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Title: Il mio cadavere
Author: Mastriani, Francesco
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il mio cadavere" ***

                          FRANCESCO MASTRIANI

                              PARTE PRIMA

                                ROMANZI



   Proprietà letteraria, dell'editore Cav. Gennaro Salvati acquistata
                      con rogito per notar Tucci.

                          FRANCESCO MASTRIANI


                            IL MIO CADAVERE


                                ROMANZO

                                   IV



                                 NAPOLI
                    STAB. TIP. CAV. GENNARO SALVATI
                            (Casa Editrice)
                    Maddalenella degli Spagnoli, 19



Parte Prima

                                        Timor mortis conturbat me.
                                                         SALMI.



I.

LA FAMIGLIA DELLO STRADIERE


Se un viandante qualunque, trattovi per casualità o per vaghezza di
solitarie meditazioni, in sull'imbrunire d'una bella sera di està
dell'anno 1826 si fosse trovato a scendere pei greppi posti a ridosso
del Real Albergo de' Poveri e di _S. Maria degli Angioli alle Croci_,
si sarebbe certamente soffermato passando da costa a un povero abituro,
diruto in gran parte per le scosse del tremuoto detto di S. Anna,
avvenuto nella sera del 26 luglio 1805. La cagione che avrebbe indotto
il supposto passeggiatore a fermarsi dappresso a quell'abituro, era, il
sentirsi in una stanza del secondo ed ultimo piano, quello propriamente
che dava le viste di essere il più danneggiato, voci di pianto che
avrebbero straziato un macigno: quelle voci erano la più parte di donne
e di fanciulli; ed, alle smozzicate parole, ai moncherini di frasi che
si mischiavano ai singulti d'un pianto che parea di disperazione, si
capiva che una cara persona di quella famiglia era morta o moribonda.
Ed in fatti, un uomo era presso a spirare.

Quest'uomo era il capo di quella famiglia.

Inoltriamoci nell'interno del misero abituro. Spettacol sublime e
commovente! La religione, che sorregge gli ultimi istanti della vita di
un padre; che gli sta per dischiudere le porte del cielo; la religione
che sola rimane accanto al capezzale del moribondo, anello divino che
congiugne il tempo alla eternità; la religione, che vive nelle lagrime,
volgeasi benanche ai superstiti per mitigarne il dolore acerbissimo.

Un sacerdote stava dappresso all'infermo vegliardo, ed in pari tempo
che iva ravviando al cielo i pensieri dell'uomo giunto all'estremo
della sua carriera, egli era prodigo di affettuose parole e di cure
amorevolissime verso i costui figliuoletti, disacerbando e acquietando
l'esagerata escandescenza di un dolore che non conosce limite nè freno.

Era questo ministro di Dio giovane ancora, perocchè parea che sol di
fresco avesse varcato i trent'anni. Nelle sue sembianze, cosparse
di pallidezza leggeasi un'anima di angiolo, e massime negli occhi
che erano pregni, di una pietà incommensurabile. Per due notti e tre
lunghissimi giorni di estate quel venerando ecclesiastico non si era
dipartito da quella casa, in cui parea che tolta si fosse la nobile
missione di surrogare appo quella famigliuola le paterne cure, di cui i
miserelli figli eran privi, e per mancanza di madre e per l'infermità
del genitore. Egli somministrava i medicamenti all'ammalato, e li
facea comprare col proprio danaro; riconfortava quello a sperare nel
cielo, ad aver fiducia nell'arte salutare; e quando lo infermo, per
trista convinzione, dimenando il capo rigettava ogni argomento di
speranza, Padre Ambrogio (così nomavasi il reverendo) gli tenea diverso
linguaggio: parlavagli delle miserie dell'umana vita, del nobil fine
dell'uomo creato a più alti ed immortali destini, il riconsolava,
mettendogli dinanzi agli occhi la tenerissima e sacra memoria che di
lui avrebbero serbato i suoi figliuoli, l'onorato nome che ei lasciava
loro, il compianto generale e le preci che lo avrebbero accompagnato
allo eterno riposo, e da ultimo quel santo uomo il rassicurava
sull'avvenire dei fanciulli, promettendogli di non abbandonarli giammai
e di aver per essi le sollecitudini amorose e le cure di un padre.

Nè a quest'officio pietoso, ma tristo, limitavasi Padre Ambrogio;
sibbene, ne' momenti in cui il moribondo avea meno bisogno dell'opera
sua e della sua assistenza, quel sacerdote era tutto d'attorno a'
fanciulli. E quel generoso attingeva nei tesori della sua pietà
argomenti di conforto pei più grandetti che comprendeano l'amarissima
perdita che tra poco avrebbero fatta, e di distrazione al più piccolo,
il quale sovente piangeva in veggendo piangere, ma nulla comprendea
della ragione di quel pianto, o vagamente, l'attribuiva alla malattia
del babbo.

Padre Ambrogio era una di quelle creature, perle della umanità,
le quali sembrano aver ricevuto dal cielo l'esclusivo incarico di
rappresentare la Carità in sulla terra, non già quella carità monca
e superba che si tien contenta e soddisfatta nel gittare dall'alto
l'obolo della limosina, ma che consola, ravviva, si piega, si umilia:
quella carità che pone ad atto la vera e sola eguaglianza cristiana tra
gli uomini, quella che provviene da vicendevole amore. Padre Ambrogio
comprendeva tutta la altezza del suo divino ministero; abnegazione
intera, dilicata, ragionata a pro della umanità sofferente. Additando
il cielo, porto supremo di salute, ei leniva i mali della terra;
parlava agli umili e ai poveri della loro grandezza innanzi agli occhi
dell'Eterno; ai superbi mostrava il nulla del fasto umano, la vanità
dei beni mondani: i dissoluti poneva al cospetto della vergogna dei
loro vizii; aveva in copia grandissima argomenti e parole per ogni
miseria, per ogni debolezza; amava gli uomini quando più eran ciechi di
mente o gravati di mali o caduti all'imo dell'obbrobrio.

Cinque figliuoli rimaneano deserti dei loro genitori, due donne e tre
maschi.

Lucia era la secondogenita. Benchè non ancora arrivata al quarto
lustro di sua età, questa fanciulla avea tutto il senno e la prudenza
d'una donna; era ella in qualche modo la madre dei suoi fratelli: e il
governo della famiglia veniva retto da colei che vi mettea una tale
accuratezza una tal pazienza e tanto amore, che spesso ella privava
sè medesima di qualche cosa per non farne difettare i fratellini. Una
sensibilità eccessiva formava il complesso del suo carattere, come la
pietà era tutta la anima sua, la vita sua. Lucia non potea vivere senza
consacrarsi a ben fare, senza innumerevoli sacrificii giornalieri,
senza dar corso a quel fiume di amorevolezza che le traboccava dal
cuore. Iddio l'avea creata per amare e soffrire, e i suoi giorni non
furono infatti che il continuo esercizio di questo duplice destino
della donna. Lucia non era bella di volto, se si guardi alla regolarità
delle fattezze, ma gli occhi suoi erano la più sublime espressione
dell'anima umana. Non si potea guardarli senza sentirsi piovere
sul cuore torrenti di dolcezza: eran belli oltre ogni credere, e
diffondeano su tutta la sua persona l'incantesimo che ne derivava.

Abbiam detto che Lucia era la secondogenita; chi dunque era il
primogenito?

Il primo figliuolo di Giacomo era un idiota, il cui vero nome era
Giovanni, ma che veniva comunemente addimandato per ischerzo _Uccello_,
imperocchè il tapino nel camminare, non potendo ben sorreggersi su i
piedi, equilibravasi stendendo in certo modo le braccia e appuntando i
gomiti, a guisa delle ali di uccello. Una lunga e tormentosa malattia
da lui sofferta nella fanciullezza, per cui scampò di morte quasi per
prodigio, gli avea affranto per forma il sistema nervoso e muscolare,
che, oltre all'avergli storte le dita dei due piedi e della mano
sinistra, ed isviata la pupilla dal suo centro regolare, gli aveva
tolto interamente l'uso delle facoltà intellettuali. Uccello (d'ora in
appresso così il chiameremo), essendo eziandio balbo e scilinguatello,
malamente articolava i suoni e le parole; ed era curioso il sentirlo
a parlare quando si adirava contro qualcuno, chè in questo caso più
che pel consueto lo scilinguagnolo gl'imbrogliava o arroncigliava
siffattamente le parole con la bava che gli veniva in copia alla bocca
che era un vero fuoco d'artificio.

Il mal caduco, che frequentemente colpiva l'infelice, si aggiungea per
rendere estremamente misera questa creatura.

Per compire il ritratto d'Uccello dobbiam notare, che, quantunque
in età di ventitre a ventiquattro anni, era bassa la sua statura e
privo di lanugine il suo volto, sì che parea non esser giunto per anco
all'adolescenza. Ad ogni minima opposizione alla sua volontà infantile,
per qualsivoglia tenue contraggenio, ei piangeva dirottamente siccome
fanno i bambini; e tosto allietava il volto e mandava un suono come di
riso quando gli si dava il trastullo o il cibo che chiedeva. Mirabil
disposizione della Provvidenza! Uccello in questi momenti che otteneva
quello che bramava era felice, compiutamente felice, come l'ambizioso
che aggiugne e tiene l'intento suo, come l'avaro da costa al cassettino
dei suoi tesori, come l'amante nelle braccia della sua amata.

Uccello aveva nel suo idiotismo una singolare simpatia per Lucia più
che per l'altra sorella e per gli altri fratelli. Oh come era felice
il povero idiota allora che gli riusciva rubare un bacio alla sorella
prediletta! Come ne gioiva! Come ribaltava quel morto cuore quando
se la stringea sul petto! Ben è vero che rare volte si arrischiava a
far questo, per l'invincibile timidezza che gl'ispirava il contegno
serio di Lucia; ma, se talvolta la vedea meno pensierosa del solito,
se la sorprendeva a sorridere per le goffaggini che egli balbettava,
oh... allora non sapeva resistere, e le si gettava al collo come un
cagnolino. Quando ciò faceva l'idiota, Lucia incominciava dall'andare
in collera, indi rabbonavasi, e finiva non poche volte con imprimere
un bacio sulla fronte stretta e compressa del miserello, il quale non
rifiniva in questo caso di saltare per la gioia e di dire tante cose e
sì in fretta che la sorella niente ne capiva.

Gli altri tre figliuoli di Giacomo lo stradiere erano una giovinetta di
circa quindici anni a nome Marietta, e due fanciulli chiamati Giuseppe
e Andrea.

Marietta, fanciulla vispa e leggiera, più bella di Lucia, avea occhi
cilestri e capelli biondi. La più strana e notevole differenza era tra
queste due sorelle. Comechè entrambe compassionevoli, buone, e dotate a
dovizia di cuore eccellente, la Marietta affogava i generosi e nobili
istinti del suo cuore sotto una pazza e stravagante allegria, che
trasmodava insino all'insolenza. Ella non era già dissimile dagli altri
suoi fratellini nel ruzzar fragoroso, nello starnazzare su e giù per la
casa, nel tormentare la vecchia fantesca, tipo di pazienza verso quelle
creature. La Marietta non si facea scrupolo di dar la baia agli amici
di suo padre, ed in ispecialità ai più brutti, di spingere i fratelli
addosso ai pezzenti; sovente con una mano porgeva al mendico l'obolo
o il pane della carità, coll'altra gli tirava di dietro gli stracci
di abiti, sganasciandosi dalle risa assieme ai suoi piccoli complici.
Ammiravansi tutti come facilmente questa giovinetta, che si abbandonava
a tutta la naturale gaiezza del suo temperamento, ponea subito freno
alle sue fanciullaggini allora che pareale che queste dispiacessero
alla sorella; e come in copiose lagrime tosto rompesse, se dal padre o
da Lucia le venisse qualche volta severa ammonizione o rimproccio.

Era tra le due sorelle quella differenza che passa tra la pietà
dolcissima, trista, dilicata, e la bontà spensierata, pazzognola,
indiscreta.

Veggendo unite la Lucia pallida, dagli occhi e dai capelli neri, con
quel corpo alto, leggermente curvato, quasi debil canna che si chini a
sorreggere l'alga debolissima, e la Marietta, vivace, spirante salute
e allegrezza, di bassa e complessa statura; avresti detto esser quelle
due fanciulle le immagini perfette dell'aurora bionda e ridente,
ripiena di speranze e di vita, e della sera, bella del pari, ma
scolorata e malinconica per ricordanze e rammarichi.

Un altro sentimento contribuiva a far più spiccare la differenza
fisica e morale delle due sorelle: l'amore, che è tutta la vita d'una
donna, tutto il suo avvenire, tormento dolcissimo delle anime nobili,
e gentili, mondo interminabile di commozioni violente, in cui regna un
solo essere, l'oggetto amato.

Lucia amava. Verremo più tardi ampiamente parlando di un tale
amore, onde Iddio voleva provare tutta la sublime rassegnazione di
quell'anima.

La sera gittava già le sue ombre in quella casa dove la morte si
apprestava a cancellar dal libro della vita il nome di Giacomo lo
stradiere.

Oh quanto ci duole di dover presentare ai nostri lettori quest'uomo nei
momenti estremi di una vita povera, ma onesta e intemerata, modello di
saggezza, di carità, di evangelica morale, modello, che sebbene si vada
rendendo sempre più raro tra le classi bisognose della società, non
manca di rialzare a quando a quando la dignità dell'uomo anche sotto la
più dura fatica e nello stato più dimesso ed umile.

Da lunghi anni Giacomo Fritzheim, svizzero di origine, esercitava
l'officio di stradiere nelle Regie Dogane di Napoli. Uom robusto e
laborioso, di non comune intelligenza e istruzione, e d'una probità a
tutta pruova, egli era amato da' suoi superiori, rispettato da' suoi
compagni, idolatrato dalla famiglia. La moglie, morta per effetto
di parto prematuro, era così buona e compassionevole, che il più bel
giorno della sua vita fu quello in cui il marito, reduce da un piccol
viaggio fatto nell'interno del reame, le recava a casa un fanciullino
di quattro in cinque anni, raccolto di notte nel mezzo di un bosco,
morto di freddo e singhiozzante per pianto convulsivo.

Fin dal giorno in cui Giacomo perdè l'amata compagna, ch'era tanta
parte di sua vita, si era abbandonato a quella invincibile tristezza
che opprime i cuori virtuosi e appassionati quando morte gli strazia
nei loro affetti più cari.

Giacomo parea non portare il peso della vita che per sostenere gli
innocenti figliuoli, tenerelli ancora e bisognosi di ogni aiuto: parea
come se di repente altri venti anni gli si fossero accresciuti in sulle
spalle, che al presente eran curvate come ad un vecchio ottagenario;
i suoi capelli, che innanzi della morte della moglie conservavano
ancora il colore della giovinezza, imbiancarono tosto, e parte caddero
precedendo nella terra quella testa veneranda, che verso di essa
chinavasi ogni giorno vieppiù. Quelle labbra su cui la calma della
coscienza richiamava spesso il riso della gioia, or si negavano ad ogni
sorriso; e, soltanto nei momenti in cui vedea raccolti intorno a sè
gli amati figliuoli, l'anima gli si schiudeva ad una dolce mestizia, la
quale bentosto volgeasi in tristezza per lo scorgere ch'ei facea sulla
impensierita fronte della diletta figliuola Lucia la malinconia di una
vergine passione.

Da qualche tempo Giacomo, quasi presago della sua prossima fine, si
staccava a malincuore dal seno della propria famiglia, per la quale il
suo amore sembrava centuplicato; i suoi occhi che già tante lagrime
aveano sparse pel figlio Giovanni e poscia per la perdita della
consorte, ora si umettavan di continuo; e, rimirando con tenerezza
estrema i suoi figli, spesso il buon padre piangeva di soppiatto,
e particolarmente per la Lucia ed Uccello, come i più miseri, la
prima per troppa squisita tempera della sua fibra, il secondo per la
imperfezione delle sue morali e fisiche facoltà. Lucia era infelice
perchè troppo sensitiva; Uccello perchè privo di quel senso divino che
rende l'uomo superiore al bruto.

Già da alquanti mesi, prima di esser ridotto alle porte del sepolcro,
Giacomo si lagnava di una fiacchezza eccessiva per tutte le membra per
la quale gli riesciva faticoso qualunque movimento ei si facesse; ed
or, nascesse da ignoto e ascoso male che ivagli già serpeggiando pel
sangue, or fosse effetto di quella specie di abbandono di ogni cosa
terrena che prende gli uomini vicini al loro termine, il dabbenuomo
facea sforzi inauditi per recarsi al suo posto di stradiere, perchè
zelantissimo del proprio dovere. Ma un mattino il buon Giacomo non potè
levarsi di letto; una strana enfiagione gli si era manifestata negli
_arti_ inferiori; il giorno appresso, questa enfiagione sparì, ma sul
volto dell'infermo apparvero certe macchie di rosso vivido; il respiro
era difficile e affannoso.

La gotta, che era stata per lo passato la consueta malattia di Giacomo,
gli era questa volta piombata nel petto.

Dopo alcuni giorni d'infruttuosi rimedii, lo stato dell'infermo fu
dichiarato inguaribile.

Nel momento da cui diam principio a questa trista narrazione, il
medico non avea dato che poche altre ore di vita al misero Giacomo,
il quale già si era cogli aiuti della religione fortificato al solenne
passaggio.

Nella camera dov'è il letto dell'infermo è raccolta tutta la costui
famiglia. Non ostante le parole e i conforti di Padre Ambrogio, il
comune dolore disfogavasi in un lagrimar comune. Tutti quei cari
figliuoli non voleano staccarsi un sol momento dal letto paterno.

Una candela di sego messa sovra un vecchio cassettone illuminava la
camera, la quale sarebbe rimasta al buio, a dispetto di un lumicino
acceso in un bicchiere dinanzi ad un quadro della Madonna del Carmine,
e che, per essersi quasi tutto l'olio consumato, andava bruciando
la rotellina di carta, schizzando e friggendo sull'acqua che si era
scoperta sotto l'olio strutto. Lucia, col volto bianchissimo come panno
lavato, coi lunghi capelli rabbuffati su per la fronte e le spalle,
non si era da due giorni ristorata nè di cibo nè di sonno. Distesa
a metà del corpo sul letto del padre, ella non muoveva i suoi occhi
ardenti di lacrime dagli occhi del genitore, il quale, non potendo più
reggersi nè dall'uno nè dall'altro de' fianchi, era in qualche modo
costretto a guardar sempre lei. Nondimeno ei girava talvolta inquieto
le pupille, quasi avesse richiesto di qualcuno assente, e poscia
ritornava a fissare uno sguardo ineffabile sulla figliuola carissima; e
quello sguardo era di un amore d'un'ansietà che l'umano linguaggio non
potrebbe tradurre nè far comprendere.

Marietta, quella fanciulla sì leggiera, sì spensierata, piangeva a
dirotte lagrime. Ella teneva abbracciati i suoi due fratelli, i quali
piangevano come lei, e le domandavano perchè da qualche ora il babbo
più non parlava e più non si lagnava... Marietta, invece di rispondere,
singhiozzando baciava Andrea, il più piccolo dei fratelli.

Padre Ambrogio più non impediva lo sfogo di quel giusto dolore,
ma facea comprendere alla Marietta che il suo pianto e quello dei
fanciulli avrebbe trafitto il cuore del povero vecchio e distolto i
suoi pensieri dall'eternità.

A tal ragione la Marietta non si acchetava, ma muovea co' fratelli
nella stanza contigua; dove più libero dava il corso alle lagrime.

Presso l'uscio della camera, dov'era l'infermo, si fermava di tempo
in tempo Uccello, chiedeva con volto stupido e sorridente se il padre
fosse morto, e quindi tornava ai suoi balocchi nella cucina, vale
a dire tornava a ruzzar con due gatti, che formavano tutto il suo
divertimento, e che egli amava sopra ogni cosa al mondo.

Erano le dieci della sera, cioè due ore di notte all'italiana.

Padre Ambrogio, seduto appo il capezzale del moribondo, recitava
ad alta voce le orazioni che accompagnano la dipartita delle anime
cristiane, quando l'infermo, fatto uno sforzo violento, alzò il capo e
con distinta voce disse due volte:

— Daniele... Daniele...

Era questo il nome del suo figlioccio, del trovatello da lui allevato,
ed ora giovine di circa ventidue anni. Ah! Da due giorni che il misero
vecchio non avea fatto altro che dimandare di Daniele; il quale erasi
mandato a cercare nella sua abitazione; gli si era fatto dire che
il padre Giacomo era gravemente infermo e vicino forse a trapassare.
Daniele aveva risposto che sarebbesi affrettato a vederlo, a dipendere
dai desiderii di lui; ma intanto non appariva.

Padre Ambrogio osservò sul volto dell'infermo, quando costui ebbe
proferito due volte il nome di Daniele, un'angosciosa ansietà mista ad
un dolore profondissimo. Tutto comprese l'ecclesiastico, che conosceva
la storia di questa famiglia, ed esclamò fra sè medesimo:

— Oh l'ingrato! l'ingrato! Iddio abbia pietà di lui!

Voltosi poi verso l'infermo gli disse:

— State di animo sereno, Giacomo; Daniele non tarderà a venire;
il poveretto non ha saputo che quest'oggi che il vostro male si è
aggravato... Egli verrà... siatene certo, egli verrà.

Dette queste parole, Padre Ambrogio gittò uno sguardo furtivo su Lucia,
e il suo cuore fu straziato.

Questa misera fanciulla aveva nascosto il capo nel piumaccio che era su
i piedi del padre, e singhiozzava con un pianto convulsivo.

Non ci era più luogo a dubitare: Daniele più non l'amava!

Non erano scorsi pochi minuti da che Giacomo avea parlato, ed un
personaggio si presentò alla soglia di quella camera.

Egli era Daniele.



II.

IL GIURAMENTO


Singolare contrasto offrivano le vestimenta e l'aspetto del nuovo
arrivato con lo stato quasi indigente di quella casa.

Era Daniele un giovine di statura altetta, di volto piuttosto bruno,
di folti capelli bene allustrati e tagliati a leggiadra zazzerina; gli
occhi parimente scuri e malinconici acquistavano un'espressione di cupa
intelligenza per l'inarcare ch'ei facea sovente le nere sopracciglia;
non avea nè baffi nè barba.

Il suo vestito era de' più ricercati e di gusto per que' tempi. Un
soprabito alla prussiana e da cavalcare color verde salice; calzoni
bianchi a mezza gamba, stivali con gli sproni, cappello bigio.

Daniele avea lasciato alla porta di quel modesto abituro il suo cavallo
morello, sul quale era venuto. Diremo nel prosieguo di questa storia
perchè in età giovanile e in pochi anni di esercizio della professione
di maestro di musica, Daniele fosse già padrone di una modica
agiatezza.

Non si creda che Daniele avesse preferito di venire a cavallo per
affrettare il suo arrivo alla casa dello stradiere; però ch'egli non
si era dato la minima premura di accorrere presso il suo benefattore
moribondo e presso la fanciulla che ardentemente lo amava. Per due
giorni il giovine non avea pensato neppure per sogno alla infermità
di Giacomo, all'amor di Lucia, alle iterate richieste che di lui
avea fatte colui che per oltre a quindici anni lo avea nutrito col
proprio pane e lo avea amato come un altro suo figlio. Daniele non
ci avea pensato nemmanco per un momento: dappoichè un pensiero fitto
come un chiodo gli si era messo nel capo, e gli dava cruccio, smania
indicibile, indurimento di cuore, indifferenza su gli altrui mali.

Nel giorno da cui abbiam cominciata questa storia, Daniele verso le 23
ore italiane, fornito il giro delle sue lezioni di musica, per disviare
alquanto la tristezza che l'opprimeva, era andato a passeggiare a
cavallo verso il Campo di Marte. Al ritorno, in passando d'accosto al
Real Albergo de' Poveri, gli venne ricordato di Giacomo lo stradiere,
che dimorava alle spalle di questo Stabilimento di carità, dov'egli
forse sarebbe stato gittato qual trovatello, se quel generoso non
gli avesse dato ricetto, sostentamento, educazione nella propria casa
tra gli altri suoi figli amandolo al pari di questi. Allora soltanto
ricordò che parecchie volte il suo morente benefattore lo avea mandato
a chiamare.

«Andiamo, diss'egli seco medesimo dando al suo cavallo la direzione
della casa di Fritzheim, se egli è vero quel che mi si è detto, il buon
uomo non ha molti dimani a vedere. Incominciavo un poco a seccarmi de'
suoi continui rimproveri. È vero che di molto io gli sono debitore,
ma alla fin fine qualche cosa ho fatto anch'io per lui da qualche
anno a questa parte; non gli ho mandato denaro? Non ho fatto di bei
regalucci a Lucia? Ma or che ci penso; par che costei abbia preso in
sul serio le nostre fanciullaggini amorose. Che diascine! Men ci vuole
che una testolina come la sua per creder vero a vent'anni quello che
si è detto a quindici. Follie! Or più che mai questa chimerica unione
sarebbe impossibile. Quand'anco io non avessi qui in questo mio cuore
scolpita quella cara immagine di Emma, che mi divora a fuoco lento,
io non acconsentirei giammai ad essere lo sposo di Lucia. Che direbbe
la società di me? Che direbbero i miei amici? Sposare la figlia di uno
stradiere! Ed io mi esporrei con tal matrimonio a render nota a tutti
la mia storia, perocchè, non ci cade alcun dubbio, al domani delle mie
nozze si saprebbe nel paese che Daniele de' Rimini non è che figlio
della sventura o della colpa, raccolto per carità dal padre della
sposa! Ignominia! Un tal segreto vorrei che rimanesse un mistero per
tutti. Se il padre Giacomo il portasse tutto con sè nella tomba!... Oh
se Emma penetrasse!... Dio, Dio, non mi esporre a tal rossore!... Ella
così superba de' suoi natali, così ricca... ricca e nobile! Ecco...
ecco la felicità, il sogno ardente della mia vita! Ed io sposerei
Lucia, povera, oscura, _ignobile_, figlia d'un _vile_ stradiere! No
no..... Quando io non era ancora conosciuto, quando non mi era ancora
slanciato nel mondo, avrei forse potuto sposarla, imperocchè tutti
avrebbero ignorato l'oscura mia origine, ma ora! Io ho fatto tanto
per innalzarmi, ho gittato sudori e lagrime sul pianoforte, sono
impallidito su i capilavori musicali, non solo per amore a quest'arte,
che spero per altro abbandonare non sì tosto avrò raggranellato un
po' d'oro, ma bensì per farmi una strada alla fortuna, per vedere di
pormi ad un certo livello con quegli giovanotti miei amici, che non
si starebbero dal darmi la beffa per questo ridicolo matrimonio ch'io
farei a contraggenio, e che distruggerebbe per sempre ogni speranza di
possedere quel tesoro di grazie che m'innamora, e quella dote onde io
cesserei di essere una creatura mercenaria. Oh.... che ignobil cosa
è il lavorare per vivere! Qual differenza tra Emma e Lucia! Ma che
dico! Non sono io scemo di senno per istabilire un paragone tra queste
due donne! Un paragone tra Emma e Lucia! È lo stesso che paragonare
l'eleganza alla goffaggine, la farfalla alla mosca, la ricchezza alla
miseria. Che compiuta educazione! Che linguaggio elevato, che nobiltà
di sentire! e che bellezza! Oh quelle forme del suo corpo! quei
capelli! quegli occhi!! Oh la mia testa, la mia povera testa!

Ciò dicendo, Daniele, il cui carattere da questo breve soliloquio i
nostri lettori potranno in parte conoscere, era giunto all'abituro di
Giacomo, sotto il cui tetto egli avea per molti anni riposato.

Nell'entrar che fece Daniele nella camera dell'infermo, Lucia si era
incontanente alzata da su il letto del padre, avea fatto per correre
incontro al giovine, ma a mezzo la camera sentì fiaccarsi le ginocchia,
e quelle lagrime che fino all'arrivo di Daniele erano rimaste
premute nel petto, quivi costretto dall'acerbità d'un doppio spasimo,
rifluirono tutte in un momento alle ciglia della fanciulla per un
ritorno di tenerezza e Lucia pianse per qualche minuto con quell'impeto
irrefrenabile, che suol succedere ad una sì lunga compressione.

Oh quanto diceva quel pianto!

Daniele era rimasto alcun poco sulla soglia di quella camera, freddo
spettatore della scena di tristezza che gli si offriva; poscia, senza
rivolgere una sola parola a Lucia, si era inoltrato verso il letto
di Giacomo, chinando leggermente il capo dalla parte ov'era seduto
Padre Ambrogio. Maria, Giuseppe e Andrea lo avevano salutato con
affettuosità, se gli eran messi d'intorno; un raggio di gioia brillò
su quei volti infantili; la presenza di Daniele era per essi di buono
augurio; eglino tutti aveano rifuso addosso a questo giovine quella
espansione di affetto e di stima che l'idiotismo d'Uccello aveva in
certo modo respinto e deviato.

Nel venire Daniele, Uccello si era recato nelle braccia i suoi mici ed
era corso a far festa _al Contino_.

Era questo il nome che in famiglia si era dato al fanciullo Daniele,
alludendo alle costui maniere riservate e schife non meno che al
grandissimo livore dal quale insino dalla più tenera età questi era
preso per l'invidia che gli eccitavano i fanciulli meglio vestiti
o che passeggiassero in carozza o che fossero possessori di più bei
giocarelli.

— Guarda, Lucia, disse Uccello alla sorella alzando con le punte delle
dita le falde del soprabito di Daniele, guarda che bell'abito ha il
Contino, bada che non se lo imbratti vicino a noi altri!

Queste parole, che l'idiota avea detto in tutta l'ingenua volgarità
della sua favella, fecero apparire tutt'i colori sul volto di Daniele,
il quale con un mezzo sorriso rispose battendo lievemente colla frusta
sul capo dell'idiota:

— Non temere, Uccello, noi non ci faremo bruttar da nessuno; e poi non
ci è paura, tu mi guardi le spalle.

Così fatte celie scambiate tra Daniele e Uccello presso al letto del
moribondo rattristarono padre Ambrogio e Lucia.

Vi fu un momento di silenzio agghiacciato... Giacomo avea gli occhi
chiusi, e la voce di Daniele non ancora aveagli colpito l'orecchio.

Padre Ambrogio si affrettò di far conoscere all'infermo l'arrivo del
suo figlioccio con tanta ansia aspettato; onde, alzata alcun poco la
voce, e fattosi più dappresso all'orecchio di lui dissegli:

— Signor Giacomo, il vostro Daniele è qui.

Il volto cadaverico del vecchio si animò subitamente, dischiuse gli
occhi ne' quali brillò un raggio di viva gioia, e quelle pupille
andarono in cerca di Daniele, e si affisarono su lui. Giacomo
distese la destra al giovine, il quale senza torsi i guanti, se
l'accostò alle labbra e vi lasciò cadere un freddo bacio, sfiorando
appena l'epidermide di quella mano, quasi timoroso che gli si fosse
appiccato il male del vecchio, e schifo di baciar la mano di un onesto
gabelliere.

Erano molti anni dacchè Daniele non baciava la mano del suo benefattore.

Nello sguardo immobile del vecchio, in quella scintilla di fuoco che,
attraverso le nebbie della morte, dardeggiava dagli occhi vitrei di
Giacomo, fissi su Daniele, era un lacerante rimprovero, un dolore
cocentissimo ma rassegnato, una speranza viva, ardente, una preghiera
affettuosa, un comando.

Padre Ambrogio leggeva in quello sguardo queste diverse passioni,
questo linguaggio misto di tanti affetti, di tante commozioni; e
procurò di richiamare i pensieri dell'infermo a quella pacatezza che
debbon serbare gli uomini che stanno in procinto di elevarsi su tutti
gli umani affetti e passioni. Daniele era distratto, preoccupato, stava
così come se si fosse trovato in una casa straniera, indifferente.

— Signor Giacomo, disse Padre Ambrogio, vi avea pur detto che questo
caro giovine si sarebbe affrettato di venire a baciarvi la mano e ad
accorrere a' vostri desiderii: egli è qua, compatitelo perchè oggi
soltanto egli ha saputo essersi aggravato il vostro male.

Il buon prete avea poggiato la voce sulle parole _oggi soltanto_ per
farle ben notare a Daniele, il quale gittò su lui uno sguardo furtivo e
disse anch'egli:

— Si, signore, soltanto oggi m'è stato detto che voi eravate infermo.

Daniele non avea detto _papà Giacomo_, siccome per lo addietro chiamava
il suo benefattore. Questa parola _signore_ avea messo il ghiaccio di
morte nel cuore di Lucia.

Giacomo avea concentrate tutte le forze della sua vita in questo
supremo momento, in cui egli voleva assicurare la pace e la felicità
della figliuola. La mano del vecchio avea cercato quella di Daniele
e non la lasciava: il pugno dell'infermo avea acquistato una forza
straordinaria di cui lo stato di prostrazione in che lo aveva gettato
il morbo parea che il rendesse incapace. Questa pressura indicava
abbastanza l'ardente desiderio che il vecchio aveva avuto di riveder
Daniele e il timore che questi si allontanasse.

Daniele sembrava portar con impazienza quello sguardo e quello
imprigionamento della mano.

Passò qualche minuto.

Giacomo alzò il capo e fe' segno lo avessero adagiato su qualche
cuscino per potersi reggere a certa altezza dal letto: un eccitamento
estremo gli avea dato un'apparenza di salute e di forza.

— Un sorso di sidro, chiese il vecchio con voce distinta.

Era questa la consueta bevanda, di cui usava nello stato di sanità, e
che gli dava soddisfazione, ilarità, lucidezza di mente; onde quasi mai
mancavane qualche boccia nella famiglia, comunque povera.

Lucia corse, col cuore palpitante di speranza, ad aprire un vecchio
armadio, dov'era riposto un avanzo di caraffa di sidro inglese, ne
versò tre dita in un bicchiere, ed il recò al padre, accostandoglielo
alle aride e scolorate labbra.

Giacomo bevve con ansia; ma la deglutizione opravasi con difficoltà,
per modo che fu impossibile al misero vecchio di tranguggiare il
bramato refrigerio che gli rimase in sulla lingua; tanto più che quella
bevanda non è così fluida e potabile come l'acqua.

Giacomo gittò un profondo sospiro, scostò leggiermente dalla bocca
il bicchiere e la mano che glielo porgeva, e volse gli occhi al cielo
facendo tacita offerta a Dio delle sue sofferenze: il cuor di Lucia ne
fu trapassato: nascose il suo capo dietro quello del padre e pianse la
miserella, ma divorando nel cuore le amare lagrime che le strappava lo
stato del genitore.

Giacomo non era uscito dal suo abbattimento per due giorni continui;
poche e indistinte parole avea proferito in questo tempo, pochi segni
avea dato di vita e di avvedimento. Ma ora un pensiere, un proponimento
parea dargli una fittizia energia. Comechè privo del refrigerio che
sperava ottener dal sidro, ei raccoglieva quasi per forza intorno al
cuore la vita che gli fuggiva. Oh l'amor paterno! Chi può dire fin dove
questa onnipossente affezione dell'animo può imperare sulla caduca,
argilla? Chi può segnare i limiti della sua forza? L'amor paterno
commove ed agita ancora il cuore di un cadavere pochi istanti di poi
che morte vi ha soffiato il gelido suo alito: l'amor paterno è un
raggio dell'anima immortale che rimane ancora attaccato alla famiglia,
quando il corpo del padre rientra nella creta che il produsse.

Giacomo fe' cenno a Daniele di avvicinarsigli più, imperocchè non potea
parlare che a stento e con voce fiacchissima.

Daniele, Lucia e Padre Ambrogio si strinsero al letto dell'infermo per
udirne le parole. Marietta e gli altri due fanciulli intorniarono quei
tre: e tutti pendevano con trambasciata ansietà dalle labbra del capo
della famiglia.

— Daniele, disse il vecchio, ricordi tu quel che eri e quel che ora sei?

— Lo ricordo, rispose questi, alcun poco turbato da simile
interrogazione.

— Ti rammenti di quella notte in cui ti raccolsi morto di fame e di
freddo sopra una felce nelle boscaglie della Sila in Calabria?...
Pensa, figlio mio che ivi saresti immancabilmente perito; le tue membra
quasi nude erano intorpidite dal gelo onde eran tutti coperti que'
boschi deserti e quelle valli; i tuoi occhi eran chiusi, ed appena
uscia dal tuo petto un fioco gemito che si perdea ne' lunghi urli del
vento tra gli scheletri della vegetazione. Fu la Provvidenza che guidò
i miei passi in quel bosco tetrissimo: io avea smarrito il mio cammino,
o per dir meglio, Iddio volle che io mi fossi per poco allontanato
dalla strada regolare per menarmi a dar vita ad una innocente creatura.
In questo supremo istante della mia vita che si spegne, benedico la
Provvidenza che mi fece degno di esercitare la carità e di salvar da
morte un caro fanciullo, ch'io poscia ho amato qual mio figlio, e che
ora amo con tutta la tenerezza paterna, quanto amo queste infelici
creature che la mia morte lascerà diserte e abbandonate nel mondo.

Dagli occhi del vecchio cadde una lagrima, che restò fredda e
impiombata sulla sua guancia.

A quelle parole, non si udì che un pianto universale. Daniele era
commosso.

Dopo pochi momenti di silenzio, Giacomo riprese:

— Ho dovuto richiamare questa ricordanza, mio caro Daniele, non per
vantare titoli alla tua gratitudine, della quale non ho mai dubitato,
e di cui mi hai dato prove non equivoche; bensì per ottener da te tutto
lo affetto di un figlio in questo momento ch'è per me sì solenne. Se tu
ami ch'io dorma in pace il sonno della tomba, se vuoi che io chiuda gli
occhi benedicendo quell'istante in cui per la prima volta i tuoi gemiti
infantili colpirono le mie orecchie, togli dal mio animo ogni dubbio
sulle tue rette intenzioni a riguardo di questa misera fanciulla che
tanto ti ama...

Quest'ultima parte fu piuttosto indovinata dagli astanti anzi che
profferita dal vecchio, tanta fu la commozione ambasciosa che gli
oppresse il petto. Daniele impallidì e chinò gli occhi, interamente
ombreggiati dalle folte sopracciglia, che diventarono due archi
nerissimi; Lucia si sentiva scoppiare il petto; il cuore le palpitava
con tal violenza che un lividor di morte le imbiancò le labbra
semiaperte; gli occhi della fanciulla non si arrischiarono a riguardar
Daniele, e fu per bene di lei, che se quell'adorabile creatura avesse
gittato uno sguardo sul suo amato, avrebbe letto sul costui volto la
più chiara smentita delle parole del padre.

— Si avvicina il mio termine, figli miei... Ringrazio la Provvidenza
che mi concede la forza di parlare e di rivolgervi le mie estreme
parole. Daniele, Lucia, Iddio non ha permesso ch'io fossi testimone
della vostra felicità... Io avea ben ragione, mio caro figlio, di
spingerti ad affrettare questa bramata unione... L'innocenza e la virtù
fecero dapprima nascere il vostro amore; l'affetto fraterno si voltò
ne' vostri cuori in un sentimento più dolce, che crebbe col crescer
dell'età. Dio benedisse l'amor vostro, come l'ho benedetto anch'io.
Daniele, misero figlio della sventura o della colpa, infelice creatura
defraudata del più caro degli umani retaggi, l'amor paterno, il cielo
ha colmato un tal vuoto; tu sei idolatrato da quest'angioletta. Una
brillante carriera ti si apre dinanzi; così giovane hai ottenuto quello
che pochi o nessuno alla tua età giunge ad ottenere: riputazione e
fortuna, e ben le meriti per la tua abilità nell'arte musicale, per
la quale tanto genio appalesasti fin dalla tua fanciullezza. Possa
il cielo sempre più render prospere le tue fatiche, ad alleviarti le
quali, avrai al tuo fianco questa cara creatura.... La misteriosa mano
che oggi provvede a' tuoi bisogni o a' tuoi piaceri potrà un giorno
ritirarsi da te, senza che tu abbi a sentire dolorosamente una tal
perdita.

Giacomo ebbe d'uopo d'interrompersi per qualche momento... Gli astanti,
ed in particolar modo Daniele, e Lucia, erano diversamente agitati e
commossi.

— Daniele, ripigliò il vecchio, il tempo stringe ed io non posso
abusare di questi preziosi momenti che Iddio mi concede. Io non dubito
della lealtà delle tue intenzioni, tel ripeto; ben mi è noto il tuo
cuore, e so che l'opera mia non fu seminata in ingrato terreno... Ma
ho bisogno, nel licenziarmi da voi, figli miei, di essere pienamente
sicuro dell'avvenire della mia Lucia... Chieggo da te un giuramento,
Daniele.

— Un giuramento! esclamò questi, che era ben lontano da una simile idea.

— Si, figlio mio, un giuramento solenne che tu farai su quel
Crocifisso, presente Padre Ambrogio e gli altri figli miei: giurerai di
sposare quanto prima la dilettissima Lucia... Un tal giuramento nulla
può costarti; esso non serve che a render paga e soddisfatta l'anima
mia io andrò a raggiungere la mia amatissima compagna, la madre vostra,
figli miei, e di lassù le nostre benedizioni vi accompagneranno sempre
e dappertutto. Or via, non si perda più tempo. Son due giorni che ti ho
aspettato, Daniele, e credeva che Dio non mi accordasse il piacere di
vederti, per dileguare dal mio povero cuore ogni dubbiezza.

Un Crocifisso di avorio era in cima del letto, all'altezza della mano
di Giacomo, il quale, toltolo dal muro, il consegnò a Padre Ambrogio e
gli disse:

— Padre, ricevete il giuramento di Daniele, ed implorate le celesti
benedizioni sul capo dei figli miei.

Padre Ambrogio si alzò. Il suo volto era grave e solenne; con la destra
ei teneva il Crocifisso, con la sinistra toccò la spalla di Daniele,
figgendogli in volto uno sguardo severo ma ripieno di bontà.

— Daniele, Iddio vi ascolta e vi giudica; ponetevi in ginocchi, figlio
mio, e proferite con me il solenne giuramento che vostro padre, il
vostro benefattore, chiede da voi, per abbandonare in calma ogni
pensiero della terra e rivolgere tutta l'anima sua alla patria celeste.

Lucia s'inginocchiò e con essa tutti gli altri fratelli... In fondo
alla camera si vedea genuflessa anche la vecchia fantesca, biasciando
preci e facendosi cadere di grosse lagrime sulle aggrenzite guance.

Daniele ebbe un momento di titubanza.... Egli era rimasto all'impiedi,
mentre tutta la famiglia... era genuflessa. Un pallore di morte avea
coperta la bruna sua faccia... Questa titubanza non durò che momenti.

Daniele piegò a terra il ginocchio dritto e chinò il capo per non
lasciare scorgere il suo turbamento.

Padre Ambrogio spiegò la sua mano sul capo del giovine.

— Daniele, giurate voi nel nome dell'Eterno Dio e su questo segno
dall'Umana Redenzione di sposare quanto prima in legittimo matrimonio
Lucia Fritzheim, figliuola di Giacomo?

A questa interrogazione successero pochi momenti di silenzio. Padre
Ambrogio riprese:

— Pensate, Daniele, pria di giurare... Or siete libero ancora; un
momento dopo, la vostra vita è eternamente avvinta a quella di questa
fanciulla.

Daniele non rispose. Il vecchio Giacomo, Lucia, tutti trepidavano.
Questi minuti secondi erano spine acerbissime per quella sventurata
famiglia.

Il ministro di Dio replicò la formola del giuramento:

— Daniele, giurate voi nel nome dell'Eterno Dio e su questo segno
dell'Umana Redenzione di sposare quanto prima in legittimo matrimonio
Lucia Fritzheim, figliuola di Giacomo?

— Lo giuro, rispose Daniele con voce distinta ma rauca e profonda.

— Ti benedica Iddio! esclamò il prete.

Tutti si alzarono... Giacomo piangeva di tenerezza, di consolazione: il
cuore del vecchio infermo si dilatava; parea che la vita e la salute
gli tornassero; il suo volto si rischiarò; i suoi occhi brillarono
ancora sotto i vapori della morte.

— Avvicinati a me, figlio mio, Daniele, qua... qua sul mio cuore,
fa che ti abbracci; che io baci i tuoi capelli, la tua fronte. Oh
perdona, perdonami, figlio mio... per poco io aveva dubitato di te;
tel confesso... Io credevo che più non amassi la mia Lucia... Che ne
sarebbe stato di questa infelice che tanto ti ama?... Appressati anche
tu, Lucia, qua, qua ch'io vi stringa entrambi sul mio petto... Oh... or
muoio contento!... Grazie, grazie, mio Dio, che mi hai fatto degno di
tanta felicità!... Ah!.. la vista mi si abbuia... Sorreggetemi, figli
miei... mie cari fi...

Giacomo cadde estenuato e privo di sensi in su i guanciali...

Lucia era rimasta nelle braccia del padre, nel cui seno avea nascosto
il capo.

Daniele si era allontanato dal letto del vecchio. Nessuna lagrima avea
bagnato i suoi occhi... Egli raggiustava freddamente e ravviava in sul
dritto lato della fronte i capelli che, stando egli nelle braccia del
padre, aveano smarrita la loro studiata drizzatura.



III.

LE ULTIME PAROLE


Le diverse e violenti commozioni alle quali Giacomo era stato in preda
lo avevano abbattuto, stremandogli quel poco di forza vitale che egli
aveva attinta nello immenso amore che portava ai suoi figli. Quella
tensione eccessiva dei nervi nello stato in cui egli si trovava lo
aveva affranto a tale modo che per poco tempo fu creduto morto.

Padre Ambrogio aveva dapprima con bei modi allontanato i teneri
figliuoli dalle sponde del paterno letto, facendo a sè medesimo la
più dura violenza, perciocchè alla vista delle gelide mortali spoglie
del vecchio il dabben ministro della chiesa avea sentito dilacerarsi
il cuore nè più nè meno che se quel corpo giacente fosse stato di suo
padre: laonde ei comprendeva quale e quanto esser doveva il dolore dei
figliuoli, e come la cessazione di quella vita così cara doveva farlo
scoppiare qual repentina folgore.

Le sembianze del vecchio si erano imbianchite come i capelli che gli
ombreggiavan le tempia; nessun segno rivelava in lui la vita.

Padre Ambrogio tastò il polso del giacente e il suo volto si rischiarò.

— Non è che un deliquio, ei disse; ben presto ricupererà il sentimento.

E gli pose sotto le narici un'ampollina di etere vivificante.

Lucia, Marietta e Giuseppe eran seduti d'intorno al letto del genitore,
ma ad una certa distanza, così avendo disposto Padre Ambrogio.

Daniele stava all'impiedi, presso ad un terrazzino aperto, dal quale
facea vagar gli occhi distratti su i lontani colli di Poggioreale e di
Capodichino.

La luna si levava intera e vermiglia dietro quei colli e sprolungava
una larga fascia di bianca luce sui cipressi di S. Maria del Pianto
quasi lenzuolo mortuario. Varii lumi apparivano e sparivano tra
gli alberi di quella mesta campagna: era la pietosa processione che
accompagna con le preci divote lo scendere d'un uomo nel suo ultimo
asilo.

Uno spettacolo sì tristo e che avea tanta relazione con le presenti
circostanze non commoveva per nulla il cuor di Daniele, che, svagando
lo sguardo lungi dal luogo ove trovavasi, cercava di sfuggire alle
opprimenti riflessioni che si affacciavano al pensiero. In pari tempo,
altre idee, altre immagini affatto opposte si presentavano alla sua
mente, idee ripiene di vita, immagini ridenti, di giovinezza, di
piaceri. Egli pensava che era quella l'ora consueta in cui soleva
trovarsi quasi ogni sera tra crocchi brillanti di gai giovinotti, di
bellissime donne; avrebbe dato una metà della sua vita per potersi
involare da quella casa ov'eran la morte e la tristezza, e spiccare
un volo al Palazzo S... dove tutto era felicità, e dove egli forse era
aspettato da Emma!

Eran le undici della sera. Il silenzio regnava in quella solitaria
contrada siccome in quella casa.

