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Title: La Carrozza di tutti
Author: De Amicis, Edmondo
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "La Carrozza di tutti" ***


                           EDMONDO DE AMICIS


                          La Carrozza di tutti



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1902
                                   —
                         =Sedicesimo Migliaio.=



                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

  _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti
          i paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia._

       Si riterrà contraffatto qualunque esemplare di quest'opera
                  che non porti la firma dell'autore.

                         Tip. Fratelli Treves.



LA CARROZZA DI TUTTI



CAPITOLO PRIMO.


                                                             Gennaio.

Era il primo di gennaio del 1896. Salii la mattina sul tranvai del
corso Vinzaglio, in via Roma. Per tutto il tragitto, di là a via
Garibaldi, fu un continuo salire e scendere di signore e di signori,
che pareva si fossero dati convegno nel carrozzone, poichè dentro
e sulle piattaforme, all'entrare e all'uscire, era uno scambio di
saluti, d'inchini, di levate di tuba e d'auguri, come in una sala di
ricevimento. A metà di via Garibaldi vidi dentro un quadretto curioso.
Stava seduta nel mezzo una contadina tarchiata, col fazzoletto in
capo e un grosso involto di cenci sulle ginocchia; di fronte a lei
una ragazza del popolo, col capo nudo e i capelli corti, un viso
mal lavato di monella, vestita poveramente; e tutt'intorno signore e
signorine elegantissime, indorate e impennacchiate, che ad ogni aprirsi
dei battenti a vetri mandavan fuori un'ondata d'odori fini come da
una bottega di profumiere. Mi maravigliai di non aver mai badato,
in tanti anni, ad alcuno di quei contrasti sociali che pure sono
così frequenti in quei carrozzoni; nei quali soltanto, non essendovi
separazione di classi, può accadere che gente del popolo infimo si
trovi per qualche tempo a contatto con gente della signoria, con tutto
l'agio d'esaminarla, di fiutarla e di ascoltarne i discorsi. Osservai
curiosamente allora l'attenzione viva e continua con cui quella
contadina e quella ragazza esaminavano le loro vicine, dalle ciocche di
fiori dei cappelli alle cernierine dorate dei guanti, tastando quasi
con gli occhi le stoffe e le pelliccie, il portamonete dell'una, il
libretto da messa dell'altra, e il loro modo d'alzarsi e di sedere e
ogni più piccola mossa e quasi ogni piega che facesse il loro vestito;
un'attenzione insistente, seria, scrutatrice, come se avessero avuto
davanti creature piovute da un altro mondo. Da quell'osservazione uscì
come un lampo nella mia mente. Cercai, ritrovai nella memoria altri
quadretti simili a quello, e diversi, e d'un significato profondo;
mi ritornarono alla mente scene, incontri, conversazioni, piccole
avventure allegre e tristi, che non si possono dare che in quella
specie di carrozza democratica, dove tutte le classi continuamente si
toccano e si confondono; mi sfilò davanti una processione di personaggi
che conoscevo soltanto per aver fatto delle “corse„ in loro compagnia,
coi quali non avevo mai parlato che sulle piattaforme, e che formavano
per me come una famiglia a parte di compagni abituali di viaggio; e mi
suonò dentro un'esclamazione che per poco non mi sfuggì dalla bocca: —
To'.... uno studio.... un libro.... _la carrozza di tutti!_

                                   *

Il giorno stesso questa idea mi fu attraversata da un'altra. Ripassando
in rassegna i “personaggi„ che m'eran più vivi nella mente, mi fermai
sopra due, sui quali fui tentato d'architettare un romanzo. Erano
un giovine e una ragazza. Questa, che doveva abitare nel borgo San
Donato, la trovavo sul tranvai della linea del Martinetto, alla prima
corsa delle sette e mezzo, ogni volta che salivo in piazza dello
Statuto per andar verso il centro di Torino. Il giovane saliva sullo
stesso carrozzone ogni giorno, all'angolo di via Siccardi. La ragazza
sedeva quasi sempre nell'angolo a dritta, dalla parte del cocchiere;
lui, quando c'era posto, le si metteva sempre accanto o di faccia.
Eran tutti e due piccoli, male in carne, di poca salute, pareva, e
vestiti meschinamente, ma puliti; di quei poveretti la cui gioventù
non consiste in altro che nella data della nascita, e che fanno più
pietà perchè mostrano d'aver coscienza della loro miseria fisica, e di
vergognarsene. Il giovine aveva un occhio chiuso, un viso che faceva
pensare a una fanciullezza perseguitata ed esprimeva una rassegnazione
antica alla povertà, al dolore, alle umiliazioni; della ragazza avrei
detto, non so ben perchè, che era orfana da bambina e vissuta molti
anni sotto la tirannia d'una matrigna. Pallida, uno scheletrino, un
viso irregolare, con un naso a ballotta e una bazza di vecchietta:
la natura non le aveva fatto l'elemosina che di due occhi belli e
dolci: la sua gioventù, il suo sesso era tutto in quegli occhi, la
sola cosa che ella avesse al mondo per ottener qualche volta dai suoi
simili uno sguardo di simpatia. Egli poteva essere uno scrivano, un
piccolo impiegato senz'avvenire; essa maestra in un asilo, governante
o cucitrice in qualche istituto. M'aveva colpito fin dalla prima volta
la serietà, la dignità semplice e triste del loro contegno. La ragazza
scendeva sempre in piazza Castello; il giovine proseguiva per via
di Po. Quando egli saliva si salutavano con un sorriso leggerissimo;
quando ella scendeva si salutavano senza sorridere, ed egli sporgeva il
capo fuor dell'uscio per accertarsi che non cadesse; non si scambiavano
che poche parole, di rado guardandosi. E singolare: non guardavano
quasi nessuno: ufficiali brillanti, belle signore, chiunque entrasse,
non gli rivolgevano che un rapido sguardo distratto, come a un'ombra,
che non destasse in loro alcun pensiero. Si capiva bene che c'era fra
di loro qualche cosa d'irrevocabilmente determinato, non un amoretto,
ma un fidanzamento; che eran due vite legate; e si capiva pure che per
allora non avevan modo di star vicini altro che sul tranvai.

Mi commoveva l'amore di quei due poveri esseri così maltrattati dalla
natura e dalla fortuna, così meschini e così umili, che s'erano forse
stesa la mano per pietà l'uno dell'altro. Pensavo che s'eran forse
detto, senza parlare: — O povero giovane, o povera ragazza, e chi ti
vorrà bene al mondo se non son io? Vuoi unire la tua tristezza con la
mia tristezza, la tua povertà con la mia, vuoi che soffriamo insieme
e che ci amiamo tanto da non avvederci più che la natura ha messo le
nostre anime in due corpi infelici? — E da questo pensiero mi nacque
l'idea del romanzo: l'amore, il matrimonio, molti anni di miseria
durissima, una sequela di calamità e di umiliazioni da condurli al
proponimento del suicidio; poi le leggi della natura smentite: un
amore di bambino, un fiore maraviglioso di bellezza e di robustezza,
e con esso la vita mutata; e dopo questa altre creature somiglianti,
una nidiata d'angioli, d'intelligenza pari alla bellezza, ammirazione
e invidia di tutti, una famiglia di grandi ingegni precoci, di
artisti ammirati a quindici anni e famosi a venti, la gloria, la
ricchezza, la vita come un sogno d'oro.... Ma l'idea cadde dopo pochi
giorni. Non erano più poetici, così come li vedevo, quei due poveri
giovani sconosciuti, destinati a una vita oscura e stentata, ma
confortata da un amore profondo; non era meglio ch'io non snaturassi
con l'immaginazione quel sentimento di simpatia pietosa ch'essi
m'ispiravano, accompagnata da molti pensieri quieti e buoni intorno
alla vita e alla natura umana? Perchè contraffare con l'arte quella
realtà così triste e così gentile? E buttai l'idea del romanzo nella
gran fossa comune degli aborti della fantasia.

                                   *

Ritornai alla prima idea una mattina presto osservando dalla finestra
sulla piazza dello Statuto, già bianca di neve, i carrozzoni delle
tre linee che vi s'incrociano, fermi, che aspettavano l'ora della
partenza. La vista di quelle piccole case ambulanti che nella luce
crepuscolare, ravvolte dal nevischio, con quei colori ciarlataneschi
degli annunzi, offrivano l'aspetto strano e compassionevole d'un
gruppo di baracche variopinte di saltimbanchi perdute in mezzo a una
steppa, mi destò il capriccio di scendere, di ficcarmi in una e poi
in un'altra, e di girar così tutta la mattina, come un vagabondo in
cerca d'avventure. E così feci. I passeggieri salivano con le spalle
bianche, la neve pioveva fittissima contro i finestrini; di dentro si
vedevano a traverso i vetri bagnati e il velo dei fiocchi le case e la
gente così in confuso da non raccapezzare più, di tratto in tratto, in
che parte di Torino si fosse; e lo strepito dei cavalli che puntavano
lo zampe e sdrucciolavano sul ciottolato, incitati dal vocìo continuo
dei cocchieri, il frastuono di fischi, di grida, di frustate, di
scampanellate, di scalpitii, di squilli di corno che raddoppiava ai
crocicchi dove le linee si tagliano, le traversate delle vaste piazze
candide dove altre grandi macchio oscure di carrozzoni s'avvicinavano
e fuggivano, era per me quasi uno spettacolo nuovo, che mi ricordava
certi diletti acuti che dà alla fanciullezza l'inverno. Poi, quando
la neve fu più alta, le fermate improvvise, le file dei carrozzoni
aspettanti, pieni di passeggieri immobili, come larve spaurite,
l'affaccendarsi dei cocchieri e dei fattorini a ripulire e a sospingere
le ruote, tutta quell'agitazione di forme nere su quella bianchezza
quieta, sotto quella pioggia bianca, densa, continua, silenziosa, in
cui si smorzavano le voci, i sibili e gli squilli che venivan dalle
vie vicine e lontane, tutto questo mi diede il senso e l'illusione
di quegli antichi viaggi in diligenza, pieni di peripezie e di
sorprese, che i romantici rimpiangono, e mi fece riafferrare vivamente
il proposito del primo giorno. Sì, uno studio.... un libro.... _la
carrozza di tutti._

Fu appunto quella mattina che mi si mostrò in piena luce l'animo
di _Giors_, un cocchiere della linea Vinzaglio, col quale avevo già
parlato più volte, perchè attaccava discorso con tutti, familiarmente.
Quel maledetto tempo, che era la dannazione dei cocchieri, pareva
che accrescesse il suo buon umore abituale. Insaccato nel cappottone,
imbacuccato nella grossa cuffia di lana color cacao, piantato in un
par di scarponi da cavatore di sabbia, coi suoi enormi guanti fatti di
pezzi di cuoio, di panno e di calza, egli si pigliava il nevischio in
faccia e sguazzava nella belletta della piattaforma con un'allegria di
carnevale, salutando con grida e versi buffi i cocchieri dei tranvai
che passavano e riprendendo ogni momento a zufolare un motivo della
_Carmen: toreador attento_, che non sapeva finire. Invidiabile uomo!
L'idea della colazione bastava a farlo felice. Ogni volta che facevo
una corsa con lui ritornavo a casa con un appetito da cacciatore
alpino. Ogni giorno verso quell'ora, quando principiava a stimolarlo la
fame, egli cascava nei discorsi gastronomici, tormentando i colleghi
con le più crudeli provocazioni. — Ebbene, camerata, ci staresti a un
bel piatto di agnellotti, con un buon sugo e molto formaggio, caldi
che fumino, eh? — o sillabava a voce alta i nomi delle ghiottonerie
che vedeva di sfuggita nelle vetrine, come parlando all'aria: —
Mor-ta-della di Bologna! Sa-lame di Alessandria! — e poi dava in una
risata che scopriva i suoi forti denti bianchi, spiccanti nel sano
color bruno del viso, attraversato da due grandi baffi neri e lucenti.
Diceva d'aver quarant'anni; ma ne davan trenta le mosse vigorose, la
voce sonora, il riso fresco, la giocondità di buon ragazzo che gli
brillava negli occhi chiari e vivacissimi, sempre sorridenti. Ed era
simpatico a tutti anche per il suo buon garbo ad aiutare a scendere e a
salire vecchi, bambini, donne, malati, di qualunque condizione fossero,
senza gradazione di cortesia.

Quella mattina mi divertì moltissimo. Salì in piazza Carlo Felice
un quidsimile d'ortolano, con un canestro al braccio, che mandava un
odore acuto di tartufi bianchi. Quell'odore eccitò subito Giors, che
tra un fischio e una schioccata di frusta, tra una girata e l'altra di
freno, prese a fare ogni specie d'allusioni facete al “frutto proibito„
strizzando l'occhio ora a questo ora a quel passeggiere, contento, come
se quei tartufi fossero destinati alla sua tavola. — Ah che fior di
patate! Saccorotto! Roba dell'orto del diavolo! — Il municipio avrebbe
dovuto proibire di portar in giro quella razza di peste; egli n'avrebbe
sentito il puzzo nella polenta per quindici giorni. Proprio quello ci
mancava per aguzzargli l'appetito, quella mattina ch'egli si sarebbe
mangiato le posate. Tutte le disdette! Per esempio, ci aveva anche un
cavallo che si chiamava _Risotto_, che a nominarlo soltanto si sentiva
aprire un vuoto nello stomaco.

Finì di metterlo di buon umore la comparsa d'un signore di sua
conoscenza, che lo salutò amichevolmente: — Buondì, Giors! Brutto
tempo, eh?

— Che! — rispose Giors. — È un tempo che rinforza.

— Cosa c'è questa mattina al _Grand Hôtel_ della Barriera di Francia?

— Riso e paste.... con tartufi.

Giors aveva la famiglia alla barriera di Francia, suo _capolinea_, dove
verso l'undici la moglie gli portava la colazione, ch'egli spacciava in
cinque minuti, sedendo sul montatoio del carrozzone. Il _Grand Hôtel_
era quello.

La breve conversazione che fece con lui quel signore, un quarantenne
sferoidale, che aveva l'aria d'un buon benestante disoccupato, mi svelò
un originale, un prodotto particolare dell'istituzione dei tranvai,
appartenente a una famiglia numerosa, di cui non c'è lettore, son
certo, che non abbia conosciuto qualche esemplare.

Il signore adocchiò i cavalli; poi domandò:

— Dov'è _passerotto?_

— È passato alla linea dei Viali —, rispose Giors.

— E _Gabriella?_

— Sempre all'infermeria.

— Già, quella è debole di nervatura alle gambe davanti; non farà
servizio per sei mesi. E Ferrari, che non lo vedo?

— È in riserva.

— Quando metterete in circolazione il carrozzone nuovo?

— È in vernice.

— Tò: anche questo ha il difetto solito: bisogna che l'Amministrazione
si decida a cambiare i freni.

Mi bastò per riconoscere un _tranvaiofilo_. Ne conoscevo già vari.
Ogni nuovo servizio pubblico, che rappresenti un progresso cittadino,
tira a sè un certo numero di questi amatori, che prendono a cuore il
suo andamento, i suoi interessi, i suoi più minuti particolari come
se fossero azionisti della Società che lo esercita. Il mio vicino era
uno di quelli che sanno il numero esatto dei carrozzoni chiusi e delle
giardiniere della _Società Torinese_ e della _Belga_, che conoscono i
regolamenti, il profitto medio quotidiano di ciascuna linea, il nome
d'una cinquantina di fattorini, cocchieri e controllori, il nomignolo,
l'età, le buone qualità e i vizi di altrettanti cavalli, che nelle
loro corse quotidiane esaminano il materiale, interrogano gl'impiegati,
notano gl'inconvenienti, danno una mano. se occorre, a rimettere sulle
rotaie un carrozzone sviato, e fanno qualche volta delle proposte per
lettera all'Amministrazione, e parteggiano quasi tutti per l'una o per
l'altra Società, senza alcuna ragione determinata, per un sentimento
spontaneo di simpatia, che non si saprebbero spiegare.

Ricominciò a celiare con Giors sul _Grand Hôtel_ della barriera, e a
ridere ad ogni sua risposta amena ammiccando ora all'uno ora all'altro
come per dire: — Eh, che bell'originale? Ci son io soltanto che lo
so stuzzicare. — Poi, essendo scesi parecchi, si rivolse a me solo,
abbassando la voce: — Gran buon uomo, sa. È stato soldato. Prima
d'entrar nei tranvai faceva l'imballatore. Già, è tutto un personale
eccellente quello della Belga; l'avrà osservato lei pure. Anche quello
dell'altra, non fo' per dire. Ah, non ci possiamo lamentare. Io son
stato all'estero.... e non c'è Parigi, non c'è Londra. Per quello che
è personale, badiamo bene. Non potrebbero fare una scelta migliore....
salvo rare eccezioni. — Poi soggiunse sorridendo: — Ce n'è di tutte le
provenienze. Non troverà un altro personale di servizio pubblico che
sia passato per tanti mestieri. Anche con quelli d'una Società sola
lei può mettere insieme una pattuglia di carabinieri, di soldati di
cavalleria, di guardie di finanza; ci trova chi le fa la barba, chi
le canta l'_Aida_, chi le stampa un libro, chi le cucina un pranzo in
tutte le regole. Ci son perfino dei marinai e dei segretari comunali.
C'è un fattorino della Belga che sa mezzo Dante a memoria e parla
latino. Non è vero, Giors, che c'è un fattorino che ha fatto il Liceo?

— E come! — rispose il cocchiere. — Ha sempre la testa nelle nuvole.
Gli caricano tutti i soldi dell'Argentina.

                                   *

Quel benedetto “tranvaiofilo„ mi fece cambiar idea un'altra volta:
fui tentato di fare uno studio soltanto sugli impiegati dei tranvai.
L'argomento si prestava a rappresentare in un quadro forte la lotta
disperata degli innumerevoli cercatori di piccoli impieghi, che,
nuotando come naufraghi in tutte le direzioni, s'afferrano a tutte le
travi e a tutte le tavole, e lascian l'una per avvinghiarsi all'altra,
s'affondano e risalgono per riattaccarsi alla prima, da per tutto
respinti, sospinti, adunghiati da cento mani che cercano la salvezza
sullo stesso palmo di legno. La biografia d'una cinquantina di
cocchieri e di fattorini sarebbe stata una storia maravigliosa, e non
inutile, di famiglie fulminate e smembrate dalla sventura, dì piccoli
commercianti falliti, di piccoli proprietari rovinati, di poveri
diavoli travolti senza posa dalla caserma all'officina, dall'officina
all'anticamera, alla bottega, alla portieria, alla cantina,
all'ufficio, sbalzati sul tranvai dalla vettura, dal furgone, dalla
carretta, dal carro funebre, diversissimi fra di loro d'educazione e di
cultura, e nel modo di considerare il proprio stato, che è immutabile
e soddisfacente per gli uni, e transitorio e insopportabile per gli
altri, destinati in gran parte a nuove cadute, a nuove trasformazioni,
a nuove avventure. Ed anche mi allettava allo studio la vita strana di
costoro, che corrono la città tutto l'anno e tutto il giorno, mangiando
a scappa e fuggi come soldati alla guerra, in contatto con gente
d'ogni classe e d'ogni ceto, strisciati dalla veste profumata della
signora, urtati dal gomito brutale del briaco, costretti continuamente
a disputare, a ammonire, a comporre dissidi, spettatori e uditori
obbligati d'amori, di pettegolezzi, di discussioni, di beghe, di
ridicolaggini e di miserie infinite. E con questa nuova idea, per vari
giorni, andai interrogando fattorini e cocchieri....

                                   *

Ma proprio in quei giorni fermarono la mia attenzione altri personaggi,
che m'indussero da capo ad allargare il campo del mio libro.

La prima fu una vecchietta della campagna solita a venire a Torino
sul tranvai che parte dalla barriera di Francia. Veniva forse da Pozzo
di Strada. La trovavo quasi sempre sulla piattaforma, con accanto un
sacco ritto, pieno di non so che, molto pesante, al vedere. Scendeva
ogni volta al crocicchio di via Venti Settembre. Giors l'apostrofava
di tratto in tratto come una conoscente: — _Bondì, mare_ —; essa
rispondeva con un cenno del capo. Non apriva mai bocca se non per
chiedere scusa ai passeggieri dell'ingombro del suo sacco, che mutava
di posto ogni momento, perchè impacciasse il meno possibile. Era una
vecchierella piccolissima, con le braccia d'una cortezza straordinaria,
vestita rozzamente, ma molto pulita, con un fazzoletto di colore sul
capo: un viso umile e buono. Soleva star ritta in un angolo, con una
spalla appoggiata alla colonnina, con la fronte bassa, con gli occhi
fissi sui piedi dei vicini, come meditando, e non solo non guardava,
ma pareva che non vedesse nessuno, e ogni tanto chiudeva gli occhi, e
stava un po' così, come se dormisse. Per via Garibaldi si faceva il
segno della croce quando il tranvai passava davanti alla chiesa di
San Dalmazzo, alla Trinità e ai Santi Martiri, o quando incontrava
una processione di _Figlie verdi_ col crocifisso. Era evidente che
aveva un pensiero fisso, un'immagine triste immobile davanti alla
mente, un dolore chiuso e grave che non cercava conforti e che nessuna
parola pietosa avrebbe potuto alleviare. Una mattina poco mancò
che un sobbalzo improvviso del carrozzone non la buttasse giù: fece
appena in tempo ad afferrarsi alla colonnina; ma non passò sul suo
viso bruno e rugoso la più leggiera espressione di spavento: non le
premeva la vita, si capiva. Che poteva esser stata la sua vita? La
ricorrevo con l'immaginazione, guardando lei: curvata al lavoro fin
da bambina, sfiorita a vent'anni, sposata per la dote d'un palmo di
terra, maltrattata, abbandonata dai figliuoli adulti, rimasta sola,
forse, dopo cinquant'anni di fatiche e di stenti, con un vecchio
ingrato e malato.... Mi destava una grande pietà. All'angolo di via
Venti Settembre scendeva, si metteva il sacco sulle spalle e, piegata
sotto il peso, pigliava verso Porta Palazzo. Vista di dietro, nella
strada, pareva una bimba, tanto era poca cosa: era veramente l'immagine
della sua vita: una cosa di nulla, china sotto un gran carico, in mezzo
a gente che la urtava e non le badava. Studiando la sua tristezza,
l'ultima volta che la vidi, vi scopersi l'espressione d'un dubbio o
d'una speranza, mi parve come un dolore che aspettasse, e che dovesse
cessare un giorno o mutarsi in disperazione....

L'altro “personaggio„ fu una signorina che trovavo qualche volta sul
tranvai del Martinetto, qualche volta su quello di corso Vinzaglio,
sempre sola. La prima volta che la vidi, seduta in un angolo del
carrozzone, il suo viso si disegnava di profilo sopra il vetro del
finestrino, dov'era dipinto in colore azzurro e rosso di fuoco un
annunzio figurato di pastiglie per la tosse; e pareva veramente un viso
di vergine campeggiante nell'invetriata d'una cattedrale; così puro di
linee, così casto d'espressione e d'una bianchezza così eguale e soave
che avrebbe attirato il primo sguardo fra dieci visi di monache tutte
belle. Fui anche più maravigliato quando si voltò, mostrando due grandi
occhi chiari e sereni, che si fissavano un momento ora sull'uno ora
sull'altro di quelli che la guardavano senza dare il più leggiero segno
nè di stupore, nè di compiacenza, nè di suggezione, come gli occhi
d'una creatura chiusa alle passioni umane. Aveva l'aria d'una ragazza
che non potesse arrossire per ignoranza del peccato, che non avesse più
mutato aspetto dall'età di cinque anni, e a cui mancasse la coscienza
del proprio sesso: una di quelle figure serafiche, che non ci riesce
d'immaginare intese a un'occupazione volgare, e quasi neppure alla
soddisfazione d'un bisogno fisico, come se del corpo umano non avessero
che le forme esteriori. Ebbi un disinganno, peraltro, quando la vidi
levarsi in piedi e discendere: era molto alta di statura, stretta di
spalle, un corpo di bambina allungata, così esile e leggiera, che un
ragazzo l'avrebbe potuta portar via. Tutta la sua bellezza era nel
capo, incoronato d'una stupenda capigliatura castagna: la natura le
aveva abbozzato il resto senz'amore. Vestiva molto modestamente, con
semplicità severa, come si vestirebbe una monaca costretta a smettere
per un giorno l'abito religioso. Mi destò una viva curiosità. E fin
dalla prima volta mi sorse nella mente un'immagine che non ne uscì più:
Vittoria Colonna morta, del pittore Iacovacci: chi sa perchè? Vidi lei
vestita di bianco, distesa sopra un catafalco, lunghissima, ravvolta
in un velo bianco, coronataci fiori bianchi, in mezzo a quattro grandi
ceri fiammanti, e la chiamai dentro di me: _la vergine morta_. Chi
poteva essere, così bella e così strana, e sempre così sola? Non
l'ombra d'un pensiero mi passò per la mente, che non fosse rispettoso,
poichè s'ha un bel sapere per esperienza che i visi ingannano: ci sono
dei visi su cui si giura. E mi rimase un desiderio acuto di sapere, e
feci il proposito fermo di chiedere, di scoprire in qualunque modo chi
fosse.

Il terzo personaggio mi destò una curiosità anche maggiore. Una
mattina che nevicava, in via Garibaldi, fa fermare il tranvai un
piccolo signore sulla cinquantina, con gli occhiali e il pizzo grigio,
s'avvicina per salire sulla piattaforma davanti, e, visto me, mi lancia
un'occhiata severa e scappa sulla piattaforma di dietro. Diavolo!
Già una volta l'avevo visto fare quell'atto; ma non m'era nato alcun
sospetto: poteva essere un caso o uno sbaglio. Ma la seconda volta
non cadeva più dubbio. Ero proprio io la forza repellente. E perchè
mai? Non lo conoscevo; non ricordavo d'avergli parlato mai. È però
tanto facile il dimenticarsi d'aver offeso, anche non volendo, uno
sconosciuto, o con una lettera asciutta, o col silenzio, o con uno
sgarbo fatto per la via, che mi diedi a cercare rapidamente nella mia
memoria. Ma non vi ritrovai nè il suo viso, nè un indizio qualsiasi
della sua esistenza. Che fosse un'antipatia letteraria così violenta
da rendergli insopportabile la mia vicinanza? Ma non m'aveva l'aria
d'un cittadino che potesse patire di quella malattia: pareva d'una
professione remotissima dal mondo delle lettere, come un notaro o un
segretario d'agenzia, un padre di famiglia serio e posato. A un certo
punto, voltandomi indietro, mentre i due usci erano aperti, lo vidi
ritto sull'altra piattaforma, e incontrai il suo sguardo: egli dilatò
gli occhi, come a una sorpresa sgradevole, e voltò bruscamente il capo
dall'altra parte.... Ombre degli avi miei! Era veramente un'antipatia
d'indole acuta; era un uomo che m'avrebbe dato fuoco da due parti.
Ebbene, rimasi male; sì, alla mia tenera età! perchè son uno di quei
poveri diavoli che non sanno rassegnarsi a essere odiati. Presi nota di
quel viso nella mia memoria. L'“amico„ doveva star di casa su quella
linea, l'avrei rivisto, avrei forse scoperto il suo _perchè_, e mi si
poteva offrir il modo di levare a lui il verme dal cuore e a me l'osso
dalla gola....

                                   *

Mi si presentarono intanto altri personaggi; la cosa s'avviava bene.
Pensai che si potessero anche studiare sul tranvai gli effetti degli
avvenimenti politici; ma mi persuasi presto che, per questo riguardo,
c'era poco da cavare da un popolo dell'indole del torinese. Eran quelli
i giorni della grande ansia pubblica per la sorte della fortezza di
Makallè. Sui tranvai di Napoli avrei inteso chi sa che discussioni ed
esclamazioni; su quelli di Torino non c'era nulla da raccogliere: la
mattina leggevan tutti il _Popolo_ e la _Stampa_, in silenzio, e solo
i conoscenti barattavano qualche parola a voce bassa, per lo più dei:
— ma! — secchi e solitari, come suoni di bottiglie stappate. Conobbi
però un fattorino che s'occupava della guerra con gran passione, e
che mi diede egli solo una forte spinta a scrivere il libro. Era una
settimana sulla linea del Martinetto, un'altra su quella dei Viali:
un lanternone biondiccio, con gli occhi lustri e le guance cave, che
arieggiava lo Zanardelli. Lo chiamavano Carlin. Era acceso d'un sacro
furore per la guerra d'Africa; diceva egli stesso che fin dal principio
della campagna quello era un suo pensiero fisso, che non gli dava pace.
Tendeva l'orecchio a tutti i discorsi guerreschi dei passeggieri,
e quando sentiva biasimar la guerra o far presagi sinistri, faceva
dietro le spalle del parlatore degli atti violenti di negazione. Le
buone notizie lo inebbriavano, e allora parlava alto da sè: — Bravo
Galliano! Ah non importa: si fanno un bell'onore! Ah, la vedremo! —
E aveva il baco dello stratega: ripeteva ogni mattina che bisognava
pigliarli fra due fuochi, e faceva l'atto con le braccia. — Ma perchè
non li pigliano fra due fuochi? — Gli pareva così semplice! E non
sapeva darsi ragione del perchè non lo facessero. — Non concluderanno
niente — diceva —, fin che non li attaccheranno davanti e di dietro
non concluderanno niente; non ne tornerebbe più uno a casa di quei
maledetti negri, non uno! — Se la prendeva anche con la Francia per un
pezzo d'articolo insolente che aveva letto tradotto in un giornale;
avrebbe voluto che si “desse una lezione„ anche alla Francia. Era un
esempio maraviglioso di atavismo bellico. Le sue idee sulla politica
estera si riducevano in un solo concetto semplicissimo: — _darle_ —;
dandole, non importa a chi nè con qual fine, s'accomodava ogni cosa.
Avendo un giorno udito parlare delle stragi d'Armenia, diceva che
si doveva mandar là “in vcntiquattr'ore„ tutte le flotte: era molto
semplice anche il suo modo di risolvere la quistione d'Oriente: —
_Bombardé tutt!_ (Bombardar tutto) — e accennava con un gesto largo
tutto l'orizzonte. Ma pochi gli davan retta, perchè i blateroni, a
Torino, fanno poca presa. V'era un solo passeggiere che gli rispondeva
ogni tanto qualche monosillabo perchè lo doveva conoscere da un pezzo,
un abbonato che saliva ogni mattina alla stess'ora sui tranvai diretto
a Piazza Castello, un tipo di travet che ha del suo, grasso e severo,
e correttamente vestito; che Carlin chiamava “cavaliere„. E anche
questo era destinato ad essere uno dei miei personaggi prediletti.
Era la figura ideale del _bicchierino_ pacato e compassato. Si sedeva
ogni mattina dentro, dalla parte posteriore del carrozzone, e se
non trovava libero quell'angolo, anzichè sedersi in un'altra parte,
restava in piedi di fuori. Appena seduto, ogni volta con lo stesso atto
riposato tirava fuori dalla stessa tasca del soprabito la _Gazzetta
del Popolo_, l'apriva lentamente, e leggeva sempre per prima cosa la
cronaca cittadina, e poi il rimanente, ma senza mai tagliare il foglio,
che voltava e ripiegava con tutti i riguardi, e senza dar mai nel viso
il più leggiero segno di curiosità o di maraviglia, qualunque fossero
le notizie del giorno; finchè arrivato in Piazza Castello tirava
fuori l'orologio, ogni mattina con lo stesso gesto, e guardava l'ora
prima di scendere. Un vero _travet_ dello stampo antico, conservatosi
intatto perfettamente. E d'un amor proprio campanilista così geloso!
Una mattina, lui presente, vedendo che passava un carro sul marciapiede
per lasciar la strada al tranvai, dissi forte a un mio amico: — Già,
questa via Garibaldi è troppo stretta. — Egli alzò dalla _Gazzetta_
il viso stupito e sgranando gli occhi verso di me, senza guardarmi in
faccia, mormorò: — Stretta Via Ga-ri-bal-di? — Poi ricominciò a leggere
con una sfumatura di sorriso ironico sulle labbra. Tutta l'anima del
vecchio Torinese s'era rivelata in quelle tre parole. Me ne innamorai,
e scrissi i suoi connotati nel mio taccuino.

                                   *

Pure in quei giorni feci un'altra scoperta che mi diede un impulso
di più a colorire il mio disegno, la scoperta (non posso far di meno
di quest'espressione barbarica) dell'“erotismo tranviario„ una delle
“molte forme psicologiche di quella eccitazione sessuale„ che, secondo
il Ferrero, è cagione della minore attitudine della razza latina al
lavoro metodico, in confronto della razza anglo-sassone. Scopersi che
v'è una famiglia d'uomini di tutte le età, ma i più dell'età matura e
della classe agiata, facilmente riconoscibili, per i quali il tranvai
è un nido errante di delizie erotiche del pensiero, una specie di arem
continuamente cangiante, in cui per la via degli occhi, dell'olfatto
e dei contatti fortuiti essi si procurano mille godimenti raffinati
dell'immaginazione. Infatti, respirare come in un salottino un'aria
pregna di delicati profumi femminili, seder per mezz'ora in mezzo a
due belle signore che vi pigiano, sentirsi urtare il ginocchio dal
ginocchio o premere il piede dal piedino d'una signorina che entra o
che esce, o appoggiar la mano inguantata sulla spalla da un'altra che
perde l'equilibrio nell'atto di sedersi, e altre cosette simili, sono
piccole voluttà in nessun altro luogo così frequenti e così facili
come nella carrozza di tutti. V'è in questa famiglia una varietà
grandissima di dilettanti, da quello che cerca soltanto dei piaceri
quasi spirituali, come il _grazie_ e il sorriso della signora a cui
cede il posto o apre l'uscio o porge il fazzoletto dimenticato o
sorregge il bambino quando scende, via via, per una gradazione minuta,
fino a quello che preferisce le voluttà più sensuali della piattaforma,
dove le sere dei dì di festa, fra la calca della gente in piedi, si
trova a strofinar la barba sulla capigliatura fresca d'una ragazza
del popolo, o riceve sul petto e nel viso l'urto e l'alito d'una bella
persona buttatagli addosso da un sobbalzo del carrozzone, o può premere
col braccio un braccino imprigionato, di cui sente la morbidezza a
traverso la manica. Studiare questi vari “amorosi„, e in special modo
gli ultimi, del palcoscenico rotante, osservare le simulazioni diverse
di fredda indifferenza o di raccoglimento filosofico con cui cercano
di coprire le loro ebbrezze silenziose, e cogliere anche il contrasto
comico che c'è qualche volta tra la gravità dei loro discorsi politici
e la natura delle loro sensazioni e dei loro pensieri segreti, mi parve
una cosa nuova e allettante. E apersi una colonna per gli erotici dei
tranvai nello scartafaccio dei miei appunti.

                                   *

Ebbi ancora una spinta a scrivere esperimentando quante più cose
abbracci e penetri la facoltà d'osservazione quando invece d'aspettare,
come di solito, il richiamo degli oggetti, si fa una facoltà attiva,
che interroga e cerca, acuita dalla curiosità e stimolata da uno scopo.
Non ero ancora ben fermo nel mio proposito che già, in quegli ultimi
giorni di gennaio, avevo raccolto una maggior quantità d'osservazioni
che non avessi fatto per l'addietro in molti anni; alcune delle quali,
d'ordine generico, m'avrebbero messo sulla via di farne molte altre
curiosissime. Avevo osservato, per esempio, che signori e signore,
rispetto al modo di considerare il tranvai, si dividono in due ordini:
quelli che lo hanno accolto e se ne servono volentieri, senz'alcuna
ripugnanza, anzi quasi compiacendosi della promiscuità delle classi
che v'è inevitabile, e quelli che se ne giovano perchè non possono
farne di meno, ma che, per quella ragione che lo rende ad altri
piacevole, vi ripugnano, e fanno un piccolo sacrificio d'amor proprio
ogni volta che vi salgono, e mostrano a mille segni sfuggevoli, mentre
vi stanno, di adontarsi dei contatti plebei e di non veder l'ora di
uscirne. Avevo notato, in special modo nella gente del popolo, e più
che altro nel sesso femminile, altre due grandi famiglie: quella dei
disinvolti, in cui è vivo e altero il sentimento dell'eguaglianza, che
s'accomodano e discorron forte fra i signori come in casa propria,
non vergognandosi, anzi facendo quasi ostentazione dei loro panni
poveri; e quella dei timidi, giovani e ragazze per lo più, anche
del ceto medio, che entrano impacciati e arrossendo come in casa
d'altri, umilmente cerimoniosi, e siedono tenendo gli occhi sulle
ginocchia, e aspettano per scendere che tiri un altro il campanello,
per non attirar l'attenzione sopra sè soli. Mi s'era presentata fra i
passeggieri d'ogni classe un'altra divisione notevolissima: la schiera
dei noncuranti, che non hanno alcuna curiosità dei propri simili,
che stanno là con gli occhi morti, senza guardar nè chi esce nè chi
entra, come se fossero stufi dello spettacolo della vita e non avesse
più alcun viso umano maggior significato per loro che una pietra
del lastrico, e quella degli spiriti curiosi, che giran gli occhi
continuamente da un viso all'altro, badando a ogni atto e a ogni parola
di tutti, con la vivacità evidente d'un pensiero che scruta, indovina
e commenta, come se ogni sconosciuto che entra nel carrozzone entrasse
nella vita loro e dovesse un giorno esercitare un influsso sul loro
destino.... E altre mille cose osservavo ogni giorno, maravigliandomi
di non averle prima vedute mai, come se fosse stato sempre tra me
e i miei compagni di corsa interposto un velo, che soltanto in quei
giorni si squarciasse. Quante scene mute finissime e giochi riflessi di
fisionomia e manifestazioni involontarie di pensieri e di sentimenti
intimi fra quella gente che non si conosce, che si vede e si tocca
per un momento, e non s'incontrerà forse mai più nella vita! Che
baleni guizzano sul viso della ragazza povera, ma bella e opulenta
di forme, quando siede di fronte alla signorina d'aspetto infelice e
d'abbigliamento splendido, della quale si sente gli sguardi addosso
e indovina i pensieri; quali ombre passano sul viso della signora
elegante, regina del tranvai per cinque minuti, quando n'entra un'altra
elegantissima, che svia da lei e attira a sè tutti gli sguardi e le
siede davanti vittoriosa posando i piedi sulla sua corona caduta; e
quante cose dicono gli occhi della vecchia ragazza malinconica quando
le sta di faccia una florida mamma campagnuola con un gran pezzo di
marmocchio rosato che le succhia l'anima dal seno! E che rapido e
parlante scambio di sguardi e di sorrisi segue tra i passeggieri quando
il sindaco della città, conosciuto da tutti, non trova più posto che
accanto a uno spazzino municipale con tanto di scritta sul cappello, e
quando una mondana dipinta, incipriata e petulante, riconoscibile alla
prima occhiata, si viene a seder dirimpetto a una povera monachella
che sfila il rosario col mento inchiodato sul petto, e quando un
giovinotto attillato, che ha già preso un atteggiamento galante davanti
a una bella signora, scendendo questa ad un tratto, si vede sedere
di faccia in luogo suo un vecchio donnone in rovina con un cavolo
enorme fra le braccia! E muta ogni tanto, come un quadro dissolvente,
l'aspetto generale della compagnia. Predomina per un tratto il bel
sesso signorile con un profumo misto d'essenze fini e di viole; poi
si squaglia come per accordo, e prevale il popolo minuto — operai,
erbivendolo, serve — con un odor forte di pipe spente e di cipolle; e
poco dopo si trasforma il carrozzone in una stanza della Maternità,
dove cinque o sei piccini sgambettano e gnaulano, rodono mele e
pagnotte e succhiano poppaiole e caramelle; e dieci minuti appresso
non ci son più che vecchi intabarrati, occhiali e barbacce, facce
gravi d'uomini d'affari che consultano taccuini e discuton di cifre
come in una sala d'agenzia. E in ciascuno di questi quadri mutevoli è
un succedersi continuo di macchiette che spiccano vivamente sul fondo,
ora un ufficiale in gran divisa, ora un prete che legge l'ufficio, o
una signora con un mazzo di fiori, un ubbriaco che parla da sè, un
malato che languisce, un contadino che dorme. Una piccola immagine
della società umana, infine, un piccolo mondo pieno anch'esso di pompe
e di miserie, di ravvicinamenti strani e di contrasti bizzarri, col
suo baratto perpetuo d'invidie, di disprezzi e di danari; nel quale v'è
chi scende, chi sale e chi casca, chi va fino a capo della corsa e chi
s'arresta a metà, e chi non trova posto e chi n'occupa troppo, e gli
uni lo disputano agli altri, e questi ridono, e quelli si lagnano, e
tutti hanno premura di giungere, e il veicolo che porta tutto questo —
come quell'altro — va, va, va senza posa

    per tornar sempre là donde s'è mosso.

                                   *

A questo punto il libro mi si disegnò nel pensiero lucidamente:
scrivere quello che vedevo sui tranvai, giorno per giorno, per il corso
d'un anno, dipingendo le persone più notevoli che v'avrei rivedute
più sovente; rappresentare le relazioni e l'azione che esercitano
l'una sull'altra, mescolandovisi, le varie classi sociali, senza
forzare il vero ad alcun fine; ritrarre, insomma, il più fedelmente
possibile, quella varia commedia umana, sparsa e fuggente per quindici
lunghissime linee, che, intersecandosi in cento punti, costituiscono
nella circolazione generale della vita cittadina una circolazione più
rapida, e quasi una vita volante al disopra di quella della popolazione
che cammina. Ma dal concepire il disegno al cominciare risolutamente
il lavoro c'è un passo, che in più d'un caso non si fa mai. A farlo
occorre alle volte un ultimo impulso, un piccolo accidente, che è
come la fiammella che dà fuoco a una grande architettura pirotecnica
lungamente preparata.

Questo piccolo accidente m'occorse l'ultimo giorno del gennaio, verso
il tramonto, sulla linea del Corso Vinzaglio. Il carrozzone era pieno.
Sul Corso Vittorio Emanuele salì e rimase in piedi sulla piattaforma
davanti una donna del popolo d'una trentina d'anni, vestita male, che
teneva in braccio una bellissima bambina bionda di nove o dieci mesi.
Stando lei rivolta verso i cavalli, la bambina, appoggiata alla sua
spalla, volgeva il viso indietro, verso uno dei finestrini; dietro il
quale, nell'angolo interno del carrozzone, sedeva una giovane signora,
che avevo visto altre volte su quella linea, e che per il viso, il modo
di vestire e il contegno ugualmente singolari m'aveva colpito. Era
piccolina, ma bella, con due grand'occhi scuri e sporgenti; un viso
bruno pieno di vita e improntato d'una bontà grave, calda, inquieta,
ardita, come quella d'una suora di carità sul campo di battaglia;
e avevo notato che quando parlava le veniva su di tratto in tratto
un'ondata di sangue e le si gonfiava il collo e le s'alzava il seno
con violenza come se la forza della passione le opprimesse il respiro.
Ed era vestita bene, ma senza nulla di vistoso, con una discrezione
evidentemente voluta, che appariva anche più modesta accanto
all'eleganza della bambinaia che aveva con sè; e c'era nel suo vestito
una certa trascuratezza inconsapevole, che s'accordava coi suoi capelli
un po' scomposti, non per arte, si vedeva, ma per negligenza. Teneva in
quel momento ritto sulle ginocchia un bambino d'un anno al più, vestito
con lusso, bruno come lei, con gli occhi grandi e oscuri come i suoi;
il quale stava appoggiato col viso e con le mani contro il vetro del
finestrino.

Il bambino e la bambina si trovarono così di fronte l'uno all'altra,
quasi toccandosi col viso, non separati che dal vetro.

Appena si videro, parve che si riconoscessero dopo essersi per
lungo tempo desiderati e cercati. Non è raro il caso fra bambini di
quell'età; ma uno così bello non l'avevo visto mai. Cominciarono
a sorridersi, poi a ridere, a scuotersi e a tender le braccia, la
bambina chinandosi, il bimbo alzandosi sulla punta dei piedi; palpavano
il vetro con le manine, volevano toccarsi, avvicinavano i visi,
cercavano di sguisciare dalle mani delle loro mamme, ed eccitati a
vicenda da quella mimica amorosa, s'agitavano e ridevano sempre più
forte, mostrandosi i sedici dentini incisivi che avevano fra tutte e
due, ansando e accendendosi nelle guance, trillando e scattando con
tal vivacità l'un verso l'altro, che prima le due madri dovettero
voltarsi e trattenerli perchè non dessero delle capate nel vetro, e poi
tutti i passeggieri ch'eran dentro si misero a guardare, sorridendo,
maravigliati di quella espansione irrefrenabile di simpatia e
d'allegrezza.

Tutt'a un tratto la signora balzò in piedi, aperse l'uscio con una
mossa vigorosa e uscendo sulla piattaforma alzò il suo bimbo verso
la bambina, che l'aspettava con le braccia tese. Volevano baciarsi,
ma non sapevano, si misero le mani sul capo e intorno al collo, si
strofinarono il viso l'un contro l'altro, e poi s'avviticchiarono,
parendo per un momento un solo grosso bimbo con due teste, vestito per
metà da povero e per metà da signore, con una capigliatura mezza bruna
e mezza bionda....

— Ah che _birichinaia grama_! — esclamò Giors, dando una frustata ai
cavalli, dopo aver visto la scena. — Maledetta razza di sfaccendati, di
mangiapani a tradimento! — E voltando verso di me il viso esilarato: —
Eh, a quell'età, in pieno tranvai! E il povero Giors che fa lume! — E
diede in una risata. Ma vidi che aveva gli occhi inumiditi.

— Il libro è fatto — pensai.



CAPITOLO SECONDO.


                                                            Febbraio.

Un consiglio agli studiosi delle donne: osservino i loro diversi
modi di far fermare il tranvai, di sulla strada e di dentro, e ne
ricaveranno gran lume a giudicare del loro carattere. Alcune agitano
l'ombrellino in alto, da lontano, come un capitano di cavalleria
agita la sciabola, o gridano un _alt_ imperioso, corrugando la
fronte e tendendo il braccio come per dare un ordine perentorio a
un marito ribelle; altre muovono la mano all'altezza della spalla,
come chi chiama a sè qualcheduno, o l'alzano graziosamente con due
dita tese e col capo un po' inclinato da una parte, sorridendo,
nell'atto della scolaretta che chiede il licet alla maestra: mogline
sottomesse, parrebbe. E infinita e piena di significati psicologici
è la gamma degli _alt_ argentini e gravi, tremoli e dolci come note
di tortora o interiezioni amorose, o duri e taglienti come i _no_
d'una virtù inespugnabile. Quelle che hanno l'_alt_ soave, per lo più,
s'affrettano a salire, chiedendo scusa del ritardo con uno sguardo
timido e sorridente; le altre, invece, se anche sono d'un bel tratto
lontane, fanno il comodo loro, non badando agli atti d'impazienza dei
passeggieri che aspettano, o mostrando un viso di regine offese. E sono
anche più diversi i modi di far fermare per discendere. Le une s'alzano
di scatto e danno una strappata alla correggia del campanello come
padrone irritate che chiamino il servitore; le altre fanno un cenno di
preghiera al fattorino perchè tiri lui, o se stanno sulla piattaforma,
premono delicatamente con l'indice la spalla del cocchiere e gli
domandano all'orecchio, come in confessione, se vuol _far il piacere_
di fermare _un momento_. E si capisce che in molte, specialmente della
classe alta, deriva da un concetto esagerato della brutalità degli
uomini del popolo e del loro mal animo contro i signori la cortesia
eccessiva e quasi umile che usan con loro; con la quale cercano
d'ammansirli, come cagnacci ringhiosi, per timore di villanie gratuite;
ed è altrettanto palese che quelli rispondono malamente, in molti casi,
a quella cortesia soverchia, appunto perchè ne intuiscono la cagione, e
se ne adontano.

                                   *

Stavo riandando queste osservazioni, fatte per l'addietro, quando salì
accanto a me sul tranvai dei Viali, vicino alla Mole Antonelliana,
un bel giovanotto di mia conoscenza, una specie di fanciullo erculeo,
sano e fresco come un fiore, figliuolo d'un ricco proprietario di case,
dilettante di pittura a ore perse, simpatico per un misto originale
d'ingenuità e d'arguzia, e compagno di chiacchiere piacevolissimo,
perchè conosceva mezza Torino. Seguitai con lui a voce alta il corso
dei miei pensieri.

— Ah! — esclamò, — lei fa degli studi sui tranvai. E anch'io. — Aveva
fatto egli pure delle osservazioni sull'“erotismo tranviario„, ma
s'occupava d'un ordine particolare di fatti: era uno _specialista_ del
bel sesso. S'interruppe per guardare una signora seduta dentro; poi mi
domandò se mi ricordavo dove quella signora fosse salita. In piazza
Vittorio Emanuele, mi pareva. — E scusi — ridomandò — ha osservato
che abbia preso il biglietto di coincidenza? — Non l'avevo osservato.
Rimase un po' pensieroso; poi disse piano: — L'ha preso di sicuro.
È strano. Gira su tutte le linee e prende sempre la coincidenza. Ci
dev'essere un perchè: forse per sconcertare i curiosi, o per sviare
qualche spia, che sospetta d'aver alle calcagna. — Gli domandai
chi fosse. Lo sapeva; ma non lo disse. — È la signora.... delle
coincidenze — rispose sorridendo. E mi parlò della sua “specialità„.
Egli si divertiva a indagare i misteri amorosi. C'era, per esempio,
una signorina di famiglia conosciuta, che saliva sempre sul tranvai
con la sua cameriera, ma fingendo di non essere in sua compagnia, e
a un dato punto scendevano tutt'e due, e l'una pigliava da una parte,
l'altra dall'altra, come se non avessero nulla a che fare fra di loro:
c'era lì sotto un segreto, che non aveva ancora potuto scoprire. Ah i
tranvai, che agevolezze avevano portato agli amori e che tormenti alle
gelosie! Egli sapeva di mariti gelosi che proibivano assolutamente alla
moglie di salirvi; che piuttosto di salire con essa sulla piattaforma
affollata, quando dentro non c'era più posto, facevano due miglia a
piedi sulla neve, e che quando eran costretti a ficcar la loro metà
in quella calca d'uomini in piedi, vigilavano le facce circostanti con
occhi di basilisco soffrendo delle torture d'inferno. Ne aveva inteso
uno, in un salotto, chiamare l'istituzione del tranvai immorale, e
definire i carrozzoni veicoli di scandalo, case ambulanti di mala fama.
Ma d'altra parte, era un'“istituzione„ assai comoda per il servizio di
polizia coniugale. Egli conosceva una signora che cercava gli scontrini
negli abiti di suo marito per accertarsi ch'egli fosse veramente andato
dove aveva detto, e che spesso, quando egli usciva dicendo: — Vado nel
tal sobborgo — usciva essa pure, subito dopo, per pigliare un'altra
linea convergente allo stesso punto; per il che accadeva qualche volta
che in capo alle due corse, alla barriera di Nizza o di Casale, moglie
e marito si ritrovavano di fronte, lei contenta d'averlo riconosciuto
sincero, lui arrabbiato d'esser stato seguito; e ne seguìva una scena.
— La linea dove avvengono più incontri d'amanti — disse poi —, è quella
da piazza Castello alla barriera di Nizza. — Gli domandai perchè. —
Non lo so — rispose —, ma è quella. Ne riparleremo. — E mentre stava
per scendere, si rattenne per dirmi: — Guardi là, intanto, un quadretto
curioso per lei.

Era un quadretto amenissimo, infatti; una famiglia numerosa,
raggruppata da un lato del viale, due vecchietti, tre ragazze e due
bimbi, che accennavano al cocchiere di fermare agitando tutti insieme
nella nebbia una canna, quattro ombrelli e non so quanti fazzoletti,
con le braccia in alto, con un movimento regolare e continuo, come un
gruppo di naufraghi sopra uno scoglio, che chiedessero soccorso a un
bastimento.

— Frequenti la linea della barriera di Nizza — mi ripetè il pittore
discendendo; — ci troverà molti _documenti_.

                                   *

Dovetti appunto in quei giorni frequentar quella linea per andar a
visitare un vecchio amico malato, che stava sul corso Galileo. E fu un
piacere nuovo per me, in quelle mattinate grigie d'inverno, correndo
quella lunghissima via diritta, a cui la grande stazione affumicata
della ferrovia, i camini delle officine, il via vai fitto dei carri e
la folla e la nebbia danno l'aspetto d'una via di Parigi o di Londra,
osservare nella rapida corsa come la città via via dirada, rappicinisce
e si acqueta fino alla barriera di Nizza, dove par che nelle cose e
negli uomini incominci la pace della campagna. In pochi giorni conobbi
la linea. Andando verso le dieci vedevo venir giù la _vivandiera_,
il carrozzone consolatore che porta in piazza Emanuele Filiberto
la colazione dei fattorini e dei cocchieri, il carico dei canestri
sospirati, gli uni per gli scapoli, dati dalla Cucina economica della
_Società Torinese_, gli altri portati alla Società o rimessi man mano
al conducente lungo la via e raccomandati come bambini dalle mogli e
dalle figliuole, appostate ogni giorno a quell'ora in quei dati punti,
come per un convegno amoroso. Ritornando verso mezzogiorno incontravo
il tranvai della “corsa degli impiegati„, quello che, partendo da
piazza Castello alle undici e mezzo, raccoglie lungo il tragitto
tutti i _travet_ che vanno a desinare a casa in borgo San Salvario,
sbadigliando a bocca squarciata, con la faccia lunga dalla fame e gli
occhi rotanti dall'impazienza. Ritornando invece a notte fatta, trovavo
nel carrozzone illuminato delle famigliole borghesi che andavano al
teatro, eccitate dall'avvenimento insolito come se venissero a Torino
da un'altra città, strette in conversazioni scolarescamente vivaci,
come brigate giovanili partenti per un viaggio notturno d'avventure.
E tra una corsa e l'altra, osservando i cavalli mentre aspettavo la
partenza alla barriera, cominciai a prender simpatia per quelle povere
bestie, venute la più parte dall'Ungheria, comprate alle fiere di
Lunigo, di Novara e di Padova, alcune ancora belle e vigorose, altre
con le gambe davanti già piegate e sformate dagli strapazzi, distinte
con ogni specie di strani nomi, trovati dalla fantasia degl'impiegati
intinti di lettere, — Sparta, Ovo, Falò, Rabagas, Romanziere, Ministro,
Bibi, Colonnello, Episodio, Camelia, Passerotto, Senato, — destinate
a passare un giorno dai tranvai alle _cittadine_, alle carrette, alle
macine, ai carri mortuari, ai carrozzoni dei saltimbanchi, per dare poi
all'uomo anche la carne e la pelle e le ossa, dopo aver faticato dieci
anni al suo servizio e lasciato la vita sotto la sua frusta....

                                   *

Fin dal primo giorno conobbi su quella linea un cocchiere tipico; e
do a questa parola il suo vero significato, perchè era un di quelli
che in ogni famiglia d'impiegati o d'operai par che condensino in sè
tutti i malumori, tutte le stizze, tutti gli spiriti ribelli della
famiglia. Era un traccagnotto col capo nelle spalle, con un viso
color di terra cotta, che pareva enfiato, con gli ocelli di bragia, la
barba di setole, una voce di tuono. Gli muggiva in corpo una tempesta
perpetua. Eruttava “accidenti„ smozzicati, di continuo, contro le
biciclette che passavano, contro i monelli che spaventavano le bestie,
contro i carrettieri che gl'ingombravan la via, contro chi saliva e
chi scendeva, contro i cavalli, la frusta, il campanello, il colore
del tempo. E quando non sacrava a voce, sacrava con tutti i moti della
persona, col modo di frustare, di tirar le redini, di girar la testa
e lo sguardo, di stringere il freno e di pestare i piedi; e quando
non se la pigliava apertamente con nulla o con nessuno, faceva dei
soliloqui stizzosi inintelligibili guardando in alto, come se dei
nemici visibili a lui solo lo provocassero, danzandogli davanti per
aria, o si sfogava soffiando nel suo fischietto, cacciando dei fischi
prolungati, rabbiosi, senza necessità, come se fischiasse la creazione.
Da piazza Castello alla barriera non lo vidi un momento rabbonito;
pareva che portasse dentro l'ira d'un popolo; non potevo capire come
non schiattasse. Pensai che, se aveva moglie, la povera donna doveva
aver il paradiso assicurato. Intesi che lo chiamavan _Tempesta_, e il
soprannome gli tornava a pennello. Dei passeggieri se ne lagnavano,
brontolando; ma a me fece compassione, perchè un povero diavolo che
passava la giornata a quel modo si condannava da sè al più miserando
dei supplizi che gli potesse augurare la più vendicativa delle sue
vittime; e mi pareva anche da compatirsi perchè per ogni Tempesta
cocchiere c'era bene una decina di Tempesta passeggieri, che mettevan
la pazienza dei suoi colleghi alla stessa prova a cui egli metteva la
nostra.

                                   *

Apparteneva alla famiglia dei Tempesta il grosso signore coi baffi
tinti e la caramella all'occhio, che la mattina dopo fece cenno di
fermare all'angolo di piazza Carignano e di via Amedeo. Fece cenno
in modo che il cocchiere, un perticone dal naso a becco, credè
che lo facesse al tranvai di Vanchiglia sopraggiungente, e datagli
un'occhiata, tirò via. Quegli si mise a correre accanto al carrozzone,
col viso acceso, agitando la canna e gridando ira di Dio, e quando
fu sulla piattaforma, ansante, investi il cocchiere. — Che maniere
son queste? T'avevo fatto segno dì fermare; non ti faceva comodo, è
vero? Queste sono facezie da _birichin_! — Il cocchiere, risentito, si
difese; ne nacque un battibecco; venne innanzi il fattorino, un giovane
biondo, dall'aria per bene, che ebbe il torto di pigliar le parti del
compagno. L'altro imbestialì, gridò che sarebbe ricorso alla direzione.

— Quando avrà tolto una giornata di pane alla mia famiglia, — rispose
il cocchiere, — non avrà ragione per questo. Intanto, non mi deve
trattare col _tu_.

Il signore tinto lo guardò con stupore; parve più punto da quella
osservazione che dall'altre parole. — Conosco la regola, — disse
bruscamente — si dà del _lei_ al controllore, del _voi_ al fattorino e
del _tu_ al cocchiere.

— È una regola rispose l'altro — che riguarda il personale, noi fra di
noi, non i passeggieri.

— È quello che saprò dalla direzione, — ribattè il signore, tirando
fuori un taccuino per segnarvi il numero del carrozzone.

— Faccia pure.

— Non ho bisogno del suo permesso.

Il fattorino s'interpose da capo con buone parole, e quegli,
borbottando, s'acquetò; ma rimase ritto sulla piattaforma
nell'atteggiamento d'un nume corrucciato. Dove m'era già apparso quel
viso? Non mi ricordavo; ma avevo visto certo molte persone che avevan
con quella un'aria di parentela, ne avevo visto in ogni paese, in mille
occasioni, leticare con camerieri d'albergo, con giovani di caffè, con
commessi di negozio, con fiaccherai e con facchini, anche più vecchi
di trent'anni di loro, dando del tu a tutti, con lo stesso piglio di
quello, e mostrando con tutti quasi un risentimento d'istinto. Era uno
di quei tanti per cui la società pare che si divida in bianchi e in
negri, e che non capiscono come in questi ci possa essere qualche cosa
di somigliante all'amor proprio; che, trattando coi negri, giudicano
naturale e logico di adoperare il Galateo dei bianchi rovesciato; che
non adoperano più il bastone, come i loro padri antichi, soltanto per
paura dei pugni, ma, per forza d'atavismo, lo alzano ancora qualche
volta, e più sovente ne parlano; e che con queste tendenze accordano
per lo più le loro idee politiche, abbracciando tutti coloro che
parlano di libertà, d'eguaglianza, di diritti degli umili con una sola
e vasta designazione: — _I baloss._ — I mascalzoni.

L'uomo tinto discese sdegnosamente sul corso Vittorio Emanuele; il
fattorino biondo lo seguitò un tratto con gli occhi, e poi mise un
soffio.

— Cattiva pratica, eh? — gli domandò un passeggiere.

Quegli scrollò il capo. Lo conosceva da anni. Era una calamità di
quella linea: vi faceva due corse il giorno; non passava settimana
che non l'attaccasse con qualcuno. Una volta aveva fatto una scena
perchè il fattorino, prima di dargli il resto, aveva esaminato il suo
biglietto da una lira _con diffidenza_. Era ricorso un'altra volta alla
direzione perchè a un suo rimprovero il cocchiere aveva risposto con
un _sorriso sarcastico_. Un altro giorno aveva minacciato di ricorrere
perchè lo stracciare gli scontrini, in segno di controllo, _sulla
faccia_ dei passeggieri, invece di bucarli con le tanagliette come
fanno sulle strade ferrate, era una mancanza di rispetto. E “ricorreva„
infatti. Alla direzione ci dovevano aver già un mucchio di lettere sue.
Tutto il “personale„ della Società lo conosceva. Lo chiamavano _tintura
Migone_ per via dei baffi. Quando saliva lui sul tranvai, si mettevan
tutti sulle difese, preparati a un assalto. Poi soggiunse: — E se fosse
il solo!

— Ce n'è dunque molti di quella semenza? — domandò il passeggiere di
prima.

Il fattorino lo guardò e diede una forte soffiata nel corno, che fu
insieme una risposta a lui e un segnale al tranvai del Valentino, che
sopraggiungeva. Poi commentò la suonata. Di prepotenti come quello,
pochi; ma di rompiscatole infaticabili, di stuzzichini, di brontoloni
meticolosi e noiosi che attaccavano ogni momento una bega, o per gli
scontrini troppo piccoli e di carta troppo sottile, o per i vetri che
lasciavan passar l'aria, o per le tende delle “giardiniere„ troppo
corte, o per il puzzo che mettevan nel carrozzone i cocchieri sedendovi
dentro durante le fermate, o per il tavolato fradicio, o per le panche
incomode, o per i battenti duri, ce n'era un reggimento. — Bisogna
proprio dire — esclamò — che c'è della gran gente che non ha nulla da
fare! Ah, non è la vita del Michelaccio la nostra... — Poi, accennando
davanti a sè, disse con accento di rassegnazione filosofica: — Però,
quando si vedon questi....

Guardai dove accennava e vidi venirci incontro un carrozzone pieno
stipato, tutto di giovani. Quelli sulla piattaforma davanti stavan
rivolti verso i cavalli, diritti, immobili, impettiti, col mento
alzato, in atteggiamenti di statue: eran tutti imberbi e pallidi, con
qualcosa di comune nell'espressione del viso, non so che di chiuso e
di triste, come se avessero tutti un solo pensiero, come una squadra
di condannati. Il carrozzone correva. Vidi dentro di sfuggita due
schiere d'altri visi immobili, eretti, con quella medesima espressione
indefinibile, quasi di raccoglimento severo, come se tutti fossero
assorti nell'audizione d'una musica grave che venisse dall'alto e
ciascuno di essi si credesse solo ad udirla. Anche la piattaforma di
dietro era affollata di quelle statue viventi, dal viso scialbo e senza
sorriso, rigide e mute, e v'eran tra quelli dei ragazzi che avevan la
stessa espressione degli adulti, come se appartenessero a una razza
non dotata che di una gioventù fisiologica, nella quale la vita dello
spirito fosse già una vecchiaia pensierosa. Passarono così rapidamente
che non ebbi il tempo di riconoscerli, e mi diede un brivido la voce
del fattorino, che disse: — Sono i ciechi dell'Istituto di via Nizza;
prendono sempre un carrozzone per loro soli, a prezzo ridotto.

                                   *

Non vidi nessuna di quelle scene amorose che m'aveva preannunziato
il giovine pittore: non era buona luna; ma mi toccò su quella linea,
proprio l'ultimo giorno, una delle “migliori„ corse possibili; poichè
(lo debbono aver tutti osservato) si danno sui tranvai le corse
buone, in cui non s'hanno che incontri e impressioni gradevoli, e le
cattive, che sono una sequela di piccoli dispiaceri. La buona ventura
mi cominciò sulla linea del Martinetto, andando a piazza Castello per
pigliarvi il tranvai della barriera. Era il tocco e mezzo, una giornata
splendida. Trovai sulla piattaforma _Carlin_, il fattorino africanista,
felice della partenza del colonnello Pittaluga per Assab, donde si
diceva che sarebbe entrato nell'Harrar con un corpo di spedizione. Il
suo piano di prender gli abissini fra due fuochi stava per attuarsi;
egli ne discorreva con una guardia municipale. — Son suonati! —
esclamava — son suonati! Cani di negri! Non uno, non uno n'ha da
ritornare al suo canile! — Pareva che avesse suggerito lui l'operazione
al ministro della guerra: raggiava vittoria dagli occhi. Ma riconobbi
che la sua curiosità non si pasceva soltanto, nei giornali, di politica
guerresca, poichè, poco dopo, gl'intesi domandar spiegazioni a un
passeggiere intorno a quel “professore dell'Austria„ dotato, come
dicevano, di due occhi diabolici, che vedevano dentro alle scatole
chiuse. Capii dalla risposta che intendeva parlare dei raggi Röntgen e
m'accorsi che la spiegazione gli confondeva, invece di chiarirgli le
idee: cosa frequentissima, fra dotti e ignoranti, anche in politica.
Che un uomo avesse una vista così forte da vedere a traverso il legno,
per quanto fosse strano, lo poteva comprendere; ma la spiegazione dei
raggi elettrici fece nella sua mente un buio fitto. Rimase un po' sopra
pensiero; poi ritornò alla guerra d'Africa, nella quale, almeno, vedeva
chiaro.

C'era sulla piattaforma posteriore il cavaliere _Bicchierino_, che non
aveva trovato dentro il suo posto solito, e nell'interno, in fondo, la
ragazza di borgo San Donato, poveretta, con una pezzuola verde sopra un
occhio. All'angolo di via Siccardi, come sempre, salì il giovane, il
suo supposto fidanzato, che la salutò col solito sorriso malinconico,
e le sedette di fronte. Il cavaliere, ritto in faccia a me, leggeva la
_Gazzetta del Popolo_: aveva certo la consuetudine di leggerla ogni
giorno anche a quell'ora, forse per riparare alle dimenticanze della
lettura mattutina, o, più probabilmente, la leggeva mezza la mattina
e mezza fra il tocco e le due. Incontrando per un momento il suo
sguardo capii che non m'aveva perdonato il mio giudizio offensivo per
la via Garibaldi. L'aria era limpidissima: per le imboccature delle
venticinque vie laterali il sole metteva altrettanti torrenti luminosi
nell'ombra severa della via lunghissima, e da una parte le grandi
Alpi bianche e azzurre, dall'altra la facciata classica del Palazzo
Madama, con tutte le vetrate fiammeggianti, formavano uno dei prospetti
più ammirabili che la natura e l'arte, fronteggiandosi, possan fare
ai due capi d'una via cittadina. Essendo salito a un certo punto il
primo segretario del Municipio, che è poeta e artista, gli dissi: —
Guardi, che bellezza è via Garibaldi! Non par di essere nello stesso
tempo a Parigi, a Napoli e ai piedi delle Alpi? — A quelle parole il
cavaliere alzò il capo dalla _Gazzetta_, diede un'occhiata alla strada
e alle Alpi, e poi una a me, rapidissima, e dignitosamente benigna, che
significava quasi il perdono. Sia ringraziato il cielo, pensai; eccomi
aperta la via alla conquista del suo cuore. — La corsa principiava
bene.

All'angolo di via Botero un'apparizione straordinaria riscosse tutti i
passeggieri. Salì e sedette dentro una coppia matrimoniale: inglesi,
parevano; sposi, senza dubbio; ricchi, si vedeva; due dei più belli
e poderosi esemplari della razza anglo-sassone ch'io avessi veduti
mai, un atleta e un'amazzone, tutt'e due coi capelli d'oro, gli occhi
di zaffiro e le guance di rosa, due splendori di gioventù, di forza,
d'amore e di fortuna, di quelle creature che la natura sembra aver
fatte l'una per l'altra, per mostrare _quantunque ella può_, e che
lasciano per tutto dove passano un fremito d'ammirazione e d'invidia.
Tutti gli occhi si fissarono su di loro; perfino Carlin uscì in
un'esclamazione ammirativa: — Che bella _pariglia_! — Ah, quei due
poveri fidanzati malaticci di San Donato, con quei panni logorati
dalla spazzola, come parevano più poveri e più meschini vicino a quei
due grandi e splendidi fiori britannici! N'ebbi un senso di pietà
vivo, quasi doloroso, come a veder le vittime d'un atto d'ingiustizia
crudele. La ragazza, in special modo, mi colpì. Guardava la signora,
che le sedeva accanto e la sorpassava di tutto il capo, voltando il
viso in pieno, per vederla con quell'occhio solo che aveva scoperto;
la guardava come una creatura tanto al di sopra di lei che non la
potesse neanche invidiare, e quel suo occhio dilatato e fisso esprimeva
un'ammirazione così ingenua, una simpatia così buona e insieme una
così dolce e umile rassegnazione all'inferiorità propria, che in
quel momento era bellissimo, bello come una di quelle sante parole
che in certe grandi prove della vita ci rivelano a un tratto, in
un'anima, un tesoro infinito di bontà e di gentilezza. Osservai tutti
i suoi movimenti. Dopo un poco essa fissò lo sguardo, con la stessa
espressione benevola, ma meno viva, sul signore, e poi cercò quello
del suo amico, e si guardarono tutti e due per qualche momento, e parve
che si dicessero: — Come sono belli, come sono fortunati, non è vero?
Ma, vedendoli, io mi stringo ancora più fortemente a te, perchè penso
ch'essi hanno tanti altri beni ed io ho te soltanto, e che siamo fatti
l'uno per l'altro noi due pure. — Quando essa s'alzò per discendere in
piazza Castello, ed egli le tese la mano, il suo viso si colorì d'un
leggiero rossore; forse perchè pensava che i presenti facessero in quel
punto un confronto fra di loro e quegli altri due; e il suo rossore
ebbe un riflesso leggerissimo sul viso di lui. Pudore della bruttezza e
della povertà, più bello, più rispettabile di quello dell'innocenza.

Nella piazza, fra la gente che aspettava la partenza del tranvai della
barriera, mi diede nell'occhio un ometto sbarbato di mezza età, con un
viso e un vestito di commediante povero, il quale stava osservando con
viva attenzione, e con gli occhi sorridenti, i due cavalli attaccati.
Li osservai io pure. Si accarezzavano come due fratelli amorosi:
l'uno faceva scorrere il muso sulla criniera dell'altro, ravvicinavan
le teste toccandosi con le tempie, si strofinavano, si mettevano a
vicenda la bocca accosto all'orecchio, socchiudendo gli occhi, come se
si parlassero, come se si confortassero l'un l'altro della dura vita
presente con la predizione dei lunghi sonni che avrebbero dormiti nei
loro ultimi anni davanti alle porte dei teatri e delle stazioni, sotto
la guardia dei fiaccherai sonnolenti. A un tratto l'ometto sbarbato
mi rivolse la parola, come a un conoscente, con una vocina d'uccello:
— Come si vogliono bene, eh? Effendi e Calice; quattro e cinque anni;
sono ancora ragazzi; ma male appaiati: l'uno forte, l'altro debole: non
fanno mica un buon servizio insieme. — Un “tranvaiofilo!„ Non m'occorse
altro per riconoscerlo. Soggiunse subito dopo: — Gran bella linea
questa! — Era un amatore della _Società torinese_. Riprese infatti
il discorso sulla piattaforma, quando si partì, dicendomi i profitti
quotidiani e straordinari della linea di Nizza “la regina delle linee„
con quell'accento di compiacenza e d'alterezza con cui sogliono molti
poveri diavoli numerare e magnificare le ricchezze dei milionari
celebri e farsi quasi suonar nella mente i loro sacchetti, come se
dessero in quel modo a sè stessi l'illusione momentanea e il godimento
del possesso.

Il tragitto da piazza Castello in là fu amenissimo. Vicino alla
piazzetta Lagrange, mentre il tranvai correva, una giovane signorina,
graziosamente vestita, che stava aspettando sul marciapiede, prese
la corsa, spiccò un salto, e piantato un piede sul montatoio,
senz'afferrarsi alla colonnina, restò un momento ritta in quell'atto,
come un acrobata che aspetti l'applauso: poi aperse l'uscio ed entrò
in mezzo all'ammirazione generale. Il mio vicino soltanto non mostrò
alcuna maraviglia. — È una maestra di ciclismo per le signore, — disse,
o meglio, gorgheggiò; — vinse anche un premio alle corse, due anni fa.
— E inteso ch'era la prima volta ch'io vedevo una signora salir sul
tranvai a quel modo: — Lo credo, — rispose, — è ben raro; a Torino non
ce n'è che quattro.

La sicurezza con cui fece quell'affermazione, come avrebbe detto: —
Non c'è che quattro monumenti equestri, — mi stupì. Egli specificò,
contando sulla punta delle dita. — C'è questa, dunque; ce n'è una sulla
linea della Crocetta, un'ex cavallerizza del Circo Amato, che prese
marito; c'è una serva sulla linea del Valentino, mi pare.... ma quella
è una mezza matta; e una fioraia, che sta dalle parti di Porta Palazzo.

Lo guardai con ammirazione: era un uomo prezioso per me. E continuò,
dicendo che la più straordinaria era la fioraia, perchè, sebbene
ancor giovane, era un pezzo da ottanta, un centinaio di chilogrammi
a far poco. Saliva tutti i giorni alla stess'ora, sul tranvai di
Ponte Isabella, a una cantonata di via Milano. Parecchi andavano
là apposta per vedere il salto, e quando sul carrozzone c'erano dei
giovani allegri, gridavano tutti insieme: _Hop! Hop!_ nell'atto che
essa pigliava la rincorsa, e poi: — Là! Brava! Bene! — applaudendo, e
lei, ch'era una burlona, ringraziava prima di sedersi, col gesto d'una
ballerina alla ribalta. — Ah sui tranvai, — concluse, — per chi non ha
occupazioni.... è uno spasso.

Mentre egli parlava s'eran seduti dentro, nel mezzo, l'uno di faccia
all'altro, un vecchio frate cappuccino, piccolo e secco come una
mummia, e un sottotenente degli alpini giovanissimo, che si guardavano
a vicenda con molta attenzione, come due esseri strani l'uno per
l'altro, che avessero per la prima volta l'occasione di esaminarsi
dappresso; e questi e una bella baliona di Viù, che era seduta in
fondo, con la sua grande cuffia bianca e il grembiale rosso, imperlata
come una madonna, facevano tra l'altra gente uno spicco così vivo e
fra di loro un contrasto così forte d'aspetto e di natura, che gli
occhi di tutti i passeggeri correvano vivacemente, sorridendo, dall'uno
all'altro, come su tre personaggi di commedia che rappresentassero una
“situazione„ straordinaria.

Stavo osservando il quadretto, quando il tranvai s'arrestò, l'ometto
sbarbato discese, e salì e sedette dentro, con un ragazzino sulle
ginocchia, una donna del popolo, dalle forme robuste e dal viso ardito.

Il fattorino le andò a porgere due biglietti. Essa porse due soldi
soli. — Deve pagare anche il bimbo, — disse quello, con uno spiccato
accento modenese.

— Un bimbo di questa età? — domandò bruscamente la donna.

— Appunto perchè è di quell'età, — rispose il fattorino. — Il
regolamento non esclude che i lattanti. Il suo è lattante?

— Cosa vuol dire?

— Se prende il latte.

— Sicuro che lo prende, tutte le mattine appena levato.

— Non mi pigli in giro: voglio dire se prende il latte della mamma, — e
accennando col dito alle fonti: — il suo.

— Oh, dico, — rispose la donna risentita, — porti rispetto! —
Tutti diedero in una risata; essa girò sui passeggieri un occhio
minaccioso.... e poi rise anch'essa, confessando così schiettamente, in
quel modo, d'aver finto di offendersi per imbrogliar la questione, che
risero tutti un'altra volta.

La compagnia era di buon umore. All'angolo di via Baretti, salì una
grossa signora sui cinquanta, rotonda e fresca come un cavolfiore, e
tutt'ansimante, con un cappellino che pareva un cespuglio e un vaso
di fiori stretto al seno. Entrando, mentre i cavalli ripigliavan
la corsa, per andarsi a sedere al posto rimasto vuoto nel mezzo, si
voltò troppo presto, perdette l'equilibrio e cadde seduta sopra un
ginocchio dell'ufficiale, gettando uno strillo. Fu un momento solo;
ma lo spettacolo di quel donnone sfereggiante e ansante, con quel
faccione rosso, con quel cespuglio in capo e quel vaso al seno, seduta
come una bimba sulle ginocchia di quell'ufficialetto sgomentato, era
così stranamente comico che ne schiattò dal ridere la compagnia, e
poi l'ufficiale, e finì con ridere essa pure, benchè tutta confusa,
mettendosi a sedere sulla panca, con una mano sul viso.

Ma non era finita. Arrivati in piazza San Salvario, fa cenno di
fermare una piccola signora bionda, che tiene due bimbi per mano. Il
cocchiere ferma. Quella s'avvicina alla piattaforma anteriore e porge
uno dei bimbi al fattorino che lo tira su e lo fa entrare: un bel bimbo
biondo d'un paio d'anni, sorridente, che è accolto con carezze. Subito
dopo entra il secondo, somigliantissimo al primo, vestito tal quale,
sorridente anche lui, e ricevuto a festa come l'altro. Pareva che fosse
finito; ma non s'eran visti quelli che la signora aveva dietro di sè.
Il fattorino ne tira su e ne mette dentro un terzo, una copia un po'
ingrandita dei due primi. Allora la compagnia cominciò a esilararsi,
a scherzare: — E tre! — È un collegio. — Staremo qui un'ora. — Ne
comparve un quarto: fu un coro d'esclamazioni. Comparve ancora una
ragazzina sugli otto anni: fu uno scoppio d'allegria. Salì finalmente
la signora, il ritratto miniato di tutti e cinque, rosea e serena come
loro, e al suo apparire tutti tacquero; ma al vedere che n'aveva in
corso di stampa un sesto, tutti si rallegrarono da capo, con un sorriso
di simpatia ammirativa e un mormorio rispettoso di congratulazioni; e
la gaiezza di tutta quella gente che carezzava i bimbi, e quei cinque
visetti biondi che sorridevano tutti insieme, senza saper perchè,
eccitati dal sorriso degli altri, e la giocondità amorevole di quella
mammina snella e fresca come una ragazza, felice della sua fecondità
trionfante, furono per alcuni momenti uno spettacolo delizioso.

L'ultima la godetti io solo. V'erano sulla piattaforma due uomini sulla
quarantina, che discorrevano a voce bassa, l'uno in piemontese, l'altro
in lombardo. Questo non faceva che esclamare di tratto in tratto: — _Ah
che loder! Ah che baloss!_ —; l'altro raccontava in tuono di lagnanza
una lunga storia d'un tale, che, essendo suo socio in un affare,
aveva prima tentato di soppiantarlo, poi s'era valso del suo nome per
riscotere dei crediti comuni, e, rotta l'associazione, oltre al negare
con una faccia di bronzo le sur birbonate, aveva ancora preteso da
lui dei risarcimenti, minacciandolo d'una lite. E concluse: — Questo
ebbe la faccia di farmi, capisci: come si chiamano queste azioni? — A
questa domanda, il lombardo si levò la pipa di bocca, e con l'accento
più naturale del mondo, senza la minima pretensione apparente di dire
un'arguzia, come chi si serve d'un motto già entrato nel patrimonio
della lingua comune, rispose pacatamente, dando a me un'occhiata
distratta: — _Hin azion de comendator._

A un cento passi dalla barriera, mentre i cavalli galoppavano, la
maestrina di ciclismo uscì sulla piattaforma, si mise ritta sul
montatoio, col viso alto e il velo al vento, e dondolato un poco il
piede nel vuoto, discese senza una scossa, come se l'avessero posata
in terra due braccia invisibili. Fra i passeggieri che si affacciarono
ai finestrini per vederla scendere, vidi il viso del vecchio frate,
stupito, che pareva dire: — Ma che razza di donne si fanno adesso!

E così terminò la corsa fortunata, una di quelle rare corse a traverso
al mondo, nelle quali i nostri simili non ci si presentano che in
aspetti graziosi e lepidi, dandoci quasi una passeggiera illusione che
la vita non sia che una commedia piacevole, di cui non si diverta che
chi non l'intende o chi è

           .... malventuroso, e di piaceri
    o incapace o inesperto.

                                   *

Ma, ahimè, che bruschi voltafaccia ci fa la fortuna anche sui tranvai!
Trovo fra le note segnato il 9, domenica, come una giornata nefasta.
Era un tempo freddo, piovigginoso, grigio, come se piovesse cenere. Il
dopo pranzo, appena salito sul tranvai del Corso Vinzaglio, accanto al
buon Giors, che la pioggia pareva mettesse di buon umore, mi seguì un
piccolo accidente di malaugurio, che dovrebbe servir di ammaestramento
ai fumatori spensierati. Addentai il regalo che m'aveva fatto un
giornalista spagnuolo passando per Torino, uno di quei principeschi
sigari di Cuba, foggiati a punta, che a noialtri poveri italiani fanno
l'effetto che fa il pan bianco a chi vive di pan di segala. Alla prima
boccata di fumo Giors si voltò, e mise un'esclamazione: — _Ah che
bel bonbon!_... E che buon puzzo! — e cominciò a aspirare i nuvoli,
mettendovi il viso dentro, e inarcando la schiena e ridendo dal gusto,
come se succhiasse egli pure. Ma non tenendo il sigaro con la mano,
per non parer mal pratico della roba fine, a un traballar che fece il
tranvai nello svoltare in Via Cernaia, il _bonbon_ mi sguizzò di bocca
come una freccia e andò a cader capofitto nella mota. — _Ah, malheur!_
— gridò Giors, con un accento di sincero rammarico, come se fosse
saltato via dalle sue labbra; ma, guardatomi in faccia, vedendo che
avevo l'aria del corvo della favola a cui casca dal becco il formaggio,
diede in una risata di ragazzo. Si ravvide subito, però, osservando il
mio riso forzato, e disse in tono grave di compatimento: — Già.... per
fumare quei sigari lì.... è meglio prender la “cittadina„. — Ma fu egli
stesso così colpito dall'arguzia della sua sentenza che diede in un
nuovo scoppio di risa.

— Comincia male, — pensai; — su questa linea m'ha da capitare qualche
disgrazia.

E non tardò. Salì all'angolo del Corso Vittorio un ex professore
di ginnasio, mio antico conoscente, tutto zazzera e barba, un po'
strambo, una di quelle facce rettoriche di vecchi letterati, che
par che sian nati con gli occhiali; e mi si piantò davanti sulla
piattaforma. Io mi vidi perduto. Era un recitatore spietato dei propri
versi, che ammazzava gli amici a colpi di cetra. Questa razza crudele
è particolarmente terribile sui tranvai, dove non potete sfuggire al
supplizio e siete costretti a ricevere i colpi a bruciapelo, in piena
faccia, col naso del carnefice a contatto col vostro. Per mia disgrazia
appunto, essendo la piattaforma affollata, m'era impossibile movermi,
ero in sua balìa con le braccia e con le gambe legate. Fatta una
prefazione brevissima al suo ultimo “parto„, egli m'appuntò contro il
petto un indice lungo e nodoso, e incominciò a dire i versi, prima a
voce bassa, poi, infervorandosi, forte: — _All'uomo!_ — Non era che un
sonetto; ma steso tutto quanto in una forma interrogativa, che pareva
stata scelta apposta per metter l'uditore alla berlina. Cominciava:
_Uom, chi sei tu?_ e a ogni coppia di versi ritornava questa domanda,
alla quale il poeta, pessimista nerissimo, dava una serie di risposte
vigorose, l'una più offensiva dell'altra per il re del creato —
_Uom, chi sei tu?_ — I passeggieri discosti, che non potevano capire
ch'egli mi recitava una poesia, vedendo l'atto e non afferrando che
qualche parola, credettero che m'apostrofasse insolentemente, e si
voltarono tutti a guardare. E quegli da capo, appuntandomi il dito
contro il mento: — _Chi sei tu? Con te stesso empio e mendace._ —
L'attenzione dei passeggieri si fece più viva. — _Chi sei tu?_ — I
più vicini sorridevano; ma gli altri sporgevano il viso stupito e
inquieto, aspettandosi ch'io alzassi le mani. — _Chi sei tu?_ — E tirò
via a darmi dell'_insetto_, della _vana bolla_, della _larvata iena_,
un sacco d'ingiurie sanguinose, senza che il rossore che mi saliva
alle guance e le smorfie di tormentato ch'io gli facevo sul viso gli
destassero il più leggiero sospetto del mio stato d'animo. Il primo
verso dell'ultima terzina terminando in _stile_, presentii con un
fremito la botta finale, una patente di viltà solennissima; e tentai
di pararla coprendo la sua voce con un colpo di tosse; ma l'aguzzino
ripetè il verso. Eravamo in quel punto davanti alla stazione; io
avrei dovuto proseguire; ma, vergognandomi di restar là dopo essermi
asciugati in silenzio tanti improperi, e anche per disingannar la gente
mostrando che s'era buoni amici, discesi con lui nella piazza, dove mi
presi nel fianco destro un altro sonetto....

Mezz'ora dopo ritornai dov'ero sceso per prender la linea dei Viali,
salii sulla piattaforma d'un carrozzone pien di gente, e mi trovai
davanti.... Maledetta giornata! Ecco un altro caso fastidiosissimo,
non possibile che sui tranvai: trovarsi faccia a faccia, a contatto,
costretti a guardarsi e quasi a confonder gli aliti, con un antico
amico, col quale s'è rotta l'amicizia da quindici anni, e che da
quindici anni non v'ha più guardato in viso. Se è un nemico che v'odia
e che odiate, se n'esce subito: gli voltate bruscamente le spalle, o
ve le volta lui. Ma se la rottura non avvenne che per una discussione
giovanile stonata, nella quale aveste tutt'e due una parte di torto,
e di cui vi pentiste, e supponete ch'egli si sia pentito, se non solo
siete certi che l'orgoglio soltanto lo trattenne per tanto tempo dal
ritornare a voi, ma sentite che è il sentimento stesso che impedì a
voi pure di fare quel passo, quanto è penoso allora l'incontro! Per
fortuna, due passeggieri discesero dopo un momento, ed essendosi fatto
un po' di spazio, quegli potè adagio adagio, scostandosi un poco,
voltarsi dalla parte opposta, senz'aver l'aria di farmi uno sgarbo.
Ma fu quasi peggio perchè, non avendo più il suo viso davanti, ebbi
libero il pensiero, che prese la via dei ricordi. Egli era là, con la
nuca a un palmo dal mio mento; da una contrazione appena visibile della
sua guancia capii che doveva essere un po' commosso; gli vedevo per la
prima volta molti capelli grigi; mi ricordai delle allegre serate che
avevamo passate insieme, dei discorsi pieni di confidenze reciproche,
delle lunghe passeggiate fuor di porta che avevo fatto con lui; mi
ricordai del riso di buon figliuolo con cui accettava il soprannome
di _Siapure_, che gli avevamo posto, perchè nelle discussioni diceva
_sia pure_ a ogni tratto, come un intercalare; mi ricordai che in
fondo era un caro amico, un po' troppo pronto, un poco affettato, ma
d'indole affettuosa, incapace d'un'azione ignobile; mi rivenne anche
in mente che, sette o otto anni addietro, aveva perduto sua madre,
morta miseramente, d'una caduta di carrozza, e che per vari mesi dopo
l'avevo visto pallido e accasciato; pensai che sarebbe spettato a me
di coglier quell'occasione, di toccargli la spalla con la punta delle
dita, chiamandolo per nome, e di fargli, al suo voltarsi, un sorriso
che fosse un invito, una preghiera.... E mi mancò il coraggio di farlo.
E allora, vilmente, riandai col pensiero quella tal discussione,
rimasticai le sue parole offensive, attenuai cavillando le mie,
m'irrigidii nell'orgoglio, e stetti così, duro e muto, finchè egli
discese senza guardarmi, e infilò via San Massimo, sotto alla pioggia.
Ma allora rimasi male, pentito, con la coscienza d'essermi portato da
anima piccola, e d'aver meritato la chiusa dell'_Uom, chi sei tu_. — Ah
povero mondo! — pensai — Me ne riserba altre, quest'oggi, la carrozza
di tutti?

Me ne riserbava ancor una, di fatti, e proprio sulla stessa linea, che
presi in Corso San Maurizio per tornare a casa, dopo aver visitato
gli apparecchi del carnevale in piazza Vittorio Emanuele. E anche
questo fu un caso d'appiccicamento forzato; ma d'indole comica: uno di
quei mezzi briachi espansivi che vi s'attaccano come mignatte. Era un
operaio sui cinquanta, bassotto, col cappello arrovesciato indietro
e un ciuffo di capelli grigi sulla fronte; che pareva si fosse preso
tutta la pioggia della giornata, tant'era fradicio da capo a piedi.
Stava solo sulla piattaforma, masticando un mozzicone di Virginia, con
una faccia che mostrava un gran prurito di chiacchierare. — Appena
salii, mi guardò fisso con due occhi lustri, e si rivelò meneghino
alle prime sillabe: — _Pisson d'on temp!_ — Con questo fiore di lingua
attaccò la conversazione. Aveva fatto una passeggiata fuor di porta
(si vedeva) _cont on amis_, nel quale s'era imbattuto la notte, _a la
vœuna e mezza_, dopo tanti anni che non si vedevano, un compagno d'armi
del 1866, che s'era trovato con lui a Rocca d'Anfo, _sotto Garibaldi_.
— _Hoo minga bevu tropp_ — disse, — .... _duu gott_.... — Era un po'
allegro, ne conveniva; ma questo non gli avrebbe impedito d'andar la
mattina dopo al lavoro: era lavorante in ferro. Poi disse ex abrupto:
_Vedaremm, vedaremm_, queste prossime elezioni. _Cossa el ne pensa
lu?_ — Ma, senz'aspettar la risposta, mi guardò in viso, col capo un
po' inclinato da una parte, sorridendo maliziosamente, e, appuntandomi
l'indice al petto: — _Lu el dev vess de l'oposizion!_

Parendomi pericoloso il fargli delle confessioni politiche, mi
contentai di sorridere. Egli picchiò il pugno nella mano in atto
di trionfo e gridò: — _Ah! el disevi mi! Mi conossi la gent da la
fisonomia._ — Egli aveva dato il suo voto allo Zavattari. — _Cossa ne
pensa lu del noster Zavattari?_

La mia risposta lo soddisfece.

— _El credi mi!_ — esclamò. — _E del noster Cavallotti, sentimm on
poo...? E del noster Imbriani?_

Ma le mie risposte, troppo laconiche, non finivano di contentarlo.
Me ne fece dell'altre, a cui non risposi più che con cenni del capo.
Allora scrollò una spalla, dicendo: — _Hoo capii: el vœur minga
desbottonass._ — E sorrise in atto di compatimento. Poi, tutt'a un
tratto, come se gli fosse venuta su un'ondata di vino, mi fissò negli
occhi uno sguardo torvo, e voltandosi verso di me con un movimento
brusco che gli fece fare un traballone: — _Ovèi, disi.... el me
credariss forsi on confident de questura?_

Caspita! Bisognava rispondere. — Che cosa le passa per la testa? —
dissi con gravità. — So bene che uno che s'è battuto con Garibaldi non
può far di questi mestieri.

