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Title: I Tre Giulj - o sieno Sonetti di Niceste Abideno sopra l'Importunità di - un Creditor di Tre Giulj
Author: Casti, Giovanni Battista
Language: Italian
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                              I TRE GIULJ


                                O SIENO

                                SONETTI
                        DI NICESTE ABIDENO P. A.

                                 SOPRA
                      L'Importunità di un Creditor
                             di Tre Giulj.

             _Edizione Novissima con Aggiunta dell'Indice._



                               IN VITERBO
                               _MDCCLXIX_
                       PER DOMENICO ANTONIO ZENTI
                      _CON LICENZA DE' SUPERIORI._



_Al Sig. Abate Giambattista Luciani_


  AMICO

Fra i pregevoli requisiti, che in Voi concorrono a formare un degno
e benemerito Cittadino, in ultimo luogo non deve per avventura
annoverarsi il volonteroso impegno, che con tanto piacere prendete,
di far cognite al Mondo le produzioni di qualche bel talento in
questa nostra Patria nato, e fra gli studj di questo nostro un tempo
celebre Seminario educato e cresciuto, con che venite a procurare e
promuovere il credito e la stima degli Autori, della Patria, e di Voi
stesso. Deve a mio credere rimaner contenta questa nostra Città di
produrre, chi sappia così nobilmente pensare. Generosa pertanto ed
al sommo lodevole è la determinazione, in cui siete, di pubblicare
la ingegnosa ed erudita Opera del valoroso nostro Concittadino Dottor
Francesco Maria Pieri, nella quale con sí franca ed esatta cognizione
della Romana Storia, e con tanta efficacia di sodo raziocinio procura
illustrare la gloriosa origine della nostra Patria, quivi fissando la
vera situazione dell'antica Faleria Metropoli dei Falisci. Dal merito
dell'Autore, e dell'Opera potete ragionevolmente ripromettervi il
gradimento del Pubblico. Non so per altro, se egual esito possiate
lusingarvi di ottenere da queste mie deboli Poesie su scherzevole
soggetto composte, che pure invogliato vi siete di dare alla luce. Non
son io cosí parziale stimatore delle cose mie, che meritevoli della
pubblica approvazione le reputi. Questa doverosa opinione, che ho di mi
stesso, ha fatto sí che risolutamente rigettassi le richieste, che da
diverse bande mi vennero fatte di questi miei Sonetti, per istamparli
in altre Città, o per unirli ad alcune Opere inedite di valenti Autori,
per li quali siccome io conservo una particolare stima e venerazione,
cosí non avrei comportato, che i miei tenui Componimenti condannati
fossero a comparire in un confronto cotanto per essi svantaggioso. Ma
presentemente, o sia la forza di quei semi di propria compiacenza,
che giunger mai non possiamo a sveller totalmente dal cuore, e che
insensibilmente ci seduce, o sia l'obbligante Vostra generosa maniera,
con cui sapete per tal guisa legarvi gli amici, che amabilmente
togliete loro la libertá di contradirvi; o sia finalmente il desiderio
di liberarmi dalle frequenti istanze di coloro, che mi costringevano
a replicare la recita di questi miei Sonetti, ed a' quali o per
riguardo alla reciproca amicizia o alla loro qualitá, e condizione
non mi era lecito repugnare, di buona voglia mi son lasciato vincere
dalle Vostre gentili premure. Or benchè io creda, che Voi restiate
bastantemente persuaso, che colla promulgazione di questi miei Poetici
scherzi scioccamente non mi prefigga di farmi merito, e fama, e che in
conseguenza non pretenda collocarli in qualche grado di riputazione,
e di pregio, pure ogni ragione di prudenza, e di savio consiglio mi
suggerisce di prevenire i Leggitori con una qualche breve, e moderata
apologia, per non mandarli senza alcuna precauzione cosí alla ventura
per entro la folla de' curiosi, e alla discrizione di coloro, nelle
cui mani s'abbatteranno. Io quí non mi porró in pena di ribattere
tutti i colpi, che verranno loro scagliati dalla mordace saccenterìa
degli indiscreti Critici, a quali per l'ordinario non mancano censure,
e motteggi senza dar gran prove di spirito; nè di mettermi a garrire
con coloro, che non da savio discernimento condotti, ma da privata
passione mossi, e animati, solo nel malignare il piacer loro ripongono;
né finalmente di vincere la nausea di quegli, che con altero dispregio
di tuttoció, che da essi men, che serio e importante si reputa, e che
all'esteriore loro gravitá non si accorda, torcono il naso all'odor di
qualunque, benché ottima Poesia, né forse mai ne ravvisarono il bello,
o ne assaporarono il buono. Parlo alle discrete e ragionevoli persone,
alcuna delle quali in questa mia Operetta ravvisa, e disapprova una
dissipazione di talento, e di tempo che a suo dire, con piú lode
e utilità sarebbesi potuto in piú serio soggetto impiegare. Or io
tortamente, e alla scolastica porrei negare il supposto di simile
obbiezione, che per altro va a ferir piú l'Autore, che l'Opera. Posso
assicurare, che questi miei componimenti non hanno nella menoma parte
pregiudicato alle necessarie mie occupazioni, ed impieghi. Chiunque
ha di me qualche notizia puó agevolmente sapere, che non solo alcuno
di questi miei Sonetti, ma neppure alcun verso di Poesia giammai a
tavolino composi, per ciò riserbandomi il tempo, che in sul mattino
scosso il sonno, ed ancora in letto tranquillamente riposandomi vado
a mio bell'agio colla mente vagando per gli ameni colli di Pindo,
o quando in solitarj passeggi colla sola amabile compagnia de' miei
pensieri vado meco stesso godendo un innocente, ed a molti incognito
piacere, piuttosto che in nojose ed inutili ciancie, o in critici
scrutinj, o in affettata serietá passare il tempo con persone, le
quali secondo il temperamento, modo di pensare, fini, ed interessi
loro si sono adottato diverso sistema. Inoltre non potrá negarsi, che
anche in un tenue soggetto si possa e ingegno, e talento esercitare.
Ond'io procurai in queste mie Poesie sparger di tratto in tratto
alcune erudizioni, e riflessioni filosofiche, acció a me stesso, ed a'
Leggitori di giocondo ed erudito intrattenimento riuscir potessero.
Sapendo io bene quanto sciocca, e ridicolosa sia la persuasione di
chi tutto il vezzo di vaga e graziosa Poesia in altro consister non
crede, che nel mentovare, sovente anche male a proposito, l'erbetta, e
l'agnelletta, le quadrella, e la Pastorella. Che se ingegni di prima
sfera, e d'altissima riputazione, come Omero, Policrate, Luciano,
Virgilio, e a nostri tempi lo Scaligero, il Passerazio, l'Einsio, il
Dispreaux, e il Pope, non isdegnarno trattare umile argomento, perchè
a me, che di tanta riputazione, e fama non sono, si dovrá porre a
delitto d'aver trattato il presente soggetto. Ma su via: in che si
vorrebbe, che io m'impiegassi? in distendere Trattati di Scienze?
Storie? Annali? Dissertazioni? Osservazioni? Critiche? Riflessioni? Dio
buono! come credete Voi, che vi potessi riuscire? E poi discorriamola
senza pregiudizj, e senza simulazioni: E non credete Voi, che fosse piú
desiderabile, che si scarseggiasse un po' piú di libri di simil sorte,
che aggiungervene degli altri? Se questi Sonetti non faranno utile al
Pubblico, non gli faranno almeno disvantaggio. Comunque siasi per altro
potrá taluno esser curioso di sapere, perché a questo piuttosto, che
ad altro soggetto siami attenuto. Non sará dunque fuori di proposito,
che si sappia, che il motivo nacque dal vero, e che tornando in gran
compagnia da un luogo, dove si erano fatte alcune necessarie spese, un
mio amico, per cui io conservava e conservo una particolare affezzione,
cosí per ischerzo m'importunava nel viaggio colla richiesta di tre
Giulj, che dicea dovergli io di soprappiú rifare per lo ripartimento
delle spese in quella gita occorse: Io celiando negai di volerlo in
ció soddisfare, ed estemporaneamente con un Sonetto gli rispose, che
fra gli altri trovarete con postilla notato. Questo dette agli altri
tutti occasione, e principio, e trovandomi aver fatto il primo Sonetto
in rima tronca, m'impegnai a far tutti gli altri in simil metro. Per
la qual legge, che mi son fatta, spero ottenere dai discreti Leggitori
un cortese perdono, se mi son posto nella necessitá di servirmi di
alcuni pensieri, ed espressioni fra loro somiglianti, e molto piú delle
stesse parole, e rime in molti Sonetti replicate. So, che mi si potrá
rispondere, che niuno quest'obbligo m'imponeva. Ma che fareste Voi? Il
capriccio ha molta parte nelle determinazioni, e nelle azzioni degli
Uomini. A buon conto questa restrizione di rima, della quale qualche
delicato orecchio s'infastidisce, forma una difficoltá, che allontana
almeno quest'Operetta dalla strada facile, e comune. E poscia alla fin
fine potró dire con un famoso Presidente di Francia: Se quest'Opera
si troverá buona, si leggerá; se non si troverá tale, non mi metteró
in pena, ch'ella si legga. So ancora, che si dirá, che io ho voluto
fare una copia della nota famosa Cicceide. Io per altro, non ostante
il fuoco, e la fantasia di quel valente Poeta, mi lusingo d'incontrar
maggior compatimento, sí per aver scelto piú onesto soggetto, sí per
essermi obbligato a maggior difficoltá di rima, sí finalmente, perché
stimo piú malagevole in tanti diversi aspetti proporre all'altrui
vista l'importunitá d'un CREDITOR DI TRE GIULJ, di quello sia in piú
maniere dare ad alcuno l'obbligante titolo, che egli dá al suo D.
Ciccio. Si potrá dalla Lettura di questi Sonetti facilmente scorgere,
che altri in questa Cittá, altri costì in Roma, secondo le diverse
occasioni, e proposte fattemi composi. So, che i Leggitori, e che Voi
stesso vi troverete de' difetti, ma so ancora, che non mai tanti trovar
vi si potranno, quanti trovar ve ne posso io stesso. Dico solo, che
se una, o due parole vi troverete non autorizzate dall'approvazione
de' Vocabolarj, ho creduto, che in tal genere di componimenti bastar
potesse ad autorizzarle l'uso universale. Qualunque frattanto sia per
essere la riuscita de' medesimi, ve li mando in attestato del piacere,
che ho di secondare le Vostre premure, ed ubbidire a' vostri voleri:
Vi dico bensí che presso di me restano una cinquantina fra Sonetti,
e Anacreontiche sullo stesso argomento composte, che all'occasione
potrebbero facilmente accrescersi al centinajo, e che per ora per
diversi motivi e riflessi, che mi riserbo a communicarvi in voce non vi
trasmetto. Voi intanto continuatemi la vostra amicizia, comandatemi, e
credetemi costantemente.

  Montefiascone 25. Marzo 1762.

                        _Vostro vero amico, ed Obbligatis. Servitore_

                                                           _G. B. C._



APPROVAZIONI


Noi infrascritti specialmente Deputati avendo riveduto un Volume
Intitolato: I TRE GIULJ, O SIENO SONETTI &c. _di Niceste Abidéno P. A._
giudichiamo, che l'Autore possa valersi nell'impressione di esso del
Nome Pastorale, e dell'insegna dei nostro Comune.

    Euridalco Corintéo P. A. Deputato
      _Sig. Abate Gaetano Golt._
    Enisildo Prosindio P. A. Deputato
      _Sig. Abate Giuseppe Petrosellini._
    Aberilmo Eginente P. A. Deputato
      _Sig. Abate Giovan-Battista Visconti._

Attesa la suddetta Relazione si concede, che nell'impressione del
suddetto Volume si possa usare il Nome Arcadico, e l'Insegna della
nostra Adunanza, alla Neomenia di Elafebolione l'Anno I. dell'Olimpiade
DCXXXV. dalla Ristaurazione d'Arcadia Olimpiade XVIII. Anno IV. Giorno
lieto per general chiamata.

    Mirèo Roseatico Custode Generale d'Arcadia.
      _Sig. Abate Michele Giuseppe Morei._

    Loco del Sigillo ✠ Custodiale.

      Filillo Liparéo                  )
        _Sig. Abate Enrico Tourner._   ) Sotto-Custodi.
      Roricio Messenio                 )
        _Sig. Abate Lorenzo Sparziani._)

_IMPRIMATUR._

Si videbitur Reverendissimo Patri Magistro Sacri Palatii Apostolici.

  _Dominicus Archiep. Nicomediæ Vicesg._

                           . . . . . . .

Per ordine del R.mo P. Maestro del Sac. Palazzo ó letto, e
considerato un Libro intitolato: I TRE GIULJ, O SIENO SONETTI &c in
cui non ó trovato cosa alcuna, che offenda la Religion Cattolica, o le
leggi della Morale. Al contrario l'Autore di questi versi á ricavato
da molti fonti anche nobili i motivi, onde abbellire ed arricchire lo
sterile suo argomento, e á dato a divedere non solo la franchezza, e
fluiditá della sua penna nel verseggiare, ma ancora molta erudizione,
e molto acume nell'adattarla, e ravvolgerla al tema, ch'egli tratta: lo
stimo perciò degno della pubblica impresssione.

  26. Marzo 1762.

                                                      _Gaetano Golt._

                           . . . . . . .

_IMPRIMATUR._

Fr. Thomas Qualeatti Ord. Præd. R.mi Patris Magistri Sacri Palatii
Apostolici Socius.

_REIMPRIMATUR._

Si videbitur admodum Reverendissimo Patri Magistro Sacri Palatii
Apostolici.

_J. F. Can. Palmerini Pro-Vicarius Gen._

                           . . . . . . .

_REIMPRIMATUR._

Fr. Dominicus Vitalini Ord. Præd. Rever, Patris Mag. Sac. Palatii
Apost. Vicarius.



SONETTO

    Altri canti il valore, e la pietà,
      E le guerre, ch'Enea nel Lazio fe:
      Onde forse l'Impero, e la Città,
      Che leggi poscia all'Universo diè.

    Le grazie altri d'un volto, e la beltà,
      Altri l'imprese de' superbi Re:
      Quei, che la Musa mia dettando va,
      Non è l'orrido Marte, Amor non è.

    Del mio canto il soggetto eccolo quì:
      Crisofilo tre Giulj mi prestò,
      E me li chiede cento volte il dì.

    Ei me li chiede, ed io non glie li do,
      E l'importuno Creditor così
      In varie guise descrivendo vo.


SONETTO

    Se già negli anni di mia gioventù,
      Nella più verde, e più vivace età,
      Talor cantai le gesta, e le virtù
      D'Eroi, che degni fur d'eternità;

    Cangiando omai voglia, e pensier, non più
      In contegno mi pongo, e in gravità:
      Ma canto i guai, che il Creditor mi dà
      Fin da quel dì, che Creditor mi fu.

    Così di Grecia il gran Cantor, poichè
      (Se a grandi esempj equiparar si può
      Cosa, che a grandi esempj egual non è)

    Poichè di Ulisse il nome immortalò,
      E le gesta, che in Frigia Achille fe,
      De' Sorci, e delle Rane alfin cantò.


SONETTO

    Lungi o favole, o sogni: altri già fu,
      Che pieno il sen di poesia cantò
      Giove cangiato in pioggia d'oro, e in Bu,
      Onde Acrisio, ed Agenore ingannò.

    E la Greca famosa Gioventù,
      Che all'acquisto del Vello in Colco andò,
      Giunone irata, e il regio Augel, che su
      L'alta magione il bel Garzon portò.

    Altri d'Alcina, altri d'Armida, ordì
      I favolosi incanti, e onor si dà
      A chi più di mensogne il ver coprì,

    Lungi o favole, o sogni or voi da me,
      Or che la Musa mia tessendo va
      La vera Istoria delli Giulj tre.


SONETTO

    Chi crederia, che arida selce, e che
      Principio alcun di luce, e ardor non ha,
      Chiuda focose particelle in se
      Piene di luminosa attività!

    Pur se talun con altra selce, o se
      Spesso battendo con acciar la va,
      Ad ogni colpo, che su quella diè,
      Un gruppo di scintille uscir ne fa.

    Or de' tre Giulj il Creditor così
      Quegli colle sue istanze in me destò
      Semi di poesia sopiti un dì.

    Onde tosto si accese, e scintillò
      Fuoco, che tanti intorno a lui fin quì
      Moccoletti poetici allumò.


SONETTO

    Di bella lode ardente avidità
      Sentir già un tempo entro il mio cor si fe
      Onde sperai, che la futura età
      Avesse un giorno a favellar di me.

    E pien d'ardire il petto, io volea già
      Cantare Armi, e Guerrieri, e Duci, e Re:
      Quand'ecco poscia altro pensier mi fa
      Cangiar l'Armi, e i Guerrieri in Giulj tre.

    E se vasti disegni in me formò
      Desio di gloria, or strano impegno ordì
      Opra, che gloria meritar non può.

    Orazio mio, meco t'adira, e dì,
      Che un Anfora a formarsi incominciò,[1]
      E girando la ruota un Orcio uscì.


SONETTO

    Senza quella sublime alma virtù,
      Che ben di raro, e a pochi il Ciel donò,
      Come levarmi alto potea lassù,
      Ove sol nobil alma a vol poggiò?

    Onde con me de' doni suoi se più
      Non è prodigo il Ciel, se ali non ho
      Per innalzarmi a vol: ragion ben fu
      Che opera ordissi, qual da me si può.

    Sì ancor, perchè là corre il Mondo, ov'è
      Più d'ingegnosa bizzarria, nè fa
      Semplice, e nuda il ver mostra di se.

    Onde sperai, che se altro in se non ha
      Pregio, ed onor l'Opra de' Giulj tre,
      Potria forse piacer la novità.


SONETTO

    Voi, che udite le mie calamità,
      E le querele, che spargendo vo,
      Narrando i guai, che il Creditor mi dà
      Da quel dì, che i tre Giulj mi prestò;

    Se la dolce del cor tranquillità,
      Che a voi benigna sorte, e il Ciel donò,
      Non affanno crudel, nè avversità,
      Nè rancor molestissimo turbò;

    Ah non fate mai debiti: ma se
      Far si dovran, guardate pria, di chi
      Danari presta, il natural qual'è.

    Che se importuno Creditor così
      Toccherà a voi, come è toccato a me,
      Non avrete mai più di pace un di.


SONETTO

    Finchè guai non mi afflissero, finchè
      Passai felici, e senza noja i dì
      Tacita ognor la lingua mia si ste,
      Nè risuonare il canto mio s'udì.

    Ma poichè il Creditor de' Giulj tre
      A tormentarmi incominciò così,
      Prurito di cantar destossi in me,
      E strido qual Cicala a mezzodì.

    Tal finchè salda, e ben connessa andò,
      Intorno all'asse con facilità
      La ruota senza strepito girò.

    Che se poi per la via stridendo va,
      Dì pur, che alcuno la scompose, e urtò
      In guisa tal, che strepitar la fa.


SONETTO

    Io, che folle vantava un tempo fa
      Una specie di Stoica virtù,
      Per cui quasi insensibile mi fu
      Ogni sventura, ed ogni avversità;

    Ecco per non so qual fatalità
      Quell'istesso di prima io non so più,
      Che per un debituzzo è andata giù
      L'inalterabil mia Stoicità.

    Forse invitto Leon talor così,
      Poichè Pantere, e Tigri, e Orsi atterrò,
      E vincitor d'ogni battaglia uscì;

    Se nell'orecchia poi se gli ficcò
      Picciol tafano, e il punse, ei s'avvilì,
      Che trarsi l'importuno indi non può.


SONETTO

    Che sia il debito un mal, dubio non v'ha,
      Ciascun l'accorda, ed io lo provo in me
      Ma che? gli è un mal comune, e ognun ben sà,
      Che mal comune intero mal non è

    Ond'io vorrei con gran tranquillità.
      Il débito portar de' Giulj tre,
      Se dell'universal calamità
      Qualche parte soffrir il Ciel mi fe.