Giacomo rimaneva tuttavia nell'immobilità di morte, contuttochè la sua
respirazione fosse talmente concitata da udirsi una maniera di rantolo
nel cavo del suo petto.

Lucia, poscia ch'ebbe riprovveduto di olio il lumicino che si era quasi
spento dinanzi alla sacra immagine, si era avvicinata a Daniele...
Nelle sembianze di lei scorgeasi al presente una tristezza più
rassegnata, più tranquilla, non perchè lo stato del genitore le desse
argomento di speranza, ma perchè Daniele era là... Negli affanni e
nelle sventure la presenza di chi si ama rattempra e lenisce la pena,
è balsamo al cuore sofferente. D'altra parte, non era il giovine da
considerarsi ora come sposo di lei?

— Daniele, dissegli timidamente la giovinetta, rimarrai con noi questa
notte? Nostro padre è così felice nel vederti al suo fianco, in mezzo
a noi... Vedi, io son quasi sicura che... ciò gli fa del bene; hai
osservato con quanta passione ei ti guardava pocanzi? Se sapessi quante
volte il poveretto ha chiesto di te in questi due giorni in cui non
sei venuto da noi!... non ti parlo di quello che hai fatto soffrire al
mio cuore, lo sa quella Vergine del Carmine, la quale ho pregata tanto
tanto di farmi morire appresso a mio padre, se mai tu... più non mi
amassi.

La fanciulla portò ai suoi occhi il lembo del grembialetto e
singhiozzando si andava rasciugando le grosse lagrime che il ricordo
del suo dolore le richiamava alle ciglia; poi dette un crollo al capo
per rimandar sulle tempia i lunghi capelli che le si erano staccati sul
volto e rizzò la faccia pallidissima guardando lui con tenerezza.

Il riverbero della luna rischiarava quelle delicate fattezze e quegli
occhi, il cui nero lucidissimo ora vie più spiccava su quel fondo sì
bianco. Lucia in questo momento sembrò bellissima a Daniele, il quale,
presala per mano, menolla in sul terrazzino, e stette alcun tempo in
silenzio contemplandola.

Era nel centro del terrazzino un cesto di gelsomino che iva ravvolgendo
le sue foglioline tra i bastoncelli della ringhiera, ed era tutto
coperto di bianchi fiorellini che esalavano un profumo soave tanto che
tutta la casa ne veniva imbalsamata.

— Prendi, amica mia, le disse Daniele spiccando uno di quei candidi
fiorellini e dandoglielo, stasera tu rassembri davvero a questo
fiore... Come sei bella! Oh, non dubitare, io non ti lascerò più; non
sono io oggimai lo sposo tuo? Non mi appartieni tu forse?

Uno scroscio di risa fu udito in quel momento, Lucia arrossì tutta, e
ratta s'involò dal terrazzino.

Uccello si era ficcato nell'ombra dietro alla pianticella del
gelsomino; aveva udito le parole di Daniele, e nel suo ingenuo
idiotismo avea riso.

Oh! quel riso era la più mordace ironia di quelle parole che non
esalavano dal cuore del perfido giovine.

Daniele esclamò nel venir dentro alla camera!

— Maledetto idiota! Io lo detesto come il mio cattivo destino.

Il rantolo di Giacomo diveniva sempre più forte, più oppressivo; i
suoi occhi a metà dischiusi erano iniettati di quell'umore livido,
biancastro che annunzia l'ora estrema.

Padre Ambrogio avea ripreso, presso il moribondo, il tristo ufficio di
assistente.

Tutta la famiglia era immersa in uno stato di angosciosa aspettativa:
pallidi, muti, inanimati, quei figliuoli non trovavansi neanche più
lagrime in su gli occhi.

Daniele si era messo a sedere al fianco di Lucia: non per questo era
pago e tranquillo a segno che non si leggesse sul volto distratto
una febbrile impazienza: se si fosse gittato uno sguardo in fondo
di quel cuore, sarebbesi notato con raccapriccio un desiderio vivo,
ardentissimo della morte di Giacomo. Sì fa d'uopo confessarlo; Daniele
contava i minuti secondi per la brama di sentir morto quell'uomo che
con la sua lenta agonia gli toglieva un'ora di piacere ed il condannava
a star lontano dalla donna che egli amava.

Ah! pur troppo questo cuore umano è tale impasto di contraddizioni
malvage, di barbare tendenze ed in pari tempo di slanci di sublime
affetto e di sacrificii inauditi che l'uomo ha sempre di che rimanere
stupefatto e avvilito nella contemplazione dell'uomo. Vi sono, nel
fondo dell'anima, certe cloache di turpitudini siccome certe miniere di
eroismo che renderanno sempre l'umana creatura il soggetto più curioso
delle investigazioni dei filosofi i quali finiscono col confessare la
loro piena ignoranza su queste arcane contraddizioni.

Poco stante, non ne potendo più per l'estrema impazienza che il
vinceva, e stanco di più aspettare, Daniele si rizzò subitamente in piè
e disse a Lucia queste poche ed aspre parole:

— Mia cara, tuo padre non morrà per ora; è affare di domani; intanto
io debbo andar via; nulla ho detto al mio domestico, il quale mi
aspetta... D'altra parte, ho quaggiù il mio cavallo, e fa d'uopo che il
faccia ristorare di qualche cibo.

Ciò dicendo, carezzandosi i capelli in sulla tempia dritta, e
riprendendo il suo cappello, si disponeva, senz'altro, a lasciare
quella casa: avea già dato due passi inverso l'uscio, quando, non già
Lucia ch'era rimasta stupefatta e annientata da tanta barbara fattezza,
ma sibbene Marietta s'interpose tra l'uscio e lui.

— Oh! Daniele; tu non andrai via, n'è vero? Tu non ci abbandonerai
questa notte: papà può spirare da un momento all'altro, non è così,
padre Ambrogio? Abbi pietà del nostro dolore; se ci ami ancora, se
ami la mia povera sorella, tu non andrai via! Ormai è tardi, questa
campagna è mal sicura... Tu hai da fare sì lungo cammino... No,
Daniele, non andartene per questa notte..... Vedi, noi abbiam paura a
star sole.

— In verità, non vorrei andarmene, rispose Daniele, ma non posso
trattenermi; vi dico che egli è difficile che papà Giacomo se ne vada
stanotte: non senti? ei dorme profondamente, non fa che russare.

— Russare! interloquì il sacerdote, a cui tanta durezza di cuore
cagionava un dolor profondo: signor Daniele, _vostro padre_ si muore;
ei non ha che pochi minuti di vita: non vogliate abbandonarlo in tal
momento... Egli vel comanda anche morto.

— Signore, ripeto, che io non posso trattenermi: tornerò domattina ben
per tempo, allo spuntar del giorno. Intanto se c'è bisogno di danaro,
eccone.

E traeva dalla tasca del soprabito un elegante borsellino di seta a
maglie, ne cavava una moneta, gittandola con superbia e con fastidio
sul cassettone. Era un pezzo di dodici carlini che ribaltò su quel
mobile, e urtò nel bicchiere ove era riposto il lumicino che si spense
affogando nell'olio rovesciato.

Lucia mandò un grido di disperata angoscia.

Padre Ambrogio si alzò pacatamente, raccolse dal cassettone la moneta,
e, consegnandola al giovine, gli disse con paterna bontà:

— Prendete, signore; per ora questa disgraziata famiglia ha d'uopo
di pietà, di amore, di aiuti affettuosi; ha bisogno di cuore e non di
metallo. Riprendete la vostra piastra: se ci sarà bisogno di danaro,
posso pel momento provvedervi io stesso. Unisco le mie preghiere a
quelle di queste infelici creature acciocchè vi compiaciate rimanere
in questa casa durante questa notte, ch'è già scorsa quasi della metà.
Pensate che il misero Giacomo non vedrà la dimane; egli forse, innanzi
di spirare, può chieder di voi: pensate che quest'uomo è stato per voi
non solo un padre, ma un amico, un vero amico. Si provvederà poi pel
vostro cavallo, non temete. Rimanete, non abbandonate questa infelice
famiglia in questa ora tremenda.

— Mi duole dovermi ricusare a' vostri comandi, rispose Daniele, ma è
impossibile ch'io mi trattenga più a lungo. Sarò qui domani all'alba...
Addio.

Non fu più possibile trattenerlo.

Egli avea varcata la soglia della porta senza neanche gittare uno
sguardo al vecchio moribondo e alla sua fidanzata, che rimaneva come
istupidita e schiacciata dalla disperazione.

Un solo individuo avea la faccia sorridente nel mezzo di que' gruppi
di dolore: Uccello; un lampo di gioia stravagante brillava sulla sua
stupida fisonomia. Egli girava qua e là per la camera, schioppettava
con la mano, guardava sovente verso l'uscio delle scale, e rideva...
rideva con quel riso corto e a colpetti.

Di botto, Daniele si presenta di bel nuovo in sul limitare della camera.

Ei getta d'intorno a sè uno sguardo furioso.

— Chi ha ferita la gamba del mio cavallo? grida con voce stentorea, e
con gli occhi fiammeggianti di rabbia e di vendetta.

— Io, risponde Uccello ridendo sempre, come quando solea fare qualche
burla alla vecchia fantesca e di cui prendea tanto sollazzo.

— Tu! esclama Daniele ruggendo qual leone.

Ed alzava la frusta per colpire l'infelice idiota.

Padre Ambrogio s'interpose e fermò il braccio di quel furibondo.

Un grido intanto era partito dal letto ove giaceva il moriente.

Era Giacomo che tutto avea udito, tutto compreso!...

Oh spettacolo terribile! Il vecchio avea levato il capo dal cuscino
come da una tomba: sembrava una larva, un fantasma.

— Ingrato!... ingrato!... mormorava il misero con voce soffocata dai
singulti della morte... Iddio mi aprì gli occhi in sull'orlo... della
fossa... Tu vuoi... colpir mio figlio Giovanni... come già... mi hai
distrutta... mia figlia Lucia... Va, figlio del peccato... Tu tradisci
un moribondo. Va... ingrato... se tu mediti io spergiuro... Iddio ti
punisca!..

Lucia manda un urlo disperato... il sacerdote immantinente chiama alla
calma il moribondo che si mostra pentito dell'ira subitanea in cui
la ferocia di Daniele lo avea gittato... guarda il crocifisso e tenta
di dire qualche cosa, ma non può finire una parola, che termina in un
singulto profondo. Il misero era ricascato in su i guanciali.

Egli era morto!

Pochi momenti dopo questa scena di spavento, nella camera ove giaceva
il cadavere di Giacomo non era altri che Padre Ambrogio, che recitava
d'accanto al morto la seguente prece:

«Onnipotente Iddio, col quale vivono coloro che muoiono nel Signore,
e col quale le anime de' fedeli, poi che libere sono dal fardello
della carne, sono nella gioia e nella felicità, noi ti ringraziamo
dal profondo del nostro cuore per esserti piaciuto di liberare questo
nostro fratello dalle miserie di questo mondo di peccati: e non
tralasciamo di pregare la tua misericordiosa bontà di ammetter lui ben
presto nel novero de' tuoi eletti.»

Non dobbiamo trasandare di osservare che Uccello, per impedire la
partenza di Daniele, di soppiatto armatosi della sciabola di suo padre,
che n'era provvisto come militare doganiere, avea ferita la gamba
del cavallo del giovine, senza che alcuno della famiglia addato se ne
fosse.

Uccello aveva avuto bastante lucidezza di mente per comprendere che
Daniele non avrebbe potuto andarsene a piedi alla sua abitazione che
era ben lungi di quella strada; e che gli sarebbe stato impossibile di
trovare una carrozza in quella via solitaria e ad un'ora si avanzata
della notte.



IV.

UNO SGUARDO INDIETRO


È necessario toccar qualche cosa che alla storia di questo giovine si
riferisce, innanzi di proseguire il nostro racconto.

Daniele, in tutto il tempo ch'era stato in casa di Giacomo lo
stradiere, non si distingueva dagli altri figliuoli di questo dabben
uomo, sì per l'amore onde corrispondeva ai beneficii di quella
famiglia, sì pei modi rispettosi e umili, ch'ei teneva inverso Giacomo
e la costui consorte; i quali siffattamente lo amavano, che a tutt'i
vicini e agli amici soleano dire che Iddio avea mandato loro quel
caro fanciullo in compenso dell'infelice Uccello, miseramente privo
d'intendimento. Daniele era un giovinetto affettuoso benchè un poco
troppo serio per la sua età, perciò che mai o rarissime volte si
abbandonava ai giuochi e ai divertimenti degli altri figli di Giacomo
ei se ne stava in disparte; e mentre quelle creature baloccavansi in un
modo o in un altro, egli avea paura di bruttarsi le vesti o le mani.
Giacomo e la moglie queste tendenze così singolari in un fanciullo
attribuivano ad una certa natural propensione ch'egli avesse per la
nettezza e l'appariscenza della persona, mentre quelle altro non erano
che un istinto di superiorità su gli altri fanciulli, i quali, non
badando a tenersi puliti, meno belli di lui o meno decentemente si
mostravano a coloro che venivano a far visita al signor Giacomo.

Questa tendenza che in sul principio pareva tanto innocente e
commendevole, prese bentosto il suo vero aspetto allora che il
fanciullo crebbe in età. Ben presto Giacomo discoprì nel trovatello
un vizio radicale del cuore e si adoperò a correggerlo, a drizzarlo
a bene, ma fu tutto indarno; il vizio era nel sangue del fanciullo:
quanto più egli diventava adulto e grandetto, tanto più in lui si
appalesava la passione della vanità. Oltracciò, Daniele aveva un
sentimento che molto si avvicinava all'odio per l'infelice Uccello:
sentimento ch'ei non dissimulava ne' momenti in cui si trovava
solo coll'idiota, però che non si facea scrupolo di beffarlo, di
maltrattarlo con epiteti ingiuriosi, e sovente di batterlo. Il misero
Uccello piangeva, ma non si arrischiava a dire al babbo il motivo
del suo pianto, che se questo avesse fatto, non gli mancavano altre
più forti battiture, con cui quel cattivello di Daniele vendicavasi
dei rimproveri che gli venivano da Giacomo. Un fatto narreremo il
quale, sebbene puerile, ebbe influenza grandissima nello sviluppo di
quell'odio che Daniele nutriva per l'infelice Uccello.

Solevano que' fanciulli presso che in ogni sera sollazzarsi con
qualcuno di quei giuochi infantili, di cui si conservano poscia
gratissime ricordanze tra i quali i più frequentemente messi in
opera erano i giuochi delle merenducce, della mosca cieca, del capo
a nascondere, dei pilastri, del guancialino d'oro, dell'oca, delle
capannelle, del buffetto ed altri consimili. La più grande ilarità
soleva regnare tra quelle care ed innocenti creature. Il più delle
volte Daniele non prendeva parte a questi giuochi e si accontentava
di starsene a rimirarli; ma talvolta, istigato dai suoi fratelli (così
chiamavansi tra loro) e premurato dalla madre, il _Contino_ (abbiam già
detto perchè un tal nome fu posto a Daniele) degnavasi di onorare il
giuoco colla sua presenza.

Un giorno, si scherzava alla mosca cieca. Furon tirate le sorti a
chi dovea pel primo bendarsi gli occhi: toccò a Daniele: ciascuno,
fuggendo, ruzzando, ridendo, il percuoteva con un fazzoletto, con uno
sciugamano o con altro panno avvolto... Daniele si voltava e rivoltava
per acchiappar qualcuno, ma tutti se la sbiettavano con garbo, sicchè
l'impazienza e il dispetto cominciavano a dominare nel Contino,
allora che sentissi applicata in sulle spalle una violenta percossa
accompagnata da uno scoppio di risa universale: era stato Uccello
che avea fatto il colpo, e poscia, per non essere afferrato, si era
appiattato sotto un tavolino. Ma alle grida di _viva Uccello_, Daniele
avea conosciuto chi lo aveva colpito sì fortemente, e pensando quegli
averlo fatto per istizza o per malvagità, fu preso da tanta rabbia e da
tanta sete di vendetta, che tra sè deliberò di avernelo a far pentire
se gli venisse sotto.

Perchè, studiata ben la posizione e dissimulando il meglio che seppe,
si pose freddamente a girar per la stanza, poi che con destro movimento
ebbesi cacciato un poco più su degli occhi la benda che gli nascondeva
i suoi avversari. Non andò guari, ch'essendo tornato in giuoco Uccello,
fu preso di mira dal perfido Daniele, il quale, acchiappatolo tra
le risa degli altri e tra le baie che si davano all'inesperto, lo
stramazzò al suolo e con pugni e calci così fattamente il rendette
malconcio che in copia usciva al miserello il sangue dal naso e dalla
bocca. Il giuoco ebbe termine: Lucia e Marietta cercarono di occultare
il misfatto, ma, accorsi alle strida Giacomo e la moglie, Giuseppe
fu sollecito di narrar loro l'accaduto. Giacomo rimase stupefatto e
addolorato di tanta malvagia indole del trovatello, e, per castigarlo,
non gli fece per qualche tempo abiti nuovi, tremendo castigo per
quell'indole vana e orgogliosa.

Daniele rimase così vulnerato della punizione inflittagli, che il suo
carattere ne addivenne più cupo, e più duro il suo cuore. D'allora
in poi più non rivolse la parola ad Uccello, pel quale se gli erano
accresciuti l'antipatia e l'odio.

Intanto ei diveniva grandetto; era già arrivato al tredicesimo anno,
allora che Giacomo, accortosi dell'estrema inclinazione e attitudine
che il giovinetto appalesava per la musica, il pose a studiare
quest'arte con un suo parente. Questi ebbe ben per tempo posto amore
addosso al giovinetto, poi che scorto ebbe in lui un vero genio
e rarissimo. La natura lo aveva chiamato alla musica. Stranezza
incomprensibile! Quest'arte, che richiede sensibilità squisita, tempera
di animo affettuosa e soave, era attecchita in un cuore mal formato e
proclive alle più tristi passioni.

Gli elogi che il giovinetto Daniele riportava, dovunque facevasi udire
a suonare il piano-forte, il suo contegno nobile e altero, quella
sostenutezza di modi e di linguaggio, sì poco in armonia col suo stato
e colla sua origine, ed anche quei suoi occhi malinconici ma espressivi
e intelligenti, gittarono a poco a poco nel cuore di Lucia i germi
di una passione che si fece gigante. Daniele si avvide prestissimo
dell'amore di Lucia, e la sua vanità fu lusingata e soddisfatta: egli
non le corrispose per amore, ma per compiacenza di sè medesimo per
talento di tiranneggiare una creatura a lui sottoposta, per desiderio
di dominio. E s'infinse così bene, e simulò tanto la passione, che
l'innocente donzella il credette innamorato morto, siccome il credette
Giacomo in appresso.

Lucia era tutt'altra; la sua adolescenza e il suo amore l'aveano
trasformata: di quindici in sedici anni essa era sì malinconica, sì
appassionata e sensitiva, che il padre, avveggendosi esser cagione di
tanta malinconia la passione che già la struggeva, stimò conveniente
di allontanare Daniele dalla famiglia. Oltracciò, morta la cara sua
moglie, chi poteva oggimai guardar l'innocenza di Lucia? Onde estimò
necessario di rimuovere ogni cagione, e partirsi dal giovinetto, il
quale, dal canto suo, mal sembrava portare la dimora dello stradiere,
essendosegli accresciuti nell'animo la vanità e il desiderio di esser
distinto.

Giacomo iva da qualche tempo pensando al modo come provvedere
all'esistenza di Daniele, allora che lo avrebbe allontanato dalla sua
famiglia, quando uno strano avvenimento venne a troncare ogni dubbiezza
ed ogni imbarazzo. Un bel mattino, si presentò in casa di Fritzheim un
giovine di bell'aspetto e di belle maniere, decentemente vestito, il
quale con accento straniero ma in buono italiano, dimandò di parlare al
padrone della casa.

— Siete voi il Signor Giacomo Fritzheim? chiese poscia che questi se
gli fu presentato.

— Per lo appunto, rispose lo stradiere, a che posso servirla?

— Non avete voi, molti anni fa, raccolto nel bosco della Sila un
fanciullo che ivi era abbandonato e moriente?

Giacomo restò interdetto: guardò con attenzione la persona che gli avea
fatta quella inattesa interrogazione e cercò d'indovinare se colui che
gli parlava potesse essere il padre di Daniele, che avea già diciotto
anni compiti; per lo che rispose:

— Sì, signore, sono io a cui la Provvidenza volle concedere la grazia
di salvare un'innocente creatura, ed arricchire la mia famiglia con un
altro figlio.

— Mi giova conoscere con precisione l'epoca in cui ciò avvenne, disse
quello straniero, il quale avea nella mano una carta su cui sovente
gittava gli occhi.

— Io non so, signore, rispose l'onesto gabelliere, quale interesse
possiate avere nell'indagare un fatto sul quale io non dovrei dare
ragguagli che ad un'autorità riconosciuta; ma qualunque sia la cagione
che vi muove, vi avverto che nessuno al mondo potrà strappare dal mio
fianco un giovinetto sul quale vanto ormai i dritti di padre.

— Non dubitate, sig. Fritzheim; ben lungi dal farvi del male o dallo
svellere dal fianco vostro il giovane, che forma l'oggetto delle
mie investigazioni, io son venuto per più bella opera. Piacciavi di
rispondere, senza tema, alle mie dimande. In che anno e in che giorno
trovaste voi nelle boscaglie della Sila il fanciullo?

— Nella notte del 24 gennaio 1809, rispose Giacomo.

L'incognito gittò novellamente lo sguardo in sulla carta che avea
nelle mani; fece col capo un atto affermativo e di soddisfazione, indi
prosegui:

— Sta bene: potreste ora indicarmi con precisione il sito ove trovaste
il bambino?

— Il trovai in una selva di abeti e di pini, sopra una larga felce, a
qualche miglio da S. Vincenzo, e non molto lungi dal Neto.

Altra occhiata fu data da quell'uomo alla carta e altro segno di
approvazione.

— Ricordate gli abiti che aveva addosso il bambino?

— Me li ricordo benissimo, poichè li conservo ancora, soggiunse lo
stradiere: vesticina di albagio color tabacco, calzoncini di panno
turchino, calzerotti di cotone colorati, scarpine con becchetti senza
laccetti, e berretto di castoro nero con tettino di cuoio.

— Perfettamente, ripigliò l'incognito col riso della gioia e della
soddisfazione in sulle labbra: or non mi resta che farvi un'ultima
interrogazione. Che nome disse di avere il bambino?

— Daniele, replicò Giacomo.

— Non ci occorre altro, è desso! Eccomi ora ad adempiere alla mia
parte, sig. Fritzheim: questa è una polizza di duemila ducati ch'io
sono incaricato di consegnarvi per ricompensa della vostra bell'opera e
per le cure paterne di cui foste prodigo verso il fanciullo Daniele.

Ciò dicendo, l'incognito traeva dal taccuino una polizza sul Banco di
Napoli, e la porgeva al gabelliere; ma questi si ritrasse indietro, e
dimandò stupefatto.

— Chi v'incarica di ciò, o signore?

— Non posso dirlo; è questo un segreto che ho giurato di serbare.

— Suo padre o forse sua madre?

— Non rispondo, o signore...

— Ebbene, a chiunque v'incarica di ciò, signore, voi risponderete
ch'io ho ricusato di prender questo danaro; un padre non si fa pagare
delle cure ch'ei prodigalizza a suo figlio, e padre io mi estimo
inverso Daniele. Io son povero, signore, ma non mi avvilisco a ricever
guiderdone da una incognita mano e per un'opera onde io risento la più
cara soddisfazione dell'anima mia.

L'incognito non credeva a' suoi orecchi; pareagli che lo stradiere non
avesse parlato da senno, e tornò a dirgli:

— Sig. Fritzheim, questi duemila ducati sono vostri, interamente
vostri; non vi si danno per compenso alcuno; voi seguirete ad essere il
padre di Daniele; parmi che non vi sia ragione di ricusare.

— Ed io ripeto che non accetterò mai questo danaro; non l'accetterei
neanche se mi venisse dalle mani medesime del padre di Daniele; pensate
se voglio accettarlo da una mano che si nasconde.

— Ebbene, io vi ammiro, sig. Fritzheim: la rigida probità del vostro
animo già mi era nota. Vi confesso nondimeno che un simil rifiuto è al
di sopra di ogni previsione; io però non insisterò più oltre, ma la mia
commissione non si limita a questo, sig. Fritzheim, e questa volta vi
avverto che un vostro rifiuto sarebbe inutile.

— Di che si tratta ancora? dimandò Giacomo con leggiero aggrottar di
ciglia.

— Si tratta che io sono incaricato di passare questa somma di duemila
ducati a Daniele. Non si era preveduto il vostro rifiuto, sibbene il
caso in cui non vi avessi trovato, capite!

E l'incognito fece un gesto col quale intendeva dire: nel caso in cui
vi avessi trovato morto.

— La cosa è differente, disse Giacomo, non posso oppormi a tutto ciò
che può contribuire alla felicità di Daniele.

— Lodato Iddio! esclamò l'incognito; compiacetevi di chiamare il vostro
figlioccio.

Giacomo entrò nelle stanze contigue e poco stante tornava con Daniele.

Il giovine salutò col capo l'incognito; il quale rispose con bel garbo
e guardandolo fisamente.

— Alla buon'ora! osservò tra sè l'incognito, eccone uno che gli
rassomiglia! Bel giovinotto, voi siete nato sotto una buona stella;
la fortuna vi arride; d'ora in poi non dovete pensare ad altro che a
divertirvi.

— Come a dire? chiese il giovine estremamente maravigliato.

— Eccovi una polizza di ducati duemila; essa è vostra.

— Mia!! esclamò Daniele con gli occhi lampeggianti di gioia.

— Sì Signore, vostra; questa polizza è pagabile al porgitore, e la
firma è ben nota al Banco.

Daniele che aveva afferrato con avidità quel pezzo di carta che per
lui era una fortuna enorme, gittò gli occhi sulla firma per conoscere
il nome di colui che il rendea ricco. Quella polizza avea sul dorso il
nome di _Maurizio Barkley_.

— E questo nome signore? dimandò Daniele.

— Non posso rispondere a nessuna vostra interrogazione, signor Daniele.
Ma io non ho ancora finito di adempiere al mio incarico. Eccovi un
altro polizzino di cinquanta ducati: ogni mese avrete una simil somma.

È singolare! soggiunse Giacomo, cui un tal mistero facea balestrare il
cervello.

— E voi stesso verrete a portarmi in ogni fin di mese una polizza di
cinquanta ducati? domandò Daniele.

— Io stesso, o un altro in vece mia.

Daniele gittò parimente gli occhi sul polizzino, e lo stesso nome
_Maurizio Barkley_ eravi scritto.

— Favoritemi una ricevuta, sig. Daniele. Per la prima volta il sig.
Giacomo Fritzheim mi sarà garante della vostra firma...

Daniele firmò DANIELE FRITZHEIM. Fa d'uopo notare che soltanto da poco
tempo di poi che uscì dalla casa di Giacomo, Daniele si era dato il
fittizio cognome di _dei Rimini_. Giacomo appose la sua firma sotto
quella del giovine.

— Or non ci è bisogno di altro; son davvero contento di aver fatto
la vostra conoscenza, sig. Fritzheim, e la vostra benanche, bel
giovinotto. Addio, a rivederci al mese venturo.

Il forestiere non diede il tempo a nissuno dei due di soggiungere una
sola parola, e sparì senza lasciare un'orma sola d'investigazione.

È superfluo il dire che simile avvenimento cangiò al tutto lo stato
di Daniele, il quale fece subitamente istanze di separarsi da Giacomo,
sotto pretesto di dovere abitare nel centro della capitale per meglio
darsi a' suoi studi musicali. Giacomo, benchè con estremo dolore, dovè
acconsentire ad una tale separazione per le ragioni da noi dette più
sopra e che ogni giorno si rendevano sempre più forti.

Daniele adunque si congedò un bel mattino da quella tenerissima
famiglia. Rinunziamo a dipingere il dolore di Lucia nel dì che Daniele
abbandonò quella casa. L'acerbezza del suo cordoglio non venne mitigata
che dalla sua angelica rassegnazione a' voleri di suo padre, e dalla
promessa fattale dal suo diletto di venire a trovarla ogni giorno.

Daniele, oggimai libero di sè medesimo, indipendente, e padrone di una
somma che per lui era un principio di fortuna, tolse in fitto dapprima
un quartierotto alla strada Foria. In sulle prime ei tenne la sua
parola, recandosi ogni giorno in casa di Giacomo; ma ogni dì crescea
pure la sua vanità e il suo desiderio ardentissimo di divenir ricco;
onde, ogni altra passione, ogni altro suo pensiero taceva nel suo animo
sotto l'impero di quella sola dominante. Tuttochè l'incognito straniero
non avesse giammai mancato di portare egli stesso, in ogni fine di
mese, la polizza di ducati cinquanta al nostro Daniele, questi spendea
più che non comportassero le sue facoltà, epperò non bastandogli quella
somma mensuale ei si era dato alle lezioni di musica, le quali in gran
numero e di nobili famiglie i suoi amici procacciavangli.

Non tralasciamo di dire che il primo uso fatto da Daniele de' duemila
ducati venutigli dal cielo, fu di ammobigliare con eleganza la sua
casa e di comprare un cavallo: il tenere un cavallo era stato sempre
uno dei sogni della sua vita. Guari non andò e il giovin bellimbusto
incominciò a trovar noioso e plebeo l'amore di Lucia, tanto che per
avere un plausibile pretesto di porre qualche intervallo tra le sue
visite, deliberò andarsene a dimorare alla riviera di Chiaia, anche
perchè è questa la contrada ove maggiormente bazzica ed abita la
nobiltà napolitana e massime gli stranieri. Questa ferita fu anche
asprissima al cuor della misera figliuola di Giacomo, che pur sempre
cotanto amava quell'ingrato: ma ella, buona siccom'era e indulgente e
amorevole, si persuase che la sola necessità di meglio provvedere a'
bisogni della vita avesse indotto Daniele ad allontanarsi tanto da lei.
Ciò nulla manco, Daniele non lasciava mai passar due giorni di seguito
senza tornare a _S. Maria degli Angeli alle Croci_: e questo confortava
la miserella a sperare, tanto più ch'egli avea già promesso al padre
d'impalmarla non sì tosto meglio si fosse dato a conoscere nella
Capitale. E quando gli facea qualche premura di affrettarsi a sposare
l'onesta e cara giovinetta, egli adduceva or la troppo giovanile sua
età, ora i suoi studi che non gli permettevano pensare ad altro pel
momento, or s'appigliava al partito di procrastinar sempre sotto l'un
pretesto o l'altro.

E ciò durava da varii anni, quando a troncare ogni dubbiezza, a
infrangere ogni proponimento, ad allontanare per sempre il cuor di
Daniele dalla famiglia Fritzheim, avvenne il caso della presentazione
di lui qual maestro di piano-forte della nobile giovinetta spagnuola
Emma, figliuola del duca di Gonzalvo.

Qui ci fermiamo, bastandoci il già detto. Nel prosieguo di questa
storia verremo allargandoci sul carattere di Emma, sulla parte e sulla
influenza funesta che questa donna si ebbe su gli avvenimenti che
narriamo.



V.

IL CUORE DI UN PRETE


Daniele adunque abitava alla Riviera di Chiaia.

Il suo quartiere, composto di poche stanze, ma tutte con eleganza
addobbate, guardava, per un lungo terrazzo, sulla villa Reale. Due
erano le principali stanze del nostro celibe maestro di musica,
il salottino da conversazione e lo studio, vale a dire lo stanzino
dov'egli solea dar lezioni di piano-forte. Queste due stanze erano
contigue e strette l'una all'altra sicchè era mestieri passar pel
salottino per entrare nello studio. L'addobbamento di queste due stanze
avea qualche cosa di troppo splendido pel modesto stato di maestro di
musica, e dava subitamente a divedere nel padron di casa quella smania
d'imitare le maniere ed il fasto dei nobili e dei ricchi. Per porre la
sua casa sovra un piede aristocratico, Daniele avea contratto non pochi
debiti, cui egli soddisfaceva il meglio che poteva, perciò che sarebbe
morto di vergogna se nella capitale si fosse buccinato esser egli stato
perseguitato dai creditori.

Il salottino, messo con paramenti di Francia, era un vero mazzolino
di fiori per freschezza, per profumi, per colori. Il palco, a fondo
bianco venato avea nel mezzo una bella dipintura rappresentante il
gruppo delle tre Grazie; una piccola ma gentil lumiera di bronzo dorato
sorreggente dodici torchietti scendeva a mezzo la stanza, per via di un
largo cordone, il cui capo fingeva di esser sostenuto dalle tre Grazie.
Un caminetto alla foggia inglese era scavato in fondo del salottino;
aveva un paracenere di ottone indorato con fregi a rilievo, ed altri
a retina di ferro. Nella stagione estiva il suo vano era chiuso o
meglio velato da un telaio sul quale eran dipinte parecchie caricature
e scherzi e fiori e frutte. Intorno a questo caminetto era un mezzo
cerchio di sedie imbottite e coperte di raso bianco, di seggioloni
a ruote con ispalliere ricurve indietro, di sedie a bracciuoli, di
poltrone a molle. A piè della più parte di queste sedie eran seggioline
e panchettine, similmente imbottite, da appoggiarvisi i piedi, cassette
da sputare, arnese tanto necessario a' fumatori, principalmente là dove
di be' tappeti covrono il pavimento, siccome in casa di Daniele nella
stagione invernale. Un gran sofà era situato alla parete opposta al
caminetto; questo canapè con doppio rullo era coperto di raso cilestre
ed avea la spalliera e i bracciuoli lavorati con intagli ed ornamenti
finissimi. Un tondo di mogano a lastra di marmo era situato nel mezzo
del salotto, zeppo di tutte quelle figurine di marmo, di stucco, di
alabastro che popolano i salotti e che sembrano ivi dimenticate dal
padron di casa. Questo mondo di lilliputti preziosi che si accalcano
sovra un tondo o sovra una mensola rivelano le passioni infantili
degli uomini dell'era nostra, i quali a somiglianza dei bimbi, prendono
diletto nei balocchi e nei giocarelli. Non poteva la moda inventar cosa
più adatta all'indole puerile del secolo nel quale viviamo.

Lo studio di Daniele era più semplice. Un divanetto rosso da un lato
avea dinanzi a sè un deschetto da colezione; più lungi uno scaffale di
bel lavoro su ciascun palchetto del quale eran gittati alla rinfusa
libri e carte di musica. In altro lato di questa stanza, aderente al
muro, una scrivania ad una sola cassetta, coperta parimente di libri,
di carte di musica e di arnesi da scrittoio, tra i quali primeggiava
per gusto e per lusso il ricapito da scrivere tutto in oro, di cui
ciascuna parte, cioè il calamaio, il polverino, il pennaiuolo o il
vasetto da cialde, rappresentava un differente animale, e congegnato in
maniera che ciascun animale adempiva al suo diverso officio di fornir
quello che si aveva in corpo. Il piano-forte compiva l'ammobigliamento
di quella stanza: magnifico strumento di artefice tedesco. Queste
due stanze comunicavano tra loro non pure per mezzo dell'uscio di
entrata comune, ma eziandio per mezzo del lungo terrazzo di cui abbiam
parlato più sopra. Eleganti cortine di finissima mussolina velavano
la luce nella estiva stagione e temperavano il freddo nell'inverno.
Un'affettazione di studiata imitazione, un desiderio di far mostra di
agiatezza, un'apparenza di lusso, eran questi i caratteri specchiati di
questa casa. Da qualche tempo nondimeno tutto pareva quivi negletto e
abbandonato, mentre ordinariamente la massima cura metteasi da Daniele
per tener tutto pulito, ordinato e appariscente.

Abbiam dovuto un poco allargarci su questi inetti particolari,
acciocchè più spiccatamente apparisca il carattere del personaggio di
tanta importanza nella storia che abbiam preso a narrare.

Otto giorni sono scorsi dalla morte di Giacomo. Eran le dieci d'un
mattino di domenica, quando una violenta scampanellata fece accorrere
all'uscio da scala un giovin domestico ch'era al servizio dell'elegante
maestro di musica. Daniele ritornava in sua casa da una breve
passeggiata che avea fatta nella Villa Reale. Egli era più del solito
abbattuto pallido, di pessimo umore.

Insin dal dì della morte di Giacomo, il giovin Daniele non era più
tornato in quella casa dove avea passata la sua giovinezza. Il suo
giuramento, le ultime parole del vecchio, la disperazione di Lucia si
presentavano a quando a quando nel suo animo per gittarvi un'ombra
tetrissima: ma tosto venivan cotali funeste immagini cancellate
dal turbine dei piaceri e dalla presenza o dalla immagine di Emma.
Questo per tanto si aggiugnea agli altri argomenti di tristezza che
oppressavano il petto di lui, tra i quali non ultimo la sete divorante
ch'ei sentiva di ricchezze e di onori. Nel ritirarsi ch'ei fece quel
dì, erasi gittato in una poltrona del salotto, sprofondandosi nei
suoi cupi pensieri, allora che un personaggio si presentò agli occhi
suoi, senza farsi annunziare. Questi era Padre Ambrogio. Daniele non
potè frenare, in veggendo il sacerdote, un moto di spiacimento: egli
non si aspettava quella visita. A Padre Ambrogio non era sfuggita
l'impressione poco piacevole da lui fatta sull'animo del giovine, ma
non si scuorò per questo, imperocchè l'avea preveduta, anzi, ei si
attendeva di non esser ricevuto; epperò, infingendo col domestico di
Daniele essere in grande intrinsechezza con costui, non avea voluto
farsi annunziare. Il buon prete salutò con composta umiltà l'altero
signorotto, che non si era neanche alzato dalla sua poltrona.

— A che debbo servirla? chiese questi secco al reverendo, senza nemmeno
offrirgli da sedere.

— Vi chieggo scusa se vi disturbo; imploro dalla vostra cavalleresca
cortesia pochi minuti di udienza.

Questa specie di fina ironia, di cui si sarebbe accorto ogni altro il
cui lume d'intelletto non fosse stato offuscato dalla vanità, sedusse
l'animo del giovanotto, il quale rispose con volto meno burbanzoso:

— Si segga, signor Abate.

Padre Ambrogio si sedè dirimpetto a Daniele.

— Il motivo che qui mi mena, riprese quegli, è sì grave, o signore,
ch'io non ho temuto commettere un'indiscrezione per adempire ad un
dovere altissimo del mio ministero.

— Di che si tratta? chiese il giovine chinando gli occhi.

— Si tratta che io promisi a Giacomo Fritzheim, poco prima della sua
morte, di avere pei suoi figli l'affetto e le cure di un padre; ed io
_non manco alle promesse_, signor Daniele.

— Me ne compiaccio infinitamente, disse questi ferito alquanto dalle
ultime parole del prete.

— Or dunque, signor Daniele, la sorte di Lucia mi commuove
profondamente. Dal dì della morte del padre la tapinella è in preda ad
una febbre nervosa che minaccia di voltarsi a male. La trista scena
ch'ebbe luogo pochi istanti pria che spirasse il buon Giacomo e le
costui ultime parole le cagionarono un delirio violento che per buona
ventura è cessato, lasciandole impertanto nel capo una confusione
spaventevole per la sua ragione. E voi l'avete abbandonata, signor
Daniele, mentre una vostra parola avrebbe gittato in quel cuore la
speranza e la vita? Voi l'avete abbandonata appunto allora che suo
padre l'abbandonava, da Dio chiamato, come spero, alla gloria celeste,
e allora che un dubbio crudele su i vostri sentimenti lacerava l'animo
di quella infelice! Voi avete, signor Daniele, deposto nelle mie mani
un giuramento ed eravate libero di non profferirlo. Io non dubito che
voi lo manterrete. Se, oltre la religione, l'amore non ve ne fa una
legge l'onore vel comanda; voi siete un gentiluomo, l'onore è sacro
per voi... Venite adunque, venite a rassicurare quella misera, venite
a spargere su quel povero cuore una goccia di balsamo: vel chieggo in
nome di Dio, dell'onore, dell'umanità.

Daniele, senza dar segno di minima commozione, suonò un campanello
d'oro che aveva a distanza di mano, e al domestico che si presentò sul
limitar della porta disse in lingua francese, perocchè francese era il
domestico:

— Non è venuto questa mattina alle nove il Marchesino?

— No, signore.

— Va bene. Come sta il mio cavallo?

— Sta meglio, signorino; ieri ha camminato un poco e parea che più non
zoppicasse.

— Avete fatto accomodare il fusto della sella?

— Signorsì.

— E gli staffili?

— Nuovi, signore, al tutto nuovi, perchè il cuoio era consumato ai
vecchi.

— Bene; e le sguance?

— Tutto a nuovo, signore.

— Benissimo; accendete un candelotto pel sigaro. Eccomi a voi, signor
Abate, riprese con massima freddezza l'insolente trovatello; scusate se
vi ho interrotto.. Voi dunque dicevate che...

E Daniele accendevasi il sigaro, come se si fosse trattato della più
indifferente conversazione.

Una lagrima spuntò sulle ciglia del sacerdote. Tanta perversità di
animo superava qualunque antiveggenza.

— Veggo che il vostro cavallo vi sta più a cuore che la povera Lucia,
signore. Non ho più a dirvi che una sola parola: Dio salverà Lucia e le
darà la forza di strapparsi dal cuore una passione cotanto infelice; ma
Dio confonde anche i perversi, e guai... guai all'uomo che si fa giuoco
della vita del suo simile!

Padre Ambrogio si alzò... Non mai questo venerabil servo del Signore
era stato visto così commosso ed agitato; il suo volto era pallido, i
suoi occhi bagnati di lagrime.

— Non voglio esservi più importuno, o signore; io vado via, ritorno
presso quella sventurata che considero come mia figlia. Ah! voi non
potete comprendere quello che ora soffre il mio cuore. Avea sperato
ritornare presso quella buona creatura arrecandole una parola di
speranza e di conforto; io le avea promesso di ritornar con voi...
Con quale ansia non mi aspetterà la misera? E dovrò dirle che Daniele,
l'amor suo, la sua vita, più non è per lei! Che ogni speranza è finita!
Ah signore, ripeto, che voi non potete, comprendere quel che soffre al
presente questo mio cuore!...

Padre Ambrogio piangeva... Daniele non avea cessato di fumare con una
placidezza spaventevole.

— Voi siete un uomo eccellente, signor Abate, si fece indi a dire
intermezzando frequenti buffi di fumo tra le sue parole; e mi dispiace
che prendiate sì viva premura di questo _affare_, cui penserò io di
_rimediare_ al miglior modo. Vi sono talune _circostanze_, taluni
_riguardi_ che mi impediscono per ora di sposar Lucia. Ho _promesso_
di sposarla tra un anno... e si vedrà... ma, pel suo meglio crederei
che si acconciasse a dismettere questa idea; anzi voi, sig. Abate,
cercate di persuaderla a non più pensarci: sono cose da fanciulli,
sono parole che si scambiano alla prima età. Vi assicuro che se avessi
saputo che tanto in sul serio quella giovinetta avesse preso le cose,
mi sarei astenuto di corrisponderle... Con tutto ciò, io son sicuro
che ella mi dimenticherà col tempo, si sanno le arti delle donne,
convulsioni, malattie, stiramenti di cuore; lagrime, e poi finiscono
con adattarsi ad altri amanti. Lucia farà lo stesso, siatene certo:
io me ne intendo un poco in materia di donne: le donne e la musica
sono state la mia passione... Persuadetevi, sig. Abate, che nulla di
più vero del proverbio: _L'amore fa passare il tempo, e il tempo fa
passar l'amore_... Io le voglio del bene a Lucia, e le farò del bene
sempre che potrò... Ma, in quanto a matrimonio, non è possibile. Io
sono slanciato nel mondo, frequento la miglior società di Napoli, e un
matrimonio _ignobile_ mi ruinerebbe nei miei _affari_... Questa società
in cui viviamo è così _esigente_! Beato voi, signor Abate, che non ci
siete in contatto! Se sapeste quello che vi si soffre! I sacrificii che
si fanno per conservarsi in una certa _sfera_ di riputazione... Io lo
so, per mia mala ventura, che sono tanto ricercato e da pertutto!

Qui Daniele si alzò e riprese, quasi per accomiatare il sacerdote:

— Ritornate adunque da lei, e ditele da parte mia che non mi
dimenticherò di lei, che verrò a trovarla non sì tosto le mie faccende
mel permetteranno, e che faccia capitale di me in ogni emergenza; ma
sopratutto fatele ben comprendere, signor Abate, che _provvegga ai suoi
casi_ il meglio che può, che non rifiuti, per me, qualche altro partito
_a lei più conveniente e più adatto_, e che io sarò pienamente felice
quando saprò ch'ella è del pari felice con un compagno più degno di
lei... A rivederci adunque, Padre Ambrogio, non posso goder più a lungo
della vostra compagnia, stante che le mie faccende mi chiamano altrove.

Daniele fece un leggiero inchino di testa e si inoltrò verso l'uscio,
come per indicarne il cammino a Padre Ambrogio, il quale, senza più
aggiungere una parola, profondamente addolorato si partia di quella
casa per tornare colà dove LA CARITÀ il chiamava a tergere le lagrime
di una misera famiglia e a pianger con essa.



Parte Seconda



I.

EMMA


Lasciando per poco la sventurata famiglia dello stradiere, inoltriamoci
in quella vita rumorosa, gaia, splendida di movimento, di cerimonie, di
convenienze e di piaceri che si addimanda la vita del gran mondo.

Che cosa è la vita del gran mondo? È un circolo matematico dentro il
quale si aggira quella porzione della società che sembra straniera
al retaggio di miserie lasciato all'uman genere dalla colpa de' primi
genitori. In questo circolo segnato dalla verga di quella fata che ha
nome civiltà non è ammesso chiunque è sottoposto alla dura legge del
lavoro, perciocchè la sola fatica che vi si sopporta, che vi si tollera
è il piacere. Fiori, profumi, dolcezze, canti, seta, oro, squisitezze
di ogni maniera, allettamenti di ogni sorta sono gli elementi vitali
dell'atmosfera di questa vita del gran mondo, siccome l'azoto e
l'ossigeno sono gli elementi respirabili della vita comune. Qui nulla
troverete che non sia strettamente sottoposto a un codice severo che
ha un milione di leggi ignote al volgo, e che costituisce in gran
parte la scienza della vita del gran mondo; qui il linguaggio non ha
niente di comune con le ordinarie favelle; tutto riceve denominazioni
particolari, epiteti e aggiunti di nuovo conio: tutto in somma portar
debbe l'approvazione e l'impronta di quella dispotica dea del gran
mondo che si chiama la _Moda_.

Non si dimanda se in Napoli, in questa regina del Mediterraneo, in
questa incantevole villa del mondo, dove tutto respira il piacere,
dove l'aria è profumo, dove il cielo è un sorriso, dove l'inverno è la
stagione dei fiori, dove ogni voce è un canto, e ogni canto un'armonia,
non si dimanda se in Napoli la vita del gran mondo è brillante e
animata al pari di quella delle altre capitali di Europa. Aggiungi che
la nobiltà napolitana alla perfetta cognizione delle leggi dell'alta
società accoppia un gusto squisitissimo per le lettere e per le arti,
che essa coltiva ed incoraggia splendidamente: e questo delicato gusto
per le arti ravvicina l'aristocrazia del merito a quella della nascita
e delle ricchezze, sì che le porte dorate dei grandi non sono chiuse
all'artista, che si ebbe in retaggio l'ispirazione ed il genio. D'altra
parte, la vita del gran mondo è dappertutto la stessa; le sue leggi, i
suoi usi, i suoi pregiudizii sono dappertutto presso che i medesimi in
Europa.

