toglie con sè, la brucia, la riduce in polvere, e questa, involta
in una carta, chiude in un forziere; poi parte. La figlia di lui,
aperto il forziere, e trovata la carta, col dito umido di saliva
raccoglie alquanta di quella polvere, e se la reca in bocca: ingravida
miracolosamente e mette al mondo un bambino, di cui l'imperatore
esperimenta ben presto la singolare sagacia. Temendo le minacce della
testa, egli allontana da sè, quando è già divenuto un giovane, il
nipote, dicendogli: Va per il mondo, e non fermarti se non quando
troverai due mali alle prese fra loro. Il giovane parte, e giunge
finalmente nel luogo dove sorse poi Costantinopoli, e quivi trova un
biancospino intorno a cui si attorciglia un serpente per modo che l'uno
punge l'altro. Parendogli d'aver trovato i due mali di cui sino allora
era andato in traccia, si scosta dall'arbusto e dal serpe un certo
tratto, poi si ferma, e voltandosi indietro vede che lungo tutto quel
tratto era sorto fuor dalla terra un muro, il primo della nuova città.
Più tardi il giovane diventò imperatore di Costantinopoli e rovesciò
l'avo dal trono. V. HORMAYR, _Archiv für Geschichte, Statistik,
Literatur und Kunst_, t. XVI, Vienna, 1825, n. 100. Per altre leggende
parallele v. WESSELOWSKY, _Le dit de l'empereur Constant, Romania_, v.
VI, p. 178-9.

[195] _Annales_, ed. di Bonna, p. 463-4.

[196] _Excerpta ex libro chronico de originibus Constantinopolitanis_,
ed. di Bonna, 1843, p. 21.

[197] V. 10465-518. Cf. v. III, p. 868-9.

[198] Cronaca da Tiberio sino all'anno 1285, cod. Riccardiano 1550, f.
61 r.

[199] V. per altri racconti paralleli Massmann, op. cit., v. III, p.
870.

[200] V. p. 84.

[201] Il Kornmann, nel già citato suo libro _De miraculis mortuorum_,
parte X, c. XXII, ricorda come nel sepolcro di Costantino fosse
trovata una tavola d'argento su cui era anticipatamente descritta e
rappresentata la vittoria dei Turchi e la caduta dell'impero d'Oriente
insieme coi casi susseguenti sino al fine della dominazione ottomana.

[202] Pubblicato dal Michel, Parigi, 1831, p. 52-71.

[203] Alcunchè di simile, quanto al modo di scegliere la sposa, narrasi
di Pipino, padre di Carlo Magno, nel c. X della parte 1ª del _Libro
intitolado Noches de Invierno_ di ANTONIO DE ESLAVA, Bruxelles, 1610.

[204] TOBLER, _Mittheilungen aus altfranzösischen Handschriften_,
Lipsia, 1870, p. 150.

[205] Pubblicato dal Michel, Londra, 1835, v. I, p. 16.

[206] Pubblicato dal JUBINAL, _Jongleurs et Trouvères_, Parigi, 1835,
p. 82.

[207] V. 2134-7.

[208] VON DER HAGEN, _Gesammtabenteuer_, v. II, p. 380-2.

[209] V. intorno a questa leggenda della moglie adultera di Costantino,
TOBLER, _Kaiser Constantinus als betrogener Ehemann, Jahrbuch für
romanische und englische Sprache und Literatur, Neue Folge_, v. I,
1874, p. 104-8. Circa la possibile origine indiana di essa v. BENFEY,
_Pantschatantra_, l. IV, 5.

[210] Detto come Costantino trafigesse la moglie, continua:

    Alsô wart im ân' mâzen zorn,
    er nam dâz ros mit den sporn,
    Und rant' auf den vil krumben man,
    daz er niemêr kam von dan,
    Er wart ze tôd ertreten dâ
    als man ez noch vindet sa
    Ze Rôme stên an ainem stain,
    daz er im sein krumben bain
    Zertrat mit dem rosse gar:
    wer des nicht glaub', der nem sein war
    Ze Rome ez geworcht stât,
    alz ez ain Rômaer' würken bat.

[211] In origine essa sorgeva davanti all'Arco di Settimio Severo:
Sergio III (905-11) la trasportò davanti al Laterano, dove rimase
fino a che, su disegni di Michelangelo, fu costruita la piazza di
Campidoglio.

[212] Notisi tuttavia che una vera statua equestre di Costantino, della
quale fa ricordo la _Notitia regionum urbis Romae_ nel V secolo, poi
l'Anonimo Einsiedlense nel IX, e che sorgeva nel Foro, andò distrutta,
forse in questo stesso secolo, o nel seguente. Può darsi che,
attribuita l'altra a Costantino, essa non fu più conosciuta per quella
che era veramente, sebbene una iscrizione, che l'Anonimo riporta,
avrebbe dovuto impedire che ciò avvenisse. V. PRELLER, _Die Regionen
der Stadt Rom_, p. 13, 66, 142, e MUELLENHOF, _Zeugnisse und Excurse
sur deutschen Heldensage_ in _Zeitschrift für deutsches Alterthum_
dell'Haupt, v. XII, p. 325-7.

[213] V. E. MUENTZ, _Monuments antiques de Rome au XVe siècle_, nella
_Revue archéologique, Nouvelle série_, v. XXXII, 1876, p. 162.

[214] _L'antichità di Roma_, Venezia, 1583, l. IV, c. 36, f. 255 v.

[215] _Ly myreur des histors_, v. II, p. 70: «..... en l'honneur de
luy fut faite l'ymaige d'homme de la grandeche de luy, de marbre, et
fut de Coustantinoble à Romme amynée avec luy en marchiet al palais
de Latrain; et fut la mise et mult subtilement assise, et encores l'y
voit-ons».

[216] _Cronica Bolognese_ ap. MURATORI, _Scriptores_, t. XVIII, col.
246.

[217] GIOVANNI DI BOZANO, _Chronicon Mutinense_, ap. MURAT., _Script._,
t. XV, col. 608.

[218] Ed. dell'Andresen, v. II, p. 152-3, v. 3050-60.

[219] Ranulfo narra la storia alquanto diversamente: «Ex genere
Messenorum corpore quidam nanus sed arte nigromanticus, cum finitimos
sibi reges subjugasset, Romanos aggressus est, quibus virtutem feriendi
ademit. Unde et ipsos in urbe conclusos diu obsedit. Nanus nempe ille
quotidie ante solis occasum extra castra egrediens artem suam in agro
exercuit. Quo comperto Romani strenuo militi Marco urbis dominium et
memoriale perpetuum promiserunt, si urbem liberaret. At ille muro urbis
ex illa parte perforato, qua nanus solebat praestigiari, de nocte
exiens mane expectabat quod et cuculus avis denunciabat voce sua.
Arreptum nanum, quem armis non poterat, manu in urbe deportabat; et
ne si fandi copiam haberet, arte sua se forsan liberaret, statim sub
pedibus equi sui contrivit; unde et tale memoriale promeruit».

[220] Pubblicato dal RAJNA, _Ricerche intorno ai Reali di Francia
seguite dal libro delle storie di Fioravante e dal cantare di Bovo
d'Antono, Collezione di opere inedite o rare_, Bologna, 1872.

[221] Qui pare si voglia dire che la statua equestre di Costantino,
cioè di Marc'Aurelio, deve durare quanto Roma e quanto il mondo. Una
sì fatta credenza vive ancora tra il popolo a Roma, e l'Ampère così la
ricorda nel suo _Empire romain à Rome_, Parigi, 2ª ed., 1872, v. II, p.
228: «La statue équestre de Marc Aurèle a aussi sa légende, et celle-là
n'est pas du moyen âge, mais che a été recueillie il y a peu d'années
de la bouche d'un jeune Romain. La dorure, en partie détruite, se voit
encore en quelques endroits. A en croire le jeune homme, cependant, la
dorure, au lieu d'aller s'effaçant toujours davantage, était en voie do
progrès. — «Voyez, disait-il, la statue de bronze commence à se dorer,
et quand che le sera entièrement, le monde finira». — C'est toujours
sous une forme absurde, la vielle idée romaine, que les destinées
et l'existence de Rome sont liées aux destinées et à l'existence du
monde».

[222] Loc. cit. «Est et aliud signum..... quem peregrini Theodoricum
vocant, vulgus Constantinum, sed clerici curiae Marcum seu Quintum
Curtium appellant».

[223] V. H. GRIMM, _Das Reiterstandbild des Theodorich zu Aachen und
das Gedicht des Walafried Strabus darauf_, Berlino, 1869, p. 69.
Agnello afferma che la immagine equestre di Teodorico che sorgeva
prima in Ravenna fu fatta trasportare da Carlo Magno in Aquisgrana.
Egli parla anche di un'altra immagine esistente in Pavia. _Liber
pontificalis Ecclesiae Ravennatis, Scriptores rerum langobardicarum et
italicarum saec. V-IX_, p. 337-8. È certo ad ogni modo che una statua
di Teodorico, o tale creduta, si ebbe in Aquisgrana, come provano i
_Versus de imagine Tetrici_ di VALAFREDO STRABONE.

[224] Qui verum Quintum Curtium illud (_signum_) vocant hoc assignant,
quod hiatus quidam in inedia urbe patuit sulphurea exalatione multos
perimens; in quem responso Phoebi accepto, Quintus Curtius, ut urbem
liberaret, armatus se dejecit; et statim cuculus avis de hiatu illo
exivit, et terra se conclusit.

[225] V. il poema pubblicato dal Von der Hagen e dal Büsching nel primo
volume dei _Deutsche Gedichte des Mittelalters_, Berlino, 1808.

[226] V. VAN WYN, _Historische en letterkundige avonstonden ter
ophelderinge van eenige zeden der Nederlanderen_, Amsterdam, 1808,
v. I, p. 313; HOFFMANN VON FALLERSLEBEN, _Horae Belgicae_, parte 1ª,
Vratislavia, 1830, p. 69; MONE, _Uebersicht der niederländischen
Volks-literatur älterer Zeit_, Tubinga, 1838, p. 88; JONCKBLOET,
_Geschiedenis der Middennederlandesche Dichtkunst_, Amsterdam, 1851-5,
v. III, p. 375-88. Anche nel poema francese di _Floriant et Florète_ si
ha una Florète, di cui si descrive nel seguente modo la cintura:

    Sa çainture, pas ne vous ment,
    Valoit plus de XXX mûrs d'argent.
    Ele fu prise el grant tresor
    A Costentin l'emperéor.

V. 5924-7, _Hist. litt. d. l. Fr._, t. XXVIII, p. 165.

[227] Circa le attinenze e la derivazione di questi racconti v.
DARMESTETER, _De Floovante vetustiore gallico poemate et de merovingio
cyclo_, Parigi, 1877. V. inoltre le citate _Ricerche_ del Rajna,
le tavole genealogiche inserite dal Regis e dal Panizzi nelle loro
edizioni dell'_Orlando innamorato_ del Bojardo, e dal Graesse nei
suoi _Grossen Sagenkreise des Mittelalters_, p. 273, e GASTON PARIS,
_Histoire poétique de Charlemagne_, p. 219-22.

[228] Op. cit., v. II, p. 70.

[229] V. v. I, p. 47.

[230] _Speculum Regum_, ap. PERTZ, _Script._, t. XXII, p. 68.

[231] V. NEANDER, _Kayser Julian und sein Zeitalter_, Heidelberg,
1812; STRAUSS, _Der Romantiker auf dem Throne der Cäsaren oder Julian
der Abtrünnige_, Mannheim, 1847; MUECKE, _Flavius Claudius Julianus_,
Gotha, 1867-9; RODE, _Geschichte der Reaction Kaiser Julians gegen die
christliche Kirche_, Jena, 1877.

[232] La ricorda Giovanni Damasceno nel l. I del trattato _De
imaginibus_.

[233] V. NOELDEKE, _Ueber den syrischen Roman von Kaiser Julian
in Zeitschrift der deutschen Morgenländischen Gesellschaft_, v.
XXVIII, p. 263-92, e _Ein zweiter syrischer Julianusroman_, ibid., p.
661-74. I testi furono pubblicati da I. G. E. HOFFMANN, _Julianos der
Abtruennige, syrische Erzaehlungen_, Leida, 1880.

[234] Sono la terza e la quarta, o la quarta e la quinta, secondo le
raccolte.

[235] Ciò si trova ripetuto in una infinità di cronache e di altre
scritture, nel _Cosmodromio_ di Gobelino de Persona, nella Cronaca di
Martino Polono, in quella di Sicardo, nella _Legenda aurea_ (c. XXX),
nell'_Alte Passional_, nel Leggendario del Barbour, ecc. Giovanni
da Verona dice nella inedita _Historia imperialis_ (cod. della
Vallicelliana D, 13, f. 97 v.): «Julianus igitur volens declinare
furorem et suspicionem amovere ab eo monasterium ingressus est, et
factus monachus sanctissimam simulabat vitam, nam publice coram
monachis et populo libros christianos legebat et eos devotissime
exponebat, unde vir reverendus et sancte conversationis et vite
dicebatur». GIOVANNI D'OUTREMEUSE, _Ly myreur des hystors_, v. II,
p. 77: «..... se avient que quant Constantin fut mors que Constanche,
son fis, fist Julien moyne en une abbie; et fut tant moyne qu'ilt fut
clameis frere». Nella _Rappresentazione di San Giovanni e Paulo_ di
Lorenzo il Magnifico, cercandosi dagli ufficiali di corte chi, morto
Costanzo, possa essere fatto imperatore, uno di essi dice:

    E' c'è Giulian, di Costantin nipote,
    Che, benchè mago e monaco sia stato,
    È di gran cuore, ecc.

D'ANCONA, _Sacre rappresentazioni_, v. II, p. 261.

[236] SOCRATE, _Hist. eccl_., l. III, c. 1; SOZOMENE, _Hist. eccl_., l.
V, c. 2.

[237] V. la _Legenda aurea_, c. LXXXVII (82).

[238] V. 10775. Anche nella seconda parte del _Gallicanus_ di
Hrotsvitha, in una scena fra i santi Giovanni e Paolo e Giuliano si
accenna al chericato di costui:

  JULIANUS.

  ..... Ego quondam stultus talia exercui et clericatum in ecclesia
  obtinui.

  JOHANNES.

  Placetne tibi, o Paule, clericus?

  PAULUS.

  Diaboli capellanus.

[239] V. EUSEBIO, _Hist. eccl._, l. VIII, c. 14; _Vita Constantini_, l.
1, c. 36.

[240] _Chronicon universale_, ap. PERTZ, _Script_., t. VI, p. 114. Così
pure Giovanni da Verona.

[241] Giacomo da Voragine cita la _Historia tripartita_, ma in essa
altro non si trova a tale proposito che un passo di Teodoreto, il quale
fa seguire il caso in Grecia, quando Giuliano aspirava all'impero.
Può darsi che il Voragine avesse tra mani un testo interpolato della
_Historia_: ecco, ad ogni modo, le sue parole: «Qui (_Julianus_) cum
instructus esset a pueritia in arte magica et multum sibi placeret,
magistros inde plurimos secum habebat. Die autem quadam, sicut in
hystoria tripartita habetur, cum puer adhuc esset et recedente magistro
suo solus remansisset et adjurationes daemonum legere incepisset, ante
cum maxima multitudo daemonum instar Aethyopum nigrorum advenit. Tunc
Julianus hoc videns et metuens signum crucis protinus fecit et omnis
illa multitudo daemonum evanuit; qui cum magistro suo revertenti, quid
sibi acciderit, retulisset, dixit ei magister suus; hoc signum crucis
maxime daemones odiunt et timent».

[242] V. oltre a Gregorio Nazianzeno, SOZOMENE, _Hist. eccl._, l. V,
c. 2; TEODORETO, _Hist. eccl._, l. III, c. 3 e 26; NICEFORO, _Hist.
eccl_., l. X, c. 35, ecc.

[243] Cf. lo _Speculum regum_, ap. PERTZ, _Script_., t. XXII, v. 1122 e
seguenti. V. LOTTERUS, _Historia instaurationis templi Hierosolymitani
sub Juliano divino miraculo impeditae_, Lipsia, 1728.

[244] Una se ne ha nelle _Mille e una notte_, dove l'oro è coperto,
non di cenere, ma di olive: è la storia di Alì Cogia. Nel libro
ebraico intitolato _Le parabole del re Salomone_ si parla di un
deposito di monete d'oro ricoperte di uno strato di miele. Il Massmann
(_Kaiserch_., v. III, p. 883) fa cenno di una storia simile narrata
da Vincenzo Bellovacense; ma la indicazione ch'egli dà del libro e del
capitolo è falsa, e a me non è riuscito di rinvenirla. Altri racconti
si hanno nella _Disciplina clericalis_, nel _Castoiement d'un père
à son fils_ (nov. XIII, in BARBAZAN, _Fabliaux et contes des poètes
françois des XI, XII, XIII, XIV et XV siècles_, 2ª ed. aumentata dal
Méon, v. II, p. 107-13), nel NOVELLINO (nov. 74), nel DECAMERONE (gior.
VIII, nov. 10).

[245] Questo poema fu pubblicato sul manoscritto unico del Museo
Britannico da Tommaso Wright pel Roxburghe Club, Londra, 1856. A p. 19
si leggono i seguenti versi:

    Exemplum sceleris Julianus apostata saepe
      Ponitur, exuerat qui monachale decus;
    Huic monacho mulier testa commiserat aurum,
      Sed texit sparsus splendida frusta cinis.
    Asportans aurum monachus sua claustra reliquit,
      Et consul Romae munere factus erat.
    Imperio functus tandem scelus omne peregit,
      Cujus in exitium omnis gehenna coit.

[246] _Mystère de l'empereur Julien et de Libanius son Seneschal_,
pubblicato dal DU MÉRIL, _Origines latines du théâtre moderne_, p.
305-53; ripubblicato da GASTON PARIS e ULYSSE ROBERT, _Miracles de
Nostre Dame_, v. II, p. 171-226. Il solo scrittore forse, che in
tutto il medio evo abbia giudicato equamente la politica di Giuliano
verso i cristiani, è l'autore della prima parte dei _Gesta episcoporum
neapolitanorum_, composta, o sul finire del'VIII, o sul principiare
del IX secolo. Quivi si dice: «Juliano apostata imperatore facto, ad
idolorum cultum converso, blanda persecutio fuit, inliciens magis quam
impellens ad sacrificandum, in qua multi voluntate propria corruerunt».
_Scriptores rerum langobardicarum et italicarum saec. VI-IX_, p. 405.

[247] _Polychronicon_, l. IV, c. 28.

[248] Cod. della Nazionale di Firenze, Santa Croce, 724, A, 7.

[249] V. 10649-11152.

[250] Bocca della Verità fu veramente in origine chiamata la ruota, e
non il mascherone, che nello stesso portico fu murato molto più tardi,
e che ora con quel nome comunemente si chiama. Su ciò i _Mirabilia_
non lasciano dubbio: «In porticu ejusdem (_ecclesiae S. Mariae in
Cosmedin_) est magna rota lapidea ad molae formam, cui foramina quinque
adsunt, quasi oris, narium et oculorum, et vocant Bocca della Verità».

[251] _De aedificiis Constantinopolitanis_, ed. cit., p. 119; _De
signis Constantinopolitanis_, ed. cit., p. 50-1.

[252] Secondo Giovanni d'Outremeuse (op. cit., v. II, p. 77) la
promessa gli fu fatta da un mago. «Et sy trovat (_Julien_) un melheur
maistre de li qui parmy l'art de dyable ly dest, s'ilh li voloit
creanteir qu'il renoicroit la foid cristine, ilh seroit temprement
emperere de Romme. Il respondit oïlh, et y renunchat là meisme par
foid et par sermient. Et chil ly dest qu'il chevalchast tantoist vers
Romme en armes, se trovat que son cusin Constanche estoit mors; se fut
tantoist eslus par les donnes qu'ilh donnat et promist aux senateurs».

[253] _Hist. eccl._, l. III, c. 21.

[254] _Hist. eccl._, l. III, c. 25.

[255] _Breviarium_, l. X, c. 10.

[256] _Historiarum_, l. VII, c. 30.

[257] V. SOZOMENE, _Hist. eccl._, l. VI, c. 1. AMMIANO MARCELLINO dice
(_Rer. gest._, l. XXV, c. 6) che nell'esercito si credette l'imperatore
essere stato ucciso da un cavaliere romano. La Chiesa si vendicò di
quell'accusa facendo Libanio stesso cristiano e santo per giunta. Si
narra che avendo Libanio, durante la spedizione di Persia, domandato
un giorno per ischerzo ad un cristiano che cosa facesse il falegname
padre di Cristo, questi rispose: Prepara la bara per il tuo imperatore
(v. TEODORETO, _Hist. eccl._, l. III, c. 25). Poi si narrò ancora che
Libanio conobbe in visione il miracolo di San Mercurio e la morte di
Giuliano, il che fu causa della sua conversione. Di questa conversione
si fecero appositi racconti, ed uno se ne ha in una raccolta di vite
di Santi che manoscritta si conserva sotto il n. 498 nella Biblioteca
di Corte a Vienna, ed è intitolata: _De mistica satis revelatione et
morte apostatae Juliani_. Nel già citato mistero francese Libanio si
fa eremita, e tutto acceso del desiderio di vedere la Vergine Maria,
acconsente a lasciarsi strappare dall'arcangelo Gabriele entrambi
gli occhi, purchè il suo voto sia appagato. La Vergine, compiaciuta
dell'amor suo, gli rende la vista, e fra il canto degli angeli ne
lo conduce seco in paradiso. V. anche una vita latina di San Basilio
pubblicata nel _Florilegium Casinense_, in appendice alla _Bibliotheca
Casinensis_, t. III, p. 209-10.

[258] V. SOZOMENE, _Hist. eccl._, l. VI, c. 2.

[259] V. TEODORETO, _Hist. eccl._, l. III, c. 24. Della morte di
Giuliano ebbero ancora notizia miracolosamente Teodoro Tabennense
e l'abate Pannone, secondo che narra il vescovo Ammone (V. _Acta
sanctorum_, t. III di Maggio, p. 356).

[260]

    Vastata Ecclesia Persas in bella vocarat,
        Ac multis septus millibus ibat atrox:
    Cum subito arentes deserti ruris in agros
        Devenit, et cuneos perdit ubique suos.
    Qua neque victus erat, nec fons, nec fluminis unda,
        Caumate sed nimio tota jacebat humus.
    Dumque fremens montes, valles camposque peragrat;
        Sicubi vel modico stilla liquore fluat;
    Incidit adversae condigno errore phalanges
        Perfossusque atra cuspide pectus obit.

Ap. MIGNE, _Patrologia latina_, v. C. XIX, col. 257.

[261] V. gli _Acta sanctorum_, l. II di Giugno, p. 944-5.

[262] _Hist. eccl._, l. VI, c. 2.

[263] _Spec. hist._, l. XV, c. 23.

[264] _Cosmodr._, aet. VI, c. 17.

[265] Ed. del 1495, dist. VIII, 81.

[266] Quella particolarità si ritrova, oltrechè nel già citato mistero
francese, anche in una leggenda italiana _Di Santo Basilio vescovo e
della crudele morte di Giuliano Apostata_, che sta fra certi miracoli
della Vergine nel cod. Riccardiano 1284. Quivi si legge, f. 43 v., col.
2ª a 44 r., col. 2ª: «El settimo dì uno c'avea nome Libanio, ch'era
stato prochuratore del maladetto Giuliano, tornando del canpo et del
paese de Persia, entroe in Ciesaria, cioè nella città. Il quale prima
infedele essendo et pagano, corse al vescovo et con grande divotione si
fecie battezzare. E raccontoe al vescovo la morte di Giuliano, la quale
egli avea veduta co' suoi occhi, et disse in questo modo: — «Essendo
noi tutti accanpati e 'l canpo era fortissimo, et bene cerchiato
intorno di cavalieri armati, intanto che neuno non potrebbe essere
entrato nel detto canpo, nondimeno eccoti venire nel canpo uno valoroso
cavaliere armato di tutte armi in presentia di tutto lo essercito,
et mise tanta paura nel canpo che nullo fu ardito a contastarlo. E
arditamente corse a Giuliano, et ficcogli una lancia nel corpo, et
ucciselo, poi di subito sparve. El misero Giuliano, così percosso per
divino giudicio, cadde in terra supino, ecc.» —

[267] _Miracula Beatae Virginis_, cod. della Laurenziana, pl. XII, 23,
f. 95 v., col. 1ª a 96 r., col. 1ª.

[268] Ed. cit., v. I, p. 550-2.

[269] Anche Giovanni Malala, Sozomene, Niceforo, Filostorgio, ricordano
la tradizione secondo cui Giuliano avrebbe dato colpa della propria
morte al Sole, protettore dei Persiani. Gotofredo da Viterbo fa ancor
egli che l'ordine a San Mercurio sia dato, non dalla Vergine, ma da
Cristo.

[270] Orat. l. V. anche il supplemento del VISDELON e del GALAND alla
_Bibliothèque Orientale_ del D'HERBELOT, p. 458 a.

[271] _Cronaca_, cod. dell'Universitaria di Bologna 432, f. 60 r.

[272] _Historia major_, ad. a. 1098.

[273] Così BALDUINO NINOVIENSE, _Chronicon, Collection de chroniques
belges inédites_, p. 617, Sicardo, altri. Sicardo non parla di San
Basilio, ma solamente di un abate di certo convento; Ciriaco sarebbe
stato _quidam miles_ martirizzalo da Giuliano.

[274] _Annales_, ed. cit., p. 471.

[275] Iuxta palatium fuit templum Iuliani apostatae Imperatoris, in quo
fulgure mortuus fuit propter nequitias et tristitias quas faciebat.

[276] _Pantheon_, partic. XXII:

    Regis Romani cesum corpus Iuliani
    Persarum rex Sapor ibi iubet excoriari,
      Cumque sibi corpus protraheretur, ait
    _Hoc corio faldistorium nobis ad honorem_
    _Fiat ut eterno sit Roma subacta pudore,_
      _Legeque mancipii serviat ipsa dolens._
    _Sit species corii, rubeo vicina colori,_
    _Indeque sit cathedra conformis et apta decori,_
      _Unde dolens poterit Roma dolore mori._

[277] Et de isto Juliano alia hystoria legitur quod eodem tempore
surrexit dictus Julianus cum exercitu suo, bellum commisit contra
Perses, et ambulavit dictus imperator in partibus Persie, qui cum
ambulasset, et pugna conflicta victus tenetur Julianus imperator et
afflictus vivus decoriatur ab extremo vertice usque ad ungulas pedum,
et tinctus vermiculo idem omni tempore reges Persarum septem diebus
dum pacem habuerint super corium Juliani congratulabantur. Giovanni
d'Outremeuse confonde ed esagera al solito: Adont fut par forche pris
l'emperere Julien l'apostate: se lo fist le roy (_Sapor_) tantoist
loyer sor une tauble, et ly fist trois fois le jour it cascouno fois
talhyer I corroie de cure de son dos, et puis le faisoit saleir de vive
chals; ensi viscat-ilh sons boire et sens mangier III jours, en criant
à hault vois, enssi qui dist sains Jerome: «Tu m'as vanqut, Jhesus de
Galilée, tu as vanquut»; et puis il mourut et adont ly roy Sapor le
fiat jetteir en la mer. Enssi morut Julien ly apostate, le VIIIe jour
de mois de septembre. Op. cit., V. II, p. 79.

[278] Nella già citata cronaca _De VI aetate mundi_ (cod. della
Nazionale di Torino I, II, 22, f. 6 v., col. 2ª) si legge: «Finito
ergo prelio rex Persarum, qui fuit victor, fecit capere corpus Iuliani
et excoriare et de corio fieri pedale omnibus regibus de Persia usque
hodie in vituperium Romanorum». Qui non si nomina Sapore, e nemmeno
nella _Legenda aurea_, dove è detto: «ab omnibus autem suis insepultus
relinquitur (_Julianus_) et a Persis excoriatur et de corio suo regi
Persarum substratorium efficitur». Nell'_Alte Passional_ si parla
similmente di un re di Persia che non si nomina.

[279] _Fact. et Dict. memor._, l. VI.

[280] _Dittamondo_, l. II, c. 13.

[281] Gregorio Nazianzeno; TEODORETO, _Hist. eccl._, l. III, c. 20;
NICEFORO, _Hist. eccl._, l. X, c. 35. V. HEUMANN, _Dissertatio in qua
fabula de Juliani imperatoris voce extrema «vicisti Galileae», certis
argumentis confutatur, ejusque origo in apricum profertur_, Gottinga,
1740.

[282] V. SOZOMENE, _Hist. eccl._, l. VI, c. 2; FILOSTORGIO, _Hist.
eccl._, l. VII, c. 15; NICEFORO, _Hist. eccl._, l. X, c. 35; EFREMIO
nei Cesari, ap. MAI, _Scriptores veteres_, v. III, p. 13.

[283] Così nello _Speculum Regum_; nel _Pantheon_, in luogo dell'ultimo
verso, c'è:

    Sic miser interiit, tartara regna colens.

[284] Nella già citata leggenda italiana _Di santo Basilio vescovo et
della crudele morte di Giuliano Apostata_, Libanio racconta ancora come
Giuliano fu seppellito. «Allora i baroni et cavalieri suoi, perch'egli
era stato inperadore, il portarono in Costantinopoli, et feciero fare
una orrevole sepultura di marmo nella quale il seppellirono. E sì come
de' sepolcri di cierti santi escie alchuno licuore et olio pretioso,
così per contrario dalla sepultura di questo pessimo huomo escie pece
greca bogliente et puzzolente, la quale arde et consuma quel corpo et
quell'ossa misere continuamente».

[285] V. I, p. 80.

[286] Non so se da altri sia stato osservato mai che Dante, il
quale pone parecchi imperatori romani in cielo, non ne pone nessuno
all'inferno, dove pur trova luogo più di un pontefice. Solo Giulio
Cesare è posto, non nell'inferno, ma nel limbo, con l'altra onorata
compagnia. E sì che un Nerone, un Domiziano, e, secondo le opinioni del
tempo, un Giuliano Apostata, all'inferno ci sarebbero stati come a casa
loro. Questa non fu certo dimenticanza, ma volontaria omissione, della
quale io non saprei quale altra ragione si potrebbe assegnare, se non
il religioso rispetto di Dante per l'impero e per tutto quanto avesse
attinenza con esso. E bisognerebbe inferirne che Dante rispettava più
l'impero che non la curia in cuor suo.

[287] V. intorno a questo importante argomento, su cui non mi è lecito
di fermarmi, LALANNE, _Influence des pères de l'Église sur l'éducation
publique,_ Parigi, 1850; COMPARETTI, _Virgilio nel medio evo_, v. I, p.
105-26.

[288] V. FABRIANI, _Sull'immortale beneficio dagli ecclesiastici
recato alla letteratura conservandola nel medio evo, nelle Memorie
di religione, di morale e di letteratura_, t. XVI, p. 283-363, t.
XVIII, p. 497-520. Cf. POUCHET, _Histoire des sciences naturelles au
moyen-âge_, Parigi, 1853, p. 103 e seg.

[289] _Sermo_ 41, _Opera_, ed. Caetani, Lione, 1623, p. 296.

[290] _Sancti Eligii vita_, ap. D'ACHERY, _Spicilegium_, t. II, p. 77,
ed. De la Barre.

[291] Et quia vicarii Petri et eius discipuli nolunt habere magistrum
Platonem, neque Virgilium, neque Terentium, neque ceteros pecudes
philosophorum, qui volando superbe, ut avis aerem, et emergentes
in profundum, ut pisces mare, et ut pecora gradientes terram
descripserunt: dicitis eos nec hostiarios debere esse, quia tali
carmine imbuti non sunt. Ap. PERTZ, _Script_., t. III, p. 687.

[292] _Rerum Gallicarum Scriptores_, t. X, p. 23. Questo racconto,
sebbene già più volte riferito, merita d'essere qui testualmente
trascritto, perchè contiene alcune indicazioni curiose che più
direttamente riguardano l'Italia. «Quidam igitur Vilgardus dictus,
studio artis Grammaticae magis assiduus quam frequens, sicut Italis
semper mos fuit artes negligere ceteras, illam sectari. Is enim cum
ex scientia suae artis coepisset inflatus superbia stultior apparere,
quadam nocte assumpsere daemones Poëtarum species Virgilii et Horatii
atque Juvenalis; apparentesque illi fallaces retulerunt grates,
quoniam suorum dicta voluminum carius amplectens exerceret, seque
illorum posteritatis felicem esse praeconem: promiserunt ei insuper
suae gloriae postmodum fore participem. Hisque daemonum fallaciis
depravatus, coepit multo turgide docere fidei sacrae contraria,
dictaque Poëtarum per omnia credenda esse asserebat. Ad ultimum vero
haereticus est repertus, atque a Pontifice ipsius urbis Petro damnato.
Plures etiam per Italiam hujus pestiferi dogmatis sunt reperti, qui et
ipsi aut gladiis aut incendiis perierunt».

[293] JOHANNES, _Sancti Odonis vita_, ap. MABILLON, _Acta Sanctorum
ordini Sancti Benedicti_, sec. V, p. 154.

[294] _Chronic_., c. XLVI, ap. TISSIER, _Bibliotheca patrum
Cistercensium_, t. VII.

[295] Dist. VII, c. 30.

[296] E altrove dice (l. VI, cantico 10):

    El mi sa sì gran sapire,
    Che un per Dio voglia impazire,
    Che 'n Parigi mai vedere
    Potria ugual Phylosophia.

Son noti i due versi:

    Hoc est nescire, sine Christo plurima scire,
    Si Christum bene scis, satis est si caetera nescis.

[297] Isidoro di Siviglia dice nella sua _Regula monastica_, c.
8: «Gentilium libros vel haereticorum volumina monachus legere
caveat: melius est enim, eorum perniciosa dogmata ignorare, quam
per inexperientiam in aliquem laqueum erroris incurrere». Ottone (XI
secolo) tuttochè benedettino ammoniva: «Gentiles libri non sunt ab eis
religendi qui servire Deo statuerunt pectore toto» (_Proverb_., c. VII,
ap. Pez, _Thesaurus anecdotorum_, t. III, parte 2ª, p. 498. V. anche il
suo _Liber metricus de doctrina spirituali_, ivi stesso, p. 441).

[298] V. Comparetti, op. cit., v. I, p. 113-4.

[299] Non più così nei secoli che seguirono. V. il parallelo che fa
tra i monaci più antichi e quelli del XIV secolo Riccardo di Bury nel
_Philobiblion_.

[300] V. intorno alle biblioteche dei chiostri PETIT-RADEL, _Recherches
sur les bibliothèques anciennes et modernes_, Parigi, 1819: HEEREN,
_Geschichte der classischen Litteratur im Mittelalter_, Gottinga,
1822, v. I, p. 161-7, 193-7; GRAESSE, _Lehrbuch einer allgemeinen
Literärgeschichte_, v. II, parte 1ª, p. 824 e seg.; Boutaric nella
_Revue des questions historiques_, v. XVII, p. 16-9. Nel suo poema
_De pontificibus et Sanctis Ecclesiae Eboracensis_ Alcuino dà l'elenco
degli autori le cui opere si conservavano nella chiesa cattedrale di
York. Benchè assai noto, esso merita d'essere qui riportato.