    Ma mi tormenta il Creditor così,
      Che il labbro mio dissimular non può
      La noja interna, e tai lamenti ordì.

    E mentre pur quelle doglianze io fo;
      Non mi lagno del debito, bensì
      Di te lagnando, o Creditor mi vo.


SONETTO

    Quando un atto spessissimo si fa
      Gli organi, che natura istituì
      Per tale officio, opran da se così.
      E senza attenzion di volontà.

    Così alla stalla il Somarel sen va,
      E i Pappagalli dicono buon dì;
      Che la frequenza l'abito compì,
      E l'abito divien necessità,

    Non poche volte in guisa tal fra me,
      O bene, o male argomentando vo:
      Udite or poi l'induzzion qual'è.

    Poichè 'l mio Creditor ci si avvezzò,
      Per abito mi chiede i Giulj tre,
      E per abito anch'io dico: non gli ho.


SONETTO

    Dunque mentre mi chiedi i Giulj tre,
      Alcuna parte, o Creditor non v'ha
      Determinazion di volontà,
      Ma i strumenti corporei opran da se.

    E accade appunto in quella guisa, che
      Vedono gli occhi per necessità
      Quell'oggetto, che ad essi innanti sta,
      Quando difetto alcuno in lor non è.

    Così un certo Filosofo pensò,
      Che oprin sol di sua macchina in virtù
      Gli animali, che Automi Egli chiamò.

    Onde di me scandalizzarti più
      Non dei, se orecchio al chieder tuo non do
      Che qual macchina sol operi tu.


SONETTO

    Io non potrò dimenticar mai più
      Quel giorno memorabile per me,
      Che d'aspri affanni apportator mi fu,
      Quando i tre Giulj il Creditor mi diè.

    Di borsa li tirò tre volte su
      Contando, e ricontandoli da se,
      Ed altrettante rimandolli giù,
      E star mezzora in dubbio egli me fe.

    Nè posso dir, se me li desse, o no,
      Che la noja, e 'l rancor mi sbalordì,
      E dagli occhi la vista mi levò.

    Sol posso dir, che allor da me partì
      Il riposo, e la pace, e incominciò
      L'epoca de' miei guai fin da quel dì.


SONETTO

    Vaghe colline, ombrose amenità,
      Canti, e danze di lieta gioventù,
      Ruscel, che cade d'erta balza in giù,
      E dolce nel cader strepito fa.

    Aura, che lieve sussurrando va,
      Augel, che spiegha agili i vanni in su,
      Talor diletto, o Creditor, mi dà,
      Ma poscia in mente mi ritorni tu.

    Tu mi funesti ogni piacere, e un dì
      Gir non può lungi il mio pensier da te,
      Sicchè a te non ritorni, onde partì.

    E il costante pensier de' Giulj tre
      Emmisi fatto natural così,
      Che quasi necessario omai si fe.


SONETTO

    Mai l'Uom felice in vita sua non fu,
      Fanciullo un guardo sol tremar lo fa;
      Quindi trapassa la più fresca età,
      Intento alle bell'arti, e alle virtù.

    Poi nel fiero bollor di gioventù
      Or d'amore, or di sdegno ardendo va,
      Di quà malanni, e cancheri di là,
      E guai cogli anni crescon sempre più.

    Alfin vengono i debiti, e allor sì
      Che più speme di ben per lui non vi è,
      E anch'io la vita mia trassi così.

    E il debito fatal di Giulj tre
      Ora ai malanni, che passai fin quì
      Solennemente il compimento diè.


SONETTO

    O Bambolin, che nella prima età
      Solazzandoti vai lieto così,
      Nè molesto pensier t'infastidì,
      Nè affannoso rancor noja ti dà;

    Deh l'innocente tua tranquillità
      Protegga il Ciel, che provat'hai fin quì,
      Nè ti riserbi a più funesto dì,
      Quando il tuo biondo crin s'imbiancherà.

    Quanto, fanciul felice, invidio a te
      Quel contento, che il Cielo ti donò,
      E quella pace, che 'l mio cor perdè!

    Ma quel, che invidio più, sai tu cos'è?
      E' che intorno non hai, siccome io l'ho,
      Chi ti tormenti ognor per Giulj tre.


SONETTO

    Canta lo stanco Passaggier, che a piè
      Torna da lungi alla natìa Città,
      Canta l'adusto Mietitor, benchè
      Del Sol cocente esposto ai rai si sta.

    Canta il Nocchier, benchè oda intorno a se
      La ria procella, che fremendo va,
      E canta l'Augelletto, che perdè
      La cara sospirata libertà.

    Canto giocosi versi anch'io così,
      Sebben l'antica pace al cor non ho,
      E il bel contento, che godeva un dì.

    E la noja così temprando vo,
      Che cagionommi il Creditor fin quì;
      Giacch'è tutt'un, ch'io me ne affligga, o nò.


SONETTO

    Se a rimirar qualche augelletto sto,
      Che rapido per l'aere sen va,
      E dall'Egitto se ne venne quà,
      O le fredde Alpi, e l'Appennin passò,

    Felice lui dich'io, cui 'l Ciel donò
      Sì bella, e spaziosa libertà,
      Che Cielo, e region fissa non ha;
      Ma il vol disciorre, ove gli aggrada, ei può.

    Deh perchè far non posso anch'io così,
      Perchè egual libertà si niega a me,
      Che debbo star contro mia voglia quì?

    Quì dove eterna stanza il Ciel mi diè,
      E inevitabilmente e notte, e dì
      Ho attorno il Creditor de' Giulj tre.


SONETTO

    Tu mi chiedi danari, ed io non gli ho,[2]
      E il tempo perdi senza utilità,
      Se vuoi, che te ne faccia un Pagherò,
      Di fartelo non ho difficultà.

    Non te li nego già, nè te li do,
      Che nessuno può dar, quel che non ha:
      Ti prometto pagar, quando gli avrò,
      E tu accetta la buona volontà.

    Or dunque datti pace, e i Giulj tre
      Non domandarmi tante volte il dì,
      Quando gli avrò, te li darò da me.

    Perchè volermi tormentar? perchè
      Voler seccare un pover'uom così?
      Hai tempo a dir: quel, che non c'è, non c'è.


SONETTO

    Mentre la greggia pascolava un dì[3]
      Gige pastore, un aureo anel trovò,
      Che nel dito poichè lo collocò,
      Subitamente agli occhi altrui sparì.

    Con quell'anello i rei disegni ordì
      Di tante fellonìe, che poscia oprò:
      Il talamo real contaminò,
      E sovra il regio soglio empio salì.

    Se avess'io quell'anel, non vorre' già
      Esser tanto fellon, com'egli fu,
      Nè servirmene in tante iniquità.

    Prevalermi vorrei di tal virtù,
      Acciò quando di me cercando va,
      Il Creditor non mi trovasse più.


SONETTO

    Se colla produttrice alma virtù,
      E colla vigorosa attività
      Penetra il Sol le viscere colà
      Dei monti di Golgonda, o del Perù;

    La disposta materia ognor vie più
      Purga, stringe, ed assoda: indi ne fa
      Oro, o gemma durissima, che fu
      Reggio diadema, o ricco anel sen va.

    La tua nell'ossa ancor mi penetrò
      Attività seccante, in guisa, che
      Il mio disposto già cuore indurò,

    E quindi poi l'aurea fermossi in me
      Durezza adamantina di quel nò,
      Che pregievoli rende i Giulj tre.


SONETTO

    Or che Europa tra fiere ostilità
      D'incendio Marziale arse, e avvampò,
      E il Contadin, che prima i campi arò,
      Cingesi d'arme, ed alla guerra va:

    Desioso ciascun di novità
      Cerca quai forze il Moscovita armò,
      Se uscì la flotta Inglese, e dove andò,
      E che fanno i Francesi al Canadà.

    Quanti a caval, quanti soldati a piè
      Muovon, se l'Anglo al Prussian s'unì,
      E se s'unì l'Ispano al Franco Re.

    Ma di ciò poco, o nulla importa a me:
      Sol penso al Creditore e notte, e dì,
      Sol mi occupa l'affar de' Giulj tre.


SONETTO

    Oppressa dai gran debiti allorchè[4]
      La Plebe di Quirin si ritirò
      Dai Padri, e sopra il Monte Sacro andò,
      Seguìta già l'espulsion dei Re;

    Menenio coll'Apologo del piè,
      Del ventre, e delle man loro mostrò,
      Che sussister Repubblica non può,
      Se concordia nel Popolo non è;

    E della pace, che si stabilì,
      La principal condizion si fu,
      Quella, che i loro debiti abolì.

    Anch'io l'ho teco, o Creditor, e tu
      Meco in pace tornar sol puoi così,
      Se del debito mio non parli più.


SONETTO

    Vincolo conjugal non mi legò
      Che sempre amante fui di libertà,
      E se manca la mia posterità,
      Al mondo non fo ben, nè mal gli fo:

    Ma se il giogo, che spesso altrui pesò,
      Anch'io portassi dalla prima età,
      Giogo, che tanto piace a chi non l'hà,
      Quanto dispiace a chi se l'addossò;

    Forse che allora, o Creditor, poichè
      L'effigie tua la fantasìa m'empì,
      Ed impronta indelebile vi fe;

    I figliuoli farei simili a te,
      E per casa girar vedrei così
      Tanti Creditorelli intorno a me.


SONETTO

    Io mi sognai, saran due notti, o tre,
      Stare in un luogo pien d'amenità
      V'eran cetere, flauti, ed oboè
      E canti, e giuochi, e balli in quantità.

    Ridevan liete, e discorrean con me
      Ninfe di bella, e giovanile età:
      Nel mondo inter luogo più bel non v'è,
      Delizia tal l'Imperador non l'ha.

    Di tal piacer mentre godendo vo,
      Ecco il mio Creditor, che comparì,
      E le mie belle imagini turbò!

    E mi destai gridando, e notte, e dì
      Dunque s'io veglio, o dormo, o vado, o sto,
      Sempre Costui m'inquieterà così?


SONETTO

    Dimmi, che giova, o Creditor, che tu
      Così spesso mi chieda i Giulj tre,
      E sempre importunissimo con me
      T'adiri, e stridi, come Corvo, o Grù.

    T'accheta alfin, non me li chieder più
      Che il tempo perdi, e l'opra; imperocchè
      Vedi ben, che finor, nè a me, nè a te
      Il chieder tuo di giovamento fu.

    Non giova a me la tua importunità;
      Poichè chiedi danar, quanto tu vuo'
      La borsa il chieder tuo non m'empirà:

    E d'altra parte a te giovar non può;
      Poichè l'istanza tua mai non farà,
      Che danari io ti dia, quando non gli ho.


SONETTO

    Mi ricordo aver letto in un Rabbì,
      Che certamente non hai letto tu,
      Che a tempo antico pratticato fu,
      Un costume frà lor, che si abolì.

    Poichè d'anni un tal numero compì,[5]
      In tutte le lor dodici Tribù
      Era vietato di parlar mai più
      De' debiti, che fatti eran fin lì.

    Perchè prattica tal vigor non ha
      Ne' nostri tempi, e nella nostra Fe,
      Nè anche per noi tal Giubileo si dà?

    Che almen speranza vi sarìa per me,
      Che giungendo una tal solennità,
      Terminasse l'affar de' Giulj tre.


SONETTO

    Non è il debito un mal che abbia con se
      Visibili apparenti qualità,
      Pleuritico, epilettico non è,
      Sintomi, e diagnostici non ha.

    Urto, o sconcerto, exempli gratia in me
      Ne' solidi, ne' fluidi non fa,
      Nè il sangue arresta, o accelera, allorchè
      Regolarmente circolando va.

    Ma gli è una pena al cor fiera così,
      Che altra pena sì fiera unqua non fu,
      Gli è un sordo mal, che rode notte, e dì.

    E benchè ognun lo provi, o meno, o più,
      Pur nessun giusta idea ne concepì,
      Se un Creditor non ha, come sei tu.


SONETTO

    L'uso scema il piacer: Cosa non v'ha
      Così grata, ed amabile così,
      Che spiacimento non apporti a chi
      Ne abusa con soverchia assiduità.

    Armonica gentil soavità,
      Che prima l'alma di dolcezza empì,
      Posciachè lungamente ella s'udì,
      Più non alletta; nè piacer più dà.

    Or qual pena poi sia, se ognor si de'
      Soffrir cosa, che grata esser non può,
      E che non ha, se non disgusto in se?

    Questo appunto m'avvien, che mai da te
      Triegua e riposo, o Creditor non ho:
      Nè di chieder mai cessi i Giulj tre.


SONETTO

    O sia qualche diabolica virtù,
      Che di seguirmi ognor t'affatturò,
      Sia destin, sia disgrazia, io non lo so:
      So ben, che sempre, ove son io, sei tu.

    Ond'io, che andrei nell'Indie, o nel Perù,
      Per isfuggirti, o Creditor, men vo,
      Ove non orma umano piè stampò,
      Per non udirti, e non vederti più;

    Ivi fra quelle taciturnità
      Alto mi lagno, o Creditor, di te,
      E lascio il chiuso affanno in libertà:

    Ma di mie voci il suon tornando a me,
      Fin dalle cupe sue concavità
      Par, che l'Eco mi chieda i Giulj tre.


SONETTO

    Mentre l'Eco mi chiede i Giulj tre,
      Nè veggo alcun, che istanza tal mi fa,
      Incerto è il mio pensier; se verità
      O se stimarsi illusion si de'.

    Scuotendo il dubbio poi, dico: se in me
      Reale impression formando va,
      Se alcun difetto il senso mio non ha,
      Illusion fantastica non è.

    Indi pur sieguo a ragionar: se quì
      Alcun non v'è, che voce tal formò,
      Chi potè mai formarla, o d'onde uscì?

    Ma veggo alfin, che origine io le do
      Co' miei lamenti, e da per me così
      Il mio cordoglio alimentando vo.


SONETTO

    Se un natural perpetuo moto egli è
      Possibil mai, come talun pensò,
      Altro, che il circolare esser non può,
      Che col girar sempre ritorna in se.

    Quindi, quel che mi danno i Giulj tre,
      Perenne duol forse soffrir dovrò,
      Perchè mentre al di fuor spandendo il vo,
      Con perpetuo girar ritorna a me.

    Passa al cor dalla mente, indi si fa
      Voce, la qual poichè dai labbri uscì
      Nei sodi opposti corpi a ferir va;

    Vien ripercossa indi all'orecchio, e quì
      Al timpano auditorio impulso dà,
      E dal cerebro al cor torna così.


SONETTO

    È fola ciò, che dicesi dei dì
      Critici, climaterici, e che so,
      Strane follìe, vani pensier di chi
      Ignota scienza altrui spacciar tentò.

    Quando i decreti suoi Dio stabilì,
      A questo tempo, o a quel non si legò,
      E ogni giorno morir si può così,
      Come ogni giorno nascere si può:

    Ma senza starci a far difficultà,
      Se giorno climaterico quello è,
      In cui succede qualche avversità;

    Quel giorno, che prestommi Giulj tre,
      Un Creditor, che discrezion non ha,
      Fu giorno climaterico per me.


SONETTO

    Or che il lucido Sol da noi partì,
      E nel grembo di Teti si tuffò,
      E in Ciel l'argentea Luna comparì,
      E già la notte il fosco vel spiegò.

    E il Mietitor, che i caldi rai soffrì,
      E l'Arator, che il vomere trattò,
      Stanco dall'opra, e dal sudor del dì
      Sul duro letticciuol si coricò.

    Ed or, che la notturna oscurità
      Al sonno invita, che natura diè
      Per sollievo alle umane avversità;

    Scendi, placido oblìo, sovra di me,
      E sommergi ogni mia calamità
      Colla memoria delli Giulj trè.


SONETTO

    O Sonno placidissimo, che se'
      Ristoro dell'afflitta umanità,
      Dalle Cimmerie cavernosità
      Stendi il tacito vol sopra di me.

    Ma quel tuo Morfeo non condur con te,
      Che in tante guise trasformar si sa,
      Ch'Ei nella fantasia mi sveglierà
      La rimembranza delli Giulj trè.

    Che se per vane imagini dovrò
      In sogno ancor sempre tremar così,
      Nè pur da te grato riposo avrò;

    Sonno rimanti pur: Non vò, che tu
      M'accresca l'inquietitudini del dì,
      Io n'ho pur tante, ah non ne vò di più.


SONETTO

    Nocchier, che lungamente s'avvezzò
      Al procelloso mar, quando infierì,
      Per goder lieti, e più tranquilli dì,
      Se finalmente al patrio suol tornò;

    E sulle molli piume ivi posò
      Le membra, e i lumi chiuse, udir così
      Fremer gli sembra il mar, come l'udì,
      Quando la tempestosa onda solcò.

    Avvezzo anch'io da certo tempo in quà
      Per quei tre Giulj, o Creditor, da te
      Noje tali a soffrir, che il Ciel lo sa;

    In sogno ancora s'appresenta a me
      Quella tua faccia, che terror mi fa,
      In sogno ancor mi chiedi i Giulj tre.


SONETTO

    È cosa natural, ch'io sogni ciò,
      Che vide l'occhio mio, l'orecchio udì,
      Che i sogni sono imagini del dì.
      Che poi 'l sonno corruppe, ed alterò,

    Che allora in fantasia dettar si può
      L'imagin, che già 'l senso in lei scolpì.
      L'armi il guerrier spesso sognò così.
      Così le reti il cacciator sognò.

    Ma meraviglia è ben, come allorchè
      Veglio, e la fantasia vagando va
      Su' varj oggetti, ch'offre il senso a me,

    Sempre sta fisso il mio pensiero in te,
      La tua faccia su gli occhi ognor mi sta,
      Sempre chieder mi sento i Giulj tre.


SONETTO

    Quel, che ha più di vigore, e attività
      Spirto di puro sangue, e i nervi empì,
      Se esternamente oggetto alcun si offrì,
      E agli organi sensorj impulso dà;

    Tosto il moto al cervel portando va,
      E di ciò, che si vide, o che si udì,
      Tante volte l'imago imprime lì,
      Quante l'oggetto esterna impression fa.

    Or se qualunque volta domandò
      L'avaro Creditore i Giulj tre,
      La sensazione al cerebro passò;

    Quì tale omai, come io credendo vo,
      Lunga, larga, e profonda impression fe,
      Che l'intero cervel quasi ingombrò.


SONETTO

    Quindi è, che ognor rammento il luogo, il dì
      Che il Creditor tre Giulj mi prestò,
      E viva ne ho l'imagine così,
      Qual di cosa presente aver si può

    Che l'imaginazion cotanto empì,
      E gli anfratti del cerebro occupò,
      Che il mio pensier sempre ritorna lì,
      Sebben sviando in altro oggetto il vo.

    Che ovunque io stia, che ovunque volga il piè
      L'occhio, e l'orecchio offrirmi altro non sa
      Che il Creditor nojoso, e i Giulj tre;

    E per virtù di fantasia, benchè
      Talora avanti agli occhi Ei non mi sta,
      Se non altrove, io lo ritrovo in me.


SONETTO

    Placido scorre un fiumicel laggiù
      Lungo i bei Campi Elisi, ove chi andò,
      Poichè l'alma dal corpo si staccò,
      Per volger d'anni non ritorna sù.

    Han quell'acque ammirabile virtù,
      Come la greca favola narrò,
      Che chi un sorso una volta ne gustò
      Le cose andate non rammenta più.

    Ah se fosse ciò ver! ora di quì
      Vorrei partire, e portar giù con me
      Un barilotto per empirlo lì.

    E dare a ber vorrei quell'acqua a te,
      Creditore indiscreto, acciò così
      Obliassi una volta i Giulj tre.


SONETTO

    Felici tempi, in cui Berta filò,
      Avventurosa fortunata età,
      Che d'oro anticamente si chiamò,
      Forse per l'aurea sua felicità!