La casa del Duca di Gonzalvo era nell'anno 1826 la più rinomata
per isplendidezza di servizio; per l'eleganza e pel fasto del suo
trattamento, per le persone che la frequentavano. Il duca di Gonzalvo,
discendente d'illustre lignaggio e di una delle primarie famiglie
nobili di Andalusia, abitava da parecchi anni in Napoli. Egli era
stato per molto tempo governatore o capo politico di quella bella
provincia delle Spagne, quando la rivoluzione del 1820 il toglieva da
quel posto eminente, accusandolo di troppo attaccamento ai principi
della pura monarchia ed alle gloriose tradizioni di quel governo che
per tanti secoli avea formata la grandezza, la felicità e la possanza
dell'iberica penisola e dei suoi estesi domini transatlantici. Il Duca
Gonzalvo, sbalzato dal potere, e già tristo per gravissima sventura di
famiglia, non soffrì di più rimanere in un paese, nel quale infinite
e amare memorie lo avrebbero assalito ad ogni momento: ondechè fermò
di abbandonare la Spagna, e trasferirsi colla famiglia in Napoli, dove
risiedevano alcuni suoi larghi parenti, e dove l'amenità del clima,
la salubrità dell'aria e la bontà degli abitanti lo invitavano a
stabilirsi. Il Duca di Gonzalvo era un uomo in su i cinquant'anni, ma
non ne addimostrava più di quaranta, sendone la persona alta, complessa
e ben formata: i capelli eran tuttavia nerissimi e ricciuti siccome
i baffi e il pizzo ch'ei portava lunghissimi e puntuti alla maniera
spagnuola. La sua carnagione era bruna, belle le fattezze del volto;
e la sua andatura avea qualche cosa di maestoso e d'autorevole. Sempre
serio, misurato e cerimonioso era il suo linguaggio, in cui nondimeno
trapelava sempre quell'alterigia, che forma il fondo del carattere
spagnuolo. Gli avvenimenti politici del suo paese non meno che le
disgrazie della sua famiglia avean lasciato nel suo temperamento una
certa soverchia bile, per cui sovente era soggetto a moti irrefrenabili
d'ira: allora quel suo bruno volto diveniva di brace, quei suoi
occhi neri schizzavan fuoco, e quell'uomo avea tutta l'ardenza della
giovinezza congiunta alla forza della virilità.

La famiglia del Duca di Gonzalvo si componea della moglie; donna di
cuore compassionevole a' miseri ma estremamente altiera e severa in sul
capitolo della nobiltà. Questa donna aveva ereditato dal padre ingenti
ricchezze, possessioni senza fine, di cui gran parte avea formato la
sua dote: il superbo castello moresco di Santiago nell'Andalusia era
proprietà di lei co' titoli e privilegi annessi. La _Senora Duquesa
Isabel de Gonzalvo y Monreal-Santiago_ avea toccato i 55 anni.
Sebbene macerata dal cordoglio di veder tolto dal potere il consorte,
ella potea dirsi ancor bella, essendosi la sua lunga capellatura
conservata ancora intatta dalle ingiurie del tempo, e i suoi occhi
non avendo affatto perduta quella vivacità e quella espressione che
aveano tanti cuori umiliato. Or tutto l'orgoglio di questa donna era
riposto nell'unica figliuola, erede d'immense dovizie, in Emma bellezza
singolare, di cui ci studieremo di adombrare, per quanto è possibile,
il ritratto.

Questa giovinetta, cui vent'anni appena infioravano la vita, era una
di quelle bellezze che non si trovano tranne che sotto il cielo della
Spagna, ed in ispezialità nell'Andalusia; bellezze vigorose, spiranti
tempestose passioni, bellezze che sconvolgono subitamente la ragione a
chiunque per la prima fiata le contempla: l'incanto è negli occhi loro;
fiamma d'amore son le loro labbra; il comando è stampato sulla loro
fronte.

Come faremo a dipingere Emma colle parole ordinarie? In quale lingua
troveremo le immagini equivalenti per farla raffigurare ai nostri
lettori? Oh se eglino la vedessero siccome la veggiamo noi! Ci sentiamo
palpitare il cuore in parlandone, tremar la penna scrivendone, vorremmo
che le febbrili sensazioni che l'immagine di questa donna ci desta,
passassero tutte quante ne' nostri lettori, per vie più svegliare in
essi la simpatia per questo personaggio della nostra storia. Emma era
il tipo della bellezza andalusa: carnagione e colori di miniatura,
occhi di lustrino splendidissimo, sguardo elettrico, sopracciglia di
velluto, labbra alquanto larghette, bottoni di rosa orientale, denti
di una bianchezza abbagliante, sorriso di baiadera, lunghe le chiome e
di un ebano fulgidissimo, cui ella solea portare divise e scinte dietro
gli orecchi, ovvero raggomitolate in grandi giri sulla coppa del capo.

Ma siffatti particolari del volto di Emma erano un nulla a paragone
delle fattezze del suo corpo, modello di grazia, di avvenenza, di
proporzioni; era nel complesso delle sue fattezze qualche cosa che
sospingeva a riguardarla in estasi di simpatia. Se ella affissava
qualcuno, lo sguardo di lei lasciava un incendio nel cervello di chi
ella avea guardato, siccome interviene allora che si dirizzano gli
occhi al sole, che lascia nel capo del riguardante una confusione
spaventevole di luce e di colori. Ella avea certe maniere di volgere il
capo, di chinar le lunghe ciglia, di fissare obliquamente quegli occhi
di odalisca, avea certe maniere di movimenti, di gesti, ch'erano una
grazia singolare; ci era da smarrire il senno.

Qual'era il carattere morale di questa donzella? Ah! Perchè non possiam
dire di lei quel che dicevano di Lucia, buona, semplice, modesta,
riserbatissima con tutto che sensibilissima! Emma era nel morale quel
che può essere una donna sì ben favorita dal cielo in dono di bellezza.
Ella era così bella, così ricca, così giovane, fornita a dovizia degli
appannaggi della più compiuta educazione! Quale altro sentimento potea
dominare in lei, all'infuora d'un amore ardentissimo di sè medesima?

Farfalla dalle ali dorate, ella svolazzava libera, leggiera,
spensierata e felice in su i fiori della vita, di cui non conosceva
altro che le delizie e quella specie di cara languidezza che tien
dietro a' piaceri. Unica figliuola, ella era idolatrata da' suoi
genitori, i quali non avevano altra volontà che la sua, altro amore che
di lei, altri pensieri che per lei, di cui andavano superbi più che di
tutte le loro ricchezze e possedimenti.

Le undici battevano ad un magnifico orologio da mensola, allora che
Emma si alzava dal suo letto verginale. Due bellissime stanze nel
quartiere del palazzo S..... erano destinate esclusivamente a lei; una
serviva per sua camera da letto e l'altra per stanza di abbigliamento.
Due cameriere, una napolitana e l'altra francese, erano addette a
servir lei particolarmente. Non trascuriamo di dire che Emma parlava
colla stessa faciltà lo spagnuolo, l'italiano e il francese: il suo
accento straniero, la sua voce nervosa, il modo di parlare a tratti
e con cadenze aveano tali incanti e tal prestigio che non si poteva
ascoltarla senza esserne preso. In parlando l'italiano o il francese,
ella faceva sentire quella graziosa lievissima sibilazione del ce
ci spagnuoli: il che aggiungea vaghezza estrema al suo discorso.
Ogni dì, non si tosto svegliata e tuttora in letto, Emma tirava la
cordicina di un campanello, e subitamente le si affacciava una delle
due cameriere. La giovinetta si facea dare i giornali di moda, i nuovi
romanzi, le lettere delle sue amiche, la grammatica di lingua inglese
ch'ella studiava, e mezz'ora o poco più trascorrer facea in simiglianti
occupazioni. Prima della colezione, ella andava ad abbracciare suo
padre e sua madre, e dopo, la musica assorbiva gran parte della sua
mattinata.

Ella si era vestita con incantevole semplicità, e, l'ora della lezione
di musica avvicinandosi, era ita nel salotto contiguo al gran salone
da ballo per ripassare sul piano-forte una ballata nazionale spagnuola.
Era un canto curioso, strano, ma ripieno di vita e di brio: la ballata
era così concepita:

    Anche franja de velludo
      En la terciada mantilla;
      Aire recio, gesto crudo,
      Soberana pantorrilla:
      Alma atroz, sal espanola;
      Alza, ola;
      Vale un mundo mi manola!

    Con primor se calza el piè
      Digno de regio tapiz;
      Con un dulce no sè què
      En aquella cicatriz
      Que tiene junto a la jola;
      Alza, ola,
      Vale un mundo mi manola!

    Que calidad! y como cruje
      Se baila jota o fandango;
      Y que aire en cada empuje
      Y que gloria de remango!
      A la mas leve cabriola
      Alza, ola;
      Vale un mundo mi manola;

Non aveva Emma terminato di ripassare questa ballata, quando le fu
annunziato il suo maestro, Daniele entrava nel salotto.



II.

LA LEZIONE


Il giovine era vestito nella più elegante maniera; il gusto più fino
avea dettato la norma del suo abbigliamento, il quale non usciva però
dalla più stretta semplicità. Entrando nel salotto dov'era quella
incantevol creatura, Daniele rabbruscò la fronte e raggrottò le ciglia,
dappoichè Emma non si era, secondo il solito, levata d'in su la sedia
per andarlo a ricevere; la giovinetta pareva assorta interamente nello
studio di quella ballata spagnuola.

— Buon giorno, maestro, gli disse, io vi aspettava con impazienza;
non so se io abbia indovinato questo ritornello ch'è assai gentile ma
difficile.

— Vediamo, Duchessina, a voi nulla può esser difficile.

— Davvero vi dico che non raggiungerò mai la semplicità e la grazia
di questo canto; ho paura che nol canterò sabato alla serata di Lady
Boston.

— In questo caso io mi attirerei l'odio e l'animosità di tutti,
Duchessina, perocchè a me si attribuirebbe la colpa di non avervi fatto
cantare questa ballata.

— Vi assicuro che non la canterei se non avessi ciò promesso a tutte le
mie amiche.

— Ed al Visconte di Boisrouge, Duchessina, soggiunse cupamente Daniele,
affisando i suoi occhi torbidi in volto alla giovinetta.

— Ebbene, sì, vel confesso; anche a costui l'ho promesso: sapete che
questi è uno dei miei ammiratori, disse ridendo la fanciulla, mostrando
quei due filari di denti nivei ed ugualissimi.

— Ammiratore! Duchessina, e chi non è vostro ammiratore? Dategli
piuttosto un altro titolo.

— E quale?

— Quello di vostro amante.

— Gli è vero, rispose Emma, e dei più noiosi.

— Non tanto, Duchessina; mi permetto di ricordarvi che lunedì sera alla
festa di Madama A.... voi cantaste con tanta espressione con lui il
duetto del _Tancredi_, che tutti invidiarono la sorte del Visconte...

— Oh! ben sapete che io cerco sempre di porre un poco di anima in
quello che canto; non posso vincere il mio temperamento. D'altra parte,
quel duetto è tanto bello!

— Io lo detesto, Duchessina.

— Lo detestate! e perchè?

— Non so, lo detesto tanto che ho giurato di non più accompagnarne il
canto in qualsivoglia riunione.

— Eppure, voi medesimo mi diceste che quel duetto vi piaceva
estremamente, e foste voi, se ben ricordate, che mel faceste imparare.

— Oh, Duchessina, se io avessi supposto che...

— Che cosa, maestro?

— Non so, volea dire che... che... io detesto quel duetto da lunedì
sera.

Daniele abbassò gli occhi: sul suo volto era apparsa una leggiera tinta
di vermiglio. Emma finse di non comprendere la significazione di quelle
parole e trasse a caso un accordo dalla tastiera.

— Volete aver la bontà di riascoltar questo pezzo?

— Io vi ascolto, Duchessina.

Emma cominciò a cantare la ballata spagnuola. Era nella voce della
giovinetta un tale incanto, una tale voluttà che avrebbe sconvolta la
ragione del più freddo uditore: avea certe corde che andavano a toccare
il fondo del cuore, e rimescolarvi le passioni: avea certi tuoni di
contralto, certe modulazioni, certe cadenze che avrebbero fatto cader
un teatro per gli applausi, se quella donna fosse stata artista. Quella
voce, quell'accento, quel canto ti mettevano il fremito in tutte le
fibre del corpo, ti faceano impallidire per tempesta di commozioni.

Non sappiam dire quello che accadeva nel cuor di Daniele in udendo
cantare quella ballata. Senza dire della divorante passione che lo
struggeva per quella fanciulla e gli mettea la febbre nei polsi ogni
qual volta l'udiva semplicemente a parlare, egli provava un sentimento
indefinibile tutte le fiate che udiva parole spagnuole. Egli stesso
non sapea rendersi di ciò ragione, ma era un nembo di rimembranze
indistinte, un sogno lontano che gli si riaffacciava alla mente, un
altro cielo, un'altra terra ch'ei vedeva attraverso confuse immagini:
era forse la lingua che in culla egli udiva susurrarglisi all'orecchio,
e che forse ei medesimo balbettava quando era bambinetto di due in tre
anni. Certo si è che quel canto e le parole di quella lingua facevano
sull'animo di Daniele tale impressione ch'ei si sentiva toccare il
cervello e diventar pazzo. Aggiugni che nel cumulo delle ricordanze
velatissime che gli si presentavano al pensiero, ei vedeva una casa
splendidissima e tanti vaghi oggetti che non giungeva a distinguere:
tra l'altro, raffigurava in mezzo alla sua memoria una donna bellissima
che sempre il baciava, e che gli diceva appunto tante cose in quella
lingua che or egli ritrovava sulle labbra di quella bella creatura,
che gli sedeva allato. E quando Emma ebbe terminato di cantare, Daniele
rimaneva tuttavia nella immobilità di statua, assorto in una sola idea
che gli dava rovello e che il faceva uscir di senno. Egli pensava...
pensava che forse egli era nato RICCO E NOBILE!

— Ebbene, maestro, non avete nulla da osservare, nulla da correggere
nel modo di cantare questa ballata? chiesegli Emma.

— Nulla, Duchessina. Quando io vi ascolto, io non sono più su questa
terra, il sapete. L'arte sterile e pedante è fulminata dal vostro
genio. Quando io vi ascolto non sono più vostro maestro, ma vostro
ammiratore.

— Voi mi lusingate troppo, maestro; ho paura che non mi guastiate.

— Ed io vi guasterei davvero se facessi la minima pedantesca
osservazione a quello che avete cantato. Noi abbiamo cambiato le nostre
parti, Duchessina; voi siete che insegnate ed io che apprendo. Se
sapeste quante ascose bellezze artistiche mi rivela il vostro canto!
Non vi parlo dell'impressione che in me produce, di quello che io
sento... Duchessina, io sarò costretto di rinunziare al piacere di
udirvi.

— Che vuol dir questo? domandò la giovinetta abbassando quelle sue
lunghe ciglia.

— Vuol dire che star vicino a voi un'ora o due, qui, in questo salotto,
colla mia sedia così vicina alla vostra, vedervi così dappresso,
gustare io solo la immensa delizia di sentirvi a cantare, trattenermi
con voi da solo a solo, udir le vostre parole, guardare i vostri
occhi... è troppo crudel prova pel mio povero cuore... nol posso, no,
Duchessina... Mille altri invidiano la mia sorte, eppure io sono più
infelice assai di loro tutti... Perdonate, l'ardita franchezza del mio
linguaggio, e compatite ai mali che voi fate.

— Non v'intendo, signore. Non è la vostra professione quella di maestro
di musica? Non sono io la vostra discepola? Non debbo al vostro merito
impareggiabile quel poco che so? In quanto all'effetto che produce in
voi il mio canto, siccome voi dite, l'attribuisco alla bella tempera
dell'animo vostro si ben formato. D'altra parte, è vero che il canto
suol produrre di strani effetti sul cuore degl'innamorati.

Daniele fece un balzo in sulla sedia, trasalì, si scolorò, ed indi il
suo volto diventò fiamma ardentissima.

— Che! Duchessina, balbettò egli, avreste voi letto nell'anima mia?

— Non propriamente, nell'anima vostra, rispose sorridendo la
giovinetta, ma qualche cosa ho indovinato da questo biglietto che vi
consegno. Ieri sera voi non veniste alla nostra conversazione, e ieri
sera appunto avreste trovato qui qualche cosa che vi avrebbe fatto
estremo piacere. Or bene, eccovi il biglietto; via, non arrossite; è
così naturale alla vostra età il far l'amore!

Emma traeva dal seno una carta piegata in forma di lettera e la
consegnava all'attonito giovine, il quale vi gittò con ambasciosa
avidità gli occhi e lesse sulla sopraccarta: DANIELE DE' RIMINI — DA
LUCIA FRITZHEIM. Daniele impallidì: le sue labbra s'imbiancarono come
quelle di un morto, e rimase lungo tempo con quella lettera in mano
senza sapersi risolvere ad aprirla. Egli era atterrato! Avea fatto
tanto per nascondere ad Emma i suoi amori con Lucia, per tema che non
le fosse giunta all'orecchio la bassa sua origine!

— Ebbene, maestro, a che pensate adesso? Non vi affrettate a leggere
quello che vi scrive la vostra bella? Ora su, andiamo, ve ne dò il
permesso.

— Duchessina, rispose con rauca voce il giovine mal nascondendo il
turbamento e l'ira ond'era preso, permettete ch'io vi dica esservi
di gran lunga ingannata nelle vostre supposizioni. Questa donna che
mi scrive, questa donna che voi credete mia innamorata, non è che una
avventuriera.... una straniera ch'io ho conosciuta per casualità; il
suo cognome v'indica che essa non appartiene a questo paese. Io non
so come abbia avuto l'ardire di scrivermi dopo che l'ho dispregiata,
dopo che non ho voluto cadere nei lacci delle sue seduzioni.... Ma già
conosco quello che questa donna mi chiede, Duchessina. Non è amore quel
che questa disgraziata mi chiede, ma sibbene del pane... del pane.

Ciò dicendo, l'infame trovatello intascava la lettera senza neppure
dischiuderla, per tema che ad Emma non fosse nata la curiosità di
gittarvi lo sguardo.

— In questo caso vi chieggo scusa, maestro che una tal donna fosse
vostra innamorata. Vi assicuro che mi dispiace di essermi ingannata:
non so perchè, ma quel nome avea destato in me una certa simpatia,
anche perchè mi si disse ieri sera che un fanciullo di circa dieci
anni in undici anni avea recata quella lettera. Il poveretto era
stato dapprima alla vostra abitazione alla _Riviera di Chiaia_, dove
gli avean detto che forse vi avrebbero trovato qui. La mia cameriera
soggiunse che quel miserello si pose a piangere quando seppe che non
eravate qui; sembrava afflittissimo e stanco a morte, perocchè avea
fatto cammino a piedi, e diceva di esser partito nientemeno che da una
strada lontana lontana; se ben mi ricordo, da _S. Maria degli Angeli
alle croci_ vicino al Real Albergo dei poveri! Queste ultime parole
agghiacciarono il cuore di Daniele. Emma sapeva ormai la dimora di
Lucia! Un'orma era segnata per discoprire il tutto! Daniele si morse le
labbra: i suoi occhi gittavano veleno di collera.

— Intrighi, bugie, Duchessina: nulla di vero di quanto asserì quel
fanciullo, al quale era stata forse insegnata una parte per commuover
la gente di questa casa e carpirvi del danaro. Bricconi di pitocchi!
Ei bisogna far cacciare dai vostri servi quel fanciullo, se si
presenta di bel nuovo o qualunque altro venga in nome di questa
intrigante avventuriera; i loro piedi brutterebbero la vostra casa;
le loro parole contaminerebbero gli orecchi della vostra gente.
Non mi arrecherebbe maraviglia se ardisse venir qui la stessa Lucia
Fritzheim! Oh, Duchessina, ella ingannerebbe i più astuti. Se vedeste
che sembiante d'innocenza! Che modi ingenui propri di un cuor gentile
e virtuoso! Ma or siete avvertita, e non darete nella pania, siccome
non vi cascheranno i vostri servi. Ma che dico! Ei bisogna, vi ripeto,
ei bisogna far cacciare costoro senz'ascoltarli! Oh se vostro padre
o vostra madre sapessero che donna è cotesta Lucia Fritzheim, non
saprebbero abbastanza rammaricarsi che voi abbiate conservato un suo
biglietto.

— Ma io ignorava tutto ciò, disse la fanciulla vagamente colorandosi di
rosso nel volto.

— Abbastanza ci siamo occupati di questa sciagurata. Che il suo nome
non contamini più le vostre labbra, Duchessina, fatemi l'onore di
credere che nè il cuore nè il mio pensiero scendono tanto giù.

Sul sembiante di Daniele eran dipinti il dispetto, la collera, il
livore. Emma credette scorgervi un sentimento di giusto sdegno.

— Dite bene, maestro, non parliamo più di ciò. Non potete credere come
mi fa male il sentir certe cose. Oh che brutta cosa è la menzogna,
l'ipocrisia, il tradimento!

Daniele stravolse gli occhi come se avesse avuto sul capo un colpo di
mazza. Per buona ventura, Emma nol guardò in quel momento, dappoichè
avea di bel nuovo spiegato sul leggio del piano-forte la prima pagina
della ballata spagnuola.

— Voi dunque, maestro, m'incoraggiate a cantare questa ballata sabato
sera da Lady Boston?

— Se v'incoraggio, Duchessina! Che cosa volete ch'io vi dica? Voi
la canterete, se vi piace, e se l'avete promesso a quella ragunata e
al visconte di Boisrouge; voi la canterete, e farete impazzare tutti
quei signori. Ma per me, voi lo sapete; io vorrei che voi non cantaste
giammai nelle ragunate... Io sono geloso, Duchessina.

— Geloso! esclamò la giovinetta sorridendo.

— Sì, geloso; o per dir meglio, egoista. Vorrei sentirvi io
solo; vorrei che nessuno altro provasse quella gioia ch'io provo
nell'ascoltarvi. Io so bene, Emma, che nessuno può in quei momenti
sentir quello che sento io; ma pure, allora che gitto uno sguardo sul
circolo de' vostri uditori, e veggo i loro volti infiammati, i loro
occhi scintillanti, e indovino i palpiti dei loro cuori, a me pare che
tutti debbano adorarvi siccome... siccome si adorano gli angioli come
voi.

Daniele non disse _siccome vi adoro io_, ma Emma il comprese e sorrise.
Da molto tempo la giovinetta si era accorta dell'amore di Daniele per
lei, e ne gioiva. Daniele era per lei una _vittima_ ch'ella attaccava
al carro dei suoi continui trionfi, e cui si compiaceva di turbare.

— Sempre cortese e galante è il vostro linguaggio maestro. Se non
sapessi che siete sincero, vi crederei adulatore...

Dopo qualche momento di silenzio, Emma riprese:

— Avrò un bel coraggio sabato sera per pormi a cantare. Sapete chi
canterà da Lady Boston?

— Chiunque altro non potrà che sfigurare al vostro paragone.

— Anche se quest'altro o quest'altra fosse la signora Pasta?

— Ebbene, anche la signora Pasta non potrebbe che stare in seconda riga
a petto vostro, Duchessina.

— Oh! oh! convenite che questo è troppo. La signora Pasta è la prima
cantante che oggi sia in Italia.

— Non niego il suo merito, ma guai a lei, vi ripeto, se voi calcaste le
scene per una sola sera!

— Tregua ai complimenti, signor maestro, e permettete ch'io vi dimandi
che cosa canterete voi: ricordatevi che sabato scorso prometteste di
farvi udire, e sarebbe scortesia il mancare.

— Io non mancherò; ho promesso di cantare... e canterò per la prima
volta in casa di Lady Boston.

— Vi hanno ammirato come esimio suonatore; avranno l'agio di ammirarvi
come esimio cantante. Che pezzo canterete?

— Un pezzo di mio componimento: farete le grandi meraviglie se vi dirò
che anch'io ho composto le parole di questo pezzo.

— Davvero! sclamò la giovinetta, ecco che ogni giorno discopro in voi
nuovi pregi e novelle doti; non sapevo che foste anche poeta.

— Duchessina, quando si ha nel cuore una profonda passione, si diviene
poeta senza volerlo.

Emma chinò gli occhi sulla tastiera; e, fingendo spensieratezza,
soggiunse:

— Ed è una romanza quella che avete composta?

— Non so quello che è; soltanto so che le parole e la musica sono
esalate dalla profondità dell'anima mia.

— Avete almeno dato un titolo a questo vostro componimento?

— Sì, Duchessina, il titolo è, _Un colpevole amore_.

— Perchè _colpevole_? dimandò la fanciulla.

— Perchè è colpa in me l'amore; ei mi fa d'uopo idolatrare.

Emma si alzò e sorridendo disse a Daniele:

— Sedetevi qui, signor maestro, e fatemi udire il vostro _colpevole
amore_.

Il giovine si sentì profondamente umiliato da questa specie di sottile
e beffarda ironia.

— Non posso, Duchessina: in questo momento ci è troppa differenza e
troppa distanza tra le nostre anime perchè voi possiate appieno gustare
il mio componimento; l'anima mia è trista, assai trista, e la vostra è
gaia, sorridente, felice. Non pertanto, poichè lo volete, io canterò,
vi farò sentire il mio componimento e aspetterò dal vostro labbro la
mia sentenza... cioè se potrò arrischiarmi a cantarlo da Lady Boston.

Daniele si sedè al piano-forte e cantò la seguente romanza:

    Ah non mai, non mai saprete
      Del mio amor qual'è l'oggetto,
      Se anche un regno mi darete,
      Non sarà ch'io v'apra il cor.
        Resterà sepolto in petto
        Il segreto del mio amor.

    Muto il labbro non si affida
      Rivelar la fiamma ascosa;
      Sia ch'io pianga, sia ch'io rida,
      Chiuso è a tutti il mio penar;
        Chè a se stesso il cor non osa
        La sua colpa confessar.

    Se colei che m'innamora
      Semplicetta a me sorride,
      Il mio volto si scolora,
      E l'incendio in me si fa;
        Ma l'arcano che mi uccide
        Ella stessa ignorerà.

    Come è nato l'amor mio,
      Quale ha speme non so dire;
      Ardentissimo un desio
      Sol mi va rodendo il sen.
        Ah potessi nel morire
        Quanto io l'amo dirle almen!

Daniele avea cantata questa romanza con tale accento di disperata
passione che Emma non potè nascondere il suo turbamento. Il giovine
avea una bellissima voce di baritono, al che si aggiungeva un modo di
cantare così perfetto e tant'arte che il suo canto innamorava. Pensate
quale e quanta espressione fu da lui posta questa fiata nel pezzo di
musica, in cui ritratto avea le sofferenze del proprio cuore.

— Magnifico! sublime! esclamò la fanciulla; voi sarete l'eroe della
serata di sabato; ma badate che tutti useranno l'indiscrezione di
chiedervi il nome dell'oggetto da voi amato.

— Indarno il chiederanno, Duchessina.

— Ebbene, maestro, ditemi la sola lettera iniziale del suo nome; ditela
a me sola, vi prometto che non la paleserò a nessuno.

— Che mi chiedete, Duchessina!

— La sola lettera iniziale; pensate ch'egli è impossibile conoscere un
nome da una lettera.

— Ebbene, io vi dirò una lettera del suo nome e vel lascerò indovinare;
ma allora peserà su voi la responsabilità del mio segreto discoperto.

— Dite dunque.

Daniele trasse di tasca una piccola matita e con mano tremante segnò
sulla carta di musica della sua romanza la lettera M.

Ah! indovino, esclamò l'astuta giovinetta per torturare l'amante, e
quasi che non avesse compreso che questa M era tutto il proprio nome;
indovino di che si tratta; voi amate _Lady Maria Boston_: avete ragione
di aver intitolato la vostra romanza _un colpevole amore_, perchè
questa donna è maritata.

Daniele pallidissimo e turbato stava per rispondere quando sì presentò
nel salotto la Duchessa di Gonzalvo madre di Emma. La lezione cessò, e
la conversazione si aggirò su cose indifferenti.



III.

DUE AMICI DI DANIELE


Daniele tornando a casa era in uno stato che facea paura; si sentiva
umiliato agli occhi suoi stessi in quella specie d'indifferenza con
cui era trattato da Emma: il suo amor proprio, la sua vanità, la
sua passione, tutto era ferito, ulcerato nell'anima sua — Durante il
cammino dal palazzo S.... alla _Riviera di Chiaia_, parea demente,
parlava solo, urtava tutti, prendeva una strada per un'altra.

— Questo tormento non può durare, diceva tra sè stralunando gli occhi
e gesteggiando come un attore che reciti un monologo violento — no,
non può durare; io mi ucciderò se Emma non corrisponderà al mio amore.
Bisogna ch'io me le dichiari apertamente.... Allora vedremo, se potrà
sfuggire destramente alle mie dichiarazioni.... Se ella è ricca, nol
potrò anche io diventare? Non è questa l'ardente speranza della mia
vita? Non gitto sudori, non mi ammazzo forse per acquistare un po'
d'oro? D'altra parte, che bisogno ha ella di sposare un ricco, quando
ha tante ricchezze? La sua mano farà ricco l'uomo ch'ella sposerà.
La sua nobiltà! Ecco... ecco l'ostacolo di ferro, impossibile a
sormontare... Eppure, chi sa! se io giungessi ad innamorarla di me;
se ella mi amasse, i suoi genitori farebbero la volontà di lei...
Potrei sperare... Oh! perchè ho conosciuto questa donna? La mia salute
deteriora ogni giorno: ho abbandonato tutti i miei amici, tutte quelle
famiglie che avrebbero potuto essermi utili.... Non è possibile ch'io
viva più con tal serpe nell'anima; bisogna finirla; o Emma sarà mia o
io mi ucciderò o ucciderò lei, perocchè non potrei sopportar l'idea che
un altro la possedesse!... No, non è possibile che io mi strugga a tal
modo; io le aprirò tutto il mio cuore, mi getterò alle sue ginocchia,
implorerò l'amor suo e la pregherò che mi dia la morte.

Così parlando il forsennato era giunto alla sua abitazione. Nell'entrar
che fece nel suo salottino, trovò sdraiati presso il camminetto il
Marchesino Gustavo che leggeva, e un altro giovine suo amico, per nome
Stefanello, anche di nobil famiglia. Daniele aveva invitato a pranzo
questi due amici.

— Oh, bravo, maestro! farsi aspettare un'ora, è proprio dell'ultima
eleganza! disse il Marchesino, gittando le sue lunghe gambe sovra
un'altra poltrona che gli stava di contro.

— Perdono, amici miei, ho avuto impacci per le mani: ben sapete le
seccature annesse alla mia professione.

— Che hai? ti veggo in fronte una cera lunatica, alla Jacopo Ortis; che
ti è accaduto?

— Niente... propriamente niente; ho lavorato molto, sono stanco.

— Non me la darai ad intendere, discolo di prima sfera, riprese
il Marchesino, qui ci è sotto roba femminile... Un tradimento, eh?
Buffoneria l'accuorarsi per le donne... Ma già, alla tua età si crede
ancora a quelle pappolate di fedeltà, di costanza di amore eterno, di
un tugurio ma con lui, e a tante altre graziose parole di questo conio,
belle invenzioni del secolo passato, ma che ora sono rancide o uscite
di moda come Madame Colbran... Ricordati che

    Femmina è cosa mobil per natura:
    Solca nelle onde, e nelle arene semina
    Chi pone sue speranze in cor di femina.

Ecco per esempio, quando tu sei venuto, io stava leggendo questo
vecchio fascicolo dell'_Utile Passatempo_[1]. Ascolta questo
aneddotuccio; «Veniva consigliato un padre di aspettare che suo figlio
fosse più saggio per dargli moglie. Il vostro consiglio, rispose, non
mi pare troppo buono, poichè se mio figlio diventa saggio, temo che più
non si abbia ad ammogliare».

Mentre il Marchesino era intento a leggere, Daniele distratto e
visibilmente contrariato dalle parole dei signorotti, andava lasciando
in sul tondo del salottino quegli oggetti che soglionsi portare addosso
nell'uscir di casa, come orologio, borsellino, denaro, portafogli,
guanti ed altri simiglianti amminicoli di acconciatura. Il Marchesino
Gustavo era un giovine d'un trent'anni o più, faccia comune e volgare,
tagliata nel mezzo da due mustacchietti incerati, e terminata da un
meschino gruppetto di peli in sul mento. Il suo vestito consisteva in
un soprabito per mattino con altissimo bavero secondo la moda di quel
tempo, in un corpetto di casimiro a corazza, in calzoni alla cosacca
a righe. I suoi capelli eran folti e ricciuti. Essere della specie più
comune, questo individuo non aveva altro pensiero, altra occupazione,
altra cura che di _ammazzare il tempo_, secondo il linguaggio di simil
razza di gente. Un buon pranzo o una buona cena era l'apogeo della sua
poesia.

Un poco più ci piace dilungarci sul ritratto di Stefanello, offrendo
questi un tipo curioso ed una specialità sociale che è andata sempre
più crescendo cogli anni e che ora ammorba la nostra società. Questo
tipo terribile da' francesi chiamato _fat_, dagl'inglesi ironicamente
_beau_, è una specie di serpe da' guanti bianchi che striscia su i
mattoni incerati dei salotti. Non credete però ch'ei sia terribile pel
fascino irresistibile dello sguardo, ma perchè morde leccando, e le sue
morsicature sono sempre mortali: un'arma possente e omicida è per lui
la parola.

Entrate in una sala in cui sono molte dame e molti uomini, in cui
si balli o si conversi, siete certo di trovare quest'essere sdraiato
sovra i cuscini di un canapè, con una mano lisciante i ben composti
capelli, e con l'altra ficcata oziosamente nella tasca del calzone:
vicino a lui per lo più siede un altro della medesima pasta, e
discorrono sbadigliando di donne e di amori, di conquiste fatte e da
fare, di _buone fortune_ e di altre simiglianti materie. Quest'uomo
innocentissimo di condotta è però da fuggire come un appestato, e da
non ammettersi mai in propria casa: la sua smania è di credersi un Don
Giovanni, un Lovelace, di tenersi un bel seduttore, mentre forse in
vita sua non ebbe mai la buona ventura d'essere stato corrisposto in
amore. Egli vi dirà spiattellatamente d'essere stato felice innamorato
della vostra innamorata, e vel dirà con sogghigno amabile a fior di
labbra, con una grazia tutta particolare, con una proprietà di vocaboli
da trarre chiunque in inganno. Voi aggiusterete fede alle sue parole;
andrete in furore contro la vostra bella, contro tutte le donne;
giurerete di abbandonarla, di non più vederla, mentre quella poverina
non avrà neanco guardato il nostro bellimbusto. Tutte le donne, niuna
esclusa, appartengono di diritto a quest'uomo: egli le domina tutte, e
la loro sorte dipende da una sua formidabile parola. Tapina di quella
fanciulla che per caso si trova a fissar lo sguardo su lui per qualche
momento: ella è pazzamente presa di lui; tutto il mondo in un attimo il
saprà.

Quest'essere è facile a riconoscersi tra mille; pochi peli in faccia,
vista corta, capelli lunghi; il suo vestito è sempre ricercato alla
moda, pieno di profumi. Suole egli eziandio portar sempre addosso un
taccuino, nel quale sono rinchiuse una decina di letterine galanti
ricevute da una decina di belle abbandonate da lui; non giureremmo che
quelle letterine sono autografe, anzi nol vorremmo neppure asserire;
egli le mostra continuamente ai suoi amici: in altra taschetta del
portafogli stanno poi certi altri bigliettini di suo pugno e senza
indirizzo, i quali egli tiene sempre pronti per valersene all'uopo.
Quest'ente così futile perchè leggiero, e nello stesso tempo non
meno pericoloso per la stessa leggerezza, dovrebb'essere bandito dal
grembo della società come un disturbatore della domestica quiete ed un
avvelenatore di cuori. Di tal natura per lo appunto era Stefanello.

— Il Marchesino ha ragione, disse questi zufolando tra i denti un
motivo del _Barbiere di Siviglia_; il sentimentalismo è fuor di moda,
mio caro maestro; fa come fo io, gitto la scintilla dell'incendio
e passa. Per essere amato dalle donne, è necessario disprezzarle;
io conto mille conquiste ottenute solo con quest'arma possente del
disprezzo.

— Le vostre congetture sono erronee, amici, disse Daniele — il
mio malumore non proviene da donne; non sono io un collegiale da
rattristarmi per tanto.

— E pure tu dimagrisci a vista come un innamorato morto, soggiunse il
marchesino — non mangi più, non bevi più, non vieni più con noi alla
Favorita la domenica. Che diascine ti coglie?

— Non istò bene, amici miei, soffro coi nervi, ma spero di ricuperar
ben presto la sanità ed il buon umore.

Uno scoppio di risa accolse queste parole.

— Ah! ah! soffre coi nervi! malattia alla moda, morbo generico e di
_buon tuono_...

— È probabile che soffra d'isterismo, riprese ridendo Stefanello.

Daniele intanto avea lasciato sopra il canapè il suo piccolo mantello;
e si era anch'egli gettato a sedere in mezzo a' suoi amici. Era in sul
finir del mese di novembre. Il camminetto era acceso, perocchè il tempo
era secco e freddo. Si aspettava che il pranzo fosse servito.

— Scommetto che non hai udita la _Niobe_ di Pacini, disse il Marchesino
agitando i pezzi di legno nel camminetto.

— Oh! l'ho udita tre volte, rispose Daniele, e sempre con ugual
piacere; è un'opera magnifica.

— La Pasta è inarrivabile nella sua parte, esclamò Stefanello
appoggiando le spalle al davanzale del camminetto: ella è un prodigio!
Che anima e che arte! Come ha indovinato lo spirito del suo canto! Nel
suo duetto con la Unger strappa il cuore degli spettatori!

— Già tu sei uno de' più teneri ammiratori di questa prima donna,
osservò il Marchesino ci è da scommettere ch'ella è presa pazzamente di
te.

— Oh! non parliam di questo; soggiunse lo spezzacuore con lieve sorriso
di trionfo, ne ho veduto a cascar ben altre a' miei piedi, e che
bellezze! Io sono ristucco del genere teatrale; son fortezze troppo
facili ad esser espugnate.

— Via, via, sappiamo di che sei capace, gran seduttore, tornò a dire
il Marchesino... È certo impertanto che le lodi alla Pasta nella
tua bocca diventano sospette. Già il teatro S. Carlo è divenuto per
quest'attrice un campo di guelfi e di ghibellini. Per me dico, e mi
richiamo al parere del mio professore qui presente, che la Pasta quando
si abbandona agl'impulsi della sua natura è grande, è sorprendente; ma
che casca talvolta nell'esagerato per ispirito d'imitazione. Riguardo
poi al suo canto, è indubitato che nei suoi passaggi dai tuoni gravi ai
medii ella non pone molta faciltà e pieghevolezza. Non è vero, maestro?

Daniele, a cui quest'ultima interrogazione era diretta, si contentò
di fare un segno affermativo col capo. Egli non era uscito dalla
sua pensierosa concentrazione. Intanto i due convitati di Daniele
incominciavano a trovar troppo lungo l'indugio del pranzo: aveano già
consumato parecchi sigari per ciascuno; aveano in gran parte esaurito
tutti i futili subbietti di conversazione; si posero però a passeggiare
smaniosi pel salottino.

— Il tuo cuoco è un carnefice questa mattina, osservò il Marchesino.

— Ci vorrà dare un pranzo al tutto diplomatico il nostro Daniele, disse
Stefanello, ed ecco perchè ci farà attendere fino alle cinque.

— Sta benissimo, riprese il primo, e mentre egli si ostina nel suo
taciturno sentimentalismo, noi ridurremo in cenere un altro sigaro.

Il Marchesino cavò di tasca un elegante porta-sigari, ne cacciò un
tubetto di foglie americane e si pose alla ricerca d'un pezzo di carta
per accenderlo.

— Oh! una lettera non aperta! esclamò egli mettendo le mani addosso
alla lettera di Lucia Fritzheim, che Daniele avea gittata in sul tondo
in uno cogli altri oggetti ch'erasi tolti di tasca.

Daniele si ricordò di quella lettera e corse per istrapparla dalle mani
del suo amico, ma questi ne avea già letto l'indirizzo ed il nome di
colei che la scriveva.

— L'ho trovata! L'ho trovata! esclamava il Marchesino in aria di
trionfo, e saltando sopra una sedia per non farsi carpire il suo
bottino; ecco il segreto di Daniele; qui sta l'_affare_ leggasi.

Anche Stefanello si era messo dalla parte del Marchesino per impedire a
Daniele di toccar la lettera.

Ebbe luogo una lotta furiosa. Daniele si dibatteva come un leone
per non far leggere la lettera che avrebbe potuto discoprire le sue
relazioni colla famiglia dello stradiere; ma egli era uno contro due
e non poteva a lungo durare nel conflitto. Gli riuscì pertanto di
afferrar la lettera, la quale fu lacerata in due parti, di cui una
restò nelle mani de' due amici e un'altra in quelle di Daniele. Questi
si affrettò di gittare nelle fiamme del camminetto quel pezzo che gli
era rimasto nelle mani.

Gli altri due lessero il seguente moncherino di lettera:

  «Daniele, Daniele mio,

  Corre già il quarto mese che mi hai ab......... giorni ora per
  ora, minuto per min........... sun rimprovero; sono rassegnata
  alla........... altra... Iddio ti renda felice... Io sto
  m........... forse aver pietà di me togliendomi............
  divenga lo sposo di un'altra. Il med............ Ambrogio ch'io
  entro nel primo grado di ti.......... intorno al mio letto
  essi mi credevano........... ti ho amato, Daniele, e quanto ti
  am............ più non sarò su questa terra. Io ti sciol...........
  ti perdono la morte che mi dai. Soltan........... prima parola
  di amore che ci scamb............ che non abbandoni la mia
  infelice famig........... i miei fratelli e soprattutto che
  non............ per quella povera creatura di Uccel............
  sarai felice a fianco della don.............. Addio... addio... per
  sempre............. parlar di me che un'altra sola v............
  per caso annunziata la mia mor............. giorno della tua
  vita, siccome il dì............ stato per me il più felice...
  ad.............. Daniele, Daniele mio... _Lucia_».

Non avevano il Marchesino e Stefanello terminato questi brani di
lettera, di cui ogni parola avea fatto tremare il cuor di Daniele per
tema che non vi si trovasse qualche inattesa rivelazione, quando il
servo, presentatosi sull'uscio del salotto, disse:

— Il pranzo è all'ordine, signori.

I due amici rimisero tra il fumo delle vivande e tra i prelibati vini,
il fare i loro comenti sulla lettera singolare che aveano discoperta.



IV.

LA SERATA DI LADY BOSTON


Lady Mary Boston era una della più ricche e festose Inglesi
che dimorassero in Napoli in quel tempo. Figlia e sposa di Pari
d'Inghilterra, giovane e bella, questa donna sapeva godersi la vita.
Ella avea comprato una casa in sulla Riviera di Chiaia in cui veniva
a passare la stagione dei balli e delle feste. Nell'està ritornava
a Londra, dov'era aspettata con premura da quell'aristocrazia che
ritrovava nei salotti della vaga Lady le più efficaci e dilettose
distrazioni alle cure della politica e dei pubblici negozi.
Incominciando dal mese di novembre, ogni sabato Lady Boston riuniva
nelle sue splendide mura quanti uomini e donne illustri erano in
Napoli, di ogni favella e di ogni classe, purchè la celebrità fosse il
titolo d'introduzione appo lei. Gli scienziati, gli uomini di lettere,
gli artisti più ragguardevoli trovavano generoso e nobile accoglimento
in quella casa, ch'era benanche il ritrovo di tutta la nobiltà europea.
Walter-Scott, Chateaubriand, Bulwer e altri mille colossi della
letteratura inglese, francese e italiana erano venuti a visitare le
sale della celebre Lady Boston, e vi si erano intrattenuti in qualche
sabato a sera. È superfluo il dire che il fiore de' cantanti erano
invitati, come tutti gli altri, a queste periodiche riunioni colla
solita e semplice formola di:

_Lady Mary Boston à l'honneur de prèvenir Mr. N. N. qu'elle est chez
elle tous les samedis a 8 heures du soir — Riviera di Chiaia — Palais
P..._

La magnificenza degli addobbi e dell'illuminazione, il lusso delle
credenze, l'ordine e la disposizione del divertimento, la scelta
degl'invitati e la estrema eleganza degli abbigliamenti avean fatto
la rinomanza europea delle serate di Lady Boston; tantochè a Londra,
a Parigi, a Milano se ne discorreva; e i nobili di queste capitali
traevano espressamente in Napoli per godere di queste serate. Lady
Boston non aveva che una sola rivale per isplendidezza di trattamento,
ed era Madame A... ma, secondo il giudizio degl'intenditori, costei
perdeva nella lotta, e non arrivò mai a levarsi a quel grido cui
pervenne la Britanna. L'inverno dell'anno 1826-27 comechè turbato
da frequenti uragani e da piogge continue, fu al certo uno dei più
brillanti e animati che rallegrassero la nostra Napoli. L'affluenza
dei forestieri era grandissima. Il teatro S. Carlo nell'apogeo della
sua gloria, diretto dal Nestore degl'impresari, dal Barbaja, formava
la delizia del mondo musicale e il più gran vanto delle belle arti
napolitane. Ogni sera era un trionfo di compositori e di artisti: ogni
sera una fronda si aggiungeva alla corona di allori che cingeva le
chiome di quegli artisti che sono fino ad oggi rimasti impareggiati.
E la serata del sabato, al quale abbiamo accennato nei precedenti
capitoli, fu la più brillante di tutto l'inverno.

Due grandi artisti cantavano per l'ultima volta ne' salotti di Lady
Boston prima di partire per Vienna, dov'erano scritturati, la Lalande e
Lablache. Erano anche invitati a cantare la Pasta e Rubini.

Non è a dire la folla che ingombrava i salotti della nobile inglese,
folla deliziosa, spirante la gioia, il piacere, susurrante parole
dolcissime. Non ci arrischieremo a dipingere questa festa; ogni parola
sarebbe dammeno del vero, ogni epiteto non sarebbe corrispondente, e
ogni descrizione riescirebbe languida e monca a petto della realtà;
lasciamola però interamente immaginare a' nostri lettori, contentandoci
di dire che in quelle sale cosparse di luce, di profumi di diamanti,
di fiori e armonie, contenevansi meglio che mille persone, di cui
ciascuno era una celebrità, un'illustrazione, una gloria, o al più
poco un tesoro animato. Contrasto singolare facea colla splendidezza
di quell'ostello un cielo tempestoso che batteva con onde di pioggia i
cristalli di quei terrazzini.

Le più lussose ed eleganti acconciature sottoposte al più severo codice
della moda di Parigi facevano vaga mostra di sè. L'età delle donne
spariva sotto le mani degli abili pettinatori e delle sarte parigine:
la bellezza, la grazia, la salute, l'amore erano _dipinti_ in su tutti
i volti, scolpiti su tutte le fronti. Un mormorio che si perdeva come
un'onda di fila in fila, di crocchio in crocchio, di sala in sala,
accoglieva l'entrare di ogni nuova arrivata; il suo nome, i suoi
titoli, le sue relazioni ed i suoi amori erano buccinati in un baleno
e promulgati dappertutto. Il sorriso accoglieva tutti e la gioia gli
aspettava.

Ma un grido di ammirazione piuttosto che un mormorio passò di labbro
in labbro, ed un lampo di gelosia sfolgorò negli sguardi di tutte le
donne. Emma di Gonzalvo appariva nel gran salone.

Ella entrava appoggiata al braccio del Duca suo padre: aveva al suo
fianco il visconte di Boisrouge. Seguitavala la Duchessa di Gonzalvo al
braccio di un plenipotenziario straniero. Emma era stata in un attimo
giudicata la più bella tra tutte quelle bellissime donne: ella era
dunque la sovrana della danza.

La sua acconciatura era tutto ciò che si può immaginare di più vago
insiememente e di più semplice per una festa di ballo. I suoi capelli,
ordinati in quel modo ingenuo e gentile addimandato in allora _alla
Vergine_, erano coronati da un festone di rose in diamanti... Contro la
sconcia moda di quel tempo, Emma portava una veste di velo inglese la
cui vita era bassa onde le forme leggiadrissime di lei si disegnavano
con tanta grazia e avvenenza, che questa novella ardita foggia di
vestire incominciò da allora a bandire la moda delle vite alte e dei
grandi scolli. Emma avea dunque dato il colpo mortale alla moda di
Parigi. Era impossibile avvicinarla: un cerchio spessissimo di giovani
aveva attorniata questa dea, contendendosi una parola di lei, un
sorriso, uno sguardo. Emma era andata a sedersi vicino alla madre, alla
sua sinistra era seduto il Grande Ammiraglio Conte di L... amicissimo
del Duca di Gonzalvo.