    Illic invenies veterum vestigia patrum
    Quidquid habet pro se Latio Romanus in orbe
    Graecia vel quidquid transmisit clara Latinis:
    Hebraicus vel quod populus bibit imbre superno,
    Africa lucifluo vel quidquid lumine sparsit.
    Quod pater Hieronymus, quod sensit Hilarius, atque
    Ambrosius praesul, simulque Augustinus, et ipse
    Sanctus Athanasius, quod Orosius edit avitus:
    Quidquid Gregorius summus docet, et Leo Papa:
    Basilius quidquid, Fulgentius atque coruscant,
    Cassiodorus item, Chrysostomus atque Johannes;
    Quidquid et Athelmus docuit et Beda Magister;
    Quae Victorinus scripsere, Boëtius; atque
    Historici veteres, Pompejus, Plinius, ipse
    Acer Aristoteles, Rhetor atque Tullius ingens;
    Quid quoque Sedullus, vel quid canit ipso Juvencus,
    Alcimus, et Clemens, Prosper, Paulinus, Arator,
    Quid Fortunatus, vel quid Lactantius edunt;
    Quae Maro Virgilius, Statius, Lucanus et auctor
    Artis grammaticae, vel quid scripsere Magistri,
    Quid Probus, atque Phocas, Donatus, Priscianusve,
    Servius, Eulicius, Pompejus, Commenianus.
    Invenies alios perplures, Lector, ibidem
    Egregios studiis, arte et sermone Magistros,
    Plurima qui claro scripsere volumina sensu:
    Nomina sed quorum praesenti in carmine scribi
    Longius est visum, quam plectri postulet usus.

[301] _Il Roman de Thèbes_ comincia con questi notabili versi, ai quali
si potrebbero trovare parecchi riscontri:

    Qi sages est nel doit celer,
    Ains doit pour çou son sens mostrer,
    Que quant il ert du siecle ales
    Tos iours en soit plus ramembres.
    Se dans Omers et dans Platons
    Et Vergiles et Cicerons
    Fuissent lor sens ale celant,
    Ja n'en fust mais parle avant.

Chrestien de Troies dice nel _Cliget_:

    Par les livres que nos avons
    Les fais des anciens savons
    Et del siecle, qui fu iadis.

[302] V. PRANTL, in _Sitzungsberichte der bayr. Akad. der
Wissenschaften, philos.-philol. Cl._, 1861, p. 14.

[303] Nell'inedito poema di Carlo Martello e di Ugo conte d'Alvernia,
francese di origine (v. intorno ad esso un mio scritto nel _Giornale
di filologia romanza_, n. 2, p. 92-110), Ugo, viaggiando per l'inferno
in compagnia di Enea e di san Guglielmo d'Oringa (Guglielmo d'Orange,
l'eroe di uno dei sottocicli epici francesi) giunge al Limbo, dove non
è nè fiamma, nè altro tormento infernale. Ciò nullameno, le anime che
vi stanno rinchiuse piangono amaramente, e fanno alti lamenti. Enea,
il quale esercita qui l'ufficio affidato nella _Divina Commedia_ a
Virgilio, dice al cavaliere (cod. della Nazionale di Torino, N, III,
19):

    Questo asembiamento che tu vedy ya presente
      yn questo limbo sono de quela zente
      che fono vivy anze lo batesmo
      e de tali ge n'è che pechà non feno,

a un di presso come Virgilio dice a Dante. Quivi stassi anche Enea,
di quivi Cristo trasse i patriarchi; se coloro che vi sono rimasti
avranno mai grazia di uscirne e d'andare a miglior soggiorno è occulto
pensiero di Dio. Notisi che tutta questa parte del romanzo, dove si
narra il viaggio infernale di Ugo, è imitazione manifesta della _Divina
Commedia_, ma imitazione sgarbata, e di uno che non solo non ebbe una
favilla dell'ingegno poetico di Dante, ma non ebbe nemmeno di costui
il largo sentimento, e l'illuminata umanità. Però la condizione degli
antichi illustri nel suo limbo è assai meno onorata, e assai più
infelice di quello sia nel limbo dantesco. Anche Ugo trova un castello
con sette porte, simbolo delle sette arti, nel quale è Tolomeo con
molti discepoli, e assai altri cultori delle scienze, tra cui, pare,
Aristotele. Ma tutti costoro si mostrano ben diversi da quei venerabili
savii di Dante, che

    Parlavan rado, con voci soavi;

essi, per contro, non essendo dallo studio, a cui attendono, appagato
il lor desiderio, continuamente diverbiano e s'azzuffano. Se non che
il racconto di tutto ciò è molto confuso nel poema; nel romanzo in
prosa di Andrea da Barberino invece (_Storia di Ugone d'Avernia_,
pur ora pubblicata dal Zambrini e dal Bacchi della Lega. _Sc. d.
cur. lett._, disp. CLXXXVII, CLXXXX, l. IV, c. 1) esso è chiaro ed
esplicito. Nel castello i demonii non possono entrare, ma l'ardore
dell'incendio infernale vi si fa pur sentire. Quivi Ugone vide «molti
che leggevano in sedia, che gridavano con grandi boci», e d'intorno
molti che li stavano a udire; «e spesso la moltitudine che stavano a
udire s'azzuffavano; e bestemmiando tutte le creature, e istracciavano
i libri e la scrittura». Quivi sono, tra gli altri, Tolomeo, Tullio,
Ipocrasso, Valerio; ed Enea dice a Ugone: «tutti coloro che istudiano
nella scienza, sanza avere la diritta fede in Dio, ci vengono tutti».
Ci si trova anche Aristotile; ma di Platone Enea dice: «perchè egli
confessò la maggior parte, o una maggior parte delle trenta, non entra
fra costoro; non ti so dire dov'è riserbato». In una versione libera in
terzine, che certo Giovanni Vincenzo Isterliano fece di tutta quella
parte del racconto dove si narra il viaggio di Ugone per l'inferno, e
che si trova intercalata nel racconto medesimo, la lista degli antichi
designati per nome è molto più lunga. Ecco i versi che la contengono:

    Udii di Tolomeo la sapïenza,
      Di Tullio, di Ipocrasso, e di Valerio,
      E d'Averrois con sua falsa sentenzia.
    E Polistrato e Lucano, ed Umerio,
      E Anasarco, Ipicurio, e Diogiene,
      E Vergilio che fe' Enea sì alterio.
    Di Socrate, Appollonio e Nassimene
      E Archimede, Diodoro e Orazio,
      Sallustio, Tito Livio e Filomene;
    Dimocrito, Ovidio, e vidi Ostazio;
      Antiganor poi mi fe' vedere,
      Aristotil più alto.

Andando più oltre Ugone, così nel poema, come nel romanzo in prosa,
trova gli eroi e i capitani famosi dell'antichità, che Dante aveva
messi in compagnia coi filosofi e coi poeti, e, cosa degna di nota, la
condizion loro è meno infelice che non quella dei savii, abitatori del
castello simbolico.

[304] Ap. PEZ, _Thesaurus anecdotorum novissimus_, t. II, parte 1ª,
col. 227-34.

[305] _In Cantica, sermo_ XXXVI.

[306] _De gestis Frederici_ I, l. II, c. 13.

[307] V. intorno al perdurare della tradizione classica in Italia
BARTOLI, _I primi due secoli della letteratura italiana_, c. VII, o
GEBHART, _Les origines de la renaissance en Italie_, Parigi, 1879, c.
IV.

[308] Circa la persistenza dei metri classici v. WRIGHT, _On the
origin of rhymes in mediaeval poetry_ nel v. II degli _Essays on
archaeological subjects._

[309] V. FITTING, _Juristische Schriften des früheren Mittelalters_,
Halle, 1870, e _Zur Geschichte der Rechtswissenschaft am Anfange des
Mittelalters_, ibid., 1875.

[310] _Tetralogus_, ap. PERTZ, _Script_., t. XI, p. 251.

[311] Ep. IV, Op., ed. del 1517.

[312] DUEMMLER, _Gedichte aus dem elften Jahrhundert, in Neues Archiv
der Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde,_ v. I, p. 181.

[313] Raterio da Verona dice, citando un verso d'Orazio nel suo
trattato _De contemptu canonum_: «perlepide Flaccus cantitat noster».

[314] In un carme _Ad Gregorium magistrum militum_ son questi versi:

    Sergius, ecce, polos magnus qui vertice pulsat,
    Dignus apostolicus divino munere lectus,
    Mistice qui factus conformis imagine divum
    Aurea priscorum nunc reparat secla virorum,
    Scipiades claros, Fabios gentemque togatam
    Fasces, curules, anulos ac paludamenta,
    Palmatas tunicas, trabeam falerasque nitentes
    Imperium renovat heroum nomenque priorum.

DUEMMLER, _Auxilius und Vulgarius_, p. 152.

[315] HOCK, _Histoire du pape Sylvestre II et de son siècle_,
traduzione dal tedesco arricchita di note e di documenti inediti
dell'abate Axinger, p. 115-6.

[316] Alcuino dice in una delle sue epistole a Carlo Magno: «Ego vero
Flaccus vester secundum exhortationem et bonam voluntatem vestram
aliis per tecta sancti Martini sanctarum mella scripturarum ministrare
satago; alios vetere antiquarum disciplinarum mero inaebriare studeo».
Ep. 78, in JAFFÈ, _Monumenta Alcuiniana_, Berlino, 1873, p. 345.

[317] V. OZANAM, _Des écoles en Italie aux temps barbares_, in
_Documents inédits pour servir à l'histoire littéraire de l'Italie_, p.
14.

[318] V. JESSEN, _Lucrez im Mittelalter_, nel _Philologus_, v. XXX. p.
236-8.

[319] Nel _Rheinisches Museum_, t. III, p. 7-8.

[320] Fu fatto conoscere dall'Ozanam (_Documents inédits_, p. 19-20),
il quale, per una pudicizia assai fuor di proposito, ne diede solamente
le prime strofe, tralasciando il resto. Esso fu poi pubblicato per
intero dal WATTENBACH, _Zeitschrift für deutsches Alterthum_, v.
XVIII, p. 127. Altre composizioni consimili si potrebbero ricordare:
un poemetto ritmico avente a soggetto la storia di Giove e di Danae,
pubblicato ancor esso dal Wattenbach (ibid., p. 457): un'_Altercatio
Phillidis et Florae_, pubblicata già più volte (ARETIN, _Beyträge
zur Geschichte und Literatur_, t. VII, p. 302; WRIGHT, _Latin poems
attributed to Walter Mapes_, p. 258; Carmina Burana, p. 155); un
poemetto _De gestis Herculis_ (_Carm. Bur_., p. 125), ecc.

[321] Ap. MURAT, _Script_., t. VI.

[322] _Archivio storico italiano_, v. XVI, I.

[323] Sull'argomento delle possibili relazioni della leggenda di San
Gregorio con la storia di Edipo v. COMPARETTI, _Edipo e la mitologia
comparata,_ Pisa, 1868; LIPPOLD, _Ueber die Quelle des Gregorius
Hartmanns von Aue_, Altenburg, 1869, p. 50-4; CONSTANS, _La légende
d'Oedipe étudiée dans l'antiquité, au moyen-âge et dans les temps
modernes, en particulier dans le roman de Thèbe, texte français du XII
siècle_, Parigi, 1881. L'Ozanam pubblicò (_Documents inédits_, p. 25-8)
un _Planctus Edipi_ di su un codice del XII secolo dell'abazia di San
Gallo. Nel _Dolopathos_ di Giovanni d'Alta Selva, e nelle versioni
che se ne fecero, si trova narrata una storia che, salvo differenze
di poco rilievo, è quella stessa di Ulisse e di Polifemo narrata
nell'Odissea. Non perciò se ne deve inferire che il racconto omerico
ne sia la fonte remota. Quella storia appartiene al grande patrimonio
dei miti indoeuropei, e si ritrova nei racconti di moltissimi popoli.
Gli è essai probabile che lo stesso autore dell'Odissea non abbia fatto
se non appropriare ad Ulisse una fiaba corrente dei tempi suoi, e non
sarebbe questo il solo esempio di fiabe popolari inserite in quel poema
(V. GERLAND, _Altgriechische Märchen der Odyssee_, Magdeburgo, 1869).
Vero è che Giovanni di Alta Selva dà al gigante del suo racconto il
nome di Polifemo, ma è questa in lui, senza dubbio, una reminiscenza
classica, che non si accorda punto col resto, giacchè Ulisse e i suoi
compagni non si nominano, e il luogo loro è tenuto da un capitan di
ladri con cento ladroni. V. per quanto concerne questo antichissimo
mito W. GRIMM, _Die Sage von Polyphem, Abhandl. d. k. Akad. d.
Wissensch. z. Berlin_, 1857. Lo stesso, credo, potrebbe dirsi del mito
di Circe e degli uomini trasformati in bruti, che così spesso riappare,
mutati i nomi e le persone, nei racconti romanzeschi del medio evo.
Ma non a torto forse collega il Goerres la storia di Helias e di
Lohengrin con quanto, riportando un antico mito germanico, e alterando
il nome dell'eroe, narra Tacito (_De mor. Germ_., c. 3) di Ulisse, che,
peregrinando sarebbe giunto sin sulle coste della Germania, e rimontato
il corso del Reno, avrebbe fondato Asciburgio. Vedi _Lohengrin, ein
altteutsches Gedicht_, pubblicato da I. Goerres, Eidelberga, 1813, p.
LXXVII-LXXVIII.

[324] V. CHOLEVIUS, _Geschichte der deutschen Poesie nach ihren antiken
Elementen_, Lipsia, 1854-6, v. 1, p. 3-9; COMPARETTI, _Virgilio nel
medio evo_, v. II, p. 7.

[325] V. ROQUEFORT, _Poésies de Marie de France_, Parigi, 1820, v.
II,_ Notice sur les fables e Notice sur Romulus_; ROBERT, _Fables
inédites du XIIe, XIIIe et XIVe siècles_, Parigi, 1825; DU MÉRIL,
_Poésies inédites du moyen âge_, Parigi, 1854; OESTERLEY, _Romulus,
die Paraphrasen des Phaedrus und die aesopische Fabel im Mittelalter_,
Berlino, 1870.

[326] ROQUEFORT, _De l'état de la poèsie françoise dans les XIIe et
XIIIe siècles_, Parigi, 1821, p. 252.

[327] V. SCHAARSCHMIDT, _Johannes Saresberiensis_, Lipsia, 1862, p. 84.

[328] Id., ibid.

[329] V. Boutaric in _Revue des questions historiques_, v. XVII, p. 56
e seg.

[330] V. SINNER, _Catalogus codicum manuscriptorum Bibliothecae
Bernensis_, v. III, p. 348.

[331]

    Tullius et Macer, Cicero sive Plato.

_De gestis Hludovici regis_, l. I, v. 18.

[332] _Polychronicon_, l. III, c. 40.

[333] Tale accusa è fatta ad Omero da Guido Colonna, da Benedetto di
Saint-More, il quale riconosce nondimeno che l'autore dell'_Iliade_

                  fu clers merveilles,
    Des plus sachaux, çe trovon nos,

(_Roman de Troie_, v. 45-6), da Alberto Stadense. In un frammento di
versione castigliana della _Historia Trojana_, riportato da AMADOR DE
LOS RIOS, _Historia critica de la literatura española_, v. IV, p. 346,
si dice che l'_Iliade_ fu bruciata in Atene.

[334] _Bocados de oro_, c. XI.

[335] _Fiore di filosofi e di molti savi_.

[336] Ciò si narra, con qualche piccola diversità, di Seneca nella VIII
delle novelle inedite pubblicate dal PAPANTI, _Catalogo dei novellieri
italiani in prosa_, Livorno, 1871. V. anche BIAGI, _Le novelle
antiche_, CXLI, p. 142-3.

[337] Cap. 64.

[338] _Bocados de oro_. VIII, XII, XIII, XX.

[339] BIAGI, _Le novelle antiche, LXXXIV, p. 86-87. V. anche il_ _Fiore
di filosofi_, testo del Cappelli, p. 8-9.

[340] V. GIOVANNI SARISBERIENSE, _Polycrat_., l. II, c. 26. Questa
storiella era già stata raccontata anticamente di Omero, e di Omero si
continua a raccontare nelle _Vite dei filosofi_ in italiano, stampate
nel secolo XV (v. BARTOLI, _St. d. lett. it._, v. III, p. 221), e nella
prefazione di un libro francese intitolato _Les fantastiques batailles
des grands roys Bodilardus et Croacus: translaté de latin en françoys_,
Lione, 1534 (v. LE ROUX DE LINCY, _Le livre des légendes_, Parigi,
1836, p. 45-7).

[341] _Bocados de oro_, c. XIII.

[342] ALESSANDRO NECKAM, _De naturis rerum_, c. CLXXXIX; RANULFO
HIGDEN, _Polychronicon_, l. III, c. 24.

[343] V. GIDEL, _La légende d'Aristote au moyen-âge_, Parigi, 1874.

[344] _L'image du monde_, parte III, c. X (cod. L, IV, 5 della
Nazionale di Torino):

    D'astronomie fu sy soutius
    Tholomeus le roy gentius,
    Vng des roys Tholomeus d'Egipte
    Qui la terre tint maint iour quicte.
    Pluseurs roys Tholomeus y ot
    Mais ce fu cil qui plus en sot.

Anche Brunetto Latini fa Tolomeo re d'Egitto. Altri non incorrono in
questo errore, ed è falso ciò che l'Halma affermò nella introduzione
all'Almagesto pubblicato in Parigi nel 1813, p. 61, esservi incorso
anche Isidoro di Siviglia (Cf. Etymologiarum l. III, c. 26). Nei
Bocados de oro, c. XV, si legge: «E [Tholomeo] non fuera rrey commo
algunos cuydaron, mas posieronle nonbre Tolomeo commo pusieron nonbre a
otro Cesar».

[345] BENEDETTO DI SAINTE-MORE, _Roman de Troie_, v. 73-6:

    El tens Saluiste la vaillant
    Qui tant fu sages et poissant,
    Riches, et proz de hauz parages,
    Et clers merveillosement sages.

[346] Nel già citato frammento di versione castigliana della _Historia
Trojana,_ parlandosi di Cornelio Nepote, supposto traduttore di Darete
Frigio, si dice: «Et este Cornelio era omme sabidor et sabia todos los
linguajes».

[347] PETRARCA, _Epistola in Zoilum_.

[348] Alars de Cambrai, parlando dei filosofi, dice:

    Li vintimes ce fu Macrobes
    Qui tos lors vesti blances robes.

Ap. STENGEL, _Li romans de Durmart le Galois_, Stoccarda, 1873 (_Bibl.
d. litter. Ver._), p. 457.

[349] Nel 1476 Frate Migir diceva ancora in una sua poesia composta in
morte di Enrico IV re di Castiglia e di Leone:

    El buon Aristotiles, el grant natural
    Pyntagoras, Ermes, Brasis é Platon,
    Euclides, Seneca, é mas Juvenal,
    Boecio, Panfilo, Oraçio é Nason,
    Tulio, Vegeçio, Virgilio é Caton,
    Poetas perfetos é grandes estrologos,
    E mas otros muchos que non van en prologos,
    Pues todos aquestos desidme ¿dó son?

_Concionero de Juan Alfonso de Baena_, ed. del Rivadeneyra, nº 38, p.
45.

[350] _Opera_, ed. di Basilea, p. 476.

[351] Cf. SANT'AGOSTINO, _De Civitate Dei_, l. X, c. 29.

[352] L. VIII, c. 11.

[353] Nel trattato _De doctrina christiana_, l. II, c. 28. San Clemente
Alessandrino, Eusebio ed altri, più particolarmente della Chiesa greca,
sostengono che i filosofi antichi molto si giovarono delle Scritture.

[354] _De Civitate Dei_, l. XXIX, c. 1.

[355] _Sermo_ XXVII: Plato inter Philosophos scientia et opinione
praecipuus, cum circa libros Moysi multam diligentiam adhibuisset
gloriatus est se invenisse unum quod omnia operatur.

[356] _Quaest_. III. Della ortodossia di Platone sono molte
testimonianze. Nel _Carmen satiricum_ di Niccolò di Bibera, composto
nel XIII secolo (pubblicato da T. Fischer nelle _Geschichtsquellen der
Provinz Sachsen_, v. I, Halle, 1870), son questi due versi (104-5):

    Est homo Theutonicus, divine legis amicus,
    Moribus estque Katho, perfecto docmate Plato.

Nel _Libro de los Enxemplos_, CLXXV, si legge: Otro filósofo de los de
Platon, leyendo el Evangelio de Sant Juan, _in principio erat verbum_,
dijo que debie ser scripto de letras de oro, é puesto en altos que
todos lo podiesen ver é leer.¡ Vedes cuán altamente los filosofos
paganos conoscieron el poderío é grandeza de nuestro Senor Dios!

[357] S'intende bene che non mancò chi sostenne la contraria opinione.
Bastino due esempii. Nel poema _De inventione Sanctae Crucis_
attribuito a Ildeberto Cenomanense si dice:

    Vira penetrare Crucis, Socratem si forte reducis,
    Non poterit Socrates, sed nec Maro pandere vates.

Jean de Meung, toccato del mistero della incarnazione nel _Roman de la
Rose_, dice:

    N'en sot pas Platon jusques-là;
    Ne vit pas la trine unité
    En ceste simple trinité,
    Ne la Déité soveraine
    Afublée de pel humaine.

Ed. di Francisque Michel, Parigi, 1864, v. 20072-6.

[358] V. _Histoire littéraire de la France_, t. XIII, p. 115-8.

[359] _Oeuvres_, v. I, p. 286.

[360] MATFRE ERMENGAUD, _Breviari d'amor_, v. 10631-9:

    Don recomta S. Augustis
    Que us reis Socrates aucis
    Quar adorar no volia
    Sas ydolas, anz dizia:
    Per me non er adorada
    L'emages qu'oms a formada,
    Quar abans adoraria
    .I. ca si a far auenia,
    Quar es obra de natura
    Et es sentens creatura.

Son parole che spesso si udirono sulle labbra dei martiri.

[361] _Theologia christiana_, Opera, ed. Cousin, v. II, p. 50, 391.

[362] L. PARIS, _Toiles peintes et tapisseries de la ville de Reims,
ou la mise en scéne du théâtre des confrères de la Passion_, Reims,
1843, p. 683-90. Nel dramma figurano ancora Orazio, Claudiano, Valerio
(Massimo?), Quintiliano.

[363] Cf. PIPER, _Mythol. der christ. Kunst_, v. I, p. 419-22.

[364] _Compendium errorum Johannis papae_ in GOLDAST, _Monarchia_, t.
II, p. 957.

[365] _De planctu Naturae, Tertia quaestio Alani, Responsio Naturae_:
At in superficiali litterae cortice falsum resonat lyra poëtica, sed
interius auditoribus secretum intelligentiae altioris eloquitur, ut
exteriore falsitatis abiecto putamine, dulciorem nucleum veritatis
intus lector inveniat.

[366] Dice Maria di Francia nel prologo ai suoi _Lais_ (_Poésies de
Marie de France_, pubblicate dal Roquefort, Parigi, 1820):

        Custume fut as Ansciens,
    Ceo le tesmoine Prescien,
    Es livres que jadis feseient,
    Assez oscurement diseient,
    Pur ceux ki à venir esteient
    E ki aprendre le deveient,
    Ki puessent glosser la lettre,
    E de lur sens le surplus mettre;
    Li Philesophes le saveient
    Et par eus mesmes entendeient,
    Cum plus trespassèrent le tens
    E plus furent sutil de sens,
    E plus savèrent garder,
    De ceo ki est à trespasser.

[367] Di alcuni di questi pretesi filosofi si dicono assai strane cose:

    Terences est nomes li quars
    Qui savoit bien totes les ars.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Perses est apres li ti simes.
    Cil trova les vers leonimes
    Et fist le livre des auctors
    Com cil qui bleu eu sot les tors.
    . . . . . . . . . . . . . .
    Li onsimes est Juvenax
    Qui molt fu cortois et tolax.

Per contro Alfonso Alvares de Villa Sandino par che creda Platone un
poeta quando dice:

    Quemen sus libros do quiera que son
    Virgilio é Dante, Oraçio é Platon,
    E otros poetas que diz la leyenda.

_Concionero de Baena_, ed. cit., nº 80, p 77. Un trattato delle
moralità dei filosofi, molto simile a quello di Alars de Cambrai, va
sotto il nomo di Andreys de Huy. È dubbio quale dei due autori abbia
copiato l'altro. Un terzo trattato, simile ai precedenti, va sotto il
nome di un Jehan. V. DINAUX, _Les Trouvères brabançons, hainuyers,
liégeois et namurois_, Parigi e Bruxelles, 1863, p. 1-4. V. inoltre
_Les Trouvères cambrésiens_, dello stesso autore, Parigi, 1836, p.
72-5.

[368] Sotto il titolo di _Romant des philozophes_ è nel manoscritto I.,
V, 5 della Nazionale di Torino un trattatello di morale in prosa, fatto
in gran parte con sentenze di Cicerone, Seneca, Orazio, Lucano, Boezio
e qualche altro latino. Nella _Bible Guiot_ sono i seguenti versi, dove
si dà similmente una lista dei filosofi:

    Therades en fu et Platons,
    Et Seneques et Aristotes,
    Virgiles en refu et Othes,
    Cleo li vielz et Socratés,
    Et Lucans et Diogenés,
    Preciens et Aristipus
    En furent et Cleobulus;
    S'en fu Ovides et Estaces
    Et Tulles li granz et Oraces,
    Et Cligers et Pitagoras
    En refurent, ce n'est pas gas.

V. 73-84, ap. Barbazan, Fabliaux et contes 2ª ed. aumentata dal Méon,
v. II, p. 309.

[369] Così nel _Fiore di filosofi e di molti savi_. Nel _Libro de los
buenos proverbios_ e nei _Bocados de oro_ nessun poeta è nominato,
e son ricordati invece nomi stravagantissimi di filosofi non mai
esistiti, particolarità questa che si riscontra anche nella _Turba
philosophorum_ e altrove. Farebbe opera utile assai chi si ponesse a
rintracciare le origini e le relazioni di queste curiose scritture, di
cui non è letteratura del medio evo che non possegga parecchie. Tra
l'altro esse fanno buona testimonianza della venerazione in cui era
tenuta l'antichità.

[370] Nella _Image du monde_ dei filosofi si ragiona lungamente. Nel c.
15 della parte III si leggono i seguenti versi (cod. della Nazionale di
Torino L, IV, 5):

    Dont maint qui philosophe estoient,
    Qui tout voloient esprouuer,
    Alerent par terre et par mer
    Pour mieux la verite enquerre
    Des choses du ciel et de terre;
    Ne se rostissoient pas tant
    Sus grans feus com font cil truant,
    Maint papelart qu'au monde sont,
    Qu'il nul bien mainnent ne ne font,
    Fors pour auoir les los du monde;
    Ains chercoient la mer parfonde,
    Et la terre amont et aual,
    Pour miex cognoistre bien et mal,
    Dont il souffroient maintes paines
    Pour rendre a dieu les ames saines,
    Et cil ne quierent fors le don
    De maistre, et pour auoir le non.

E nella _Bible Guiot_ (ed. cit., v. 43-54) l'autore dice:

    Eu ceste Bible, qui qu'en gronde,
    Dou siecle et de l'estre du monde,
    Des Philosophes anciens
    Qui furent ainz les Crestiens,
    Voidrai ceste Bible florir:
    Cil se garderent de mentir;
    Cil vivoient selonc reson,
    Hardi furent comme lyon
    De bien dire et de bien mostrer,
    Et des malvais vices blasmer.
    S'il éussent créance et loy,
    En nules genz n'ot tant de foi.

[371] Come fu osservato dal Palermo a proposito dei _Fiori e vite di
filosofi e imperatori_ da lui pubblicati nella _Raccolta dei testi
inediti del buon secolo_.

[372] V. _La bataille et le mariage des sept arts, pièces inédites
du XIIIe siècle publiées par_ ACHILLE JUBINAL, Parigi, 1838; _Oeuvres
complètes de Rutebeuf_ v. II, p. 415-35.

[373] V. HORTIS, _Studj sulle opere latine del Boccaccio_, Trieste,
1879, p. 213.

[374] V. ENGELHARDT, _Herrad von Landsper_g, Stoccarda e Tubinga, 1818,
p. 31-2 e tav. VIII. Di rappresentazioni simili a questa non pochi
esempii si hanno nelle arti figurative del Rinascimento. In un dipinto
di Francesco Traini dell'anno 1345, esistente nella chiesa di Santa
Caterina in Pisa, è rappresentato San Tommaso il quale riceve la luce
della verità, anzi tutto da Cristo direttamente, ma poi anche da Mosè,
da San Paolo, dagli Evangelisti, da Platone e da Aristotele. Questi
ultimi due gli stanno ai fianchi. Similmente in un dipinto di Benozzo
Gozzoli, che si conserva ora nel Louvre, San Tommaso è rappresentato
in mezzo ai due massimi filosofi greci. In un affresco della cappella
spagnuola di Santa Maria Novella in Firenze, il quale ha per soggetto
ancor esso la glorificazione di San Tommaso, sono rappresentati Donato,
Cicerone, Aristotile, Tolomeo, Euclide, Pitagora. Ma nel coro della
cattedrale di Ulma furono rappresentati (1474) Secondo, Quintiliano,
Seneca, Tolomeo, Terenzio, Cicerone e Pitagora, a cui fanno riscontro
sette Sibille.

[375] La leggenda virgiliana porse argomento a numerosi scritti, specie
nei tempi più prossimi a noi. A me basterà di citare i seguenti che
sono i principali. MICHEL, _Quae vices, quaeque mutationes et Virgilium
ipsum et ejus carmina per mediam aetatem exceperint_, Parigi, 1846;
DU MÉRIL, _De Virgile l'Enchanteur, nei Mélanges archéologiques et
littéraires_, Parigi, 1850, p. 425-78; GENTHE, _Leben und Fortleben
des P. Virgilius Maro als Dichter und Zauberer_, Lipsia, 1857; ROTH,
_Ueber den Zauberer Virgilius_ nella _Germania_ del Pfeiffer, v. IV, p.
257-98; COMPARETTI, _Virgilio nel medio evo_, Livorno, 1872. L'opera
del prof. Comparetti è nota a tutti gli eruditi. Io non pretendo di
aggiungere ad essa cose nuove di rilievo e dichiaro di accettarne in
massima parte le conclusioni.

[376] Parlando del libro popolare intitolato _Faicts merveilleux de
Virgile_, il Goujet dice (_Bibliothèque françoise_, v. IX, p. 225): Il
parait qu'il y a eu autrefois un Virgile qui a passé pour Magicien,
et que la conformité du nom a fait attribuer à l'ancien Poëte Latin
dans des temps d'ignorance, ce qui ne pouvait convenir qu'à quelque
autre beaucoup plus moderne. Il Le Grand d'Aussy fu di questo medesimo
avviso, e il Collin de Plancy e altri credettero che il Virgilio della
leggenda fosse un vescovo di questo nome, vissuto nell'VIII secolo. V.
Du Méril, opera testè citata, p. 446, n. 1.

[377] Il Zappert dà nel suo scritto intitolato _Virgils Fortleben
im Mittelalter (Sitzungsb. d. kais. Akad. d. Wiss., hist.-philos.
Cl._, Vienna, 1851) una lunga lista di reminiscenze virgiliane che si
trovano negli scrittori del medio evo, la quale tuttavia, secondochè
fu giustamente osservato dal Comparetti (v. I, p. 212, n.) potrebbe
facilmente essere di molto accresciuta.

[378] V. il c. VIII del v. I dell'opera del Comparetti.

[379] _Saturnal._, l. III.

[380] È dubbio d'onde Virgilio possa aver tratto il concetto messianico
chiuso in quei versi. Ch'esso sia tolto alle tradizioni messianiche
degli Ebrei parecchi affermarono, e l'Eichoff tra gli altri, che lo
rintraccia nelle profezie di Isaia. Non ha nessun solido fondamento
la congettura di Eugenio Leveque, il quale lo suppone derivato dalla
leggenda di Crisna, nell'Harivansa, e da quella di Râma, nel Râmâyana.
_Les mythes et les légendes de l'Inde et de la Perse_, etc. Parigi,
1880, p. 466-76.

[381] V. I, p. 130.

[382] _Divinarum Institutionum_ VII, 4.

[383] C. XIX-XXI.

[384] _De Civ. Dei_, l. X, c. 28.

[385]

    Ecce venit nova progenies
    Aethere proditus alter homo.

_Cathemerinon_, inno III. In una Vita di San Donato Scoto, il quale fu
vescovo di Fiesole intorno all'816, si narra che questo santo, poco
prima della sua morte, si presentò a un consesso di religiosi suoi
fratelli, fece professione della sua fede, e parlando di Cristo disse:

    Qui, sancto nostras mundans babtismate culpas
    Iam nova progenies celo demittitur alto,
    Noxia qui vetiti dissolvit prandia pomi.

Poscia fece il segno della croce, benedisse gli astanti e se ne andò a
morire. CREIZENACH, _Die Aeneis, die vierte Ecloge und die Pharsalia im
Mittelalter_, (Progr.) Francoforte sul Meno, 1864, p. 11.

[386] DU MÉRIL, _Origines latines du théâtre moderne_, p. 184.

[387] BETTINELLI, _Risorgimento d'Italia_, v. II, p, 18; DANIEL,
_Thesaurus hymnologicus_, v. V, p. 266. Riferirò qui a tale proposito i
seguenti versi della _Image du monde_, non riportati da altri (Cod. L,
IV, 5 della Nazionale di Torino).

    Si ot de ceulx qui par lor sens
    Prophetisierent le saint temps
    De la venue Ihesucrist,
    Si comme Virgiles qui dist,
    Qui fu au temps Cesar de Romme,
    Dont maint deuindrent puis preudomme,
    Dist c'une nouuelle lignie
    S'estoit de hault ciel abassie
    Qui en terre feroit vertus
    Dont diables seroit confus.
    Dont saint Pol qui vit ses escrips,
    Qui moult prisa lui et ses dis,
    Dist de lui a cueur irascu:
    He, quelle grace l'eusse rendu
    A dieu si tu fusses vescus
    Tant que io fuisse a toy venus.

A più altri antichi, del resto, furono attribuite profezie circa
la venuta di Cristo. Wolfram von Eschenbach ne attribuisce una a
Platone nel l. V del suo _Parzival_. Il Comparetti ricorda (v. I, p.
133, n. 1) un manoscritto della biblioteca di Corte di Vienna, il
quale contiene: «Veterum quorumdam scriptorum graecorum ethnicorum
praedicationes et testimonia de Christo et Christiana religione, nempe
Aristotelis, Sibyllae, Platonis, Thucydidis et Sophoclis». Fozio nella
_Bibliotheca_, cod. 170, ricorda l'opera di uno scrittore di Panopoli,
intitolata: _Testimonianze in favore del cristianesimo tratte dai libri
dei gentili_. Nel XIV secolo Giovanni da Parigi, domenicano, compose
un trattatello similmente intitolato: _Probatio fidei christianae per
auctoritates paganorum_, il quale si conserva manoscritto. (V. _Hist.
litt. d. l. Fr._, t. XXV, p. 255-6).

[388] Op. cit., v. I, p. 333-5.

[389] Ibid., p. 261-2, 275-7.

[390] W. J. REES _Lives of Cambro-British Saints, from Ancient MSS._,
Londra, 1855, _Vita Sancti Cadoci_, p. 80; HERSART DE LA VILLEMARQUÉ,
_La légende celtique et la poésie des cloîtres en Irlande, en Cambrie
et en Bretagne_, n. ed., Parigi, 1864, _La légende de Saint Kadok_,
XIV.

[391] Cap. XV, p. 158-9 di questo volume.