— Ah! — esclamò rasserenandosi. — Ecco una parola giusta! — E provò a
ripetersi la mia risposta per gustarla meglio. — _Ben ditt!... Ah lu
l'è fin! Lu el m'ha daa una risposta che ghe fa onor!_ — E poi da capo:
— _Ch'el me disa donca_ — domandò con un sorriso sarcastico —, _cossa
el ne pensa lu de Francesco Crispi?_

Ma non aspettò la risposta: si voltò verso la strada e, tirando un
moccolo, mostrò il pugno all'orizzonte, come se il fantasma del suo
nemico sorgesse dietro la collina di Superga. E poi un'altra volta, con
un'ostinazione mulesca: — _Ma ch'el me disa propri quel ch'el pensa del
noster Zavattari?_

E continuò così, implacabile, per tutto il tragitto. Salirono altri;
speravo che s'attaccasse ad altri. Ma no, egli rimase incollato a me,
seguitando a tempestarmi di domande, ora stizzendosi del mio laconismo,
ora approvando calorosamente le mie mezze risposte, ora interrogando
e rispondendo in vece mia, e lodandomi della risposta che s'era fatta
egli stesso. Ma alla fine si dichiarò malcontento. — _L'è inutil....
l'è inutil_ — concluse scrollando il capo, con un sogghigno amaro: —
_El se vœur propri minga desbottonà_.... — E voltatosi ancora una volta
a guardarmi prima di discendere, diede in una gran risata, e esclamò: —
_Ah! che politicon!... Ah che maggia!_

Discese, respirai. Ma fatti appena quattro passi, mentre era ancora
fermo il tranvai, si voltò indietro: tremai che risalisse; non
risalì. Mi ripetè soltanto con un sorriso furbesco, tendendo la mano e
tentennando sulle gambe: — _E pur.... lu el dev vess de l'oposizion!_ —
Detto questo, se n'andò. Ero libero; ma il divertimento era durato per
la bellezza di duemila e quattrocento metri. E così si chiuse per me
la nefasta giornata del 9, della quale, rientrato in casa, presi nota
con dispetto, maledicendo alla poesia tranviaria, alle amicizie rotte e
alla politica brilla, quasi infastidito del mio soggetto....

                                   *

Mi rinfrescarono l'ispirazione tutt'a un tratto le “giardiniere„
che fecero la solita apparizione transitoria negli ultimi giorni di
carnevale. Quelle grandi carrozze leggiere e aperte da ogni lato, in
cui i passeggieri siedono gli uni dietro gli altri, tutti rivolti da
una parte, in modo che, stando ritti sul davanti, un po' di sbieco,
s'abbracciano con lo sguardo ventotto visi disposti in sette file,
come nella platea d'un teatro minuscolo, presentano un molto più largo
e più vario campo all'osservatore che i carrozzoni chiusi. Vi potei
far subito delle osservazioni nuove sulla famiglia amenissima degli
erotici, che, non potendo più giovarsi della confusione e del serra
serra, vi si mostrano più scopertamente. I più arditi, i giovani per
lo più, s'appoggiano con impostature eleganti al parapetto anteriore,
voltando le spalle ai cavalli, e passano in rassegna il bel sesso della
piccola platea volante, come usano di fare, tra un atto e l'altro,
dalle sedie chiuse. I più timidi, che sono anche gli osservatori
più profondi e i goditori più raffinati, stanno ritti in fondo, di
dove non vedono i visi, ma godono di molti altri aspetti della forma
femminile, che pare li compensino largamente di quella privazione. Di
là, in fatti, possono accarezzare con lo sguardo i colli bianchi, i
ciuffetti di capelli agitati dall'aria sulle nuche, i piccoli recessi
candidi e rosati intorno alle orecchie, i saldi nodi delle capigliature
morbide sporgenti sotto ai cappellini e le lunghe trecce cadenti sulle
schiene giovinette; e possono anche osservare a bell'agio i diversi
atti graziosi, risoluti o languidi, artificiosi o semplici, con cui le
belle persone siedono e si assettano, e misurare con gli occhi le vite
snelle e le braccia rotonde, e spingersi pure, senza farsi scorgere,
ad osservazioni più delicate sulle passeggiere dell'ultima panca,
chinando lo sguardo quasi a piombo sulle linee moventi che s'inarcano
dai colli alle cinture e sulle curve ferme che scendono dalle cinture
ai ginocchi. Si sale di rado in una giardiniera, in cui non si possa
osservare qualcuno di questi osservatori cogitabondi, che col luccichìo
delle pupille dicono chiaramente con che cosa si stia trastullando il
loro pensiero.

Un bell'originale di questa famiglia conobbi sulla linea dei Viali il
dopopranzo della domenica grassa. Stava ritto accanto a me, in fondo
alla giardiniera. Era un signore attempatotto, rotondo e roseo, senza
un pelo di barba, con una bella capigliatura grigia ondulata che gli
scappava di sotto a un piccolo cappello a tuba: tutto vestito di nero e
impiccato in un alto solino bianchissimo. L'avrei preso per un pastore
evangelico se non avesse mandato intorno un profumo acuto d'essenza di
rose. La giardiniera era piena di signore e di signorine. I suoi occhi
celesti e vivi scorrevano senza posa su quella folla di cappellini che
offriva l'aspetto d'un'aiuola fiorita, accompagnavano per un tratto
ogni signora che scendeva, squadravano, avvolgevano, scrutavano ogni
signora che saliva, non perdevano uno solo dei movimenti che faceva
ciascuna per alzarsi, per voltarsi indietro, per aggiustarsi le vesti,
per far posto ad un'altra: pareva che egli pigliasse degli appunti
mentali. Ma non v'era ombra di sensualità nel suo sguardo: v'era
un'espressione come di compiacenza artistica, un continuo leggerissimo
sorriso di godimento puro e tranquillo dell'immaginazione. A un dato
momento vidi i suoi occhi dilatarsi fissandosi sulla spalliera mobile
dell'ultima panca, alla mia sinistra; guardai: egli aveva colto sul
fatto una crestaina, salita poco prima con un giovanotto, la quale,
tenendo le braccia ripiegate indietro sopra la cintura, e facendo
l'indiana, agitava le dita fra le mani dell'amico, ritto dietro di
lei, indianeggiante egli pure; e mi parve che quella scoperta lo
rallegrasse, gli destasse un senso di gioia benevola, come quella d'un
padre che vede scherzar la figliuola col fidanzato. Un tal colore,
se altro non era, egli dava abilmente al suo sentimento. Lo giudicai
uno di quei vecchi fortunati, sani di temperamento e di spirito, che
dal bel sesso sono ancora attratti, ma non turbati, che ammirano una
bella donna come una bella aurora, che davanti allo spettacolo della
bellezza e della grazia femminile e degli amori e delle ebbrezze della
gioventù, dignitosamente rassegnati alla parte di spettatori, non
provano che un senso di dilettazione serena, scevra d'ogni invidia e
d'ogni rimpianto. Seguitai un'altra volta il suo sguardo, che si fissò,
con un'espressione di maraviglia, all'estremità d'una delle panche del
mezzo.... e riconobbi là il profilo purissimo della “vergine morta„;
la quale subito, nella mia fantasia, si distese sopra un panno nero,
in mezzo a quattro ceri, con gli occhi chiusi e lo braccia in croce,
ravvolta in un velo bianco e coronata di fiori.

Era anche questa volta sola, vestita con la semplicità di tutti
i giorni, con una rosa bianca sul cappellino; bianca come il suo
viso immutabilmente sereno di creatura sovrumana, che non potesse
nè arrossire, nè ridere, nè piangere, intangibile ad ogni passione
terrena. Il chiodo della curiosità mi si ficcò anche più addentro che
la prima volta. Chi poteva essere? Qualcuna delle signore vicine,
di tratto in tratto, si voltava a guardarla: pareva che non se
n'avvedesse. Ma della sua impassibilità maravigliosa diede una prova
anche maggiore. In un momento che s'era fermi, passò lentamente in
bicicletta, venendo in direzione opposta alla nostra, dal lato dov'ella
sedeva, un bel tenente dei bersaglieri, il quale la fissò, e tirò via.
Ma appena si ripartì, quegli tornò indietro e prese ad accompagnare
il tranvai, come un aiutante di campo una carrozza reale, col viso
rivolto verso la ragazza. Molti s'accorsero della manovra e si misero
a guardarli tutti e due. L'ufficiale sorrise, un po' confuso, ma non
si scostò; essa non diede il minimo segno nè di compiacenza, nè di
suggezione, nè di dispetto, come se sulla bicicletta ci fosse stato
un bambino di sei anni: osservava le ruote e il movimento alternato
dei pedali col suo sguardo tranquillo e limpido, come se studiasse
il meccanismo. Quegli ci fiancheggiò ancora per un po', continuando
a guardarla; poi fece forza, passò avanti e disparve; e lei girò sui
passeggieri che la guardavano i suoi grandi occhi d'angelo senza sesso,
nei quali non era indizio d'alcun pensiero, come se nulla avesse visto
e nessuno l'avesse guardata. Ma era veramente un miracolo d'innocenza o
d'austerità d'animo, oppure un prodigio di simulazione? Questo sospetto
mi fece riflettere. E doveva aver fatto in tutti un'impressione assai
viva poichè, quando discese all'angolo di via Gioberti, tutte le teste
dei passeggieri, come se un colpo di vento le voltasse, si girarono
a guardarla, e vidi che la sua smilza figura di bambina cresciuta
in furia, la modestia monacale del suo vestire e la sua andatura
stranamente fanciullesca accrebbero in tutti lo stupore, come in me la
curiosità. Ma chi poteva mai essere? E avrei fatto la sciocchezza di
scendere e d'andare a chiederne informazioni al portinaio della casa
dov'entrava, se la mia curiosità non fosse stata attratta in quel punto
dal viso d'un bimbo, che stava ritto sopra una delle prime panche, in
mezzo a una signora e a una governante, e che mi pareva d'aver visto
altre volte.

Mi pareva quello a cui sua madre aveva fatto abbracciare la bambina
bionda, sul carrozzone di Giors, l'ultimo giorno di gennaio. Riconobbi
infatti la madre ai capelli un po' scomposti e al profilo ardito,
mentre si voltava a sinistra, a parlare con una persona che non vedevo.
Essendoci un posto vuoto sulla panca dietro la sua, mi ci andai a
sedere alla prima fermata, curioso di veder da vicino quella signora
originale, a cui avevo ripensato molte volte, ricordando le vampate
rosse che le salivano al viso quando s'accalorava e l'aria di suora
di carità intrepida che spirava dai suoi grossi occhi neri. Parlava
con una ragazzina povera di tredici o quattordici anni, col capo nudo,
magrissima, che pareva convalescente, e tossiva. Mi stupì la sua voce
robusta, calda, un po' velata, come di chi ha molto gridato; ma assai
di più il modo com'essa parlava a quella poverina, alla quale rivolgeva
delle domande e pareva facesse delle raccomandazioni, che il rumore
del carrozzone non mi lasciava intendere. Era un'espressione del
viso, un atteggiamento, un accento di sollecitudine e di cortesia, che
rispondevano mirabilmente a un'idea ch'io avevo in capo della maniera
da usarsi dai signori coi poveri; nella quale la benevolenza non
abbia ombra di curiosità nè di sforzo, e sia delicatamente rattenuta
la manifestazione della pietà, e questa non apparisca punto di natura
diversa da quella che noi sentiamo per i dolori dei nostri eguali, e
la familiarità non si mostri concessa per proposito, ma data per moto
spontaneo dell'animo, senza coscienza di darla.

Eravamo a metà del corso Cairoli quando un pezzo d'uomo barbuto,
una figura di fattor di campagna arricchito, che dava le spalle alla
signora, non mostrando di sè altri connotati che due enormi orecchie
vermiglie, accese un sigaro Cavour e si mise a far fumo come un camino.

L'aria mossa portò i nuvoli in viso alla ragazzina, che prese a tossir
forte, torcendo il capo e schermendosi con le mani.

La signora stette un po' incerta; poi sporse il capo avanti e, con
buon garbo, pregò il fumatore di smettere, accennandogli la ragazza che
tossiva.

Quegli voltò il suo faccione rosso, sgraditamente sorpreso, diede
un'occhiata alla signora e alla sua protetta, e continuò a fumare.

Alla signora venne su una delle vampate solite e si gonfiò il collo
come a una cantante che prepara una nota poderosa. — Signore, — ripetè,
meno cortesemente di prima —, abbia la bontà di smettere.... per
umanità, non per cortesia.

L'uomo scrollò una spalla e cacciò fuori un altro nuvolo.

— Mettiti al mio posto —, disse allora risolutamente la signora alla
ragazza, scattando in piedi, e soggiunse forte: — Che screanzato!

Quegli si voltò in tronco, con gli occhi larghi, dicendo con violenza:
— Guardi come parla!

— Parlo come debbo!

L'uomo s'alzò.

— Oh s'alzi pure; sono una donna; ma non ho paura! — E ritta in faccia
all'omaccione, mentre il fattorino ed altri s'interponevano, col viso
eretto e acceso e l'occhio imperterrito, stringendo a sè con una mano
il bimbo piangente e tenendo l'altra sulla spalla della ragazzina
impaurita, la piccola e brava signora era bella da baciarla in fronte.

Sopraffatto da un coro di voci ostili, l'uomo si rimise a sedere,
bofonchiando, senza levarsi il sigaro di bocca, ma non fumando più;
e pochi minuti appresso, arrivando il tranvai allo sbocco di via
Bonafous, la signora discese col bimbo e con la governante, dopo aver
salutato la sua protetta, e si perdette in mezzo alla folla immensa
accalcata intorno ai baracconi e alle giostre di piazza Vittorio
Emanuele, donde s'alzava un frastuono infernale di grida e di musiche
discordanti.

                                   *

Per tre giorni le giardiniere furono infestate da un esercito di
_pierrots_ e di _bébés_, vestiti a centinaia d'un solo colore, come
se li avesse arruolati e mascherati la Prefettura, e ripetenti tutti,
dalla mattina alla sera, lo stesso eterno _ciao_ e _ti conosco_,
col medesimo grido in falsetto, acuto e molesto come i loro fiati
vinosi e le esalazioni della loro biancheria sospetta e della loro
pelle in sudore. Nel piccolo teatro del tranvai, con mio rammarico,
si sostituiva alla commedia piacevole di tutti i giorni il veglione
chiassoso, dove non potevo più osservare che la caricatura buffonesca
della vita. Di mala voglia, il dopo pranzo del martedì grasso, feci
una corsa da piazza Statuto alla Gran Madre di Dio. Erano giunte
dall'Africa le brutte notizie dei combattimenti di Seeta e di Alequà
coi ribelli. Intorno a me, fra i passeggieri, si commentavano i fatti,
e alle parole tristi che si scambiavano intorno alla strage, alle
sevizie usate ai feriti, alla morte dei tenenti Negretti e Caputo e
dell'ufficiale arso vivo, e ai pronostici che si facevano di altri
casi più funesti, si mescolavano le note festose delle trombette e dei
corni, gli strilli e i canti delle maschere che passavano e i lazzi e
le risa di quelle del tranvai; e in mezzo a quella baldoria mi parevano
più miserande e più terribili le immagini di quelle povere vittime
lontane della guerra maledetta. Ah, che cosa sono i lutti nazionali
quando cadono nei giorni destinati dal Calendario alla gozzoviglia e al
baccano!

Per un tratto di strada mi stette seduto accanto un uomo maturo, il
quale non aveva altra maschera che un gran naso orizzontale, e con
quel becco di cicogna sul viso, come se lo portasse per obbligo,
leggeva con gran serietà la _Gazzetta del Popolo_; poi un operaio
alticcio e mezzo assonnito, che, dimenticando d'essersi annerita la
faccia con sughero bruciato per divertir sè ed il pubblico, discorreva
con accento lamentevole di certi suoi dispiaceri di famiglia a un
amico addormentato. A metà di via Po, una graziosa mascherina verde,
scendendo dal carrozzone mi diede un lattone sul cappello e mi disse
nell'orecchio: — Abbasso il socialismo! —; ma non me n'offesi perchè,
agli occhi e ai modi, non mi parve, per quanto riguardava la sua
persona, una troppo fiera nemica della proprietà collettiva. Al posto
di lei salì poco dopo una vecchia signora, di capelli bianchissimi,
d'aspetto dignitoso e buono, che serbava ancora i segni d'una bellezza
gentile, e sulla panca davanti un giovanotto in maschera di pulcinella,
con gli occhi accesi dalle libazioni, che stringeva un sacchetto di
confetti con due mani rudi d'operaio. Ed ebbi allora un esempio di
quanto valga la gentilezza più dello sdegno a imporre rispetto anche a
un animo volgare. Colpito da quella bella canizie signorile, il giovane
s'appoggiò alla spalliera della panca, proprio in faccia alla signora,
sorridendole con familiarità impertinente, con l'intenzione manifesta
di dirle qualche facezia grossolana. Cominciò con la formola solita: —
Ah, ti conosco.... t'ho conosciuta quand'eri giovane.... cerca un po'
di ricordarti.... — Una risposta secca avrebbe provocato un'insolenza.
La signora rispose invece dolcemente, scrollando il capo: — Tu sbagli,
povero figliuolo; quand'io ero giovane tu non eri ancora nato....

La pacatezza, la grazia sorridente, velata d'una certa mestizia,
e l'accento di benevolenza quasi materna con cui ella disse queste
parole, tanto diverse da quelle ch'egli s'aspettava, fecero rimanere il
giovane come interdetto. Sorrise, scotendo il capo; volle ribattere, ma
non osò, e per uscirne tuffò la mano nel sacchetto e porse alla signora
due caramelle, che essa accettò; poi si mise a sedere, e non disse più
nulla.

Il tranvai, come un barcone scendente da un fiume in un lago, entrò
dentro alla folla enorme di piazza Vittorio Emanuele; e in mezzo
a quella moltitudine bamboleggiante attorno alle grandi giostre
scintillanti d'oro e di specchi, ai baracconi imbandierati, ai
pagliacci urlanti, ai fantocci mostruosi, dinanzi allo spettacolo
di tutta quella gente d'ogni condizione e d'ogni età che girava sui
cavalli di legno, sulle barche, sui velocipedi, sulle altalene e
accorreva agli squilli di tromba dei ciarlatani chiamanti a raccolta
l'imbecillaggine umana, la persona più seria, l'unico che paresse un
uomo, che mostrasse d'aver ancora un cervello nel cranio era il povero
cocchiere, un gobbetto di pelo rosso, che, rattenendo i cavalli,
s'affannava a fischiare, a gridare: — Attenti! — a rimovere dalle
rotaie i rimbambiti, molti dei quali gli rivolgevano delle ingiurie,
offesi dalla superiorità di giudizio ch'ei mostrava d'aver sopra di
loro. Che respiro tirò il pover'uomo quando si trovò all'aperto sul
ponte di Po, fuor del pericolo di storpiar senza colpa il suo prossimo
e della necessità d'aver cervello per mille! Tirò fuori il fazzoletto
turchino e s'asciugò la fronte grondante di sudore, e quando si arrivò
in faccia alla Gran Madre di Dio, staccati appena e riattaccati i
cavalli, afferrò il suo canestro, sedette sul predellino, e si mise
a ingozzare in furia una povera minestra fredda di riso e fagioli.
Io stetti osservandolo, aspettando che il tranvai ripartisse. Poteva
aver trentacinque anni; doveva esser un contadino, perchè portava due
cerchietti dorati alle orecchie, e all'udire il suo accento vercellese,
pensai che fosse uno di quei lavoratori delle risaie, che i loro
colleghi del tranvai chiamano burlescamente _mangiarane_, dicendo che
la vita dura del cocchiere è una delizia per essi, appetto a quella
d'inferno che menavano prima. Vedendo che l'osservavo, mi raccontò a
parole rotte, masticando, la storia della sua colazione; la quale era
in ritardo di quattr'ore, poichè quella mattina, essendo egli stato
mandato all'improvviso dalla linea dei Viali a quella del Martinetto
a supplire un assente, il canestro, che gli aveva portato sua moglie,
s'era sviato. e passando di tranvai in tranvai, aveva girato per
le linee dalle dieci alle due, prima di raggiungerlo. E il povero
gobbetto, digiuno dall'alba, mentre mangiava a precipizio, si voltava a
ogni boccone a guardar se l'altro tranvai arrivasse, già affannato dal
pensiero della folla che avrebbe dovuto riattraversare, spolmonandosi
a fischiare e a urlare, in piazza Vittorio Emanuele, in via Po, in
via Garibaldi, fino al capo opposto di Torino.... — Ah il carnevale —
esclamò — per noi altri!... Se conoscessi chi l'ha inventato! — E fece
l'atto di scaraventare il canestro in faccia a qualcuno.

Ripartii con lui; si ruppe un'altra volta l'onda umana della gran
piazza, in mezzo a un frastuono diabolico, e anche prima d'arrivare in
via Po, il tranvai era stracarico. V'era una mescolanza di cappellini
fioriti, di chepì, di tube, di capigliature arruffate, di berrettine
rosse e di cappelli a pan di zucchero e di cappucci di maschere,
un pigia pigia di gente con l'argento vivo addosso, che lanciavano
risa e grida, come scoppi di razzi e di petardi, agli alti tranvai
che passavano; dai quali rispondevano altre bocche spalancate e
braccia fendenti l'aria, come da tanti gabbioni di matti. A ogni
tratto la giardiniera si fermava, e molti scendevano, molti salivano,
disputandosi il posto, cadendo seduti e rialzandosi, strofinandosi
a vicenda per tutti i versi e scambiandosi urtoni, complimenti e
pizzicotti, con un cicaleccio e un vocìo che assordava. In piazza
Castello mi si venne a piantar davanti, sulla piattaforma posteriore,
un mascherone colossale, insaccato in un dominaccio nero che gli
dava l'aspetto d'un fratello della Misericordia, e costui e altri due
mascherotti vinolenti, quando furono in via Garibaldi, cominciarono
a tormentare una donna, che le loro schiene mi nascondevano,
tempestandola di domande buffe, e chiamandola _mare_ e _nona_, per
canzonatura.

— O _mare_, come ve lo siete goduto il martedì grasso?

— Guarda che po' di sacco di confetti che ha vuotato!

— O una giratina sulla giostra a barche l'avete data?

— L'ho trovata io in un _Gabinetto riservato agli adulti_!

— L'ho vista in maglia nel _Padiglione orientale_!

Non udii alcuna risposta. Un minuto dopo, i tre buffoni saltarono giù,
e io riconobbi all'estremità dell'ultima panca la vecchietta di Pozzo
di Strada, che doveva esser salita, come sempre, all'angolo dì via
XX Settembre. Aveva il fazzoletto in capo, il suo sacco vuoto sulle
ginocchia, il suo solito atteggiamento umile e raccolto. Non mostrava
alcun risentimento delle beffe, come se non le avesse neppure intese:
guardava con lo sguardo attonito d'un bimbo le ragazze mascherate che
passavano in bicicletta, i drappelli di maschere che sfilavano accanto
al tranvai pestando i tacchi e ripetendo tutte in coro lo stesso grido
come branchi di capre, la doppia processione nera che andava e veniva
sui marciapiedi; ma pareva che non vedesse nulla. Vide però la chiesa
dei Santi Martiri, quando vi si passò davanti, e si fece il segno
della croce. Quel pensiero fisso, che già le avevo visto nel viso,
pareva che si fosse fatto più profondo e più inquieto; più sovente essa
socchiudeva gli occhi e chinava il mento sul petto e poi si riscoteva
come da un breve sogno angoscioso, e m'appariva più piccola, più
risecchita, più meschina, come se dall'ultima volta che l'avevo veduta
non avesse più dormito e fosse diventata più povera. Che cos'aveva? Non
immaginavo alcuna causa determinata del suo dolore; ma sentivo così in
confuso che la cognizione di quella causa era celata in qualche parte
della mia mente, e che quando l'avessi saputa mi sarei maravigliato
di non averla scoperta io medesimo. Si segnò di nuovo quando passammo
davanti alla chiesa di San Dalmazzo, chiuse gli occhi ancora una volta
quando si sboccò in piazza Statuto, e più su, vicino al monumento del
Fréjus, quando io discesi a destra per andare a casa, essa discese
a sinistra verso lo stradone di Rivoli. La vidi allontanarsi col suo
sacco vuoto sotto il braccio, a passi lenti e uguali, curva sotto il
suo dolore misterioso, come sotto un giogo invisibile, solitaria in
mezzo alla vasta piazza già oscura, piccola, compassionevole come
una formica smarrita. E con quel povero punto nero che si perdette
nell'orrizzonte silenzioso della campagna svanirono per me tutti gli
splendori e tutti gli strepiti del carnevale.

                                   *

La ritrovai pochi giorni dopo sulla stessa linea, alla prima corsa
della mattina, e cercai subito un modo d'interrogarla, per scoprire
il suo segreto; ma mi distrasse da lei un nuovo spettacolo, un
corso d'osservazioni nuove sul singolare aspetto in cui si presenta
all'occhio del passeggiere dei tranvai la battaglia elettorale. Ferveva
già l'agitazione per quelle tanto aspettate elezioni amministrative,
che dovevan decidere finalmente della prevalenza del partito cattolico
o del partito liberale. I muri erano tappezzati di manifesti d'ogni
forma e colore che s'alzavano superbamente fino ai terrazzini e
scendevano umilmente fin sui marciapiedi, come per attaccarsi alle
gambe dei signori e per leccare le scarpe ai poveri. Su tutte le
linee si correva per lunghi tratti in mezzo a un coro visibile di
esortazioni, di promesse, di accuse, di preghiere, di minacce, fra cui
sonavano più alto, come note acute, centinaia di nomi noti ed ignoti,
aristocratici, borghesi, plebei, quasi gridati dai muri, come da una
folla, con mille diverse intonazioni allegre e solenni, imperiose
e supplichevoli; alle quali pareva che il carrozzone sfuggisse,
fischiando e scampanellando per dir di no, che non ci credeva, e
che aveva altre cure per la testa. A ogni fermata, tutte quelle voci
si facevan sentire più forti e più chiare, e poi si confondevano da
capo in un mormorìo sordo e lontano, in cui non si raccapezzava più
nè programmi nè nomi. Dentro al tranvai, peraltro, sorgevano dispute
concitate, delle quali non m'arrivava all'orecchio che qualche parola,
come _baloss_, _ciarlatan_, è tempo di finirla, la vedremo, e cose
simili; e c'eran dei signori che, senza disputare, aprivano l'uno in
faccia all'altro, in atto ostile, l'_Italia reale_ e la _Gazzetta del
Popolo_, altri che facevan pacatamente discussioni tutte aritmetiche,
in cui ritornavano a ogni tratto i cinque mila, i sette mila, i dieci
mila, come nei discorsi di guerra, e altri parecchi che, tendendo un
orecchio a quei discorsi, guardavan la fuga dei manifesti sui muri con
un sorriso canzonatorio continuo, come gente che si spassasse a un modo
dei neri, dei rossi e dei tricolori. Sugli altri tranvai che passavano,
intanto, vedevo dei giovani di mia conoscenza, che tenevan sotto il
braccio dei pacchi di stampati, con l'aria di gente affaccendata,
che corresse fin dalla prima mattina e dovesse correre fino alla
sera, stimolata a un tempo da un obbligo e da una passione: servitori
volontari e conscienti d'un'idea. E fu appunto uno di questi fattorini
apostolici che mi fece fare la prima scoperta riguardo a uno dei miei
compagni misteriosi di viaggio.

Ero sul tranvai del Martinetto, una mattina di nebbia, accanto al
cavaliere Bicchierino, che leggeva la sua solita _Gazzetta_, in
piedi. Salì sulla piattaforma un falegname mio conoscente, con un
gran cappello alla calabrese e una giacchetta spelata di velluto color
cacao, che gli vedevo addosso da cinque o sei anni, e un grosso pacco
di stampe sotto il braccio. Era un originale curiosissimo d'indole come
d'aspetto, che, a vederlo serio, con quel barbone rossastro e ispido,
con quelle folte sopracciglia irsute e quel collo taurino, pareva
un uomo terribile, e quando rideva, il più gran bonaccione di questo
mondo, benchè avesse una voce di cannone Krupp. Era un filosofo, il
quale esprimeva tutti i suoi pensieri in forma di sentenza, e ne notava
una gran parte in un taccuino, che portava sempre con sè, spaziando di
preferenza nel campo della morale, dei costumi, della rigenerazione
della donna e dell'educazione dei fanciulli. Non un pensatore
astratto, peraltro; ma “un propagandista individuale„ appassionato, un
ragionatore infaticabile, capace di “lavorare„ un amico renitente per
un anno di seguito, tutti i giorni, con la tenacia d'un missionario;
e buon lavoratore con questo, sobrio per istinto e per proposito,
tanto da privarsi del vino e del tabacco per dare il suo obolo alla
causa e per comperare opuscoli, giornali e anche ritratti e calendari
socialisti, di cui tappezzava le pareti della sua camera. Buono e
semplice, in fondo, e arguto: canzonatore benevolo della borghesia;
rallegrato da una sua idea fissa, che era di turbare i sonni al
Prefetto, di esser vigilato continuamente dalle Autorità, delle quali
soleva parlare con un tono comicissimo di compatimento, come se ogni
giorno sventasse qualche loro trama e facesse loro qualche bel tiro;
e prendeva in fatti per ogni suo atto più innocente ogni specie di
precauzioni sopraffini e superflue, sorridendo maliziosamente nella sua
grossa barba.

Appena salito, prese a discorrere con me, a bassa voce, ma con viva
soddisfazione, del movimento elettorale, che s'avviava bene. Gli
scappò una sola frase a voce alta: — Torino si scuote. — Il cavaliere
Bicchierino la sentì, e, alzati gli occhi dalla _Gazzetta_, lo guardò
un momento con un'espressione di grande stupore. Egli continuò a
discorrere; altri salirono. A un certo punto, guardandomi intorno, vidi
dall'altro lato della piattaforma gli occhiali e il pizzo grigio di
quel tal mio nemico misterioso, che quando mi vedeva da una parte del
tranvai saliva dall'altra. Egli guardava me e il mio conlocutore con
due occhi così dilatati e sporgenti, tirando rapidamente fra l'uno e
l'altro dei tratti di congiunzione così vigorosi, e con un'espressione
di sdegno così viva, che la verità mi si scoperse come al chiarore d'un
lampo. Era il socialista ch'egli odiava! E mi balenò nello stesso punto
un vago sospetto che fosse lui l'autore d'una lettera anonima che avevo
ricevuto il giorno dopo dell'assassinio del povero Carnot, intestata
col vocativo: — _degno amico di Caserio_....

Ed io che avevo fatto il disegno di conquistarlo! Indovinata la causa
dell'orrore che gli destavo, non c'era proprio da far altro che un
atto di mesta rassegnazione. Ma, insomma, il mistero era svelato; avevo
fatto nel mio piccolo mondo del tranvai la prima scoperta importante;
e poi.... chi sa mai! Intanto gli affibbiai nelle mie note il nome di
Guyot, il mangia-socialisti francese, per mio comodo.



CAPITOLO TERZO.


                                                               Marzo.

Per molta gente, che esce poco di casa e che per pigrizia o per età
o per incomodi non si serve più delle gambe, il tranvai è diventato
il solo mezzo di comunicazione col mondo, l'ultimo ponte mobile che
li unisce ancora alla città in cui vivono solitari. Costoro fanno
sul tranvai le loro passeggiate igieniche di “andata e ritorno„ o “il
giro di circonvallazione„ come lo chiamano, per pigliare una boccata
d'aria; sul tranvai cercano i piaceri della conversazione, fanno nuove
conoscenze, raccolgono notizie, rivedono qualche volta gli amici, e
quando rincasano, non parlano che della gente e dei piccoli casi veduti
nelle loro corse, come se per essi non ci fosse più altra società
fuori di quella che corre dalle sette e mezzo della mattina alle dieci
della sera sulla gran rete di ferro della Società belga e della Società
torinese. Posso dire d'aver fatto parte di questa famiglia per tutto
il tempo che impiegai a mettere insieme il mio libro. Anche stando in
casa, cercavo il più sovente col pensiero le persone che solevo trovare
sui tranvai, a ogni passaggio di carrozzone sotto le mie finestre mi
balzavano davanti le loro immagini, e ogni mia curiosità, quand'uscivo,
si volgeva a chi avrei incontrato, a che sarebbe accaduto, a che avrei
scoperto quel giorno nelle mie scarrozzate. Il tranvai era diventato
per me quello che è per certi vecchi pensionati il caffè, dov'essi
vanno a interrogare l'opinione pubblica intorno agli avvenimenti del
giorno. E la mattina del due di marzo, riavutomi appena dallo sgomento
delle prime notizie d'Abba Garima, corsi al mio caffè ambulante per
osservarvi gli effetti dell'avvenimento terribile.

Capitai nel carrozzone di Carlin, sulla linea del Martinetto. C'eran
seduti dentro sei o sette signori accigliati, tutti col giornale
in mano, che non si guardavano, come se ciascuno avesse temuto di
legger sul viso degli altri qualche notizia peggiore di quelle che
aveva lette stampate; e mostravan tutti, oltre al dolore, un'amarezza
sdegnosa, un'irritazione sorda, che mi pareva il rimorso e la vergogna
della credulità stupida, degli entusiasmi bamboleschi con cui s'erano
prestati per tanto tempo all'enorme inganno sanguinoso, dal quale
uscivan bruscamente quella mattina, come da un sogno di briachi. Tutti
tacevano: il carrozzone pareva un gabinetto di lettura d'ipocondriaci.
Il solo Carlin era agitato. Quando venne da me sulla piattaforma, con
la sua faccia zanardelliana più secca del solito, strappò lo scontrino
dal libretto con un gesto nervoso, dicendo: — Inzipiensa! Inzipiensa!
—; una parola imparata dai giornali, senza dubbio. — Cosa s'ha da dire
d'un _assortimento_ compagno? — Finalmente appariva chiara, pur troppo,
la bestialità commessa, di non aver preso il nemico tra due fuochi,
quando s'era ancora in tempo! Ma cercava di consolarsi, affermando
(di scienza propria, poichè notizie al proposito non n'erano ancora
arrivate) che le nostre artiglierie avevano fatto una strage inaudita;
e poi aveva gran fiducia nel maggior Prestinari, e aspettava miracoli
dal Baldissera, che avrebbe “spazzato tutto„. Invitto Carlin! Tutta
la sua lunga persona spolpata fremeva guerra e vendetta. Egli voleva
mandar laggiù cento mila uomini, duecento mila, quattrocento mila, e
fino all'ultimo cannone dei nostri arsenali, pur di aver con quella
canaglia di negri _l'ultima parola_. E dicendo questo continuava a
staccar gli scontrini vigorosamente, come se ad ogni strappo avesse
portato via un brandello della pelle del Negus.

Per alcuni giorni non ebbi altro oggetto d'osservazione che lui.
Scopersi che non era soltanto un africanista ardente e un curioso della
scienza; ma un osservatore dei suoi simili. Essendo in servizio da
molti anni, conosceva su tutte le linee un gran numero di persone, di
cui sapeva a che ora e dove salivano e a che punto scendevano, e sulla
condizione e sugli affari loro, ignorando chi fossero, almanaccava
con la fantasia, osservandoli con occhio scrutatore. E si capiva che
quel continuo salire e scendere di gente conosciuta e sconosciuta e
quei mille frammenti di discorsi che raccattava lungo il giorno lo
divertivano. Un giorno me lo disse: — Se si guadagnasse un po' di
più e si faticasse un po' meno, questa _professione_ sarebbe di mio
gusto. — Era uno di quegli uomini d'immaginazione viva e curiosa,
pei quali lo spettacolo del mondo è un godimento. A ogni discorso
che sentisse, su qualunque argomento, di persone che gli paressero
colte, tendeva l'orecchio e l'arco dell'intelligenza; raccoglieva
frasi, bocconi di notizie e mezze idee; le rimasticava in silenzio,
e poi le smaltiva storpiate, impasticciate, trasformate nei modi più
strani ai colleghi e ai passeggieri di condizione umile, mostrando di
sapere assai più di quanto diceva, come un uomo che vivesse in una
sfera intellettuale superiore al proprio stato. Sempre serio, con
la fronte corrugata; soltanto quando entrava nel carrozzone qualche
donna equivoca vistosamente elegante, socchiudeva un occhio e sporgeva
le labbra in modo lepidissimo, dandosi l'aria d'un conoscitor fine e
profondo del genere. Per attaccar discorso buttava là una parola, come
un amo nell'acqua, non rivolgendosi direttamente ad alcuno, e se un
passeggiere mordeva, egli scioglieva la lingua, se no, non aggiungeva
altro, aspettando miglior occasione; oppure cercava un'entratura
nominando a bassa voce le persone che salivano. — Quello lì è il
segretario capo del municipio, quello che fa tutto: gran testa. —
Quella è la signora Valdata, la prima donna del teatro piemontese, che
sale ogni domenica a quest'ora, per andare al _Rossini_, alla recita
diurna. — Questo è il cavalier Benotti, veterano del quarantotto, che
va al caffè Londra.... col cane.

Era questi uno dei frequentatori della linea; l'avevo visto salir molte
volte al numero 43 dì via Garibaldi; portava sempre all'occhiello
il nastrino della medaglia commemorativa. Aveva settant'otto anni,
e coglieva tutte le occasioni per far sapere la sua età, di cui
era altero. Quando saliva, si scusava della lentezza, dicendo:
— A settantott'anni non si può esser lesti.... — Quando i vicini
sorridevano dell'atto con cui afferrava a due mani la colonnina a un
sobbalzo del carrozzone, sorrideva egli pure e diceva: — Eh, non si
scherza mica; son settantotto suonati.... — Era un vecchietto pulito
e cortese, al quale un principio di rimbambimento dava un aspetto di
grande bontà; sorridente a tutti, in specie ai bambini, a cui carezzava
la guancia con la punta d'un dito, quando si trovavano col viso davanti
al suo, stando in braccio alla mamma; espansivo, bisognoso tanto di
discorrere, che qualche volta parlava da sè, scotendo il capo in atto
d'approvazione continua. Era curvo; ma si drizzava di tratto in tratto,
come se gli scattasse dentro una molla, alzando la fronte e guardando
fieramente davanti a sè, riscosso forse all'improvviso da qualche
ricordo delle antiche battaglie; per pochi momenti, però; poi ricascava
nell'atteggiamento solito, come se la molla si spezzasse, e rifaceva il
viso ilare e ossequioso. Aveva un piccolo cane che chiamava Ciuchetto,
un volpino giallognolo con la coda arricciata, il quale accompagnava
continuamente il tranvai, trottando accanto alla piattaforma e alzando
ogni momento il muso a guardarlo; ed egli guardava lui, per lunghi
tratti, sorridendogli amorevolmente, e lo cercava con occhio inquieto,
voltandosi a destra e a sinistra, ogni volta che il passaggio d'una
carrozza o d'un carro glielo nascondeva. E si capiva che quel cane
era per lui un amico, una consolazione della vita, la sola compagnia
ch'egli avesse durante le lunghe giornate in cui il cattivo tempo o
gl'incomodi dell'età lo tenevano rinchiuso in casa. Era anche un po'
sordo il vecchietto; ma tanto più cortese per questo, che acconsentiva
spesso col capo, sorridendo, a persone che non parlavano con lui, e
prolungava l'atto approvatorio anche quando non parlavano più, con
un'aria d'attenzione profonda. E fu appunto uno di questi casi, di
cui altri risero, che mi fece scrivere il suo nome, per impulso di
simpatia, nell'elenco dei miei personaggi....

                                   *

Il marzo, peraltro, non s'annunziava bene; pareva che il disastro
d'Abba Garima avesse disperso tutti i miei conoscenti; passavano i
giorni, e su nessuna delle tre linee ch'ero solito di percorrere,
anche percorrendole in ore insolite, non m'imbattevo più in alcuno di
loro, nè mi si offrivano altre persone o casi che mettesse conto di
registrare. Ahimè, mancava la materia! E mi prese un dubbio triste:
d'aver fondato il mio edifizio sopra un'illusione; che la realtà
non bastasse a sorreggerlo; che senza lavorar di mio, ossia, senza
fabbricarlo diversamente affatto da come l'avevo immaginato, non lo
avrei potuto compiere; e di giorno in giorno volgendosi il dubbio in
certezza, stavo per rinunciare un'altra volta, tristemente scoraggiato,
al mio proposito....

Furono quei due benedetti amanti di borgo San Donato che mi fecero
riprendere la penna. Li trovai una mattina alla prima corsa sul
tranvai del Martinetto, salendo in piazza Statuto. Era la prima volta
che vedevo la ragazza venir dal sobborgo con lui, solito di salire
all'angolo di via Siccardi. Stavan seduti l'uno accanto all'altro,
vicino all'uscio anteriore. Al primo sguardo vidi un mutamento in
tutti e due; in lei più notevole. Aveva un cappellino nuovo, un
vestito che non le avevo mai visto, e non so che di più sereno nel
viso, di più dolce negli occhi, un atteggiamento come di dignità
nuova, un'espressione vaga quasi di appagamento della coscienza.
Tutt'e due parlavan più liberamente, si sorridevano più spesso, con
un'aria di sicurezza, che per l'addietro non mostravano. Avrei dovuto
capir subito; ma non capii che dopo qualche minuto d'osservazione.
S'erano sposati. Non c'era dubbio. Guardai la mano destra di lei:
ci vidi l'anello. Ebbene.... n'ebbi un vivo piacere. Poveri ragazzi!
Eran dunque contenti. Chi sa con quante privazioni avevano raccolto a
soldo a soldo quel po' di fondo per metter su il loro quartierino in
via San Donato! Poichè era certo che stavano lì e che dovevano avere
una sola camera, con una nicchia di cucina, se pur non serviva di
cucina il caminetto. Guardandoli, vedevo quella camera al terzo piano,
mobiliata appena dello stretto necessario, con un vaso di fiori alla
finestra, con un piccolo lume a petrolio sopra un piccolo tavolo, dove
essa cuciva la sera, e lui, forse, faceva qualche lavoro straordinario
di copiatura, dopo aver cenato con un po' d'insalata; e immaginavo
la loro vita, nella quale eran contati i minuti e i centesimi, dette
ogni giorno, in quei dati momenti, quelle medesime parole, letto per
dei mesi uno stesso libro, una pagina per volta, vagheggiata per due
settimane una serata in seconda galleria al teatro Alfieri; e in quella
vita povera e oscura indovinavo un pensiero comune, l'aspettazione d'un
essere desiderato, allietata dalla speranza d'una grazia della natura,
d'un essere diverso da loro, florido e bello, che avrebbe portato fra
quelle quattro povere pareti luce, allegrezza, alterezza, coraggio. Sì,
certo, quel tenue chiarore che traspariva dal viso di quella donnina
di nulla, consapevole della propria bruttezza e rassegnata al posto
umilissimo che le aveva dato il destino nel mondo, era quella speranza,
l'intimo albore della maternità, già biancheggiante nell'anima, prima
che l'astro esistesse; il piccolo essere, forse non ancora concepito
che nel pensiero, era già amato e accarezzato; essa vedeva già la forma
indefinita, qualche cosa di bianco e di roseo, movere per la piccola
camera, agitarsi accanto a lei nel tranvai, drizzarsi sulle ginocchia
del giovane che le sedeva di fronte. Come al solito, essa s'alzò per
discendere in piazza Castello: continuava dunque a andare al lavoro.
Povera donnina! Nell'alzarsi fece un atto insolitamente vivace, e
quanta grazia si poteva mostrare in quel piccolo corpo così poco
femmineo vi si mostrò in quell'atto, che era tutto per il suo sposo, si
capiva. Quando fu a terra, aspettando che il tranvai passasse, gli fece
un saluto con la mano, sorridendo. Era la prima volta che faceva così:
un saluto di moglie a marito. Fu per me come un annunzio indiretto di
matrimonio.

                                   *

E subito, il giorno dopo, come se con quei due mi si fosse aperto un
buon periodo, scopersi un'altra coppia, della quale era destinato
che mi dovessi occupare curiosamente per tutto il corso dell'anno.
Erano le quattro dopo mezzogiorno, quando salì sul tranvai della
linea Vinzaglio, in via Garibaldi, una signora sui trent'anni,
bruna e bellina, vestita con garbo, un po' timida, con due occhi
chiarissimi e un bocchino di bimba; la quale, appena seduta dentro,
in un angolo, girò sui presenti uno sguardo rapido, con una leggera
espressione d'inquietudine, che immediatamente disparve. Era una di
quelle figure di cui si suol dire al primo vederle: — Ecco una donna
onesta. — Aveva un cappellino nero guernito di mazzetti di viole, che
tornavano mirabilmente al suo visetto bianco e modesto di fanciulla.
Dopo quella prima occhiata non guardò più nessuno, e parve che si
raccogliesse nell'osservazione delle scarpette d'un bambino che teneva
sulle ginocchia una donna seduta dall'altra parte. Quando il tranvai
arrivò allo sbocco di via Roma in piazza Castello, dove s'aggruppano
i giovani eleganti per veder sfilare le passeggiatrici dei portici,
salì senza far fermare un bel capitano di fanteria, alto e snello, con
un berretto nuovo fiammante e i guanti bianchi freschissimi, entrò e
sedette dì fronte a lei. Si guardarono di sfuggita, e poi voltarono
tutt'e due il capo dalle parti opposte, l'uno verso il marciapiede di
destra, l'altra verso quello di sinistra. Che imprudenza! Se si fossero
salutati e messi a discorrere, non avrebbero forse destato alcun
sospetto. Ma quello scambio d'occhiate indifferenti e quello sguardo
rivolto intorno da tutti e due insieme come per assicurarsi che nessuno
avesse notato il loro incontro, li tradirono. E li tradì anche più un
rossore leggerissimo che salì alle guance di lei, nonostante lo sforzo
ch'ella fece per rattenerlo, accusato dal movimento del suo petto. Il
rossore svanì in un attimo; ma rimase visibile il suo turbamento, un
non saper che fare dei propri occhi, la coscienza d'essere osservata
dai passeggeri, e come un sospetto pauroso della strada, alla quale
lanciava ogni tanto, con simulata distrazione, degli sguardi furtivi,
che percorrevano un tratto dei marciapiedi. Quel convegno sul tranvai
doveva essere il primo, una concessione di compenso fatta da lei dopo
aver rifiutato un convegno altrove. Fra quattro pareti, doveva aver
detto, ma di legno e di cristallo, per ora. E chi sa per quante altre
coppie il tranvai è un'anticamera! E chi sa perchè mi si piantò nel
capo l'idea che quella signora fosse la moglie d'un impiegato delle
Poste! Forse per una vaga rassomiglianza di visi, o per qualche ricordo
nascosto nella mia mente. Il fatto è che il viso di suo marito mi si
presentò inquadrato in uno sportello delle lettere raccomandate, e mi
restò davanti in quella cornice così fermo e netto, come se ce l'avessi
veduto davvero. E n'ebbi pietà al pensare che in quel momento, forse,
a poca distanza di là, egli stava tastando con le dita una lettera,
per assicurarsi che fossero saldi i suggelli. Ah, non c'è nulla di
saldo a questo mondo, povero travet: tutto è fragile come la ceralacca
e passeggiero come una lettera. Ma pensai a un punto che non sarebbe
trascorso lungo tempo prima che la traditrice dello sportello fosse
punita, perchè gli occhi scintillanti del capitano, mobilissimi e
sorridenti come quelli d'un fanciullo, che si chinavano ogni momento
sui galloni della manica o si fissavano sul vetro del finestrino
in cui brillava il riflesso argenteo del berretto nuovo, non davano
indizio d'una grande profondità di passione. E già incominciavano per
lei i piccoli affanni dell'amor criminale. A ogni persona che saliva
sulla piattaforma, il suo sguardo correva a cercar chi fosse; ad ogni
passeggiere che entrava, il suo viso si rimbruniva, scemando in lei
la speranza di rimaner sola un minuto con lui; e ogni volta che uno
sguardo scrutatore la fissava, i suoi occhi eran costretti a rifugiarsi
tra le scarpette del bimbo che le sedeva di faccia. Ah, signora: la
camera di legno e di cristallo preserva la virtù dalla gran caduta, è
vero; ma è pure una gran camera di tortura. Intanto, i loro sguardi
s'incontravano di tratto in tratto, e dalla fiamma morente sotto le
palpebre di lei, che si abbassavano subito, si capiva che il destino
dell'uomo dello sportello era deciso. Ahimè, sì, la Società Belga
avrebbe guadagnato ancora qualche soldo da tutti e due, e poi i suoi
carrozzoni sarebbero riusciti insufficienti: si sa, per dieci centesimi
non si può dar tutto. Quando discesi in piazza Carlo Felice non
rimanevano più sul tranvai che cinque o sei persone. Mi parve che il
capitano dicesse tra sè: — Un importuno di meno, — ed io gli risposi in
cuor mio: — Due personaggi di più.

                                   *

A questo punto, poco mancò ch'io non mettessi da parte tutti i miei
personaggi per dar corpo a una nuova idea che mi venne percorrendo
per la prima volta tutta la linea da piazza Emanuele Filiberto al
corso del Valentino: la descrizione di tante corse a traverso a
Torino quante sono le linee di tranvai che l'abbracciano; una _Guida_,
sì, una modestissima _Guida_, ma scritta con amor di figliuolo e di
poeta, nella quale si succedessero di volo i quartieri, i monumenti,
le memorie, le colline, le montagne, nella luce e nei colori diversi
di ogni ora e di ogni stagione, come si succedono, fuggendo, allo
sguardo di chi sta sul tranvai, portato via dai cavalli a trotto
rapidissimo. Cedo l'idea a chi la vuole. Sarebbe stata la prima la
linea del Valentino, la più serpeggiante e la più varia di tutte,
che par stata tracciata, con diversità ed armonia d'intenti ad un
tempo, da uno storico e da un artista. Si parte di mezzo ai banchi
e alle baracche pittoresche del mercato di Porta Palazzo, e dopo un
breve corso per quel grande viale Margherita, che dalla riva del Po
par che giunga ai piedi delle Alpi, s'entra nella quiete ombrosa
della via della Consolata, dove si succedono a breve distanza gli
avanzi infossati delle mura romane, la statua aerea consacrata dal
Consiglio civico del 1835 alla Vergine scongiuratrice del coléra,
e l'obelisco mortuario del Foro ecclesiastico, sorgente in mezzo a
quella malinconica piazza Savoia, che par che lo guardi in aria di
pentimento e di rimprovero. Rotta l'onda rumorosa di via Garibaldi,
si fiancheggia il vasto giardino della Cittadella, vedendo da lontano
Angelo Brofferio che arringa le balie e i bambini ruzzanti in mezzo
agli alberi e intorno alla fontana, si passa fra la statua del buon
ministro Cassinis e la testa solitaria del giornalista Borella, ed ecco
la bella via Cernaia, dove squillarono le trombe dei primi francesi
nel '59 e la grande caserma merlata del Lamarmora, e il vecchio mastio
coronato di guardiole, e il Micca di bronzo che brandisce la miccia,
e di qua e di là portici e giardini e fughe d'ippocastani e colori
ridenti di città giovanile. Svolta il carrozzone nell'ariosa e romita
piazza Venezia, riesce per via Alfieri dietro al gran cavallo morente
del duca di Genova in mezzo ai palazzi multicolori di piazza Solferino,
passa accanto al Lafarina pensieroso, corre lungo l'Arsenale fumante e
sonoro, e aperta la folla chiassosa delle scolaresche di via Oporto,
e salutato in piazza San Quintino il vecchio Paleocapa sonnecchiante
sulla sua poltrona di marmo, sbocca nell'allegra ampiezza di corso
Vittorio Emanuele. Un po' più oltre, a sinistra, Massimo d'Azeglio
disegna il suo bel capo d'artista sul gran pennacchio bianco della
fontana, dietro al quale nereggia in lontananza il piccolo pennacchio
nero di Emanuele Filiberto, e davanti, in fondo al corso, lontanissimo,
biancheggia confusamente il monumento dei morti in Crimea sul fondo
scuro delle colline di Val Salice. Si svolta ancora in via Nizza fra
il moto affrettato di gente e di carri che rumoreggia intorno alla
stazione di Porta Nuova, si svolta da capo nella piazza dove _fu
giurata_ nel '21 _la libertà d'Italia_, e per il largo viale che va
diritto al fiume si arriva finalmente dinanzi al superbo castello di
Maria Cristina, donde gli occhi e lo spirito affaticati dalla visione
di tante cose e dal passaggio di tante memorie, si riposano nella
solitudine silenziosa del parco del Valentino e sulla grande linea dei
colli ondeggiante dalla cima della Maddalena alla vetta di Superga con
una grazia lenta e leggera che par che sorrida.

                                   *

Se per tornare a casa di là non avessi preso a caso la linea di Borgo
Nuovo, forse oggi ancora non saprei nulla d'uno dei personaggi più
originali e più simpatici della mia compagnia. Fu una buona ispirazione
che mi fece salire sul tranvai che parte dall'Orto botanico. Ed è
quella pure, sotto l'aspetto storico, una delle linee più belle.
Usciti dal grande viale del parco e percorso un tratto del corso
Cairoli fino a pochi passi dalla statua di Garibaldi, che, ritto sullo
scoglio, par che fissi lo sguardo sulla fiumana delle sue camicie
rosse irrompente verso di lui per la via dei Mille, si svolta in
via Giuseppe Mazzini. Quante memorie, non istoriche, mi s'affollano
alla mente passando davanti agli sbocchi di quelle vie laterali per
cui si vedevano un giorno i famosi _giardini dei ripari_, dove tanti
amori sospirarono e si preparò il fallimento di tanti esami! Certo,
ingombravano bruttamente la città quegli alti terrapieni a zig zag che
tagliavano le vie come bastioni di fortezza; ma avevo vent'anni. Ah!
fortuna che il tranvai va di volo! Ecco la porta della tomba del caffè
Perla, dove, giovinetto, andavo a sorbir timidamente un moka apocrifo
per contemplare di sott'occhio gli emigrati illustri e i giornalisti
celebri della capitale. Ecco laggiù in fondo il conte Cavour, ritto in
mezzo a piazza Carlina come un lungo fantasma bianco che si levi al
cielo da un catafalco. Ecco qua il Lamarmora a cavallo che minaccia
con la sciabola in pugno i socialisti accorrenti per piazza Bodoni
al Comizio del vicino teatro Nazionale, convertito da palestra delle
Muse in tempio malfamato dell'utopia vermiglia. Si svolta di corsa
in via Lagrange, si passa dinanzi alle case dove il Gioberti mise il
primo vagito e il conte Cavour l'ultimo sospiro, si sbocca in piazza
Carignano dove tremano ancora nell'aria, fra il palazzo del parlamento
e il teatro, le grida amorose di Adelaide Ristori e le apostrofi
tonanti d'Angelo Brofferio, e poco più in là si vede riflesso il
tranvai nelle vetrate del vecchio Cambio, la trattoria elegante dei
ministri e dei deputati della Mecca antica. Ah, come sono antico io
pure! E per liberarmi da questo pensiero mi volto a destra; ma torno
a voltarmi subito dalla parte di prima per non vedere la libreria
dell'editore di Pietro Cossa, di quel benedetto Casanova eternamente
biondo, che può esser là dietro ai vetri a mettermi invidia e dispetto
con la sua gioventù invulnerabile....

                                   *

Fu, come dissi, una buona ispirazione la mia di pigliar quella linea
perchè arrivai in tempo per l'appunto a salire in piazza Castello
sul tranvai del Martinetto, nel quale, stando sulla piattaforma di
dietro, vidi seduta in mezzo ad altre signore la mia brava incognita
dai capelli arruffati, la sfidatrice del fumatore, col suo inseparabile
bambino sulle ginocchia; e mi riuscì poco dopo, per caso, di sapere chi
fosse. Mentre, come al solito, lavoravo d'immaginazione sull'essere
suo, vidi alla cantonata di via XX Settembre, dopo più d'un mese che
non lo vedevo, quel simpaticone di pittore, che stava osservando gli
stivaletti d'una signora che passava; lo chiamai e gli feci un cenno
premuroso perchè salisse. Conosceva mezza Torino, mi poteva forse levar
la curiosità. Salì d'un salto. Gli accennai la signora.

— Come? — mi domandò. — Lei non conosce donna Chisciotta della Mancia?

Accortasi che parlavamo di lei, la signora ci fissò in faccia un
momento i suoi grandi occhi oscuri e sporgenti; ma con espressione di
assoluta indifferenza; si capiva che era abituata a “veder„ parlare di
sè.

Tutta Torino la conosce, — riprese il giovane. E la nominò. Donna
Chisciotta o Chisciottina era un soprannome. Suo marito era un
ingegnere putativo, ricco proprietario di case, e lei era la sua
disperazione. — Una mezza matta — disse — cioè.... un'esaltata, diremo.
Non l'intese nominare quattro anni fa quando ci fu il processo dei
due bottegai di Borgo Nuovo, marito e moglie, che fecero morire il
loro bambino? È lei quella signora che un giorno l'andò a strappare
dalle loro mani, graffiando gli occhi a tutti e due, come una tigre, e
buscandosi un pugno che la mise a letto. Durante il dibattimento, se si
ricorda, non si parlò che di lei e della sua “deposizione„ di fuoco.
— E seguitò. Era un'anima vulcanica, una specie di Santa Francesca
d'Assisi, che si sarebbe ridotta sulla paglia a furia di beneficenza,
e perciò in lite perpetua con suo marito, che, a darle retta, avrebbe
finito con ridurre in ospizi pubblici tutte le sue case. Era conosciuta
da tutta la poveraglia di Torino, ficcata in tutti i Comitati di
soccorso, protettrice di tutti i ragazzi tormentati, di tutti i cavalli
frustati, di tutti i gatti malmenati; sempre in giro per le soffitte
dove si lasciava ingannare anche dalle più sfrontate simulazioni di
malattia e di miseria; capace, in un accesso di mattana, di levarsi il
mantello di dosso in mezzo alla strada per gettarlo sulle spalle d'una
vecchia cerinaia intirizzita o di portare in braccio a casa sua un
ragazzetto smarrito, raccattato sul marciapiede. Dopo che aveva avuto
quel maschietto s'era quetata un po'; ma era raro il giorno che non
ne facesse una delle sue. Il primo dell'anno egli l'aveva vista in un
carrozzone levar di mano al suo figliuolo una bellissima “pecorella„
per darla a un ragazzetto povero che ci lasciava gli occhi addosso,
e discendere subito, col bambino strillante in braccio, per andarne a
comprare un'altra. Suo marito tremava ogni volta che la vedeva uscir
di casa; ma n'era innamorato perso. — Chisciottina la chiamano. E non
sarebbe mica brutta se non avesse sempre quel viso di spiritata, e si
pettinasse meglio. Un bel tipetto, non è vero, per lei che scrive sui
tranvai? Mezza socialista e mezza santa; una socialistoide, come ora
dicono. Se fosse mia moglie, le farei fare le docce.

Mentre io guardavo donna Chisciotta egli saltò a parlare della _signora
delle coincidenze_ che aveva vista tre giorni prima, all'angolo di
corso Oporto, saltar giù dal tranvai del Valentino facendo cenno
di fermare al tranvai del Foro Boario. Ma di lei non gli era ancor
riuscito di saper nulla, e d'altra parte non s'occupava più gran che di
quelle cose. — Ora — disse — viaggio sui tranvai con un altro scopo.

Gli domandai quale. — Cerco moglie — rispose.

Credetti che celiasse; ma diceva sul serio. E continuò, in fatti, con
la più grande serietà: — Mio padre vuole ch'io prenda moglie. Son
tre mesi che due volte al giorno, a tavola, non fa che batter quel
chiodo. Si capisce: è solo, son figliuol unico.... Del resto, c'inclino
anch'io. Sono stufo di far questa vita imbecille.

Restava però a sapere perchè cercasse moglie nei carrozzoni della
Belga e della Torinese. Glie lo domandai. — È una mia idea — rispose
seriamente. — C'è stato un esempio in famiglia. — E mi raccontò che
trent'anni avanti un suo zio, un po' stravagante, ma buon diavolo,
e pien di quattrini, tormentato continuamente da sua madre perchè
pigliasse moglie, un giorno, perduta la pazienza, le aveva risposto:
— Ebbene, sì; ma io non son uomo da cercare; esco di casa e sposo la
prima ragazza che trovo. — E detto fatto: aveva preso il cappello,
era sceso in istrada e aveva seguitato la prima ragazza in cui s'era
imbattuto. Era una maestrina d'asilo infantile, senza un soldo. L'aveva
sposata ed era stato fortunatissimo: aveva trovato una moglie, una
madre esemplare, che l'aveva fatto felice. — E poi — soggiunse —
come fanno gli altri? Girano per i salotti, cercano nelle famiglie.
Ebbene, e i tranvai sono salotti che corrono, e ci si trovano delle
famiglie. Oh, son ben risoluto. Non so su che linea la troverò, se in
un carrozzone chiuso o in una giardiniera.... ma questo non importa.
Sono certo di trovarla sulla rete. Il mio destino dipenderà da uno
scontrino di dieci centesimi, come da un biglietto di lotteria. Crede
lei che sarò io il primo? Chi sa quanti matrimoni si son già decisi
sul tranvai! — Qui troncò il discorso per dire: — Guardi quello là....
Quello è uno dei suoi erotici.

Era un bellimbusto già brizzolato e risecchito, un mezz'uomo tutto
bazza, con due baffetti a punta di spilla e un fiore all'occhiello,
che sedeva fra due giovani signore, quasi affogato in mezzo alle loro
maniche enormi come fra due piumini da letto, e si raggomitolava
per affogarvisi meglio, mostrando negli occhi socchiusi una dolce
beatitudine. — Alle volte, sa, — continuò il pittore, osservandolo
— quei sornioni lì, giocando con le mani, sotto la protezione dei
grandi mantelli delle signore, fingono di sbagliar di ginocchio.
Trovan qualche volta delle signore timide che, per non fare una scena,
mostrano di non accorgersene; altre volte incappano male e ci fanno
una figuraccia. È un gioco d'azzardo. — E soggiunse che, anni addietro,
per un certo tempo, s'era diffuso questo bel vezzo, come una specie di
prurigine epidemica; della quale avevano arrestato il corso parecchi
ceffoni memorabili, femminili e maschili, con successivo intervento di
guardie civiche.

Mentre mi diceva questo, all'entrar del tranvai in piazza Statuto, una
signorina, salita poc'anzi e rimasta in piedi, s'era appoggiata con
una spalla allo spigolo dell'uscio davanti, col viso rivolto verso
l'interno, dove noi c'eravamo seduti. Era vestita di nero, con due
grandi penne nere di struzzo sul cappellino, e la sua persona elegante
si disegnava per metà sulle rocce del monumento del Fréjus e la sua
testa impennacchiata spiccava fortemente sulla bianchezza delle Alpi
che chiudevano il vano superiore dell'uscio. Quella figura nera e
snella incorniciata a quel modo e campeggiante in quel fondo luminoso
era bellissima. — Oh che bel quadro! — esclamò il giovane, rapito.

— Badi, — gli dissi, accennandogli lo scontrino che teneva in mano; —
potrebbe essere lo scontrino decisivo.

Egli scrollò il bel capo erculeo, e rispose con la sua serietà ingenua
di grande fanciullo: — No; ho in mente che non debba esser questa la
linea.

E quando discese mi fece ancora cenno di no, con un sorriso, buttando
in aria lo scontrino.

                                   *

Fu in quel torno che ebbi turbati i miei lieti studi da una
contrarietà, di breve durata, ma forte. Cominciava allora e s'andava
estendendo rapidamente l'uso degli annunzi esteriori sui carrozzoni.
Dentro, questi n'erano già invasi da un pezzo: iscrizioni e figure
dipinte sui vetri, cartellini appesi, avvisi d'ogni forma e colore
appiccicati al cielo e alle pareti, che vi facevan l'effetto d'un vocìo
discordante d'importuni, i quali v'affollassero di offerte e d'inviti,
volendo lì per lì, a ogni costo, calzarvi e vestirvi, insaponarvi e
profumarvi, farvi cambiar di casa, pigliar l'abbonamento a un giornale
e intraprendere una cura idroterapica. S'aggiungevano a questi, in
quei giorni, gli annunzi delle lunghe assi piantate dalle due parti
del tetto, tinte di tutti i colori più chiassosi, con iscrizioni
bianche e nere in caratteri cubitali, vere insegne di alberghi e di
magazzini, leggibili a cento passi lontano, moleste agli occhi come
grida sgangherate agli orecchi, stonanti nel colorito generale della
strada come stecche acute in un coro di voci sommesse. Curioso che
si fosse discusso nel Consiglio comunale se questa offesa al buon
gusto si dovesse permettere nei tranvai, dopo che s'era permessa,
e ben più grave e barbarica, sui teloni dei teatri! Per alcuni
giorni ne fui veramente furioso. A salire in un carrozzone mi pareva
d'entrare in un bazar dove dovessi contrattare anche il biglietto, e
da cui non potessi uscire che con una bracciata di pacchi. O povera
poesia! Ammirare il profilo poetico d'una bella signora spiccante
sopra un vetro che annuncia delle pillole rilassative, veder due
giovani innamorati che prendono degli atteggiamenti idillici sotto
l'insegna della razzia per i topi, fantasticare sopra una signorina
gentile che volge gli occhi in alto come se fissasse una larva amorosa
dell'immaginazione e accorgersi che legge l'annunzio ciondolante d'un
nuovo concime misto! O villano furor bottegaio che sfrutta, invade,
ricopre, traveste, bolla, mercanteggia ogni cosa! Quando vedremo gli
annunzi delle acque minerali e dei liquori ricostituenti sulla fronte
delle statue e sui drappi delle bandiere? Ma l'uomo civile è così
duttile che finisce con piegarsi a tutto. L'insolenza crescente dello
sconcio, come spesso accade, attenuò il senso sgradevole prodotto
dalla sua prima apparizione discreta. Prima mi ci rassegnai; poi ci
divenni indifferente; poi, a poco a poco, quasi mi rallegrarono tutte
quelle insegne scarlatte, gialle, celesti, volanti da ogni parte come
stendardi spiegati al vento; e mi piacquero quelle pareti mobili che
ricordan le camere in cui i pazzi attaccano ai muri tutto quanto di
colorito e di stampato casca loro nelle mani; e quei volanti gabbioni
umani che di dentro e di fuori, con parole, con colori e con disegni,
vi offrono da bere, da mangiare e da leggere, vi danno dei consigli
igienici e v'invitano a consulti medici gratuiti, e vi chiamano alle
corse, alle regate, alle gare ciclistiche, al gioco del pallone e
all'Esposizione dei quadri, mi allettarono come una viva e strana
immagine dello spirito leggiero e irrequieto d'una grande città della
fine del secolo, oppressa di faccende, affollata di capricci, smaniosa
di strepito, affamata di piaceri, tormentata d'impazienze, portata via
dalla furia di divorare il tempo e di tracannare la vita.

                                   *

_Pneumatici Dunlop originali_: ecco un annunzio che non dimenticherò
più. Lo vedo ancora dipinto in caratteri bianchi su fondo rosso come
lo vidi, pochi giorni dopo il mio incontro col pittore, sul primo
carrozzone che passò la mattina per piazza Statuto; sul quale trovai il
mio buon Giors, che tentava invano la solita arietta della _Carmen_,
allegro come un uccello. E ci trovai pure, ritta dietro di lui, col
suo sacco inseparabile, la povera vecchia di Pozzo di Strada, che non
avevo più vista dall'ultimo giorno di carnevale, ancora più triste,
ancora più chiusa in sè che quel giorno. Salì con me sulla piattaforma
anteriore un giovane biondo che attaccò subito conversazione con un
altro signore attempato, commentando l'ultimo assalto dato dai dervisci
al monte Mocram. Mi ricordo sempre che c'eran dentro una vecchia
signora, una guardia daziaria e due contadine. Era una bella mattinata
limpida e fresca. L'aria viva agitava una ciocca di capelli grigi sulla
fronte china della vecchia, che, secondo l'usato, guardava i talloni
del cocchiere con gli occhi socchiusi, tenendo un braccio sull'altro,
stretti alla vita. Mi pareva ancora rimpicciolita dall'ultima volta,
tanto da capir nella bara d'un fanciullo. Non doveva pesare molto
più del suo sacco, certamente. E non dava quasi segno di vita quella
mattina; respirava appena. E pensava, pensava. Ma che covava dunque
dietro quella fronte dolorosa, che pareva portasse confitto nel mezzo
un ferro invisibile? Qual'era mai il pensiero implacabile che teneva
sempre curvato quel capo come la mano d'un aguzzino che lo premesse
alla nuca?

Dall'assalto dei dervisci i due signori vennero a parlare del viaggio
dei Sovrani di Germania sulle coste d'Italia, e il più attempato diceva
che era “una buona cosa„ un'“attenzione„ che “rialzava il nostro
prestigio„ dopo la battaglia d'Adua. L'altro prese a parlare allora
della battaglia e cavò di tasca un foglio grande, che spiegò sotto gli
occhi del suo vicino.

Era una fotografia colorata che rappresentava il campo di Abba-Garima:
le montagne in fondo coronate di turbe abissine e di nuvoli di fumo,
i cannoni fiammeggianti qua e là sulle alture minori, torrenti di
armati precipitanti giù dalle rocce, e sul davanti una mischia feroce,
un viluppo orribile di carri d'artiglieria, di cavalli, di feriti, di
morti, di negri e d'italiani dalle facce stravolte, lottanti a corpo a
corpo con le lance, le daghe e le rivoltelle, insanguinati e furiosi,
io mezzo a pozze e a rigagnoli di sangue.

Sporgendo il viso verso il foglio vidi con maraviglia accanto al mio
braccio il capo della vecchia che, uscendo dalla sua immobilità di
statua, si faceva anch'essa innanzi per vedere. Il giovine signore,
cortesemente, si scansò un poco da una parte e le mise il foglio aperto
sotto gli occhi dicendole: — La battaglia d'Abba-Garima.

Essa osservò un momento con gli occhi dilatati; poi contrasse il viso
in un modo strano, come se ridesse, richiudendo gli occhi e mostrando
le gengive sdentate. Mentre domandavo a me stesso perchè quell'orrendo
quadro la facesse ridere, essa si coperse il viso con le mani e diede
in uno scoppio di pianto che mi fece fremere.

Tutti e tre ci voltammo verso di lei, uno pigliandola per un braccio,
l'altro per la mano, domandandole che cos'avesse. Non potè rispondere
subito. Poi disse fra due violenti singhiozzi: — Ci avevo un
figliuolo.... — e appoggiato un braccio al parapetto della piattaforma,
lasciò cascar sul braccio la testa, in atto disperato, singhiozzando
più forte.

E fu inutile scoterla, cercar di confortarla; neppure il buon Giors
riuscì con la sua mano vigorosa, sciolta dalle redini, a farle rialzare
la fronte, che era come inchiodata al parapetto. I singhiozzi scotevano
violentemente tutto il suo povero corpo incurvato, ed era un pianto
infantile, lamentevole, che pareva non dovesse finir mai più; pareva
che ella versasse tutte le lacrime rattenute da cinque mesi, che tutta
la vita le dovesse fuggire dagli occhi; e ripeteva fra gemito e gemito
una parola rotta, sommessa e dolce, con l'accento d'una madre che parla
al bambino in culla, una parola che non comprendemmo se non dopo averla
intesa molte volte: — _Giacolin_ —; il nome del suo soldato.

Ah, povera madre! Colpiva lei pure l'accusa di viltà che qualche
giornale lanciava in quei giorni contro le madri italiane!

Riuscì Giors finalmente a farle rialzare il capo e a ottener qualche
risposta. Insomma, che fosse morto di certo non lo sapeva, nessuno
glie l'aveva annunziato; ma il cuore le diceva che era morto, che non
l'avrebbe rivisto mai più.

— Ma che cuore! — le disse Giors, commosso. — Oh benedette donne!
Se non lo sapete di certo.... Sarà fra quelli che ritorneranno. Lo
troverete fra i nomi stampati.

Ma no, il parroco le aveva letto il giornale, il suo nome non c'era....

— Ma che parroco! ma che giornale! Cosa volete, in quella
confusione.... Chi sa quanti ne hanno scordati.... Vedrete fra qualche
giorno.... Andiamo, _mare_, non bisogna disperarsi.... Sarà fra i
prigionieri.

Ma la donna diede in un nuovo scoppio di pianto. Prigioniero per lei
voleva dire affamato, torturato, sepolto vivo, peggio che morto.

— _O benedtie foumne!_ — ripetè Giors. — Aspettate un poco.... Tutti i
giorni ne tornano.... tornerà anche Giacolin.... Siete tutte compagne,
voi altre _mare_, quando vi mettete un chiodo nella testa. — Poi disse
bruscamente: — Smettete di pianger così forte, giurabbaco, che mi
spaventate le bestie!

Nessuno di noi osava più di parlare; il giovane aveva stracciato
e buttato via il foglio; la vecchia continuava a piangere
silenziosamente, col viso nelle mani; e pareva più disperato, faceva
più compassione quel pianto in mezzo a quella via rumorosa, a tutta
quella gente affaccendata che passava senza badarci. Alla cantonata
di via Venti Settembre essa prese il sacco e discese. Giors sferzò i
cavalli e tentò il motivo della _Carmen_; ma smise subito, e passandosi
la punta del medio sull'occhio, esclamò con un sospiro: — Ah.... porca
guerra!

                                   *

Per vari giorni, in tutti i carrozzoni e su tutte le linee, io vidi
l'immagine di quella povera vecchia curvata sul parapetto, col
fazzoletto sciolto e i capelli grigi scomposti, scossa da capo a
piedi dal singhiozzo violento della disperazione. E mi pareva più
tragica l'immagine in quel gran risveglio amoroso della natura che si
manifestava da ogni parte, nelle gemme degli alberi, nei bocciuoli
dei fiori, nella chiarezza del cielo e negli occhi delle ragazze.
Dalle piattaforme dei tranvai, andando per i sette bellissimi corsi
alberati che fanno cintura al centro di Torino e per i grandi viali
che corrono lungo il Po e lungo la Dora, si bevevano mille effluvi
sottili, un misto di fragranze leggerissime d'erba fresca, di terra
smossa, di campagna aperta, e si ricevevano nella fronte e nel collo
carezze morbide dell'aria, quasi mossa da invisibili ventagli odorosi,
soffi tepidi e puri, come aliti di bocche virginee, che facevan
rifiorire nell'animo, per brevi momenti, speranze rosee, ricordi lieti
dell'infanzia, simpatie spente, proponimenti giovanili di bontà, di
lavoro, di vita avventurosa e memorie lontane di care feste campestri
e di bei sogni sognati nei giorni più felici dell'età più bella. E si
mostrava questo primo influsso della primavera nei cavalli più agili,
nei cocchieri più allegri, nei fattorini più cortesi, nel modo di
salire, di scendere e di salutar della gente più lesto e più amabile,
e nella fioritura più rigogliosa e più vivace dei cappellini delle
signore a cui l'aria corrente sulle giardiniere aperte agitava sul
capo i nastri, gli steli e le penne, portando nel viso ai passeggieri
ritti in fondo delle ondate di profumi confusi di cipria, di viole e dì
giovinezza.

Avevano in quei giorni i tranvai una bellezza nuova: c'erano in quasi
tutti, la mattina, delle ragazzine vestite di bianco, che occupavano
in alcuni delle panche intere, spiccando fra l'altra gente come gigli
e camelie nivee in mazzi di fiori e di foglie brune. Apparivano di
sfuggita nelle giardiniere dei veli candidi scendenti sui vestiti e
sui guanti bianchi, e a traverso i veli, sotto alle corone di rose
e di margherite, occhi azzurri, bocchine purpuree, visetti d'una
freschezza infantile, che facevano un contrasto graziosissimo con
gli atteggiamenti raccolti e gravi delle piccole persone, ritte sul
busto, con le mani intrecciate sulle ginocchia e le scarpette chiare
congiunte. Da una parte all'altra delle piazze e dall'una all'altra
strada si vedevano biancheggiare sui tranvai quelle farfalle gentili
annunziatrici della Pasqua, e anche più della loro bianchezza risaltava
l'idea, ch'esse esprimevano, dello sposalizio celeste e dello stato di
grazia, in quelle carrozzate d'interessi mondani e di peccati mortali.

O carrozza di tutti, piccolo specchio del mondo, che raccogli e
ravvicini gli estremi più lontani della società e della vita, qualche
volta così gioconda e qualche volta così triste, dove si può veder mai,
fuor che in te, quello che io vidi in quei giorni?

Due giornate di pioggia avevano fatto uscir da capo i carrozzoni
chiusi; ma il cielo si rischiarava quando, verso l'undici della mattina
dell'ultimo di marzo, salii sul tranvai della linea dei Viali, fermo
nel corso Beccaria, sul punto di partire per Porta Palazzo. C'era
seduta dentro una donna, sola, che è ancora viva adesso nella mia mente
come se l'avessi avuta sempre davanti agli occhi durante un viaggio a
traverso all'oceano. I suoi capelli radi, neri d'una tintura grossolana
e mal diffusa, facevano parer più vecchio il viso giallo e rugoso,
nel quale, sotto due archi nerissimi, dipinti da una mano frettolosa e
malferma, sonnecchiavano due occhi glauchi e torbidi e rosseggiavano
di belletto le guance flosce e una bocca amara e stanca, atteggiata
come a un sorriso abituale, che appariva forzato, e quasi morto, come
quello d'una maschera, poichè la luce dello sguardo non l'accompagnava.
Se quel viso non avesse abbastanza chiaramente parlato, avrebbero tolto
ogni dubbio un garofano rosso ch'essa portava nella treccia e una lunga
traccia di polvere di riso che da una guancia le scendeva giù fino al
collo scarnito, cinto d'un nastrino azzurro; e quel fiore appunto e
quel nastro accrescevano tristezza all'espressione di vecchiaia precoce
dei suoi lineamenti risentiti e come tesi da un sentimento sordo
di rancore che ella covasse contro ai fantasmi a cui sorrideva per
consuetudine la sua bocca cascante. Era una di quelle figure miserande
in cui, caduto il velo lucente della gioventù, appare con un'evidenza
spaventevole l'abbiezione della vita, e dietro alle quali la fantasia
vede stanze immonde di lupanari, covi fumosi di taverne e di bische
e oscurità misteriose e sinistre dove giacciono corpi di briachi e di
feriti e lampeggiano coltelli e occhi feroci di belve umane.

Partito appena il tranvai, il fattorino entrò a porgerle il biglietto.
Essa tirò fuori con le mani un po' tremanti una borsetta di lana verde,
e ne cavò due soldi, che quegli prese, fissandola, con un barlume di
sorriso.

Arrivato in fondo al corso Principe Eugenio, il tranvai si fermò, e
prima s'udì un mormorio di voci argentine, poi salirono con allegra
furia da una parte e dall'altra molte ragazzine vestite di bianco,
accompagnate da due che parevano maestre, e sì slanciarono dentro il
carrozzone, agitando i veli trasparenti e le gonnelle candide, come
uno sciame di colombe con l'ali aperte. Fu come un soffio di primavera,
come la luce d'un'alba improvvisa che entrò con esse fra quelle quattro
pareti, e un vago odor d'incenso, di soppressatura e di capigliature
fresche, che parve portato da un'ondata d'aria. Erano forse le alunne
d'un piccolo collegio che avevan fatto la comunione e andavano a far
colazione in campagna. Le maestre restarono sulla piattaforma; le
alunne occuparono in un momento tutti i posti, cinguettando e ridendo;
la donna tinta restò in mezzo a loro.

E allora segui una scena indimenticabile. L'aspetto di quella donna
colpì qualcuna delle più grandicelle, che smisero di parlare e la
osservarono. Il loro silenzio fece tacere le altre, che, naturalmente,
si voltarono da quella parte dove le prime guardavano, e fissarono
anch'esse lo sguardo su quel garofano e su quel nastro, su quella
vecchiezza imbellettata e infarinata, su quella rovina d'ogni cosa,
resa più orribile da una maschera grottesca di gioventù; ed esse pure
fecero silenzio. Sul viso delle più piccole apparve un'espressione
di stupore, in alcune uno sforzo d'attenzione scrutatrice; alle più
grandi si stese sulla fronte corrugata come un'ombra di sospetto
e d'inquietudine, simile a quella che ci dà la vista d'un insetto
strano e sconosciuto. Guardai la donna, sola in mezzo a tutto quel
candore d'anime e di vesti, e vidi sul suo viso una leggiera e
istantanea contrazione dei muscoli come in una persona sorpresa in un
nascondiglio. Lanciò un'occhiata rapidissima alle due maestre, a me,
al fattorino; ma non guardò in faccia alle ragazze: guardò le loro
mani, i libri da messa e le scarpette bianche con uno sguardo velato e
fuggente; e dopo qualche momento, durando il silenzio e l'attenzione
di cui si sentiva l'oggetto, piegò lentamente il capo all'indietro,
appoggiò la nuca alla parete, e come presa tutt'a un tratto dal sonno
chiuse gli occhi, e non gli aperse più.

Il fattorino, che la stava osservando con curiosità, comprese, e mi
ammiccò sogghignando.

Ma io sentii una stretta di pietà che mi fece torcere lo sguardo da
quella infelice come se l'avessi vista trapassata e confitta da un
pugnale nella parete a cui s'appoggiava.

A Porta Palazzo essa si riscosse bruscamente e, senza guardar nessuno,
discese; le ragazzine ricominciarono a discorrere e a ridere, e il
tranvai riprese la sua corsa, allegro e sonoro come una gran gabbia
d'uccelli.



CAPITOLO QUARTO.


                                                              Aprile.

Libero in questo mese da ogni altro pensiero, posso dedicar maggior
tempo ai miei viaggi circolari _intra muros_, e scrivere distesamente,
giorno per giorno, le mie osservazioni. Eccone una: il tranvai,
istituzione educativa. E non è celia. Nel contatto quotidiano con
gente d'ogni ceto i superbi perdono sul tranvai un po' della loro
muffa; gli egoisti contenti odono discorsi di miserie e di dolori
che li fanno pensare; la signora che tiene un figlioletto sano fra
le braccia domanda pietosamente alla donna del popolo che cos'ha il
bambino pallido che ripiega il capo sul suo petto, e la madre dura,
che ha visto ammirata dai circostanti la floridezza e la grazia della
sua creatura, discende col cuor raddolcito dalla carezza fatta al suo
orgoglio. Ed è ancora una scuola di cortesia la carrozza di tutti
poichè, a furia di veder altri cedere il posto alla donna, finisce
con cederlo pure, quasi per istinto d'imitazione, il popolano che
non ci aveva mai pensato; e dall'esempio dei cortesi che porgon la
mano al vecchio che sale o sorreggono per il braccio la vecchia che
scende sono indotti anche i villani a far l'atto stesso, e si corregge
a poco a poco la volgarità degli atteggiamenti e delle mosse perfin
nell'uomo più volgare sotto lo sguardo dei molti occhi in cui egli vede
un'espressione di rimprovero o di disgusto, che lo ferisce nell'amor
proprio. Sì, quei cento carrozzoni che girano per la città tutto l'anno
sono cento piccole scuole ambulanti, dove le diverse classi sociali
imparano l'una dall'altra molte cose utili; per esempio, che non c'è
grande differenza fra di esse se non nella scorza; che basta a poveri
e a signori l'astrarre un po' col pensiero da questa per sentirsi
spinti gli uni verso gli altri dagli stessi impulsi che ravvicinano
fra loro gli eguali; che molti dissensi e rancori cesserebbero fra
chi è in alto e chi è in basso per il solo fatto di parlarsi e di
conoscersi a vicenda; che le avversioni sociali non nascono tanto dalla
disuguaglianza della fortuna quanto dal sospetto reciproco dell'odio
e del disprezzo, e che la cortesia è un'alta sapienza e una grande
forza benefica. Queste cose pensai stamani vedendo nel carrozzone un
grosso signore e un giovane operaio chinarsi tutti e due a un tempo
per raccogliere lo scontrino che una vecchia campagnuola aveva lasciato
cadere sotto la panca. Vent'anni fa il secondo non si sarebbe chinato,
e forse.... neppure il primo.

                                   *

Una conoscenza nuova: il _marchese_. È un fattorino che, per rispetto
al galateo, sta sulla sommità della scala, di cui Tempesta occupa
l'ultimo gradino. L'ho conosciuto in questi giorni sulla linea del
Valentino, andando a trovare Angelo Mosso. L'hanno soprannominato
il _marchese_ i frequentatori della linea. È una figura di tenorino:
biondo, pallido, svelto, con gli occhi azzurri e una bocca d'occhiello,
perpetuamente sorridente sotto due baffetti d'oro arricciati. Saluta
porgendo lo scontrino, risaluta ricevendo i soldi, chiede “pardon„
nel passarvi davanti, aiuta le signore a salire e a discendere
mettendo loro delicatamente la punta delle dita sotto il gomito,
prende sul predellino degli atteggiamenti eleganti di cavallerizzo
ritto sul cavallo, salta giù a raddrizzar l'ago alle biforcazioni e
risalta su con una grazia di ballerino, e ha un suo modo particolare,
amabilissimo, di mettere il resto nelle piccole mani inguantate,
come si mette una chicca nella palma d'un bimbo, sorridendo col capo
inclinato e fissando negli occhi della creditrice, senza varcare il
segno del rispetto, uno sguardo soave, che la costringe a fare un cenno
di ringraziamento. Appartiene alla famiglia degli erotici sentimentali.
Pare un galante padron di casa che faccia gli onori del suo salotto
a una comitiva d'invitate. Si capisce che l'aver che fare col bel
sesso signorile è una dolcezza della sua vita. Un sorriso, un segno
di compiacenza, uno sguardo di curiosità o di simpatia d'una signora
o d'una signorina gli danno una scossa così viva, che per un momento
par che gli manchi il respiro; e poi respira forte e s'arriccia i
baffetti con la mano agitata, mandando baleni dagli occhi. Dev'esser
stato ballerino al Teatro regio, o modello di pittore, o cameriere
di fiducia di qualche vecchia nobile. Perfin nel segnare i numeri
sul libretto ha un certo modo artistico di menar la matita come se
schizzasse il ritratto delle sue passeggiere. Se ha un'innamorata della
sua condizione, la povera ragazza dev'essere terribilmente gelosa al
pensare che, mentre essa è a casa o in bottega al lavoro, lui se la
scarrozza in mezzo alle gale e ai profumi del bel sesso, distribuendo
scontrini e sorrisi e accogliendo ogni soldo come un fiore, e deve con
l'immaginazione inquieta far sulla linea tutte le corse regolamentari,
sospirando il fanale bianco dell'ultima, come un segnale di
liberazione.

                                   *

Sulla stessa linea del Valentino, questa mattina, nell'atto che facevo
fermare il tranvai, uscendo di casa del mio amico, rividi finalmente
la “vergine morta„ che dal febbraio non avevo più ritrovata. Sedeva
sull'ultima panca della giardiniera: bianca, serafica, impassibile
come sempre, spiccante fra le altre signore come una madonna del
Fiesolano in mezzo alle figurine d'un giornale di mode. Standole
dietro ritto sulla piattaforma potei ammirare da vicino la ricchezza
dei suoi finissimi capelli castagni, sotto la quale s'inchinava, come
sotto un peso soverchio, il suo collo bianco e delicato; così bianco
da far pensare che il bacio d'un bimbo v'avrebbe lasciato una traccia
purpurea, così delicato da parer che una leggerissima stretta delle
dita sarebbe bastata a soffocarvi la vita. Aveva sulle ginocchia non
so che di rotondo, rinvoltato in un foglio della _Stampa_, e lo teneva
fermo con una mano sottile e nivea come il suo collo; la quale non vi
doveva pesar su più di un petalo di giglio. Il suo lungo corpo leggiero
non aveva un fremito, come se per lei non fiorisse la primavera, come
se la sua natura angelica fosse insensibile al mutare delle stagioni;
nè le sue guance dalla linea purissima erano più colorite in quel
tepore d'aprile che non fossero nelle giornate rigide dell'inverno; e
non uno dei suoi capelli di seta si agitava sulle sue tempie fresche
di bambina, benchè l'aria si movesse; e quieti come i suoi capelli
erano senza dubbio anche i suoi pensieri. L'osservai per un pezzo,
e mi riprese più acuta la curiosità di saper chi fosse, poichè non
riuscivo a immaginare alcuno stato o occupazione o scopo delle sue
corse che convenisse al suo aspetto tanto dissimile da ogni altra forma
di fanciulla ch'io avessi veduta mai. E anche stamani cercavo con la
fantasia, e tutto quanto trovavo mi pareva discordante, impossibile
a conciliarsi con quel freddo candore, con quella serenità di cielo
d'inverno, con quell'apparenza di ignoranza claustrale o di sovrana
indifferenza pel mondo. Il mio pensiero non riposava che immaginandola
come m'era apparsa la prima volta, coronata di rose e ravvolta in un
velo bianco, distesa sopra un feretro, con le braccia incrociate e
un sorriso sulle labbra, rivolto a un mondo sovrumano. Ebbene, mentre
così l'immaginavo, in un momento che il tranvai, sboccando sul corso
Vittorio Emanuele, faceva un sobbalzo, l'involto ch'essa aveva sulle
ginocchia si schiuse, e la corrispondenza strana, quasi miracolosa di
quello ch'io vidi con quello che immaginavo, mi diede un brivido di
terrore.

Era un teschio.

Il mistero era svelato; ebbi come una visione istantanea di lei in
mezzo agli orrori d'una sala anatomica, e rimasi come trasognato; la
verità era l'ultima cosa a cui avessi mai potuto pensare. Studentessa
di medicina!

                                   *

È scritto: non riuscirò mai, mai a conquistare il cuore del cavalier
“Bicchierino„. Quest'oggi gli sono caduto in disgrazia da capo. L'avevo
accanto sul tranvai, in via Garibaldi, alla solita ora della mattina.
Anche sulla giardiniera, come nel carrozzone chiuso, se non trova
libero il posto a sinistra della panca in fondo, piuttosto di sedersi
da un'altra parte, egli rimane in piedi sulla piattaforma. Avevamo in
mano tutti e due la _Gazzetta del Popolo_. Io ritardai la lettura per
ammirare la pacatezza e la precisione meccanica con la quale, dopo
letto la prima pagina, per legger l'altra senza tagliare, egli ripiegò
il foglio di mezzo e fece scorrer le dita sulla piegatura, e poi piegò
un'altra volta il foglio intero, e corresse anche la seconda piegatura
con la mano aperta e lenta, premendosi il giornale sul petto come una
cosa sacra. E mentre faceva quel lavoro, lo vedevo nel suo ufficio
fare ogni mattina quegli stessi passi contati, riporre sempre la penna
allo stesso posto, appuntare il lapis ogni tanti giorni a quell'ora,
uscire ogni giorno a quel dato minuto preciso, e pensavo che i suoi
pensieri si succedevano e si riproducevano certamente con lo stesso
ordine e la stessa lentezza, e che doveva essere un'immagine della sua
mente la sua casa assestata e lucida di buon _travet_ torinese, celibe
e tranquillo. Celibe senza dubbio, perchè era impossibile che un uomo
simile si fosse messo in casa il disordine vivente d'una moglie. E
come mai, pensando a tutto questo, io potei commettere sotto i suoi
occhi l'imprudenza imperdonabile che commisi? Per cercare una notizia
nella seconda pagina della _Gazzetta_, vi cacciai dentro la mano e
lacerai il foglio con le dita tese. Egli si voltò, come se un istinto
l'avesse avvertito dell'atto vandalico, osservò con gli occhi allargati
la dentellatura orribile che aveva fatto la mia mano nei margini, e
poi, alzato lo sguardo al disopra degli occhiali, mi fissò per qualche
momento con un'espressione indescrivibile di stupore e di riprovazione.
Compresi allora l'enormità del mio sproposito, e dissi in cuor mio:
— Son perduto; mai più, mai più mi potrò rialzare nella sua stima. —
E infatti, nella cura ostentata con cui ripiegò il giornale prima di
scendere vidi chiaramente l'intento di farmi comprendere che nessuna
relazione amichevole sarebbe mai stata possibile fra di noi due.
Ebbene, sì, egli ha ragione: ci dev'essere una differenza enorme di
temperamento, di vita e di opinioni tra chi straccia il giornale come
faccio io e chi lo ripiega come fa lui. Dimmi come tratti la _Gazzetta
del Popolo_ e ti dirò chi sei.