Non ancora si era dato principio al canto... Le _tablettes_ di ballo di
Emma erano già ripiene d'inviti per le contradanze francesi e inglesi,
e pel valzer francese e tedesco. La conversazione era universale e
animata nei diversi gruppi: gli uomini discorreano di politica, di
arti, di cavalli e di cani; le donne di mode e di amori. Le sale erano
gremite di tanta gente che più non si distinguevano le persone.

Di repente fu fatto silenzio in mezzo a' gruppi, e tutta la folla
sparpagliata nelle numerose e vaste sale si agglomerò appo gli usci
indorati del salotto da canto. Madame Lalande apriva la serata colla
cavatina della _Olimpia_ del maestro napolitano Carlo Conti. La Lalande
vien ricordata con amore tra le cultrici dell'arte melodrammatica:
la sua voce argentina, robusta ed agile, il suo bel metodo di canto
lasciarono sulle scene d'Italia e dell'estero non periture ricordanze.
L'Accademia filarmonica di Bologna l'annoverava tra i suoi membri,
siccome avea fatto della Colbran e della Giorgi, lodata da Pietro
Giordani. Dopo Madame Lalande, la celebre Pasta cantava coll'egregio
tenore signor Winter il duetto tanto applaudito della _Medea_ del
Maestro Mayer. Gli applausi che interruppero a quando a quando questo
pezzo, e che scoppiarono con violenza alla fine di esso, furono la più
sincera espressione di quella soddisfazione che i due valenti artisti
lasciavano negli animi de' loro uditori.

La Pasta era di bella persona, di volto espressivo; i suoi occhi grandi
e loquaci comandavano l'entusiasmo. In quella parte di _Medea_ non meno
che nell'altra di _Desdemona_ nell'_Otello_ di Rossini, questa donna
avea fatto gustare per la prima volta in sulle scene d'Italia il genere
declamato, che oggi è venuto in tanta reputazione e successo, benchè a
discapito del buon canto italiano.

Luigi Lablache, il colosso dei bassi, l'artista modello, l'uomo
dai polmoni di ferro, dal petto cannone, dalla voce portentosa che
facea tremar la volta di S. Carlo come il cuore dei suoi uditori, il
cantante-atleta, numero uno nei secoli, il contemporaneo di de Marini e
il suo più illustre rivale melodrammatico; Luigi Lablache, gloria tutta
nostra, il cantore delle opere di Rossini, in procinto di abbandonar
Napoli pel teatro italiano di Vienna, si faceva udire in quel sabato
a sera nella sala di Lady Boston coll'_aria_ di _Figaro_ nel _Barbiere
di Siviglia_. Quando ebbe terminato di cantare, un solo uomo non aveva
applaudito a furore. Rincantucciato in un angolo della sala, egli
piangea. Quest'uomo era Domenico Barbaja.

La Pasta e Rubini cantarono poscia il duetto finale di _Otello_. Non
mai questi due grandi artisti avean posto tanto fuoco e tanta verità
nelle rispettive loro parti. Rubini era grande, inarrivabile, facea
fremere e raccapricciare; la possente sua voce scuotea le fibre più
recondite del cuore. Che diressi della Pasta, che si trovava nel
suo vero genere in quel canto di declamazione, in cui tanto ella si
distingueva che le avea fatto acquistare una riputazione superiore ad
ogni elogio? Dopo questo duetto, il programma della serata annunziava
un intervallo, che fu speso nei più lauti e delicati rinfreschi. Emma
aprì la seconda parte della serata. Non è dicibile con quale ansia si
udiva a cantare questa giovinetta; una delle poche dilettanti che si
ascoltavano da Lady Boston. Presso al piano-forte ov'ella cantava eran
raccolti gli artisti da noi summenzionati e un grandissimo stuolo di
ammiratori della bella Andalusa. L'aria spagnuola fu cantata da lei con
quelle grazie, con quell'accento, di cui abbiamo parlato altrove. Il
suo canto fu coverto da rumorose esplosioni di applausi: si richiese
la replica della ballata. Madame Lalande e la Pasta abbracciarono la
giovinetta e la baciarono con tenerezza, con trasporto.

Per dieci minuti poi che il canto era cessato si udiva ancora il
mormorio di sorpresa e di ammirazione che si sprolungava in tutte le
sale. Lablache e Rubini cantarono il duetto del _Barbiere di Siviglia_.
Passeranno secoli prima che un'altra coppia di artisti pari a quella
faccia udire un duetto simigliante a questo del _Barbiere_. Il giovine
maestro Daniele de' Rimini dovea por termine alla parte cantabile
della serata colla sua romanza, e con un _pot-pourri_ sulla _Niobe_
del Pacini, la quale richiamava ogni sera gran folla di spettatori a S.
Carlo.

Daniele era pallidissimo ed agitato: ciò nulla di manco cantò la
sua romanza con anima, con passione: mai la sua voce non era stata
così forte e commovente; molti paragonarono le sue agilità a quelle
di Tamburrini. Era la prima volta ch'egli veniva udito a cantare da
Lady Boston: destò maraviglia, simpatia, riportò un vero trionfo.
E quando le agilissime e portentose sue mani oprarono prodigi sul
piano-forte, quando le più grandi malagevolezze furono da lui superate
con quell'ardimento, di cui si spaventa la mezzanità, Daniele diventò
l'eroe della serata. Tutti bramarono di conoscerlo, di avvicinarlo;
si dimandò del suo nome, delle sue relazioni, dei suoi parenti; i
nobili più schifiltosi non isdegnarono di stringergli la mano, di
profferirglisi.

Le donne erano soggiogate, e guatavano il giovinotto maestro con un
sentimento d'ammirazione e di simpatia, dappoichè quella sua voce
in cui trapelava una commozione profonda avea toccato tutt'i cuori.
Il bel sesso cercava indovinare chi potesse essere l'oggetto del
_colpevole amore_ dell'esimio pianista, e già ivasi bisbigliando nella
sala il nome di Emma; perocchè in un baleno si era saputo che la casa
del Duca di Gonzalvo era quella che maggiormente era frequentata
dal giovine maestro. Tutti gli occhi si portarono sulla figliuola
del Duca, la quale si studiava di nascondere il suo turbamento con
un'affettazione d'indifferenza e d'ilarità. Fu questo un bel momento
per Daniele. La sua vanità era soddisfatta! Negli occhi suoi, fissi
sopra Emma, lampeggiava il contento di essere a quel modo l'oggetto
della universale attenzione... Egli cercava intanto discoprire in sul
sembiante della fanciulla un sintomo qualunque di propensione per lui.
A mala pena rispondeva alle congratulazioni che se gli volgeano; a
stento non si mostrava scortese e zotico.

Stando a tal guisa con tutta l'anima sua alla vedetta di un'ombra di
amore negli occhi di Emma, non si era accorto di un personaggio che gli
si era appressato. Questi il chiamò per nome, e gli disse:

— Permettete che aggiunga le mie alle congratulazioni degli altri,
signor Daniele.

Udendo la voce di questo personaggio Daniele fece un balzo sopra
sè stesso, e imbiancò in volto come per morte veggendosi allato
l'incognito straniero che recavagli in fin di mese la polizza di ducati
cinquanta.

— Voi qui, signore! sclamò atterrito Daniele.

— Non temete di nulla; io non parlerò, ve ne fo solenne promessa.

Lo straniero strinse la mano di Daniele che trovò febbricitante, e si
allontanò dalla sala, per recarsi vicino al Duca di Gonzalvo, seduto ad
una partita di _whist_.

Il ballo cominciava.



V.

UN MILIONE


Il dì vegnente Daniele si alzò di buon mattino: non aveva chiuso gli
occhi per un sol momento durante l'intiera notte; un'idea fissa, un
proponimento decisivo avealo tenuto desto; egli volea finirla una volta
per sempre collo stato di martirio nel quale si trovava.

— Tra poche ore la mia sorte sarà decisa, diceva tra sè medesimo,
sdraiato sopra un seggiolone accosto al suo letto, e avvolto in ampia
veste da camera: tra poche ore io saprò se mi conviene nutrire qualche
speranza di possedere Emma, o se mi sarà d'uopo abbandonare questo
paese e forse anche la vita... Sento che non ho la forza di vivere
senza di Emma... Quel mio trionfo d'ieri sera non sembrò che avesse
fatto la minima impressione su lei; mi rivolse soltanto alcune frasi
gelate e comuni strappate dalla convenienza; parvemi anche più fredda
verso di me; sembrava che mi evitasse, che poco mi avesse conosciuto...
Feci benissimo a non ballar mai con lei; se ella è superba e sdegnosa,
io non sono meno di lei: se io sono povero e oscuro, non soffro di
essere dispregiato da nessuno. Lasciai a tutti quegli effeminati
giovanotti l'onore di contendersi un valser o una contradanza con lei:
io non sono fatto per immischiarmi nelle folle, non mi acconto alla
razza degl'imbelli che pullulano in tutte le sale; non mi soddisfa la
mezza luce; a me bisogna o lo splendor del sole o le tenebre fitte...
Emma è per me il sole, la vita, la felicità... o Emma o la morte... Sì,
questa mattina tutto dovrà decidersi... ogni ulteriore indugio potrebbe
nuocermi.

Verso le undici del mattino dello stesso giorno, Daniele saliva le
scale del palazzo S... e si faceva annunziare al Duca di Gonzalvo.

I domestici del Duca furono sorpresi di veder Daniele presentarsi di
domenica e chieder del Duca, che pochissime volte egli avea veduto.

— Ho qualche cosa di segreto a comunicargli, disse Daniele al cameriere.

— Tutta la famiglia è ancora in letto, rispose il cameriere — Se il
signor maestro vuole aspettare, Sua Eccellenza non potrà indugiare a
levarsi.

— Aspetterò, soggiunse Daniele.

E si sedè in uno stanzino recondito del quartiere dove pel consueto il
Duca ascoltava le persone che gli erano dirette per raccomandazioni,
o che venivano a parlargli di negozii e di faccende particolari. In
questo stanzino era un ritratto intero del Duca: quel ritratto era
stato fatto ventitrè anni fa, e quando il Duca non avea che un 27 anni.

Abbiamo detto che pochissime volte Daniele avea veduto il Duca, vale a
dire, il giorno in cui venne presentato a costui qual maestro di Emma,
e qualche altra volta nelle serate di Lady Boston dove il vedeva alla
sfuggita: perocchè il Duca raramente compariva nel gran salone da ballo
o nel salotto da canto. Però Daniele non avea giammai avuto l'agio di
affissare con attenzione le sembianze di questo personaggio.

Quel ritratto colpì incontanente il giovin pianista: quello sguardo,
quelle fattezze del volto, quei basettoni che a guisa di doppio fuso
prostendevansi sul labbro superiore, e quel pizzo lungo, dritto che gli
scendeva insino alla gala della camicia; quella faccia insomma non era
nuova per Daniele: essa disegnavasi nella sua memoria come un riverbero
di lontanissimo passato; ma dove, ma quando, ma come Daniele avea
veduto quel personaggio? Non era possibile deciferare il tempo e il
luogo. Un mondo di congetture formava il giovine; cercava di coordinare
le sperperate ricordanze della sua infanzia; si sforzava di diradare la
nebbia onde si avvolgeva il passato, ma nel suo capo era una confusione
spaventevole, un subbuglio di ricordi, di immagini, di sogni, cosicchè
di tutta la fatica che egli si dava non ricavava altro frutto che
quello di conoscere aver veduto altrove il Duca di Gonzalvo. Se non che
la costui immagine si associava nella sua mente a quella di un altro
uomo assai più bello e più giovine, di cui non conservava eziandio
che un debolissimo ricordo. Il Duca di Gonzalvo avvolto in magnifica
veste da camera entrava in quello studietto nel momento in cui Daniele
era tutto e cogli occhi e col pensiero in sul ritratto del nobile
spagnuolo.

— Eccomi a voi, signor de' Rimini, a che debbo attribuire il piacere
di una vostra visita! Siete forse venuto a ricevere le mie personali
congratulazioni per la vostra somma valentia nell'arte musicale?

— Non pecco di tanta vanità, signor Duca. Ieri sera quei signori
furono assai indulgenti verso di me, ed io debbo attribuire a mero
incoraggiamento le lodi che si piacquero prodigalizzarmi.

— Cotesta modestia vi onora, signor de' Rimini. Qual'è dunque il motivo
che mi procura il piacere di vedervi questa mane?

Il Duca di Gonzalvo si era seduto. Daniele mostrava nell'alterazione
della sua fisonomia l'agitazione che il possedeva.

— Signor Duca, incominciò il giovine lentamente e misurando le sue
parole, prima d'ogni altra cosa, perdonerete la mia indiscrezione
se ardisco di domandarvi in qual paese è stato fatto questo vostro
magnifico ritratto.

— Ah! è un bel ritratto, n'è vero? Benchè io sia cangiato dagli anni,
credo che mi rassomigli ancora.

— Perfettamente, signor Duca, e mi permetterete di dirvi che pochissima
differenza vi è in oggi tra questo ritratto e il suo originale.

— Così dicono tutti per lusingarmi, ma hanno un bel dire; ventitre anni
non passano sulle spalle di un uomo senza lasciarvi un ricordo poco
piacevole... Ebbene, questa dipintura è stata fatta in Siviglia, in un
sol giorno, da un abilissimo artista Italiano... Oh! questo ritratto mi
ricorda sventure per le quali sanguina ancora il mio cuore.

— Duolmi di aver ritoccate le vostre dolorose rimembranze, signor Duca;
ma pure, ancorchè dovessi arrecarvi dispiacimento, mi arrischierò a
domandarvi se in Siviglia, presso a poco nel tempo in cui fu fatta
questa dipintura, voi non avevate un parente, un amico che spesso
frequentava la vostra casa, o in casa del quale voi traevate?

Simigliante interrogazione fece rabbruscar la fronte del Duca, il quale
guardò fisamente e con sospetto il suo interrogatore, e non rispose che
dopo qualche momento.

— Non so qual premura possiate avere, signor de' Rimini, a ricercarmi
d'una cosa e d'un tempo ch'io vorrei dimenticare... Non saprei
rispondere con precisione a quello di che mi richiedete... Nel 1803 io
aveva molti amici ed un immenso numero di nemici, perocchè il posto
onorevole e l'alta carica civile ch'io avea ottenuto nella giovanile
età di 27 anni mi avevano procacciato migliaia di gelosi ed invidi: in
quell'anno per me cotanto funesto fui costretto di abbandonar Siviglia
dove la mia vita era mal sicura, essendo per infame tradimento caduto
in sospetto al mio governo. La mia partenza fu così precipitata che
appena ebbi il tempo di farmi ritrarre su quella tela e mandare il
mio ritratto al Castello di Santiago, poco discosto da Siviglia, e
dove dimorava la mia fidanzata, Isabella di Monreal, che ora è mia
moglie. Nessun'amico mi accompagnò nel tristo viaggio, tranne un
fedel domestico e mia sorella che volle seguirmi, non ostante le
più vive rimostranze ch'io le feci, mettendole dinanzi agli occhi la
malagevolezza e i pericoli del viaggio in sull'Atlantico e sovra un
piccol legnetto commerciale. Ma ella rimanea sola ed esposta forse alle
persecuzioni dei miei nemici; sicchè io stesso non potetti rifiutarmi a
tali possenti ragioni, e meco la menai colà dove il destino chiamavala
ad una serie d'irreparabili sventure. Sciagurata sorella!.. Voi mi
parlate di amici, signor de' Rimini! Or bene, io n'ebbi due; uno che
per invidia cercò di togliermi la vita civile, denunziandomi come
venduto a' nemici del mio paese, e che mi costringeva ad abbandonare la
nativa mia terra: e un altro che mi offriva una splendida ospitalità
e un asilo sulle frontiere della Francia, che mi abbracciava con
effusione di cuore, per piantarmi più tardi un coltello nel seno...
Quest'uomo s'involò alla mia vendetta; io non l'ho più riveduto e il
credo morto; almeno ne ho speranza, che se mi fosse dato di sapere
dov'ei si asconde, andrei a trafiggerlo avvegnacchè egli stesse
all'estremità del mondo.

Gli occhi del Duca di Gonzalvo balenavano di furore; due corde di fuoco
erano state toccate nel profondo dell'anima sua, i due tradimenti
che tuttavia gli amareggiavano la vita. Daniele si pentì di aver
ridestato così fatte amare ricordanze in quell'uomo irascibile: egli
era disanimato per quello che formava lo scopo principale della sua
visita; ma era nel tempo stesso risolutissimo di por fine allo stato
di sofferenze in cui lo gittavano l'amore, la gelosia, il desiderio
d'ingrandirsi; pensò dunque di non frapporre più indugio alla dimanda
che voleva fare al Duca. Lasciandogli però il tempo di calmarsi dalla
collera che aveano eccitata in lui quelle imprudenti reminiscenze, così
gli parlò:

— Perdono, sig. Duca, mille volte perdono di essere stato io
l'involontaria cagione di aver risvegliato in voi di tali tristi
memorie; vi giuro che se avessi saputo dovervi cagionare il minimo
dispiacimento, non avrei ardito dare sfogo ad una indiscreta
curiosità... Ora, lo scopo della mia visita è tutt'altro, signor
Duca: esso vi sorprenderà pel suo ardimento; ma la schietta probità
del vostro rifiuto non mi umilierà, dappoichè soltanto la colpa deve
arrossire.

— Di che si tratta? dimandò il Duca con serenità, poichè era ben
lontano dal supporre quello che formava l'obbietto della dimanda di
Daniele — Parlate con confidenza, signor de' Rimini, e state sicuro di
trovare in me un amico.

— Ne sono sicurissimo, signor Duca, e ciò non ostante io temo, perchè
troppo audace può sembrarvi la mia dimanda.

— Parlate dunque, disse quegli con leggiera impazienza.

— Ebbene, signor Duca, vi chiedo la mano di vostra figlia, rispose
Daniele renduto altero e sicuro dalla propria audacia.

Il Duca di Gonzalvo si alzò per un moto di estrema sorpresa: il suo
sguardo fulminò lo sguardo di Daniele, che fu costretto di chinar gli
occhi.

— Voi, signore! voi mi chiedete la mano di mia figlia!

— Io, signor Duca.

Il nobile spagnuolo dette una sonora spalmata sopra un tavolino di
mogano che gli stava d'allato; il suo volto era acceso di sdegno.

— Sono io dunque caduto tanto giù da incoraggiare un simile insulto!
esclamò furibondo: il Duca di Gonzalvo non è più dunque che un essere
della specie più comune! il mio cognome è dunque quel che ci è di
più plebeo e di più fangoso al mondo? Un maestro di musica vuole
apparentarsi con me? un uomo che vive di salarii!! Ma come! ma quando
ho io incoraggiato simigliante audacia? Il Duca di Gonzalvo, uno de'
più illustri nomi della Spagna, il sangue più nobile dell'Andalusia, si
fonderebbe col sangue della più mercenaria borghesia! Ma è da senno che
voi mi fate una tale proposta, signor mio?

— Da senno, signor Duca, rispose Daniele, il cui amor proprio ferito
dalle aspre parole del nobile si era rialzato con orgoglio.

— E quali sono, di grazia, i beni e i titoli che voi offrite per
pretendere alla mano della Duchessina Emma di Gonzalvo? chiese il Duca
con voce renduta sempre più rauca per collera.

— I titoli che vi presento, sig. Duca, sono quelli di cui andar deve
orgoglioso ogni uomo di onore: essi non sono di quelli che l'intrigo,
l'ambizione, la vanità, la corruttela procacciano ad un nome, come
una cornice d'oro ad una vana immagine, i miei titoli sono quelli
che nessun re può darmi o togliere, i miei titoli, signor Duca, sono
quelli ch'io tramando a' miei figli e non già quelli che ricevo dai
miei genitori; i miei titol sono il genio e l'onestà. In quanto a' miei
beni, essi non han timore d'incendio, di terremoto o di confisca; i
miei beni io li porto sulle punte delle mie dita... E se questi titoli
e questi beni non sono di quelli che possono appagarvi, signor Duca, ve
ne offro un altro che vale più di tutti gli onori accumulati sovra un
nome: vi offro la mia giovinezza e l'ardente fede che ho nell'avvenire.

Lo sguardo di Daniele balenava; le sue guance erano infiammate; egli
era stato colpito nel più vivo dell'anima sua, nel suo amor proprio. Il
Duca fu scosso dal carattere energico e ardito del giovine.

— Attribuisco all'ardore della vostra giovinezza, rispose questi meno
sdegnosamente, la stolta speranza che vi ha illuso, e perdono alla
vostra fanciullezza l'audacia delle vostre parole; ma comprenderete che
io dovrò privarmi del piacere di più ricevervi in mia casa. Provvederò
per un altro maestro a mia figlia, e non commetterò novellamente
l'imprudenza di porle a fianco un giovanotto. Spero che non abbiate
fatto trasparire minimamente ad Emma cotesta follia che vi è sorta nel
cervello.

— Sicchè voi, signor Duca, mi ricusate per vostro genero?

— Non avreste giammai dovuto concepire sì chimerica speranza, rispose
il Duca in atto di accomiatare il giovine. Ciò per altro non toglie
ch'io avrò sempre per voi quella benevolenza di cui spero vi renderete
più degno, rinunziando finanche alla ricordanza di una tale insensata
proposta. Avrò cura di farvi pervenire al vostro domicilio gli onorarii
che vi sono dovuti per le lezioni a mia figlia.

Il Duca si accingeva ad abbandonare quella conversazione.

— Un momento, signore, di grazia, un momento. Degnatevi di ascoltarmi
pochi altri minuti, e poscia ci saremo separati per qualche tempo.

— Che avete ancora a dirmi?

— Poche altre parole signor Duca. Dareste voi vostra figlia ad un uomo
che le recasse una fortuna considerabile?

— E che non avesse altro che quello di esser ricco? chiese il Duca.

— Sì, signore, soggiunse Daniele, ricco, solamente ricco.

— Ebbene, rispose il Duca, se quest'uomo fosse un milionario, io lo
preferirei certamente a sposo di mia figlia. UN MILIONE rappresenta
dieci generazioni di nobiltà. Un milione, è una potenza, è uno Stato, è
una grandezza.

— UN MILIONE!!! disse cupamente scoraggiato il giovane pianista.

— Ebbene, disse sorridendo il Duca, avete voi da offrirmi un milione,
signor de' Rimini?

Daniele stette alcun poco in silenzio, indi rispose:

— Tra due anni, signore, tra due anni forse... Mi date voi la vostra
solenne parola di onore di aspettare due anni prima d'impegnare la
sorte di vostra figlia?

Il Duca il guardò quasi trasognato; sospettò per un momento che il
cervello di Daniele avesse dato di volta; ma sulle costui sembianze non
appariva il minimo segno di alterazione mentale.

— Voi dunque dite...

— Che tra due anni io potrei offrirvi un milione.

— Ed io vi aspetto, disse ridendo il Duca.

— Sul mio onore, soggiunse il Duca, sempre ridendo.

— Ebbene, disse gravemente Daniele, oggi siamo al dì 17 dicembre 1826.
Permettete che io me ne faccia un ricordo sopra un pezzo di carta.

Sul tavolino era l'occorrente da scrivere. Daniele segnò queste poche
parole:

_Oggi io Duca di Gonzalvo prometto sul mio onore a Daniele dei Rimini
di non prendere veruno impegno di matrimonio per mia figlia Emma prima
che spirino due anni dalla data di questo giorno — Napoli, 17 dicembre
1826._

— Firmate, signor Duca, disse Daniele presentandogli la carta.

Il Duca, dopo di aver titubato per qualche momento guardò Daniele con
sembianza di pietà, ed appose la firma a quella scritta, quasi per
compassione dello stato di mente del giovane pianista.

— Siete contento, signore? dimandò il nobile sorridendo.

— Contentissimo. A rivederci, signor Duca; a rivederci al 1828.

Daniele spariva. Il Duca, entrando nelle sue stanze esclamava tra sè:

— Povero Daniele! Chi lo avrebbe creduto! Egli è folle!



VI.

UN TENTATIVO


Qual'era il proponimento di Daniele? In che modo sperava egli diventar
milionario in due anni? Noi nol sapremmo dire e forse egli medesimo non
era venuto ancora in nessuna deliberazione. Nei caratteri come il suo,
le risoluzioni vengono sempre appresso agli atti di audacia; eglino
non pensano che dopo il fatto. Daniele era andato dal Duca di Gonzalvo
risoluto di fargli la proposta di aspettare qualche anno, sperando di
accumulare in questo tempo una piccola fortuna; ma non avrebbe giammai
potuto supporre che quegli avesse chiesto un milione. Una così enorme
dimanda che il Duca avea fatta quasi per burlarsi di lui non fece che
esaltare e pizzicare la superbia del giovanotto, il quale, accettando
quella proposta, avea inteso umiliare il nobile e dargli di sè la
più alta opinione. Daniele era però fermo di ritornar milionario dal
Duca di Gonzalvo o di por fine a' proprii giorni; egli aveva innanzi
a sè due anni. Che cosa non si può fare in due anni? Quali e quanti
avvenimenti non possono accadere da mutare al postutto lo stato di
un uomo! Un avvenire di due anni nelle mani di un uomo della tempera
di Daniele è un secolo, è un tesoro. Le anime volgari, gli uomini
vegetali, le macchine a respirazione non veggono nel futuro che una
scempia e materiale ripetizione degli stessi atti della vita, degli
stessi abiti, dei medesimi noiosi e bassi godimenti sensuali, delle
stesse miserie ed infermità; ma il genio, l'ardimento, l'elevatezza
delle ispirazioni percorrono in un giorno il volgere di un anno, e in
un anno il volgere di un secolo. Simiglianti all'aquila che fende le
nubi e sfida i nembi e guarda all'altezza del sole, mentre, la nottola
e il gufo non sanno elevarsi una spanna dalla terra, gli uomini di
genio percorrono colla vastità dei loro poderosi pensieri uno spazio
immenso, mirano all'universo come al solo campo dove prender debbono
il volo: il tempo e la distanza, i due possenti nemici dell'umana
attività, spariscono dinanzi alla forza morale di questi uomini: la
ricchezza, la gloria, il potere, le tre mete degli umani desideri,
sono raggiunte soltanto da questi uomini, pei quali la creta onde sono
impastati, le miserie attaccate alla vita sono un impaccio e non mai
un ostacolo. I prodigi dell'industria umana non sono dovuti che alla
eterna irrequietezza di questi uomini che non possono capire ne' loro
materiali e mortali involucri.

La prima cosa a cui Daniele pensò fu di provvedersi di passaporto per
l'estero. Egli capiva che bisognava subitamente uscire dal proprio
paese e porsi in una sfera di attività febbrile, bisognava visitar
Parigi, Londra, Berlino, Vienna, valicare l'Atlantico e trasportarsi
agli Stati-Uniti; a Nuova York, a Washington, a Filadelfia. Il suo
primo proponimento fu quello di dare accademia in tutt'i paesi che
avrebbe percorsi, spendere in lezioni le ore del giorno e della notte,
stringere amicizia colle più ricche e nobili famiglie. Oltre a ciò,
egli avea deciso di vivere in que' due anni il più economicamente che
gli fosse possibile, di non ispendere un soldo al di là di quello
ch'era strettamente necessario: avea tutto calcolato, tutto messo
in bilancio; ma il risultamento dei suoi calcoli era scoraggiante,
dappoichè con tutto questo, al capo de' due anni, essendogli amica la
fortuna e senza impreviste disgrazie, egli non si avrebbe trovato che
una somma lontanissima dal milione. Ancora che avesse guadagnato mille
scudi al giorno (il che era da porsi tra le più chimeriche speranze)
non arrivava a compire l'enorme cifra del milione. Ciò nondimeno egli
era sicuro di ammassare una somma considerabile: ma la sua alterigia
si arrovellava all'idea di presentarsi al Duca di Gonzalvo, spirati i
due anni, senza quella cifra altissima, che il nobile gli avea gittato
in faccia quasi per ischernirlo ed umiliarlo. Daniele era deciso di
affidarsi alla ventura, di abbandonarsi agli eventi, di trarre partito
da tutto e da tutti: era fermo di abbracciare ogni traffico, ogni
speculazione atta ad accrescere il suo peculio, di arrischiarsi anche
al giuoco della Borsa: si sentiva nel petto la ispirazione di diventar
ricco: il pensiero di una viltà che sarebbe rimasta nel più profondo
mistero, di un delitto che sarebbe rimasto sepolto nelle più fitte
tenebre non lo spaventava: tutto avrebbe sacrificato al piacere di
presentarsi milionario al Duca di Gonzalvo e sposare quella superba di
Emma.

Egli avea fermato di partire al primo dell'anno 1827: pochi giorni gli
avanzavano ch'ei spese in visite di congedo e in aggiustare le sue
faccende; non volle più rivedere Emma: il sentimento di vanità e di
orgoglio che in lui era superiore a quello dell'amore, comandogli di
allontanarsi da Napoli, senza riporre il piede in quella casa, da cui
il Duca di Gonzalvo l'aveva formalmente espulso: egli non dovea più
ritornarvi che milionario. Si contentò di mandare al Duca due righe in
cui gli dava notizia della sua prossima partenza da Napoli.

Alla vigilia della sua partenza, vale a dire, al 31 dicembre di quello
anno 1826, Daniele ebbe la solita visita dello straniero che gli
portava nell'ultimo giorno di ogni mese la polizza di cinquanta ducati.
Alla vista di quest'uomo un ardito pensiero attraversò la mente di
Daniele. Abbiam detto che ormai questo giovine più non indietreggiava
dinanzi a nessun ardimento, a nessuna sconvenienza, a nessuna bassezza:
uno solo era lo scopo a cui dovea mirare, la ricchezza: qualunque mezzo
era ottimo. Daniele fece entrare lo straniero nel suo studietto, di cui
serrò l'uscio a doppio giro di chiave, ficcandosi questa in saccoccia:
ebbe eziandio la precauzione di situarsi colle spalle al terrazzo
che poteva offrire un facile scampo allo straniero. Dicemmo altrove
che quel terrazzo rispondeva benanche nel salotto di dov'era agevole
raggiungere l'uscio di scala. Lo straniero fu sorpreso di questo
insolito ricevimento fattogli dal giovine pianista, ma nessun segno
di timore apparì sul suo sembiante affatto tranquillo e sorridente:
il suo volto era al tutto privo di barba al modo inglese. Egli rimase
all'impiedi dirimpetto a Daniele, che si era comodamente rovesciato
sopra una seggiola.

— Piacciavi di sedervi, signore; avrei qualche cosa da dirvi, cominciò
Daniele visibilmente agitato.

Lo straniero si sedè dopo aver lasciata la polizza in sulla scrivania
del giovine, e disse seccamente:

— Vi ascolto.

— Io sono persuaso che mio padre o mia madre è quegli che vi manda da
me ogni mese.

Daniele aspettò invano una risposta; lo straniero non aprì la bocca, nè
fece segno alcuno, dal quale il giovine avesse potuto trarre la minima
congettura; sicchè, dopo alcuni secondi proseguì:

— Chiunque si sia de' due, e in qualunque luogo si trovi, io sono
arcideciso di andare a gittarmi nelle sue braccia: un padre o una madre
non può aver la forza di respingere il proprio figliuolo. Voi mi darete
l'indirizzo di questa persona che pensa alla mia sorte.

— Fin dal primo momento ch'ebbi il piacere di conoscervi, mio caro
Daniele, vi dissi che non avrei potuto rispondere a nessuna vostra
interrogazione.

— Ciò si vedrà, riprese Daniele: io sono risoluto, risolutissimo di
sapere il nome e l'indirizzo della persona che provvede alla mia vita.
Voi non avete il diritto di nasconderla alla mia riconoscenza.

— E voi non avete il diritto d'interrogarmi, signor Daniele.

— Se non ne ho il diritto, ne ho pertanto la forza, rispose il giovine;
voi non uscirete di questa casa, senz'avermi rivelato quanto vi
chieggo.

Lo straniero sorrise: neppur l'ombra della collera era nell'espressione
del suo volto.

— Mi permetterete di farvi considerare, bel giovinotto, che la ragione
non vi assiste in quello che ora dite e in quel che pretendete di fare.
Prima di tutto, sappiate una volta per sempre, e tenetelo bene a mente,
ch'io non vi dirò niente, assolutamente niente, quando anche la vostra
follia vi spingesse ad assassinarmi: se io non parlo essendo vivo,
pensate se potrò farlo essendo morto. Voi quindi non guadagnereste
altro, uccidendomi, che passare alla Corte Criminale, ovvero rimanendo
celato il vostro delitto, non otterreste altro che perdere i cinquanta
ducati ch'io ho la bontà di recarvi in ogni fin di mese. Poi, vi fo
riflettere che, ammesso ancora ch'io mi lasciassi sedurre dalle vostre
parole o intimidire dalle vostre minacce, non mi costerebbe gran
fatica l'inventare un personaggio e un sito, e liberarmi della vostra
importunità mandandovi ben lungi in cerca di un uomo che non trovereste
giammai. Oltre a questo, sono nel dovere di dirvi che ogni passo che
voi dareste per iscovrire il vostro benefattore vi farebbe perdere la
costui benevolenza. Vi lascio da ultimo amichevolmente considerare che
io sono uno di quei pochi, pei quali voi siete sempre Daniele Fritzheim
e non già Daniele de' Rimini vale a dire ch'io conosco esser voi un
trovatello: un atto di violenza che commettereste contro di me potrebbe
spingermi a divulgare il segreto della vostra nascita.

— Voi nol farete, o signore, interruppe vivamente Daniele, il quale
vedea sfuggirsi di mano il colpo che avea meditato.

— Io nol farò, sempre che voi vi comporterete meco da onesto
galantuomo. Rinunziate al pensiero di voler conoscere il vostro
benefattore, e questi vi amerà dippiù; e forse un giorno...

— Ebbene? esclamò Daniele cui un lampo di speranza balenò negli occhi.

— Ebbene! chi sa! forse un giorno egli stesso chiederà di voi.

— Ma ditemi, ditemi, di grazia, signore, è egli ricco? è nobile?

— Non m'interrogate: ben sapete che non posso rispondervi... Ma il
tempo stringe: abbiate la bontà di farmi la solita quietanza, dappoichè
ho molte faccende ancora da disbrigare.

Daniele, con malissima voglia accontentandosi delle ragioni addotte
dallo straniero, si alzò e andò a scrivere la quietanza che consegnogli
dicendogli:

— Eccovi, signore, la quietanza. È questa l'ultima volta che ci vedremo
in questa casa e in Napoli. Domani io parto.

— Lo so, rispose freddamente lo straniero.

— Ah! lo sapete! E chi ve l'ha detto?

— Il Duca di Gonzalvo.

— Egli stesso!

— Egli stesso, ripetè quegli come un eco di Daniele.

— Sicchè voi, soggiunse questi, frequentate sovente la sua casa?

— Quasi ogni giorno.

— Siete suo intrinseco?

— Intrinsechissimo.

— E vedete spesso la Duchessina?

— Non tanto: ella mi guarda con diffidenza, e sembra che mal vegga la
mia presenza in casa del padre.

Lo straniero si alzò per rompere a quel punto una conversazione ch'egli
non aveva voglia di proseguire.

— Indicatemi, signor Daniele, ripigliò questi, cacciando di tasca
un portafoglio, indicatemi il paese in cui bramate che vi capiti la
polizza del mese venturo.

— Pel mese venturo io sarò a Londra, rispose il giovine.

Mentre lo straniero segnava colla matite alcune parole nel taccuino,
Daniele a cui era sorta nella mente un'idea subitanea, si slanciò
sull'incognito e con mano vigorosa gli strappò il portafoglio.

— A tuo dispetto saprò chi tu sei e chi t'invia, gridò Daniele con
occhio demente. In pari tempo suonò con forza un campanello e, aperto
l'uscio, gridò al soccorso.

Il suo domestico accorse.

— Liberatemi da quest'uomo, gridò Daniele in francese, ei vuole
assassinarmi, vuole impadronirsi del mio portafoglio.

Il servo si mosse per porre le mani addosso allo straniero, ma si vide
appuntate in sul volto le canne di due pistole.

— Sciagurati, esclamò l'incognito senza il minimo segno di alterazione
della fisonomia, un passo che diate verso di me vi costerà la vita. Giù
il portafoglio, signor Fritzheim, o il vostro cervello salterà in aria.

Non ci era da dubitar minimamente che lo straniero non avesse fatto
seguire l'atto alla parola. Daniele gittò a terra il taccuino.
L'incognito vi pose subitamente il piè sopra e comandò al servo di
sgombrargli l'uscio, tenendo sempre tutti e due a linea delle sue
pistole. Il servo obbedì. Lo straniero intascò il portafoglio.

— Quest'atto insensato di violenza mi costringe a privarmi del piacere
di rivedervi, signor Daniele. Avrò cura di farvi pervenire per altre
mani la solita polizza che ora vi siete messo a grave rischio di
perdere.

Il domani, all'ora che Daniele si accingeva a salire nella diligenza
per Roma, una donna, pallida ed emaciata dalle sofferenze, vestita
miseramente, e tutta cosparsa di lagrime, se gli fece incontro.

— Lucia!! esclamò Daniele stupefatto.

— Ho voluto vederti per l'ultima volta; Daniele, rispose costei...
perdona... io ti amo tanto.

Gli occhi di Daniele si bagnarono di lagrime.

— Lucia!... Povera fanciulla!... odiami... odiami... io non merito
l'amor tuo. In quale stato ti ho ridotta!

Daniele le strinse la mano.

— Grazie, grazie, Daniele... or son felice! ti ho veduto, mi hai
stretta la mano... Dio ti benedica!...

Daniele avrebbe voluto abbracciarla; il suo cuore era gonfio. Per la
prima volta egli sentiva un'estrema tenerezza per quella giovinetta.

— Lucia... Lucia mia...

Non potè proseguire, perocchè il conduttore facea schioccare la frusta,
la diligenza era in sul punto di partire.

— Addio... addio, sorella mia, esclamò Daniele saltando in fretta sul
montatoio della carrozza.

— Addio... addio, Daniele, rispondea questa debolmente, perchè sentiasi
venir manco; il suo volto era addivenuto bianco come cera.

Un uomo era corso a sorreggere la misera tra le sue braccia. Egli era
Padre Ambrogio.

Seduto nella diligenza che avea preso il galoppo, Daniele piangeva!!



Parte Terza



I.

UN CAVALIERE DEL FIRMAMENTO[2]


Manheim è indubitabilmente una delle più belle città dell'Alemagna.
Situata al confluente di due fiumi, il Neckar ed il Reno, e in sulla
dritta sponda di quest'ultimo, essa offre a' viaggiatori una delle
viste più dilettose. Ameni giardini, nei quali furono convertiti gli
antichi bastioni distrutti dai Francesi, circondano la sua forma ovale,
a guisa di un vago mazzettino di fiori, nel cui mezzo pompeggisi una
gentil magnolia. Manheim, residenza di delizie del Gran Duca di Baden,
città rivale di Carlsruhe, pulita, ben fabbricata, tranquilla, dalle
larghe e belle strade, dalle case simmetriche come le idee nella testa
di un Tedesco, Manheim ricorda subitamente al forestiere che per la
prima volta la visita, i poemi di Goethe e i racconti di Hoffman e di
Werther. Un filosofo che volesse passar la sua vita tra i libri e le
meditazioni non potrebbe scegliere in tutta la Germania un paese più
acconcio allo studio. Le lunghe file di acacie che orlano i pubblici
passeggi di questa città vi spargono un profumo soavissimo che dà
all'anima freschezza di concepimenti e serenità di passioni.

Situato in una delle più amene posizioni di questa famosa città di
Manheim, e interamente segregato dagli altri edificii, vedesi sbucciar
da un gruppo di poggetti di vigne un casinetto a pietre bianche e
rosse, di gotica struttura ma di recenti adorni: una villa pensile
si prostende ai suoi piedi, dove la mattina in sull'alba si radunano
di numerose frotte di augelli, e v'intuonano un concerto di voci
leggiadrissimo e tale che la mente d'un viaggiatore napolitano ritorna
tosto con tenerezza a' siti incantati del suo paese, sviscerato amor
di natura. Una cascatella artificiale e tortuosa, balzando sopra una
scala di grotticelle e di nicchie di conchiglie, si va a perdere in
pioggia finissima, la quale, refratta da' raggi del sole, rassembra
in lontananza una sottil trama d'argento. Quel casinetto a due piani
comanda un'estesissima veduta del Reno e delle sue rive seminate di
paesetti.

Nulla di più vago, di più pittoresco, di più atto a molcere i sensi e
l'animo quanto l'aspetto di questo solitario ridotto della pace e della
serenità. Lo sguardo vi si fissa con piacere, con amore e si addentra
col pensiero nei vialetti di quella villa, nel fitto di quegli alberi
dalle ombre più ristoranti, nel concavo di quegli scavi artificiosi,
misteriosi ritrovi di amore, e nell'interno di quegli appartamenti
freschi e leggiadri ne' quali la mente si figura un essere felice.
Questo casino colle sue adiacenze viene addimandato il comprensorio di
_Schoene Aussicht_ (Belvedere).

Ed in fatti, un essere privilegiato abitava da parecchi anni in quel
remoto casinetto, che egli avea comprato con la villa e colle altre
delizie circostanti. Era un Inglese, per quel che nel paese se ne
diceva, benchè taluni asserissero che ei fosse il Baronetto Edmondo
Brighton, ed altri il Conte di Sierra Blonda. Quali il suo titolo ed
il suo nome si fossero, gli è certo che sul conto di costui correvano
le voci più contraddittorie, più assurde; e quantunque il proverbio
dica _vox populi vox Dei_, ci era da giurare che niente di vero
conteneasi nelle dicerie degli abitanti di Manheim in sul proprietario
di _Schoene Aussicht_. Come in fatti conciliare e sposar tra esse
le voci che facevano a calci? Come credere, per esempio, che questo
personaggio fosse ad un tempo spagnuolo ed inglese? che possedesse
tanto danaro da potersi comprare tutta la città di Manheim, e che
poi vivesse come il più modesto borghese? che fosse un uomo dedito
agli studi ed alla meditazione, mentre si asseriva in pari tempo
esser egli interamente abbandonato a' piaceri, ed averne fatte tante
e poi tante in sua giovinezza da scandalizzare il nuovo e il vecchio
continente? Chi diceva che il Baronetto aveva avuto niente meno che
quattro mogli e quindici figli; chi giurava che quegli era celibe e
che non avea figliuoli: chi affermava esser vedovo, e che la defunta
moglie aveagli portato in dote tant'oro da gittarne nel Reno: alcuni
bisbigliavano sotto voce e in aria di mistero che il nuovo proprietario
di _Schoene Aussicht_ aveva avvelenata la moglie per isposare una bella
andalusa. Ma egli è necessario deciferare il vero tra mezzo a tanto
guazzabuglio di cose: noi però ci studieremo di dare al lettore sul
nuovo personaggio che viene a prender posto nella nostra storia tutt'i
ragguagli indispensabili per ben conoscerlo e giudicarlo.

Non eran discordi le opinioni sul titolo e sul nome del proprietario
di _Schoene Aussicht_, dappoichè questi era nel medesimo tempo il
Baronetto Edmondo-Isacco Brighton ed il Conte di Sierra Blonda. Aveva
ereditato il primo titolo qual figliuolo cadetto d'una delle primarie
famiglie di Yorkshire in Inghilterra, ed il secondo titolo gli era
stato venduto assieme alle immense possessioni da lui acquistate nel
mezzogiorno della Spagna, dov'era dimorato per molti anni. Ed ecco in
qualche modo accordate benanche le voci stravaganti ch'ei fosse ad un
tempo inglese e spagnuolo, imperocchè, se inglese era per nascita, era
spagnuolo di adozione, avendo passata nella Spagna gran parte della sua
vita. Ed era nel carattere e nelle fattezze di quest'uomo un singolar
mescuglio del sangue iberico e britannico; a tutta la flemma inglese
egli accoppiava le calde passioni degli Algarvi: era ad un tempo il Don
Juan di Byron e il Faust di Goethe.

Nel tempo in cui il presentiamo a' nostri lettori, il Baronetto non
era più giovane, ma era ben lontano dall'essere vecchio; di statura
regolare, di giusta complessione e vigorosa; il suo volto, a metà
coverto da densa e lunga barba, nella quale si scorgeano appena
pochi fili di argento, era leggiermente colorato di quel vermiglio
che annunzia un rigoglio di salute: i suoi occhi castagno cupo erano
grandi e pregni di anima; la sua testa era calva sul pendio della
fronte, e il resto del cranio era coverto anzi che nascosto da capelli
rasi e monchi. Egli era in tutta l'estensione della parola quel che
dicesi un bell'uomo. Il Baronetto era stato nella sua giovinezza il
modello della _gentry fashion_, vale a dire il più compito cavaliere:
egli avea libato a centellini le delizie della vita. A simiglianza
del _Child-Harold_, poi che ebbe sorvolato in tutta l'Europa e in
gran parte l'America, egli avea fissato la sua dimora nella Spagna e
propriamente in quelle terre di fuoco, nell'Andalusia, dove ogni cuore
è un vulcano. Qualche cosa del cielo di Africa è del cielo della Spagna
meridionale, che sembra quasi dar la mano alla terra dei Negri. Ci
è tra l'Andalusia e l'Africa uno stretto rapporto: quasi due sorelle
strappate a viva forza dalle braccia l'una dell'altra, queste due terre
par che si congiungano di soppiatto sotto il canale di Gibilterra. Il
suolo, le acque, la coltura sono le stesse al di qua e al di là dello
stretto: Ceuta è spagnuola come Cadice è africana.

Il Baronetto avea comprata, nel cuor delle Algarve, siccome abbiam
detto più sopra, una vasta tenuta addimandata di _Sierra Blonda_,
imperocchè situata a piedi di una montagna su cui era una arena
biondissima. Questa Contea, abbandonata da secoli per l'aridità delle
sue terre infuocate, era composta di casamenti a metà bruciati nelle
guerre moresche e di grandi estensioni di terreno, dette _despoblados_
(spopolati) nelle quali il pensiero si rattrista come nei deserti.
Questa tenuta col titolo annesso era costato al Baronetto seicentomila
pezzi duri. In tutta la Spagna egli era conosciuto ormai sotto il nome
di Conte di Sierra Blonda. Quando, dopo lunga fatica, un uomo perviene
alla cima della Montagna Bionda, e volge uno sguardo intorno a sè,
l'anima sua è presa da spavento e da tristezza, scorgendo in sul capo
un cielo ardente, e intorno intorno alla montagna uno spazio immenso
arido e solitario, balze a picco, rifugio di uccelli di rapina, pendici
scoscesi in su le quali neppure un'ombra di vegetazione, se togli nel
fondo di qualche valle, dove, accanto un fiume o ad un ruscello, si
vede spuntare un filo di verdura e qualche abitazione che attesta la
vita e l'industria. Che cosa aveva indotto il Baronetto ad acquistare
questo deserto? Niente altro che il capriccio e quella specie di
stravagantissima ECCENTRICITÀ che formava il nucleo del suo carattere
e della sua vita. A venti anni, padrone di sè medesimo e di una
fortuna incalcolabile, egli si era fatta una legge d'inventar sempre
nuovi piaceri, nuovi divertimenti, di uscire dai sollazzi comuni, di
assaporare con gusto e raffinatezza tutto il pizzicante della vita.
Egli non faceva niente di quello che avrebbero fatto gli altri giovani
dell'età sua e nel suo stato, anzi faceva appunto il contrario.
Edmondo avea renduto animatissimo quel deserto; giuochi, balli,
festini, gozzoviglie rallegravano giorno e notte gli appartamenti
del signorotto, i quali avea fatto addobbare con tutto il lusso e le
comodità.