[392] Massmann, op. cit., v. III, p. 438. In una Vita di Sant'Eberardo,
arcivescovo di Salisburgo, scritta nel XII secolo, si legge: «In
Coena quoque (_Domini_) quaedam daemoniaca jam diu obsessa adducitur,
supra quam cum exorcismus legeretur, spiritus nequam, qui inerat,
variis linguis fabulatur. Dum vero fit illi comminatio a Clero per B.
Virgilium daemon Clerum subsannat, et se Virgilium magistrum suum jam
tertia die in inferno reliquisse clamat. Quaeritur ergo Qui vel cujas
ille Virgilius sit? At ille Mantuanum Poetam fuisse respondit». _Acta
Sanctorum_, v. IV di Giugno, p. 268, col. 2ª. Il beato Virgilio, di cui
qui ricorre il nome, fu arcivescovo di Salisburgo, e alcuno pensò che
egli, non il poeta, fosse veramente il mago della leggenda, errore che
non ha bisogno d'essere confutato. Il Creizenach, nel citato opuscolo,
p. 35, frantende interamente il passo testè riportato. Egli dice che
avendo il demonio domandato chi fosse quel beato Virgilio nel cui nome
lo si scongiurava, il chierico esorcista rispose essere il poeta di
Mantova.

[393] Il NAUDÈ, toccando nell'opera sua intitolata _Apologie pour tous
les grands personnages qui ont esté faussement soupçonnes de magie_,
La Haye, 1653, p. 330, della credenza nella salvazione di Aristotile,
dice: «l'opinion de laquelle a tellement esté commune et receuë, que
l'un des Peres et Docteurs de l'Eglise a dict parlant comme a luy
même, _Aristoteles, laudaris ubi non es, et cruciaris ubi es_, et que
Werlinus cite un certain Philosophe nommé Lambert du Mont qui a fait
une question magistrale sur ce que l'on doit raissonnablement juger
d'icelle». Nella Vita latina di San Bonifacio di Losanna, il quale
fiorì nella prima metà del XIII secolo, si legge: Maximam compassionem
habuit vir iste sanctus cum anima Aristotelis, et multum doluit de
perditione illius; saepiusque oravit, ut si fieri posset. Deus ejus
misereri dignaretur. Quedam autem vice audivit vocem de coelo dicentem
sibi: Cessa pro anima illius orare, quia non aedificavit Ecclesiam
meam, sicut Petrus et Paulus, nec Legem meam docuit. Quod ille audiens
ac dolens, de cetero cessavit.

[394] Non sono io il primo, del resto, ad esprimere un tale pensiero.
V. una recensione che dell'opera del Comparetti fece lo Stengel nella
_Jenaer Litteraturzeitung_ del 1874.

[395] V. I, p. 273-4, n. 51.

[396]

    Mult par est forte Ataines, car ele siet sor mer;
    il ne doutont asaut, ne traire ne gieter.
    en mi liu de la vile ont drecié un piler;
    c. pies avoit de haut, Platons lo fist lever;
    deseure ot une lampe, en son i. candeler
    qui par jor et par nuit art et reluist si cler,
    que partout en puet-on et venir et aler.

Ed. del Michelant (_Bibl. d. liter. Ver._), Stoccarda, 1846, p. 46.

[397] Questa curiosa leggenda di Aristotele è narrata da Alessandro
Neckam nei seguenti termini(_De naturis rerum_, CLXXXIX): «Viam igitur
universae carnis ingressurus dictus philosophus, subtilissima scripta
sua jussit in sepulcro suo secum recondi, ne utilitati posteritatis
suae deservirent. Sed et nescio qua vi naturae aut artis potentia, ne
dicant magicae artis prodigio, locum sepulcro suo vicinum circumquaque
sibi adeo appropriavit, ut illum nemo etiam diebus istis intrare
possit. Sed ad quid scripta illa, quae ad usibus aliorum invidit,
composuit? Ferunt nonnulli Antichristi versutiis locum dictum cessurum,
et scripta ibidem reposita ipsum putant inspecturum. Afferent namque,
ut aiunt, nuntii ipsius secreta Aristotelis conspectui illius qui
idolum et abominationis et desolationis erit. Sed incertis fidem
adhibere quis audeat?» Questo racconto è ripetuto, quasi senza mutarvi
sillaba, da RANULFO HIGDEN, _Polychron_., l. III, c. 24.

[398] La leggenda che narra di Aristotile innamorato è ancor essa di
origine letteraria, sebbene diventasse poi popolarissima.

[399] Comparetti, v. I, p. 195. Bonamente Aliprando dice nel c. 3 della
sua _Chronica della città di Mantova_ (ap. MURATORI, _Antiq. ital._, t.
V) che Virgilio

    Per la testa grossa che lui avia
    Da' scolari _Marone_ era chiamato.

Alessandro Neckam dice che Virgilio nacque sotto l'influsso delle
Verglie ed ebbe da esse il nome. _De laud. div. sap._, dist. 1ª, v.
396-404. Il nome di Virgilio rimandava anche a virgo e virga, e in esso
si trovava la prova della verginità, della cristianità, della magia del
poeta. Verga della radice di Jesse si chiamava simbolicamente Cristo, e
la verga è strumento principale d'arte magica.

[400] _Johannis de Alta Silva Dolopathos, sive de Rege et Septem
Sapientibu_s, pubblicato da H. Oesterley, Strasburgo e Londra 1873.

[401] P. 82-3: Mortuus est autem eo anno rex Dolopathos, sed
et Virgilius obiit, illosque duos quaternulos, quos de artibus
conscripserat, in suprema mortis sue hora manu inclusit, nec ultra ab
aliquo potuerunt evelli. Aiunt aliqui, eum per invidiam hoc fecisse,
alii dicunt idcirco factum, ne dum artes ab omnibus discerentur,
vilescerent, nec ulli amodo honor debitus pro ipsarum scientia
prestaretur.

[402] V. I, p. 305.

[403] Ibid., p. 308.

[404] Ibid., p. 309.

[405] Ibid., p. 312.

[406] Ibid., p. 306, n.

[407] V. la prefazione dell'Oesterley alla sua edizione del testo
latino, p. XI.

[408] _Jeu-parti entre Guilhem Augier et Guilhem, Bartsch,
Chrestomathie provençale_, 3ª ediz., col. 71. La leggenda di Virgilio
fu del resto notissima ai trovatori come dimostrano quei versi
dell'_Enseinhamen_ di Guiraut de Calanson:

        De Pamphili,
        De Virgili,
    Com da la conca a saup cobrir,
        E del vergier,
        E del peschier,
    E del foc qu'el saup escantir.

[409] L'epistola di Corrado è pubblicata negli _Scriptores rerum
Brunsvicensium_ del LEIBNITZ, v. II, p. 695-8. V. il passo dove si
discorre di Virgilio in appendice al v. II dell'opera del Comparetti,
p. 169-70, dove son pure molt'altri testi di leggende virgiliane ai
quali rimando il lettore.

[410] Decis. III, c. X, XII, XIII, XVI, ap. LEIBNITZ, _Script. rer.
Bruns_., t. I, p. 963-5: LIEBRECHT, _Des Gervasius von Tilbury Otia
Imperialia_, p. 14-7: Comparetti, v. II, p. 171-5.

[411] L. I, c. 4.

[412]

    Lucanum video ducem bellantium
    formantem aereas muscas Virgilium.

_Apocalypsis Goliae_, v. 45-6, ap. Wright, _The Latin Poems commonly
attributed to Walter Mapes_, p. 4.

[413] L. II, c. 174.

[414] Vol. I, c. 6, 7, p. 184-213.

[415] _Der Ursprung der Virgilsage, Zeitschrift für romanische
Philologie_, v. I, 1877, p. 165-78.

[416] Vietor, scritto citato, p. 171-3.

[417] Ibid. p. 176.

[418] Comparetti, v. II, p. 35-6, 38.

[419] Id., ibid., p. 37.

[420] Scritto cit., p. 177. Il Vietor, a tale proposito, non parla che
di Corrado e di Gervasio; ma e Giovanni Sarisberiense, e Alessandro
Neckam, che sono indipendenti da costoro? Per ispiegare come nè
Corrado, nè Gervasio dicon nulla della _Salvatio Romae_, egli fa
osservare che Corrado fermò in Napoli la sua dimora, e non ebbe
relazione con Roma, e inoltre che l'edifizio della _Salvatio_ essendo
precipitato nell'ora in cui nacque Cristo, Corrado e Gervasio non
potevano dire d'averlo veduto. Ma non parlano questi due scrittori
appunto, a detta dello stesso Vietor, di molte opere meravigliose di
Virgilio che non avevano mai veduto, e non avrebbero potuto far ricordo
della _Salvatio_ a quel modo stesso che ne fa ricordo Alessandro
Neckam? Gli è che probabilmente di questa leggenda _letteraria_ della
_Salvatio_ essi non avevano ancora cognizione.

[421] Vol. II, p. 54.

[422] Ibid., p. 47.

[423] Ibid., p. 46.

[424] _Polycrat_. l. II, c. 23.

[425] _Otia Imp._, decis. III, c. 112.

[426] Comparetti, v. II, p. 45-6. Bartolomeo Caracciolo, che, nella
_Cronaca di Partenope_, narra questo medesimo fatto attingendo in parte
da Gervasio, non dice in nessun modo che i Napoletani ignorassero il
luogo della sepoltura di Virgilio, anzi afferma il contrario. Ecco
le suo parole: «Dicesi, che morto lo dicto Virgilio in Brindesi, et
essendo lo corpo de quello portato in Napoli, con gran diligentia, la
sepoltura di tal corpo se guardava et observava la quale, come è decto,
stava vicino S. Maria de Pedegrotta (per la quale sepoltura in verità
lo vulgo la chiama grotta de Virgilio); o vero per la via vecchia
do Puczoli, lontano da Napoli circa due miglia. Lo che intendendo
uno physico Inglese, ecc.». L'avventura presuppone evidentemente la
conoscenza del luogo dove si credeva fosse sepolto Virgilio.

[427] Essa giunge sino all'anno 1382.

[428] Tutta quella parte dove se ne discorre riportò il Comparetti
in appendice al v. II, p. 230-9. Prima l'avevano già ripubblicata il
GRAESSE, _Beiträge zur Literatur und Sage des Mittelalters_, p. 27-34,
e il VILLARI negli _Annali delle Università toscane_, v. VIII, p. 162 e
segg. Essa comprende i capp. XVII-XXIII.

[429] Notisi che il luogo così denominato è anche oggigiorno
conosciutissimo in Napoli.

[430] Scritto cit., p. 178.

[431] Vol. II, p. 42.

[432] Dice a tale proposito il Comparetti (v. II, p. 19) che
la leggenda «procede originariamente da idee su Virgilio nate
indipendentemente dalla scuola e fra il popolo»; ma queste parole male,
parmi, si potrebbero accordare con quelle da me pur ora riferite.

[433] Il Comparetti fa ricordo di questa biografia come di una di
quelle nelle quali «già si scorge l'influenza delle leggende popolari
introdottesi nella letteratura». Da quanto egli ne riferisce e più
particolarmente dal passo testè citato, parrebbe doversi credere il
contrario.

[434] V. vol. I, p. 212-3.

[435] Il Comparetti non lo concede, v. II, p. 34.

[436] Notisi ancora che leggende a questa somiglianti s'incontrano
frequentemente fra le tradizioni di varii popoli. Apollonio Tianeo con
una mosca di bronzo bandì le mosche da Costantinopoli, e fece lo stesso
per le zanzare, gli scorpioni ed altri insetti. Comparetti, v. II, p.
32.

[437] _Spec. hist._, l. VII, c. 61.

[438] Così la riferisce Bartolomeo Caracciolo. Nel poema francese di
_Cleomadès_ si narra invece di due castelli fondati ciascuno sopra un
uovo, e nell'_Image du monde_ si dice che l'intera città di Napoli era
posata sopra un uovo, per modo che smovendo questo tutta la città n'era
scrollata. Cf. su questa leggenda LIEBRECHT, _Zur Volkskunde_, p. 296.
Secondo Alars de Cambrai Virgilio non avrebbe fondata la sola città di
Napoli:

    Virgiles fu apres li sages,
    Bien fu emploies ses sages,
    Grans science en lui habonda,
    Mainte riche cite fonda.

[439] _Cleomadès; Roman des sept sages_; Giovanni Mansel, _Fleurs
des histoires_, ecc. Colui che fa spegnere il fuoco è un perdigiorno
(_musars_) nel _Cleomadès_, un chierico nel _Roman des sept sages_, un
imperatore nel racconto di Giovanni Mansel.

[440] _Cleomadès._ Giovanni d'Outremeuse accresce, secondo il suo
solito, la derrata, e dice che Virgilio pose sulle dodici porte di
Roma dodici statue di rame, le quali rappresentavano i dodici mesi,
e facevano varii atti convenienti al loro carattere simbolico, e si
trasmettevano un pomo di acciajo, che ciascuna teneva quindici giorni
nella mano destra e quindici giorni nella mano sinistra. Con un altro
pomo, che quattro delle statue si lanciavano, si annunziava il mutare
delle stagioni. Op. cit., v. I, p. 232-3. Delle statue che indicavano
il mutare dei mesi parla anche Giovanni Mansel nelle sue _Fleur des
histoires_.

[441] _Roman des sept sages_.

[442] V. vol. I, p. 161 e seguenti.

[443] Giovanni d'Outremeuse, op. cit., v. I, p. 67, 70. Lo stesso
autore dice (v. II, p. 104) che l'anno 393 un terremoto distrusse in
Roma parecchie fra le immagini costruite da Virgilio.

[444] V. Comparetti, v. II, p. 120-3; MASSMANN, _Kaiserch._, v. III,
p. 448-9; DUNLOP-LIEBRECHT, _Geschichte der Prosadichtungen_, Berlino,
1851, p. 500.

[445] SINNER, _Cat. cod. mss. Bern._, t. II, p. 129.

[446] Op. cit., v. I, p. 230.

[447] Vol. II, p. 58.

[448] Pubblicato per intero dal Bartsch sopra l'unico manoscritto di
Gotha, Stoccarda, 1871 (_Bibl. d. lit. Ver._).

[449] Pubblicata primamente dal ZINGERLE nella _Germania_ del Pfeiffer,
v. V, p. 369 e segg., riprodotta dal Comparetti in appendice al v. II,
p. 231-4.

[450] Questa favola ha riscontri assai numerosi. Di Virgilio la
racconta anche Felice Hämmerlin nel suo trattato _De nobilitate_, c.
II. V. Comparetti, v. II, p. 94-5.

[451] Una gherminella in tutto simile a questa si narra anche di
Alberto Magno o di altri. Francesco da Buti la narra di quel Michele
Scoto che fu astrologo di Federico II, e che Dante incontra fra i
dannati (Inf. c. XX, v. 115-7). E di Michele Scoto narra Teofilo
Folengo certa storia di una nave aerea (_Baldus_, l. XIX, ed. del 1554,
l. XVIII, ed. del 1613; cf. WESSELOWSKY, _Il Paradiso degli Alberti_,
v. I, parte 2ª, p. 265) che invece Bonamente Aliprando racconta di
Virgilio. E carattere proprio di queste finzioni, che non hanno con la
storia nesso di sorta, la eccessiva mobilità.

[452] I casi di questi illustri si trovano narrati per disteso, o
semplicemente ricordati, in iscritture senza numero; ma diedero anche
argomento a composizioni speciali. Hans Sachs ne trattò di proposito in
una poesia intitolata _Die vier trefliche menner sampt ander vilen, so
durch frauenlieb betrogen sind_.

[453] Il nome dell'imperatore varia: ora è Giulio Cesare, ora Augusto,
ora Nerone, ora Adriano. In alcuni racconti la donna è una gran dama,
ma non si dice che sia figlia dell'imperatore.

[454] V. per tutto quanto concerne questa leggenda DU MÉRIL,
_Mélanges_, etc., p. 429-30, 444, 474-5; Comparetti, v. II, p. 103-19.

[455] Giovanni d'Outremeuse è il solo, per quanto io sappia, che
avvedutosi della incoerenza, cerca di farla sparire, alterando
profondamente il concetto della prima parte della favola. Ecco il
suo racconto. Febilia, figliuola di Giulio Cesare, innamoratasi di
Virgilio, ha con esso lui commercio carnale, ma non può ottenere
che la sposi. Per vendicarsi, prepara la insidia del canestro; ma
Virgilio a cui non può rimaner celata la secreta intenzione di lei,
pone nel canestro un fantoccio a cui ha dato le proprio sembianze.
Giunto il mattino, accorre il popolo di Roma, accorre Giulio Cesare,
che vuole morto il seduttore di sua figlia. Il fantoccio, animato da
uno spirito maligno, fa parecchie strane burle. Saputasi la verità,
Giulio Cesare persevera nel pensiero di far morire Virgilio; ma questi
allora si parte dalla città, spegnendo tutti i fuochi. Giulio Cesare
cede, Virgilio ritorna, e, mediante certo breve magico, fa che tutte
le donne di Roma palesino i loro trascorsi, Febilia fra l'altre.
Morto Giulio Cesare gli succede Ottaviano. Evia moglie di quello,
e Febilia si lagnano d'essere state spogliate del dominio. Virgilio
con varii incantamenti fa loro credere di averlo racquistato, poi le
lascia scornate. Da ultimo compie contro Febilia una seconda vendetta,
costringendo tutti i Romani a provvedere sopra la persona di lei il
fuoco di cui hanno bisogno.

[456] Fausto, che nella leggenda popolare tedesca fa anch'egli
sparire le vivande dalla mensa del papa, si spassa con le odalische
dell'imperatore dei Turchi.

[457] C. 102, ed. Oesterley.

[458] BUESCHING, _Erzählungen, Dichtungen, Fastnachtspiele und Schwänke
des Mittelalters_, Breslavia, 1814, p. 130-4.

[459] Vol. I, p. 197.

[460] V. vol. I, p. 101-5.

[461] _Myreur des histors_, v. I, p. 275-9.

[462] Il medesimo si disse di Gerberto, di Alberto Magno, di Roberto
di Lincoln, di Ruggiero Bacone, del marchese Enrico di Villena. Una
pretesa testa magica che risponde a ogni domanda figura nel c. LXII
della parte 2ª del _Don Chisciotte_.

[463] Qui rifà capolino la tradizione classica. Servio dice che
Virgilio _valetudinem ex solis ardore contraxit_. Bonamente Aliprando,
che non sa nulla della testa di rame, fa anch'egli morir Virgilio
d'insolazione. La favola della testa è narrata da Alberico delle
Tre Fontane, nella _Image du monde_ e nel _Renars contrefait_. V.
Comparetti, v. II, p. 80.

[464] Il giorno stesso in cui scade il suo patto col diavolo Fausto
invita a un banchetto gli amici e fa loro conoscere la sorte che
l'aspetta.

[465] Ap. THOMS, _Early english Prose Romances_, 2ª ed., v. II, p. 55-8.

[466] Cioè, di fare che gli alberi portassero frutto tre volte l'anno,
e che ogni albero avesse frutta e fiori nel tempo stesso, che le navi
scendessero e risalissero i fiumi con la stessa facilità, che il denaro
diventasse così facile a guadagnare come a spendere, che le donne
partorissero senza nessun dolore.

[467] Una favola in tutto simile si racconta anche di Alberto Magno, di
Ruggiero Bacone, di Agrippa di Nettesheim.

[468] Nulladimeno la credenza nella magia di Virgilio, della quale già
facevasi beffe il Petrarca, era ancor vivo nel secolo XVII. G. Naudé la
combatte molto aspramente nella già citata sua opera, c. XXI.

[469] _Adversus gentes_. III, 7.

[470] _Confessionum_ l. III, c. 46: Inter hos ego imbecilla tunc aetate
discebam libros eloquentium — et usitato iam discendi ordine perveneram
in librum quendam Ciceronis, cuius linguam fere omnes mirantur, pectus
non ita. Liber ille ipsius exhortationem continet ad philosophiam et
vocatur Hortensius, ille vero liber mutavit affectum meum et ad te
ipsum. Domine, convertit preces meas et vota ac desideria mea fecit
alia.

[471] V. LEITMEIR, _Apologie der christlichen Moral. Darstellung des
Verhältnisses der heidnischen und christlichen Ethik, zunächst nach
einer Vergleichung des ciceronianischen Buches de officiis und dem
gleichnamigen des heiligen Ambrosius_, Monaco, 1866.

[472] Il caso merita di essere riferito per intero e con le
stesse parole del santo. _Epistola XVIII ad Eustochium de custodia
virginitatis_. Quum ante annos plurimos domo, parentibus, sorore,
cognatis, et quos his difficilius est, consuetudine lautioris cibi,
propter coelorum me regna castrassem, et Jerosolymam militaturus
pergerem, Bibliothecam, quam mihi Romae summo studio ac labore
confeceram, carere non poteram. Itaque miser ego lecturus Tullium,
jejunabam. Post noctium crebras vigilias, post lachrymas, quas mihi
praeteritorum recordatio peccatorum ex imis visceribus eruebat,
Plautus sumebatur in manus. Si quando in memet reversus, Prophetas
legere coepissem, sermo horrebat incultus. Et quia lumen caecis oculis
non videbam, non oculorum putabam culpam esse sed solis. Dum ita me
antiquus serpens illuderet, in media ferme quadragesima medullis infusa
febris, corpus invasit exhaustum: et sine ulla requie (quod dictu
quoque incredibile sit) sic infelicia membra depasta est, ut ossibus
vix haererem. Interim parantur exequiae, et vitalis animae calor, toto
frigescente jam corpore, in solo tantum tepente pectusculo palpitabat:
quum subito raptus in spiritu, ad tribunal judicis pertrahor; ubi
tantum luminis et tantum erat ex circumstantium claritate fulgoris,
ut projectus in terram, sursum aspicere non auderem. Interrogatus
de conditione, Chistianum me esse respondi. Et ille qui praesidebat:
Mentiris, ait, Ciceronianus es, non Christianus. _Ubi enim thesaurus
tuus, ibi et cor tuum_. Illico obmutui, et inter verbera (nam caedi
me jussit) conscientiae magis igne torquebar, illum mecum versiculum
reputans: _In inferno autem quis confitebitur tibi?_ Clamare autem
coepi et ejulans dicere: Miserere mei, Domine, miserere mei. Haec vox
inter flagella resonabat. Tandem ad praesidentis genua provoluti qui
astiterant, precabantur ut veniam tribueret adolescentiae et errori
locum poenitentiae comodaret; exacturus deinde cruciatum, si Gentilium
litterarum libros aliquando legissem. Ego qui in tanto constrictus
articulo, vellem etiam majora promittere, dejerare coepi, et nomen
ejus obtestans, dicere; Domine, si unquam habuero codices saeculares,
si legero, te negavi. In haec sacramenti verba dimissus, revertor ad
superos; et miserantibus cunctis, oculos aperio, tanto lachrymarum
imbre perfusos, ut etiam incredulis fidem facerem ex dolore.

[473] Epist. 69. _B. Servati Lupi, presbyteri et abbatis Ferrariensis
opera Stephanus Baluzius collegit_, Anversa, 1710.

[474] _Expositio in Matthaeum_, Prologo; _Vita Adalhardi_, c. 20.

[475] Cap. 1.

[476] Ap. PEZ, _Thesaurus anectdoctorum novissimus_, t. II, parte 1ª,
col. 229.

[477] Questa credenza era ancora sostenuta da Sebastiano Castalio.

[478] La ventesima nella edizione del Baluze.

[479] _Ep. famil._, XXI, 10.

[480] Sant'Antonino Arcivescovo di Firenze dice che negli scritti
di Cicerone molte cose si notano conformi alla fede cristiana, ma
alcune anche ad essa contrarie, come ad esempio la negata prescienza
divina; e soggiunge: Iste Cicero etsi eloquentissimus infidelis tamen.
_Historiarum_ parte 1ª, c. VI, § 5.

[481] _De laud. dir. sap., dist._ V, v. 391-2:

    Notitiaeque suae cessit sacra pagina, Marco
      Eloquio compar, pectore major erat.

[482] Cap. III.

[483] Nel Prologo di un _Romant des philozophes_ già citato (cod. L,
V. 5 della Nazionale di Torino) l'autore narra un suo sogno: Voulente
et pensee me print que ie recomptasse des philozophes aucuns ditz et
enseignemens et de celle clergie qui est appellee moralite, laquelle
est espandue par pluseurs volumes. Endementiers que ie pensoie a ceste
chose on l'eure que l'en appelle premier sompne auint que ie m'endormis
et en mon dormir s'apparut deuant moy vng homme de tresgrant beaulte
qui en sa compaignie auoit moult de clers qui semblaient moult haultes
personnes de corps et d'eage. Tantost me fust aduiz en mon courage que
ce bel homme estoit Tulles prince d'eloquence latine. Apres lui venoit
Senecques le saige enseigneres de moralite, et apres cellui estoient
aultres clers dont les noms seront aucunement nommez en cestui petit
liure.

[484] V. cap. XV, p. 178.

[485] Nella _Confessio amantis_ egli dice:

    Tullius with Cythero that wryten upon Rethoryke.

E dice ancora (l. VI) che Ulisse, il quale fu gran chierico e mago,
imparò la retorica da Tullio, la magia da Zoroastro, l'astronomia da
Tolomeo, la filosofia da Platone, la divinazione dal profeta Daniele,
la sapienza dei proverbii da Salomone, la botanica da Macro, la
medicina da Ippocrate.

[486] Nelle _Novelle antiche_ del Bingi essa è narrata nei seguenti
termini: Tulio fue filosofo sapientissimo et fece la rettolica, cioè
l'arte dello bello parlare. Uno altro filosofo era a quello tenpo, che
avea nome Salustio, lo quale volea grande male a Tulio et mandavagli
molto ranpongnie, le quali portavano grandi dispregi, dicendo così:
Homo laidissimo, piagientieri, orghoglioso alli amici et alli homini,
et malvagio consigliere; homo pieno di cupidissimi vizii, li quali non
sono liciti a dire. Et Tulio rispondea così: L'omo che vive come tue,
non puote altrimente parlare che tu parli; et chi parla come tue, non
puote honestamente vivere.

[487] _De fontibus_: Haud longe a Puteolis est Ciceronis fons calidas
evomens aquas, quae aegris oculis plurimum conferunt, et ideo Ciceronis
vocatur quia in villa eius, quam Academiam vocaverat, ea in via quae
ab Annio lacu fert Puteolos est. Nec tamen eo vivente fons erat,
sed brevi interposito post eius necem tempore, illam Antistio Vetere
possidente, eius in parte prima prorupit. Quem etiam Laurens Tullius
unus ex libertis olim Tullii carminibus celebrem reddidit, ut appareret
clarum hominem, dum viveret, scientia sua mentalibus mortalium
oculis praestitisse medelam, et eius post nomen eo defuncto praestare
corporis.

[488] La tendenza c'era, come latente, e palesavasi all'occasione.
Parecchi scrittori narrano che l'anno 1485, in Roma, sotto il
pontificato d'Innocenzo VIII, fu trovato dentro un sarcofago, sulla
Via Appia, un corpo di fanciulla romana, così fresco ed intero come se
fosse stato sepolto allora. Il fatto destò grandissima ammirazione, e
alcuni pensarono che fosse il corpo di Tulliola, figlia di Cicerone.
V. ALEXANDER AB ALEXANDRO, _Genialium dierum_, l. III, c. 2. Il fatto è
inoltre narrato da Stefano Infessura (MURAT., _Script_., t. III, parte
2ª, col. 1192-3), dal Nautiporto (ib., col. 1099) e da Bartolomeo Fonti
in una lettera a Francesco Sassetti pubblicata dal JANITSCHEK, _Die
Gesellschaft der Renaissance in Italien_, Stoccarda, 1879, p. 120. Un
preteso sepolcro di Cicerone si mostra ancora presso ad Itri.

[489] ANGILBERTO, _Carmen de Carolo Magno_, ap. PERTZ, _Script_., t.
II, p. 394. Sarebbe agevole di moltiplicare gli esempii di ciò. Eccone
due di poeti italiani. Brunetto Latini dice a Rustico di Filippo nel
Prologo del _Tesoretto_:

    Ch'avanzate a ragione
      E Seneca a Catone.

Pieraccio Tedaldi deplora in un sonetto la morte del dolce maestro
Dante Allighieri,

    Che fu più copïoso in iscïenza
    Che Catone, Donato, o ver Gualtieri;

il quale Gualtieri altri non è certamente che Gualtiero di Chatillon,
l'autore dell'_Alexandreis_, tenuto da molti nel medio evo poeta pari
ai migliori dell'antichità.

[490] Valgano come esempio i seguenti versi di Giovanni Sarisberiense
nell'_Entheticus in Polycraticum_:

    Est antiqua nimis, nimis est sententia vera,
      Quam docuere patres, Ennius atque Cato:
    Tum quod habet, quam quo caret omni defit amico,
      Occupet, occumbat res aliena tamen.

[491] In una versione olandese dei _Distici_ si legge:

        Het woonde een man
    Te Rome wilen eer,
    Die der wijshede wiste meer
    Dan ieman die levet nu:
    Hi hiet Catoen, dat saggic u.

JONCKBLOET, _Die dietsche Catoen, een middelnederlandsch Leerdicht_,
Leida, 1845, p. 6.

[492] ALANO DE INSULIS, _De planctu Naturae, Adventus Genii_: «Illic
Cato pudicae sobrietatis nectare debriabatur mirabili». _Carmen de
laudibus Bergomi_ (ap. MURAT., _Script_., t. V) c. XVI, _De Fabiorum
nobilitate_:

    Non fuit Aenea pietate, rigore Catone,
    Non fuit cura vel amore minor Cicerone.

Graziuolo de' Bambagiuoli, in quel suo componimento _Sopra le virtù
morali_, pone Catone quale esempio di giustizia, insieme con Scipione,
Trajano e Giustiniano.

[493] Nel c. XVI del l. II della _Chronique de Tournay_, (cod. L, II,
15 della Nazion. di Torino, f. 77 r., col. 1ª), Cesare, sul punto di
muovere contro Roma, dice ai suoi cavalieri: «En toute la cite ie ne
scay nul bon cheualier fors Marcius et Caton; les aultres sont plain de
vanitez et de paroles». Questo giudizio si legge alquanto diversamente
nella _Hystore de Julius Cesar_ di Giovanni di Tuim, ed. del Settegast,
p. 21: «et en toute la cite de Roume jou ne sai crendroit boin
chevalier, se che n'est Marchiaus u Catons: li uns est plains de
paroles et li autres de vanites».

[494] V. GIOVANNI SARISBERIENSE, _Polycrat_., l. VII, c. 9. Nel secolo
seguente Hugo di Trimberg diceva nel suo _Registrum multorum auctorum_:

    Virtutum expositor, regulator morum,
    Cato prior sedet in ordine minorum,
    qui iste Cato fuerit a multis dubitatur
    nam Catones plurimos Romae fuisse datur
    diversis temporibus, ut Cato Uticensis,
    in Africa quem Iulii minax fugat ensis,
    Catoque censorius, rigidusque Cato,
    nullus horum tribuit haec praecepta nato.
    Cato disertissimus Ieronyme testante,
    Cato prudentissimus Tullio monstrante
    librum hunc de moribus is creditur scripsisse
    et sub forma filii pueros instruxisse,
    et quamvis in numero sedeat minorum
    ponitur in ordine tamen antiquorum.

V. Haupt, nei _Berichte_ dell'Accademia di Berlino, 1854. Il Petrarca
più tardi negava recisamente che fossero dell'Uticense, ma li credeva
estratti da un poema del Censore.

[495] Nel IV secolo un luogo di essi trovasi già citato sotto al nome
di Catone.

[496] A Catone di Utica furono poi attribuiti anche certi monostici che
si possono vedere nell'_Anthologia_ del Riese, v. II, p. 123.

[497] Mi basterà di riportare in prova alcuni versi del prologo della
versione francese di Giovanni Le Fèvre, quali si hanno in un codice
della Nazionale di Torino segnato L, III, 4.

    Caton fu preuz cheualier et sage homme;
    Maint bon conseil a la cite de Romme
    Donna iadis pour la chose publique.
    Vn liure fist vaillant et autentique,
    Par grant amour li mist son propre nom.
    Iule Cesar, vns homs de grant renom,
    Sur les Romains lors gouuernoit l'empire;
    En cest monde qui va de mal en pire
    Mut grant descort vers le noble Pompee,
    En Thessale le vainqui a l'espee.
    Adonc Caton, qui moult ama franchise,
    Pour eschiuer de Cesar l'entreprise
    En Libye s'en ala a sa route
    Ylec morut. . . . . . . . .

[498] ZARNCKE, _Ueber zwei gereimte Uebertragungen der s. g. Disticha
Catonis, Berichte der sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften_,
1863.

[499] Da Massimo Planude che li attribuiva a Dionisio Catone, e li
stampava in Venezia nel 1495.

[500] _Etymol_., v. Officiperda.

[501] _Contra Elipandum_, l. II.

[502] _Theologia Christiana_, l. 1.

[503] V. PEIPER, _Baiträge zur Lateinischen Cato-Litteratur, nella
Zeitschrift für deutsche Philologie_ dell'Höpfner e del Zacher, v. V,
p. 165 e segg.

[504] Guiraut de Cabreira dice al suo giullare Cabra:

        Ja non sabras
    Ni de Tebas ni de Caton.

Il Birch-Hirschfeld sospetta si debba forse leggere Catmon (op. cit.,
p. 7); ma Guiraut de Calanson dice a Fadet:

        Apren Caton
        E del monton
    Com per maistre saup guerir.

[505] Giovanni Sarisberiense ricorda ch'essi erano il libro preferito
per la educazione dei fanciulli. _Polycrat_., l. VII, c. 9. In una
versione olandese si legge:

      Een boec es, dat dis clerke lesen
    Als si eerst ter schole gaen,
    Die hen wijsheit doet verstaen
    Vele meer dan enich doet.

V. anche l'_Histoire littéraire de la France_, t. XXVI, p. 512.

[506] A voler discorrere particolareggiatamente delle molte versioni
volgari dei distici bisognerebbe scrivere un apposito libro. Al mio
assunto può qui tornare utile e bastare un rapido cenno. L'antica
letteratura italiana ne possiede tre già edite (oltre a quelle che per
avventura vi potrebbero essere manoscritte) tutte tre appartenenti,
come pare, al XIII secolo, e più e più volte stampate. V. intorno ad
esse e alle stampe che se ne fecero il NANNUCCI, _Man. d. lett. d. pr.
sec._, 3ª ed., v. II, p. 94, e ZAMBRINI, _Le Opere volgari a stampa
dei secoli XIII e XIV_, 4ª ed., col. 238-9. In francese essi furono
tradotti da Everardo monaco di Kirkham poi abate di Holmecultram,
nel 1145, da Adamo di Guiency, da Adamo di Suel, da Giovanni di
Parigi, o del Chastelet, da Elia di Winchester, da Giovanni Le Fèvre.
Chi voglia avere notizia dei varii scrittori che parlarono di tali
versioni troverà le indicazioni necessarie in IDELER, _Geschichte
der altfranzösischen National-Literatur_, Berlino, 1842, p. 177.
Dell'antichissima versione tedesca di Notker ho già fatto menzione, ma
molte altre se ne fecero poi, tutte metriche, sino a quella pubblicata
da Martino Opitz nel 1656. V. ZARNCKE, _Der deutsche Cato_, Lipsia,
1852. Versioni olandesi di Catone già conosceva Jacob van Maerlant.
V. HOFFMANN VON FALLERSLEBEN, _Horae Belgicae_, Vratislavia, 1830-62,
parte 1ª, p. 69. Una versione metrica di su un codice della fine del
XIII secolo fu pubblicata dalla società dei bibliofili fiamminghi:
_De bocc van Catone, een dietsch Leerdicht, uit het latyn_, Gent, s.
a.[1846]. Un'altra versione, similmente metrica, fu pubblicata dal
JONCKBLOET nell'opera testè citata. _Die dietsche Catoen_. Per contro
l'unica traduzione anglosassone sino a noi pervenuta è in prosa. V.
NEHAB, _Der altenglische Cato. Eine Uebersetzung und Bearbeitung der
Disticha Catonis_, Berlino, 1879. Intorno alle versioni inglesi v.
WARTON, _History of the english Poetry_, ed. dell'Hazlitt, v. III, p.
133-9, IV, 250.