    Non v'erano Strumenti, e Pagherò,
      Nè tante liti, come oggi si fa,
      Nè per debito alcun mai si citò,
      Nè in carcere perdè la libertà.

    Cangiaro i tempi: or non è più così,
      E guai, se un pover uom' debiti fe,
      Bisogna andar prigione, e morir lì.

    E se sì duro il Creditor non gli è,
      Lo perseguita almeno e notte, e dì,
      Siccome appunto ora tu fai con me.


SONETTO

    Propizio il Ciel m'assista, e di lassù
      Il guardo ognor volga benigno a me:
      Ma perchè l'Uomo in vita sua non è
      Dalle sventure esente, e mai nol fu;

    Perciò se d'alto mai cadessi giù,
      E il capo, o il collo mi ferissi, o un piè,
      Dopo il dolor, che la ferita fe,
      Poco vi penserei, o nulla più:

    Ma benchè il tempo, e l'obbliosa età
      Cancelli ogni pensier, non già così
      Tormi il pensier del debito potrà;

    Che viva la memoria ognor fin quì
      Il Creditor me ne mantenne, e va
      Più volte rinfrescandola ogni dì.


SONETTO

    Se morte un brutto scherzo non mi fa
      In mezzo agli anni di mia gioventù,
      Se per l'opposto mai scritto è lassù,
      Che giunger debba alla canuta età;

    Appoggiato al baston per la Città
      Andrò col dorso curvo, e il capo in giù,
      E la memoria debile non più
      Del tempo andato si ricorderà.

    E dei tre Giulj sol rammenterò
      Il memorabil debito, e così
      Ogni anno a' Nepotini parlerò:

    Questo giorno per me critico fu,
      O Figli, incominciò da questo dì
      Il mio malanno, e non finì mai più.


SONETTO

    A un Pittor, dissi un giorno: Io vò da te,
      Se valent'Uomo, e buon Pittor sei tu,
      Ritratto tal, che rappresenti a me
      La faccia, che più brutta al mondo fu;

    Ei figure bruttissime mi fe
      Cogli occchi in fuor, col naso torto in su;
      Nè sodisfarmi unqua potèo, benchè
      Deformi fosser, qual Tersite, e più.

    Ma finalmente al natural così
      Il Creditore mio delineò,
      Che vivo mi parea vederlo lì.

    Nel mirar quel mostaccio, allora sì,
      Bravo, dissi, o Pittor: di più non vò;
      La più brutta figura eccola quì.


SONETTO

    Fiera Gente vid'io, che non ha Fè,
      E poco onora il nome di Gesù,
      Gente, che in parte alberga, dove fu
      Già la Sede dell'Unno Attila Re.

    Hanno un colore simile al Caffè,
      Feroce il guardo, ed i mustacchi in sù
      E lunghe cappe portano, che giù
      Lor calano dal collo insino al piè.

    Questa Gente crudel, quando assalì
      Delle Sicilie il Re, passò di quà:
      Impresa, che lor poi mal riuscì.

    E pure infra di lor non vidi già,
      Chi paura facesse a me così,
      Come paura il Creditor mi fa.


SONETTO

    Tunisi, Algeri, Tripoli, e Salè,
      Luoghi, che stan, dov'è più caldo il dì
      Forse gente non han fiera così,
      Siccome fiero è il Creditor con me.

    Nato come gli altri uomini non è;
      Ma donna, che pietà mai non nutrì,
      Con dispetto, e rancor lo concepì,
      E di fierezza esempj ognor gli diè.

    L'Affricano Corsar, se un schiavo fa,
      Lo spoglia del danar, che gli trovò,
      Nè vuol danar, quando danar non ha.

    Non bada il Creditor, s'io l'abbia, o nò,
      Ma usando d'un Corsar più crudeltà,
      Vuole il danar, quando danar non ho.


SONETTO

    Quel, che sì fieramente imperversò,
      E di gel le nevose Alpi coprì
      Rigidissimo verno, alfin partì,
      E più lieto, e ridente April tornò.

    Quel, che d'appresso accesi rai vibrò,
      E sullo stelo i fiori inaridì
      Cocentissimo Sol, più freschi dì
      Alfine ai corpi languidi recò.

    Non han del Mondo le vicende in se
      Tenor costante, ed ogni mal quaggiù
      Lunga pezza durevole non è.

    E solo invariabile sei tu,
      Che a chieder cominciasti i Giulj tre,
      E sempre duri, e non finisci più.


SONETTO

    Se tu avessi la verga di Mosè,
      Che se un sasso durissimo toccò,
      Limpido umor, dal sasso distillò,
      Che agli assetati Ebrei ristoro diè,

    Allora sì, che vorrei dire a te:
      Con quella verga tua toccami un po',
      Toccami, ed osserviam, se cavar può,
      Come dal sasso umor, danar da me:

    Ma se la tua importuna assiduità
      Non ritien l'ammirabile virtù
      Di cavare il danar, da chi non l'ha;

    Chetati omai, non tormentarmi più:
      Che se l'istesso stil si seguirà,
      C'inquieteremo invano ed io, e tu.


SONETTO

    Menzogna filosofica non è,
      Ch'escan da' Corpi effluvi in quantità,
      Giacchè così l'odor spandendo va,
      La rosa, il giglio, il cedro, e l'aloè.

    Poichè la parte più leggiera, e che
      Ha più di sottigliezza, e agilità,
      Da' corpi esala, e nelle nari fa
      Quell'odorosa impression di se.

    Che se il discorso non va mal fin quì,
      Bisogna dir, ch'escan da me però
      Di quegli effluvj ancor: non è così?

    E quegli poi ti dan nel naso; e tu
      Vieni dietro all'odor, dovunque vo,
      E mi fiuti da lungi un miglio, e più.


SONETTO

    O Crisofilo mio da un tempo in quà
      Quasi quasi il terren s'isterilì,
      E ognor l'afflitto Agrigoltor tradì
      La grandine, il vapor, la siccità.

    L'annosa quercia più ghianda non fa,
      Uve non fan le vite a' nostri dì,
      E il libero commercio indebolì,
      D'invide nazion l'ostilità.

    Il canuto Vecchion giura in sua fe,
      Che mai l'antica età così non fu,
      Che del Mondo la fin lungi non è.

    Ognuno ha guai di provedere a se,
      Ognun si lagna, esclama ognuno, e tu
      Hai cor di domandarmi i Giulj tre?


SONETTO

    Per legge di natura ciascun de
      Provedere alle sue necessità,
      E pria di fare altrui la carità,
      Obligato è ciascun di farla a se;

    Sicchè dunque io pria di pensare a te,
      Egli è dovere, e ogni animal lo fa
      E lo vuol la giustizia, e l'equità,
      Che pria d'ogni altra cosa io pensi a me.

    Quando a me stesso proveduto avrò,
      Allor se avrò danar di soprappiù,
      O Crisofilo mio, io tel darò.

    Ma se i miei sopravanzi aspetti tu,
      Sì pochi, e scarsi sopravanzi io fo,
      Che meglio è assai, che non ci pensi più.


SONETTO

    Se su le gambe, su la faccia, o su
      Le braccia leggerissima apparì
      O piaga, o tumoretto, o bolla, e tu
      La tocchi, e tasti cento volte il dì:

    Ed ella prude, e tu la gratti più,
      Nè puoi l'unghia, e la man levar di lì,
      La piaga, che da pria piccola fu,
      Ampia alfine divenne, e s'inasprì.

    Il debito così de' Giulj tre,
      O Crisofilo mio, per verità
      Se noi vogliam considerarlo in se;

    Certamente un gran debito non è:
      Ma l'insoffribil tua importunità
      Considerabilissimo lo fe.


SONETTO

    Augel, che lo sparvier lungi mirò,
      Che larghe ruote in Ciel formando va
      Se trovossi in aperta libertà,
      A tempo il fiero assalitor schivò:

    Ma se insieme talun li rinserrò,
      E del periglio altrui piacer si fa,
      L'augel dallo sparvier scampo non ha,
      Il fiero scontro declinar non può.

    In angusta Città chiusi così,
      Quattro strade, una piazza, ed un Caffè,
      Gira, e rigira, e sempre siamo lì.

    Quindi è, che il Creditor de' Giulj tre
      Meco s'incontra cento volte il dì,
      E schivarlo possibile non è.


SONETTO

    Il caro foglio, Ergasto mio, che tu
      Mandasti per Lesbin, che mel recò,
      Di tanta gioja apportator mi fu,
      Quanta finor provata mai non ho.

    Tre volte avido il lessi, e quattro, e più,
      E mai di man tormelo ancor non so,
      E par, che dal mio core abbia virtù
      Sveller l'acerbo duol, che v'allignò.

    Anzi ti posso dir, che da quel dì,
      Che un debituzzo fei di Giulj tre,
      Che poi tanto rancor mi partorì;

    Non altra mai gioja, e contento in me
      E non altro piacer provai fin quì,
      Se non quel, che il tuo foglio ora mi diè.


SONETTO

    L'Amor sincero, che ravviso in te,
      Gradisco inver, quanto più posso, e so:
      Inoltre se saper nuove di me
      Tu brami, Ergasto mio, te ne darò.

    Io dunque grazie al Ciel, sto ben; cioè
      Reuma, febbre, dolor, gotta non ho,
      Non soffro mal di testa, o mal di piè,
      La massa degli umor non si alterò.

    Ma non per questo dir posso altresì,
      Che ben per me generalmente va,
      Che anzi non può andar peggio, che così,

    Non ho danari, e un Creditor mi sta
      Sempre alle coste, e questo mal, ch'è quì,
      Equivale a una grossa infermità.


SONETTO

    Or dunque, Ergasto mio, sappi ch'io vò
      Onninamente partirmi di quà,
      Che omai la fiera più soffrir non so
      Vessazion, che il Creditor mi dà.

    E fra me stesso meditando vo
      Cheto, cheto venirmene costà,
      Che se Marte v'infuria, orror non hò,
      Nè se rigido è il Ciel, terror mi fa:

    Che almen non vi sarà, chi possa me
      Col brutto ceffo spaventar così,
      Come fa il Creditor de' Giulj tre.

    E se far dovrò debiti costì,
      Non avrò tali Creditor, qual'è,
      Che Dio ne scampi, il Creditor, che ho quì.


SONETTO

    Che tengo certa indubitata fè,
      Che non altrove alcun giammai potrà
      Trovar sì fatti Creditor, benchè
      Ogni Terra scorresse, ogni Città.

    Ond'io pensando vo spesso fra me,
      Che se del clima la diversità
      Ad ogni nazion diverse diè
      Complession, costumi, e qualità;

    Molle l'Assiro, e il Persian perciò,
      Mendace il Greco, e fiero il Trace, e un dì
      Anche il Roman fu valoroso, e prò;

    Questo Ciel, questo Clima ancor così
      Forse duri e inflessibili formò
      I Creditori, che nascono quì.


SONETTO

    Ma il Creditore mio de' Giulj tre
      Fra questi in guisa tal si segnalò,
      Che fra tutti il primato a lui si de,
      Che a ragion contrastargli altri non può.

    Avere un Creditore intorno a se,
      Come per mia disavventura io l'ho,
      Così fiero, e crudel tormento egli è,
      Che altro simìle imaginar non so.

    O presto, o tardi ogni altro mal finì,
      Nè dura ognor l'istessa avversità:
      Ma il Creditore mio non è così.

    E' un malanno perpetuo, e non mi fa
      In pace respirar notte, nè dì,
      Nè intender vuol ragion, nè verità.


SONETTO

    Tu, che sai ben di Logica, che fa
      Dir di sì spesso, a chi vuol dir di no,
      E sai con quali regole si può
      Altrui persuader la verità;

    Suggeriscimi tu per carità
      Un qualche Sillogismo, un che ne so
      In Baralipton, o in Fresisomò,
      O se argomento indessolubil v'ha;

    Acciocchè il Creditor de' Giulj tre
      Capisca, se finor non la capì,
      Che s'io non gli ho, non li può aver da me:

    Onde convinto alfin dalla virtù
      D'argomentazion forte così
      S'accheti alfin, nè me li chieda più.


SONETTO

    Ma quand'Egli si ostina a dir di no,
      Indurlo non potriano a dir di sì
      Quanti la Grecia, e quanti Roma un dì
      Oratori, e Filosofi ascoltò.

    E il baston d'Aristotele sol può
      Vincere ostinazion forte così,
      Che spesso gli ostinati convertì,
      E stupendi miracoli operò.

    Ma tu s'opra vuoi far di carità,
      Per cui dirò così gran ben di te,
      Che il nome tuo fino alle stelle andrà,

    Mandami per la Posta Giulj tre,
      E paga il Franco ancor, che allor sarà
      Un favor compitissimo per me.


SONETTO

    Chi agli affamati il voto ventre empì,
      E di grato licor pronto bagnò
      L'aride labbra ai sitibondi, e chi
      Gl'infermi, e i carcerati visitò,

    Chi de' nudi le membra ricoprì,
      E a bisognosi sollievo apportò,
      Chi gl'insepolti corpi seppellì
      E chi gli sconsolati confortò,

    Chi buon consiglio, e insegnamenti diè,
      E ridusse alla via delle virtù,
      Chi n'andò lungi, e il buon sentier perdè,

    Tal di Misericordia opra non fe,
      Quale faresti, Ergasto mio, se tu
      Mi togliessi il pensier de' Giulj tre.


SONETTO

    Amici rallegratevi con me,
      Che la via di pagar trovato ho già:
      D'ora in poi a domandarmi i Giulj tre
      Più attorno il Creditor non mi verrà.

    Tre numeri franchissimi mi diè
      La vecchiarella, che sognati l'ha.
      Olà dal Botteghin, olà, che v'è?
      Segnami un Terno, ed il Pagò mi fa.

    Ma dell'Estrazzione è giunto il dì,
      E già la nuova il Postiglion recò:
      Orsù vediamo, se il mio Terno uscì.

    Ma neppure un sol numero scappò,
      Onde la speme mia tutta svanì,
      Svanì la speme, e il debito restò.


SONETTO

    Non ci perdiamo d'animo però:
      Se quella volta il Terno non uscì,
      A un'altra Estrazion m'appellerò,
      Che un'altra volta non sarà così.

    Che a fare un certo amico m'insegnò
      Cabaletta fedel, che non fallì,
      Pertanto, o Creditore, aspetta un po',
      Che pagato sarai fra pochi dì.

    Ma ve' che la Stampiglia affissa sta
      Al Botteghino: or via leggiamo, oimè!
      Pur questa volta un numero non v'ha.

    Or vedi ben, che in quanto stette a me,
      Tutte le diligenze ho fatto già:
      Or se non pago, colpa mia non è.


SONETTO

    Vano desio, folle pensier nutrì,
      Chi l'avvenir ne' numeri cercò,
      E Petisco, e Rutilio, e Pico, e Chi
      Dell'Arte Cabalistica trattò.

    Con quel, che seguirà ciò, che seguì
      Certa connessione aver non può,
      Nè mai ciò, ch'è per avvenire un dì
      Combinazion numerica svelò.

    Che se non fosser tutte vanità,
      Computi vorrei far più, che non fe,
      Osleim, Albumazar, Salamon-Sah.[6]

    E oh cara Cabala! oh beato me!
      Se potessi con questa abilità
      La partita saldar de' Giulj tre.


SONETTO

    Dica chi vuol, l'Attrazzion si da,
      Che attratti sono i corpi gravi in giù,
      Onde son spinti i più leggieri in su,
      Ed un corpo coll'altro a unir si va.

    E spiegar tali effetti, e qualità,
      Senza suppor questa forza, o virtù,
      A niun Fisico mai possibil fu,
      O dell'antica, o della nostra età:

    Ed io lo credo, e bisogno non ho,
      Che m'accerti Neuton, che così è,
      E altronde la cagion cercar non vò,

    Che quest'Attrazzion la provo in me,
      Che simpaticamente ovunque vo,
      Attraggo il Creditor de' Giulj tre.


SONETTO

    Vero è, che questa incognita virtù
      Non egualmente in ogni corpo sta,
      Che in un si scorge meno, in altro più,
      E alcun ve n'è, che affatto in se non l'ha.

    Anzi veggio, o Crisofilo, che tu
      Possiedi un espulsiva qualità,
      Che sempre eterogenea mi fù,
      E che fuggir lungi da te mi fa.

    Tu ognor mi siegui, ognor fuggendo io vo,
      E se lungi talora son da te,
      Pure in me stesso ognor presente io ti ho.

    Di sì strani Fenomeni qual'è
      L'incognita cagion, ridir chi può?
      Voi ditelo Filosofi per me.


SONETTO

    Se interrogasse alcun quelli, che già
      Savi famosi, ebbe la Grecia un dì
      Chi oprar forza di numeri così
      Direbbe, e chi un occulta qualità.

    Se interrogasse quei di nostra età,
      Chi forte operazion d'atomi, e chi
      Virtù d'Attrazzion troveria quì,
      E chi la forza d'Elettricità.

    E con questi principj in su due piè,
      Spiegar ciascun pretenderia di ciò
      Da Filosofo il come, ed il perchè.

    Ma inutilmente, che spiegar qual'è
      Di tali effetti la cagion sol può,
      Chi cercando la va ne' Giulj tre.


SONETTO

    Timida Lepre, o Cavriol, poichè
      Il Can del Cacciator scovato l'ha,
      Volta di su, di giù, di quà, di là,
      E corre sì, com'abbia l'ale ai piè;

    Ma il Can, che traccia mai non ne perdè,
      Lo siegue, e presso ad or, ad or gli sta,
      E i guadi, e i passi attraversando va,
      E or di fronte gli viene, ai fianchi or gli è.

    Di quà, di là tal svicolando vo,
      E d'incontrarmi anch'io sfuggo così,
      O Creditor con te, ma non si può;

    Perchè t'incontro cento volte il dì,
      Talmentechè fra me sospetto io fo,
      Che il Diavol dica a te: passa di quì.


SONETTO

    Insegnano i Filosofi, che se
      Sta un corpo quà, là un altro corpo sta;
      Due corpi sian diversi affatto in se,
      Nè star possa un sol corpo e quà, e là.

    Che se di ciò si vuol saper qual'è
      La Fisica ragione eccola quà...
      Ma senza stare a dir come, perchè,
      Basti solo saper, che così va.

    Che se la cosa non fosse così,
      Starei per dire, che un sol corpo può
      Star quì in un tempo per esempio, e lì.

    Perchè, poffareddio! dovunque vo,
      Or lì ti trovo, or ti ritrovo quì;
      Come diavol ti faccia, io non lo so.


SONETTO

    Impallidisce il misero Bassà,
      Che reo disegno, o tradimento ordì,
      Se improviso rimira il Capigì,
      Che il laccio porta, onde perir dovrà:

    Trema il Reo, se fra tetre oscurità
      Di carcere, ove trae penosi i dì,
      Carnefice talor gli comparì,
      Col ferro in pugno, onde la morte avrà,

    Or sappi o Creditor de' Giulj tre,
      Che non mi dai pena minor, se tu,
      Ti presenti improviso avanti a me.

    Tremo quando ti veggio: imperciocchè
      Cosa non v'ha, che mi spaventi più,
      E il Carnefice mio ravviso in te.


SONETTO

    Quando il Sol più cocenti, e dritti in giù
      Vibra i raggi d'Agosto alla metà,
      La Cicala or su un Nespolo, ed or su
      Un Sorbo, o un Lazzaruol stridendo sta,

    Taci le dico allor, taci, che tu
      Le noje mi rinovi, che mi dà,
      Chi da quel dì, che Creditor mi fu,
      Un istessa canzone ognor mi fà.

    Alfin si fer più freschi, e corti i dì,
      E quel canto nojoso terminò,
      E la Cicala stridula morì.

    Oime! ch'estate, e autunno omai passò,
      E la mia noja non ancor finì,
      E non ancora il Creditor crepò.