                                   *

Ho girato tutta la sera della domenica per godermi lo spettacolo
curiosissimo degl'incontri delle giardiniere affollate. Strana è
quella visione fuggitiva di trenta facce, che paiono d'uno sciame
umano volante: facce curiose, facce esilarate, facce impassibili, facce
istupidite dalla digestione difficile d'una mangiataccia domenicale,
o brillanti d'una sbornietta discreta, o sorridenti della dolcezza
d'un riposo onesto; begli occhioni neri o celesti che vi gittano un
raggio di fuga, coppie d'amanti che conversano, vecchi coniugi che
sonnecchiano, teste bionde di bimbi, che agitano le braccia in segno
di festa verso di voi. È un momento; ma se sul tranvai che passa c'è
una signora bella o un vestito elegante o un cappellino bizzarro, non
sfugge all'occhio d'alcuna donna che stia sul vostro, e tutte le teste
femminili si voltano; e in quei rapidi incontri persone si riconoscono
di qua e di là, e si scambiano scappellate a scatto, apostrofi tronche
e saluti della mano, che ripetono a distanza, come da poppa e da prua
di due vaporini. Vedete prima trenta visi in pieno, poi trenta teste
di profilo, poi trenta nuche e trenta dorsi: la comitiva vi si presenta
sotto ogni aspetto come un gruppo statuario sopra il trespolo girante.
Incontrate delle giardiniere allegre e chiassose in cui predomina la
giovinezza e paion tutti compagni di festa; altre che par che portino
un carico di musoneria, tutte facce gravi o insonnite; qualcuna con
una guardia civica davanti e due carabinieri in fondo e qualche soldato
dai lati, che pare una carrozzata di condannati tradotti alle carceri.
E più curioso è lo spettacolo a notte fatta, quando passano di volo,
illuminati dai raggi bianchi della luce elettrica o dai raggi gialli
del gas, e variamente colorati dai lanternini dei carrozzoni, gli
uni vermigli, altri verdi, altri mezzo accesi e mezzo oscuri, visi
intontiti di briachi, visi languidi d'amanti, bambini addormentati,
teste di donnine appoggiate sulla spalla del marito, braccia maritali
strette intorno alla vita della moglie, e mani amorose intrecciate, e
bocche e orecchie che si toccano, e musi lunghi di solitari, oppressi
da una giornata di noia. Oh quante noie e delusioni, e rammarichi del
denaro sciupato, e impazienze febbrili d'innamorati, e speranze e sogni
d'amori nascenti, e presentimenti tristi d'amari diverbi coniugali
portano a casa la sera tutti quei carrozzoni! E qualche cosa d'amaro ho
portato a casa io pure. In una giardiniera che passava ho riconosciuto
il mio buon nemico _Siapure_. Era ritto anche lui sulla piattaforma
di dietro, e aveva accanto una ragazzina di otto o dieci anni, il suo
ritratto, somigliantissimo; una figliuola di cui ignoravo l'esistenza,
graziosa, con due grandi occhi neri e buoni, già un po' velati dal
sonno. Ci passammo accanto alla distanza di due passi sotto la luce
d'una lampada elettrica; i nostri sguardi s'incontrarono; avremmo avuto
tempo di stringerci la mano.... e voltammo il viso tutt'e due dalla
parte opposta. Ah vecchi bambini vergognosi!

                                   *

Il tranvai, ottimo osservatorio per studiare la tirchieria. Ecco un
signore obeso che scomoda dieci persone e si fa venir le budella in
bocca per cercare un soldo caduto; ecco un facsimile di senatore, con
tanto di pelliccia in dosso, che fa una scenata perchè il fattorino gli
ha dato col resto un soldo greco; ecco un grasso provinciale che non
vuol pagare un soldo di più per l'ultima corsa perchè il suo magnifico
orologio d'oro non segna ancora le dieci precise. Era una famiglia
agiata, si vedeva, quella che è salita questa sera sul tranvai della
barriera di Casale, in piazza Solferino: marito e moglie, tre ragazze
e un bimbo sui tre anni, che teneva in mano un cannocchiale da teatro;
e il marito, che mi dava le spalle, aveva certo nei capelli tinti,
divisi a filo sulla nuca, tanto di cosmetico quanto valeva il biglietto
che s'è rifiutato di pagare per il posto del suo bimbo, disputando col
fattorino dall'imboccatura di via Santa Teresa fino a piazza San Carlo.

— Il bimbo ha l'età....

— Ma su questa stessa linea, ieri l'altro, non ha pagato.

— Non c'ero io.

— Non sono obbligato a ricordarmene.

— Basta ch'io glie lo dica. Non debbo mancare al regolamento perchè ci
ha mancato un altro.

— Eh, il regolamento ve lo fate ciascuno a modo vostro.

— Io non me lo faccio a modo mio: osservo quello della Società.

— La Società prescrive anche di rispondere in un altro tuono.

— Io rispondo nel tuono in cui mi parlano.

— Siamo educati!

— Ma tutti e due.

Apriti cielo! Mi sarò ingannato, perchè non l'ho potuto vedere in viso;
ma dalla punta dei baffi e dall'accento con cui disse: — R_icorrerò
alla direzione_ — m'è parso quello stesso personaggio, soprannominato
Tintura Migone, che aveva fatto una scena simile sulla linea della
barriera di Nizza. Discese, voltandomi le spalle, all'angolo di via
Plana, e lo vidi andar con la famiglia al Teatro Gerbino a spendere
sessanta volte la moneta per cui aveva alzato tanta polvere. O
miseranda pitoccheria signorile, che per vanità o per piacere butta
via lo scudo da una parte e letica il soldo dall'altra con una tenacia
rabbiosa che fa avvampar dalla vergogna chi veste gli stessi panni!
O razza spregevole d'esosi, che con infinite piccole taccagnerie
spandete intorno a voi tanti semi d'ira e d'avversione, veri eccitatori
dell'odio fra le classi sociali, quando finirete di disonorarvi dieci
volte al giorno per cinque centesimi?

                                   *

Mi è caro il tranvai anche perchè mi dà modo di studiare i bambini,
che per la strada mi sfuggono. Lì posso averli sotto gli occhi per un
po' di tempo e ammirarli a mio comodo, in specie sulle giardiniere,
grazie al vezzo che hanno tutti d'inginocchiarsi sulle panche, dando
le spalle ai cavalli, e di appoggiarsi alla spalliera come a una
balaustrata di terrazzino, col viso rivolto verso i passeggieri.
Faccio ogni giorno qualche conoscenza. Già due volte, tornando a
casa dal Giuoco del pallone, ho potuto ammirare così una bambina di
due anni, che padre e madre portano ogni sera verso le sei a fare il
giro dei Viali. M'è simpatica questa buona coppia, un _Taddeo_ e una
_Veneranda_ sulla quarantina, tutti e due piccoli, rotondi e floridi
come i famosi amanti del Giusti, con l'aria di gente contenta dei
propri affari. E scommetterei che quella bambina è il frutto unico
e tardivo dei loro placidi amori, venuto quando più non lo speravano
dopo averlo desiderato per molti anni, tante son le cure e le carezze
di cui l'affollano, divorandola con gli occhi, tanta è la compiacenza
con cui si sorridono a vicenda a ogni suo gesto e a ogni sua parola
e ringraziano con lo sguardo chi la guarda e le sorride. Questa sera
stava inginocchiata sulla panca in fondo e guardava me, ritto in
faccia a lei, col visetto volto in su, come avrebbe guardato la Mole
Antonelliana: un visetto rotondo di madonnina, illuminato da due begli
occhi azzurri e incorniciato in una finissima capigliatura castagna,
tagliata alla scozzese sulla fronte e ricadente sul vestitino color
di rosa. E sorrideva vagamente, guardandomi, come se si ricordasse
d'avermi già visto un'altra volta, con quella strana espressione tra di
benevolenza, di curiosità e di canzonatura, tutta propria dei bimbi,
che par che dicano: — Chi sei? Perchè mi guardi? Che vuoi da me? — e
intanto moveva le labbra e gonfiava ora una guancia ora l'altra come
se masticasse qualcosa. A un tratto si mise una mano in bocca e poi la
tese aperta verso di me per mostrarmi quello che aveva sulla palma:
un pezzetto di caramella; poi balbettò una parola che non capii,
si rimise la caramella in bocca e riprese a sorridermi, dondolando
la testina da una spalla all'altra. E io la guardavo, la guardavo,
ostinato a cercare il segreto di quel fascino divino dell'infanzia,
che, non parlando, ci dice mille cose dolcissime, confuse, lontane,
quasi sovrumane, impossibili a tradursi in parole; della potenza di
quello sguardo vago, che non penetra nell'anima nostra, ma davanti al
quale si nascondono, friggono, si disperdono tutti i pensieri tristi
ed impuri come un branco d'uccelli notturni al raggio dell'alba. E in
cuor mio le dicevo: — Guardami, guardami ancora, fa fuggir le misere
vanità, gli odî ignobili, le menzogne vili, l'egoismo, l'orgoglio;
fa fuggir ogni cosa.... — Ma un cane che correva dietro al tranvai
la distrasse dall'opera purificatrice, e non mi fu più possibile di
ricondurre la sua attenzione da quel cane sulla mia persona, nemmeno
mettendole una mano sotto il mento; benchè, per istinto amorevole, essa
appoggiasse sulla mano la guancia. Quella carezza fece voltare il padre
e la madre, sorridenti. Domandai loro che età avesse la bimba. Non si
può dir l'accento con cui mi risposero a una voce: — Ventitrè mesi. —
Non avrebbero detto con un altro accento: — Abbiamo ventitrè milioni.
— Sentii che quel numero segnava per loro la data d'una seconda vita,
che diceva da quanto tempo era discesa sulla loro casa la benedizione
e la gloria. Com'è dolce augurare sinceramente il bene ai propri
simili! Sentii una gioia vera a dir loro tra me: — Siate felici, vi sia
lasciata sempre, possa non aver mai un brivido di febbre, mai un nodo
di tosse, mai una notte agitata, mai il viso pallido neppur per un'ora!

                                   *

Sullo stesso tranvai, tre sere dopo, ritrovai l'operaio lombardo del
_desbotonass_, quello che m'aveva dato del _politicon_ perchè non
m'ero voluto sbottonare sull'argomento della politica. Aveva anche
questa volta festeggiato la domenica, e lo diceva il ciuffo che gli
dondolava sulla fronte, e la cicca che gli spenzolava dalle labbra;
ma era frenato dalla moglie, una donnina secca, più attempata di lui,
seduta al suo fianco. Appena mi vide, mi piantò in faccia gli occhi
lustri: tremai che mi riconoscesse e la ricominciasse con lo Zavattari;
ma non mi riconobbe. Borbottò non so che della rivoluzione di Candia;
voleva andare a Candia; e bruscamente, alzando la voce, mi fece la
proposizione d'andar con lui. Ma lo distrasse il campanello del Viatico
che passava dall'altra parte del Corso San Maurizio. E allora ebbe un
litigio con la moglie. Quasi tutti, sul tranvai, si scopersero il capo;
egli no. Sua moglie gli disse di scoprirei: non volle.

— Ma non rispetti nemmeno il Santissimo? — gli ripetè la donna, in
dialetto piemontese, e allungò la mano per afferrargli il cappello.
Egli si dibattè violentemente, dandomi delle spallate. — _Dagh on
taj_ — gridò — _Corpo d'on...! Mì rispetti i idej di alter, vuj che
rispetten i mè.... Mì sont per la libertaa del pensiero_....

Ma la donna riuscì a scoprirlo; egli strepitò: poi, ripreso il suo
cappello, per rifarsi, se la pigliò col fattorino perchè faceva fermare
il tranvai per far salire la gente.

— Io faccio il mio dovere —, rispose quello; — non ha da salir chi
vuole?

No, non aveva da salir chi voleva, e per questa buona ragione: — _Cosa
vœur dì tranvai? Tranvai el vœur dì marcià.... marcià semper, e se el
se ferma tutt'i moment.... l'è minga pu on tranvai, l'è una tartaruga!_

Voleva pagare anche due soldi di più, ma a condizione di _andar
accelerato_, e ad ogni nuova persona che saliva, ribatteva il chiodo:
— _E on alter!... Ah sanguanon! Ma l'è ona robba de rid!_ — Poi,
tutt'a un tratto, rivolgendosi a me col viso grave, disse in italiano:
— Ed è così che si fa il servizio? — Ma, dicendo questo, mi fissò da
capo, come se gli passasse per la mente un barlume di reminiscenza, e
puntatomi l'indice al viso, soggiunse: — _Lu.... me par de conossel._

Per quanto si sforzasse, però, non riuscì a ricordarsi della
conversazione del _desbottonass_, e volle che gli rammentassi io dove
c'eravamo incontrati. Mi guardai bene dal contentarlo. E per fortuna,
fu distratto un'altra volta da una signora che saliva.

— _E on'altra anmò!_ — ricominciò a esclamare. — _E seguitemm
inscì_.... Ah questa sì che è una bella farsa! —

— Ma la finisca una volta, — gli disse il fattorino.

— Io la finisca? _Ah faccia de bogher!_ — e, levandosi in piedi, tese
il pugno verso di lui.

Ebbi una buona ispirazione: gli misi una mano sulla spalla e gli dissi
all'orecchio: — Andiamo, un vecchio soldato di Garibaldi non deve far
di queste scene.

Fu un effetto magico: si voltò a guardarmi, stupefatto. O come mai io
potevo sapere ch'egli era stato con Garibaldi? Ma non me lo domandò. Mi
guardò un pezzo, sorridendo; poi mi porse la mano e disse: — _E ben....
lu el gh'ha reson._

Detto questo, scrollò il capo in atto di disapprovazione per sè stesso,
e ricadde pesantemente sulla panca. E quando io discesi, non se ne
accorse: dormiva.

                                   *

Sono in un periodo fortunato d'incontri e d'avventure. All'uscita dello
Sferisterio, mi decisi a prendere il tranvai della linea di Vanchiglia
vedendo sulla piattaforma quel porcospino di cocchiere Tempesta, che
conobbi due mesi fa sulla linea di Nizza. La primavera non l'ha punto
raddolcito. Salendo, gli ruppi in bocca un'invettiva feroce che faceva
contro una cavalla chiamata _Balia_; dalla quale egli volse lo sguardo
sopra di me senza mutarne l'espressione, come s'io fossi un complice
della bestia. Tacque per un po', coi denti stretti; ma quando fummo in
piazza Vittorio Emanuele, essendo salita una donna che depose ai suoi
piedi un grosso cesto, egli cominciò contro il cesto una ruminazione
sorda di sacrati, che protrasse fin che si sboccò in via Principe
Amedeo; dove andò addirittura fuor dei gangheri contro una vecchietta
sorda alle sue fischiate, urlandole nella schiena: _O trombon! O
terremot! O tamburnassa!_ — con quanta vociaccia aveva in canna. Poi
ricominciò a grugnire vedendo di lontano la strada ingombra dalla
folla, che usciva dalla rappresentazione diurna del teatro Gianduia. E
forse la ragione di tutte quelle furie era nel canestrino ritto ch'era
ai suoi piedi, nel quale si raffreddava il suo magro desinare, ch'egli
aveva mangiato a mezzo alla barriera di Casale, e che gli premeva di
finire in piazza Carlo Felice. Povero Tempesta! Si capisce come la
fame, in un temperamento come il suo, dovesse fare un tristo lavoro.
Fermò davanti al teatro, infatti, dando al freno una girata furibonda,
come se lo volesse spezzare. E qui la sua violenta natura fu messa a
una prova durissima. Doveva salire con un nuvolo dì figliuoli grandi
e piccini una di quelle povere mamme piene di timori e di affanni,
per le quali una salita nel tranvai è come un imbarco per l'America.
Essendo sparsi qua e là i posti liberi, i figliuoli più grandi salirono
da varie parti, e fu una faccenda interminabile il mettere al posto i
più piccoli; e la mamma a gridare: — Dov'è Carlino? — Giulia, siediti
là. — No, Augusto, in piedi non voglio. — Carlino, vieni qua che c'è
posto. — Marietta, tienti bene alla colonnina —; e Tempesta, voltato
indietro in atteggiamento minaccioso, fremeva come un mastino alla
catena. Quando stava per sferzare i cavalli, la signora lo rattenne con
un gesto perchè uno dei figliuoli s'aveva ancora da sedere. Finalmente,
sbuffando come un bufalo, Tempesta ruttò l'_avanti_. Ma la mamma gridò:
— Un momento! È proprio questo il tranvai che va a Porta Nuova? —
Egli rispose un _questo_ con sette esse, partì, e tirando giù tutti
i santi, cominciò a flagellar la cavalla, che non andava a tempo e
faceva delle scartate, e a soffiar nel suo strumento, fra un moccolo
e l'altro, con tanta rabbia da parer che fischiasse Torino. Fischiò
il monumento di Carlo Alberto, fischiò la Posta centrale, fischiò il
palazzo dell'Accademia delle Scienze, e infilò via Lagrange con la
furia d'un guidatore di carro falcato irrompente contro il nemico. Ma
era destino che la finisse male. All'angolo di via Cavour si staccò
dal gancio l'anello del bilancino, i cavalli s'impigliarono nelle
tirelle, e s'arrestarono. Saltò giù Tempesta schizzando fiamme e,
mentre il fattorino riattaccava, prese a martellar di pugni i poveri
animali, saettando con gli occhi me e altri due che dalla piattaforma
gli gridavano di smettere, e inferocendo in special modo contro la
povera _balia_; la quale alzava ed agitava la testa, scalpitando,
tutta convulsa e tremante, ma senza mandare lamento, come una povera
donna che tace, per non chiamar gente, sotto la percossa del marito
bestiale, di cui non comprende e perdona l'insania. Indignati, stavamo
per scendere, quando accorse dalla cantonata un vecchietto in tuba,
un ometto di nulla, ma ardito e risoluto come un cavaliere antiquo, e
affrontò l'aguzzino, afferrandogli il braccio a due mani. Tempesta si
svincolò con violenza e lo trattò di _avvocato delle bestie_. Cascava
male. Era per l'appunto un avvocato delle bestie, membro della _Società
protettrice degli animali_, e se ne vantò, e tirò fuori un taccuino
per segnarci il numero della giardiniera, dicendo che sarebbe andato
in persona alla direzione. Tempesta risalì sulla piattaforma con la
faccia verde, masticando ira di Dio; ma, ripartito appena, udendo dire
dietro di sè: — _A l'a fait bin_ (Ha fatto bene) —, si voltò a guardare
il temerario con due occhi di fuoco. Chi aveva parlato era un uomo sui
quaranta, di viso serio a benevolo, che aveva l'aspetto d'un operaio
istruito. Questi sostenne serenamente la sua guardataccia, e gli disse
con pacatezza, in accento amichevole, e un po' a rilento, come chi
vuol ripetere esatta una frase letta in un libro-; — Sicuramente.... le
bestie sono i compagni di lavoro, non gli schiavi dell'uomo.

Tempesta non rispose.

                                   *

Siamo in piena primavera. I tranvai dei viali corrono per lunghi tratti
sotto le grandi chiome degli ippocastani, dei tigli e delle acacie, ed
escono al sole e si rituffano nell'ombra, come carrozze erranti in un
parco; i vetri dei finestrini e i visi dei passeggieri si velano di
riflessi verdi; i predellini delle giardiniere strisciano i cespugli
che fiancheggian la via, e passan d'intorno per aria note d'uccelli,
farfalle bianche e profumi di rami in fiore; e il buon Giors nuota e se
la gode in tutta questa freschezza, aspirando a pieni polmoni l'aria
imbalsamata, che gli scava lo stomaco. Glie lo scava così addentro,
dice lui, che a rigor di giustizia, quando viene la primavera, la
Società gli dovrebbe dar doppia paga. Povero Giors! Questa mattina, sul
corso Vinzaglio, ebbe un vero dolore. C'era un garzonetto d'osteria,
ritto accanto lui, con quattro dozzine d'agnellotti crudi posati
sopra un'assicella, ch'egli teneva col braccio arrotondato fuor della
colonnina, per non impedirgli il maneggio del freno. A un tratto, uno
scossone della giardiniera gli fece perder l'equilibrio, l'assicella
piegò, e gli agnellotti si rovesciarono sulla strada. Non si può
descrivere l'atto di desolazione che fece il buon Giors a quella
vista: non c'è per nulla quello che fa don Baldazar-Ferravilla quando
la cuoca dei suoi ospiti gli porta via di sotto il naso il piatto
prediletto. E lamentò per un chilometro la “disgrazia„ scrollando
il capo tristamente; e messo così in un corso di pensieri tristi, mi
raccontò altre “disgrazie„ consimili di cui era stato spettatore, e non
ne pareva ancora consolato. Una vecchia signora venuta dalla campagna,
scendendo male dal tranvai, era caduta sul suo panierino pieno d'ova,
e n'avea fatto un lago, da cui l'avevan tirata su in uno stato! e ova
freschissime, che mandavano una delizia d'odore.... che peccato! Un
grullo d'ortolano, un'altra volta, aveva messo sotto la panca della
giardiniera, a un'estremità, un piatto di fragole ammucchiate, che a
ogni sobbalzo cadevano a mezze dozzine per la strada, dove un branco di
monelli, correndo e facendo un baccano indiavolato, le raccattavano,
senza che lui se n'avvedesse; e quando se n'era avvisto.... certi
fragoloni come palle, che profumavano il corso, una vera grazia
di Dio: disgraziato! A una povera ragazzina, in fine, proprio nel
momento che il tranvai si fermava in piazza Statuto, in capo alla
linea, s'era rovesciata dalla piattaforma una zuppierata di minestra,
ch'essa era andata a prendere all'osteria per suo padre; e gli aveva
fatto tanta pena quella povera _morfela_, a vederla inginocchiata in
terra a raccogliere singhiozzando le pastine e i piselli, che lui
e il fattorino avevano _fatto una sottoscrizione_, essi due soli,
mettendo ciascuno dieci centesimi, perchè la _morfela_ potesse andare a
ricomprar la minestra. — Ma a me — disse poi con un sorriso trionfante
— queste cose non sono mai accadute, nemmeno quando ero alto un palmo;
l'appetito m'ha fatto sempre stare in guardia; guardi, potrei giurare
che non m'è mai cascata di mano una ciliegia! — Bravo Giors! Egli m'ha
l'aria d'un uomo che non abbia mai mangiato a sua voglia in vita sua.
La vista delle tavole di trattoria apparecchiate all'aria aperta,
questa mattina, gli dava dei brividi di voluttà. — Ah! — esclamava,
adocchiandole di passata, — con che gusto mi ci metterei a sedere! — E
si capisce come il sedersi a tavola, per lui che non ci siede mai, sia
un ideale epicuréo, uno scialo da milionari, il non plus ultra delle
raffinatezze della vita. E confessando che sarebbe disposto a mangiare
a ogni ora del giorno, ride; e dicendo che trecento volte all'anno fa i
suoi pasti sulle ginocchia, ride; e raccontando che s'è levato il pane
di bocca per salvar dalle busse una povera bimba, ride. Ah, quanto è
buono senza saperlo, e come mi fa bene il suo riso!

                                   *

Una corsa memorabile, ma che vorrei dimenticare, sulla linea del
Foro Boario. Venivo di fuor di porta. Era una mattinata incantevole.
Partito appena dalla cinta, il tranvai si fermò davanti alla porta
delle carceri giudiziarie, dove salirono sei giovani, accompagnati da
due guardie di polizia, pallidi e malamente vestiti, ciascuno con un
involto di panni sotto il braccio. Erano sei prigionieri liberati che
le guardie conducevano alla questura centrale a ricevere il commiato
ammonitorio dell'autorità. Ma non occorreva che me lo dicesse il
fattorino; lo compresi, nell'atto che salirono, dal modo come girarono
lo sguardo intorno sugli alberi fioriti, sul corso inondato di sole
e sui passanti, bevendo a bocca aperta e a nari dilatate l'aria
luminosa delle libertà, che accendeva delle fiamme nei loro occhi e
faceva correre pei muscoli della loro faccia dei fremiti di piacere,
visibilissimi nonostante lo sforzo con cui cercavano di dissimulare
la rinascente ebbrezza della vita. Allo svoltar del tranvai in Corso
Vinzaglio, e poi nel Corso Oporto, a quell'aprirsi da ogni parte
di viali verdi, di fughe di palazzine e di portici, di vedute delle
Alpi e dei colli, voltarono il capo di qua e di là, con un movimento
di stupore grave, come se ad ogni svoltata crollasse un muro delle
carceri da cui non era uscita ancora tutta l'anima loro, e guardavano
curiosamente ogni passeggiere che saliva, come per molto tempo avevano
guardato ogni visitatore sconosciuto che s'affacciasse all'uscio della
loro cella. Osservavo con meraviglia che, passata la prima ebbrezza,
il loro viso s'andava già oscurando quasi dell'ombra d'un disinganno,
come se quell'ora tanto desiderata non mantenesse tutte le promesse
che aveva fatto alla loro fantasia, e li riafferrasse da lontano
la tristezza della prigione, quando, al punto di attraversare il
Corso Umberto, uno spettacolo anche più strano mi distrasse da loro:
una giardiniera dalla linea di San Secondo, tutta piena di monache
dell'ospedale Mauriziano, un mezzo monastero in carrozza, venti figure
grigie e bianche, immobili e silenziose, che passavano rapidamente
sulla curva, presentandosi tutte di profilo, con la fronte bassa e le
braccia incrociate, come tante statue della Meditazione, e svoltate
di corsa in Via Oporto, non mostrarono più che venti veli neri enfiati
dall'aria, e come fuggenti insieme a una tentazione del diavolo.

I liberati dal carcere discesero all'angolo di via Alfieri, il
tranvai proseguì verso via Santa Teresa. Eravamo a pochi passi dal
crocicchio quando vidi lontano in via Venti Settembre un affollamento
che la ingombrava da un lato all'altro. Mi voltai per domandare al
fattorino: — Che sarà? — lo vidi pallido. Egli aveva già capito.
Il cocchiere frenò i cavalli, che andarono lentissimi. Raggiunta la
folla, ci fermammo. Alcuni ci s'avvicinarono. Il tranvai precedente
aveva schiacciato un bambino di cinque anni, un povero orfanello, che
una mendicante teneva con sè e faceva accattare. Egli era sfuggito di
mano alla donna per attraversare la strada nel punto che i cavalli
sopraggiungevano; le ruote della giardiniera gli eran passate sul
corpo; era morto nell'atto; avevan portato il cadavere sotto il portone
d'una casa vicina, che la folla chiudeva. Una moltitudine di curiosi
s'accalcava intorno al cocchiere che era saltato giù, lasciando le
redini al fattorino, che aveva proseguito la corsa. Nel mezzo della
calca, al di sopra delle teste ondeggianti, spuntavano gli elmi di
due guardie civiche e il cappello d'un carabiniere, e fra questi il
berretto gallonato del disgraziato cocchiere, rovesciato indietro, che
lasciava vedere delle ciocche di capelli grigi. Mi apparve mi momento
il suo viso, bianco e stravolto, con la bocca aperta; poi si nascose.
Parlava e gestiva; ma il mormorio della folla copriva la sua voce.
Vidi le sue mani agitarsi per aria. M'arrivò all'orecchio un: _giuro!_
rauco, come il grido di un ferito. A un tratto, la folla s'aperse
come in due ondate violente e il cocchiere, stretto fra le guardie, si
mosse; ma, fatti tre passi, si fermò, e alzate le braccia come un prete
all'altare, girando intorno gli occhi smarriti e piangenti che non
vedevan più nulla, gridò con voce soffocata dai singhiozzi: — Giuro per
l'anima di mio padre e di mia madre, giuro che non l'ho visto! — Poi
si rimise in cammino barcollando, e la folla lo riavvolse. Il tranvai
ripartì.

Ah, perchè non tenni gli occhi fissi sulla mano tremante con cui il
fattorino scriveva, invece di rivolgerli a terra, sulle rotaie? Non mi
sarebbe stata così orribile la vista del misero corpicino schiacciato
come mi fu quella del suo povero sangue sparso fra i ciottoli;
orribile come qualche cosa di lui che vivesse e soffrisse ancora e
implorasse soccorso dal fondo della fossa. E dovetti scendere, preso
da un ribrezzo improvviso di quel carrozzone, come d'un complice
della strage, d'una macchina sinistra, nella quale, come nell'altra,
stesse rimpiattata la morte, in agguato, per afferrare al varco
altri bimbi. Ma non mi giovò fuggire. Per tutta la strada intesi quel
grido singhiozzante: — Giuro, giuro per l'anima di mio padre e di mia
madre.... — quel grido desolato, supplichevole, solenne; nel quale ne
sonava un altro esilissimo, la voce del sangue sparso, che anch'esso
chiedeva pietà per lui, in tuono di preghiera infantile. E per vari
giorni non scrissi più, e non potei salire sopra un tranvai senza un
sentimento di repulsione, come se tutti avessero le ruote insanguinate.
Ahimè! È dunque vero che anche la vita civile, come la creazione, è una
ruota terribile, che non si può muovere senza stritolar delle ossa e
dei cuori, e che l'uomo è condannato a sparger sangue in eterno?

                                   *

Maravigliosa leggerezza umana! Ma forse non è tanto leggerezza
il parlare che si fa da tutti di cose futilissime anche fra gli
avvenimenti più terribili, quanto spirito dì ribellione, bisogno
di provare la libertà del proprio spirito davanti ad ogni argomento
imposto di riflessione e di discorsi gravi. Avevano l'uno e l'altro
il giornale in mano, questa mattina, i due signori che m'eran seduti
davanti sul tranvai, e che discutevano vivacemente; avevano letto un
momento innanzi la prima notizia della battaglia di Turcuf; era da
supporsi che discutessero della vittoria per cui era liberata Cassala.
Discutevano invece sul colore del fanalino che segna l'ultima corsa del
tranvai del Martinetto.

— Le dico che è bianco, l'ho visto cento volte.

— Ma lei confonde con quello dell'ultima corsa di Vinzaglio.

Dalla voce riconobbi il mio buon “tranvaiofilo„ l'amico di Giors,
benestante sferoidale e gran paladino della Società Belga. Il quale
continuò: — Il fanale dell'ultima del Martinetto è rosso. Verde tutta
la sera, rosso all'ultima corsa.

— Verde tutta la sera, sì, — rispose l'altro, — ma all'ultima corsa,
bianco. Diamine! L'ho anche visto ieri sera.

— È impossibile.

— Oh cospetto! Mi vuol dare una smentita?

— Ma è lei che la dà a me, perdoni. Andiamo, vuol fare una scommessa?
Fattorino!

Il fattorino s'avvicinò sul predellino, e intesa la domanda, rispose
gravemente: — È bianco.

L'altro voleva ribattere, ma il “tranvaiofilo„ trionfante, gli tagliò
la parola. — A me la vuol insegnare, che conosco tutti i colori,
anche della _Torinese_? Bianco l'ultimo di Nizza, bianco Borgonuovo,
verde San Secondo, rosso Foro Boario, bianco San Salvario, rosso
Vanchiglia....

Sotto quel rovescio d'erudizione tranvaiesca l'avversario chinò il
capo, e non ribatte più sillaba.

Il tranvaiofilo stette ancora un po' pensando, poi soggiunse: — E
bianco l'ultimo dei viali.

Fu il colpo di grazia.

Suggellata così la sua vittoria, gittò gli occhi sul giornale che
teneva aperto sulle ginocchia, e voltatosi verso di me, col viso
spianato di chi passa da un discorso grave ad uno che ricrea lo
spirito: — Ottocento morti! — esclamò sorridendo. — Una bazzeccola! Ora
staranno quieti per un pezzo....

                                   *

Sono scampato a un pericolo grave e mi son goduto una scena curiosa.

Appena mi riconobbe dal capo opposto della giardiniera affollata e mi
vide accanto un posto vuoto, l'uomo spietato sorrise di compiacenza
feroce, e sceso sul montatoio, afferrandosi alle colonnine, s'avanzò
verso di me come il ragno sulla tela per afferrare la sua vittima. Io
capii che era armato d'un sonetto da piantarmi nel cuore, e tremai.
Ma in quel punto saltò sulla giardiniera, proprio al mio fianco, mi
ufficiale dei bersaglieri, che occupò il posto a cui lo scellerato
mirava; e questi dovette ritornare indietro con le sue strofe nel
gozzo. Vidi che fremeva. Ma fu subito distratto egli pure da un
piccolo avvenimento comico. Salì sulla piattaforma davanti un signore,
il quale, lanciato uno sguardo all'ultima panca, vi riconobbe un
amico, forse non più visto da mesi, e dopo averlo salutato con molta
effusione, prese a discorrer a voce alta con lui, che rispose nello
stesso tono, senza darsi un pensiero al mondo dei trenta passeggieri
che li guardavano e li ascoltavano con grande stupore. Appartenevano
tutti e due a un ordine assai numeroso di originali a cui manca affatto
un sentimento che si potrebbe chiamare “il pudore sociale„ e che hanno
la facoltà singolare di far arrossire gli altri per loro.

— Tu a Torino! E da quando?

— Sono arrivato questa mattina.

— E riparti?

— Questa sera. Ho l'_andata e ritorno_.

— Son birbonate, dovevi scrivermi. E Gabriella?

— Benissimo. E a casa tua?

— Tutti bene. Gustavo è andato a Genova.

— Me lo scrisse l'avvocato. E l'affare di Troffarello?

— Niente di nuovo; son muli.

— Oh diavolo! — E strizzando un occhio, — Di', e a quando il Messia?

— (Sorridendo modestamente) Di giorno in giorno....

C'erano delle signorine; vidi dei visi di mamme che si cominciavano
a inquietare. Come Dio volle, qualcuno discese, e i due poterono
avvicinarsi e conversare in famiglia. Ma essendosi fatto spazio accanto
a me, mi trovai di nuovo esposto al sonetto. Vidi infatti il poeta
che scendeva da capo sul predellino. — Ah no! — dissi in cuor mio,
ricordando il supplizio orribile dell'_Uom chi sei tu_; — una seconda
volta non mi torturerai — e gridato un _alt_ risoluto, che avvertì il
cocchiere e lui ad un tempo, mi salvai dai quattordici colpi di pugnale
che mi minacciava.

                                   *

Gran palestra di civetteria è la carrozza di tutti, e come vi si può
studiare la potenza del “femminino eterno„! Salì sulla giardiniera,
in via Maria Vittoria, una bella ragazza, che attirò lo sguardo di
tutti: piccolina, bruna, mirabilmente tornita, con le fossette nelle
gote, con un rosaio sul cappellino: vestita con un'eleganza un po'
teatrale, ma piacente nella sua stranezza. Non avevo visto ancora
un'arte di civetteria così varia, così profonda, così diabolicamente
raffinata. Era una continuità di leggerissimi, appena percettibili
movimenti ondulatori correnti dalle spalle ai piedi, un riso come
represso e diffuso su tutta la persona, un modo di girare il capo e
gli occhi, di guardar tutti e nessuno, di provocare e di fuggir gli
sguardi, un'arte d'addentarsi le labbra, d'inarcarle e di stringerle,
di far balenare le pupille, di velarle e di riaccenderle, qualunque
cosa guardasse, come se avesse voluto sedurre anche le cose, un
misto di monelleria, di finto pudore, di sensualità, di naturalezza,
d'affettazione e d'ingenuità bambinesca, da far cadere la penna di mano
al più potente descrittore di femmine della nuova scuola. Conquistò il
tranvai di primo colpo. Tutti i passeggieri si misero ad esaminarla
con occhio denudatore. Si voltava a guardarla di tratto in tratto
anche il cocchiere, e perfino una grave guardia civica, ritta in fondo
alla giardiniera, fissava su di lei uno sguardo affatto diverso dal
solito sguardo di servizio. All'angolo di via Bogino fece fermare un
vecchio generale in uniforme, un po' floscio di gambe, accompagnato
dal suo aiutante, e nell'atto di salire la guardò così fissamente che
mise male il piede sul montatoio e si dovè afferrare alla colonnina.
A un certo momento essa s'alzò e risedette un po' a sinistra, per far
posto a una signora, e in quell'atto così semplice e rapido mise tanti
guizzi e vezzi e grazie di colomba e di gatta, che lampeggiarono,
guardandola, gli occhi di tutti, come se tutti avessero bevuto a un
punto un bicchierino di Benedectine autentica dei frati di Chambéry.
Curioso che proprio al disopra del posto ch'essa occupava pendeva da
una traversa del tetto un cartellino d'annunzi, sul quale era scritto
in grossi caratteri: _Da vendere_, e il resto non si leggeva: una
villa, probabilmente. Ma era certo una calunnia del caso, o, almeno,
c'era d'aver dei dubbi per l'eccesso medesimo di quella civetteria;
la quale poteva non essere altro che un istintivo ardentissimo amore
dell'arte. Discese in via Plana. Le donne si voltarono a guardarla
con occhio severo, gli uomini.... con un altr'occhio. Ed essa si
allontanò col suo roseto sul capo, lievemente inclinato da una parte,
con un'andatura disinvolta e graziosa, mostrandoci ancora uno spicchio
di viso sorridente, da cui traspariva la coscienza d'aver lasciato una
dozzina di frecciole confitte in petto ai suoi compagni di viaggio d'un
quarto d'ora.

                                   *

Fu la vergogna stupida di mostrarmi per la strada con un pacco fra
le mani, che mi fece salir sul tranvai di porta Susa per tornare a
casa; e sul tranvai fui punito. Stavano in piedi sulla piattaforma
un giovine operaio, sua moglie e un bambino, che non avevan trovato
posto dentro al carrozzone. L'operaio faceva uno sfogo col cocchiere,
in tono aspro. Era stato ingannato da un amico, che l'aveva fatto
venir dal Vercellese, assicurandolo che a Torino c'era lavoro; ma,
venuto qui, non aveva trovato nulla; da un mese batteva inutilmente
a tutti gli usci; un suo parente benestante gli aveva rifiutato un
piccolo imprestito; non sapeva più dove dar del capo. Il cocchiere
gli consigliò di rivolgersi alla Camera del lavoro. — Ma che Camera
di lavoro! — rispose scattando. — Buffoni! Se non trovo lavoro io,
me ne troveranno loro! — E seguitò, smozzicando maledizioni fra i
denti. Il suo bambino, intanto, succhiandosi la punta dell'indice,
teneva gli occhi fissi sul mio pacco. Io l'apersi e gli porsi una
caramella, ch'egli agguantò come se la rubasse, e prese a leccarla
rispettosamente, sorridendomi. Il padre, appena se n'accorse, si voltò
a guardarmi con occhio torvo, strappò il dolce di mano al bimbo e,
prima che riuscisse ad afferrargli il braccio sua moglie, lo gettò
nella strada. Mi sentii come il freddo d'una lama nel cuore, e poi
una vampata di sdegno, un rivolgimento precipitoso d'idee recenti,
un ritorno violento d'idee antiche, tutto in un punto, come se la mia
anima si rovesciasse. Ma fu un punto solo. — Ah miserabile, — dissi a
me stesso — basta dunque questo?... — Quegli riprese a sfogarsi col
cocchiere, a voce più bassa però, e dopo qualche momento sua moglie
— una povera donnina dall'aspetto buono e triste — voltandosi quasi
furtivamente verso di me, mi diede uno sguardo timido, che voleva dire:
— È povero, è disgraziato, è irritato.... lei capisce.... — E io le
risposi con gli occhi: — Capisco. — Allora il suo viso si rischiarò
un poco e parve che dicesse: — Gli perdoni.... — E io risposi con
uno sguardo: — Ho perdonato. — Ahi mentivo. E non voglio mentire una
seconda volta: non gli ho ancor perdonato....

                                   *

Un'avventura più piacevole stamani, sulla linea del Martinetto. Stavo
sulla piattaforma di dietro con Carlin, il quale si fregava le mani,
molto soddisfatto della venuta dei famosi tre principi abissini al
collegio internazionale di Torino, ch'egli considerava quasi come una
rivincita; e andava ripetendo: — Questi tre qui, intanto, li abbiamo
nelle unghie! — Interruppe le sue espansioni un mio conoscente, che
salì all'imboccatura di via Garibaldi, un operaio lattoniere, che
aveva messo su bottega da poco, di trent'anni all'incirca, ma assai più
attempato all'aspetto, basso di statura e tarchiato, e serissimo. Era
un tipo degno di studio; un autodidattico di volontà ferrea, che aveva
frequentato l'Università in un periodo di disoccupazione, inteso quasi
unicamente a quistioni economiche e pratiche, intorno alle quali andava
raccogliendo da libri e da giornali note ed articoli che trascriveva
la notte in grossi quaderni; un socialista _sui generis_, non curante
del programma massimo, ristretto all'idea dell'organizzazione
del proletariato con lo scopo di conseguire una serie di riforme
parziali non isperabili dall'azione spontanea delle classi dirigenti;
_legalitario_, come egli stesso si chiamava, odiatore delle frasi,
disprezzatore dei capi matti, metodico in tutte le cose sue come un
impiegato, e così lucido e ordinato nelle idee e tenace nello studio
d'ogni quistione e nello sforzo di esprimersi chiaramente, che era
diventato in pochi anni uno dei parlatori più persuasivi del partito,
ammirato anche dai compagni di fede più colti.

Salutatomi con un tocco della mano al cappello, com'era suo solito, si
mise subito a discorrere d'un opuscolo sul _Salario minimo_, che aveva
in tasca; ma restò in tronco, dopo poche parole, vedendo passare a
traverso alla strada quattro giovani ammanettati, accompagnati da due
guardie di polizia; borsaioli, a giudicar dalle facce; due dei quali
vestiti decentemente, quasi con eleganza.

Carlin li giudicò con una delle sue frasi letterarie: — Ladri in guanti
gialli.

Ma un passeggiere, ch'era salito sulla piattaforma in quel momento,
un uomo sui cinquant'anni, dell'aspetto d'un capomastro malandato, che
olezzava d'acquavite, espresse un altro parere. — Siamo sotto il primo
maggio, — disse — sono socialisti. — E soggiunse, ammiccando a me, con
un sorriso ironico: — _Compagni_.... Sì, adesso, sono compagni proprio!

Gli lessi in cuore sull'atto. Avevo l'aspetto d'un signore, dovevo
odiare il socialismo; c'era nel suo scherzo l'intenzione ossequiosa di
guadagnarsi la mia simpatia dicendomi una cosa gradevole; apparteneva
alla famiglia degli striscianti. Per curiosità, l'incoraggiai con
un sorriso, e subito egli volle chiarirmi meglio che le sue opinioni
concordavano perfettamente con quelle che supponeva le mie.

— Ah che storie!... Un uomo che ha la testa a posto, un padre di
famiglia che lavora.... non si ficca lì dentro. Il mondo è com'è. Si
ha un bel far delle riforme, ci sarà sempre chi ne ha e chi non ne ha.
Badar a lavorare: non c'è altro.

Carlin interloquì. — Però, — disse — noialtri ci fanno lavorar
troppo....

— Ah quanto a questo — rispose l'altro — è un'altra quistione. — Io
pensavo che Carlin rispondesse che la quistione, invece, era proprio
quella, e che non si poteva risolvere non badando ad altro che a
lavorare. Ma mi persuasi che nella sua mente, tutta data alla politica,
l'idea dell'interesse della propria corporazione era affatto disgiunta
da ogni altra, come un lumicino solitario nelle tenebre. Infatti,
non seppe che cosa rispondere a quella risposta. E l'altro continuò,
sorridendomi con espressione lusinghevole: — Non è vero?... Bei tipi,
che vogliono rimpastare il mondo e non hanno che stramberie per la
testa.... Compagni! — E soggiunse ridendo: — Si chiamano compagni, e
son proprio compagni di pazzia!

A queste parole credetti che il lattoniere scattasse; ma, voltandomi
a guardarlo, fui maravigliato dell'atteggiamento del suo viso, affatto
diverso da quello che m'aspettavo. Egli guardava il parlatore con una
espressione di così sincera e profonda e tranquilla commiserazione,
che nessuna parola avrebbe potuto esprimere più chiaramente il suo
sentimento. Si capiva che in quel suo eguale, chiuso all'idea e alla
passione che avevan fatto di lui un altr'uomo, egli vedeva quasi
una creatura di razza inferiore; che lo considerava, come doveva
un cristiano dei primi tempi considerare un pagano, un impasto di
ignoranza, di servilità e di stupidaggine, da non poter nemmeno movere
l'ira. Ma quegli, tutto intento a finir di conquistarmi, non badò a
lui, che credeva per me uno sconosciuto, e ripigliò: — Per me, quando
qualcuno viene a tentarmi, lo mando a farsi scrivere. Non voglio finire
come quei “compagni„ che son passati adesso. Se a loro piacciono quegli
arnesi alle mani, si servano, branco di matti: ce n'è per tutti. Non ho
forse ragione? — E sorrise da capo, aspettando i miei rallegramenti.

Allora il lattoniere fece un colpo di scena che meditava forse da
un po'. — Ha visto — mi disse bruscamente — le dimissioni del nostro
Barbato?

Risposi che lo sapevo e che me ne rincresceva; ma che mi parevano
rispettabili le ragioni della persistenza nel primo rifiuto, le quali
dimostravano un animo onesto, senz'ambizioni, profondamente persuaso di
poter fare opera più utile fuori del campo parlamentare.

— È però un peccato, — rispose l'operaio, mettendo il piede sul
montatoio per discendere, — perchè è un sant'uomo; — e nell'atto di
stringermi la mano disse spiccando le sillabe: — Buon giorno, compagno.

— Buon giorno, — risposi, e mi voltai a guardare l'altro, che aveva gli
occhi spalancati e la bocca aperta, interdetto dallo stupore, come il
villano alla vista d'un gioco di prestigio. E un bel pezzo dopo, quando
discesi, mi guardava ancora.

                                   *

Ah il socialismo sul tranvai! Sarebbe curioso a trattarsi, specie
per i cattivi incontri che ci fa e i brutti quarti d'ora che ci
passa, poichè la carrozza di tutti, finora, è assai più borghese che
popolana. Questa mattina appunto mi ritrovai accanto sulla piattaforma
della giardiniera, fra piazza Castello e piazza Carlo Felice, il
mio onorevole nemico Guyot, il mangiasocialisti, il quale mi vibrava
certe puntate di sguardi, in cui era evidentissimo l'influsso del 1.º
maggio imminente. Certo egli domandava a sè stesso quali scelleratezze
io andassi macchinando per domani, pensava ch'io girassi per Torino
a soffiar negli odi di classe, e almanaccava forse che nascondessi
qualche ordigno infernale sotto la sporgenza che mi faceva il soprabito
dalla parte sinistra del petto, dove fissava gli occhi di tanto in
tanto. E perchè no? Quattro anni prima, in quel giorno stesso, non
avevano certi buoni amici fatto credere a un Consigliere comunale,
eccellente uomo, ch'io ero stato arrestato perchè scoperto in
corrispondenza epistolare col Ravachol, inducendolo per giunta a metter
la sua firma a una loro petizione per ottenermi la libertà provvisoria?
Quanto più guardava quel misterioso rigonfio del soprabito, tanto
più il Guyot si rimbruniva: la sua immaginazione più benigna doveva
essere di un pacco di proclami incendiari. Vedete un po'! Ed eran le
memorie di _Sant'Agostino_, ch'ero andato a prendere dal legatore.
Che strana cosa! pensavo. Desiderare ardentemente il bene di tutti,
sognare la pace e l'amore fra gli uomini, avere della società un nuovo
concetto, il quale, riferendo al suo ordinamento la causa dei mali che
si attribuivano prima all'egoismo dei fortunati, sopprime ogni ragione
d'odio contro di loro, sentire orrore della violenza e del sangue e
sdegno di tutte le ingiustizie e pietà di tutti i dolori, e da questo
desiderio del bene essere tormentati tanto da non godere più pace....
e in grazia di tutto questo vedersi guardare con occhio d'avversione
come se portaste dentro tutto quanto di più tristo e di più feroce può
covare un animo malvagio!... E pensare che chi vi guarda così è forse
un uomo sensato e buono, il cui sguardo intellettuale vede in voi tutto
rovesciato e falsato per il solo fatto ch'egli passa a traverso alle
lenti di un preconcetto irragionevole, e che, pur non consentendo nelle
vostre idee, quell'uomo vi diventerebbe amico se gli poteste parlar
per un'ora, ma che non gli potrete parlar mai, e ch'egli per questo
v'odierà sempre! Che strana cosa!

Mentre ciò pensavo il tranvai si fermò in piazza Carlo Felice per
lasciar passare un battaglione di bersaglieri, e il Guyot girò
da questi su di me uno sguardo acuto, in cui era manifesto il suo
pensiero: — Ecco chi vi terrà in riga domani! Tu li devi odiare,
costoro!

Ah le lenti! E dire ch'io amavo quei giovani tanto più di lui; non più,
come un tempo, per quello che erano in quel periodo della loro vita,
ma in loro stessi, nelle loro famiglie, nel loro avvenire, nei loro
futuri figliuoli, d'un amor non legato ad alcun sentimento nascosto
d'interesse di classe, ma purissimo e profondo e pensieroso, tanto
che mi pareva così angusto e leggiero in confronto al nuovo l'affetto
antico!

E così, quando il mio nemico discese e il tranvai infilò il Corso
Vittorio Emanuele, fiancheggiato da quelle due interminabili ghirlande
verdi e chiuso in fondo dalla gran mole del Rocciamelone, pensai
che non volava una volta il mio spirito, come fa ora, di là da quel
baluardo enorme, a dire a una moltitudine sconosciuta la santa parola
dell'amor fraterno e la speranza divina d'un avvenire senz'odi e senza
guerre di popoli. E confortandomi in questo pensiero, mi pareva che il
suono delle trombe soldatesche che s'affievoliva dalla parte opposta
del Corso morisse non nello spazio, ma nel tempo, come una voce del
passato.

                                   *

Qui, mentre chiudo il mese d'aprile, mi si leva dinanzi uno stuolo di
fattorini e di cocchieri originalissimi, che mi domandano: — E noi? —
E hanno ragione; ogni uomo è un libro; peccato ch'io non possa dar di
loro che i titoli! Ce n'è uno che fu maestro, frate e volontario con
Garibaldi, una strana caricatura di Giove, con una gran testa bianca
riccioluta, così grave e maestoso, che par che stia sul tranvai come
sopra un carro di trionfo e dispensi gli scontrini come grazie celesti.
C'è un antico becchino, cocchiere, un capo amenissimo, di razza nana,
così buffo d'aspetto e di spirito, che fa torcer dalle risa tutti i
colleghi con piccoli gesti e con mezze parole dette sottovoce, di cui
nessun passeggiere riesce mai ad afferrare il significato. C'è un ex
cocchiere di famiglia nobile che nomina i padroni e le padrone di tutte
le carrozze stemmate che passano, con un sorriso vagamente misterioso
di familiarità e d'alterezza, come un patrizio scaduto a cui la vista
d'ogni stemma ricordasse un'amicizia o un amore de' suoi bei tempi.
Ce n'è un altro, un fattorino tetro e taciturno, che ha la bizzarra
passione di esercitarsi a scrivere in caratteri minutissimi, e che
dedica ogni momento libero a quell'esercizio, di cui fa vedere i saggi
ai passeggieri, senza parlare, dei pezzettini di carta come biglietti
di visita, segnati di zampe di mosca non leggibili da occhio umano. E
ci sono altri Carlin, divoratori di giornali e politicanti di color
vario, altri Marchesi vezzeggianti che porgono lo scontrino come un
fiore, altri Tempesta ringhiosi, che si mordon la coda dalla mattina
alla sera. E le loro donne, quale collezione! Ne ho conosciuto in capo
alle linee una varietà grande: mezze signore e cenciose, mogli canute
di giovanotti, mogli che paion le figliuole dei loro mariti, visi di
vittime rassegnate, scarmiglione ardite e appetitose che han l'aria di
approfittar malamente delle lunghe assenze coniugali, donnine alacri e
premurose, che, porgendo all'uomo affamato il canestro della colazione,
gli fanno mille raccomandazioni supplichevoli di non mangiar troppo in
furia, e stanno a vederlo mangiare spiando con occhio inquieto l'arrivo
dell'altro tranvai e contando con l'anima in pena le bocconate e i
secondi. Ah che dure e affannate esistenze ho indovinato durante quei
pasti, ed anche quante buone nature, quante modeste virtù, quante belle
e sane corrispondenze d'affetto!

E ieri sera appunto, sulla linea dei viali, verso il tramonto,
assistetti a una scena gentile. C'era sul tranvai quasi vuoto un
fattorino dai capelli e dai baffetti bruni, un bel giovane, di viso
un po' malinconico e di belle maniere. A una fermata sul corso San
Maurizio accorse da una via laterale una donnina in capelli, graziosa,
con un bimbo in braccio; la quale salì in fretta sulla giardiniera,
dopo aver lanciato intorno uno sguardo diffidente, come se venisse
a un convegno amoroso. Il fattorino le tolse di mano il bimbo con
premura, sedette, se lo mise sulle ginocchia e prese a accarezzarlo e
a baciarlo in furia, come per saziarsene tutt'in una volta, mentre la
giovine madre, seduta al suo fianco, guardava con un'espressione di
grande dolcezza il figliuolo e lui, che ogni tratto alzava il capo per
rivolgerle un sorriso, in cui appariva ancora l'affetto caldo e quasi
la curiosità dello sposo. Essa aveva colto l'occasione del tranvai
quasi vuoto per portare al marito quella consolazione del bambino, che
gli era concessa così di rado a casa sua, e misurava con gli occhi quel
che le rimaneva di cammino da fare insieme: un troppo breve tratto!
Alla prima fermata, infatti, discese alla lesta col suo piccolo carico,
che tendeva le braccia verso il babbo; e questi, ritenendola ancora con
la mano quando era giù sulla strada, le disse: — A questa sera.

— A che ora? — domandò essa, mentre già il tranvai si moveva,
fissandolo con uno sguardo d'amante, ma un po' triste, per il
presentimento della risposta.

Ed egli rispose con lo stesso sguardo e con lo stesso accento: — Al
solito.

— Alle undici?

— Alle undici, — rispose il fattorino, scotendo il capo.

La donnina mise un sospiro, e stette lì ferma in mezzo al Corso,
rivolta verso la carrozza che le portava via lo sposo. Ed eran così
belli quei due bei giovani che si guardavano a traverso lo spazio
crescente, tutti e due col capo un po' inclinato, egli stando voltato
indietro, essa porgendogli il bimbo da lontano, quei due poveri sposi a
cui pareva così lunga una separazione di quattro ore perchè era il loro
cuore che batteva i minuti e il loro bimbo che li voleva riunire!



CAPITOLO QUINTO.


                                                              Maggio.

Una mattinata bella.... e una conversazione sciocca di benpensanti, a
proposito della data del mese, sul tranvai di Vanchiglia. Eran certo
di quelli stessi che, quando il primo maggio era tumultuoso, dicevano:
— Facciano la loro festa pacificamente, se voglion che sia rispettata!
— Diventata la festa pacifica, si facevan beffe delle riunioni
private e delle passeggiate campestri dei rinsaviti, attribuendo il
rinsavimento a cagioni ignobili. Non c'è gente più stomachevole dei
paurosi che, appena rassicurati, scherniscono e accusano di viltà chi
li ha impauriti. E ragionarono un pezzo per dimostrarsi a vicenda una
cosa di cui erano già tutti convinti: l'assurdità dell'Idea che la
festa esprime. Ma li ascoltavo quasi con piacere, pensando al tempo
in cui sarebbero parsi altrettanto strani quei ragionamenti quanto
paion tali al presente i ragionamenti opposti. Strana cosa, infatti,
degna d'una favola d'Esopo: l'onda del mare che si stupisce e s'adira
d'essere incalzata da un'altr'onda, e le grida: — Va indietro! — Ma
quel piccolo mormorio di voci ingrate si perdette ben presto in quello
grande, ch'io sentivo nella mente, d'altri innumerevoli benpensanti
come quelli, dicenti le stesse stessissime cose, percorrendo sui
tranvai altre centinaia di città, vicinissime e lontanissime, di là
dai monti e dai mari, di cento aspetti diversi, mentre si preparavano
intorno a loro, come ai loro amici ignoti di Torino, altre adunanze e
feste e passeggiate campestri, nelle quali, per la seconda volta sulla
terra, milioni d'uomini avrebbero espresso in venti lingue gli stessi
propositi e le stesse speranze che ai miei vicini parevan follia. E mi
pareva che l'aria di maggio che m'alitava in viso mi portasse un'eco
vaga di quelle voci infinite, confuse in un suono solenne e dolce, come
un sospiro del mondo, risvegliato dal sentimento della primavera.

Eppure ero triste; con la data del mese mi ritornava in capo di
continuo il pensiero d'un edifizio, già eretto e compiuto con cinque
anni di fatiche, di cure amorose e di passione ardente; il quale un
giorno, in un momento di potente chiaroveggenza critica, avevo visto
tutt'a un tratto, come per un crollo di terremoto, spogliarsi del
suo intonaco, aprirsi dal tetto alle fondamenta e rovinare in mille
frantumi. Quella data riconduceva forzatamente il mio pensiero fra
quelle rovine, che non avrei più potuto ricomporre che con altri più
anni di duro lavoro, e dopo che mi si fosse rifatta serena la mente
per concepire un nuovo disegno; e quel ricordo d'entusiasmi vani, di
speranze deluse, di veglie perdute, e il dubbio che una prova eguale si
potesse ripetere con una fine egualmente miserevole, mi sgomentava come
l'idea d'una condanna alla tortura perpetua.

Fui scosso all'improvviso da una voce gaia: — Primo maggio! — e,
voltandomi, mi vidi accanto sulla piattaforma un viso noto, un bel
giovane biondo, vestito a festa, con un garofano all'occhiello,
rosso come la sua bocca di vent'anni. Tutt'i miei pensieri tristi
fuggirono all'aspetto di quella gioventù sfavillante d'allegrezza.
Era un tipografo, uno dei credenti più appassionati e più sereni, di
natura affettuosa e ingenua, un bersagliere ardente del partito, il
più svelto e fervido dei galoppini elettorali, divoratore infaticabile
di scale e di strade, sempre pronto a tutti i servizi, a conciliare,
a ammansire, a metter bene; non mosso da alcuna speranza di vantaggio
proprio nè prossimo nè remoto, ma pago e contento di esser l'ultimo
soldato dell'esercito; e altero della sua fede, compreso di un così
vivo sentimento di dignità di classe da accendersi di vergogna e da
patire un vero tormento alla vista d'un operaio ubbriaco; e zelante
come un missionario, primo sempre ad accorrere a tutte le riunioni,
nelle quali la sua testa bionda brillava fra mille come una luna d'oro,
e il suo fremito e il suo riso d'assenso agli oratori si trasfondeva
nei vicini come un fluido elettrico. Era felice, quel giorno; l'idea
della passeggiata campestre pomeridiana lo eccitava; aveva già corso
non so quante linee del tranvai per andar a sollecitare dei compagni
irresoluti; sapeva quello che si sarebbe fatto nelle principali città
straniere, pregodeva il piacere del leggere le notizie del dì dopo,
diceva: — I compagni di Bruxelles, di Berlino, di Vienna, di Parigi, —
facendosi suonar quei nomi all'orecchio con un sorriso di compiacenza,
come dei nomi di amanti; e interrompeva ogni tanto il discorso per
indicarmi i garofani rossi sui tranvai che passavano, come avrebbe
indicato dei trofei di vittoria. In fine, mostrandomi il suo garofano,
mi disse che era un regalo inaspettato che gli aveva portato a letto
la mattina la sua vecchia mamma, non perchè fosse “convertita„ ah!
tutt'altro; ma per fargli una sorpresa piacevole, e che prima di
darglielo gli aveva fatto mille amorose raccomandazioni d'aver giudizio
almeno per quella giornata, povera vecchietta! come se fosse stata una
giornata di battaglia. Poi saltò giù dalla piattaforma dicendomi che
andava a comprare una mezza dozzina di _numeri unici_ da distribuire
agli amici stangati, e fattomi un saluto vivace con la mano, scappò,
lasciandomi nell'anima un raggio della sua gioventù e della sua gioia.

                                   *

Ma il giorno dopo scontai la festa. Pericoloso è il tranvai per quelli
a cui tocca di tanto in tanto di “correre per le bocche„ dei loro
fratelli in Cristo. Non sospettava certo ch'io stessi ritto dietro le
sue spalle il grosso signore brizzolato che sedeva sull'ultima panca
della giardiniera di corso Vinzaglio, sulla quale ero salito con lo
scultore Costa per andare all'Esposizione triennale. Aveva fra le mani
la _Stampa_ della mattina, in cui era riassunto un discorso fatto
da me il giorno avanti all'_Associazione generale_ degli operai, e,
parlando con un vicino, mi tartassava in un modo barbaro, con voce
lenta e pacata. Ah se si potesse intendere tutto quello che dice di noi
la gente che non ci conosce, saremmo le più volte meno offesi dalle
ingiurie che stupefatti, divertiti dalla stranezza e dall'assurdità
delle favole, impossibili a immaginarsi. Anche il Costa tendeva
l'orecchio; ma senza comprendere chi fosse il tartassato. Il buon
signore spiegava al vicino il vero perchè di quella ch'egli chiamava
la mia _rivolta_ (rivoltatura di giubba, voleva forse dire): egli lo
sapeva di certa scienza. Perduto quel po' di ben di dio col crac della
Banca Tiberina, avevo brigato, per campare, il posto di bibliotecario
civico, che m'era stato rifiutato; e, ridotto al verde, invelenito, per
puro sfogo di vendetta contro il mondo ingrato, avevo fatto il salto
nefando. E presagiva dove sarei andato a finire: in un luogo dov'egli
m'avrebbe chiuso subito, se avesse potuto. Illuminato a un tratto da
una parola, il Costa mi diede di gomito, dicendo: — Senti, senti....
sei in ballo tu.... — e intesa la chiusa, ch'era un epiteto, soggiunse
ridendo: — Beccati questa e serbala a Pasqua. — Stavo per ribattere;
ma mi balenò una speranza di rappresaglia, che mi fece tacere. La
speranza non fu delusa, in fatti. Svoltato il tranvai sul corso
Vittorio Emanuele, quando fummo vicini alla piazza, il grosso signore,
preso da un impeto improvviso di collera, tese il pugno verso l'assito
del monumento, e gridò: — E anche quest'auro! O quando sarà finita? E
bisogna essere minchioni come siamo noi.... — e taccio il resto. Allora
toccai col gomito il mio buon amico e gli dissi: — Questa mi farai il
piacere di beccarla tu e di serbarla a Natale. — Scoppiando tutti e due
in una risata, facemmo voltare l'oratore che, messo in sospetto, non
disse più nulla. Ma non occorreva che dicesse altro. Per i nostri dieci
centesimi, come osservò il Costa, ne avevamo avuto abbastanza. Regola
generale: andare a piedi il giorno dopo che s'è pronunciato un discorso
in pubblico.

                                   *

I discorsi che si sentono sui tranvai, che pascolo per la fantasia! Ne
feci uno studio particolare in quei primi giorni di maggio e mi parve
di raccoglier pagine e pezzetti di pagine di mille romanzi lacerati.
Eppure in quella varietà infinita c'è anche una grande monotonia. Quei
dialoghi a bassa voce fra ragazze del popolo, nei quali ogni venti
parole, infallibilmente, come il _paese_ nei discorsi elettorali,
vien fuori la parola _chiel_ — lui — l'eterno _chiel_, il protagonista
anonimo del racconto; quei ragionamenti politici, in cui potete esser
certi sempre di sentir pronunciare come giudizio proprio il giudizio
che avete letto la mattina sul giornale che il ragionatore tien nella
mano; quei discorsi sulla pioggia, sul caldo, sul freddo e sul vento,
fatti di parole che milioni di bocche ripetono da tutti i secoli ad
ogni variazione del tempo come se fosse sempre una cosa nuova, strana,
inaspettata! Una gran parte delle conversazioni degli uomini non sono
che sbadigli dell'intelligenza sonnecchiante. Ma va a giorni. Trovo fra
gli appunti d'una sola corsa la storia interminabile del cambiamento
d'un'unghia del piede, raccontata da un operaio al cocchiere, mentre
un medico, che gli stava accanto, spiegava a un terzo in che modo
dovesse far aprir le mascelle al suo cane da caccia per cacciargli in
gola ogni mattina una cucchiaiata di sale, che l'avrebbe guarito dal
raffreddore; poi una frase colta a volo da due ufficiali che parlavan
d'un duello: — Quando uno la dà, che gl'importa degli arresti! — e una
esclamazione soffocata: — Io la strozzo con le mie mani — intesa da
un Tizio che faceva uno sfogo confidenziale con un amico, nel tempo
stesso che due signori, dall'aria di gente di teatro, maltrattavano
il maestro Leoncavallo chiamando i _Pagliacci_, con fine sarcasmo, i
_Pagliericci_, e un tale che mi stava di dietro, discorrendo con non
so chi, spacciava intorno all'Argentina, dond'era ritornato da poco,
le più grosse panzane del mondo: per esempio, che ci si pagava dieci
lire per farsi fare la barba. Poi, in quello stesso giorno, stralci di
storie di malattie, di danari prestati e non resi, di liti coi vicini
di casa, d'avventure galanti, di gite ciclistiche, e vari di quei
discorsi che per un tratto par che si riferiscano a un dato argomento,
ma che da una parola si comprende che riguardan tutt'altro, un cosa
mille miglia lontana, senza parerci men balordi per questo. E non è uno
studio inutile, perchè ci s'impara fra l'altro a proceder cauti nel far
la critica su dei frammenti. Ecco ad esempio un dialogo che intesi fra
due ragazze nella mia ultima corsa sul tranvai di via Cernaia.

— Uno tra due.... è vergognoso.

— Ma che! Nessuno è lì a vedere.

— Ma ci vedono entrare insieme.

— Che importa? Chi sa quante fanno lo stesso. — Dopo una pausa: — È un
gran piacere.

— Sì, ci si sente meglio, dopo.

— È già più d'un mese.... Ne ho proprio bisogno.

— Diamine, — dissi tra me, — ci vuol della faccia. E mi sarebbe rimasto
di loro un concetto orribile se non le avessi viste, quando discesero,
entrare nello stabilimento di bagni di corso San Martino.

                                   *

    Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori

e dei legumi, è bello anche sui tranvai che, passando la mattina dei
giorni di mercato per le piazze Emanuele Filiberto, Bodoni e Madama
Cristina, si trasformano in piccoli orti, magazzini alimentari e
dispense ambulanti, piene di colori e d'odori. Vi salgon su da ogni
parte, caricandovi le loro derrate, fantesche, bottegaie, cuochi
di alberghi, ordinanze d'ufficiali ammogliati, signore con gabbie
d'uccelli e vasi di fiori fra le mani; ed è tale qualche volta
l'ingombro degli involti e dei canestri cacciati sopra e sotto le
panche e dei grossi cavoli posati sulle ginocchia e dei cardi enormi
tenuti ritti come torce e dei polli ciondolanti dal pugno delle serve,
che non vi si può più muovere un braccio o allungare una gamba senza
urtare in qualche cosa di commestibile. Ah! com'è curioso il contrasto
fra i cuochi di case signorili che mettono superbamente in mostra le
code delle trote e dei fagiani, e i piccoli borghesi dei due sessi
che vanno a comperare per necessità economica o per raffinatezza di
buongustai, facendo un sacrifizio d'amor proprio, con la speranza di
non esser visti dai conoscenti, e dissimulando con mille piccole arti
la roba comprata! Ma la signorina bionda ha un bel pigliare degli
atteggiamenti poetici o un'aria distratta per far credere di trovarsi
là per puro caso: io vedo bene rosseggiare i ravanelli delatori sotto
il coperchio mal chiuso del suo canestrino elegante. E il vecchio
maggiore giubilato ha un bel tamburinare con le dita la sua borsa di
cuoio da viaggiatore, con la quale vuol dare ad intendere d'esser
venuto or ora dalla stazione di Lanzo: il cuoio rigonfio disegna
bellamente la forma d'un mazzetto d'asparagi, sua desiderata primizia.
E non serve che la vecchia contessa, rovinata nel recente disastro
delle banche, cerchi di nascondere con l'ombrellino stinto il pacco
che si preme con la mano destra sul petto: vedo per uno spiraglio della
carta verdeggiare la cicoria, che un tempo ella non toccava mai che con
la forchetta e che ora, arrivata a casa, tagliuzzerà con le proprie
mani, da cui sono scomparsi gli anelli. Ah povera contessa, chiudi
un po' quell'ombrellino, col quale ti pari, non dal disprezzo come
credi, ma dal rispetto e dalla simpatia delle anime gentili.... E la
giardiniera va, spandendo odori di rosmarino, di basilico, di fragole,
di pesci, di caci, di cipolle, d'un po' di tutte le cose, destinate a
mense splendide di milionari, a tavole rotonde di stranieri, a poveri
deschi di studenti, d'impiegatucci, d'operai, di malati, a luoghi e a
mangiatori tanto diversi, quanto sono i modi con cui furono guadagnati
i soldi che le pagarono, dalla fatica della schiena all'imbroglio
finanziario, dalla vendita della scienza al mercato dell'amore.
Poi, ad uno ad uno, tutti i carichi son posti giù, e il tranvai,
ripigliato l'aspetto solito, continua la sua corsa leggera e inodora,
fin che ritornerà nello stesso punto, dove ripiglierà altri colori
e odori e vanaglorie culinarie e pudori aristocratici e peccati di
gola mascherati. Tranvai stimolanti, consigliabili, sul serio, a quei
pochi malati di anoressia che possono ancor essere sotto il bel sole
d'Italia.

                                   *

    Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori...

Mostravano di sentirne l'influsso, e come! il bel capitano di fanteria
e la supposta moglie dell'impiegato postale, che ritrovai una mattina
di maggio in un carrozzone chiuso della linea Vinzaglio. Che il loro
amore non fosse uscito ancora dalle rotaie dopo un mese e mezzo di
corse? Possibile, non credibile. Comunque fosse, era evidente che si
trovavano tutti e due in quel periodo critico, nel quale all'amore
divampante cominciano a riuscire intollerabili la tirannia del
calendario e dell'orario, la simulazione, la menzogna e tutte l'altre
astuzie e cautele del tradimento; in quel periodo in cui la passione,
accecata dalla propria fiamma e insuperbita della propria forza,
illudendosi d'aver dei diritti, ha voglia di buttar via tutti i veli,
di scuoter tutti i gioghi, di spezzar tutti i lacci, e d'attaccar
battaglia aperta col mondo e con le sue leggi. Sul viso di lei non
c'era più segno di timidezza; non si parlavano, ma si fissavano
liberamente, e guardavano gli altri con gli occhi arditi, come dicendo:
— Ah, non crediate che si voglia fingere! Quello che sospettate è la
verità, e non la frodiamo, ma la portiamo in trionfo, e ve la gettiamo
sul viso. — Benedetto amore, segno eterno d'“immensa invidia„! Avete
notato che in chi n'è spettatore v'è quasi sempre un'espressione di
gelosia velenosa? che il mondo, che quasi sempre gode a veder due che
s'odiano, par che si roda a veder due che s'amano? Fra i passeggieri
che bersagliavano la coppia d'occhiate ostili c'era un signore serio
e barbuto che, a giudicar dalla faccia, li avrebbe pugnalati. Non
potea star fermo, si tormentava i baffi e soffiava; avrebbe voluto
non guardarli e non ci riusciva; avreste detto che era lui il marito
ingannato. Riconobbi in lui un erotico, ma d'un ordine particolare:
il geloso di tutto il sesso femminile, quello a cui tutti gli amori
sembrano un furto e un'offesa fatta a lui, e al quale par che ogni
donna innamorata, vedendolo, si dovrebbe staccar dal suo amante,
dicendogli: — Scusami tanto; mi sono innamorata di te perchè non
conoscevo quel signore: ti pianto. — Come divampava quel carrozzone!
Non pareva che lo tirassero i cavalli, ma che lo spingesse avanti la
forza della passione, delle gelosie, dei cuori palpitanti e delle
immaginazioni accese che portava dentro. C'erano due signorine col
viso rosso, due vecchi che avevan tutta l'anima negli occhiali, un
giovanetto che pareva magnetizzato; perfino il fattorino pigliava i
soldi senz'esame per covar con gli occhi la bella coppia colpevole. Ed
io pensavo con pietà a quel povero impiegato delle poste, che forse in
quel momento diceva allo sportello, con voce placida: — Niente per lei!
— Ah poveretto! E per lui c'era quel po' di roba.

                                   *

    Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori...

Lo sentiva anche il mio buon veterano di via Garibaldi la sera che lo
trovai, col suo cane inseparabile, sulla giardiniera della linea del
Valentino, diretta verso Porta Palazzo: in piedi, trionfalmente. Era
contento, si vedeva, di star bene, di respirar l'aria tepida, pregna
del profumo dei fiori d'acacia: infatti, a ogni crocicchio, girava il
capo con vivacità insolita, e guardava tutto, sorridendo alla gente,
ai monumenti, alle case in costruzione, ai tranvai che passavano, alle
strade lunghe e diritte, e alle Alpi lontane. Doveva esser per lui
una di quelle buone giornate che i vecchi ricordano poi come squarci
aperti nella loro vecchiaia, nei quali hanno rivisto da vicino e quasi
risentito di sfuggita l'età migliore. E sorrideva anche al tranvai che
lo portava, che era grazioso e allegro veramente: un giardinetto di
cappellini Arton, Vittoria e Romeo, coronati di rose e di pizzi; una
nidiata di bimbi bianchi, tutti in ammirazione della uniforme strana
d'un ufficiale Bulgaro della Scuola di guerra; due belle ragazze del
popolo, in capelli, d'un biondo abbagliante, e tre soldati del genio,
un po' eccitati dal Barbéra, che facevan rider tutti con certi commenti
comicissimi, accompagnati da risate infantili, sopra un desinare
disgraziato che avevan fatto all'osteria. Attraversare la sua Torino
in carrozza, per due soldi, con quella bella compagnia, con quel bel
tempo, doveva essere per quel vecchio celibe uno dei godimenti più
squisiti che gli restavano, qualche cosa come una brillante cavalcata
in un passeggio pubblico per un signorino di diciott'anni; e non potè
trattenersi dall'esprimermi la sua contentezza quando, nel passare
per via Siccardi, lungo il giardino della Cittadella, ci venne in viso
un'ondata di profumi dall'Esposizione dei fiori. Voltò verso di me la
faccia piena di rughe sorridenti, ed esclamò: — Che bella serata! — Poi
si rizzò un momento sul busto come per dire ai vicini, secondo il suo
solito: — Son settantotto, sapete! — Poi m'espresse il suo desiderio
di veder l'anno dopo l'“impianto„ dei tranvai elettrici e mi disse
la sua ammirazione per i “progressi maravigliosi del giorno„ come un
uomo che sentisse ancora in sè tanta vita da poterli godere per un
pezzo; e s'interruppe per chiamare il suo Ciuchetto con una nota di
voce insolitamente sonora, della quale si compiacque, come d'una prova
di vigoria di petto. E s'interruppe da capo in via Garibaldi per fare
una profonda scappellata, con una inclinazione reverente del capo. Era
passata in carrozza la principessa Letizia. E capii che quell'incontro
era per il suo cuore di buon vecchio piemontese monarchico il
coronamento felice d'una giornata d'oro.

                                   *

_Maggio, bel maggio_: lo sentiva nelle vene anche il piccolo monello
che mi fu affidato.... Una corsa calamitosa. Salii a Porta Palazzo sul
tranvai, ancor fermo, della linea di Borgo San Salvario. Ero solo. Una
donna — una nonna, mi parve — mi mise accanto sulla panca un bel bimbo
bruno di circa sett'anni, dicendomi: — Scusi tanto, _monsù_; lei va a
_capolinea?_... E allora, vorrebbe esser tanto buono da tener d'occhio
questo bambino, che deve discendere da una sua zia in via Berthollet,
numero sedici? — E ringraziatomi, ripetè la raccomandazione al
fattorino, che appena le badò. Il tranvai partì. Io feci una carezza al
mio raccomandato, per rassicurarlo; ma riconobbi subito che non n'aveva
bisogno, poichè nell'atto stesso mi levò di mano la canna, dandomi del
tu, senza preamboli, e tirò a disfarmi il nodo della cravatta.

È varia e dilettevole quella linea, che dal corso Regina Margherita
svolta in un tratto di strada ariosa e chiara, aperta da poco; poi
rientra in Torino antica, fra il duomo austero e i palazzi foschi
del Chiablese e del Seminario, dove irrompe un soffio di vita giovane
dalla Via Quattro Marzo; e, proseguendo per la via rumorosa del Venti
Settembre, passa per quella nuovissima di Pietro Micca, in mezzo a
una allegrezza chiassosa di architetture ornate, a vecchi crocicchi
in rovina, che non si riconoscon più, a fughe di colonne snelle, di
cantonate fresche, di prospetti nuovi, davanti ai quali ripassan nella
mente visioni confuse di città straniere e ricordi di case sparite
e d'amici morti e immagini di finestre e di terrazzi noti, che pare
si sian dissolti nell'aria! Bello si, ma un po' triste, perchè tutto
questo non è stato fatto per voi, e si sente di più la vecchiaia che
s'avanza vedendo la città che ringiovanisce. — Tutto questo è fatto per
te e per gli altri monelli della tua generazione — pensavo, guardando
il mio piccolo protetto sconosciuto....

Un vero serpente questo piccolo protetto, che non mi dava requie un
momento. Si voleva rizzare in piedi sulla panca, si sporgeva fuori del
tranvai, agitava la mia canna per aria, metteva i piedi nella schiena
ai passeggeri seduti davanti, i quali si voltavano a guardar me,
come per domandarmi se era quella e non altra l'educazione che avevo
saputo dare al mio figliuolo. Ed io fremevo; ma potevo commetter la
viltà di dire che non era mio? E non ero che al principio delle mie
tribolazioni.

Lo scellerato, nell'ultimo tratto di via Venti Settembre, durante una
breve fermata, si mise a compitare a voce alta l'annunzio del _Cacao
Talmone_ dipinto sopra un altro tranvai pure fermo, insistendo con
malizia perfida sulle due prime sillabe, tanto che m'attirò addosso
dai vicini delle occhiate severe. — Vergogna —, gli dissi piano; ed
egli mi rispose forte: — Vergogna a te — fraternamente. Poi, sul corso
Vittorio Emanuele, essendo salito accanto a me un vecchio signore
col gozzo, egli credette opportuno di darne la notizia al pubblico,
dicendomi nell'orecchio, ma a voce spiegata: — _A l'a 'l gavass!_ —
Feroce mascalzone! Avevo il prurito alle mani; ma come si fa? dovevo
frenarmi e inghiottire il disonore di padre putativo, contentandomi
di fargli degli occhiacci, di cui si rideva: ero in sua balìa, e lo
capiva. E me ne fece ancor una in via Nizza, dove, vedendo salire una
donna incinta, esclamò con una intonazione prolungata di stupore: —
_O che pansa grossa!_ — E questa volta vidi correre per le panche un
fremito d'indignazione contro di me, e la donna stessa disse: — _Bela
educassion!_ — guardandomi in faccia. Non ci reggevo più. Fu una vera
liberazione quando potei gridar _alt_ davanti al numero sedici di via
Berthollet e rimettere il marmocchio al fattorino, dicendogli in cuor
mio: — Va, piccolo carnefice, e mi colga il malanno se accetterò ancora
la tutela d'un malfattore par tuo neanche per un tragitto di trenta
passi!

                                   *

Su quella stessa linea, correndola in direzione opposta, rividi due
giorni dopo donna Chisciottina, col suo bimbo inseparabile. Me li
trovai seduti davanti sulla giardiniera, e stando voltato un po' di
fianco, con l'aria di leggere le insegne fuggenti delle botteghe,
potei sentire gran parte d'un discorso accalorato ch'essa faceva
a un'altra signora; la quale l'ascoltava sorridendo, più attratta
dall'originalità, a quanto mi parve, che dal soggetto della sua
eloquenza. Aveva i capelli un po' scomposti, come sempre, e macchiato
d'inchiostro un dito della mano con cui gestiva, come una scolaretta
arruffona; e diceva, diceva, con la sua calda voce di contralto,
sgranando gli occhioni e enfiando il collo. — Disgrazie su disgrazie,
vede. La figliuola, figliuola unica, ch'era già malaticcia, peggiorò,
e dopo quel colpo non s'è più riavuta. Io le mandai il dottor
Rizzetti. Si figuri che ogni notte sognava la disgrazia e si svegliava
spaventata, gridando. E poi la paura che le mettessero il padre in
prigione e che perdesse il posto; una tristezza da morire, s'immagini;
una ragazza senza madre, poveretta, tutto il giorno in casa sola....
Io lo andai a raccomandare alla direzione; ma già non c'era pericolo
perchè non ci aveva avuto colpa. Lui però non è più quello di prima.
Da principio s'era dato a bere, per stordirsi, si capisce. S'è fatto
torvo, un po' strambo, con certe idee fisse, e parla più poco. Fa
compassione a sentirlo, creda, quando dice quel che prova a ripassar di
là, che rivede tutto, tutto, e gli prende il convulso ogni volta che un
bimbo attraversa la strada....

Ebbi un barlume, a quel punto, che il suo discorso si riferisse a
una persona e a un fatto che m'eran noti. Le parole che aggiunse me
n'accertarono.

— No, proprio, non c'ebbe colpa. Bisogna sentirlo ripetere dieci volte,
col pianto nella gola: — Giuro per l'anima della mia povera madre che
non l'ho visto passare! — Chi dice quello a quel modo dice la verità.
Se vedesse quella povera casa! La ragazza a letto, in quello stato; lui
seduto davanti a un pezzo di polenta che non può mandar giù; e sempre
quel povero morticino in mezzo a loro due, tutto in sangue, e quel
grido, quel grido che sentono sempre! Ma ora almeno ha smesso di bere,
tante glie n'ho dette. Dicono: chi ha preso quel vizio, è inutile di
ragionarlo. Ma è perchè non ne han voglia. Ma quando io gli dissi: —
Vedete, se diventate un briacone, diranno che lo siete sempre stato, e
che è per questo appunto, per vostra colpa, che la disgrazia è seguita
— questa ragione gli fece senso. E poi gli dissi: — Non voglio! Capite?
Ve lo proibisco in nome della vostra povera moglie morta, e della
vostra figliuola malata, che m'ha posto affetto come a una mamma! —
Pover uomo, si mise a piangere e mi baciò le mani. Ah, quel che può
fare una donna, quando ha un'anima! Ma io non posso esser da per tutto
e far tutto....

E mentre diceva questo con quella voce calda e violenta e con quel
gesto vibrante che faceva sorridere la sua amica, s'indovinavano in
lei dei tesori d'amore ardente, la forza contro il dolore, il coraggio
contro la morte, un disprezzo profondo delle false convenienze sociali,
una semplicità virginea dell'animo e un vigore di fibra virile, e sul
suo piccolo viso bruno e irregolare appariva una bellezza fuggente,
come a bagliori, ma d'una forza di seduzione indefinibile, altera a un
tempo e dolcissima, cento volte più seducente che la bellezza composta
d'un viso bello davvero.

— Ecco dov'è accaduta la disgrazia — disse, quando il tranvai,
attraversata la via Santa Teresa, s'inoltrò nel nuovo tratto di via
Venti Settembre, e, dette quelle parole, si strinse al petto il suo
bambino, coprendogli il capo con le mani, come per difenderlo da un
pericolo. Si riscosse un momento dopo ed esclamò vivamente, toccando
l'amica col gomito: — Eccolo là!

Ci veniva incontro un'altra giardiniera, sulla quale riconobbi al primo
sguardo il cocchiere dai capelli grigi, che avevo visto passar fra le
guardie in mezzo alla folla, la mattina della disgrazia. Egli passò
col viso accigliato, con gli occhi fissi davanti a sè, senza veder la
signora.

— Si volti indietro —, disse questa all'amica — e stia attenta. Vedrà
che passando in quel punto si fa il segno della croce. Dice che se lo
fa sempre dopo quel giorno.

Tutt'e due si voltarono, mi voltai anch'io, e benchè il tranvai fosse
già distante un cinquanta passi, vidi benissimo l'atto del cocchiere,
che si segnò.

— Ha veduto? — domandò la signora all'amica. — Ha veduto?

E disse queste parole con un tale accento che non mi maravigliai di
vederla nello stesso tempo premersi un dito nel cavo dell'occhio come
per arrestarvi una lacrima. E compresi: era una lacrima di contentezza:
se quegli avesse continuato a bere, non avrebbe fatto quell'atto; non
beveva dunque più; essa aveva vinto! — A me balenò un altro pensiero: —
S'è forse segnato appunto perchè ha bevuto. — Ma subito mi rimproverai
di quel pensiero. — Perchè non credere al bene? Credici, poichè anche
il crederci è bene; credici tu pure. — E al vedere il bel sorriso,
quasi di compiacenza materna, che brillava negli occhi umidi della
signora, mi suonò in mente la dolce esclamazione del Fogazzaro: — Sì, è
bella l'anima umana!

                                   *

Il “bel maggio„ mi fece rivedere anche il mio giovane pittore,
sull'ultimo tratto della linea di Borgo San Secondo, proprio nell'ora
della mattina in cui quel tranvai porta una raccolta tutta sua propria
di passeggieri: monache, medici, impiegati del Magistero dell'ordine
Mauriziano, e parenti e amici di malati, diretti al grande Ospedale,
con pacchi, involti di biancheria, frutti e libri fra le mani, alcuni
col viso sereno, i più tristi, tutti pensierosi. Nel punto che il
tranvai usciva dall'abitato in mezzo ai prati verdi, in faccia al
Monviso quasi svanito nell'azzurro del cielo, salì il bel giovanotto,
roseo e fresco, che pareva il mese di maggio in persona, e col piede
ancora sul montatoio mi accennò allegramente che n'aveva una curiosa da
raccontarmi. No, non della signora delle coincidenze, che era ancora
un mistero per lui, benchè credesse d'aver trovato certe tracce...;
un altra, un caso amenissimo, destinato alla rubrica della _gelosia
coniugale in tranvai_, visto da lui stesso. Si trattava d'una signora
maturotta, la quale, salita sopra una giardiniera nel corso Cairoli,
dalla parte di dietro, senz'esser vista dai passeggieri che stavan
davanti, aveva scoperto sulla prima panca la schiena di suo marito,
seduto accanto a una loro giovane amica, e stretto con questa in una
conversazione fitta e viva, accompagnata da quelle mosse del capo,
da quegli atteggiamenti adoratorii, da quella continuità e intensità
d'attenzione sorridente, che non lascian dubbi sulla natura della
relazione fra un uomo e una donna. Per veder meglio il fatto suo, la
signora s'era messa in piedi sulla piattaforma, e da quell'osservatorio
era stata un pezzo a contemplare con gli occhi dardeggianti e col viso
livido il profilo amoroso del suo coniuge, bevente le parole amate,
anzi i due profili, che parevan di due colombi che si beccassero, non
perdendo un lampo dei loro occhi, non un guizzo delle loro labbra; e
il mio amico era rimasto in osservazione di tutti e tre, aspettando
la scenetta che poi avvenne. Alla prima fermata del tranvai, vicino
al ponte di ferro, la signora era discesa come una freccia dalla
piattaforma di dietro e salita come uno spettro su quella davanti,
proprio in faccia al marito e all'amica.... Ah quel marito! Che
mutamento di frontespizio! Una vera trasformazione dei connotati,
a vista, come suol dirsi, e l'amica _idem:_ due facce di defunti; e
il colmo del comico era stato questo che, separandosi lui e lei per
istinto come un corpo spaccato in due, la moglie s'era seduta d'un
colpo in mezzo a loro, facendo una riverenza ad entrambi per salvare
le apparenze, ma con due occhi che parevan due tizzoni d'inferno....
Ah no, il tranvai non era un nido d'amore da consigliarsi per i mariti
infedeli.

Gli domandai, a quel proposito, a che punto fossero le sue ricerche
matrimoniali sulla rete tranviaria. Con mio stupore, lo vidi arrossire
un poco, e scrollare una spalla, come se gli avessi rammentato una
sciocchezza di cui si vergognava, e che non avrei dovuto prender sul
serio. Rimase pensieroso, però, qualche momento; e poi cambiò discorso
ad un tratto, domandandomi: — Che cosa pensa lei delle studentesse?

Non capii la domanda. — Di quali? — domandai alla mia volta.

Ma mi accorsi subito che m'aveva fatto quella domanda non per sentire
il mio parere, ma per dirmi il suo, e me lo disse con l'accento di
chi desidera di non esser contraddetto, con un calore e un'abbondanza
di parole insolita in lui. Mi disse che a lui quello che si diceva
della sconvenienza di mandar le ragazze ai licei e alle Università
pareva un pregiudizio ridicolo; che era stupido il parlar di pericoli
e d'influssi immorali, poichè soltanto le civette nate li correvano
e li subivano, e che anzi portavano esse appunto gli uni e le altre
fra i maschi; che le ragazze veramente oneste e serie si facevano
rispettare, non solo, ma esercitavano un influsso buono sui giovani, e
che ne poteva citar degli esempi; che la virtù vera e solida non era
quella che si fonda sull'ignoranza delle brutture umane, ma quella
che vien dall'orrore che si risente conoscendole, e che in ogni caso
il velo dell'ignoranza lo squarciavano alle ragazze le conversazioni
che udivano ogni giorno e i romanzi e il teatro e i balli e i
giornali, assai prima che arrivassero ai loro orecchi le volgarità dei
condiscepoli volgari, e che in tutti i modi.... e che insomma.... e che
quand'anche....

Ma vedendo che lo guardavo con maraviglia, arrossì da capo, e saltò in
un altro discorso, domandandomi se avessi più visto la _Chisciottina_.

Gli raccontai il fatto, ed egli me ne disse un altro, che aveva saputo
da un amico un mese addietro. Un giorno, sul tranvai, avendo visto
un ragazzino del popolo che meditava sul disegno pornografico d'una
scatola di fiammiferi, la signora gli aveva comprato la scatola con
quattro soldi e l'aveva buttata sulla strada; e alcuni passeggieri
intorno essendosi messi a ridere come d'una stravaganza, lei,
indignata, gli aveva rimbeccati con un epiteto, come dire? un epiteto
non proprio da signora riguardosa, ma da donna sincera....

Nel dir questo, mentre il tranvai entrava nel viale di Stupinigi,
rompendo in due una festosa brigata di signori e di signore in
bicicletta, egli si dondolava sul montatoio, con un piede per aria,
pronto a discendere, e mi sorrideva; ma c'era sotto quel sorriso, su
quel bel viso roseo, come l'ombra d'un pensiero nascosto, d'un leggiero
turbamento, non momentaneo, ma consueto; un'ombra leggerissima, la
quale mi fece sospettare ch'egli avesse già incontrato sulla rete
d'una delle due Società quello a cui voleva far credere di non aver più
pensato.