[507] Pubblicato da A. de Montaiglon, Parigi, 1854, cap. 128.

[508] Questo racconto si trova anche nella versione inglese fatta da
William Caxton del romanzo francese. V. _The book of the Knight of
La Tour-Landry_ pubblicato dal Wright, Londra (_Early english text
Society_), 1868, cap. 137-44.

[509] Ed. cit., p. 17-8.

[510] Ibid., p. 141.

[511] P. 235-41. Da ultimo dice: «Ensi regretoient li home Caton sa
mort, et ensi s'ocist, com ie vous di. Mais li Mestre d'Orliens en vont
contant autre chose, car il dient k'il s'ocist par venim et par ire,
mais li hestore ne s'i assent point; et nonpourquant, comment k'il en
parolent, mors fu.»

[512] Nov. 72 del testo Gualteruzzi.

[513] Cod. H, V, 44 della Nazionale di Torino, f. 36 r.

[514] _Polychron_., l. III, c. 44.

[515] L. II, c. 5.

[516] Tratt. IV. c. 5.

[517] Tratt. IV, c. 28. Già gli editori del _Convito_ stampato in
Padova nel 1827 avvertivano tale concetto essere di Seneca, il quale
nel proemio delle sue _Controversie_ così lo esprime: «Quem tandem
antistitem sanctiorem invenire sibi Divinitas potuit, quam Catonem, per
quem humano generi non praeciperet, sed convicium faceret?»

[518] V. 670. Non è dimostrato, a dir vero, ma è sommamente probabile
che questo Catone sia l'Uticense. Virgilio ricorda un Catone quale
abitatore degli Elisi anche nel l. VI, v. 842.

[519] V. su tutto ciò G. WOLFF, _Cato der Jüngere bei Dante, Jahrbuch
der deutschen Dante-Gesellschaft_, v. II, p. 225-32.

[520] Cf. BARELLI, _Allegoria della Divina Commedia_, Firenze, 1864, p.
110 e segg.

[521] _Purgat._, c. I, v. 71-5.

[522] _Minor poems. Early english poetry_, Londra (_Percy Society_),
1840, v. II, p. 25.

[523] L. I, c. 4.

[524] V. HORTIS, _Studii sulle opere latine del Boccaccio_, Trieste,
1879, dove, da p. 448 a p. 453, si parla appunto della fortuna di
Seneca nel medio evo.

[525] V. AMADOR DE LOS RIOS, _Historia critica de la literatura
española_, v. VI, p. 21, n. 1.

[526] L. XXV, 5, ed. del Fracassetti.

[527] Esp. 10. Ne pubblicò alcuni frammenti sotto quel titolo il
RAYNOUARD nel _Lexique roman_, v. I, p. 538-548; lo pubblicò per intero
col titolo _aquest libre a nom lo savi_ il BARTSCH nei _Denkmäler der
provenzalischen Litteratur_, p. 192-215.

[528] V. LULOFS, _Handboek_ ecc., p. 226.

[529] V. la VIII delle novelle inedite pubblicate dal PAPANTI,
_Catalogo dei novellieri italiani in prosa_, Livorno, 1871, e le
_Novelle antiche_ del BIAGI, CXLI, p. 142-3.

[530] Pubblicata dall'HEINE nella _Bibliotheca anecdotorum seu veterum
monumentorum ecclesiasticorum collectio novissima_, parte 1ª, p. 211.

[531] Ecco le sue proprie parole, quali si hanno nel trattato _De
scriptoribus ecclesiasticis_, c. 12: «Lucius Annaeus Seneca Cordubensis
Sotionis stoici discipulus, patruus Lucani poetae, continentissimae
vitae fuit. Quem non ponerem in catalogo sanctorum nisi me illae
epistolae provocaverint, quae leguntur a plurimis Pauli ad Senecam
et Senecae ad Paulum, in quibus cum esset Neronis magister et illius
temporis potentissimus, optare se dicit esse loci apud suos cujus
sit Paulus apud Christianos. Hic ante biennium quam Petrus et Paulus
coronarentur a Nerone interfectus est».

[532] Nella epistola 153, _ad Macedonium_, 14, edizione delle opere a
cura dei benedettini, t. II, p. 524.

[533] L. VI, c. 10.

[534] _Passio Petri et Pauli_, nella _Bibliotheca Patrum_, di Colonia,
t. I, p. 73.

[535] Gualtiero Burley fa a dirittura di Seneca il compagno
inseparabile di San Paolo nel suo _Liber de vita ac moribus
philosophorum:_ Cum igitur Seneca et multi de domo Cesaris ad Paulum
confluerent fuit Seneca beato Paulo adeo familiaris videns in eo
divinam scientiam ut se ab eius colloquio vix separare posset.

[536] Nella _Image du monde_, parte III, c. 15, si dice:

    S. Pol qui fu aussi preudon
    Ala par mainte region
    Pour plus aprendre et plus veoir
    Tous les bons clers que pot sauoir.

[537] Commento alla Divina Commedia, lez. XIV.

[538] _Ep. rer. sen._, l. XVI, 9.

[539] _Introductio ad Theologiam_, Opere, ed. cit., v. II, p. 60.

[540] _Metalogicus_, l. I, c. 22.

[541] Conservate in manoscritti numerosissimi, e poi molte volte
stampate, esse furono assai per tempo tradotte in varie lingue. Nel
XIV secolo se ne fece una versione catalana; una versione italiana fu
pubblicata da CESARE GUASTI nella _Miscellanea di opuscoli inediti o
rari dei secoli XIV e XV_, Torino, 1861, p. 295-301.

[542] _Der Ursprung der Sage, das Seneca Christ gewesen sei.
Eine kritische Untersuchung nebst einer Rezension des apokryphen
Briefwechsels des Apostels Paulus mit Seneca_, Berlino, 1881, p. 10-22.
Dei moltissimi scritti concernenti questa favola di Seneca cristiano
e amico di San Paolo, i quali vennero in luce da due secoli in qua,
mi basterà di ricordare i seguenti: J. A. SCHMIDT, _Dissertatio de
Seneca ejusque theologia_, Jena, 1686; J. PH. APINUS, _Dissertatio de
religione Senecae_, Vittemberga, 1692; AEGIDIUS STRAUCH, _Dissertatio
de christianismo Senecae_, Jena, 1706; CHRISTIAN ISERSTADT,
_Dissertatio an L. A. Seneca fuerit Christianus?_ Erford, 1707; FLEURY,
_Saint Paul et Sènèque. Recherches sur les rapports du philosophe avec
l'apôtre et sur l'infiltration du christianisme naissant à travers le
paganisme_, Parigi, 1853: AUBERTIN, _Étude critique sur les rapports
supposés entre Sènèque et Saint Paul_, Parigi, 1857; BAUR, _Seneca und
Paulus in Hilgenfeld's Zeitschrift für wissenschaftliche Theologie_, v.
I, 1858. I tre ultimi sono, insieme con quello del Westerburg, i più
importanti; gli altri sono rarissimi e a me ignoti. Il Fleury crede,
non solo alla fede cristiana di Seneca, ma a quella ancora di Lucilio,
di Lucano, di Epitteto e di parecchi altri greci e latini. L'Aubertin
sostiene con argomentazione molto serrata: 1º che Seneca non conobbe
mai nè San Paolo, nè alcun altro degli apostoli; 2º ch'egli non lesse
nè le epistole di San Paolo, nè nessun libro dell'Antico o del Nuovo
Testamento; 3º che le lettere apocrife conservate sotto il nome di
Seneca e di San Paolo sono quelle stesse che si leggevano ai tempi
di San Gerolamo e di Sant'Agostino: 4º che Seneca deve i principii
della sua filosofia e le massime della sua morale a se stesso, ai
suoi predecessori, e allo spirito nuovo che, indipendentemente dal
cristianesimo, cominciava a diffondersi nella società e preparava
l'avvenimento del cristianesimo stesso. V. nella _Histoire abregée de
la Littérature romaine_ dello SCHOELL un parallelo di passi di San
Paolo e di passi di Seneca, dal quale si rileva che nelle opere di
quest'ultimo ricorrono spesso pensieri che si possono dire cristiani.
V. inoltre la _Praemonitio_ che va innanzi alle supposte epistole
nella edizione delle opere filosofiche di Seneca del Lemaire, v. IV, p.
464-73.

[543] Pag. 22-35.

[544] Nella Bibliothèque Nationale di Parigi è un codice segnato Fr.
1020, il quale, a cominciare dal f. 122 contiene _Le livre Senecque
des quàtre Vertus cardinaulz translaté en françois par Jehan de
Courtecuisse l'an mil. .CCCC. et trois_.

[545] CANISTI, _Lectiones antiquae_, ed. del Basnage, t. II, parte 2ª,
p. 70.

[546] _Speculum historiale_, l. X, c. 9: Porro de hoc, quod dictum eat,
quod Senecam preceptorem suum ad necem compulit, in cronicis legitur,
quod idem Seneca venarum incisione haustu veneni periit. Fertur autem
relacio quod ipse Nero Senecam aliquando respiciens, et verbera que
sibi a pueritia intulerat ad memoriam reducens infremuerit ac tanquam
injuriarum ulcionem expetere de illo cupiens, sed tanquam preceptori
utcunque deferens ut quodvis mortis genus sibi eligeret opcionem
concesserit. Ipse autem Seneca quasi suave genus arbitrans in balneo
mori, incisionem vene elegit.

[547] _Heiligenleben, Sancte Pêters tac und sente Paulus alsô
si storben_, ed. di F. Pfeiffer, Lipsia, 1845, p. 148 (_Deutsche
Mystiker des vierzehnten Jahrhunderts_, v. I). Hermann cita Boezio _De
consolatione_: Alsô beschrîbit Boecius in deme buche von der trôstunge,
daz Nêrô Senecam hiz tôtin umme den haz, daz di lûte Senecam wîser
hatten danne in.

[548] Edizione di Francisque Michel, v. 6965-79.

    Ne nule ochoison n'i savoit.
    Fors tant que de coustume avoit
    Néron que tous jors dès s'enfance
    Li soloit porter révérance,
    Si cum disciples à son mestre.
    Mès ce ne doit, dist-il, mie estre,
    Ne n'est pas bel en nule place
    Que révérence à homme face
    Nus hons, puis qu'il est empéreres,
    Tant soit ses mèstres ne ses pères.
    Et por ce que trop li grevoit
    Quant encontre li se levoit,
    Quant son mestre véoit venir,
    N'il ne s'en pooit pas tenir
    Qu'il ne li portast révérence
    Par la force d'acoustumance.

[549] P. 11.

[550] Cap. LXXXIX(84), 3.

[551] V. Massmann, v. III, p. 692.

[552] _Ly myreur des histors_, v. I, p. 468-9. Seneca domanda a Nerone
qual premio egli avrà dello averlo educato; quegli risponde di volerlo
premiare lasciandogli la scelta dell'albero a cui dev'essere impiccato.

[553] Massmann, v. III, p. 694.

[554] Nov. 71 del testo Gualteruzzi.

[555]

    Als er des todes anmacht entpfand,
    Da sprenget er mit seiner hand
    Das wasser, vermischt mit blut rot,
    Und sprach: Das opffer ich dir, Gott,
    Mein erlöser aus aller quel.
    Darmit gab er bald auff sein seel.

_Von Lucio Anneo Seneca, dem berhümbten philosopho_, Opere, ed, del
_Litterarisches Verein_, v. VII, p. 395-6.

[556] HORTIS, _Studj sulle opere latine del Boccaccio_; p. 402.

[557] COMPARETTI, _Virgilio nel medio evo_, v. I, p. 115.

[558] CANISII, _Lectiones antiquae_, t. II, parte 3ª, p. 234.

[559] V. PAUL MEYER, _Les vers de la mort d'Helinand_ nella _Romania_,
v. II, p. 364-7.

[560] Questo poemetto fu già pubblicato dal Méon. Io cito dal cod. L,
V, 32 della Nazionale di Torino, f. 171 r., col. 2ª.

[561] V. BUNSIAN, _Beiträge sur Geschichte der classischen Studien im
Mittelalter, Sitzungsberichte d. Königl. bayer. Akad. d. Wissensch.,
philos.-philol. Cl._, 1873, p. 461, 473. Ecco i versi di Ugo dove si
parla di Orazio:

    Sequitur Horatius prudens et discretus,
    vitiorum aemulus, firmus et mansuetus,
    qui tres libros etiam fecit principales,
    duosque dictaverat minus usuales,
    epodon videlicet et librum odarum,
    quod nostris temporibus credo valere parum.

I tre _libri principales_ erano le Satire, le Epistole e l'Arte poetica.

[562] Ed. del 1824, v. II, p. 62, n. f.; ed. dell'Hazlitt, v. III, p.
180

[563] Op. cit., p. 402, n. 3.

[564] L. II, sect. VII.

[565] V. DUEMMLER, _Gedichte aus Ivrea_, in _Zeitschrift für deutsches
Alterthum_, nuova serie, v. II, p. 253.

[566] In un manoscritto latino della _Bibliothèque nationale_ di
Parigi, segnato col n. 8247, al f. 27, in calce al testo dei _Remedia
amoris_, è la seguente postilla. «Explicit Ovidius De remedio amoris,
quem ego frater Bertrandus _Guiesse_ ordinis fratrum Minorum, conventus
Rhutenensi, scripsi in vigilia conceptionis B. Mariae. Incepi quidem
ipsum scribere hora quinta de mane et finivi eodem die hora undecima
ante mediam noctem anno Domini 1467; et hoc Parisius, in camera
magistri Antonii Calmelli, teste fratre Philippo Castauri dicti
ordinis, conventus Lemovicensis, et fratre Geraldo Crosarum, conventus
Albiae. Ad laudem et gloriam Virginis Mariae. Amen.» HAURÉAU, _Notice
sur un manuscrit de la Reine Christine au Vatican_ in _Notices et
extraits des manuscrits_, t. XXIX, parte 2ª, p. 240.

[567] _Ars amandi_, III, 683.

[568] L. MUELLER in _Jahrbuch für Philologie und Paedagogik_, 1866, p.
395; COMPARETTI, _Virgilio nel medio evo_, v. I, p. 115, n. 1.

[569] L. VII, c. 106-22.

[570] _Das Buch der Natur_ pubblicato da F. Pfeiffer, Stoccarda, 1862,
p. 61.

[571] Cap. LVI.

[572] Ed. Hahn, Quedlinburgo e Lipsia, 1842, v. 90 e segg.

[573] JONCKBLOET, _Geschichte der niederländischen Literatur_ (versione
dall'olandese), v. I, p. 381.

[574] Ad palatium majus est ortus deliciarum et palatium Ovidii,
PARTHEY, _Mirabilia Romae_, p. 58.

[575] Pubblicata da H. HAGEN di su un codice bernense del secolo XIII
nei _Carmina medii aevii maximam partem inedita_, Berna, 1877, CXXXIII,
p. 207-9.

[576]

    Nobis quis sit titulus, satis declaratur:
    Publius de publica fama nuncupatur,
    Naso vel Ovidius satis declaratur,
      Si nasi species vel visere nomen agatur.

[577] Cito dal cod. Laurenz. pl XLIV, 29, non avendo agio di consultare
le stampe.

[578] Pubblicata dal WRIGHT, _A selection of latin stories_, Londra,
1843, (_Percy Society_), p. 43-4.

[579] V. BARTSCH, _Albrecht von Halberstadt und Ovid im Mittelalter_,
Quedlinburgo e Lipsia, 1861, Introduzione. L'autore ha troppo
trascurato, nelle sue indagini, la letteratura italiana.

[580] V. per quanto le concerne la citata introduzione del Bartsch, p.
IV-XI.

[581] V. DIEZ, _Die Poesie der Troubadours_, Zwickau, 1826, p. 127;
Bartsch, op. cit., p. XI e segg.

[582] _Le Trésor de Pierre de Corbiac_ pubblicato dal Sachs,
Brandeburgo, 1859, v. 750-1.

[583] WARTON, _Hist. of engl. poet._, ed. dell'Hazlitt, v. III, p. 62-3.

[584] _Il Pome del bel Fioretto_ pubblicato dal Fanfani, Firenze, 1863,
st. 16.

[585] V. 614, 630-41, 695-6.

[586] Anche Dante chiama le _Metamorfosi_ Ovidio maggiore nel tratt.
III, c. 3 del _Convito_. In un sonetto di Andrea Orcagna si trova _Naso
maggiore_.

[587] L. VIII, c. 7.

[588] L'opera stampata da Antonio Verard in Parigi s. a., è dedicata
a Carlo VIII. Al primo libro va innanzi la rubrica: _Cy commence Ovide
son liure auquel il inuoque layde de la saincte trinite_.

[589] V. _Convito_, tratt. II, c. 1, tratt. IV; c. 25, 27, 28.

[590] In una lettura, fatta nel Luglio del 1881 all'_Académie des
Inscriptions et Belles-Lettres_, l'Hauréau mostrò che il vero autore
della _Metamorphosis Ovidiana moraliter explanata_, è, non Tommaso di
Galles o Valleys, come si credeva, ma bensì Pietro Berchorio, del cui
_Reductorium morale_ forma il libro XV. V. _Mém. d. l'Acad. d. Inscr.
et Bell.-Lett._, t. XXX, parto 2ª.

[591] Lo stesso Hauréau sostenne ancora che il commentario comunemente
attribuito a Filippo di Vitry sia piuttosto da attribuire a Cristiano
Legouays de Sainte-More. Alcuni estratti di questo _Ovide moralisé_
pubblicò il Tarbé nel v. VIII della _Collection des poëtes champenois_,
Reims, 1850.

[592] V. Bartsch, op. cit., p. XLIV-XLV.

[593] Cod. miscell. della Bibl. Nat. di Parigi: _Incominciano le
allegorie del maestro Johanni Vergilio sopra le favole d'Ovidio
Metamorphoseos_. Esse si trovano anche in un cod. Laurenziano.

[594] V. ARGELATI, _Biblioteca degli volgarizzatori_, t. III, p. 119-21.

[595] FAURIEL, _Histoire de la poesie provençale_, t. III, p. 489.

[596] Pubblicata nei _Fabliaux et contes_ del Barbazan, 2ª ed.,
aumentata dal Méon, v. IV, p. 143-75. Essa conta 1010 versi.

[597] Cf. MOLAND, _Origines littéraires de la France_, Parigi, 1862, p.
278-88.

[598] Pubblicata questa dal Zambrini nel _Libro di novelle tratte da
diversi testi del buon secolo della lingua_, Bologna, 1868. Vi fu anche
un poemetto popolare in 69 ottave, stampato la prima volta in Firenze
nel 1567, e intitolato _Historia di Piramo e Tisbe_.

[599] Cap. XX.

[600] I quattro bassorilievi furono riprodotti dal CAHIER, _Nouveaux
mélanges archéologiques, Curiosités mystérieuses_, Parigi, 1874, p.
228.

[601] Cf. PIPER, _Mythologie der christlichen Kunst_, v. I, p. 407-8.

[602] V. Moland, op. cit., p. 269-77. Cf. P. PARIS, _Les manuscrits
françois de la Bibliothèque du Roi_, v. VI, p. 343.

[603] Cap. III, ed. dell'Oesterley.

[604] Ed. del Guessard, Parigi, 1860, v. 2031-3.

[605] Più altri poemetti popolari italiani si potrebbero ricordare, ne'
quali si trattano favole derivate dalle _Metamorfosi_. Tali sarebbero
La _Caccia di Meleagro_, Firenze, 1568, la _Historia di Perseo_,
Firenze, stesso anno. V. anche per quelli ricordati di sopra, PASSANO,
_I novellieri in verso_, p. 60, 75, 79, 102.

[606] _Summa de arte praedicatoria_, c. XXXVI.

[607] St. 419.

[608] _Cancionero de Baena_, num. 226, p. 204.

[609] Questa poesia fu pubblicata dal D'ANCONA e dal COMPARETTI, _Le
antiche rime volgari secondo la lezione del codice Vaticano_ 3793, V.
I, p. 430-2.

[610] V. la introduzione del MICHELANT alla _Clef d'amours_, Parigi,
1865, e KOERTING, _L'art d'amors und Li remedes d'amors_, Lipsia, 1868,
p. XVI-XVIII.

[611] V. HOLLAND, _Chrestien von Troies_, Tubinga, 1854, p. 34-5.

[612] La pubblicò il Zambrini in Prato nel 1850.

[613] V. ZAMBRINI, _Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV_,
IVª ed., col: 737.

[614] V. KOERTING, _Altfranzösiche Uebersetzung der Remedia amoris des
Ovid_, Lipsia, 1871.

[615] LE GRAND D'AUSSY, _Fabliaux ou contes des XII et XIII siècles_,
v. II, p. 61-5.

[616]

    ende in Ovidio de arte amandi
    daer si vele leerden bi.

_Floris ende Blancefloer_, v. 335-6, ap. HOFFMANN VON FALLERSLEBEN,
_Horae Belgicae_, parte III, 1836, p. 10.

[617] DU MÉRIL, _Floir et Blanceflor_, Parigi, 1856, p. XLIX.

[618] P. PARIS, _Les manuscrits françois de la Bibliotèque du roi_, v.
V, p. 169.

[619] V. 236-46.

[620] GIOVANNI DI TUIM, _Li Hystore de Julius Cesar_, p. 14.

[621] Non così in un grande arazzo di Berna, dove sono istoriati
i _fatti_ principali di Cesare. Vi si vede, tra l'altro, Cesare in
procinto di passare il Rubicone. Dinnanzi a lui si drizza nell'acqua
l'immagine di Roma, sotto cui sono questi versi:

    Toi, Jule Chesar ni le tiens
    Qui te meut prendre les moyens
    Contre moi? Portant mes bannières
    Fais-tu de mes logis frontières?

JUBINAL, _Les anciennes tapisseries historiées_, p. 22; _tapisseries
de Berne_, tav. V. Corrado di Querfurt racconta nella sua già
citata epistola ad Arnoldo di Lubecca d'aver veduto il Rubicone,
al qual proposito dice: «cujus parvitatem stupido intuentes obtuto,
disertissimi illius Poetae Lucani admirati sumus facundiam, qui de re
tam humili tam grandiloquo intumuit eloquio».

[622] Amador de los Rios, op. cit., v. VI, p. 21, n. 1.

[623] _Instit. orat._, l. X, c. 1.

[624] Warton, op. cit., v. I, p. 231.

[625] V. PEZ, _Thesaurus anecdotorum_, t. III, parte 1ª, p. 144, 146.

[626] Nel già ricordato libro _De exilio animae_, ed. cit., col. 229.
Per la commedia cita Terenzio, per la satira Persio, per la lirica
Orazio.

[627] _De versificatione_, ap. LEYSER, _Hist. poet. et poem. m. ae._,
p. 827.

[628] _Inf._, c. IV, v. 69.

[629] V. JOLY, _Benoit de Sainte-More et le Roman de Troie_, v. II, p.
356-83.

[630] V. DUNGER, _Die Sage vom trojanischen Kriege_, p. 46 e segg.

[631] Altre prove della stima in cui Stazio era tenuto reca il Joly,
op. cit., v. II, p. 317-8: «On le plaçait à côté des maîtres de
l'art; c'est ainsi qu'il figure dans la _Chronique ascendante des
ducs de Normandie_[632]. Dans le _Département des livres_ on lit:
«Estace le Grand et Virgile»; Stace est proclamé grand, Virgile n'a
pas d'épithète. On explique la Thébaïde dans les épreuves publiques.
Il n'est pas d'écrivain latin qui ne lui emprunte des vers. Gerbert
l'admire; Guillaume de Poitiers fait allusion aux héros qu'il a
chantés; Pierre Maurice, abbé de Cluny, vante en lui une des lumières
de la poésie et de la philosophie; Guy, évêque d'Amiens, le prend pour
modèle; Guillaume le Breton l'invoque dans sa _Philippide_; saint
Bernard le cite; Nicolas Clamanges l'appelle un second Virgile».
A tutte queste testimonianze si può aggiungere quella di Eberardo
Bituricense che dice nel suo trattato _De versificatione_ testè citato:

    Statius eloquii iucundus melle, duorum
      Arma canit fratrum sub duce quasque suo.

[632]

    Ce ne fu mie el temps Virgile ne Orace,
    Ne el tems Alexandre, ne Cesar, ne Stace.

[633] Parte 1ª, c. 6.

[634] VINCENZO BELLOVACENSE, _Spec. hist._, l. XI, c. 50; _Acta
Sanctorum_, t. II del mese di Agosto, p. 407.

[635] Benchè già molte volte pubblicati questi versi non parranno qui
fuori di luogo.

    Tu pater et patriae lumen, Severine Boeti,
    Consulis officio rerum disponis habenas,
    Infundis lumen studiis et cedere nescis
    Graecorum ingeniis. Sed mens divina coercet
    Imperium mundi; gladio bacchante Gothorum
    Libertas Romana perit. Tu consul et exul
    Insignes titulos praeclara morte relinquis.
    Nunc docus imperii, summas qui praegravat artes,
    Tertius Otho sua dignum te judicat aula,
    Aeternumque tui statuit monumenta laboris,
    Et bene promeritum meritis exornat honestis.

Cf. OLLERIS, _Oeuvres de Gerbert, pape sous le nom de Sylvestre II,
collationnées sur les manuscrits_, Clermont-Ferrand, 1867, p. 294.
Notisi che in questi versi non è fatta la benchè minima allusione alla
cristianità di Boezio.

[636] Parte III, c. 12.

[637] Cito dal cod. L, IV, 5 della Nazionale di Torino. Notisi che
Saraceni sono chiamati assai spesso i Greci nelle storie della guerra
trojana. Quel nome si dà comunemente a tutti i popoli, che, non essendo
cristiani, non sono nemmeno latini: i Romani antichi non sono mai
designati per esso, tuttochè pagani.

[638] Intorno alla importanza che Boezio ebbe nel medio evo v. SUTTNER,
_Boethius der lezte Römer_, Eichstätt, 1852, III, _Boethius und die
Nachwelt_, p. 25-42.

[639] Giorn. V, nov. 2.

[640] Nel _Roman de la Rose_, poema in cui certo non soverchia lo
spirito ascetico, si dice (ed. cit., v. 5749-61):

    Moult est chétis et fox naïs
    Qui croit que ci soit son païs.
    N'est pas nostre païs en terre;
    Ce puet l'en bien des clers enquerre
    Qui Boëce de Confort lisent,
    Et les sentences qui là gisent,
    Dont grans biens as gens laiz feroit
    Qui bien le lor translateroit.

Chi così scriveva, Jehan de Meung, diede poi una versione del libro di
Boezio.

[641] _Convito_, tratt. II, c. 13. G. A. L. Baur fa osservare che quel
_conosciuto_ è forse da intendere in un significato più alto che non
sia il letterale. Lo stesso Dante già prima forse aveva letto il libro,
ma non lo conobbe nella pienezza dello spirito se non dopo la grave
sciagura sofferta. _Boetius und Dante_, Lipsia, 1873, p. 11, n. 22. Le
reminiscenze di Boezio sono frequenti nelle varie opere dell'Alighieri.
Anche il Boccaccio s'inspirò abbastanza spesso degli scritti del
filosofo romano.

[642] V. il _Prologo_ premesso alla versione ripubblicata dopo il
Manni e il Dello Russo da CARLO MILANESI, _Il Boezio e l'Arrighetto_,
Firenze, 1864, p. 6-7 e PALERMO, _I manoscritti Palatini_, v. I, p.
685.

[643] _Le livre du chemin de longue estude_, pubblicato da R. Püschel,
Berlino, 1881, v. 201-8.

[644] Nel prologo di una traduzione francese si legge:

    Quar ceulx qui sont on grans tristeces
    Conforte doucement Boëces,
    C'on dit de Consolacion,
    Propos ay et entencion
    De luy translater en françois
    Si que chevaliers el bourgois
    Y praingnent confort, et les dames,
    S'ilz ont triboul de corps et d'ames.

E nel prologo di un'altra:

    Fortune, mère de tristesse,
    De douleur et d'affliction,
    Mettre m'a fuit en ma jeunesse
    Mon estude et m'entention
    A faire un roment sur Boëce
    Qu'on dit de Consolation,
    Qui donne confort et leesse
    A ceulz qu'ont tribulation.

L. DELISLE, _Anciennes traductions françaises de la Consolation de
Boëce conservées à la Bibliothèque Nationale_ nella _Bibliothèque de
l'École des Chartes_, v. XXXIV, 1873, p. 10, 19.

[645] FABRICIO, _Bibliotheca mediae et infimae latinitatis_, 1ª ed., v.
IV, p. 656.

[646] JOURDAIN, _Des commentaires inédits de Guillaume de Conches et
de Triveth sur la Consolation de Boèce, in Notices et extraits des
manuscrits_, t. XXIII, parte 2ª.

[647] Essa fu pubblicata da Cristoforo Rawlinson a Oxford nel 1698, e
da Samuele Fox a Londra nel 1835 (_King Alfred's anglo-saxon version
of the metres of Boethius, with an english translation and notes_). Cf.
WRIGHT, _Biographia britannica literaria, Anglo-saxon period_, p. 56 e
seg., 400 e segg.

[648] GRAFF, _Althochdeutsche dem Anfange des 11ten Jahrhunderts
angehörige, Uebersetzung und Erläuterung der von Boethius verfassten 5
Bücher de Consolatione Philosophiae, Berlino_, 1837.

[649] Per altre versioni francesi vedi gli scritti testè citati del
Delisle e del Jourdain, e inoltre MOLAND, _Origines littéraires de la
France_, p. 272, n. 1.

[650] V. _Il Boezio e l'Arrighetto_, ed. cit., Prefazione p. XIX-XXXI,
LXXIX-CV; ZAMBRINI, _Le Op. volg._, IV ed., col. 186.

[651] L'_editio princeps_ ne fa fatta in Piemonte verso il 1470; si
ristampò a Norimberga nel 1473.

[652] Egli fa dire alla Filosofia:

    Nonne meus Severinus inani iure peremptus
      Carcere Papiae non patienda tulit?

[653] Parad., c. X, v. 121-9. Franco Sacchetti, descrivendo le
accoglienze che i santi fanno al Petrarca in paradiso, dice tra
l'altro:

    Ivi l'abbraccian quattro dottoristi;
    E con loro è Grisostomo e Bernardo,
    Isidoro ed Anselmo e Pier Lombardo,
    Severino, Basilio e il Nazianzeno,
    Ugo e il Damasceno,
    Dïonisio ed assai di questo stile.

_Canzone morale per la morte di messer Francesco Petrarca_.

[654] La leggenda di Boezio diede argomento a una vera letteratura pro
o contra. Io registrerò qui solamente gli scritti più importanti e più
recenti, a parecchi dei quali dovrò rimandare i lettori nel corso del
presente capitolo. I migliori, in generale, comparvero in Germania,
dove tolsero a difendere, con uno o con un altro temperamento, la
leggenda, GUSTAVO BAUR, _De Anicio Manlio Severino Boëthio, christianae
doctrinae assertore_, Darmstadt 1841; J. G. SUTTNER, _Boethius
der letzte Römer. Sein Leben, sein christliches Bekenntniss, sein
Nachruhm_, Eichstät, 1852; R. PEIPER, nella prefazione alla stampa
del _De Consolatione philosophiae_ fatto in Lipsia nel 1871; tolsero
invece a combatterla F. G. HAND nella biografia di Boezio inserita nel
tomo XI della enciclopedia dell'Ersch e del Gruber, prima biografia
veramente fatta con criterii critici; l'OBBARIUS nella stampa del
_De consolatione philosophiae_ fatta in Jena nel 1843; ma soprattutto
FEDERICO NITZSCH, _Das System des Boethius und die ihm zugeschriebenen
theologischen Schriften_, Berlino, 1860. Questo bel lavoro, modello
di critica circospetta o stringente, avrebbe dovuto risolvere la
questione per sempre. In Francia combattè la leggenda, cercando di
mostrarne la origine con una ipotesi più ingegnosa che probabile,
CARLO JOURDAIN, _De l'origine des traditions sur le Christianisme
de Boèce_ nei _Mémoires presentés à l'Académie des Inscriptions et
Belles-Lettres_, 1860, p. 330-60: la difese L. C. BOUQUARD, _De Anicio
Manlio Severino Boetio Christiano viro philosopho ac theologo_, Parigi
e Angeri, 1877. In Italia la leggenda trovò solamente sostenitori: mi
basterà di ricordare: PUCCINOTTI, _Il Boezio ed altri scritti storici e
filosofici_, Firenze, 1864; BIRAGHI, _Boezio filosofo, teologo, martire
a Calvenzano milanese_, Milano, 1865, e le tre dissertazioni del
BOSISIO, _Intorno al luogo del supplizio di Severino Boezio_, Pavia,
1855; _Sul cattolicismo di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio_,
ibid. 1867; _Sull'autenticità delle opere teologiche di Anicio Manlio
Torquato Severino Boezio_, ibid. 1869.

[655] In calce alla edizione di Ammiano Marcellino curata da Enrico
Valesio, Parigi, 1681, p. 670-1.

[656] Theodoricus rabie suae iniquitatis stimulatus Symmachum
exconsulem et patritium, et Boethium seniorem et exconsulem catholicos
viros gladio trucidavit.

[657] Symmachum atque Boethium consulares viros, pro catholica pietate
idem Theodoricus occidit. _Chronicorum Breviarium, aetas sexta, Maxima
Bibliotheca veterum patrum_ (Lione) t. XVI, p. 798.

[658] Il cod. N, 1, 33 della Nazionale di Torino (sec. XIV) contiene
una versione veneziana della versione che Alberto Fiorentino fece del
_De consolatione philosophiae_. In fine è un elogio di Boezio che manca
in questa. Teodorico è vicario dell'imperatore, e la colpa imputatagli
è il tradimento, non contro Teodorico, ma contro l'imperatore. E
pure fautor dell'elogio crede alla santità di Boezio, perchè termina
dicendo: «E lo dito miser san Soverin se degna de apresentar le nostre
pregiere a dio per nui e luy per li suo meriti si aquista che nuy siamo
degni de eser citadini de quela biade citade de vita eterna in secula
seculorum». In una epistola che Jean de Meung prepose alla versione
del _De consolatione philosophiae_ da lui fatta a richiesta di Filippo
il Bello, Boezio non è considerato nemmeno come santo. V. _Histoire
littéraire de la France_, t. XXVIII, p. 411.

[659] Ap. MAI, _Classici auctores e vaticanis codicibus_, t. III, p.
333-4.

[660] Nella Prefazione alla edizione delle opere di Boezio fatta in
Basilea nel 1546.

[661] Nella Prefazione al _De Consolatione philosophiae_ stampato in
Leida nel 1611.