SONETTO

    Finchè ti splenderan sereni i dì,
      Finchè la sorte amica ti sarà,
      Sempre la turba intorno avrai di chi
      Dietro corre alle altrui felicità:

    Ma il Ciel, che pria lucido apparì,
      Cinto di nere nubi apparirà,
      Colui, che già felice ti seguì,
      Nelle sventure tue lungi ne andrà.

    O fido Creditor de' Giulj tre,
      Sempre per gloria tua io lo dirò,
      Che ancor non vidi un più fedel di te.

    Poichè mi sia la sorte amica, o no,
      Stai sempre inseparabile da me,
      O cara fedeltà mi secchi un po'.


SONETTO

    Qualor tetra mestizia m'assalì,
      Che svellermi dal core altri non può,
      Per erme solitudini men vo,
      Qual Uom, che odia se stesso, e i rai del dì,

    E solo, e mesto, e tacito così
      I sordi tronchi testimonj io fo
      Dell'affanno, che il cor mi penetrò,
      E il volto di pallor mi ricoprì.

    Che se mi scorge il Villanel, che sta
      Lo sparso armento a ragunar, fra se,
      Ei dice: un disperato è quegli là,

    E spia se laccio, o ferro abbia con me,
      E 'l mio cordoglio imaginar non sa,
      Che possa provenir da Giulj trè.


SONETTO

    Per occultarmi al Creditor, poichè
      Più non mi fo veder per la Città,
      Confortando talun così mi va:
      Giammai smarrirsi il valent'uom non de.

    Soggetti, ch'han più credito di te,
      Marcian con aria, e con autorità
      Trattano i Creditor, che non si sa,
      Il Creditore, e il Debitor qual'è.

    Io gli rispondo allor: ma se non ho
      Libero, e franco il natural così,
      Invan cangiar natura io tenterò.

    Piuttosto dunque infra di voi sia, chi
      I miei debiti paghi, e allor dirò:
      Lo specchio degli amici, eccolo quì.


SONETTO

    Il bel costume di operar così,
      Nuovo costume non sarebbe già,
      Che nella più remota antichità
      Colà in Atene pratticossi un dì.

    Se alcun contrasse debiti, s'unì[7]
      Degli amici la fida Società,
      E dell'amico alle necessità
      Con magnanimo esempio ella supplì.

    Ma al tempo de' Decemviri, poichè[8]
      La gran Legazione in Grecia andò
      Undici lustri dopo espulsi i Re,

    Usi, leggi, e costumi indi portò,
      Onde il Jus delle Tavole si fe,
      E sol fra Greci uso sì bel restò.


SONETTO

    Spesso al mio Creditor vien volontà
      Trattar di cose Fisiche con me.
      Vuol saper com'il folgore si fa,
      E delli venti la cagion qual'è.

    Chi forma de' color la varietà,
      E se il Sistema di Ticon Brahè
      Abbia appoggio miglior di verità
      Dell'altro, che alla terra il moto diè.

    Io dico allor: Chi di natura può
      Spiegar gli arcani, o chi salì lassù
      A rimirar, se il Sole gira, o nò?

    Sol questo io so di certo, e 'l sai pur tu,
      Che tu vuoi li tre Giulj, ed io non gli ho:
      Del rimanente poi non ne so più.


SONETTO

    Inusitata generosità
      Usar mi vide il Creditor, talchè
      Coglier credendo l'opportunità,
      A chiedermi ostinossi i Giulj tre.

    Quasi scoprendo allor la verità,
      Ciò fei gli dissi, acciò talun fra se
      Dica questi ha danar, mentre ne dà,
      E faccia in guisa tal stima di me.

    Così, poichè al presidio il pan mancò,[9]
      Il Difensor del Campidoglio un dì
      Il resto a' Galli Senoni gettò.

    E con astuzia tal Brenno avvilì
      E Roma, e il Campidoglio conservò,
      E si mantenne in credito così.


SONETTO

    Non poche volte ho inteso dir, da chi
      E Galeno, ed Ippocrate studiò,
      Che vi sono fra l'anno alcuni dì,
      Ne' quali cavar sangue non si può.

    Se ragione vi sia di far così,
      Sel vedino i Dottori, io non lo so,
      E luogo non mi par questo, ch'è quì,
      Di dire il mio parer sopra di ciò.

    So ben, che il Creditor de' Giulj tre
      Tanti riguardi, e scrupoli non ha,
      Nè osserva queste regole con me.

    Ch'anzi ogni giorno procurando va,
      Da me trarre il danar, ch'è un non so che,
      Ch'ha col sangue una qualche affinità.


SONETTO

    Se un risalto febbril si desta in me,
      Lo Specifico prendo del Perù,
      Se un Reuma in petto soffro, io bevo il Te,
      Nè tosse, o raffreddor mi affanna più

    Se provo interna languidezza, o se
      Cruda indigestione, ingojo giù
      Le pillole di mirra, e d'aloè,
      Che di purgar lo stomaco han virtù.

    Io non soffro durezze, o crudità
      Stomachico languor, febbre non ho:
      Ma peggior mal fisso nel cor mi sta.

    Chi avanza vuol danari, ed io non gli ho,
      E guarirmi da questa infermità,
      Un Collegio di Medici non può.


SONETTO

    Qual Uom, che lunga prigionia soffrì
      E alfin per racquistar la libertà,
      I lacci ruppe, e di prigion fuggì:
      Onde solo fra boschi errando va;

    Se il mormorìo di leggier vento udì
      Fra quelle taciturne ombrosità,
      Timido il passo arresta, e timor ha,
      Che quegli sia, cui dalle mani uscì;

    Tal'io, che come scampo aver si può,
      Lungi da lui, che affanni ognor mi diè,
      Qual fugitivo prigionier, men vo,

    Se voce ascolto, o calpestìo di piè,
      Pallido mi rivolgo, e timor ho,
      D'appresso aver Colui de' Giulj tre.


SONETTO

    Là presso il Polo, nei più corti dì,
      Allorchè il verno imperversando va,
      Dicon, che in aria stringa il gel così,
      La parola talor, che suon non fa:

    E quando poi la ria stagion finì,
      E più d'appresso il Sol scioglie, e disfà,
      L'aere addensato, che già il ghiaccio unì,
      S'odon suonar parole or quà, or là.

    Or se ivi o Creditor per alcun po'
      Nella fredda stagion stess'io con te,
      Credo, che quando il crudo gel cessò,

    Ben stupirìa talun, che intorno a sè
      Udrìa senza veder, chi la formò,
      Voce, che chiederebbe i Giulj tre.


SONETTO

    Chiunque a' rai del giorno i lumi aprì,
      E quest'aura vital spirando va,
      Tutti non vide andar sereni i dì,
      Non mai intera godè felicità:

    Altri i colpi fierissimi soffrì
      Di nemica crudele avversità,
      Altri nel petto un folle amor nudrì,
      Altri l'empia dell'oro avidità.

    Chi per livor, chi per rancor penò,
      E ciascun in se stesso, o attorno a se
      Continuamente il proprio mal portò;

    Ma il Ciel viepiù, che altrui, nemico a me,
      Per mia pena maggior, mi consegnò
      A un crudele esattor di Giulj tre.


SONETTO

    Prima i rapidi fiumi andranno in su,
      E l'arenoso lido fiorirà,
      Prima cadran l'agili fiamme in giù,
      E il pesce per lo Ciel volando andrà.

    Pria l'Asino, il Caval, la Vacca, e il Bu
      Sovra l'onde del mar passeggerà,
      Pria savio diverrà colui, che fu
      Pazzo fin dalla sua natività.

    In somma ogni impossibile vedrò,
      Pria che tu possa, o Creditor, da me
      Ricavare il danaro, che non ho.

    Ma pertinace in guisa tal tu se'
      Che a fronte pur dell'impossibil vuo'
      Dal nulla ricavare i Giulj tre.


SONETTO

    Se Dedalo ingegnoso ai fianchi unì
      Le agili penne, onde pel Ciel volò,
      E col figliuol, che poi nel mar cascò,
      Come un augel dalla prigion fuggì;

    E se sull'Ippogrifo in Ciel salì,
      E al Concavo Lunare Astolfo andò,
      D'onde il cervello al Paladìn portò,
      Che a cagion d'una femina impazzì;

    Perchè aver non poss'io modo, o virtù
      Da volar lungi, o Creditor da te
      Per strade, ove venir non possi tu?

    Poichè vorrei veder, se dietro a me
      Il Diavol ti portasse anche lassù,
      A chiedermi per aria i Giulj tre.


SONETTO

    Passeggier, che soletto inerme e a piè
      Siegue il camin, quando danar non ha,
      Sicuro, e tranquillissimo, benchè,
      S'incontri col Ladron, cantando va:

    Che rispetta il Ladron, chi ognor con se
      Ha la scorta fedel di povertà,
      E soggetto ai pericoli non è,
      Di rapace insidiosa avidità.

    Ma men discreto o Creditor sei tu,
      Benchè il voto borsel veder ti fo,
      Mi slacci, e infin le brache io cali giù;

    Non sol restar non vuoi pago di ciò:
      Ma allor m'annoj, e mi tormenti più,
      Quando ti giuro, che danar non ho.


SONETTO

    Come il dono di Paride, che un dì,
      Posciachè nude le tre Dee mirò,
      A Vener bella il pomo d'oro offrì,
      Con che Palla, e Giunon tanto irritò;

    Ei fu un dono fatal, che l'Asia empì
      Di stragi, e Troja in cenere mandò,
      E tanta moltitudine perì,
      Che il Xanto al mar gonfio di sangue andò.

    Tal forse fu il servizio, che mi fe
      Il Creditor, sebben la parità
      Non và, come suol dirsi, a quattro piè:

    Ma in questo almen, cred'io, male non va,
      Ch'Egli avendomi dati Giulj tre,
      Ora per quei guerra crudel mi fa.


SONETTO

    Sempre per infallibile terrò,
      E niun forse negarmelo potrà,
      Che la natura con parzialità
      Di duro cuojo il petto, e il volto armò

    A quei, che sostener l'aspetto può
      Di chi danar chiedendo ognor gli sta,
      E alcun ribrezzo, e scrupolo non ha,
      Dir sul mostaccio al Creditor di no.

    O faccia tosta, all'occasion sei tu,
      Per chi esente dai debiti non è,
      Utile al par d'un buon discorso, e più:

    Cogl'importuni poi, fra quali fù
      Celebre ognor Colui de' Giulj tre,
      O faccia tosta, allor vali un Perù.


SONETTO

    Lo stupido Barbier, che a Mida un dì
      Le lunghe orecchia d'Asino osservò,
      Se altrui svelar l'arcano ei non ardì,
      Pur nasconderlo al Mondo in van tentò.

    Che sol discese entro uno scavo, e lì
      Disse più volte, e più ciò, che mirò.
      La fossa poi di molle terra empì,
      E ivi i suoi detti seppellir pensò.

    Ma dal vento agitate ognor da se,
      Dicean le canne, che vi crebber su:
      Dell'Asino l'orecchia ha il nostro Re.

    Or così sassi, e tronchi udendo te,
      Non vorrei, che apprendessero di più
      Anch'essi a domandarmi i Giulj tre.


SONETTO

    Alza la greve mazza il Fabro, e dà
      Colpi sovra l'acciar spessi così,
      Che il Ciel rimbomba; indi cimier ne fa,
      O arma, che regga a' colpi ostili un dì;

    Che se ivi l'opra accalorando sta,
      E il petto poi di quell'acciar coprì,
      Intrepido alla pugna il Guerrier va,
      Perchè sa di qual tempra armi vestì.

    Imperturbabilmente sosterrò
      Anch'io gli avversi colpi, e contro me
      S'armi fortuna rea, quanto più può;

    Che il duro Creditor de' Giulj tre
      Ogni male a soffrir già m'avvezzò,
      Colle molestie, che tutt'or mi diè.


SONETTO

    Cometa, che pel Ciel cinta sen va
      Di sanguigno splendor, non mai così
      La sbigottita Plebe impaurì,
      Che morbi teme, e guerre, e aridità:

    Come sovente palpitar mi fa,
      Se improviso Colui mi comparì,
      La cui presenza ognor mi presagì
      L'ostinazion di mie calamità.

    Pur le Comete, o sian Pianeti, o no
      Hanno il lor corso regolar, tal che
      La lor comparsa preveder si può;

    Ma quella di Colui de' i Giulj tre
      Disporre in Efemeridi non so,
      Che spesso avviene, e regolar non è.


SONETTO

    Spesso in mezzo alle mie calamità[10]
      Per consolazion pensando vo,
      Che il debito all'umana società
      Dir, se non necessario, util si può.

    E fo le mie riflession, che la
      Providenza così subordinò
      L'un Uomo all'altro saviamente, e fa,
      Che abbian tutti i suoi debiti però.

    La differenza sol consiste quì,
      Che chi men gli dissimula, chi più
      Questo non gli dimostra, e quello sì.

    Al par di chi che sia giuro in mia fe,
      Ch'io li vorrei dissimular, se tu
      Mi tormentassi men per Giulj tre.


SONETTO

    Ronzin, che i sproni al fianco ognor soffrì
      E a sentirne le punte avvezzo è già;
      Gli stimoli non prezza alfin di chi
      Con armato tallon sopra gli sta.

    Tardo Bue, cui il Bifolco tutto dì
      Con acuto spunton pungendo va,
      Qualor sul dorso pungersi sentì,
      Non muove con maggior celerità.

    Fanciullo, che la sferza ognor provò,
      Il timor della sferza alfin perdè,
      Nè il Precettor più regolar lo può;

    Quel Ronzin, quel Fanciullo io son, quel Bu,
      Sprone, sferza, spuntone a usar con me
      Siegua il mio Creditor, nol prezzo più.


SONETTO

    Si mostra il Creditor spesso con me
      Piacevole, ed affabile così,
      Come fra amici suol farsi ogni dì,
      E par, che più non pensi a' Giulj tre.

    E solo vuol saper, se il Prusso Re
      Liberò Praga, e di Boemia uscì,
      Se l'armata naval da Brest partì,
      Se Annover prese il Marescial d'Etrè.

    E poichè da lontano la pigliò,
      A poco a poco al quia calando va,
      E dice: e ben quando i tre Giulj avrò?

    Così talor col Sorce il Gatto fa:
      Ci ruzza, e scherza, e l'intrattiene un po',
      E la fatal graffiata alfin gli dà.


SONETTO

    Nocchier, che 'l vasto mar solcando va
      Per ricco divenir, più che non è,
      Va a prendere a Bretonne il baccalà,
      E porta da Macao la seta, e 'l tè,

    Se urta ne' scogli, o nelle secche dà,
      Si raccomanda al Ciel con calda Fe,
      Che se giunge alla Patria appenderà
      Il Voto, pel favor, che ricevè.

    Odi pur me, benigno Ciel: se un dì
      Anch'io d'intorno togliermi potrò
      Colui, che mi perseguita così;

    Solennissimo Voto appenderò,
      Qual Uom, che gran pericoli fuggì,
      E da crudeli traversìe campò.


SONETTO

    Antichissimamente costumò
      Legge nemica inver d'umanità
      Che poi come contraria all'equità,
      Andò affatto in disuso, o s'annullò.

    Se in sodisfare ai debiti mancò
      Il debitor caduto in povertà,
      Con quanto egli volea di crudeltà,
      Nel corpo il creditor lo tormentò.

    Forse tal Legge anch'è in vigor per me,
      Che, o Creditor, mi affliggi e notte, e dì,
      Perchè pagar non posso i Giulj tre?

    Ma forse allor scontato avrei fin quì,
      Ed or pena crudel soffro da te,
      E non sodisfo al debito così.


SONETTO

    Qual'armonia dal Ciel fra noi calò,[11]
      Che l'aere intorno di dolcezza empì?
      Non mai sì dolce l'Usignol cantò,
      Cigno non cantò mai dolce così;

    Nè si soavemente risuonò
      Fra gli Elisi d'Orfeo la lira un dì,
      Quando il Mastin Trifauce addormentò,
      E al fiero Dite Euridice rapì.

    Forse fra' Cieli armonici sarà
      Concerto tal, se pur è ver, ciò che
      Dicea quel Savio dell'Antichità:[12]

    Ma sia pur quel, che vuol, cagiona in me
      Tal meraviglia, incanto tal, che fa
      Per fin dimenticarmi i Giulj tre.


SONETTO

    Pellegrin, che smarrissi, e s'internò
      Fra' boschi, onde ritrarre il piè non sa,
      Se uscì da quelle folte oscurità
      Ladrone insidioso, e l'assaltò;

    Agnel, che dal Pastor s'allontanò,
      Onde fuor della greggia errando va,
      Se mosso dalla ingorda avidità,
      Lupo fiero, e crudel se gli avventò;

    Colombo, che il romor del Falco udì,
      E già il vede piombar dall'alto in giù,
      E già stese l'artiglio, e l'investì;

    Non tanto mai l'assalto fier temè,
      Quanto tem'io, qualor veggio, che tu
      Vieni per domandarmi i Giulj tre.


SONETTO

    Crisofilo, che sempre amor provò
      Per la sua Fille, e attorno ognor le sta,
      L'amor suo ricoprir sempre tentò,
      Con aria di Platonica onestà;

    Ed osa dir, che in lei mai non amò
      Il gentil volto, e la mortal beltà,
      Ma l'Alma bella, che mancar non può,
      E le altre belle occulte qualità.

    Or io questa sua stoica virtù
      Non glie la vò passar netta così,
      Io, che d'ogni altro lo conosco più;

    E so, ch'Egli non viene intorno a me
      Per stima, che di me mai non nudrì,
      Ma pel secondo fin de' Giulj tre.


SONETTO

    Crisofilo mio caro, io so, che tu
      Vuoi sostener la gran bestialità,
      Che l'amore Platonico si dà,
      Cosa, che sempre contrastata fu:

    E vuoi, che se con questa alta virtù,
      Ama talun la feminil beltà,
      In bel volto fissar gli occhi potrà,
      E insiem tener l'Alma rivolta in sù.

    Or Crisofilo mio sopra di ciò
      Se vuoi sapere, il mio parer qual'è,
      Sincerissimamente io ti dirò.

    Che è difficil così secondo me
      Il Platonico amor, com'esser può
      Difficil, ch'io ti renda i Giulj tre.


SONETTO

    Soffrir d'aspro Padron la senettù,
      E cronica autunnale infermità,
      Insegnare ai Fanciulli il b, a, ba,
      E prestar mal gradita servitù,

    Udir d'un cane il querulo bu bu,
      Ed il romor di chi caldaje fa,
      E lungo dir, che metodo non ha,
      O chi loda se stesso, e sue virtù,

    Chieder, nè mai sentirsi dir di sì,
      Far lungo viaggio in sull'arena a piè,
      Udir le stesse repliche ogni dì,

    Son tutte noje inver, ma pur non v'è,
      Aspra noja e insoffribile così,
      Come d'un Creditor simile a te.


SONETTO

    Io non bramo il Tesor d'Attalo Re,
      Che il Popolo Romano ereditò,
      Nè gli onori di Cesare, allorchè
      Trionfator del gran Pompeo tornò;

    Nè chiedo o Ciel, che tu conceda a me
      Felicità, quanta bramar si può:
      Ch'esser l'Uom felicissimo non de,
      Nè senza amaro il dolce mai gustò.

    Ricchezze non mi dar, nè povertà;
      Dammi un mediocre stato: ho anch'io virtù
      Da soffrir le mediocri avversità.

    Ma dal mio Creditor scampami tu,
      Che questo è un mal, che paragon non ha,
      Io ne son stanco, e non ne posso più.


SONETTO

    Oh quanto scioccamente vaneggiò,
      Chi Arnaldo, e Lullo ed il Gebèr seguì,
      E lavorò nascosto, e notte, e dì,
      Ed i Metalli trasformar pensò:

    E intorno ad un crocciuol folle sudò,
      In cui mercurj, e solfi, e sali unì,
      Nè finalmente mai gli riuscì
      Coll'arte oprar ciò, che natura oprò.