Tra gli altri stranissimi divertimenti ch'ei soleva prendersi, dobbiam
notare il seguente: Egli faceva riempir di mobili un casamento e
adornarlo come per festa di ballo: le suppellettili più costose ne
fregiavano le sale: si facea poscia chiamare un centinaio di vagabondi,
di ladri e di uomini facinorosi. A un dato segno ch'ei dava, il fuoco
era appiccato al casamento; il saccheggio era comandato; e quegli
uomini, a rischio della vita che sovente vi perdevano, si gittavano
nelle fiamme per ispogliar le sale del meglio che vi si conteneva.
Edmondo godeasi un così fatto spettacolo, ad una certa distanza,
e nel mezzo dei suoi numerosi amici e compagni di follie, i quali
sgangheravansi dalle risa, e mettevano alte e selvagge strida di
esultanza in veggendo gran parte dei saccheggiatori venir fuora da
quelle crollanti mura col volto e colle mani annerite ed arse: come
sciami d'immondi animali ch'escono dalla putredine e dalla corruzione.

Il Baronetto Edmondo si avvezzava con siffatti passatempi alla più
cinica durezza di cuore. Quando gli si parlava di sentimento, di amore
appassionato e gentile, ei rispondeva che tutto ciò è buono per quella
gente che ama di pascersi d'illusioni, ma che la vita presenta un
campo di piaceri positivi e reali sì vasto da non esserci bisogno di
foggiarne fittizi e ideali. Un uomo, ei diceva, può cogliere i frutti
saporosi dell'albero dell'umana vita, senza perdere il tempo a odorarne
i fiori.

Ci sembra superfluo il dire quanto un uomo di questa tempera
deplorevole dovess'essere pericoloso per la pace domestica delle
famiglie. Edmondo era pazzo per le donne andaluse. Allorchè gli
si metteva innanzi la bellezza delle donne inglesi, ei ricorreva
subitamente all'autorità di Byron, suo autor favorito, e rispondeva coi
versi del _Child-Harold_.

    «Who round the North for paler dames would seek?
    «How poor their forms appear! how languid, wan, and weak!»[3].

Aggiungi che il giovin Baronetto era bellissimo del volto e della
persona, la quale aveva acquistato proporzioni, forme e vigore negli
esercizi cavallereschi e nella tempestosa ginnastica di una vita
consacrata solamente a' piaceri. Egli avea fatto rivivere, a grande
scandalo della civiltà dei tempi, l'antica razza de' _Cavalieri del
Firmamento_. Eran costoro nel numero di dieci, regolati e condotti da
Edmondo: vestiti tutti a un modo, bene armati e avvolti in mantelli
azzurri screziati di stelle d'oro, simbolo del Firmamento, uscivano a
cavallo da Sierra Blonda in sulla sera e percorrevano i dintorni, in
caccia di avventure. Qualunque donna capitasse ad imbattersi in questi
pazzi giovinastri era subitamente rapita, a qualsivoglia classe della
società fosse appartenuta. Ne conseguitavano lotte, duelli e risse.
Un tanto scandalo non poteva a lungo durare. Non ostante i potenti
rapporti e aderenze, una ordinanza reale decretava il bando ai novelli
Cavalieri del Firmamento. Edmondo e i suoi amici dovettero esiliare, il
Baronetto si recò a Bajonna, sulla frontiera della Francia; il titolo
di _Cavaliere del Firmamento_ gli era rimasto.

Durante la sua dimora nell'Andalusia, il Baronetto Edmondo Brighton
avea stretto amicizia col Duca di Gonzalvo, capo politico di quella
provincia, il quale per qualche tempo avea nascosto e coperto agli
occhi del governo le triste scorrerie del signorotto inglese e dei
suoi. Il Duca di Gonzalvo era ben lontano dal supporre che un giorno si
sarebbe pentito di aver conceduto la sua amicizia e confidenza a quel
giovine dissipato e di pessimo cuore.

Edmondo andava spesso a Siviglia per visitare il Duca, e questi lo
accoglieva sempre con quell'amorevolezza che gl'ispirava il carattere
disinvolto del Baronetto, non meno che le costui espressioni caldissime
di affetto. Ma lo scopo delle frequenti visite di Edmondo non era
già l'amicizia, bensì l'amore, essendosi fortemente invaghito della
sorella del Duca, Juanita, fanciulla di rara bellezza e di bollenti
passioni. Il Baronetto si abbandonò a quest'amore e con iscopo
infernale, perciocchè abborriva finanche l'idea del matrimonio. Ma la
condanna di esilio che lo bandiva dal territorio della Spagna venne,
per buona ventura, a rompere il filo dei suoi criminosi proponimenti.
Edmondo partì per Bajonna, lasciando nel cuore di Juanita il fuoco di
una vergine passione, e la speranza d'una prossima unione. Ma innanzi
di partire per Bajonna, il perfido Baronetto aveva ordita una trama
diabolica per far cadere Juanita ne' lacci della seduzione. Nel 1803,
il Duca di Gonzalvo fu costretto di abbandonar Siviglia, per essere
caduto in sospetto del suo governo; e scelse per rifugio l'ostello
del Baronetto Edmondo che allora dimorava a Bajonna, e che lo aveva
invitato a trasferirsi quivi colla sorella. Il Duca ignorava gli amori
dei due giovani, e menava egli stesso l'innocente colomba sotto le
spirali del serpe affascinante.



II.

LA SERPE MORALE


Juanita cadde nella rete che le fu tesa con astuzia infernale. Diremo
a suo tempo in che modo il Duca stesso fu tratto in agguato, e quali si
furono le funeste conseguenze di una colpa, cui la disgraziata giovine
credette emendare colla morte. Sul capo del suo seduttore piombava
intanto una maledizione orribile. L'onore oltraggiato, i più sacri
legami di natura calpestati, l'amicizia tradita e vulnerata nel cuore
chiamavan giustizia innanzi al Cielo. Noi scorgiamo sempre nelle fila
degli umani avvenimenti il dito di Dio. Si addensino pure le più fitte
tenebre in sul delitto: si eluda pure la giustizia degli uomini; si
addormenti la rea coscienza nei rumori delle feste e nelle febbrili
commozioni di concitati piaceri; la spada di Damocle penderà sempre
in sulla testa del malvagio, e le parole del convito di Baldassarre si
riprodurranno in tutt'i banchetti dell'empio. Edmondo sfuggì vilmente
alla vendetta del Duca di Gonzalvo. Un istante dappoi che questi
discoprì l'orrendo segreto che macchiava l'onore del suo casato, il
Baronetto era già lungi dal teatro de' suoi disordini. Egli abbandonava
per la seconda volta l'Europa, senza lasciare neppure un'ombra
d'indagine sul paese ove intendeva trasferirsi.

La bella e vasta isola di Cuba in America accoglieva il Cavaliere del
Firmamento sotto altro nome. Ivi Edmondo non pensò ad altro che ad
ammassare enormi ricchezze, mercè l'ignobil traffico degli schiavi. In
pochi anni la sua fortuna, in gran parte dissipata dalle stravaganze
della sua vita, si rifece e crebbe cotanto che ascese a circa quaranta
milioni di reali di Spagna, vale a dire a oltre due milioni di piastre.
Egli era il più gran proprietario di schiavi in tutta l'isola. Tra
mille di questi esseri infelici raccolti in sulle coste dell'Africa,
dobbiam notarne uno che diventò carissimo a Edmondo, e meritossi in
prosieguo tutta la costui confidenza. La ragione di questa predilezione
si fu la seguente: Edmondo volle dare un giorno a' Cubani lo spettacolo
di una lotta di tori, sì comune in Ispagna. Egli avea fatto bandire
in tutta l'isola che Sir Falstaff (fattizio nome ch'ei si era dato)
si esponeva per divertimento nel circo a combattere contro un toro
furioso. Al giorno indicato una folla straordinaria ingombrò il recinto
formato di mattoni con rilievi di pietra, a somiglianza del circo
di Jeres in Ispagna. Rizzavasi in mezzo all'arena un palo terminato
da una specie di loggetta, su la quale si vedea saltellare e fare di
mille smorfie e piacevolezze un grande orang-utang, vestito da buffone
de' mezzi tempi, e ligato alla pertica da una catena tanto lunga da
permettere che l'animale descrivesse un cerchio attorno al palo. Le
vestimenta dell'orang-utang erano del rosso più cupo ad oggetto di
stizzire il toro con quel colore di sangue. Dopo vari combattimenti
eseguiti da schiavi, e varii giuochetti di forza e di agilità, il
programma annunziava la comparsa di Sir Falstaff. Questi si presentò
vestito alla _picador_ (picchiere); aveva al suo fianco un _matador_
(uccisore), giovanetto schiavo vestito alla turca, con calzoni alla
mammalucca, con un sole raggiante nelle spalle, e col turbante a
foggia di pasticcio. Erano entrambi armati di lunghe picche, e lo
schiavo portava inoltre nella sinistra mano l'arma terribile domandata
la _mezza luna_, la quale è una specie di semicerchio di acutissimo
acciaio posto alla punta d'una lancia e fatto a forma di ronca: un tale
strumento serve in particolar modo a tagliare i grandi alberi.

Un toro giovane e vigoroso fu slanciato nel mezzo del circo. I due
combattenti si erano ritirati per poco per dare il tempo alla bestia di
inferocirsi alla vista del rosso orang-utang. Ed infatti, il toro, in
veggendo quel colore addosso alla scimia, mandò un muggito spaventevole
e si scagliò sovra quell'animale, il quale con un salto fortissimo
raggiunse la loggetta della pertica, di dove si divertiva a dar la baia
al furioso nemico. Grandi scrosci di risa che partivano dai seggi degli
spettatori accoglievano le strida formidabili e feroci del toro che con
estrema rabbia faceva rapidamente il giro del palo e poscia guardava
con occhio di sangue al suo motteggiatore avversario, e dava di
violente cornate nel mezzo della salda pertica, facendola traballare,
a grande spavento dell'orang-utang, e a grande soddisfazione degli
spettatori, i quali sganasciavansi dalle risa nel vedere la paurosa
espressione della faccia dell'orang-utang ogni volta che il toro
dava di cozzo nella pertica. E forse guari non sarebbe andato che il
palo sarebbe caduto sotto i replicati urti della bestia selvaggia,
se, nel momento in cui questa più sembrava aizzata, e di più feroci
muggiti facea risuonare l'aere del circo, non fossero apparsi i due
combattenti.

Alle risa generali successe ben presto un gran silenzio: ognuno tremava
per l'imprudente Sir Falstaff. Il toro, non appena ebbe scorti i
due nuovi suoi avversari, si slanciò contro di loro con l'impeto del
furore eccitato in esso dalle smorfie e dagli abiti dell'orang-utang.
Edmondo lo aspettava a piè fermo, e, quando la bestia fu a certa
distanza, egli le cacciò ne' fianchi la sua picca con mirabile coraggio
ed agilità... Il toro mise un ruggito spaventevole, e, quantunque
un rivo di sangue uscisse dall'aperta ferita, la rabbia lo spinse
contro il suo avversario. Edmondo era indietreggiato per tener sempre
l'animale a distanza della sua lancia, ma questa volta il toro diede
un balzo sì terribile e tortuoso che Edmondo spezzò la picca tra le
corna dell'animale senza ferirlo: era finita pel signorotto inglese,
senza la prontezza dello schiavo che con un colpo della _mezza luna_
troncò le gambe al toro nè più nè meno che se fossero stati due sottili
stinchetti o due rami. Allora la bestia venne uccisa senza pericolo.

Edmondo era debitore della sua vita al suo schiavo. Fin da quel momento
gli tolse tutt'i segni di schiavitù e sel tenne come il più caro dei
suoi amici. Questo schiavo era nato ne' possedimenti inglesi: il colore
del suo volto era di un pallido olivastro, per modo che pochissimo
differiva dal volto comune degli Europei: una grande intelligenza,
una cupa sensibilità, un coraggio di leone e una fedeltà a tutta
pruova costituivano i pregi di questo giovine che diventò l'anima di
Edmondo. Maurizio Barkley era il suo nome, che abbiamo visto figurare
sulle polizze mensuali portate a Daniele dall'incognito straniero, il
quale altro non era che lo stesso Maurizio. Questo schiavo avea pel
suo padrone cotanto affetto e venerazione, che rifiutò la libertà che
quegli voleva concedergli in premio della sua virtù: non ricusò per
altro l'istruzione che Edmondo gli fece dare, per sempre più rialzarne
la dignità di uomo.

Il Duca di Gonzalvo avea scoverto il ritiro di Edmondo, così che
questi non fu più sicuro della sua vita in Cuba; partì accompagnato
da Maurizio Barkley. Dopo parecchi anni di viaggi, il Baronetto si
fissò a Manheim, dove avea comprata la tenuta di _Schoene Aussicht_
e dove abbiam fatto la sua conoscenza. Una compiuta trasformazione
si era operata nel Baronetto. La sua giovinezza era sparita e con
essa tutte le illusioni de' piaceri, di cui era sazio e ristucco. La
vita ch'egli avea sì follemente dissipata e schernita gli diventò
così cara, che risolvette di vivere il resto de' suoi giorni nella
più riposata felicità e nella più esemplare saggezza. Non ostante
le orgie, gli stravizzi e le strambezze di ogni ragione, alle quali
si era abbandonato nella sua giovinezza, la sua salute di ferro non
era giammai venuta manco: egli avea innanzi a sè, secondo tutte le
probabilità, altri quaranta o cinquant'anni di vita e una immensa
fortuna; fermò adunque di passare questi altri anni in modo da
procacciarsi tutt'i più dilicati piaceri, senza mai più mettere a
repentaglio la sanità del suo corpo. L'odio del Duca di Gonzalvo e
la vendetta che questi avea giurato contro il Baronetto, davano a
costui grandissimo pensiero e rattristamento. Quantunque fosse stato
quasi impossibile di scoprire il suo ritiro a Manheim, ed anche più
impossibile di penetrare nei suoi appartamenti, pure egli temeva
sempre un agguato; laonde, saputo che il Duca viveva in Napoli colla
sua famiglia, pensò di mandare in questa città il fedelissimo Maurizio
Barkley ad oggetto d'insinuarsi destramente nella casa del nobile
spagnuolo, di cattivarsene la benevolenza, e cercare di scoprire se
quegli avesse formato qualche disegno contro di lui Baronetto. Riuscì
alle astuzie di Barkley di introdursi nella casa del Duca di Gonzalvo e
diventare uno de' suoi intrinseci amici. Maurizio scriveva al Baronetto
tutto ciò che il Duca pensava ed operava, e rassicuravalo pienamente,
dicendogli che il nobile spagnuolo non conosceva per niente essersi il
Baronetto ritirato a Manheim.

I nostri lettori ricorderanno di aver veduto Maurizio Barkley alla
festa di Lady Boston a Napoli, alla quale era stato presentato dallo
stesso Duca di Gonzalvo. Un altro scopo e un'altra missione avea il
soggiorno di Barkley in Napoli, oltre quello di spiare i pensieri del
Duca. Diremo altrove quali erano questo scopo e questa missione.

Edmondo menava in quel solitario ritiro di Manheim la vita
riposatissima di un vero filosofo sibarita. Al disordine della
sregolatezza era succeduto l'ordine più perfetto: tutto era pensato e
sistemato secondo le regole della stretta igiene. Un esperto medico
di Francoforte veniva a visitarlo di tempo in tempo e gli assegnava
la qualità del cibo, del riposo, del sonno, dell'esercizio. Per
premunirsi contro i pericolosi effetti delle variazioni atmosferiche,
egli si era avvezzato a sottoporsi ogni giorno, in levarsi dal letto,
allo _showerbath_ (bagno a pioggia) sì comune in Inghilterra e in
Germania. Edmondo usciva dalla nicchia verticale del bagno a pioggia
con una vigoria di salute, con una freschezza di mente, con un'alacrità
di appetito, che il ringiovanivano di venti anni. Egli facea la
sua colezione, indi passeggiava nella sua villa o si dava a' lavori
campestri; più tardi gustava i piaceri della lettura, e poscia sedeva
ad uno squisitissimo desinare inaffiato dal vin del Reno e dallo Xeres.
Dopo pranzo, usciva a cavallo infino a sera, giunta la quale ei libava
le delizie d'una parca cena in compagnia di pochi e scelti amici dotti
e filosofi.

Una parte della villa di _Schoene Aussicht_ era coltivata a gentile
orticello. Edmondo, affin di procacciarsi un salutare esercizio,
dava opera, come abbiam detto, a' campestri lavori nei quali trovava
l'incanto di puri ed innocenti piaceri al tutto nuovi per lui.
Nell'inverno egli formava diversi vivai, intrecciava i tralci delle
viti e li copriva di terra per non farli offendere dal gelo, passava
in rivista i seminati e curava di sviare le acque stagnanti; facea
preparare e concimare il terreno; nella primavera ordinava seminature
e piantagioni, sarchiava egli stesso le nocive propaggini: nell'està
la mietitura richiamava tutta la sua sollecitudine, e la famiglia
dei fiori tutto il suo amore; poneva all'ombra le viole, badava con
diligenza agli adacquamenti: nell'autunno trapiantava le mammole; era
tutto d'attorno agli alveari, cavandone il mele e la cera, e nettando
le arnie da ogni immondizia; stava ben attento alla maturità dei semi
autunnali per raccoglierli e farli prosciugare per conservarli.

In simiglianti occupazioni Edmondo spendeva parecchie ore, e sempre ne
risentiva grandissimo sollievo. Egli avea studiato in America l'arte
delle piantagioni; avea però non poche cognizioni di agricoltura Nella
isola di Cuba, oltre al traffico degli schiavi, le piantagioni dello
zucchero, del cotone e del tabacco erano state le principali vene della
sua ricchezza. Quasi ogni mese egli facea fare enormi carichi di cotone
e di zucchero ai vapori armati pel Mississipi, e vendeva i prodotti
delle sue terre ai paesi che si trovano lungo la corrente di questo
interminabile fiume. Nuova Orleans era il centro, nel quale venivano
a confluire i capitali di Edmondo, che vi teneva la sua principale
amministrazione.

La conversazione del Baronetto era delle più piacevoli ed istruttive,
ed i suoi discorsi erano pieni di quella trista esperienza che danno
i disinganni della vita. Egli avea tanto viaggiato; avea veduto tanti
lontani paesi; era stato in mezzo alle più alte classi sociali,
avea trattato gli uomini celebri di tutta Europa; ed oggi era al
caso di ragionare con aggiustatezza di molte cose. Edmondo parlava
con grandissima facilità molte lingue europee e varie orientali,
tra le quali l'araba. Nella sua solitudine di _Schoene Aussicht_,
egli coltivava le lettere e le scienze morali; leggeva quasi tutti i
principali giornali che si pubblicavano nel mondo, e la sera faceva
cogli amici i suoi comenti su qualche subbietto politico, morale,
economico o industriale. Le ore serotine ch'ei passava ragionando
di filosofia e di lettere erano le più belle della sua giornata.
Molte volte si pentiva di aver dissipata la sua giovinezza, e diceva
che il filosofo di _Schoene Aussicht_ avea maledetto il Cavaliere
del Firmamento. Ma era egli parimenti pentito degli errori e delle
follie della passata sua vita? Si doleva dei mali gravissimi che
avea cagionati a tante disgraziate famiglie? Mal potremmo dirlo,
imperocchè sulle ruine di quell'anima non ispirava l'alito dolcissimo
e vivificante della grazia celeste. La saggezza umana, ch'è follia
dinanzi agli occhi di Dio quando è confidente in sè sola ed orgogliosa,
e l'età, l'inesorabile medicina della febbre delle passioni, aveano
soltanto influito a cangiar quell'uomo; benchè la cagione precipua
del mutamento che si era fatto in Edmondo fosse il segreto della
Provvidenza, di che or diremo.

Edmondo era stanco del passato ma non pentito. La sua anima era un
vulcano estinto da cui esala tuttora un'afa mortale. Egli era sempre
materialista.

Ciò nulla di manco, non era possibile il credere che il proprietario di
_Schoene Aussicht_ fosse il medesimo uomo che il Baronetto Brighton, il
Conte di Sierra Blonda, e Sir Falstaff. Tra questi ultimi e il primo
ci era quella barriera che separa la saggezza dalla follia. Edmondo
era tutt'altro uomo da quello che era stato nella sua giovinezza.
Abbiam detto che la precipua cagione del suo cambiamento era il
segreto della Provvidenza. Che cosa dunque aveva oprato una tale
straordinaria trasformazione? Un pensiero che era la serpe morale posta
da Dio nel cuor di quest'uomo che tanto aveva oltraggiato le Divine
sue leggi. Questo pensiero era la PAURA DELLA MORTE. Edmondo perciò
non era felice. Mirabil castigo della Divina giustizia! Attraverso
le delizie ond'ei si circondava, e nello stato della più perfetta
sanità, quell'uomo avea molto spesso e quasi ogni giorno momenti di
tristezza e di disperazione pensando che un dì egli doveva abbandonar
la vita. Quando l'ora della sua morte fosse suonata, i suoi milioni
non l'avrebber ritardata neppur d'un minuto! Orrendo pensiero che il
rendea tristo e taciturno per ore intere, sepolto nella più desolante
melanconia: Non era tanto il pensiero di dover finire che gli dava
rovello e tristezza, quanto un altro pensiero che ne derivava qual
conseguenza. Edmondo era preso da raccapriccio e da orrore pensando
che il suo corpo nutrito con tanta ricercatezza, godente di tutte le
dolcezze della salute e delle dovizie, conservato con quanto ci è di
meglio nei regni vegetali ed animali, il corpo ch'egli tanto amava ed
al quale prodigalizzava le più tenere cure, sarebbe stato un giorno
abbandonato a pasto dei vermi della terra!!

Edmondo fremeva, e non rare volte rompeva in codarde lagrime pensando
al suo CADAVERE!!



III.

LE NOTTI DI EDMONDO


Il proprietario di _Schoene Aussicht_ diveniva ogni giorno vie più
tristo e impensierito: a stento i suoi amici il traevano qualche volta
dalla concentrazione in cui cadeva. Edmondo incominciava a fastidiarsi
benanche di quegli innocenti piaceri che avean dato alla sua anima
serenità di sentimenti della natura. La sua conversazione languiva
per difetto di attenzione in lui; poco parlava, e pochissimo parea
che prestasse ascolto a' ragionamenti de' suoi dotti visitatori, a'
quali non isfuggì lo stato del Baronetto, e più volte il richiesero
della cagione della sua ipocondria. Colui dava sempre vaghe risposte, e
negava che avesse motivi di essere sovra pensieri, ovvero adduceva per
causa qualche disavventura immaginaria. Ma il sorriso non più ispuntava
in sul labbro di Edmondo, la cui salute incominciò a risentirsi
della prostrazione del suo spirito. E quanto più egli si accorgeva
di dar giù nella salute, tanto più crescevano in lui le apprensioni,
l'abbattimento, i fantasmi della morte e le agonie d'una debolezza di
spirito singolare e straordinaria. Invece di procacciarsi distrazioni,
egli prendea diletto ad immergersi nel fitto pensiero che il torturava.
È questo appunto uno de' più strani fenomeni dell'umana natura,
che cioè l'uomo trovi una certa voluttà nel pensare continuamente a
quelle cose che più gli danno argomento di pena e di melanconia. Lo
sventurato si attacca alla sua sventura, si ammoglia con essa, la tiene
strettamente abbracciata con sè: vi s'inebbria fino alla mattezza:
ogni distrazione gli riesce pesante, amara, importabile. Egli ama
soltanto di sentir parlare della sua sventura; detesta chiunque cerca
di strapparlo per poco dall'idolo suo, e maledice quella mano che si
studia di arrecargli balsamo e sollievo.

Oh se la malinconia di Edmondo fosse stata figlia del pentimento! Oh se
il pensiero della morte fosse stato ispirato in lui dalla religione!
Egli sarebbe stato felice, pienamente felice, imperocchè vi ha nella
vita de' momenti in cui l'anima sente il bisogno di contristarsi, in
cui, esaurito quel circolo limitato di usuali svagamenti, essa non può
trovare un godimento che nella tristezza; non già quella tetra ch'è
figlia di gravi infortunii, o cagionata da tormentosi rimorsi, il cui
solo falso raggio di speranza è il nulla della morte, e che ama di
pascersi nelle tenebre della notte o fra gli orrori delle tombe; non
già quella disperata e funesta in cui cade il cuor d'un padre o d'una
madre nel veder languire gli amati figliuoli nella miseria, o da altra
simigliante sventura oppressi; ma sibbene quella cara e misteriosa
tristezza che nasce nell'anima dall'innato amore del sublime e del
bello; quel sacro dolore, che diffondono sul cuore le pagine de'
salmi o le tenere carte Davidiche: quella tristezza a cui ne invita
il racconto di qualche nobile azione, di qualche compassionevole
avvenimento; quella dolcissima tristezza infine, di che inebbriano la
nostr'anima il patetico suono delle onde del mare, il mormorio delle
vergini foreste, un gemito dell'aura nel silenzio della sera quando si
medita sulle ruine coverte di edera e di muschio, un raggio di luna che
segna sul terreno la croce di selvaggia tomba.

Avvi un'altra sorta di tristezza, necessaria all'anima, come la
medicina al corpo infermo, ed è questa la tristezza del pentimento.
Ah! chi mai non sentì una volta almeno in vita la necessità di questa
tristezza? Augusta figlia della religione, sublime tristezza del
pentimento, tu sei sacra come la voce della virtù, inviolabile come
l'innocenza, soave come la speranza; per te l'uomo volge atterrito uno
sguardo al passato, ed interroga gli anni scorsi nell'obblio della
vita; è per te che un raggio di calma penetra il cuore dell'uomo
colpevole, e diffonde sulla sua anima quella beata tranquillità
dell'innocenza, a cui sortilla il Creatore.

Ma il codardo affanno di Edmondo non provveniva, siccome dicemmo, dal
pentimento. Una idea fissa e terribile il perseguitava, un'immagine che
gli mettea il ribrezzo e lo spavento nell'anima: il suo Cadavere!

Edmondo facea paura a sè medesimo, appunto come gli avrebbe fatto
paura il suo cadavere, se egli lo avesse veduto. Questa fissazione
era in lui mantenuta ed eccitata dal continuo riguardar ch'ei faceva
sovra i dipinti di un gran volume di anatomia e di osteologia, nel
quale erano varie grandi tavole con disegni dello scheletro e del
corpo umano spogliato de' suoi naturali tegumenti. Oltre di che,
il forsennato si abbandonava con delizia alla lettura de' libri più
tristi e malinconici. Di notte tempo, e quando la natura, e gli uomini
riposano, quando l'infelice che ha pianto ritrova nelle braccia del
sonno il conforto e la calma, quando nessun esterno oggetto colpiva più
i suoi sensi, Edmondo si mettea col pensiero faccia a faccia col suo
Cadavere. Avvolto nelle seriche sue coperte, colle pupille spalancate,
fisse sulla lampada d'oro che rischiarava la vasta sua camera da letto,
immobile e freddo, il milionario immergeva il tremante pensiero nelle
visceri della terra, e con orribile minutezza s'immaginava al vivo
la dimora del proprio corpo colà dove tutto è silenzio e oscurità.
Ci sforzeremo di ritrarre, per quanto ci sarà possibile con parole,
le immagini che si affacciavano alla mente di quell'uomo nelle ore
notturne, e quando il sonno fuggiva dai suoi occhi deliranti.

Edmondo si vedea disteso in angusta bara ricoperta da sei palmi di
terreno: l'aria, lo spazio e la luce erano scomparsi: ei si sentiva
in sul petto il peso della terra, sulla quale più non dovea riporre
il piede, quella terra su cui egli avea signoreggiato col suo oro, e
che pareva tanto angusta all'ardenza de' suoi piaceri. Le voci degli
uomini, i canti serotini, le parole dolcissime di amore e di amicizia
più non colpivano le sue orecchie: nessun rumore! nessuna voce!! Il
silenzio, assoluto, eterno, il circondava! Edmondo si sentiva consumar
la carne: e le ossa, che prima erano ascose, discoprirsi a poco a
poco. La corruzione, figlia della morte, abbrancava la sua preda; e i
vermini, figli della corruzione, se ne impossessavano e penetravano a
schiere, a migliaia nell'organismo in isfacelo. L'organismo del corpo,
la più bella opera della natura, il capolavoro della Creazione, la
lunga e penosa fattura delle visceri d'una madre, quell'organismo che
dava sussulti di amore, di tenerezza, d'ineffabili angosce al cuore
de' genitori; che per tanti anni la natura avea protetto contro le
esterne ingiurie della materia bruta, quell'organismo tessuto con tanta
profonda saggezza divina, miracolo quotidiano, magistero sublime,
perfezione della materia, marciva qual succida poltiglia, pasto
d'immondi animali senza nome, ignoti forse all'uomo vivo.

SE DOMANI MI CERCHERAI PIÙ NON SARÒ: Queste sacre parole faceano
raccapricciare e rizzare i capelli al milionario. Egli guardava
attorno a sè con ispavento, interrogava i palpiti del suo cuore, i
battiti del suo polso, per assicurarsi della vita. La lampada d'oro che
illuminava la camera prendeva strane forme a' suoi occhi, e le ombre
che sprolungava in sulle pareti si trasformavano in oggetti sepolcrali.
Il pensiero di Edmondo era fisso, inchiodato alla bara, e la fissazione
era tale, e l'esaltamento della fantasia era così grande che il
misero si credea già divenuto cadavere. Un'agghiacciata immobilità lo
colpiva: i suoi occhi più non iscorgeano la fosca luce che ondeggiava
incerta e ombrosa in sulle sue pupille, quasi trasparenza di un funebre
lenzuolo: le sue braccia e le sue gambe sembravano rifiutarsi alla
sua volontà, sorprese dal ghiaccio di morte. Edmondo si ridestava con
balzo convulsivo di questa tremenda illusione; si alzava a metà sul
suo letto, pallido, cogli occhi stralunati, colla barba che parea
sollevarsi di spavento come i peli dell'istrice: egli afferrava la
corda di un campanello e con violenza estrema suonava al soccorso;
e comandava al cameriere di accendere i torchietti dei doppieri in
sulle mensole, di schiudere le imposte dei terrazzini, di starsi
vicino a lui, di fargli udire la sua voce. Il cameriere eseguiva,
stupefatto dalla stranezza de' comandi del suo padrone. Qualche volta
i lumi rimanevano accesi per l'intera notte e non erano spenti che
in sull'alba, ora in cui sulle stanche pupille di Edmondo scendeva
il ristoro del sonno. L'infelice più non dormiva che colla luce del
giorno.

Simiglianti notturni fantasimi erano più terribili ancora quando il
misero era preso dalla paura che cagionavagli il pensiero di essere
sepolto prima ch'ei fosse in realtà spirato. Gli esempi che si citavano
di persone, le quali, per apparenza di morte, erano state portate alla
tomba ancora viventi faceano sollalzare i capelli del ricco Baronetto,
e gli metteano la febbre nelle vene, il delirio nella ragione. Egli
leggeva sempre un'opera tedesca intitolata, _La morte apparente_, nella
quale con molti argomenti si dimostra la facilità di esser tratti in
inganno su gli esterni segni di morte.

Talune notti Edmondo, non potendo trovar calma nel letto in cui vedea
la tomba, e sul quale ei pensava che dovea rimaner cadavere prima di
essere trasportato all'ultimo soggiorno, si alzava, si vestiva, e dava
di lunghi passi nella sua camera, stordendosi col rumore delle proprie
pedate. Coverto da lunga veste di camera, colle braccia incrociate,
quella sua lunga barba nera spiccava in sul volto pallidissimo e
dava alla sua persona l'apparenza di un fantasma che percorresse quel
vasto appartamento. Alcune altre volte egli si addormentava sovra una
poltrona; ma non sì tosto avea chiuso le palpebre, sogni terribili
se gli affacciavano all'egra fantasia. Gli sembrava di esser tolto di
peso dalla poltrona dalle braccia di due nerboruti becchini, i quali il
deponevano in una cassa mortuaria a dispetto delle alte strida ch'ei
gittava, e gl'inchiodavano sul capo un coverchio di ferro. E mentre
que' barbari si accingevano a porlo nella bara, ei vedeva tanta gente
nella sua camera, e tra le altre persone distingueva due donne e tre
giovani robusti e pieni di vita, che si affrettavano ad aprire gli
armadi e i cassettini per impadronirsi del suo oro. Ci era benanche
una donna dalle chiome sparse sulle spalle, dagli occhi bellissimi e
neri come la notte, la quale rideva... rideva a sganascio dappresso
al cadavere di lui, e mostravagli una larga ferita che si era fatta
nel seno, e additavagli un bambino macilento che le giaceva ai piedi.
Il rumore e le grida di esultanza che risuonavano in quel vasto
appartamento soffocavano i gemiti di lui che si dibatteva sotto i pugni
de' becchini.

Edmondo si svegliava da questi sogni con un batticuore insopportabile,
e più non potea richiudere le palpebre, anzi temeva di riprender sonno
per non essere novellamente torturato da larve di tal natura.

Da oltre un anno, Edmondo era vittima della sua fantasia. La sua
fissazione lo avea talmente ridotto a male ch'egli si affrettava a
grandi passi verso quello stato, cui tanto temeva. Il milionario parea
che avesse fretta di divenir cadavere. Eragli nonpertanto rimasto
bastante filo di ragione per fargli concepir rossore della sua propria
debolezza, sì che mai non ebbe il coraggio di svelare la cagione delle
sue sofferenze. Ma si avvide ben presto che bisognava trovar rimedio a
tanto male; fermò quindi di vincere la ripugnanza ch'egli aveva a far
palese la strana causa del deterioramento della sua salute. Il domani,
ben per tempo, scrisse al suo medico di recarsi sul momento a _Schoene
Aussicht_.



IV.

UN RIMEDIO


Il domani, nella prim'ora del mattino, il Dottor Weiss di Francoforte
si faceva annunziare al Baronetto Brighton. Costui si era da qualche
ora alzato dal letto ch'era divenuto per lui più tormentoso di uno
spinaio. Una limpida giornata di giugno incominciava il lungo suo
corso. Un fresco venticello baciava le cime delle acacie, correva
allegro e pazzognolo lunghesso i viottoli ombrosi della villa di
_Schoene Aussicht_, e rapiva i primi profumi dei fiori, trasportandone
gran parte nella camera da letto di Edmondo, il terrazzino della quale
era dischiuso.

Il milionario si era appoggiato alla ringhiera del terrazzo: il sereno
del cielo, le balsamiche aurette di primavera, il concerto degli
augelli, il tremolare delle fronde, aveano per poco discacciata la
negra nebbia che premea l'anima di Edmondo, ed avean dato a' suoi
pensieri altro avviamento non così malinconoso. L'annunzio della
visita del medico gli giunse grato come foriero di guarigione. Edmondo
fece entrare il Dottor Weiss in un gentil salottino di conversazione,
attiguo alla camera da letto, ed ei pure entrovvi e si sedè, invitando
il medico a far lo stesso.

— Vi trovo molto cangiato dal giorno in cui ebbi ultimamente l'onore
di visitarvi, signor Conte, cominciò il medico — Non sono che quindici
giorni all'incirca, e rinvengo sul vostro volto le orme di una
devastazione che mi dà pensiero e pena. Che vi è accaduto in questo
lievissimo tempo?

— Non so, Dottore, rispose Edmondo, ma io sto male, malissimo; sono
più di dieci giorni che il sonno sembra fuggire dagli occhi miei, o,
se talvolta una cascaggine mi sorprende e un filo di sonno si stende
sulle mie stanche palpebre, è peggio, perciocchè uno sciame d'immondi
fantasimi mi vola sul capo, strarnazzando le ali su tutto il mio corpo.
E non ci è modo di sottrarmi a questa orrenda pressione che mi uccide,
che mi conduce alla tomba, che mi rende cadavere!... cadavere!

Pronunziando queste due ultime parole, il Baronetto fremè: il suo
sembiante s'infoscò talmente che il medico ne fu sorpreso e guardollo
fisamente.

— Datemi il vostro polso, signor Conte.

Dopo di aver esplorato il polso del Conte per qualche momento, il
medico disse, come se avesse parlato fra sè:

— È strano! il polso è convulso!

E tornò a riguardar negli occhi l'infermo, procurando scavargli i
pensieri e lo stato dell'anima.

— Una violenta e tormentosa passione vi agita, signor Conte, gli disse
indi a poco; le profonde occhiaie solcate sul vostro volto, i battiti
irregolari e convulsi del vostro polso, i fantasmi della vostra mente;
tutto mi rivela che voi siete sotto l'impero di un patema di animo.
La vostra infermità non è di quelle che caggion sotto l'esplorazione
dell'arte; fa d'uopo ricercarne altrove l'origine: emmi d'uopo di tutta
la vostra illimitata confidenza. Parlatemi francamente, signor Conte;
pensate ch'io sono per voi qualche cosa di più di un medico, son vostro
amico.

Il Dottor Weiss distese la mano al Baronetto, il quale gliela strinse
macchinalmente, e disse dopo pochi momenti:

— Dottore, io vi estimo amico e de' più leali, e però non avrò onta
di palesarvi quello che soffro, a patto che le mie parole rimangano
sepolte in voi. Un'invincibile ripugnanza mi ha finora tenuto
dall'aprirvi l'animo mio. Mi promettete di non rivelare ad alcuno
quanto sarò per dirvi? Io mi confido all'amico, e aspetto dal medico la
mia salvezza.

— Parlate liberamente, signor Conte, vi giuro che serberò il segreto.

— Ebbene, Dottore, sappiate che da oltre a un anno uno strano fantasma
avvelena la mia vita. La notte sopratutto, la notte io gemo sotto la
pressione di questo incubo morale che mi strugge, che mi succhia il
sangue nelle vene, che mi spinge a grandi passi alla tomba.

— Qual'è mai cotesto fantasma? chiese con premura il medico.

— Il mio cadavere! rispose cupamente il Conte e abbandonando il capo
sul petto, compreso dal più mortale scoraggiamento.

— Il vostro cadavere! sclamò il Dottore in atto di chi non ben
comprenda, quello che gli si dica; non vi capisco, signor Conte; mi fa
mestieri intendere più chiaramente l'indole di un tale fantasma.

— Ah! Dottore, non vedete ch'io soffro a parlarne? Come farò per farmi
comprendere? Non vi ho detto abbastanza allora che vi ho nominato il
mio crudel nemico, il vampiro che mi consuma la carne, che scopre le
mie ossa, che rode i miei visceri, e che mi annienta... mi distrugge?
Il mio cadavere! Egli è... là, sempre rimpetto a me, con quegli occhi
socchiusi e velati dalle tenebre della morte, colla bocca spalancata,
livido... immobile come un pezzo di cera; il mio cadavere abbandonato
sul letto dell'estrema agonia!... Vedete quelle persone che passano
da costa ad esso; sembran paurose di svegliarne il sonno!... Chiunque
se gli avvicina rattiene il fiato per tema di fiutare le putride
esalazioni di quel corpo, sul quale incomincia la seconda opera
della natura, il lavoro di decomposizione. Gli elementi dell'aria
atmosferica, quegli elementi che per tanti anni han lavorato a
conservar la vita, ora si affrettano a ripigliarsi il frutto dell'opera
loro, appropriandosi le molecole che si staccano da quelle ruine di
organizzazione. Ogni minuto secondo, strappa o disfà una fibra di
quel corpo il quale perde... sempre senza mai più acquistare. Tutta
la natura si gitta, come uccello di rapina, su quel suo figlio, alla
cui conservazione ella avea fatto concorrere tutte le sue forze; ed
ora si affretta a disfare quel dilicato tessuto... Nelle tenebre si
compirà questo lavoro di decomposizione, siccome nelle tenebre si era
compito il lavoro di formazione: le visceri di una madre crearono, le
visceri della terra consumeranno: nove mesi ci vollero per formarlo,
e forse NOVE MESI ci vogliono per disformarlo interamente: quel primo
tempo fu contato co' palpiti di un amore ineffabile, l'amor materno;
il secondo tempo chi mai l'ha calcolato? Oh... il mio Cadavere!... le
visceri del mio amore, abbandonato da tutti e da tutto! abbandonato
alla terra, sua crudel nemica, alla creta che lo abbranca per farne
creta, a' vermini che ne fanno la loro abitazione! E chi sa dirmi
quello che soffrirà il mio povero cadavere? Chi conosce i misteri della
tomba? Non può forse avvenire che l'antica magione del pensiero risenta
l'orrore del sepolcro? Chi mi assicura che il cadavere non soffra nel
vedersi strappato da' beni della vita, da quanto egli ha amato in sulla
terra? Oh! il sonno della morte sarebbe men duro se i nostri corpi non
rimanessero esposti agli orribili ospiti delle visceri della terra! Se
potessimo in morendo avere la dolce consolazione di sapere che coloro
i quali ci hanno amati non abbandoneranno le nostre spoglie! Il mio
Cadavere!... il mio povero Cadavere abbandonato da tutti!... da tutti!

Edmondo ruppe in lagrime, come un bambino.

Il Dottor Weiss aveva attentamente seguito le parole del Baronetto,
la cui eloquenza era eccitata dal favorito soggetto della sua
orribile fissazione. Non ci era più dubbio! Il medico avea tutto
compreso, tranne una cosa, che dovea pur formare il perno delle sue
argomentazioni. In che stato si trovava la coscienza del Conte? Gli
è vero che la fissazione di lui e i fantasmi, che il maceravano non
erano dell'indole di quelli che soglion morder l'anima dei rei; ciò non
per tanto una tale angosciosa fiacchezza di spirito in un uomo forte,
vigoroso, che avea veduto il mondo, che aveva arrischiata tante volte
la vita, che era stanco e sazio di tutti i piaceri: una tale fiacchezza
di spirito era inconcepibile senza una prepotente cagione morale, la
cui mala radice era forse nella coscienza di lui. Ad ogni modo, lo
stato di Edmondo era tanto deplorabile in quanto che l'infermità non
era del genere di quelle che vanno sottoposte alla disamina e curagione
dell'arte medica; ei bisognava operare sul morale e trovar rimedi
nella filosofia e nella religione. Edmondo era ricaduto nel suo cupo
abbattimento, dal quale il Dottor Weiss si affrettò di trarlo.

— Tutto ho compreso, signor Conte, dissegli il medico: trista è la
situazione dell'anima vostra, ma non è da disperare. Prima di tutto,
permettete che vi faccia un'interrogazione. Vi ricordo che in questo
momento io sono amico vostro, e che entrambi dobbiamo cercare una
via che ci guidi alla desiderata guarigione. In che stato si trova la
vostra coscienza?

— Che intendete dire, Dottore? dimandò esterrefatto il Conte, credendo
che il medico volesse disporlo per l'ultimo viaggio.

— Intendo dire, soggiunse questi, che la riparazione di qualche male
involontario da voi cagionato potrebbe essere il più efficace rimedio
contro i fantasmi che vi assediano. Una buona coscienza è il miglior
guanciale su cui si trovi leggero il sonno e ristorante.

Edmondo abbassò il capo e nulla disse. Questa volta egli avea compreso
il vero sentimento delle parole del Dottore.

— Signor Conte, ripigliò questi che dal silenzio dell'infermo avea
già sospettato non esser monda di colpe la coscienza di lui — non è
mio intento il voler entrare ne' segreti della vostra vita. Iddio solo
scruta i cuori e giudica gli uomini: ma è mio debito di rischiarare la
vostra mente sulle probabili origini del funesto e straordinario malore
di cui siete vittima. Se la radice del male stesse nel vostro organismo
e nelle funzioni che ne dipendono, io sarei obbligato di cercare con
accuratezza la cagione di un tale disordine per apportarvi salutari
medicamenti; ma la serpe non istà nel vostro organismo, signor Conte,
bensì là... nel fondo della vostra anima, dove non è dato all'occhio
umano di addentrarsi. A me basta l'aver su questo richiamata la vostra
attenzione. Mi permetterò di farvi eziandio osservare che la via del
pentimento è la più bella che vi si offra e la più atta a ridonarvi
la pace smarrita e a bandire le tristi e lugubri immagini, sotto il
cui impero voi soccombete. Siete ancora giovine, ricco e di valida
salute; avete ancora innanzi a voi una lunga serie di anni. Se una
colpa ha bruttata la vostra coscienza, se una follia giovanile vi
pesa in sul cuore, volgete al cielo il vostro sguardo, implorate la
Divina clemenza, riparate, se è possibile, al male che avete fatto;
se l'innocenza è bella, il pentimento è più nobile; l'anima vi si
ritempera, vi si fortifica e vi attinge la calma e la gioia. Che se
niun rimordimento è nel vostro cuore, se una singolare attitudine
ipocondrica del vostro spirito è la cagione del tristo fantasma che
tormenta le vostre notti, non saprei indicarvi altro rimedio più
efficace che la distrazione.

— La distrazione! mormorò tristamente il Baronetto, e dove trovarla? E
l'anima mia non si rifiuta forse ad ogni maniera di svagamento?

— Fa d'uopo sforzarsi alla distrazione, signor Conte; ei bisogna
che non istiate solo in nessun'ora del giorno, e se è possibile,
della notte: bisogna che vi mettiate nell'attività de' piaceri, che
frequentiate le riunioni, i teatri. Oltre a ciò, vi propongo un rimedio
della cui riuscita molto mi riprometto; esso vi costerà un po' d'oro.

— Dell'oro? E che non darei per riacquistar la mia salute e la
tranquillità del mio spirito? Parlate, parlate. Di che si tratta? Che
debbo fare?

— Ebbene, signor Conte, il rimedio ch'io vi propongo è il seguente:
Abbiamo a Manheim un giovine pianista italiano che ha destato in pochi
mesi l'ammirazione e la simpatia di Europa. Egli ha dato accademie a
Parigi, a Londra, a Berlino, a Vienna: ier sera si è fatto udire in
questo teatro di Manheim, ed ha prodotto tale entusiasmo, che pochi
suonatori possono vantare un sì bel successo. Voi gli scriverete,
signor Conte, e lo inviterete a passar con voi un mese o due: i soavi
accordi ch'ei sa trarre dal piano-forte avranno forza di strapparvi
dai vostri bui pensieri: la sua compagnia vi rallegrerà, quasi novello
Davide porrà in fuga la malinconia del nuovo Saulle.

— Che nome ha questo giovine?

— Daniele de' Rimini.

— E credete che la musica sarà capace di ridonarmi la serenità
dell'animo? Credete che le armonie del piano-forte varranno ad
allontanare dalla mia mente l'immagine del mio Cadavare?

— Io lo spero, signor Conte.

— Ebbene io tenterò questo mezzo: dimani il giovine pianista italiano
Daniele de' Rimini avrà stanza in questo casino.

Un servo pose termine alla conversazione, annunziando che il bagno a
pioggia era pronto.

La sera di questo giorno, Daniele de' Rimini riportò un altro trionfo.
Dopo l'accademia, gli abitanti di Manheim, trasportati di entusiasmo
pel suonatore italiano, l'aveano accompagnato infino all'albergo
dov'egli avea stanza. Correndo la stagione de' bagni, Manheim era
zeppa di forestieri, e il teatro era de' più animati e brillanti.
Daniele, siccome abbiamo accennato, aveva in pochi mesi percorso
le prime capitali di Europa: la fama il precedeva dappertutto, e un
trionfo lo aspettava in ogni paese in cui si faceva udire a suonare.
La sua giovinezza, l'avvenente malinconia del suo volto parlavano in
suo favore anche prima che ponesse le mani sui tasti del piano-forte.
La qual cosa il giovine non sì tosto incominciava, gli uditori erano
rapiti e incantati dalla magia degli accordi, dalla dolce mestizia de'
motivi delle opere italiane, a' quali Daniele dava una veste di armonie
al tutto corrispondenti e flebili. Il genio o l'ambizione, animava le
dita di quel giovine? L'uno e l'altra. Il genio era mezzo; l'ambizione,
o, per dir meglio, l'avidità dell'oro la molla delle sue ispirazioni.
Daniele era partito il 1 gennaio da Napoli, povero e oscuro. Cinque
mesi appena erano scorsi ed egli avea già acquistato celebrità; ma il
suo peculio non arrivava per ora che ad una somma tenuissima, Daniele
era scoraggiato, ma non disperava; gli restava ancora a percorrere
altra metà dell'Europa e tutta l'America settentrionale: i viaggi
assorbivano gran parte dei suoi guadagni.