[662] _De processione Spiritus Sancti_, 1, 2, _Opera_, ed. del Froben,
p. 752.

[663] Le opere veramente teologiche attribuite a Boezio, e intorno
alle quali ferve tuttora la disputa, sono le seguenti: _Quomodo
Trinitas unus Deus non tres Dii; Utrum Pater, Filius et Spiritus
Sanctus de Divinitate substantialiter praedicentur; Brevis fidei
christianae complexio; De persona et natura contra Eutychen et
Nestorium_. Questi titoli si trovano spesso variati. Il trattato _De
disciplina scholarium_, che il Baronio credeva ancora autentico, ma
che da tutti indistintamente ora si conosce apocrifo, non è scrittura
di argomento teologico. Oltre ai citati tuttavia, parecchi altri
scritti teologici furono attribuiti a Boezio. Siami lecito a tale
proposito di riportare quanto di Boezio dice PIETRO DE NATALIBUS
nel suo Catalogus Sanctorum, l. IX, c. 99: «Severinus martyr, qui
et Boethius, pro veritate interfectus sub isto nomine in catalogo
martyrum scribitur; dictus Severinus a severitate iudiciorum....... Hic
philosophus eximius divina et humana sapientia pollens, multa nobis
ingenii sui documenta dereliquit. Scripsit enim libros de Trinitate,
de unitate et uno, de ente et essentia, de duobus naturis et una
substantia Christi, de hebdomadibus, de consolatione philosophica
li. V, de scholastica disciplina, Topicorum libros, Aristotelis
libros quos habet bibliotheca latina omnes fere de greco in latinum
convertit sermonem. Scripsit et volumen de musica, de arithmetica,
Categoricorum, Syllogismorum et Hypotheticorum, de deitate ad
Joannem romane ecclesie diaconum, de eiectione primi parentis, item
restauratione humani generis per incarnationem et passionem Christi,
adversus Eutychianos et Nestorianos atque azephalos de incarnatione
domini. Item contra Arrianos, Eunomianos et Apollinaristas libros
fortes et eorum heresim confutantes». È curioso che Ranulfo Higden non
faccia nessuna menzione delle opere teologiche, mentre asserisce che
Boezio compose cinquanta _cantus comicos_. «Iste Boethius in operibus
suis singularis, irreprehensibilis et famosus, lingua Graeca et Latina
primum Romae, deinde Athenis copiosissime imbutus, praeter illos
libros quos in septem artibus aut de novo edidit aut saltem explanavit,
quinquaginta cantus comicos edidit inter quos praecellit ille qui sic
incipit, _O amor Deus deitas_». _Polychron_., l. V, c. 5. Pietro de
Natalibus non fu il solo a dare quella interpretazione, del resto molto
ovvia, del nome di Severino. Nel commentario dello Pseudo-Beda al _De
Trinitate_ dello Pseudo-Boezio si parla dei varii nomi del filosofo,
e tra l'altro vi si dice: «Severinus dictus est, quia ut erat severi
vultus, ita severum habuit animum contra vitia, et tenax fuit in
veritate. — Boethius Graecum est, et latine dicitur adiutor. Boethius
ergo dicitur, eo quod plerumque adiuverit miseros et innocentes, et se
obiecerit periculis, cum eos vellet opprimere Theodericus tyrannus,
et alii Romani principes. Multus etiam haesitantes in fide adiuvit
et confirmavit, ut in libro contra Eutychum et Nestorium et in hoc
opere». GIOVANNI CAVALLINO dice nella _Polihistoria_, l. VIII, c.
II: «De sancto Angelo undecima regione urbis ubi olim fuit templum
Severianum, scilicet a Severo, idest Boetio tunc urbis senatore
conditum, a severitate Severum nuncupatum. Nam Severus satis verus qui
tenet sine pietate iustitiam. Et in eadem regione adhuc hodie manet
quedam progenies que dicitur Severinorum, quam, ut puto, a dicto Boetio
originem traxit et nomen».

[664] Questo dittico fu pubblicato da parecchi e ultimamente dal
Biraghi nell'opera sua testè citata. Il Biraghi riuscì a leggere le
parole che vi si veggono scritte, e che ai predecessori suoi non era
riuscito di decifrare.

[665] Il Biraghi afferma troppo risolutamente che pel rotolo portante
la scritta _In fide Jesu maneam_ debba intendersi la _Brevis fidei
christianae complexio._

[666] _Critico-storica esposizione della vita di San Severino Boezio_,
Pavia, 1782, p. 24.

[667] _Historia Langobardorum_, l. VI, 48.

[668] Et supradicti patricii in alia arca sepulti sunt, quae permanet
usque in presentem diem. _Scriptores rerum langobardicarum et
italicarum saec. VI-IX_ (_Monumenta Germaniae historica_) Annover,
1878, p. 304.

[669] Cap. IV, ap. MURAT. _Script_., t. XI, col. 13.

[670] Giacomo Gualla riporta quei versi medesimi come segue, e non dice
che essi fossero parte solamente dell'epitafio:

    Ecce Boëtius coelo magnus
        Et omni mundo mirificandus homo.
    Qui Thedorico regi delatus iniquo,
        Papiam senium duxit in exilium.
    In quo se moestum solans dedit inde bellum: (sic)
        Post ictus gladio exijt e medio.

_Historiae suae patriae, sanctuarii Papiae appellatae libri sex_,
Pavia, 1587, l. IV, c. 16. Del resto a' suoi tempi quei versi già
più non si leggevano. Il Baronio li reca con nuove varianti, _Annales
ecclesiastici_, anno 536, t. IX, p. 355, ed. del Pagi. La iscrizione
intera fu pubblicata di su un codice della biblioteca di Monza dal
Padre Allegranza a p. 49 del suo trattato _De sepulchris christianis_.
Eccolo:

    In hoc sarcophago jacet Boethius arcto
        Magnus et omnimodo mirificandus homo.
    Hunc Sophya suis prae cunctis compsit alumnis
        Qua sibi grande decus contulit ipse Deus.
    Factus enim consul cum natis ipse duobus
        Romae conspicuus est habitus speculum.
    Sparsa per Europam vulgantur dogmata totam
        Quam fuit et merito clarus et ingenio!
    Nam nobis logogen de graeco transtulit artem
        Commenti genuino quem referat radio.
    Catholicae verum fidei dedit et documentum
        Et nos informat: musica quaeque donat.
    Qui Theodorico delatus est ab iniquo
        Papiae senium duxit in exilium,
    In quo se moestum solans dedit inde libellum,
        Post ictus gladio exivit a medio.

Se non che non si può avere piena certezza che la intera iscrizione
sonasse così veramente; i versi che mancano nell'Anonimo Ticinense o
nel Gualla qualcuno potrebbe averli suppliti di suo capo.

[671] Nella Vita di Boezio preposta alla edizione di Basilea del 1546.

[672] Queste congetture in parte si accordano con quelle espresse
dal Nitzsch nella citata sua opera, p. 13-9, in parte ne discordano.
Il Nitzsch crede che la opinione della santità di Boezio sia sorta
solamente alcuni secoli dopo. Egli non ebbe conoscenza del dittico di
Monza.

[673] V. Nitzsch, op. cit., p. 18.

[674]

    Eu anz, en dies foren ome fello:
    Mal ome foren, aora sunt pejor.
    Volg i Boecis metre quastiazo:
    Auvent la gent fazia en so sermo
    Creessen Deu qui sostenc passio,
    Per lui aurien trastüt redemcio.

Testo di PAOLO MEYER, _Recueil d'anciens textes bas-latins, provençaux
et français_, p. 24-5.

[675] È difficile dire come il poeta sia venuto ad immaginare questo
imperatore. Manlio Torquato sono prenomi dello stesso Boezio.

[676] V. 14161-82.

[677] V. la prima delle tre dissertazioni citate del Bosisio: _Intorno
al luogo del supplizio di Severino Boezio_.

[678] _Monumenta Epternacensia_, ap. PERTZ, _Script._, t. XXIII, p. 41.
Della torre fanno ricordo inoltre Marziano Rota, il Gualla, il Sacco.
Il Bosisio ne dà il disegno nella dissertazione sua testè citata.

[679] Questo scrittore così ne parla nel _De laudibus divinae
sapientiae_, dist. V, v. 405-12:

    Fertur in hoc magnus dormire Boetius in urbe,
      Felix sub tanto consule Roma fuit.
    Transtulit interpres quam plura volumina fidus,
      Insuper obscurum luce serenat opus.
    Qui clarum sidus logicos commenta peregit,
      Qui magnae fructus utilitatis habent.
    Urbs felix radiat tam claris clara patronis
      Exultat tantis curia summa viris.

L'altro patrono di cui qui si fa cenno è Sant'Agostino.

[680] Il Muratori, fondandosi sulla testimonianza dell'Anonimo
Valesiano, che dice Boezio ucciso _in agro Calventiano_, e su quella
di Mario Aventicense, che lo dice ucciso _in territorio Mediolanense_,
opinò che il luogo del supplizio di Boezio fosse il villaggio di
Calvenzano presso Milano (Annali d'Italia, anno 524) e fu in questa
opinione seguito da molti; ma il Bosisio rese molto probabile trattarsi
invece di un agro calvenzano sotto Pavia. Il Quadrio immaginò che
in quel passo dell'Anonimo dovesse leggersi, non _Calventiano_, ma
_Clavennano_, e conchiuse che Boezio fu relegato e poscia ucciso in
Chiavenna, dove egli dice che a' suoi tempi durava ancora la memoria
del fatto. (_Dissertazioni sulla Valtellina_ t. III, diss. I, §
24; _Storia di ogni poesia_, v. I, p. 200). Il Suttner seguì questa
opinione, non sorretta da nessuna prova, nel citato suo scritto, p. 1,
13. Giova dire del resto che Pavia lascia ancor essa qualche dubbio,
giacchè, com'ebbe ad osservare il Papebroch negli _Acta Sanctorum_
(t. VI di Maggio, p. 52) Boezio, che non nomina il luogo della sua
relegazione, dice nondimeno che esso trovavasi a cinquecentomila passi
da Roma, distanza che di troppo eccede quella ond'e da Roma separata
Pavia.

[681] _Chronicon, Coll. de chron. belges inéd._, p. 631. Jacopo della
Lana, al c. X del _Paradiso_, non dice altro se non che Boezio scrisse
il trattato _De Consolatione philosophiae, essendo esulo da Roma_.

[682] _De scriptoribus ecclesiasticis_, s. n. _Boethius_.

[683] «Rex vero vocavit Eusebium, praefectum urbis Ticini, et inaudito
Boetio, protulit in eum sententiam. Quem mox in agro Calventiano ubi
in custodia habebatur, misit rex, et fecit occidi. Qui accepta chorda,
in fronte diutissime tortus, ita ut oculi ejus creparent, sic sub
tormenta ad ultimum cum fuste occiditur». È noto che fustis nel latino
barbaro significò anche asta, scure, spada: ma mi par più probabile
che l'Anonimo abbia voluto significare appunto il bastone, strumento
più barbaro di supplizio e che meglio corrisponde all'atrocità della
precedente tortura.

[684] Cod. Chigiano I, VII, 259, f. 144 v., col. 1ª.

[685] MABILLON, _Acta Sanctorum ordinis S. Benedicti_, saec. I, p. 48.

[686] Egli dice di Boezio che «sancti Benedicti constat amicitiam
habuisse, et in monte Cassino cum Tertullio Placidi monachi patre
senatore in ejus mensa comedisse».

[687] Commento al _Parad_., c. X, v. 127.

[688] Ticini incolae semper a maioribus traditum constanter asseverant
Severinus, cum regius spiculator laetale vulnus intulisset, utraque
manu divulsum caput sustinuisse, interrogatumque a quonam se percussus
existimaret, ab impiis respondisse; atque ita cum in vicinum templum
venisset, et flexis genibus ante altare sacra percepisset, post paulum
expirasse. Extinctus divinos honores a nostris consecutus est, quod pro
catholicis contra perfidiam Arrii mortem sustinuerit.

[689] _Epistol_. l. 1, 45.

[690] _Chronicon_, l. III, c. 10, ap. CANISIUS, _Lectiones antiquae_,
ed. del Basnage, t. II, parte 1ª, pag. 191.

[691] _De bello gothico_, I, 1.

[692] _Dialog_., l. IV, c. 30.

[693] Fra questi ripetitori mi basterà di ricordare Roderico
arcivescovo di Toledo (_Ostrogothorum historia_, c. IV, ap. Schott,
Hispania illustrata, v. II, p. 150); _Historia miscella_, 103;
_Spicilegium Ravennatis Historiae_, ap. MURAT., _Script_., t.
I, parte 1ª, p. 577; GALVAGNO FIAMMA, _Manipulus Florum_, c. LI;
_Kaiserchronik_, v. 14183-94; OTTONE DI FRISINGA, _Chronicon_, l.
V, c. 3; _Libro de los enxemplos_, XLIII; HANS SACHS, _Boecii, des
christlichen philosophi und poeten history_.

[694] Dice il Mone a tale proposito (_Die Sage vom Pilatus, Anzeiger
für Kunde der teutschen Vorzeit_, 1835, col. 423): «Queste leggende
senza dubbio derivano da miti dell'antichità, e cioè da quelli di
Tifone oppresso dall'Etna, e dei Titani sepolti nel Tartaro; per la
qual cosa anche del monte di Pilato si dice che un tempo vomitasse
fiamme». Io non credo che bisogni rimontar tant'alto. La credenza
comune nel medio evo che i vulcani fossero bocche dell'inferno basta a
dar ragione di quelle leggende, e tale credenza in tempi d'ignoranza
e di superstizione è così ovvia e così naturale che non fa mestieri
di appoggiarla alla tradizione classica. Alberico delle Tre Fontane
dice parlando dell'Etna:...... «olla Vulcani de Sicilia, ad quam
morientium animae damnatorum ad comburendum, ut saepe probatum est,
quotidie pertrahuntur». In una storia narrata da Pier Damiano, e
riferita dal Passavanti (_Specchio della vera penitenza_, dist. III,
c. 3) una vampa che esce dall'Etna è considerata quale segno della
prossima morte di un grande che sarà dannato. Più di un riscontro con
la leggenda di Teodorico, quale è narrata da Gregorio Magno, presenta
la leggenda di re Dagoberto (m. nel 638) riferita da parecchi, e tra
gli altri da Aimoino, monaco di Fleury, sul finire del X secolo. (_De
gestis Francorum_, l. IV, c. 34, ap. BOUQUET, _Recueil des historiens
de la Gaule_, t. III, p. 135). Si narra in essa che Ansoaldo, vescovo
di Poitiers, tornando di Sicilia, approdò ad una piccola isola, di cui
non si dice il nome, ma che assai probabilmente è quella medesima isola
di Lipari che figura nel racconto di Gregorio Magno. Dimorava quivi
un santo eremita per nome Giovanni, il quale narrò al vescovo come
una volta egli, mentre giaceva immerso nel sonno, fosse destato da un
vecchio, il quale gli disse che in quel giorno medesimo re Dagoberto
era morto, e gli raccomandò di pregare per l'anima dell'estinto. Quando
ebbe ciò fatto, il solitario vide venir pel mare una barca piena di
demonii, che ne portavano l'anima di Dagoberto ai _Vulcania loca_; ma
in quella appunto, avendo il re invocato in suo ajuto San Dionisio, San
Maurizio, e San Martino, questi santi scesero folgoreggiando dal cielo,
liberarono il prigioniero dalle mani dei diavoli, e seco lo levarono
in cielo. V. altre storie affini narrate da CESARIO DI HEISTERBACH nel
_Dialogus miracolorum_, dist. XII, c. 7, 8, 9, 13; v. anche HAPPEL,
_Relationes curiosae_, v. II, p. 143.

[695] Cod. cit., f. 145 r., col 2ª.

[696] V. P. E. MUELLER, _Sagabibliothek_, Kopenhagen, 1817-20 v. II,
p. 289 segg.; _Saga Thidreks konungs af Bern, udgivet af C. R. Unger_,
Cristiania, 1855. Cf. W. Grimm, _Die deutsche Heldensage_, Gottinga,
1829, p. 39.

[697] St. 131-2:

        Vad ist auch noch pey leben
    herr Diterich von Pern;
    got thet jm pus zu geben,
    das mugt ihr horn gern:
    eyns tags er sich verjache
    zu Peren in der stat,
    von red dasselb geschache,
    das was des teuffels rot.
        Dor vmb ward er beruret
    von eynem ros vorein,
    vnd wurd do hin gefuret,
    das mocht der teuffel seyn,
    dor auf do must er reiden
    in die wust Rumeney:
    mit wurmen mus er streiden
    pis vos der jungstag wont pey.

_Das Heldenbuch Kaspars von der Rön_, p. 60, VON DER HAGEN und
PRIMISSER, _Der Heldenbuch in der Ursprache_, parte 2ª, Berlino, 1825.
_Pern_ è Verona; _Rumeney_ qui probabilmente, secondo la congettura del
Mone, (Heldensage, p. 66), sta per le paludi della Romagna.

[698] MASSMANN, op. cit., v. III, p. 951-2.

[699] V. J. GRIMM, _Deutsche Mythologie_, IV ed., p. 781.

[700] Cf. MAFFEI, _Verona illustrata_, v. III, 120.

[701] Notisi lo somiglianza che è tra questo nome _Diatrichus_ e il
_Dietrich_ tedesco.

[702] Non è senza curiosità il trovare questa stessa leggenda passata
in Ispagna, tuttochè con qualche alterazione. Nel _Libro de los
enxemplos_, XLIII, si legge:..... «Teodorico, stando en el baño á
deshora, fué turbado é comenzó de dar muy gran voces: ««Ven, diablo,
ven, é llévame»». É luego vino un caballero escuro é tenebroso en cima
de un caballo muy negro, é lanzaba por la boca é por las narices llamas
de fuego. É dijo al rey que le llamaba: ««Vesme aquí, que me llamaste,
pues sube é llevaréte»». É él con gran furia é muy gran saña, embriago
é ciego, salió del banno desnuyo, é de su propia voluntad subió en
el caballo, é ansi fué llevado al fuego de los diablos, á los cuales
siempre servirá».

[703] V. MAFFEI, _Verona illustrata_, loc. cit.; VON DER HAGEN, _Brief
in die Heimat_, Breslavia, 1818-21, v. II, p. 60-1.

[704] _Spicilegium Ravennatis Historiae_, l. c.: «Sepultusque est
dictus Theodoricus in Mausoleo, quod ipso aedificari jussit extra
portam Anthenonis, quod usque hodie vocamus ad Factum, ubi est
Monasterium Sanctae Mariae Rotundae, quod dicitur ad memoriam Regis
Theoderici. Deinde ex sepulcro eiectus est et urna, in qua jacuit,
ex prophyretico lapide valde mirabilis ante ipsius Monasterii aditum
posita est, quam ibi cernimus usque in praesentem diem». Qui è da
ricordare che, a dispetto dell'infamia a cui soggiacque, il nome di
Teodorico rimase congiunto in Italia con altre fabbriche cospicue.
Abbiamo veduto che la Mole Adriana in Roma, e l'anfiteatro di Verona si
chiamarono entrambi un tempo _Domus Theoderici_ (v. I, p. 133-34). In
Terracina si mostrano ancora gli avanzi di un sopposto teatro o palazzo
di Teodorico.

[705] V. BEUGNOT, _Histoire de la destruction du paganisme en
Occident_, Parigi, 1835, v. II, p. 271.

[706] MAURY, _La magie et l'astrologie dans l'antiquité et au moyen
âge_, IV ed., Parigi, 1877, p. 154.

[707] Id., ibid., p. 155.

[708] V. WERNSDORF, _De origine solemn. natal. Chr. ex festiv. Natalis
Invicti_, Vittemberga, 1757.

[709] Giustamente osserva a tale proposito il Beugnot nella testè
citata sua opera, v. II, p. 342: «Si toute civilisation lègue à celle
qui lui succède une partie de ses éléments, aucune n'a du laisser
après elle un héritage plus riche que la civilisation romaine, car
elle reposait sur de larges bases et elle avait profondément pénétré
dans les moeurs. Le christianisme ne négligea rien pour que les
peuples de l'Europe répudiassent cet héritage, mais ses efforts furent
en partie impuissants, et une multitude de croyances absurdes, de
pratiques ridicules et d'erreurs dangereuses issues clairement du culte
romain s'enracinèrent dans la société chrétienne et y existent encore
aujourd'hui».

[710] Ep. 142 _ad Zachariam_.

[711] Sermone III e XIII, ap. MAI, _Scriptores veteres_, v. VI,
parte II, p. 13-15, 32. Cf. LIUDPRANDO, _Antapodosis_, l. II, c. 13;
_Historia Ottonis_, c. 10, 12.

[712] _Hamartigenia_, v. 820.

[713] _Commentarii in Genesim_, I.

[714] Maury, Op. cit., p. 168-9. Badisi tuttavia che ciò è
vero soltanto di quelle descrizioni dell'inferno che hanno più
particolarmente il carattere letterario. Nelle Visioni, come quelle di
Tundalo, di Owen, di Alberico, l'inferno che si descrive non ha quasi
più nulla di comune con l'inferno classico.

[715] _De Babilonia civitate infernali_, v. 37-8. MUSSAFIA, _Monumenti
antichi di dialetti italiani, Sitzungsb. d. k. Akad. d. Wissensch.,
philos.-hist. Cl._, v. XLVI, Vienna, 1864, p. 147.

[716] V. 20212-40, ed. di F. Michel, v. II, p. 272-3.

[717] _Anticlaudianus_, VIII, 3:

    Tartareas ruit in sedes, ubi regnat Erinnys,
    Imperat Alecto, leges dictante Megaera.

Merita d'esser notato, dice a tale proposito il Piper, _Mith. d.
christl. Kunst_, v. I, p. 239, n. 4, che parte del penultimo verso e
tutto l'ultimo si trovano introdotti nella invocazione a Dio che sta in
principio della Bolla d'oro di Carlo IV, dell'anno 1356. Quivi si dice:

    Omnipotens eterne deus, spes unica mundi,
    Qui celi fabricator ades, qui conditor orbis,
    Tu populi memor este tui, sic mitis ab alto
    Prospice, ne gressum faciat ubi regnat Erinis,
    Imperat Allecto, leges dictante Megaera.

[718] V. SIGEBERTO GEMBLACENSE, _Chronographia_, ad a. 998.

[719] V. nei _Mirabilia_ la lunga lista dei templi.

[720] Cf. DANTE, _Inferno_, c. XIII, v. 143-50. GIOVANNI VILLANI, _Ist.
fior._, l. I, c. 42, 56. Alla protezione che Firenze si credeva avere
dal simulacro di Marte pare che alluda Fazio degli Uberti nella canzone
che comincia: _Quel che distinse 'l mondo in tre parti_, là dove dice:

    Poichè fortuna nel viso ti ride
      A te dico, Firenze, chiara luce,
      Segui chi ti conduce;
      Il forte Marte, col voler di Giove,
      Onora le tue rede, in cui conduce
      Vivezza, e in te produce
      Bellezza, in te d'ogni corone nove.

Testo di E. SARTESCHI, _Poesie minori del secolo XIV, Sc. d. cur.
lett._, disp. LXXVII, 1867, p. 11-14.

[721] _De Civitate Dei_, l. VI, c. 9.

[722] _Laisnel de la Salle_, _Croyances et légendes du centre de la
France_, Parigi, 1875, v. I, p. 319.

[723] DU CANGE, _Glossarium_, s. v. _Dianum_.

[724] VINCENZO BELLOVACENSE, _Spec. hist._, l. XIII, c. 71. Wace
racconta nel Roman de Brut, che, tornando di Grecia, Bruto sbarcò in
Africa, dove trovò una città distrutta con un antico tempio di Diana.

    L'image i est d'une deuesse
    Diane une deuineresse,
    Diables ert qui cele gent
    Déceuoit par encantement.

[725] Il lungo passo del poema dove incontra questa singolarità merita
di essere riferito per intero. — Non soccorrendomi ora la edizione
che ne diede il Tarbé nella _Collection des poëtes champenois_ (Reims,
1858) lo traggo dal cod. L, V, 32 della Nazionale di Torino, f. 5 r.,
col. 2ª, v., col. 1ª.

    Antecrist issi de la vilhe,
      Bachelers menoit bien X. milhe,
      Dont li pires portoit banniere.
      Onques conpangnie plus fiere
      Ne mena Herodes ne Heracles
      L'escut ot noir a fauz miracles,
      Ki trop estoit parans et biauz;
      Charbocles est de dyablauz
      A vn crochet de dampnement.
      Escrit portoit son vingement
      En vne bende trop eslite,
      Car ele estoit de mort sobite
      Fretee de pechies mortez.
      Por ce c'on en voit poi de tez
      Me plaisoit trop a esgarder.
      Onkes nus por son cors garder
      Ne fu miex montes en estour:
      Plus fors estoit que vne tour
      Li cheuauz mors v le lor siet;
      Vn hyame ot ki trop bien li sist;
      Proserpine li ot donne;
      Mult l'a bien et bel ordene
      En infer par grant deruerie.
      De ce vint la grans ialosie
      Dont Pluto l'ot por sospecheuse;
      Mes ele estoit si dedengneuse
      K'ansi tost se feist larder
      Pour lui, k'ele se dengnast garder,
      Tant estoit d'Antecrist esprise.
      Bien valoient tot l'or de Frise
      Les armes que Antecrist portoit.
      Si gentement se deportoit
      Ke ce n'est se merueille non.
      Beelzebub son confanon
      Porte et met auant et desploie;[destent?]
      .I. dyable a vn serpent
      Vi conbatre enmi la banniere.
      Proserpine, s'amie chiere
      Les i asist a ses douz mains.
      Cent mars valoit et non pas mains
      La gaigne cant la hante ot mise,
      Qu'ele ot faite de sa chemise.
    Ou Antecrist vint Iupiter,
      Et tuiz il grant baron d'infer,
      Dont il i out .X. mil v plus.
      Iupiter deleis Arturnus[L. Saturnus.]
      Cheuauche et Apolin le preu:
      Mercurius fist bien son preu,
      Et Hercules li preus, li biauz.
      Pour faire gaintes et cenbiaz
      I vindrent Neptu(r)nus et Mars.
      Tous li pires valoit .c. mars
      De leur cheuaux, sens nule dote,
      Et en cele meisme route
      Estoit Pluto et Proserpine,
      Li roi d'infer et la reine,
      Et Megea[Megere?], lor damoiselle.
      Mult par fu cele route belle
      Quant Cerberus i fu venus.
      Ichil pour maistre fu tenus
      Pour ce que trois testes auoit.
      Chascuns de ces barons portoit
      L'escu noir a croce de fer,
      Chauz et ardans de feu d'infer
      Qua l'escu porprent et sormonte.

Nel l. X dell'_Alexandreis_ Gualtiero di Chatillon descrive un consesso
infernale in cui Cerbero annunzia la venuta di Cristo e il suo trionfo
sulle potestà delle tenebre. Per Dante, Plutone e Caronte sono demonii,
e demonio è Caronte per Heinrich von Weldeke:

    es was ein tûvel, niht ein man,
    und was geheizen Chârô.

_De Êneide_, ed. di L. Ettmüller, Lipsia, 1852, col. 92.

[726] V. 63-206. Circa la fonte latina di queste fantasie, v. Massmann,
v. III, p. 296-301.

[727] Nel testo latino, in cui il Massmann riconobbe la fonte
di quanto a proposito dei giorni della settimana si dice nella
_Kaiserchronik_, del giovedì così si parla (v. III, p. 412): «Quinta
feria Romani solempnizantes convenerunt ad templum ubi libamina
largissima deferebant, quod consecratum fuit magno deo, qui Jupiter
dicebatur, ubi varius nitor auri oculos inebriabat, ignis cum thure,
cum a primo structum fuit, ardere non desiit; insuper arte mechanica
in eodem templo quaedam fabricatae fuerant fistulae, quae rores et
pluvias admodum distillabant, quas centum balistarum fusi ex aere
circumstabant, quod totum Romani ad honorem Jovis fecerant, et ut
exinde homines mirarentur». Il tempio qui ricordato vuol essere
probabilmente il Colosseo, intorno alle cui meraviglie v. vol. I, p.
122-30.

[728] V. per quanto concerne il Pantheon, v. I, p. 130-2.

[729] Filippo di Thaun dice che i Romani consacrarono la domenica e
il lunedì al sole e alla luna, e gli altri giorni agli dei che più
avevano in pregio; ma parecchi di questi pretesi dei per lui non sono,
conformemente all'altra opinione accennata, se non uomini provveduti di
certe virtù, o valenti in certe arti.

    Les altres jurz dunerent as dés que il amerent.
      Quatre dés aurouvent, le un Martem apelouvent;
      Chevalers fud vallanz, hardiz, et cumbatanz;
      En la sue onur poserent terz jur:
      Cel Marsdi apelum, sulunc la lur raisun.
    Li secund dés out num Marcurius par num;
      Pruz hom fud e vaillant, e al fud marchant:
      Le quart jur li dunerent, que Mecredi numerent.
      Li terz dès senz dutance seut mult de nigramance;
      Art est de tel ballie cum est garmanterie;
      Que Jovem apelerent, le Jusdi li dunerent.

_Livres des créatures_, ed. cit., p. 27.

[730] I _Mirabilia_ fanno ricordo di tre templi di Venere in Roma,
l'uno in _Calcarari_, l'altro in San Pietro in Vincoli, il terzo _in
capite Trevii, ubi hactenus dicitur hortus Veneris._

[731] V. CHASTEL, _Histoire de la destruction du paganisme dans
l'empire d'Orient_, Parigi 1850, p. 306.

[732] V. LEBEAU, _Histoire du Bas-Empire_, ed. del De Saint Martin, v.
XI, p. 305.

[733] LIUDPRANDO, _Historia Ottonis_, ap. PERTZ, _Script_., t. III, p.
345, 346.

[734] Id., _Antapodosis_, IV, 13, III, 19.

[735] Alcuni pochi esempii potranno bastare. Carmina burana, p. 218:

    Venus urit
    amor furit.

P. 228:

    Venus, mihi subvenias,
    tuam iam colo gratiam.

P. 187:

    Venus quae est et erat,
    tela sua proferat
    in amantes puellas.

[736] V. 19-20, ap. WRIGHT, _The Latin Poems commonly attributed to
Valter Mapes_, p. 72.

[737] St. 559.

[738] Ed. F. Michel, v. 4032-49.

[739] Pubblicato da W. Foerster, Bonna, 1880.

[740] St. 209-16, 218.

[741] Pubblicato dal D'ANCONA, _Giornale di filologia romanza_, num. 2,
pag. 115-8.

[742] È noto che i trovatori provenzali personificarono l'amore ad
imitazione degli antichi. Alcuna volta essi lo rappresentarono in
figura di garzone, ma più spesso, essendo _amor_ femminile nella lor
lingua, in figura di giovane donna armata di lancia, o di frecce. V.
Diez, _Die Poesie der Troubadours_, p. 139-40. Guglielmo di Lorris fa
del dio d'amore un'assai viva descrizione nel _Roman de la Rose_, e la
conchiude dicendo (v. 906-7):

    Il sembloit que ce fust uns anges
    Qui fust tantost venus du ciau.

[743] V. per un esempio tra mille ciò che del pianeta di Venere dice
RISTORO D'AREZZO nella _Composizione del mondo_, l. III, c. 5.

[744] V. 4367-9.

[745] JUBINAL, _Nouveau recueil de fabliaux et de contes inédits des
poètes français des XIIe, XIIIe et XIVe siècles_, Parigi, 1823, v. I,
p. 379.

[746] _Parad_., c. VIII, v. 2-3.

[747] L. IX, c. 5:

    Nunc alget meus ille meus calor, immo caminus,
    Qui Solis flammas urit, succendit in undis
    Neptunum, Bacchum bacchari cogit et ipsum
    Fulminat igne Jovem, Superis furatur honorem
    Numinis et multos cogit servire potentes.
    Nunc mea tela jacent quibus olim victus Achilles
    Cessit, degeneri mentitus veste puellam.

[748] Cod. c. III, 18.

[749] Filippo di Thaun dice addirittura la regina dell'inferno:

    E Venus une femme, ki estait de lur regné,
    De enfern est reine dame, là ert sa poesté.

_Livre des créatures_, cd. cit., p. 28.

[750] _De gestis regum anglorum_, ap. PERTZ, _Script_., t. X, p. 471-2.

[751] _Spec. hist._, l. XXVI, c. 20.

[752] _Flores historiarum_, ad a. 1058.

[753] _Abbreviationes chronicorum_, ap. TWYSDEN, _Historiae anglicanae
scriptores X_, v. I, col. 471.

[754] _De eventibus Angliae_, l. I, c. 13, ap. Twysden, v. II, col.
2335.

[755] _Chronicon_, ap. Twysden, v. I, col. 950. Qualche altro ne cita
il BARING-GOULD, _The Mountain of Venus in Curious myths of the middle
ages_, Londra, 1877, p. 224. Ricordano la leggenda anche parecchi
trattatisti di arte magica, come il NIEDER nel _Formicarium_, c. V. Cf.
MASSMANN, v. III, p. 929.

[756] L. VI.

[757] La storia di Pigmalione porgeva buon argomento a narrazioni
romantiche; essa è assai lungamente raccontata nel _Roman de la Rose_,
ed. Michel, v. 21802-22183.

[758] V. EUSEBIO, _Vita Constantini Magni imperatoris_, l. III, c. 42,
53, 54, 56.

[759] _Polychron_., l. I, c. 24.

[760] Op. cit., p. 226.

[761] _De doctrina christiana_, l. 23.

[762] J. GRIMM, _Deutsche Mythologie_, IV, ed., v. II, p. 779-80.

[763] Id., ibid., p. 767.

[764] V. 13083-392.

[765] Di questa statua si dice che si levava sopra tutta la città di
Roma:

    sie ubirtriffet ze Röme alle die stat,
    also man hiute wol kiesen mac.

[766] _Historia Scotorum_, l. VIII.

[767] _Dialogus miraculorum_, dist. Vª, c. 4.

[768] _Spec, hist._, l. VIII, c. 87.

[769] Pelbarto cita come sue fonti il _Mariale Magnum_ e la _Scala
coeli_; ma in quest'opera a me non venne fatto di ritrovare il
racconto.

[770] Il cod. Fr. 1805 della Bibliothèque nationale di Parigi dal f. 36
v. al 37 v. contiene un racconto intitolato _Du clerc qui donna l'anel
a vne femme laquelle espousa_, nel quale si nota questa particolarità
che il giovane chierico, destandosi, trova la Vergine coricata fra sè e
la sposa, come il giovane patrizio romano trova Venere.

[771] Pubblicato da Bernardo Pez nel volume intitolato _Ven. Agnetis
Blannbekin, quae sub Rudolpho Habspurgico et Alberto I. Austriacis
Impp. Viennae floruit, Vita et Revelationes_, Vienna, 1731, da p. 303
a 456. Questo libro è tra i rarissimi perchè fu proibito e ne furono
distrutte quante copie se ne poterono avere.