    Ma oh perchè sì bell'arte in noi non è,
      Perch'all'Uom d'imitar vietato fu
      I bei lavori, che natura fe!

    Studiar vorrei la chimica virtù,
      E fatto il capital di Giulj tre,
      Rompere il vaso, e non pensarvi più.


SONETTO

    Come caldaja, o pentola, che sta
      In mezzo a vive fiamme, o sul treppiè,
      S'entro l'umor bolle e spumeggia, in se
      Più nol ritiene, e traboccar lo fa;

    Non altrimenti d'alcun tempo in quà
      Mi rigogliono in testa i Giulj tre
      Con tal bollor, che Poesìa si fe,
      E per la lingua esuberando va.

    E l'importuna istanza, onde fin quì
      L'avaro Creditor mi tormentò,
      Senza lasciarmi respirare un dì,

    Chiamar l'assiduo mantice si può,
      Che accesa tien la fantasia così,
      E la Poetica effusion causò.


SONETTO

    Forse al tempo, che Davide regnò,
      Non v'eran Creditor fieri così,
      Come pur troppo sonovi oggidì,
      Fra' quali uno fierissimo io n'ho.

    Che fra le imprecazion, che accumulò
      Nel Salmo centottesimo, altresì
      Un Creditor, che chieda e notte e dì
      Danaro a chi non l'ha, non mentovò.

    Ora se alcun tutto quel mal mi fa,
      Che ad un nemico altro nemico fe,
      Usando la più rea malignità.

    Dir gli vorrei così; quegli, ch'or è
      Mio Creditore, e attorno ognor mi stà,
      Che Creditor divenir possa a te.


SONETTO

    Guardami il Ciel! che brutto sogno oimè
      Feci jernotte, e di terror m'empì.
      Sognai, ch'er'io già morto, e avanti a me
      Il Giudice severo comparì:

    E con sdegno guatandomi, poichè
      Il gran Processo de' miei falli udì,
      (Ah che tremo ancor) l'ultima diè
      Sentenza irrevocabile così:

    Olà, costui che sia condotto giù
      Per le sue tante enormi iniquità,
      Ove chi c'entra, non ne scappa più:

    E il suo più fier tormentator sarà
      Colui, che in vita Creditor gli fu,
      E le veci del Diavolo farà.


SONETTO

    Di tanto orrore un sogno tal mi fu,
      Che mi destai tutto tremando, e acciò
      Non sia mai ver, farmi Eremita io vò,
      Nè vò nel Mondo trattenermi più;

    E solo alla più rigida virtù
      Tutti li giorni miei consacrerò,
      Ed ivi amaramente piangerò
      Le passate follìe di gioventù.

    Spirando penitenza, e santità,
      Andrò rasa la testa, e scalzo il piè,
      Nè mi farò veder per la Città;

    E se venisse a ricercar di me
      Il mio importuno Creditor fin là,
      Gli farò dir dal Portinar: non v'è.


SONETTO

    Non già per impugnar la verità,
      Ma meco sol per questionare un po'
      Un dì dell'Alma l'Immortalità
      Disputando Crisofilo negò.

    E formò la sua gran difficoltà,
      Con dir, che chi ha principio ha fin: ma no,
      Diss'io, che cosa v'è, che fin non ha,
      Quantunque alcuna volta incominciò;

    E al certo repugnanza in ciò non è,
      E oh Crisofilo mio scommetto su,
      Ch'io ne ritrovo anch'un esempio in te.

    Forse non cominciasti ancora tu
      A chiedermi una volta i Giulj tre,
      E duri ancor, nè la finisci più?


SONETTO

    La Lingua d'_oc_, dett'anch'oggi così,
      E la Lingua d'_ouì_, quella già fu,
      Con cui feron Galvan famoso, e Artù
      Poeti d'_oc_, e Prosator d'_ouì_:

    L'Illiria Lingua dello _jò_ si udì
      Dall'Adria, e l'Alpi, e le Zabacche in su:
      Si stende in Mar dal Varò e i Monti in giù
      Il bel Paese, dove suona il _sì_.[13]

    Che ad ogni volgar lingua il nome diè
      L'affermante particola, perciò
      L'Itàla dir Lingua del _sì_ si de:

    Ma tanto la mia lingua s'avvezzò
      A dir _no_ al Creditor de' Giulj tre,
      Che per me si può dir Lingua del _no_.


SONETTO

    Saggio Guerrier, che forza ed arte usò,
      Per espugnar Castel, Piazza, o Città,
      Posciachè tutto inutilmente oprò,
      Altrove l'armi ad impiegar sen va;

    E colui, che forare in van tentò
      L'istmo Corintio in più remota età,
      La temeraria impresa abbandonò,
      Conoscendone pur la vanità.

    Tu o Creditor solo ostinar così
      Ti vuoi nell'impossibile, benchè
      Vano ogni sforzo tuo finor riuscì:

    E quantunque ottener non puoi da me
      Danar giammai, pur cento volte il dì
      Pertinace mi chiedi i Giulj tre.


SONETTO

    Dicon, ch'era una volta in Frigia un Re
      (Ve lo racconto com'udita l'ho)
      Che un dì cortese ospizio a Bacco diè,
      Quando per avventura indi passò.

    Questi dal grato Nume ebbe in mercè,
      Col tatto in Or tutto cangiar, perciò
      Maravigliosamente oro si fe
      Ogni qualunque cosa egli toccò.

    Or questa in quanto a me non vorrei già
      Trasformatrice aurifica virtù:
      Lungi tanta dell'oro avidità.

    Vorrei che tutto in or cangiassi tu,
      Acciò ne avessi tanta sazietà,
      Che i Giulj tre non mi chiedessi più.


SONETTO

    Tu dici, che niun mai trovar potrà,
      E niun l'area del circolo trovò,
      E o Crisofilo mio, per verità
      Confesso anch'io, che niun la dimostrò;

    E sebben riducendo altri lo va
      In quadrati, in triangoli, e che so,
      Pur le residue curve estremità
      Esattamente misurar non può.

    Ma se una tal dimostrazion fin quì,
      Che tal'area trovasse, alcun non fe,
      Forse talun dimostreralla un dì;

    Che trovar vi si può, perch'ella v'è,
      Ma per l'opposto non potrai così,
      Se i tre Giulj non ho, trovarli in me.


SONETTO

    Avanti il Creditor viemmi ogni dì,
      E mi chiede, e richiede i Giulj tre,
      E come un sasso mi si pianta lì,
      Inseparabilissimo da me.

    E se mi scosto un po', dietro così,
      Come l'ombra, mi seguita: ah dov'è,
      Dov'è un Corno, qual'ebbe Astolfo un dì,
      Che fuggir lungi Uomini, e Donne fe?

    Se strumento avess'io di tal virtù,
      Suonar vorrei, quanto suonar si può,
      Finchè andasse in malora, e un po' più giù:

    Ma il destin, che a mio danno ognor si armò,
      Forse faria, che non udissi più
      Lo spaventoso suon, ch'altri fugò.


SONETTO

    O inutile travaglio, o vanità
      Sciocca dell'Uom! dunque che giova a me
      Scorrer tutti gli Autor dell'aurea età,
      E l'opre, che Maron, che Tullio fe?

    E specolar le occulte qualità,
      Del moto la cagion cercar qual'è,
      Come il flusso, e riflusso in mar si fa,
      E trae la calamita il ferro a se?

    Folle, chi al gelo, al caldo, e notte, e dì
      Per acquistar le scienze, e le virtù,
      Sulle sterili carte impallidì;

    Se o Creditor, possibil mai non fu,
      Buscar tre Giulj miseri, e così
      Darteli alfine; e non sentirti più.


SONETTO

    Crisofilo impegnossi in pochi dì
      Franco parlar lingua Francese, e già
      Intende ben, cosa vuol dire ouì,
      E all'occasione vi sa dir non pà.

    Or perch'Ei pensi di operar così,
      Non è palese, e non ognun lo sa,
      E solo il mio pensier forse colpì
      Nella ragion di questa novità.

    Vedendo ch'Egli in verun conto può
      I tre Giulj riscuotere da me,
      Per quanto fin ad or li domandò,

    Ei crede, ch'abbia più efficacia in se
      La Franca espression, vuole però
      Domandarmi in Francese i Giulj tre.


SONETTO

    Tu crederai, che irato io sia con te,
      E io t'amo, o Creditor, e ben ti vò,
      E vorrei, che tu fossi o Duce, o Re,
      Ed oro avessi, quanto aver si può;

    Che generoso allor diresti a me:
      Bisogno omai del tuo danar non ho;
      Però goditi pure i Giulj tre,
      Perchè donazione io te ne fo.

    Ma pur ragione ho di temer, che tu
      Mi seguiresti a tormentar così,
      Sebbene avessi l'oro del Perù;

    Che un gravissimo detto c'istruì,
      Che chi ha danar, sempre danar vuol più,
      Ed un'avaro cor mai non s'empì.


SONETTO

    Pallon, che la parete a colpir va,
      Ed ivi urtando si comprime un po',
      Nel violento rimaner non può
      Stato, che tal compression gli dà:

    Onde in vigor di sua elasticità
      La figura, che a forza abbandonò,
      Riprende, e contro quei, che lo lanciò,
      Cangiata direzzion, ritorno fa.

    Non altrimenti quel rancor, che tu
      Mi scagli contro per li Giulj tre
      Durezza in me trovando ognor vie più,

    Ribattuto da un No, riflette, e a te
      Quasi per una elastica virtù
      Riporta il colpo, che portava a me.


SONETTO

    Tra l'affanno, e il calor smaniando sta
      L'afflitto infermo, e or colla pancia in su
      Giace rivolto, or colla bocca in giù,
      E mai riposo, e quiete mai non ha:

    Ma se frattanto a visitarlo va,
      Sano lo torna il Medico, qual fu,
      Che un recipe gli scrive, ch'ha virtù
      Di guarirlo da quella infermità:

    Ma quella malattia, che provo in me,
      Nell'ossa in guisa tal mi penetrò,
      Che scacciarla possibile non è:

    Anzi se il Creditor mi visitò,
      Quanto più spesse visite mi fe,
      Tanto il mal più s'accrebbe, e peggiorò.


SONETTO

    Secondo la diversa qualità
      Del sangue, e degli umor, che collocò
      Natura in noi, nascer dell'opre può,
      E de' costumi la diversità.

    Degli spirti il vigor, l'attività
      Complession collerica temprò,
      E natural flemmatico formò
      Torpidezza di umori, e gravità.

    Rancor nasce, e avarizia, e amor così,
      E ogni azzion, per cui natura fe
      Quegli organi, de' quai ciascun fornì.

    E perciò penso, o Creditor, che in te
      Quell'importunità nasca di quì,
      Onde chiedi sì spesso i Giulj tre.


SONETTO

    Pera colui, che primo a noi portò
      La barbara crudel necessità:
      Per lei intero piacer non si gustò,
      Per lei intera non v'è felicità.

    Questa a scrivere insegna i Pagherò
      Al pover'Uom, quando denar non ha,
      Che se a suo tempo poi pagar non può,
      Perde in tetra prigion la libertà.

    Questa peste crudel gran campo aprì
      Di rancori, e di affanni ancora a me,
      Quando debiti far mi suggerì.

    E mi conforto sol pensando, che
      Potrà seccarmi il Creditor così,
      Ma prigion non si va per Giulj tre.


SONETTO

    Che pensi o Creditor, che stai così
      Tacito mesto e pien di serietà,
      Qual'Uom, che in mente rivolgendo va
      Cosa, che spesso mal gli riuscì?

    Tanto il pensier te fuor di te rapì,
      Che i torbidi occhi or quà rivolgi, or là,
      Spiegando in fronte il duol, che in sen ti sta
      E quasi tutta in se l'alma assorbì.

    Pensi forse, che in darno i Giulj tre
      Finor chiedesti, e or mediti di più
      Armi nuove drizzar contro di me?

    Ma invan pensoso stai sopra di ciò:
      Finor se ogni tuo sforzo inutil fu,
      Esser felice in avvenir non può.


SONETTO

    Armato tutto il Creditor non già
      Di quell'armi, che Acchille, o Enea vestì,
      Onde di tanta poi mortalità
      La Frigia l'un, l'altro l'Italia empì;

    Nè di quelle, onde poscia in altra età
      D'estinti corpi Orlando il suol coprì:
      Ma di durezza, e d'importunità,
      E d'aspri modi armato Ei mi assalì;

    Ed improviso incontro mi lanciò
      La richiesta mortal de' Giulj tre,
      Io mi schermisco, indi gli scaglio un No.

    Segua la pugna ad infierir: ma il piè
      Da Lui volgendo alfin, ratto men vo,
      E vincitor la fuga sol mi fe.


SONETTO

    La prima volta, che il Nocchiero udì
      L'alto fragor, che la burrasca fa,
      E vide il Mar, che fiero incrudelì,
      Impallidisce, e voce, e ardir non ha;

    Ma se poscia fra l'onde incanutì,
      Della procella al suon cantando va
      Assiso in poppa, e intrepido di lì
      Mira la tempestosa oscurità.

    Non altrimenti sbigottir mi fe,
      Quando il mio Creditore incominciò
      La perpetua canzon de' Giulj tre:

    Ma or che l'orecchio mio ci si avvezzò,
      Spasso mi da, se pria rancor mi diè,
      E di quel fiotto al suon cantando vo.


SONETTO

    Tra i Filosofi dell'Antichità
      Di Savj un certo numero vi fu,
      Che spacciavan costante egual virtù
      Nelle fortune, e nelle avversità:

    Ed armati di tal stoicità,
      Se il Mondo inter fosse caduto giù,
      Vantavansi, che nulla avrian di più
      Dimostrato spiacer, tema, o viltà:

    Or per veder, s'ella era vera, o no
      L'indifferenza lor per quattro dì
      A modo mio l'avrei provati un po':

    E se pur senso, e vita aveano in se,
      Non sarian stati placidi così
      Con quel mio Creditor di Giulj tre.


SONETTO

    Ho inteso dir di Ciceron, che fu
      Così eloquente, e così ben parlò,
      Che li debiti suoi mai non pagò,
      Mercè dell'oratoria sua virtù:

    Poichè salìa ne' Rostri, e di lassù
      Le cose in guisa tal sempre impicciò,
      Che se alcun mai per debiti il citò,
      Tanto dicea, che non pagava più.

    O caro Ciceron, beato te,
      Che corbellavi i Creditor così!
      O bella abilità, che il Ciel ti diè!

    Non fosti un Uom da nulla, come me,
      Che ciarlo, ciarlo, e non potei fin quì
      Il debito imbrogliar de' Giulj tre.


SONETTO

    Stansi i bitumi oziosi, e i solfi giù
      Dentro le cupe cavernosità
      Della Montagna Sicula, che fu
      Di Encelado la tomba un tempo fa:

    Ma se gli accende incognita virtù,
      Che ognun cerca qual sia, e niun lo sa,
      Vomita fiamme, e massi lancia in su
      Di portentosa mole, e quantità.

    Di materie Poetiche così
      Gran tempo informe massa in capo a me
      Stava oziosa, e non uscìa di lì:

    Ma d'allor che ivi nacque, e si formò
      La fermentazion de' Giulj tre,
      Eruzzion Poetica scoppiò.


SONETTO

    Forse viver non puoi senza di me?
      Forse ho qualche magnetica virtù?
      Che là, dove vad'io, vieni anche tu,
      Nè poi mi posso allontanar da te.

    Vò nascondermi in parte, ove non è
      Possibil mai, che mi ritrovi più,
      Parte, che ascosa agli altrui sguardi fu,
      Ove nessun giammai rivolse il piè.

    E vò veder, se tu verrai fin là,
      E deluder così neppur potrò
      L'insoffribile tua importunità:

    E allor simile al Can ti crederò,
      Che di lepre fugace in traccia va,
      E che sente l'odor dove passò.


SONETTO

    Felice il Mercatante, che non sta
      Sempre in quel luogo, in cui debiti fe,
      Ma carica la nave, e se ne va,
      La sua merce a spacciar, ove non è.

    Quindi del creditor sempre non ha
      La faccia disgustosa avanti a se,
      Nè sempre il creditor noja gli dà,
      Come la dà continuamente a me.

    Che non sol nè alla China, nè al Perù,
      Come fa il Mercatante, io me ne vo,
      Ma entrambi dimoriam sempre quassù;

    Talmente che da lui, dovunque vo,
      Lungi son dieci canne, o poco più;
      Or come Diavol mai schivar si può?


SONETTO

    Un certo Ammirator d'antichità
      Un giorno al Campidoglio mi portò:
      Ivi Statue vid'io di quà, e di là,
      Intorno a cui dotto scalpel sudò.

    Vidi le mostruose Deità,
      Che il folle Egizzio popolo adorò:
      Vidi il ferito Gladiator, che sta
      Quasi mezzo cadendo, e mezzo no.

    Vidi una Statua poi, simile a chi
      Pel suo credito odioso ognor mi fu,
      Che d'interna paura il cor mi empì:

    Onde fuggendo me ne venni giù,
      Come talor da' Birri il Reo fuggì,
      E fin ch'io vivo, non vi torno più.


SONETTO

    Opra da discret'Uom giammai non fu,
      Voler trarre il danar, da chi non l'ha,
      Ed è contro la vera carità,
      E contro ogni Cristiana altra virtù.

    Ma discorriamo un po' dal tetto in giù:
      Questa tua importuna assiduità,
      Che mi tormenta ognor, forse farà,
      Ch'io mi risolva a non pagarti più.

    Giacchè per vero dir fra pochi dì
      Ebbi pensier di soddisfarti, acciò
      Niun sapesse i miei debiti così.

    Ora è diverso; o ch'io ti paghi, o no,
      Tutti sanno il mio debito oggidì,
      Onde a pagar più stimolo non ho.


SONETTO

    Mentre il mio Creditor dei Giulj tre,
      Con tai colori dipingendo vo,
      Dirà talun, che un miser'Uomo egli è,
      Se senza Giulj tre campar non può.

    Pur va coi manichini, e il carilè,
      E col mantello di color ponsò;
      E nella sua magione i canapè
      Tien disposti per ordine, e i burò.

    Ma se da me i tre Giulj Egli non ha,
      Pace non trova mai notte, nè dì,
      Nè cura la paterna eredità.

    D'ingiustizia tacciarmi or chi potrà,
      Se alle sue istanze m'oppongo così?
      Poich'ella è coccia, e non necessità.


SONETTO

    S'armi fortuna pur contro di me,
      S'adiri pur quanto più puote, e fa,
      Per me spaventi il suo furor non ha,
      Per me più formidabile non è.

    Che sì crudel vessazion mi diè,
      Che a soffrire ogni fiera avversità
      Con indolenza, e con tranquillità,
      M'avvezzò il Creditor de' Giulj tre.

    E il mal, che tanti guai mi cagionò,
      Pur finalmente un ben mi partorì,
      Che un ben spesso da un mal cavar si può.

    Nè mai timor dell'empia sorte avrò,
      Se lieto in mezzo ai guai canto, e così
      Colle sventure mie scherzando vo.


SONETTO

    Vieni: mi disse il mio Destino un dì
      Col ciglio pien di tetra austerità:
      Nè pel no più lasciommi, o ver pel sì
      Libera elezzion di volontà.

    Io tosto lo seguìa qual cieco, o chi
      Al carnefice suo dietro sen va,
      Che a lui le man legò, gli occhi coprì,
      Onde ei la meta del cammin non sa.

    Fra turbini, e fra venti ei mi guidò.
      Quanti assalti ebbe il cuore, inciampi il piè,
      Vertigini il cervel, ridir chi può?

    Ma da mille pericoli poichè
      Mi trasse illeso, alfin mi abbandonò
      In man d'un Creditor di Giulj tre.