                                   *

E “maggio, bel maggio„ rideva pure ai miei due piccoli sposi di borgo
San Donato, che un dopo pranzo di domenica, andando al Pallone, rividi
sul tranvai pieno zeppo della barriera di Casale, seduti sulla prima
panca; lei con un cappellino guernito di fiori rossi, che pareva nuovo
fiammante, e un ombrellino lilla; lui con un cappello di paglia gialla,
fasciato d'un nastro azzurro, che doveva esser fresco di bottega.
Quello sfoggio straordinario mi fece pensare che fosse toccata loro
una piccola fortuna, una eredità di qualche biglietto da cento, o
una “gratificazione„ inaspettata al marito, più probabilmente, e che
andassero a festeggiarla con un modesto desinare in qualche modesta
trattoria fuor di porta. Che fossero in uno stato d'animo insolito
lo dimostrava il fatto che lui, sempre così timido e riserbato,
tenesse un braccio disteso sulla spalliera attorno alle spalle di
sua moglie, la quale piegava un po' il capo dalla parte sua. E nel
guardar quell'atto, ch'egli faceva, di stringersi al cuore e quasi di
difendere quella sua povera sposa, che nessuno si sarebbe mai sognato
d'insidiargli, quell'atto che pareva dire: — Vedete, questa poveretta
che a nessuno piace e che nessuno guarda è il mio amore, il mio tesoro,
la mia vita, — mi commosse questa idea: che a pigliarsi una libertà
simile egli era stato forse incoraggiato dal pensiero umile e triste
che una dimostrazione d'affetto fra due povere creature come loro non
avrebbe attirato l'attenzione d'alcuno, non sarebbe forse nemmen parsa
una dimostrazione d'amore. Ma da queste considerazioni mi stornò un
accidente strano, che non avevo mai visto sul tranvai. Disputavano da
un poco, a voce bassa, ma in tuono aspro, due coniugi sulla quarantina,
vestiti con decenza, seduti sur una delle panche di mezzo. Tutt'a un
tratto il marito mise un braccio dietro la spalliera e picchiò un pugno
nella schiena di sua moglie, sonoro come un colpo di tamburo. Tutti si
voltarono, si levò un mormorìo di sdegno; ma la moglie non rifiatando,
lisciandosi la barba il marito, immobili e tranquilli tutt'e due come
se nulla fosse stato, tacque il mormorìo, e allo sdegno succedette
nei passeggieri una stupefazione comica di quel pugno improvviso e
solitario, che aveva troncato così di netto il diverbio, con apparente
consenso della picchiata, come un segnale che fosse stato convenuto
fra la coppia per rimettersi d'accordo nei momenti critici. E non ci
fu altro. A guardar quella scena s'eran voltati tutti fuor che i due
sposi; i quali non si mossero dal loro atteggiamento fino all'arrivo
alla barriera. Qui, prima che il tranvai si fermasse, la sposa s'alzò,
e vedendola così ritta di fianco, riconobbi nella sua persona gracile
quella curva leggiera che è il primo indizio visibile d'una nuova vita
umana. Allora compresi; compresi il perchè dello sfoggio insolito e del
desinare fuor di porta e del braccio appoggiato sulla spalliera in atto
di protezione amorosa! I fiori rossi, l'ombrellino lilla, la cappellina
nuova e l'atto carezzevole erano per _lui_; per _lui_ essi andavano
a fare il rialto in campagna; per _lui_ erano il lusso e la festa. E
se non me l'avesse detto la curva, me l'avrebbe fatto pensare l'atto
di premura e di rispetto gentile con cui il giovane, disceso prima,
tese le due mani per aiutar lei a discendere, come se già scendessero
in due. Mi fermai a guardarli mentre s'allontanavano, stretti l'uno
all'altro, nel polverìo dello stradone. Poveri e buoni figliuoli! Se
avessi avuto la lanterna miracolosa di Aladino avrei trasformato la
loro trattoria in un palazzo e fatto cadere sulla loro povera mensa una
pioggia di fiori e di diamanti.

                                   *

Ma il “bel maggio„ non rideva per la povera vecchietta di Pozzo
di Strada. Mi bastò uno sguardo, la mattina che la vidi ritta in
fondo al tranvai di via Garibaldi, con accanto il suo sacco solito
e gli occhi fissi nel vuoto, per capire che non aveva ancora avuto
notizie del suo _Giacolin_, ch'ella si torturava ancora il cervello
e il cuore raffigurandoselo a volta a volta prigioniero, morto,
mutilato, famelico, errante come una belva di tana in tana per la
terra misteriosa, di cui non le era nota altra cosa fuor del nome
maledetto. Erano i giorni che si faceva la questua a benefizio dei
feriti e dei prigionieri d'Africa. Dei giovani signori, con una scritta
sul cappello, salivano a raccoglier danaro sui tranvai, porgendo un
bossolo di latta. A metà di via Garibaldi salì sul nostro un giovanotto
elegante, che pareva uno studente, e passò di panca in panca, lungo
i due lati, tenendosi sul predellino. Giusto, ecco uno dei tanti
vantaggi che offre la carrozza di tutti: chi osa rifiutare un soldo
per beneficenza lì sotto gli occhi della gente? Pochi. Vidi però tra
questi pochi dei signori. Seguitai con lo sguardo il raccoglitore
fin che arrivò accanto a me sulla piattaforma. Quando egli mise il
bossolo davanti alla vecchia, questa non capì, e lo guardò con quanta
maraviglia poteva ancora manifestare il suo viso quasi pietrificato
nell'espressione d'un pensiero unico. — Per i prigionieri e i feriti
d'Africa! — disse il giovane in dialetto, spiccicando le sillabe.
A quelle parole si fece sul viso di lei come un chiarore vago di
crepuscolo, e i suoi occhi socchiusi s'apersero. Lessi in quello
sguardo il suo pensiero: dar qualche cosa era come fare atto di fede
nella sopravvivenza del suo figliuolo, era quasi un comprarsi un po'
d'illusione ch'egli potesse ancora ricevere un benefizio. Frugò in
una tasca del grembiule, tirò fuori un soldo, ma lo ripose: le pareva
poco: cavò una moneta di nichel — il suo pane d'un giorno, forse, o
il vino che la teneva ritta per due, — e con l'atto d'una divota che
fa l'offerta al santo a cui chiede una grazia, guardando il giovinotto
con un'espressione triste di simpatia e quasi di gratitudine, come se
proprio lui avesse dovuto portare al suo figliuolo il suo obolo, mise
la moneta nel bossolo, trattenendovi su un momento la mano corta e
rugosa, che tremolava; poi rifece il viso di prima, immobile e chiuso,
con lo sguardo fisso lontano sulla visione di sangue e d'orrore che da
sei mesi la torturava. Un passeggiere accanto a lei rifiutò bruscamente
l'oblazione, dicendo forte al raccoglitore: — No, perchè son certo che
ai prigionieri non ci arriva neanche un soldo! — Ah, barbaro, se anche
il sospetto orribile fosse stato verità! Ma per fortuna passava il
tranvai in quel punto davanti alla chiesa di San Dalmazzo, e la povera
vecchia, voltandosi per farsi il segno della croce, non sentì.

                                   *

Ah, quante miserie, anche nel “bel maggio„ porta la carrozza di tutti!
Non ne potevo immaginare una così triste come quella che scopersi
la sera dopo in quel povero fattorino spersonito, che si chinò
cortesemente a raccogliere lo scontrino cadutomi dì mano, sull'ultimo
tranvai della linea di San Secondo, dove ero solo passeggiere. Nel
ringraziarlo, lo guardai in viso, e vedendolo pallido, con un'aria
spaurita, e parendomi che gli tremassero le mani, gli domandai se
era malato. Rispose che non era; ma che era stato; e lì per lì non
volle dir altro; ma pareva non aspettasse che una parola benevola, che
gl'inspirasse fiducia, per dir di più, per dare all'animo uno sfogo di
cui aveva bisogno. Gliela dissi: non ebbe effetto subito; insistetti,
e allora parlò; parlò con una voce accorata e tremante, nella quale
si sentiva una profonda sincerità. Mesi addietro, sopra un tranvai di
quella stessa linea, tre sconosciuti presi dal vino, irritati d'una
modesta osservazione fatta da lui per una quistione di scontrini, gli
avevan menato al capo una bastonata terribile, che l'aveva mandato per
un mese all'ospedale. Quei tre eran stati riconosciuti; la direzione
della Società aveva mosso contro di loro una causa penale, chiedendo
a vantaggio di lui un risarcimento di danni, e la causa era in corso;
ma questo appunto lo angustiava. Egli avrebbe voluto che si desistesse
dal procedimento perchè temeva una vendetta, e il suo timore, eccitato
a poco a poco dal lavorìo continuo dell'immaginazione, era diventato un
vero terrore. — Capirà — mi disse — noi siamo esposti giorno e notte.
A fare un colpo.... è un momento. E se me lo fanno? E se mi rendono
inabile al servizio? Io ho moglie e una bambina; una moglie così buona,
una bambina che mi vuol già tanto bene....

La sua voce si strozzò; mi fece pietà; cercai di rassicurarlo. Ma
fu inutile. Riconosceva giuste le mie ragioni, ma rispondeva: — Sono
indebolito, non son più io; che cosa vuole? Ho paura. Di giorno, tanto
va; ma quando vien sera, quando vedo accendere i lumi, mi comincia a
pigliar l'affanno, a tremare il sangue addosso.... Che cosa serve? Non
son più io, le dico, sono indebolito. Ho passato tante notti senza
dormire, ho sofferto tanti dolori alla testa, che farneticavo per
delle ore, e poi son stato un pezzo in convalescenza, a mezza paga,
e quante sere sono andato a letto digiuno per lasciar da mangiare
alla mia bambina! Eppure.... non li avevo mica offesi, una semplice
osservazione.... Io son rispettoso con tutti.... Lei potrebbe vedere:
tutti i passeggieri che mi conoscono mi salutano, mi vogliono bene....
Ma! Così son ridotto. — E ripeteva come un ritornello doloroso, che gli
fosse confitto nel cervello: — Fin che è giorno, meno male; ma la sera,
quando vedo accendere i lumi....

E ciò dicendo guardava qua e là, all'imboccatura delle strade buie,
come per vedere se ci fosse gente appostata, e tornava a ripetere: —
Sono indebolito.... Ho perso molto sangue....

E mi fece anche più pietà poco dopo, quando lo vidi chiedere i soldi ad
alcuni passeggieri con una cortesia umile e quasi peritosa, come se in
ogni persona egli vedesse un nemico che gli bisognasse ammansire, un
difensore che gli convenisse d'assicurarsi. Povero ragazzo! E pensavo
a chi sa quanti, per il ritardo d'un secondo a far fermare il tranvai
o per una parola d'osservazione sopra un soldo sospetto, l'avrebbero
quella sera stessa trattato d'infingardo o di villano e minacciato
d'un ricorso alla direzione. Ah quante piccole inique crudeltà,
quante piccole ingiustizie spietate si commettono continuamente, senza
saperlo.

                                   *

E quante ingiustizie anche di puro pensiero! Trovo notato agli ultimi
di maggio: _il briaco_, e ricordo un quadro, da cui si potrebbe cavare
una forte scena di commedia satirica: un carrozzone chiuso della linea
dei Viali, nel quale, in mezzo a una corona di signori e di signore
eleganti, siede, piegato in due come un sacco mal ripieno, un uomo
sconciamente briaco, a cui cascano i capelli grigi sulla fronte nera
di carbone e pende dalla bocca bavosa un mozzicone di pipa spenta che
gli piove cenere sulla giacchetta unta e strappata. Egli guardava
i vicini con un sorriso d'ebete, soffregandosi le ginocchia con le
mani nere e dondolando il capo da una parte, come se meditasse parole
di scherno che non poteva più dire, e negli occhi socchiusi che ora
brillavano ora si spegnevano mostrava a vicenda la coscienza triste
del suo abbrutimento e un senso di acre dispetto per il ribrezzo
che s'accorgeva di destare. Ribrezzo, infatti, e nausea e sdegno
esprimevano i visi dei passeggieri costretti a respirare il lezzo di
quell'alito e di quei cenci obbrobriosi; e fra quei visi c'era quello
d'un signore sconosciuto, che mi conosceva; il quale, fissando me dopo
aver guardato quell'uomo, mi disse chiaramente con l'espressione del
suo sorriso: — Son questi che lei vuole portar su?

— Ebbene, sì, — gli avrei voluto rispondere. — Sono questi; questi
prima degli altri, certamente. Ah lei s'inganna se crede che
l'abbrutimento di costui sia vergognoso per lui soltanto. O come
accade che nessuno di noi non si mostra mai in quello stato se non
perchè sulla china che vi conduce siamo arrestati da cento ritegni
dell'intelligenza, della coscienza, dell'educazione, della compagnia,
che non son merito nostro, ma che furono messi in noi, o fra i quali
siam nati, e che quest'altra gente non trova intorno a sè nè in sè
stessa? E che cosa facciamo noi per mettere in loro questi ritegni? E
che mai di bello e di nobile e d'accessibile a tutti mettiamo noi fra
loro e la taverna, che li attragga e li svii? E siamo ben sicuri di non
dar loro che dei buoni esempi?

Il mio soliloquio fu interrotto a Porta Palazzo da una comitiva
chiassosa di signori che salirono alla rinfusa sulle due piattaforme,
e che, ripartito il tranvai, continuarono a chiacchierare e a ridere
rumorosamente, apostrofandosi da una parte all'altra, per gli usci
aperti, con appellativi comici e gesti burleschi. Venivano dalla
stazione di Lanzo, erano andati a fare una ribotta in qualche paese
vicino, alla quale alludevano, scherzando su certi piatti riusciti
male; avevano il viso acceso, la voce piena e vibrante, la parola
ardita e pronta di chi ha trincato del vino generoso; eran tutti a
cavallo del confine che separa l'ebbrezza decente dall'ubbriacatura
volgare, in quello stato in cui certi oscuramenti improvvisi
dell'intelligenza e certi impedimenti istantanei dell'organo della
parola si dissimulano ancora con felice accortezza; e da certi
accenni che si ripetevano in mezzo a quel guazzabuglio di voci, si
capiva che la giornata non era finita, ch'essi vedevano davanti a
sè, all'orizzonte, un'altra serie di libazioni, il _quelque chose au
de là_ consigliato dal Brillat-Savarin per far più vivo il piacere
dei banchetti. Ed eran così riboccanti di vita e di buon umore che i
signori e le signore del tranvai li guardavano con manifesta simpatia
e ridevano dei loro gesti e dei loro motti; alcuni dei quali, un
po' liberi, provocavano delle smorfiette graziose di scandalo, ma
accompagnate da un sorriso di benigna indulgenza.

— Eppure, — pensavo guardandoli, — hanno troppo bevuto anche questi,
che avrebbero potuto ricrearsi in tanti altri modi più degni. Se non
sono briachi affatto come l'altro non è perchè abbiano bevuto meno, ma
perchè hanno bevuto meglio. Se son più puliti di lui, è perchè fanno
un lavoro più pulito del suo. Se non cascan dal sonno come quello,
è perchè hanno meno faticato ieri e dormito di più questa notte. In
realtà, se si tien conto delle condizioni diverse, essi rappresentano
un'intemperanza non meno volgare, forse più colpevole di quella
del briaco, e certo d'esempio più pericoloso. E perchè dunque essi
sono scusati e paiono amabili, e non ci son scuse per l'altro, e il
ribrezzo che desta costui non è accompagnato almeno da un sentimento di
commiserazione?

A un certo punto il briaco attirò l'attenzione d'uno della brigata, il
quale lo accennò agli altri, e tutti si misero a guardarlo, che già
dormiva, facendogli addosso un fuoco di fila di frizzi e di risate.
Buon Dio! Erano delle bottiglie da due lire che beffeggiavano un litro
da otto soldi.

E anche dentro al carrozzone tutti ridevano.

Non tutti. Una signorina bionda, giovanissima, seduta in un angolo,
restava seria e guardava quell'ubbriaco con un'espressione di tristezza
e di pietà, corrugando la fronte ad ogni scherzo degli spettatori come
per una sensazione penosa. Quanto mi parve bella! Il Parini avrebbe
rifatto per lei il suo famoso verso, le avrebbe detto: — _Tu sei giusta
ed umana!_

                                   *

Quel viso è notato con altri, fra i miei ricordi di maggio, nella
colonna delle “simpatie di tranvai„ che in quel mese furono molte,
forse per l'influsso della dolce stagione, che rischiara e addolcisce
gli animi. Simpatie di tranvai! Forse che son di natura diversa
dall'altre? No certo; ma da quelle che c'inspira la gente incontrata
per via si distinguono in questo: che c'entrano più addentro e ci
rimangon più a lungo perchè nella carrozza di tutti c'è maggior tempo
a osservare i visi e s'aggiunge spesso all'effetto di questi quello
del suono delle voci. Quanti ne ricordo, solo ch'io mi raccolga un
poco: visi veduti in pieno, di profilo, a traverso ai vetri, accesi
dai riflessi colorati dei fanaletti, incorniciati nel vano degli
usci, appoggiati alle colonnine delle giardiniere, spiccanti sul
verde degli alberi, disegnati sulle acque lucenti del Po, osservati
per pochi minuti e scomparsi forse per sempre; visi di ragazze, di
operai, di signore, di giovanetti, di vecchi, di mamme, esprimenti
una santa rassegnazione al dolore, anime benevole e serene, spiriti
forti e generosi pronti a ogni sacrifizio pel bene altrui, cuori
ardenti d'ambizioni nobili e di nobili speranze, vite oscuramente
operose e benefiche; visi, di cui il primo effetto simpatico mi fu
affermato e accresciuto da uno sguardo, da un sorriso, da una parola,
da un'espressione fugace degli occhi. Come in una cascata di ghiaia
grigia si vedono brillare dei punti luminosi come diamanti, così nella
moltitudine indifferente che vi passa davanti in quelle scarrozzate
quotidiane si vedono balenare a quando a quando, certi giorni più e
certi giorni meno, di questi aspetti umani consolanti, a cui si ripensa
con amore e che si rivedono con piacere, che non si conosceranno mai
e si ricorderanno sempre; sembianze d'amici della fantasia, che noi
salutiamo con un barlume di sorriso e che ci rendono il saluto con un
bagliore dello sguardo, immagini senza nome, raggi d'anime passanti,
argomenti personificati d'una dolce filosofia, che vi tengon vivi
nel cuore la fede nel bene e l'amore per i propri simili. Quanti
ne ricordo, in forma di medaglioni, di busti o di statue, secondo
l'atteggiamento in cui mi s'offrirono, con lo scontrino fra le labbra,
col portamonete fra le mani, col braccio teso verso il campanello,
veduti una volta sola, riveduti cento volte, intravvisti nell'incontro
di due carrozzoni, fuggenti su tutte le linee; ma tutti raggruppati
in disparte nella mia memoria come un'umanità privilegiata, come una
Torino ideale! E nei momenti di sconforto della vita e d'odio del mondo
i cari fantasmi mi s'affollano intorno, dicendomi: — E noi? E noi,
dunque? Perchè ci dimentichi? Tu sei ingiusto! — E grazie a loro mi
riconcilio col prossimo, e anche nei giorni grigi e freddi dell'inverno
risento l'alito della primavera, l'influsso del “bel maggio amor dei
fiori„ che raddolcisce il sangue e rischiara l'anima.

                                   *

E il “bel maggio„ si chiuse con un caso amenissimo, degno d'un sonetto
del Belli. Immaginatevi una giardiniera domenicale, corrente alla
luce del sole sul corso Regina Margherita, affollata di signori e di
signore in ghingheri, fra cui luccicano cappelli cilindrici, fluiscono
barbe gravi, nereggiano cappelli di preti e scintilla il chepì dorato
d'un colonnello d'artiglieria: una carrozzata di borghesia silenziosa
e seria, che par che vada a una cerimonia solenne, scortata da una
guardia municipale in grande uniforme, ritta accanto al cocchiere.
Un'altra giardiniera, sul binario accanto, le viene incontro di
corsa, stipata essa pure di gente per bene, con la sua brava guardia
impalata sulla piattaforma davanti, con sette schiere di facce
dignitose di benestanti, di madri severe, di signorine composte.
Ebbene, accadde questo. Nel momento che le due giardiniere passavano
accanto l'una all'altra, un giovinotto, seduto sul davanti di quella
dov'ero io, e una ragazza, seduta sul davanti dell'altra (due amanti,
come poi si capì, che s'incontravano per caso, forse dopo una lunga
separazione forzata) si riconobbero al primo sguardo, e scattando
come due molle, con le braccia tese verso i cocchieri, lanciarono
insieme due grida di gioia frenetica: — Alt! — Ferma! — I carrozzoni
si fermarono alla distanza di dieci passi l'un dall'altro, i due
giovani si precipitarono a terra, divorarono lo spazio frapposto e si
abbracciarono furiosamente, scambiandosi quattro baci risonanti come
colpi di carabina ad aria compressa. E dall'alto delle due giardiniere,
lasciate ferme un momento dai due cocchieri stupefatti, come dall'alto
di due tribune di spettacolo, borghesi gravi, mamme severe, signorine
composte, e ministri della chiesa e ufficiali del regio esercito e
rappresentanti armati del municipio.... stettero a vedere. Curiosa
situazione! Appena i due tranvai ripartirono, un signore grasso e
maestoso, ch'era vicino a me, espresse con parole risentite il pensiero
comune, scrollando il capo dignitosamente: — Abbiamo fatto una bella
figura! —

Eh sì, proprio, da cantori di maggio.



CAPITOLO SESTO.


                                                              Giugno.

Gran cosa la carrozza di tutti! Col sopraggiungere del caldo, che fa
star molta gente a capo scoperto, mi si schiuse sul tranvai un nuovo
campo di studio: quello delle teste; poichè dove mai, come sulle
giardiniere, potete aver per un pezzo sotto gli occhi, così da vicino,
in così piena luce, e, se ci state seduti di dietro, osservabili a così
bell'agio, le teste dei vostri simili? Teste che, vedute di passata
per la strada, vi appariscono ancora in buon stato, vi mostrano qui
mille miserie. Radure, spiazzate, tentativi supremi di divise, che non
son più sentieri fra l'erba fitta, ma stradoni in rovina a traverso a
sodaglie desolate; liste di capelli ricondotti dalla nuca sull'occipite
e fino alla fronte, in forma di salici piangenti sulla tomba del
cervello; parrucche mal messe, che una brusca scappellata volta di
sbieco, rivelandovi che la testa d'un tale non è tutta roba sua; tutte
le più compassionevoli industrie senili intese a mascherare i guasti
del tempo dalle orecchie in su vi si palesano sulle giardiniere. E qui
scoprite le pennellature grossolane dei _Luca fa presto_, che lasciano
i capelli bianchi alla radice, le capigliature tinte a prezzo ridotto,
d'un nero lugubre, che danno ai visi vizzi a cui fan cornice l'aspetto
di lettere mortuarie, e le chiome e le barbe variate di molti vaghi
colori, che paiono state strofinate sopra una tavolozza. O tinti, il
tranvai è traditore, guardatevene. Che c'è di più pietoso e di più
comico insieme che il veder salire a stento, ansando, afferrandosi
alle colonnine con le mani tremanti e ricascar di peso sulla panca,
spossato dallo sforzo, un uomo con la barba e la capigliatura corvina
d'un ventenne? Oh quante vecchiaie ribelli alla natura! Quant'è rara la
gente che sa invecchiare in santa pace! E scopersi anche il segreto di
alcuni personaggi noti, miei fieri avversari, pitturatori abilissimi,
di cui nessuno sospetta l'inganno. Potrei fare più d'una vendetta
politica. Non la farò. Ma non per generosità, lo confesso. Soltanto per
rispetto dell'arte mia non denuncierò.... l'arte loro.

                                   *

Intrapresi pure col principiar di giugno uno studio sui cappellini,
attratto dalla varietà infinita che se ne vede fiorire sui tranvai
in quella stagione; studio che, in fondo, si riduce anch'esso a uno
studio delle teste. E così, alla lesta, feci una prima classificazione:
cappellini amorosi, cappellini superbi, cappellini austeri, matti,
buffi, impudichi, prepotenti, innocenti. Quasi tutti hanno un
linguaggio, sincero o falso, di cui i fiori sono le parole. Ci son
grandi rose erette ed aperte, che s'offrono; mazzi di viole e di
mughetti che attirano insidiosamente gli sguardi e i desideri dentro ai
capelli in cui si rimpiattano; accoppiamenti di fiori inconciliabili,
stridenti fra di loro, che danno l'immagine di menti strane e
disordinate; fiori troppo pomposi, rosseggianti petulantemente su
teste grigie, di cui tradiscono gli ardori mal sopiti; fiori modesti e
solitari, che esprimono il sentimento d'un affetto secreto e costante.
Tutte le passioni, tutte le illusioni, tutti i capricci di tutte le
età della donna si palesano in quella finta flora, in quelle infinite
combinazioni di penne, di nastri, di pizzi, di tulle, di frecce,
di frutti, di cose sottili, diafane, ondeggianti e tremolanti, che
paiono una vegetazione vivente che abbia radice nei cervelli. E quei
cappellini fanno fantasticare, vedere, sentir mille cose: piccole
e grandi spese di contrabbando, conti adulterati _ad usum mariti_,
sospiri dolorosi d'impiegati, baruffe coniugali, musonerie, concessioni
strappate con le carezze, economie gastronomiche da anacoreti,
lunghi lavori di raffazzonatura fatti in casa da manine pazienti
e industriose, interrotti da pianti di bimbi, da scampanellate dì
creditori, da ogni sorta di cure e di piccole miserie domestiche. Ma lì
sul tranvai tutto brilla, ride e dissimula. Scendono mazzi di rose e
di pensieri, salgono mazzi di papaveri e di peonie, s'incontrano e si
confondono ramoscelli d'edera e di geranio, mazzetti di ciliegie e di
fragole, fiori di tutte le stagioni, di giardino e di campo, sbocciati
e in bocciuolo, in ghirlande, in corone, in ciuffetti, diritti,
cascanti, intricati, ammontati, agitati come i pensieri che vi passan
sotto; cappellini alla marinara, alla Rembrandt, alla Trianon, alla
Rosa Syma, alla vattelapesca, ciascuno dei quali dice qualche cosa,
e forman fra tutti come un frastuono confuso e continuo di grida, di
mormorii e di sospiri: — Cerco un marito — Cerco un amante — Ho un
amante — Ammiratemi — Rispettatemi — Sperate — Disperate — Vi supplico
— Comando io! — Sono un angelo — Sono un diavolo — Sono un'infelice —
Seguitemi — Fatevi in là — Il mondo è mio — Non son nulla; guardatene
un'altra, vi prego.

                                   *

Dolci studi; ma troppo spesso interrotti da inconvenienti gravi, tutti
propri del tranvai. Alcuni di questi esperimentai io stesso in quei
primi giorni di giugno, altri imparai a temere vedendoli esperimentati
dal mio prossimo. Capitare in un carrozzone chiuso accanto a una
peccatrice così spietatamente profumata da uscirne con una spranghetta
al capo assicurata per ventiquattr'ore; trovarsi seduti in mezzo a
due amici sconosciuti che attaccano attraverso a voi una conversazione
vivacissima, incrociando sul vostro viso i loro aliti, le loro risate
e le loro asinerie; sentirsi passar sui calli tutta intera una di
quelle famiglie alla buona per cui i piedi altrui sono _res nullius_,
senz'averne neppure il leggiero conforto d'uno sbadato: _mi scusi_,
sono incerti sgradevoli. Ma è anche più sgradevole l'aver diritto
dietro alle spalle un fumatore che, spinto innanzi da un sobbalzo
della piattaforma, vi pianta nella nuca la punta d'un grosso Minghetti
infocato. Ma è ancor più doloroso lasciar la falda del soprabito nelle
mani d'una pingue bottegaia che, perdendo l'equilibrio nel discendere,
s'aggrappa a voi come a un albero sull'orlo d'un abisso. Ma c'è una
disgrazia anche peggiore di queste. Ne trovo segnata la data nei miei
appunti — _5 di giugno. Ore tre pomeridiane. Sulla giardiniera di via
Nizza. Preso alle spalle dal poeta._ — Non l'avevo visto salire: mi
sentii tutt'a un tratto la sua voce nell'orecchio: m'era seduto dietro,
la giardiniera era affollata, era impossibile sfuggirgli. Passò subito
alle vie di fatto. Era un sonetto arcipieno di _esse_, un ronzio di
zanzare intollerabile, un succedersi di sibili sottilissimi che mi
penetravano nel cervello, come se m'avesse agitato accanto al viso
un mazzo di serpentelli arrabbiati. Ai vicini che non sentivan le sue
parole doveva parere un amico offeso che mi rinfacciasse una serie di
cattive azioni, dì cui non mi potessi scolpare, o che mi raccontasse in
segreto qualche avventura sporca, che io assaporassi con raccoglimento.
Un supplizio vergognoso! Quella bocca implacabile che alla ripresa
d'ogni verso mi si avvicinava alla tempia mi metteva un brivido come la
bocca d'una pistola. _Breve e amplissimo carme!_ Chi lo disse? Quello
non era nè ampio nè breve: non finiva mai. E m'opprimeva un terrore:
— Se avesse la coda! — Non l'aveva; ma durò per la lunghezza di cinque
isolati, senza contare una variante su cui dovetti dare il mio parere.
Non fui libero che sulla piazzetta di San Salvario, dove l'aguzzino
discese, non sazio.

                                   *

La mia prima corsa piacevole di giugno fu la mattina del giorno dello
Statuto, in via Garibaldi, all'ora in cui la gente s'avvia verso piazza
Castello per la rivista delle truppe: una carrozzata di cittadini quale
non si può vedere che in quel giorno e a Torino: quasi tutti vecchi
militari giubilati, coi nastri stinti delle medaglie e delle croci
agli occhielli, con le scarpe come specchi, pettinati e sbarbati bene,
benignamente ilari e alteri, con l'aria di vecchi sposi celebranti
le nozze d'oro: tutte brave persone assestate e regolate che, se lo
Statuto fosse soppresso da vent'anni, continuerebbero a festeggiarlo lo
stesso a conto proprio, per forza di consuetudine, come festeggiano il
Natale i miscredenti. C'era al posto solito il cavaliere Bicchierino,
appartenente anch'egli, non per età, ma per spirito, a quell'antica
famiglia, pulito e lustro come un dado. Come gli altri egli volgeva
degli sguardi di compiacenza sui tranvai imbandierati, sulle uniformi
sgualcite dei veterani che passavano tra la folla, sulle bandiere
sventolanti alle finestre; aveva negli occhi un lume insolito; si
vedeva che l'anima sua respirava con placida voluttà patriottica le
memorie del 48, di Torino capitale, dell'“egemonia piemontese„ e il
soffio del conte Cavour e del generale Lamarmora ancora diffuso per
l'aria. Lo tenni d'occhio per vedere se, nonostante lo stato d'animo
straordinario, si ricordasse di confrontare il suo orologio, come
faceva ogni mattina, con l'orologio elettrico dell'angolo di via
Siccardi: se ne ricordò. Poi, incontrando il mio sguardo, egli si
offuscò leggermente: si dovette rammentare del giorno ch'io avevo
fatto quel certo strazio barbarico della _Gazzetta del popolo_. Avevo
appunto il foglio in mano in quel momento e stavo per conciarlo a quel
modo; ma, accorgendomi che m'osservava, mi ritenni, per suggezione,
per non rendermegli anche più odioso. Ed ecco come il tranvai può
perfezionare l'educazione d'una persona educata. A poca distanza dalla
piazza s'intese suonar la marcia reale da una banda musicale d'operai.
A quelle note tutti quei giubilati canuti si illuminarono e si scossero
come i vecchi cavalli delle poesie agli squilli delle trombe guerriere.
E allora mi sentii sbalzato dalla fantasia a trent'anni addietro.
Quei visi, quei nastri, quelle bandiere alle finestre, quei veterani
in divisa, quel vecchio Palazzo Madama che appariva in fondo, quel
cavalier Bicchierino con la _Gazzetta del popolo_ fra le mani, tutto
quel complesso di cose viste in quella via Garibaldi al suono di quella
marcia, era così piemontese, così torinese, così “ben conservato„ che
ebbi per un momento come un senso di ringiovanimento della coscienza,
un'illusione maravigliosa, il dubbio che l'anno corrente non fosse
il 1896, l'anno di Abba Garima, ma quello dei primi entusiasmi per il
_Consorzio nazionale_, quando avevo visto dei patriotti fanatici, in
quella stessa via, bruciare le cedole del Consolidato gridando: — Viva
l'Italia.

                                   *

La festa nazionale portò i forti calori e con questi un nuovo oggetto
d'osservazione sulla carrozza di tutti: un accrescimento generale
di irritabilità nelle relazioni dei passeggieri coi passeggieri, di
questi con gl'impiegati, e degl'impiegati fra di loro, una maggior
frequenza di malintesi, d'impazienze, di lagnanze e di battibecchi,
come segue fra gli uccelli in gabbia nelle giornate afose. Si vedeva
sui tranvai una agitazione quasi rabbiosa di ventagli, gente irrequieta
che si sventolava con le cappelline, coi fazzoletti e coi giornali,
senza “trovar posa„ sulle panche, facce infiammate e attonite, teste
ciondoloni sui petti: vere carrozzate di noia e di malumore. Povera
umanità! Qualche grado di più di calore e un po' di polvere per aria,
ed ecco tutti i visi mutati, violate le leggi della cortesia, ridotti
i cervelli come orologi guasti, e manifesti anche nella gente sana e
contenta i vaghi segni del contagio psichico che moltiplica le risse,
gl'impazzimenti e i suicidi! Come rimedio a questo male mi venne in
mente l'istituzione di spugnature pubbliche obbligatorie una mattina
che aspettavo la partenza del tranvai sotto le finestre di casa
mia, vedendo lavar la testa a _Faraone_ e a _Ballerina_, all'ombra
dei tigli. Uno spettacolo da far meditare, veramente. _Faraone_
fu il primo. Il cocchiere tuffava in un secchio una grossa spugna,
gliel'appoggiava al sommo della fronte arsa e sudante, e premeva; e al
sentir quei rivoletti che le scendevano per le mascelle, sul collo e
di mezzo agli occhi giù per il muso fin dentro alle nari e alla bocca,
biforcandosi e incrociandosi come le gore della pioggia per una china,
la povera bestia alzava e scrollava il capo, corsa per ogni fibra
da un brivido di piacere, e dilatava gli occhi e pestava le zampe,
brillando tutta; mentre _Ballerina_, aspettando la sua volta, guardava,
impaziente, agitata dal presentimento di quella voluttà, che già le
balenava negli occhi e le guizzava tra pelle e pelle. Ah! che dolcezza;
e come meritata dopo tante corse al sole e nella polvere, e tante
strette violente di freno e bottate di frusta! Luccicava negli occhi di
tutti i passanti un sentimento di compiacenza buona al veder riaversi e
godere a quel modo quei poveri schiavi muti, così belli e così utili, e
condannati a un lavoro così duro e mal compensato, quando tanti altri
della famiglia loro vivono fra gli agi e le pompe, carezzati e amati
come creature umane. E il cocchiere, intanto, li apostrofava con quel
tono di familiarità un po' brutale, che si suol usare con le bestie
che ci servono, forse per un timore istintivo ch'esse comprendano e
abusino come gli uomini della troppa dolcezza: — Ah, vecchione, ci
provi gusto, eh? Ma se tiri indietro la testa, zuccone, non si fa
nulla! Ora a te, mala femmina, eccoti il fatto tuo; non ne vedevi
l'ora, non è vero? T'ho ben sentita come cantavi alla fin della corsa!
— e altre cose simili, dette con l'accento di chi parla a chi intende.
E chi sa? Chi sa fino a che punto, almeno? Che cosa ne sappiamo noi,
poveri presuntuosi che siamo? Siamo proprio ben certi di non essere in
un enorme errore? Non dice anche l'Ecclesiaste: — Chi sa che lo spirito
delle bestie scenda abbasso sotterra? — Ah quell'occhio di Faraone!
Fu quell'occhio che mi fece sentire la prima volta per un animale
quello che si sente per un bambino: il rispetto d'un grande mistero,
del dolore che non ha parola, del diritto che non ha difesa; fu
quell'occhio che mi disse più chiaramente ch'io non avessi mai pensato,
che non saremo mai molto al disopra delle bestie fin che crederemo
d'esser tanto più alti da non aver verso di loro il dovere della bontà
e della gratitudine.

                                   *

Seguirono alcuni giorni monotoni, una serie di corse per i viali
bianchi, fra gli alberi velati dal polverìo, senza un accidente
notevole, senza alcuna conoscenza nuova, senza un incontro di persona
conosciuta; poi una pioggia ostinata, e tre giornate avventurose,
tre scene singolarissime, l'una sull'altra, non possibili che
sulla carrozza di tutti. Della prima fu spettatore e parte, in un
carrozzone chiuso della linea del Martinetto, Carlin; e la scena
appunto interruppe un'apologia ch'egli stava facendo del bollettino
meteorologico del Chionio, il quale aveva preannunziato la pioggia per
quel giorno; ciò che, dopo altre profezie riscontrate giuste da lui,
portava all'entusiasmo la sua ammirazione per la scienza in generale, e
per il profeta in particolare. — Ah! quell'uomo! Quell'uomo parla con
Domineddio! — andava esclamando; quando salirono ad un tempo, l'una a
destra l'altra a sinistra della piattaforma posteriore, un'erbivendola
in capelli e una signora in pompa magna, tutt'e due sulla trentina e
d'aspetto fiero e risoluto; le quali, infilando l'uscio nello stesso
punto, s'urtarono malamente ed esclamarono a una voce, guardandosi a
vicenda: — Che maniera! — Pareva che la cosa finisse li; ma, appena
furono sedute dentro, l'una di fronte all'altra, ed ebbero preso
lo scontrino, l'una sporgendo una grossa mano pavonazza, l'altra
mettendo in mostra un grosso braccialetto sul braccio inguantato,
la riattaccarono vivamente: l'erbivendola con parole grossolane, la
signora con un certo riserbo. Il diverbio, nonostante l'intromissione
diplomatica di Carlin, s'inasprì a segno che la popolana disse forte:
— O cosa crede, alla fine, perchè è una signorona? — E allora cominciò
il meglio. La “signorona„ che da principio aveva scelto le parole e
moderato la voce, a poco a poco, accalorandosi, si lasciò sfuggir le
frasi e le note del suo linguaggio abituale, che era quello tal quale
della sua avversaria. A capo d'un minuto, tutti i presenti capirono
che le due contendenti, nate e cresciute nello stesso stato sociale e
forse nello stesso sobborgo di Torino, avevano ricevuto l'educazione
medesima, e che la signoria d'una delle due doveva essere d'acquisto
recentissimo, e forse improvviso. E fu uno spasso per tutti la
maraviglia crescente che l'altra mostrava in viso man mano che vedeva
la signora tirar fuori le armi e le munizioni dallo stesso arsenale
da cui essa cavava le sue, e chiarirsi sua degna competitrice nella
scherma dello strofinacciolo e della ciabatta. Continuò a insolentirla,
ma più a rilento e con meno asprezza, scrutandola con uno sguardo
acuto e con un leggiero sorriso, quasi compiacendosi di riconoscere
e d'ammirare in lei i colpi e le parate della scuola che le era
familiare, e finì con rabbonirsi affatto quando fu ben certa di aver di
fronte, non una nemica d'un'altra classe, ma una consorella travestita
dalla fortuna; tanto che lasciò senza risposta l'ultima sua botta, e
voltatasi verso la compagnia, disse ridendo: — _A l'è na sgnora parei
d' mi!_ (È una signora come me). — Tutti risero, la “signora„ si rimise
in dignità, e Carlin osservò filosoficamente: — Eh, bisogna star sul
tranvai per vederne d'ogni sorta e imparare a conoscere il mondo; il
fattorino, vede, è il vero uomo _enciclopedico_, che non sì stupisce
più di niente sulla terra.

                                   *

Ecco l'altra scena. Gli alberi del corso Vittorio Emanuele rinverditi
e lustrati da un acquazzone, una fuga di nuvoloni neri a traverso al
cielo, un tramonto infocato, le Alpi terse e come intagliate nella
porpora di quell'incendio, e una giardiniera lenta che par che vada
a servizio esclusivo di due coppie d'amanti appiccicati, l'una seduta
sulla prima panca, l'altra su quella di mezzo, con le schiene voltate
verso di me e un altro passeggiere, che mi sta ritto al fianco sulla
piattaforma di dietro. Costui m'ha l'aria d'un buono e semplice
massaro, o piccolo proprietario di campagna, di quelli che s'inurbano
ogni dieci anni, e a cui la città grande riesce sempre uno spettacolo
nuovo e sbalorditoio. E capisco che è nuovo per lui lo spettacolo
di quelle due coppie di teste di “signori„ le quali ogni tanto si
ravvicinano, si toccano e si staccano, come i bicchieri nei brindisi,
e ciondolano languidamente l'una verso l'altra come se avessero
l'osso del collo stroncato. Si vede che è un po' scandalizzato, molto
stupito e anche più dilettato; si vede dall'attenzione viva che fa a
tutti i movimenti di quei quattro ingattiti, con un sorriso curioso
e continuo, lanciando tratto tratto uno sguardo a chi passa per la
strada, come per dire: — Ma non vedete che cosa succede qua sopra! Ma
son cose dell'altro mondo! — Arrivati alla piazza del monumento, sale
accanto a noi un altro signore, lungo e arcigno, il quale, osservate le
coppie, fa un atto d'uomo seccato, brontolando: — Potrebbero prendere
una carrozza chiusa. — Ed ecco che all'uscita della piazza, salgono
e siedono proprio davanti a noi un giovane, che pare un commesso
di negozio, e una ragazza, che ha l'aria d'una sartina, e, appena
seduti, ripigliando una conversazione interrotta, si mettono a tubare
soavemente, con le punte dei nasi che quasi si toccano, e le mani
intrecciate tra fianco e fianco. E allora il signore lungo dà una
strappata collerica al campanello, e detto al fattorino: — Non è un
mestiere per me! — salta giù e se ne va via. Il fattorino non capì, ma
il campagnuolo diede in una risata grassa, saporita, giovanile, nella
quale squillava la gioia pregustata di raccontar poi nella farmacia
del villaggio il bel caso a cui aveva assistito, la sfacciataggine
maravigliosa degli amanti di quella gran Torino, di quella Babilonia,
di quella Gomorra, dove tutto è lecito e se ne vede d'ogni tinta....
Dopo un po', le coppie furono circondate e distratte da altri
passeggieri; ma egli seguitò a tenerle d'occhio fino a piazza San
Martino, dove discese dirigendosi verso la Stazione, ancora sorridente
d'un sorriso di stupore e di malizia, che traduceva il suo pensiero:
— Ah questa Torino! Questi tranvai! Che paradiso di Maometto! E che
facce!

                                   *

La terza, sulla linea di Vanchiglia. Mi rifugio in una giardiniera
per salvarmi da un'acquata improvvisa e casco proprio nel punto che
scoppia una lite, non capisco perchè, fra due giovani operai e il
cocchiere Tempesta. Il vento sbatte le tende in faccia ai passeggieri,
che si restringono nel mezzo, tutti in piedi; ma la pioggia ci viene
addosso anche fra le panche, dove le signore s'affannano a ripararsi
i vestiti, lagnandosi della Società che non mette fuori i carrozzoni
chiusi quando fa cattivo tempo. Son capitato male. Son tutti stizziti
come d'una stizza attaccaticcia, tutti con l'anima per traverso,
compresi due vecchi ufficiali pensionati che non vanno d'accordo sulle
riforme militari del Ricotti, discusse in questi giorni al Senato,
e si scambiano delle frasi che paion colpi di sciabola: — Mille e
cento ufficiali tolti dai quadri! Ma mi burla! Ma a che si riduce
la carriera? — Non è il Ricotti, è il Mocenni: ottocentoventisette
erano già radiati. — E lei mi scusa il male col peggio? — Ma io non
riconosco nè questo nè quello. — Ma come! Ma allora.... — E mentre un
mio vicino tratta di barbara l'amministrazione che non mette delle
tende da potersi agganciare alle panche per pararsi dai temporali,
e tenta inutilmente, sbuffando, di tener tesa la sua, s'accalora la
lite fra i due operai che gridano: — Pùrgati! — Va a far le docce!
— Va all'istituto antirabbico! — e Tempesta, che rivolto a loro col
viso torvo e infiammato, alterna frustate e sagratacci, scandalizzando
un vecchio signore in cilindro, seduto alle sue spalle, il quale si
volge a domandare al fattorino con voce pacata di basso: — Ma non è
pro-i-bito al personale di servizio di parlare in codesta maniera?
— Intanto la pioggia infuria, le tende ci schiaffeggiano, i malumori
s'inaspriscono, i lamenti suonano più alto, Tempesta sagra più fitto,
e la carrozza che porta quest'ira di Dio, sferzata dall'acquazzone,
flagellata dal vento, illuminata dai lampi, vola, schizzando mota da
tutte le parti, a traverso la piazza Vittorio Emanuele, dove s'incontra
con un altro tranvai portante una comitiva di giovanotti fuggiti dal
gioco del pallone, i quali, passandoci accanto, vedono e comprendono e
ci mandano in faccia una risata in coro, ultimo oltraggio.... Ma non a
me, spassato egualmente della carrozzata in festa e della carrozzata in
collera, che mi mostran le due facce del burattino umano.

                                   *

Qui trovo notati a tre date successive, 14, 15 e 16, tre dei miei
personaggi, riveduti in condizioni e fra circostanze straordinarie. La
domenica del quattordici, segnata nell'_Almanacco Storico_ della Casa
Treves come giorno della rielezione del deputato Brena, sulla linea
del Valentino, il _Marchese_, il fattorino dai balletti d'oro, bello e
elegante come sempre; ma quanto diverso dal solito nel modo di trattare
con le signore! Non più sorrisi fuggitivi, non più atteggiamenti
d'ossequio amoroso, non più quell'atto di posar lo scontrino come una
chicca nella mano inguantata, fissando sulla passeggiera uno sguardo
soave. E subito non capii il perchè di quel mutamento; ma i cenni e
i frizzi di due giovanotti suoi conoscenti, seduti vicino a me, me
lo spiegarono. Quel riserbo insolito gli era imposto da un bel pezzo
di ragazza bruna, ritta sulla piattaforma della giardiniera come un
gendarme; la quale seguiva ogni suo passo ed atto con due grandi occhi
neri e severi, sopra di cui si drizzava fino a mezza fronte la ruga
distintiva del sospetto. Non riuscii a capire se fosse sua moglie o sua
amante. Intesi dire però (e si vedeva) che, conoscendo il suo pollo,
n'era gelosa, che soleva fare di tanto in tanto una di quelle corse di
vigilanza, salendo inaspettata sul tranvai come un controllore, e che
più volte, per uno sguardo o per una parola, aveva fatto una scenata al
bel fattorino, e provocato anche signore e ragazze, con un'audacia di
leonessa. Oh, cose terribili; minacce di ceffoni addirittura, e chiassi
e scandali per conseguenza. Ma egli aveva oramai un così salutare
terrore di quelle due lanterne nere che non s'arrischiava nemmen più
a sorreggere per il braccio le signore che salivano. Mentre passava
accanto a me, uno dei due giovanotti gli disse piano: — _Pietro, riga
dritt!_ — e diede in una risata: egli rispose con un sorriso forzato.
E seppi che altre mogli di fattorini venusti facevano delle corse
di sindacato come la bella bruna, comprandosi così ogni tanto dieci
centesimi di fedeltà coniugale, con vantaggio dell'amministrazione e
del servizio....

15 giugno. All'ora stessa che si presentava Li-Hung-Chang
all'imperatore Guglielmo, comparve davanti a me sul tranvai di via
Garibaldi il signor Guyot, coi suoi occhiali reazionari e il suo pizzo
minaccioso. Appena mi vide, salendo sulla piattaforma opposta, mi
saettò un'occhiata anche più truce dell'altre volte; e forse per il
fatto, che mi venne in mente in seguito, dell'elezione del Turati nel
quinto collegio di Milano, avvenuta il giorno avanti. Ma era destino
ch'io dovessi dar sempre a quel pover uomo delle scosse violente.
Pochi momenti dopo salì accanto a me un mio vecchio amico, procuratore
del re, proprio nel punto che egli mi figgeva addosso uno di quegli
sguardi foschi, in cui all'inquietudine e all'avversione si mescolava
il sentimento di curiosità malsana che ci spinge verso i delinquenti.
Al lampo che gli passò sul viso quando vide l'amico stringermi la mano
ed entrare con me in conversazione gioviale, capii ch'egli sapeva
chi era. Fece due occhi di polipo ed espresse con tutti i muscoli
facciali un senso di maraviglia sgradevole, come se quella familiarità
d'un magistrato con un par mio fosse un fatto scandaloso, un pubblico
incitamento a delinquere, un indizio di sfacelo sociale, qualche cosa
come il veder per la strada un carabiniere in divisa a braccetto con un
borsaiolo famoso; e capii benissimo che andava domandando a sè stesso,
con curiosità ansiosa, che cosa mai ci potessimo dire, e che se fosse
stato in quel momento ministro di grazia e giustizia avrebbe fulminato
sull'atto un decreto di destituzione. Ah, quanto deve aver sofferto!
E vedo ancora l'ultima occhiata che lanciò al mio amico scendendo,
come per dirgli: — E non si vergogna?... Faccia invece il suo dovere,
perbacco!

                                   *

16. (Il giorno in cui gli Stati Uniti pagano cinquantamila lire per
i nostri “linciati„ del Colorado). _Oui, tout se paye_, come dice un
personaggio di romanzo; tutto si sconta anche quaggiù; e l'“eterna
vendetta„ coglie qualche volta il reo anche sul tranvai. Fu per me
una vera soddisfazione. Il tirannucolo rabbioso, il negriero fallito,
il perpetuo strapazzatore di fattorini e di cocchieri, il signor
Tintura-Migone, insomma, quel pezzo di superbia villana con le gote
enfiate e coi baffi irti, stava seduto in un carrozzone chiuso e
affollato della _Torinese_; e non aveva ancor finito di brontolar col
fattorino perchè non era spolverata la panca, che già cominciava a dar
segni d'impazienza contro un bel bambino di nove o dieci mesi, ritto
accanto a lui sulle ginocchia d'una donna, la quale lo voltava ora
di qua ora di là, come per farlo ammirare. Di ragione, doveva odiare
anche e bimbi, che son dei deboli; e tutti i presenti, chi l'avevan
pesato al primo sguardo, lo guardavano con manifesta antipatia. — Lo
tenga seduto! — disse a un tratto alla donna, di mala grazia. Ma l'ebbe
appena detto che saltò su indignato, vomitando fuoco e tirando fuori
il fazzoletto. Ahi, troppo tardi! E l'ira sua non ebbe eco. Non solo;
ma il contrasto fra la sua faccia fiammeggiante e il visetto sereno
e innocente di quell'amore di putto che lo guardava con gli occhi
azzurri, inconsapevole dell'avvenimento, fu così comico, che diedero
tutti in uno scoppio di risa; il quale finì di fargli perdere i lumi.
Ah sì, tutto si sconta, e infinite sono le fonti da cui la divina
Provvidenza fa “zampillar„ la giustizia.

                                   *

Rieccolo, finalmente! È certo, pensai appena lo vidi, che la sua prima
parola sarà sul discorso fatto dal Jaurés alla Camera francese intorno
al lavoro dei fanciulli. E infatti il suo primo saluto, salendo sul
tranvai, fu un allegro: — L'ha letto? — detto con quella voce di basso,
che parea che uscisse da un trombone. Egli ne aveva letto un sunto in
un giornale italiano e se l'era affisso a una parete, secondo il suo
costume, nella sua bottega di falegname. Anche a mezzo giugno egli
portava il suo cappellone alla calabrese e quell'eterna giacchetta di
velluto cacao spelato; ma aveva la barba meno selvaggia del solito e
un'aria di soddisfazione, come se avesse riportato qualche vittoria
machiavellica sulla Prefettura.

Eravamo sul corso Cairoli; la giardiniera, piena di gente, correva
all'ombra dei grandi platani, in vista delle acque del Po, solcate da
barchette variopinte di canottieri, e dal fiume e dai colli spirava una
freschezza di primavera. Tutti i passeggieri parevano di buon umore,
un bambino cantava, e i miei vicini guardavano con curiosità simpatica
quell'operaio dal collo taurino, che con quella grossa voce, con
quell'aria di gravità bonacciona, parlando un piemontese intercalato
d'italiano rude, ma corretto, faceva un minuto raffronto fra il
discorso del De Mun e quello dell'oratore socialista, flemmaticamente.
C'era fra gli ascoltatori una donna sulla quarantina, che non
aveva trovato da sedere, una bottegaia, all'apparenza, ma vestita
signorilmente, e di viso un po' pretenzioso, ma benevolo; la quale si
voltava ogni tanto a guardarlo, stupita, come se fiutasse in lui un
dotto signore travestito.

A un certo punto il falegname s'interruppe e, alzandosi in punta di
piedi, piegò il capo da una parte e allungò il collo per leggere il
titolo d'un grosso libro che teneva sulle ginocchia, coprendolo in
parte con le mani, una signora seduta davanti a noi, sur una delle
panche più vicine. — Diavolo! — esclamò. — Un trattato d'anatomia!
— Ed era proprio lei, la vergine morta, seduta accanto a un signore
dalla capigliatura e dalla barba bianchissime e ravviate con gran
cura, dall'aspetto serio e quasi altero, come d'un vecchio colonnello,
con due occhi chiari e un naso diritto e sottile, che lo dicevano
indubbiamente suo padre. La vergine morta! Non la vedevo da due mesi,
l'avevo quasi dimenticata. Era sempre quel viso bianco e delicatissimo,
d'una purità angelica, d'una immobilità marmorea, d'una serenità di
creatura superiore alle passioni umane e intangibile da ogni sozzura
terrestre; ma alquanto smagrito e anche più niveo del consueto, e con
gli occhi come velati da un'ombra di stanchezza. Eran certo le fatiche
della preparazione agli esami; doveva forse dare in quel mese l'esame
d'anatomia.

— Sarà una studentessa di medicina, — disse il falegname.

— Una signorina fuor di strada, — osservò un signore accanto a me.

— E perchè? — domandò il primo.

— Bah! — rispose l'altro. — Non è il loro mestiere. A pensar quello che
vedono e che toccano, mi spoetizza.

Il falegname scrollò una spalla. — Allora, anche le monache infermiere
degli ospedali.... Eppure, non spoetizzano nessuno.

— E poi, già, non ci riescono, — ribattè il signore. — Le donne non
nascon per questo. Io non chiamerei mai una medichessa.

— Lei no, ma la sua signora....

— Io non ho signore, — ripose quello ridendo.

Allora interloquì la bottegaia: — Non la chiamerei nemmen io.

A quell'uscita, il buon falegname, che nella quistione femminile aveva
la “specialità„ di moralista, si voltò di scatto, come punto, e capii
che le voleva sciorinare un ragionamento coi fiocchi; ma non ebbe
neppure il tempo di incominciarlo, perchè quella discese. Indispettito
di non potersi sfogare con lei, si voltò dall'altro. — Ecco — disse; —
che non ne voglian sapere neanche le signore è quello che non capisco.
Almeno non dovrebbero _ancalesse_ a dirlo (osar di dirlo). _E la
decenssa? E 'l pudour?_ Mi pigli una ragazza onesta. Può aver questo,
può aver quest'altro: è vero? Ebbene, tanti scrupoli, tante delicatezze
per tanti anni per custodirla come una madonna, ed ecco che viene un
omaccione di medico, e tutto va per aria, e guarda di qui e tocca di
là. A me pare una _saloparia_ bella e buona, se l'ho da dire come la
penso, scusi la parola. Proprio, mi pare impossibile!

Alcuni risero in segno d'approvazione, e rise anche il contraddittore,
maravigliato di trovare un paladino del pudore sotto quel cappellaccio
e dentro a quel giacchettone, e si mise a guardarlo come un originale
di nuovo conio, che gli desse nel genio. E pareva anche disposto a
stuzzicarlo per fargli vuotar tutto il sacco. Ma l'operaio, accorto,
non ci si prestò. E poi si voltaron tutti a guardar la signorina che
discendeva con suo padre allo svolto di corso Vittorio Emanuele, e
fece senso a tutti quella sua lunghezza, la semplicità infantile di
quell'andatura, quel non so che di strano, di monacale, d'incorporeo
che era in tutta la sua figura.

— Ebbene, — disse il falegname, con l'accento di chi trova un argomento
inaspettato in favor suo — ha l'aria d'una ragazza “come si deve!„

— Eppure, — rispose sorridendo il suo avversario — a pensare che adesso
va alla sala anatomica.... Che cosa vuole? A me non mi va una ragazza
che _sa_ tutto.

— Già, se invece andasse al teatro Regio.... A loro piacciono le donne
che non _sanno_ niente e che _mostrano_ tutto; a me mi par più onesta
una donna che _sa_ tutto e che non _mostra_ niente.

Tutti risero. — Ben ribattuto! — esclamò il signore, con evidente
sincerità, esilarato. E quando l'operaio discese, levandosi il
cappello, tutti lo guardarono con viva curiosità, e il suo avversario
espresse il pensiero comune, dicendo: — Non credo che ci sia al mondo
un altro originale compagno!

— Eh, v'ingannate, — pensai — ne vengon su a migliaia. Fra
cinquant'anni i tranvai ne saranno pieni. E quelli che parranno matti
originali saranno gli altri.... se ce ne saranno ancora.

                                   *

La mattina dopo, un divertimento delizioso, uno degli episodi più
belli di quei primi sei mesi di vita in carrozza. Il tranvai della
linea Vinzaglio correva in mezzo alle palazzine e alle ville dello
stradone di Francia, fra quelle due file sterminate di grandi olmi,
che metton capo al castello di Rivoli; il quale appariva vicinissimo,
roseo nell'aria limpida, e come sospeso sull'orizzonte. Giors sferzava
i cavalli con l'allegrezza della fame che corre al pasto dopo il
lavoro, ridendo tra sè e bevendo l'aria come un liquore, con gli occhi
larghi e fissi alla barriera, come se ci vedesse il fumo della sua
minestra, e con le nari dilatate e frementi, come se il vento glie
ne portasse l'odore. Arrivato in capo alla linea avrei dovuto tirare
avanti a piedi fino alla villa d'un mio amico, latinista illustre;
ma, disceso all'apertura della cinta, non potei a meno di fermarmi,
vedendo avvicinarsi al tranvai una donnina grassotta e bionda, con
un bimbo in braccio da una parte e il canestro in mano dall'altra,
accompagnata da due marmocchi, l'uno di cinque, l'altro di tre anni;
nei quali riconobbi alla prima occhiata gli occhi e il naso giorgiani.
Povero Giors! Doveva essere assai benvoluto, ed era certamente la
sua colazione uno spasso quotidiano del vicinato, perchè, appena la
giardiniera arrivò, mentre egli staccava e riattaccava i cavalli, gli
vennero intorno, col viso curioso e ilare, le guardie daziarie, la
rivenditrice d'erbaggi, altre tre donne e dei ragazzi, tutta la piccola
società della barriera, presso la quale egli aveva domicilio, in una
casetta fuor della cinta. Come afferrò il canestro! con l'atto d'un
padre amoroso che tende le braccia al bambino non più visto da un anno.
Sedette sul predellino della giardiniera, tirò fuori e si mise sulle
ginocchia il vaso di latta della minestra, si passò una mano sui baffi,
diede una risata in faccia agli spettatori che facevan cerchio, ed
esclamando: — Al lavoro! — incominciò.

Subito i due figliuoli in piedi, due panciutelli di viso bruno, sani
e puliti come lui, gli si accostarono, guardandolo mangiare come fanno
i cani, che accompagnano con l'occhio il boccon del padrone dal piatto
alla gola. — Bada che hanno già mangiato, — gli disse la moglie; — non
facciamo la solita storia....

— Come? — domandò lui, con la bocca piena, fissandoli; — e avreste la
faccia?

Quelli accennarono di sì, che avevano la faccia, e Giors alzò una mano
per ammollare un duplice scapaccione. Ma essi non indietreggiavano:
sapevano che non era che una spacconata paterna, che a quel baleno non
teneva mai dietro il fulmine.

Il padre, infatti, ritirò la mano e sporse il cucchiaio, che uno dei
due imboccò. — Ma non avete vergogna? — gridò la mamma, tirandoli
indietro l'un dopo l'altro; ma il più piccolo le sgusciò di mano e si
fece avanti a riscuotere la sua cucchiaiata; e dopo di lui ricomparve
l'altro, fra le risate della platea.

— Ma ti mangian tutto! — esclamò la donna.

— Ma cosa vuoi? — rispose Giors. — Cosa ne posso io se non hanno fondo?
Mi mangerebbero vivo coi miei cavalli, mi mangerebbero. Doveva toccare
a me una razza di lupi compagni! No! — gridò poi risoluto — non vi do
più un grano di riso se vi vedessi crepare di fame!... Ancora questo e
poi finis.

E intanto diluviava, dando ogni tanto un'occhiata in fondo allo
stradone, verso Torino, se comparisse l'altro tranvai; poichè eran già
passati tre dei dieci minuti regolamentari. E invano sua moglie badava
a dirgli: — Ma mangia adagio, non t'ingozzare, che c'è ancora tempo! —;
benchè il tranvai non si vedesse ancora, egli mangiava in furia. Finita
la minestra, tirò fuori la boccetta del vino, la mostrò agli astanti,
disse: — Per uso interno! — e data una gran risata, se l'attaccò
alla bocca. — Bah! — disse poi, staccandola, e osservando il calo:
— Ci vorrebbe altro! — E soggiunse, rivolgendosi a me, col suo buon
sorriso: — Non è mica andato in fondo, sa! Si è perso per le _strade
laterali_....

Poi mise la boccetta alla bocca dell'uno e dell'altro ragazzo, dicendo:
— A voi, malviventi! — La moglie gli afferrò il braccio; ma egli si
svincolò e li fece bere, dicendo a me: — Due spugne, sa; mi beverebbero
il sangue.

Riposta la bottiglia, addentò il pane e attaccò un pezzo di frittata,
facendo degli elogi alla cuoca, e tra un boccone e l'altro apostrofò
la piccina che quella teneva in braccio: — E tu, _stoponëtta_?
(turaccioletta) — e ne chiese notizie, mentre porgeva dei pezzettini
di frittata agli altri due. — Non ha che venti mesi di servizio,
— disse, rivolto a me. E, masticando, mi raccontò come la bambina
non lo riconoscesse per suo padre che da poco tempo, dopo che egli
era di servizio fisso sulla linea Vinzaglio. Quando era sulle altre
linee, dovendo far colazione e desinare qua e là, essa non lo vedeva
mai, neppur la sera, perchè egli rientrava tardi, quando già era
addormentata, e neppur la mattina, perchè se n'andava prima che si
svegliasse. E per questo s'era dato lo strano caso che la bimba, già
di più d'un anno, non conoscendo ancora suo padre, un giorno ch'egli
era tornato a casa prima di sera, per essersi fatto male a una gamba,
al veder entrar da padrone un uomo che non aveva mai visto, s'era
spaventata e messa a gridare come un'aquila. E conchiuse il racconto
esclamando con una risata: — Ah! che farsa di mestiere! Facciamo persin
paura ai nostri _citt_! Ma non fa niente.... fin che la cassa è sana!
— e si picchiò un pugno sul petto. Poi, eccitato, come se avesse fatto
un lauto pranzo, alzandosi e scuotendosi dalla giubba le briciole
del pane, rispose botta per botta alle facezie delle guardie e delle
donne, che lo stuzzicavano; e infine, vedendo avvicinarsi l'altro
tranvai, baciò l'un dopo l'altro i ragazzi, dicendo: — Ciao, lupotto!
— Ciao, pancetta! —, prese in braccio la bimba e le fregò i baffi sul
viso, disse alla moglie, restituendole il carico: — Brava, _vecia_!
Una frittata _fiamenga_! — e, salito sulla piattaforma e impugnate la
frusta e le redini, sferzò i cavalli e partì, voltandosi a mandare un
altro saluto alla famiglia e un'ultima risata agli amici.

— Che brav'uomo! — disse una donna. — Un uomo contento —, soggiunse una
guardia. — Un superuomo, — dissi tra me; ma sul serio.

                                   *

A questo punto mi saltano su dalle note non so quanti personaggi
nuovi, che son costretto a respingere, come ne respinsi molti nei mesi
andati, per non arrivare alla fin dell'anno con un esercito. Ma è un
peccato, perchè conobbi fra gli altri in questo mese di giugno dei così
curiosi tipi di “tranvaiofili„ amatori e studiosi paladini fanatici
dell'istituzione! Ne conobbi di tutte e tre le classi in cui si
possono dividere: degli _inquisitori_, che si piantano sempre accanto
al cocchiere o al fattorino, per tempestarlo di domande: — Quanti
anni ha questo cavallo? Quanti cavalli avete? Quanti cocchieri siete?
Quanto costa questa carrozza? Quanto è lunga questa linea? — fin che la
vittima perde la pazienza; dei _calcolatori_, azionisti, amministratori
e cassieri in ispirito delle due Società, delle quali studiano
gl'interessi, e almanaccano le entrate e le uscite; dei _parteggianti_,
che, senz'averci un interesse al mondo, portano in palma di mano una
Società e danno addosso all'altra con un ardore da parer pagati,
attaccando con altri capi ameni del loro stampo delle dispute in
cui rischiano arditamente di farsi cappottare per i begli occhi
dell'_Anonima_ del loro cuore. Generosi cavalieri, nobili idealisti!
Poco mancò che venissero a pugni quei due campioni dell'ultima classe,
che sul tranvai della linea di Nizza, il giorno diciotto, intavolarono
una discussione sui meriti comparati della _Belga_ e della _Torinese_
a proposito del color rosso e verde dei carrozzoni dell'una e di
quello giallo e sangue di bue dei carrozzoni dell'altra. I ferri si
riscaldarono con una rapidità inquietante.

— E lei mi vuol confrontare i cavalli della _Belga_, tutti maremmani
bisbetici, con quelli della _Torinese_, che vengono dalla Croazia e
dall'Ungheria, più forti, più alla mano, più.... Mi faccia il piacere!

— Eh, i cavalli non fanno la _grandezza_ d'una Società: la _Belga_ ha
trenta carrozze di più, e un personale che s'avvicina al doppio!

— Ma le carrozze della _Torinese_ son più grandi e più comode; la
_Belga_ non ha cuscini.

— Ah, i cuscini! Niente di meno! Cospetto!

— Non c'è cospetto; e fa anche il servizio più _intensivo_ e paga
meglio gl'impiegati.

— Ma ha un orario più lungo.

— E se ne vanta! È la sola che faccia servizio fino alle undici!

— S'accomodi; ma la _Belga_ ha le migliori linee, passa per le strade
principali. Sa che il _Martinetto_ e il _Vinzaglio_ danno dalle
settanta lire per giorno?

— Corbellerie! In ogni caso, dà più da sola la barriera di Nizza che
quelle due messe insieme.

— Che sproposito!

— Non è una risposta da persona civile!

— Non è da persona civile voler dare ad intendere delle assurdità!

E così, agitando tutti e due il giornale della mattina che annunciava
il maremoto del Giappone con quaranta mila morti e ottomila case
distrutte, tirarono via fino al corso Vittorio Emanuele, dove si vide
un carrozzone della linea dei Viali, uscito dalle rotaie, risospinto
indietro a gran fatica dal cocchiere e dal fattorino, fra due ali di
passeggieri impazienti. E il paladino della _Torinese_, voltandosi
verso il suo avversario col viso lampeggiante, e accettandogli il
carrozzone deviato: — Vede? — gli disse, — è della _Belga_. — Poi
tacque, e assaporò il suo trionfo. O cervelli, appetto a cui il cranio
d'una formica è palazzo Pitti! come diceva Francesco Domenico. Eppure,
non è giusto, perchè vi sono anche nei cervelli e negli animi grandi
dei ripostigli oscuri in cui s'annidano di queste idee nane e di queste
passioncelle miserabili, che vengon fuori di tanto in tanto, e paion
più nane e più miserabili e fanno più compassione e più dispetto....
appunto perchè escono dal Palazzo Pitti.

                                   *

Un altr'ordine d'osservazioni feci di quei giorni sui malati in
tranvai. Ne avevo già osservati nei mesi addietro: un giovinetto
tisico, che faceva ogni giorno, forse per ricreazione, il giro intero
della linea dei Viali, sempre solo, e che guardava tutti e tutto con
lo sguardo stupito e insistente di chi, sentendosi già diviso dal
mondo, lo vede a una distanza in cui gli apparisce quasi sotto un
aspetto novo; una signora ancor giovane, pallidissima, che ad ogni
scossa del carrozzone si premeva una mano sul cuore, chiudendo gli
occhi e torcendo la bocca, come per un colpo di coltello; ed altri,
dei visi smunti e bianchi, sui quali i passeggieri fissavano lo
sguardo, troncando ogni conversazione, come per scrutarvi il mistero
della morte. Ma non mi s'era offerto mai uno spettacolo così triste
come quello che vidi la domenica di San Luigi, penultima di Giugno,
sull'imbrunire, quando sui tranvai s'accendono i lumi. In un carrozzone
chiuso, pieno di gente allegra che tornava da scampagnate e da feste,
salì con grande stento, sorretto per un braccio da un giovinetto, un
uomo sui cinquant'anni, dalla faccia smorta e disfatta; il quale,
appena messo il piede sulla piattaforma, si cacciò una mano sulle
reni, come trafitto da un gran dolore improvviso, e rovesciando il
capo indietro, si battè l'altra sulla fronte, e gridò con una voce
d'angoscia da far rabbrividire: — _Oh mi povr'omm! Mi povr'omm!_ —
Doveva esser la sua una di quelle forme terribili di malattia della
spina, accompagnate da sensazioni strane e spaventevoli, che paiono
il principio d'uno sfacelo repentino dell'organismo e quasi l'annunzio
della morte imminente. Entrò, più portato che sorretto, e cadde sopra
la panca come un sacco di cenci buttato, volgendo intorno uno sguardo
d'agonizzante, e mettendo un lamento sommesso, continuo, spaurito,
infantile, tra il gemito e il pianto, che schiantava il cuore. Fra i
passeggieri fu come se avessero gettato nel carrozzone un cadavere;
ed era orribile veramente sotto la luce fioca della fiammella che
ingialliva il suo viso chino, lasciandogli gli occhi nell'ombra, come
già spenti. In tutta quella gente spensierata si destò bruscamente
il sentimento della fragilità della vita umana, il pensiero d'una
vecchiaia martoriata e disperata, la visione delle mille infermità
miserande che ci aspettano, come mostri appiattati, sulla via degli
anni, per saltarci sulle spalle e cacciarci a furia di morsi alla
fossa. E vidi bene che fu in quasi tutti un effetto di sgomento più
che di pietà. Alcuni impallidirono; una signora s'alzò e uscì sulla
piattaforma; altri, per non vedere, torsero il viso verso la strada, e
un signore vicino a me redarguì il fattorino, dicendogli che non era
lecito, che era “un'indegnità„ il lasciar salire sul tranvai un uomo
in quello stato. Un'indegnità! Gli avrei voluto ridire che tale non
mi pareva; che se non l'avessero fatto salire, quell'infelice avrebbe
sofferto doppia tortura a strascinarsi a casa a piedi, e ch'era giusto
che la carrozza di tutti trasportasse anche i dolori, e ch'essa faceva
del bene pure per questo: che costringeva qualche volta anche i felici
a fissare in viso la disperazione e la morte, ad accogliere il grande
pensiero che fuga ogni vanità e schiaccia ogni orgoglio. Ma avrei
sciupato il mio fiato perchè proprio in quel momento, mentre passavamo
accanto al giardino di piazza dello Statuto, si sparse una maledetta
tempesta di note di flauto e di tromba da una giardiniera che veniva
giù di corsa dallo stradone di Rivoli, tutta occupata da una banda
musicale di dilettanti in cimberli, e lo spettacolo nuovo e comico
di quel carrozzone sonoro, in cui si vedevano al chiarore dei lumi le
facce rosse e enfiate di venti sonatori soffianti negli strumenti con
una furia d'energumeni, ricondusse il pensiero di tutti dalla morte
alla vita.

                                   *

Conobbi anche in quel torno altri personaggi singolarissimi tra
gl'impiegati dei tranvai: un cocchiere che parlava a ogni proposito
delle sue terre, e che possedeva infatti non so dove cinque magre
“giornate„ di prato, per cui era ammirato e invidiato dai colleghi
come un latifondista americano; un fattorino che leggeva e rileggeva
continuamente da mesi e mesi un volumetto sbrindellato e sudicio del
romanzo _La mano del defunto_, diventato per lui una specie di libro
dei libri, in cui scopriva ogni giorno nuove maraviglie; e un altro
cocchiere, il più originale di tutti, un rozzo montanaro gozzuto,
il quale, manieroso con tutti gli uomini, riserbava tutto il suo
orgoglio e la sua villania per il bel sesso, che parea che odiasse a
morte; tanto che quando una signora gli toccava la spalla con la punta
dell'ombrellino perchè fermasse, si voltava indietro furioso, come
se gli avessero piantato uno spillone nelle carni. Chi sa perchè! Ci
doveva esser sotto qualche segreto di tradimento coniugale, che gli
aveva messo nell'anima l'orrore della gonnella. E una sera scopersi
finalmente, dopo un pezzo che lo cercavo, il dantista, per caso, sulla
linea della barriera di Milano. Salendo sul tranvai nel momento che
finiva un diverbio fra il fattorino e un contadino che scendeva, intesi
quello mormorare fra i denti: — .... _in costà, malvagio uccello!_ — Un
verso di Dante! — pensai —; che sia lui? — L'osservai. Era un giovine
alto e bruno, di viso piccolissimo, con due occhietti neri pieni
d'intelligenza e due baffetti arricciati di studente; sotto ai quali
guizzava il sorriso ironico, e come abituale, d'un conoscitore precoce
della vita, scettico e benevolo a un tempo. Sì, doveva esser lui. E
glie lo domandai senza preamboli: — È lei che sa Dante a memoria? — Si
mise a ridere; ma non parve maravigliato della domanda.

— Son fandonie —, rispose ridendo; — storie che hanno messe in giro
i miei colleghi. Non ne so di più di quanto ne sanno tutti quelli che
hanno fatto la prima Liceo. E poi, anche se l'avessi saputo, l'avrei
scordato. — E mostrandomi il libretto degli scontrini, disse: — Il
mio Dante è questo adesso. — E soggiunse con un sorriso: — _Lo mio
volume._ — Gli domandai in che maniera dal Liceo fosse venuto a cascar
sui tranvai. Me lo disse con disinvoltura. Suo padre, ingegnere, morto
all'improvviso; la famiglia numerosa rimasta sul lastrico; un tentativo
di commercio fallito; un impieguccio in una Società d'Assicurazioni,
ottenuto e perduto un mese dopo, per riduzione di personale; la storia
solita.

— E l'impiego attuale? — domandai.

— Ahi... _Selvaggio_ —, rispose sorridendo —, _et aspro e forte_.
— E mi disse tutto, familiarmente. Era la prima volta che sentivo
giudicare il pubblico da un “signore„ ridotto in quella condizione,
donde lo poteva vedere di sotto in su: mi disposi a ascoltarlo con viva
curiosità. Ma fu assai temperato, se non nella sostanza, nella forma,
come tutti quelli a cui la disgrazia non sfibra, ma fortifica l'animo.

Il peggio, a suo senso, non era l'orario dalle sedici alle diciott'ore,
il dover mangiare come i briganti, e la pioggia delle multe per un
ritardo, per una svista, per mille errori di nulla, quasi inevitabili.
Il peggio era il continuo contrasto, la lotta continua col pubblico,
il doversi guardare da ogni specie di piccole insidie di nemici. Cose
da non potersi immaginare. Bricconi che salgono sul tranvai, ci stanno
un bel pezzo, e poi, fingendo d'aver sbagliato linea, saltan giù senza
pagare, per far lo stesso gioco col tranvai successivo; beceri che
salgono in sei o sette, le sere di domenica, e attaccan lite apposta
fra di loro perchè nella confusione riesca a qualcuno di non pagare;
imbroglioni che tirano a appioppare al fattorino dei soldi falsi,
affermando, per esempio, d'averli avuti col resto d'una lira, magari
dopo un quarto d'ora che se li rimestano in tasca; prepotenti che
vanno sulle furie perchè il fattorino non vuol cambiare un biglietto
da dieci, gridando che non è vero che non abbia spiccioli, come se
di questi egli volesse far commercio a vantaggio proprio; birboni,
insomma, e birberie d'ogni stampo. E poi ci son quelli che hanno
perduto un oggetto sul tranvai e accusano il fattorino d'averlo
raccattato e intascato; quelli che se la pigliano con lui perchè hanno
sbagliato linea, o lo investono perchè s'è dimenticato di indicar loro
la cantonata dove volevan discendere; e quelli che, avendo fretta,
vanno in collera perchè egli non taglia col tranvai il corteo funebre
o il battaglione che passa, o perchè un cavallo cade o tutte e due
vanno lenti, come se fosse colpa sua quello che dicono, che la Società
non nutre abbastanza le bestie. — Così è — concluse celiando. — Il
fattorino, vede, è l'uomo

    Al qual si traggon d'ogni parte i pesi.

Entravamo allora in quel largo corso Vercelli, ai due lati del quale si
aprono strade e vicoli che si perdono nei campi e s'alzano camini di
officine da ogni parte, in mezzo a case disuguali e sparse, che paion
d'un villaggio, ma che serbano ancora nell'architettura, nei colori,
nelle botteghe, in qualche cosa che sfugge alla parola l'aspetto
assestato e rigido dei quartieri centrali di Torino. Quando fummo
all'imboccatura di via Carmagnola, il fattorino m'accennò una casetta
di due piani, poco lontana, coi terrazzi tutti fioriti, e disse: —
Guardi; io stavo là, _nel tempo felice_. Il mio povero padre è morto
là, al primo piano. S'era come in campagna. Ora stiamo a un quarto
piano di via Barbaroux, in due buche, e la mattina mi tocca a fare un
par di miglia per trovarmi sul posto prima di giorno. — E soggiunse
sorridendo: — _Uomini fummo ed or sem fatti sterpi._

Poi riprese il discorso di prima. — No — disse — lei non si può
figurare le pretensioni e le stramberie del pubblico con cui abbiamo
da fare. — E le peggio, disse, non erano quelle della gente bassa,
dei barabba che vogliono cantare in tranvai, e che rispondono alle
preghiere con minacce, a cui convien rassegnarsi per non avere _suon di
man con elle_; dell'erbaiola che vuol caricare a ogni costo un sacco
grande come un armadio, senza un pensiero al mondo che il fattorino
si buschi una multa per cagion sua; del briacone fradicio che si vuol
sdraiare nella giardiniera come in una stalla. Più irritanti di costoro
son le persone per bene che dovrebbero essere ragionevoli: il signore,
per esempio, che pretende che il fattorino faccia alzare un tale per
far posto a sua moglie, quello che vorrebbe ch'egli facesse smetter di
fumare un tal altro che gli manda il fumo sul viso, la signora rimasta
in piedi che se la piglia con lui perchè non c'è posto, dicendogli
che _ha pagato e ha diritto di sedersi_, o anche lo minaccia di _far
rapporto_ perchè non fa tacere un signore vicino che “parla male„.

— Il pericolo per me —, disse — è che qualche volta mi dimentico della
mia condizione e son tentato di rispondere da “signore„ come rispondevo
una volta, che sarebbe la mia rovina. Che sforzo debbo fare per
rimandar giù le parole che mi vengon su! E me ne vengono, sa! Ma...!
D'essere stati poveri è facile scordarsi; ma d'esser stati signori,
quanto è difficile!

E continuò, dicendo che non potevo immaginare con che razza
d'accattabrighe, anche ben vestiti, s'avesse da fare sui tranvai: con
implacabili che brontolano alle spalle del fattorino o del cocchiere
per lo spazio di tre chilometri, che riattaccano il lucignolo risalendo
sul tranvai il giorno dopo, che serbano in corpo l'amaro d'un diverbio
per dei mesi, che si prendono a parole fra di loro per le cause più
futili e trascinano dei piati di maestro Adamo e Sinon Greco da borgo
San Salvario fino alla barriera di Milano, ripetendo trecento volte la
stessa frase con l'ostinazione d'un maglio di macchina a vapore. E il
primo, il primissimo torto, in ogni caso, è sempre del fattorino, sul
quale cascan tutti d'accordo. Nessuna pietà per lui, _anima prava_.
Gli accadeva qualche volta, stando in piedi da dieci ore, di sentirsi
la schiena rotta e d'avere un gran bisogno d'appoggiarsi un momento al
parapetto della piattaforma posteriore, per riaversi un poco. Ebbene,
non c'era caso che uno dei passeggieri che vi s'appoggiavano, mentre le
panche eran mezze vuote, indovinasse mai il suo bisogno e gli lasciasse
il posto per misericordia. Mai. Ogni passeggiere tratta il fattorino
come se si fosse levato da letto un'ora prima e dovesse tornare a letto
alla fin della corsa; ognuno ha l'aria di dirgli: _Omai convien che tu
così ti spoltre_.... Ah, se assaggiassero per una settimana la nostra
_piuma_ e la nostra _coltre_!

Ma tutto questo disse con tuono piuttosto di satira che di querimonia,
e con la stessa vivacità studentesca riepilogò e concluse la sua
chiacchierata. Sì, veramente: badare a chi sale e a chi scende, e a
chi chiama da vicino e da lontano, saltar giù a raddrizzar gli aghi e a
badare ai crocicchi, strusciarsi fra i passeggieri accalcati a pescare
i soldi ritrosi, cambiare, notare, rendere i conti, rispondere a cento
domande, rabbonire i litiganti, e pregare e leticare e spolmonarsi
e beccarsi del villano e del buricco da gente bene e male educata,
continuamente con le gambe in moto, con le braccia per aria, con la
mente tesa e gli occhi all'erta e la multa sulla testa, per dodici
ore filate, sotto il sole e sotto la pioggia, col vento e con la neve,
tutti i santi giorni dell'anno, per cinquanta soldi al giorno.... è una
dura vita. — E soggiunse in ischerzo: — _Tanto è amara che poco è più
morte._ Se Dante tornasse al mondo, aggiungerebbe alle sue bolge delle
linee di tranvai e metterebbe a fare i fattorini i peccatori della
peggio specie.

Eravamo arrivati a quella piazza solitaria della barriera, che par la
piazza d'un villaggio lontano da Torino, di là dalla quale s'allunga
nell'aperta campagna la strada di Milano, e lì, al momento di scendere,
l'arguto dantista spostato me ne disse ancor una, che mi parve la più
amena di tutte, il più curioso esempio di pretensione indiscreta, ch'io
avessi mai inteso citare, di passeggieri saccenti. Il giorno avanti,
essendo salita sul tranvai una signora tedesca ch'egli non era riuscito
a comprendere dove volesse andare, un signore pingue e dignitoso aveva
detto con tutta serietà al suo vicino: — Bella figura che ci facciamo!
La società dovrebbe prender dei fattorini che sapessero le lingue. —
Ed egli, il dantista, gli aveva risposto: — Soltanto le lingue viventi,
non è vero? Facoltativi il latino e il greco, tutt'al più. —

                                   *

Per tre giorni, nulla di nuovo, fuorchè una fuga atterrita di signore
da un carrozzone chiuso, dove un matto originale, credendo di divertir
la compagnia, s'era levato di tasca e messo sopra una spalla due
topini bianchi addomesticati, che gli giravano intorno al bavero, come
una collana vivente: uno stridìo, un sottosopra, per cui accorse una
guardia civica, decorata della medaglia al valor militare (_Donne, da
voi non poco la patria aspetta!_). E poi, la domenica del ventisette,
andando e ritornando dallo Sferisterio, due incontri desiderati. Il
primo, sulla giardiniera della linea dei Viali: _Taddeo_ e _Veneranda_,
con la loro bambina. Ma quanto mutati tutti e tre! Al primo sguardo,
capii, vidi tutto: una malattia mortale della creatura adorata, una
serie di giorni e di notti orrende, la casa risonante di singhiozzi,
la mamma in ginocchio, il padre forsennato. La loro bimba era ancora
smunta e pallida, e sui loro visi mutati, sotto la gioia della
risurrezione, si vedevano ancora i segni dell'angoscia e del terrore.
Come la prima volta, mi ritrovai dietro di loro, che avevano la piccina
in mezzo, rivolta verso di me. Come si ricorda il viso di quelli
che accarezzarono i nostri bambini! Mi riconobbero, mi sorrisero, e
interrogarono con uno sguardo ansioso il mio sguardo, come dicendo: —
La trova molto cambiata, non è vero? — e mostrarono meglio, in quel
momento, i segni del grande dolore sofferto. i quali mettevan più
pietà in quelle due nature placide, che dovevano aver vissuto per tanti
anni una vita tutta tranquilla. E poi, senz'aspettar la mia risposta,
mi diedero la triste notizia: il crup, un mese di letto, la bimba
considerata perduta; e dopo la notizia, la storia, con un torrente di
parole: i primi sintomi del male, il medico, i rimedi, l'aggravarsi
della malata, le parole sue, che avevan credute le ultime in _quella
notte_, in cui la loro ragione si smarriva e il mondo crollava sotto i
loro piedi. Ah, no, è troppo terribile! Ah, chi non l'ha provato, non
lo può pensare! E poi la sosta della malattia, i primi buoni indizi,
le prime parole consolanti, e la gioia infinita; e qui un'effusione di
gratitudine per il dottore, il cavalier Boni, un cuore! un ingegno!
un angelo! L'altro, l'angelo piccolo, non lo portavan fuori che da
tre giorni; era quella la sua terza passeggiata di convalescenza. —
Comincia a riprender colore, — dissi. — Ah, sì? Comincia a riprender
colore? — E mi guardarono con riconoscenza, come se fosse la mia parola
che avesse soffuso un po' di roseo su quel piccolo viso, e con questo
era il mondo intero che si ricoloriva ai loro occhi. E la covavano con
lo sguardo, la carezzavano con le mani allargate come per afferrarla
e per proteggerla. E a questo punto seguì una scena che mi commosse.
Presentandosi il controllore a domandar gli scontrini, essi gli porsero
anche quello della bimba. Quegli osservò che, se l'avessero tenuta
sulle ginocchia, poichè non aveva ancora tre anni, avrebbero potuto
non pagare il posto. Eh, lo sapevano! E capii bene il loro pensiero.
Pigliare lo scontrino per lei come per una più grande e farle occupare
un po' di spazio era per loro come un'affermazione che facevano a
sè stessi, una volontaria e cara illusione che la sua persona fosse
qualcosa di più di quello che era, una “quantità„ meno “trascurabile„
di quanto poteva parere. Con che dolce accento, quando discesi, mi
dissero: — A rivederla! — E a me, vedendoli allontanarsi, passarono
confusamente nel pensiero altri convalescenti che avevo visti seduti su
quelle panche, in mezzo ai loro parenti racconsolati; e quel tranvai
che dà anche al povero uscito di malattia, e alla sua famiglia, il
conforto e la gioia d'una passeggiata in carrozza, che non potrebbero
fare altrimenti, m'apparve sotto un aspetto nuovo, pietoso e benefico,
come quello d'una carrozza futura, ch'io sogno, non destinata ad altro,
e messa al servizio di tutti gli scampati dalla morte.

                                   *

Uscendo dallo Sferisterio, presi sul corso Margherita la giardiniera
della linea di Vanchiglia, tutta piena di facce allegre, color di
ribotta, che venivano dalla Madonna del Pilone, l'Auteuil di Torino.
Eravamo a metà di via Vanchiglia, quando fra le sette schiere di nuche
che mi stavan davanti ne vidi una, fra le più vicine, che mi parve
di riconoscere: era d'un uomo, un operaio all'apparenza, che teneva
aperto dinanzi il giornale _Per l'idea_. Dove avevo già visto quella
larga nuca di testardo? Accanto a lui sedeva un ragazzetto, col capo
appoggiato al suo braccio, e accanto al ragazzetto una donna giovane,
che, voltandosi un momento di fianco, illuminò la mia memoria. Era
quel tale operaio venuto dal Vercellese, disoccupato e arrabbiato, e
sparlante della _Camera del lavoro_, il quale, due mesi addietro, sul
tranvai di via della Cernaia, aveva strappato di mano al suo bimbo
e buttato nella strada la caramella ch'io gli avevo regalata. Ah,
maledetto sangue! Non feci in tempo a frenare l'ondata di sdegno che
mi rivenne su, quantunque il giornale ch'egli leggeva mi dicesse che
la sua mente s'era aperta a nuove idee, come il suo vestire e quello
dei suoi mi diceva ch'egli aveva trovato lavoro, e che l'animo suo
doveva essere quindi mutato. Ma fu un'ondata sola, che ricadde subito,
sopraffatta da una viva curiosità. Vedendomi, si sarebbe egli ricordato
di quell'atto, e m'avrebbe ancora mostrato nello sguardo il sentimento
che gliel'aveva fatto compiere, o un sentimento opposto, o indifferenza
soltanto? E stetti a aspettare che scendessero. Fecero fermare in via
Lagrange e s'alzarono tutti e tre, presentandomisi di profilo, così
vicini, che, scendendo, non potevano non vedermi. Incontrai prima lo
sguardo della donna, che fissai per farmi riconoscere; e mi riconobbe
infatti, dopo un momento d'incertezza, e arrossì leggermente, chinando
gli occhi. Incontrai subito dopo lo sguardo di lui, che mi riconobbe
alla prima. Quanto è puerile e finto l'orgoglio, che fa prendere
all'offensore, per ingannare e mascherare insieme la sua coscienza,
l'atteggiamento dell'offeso! Mi diede un'occhiata torbida e discese
col viso adombrato. — Ho io dunque, — pensai, — una così odiosa faccia
di borghese egoista, sfruttatore e disprezzatore d'operai, ch'egli
non m'abbia ancora perdonato, dopo due mesi, un atto di cortesia? —
E di nuovo stava per venirmi su l'ondata di sangue.... ma il grido
di _avanti!_ del fattorino la compresse, come una parola magica: mi
ricordò l'_avanti!_ col quale un giovine signore, apostolo ardente
dell'Idea, una delle anime più generose ch'io conosca, soleva chiudere
ogni suo racconto di atti d'ingratitudine e di diffidenze ingiuriose
con cui era ripagato qualche volta dai lavoratori incolti e duri che
catechizzava. — _Avanti!_ — concludeva, e si ridava all'opera con un
coraggio d'eroe e una pazienza di santo. Sì, che cosa sono questi
risentimenti se non guaiti miserevoli di quello che ti resta dello
stupido orgoglio antico? _Avanti!_

                                   *

Sì, _avanti_: una bella chiusa di discorso, e com'è facile il dir
delle parole nobilmente severe al nostro orgoglio! Il male è che
l'orgoglio, quando gli si parla a quel modo, si rannicchia e lascia
dire, e poi, alla prima occasione, ricomincia a fare il comodaccio
suo. Delle belle parole glie ne dissi anche la sera dopo, trovandomi
sopra una giardiniera di via Roma, seduto, a tre panche di distanza,
dietro le spalle di _Siapure_, che aveva, accanto la sua ragazzina;
e furon parole al vento. La bimba stava voltata un po' di sbieco, e
mi guardava con una insistenza singolare. Certo, mi conosceva; certo,
aveva “letto„ qualche cosa. Ma non riuscivo a capire il suo sentimento
dal suo sguardo, che somigliava a quello con cui qualche volta si fissa
una persona pensando ad un'altra. Aveva inteso suo padre parlar male
di me? O gli aveva inteso esprimere con parole benevole il rammarico
della nostra amicizia spezzata? Sentivo un malessere sotto lo sguardo
pensieroso di quel giudice di dieci anni, che pareva mi frugasse
nell'anima, e che ora aveva l'aria di dirmi dolcemente: — So che a
mio padre vuoi ancora bene: perchè non gli stendi la mano? — e ora
con espressione di rimprovero: — Tu odi mio padre; perchè l'odi? —
No, bambina, — le risposi in cuor mio, — rassicurati, non l'odio; non
potrei e non lo merita; ho dei torti io pure. Sì, certo, dovrei esser
io il primo, come tu pensi, a tendergli la mano. Ma per far questo,
vedi, dovrei esser ragionevole e buono; e non son nè l'uno nè l'altro,
benchè abbia scritto qualche cosa che può farlo credere, e benchè tu
mi veda i capelli grigi. Io son pieno d'orgoglio. Ah, se tu sapessi
come questo povero orgoglio ci fa più piccini di voi! Ecco, vedo che
c'è un posto vuoto vicino a voi due: sento una voce che mi spinge a
scendere sul predellino e ad andarmi a sedere accanto a tuo padre; e
sento un'altra voce che mi dice: — Sta lì! Non ti muovere! —; la prima
è dolce e m'intenerisce; la seconda è aspra e mi sdegna; e non di meno
io cedo a questa; e me ne vergogno in faccia a te, cara bambina; ma
preferisco questa vergogna alla compiacenza profonda e gentile che
proverei facendo quello che tu vorresti, e che io pure vorrei. Andiamo,
volta il capo dall'altra parte, non mi guardar più; non merito lo
sguardo dei tuoi occhi buoni e innocenti, te lo assicuro! — Si fermò
in quel punto il tranvai e _Siapure_ si voltò a guardare dove fosse
diretta l'attenzione continuata della sua figliuola: mi vide e mi
fissò. Sarebbe stato quello il buon momento! Ma lo lasciai passare.
— Avanti! — gridò il fattorino, e il tranvai ripartì. Come mi suonò
diverso quell'_avanti_ da quello del giorno prima! Sì, avanti — voleva
dir questo — avanti sempre così, orgogliosi, meschini, spregevoli fino
alla morte.