Il domani della seconda accademia data a Manheim un domestico in gran
livrea consegnava a Daniele il seguente biglietto:

«Il Baronetto Edmondo-Isacco Brighton, Conte di Sierra Blonda, prega il
sig. Daniele de' Rimini di favorirlo questa mattina nella sua proprietà
di _Schoene Aussicht_».

Dopo un'ora, Daniele de' Rimini si trovava alla presenza di Edmondo.



V.

LA RICCHEZZA


Dicemmo che il casino del Baronetto era composto di due piani. Nel
secondo egli dormiva, essendo esso la consueta sua abitazione; in
questo era una stanza decorata con tutto ciò che può allietare i
sensi, e fornita di quanto è necessario per le comodità della vita.
Era questa la stanza, in cui il Baronetto passava la maggior parte dei
suoi giorni, e dove la sera riunivansi gli amici per prendere il tè e
per abbandonarsi agli allettamenti della conversazione. Questa stanza
riguardava i più ameni paesetti e villaggi alemanni che attorniano
le rive del Reno: due ampie finestre si aprivano a mezzogiorno e ad
oriente. Questa stanza, dal colore de' suoi paramenti, era chiamata la
_Camera verde_.

Il secondo piano rispondeva al primo per via di una magnifica scala
interna di marmo greco a tre branche, su ciascun pianerottolo delle
quali era una statua de' più rinomati artisti, e vasi di fiori odorosi
e di piante fiorite di cedri o di oleandri: ringhiere e bracciuoli del
più fulgido cristallo inglese e del più capriccioso disegno ornavano le
branche di questa scalinata, a piè della quale un'illusione di giardino
guidava al quartiere del lusso, ch'era appunto il primo piano.

Non ci allungheremo a dipingere alla immaginazione de' nostri lettori
la splendidezza di questa magione da fate. Conciossiacchè piccole le
camere, ciascuna era un gioiello di civetteria, di eleganza, di gusto;
ciascuna riuniva in sè sola il _comfortable_ d'una casa inglese.
Visitando quella scacchiera di stanze, tutte eguali, rettangolari,
forbitissime, ma silenziose e deserte, ti si apprendeva all'animo
un senso di mestizia, pensando che in quelle fulgide e ricche pareti
non suonava il rumore sì grato agli orecchi di Dio, il rumore della
famiglia. Quella solitudine e quel silenzio ti piombavan pesanti sul
cuore come se avessi visitato l'interno di un principesco mausoleo.

Rarissime volte il Baronetto scendeva al primo piano. Nei primi anni
della sua dimora a _Schoene Aussicht_, e quando il filosofo non avea
del tutto dimenticato il Cavaliere del Firmamento, quel primo piano
era designato ad accogliere qualche pellegrina visita, o qualcuno dei
vecchi amici di follie di Sierra Blonda, comecchè questo caso fosse più
raro, a cagione della cautela che Edmondo metteva a tener celato il suo
ritiro. Ma da un pezzo il primo appartamento di _Schoene Aussicht_ non
riceveva più ospiti di genere equivoco, ed ora si contava parecchi anni
dacchè lo stesso padrone non vi poneva il piede. Nondimeno il quartiere
era mantenuto con la massima nettezza, come se ogni giorno avesse
dovuto accogliere un cospicuo personaggio.

Questo primo piano era quello appunto che il Baronetto ordinava a
residenza del giovine pianista italiano, ed in esso propriamente volle
riceverlo per la prima volta.

Era in questo appartamento un salottino messo con un lusso così
sfacciato e con sì incredibile magnificenza che nell'entrarvi l'occhio
vi rimaneva abbagliato. L'adornamento di questo salotto era costato
al Baronetto un denaro che avrebbe potuto formare la fortuna di
cento famiglie. Diremo soltanto che molti mobili ivi contenuti erano
di oro massiccio, e che vi erano due seggiole d'avorio, a forma
di baldacchini, lavorate sul gusto cinese, e ricoperte da cuscini
orientali. Edmondo avea voluto profondere enormi somme nell'addobbo di
questo primo piano, ed in particolar modo di quel salotto per quella
eccentricità che formava sempre il fondo del suo carattere, e per
vaghezza di contemplare raccolte in piccolo spazio le meraviglie del
lusso e delle arti. La ricchezza pompeggiavasi in tutto il suo orgoglio
in quel ricinto dove l'oggetto più misero, più fragile, più perituro,
più dappoco che vi si vedesse era per lo appunto il padrone di tante
dovizie. E bene faceva Edmondo ad entrare di rado e quasi non mai in
quel salotto, che tacitamente lo scherniva e gli additava i sei palmi
di fetido terreno, che gli erano destinati per ultimo asilo.

In questo salotto Edmondo ricevè Daniele.

Perchè si era così affrettato il giovine pianista ad accorrere
all'invito del Baronetto? Perchè già gli era giunto all'orecchio il
suono delle grandi ricchezze del solitario di _Schoene Aussicht_, e
Daniele non credè a' propri occhi nel leggere il biglietto del nobile.
Il suo cuore gli diceva ch'era quella un'occasione propizia; che forse
il Conte di Sierra Blonda avrebbe potuto esser per lui una sorgente di
fortuna; che forse quell'uomo il quale vivea lontano dai rumori della
città e de' divertimenti sarebbe per lo meno un filosofo amico delle
arti e incoraggiatore splendido dei giovani artisti. Checchè avesse
tra sè pensato il nostro Daniele, il fatto è che volò come un fulmine
all'invito che gli sopraggiunse caro per quanto inaspettato.

Rinunziamo a dipingere la maraviglia di Daniele veggendosi introdotto
in quella casa e proprio in quel tempietto d'oro, di cui abbiam
parlato: il colse un capogiro una vertigine: era quel salotto il
riverbero dell'anima sua, lo specchio de' suoi ardenti desideri:
quell'oro riflettevasi a sprazzi di fuoco nel suo cervello, e
rimescolava le sue idee e confondeva la sua ragione nè più nè meno
che se fosse stato un barilotto di poderosissimo vino. Tanta fu la
luce che balenò da quel salotto che Daniele non vide il Baronetto, il
quale, vestito a nero, era seduto sovra un piccolo canapè a forma di
conchiglia. Edmondo era così pallido, così emaciato, che il suo volto
parea dileguarsi in sulla nera barba che gli scendeva insino al petto.
La voce del Baronetto trasse Daniele dall'estasi in cui era immerso, e
chiamò i suoi sguardi attoniti sul nume di quel tempietto.

— Sedete, bel giovane. Non siete voi l'egregio pianista signor Daniele
de' Rimini?

Edmondo avea parlato in francese; era nell'accento e nella voce di
quest'uomo qualche cosa di cupo e di affannoso che colpì all'istante
il giovine artista, il quale con leggiero imbarazzo rispose chinando i
begli occhi:

— Perdonate, signor Baronetto, al mio imbarazzo e al mio stupore,
cagione della scortesia che ho commessa nel non riverirvi appena son
qui entrato. Le arti umili e dimesse veggonsi confuse alla presenza
di tanto splendore. D'altra parte, vi confesso che io mi aspettava di
entrare nell'ostello della filosofia, perocchè il grido delle vostre
estese cognizioni..

— E non vi siete ingannato, interruppe il Baronetto, nel credere che
avreste trovato in me un filosofo, il quale per altro ha la sventura di
esser ricco! Ma, di grazia, accomodatevi signor de' Rimini.

Daniele salutò col capo e con molta osservanza il Baronetto, e si sedè
in faccia a lui sovra altro divanetto a forma di sfinge, ripetendo tra
sè con estremo stupore, e come se avesse cercato di capire il senso di
un paradosso; _il quale per altro ha la sventura di esser ricco!!_

Edmondo avea fitto lo sguardo sul sembiante di Daniele e massime
negli occhi che gli avean fatto una impressione gratissima. Fin dal
primo affacciarglisi del giovine italiano, il Baronetto avea provato
un subitaneo sentimento di simpatia; onde trasse lieto augurio pel
tentativo di curagione che gli era stato consigliato dal Dottor
Weiss. Daniele era davvero un vago e gentil giovanotto. Un leggiero
accrescimento di salute congiunto alla situazione in cui trovavasi
colorava il suo volto di una tinta di rosa. I viaggi avean data alla
sua complessione maggior vigoria e a tutta la sua persona un'aria di
più gran distinzione. Questa volta due leggiadre basette coronavano le
sue labbra, andandosi a congiungere con un semicerchio di barba che gli
circondava il mento; il suo sguardo era animato dalla vivacità della
giovinezza, della salute e del genio.

— La fama della vostra somma abilità nell'arte musicale è giunta infino
al mio solitario ritiro, disse Edmondo guardando sempre con compiacenza
il giovine italiano: la mia salute non mi permette di andare al teatro
ed avere il piacere di sentirvi a suonare; ed io anelava di conoscervi:
ecco la ragione per cui vi ho pregato di onorarmi.

— Che dice mai, signor Baronetto! Ascrivo ad un particolar favore
della mia sorte l'avermi procacciato un tal piacere ed onore, rispose
Daniele, a cui le parole del Conte faceano un effetto gradevolissimo.

— Fuori cerimonie, signor de' Rimini, io sono filosofo e voi siete
artista; la filosofia e le arti si vantano di schiettezza; la ragione
e la verità sono le loro basi, io dunque vi parlerò il linguaggio
dell'affetto più che quello delle convenienze.

— Dell'affetto! signor Conte! esclamò Daniele trasalendo di gioia.

— Sì, dell'affetto. E pria di tutto, vi confesso ch'io trovo nella
vostra fisonomia qualche cosa che m'innamora di voi. Non so perchè,
ma in entrando in questo salotto, le vostre sembianze mi han tocco
profondamente.

— Ebbene, signor Baronetto, dal canto mio vi confesserò parimente che
la vostra voce e la vostra fisonomia han fatto in me un'impressione
così grata, ch'io non dimenticherò in tutta la mia vita la vostra
persona. Ma un tal piacere mi viene amareggiato dalle parole che testè
mi avete dette, signor Conte.

— E quali?

— Che lo stato della vostra salute v'impedisce di uscire.

— È vero; io soffro, bel giovanotto, soffro assai; ma chi sa! forse
dovrò a voi, se non l'intera mia guarigione, qualche ora almeno di
sollievo.

— Deh! piaccia al cielo ch'io possa avere il piacere di contribuire al
ricuperamento della vostra salute!

— Ne ho speranza, e sopratutto da pochi momenti a questa parte. La
vostra sola presenza ha già prodotto in me un effetto salutare. Che età
avete, bel giovine?

— Sto nel ventesimo terzo anno della vita.

— Così giovine, e già pieno di gloria!

— La gloria! ripigliò il pianista, la gloria! L'è gran bella cosa la
gloria, è vero, ma non basta alla felicità dell'uomo in su la terra. Oh
se io fossi ricco!

— Oh! che mai dite! ricco! Ebbene; guardate, mirate il mio volto; son
io felice? Eppure io sono due volte milionario.

— Due volte milionario! esclamò Daniele con occhi di fuoco, e il suo
petto si gonfiò, e dalla sua bocca, dalle sue narici il fiato usciva
con impeto. La trista corda dell'anima sua era tocca.

— Sì, due volte milionario, ripetè il Baronetto, e ciò non ostante io
sono la più misera creatura che sia nel mondo.

— Voi, signore!

— Io, io propriamente, io darei la metà di quanto posseggo, purchè
dormissi una sola notte il sonno che si dorme alla vostra età e colla
vostra salute.

— Oh mio Dio! tanto dunque voi soffrite, signor Conte!

— Tanto io soffro! ripetè come un'eco sepolcrale il Baronetto.

Ebbero luogo tra quei due personaggi pochi momenti di silenzio. Edmondo
riprese.

— Vi farò una proposta, signor de' Rimini, e voglio sperare che
l'accettiate.

— L'accetto, signor Conte, rispose Daniele con fermezza.

— Anche prima di sapere di che si tratta.

— Qualunque cosa mi proponiate, io l'accetto, tornò a dire il giovine
con risolutezza.

— Ed io vi ringrazio con tutta l'anima, signor de' Rimini, e spero non
essere ingrato alla premura che mi dimostrate. Io dunque vi propongo
di passare un mese in questa città di Manheim, e, se non vi dispiace,
in questo casino. Vedete quanto ardisco sperare da voi! Rinunziare ad
un mese di trionfi, e adattarvi a viver con un povero infermo qual sono
io!

— Un mese! esclamò quasi tra sè Daniele.

— Un mese, due o tre, il tempo che vi piacerà. E giacchè intendo
godermi io solo le vostre accademie, è giusto ch'io le paghi. Vi offro
dunque trentamila franchi al mese.

— Trentamila franchi al mese! ripetè con occhi di pazzo il pianista, il
suo cuore fece un balzo terribile. E ditemi, signor Conte, trentamila
franchi al mese che somma fanno a capo di un anno?

— Trecento sessantamila franchi, rispose Edmondo, vale a dire circa
63,000 piastre di Spagna.

— Non basta!!! esclamò scoraggiato Daniele, e quasi avesse risposto ad
una interrogazione che avea fatto a sè medesimo.

Edmondo fu estremamente sorpreso da quella parola, ch'egli credette
diretta a sè.

— Così giovane e così assetato di ricchezze! esclamò tra sè il
Baronetto; è inconcepibile!

Daniele capi l'errore che avea commesso, arrossì tutto, e si affrettò a
dire.

— Perdonate, signor Conte, non a voi era diretta quella parola che
testè mi è sfuggita dalle labbra. La somma che voi mi proponete è una
fortuna immensa per un povero artista qual io sono, ma io non posso
rimanere sì a lungo in Germania. Mi permettete adunque ch'io accetti
solamente per un mese, e mi darete quella somma che vorrete.

— Sia dunque per un mese, disse Edmondo: a contare da questo giorno,
n'è vero?

— Da domani, signor Conte.

— Ebbene, domani vi aspetto: questo appartamento vi sarà assegnato; le
mie carrozze e i miei servi sono a vostra disposizione fin da questo
momento.

Daniele era per accommiatarsi dal Baronetto, quando nel salotto entrò
il dottor Weiss. Edmondo prese per la mano il giovane italiano, e,
presentandolo al medico, disse:

— Dottore, ecco il signor de' Rimini, il RIMEDIO che mi avete proposto.
Egli è mio ospite per un mese.

— Davvero! Voi, signor de' Rimini...

Il medico s'interruppe, indi ripigliò:

— Ma, è strano! è curioso! è incredibile! Signor Conte, questo
giovinotto vi rassomiglia a capello: quegli occhi sono i vostri, quella
fronte è la vostra, quel naso è il vostro... Ah! ah! ci sarebbe da
scommettere che il signor de' Rimini vi è figlio!

Questo scherzo fu una scossa elettrica per quei due personaggi, che si
guardarono, arrossirono e impallidirono, come se quella parola gittata
così per celia fosse stata una inattesa rivelazione.



VI.

L'ARTISTA


Il giorno appresso, Daniele era stabilito al primo piano del casino di
_Schoene Aussicht_. Il Baronetto avea posto agli ordini del giovine
pianista le migliori delle sue carozze e due scelti domestici, uno
tedesco e l'altro francese. Il più splendido e principesco servizio
era ai comandi di Daniele, il quale era trattato come un ospite regale.
La colezione gli era recata nel suo appartamento, il pranzo era comune
col Baronetto, così avendo disposto lo stesso Daniele. Edmondo gli avea
lasciata intera libertà, sicchè il giovine era padrone assoluto di sè
medesimo in tutto il corso del giorno. Ma al cadere delle tenebre, e in
sull'ora del pranzo, il Baronetto il facea pregare di salire al secondo
piano.

Dopo il pranzo, Edmondo facea servire il tè nella camera verde, ove
si riduceva assieme a Daniele, e dove, coricato sulla magnifica sedia
a foggia di letto, si abbandonava al piacere di sentire a suonare il
giovine pianista. Un preziosissimo pianoforte era stato trasportato
nella camera verde. Pochi momenti dopo di aver preso il tè Daniele si
sedeva innanzi allo strumento ch'ei toccava con tanta perfezione, e
traeva da que' tasti sublimi e patetici accordi.

Alcune volte Daniele suonava pezzi di grandi maestri da lui variati
co' colori della più ricca fantasia. Era un torrente di melodie or
piane e soavi come le cantilene religiose di vergini romite, or gravi
e solenni come le preci dei morti salmeggiate in una chiesa lontana,
or vivaci e liete come l'inno della speranza: era un concerto di
accordi non mai uditi, or vibrati e veementi come i palpiti delle
giovanili passioni, or dimessi e pacati come il mormorio del vento
sulle acque d'un ruscello. Alcune altre volte Daniele sposava il canto
all'armonia strumentale: e allora quella sua voce era una potenza di
affetti inesprimibili, la sua anima parea soggiogata dalle commozioni.
Quel canto limpidissimo, soave, tutto cuore, tutto passioni, eco
dell'anima, quel canto italiano ispirato da un cielo innamorato, quel
canto, delizia della vita, storia sublime delle segrete sofferenze del
genio peregrino in sulla terra, il canto di Rubini, di Lablache, di
Basadonna, si ritrovava in terra straniera sulle labbra di Daniele, e
andava a toccare i più nascosti penetrali nel cuore di Edmondo, che
pallido affannoso, tremante ascoltava le note dolcissime che, come
effluvii divini, partivano dal cuore più che dalle laringi del giovine
artista.

Edmondo sembrava men tristo del consueto: dormiva talvolta sonni
placidi. Ma il lugubre fantasma non cessava di assalirlo di quando
in quando, e alcune volte ne' momenti stessi in cui suonava Daniele.
L'incanto della musica spariva di botto, e le note basse del
piano-forte prendevano agli orecchi di lui il solenne e terribil
carattere de' rintocchi della squilla di morte.

Una sera, Daniele cantò la romanza del _colpevole amore_, ch'egli avea
cantata sei mesi fa, nella sala di Lady Boston a Napoli. Sì grande fu
la commozione onde l'artista fu preso al ricordo della donna ch'egli
amava, che non potè terminar la romanza; le lagrime gli bagnavano il
volto. Inconcepibile contraddizione del cuore umano! Quel giovine, nei
momenti in cui non era ispirato dal genio musicale, avea l'anima dura
e malvagia: la sua condotta verso Lucia n'è una pruova. Ma nei momenti
in cui era favorito dalla ispirazione, Daniele era tutt'altro uomo. Chi
avesse giudicato di quel cuore negl'istanti in cui egli era artista,
sarebbesi formato di lui l'opinione d'uomo sensitivo e virtuoso.
Edmondo fu profondamente commosso dall'accento con cui il giovine
avea cantato il suo _colpevole amore_; di talchè veggendo che quegli
non poteva più proseguire per l'effetto delle proprie commozioni, gli
domandò:

— Voi amate, Daniele?

— Amo, signor Conte, amo la più vaga creatura che sia sulla terra, ella
ispira i miei componimenti, dà l'impulso alle mie dita. La speranza di
possederla m'incoraggia alle più ardue fatiche.

— In che paese si trova al presente cotesta fanciulla?

— In Napoli.

— Quantunque voi diciate che non paleserete il nome di lei ancora
che vi si desse un regno, disse sorridendo il Conte, pure userò
l'indiscrezione di dimandarvi a qual famiglia appartiene la donna che
amate.

— È la figlia di un nobile e superbo spagnuolo, che si è
volontariamente esiliato dalla sua patria poscia che le vicende
politiche lo ebbero spogliato del potere.

— Il nome di costui? chiese il Baronetto con ansietà.

— Il Duca di Gonzalvo.

— Ah! egli! esclamò Edmondo: e voi siete il fidanzato di sua figlia?

— Volesse il cielo che il fossi!... Ma voi conoscete il Duca di
Gonzalvo?

— Sì, rispose con tristezza il Baronetto, l'ho conosciuto in Ispagna:
uomo protervo, ambizioso, avaro!

— È vero pur troppo quanto dite, signor Conte. Ambizioso, avaro e
superbo! Oh! perchè sua figlia è un idolo di bellezza! Perchè ho avuto
debolezza di amarla!

— Rifiuta egli forse di rendervi felice?

— Ebbene sì signor Conte, rispose ii giovine con abbattimento, ei
ricusa. Il giorno in cui gli chiesi la mano di sua figlia, il superbo
mi umiliò con ogni maniera d'ingiurie.

— E quale speranza nutrite ancora di possederla?

— Nulla posso nascondere a voi, signor Conte: la benevolenza di cui mi
onorate e il vostro rispettabile carattere m'ispirano un'illimitata
fiducia. Vi dirò adunque che io strappai al Duca di Gonzalvo la
promessa d'attendere due anni prima d'impegnare la sorte di Emma sua
figlia.

— E condiscese il Duca ad aspettar questo tempo?

— Condiscese, però che io gli promisi di ritornare..... dopo due
anni..... di tornare....

Daniele avea vergogna di confessare il folle ardimento della sua
proposizione.

— Ebbene, di ritornar che cosa? dimandò il Baronetto.

— Di ritornar..... milionario, rispose il giovine arrossendo e
abbassando il capo.

Edmondo sorrise.

— Milionario! esclamò questi, e su che speravate accumulare in due anni
una tal favolosa fortuna?

— Nol so io medesimo, signor Conte, speravo negli eventi, nella mia
stella, e soprattutto nella febbrile operosità che mi avrebbe data la
mia passione per Emma.

— E quanto avete guadagnato finora nel giro dello vostre accademie?

— Pochissimo, signor Conte, quasi niente; le spese dei viaggi assorbono
tutto. Mi avveggo pur troppo che la mia proposizione fu dettata da
impeto giovanile, dallo sdegno in cui mi posero le umilianti parole di
quel superbo... Ma non mi fo più illusione, signor Conte; i due anni
passeranno, ed io non avrò potuto metter su che un meschino capitale
appena bastante per vivere indipendentemente dal capriccio della sorte.
Oh... ci vuol ben altro che note musicali per diventar milionario, non
è vero signor Conte?

— Verissimo, mio caro Daniele. La vostra proposizione fu troppo ardita
ed inconsiderata: ciò nulla di meno....

Edmondo si fermò di repente; i suoi occhi erano animati, brillanti,
il suo volto avea preso un carattere di vivacità straordinaria. Un
pensiero al certo gli era volato per la mente al quale ei si era
fermato con compiacenza e con delizia. Daniele avea notato il subitaneo
cangiamento della fisonomia del Conte. La reticenza che avea seguita
alla frase _ciò nulla di meno_ avea fatto balzar di speranza il cuore
del giovane pianista.

— Ebbene, signor Conte, voi dicevate... _ciò nulla di meno_.

— Sì, rispose Edmondo io diceva... Non bisogna disperare... chi sa!
Ditemi, Daniele, avete voi coraggio?

— Se ho coraggio! Mettetemi alla pruova, signor Conte, e vedrete se ho
coraggio anche di affrontar la morte!

Daniele guardava attentamente il volto e gli occhi del Conte ne' quali
si dipingeva quasi una specie di abberrazione mentale.

— A che questa interrogazione, signor Conte?

— Domani vel dirò... Domani parleremo a lungo... Io forse vi sarò
debitore d'una ETERNA obbligazione, e voi forse dovrete a me... la
vostra fortuna...

Edmondo si alzò: il suo volto raggiava di insolita gioia.

— Buona sera, Daniele, buona sera, gli disse stringendogli la mano,
buona sera, figlio mio, a domani... a domani... Chi sa! domani forse la
vostra sorte è cangiata!

Il Baronetto si ritirò. Daniele rimase trasognato. Eppure, quella
parola che il Conte avea profferita, quel _figlio mio_ avea scossa
l'anima del giovine!



VII.

LE CONDIZIONI


Si figurino i nostri lettori con qual e quanta impazienza Daniele
aspettò il giorno vegnente. Le parole erano state chiare e precise:
_Domani forse la vostra sorte è cangiata_, avea detto.... _Io forse
vi sarò debitore d'una eterna obbligazione, e voi forse dovrete a me
la vostra fortuna_. Daniele avea mandato il cervello a sparviero in
tutto il corso della notte per trovare il bandolo della matassa; ma
neppure una congettura, una supposizione avea egli potuto formarsi su
tal proposito. Che specie di servigi poteva egli prestare al Conte? Che
d'uopo avea questo milionario dell'opera sua? Nessun giorno della sua
vita era stato atteso con tanta bramosia quanto quel domani, il quale
dovea risolvere un problema di tanta importanza.

E il domani, in sull'alba, Daniele si gittò dal letto, e aspettò con
ansia febbrile la chiamata del Baronetto. Quanto gli sembrarono eterni
quei momenti! Non fu che verso le undici che il Baronetto fece pregare
Daniele di salir da lui.

Edmondo fece entrare il giovine nella camera verde, di cui fece
chiudere gli usci, ordinando ai servi che per qualsivoglia cagione non
avessero ardito di venire a sturbare il colloquio ch'egli dovea tenere
col suo ospite.

Daniele trovò Edmondo seduto presso un tavolino, sul quale era un
volume con molto lusso ligato e il ricapito da scrivere. Egli fe' cenno
a Daniele di sedersi. Alcuni momenti passarono senza che nessuno de'
due avesse rotto il silenzio. Edmondo incominciò:

— Questo colloquio che ci accingiamo a tenere signor de' Rimini, è
d'una estrema importanza per entrambi. Esso può decidere della mia
vita, siccome della vostra immensa fortuna. È un contratto ch'io vi
proporrò.

— Io vi ascolto, signor Conte, e non so dirvi con quanta impazienza ho
aspettato questo momento. Parlate, signor Conte, ed abbiate in me la
confidenza che potreste avere in un vostro figliuolo.

Daniele abbassò gli occhi e arrossì. Edmondo conficcò l'ardente e cupo
suo sguardo in sul volto del giovine, e seguitò:

— Pria di tutto, ei fa d'uopo rivelarvi, signor Daniele, ch'egli è più
di un anno ch'io soffro. La strana e tremenda natura del mio male non
ammette rimedii fisici: io dispero della guarigione, tranne che voi
non acconsentiate a quanto io vi proporrò. Vi confesso che coll'enorme
guiderdone ch'io darò all'opera vostra potrei trovare mille altri che
si presterebbero al mio volere: ma nessuno al certo potrebbe ispirarmi
l'amore e la fiducia che voi m'ispirate. Già ve l'ho detto; fin dal
primo istante in cui vi ho veduto, hommi sentito una inesplicabile
simpatia per voi, la quale è venuta ad esser rafforzata dalla strana
rassomiglianza ch'è nelle nostre fattezze del volto.

— Ed io sono oltre ogni credere felice, disse Daniele, di portare sul
mio volto una guarentigia del vostro affetto.

— Di cui or ora vi darò una pruova grandissima. Ma badate, Daniele
badate ch'io chieggo da voi un sacrifizio enorme, inaudito. Nessun
figlio, per quanto amore avesse al padre, si è mai sottoposto alla dura
pruova alla quale io vi chiamo, dandovi in compenso tutto quanto io
posseggo.

Daniele si sentì dare un tuffo di sangue al cervello; le orecchie gli
zufolarono; la vista gli si annebbiò.

— Tutto quanto voi possedete, signor Conte! ripetè il misero
schiacciato dal peso della propria felicità.

— Sì, Daniele ecco... ecco il mio testamento, disse Edmondo
mostrandogli sul tavolino un foglio di carta; ecco il mio testamento
scritto di proprio pugno questa notte, alla presenza del MIO CAD...

Edmondo s'interruppe. Daniele era così sbalordito, così stupefatto da
quel che sentiva, che non fece la minima attenzione a questa reticenza
del Baronetto. Quel foglio di carta che Edmondo gli aveva additato come
testamento sconcertava la sua ragione, imbrogliava le sue idee.

— Il vostro testamento! signor Conte... il vostro testamento!

— Sì, ed uno solo è l'erede di tutte le mie ricchezze, Daniele de'
Rimini.

Questo colpo era troppo forte pel giovane: gli occhi se gli abbuiarono,
la ragione gli vacillò.

— Oh... che mai dite! Signor Conte! vostro erede!... erede universale!!
Due volte milionario come voi! E chi sono io dunque! E che cosa ho
fatto per meritarmi tanto amor vostro?

— Nulla ancora avete fatto, ma molto dovrete fare?

— Dite, signor Conte, per carità, parlate; che cosa debbo fare per
dimostrarvi la mia gratitudine? Come sdebitarmi con voi di tanta pruova
di affetto? Parlate, la mia vita è vostra.

— Ascoltate, signor de' Rimini, ascoltatemi attentamente. Vi dirò
poscia le condizioni ch'io pongo all'eredità che vi lascio.

«Sappiate dunque che da qualche tempo io sono travagliato giorno
e notte da un pensiero che mi dà morte. Tutt'i mezzi ho tentato
per fugare questo fantasma che mi strugge, ma tutto indarno. Voi
maraviglierete della stranezza del mio male, ma per quanto si voglia
strano, esso non è men vero terribile... Ebbene, io non so perchè,
m'immagino che morrò di morte apparente, e che sarò tratto alla tomba
ancor vivo!

Daniele fece un movimento di sorpresa, cui Edmondo non badò punto e
prosegui:

— Capite voi, signore, tutto il terribile di simigliante pensiero?

Esser sepolto vivo! Destarsi nelle tenebre, chiuso in ferrea bara! Aver
la certezza che nessuno potrà aiutarti, che nessuno potrà udire la tua
voce. Mancarti l'aria! sentirti scoppiare i polmoni! E quel coverchio
di piombo che non cede a sovraumani sforzi che fai per dischiuderlo!
Inesorabile come l'eternità! Esser morto ed avere il sentimento e
le angosce della vita! Esser vivo cogli orrori della morte! Sentirsi
morire lentamente e tra gli strazii di una volontà impossente! Sentirsi
estinguere e pensare che forse su quei pochi palmi di terreno che ti
covrono si trova qualche essere umano il quale potrebbe aiutarti se
arrivasse a udire la tua voce!....

Viver sepolto, mentre si piange forse in sulla tua tomba! Oh! questo
pensiero è troppo atroce, n'è vero signore? Non è cosa orribile il
pensarci soltanto?

— Non ci è dubbio, rispose Daniele, sempre più attonito dalle parole
del Conte; ma fa d'uopo considerare, signor Baronetto, che simili casi
non sono che rarissimi...

— Rarissimi!... rarissimi, voi dite! Oh! è vero, rarissimi sono i casi
conosciuti, ma quanti milioni di questi casi non han potuto accadere,
rimasti miseramente ignoti e sepolti negli orribili segreti della
tomba! Rarissimi! voi dite! E siete forse andato voi a verificare i
misteri del sepolcro? Quando si son gittati sei palmi di terreno sovra
una bara, chi ha mai pensato di andare ad esplorare se l'uomo rinchiuso
in quella bara sia ridesto all'apparente sonno di morte? Oh quante
volte forse, quante volte una tenera sposa, un figlio inconsolabile
si strugge in lagrime, mentre il misero consorte, il padre amatissimo
muore nella più orrenda disperazione che mente umana possa concepire,
quella di esser sepolto vivo! Rarissimi voi dite questi casi! ed avete
voi, mai nel silenzio della notte, messo l'orecchio sulla terra dei
morti? Oh quante volte il gemito dell'aura notturna tra i cipressi
d'una tomba è l'eco di un gemito che si perde nelle visceri della
terra! Oh quante volte le preci che risuonano sopra un feretro di
fresco aperto, invece d'implorare dal cielo la requie eterna ad un
morto, accompagnano l'agonia straziante d'un moribondo! Voi credete
che tali casi siano rarissimi? Or bene io dico che su cento persone
che vengono sepolte, un trenta almeno vengono menate ancora vive alla
tomba. Leggete, leggete, signore, quest'opera tedesca sulla _Morte
apparente_, e vedete in quante maniere si può esser tratti in inganno
dai segni apparenti della morte. Migliaia di esempi troverete in
quest'opera di persone che furon credute morte e che in fatti non lo
erano! La morte apparente è sì comune, massime, ne' vecchi! Ebbene, io
ho provveduto a questo: ho provveduto benanche all'avvenire del mio
cadavere, a quest'ente che gli uomini abbandonano come cosa che più
loro non appartenga. Si pensa a figli, si pensa alla moglie, a parenti,
agli amici, a' servi ed al proprio cadavere non si pensa. Incredibile
cecità! Ma io vi ho pensato, e consacro tutte le mie ricchezze alla
felicità del mio cadavere. Ascoltate, ascoltate a quali condizioni io
vi nomino mio erede universale.

Edmondo prese dal tavolino il suo testamento e lesse con ferma voce ma
cupa e sepolcrale:

«Di tutti i suddetti miei beni mobili ed immobili co' titoli annessi,
in mancanza di eredi legittimi, lascio mio erede universale il giovine
Daniele de' Rimini, di Napoli, esercente la professione di pianista.
Ma il detto Daniele de' Rimini non potrà esser messo in possesso de'
miei beni se non mostrerà legalmente di aver adempito alla seguenti
condizioni:

  1º In qualunque paese si trovi il detto Daniele de' Rimini
  nel tempo della mia morte, dovrà, dietro avviso, trasferirsi
  immediatamente a Manheim, in questa proprietà di _Schoene
  Aussicht_.

  2º È mia precisa volontà che il MIO CADAVERE sia imbalsamato col
  nuovo metodo di iniezione alle carotidi. Questa operazione dovrà
  esser fatta dal mio medico dottor Weiss di Francoforte varii giorni
  dopo che io non avrò dato più segni di vita, e dietro i più esatti
  e scrupolosi esperimenti per accertarsi della VERA mia morte.
  Per tale operazione gli si darà in compenso la somma di diecimila
  fiorini.

  3º È anche mia precisa volontà che il MIO CADAVERE, dopo
  l'imbalsamazione, rimanga nella camera verde del secondo piano
  della mia proprietà di _Schoene Aussicht_.

  4º Il signor Daniele de' Rimini, mio erede ed esecutore
  testamentario, dovrà essere il CUSTODE DEL MIO CADAVERE durante
  NOVE MESI, a contare dal giorno della mia morte.

  5º Il mio cadavere sarà vestito con quella proprietà e decenza che
  si convengono al rango ed alle ricchezze del Baronetto Brighton,
  Conte di Sierra Blonda. Ogni giorno se gli cambierà la biancheria,
  ed ogni settimana i vestiti.

  6º Due volte al giorno il signor Daniele de' Rimini recherà egli
  stesso al mio cadavere, nel cospetto de' servi testimoni, il caffè,
  e in quelle stesse ore in cui soglio prenderlo al presente.

  7º Ogni sera, dopo l'ora del tè, il signor Daniele de' Rimini
  suonerà, alla presenza del mio cadavere, un pezzo a piano-forte e
  canterà un'aria di sua scelta. Il mio cadavere sarà adagiato sulla
  sedia a foggia di letto, ch'è nella camera verde.

  8º La più minuta e scrupolosa cura sarà messa dal signor Daniele
  de' Rimini a tener mondo il mio corpo da qualsiasi impurità della
  corruzione.

  9º Il signor Daniele de' Rimini, di concerto col dottor Weiss,
  provvederà a' mezzi di purificar l'aere della camera verde ed
  allontanar le cattive esalazioni del mio cadavere.

  10º Mi si useranno tutti que' riguardi e quelle attenzioni che sono
  dovute al mio stato, e che mi si userebbero se io fossi vivo.

  11º Passato il tempo de' nove mesi, il signor Daniele de' Rimini
  farà porre il mio corpo in una cassa di bronzo dorato di cui egli
  solo conserverà la chiave, e mi farà riposare nella mia villa di
  _Schoene Aussicht_, in un apposito mausoleo che vi farà costruire.
  Egli si obbliga parimente di visitare di tempo in tempo le mie
  spoglie mortali, le quali io raccomando alla sua sollecitudine ed
  alle sue cure.

  12º Mancandosi dal signor Daniele de' Rimini ad una sola delle
  condizioni da me poste, la cui esecuzione dovrà esser legalmente
  verificata e consegnata in apposito atto di cancelleria, s'intende
  il signor Daniele de' Rimini scaduto dal diritto di eredità, ed in
  sua vece, de' miei beni si farà l'uso che indicherò qui appresso.

  13º Nel caso che il signor Daniele de' Rimini, durante il corso
  dei nove mesi, cadesse ammalato e non potesse quindi adempiere
  personalmente agli obblighi giornalieri da me impostigli, potrà
  affidarne l'esecuzione a persona di sua piena fiducia, e sempre
  sotto la sua diretta responsabilità. Il caso della sua malattia
  dovrà per altro essere legalmente verificato con attestati
  di esperti medici, a capo dei quali il mio dottor Weiss di
  Francoforte.

  14º Da ultimo, nel caso in cui il signor Daniele de' Rimini morisse
  prima di me, questo testamento rimane di fatto annullato, e sarà da
  me provveduto diversamente alla divisione dei miei beni.

  15º Se il signor Daniele de' Rimini morisse nel corso dei nove
  mesi, potrà delegare altra persona di sua scelta a continuare
  l'adempimento dei presenti obblighi; ma le disposizioni
  testamentarie del signor de' Rimini non avranno vigore se non
  spirato il termine di nove mesi, e verificata in piena regola
  l'esecuzione della mia volontà.

  Il testamento conteneva altre disposizioni che Edmondo stimò
  inutile di leggere al giovine pianista, trattandosi di cose
  secondarie e di rito legale.

Daniele avea prestato attento l'orecchio alle strane condizioni che
il Baronetto avea posto al possedimento della sua eredità. Durante
la lettura del testamento, molte fiate sospinse gli occhi attoniti
sul sembiante del milionario, perocchè sospettava non essere il
costui cervello nel naturale suo sesto. Ma niente rivelava in Edmondo
alterazione di mente; e le condizioni del suo testamento, avvegnachè
non mai intese, eran dettate con molta regolarità e ponderazione.
Si scorgeva che quel soggetto avea per molto tempo formicolato nel
cervello di lui, ed era in particolar modo originato dalla strana paura
di essere sepolto vivo. D'altra parte, essendo inglese il Baronetto,
non poteva arrecar maraviglia una strambezza di questo genere, essendo
pur troppo noto che nella vita privata gl'inglesi escono sempre dalle
vie comuni ed amano di segnalarsi per fatti singolari e bizzarri.
Dopo alcuni momenti di silenzio, Edmondo che avea fitto uno sguardo
indagatore negli occhi di Daniele, dimandandogli:

— Or bene, signor de' Rimini, sarete voi il mio erede? Accettate voi le
condizioni del mio testamento?

— LE ACCETTO, rispose con fermezza il giovine che si era fatto
pallidissimo.

Edmondo mise un piccol grido di gioia, si alzò e corse ad abbracciar
Daniele.

— Grazie, grazie, figliuol mio: ora la mia guarigione è assicurata,
ora le mie notti non saranno più turbate da orrendi fantasmi: or son
felice, sì, felice; e a te debbo la mia felicità.

Daniele era rimasto qual trasognato.

— Eccovi milionario, prosegui il Conte, eccovi due volte milionario.
Questa casa è vostra, le mie proprietà sono vostre. D'ora in poi io vi
considero qual figlio mio. Andate, andate dal superbo Duca di Gonzalvo
e ditegli che tra dieci, venti o trent'anni voi lo schiaccerete sotto
mucchi d'oro.

— Tra dieci, venti o trent'anni! Ed Emma? mormorava tra sè costernato
il pianista, e guardava distratto il Baronetto sul cui volto brillavano
raggi di gioia.



Parte Quarta



I.

LA CAVALCATA


Allontaniamo per poco il nostro sguardo da _Schoene Aussicht_,
dove, poscia che il contratto di morte fu chiuso, tutto fu profonda
tranquillità per alquanti giorni, e ritorniamo al palazzo S... dove
lasciammo quella perla delle fanciulle, Emma di Gonzalvo.

Esaminiamo un poco i suoi sentimenti e scrutiamo i suoi pensieri color
di rosa che si aggirano in quella bellissima testolina modello e su per
quella fronte più bianca dell'alabastro. Oh com'è difficile di poter
leggere in quel cuore! il sorriso è sempre su quelle labbra tanto più
eloquenti quanto men loquaci; il piacere è sempre in quegli occhi neri
come la morte ch'essi mettono nel cuore. Non direm già il dolore, ma la
tristezza è straniera a quella natura vulcanica, se non è quella dolce
mestizia di cui talvolta si ammanta l'eburnea sua fronte per vaghezza
di sentimenti, per civetteria, per moda. Ella sa che l'astro della
notte è più bello allora che una diafana sfoglia di nugoletta ne vela
la bianca luce.

Eppure, infin dal dì della partenza di Daniele, il velo di malinconia
che si scorgea sulle incantevoli sembianze di Emma non era più edifizio
di civetteria, ma l'era naturale. Amava ella il giovine pianista? È
difficile il rispondere a tal domanda. Andate a formare un raziocinio
su i sentimenti di una fanciulla di quella fatta! Ci si perde la
bussola se non la testa. In quanto a noi, confessiamo che non sappiamo
quel che sente e quel che pensa la bellissima Andalusa, e che non
altro possiam dire che dal giorno in cui Daniele postergava il paese
ov'ella abitava, Emma non parve così allegra, così spensierata. Non
v'immaginate però che quel gioiello di donna si fosse dimagrita pel
pensier di Daniele, o che moltissima malinconia le desse la costui
lontananza. Emma sentiva un vuoto ne' suoi trionfi giornalieri:
un adoratore di meno non facea gran cosa al numero, ma spiaceva
all'amor proprio di lei. Dobbiamo anche aggiungere in confidenza che,
quantunque ella ben si tenesse dal dimostrarlo, sentiva non per tanto
una propensione e una simpatia pel giovine artista, dallo sguardo di
fuoco, dalla fronte ripiena di genio e di malinconia: le frasi monche
ma ardenti, i sospiri ch'esalavano dall'imo del cuore, la pallidezza
mortale onde si covriva il bel volto di lui quando le stava dappresso:
tutto ciò, sebbene leggiera, facea vie più ogni giorno impressione
sull'animo della giovinetta che non era alla fin fine di carta o
di stucco, e dàgli, dàgli anche una statua si risente. Ond'è che la
figliuola del Duca di Gonzalvo nella compiacenza che libava ogni dì
nel sentirsi cotanto amata succhiava a poco a poco quel velenuccio
che si chiama amore. Gli è vero che l'amor di Emma, il sommo amore,
l'amore appassionato non poteva attecchire, dappoichè a capo di tutte
le passioni, siccome in altro luogo mentovammo, era una cieca e pagana
adorazione di se medesima: Emma era amante riamata di sè stessa.

Ciò nulla di meno, la fanciulla avea adesso nel corso del giorno
qualche momento di malumore, di rabbruscamento di ciglia; pigliava a
male certe cose che dinanzi non le sfioravano neppur l'epidermide;
s'incolleriva e riscaldava per nessun motivo ed erasi fatta
insopportabile verso tutti quei suoi schiavi dai guanti bianchi che
avean messo a' suoi piedi i loro cuori e la loro vita. Emma sdegnava
tutti gli omaggi e trovava noioso il coro di lodi che s'innalzava
attorno a lei dovunque ella mostravasi: questa bisbetica stizza le
accresceva qualche volta il malumore e la noia. Ai teatri ella era
distratta, fastidiosa di tutte le opere, e giudice inesorabile de'
poveri artisti; nelle riunioni si piaceva a torturare gli spasimanti
che la circondavano o a gittare nei loro petti la fiamma della gelosia.

Emma non sapea rendere a sè medesima ragione di questa asprezza nel
proprio carattere; ma noi crediamo di non ingannarci attribuendola
all'assenza del maestro di musica: e viene a rinforzarci in questa
credenza il pensare che la bella spagnuola non ignorava il colloquio
che Daniele si ebbe col padre di lei qualche giorno pria di partire.
Emma in un momento di tenerezza avea strappato al Duca di Gonzalvo
il segreto di quell'abboccamento; nè il Duca avea gran motivo di
nasconderlo alla figliuola, però ch'egli stimava matto il pianista,
e come tale se ne rideva e beffava, dicendo che avea voluto guarire
o accrescere la mattezza di lui promettendogli di aspettare due anni
prima di maritar la figlia. Emma dunque sapeva che Daniele l'avea
chiesta in isposa, e che avea promesso di ritornar milionario dopo due
anni. Non ostante i motteggi e i sarcasmi del padre, il quale tenea
per fermo aver Daniele perduto il senno, ella non vedea un proposito
da demente nella promessa del giovine. Conciossiacchè impossibile
le sembrasse che il suo amante ritornasse col possedimento di tanta
fortuna, non sapea dismettere il pensiero che quegli avea dovuto
poggiare su qualche fondamento la strana proposta, il cui ardimento
sollecitava l'amor proprio di lei. Soltanto l'averlo pensato era per
lei un titolo all'ammirazione e alla simpatia per quel caro giovane.

Per la prima volta in sua vita un pensiero angoscioso le venne
alla mente, un pensiero di gelosia. Fintantochè Daniele era in
Napoli, ella era sicura che costui non avrebbe potuto innammorarsi
d'altra donna; troppo ella era conscia delle proprie attrattive
per credere alla possibilità di un altro amore nel cuore di quel
suo appassionato amatore. E quand'anche un'altra donna lo avesse
per poco di sè invaghito, bastava per ricondurlo ai suoi piedi uno
sguardo, una parola, un detto. Emma dunque non ebbe mai l'idea che
Daniele veggendola quasi ogni giorno, avesse potuto prendersi di
altra bellezza, imperocchè con tante adulazioni la superbetta era
stata educata, che quasi era certa che in Napoli nessuna donna potea
superarla in avvenenza e beltà. Ma fuori Napoli? Per quanto amore
Daniele si avesse per lei, egli era giovine, e a ventidue anni le
passioni, le immagini sono fugaci; agli occhi di un giovine dal cuore
sì ardente ogni donna è bella, ed ogni bella è amante; le reminiscenze
non reggono a fronte delle impressioni; e una donna lontana, anche
bella quanto si può immaginare, perde sempre a paragone di una donna
presente e innamorata, anche di bellezza inferiore.

Emma avrebbe desiderato che Daniele avesse avuto trentacinque anni
invece di ventidue: ella comprendea che a trentacinque anni le passioni
sono profonde e incancellabili, e che la distanza e il tempo vie più
le accende invece di spegnerle; comprendea che in quella seconda età
dell'uomo le reminiscenze hanno più forza delle impressioni, e che un
amante in quest'età non pecca facilmente d'incostanza. Emma pensava a
queste cose, cui per lo addietro giammai non avea pensato, e sentiva, a
suo dispetto, un certo pizzicore di gelosia.

Emma dunque amava Daniele? E noi ripetiamo che nol sappiamo, ma siamo
inchinati a credere di sì; bensì nol vorremmo asserire su la nostra
responsabilità, e non facciamo ch'enunciare un nostro modo di vedere,
e non già un fatto reale. Talune volte, quando stava sola massimamente,
con quel bel capo abbandonato sulla palma della mano dritta, con quegli
occhi malinconici fissi come la mente nel passato, ella pensava che
un giorno una donna avea scritto a Daniele. Ella non avea dimenticato
la più minuta particolarità di quel fatto; ricordava nomarsi quella
donna Lucia Fritzheim; che Daniela avea detto di aver dispregiata: e di
non aver voluto cadere ne' lacci delle seduzioni di lei. Questa donna
dunque era bella! Lucia ricordava che Daniele avea detto posseder colei
un sembiante d'innocenza e modi ingenui e proprii d'un cuor gentile e
virtuoso, ma artefatti e tali da ingannare i più esperti.

Non so perchè, ma nell'animo di Emma surse il pensiero che questa non
fosse la verità, che Daniele avesse voluto nascondere agli occhi di
lei un intrigo. E questo pensiero andava acquistando maggior forza ed
evidenza a seconda che la giovinetta si riduceva a mente le più piccole
cose che accompagnarono quel fatto. Un fanciullo misero, dall'aspetto
onesto e gentile, avea portato il biglietto: il miserello era stato
dapprima all'abitazione di Daniele alla Riviera di Chiaia, e di là
mandato a Toledo al Palazzo S... dove il maestro di musica solea
venire: il ragazzo erasi posto a piangere quando gli fu detto che il
giovine non era al Palazzo S..