SONETTO

    Se là, dove il Pastor recinto fe
      Di pali, e reti al gregge suo, men vo,
      E il Can quanto feroce esser mai può,
      Correr veggio ringhiando in verso me;

    Guardo se presso o legno, o sasso v'è,
      E con tal'arma in man timor non ho,
      O ver mi cerco in tasca, e il pan gli do,
      Onde ei si placa, e mi lambisce il piè.

    Con te però non si può far così,
      Che da te priego udito mai non fu,
      Nè faccia brusca mai t'impaurì.

    Cor più ostinato, e inesorabil più
      Del tuo mai non si vide, e non si udì,
      Se più docile è un Can, che non sei tu.


SONETTO

    Ascolta i bei ricordi, che ti dò:
      Il bene, fratel mio, quando si fa,
      Dir non bisogna: me ne rifarò,
      Che pregio allora, e merito non ha.

    Dice il proverbio, ed a memoria io l'ho:
      Far pur del bene, e poi mettilo là,
      Che al fine un giorno, benchè tardi un po',
      Quando ci pensi men, ti gioverà.

    Così va fatto, e tu non fai così,
      Che avendomi prestato Giulj tre,
      Or mi rechi il malanno e notte, e dì

    Breve sollievo il tuo favor mi diè,
      Ma la noja, e il rancor mai non finì;
      Onde un tal ben miglior del mal non è.


SONETTO

    Un Bando rigoroso affisso fu,
      In cui espressa proibizion si fe
      Degli Aquilini, e de' Sesini, e de'
      Quattrin' Fransesi, e omai non corron più.

    Siam proprio disgraziati ed io, e tu;
      Poichè già pronti, e in ordine per te
      Cencinquanta quattrini avea: ma che?
      Tutti Aquilini son, tutti Monsù.

    Or che s'ha a fare? altro danar non ho,
      E il Bando trasgredir non voglio già,
      E il vietato danar spacciar non vò.

    Questa provvision si prenderà:
      Tal moneta in deposito terrò,
      Finchè di nuovo in uso tornerà.


SONETTO

    Crisofilo fra le altre sue virtù
      Ha un natural flemmatico così,
      Ch'Uom più lento di lui giammai non fu,
      E al no giammai non si risolve, o al sì.

    E non occorre dir: sbrigati su,
      Falla finita, e non piantarti lì,
      Che ciò, ch'altri in mezz'ora, o in poco più
      Farebbe, Egli non sbriga in mezzo dì;

    E sol, per non so qual fatalità,
      In gran sollecitudine con me
      Quella lentezza sua cangiando va:

    Poichè se ha a domandarmi i Giulj tre,
      Scossa la natural stupidità,
      Uom di lui più sollecito non v'è.


SONETTO

    Il numero ternario un non so che
      Di simbolico ognor significò.
      Se tre volte alcun rito, o azzion si fe
      Per compiuta, e solenne allor passò.

    Tre Parche fur, tre Arpie, tre Furie, e tre
      Grazie, e tre bocche il Cerbero allargò,
      Famoso era d'Apolline il Treppiè,
      Di Tridente Nettun la destra armò.

    Questo mistico tre fin da quel dì,
      Che de' tre Giulj il debito mi fa
      In mezzo a mille guai penar così,

    Una certa malefica virtù
      Per me ritenne, e d'ogni avversità
      Funesto geroglifico mi fu.


SONETTO

    Valoroso guerrier colui non è,
      Che primo l'oste ad assalir non va:
      Bene il dover di buon guerrier compiè,
      Chi agli altri di bravura esempj dà.

    Sacro Orator, che della nostra Fe,
      Le leggi spiega, e esorta alla pietà,
      Se quel, che ad altri inculca, e' mai non fe
      Predichi pur poco profitto fa.

    Or se i debiti tuoi non paghi tu,
      Perchè sarai tanto importun con chi
      T'è debitor, che non ti cheti più?

    Dunque l'esempio tuo seguiterò,
      Nè mi puoi biasimar se fo così,
      Pria paga gli altri, e poi ti pagherò.


SONETTO

    Meco t'adiri, e vuoi saper perchè
      I tre Giulj una volta non ti dò:
      Ascolta bene, o Creditor, qual'è
      La mia ragion fortissima: non gli ho:

    A tal ragion, che milita per me,
      Alcuna eccezzion dar non si può,
      Sebben venisse, chi la Legge fe,
      Chi il Codice, e i Digesti compilò;

    Ed io per tua cagion far non vò già,
      Cosa, che al galantuom si proibì,
      Ed offende il decoro, e l'onestà:

    Che ogni legge, ogni dritto, ogni equità
      Protegge il debitor, contro di chi
      Vuol spremerne il danar, quando non l'ha.


SONETTO

    Se pur così non m'interpelli, acciò
      Prescrivere io non possa i Giulj tre
      O per costituirmi in mala Fè,
      O per altro motivo, ch'io non so.

    Ma pensier di prescriverli io non ho,
      Ed il credito tuo oltre di che,
      Se così tenue credituzzo egli è,
      Farmi doloso debitor non può.

    In oltre il punto principal, non sta
      Nella mia confession, nè mai fin quì
      Del debito negai la verità;

    Nè mai la negherò: nego bensì
      Danari aver: la gran difficoltà,
      O Crisofilo mio, consiste quì.


SONETTO

    Uom che sempre tranquillo il tutto, udì
      Spesso l'altrui loquacità stancò,
      Ma o Crisofilo mio, dir non si può,
      Che la cosa fra noi passi così

    Non si stancò l'orecchio mio fin quì,
      Perchè finor pagato mai non ho,
      Ma di chieder danar mai non cessò
      La lingua tua, e il suo tenor seguì.

    Resta indeciso il dubbio ancor: che se
      Dar giudizio talun giammai dovrà,
      Di noi finora il vincitor qual'è;

    Decidere cred'io, mai non saprà,
      Chi di vantaggio ottenga men, chi più,
      E in dubbio la question lasciar dovrà.


SONETTO

    Ma per ragion di fatto io sosterrò,
      Che ho più vantaggio, o Creditor di te.
      Che solamente hai tu contro di me
      Jus petitorio, e in possessorio io sto.

    Or se del Possessor si reputò
      Sempre miglior condizion, finchè
      Io non t'abbia renduti i Giulj tre,
      Sempre in miglior condizion sarò.

    Se il meglio della lite ebbi fin quì,
      Vo' mantener la superiorità,
      Nè vò soffrir, che s'abbia a dire un dì,

    Ch'io finalmente non potendo più
      Resistere alla tua importunità,
      Cedetti il campo, e la vincesti tu.


SONETTO

    Ascolta, o Creditor de' Giulj tre,
      Quanto ingiusta è la tua importunità,
      Non sol le umane leggi, e l'equità:
      Ma le divine ancor parlan per me:

    Poichè nell'Esodo una Legge v'è,
      Che vieta si usi troppa assiduità,
      Contro chi modo da pagar non ha,
      Scritta di proprio pugno da Mosè.

    Il capo ventidue ricerca lì,
      E al verso venticinque osserva un po',
      Se quel Legislator parla così.

    Chi danari al mio Popolo prestò,
      Importuno esattor e notte, e dì
      Non lo tormenti, se pagar non può.


SONETTO

    Dal frigido Lappon vanne fin là
      Tra quei, cui 'l Sol la cute abbrustolì,
      E d'onde a coricar Febo sen va,
      Scorri fin dove in sul mattino uscì

    Nel bujo seno dell'antichità
      Spingi l'avido sguardo, e poi di lì
      Per gli ampi spazj di ciascuna età
      Scendi gradatamente ai nostri dì:

    E passa poscia a rintracciar ciò, che
      E la storia, e la favola narrò,
      L'opre de' Duci, Imperadori, e Re;

    Son certo, o Creditor de' Giulj tre,
      Che in verun luogo, o tempo unqua si può
      Trovare un seccator simile a te.


SONETTO

    Di che stupirsi il Creditor non ha
      Se alla richiesta delli Giulj tre
      Una risposta sempre ode da me
      Dell'istessa natura, e qualità.

    Che come chi toccando sempre va
      O sull'organo, o ver coll'oboè
      La sola per esempio alamirè,
      Sempre l'istessa voce uscir ne fa;

    Ogniqualvolta il Creditor così
      L'istessissimo tasto mi toccò,
      L'istessissima voce anch'egli udì.

    E i Giulj tre, non pago ancor di ciò,
      Se mi chiedesse cento volte il dì,
      Cento volte udirìa l'istesso no.


SONETTO

    Importuno il tafan così non è
      Nella stagion, che son più caldi i dì,
      Importuno il moscon non è così,
      Come importuno è il Creditor con me.

    Che se fresca dal Ciel piova cadè,
      Ogni moscone, ogni tafan sparì:
      Ma non giammai varia stagion fin quì
      Tormi d'intorno il Creditor potè.

    E forse come o per la gravità,
      O vero per centripeta virtù,
      O per attrazzione, o per chi sà,

    Tendon di sua natura i corpi in giù;
      Così per natural tua proprietà
      A me tendi, o Crisofilo, anche tu.


SONETTO

    Se il Ciel tutte versasse addosso a me
      Le più fiere crudeli avversità,
      E senza giubba, e senza scarpe in piè
      Dovessi mendicar per la Città,

    Ti giuro, o Creditor de' Giulj tre,
      Che vorrei con invitta ilarità,
      Pria, che danaro domandare a te,
      Le più dure soffrir necessità.

    Poichè pur troppo conobbi fin quì,
      Quanto indiscreto Creditor sei tu,
      Quanti il debito guai mi partorì.

    E de' suoi guai l'origine qual fu,
      Ciascun tien fisso in mente, e dove un dì
      L'Asino cadde, non ci cade più.


SONETTO

    Ben cento volte ho replicato a te
      Questa istessa infallibil verità,
      Che a conto mio da certo tempo in quà
      La razza de' quattrini si perdè.

    Tu non ostante vieni intorno a me
      Con insoffribile importunità,
      E per quei maledetti Giulj tre
      Mi perseguiti senza carità.

    Forse in disperazion ridur mi vuo',
      Ond'io mi appicchi, e vuoi vedermi in giù
      Pender col laccio al collo? o questo no.

    Risolverommi a non pagarti più,
      E in guisa tal te disperar farò,
      E vò piuttosto, che ti appicchi tu.


SONETTO

    Se in compagnìa di vaghe Ninfe io sto,
      Che liete stanno a ragionar con me,
      Se in parte ascosa a passeggiar men vo,
      Ove tumulto, ove romor non è.

    E quando d'Oriente il Sol spuntò,
      E quando nell'Oceano cadè,
      Giammai lieto, e tranquillo il cor non ho,
      Tornanmi sempre in mente i Giulj tre.

    Sugli occhi l'odiosa ognor mi sta
      Sembianza di colui; che sempre fu
      Il turbator di mia tranquillità:

    Sembianza, che a me par brutta assai più,
      E più paura, e più terror mi fa,
      Che se fosse Asmodeo, o Belzebù.


SONETTO

    Dica pur, chi dir vuole: eccolo quì
      Il mio caro Crisofilo, che sta
      Vegeto, e fresco, e in buona sanità,
      E dell'istesso umor, ch'ebbe fin quì.

    Chi lui brama trovar, sia notte, o dì,
      Venga dove son io, che il troverà;
      Ch'altro pensier, ed altro affar non ha,
      Che de' tre Giulj, e sempre batte lì.

    Ma per pietà taci una volta: ah tu
      Seccheresti importuno per mia fè,
      Il mar delle Zabacche, e di Bacù.

    Vanne una volta pur lungi da me,
      E non tornarmi a molestar mai più,
      Con quei tuoi maledetti Giulj tre.


SONETTO

    Io mi protesto, che non so ciocchè
      Un palmo avvien dal nostro Mondo in là:
      Io non affermo, e mio parer non è,
      Che di Mondi si dia pluralità;

    E che abitata sia la Luna, e che
      Una specie vi sia d'Umanità,
      A cui principio il Padre Adam non diè,
      E le istesse, che noi, leggi non ha.

    Ma se fosse ciò ver, solo lassù
      Bramerei di alloggiar, perchè così
      Potrei sperar di non vederti più.

    Pur temerei, che colla scorta un dì
      Del Padre Daniele, ancora tu[14]
      Venir potessi a ritrovarmi lì.


SONETTO

    Giacchè quest'aere, che spirando vo,
      M'influisce tristezza, e avversità,
      E giacchè 'l Creditor, ovunque io sto,
      Sempre crudele affanno al cor mi dà;

    Sicuramente abbandonare io vò
      Il patrio suolo, e la natìa Città,
      E a ricercar sotto altro Cielo andrò
      Quella pace, che il cor quivi non ha.

    Ma partir deggio in guisa tal, che più
      Non sappia il Creditor de' Giulj tre,
      Ov'io mi sia, e cosa mai ne fu:

    Che se lo giunge a discoprir, benchè
      Ito fossi nell'Indie, o in Calecù,
      Prende le poste, e se ne vien da me.


SONETTO

    Ma come un tempo Oreste, il qual poichè
      La Madre coll'Adultero ammazzò,
      E tanto atrocemente vendicò
      Il Padre ucciso, e la tradita fè,

    Ramingo esule afflitto ognor con se
      Trasse le Furie ultrici, ovunque andò;
      Anch'io nel core impressa porterò
      La mia pena amarissima con me.

    Che dopo lunghi, e travagliosi dì,
      Se a quel misero alfin pietosa fu
      La Dea, cui sangue uman lo Scita offrì;

    Perchè rimedio tal, forza, o virtù
      Trovar non posso altrove anch'io così,
      Onde i tre Giulj non m'affligan più?


SONETTO

    Allorchè questi il padre Tebro udì
      Striduli carmi, che tessendo vo,
      Dal fondo limaccioso il capo alzò,
      Scosse lo scettro, e disse poi così:

    Su queste rive Ennio, e Lucilio un dì,
      E il Venusino, e il Mantovan cantò,
      Quando la Poesia Roma prezzò,
      Ed al valore le bell'arti unì:

    Poscia Cigni canori in ogni età
      Misti con Rane, Gufi, Upupe, e Gru
      Le mie sponde assordiro, e la Città.

    Si cantaron le Donne, i Duci, i Re,
      Armi, amori, follìe: ora di più
      Vi mancava il Cantor de' Giulj tre.


SONETTO

    Or dunque, amici, un caro addio vi do,
      Mentre da voi lungi rivolgo il piè:
      Addìo, Ninfe leggiadre, io me ne vo,
      Nè più fra voi si parlerà di me.

    A questo amaro passo mi portò
      Il debito fatal de' Giulj tre:
      Ma nè il primo, nè l'ultimo sarò,
      Che ramingo per debito si fe.

    Me n'esco in questo dir dalla Città:
      Ma tosto il Creditor dietro mi fu,
      E disse, venir teco ho volontà.

    Afflitto allor me ne ritorno su,
      Sclamando: e dunque in Ciel fisso sarà,
      Che fuggir da costui non possa più?


SONETTO

    O Felice avventura, o novità,
      Che l'anima di giubilo m'empì!
      O per me lieto, e fortunato dì,
      Che tutti i guai dimenticar mi fa!

    Partir vuole Crisofilo di quà,
      E il tutto già sollecito allestì:
      Di già il farzetto solito vestì,
      E l'abito depose da Città.

    Posti ha gli sproni, e gli stivali a' piè,
      E già d'un salto sul destrier montò,
      E già al fianco lo spron sentir gli fe.

    Partissi, e tanta gioja in me lasciò,
      Quanta ne prova il marinar, poichè
      Sparir le nubi, e il turbine cessò.


SONETTO

    Cessate, o fieri venti, or che di quà
      Il Creditor mio se ne partì:
      Spiri un zeffiro placido così,
      Come nel fresco April spirando va.

    Splenda ridente il Ciel serenità,
      Sia mite l'aria, e sia tranquillo il dì,
      E finch'Egli non sia lungi di quì,
      Non gli succeda alcuna avversità.

    Goda viaggio felice: ma poichè
      Lungi da me sarà, fracassi giù
      Acqua, e neve dal Ciel, quanta ve n'è;

    Acciò non possa ritornar quassù:
      E faccia, come il Corvo di Noè,
      Che andò a mal'ora, e non si vide più.


SONETTO

    Dacchè partì Crisofilo di quà,
      Dacchè più non lo veggio attorno a me,
      Nè più chieder mi sento i Giulj tre,
      Mentre scorro le vie della Città;

    Pieno di sicurezza, e libertà
      Lieto rivolgo, ove m'aggrada, il piè,
      Siccome il Sorce, se il Gatto non c'è,
      Arditamente passeggiando va.

    E oh voglia il Ciel, che non ritorni su,
      E se verso maremma egli partì,
      Se lo portino i Turchi in schiavitù:

    Nè mal gli bramo: io gli auguro, che lì,
      Purchè fra noi tornar nol lascin più,
      Lo faccino Visirre, o ver Muftì.


SONETTO

    Qual geme afflitta, e misera Città,
      Se d'assedio la strinse, e circondò
      Nemica schiera, e contro quella usò
      Le più fiere crudeli ostilità;

    E qual poscia riprende ilarità,
      Se poich'in van l'assalitor tentò
      E forza ed arte, il campo indi levò,
      E guerra ed armi altrove a portar và.

    O Crisofilo mio, allorchè tu
      M'assediavi a cagion de' Giulj tre,
      Il mio rancor, la tema mia tal fu;

    Ed or ch'ito ne sei lungi da me,
      Nè più mi angusti, e non ti veggio più,
      Il mio piacer, la gioja mia tal'è.


SONETTO

    Postier vi sono lettere per me?
      Evvene una: un bajocco: eccolo quì
      Vediam, chi scrive mai: che veggio, oimè!
      È il Creditor, che scrivemi così:

    Fa, che sian preparati i Giulj tre
      Quanto prima, poichè sarò costì
      O vivo, o morto, o a cavallo, o a piè
      Domenica al più lungo, o Lunedì.

    Poffareddio! se ognor mi tormentò
      Già da vicino, ora che lungi sta,
      Di tormentarmi ancor la via trovò.

    E il malan per la Posta Egli mi dà,
      E mentre li tre Giulj io non gli do,
      Pagarne i frutti in guisa tal mi fa.


SONETTO

    Dicesi, che taluno adoperò
      Certo licor venefico così,
      Che se un foglio talor se ne bagnò,
      Fe morir chi lo lesse, o chi l'aprì.

    Scarse le vie son dunque, onde si può
      Di questa vita terminare i dì,
      Che nuove di morir guise inventò
      La crudeltà, ch'in se l'Uomo nudrì;

    Starei per dir, che men fiera non è,
      Non tormentosa men la crudeltà,
      Ch'usa il mio Creditor verso di me;

    Poichè, mentre scrivendomi mi fa
      Frequenti istanze per li Giulj tre,
      Il veleno per Lettera mi dà.


SONETTO

    Vedesti mai, se il Genitor partì,
      Saltellando scherzar con libertà
      Il Fanciullin con quei, che pari età
      Di genio, e di costumi insieme unì:

    Se intanto il Genitor gli comparì,
      E rimirollo con severità,
      In parte ascosa a rifugiar sen va,
      E pieno di timor stassene lì.

    Libero, e lieto anch'io vivea, finchè
      Alcun la gioja mia non disturbò,
      E lungi stette il Creditor da me;

    Ed or che finalmente ritornò,
      Di nuovo a domandarmi i Giulj tre,
      Timido ascoso e cheto me ne stò.


SONETTO

    Non di tanto piacer Priamo esultò,
      Allorchè il Greco esercito partì,
      E insidioso fra scogli s'appiattò,
      Finchè Sinone il tradimento ordì;

    Nè tanto poscia alto terror provò,
      Quando dal sen del rio cavallo uscì
      Nembo d'armati, e 'l Greco stuol tornò,
      Che di stragi, e d'incendj il tutto empì;

    Quanta provai letizia, allorchè tu
      Da me partisti, o Creditor, poichè
      Mi lusingai di non vederti più:

    E quanto provo smarrimento in me,
      Or che ti veggio ritornar quassù,
      A chiedermi di nuovo i Giulj tre.