                                   *

E — avanti! — gridava _Desbotonass_ ogni volta che il tranvai si
fermava sul Corso San Maurizio, la sera della festa di San Pietro.
Aveva accanto sua moglie; doveva aver festeggiato il proprio
onomastico; era briaco fradicio. I lampioni, danzando e moltiplicandosi
ai suoi occhi, confondevano le sue idee topografiche; credendo di
essere al Valentino, si stupì di veder lì la Mole Antonelliana, che
apostrofò; scambiò l'Arena torinese con una casa di canottieri; e la
vista improvvisa del piazzale delle Benne lo riempì di maraviglia
come un'apparizione fantastica. — _Ma dovè che semm chi?_ — andava
esclamando; — _ma dovè che se va?_ — E sempre ripicchiava su quel
chiodo di non voler che il tranvai si fermasse, e gridava: Avanti! con
furore crescente. Poi s'assopì per qualche momento, e, ridestandosi,
fu preso da un impeto di tenerezza malinconica per sua moglie, e
messole un braccio dietro la schiena e il capo sulla spalla, cominciò
a confessarle i suoi torti, a dirle che era una buona, una santa
donna, ch'egli era indegno di lei, che voleva cambiar vita; e glie
lo prometteva e glie lo giurava; ma prima voleva esser perdonato. E
inutilmente essa gli rispondeva di sì, che gli perdonava, ma che si
quietasse, che non facesse scene. Ogni sua assicurazione di perdono
non faceva che dar la stura a una nuova e più larga ondata di parole
di pentimento e d'affetto, rotte da singhiozzi di pianto e di vino.
— _Ah no.... meriti minga.... no, sont minga degn.... A ona donna
come ti! La mia Mariettina! Dimm che te me perdonet! Te me 'l devet
dì ancamò una volta, ancamò cent, ancamò mila volt!_... — E di nuovo
accennava a torti propri, a virtù di lei, all'assistenza ch'essa gli
aveva fatta quand'era stato malato, al rimorso ch'egli avrebbe sempre
avuto di non essersi portato con lei da buon marito, all'amore che le
avrebbe dimostrato di lì avanti, cangiando condotta, e perseverando
sulla buona via, _fina al moment de sarà i œucc_. E in quell'eruzione
di parole briache, che mettevan disgusto, veniva pur fuori il fondo
d'una natura buona, guasta, ma non pervertita ancora, che mi faceva
pensar tristamente a quante altre nature simili il vizio aveva
pervertito affatto e andava pervertendo di continuo; e alle miserie e
ai martirii d'innumerevoli povere donne come quella, torturate e uccise
dal veleno maledetto ch'esse non bevono; e tutte quelle larve d'uomini
avvelenati e di donne infelici, che mi passavan davanti per l'aria,
rendevano triste ai miei occhi quella bella sera stellata e tepida di
fin di giugno. Triste di questo pensiero antico, misto di rimorso e
di vergogna; che non facciamo nessuno il dover nostro, che dovremmo
bandire una crociata universale, ardente e infaticabile contro il
mostro, non per mezzo di leggi e di prediche, ma disputandogli ad una
ad una le sue vittime, con amor paziente e intrepido, col consiglio,
con la preghiera, con la carità, con la comunione intellettuale,
con tutte le forze che mettiamo in opera per salvar dal suicidio un
fratello.



CAPITOLO SETTIMO.


                                                              Luglio.

Calori, languori, esami: soffia il terror del _cinque_ e dello
_zero_ anche sulle giardiniere. Il tranvai è come una gazzetta vocale
viaggiante che ci tiene in giorno non solo degli avvenimenti politici,
ma delle passioni predominanti a volta a volta nello spirito pubblico.
Da una settimana, su tutte le linee, colgo a volo da passeggieri
d'ogni condizione frammenti di discorsi scolastici, espressioni di
timori e di speranze, accenni a difficoltà e a pericoli, esclamazioni
sospirose di mamme, che parlano di “preferenze„ e d'“ingiustizie„,
di “raccomandazioni„ e di “pressioni„ come se avessero i figliuoli
sotto processo. Sui tranvai che passano davanti alle scuole verso il
mezzogiorno, salgono ragazzi e giovinetti coi capelli arruffati, col
viso acceso e con le mani sporche d'inchiostro; i quali parlano con
voce eccitata e stanca di soldati che si raccontino a vicenda i casi
d'una battaglia. Si sente nella voce d'alcuni l'intenzione di farsi
ascoltare e il compiacimento altero della vita intellettuale, si vede
negli occhi loro un balenìo di speranze lontane di gloria, di alti
uffici sociali e di ricchezze conquistate con l'ingegno. Ahimè! E io
penso a quanti di loro, dopo esser passati per la trafila d'altri cento
esami, e aver tentato e abbandonato, sgomentati dalla moltitudine dei
concorrenti, molte altre vie maestre e traverse, parrà una fortuna
di potersi rifugiare in uno di quei carrozzoni, col libretto degli
scontrini in mano e il corno appeso al collo. E non vedo l'ora che
sian passati questi “giorni del terrore„ dell'istruzione pubblica,
poichè i discorsi che ascolto mi fanno pensare a migliaia di cervelli
strapazzati, di cuori trepidanti, di amari disinganni paterni, di
castighi, di scene domestiche dolorose, ed anche a suicidi miserandi
d'adolescenti; e all'udir quelle allusioni alla farraggine delle
materie d'esame, mi domando con tristezza quanto tempo passerà prima
che s'abbia il sapiente coraggio di procedere a una semplificazione
degli studi, la quale ne faccia d'un carico opprimente un nutrimento
sano e gradevole, e penso con dolore che passerà un tempo anche più
lungo prima che siano migliorate in modo le condizioni del lavoro
meccanico, che non paia più una condanna il dovervi rimanere e quasi
una degradazione il discendervi; senza di che non vi è salvezza per la
società civile, che sarà uccisa dalla pletora degli spostati infelici
e violenti. Ma mi rallegra un caso ameno, e non raro. Mi trovo sopra
una giardiniera con un arguto professore di liceo, il quale, dicendomi
che dallo strapazzo intellettuale nascerà nel venturo secolo qualche
nuova malattia, una specie di tabe scolastica, che istupidirà un'intera
generazione, tace tutt'a un tratto per tender l'orecchio verso due
signore, che salgono dietro di noi, seguitando un discorso in cui egli
ha inteso il suo nome. Ah! sono pericolosi i tranvai, in questi giorni,
per i professori! Tendo l'orecchio anch'io. — Il grande scoglio è
quello —, dice la signora più giovane, sospirando; e ripete il nome. —
L'anno scorso si sperava d'esserne liberati, poichè n'è stufo anche il
preside; ma ha delle protezioni al ministero, dicono, e restò. Basta
guardarlo in faccia. Un di quei cani!

                                   *

Ma il luglio, con l'aprirsi dell'_Arena_ e del _Teatro torinese_,
posti sulla linea dei viali, mi portò un divertimento nuovo, che trovo
descritto fra gli appunti, in una pagina finita. È uno spasso per me il
percorrere quella linea la sera della domenica, all'ora che finiscono
le rappresentazioni diurne. All'imboccatura di via Vanchiglia, e poi
davanti all'Arena e al Teatro, si fanno tre infornate successive
di passeggieri che portano nel tranvai tre ordini di discorsi
disparatissimi di argomento, d'intonazione e di mimica, discordanti
all'occhio non meno stranamente che all'orecchio. La prima è tutta
d'uomini, usciti dal gioco del pallone, che continuano i commenti e le
discussioni sulle partite e sulle scommesse, ripetendo cento volte le
stesse parole: quindici, quaranta, fallo, dividendo, battuta, rimessa,
e imitando i colpi e le mosse con gesti impetuosi e esclamazioni
ammirative, in cui spira un soffio sano di forza, di lotta, d'aria viva
ed aperta. Davanti all'Arena, dove si rappresenta l'operetta, salgono
dei giovanotti col viso acceso di tutt'altra fiamma, i quali commentano
con risate e parole grasse le maglie piene, i gesti impronti e i motti
equivoci, spandendo intorno un soffio di sensualità e di licenza, che
desta nei vicini dei sorrisi lubrici e delle fantasie peccaminose. Un
po' più là vengon su dal Teatro bottegaie, crestaine, qualche volta una
famiglia intera, tutti coi lucciconi, ancora commossi dalla chiusa del
dramma, esclamando tutti insieme: — Una bella produzione! — Fa troppo
pena. — Hai visto com'è morto? — Ha fatto la fine che si meritava. —
Povera ragazza! E son cose che succedono! — e spira nei loro discorsi
lo sdegno contro il malvagio, la pietà per l'innocente oppresso, la
gioia della virtù trionfante, una commozione buona, sincera, profonda,
che fa comprendere quale grande forza, disconosciuta dai più, male
usata da molti, inettamente trascurata da municipi e da governi, sia
il teatro popolare. E da un capo all'altro della giardiniera gioco,
musica e dramma, nomi di battitori e d'attori, ritornelli, volate,
pistolotti, morte, amore, totalizzatore mi si confondono all'orecchio
in una sola conversazione strana, antitetica, burlesca e triste come
la vita: immagine della vita anche in questo: che a ciascun gruppo
pare leggiero, stupido o odioso l'argomento dei discorsi dell'altro, e
che basta l'accidente più futile, come l'apparizione d'un cappellino
stravagante o il barcollare d'un ubbriaco che passa, a far sì che
tutti si distraggono dai loro pensieri e mettan fuori in coro un _Oh_
prolungato di stupore, che rivela il fondo fanciullesco di tutti.

                                   *

Pioggie, uragani, il mondo sottosopra: un'estate degna dell'inverno
di Abba-Garima. Ma debbo ai carrozzoni chiusi d'essermi trovato in una
delle congiunture più curiose che possano occorrere a un passeggiere di
tranvai. Dopo tanto tempo ritrovai sulla linea di via Garibaldi il bel
capitano di fanteria e la moglie ipotetica dell'impiegato delle Poste
(lettere raccomandate). Alla prima occhiata mi parve che non fossero
più audaci come l'altra volta, che la passione, quetandosi un po',
avesse ridato luogo in loro alla prudenza dei primi giorni. Eran sedute
dentro con noi altre persone, fra cui ricordo un giovanotto che aveva
nella cravatta una grossa spilla di porcellana, con su scritto ad arco
in caratteri leggibilissimi: — _Cerco moglie;_ — ma questi e gli altri
discesero in Piazza Castello, e restammo noi tre soli. Vidi allora
negli occhi dei due, che sedevano l'uno di fronte all'altro, balenare
un raggio come di speranza. Senza dubbio, s'avevano da dire qualche
cosa d'importante prima di lasciarsi, come facevan sempre, come due
persone che non si conoscessero, e aspettavano che io discendessi in
via Po. Ma io dovevo fare ancora un buon tratto; oltrechè mi tratteneva
lì la curiosità inseparabile dalla mia professione. M'accorsi ch'erano
impazienti, incontrai uno sguardo di lui che mi disse chiaramente: — Se
sapesse che piacere mi farebbe a discendere!

— Pensi un po' se non lo capisco! — gli risposi dentro di me. — Ma
debbo trattenermi per ragion di studio: lei ci ha il suo amore, io ci
ho il mio libro.

Il tempo passava. Uno sguardo della signora mi disse: — Se ne vada
dunque una volta! — ma così apertamente, che ne fui offeso. E le
risposi con gli occhi: — No, non è codesta la maniera: me lo chieda con
più garbo e potrà essere ch'io la contenti.

Si scambiarono un'occhiata che equivaleva a un'esclamazione a due voci:
— Che testardo importuno! — Egli tormentava con la mano la dragona
della sciabola; essa l'anello dell'ombrellino.

Un momento dopo egli mi diede una guardata che fu un vero e proprio
spintone; ma essa corresse subito l'effetto dell'atto brutale con uno
sguardo ansioso e quasi umile, che diceva: — Lei ha capito; mi faccia
questo favore; non abbiamo più che un minuto; la supplico.

Impietosito, feci l'atto di alzarmi; ma in quel momento sonò il
campanello e il tranvai s'arrestò: saliva una famiglia.

E allora mi fulminarono tutti e due insieme con una tale occhiata,
che mi parve di sentirmi entrare a un punto nelle carni la punta
dell'ombrellino e la punta della sciabola, e m'affrettai a discendere,
volgendo in mente questa pagina, che mi costa un rimorso. Ma non m'ero
certamente ingannato: l'amore doveva esser già malaticcio, e mi diceva
il cuore che un giorno l'avrei visto trasportar dal tranvai, come da un
carro funebre, morto di consunzione.

                                   *

Seguita un tempo matto, variato d'acquazzoni violenti, di
rasserenamenti repentini e di scrosci di pioggia rincalzanti; durante
il quale faccio una scoperta preziosa che mi apre sul tranvai un
nuovo ordine di godimenti artistici squisiti. Costretto a star sempre
dentro al carrozzone, scopro che riescono bellissimi, all'apparire
improvviso del sole, certi prospetti della città, veduti nel vano
delle due porticine che li racchiudono come in una cornice oscura,
giovando all'occhio come il far canocchiale della mano davanti a certi
particolari d'un quadro. Quante piccole maraviglie! Da via Garibaldi
immersa nell'ombra vedo un pezzo della facciata del Palazzo Madama,
con dinanzi l'alfiere marmoreo del Vela, piccolo come una figurina
di scacchiera, d'una bianchezza di neve, luminoso e vivo su quel
fondo cupo, come se splendesse di luce propria e avesse sentimento
della sua gloria. Nella via del palazzo di Città vedo inquadrato
nell'uscio, illuminato di fianco, il gruppo violento del Conte Verde
e dei Saraceni, in mezzo alle statue più lontane del principe Eugenio
e di Emanuel Filiberto: un quadretto un po' manierato e teatrale,
ma vivissimo, della vecchia Torino austera e guerriera. Vedo in via
Roma, come dentro a una finestra, l'alta figura impennacchiata del
vincitore di San Quintino, che spicca in nero sulla lontana facciata ad
arco della Stazione, trasparente e ridente come la porta monumentale
d'un giardino maraviglioso. In via Po, come pel vano di due opposte
feritoie, ammiro da una parte la Gran Madre di Dio, lumeggiata dal sole
che tramonta, spiccante sul verde fosco della collina, come un blocco
smisurato di marmo roseo, e dall'altra parte la faccia posteriore del
Castello, rude e tetra, nell'atto che n'esce e passa sul ponte una
processione di _Figlie verdi_ coi veli bianchi: un quadretto medioevale
misterioso e severo, a cui non mancano che due alabardieri corazzati
ai due lati del portone, minacciante ancora una sortita d'assediati. E
ricordo altri innumerevoli quadri alti e stretti, che presentano sfondi
lontani e vaporosi di vie diritte e lunghissime, segnati d'un tratto
nero da un camino d'officina, somigliante a un dito titanico; quadri
pieni del verde dei colli e dell'azzurro e del bianco delle Alpi, su
cui s'intaglia vigorosamente la spalla enorme d'un passeggiere ritto
sulla piattaforma; quadri semplici e profondi, d'un sol colore turchino
carico, in cui brilla uno spicchio argenteo di luna, e sopra la luna
una stella. E durante una corsa sola, cangiando il tempo, tutte queste
vedute s'annebbiano e tornano a rischiararsi, perdono e riprendono
i colori, e mentre il quadro davanti, su cui si disegna la testa del
cocchiere, si riaccende, il quadro di dietro, sul quale spicca la testa
del fattorino, si rioscura, tanto che di là par mattino e di qua sera;
e poi tutto quanto, davanti e di dietro, si confonde in un solo color
grigio, rigato dalla pioggia obliqua, dietro alla quale spariscono le
case, le colline, le Alpi, il cielo, e le due piccole porte non son più
che le cornici di due paesaggi confusi, che rappresentano l'uggia e il
malumore.

                                   *

E acqua e fulmini e ira del cielo. I giubilati debbon scappare
ogni momento dai viali per rifugiarsi nei tranvai chiusi, dove,
raggomitolandosi e tossicchiando, si lagnano dello sconvolgimento delle
stagioni, del mondo mutato, dell'estate che non è più estate come al
loro buon tempo. E in loro posso esaminar gli effetti lamentevoli di
questi improvvisi mutamenti atmosferici che aggravano il peso degli
anni, sconvolgono i nervi, inacerbiscono tutti gl'incomodi, scolorano
tutt'a un tratto il mondo e la vita a innumerevoli creature umane. Vedo
delle vere carrozzate d'umor nero, tranvai che paion sale d'aspetto di
medici consulenti, con dei visi di vecchi atteggiati a quella serietà
cupa e immobile, che tradisce la mente inquieta, intenta a osservare
i movimenti irregolari della macchina interna scomposta, minacciante
qualche brutta sorpresa. Quant'è mutato anche il mio buon veterano di
via Garibaldi! Me lo trovo davanti, rincantucciato in un carrozzone
della linea di Vinzaglio, con la fronte solcata da una ruga verticale
profonda, e al mio: — Come sta? — risponde con voce rauca: — Niente,
niente bene. E come si può star bene? Non c'è più stagioni! Chi ne
capisce qualche cosa? È il mondo che va a soqquadro.... E poi, e poi,
sono settantott'anni! — Ma non dice più quel numero in tuono di vanto:
intacca a metà della parola, che par che s'allunghi e s'appesantisca
sulle sue labbra cascanti. E quanto gli resta di vita negli occhi
lo spende a cercare dal finestrino il suo Ciuchetto, che trotterella
accanto al tranvai, tutto impillaccherato, e ad ammonirlo col dito,
quando ricompare dopo uno sviamento, perchè, dice, _lui_ sa che _egli_
vuole che cammini sempre accosto al muro, per cansare i pericoli e
perchè egli lo possa vedere. E pare che col sentimento della propria
decadenza fisica cresca in lui l'affetto per la povera bestiola, il suo
unico amico, il quale tra non molto, dopo tanti anni di fida compagnia,
egli dovrà lasciar solo nel mondo, a morire forse d'una morte atroce,
dopo molti mesi di vita randagia e famelica, esasperata da persecuzioni
crudeli. Fuggono intanto di qua e di là dal tranvai, sotto la pioggia
dirotta, gli alberi frondosi dei viali, fuggono le colonne snelle dei
nuovi portici, appaiono e dispaiono le imboccature delle grandi strade,
e sopra ogni cosa scorre a traverso ai vetri il suo sguardo velato
da un'espressione di tristezza, come se egli pensasse che è quella
una delle ultime volte che gode quello spettacolo e il suo spirito
pigliasse comiato quel giorno dalla sua cara e bella Torino. — Ah,
bella, sì, e quanto! — par ch'egli dica con quello sguardo, — bella
anche con questo tempo, bella anche così grigia e malinconica, anche
così immollata e infangata come il mio povero cane....

                                   *

Una bella giornata, finalmente, e una bella scena, un esempio
nuovissimo della potenza del femminino eterno, quale non può darsi che
sulla carrozza di tutti. Una bella ragazza bruna, esuberante di vita,
con un roseto vermiglio sul cappellino, stretta in un superbo vestito
nero luccicante di perline nere, che le modella come una maglia il
busto svelto e opulento, siede in capo a una panca della giardiniera,
tenendo una gamba sull'altra e un piedino per aria; il quale sfida
il mondo, di pieno accordo col viso, scintillante di civetteria,
e sorridente d'una larga bontà consolatrice. La giardiniera corre
sotto il sole giù per il viale Regina Margherita, dov'è costretta a
rallentare perchè è smossa la strada, e lì s'incontra con un reggimento
di fanteria che vien su in quattro file, di cui la prima a sinistra
passa rasente la pedana, dalla parte dov'è seduta la bella. Primi i
soldati della fanfara, passando con le trombe alla bocca, volgon gli
occhi a quel viso bruno che sorride sotto quel cespo di rose rosse e
a quello stivaletto giallo che segna il tempo della musica sotto quel
vestito imperlato. E dalla fanfara pare che la scintilla trapassi
lentamente per tutta la colonna. A tre, a cinque, a otto per volta, man
mano che passano, tutti i chepì si voltano, tutti gli occhi s'avvivano,
tutte le bocche si arrotondano; sul viso degli uni guizza un sorriso,
dalla bocca degli altri scocca una parola; molti si girano indietro,
parecchi perdono il passo, e chi dà di gomito al vicino, chi si sporge
un po' in fuori per veder più da presso il piedino e il roseto. A dieci
passi di distanza l'effetto della scintilla è già visibile. E via via,
ufficiali, soldati, caporali, sergenti, teste bionde del settentrione
e teste brune del mezzogiorno, visi barbuti e imberbi di piemontesi,
di napoletani, di siciliani, di sardi, per quanto la colonna è lunga,
tutti si voltano dalla stessa parte, come se sfilassero davanti a un
generale d'armata, ed esprimono con lo sguardo il pensiero medesimo,
con una regolarità preveduta, che finisce con mettere in allegria
tutti i passeggieri del tranvai, adocchianti a vicenda i soldati e la
ragazza, la quale sorride amabilmente a tutto il reggimento, come una
sovrana contenta. Oh eterno femminino! E pensare che la grande forza
dello Stato è formata da cento colonne d'uomini come quella, ciascuna
delle quali, passando davanti a quel roseto, farebbe come quella fa;
che quel visetto bruno darebbe una scossa elettrica a tutto l'esercito
nazionale, se tutto l'esercito le sfilasse accanto a quel modo! Che
cos'è mai un grande esercito visto dall'alto d'una giardiniera, quando
sporge fuor di questa lo stivaletto d'una bella ragazza!

                                   *

E pioggia da capo, e vento, e tuoni: i cocchieri hanno il viso
lavato dagli acquazzoni, i cavalli grondano, i vetri sgocciolano,
le signore salgono con le vesti fradicie e con la bocca torta, e
lanciano, entrando, occhiate feroci l'una all'ombrello dell'altra. La
cortesia consueta si risente del cattivo tempo anche fra le persone
più cortesi, e pure i visi più simpatici appariscono in una luce poco
favorevole. No, non son questi i giorni da cercar moglie sui tranvai:
non ci si vedono che signorine smorte, imbronciate contro il cielo:
il mio bel pittore, se ancora non ha trovato, deve perdere il suo
tempo. E argomento dal suo viso l'una e l'altra cosa, vedendolo salire
sul carrozzone in via Madama Cristina; e più che dal viso, dall'atto
rabbioso, in lui insolito, col quale dà uno strappo all'ombrello che
non si vuol chiudere. Sul suo largo viso roseo di buon ragazzo v'è
un'ombra di malinconia anche più scura di quando lo vidi l'ultima
volta, e sotto quell'ombra un'altra, che par d'una irritazione
abituale. Gli domando se ha trovato: egli scrolla le spalle d'atleta
con un moto di dispetto fanciullesco, corretto da un sorriso forzato
di cortesia, e inveisce contro il tempo. Ma è tutt'altra, capisco, la
causa del suo malumore; lo capisco un momento dopo da una tirata rude
e sconnessa ch'egli fa contro le ragazze torinesi, con la violenza
improvvisa d'un uomo d'animo semplice, a cui manca ogni sentimento
dell'arte delle transizioni. — Anime fredde, pezzi di ghiaccio,
bambole; belle bambole, piene di tritura di legno. — C'è di mezzo
una bambola — dissi tra me, — senza dubbio. — Per loro — continuò
— tutto sta nel _bel contegno_; ma quando sotto il bel contegno non
c'è nulla.... è la virtù delle statue. Manca la materia combustibile,
questo è quanto. Angeli d'alabastro, santine di neve. Ha detto bene
l'Alfieri: _là dove Italia boreal diventa_. Figliuole di Borea. — Io
lo incoraggiai, paternamente. Che diavolo! Se non faceva breccia un
uomo come lui, un Ercole gentile, bello, artista, sul fior dell'età,
chi l'avrebbe fatta? — Ah sì, artista! Non è aria per l'arte qui; se
fossi un uomo di scienza, o se portassi le cedole appese al collo,
forse.... — E poi lo cominciava a seccare anche la città; anzi era un
pezzo che lo seccava: tutta quella geometria, tutto quel giallo, quel
girare e rigirare e parersi sempre nello stesso luogo! A giorni gli
saltava il ticchio di far le valigie e di scappare come un cassiere.
Non aveva alcuna meta determinata: gli sarebbe piaciuto di andare a
caso, di città in città, lontano, fino all'ultima punta della Sicilia.
— Guardi un po' queste case, queste strade, se non fanno pigliare in
odio l'angolo retto e l'omologia. E la gente è tal quale. Non le pare
che tutti si rassomiglino? Come no? Ma ci son centinaia di signorine
che paiono state tutte calcate l'una sull'altra, ritagliate con un solo
giro di forbici sopra un foglio piegato in cento.

— Ah! — gli dissi ridendo — ce ne dev'esser una che è sfuggita alle
forbici....

Ma non mi badò, e insistette. Da qualche tempo vedeva delle carrozzate
di gente che avevan tutti un'aria di famiglia; tutti i giovani
gli parevano impiegati a _mille e due_, i vecchi, tutti sergenti
pensionati, le signorine, tutte istitutrici di collegio, tirate a filo
di regolamento....

— Eh, lasci andare, — gli osservai, — ci son pure delle belle
ragazze....

— Oh per questo sì! — E qui si tradì. — Ci son dei tipi.... delle
figure raffaellesche.... certi visi bianchi con gli occhi azzurri....
d'una purezza, d'una grazia! Ma manca la vita, la fiamma. N'ha più una
siciliana nel dito mignolo che dieci di loro da capo a piedi....

    Io ci volevo un core
    Dentro a quel seno bianco....

E tacque un momento; poi riprese bruscamente: — Io, già, vedo delle
gran facce antipatiche. — E chiamò la mia attenzione sui passeggieri.
— Veda un po' che mutrie. Mi par di vedere un piccolo museo d'automi di
cera. Sarà anche un po' effetto del tempo, forse.... Insomma, mi secco.
— E dopo un po', nell'atto di scendere, soggiunse sorridendo, ma con
accento di tristezza: — Mi darei per un nichel....

— È preso, — pensai, — non c'è dubbio; preso da un viso bianco con gli
occhi azzurri. Oh, imbroccherò bene il tranvai dove ci saran tutti e
due....

                                   *

Fu il pittore che me l'attaccò? Fu il brutto tempo? Fu una cattiva
disposizione di salute? Per alcuni giorni soffersi anch'io del suo
male — l'uggia del prossimo — un male bisbetico, il quale s'inasprisce
in particolar modo nei tranvai, dove le facce antipatiche, che per la
strada non si vedono che di sfuggita, ci rimangono sotto gli occhi per
qualche tempo, e s'è quasi forzati a guardarle. Antipatiche, perchè?
Non può esser altro che per questo, che son per noi delle maschere di
nemici ipotetici, facce da cui argomentiamo opinioni, passioni, gusti,
consuetudini opposte alle nostre, esseri, fra i quali e noi, se ci
frequentassimo, non potrebbe correre nè affetto, nè stima, nè accordo
alcuno. Quante ne vidi in quei giorni, e quante ne ricordai! E a chi
non accade lo stesso? Son persone sconosciute con cui da anni, ogni
volta che c'incontriamo, scambiamo uno sguardo malevolo, o indifferente
ad arte, o facciamo uno sforzo per non guardarci; gente di cui lo
sguardo, la voce, la sola vicinanza ci mette in impiccio, ci dà una
molestia, un senso sgradevole come quello d'una punta di stecco fra i
denti o dei capelli tagliati nel collo; disgraziate creature, di cui
il passo, il modo di far fermare il tranvai, di salire, di sedersi, di
pagare, di metter lo scontrino sul cappello, tutto ci è spiacevole,
come se fossero stati impastati e ammaestrati per farci dispetto.
Quando ce li vediamo all'improvviso daccanto, ne risentiamo una scossa,
come per un urto, e un sentimento di suggezione ad un tempo, come se
sotto il loro sguardo si tradisse il nostro pensiero, ed essi potessero
misurare la piccolezza dell'animo nostro dal potere che hanno sopra di
noi. E quella promiscuità forzata del tranvai ce li rende più uggiosi,
come degli intrusi in casa nostra, ed è una vera liberazione quando
discendono. Quanti ce ne sono, e come ci pullulano davanti in quei
giorni di malumore! Pare che ciascuno ci perseguiti e che tutti si
siano dati l'intesa per non lasciarci pace. Non ricordo bene quanto
sia durato quel periodo; ma so che mi parve di riveder tutti quelli che
avevo intoppati in vari anni. Feci delle corse calamitose, durante le
quali cinque o sei, successivamente, mi si strofinarono addosso salendo
e scendendo, m'infradiciarono coi loro ombrelli, mi soffiarono in viso
il loro alito, mi gridarono all'orecchio degli _alt_ e dei _ferma_
stonati, nasali, villani, melliflui, irritanti, mi fecero sentir dei
discorsi scipiti, vanitosi e pedanteschi, mi tormentarono coi loro
sguardi insistenti coi quali parevano dirmi: — Siamo saliti apposta per
te e spendiamo con piacere due soldi per farti soffrire. — Che rabbia
e che vergogna! Sì, proprio, patimenti vergognosi, antipatie ignobili,
rabbie miserabili, mosche e vermi dell'anima, che, se un atto della
volontà si potesse rassomigliare a un atto meccanico, direi che vanno
spazzati via con la scopa.

                                   *

Una commozione viva di pietà mi ruppe il corso di queste giornate
maligne. In una giardiniera di via Garibaldi, su una delle prime
panche, era seduto un soldato con l'uniforme d'Africa: un piccolo
fantaccino macilento, che pareva non accorgersi d'essere guardato
da tutti, e che alle domande di cui lo tempestavano alcuni vicini
curiosi rispondeva a monosillabi, con l'accento d'una persona seccata,
guardando qua e là, come se cercasse qualcosa per aria, con lo sguardo
diffuso e fuggente, proprio degli scampati a una strage. Ebbi un
rimescolo quando, voltandomi indietro, vidi ritta dietro all'ultima
panca, col suo sacco solito, la vecchia di Pozzo di Strada, immobile,
con tutta l'anima negli occhi, fissi sull'elmetto di quel giovane con
l'espressione attonita e profonda dell'ipnotizzato, intento all'oggetto
che lo affascina. Certo, essa viveva ancora tra la disperazione e la
speranza, e la vista di quell'uniforme le risollevava nell'anima in
tutta la prima violenza la tempesta dei due opposti sentimenti che se
la contendevano. Era una povera divisa di tela come quella, che da
quattro mesi eterni essa vedeva col pensiero, lacera, sforacchiata,
insanguinata, fatta a brani e sparsa per le rocce e pei rovi del campo
di battaglia scellerato. Chi sa mai che cosa pensasse, che cosa vedesse
in quel momento nella figura di quel soldato? Che cosa le diceva mai
quello spettro del suo figliuolo, sorto improvvisamente sulla sua
strada: — Mamma, son vivo? Mamma, soccorrimi? Mamma, muoio? son morto?
addio per sempre? — Le era un conforto o uno strazio il vederlo? Non
si poteva comprendere da quel suo viso chiuso di vecchia contadina
usata a soffrire, da quel suo occhio immobile, dilatato, asciutto, che
pareva fisso in un punto solo di quella persona come in un altr'occhio
che s'affisasse in lui, fisso come se non si fosse dovuto movere
mai più se la corsa non avesse avuto più fine. E mi domandai perchè,
appena vedutolo, essa non fosse corsa a interrogarlo con quell'ingenua
illusione delle madri ignoranti che domandano allo sconosciuto reduce
dall'America notizie del figliuolo emigrato. Pensai che forse ella
aspettava che il tranvai si fermasse per andarsegli a sedere accanto;
ma il tranvai si fermò ed ella non si mosse. Fu timidezza? O la ritenne
il terrore di saper la verità? Discese, come sempre, al crocicchio di
via Venti Settembre, e appena fu sul marciapiede, si fermò, col suo
sacco in spalla, e si voltò indietro a guardare il soldato un'ultima
volta. E poi tirò via, a guadagnarsi il pane, curva sotto il suo sacco
e sotto il suo dolore.

                                   *

Ripiove, e riecco la noia dei carrozzoni chiusi; ma rallegrata da
una “scena d'interno„ amenissima. V'è nel mezzo una signora secca e
elegante, già sulla “detestata soglia„ della maturità, visibilmente
stizzita dalla vicinanza d'una bella bionda giunonica di vent'anni,
che la offusca con lo splendore del suo viso e con lo sfarzo dei
suoi abiti, e a cui ella saetta delle occhiate di traverso come se
le volesse dar fuoco. In un angolo, seduto sulle ginocchia di sua
madre, un bimbo paffuto, inebbriato dal profumo d'un canestrino di
lamponi, su cui lascia gli occhi, senza punto intenerire la servotta
rosata e tutta curve che lo tien fra le mani; la quale finge di non
sentire il gomito e il ginocchio audace d'un satirello canuto, con
gli occhiali d'oro e il nastrino di cavaliere, che par che fonda al
suo contatto. — _Invidia, gola e lussuria_, — mi dice all'orecchio
quel diavolo di _Schopenhauer_, a cui nulla sfugge; un mio buon amico,
pessimista marcio, ma galantuomo, che non avrebbe alcun difetto oltre
la sua filosofia, se non fosse, nonostante questa, infiammabile come
un arabo. Il tranvai si ferma per aspettare la pancia d'un signore
che viene avanti di lontano a passo di lumaca, come se dormisse
camminando. E l'amico scatta: — Ma costui s'infischia del mondo! — e se
la piglia col fattorino: — O che dobbiamo aspettare il comodaccio di
quel pachiderma?... E avanti dunque, maledetta l'accidia! — _Accidia
ed ira_, — dico io, puntando il dito nel petto a lui, che sorride
amaro. Sale finalmente l'aspettato, s'adagia, e si riparte. Ma ecco
che, dopo pagato il biglietto, il nuovo entrato si lascia sfuggire
dal portamonete bellissimo un soldino, che rotola fra i piedi dei
passeggieri. Si china lui, si china il fattorino, si scomodano tutti,
e il soldo non si trova, ed egli s'ostina a cercare e a scomodare
il prossimo, che principia a brontolare, sudando e soffiando, col
viso acceso e turbato, come se avesse perduto un diamante. — To' —
dice allegramente lo Schopenhauer, — l'_avarizia_. — Ma la nostra
attenzione è attirata in quel punto da una vecchia signora segaligna,
entrata poc'anzi dall'altro uscio, la quale, all'atto di pagare,
s'accorge, quasi spaventata, di non avere in dosso il portamonete.
— Mi permetta di pagar per lei, _madama_, — le dice cortesemente un
signore che le sta accanto. — A chi dovrò render la moneta? — domanda
essa, con un'aria di diffidenza. — La darà a un povero, — risponde il
passeggiere. Quella sta un momento pensando.... Che sarà mai passato
per quel cervello di scarafaggio? Prende un'aria sostenuta, come se
fosse stata offesa, tira il campanello, e discende. — E _superbia_! —
esclama il mio amico ridendo. — Tutti e sette in una corsa sola! Ah,
siamo proprio maturi per un nuovo diluvio. È un mondo finito!

                                   *

Sì, strano davvero un mondo in cui si fanno delle scoperte come quella
che facemmo il giorno dopo, sulla linea della barriera di Casale, io
e un mio amico emiliano, critico letterario acuto, e raccoglitore
attivissimo di “documenti umani„. Questi, nell'atto di pigliare il
biglietto, osservò e mi fece osservare la mano aristocratica del
fattorino, piccola e bianca, con le dita affusolate; alla quale
corrispondeva, più nell'espressione che nei lineamenti, il viso
pallido, contornato d'una barba castagna finissima. Subito dopo il
fattorino scambiò col controllore alcune parole in italiano, ma con un
accento emiliano spiccato, in cui il mio amico riconobbe la pronuncia
particolare della classe signorile della sua regione. Osservammo i suoi
modi: era singolarmente cortese, ma un po' impacciato, un po' timido,
come se fosse nuovo al suo ufficio; nel quale, peraltro, pareva che
mettesse molto impegno. — Qui c'è un mistero, — disse il professore,
investigatore eterno d'uomini e di cose; e appena il fattorino si fu
scostato, domandò al controllore come si chiamasse. Costui, una figura
alta di prete spretato, dalla voce e dai gesti rudi, sorrise, e gli
diede la risposta nell'orecchio. L'amico ebbe una scossa. Era un conte,
d'uno dei più illustri casati d'una città illustre, discendente, forse,
della madre d'un poeta famoso.

Eccitati dalla curiosità, domandammo al controllore se sapesse da quali
vicende quegli fosse stato ridotto in quella condizione. Non lo sapeva;
ma conosceva l'uomo da vari mesi. Oh, un gran buon volere, una gran
forza d'animo. Da principio ei gli aveva detto: — Badi, questo mestiere
non fa per lei; vedrà che non ci può reggere. — Ma il conte gli aveva
risposto con fermezza: — Vedrà che mi ci adatterò come gli altri. —
E, infatti, aveva tenuto duro. Egli, peraltro, gli continuava a far
delle raccomandazioni, di quando in quando: che non usasse con la gente
troppe delicatezze, perchè eran mal ricambiate; che a chi trattava male
rispondesse secco, se voleva che lo rispettassero; che certi villani,
a trattarli coi guanti, s'insuperbiscono, e diventano più prepotenti.
Ma sciupava il suo fiato: quegli era malato di gentilezza incurabile,
e appunto per questo, che cos'è il mondo! i passeggieri, in generale,
trattavan peggio con lui che con gli altri.

Mentre il controllore parlava, il fattorino girava dentro il carrozzone
e con le sue mani patrizie pigliava i due soldi da signore, da donne
del popolo, da operai; nessuno dei quali poteva immaginare per che
lungo ordine di magnanimi lombi discendesse il sangue purissimo a
quell'uomo che porgeva loro lo scontrino con tanto rispetto. Ed io
lo guardavo, e pensando ai tanti che si bruciano le cervella per un
rovescio della fortuna, sentivo una simpatia e un'ammirazione più
viva per lui, che la mala sorte sopportava con così sereno coraggio,
guadagnandosi il pane con un lavoro onesto, mostrandosi veramente
nobile d'animo quale era di sangue.

Tornato accanto a noi, egli porse lo scontrino a una graziosa ragazza
in capelli, salita un momento prima sulla piattaforma, con un grosso
involto di panni sotto il braccio; la quale mostrò di compiacersi assai
dell'atto e del sorriso cortese con cui egli prese i suoi due soldi
e le disse grazie, inchinandosi leggermente. Il fattorino rientrò; il
professore domandò alla ragazza: — Vuol diventare contessa?

Quella lo guardò, stupita.

— Ma sì, — riprese l'amico; — non ha che da innamorare quel fattorino,
che è un conte.

La ragazza diede in un gran ridere; poi, accennando col piede
il canestrino della colazione posato contro il parapetto della
piattaforma, disse: — I conti non mangiano lì dentro.

Noi confermammo ed essa continuò a ridere; ma, cominciando a dubitare,
arrossì un poco, e si mise a guardare il giovane, che era dentro
il carrozzone, con una curiosità viva, che diventò seria a poco a
poco, come se le sorgesse dietro un sentimento di pietà. E forse per
dissimulare questo sentimento tornò a sorridere. Ma si rifece seria da
capo e, messo fuori un _mah!_ pensieroso, espresse il suo pensiero con
questo proverbio filosofico: — _Il mondo è fatto a scala_....

                                   *

Sì, uno strano mondo veramente; e scopersi appunto in quei giorni,
perdurando la pioggia, che in nessun modo se ne può veder meglio la
stranezza che di dentro al carrozzone, osservando tutto ciò che passa
di volo nel finestrino di faccia, quando si corre per una delle vie
principali. È la lanterna magica della vita pubblica, la più bizzarra
fuga delle più disparate immagini che si possano incalzare nella mente
d'un febbricitante che sogna. Ecco una gran donna seminuda, dipinta
a colori di pesca, che vi offre una bottiglia enorme d'un liquore
miracoloso, e cede il posto subito all'annunzio d'una conferenza
agraria; al quale succede una vetrina di decorazioni cavalleresche e
una vetrina di burattini, e poi il vano d'una stradetta oscura della
vecchia Torino e il cartellone della _Figlia di madama Angot_ e il
fondo nero d'una chiesa, stellato dalle candele accese dell'altar
maggiore, nel momento che un gruppo di devoti uscenti alzano la tenda
della porta. La cornice rimane immobile per pochi secondi inquadrando
una gran testa di maiale esposta nella vetrina d'un salumaio; poi
racchiude successivamente l'interno d'una bottega dove una bocca
squarciata urla una _liquidazione volontaria_, l'annuncio del Fonografo
a dieci centesimi, le _Vergini di Torino_, romanzo a dispense, e una
vetrina piena di cedole e di marenghi, nell'atto che vi specchia la
sua miseria una povera donna in cenci, con un bimbo al seno e uno
per mano. Si va di tutta corsa, e nella cornice che fugge passano con
rapidità crescente una elegante signora senza testa, col prezzo fisso
sul petto, un uomo scorticato dalla fronte ai piedi, che vi mostra
tutti gli organi dipinti, e cinquanta lire di mancia per chi ritrovi
una cagna; e poi, più a rilento, un angolo di giardino tropicale, pieno
di ananassi e di banani, e _L'assassinio della corriera di Lione_,
dramma in sette quadri, “con sparo di pistole sul palco„, e le teste
d'una ragazza e d'un giovanotto che amoreggiano al banco in fondo a
una tabaccheria. Segue un'altra breve fermata, durante la quale il
finestrino vi presenta un annunzio d'_Indulgenza plenaria_ affisso
alla porta d'una chiesa; e avanti da capo, a precipizio, l'immagine
colorita d'un biciclista che par che v'irrompa addosso, il _Pagamento
gratuito dei coupons_, la Colonia Eritrea a volo d'uccello, una gran
madonna di porcellana che guarda il cielo e un giocatore che guarda
il pallone in aria, seguìti istantaneamente da un crocchio di signori
che bevon la birra dietro un lastrone di cristallo e da un piroscafo
imbandierato che porta all'altro mondo mille affamati. L'occhio e il
pensiero riposano per un breve tratto in cui non passa che l'assito
nudo d'una casa in riparazione; e poi ricominciano a incalzarsi più
rapidi gli abiti fatti, i libri di lusso, gli specifici portentosi,
le ghiottonerie, la _Società di Cremazione_, il _Cinematografo_,
il _Sapone della Vergine_, intercalati di cento grida stampate:
— O anemici! — Tutti al Bazar! — Leggete tutti! — Incredibile! —
Inarrivabile! — Occasione unica! — che vi par di sentirvi risuonare
nell'orecchio; fin che, al momento di sboccar nella piazza, vi appare
nel finestrino, ultima visione, un piccolo cane agitantesi sull'alto
d'un carro carico e latrante furiosamente non si sa a chi o a che
cosa.... forse a quel carnevale strambo della vita, a quella confusione
matta di cose e di idee, a quella fuga ciarlatanesca di vanità, di
pompe, di promesse, di menzogne e d'insidie, che gli dà le vertigini e
gli muove la bile.

                                   *

Qui trovo segnato fra gli appunti un cambiamento generale nello stato
psicologico dei tranvaioli (la bella parola non è mia: la coniò una
povera pazza che saluta ogni giorno i passeggieri del tranvai a vapore
di Pianezza da una finestra della Villa Cristina). “A una settimana
d'acquate essendo succeduto un sereno fermo e un calore torrido e
secco, succede alla musoneria, come nei primi giorni dell'estate, un
sovreccitamento nervoso, che fa le discussioni più vivaci, la mimica
più scomposta, la galanteria più ardita, e mette ogni tanto in volto
alla gente delle vampe improvvise, da parer che piglin fuoco come
covoni di paglia.„ Tra i più eccitati trovai una mattina Carlin, sopra
una giardiniera dei Viali, acceso in viso e col berretto per traverso.
Quando salii, tuonava contro l'Impero Ottomano: le notizie dei
combattimenti seguiti in Macedonia con la peggio dei Turchi l'avevano
invasato d'odio bellicoso contro i Turchi; ai quali imprecava morte e
distruzione, mostrando il pugno a quello ch'egli credeva l'Oriente.
Ma mutò a un tratto discorso, e teso il pugno proprio dalla parte
opposta alla Svizzera, inveì contro Zurigo per la cacciata degli
operai italiani, dicendo che si dovevan mandare centomila uomini, con
gli alpini alla testa, contro quei patatucchi, a snidarli da quelle
case che avevamo fatte noi, — _noi_ — diceva, picchiandosi la mano
sul petto, — _noi_, con le nostre sacrosante mani. — Poi si rasserenò
alquanto parlando della mandata del Commissario civile in Sicilia, che
per lui era un _vicerè, dispotico di far quel che voleva_. Ma anche
su questo argomento si rinfiammò subito. — Per quella gente che non
sta mai quieta, che non vuol intender ragione, non c'è altro che la
mano di ferro d'un vicerè, che possa ridurla al dovere. — E diceva
questo senz'aver la più vaga idea delle condizioni dell'isola, per un
puro sentimento atavico d'idolatria del potere, per la compiacenza che
gli dava il pensiero d'una qualsiasi forza che vincesse e comprimesse
un'altra forza, fuori d'ogni considerazione di giustizia e di diritto.
In fine, venne a una conclusione profonda: tutto il mondo andava per
traverso; c'eran miserie e guai da per tutto; di contenti non c'eran
che quelli che facevano all'amore. — _Rien que l'amour_, — disse con un
sorriso che diede alla sua faccia un'espressione affatto nuova per me.
— Avere una donnina che ci voglia bene, e _fessla bonna_, far la dolce
vita insieme, così, come quei due là, che son sempre attaccati l'uno
all'altro come due spicchi d'arancia, sempre d'amore e d'accordo, come
se li avesse maritati nostro Signore in persona.... — E la coppia che
m'accennava, sulla terza panca davanti a noi, eran proprio i piccoli
sposi di borgo San Donato, che non avevo più visti dopo quel giorno
alla barriera di Casale.

Potei veder bene lei perchè stava seduta un po' di fianco, col viso
voltato indietro, in ammirazione di tre splendidi bambini biondi,
con le vestine bianche ricamate; il più piccolo dei quali era tenuto
sulle ginocchia da una balia in gran gala. La gestazione avanzata
aveva ridotto anche più smunto e compassionevole quel suo povero
viso a cui la natura aveva negato ogni grazia femminina e perfin la
freschezza giovanile; ma vi splendeva in quel punto la dolcezza soave
di quel primo sentimento della maternità, che in ogni bambino fa vedere
alla sposa un fratello della creatura che aspetta, e istituire dei
confronti amorosi fra quello e l'immagine che essa vagheggia; e questi
pensieri balenavano nella bontà dei suoi occhi quando essa fissava il
più piccolo di quei tre bimbi; il quale fissava lei e le sorrideva.
Certo, guardando quello, essa parlava al suo. — Tu non sarai un piccolo
signore come questo, — gli diceva forse, — la tua mamma è povera,
non ti potrà mai vestire a quel modo; ma, in compenso, sarà la tua
nutrice lei, ma non t'addormenterai mai su altro seno che sul suo, ma
avrai tante cure, tanto amore quanto ne possa avere il figliuolo d'un
principe; e se non sarai bello, se non sarai florido come questo, io
t'amerò egualmente, io t'amerò anche di più, io sarò altera e felice
lo stesso di tenerti sulle ginocchia così, di dire al mondo che sei la
mia creatura, di consacrarti tutte le mie forze e tutta l'anima mia. —
Ed era così intento e così affettuoso il suo sguardo che la balia, a un
dato punto, indovinando forse i suoi pensieri, sollevò un poco il bimbo
di sotto alle ascelle, e glielo porse; e quella, spinto il capo innanzi
vivamente, come un'assetata alla fonte, lo baciò come potè, sulla
testa, tre volte, avidamente, con gli occhi raggianti di tenerezza e di
gratitudine....

                                   *

Il caldo cresce, il sole arroventa i crani, i cervelli levano il
bollore, e i cocchieri, con gli occhi infocati e le tempie imperlate
di sudore, gesticolano nei nuvoli del polverone come oratori alla
tribuna, incitando con grida stridule di beduini i cavalli immollati
e trafelati. Sulla linea di Vanchiglia, mi trovo seduto dietro a un di
loro, che espande clamorosamente i suoi affetti con un amico ritto al
suo fianco, trinciando l'aria con la mano libera come se impartisse
una benedizione continua agli alberi e alle case. Alle prime parole
m'accorgo che non è infiammato soltanto dal caldo, ma dall'acquavite,
e appena afferrato l'argomento del suo discorso, riconosco in lui
il poveretto a cui è toccata la disgrazia del bimbo schiacciato in
via Venti Settembre. Non aveva la sbornia allegra, peraltro; non
era sovreccitata nell'anima sua che la tristezza consueta, una pietà
amara per quella sua povera figliola, sempre malata dopo quel giorno
terribile, sempre distesa là in quel fondo di letto, con gli occhi
infossati e con le mani color di cera, che s'ostinava dieci volte il
giorno a riprender l'ago e le forbici, e li lasciava ricader sulla
coltre, dicendo: — Non posso.... non posso più.... — Ma la grappa
levava l'espressione del suo dolore all'altezza della lirica. L'amico
lo confortava invano; egli rifiutava i conforti con dinieghi vigorosi
del capo, dando al freno delle girate violente. Il rumore d'una
locomotiva stradale mi coperse per qualche momento la sua voce: quando
la risentii, era cambiato il soggetto del suo discorso e cresciuto
l'ardore della sua parola. Raccontava come, tornato a casa una sera,
aveva trovato sul tavolino da notte della sua malata un mazzetto di
fiori, delle pesche, una scatola di Liebig, una bottiglia di Marsala.
Chi aveva portato quel ben di Dio? Chila — la signora! Non c'era da
domandarlo. Ma c'era dell'altro. La camera, ch'egli aveva lasciata
sottosopra, come si trovava da vari giorni, con tutte le carabattole
per aria, era ordinata, assestata di tutto punto come quando la
figliuola era _in gamba_: una cappella in un giorno di festa....
E chi aveva fatto questo? Non mica la portinaia, che s'affacciava
all'uscio la mattina e la sera, e scappava via come per paura della
peste. Era stata anche _chila_! Era capitata là una mattina a visitar
la figliuola, e, data un'occhiata in giro, aveva detto: — Ah! io non
voglio mica che la mia malatina stia in mezzo a questo _ciadel_ di
casa di matti! A me! — E tic tac, alla svelta, senza neppur levarsi il
cappellino, aveva dato sesto a ogni cosa. — _Chila_, capisci? con le
sue proprie mani, come una _donna a poste_, seguitando a chiacchierare
e a dir facezie per tenerla allegra, come una sorella. — E al momento
d'andarsene, di sull'uscio, le aveva detto: — Di' al babbo che non
beva, ricordati! — Qui il cocchiere si lasciò scappare il ridere; poi,
rifattosi serio a un tratto, proruppe in un'esclamazione appassionata:
— Ah, non ce n'è un'altra, no, non ce n'è un'altra come quella; non
c'è, non c'è un'altra santa signora compagna!

E poichè l'amico, sorridendo, gli faceva cenno che si quietasse, egli
s'eccitò di più, picchiando il pugno sul parapetto, come irritato
da una contraddizione: — Sì, è una santa signora, è un angelo, è
la madonna in corpo e in anima, e lo voglio gridare a tutta Torino,
capisci!

E una nuova esortazione dell'amico spinse ancora il furore della sua
gratitudine d'un grado più in su. Bestemmiò e ricominciò: — Sì, io
mi farei ammazzare per quella donna lì, capisci; mi farei pestare,
schiacciare, bruciar vivo, mettere a pezzi.... Oh che gioia di donnina!
Oh che amore, che benedizione, che anima santa di donnina! — e si baciò
il dorso della mano e attaccò un'altra serie di moccoli adorativi.

E quando scesi e mi voltai a guardarlo, lo vidi ancora col viso
in aria e con la bocca aperta, che apostrofava il fantasma della
_Chisciottina_, scotendo il capo a ogni parola come se scandesse il suo
laudario, e agitando la frusta da destra a sinistra come per aprire il
passaggio alla piena della sua passione.

                                   *

Sì, tutti sono sovreccitati, e più che altri gli attaccalite e i
prepotenti dello stampo di _Tintura-Migone_; per i quali pare che del
caldo, della polvere, d'ogni noia dell'estate sia colpevole tutta
quella classe di persone con cui essi possono sfogare il proprio
malumore senza pericoli. C'è chi se la piglia col cocchiere perchè vi
sono trentadue gradi all'ombra, chi aspreggia il fattorino perchè il
municipio non fa inaffiar le strade abbastanza, e perfino chi pretende
dal controllore che dia ordine di accelerare la corsa perchè, andando
come si va, corpo d'un cane, non s'è ventilati un bel corno. Ma vidi
un bel caso di castigo l'ultima domenica di luglio, sul corso Regina
Margherita. Dopo aver fatto fuoco e fiamme per una bazzecola, uno
di questi neroncelli gridò scendendo: — Vado immediatamente a far
rapporto alla direzione! — La direzione è lì, — gli disse garbatamente
un operaio che m'era accanto, indicandogli la direzione della Società
Belga, proprio di faccia alla giardiniera. Quegli, che la credeva
invece chi sa dove, e non aveva alcuna intenzione d'andarvi, guardò
l'iscrizione sulla facciata, indispettito, e dopo un momento di
titubanza, comicamente contrastante con la sua risolutezza di poco
prima, voltò le spalle ai sorrisi canzonatori dei passeggieri e s'avviò
dalla parte opposta.... col viso di quel vecchio galante del _Jean
Tommeray_ che, quando la signora ch'egli corteggia fa l'atto di cedere,
prende il cappello e se ne va via dicendo: — Saprò chi m'ha fatto
questo tiro. —

— Poteva almeno ringraziarmi dell'indicazione — osservò placidamente
l'operaio, senza sorridere. Era il lattoniere autodidattico, il
socialista “legalitario„ e ragionatore, che andava, in un sobborgo
a tenere una conferenza, stringendo sotto il braccio uno dei suoi
registri pieni di estratti di giornali e di note; e aveva accanto un
compagno tarchiato e serio come lui, un fabbro ferraio sui sessanta,
tutto grigio, suo devoto amico e ammiratore, che soleva accompagnarlo
in quelle gite, dandosi l'aria d'un segretario di gabinetto. Un
curiosissimo personaggio costui, che avevo già incontrato più volte:
entrato nel socialismo non per effetto di ragionamenti propri, ma
per fede cieca nella ragione dell'altro; la cui cultura rapidamente
acquisita e il progresso intellettuale continuo gli apparivano come
un miracolo, più efficace di qualunque argomento a dimostrargli la
giustizia della causa che aveva sposato. Il progresso del lattoniere
era continuo, infatti: bastò un breve discorso a provarmi che anche
nei due mesi da che non l'avevo più visto la sua mente s'era allargata
e arricchita, e la sua parola fatta più facile e più esatta. Rimasi
addirittura maravigliato a udirlo commentare le recenti elezioni
generali del Belgio in confronto con quelle di due anni innanzi,
spiegando la ragione del quasi assoluto annientamento del partito
liberale; giustificando l'alleanza dei socialisti coi radicali, ch'era
stata fatta dai primi senza alcuna concessione pericolosa alla loro
indipendenza avvenire; calcolando come, se non ci fosse stato il
voto plurimo, se tutti i partiti fossero scesi nella lotta ad armi
eguali, non il clericale, ma il socialista avrebbe avuto la vittoria.
Ma dall'uomo pratico ch'egli era, di questo non andava a parlare ai
suoi uditori: andava a persuaderli della necessità d'un'associazione
cooperativa, con argomenti tratti dalle loro condizioni e dai loro
bisogni particolari, ch'egli conosceva perfettamente, come conosceva
i bisogni, le condizioni d'ogni sobborgo o villaggio, industriale o
commerciante od agricolo, in cui fosse chiamato a parlare; in ciascuno
dei quali arrivava con un grande corredo di osservazioni, di notizie
e di cifre, raccolte pazientemente da pubblicazioni statistiche e
da conversazioni con gente colta, anche d'altri partiti. E mentre,
scansandosi ogni momento per lasciar salire o scender qualcuno, egli
mi esponeva la traccia della sua conferenza con quella semplicità
modesta di linguaggio e d'intonazione, che faceva il miracolo di
soffocare nei suoi eguali ogni gelosia della sua autorità e quasi
ogni invidia della sua preminenza intellettuale, io osservavo il suo
vecchio compagno, tutto intento alle sue parole; il quale guardava
lui e me, alternatamente, con un'espressione viva di compiacenza
d'amico e d'alterezza di collega, mista di non so che di paterno e
di umile insieme; tanto più commovente in quanto era visibile che
il suo cervello, intorpidito dal disuso, apertosi troppo tardi a
quella nuova luce di idee, non lo capiva che per barlume. Punto dalla
curiosità, tirai anche lui nel discorso; nel quale entrò volentieri,
con una vivacità che mi stupì; ma per uscir dall'argomento quasi
subito, con frasi indeterminate e strane, che attirarono fortemente
la mia attenzione. Riconobbi sull'atto il caso, accennato dal De
Vogüé, d'una di quelle dottrine che, seguendo la legge della caduta
delle idee, discendendo, cioè, dalla mente eletta che le concepì nella
gente semplice e inculta, si deformano, o, meglio, si contraggono e
si cristallizzano in un piccolo residuo tenace, equivalente quasi a
una forza d'istinto, nata con loro. In lui era la dottrina del Rénan,
l'_Avvenire della Scienza_, ridotta in questa sola idea semplicissima:
che grazie ai progressi indefiniti della scienza, e in particolar
modo della meccanica, l'uomo sarebbe riuscito un giorno a provvedersi
così abbondantemente e con così poca fatica quanto gli abbisogna, che
ogni miseria, ogni ingiustizia, ogni lotta sociale avrebbe avuto fine
come la tempesta al cader del vento. Per quale via fosse discesa,
per quale spiraglio entrata nella sua mente, come un raggio in una
grotta, quell'idea unica, nella quale egli aveva una fede assoluta,
immobile, invincibile, e che era il tema di tutti i suoi discorsi e la
fonte d'altri cento embrioni d'idee a cui non trovava parola, forse
non sapeva dire egli stesso. Della sua stessa idea principale io non
afferrai che la coda, quando, con una brusca transizione, egli venne
a parlare dei futuri tranvai elettrici, e movendo da questi, precorse
gli anni con la fantasia, eccitato come da una visione della città
avvenire, che ritrasse in frasi vivaci ed informi, senza badare al
sorriso di compatimento con cui il suo amico lo ascoltava. Egli vedeva
le strade corse da ogni sorta di “automobili„ fitti come i moscherini
per l'aria; i ragazzi portati a scuola, gli operai al lavoro, le donne
al mercato; tutti i pesi trasportati a volo; le distanze sparite, le
fatiche soppresse, un risparmio enorme di tempo e di forza, la vita
agile e facile in tutte le sue forme: _tutt coma la losna_, tutto come
il lampo; e faceva un gesto continuo con la mano come per indicare una
cosa che guizzi e scompaia. Ed era ancora eccitato dalla sua visione
quando scese con l'amico in piazza Vittorio Emanuele per prendere il
tranvai a vapore di Moncalieri, e di lontano mi fece ancora quell'atto:
— _coma la losna_, — che riassumeva tutta la sua dottrina e la sua
speranza....

                                   *

Qui, tra gli ultimi appunti di luglio, trovo poche righe, che mi
ricordano una serata afosa, in cui il tranvai corre sotto gli alberi
non mossi da un alito, in mezzo a passanti che si fanno vento col
cappello, mostrando al lume dei lampioni la fronte luccicante di
sudore, fra due file di case alte, dove alle finestre, ai terrazzini
e alle soffitte è affacciata gente che guarda il cielo e le montagne
lontane, col capo rovesciato indietro e con la bocca aperta, come
se gridassero: — Aria! Aria! Aria! — E: — aria! — invoco anch'io,
bevendo con avidità il po' di fresco che mi manda in viso il ventaglio
d'una signora vicina. Ma al passare lungo i quartieri popolari, dove
pullulano migliaia di bimbi scalzi, sdraiati per terra, coricati sui
marciapiedi, ammucchiati nei fossi, ravvoltolantisi tra i cocci e
la bruttura, coi visi e i colli segnati di scaglie e di gore, con le
braccia e le gambe nere fino ai gomiti e ai ginocchi, e la camicia e i
panni ridotti a un solo colore dalla polvere addensata d'una settimana,
un altro grido mi vien sulle labbra. Aria, sta bene. Ma e l'acqua?
Sta bene la refezione scolastica. Ma e la disinfezione scolastica?
E mi compiaccio a immaginare un gran carro inaffiatore che corra
sulle rotaie lungo quei fossi e quei marciapiedi schizzando zampilli
su quei mucchi brulicanti di piccole creature sudicie, o un'enorme
tinozza ambulante d'acqua tepida, dove li tuffo e li sciacquo tutti
per rimandarli ai loro giochi più vispi, più sereni e più buoni.
Quanti malanni, quanti mali umori, e chi sa anche quanti piccoli germi
d'infezione derivino all'animo da quella sporcizia! Di chi la colpa?
Sì, certo, è in parte incuria colpevole; ma è più miseria, ignoranza,
penuria di tempo, di spazio, di comodi, e mancanza di dignità e
d'amor proprio che da tutto quello deriva. E allora.... allora non
trovo a confortarmi che nella dottrina del vecchio fabbro ferraio: la
scienza, la macchina vôlte a vantaggio diretto di tutti, la produzione
moltiplicata dal perfezionamento dei processi e dal lavoro fatto
universale, e il lavoro reso da queste due cause per tutti quale non
è ora che per pochi, abbreviato e alleviato in modo che a tutti avanzi
tempo, forza e libertà da dedicare alla cura del corpo e alla cultura
dello spirito. Eh, bisogna pur giunger lì, per una via o per un'altra,
se non si vuol rinunciare alla speranza! Ma mentre dico tra me queste
cose, mi dà prima nell'occhio la mano tremante con cui il fattorino
accende il lume del tranvai, e poi il suo viso malandato e turbato, che
mi par di riconoscere. È lui, infatti; il povero fattorino che, dopo
esser stato percosso, quasi mortalmente, da passeggieri sconosciuti,
contro i quali la Società ha mosso causa, trema sempre al calar della
notte, per terrore d'una vendetta. E allora mi raffiguro la scena
selvaggia, penso a quelli sconosciuti che, non provocati, per puro
istinto di malvagità, han messo in pericolo di morte e reso malato e
infelice forse per sempre un uomo onesto e buono, e ritornando al mio
ideale della miseria e dell'ignoranza soppresse, mi domando: — E la
malvagità umana sarà soppressa mai?

E questa domanda, a cui non oso di rispondere, mi lascia triste e
pensieroso. Ma per un minuto soltanto. Mi riviene in mente l'operaio
lattoniere, mi salta su dinanzi il buon falegname dalla giacchetta
di velluto stinto, penso a tanti altri che vengon su come loro, che
diffondono nel popolo idee e sentimenti di giustizia, di fraternità, di
pietà per i deboli, di orrore per la violenza, che lo educano alla vita
intellettuale, alla dignità di classe e alla fede nella forza dell'idea
e nel progresso della civiltà; e le mie speranze tornano ad accendersi
l'una dopo l'altra, come i lumi che fuggono lungo la via.



CAPITOLO OTTAVO.


                                                              Agosto.

O novellieri antichi, ricercatori amorosi e descrittori lepidissimi
di gente “semplice, grossa e di nuovi costumi„ quali tesori avreste
raccolti nella carrozza di tutti se fosse stata inventata cinque secoli
avanti! Ci sono sposi di campagna in viaggio di nozze, che fanno tre
volte la corsa circolare dei Viali, dodici miglia a un dipresso, con
l'illusione di far sempre nuovo cammino, fin che, mordendoli la fame,
discendono, sbalorditi dall'immensità dì questa Torino che non finisce
mai; montanari solitari che, arrivati alla barriera dov'eran diretti,
salgono sur un'altra carrozza partente, credendo di continuate il
viaggio, e ritornano per un'altra via al punto da cui partirono, dove
si guardano intorno stupefatti, come gente piovuta dal cielo; e poveri
villani che, addormentatisi durante la corsa, si svegliano a un miglio
oltre il punto dove volevan discendere, furiosi contro il cocchiere,
che avrebbe dovuto svegliarli, o almeno “gridar le stazioni„ come si
fa sulle strade ferrate. Più amene, anche in questo, e più stranamente
pretensiose sono le donne. Ho qui notata una balia che, non trovando
da sedere, non vuol dare più d'un soldo, dicendo che un soldo, per
stare in piedi, è già un bel pagare, e che dovevano “attaccare un
altro vagone„; due contadine che, salendo, avvertono il cocchiere di
fermare davanti alla casa d'un _monsú Garet_ o d'un _monsú Cimussa_,
sconosciutissimi, come si direbbe: — Fermate davanti al Palazzo reale;
— e una giovane alpigiana, la quale, scendendo a Porta Palazzo con un
grosso involto, prega il fattorino di aspettare, chè tornerà subito,
appena portata la roba a una sua parente; e si risente della risata
dei passeggieri, trattandoli di maleducati. Non c'è specola migliore
del tranvai per vedere quanta ingenua ignoranza giri ancora per il
mondo e comprendere perchè sia ancora tanto facile l'arte di gabbare
il prossimo. E ci sono anche i timidi, gli affannoni, nuovi affatto
a Torino, i quali, cercando il loro tranvai agl'incrociamenti delle
linee, domandano informazioni di qua e di là ai cocchieri che passano
e, non comprendendo le risposte affrettate, inseguono un carrozzone, si
ravvedono, ne inseguono un altro, s'arrestano, salgono sopra un terzo,
che non è quello, e scendon trafelati e disperati, maledicendo a quella
confusione, a quella furia infernale di tutti e d'ogni cosa, dove un
povero galantuomo perde il tempo e la testa. O povera gente, di cui
il mondo ride, poveri naufraghi della città grande, come fate pietà a
chi sotto il vostro affanno del momento indovina il pensiero inquieto
della lite che v'ha condotti fra le _cittadine infauste mura_, o della
moglie che v'aspetta all'ospedale, o del figliuolo che visiterete alle
carceri, o del lavoro che cercherete invano, o del parente agiato,
ultima vostra speranza, che vi chiuderà l'uscio sul viso!

                                   *

L'agosto cominciò lietamente con la scoperta d'un uso nuovo, a cui
non avevo mai pensato che il tranvai potesse servire. Sboccando dal
corso Valentino in via Nizza salii in fondo a una giardiniera, della
quale occupava tutte le panche, fuor che l'ultima, una comitiva
nuziale. C'eran nella prima lo sposo e la sposa, biondissima, tutta
bianca, coronata di fiori e ravvolta in un gran velo; nelle altre una
ventina di parenti e d'amici, donne grasse in abito di seta, uomini
impomatati, con la barba fatta di fresco e un fiore all'occhiello,
un vecchio con un cilindro d'altri secoli, un prete di campagna,
delle ragazze in fronzoli, dei bimbi vestiti da festa. Si capiva che
andavano al Municipio in quella forma economica non per tirchierìa,
ma per capriccio, per un gusto originale di far mostra pubblica della
loro allegria. Erano tutti allegri, infatti, come se avessero già
festeggiato la coppia di prima mattina con molte bottiglie di vermut;
le donne chiacchieranti, gli uomini sorridenti all'idea d'un pranzo
di tre ore, i vecchi ringalluzziti, le ragazze agitate. Anche il
cocchiere e il fattorino, che discorrevano con l'uno e con l'altro,
parevano presi da quell'allegria, come dai vapori d'un liquor forte.
La bianchezza della sposa velata annunziando lo spettacolo di lontano,
molti si soffermavano sui marciapiedi, uscivan donne dalle botteghe,
accorrevano ragazzi; i conducenti dei carri e i fiaccherai sorridevano,
passando, dall'alto della cassetta, e lanciavan degli scherzi: — Oh
che bella bionda! — Tanti buoni auguri! — Salute e figliuoli! — e i
cocchieri degli altri tranvai salutavano il loro collega, auriga del
settimo sacramento, strizzando gli occhi e cacciando fuori la lingua,
mentre i passeggieri si voltavano a guardare tutti insieme, ilari e
curiosi. E la comitiva, eccitata dall'ammirazione pubblica, parlava
più forte, gesticolava più vivo, rideva più alto, incitava con la voce
i cavalli, che andavan di galoppo per via Lagrange, al suon dei fischi
raddoppiati del cocchiere, facendo sventolare come una bandiera il velo
trasparente della sposa bionda, accesa ogni tanto dai raggi di sole
irrompenti dalle vie laterali, e troneggiante nella sua bianchezza come
sopra un carro di trionfo. E mi pareva davvero un carro di richiamo
mandato in giro da un'agenzia di matrimoni o da qualche Società di
propaganda coniugale, un po' carnevalesco, ma pure gentile e simpatico;
e chi sa? forse la prima forma d'un carro da nozze del duemila, quando
tutto sarà servizio pubblico, e si sposeranno con la stessa pompa le
figliuole degli uscieri e dei ministri....

                                   *

Da più giorni spirava aria di nozze su tutte le linee; nei discorsi
delle donne e delle ragazze sentivo ogni momento dei _chiel_ e dei
_chila_, pronunciati con un accento di rispetto insolito, che si
riferivano tutti a una sola coppia, come ad un Adamo e ad un'Eva, dai
quali dovesse discendere un'umanità nuova, e notizie vaghe e commenti
fantastici sopra una bellezza femminea, che nessuna aveva vista, ma per
cui pareva che tutte avessero l'animo preparato all'ammirazione. Ero
una mattina sulla giardiniera della linea di Lanzo, ritto accanto al
cocchiere e, stando voltato di fianco, vedevo un gruppo graziosissimo:
sur una delle prime panche due giovani monache, con gli occhi bassi
e le braccia strette alla cintura; dietro di loro, quattro ragazze
del popolo, col grembialino di stiratrici; più in là un fattorino del
telegrafo. In piazza Carlo Felice salirono accanto alle monache due
signore eleganti che, appena sedute, aprirono in fretta un giornale
illustrato comprato allora, e fissarono con viva attenzione la prima
pagina. Voltandomi da capo un momento dopo, vidi le quattro ragazze in
piedi, che sporgevano il viso, scintillanti di curiosità, piegando il
capo di qua e di là per vedere il giornale, ora scoperto, ora nascosto
dai cappellini delle signore. Era il ritratto della principessa
Elena del Montenegro; il primo apparso in Italia, e che tutte, certo,
vedevano per la prima volta. Il quadretto era curiosissimo. Gli sguardi
acuti e riflessivi e le labbra strette delle due signore rivelavano
un'analisi pacata e minuta, accompagnata da dubbi e da riserve di
critici meticolosi; il sorriso muto e quasi risplendente delle ragazze
esprimeva una curiosità ancor tanto forte da sospendere ogni giudizio;
le due monache sole non avevano voltato il capo, ma non riuscivano a
dissimulare il loro desiderio di vedere, e lanciavano sul giornale
delle occhiatine rapide e oblique come sopra una cosa proibita;
e anche il cocchiere torceva il busto indietro e adocchiava, e il
fattorino, ritto sulla pedana, allungava il collo, e il telegrafista
levava il viso sopra le spalle delle ragazze. A un certo punto, forse
per respirare più libero, le due signore porsero cortesemente il
giornale alle loro vicine, che l'afferrarono come una preda, frementi
di piacere, e vi si curvarono sopra con le teste aggruppate, tirandolo
di qua e di là e facendo un cicaleccio vivissimo. Il tranvai passò
davanti alla stazione di Porta Nuova, donde usciva un'onda di gente,
di omnibus d'alberghi e di carrozze, svoltò sul Corso di Genova in
faccia alla gran muraglia azzurra delle Alpi, s'inoltrò fra i begli
alberi e gli edifizi ridenti del Corso Re Umberto, e le quattro ragazze
seguitavano il loro esame, senz'alzare il capo, non più chiacchierando,
chè avevano sfogata la loro prima furia, assorte in una contemplazione
immobile e silenziosa. Si vedevano passare nei loro occhi intenti
l'ammirazione, la simpatia, il sentimento della distanza immensa che
separava da loro la persona effigiata, lo sforzo della fantasia con
cui cercavano su quel viso i segni della predestinazione gloriosa,
il pensiero del corredo mirabile, delle grandi feste, della felicità
sovrumana che l'aspettavano, l'invidia timida e reverente d'una vita
che esse immaginavano tutta splendori, trionfi, ebbrezze, a cui la loro
speranza non s'innalzava neppure nel sogno. Ed io non potevo staccar
gli occhi da loro, e al pensare che altre migliaia di ragazze come
quelle, che altri milioni di creature umane d'ogni età e d'ogni stato
erano in quei giorni altrettanto smaniose di veder quell'immagine,
e che quell'immagine d'una fanciulla illustre e gentile, sì, ma
sconosciuta fino a ieri, sarebbe stata cercata, commentata, contemplata
religiosamente così, come non fu mai quella d'alcun eroe, o uomo
di genio o benefattore immortale dell'umanità in alcun paese e in
alcun tempo, ero preso da uno stupore profondo, come davanti a un
grande mistero, come all'intuizione confusa di qualche istinto non
ancora scoperto o compreso dell'anima umana. E ancora dominato da
questo stupore tenni dietro con lo sguardo alle quattro ragazze che
s'avviavano al sobborgo solitario della Crocetta, ragionando ancora
calorosamente di quell'immagine, come se portassero via con sè la
spiegazione di quel mistero.

                                   *

Due giorni dopo (ricordo ch'era il giorno della morte della _Riforma_),
essendo scoppiato il settantesimo temporale della stagione, rivennero
fuori i carrozzoni chiusi, ed io mi trovai il dopo pranzo, sulla
linea della barriera di Casale, seduto in faccia alla studentessa di
medicina, in mezzo a vari signori e signore, che l'osservavano, senza
parlare. A questi, che forse non l'avevan mai vista, essa faceva la
stessa impressione, m'accorsi, che aveva fatta a me la prima volta;
ma su quel viso bianco e fermo, d'una purezza di vergine ideale, mi
parve di veder qualche cosa d'insolito, il segno d'un pensiero nuovo e
vivo, che mutava sede, mostrandosi ora negli occhi, ora sulla fronte,
ora sulle labbra, come un'ombra guizzante sopra un'acqua limpida e
queta. I suoi grandi occhi celesti, però, si posavano come sempre
sulla gente con quella espressione vaga di chi guarda cose lontane,
alle quali non pensa, e la sua bocca, col labbro di sopra leggermente
inarcato, serbava quell'atteggiamento infantile, indefinibile, che
attesta l'ignoranza del bacio amoroso. Con una mano accarezzava il
lembo d'un nastro del cappellino che le scendeva sul petto; e vidi
che parecchi guardavano attentamente quella mano lunga, bianchissima,
quasi diafana, che pareva si sarebbe dissolta nel calore d'una stretta
d'amante; ed era quella mano che palpava le teste tronche, che tirava
via la pelle dagli arti recisi sulle tavole del laboratorio anatomico
e s'insanguinava cercando i muscoli e i nervi nella carne infetta dei
cadaveri mutilati. Eppure quell'immagine non mi destava per quella mano
alcuna ripugnanza come se nessun sozzo contatto potesse far macchia,
nessun lezzo attaccarsi alla purità virginea delle sue dita, nello
stesso modo che non poteva, a mio giudizio, entrare nell'anima sua
alcuna bruttura della vita e del mondo. Con questo pensiero osservavo
il movimento di quelle dita che parevan petali di giglio agitati dal
vento, quando, nell'ultimo tratto di via Maria Vittoria, il tranvai
s'arrestò al cenno d'una ragazza ritta sulla soglia d'un portone: una
brunetta svelta e messa bene, con un cappellino purpureo guernito di
tre impertinenti penne di gallo; la quale salì rapidamente, e sedette
nell'unico posto che rimaneva, accanto alla studentessa. Ah, che
imprudenza! Ecco un nuovo pericolo, prima ignorato, che presenta alle
peccatrici la carrozza di tutti. Se uscendo di dove usciva, quella
sventata avesse preso la strada a piedi, certo che sarebbe venuto a
molti, incontrandola, lo stesso pensiero che balenò a tutti noi al
primo vederla; ma, guardata di sfuggita da uno alla volta, essa non
si sarebbe trovata esposta, come fu in carrozza, all'osservazione
minuta d'un'adunanza d'inquisitori, in cui la comunanza visibile dello
stesso sospetto mutava il sospetto in certezza. Era una novizia, si
capiva bene, perchè si turbò sotto il primo fuoco degli sguardi che
non aveva preveduti, e cercò di larvare il suo turbamento voltandosi
verso la strada, leggendo gli annunzi, guardando il ventaglio, fingendo
di cercar qualche cosa nelle tasche. Ma invano, perchè, avendo fatto
cinque passi, ansava come se avesse fatto una corsa, e quello che non
diceva il suo respiro dicevano le pupille umide, le guancie rosse, le
labbra febbrili. E c'erano ben lì delle persone delicate che sentivano
la sconvenienza, la crudeltà dell'osservarla tutt'insieme e di
tormentarla a quel modo; ma potendo la curiosità più della convenienza,
gli sguardi insistevano, accusando il lavorìo impudico delle
immaginazioni, e insistettero a segno, che sul viso di lei succedette
alla vergogna l'irritazione, e poi un atteggiamento forzato d'audacia
e di sfida, la tentazione visibile di dirci fuor dei denti: — Ebbene,
sì! E con questo? Siete un branco d'indiscreti e d'insolenti! — e di
fare una distribuzione circolare di ceffate. La studentessa sola mostrò
di non vederla, di non accorgersi neppure che altri la guardasse, come
se nessuno fosse entrato; non una volta essa girò lo sguardo verso di
lei, non un'ombra, fuorchè quella del suo primo pensiero, passò sul suo
viso bianco ed immobile; e mai non compresi, mai non sentii quanto nel
confronto di quei due visi vicini la superiorità infinita dell'incanto
che vien dall'anima sopra la forza che tenta i sensi. Essa acquistava
dal confronto un lume maraviglioso di bellezza, di grazia e di dignità,
che la faceva parere una creatura d'una razza superiore, a cui si
sarebbe baciata la fronte, tirando indietro le mani.

                                   *

Dalla morte della _Riforma_ alla cattura del _Doelwick_ passò una serie
di giornate senz'incontri di personaggi della compagnia; ma non vane,
poichè da tre casi nuovi dedussi tre precetti di condotta d'una utilità
indiscutibile per i passeggieri dei tranvai.

Dedico il primo ai giovani. — “Quando s'è in piedi in fondo a una
giardiniera, in compagnia d'un amico, non esprimere mai il proprio
giudizio sulle bellezze posteriori d'una passeggiera seduta sur una
delle panche davanti, perchè fra i passeggieri ritti accanto a noi c'è
qualche volta qualcuno a cui la cosa può non garbare.„ — Esempio. Un
giovanotto: — Guarda che bellezza di collo che ha quella donnina, la
prima a sinistra sulla terza panca, con quei ciuffetti arricciolati
sulla nuca! Ah, che amore di collo! Ci metterei una collana di baci....
— Un signore accanto, seccato: — È il collo di mia moglie, badi.

L'altro precetto fa per le signore. — “Stando nel tranvai quando
s'entra in una piazza, non pigliar mai per sè una frase ammirativa
d'un passeggiere, se in quella piazza c'è un monumento.„ Esempio. Sale
una signorina in un carrozzone chiuso, in piazza Statuto, e nell'atto
che entra per l'uscio davanti, il suo cappellino intercetta la visuale
che dagli occhi d'un forestiere seduto in fondo va alla sommità del
monumento del Fréjus, e proprio nel momento che il forestiere dice al
suo compagno: — Guarda che bell'angelo! — La signorina arrossisce, il
compagno risponde: — L'ha fatto il Tabacchi, è fuso all'arsenale.... —
e la signorina.... deve arrossire da capo.

Il terzo precetto si può rivolgere a chiunque. — “Uscendo di casa, non
pigliar mai per le minute spese, senza previo esame, un rotoletto di
soldi che trovate sul cassettone.„ — Io commisi questo sbaglio e, per
disgrazia, m'imbattei sul tranvai, dove c'era altra gente, in un gran
fattorino barbuto, dall'aspetto e dai modi d'un procuratore del re di
malumore. Mi restituì il primo doppio soldo, dicendomi: — È argentino.
— Mi restituì il secondo, con un'occhiata severa, dicendomi: — È
argentino anche questo. — Mi restituì il terzo, squadrandomi da capo
a piedi, e dicendomi: — È greco. — E il quarto era rumeno, e il quinto
era di Pio nono.... Avevo preso un rotolo di soldi fuor di corso, stati
messi in disparte per precauzione. Tutti mi guardarono; nessuno poteva
pensare ch'io avessi in tasca per puro caso quella raccolta di falsità;
arrossii come un gambero; la mia riputazione era perduta senza rimedio.
Ah se fosse stato là il mio Guyot, come avrebbe trionfato!

                                   *

Povero Guyot! Egli si deve ancor ricordare della data della cattura del
_Doelwick_ perchè quel giorno passò un brutto quarto d'ora. Veramente,
fui crudele. Ma, insomma, fu lui che la volle; doveva far la strada
a piedi piuttosto di venirsi a cacciare in quel solo posto vuoto che
rimaneva sulla giardiniera fra me e un giovanotto in cacciatora, che
teneva spiegato fra le mani il _Grido del popolo_. Data una sbirciata
a me e una al giornale, si ristrinse, si fece piccolo come preso da
un freddo improvviso, per evitare il nostro contatto, e fu appunto
quell'atto provocante che scatenò i miei istinti feroci. Per vendicarmi
raddoppiai il suo tormento cavando di tasca e spiegando la _Lotta di
classe_. Lo sentii fremere come un uomo a cui siano appuntate alle
tempie due rivoltelle. Ah, fui spietato! Ma per poco. Un pensiero
più alto mi sorse nella mente. Pensai che era stolto il maravigliarsi
del lento cammino che fanno nel mondo anche le idee più grandi e più
benefiche, poichè ne avevo accanto una ragione viva così evidente.
Era un uomo che in tutta la sua vita, forse, non avrebbe mai letto nè
un giornale nè un libro socialista, mai accettato nè voluto intendere
una discussione su quella idea; che sarebbe passato a traverso a tutto
questo gran movimento sociale con gli occhi chiusi e con le orecchie
tappate per proposito, portando intatti in sè fino alla morte, come
articoli di fede, tutti i pregiudizi più calunniosi e più insensati che
contro la nuova dottrina e chi la professa aveva accolto alla prima
senza ombra d'esame; che non avrebbe mai capito e nemmeno cercato se
quella parola _lotta di classe_ potesse avere un significato affatto
diverso da quello che gli avevan dato ad intendere; che avrebbe sorriso
di pietà se gli avessero detto che quella era una verità d'ogni tempo,
una necessità storica manifesta, un fatto che è non perchè si voglia,
ma perchè dev'essere, come il corso dei fiumi al mare e l'ascensione
dei vapori al cielo, e che in virtù di quella lotta appunto egli
possedeva quei diritti di cittadino che i suoi padri non avevan
posseduti, e che quella lotta stessa egli combatteva con tutti i suoi
pensieri, con tutti i suoi sentimenti e i suoi atti da che aveva l'uso
della ragione. Povero Guyot! E che colpa ci aveva lui? Era in buona
fede; lo sentiva proprio in fondo all'anima il ribrezzo che gli fece
porgere il soldo al fattorino, sollevando il braccio con cautela per
non toccare quei due fogli esecrandi in cui pensava che si predicasse
lo sterminio e l'inferno! Perchè infierire contro chi, odiando noi,
crede sinceramente di odiare la perversione e il delitto? E questo
pensando, mosso da un senso di pietà, ripiegai il giornale e me lo misi
in tasca. Nello stesso punto il giovanotto discese, Guyot prese il suo
posto subito per iscostarsi da me, e tirò un respiro di sollievo, come
un crocifisso distaccato dalla croce. Non gli restava più accanto che
uno dei ladroni.

                                   *

Dopo quella mattina, per tre giorni, trovai la carrozza di tutti sotto
l'influsso di Venere. Come accade in certe passeggiate sul lastrico,
che da quando s'esce a quando si rientra in casa ci si vede volteggiare
intorno l'amore come se al mondo non ci foss'altro, così segue qualche
volta nelle passeggiate in tranvai che per un certo tempo, ad ogni
corsa, e più volte in ogni corsa, ci batte l'ali sul viso, come per
tentare noi pure a farci _canuto spettacolo_, il monello divino,
che moltiplica i popoli e ingrullisce i ministri. La prima volta fu
su quell'ultimo tratto del corso Casale, dove, correndo all'ombra
dei grandi olmi che scendono fino alla sponda, si vede tra i fusti
allineati, come per i vani d'una selva di colonne, luccicare il Po,
sparso di barchette di pescatori e di birichini natanti. Qua e là,
sulle panche della giardiniera, eran seduti un bersagliere, un vecchio
signore arcitinto, due musicanti con le trombe fra le ginocchia, una
contadina con un coniglio fra le braccia; e nel mezzo una ragazza e
un giovanotto, che ai primi gesti riconobbi per sordomuti, stretti in
colloquio amoroso. Amoroso, fuor di dubbio: gli occhi languidi e le
guance infiammate di lei lo dicevano. Aveva l'aspetto d'una giovane
di bottega: un viso largo, ma d'espressione infantile, un sorriso
strano, come di chi sorrida soffrendo, ma simpatico; un busto forte
e ben formato. Lo spettacolo era nuovo per me e lo potei godere a
tutt'agio. Avevo osservato altre volte quella mimica misteriosa di
magnetizzatori e di cabalisti, quei gesti vaghi di chi disegni nel
vuoto o cacci farfalle o mova le dita sopra una tastiera invisibile.
Ma non avevo idea del colorito, della modulazione singolare che a quel
linguaggio aereo può dar la passione. Nei gesti di lei, in special
modo, v'era non so che di morbido e di gentile, e anche negli atti
improvvisi e più rapidi qualche cosa d'intraducibile a parole, che
pareva corrispondere alla smorzatura, ai languori della voce, alle
note argentine e quasi involontarie che sfuggono dal petto commosso
d'una ragazza parlante. La sua mano si soffermava per aria, descriveva
delle curve graziose, ricadeva sul ginocchio con un abbandono stanco
o una vivacità capricciosa, e il suo sguardo, mentre gestiva il
giovine, invece di fissarsi nel viso di lui, accompagnava i suoi
gesti, come s'egli avesse gli occhi nelle mani, con una mobilità, con
una vita, con un balenìo che rendeva tutti i moti dell'animo. Quella
conversazione di dita e di pupille m'attraeva, mi faceva pensare a
quella singolarità d'un amore che non conosce la dolcezza delle parole
susurrate nell'orecchio; che nei momenti appunto in cui la passione
cerca le espressioni più ardenti e pronuncia i nomi più soavi, non
può più dir nulla, nemmeno a modo suo; d'un amore in cui l'amplesso
tronca ogni comunicazione del pensiero e l'oscurità separa le menti, e
le dolci apostrofi di _angelo, cuor mio, anima mia_ escono dall'anima
senza musica e senza tremito e non restano nell'anima che nella forma
di due mani agitate. La mimica del giovane, intanto, s'accelerava,
come se allo scendere dal tranvai si fossero dovuti separare e a lui
premesse d'approfittar del tempo; e lei non faceva più che dei gesti
radi e lenti, quasi sempre gli stessi, come la ripetizione d'una frase
o d'una parola, accompagnata da un sorriso continuo, incerto e dolce.
Era una negazione? Una promessa? Un'espressione di dubbio? Tutti e due
erano eccitati; ma, benchè avessero addosso gli occhi di tutti, non
davano segno alcuno di timidità e di suggezione, quasi che i presenti
paressero loro gente d'un altro mondo, con la quale essi non potessero
avere alcuna relazione di sentimenti o di riguardi; non altro che
immagini, ombre, quali erano infatti; di cui nessuna parola poteva
giungere all'anima loro, come se una distanza immensa li separasse. Poi
“tacquero„ a un tempo tutti e due, ed essa si rivolse a guardare prima
la cascatella del Po, della quale non sentiva lo scroscio, poi gli
olmi della riva, dove cantavano uccelli di cui ignorava il canto, poi
le trombe dei due suonatori, che eran per lei uno strumento misterioso
come un apparecchio elettrico per un selvaggio. Quando il tranvai entrò
in piazza Vittorio Emanuele riattaccarono una conversazione affrettata,
in cui pareva ch'egli facesse a lei una calda raccomandazione, e lei
lo rassicurasse; poi, all'imboccatura di via Po, essa fece fermare,
gli strinse la mano e discese, avviandosi verso i portici; ed egli si
spinse all'estremità della panca e la seguitò con gli occhi, con un
sorriso singolare di curiosità amorosa e pietosa, fin che disparve. Il
fattorino, che stava sulla pedana accanto a lui, gli fece un cenno del
capo socchiudendo un occhio, come per dirgli: — È la tua bella, eh,
briccone? — Ma rimase stupefatto quanto me udendosi rispondere con voce
piena e con perfetta pronuncia, in accento affettuoso di compassione e
di rispetto: — _Povra fia!_ (Povera ragazza!) — Essa sola era muta.