[772] _Bonum universale de apibus,_ l. II, c. XXIX, 6. Nulla ha che
fare con queste una leggenda contenuta nel cod. E, 5, 10, 55 della
Nazionale di Firenze, f. 26 v. a 28 v., e intitolata: _D'uno re
d'Inghilterra il cui anello la Vergine Maria si misse in dito et poi
gliele rimandò._

[773] Bartolommeo da Trento, morto nel 1240, così la riferisce nel
suo Leggendario: «Paulinus, sacerdos huius ecclesiae (scil. Romae),
mira carnis temptatione vexabatur, et cum nollet Deum offendere, a
summo pontifice petiit dispensationem contrahendi. Cuius bonitatem
papa intuens, anulum ei cum smaragdo dedit, et iussit ut supra altare
in ciborium, ubi picta est Agnetis ymago formosa ascenderet, et ei
ex parte pape preciperet ut se permitteret sibi desponsari. Illa
continuo digitum anularem porrigens, et anulo suscepto retrahens, omnem
tentationem a sacerdote fugavit. Ille qui vidit ymaginem et anulum
hoc testatur». Quasi con queste medesime parole narra il miracolo
Giacomo da Voragine nella _Legenda aurea_, c. XXIV, 4. Hermann von
Fritslar abbrevia alquanto il racconto (_Das Heiligenleben_, ed. cit.,
p. 69). Se ne parla anche in uno dei capitoli aggiunti ai _Mirabilia_
(ed. del Parthey, p. 61), dove il sacerdote si chiama Giovanni e il
papa Pascasio, e nelle Cronache di Sant'Egidio, dove quegli ha nome
Leopardo, e questi Innocenzo.

[774] V., per quanto concerne la leggenda di Tannhäuser, GRAESSE, _Der
Tannhäuser und Ewige Jude_, Dresda, 1861.

[775] V. KORNMANN, _Mons Veneris_, Francoforte, 1614, c. XVI, _De
monte Veneris prope Nursinum in Italia_; REUMONT, _Saggi di storia e di
letteratura_, Firenze, 1880, p. 378 e segg., _Della esistenza del Monte
di Venere in Italia_.

[776] _Das Buch der Natur, herausgegeben von Franz Pfeiffer_,
Stoccarda, 1862, p. 62: «dar umb spricht manger: Venus, hilf auz! der
nicht waiz, waz Venus ist».

[777]

    Felicia, Sibillen kint,
    und Iuno, die mit Artus in dem berge sint.

H. VON DER HAGEN, _Minnesinger_, Lipsia, 1838, v. III, p. 182.

[778] Rabano Mauro non coglie più il pieno significato di
quell'ingiurioso appellativo, con particolare intenzione usato contro
Roma, quando dice, _Adversus gentes_, c. LXX: «Beatus quoque Petrus
apostolus in epistola sua prima tropologice Romam Babyloniam appellat,
sed utique in impiis et infidelibus, non piis et fidelibus. Sicut enim
toto in mundo in justis et fidelibus hominibus Israhel, id est civitas
Dei diffusa est, et rursum in impiis et peccatoribus Babylon, quae est
civitas diaboli, in toto orbe terrarum dilatata est, ita et Roma vel
quaelibet civitas in electis Dei Jherusalem, in reprobis vere Babylonia
est».

[779] _Adversus gentes,_ VII.

[780] _Peristephanon_, hymn. II, st. 105.

[781] Cf. _Lasaulx_, Der Untergang des Hellenismus, Monaco, 1854, p. 12.

[782] V. MONE, _Lateinische und griechische Messen aus dem zweiten bis
sechsten Jahrhundert_, Francoforte sul Meno, 1850, p. 110.

[783] L'_Invectiva_ fu pubblicata prima dal Bianchini, poi dal Migne,
ultimamente dal DUEMMLER, _Gesta Berengarii_, Halle, 1871, p. 138-54.

[784] V. più particolarmente il c. 15 del l. I del _De Civitate Dei_.
V. anche la epistola V _ad Marcellinum_.

[785] Nec dubium quin omnium cognitioni, fidei, inspectionique
pateat, quod dominus noster Jhesus Christus hanc urbem nutu suo auctam
defensamque, in hunc rerum apicem provexerit, cuius potissime voluit
esse cum venit, dicendus utique civis Romanus, census professione
Romani.

[786] In _Symmachum_, l. II, v. 102-11:

      Vis dicam quae causa tuos, Romane, labores
    In tantum extulerit? quis gloria fortibus aucta
    Sic cluat, impositis ut mundum frenet habenis?
    Discordes linguis populos, et dissona cultu
    Regna volens sociare Deus, subjungier uni
    Imperio quicquid tractabile moribus esset,
    Concordique jugo retinacula mollia ferre
    Constituit, quo corda hominum conjuncta teneret
    Relligionis amor: nec enim fit copula Christo
    Digna, nisi implicitas societ mens unica gentes.

[787] Vol. I, c. 8.

[788] Hanc nimirum viam per universum mundum de regno in regnum iubente
Augusto imperatore, nascente in terra Christo salvatore, factam esse
audivimus, immo et hoc ipsum in Romana historia scriptum vidimus.
_Iocundi Translatio S. Servatii_, ap. PERTZ, _Script_., t. XII, p. 92.

[789] V. p. 96 e segg. di questo volume.

[790] _Inf_., c. II, V. 23-4.

[791] V. vol. I, p. 47.

[792] L. V, c. 17.

[793] Nella più volte citata _Storia di Stefano figliuolo di un
imperatore di Roma_, al canto XXII, s'introducono a discutere della
Trinità per segni alla muta un ambasciatore cartaginese e un Romano
pazzo.

[794] Se San Pietro sia mai stato a Roma fu da molti discusso in
questi ultimi tempi. Le prove storiche per risolvere la questione fanno
difetto, ma che egli vi andasse e vi soffrisse il martirio fu ammesso
come cosa molto probabile da eruditi di grande autorità, e fra gli
altri dal Renan, non troppo tenero, come tutti sanno, delle pretensioni
e delle favole papali. Cf. DOELLINGER, _Christenthum und Kirche_,
Regensburg, 1860, p. 90.

[795] V. quanto si dice a tale proposito nell'_Initium disceptationis
cuiusdam graeci, et quorundam Caldenariorum ex veteri Roma_, ap.
GOLDAST, _Monarchia_, t. I, p. 242.

[796] Lo stesso Benzone nel suo servilissimo panegirico di Enrico IV
dice, dopo aver descritta la processione imperiale:

    Resultat Roma gaudiis, laudes refert apostolis,
    Per quorum sanctum meritum Roma tenet imperium.

Ap. PERTZ, _Script_., t. XI, p. 603. Tommaso Cantipratano dice nel
_Bonum universale de apibus_, l. I, c. 111, 2: «Petrus proiecto reti
et navicula derelicta, Romanum subegit imperium». Nella narrazione dei
miracoli di Sant'Emmerammo, composta fra il 1035 e il 1037, si legge:
Haec autem, id est Roma,..... per eundem apostolum (_Petrum_) et per
successores illius humiliata sub potentia Christi, ex civitate diaboli
facta est civitas Dei». Ap. PERTZ, _Scrip_., t. IV, p. 567.

[797] _Vita di Cola di Rienzo_, l. II, c. II, ap. MURAT., _Antiq.
ital._, t. III, col. 403.

[798] Purgat., c. XXI, v. 101-2.

[799] Intorno alla conversione ad usi del culto cristiano di cose che
avevano servito al culto pagano, v. MARANGONI, _Delle cose gentilesche
e profane trasportate ad uso e ad ornamento delle chiese_, Roma,
1744. Quanto ai simulacri delle antiche divinità v. PRUDENZIO _Contra
Symmachum_, I, v. 502-6.

[800] Ap. MAI, _Spicilegium vaticanum_, t. IX, p. 350.

[801] Gioverà qui riportare testualmente una poesia d'Ildeberto
Cenomanense, della quale diedi già una breve analisi (v. I, p. 35).

    Dum simulacra mihi, dum numina vana placerent,
      Militia, populo, moenibus alta fui:
    At simul effigies arasque superstitiosas
      Dejiciens uni sum famulata Deo,
    Cesserunt arces, ceciderunt palatia divum,
      Servivit populus, degeneravit eques.
    Vix scio quae fuerim, vix Romae Roma recordor,
      Vix sinit occasus vel meminisse mei.
    Gratior haec jactura mihi successibus illis;
      Major sum pauper divite, stante jacens.
    Plus aquilis vexilla crucis, plus Caesare Petrus,
      Plus cunctis ducibus vulgus inerme dedit.
    Stans domui terras, infernum diruta pulso;
      Corpora stans, animas fracta jacensque rego.
    Tunc miserae plebi, modo principibus tenebrarum
      Impero; tunc urbes, nunc mea regna polus.
    Quae ne Caesaribus videar debere vel armis,
      Et species rerum meque meosque trahat,
    Armorum vis illa perit, ruit alta senatus
      Gloria, procumbunt templa, theatra jacent,
    Rostra vacant, edicta silent, sua praemia desunt
      Emeritis, populo jura, colonus agris;
    Durus eques, judex rigidus, plebe libera quondam
      Quaerit, amat, patitur otia, lucrum, jugum.
    Ista jacent, ne forte meus spem ponat in illis
      Civis et evacuet spemque bonumque crucis.
    Crux sedes alias, alios promittit honores,
      Militibus tribuens regna superna suis.
    Sub cruce rex servit, sed liber; lege tenetur,
      Sed diadema gerens; jussa tramit sed amat.
    Fundit avarus opes, sed abundat; foenerat idem,
      Sed bene custodit si super astra locat.
    Quis gladio Caesar, quis sollicitudine consul,
      Quis rethor lingua, quae mea castra manu
    Tanta dedere mihi? Studiis et legibus horum
      Obtinui terras; crux dedit una polum.

Alessandro Neckam dice nel _De laudibus divinae sapientiae_, dist. Vª,
v. 235-6:

    Caesaribus major Petrus solium tenet orbis,
      Et claves coeli, pontificalis honos.

Il Marini espresse su per giù gli stessi pensieri nel seguente sonetto:

    Roma, cadesti, è ver: già le famose
      Pompe del Tebro, e 'l gran nome Latino,
      E le glorie di Marte e di Quirino
      Co' denti eterni il Re degli anni ha rose.
    Te per le tombe e le ruine herbose
      In van cerca dolente il peregrino,
      Che di Celio le rocche e d'Aventino
      Giaccion tra l'erbe a se medesime ascose.
    Ma sorta ecco ti veggio et al governo
      Siede di te non rio tiranno e fero,
      Ma chi dolce su l'alme ha scettro eterno.
    Reggesti il fren dell'Universo intero,
      Hor del Ciel trionfante e dell'Inferno
      Fatto hai con Dio comune il somme impero.

[802] Ap. MIGNE, _Patrologia latina_, t. CXLVII, p. 1220.

[803] DANIEL, _Thesaurus hymnologicus_, v. I. p. 157.

[804] Epistola di Clemente V a Giovanni Ambaldo proconsole dei Romani,
dell'anno 1268. «Ab antiquis retro temporibus Urbs Romana contumaces
sibi subjiciens nationes, et regum plurium balteis dissolutis, in
superbiam posita, sanctorum apostolorum demum honorata praesentia, et
eorundem sanguine consecrata, illum excellentiae gradum attigit, ut
in ea praelationis duplicis, sacerdotii scilicet et imperii collocata
fastigio, corporali spatio minor orbe, major dignitate, cuilibet non
tam jure quam suis viribus antea praefuisset; ex tunc tamen titulo
meliori praelata pontificalis honorem cathedrae divinae beneplacito
voluntatis obtinuit, et imperialis excellentiae gloriam, quam
demeruerat non amisit». Ap. MARTENE et DURAND, _Thesaurus anecdotorum_,
t. II, col. 591-2.

[805] Da altra banda era pur naturale che genti e città, qua e là
per l'Europa, pretendessero di fare quanto più antica fosse possibile
la loro conversione. I Bretoni si vantavano d'aver ricevuto la fede
da Giuseppe di Arimatea e da San Paolo. La città di Cesaraugusta
in Ispagna pretendeva di avere avuto la prima chiesa cristiana.
(_Chronicon rerum hispanicarum a nativitate Christi usque ad annum
millesimum vigesimum_, ap. SCHOTT, _Hispania illustrata_, v. I, p.
635). Galvagno Fiamma asserisce (_Manipulus florum_, c. XXIX) che la
prima messa in Italia fu celebrata in Milano, l'anno 53, nel luogo dove
poi sorse il convento di Sant'Eustorgio. Genova pretendeva il medesimo.
La Chiesa di Aquileja si vantava fondata l'anno 48 da S. Marco. Secondo
una tradizione napoletana, venendo da Antiochia per andare a Roma, San
Pietro celebrò in Napoli la prima messa, nel luogo dove sorse poi la
chiesa di San Pietro _ad aram_. Non poche chiese fondarono pretensioni
di primato sopra tali leggende.

[806] V. la epistola di Cola di Rienzo all'imperatore Carlo IV, scritta
a mezzo del 1350, ap. PAPENCORDT, _Cola di Rienzo und seine Zeit_, p.
XXIX-XXXVIII.

[807] Dall'anno 800, in cui fu incoronato Carlo Magno, al 1800, in cui
Francesco II d'Austria rinunziò al titolo d'imperatore romano.

[808] Vol. I, p. 248-9.

[809] V. vol. I, p. 86-7, n. 18.

[810] V. il supposto Libro di Daniele, c. II, VII, VIII. Cf.
HAEVERNICK. _Commentar ueber das Buch Daniel_, Amburgo 1832. p. 568-70.
Nei _Gesta Romanorum_ il sogno della statua si attribuisce allo stesso
Daniele (p. 623, ed. Oesterley), e così pure nella già citata _Histoire
du monde_ che manoscritta si conserva nella Bibliothèque nationale di
Parigi (Fr. 377-80, v. I, f. 41 v.), con questa stravaganza per giunta
che Daniele ha il sogno nell'isola di Sardegna.

[811] Alfonso il Savio nella sua Cronaca (parte 1ª, c. XVI) pone
il cartaginese in luogo del persiano. «Quatro son las partes del
mundo segun los sabios antiguos los nombraron, Oriente, Ocidente,
Septentrion, Mediodia. E segun aquesto fueron quatro los Emperios que
señorearon el mundo. El primero de Babilonia a parte de Oriente en
el tiempo del Rey Nino. El segundo a parte de medio dia en Africa en
Cartago en tiempo de la Reyna Dido. El tercero en Macedonia a parte
de Septentrion en et tiempo de Alexandre. Et quarto en Roma a parte de
Ocidente en tiempo de Julio Cessar». Ma lo stesso aveva già detto prima
nella sua Cronaca Ugo di Fleury. Per altre notizie riguardanti il sogno
di Nabuccodonosor, la visione di Daniele e le quattro monarchie v.
MASSMANN, _Kaiserchronik_, v. III, p. 356-64, 528-33.

[812] Questo concetto si trova espresso da molti. Il Gower dice nel
Prologo della _Confessio amantis_:

    As steele is hardest in his kinde
    Above all other, that men finde
    Of metalles, suche was Rome tho
    The mightyest, and laste so
    Longe time among the Romains.

Il _Veglio di Creta_, formato a somiglianza della statua di
Nabuccodonosor, e descritto da Dante nel c. XIV dell'_Inferno_, v.
94-120, simboleggia, non più il succedersi delle quattro monarchie, ma
il succedersi delle varie età della storia, e il corrompersi del genere
umano.

[813] V. SAN GEROLAMO, _In Danielem_, c. 2.

[814] L. I, ap. PERTZ, _Script_., t. XXII.

[815] In una delle tante versioni della famosa epistola di Prete
Gianni all'imperatore si legge: «A ti, inperador re deli Romani in
la cristianitade da ponente, in la parte de Europa, lochotenente
de Romullo, primo re deli Romani, et de Çesaro inperadore, primo
inperadore deli Romani, el quale ten principiato in el tempo realle de
popolo cristiano, ecc.». Cod. Marciano it. cl. IX, CXLII, f. 31 r.

[816] WATTENBACH, _Deutschlands Geschichtsquellen_, v. I, p. 178-9.

[817] Cf. NIEHUES, _Geschichte des Verhältnisses zwischen Kaiserthum
und Papstthum im Mittelalter_, 2ª ed., v. I, Münster, 1877, p. 567 e
segg. Ma Giovanni Villani dice (_Ist. fior._, l. II, c. 15) che «Leone
Papa co' suo cardinali fatto concilio generale, con volontà de' Romani
per le vertudiose e sante opere fatte per lo detto Carlo Magno in
istato di santa chiesa e di tutta christianità levarono lo 'mperio di
Roma a' Greci, e elessono il detto Carlo Magno Imperadore di Roma, e
siccome degno dello Imperio».

[818] Ap. PERTZ, _Script_., t. III, p. 710.

[819] V. una traduzione in vecchio francese di questo racconto nel
già citato libro del MOLAND, _Origines littéraires de la France_, p.
386-98. Cf. G. PARIS, _Histoire poétique de Charlemagn_e, p. 55-7,
339-40.

[820] V. 2329.

[821] V. KOSCHWITZ, _Karls des Grossen Reise nach Jerusalem und
Constantinopel_, Heilbronn, 1880, v. 802 e segg.

[822] Circa l'impressione che fece la restaurazione dell'impero sugli
uomini di quel tempo, v. BRYCE, _The holy Roman Empire_, IV ed., Londra
1873, c. V.

[823] V. 14213-794.

[824] V. 14297-300:

    Von dannen wart rômesc riche
    gescheiden von den Kriechen,
    daz sie mimmir mëre
    gevordereten daz gerihte noch die ëre.

[825] Giovanni d'Outremeuse dice (_Ly myreur des hystors, v. I, p. 527)
che Carlo Magno fu sollecitato ad assumere la potestà_ imperiale da una
voce del cielo.

[826] V. 14831-5.

[827] Cf. GIESEBRECHT, _Geschichte der deutschen Kaiserzeit_, 3ª ed.,
v. I, p. 719-20. Una bolla plumbea di Ottone III, recante il motto
_Renovatio imperii Romanorum_, è dubbia. V. BAXMANN, _Die Politik der
Päpste_, Elberfeld, 1868-9, v. II, p. 165.

[828] V. il curioso poema di Fiorentino di Tours intitolato _Carmen
de destructione Constantinopolitana, sive de ultione Troianorum contra
Graecos_, Parigi, c. 1496.

[829] V. vol. I, p. 23-4.

[830] Gotofredo da Viterbo lo afferma due volte nello _Speculum Regum_,
e lo ripete nella _Memoria saeculorum_.

    In duo dividimus Troiano semine prolem:
    Una per Ytaliam sumpsit diademate Rome,
      Altera Theutonica regna beata fovet.
    Karolus in Berta Pipini semine ventre
    Hec duo continuat, conceptus utroque parente,
      Romuleus matre Theutonicusquo patre.

D'onde Gotofredo traesse la notizia della stirpe romulea di Berta
non so. Secondo un vecchio racconto francese in prosa (G. PARIS,
_Hist. poét. de Charlemagne_, p. 224) e secondo Adenès (_Berte aux
grans piés_) Berta è figliuola di un re di Ungheria per nome Florio
(_Floire_). Questo re si chiama Filippo nei _Reali di Francia_.
Altri racconti la fanno figliuola di un Teodorico, re di Svezia,
di Baviera e d'Austria, o di un conte di Melgaria, ecc. V. WOLF,
_Ueber die neuesten Leistungen der Franzosen für die Herausgabe ihrer
National-Heldengedichte insbesondere aus dem fränkischen-karolingischen
Sagenkreise_, Vienna, 1833, p. 43-4, n. 1.

[831] In un commento in prosa allo _Speculum Regum_ di Gotofredo da
Viterbo si legge (ap. PERTZ, _Script_., t. XXII, p. 65): «Sed Romani
seu Ytalici et Theutonici seu Germanie reges in hoc differunt, seu
nobilitas eorum in hoc differt, quia Romani et Ytalici ali Enea genero
et filia Magni Priami nati sunt tantummodo ex filia, sed Germani et
Alamani ex Priamo iuniore, filio Magni Priami, et sorore ipsius Priami
Magni nati sunt, ac ex Antenore consanguineo ipsius Priami, ut sic
Germani tam ex patre quam matre sint Troiani, Ytalici vero tantummodo
ex matre Troiani et de patre Enea, qui quamvis esset de Troia non
tamen de Priamo». A queste origini trojane si credeva universalmente
in Germania. Nella città di Treveri, in alcune chiese, la distruzione
di Troja vedevasi rappresentata sugli arazzi. Non mancò tuttavia chi
fece venire i Sassoni, e anche altre genti germaniche da una parte
dell'esercito di Alessandro Magno. V. Massmann, op. cit., v. III, p.
464, 467, 486.

[832] Potrei citare molti luoghi di scrittori che comprovano un
tal modo di vedere, ma mi basterà di riferirne uno del _Chronicon
Holsatiae_, composto nella prima metà del XV secolo. Gli è a bella
posta che scelgo un esempio di tempo così tardo, per mostrare quanto
a lungo durassero certi convincimenti. Quivi si dice: «Nam imperium a
tempore Constantini Magni, qui pape Silvestro et suis successoribus
dederat Romam et Ytaliam in possessionem, mansit in residencia apud
Grecos, et fuerunt imperatores iuvare ecclesiam valde difficiles de tam
remotis partibus. Ideo translatum fuit imperium de Grecis ad Francos
per Karolum Magnum, et aliquamdiu mansit apud Gallicos imperium,
scilicet per quinquaginta annos usque ad tempus Lodovici secundi. Demum
Gallici cum essent desides in adiuvando ecclesiam, imperium translatum
est ad Berengarium regem Ytalie, et mansit eciam apud eos quinquaginta
annos. Hii ecclesiam impugnabant, quam defendere debebant, et ab eis
regimen imperiale demptum et translatum ad Theutonicos, de quibus
primus imperator Otto, vir nobilis et bonus; item secundus Otto et
tercius Otto. Et hii fuerunt defendentes ecclesiam, et mansit imperium
apud Germanos usque ad presentem diem». Ap. PERTZ, _Script_., t. XXI,
p. 258.

[833] V. 61 e seguenti. Anche in italiano abbiamo una _Incoronazione di
Re Aloysi_, opera di Michelangiolo da Volterra.

[834] Orosio, ripetendo pensieri e giudizii già espressi da altri, così
ragiona (_Histor._, l. VI, c. 22): «Tunc igitur natus est Christus,
Romano censui statim adscriptus ut natus est. Haec est prima illa
clarissimaque professio, quae Caesarem omnium principem, Romanosque
rerum dominos singillatim cunctorum hominum edita adscriptione
signavit, in qua se et ipse qui cunctos homines fecit, inveniri
hominem, adscribique inter homines voluit».

[835] V. per un esempio la _Chronica_ di Maestro Giordano, ap. GOLDAST,
_Monarchia_, v. II, p. 1466.

[836] _Dello scudo di Cristo, o vero di David_, l. II.

[837] Engelberto, abate admontense, il quale fiorì sui primi del XIV
secolo, asserisce nel suo libro _De ortu et fine Romani imperii_,
c. XVI (ap. GOLDAST, _Politica imperialia_, p. 766) che l'impero può
legittimamente essere sminuito, o anche distrutto.

[838] _Chronicon_, VII, 34.

[839] MEICHELBECK, _Historia Frisingensis_, t. II, 1, 7.

[840] Questo dominio fece meravigliare più d'uno anche allora, tanto
più che in Roma stessa, ove avevano sede, i pontefici spesso potevano
ben poco. Tra le poesie di Giraldo Cambrense si legge il seguente
curioso epigramma:

    Mirum, quae Romae modicos sententia Papae
        Non movet, hic Regum sceptra movere potest.
    Quae minimos minime censara coërcet in Urbe,
        Saevit in Orbe fremens, celsaque loca premens.
    Cui male sublatus Romae non cederet hortus,
        Nititur ad nutum flectere regna suum.

[841] _De officiis_, II, 8: Patrocinium orbis terrae verius quam
imperium potest nominari veterum Romanorum imperium.

[842] _Aeneid._, l. VI, v. 852-4:

    Tu regere imperio populos, Romane, memento,
    Haec tibi erunt artes; pacisque imponere morem
    Parcere subjectis et debellare superbos.

È Anchise che così parla ad Enea.

[843] V. una eccellente esposizione della politica di Dante fatta dal
Wegele nel suo bel libro: _Dante Alighieri's Leben und Werke_, 2ª ed.,
Jena 1805, c. IV, p. 295-351. V. inoltre F. FOERSTER _Der Staatsgedank
des Mittelalters_, Greifswald, 1861.

[844] Da molti, per ragion di due versi della famosa canzone _Italia
mia_, fu creduto il contrario, ma a torto. Toglie ogni dubbio su questo
punto uno scritto del Zumbini intitolato _L'impero_, nel suo volume di
_Studj sul Petrarca_, Napoli, 1878, p. 175-265. Molto diversamente da
Dante o dal Petrarca sentì il Boccaccio, che nelle due egloghe VII e IX
fa palese l'avversione che nutre per l'imperatore e per l'impero.

[845] Epistola ai principi e popoli d'Italia: «...... a quo velut a
puncto bifurcatur Petri Caesarisque potestas». Nel _Dottrinale _di
Jacopo Alighieri al c. XLVI si legge:

    Però con duo Vicari
    Come due luminari
    La Deità ci affronta,
    Come il Genesi conta
    Della Luna e del Sole
    Che a tal simile tole.

[846] Lettera a Gregorio IX del 3 dicembre 1232. Più tardi per altro
Federico II pensò a fondare una specie di papato laico, simile a quello
dei Musulmani.

[847] Giustamente dice il Bryce nella citata sua opera (p. 99) parlando
della comune credenza circa la necessità dell'impero: «Deep as this
belief had struck its roots, it might never have risen to maturity
nor sensibly affected the progress of events, had it not gained in the
pre-existence of the monarchy of Rome a definite shape end a definite
pourpose».

[848] V. 287-9.

[849] V. più particolarmente il secondo libro del _De Monarchia_ e le
epistole _Ai Fiorentini e Ai principi e popoli d'Italia_.

[850] _Purgat._, c. VI, v. 1124:

    Vieni a veder la tua Roma che piagne
      Vedova, sola, e dì e notte chiama:
      Cesare mio, perchè non m'accompagne?

[851] V. più particolarmente le epistole esortatorie a Benedetto XII e
il poemetto latino indirizzato a Clemente VI, ap. ROSSETTI, _Poëmata
minora Francisci Petrarchae quae exstant omnia_, Milano, 1819-24, v.
III.

[852] V. D'ANCONA, _La poesia politica italiana ai tempi di Lodovico il
Bavaro_ nel _Propugnatore_, v. I, p. 145-70.

[853] _Versus de Gregorio papa et Ottone Augusto, ap. Duemmler,
Anselm der Peripatetiker,_ Halle, 1872, p. 78. Ma non mancò, da
altra banda, chi negò essere allora, od essere mai stati i Romani
legittimi possessori dell'impero. Antonio de Rosellis dice nella
sua _Monarchia_, scritta ai tempi di Eugenio IV (parte V, c. VI, ap.
GOLDAST, _Monarchia_, t. I, p. 538): «Divino iure non apprehendisse
Romanos imperium ostenditur. Imperium non potest competere nisi illis,
qui illustrati sunt lumine fidei, et illis qui sunt de ovibus Christi».
E seguita dimostrando che l'impero non appartiene ai Romani nemmeno
per diritto delle genti, o per diritto naturale. Secondo Guglielmo
Postel, nella citata sua opera, la legittima monarchia non fu fondata
nè da Costantino, nè da Cesare, ma solamente da Carlo Magno, e spetta
pertanto ai Francesi.

[854] _Ad Heinricum IV imperatorem_, l. I, ap. PERTZ, _Script._, t. XI,
p. 602. Pietro d'Eboli nel suo _Liber ad honorem Augusti_, altrimenti
intitolato _Carmen de motibus siculis_, così descrive la incoronazione
di Enrico VI (l. I, partic. X, testo pubblicato di sul manoscritto
originale da E. Winkelmann, Lipsia, 1674, p. 29):

    Serta recepturus cum cesar venit in urbem,
        Exultat pompis inclita Roma novis.
    Ad Petri devenit eques venerabile templum,
        Quo pater antistes preredimitus erat.
    Balsama, thus, aloe, mirietica, cinnama, nardus,
        Regibus assuetus ambrae modestus odor
    Per vicos, per tecta fragrant, redolentque per urbem,
        Thuris aromatici spirat ubique rogus.
    Vestit odora viam mirtus sociata diathis,
        Luxuriant croceis lilia iuncta rosis.
    Prima domus templi bisso vestitur et ostro,
        Stellificat tedis cerea flamma suis.
    Ad domus interior, ubi mensa corruscat et agnus,
        Purpurat aurato res operosa loco.
    A vice, Petre, tua pius introducitur heros,
        Inclitus altaris sistitur ante gradus.
    Primo papa manus sacrat ambas crismate sacro,
        Ut testamentum victor utrumque gerat.
    Brachia sanctificans, scapulas et pectus inungens:
        «In christum domini te deus unxit,» ait.
    Post hec imperii correptum tradidit ensem,
        Quem Petrus abscissa iussus ab aure tulit.
    Ensis utrimque potens, templi defensor et orbis,
        Hinc regit ecclesiam, corrigit inde solum.
    Iura potestatis, pondus pietatis et equi,
        Signat in augusta tradita virga manu.
    Anulus ecclesie, regnorum nobilis arra,
        Offertur digitis, Octaviane, tuis.
    Quam geris aurate, cesar diadema thiare
        Signat te apostolicas participare vices.
    Post hec cantatis ad castra revertitur ymnis,
    Mandat in Apuliam quisque quod ire paret.

Parecchie altre descrizioni simili a questo ci sono rimaste. Della
cerimonia discorre il CANCELLIERI, _De secretariis veteris basilicae
vaticanae_, l. I, c. XIX, XX.

[855] Eginardo dice di Carlo Magno (_Vita Karoli_, c. 23): «Peregrina
vero indumento, quamvis pulcherrima, respuebat, nec unquam eis indui
patiebatur, excepto quod Rome semel Adriano pontifice petente et
iterum Leone successore ejus supplicante longa tunica et clamide
amictus, calceis quoque Romano more formatis induebatur». Delle vesti
dell'imperatore si parla anche nella _Graphia aureae urbis Romae_.
Per quelle degl'imperatori d'Oriente v. COSTANTINO PORFIROGENITO, _De
ceremoniis aulae Byzantinae_. Per molte altre particolarità attenenti
al cerimoniale e a certe costumanze imperiali del medio evo, v. l'opera
del WAITZ, _Deutsche Verfassungsgeschichte_, Kiel, 1844-78, e più
particolarmente v. III, c. 3 e 5, v. VI, c. 6 e 7.

[856] _Parad._, c. VI, v. 100, 4.

[857] RICHER, _Historiae_, ap. PERTZ, _Script._, t. III, p. 622.

[858] V. intorno all'aquila imperiale GATTERER, _De origine aquilae
imperialis. Comment. soc. reg. scient. Gott._, v. X.

[859] Nel l. II, c. 2 del _Dittamondo_ Fazio degli Uberti racconta per
disteso tutta la storia della gloriosa insegna, rifacendosi da Giove,
Dardano, Ganimede. Egli parla inoltre, come anche Giovanni Villani,
delle quattro lettere S. P. Q. R. L'aquila e le quattro lettere sono le
due insegne sotto le quali Roma conquistò il mondo; ma

    La più vittorïosa e la più degna
      E la più antica e di più alte prove
      È quella che nel mondo ancor più regna,

cioè l'aquila. Di tutto ciò non è cenno nel _Fiore d'Italia_ di Frate
Guido.

[860] _Fiorita d'Italia_, conto XXVIII.

[861] _Istorie fiorentine_, l. I, c. 40.

[862] _Purgat._, c. X, v. 80-1.

[863] Segnato L, II, 10.

[864] In greco κλεινώδια, dal tedesco _cleinod_, giojello, cimelio.
«_Kleinod_, clinodium, clein-od, res subtilis, pretiosa: non ex _Klein_
et _Not_, quia res exiguae necessitatis, ut est apud Du Fresne Glossar.
h. nec ex Gracco κλεινώδιον quod Franci in aulam CPolit. intulere».
SCHILTER, _Thesaurus antiquitatum teutonicarum_, t. III, s. v.

[865] V. inoltre circa le insegne WAITZ, _Deutsche
Verfassungsgeschichte_, 2ª ed., v. VI, p. 223-39; VON RAUMER,
_Geschichte der Hohentaufen_, 3ª ed., v. IV, p. 672 e segg.; SCHMID,
_Graf Albert von Hohenberg, Rotenburg und Haigerloch_, Stoccarda,
1879, v. II, parte 6ª, c. 2; ma soprattutto BOCK, _Die Kleinodien des
heiligen römischen Reiches deutscher Nation nebst den Kroninsignien
Böhmens, Ungarns und der Lombardei und ihren formverwandten
Parallelen_, Vienna, 1864. Quest'opera contiene 46 tavole colorate e
170 incisioni nel testo, e fu messa in vendita al prezzo di 660 marchi.

[866] _Annales Fuldenses_ ad. a. 840: Hunc (_scil._ Lotharium) enim
ferunt imperatorem morientem designasse, ut post se regni gubernacula
susciperet, missis ei insignis regalibus. — A. D. 1353 Karolus
rex Bohemiae qui se pro cesare gerebat eo quod clenodia imperialia
habebat..... _Kalendarium Zwetlense_, ap. PERTZ, _Script._, t. IX, p.
693.

[867] _Memoria saeculorum_ (inedita), partic. XIV.

[868] ONORIO AUGUSTODUNENSE, _Gemma animae_, l. I, c. CCXXIV. Onorio
soggiunge: «_Virga sceptri_ est potestas regni. Vestes imperiales sunt
sibi subditae potestates. Monent autem Imperatorem purpureae _vestes_,
ut habeat principales virtutes: _sceptrum_, ut iudicium et iustitiam
diligat, quatenus solium gloriae cum principibus coeli possident:
_corona_, ut sic vivat, quatenus a rege regum coronam vitae accipiat».

[869] _Memoria saeculorum_, partic. XIV. Lo stesso nel _Pantheon_,
partic. XIX.

[870] MENGE, _Kaisertum und Kaiser bei den Minnesängern_ (Progr.),
Colonia, 1880, p. 22-3.

[871] Ap. OZANAM, _Documents inédits_, p. 174.

[872] V. FONTANINI, _De corona ferrea Langobardorum_, Roma, 1717.

[873] Della fortuna degli altri due chiodi non è qui da discorrere,
nè fu mai risoluta la questione se fossero quattro o tre. V. CORNELIO
CURTIUS, _De clavis Dominicis_, Anversa, 1634, Leida, 1695. Socrate
dice (_Hist. eccles._, l. I, c. 17) che coi chiodi Costantino fece
fabbricare freni da cavallo e un elmo.

[874] _Carmen de gestis Ludovici_, l. II, v. 425.

[875] V. la _moralisacio_ al c. 74 dei _Gesta Romanorum_, ed. Oesterley.

[876] NICEFORO, _Hist. eccles._, l. VII, c. 49. Nella Tavola
peutingeriana la statua di Costantino è rappresentata, non in cima a
una colonna, ma in cima a una specie di torre.

[877] PROCOPIO, _De aedificiis_, I, 2; CODINO, _De signis
Constantinopolitanis_, ed. cit., p. 28-9.

[878] Habet autem imperator cum aquila et pallam auream in manibus
suis, sicut constituit Octavianus imperator, propter nationes sibi in
cuncto orbe subjectas, ut malum figuram orbis designet. Ap. OZANAM,
_Documents inédits_, p. 178.

[879] RADULFO GLABER, _Historiae_, ap. PERTZ, _Script._, t. VII, p. 39.