SONETTO

    Certa antica moneta in un burò,
      Io conservava o Creditor per te:
      Sotterra la trovai: moneta ella è,
      Che de' Consoli al tempo in Roma usò.

    Son sesterzj minor: valean perciò
      Due assi, ed un semisse: in guisa che
      A due bajocchi e mezzo, o forse a tre
      La lor valuta ragguagliar si può.[15]

    Ed in tanti sesterzj io volea già
      Pagarti: udendo poi più d'un, che fu
      Il costo loro disputando va,

    Con tal moneta ebbi io difficoltà
      Pagar tre Giulj; che nè men, nè più
      Vò dar di quel, che di ragion ti va.


SONETTO

    Io t'assicuro, o Creditor, che se
      Avuti gli avess'io, da un tempo fa
      Già renduti t'avrei li Giulj tre.
      Ma che? chi mai può dar quel, che non ha?

    Ben quel che posso darti avrai da me,
      E al tuo crin la mia Musa intesserà
      Serto immortal di lodi; onde di te
      Ragioneranno le venture età.

    La buona intenzion scorgi di quì,
      Se tutto quel, che posso dar, ti do:
      Posso darti Sonetti, eccoli quì.

    Ma tu non appagandoti di ciò,
      Non vuoi, ch'io sconti il debito così.
      Straluni gli occhi, e par che dichi: oibò.


SONETTO

    Di sbrigarmi oramai speme non v'è
      Dal tormento crudel, che mi recò
      Continuamente il Creditor, benchè
      Andasse dove il suo bisavo andò.

    Che giorni sono il testamento fe,
      E l'erede d'un vincolo gravò,
      Che se ognor non mi chieda i Giulj tre,
      Del dritto ereditario lo privò.

    E dove egual malignità si udì,
      Se da Lui negli eredi passerà
      L'azzion, che mi tormenta e notte e dì?

    E neppur morte terminar potrà
      Le pene mie, se il Creditor così
      E vivo, e morto mi tormenterà.


SONETTO

    Non isdegnarti, se la tua beltà,
      Che dolcemente, o Nisa, mi ferì,
      Non vengo a vagheggiar spesso così,
      Come solea già far tre mesi fa:

    Che tante brighe un Creditor mi dà,
      Che ogni altra cura dal mio cor partì,
      Dacchè 'l debito feci, da quel dì
      Amore nel mio cor loco non ha:

    Credilo pur, credilo, Nisa, a me:
      Amore star col debito non può,
      Onde io più penso al Creditor, che a te.

    Dacchè il debito feci, amor passò:
      Amor dimenticai per Giulj tre,
      E un Diavolo così l'altro cacciò.


SONETTO

    O Nisa mia, non ti piccar però,
      Nè volermi tacciar d'infedeltà:
      Da quel dì pria diverso cor non ho,
      Nè diversa è da pria la tua beltà:

    Ma se fossi Colei, che cagionò
      La ruina di Troja un tempo fa,
      Con frequenza maggior di quel, che fo,
      Volger a te il pensier non potrei già:

    Ma pur, Nisa, se vuoi, che verso te
      Torni il mio core, ed il pensier qual fu,
      Dammi (non è gran cosa) Giulj tre.

    Nè ciò strano ti sembri: a nostri dì
      La prima Donna non saresti tu,
      Che l'amante conservasi così.


SONETTO

    Nisa, quell'orsacchin, che l'altro dì
      Tisbino mio dentro il covil trovò,
      Ardito, e franco omai si fe così:
      Che più volte col can si cimentò.

    L'innamorato Alcon se n'invaghì,
      E per Nerina sua mel domandò;
      Che se dar gliel volea egli m'offrì
      Il più bel nappo, che veder si può:

    Ma abbiasi il Nappo Alcon, che sol per te
      Io lo conservo, o Nisa, e sol puoi tu,
      Se un Regno avessi, un Regno aver da me

    So, che il dono al tuo merto egual non è
      Più ti darei, ma che può dar di più
      Un, che pagar non puote Giulj tre?


SONETTO

    Omai sei volte il Sol dal Gange uscì,
      E altrettante nell'onde i rai tuffò,
      E invan di Nisa ricercando vo,
      O che tramonti, o che rinasca il dì.

    Non più alla selva, e al prato comparì,
      Nè più al fonte limpido tornò,
      Ove spesso i bei labbri Ella bagnò
      Nell'estivo calor del mezzodì.

    Se dunque, o Nisa, in traccia io vo di te,
      Tu qual Cerva, che il Can fuggendo va,
      Rapida ognor t'involerai da me?

    E per strana crudel fatalità,
      S'io fuggo ii Creditor de' Giulj tre,
      Ei per l'opposto ognor mi seguirà?


SONETTO

    Se mai d'un rio sul verde margo, o appiè
      Della fronzuta quercia assiso sto,
      Dello strale, che il cor mi penetrò,
      O Nisa bella, a ragionar con te;

    E al mio lungo penar grata mercè
      Fra la speme, e il timor chiedendo vo,
      Tu il mio querulo amore udir non vuo',
      E vuoi, che io canti pur de' Giulj tre.

    Che mi lusingo? o chi veder non sa,
      Che sempre odioso l'amor mio ti fu,
      E il mio cordoglio sol piacer ti dà?

    Donna crudele, io non so dir, se più
      Penar l'amore, o il debito mi fa,
      Se più mi affligga il Creditore, o Tu.


SONETTO

    Ve' quel gruppo di fior, che comparì
      In sul mattin? tosto languir dovrà.
      Tal, Nisa orgogliosetta, è tua beltà,
      Che or vaga appar, ma cangerassi un dì.

    Ve' come l'aura, che dal mare uscì,
      Scuote que' fiori, e or quà li piega, or là?
      D'uno in un altro amor cangiando va,
      Nisa incostante, il core tuo così.

    Or va coglili, e il crin... ma no, che appiè
      Di quei schifosa Botta si appiattò.
      Scagliale un sasso, ed indi un altro: or ve'

    Come in se si restrinse, e rannicchiò!
      E sembra il Creditor de' Giulj tre,
      Che mille onte sostiene, e mille no.


SONETTO

    L'Imagine di Nisa un tempo fa
      Fissa così nel mio pensier si ste,
      Che espressa io vi vedea l'alma beltà,
      L'aureo crine, il bel volto, e il vago piè;

    Quando o mio Creditor, da un tempo in quà
      La strana metamorfosi si fe
      E per fiera crudel fatalità
      A un tratto Nisa convertissi in te;

    E dove fissa lungamente fu
      L'imago di Colei, che m'invaghì,
      Ve' che bel figurin! c'entrasti tu.

    Sulle campagne argive ancor così
      All'improvviso comparir d'un Bu,
      La bella figlia d'Inaco sparì.


SONETTO

    Amor nascosto entro il mio cor così
      Meco sovente ragionando va:
      Deh canta di Colei, che t'invaghì,
      Le soavi maniere, e la beltà;

    Canta i begli occhi, onde quel dardo uscì,
      Che fisso in mezzo al petto ancor ti sta,
      E il favellar, che il fuoco accese un dì,
      Che dolce ardore in sen provar ti fa.

    Ond'io, che oppormi al suo voler non so,
      M'accingo all'alta impresa, indi fra me
      Ancor dubioso ragionando vo:

    Se da quella crudel grata mercè
      Del mio dolor, del pianto mio non ho,
      Ah si torni a cantar de' Giulj tre.


SONETTO

    Dacchè l'imagin della tua beltà
      Scolpita in sen per man di amor mi fu,
      O dolcissima Nisa, il Ciel lo sa,
      Se ognora esser vorrei, ove sei tu.

    Ma il tuo German, che in guardia tua si sta,
      Qual Argo in guardia d'Io cangiata in Bu,
      Se vede alcun che cortesia ti fa,
      Storce le ciglia stranamente in su;

    E geloso, quant'Uomo esser mai può,
      Non vuol, ch'io venga a ragionar con te:
      E io cimentarmi secolui non vò.

    Nisa, quel tuo German, risveglia in me
      Tal rancor, ch'altri in me non risvegliò,
      Toltone il Creditor de' Giulj tre.


SONETTO

    Se d'altre Ninfe in compagnia sen va
      Nisa, quando di fiori il crin s'ornò,
      E della rosea gonna s'ammantò,
      Che sì vezzosa comparir la fa;

    Mentre conquiso da sì gran beltà,
      Pien di diletto a riguardarla io sto,
      Contro i colpi d'amor schermo non ho,
      D'amor, che dolce pena al cor mi dà:

    Ma poichè Nisa agli occhi miei sparì,
      Come di cosa, che già un tempo fu,
      Di lei 'l pensiero anche dal cor svanì;

    Ma se veggio colui de' Giulj tre,
      Il cor mi trema, e se nol veggio più,
      Mi lascia in cor l'imagine di se.


SONETTO

    Nisa, se mai ricuperar potrò
      La primiera del cuor tranquillità,
      Se mai sciolto dal debito sarò,
      Che noje penosissime or mi dà;

    Del tuo bel nome risuonar farò
      Pindo e Parnasso, ed alla tua beltà
      Serto di eterna lode intesserò,
      Ed ancor Nisa il suo Poeta avrà:

    Ma troppo è grave il duol, che notte, e dì
      L'alma mi punge acerbamente, e che
      D'affannosa mestizia il cor m'empì,

    Nè degno stil formar potrò, finchè
      A tormentar mi seguirà così
      La persecuzion de' Giulj tre.


SONETTO

    Balenar veggio spesso a mezzodì,
      Ed un torbido vento si levò,
      Che porta pioggia, e il Ciel già s'oscurò,
      Già in aria il tuon romoreggiar si udì.

    Se m'ami, o Nisa, al tramontar del dì
      Tu chiama Eurilla, io con Elpin verrò,
      Poich'all'ovil ridotto il gregge avrò,
      E insiem la notte passerem così:

    Eurilla con Elpin ragionerà,
      Io, Nisa mia, ragionerò con te,
      E piova, e tuoni pur, quanto saprà;

    Ch'io spererei, che a ricercar di me
      In sì piovosa notte non verrà
      L'importuno Esattor de' Giulj tre.


SONETTO

    Sorgi omai dalle piume, Elpin, che già
      Lucido appare in Oriente il dì,
      Già della chiusa mandra il gregge uscì,
      E la fresch'erba a pascolar sen va;

    Gran festa al vicin bosco oggi sarà;
      Ivi già di Pastor folla s'unì:
      Chi canterà lodi a Dio Pane, e chi
      Gli amorosi suoi guai racconterà.

    Via, sorgi, Elpin, prendi la cetra, io so,
      Che a te del canto il primo onor si de,
      Che contrastarti altro cantor non può.

    Là, se t'aggrada, anch'io verrò con te,
      E sulla mia zampogna anch'io dirò
      Qualche cosetta sopra i Giulj tre.


SONETTO

    Dunque pieni di dolce ilarità
      Sempre ogni Ninfa, ogni Pastor vedrò,
      Ed io fra meste imagini dovrò
      Passar la giovanil florida età?

    E coll'idea di mie calamità
      Di funesti pensier mi pascerò?
      Sempre nemica la fortuna avrò,
      Sempre torbido il Ciel per me sarà?

    E la noja crudel, che ognor fin quì
      Acerbissimo affanno al cor mi diè,
      Sempre dovrà perseverar così?

    Placati omai, fiero destin, con me,
      E respirar lasciami in pace un dì,
      Rimembranza crudel de' Giulj tre.


SONETTO

    O Nisa bella, or che vicin ti sto,
      Il volto a rimirar, che m'invaghì,
      Interamente dal mio cor partì
      La noja, che finor mi tormentò.

    D'ogni pensiero io vò spogliarmi, e vò
      Or or cantarti la canzon, che un dì
      Già piacque ad Amarillide così,
      Ch'ella stessa di un serto il crin m'ornò.

    E tu, Lesbìn, dammi quel nappo, e giù
      Versavi quel liquor, che infonde in me
      Contro il fiero destin forza, e virtù.

    O dolce vin, mi scenda in sen da te
      Piena letizia, arma fatal sii tu
      Contro il mio Creditor de' Giulj tre.


SONETTO

    Possente Bacco, almo piacer sei tu,
      Tu la vera dell'Uom felicità,
      Sol per te le passate avversità
      Lo sventurato non rammenta più:

    Tu il sangue empi d'insolita virtù,
      Tu il peso allevj alla canuta età,
      E sciolta la natìa frigidità,
      Le ritorni il calor di gioventù.

    Or se del Nume tuo ricolmerò
      Le vene mie, possente Bacco, in te
      Ogni tetro pensier sommergerò;

    Se il tuo furor trasfonderassi in me,
      Pien di letizia il cor, tripudierò
      In faccia al Creditor de' Giulj tre.


SONETTO

    Or qual m'ingombra insolita virtù,
      Che dolcemente mi rapisce a me?
      Qual fuoco entro mi scorre in su, e in giù?
      Evoè, viva Bacco, evoè, evoè,

    Ma chi è Colui, che viemmi incontro? orsù
      Lungi da me, chiunque sei: ma, oimè!
      Or ti ravviso, il Creditor sei tu,
      Tu sei il Creditor de' Giulj tre.

    Dammi quei Tirso, o gran Lièo, che un dì
      Il Derisor di tua divinità
      Sulle balze di Rodope punì.

    Il Creditor vittima tua cadrà,
      Esempio memorabile per chi
      Tormenta i debitor, com'Egli fa.


SONETTO

    Odimi Osmino: Come pria tu puo',
      Foglie di amaro assenzio a coglier va,
      l'ispido rusco, il cardo acuto, e lo
      Spino pungente, ed un fastel ne fa.

    Aggiungervi la bieta ancor se vuo',
      E la lubrica malva si potrà:
      Mel reca poi, che farne un serto io vò,
      Che un capo degno inghirlandar dovrà;

    Ma pria di Pane al Tempio i Fauni, ed i
      Satiri invita dal caprigno piè,
      Che vengan tutti allo spuntar del dì;

    Ch'io poscia il Creditor de' Giulj tre
      Vò meco alla funzion condurre, e lì
      De' Seccatori incoronarlo Re.


SONETTO

    Questo è il luogo fatal, Tirsi, ove un dì
      Crisofilo tre Giulj mi prestò:
      Quì di tasca il borsel trasse, e l'aprì,
      Quì con stento i tre Giulj mi contò.

    Non era un passo ancor lungi di quì,
      Che a chiedermi i tre Giulj incominciò,
      E da quel punto a tormentar così
      L'avaro Creditor mi seguitò.

    Funesto è il luogo, ed espiar si dè.
      Di legna tronche ai rai di Luna or fa
      Magico fuoco, e scinto e scalzo il piè

    Giragli intorno, ed aspergendo il va
      D'acqua lustrale; indi due volte, e tre
      Grida: Genio maligno, esci di quà.


SONETTO

    Ve', che alla riva il marinar di già
      Lo snello burchielletto avvicinò?
      Per l'onde placidissime colà
      Andianne, o Nisa, a passeggiar un po'.

    Cimodocea, che per lo mar sen va
      Con i coralli al crin ti mostrerò;
      E per invidia in mar si tufferà
      La bella Dea, che tanto Acide amò.

    Se Glauco, e Proteo, e Palemone in te
      Fisserà i sguardi, io proverò bensì
      Rancori, e gelosie dentro di me:

    Ma se animale amfibio egli non è,
      Almen d'intorno non avrò così
      Il gran Persecutor de' Giulj tre.


SONETTO

    Soffia aquilon, e il Ciel s'irrigidì,
      E il Sol da noi più lungi i rai portò;
      Nudo di foglie il bosco omai restò,
      E già la neve i monti ricoprì.

    Vieni amica stagion, che se fin quì
      Noja amara, e crudel mi tormentò,
      Forse da te qualche riposo avrò,
      Quando rigido è il Ciel, piovoso il dì.

    Cada dirotta pioggia in quantità,
      Quanta ne venne al tempo di Noè;
      Che almeno in casa il Creditor starà:

    E se pur Uom salvatico non è,
      Così frequentemente non potrà
      Venirmi a domandare i Giulj tre.


SONETTO

    La rigida stagione omai partì,
      Il crudo gelo, e l'aquilon cessò,
      E a respirar fra noi più freschi dì,
      Dall'Egitto la rondine tornò.

    Le verdi foglie il bosco rivestì,
      D'erbe, e di fiori il praticel s'ornò,
      La voce della tortora si udì,
      E il canto Filomela incominciò,

    Or che dell'anno è la più bella età,
      Muovere in liete danze agile il piè
      La Pastorella, ed il Pastor godrà.

    Io sol mesto dorrommi, e solo a me
      Ogni dolce piacer funesterà
      L'ostinato Esattor de' Giulj tre.


SONETTO

    Quando del Mondo nella prima età
      L'Uom coi dettami di natura oprò,
      La comunanza d'ogni bene usò
      Ciascun con egual dritto, e libertà.

    Poscia di posseder l'avidità
      Del mio, e del tuo la distinzion trovò,
      E con permute allor l'Uom riparò
      Le reciproche sue necessità.

    Ma perchè sempre in permutar così
      Mantener l'uguaglianza ei non potè,
      Al baratto il danar sustituì.

    E questo poscia immenso stuol con se
      Trasse d'amari guai, di cui fin quì
      Parte soffersi anch'io per Giulj tre.


SONETTO

    La soverchia in parlar prolissità,
      O Crisofilo mio, seguir non so;
      Amo la sostanziosa brevità,
      Stile, che Sparta anticamente usò.

    Così la Bizantina autorità
      Al Macedone il transito negò
      Per le sue terre, e per le sue Città
      Con un sol, ma sonoro e tondo No.[16]

    Quel risoluto No, quel pretto Sì
      Son d'un sincero cuor pregj, e virtù,
      Che i veri sensi suoi scopre così:

    Quindi, allorchè mi chiedi i Giulj tre,
      Se con un No rispondo, e nulla più,
      Scorgi da questo un cuor sincero in me.


SONETTO

    Tigre, a cui i figli il cacciator rapì,
      Poichè trovati entro il covil non gli ha,
      Dietro colui, che già ratto fuggì,
      Corre fremendo, e presso omai gli sta;

    Ma quei getta un cristal: stupida lì
      Si ferma ella a mirarsi; indi oltre va:
      Ma sovr'altro cristal s'arresta, e dà
      Tempo di fuga al predator così.

    Tal'io se viene il Creditor da me,
      Tosto alcun mio Sonetto udir gli fo:
      Ei l'ode: indi pur chiede i Giulj tre:

    Altro, ed altro Sonetto allor gli do,
      E l'intrattengo in guisa tal, finchè
      Sottraendo pian pian da Lui mi vo.


SONETTO

    Che mai l'ambizioso Uom non tentò,
      Acciò di se si ragionasse un dì?
      Sotto il peso dell'armi altri sudò,
      Ed ai colpi nemici il petto offrì.

    Riposo ai stanchi lumi altri negò,
      E sulle dotte carte impallidì,
      E Quei, che il Tempio in Efeso incendiò,
      Volle il suo nome immortalar così.

    Quanto felice, o Creditor, sei tu,
      Perchè il tuo nome cognito si fe
      Senza alcun tuo periglio, arte, e virtù;

    E forse alcun ragionerà di te
      Negli anni appresso, e pur non sai di più,
      Che sempre domandarmi i Giulj tre.


SONETTO

    Se facessi più prove, che non fe
      Orlando, Rodomonte, e Ferraù,
      O Carlo Imperador, Re de' Monsù,
      O chi tolse l'Impero a Dario Re;

    Se niuno al Mondo avesse più di te
      Forza, senno, valor, scienza, e virtù,
      Se ne sapessi un tantinello più,
      Di chi inventò la regola del tre:

    Il nome tuo ne' più remoti dì,
      O Creditor, non diverrebbe già
      Così famoso, e celebre così,

    Come famosa l'importunità,
      Con cui mi tormentasti ognor fin quì,
      Nei secoli de' secoli sarà.