                                   *

_Amour, toujours!_ come dice la canzonetta. Fu questo un bel caso
(non raro, mi dissero) di persecuzione amorosa in tiro a due. Sul
corso Vittorio Emanuele una bella signora arresta la giardiniera con
un _alt_ imperioso, sale con impeto e siede con dispetto; e ripartiti
appena i cavalli, salta sulla piattaforma di dietro un signore, col
cappello d'alpinista e la lente all'occhio, e resta lì come un piolo,
con lo sguardo fisso sopra la bella, da cui lo separano sei panche,
aspettando che le si faccia un posto vicino. All'incrociamento dei
corsi Vittorio ed Umberto, riman vuoto un posto proprio nella panca
dietro la signora, e lui, lesto, con una faccia imperterrita, corre
per la pedana afferrandosi alle colonnine, e si va a sedere alle
spalle di lei, che lo sente, senza vederlo, e dà un guizzo come per un
pizzicotto. Non passa un minuto che si vede venire innanzi il tranvai
dei Viali. In quel momento appunto il persecutore cominciava a farsi
avanti, dondolandosi, come chi cerca un'entratura di dichiarazione; ma
ecco che la signora balza in piedi, dà uno strappo con la mano sinistra
alla correggia del campanello, e con la destra, brandendo l'ombrellino,
comanda al cocchiere dell'altro tranvai di fermare. Tutt'e due si
fermano, l'inseguita salta giù, raggiunge l'altro tranvai di corsa,
vi sale come un lampo; e l'inseguitore ostinato, giù anche lui d'un
salto, e via come una freccia, e su, sul tranvai della fuggitiva. La
scena, osservata da tutti, suscitò un vivo mormorio di commenti seri
e faceti: — Bellina! — Che sfrontatezza! — Questa è nuova. — Ma è
un'indegnità! Gli dovrebbe rompere l'ombrello sul muso! — Un signore
celione disse che ci sarebbero voluti dei carrozzoni di salvataggio,
per signore sole, circolanti per le vie principali. Ma un mio amico,
che m'era accanto, quello dei sette peccati capitali, lo Schopenhauer,
gli osservò, con un sorriso sarcastico, che sarebbe stato un “servizio
passivo„. E soggiunse che, secondo lui, c'era invece un altro servizio
speciale di tranvai chiusi, sul modello delle carrozze cellulari, il
quale avrebbe dato agli azionisti un grasso dividendo. — Carrozzoni....
a che scopo! — domandò l'altro. Ah! lingua sacrilega. Rispose: — Allo
scopo.... opposto.

                                   *

E ancora l'amore. Vedo sulla prima panca due teste giovanili così
vicine che mi si disegnano tutt'e due sulla schiena del cocchiere
come sul fondo scuro d'un quadro: l'una bionda dorata, senza
cappello; l'altra, con un grazioso cappellino da marionetta, ornato
di tre cardenie; il quale lascia scoperta una salda massa di capelli
bruni, lucidi e freschi, che pare un turbante di velluto nero. Dalla
piattaforma in fondo, dov'io sto, non posso vedere i due giovani
in viso; ma capisco dagli atti che si parlano senza dir nulla, come
fanno gli amanti in ebbrezza, non per altro che per accarezzarsi con
le parole e baciarsi con la voce, sorridendo alla gente, alle case,
agli alberi, al sole, come per ringraziare il mondo della propria
beatitudine. A un tratto la testa bionda si gira indietro, e riconosco
il mio tipografo entusiasta del 1.º maggio, che, appena vedutomi,
schizza via dalla panca e si slancia sulla pedana verso di me, mentre
la testa bruna, voltandosi curiosamente, mi mostra un adorabile
visetto di diciott'anni, tutto vermiglio di passione, nel quale par
che scintillino non due, ma dieci occhi. — Eccomi qui. Buon giorno. Che
bella giornata! Ebbene, che ne dice del Congresso di Londra? Ha veduto?
La maggioranza, insomma, ha accettato il programma socialista.... — Ma
io capii di volo che non veniva da me per gli affari dell'Inghilterra.
E infatti, dopo avermi domandato chi fossero i _Fabiani_, non stette
a sentir la risposta e m'annunziò d'un colpo il suo matrimonio.
Era sposo da un mese e sette giorni; non disse le ore. — Ah! ma non
creda — s'affrettò a soggiungere — io sarò sempre lo stesso.... è
una donnina di testa, sa. — E mi disse tutto. Era una lavorante in
maglierie, istruita, che aveva fatto i primi due anni della Scuola
professionale; s'eran conosciuti l'inverno passato al _Nazionale_,
dov'essa era andata con suo padre a sentire una conferenza sul lavoro
delle donne e dei fanciulli; la madre di lui era stata un po' incerta,
da principio, per via delle _idee_ della ragazza; ma aveva finito con
dir di sì, innamorata anche lei del visetto. Oh, egli la conosceva,
e n'era ben sicuro. Non era di quelle che fanno le socialiste per
il matrimonio, e poi, acchiappato il marito, ripiegano la bandiera,
e addio conferenze, addio oblazioni, addio riunioni. C'erano delle
idee nette e ben piantate in quella piccola testa; era una compagna
di coscienza e di cuore. Se fossero state tutte così non si sarebbero
visti tanti compagni che giravano nel manico dopo aver fatto il passo
al Municipio. E continuò a tesserne l'elogio lanciandole delle lunghe
occhiate azzurre, che la misuravano amorosamente dalle tre cardenie
del cappellino ai due piccoli tacchi neri luccicanti sotto la panca.
Poi, parendogli d'aver troncato troppo alla leggiera il primo discorso,
si rifece serio per calcolare che al Congresso i centottantacinque
delegati delle _Unioni dei mestieri_ rappresentavano su per giù
ottocentomila soci organizzati, mentre gli altri trecento delegati
inglesi non ne rappresentavano forse duecentomila.... Ma che! Io vedevo
bene che c'era un'altra _unione_ che in quel momento gli premeva assai
di più di quelle di cui discorreva, e, pietosamente, gli apersi la
via d'uscita che cercava, avvertendolo che stavano per prendergli il
posto. E in un attimo egli si ritrovò seduto accanto alla sua bella
socialista, con la quale riprese a solfeggiare il duetto interrotto,
sorridendo alla gente, alle case, agli alberi, al sole. Oh i buoni
borghesi che guardavano con simpatia quel bel ragazzo innamorato e
felice, erano ben lontani dal pensare ch'egli appartenesse a quella
setta orribile che vuole fra gli altri istituti, com'essi dicono,
quello della “_moglie in comune_„. Con che immonda gente ci mette in
promiscuità, a nostra insaputa, la carrozza di tutti!

                                   *

All'influsso amoroso succedette sul tranvai un influsso maligno. Ahimè!
S'ha un bel fuggire per le strade senza toccar la terra e non guardando
da alcuna parte: la miseria, la sventura, il dolore c'inseguono,
ci raggiungono anche su quelle tavole fuggenti e ci costringono a
guardarli in viso. Fu come uno schianto di fulmine fra tutta quella
gente allegra che riempiva la giardiniera della linea Ponte Isabella.
Il povero cocchiere scherzava e rideva con un amico ritto al suo fianco
quando, arrivato in piazza Carlina, nello stringere a tutta forza
il freno per non urtare in un carro, si lasciò sfuggir di mano il
manubrio che, girando rapidissimamente, lo colpì nel costato destro e
lo gettò riverso fra le braccia dei passeggieri, bianco come un morto.
Fu creduto morto, scoppiò un grido, tutti s'alzarono, una signora
svenne, dei bimbi si misero a piangere, accorsero il fattorino e una
guardia, alcuni passeggieri discesero, e pigliandolo per le spalle e
per le gambe lo calaron giù come un cadavere e lo portarono a traverso
alla piazza verso la farmacia più vicina. Il passaggio istantaneo di
quell'uomo dall'espressione della forza e dell'allegrezza a quella
immobilità molle e cascante di tutte le membra che aveva l'apparenza
della morte, destò prima nei presenti un senso di terrore che imbiancò
tutti i visi, come se tutti comprendessero in quel punto per la prima
volta la fragilità miseranda della vita; e poi una grande pietà, che
l'accompagnò con un mormorio doloroso fin che disparve in mezzo a una
folla spintagli intorno da quella curiosità frenetica delle disgrazie,
che è uno dei segni più odiosi di quanto rimane nell'uomo civile della
barbarie antica. Uno solo dei passeggieri, un omuccio secco e grigio,
dal viso itterico, con gli occhiali affumicati, alzò la voce fra quel
mormorio di pietà, sforzandosi invano di colorire di questo sentimento
il dispetto messogli in corpo dalla scossa violenta che gli aveva
sconvolto i nervi. O povera natura umana, quando ti cade la maschera!
A sentirlo, pareva che il colpo l'avesse avuto lui. — Ci mancava
questa! — esclamò con voce acre e tremola. — Un bel momento che ci
fa passare! Benedetta gente, sempre sbadata, che rischia la vita....
Guardate se debbono accadere di queste cose.... Un uomo rovinato! E
poi.... lo spavento dei passeggieri. Eh sì, fa pena anche a me; come
no? Ma facciano attenzione, in nome di Dio, anche per riguardo al
pubblico.... Pare che se le cerchino.... Un giorno è uno scontro, un
altro è il freno.... Ce n'è sempre una.... Non è più un servizio....
Non è più un vivere questo.... Oh santa pazienza benedetta!... —
Sopraggiunse il controllore, e ritornò un momento dopo il fattorino; il
quale, pigliando le redini, annunciò che il cocchiere si riaveva. Tutti
respirarono, il tranvai ripartì; ma il signore dagli occhiali scuri
restò imbronciato. E si capiva perchè: il triste caso l'avrebbe forse
impietosito, invece d'irritarlo, se fosse seguito tre ore prima; ma
era l'ora del desinare, e l'appetito, per quel giorno, era perso senza
rimedio. — Ah tristo animale! — gli dissi in cuor mio. Ma queste parole
mi svegliaron dentro un'eco inaspettata; l'eco d'una voce severa che mi
domandava se c'era al mondo un uomo, il quale, riandando la sua vita,
non trovasse d'esser stato qualche volta irritato, non impietosito
dalla sventura d'un suo simile, per la stessa misera, vile, disonorante
ragione.... E quella voce mi fece abbassare la fronte.

                                   *

Così è: come dalla faccia placida e azzurra del mare spuntano qua e là
teste deformi di pescicani e tentacoli orrendi di polipi, così per le
vie della città dalla lieta pace della vita ordinaria erompono a quando
a quando improvvisi la violenza, la barbarie, il delitto, la morte, a
rammentarci che sotto all'ordine e all'armonia apparente della civiltà
infuria la lotta eterna delle passioni e delle forze nemiche. È l'ora
della siesta; il tranvai va a rilento sotto il sole, per una strada
solitaria, tirato da due cavalli in sudore, che par che s'assopiscano
al suono cadenzato e pesante del proprio passo; una lavandaia
tarchiata, seduta in fondo, si appisola sopra una bracciata enorme
di biancheria che le preme il ventre; accanto a lei un giovanotto di
dubbia eleganza, inanellato e infiorato, dorme col capo ciondoloni sul
petto e la sigaretta spenta fra le labbra; tutti gli altri tacciono; il
fattorino sonnecchia; parlano soltanto due vecchietti, seduti davanti a
me, che commentano senza fine, con voce monotona, l'ultima estrazione
del lotto. A un tratto, in mezzo a quella quiete narcotica, scoppia
un grido selvaggio: — Ladro! Ladro! T'ho visto! Sei tu! Rendimi i miei
danari! — e voltandoci, vediamo il giovane della sigaretta dibattersi,
pallido, fra le braccia poderose della lavandaia che l'ha agguantato
con una mano alla strozza e cerca di cacciargli l'altra in una tasca
del soprabito, seguitando a urlargli sulla faccia: — Ladro! Ladro!
Sei tu! Rendimi i miei danari! — Il cocchiere ferma, il fattorino
accorre, altri s'interpongono, la donna è spinta in là, il giovane è
afferrato, parecchie mani lo frugano, il portamonete vien fuori....
— Aaaaah! — grida la donna con un riso feroce di trionfo. Il ladro,
col capo scoperto e i capelli arruffati, bianco e stravolto, cessata
ogni resistenza, cerca intorno con due occhi stupidi il cappello
caduto e con un moto meccanico della mano libera si tasta la cravatta
snodata.... fin che sopraggiunge una guardia civica, che fa scender lui
e la donna, e il gruppo s'allontana dalla parte opposta al tranvai, che
riprende la corsa, mentre s'affaccia gente a tutte le porte e da tutti
i canti accorrono ragazzi. Dire che in tanti anni da che sono al mondo
non avevo mai visto acciuffare un ladro in flagrante! Quello spettacolo
mi rimescolò il sangue come se non mi si fosse mai presentato neppure
all'immaginazione. — _Baloss!_ — udii gridare intorno a me. — Brigante!
— Canaglia! — E per un tratto di strada feci eco in cuor mio a quelle
invettive; ma sempre più fiocamente, via via che la scena avvenuta mi
s'andava tramutando al pensiero in un'altra; nella quale la donna era
rappresentata dall'immagine dell'Italia e il giovane da un personaggio
coperto di nastri e di croci; ma con queste circostanze diverse: che
nella mia visione i vicini voltavano la testa dall'altra parte per non
dar noia al ladro, e i lontani s'inchinavano, e la guardia gli faceva
il saluto con la spada.

                                   *

E ancora il malo influsso, ancora un incontro triste, sul tranvai della
linea Vinzaglio, in via Roma: il mio buon Giors, che non guarda più
le botteghe dei salumai, che non fischia più l'aria della _Carmen_,
che non sorride più, che ha un altro viso, ch'io non gli vidi mai, e
una voce che non riconosco. Tra una fermata e l'altra, lentamente, con
un accento triste e sempre eguale, come se parlasse a sè stesso, egli
mi discorre di sua moglie malata che “prende una cattiva piega„ e lo
tiene in affanno. Anche questa mattina essa gli disse: — Va, Giors,
va tranquillo, tutto andrà bene. — Ma egli non ne è punto persuaso e
dice di no, con un dondolio del capo continuo. Ieri il medico fece una
brutta faccia, una faccia.... che egli non avrebbe voluto vedere. — E
quando penso! — esclama, voltandosi verso di me. — Una donna che non ce
n'è un'altra. Non è il caso di vantarsi, capirà bene; ma quello che è
giusto.... Levata la mattina alle quattro, tutta la giornata al lavoro,
la sera su fino alla sant'ora, a aspettarmi con l'ago alla mano.... E
mai un capriccio, mai un soldo male speso, mai un pensiero per sè, mai,
mai un dispiacere che m'abbia dato. Ma che dispiacere! Mai una parola
che è una parola non c'è stata fra di noi.... — E dopo una pausa: — E
cosa faccio io se mi manca?

E dopo una girata di freno: — Già, e cosa faccio io se mi manca?

E non serve fargli animo; egli segue il corso dei suoi pensieri senza
badare alle mie parole, esclamando di tratto in tratto, con accento
di profonda pietà per sè stesso: — Ah, povero Giors! — Quello che
lo tormenta di più è di dover restar lì al freno mentre essa è là,
senz'assistenza, a rodersi l'anima perchè la casa è in disordine e
i piccini son per la strada e lui non troverà pronta la colazione.
— Eppure, come si fa a perder la giornata? Come si fa? Bisogna ben
mangiare, prima di tutto! — E ripete dopo un po', come se avesse
scoperto allora quella verità: — Già, bisogna ben mangiare.

E poi riprende l'elogio della moglie, ricorda atti suoi di bontà,
sacrifici fatti per la famiglia. Anni sono, quando egli era senza
impiego e senza aiuti, e avevano già un bimbo di due anni, che
stentavano a nutrire, una sera, rientrando in casa con un po' di legna
che era andata a prendere alla parrocchia, la povera donna vacillò
e gli cascò quasi fra le braccia. — Cos'hai? — le domandò. Si mise a
ridere: era passata da Catlinin, una sua amica che teneva un banchetto
di liquori, e, invitata a bere, ne aveva mandato giù un sorso di
troppo. — Ah, non è vero! — disse lui; — fa sentire il fiato. — Che!
niente. — Tu hai digiunato! — E allora a lei era scappato da piangere.
Non aveva mangiato in tutto il giorno per empire il marmocchio. — Ma se
ci fu verso di farglielo dire!... No, non ce n'è un'altra compagna. Ah,
povero Giors!

In quel punto fermò per lasciar salire un signore e rimise subito i
cavalli in moto. Ma quegli strepitò e fece rifermare: — Ma non vede,
corpo di...., che ha ancor da salire mia moglie! — Poi, guardatolo
bene in viso, soggiunse fra i denti: — La mattina almeno non dovrebbero
bere.

E Giors, con una mitezza che mi commosse più di quanto aveva detto fino
allora, — _Ca scusa_ — rispose; — non avevo proprio visto. Eh, ho la
testa per aria.

E ripartito che fu, disse di nuovo a mezza voce, tentennando il capo e
guardando lontano davanti a sè: — Già, e cosa faccio io se mi manca?

                                   *

Poi, per vari giorni, trovai qualcuno dei miei attori quasi a ogni
corsa, come se ci fossimo dati convegno. Trovai una mattina, sulla
linea del Ponte Isabella, il fattorino _marchese_, che dedicava
tutte le sue eleganze e le sue grazie a una donna non più giovane,
ma d'aspetto signorile, profumata come uno zibetto; la quale lo
accompagnava di panca in panca con uno sguardo morente. Era una
maschera variopinta di attrice smessa, di quelle donne indiavolate, in
cui ricomincia con la quarantina una seconda gioventù più matta della
prima, e che per un traviamento dei sensi e della fantasia cercano
le avventure al di sotto della propria classe, come certi briaconi
aristocratici, giunti sul pendio del vizio, precipitano all'osteria.
Ah, malcauta! Io le previdi sul belletto la traccia delle cinque dita
di quella terribile bruna gelosa, in presenza della quale avevo visto
il signor marchese timido e contegnoso come un seminarista....

Rividi un altro giorno il “tranvaiofilo„, l'ardente paladino della
_Belga_.... in qual lavoro occupato! Non avevo pensato mai che la
passione per la carrozza di tutti potesse salire a un tal grado
d'ardore da far discendere il dilettante a dare una mano al cocchiere
per rimettere sulle rotaie la giardiniera fuorviata. E con che
entusiasmo spingeva, con una spalla contro il parapetto, puntando
i piedi e gonfiando il collo, nell'atteggiamento d'un prodigo
dell'inferno dantesco, fiammante nel viso e superbo di faticare per una
“santa causa....„

Rividi il mio persecutore sonettista, che mi si venne a sedere accanto
sull'ultima panca, con un sorriso d'aguzzino; ma questa volta mi
salvò un operaio, seduto davanti a noi, con una pipaccia orribile fra
i denti, la quale mandava in viso al poeta dei nuvoli di fumo così
pestifero che, dopo avermi tossito nell'orecchio una quartina, dovette,
soffocando e sagrando, rimangiarsi gli altri dieci versi per non
sputare i polmoni. O imprecata Regìa italica, tu fosti almeno una volta
benedetta!

E ritrovai sulla linea di Lanzo, dopo cinque mesi, quel certo erotico
sereno dalla zazzera bianca e dagli occhi azzurrissimi, arieggiante un
pastore evangelico, ritto in fondo a una giardiniera occupata quasi
tutta dalle alunne d'un collegio, dai quattordici anni ai diciotto,
vestite di color lilla, con una mantellina minuscola di seta nera; le
quali, conversando vivacemente da panca a panca e torcendo i busti
snelli come solleticate da mani invisibili, presentavano ai suoi
occhi il profilo grazioso dei loro nasini scolareschi e dei loro petti
virginei: la sua giardiniera ideale! Oh come il suo sguardo chiaro di
erotico intellettuale scorreva agile e lieto su tutte quelle spalle
e su tutti quei colli adolescenti, come si tuffava in tutte quelle
capigliature fresche, come nuotava in quella primavera rosata! Come
si godeva i suoi dieci centesimi! Si capiva che non sarebbe disceso
per cento lire. Ma, in via Milano, lo distrasse da quello un altro
spettacolo anche più allettante. Mentre il tranvai andava di tutta
corsa, un bel pezzo di bruna sui trent'anni, senza cappellino, con
un canestro di fiori alla mano, prese l'abbrivo dal marciapiede e,
adocchiato un posto vuoto in capo a una panca, spiccò un salto.... e
_là_, ritta sulla pedana, con una mano alla colonnina e il canestro per
aria, nell'atteggiamento d'una cavallerizza che, passato il cerchio,
ricasca sulla sella e chiede l'applauso. Era la famosa fioraia di Porta
Palazzo, nota a tutti gl'impiegati del tranvai per quella sua destrezza
acrobatica. Seduta che fu, in mezzo all'ammirazione delle ragazze,
parve che l'erotico raccogliesse su di lei, in un con lo sguardo, tutti
i suoi pensieri, e stette un pezzo così, immerso in una meditazione
profonda e tranquilla, di cui sprizzava la dolcezza dagli occhi
socchiusi e dalle labbra sorridenti....

                                   *

E rividi anche il cavalier Bicchierino, miracolo! non nella solita
via Garibaldi, ma sulla linea dei Viali, più rotondo e più lustro che
mai. Doveva _fruire_ d'una breve licenza estiva e far quella corsa per
ricreazione, perchè non l'avevo visto mai in un atteggiamento di così
placido riposo, così chiaro nel viso, così palesemente libero da ogni
pensiero del “cancello„. Egli spaziava con lo sguardo sui corsi e sulle
piazze, osservava i lunghi filari d'alberi, le botti inaffiatrici che
passavano, gli operai occupati a sparger ghiaia e a piantare nuove
acacie, e dalla sua serietà abituale trapelava l'alterezza del vecchio
torinese innamorato della sua Mecca, il godimento della linea retta,
l'ammirazione della simmetria, la compiacenza per il buon andamento
dei servizi municipali, la soddisfazione di vedere tutti i passanti
che andavan verso il Po tenere la destra, e tutti quelli che venivan
su, il lato opposto, come si deve fare in mia città civile, e come non
si fa, _dioumlo pura_ (diciamolo pure) che a Torino. Ma in vicinanza
del Teatro Torinese la sua quiete fu turbata. Il fattorino esclamò;
— Ah, eccole qui quelle dello sciopero! — e vedemmo venire dal ponte
delle Benne una lunga processione di donne d'ogni età, che ingombravano
tutta la strada, levando polvere come un armento, e mandavano fino
a noi un mormorio sordo e confuso come d'un fiume rotto tra i sassi.
Erano le operaie di non so che opificio del Parco, scioperanti da due
giorni, che andavano alla Prefettura. Il cavaliere si voltò bruscamente
a guardarle, ed io vidi sul suo viso un mutamento istantaneo,
maraviglioso, come d'uno a cui si attorcano tutt'a un tratto le
viscere. Non avrei meglio compreso quello che passava nell'animo suo
se si fosse sfogato con un discorso. Compresi che quel fatto d'uno
sciopero, per sè solo, astratta ogni idea di ragione o di torto che gli
scioperanti potessero avere e di condotta pacifica o tumultuosa a cui
fossero per attenersi, urtava violentemente tutti i suoi sentimenti e
i suoi principî, offendeva in modo intollerabile tutti i suoi istinti,
gli faceva l'effetto d'un abuso enorme, d'una violazione temeraria
di tutte le leggi, d'una perturbazione criminosa dell'ordine sociale
e naturale, come se avesse visto le case e gli alberi del corso
rompere le file e ballare la tarantella. Il tranvai lasciò presto la
processione a distanza; ma egli continuò a guardarla, voltato indietro
in una positura incomoda, con una fronte così rimbrunita, con gli
occhi così dilatati e torbidi, che mi fece pietà; tanto si vedeva che
soffriva, che non poteva sopportare lo spettacolo di quell'“anomalia„
in quel corso così diritto, fra quelle case tutte d'un'altezza, in
quella sua Torino dove tutti camminavano con quel bell'ordine per
viali così ben tenuti. Povero cavalier Bicchierino! Se la vedeva così,
non era già per cattivo cuore; il suo viso diceva che era uomo da
comprendere e da sentire le miserie umane, da dar ragione ai deboli
quando chiedevano il giusto e l'onesto. Ma occorreva che la pietà,
il sentimento della giustizia e tante altre belle cose gli entrassero
senza urtare quelle quattro idee piantate ai quattro canti della sua
mente come i quattro soldati intorno al monumento di Carlo Alberto,
ossia, che gli scioperanti scioperassero senza cessar dal lavoro, e
andassero alla Prefettura a tempo avanzato, a uno a uno, in punta di
piedi, per trecento strade diverse, con un bel foglio alla mano, in cui
tutto fosse esposto e spiegato in ben conteste frasi d'ufficio. Senza
cuore il cavalier Bicchierino! Ma per pensarlo converrebbe non sapere
che di tutti i teatri d'Italia sono i torinesi quelli in cui i drammi
commoventi strappano dalle tasche un maggior numero di pezzuole e dai
petti i _bravo_ più somiglianti a un singhiozzo! E lo vidi alla prova
in quella stessa corsa, allo svolto di via Vanchiglia, dinanzi al caso,
non raro, d'una famiglia che dava l'ultimo addio, sul predellino del
tranvai, a una persona cara, diretta alla Stazione di Porta Nuova. Era
una ragazza che partiva; il suo vecchio padre e una sorella sciancata
l'abbracciarono; la mamma le chinò il capo sul seno, piangendo
dirottamente; il fattorino e il cocchiere non osavano di lagnarsi del
ritardo; tutti le guardavano commossi. Ma il primo a prendere l'involto
della ragazza fu lui, Bicchierino, e con un atto così rispettoso, con
un viso così compassionevole, con un: — _Ca permetta!_ — così tremolo
e così buono, che lì per lì feci giuramento di non dargli mai più un
dispiacere. — No, povero Travet, ancora così mal conosciuto in Italia
anche dopo la gran commedia che t'ha dato il nome, non dirò mai più
che è stretta via Garibaldi, non taglierò mai più il _Popolo_ con le
dita, e se avrò un giorno la fortuna di conoscerti, farò uno sforzo per
parlarti il più puro piemontese che sia mai risonato sul palcoscenico
del Teatro Rossini, e non urterò alcuna delle quattro idee guardiane
del tuo cervello, anche a costo di mettere al laccio le mie....

                                   *

Peccato che non ci fosse lui.... Ma no, perchè forse, anche
commovendosi, egli avrebbe visto in quella scena un esempio di
confusione di classi, che poteva offendere nell'animo suo il sentimento
dell'ordine sociale. Ma per me fu la scena più gentile che mi
fosse occorsa mai sulla carrozza di tutti. La giardiniera s'arrestò
all'angolo di via Maria Cristina e di via Baretti, dove l'aspettava
un vecchio muratore, con la giacchetta sulle spalle, sostenuto per
un braccio da un murator giovane, che l'aiutò a salire, facendogli
qualche raccomandazione, e lo salutò, dicendogli: — In gamba! — Quello
sedette a sinistra d'una bella signorina bionda, un'adolescente precoce
dal viso di bimba, alla quale i capelli d'oro, le carni rosee, il
vestito bianco davano come uno splendore diffuso, in cui il sorriso,
ogni volta ch'ella sorrideva alla cameriera seduta alla sua destra,
pareva una luce nella luce, e rivelava il pensiero ancor fanciullesco.
L'operaio, si capiva, era stato colto da qualche male improvviso e
costretto a lasciare il lavoro: teneva ancora il cappello di sghembo
sui capelli grigi arruffati, come forse glie l'avevan messo rialzandolo
da terra; stava come accartocciato, col viso smorto e col mento sul
petto, e i suoi occhi esprimevano quel senso di tristezza scorata e
paurosa che desta ogni malore repentino in quell'età, insidiata dalla
morte. Davanti e dietro di lui c'erano signore e bambini eleganti;
sulle altre panche la solita gente varia; da ogni parte uno sventolìo
vivace di ventagli e di cappelline. A un tratto, mentre si sboccava sul
corso Vittorio, s'intese un grido. Era la signorina bionda, a cui il
muratore, preso da deliquio, aveva abbandonato il capo sulla spalla.
Il suo primo senso fu di sgomento, e scattò indietro; ma si riebbe
nell'atto stesso per sorreggere il vecchio che cadeva, e non potendo
tenerlo con le mani, lo rialzò facendo forza con tutta la persona, lo
rimise nell'atteggiamento di prima e porse la spalla al suo capo morto,
che vi ricadde su pesantemente, perdendo il cappello. Tutto questo
in un attimo. Ah, brava _tota_! Com'eran succeduti pronti sul suo bel
viso d'inglesina al terrore la risoluzione e al ribrezzo la pietà, e
com'era angelicamente bella, così, pallida dalla commozione, ma ferma
e quasi altera, con quella fronte splendida inclinata verso quella
povera testa di vecchio operaio senza vita, che s'appoggiava a lei come
a una figliuola! Il tranvai si fermò; accorsero alcuni per prendere il
malato; ma una boccetta d'essenza, ch'era passata di mano in mano, gli
aveva già fatto riaprire gli occhi e rialzare la fronte. La signorina
raccolse il cappello chiazzato di calce e glie lo rimise sul capo
con garbo, sfiorando con le sue piccole mani bianche i suoi capelli
grigi, gli riaggiustò la giacchetta sulle spalle, lo aiutò a discendere
mettendogli le palme sotto i gomiti, lo guardò mentre s'allontanava
accompagnato da due passanti, e quando il tranvai ripartì, espandendo
l'animo oppresso dalle commozioni diverse, prima sorrise ai presenti
che la guardavano, e poi ruppe in pianto.

                                   *

O benedetta carrozza di tutti!... Eppure c'è chi dice corna di te e
ti vorrebbe a terra. Fu un atto d'accusa in tutte le forme, un vero
stroncamento dell'istituzione quello che fece l'ultimo giorno del mese,
in un carrozzone chiuso di via Lagrange, in cui m'aveva cacciato la
pioggia, un grosso medico panciuto e arcigno, dai capelli rossi e dagli
occhiali verdi. Egli si sfogava con un amico seduto in faccia; ma tutti
gli altri ascoltavano e se la godevano, approvando, per eccitargli
la vena. Aveva preso le mosse da un suo nipote, un giovanottone di
diciott'anni, forte come un bufalo, che non era più buono a andar da
Piazza Savoia a Piazza Venezia senza farsi tirare da due rozze. Era
una vera epidemia di pigrizia, diceva, quella che i tranvai avevano
portato nella cittadinanza. Tutti quelli che avevan dei soldi da
buttar via non camminavano più. In verità. Egli conosceva centinaia di
poltroni sani come lasche, per i quali il fare un chilometro a piedi
era diventata una delle dodici fatiche d'Ercole. — Si sfibra la razza,
positivamente; gli uni perdono le gambe, gli altri il cervello. Non
vedete i due eccessi opposti? C'è una razza di vecchi matti che per far
del moto si sciupano i polmoni e arrischian le ossa sulla bicicletta,
e un esercito di giovani che non fanno più trecento passi al giorno
coi propri piedi. È un incarognimento generale, mi scusino, è la vera
parola; e lascio stare che se si spendesse in beneficenza la metà dei
denari che si sprecano per farsi portare da una cantonata all'altra, si
darebbe del pane a migliaia d'affamati. Ma certo. I tranvai! Ma sono
un'istituzione funesta all'igiene, veicoli d'aria viziata, che hanno
soppresso la passeggiata stimolante prima del pranzo, la passeggiata
digestiva dopo cena, le camminate regolari da casa all'ufficio.... Non
vedete quanta obesità gira per Torino da dieci anni a questa parte?
Non c'è da ridere. Vi dico che cresce l'adipe in un modo spaventoso.
Si vedon delle signore di trent'anni che paion palloni, degli uomini
di quaranta che paion botti. Un incarognimento, ripeto. E chi vivrà
fra cinquant'anni vedrà passare dei carrozzoni che parranno stie piene
di galline faraone e di tacchini ingrassati per il Natale! — Tutti
ridevano. E benchè ridessi anch'io, m'inquietò nondimeno un poco il
timore di addossarmi col mio libro una parte anche minima di colpa
della futura pinguedine d'Italia. E rimasi pensieroso davanti a quella
visione comica d'un popolo di lune piene e di pancie enfiate. — Però, —
pensai, — per il popolo italiano.... c'è tempo.



CAPITOLO NONO.


                                                           Settembre.

Il settembre porta sui tranvai un soffio di vita nuova. Vi comincio
a rivedere figure note di _travet_, ch'erano scomparsi, rinverditi da
un mese di licenza, signore imbrunite dai venti del mare, visi vivaci
su cui preluce la gioia del “viaggio circolare„ o della vendemmia,
e reduci dalla villeggiatura, i quali si riconoscono allo sguardo
quasi di forestieri che girano su Torino, non più veduta da un pezzo,
salutandola con un sorriso che rivela il gusto rinascente degli agi e
degli svaghi della vita cittadina, e facce esotiche di viaggiatori di
passaggio, che ad ogni crocicchio si voltano di qua e di là a guardar
la fuga delle vie sconosciute. Famiglie intere in abito di campagna,
tornanti dai bagni o dai monti per ripartire per la collina, ingombrano
le giardiniere di valigie e di scatole, tutti eccitati dal piacere del
viaggio, e spandono sulla noia dei passeggieri abituali, sonnecchianti
durante le corse obbligate per le vie polverose, un alito di frescura,
degli effluvi d'alghe e di boschi, che danno loro miraggi confusi di
ville bianche, di valli verdi e di marine azzurre. E cresce la noia
quando il tranvai riprende il suo aspetto solito per le lunghe vie
solitarie, dove non s'incontrano che pochi passanti col cappello da una
mano e il fazzoletto dall'altra, in mezzo alle lunghe file di finestre
chiuse, che par che dai vani delle persiane versino giù il silenzio
morto dei quartieri abbandonati e tenebrosi. E per i relegati nella
cinta daziaria s'aggiunge alla noia il dispetto al veder quell'eterna
collina e quell'Alpe eterna che appaiono ai capi opposti delle strade
come un invito beffardo, come una provocazione maligna. Tra questi son
io, e per giunta alla noia e al dispetto ho il rammarico di non veder
più che assai raramente, fra quel succedersi continuo di facce nuove,
che invadono la mia sala di studio ambulante, i cari attori della mia
compagnia.

                                   *

I primi che rivedo, discesi freschi freschi dalla montagna col loro
idoletto, sono Taddeo e Veneranda, sulla linea solita dei viali, tutti
e due ingrassati ancora, con due facce che paiono il ritratto della
beatitudine. Sono stati venti giorni all'Ospizio di San Giovanni
d'Andorno: mi decantano il paesaggio, l'aria, l'acqua, il pane, la
cortesia della gente; ma son felici sopra tutto d'aver riportato la
bambina fiorente di salute. È, infatti, uno splendore, ed io assisto
al suo trionfo. Ritta in mezzo a loro sull'ultima panca, vestita di
rosa, coi suoi folti capelli castagni tagliati sulla fronte e sparsi
sulle spalle, coi braccini nudi segnati ai polsi di due risegoli da
lattante, essa tempesta padre e madre di domande, apostrofa i vicini,
ride e trilla agitando le manine per aria, spande tutt'intorno la luce
della sua bellezza e la musica della sua allegria. Quel visetto di
Madonna, quell'esuberanza di vita richiamano a poco a poco l'attenzione
di tutti. Si voltano prima dalla panca davanti due signorine, che le
rivolgon la parola e le carezzano i capelli; poi dalla panca più in là
si volta tutta una famiglia a guardarla e a farle dei cenni, a cui essa
risponde mandando dei baci; poi altri più distanti, ragazzi, ragazzine
e signore, attirati da quel continuo trillìo, si girano e le sorridono;
e sotto tutti quegli sguardi ammiratori, al suono di tutti quei saluti
amorevoli la piccola attrice raddoppia di vivacità, si fa più rosea e
più bella, sfavilla e trionfa come un angiolo in gloria. _Che diveniste
allor_, poveri Taddeo e Veneranda? Si danno anche nella vita dei più
oscuri di queste giornate gloriose, che rimarranno nella mente loro
fino agli ultimi anni, come raggi di sole. Un padre e una madre che
vedessero incoronare il figliolo in Campidoglio non potrebbero dar
segno d'un'ebbrezza più grande di quella che splende sulle facce
rotonde di questi due buoni pacioni, ai quali brilla una lacrima
negli occhi ed esce il fiato a stento dalle labbra tremanti, come se
la gioia li soffocasse. E fanno uno sforzo per contenersi; ma a un
certo punto la mamma non ci regge più: bisogna che si stringa al cuore
quella creatura benedetta a cui deve l'ora più bella della sua vita; e
Taddeo, per dissimulare la sua commozione, voltando verso di me il viso
raggiante sotto al velo d'un'indifferenza forzata, mi dice con voce
tremula e quasi spirante: — Pare che il tempo si sia rimesso; ma.... è
difficile.... che duri.

                                   *

Il secondo che ritrovai fu il pittore, che mi saltò accanto una mattina
sopra una giardiniera di via Roma, allegro come se avesse avuto il
primo premio all'Esposizione triennale. — Già _rinurbato_? — gli
domandai. — No, — rispose, — sto ancora a Perosa; ma mi _rinurbo_ tre
volte la settimana. — Tre corse a Torino la settimana, per uno che
non aveva affari e che stava a due ore e mezzo di strada ferrata, mi
parvero molte; e raffrontando la sua nuova allegria con l'umor nero
dell'ultima volta, pensai che dovesse avere qualche forte cagione.
Gli domandai in qual modo gli fosse passata quella grande avversione
per la geometria di Torino, per le file dei cubi gialli, per le strade
tutte pari, dove gli pareva di ritrovarsi sempre alla stessa cantonata.
Mi rispose sorridendo che era passata; ma in qual modo, non disse. —
È l'antipatia per le figliole di Borea, per gli angioli d'alabastro,
per le signorine tutte ritagliate con un solo giro di forbici sopra un
foglio ripiegato in cento? — Ah! — rispose, — era un brutto periodo per
me.... Tutti ne hanno. Ma ora.... tutto è cambiato. —

— Ha dunque rinunciato alla ricerca coniugale sui tranvai? o ha già
trovato?

Si mise a ridere, colorandosi un poco alla sommità delle guance,
e cambiò discorso subito, affollando le parole. Aveva rinunziato
definitivamente a scoprire il mistero della signora delle coincidenze.
— Ah, è più forte di me! — disse. — Non ce la posso! — E mi raccontò
che un giorno, incaponito, aveva voluto tenerle dietro a ogni costo.
Trovatala sulla linea dei Viali, l'aveva vista scendere all'imboccatura
di via Cristina e salire sul tranvai di Ponte Isabella; ed era sceso
e salito anche lui; ma, arrivata in piazza Cavour, quella era scesa,
e aveva preso il tran vai della barriera di Casale; e lui giù e su
da capo; e lei giù per la terza volta in piazza Vittorio Emanuele,
dov'era rimasta a aspettare il tranvai di Vanchiglia; e giù lui pure ad
aspettare lo stesso tranvai a venti passi di distanza; ma all'arrivo di
questo, vedendo ch'essa lo lasciava passare, benchè ci fosse posto, per
aspettare il successivo, egli aveva finalmente desistito dall'impresa
e se n'era andato via, con la curiosità in corpo, più arrabbiata di
prima.

Durante una di quelle corse, appunto, le aveva visto aperto fra le mani
uno di quei piccoli album da dieci centesimi, della casa di pubblicità
del Massarani, nei quali sono segnate in rosso, sul tracciato delle
strade, tutte le linee di Torino, ed essa l'andava sfogliando e
osservando pagina per pagina, come un ufficiale di Stato Maggiore che
studi la carta topografica delle grandi manovre. Chi sa che vasti piani
di strategia tranviaria, che intricate combinazioni andava escogitando,
di corse e di controcorse e di finte mosse e di giri viziosi, e chi
sa mai con che scopo, e per forviare chi, e per riuscire dove? Mistero
profondo! Era meglio non pensarci più; l'impresa era disperata.

Ma mentre diceva questo io vedevo bene che pensava ad altro, che aveva
in cuore una contentezza a cui quel racconto serviva come il ventaglio
alle signore per nascondere certe espressioni involontarie del viso.
Tra una frase e l'altra guardava di qua e di là tutti i tranvai che
passavano vicino o lontano, aguzzando gli occhi, come se in ciascuno
ci potess'essere qualche persona ch'egli cercava; e il suo aspetto
e i suoi modi eran quelli di chi ha un pensiero bello e felice che
s'intromette in tutti i suoi pensieri, un'immagine a cui parla in
segreto anche parlando ad altri d'altre cose, e che danza tra lui e
tutti gli oggetti come i globi di fuoco che vediamo per aria dopo aver
fissato gli occhi nel sole.

A un certo punto non mi potei più tenere e gli dissi ex abrupto: —
Andiamo, a che serve fingere? Mi dica la verità. Lei _ha trovato_, e
non mi vuol far la confidenza per timore ch'io la metta nel mio libro.

Questa volta diede in un ridere così forzato e stonato che tenni per
certo d'aver colto nel segno. Sì, il timore soltanto di esser messo
in stampa lo tratteneva dal farmi la confessione. E continuò a dir
di no, scrollando il capo e sorridendo, e guardandosi la punta d'uno
stivaletto, come se ventilasse in cuor suo se doveva persistere a
negare o sfogar la sua voglia di dirmi tutto. — Ebbene.... — cominciò.

Io porsi l'orecchio per ricever la confessione.

— Ebbene.... no — disse ridendo — se fosse vero.... cioè, quando sarà
vero, lo dirò a lei prima che a ogni altro; ma.... non è ancora.

— Il suo _non è ancora_ è una traduzione traditrice di _è già_. Non
mi può dire almeno la linea su cui l'ha veduta la prima volta? È un
indizio così vago!

— Ebbene.... la linea del Ponte Isabella.

— Carrozzone chiuso o giardiniera?

— .... Carrozzone chiuso.

Ed era tanto rimbambinito nella sua passione che, detto quello, mi
guardò con una certa diffidenza, come se io avessi già tanto in mano
da poter scoprire la persona. — Non importa, — gli dissi — le assicuro
che la scoprirò prima che lei si confessi. — E mentre scendeva, gli
domandai se fosse proprio preso sul serio.

Egli mi mise una mano sulla spalla e la bocca all'orecchio e con
un accento di passione di cui non l'avrei mai creduto capace, così
inaspettatamente caldo e profondo che mi diede una scossa: — Ah! —
esclamò — da perderne la testa!

E messo il piede a terra, mentre il tranvai ripartiva, si voltò da
un'altra parte per nascondermi la vergogna d'essersi tradito così, da
quel buon fanciullone ch'egli era.

                                   *

E finalmente, dopo tre mesi e più, riecco una mattina donna Chisciotta,
che esce quasi di corsa dalla Stazione di Porta Susa e sale sul tranvai
della barriera di Casale, tirandosi dietro tre marmocchi e un facchino
carico di roba, tutta infiammata nel viso, con un cappellino bellicoso
messo alla diavola e un panierino alla mano, dal quale spuntano delle
ciambelle. Dove aveva preso quei tre piccoli mobili, dalla testa
rapata, vestiti tutti a un modo e puliti come specchi, ma visibilmente
di razza povera, che le stavano appiccicati e le sorridevano come a
una mamma? Che ne avesse fatta “qualcuna delle sue„ lo indovinai alla
prima; ma per capire di che specie fosse dovetti aspettare ch'essa
attaccasse conversazione con una vecchia signora, che la interrogò per
indiretto, accarezzando i bimbi, e guardando lei curiosamente. I due
maschietti, disse, s'eran rimessi bene; bastava guardarli in viso; ma
la bimba non era migliorata gran che. Le bisognava una cura lunga, e
per questo ella si sarebbe intesa con sua madre, a cui la riportava.
E si diffuse in particolari sulla malatina, fissando ogni tanto su
quel visetto pallido l'occhio inquieto e amoroso, come se volesse
colorirlo con lo sguardo. In fine, capii che erano poveri ragazzi mezzo
rachitici, di tre famiglie diverse, ch'essa aveva presi in tre soffitte
della propria casa, e portati per venti giorni in Val Sesia, nella sua
villa, dove da vari anni manteneva ogni estate, a spese proprie, una
piccola _colonia alpina_ di bimbi gracili. E poichè la vecchia signora
la lodò, dicendole dolcemente che se tutte le signore avessero fatto
altrettanto, migliaia di ragazzi poveri avrebbero riacquistato la
salute, essa respinse la lode, scrollando il capo, rattristata tutt'a
un tratto, sconfortata dal pensiero della propria impotenza, della
povertà dei suoi sforzi solitari di fronte all'immensità dei bisogni,
alla moltitudine innumerevole dei bambini malaticci che rimangono in
città nei mesi caldi a bere l'aria avvelenata di stamberghe sudicie
e oscure. E ripeteva, certo senza saperlo, il grido del Tolstoi: —
Che cosa fare? Ma! Che cosa fare? — con un accento così caldo e così
doloroso, da far comprendere che quel pensiero le soffocava in cuore
ogni soddisfazione dell'opera buona compiuta; e anche più del suo
accento lo dicevano aperto i suoi grandi occhi neri e sporgenti che,
nel fissarsi su quei tre visi, esprimevano una pietà scontenta, un
amaro rammarico che fossero così pochi, tre! tre soli, e non trenta,
e non trecento, e non trenta mila, come la sua ardente carità avrebbe
voluto. — Ma! Che cosa fare? — Fui a un punto dal risponderle: — Quello
che fai tu, intanto, o anima bella! — Ma vedete un po': questa risposta
così gentile e rispettosa, se glie l'avessi fatta davvero, anche col
_lei_, m'avrebbe valso una presa d'impertinente o di matto; tanto
le convenienze fittizie, nel commercio sociale, fanno a pugni con la
sincerità e con la poesia! Ma poichè la risposta glie la posso dar con
la stampa, _imprimatur_.

                                   *

Per vari giorni non ritrovai più altri; ma in compenso, raccogliendo
dei frammenti di discorsi nei carrozzoni e nelle giardiniere, feci
la scoperta d'una nuova famiglia d'originali: gli sbeffatori della
villeggiatura e dei villeggianti: cittadini che, trovandosi bene a
Torino anche nel cuor dell'estate e preferendo il _Caffè romano_ e
le corse serali in tranvai a tutte le delizie campestri, si burlano
di tutti quegli imbecilli, i quali, per ubbìe igieniche o per
ostentazione di signoria, rinunciano a tutti i comodi della città e
si vanno a rintanare in bicicocche solitarie, anche in rasa pianura,
dove arrostiscono dal caldo e cascano a pezzi dalla noia. Giorni fa
era un grosso signore sbracato che canzonava con molt'arguzia certe
famiglie, le quali dalla villa tempestano di lettere supplichevoli gli
amici lontani perchè vadano a sbattere con una visita la malinconia
mortale delle loro giornate, e quando uno ce ne casca, lo accolgono
con tale espansione di gratitudine da moverlo a compassione della
loro esistenza. Avantieri era un impiegatuccio rinfichito che si
rallegrava della stagione pessima pensando ai villeggianti di montagna,
i quali, sorpresi dal freddo precoce, condannati alla reclusione
dalla pioggia, devono covare il fuoco come in gennaio, per giornate
eterne, sospirando amaramente Torino, rabbiosi di non aver il coraggio
di ritornarvi. E ieri sera, da un vecchietto elegante, con la bocca
tutta da una parte, intesi mettere in burletta una famiglia che, per
la vanità di farsi credere in campagna, tien tutte le persiane chiuse
e non esce che di notte, menando una vita miseranda e vergognosa di
malfattori braccati dalla polizia. Non tutti, peraltro, sentono il
bisogno feroce di condire il proprio piacere con rimmaginazione del
dispetto altrui. Trovo sul tranvai delle facce ilari di giubilati
che si godono l'estate con tutti i sensi, nuotando voluttuosamente
nel caldo addormentatore dei loro incomodi, contenti della città meno
affollata e meno rumorosa, e delle giornate lunghe che dimezzano il
tormento dell'insonnia, riavuti dal sole come le biscie. Fra questi è
il mio buon veterano, il quale, uscendo una mattina dal suo numero 43,
sale sulla giardiniera di via Garibaldi con Ciuchetto fra le braccia,
e mi rivolge la parola amichevolmente, con quell'effusione allegra e
verbosa che dà ai vecchi il sentimento insolito della piena salute. E
sta bene davvero, e sarebbe pienamente felice se il suo piccolo amico
non avesse avuto una zampa sciupata dalla ruota d'un carretto; per
cui da una settimana egli è costretto a portarlo in braccio a “prender
aria.„ Povero vecchietto! Sentendosi forte, ha fatto uno sproposito:
una gita ai laghi d'Avigliana, con biglietto d'andata e ritorno, tutto
solo, e ne è tornato soddisfatto, niente stanco. E poi è contento
dei “grandi onori„ con cui è stato ricevuto da Makonnen il Nerazzini,
_uomo di testa_, che dà a sperar bene dei negoziati, ed esprime tutta
la sua gioia di devoto monarchico per il matrimonio del principe di
Napoli, e una tenerezza paternamente ammirativa per la principessa; —
_bella persona, bella persona_. Parla di questo matrimonio come d'un
avvenimento ch'egli avesse bisogno di vedere per viver tranquilli
i suoi ultimi giorni e chiudere gli occhi in pace. — Se mi guarisse
presto questo qui! — dice poi, accarezzando il cane, che mugola dalla
gratitudine e tira a leccargli il viso. — Creda, è stato un _dispiasì
gross_. È l'ultimo amico del povero vecchio. Già, non si scherza: son
settantotto e mezzo, sa lei? Del resto, non mi lamento. Digerisco bene
da un tempo in qua, e non tutti, all'età mia, possono dire altrettanto.
Giusto, ci ho un vecchio camerata, che non sta punto bene. Vado ora a
trovarlo. Questo tranvai mi porta proprio sull'uscio. Gran comodità,
non è vero? Con queste belle giornate, in special modo. Lei scende
già? Ah no, badi; non scenda fin che sia fermo. _Si ha un bell'esser
giovani_, una disgrazia è presto accaduta. Così, grazie, e altrettanto.
Buona passeggiata. _Cerea._ — È felice! O anima umana, mal paga del
mondo, assetata dell'Infinito, e contenta di così poco!

                                   *

Faccio un'altra scoperta, di natura opposta alla precedente e ristretta
al solo bel sesso: quella d'uno stato d'animo che si potrebbe definire:
la _musoneria settembrina_. Vedo sui tranvai molti visi di signore e
di signorine di cattivo umore, come tormentate da un dispetto sordo
e immobile, che traspare dagli occhi fissi e guizza sulle labbra
strette; e ne leggo la cagione nelle occhiate oblique che, al passar
vicino alle stazioni, lanciano sulle signore in abito da viaggio, a
piedi e in carrozza, che vanno dal lato della partenza, con un gran
corredo di cappelliere e di borse. Ah, esse non appartengono, no, alla
famiglia degli sbeffatori della campagna. Sono mogli e figliuole di
poveri borghesi, ai quali la professione o la borsa vietano le dolcezze
del “silenzio verde„, sono condannate e non rassegnate al domicilio
coatto cittadino, rabbiose contro Torino, e contro la schiavitù o la
pitoccheria coniugale o paterna, e contro le amiche partite, di cui
prevedono, al ritorno, gli sguardi trionfanti e le interrogazioni
compassionevoli. Come s'indovina tutto quel che mulinano quelle piccole
teste fiorite durante le lunghe corse delle giardiniere! È il mese
dei viaggi, delle gite alpestri, delle regate sui laghi, delle feste
d'addio nelle case di bagni, delle chiassose scarrozzate da villa a
villa, rallegrate d'incontri inattesi e d'ardite galanterie e di dolci
colloqui nell'ombra e d'una gioconda libertà spensierata che la città
coi suoi mille occhi aperti e la casa con le sue mille piccole cure
non consentono. Tutte queste visioni danzano davanti a quegli occhi
socchiusi che guardan lontano, al di sopra delle teste ciondolanti dei
cavalli, in fondo ai viali lunghissimi e bianchi, l'orizzonte velato
dai vapori estivi. E dietro a quelle fronti accigliate si preparano
intanto le allusioni amare, le satire coperte, le rampogne, che
ricadranno all'ora di desinare e di dormire, in suono di lamento o di
condanna, sulle spalle d'un infelicissimo, ridotto ad aver paura della
tavola e del letto come di due macchine di tortura. In verità, vedo dei
bei visetti in cui la musoneria settembrina è così dura e provocante
che, quando salgono o scendono, mi scanso con timore, come si fa con
quegli spadaccini attaccalite che cercano un pretesto per bucar la
pelle al primo venuto. E sono alle volte molte insieme, son giardiniere
cariche di rancori coniugali, di polvere da guerra domestica, nelle
quali mi piglia un malessere come a viaggiare in un treno che porti
delle sostanze esplosive. E toccano anche a me degli sguardi ostili
che dicono: — Devi essere anche tu uno di quei mariti aguzzini che
fanno spasimar la moglie in città nel mese di settembre; — e se mi par
qualche volta che uno di quegli sguardi s'addolcisca incontrando il
mio, la mia vanità è castigata subito da uno sbadiglio mal frenato, che
mi dice in faccia: — Ooooh.... non s'illuda; mi secca anche lei.

                                   *

Eppure, anche sul tranvai, aiutandosi un po' con la fantasia, si può
goder la campagna. Io ci fo delle escursioni piacevolissime. Percorsi
per la prima volta tutta la linea della barriera di Lanzo, e fu per
me un vero viaggio di scoperta: l'osservatore s'ingrandisce il mondo.
Passato il ponte sulla Dora e svoltato da via Ponte Mosca sul largo
corso Emilia, si sente come il piacere dell'uscir da una folla: il
respiro, lo sguardo, il pensiero più libero, un rasserenamento dello
spirito che mette voglia di cantare. Attraversata la strada ferrata
di Lanzo, non par più di essere a Torino. La città, a poco a poco,
si traveste di gran signora in borghesuccia di campagna, spianando la
fronte e prendendo un aspetto placido e ingenuo. Le case diradate si
parano di lenzuola e di pezze di bimbi, come per il passaggio d'una
processione; le botteghe sporgon fuori le insegne di cent'anni fa; le
piazzette si congiungono con gli orti, le vie laterali si stringono in
viottole che si perdono nel verde ai campi, e si va fra lunghi muri
di cinta d'officine e di ville solitarie, fra assiti di giochi di
bocce e larghi fossi, dove corre l'acqua fino agli orli, cantando la
ninna nanna alla via che sonnecchia. Poi appaiono i primi terrazzini
di legno, con le scale di fuori, le prime aie, i primi usci a cui
è attaccata l'immagine d'un Santo da un lato e dall'altro un avviso
della Prefettura; e qua e là vacche pascolanti, bimbi arsi dal sole e
donne coi piedi scalzi; e in ogni parte una quiete, un silenzio, che
il rumor del tranvai, dov'è con me un solo passeggiere addormentato,
vi echeggia ed empie l'aria come lo strepito d'una corriera in
un villaggio deserto. E là veggo scritto sopra un usciolo chiuso:
_Teatro Gianduja_, e trovo degli annunzi in stampatello d'altri teatri
sconosciuti: _Teatro della barriera di Lanzo, Teatro Manzoni_; nel
quale si rappresenta _Kean, sublime capolavoro di Alessandro Dumas_.
O che malinconia è questa che mi salta addosso tutt'a un tratto di
venirmi a chiudere in una di quelle piccole case dormenti, pure sapendo
che ci vivrei di tristezza, anzi appunto per viverci così, per sentir
più profondamente la solitudine sul confine della città rumorosa?
Tentazioni nere di soldato imbelle della vita! Ma questi pensieri volan
via alla barriera, dove la piccola stazione della Madonna di Campagna,
il sobborgo arioso che mi s'apre di fronte, e il via vai delle guardie
daziarie, dei carrettieri e delle donne in mezzo ai carri e ai banchi
di frutta e sull'alto cavalcavia della strada ferrata, mettono una
vita, una gaiezza di movimento cittadino e di lavoro campestre, che
m'entra nell'animo. Discendo per aspettare che si riparta, m'affaccio
per curiosità all'uscio d'un carrozzone senza finestre, e là dentro,
in un gruppo di fattorini e di cocchieri pasteggianti allegramente in
mezzo alla batteria dei canestri, riconosco il giovane dantista, che
sgranocchia una frittata col tegame in mano, e che, appena vedutomi, —
Oh diamine — esclama; — come mai è venuto fin qua, ai confini del mondo
abitato! Guardi, guardi che bella sala da pranzo....

    e come il pan per fame si manduca.

                                   *

Il tranvai s'era già mosso quando lo fece fermare un operaio che veniva
dalla parte di Madonna di Campagna, barcollando e brontolando, con la
testa ciondoloni. Ci mise un bel pezzo a salire e si lasciò cascare
sulla panca come un sacco. Allora soltanto riconobbi _Desbottonass_,
che si doveva essere sborniato in qualche osteriaccia dì fuor di porta,
impolverato da capo a piedi, coi capelli sulla fronte, una cicca in
bocca e la cravatta sciolta. M'accorsi subito che in quei due mesi
caldi trascorsi dopo l'ultimo nostro incontro la briachite cronica
aveva fatto in lui dei guasti terribili. Mi fissò un momento con gli
occhi imbambolati; ma non mi riconobbe. Si capiva dal modo come girava
intorno lo sguardo irritato che aveva una gran voglia di attaccar lite.
E l'occasione era bell'e pronta.

Quando il fattorino dantista sì presentò a domandargli: — Da due o
da tre! — egli stette un po' pensando, e poi bofonchiò: — _Mi voo a
la Crocetta_; — e senza dubbio s'era fissata quella meta lì per lì,
senza un determinato proposito, per quella smania che hanno i briachi
d'andar lontano, alla ventura, verso osterie sconosciute, per allargar
l'orizzonte della sbornia.

— Allora, — riprese il fattorino — da tre.

L'uomo tirò fuori lentamente un soldo dalla tasca dei calzoni e glie
lo mise nella mano; poi, dopo aver molto frugato in un'altra tasca, ne
tirò fuori un altro e lo aggiunse al primo; e punto.

— Per la Crocetta son tre — ripetè il fattorino; — ancor uno.

Quello scattò. — Ma che tre! _Questa l'è nœuva!_ E perchè tre?... _Mi
ne paghi duu.... Mi n'hoo semper pagaa duu_....

E insistendo il fattorino, egli si voltò verso un signore che aveva
accanto, e gli dimandò col viso sul viso: — _E lù, ch'el disa, quanti
ghe n'ha pagaa lù?_

Il signore rispose che n'aveva pagato due.

— _Ah! el ved donca.... e perchè lù duu e mi trii? Oh questa l'è ona
bella giustizia!_

— Ma il signore, — gli osservò il fattorino, — va soltanto fino a
piazza Carlo Felice, e fa due soldi; lei va a capo linea, e fa tre.

— Ma che capo linea! _Mi g'hoo minga ditt a capo linea!... Mi disi la
Crocetta.... Soo nanca coss'el sia el capo linea.... El regolament el
dis: — Duu!_ — e il resto son mangerìe.

E seguitò un pezzo, smozzicando le parole fra i denti e la cicca,
declamando, apostrofando ora l'uno ora l'altro dei passeggieri. Non era
chiara? Chiedevano di più per intascarli; era una camorra impiantata
per spogliare il popolo; tutti parenti di Casa Mangioni. Il fattorino
tentò ancora di persuaderlo, un po' sul serio, un po' ridendo; ma dovè
smettere per andar da altri, e passandomi accanto mi disse piano: — Ha
visto che tipo? A momenti lo piglio _per la cuticagna_; non c'è altro.
— Poi ritornò da lui e ricominciò la prova.

Ma quello non gli badava, inveiva contro un biciclista che accompagnava
da un lato la giardiniera, come un cavaliere di scorta a una carrozza,
discorrendo tranquillamente con un passeggiere suo amico, seduto
all'estremità d'una panca. Quell'accompagnamento in bicicletta, non
so perchè, pareva a _Desbottonass_ un abuso enorme, una intollerabile
mancanza di rispetto alla “compagnia„. Gridava al biciclista che se
n'andasse per i fatti suoi, che _l'era minga permess_, ch'egli non
aveva mai visto un'impertinenza simile.... Poi, tutt'a un tratto, balzò
in piedi, e appoggiandosi alla spalliera davanti come a una tribuna,
gridò ai baracconi di Porta Palazzo: — _Mi sont de l'opposizion!_ — e
ripiombò sulla panca.

Dopo un po', il fattorino ricominciò a ragionarlo, e pareva già quasi
persuaso, quando in piazza Carlo Felice, essendo salito accanto a lui
un signore che pagò due soldi per la Crocetta, egli mise un grido di
trionfo: — _Ah! el ved donca.... quest chi el và a la Crocetta e ne
paga duu.... Ma se 'l disevi!... E mi trii, eh, fiœui de cani, e mi
trii? E perchè mi trii?_

— Ma il signore è salito qui, — rispose il dantista, — e lei ha già
fatto due terzi di strada. Animo, tiri fuori il soldo; vuol obbligarmi
a chiamar le guardie? — E, ripassandomi accanto, mormorò: — _O sovra
tutte mal creata plebe!_ Veda con che razza d'animali abbiamo da fare!
— mentre che l'altro continuava a barbugliare: — _La reson l'è la
reson.... el regolament l'è el regolament_.... E ben venga la forza....
_Se se paga duu, se paga minga trii. Oh fiœu d'on todesch!_...

Come sia andata a finire non so; l'uomo tornava a dichiarar
solennemente di appartenere all'_opposizion_ quando io discesi dalla
giardiniera, rattristato d'aver ritrovato un gran tratto più giù sulla
china dell'abbrutimento quell'operaio che doveva esser stato buono,
onesto e intelligente; turbato dal pensiero che tutti gli sforzi coi
quali si combatte il vizio orribile non ne impediscano in alcun paese
l'incremento mortale; oppresso dal dubbio che ogni lotta col mostro
debba riuscire inutile, che l'umanità sia sospinta come da una condanna
fatale ad un segno, da cui l'immaginazione rifugge atterrita....

                                   *

Son queste le linee ed è questo il mese in cui più sovente si fanno
lunghi tratti di corsa senza compagnia o con un compagno unico; nel
quale occorre spesso d'osservare l'espressione d'un sentimento curioso,
somigliante a quello che si prova in certi giardini o sale splendide
di grandi palazzi, quando vi si è soli: l'illusione fugace della
padronanza, la compiacenza immaginaria della ricchezza e del fasto. Si
vedono di questi passeggieri solitari, contenti e alteri d'esser tirati
per mezzo miglio da due cavalli che paiono correre per loro soltanto,
con un cocchiere davanti e un fattorino di dietro, che hanno l'aria
d'esser lì al loro servizio esclusivo; e si leggono sul loro viso dei
soliloqui fantastici di gran signori. Dove si potrebbe comprare per
dieci centesimi un altro così dolce diletto della fantasia? E sono
anche i tratti di strada in cui fattorini e cocchieri, liberi dal
pubblico e felici di quella breve libertà, chiacchierano, solfeggiano,
fischiano, salutano allegramente i colleghi che passano sugli altri
carrozzoni vuoti, e si lanciano a vicenda frizzi e saluti; nei quali
si manifesta quella familiarità fanciullesca che stringe tutti coloro
che hanno comuni occupazioni e noie e argomenti di riso, di lamento e
di critica, siano essi deputati o soldati o commedianti o collegiali.
Sono gli “incerti„ piacevoli, le ore di ricreazione di questi poveri
servitori di tutti; durante le quali, se gli riesce d'agguantare
qualche ascoltatore, il fattorino Carlin vuota con un gusto matto il
sacco di una intera settimana. Lo feci parlare per un pezzo in una
di queste corse solitarie, e compresi meglio che mai quale strana,
mostruosa confusione tutte quelle varie notizie di politica, di
scienza, di viaggi e di avvenimenti pubblici, ch'egli attinge giorno
per giorno dalle gazzette o dai discorsi dei passeggieri, possano
produrre nel cervello d'un uomo del popolo, in cui alla mancanza
della cultura necessaria a comprenderle e a coordinarle s'unisca un
certo ingegnaccio naturale e un'immaginazione vivace. In pochi minuti
accennò e commentò tutti i fatti principali del mese, collegandoli coi
più bizzarri ragionamenti e tirandone le più stravaganti deduzioni
che si possano immaginare. Nei terremoti dell'Islanda e di Messina,
nelle inondazioni del Ferrarese e nel ciclone di Messina egli vede
gl'indizi di qualche cosa di guasto nella macchina del mondo, i segni
coordinati d'uno sfacelo universale, che lo impensieriscono seriamente.
— Che cosa accadrà? E tutta questa gran scienza non può proprio far
nulla per prevenire quello che sta per accadere? — Poi si lancia d'un
salto nella politica con la mancanza assoluta, propria dei bambini e
degli uomini incolti, di quel pudore intellettuale che impedisce a noi
di saltar da un argomento importante ad un altro, per non mostrare
d'aver esaurito sul primo tutte le nostre idee e d'essere incapaci
d'insistere a lungo in un solo pensiero. Si è varata alla Spezia la
corazzata _Carlo Alberto_ e a Sestri l'incrociatore _Colon_, destinato
alla Spagna; dunque c'è un'alleanza della Spagna con l'Italia. Si parla
del trattato italo-tunisino: dunque una nuova triplice: l'Italia, la
Spagna e la Francia. Contro chi? E poi un altro salto. Quel Nansen che
ritorna, tanto festeggiato, a Cristiania, ha scoperto un nuovo mondo,
non è vero? Si discorre in questi giorni della scoperta dell'oro nella
Nuova Zelanda: ecco la scoperta del Nansen: un mondo pieno di tesori.
Ed ecco, forse, perchè i Sovrani russi si dirigono verso la Danimarca e
la Norvegia, che son da quelle parti: per accaparrarsi l'oro pei primi:
è chiarissima. E tirò via in questo modo, fabbricando ogni specie di
castelli informi coi materiali disparati e monchi che s'ammucchiavano
nel magazzino semioscuro della sua testa; ed io, visto che le mie
spiegazioni non facevan che accrescere il disordine dei suoi concetti,
pensavo sospirando, senza più interromperlo, che fin che le migliorate
condizioni dei lavoratori non aprano a tutti gli adulti la scuola, ci
sarà sempre nel mondo la stessa quantità d'ignoranza, o una ignoranza
idropica di idee dimezzate e confuse, nella quale è forse più difficile
d'innestare un'idea netta che nei cervelli vergini d'ogni coltura.

Maraviglioso Carlin! Il suo cervello è in uno stato permanente di
ebullizione, e ci bolle un po' d'ogni cosa; ma son pur sempre i sogni e
i propositi di guerra quelli che gli vengon su più di frequente. Altri
seicento armeni macellati a Karput! Ma quando finirà questa storia
_infama_? — Ah giuraddio! — esclama, stringendo il pugno. — Andar là
coi nostri “colossi marini„, correre tutte le rive maledette, e bum
e bum e bum, far saltare in aria e bruciare ogni cosa fin che non
resti un brandello d'un turbante sulla faccia della terra! — E detto
questo, dà di mano al suo taccuino e segna i biglietti con un viso
risoluto come se facesse il conto dei cannoni occorrenti all'impresa;
poi, rimesso il taccuino nella borsa, si pianta sulla piattaforma
con le braccia incrociate e con gli occhi fissi all'orizzonte,
nell'atteggiamento d'un ammiraglio che spia dal ponte della corazzata
le fortezze nemiche.

                                   *

E qui mi toccò un periodo (non il primo nel corso dell'anno)
somigliante a quei numeri di giornali della stagione morta, nei quali
non si trova da cima a fondo un cencio d'articoletto o di notizia, non
una riga di cronaca, non una parola che c'importi un'acca, come se la
vita del mondo, che il foglio rispecchia, fosse sospesa. Chi non ha
esperimentato sui tranvai di questi periodi morti? Per vari giorni non
ci trovate un uomo singolare, una donna bella, un bambino attraente; vi
son tutti sconosciuti i passeggieri come se la popolazione della vostra
città si fosse barattata con quella d'un'altra; tutti frontespizi
nuovi, per uno strano caso, gl'impiegati; e nè un accidente, nè un
discorso, neppure un inconveniente di servizio, nulla assolutamente che
rompa l'uniformità delle vostre corse, come se la gioventù, l'amore
e l'allegria avessero abbandonato l'“istituzione„ vecchia decrepita
oramai, e sul punto di morire alla sua volta, come gli omnibus di
antica memoria. Non vidi altro di notevole che una giardiniera, sulla
linea di San Secondo, tutta occupata da povere vecchie dell'Ospizio di
Carità, per le quali era il giorno settimanale d'uscita, vestite tutte
di grigio e curvate come da un vento che soffiasse dietro, e sopra
quella carrozzata di secoli, segnati sui visi da migliaia di rughe,
un grande annunzio arcato, in cubitali caratteri bianchi su fondo
azzurro, che diceva: — _Biblioteca romantica Sperani_. — Finalmente,
una domenica, trovai sulla linea di Madama Cristina il buon falegname
propagandista, con la sua eterna giacchetta di velluto stinto, stretto
in un vivo colloquio con un fattorino tarchiato e barbuto, dalla testa
enorme, piccolissimo di statura, che gli arrivava appena con la fronte
alle spalle.

Al primo sguardo indovinai che lo stava catechizzando, e pensai che
fosse una sua consuetudine di valersi di quelle ore morte del servizio
per portare il verbo tra gl'impiegati del tranvai. Appena mi vide, in
fatti, mi venne accanto, e m'accertò che non m'ero ingannato: egli
faceva delle corse apposta per predicar la sua fede a fattorini e
a cocchieri, e n'avea già convertiti parecchi. Soltanto quello là,
quella specie di nano irsuto, che non rideva mai, era duro e resistente
come un masso, per motivo di quattro palmi di mota e di sabbia che
possedeva sulla riva del Tanaro, dalle parti d'Alba: una proprietà
ridicola, che spariva ogni tanto sotto l'acqua e che non gli rendeva
la croce d'un centesimo; ma che aveva piantato nel mezzo, come un
albero di bastimento naufragato, un grande faggio, da cui egli sperava
di ricavare, abbattendolo, una sessantina di lire. — È un uomo che
capisce, — mi disse — non è mica corto di comprendonio.... Seguita il
mio ragionamento: da una cooperativa di produzione, di consumo e di
mutuo soccorso a un gruppo di cooperative di corporazione, e poi a un
gruppo di gruppi, e via via, dai comuni alle province, dalle province
a tutto il paese. L'idea gli piace e si capacita. Soltanto, quando si
passa dalla proprietà industriale a quella della terra, ecco che gli
si drizza davanti l'albero, e lui ci s'attacca, e non c'è più verso di
smoverlo. — Quell'albero era per il fattorino l'ultimo e invincibile
argomento in contrario all'Idea; il fusto di quel faggio si cacciava
in mezzo ai congegni della nuova gigantesca macchina sociale, che pure
egli ammirava, e ne arrestava di punto in bianco il movimento enorme,
sconquassando ogni cosa. E mentre il falegname diceva questo, fissando
per di dietro il fattorino che s'era scostato, io capivo che col
pensiero egli non vedeva la persona, ma l'albero maledetto, il supremo
impedimento alla sua conquista, il grande nemico, e che escogitava
il modo di abbatterlo facendo un lavorìo vivace dell'immaginazione,
visibilissimo nei moti impazienti delle dita, con cui si tormentava
il barbone rossastro e stropicciava un pacco d'opuscoli che teneva
in mano. Gli domandai dove andava: mi rispose, battendo la mano
sugli opuscoli, che andava a distribuirli all'estremità di Borgo San
Salvario, dove degli amici l'aspettavano. E quell'idea gli risvegliò
tutt'a un tratto un ricordo, che gl'illuminò il viso e gli fece
dare una risata; il ricordo d'un suo trionfo, d'uno di quei tiri
fortunati ch'egli faceva alle autorità, e che erano la sua gloria. Oh,
un'avventura impagabile. La polizia aveva fatta un'apparizione nella
sua bottega, sospettando ch'egli ci tenesse un deposito d'opuscoli
proibiti. Di roba proibita egli non ci aveva nulla e nemmeno di roba
permessa, perchè i libri e i giornali non li teneva lì; e strizzò
un occhio. Il brigadiere aveva adocchiato e frugato per tutto senza
trovare il più piccolo pezzo di carta stampata. Ma proprio sulla
parete di fronte all'uscio era attaccato un gran _Calendrier de l'an
1896_, nel quale era segnato a ogni data, con una parola fiammante
di commento, un avvenimento socialistico. Il brigadiere ci aveva dato
un'occhiata e, credendolo un calendario innocuo, era passato oltre e
se n'era andato via, salutando lui con buona maniera. Ah, che farsa!
A quel ricordo lo assaliva una ilarità irresistibile, una gioia
come s'egli avesse fatto all'autorità uno di quei tiri magistrali,
superbamente buffi e temerari ad un tempo, che rimangono nella
storia delle grandi astuzie rivoluzionarie, a perpetuo ludibrio delle
tirannidi. E ne rise per un pezzo fregandosi le mani e rinsaccando
il capo nelle spalle. Poi si fece serio ad un tratto per parlarmi
del congresso femminista internazionale di Berlino, perchè era pur
sempre la questione della donna il primo dei suoi pensieri; e a questo
proposito mi fece vedere sopra un taccuino logoro certe sue sentenze
contro la pornografia, scritte con la matita, in carattere minutissimo.
In fine, quando discesi all'angolo del Corso Valentino, porgendomi la
sua grossa mano, mi disse all'orecchio, con quel suo vocione di basso:
— Ora ritorno all'albero.... Oh, ci lavorerò anche sei mesi, ma lo
butterò giù.... Glielo farò sapere. — E dalla piattaforma, quand'ero
già sulla strada, mi fece ancora, ridendo e strizzando un occhio,
l'atto di chi vibra un colpo d'accetta in un tronco.

                                   *

Due giorni dopo, sulla linea di Nizza, cascai sopra Tempesta. Ecco un
soggetto che il buon falegname non convertirà mai. Era in un periodo
di furor nero contro le biciclette per via d'un caso occorsogli la
settimana addietro: d'un biciclista avventato che, volendo attraversare
il binario al sopraggiungere del tranvai, era stato urtato dal
parapetto anteriore e buttato a terra con le gambe in aria. Il danno
e il malanno eran stati tutti dalla parte sua: la macchina in pezzi,
la testa fessa e uno spavento maiuscolo, senza neanche la consolazione
di poter gridare un — _Si prutesta_ — come quel tale della banda di
Cécina, nel sonetto del Fucini. Eppure Tempesta n'avea perso i lumi,
come se avesse fatto lui il capitombolo. Da una settimana, mi disse
il fattorino, non sbolliva più. La vista d'una bicicletta gli faceva
erompere dalla gola dei fasci di saette. E quel giorno pareva che i
biciclisti si fossero dati convegno in via Nizza per tafanarlo. Egli li
vedeva spuntare in fondo alla strada a una distanza incredibile, come
i gauchos vedono i nemici all'orizzonte della pampa, ne accompagnava
la corsa con un monologo imprecatorio, li apostrofava al passaggio,
e quando qualcuno correva per un tratto accanto alla giardiniera,
squadrava con la coda dell'occhio le ruote, stringendo i denti, come se
si rodesse di non poterci dare delle pedate. Lo irritavano in special
modo i biciclisti attempati. — Passa via, _vei balotta_! — Scendi giù,
vecchio deposito! — Che il diavolo ti porti te e il tuo _ciarafi_!
— Allo sbocco di via Burdin passarono due signore, e contro queste
non imprecò; ma il sorriso sardonico con cui si voltò a guardarle
era da dipingere: valeva un libello di venti facciate. Poichè dovevo
andare dal mio amico Licia, direttore della _Torinese_, mi godetti
lo spettacolo fino alla barriera, dove ci venne incontro di fuori
porta un nuvolo di biciclette, e Tempesta, sopraffatto dai nemici, non
potendo più inveire contro ciascuno, dovette ricorrere alla maledizione
collettiva, gettata intorno a ventaglio, come semente di disgrazia.
E lì ebbi una sorpresa. Feci la conoscenza della sua famiglia: la
moglie e due ragazzi fra i cinque e gli otto anni, che l'aspettavano
col canestro della colazione. Avevo tante volte pensato alle povere
vittime condannate alla sua convivenza, che, vedendole finalmente, mi
feci a guardarle con pietosa curiosità. Ma ebbi un senso di sollievo.
Ah, erano tipi da poterci reggere. La moglie pareva sua sorella: una
tarchiatona di viso sanguigno e fiero, coi capelli per aria, con due
occhi di lottatrice, capacissima di far fronte alle sue furie, e non
soltanto a parole; i figliuoli, rassomiglianti a lui a un segno da far
ridere, due facce strane e torve da ragazzi del Dorè, due predestinati
provocatori della _Società protettrice delle bestie_, ai quali si
capiva ch'era già familiare una gran parte dei moccoli paterni. La
moglie gli porse il canestro con un gesto virile; egli lo afferrò con
un grugnito e, sedutosi sul predellino, si mise a mangiare senza far
parola, dando delle ganasciate da orso, sotto gli sguardi fissi dei
due orsacchiotti, accigliati e silenziosi. — È il solo momento della
giornata in cui si queti —, disse il fattorino, che l'osservava con me,
un po' discosto. E soggiunse sorridendo, con un certo accento benevolo:
— _Rustica progenie._

                                   *

Trovo qui fra gli appunti, sotto il titolo di _rustica progenie_,
varie osservazioni fatte in quei giorni sulla cortesia degli uomini
con le donne sulla carrozza di tutti, e in special modo sull'usanza
di cedere a queste il posto da sedere; alla quale io non credevo che
ci fossero ancora tanti ribelli, e non in una sola classe sociale.
E che amena varietà c'è anche in questa maniera di villania! Il
buon Valentino Carrera, che aveva in petto un libro su _I villani in
Italia_, avrebbe raccolto sui tranvai un tesoro di documenti. Ci sono
gl'incoscienti che, stando seduti dentro a tutto comodo, guardano
in aria d'ammirazione la bella signora ritta sulla piattaforma a due
passi da loro, senza un sospetto al mondo di premere con le natiche il
Galateo, e quelli che restan seduti per pigrizia invincibile, ma che
ne senton vergogna e sfuggon gli sguardi della postulante, fingendo
di non accorgersi della sua presenza. Ci son quelli che s'alzano per
le signore, ma non si scomodano per le donne del popolo, e quelli che
cedono il posto alle giovani e lasciano sui pioli le vecchie. E c'è
chi nella villania raggiunge il sublime: chi sta seduto proprio con
la signora ritta davanti a lui e barcollante, costretta ad afferrarsi
alle maniglie in alto per non cadere, e qualche volta con un bimbo
in braccio o.... nascosto. Ma il caso più comico e più memorando fu
quello che vidi in via Garibaldi il giorno stesso della mia corsa con
Tempesta. Era notte, pioveva a dirotto; dentro al carrozzone chiuso,
dove non c'era più posto, discorrevano con giovialità rumorosa cinque o
sei omoni dell'aspetto di grassi negozianti, che alle facce vermiglie,
luccicanti sotto il raggio della fiammella, parevano usciti da una
ribotta; e sulla piattaforma posteriore stavano in piedi due signore, a
cui il vento sbatteva la pioggia sulle spalle. Quegli allegri amiconi,
seduti vicino all'uscio, non solo le vedevano, ma lanciavan loro
ogni tanto delle occhiate di curiosità galante; ed esse, celiando, ci
facevan su dei commenti esclamativi: — Oh che cavalieri! — E pare anche
che ci canzonino! — E ci vuole una bella disinvoltura! — Ma furono
per ricredersi a un tratto vedendo uno dei cavalieri alzarsi un po'
dalla panca e tendere la mano verso la maniglia interna dell'uscio....
Che baie! Il cavaliere gentile non fece che chiuder meglio perchè non
passasse il vento pel fessolino. E allora le due signore diedero in
uno scoppio di risa cordiale, a cui fecero eco gli altri passeggieri
ritti intorno a loro, mentre nel carrozzone ripigliava più allegro il
cicaleccio fra i faccioni rossi e luccicanti, beati di star lì dentro,
a bell'agio, al riparo dalla pioggia che immollava il bel sesso Latin
sangue gentile.

                                   *

Ed ecco un'altra volta il conte, a proposito di cortesia. Il carrozzone
chiuso correva per via Cernaia, a notte fatta, sotto una pioggia
minuta. C'era in mezzo a noi, sulla piattaforma affollata, il nobile
fattorino che, allungando le mani bianche al disopra delle spalle dei
passeggieri, pigliava i soldi e porgeva i biglietti con la sua solita
garbatezza timida e premurosa di novizio zelante. Un signore con due
gran baffi a roncolo, mio conoscente di saluto, gli diede un biglietto
da una lira sbiadito. Quegli lo alzò di contro al fanalino e lo esaminò
attentamente. Il signore se n'ebbe a male e disse forte: — Bella
maniera.

Il fattorino arrossì. — Io debbo assicurarmi, — rispose.

— Ma che direbbe lei, — ribattè l'altro, — se io esaminassi il suo
resto in quella maniera?

— Ma.... — rispose il fattorino timidamente — direi che è padrone di
farlo.

— Già — replicò il signore — ciascuno intende la delicatezza a suo modo.

Il fattorino lo guardò un momento, chinò il capo come per inghiottire
la pillola, e si scostò.

Allora io dissi al mio conoscente che quello era un conte, un conte
autentico, e glie ne feci il nome. Credette che celiassi; gli accertai
la cosa, e allora, rimasto un po' sopra pensiero, esclamò: — Ma! Non
lo potevo immaginare. — L'accento di quella esclamazione mi colpì.
Era spontanea, esprimeva un senso di rammarico, voleva dire, insomma:
— Se l'avessi saputo, sarei stato meno duro, o non avrei detto nulla.
— Curiosa! E perchè? mi domandai. Perchè quello ch'egli credette uno
sgarbo, venendogli da un conte, che deve dare a ogni atto il suo peso,
non l'offende di più che venendogli da una persona incolta e volgare,
in cui si può supporre inconscienza della sgarbatezza? Perchè gli duole
di essere stato scortese e ingiusto soltanto perchè l'offeso è un par
suo, o di famiglia più signorile della sua? — Ma subito, interrogando
me stesso, pensai che se fosse occorso a me un caso eguale, avrei forse
fatto irriflessivamente, mosso dallo stesso sentimento ingiusto, la
stessa esclamazione illogica. — E per qual ragione? — Ma per nessuna
ragione! Quelle parole di rammarico sarebbero state in me, come in
lui, la voce improvvisa di certe idee sepolte, ma non morte, di vecchi
sentimenti ereditati, confusi, ravvolti nell'animo nostro dentro alle
idee e ai sentimenti nuovi d'eguaglianza e di giustizia, rimpiattati in
una parte di noi che noi stessi ignoriamo, e di cui restiamo stupefatti
quando per caso e per un momento ci si discopre; la voce d'una
coscienza antica, nella quale non penetra che a lampi e di rado il
nostro pensiero, ma che, se la scrutassimo a fondo, ci chiarirebbe come
non tutta la resistenza ostile che si oppone nel mondo alle nostre più
alte aspirazioni umanitarie e civili si eserciti fuori di noi medesimi,
come anche il più ardente apostolo delle nuove idee porti rannicchiato
nel cuore un nemico della propria fede.... E mi confermai in questo
pensiero osservando che il signore dai baffi a roncolo, quando il conte
ricomparve, evitò il suo sguardo.

                                   *

25. _Giornata morta._ 26. _Sine linea._ 27. _Domenica. Suor Teresa,
dramma in cinque atti, rappresentazione diurna._ — Dall'Arena torinese
sgorga sul Corso San Maurizio un'onda umana, e salgono tre coppie
matrimoniali sulla giardiniera, dove non c'è più posto che per loro.
L'ultima siede davanti a me.... To'! I miei due piccoli sposi di borgo
San Donato. Ho tanto pensato e penso così spesso a loro che mi pare
strano che non mi conoscano, che non mi salutino come un amico. O
povera donnina! E che idea le è venuta, nello stato in cui si trova,
d'andare a farsi straziare il cuore dalla monaca agonizzante del
Camoletti? L'ultima scena l'ha fatta singhiozzare, il suo petto ansa
ancora, i suoi occhi sono ancora gonfi di lacrime; e la pallidezza del
suo viso dice che la commozione è stata troppo forte, che essa è andata
a un punto dallo svenire, e lo dice anche la sollecitudine ansiosa
e amorosa con cui suo marito la cova con gli occhi e la riconforta.
— La colpa è mia, — le dice, — non ti ci dovevo condurre. — Ma no,
essa lo scusa, e incolpa sè; è lei che ebbe la prima idea, e d'altra
parte, benchè abbia sofferto, non se ne pente. È la prima volta che
sento la sua voce buona, umile, un po' velata, e come stanca; la quale
forse tra un mese, forse tra pochi giorni, si farà anche più dolce e
più carezzevole per dir mille parole d'amore al capezzale della culla
che già aspetta in casa sua. Vecchio fanciullo incorreggibile! O non
ho messo tanto affetto a questi due poveri giovani sconosciuti da
pensare con inquietudine al giorno che essi sospirano, e che potrebbe
essere un giorno di sventura? La buona donnina è così poca cosa che, a
guardarla, debbo scacciar quel pensiero per non cedere al presentimento
triste di non averla a riveder mai più dopo quest'oggi. E appunto,
mentre il tranvai svolta sul corso Margherita, vedo allontanarsi giù
per il viale del Regio Parco un piccolo carro funebre nudo, seguitato
da due sole persone. Povera donnina! Il suo, forse, sarebbe seguitato
da una persona sola. Ma per uno di quei bruschi mutamenti che son
propri delle donne in quello stato, tutt'a un tratto essa s'asciuga gli
occhi e si mette a ridere; egli tira un sospiro e sorride; e il mio
presentimento svanisce. Come volentieri sporgerei il viso fra quelle
due teste e direi loro: — Non lo sapete che sono un vostro amico? Mi
volete per padrino del vostro bimbo? — Ed eccomi, vecchio fanciullo
incorreggibile, a lavorar d'immaginazione su quella traccia. — Come
continuerei? Che cosa direbbero? Che penserebbero di me? — Eppure....
un giorno o l'altro farò quel colpo; lo prevedo.

                                   *

Un altro par di teste, fra le quali non avrei voluto sporger la mia,
lo vidi due sere dopo, a notte chiusa, in una giardiniera di via
Garibaldi; una coppia in tutt'altra condizione psicologica da quella
dei miei due sposi. Quantunque, stando ritto sulla piattaforma davanti,
li vedessi in faccia a tre panche di distanza, non li riconobbi subito,
perchè l'uomo era sotto “mentite spoglie.„ Solo in un punto che mi si
presentarono tutti e due di profilo, voltandosi l'un verso l'altro per
barattare una parola, ravvisai il bel capitano, in abito borghese,
elegante come un figurino, e la moglina ipotetica dell'impiegato
delle Poste (lettere raccomandate). Ahimè! Tutto finisce. Alla prima
occhiata vidi sui loro visi l'annunzio nero della felicità defunta.
Dovevano essersi scambiati, durante la corsa, delle frasi di un
sapore “di forte agrume.„ Essa aveva l'aria afflitta e pareva ancora
agitata; il viso di lui non esprimeva che una noia compressa, la quale
cercava delle vie di fuga in rapidi sguardi lanciati a destra e a
sinistra sui caffè illuminati, sugli ufficiali “liberi„ che passavano
sui marciapiedi, sulle signore chiaro vestite che si scansavano
al passaggio della giardiniera; e lo sguardo di lei, ogni tanto,
accompagnava il suo, come per vedere dove s'andasse a posare. A un
certo punto, senza voltarsi, essa gli disse una parola, uno di quei
monosillabi, m'immagino, che sono come lo scoppio improvviso d'un lungo
soliloquio muto, ed egli le voltò un poco la spalla, rovesciando il
viso indietro e alzando gli occhi al cielo della giardiniera, come per
invocare il soccorso d'un Santo protettore. Non rifiatarono più. Ma
v'è nell'atteggiamento di certe persone sedute l'una accanto all'altra
qualche cosa d'indefinibile, da cui si capisce che i loro spiriti sono
divisi. Essi mi davano l'immagine d'un tronco spezzato in due parti,
le quali si toccano ancora, ma mostran la linea della spaccatura. Il
tranvai era stato il carro di trionfo, ed era allora il carro funebre
dei loro amori. Chi sa quante coppie consimili, quanti altri amori
morti o moribondi portavano in giro quell'altre giardiniere affollate e
illuminate, che correvano davanti, accanto e di dietro; amori che, come
quello, eran nati sulla carrozza di tutti, e ci s'eran dati i primi
ritrovi e ci avevan provato i primi terrori d'essere spiati e inseguiti
e pagato dieci centesimi le loro prime dolcezze! Chi sa quanti altri
amori avevano preso quella sera l'ultimo scontrino! Quando, uscendo
da questi pensieri, tornai a voltar lo sguardo alla panca, Marte
era volato via, e Venere, tutta sola, guardava lontano davanti a
sè, con gli occhi torbidi e fissi, che parevan dire l'ultima parola
dell'annunzio funebre apparsomi alla prima occhiata sul loro viso; —
_Una prece._

                                   *

Era quella una serata limpida e fresca, come di primavera. Non
ricordo d'aver mai goduto come in quell'ora lo spettacolo mirabile che
presenta una città grande, vista così dal tranvai, in una bella notte
d'estate. Sotto le lunghe ghirlande di lampade voltaiche sospese in
alto sul mezzo delle strade, corrono i fanali delle altre carrozze,
somiglianti a grandi occhi rossi, verdi, bianchi, azzurri di grandi
teste invisibili, che ci vengano incontro di lontano; i mille lampioni
delle piazze e dei viali, fiammeggianti da ogni parte tra il fogliame
degli alberi, danno alla città l'apparenza d'una vastità infinita, e
quella moltitudine di gente che si vede di sfuggita, affollata davanti
ai caffè, a crocchi sugli usci, a gruppi sui terrazzi, a processioni
sui marciapiedi, quei visi innumerevoli che ci passano accanto, ora
imbiancati dalla luce elettrica, ora velati dall'ombra, ora dorati
dal gas, ora neri nell'oscurità, ora mezzo accesi dai fasci di luce
che erompono dalle botteghe, paiono d'un popolo fantastico, vivente in
una vicenda continua di giorno e di notte, sotto un cielo in cui danzi
senza legge una pleiade di lune. E qua e là appaiono altri contrasti
lontani di chiarori diffusi e di oscurità fitte, di masse brune di
vegetazione, che offrono aspetto di boschi stelleggiati dai fuochi
d'un bivacco, e di ampi spazi aperti in cui s'inseguono e s'incrociano
stelle multicolori, di file di case confuse in una sola enorme muraglia
nera e di schiere di palazzi su cui par che batta la luce dell'alba. E
a fuggir così fra quei mille giochi di luce, in mezzo a quel brulichìo
di gente riposata e svagata, in quell'aria profumata dall'erbe e dai
fiori dei giardini, nella quale si succedono e si confondono note
di cantanti di caffè, suoni d'orchestre di birrerie, ritornelli di
canzonette popolari e musiche erranti di mandolini e di fisarmoniche,
sembra d'attraversare una città maravigliosa, dove rida una festa
perpetua e siano sconosciuti gli affanni, le fatiche e la miseria. Ma
si rompe l'incanto se osservate il fattorino e il cocchiere. Ah, i loro
visi stanchi, in cui gli occhi si chiudono, le loro povere gambe, ritte
dalle quattro della mattina, che irresistibilmente si piegano, e la
loro voce fioca e sonnolenta vi richiamano al pensiero la moltitudine
di tutti quegli altri che, mentre una parte degli abitanti corre ai
piaceri, posano le ossa affrante sopra un povero letto, per ridestarsi
prima dell'alba a una rude vita di lavoro e di stenti.