[880] GOTOFREDO DA VITERBO, _Memoria saeculorum_, partic. XIV (cf.
_Pantheon_, partic. XIX):

    Aureus ille globus pomum vel pelle vocatur,
    Unde figuratum mundum gestare putatur:
        Quando coronatur, palla ferenda datur.
    Palla refert mundum forma faciente rotundum;
    Intus habet gravidum terrestri pondere fundum,
        Quem tenet archanu palla ferenda manu.
    Dicitur externis mundi collate quaternis,
    Ut foret eternis manibus gestanda supernis:
        Hac tulit imperium Iulius arte suum.
    Taliter hunc mundum regis capit ordine pugnus,
    Taliter et populus suus est mondanus alumpnus,
        Taliter et patrie rex datur esse pater.

[881] Gervasio di Tilbury, dopo aver ricordato negli _Otia imperialia_,
decis. I, c. X, come anche l'imperatore sia cenere, soggiunge: «Hinc
est quod Imperator pomum aureum fert in sinistra plenum favilla et
cinere, ut per auri fulgorem gloria notetur imperii, et per favillam
levis gloriae temporalis transitus designetur».

[882] _Historia trium Regum_. Fu stampata in calce ad una raccolta di
sermoni di Giacomo da Voragine in Magonza l'anno 1477. Altre edizioni
se ne hanno del 1481 e 1486. V. SCHWAB, _Die Legende von den heiligen
drei Königen von Johann von Hildesheim_, Stoccarda e Tubinga, 1822.

[883] Così si narra ancora nella leggenda popolare tedesca dei Re
Magi, alquanto abbreviata dalla latina, e molte volte stampata. Cf.
LIEBRECHT, _Des Gervasius von Tilbury Otia imperialia_, p. 54, n. 3.
Molto più lunga e più complicata è la storia dei trenta denari narrata
da Giovanni di Hildesheim nel c. 28. Questi trenta denari erano stati
coniati dal padre di Abramo. Con essi Abramo comperò un campo da
servire di luogo di sepoltura a sè ed ai suoi. Venuti alle mani dei
figli di Giacobbe, che li ebbero in prezzo del fratello venduto, furono
da essi più tardi dati a costui in Egitto in pagamento del grano loro
provveduto. Morto Giacobbe, i trenta denari servono a comperare aromi,
e passano nel paese di Saba, e vi rimangono finchè la regina di Saba
li dona, insieme con altre cose di gran pregio, al tempio di Salomone.
Tenuti uniti sempre da una legge misteriosa, migrano da Gerusalemme
in Arabia, poi tornano in Gerusalemme, portativi dal re Melchiorre.
Maria, fuggendo in Egitto, li porta con sè e li smarrisce. Li trova
un pastore e li tiene in serbo finchè, colpito dalla lebbra, va a
Gerusalemme per farsi guarire da Cristo. Guarito, li offre al tempio, e
i sacerdoti se ne servono per pagare a Giuda il suo tradimento. Giuda,
pentito e disperato, restituisce ai sacerdoti il prezzo della sua
sceleraggine, e i sacerdoti ne spendono una metà per pagare i soldati
che debbono far la guardia al sepolcro di Cristo, e un'altra metà per
comperare un campo da seppellirvi i pellegrini. Sebbene l'Evangelo li
dica d'argento, questi denari erano del più puro oro d'Arabia: di essi
molt'altre vicende si narravano che furono dimenticate o pretermesse.
Questa stessa leggenda racconta pure Gotofredo da Viterbo nella
particola XIV del _Pantheon_. Anche degli altri doni dei Magi l'autore
racconta storie consimili. La fantasia cristiana fu ingegnosissima
nel ritrovare queste relazioni e questi nessi leggendarii, testimonio
massimo la leggenda del legno della Croce. I supposti corpi dei Re
Magi, che si custodivano in Milano, furono trasferiti a Colonia dopo
che Milano fu presa da Federico Barbarossa.

[884] V. SPIES, _De imperiali Sacra Lancea non inter reliquias imperii
sed clinodia referenda_, Altorf, 1731.

[885] _Pantheon_, partic. XIX.

[886] _Chronicon universale_, ap. PERTZ, _Script._, t. VI, p. 182.

[887] In Antiochia, per rivelazione di Sant'Andrea, nel 1098. Elinando
racconta che essa fu trovata profondamente sepolta nella terra e che
tredici uomini lavorarono da mane a sera per estrarla. _Chronicorum_ l.
XLVII, ap. TISSLER, _Bibliotheca patrum Cistercensium_, t. VII, p. 166.

[888] _De gestis regum Anglorum_, l. II, c. 6.

[889] Cf. ENRICO DI KNYGHTON, _De eventibus Angliae_, l. I, c. 5, ap.
TWYSDEN, _Historiae anglicanae scriptores_ X, v. II, col. 2331.

[890] V. 2503-8:

    Asez savum de la lance parler
    Dunt nostre Sire fut en la cruiz naffrez:
    Carles en ad l'amure, mercit Deu!
    En l'oret punt l'ad faite manuvrer.
    Pur ceste honur e pur ceste bontet
    Li nums Joiuse l'espée fut dunez.

[891] Di tal nome usano Gotofredo da Viterbo, Siffredo presbitero,
altri.

[892] _Chronicae Polonorum_, l. I, ap. PERTZ, _Script._, t. IX, p. 429;
_Miracula Sancti Adalberti_, ibid., t. VI, p. 616.

[893] Ap. CANISIUS, _Lectiones antiquae_, ed. Basnage, t. II, parte 2ª.
p. 225-7.

[894] _Legenda aurea_, c. CXLI, ed. Graesse. Intorno alla leggenda
della Legione tebea, v. Massmann, t. III, p. 779-84.

[895] Tanto la spada di San Maurizio, quanto la spada di Carlo Magno,
pajono provenire dal tesoro di Sicilia, e non essere più antiche del
XII secolo. Il solo _acinaces persicus_, che pur figura nel tesoro
dell'impero, sembra venire veramente da Carlo Magno, ed è forse la
stessa spada che questo imperatore ricevette da Harun al Raschid. V.
la cit. op. del Bock, tav. XXIII, fig. 32, tav. XXIV, fig. 33, e p.
131-5, 136-9; _Anhang_, p. 523. Lodovico III, langravio di Turingia,
possedette il vessillo miracoloso di San Giorgio (_Historia de
Landgraviis Thuringiae_, ap. PISTORIUS, _Script._, ed. dello Struvio,
t. I, p. 1370), vessillo che ebbe ancor esso le sue leggende (V. la
_Cronaca turingica_ di Adamo Ursino, ap. MENCKENIUS, _Script._, t. III,
col. 1272-3).

[896] V. GIORNANDE, _De rebus geticis_, c. XXXV, e LAMBERTO
SCHAFNABURGENSE, _De rebus gestis Germanorum_, ap. PISTORIUS,
_Script._, ed. dello Struvio, t. I, p. 348.

[897] Fu pubblicato dallo ZARNCKE, _Der Priester Johannes, erste
Abhandlung, Abhand. d. philol-hist. Cl. d. ft. sächs. Gesell. d.
Wiss._, t. VII, p. 1015-28. V. i versi 1019-246. Giacomo Grimm lo
giudicò scritto intorno al 1400; lo Zarncke pensa che possa appartenere
al mezzo del XIV secolo.

[898] La veste di Cristo diede argomento a particolari leggende e a
un poema tedesco del XII secolo. La città di Treviri si vantava di
possederla. V. _Der ungenähte Rock oder König Orendel wie er den grauen
Rock gen Trier brachte. Gedickt des zwölften Jahrhunderts übersetzt
von_ Karl Simrock, Stoccarda e Tubinga, 1845.

[899] _Apologet._, c. 32.

[900] _Ad Scapulam_, c. 2.

[901] _Quaest_. 42, _art_. 1.

[902] Dell'appellazione _Roma aeterna_ parla lo Spanheim nella
Dissertazione III _De usu et praestantia numerorum_. Gabriele Barrio,
francescano, stampò nel 1571 in Roma un libro _De aeternitate urbis_.

[903] L. I, v. 278-9. Cf. SERVIO _ad Aeneid._, l. IX, v. 188.

[904] _Itiner._, l. I, v. 133-34.

[905] _In Danielem_, c. 2.

[906] _Divinarum Institutionum_, l. VII, c. 25: Etiam res ipsa declarat
lapsum ruinamque rerum brevi fore: nisi quod incolumi urbe Roma nihil
istiusmodi videtur esso metuendum. At vero cum caput illud orbis
occiderit, et ῥύμη esse coeperit quod Sybillae fore aiunt, quis dubitet
venisse iam finem rebus humanis, orbique terrarum? Illa, illa est
civitas quae adhuc sustentat omnia, praecandusque nobis et adorandus
est Deus coeli, si tamen statuta eius et placita differri possunt,
ne citius quam putemus tyrannus ille abominabilis veniat qui tantum
facinus moliatur, ac lumen illud effodiat cuius interritu mundus ipse
lapsurus est.

[907] _Apologeticus_, c. 32.

[908] _Hist. rom._, LVII.

[909] Cap. XX.

[910] Intorno all'odio degli Ebrei per Roma v. BUXTORFF, _Lexicon
chaldaicum talmudicum et rabbinicum_, col. 2227-9.

[911] EISENMENGER, _Entdecktes Judenthum_, v. II, p. 690-6.

[912] GREGORIO MAGNO, _Dialogi_, II, 15. Cf. BUNSEN e PLATNER,
_Beschreibung der Stadt Rom_, v. I, p. III.

[913] V. vol. I, p. 119-20, n. 31. A quanto quivi è detto si può
aggiungere che, secondo un'antica credenza fiorentina, il tempio di
Marte, consacrato poi in onore di San Giovanni (il Battisterio), doveva
durare _quasi in eterno_. V. G. VILLANI, _Ist. fior._, l. I, c. 42.

[914] _Romae | Ruina Finalis, | Anno Dom. 1666. | Mundique finis
sub Quadragesimum quintum post Annum. | Sive, | Literae ad Anglos
Romae versantes datae, quibus | (vel ex Pontificiorum Scripta evicto,
Babylonis in Apocalypsi nomine, Romam | Pontificiam designari, Papamque
Romanum ipsissimum esse Anti | christum Scripturis praedictum) et
Bestiam derelinquere, et Babylone, | urbe nempe Romanâ anno jam dicto,
Millesimo sc. Sexcentesimo, Sexagesimo | Sexto, excidio et incendio
delendâ, atque funditus evertenda confestim exire admonentur._ V.
GREENHILL, _An Essay on the Prophecies of the New Testament which
relate to the destruction of Jerusalem and the dispersion of the Jews,
to the fall of Rome and Roman Empire, and to the Millenium; together
with some observations on the state of Christ's Church here on earth
after the Millenium_, Londra, 1755; VALPY, _The Prophecies relating to
the Fall of Rome_, in appendice ai sermoni pubblicati in due volumi a
Londra, 1811.

[915] V. più sopra p. 116, n. 143.

[916] V. DOELLINGER, _Der Weissagungsglaube und das Prophetentum in der
christlichen Zeit nell'Historisches Taschenbuch_ del Raumer, serie Vª,
v. I, p. 288-9.

[917] VALENTINELLI, _Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum_,
V. III, p. 8. Di parecchie altre profezie riguardanti la distruzione
di Roma fa ricordo il WOLF nelle suo curiose _Lectiones memorabiles_,
Lavingae, 1600, t. II, p. 295, 948, 1007. Pietro Appiano, nel trattato
_De antiquitatibus Orbis_, dice che la Sibilla fece scolpire sul
Gianicolo le seguenti lettere:

        P. P. P. E. S. S. S. E. V. V. V. V. V. V. V. F. F. F. F.

le quali significavano: PATER PATRIAE PROFECTVS EST, SALVS SECVM
SVBLATA EST, VENIET VICTOR VALIDVS, VINCET VIRES VRBIS VESTRAE, FERRO,
FLAMMA, FAME, FRIGORE.

[918] _Divin. instit_., l. VII, c. 15-9.

[919] In una profezia che il cronista Agnello (IX sec.) pone in bocca
a San Grazioso, abate di Sant'Apollinare in Ravenna, si parla di tempi
di generale sovversione, e sebbene non sia detto espressamente, pure
s'intende che quei tempi saranno gli ultimi. Tra l'altro vi si annunzia
quanto segue: «Et quod nunc est Romanorum imperium desolabitur,
et super augustalem solium reges sedebunt..... Universus contra se
excitatur invicem mundus. Et Agarenorum gens ab oriente insurgunt et
praedabunt civitates in marinis litoribus sitas, et non erit qui eruat.
Nam in cunctis regionibus terrae erunt inopes reges et diligentes
munera, et oppriment populos sibi subiectos, et peribit Romanorum
Francorum imperium, et sedebunt reges super augustalem solium, et
minuentur omnia, et praecellent servi ante dominum suum, et in his
mugiet terra, et elementa dehiscent..... et commovebantur ex coelo
astra..... et vadent nobiles Romani in aliena terra captivi propter
suas divitias. Depopulabitur a suis Roma et cuncremata incendio erit».
Grazioso fu contemporaneo di Carlo Magno.

[920] V. intorno a ciò l'erudito volume dello ZEZSCHWITZ, _Vom
römischen Kaisertum deutscher Nation_, Lipsia, p. 7 e segg. Di esso
avrò a giovarmi più di una volta nel corso di questo capitolo.

[921] Secondo la dottrina universalmente seguitata in Occidente il
regno dell'Anticristo doveva chiudere la sesta età, la quale cominciava
dalla nascita di Gesù. La divisione della storia dell'uman genere
in sei età, è dovuta, com'è noto, a Sant'Agostino (V. _De Civitate
Dei_, l. XV-XXII). Paolo Diacono novera sette età in una sua poesia ad
Adelperga. Circa le varie dottrine riguardanti la durata del mondo v.
SPENCKER, _Bestimmung der Dauer der Welt und ihrer Hauptabtheilungen
bis ans Ende der Tage nach den Geschichten und Weissagungen der
heiligen Schrift_, 2ª ed., Bützow e Wismar, 1773.

[922] _Catechesis_, XV.

[923] San Gerolamo dice nel Commento sopra la sesta visione di Daniele:
«Dicamus ergo quod omnes scriptores ecclesiastici tradiderunt, in
consummatione mundi (quando destruendum est regnum Romanorum) decem
reges futuros esse, qui orbem Romanum inter se dividant; ut undecimum
surrecturum, regem parvulum, id est Antichristus, qui tres reges primo
die de ipsis decem regibus superabit, id est regem Aegypti et Africae
et Aethiopiae; quibus ab eo interfectis, etiam alii septem reges
victori Antichristo colla submittent».

[924] V. per quanto lo concerne l'_Appendice_ in fine al presente
volume.

[925] Molti di questi trattati si trovano inediti nelle biblioteche. Un
_Antichristi vitae compendium_ è tra le prime stampe del quattrocento,
e sull'Anticristo scrivevano ancora il Grozio e l'Hammond. Por
quanto riguarda l'argomento v. VIGNIER, _Théâtre de l'Antechrist_, La
Rochelle, 1610, e la voluminosa opera del MALVENDA, _De Antichristo_,
Roma, 1604, ristampata poi con aggiunte altre due volte. V. inoltre W.
GRIMM, _Vrîdankes Bescheidenheit_, Gottinga, 1834, p. LXXI e segg.

[926] DOELLINGER, _Der Weissagungslaube_ ecc., p. 270.

[927] Ecco qui altre due testimonianze, le quali provano come segno
della venuta dell'Anticristo fosse tenuta la dissoluzione dell'impero.
In un trattato anonimo sull'Anticristo, contenuto in un codice
dell'Angelica segnato T, 6, 27, si legge al f. 3 v.: «Indagantibus
nobis sollicita consideratione signa propinqua consummationis seculi
et adventus persecutoris ultimi Ecclesiae Antichristi, et certa hoc
iubente veritate vigilantibus, ne defensioni imparatos nos reperiat
illa repentina tempestas, primum nobis occurrit destructio ac defectus
sive cessacio imperii romani». Nella sua _Chronica, qualiter romanum
imperium translatum fuit in Germanos_ (ap. GOLDAST, _Monarchia_, t. II,
p. 1467) Maestro Giordano dice: «Magnus honor est Romano imperio, quod
Dominus in hoc prae caeteris ipsum privilegiare dignatus est, quod non
veniet Antichristus, Christi et membrorum eius adversarius, nisi prius
Romanum imperium penitus sit ablatum».

[928] V. nella citata opera del Zezschwitz tutto il c. III intitolato
_Die altkirchlichen und die byzantinischn Quellen für die Kaiser- und
Antichristage_, p. 35-84, d'onde traggo quanto concerne le relazioni
della leggenda occidentale con Metodio.

[929] Ho, per altro, già fatto ricordo altrove di una versione latina
delle _Revelationes_ contenuta in un codice della Barberina non
posteriore al IX secolo. V. vol. I, p. 107, n. 52. In questo medesimo
codice sono certi _dicta sancti Efrem de fine mundi_, dove, tra
l'altro, si legge quanto segue: «In illis diebus venient ad regnum
Romanorum duo fratres et uno quidem animo praefuit. Sed quia unus
precedit alium..... solvitur, adque adversarius ei excitabit odium
inter regna Persarum et Romanorum. In illis diebus multi consurgunt
contra regnum Romanorum, sed populus Iudeorum adversarii eius erunt».
Seguiranno guerre, pestilenze, calamità di ogni sorta. «Et regnum
Romanorum tollitur de medio christianorum et traditur domino et patri.
Et tunc veniet consummatio cum ceperit consummare Romanorum regnum».
Segue il racconto della venuta e della finale disfatta dell'Anticristo.

[930] È pubblicato in appendice al IV volume delle opere di
Sant'Agostino, ed. dei Benedettini.

[931] L'una si trova a torto inserita fra le opere di Beda (Migne,
Patrol. lat., t. XC, p. 1181 e segg.); l'altra fu pubblicata
dall'Usinger, Forschungen zur deutschen Geschichte, v. X, p. 621 e
segg. V. anche il t. XXII dei Monumenta Germaniae, Script., p. 375 e
segg.

[932] _Ad Heinricum IV imperatorem_, ap. PERTZ, _Script_., t. XI,
p. 591. Benzone dice che l'imperatore sarà coronato in Bizanzio _sua
patria_.

[933] _Pantheon_, partic. X, XI.

[934] _Flores historiarum_, p. 44 e seg. Io sospetto che la profezia
si trovi anche in un poema francese di cui dà un cenno il Wolf
(_Ueber die Leistungen_, ecc., p. 158-9, n. 1) e nel quale la Sibilla
Tiburtina annunzia a un re Tracianus in Roma la nascita di Cristo e gli
avvenimenti che seguiranno poi, sino al giudizio universale.

[935] Fu pubblicato di su un codice cottoniano da Riccardo Morris nel
_Jahrb. f. rom. u. engl. Lit._, v. V, 1864, p. 194-210.

[936] Pubblicato nella _Zeitschrift für deutsches Alterthum_
dell'Haupt, v. X.

[937] _Entecrist_, pubblicato dall'Hoffmann nelle _Fundgruben für
Geschichte deutscher Sprache und Litteratur_, v. II, p. 106-26. Cf.
l'altro poema tedesco _Vom Antichrist_ pubblicato nel VI volume della
_Zeitschrift für deutsches Alterthum_ dell'Haupt.

[938] _De ortu, progressu et fine Romani imperii_, c. 23, ap. GOLDAST,
_Politica imperialia_, p. 772. Nel cod. Marciano latino cl. III,
CLXXXVII, si trova, dal f. 49 v. al 51 v., la seguente profezia, che
credo inedita, e meritevole d'essere conosciuta al par delle altre.

                  _Prophetia Karoli regis Francorum._

Post Karolum eius filius Karolus regnum Francorum suscipiet. In teneris
annis eius puer iste, nasciturus ex gallo, Longobardiam affliget, in
qua partes eius decesserunt, quia gallina, eius radix, remanebit sine
pullo. Per ipsum regnum dividetur Orientis, et in grave transferret
Longobardorum. Iste verus princeps erit: vix ridebit, habens nares
acutas, alta supercilia; communis staturae remanebit. Temperatus
erit; ad loquendum multum cogitabit, ad arma aspirabit. In xiiijº
suae aetatis anno simplicem deferret coronam in capite suo; populos
sibi subiectos et nationes in statum suorum diriget predecessorum. In
xiiijº aetatis suae anno magnum sibi congregabit exercitum, terram
sibi subiectam circuibit, et per ipsum tyranni regni sui plures
devastabuntur, qui gentes terrae tenuerunt sub tributo, et eius partes
incorditer servierunt. Insulam ditissimam comminuet et eius dominum
Longobardorum elargabit. Largus erit, et gazas vilipendet. Inclytus
isto princeps erit, et a deo dilectus. Nam cum columba genuerit in
xxijº suae aetatis anno. Italiam penetrabit, Romam destruet ut praesule
non sit digna, quia gemitus dedit columba horribiles. Ibidem rex
efficietur Romanorum ultra voluntatem Germanorum. Vexillum erriget a
partibus suis constitutum, et civitatem aliam peccatricem devastabit
igne et ferro, ut sal seminetur super eam; ex quo Italia ululabit; sed
usque pascua gallinae princeps sibi dominium suscipiet per columbam,
que divisa remanserat, quia non fuit pullus qui adiuvaret. Ibidem
tributa suscipiet principum scilicet paganorum: non audiet, sed eorum
superbiam infirmabit, quorum flumina transnatabit. Confliget ipsos
in partibus aquilonis, quem finaliter appellabunt regem Romanorum
vocatum a pio pastore. Et rursus in terram suam redibit, et arabum
leges omnes imperator eradere faciet, ut solum lex servetur evangelica,
et predicabitur aliis in terra desolatis populis ob initium sancti
pastoris. Et inclyti principes convertentur ad dominum, quia erit unum
ovile et unus pastor, quos clerus et nationes timebunt et honorabunt.
Circa XXX suae aetatis annum, confortatus a pio pastore, inclytus
princeps duas sibi assumet gentes et principes congregabit, maria
transfretabit, circumcisos evocabit et terras Nabuchodonosor regis
adibit, quas violenter expugnabit et obtinebit. Tandem voce preconia
mandabit ut quicumque crucem domini non adorabit morte moriatur. Terram
Caldeorum sibi accinget, et multos ex filiis Sathanae interficiet.
Civitatem sanctam Hierusalem modico prelio in suam rediget. Cum per
illam incedet, scriptum videbitur in fronte eius: _Rex sum Francorum et
Romanorum_. Sibi omnes applaudent reges Christianorum, et percurrent
in Christo reges paganorum. Circa xxxvij suae aetatis annum montem
ascendet princeps inclytus sanctissimus, et ibidem, facta deo oratione,
omnibus principibus paganorum videntibus, concisus ad Christum, tres
coronas deponet a capite, et scriptum in fronte sua domino resignabit.
Audiet eum sibi occurrere ab infimis orientis bestia horribilis
cum potestate magna; sed post pauca tempora sibi die prefixo terram
subibit; et erit luctus in fideli populo ut emittentes dicant: Mortuus
est sanctus sanctorum. Quem sequitur pius pastor trino trinos binos
idus triplicatos.

Chi trascrisse soggiunse questa nota: «Haec prophetia superius posita
transcripta fuit ex exemplari antiquissimo, quod havitum (_sic_) fuit a
domino Ioanne Marello de s.to Vitali de verbo ad verbum, sicut ibidem
erat, non obstante inconcina latinitate que in ea est. Anno domini
MCCCCº XV, quinto martii». Io ridò il testo tal quale, solo correggendo
alcuni pochissimi errori di scrittura, e supplendo l'interpunzione.
Paragonandolo col testo della Sibilla, o con quello di Assone, si può
scorgere quale relazione abbia con essi. Non mi soffermo a indagare,
chè qui sarebbe superfluo, in quale occasione questa profezia possa
essere stata composta. Anche Teolosforo da Cosenza dà all'ultimo
imperatore il nome di Carlo, e dice che deporrà la corona sul sepolcro
di Cristo.

[939] Cf. la seconda epistola di San Paolo ai Tessalonicensi.

[940] SCHWAB, _Die Legende von den heiligen drei Königen_, p. 181-2.

[941] L. I, c. 22.

[942] Cf. _The book of Ser Marco Polo, newly translated and edited by_
H. YULE, Londra, 1871, v. I, p. 120-30, nota dell'editore dove sono
raccolte intorno all'Albero secco parecchie notizie.

[943] Di ciò non è fatto cenno nè nello Pseudo-Callistene, nè in Giulio
Valerio, nè nell'_Itinerarium_. Sospetto che se ne parli la prima volta
nella _Historia de proeliis;_ ma non posso accertarmene ora. Dalla
_Historia_ questa particolarità sarebbe passata in molte delle versioni
occidentali. V. anche ECCARDO URAUGIENSE, _Chronicon universale_, ap.
PERTZ, _Script._, t. VI, p. 71.

[944] Fu pubblicato dallo ZARNCKE, _Der Priester Johannes, zweite
Abhandlung_, p. 127-8.

[945] And a lytille fro Ebron is the Mount of Mambre, of the whiche the
Valeye takethe his Name. And there is a Tree of Oke, that the Sarazines
clepen Dirpe, that is of Abrahames tyme, the whiche Men clepen the drye
Tree. And thei seye, that it hathe been there sithe the beginnynge of
the World; and was sumtyme grene, and bare Leves, unto the tyme that
oure Lord dyede on the Cros; and thanne it dryede; and so dyden alle
the Trees, that weren thanne in the World. And summe seyn, be here
Prophecyes, that a Lord, a Prince of the West syde of the World shalle
wynnen the Lond of Promyssioun, that is the Holy Lond, withe helpe of
Cristene Men; and he schalle do synge a Masse undir that drye Tree,
and than the Tree schalle wexen greene and bore bothe Fruyt and Leves.
And thorghe that Myracle manye Sarazines and Jewes schulle ben turned
to Cristene Feythe. And therfore thei don gret Worschipe thereto, and
kepen it fulle besyly. And alle be it so, that it be drye, natheles
zit he berethe gret vertue; for certeynly he that hathe a litille
there of upon him, it belethe him of the fallynge Evylle; and his Hors
schalle not ben a foundred; and manye othere Vertues it hathe: where
fore Men holden it fulle precious. _The Voiage and Travaile of sir John
Mawndevile_, ed. di J. O. Halliwell, Londra, 1839, c. VI, p. 68-9.

[946] Così nella divulgatissima leggenda del viaggio di Set al Paradiso
terrestre, di cui si hanno redazioni in tutte le lingue di Europa, e in
molti altri racconti di consimile argomento.

[947] Purgat., c. 32.

[948] In un Mistero di Chester, intitolato appunto _Antichrist_, si
vedono parecchi re far atto di sommessione all'Anticristo. Non si dice
di che regno sieno; ma l'Anticristo dà al primo di essi la Lombardia,
al secondo la Danimarca e l'Ungheria, al terzo il Ponto e l'Italia,
al quarto Roma. MARRIOTT, _A collection of english Miracle-Plays or
Mysteries_, Basilea, 1838, p. 22.

[949] Thesaurus anecdotorum novissimus, t. II, parte 3ª, p. 186 e segg.

[950] _Vom römischen Kaisertum deutscher Nation_, p. 213 e segg. Il
Zezschwitz ne diede anche una versione tedesca: _Das Drama vom Ende des
römischen Kaisertums und von der Erscheinung des Antichrists,_ Lipsia,
1878.

[951] _Der Ludus de Antichristo und ueber die lateinischen Rythmen_,
Monaco, 1882.

[952] V. vol. I, p. 257-9. V. inoltre RÉVILLE, _Essais de critique
religieuse_, n. ed., Parigi e Ginevra, 1869, _Néron l'antéchrist_,
p. 79-143, e ITTAMEIER, _Die Sage von Nero als dem Antichrist_, nella
_Zeitschrift für kirchliche Wissenschaft und kirchliches Leben_, 1882,
num. 1.

[953] Come prova del perdurare di questa credenza nel medio evo basterà
riferire ciò che Gobelino Persona dice nel _Cosmodromio_, Età VI, c. 3:
«Nonnulli opinantur Neronem non occisum, sed occultatum, et cum in illa
aetatis forma, qua fuit occultatus, futurum esse Antichristum».

[954] V. VOIGT, _Die Kiffhäusersage_, Lipsia, 1871, p. 12-3.

[955] V. SIMROCK, _Kerlingisches Heldenbuch_, Francoforte sul Meno,
1855, p. 219; BECHSTEIN, _Mythe, Sage, Mähre und Fabel im Leben und
Berwusstsein des deutschen Volkes_, Lipsia, 1854-5, v. III, p. 183-8;
G. PARIS, _Histoire poétique de Charlemagne_, p. 428.

[956] Che in queste finzioni si tratti veramente di Federico II e non
di Federico Barbarossa, come fu comunemente creduto, dimostrò in modo
da non lasciar luogo a replica, il VOIGT, _Die deutsche Kaisersage_,
nella _Historische Zeitschrift del Sybel_, v. 26, 1871, p. 131-87.
V. inoltre MEYER, _Tile Kolup_, Wetzlar, 1868; RIEZLER, _Der Kreuzzug
Kaiser Friedrich I_, in _Forschungen zur deutschen Geschichte_, v. X.

[957] Maurizio Brosch nega nella _Historische Zeitschrift_ del
Sybel, v. 35, 1876, p. 17-31, che la leggenda di Federico II abbia
avuto principio in Italia; ma senza ragioni molto stringenti, parmi.
La opinione del Voigt, alla quale io mi raccosto, fu contraddetta
anche dal VÖLTER, _Die Secte von Schwäbisch-Hall, nella Zeitschrift
für Kirchengeschichte_, v. IV, 1880, p. 360-93. Un esame più
particolareggiato e una ordinata discussione delle contrarie opinioni
sarebbero qui inopportuni. V. inoltre HAUSSNER, _Die deutsche
Kaisersage_ (Progr.), Bruchsal, 1882.

[958] V. RIEZLER, _Zur deutschen Kaisersage_, nella _Historische
Zeitschrift_ del Sybel, v 32, 1874, p. 63 e seg.

[959] _Chronicon_, ed. Wyss, p. 250.

[960] Ap. ARETIN, _Beyträge zur Geschichte und Literatur_, v. IX, p.
1134.

[961] Ciò si ha nel poema intitolato _Sibillen Weissagungen_,
composto verso il mezzo del secolo XIV, e molte volte stampato.
Una versione basso-renana di questo poema, intitolata _Sibillen
Boich_, fu pubblicata dallo SCHADE, _Geistliche Gedichte des XIV
und XV. Jarhunderts vom Niderrhein_, Annover, 1854, p. 296-332. Se
ne fece anche un libro popolare intorno al quale v. GOERRES, _Die
teutsche Volksbücher_, p. 238-42. V. inoltre MONE, _Schauspiele des
Mittelalters_, Karlsruhe, 1846, v. II, p. 305-24.

[962] V. p. 467-8 di questo volume.

[963] V. le Rivelazioni di Metodio col commento di Volfango Aytinger,
pubblicate in Augusta l'anno 1496. Nella versione latina pubblicata
nel v. III della _Bibliotheca maxima patrum_ (Lione) Turchi e Saraceni
compajono insieme.

[964] V. Eisenmenger, op. cit., v. II, p. 700, 703 e segg., 747, 805.

[965] V. intorno alla identità di Magog e degli Sciti in Ezechiele uno
scritto del LENORMANT, _Magog, fragments d'une étude sur l'ethnographie
du chapitre X de la Genèse_, nel _Muséon, revue internationale_, v. I,
p. 9-48.

[966] Dice il Renan nel suo libro _L'Antechrist_, p. 405-6: «Déjà,
vers l'époque dea traducteurs grecs de la Bible et de la composition
du livre de Daniel, l'expression qui désigne simplement dans l'hébreu
classique un avenir indéterminé, signifiait «à la fin des temps», et
ne s'appliquait plus qu'aux temps du Messie. L'auteur de l'Apocalypse
est amené de la sorte à rapporter les chapitres XXXVIII et XXXIX
d'Ezéchiel aux temps messianiques, et à considérer Gog e Magog comme
les représentants du monde barbare et païen qui survivra à la ruine
de Rome, et coexistera avec le règne millénaire du Christ et de ses
saints».

[967] _Antiq. jud._, l. I, c. VI, 1 (_Flavii Josephi Opera_, ed. del
Dindorf, Parigi, 1845-7).

[968] _Comment. in Ezech._, XXXVIII, 2.

[969] _Comment. in Apoc._, c. LXII, _Max. Bibl. Patr._ di Lione, t. V,
p. 627.

[970] Commentando nel _De civitate Dei_, l. XX, c. 11, le parole di San
Giovanni nell'Apocalissi, XX, 7, egli dice: «Gentes quippe istae, quas
appellat Gog et Magog, non sic sunt accipiendae, tamquam sint aliqui in
aliqua parte terrarum barbari constituti, sive quos quidam suspicantur
Getas et Massagetas, propter litteras horum nominum primas, sive
aliquos alios alienigenes, et a Romano jure sejunctos. Toto namque orbe
terrarum significati sunt isti esse, cum dictum est, _Nationes quae
sunt in quatuor angulis terrae_: easque subjecit esse Gog et Magog».

[971] V. ISIDORO DI SIVIGLIA, _Orig_. IX, 2, 27; ZONARA, _Annales_, l.
I, c. 5.

[972] _Quaest. hebr. in Genes._, X, 2.

[973] _De fide ad Gratianum_, II, 4.

[974] NEUBAUER, _La géographie du Talmud_, Parigi, 1868, p. 422: «Magog
est rendu dans le Tal. de Jér. par _Gothia_, ce qui se rapporte à
l'invasion des Goths, que la tradition juive identifie avec celle du
peuple Gog et Magog. Le Tal. de Bab. rend Magog par Kandia, ce qui est
sans doute une faute de copiste. Quant au Targoum du Pseudo-Jonathan,
qui lit ici _Germania_, il faut le faire rapporter au mot Gomer». Cf.
Lenormant, scritto citato, p. 9-10.

[975] Renan, op. cit., p. 460.

[976] _De bello judaico_, l. VII, c. 7 (ed. cit.): Τῆς παρόδου γὰρ
οῦτος δεσπότης ἐστὶν, ἣν ὁ βασιλεὺς Ἀλέξανδρος πύλαις σιδηραῖς κλειστὴν
ἐποίησε.

[977] V. più oltre le curiosa leggenda narrata da Giosippo Gorionide.

[978] Egli nota delle seconde (_Hist. nat._, VI, 2): «ingens opus,
montibus interruptae repente, ubi fores obditae ferratis trabibus». A
tale proposito è da avvertire che le Porte Caspie e le Porte Caucasee
non sono la medesima cosa, come fu creduto da molti, ed anche da
alcuni recentissimi, sebbene già lo stesso Plinio riprendesse sì fatta
confusione. Il nome di Porte Caucasee appartiene alla gola di Dariel,
detta dai Georgiani Khewis-kari; il nome di Porte Caspie al passo di
Derbent, chiamato Bab-al-uab dai Persiani, e Demir-kapi dai Turchi.

[979] _Opera_, ed. dei Benedettini, v. IV, col. 661. San Gerolamo
identifica per altro gli Unni da lui descritti con gli Sciti descritti
da Erodoto: «Hanc gentem Herodotus refert sub Dario rege Medorum
viginti annis Orientem tenuisse captivum, et ab Aegyptiis atque
Aethiopibus annuum exegisse vectigal». Nel fatto dunque egli veniva
a identificare gli Unni con le genti di Magog, che erano appunto gli
Sciti di Erodoto, ma nel suo concetto ne li distingueva, giacchè noi
abbiam veduto che egli non ammetteva la opinione dei Giudei e dei
giudaizzanti che quei di Magog fossero gli Sciti.