Simiglianti particolarità davano certezza alla fanciulla di essere
stata ingannata, e un bel mattino le venne alla mente un'idea
singolare. Emma pensò di andare a trovare Lucia, la cui abitazione essa
ricordava benissimo.

— Se ella è un'intrigante avventuriera, pensava tra sè la nobil
giovinetta, io mi sarò accertata di ciò, e più non penserò a questa
sciagurata: se, al converso, ella è una vittima del tradimento di
Daniele, sarà questa benanche un'importante scoperta che potrà influire
sul mio avvenire.

Queste cose volgeva in sua mente la giovinetta, però che, bisogna
dirlo, il pensiero di Daniele incominciava a diventare per lei quel che
dicesi propriamente una passioncella. La risoluzione di andare a trovar
Lucia era presa; bisognava pensare al modo di mandarla ad effetto.
A tante cose pensò la fanciulla, ma tutte presentavano di forti
difficoltà ed ostacoli. Imperciocchè, dato il caso che la Fritzheim
fosse stata in realtà un'avventuriera, siccome l'avea dipinta Daniele,
come avrebbe fatto Emma per nascondere la vergogna di tal visita?
Dopo aver molto pensato e ripensato, Emma si fermò da ultimo sovra un
disegno che le parve il migliore di quanti le si erano presentati alla
mente.

Da parecchi giorni si trattava nelle solite ed intrinseche riunioni
della sera di prendersi il divertimento di una cavalcata al Campo di
Marte. Varii distinti cavalieri, amicissimi del Duca di Gonzalvo, e
due o tre dame, amiche di Emma dovean comporre la brigata. Emma avea
sempre differita questa passeggiata or per un pretesto or per un
altro, non sentendosi l'animo sereno abbastanza per abbandonarsi ai
consueti sollazzi; ma le parve giunto il momento di recarla ad effetto,
dappoicchè era nel pensier di lei di allontanarsi dalla brigata allora
che sarebbero giunti presso al Real Albergo de' poveri, adducendo il
pretesto di dover adempiere ad un atto di carità ch'ella volea fosse
rimasto segreto, epperò volerlo adempiere senz'alcun testimone: avrebbe
dissimulata la distanza, dicendo che la casa dov'ella recavasi non era
discosta che pochi passi: avrebbe intanto dato di sprone al cavallo e
divorata la via per tornar più presto a raggiungere la comitiva. Un tal
proponimento non era scevro di difficoltà, ma ella si ripromettea di
superarle sul fatto. La cavalcata fu fissata pel primo giorno di sereno
che offrisse il verno già decrescente. Ed in effetti, un bel mattino
la nobil comitiva si avviava dal palazzo S... su svelti e bei cavalli
inglesi di puro sangue, con molto lusso ed eleganza bardamentati.

Emma, in grazioso e maschile abbigliamento all'amazzone, cavalcava un
gentile e nobil destriero bianco come la spuma del mare. L'incantevol
persona della giovinetta spagnuola si disegnava con fierezza sotto
le spoglie austere della moda inglese, ma più bella appariva, più
seducente agli occhi degli estasiati che la circuivano. A' suoi fianchi
caracollava con grazia estrema e con superba andatura il visconte di
Boisrouge, abile maneggiatore di cavalli. La cavalcata era giunta
all'Orto Botanico, ed Emma, arrossendo, annunziò, facendo le veci
di essersene pur lì ricordato, di dover visitare una misera famiglia
raccomandatole da una delle sue amiche. Non ostante le più vive premure
ed istanze, Emma si allontanò dalla brigata, e non sì tosto videsi
fuori la vista de' suoi compagni, diè di sprone al cavallo e sparì
dietro gli alberi che orlano il viale di S. Maria degli Angeli alle
Croci. Emma avea detto alla comitiva di aspettarla dappresso al Real
Albergo de' Poveri ch'ella non avrebbe indugiato più di pochi minuti.
Il cavallo di Emma si era messo di carriera: ella incitavalo colla
voce, colla frusta e cogli sproni, perocchè sentivasi alle spalle il
galoppo di un altro cavallo che la seguiva.

La fanciulla sospettò che alcuno de' compagni si fosse quegli che
seguitavala, e nella preoccupazione in cui la metteva l'apprensione
di esser discoperta, e per guardare indietro, non badò ad un burrone
che tagliava la strada, ed era appena pochi passi discosta dal fossato
in cui sarebbe stata inghiottita insieme col suo cavallo, quando il
cavaliere che la seguiva, facendo fare un balzo terribile al proprio
corsiere, si caccia innanzi a quello della fanciulla per arrestarne il
corso impetuoso. E riuscì in fatti a salvare la giovinetta dall'orrenda
caduta, ma l'urto fu così veemente, e l'azione così rapida, che il
cavaliere fu balzato di sella e stramazzò a terra, andando a piombar
col capo sopra un piccolo macigno ch'era messo in sull'orlo del
fossato.

Emma mise uno strido acutissimo e si gittò dal cavallo per andare
a soccorrere il suo salvatore, nel quale, a sua grande sorpresa,
riconobbe il signor Maurizio Barkley, dal cui capo grondava in copia il
sangue.



II.

LA VISITA


Accennammo altrove che Emma nutriva un certo istinto di diffidenza per
Maurizio Barkley. Ella non sapea propriamente rendersi conto di tale
ripugnanza, anzi non poche volte facea forza a sè medesima per vincere
un così ingiusto sentimento, anche perchè sapea che suo padre riponeva
nel signor Barkley intera fiducia; ma il mistero onde quest'inglese
circondava la propria vita, la oscurità della sua origine e delle
sue relazioni, quella specie di altiera taciturnità irremovibile, e
quello sguardo freddo ma ostinato e penetrante, avean fatto sull'animo
della giovinetta, fin dal primo giorno in cui lo vide, una sinistra
impressione che l'era rimasta in appresso voltata in leggera antipatia.
Il contegno di Barkley verso di lei era stato sempre grave e poco
manieroso: quando le più entusiastiche ovazioni erano prodigalizzate
alla dea de' salotti, Maurizio non mischiava le sue frasi di
ammirazione e di rapimento a quelle dello stormo elegante che si facea
dattorno, quando, per casualità, rimanevan soli o vicini, Maurizio
non le dirizzava nessuna di quelle parole di adorazione che soleano
risuonare agli orecchi di lei. Per così fatte ragioni Emma sentiva
per Barkley contraggenio e dispetto. Ma ora questi sentimenti erano
di botto disparsi, cedendo il luogo alla sorpresa, al compiacimento,
alla riconoscenza. Emma era estremamente maravigliata di veder colà
il signor Barkley, il quale non formava parte della comitiva; ed era
ricolma di ammirazione e di gratitudine pel coraggio, per la prontezza,
per l'eroismo onde colui, a rischio della propria vita l'avea salvata
dal precipizio.

Il sangue grondava a Maurizio da una larga ferita apertasegli dietro
al capo. Egli avea perduto l'uso de' sensi, era pallidissimo, e sulle
sue labbra era sparso il lividore di morte. Emma si trovava nella
situazione più angosciosa; avrebbe voluto chiamare al soccorso, volare
da' suoi compagni che l'aspettavano, per raccontar loro il tristo
accaduto; ma non volea lasciare, neppure per un momento, il misero e
generoso giovine che giaceva a terra senza dar segni di vita. Emma
dimandò l'aiuto di alcuni villici che erano di passaggio, e un di
costoro, adagiato Maurizio in sul macigno, ne sostenne, il capo, mentre
l'altro era corso per un poco di acqua. Gli occhi della fanciulla erano
bagnati di lagrime. Ella si adoperava a rattenere, col suo fazzoletto
rinforzato a molti doppi, il sangue che fluiva e gemeva sotto il
grumo che vi si era incrostato tra i capelli. Intanto il contadino
era tornato con una brocca d'acqua limpidissima. Emma avea fatto uno
sdruscio nella sua sottana e ne avea formato una pezzuola il cui becco
immerse nell'acqua ed applicò in sulla ferita per farla ristagnare. Il
freddo dell'acqua richiamò a vita Maurizio, il quale aprì gli occhi,
e veduto Emma che con la più amorosa sollecitudine gli era sopra, e la
cui mano riposava assieme col becco della pezzuola in sulla sua fronte,
lo sguardo gli balenò di piacere, ed il volto ch'era smorto e livido si
accese di subita fiamma.

— Grazie, mormorò con fioca voce, grazie, Duchessina, quanta bontà!
Voi stessa avete voluto curare la mia ferita! ed avete avuto ragione,
perchè la vostra mano è il più dolce balsamo che si fosse potuto
applicare sovr'essa.

— Oh, signor Barkley, rispose Emma arrossando, come potrò esprimervi
la mia graditudine? A voi debbo la vita, perocchè sarei senza altro
precipitata in questo orribile fossato, senza il vostro coraggio e la
vostra prontezza. Ma come vi siete trovato qui? Voi non facevate parte
della nostra comitiva.

— È vero, Duchessina, voi non mi troverete giammai nel cerchio di
coloro che prendon parte ai vostri divertimenti; ma quando un pericolo
vi minaccia, quando una sventura sta per colpirvi, siate certa che
troverete al vostro fianco Maurizio Barkley.

Emma guardò stupefatto il giovine inglese. Le nobili e generose parole
che questi avea profferite non erano dettate da vanitosa ostentazione,
dappoichè egli avea dato testè una prova irrefragabile della sincerità
de' suoi detti. Ma a qual sentimento attribuire tanta annegazione? Ecco
la sciarada di cui Emma s'imbrogliava a trovare il motto.

— Ben mi è nota la nobiltà del vostro animo, signor Barkley, ed essa
giustifica pienamente la fiducia che mio padre ha in voi, e l'amicizia
che vi professa. Ed oh quanto più egli vi estimerà ora che saprà
esservi io debitrice della vita!

— A che parlarne, Duchessina? Non sono io oltremodo felice e compensato
della dolce pietà che la mia ferita ha saputo destare nel vostro
bell'animo? Oh se avessi ogni giorno l'occasione di arrischiare la mia
vita per salvare la vostra!

Emma era sempre più sorpresa delle parole di Barkley, e tanto più
ne sentiva maraviglia, essendo ella convinta che l'espressioni di
quell'uomo non erano foggiate per vaghezza di complimenti o per
affettare uno spirito eroico e cavalleresco, dal quale abborriva il
suo carattere franco e altero. Questo breve scambio di parole avveniva
stando la giovinetta chinata pressocchè sulle ginocchia di Maurizio;
la mano dritta di lei tenea compressa in sulla fronte dell'inglese la
pezzuola bagnata, mentre la sinistra aiutava a sostenere le spalle del
ferito. Maurizio si sollalzò un poco dal macigno, sì che la sinistra
mano della fanciulla abbandonò per poco la sua posizione. Barkley
prese nelle sue, la mano della giovinetta, se l'accostò alle labbra, e
v'impresse un bacio. Emma trasalì, e, per un movimento inconsiderato,
si scostò dall'inglese.

— Che fate, signore! esclamò ella.

— Bacio quella mano che mi dà la vita, rispose Maurizio. Grazie,
Duchessina, grazie delle vostre cure; mi sento forte abbastanza da
tornare a casa. Prendete, buona gente, soggiunse poi dando a ciascuno
de' due villici una moneta d'oro, prendete questo piccol segno della
mia gratitudine; non ho più bisogno dell'opera vostra.

I due contadini stupefatti di tanta generosità non rifinivano di
guardare: con occhi spalangati or la moneta or il donatore: e quando
si furono accertati che la cosa non era una finzione, ma bensì la più
consolante realtà, si partirono, colmando di benedizioni il forestiero
e la dama. Maurizio ed Emma restaron soli.

— Volete raggiungere la comitiva, o volete recarvi da Lucia Fritzheim?
chiese Barkley.

Non si può dire da quanta sorpresa fu colta Emma a queste parole. In
che modo Maurizio conosceva il segreto di lei?

— Che! signore! esclamò la fanciulla, e chi vi ha detto ch'io mi recava
da questa donna?

— Nessuno, Duchessina, perocchè voi avete nascosto a tutti il vostro
proponimento.

— E voi, signore, come avete letto nel mio pensiero? Chi vi ha rivelato
il nome di questa donna?

— Perdonate, Duchessina, ma questo è il mio segreto: soltanto vi posso
dire ch'io conosco questa fanciulla, che si chiama Lucia Fritzheim.

— Fanciulla! come! Ella è dunque una fanciulla di onesta famiglia, n'è
vero?

— Lucia Fritzheim è la virtù personificata, Duchessina, rispose con
solennità il giovine inglese, e suo padre era l'anima più bella, il
cuore più nobile che sia stato al mondo.

— Ed è straniera questa famiglia? dimandò sempre più maravigliata Emma.

— Giacomo Fritzheim era svizzero di origine Lucia è nata in Napoli.

— Ed è bella? chiese la giovinetta.

— La sua virtù la rende assai più bella di ch'è in effetti.

— Ed è povera, n'è vero?

— Poverissima, e massime dopo la morte del padre.

— Andiamo, signor Barkley, accompagnatemi da lei. Il mio soverchio
indugio sarà presso gli amici giustificato dalla vostra presenza.
Io dirò che in quella casa dove mi son recata per una limosina ho
incontrato voi, al quale io avea dato appuntamento. Racconterò il
vostro atto eroico col quale mi avete salvata la vita; troveremo
pretesti e sotterfugi per colorare la nostra tardanza. Venite,
Maurizio, indicatemi l'abitazione di Lucia Fritzheim; andiamo a
spargere il conforto della carità là dove la più nera perfidia ha
sparso il dolore, la miseria, e volea spargere l'ignominia; andiamo,
signor Maurizio; compite la vostra opera; salvatemi il cuore dopo
avermi salvata la vita.

— Io vi accompagnerò, Duchessina, ma non salirò sulla casa di Lucia
Fritzheim; vi aspetterò a qualche distanza: andate a trovar Lucia; le
vostre due anime sono fatte per intendersi e amarsi.

La caduta di Maurizio non solamente avea cagionato la sua ferita al
capo, ma gli avea fatto parecchie contusioni alla sinistra gamba;
ondechè mal potea reggersi in piedi e a stento potea camminare. Emma lo
aiutò a montare a cavallo; indi ella balzò sul suo bianco destriero, e
a lenti passi entrambi s'incamminarono alla volta della casa di Lucia.

C'incombe il debito di far notare a' nostri lettori che Maurizio
Barkley aveva a certa distanza seguita la cavalcata, e che veggendo
Emma discostarsi dalla comitiva ella sola, si era affrettato a
raggiungerla. Per qual ragione Maurizio avea voluto seguir la
cavalcata? È questo un segreto che il tempo ci spiegherà. Giunti
che furono all'abituro di Lucia, Maurizio si fermò, lo additò alla
fanciulla, e disse ch'egli avrebbe aspettato a pochi passi di distanza
co' due cavalli. Emma montò sola le gradinate, Marietta venne ad
aprirle l'uscio di scala. La fanciulla rimase attonita nel vedersi
dinanzi quella bella dama in abito da cavalcare.

— Siete voi Lucia Fritzheim? dimandò Emma.

— Io sono sua sorella, signora, rispose Marietta arrossendo fin nel
bianco degli occhi.

— E non è in casa vostra sorella?

— Oh, sì, signora, rispose con tristezza la fanciulla, ella non esce da
lunga pezza; è così mal ridotta!

— Bramo vederla, soggiunse Emma, ho qualche cosa da dirle.

— Entri dunque, signora; perdonerà la poca decenza della nostra casa;
siamo poveri orfani che viviamo colle fatiche delle nostre braccia.

Entrando in quella casa, la figliuola del Duca di Gonzalvo fu commossa
insino alle lagrime scorgendo la più commiserevole miseria. Quasi tutte
le suppellettili erano state vendute: le bianche pareti, imbrattate
dagli scherzi di Uccello, si presentavano squallide e nude: qualche
sedia, un letticciuolo di asserelle, un vecchio armadio componevano
gli arnesi di quella prima camera dove si era trattenuta la giovinetta
andalusa. Marietta avea fatto sedere la nobil dama, ed era ita ad
avvertire il resto della famiglia dell'onore inaspettato. Emma udì
dalla stanza contigua un rumore di oggetti da tavola che venivano
gittati in fretta in fretta in qualche cassettone, un affaccendarsi
per ripulire sommariamente e spazzare la stanza; udì il bisbigliare
di molte voci, e a capo di pochi momenti, ella fu fatta entrare nella
camera dove stava Lucia Fritzheim. Il volto di Lucia era bianco come
carta. Emma si avanzò verso di lei e la prese per mano, guardandola con
occhi velati di pianto.

— Perdono, disse la figlia di Giacomo, mille volte perdono, bella dama,
se ha atteso pochi momenti; noi prendevamo un boccone quando ella ci ha
onorati.

— Sono dolente di avervi disturbata, carina: voi dunque siete Lucia
Fritzheim?

— Per lo appunto, signora, e questi che vedete a me d'intorno sono i
miei fratelli e mia sorella.

Uccello, Giuseppe e Andrea fecero una riverenza alla nobil dama, e
sottovoce si dicevano l'uno all'altro:

— Quanto è bella! E che bel vestito! Oh la dev'essere la figliuola o
la sposa di qualche principe! Guarda, Giuseppe, come son belli quei
bottoni! Guarda, Andrea, quella frusta!

Emma e Lucia si guardarono per qualche tempo senza profferire parola;
entrambe erano dominate da forti emozioni, e specialmente Emma sentiva
una pietà profonda per tanta virtù congiunta a tanta sventura.

— A chi ho l'onore di parlare? dimandò Lucia che non si saziava di
contemplare l'incantevole bellezza della dama che le stava presente.

— Alla vostra amica Emma di Gonzalvo.

— Emma di Gonzalvo! esclamò Lucia, e gli occhi le si velarono d'una
nebbia mortale.

Marietta e i fratelli corsero dappresso a lei.

— Voi, signorina, voi la figliuola del Duca di Gonzalvo? Povera Lucia!
esclamò Marietta rompendo in lagrime.

— Voi dunque conoscevate il mio nome? dimandò Emma con voce commossa.

— Oh signora! se sapeste quante lagrime il vostro nome ha fatto
scorrere dagli occhi della mia sventurata sorella!

Lucia si era rimessa immantinente; il suo volto avea preso
un'espressione di nobiltà e di fierezza.

— E che brama da me Emma di Gonzalvo? Vuol forse umiliarmi colla
sua bellezza e col suo fasto, dopo di avermi ridotta qual sono, uno
scheletro, dopo di aver tolto a questi innocenti il pane che io dava
loro colle mie fatiche, e cui non posso più dare per lo stato della
mia salute? Guardate, signorina, guardate lo squallore e la miseria di
questa casa, di questa onesta famiglia, è tutta opera vostra; ma spero
che Dio mi darà la forza di soffocare nel mio cuore l'amore che egli
stesso vi fece nascere. Oh! or che vi ho veduta, l'ultimo barlume di
speranza è fuggito. La vostra bellezza assolve lo spergiuro... Ebbene,
Emma di Gonzalvo, io vi perdono tutto il male involontario che avete
fatto a me e a questa misera famiglia; io vi perdono dal fondo del
mio cuore, come imploro da Dio perdono sul capo dello spergiuro... Oh,
mio Dio, quanto è bella! quanto saranno felici! Ma ella non può amarlo
quanto l'ho amato io! no, non è possibile!

Due grosse lagrime scapparono da' begli occhi della sventurata
fanciulla. Emma corse ad abbracciarla: i suoi occhi nuotavano parimente
nelle lagrime.

— Lucia Fritzheim, le vostre parole mi hanno squarciato il cuore, ma io
non le merito. Giuro sul mio onore che mai dal mio labbro è uscita una
sola parola che avesse potuto incoraggiare l'amor di Daniele per me:
io ignorava ch'egli fosse ligato a voi da un giuramento; e, quando la
vostra lettera giunse in casa mia, quando quella lettera cadde sotto
gli occhi del vostro amante, ei nulla mi disse, nulla. Ma Daniele de'
Rimini non ha l'anima che avete voi, Lucia Fritzheim! Faccia il cielo
che egli apprenda a conoscervi! La vostra sorte mi commuove e mi tocca
nel vivo dell'anima. Posso io sperare che accetterete la mia amicizia,
Lucia Fritzheim?

La figliuola del Duca di Gonzalvo stese la mano alla figliuola di
Giacomo lo Stradiere, la quale vi si abbandonò sopra con tutta la
testa, vi stampò mille baci e bagnolla di pianto. Emma se la strinse
al cuore, e poscia la baciò sul volto con estrema tenerezza. Marietta
e gli altri fratelli circondarono la nobil fanciulla, piangevano,
ridevano, e volevano anch'essi aver la loro parte di quegli
abbracciamenti. Emma li abbracciò tutti. Fu questo un bel momento!

Sul cuore di Lucia fluiva un torrente di gioia. Da tanto tempo la
miserella non gustava un piacere sì vivo! La sua anima si apriva
alla felicità dell'amicizia: la sua sensibilità si sfaceva sotto il
calore di questo divino sentimento. Sul volto della donzella andalusa
sfolgorava una gioia sì pura che tutte le sue sembianze ne erano
irradiate. Era forse la prima volta che i suoi occhi nuotavano in
lagrime di tenerezza: era quello il più sublime piacere ch'ella avesse
mai gustato in sua vita.

— Io debbo andar via, disse Emma dopo qualche minuto di commozioni,
sono aspettata da una comitiva di amici, a' quali ho nascosto, sotto un
pretesto, lo scopo della mia visita.

— Ah! esclamò Lucia, chi sa se ci rivedremo mai più! Una barriera
insormontabile ci divide.

— E quale? dimandò Emma con tristezza.

— Il nostro stato, rispose Lucia.

— Questa barriera, che l'ingiusta fortuna avea posta tra noi è stata
già superata dalla nostra amicizia. Noi ci rivedremo, e ci rivedremo
spesso.

— Iddio possa colmarvi di felicità, incantevole creatura! esclamò Lucia.

— Qua la tua mano, Lucia, la tua puranche, gentil fanciulla, disse
Emma rivolgendosi a Marietta, la quale afferrò la mano della generosa
donzella e con effusione di cuore la baciò più volte.

— La vostra anima è bella come il vostro volto, disse la sorella di
Lucia.

— No, non posso partirmi di questa casa, ripigliò Emma se prima non
ricevo un pegno della vostra amicizia.

— Un pegno! E quale? chiese Lucia. Parlate, Duchessina, la mia vita è
vostra.

— Il pegno ch'io vi domando, soggiunse la figlia del Duca, è che
accettiate questo ricordo mio.

Emma avea tratto dal proprio dito un prezioso anello di brillanti, e
l'offriva alla misera fanciulla.

— Non crederò che mi siate amica se non accettate questo anello,
simbolo del legame fortissimo che unirà d'ora in poi i nostri cuori.

Lucia non oppose resistenza, Emma le passò al dito il prezioso anello.
La figliuola di Giacomo era soffocata da tante commozioni.

Emma era partita tra le benedizioni di quelle innocenti creature, le
quali aveanla accompagnata fino alla prima branca dello scale. Nel
ritornar che fecero sul misero abituro, Marietta guardò per caso in
sul tavolo, a cui si era momentaneamente appoggiata la Duchessina di
Gonzalvo. Ella mise un grido di sorpresa. Una borsa ripiena di monete
d'oro riposava sul tavolo.

Emma si affrettò a raggiungere Maurizio Barkley che l'aspettava a
qualche distanza. Ella montò in fretta sul corsiere, ed a fianco del
giovine inglese disparve nella polvere che lo scalpitar de' cavalli
avea sollevata. Prima di sparire, Emma avea agitato il suo fazzoletto
per salutare Lucia e i fratelli che, aggruppati sul terrazzino
della loro casa, risposero congiungendo le loro mani al cielo, quasi
implorando da Dio ogni grazia e benedizione sulla virtuosa e bellissima
donzella.



III.

MAURIZIO BARKLEY


Nell'immensa varietà delle anime, studio interminabile del filosofo
e dell'artista, subbietto inesauribile di meditazioni, s'incontrano
non di rado talune individualità così caratteristiche e singolari
da richiamare tutta l'attenzione dell'osservatore. Sono uomini che
si elevano, col volo delle loro aspirazioni, alle più alte regioni
dell'umanità; la virtù è tutto per essi, il mondo nulla; la società
in cui vivono non ha la forza d'incepparne il nobil pensiero colla
trivialità delle regole e delle convenienze o colle infinite esigenze
meschine di giornalieri bisogni: la virtù è la loro esistenza, non
già quella virtù di convenzione e di uso, ma quella che agli occhi
dell'uomo volgare è un eroismo giornaliero, e che tanto è più sublime
quanto più oscura e dispregiatrice di vana gloria. La terra ove
poggiano il piede non ha per essi più attrattive ed importanza del
ramuscello su cui l'augelletto si ferma un momento per librare il volo;
il frale è per essi l'involucro esoso dal quale ardono di sprigionarsi.

Nel novero di questi uomini era Maurizio Barkley, il quale seppe
elevarsi sopra l'ignobilità della sua razza. Nel mondo morale avviene
lo stesso che nel mondo fisico. Le apparenti irregolarità, ch'eccitano
la nostra collera, che fan profferire giudizii torti e temerarii,
che confondono la nostra scienza futile e vanitosa, sembran tali
per la ragione che noi le veggiamo da un punto solo e colla limitata
estensione della nostra vista.

Tutto può parere irregolare agli occhi dell'uomo: tutto è livello agli
occhi di Dio.

Le grandi anime combattono più delle altre coi corpi, ne' quali son
ristrette: la deformità, le malattie o la miseria stringono ne' loro
ceppi crudeli i più nobili istinti: le intelligenze non s'innalzano
che sulle ruine della propria creta. L'ingegno che crea deve scendere
dalla sua altezza per provvedere al tozzo di pane che dee soddisfare
alla richiesta dello stomaco; e sovente quel tozzo di pane non sarà
ottenuto che a forza di umiliazioni, d'improbe fatiche, di sofferenze.
La società venera l'ingegno, lo ammira; ma lo lascia perir di fame.
L'ignoranza spesso accompagna le ricchezze; gli onori del mondo sono
presso il corredo del vizio; e la virtù si trova anche più sovente
sotto i cenci.

La più nobile anima era nel corpo della più vile creatura, nel corpo
d'uno schiavo: Maurizio Barkley, l'_abbietta mercanzia_ comprata
con pochi scellini, l'ultimo e più dispregevole dei _Chattels_[4]
acquistati dal Baronetto Edmondo Brighton, avea ricevuto da Dio
un'anima sublime. Il nome di Maurizio Barkley fu dato a questo schiavo
dallo stesso Edmondo, poscia che quegli lo ebbe salvato da sicura morte
nel Circo di Cuba. Il nome che si avea Maurizio per lo addietro altro
non era che _Quickeye_ (occhio celere) per l'acutezza della sua vista,
onde rendeva importanti servigi nella caccia delle bestie feroci.

Maurizio era nato nella Colonia del Capo nella Cafreria: i suoi
genitori, schiavi probabilmente, erano sconosciuti. All'età di sei
anni appena egli fu venduto ad un mercante di schiavi e trasportato
nelle Indie inglesi a Patma, capitale del Bahor all'occidente di
Bengala. Le maschie fattezze del suo volto, l'estremo coraggio che
fin dall'infanzia aveva appalesato, la somma intelligenza che lo
distingueva il resero caro al suo padrone, che giammai non volle
disfarsene a qualunque prezzo. Ma alla costui morte Maurizio venne
imbarcato, assieme ad altre centinaia d'infelici suoi compagni, e
menato in America, dove fu comprato dal Baronetto Brighton.

Dicemmo che dopo l'avvenimento della lotta col toro, Edmondo, che aveva
scoperto in Maurizio il cuore più nobile ed elevato, lo innalzò alla
dignità di uomo, gli tolse il soprannome di _Quickeye_, e tutt'i segni
della schiavitù; gli diede il nome di Barkley, voleva dargli la libertà
che questi ricusò per affetto straordinario ed immenso che portava al
suo padrone. Ma Edmondo il considerava come uomo libero, e gli pose
anch'egli amore addosso. A se lo avvinse come tenerissimo amico, e gli
accordò la più illimitata fiducia, raccontandogli tutta la trascorsa
sua vita e le follie della sua giovinezza.

Abbiam detto in altro luogo che oltre all'incarico di vegliare su
i passi del Duca di Gonzalvo a Napoli, Maurizio avea ricevuto dal
Baronetto un'altra missione. E qual si era questa? La più dilicata,
la più nobile, la più scrupolosa che fosse stata mai affidata ad un
uomo al mondo. Maurizio aveva da molti anni l'incarico di badare al
sostentamento di cinque creature, figli naturali di Edmondo, e di cui
egli conosceva perfettamente la dimora e lo stato di vita.

In che modo Maurizio adempiva a questa singolare e bizzarra missione,
a cui il Baronetto l'avea destinato per sedare alquanto i rimorsi
della propria coscienza? Maurizio riceveva ogni mese una somma, metà
della quale serviva pe' suoi bisogni e per mantenersi con tutto
il decoro d'un ricco _gentleman_ (condizione indispensabile pel
disimpegno del suo mandato presso il Duca di Gonzalvo) e l'altra
metà era destinata al sostentamento de' cinque giovanetti, frutti
delle giovanili follie di Edmondo, e per pagare gli agenti subalterni
della fiducia di esso Maurizio. Questi cinque giovanetti, tra i quali
era Daniele, e di cui due eran donne ricevevano la somma mensuale
di cinquanta ducati. Maurizio teneva un agente di sua confidenza
in ciascun paese ove dimorava uno de' figli del Baronetto. Prima di
fissarsi in Napoli, Maurizio aveva personalmente visitato, secondo le
indicazioni ricevute dallo stesso Baronetto, ciascun fanciullo al cui
sostentamento egli dovea badare, ed erasi con la massima scrupolosità
accertato dell'identità degl'individui. Con quanta dilicatezza ei
dovesse diportarsi a tal riguardo e con qual circospezione, è ben
facile immaginare, tanto più se ponesi mente allo stretto divieto
ch'egli avea di far conoscere la provvenienza del sussidio mensuale
ch'ei recava o facea recare a' figli del Baronetto. Benchè Maurizio
avesse prescelto per agenti subalterni uomini di una probità a tutta
pruova, li teneva però perfettamente al buio su tutto ciò che non
era pratica di amministrazione; ei si serviva di questi uomini come
di semplici braccia, come di strumenti meccanici e non intelligenti.
Ogni mese Maurizio riceveva le cinque ricevute da' cinque individui
che riscuotevano il denaro, e quelle ricevute ei mandava fedelmente al
Baronetto, il quale vedeva a tal modo ogni mese la scrittura de' suoi
figli, ed il suo cuore era almeno in ciò pago nel conoscere che questi
innocenti non pativano difetto de' mezzi di vita.

Durante la dimora di Daniele a Manheim e nella casa del Baronetto,
questi ricevè una volta da Maurizio Barkley, tra le altre quietanze
dei suoi figli, quella benanche di Daniele, tranne che questa portava
per cognome Fritzheim e non de' Rimini, imperocchè, se ben ricordano
i nostri lettori, la prima volta che Daniele firmò la ricevuta de'
cinquanta ducati, egli stava ancora in casa di Giacomo lo stradiere, e
non si era dato ancora il fattizio cognome di de' Rimini. Oh se Edmondo
avesse potuto sospettare che il giovin pianista italiano Daniele de'
Rimini che albergava nella sua medesima abitazione ed al quale egli
avea posto addosso tanto amore, altri non era che Daniele Fritzheim,
suo figlio, frutto dell'infame seduzione sulla persona della sventurata
Juanita di Gonzalvo! Ed oh! se Daniele, nel ricevere da ignota mano nel
ricco ostello di Manheim la consueta polizza, avesse potuto supporre,
che il vero donatore di quel danaro mensuale altri non era che il
Baronetto Edmondo, Conte di Sierra Blonda, suo padre! Per qual cagione
Edmondo avea formalmente vietato a Maurizio Barkley di rivelar giammai
ai propri figli, e per qualsivoglia circostanza, il suo nome, le sue
qualità, il suo ritiro e i vincoli di natura? Edmondo avea fatto tanti
sventurati, avea portato il disonore in tante famiglie; ch'ei voleva,
risarcendo in parte il male che avea fatto, rimanere ignoto a tutti,
abbandonarsi senza disturbi alla vita riposata e tranquilla che si
riprometteva di menare nel ritiro di Manheim. D'altra parte, ei temeva
le private vendette, gli odii, le gelosie: temeva le rappresaglie de'
suoi tanti nemici. Tra il suo passato e il suo avvenire egli avea posto
una barriera, che volea non fosse valicata neppure dalla più nobile e
sacra passione, l'amor paterno.

Un'altra circostanza dobbiamo ricordare ai nostri lettori, perchè
nulla rimanga a tal riguardo senza spiegazione. Allora che Daniele si
presentò per la prima volta agli occhi di Maurizio Barkley, questi
pronunziò le seguenti parole _Alla buon'ora! Eccone uno che gli
rassomiglia!_ Ora non è più necessario spiegare il sentimento di questa
frase. Maurizio alludeva alle sembianze degli altri quattro figli
di Edmondo, dalle quali non avea potuto trarre nessun argomento di
somiglianza.

Quando Maurizio ricevè in Napoli la quietanza di Daniele in data di
Manheim, ei fu sorpreso del caso bizzarro il quale riuniva nello stesso
paese il padre ed il figlio; ma nulla sapeva ancora che il pianista
dimorasse _Schoene Aussicht_, vale a dire nella medesima abitazione
del Baronetto. Laonde non sappiam dire da quanta maraviglia ei fosse
preso nel ricevere dallo stesso Baronetto una lettera in cui questi
gli dava notizia di aver dato ospitalità al pianista italiano Daniele
de' Rimini. Maurizio ben conosceva chi era Daniele de' Rimini. Da
questo momento oltre ogni credere dilicata e difficile addivenne la
posizione del povero Maurizio. Doveva egli rivelare al genitore la
dimora del figlio nella propria casa? Maurizio non prese a questo
riguardo alcuna risoluzione, aspettò un'altra lettera dal Baronetto per
potersi decidere a qualche passo. Ogni giorno Maurizio andava in casa
del Duca di Gonzalvo, e questi lo ricevea sempre colle dimostrazioni
della più grande amicizia, imperocchè il Duca avea sperimentato nel
giovine inglese una esemplare probità ed un carattere franco, leale ed
integerrimo. Edmondo, colle sue estese relazioni, avea fatto scrivere
per Maurizio una possente lettera di raccomandazione da Spagna al Duca
di Gonzalvo in Napoli, e questa lettera fu il mezzo d'introduzione per
Barkley nella casa del nobile spagnuolo; il quale accordogli in seguito
sì fattamente la sua fiducia che le porte della sua casa erano aperte
in ogni ora del giorno all'Esquire Maurizio Barkley.

E quasi tutt'i giorni Maurizio vedeva Emma; spesso intrattenevasi con
lei, non ostante quella specie di ripugnanza che la figliuola del
Duca di Gonzalvo mal dissimulava contro di lui. Ma la condotta, le
parole dello Esquire Barkley erano irreprensibili, ed Emma non ebbe
giammai a dolersi della minima infrazione che quegli avesse commessa
alle leggi del buon vivere. Ciò non pertanto la fanciulla andalusa
era sovente imbarazzata dallo sguardo di acciaio di Maurizio, il quale
sembrava voler penetrare nelle più recondite latebre del cuor di lei.
La fisonomia dell'inglese, ordinariamente fredda e marmorea, acquistava
dappresso a lei un'espressione indefinibile; que' suoi occhi africani
lucevano come due pugnali, e il colore del suo volto da olivastro
diveniva bianco. Emma ammirava talvolta il complesso della testa di
Maurizio, che aveva qualche cosa di straordinario e di eccezionale.
I suoi capelli folti, duri e ricci gli tempestavano le tempia e la
parte posteriore del collo come ispida foresta, e le sue sopracciglia
ingrossate dall'ardente sole della Cafseria si spiegavano come due
archi terribili su le due nere frecce degli occhi; era nell'espressione
e nel taglio del suo capo qualche cosa del leone.

Nelle fattezze di quest'uomo era la natura selvaggia e indomita unita a
quella impronta di nobiltà che la virtù solamente può dare agli uomini.
Nel tempo stesso la schiavitù avea lasciato il suo marchio indelebile
nel carattere di lui cupo, aspro e sospettoso; quell'anima ardente nata
per amare era stata defraudata financo del più caro sentimento, l'amor
filiale. La più brutale condizione era stata imposta a quell'uomo, nel
cuor del quale, fin dalla più tenera infanzia, era stata distillata
ogni più bassa e truce passione, le quali per altro non aveano potuto
attecchirvi.

Abbiam detto che Maurizio vedeva Emma quasi ogni giorno. Quell'uomo
ch'era arrivato all'età di trentadue anni nella maggior severità
di pudore, e che non pertanto sentiva nel petto le fiamme del cielo
africano; quell'uomo che sentiva ribollirsi il sangue al solo udir
parlare d'amore non potea veder Emma tutt'i giorni senza rimanere
attossicato dagli occhi della spagnuola. Ben presto una passione cupa
si scavò un passaggio nella sua anima come una mina nelle visceri della
terra. E questa passione crebbe, crebbe alimentata da tutta la volontà
dello stesso Maurizio, il quale trovava in essa la più grande felicità
della sua vita. Stranezza incomprensibile! Maurizio era felice nel suo
amore sepolcrale: nessun raggio di speranza balenava su esso; e questo
appunto alimentava la nascosta sua fiamma. Giammai non gli venne al
pensiero l'idea d'una corrispondenza di Emma! però che questa idea
era per lui un assoluto impossibile. Intanto egli era felice di amare
Emma: era questo amore il suo culto, migliore assai di quel barbaro
_feticismo_ che gli avevano insegnato colle nerbate della schiavitù.
Questo solitario amore, dava a Maurizio le più singolari tendenze.
Sovente egli si recava ne' luoghi più remoti e campestri, visitava
i villaggi che circondano Napoli, montava l'erta del Vesuvio o de'
Camaldoli, ed ivi, seduto su qualche collina, o alla vista del mare,
egli si abbandonava a tutta la malinconica tenerezza della sua anima.
In così fatte interne conversazioni egli si apriva interamente a sè
stesso, e si piaceva di confidare all'aura del cielo i sentimenti del
proprio cuore. L'immagine di Emma era la sua compagnia: quell'immagine
cara prendeva agli occhi di lui forme eteree e leggiere; rivestiva
i colori della nugoletta indorata che attraversava la tacita volta
del cielo, nella forma di sottil nebbia si piegava sulle onde del
mare, quasi per udirne i segreti, si raccoglieva sotto l'ombra di un
platano, o si sfumava colla luce nel lontano orizzonte. Chi può dire le
strane visioni di un'anima vergine e selvaggia che ama coll'ardore de'
deserti, e che è continuamente costretta a ripiegarsi sovra sè medesima
per mancanza di eco? Alcune volte la vulcanica passione di Maurizio
scoppiava dal suo seno come tremenda eruzione, e allora i suoi occhi
infiammati di lagrime giravano come quelli dell'affamato leone che
percorre la vastità del deserto senza trovare di che satollare la sua
fame; allora lo schiavo facea rimbombare le solitudini de' campi con
gridi terribili e disperati: allora tutto gli era insopportabile, il
moto e la quiete, la compagnia e la solitudine, la luce e le tenebre.
Ma questi momenti di debolezza eran rari, perchè l'anima di Maurizio
era forte come il suo corpo vergine ed avvezzo alle più orrende
privazioni.

Maurizio avea nascosto nel più profondo dell'anima il segreto del suo
amore; era impossibile all'occhio più destro e indagatore lo scoprire
la passione ardentissima che bolliva nel petto di lui. La stessa Emma,
lungi d'addarsene minimamente, non iscorgeva nel _gentleman_ che un
freddo egoista. Ma dal dì che Maurizio l'ebbe salva da sicuro pericolo
di vita, Emma il risguardava con altr'occhio, ed il tenne in istima
di amico sincero e leale. Fu quello certamente il più bel giorno della
vita di Maurizio. Ed or cade in acconcio il dire ch'egli, inosservato,
seguiva sempre Emma dovunque costei si recava: e quel giorno della
cavalcata fu sul principio un tristo giorno per lui, dappoichè Maurizio
vedeva a fianco di Emma i più leggiadri cavalieri! ogni parola che la
fanciulla volgeva a qualcuno di loro era dardo al cuore dell'Africano.
Da lungi egli non perdeva mai d'occhio ciascun movimento di lei. Abbiam
già detto ch'egli possedeva tal vista acuta, che tra gli schiavi suoi
compagni si era meritato il nome di _Quickeye_ (occhio celere).

Non così tosto Maurizio ebbe veduto Emma discostarsi dalla comitiva
e prendere sola la via di _S. Maria degli Angeli alle Croci_, pensò
subitamente, con quella penetrazione che soltanto l'amore sa dare;
che la fanciulla andava a trovare Lucia Fritzheim. Già Maurizio
conosceva la faccenda della lettera di Lucia capitata nelle mani di
Emma, conosceva la strana proposta di Daniele al Duca di Gonzalvo,
e sospettava l'inclinazione di Emma pel giovine pianista. Con una
parola Maurizio poteva distruggere tutto l'edificio delle speranze di
Daniele. Quand'anche il Duca di Gonzalvo avesse avuto in pensiero di
aspettar davvero i due anni promessi: quand'anche Daniele fosse tornato
milionario ed amante riamato di Emma, una sola parola annientava ogni
unione tra Daniele ed Emma. Bastava che Maurizio avesse detto al Duca
di Gonzalvo esser Daniele figlio naturale del Conte di Sierra Blonda,
cui tanto il Duca detestava e contro il quale avea giurato mortal
vendetta. Ma lo schiavo di Patna avea l'anima nobile. Alla festa di
Lady Boston, egli avea promesso a Daniele di non parlare, e questa
promessa era sacra per lui; il pensiero di violarla giammai non era
entrato nella sua mente. Avvegnacchè ardentemente egli amasse la
giovinetta spagnuola, e sapesse che a costei le premure di Daniele non
erano indifferenti, Maurizio non si lasciò sfuggir giammai una parola
che avesse potuto umiliare l'amante agli occhi dell'amata. Eppure sa
il cielo quanto soffriva il cuore di lui allora che Emma, dissimulando
la sua agitazione, gli parlava del giovine pianista, del costui genio
musicale, delle brillanti qualità dello spirito di lui. Maurizio
disprezzava nel suo interno il trovatello, tipo d'ingratitudine,
d'infedeltà e di slealtà; e ciò non per tanto nol degradava agli occhi
di lei, sembrandogli codardia il valersi di un segreto per fargli
perdere la stima della donna amata. Benchè rivale, Maurizio disprezzava
Daniele, e troppo egli era nobile e altero d'animo per abbassarsi
ad una inutile soperchieria. E diciamo inutile, perchè Maurizio non
isperava di acquistarsi giammai l'amore di Emma, ed il pensiero d'una
corrispondenza di affetti era lontanissimo dalla sua mente.

Ma dal giorno in cui Maurizio ebbe la somma ventura di esporre la
propria vita per sottrarre l'adorata andalusa da terribile pericolo,
nell'animo di lui avvolgeansi costantemente le parole profferite da
Emma nell'avviarsi alla casa di Lucia Fritzheim. Questa fanciulla avea
detto: SALVATEMI IL CUORE DOPO DI AVERMI SALVATA LA VITA! Emma dunque
amava!!

Maurizio ricordava eziandio che la figliuola di Gonzalvo avea
detto: _Andiamo a spargere il conforto della carità là dove la più
nera perfidia ha sparso il dolore, la miseria, e voleva spargere
l'ignominia!_

Non ci era dubbio: quella _nera perfidia_ non potea sulle labbra di
Emma riferirsi ad altri che a Daniele. Ella dunque sapea di essere
stata ingannata da costui sul conto di Lucia Fritzheim. Maurizio
interrogò freddamente sè stesso; dimandò alla sua coscienza quello
ch'egli dovea fare per _salvare il cuore di Emma_. Tradir Daniele? Non
mai.

Maurizio pensò varii giorni su quel che dovea fare: e un bel mattino,
una fredda risoluzione era presa.

A che si era determinato Maurizio Barkley?



IV.

L'ARDITA MENZOGNA


Maurizio fermò di andare a trovar Lucia Fritzheim. Pochi giorni
appena erano scorsi dalla visita di Emma alla figliuola di Giacomo lo
Stradiere. Nell'abitazione di Lucia tutto era cangiato di aspetto: la
tristezza e la miseria erano in parte scomparse, tutto al presente
era ripulito, rassettato; varie suppellettili nuove vi si vedeano,
e le vecchie erano raffazzonate. Egli è tempo di dire che, dopo il
crudele abbandono di Daniele e gl'infruttuosi tentativi di Padre
Ambrogio, Lucia era stata colpita in sul principio da acuta febbre
nervosa, e poscia da un lento morbo di languore che avea minacciato di
strascinarla alla tomba, Padre Ambrogio avea prodigalizzato all'inferma
i tesori della cristiana carità. I nostri lettori conoscono una parte
della lettera che Lucia scrisse a Daniele: c'incumbe ora il debito di
farla loro conoscere per intero: essa era del tenor seguente:

  «Daniele, Daniele mio.

  «Corre già il quarto mese che mi hai abbandonata, ho contato questi
  orribili giorni ora per ora, minuto per minuto. Non ti rivolgo
  nessun rimprovero; sono rassegnata alla mia sorte... Mi è noto
  che ami un'altra!... Iddio ti renda felicità. Io sto male, male
  assai: il cielo vorrà forse aver pietà di me togliendomi da questa
  vita, prima che tu divenga lo sposo di un'altra. Il medico della
  parrocchia ha detto a Padre Ambrogio ch'io entro nel primo grado
  di tisi: ho inteso bisbigliar ciò intorno al mio letto, essi mi
  credevano addormentata! Oh quanto ti ho amato!... Io ti sciolgo dal
  tuo giuramento, Daniele, e ti perdono la morte che mi dai. Soltanto
  ti prego, in nome della prima parola di amore che ci scambiammo,
  in nome di mio padre, che non abbandoni la mia infelice famiglia,
  la mia cara sorella, i miei fratelli, e soprattutto che non abbi
  più odio per quella povera creatura di Uccello... Sovvengati di
  loro quando sarai felice a fianco della donna del tuo cuore...
  Addio, addio... non udrai più a parlar di me che un'altra sola
  volta, quando cioè ti sarà per caso annunziata la mia morte... sarà
  questo il più bel giorno della tua vita, siccome il dì della mia
  morte sarà stato per me il più felice... Addio, addio, per l'ultima
  volta, Daniele, Daniele mio.

                                                 _Lucia Fritzheim._

È noto il crudel destino ch'ebbe questa lettera: una parte di essa fu
dannata alle fiamme, e un'altra servì a rallegrare il pranzo di Daniele
e de' suoi amici.

Indarno la misera Lucia aspettò una risposta; questa non venne, siccome
più non venne l'ingrato Daniele. Noi non abbiamo voluto risparmiare a'
nostri lettori il quadro delle sofferenze di Lucia, di quell'anima sì
candida e bella. La religione e l'amor fraterno alleviarono soltanto
in parte i suoi dolori. L'orrenda infermità ond'ella era minacciata fu
rimossa mercè le paterne cure ed il senno di Padre Ambrogio, il quale,
oltre alla personale assistenza, provvide per medici e per rimedi; e
Dio gli concedè il sommo piacere di veder salva Lucia dall'inesorabile
consunzione.