                                   *

Era una serata, l'ultima di settembre, limpida e fresca come quella,
quando sulla giardiniera di corso Vinzaglio, salendo all'angolo di
via Cernaia, trovai un buon amico mio, cav. avv. prof., e giornalista
pieno d'arguzia, con due ragazzine; delle quali riconobbi subito la
più grande, figliola sua; la sola ch'io sapevo che avesse. Era disceso
allora alla stazione di Porta Susa, venendo da una sua villa dei
dintorni d'Ivrea a ricondurre a casa la figliuola d'un suo parente,
ch'egli aveva ospitata per una settimana. — Lei lo deve conoscere, —
mi disse. Era la figliuola di _Siapure_! Stava seduta davanti a me,
in modo che la sua treccia bruna cadente toccava quasi le mie mani
appoggiate sulla canna; si voltò in quel momento, e la riconobbi. Era
cresciuta assai nei tre mesi da che non l'avevo più vista, e dai suoi
begli occhi neri, che si fissavano nei miei, compresi che anche la
sua intelligenza doveva aver fatto un gran passo. Tirai il discorso
a un altro argomento; ma per tutta la corsa non potei più staccare il
pensiero da quella bimba; la quale, voltatasi di fianco per ascoltare
la nostra conversazione, continuava a fissarmi in viso i suoi occhi
intelligenti e buoni, come se comprendesse che, pure parlando d'altro,
io pensavo a lei e a suo padre. Mi guardava, col capo un po' inclinato
dalla mia parte, come se volesse dirmi: — Oh, tu parlerai questa
volta; tu mi dirai di salutarlo; sarò io che porterò la parola della
riconciliazione; dilla dunque una volta quella buona parola. — E anche
questa volta la buona parola mi venne alle labbra dieci volte, e dieci
volte la rattenni. Mi dicevo: — Quando il tranvai sarà all'angolo di
Corso Oporto, la dirò. — E poi: — Quando sboccherà sul Corso Vittorio
Emanuele. — E poi: — Quando saremo vicini al monumento. — Ma al buon
punto la parola restava dentro, e ne pativo, e quella treccia che ogni
tanto mi sfiorava la mano mi dava il senso della punta d'un dito che
mi stimolasse, e quegli occhi fissi pareva che mi dicessero sempre più
dolcemente: — Ma parla; non hai che da dire: — Saluta il babbo, — e
tutto sarà finito, e tornerete buoni amici come prima, perchè vi siete
sempre stimati e voluti bene. — Ah svergognato! S'era passato già il
Corso Umberto e non avevo parlato ancora; l'amico doveva scendere in
piazza Carlo Felice; non mi restavano che tre minuti, avevo sdegno
di me, e pure sentivo che non avrei fiatato. Ma da che può dipendere
il fare o non fare una buona azione! Quando fummo vicini alla piazza,
dall'orchestra all'aria aperta del Caffè Mogna mi venne all'orecchio il
motivo della sinfonia dei _Vespri_, quel motivo largo e dolce, che è
uno dei primi ch'io ritenni da ragazzo, e che sempre mi ridesta mille
ricordi della fanciullezza, le prime commozioni del teatro, mia madre
giovane affacciata al palchetto, la scena riveduta in sogno, un misto
d'immagini liete e tristi, confuse, lontane, come d'un'altra vita. O
musica benedetta, nobile amica, misteriosa e benefica ispiratrice di
bontà e di gentilezza!

— Bambina, saluta tuo padre per me....

E il suo _sì_ vivo e soave mi parve una nota di quella musica.



CAPITOLO DECIMO.


                                                             Ottobre.

Sulla soglia dell'ottobre trovo un controllore colosso, che è uno
dei più bei tipi ch'io abbia intoppati nell'annata. Tocca col capo il
cielo del carrozzone, con le spalle chiude gli usci e ferisce in viso
i passeggieri con le punte di due baffi enormi, che paiono due S da
cartellone d'arena. Fu carabiniere, ed è ancora; non ha fatto che mutar
divisa; presta il nuovo servizio con gli stessi modi e con lo stesso
linguaggio che usava nell'antico. Ha un aspetto terribilmente severo.
Quando si pianta in faccia a un passeggiere, par che lo voglia invitare
a _declinar le generalità_, ed esamina lo scontrino come un passaporto,
e glie lo rende fissandolo in viso, come se dicesse fra sè: — Costui
mi ha l'aria d'un pregiudicato. — Non attacca discorso, non sorride
con nessuno. Non intesi ancora che due parole sue, e furono una frase
carabinieresca: disse bruscamente a uno che stava ritto sul predellino:
— _È difeso!_ — Ho un forte sospetto che porti in tasca un par di
manette. Certo, tutte le sue idee sociali e politiche sono in armonia
col suo essere visibile. E io penso, guardandolo, al grande numero di
quegli altri cittadini che dalla forma della professione o mestiere
o stato in cui furono chiusi per caso riescono modellati moralmente
in quel dato modo come quei bimbi che si facevan crescere dentro
vasi di varia foggia quando fioriva l'industria dei mostricciattoli e
dei balocchi umani, e vedendo all'opera con la fantasia le fabbriche
innumerevoli di spiriti conservatori che la società tiene in moto,
dico che hanno da lavorar molto e bene le officine avverse per far
concorrenza efficace a una produzione così vasta, forte di tanti
privilegi e avviata così bene. Mi apparve per la prima volta questo
controllore Golia sulla linea di Vanchiglia, dove, avendogli fatto
aspettare un pezzo lo scontrino che non trovavo, me lo restituì, dopo
un serio esame, dandomi uno sguardo profondo, che pareva dire: — _Te
tegnerò d'oeucc!_ — Mentre si voltava, gli vidi dietro un orecchio
una cicatrice: forse d'una coltellata tiratagli da qualche arrestato
ribelle. Quando discese, rimase ancora un momento duro come un pilastro
in mezzo alla strada, a guardare con occhio sospettoso il tranvai
che s'allontanava, come avrebbe guardato in altri tempi una carrozza
cellulare non ben sicura....

                                   *

Dopo questo spauracchio per vari giorni non trovai che gente contenta.
L'ottobre si presentava col sorriso in fronte. Il primo fu il mio buon
Giors, sulla linea di Vinzaglio, allegro e fresco come la mattinata.
Gli domandai subito della moglie. Guarita! Guarita da un pezzo, salda
sui trampoli, _ardita_ come una sposa, e sana anche la frittura, tre
sacchetti senza fondo, una rovina quotidiana. E, sorridendo, soggiunse
in un italiano suo proprio una frase proverbiale che gli avevo inteso
dire altre volte: — _Tuto va bene, trane la gran miseria_; — e si provò
a fischiare il motivo della _Carmen_, ma senza riuscirvi. Poi mi diede
notizie della _veja_, e poichè non capivo a chi volesse alludere:
— Non si ricorda? La vecchia di Pozzo di Strada, quella del soldato
d'Africa, che si mise a piangere a veder la battaglia stampata? Matta
dalla contentezza, la povera vecchia! — Era stata nel tranvai quella
mattina: un'altra faccia; pareva risuscitata; il figliuolo era vivo;
le avevan mandato dal Ministero degli “affari della guerra„ per via
del Comando del distretto, un pezzetto di carta sporca con quattro
parole del ragazzo prigioniero, un foglio arrivato di laggiù, _da
ca' del diau_, in un gran pacco, con molte altre lettere, che aveva
raccolte e spedite quel prete mandato dal Papa. Ma proprio fuor di sè,
da parere che avesse alzato il gomito, felice da allargare il cuore
a vederla, povera anima tribolata! Portava il foglietto in seno, in
un portamonete di pelle di pecora, e l'aveva fatto vedere a lui, e
lo faceva vedere a tutti. — È venuto il foglio, va bene; ma quando
verrà il figliuolo? Chi lo sa? Quando faranno la pace? Ne sa qualche
cosa lei? Io non leggo la gazzetta perchè mi fan male agli occhi le
parole piccole.... — E diede in una risata. C'era sulla prima panca
un ostricaro con la berretta rossa e col canestro sulle ginocchia.
Egli prese a stuzzicar l'ostricaro. Roba per aguzzar l'appetito, non
è vero? E non c'era già abbastanza appetito per il mondo da portare
in giro delle diavolerie per aguzzarlo? Che gusto avevano quelle
bestie senza testa? Egli non n'aveva mai assaggiato in vita sua, e
sentiva quella mattina un maledetto prurito di farne la conoscenza.
E dicendo questo, fra una scossa di redini e l'altra, si voltava a
guardare il canestro con un'espressione così comica di curiosità e di
diffidenza, che l'ostricaro, esilarato, prese un'ostrica, l'aperse
e glie la porse. Giors la sorbì, e trattenendola in bocca come per
meditarne il sapore, domandò quanto costasse. — Un soldo e mezzo —
rispose l'altro. — _Baloss d'un lader!_ — gridò lui, trangugiandola
con una smorfia di spaventato —, e hai la faccia di far pagare quanto
un pane una porcheria compagna? — Tutti i passeggieri risero, e quel
riso lo eccitò. Eppure, sì, quell'acquolina “amaricante„ stuzzicava
la fame, ed egli avrebbe dovuto tribolare il doppio quella mattina
per arrivare all'ora della macinatura. Ma già era destino che glie
ne capitasse una ogni giorno per scavargli lo stomaco. E raccontò
quella del giorno avanti. Stava discorrendo con una guardia daziaria,
alla barriera, quando, al momento di partire, era salita una bella
contadinotta, un fior di ragazza, che n'aveva quanto tre balie, un vero
capitale, una cosa, una cosa.... insomma, una cosa magnifica. E lui,
così in celia, l'aveva presa a complimentare, maravigliandosi, però,
di vederle fare il viso verde invece di rosso. A un tratto quella gli
aveva detto nell'orecchio, presto e secco: — _Ciuto, c'a son d'tomin!_
— (Zitto, che sono caciole). Erano caciole di Rivoli! E qui una gran
risata. Naturalmente, egli era stato zitto, non l'aveva tradita. Ma il
più bello era stato poi: che, partito il tranvai, pigliando sul serio
una sua facezia sul diritto a un compenso che gli dava la connivenza
nel frodo, la bella ragazza s'era cavato dal seno e gli aveva dato
un _tomin_, un po' ammaccato, ma fresco e di quei grassi, d'un odor
squisito di panna, ch'egli aveva aggiunto, con gran piacere, alla sua
colazione. Ah, che delizia di _tomin!_ Mai da che era al mondo egli
s'era messo nel laboratorio un boccone così saporito, gli era colato
giù fino alle polpe, gli aveva fatto montare alla testa mille grilli. E
seguitò un bel pezzo a scherzare così sui cento sapori di quel boccone,
senza mai eccedere, con una discrezione quasi istintiva d'uomo sano
di nervi e di spirito, rifuggente dalle sudicerie, spandendo intorno
la schietta allegria del suo buon appetito e del suo buon cuore e
sorridendo coi denti bianchi all'aria viva d'ottobre, che accarezzava
la sua bella faccia di galantuomo....

                                   *

Trovai un'altra anima contenta sulla linea di Vanchiglia. Bastò il
suo _cerea_ a rivelarmi l'uomo mutato. Una vera trasfigurazione. Era
il povero fattorino stato ferito da una bastonata e rimasto malato di
terror cronico. Al primo vedere la sua nuova faccia pensai che fosse
stato accomodato l'affare della querela, e glie ne domandai. Gli passò
un'ombra sulla fronte. No, non ancora; la cagione della sua contentezza
era un'altra, e, raccontandola, tornò a rischiararsi. Gli era caduta
sul capo una di quelle carte da visita della fortuna, che fanno data
nella vita dei poveri diavoli come le vittorie in quella dei generali.
Tre giorni avanti, arrivando col carrozzone vuoto alla barriera di
Casale, raccattò sotto una panca un portafogli di bulgaro rinvoltato
in un pezzo di giornale, se lo ficcò in tasca senz'aprirlo e, secondo
la regola, lo rimise nella corsa di ritorno al controllore, perchè
lo portasse alla direzione. Rivenendo verso la barriera, arrivato
in piazza Vittorio Emanuele, vede correre incontro al tranvai, col
viso spaventato, un signore grasso; il quale salta sulla piattaforma
e gli domanda con voce di moribondo: — Avete trovato...? — e al
sentirsi rispondere: — Sì, è stato trovato.... — si lascia cascar di
picchio sulla panca, con le braccia aperte e gli occhi in su, ansando
come un mantice. Atto finale: comparsa del signore alla direzione,
interrogatorio e riscontro, restituzione del portafogli, tanto per
cento secondo l'uso: cento lire al fattorino. — Cento lire, m'intende;
un biglietto rosso nuovo fiammante, coi due occhi di civetta, che
pareva stampato il giorno prima! Ah, benedetto Iddio, son venute a
tempo! — Dopo quella disgrazia che l'aveva tenuto tre mesi a mezza
paga non gli era più riuscito di riassestarsi; la famiglia menava una
vita d'angustie; si dovevan misurare il pane per pagare i debiti, e non
vedevan la fine di quel purgatorio.... — Ed ecco tutt'a un tratto....
Ah, bisogna dire che c'è un Dio! — Splendeva una tal contentezza sul
suo viso pallido, e abitualmente spaurito, che metteva pietà; metteva
pietà il pensare che cento lire possano operare un tal rivolgimento
nell'anima d'un uomo da guarirlo anche dal terrore abituale d'essere
ammazzato. E ragionava sulla sua fortuna per gustarla meglio. Su
tante linee, si sa, tutti i giorni si trova qualche cosa: fazzoletti,
spille, chiavi, scatole di sigarette, perfin delle lettere amorose;
ma dei portamonete con migliaia di lire, bazzica, è un caso raro. E
proprio doveva toccare al figliuolo di sua madre! Si chiamava _nascer
fortunati_. E mi descrisse la scena della sera, quando, rientrando
in casa, aveva sventolato il biglietto, come una bandiera, sul viso
di sua moglie e sulla testa dei bimbi addormentati: la povera donna
s'era messa a piangere, i bimbi s'erano svegliati e buttati giù dal
letto, e poi tutti a ridere e a ballonzolare insieme da parer quattro
villeggianti della Villa Cristina. — E che sarà allora — gli domandai
— quando piglierete mille lire d'indennità a causa guadagnata? — A
quella domauda si rioscurò, e parve ripreso dalla paura solita. — No
—, rispose a voce bassa — quelle.... preferisco di non averle. — E
rimase un po' pensieroso. — Ma! — esclamò poi rianimandosi. — Se non
mi capitano altre disgrazie! — E soggiunse umilmente: — Io non faccio
del male a nessuno, non voglio male a nessuno; nessuno dovrebbe volerne
a me, non è vero? Perchè mi dovrebbero far del male? — Poi, dopo una
pausa, guardandosi intorno, disse con un accento d'inquietudine, che mi
fece pena: — Come si son già accorciate le giornate! — Non era ancora
guarito, pover'uomo.

                                   *

Il terzo contento fu un personaggio nuovo, un vecchio pretino che vidi
uscire dalla stazione di Porta Susa, con la valigia e l'ombrello, e
salire sul tranvai chiuso della linea di Casale. Dal modo come girò
lo sguardo per la piazza, soffermandosi, e come lesse l'insegna del
carrozzone prima di salirvi, e come vi salì, osservando ogni cosa con
un sorriso di curiosità e di maraviglia, argomentai che non avesse
mai visto Torino o non ci fosse più stato dal tempo dei tempi. Aveva
l'aria d'un prete di montagna, un viso roseo, gli occhi chiarissimi,
un'espressione ingenua e buona, quasi infantile. Entrò come in una
casa d'amici, sorridendo a tutti, in atto di ringraziare della buona
accoglienza, e, appena seduto, mi domandò se il tranvai passava per la
piazza Vittorio Emanuele. Il tono con cui gli risposi gli fece subito
attaccar discorso familiarmente. Da trent'anni non era più stato a
Torino, era quello il primo tranvai sul quale saliva. Aveva bene inteso
parlar della cosa; ma dall'immaginare al vedere c'è un gran tratto.
Si voltava a osservare il fattorino e il cocchiere, le panche, i
vetri colorati, gli annunzi, gli altri tranvai che passavano, come un
bambino. Mi ricordò un altro prete di montagna che, anni avanti, sul
ponte di Po, m'aveva manifestato la stessa maraviglia per l'_Angelo
Brofferio_, ch'era il primo battello a vapore ch'egli vedesse. — Ma
guardiamo un po', ma guardiamo un po'.... E si fa fermare quando si
vuole, non è vero? E ogni strada ha il suo?... E va così sulle rotaie,
da per tutto, come sulla strada ferrata? — E quando il tranvai si
mosse, diede segno di viva soddisfazione. — Ma è un bell'andare,
proprio.... senza scosse.... e come si corre.... Una bella cosa,
veramente, una bella cosa. E ora si farà andare con l'elettrico,
dicono.... Sarà una maraviglia.... Ah, son cose che fa piacere di
vederle! — E sorrideva intorno ai passeggieri, come a compagni d'un
lungo viaggio, sconosciuti ancora, ma coi quali dovesse far poi
conoscenza; ringraziò come d'un regalo il fattorino che gli porse il
biglietto; stette un minuto in ammirazione del congegno del campanello,
e quando m'alzai per discendere in piazza Solferino, s'alzò egli pure,
e fattomi un cenno di riverenza col capo come a un conoscente, si
rimise a sedere, visibilmente lieto di non avere ancor da discendere,
di doversi trattenere ancora in quella “bella compagnia„ esilarata dal
sorriso gentile con cui egli rispondeva al suo sorriso canzonatorio,
credendolo un segno abituale della squisita cortesia cittadina....

                                   *

Ma anche la “bella compagnia„ in quei giorni dava ragion di ridere
alle sue spalle. Trovo notato fra gli appunti: — _Galileo Ferraris._
— È il ricordo d'una corsa fatta con lui per un tratto del viale
Margherita. I giornali avevano pubblicato in quel torno le proposte
fatte dalla Società al Municipio per l'istituzione dei tranvai
elettrici, e spesso, tra i passeggieri, s'udivano su quell'argomento
delle uscite amenissime. Sarebbero forse state più guardinghe le
due eleganti bottegaie o modiste o quidsimile, che ci divertirono
per cinque minuti, se avessero saputo che quel bel signore bruno e
pallido, dal sorriso dolcissimo e dagli occhi socchiusi, il quale
stava leggermente chino per raccogliere, senza farsi scorgere, i loro
discorsi, era un elettricista di fama mondiale. La più giovane, con
un cappellino incoronato di magnolie, giurava che sui nuovi tranvai
elettrici non avrebbe mai messo piede, e domandata dall'altra del
perchè, rispondeva vivamente: — Ma come? _E s'a se scianca 'l fil?_ (E
se si strappa il filo?) Tutto va per aria! — Ma l'amica non si curava
di quel rischio: aveva inteso dire che il maggior pericolo era un
altro: se per inavvertenza, salendo o scendendo, si toccava la cassetta
dov'era “il deposito delle scintille„ c'era da pigliare una scossa da
cadere in terra stecchiti come per una nerbata sulla testa. Come se
la godeva il buon Ferraris, lisciando la barba nera con la sua piccola
mano femminea! Ma non era quella la più amena ch'egli avesse udita in
quei giorni. La sera innanzi, sulla linea del Martinetto, aveva inteso
un vecchietto ciaccolone fare i più neri pronostici su quei novi fili
che stavano per aggiungersi ai troppi altri già distesi fra casa e
casa; i quali, saturando l'aria di elettricità, erano cagione di tanti
sconcerti nervosi, di tante malattie bisbetiche e stravaganze d'idee e
audacie matte di partiti sovversivi, per cui il mondo andava diventando
un inferno. Che strana cosa, non è vero? In una delle città più colte
d'Italia, intorno alle maraviglie della scienza, forza e gloria d'una
civiltà di cui insuperbiscono tutti, udire presso a poco gli stessi
discorsi che s'udrebbero sulle rive del Victoria Nianza o in mezzo alle
foreste del Gran Chaco! — Basta — concluse la modista giovane — non
sanno proprio più che diavolerie inventare per accorciarci la vita. —
Delizioso! — disse il Ferraris. Quella si voltò, e al vedere quel bel
signore bruno che, pur avendo l'aria d'intendersene più di lei, pareva
che consentisse nel suo giudizio, gli fece un sorrisetto di simpatia e
di gratitudine.

                                   *

È di quei giorni una pagina sui “fenomeni d'elettricità erotica„ che
posso trascrivere tal quale. “È l'avvicinarsi, che si sente nell'aria,
della stagione sentimentale, è il pensiero che sia questo l'ultimo
mese delle giardiniere, così propizie all'osservazione del bel sesso,
e l'ultimo dei leggieri e scarsi vestiti estivi, ai quali succederanno
tra poco gli alti colletti che fasciano i colli e gli ampi mantelli
che nascondon le vite, son queste od altre le cagioni, per cui noto ora
negli erotici un'intensità di sguardo, una fissità di contemplazione,
un languore di voluttà più cascante che nei giorni dei grandi calori?
Curiosissimo il tipo osservato stamani sulla linea di Madama Cristina:
un signore vestito correttamente, con gli occhiali d'oro e una barba
di sultano, d'una pallidezza e d'una serietà d'Amleto maturo; il quale,
stando ritto in fondo alla giardiniera, con una spalla appoggiata alla
colonnina, a ogni signora che salisse o scendesse da quella parte,
sporgeva in fuori il busto e il capo per conoscere da quale calzoleria
provenisse il suo stivaletto; ma con un piegamento guardingo,
percettibile appena, della persona, che io gli vedevo preparare con
un moto avanti del piede su cui doveva appoggiare, ogni volta che da
quel lato della strada suonava un _alt_ femminile. Quell'atto ripetuto
di scolaresca curiosità sessuale, fanciullescamente dissimulata,
faceva un contrasto altamente comico con la quasi tragica gravità
del suo viso barbuto, e anche più comico all'immaginare i pensieri
ch'egli doveva volgere in capo, ma di cui non un lampo appariva dietro
agli occhiali d'oro, in quegli occhi sporgenti, grigi, muti come due
palle di cristallo. Ah, se si potesse, in un solo tranvai, penetrar
con la mente dietro al velo misterioso di tanti visi gravi, freddi,
innocenti o indifferenti, che mostruoso guazzabuglio si scoprirebbe di
pensieri e d'immaginazioni, di desideri e di propositi, infinitamente
diversi da quelli che le maschere fanno supporre! Un viso eccettuato,
peraltro: quello della “vergine morta„ che salì al crocicchio del
corso Valentino, e per la quale gli occhiali d'oro si sporsero avanti
come per l'altre; un viso così bianco, così puro, così virgineo da
far giurare che non nascondesse mai neppur l'ombra d'un pensiero che
la bocca non potesse esprimere, e che non sarebbe potuto arrossire
nemmeno s'ella avesse saputo che lo sguardo di quegli occhiali vedeva
a traverso ai panni la sua nudità. Come sempre, si voltarono tutti
a guardarla; ma sul suo viso di marmo candido neanche questa volta
non tremò un muscolo, non passò un lampo, non guizzò il barlume d'un
sentimento di compiacenza. Soltanto, quando fu seduta, cosa insolita,
girò il capo a destra e a sinistra, con un movimento vivace, come
se cercasse per la via qualcheduno, da cui sospettasse d'esser
cercata....„

                                   *

Feci riguardo agli erotici, i giorni appresso, quest'altra
osservazione: che si possono ascrivere alla famiglia loro quasi tutti
quei baldanzosi, i quali, nonostante il peso degli anni e della pancia,
che li dovrebbe render prudenti, rischiano ogni momento d'andare a
letto per quaranta giorni, saltando sul tranvai mentre corre. La più
parte, in fatti, saltano per la donna. Hop! Hop! E là! Cinquant'anni
e vedete che leggerezza! È divertente studiare i diversi campioni. Per
parte d'alcuni, che la compiono con disinvoltura, la prodezza può far
colpo; ma ad altri tolgono ogni virtù di seduzione lo sguardo ansioso
che fissano sul punto di mira, gli atti scomposti della rincorsa, lo
sgomento che mostrano in viso del pericolo corso, e la pena che durano,
dopo seduti, a ricomporre la carcassa, soffiando come foche: quando
pure non cascan sulla panca malamente, aggrappandosi alla colonnina
come a una corda di salvamento, col cappello sbiecato e la parrucca
andata di traverso. Ah, vecchi peccatori impenitenti e temerari! Ma
se sul tranvai non c'è bel sesso, non c'è caso che si cimentino. E
gareggiano nobilmente tra di loro, e sono gelosi del salto più snello e
più aggraziato dei giovani. Ne fui testimonio la mattina sulla linea di
via Cernaia. Uno di questi vecchi acrobati galanti, con tanto di panama
e di sottoveste bianca, che pareva tinto col granatino, aveva fatto la
sua prova in piazza San Martino. Poco dopo, mentre s'andava di tutta
corsa, un giovanotto biondo e asciutto, vestito da damerino, saltò su
egli pure, ma da tre passi distante, e senz'afferrarsi alla colonnina:
un vero salto da maestro. Non era che il primo saggio. Passato il corso
Siccardi, saltò giù, corse a un banco, prese un giornale, raggiunse di
volo il tranvai, e vi saltò sopra come prima. Le signore si voltarono
a guardarlo. All'imboccatura di via Santa Teresa, saltò giù un'altra
volta, corse alla buca delle lettere, vi buttò dentro una cartolina, e
poi da capo una corsa, e un salto, e ritto là sulla piattaforma. S'alzò
un mormorio di stupore: non s'era mai vista una cosa simile: le signore
n'erano ammirate; fu un vero trionfo. Ma l'uomo del panama, ingelosito,
ruppe l'incanto. Si chinò un poco verso le signore dell'ultima panca e
disse abbastanza forte: — È il Tony della compagnia equestre del Balbo,
quello che salta otto cavalli. — Poi soggiunse, scrollando una spalla:
— Sfido io; è la sua professione! — e detto questo, dopo aver dondolato
un po' il piede fuori del montatoio, si lasciò andar giù sulla strada
con mollezza elegante, — vendicato.

                                   *

Uno che non salta, per esempio, è il cavalier Bicchierino. Lo vidi
salire il giorno dopo sulla giardiniera di via Garibaldi, mentre
stavo sulla piattaforma in fondo con l'operaio lattoniere, vestito
dei suoi panni da lavoro, con un tubo da gas acciambellato sotto il
braccio. Posato e preciso in ogni cosa, egli fece fermare alzando e
abbassando tre volte la canna come un antico capo tamburo, non salì
che dopo aver guardato se i cavalli eran ben fermi, e non sedette
sull'ultima panca che dopo averla spolverata accuratamente col
fazzoletto. Poi, per riassestarsi addosso i panni scomposti nella
salita, scrollò un po' il capo e le spalle, come fa la gallina per
scoter le penne, e, compiuta quell'operazione, non si mosse più. Era
proprio un destino ch'io non potessi mai conquistare durevolmente
l'animo suo. Il lattoniere, con la sua serietà e lentezza solita
di pensatore, aveva avviato un discorso sulle nuove funzioni dei
municipi in Inghilterra, delle quali s'occupava da qualche tempo,
nelle ore rubate al sonno, con la diligenza che gli era propria,
ritagliando notizie da giornali e trascrivendo periodi da riviste
nel suo grosso vademecum di conferenziere. Interrottosi un istante
per osservare l'operazione d'insediamento del signore sconosciuto,
ripigliò: — Quando lo diciamo noi, pare che sian cose dell'altro mondo.
Ma il municipio di Birmingham, per esempio, quando saranno passati
i settantacinque anni per cui diede in enfiteusi agli impresari il
terreno per lo sventramento, resterà ben padrone di tutte le case
costrutte, con un reddito annuale di cento mila sterline. E questo è
bene un passo sulla strada che condurrà il municipio ad essere come il
direttore d'una grande impresa cooperativa di cui ogni cittadino sarà
azionista.... —

Un movimento leggerissimo delle spalle del cavaliere m'avvertì ch'egli
aveva inteso le ultime parole e un'inclinazione appena visibile del suo
capo m'avvertì che stava in ascolto.

Il lattoniere, accarezzandosi il mento con la mano nera di piombo,
continuò a citare, pacatamente, col tono d'uno che dettasse. — Un gran
numero di città inglesi avevano convertito in servizi municipali, con
piena soddisfazione del pubblico, i servizi dell'acqua potabile, del
gas, della luce elettrica, ricavandone benefizi enormi e ribassando
i prezzi. Il municipio di Glascow s'era assunto anche l'esercizio
dei tranvai, riducendo l'orario degl'impiegati, aumentando i salari
e istituendo le corse di cinque centesimi per mezzo miglio, con un
profitto molto superiore al canone che gli pagavan prima le Società
private.... —

Tutta la disapprovazione che possono esprimere la nuca e la schiena
d'un cittadino io la vidi espressa a quelle parole dall'aspetto
posteriore del cavalier Bicchierino; il quale doveva credere esagerati
iperbolicamente i dati di fatto, se pur non credeva tutte una fantasia
quelle citazioni.

Il lattoniere continuò, insistendo sull'esempio del municipio di
Glascow, che da qualche anno esercita con vantaggio proprio e del
pubblico anche altre funzioni di indole più privata. — Giusto,
perchè il municipio non potrebbe anche incaricarsi di far lavare la
biancheria?

A quest'ultimo colpo, il buon cavalier Bicchierino non si potè più
contenere e si voltò a guardarci mostrandoci negli occhi arrotondati
e nella bocca aperta tutta la stupefazione che può contenere un'anima
umana. Diede uno sguardo all'oratore e un altro a me, che avevo l'aria
d'approvare, e in quello sguardo lessi la mia sentenza. Un uomo che
stava a sentire, acconsentendo, delle stravaganze così spropositate,
delle assurdità così mattamente ridicole, non poteva essere che un
insensato, meritevole della più profonda commiserazione; un uomo da
perdonargli che gli paresse stretta via Garibaldi e che tagliasse il
_Popolo_ con le dita. E dal modo come voltò le spalle e riprese il suo
atteggiamento capii che non mi restava più nessuna, nessuna speranza di
risollevarmi nella sua stima.

                                   *

Feci un'altra corsa disgraziata pochi giorni appresso: il ventidue,
memorando. Era incominciata bene, peraltro. Ero occupato da qualche
tempo a far raccolta fra i passeggieri di tutte quelle espressioni:
— Io dico la verità.... diciamo la verità.... per dir la verità....
siamo sinceri.... francamente parlando.... parliamoci schietto, ecc.,
che, appunto perchè occorrono così maravigliosamente fitte sulla bocca
di tutti, sono una prova patente della quasi universale bugiarderia
degli uomini, nei quali deriva dalla coscienza di mentir quasi sempre
il sospetto di non esser creduti mai. Infervorato in questo lavoro,
ero molto contento quella sera d'avere fatto una buona collezione in
dieci minuti sulla giardiniera del _Foro Boario_, e stavo osservando
con piacere, nella conversazione di due signori, che c'è anche un modo
cortese e usatissimo di darsi a vicenda del bugiardo con le formole:
— Dice la verità?... Ma è vero proprio?... Mi dà la sua parola?... —
quando quel senso misterioso che ci annunzia la presenza d'un nemico
alle spalle mi fece voltare il viso indietro.... e riconobbi gli occhi
malevoli e il pizzo ostile di Guyot; il quale discorreva piano con un
grosso signore sonnecchiante, seduto alla sua destra. Ero ben certo
che mi avrebbe sempre odiato; ma il suo sguardo mi fece capire in
quel punto che la scena del _Grido_ e della _Lotta_ aveva invelenito
terribilmente il suo odio, e che egli covava in petto il proposito
d'una vendetta. — È la sua volta — pensai — non c'è che rassegnarsi. E
stetti aspettando, con l'orecchio all'erta.

Il cuore non m'aveva ingannato. Non passò un minuto che l'udii parlare
con quella particolare sillabazione di chi vuol farsi sentire da
qualcuno, che non è la persona a cui parla. Aveva una curiosa voce, che
pareva uscirgli dalle narici, con un soffio di siringa vuota. Galeotto
della vendetta fu il giornale che teneva fra le mani.

— Ha visto? — domandò al suo vicino. — Hanno sciolto la Camera di
lavoro di Livorno.

E dopo una pausa: — Pare anche che il Codronchi, in Sicilia, si decida
a procedere con energia. Ha sciolto la federazione socialista di
Corleone.

Il signore insonnito rispondeva con monosillabi d'approvazione.

— Ah, quello rimetterà presto le cose al posto. Ha anche fatto
sequestrare il libro di quel Giuffrida....

— Scritto in prigione.

— Scarabocchiato in prigione.

Credevo che fosse finita. Ma l'uomo era ben provvisto di materiali da
guerra. Accennò ancora (e sentii fremere di gioia la sua voce) alla
“bella accoglienza„ fatta ai deputati socialisti francesi e agli altri
fondatori della vetreria d'Alby dagli operai di Carmaux — a fischiate.
— Ora sarò libero, — pensai. No, fu spietato. Biasimò ancora l'amnistia
per i condannati politici, che s'annunciava in quei giorni. — Sa che
comprende anche i facinorosi che son dentro per i fatti di Sicilia e
della Lunigiana.... E ci fanno un bel regalo!

Mi prese una tentazione, e fu un punto che non vi cedessi. Volevo
voltarmi a domandargli perchè non annunciava pure, per amareggiarmi
l'anima, ch'era stato ammazzato il brigante Tiburzi nelle macchie
d'Orbetello. Ma non volli turbare la sua gioia. Ah, la sentivo! Egli
doveva sorridere infernalmente come Giacinta Pezzana nella _Maria
Stuarda_ quando grida:

                      Ella si parte
    Col pugnale nel cuore. Oh vendicata
    Io son! Divina gioia!

Eppure, io non avevo in cuore che un sentimento di stupore: che due
uomini, viventi nello stesso tempo e appartenenti alla stessa classe,
potessero pensare e sentire così oppostamente intorno alla più alta
delle quistioni del tempo loro, ed esser così certi tutti e due di
esser nel vero, da provar odio e pietà l'uno per l'altro, come due
creature diverse e nemiche di civiltà, di religione e di razza. Guyot
non parlò più; pensava certamente ch'io non avessi più fiato nel
corpo. Io feci il morto, per mantenerlo nell'illusione. Ma la parola
_facinorosi_, detta da lui, mi ridestò un sospetto: quella parola, me
ne ricordavo bene, ricorreva due volte in quella certa lettera anonima
che avevo ricevuto dopo l'assassinio del presidente Carnot. Che la
lettera fosse proprio sua? Mentre ventilavo quest'idea, egli discese
all'imboccatura di via dell'Arcivescovado, e s'allontanò con passo di
trionfatore, senza degnare d'un ultimo sguardo quello che restava di
me sul tranvai. Da tutta la sua persona traspariva la superba certezza
d'avermi finito.

                                   *

Sulla stessa linea, partendo dalla barriera del Foro boario, all'ora
dell'uscita libera dei soldati, vidi la sera seguente un quadretto
nuovo e bellissimo: una carrozzata d'artiglieri, con una monaca nel
mezzo, di quelle addette alle prigioniere delle vicine carceri; la
quale dava l'immagine di Santa Barbara, protettrice dell'arma, scortata
da un drappello dei suoi guerrieri, che la conducessero in trionfo
a Torino. C'era al freno il protetto di donna Chisciotta. Appena
lo riconobbi, m'andai a sedere accanto a lui, per vedere se era in
bernecche. Non era, o non pareva; aveva la faccia rossa, peraltro, e
rannuvolata, come sempre. Mi diede un'occhiata, come a un viso noto
di frequentatore di tranvai, e partì. Subito dopo attaccò un moccolo
solenne. Erano state tese le catene a traverso il viale, dovendo
passare il treno di Milano: c'era qualche minuto da aspettare. Ahimè!
L'uomo non perdeva che il pelo: appena fermato il tranvai, saltò giù
e corse verso un bancuccio vicino, dove si dava il bicchierino di
“rabbiosa„.

Il fattorino gli gridò dietro: — Guardati che c'è madama!

A quel grido egli si fermò e girò intorno uno sguardo sospettoso.
L'altro diede una risata, e allora egli scrollò le spalle e andò a
bere. Quella _madama_ non poteva essere che donna Chisciotta, nota
ai colleghi di lui come sua protettrice, e precettrice severa e
vigilante di temperanza. Ebbene, se quel _guardati_ aveva avuto forza
d'intimidirlo, voleva dir che l'uomo non era ancora perduto affatto
sulla via della combustione spontanea. Risalì sul tranvai forbendosi la
bocca col dorso della mano, e sferzati i cavalli appena il passaggio
fu libero, principiò a dar fuori quel tanto di filosofia che s'era
messa in corpo per cinque centesimi. Cadevano le foglie secche dagli
alberi di Corso Oporto: egli si mise a dissertare sulle foglie, come
parlando ai cavalli. E una, e due, e tre, e via senza fine: erano le
annunziatrici dell'inverno. Ah, quante cose gli annunciavano: le lunghe
eterne giornate con la pioggia e col vento in faccia, le nebbie fitte
e gelate, la notte alle cinque pomeridiane, le corse interminabili
nella neve, interrotte da lunghe fermate, da cadute di cavalli, da
sviamenti, da fatiche di negri. A un tratto si rivolse a me, come a
un conoscente. E quella _povra fia_ come avrebbe passato l'inverno con
quella scellerata tosse che le schiantava l'anima? Gli dicevano che le
avrebbe giovato l'aria della riviera. Eh si! Ma l'insegna dell'albergo
dove l'avrebbero tenuta gratis, quella non glie la dicevano. Con chi
non ha _di questi_ la morte non fa cerimonie. Sono soltanto i signori
che possono pregarla d'aspettare. — E soltanto dopo questo sfogo, mi
diede la notizia che aveva una figliuola unica, la quale s'era ammalata
e non più rimessa dopo una certa disgrazia. Ma non disse che disgrazia
fosse.

Quando il tranvai fu per attraversare il Corso Umberto, il suo sguardo
si fece fisso e il suo viso s'incupì anche di più, senza ch'io ne
capissi subito la cagione. Non la capii che quando vidi il Corso Oporto
ingombro di sciami di ragazzi che uscivano dalla Scuola municipale
di Monviso. Allora principiò per il pover'uomo una vera tortura. I
ragazzi, inseguendosi in giro e strillando, passavano e ripassavano
a traverso le rotaie, a pochi passi dai cavalli, come per giocare
col pericolo, e il disgraziato cocchiere, mutato in viso, pregava,
minacciava, sagrava invano, stringendo le briglie con le mani tremanti
e volgendo intorno gli occhi dilatati e spauriti, a cui s'alzava
davanti la visione del bambino travolto ed ucciso; e nel viso e in
tutti i movimenti della persona mostrava un contrasto violento e
doloroso tra la furia di uscir di quel passo e la ripugnanza, quasi lo
sgomento di procedere, come se oltre ai ragazzi scorrazzanti qualche
altro impedimento terribile, veduto da lui solo, gli sbarrasse la
strada. Quando finalmente si svoltò in via Venti Settembre, tirò un
lungo respiro e si asciugò il sudore della fronte.

E per tutta la via Venti Settembre non parlò più. Stetti attento quando
si passò nel punto dov'era seguita la disgrazia; ma egli non voltò il
capo: tenne lo sguardo diritto davanti a sè, in fondo alla strada;
con la fronte così alta, però, e con un'attenzione così fissa, da
non lasciar dubbio che fosse forzata. Solo quando si sboccò sul viale
Margherita, tornò a guardare le foglie che cadevano e riprese le sue
considerazioni sull'inverno. — E una, e due, e via, a poco a poco,
l'una dopo l'altra, vengon giù tutte; gli alberi perdono i capelli.
Si sente già l'odore del giorno dei morti. Quest'inverno vuol essere
anche più tristo dell'estate. Cosa ne dice? C'è mai stata un'annata
_pì malheureusa_? Avremo una gran mortalità, certamente. Oh, per quel
che è di me!... Andarsene, è tanto di guadagnato. Ma è veder andar gli
altri.... Oh che brutto mondo!

Ma qui, curvandosi e cacciandosi avanti tutt'a un tratto come per
gettarsi fuori del parapetto, urlò un: — Via! — sgangherato, che mi
diede un rimescolo. Un ragazzo scalzo aveva attraversato le rotaie
sfiorando il muso ai cavalli col capo.

— Ah! questi ragazzi! — esclamò poi con voce quasi di pianto. — Questi
ragazzi mi faranno morir disperato! — e fermato il tranvai vicino al
casotto di piazza Emanuele Filiberto, sbattè le redini sul parapetto
con un atto di desolazione....

                                   *

Quelle ultime giornate del mese furono per le mie escursioni le più
piacevoli dell'annata. Era il mio punto di partenza Porta Palazzo,
donde passano o si diramano otto linee dirette ai sobborghi più
lontani, e la mia linea preferita quella del Ponte Isabella; la quale
percorsi l'ultima volta in una di quelle mattinate dolci e chiare di
fin d'ottobre, in cui si confonde col sorriso della stagione che se
ne va la malinconia di quella che viene, e si sente nell'aria come la
mestizia d'un addio. Attraversato il centro della città, e percorso
un gran tratto di quella interminabile via Cristina di cui sfugge il
fondo allo sguardo, si svolta nel viale ridente di Raffaello, e di
là si esce all'aperto, fra la fuga dei nuovi edifici universitari, ai
quali i camini altissimi dalla forma di minareti danno l'aspetto d'un
enorme falanstero orientale, e l'ultimo lembo del grande parco del
Valentino, che si ristringe lungo la riva e va a finire con un bacio
nel fiume. Qui nulla parla del passato, tutto è giovinezza e speranza,
e par che non ci giunga il rumore e il fumo della battaglia della vita.
Si attraversa una piccola città adolescente, tutta nomi di poeti e
d'artisti, dove poche case rustiche resistono ancora all'assalto dei
villini e dei palazzi, brillanti avanguardie cittadine, che da ogni
parte le incalzano e le avvolgono; si arriva allo sbocco del corso
Dante, di là dal quale sorge ancora un altro sobborgo bambino, che va
fino al corso Galileo, ultima onda di Torino, a morire fra i campi;
e si giunge sulla strada di Moncalieri, alle falde dei colli, dove il
tranvai si ferma, in mezzo alla solitudine e al silenzio. E là discesi,
ad aspettare che si ripartisse, ammirando il paesaggio vasto e sereno.
Di qua le rive serpeggianti e solitarie del Po, ristretto e imbrunito
dalle ombre dei boschetti, e la piramide del Monviso all'orizzonte,
già tutta bianca; di là le acque larghe e lucide, rispecchianti il
villaggio medioevale; più oltre, il castello rosso del Valentino; la
mole Antonelliana nel cielo; e dietro di me la collina che cominciava a
ingiallire, macchiata da un folto di pini, come una testa grigia da una
ciocca nera. Tutto era terso e fresco, e l'aria odorava di vegetazione
autunnale; ma pareva che vi corresse ancora un fremito della primavera
e vi passasse già un brivido dell'inverno. Salì sul tranvai una coppia
d'innamorati, che si tenevan per mano; di ritorno da una passeggiata
romantica, forse: rosati in viso, eccitati dalla frescura e dal moto,
luminosi d'amore. Il cocchiere solfeggiava un'arietta guardando le
Alpi. Il grande silenzio non era rotto che dal filo di quella voce e
dai picchi sonori delle lavandaie del fiume, che non si vedevano. Era
uno di quei momenti in cui ci coglie come a tradimento il pensiero
della vecchiezza, e ci rattrista. Guardavo i due amanti, e pensavo:
— Essi sono l'Aprile, ed io.... il mese corrente. — Vedevo di là dal
ponte la trattoria dell'_Olimpo_, appartata e chiusa, che mi ricordava
dei festosi banchetti giovanili, dei cari amici, delle ardenti
discussioni letterarie. Come mi pareva tutto lontano, e la casa, e gli
amici, e le idee discusse! Eppure provavo un conforto vago in quella
pace, come il sentimento d'una dolce rassegnazione, e il principio d'un
riposo infinito. E udii con rammarico il grido brusco del fattorino:
— Via! — come se mi dicesse: — Andiamo! Torniamo allo strepito della
città e alle cure della vita; torniamo a lavorare.... e a invecchiare.

                                   *

Ebbi un altro momento, di quelli che non si scordano, sulla linea
della Crocetta, uno di quegli incontri inaspettati che ci lasciano
stupefatti e pensierosi come se avessero il significato recondito d'un
avvertimento del destino. Allo svolto da Piazza Carlo Felice in via
Sacchi salì sul tranvai un controllore sui cinquant'anni, piccolo e
pingue, con due enormi baffi rossicci brizzolati, che gli mascheravano
mezzo il viso; e incominciò il suo giro sulle pedane per chiedere
i biglietti. Dalla cautela con cui s'aggrappava alle colonnine e
posava i piedi per non cascare, argomentai che fosse nuovo al proprio
ufficio, al quale anche si prestava male la sua corpulenza. Quando mi
fu vicino sulla piattaforma, ancora parato ai miei occhi da due persone
interposte, gl'intesi dir forte al fattorino: — È al numero 136; — e
quella voce risvegliò qualche cosa nella mia memoria, ma così lontano
e confuso, che subito disparve, come l'ombra d'un uccello che passi.
Essendo vuota l'ultima panca, il controllore s'infilò tra questa e
quella accanto, per prendere i biglietti dei passeggieri ch'erano in
piedi. Quando fu davanti a me, mi disse, toccandosi il berretto con
una mano: — Il biglietto, signore.... — e restò con la bocca aperta
e la mano per aria, fissandomi in viso. Ci fissammo così a vicenda,
per qualche secondo, in atto interrogativo, e poi, nello stesso punto,
uscì dalla sua bocca il mio nome e il suo dalla mia. Un intimo impulso
gli fece sporgere il viso, ma si tirò indietro; io mi spinsi innanzi
e gli baciai la guancia; egli mi rese il bacio, e volle dir qualcosa;
ma non potè. Sorridemmo tutti e due, col respiro un po' oppresso. E
un'onda di memorie attraversò la mia mente in un lampo: la Scuola di
Modena, il suo lettuccio di ferro in un angolo del camerone della
quarta squadra, una discussione sull'utilità dell'“ordine sparso„
sotto un albero del giardino ducale, il cappotto bigio chiaro ch'egli
aveva portato dal Collegio militare d'Asti, e un nostro breve incontro
per le vie di Piadena durante la guerra del 66. Da trent'anni non
c'eravamo più visti, e non avevo più avuto notizie di lui. — Ebbene?...
— Ebbene?... — Ma la conversazione s'arrestò lì; c'era gente intorno;
vidi che gli tremavan le labbra; non si poteva proseguire. Fece un
cenno con la mano, come per dirmi: — A più tardi, — e riprese il suo
giro. Controllore! Dopo trent'anni! Lui! Per che vicende era passato?
E ricordai i suoi bei disegni topografici con un tratteggio di montagna
che gl'invidiavo, il suo costante buon umore, la rassegnazione di buon
figliuolo con cui una volta era andato alla cella di rigore, estratto
a sorte per un tumulto della compagnia, al quale non aveva preso
parte. Poi, rifrugando nella mia memoria, mi parve di ricordarmi d'aver
inteso dire molti anni innanzi ch'era andato in America, dove faceva il
maestro elementare. E aspettai con impazienza che i vicini scendessero
per interrogarlo e per dirgli la buona memoria che avevo sempre serbata
di lui. Ma, tutt'a un tratto, egli discese. Dalla strada mi fece ancora
un saluto con la mano, sorridendo, ma con una leggiera espressione di
tristezza; poi voltò le spalle e s'avviò verso il Corso. Aveva ancora
quell'andatura, tal quale, con quell'atteggiamento del capo, con
quelle spalle curve, da cui scappavano le cinghie dello zaino. E lo
seguitai con gli occhi fin che potei, con un senso di stupore misto di
sgomento, pensando che un giorno solo, un caso, un punto della mia vita
avrebbe potuto far sì che un altro mio amico, in quello stesso giorno,
ritrovasse me su quel tranvai, con quel berretto gallonato sul capo, in
atto di dire a lui: — Signore, il biglietto.... — Dopo quel giorno non
lo vidi più.

                                   *

A questa avventura di romanzo succedette una scena di farsaccia,
che vorrei non aver veduta, e che racconto soltanto per non lasciar
nulla da parte di quanto può accadere sulla carrozza di tutti. Ma
chi avrebbe potuto prevedere una scenata simile osservando quella
giardiniera pochi minuti avanti, quando la raggiunsi in piazza
dello Statuto? Era proprio una carrozzata di gente per bene, alla
quale disdiceva intollerabilmente un cartello sospeso al di sopra
della panca di mezzo, con su scritto in grossi caratteri: — _Letame
di cavallo. Trovasi in vendita a pressi convenientissimi presso la
Società Belga._ — Vedo ancora sulla panca in fondo un consigliere
comunale e un medico militare in divisa; più in qua un generale di
brigata pensionato, con la _Gazzetta di Torino_ fra le mani; due
maestre della Scuola Sclopis; signore, signorine, faccie rispettabili
di grossi contribuenti e d'impiegati da tremila in su. Regnavano
tra quella eletta di passeggieri la pace e il Galateo; il mormorio
discreto delle conversazioni era coperto dallo scalpitìo dei cavalli
lanciati al galoppo; nulla dava indizio dello scoppio che doveva
avvenire. All'improvviso, dando le spalle alla compagnia, sentii il
suono d'una ceffata e due grida furenti: — _Baloss!_ — e: — _Canaia!_,
e voltandomi, vidi alle prese nel mezzo due signori senza cappello,
che con una mano si tenevano afferrati a vicenda per la cravatta e
con l'altra si barattavano delle mazzate sul capo; una signora che
gridava, altre che si preparavano a svenire, uomini saliti sulle panche
per separare i lottatori, e poi un gruppo stretto intorno a questi, di
cui non m'apparivano più che le due teste scarmigliate e i due bastoni
branditi. La lotta cessò subito; ma i due nemici non s'allentarono, e
rimasero in quell'atto di rappresentanti della “situazione europea„
ciascuno tenendo l'altro per la gola, come per dire: — Se non mi
picchi, non picchio; se ti muovi, t'accoppo. — E quella coppia così
atteggiata, su quella carrozza che correva, faceva uno strano effetto,
come d'un quadro plastico, concorrente al premio, portato in giro
sopra un carro di carnevale. Il cocchiere aveva appena fermato, che i
due campioni si allentarono e si rimisero a sedere, improvvisamente
racquetati dal pensiero del cappello volato via; e allora la corsa
ripigliò. Ma non mi riuscì neanche allora di vederli in viso perchè
restavano in piedi i loro vicini, intesi a sedare la contesa verbale
che ricominciava; nè potei capire che cosa dicessero, perchè il cicalìo
dei commentatori soverchiava la loro voce. Le notizie che arrivarono
fino a me eran contradditorie. Chi diceva che fosse nata la lite dal
fumo che l'uno dei due mandava in viso alla moglie dell'altro; chi
diceva invece d'un piede dato nelle reni alla signora per sbadataggine;
chi asseriva che non si trattasse d'un piede sbadato, ma d'una mano
investigatrice. Quello in cui tutti concordavano era che alla ceffata
maritale aveva dato la mossa decisiva un _boric_ nudo e crudo opposto
dall'altro ad un'osservazione vivace. Finalmente, quando i pacieri
sedettero, riconobbi la triade alle facce pallide e convulse e ai
due cappelli magagnati: una bella donnina col nasino all'in su, un
marito col viso bitorzoluto, e un biondo secco coi baffi sovversivi,
all'ultima moda. E fu il cocchiere, una faccia di ex carrettiere
burlone, che, rivoltando in bocca una cicca, dedusse la morale
dell'avvenimento. — S'ha un bel dire —, disse, fra due sputate nere —,
bene educati, male educati.... signori e povera gente, quando c'è di
mezzo _la fumela_, se le ammollano tutti ad un modo....

                                   *

Con quest'avventura volgare dovrei chiuder l'ottobre, se proprio la
penultima sera del mese, per andare allo Sferisterio, non avessi avuto
la buona ispirazione di salire sulla giardiniera della linea dei Viali,
nel punto dove il Corso Oddone sbocca sul Corso Margherita. Salendo,
vidi alzarsi un cappello a cencio da una testa che a tutta prima mi
riuscì nuova; ma nell'atto di sedere sulla panca davanti riconobbi un
muratore venuto tre anni addietro a casa mia per darmi dei ragguagli
intorno al lavoro dei garzoni, quando pensavo di scrivere sulle fatiche
precoci dei ragazzi; e nell'atto stesso vidi accanto a lui l'operaio
della caramella, sua moglie e il piccino, seduti anch'essi sulla stessa
panca. Vidi passar nell'occhio del marito, nel momento che si fissò nel
mio, il ricordo di quella scena: non altro che un'ombra sfuggevole,
ma che era ancora di rancor voluto, più che di rammarico, e al tempo
stesso una mal celata espressione di stupore ch'io fossi conosciuto e
salutato quasi amichevolmente dal suo compagno. Sedetti, voltando le
spalle a lui e agli altri tre, e stetti in una vaga aspettazione, non
so ben di che, inquieta, e pure piacevole, pensando che la curiosità
gli avrebbe fatto domandare all'amico chi fosse lo sconosciuto ch'egli
aveva offeso, e che una parola di quello sarebbe bastata a mutargli
in tutt'altro senso quell'antipatia cieca, ch'era nata, come tante
nascono, non dal risentimento d'un torto patito, ma dalla coscienza
amara e dispettosa d'un torto fatto.

Appena seduto, in fatti, udii delle voci sommesse, da cui compresi che
le teste si erano avvicinate; ma durarono pochi secondi, e la brevità
del colloquio, appunto, m'accertò di quanto già l'altra volta m'aveva
fatto supporre il giornale che gli avevo visto leggere: che, soltanto
il mio viso essendogli sconosciuto, non gli sarebbe occorsa alcun'altra
notizia o spiegazione quando avesse inteso il mio nome. Seguì un
silenzio lungo, durante il quale mi parve di sentirmi entrar per la
nuca e scendermi dal cervello nel cuore i suoi pensieri. L'ascoltavo,
udivo le sue parole come se veramente le pronunciasse. E gli rispondevo
dentro di me: — Vedi che ti sei ingannato. Ah certo, fu una trafittura
al cuore che tu m'hai dato. Ma non credere, non t'ho serbato rancore.
Io ho capito. Eri senza lavoro, abbandonato, infelice; eri sdegnato
contro la società, e ti è parso uno scherno ch'essa porgesse un dolce
al tuo bambino mentre negava il pane a te, a lui e a sua madre. Pensa
se non t'ho capito e scusato! — E pensavo pure ch'egli avrebbe voluto
fare un atto, dirmi una parola che m'esprimesse il suo sentimento; ma
non immaginavo in qual modo si sarebbe potuto esprimere senza fare al
proprio orgoglio una violenza che sapevo difficile, io che in tanti
altri casi simili non ero riuscito a farla al mio. — Non farà e non
dirà nulla — pensavo — mi saluterà al momento dì scendere, e sarà
tutto. Ma basterà questo. Purchè io sia certo che ha mutato sentimento;
che importa che me lo dichiari a parole?

Ebbene, m'ingannavo. Nel punto che si svoltava sul corso San Maurizio,
udii di nuovo un rapido bisbiglio dietro di me, poi un breve silenzio,
poi qualche cosa come un peso mutato di posto, e mentre mi domandavo
che cosa potesse essere quell'armeggio, mi sentii prima un alito
nell'orecchio, poi una piccola mano sopra la spalla, poi una bocca
infantile che strisciò la mia guancia. Ah, caro bambino! Me lo
porgevano. Era lui il messaggiero muto, il pegno palpitante della
riconciliazione. Potete immaginare come me lo presi....



CAPITOLO UNDECIMO.


                                                            Novembre.

Quanto più s'avvicinava la fine dell'anno, tanto più sovente pensavo al
giorno in cui avrei abbandonato la “carrozza di tutti„ che era da molto
tempo il mio pensiero assiduo; e presentivo che sarebbe stato triste
per me, come per il romanziere il separarsi dal mondo del suo romanzo;
con questa differenza, ch'io non mi separavo da fantasmi, ma da gente
viva. Avrei continuato a correre sui tranvai, certamente, e a vedere
i miei personaggi e scene e casi curiosi; ma con la mente occupata
da altri pensieri, non osservando più che per caso, non facendo più
gite con quel proposito, non più tendendo l'orecchio, nè cercando o
interrogando; e i miei personaggi familiari si sarebbero sbiaditi a
poco a poco ai miei occhi, per rientrare poi e finir con perdersi nella
folla. Sì, col novantasei si sarebbe chiuso un anno veramente singolare
della mia vita, e benchè ne desiderassi la fine per riacquistare la
mia libertà di spirito, pure avrei voluto insieme che si allontanasse;
e per questo moltiplicai le corse, in quell'ultimo periodo, e cercai e
osservai con più viva alacrità avvenimenti e persone, come per vivere
più intensamente e prolungare nel mio pensiero il breve tratto di
tempo che mi rimaneva. Intanto, qualche cosa essendo trapelato del mio
disegno, io cominciavo a vedermi guardato da cocchieri e da fattorini
con un'espressione insolita di curiosità, assai diversa negli uni e
negli altri secondo il concetto che s'erano formati di quello ch'io
intendessi di fare, e dello scopo del mio lavoro. Alcuni, quando li
interrogavo, mi guardavano con un'aria di stupore comico, come una
bestia rara, un bel capo matto, che stillasse sul loro conto qualche
stramberia misteriosa, inaccessibile affatto a qualsiasi sforzo
della loro immaginazione. Altri pensavano ch'io volessi dare una
gran battaglia con la _piuma_ in loro favore, e, comunque esordissi
con le mie domande, tiravano subito il discorso sul servizio duro e
sulla paga scarsa e su torti fatti a loro o ad altri, suggerendomi
proposte dì riforme _ab imis_ e argomenti di tirate tribunizie. Ma
ne trovai anche parecchi, che, sospettando in me un ferro di polizia
della _Belga_ o della _Torinese_, un furbo mariuolo che, col pretesto
di fabbricare un romanzo, tirasse a far cantare gl'impiegati per
regola e norma delle Amministrazioni, stavano in guardia, e ad ogni
mia più innocente domanda, anche lontanissima dall'argomento sospetto,
s'affrettavano a rispondere: — Ah, io non potrei dir nulla; non ho da
lagnarmi; faccio il mio dovere, son trattato bene.... cosicchè.... —;
e il cosicchè voleva dire: — Non mordo all'amo; ne peschi un altro. —
Quello che diede più vicino al segno fu Carlin; il quale, la prima sera
di novembre, sul tranvai dei Viali, mi si piantò in faccia sorridendo,
e con l'aria di chi ha scoperto in un amico l'intenzione di fargli un
tiro burlesco: — Ah, dunque, — mi disse, — lei _ci vuol metter tutti in
poesia_?

                                   *

È quella una corsa che deve fare, il giorno dei Santi, chi cerca lo
spettacolo, non frequente a Torino, d'una grande moltitudine. Per il
corso Margherita, per tutte le strade che vanno dal centro alla riva
della Dora, sui ponti, sui viali del Regio Parco e per i sentieri a
traverso i prati, s'allungavano cento processioni umane dirette al
cimitero, cento torrenti e rigagnoli neri, che travolgevano nelle loro
onde lente una profusione mirabile di fiori, come se avessero spogliato
nel loro corso tutti i giardini della campagna di Torino. Il tranvai
spezzava in due, a ogni tratto, delle grandi frotte di gente, così
fitte e restìe a separarsi da parere stuoli enormi tutti di parenti
e d'amici; famiglie numerose come tribù, dal nonno curvo ai nipotini
condotti per mano, precedute dall'uomo più robusto, portante una
grande corona; file di uomini e di donne, con corone piccole fra le
mani, che facevano ala per un momento al nostro passaggio, mostrando
una varietà infinita di visi pensierosi, spensierati, tristi, sereni,
alcuni improntati d'un dolore recente, i più di indifferenza o di noia;
e in quella grande moltitudine un grande silenzio, come in un esercito
disarmato e prigioniero. Sulla giardiniera c'era un carico di corone e
di ghirlande, adagiate o tenute ritte sulle ginocchia da signore e da
donne del popolo; alcune di viole del pensiero e di rose bellissime;
e forse ci sedeva già vicino e le adocchiava il ladro mortuario che
ne avrebbe rubato il nastro la notte. O carrozza di tutti, piccolo
panorama del mondo a dieci centesimi! Stando ritto in fondo, vedevo
dentro il vano d'una gran corona di mirto e di semprevivi le teste
combaciate d'un giovane e d'una ragazza che tortoreggiavano sulla
panca davanti, e quell'idillio chiuso in quella cornice funebre mi
faceva pensare a quante altre parole d'amore si sarebbero scambiate
quel giorno, a quanti innamorati avrebbero pedinato le belle in
mezzo alle croci e alle tombe, spandendo qua e là sulle iscrizioni
dolorose la gioia degli sguardi e dei sorrisi corrisposti. Una povera
donna, seduta davanti a me, teneva fra le mani una piccola corona di
crisantemi violetti, da pochi soldi, che doveva esser destinata a un
bambino, e parlava, parlava con voce accorata, come facendo uno sfogo,
al marito duro, che non rispondeva. Ah, che pietà! Da qualche parola
capii che la corona le pareva troppo misera, indegna del suo caro
morticino, e che rinfacciava all'uomo l'avarizia crudele o il danaro
sciupato all'osteria, che le aveva tolto di comprare una corona più
bella. — _Pover cit, va!_ — diceva. — _Pover cit!_ — con un accento
di compassione e di tristezza che stringeva l'anima, e guardava e
rivolgeva la corona fra le mani con l'atto d'una bambina delusa e
umiliata del regalo lungamente desiderato, lanciando tratto tratto
delle occhiate d'invidia triste alle altre corone grandi e ricche, che
le stavano intorno. Ci son piccoli dolori che fanno più pena delle
grandi sventure. Mi dovetti voltare da un'altra parte, quando la
povera madre discese al ponte delle Benne; dovetti guardare verso il
Corso San Maurizio, che altri tranvai risalivano, pieni anch'essi di
gente e di corone, tagliando una grande processione nera riversantesi
da via Rossini in via Reggio, simile anche essa a un torrente su cui
galleggiassero tutti i fiori delle sue rive predate.

                                   *

Rifeci la stessa strada il giorno dei morti; ma la gente era scarsa,
e velata da una nebbia umida, in cui le file dei lontani apparivano
come processioni d'ombre, che ritornassero dalla città al cimitero,
dopo aver reso ai parenti la visita del giorno innanzi. Pareva una
serata d'inverno. Sulla giardiniera c'eran poche persone. Tutta la
mia attenzione fu attratta da una sola. Sedeva sopra una delle ultime
panche, in mezzo a uno spazio vuoto, una signora di quarant'anni,
vestita di seta nera sbiadita, con una miseria di cappellino nero,
guernito di rose selvatiche, e una piccola corona fra le mani, di
perline nere e gialle, sulla quale erano disegnate due iniziali. Quelle
povere rose, benchè pallide e sciupate, parevano ancor fresche e d'un
rosso vivo appetto alla pallidezza cadaverica del suo viso infossato
alle guance, smunto e secco come un teschio con la pelle; nel quale
brillavano d'una fiamma febbrile due occhi dilatati e fissi, esprimenti
una stanchezza mortale, una tristezza infinita. Quella veste logora
disegnava le forme non d'un corpo, ma d'uno scheletro, e dalla pelle
delle tempie e del collo trasparivano le vene come le righe d'uno
scritto dalla carta velina. La corona diceva: — Sono afflitta; — la
veste: — Son povera; — il viso: — Son moribonda. — Pareva che portasse
quei fiori al camposanto per sè medesima. Aveva l'aspetto d'una vecchia
ragazza; era senza dubbio una signora caduta in povertà; sola al mondo,
forse. Tutt'a un tratto, le prese un accesso di tosse; con un brusco
movimento appoggiò un braccio sulla spalliera davanti, chinò il capo
sul braccio, e si mise a tossire, riscotendosi tutta a ogni schianto,
violentemente, come alle strette d'un artiglio che le frugasse le
viscere, e inarcando le spalle ossute e il busto lungo, d'una eguale
strettezza dalle spalle alla cintura, come un tronco d'alberella
incurvato, che un colpo di vento può infrangere. E tossì, tossì,
senza tregua e senza fine, in un atteggiamento d'abbandono sconsolato,
facendo dondolar le rose del cappellino e tenendo la corona in là col
braccio teso per non sciuparla; tossì d'una tosse fischiante, faticosa,
implacabile, che quando pareva sul punto di cessare ripigliava più
fitta e più aspra, come se non fosse dovuta cessare mai più, come se
fosse stata un linguaggio, un'effusione di parole confuse, il racconto
appassionato d'una lunga vita di miserie e d'angoscie, un'invocazione
ardente, ostinata, disperata della morte. I pochi passeggieri stavano
a guardarla con un'espressione mista di pietà e di ribrezzo. — Quella
lì, — disse forte il fattorino, — non farà le feste di Natale. — Bruto!
— gli dissi col cuore e con gli occhi. Un ragazzetto, voltato verso
di lei dalla panca vicina, rideva. Finalmente, quando il tranvai fu a
cento passi dal piazzale delle Benne, la disgraziata smise di tossire,
e rialzato il capo, sfinita di forze, s'assicurò subito che la corona
non si fosse guastata, palpandola qua e là con la sua mano di morta;
poi, come ricordandosi a un tratto dello spettacolo che aveva dato
di sè, girò sui vicini uno sguardo velato, umile, quasi vergognoso,
come di chi chiede scusa d'un'offesa involontaria, e alzò a stento il
braccio che pareva un osso, per far cenno di fermare. Quanto è male
giudicare il cuore della gente incolta da una parola villana! Fu il
fattorino, fu il _bruto_, che prima di lei saltò giù dalla carrozza
e con un atto di premura rispettosa e triste le porse la mano per
aiutarla a scendere. Io non avrei detto quella parola; ma non avrei
fatto quell'atto. Ah, la rettorica dei cuori gentili!

                                   *

Il principio dl novembre mi portò ancora un'altra tristezza. Pochi
giorni dopo, in una mattinata piovosa e malinconica, salii in Piazza
dello Statuto sul tranvai del Martinetto, dove trovai Carlin, che
mi diresse subito la parola per espandere un suo caldo sentimento
d'ammirazione. — Ha letto, eh? Quel Kossuth! Quelli son vecchi di
polso! A quell'età, battersi in duello! Hanno un bel dire; ma non
ne nasce più.... Sacrestia! Ebbene, mi fa piacere. — Aveva letto nel
giornale la notizia del duello seguito a Pesth fra i deputati Kossuth
e Ugron per una quistione politica, e credeva che si trattasse del
padre, di cui ignorava la morte. Egli lo conosceva, il grand'uomo; glie
l'avevano indicato una volta in tranvai sulla linea della barriera di
Casale, e gli pareva miracoloso, giustamente, che quell'uomo facesse
ancora valere le sue ragioni col _saber_. Quando gli dissi che il
duellante era il figlio, e che il vecchio Kossuth era morto l'anno
prima, rimase stupefatto. Poi, essendoglisi chiarita la memoria,
per dissimulare la vergogna del granchio, voltò all'improvviso la
sua ammirazione verso il Chionio, l'autore del _Tempo che farà_,
il quale aveva predetto la pioggia appunto per quel giorno: — Un
altro grand'uomo quello, una testa che fa onore a Torino. — Intanto
s'era infilato via Garibaldi. Passato appena il canto di via delle
Scuole, il tranvai fu arrestato da un convoglio funebre: un meschino
carro di terza classe, a cui era appesa una piccola corona di edera,
preceduto da una ventina di _figlie verdi_, e seguito da un prete
e da poche altre persone, la più parte vecchi, curvi e zoppicanti
sotto gli ombrelli: una cosa misera e triste quanto si può dire,
sotto quell'acqua fitta, in quella strada rumorosa, dove nessuno si
voltava neanche a guardare, in mezzo a quei muri tappezzati d'annunzi
teatrali raggrinziti dalla pioggia. Mentre notavo che i più di quei
vecchi avevano un nastro all'occhiello, vidi davanti a loro, sotto
il carro, un piccolo cane tutto impillaccherato, che mi parea di
riconoscere.... Eh, sì, proprio, era Ciuchetto. O mio povero buon
veterano! Era lui, dunque, che portavano via! E infatti, voltatomi
a guardar la porta da cui il carro s'era mosso, lessi il numero 43,
la porta donde avevo visto uscir tante volte il caro vecchio, con la
mano in alto, per accennare al cocchiere che fermasse. Povero mio buon
veterano! L'avevo trovato l'ultima volta così contento della sua gita
ai laghi d'Avigliana e del matrimonio del principe di Napoli. E anche
quella mattina, all'ora solita, in quel luogo solito, egli aveva fatto
fermare il suo tranvai; ma non più alzando la mano, poveretto, e non
più per salire: egli era salito sopra un'altra carrozza, tutta per lui,
e diretta fuor della cinta; e il suo povero Ciuchetto, il suo ultimo
amico, lo accompagnava per l'ultima volta, rimasto solo al mondo, solo
e senza pane, com'egli aveva tristamente previsto. Ebbene, egli aveva
compiuto il suo cammino, il buon vecchio, e andava a riposare in pace;
ma quel povero cane infangato, che andava in capo al corteo come il
parente più prossimo, abbandonato e triste come un orfano, era più
compassionevole a vedere del carro che gli portava via il suo padrone.
E per un pezzo non mi potei più liberare dall'immagine di lui, che
sarebbe ritornato dal cimitero solo, verso la grande città annebbiata,
dove non aveva più tetto e non l'amava più alcuno....

                                   *

Fu il professore azzeccasonetti il mio primo incontro lieto del mese;
lieto non per suo merito, ma in grazia del caso. Mi colse in un momento
buono per lui, una sera di festa, sopra una piattaforma dov'eravamo
già in sei più del numero legale, stretti, accalcati in maniera che
non avrei potuto fare il minimo atto di difesa; ma, con mia gran
meraviglia, non m'investì subito. Era d'un umore orrendo, coi baffi
irti come penne d'istrice, furibondo contro il direttore d'un giornale
letterario che aveva rifiutato i suoi versi: un asino, un cretino che
avrebbe “cestinato„ un canto anonimo del Leopardi ed empiva le colonne
di porcherie. — Già, ha pubblicato anche delle cose sue, — mi disse
senz'ombra d'intenzione offensiva; — lei lo deve conoscere. — E mi
credevo già al sicuro, quando egli aggiunse: — Senta però come l'ho
conciato.... un sonetto che è un vero schiaffo di quattordici dita....
— Mi vidi perso; ma fui salvato. Salì sulla piattaforma, ridendo
sonoramente, un bel fusto di ragazza rosata, scarmigliata, sfrontata,
abbondante di tutto, mezza brilla e col diavolo in corpo; la quale
mise lo scompiglio in quel serra serra e tagliò in bocca a lui il primo
verso. Tentò d'entrare nell'uscio, non potè; si cacciò avanti e disse
una facezia grassa al cocchiere; poi si rifece indietro, e poi a destra
e a sinistra; in mezzo minuto scomodò tutti e rise con tutti, rigirando
sopra sè stessa e cascando a ogni sobbalzo del tranvai ora addosso agli
uni ora agli altri, che le scoccavano in viso degli scherzi, a cui essa
ribatteva con una risata, mettendo in tutte le nari l'odore dei suoi
capelli e il calore del suo fiato. E fu un bel vedere la scintillaccia
che diè fuori da tutti quei visi barbuti e gravi, senza distinzione
d'età nè di classe. Fu come l'effetto d'una candela accesa in mezzo
a uno sciame di farfalloni assopiti. C'erano degli operai, dei padri
di famiglia in cilindro, un consigliere della Corte d'Appello con una
faccia che pareva il frontespizio del Codice, un vecchio impiegato
dell'Intendenza di finanza, e degli studenti, che poco prima si
guardavano per traverso, uggiti dal contatto reciproco, e imbronciati
gli uni contro gli altri. Ed eccoli ora, quasi riconciliati e
affratellati per incanto, mostrare tutti negli occhi il luccichìo d'un
giolito comune e scambiarsi dei sorrisi quasi amichevoli, come gente
che trinchi insieme toccando i bicchieri. Eterno femminino! E anche
il poeta, attaccato dal contagio, teneva fissi gli occhi su quella
capigliatura scomposta e insolente che di tratto in tratto sfiorava la
bazza a lui pure, e mi pareva che il velarsi improvviso del suo sguardo
accusasse ogni tanto un movimento indagatore del ginocchio; ma guizzava
a un tempo sulla sua bocca l'espressione d'un altro sentimento. Era un
sentimento di dispetto, un'umiliazione amara al pensare che poca cosa
fosse la potenza della poesia, sua consolazione e suo orgoglio, se
bastava l'apparizione d'una qualunque giovine asinella in calore, non
solo a distogliere gli altri dall'ascoltarlo, ma a scompigliare nella
sua mente stessa i “sudati carmi„ e a mutare in tutt'altro ardore il
suo fuoco sacro. Quando la ragazza, lanciato in giro un _cerea_ burlone
che mostrava la coscienza degli effetti prodotti, discese d'un salto,
egli aprì la bocca per ricominciare; ma, anch'io discendendo, non ebbe
più che il tempo di vibrarmi la prima metà del primo endecasillabo, che
mi restò confitto nella schiena come un dardo spezzato.

                                   *

Il secondo che ritrovai fu Desbottonass, una sera di domenica, sul
corso Cairoli, in uno stato miserando. Egli salì a stento sulla
piattaforma, sorretto per le ascelle da sua moglie grigia e rannuvolata
come il cielo, e appena su, si aggrappò alla colonnina e resistette
ostinatamente alle istanze della povera donna, che lo voleva tirar
dentro, per timore d'una caduta. Rimase lì, afferrato con una mano al
ferro e appoggiato con l'altra al parapetto, piegato e tentennante
sulle gambe flosce, fissando stupidamente le rotaie che parevano
fuggire in direzione opposta al carrozzone, come avrebbe fissato un
acqua corrente, col capo ciondoloni sul petto. Era ancor molto dato
giù dopo l'ultima volta che l'avevo visto sulla linea della Crocetta.
Aveva il viso ingiallito e risecchito, diventato piccolo come quello
d'un bambino, rigato di grinze lunghe e simmetriche come grandi gambe
di ragno; la bocca cascante, come se non avesse più muscoli, in un
atteggiamento tra di disprezzo e di nausea, e dei moti involontari e
fitti del capo come se rispondesse continuamente di sì e di no alle
domande d'un fantasma.

Ah, certo, egli non aveva più il capo alla politica, non si vantava
più d'appartenere all'_opposizione_! Ma più triste a vedersi era la
sua povera moglie, alla quale si leggeva in viso, sotto un resto
di sollecitudine per lui, la stanchezza di soffrire, un'ira sorda
contro il destino, e l'odio che le si era addensato in cuore contro
quell'uomo, con cui era condannata a trascinare una vita di supplizio,
come un prigioniero chiuso nella cella d'un pazzo. A un tratto, l'uomo
alzò la testa e mi fissò in viso uno sguardo di stupore profondo, come
se gli fossi cascato davanti dal cielo; uno sguardo in cui riconobbi
alla prima ch'era impossibile che mi riconoscesse. Poi mi sorrise
d'un sorriso stupido e torvo, nel quale appariva un'intenzione di
scherno provocante, e mosse le labbra come per dire un'ingiuria, che
non potè articolare. Era già a quel punto in cui il veleno accumulato
dell'alcool si volge nel briaco in odio contro tutti, in bisogno
di offendere e di ferire, anche il primo venuto, senza ragione nè
pretesto, non per altro che per placare il demonio che gli morde le
viscere. Ed io pensavo con grande pietà che quell'uomo s'era battuto
per il suo paese, che aveva ammirato ed amato caldamente uomini
politici cari a me pure, che un mio semplice accenno al suo Garibaldi
era bastato a farlo vergognare d'un atto brutale; ma che allora, per
certo, se anche fosse stato meno ubbriaco, nessuna mia parola, nessun
nome caro, nessun richiamo al suo passato di soldato avrebbe più
destato in lui alcun sentimento nobile e forse neppur più risvegliato
nel suo cervello alcuna memoria. E continuava a guardarmi fisso,
con quel sorriso beffardo sulle labbra bavose, dondolando il capo in
atto di sfida, tentando e non riuscendo a cacciar fuori l'insulto che
gli gorgogliava come il catarro d'un moribondo nella gola bruciata
dall'acquavite. All'improvviso, come se fosse stato percosso alle
gambe, si piegò e stramazzò sulla piattaforma. Sua moglie gittò un
grido e si chinò per rialzarlo, sfogando a un tempo in atroci parole
la rabbia fino allora compressa: — Ah schifoso! Ah assassino! Te lo
avevo ben detto! È questa una vita da farmi fare? Tu vuoi farmi morire,
impazzire, eh? Su, su, svegliati, levati, su, sporca bestia, su! —
Il cocchiere fermò; l'uomo fu levato di peso da lei e dal fattorino,
calato giù e deposto sulla proda del fosso; e il tranvai ripartì. Vidi
ancora per un tratto il corpo inerte, disteso come un cadavere, col
capo nudo nella polvere, e accanto a lui la donna, che continuava a
gridare col pugno teso, come se espandesse all'aria tutto l'odio del
suo sesso contro il veleno infame che gli muta la casa in inferno e gli
dà dei figli maledetti, predestinati all'ospedale e all'ergastolo. Poi
un gruppo di gente me lo nascose. E presentii che non l'avrei visto mai
più.

                                   *

Un'ora d'oro, finalmente, e sotto un bel cielo di novembre, terso
e lucente come l'acciaio. Salendo all'imboccatura della strada di
Francia, trovai ritta sulla piattaforma di dietro, col suo sacco
inseparabile, la vecchia di Pozzo di Strada, non trasformata proprio
come Giors me l'aveva dipinta, ma con un viso in cui pareva si
fossero ingranditi la fronte e gli occhi e diradata la rete delle
rughe. Traspariva ancora dal suo sguardo un pensiero fisso; ma questo
pensiero era: — È vivo —; c'era ancora sulla sua fronte un'ombra di
tristezza: ma d'una tristezza in cui il figliuolo sterminatamente
lontano non le appariva più steso a terra insanguinato, ma ritto in
piedi, col braccio teso verso di lei, in atto di dirle: — Coraggio!
Un giorno forse ci rivedremo. — Essa chiudeva gli occhi a quando a
quando, e il suo viso assumeva in quei momenti l'espressione come d'un
proponimento risoluto e saldo di campare, d'un animo preparato a vivere
per molti anni sospeso dolorosamente al filo d'una sola speranza,
con l'ostinazione invitta di chi aspetta il soccorso ancor lontano,
afferrandosi a un cespo sopra l'abisso. Era il giorno quindici. Son
date che non si dimenticano. C'era accanto a me un signore, con la
schiena appoggiata al parapetto e la _Stampa_ fra le mani: un pezzo
d'uomo che teneva il posto di due, con una barba fratesca, assorto
profondamente nella lettura. Quella mattina io non avevo letto il
giornale. Dando un'occhiata al foglio, ch'egli teneva spiegato, lessi
in capo a una colonna un titolo in grandi caratteri che mi diede una
scossa: — _La pace con l'Abissinia. La restituzione dei prigionieri._
— Poco mancò che non gli strappassi il giornale di mano. Guardai la
vecchia: essa ignorava, senza dubbio. Dissi allora nell'orecchio al
signore che quella donna aveva un figliuolo prigioniero del Negus, e
non sapeva della pace, e che se m'avesse favorito il giornale le avrei
data io la notizia. Quegli si voltò sull'atto a guardar la donna, ma
non mi diede il foglio. Era anche lui un artista del sentimento. — Oh
diavolo! — esclamò. — Ma glie la do io! — E l'apostrofò, quasi con
violenza: — O, la buona donna! La pace è fatta. Non lo sapete? Ecco
qua. C'è il dispaccio nel giornale. La notizia è arrivata stanotte; ma
la pace è conclusa fin dal ventisei d'ottobre. Vuol dire che il vostro
figliuolo è libero da venti giorni. I prigionieri si son messi in
marcia per l'Harrar appena firmato il trattato. Qui è fatto il calcolo.
Saranno all'Harrar fra un mesetto. Una ventina di giorni per arrivare a
Zeila.... S'imbarcheranno a Zeila ai primi dell'anno. Dunque!... Prima
della fin di gennaio lo avrete qui. Volete vedere il giornale?

O che non avesse capito nulla o che lo sbalordimento sospendesse in
lei ogni altro senso, la vecchia non diede lì per lì alcun segno di
commozione; prese il giornale, fissò sul punto indicato uno sguardo
morto d'analfabeta, e poi guardò in viso il signore, corrugando la
fronte, come per preparare l'intelligenza alla spiegazione che i suoi
occhi chiedevano.

— Oh santa pazienza! — esclamò il signore ridendo. — Eppure ho parlato
chiaro! C'è qui la notizia, per dispaccio. È fatta la pace in Africa.
Menelik, il re di quelle parti, restituisce i prigionieri. Il vostro
figliuolo è libero. Non avete un figliuolo prigioniero laggiù? Ebbene,
fra un paio di mesi sarà a Torino.

Allora, finalmente, il suo viso si mutò, ma a grado a grado; poi, con
un moto brusco, voltandoci le spalle, essa appoggiò la fronte alla
colonnina e si mise a singhiozzare, come nascondendosi, a modo dei
bambini che piangono in un angolo.

Il signore si mise a ridere; ma con la bocca contratta. Poi si chinò
a raccogliere il giornale che la donna aveva lasciato cadere, lo piegò
accuratamente e glie lo pose sul sacco. Poco dopo, essa staccò il viso
dalla colonnina e sorrise intorno a tutti noi, come se vedesse il mondo
cangiato; pareva ringiovanita; prese il giornale, ringraziò e domandò
al signore se sul foglio c'era tutto stampato quello che egli aveva
detto. Quegli rispose di sì. Essa s'infilò il giornale nel petto, con
riguardo. Il tranvai passava in quel momento davanti alla chiesa di San
Dalmazio: si fece il segno della croce.

— Dunque, — le dissi, — rivedrete _Giacolin?_

Sorrise, e non parve punto stupita ch'io sapessi quel nome, che per lei
riempiva il mondo; ma come se in quel punto le si affollassero alla
mente ad un tratto tutti i dolori, tutti i terrori, tutte le veglie
angosciose d'un anno, s'oscurò in viso, e scrollando il capo e alzando
gli occhi al cielo esclamò con un accento di tristezza inesprimibile,
mista d'un fremito di sdegno: — _Ah, ma i l'ai tribulà tant!_ — Poi
si rischiarò da capo, e quando discese, col suo sacco stretto contro
il fianco, nell'atto che passava davanti al signore del giornale,
sorridendogli con gli occhi umidi, gli fece scorrere la mano sul
braccio in atto di carezza materna.

                                   *

In quei giorni il freddo cominciava a mordere, gli ultimi villeggianti
eran tornati, Torino aveva già preso il suo aspetto invernale
d'affaccendamento gaio e frettoloso, i tranvai riboccavano, la
circolazione della vita cittadina era su tutte le linee in pieno
vigore. Un accidente usualissimo mi fece conoscere di questa vita
friggente un momento singolare, che ancora non m'era occorso. Ero sul
tranvai dei Viali, verso sera. Davanti al caffè Ligure, un grande
carro tirato da tre cavalli, carico d'un mucchio enorme di legname
da lavoro, s'era affondato nel terreno, smosso per un cambiamento
di rotaie, a traverso al passaggio dei carrozzoni; e i carrettieri
frustando e molti altri spingendo a braccia e facendo leva con spranghe
e sbarre sotto le ruote, a suon di grida e d'aneliti, non riuscivano a
smoverlo. In pochi minuti sopraggiunsero e rimasero fermi in tre file
i tranvai di tutte le linee che s'incrociano in quel punto; quelli
dei Viali, di San Salvario, di Vanchiglia, del Corso Valentino, del
ponte Isabella, come se avessero affrettato la corsa, attratti dalla
notizia del caso. Ed eran curiosi a vedersi tutti quei macchinoni
variopinti, schierati come le case ambulanti dei saltimbanchi in
una fiera, immobili gli uni dietro gli altri nella nebbia, affollati
di gente seduta e ritta, che si spingeva fuori dalle piattaforme e
dai finestrini a guardar l'impedimento lontano, trinciando l'aria
con gesti oratorii. Era un agglomeramento di gabbioni umani pieni
d'impazienza verbosa per quella sosta che ritardava convegni d'affari,
ritrovi amorosi, desinari, visite, faccende d'ogni natura, provocando
in altre cento persone lontane altre inquietudini, altre noie, altri
dispetti; una piena d'irritazione, di furia semicomica, che metteva
in mostra il lato debole della soverchia regolarità della vita
civile, in cui ogni più piccolo accidente fa l'effetto d'un disordine
grave. Un _laudator temporis acti_ avrebbe sorriso, dicendo che, in
un caso simile, i vecchi omnibus avrebbero fatto un giro e tirato
avanti, mentre il tranvai, che li aveva vinti e scacciati, rimaneva
prigioniero e impotente. Sì, sarebbe stata quella un'umiliazione dura
per il mio tranvaiofilo. E possono ben far dei progressi le macchine
locomotrici, ma l'uomo ch'esse portano resta sempre il medesimo,
puerilmente curioso e affamato di distrazioni come uno scolaro. Ad
ammirare un così comune accidente s'era da ogni parte affollata gente
sulla strada, sotto i portici, davanti agli usci, alle finestre delle
case intorno; e quando, per disperazione di rimover l'ingombro, si
staccarono i cavalli da tutti i tranvai per fare il trasbordo, sei
sciami di passeggieri accorsero di qua e di là in gran confusione,
uomini e donne d'ogni età e d'ogni classe, pigliando d'assalto le
piattaforme con grida, risa e spintoni, con la furia allegra di frotte
di collegiali, eccitati da una avventura straordinaria, che rompa
l'uniformità della loro vita quotidiana. Poi, in ogni tranvai che
partiva, si vide un gesticolare concitato della gente che commentava il
gran fatto. Avevo accanto il mio amico Schopenhauer, quello dei sette
peccati mortali. — Come l'uomo è bambino! — gli dissi, accennandogli
lo spettacolo. E lui, accennandomi i tre poveri cavalli del carro,
che i carrettieri seguitavano a frustare senza pietà, mi rispose col
suo sogghigno solito: — Bambino e belva. — Poi soggiunse con accento
di stizza: — Tu non vedi mai l'uomo che per metà. — Strano! A quelle
parole esperimentai in me un caso di doppia coscienza: l'uomo se ne
compiacque, pensando: — È tanto meglio! — lo scrittore se n'ebbe
per male. E, ahimè! la compiacenza cessò dopo un breve tratto; il
risentimento non è morto ancora....

                                   *

Ma qui, proprio alla data del 18, trovo una pagina diretta all'amico
Schopenhauer, nella quale s'oppone alla sua filosofia un argomento
di fatto, domandandogli a che serva il formulare sull'anima umana
dei giudizii, a cui, per fortuna, si è costretti a fare ogni momento
delle eccezioni. In realtà, noi diamo sull'uomo una nuova sentenza
ogni quindici giorni, e anche parecchie ogni ventiquattr'ore, e c'è da
sospettare che chi ripete sempre la stessa mentisca cinque volte su
dieci per cornaggine. L'argomento di fatto lo trovai la sera del 18
sul tranvai di Corso Vinzaglio. Erano occupati dentro tutti i posti,
meno due: signore, signorine, due ragazze del popolo, un paino, un
vecchio paglietta che conoscevo di vista. All'angolo del Corso Vittorio
salì una donna.... che avrebbe fatto meglio a non salire. Non so
se il regolamento ponga quelle infelici creature fra quelle che non
si debbono lasciar entrare nei carrozzoni. Se sì, non fu vista dal
fattorino. Era una donna sui cinquanta, mal vestita, senza cappellino,
che si teneva con una mano davanti al viso una mezza maschera nera. Al
viso? La disgraziata non aveva più viso: le era stato divorato tutto,
tra il sommo del naso e la bocca, dal cancro, e pareva da una belva
che l'avesse dilaniata e rosa fino all'osso; e sopra la piaga orrenda,
che la maschera non nascondeva a chi la guardava di fianco, si movevano
due piccoli occhi grigi, in cui era espressa tutta l'infelicità che può
sopportare un'anima umana. Io stavo fuori: quand'essa entrò e sedette,
vidi in tutti i passeggieri un movimento d'orrore. Non la volevan
guardare, ma non potevano, e la tornavano a guardare, torcendo il capo
in là dopo ogni sguardo. Ma la resistenza fu breve. S'alzarono prima
le due signore che le stavano accanto e uscirono sulla piattaforma
a lagnarsi col fattorino che l'avesse lasciata salire; poi uscì una
terza, e le altre si raggrupparono dall'altra parte del carrozzone;
ne rimase una sola in fondo, separata dall'infelice dal solo spazio
d'un posto: una signora piccolina e bruna, con due grandi occhi neri e
i capelli un po' arruffati. E anche questa, dopo un momento, s'alzò;
ma non per fuggire: diede un'occhiata al posto da cui s'era alzata,
come se si fosse accorta che la panca non era pulita, fece un passo
a sinistra e sedette accanto alla donna. Ah, mi parve di sentire il
mio amico: egli avrebbe chiamata quella una “donchisciottata„ della
pietà, e gli sarebbe parso appioppato bene il soprannome della signora.
Eppure no; egli non avrebbe detto quella parola se avesse visto la
dignità tranquilla, la semplicità gentile, inesprimibile di quell'atto.
Sedutasi, essa non guardò punto le signore fuggite, come una vanitosa
avrebbe fatto, in aria di vanteria e di rimprovero; non rivolse punto
la parola alla disgraziata per farle comprendere l'intenzione pietosa
dell'atto suo: se ne stette lì immobile, senza parlare, non per altro
che perchè l'infelice non rimanesse sola in quel vuoto sepolcrale che
le si era fatto intorno come a un cadavere, come a una cosa immonda che
avventasse dei miasmi di morie, perchè vedesse che c'era ancora qualche
creatura umana a cui non metteva orrore, che essa non era ancora
reietta affatto dal mondo. E quella capì, perchè si voltò a guardarla,
e non un sorriso, no, perchè nè il suo viso nè l'anima sua non potevan
più sorridere, ma un baleno passò nei suoi occhi, che disse: — Ho
capito e ti ringrazio. — Eh, che m'importa che ci sia nell'umanità
tanto egoismo e tanta vigliaccheria! Uno solo di questi atti la lava ai
miei occhi da mille sozzure, una sola di quest'anime ne illumina mille,
e mi spezza l'odio nel cuore, e mi fa riaprir le braccia ai fratelli.
O buona e brava Chisciottina! E dire che soltanto dopo, ripensandovi,
compresi ch'essa aveva finto di trovar non pulito il suo posto per
togliere alla sua mossa l'apparenza d'un atto di compassione!