[980] Ed. di F. Weber e J. Caesar, Marburgo, 1858-64, l. III, c. 6. p.
180.

[981] _De bello persico_, I, 10.

[982] _Chronicum_, c. LXVI, ap. BOUQUET, _Recueil des historiens des
Gaules_, t. II, p. 438-9: «..... transmittens Heraclius legationem ad
Portas Caspias, quas Alexander Magnus Macedo super Mare Caspium aereas
fieri, et serrare jusserat propter inundationem gentium saevissimarum,
quae ultra montem Caucasi culminis habitabant, easdem portas Heraclius
aperire praecepit: indeque centum quinquaginta millia pugnatorum
auroque locatorum auxilio suo contra Sarracenos ad praeliandum mittit».
V. anche l'_Eraclius_ tedesco di Otten pubblicato dal Massmann,
Quedlinburgo e Lipsia, 1842, v. 5094-136.

[983] L. III. c. 20.

[984] L. VIII, c. 3.

[985] DUBOIS, _Voyage autour du Caucase_, Parigi, 1839-43, v. II, p.
31-2.

[986] Il DOELLINGER, _Der Weissagungsglaube und das Prophetenthum in
der christlichen Zeit_ (_Hist. Taschenb._ del Raumer, serie Vª, v.
I, p. 306), ricorda la poesia di un Giacobita siriaco del VI secolo,
dove è narrata la leggenda delle genti rinchiuse. Non so se questa sia
quella stessa di Mar Yakub, di cui dovrò far parola più oltre, e di cui
non mi venne fatto di conoscere sicuramente la età.

[987] Cap. XVIII; cf. c. XXI.

[988] V. contro la identità, SPIEGEL, _Die Alexandersage bei
den Orientalien_, Lipsia, 1851, p. 57-60; REDSLOB, _Ueber
den «Zweihörnigen» des Koran_, in _Zeitschrift der deutschen
morgenländischen Gesellschaft_, v. VIII, p. 442-50, v. IX, p. 214-23
307 (identificazione di Zul-Carnein con Ciro); BEER, _Welchen
Aufschluss geben jüdische Quellen ueber den «Zweihörnigen» des
Koran?_ ibid., v. IX, p. 785-94. V. in favore della identità H. GRAF,
_Ueber den «Zweigehörnten» des Koran_, ibid., v. VIII, p. 442-9;
Roth, ibid., v. IX, p. 797-9; VOGELSTEIN, _Adnotationes quaedam ex
litteris orientalibus petitae ad fabulas, quæ de Alexandro Magno
circumferuntur_, Vratislavia, 1865, p. 27-40. Marco Polo, il quale
trovò in Asia non pochi ricordi di Alessandro Magno, dice nella
relazione de' suoi viaggi (c. XLII del testo francese, _Receuil de
voyages et de mémoires, etc._, t. I) che i re del regno di Badassan
discendevano da Alessandro e dalla figliuola di Dario, e in onore
del capo della loro stirpe si chiamavano tutti Zul-Carnein, ossia
Alessandro. Al nome di Zul-Carnein, o Bicorne, diedero origine assai
probabilmente le monete dove Alessandro, presunto figliuolo di Giove
Aminone, è effigiato con due corna. Una delle obbiezioni mosse a
chi ammette l'identità di Zul-Carnein e di Alessandro Magno si è che
nè Maometto, nè i suoi seguaci avrebbero mai potuto dare al pagano
Macedone il carattere profetico che nel racconto appunto del Corano
gli è attribuito, ma tale obbiezione cade di per sè quando si rifletta
che nel Corano s'introduce un Alessandro leggendario, non l'Alessandro
storico. Certo si è che quelle ripugnanze non dovettero mai essere
molto vive negli animi dei Musulmani, giacchè noi vediamo più tardi
la leggenda ingegnarsi di far discendere Alessandro da Esaù, e ciò
perchè non poteva essere profeta chi non fosse della stirpe di Sem,
e nel _Iskender-Nameh_ di Abd-al-Salam Alessandro Magno è a dirittura
presentato come un profeta.

[989] V. GIUSEPPE FLAVIO, _Antiq. jud._, l. XI, c. 8, 5; _Contra
Apionem._ Efrem Siro dice nel suo commento a Geremia che Alessandro
Magno fece trasportare con gran pompa in Alessandria le ossa di questo
profeta, e nella versione siriaca dello Pseudo-Callistene, della quale
dovrò riparlare, si narra che Alessandro fece dono a Gerusalemme del
suo trono d'argento. Ora tali favole sono indubitabilmente di origine
giudaica.

[990] V. LEVI, _Les traductions hébraïques de l'histoire d'Alexandre_,
nella _Revue des études juives_, 1881, p. 238-9.

[991] Il Beer sostiene, nel già citato suo scritto, che il bicorne
della tradizione giudaica sia in origine, non Alessandro, ma un
Messia della stirpe di Giuseppe, e che gli scrittori ebraici i quali
attribuiscono ad Alessandro il rinserramento di Gog e Magog, attinsero
da fonti arabico-maomettane. Questa tesi a me pare insostenibile.
S'intende come gli Ebrei abbiano potuto attribuire quella impresa
meritoria ad Alessandro sin da principio, ma non s'intenderebbe come,
per farne bello Alessandro, essi potessero spogliarne un Messia, e ciò
per impulso venuto da fuori.

[992] _Maxima Bibliotheca veterum Patrum_ (Lione) t. III, p. 729.

[993] _Ass[u]r_ in ebraico è il nome di un albero, e più
particolarmente di una specie di cedro; ma non è certamente in
questo significato che l'autore delle _Revelationes_ vuole usare
il vocabolo. La sostanza da lui designata per esso è una sostanza
resistente al ferro, refrattaria al fuoco. Vedremo tra breve che nello
Pseudo-Callistene si trova un racconto molto simile a questo delle
_Revelationes_, e che, sebbene non serbi più così intenso lo spirito
ebraico, mostra tuttavia per parecchi segni che la origine sua è la
medesima. Della sostanza resistente e refrattaria è fatto cenno anche
in esso; ma il vocabolo che serve a designarlo appare con diversa forma
in ciascun manoscritto (ἀσοκίτῳ, ἀσυκήτῳ, ἀσυχύτῳ, ecc.), e sebbene
in alcuno s'interpreti per _amianto_, non si trova in nessuna forma
registrato nei lessici.

[994] V. lo _Pseudo-Callisthenes_ per la prima volta pubblicato,
insieme con l'_Itinerarium Alexandri_, da C. Müller, in calce
all'Arriano del Dübner, Parigi, 1846.

[995] Cf. ZACHER, _Pseudocallisthenes, Forschungen sur Kritik und
Geschichte der ältesten Aufzeichnung der Alexandersage_, Halle, 1876,
p. 165-6, 172.

[996] Un'analisi di questa versione diede il WOOLSEY nel _Journal of
the American Orientalists_, IV, 2.

[997] V. LETRONNE nel _Journal des Savants_, 1818, p. 620, o MUELLER,
Introduzione, p. XXVI.

[998] Mueller, ibid., p. XVI, col. 1ª.

[999] L. III, c. 29. Nella recensione C la leggenda è narrata, come
nella B, in quel luogo medesimo, ma si trova anche intercalata, in una
forma alquanto più diffusa e con qualche diversità, nel c. 26 di quello
stesso libro.

[1000] Questa preghiera è recata per disteso nel testo C, c. 26.
Giustamente osserva il Zacher, loc. cit., che essa ha spiccatissimo il
carattere giudaico.

[1001] I nomi dei popoli rinchiusi variano moltissimo da uno ad un
altro racconto. Nelle _Revelationes_ (versione latina della _Bibl.
max. vet. pat._) essi sono: Gog e Magog, Mosach, Thubal, Anog,
Ageg, Athenal, Cephar, Pothim, Hei, Libii, Cumei, Pharilei, Ceblei,
Lamarchiani, Charchanii, Amathartae, Agrinardi, Alan, Anufagi o
Cinocephali, Caribei, Thasbei, Phisolomici, Arceni, Salterei. Nella
recensione B dello Pseudo-Callistene si trovano invece: Magog,
Cinocefali, Nuvii, Fonocerati, Siriasorii, Jonii, Catamorgori,
Imantopodi, Campani, Samandri, Ippii, Epambori, cioè dodici nomi
solamente; là dove nella recensione C si ha: Gog, Magog, Anugi, Egi,
Esenac, Dylar, Fotinei, Farisei, Zarmantiani, Coloni, Arghimardi,
Anufagi, Tarbei, Alani, Fisolonicei, Saltarii, _e gli altri_. Si
vede che la lista della recensione C, assai più che non quella della
recensione B, si accorda con la lista delle _Revelationes_, e che molti
dei nomi recati in questa hanno una impronta ebraica che manca a quelli
della recensione B. Alcuni dei nomi dell'una e dell'altra lista si
possono riconoscere come nomi proprii di genti favolose che figurarono
nella etnografìa immaginaria dell'antichità e del medio evo; altri sono
irriconoscibili, e forse inventati di pianta. Nelle storie volgari
di Alessandro Magno, e in alcune epistole del Prete Gianni, delle
quali dirò a suo luogo, il numero e i nomi dei popoli rinchiusi vanno
soggetti a nuove e sempre maggiori alterazioni; ma di esse non giova
tener conto. Secondo una tradizione orientale ricordata da Ibn Khaldun
i popoli furono quaranta.

[1002] Cosmographia Aethici Istrici ab Hieronymo ex graeco in latinum
breviarium redacta, edita da Enrico Wuttke, Lipsia, 1853.

[1003] V. PERTZ, _De cosmographia Ethici libri III_, Berlino, 1853;
WUTTKE, ed. cit., Introduzione, e inoltre _Die Aechtheit des Auszugs
aus der Cosmographie des Aethicus geprüft_, Lipsia, 1854.

[1004] Ed. cit, p. 18-20.

[1005] Dicit eos (_Aethicus_) usque Euxinum maris sinum insolis vel
litoribus inclusos Byrricheos montes et Taracontas insolas contra ubera
aquilonis.

[1006] Il perchè di tale adorazione è assai difficile ad intendere:
«Colere Saturnum, ob hoc quod temporibus Octaviani Augusti censum
dederunt in auro litorico, nulli romanorum regum aut imperatorum nec
antea nec postmodum, et tunc quidem sponte, videntes quoque vicinas
regiones censum dare: arbitrati sunt quod deus dierum novus ortus
fuisset et in ipso mense Augusto congregaverunt ad unam catervam
generationem cunctam seminis eorum in insola maiore maris oceani
Tareconta, fecerunt acervum magnum lapide ac bitumine conglutinatum,
aedificantes pilas praegrandes mirae magnitudinis et cloacas subtus
marmore constructas, phyrram fontem glutinantes et appellaverunt
Marcholum lingua sua, id est stellam deorum, quo derivato nomine
Saturnum appellant».

[1007] Il solo racconto ch'io trovi legarsi in qualche modo al racconto
di Etico è nel _Kyng Alisaunder_. I re rinchiusi da Alessandro Magno
sono discendenti di Nembrot; le genti loro sono nere, con denti simili
a quelli dei cinghiali, si cibano di carne umana e di ogni maniera
d'insetti, e vivono promiscuamente, non trattenendosi i figli dall'usar
con la madre, il fratello con la sorella. Alessandro muove contro di
loro con un esercito innumerevole, raccolto da tutte le province che
ha conquistate, ma giunto a venti miglia da Taracont, loro metropoli,
non gli riesce d'andare più oltre. Dolente di non poter distruggere
quella scelerata genìa, retrocede fino ad un paese posto fra l'Egitto e
l'India, dal quale, dopo circa sei mesi, torna con molte navi cariche
di un'argilla che ha la proprietà di diventar dura al pari del ferro,
e con cui mura quelle genti per modo che non potranno uscire dalla lor
regione sino al tempo dell'Anticristo (v. 5990 e segg.). Nella mappa di
Hereford, che dovrò ricordare novamente, più oltre, nell'oceano scitico
è rappresentata una grand'isola cui accompagna la scritta: _Demeorata
insula qua inhabitant Turchi de stirpe Gog et Magog gens barbari et
immunda._

[1008] Versione di Aria Montano, Anversa, 1575, p, 67-8; versione di
Costantino L'Empereur, Leida, 1633, p. 128-9.

[1009] _Hist. jud._, l. VI, c. XCVI.

[1010] Essa è anche più orribile nella Cosmografìa di Etico. Eccola:
«Gens ignominiosa et incognita, monstruosa, idolatria, fornicaria in
cunctis stupris et lupanariis truculenta...... Commedunt enim universa
abominalia et abortiva hominum, iuvenum carnes iumentorumque et
ursorum, vultorum item charadrium ac milvorum, bubonum atque visontium,
canum et simiarum....... Habent enim staturam fuligine teterrimam,
crines corvini similitudine, dentes stertissimos».

[1011] _Géographie traduite par A. Jaubert, X sect._, v. II, p. 849-50.

[1012] V. _Des Mor Yakûb Gedicht über der gläubigen König Aleksandrûs
und über das Thor, das er machte gegen Ogûg und Mogûg_, Berlino,
1852. Il testo originale si trova nella Crestomazia siriaca del Knoes,
Gottinga, 1807, p. 66-107.

[1013] _Historia Britonum_, l. I, c. 16. V. anche il _Roman de Brut_ di
WACE, v. 1070 e seguenti.

[1014] _Le livre des rois_, edizione e versione del Mohl, t. V, p.
223-7. Si ammette comunemente che Firdusi abbia tratto da una versione
arabica dello Pseudo-Callistene quanto narra di Alessandro Magno; ma se
così è quella versione doveva scostarsi molto dall'originale, giacchè
non poche cose da lui narrate non si ritrovano nello Pseudo-Callistene.
Ciò ch'egli racconta del muro di metallo costrutto da Alessandro
Magno sembra derivato dal Corano; la descrizione di Gog e Magog sembra
doversi a lui solo. Una osservazione consimile potrebbe farsi anche
a proposito di Nizami e d'altri scrittori orientali, che narrarono le
gesta del Macedone. V. intorno alla leggenda di Gog e Magog in Oriente
D'HERBELOT, _Bibliothèque orientale_, p. 157, 291, 318, 438, 470, 528,
795, 796, 811; e D'OHSSON, _Des peuples du Caucase_, Parigi, 1828, p.
275 e segg.

[1015] Vedila riportata dal VON DER HAGEN, _Beitrag zur Geschichte und
Literatur der deutschen Wolksbücher, Museum für altdeutsche Literatur
und Kunst_, v. I, p. 266-7.

[1016]

    Ausz seinem munde get gestanck
    Recht als ausz ninem privat.

[1017] _Les Prolegomènes d'Ibn Khaldun traduits en français et
commentés par M. de Slane_, parte 1ª, quarto clima, p. 149.

[1018] Domenico Scolari invece dice nel l. III della sua Alessandreide
(cod. Magliabechiano II, 11, 30) che Alessandro Magno usò di arte
magica per rinchiudere Gog e Magog. Nella rubrica corrispondente a
questa parte del racconto si legge:

    E come trovò le genti Gog
      e ancora gli Magog,
      nei monti dei Caspi gli serrò
      e per arte magica gli ordenò.

Questa variante della favola deve derivare da un errore di lettura, o
da un error di copista introdottosi nel libro da cui lo stesso Scolari,
almeno in parte, attingeva. Era questo il poema latino di Qualichino
d'Arezzo, o piuttosto da Spoleto (v. GRION, _I nobili fatti di
Alessandro Magno, Collez. di op. in. o rare_, Bologna, 1872, p. LXXXIX)
ove la rubrica dice: _Alexander inclusit arte magna quasdam gentes
immundas,_ ecc. La fonte principale, ma non unica, di Qualichino, è la
_Historia de proeliis_.

[1019] _S'ensuivent plusieurs nouvelletés et divercités estant entre
les bestes, en la terre du prestre Jehan_, in appendice a _La nouvelle
Fabrique des excellens traits de verité_ di FILIPPO D'ALCRIPE, Parigi,
1853, p. 198: «...... et celles gens sont ceulx qui encloyrent le roy
Alexandre dedans Macedoine et le mirent en prison, et leur eschappa».
Qui furono a dirittura scambiate le parti, perchè non si dice poi in
nessun modo che, a sua volta, Alessandro rinchiudesse Gog e Magog.

[1020] Ed. Michelant, p. 313.

[1021] IBN KHORDADBEH, _Le livre des routes et des provinces_
pubblicato da Barbier de Meynard, _Journal asiatique_, serie VIª, l. V,
1865, p. 490-6, dove sono indicate altre relazioni del viaggio. EDRISI,
_Géographie_, ed. cit., v. II, p. 416-20.

[1022] HAMMER, _Rosenöl_, Stoccarda e Tubinga, v. I, p. 287-91.

[1023] Nel poema dell'_Intelligenza_ attribuito a Dino Compagni, st.
226, si legge:

    Que' di Sithia non seppelliano i morti:
        Avanti coma bestie li mangiavano:
        Ecc.

Ciò che segue riscontra assai bene col racconto della _Historia de
proeliis_, dove si dice che Alessandro «deambulans ultra Sithiam in
partibus Orientis invenit gentem immundam, etc.».

[1024] RABANO MAURO dice nel trattato _De Universo_, l. XII, c. 4:
«Schythia sicut Gothia a Magog, filio Jafet, fertur cognominata».
Armannino Giudice dice nella _Fiorita_: «De Magog discese Goti e
quelli altri che si chiamano Gog e Magog». A tale identificazione
assai probabilmente si deve se i nomi di Gog e Magog si scrissero
anche spesso Got e Magot, o in altre forme molto prossime a queste.
Il Joinville usa Got e Magoth; Gotz e Magotz, Got e Magot, si trova
in parecchie versioni francesi della epistola del Prete Gianni; Goth
e Magoth dice Francesco Rinuccini nella _Invettiva contro a cierti
caluniatori di Dante e di messer Francesco Petrarca e di messer
Giovanni Boccacci_, WESSELOWSKY, _Paradiso degli Alberti_, Bologna,
1867, v. I, parte 2ª, p. 304. Altri esempii sono assai numerosi.

[1025] Abbiamo veduto che cosa, a proposito dell'irruzione degli Unni,
dicesse San Gerolamo. Cf. GERVASIO DI TILBURY, _Otia imperialia_, dec.
II, c. 16. Nella versione siriaca dello Pseudo-Callistene si dice che
Alessandro costrusse il muro e la porta di ferro per trattenere gli
Unni. V. anche DESGUIGNE, _Histoire générale des Tartares_, Parigi,
1756-8, t. I, parte 2ª, p. 368.

[1026] V. JOHANNES DE THWROCZ, _Chronica Ungarorum_, c. I, ap.
SCHWANDTNER, _Scriptores rerum hungaricarum_, v. I, p. 42-3.

[1027] Ibn Khaldun fa Gog e Magog della razza dei Turchi. Nel _Kyng
Alisaunder_ i Turchi figurano tra le altre genti rinchiuse; ma nel
_Romans d'Alixandre_ di Lambert li Tors e Alexandre de Bernay, Gog
e Magog, che prima d'essere rinchiusi combattono con Porro contro
Alessandro, vengono dalla terra dei Turchi (ed. Michelant, p. 300).
Fra i rabbini Isacco Abarbenel ammise la identità di Gog e Magog e
dei Turchi: In alcune mappe, come per esempio nella cottoniana dell'XI
secolo conservato nel Museo Britannico, i Turchi abitano una regione
adiacente a quella di Gog e Magog (V. SANTAREM, _Atlas composé de
mappemondes, de portulans et de cartes hydrographiques et historiques
depuis le VIe jusqu'au XVIIe siècle_).

[1028] Per le varie opinioni dei rabbini v. EISENMENGER, _Entdecktes
Judenthum_, v. II, p. 732-42.

[1029] _Re_, II, XVII, 6; _Cronache_, I, V, 26. V. WICHELHAUS, _Das
Exil der zehn Stämme Israël, in Zeitschrift d. deutsch. morgenländ.
Gesellsch._, v. V, p. 467-82. I Nestoriani di Ciulamerk, e gli Ebrei
che vivono con essi nelle valli dello Zab superiore, in una regione
pressochè inaccessibile, pretendono ancora oggigiorno di discendere
dalle dieci tribù.

[1030] Sbaglia dunque di grosso il LELEWEL quando dice (_Géographie du
moyen âge_, Bruxelles, 1853, v. II, p. 87, n. 185): «Il est probable
que la prononciation du nom arabe de Jadjoudj, suggéra l'idée d'y voir
les juifs et leur dix tribus exilés»: e similmente sbaglia nel credere
che lo scambio sia avvenuto solamente nel XV secolo (ibid., p. 62, n.
116).

[1031] St. 1938-52.

[1032] In parecchie mappe del medio evo il paese delle Amazzoni è
limitrofo a quello di Gog e Magog. Giovanni di Hese dice nel suo
Itinerario parlando della terra Amosona, cioè delle Amazzoni: «Et
ibidem est regina sic vocata. Et dicitur, quod ibidem sunt Gog et Magog
conclusi inter duos montes». V. l'Itinerario inserito dallo ZARNCKE nel
suo _Priester Johannes_, II Abh., p. 171.

[1033] Cf. PIETRO COMESTORE, _Historia scholastica_, c. 197. Una valle,
o gola infestata dai serpenti si ha nei Viaggi di Sindbad e in parecchi
racconti occidentali del medio evo.

[1034] Ed. di K. A. Hahn, Quedlinburgo e Lipsia, 1842, et. 6057-60.

[1035] _Polychron_., l. II, c. 34.

[1036] V. GOTOFREDO DA VITERBO, _Pantheon_, partic. XI. Guglielmo
Rubruquis dice nella relazione della sua ambasceria al Gran Cane
(1253), dopo aver ricordato la porta ferrea e le mura costrutte
da Alessandro Magno per trattenere i pastori del deserto: «Alia
sunt claustra in quibus sunt Judaei, de quibus nihil certum potui
addiscere». In una mappa di un codice ginevrino di Sallustio (XV
secolo) Gog e Magog e i _Judaei inclusi_ occupano tre diverse ma
contigue regioni (v. LELEWEL, _Atlas_, tav. XXXV). Nella mappa
metallica del museo Borgia (XV secolo) Gog e Magog stanno in due
diverse province, separate da una giogaja di monti. Nell'una è scritto:
_Provincia gog, in qua fuerunt iudei inclusi tempore artaxersis regis
persarum_. Nell'altra: _Magog in istis duabus sunt gentes magni et
gigantes pleni omnium malorum morum. Quos iudeos artaxersex collexit
de omnibus partibus persarum_ (v. SANTAREM, _Atlas_, tav. XXXVIII). Di
Alessandro non è fatto cenno. I _Judaei clausi_ si trovano ancora in
mappe e globi del secolo XVI.

[1037] Nel _Guerin Meschino_ si dice non esser vero che Alessandro
chiudesse tra i monti le dieci tribù d'Israele, _perchè Alessandro
visse molte centinaia d'anni innanzi che i Giudei perdessero il regno
di Gerusalemme_ (l. II, c. 51). Cf. il _Guerino_ di TULLIA D'ARAGONA,
c. X, st. 87 segg.

[1038] V. HERIGER, _Gesta episcoporum Leodiensum_, c. XX; cf. JEAN
D'OUTREMEUSE, _Ly myreur des hystors_, v. II, p. 17.

[1039] Per quanto concerne la leggenda del Prete Gianni, della quale
io non mi debbo qui occupar di proposito, rimando il lettore agli
scrittori che ne trattarono, e più particolarmente ai seguenti: OPPERT,
_Der Presbyter Johannes in Sage und Geschichte_, Berlino, 1864; BRUNET,
_La légende du Prêtre Jean_, Bordeaux, 1877; ZARNCKE, _Der Priester
Johannes, Abhandl. der philol. hist. Cl. d. k. sächs. Gesell. d.
Wiss._, Lipsia, 1876-9.

[1040] V. Zarncke, op. cit., I Abh., p. 892-3, 911.

[1041] Così nella epistola latina a Emanuele Comneno interpolata. La
favola si trova poi nelle versioni. In Italia si ebbero tre versioni di
epistole del Prete Gianni, l'una indirizzata all'imperatore Federico,
l'altra indirizzata a Emanuele Comneno, la terza indirizzata a Carlo
IV. La prima fu pubblicata dal Moutier nel v. VIII della sua edizione
della Cronica di Giovanni Villani, p. XCI-XCIII; la seconda si trova
inedita in moltissimi manoscritti; la terza fu pubblicata da Leone
del Prete in Lucca nel 1875 (_Lettera inedita del Presto Giovanni
all'imperatore Carlo IV ed altra di Lentulo ai Senatori Romani
sopra Gesù Cristo_). Le prime due contengono la leggenda quale si ha
nella redazione latina testè citata: se la contenga anche la terza,
pubblicata a 75 copie e rarissima, ignoro. Avverto di passaggio che il
Federico a cui si vuole indirizzata la prima epistola è, non Federico
I, come opina il Moutier (p. XCV-XCVI), ma Federico II, il quale anche
altrimenti fu posto in relazione col Prete Gianni. Una descrizione
un po' variata dei popoli rinchiusi si ha in una versione provenzale
della epistola all'imperatore Federico (v. SUCHIER, _Denkmäler
provenzalischer Literatur und Sprache_, Halle, 1882, p. 344-5). — Altre
notizie bibliografiche intorno alle versioni delle epistole del Prete
Gianni possono trovarsi nel citato scritto del Brunet, p. 26-7.

[1042] V. MATTEO PARIS, _Historia major_, ad. a. 1240.

[1043] _Histoire de Saint Louis_, XCIII, _Oeuvres_, ed. di Natalis
de Wailly, Parigi, 1867, p. 314-6. Cf. PIERRE BERGERON, _Traité des
Tartares_, c. IV, nella sua collezione intitolata _Voyages faits
principalement en Asie dans les XII, XIII, XIV et XV siècles_, t. II.

[1044] Cap. XVI.

[1045] C. LXXIV del testo francese. Cf. YULE, _The book of Ser Marco
Polo_, v. I, p. 259.

[1046] Cap. X, ap. LAURENT, _Peregrinatores medii aevi quatuor_,
Lipsia, 1864.

[1047] Cf. RICHERIUS SENONENSIS, _Chronicon_, l. IV, c. 19, ap.
D'ACHERY, _Spicilegium_. 2ª ed., t. II.

[1048] _Ist. fior_., l. V, c. 29. Così pure molti altri cronisti.

[1049] _De Antichristo_, l. V, c. 15. Ma questa opinione fu anche
da molti respinta. In una mappa anglosassone dei tempi di Alfredo il
Grande, pubblicata dal Santarem, i Tartari sono molto discosti dalla
regione di Gog e Magog. In una delle copie della mappa di Marin Sanuto,
a settentrione della Cina è la regione di Gog e Magog, e a settentrione
di questa ve n'ha un'altra in cui è scritto: _hic fuerunt inclusi
tartari_ (V. SANTAREM, _Atlas_, tav. XVII; LELEWEL, _Atlas_, tav.
XXVII). Nella mappa del Palazzo Pitti (1447) di cui il Wuttke pubblicò
primo la metà orientale (op. cit., p. XXXII) una gran giogaja di monti
si stende parallelamente all'equatore dal Mar della Cina sino oltre
la Porta Ferrea sul Caspio. Su questa giogaja sono figurate alcune
torri che la leggenda annessa dice costruite dal Prete Gianni per
impedire l'accesso ai rinchiusi. A mezzodì, verso oriente, sono _Gog_
e _Provincia Macina_. La Porta Ferrea è accompagnata dalla leggenda:
_Porta ferrea ubi Alexander tartaros inclusit_. Dalla Porta Ferrea, in
direzione di nord-est, corre _Ymaus mons, montes inacessibiles_, e va
a raggiungere l'Oceano settentrionale, presso al quale una leggenda
distrutta in parte, dice: _Hic adeo..... habitantur ex ebreorum
generatione tribus decem_..... Di rincontro, poco discosto dall'Oceano,
sono altre due giogaje di _Montes inacessibiles_ e, in mezzo, _Magog_,
e a occidente di questo _Scythia ultra Ymaum montem_. A occidente del
monte Ymaus un'altra leggenda dice: _hac gente, hoc est ex tribu Dan
nasciturus est antichristus, qui magica arte montes istos aperientes_
(sic) _ad.. colas sibi irendas_ (?) _accedet_. Qui dunque abbiamo per
lo meno tre diversi popoli rinchiusi.

[1050] V. Beer, scritto e luogo citati, p. 786.

[1051] KOHL, _Reisen in Südrussland_, Lipsia, 1841, v. 1, p. 292.

[1052] L. cit.

[1053] Gior. XX, nov. 1ª.

[1054] _Dittamondo_, l. II, c. 26:

        Gog e Magog che Alessandro rinchiuse
        Col suon che poi più tempo stette fresco,
    Uscir de' monti con diverse muse
        E col fabbro Crustan, il qual fu tale,
        Che più paesi conquise e confuse.

Fazio degli Uberti ricorda Gog e Magog anche al l. IV, c. 2, dove il
Capello commenta (cod. di Torino N, I, 5, f. 131 r.): «Gog e Magog
populi sono oltra il Caucaso de la parte di septentrione, i quali
Alexandro incatenò, aço che non passassono a darli impaço di qua, in
questo modo, che lui s'accampò per lo iugo di monti e fe levar tutti
i passi, e poi conçegnò gran canoni di ramo per li luochi ove sempre
era vento, e per força del vento quelli canoni sonavano, e quei populi
credevano fossero le stremite del campo, e non s'attentavano movere,
e molti anni poi sonono, fin che i griffi li struppono façandogli lor
nidi». Crustan (intendi Gengiscan) leggono l'edizione milanese e la
veneziana del 1825; il cod. torinese meno scorrettamente Cuschan.

[1055] _Notices et extraits des manuscrits_, t. XIV, parte 2ª.

[1056] Cap. XII.

[1057] Oltre alle opere più comunemente note del Santarem e del
Lelewel, nelle quali a più riprese si parla delle immaginazioni dei
geografi del medio evo circa il paese di Gog e Magog, vedi VIVIEN DE
SAINT-MARTIN, _Recherches sur les populations primitives et les plus
anciennes traditions du Caucase_, Parigi, 1847; PESCHEL, _Der Ursprung
und die Verbreitung einiger geographischen Mythen im Mittelalter, Die
Länder Gog und Magog, Deutsche Vierteljahrschrift_, v. II, 1854, p.
250-7.

[1058] V. in proposito BAYER, _Dissertatio de muro Caucaseo_, nel v.
I dei _Commentarii Petropolitani_; RENNELL, _The geographical system
of Herodotus examined and explained_, Londra, 1800, p. 112; RITTER,
_Erdkunde Asiens_, t. II, p. 834.

[1059] Così il Rubruquis, Caterino Zeno, Ambrogio Contarini ed altri.

[1060] Per altri muri e ripari costruiti in Asia contro i popoli
del Settentrione v. BALDELLI, _Storia delle relazioni vicendevoli
dell'Europa e dell'Asia_, Firenze, 1827, parte 2ª, p. 858-9; Dubois,
op. cit., v. VI, p. 289-303.

[1061] Nell'Ural sembra che li ponessero alcuni scrittori siriaci,
come Ebedieso Sobense, Elia Damasceno e Mares di Salomone, i quali
narrano che Taddeo apostolo e Ageo suo discepolo giunsero predicando la
fede, e dopo aver percorso l'Assiria, la Partia, la Persia, l'Armenia,
l'Ircania, sino al paese di Gog e Magog, al di là del Mar Caspio.
V. ASSEMANI, _Bibliotheca orientalis Clementino-Vaticana_, t. III,
parte 2ª, p. XV. Nell'anonima _Historia ducum Hungariae_ Gog e Magog
si pongono a oriente della Scizia: «Ab orientali vero parte vicina
Scythiae fuerunt gentes Gog et Magog, quos inclusit Magnus Alexander».
Cap. I, ap. SCHWANDTNER, _Script. rer. hung._, v. I, p. 3. Abulfeda
pone il paese di Gog e Magog al di là del paese di Chipgiac e dice
che la giogaja di monti ond'è rinchiuso è contigua alla giogaja della
terra. _Géogr._, trad, di M. Reinaud, p. 294. Il traduttore nota a tale
proposito che i Russi chiamano cintura della terra una diramazione
dell'Ural. Abulfeda pone inoltre in prossimità dell'Ural, come pare,
una Terra cava, il cui popolo non può uscir fuori, stante la profondità
di essa, e nessuno vi può discendere.

[1062] Il D'ANVILLE credette erroneamente che il paese di Gog e
Magog, com'è situato da Alfargani, da Edrisi, e da altri scrittori
orientali, venisse a trovarsi sul 47º di lat. circa e al di là del 90º
di long, dal meridiano di Parigi. V. _Histoire de l'Académie royale des
Inscriptions et Belles-Lettres_, t. XXXI[1768], p. 216.

[1063] Sia qui notato di passaggio che secondo un mito germanico i
Rimtursi, o Frostietti, nemici degli uomini e degli dei, sono rinchiusi
nell'estremo settentrione, dietro una grande muraglia che essi tentano
costantemente di rompere.

[1064] V. ZURLA, _Il mappamondo di Fra Mauro Camaldolese descritto ed
illustrato_, Venezia, 1800, p. 32.

[1065] _Otia imperialia_, dec. II, c. 3. In un trattatello geografico
del XIII secolo, in versi tedeschi, i monti Caspii sono similmente in
India. V. ZINGERLE, _Eine Geographie aus dem dreizehnten Jahrhundert_,
v. 172-5, in _Sitzungsb. d. phil.-hist. Cl. d. k. Akad. d. Wiss. in
Wien_, v. L; cf. p. 425. Nella _Image du monde_, parte 2ª, c. 4 (_Des
diversités d'Ynde_) si dice (cod. della Nazionale di Torino L, IV, 5,
f. 207 v):

    D'Ynde si naist vng grans mons
    Qui est vue grans regions
    C'ons appelle mont Capien,
    Illecques a vue gens sans bien
    Que Alixandres dedens enclost,
    Et sont la gent Goth e Magoth
    Qui char d'ome manient creue
    Et bestes comme gent mescreue.

Il Mandeville pone i monti Caspii al di là del Catai e dice che alcuni
del paese li chiamano Gog e Magog. Nella carta catalana del 1375,
già ricordata, i Monts de Caspis corrispondono alla parte nord-est
del sistema Altai-Himalaya. Cristina di Pizan parla ancora dei Monti
Caspii:

    Vi les mons do Caspie, ou clos
    Sont Goz et Magoz bien enclos;
    De la sauldront, quant Antécrist
    Vendra contre la loy de Crist.

_Le livre du chemin de longue estude_, v. 1467-70.

[1066] V. D'HERBELOT, _Bibl. orient._, p. 795 e seg. Questa opinione
appunto sembra seguire Ibn Batuta. V. _The travels of Ibn Bat[u]ta;
translated from the abriged arabic manuscript copies by Samuel Lee_,
Londra, 1829, p. 213.

[1067] Così in una mappa del XII secolo, opera di Enrico canonico di
Magonza, ap. SANTAREM, _Atlas_, tav. XX, e nella mappa di Hereford del
XIII, ap. JOMARD, _Monuments de la Géographie_, n. 1-2.

[1068] V. nell'Atlante del Santarem, tav. XVI, la riproduzione di
una mappa che accompagna le _Grandes Chroniques de Saint Denis_ in un
codice della Biblioteca di Santa Genoveffa in Parigi.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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