SONETTO

    Forse talun si sdegnerà con me,
      Forse troppo importuno altrui sarò,
      Perchè non altro replicando vo,
      Che il Creditor nojoso, e i Giulj tre;

    E giacchè vena facile mi diè
      Apollo, e 'l suo favor mi dimostrò,
      Vorria, che in alto stil cantassi ciò,
      Che fecero i gran Duci, ed i gran Re.

    Ma siccome i disagj, che soffrì
      Sempre il Guerriero divisando va,
      E le battaglie, in cui trovossi un dì;

    Del Creditor, che sì penar mi fa,
      E del debito anch'io parlo così,
      Che dove il dente duol, la lingua dà.


SONETTO

    Poichè la pioggia Autunnal cadè,
      E il Sol dall'Oriente s'affacciò,
      Sul molle suol breve comparsa fe
      Il fungo periglioso, e poi mancò;

    Così saria per avvenire a te;
      Che nessun pregio immortalar ti può,
      Se non fosse l'affar de' Giulj tre,
      Onde celebre al Mondo io ti farò.

    E il Vecchio avaro ne' futuri dì
      Al prodigo Figliuol ti preporrà
      Per raro esempio, e gli dirà così:

    Se ricco divenir brami anche tu,
      Figlio, imita Costui, che un tempo fa
      Il gran martel de' debitori fu.


SONETTO

    Questi, che al vento in van spargendo vo,
      Canori miei lamenti io lessi un dì
      A Crisofilo, il qual, poichè gli udì,
      Ostinato in tal guisa mi parlò:

    Non Poesie da te, quattrini vò,
      Che non mai Poesia la borsa empì:
      Invece il tempo di sprecar così,
      Una volta a pagar deh pensa un po'.

    Io gli risposi: assai pensier mi diè,
      E sempre acuta spina al cor mi fu
      Il debito finor de' Giulj tre.

    Son stanco omai, non vò pensarvi più,
      S'esser pagato vuoi, or tocca a te:
      Io ci pensai finor, pensaci or tu.


SONETTO

    Folle colui, che ne' più lieti dì
      Della verde stagion di gioventù
      Vive di gloria vana in schiavitù,
      E di sterile fama s'invaghì;

    Se Apollo in van la mente, e il sen m'empì
      Di nobile poetica virtù,
      E or sulle cime del Parnaso, or su
      l'alto Elicona passeggiai fin quì;

    Poichè le Muse il Creditor sprezzò,
      E lungi ognor volse da Cirra il piè,
      Nè dell'immortal fronda il crine ornò;

    E di vaga Poesia pago non è,
      E queste rime, che tessendo vo,
      Non le apprezza il valor di Giulj tre.


SONETTO

    Uom di voce sottil, di mezza età,
      Asciutto lungo magro e curvo un po',
      Tardo e lento così, che noja fa,
      Irresoluto, quanto esser mai può.

    Curioso, ed amator di novità;
      Tenace del parer, cui s'appigliò;
      Se l'interroghi, estatico si sta
      Mezz'ora senza dir nè sì, nè no;

    Ma sopra il tutto seccator così,
      Così nojoso, ed importuno egli è,
      Che il suo proprio carattere sta quì.

    Ora se alcun brama saper da me,
      Chi sia quell'Uom, di cui parlai fin quì,
      È questi il Creditor de' Giulj tre.


SONETTO

    Chiunque il suon de' miei lamenti udì,
      Onde i miseri fogli empiendo vo,
      E le querele, che sparsi fin quì
      Contro quei, che i tre Giulj mi prestò;

    Forse dirà, ch'io non dovea così
      Trattar basso soggetto, e che perciò
      Di quel celeste dono, onde mi empì
      La mente Apollo, inutil uso io fo.

    Ma che mai può saper costui, chi dà
      Sprone al mio canto, ed il dolor qual'è,
      Che il cor m'affligge, e che languir mi fa?

    Che può saper, che spesso entro di me
      Non pianga le mie vere avversità,
      Sotto il pretesto delli Giulj tre?


SONETTO

    Stando jernotte in cameretta, e lì
      Allo splendor, che un lumicin mi fa,
      Cantando i guai, che il Creditor mi dà,
      M'apparve Apollo, e mi parlò così:

    Ti basti omai scherzato aver fin quì,
      Se ti punge d'onor cupidità,
      Canta opre degne d'immortalità,
      Indi torvo guatommi, e poi sparì.

    Alto stupor m'invase, ed arrestò
      La voce entro la gola, e mi cadè
      Di man la Cetra, e il lume si smorzò.

    Ma pure alfin tornando alquanto in me
      Quì, dissi, omai la buona notte io do
      Al Creditor per sempre, e a' Giulj tre.


  IL FINE.



INDICE DE I SONETTI


  A

  _Altri canti il valore, e la pietà_                 pag. 1.
  _A un Pittor dissi un giorno: Io vò da te_              44.
  _Augel, che lo Sparvier lungi mirò_                     53.
  _Amici rallegratevi con me_                             62.
  _Alza la grave mazza il Fabro, e dà_                    89.
  _Antichissimamente costumò_                             95.
  _Avanti il Creditor viemmi ogni dì_                    112.
  _Armato tutto il Creditor, non già_                    121.
  _Ascolta i bei ricordi, che ti do_                     134.
  _Ascolta o Creditor de' Giulj tre_                     143.
  _Allorchè questi il Padre Tebro udì_                   155.
  _Amor nascosto entro il mio cor così_                  174.

  B

  _Ben cento volte ho replicato a Te_                    148.
  _Balenar veggio spesso a mezzo dì_                     178.

  C

  _Chi crederia, che arida selce, e che_                   4.
  _Che sia il debito un mal, dubbio non v'ha_             10.
  _Canta lo stanco passaggier, che a piè_                 17.
  _Che tengo certa indubitata fè_                         57.
  _Chi agli affamati il voto ventre empì_                 61.
  _Chiunque a' rai del giorno i lumi aprì_                82.
  _Come il dono di Paride, che un dì_                     86.
  _Cometa, che pel Ciel cinta sen và_                     90.
  _Crisofilo, che sempre amor provò_                      98.
  _Crisofilo mio caro, io so che tu_                      99.
  _Come caldaja, o pentola che sta_                      103.
  _Crisofilo impegnossi in pochi dì_                     114.
  _Che pensi o Creditor che stai così_                   120.
  _Crisofilo fra le altre sue virtù_                     136.
  _Cessate o fieri venti, or che di quà_                 157.
  _Certa antica moneta in un Burò_                       164.
  _Che mai l'ambizioso Uom non tentò_                    192.
  _Chiunque il suon de' miei lamenti udì_                199.

  D

  _Di bella lode ardente avidità_                          5.
  _Dunque mentre mi chiedi i Giulj tre_                   12.
  _Dimmi, che giova, o Creditor, che tu_                  26.
  _Dica chi vuol, l'attrazzion si dà_                     65.
  _Di tanto orrore un sogno tal mi fu_                   106.
  _Dicon, ch'era una volta in Friggia un Re_             110.
  _Dal frigido Lappon, vanne fin là_                     144.
  _Di che stupirsi il Creditor non ha_                   145.
  _Dica pur, chi dir vuole: eccolo quì_                  150.
  _Dacchè partì Crisofilo di quà_                        158.
  _Dicesi, che taluno adoperò_                           161.
  _Di sbrigarmi oramai speme non v'è_                    166.
  _Dacchè l'imagin della tua beltà_                      175.
  _Dunque pieni di dolce ilarità_                        180.

  E

  _È Fola ciò, che dicesi dei dì_                         33.
  _È cosa natural, ch'io sogni ciò_                       37.

  F

  _Finchè guai non mi afflissero, finchè_                  8.
  _Felici tempi in cui Berta filò_                        41.
  _Fiera gente vid'io, che non ha Fè_                     45.
  _Finchè ti splenderan sereni i dì_                      72.
  _Forse al tempo, che Davide regnò_                     104.
  _Forse viver non puoi senza di me?_                    126.
  _Felice il Mercadante, che non sta_                    127.
  _Forse talun si sdegnerà con me_                       194.
  _Folle colui, che ne' più lieti dì_                    197.

  G

  _Guardami il Ciel! che brutto sogno oimè!_             105.
  _Giacchè quest'aere, che spirando vo_                  152.

  H

  _Ho inteso dir di Ciceron, che fu_                     124.

  I

  _Io, che folle vantava un tempo fa_                      9.
  _Io non potrò dimenticar mai più_                       13.
  _Io mi sognai, saran due notti o tre_                   25.
  _Il caro foglio Ergasto mio, che tu_                    54.
  _Insegnano i Filosofi, che se_                          69.
  _Impallidisce il misero Bassà_                          70.
  _Il bel costume di operar così_                         75.
  _Inusitata generosità_                                  77.
  _Io non bramo il Tesor d'Attalo Re_                    101.
  _Il numero ternario un non so che_                     137.
  _Importuno il tafan così non è_                        146.
  _Io mi protesto, che non so ciocchè_                   151.
  _Io t'assicuro, o Creditor, che se_                    165.

  L

  _Lungi o favole o sogni altri già fu_                    3.
  _L'uso scema il piacer. Cosa non v'ha_                  29.
  _L'amor sincero, che ravviso in te_                     55.
  _Là presso il Polo, nei più corti dì_                   81.
  _Lo stupido Barbier, che a Mida un dì_                  88.
  _La lingua d'oc, dett'anch'oggi così_                  108.
  _La prima volta, che il Nocchiero udì_                 122.
  _L'Imagine di Nisa un tempo fa_                        173.
  _La rigida stagion omai partì_                         188.
  _La soverchia in parlar prolissità_                    190.

  M

  _Mai l'Uom felice in vita sua non fu_                   15.
  _Mentre la greggia pascolava un dì_                     20.
  _Mi ricordo aver letto in un Rabbì_                     27.
  _Mentre l'Eco mi chiede i Giulj tre_                    31.
  _Menzogna filosofica non è_                             49.
  _Ma il Creditore mio de' Giulj tre_                     58.
  _Ma quand'Egli si ostina a dir di no_                   60.
  _Mentre il mio Creditor dei Giulj tre_                 130.
  _Meco t'adiri, e vuoi saper perchè_                    139.
  _Ma per ragion di fatto io sosterrò_                   142.
  _Ma come un tempo Oreste, il qual poichè_              153.

  N

  _Non è il debito un mal, che abbia con se_              28.
  _Nocchier, che lungamente s'avvezzò_                    36.
  _Non ci perdiamo d'animo però_                          63.
  _Non poche volte ho inteso dir, da chi_                 78.
  _Nocchier, che 'l vasto mar solcando va_                94.
  _Non già per impugnar la verità_                       107.
  _Non di tanto piacer Priamo esultò_                    163.
  _Non isdegnarti, se la tua beltà_                      167.
  _Nisa, quell'orsacchin, che l'altro dì_                169.
  _Nisa, se mai ricuperar potrò_                         177.

  O

  _O bambolin che nella prima età_                        16.
  _Or che d'Europa tra fiere ostilità_                    22.
  _Oppressa dai gran debiti allorchè_                     23.
  _O sia qualche diabolica virtù_                         30.
  _Or che il lucido Sol da noi partì_                     34.
  _O sonno placidissimo, che se'_                         35.
  _O Crisofilo mio da un tempo in quà_                    50.
  _Or dunque, Ergasto mio, sappi, che io vo_              56.
  _Oh quanto scioccamente vaneggiò_                      102.
  _O inutile travaglio, o vanità_                        113.
  _Opra da discret'Uom giammai non fu_                   129.
  _Or dunque, amici, un caro addio vi do_                154.
  _O felice avventura, o novità_                         156.
  _O Nisa mia, non ti piccar però_                       168.
  _Omai sei volte il Sol dal Gange uscì_                 170.
  _O Nisa bella, or che vicin ti sto_                    181.
  _Or qual mi ingombra insolita virtù_                   183.
  _Odimi Osmino: Come pria tu puo'_                      184.

  P

  _Placido scorre un fiumicel laggiù_                     40.
  _Propizio il Ciel m'assista, e di lassù_                42.
  _Per legge di natura ciascun de'_                       51.
  _Per occultarmi al Creditor, poichè_                    74.
  _Prima i rapidi fiumi andranno in su_                   83.
  _Passaggier, che soletto inerme, e a piè_               85.
  _Pellegrin, che smarrissi, e s'internò_                 97.
  _Pallon, che la parete a colpir va_                    116.
  _Pera colui, che primo a noi portò_                    119.
  _Postier vi sono lettere per me?_                      160.
  _Possente Bacco, almo piacer sei tu_                   182.
  _Poichè la pioggia Autunnal cadè_                      195.

  Q

  _Quando un atto spessissimo si fa_                      11.
  _Quel, che ha più di vigore, e attività_                38.
  _Quindi è, che ognor rammento il luogo, e il dì_        39.
  _Quel, che sì fieramente imperversò_                    47.
  _Quando il Sol più cocenti, e dritti in giù_            71.
  _Qualor tetra mestizia m'assalì_                        73.
  _Qual Uom, che lunga prigionia soffrì_                  80.
  _Qual'armonia dal Ciel fra noi calò_                    96.
  _Qual geme afflitta, e misera Città_                   159.
  _Questo è il luogo fatal, Tirsi, ove un dì_            185.
  _Quando del Mondo nella prima età_                     189.
  _Questi, che al vento in van spargendo vo_             196.

  R

  _Ronzin, che i sproni al fianco ognor soffrì_           92.

  S

  _Se già negli anni di mia gioventù_                      2.
  _Senza quella sublime alma virtù_                        6.
  _Se a rimirar qualche augelletto sto_                   18.
  _Se colla produttrice alma virtù_                       21.
  _Se un natural perpetuo moto egli è_                    32.
  _Se morte un brutto scherzo non mi fa_                  43.
  _Se tu avessi la verga di Mosè_                         48.
  _Se su le gambe, su la faccia, o su_                    52.
  _Se interrogasse alcun quelli, che già_                 67.
  _Spesso al mio Creditor vien volontà_                   76.
  _Se un risalto febbril si desta in me_                  79.
  _Se Dedalo ingegnoso ai fianchi unì_                    84.
  _Sempre per infallibil terrò_                           87.
  _Spesso in mezzo alle mie calamità_                     91.
  _Si mostra il Creditor spesso con me_                   93.
  _Soffrir d'aspro Padron la senettù_                    100.
  _Saggio Guerrier, che forza, ed arte usò_              109.
  _Secondo la diversa qualità_                           118.
  _Stansi i bitumi oziosi, e i solfi giù_                125.
  _S'armi fortuna pur contro di me_                      131.
  _Se là, dove il Pastor recinto fe_                     133.
  _Se pur così non m'interpelli, acciò_                  140.
  _Se il Ciel tutte versasse addosso a me_               147.
  _Se in compagnia di vaghe Ninfe io sto_                149.
  _Se mai d'un rio sul verde margo, o appiè_             171.
  _Se d'altre Ninfe in compagnia sen va_                 176.
  _Sorgi omai dalle piume, Elpin, che già_               179.
  _Soffia aquilon, e il Ciel s'irrigidì_                 187.
  _Se facessi più prove, che non fe_                     193.
  _Stando jernotte in cameretta, e lì_                   200.

  T

  _Tu mi chiedi denari, ed io non gli ho_                 19.
  _Tunisi, Algeri, Tripoli, e Salè_                       46.
  _Tu, che sai ben di Logica, che fa_                     59.
  _Timida Lepre, o Cavriol, poichè_                       68.
  _Tu dici, che niun mai trovar potrà_                   111.
  _Tu crederai, che irato io sia con te_                 115.
  _Tra l'affanno, e il calor smaniando sta_              117.
  _Tra i Filosofi dell'antichità_                        123.
  _Tigre, a cui i figli il cacciator rapì_               191.

  V

  _Voi che udite le mie calamità_                          7.
  _Vaghe colline, ombrose amenità_                        14.
  _Vincolo conjugal non mi legò_                          24.
  _Vano desio, folle pensier nutrì_                       64.
  _Vero è, che questa incognita virtù_                    66.
  _Vn certo Ammirator d'Antichità_                       128.
  _Vieni: mi disse il mio destino un dì_                 132.
  _Vn Bando rigoroso affisso fu_                         135.
  _Valoroso guerrier colui non è_                        138.
  _Vom, che sempre tranquillo il tutto udì_              141.
  _Vedesti mai, se il genitor partì_                     162.
  _Ve', quel gruppo di fior, che comparì_                172.
  _Ve', che alla riva il marinar di già_                 186.
  _Vom di voce sottil, di mezza età_                     198.


  IL FINE.



NOTE:


[1]

                      . . . . . . _amphora caepit_
    _Institui, currente rota, cur urceus exit?_
                             Hor. de Art. Poet.

[2] Questo semplicissimo Sonetto estemporaneamente fatto diede
occasione all'Opera.

[3] _Cic. lib. 3. de Off._

[4] Uno de' motivi, per cui la Plebe si ritirò nel Monte Sacro fu per
ritrovarsi oppressa da' debiti, per sollevarla dai quali invano avea
nella Curia pubblicamente parlato M. Valerio Dittatore: Menenio Agrippa
però col celebre Apologo delle membra del Corpo Umano fra loro discordi
gl'indusse a riunirsi coi Senatori. _Liv. Dec. pr. lib. 2. cap. 16. e
17._

[5] _Num. 36. 4. Deut. 15. 2._

[6] Nomi di Arabi autori di Cabale.

[7] Questa Società chiamavasi degli Eranisti _apò tù eranizin_
dall'impetrarsi da qualcheduno, che gli amici alcuna casa a suo pro
contribuissero. Onde Gronovio nelle antichità Greche riferisce, che
_èranos_ chiamavasi quella Cena, alle spese della quale ciascun degli
Amici la sua porzione contribuiva.

[8] _Liv. Dec. pr. lib. 3. cap. 13. & 14._

[9] _Liv. Dec. pr. lib. 5 cap. 27._

[10] Dieu, chi destinoit les hommes a la societé, la leur rendit
necessaire par mille besoins reciproques. _M. Debonnaire Introd. a les
Lecons de la Sagesse._

[11] In udendo una Musica.

[12] Platone.

[13] Le lingue Volgari nate dalla corruzzione della latina presero
ordinariamente la denominazione dalla particola affermativa. Quindi
perchè la Lingua Provenzale esprimeva l'affermazione colla particola
_oc_ perciò fu detta Lingua d'_oc_; e perchè la Lingua Italiana si
affermava colla particola _sì_, perciò da Dante _cant. 33. della
Comedia_ l'Italia fu chiamata _il bel Paese del sì_. E quindi ancora,
perchè i Provenzali in Poesia Romanza, e i Franchi in Prosa le prodezze
di Artù e degli altri Cavalieri, detti erranti, narrarono; perciò
_Poeti dell'oc, e Prosatori dell'ouì_ chiamolli Monsignor Giusto
Fontanini, che potrà leggersi al _cap. 30. dell'Eloq. Ital._

[14] Il Padre Daniele Autore dell'Opera intitolata: _Viaggi per lo
Mondo di Cartesio._

[15] Il Sesterzio minore, detto in Latino _Sestertius_ a differenza
del Sesterzio maggiore, in latino chiamato _Sestertium_, che valeva
mille Sesterzj minori, costava due Assi e mezzo. L'Asse era la decima
parte del Danaro; onde il Danaro comodamente può ragguagliarsi al
nostro Giulio, l'Asse al Bajocco, e quindi il Sesterzio minore al mezzo
Grosso: Non ostante molti Autori regolandosi col valore intrinseco di
detto Sesterzio lo ragguagliano alla ragione di tre nostri Bajocchi.

[16] Avendo Filippo il Macedone domandato ai Bizantini il passaggio
per gli Stati loro; essi gli risposero colla sola particola negativa
_Apoph_.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





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