                                   *

Varie lunghe corse in mezzo agli alberi gialli e spogliati a
mezzo, sotto il cielo grigio, dentro a una nebbia somigliante a una
sottilissima polvere diffusa, in cui volteggiano le foglie inaridite;
e nessun passeggiere di mia conoscenza; ma, in compenso, parecchie
conoscenze nuove, e nuove osservazioni sulla carrozza di tutti, come
palcoscenico dell'ambizione e vetrina della vanità. Uomini noti o
smaniosi di notorietà, donne belle e Apolli in soprabito amano tutti
il tranvai dove possono offrirsi per mezz'ora all'ammirazione di una
decina di concittadini, costretti a guardarli, anche se non vogliano,
e a portarsi via nel cervello la “negativa„ della loro effigie. Ci
sarebbe da scriver qualche pagina sull'arte di figurare in tranvai.
C'è chi, per mettersi in mostra, attraversa il carrozzone, come
un salotto, da una piattaforma all'altra; chi, fattolo fermare, lo
raggiunge a passo lento per dar tempo ai passeggieri d'ammirare la
grazia o la maestà del suo incesso; chi nell'atto di rizzarsi per
tirar la correggia del campanello cerca degli “effetti„ di slancio
e d'impostatura, come gli attori e le attrici nel saltar su dalla
poltrona per accennar la porta a un insolente. E ci son fra questi
degli originali che vanno in tranvai per mettere in mostra la loro
rassomiglianza con uomini celebri. Avevo già visto su parecchie
linee un falso Vittorio Emanuele, un facsimile del d'Azeglio, una
brutta copia del Cialdini; ma non m'era passato mai per la mente che
si potesse ostentare con compiacenza anche la rassomiglianza con un
brigante. Rinvenni il tipo una sera, rincantucciato in un carrozzone
della linea del Martinetto, sul quale c'era Carlin. Una signora era
scappata fuori e lo guardava impaurita dalla piattaforma di dietro.
Altre tre, rimaste dentro, s'erano rannicchiate nell'angolo opposto,
e l'osservavano con diffidenza. E c'era di che: una grinta da farsi
arrestare non per altro che per i connotati. Era ravvolto in un gran
mantello alla spagnola, ricacciato dietro una spalla, sotto al quale
pareva che nascondesse un trombone; aveva un largo cappello alla
calabrese calcato sopra un orecchio, e di sotto alla tesa rotava due
occhioni di gufo e metteva avanti un naso criminoso e due grossi baffi
provocatori. L'ombra del cappellaccio e il lume che lo rischiarava
dall'alto davano alla sua faccia dei rilievi accesi e delle infossature
nere di testa satanica. Girava la testa lentamente, come un automa,
e fissava gli occhi, dilatandoli, ora sull'uno, or sull'altro dei
suoi osservatori, che abbassavano tutti lo sguardo. Chi poteva essere
quell'originale? Non certo un povero diavolo perchè quanto si vedeva
del suo vestiario era fine e pulito. Le supposizioni, fra i passeggieri
della piattaforma, erano diverse. Chi pensava che fosse un evaso
dalle patrie galere, chi un brigante delle Calabrie di passaggio
per Torino; un giovanotto espresse il dubbio che potesse essere Jack
lo sventratore. — Ma a delle faccie così, — disse un vecchietto con
tutta serietà — dovrebbe esser proibito d'entrare, per regolamento! —
(Oh se si lasciassero legiferare gli spauriti, che orrenda tirannia!
E si vedrà). Tutti aspettavano che scendesse, per vederlo meglio.
Fummo soddisfatti in piazza Castello. S'alzò. Non era molto alto: la
lunghezza del busto ci aveva illusi. Quando comparve sulla piattaforma,
tutti gli fecero largo. E in quel momento un sorriso che gli guizzò
sulle labbra mi svelò il segreto. Era semplicemente un capo ameno, un
buon diavolaccio forse, che si serviva della sua figura di spauracchio
a scopo di vanità, armonizzando con la propria faccia il vestiario e
gli atteggiamenti, per il gusto strambo di spandere il terrore sui
tranvai notturni; e quei piccoli trionfi teatrali d'ogni sera eran
forse per lui l'alimento principale, se non unico, _de l'orgueil qui
nous fait vivre_, come dice lo Zola; poichè di tutte le passioni
umane è l'orgoglio quella che si pasce di cose le più disparate,
dall'eroismo al delitto. Appena fu disceso, si ripresero i commenti a
voce alta. — Dev'essere un pazzo — disse Carlin. — Una donna esclamò:
— Ma è un parente del diavolo! — E una graziosa signora, ancora un po'
spaventata, mi disse sorridendo: — È un socialista, di sicuro.

                                   *

Un soggetto di quadro per Giacomo Grosso, il giorno dopo, in via
dell'Accademia Albertina: un carrozzone chiuso in cui troneggia una
signora splendida in mezzo a un gruppo di povera gente, come una
castellana che dà udienza ai suoi servi. Al contrasto che facevan con
lei i suoi compagni di corsa accresceva forza la lordura del tavolato,
imbrattato di mota e sparso di pezzetti di carta, di bucce di arancia
e di castagne, su cui si posava il suo vestito di principessa. La
guardavan tutti attentamente, in silenzio, come avrebbero guardato
un'opera d'arte in una vetrina. Non dava più di vent'anni; era bella
e bianchissima; uno di quei visi di signore torinesi, d'un carattere
mal determinato tra franco e italico, in cui nessun tratto ha una
bellezza singolare, ma tutti insieme una grazia squisita; una sposa
recente, pareva; vestita d'un panno nero ricamato, con un superbo
mantello di lontra, coronata di grandi penne di struzzo e di rose
incarnatine, e lampeggiante di diamanti ai polsi e agli orecchi. Aveva
tanto indosso quanto per ciascuno di quelli che la guardavano sarebbe
stato un capitale, un rivolgimento della sorte, un sogno luminoso
avverato. Eppure il suo viso, di un contorno ancora un poco infantile,
aveva un'aria d'ingenuità così schietta e così amabile, il leggiero
rossore che davano alle sue guance la suggezione e la compiacenza
insieme d'esser fissata a quel modo, così a lungo e da vicino, da
tutti quegli occhi, esprimeva una modestia e una semplicità d'animo
così graziosa, e pareva ella stessa così ad agio in mezzo a quella
gente, senza un pensiero al mondo che la potessero insudiciare la cesta
della vecchia erbivendola seduta accanto a lei e i piedi del bambino
tenuto sulle ginocchia dalla donna di rimpetto, che tutti la guardavano
con un'espressione manifesta di rispetto e di simpatia. E questo mi
fece dubitare se quel che si dice del lusso, che offende e irrita il
povero, non si debba attribuir piuttosto al modo vanitoso col quale
si ostenta, all'aria abituale di — Fatti in là — di chi lo sfoggia,
che non proprio al lusso per sè medesimo, che è bellezza e splendore,
di cui s'alletta anche l'occhio di chi n'è privo. Ma il quadretto era
attraente in special modo per le riflessioni diverse che si leggevano,
sotto alla simpatia e al rispetto, negli occhi di quegli ammiratori,
chiarissime per me come se le vedessi scritte sulla loro fronte. La
vecchia mostrava di fare uno studio comparato dei prezzi del velluto
e della lontra con le entrate ed uscite del suo bilancio domestico.
La madre del bimbo, che pareva la moglie d'un operaio, dall'aspetto
affaticato, la guardava più che altro nel viso, con l'aria di pensare
alla vita beata che quella signora menava, levandosi la mattina
alle dieci per oziare dolcemente tutta la giornata, senza l'ombra
d'un sopraccapo. C'era una ragazza del popolo che lasciava gli occhi
addosso agli orecchini, come affascinata, e diceva con gli occhi che
per portare un'ora al giorno quelle due stelle appese al capo avrebbe
acconsentito allegramente a campar di pan duro e di mele verdi. Un
giovine operaio la covava con uno sguardo fiso e luccicante da cui
traspariva l'immaginazione delle voluttà sovrumane che doveva dar
l'amore di quella semidea, così bianca, così fine, fasciata e coperta
di tanta roba odorosa e preziosa. E c'era in un angolo un vecchio
mal messo, dal viso di ritontito, che la osservava con un'espressione
attonita come se meditasse in lei, senza comprenderlo, il gran mistero
della legge sociale che interpone una così enorme distanza tra l'una
e l'altra creatura umana. Ma quello che la mangiava con gli occhi
più avidamente era il fattorino marchese, ritto accanto a me sulla
piattaforma. Aveva però un bell'arricciarsi i baffetti biondi con
le dita agitate e pigliar delle impostature di tenore e levarsi il
berretto per passarsi la mano sulla fronte accesa: egli non riusciva
ad attirar lo sguardo della bella signora, la quale guardava soltanto
i suoi ammiratori di dentro, a uno a uno, coi suoi begli occhi lenti
e sereni, in cui brillava il riflesso della simpatia che vedevan negli
altri. Ma che bussolotto da gioco è mai il cuore umano! All'angolo di
via Mazzini, essa fece fermare e discese; tutti, di dentro, mossi da
quella curiosità che cerca l'andatura d'una persona come un indizio
dell'animo, misero il viso ai finestrini per vederla camminare....
Era zoppa! Ebbene, in quasi tutti quei visi passò un sorriso leggiero
di soddisfazione, anche su quello della ragazza, che esclamò: —
Che peccato! — E non era una malignità. O buon Dio! Era una piccola
consolazione di dannati. Aveva avuti tanti doni dalla natura, era tanto
più fortunata, tanto più felice di loro.... che almeno la sua felicità
avesse una tacca! Questa non pareggiava le partite, di certo; ma almeno
d'un piccolissimo che faceva parer loro meno enorme, meno umiliante la
disuguaglianza. Tutti si rimisero a sedere con questo pensiero negli
occhi, e il marchese, alzato il naso come un can da caccia, si consolò
come potè del suo insuccesso: aspirando il profumo ch'essa aveva
lasciato nel suo marchesato.

                                   *

_Gli effetti d'un dramma in tranvai:_ fu uno degli ultimi e dei più
piacevoli episodi del mio novembre. La sera della domenica, ch'era
già notte, il tranvai del Martinetto s'arrestò in via Po davanti al
teatro Rossini, donde usciva la folla dopo la rappresentazione diurna
della Compagnia piemontese. Un signore mise sulla piattaforma un
piccolo spazzacamino e salì con la moglie e con due signorine. Siccome
al Rossini s'era rappresentato quel dopopranzo _Gli spazzacamini_,
il vecchio dramma risuscitato del Sabbatini, che faceva singhiozzar
Torino da quindici giorni, io pensai che il piccolo _spaciafornel_
fosse l'attorino Eugenio Testa, protagonista minuscolo del dramma e
principalissimo distillatore del pianto pubblico, e che i suoi parenti
lo riportassero a casa così, col vestito del palcoscenico, per un
capriccio. Ma no: era uno spazzacaminuccio autentico, raccattato alla
porta del teatro, nell'impeto della commozione, da una buona famiglia
borghese ancora lacrimante, che lo portava per suo conto e piacere
al borgo San Donato, dov'egli aveva detto di star di casa col proprio
padrone. Sedutisi tutti dentro, il signor padre si mise il ragazzino
sulle ginocchia, con una certa ostentazione provocante di carità
cristiana e di tenerezza poetica, e prese a carezzarlo paternamente,
adocchiando gli altri passeggieri, mentre le sue donne lo guardavano
con gli occhi umidi, rivolgendogli molte domande. Il padre e la madre
avevan l'aspetto di due bottegai danarosi, ma d'origine povera, ai
quali le figliuole, istruite e ingentilite dalla scuola, avessero
rifatto una specie d'educazione letteraria e sentimentale: queste,
benchè pure commosse, serbavano una compostezza dignitosa; quelli
avevano l'espansione dell'affetto un po' volgaruccia; ma sincera.
Strana potenza del teatro! Essi vedevano veramente in quel bimbo il
protagonista del dramma, che corre per il palcoscenico per scansar le
pedate del padrone bestiale, il povero montanarino che è venduto nel
primo atto, martirizzato nel secondo, e restituito alla famiglia nel
terzo, dopo esser stato creduto morto d'asfissia in una gola di camino,
e riversavano sopra di lui tutta la pietà affettuosa che avevano
insaccata in galleria. Ed egli accoglieva tutte quelle tenerezze senza
mostrare sul visetto nero alcuna maraviglia, tra indifferente e triste,
come se pensasse che quella sua avventura non era che la fortuna d'un
momento, che tutta quella bontà non gli toglieva di doversi levare la
mattina dopo avanti luce per rigirar la ruota della dura vita d'ogni
giorno. Dentro, alcuni guardavano la scenetta con simpatia, altri con
un sorriso un po' canzonatorio per quella effusione di sentimento, che
pareva loro un po' teatrale, e forse non meritata. Un signore rotondo,
che era accanto a me, mi tradusse in parole quel sorriso. — Eh, son
furbacchioni che vanno apposta all'uscita del teatro per sfruttare
la commozione del pubblico e scroccar qualche soldo! — Furbacchioni!
Oh diamine! Gli avrei voluto domandare se, quando egli aveva qualche
favore da chiedere a un suo superiore, giudicava una furberia disonesta
l'andarglielo a chiedere in un momento in cui gli paresse meglio
disposto a concederglielo. Che raffinate delicatezze pretendono da chi
non mangia abbastanza i delicati ben pasciuti! Continuavano intanto
le interrogazioni e le carezze al ragazzo, e non cessarono che in
piazza dello Statuto, dove la famiglia fece fermare per discendere.
Il padre lo baciò, le signore gli passarono la mano sotto il mento
senza timore d'insudiciarsi. — _Ciao, pover cit._ — Ricordati dove
stiamo di casa. — Bada a non lasciarteli prendere. — Alludevano ai
soldi che gli avevano messi in tasca. Infatti, appena furon discesi, il
ragazzo si cacciò una mano nel petto, tirò fuori il gruzzolo e contò
quanto c'era. — Ah, vede! — disse trionfando il mio vicino, — vede
il furfantello! Sono i soldi che gli stanno a cuore, non le carezze.
— È proprio vero, — gli risposi. — Ah ingordo quattrinaio! Esoso
Shylock! Vile adoratore dell'oro! — Il curioso fu che, pur comprendendo
l'esagerazione scherzosa, egli mi credette sincero in fondo, e sorrise
di soddisfazione. Razza d'un cane! Era il rappresentante d'una legione,
lui, e credette della sua legione me pure. E quando scesi, mi disse col
tono d'un confratello: — Buona sera! — Ma a me non venne alle labbra
che il saluto pisano: — Tremoti a chi t'affetta il pane.

                                   *

La stagione, intanto, benchè non fosse ancor nevicato, incrudiva, e i
tranvai correvano la mattina presto fra gli alberi e lungo le siepi
dei viali biancheggianti di brina, come in mezzo a una maravigliosa
vegetazione di filigrana, e sotto i fili del telefono e delle lampade
voltaiche tutti bianchi, somiglianti a fasci di cordoni di lana; e
cominciavano i cocchieri e i fattorini a pestare i piedi e a mandar
fumo dalla bocca, mettendo mano alle provvigioni dei sagrati invernali.
Fu una di queste mattine brinate che, strizzato dall'aria fredda di
Via Garibaldi, non potendo più reggere sulla piattaforma, mi cacciai
dentro al carrozzone, dove mi trovai davanti la studentessa di medicina
e suo padre. Essa sedeva nell'angolo vicino all'uscio, bianca come la
filigrana degli alberi e i baffi paterni; e il suo bel viso d'angelo
imperturbato, invulnerabile dalle passioni umane, sorgeva con la
grazia d'un giglio fuor dal bavero a tromba della mantellina nera
che le avvolgeva il collo. Suo padre stava seduto col busto ritto e
col petto sporgente come doveva stare a cavallo alla testa del suo
reggimento. Non si parlavano. Gli occhi grandi e dolci di lei si
volgevano qua e là, secondo il solito, guardando tutti come se non
vedessero alcuno, ed io mi potei compiacere meglio dell'altre volte
nell'immaginazione del suo corpo vestito di bianco e coronato di rose,
disteso fra quattro ceri, con le mani incrociate sul petto virgineo,
che non conobbe l'amore. Prima che s'arrivasse a metà della via,
il carrozzone era pieno dentro e affollato sulla piattaforma. Molti
la guardavano; ma, come sempre, pareva che essa non se n'avvedesse.
Tutt'a un tratto s'animò, scosse vivamente il capo, sorridendo, come
se salutasse qualcuno a traverso al vetro dell'uscio, ed io vidi una
cosa strana, inaspettata, incredibile: un'onda di porpora le coperse
il viso fino alle tempie e i suoi occhi raggiarono d'una luce nuova,
vivissima, dolcissima, che mi fece l'effetto d'un prodigio, come
se in quel momento ella si fosse trasformata da statua di marmo in
donna di carne e di sangue. Suo padre pure aveva salutato con un
sorriso e uno sguardo amichevole. Mi voltai prontamente a sinistra
per vedere a traverso al finestrino chi avesse operato il miracolo; ma
mi trovai in faccia un maledetto vetro colorato con l'annunzio della
China-Migone, che intercettava la vista: vidi soltanto per aria, di là
dall'uscio, un cappello a cilindro che salutava, e che scomparve subito
come un'ala di falco. Ah, quel cilindro non poteva essere che d'un
giovane, quel giovane non poteva essere che un amante, quell'amante
non poteva essere che un fidanzato. Gli occhi di lei, che rimasero
fissi, sfavillando, sulla persona invisibile, la porpora che si fece
men viva, ma non disparve, e la bocca semiaperta e parlante che tradiva
il palpito accelerato del cuore, mi tolsero ogni dubbio. La vergine
morta innamorata! La vergine morta sposa! Era dunque possibile? E mi
riprese una così smaniosa curiosità di sapere chi fosse _lui_, che per
poco non commisi la villania d'alzarmi per guardar fuori. Ma non potei
rattenermi a lungo, e per levarmi quel chiodo, tirai il campanello
prima del tempo. — Chiunque sia — pensai — lo debbo riconoscere agli
occhi. — Il tranvai si fermò, apersi l'uscio.... e mi trovai davanti
il pittore in tuba, con un viso fiammeggiante, che diceva tutto. Fece
un atto di forte sorpresa, arrossendo, e mi balbettò con un sorriso
d'uomo impicciato: — Le darò poi una notizia. — Ah, non occorre! —
gli risposi scendendo. — Mi darà delle spiegazioni; la notizia la so
già, e me ne rallegro. — E lo lasciai lì stupefatto. Ma non quanto
me. Era lei, dunque, la dea misteriosa; lei, la vergine morta! Chi se
lo sarebbe sognato? Eppure, lo avrei dovuto sospettare fin dal giorno
ch'egli m'aveva fatto quella curiosa difesa delle studentesse di
medicina. Ma già, era uno di quegli indizi che si riconoscono a cosa
scoperta. Era lei! Il colosso s'era innamorato d'uno spirito. E perchè
no? Un matrimonio d'antitesi. Una bella coppia, del resto. E mi durò la
maraviglia per un pezzo. La vergine morta!... Ma che vergine morta? La
visione era mutata: ancora vestita di bianco e distesa come una morta;
ma con le guancie di porpora e con le braccia aperte.... Oh, tutt'altra
cosa. Infine, non poteva accader di meglio per il mio interesse di
scrittore. E me ne tornai a casa soddisfatto.

                                   *

Ma non doveva finire così lietamente il mese di novembre. Finì con un
triste incontro. Fu l'ultimo giorno appunto, il giorno dell'uccisione
della contessa Lara. L'aria era nebbiosa, gli alberi del Corso San
Maurizio tutti bianchi come d'una incrostatura di sal gemma, e il
sole senza luce nel cielo grigio, come un occhio enorme di moribondo.
Salendo sul tranvai che andava verso il Corso Margherita, vidi dentro,
a traverso al vetro dell'uscio, il viso del signor Taddeo, e gli feci
un cenno di saluto. Egli mi guardò fisso e non mi salutò. Allora
soltanto, al secondo sguardo, lo vidi così miseramente mutato, che
m'attraversò la mente un pensiero improvviso come un fulmine: — La
bambina è morta! — Sporgendo il capo un po' a destra vidi anche il viso
della signora, e lo stesso sinistro pensiero mi ribalenò: — La bambina
è morta! — Erano pallidi, d'aspetto invecchiato, improntati d'una
tristezza tragica, immobile, disperata, somigliante all'espressione
di stupore infinito che è qualche volta sul viso dei cadaveri. Il mio
primo senso fu quasi di terrore, una tentazione di discender subito per
non vederli, per non sapere. Ma mi rattenne una speranza: che qualche
altra disgrazia li avesse colpiti, non quella: la perdita d'ogni avere,
la morte del padre o della madre, uno spavento mortale per qualche
tremendo pericolo corso. La bambina poteva essere nel carrozzone, non
in mezzo a loro come le altre volte, ma alla sinistra della madre, in
un posto che dal difuori io non potevo vedere. Ma benchè non avessi
che a fare un passo a destra per veder se c'era, non ebbi il coraggio
di farlo, come se avessi temuto di vedere accanto a lei, invece della
bambina, una piccola bara. Eppure, com'era possibile? Mi ricordai
dell'ultima volta che l'avevo vista, poco tempo addietro, così bella e
vispa, ammirata da tutti, splendente di salute e d'allegrezza in mezzo
ai suoi parenti trionfanti. E questo ricordo dandomi animo, feci il
passo a destra. Ah! non vidi la piccola bara; ma fu come se l'avessi
vista: vidi un mazzo di fiori sopra un ginocchio della mamma. Dei fiori
fra le mani, con quel viso, essa non li poteva tenere che per portarli
al camposanto, e su quella fossa. Soprastetti nondimeno, sperando
ancora, con viva ansietà, per vedere se si fermavano sul piazzale
delle Benne per prender la via del cimitero. Chi sa mai? Se non si
fermavano, poteva darsi che la bambina vivesse. Furono pochi minuti
d'aspettazione; ma mi parvero così lunghi! Tenevo gli occhi fissi su di
loro, e mi batteva il cuore. Il tranvai sboccò sul piazzale e svoltò
verso il Corso Margherita.... — È viva! — pensai. Ma in quel punto il
padre s'alzò col braccio teso, e intesi un suono di campanello che
mi fece rabbrividire come un — No! — inesorabile, risposto alle mie
parole. Il tranvai si fermò: i due sventurati mi passarono davanti; il
padre mi guardò e mi riconobbe. Io non osai di salutarlo. Egli mi diede
uno sguardo torvo e mi disse con voce aspra: — È morta, sa; — la madre
passò senza guardarmi.



CAPITOLO DODICESIMO.


                                                            Dicembre.

Col nuovo mese fui preso da un nuovo ardore di correre su tutte le
linee alla caccia dei personaggi e delle avventure, illuso da questa
ingenua speranza d'almanaccone superstizioso: che perchè avevo un
libro da finire m'avrebbe aiutato la fortuna, presentandomi casi e
scene singolari, adatti a dare alla _Carrozza di tutti_ una chiusa
di romanzo; e già covavo sotto a quella speranza la tentazione di far
tutto di fantasia l'ultimo capitolo, se la fortuna mi fosse fallita.
Incurabile malato di romanticismo, tormentato dal bisogno di cucinar
la natura in salsa piccante e di servirla in forme architettoniche
come i bodini nei pranzi di gala! Proprio all'ultimo mi ridava fuori
il malanno ereditario, dopo che m'ero attenuto fino allora all'intento
di ritrarre la vita libera e sparsa come me la vedevo correre intorno,
risoluto di fare un'opera informe, ma sincera. Ma l'illusione durò
pochi giorni, l'ardore di correre fu spento fin dal primo da una
di quelle solenni nevicate torinesi che fanno rientrare in petto i
propositi di vagabondaggio poetico come i nasi nei baveri e le mani
nelle tasche, e con quell'ardore pericoloso mi fuggì ogni tentazione di
chiusa romanzesca. E fu tanto meglio, credo, per il mio scartafaccio.

                                   *

Nevicava fitto, a fiocchi larghi come scontrini di tranvai, la
lunghissima via Nizza era tutta coperta d'un tappeto bianco, che
smorzava il rumore dei carrozzoni nevosi, correnti sulle rotaie
invisibili, e in mezzo a tutta quella bianchezza alpina nereggiava come
un orso Tempesta, imberrettato e incappucciato, con tanto di guantoni
e di zoccoli, non mostrando del viso che il naso a pera e i baffi a
spazzola, agitati dal soffio d'un sagrato perpetuo. Se la pigliava coi
fiocchi che gli entravano in bocca, con gli spalatori che ingombravano
la strada, coi passeggieri che, salendo, gli scotevan sui piedi
l'ombrello fradicio, e dava ogni tanto una stratta furiosa alla tenda
immollata, che pareva si ritirasse per dispetto, lasciandolo scoperto
all'intemperie.

— Brutto tempo, eh? — gli domandai con buon garbo. Mi rispose brusco:
— A me lo dice? Una bella notizia! — Ne avremo forse per un pezzo, —
soggiunsi. — Non lo so, — grugnì.

Ah povero Tempesta! Mi ricordai d'un matto della Villa Cristina che
disegnava con la matita le varie parti del corpo che gli dolevano,
schizzando in ciascuna una bestia feroce, la quale, secondo lui,
rodendogli le carni, era causa del suo dolore; e mi domandai se
proprio egli non avesse in corpo qualche animalaccio rabbioso, se
non un serraglio intero, che lo dilaniasse. Ma già, non ce n'abbiamo
uno tutti, non fosse che un bruco o un tarlo piccolissimo che ci dà
delle giornatacce scellerate? Eppure, quanto più lo studiavo, tanto
più mi pareva che, a casa sua se non altro, non dovess'esser un
cattiv'uomo, perchè, insomma, egli sputava tanto tossico in servizio
da non comprendersi come ne potesse ancor serbare per la famiglia
dopo una giornata di dodici ore. A momenti ero tentato di battergli
una mano sulla spalla e di dirgli amorevolmente: — O me lo vorresti
dire, benedetto porcospino, da che parte si potrebbe toccarti per
non pungersi? — Ci si punse in quel momento una vecchia signora, che
avendogli detto timidamente, perchè fermasse: — faccia grazia.... —
n'ebbe per risposta una spallata, con questo complimento: — Che _faccia
grazia_!... Si dice _fermi_, si dice. — La cortesia gl'irritava i nervi
come la musica fa andar del corpo certe bestie.

In piazza San Salvario, dove facevano la battagliola dei ragazzi, gli
passò a un palmo dal naso una palla di neve: egli girò sui combattenti
un'occhiata sterminatrice e mise un bramito di leopardo. Poi se la
pigliò con uno dei cavalli, _Livorno_, che zoppicava, chiamandolo
assassino, ladro, ciampicone da forca, e rincalzando ogni epiteto con
una frustata. Uno dei cinque passeggieri che stavano sulla piattaforma
s'arrischiò a fargli un'osservazione garbata: — Ma se zoppica, che
colpa ci ha? — Si voltò come un'istrice: — Sì signore, è un vizio, una
malizia; zoppica soltanto quand'è con me, ha da sapere! — E sbuffò. Poi
soggiunse: — Bisogna conoscer le bestie prima di parlare. — Quell'altro
rispose pacatamente: — Già, è proprio vero: prima di parlare... bisogna
conoscer le bestie. — Tutti risero. E allora seguì un miracolo: sorrise
anche Tempesta. Ma fu come un lampo sur una rupe. Subito si rioscurò,
rimenò una frustata a _Livorno_, trattandolo di boia infame e di Giuda
porco, e ricominciò a spandere per la lunghissima strada bianca il
soffio della sua rabbia implacabile.

                                   *

Seguitò a venir giù neve, senza posa, così fitta da parere che se
ne potesse far delle palle cogliendola a due mani per aria, densa al
punto che i tranvai apparivano come ombre dietro al velo dei fiocchi,
e non si vedevano ancora quando già li annunziavan vicini lo scalpitìo
faticoso dei cavalli e il gridìo continuato dei cocchieri, affacciati
ai finestrini delle tende come vedette alle feritoie d'una fortezza
mobile. Ma tutta quella neve non smorzava il fuoco bellicoso di
Carlin, che trovai un dopo pranzo sulla linea di Vinzaglio, furibondo
per l'eccidio della spedizione del Cecchi, sopra tutto contro il
Ministero perchè aveva dichiarato di non aver alcun proposito di
“occupazioni militari„. Il bombardamento di Gezira e la fucilazione
dei cinque Somali, invece di quetarlo, l'aveva irritato, come farebbe
a un affamato un minuscolo antipasto di ghiottonerie stimolanti. Come
sempre, egli avrebbe voluto bruciare, sterminare, disperdere ogni cosa,
cancellare il Benadir dalla faccia dell'Africa. — Insomma — fremeva —
tutti ce le danno e noi non le rendiamo a nessuno! Figure da nasconder
la faccia nei calzoni! — E non riusciva a capacitarsene considerando
che avevamo gente a bizzeffe, milioni d'uomini senza lavoro, una
sovrabbondanza di gregge umana da dover benedire ogni occasione che
si presentasse di spedirne fuori una gran quantità, per alleggerire
l'Italia e invader “le terre dei cani„. — Cosa ne voglion fare di
tutta questa gente? Siamo in troppi. Tutti i nostri guai vengon da
questo. È il multiplicamini che ci rovina... — E della nostra eccessiva
fecondità mi addusse una prova singolare. Giusto tre giorni avanti, su
quella stessa linea, nel numero 139, una donna era stata presa dalle
doglie, e c'era mancato poco che scodellasse un “passeggiere„ lì per
lì, durante la corsa: s'era dovuto fermare il tranvai, e s'era fatto
appena in tempo a trasportarla in una portieria di via Roma: al ritorno
del tranvai l'amico era già fuori, che cantava come un gallo. — Vede
_dunque_! — Proprio, la nascita intempestiva di quel bacherozzolo,
per lui, era l'argomento Achille In favore d'una politica belligera
in Africa. — _Bombardè! Bombardè!_ — e ripetendo questo suo “delenda„
dall'alto della piattaforma, con le braccia incrociate sul petto,
fissava lo sguardo su piazza Castello bianca di neve con l'espressione
di Napoleone primo nel _milleottocento quattordici_ del Meissonnier. Ma
che diversi pensieri si volgono qualche volta nell'interno del tranvai
e sulla piattaforma! Appunto in quel momento c'eran dentro da un lato
parecchie belle signore; nei due angoli in fondo due signori in tuba,
con la cravatta bianca, che andavano a qualche pranzo di gala; in
faccia alle signore una mezza dozzina di giovani e brillanti ufficiali
della Scuola di guerra, fra i quali un bellissimo tenente belga; e
si vedeva negli occhi di quella compagnia silenziosa la fiammella
della galanteria, si indovinava nell'aria di quel salotto ambulante
una vibrazione di piccola corte d'amore, l'incrociarsi delle simpatie
e delle attrazioni frenate dalla convenienza, un lavorìo vivo di
immaginazioni eccitate, vagheggiaci tutt'altre conquiste da quella del
Benadir, tutt'altre battaglie da quelle che il povero Carlin invocava
mostrando il pugno alla neve.... Un simbolo anche questo: la politica
che sbraita e vuol rifare il mondo, e l'amore, padron del mondo, che
le ride alle spalle. Ma non espressi questo pensiero a Carlin per non
scemargli quello che era forse il maggior conforto della sua vita. E
come se, comparendo per l'ultima volta nei miei appunti, egli dovesse
per me sparire dal mondo quella sera, gli feci, scendendo, un saluto
cordiale, ch'egli interpretò come un'approvazione generale di tutta la
sua politica del 1896, e che mi valse in risposta un buon sorriso di
ministro soddisfatto a deputato devoto. E muoia la sua politica e viva
la sua memoria....

                                   *

Continuò a nevicare, e anche io presi gusto quelle sere a cacciarmi
nei carrozzoni, attirato dall'aspetto di intimità familiare,
dall'immagine dì brigate raccolte a veglia, che offrivano i passeggieri
pigiati dentro, soddisfatti d'essere al riparo dalle intemperie e
particolarmente disposti, in quella comunione non ingrata di calorico
animale, alle conversazioni amichevoli. Trovai in una di queste
comitive fortuite, la sera della festa della Concezione, sulla linea
di via Cernaia, il sindaco di Torino, rannicchiato in un angolo, e non
riconosciuto da alcuno, fuorchè dal fattorino, che, stando fuori sulla
piattaforma, lo guardava a traverso il vetro dell'uscio, curiosamente.
Certo che l'illustre sindaco, vedendo quel povero fattorino col capo
imbacuccato in un cuffione, infradiciato dalla neve, che lo guardava
dal di fuori come il pezzente infreddolito guarda dalla strada il
signore seduto al caldo nella trattoria, era a mille miglia dal pensare
che quello fosse un conte come lui, forse di più antica famiglia
della sua, certo d'un casato più famoso nella storia d'Italia. Ma di
nessun pensiero malinconico dava indizio il viso del conte incognito,
atteggiato all'espressione consueta di serena rassegnazione: pareva che
egli si dilettasse della vivacità insolita della compagnia, composta
di piccoli borghesi e d'operai puliti, fra i quali s'incrociavano
conversazioni diverse. Parlavano dell'esposizione finanziaria del
Luzzatti, del capitale perduto del Banco di Napoli, della proposta
d'una _tassa militare_, con le frasi raccolte nei giornali della
mattina, e con quel tono misto di sfiducia amara e d'indifferenza
canzonatoria con cui in Italia si suol ragionare della cosa pubblica.
A un tratto si fece silenzio; poi un passeggiere, di cui il lume
rischiarava soltanto la parte inferiore del viso, adombrato dal naso
in su da un grande cappello, saltò fuori con la legge sugli _infortuni
del lavoro_. — Ahi! — dissi tra me — siamo al Senato —; e tenni
d'occhio il sindaco senatore. E il Senato, che aveva per la seconda
volta rinviata la legge all'Ufficio centrale, fu da quel gran cappello
e da un altro dello stesso taglio, che gli s'allargava daccanto,
conciato barbaramente. — “Quegli scatarroni mezzi morti„ — quei vecchi
reazionari della malora... — la legge sarebbe stata in vigore da un
pezzo se non fosse dovuta passare per quell'anticamera del camposanto
dove tutte le riforme in pro del popolo erano ferocemente combattute...
— e altre gentilezze su quest'andare. Deliziosa corsa per un Senatore!
Ed ecco che un terzo, facendo un salto da Roma a Torino, vien fuori
a lagnarsi del servizio di sgombero della neve, dicendo con un
vocione di contrabbasso che, per questo riguardo, si facevano le cose
meglio, ma molto meglio, non ricordo bene in quale piccolo comune del
circondario, dove egli aveva sortito i natali! Ah, questa carrozza di
tutti, che covo d'insidie per gli uomini in carica! Ma il bravo sindaco
sostenne intrepidamente la seconda come la prima scarica, fissando
con un vago sorriso filosofico un annunzio del _Cioccolatte Talmone_
attaccato fra due finestrini. Il fallimento della Banca di Como, che
venne dopo sul tappeto, lo liberò, e mentre la nuova conversazione
s'andava accalorando, altri tranvai passavano, in cui si vedevano di
sfuggita altre comitive illuminate dall'alto, sale correnti di club
e di caffè, farmacie di villaggio ambulanti, piccole aule di Consigli
comunali, pieni di visi gravi o ilari di politicanti, di maldicenti,
di pettegoli, di sonnacchiosi, di brilli, che apparivano un momento e
sparivano nel turbinìo della neve.

                                   *

Dopo la neve venne la nebbia, quella nebbia invernale di Torino, densa
e fredda, d'un sapore irritante quasi di bruciaticcio, che invade
ogni vuoto e copre la città come un immensa nuvola di cenere immobile,
quasi palpabile, e nasconde case, alberi, gente, carrozze, lampioni,
circoscrivendo in un raggio di cinque passi lo spazio visibile a ogni
persona; che intercetta come un muro grigio la vista delle piazze e dei
corsi e riempie i portici come un fumo uscente da migliaia di cantine
incendiate, e dà a ogni tratto l'illusione che quartieri interi siano
scomparsi, inghiottiti dalla terra, fra i vapori d'un cratere enorme.
Si correva come dentro a un'oscurità bianca, a traverso a una sequela
infinita di veli umidi, che il tranvai lacerava, non vedendo gli altri
carrozzoni che all'ultimo momento, come se sorgessero per incanto dal
suolo, e non altri passanti fuor che larve che scappavano spaventate
al sopraggiungere dei cavalli; e quel continuo succedersi e incrociarsi
affrettato di fischi e di squilli in quell'aria opaca dava l'idea d'una
città agitata da un grave affanno, oppressa dalla minaccia di qualche
grande pericolo misterioso.

Stavo sulla piattaforma, pigiato da tutte le parti, in compagnia d'un
giovane poeta cubano, nuovo a Torino e a quello spettacolo, il quale
accresceva la sua naturale malinconia. Venuto per la prima volta
in Europa, e arrivato il giorno avanti dalla Francia, non si poteva
persuadere d'essere in Italia, dove s'era immaginato che anche le città
settentrionali avessero un inverno mite e sereno come quello della sua
isola nativa. Guardava intorno quasi spaurito e mi diceva di tratto in
tratto in un suo italiano transatlantico: — Ma questa è Siberia! Questo
è lo Spitzberg! E come piace a lei quest'orrore?

— Sì — gli risposi — ho dei gusti di Eschimese. La nebbia m'eccita
l'immaginazione. Non vedo nulla, non riconosco i crocicchi, non so
molte volte in che punto mi trovi; la città mi pare ingigantita;
suppongo d'essere a Londra, a Pietroburgo o a Nuova York. Mi piace
qualche volta di sentire l'umanità senza vederla. La nebbia mi rompe
la monotonia della vita, mi dà mille sorprese e sensazioni insolite.
Questa risonanza strana, smorzata di tutti i rumori, mi alletta come
un linguaggio nuovo delle cose. Mi fa più piacere che alla luce del
sole rincontrare l'amico in questa oscurità livida, come nell'ombra
d'una foresta vergine, vedermi davanti tutt'a un tratto il viso d'una
bella donna come se m'apparisse nello squarcio d'una nube, sentir voci
conosciute di conoscenti invisibili e risa di ragazze misteriose, che
si perdon nell'aria come voci di folletti. E poi, che vuole? La sera,
in special modo, la città piena di gente e di lumi, che lavora e si
diverte, mi sembra una espressione più potente della civiltà umana
sotto questo gran mantello lugubre che la natura le getta addosso senza
riuscire a soffocarne la vita e l'allegria.

Il cubano non pareva persuaso. Se avesse dovuto vivere in Italia, non
avrebbe piantato le tende a Torino. E mi domandò se la città mi paresse
confacente al lavoro artistico, abbastanza italiana d'aspetto da dare
all'ispirazione d'un poeta tutti gli aiuti esteriori che dovevan dare
Venezia, Napoli, Firenze, Roma; se non ci sentissi la monotonia.

— No — risposi — non c'è monotonia nella libertà. Qui sento la mente
libera. Mi par che il pensiero si dilati spaziando nelle vaste piazze
e vada più lontano lanciandosi per le vie lunghissime, per la grande
raggiera dei viali fuggenti da tutte le parti verso la campagna. Gli
edifizi non attirano lo sguardo; ma perciò appunto non lo distraggono
dalla grandezza del tutto e dalla bellezza della natura; si ritraggono
anzi di qua e di là per lasciar maggiore spazio al volo dell'occhio
e della mente verso le Alpi e la collina. In nessun'altra città si
vede tanto verde, tanto azzurro, tanta bianchezza; in nessun'altra
ha un riso così fresco e così splendido la primavera, che qui pare un
ricominciamento del mondo. E poi, essendosi in tanti anni trasformata
la città sotto i miei occhi, vedo ed amo sempre negli aspetti nuovi gli
aspetti scomparsi, m'avvolge un nuvolo di memorie a ogni passo, sento
mille voci di persone e di cose passate che mi chiamano, ribevo dei
sorsi d'aria della gioventù della patria e della mia. Godo qui delle
bellezze che non sono che per i miei occhi perchè le illumina e le
colora un raggio che esce dal mio cuore. Vedo in fondo a ogni strada
una città d'Italia e nelle rondini che volano attorno al palazzo Madama
le mie speranze fuggite, che cantano e mi salutano ancora.

Il giovane scrollò il capo. — E trova in armonia con la sua — domandò
ancora — anche l'indole degli abitanti? Non le riescono un po' freddi e
chiusi... un po' troppo nordici, come ho inteso dire?

— Non li può giudicare uno straniero, e neanche un italiano d'altre
province, se non vive qui da molti anni. La benevolenza è velata, il
cuore non s'apre e non si dà tutto di primo slancio; ma tutto quello
che dobbiamo conquistare ci è poi più caro quando è nostro. La cortesia
discreta, la promessa guardinga prevengono disinganni e amarezze, e
così nel buoni si trova sempre maggior bontà che non s'aspettasse.
I loro difetti sono negativi, incavi, non punte, e per questo non
feriscono. Le possono parer duri; ma per ciò lei li può afferrare e
tenere, e non le sgusciano di mano. V'è nell'affetto che gli occhi
esprimono e la bocca tace una dignità che ne raddoppia il valore. E chi
ha dei difetti opposti a queste virtù, e n'ha coscienza, ama la gente
che glie li comprime più di quella che glieli accarezza. Per questo io
son legato alla città anche dalla gratitudine; legato da tanti vincoli
del cuore, del pensiero e del sangue, che non potrei più vivere altrove
a nessun patto, neppure a quello di diventar ricco se fossi povero,
sano se fossi infermo, e di trovar cento nuovi amici se qui non mi
restasse un amico; e sono ben certo e m'è un conforto il pensare che
morirò qui.

Mentre dicevo quest'ultime parole, un signore, che m'era stato accanto
fino allora senza che lo vedessi nel viso, girò il capo adagio adagio
come una statua semovente, e mi fissò gli occhi negli occhi. Ah,
l'avevo conquistato finalmente! Capii a volo dal suo sguardo che la
critica di via Garibaldi e la lacerazione della _Gazzetta del popolo_
ed anche quelle matte teorie di socialismo municipale m'erano perdonati
per sempre. Il buon Bicchierino, il “controemarginato„ signor cavaliere
Bicchierino, impiegato modello di non so qual regia amministrazione,
il più puro e più geloso di tutti i torinesi nati e da nascere, era
intenerito, era vinto, era mio. Quando discese si toccò con la mano
l'ala del cilindro, e prima di perdersi nella nebbia rivolse verso il
tranvai un leggerissimo sorriso benigno, che mi tolse l'ultimo dubbio:
avevo un amico di più. Sia ringraziata Cuba! L'avvenimento era un buon
auspicio per una lieta fine dell'anno.

                                   *

Svanì la nebbia e splendette il sole, che ci parve di rivedere dopo una
notte di sette giorni. I tranvai ricominciavano a correre liberamente
per la città chiara e come ritinta di colori più vivi, dorata in ogni
parte da larghi sprazzi di luce, e fattorini e cocchieri, usciti da una
settimana di ansie e di fatiche penose, salutavano con un'allegrezza
di liberati dal carcere l'aria limpida in cui si drizzavano le Alpi
bianche nitidissime, che pareva si fossero avvicinate durante i giorni
dì cattivo tempo. A Porta Palazzo, dove aspettavo il tranvai della
barriera di Lanzo, verso l'ora della colazione, era una festa; da
tutti i carrozzoni che arrivavano da tutte le barriere saltavano giù
cocchieri e fattorini e, seduti sui montatoi, dentro al casotto dei
biglietti, sulle ceste rovesciate della verdura, facevano il loro
pasto, alternando con le bocconate fameliche apostrofi chiassose alle
erbivendole e ai colleghi arrivanti e partenti; e così incappottati
com'erano, con quei cuffioni e quei guanti enormi, in mezzo alla neve
della vasta piazza, dove qua e là ardevano dei fuochi, sarebbero parsi
una banda di cosacchi bivaccanti tra i carri della provianda durante
una fermata in mezzo alla steppa; se non avessero fatto una macchia
italianissima in quel quadretto russo i mucchi d'arance siciliane che
brillavano sui banchi in mezzo all'erba montanina e ai rami di alloro
annunciatori del Natale....

Salito sul mio tranvai, mi trovai daccanto sulla piattaforma il giovane
tipografo biondissimo, lo sposo novello, fresco e gaio come l'aria.
M'abbordò con Antonio Maceo, domandandomi se credevo che gl'insorti
cubani avrebbero proseguito la lotta non ostante la sua morte; ma io
m'accorsi bene che aveva qualcos'altro da dirmi, e indovinai ch'era
una lieta notizia, e ch'egli cercava un'entratura garbata per darmela.
Dopo qualche preambolo, infatti, smettendo a un tratto la serietà
politica, m'annunziò con una gioia visibilissima che forse... fra
qualche mese... se tutto andava bene... la causa socialista avrebbe
avuto un soldato di più. Restava soltanto a sapersi se sarebbe stato
un compagno o una compagna. Mi congratulai. E allora diede la stura a
un'allegrezza infantile. Fatti certi calcoli, egli s'era messo in capo
che dovesse nascere in Aprile, verso la metà, forse il giorno stesso
della nascita di Ferdinando Lassalle: data di buon augurio. In ogni
modo aveva già fissato, se era un maschio, di mettergli i tre nomi:
Ferdinando (Lassalle), Federico (Engels) e Carlo (Marx). E si diede una
fregatina alle mani. Poi tessè l'elogio della sua sposa. Oh, sempre,
sempre più contento. Forte ancora al lavoro, nonostante il suo stato,
buona e amorosa con la mamma di lui, e non punto mutata d'idee, come
tante altre, dopo il matrimonio. Era lei stessa che gli diceva: —
Ernesto, ricordati di non mancare alla riunione della tal sera.... Non
dimenticare di rinnovar l'abbonamento al giornale.... Mettiamo qualche
cosa anche noi per la _Cassa elettorale_.... — E appunto quella mattina
era lei che l'aveva sollecitato a portare i denari d'una piccola
colletta a un compagno disoccupato e malato, che abitava in borgo San
Salvario. Passavano la serata assieme a leggere dei volumi presi alla
biblioteca dell'_Associazione dei lavoratori del libro_; ma preferivano
gli opuscoli di propaganda, che compravano del proprio. Essa si
appassionava in special modo per la storia delle socialiste celebri:
Eleonora Aveling, Annie Besant, Severina. E in questi discorsi duravano
fino a tardi, fin che la mamma s'addormentava con la calza in mano.
Poi, all'improvviso, parendogli d'avermi parlato con troppa familiarità
dei fatti suoi, fece di nuovo il viso serio per domandarmi se credevo
alla voce corsa dello scioglimento prossimo di tutti i circoli
socialisti e di tutte le Camere di lavoro della Liguria; ma, vedendomi
sorridere, e insistendo io perchè mi riparlasse della sua famiglia,
che m'avrebbe fatto molto piacere, m'afferrò il braccio in segno di
gratitudine e ricominciò con maggior effusione. Sì, era felice, gli
era toccata la più buona e brava ragazza che potesse desiderare. Era
una così bella cosa andar d'accordo, essere uniti in quell'idea, avere
quella speranza comune. Qualche volta, quando sentivano insieme una
buona musica, senza bisogno di parlarsi, essi si commovevano tutti
e due fin quasi a piangere, pensando ai compagni degli altri paesi,
all'opera di tutti, all'avvenire, al loro bambino che avrebbe visto
un mondo migliore. Ed io alla mia volta, guardando quel bel giovane,
quel “nemico della famiglia„ così innamorato e felice, pensavo quanto
la famiglia lo nobilitava e gli dava forza, quanto era sano e fecondo
l'amore in lui, in quella prima giovinezza in cui il matrimonio appare
ancora alla più parte dei giovani della borghesia una cosa lontana,
una fine da farsi dopo molti anni d'amori vagabondi, dì seduzioni,
d'adulteri, un buon contratto per arrotondare il patrimonio o una buona
alleanza per affrettar la carriera; e mi confermavo nella fede che
fosse davvero un mutamento sociale benefico e santo quello per cui si
sarebbe diffuso nella gioventù un tale amore, data la famiglia a tutti
in quell'età, che ora non la vuole o non può averla per dure ragioni
d'interesse o per ignobili ragioni di convenienza. Mentre io facevo
queste riflessioni ed egli si disponeva a discendere, lo vidi mettere
alla lesta non so che cosa nella tasca d'un signore che ci stava
ritto davanti. Maravigliato, gli domandai spiegazione dell'atto. Egli
sorrise: era un opuscoletto di sesto minimo, intitolato _I calunniatori
del socialismo_, a cinque centesimi; egli soleva ficcarne così delle
copie nelle tasche dei borghesi, sui tranvai, senza farsi scorgere;
oh, non per convertirli, ci voleva altro; solamente per “chiarire le
loro idee„, per distruggere le leggende assurde che s'andavano formando
intorno al socialismo nella mente di molti, i quali finivano con
crederlo tutt'altra cosa da quello che è. — Arrivati a casa — disse —
leggono per curiosità, e forse si ricredono di qualche pregiudizio: è
sempre quel po' di guadagnato. — E mi raccontò che altri usavano quel
modo, di far entrar l'idea per la via delle tasche non potendo per la
via degli orecchi, e che n'aveva avuto il primo pensiero il falegname
di mia conoscenza, il quale seminava opuscoli in tutti i soprabiti,
senza grande spesa, essendoci su ogni centinaio il ribasso del quaranta
per cento. E accennandomi con una strizzata d'occhio il signore,
soggiunse: — Ne ho già serviti tre questa mattina, — e contento e
trionfante, come se avesse fatto tre conversioni, saltò giù in piazza
San Carlo, dove vidi allontanarsi e perdersi fra la gente la sua bella
testa bionda dorata dal sole.

                                   *

Ed ecco un altro sorriso sulla fronte del mio anno morente, un'altra
pagina lieta per l'ultimo capitolo, un altro uomo felice: il giovane
pittore che mi salta accanto sulla piattaforma, in via Garibaldi,
con una stella di montagna all'occhiello e con un viso rosato, che è
un annunzio di matrimonio in sembianza umana. Prevenni la sua parola
raccontandogli come l'annunzio mi fosse stato dato il mese avanti da
un'ondata di porpora che avevo visto salire alle guance d'una bella
signorina, l'ultimo giorno che c'eravamo incontrati. S'imporporò
un poco anche lui, e gli feci le mie congratulazioni: una creatura
angelica, che avevo mille volte ammirata, pensando sempre che sarebbe
stato fortunato il cittadino d'Italia su cui ella avesse racchiuso
le sue ali. Folgorò dagli occhi; ma si mantenne serio e mi fece un
discorso molto pacato. Si, era tutto fissato per il gennaio. Egli era
contento. Buona indole, carattere sodo, giudizio, istruzione, molto
affezionata a suo padre, un ex colonnello di fanteria, decorato di due
medaglie al valore: sarebbe stata certo un'ottima madre di famiglia
e sarebbero vissuti insieme di buon accordo. Ma io capii che quella
pacatezza di psicologo ragionatore era una delle solite imposture
d'innamorato; sotto a quelle parole compassate sentivo divampar
l'anima, ed ero ben certo che se anche ella non avesse avuto la “buona
indole„ e il “carattere sodo„ e “il padre decorato„ e tutte le belle
doti d'“un'ottima madre di famiglia„ egli l'avrebbe amata furiosamente
ad un modo e chiesta e voluta a tutti i costi. — Sa che è studentessa
di medicina? — mi domandò. Finsi di non saperlo, e gli chiesi celiando
s'egli le avrebbe lasciato continuar gli studi. — Ah, neppur per sogno!
— rispose con slancio, non ricordandosi l'apologia delle studentesse
che m'aveva fatto un giorno; ed io sentii nel suo accento una vampata
di gelosia otelliana, che abbracciava nelle sue spire tutta quanta la
Facoltà medica, e tutta la studentesca insieme, e tutta la clientela
possibile, non esclusi i malati di dentizione. Mi restava la curiosità
di sapere se proprio l'avesse conosciuta sul tranvai, come mi aveva
detto, e gli domandai anche questo. Ne rise di cuore: era stato così,
veramente, sulla linea di Ponte Isabella, gli ultimi giorni di maggio.
— Non si ricorda — mi disse — del fatto raccontato dai giornali in quei
giorni, d'un carrozzone della Belga che, sboccando sul corso Valentino,
urtò e rovesciò una vettura postale, gettando a terra il cocchiere, che
si ferì gravemente? — Non mi ricordavo. Ebbene, egli s'era trovato con
lei per la prima volta su quel carrozzone, e gli aveva “fatto senso„ il
veder lei, lei sola, mentre le altre signore strillavano o svenivano,
discendere ardita e tranquilla e accorrere in soccorso del caduto e
sollevargli da terra il capo insanguinato e posarselo sulle ginocchia
per asciugargli la ferita col fazzoletto. — Ecco una ragazza di polso
e di cuore! — aveva detto. Ed era rimasto ferito anche lui, ma d'una
ferita per cui il fazzoletto non serviva. Poi... l'aveva rivista. E a
poco a poco.... Ma sorvolò alle prime manifestazioni non corrisposte,
al periodo, che doveva esser stato abbastanza lungo, quando egli
inveiva contro le ragazze torinesi, figlie di Borea, fredde come le
Alpi, calcate tutte l'una sull'altra come figurine di carta, e saltò
subito a dire della conquista immediata, fulminea ch'ella aveva fatto
di suo padre, la prima volta che gliel'aveva indicata in tranvai. —
Già, fu proprio così — concluse — sulla linea di Ponte Isabella, in
un carrozzone chiuso della Società belga, che portava il numero 125.
— E non accorgendosi ch'io ridevo a sentirgli rammentare anche il
numero, tirò fuori il portafogli, e come avrebbe fatto della reliquia
d'un santo, ne cavò fuori con riguardo e mi mostrò lo scontrino bianco
di quella corsa memorabile, ancora intatto, come se fosse del giorno
stesso. — Così — disse col suo sorriso ingenuo — se un giorno mi farà
disperare, io le mostrerò lo scontrino, e le dirò: Ah, come ho speso
male i miei dieci centesimi! — Ma l'amore, la felicità che scintillava
sul suo buon viso di fanciullone erculeo smentivano l'apparente
sincerità di quella supposizione. E ripose accuratamente nel portafogli
il suo biglietto di partenza per il paradiso terrestre. Era felice, sì,
proprio. E me lo confermò lo sguardo e l'accento involontario di pietà
col quale, per cambiar discorso, mi domandò se procedeva il mio lavoro,
come domanderebbe un milionario a un parente povero se è bene avviata
una sua lite per un'eredità di qualche centinaia di lire; felice al
punto che, nel domandarmi ancora se nel mio libro ci sarebbe stato
anche lui, mi lasciò quasi comprendere che non gli sarebbe spiaciuto di
entrarci. Ma quando discesi mi salutò con un sorriso che mostrava già
il pensiero assai lontano da me: il _buona sera_ era per me; il sorriso
era già per la signorina del numero 125. Ma io avevo un mezzo permesso
di incastrare il suo romanzetto nella mia _Carrozza_, e me n'andai
soddisfatto della mia corsa.

                                   *

Un altro felice; ma non con soddisfazione mia; anzi un brutto momento
per me in un carrozzone caratteristico della vigilia di Natale, partito
da Porta Palazzo, pieno stipato di signore e di ragazzi carichi di
presepi, di Gesù bambini, di pastori, d'asini e di bovi, mezzo nascosti
fra i rami di mirto e di lauro, con giocattoli fra le braccia, scatole
di fichi sulle ginocchia e arance e melagrane nelle tasche e fra
le mani: un misto d'Arca di Noè, di boschetto e di dispensa, da cui
usciva un fremito e un trillìo confuso d'anime in festa. Davanti a
me, sulla piattaforma posteriore, c'eran due carabinieri, che davan
le spalle all'uscio; alla mia sinistra un gruppo di persone attempate
e gravi, che discorrevano amichevolmente del voto dato dalla Camera
alla lotteria per le Opere pie di Torino. Dopo aver ascoltato per
un po' i loro discorsi, tornando a guardare dentro al carrozzone,
incontrai lo sguardo di Guyot, seduto fra due presepi. Subito egli
voltò gli occhiali e il pizzo da un'altra parte, corrugando la fronte,
con l'espressione di chi torce lo sguardo da un serpente boa. Barbaro
Guyot! Non era pago della vendetta atroce di due mesi avanti; m'odiava
dunque a morte veramente; era proprio un nemico implacabile! E aspettai
che il suo sguardo si fissasse un'altra volta nel mio, risospinto
dall'odio stesso che glie lo faceva fuggire, per fargli comprendere con
uno sguardo che non m'eran rimaste nelle carni, com'egli forse credeva,
le sue frecce avvelenate, che godevo d'una buona salute ed ero ancora
in grado di far del male alla società. Ma invano. Non si voltò più.
La mia vista, pensai, è davvero per lui un supplizio insopportabile,
quando non mi debba guardare per torturarmi! E pazienza. Intanto salì
sulla piattaforma altra gente, forzando a cambiar di posto quelli che
già c'erano, e tutti insieme si rimescolarono, urtandosi e pigiandosi,
cercando ciascuno la posizione meno incomoda per tirare il respiro e
per resistere ai trabalzi. Cessato appena il serra serra, parecchi
discesero, fu un'altra volta visibile dalla piattaforma l'interno,
e quale non fu la mia maraviglia, riguardando dentro, al veder gli
occhi del mio nemico vaganti sulla mia persona con un leggero sorriso
che pareva di benevolenza! Doveva esser seguito un miracolo. Pensai
che, dopo il primo moto invincibile di repugnanza destatogli dal mio
aspetto, ripensando alla vendetta passata, egli avesse avuto un senso
di resipiscenza, un pentimento d'aver passato il segno, d'avermi
offeso troppo nel vivo, e volesse farmi capire che, se non pentito,
era appagato della rivalsa che s'era presa, e intendeva di desistere,
cominciando da quel giorno, dalle ostilità. Eppure, il suo sorriso
non diceva questo ben chiaro, era un sorriso ambiguo, c'era sotto un
barlume di compiacenza maligna. E, fissandolo, m'accorsi che il suo
sguardo sorridente oscillava su di me come un pendolo, oltrepassando
di qua e di là la mia persona. Che cos'era mai? Mi guardai a destra e a
sinistra.... Abbominevole furfante! Era seguito,

    come suole avvenir per alcun caso,

che i due carabinieri, separati dal rimescolio dei passeggieri salenti
e scendenti, avevan dovuto spostarsi, e dopo vari giri sopra sè stessi
s'eran ritrovati l'uno alla mia sinistra, l'altro alla mia destra, ed
io stavo in mezzo a loro come un arrestato. L'iniquo Guyot si deliziava
della vista di quel quadro. Il quadro gli rappresentava l'adempimento
d'un suo desiderio, l'attuazione d'una profezia, la mia fine meritata
e inevitabile, il vero posto che spettava a me nella società. Ed io
che m'ero illuso.... Ma quello che più mi irritò non fu la sua gioia
di quel momento: fu il pensare che avrebbe portata quella gioia a casa,
descritto il quadro in famiglia, esilarato gli amici al caffè; che quel
mio ammanettamento ideale sarebbe servito in gran parte — oh, senza
dubbio! — ad abbellirgli le feste di Natale. Fui tentato di scender
subito; ma mi rattenne un altro poco il pensiero ch'egli avrebbe goduto
anche di quella fuga, dicendo: — Eh, già, si capisce, si sentiva a
disagio... — Ma poi non ci potei più reggere, tirai il campanello e
lacerai il quadro saltando giù, dopo avergli lanciato un'occhiataccia,
che deve avergli fatto dire: — Che sguardo! Ha rivelato la sua vera
natura. E adesso? Chi sa? Quella gente lì è capace di tutto....

                                   *

Ma fu questa la sola brutta avventura ch'io ebbi in quell'ultimo mese.

La mattina di Natale, rallegrata dal sole, i tranvai riboccavano
di signore impellicciate, di bimbe con grosse bambole dai riccioli
biondi strette contro al petto, di signori che portavano a casa la
ghiottoneria supplementare per il pranzo, di bottegaie in gala e
d'operai con la barba fatta; tutte faccie serene e vivaci; con le
quali non contrastavano che quelle rannuvolate dei cocchieri e dei
fattorini, tristi o stizziti della rude giornata di lavoro che si
vedevan davanti, incominciata per loro al lume delle stelle e destinata
a finire fra chiassi e prepotenze d'ubbriachi, dopo quattro bocconi
ingozzati alla disperata. Ah, le feste solenni, per quanta gente sono
terribili! Salito in piazza Carlo Felice per andare in piazza Statuto,
mi parve di ritrovarmi sullo stesso carrozzone in cui avevo fatto
la stessa corsa il primo giorno dell'anno: era un continuo salire
e discendere di signori e di signore, uno scambio di scappellate e
d'inchini, un baratto di sorrisi e di cerimonie, come in una sala di
ricevimento. Per un tratto, da piazza San Carlo a piazza Castello,
il tranvai fu tutto signorile: tutto penne di struzzo, manicotti
di martora, luccichìo di braccialetti e di spille, di libretti da
messa e di borse di confetti, tutto eleganza, complimenti e profumi.
Quanti eran là dentro che pensavano al “fanciul celeste„ nato fra
un asino e un bue mille e ottocento novantasei anni avanti, e alle
parole ch'egli aveva dette al mondo: _quod superest date pauperibus?_
Ahimè! Il bambino voleva dir per l'uno il principio del carnevale, per
l'altro l'apertura del Teatro Regio, per questo una festa chiassosa
in famiglia, per quello una strenna splendida; e i soli altari su cui
molti altri l'adorassero erano le lucide vetrine di bottega dinanzi
a cui correva il tranvai rapidamente, piene di capponi, d'aragoste
e di gelatine. In non uno forse di quei mille battezzati che vedevo
passare si formava il proposito di mutare, cominciando da quel giorno,
pensieri e consuetudini dell'animo, di esser buono, giusto, sincero,
umile, di amar tutti e di perdonar sempre come il maestro sublime di
cui ricorreva il dì natalizio. E studiavo appunto a uno a uno tutti
quei visi che non spiravano altro che compiacenza del lusso, vaghezza
di attirar gli sguardi e desiderio e aspettazione di piaceri mondani,
quando, in piazza Castello, salì una coppia coniugale, che, non
trovando più posto dentro, si piantò in faccia a me sulla piattaforma.
Era la supposta moglie dell'impiegato postale, la _nostra capitanessa_,
come dice il Ferravilla nel _Calzolar di donn_, stretta al braccio
d'un placido ometto di quarant'anni, suo marito senz'alcun dubbio,
che sorrideva vagamente con gli occhi socchiusi, come compiacendosi
dell'abbandono di ragazza innamorata con cui gli si lasciava andare
addosso la sua graziosa donnina. Il capitano era dimenticato! E se
quella dolcezza amorosa di lei non derivava dalla successione d'un
tenente, significava un ritorno del cuore pentito e spoetizzato della
colpa al sano affetto matrimoniale, alla modesta ma salda felicità
circoscritta dallo sportello delle lettere raccomandate. E me ne
rallegrai, anche perchè potevo così chiudere in forma edificante nel
mio libro la storia della sua avventura. Un momento essa mi guardò,
e parve che mi riconoscesse, ricordandosi forse del giorno che lei e
l'altro mi volevan mettere fuori del carrozzone. Vidi passare un'ombra
sul suo viso.... Ma che aveva a temere? Ch'io le preparassi il tiro che
le faccio per le stampe non se lo poteva sognare. Infatti, si rinfrancò
subito e si strinse più forte al marito, che questa volta chiuse gli
occhi affatto, con un sorriso più soave. _Dormi, fanciul celeste._

                                   *

Dopo il Natale passarono alcuni giorni senza ch'io vedessi più
alcuno. Pareva che i miei personaggi m'avessero già tutti abbandonato
e fossero scomparsi nella nebbia che tornava ad avvolgere la città,
umida e densa, nascondendo ogni cosa. Solo il terzultimo giorno ne
ritrovai due nel carrozzone del Martinetto, in via Garibaldi, sotto un
raggio fuggitivo di sole. Stando sulla piattaforma, un po' a sinistra
dell'uscio, vidi dentro, di profilo, la sposa del borgo San Donato, col
capo inclinato dalla parte opposta alla mia, nell'atto della Madonna
della Seggiola. Mi passò un'idea. Sporsi il capo.... Ebbene, non
credevo d'aver messo tanto affetto a quei due poveri esseri. Fu una
vera gioia quella che sentii. Essa teneva sur un braccio un bambino
in fasce. Alla sua destra, in fondo, sedeva suo marito. Ma era lei
veramente? Aveva nell'atteggiamento del capo e del busto tutta la
grazia che può dare la maternità a un corpo infelice; nel viso una
luce nuova, come la coscienza altera e forte d'essere una creatura
necessaria e sacra a un'altra creatura, e gli occhi più grandi e più
dolci, con l'intensità di sguardo di chi fissa un orizzonte, come se
in quegli altri due piccoli occhi in cui fissava i suoi ella vedesse
come per due spiragli un mondo misterioso e lontano. Era venuto dunque
l'aspettato, la grande consolazione dell'iniquità della natura e della
sorte, la cara speranza di tutti i giorni e di tutte le ore, quello
che la poneva in alto come una regina e le ingrandiva la vita come il
concetto d'un'impresa eroica! E proprio in quel punto parve ch'egli
rispondesse: — Sì, son venuto! — con una voce acuta e imperiosa, che
era segno d'un corpicino sano e gagliardo. Essa sorrise, si guardò
intorno con aria timida, interrogò con lo sguardo suo marito, e con
una mano in cui si vedeva la titubanza, arrossendo leggermente, fece
sguisciar due bottoni dagli occhielli del petto; poi, con un atto
risoluto e pudico insieme, che porgeva e nascondeva ad un tempo, appagò
la boccuccia avida, che subito tacque, per bere la vita. Allora essa
rialzò il viso rosato e trionfante. Ah santa maternità! In parola
d'onore, era bella. E il povero giovane guardava quel visetto enfiato
dallo sforzo del succhiare con un occhio fisso e amoroso, che pareva
dirgli: — Bevi, bambino; piglia da lei col latte l'anima bella, l'amor
del lavoro, la rassegnazione alla povertà, il coraggio, la dolcezza, la
forza; succhia la vita della mia sposa, e sarai buono e onesto; bevi
l'anima di tua madre, e sarai la nostra ricchezza e la nostra gloria!
— E in quell'atto li lasciai, mandando un buon augurio a tutti e due,
e uno al nuovo personaggio, che avevo amato io pure, di cui ero stato
padrino in cuor mio prima che nascesse, e che sarebbe stato un ricordo
gentile di tutta la mia vita.

                                   *

Ed eccoci all'ultimo giorno, che per me fu solenne. Uscito verso
sera dalla direzione della Società Torinese e attraversata la piazza
solitaria della barriera di Nizza, salii sul carrozzone della linea di
piazza Castello, qualche minuto avanti che partisse. I lampioni della
barriera rompevano appena la nebbia fittissima, in cui si movevano
come larve fattorini, cocchieri e guardie daziarie, espandendo in risa
e in facezie l'allegria bevuta dai liquoristi vicini per festeggiare
la fin dell'anno. Mi parve di riconoscere tra quelle voci i grugniti
di Tempesta; ma li coperse subito il canto squarciato d'una brigata
di beoni, uscenti da un'osteria della piazza, di cui non appariva
che la lanterna vermiglia. Quando il carrozzone partì, io ero solo
dentro, in un angolo. Era l'ora in cui sono affollati tutti i tranvai
che vanno ai sobborghi e quasi vuoti affatto quelli che vanno dalla
cinta al centro di Torino. Avrei potuto allungarmi sui cuscini della
_Torinese_ e dormire tranquillamente; ma nonostante la stanchezza che
m'aveva lasciata una notte insonne e una giornata di corse, non mi
riuscì nemmeno d'assopirmi un po': mi distraeva la vista della strada
nebbiosa, dove la fuga dei caffè sconosciuti e delle imboccature di
strade che non riconoscevo e i larghi vani oscuri delle interruzioni
del fabbricato, nei quali indovinavo la campagna dai lumi lontani, mi
davano l'illusione d'entrare in una grande città straniera. Era quella
l'ultima mia corsa dell'anno. Al pensarci, seguiva nella mia mente, per
effetto dell'intento unico che in tutto quell'anno m'aveva guidato,
una confusione di immagini singolarissima: si legavano i ricordi di
tutte le corse, come se queste non fossero state interrotte dalle altre
mille occupazioni della mia vita, e mi pareva d'aver fatto un viaggio
continuo, a traverso alle quattro stagioni, di giorno e di notte,
scendendo da un carrozzone per salire in un altro, andando avanti e
indietro senza posa per tutte le vie, come se non avessi avuto altro
domicilio che la carrozza di tutti. E tutte le persone, le scene,
gl'incontri, gli accidenti che m'erano occorsi su quelle tavole mobili
mi si affollavano alla memoria, distinti dagli altri avvenimenti della
mia esistenza, come se questi avessero riguardato un altro me stesso,
come se per un anno fosse stata separata nella mia esistenza e nei miei
interessi l'umanità corrente sulle rotaie da quella che avevo visto e
praticato fuori delle linee dei tranvai.

Ma, forse a cagione della solitudine e della stanchezza, e anche
del tempo uggioso, erano le persone e le scene più tristi quelle che
m'apparivano più vive. Lontano, come dentro alla nebbia, passavano
le coppie amoreggianti sulle giardiniere domenicali, gli erotici
appiccicati alle signore, le maschere del martedì grasso, le brigate
brille, le teste tinte, le passeggiere saltatrici, una confusione
bizzarra di monache e d'avventuriere, di contesse e d'erbivendole,
di balione fiorenti e di zitellone malinconiche, di magistrati, di
carabinieri e di “sovvertitori„; passavano e svanivano. Ma vicino,
immobili, e come sotto il lume del carrozzone, vedevo l'angoscia
della vecchia madre singhiozzante alla visione di Abba-Garima, la
disperazione cupa di Taddeo e Veneranda fulminati dalla morte della
loro creatura, il carro funebre del buon veterano che attraversava la
strada al tranvai, e il cadaverino sanguinoso del bimbo schiacciato,
e il finto sonno miserando della vecchia meretrice trafitta dagli
sguardi dell'innocenza coronata di fiori. Quanti dolori, quante miserie
anche in quelle poche gabbie volanti, dove pure i dolori e le miserie
maggiori non salgono! Ruppero un momento quella tristezza, passando a
braccetto, il pittore e la “vergine morta„, il tipografo biondo e la
sua compagna, e gli sposi di borgo San Donato, felici. E poi un'altra
ondata di gente dolorosa mi passò davanti: la povera donna sformata dal
cancro, la tisica schiantata dalla tosse, la mamma angosciata della
corona mortuaria troppo povera, e il fattorino percosso a sangue, e
tutti i suoi compagni intirizziti, fradici, rotti dalla stanchezza, che
mostravan negli occhi velati il tormento del sonno e il terrore della
multa, e in mezzo a loro il mio buon camerata della Scuola di Modena,
nella sua uniforme di controllore, che mi faceva un cenno triste di
saluto....

Mi ruppe il corso di questi pensieri una brusca fermata. Dov'eravamo?
Riconobbi vagamente piazza Nizza a traverso al velo della nebbia.
Alcune persone salirono. Il tranvai si rimise in moto e io mi rituffai
nei ricordi.

Miserie, sventure, dolori. Ed anche quante tristizie, quante viltà,
quante vergogne! Ma qui seguiva una lotta nell'animo mio. Dietro la
faccia bestiale di Tempesta martirizzatore dei cavalli s'alzava il viso
onesto e buono di Giors, che mi diceva sorridendo: — Hai conosciuto
me solo; ma ci sono molti altri Giors, te lo assicuro. — Mi sorgeva
davanti Desbottonass, abbrutito e inferocito dall'alcool, e dietro
a lui una schiera d'altri briaconi suoi pari; ma subito si cacciava
tra me e la sua immagine l'operaio lattoniere, che mi accennava una
folla d'amici suoi, ai quali brillava sulla fronte, come a lui, una
dignità nuova, il raggio della vita intellettuale, l'ardore d'un
santo e infaticabile apostolato di civiltà, d'amor fraterno e di
pace. Mi veniva innanzi uno stuolo di signore e di signori orgogliosi,
sdegnosi del contatto del popolo e spiranti in ogni atto un disprezzo
insultatore della miseria e provocatore dell'odio; ma al momento
stesso lo stuolo s'apriva per lasciarmi vedere la dolce signorina
bionda, intenerita e altera di sorregger con la spalla la testa
grigia del vecchio muratore svenuto. Mi rivedevo di fronte il ricco
egoista ed esoso, incredulo della fame, calunniatore della povertà,
lesinatore arrabbiato del centesimo; ma m'appariva accanto a lui la
buona famiglia borghese, impietosita dal dramma, che accarezzava il
visetto nero e ficcava il gruzzolo in tasca allo spazzacamino. Mi si
rizzava in faccia la persona tronfia di Tintura Migone, il negriere
fallito, insolente con gli umili, prepotente coi deboli, aborritore
dei bambini; ma spuntava al di sopra dei suo capo il viso ardente,
copriva il suo brontolìo la santa voce di donna Chisciotta, che mi
diceva: — Ci son io, e valgo io sola un esercito di costoro! — Poi da
capo m'avvolgeva una folla di superbi, di sordidi, di depravati, di
vili, che mi schernivano e mi dicevano: — Che cosa sogni, imbecille!
Il mondo siamo noi —; e un'altra volta accorrevano donna Chisciotta e
Giors e la signorina bionda e il lattoniere e gli sposi di San Donato
e il tipografo dalla testa d'oro, e mi dicevano tutti insieme: — No,
quelli non sono il mondo come non sono il cielo le nubi nere, se anche
lo coprano intero. Spera in noi, credi in noi, confortati in noi;
noi siamo le avanguardie d'un'umanità bella; noi abbiamo l'avvenire
sulla fronte e la vittoria nel cuore; sarà nostro il regno del
mondo.... —

Fui un'altra volta interrotto; il tranvai si fermò; riconobbi nella
nebbia l'obelisco dei ribelli del 1821: eravamo in piazza San Salvario;
salirono altri passeggieri; si ripartì.

Allora la stanchezza mi vinse, chiusi gli occhi, mi sentii salire
il sonno al cervello, e rimasi non so quanto in uno stato come di
dormiveglia febbrile, agitato da immagini vivacissime. Vedevo a
traverso ai vetri del carrozzone la strada rischiarata da torrenti di
luce bianca, corsa da una moltitudine fitta di carrozzoni luminosi e
di enormi carri sovraccarichi, non più tratti da cavalli, di carrozze
d'ogni grandezza e d'ogni forma, mosse da una forza occulta, che
s'incrociavano e s'incalzavano rapidissimi, come nella previsione
confusa del vecchio fabbro, amico del lattoniere; e pensando al
tempo in cui le vie risonavano di schiocchi di frusta e di grida di
carrettieri e di cocchieri, mi pareva che fosse un tempo remotissimo,
del quale serbassi appena la memoria. Guardavo il tranvai che mi
portava, ampio e elegante come una sala, e la gente che lo riempiva
mi pareva anch'essa mutata. Erano diversamente vestiti; ma non più con
grandi differenze, come se i signori e i poveri si fossero ravvicinati,
quelli discendendo e questi salendo a una mediocrità decorosa; e non
vedevo più nei modi un contrasto di volgarità e di gentilezza, ma
una garbatezza uniforme, meno manierata della presente, una cortesia
dignitosa e semplice, senz'alcun indizio di ostentazione o di sforzo. E
alcune cose mi riuscivano strane e mi facevan pensare. Due passeggieri
in faccia a me discorrevano d'amministrazione comunale, e mi stupivo
che parlassero così familiarmente, vedendo che l'uno aveva le mani
delicate e bianche e l'altro due grosse mani brune di lavoratore, e
più sentendo che il primo diceva: — Quando apersi la seduta.... — e
che l'altro gli faceva in accento di rimostranza delle osservazioni
a cui egli prestava un'attenzione viva e rispettosa, come da pari a
pari; e mi sembrava d'aver visto quei due visi lungo tempo addietro,
come nei primi anni della mia infanzia. Così non mi riusciva nuovo
il viso del conduttore in bella divisa, che ogni tanto vedevo di
profilo sulla piattaforma, nell'atto d'avvertire garbatamente quei
che scendevano di badarsi dalle carrozze che passavano; e mi destava
una vaga reminiscenza l'aspetto d'un ragazzino seduto in un angolo,
con un fascio di libri sotto il braccio, lindo e sorridente; e
domandai a me stesso: — Dove ho visto costui? — vedendo un operaio
che smise di leggere il giornale e s'alzò rispettosamente per cedere
il posto a una vecchietta ben messa, che entrava salutando tutti con
un sorriso, e che mi fece anch'essa l'impressione d'una conoscenza
antica, ma dimenticata da molt'anni. Poi, a poco a poco, spuntò nella
mia memoria come un raggio, che rischiarò quei visi l'un dopo l'altro.
Nei due che parlavano degli affari del Comune riconobbi il sindaco
di Torino e il falegname propagandista, il conduttore era Tempesta
rincivilito, il ragazzo era lo spazzacamino redento, l'operaio del
giornale, Desbottonass, rigenerato, e la vecchietta ultima entrata, la
madre del soldato, rifatta. E quel contrasto fra le immagini antiche
e quella novità degli abiti, dei modi, degli sguardi, degli accenti,
che rispondeva a una mia vaga e ardente speranza del tempo passato,
quando a sperar quelle cose s'andava in carcere, mi riempiva il cuore
d'una dolcezza inesprimibile, d'una gioia che mi mandava agli occhi
le lacrime. E avevo bisogno di sfogarmi, di far festa con gli altri,
di gridare: — Non era dunque un sogno, no! Com'è bello! E come s'è
potuto credere un sogno? — e stavo per fare il mio sfogo con uno
sconosciuto mio vicino, quando questi mi prevenne afferrandomi una mano
e sciamando: — No, non era un sogno; ed è bello, sì; e come ho potuto
creder questo una follia scellerata? — Mi voltai, vidi due occhiali e
una barba a pizzo: era Guyot!

Ma la mia esclamazione di maraviglia e il sogno con essa furono rotti
da un _alt_ vigoroso, che risonò nel tranvai, e che mi svegliò come
un pugno. Apersi gli occhi e riconobbi nella nebbia il corso Vittorio
Emanuele, dove avevo da scendere per andar a pigliare il tranvai di
corso Vinzaglio, che m'avrebbe portato in piazza Statuto. Trovai a
stento un po' di posto sulla piattaforma davanti affollata, dove
salirono ancora, all'imboccatura di via Roma, altri due; uno dei
quali rimase sul predellino, in barba al regolamento, con una gamba
spenzoloni, come un acrobata sopra un trapezio.

Eran tutti cappottoni di buon panno, tube lustre, “risotti„ freschi,
baffi arricciati, caramelle luccicanti, tutta gente per bene, eccitata
dal pensiero allegro della cena di mezzanotte, e anche dal solo
pensiero della fin dell'anno; chi sa perchè? e ridevano di quel pigia
pigia, cacciandosi a vicenda dei nuvoli di fumo nel naso, negli orecchi
e nella nuca, e domandandosi scusa l'un con l'altro delle fiancate
e delle pestate di calli, con una familiarità da veglione. Di tratto
in tratto il tranvai si fermava per lasciar discendere o salire una
signora; e allora raddoppiava il buon umore e il chiasso, dovendo
saltar giù quattro o cinque per aprirle il passaggio, e sforzandosi
gli altri per far rientrare i petti e le pancie; non tanto però da non
sentire il contatto morbido dei mantelli e dei manicotti e i profumi
delicati delle capigliature, che facevano scintillare gli occhi e
dilatare le nari. E così si percorse il primo tratto di via Roma,
si passò accanto a Emanuele Filiberto grandeggiante nella nebbia e
s'infilò la strada tra piazza San Carlo e Piazza Castello. Qui, per
lasciar passare un grosso signore che scendeva, girai sui talloni e
mi trovai davanti, quasi a naso contro naso, nella piena luce d'una
lampada elettrica, _Siapure_; il quale aperse gli occhi e la bocca con
quella particolare espressione di brusco stupore che suol provocare
l'apparizione inaspettata d'un nemico, e che io sentii riflessa nello
stesso punto sul mio viso. Fu un momento solo, che mi bastò a dir tra
me: — Tocca a lui, poichè lo mandai a salutare dalla figliuola, — e
un impulso brutale dell'orgoglio mi fece girar di nuovo su me stesso,
voltandogli le spalle; pentito dell'atto, peraltro, avanti che fosse
compiuto. — Ah, impostore! Non era dunque sincero il saluto alla bimba
se non hai osato di ripeterlo al padre! — Ma era troppo tardi, dopo
quell'atto. — È finita, dunque, — pensai — fuggita quest'occasione, non
se ne offrirà un'altra mai più; resteremo nemici per sempre! O miseria
dell'anima mia!

— Edmondo, — sentii dire in quel punto da quella voce, che da tanti
anni non avevo più intesa.

E allora mi voltai di scatto, gli misi un braccio intorno al collo
e lo baciai sul viso; egli fece l'atto stesso, e mi rese il bacio. E
restammo un momento così, col respiro oppresso, senza poter parlare.
C'era lì sulla piattaforma il controllore colosso, l'ex carabiniere,
che ci lanciò un'occhiata severa, non parendogli forse regolare
una scena simile sopra un tranvai in servizio. Ma Siapure non se ne
accorse; aveva gli occhi umidi, il mio buon Siapure. Mi strinse ancora
una mano fra le sue; poi diè uno strappo alla correggia del campanello,
dovendo scendere.

— Voglio rivederti domani, — gli dissi.

— Verrò da te con la bimba, — rispose.

E discese. Sentii una grande contentezza; ma fu breve, chè subito vi
succedette un sentimento amaro di commiserazione per me stesso. O Dio
buono! E c'eran voluti tanti anni per fare una cosa così semplice, così
ragionevole, così buona per tutti e due!

Ma mi distrasse Giors, al quale mi trovai daccanto, essendo scesi
tutti gli altri in via Garibaldi. Era allegro; gli piaceva la nebbia,
che secondo non so quale sua teoria fisiologica “rinforza l'uomo„
e lo stuzzicava la vista dei buoni bocconi esposti nelle vetrine
illuminate dei salumai. Mi parlò con molte esclamazioni ammirative d'un
tacchino in gelatina che aveva visto in via Roma. Ah, sacrista! che bel
bestione! che maraviglia! una rotondità di mappamondo di cavalla, una
bianchezza di latte dentro a quell'oro, tre chilogrammi di ben di dio,
una tentazione che non se la poteva levar dalla mente, che gli ballava
davanti agli occhi per la strada, e la bocca gli faceva acqua come
una fontana. E rideva, dicendo questo, e faceva la gobba come se quel
ben di dio l'aspettasse alla barriera di Francia, sul piccolo desco
dei lupicini; al quale nemmen quella sera, pover'uomo, non si sarebbe
potuto sedere. Ma troncò quel discorso per fare i suoi complimenti
a una giovine bambinaia che salì sulla piattaforma, con una bellezza
di bimba in braccio, d'un anno al più, bionda come il sole, colorita
come una pesca, vestita d'una cappottina azzurra elegantissima, tutta
guernita di pelo bianco sopraffino, che le faceva come una corona di
gelsomini intorno al viso incappucciato. Giors si voltò indietro per
aprir l'uscio; ma la ragazza gli accennò di no, che non s'incomodasse:
la bimba era capricciosa, non voleva star dentro ai carrozzoni; guai a
portarcela; le piaceva star sul davanti a veder correre i cavalli; non
era ancor di sei mesi, che già aveva manifestato risolutamente quella
volontà. E detto questo, rimase accanto a lui, tenendo la bimba su,
col capo all'altezza del suo, tanto accosto che quasi si toccavano.
La vicinanza di quella bimba eccitò Giors fuor di modo. Diede in una
risata enorme. — Ah, la bella _totina_! Lei vuol star fuori, vuol
stare; vuol star qui accanto a Giors; non ha mica paura dei suoi
grossi baffi da spaventapasseri. Ah, che amore di creatura! È l'amica
dei cocchieri, lei. Ecco una signorina che sa stare al mondo! — E
chinando il viso verso di lei, godeva a far scorrere la guancia sulla
guarnizione bianca e morbida del suo cappuccio, e rideva, esclamava,
la guardava negli occhi con la dolcezza d'un padre e l'allegria d'un
fanciullo.

Non m'era mai parso tanto buono come mi parve in quel momento, mai
tanto retto e sano il suo sentimento della vita; mai non avevo compreso
così chiaramente da quali pure e profonde sorgenti di bontà innata
derivasse la sua allegrezza, il suo coraggio, la sua energia al lavoro,
l'amabile e forte serenità della sua anima onesta.

— Ah, la mia bella _totina_! — continuò a esclamare. — Guardate che
begli occhietti azzurri e che botton di rosa d'una bocca! Che pan di
burro! Ecco una ragazza che troverà marito anche senza dote! Parola
d'onore, se non n'avessi già tre, ne vorrei aver una compagna....

Ed eravamo già in piazza Statuto, tutta grigia di nebbia, ch'egli
seguitava a fare le sue dichiarazioni d'amore. Lo pregai di fermare;
fermò, e mi disse con la sua voce cordiale: — Buon anno, monsù!

— Buon anno, Giors! — gli risposi.

Egli parve colpito dall'accento con cui gli feci quel saluto. Mi
guardò, e poi mi rispose la parola che da molto tempo ripeto sempre,
e che mi pare la più dolce e la più sapiente delle parole umane: —
Speriamo!

Sì, mio buon Giors: speriamo!


  FINE.



INDICE


CAPITOLO PRIMO

(pag. 1 a 30).

                                                         _Gennaio._

  La prima idea del libro. — I due amanti di Borgo S. Donato. —
  La nevicata. — Giors il cocchiere. — Il dilettante di tranvai.
  — Cocchieri e fattorini. — La vecchia di Pozzo di Strada. —
  La _vergine morta_. — Il mio nemico. — Il fattorino Carlin e
  la politica africana. — H cavaliere Bicchierino. — Studi sui
  passeggieri. — L'ultimo impulso. — I due bambini.

CAPITOLO SECONDO

(pag. 31 a 79).

                                                        _Febbraio._

  Il pittore e i gelosi. — La linea di Nizza. — Il cocchiere
  Tempesta. — Lei, voi e tu. — I prepotenti. — Carlin. — Gli sposi
  inglesi. — I cavalli. — Hop! hop! — Una corsa fortunata. — Il
  poeta. — Siapure. — Politica brilla. — Ah! che politicon! — Le
  giardiniere. — Il biciclista e la _vergine morta_. — La donnina
  intrepida. — Il carnevale. — La vecchietta addolorata. Agitazione
  elettorale. — Il falegname socialista.

CAPITOLO TERZO

(pag. 80 a 112).

                                                           _Marzo._

  Abba Garima. — La mente di Carlin. — Il veterano e il suo cane. —
  Sposi! — Un convegno sul tranvai. — Il bel capitano. — La linea del
  Valentino. — La linea di Borgo Nuovo. — Chisciottina. — Il pittore
  che cerca moglie. — L'invasione della _réclame_. — Giors e la madre
  del soldato. — La madre del soldato. — Prime aure di primavera. —
  Le comunicande.

CAPITOLO QUARTO

(pag. 113 a 155).

                                                          _Aprile._

  _Il cocchiere marchese._ — La studentessa di medicina. — Il buon
  travet. — I tranvai della domenica. — Tintura-Migone. — Taddeo e
  Veneranda. — Desbottonass. — Tempesta affamato. — Tempesta punito.
  — Il cuore di Giors. — I liberati dal carcere. — Una disgrazia. —
  Quistione di colori. — Mancanza di pudor sociale. — La civetta. —
  Caramella rifiutata. — Passaggio d'ammanettati. — Il lattoniere e
  il capomastro. — Guyot. Macchiette varie. — A che ora, stasera?

CAPITOLO QUINTO

(pag. 156 a 193).

                                                          _Maggio._

  _Primo Maggio._ — Il tipografo biondo. — Una per uno. — Discorsi
  intesi a frullo. — Il mercato. — Il capitano e la signora. — Il
  veterano felice. — Il mio piccolo raccomandato. — La protettrice
  del cocchiere. — Donna Chisciotta trionfante. — Gelosia coniugale.
  — Il pittore, avvocato delle studentesse. — Il terzo aspettato. —
  La questua per i prigionieri. — Il fattorino bastonato. — L'operaio
  ubbriaco. — Il litro e la bottiglia. — Simpatie. — L'incontro dei
  due amanti.

CAPITOLO SESTO

(pag. 194 a 242).

                                                          _Giugno._

  Le teste del prossimo. — I cappellini delle signore. —
  Inconvenienti dei tranvai. — La festa dello Statuto. — I primi
  calori. — La signora e l'erbivendolo. — Le tre coppie. — Una
  corsa tempestosa. — L'amante del _marchese_. — Uno scandalo. —
  La punizione del tiranno. — Il falegname e la studentessa. — La
  colazione di Giors. — Per la _Torinese_ e per la _Belga_. — Il
  malato. — Personaggi comici. — Il fattorino dantista. — La piccola
  convalescente. — Avanti! — La bambina di _Siapure_. _Desbottonass_
  intenerito.

CAPITOLO SETTIMO

(pag. 243 a 281).

                                                          _Luglio._

  Gli esami. — L'uscita dai teatri. — Il terzo incomodo. — Quadretti
  di Torino. — Effetti del cattivo tempo. — Eterno femminino. — Le
  malinconie del pittore. — Le figlie di Borea. — Visi antipatici.
  — Il reduce dall'Affrica. — I sette peccati capitali. — Il
  fattorino conte. — La fuga delle botteghe e degli annunzi. —
  Carlin e l'amore. — Amor materno. — Gratitudine briaca. — _Vado
  alla direzione!_ — Visioni dell'avvenire. — Aria e acqua. —
  Scoraggiamento e speranza.

CAPITOLO OTTAVO

(pag. 282 a 319).

                                                          _Agosto._

  Grulli ed ingenui. — Il tranvai nuziale. — Il ritratto della
  principessa. — La mano della _vergine_. — Il peccato e l'innocenza.
  — Precetti utili. — Fra due fuochi. — L'amore muto. — L'inseguita.
  — Il tipografo sposo. — Il cocchiere ferito. — Al ladro! — La
  moglie di Giors. — Vecchie conoscenze. — Bicchierino in licenza. —
  Bicchierino e lo sciopero. — Il muratore svenuto. — I tranvai e la
  pinguedine.

CAPITOLO NONO

(pag. 320 a 360).

                                                       _Settembre._

  I reduci dalla campagna. — Il trionfo della bimba di Taddeo. — Il
  pittore innamorato. — La _colonia alpina_ di donna Chisciotta.
  — Gli sbeffatori dei villeggianti. — Il veterano felice. — La
  _musoneria settembrina_. — Alla barriera di Lanzo. — L'ubbriaco e
  il dantista. — I passeggieri solitari. — Confusione d'idee. — Le
  vecchie dell'Ospizio. — Il falegname e l'albero. — Le biciclette.
  — La famiglia di Tempesta. — I ribelli al Galateo. — Fra conte e
  borghese. — _Suor Teresa._ — Amore morto. — Notte estiva. — _Saluta
  tuo padre._

CAPITOLO DECIMO

(pag. 361 a 394).

                                                         _Ottobre._

  Il controllore colosso. — La povera vecchia. — Giors e le ostriche.
  — Un biglietto di cento lire. — Il pretino forestiere. — Galileo
  Ferraris. — Fenomeni d'elettricità erotica. — I saltatori — Il
  cav. Bicchierino e il socialismo municipale. — La bugiarderia.
  — La vendetta di Guyot. — Le foglie secche. — La linea del ponte
  Isabella. — Pensieri d'autunno. — L'amico della scuola di Modena. —
  Busse in tranvai. — L'operaio della caramella e il suo bimbo.

CAPITOLO UNDECIMO

(pag. 395 a 431).

                                                        _Novembre._

  Il giorno dei santi. — Il giorno dei morti. — Una moribonda. —
  L'ultima uscita del veterano. — Il poeta umiliato. — Desbottonass,
  finito! — Giacolin ritorna. — La vecchia ringiovanita. — _Bambino
  e belva._ — La donna con la maschera. — L'ultima apparizione di
  Chisciottina. — L'uomo spauracchio. — Una bella torinese. — Gli
  effetti d'un dramma. — La _vergine morta_ fidanzata. — Il segreto
  del pittore. — La bimba è morta.

CAPITOLO DODICESIMO

(pag. 432 a 472).

                                                        _Dicembre._

  Tempesta nella neve. — L'ultima sfuriata di Carlin. — _Siamo
  in troppi!_ — Il sindaco incognito. — Torino nella nebbia. — I
  Torinesi. — Gli sposi socialisti. — Considerazioni sul matrimonio.
  — La propaganda per le tasche. — Come s'innamorò il pittore.
  — Fra due carabinieri. — Il giorno di Natale. — È venuto! —
  L'ultima corsa. — Una visione. — Un sogno. — Il risveglio. — La
  riconciliazione. — Buon anno!



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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