Dopo l'abboccamento ch'ebbe con Daniele, Padre Ambrogio, sperando
sempre che questi sarebbesi ravveduto, nol perdè mai di vista, e
s'informò della sua condotta, delle sue amicizie e relazioni: non
indugiò quindi a scoprire che il giovine era perdutamente innamorato di
nobil damina, la quale seppe esser la figliuola del Duca di Gonzalvo.
Padre Ambrogio, per isvellere dal cuor di Lucia la sciagurata passione
per Daniele, stimò rivelarle i novelli amori del giovine, confortandola
a sbandire ormai dal suo cuore quel perfido, indegno di essere più
oltre l'oggetto dell'amor di lei. A Lucia non produsse gran colpo
una tale rivelazione, dappoichè non ostante le grandi precauzioni
che Daniele aveva usate per nascondere i suoi novelli amori, già la
miserella qualche cosa ne sapea, e già sospettava che al Palazzo S...
dove la sua lettera era capitata, dovesse dimorar la donzella che le
rapiva il cuore del suo amante.

Lucia tracannò l'amaro calice senza mettere un lamento: ella offrì al
cielo, con nobile slancio di rassegnazione, il suo dolore, ed il pregò
ferventemente che le desse la forza di sopravvivere a tanto spasimo,
non per amore ch'ella portasse alla vita, oramai rendutalesi amara e
pesante, ma per non togliere alla sua disgraziata famiglia l'ultimo
braccio che le avanzava. Ella sentiva il dovere di vivere non per sè,
ma pei suoi. E le sue preci furono esaudite dalla Provvidenza. Lucia
ripigliò la sua forza, e comechè affranta dalle sofferenze, pareva
attingere nell'amore della propria famiglia il coraggio e la vigoria.

Ella non potea soffocare nel suo cuore una passione ch'era divenuta
una parte vitale della sua esistenza; ma si tenea paga di amare Daniele
nel fondo dell'anima. Lucia avrebbe potuto fare impallidire il perfido
nel cospetto medesimo della sua vaga, avrebbe potuto gittare nel mezzo
dei due amanti la parola _trovatello_ qual barriera insormontabile
tra loro; ma Lucia, al pari di Maurizio Barkley, avea l'animo troppo
elevato e il cuore troppo ben formato per discendere ad una vendetta
che avrebbe renduto infelice il suo amante senza render lei meno
sventurata. Lucia fece di meglio assai; fece quello che la religione
insegna: perdonò ed amò.

Stando a tal modo le cose, un mattino Padre Ambrogio, che mal si
studiava di nascondere il suo turbamento, vinto dalle istanze di Lucia
e di Marietta, confessò di aver saputo che Daniele si accingeva a
partire per l'estero, e che gli era stato impossibile di scoprire quale
scopo si avea tal partenza, qual motivo l'avea determinata. Facendo
ciò palese, Padre Ambrogio restò maravigliato non poco nello scorgere
sul volto della fanciulla, a vece di un dolor profondo, una certa
espressione come di gran gioia. E siccome egli non facea mistero delle
impressioni che provava, dimandò a Lucia perchè quella notizia, invece
di contristarla, sembrava le desse soddisfazione. Lucia gli confessò
ch'ella preferiva di saper lontano il suo amante e forse per sempre,
anzichè di saperlo in Napoli e al fianco di un'altra donna. Oh! se la
tapinella avesse conosciuto lo scopo del viaggio di Daniele!

Ma in pari tempo ch'ella confessava esser più contenta che Daniele
partisse piuttosto che saperlo accanto alla figliuola del Duca di
Gonzalvo, i suoi occhi si bagnavano di lagrime, le sue affilate gote
s'imbiancavano, ed il suo petto si gonfiava come la marea vicina a
frangersi in sulla spiaggia. E le sue lagrime erano richiamate eziandio
da quelle di Marietta che scorrevano senza ritegno su per le belle
guance della fanciulla, la quale frattanto non lasciava di rimprocciar
la sorella perchè piangesse mentre avea detto di aver piacere della
partenza di quel birbante (questo era l'epiteto che Marietta solea
dare a Daniele). Lucia più non pianse, ma fermò di veder Daniele per
l'ultima volta, innanzi che questi abbandonasse Napoli.

Si conosce come allora che il giovine si accingeva a salir sulla
diligenza che dovea menarlo lungi da Napoli, la fanciulla si slanciò,
con impeto irresistibile, verso di lui, e gli si mostrò. È noto lo
scontro de' due amanti. Lucia avea veduto vagare una lagrima negli
occhi di Daniele: ella era meno infelice!

Dal dì della partenza dell'amato giovine, Lucia non era men trista
e sofferente che per lo addietro, ma più tranquilla e interamente
rassegnata. La tristezza del suo cuore veniva per altro accresciuta
dalla povertà ch'ella vedeva ogni dì vie più invadere la famiglia.
Quantunque tanto ella quanto Marietta facessero ogni opera e si
ammazzassero di lavoro, il frutto delle loro fatiche a mala pena
bastava per uno scarso nutrimento. Padre Ambrogio non cessava, sia con
procacciar lavori alle due fanciulle, sia con delicate sovvenzioni
che egli sapea nascondere con arte, rifondendo del suo sul meschino
prodotto dei lavori ch'egli stesso lor dava a fare, non cessava di
provvedere al sostentamento di quella famiglia, della quale egli avea
promesso a Giacomo di essere secondo padre. Commovente e splendido
esempio di virtù! Oh perchè gli uomini come Padre Ambrogio son così
rari nella società corrotta e decrepita in cui viviamo!

La visita di Emma aveva interamente cangiato l'aspetto delle cose.
Erano circa le undici di un bel mattino lucido e sereno. Maurizio era
andato a piedi alla dimora dell'onesta famiglia. Egli era vestito colla
più grande semplicità: portava un soprabito bigio; lunghi stivali colle
rivolte, cappello a larghe tese, e una giannetta d'ebano nelle mani. I
fratellini di Lucia erano usciti a diporto nei dintorni colla vecchia
fantesca, così che in casa non erano che Lucia, Marietta e Uccello.

Marietta era occupata a rimendare e ricucire calze, camice ed altri
panni pertinenti ai fratelli: sopra una sedia, ad una traversa della
quale appoggiava i piedi, ella teneva un patuffolo di panni che dovea
passare in rivista, e su cui gittava con impazienza lo sguardo, però
che la vispa fanciulla avrebbe preferito di andare un poco a scorrazzar
per la campagna in compagnia dei fratelli. Ad ogni punto ella dava
un'occhiata al lavoro, e mille d'intorno, guardava distratta al di là
della finestra e mandava di grossi sospiri. Spesso rimaneva coll'ago
in mano senza far niente, o si metteva a guardar con amore la sorella
ch'era tutta in sul lavoro. Marietta era tanto felice nel veder sul
volto di Lucia rinati in parte i color della salute! E se Lucia alzava
gli occhi, Marietta ripigliava il suo compito e ritornava all'opera
sorridendo, ma allora era ruina tutto quello che faceva; s'imbrogliava
a infilare l'ago, si scordava di fare il nodo della gugliata, si
pungeva le dita ovvero, se stava rimendando le calze, facea scappar
le maglie e scavalcarle, si facea cader la bacchetta e i ferruzzini.
Lucia sorrideva, dappoichè ben sapea come l'amasse quella cara sorella,
il cui solo difetto era nella troppa leggerezza del temperamento.
Lucia avea posto mano ad un paio di calzoncini nuovi di Andrea, il più
piccolo dei fratelli: ella ne avea fatto l'imbastitura, e si accingeva
a cucirli. Non si può dire il bene immenso che la visita di Emma avea
fatta a tutta questa famiglia. Quanto poco ci vuole per rialzare i
sofferenti dal loro abbattimento! Lucia non era più così trista come
per lo addietro; la sua famigliuola avea ormai un appoggio, un'amica. A
seconda ch'ella si sentiva restituita alla salute, ella ne provava una
indicibile felicità, perocchè poteva, colla fatica delle suo braccia,
sovvenire ai bisogni de' fratelli.

Le due sorelle erano così occupate. Una fascia di sole illuminava i
loro lineamenti e andava a scherzare sulla sedia situata nel mezzo di
quelle due fanciulle. In un angolo della stanza era seduto Uccello
davanti ad una tavola su cui si vedea spiegato un grande abbicci.
L'idiota si sforzava di apparare a conoscere le lettere, imperocchè
Padre Ambrogio gli avea promesso un bel regalo se imparasse in
pochi giorni l'alfabeto. Uccello avea mandato a memoria il nome di
ciascuna lettera, ma non sapeva ancora farne l'applicazione alla
figura. Egli si facea di grosse risate senza motivo, e sfregavasi le
mani ogni volta che indovinava a chiamare una di quelle lettere. Di
tempo in tempo, annoiato di cantar, sempre la stessa canzone su quel
maledetto scartabello che gli stava dinanzi, si alzava e veniva ad
equilibrarsi in sulla spalliera della sedia di Marietta, a giuocare
co' gatti mollemente sdraiati al sole, a perseguitar qualche mosca,
o a trastullarsi colle proprie dita divenute per lui dieci balocchi
gentili e graziosi. Una modesta tirata di campanello fece ristar dal
lavoro le due fanciulle e correre alla porta Uccello che, dopo molte
lezioni e molti sforzi, aveva appreso ad aprirla. Le due sorelle
furono estremamente sorprese nel vedersi dinanzi un uomo ch'esse
non conoscevano, mentre credevano che fossero i due fratelli i quali
tornassero dalla passeggiata unitamente alla vecchia fantesca che gli
avea accompagnati.

Maurizio Barkley salutò col capo le due fanciulle a rimase col cappello
in mano e all'impiedi.

— Scusate, signorine, egli disse, se ardisco presentarmi senza forse
essere personalmente conosciuto da voi. Eppure ho avuto l'onore di
godere la stima di vostro padre.

— Il vostro nome signore? dimandò Lucia.

— Maurizio Barkley.

A tal nome le due fanciulle fecero un moto di sorpresa.

— Ma noi conosciamo un tal nome, n'è vero, Lucia? disse Marietta.

— Certamente, era questo il nome che figurava sulle polizze che Daniele
riceveva ogni mese.

— E che tuttavia riceve, osservò Maurizio sorridendo.

— Voi dunque, signore, siete l'ignoto benefattore di Daniele?

— Non io propriamente, signorina... ma su questo vi prego di non
interrogarmi: avrei il rammarico di dovermi rifiutare alle vostre
inchieste. Bastivi il conoscere esser io quel Maurizio Barkley il cui
nome figura sulle polizze che Daniele riceve in ogni fin di mese.

Mentre Maurizio parlava, Marietta era ita a prendere una sedia e l'avea
offerta all'Esquire, che si sedè presso le due fanciulle, come se fosse
amico intrinseco di casa.

Lucia dimandogli:

— Poichè voi, signore, avete detto che Daniele riceve ancora il
sussidio mensuale, la cui provvenienza non potete rivelarci, voi però
dovete conoscere dove al presente egli si trova.

— Daniele è in Germania, signorina.

— In Germania! esclamò Marietta; è lontano, non è vero, signore?

— Non lo è mai abbastanza per la vostra pace, rispose Maurizio,
affissando gli occhi in quelli di Lucia, la cui commozione si
appalesava dai moti irregolari del seno e della estrema pallidezza del
volto.

— Egli sta bene dove sta, e speriamo che se ne vada a capo del mondo,
disse Marietta, guardando di soppiatto la sorella per vedere che
sensazione le producessero queste parole.

Maurizio sorrise e guardò con compiacenza Marietta, la cui vivacità si
tradiva in ogni sua parola e gesto. Lucia avrebbe voluto fare un mondo
di domande a Maurizio, ma la trattenea un certo timore di conoscere
cose che le avrebbero arrecato dolore grandissimo: nello stesso tempo
ella vergognavasi di fare tali domande alla presenza della sorella, cui
avea promesso di non mai parlare di Daniele.

— Sento il dovere, signorine, disse Maurizio dopo qualche momento
di silenzio, di dichiarare lo scopo della mia visita. Io sono il
messaggiero della vostra amica la Duchessina Emma di Gonzalvo.

Un raggio di gioia sfavillò su i volti delle due sorelle

— La Duchessina! esclamò Lucia.

— Quella celeste creatura! disse Marietta.

Ed entrambe guardarono con avidità negli occhi di Maurizio, quasi
avessero voluto conoscere anticipatamente ciò che questi dovea dir
loro.

— Ella stessa, rispose Barkley, ella m'incarica di darvi un attestato
della sua sincera amicizia.

— Abbiamo forse bisogno per ciò di altri attestati, di altre prove
disse Lucia a cui già gli occhi si velavano di lagrime di tenerezza. Oh
perchè vuol ella opprimerci di bontà!

— Chi ha imparato una volta a conoscervi, adorabili fanciulle,
disse Maurizio, non farà mai abbastanza per dimostrarvi la sua
affettuosa amicizia. Emma ha un torto da riparare con voi, Lucia; ella
involontariamente vi ha rapito il cuore di Daniele, ed oggi ella viene,
per mezzo mio, se non a restituirvelo (poichè ciò non è in suo potere),
a rendervi almeno la sicurezza e la pace. Io sono incaricato di farvi
la confessione che la Duchessina Emma di Gonzalvo ama un altro, che non
è Daniele, e dal quale ella è corrisposta con un'indicibile adorazione.
Questa confessione rimanga per altro, sepolta ne' vostri cuori,
signorine; Emma non vuol per ora che nessuno al mondo sappia i suoi
sentimenti.

— Ah! ti ringrazio, mio Dio, ti ringrazio, esclamò Lucia giungendo le
mani e volgendo al cielo i suoi begli occhi.

— Oh benedetta! benedetta! sclamò Marietta. Or sì ch'ella merita di
essere adorata! Beato, beato quell'uomo ch'è il suo amante! Oh come
costui deve andar superbo e felice di essere amato da quel sole di
bellezza!

— E chi è costui? dimandò Lucia.

— MAURIZIO BARKLEY! disse questi chinando gli occhi e impallidendo.

— Voi! voi, signore!! Oh siate felice, signor Barkley, chè ben lo
merita il vostro nobil cuore!

Maurizio si affrettò d'interrompere una conversazione che diveniva
pericolosa e delicata per lui. Poco stante, egli si accomiatava dalle
due sorelle. Ma innanzi ch'ei fosse partito, Lucia lo avea pregato di
manifestare alla nobile amica i suoi sentimenti di riconoscenza, di
stima e di affetto. Nel discendere le scale di quella casa, Maurizio
dicea tra sè:

— Ho fatto il mio dovere; le ho salvato il cuore... Dio faccia il resto!

Nella stessa mattina, e non sì tosto di ritorno da _S. Maria degli
Angeli alle Croci_, Maurizio recossi al palazzo S... e chiese di
parlare alla Duchessina. Emma il ricevè, siccome solea da qualche
tempo, colle dimostrazioni della più confidenziale amicizia. Maurizio
era pallido, ma tranquillo secondo il consueto.

— Vengo dalla vostra amica, da Lucia Fritzheim.

— Ah! esclamò Emma, vi ringrazio davvero, signor Barkley; volea
pregarvi appunto questa mattina di recarvi da lei per informarvi della
sua salute che mi è sì cara.

— Vedete, Duchessina, ch'io antivengo ai vostri desiderii. Ma ho
fatto molto di più che informarmi della sua salute: le ho interamente
restituita la pace del cuore, rassicurandola su i vostri sentimenti a
riguardo di Daniele. E per rimuovere dall'animo di lei ogni sospetto,
mi son fatto ardito di dirle che altri occupava il cuor vostro.

— Che! signore!

— Ora, Duchessina, voi avete l'obbligo di non più pensare a Daniele:
se questo era dianzi generosità in voi, al presente è dovere; io vi ho
fatto una legge di sacrificare all'amicizia un avanzo di affetto per
un uomo che ne è indegno. Ricordatevi che voi mi avete comandato di
salvarvi il cuore.

— Ed avete fatto bene, signor Barkley, e ve ne ringrazio... Voi dunque
avete detto a Lucia Fritzheim che il mio cuore..

— Era avvinto ad altro amore, Duchessina.

Emma sorrise e abbassò gli occhi.

— Scommetto che mi avete trovato anche un amante, disse sorridendo la
fanciulla.

— Si, Duchessina, rispose Maurizio con visibile turbamento, ho detto
che voi amavate...

— Chi mai? interruppe Emma aggrottando le ciglia.

— Maurizio Barkley! questi rispose con voce appena sensibile.

— Voi! voi stesso! esclamò Emma arrossendo di viva fiamma.

— Io stesso, Duchessina; imploro tutto il vostro perdono per questa
ardita menzogna. Quella fanciulla mi ha chiesto il nome del vostro
amante. Chi poteva io nominare senza compromettervi? Gli è certo che se
io avessi nominato qualunque altro, non solamente avrei commessa la più
imperdonabile imprudenza e temerità, ma la menzogna cessava di essere
innocente. Posso sperare di aver ottenuto il vostro perdono?

Emma, cogli occhi bassi, gli stese la mano.

— Amico generoso! diss'ella, avete salvato me e Lucia; vi perdono e vi
ringrazio.

Maurizio baciò la mano della nobil fanciulla e si ritrasse, dicendo tra
sè stesso:

— E me chi salverà, se non Dio?



Parte Quinta



I.

LOTTA INTERNA


Dal giorno in cui tra il Baronetto e Daniele era stato conchiuso il
bizzarro contratto, per lo quale costui si obbligava ad essere il
custode del cadavere di quello, lo stato morale di questi due uomini
erasi al tutto cambiato: il Baronetto, restituito alla salute e alla
tranquillità, avea ripreso le consuete sue occupazioni; era tornato
a' suoi campestri lavori; avea richiamato intorno a sè gli amici,
di cui si era dinanzi disgustato a cagione della infermità del suo
spirito; avea ripigliato i suoi studi, le sue faccende; era insomma
ridivenuto quello stesso uomo ch'era qualche anno addietro. Egli amava
sempre Daniele, e sempre con piacere il vedeva a sè d'accanto; ma ora
mutato era l'aspetto delle cose: ed il Baronetto più non sentiva la
necessità delle melodie del giovine pianista per iscacciar dall'anima
que' fantasmi che al presente più non venivano ad assediarlo. Anzi, è
mestieri confessare che l'aspetto di Daniele cagionava piuttosto una
spiacevole sensazione in Edmondo, dappoichè questi non vedeva ormai
nel giovine italiano che l'uomo destinato a vegliare sulle sue spoglie
mortali. Ciò non vuol dire che Edmondo disamasse Daniele, verso il
quale si sentiva attratto da una forza prepotente; ma il _guardiano_
della morte non poteva non far nascere un sentimento di ripugnanza
nell'animo del Baronetto.

Dal canto suo, Daniele, a vece di esser lieto della prodigiosa fortuna
che un giorno gli sarebbe spettata, sembrava più impensierito che per
lo passato: egli era sempre distratto taciturno, o inconcludente. Nel
cospetto di Edmondo, egli forzava di mostrarsi men rabbruscato e più
ameno, ma ora, non così di frequente ei vedeva il Baronetto, e la sera
quando questi era nel cerchio dei suoi amici, Daniele non appariva che
un istante nella camera verde, e tosto dileguavasi per abbandonarsi
alla solitudine de' suoi pensieri, o per trovare nel teatro Manheim
distrazioni e svagamenti.

Il mese era scorso dacchè ei si trovava a _Schoene Aussicht_: il
Baronetto, fedele alla sua promessa, gli avea dato una cambiale di
trentamila franchi pagabile a vista e tratta sopra un banchiere di
Manheim. Nel dargli questo denaro, il Baronetto avea detto sorridendo:
Ecco una piccolissima anticipazione su quello che il _mio cadavere_ vi
darà. Daniele era libero di seguitare i viaggi e di tornare a Napoli.
Edmondo non faceva più nessuna istanza per ritenerlo altro tempo
a _Schoene Aussicht_: intanto il giovine pianista non sapea venire
in nessuna risoluzione. Egli non volea più seguitare i suoi viaggi,
imperocchè ne comprendea l'inutilità. D'altra parte, non era egli ormai
l'erede d'immense ricchezze? Che bisogno avea di ammazzarsi di lavoro,
nella certezza di non poter mai conseguire quel milione, che egli vedea
rifulgere nell'avvenire? Ritornare a Napoli? Questo proponimento era
ben lontano dall'animo suo, perocchè Daniele non volea riporre il piede
nel paese dov'era Emma, se prima non diventasse milionario.

Intanto egli sentiva la necessità di allontanarsi immantinente da
_Schoene Aussicht_. Ogni dì che ei prolungava il suo soggiorno in
questo luogo, l'animo suo si faceva più nero e il suo volto più
pallido. Nell'aureo appartamento dov'egli avea stanza, nel letto di
seta dov'ei si gittava per riposare, Daniele più non trovava il riposo
e la quiete; il sonno ch'era tornato sulle ciglia di Edmondo, fuggiva
dagli occhi di lui. Daniele volea fare il possibile per involarsi a
sè medesimo, per non trovarsi faccia a faccia coi proprii pensieri,
ma frattanto ei non sapea abbandonar la poltrona sulla quale rimanea
lunghe ora nella più assoluta immobilità.

Che cosa aveva operato un sì strano cangiamento in Daniele? Un'idea
infernale che gli si era presentata al pensiero come luce sinistra.
Dapprima egli avea rigettata quest'idea con tutte le forze dell'anima
sua, aveva fremuto nel pensarvi; ma quell'idea che dapprima se gli era
mostrata rivestita di orrore, incominciò per così dire, a dimesticarsi
con lui. Quest'idea era un DELITTO!

La nostra penna rifugge dal palesare quello a cui pensava Daniele
per accorciare il termine della sua aspettativa e per far sparire
la distanza che lo separava dall'oggetto dei suoi desiderii! Il suo
petto balzava al pensiero di volare, due volte milionario, dal Duca
di Gonsalvo, non appena spirati due anni. Un ostacolo si frapponeva
al compimento de' suoi voti, una vita! Un uomo doveva diventare
CADAVERE perchè avesse potuto afferrare quella felicità che gli si
mostrava lungi con tutti gl'incanti della seduzione. Due milioni
ed Emma! E per ottenere questa felicità bastava un momento, un sol
momento di coraggio, di ardire!! — Quando un uomo è giunto a passare i
quarant'anni, non ha vivuto abbastanza, e massime quando quest'uomo ha
goduto sino alla sazietà di tutte le delizie della vita? Che cosa sono
gli anni che seguono, se non che una serie di malanni e di miserie? Che
cosa sono in rispetto all'eternità venti o trenta anni di più che un
uomo strascina in sulla terra? E che cosa è la vita di un uomo nella
immensità della creazione? Che cosa è una esistenza nel mezzo delle
generazioni? — Così fatti atroci pensieri si aggiravano nel capo del
giovine pianista, mentre che altri pensieri di diverso genere, immagini
seducenti di piacere, di gioie, di delizie compivano la orrenda
persuasione.

Quando una funesta idea si presenta allo spirito umano, le passioni
ch'essa fomenta sono sì scaltritamente inventrici di arzigogoli e di
false ragioni ch'egli è estremamente difficile di non rimaner presi
nella pania. Daniele combattè con forza l'orribil pensiere che tanto
più diventava pericoloso quanto più perdeva del suo orrore; ma ciò
nonostante, ogni volta ch'ei pensava ad Emma, a' due anni che sarebbero
spirati, all'immensa eredità che lo aspettava, a que due stuzzicanti
milioni che l'invitavano a fruirne pria del tempo, alla gioia sovrumana
di presentarsi così ricco e sì pieno di fastigi al superbo Duca di
Gonzalvo ed alla altiera sua figliuola; quando Daniele pensava a queste
cose, il demone del delitto soffiava nell'anima di lui i più nefandi
propositi, cancellava ogni buon proponimento, e lo sciagurato giovane
era da capo con quella cupa taciturnità che suol precedere l'attuazione
di un gran delitto. Dal momento che questa idea infernale si era
insignorita dell'animo di Daniele, i colori della salute disparvero
dal suo volto. Egli più non sapea trovare una nota sul pianoforte, cui
raramente si accostava, parlava solo, amava le solitarie passeggiate,
s'internava nei più folti viali della villa di _Schoene Aussicht_, ed
il suo sguardo avea preso un'espressione strana ed incomprensibile.

Non sappiam dire qual effetto ormai producesse in lui l'aspetto di
Edmondo. Daniele evitava d'imbattersi nel Baronetto, di cui più non
potea sostenere le occhiate, quasi avesse temuto che questi indovinasse
i suoi pensieri. Edmondo avea notato la metamorfosi che si era operata
nel giovine pianista, e l'attribuiva interamente agli amori di lui,
alla tristezza della lontananza dall'oggetto amato, e sovente il
ritoccava sorridendo su questo tasto: al che Daniele rispondeva parole
vaghe, e tosto, sotto un pretesto, tornava alla sua solitudine, dove
covava disegni tenebrosi e mortali. Per buona ventura, il delitto
meditato non offriva una facile esecuzione: era quasi impossibile di
FARE SPARIRE DAL MONDO IL BARONETTO senza lasciare orma del misfatto.
Ben s'intende che l'impunità era la prima condizione che Daniele avea
posto a calcolo nel perfido attentato, al quale giorno e notte stava
sopra col pensiere, ma l'impunità non è così facile, e, per ammirabile
disposizione della Divina giustizia, l'uomo che ha commesso un delitto
il porta dovunque stampato in sulla fronte anche quando gli è riuscito
di sperderne ogni traccia.

Daniele pensava; Uccider di pugnale? Niente di più agevole ad
eseguirsi, ma in pari tempo niente di più facile a discoprirsi.
Assassinando il Baronetto di notte e nel proprio letto si avrebbe
potuto congetturare un assassinio commesso da ladri. Ma intanto la
giustizia si sarebbe posta in sulle tracce dell'assassino; avrebbe
cominciato dall'impadronirsi di tutte le persone residenti a _Schoene
Aussicht_, e certamente la singolarità del testamento di Edmondo
avrebbe chiamato i sospetti sulla persona dell'erede, il quale, non
appartenendo al defunto per nessun vincolo di sangue; presentava
probabili induzioni di reato. D'altra parte, se egli, Daniele, fosse
caduto nelle mani della giustizia, anche per semplici sospetti, in che
modo avrebbe potuto adempiere ai patti del testamento, e porsi quindi
in possesso della eredità? Bisognava dunque rinunziare ad ogni idea di
assassinio per mezzo del pugnale.

Uccider di veleno? Ciò presentava, è vero, minor facilità di
scoprimento, ma difficoltà moltissima di esecuzione. Come procurarsi
il veleno? a chi fidarsi? Aver complici del delitto? Oltre a ciò, dal
momento che nell'animo del Baronetto fosse sorto il pensiere di essere
stato avvelenato, non avrebbe egli subitamente sospettato il futuro
suo erede quale autore dell'avvelenamento? L'autopsia richiesta forse
dall'autorità, a malgrado del testamento del defunto, non avrebbe
annientata l'eredità, annientandone le condizioni? E non poteva il
moribondo Baronetto, in un momento di chiaroveggenza, distruggere il
testamento? Ma la difficoltà che superava tutte le altre pel compimento
di questo delitto si era il procacciarsi il veleno, senza eccitare
sospetti nella persona che lo avrebbe venduto. Aggiungi a tutto questo
l'impossibilità di nascondere il proprio turbamento alla presenza
del moribondo, del dott. Weiss, dei servi che sarebbero accorsi per
prestare all'infermo ogni possibile soccorso e rimedio. Bisognava
dunque non pensare ad una morte per avvelenamento.

Uccidere con istrangolamento? Era rischioso e terribile: Daniele non
avea per questo nè forza nè coraggio. Prescindendo da ciò, questo
genere di morte presentava la stessa faciltà di discoprimento che
l'assassinio per pugnale. La scienza avrebbe immantinente rivelato il
delitto, e la giustizia non avrebbe tardato a trovare il delinquente.
Era dunque mestieri di smettere anche questa idea la quale, bisogna
dirlo, facea fremere lo stesso Daniele.

L'impossibilità dell'esecuzione avea scoraggiato il giovine, il quale
tenne ciò come avvertimento del cielo, e parea deciso a rinunziare ad
un proponimento sì terribile. D'altra parte, il patibolo o i ferri non
mancavano a quando a quando di mostrarsi da lungi all'atterrita mente
del giovine, ch'era preso allora da salutare orrore del misfatto che
avea concepito.

Comunque la sua ragione fosse a tal guisa annebbiata dalle
passioni, il cuor di Daniele sentiva sempre un certo incomprensibile
attaccamento pel Baronetto; e il pensiere di assassinarlo, tra le
tante insormontabili difficoltà che presentava, si avea quella di dover
soffocare quel tenero sentimento inesplicabile che Daniele provava per
quell'uomo che gli avea dato così splendida ospitalità e che, morendo,
il lasciava erede di tutte le sue ricchezze. E questo sentimento fu
così forte che Daniele, rientrato in sè medesimo, ebbe bastante vigoria
di volontà per iscacciar dall'animo il pensiere di tanto delitto;
anzi, per vincere una volta per sempre la tentazione, risolvette di
abbandonare quella casa e quel paese, e di affidare l'avvenire agli
eventi. Daniele avea risoluto di congedarsi dal Baronetto.

— A capo di due anni, egli dicea tra se, tornerò a Napoli, mi recherò
dal Duca di Gonzalvo, e gli porterò una lettera del Baronetto, in
cui questi mi riconosce per suo erede. La tardanza dell'eredità sarà
compensata dalla prodigiosa cifra di due milioni e da' titoli, di cui
mi porrò in possesso alla morte del testatore. Vedremo se quel superbo
Gonzalvo sarà soddisfatto e pago di ciò.

Daniele non volle più oltre indugiare a porre ad effetto la buona
risoluzione che avea preso, e che temeva ad ogni istante di sentir
vacillare in sè medesimo. Nello stesso giorno, egli salì dal Baronetto
per accomiatarsi da lui e per pregarlo di volergli scrivere quella
lettera pel Duca di Gonzalvo, ignorando le relazioni ch'erano passate
tra questi due personaggi.



II.

L'UPAS


Abbiam fatto più volte comprendere che il nostro principale scopo in
queste narrazioni si è di fissare l'attenzione dei nostri lettori sulla
più importante verità morale:

LA MANO DELLA PROVVIDENZA NEI FATTI DELL'UMANA VITA.

Quell'infinità di romanzi che si svolgono nella società degli uomini,
di cui la maggior parte rimane ascosa agli occhi della storia che
tocca soltanto i fastigi sociali, non sono, siccome noi crediamo; che
dimostrazioni più o meno evidenti di quella verità che si appalesa
almeno chiaroveggente.

Ci par di vedere che i delitti ben sovente sieno la doppia punizione
inflitta dal cielo a due colpe rimaste celate agli occhi dell'umana
giustizia. Nell'ordine morale, l'impunità non è per nessuno; il solo
pentimento, accompagnato da una intera vita di volontarii sacrificii,
riscatta una colpa.

Edmondo era solo nella stanza da studio. Seduto vicino alla sua
scrivania, egli avea risposto ad una lettera di Maurizio Barkley. Nel
momento in cui Daniele si presentò nello studio, il Baronetto aveva
appunto terminata la sua lettera e vi stava apponendo il suo suggello.

— Oh! buon giorno, caro Daniele, dissegli Edmondo sorridendo e
stendendogli la mano, a che debbo attribuire l'onore d'una vostra
visita?

— Perdonate, signor Baronetto, se vengo per poco ad interrompere le
vostre occupazioni.

— Ma che dite mai! È un piacere che mi date... Mi occupavo a sbrigare
il mio corriere, anzi vi chieggo il permesso di spedire questa lettera.

Daniele s'inchinò e si sedè accosto alla scrivania. Edmondo suonò
il campanello, ed al servo che si presentò sotto l'uscio consegnò la
lettera pel corriere di Napoli.

— Eccomi sbrigato, soggiunse indi; questa mattina io sono veramente
felice, imperocchè con quella lettera che ho spedita nel vostro paese,
a Napoli, mi sono sdebitato di un antico dovere di gratitudine, e,
oltre a ciò, ho il piacere di vedervi in un'ora in cui non siete solito
di favorirmi di vostre visite.

— Quanta bontà, signor Baronetto!

— E sempre accigliato, mio caro Daniele! sempre pensieroso! Noi abbiamo
interamente cangiate le nostre parti: per lo passato eravate voi che
spargevate un poco di sollievo sulla mia tristezza; ed oggi son io
che adempio verso di voi a tale ufficio. Peccato che non sono artista
anch'io, e del vostro genio! Ma qual differenza tra le cagioni della
nostra malinconia! Io non era innammorato, e nol sono mai, per mia
disgrazia: dev'esser ben dolce cosa il pensare all'oggetto amato, n'è
vero Daniele?

— V'ingannate, signor Baronetto, se credete che sia l'amore la
cagione del mio malumore. Non niego che gran parte esso vi abbia, ma è
tutt'altro il motivo che m'impedisce di abbandonarmi alle distrazioni
proprie della mia età.

— Non voglio essere indiscreto, mio caro Daniele, ma vi ricordo che in
me avete un amico e sincero; spero avervene date prove sufficienti.

— E indelebili, signor Baronetto; ed io mi sono risoluto di non abusare
più a lungo della vostra bontà. La mia ulteriore dimora a _Schoene
Aussicht_ sembra interamente inutile; così permetterete che domani io
mi accomiati da voi.

— Così presto! esclamò Edmondo il quale non si aspettava a questa
risoluzione del giovine: ed è questo forse l'oggetto della vostra
visita di questa mattina?

— Per lo appunto, signor Baronetto, rispose Daniele abbassando gli
occhi.

— E perchè una tale risoluzione?

— Perchè credo inutile di esservi più a lungo di peso; spirato è il
mese da che mi trovo a Manheim, e, quantunque le nostre relazioni non
sieno più le stesse di quelle ch'erano nei primi giorni ch'io ebbi
l'onore di ricevere da voi così splendida ospitalità, pure non possono
minimamente influire sul mio ulteriore soggiorno a _Schoene Aussicht_.

— È superfluo il dire, riprese Edmondo, quanto piacere mi farebbe di
tenervi nella mia casa qualche altro tempo; ma non voglio avversare la
vostra volontà, e voi siete libero di fare quello che più vi converrà.
Gli obblighi scambievoli che ci siamo imposti e la natura del mio
testamento hanno stabilito tra noi vincoli che hanno qualche cosa dì
più della semplice amicizia. Laonde, in qualsivoglia evento della
vostra vita, in qualunque contingenza imbarazzante in cui possiate
trovarvi; mio caro Daniele, pensate che sarà per me uno dei più be'
giorni della mia vita quello in cui potrò prestarvi un tenue servigio e
darvi un attestato del mio inalterabile affetto.

— Ebbene, signor Conte, si affrettò a dire Daniele, io mi varrò della
vostra benevolenza innanzi ch'io parta ed avrò il coraggio di chiedervi
una grazia.

— Bravo! esclamò Edmondo; ecco quel che si chiama vero affetto e vera
stima: andiamo su parlate francamente, giovanotto, siccome parlereste a
vostro padre.

— La grazia ch'io vi chieggo, signor Conte, disse Daniele arrossendo,
si è di scrivermi una lettera pel Duca di Gonzalvo.

— Pel Duca di Gonzalvo!

— Sì, signor Conte: in questa lettera voi gli darete l'assicurazione
della vostra volontà di nominarmi vostro erede universale. Munito di
questa scritta, io ritornerò da lui con altro animo, e sarà lo stesso
come se io me gli presentassi milionario.

Edmondo sorrise, e dopo alcuni momenti di silenzio, disse:

— Questo che mi dimandi, figlio mio, è assolutamente impossibile.

— Impossibile! esclamò sorpreso il giovine.

— Impossibile, replicò Edmondo.

— E per qual ragione, di grazia? chiese Daniele.

— Non posso dirtene la ragione, mio caro Daniele: dicoti soltanto
che tra me e il Duca di Gonzalvo avvi una barriera mortale: le nostre
relazioni sono rotte per sempre; ti prego anzi, mio caro figliuolo,
per quanto hai di più sacro, di non parlar giammai di me al Duca di
Gonzalvo nè rivelargli giammai il luogo del mio ritiro. Sarà questa una
pruova a cui pongo il tuo affetto per me.

— Io dunque non potrò giammai dirgli, che sono destinato ad essere
l'erede del Baronetto Edmondo Brighton, Conte di Sierra Blonda?

— Glielo dirai un giorno dopo della mia morte, se colui vivrà ancora!

Daniele chinò il capo in atto di scoraggiamento e si tacque immerso ne'
suoi cupi pensieri. Il demone del delitto fece di bel nuovo balenare
una luce di sangue nella mente del giovine! Gli occhi di Daniele si
erano fissati distrattamente in sulla scrivania del Baronetto, così
che sembrava ch'egli leggesse la soprascritta d'un libro che ivi stava,
mentre il pensiere del giovine era ben lungi dall'occuparsi di libri.

Edmondo per disviare la conversazione dal tristo subbietto al quale si
era incamminata, disse a Daniele:

— Questo libro su cui voi gittate gli occhi, mio caro Daniele, è
tutto scritto di mio proprio pugno. Sono memorie della mia vita da me
gittate in questo scartafaccio: osservazioni importanti da me raccolte
ne' miei viaggi; ragguagli su talune rarità ch'io conservo. Ieri sera
per lo appunto, rileggendo alcune notizie sull'isola di Giava, dov'io
rimasi per pochi giorni, ricordai di dover conservare alcune fronde
di un albero che cresce in questa isola chiamato l'_Upas_ ovvero _The
Poisontree_ (l'albero del veleno). Voglio farvi udire le notizie da me
raccolte su questo terribile vegetale.

Edmondo aprì il manoscritto ad una pagina che egli avea segnata con un
pezzettino di carta e lesse le seguenti cose[5]:

«Quest'albero è nativo di Giava; arriva ad una considerabile altezza,
giungendo talvolta ottanta piedi. Si sviluppa da esso in gran copia
un succo o gomma, ch'è il più mortale veleno; di questo fanno uso
gl'indigeni per avvelenare le punte delle loro frecce e delle altri
armi. Gli effluvi ch'esalano da quest'albero sono talmente omicidi, che
nè un animale nè una pianta possono resistere alla sua influenza. La
gomma viene estratta per mezzo de' rei condannati a morte. Quando la
sentenza è pronunziata contro qualcuno di loro, il giudice gli dimanda
se vuol morire per le mani del carnefice, ovvero salire sull'Upas per
raccogliere una scatoletta di gomma. I condannati sogliono preferire
ciò, perchè hanno così una lontana probabilità di salvarsi. Prima
di avvicinarsi all'albero fatale, ricevono tutte le corrispondenti
istruzioni per rendere l'operazione meno pericolosa. Pel consueto,
simiglianti istruzioni vengon loro somministrate da un sacerdote, il
quale adempie verso di loro anche al sacro ufficio di prepararli a
morire. I condannati sogliono montar sull'albero, col capo coverto
da un berretto di cuoio e da una maschera con occhi di vetro; eglino
sono parimente provvisti di guanti di cuoio. I condannati evitano con
grandissima cura il contatto delle fronde, le quali, ad un semplice
tocco su qualunque parte nuda del corpo danno la morte. Gl'indigeni
non solamente avvelenano le loro armi col succo di questa pianta, ma
benanche le sorgenti e i serbatoi di acqua, quando veggono avvicinarsi
un nemico. Gli Olandesi perdettero la metà del loro esercito per un
siffatto avvelenamento e da quel tempo in poi, essi han sempre menato
con loro una quantità di pesci vivi, i quali essi gittan nell'acqua
alcune ore prima di arrischiarsi a berla. Una foglia dell'Upas
applicata sulla fronte di un uomo gli cagiona istantaneamente la morte,
quasi senza ch'egli senta di morire. Essa ha la facoltà di arrestare
immediatamente il corso del sangue ed i moti del cuore. La polvere
delle foglie secche dell'Upas è così terribile che bastano pochi atomi
di essa per dar la morte.»

Daniele avea seguita la lettura di questo passo con un'attenzione
indicibile; nessuna particolarità gli era sfuggita. È impossibile
descrivere l'espressione della sua fisonomia durante la lettura de'
ragguagli che abbiam citati. Il genio del male avea suggerito a Edmondo
il pensiero di leggere quella pagina del suo manoscritto.

Il Baronetto Edmondo Brighton avea letto la propria sentenza di morte.
La soluzione del problema che Daniele cercava da vari giorni era
trovata!

— E voi conservate le foglie di quest'albero? chiese con occhi di pazzo
Daniele.

— Ciò vi fa maraviglia! disse Edmondo ingannato sulla vera e terribile
significazione della dimanda del giovine, ebbene, io conservo le foglie
di quest'albero, le quali si saranno al presente ridotte a polvere.
QUESTO MIO CAPRICCIO COSTÒ LA VITA A DUE MIEI SCHIAVI; ma io voleva ad
ogni costo possedere un sì prezioso veleno.

Daniele guardò a terra cupo e concentrato, e disse ferocemente tra sè:

— Ah! tu facesti morire due schiavi per ottenere questo prezioso
veleno! Ebbene TU MORRAI PER ESSO! Ben dicesti che questo veleno è
_prezioso_... prezioso per me!

Daniele soggiunse ad alta voce, e quasi avesse fatta una domanda
indifferente:

— E dove tenete conservato, signor Conte, un oggetto così pericoloso?

— In una scatola di argento a doppio fondo nel forziere della camera
verde; sulla scatoletta è scritto in francese. _L'indiscreto che mi
aprirà, e toccherà all'oggetto che contengo, sarà punito di morte
istantanea._

— E come faceste per porre in quella scatola le foglie fatali?

— Le feci ivi porre dagli schiavi con ogni possibile precauzione senza
che le avessero toccate.

— Suppongo che conserviate gelosamente la chiave di quella scatola,
dimandò destramente Daniele.

— Ben s'intende; essa è nel fondo d'uno di questi cassettini, rispose
improvvidamente il Baronetto.

La giustizia Divina dettava le sue risposte.

Daniele sapea quello che gli era necessario; non volle più fare
nessun'altra interrogazione per non far nascere sospetti nell'animo di
Edmondo, il quale era ben lontano da simili supposizioni.

La conversazione seguitò su cose indifferenti, Daniele si studiò di
nascondere l'agitazione e il turbamento che gli dava la premeditazione
dell'enorme delitto che aveva in pensiere.

— Così che avete risoluto abbandonarmi domani? disse il Baronetto,
ripigliando il pristino subbietto della conversazione.

— Domani, se avrò l'opportunità di trovare un posto nella diligenza per
Darmstadt, dove intendo trasferirmi.

— Domani dunque vi ringrazierò, mio caro Daniele, di quanto avete fatto
per ridonare al mio spirito la tranquillità ch'io aveva smarrita.

— Oh sì, domani mi ringrazierete! disse Daniele con ironia, cui il
Baronetto prese per complimento.

— Ma fin da ora vi auguro buona fortuna, figliuol mio, buona in amore,
già s'intende, perchè al resto penseremo noi, non è vero?

— Quanto vi debbo, signor Baronetto! esclamò Daniele ipocritamente
abbassando lo sguardo in cui già balenava la perfidia dell'anima.

Egli si era alzato: la vista della sua futura vittima gli facea male al
cuore.

— A domani dunque, disse Edmondo stendendogli di bel nuovo la mano che
questa volta Daniele non ebbe la forza di toccare, e, abbassando gli
occhi, finse di non averla veduta.

— A domani, signor Baronetto, replicò il giovine a voce bassa e rauca.

— E non ci vedremo questa sera nel solito circolo degli amici? chiese
Edmondo; pensate ch'è l'ultima sera che avremo il bene di possedervi
tra noi; non dovete mancare!

— Non mancherò, signor Baronetto, non mancherò questa sera.

Daniele s'inchinò, e lasciò quella stanza, aggiungendo tra sè con
incredibil ferocia.

— E NON MANCHERÒ QUESTA NOTTE!



III.

E SE DOMANI MI CERCHERAI PIÙ NON SARÒ


La sera di questo giorno i soliti amici di Edmondo si radunarono
nella camera verde. Eran la maggior parte letterati tedeschi, artisti
fiamminghi, proprietarii de' dintorni e qualche Inglese dimorante a
Manheim. Spesso interveniva il Dottor Weiss. Alle nove si prendeva il
tè. La conversazione era delle più istruttive; si ragionava d'arti, di
politica, di filosofia, di scienza, di morale.

Per mala ventura, quasi tutti gli amici di Edmondo, al par di lui,
erano seguaci di quella paradossale filosofia alemanna, che tanto
contribuì a travolgere le idee e a gittarle nel vacuo della _ragion
pura_, parodia della ragion naturale. Le teorie del filosofo di
Conisberga faceano a quel tempo gran rumore in Germania e in Europa:
ci fu la moda del filosofare alla Kant come di vestire alla Francese.
L'Italia soltanto non si lasciò impòrre dal gran nome del maestro della
novella scuola alemanna, rigettò le speciose dottrine che puzzavano
di ateismo, e si tenne a quel ragionare che rischiara e non confonde,
che analizza e non distrugge, che siegue il corso naturale delle idee
e non straripa nelle fantasticherie della follia: che esamina, non
dogmatizza, che si fortifica colla rivelazione e non si perde nello
scetticismo. Mentre la Germania delirava con Hegel e con Fichte,
l'Italia ragionava con Vico e Galluppi.

Vari furon i subbietti della conversazione, e tra gli altri quello
che maggiormente alimentò la controversia e sostenne la disputa si fu
quello della possibilità che ha la scienza di estendere i limiti della
vita umana. Molto e lungamente si ragionò su questo argomento. Quegli
che fe' sfoggio di maggior eloquenza si fu il Baronetto, il quale
dimostrò che allora soltanto la civiltà avrà raggiunto l'apice della
perfezione, quando la scienza avrà scoverto il modo di rendere l'uomo
più valido contro i perpetui assalti della morte, e più comune la vita
centenaria.

In sul tardi della sera si presentò Daniele. Il suo aspetto: era sereno
all'apparenza, tranne che un profondo osservatore avrebbe scorto nella
corrugazione nervosa della fronte di lui e nel livido pallore del suo
volto una sinistra preoccupazione.

Il giovine pianista fu accolto, come sempre, coi segni del più gran
compiacimento. Il Baronetto avea già detto alla comitiva che Daniele
sarebbe partito il domani per Darmstadt; epperò il ricevimento che
questi si ebbe fu più espansivo del solito. Tutti gli amici di Edmondo
si alzarono e fecero a Daniele le loro parti di condoglianza pel
suo allontanamento da Manheim, ed i loro auguri pei suoi ulteriori
successi. Daniele rispondeva parole smozzicate, inconcludenti. Questo
attribuivasi alla naturale commozione di un uomo, che si vede l'oggetto
di tante dimostrazioni d'amicizia, e che, modesto, vuol respingere
la troppa esagerazione delle lodi. Il Baronetto volle celebrare
festosamente l'ultima sera che Daniele passava a _Schoene Aussicht_.
Una magnifica tavola a tè fu imbandita verso le undici. Tutto ciò che
la cucina francese, italiana e tedesca sa inventare di più prelibato
in fatto di dolci, di pasticci e di altre squisite vivande si trovava
sulle credenze; le quali, quasi sotto il tocco d'una verga affatata,
comparvero agli occhi della brigata. Il vin del Reno scintillò in un
baleno nelle grandi coppe verdi destinate ad allietare la comitiva.
La filosofia, la scienza e le arti si abbracciarono e si confusero
sotto le frequenti libazioni: tutte le opinioni presero un colore,
quello del vino; tutti gli occhi espressero un sol sentimento, quello
dell'allegria.

Daniele bevve poco: non fu possibile d'indurlo a suonare. Non ostante
le più vive istanze e preghiere, egli si rifiutò ostinatamente,
adducendo per iscusa non essere il suo spirito abbastanza tranquillo
per trarre dal piano-forte la benchè minima frase musicale.

Il giovine pianista si ritirò prestissimo, dicendo che il domani si
doveva alzare ben per tempo per ordinare i preparativi della partenza.
Gli amici di Edmondo lo abbracciarono di bel nuovo, e gli augurarono
ogni possibile felicità.

Il Baronetto gli strinse cordialmente la mano, e gli disse:

— A domani, mio caro Daniele, domani faremo il nostro addio; buona
notte e buon riposo.

Dopo non guari, gli amici del Baronetto si accomiatarono da lui,
augurandogli una notte tranquilla ed una più felice dimane. Edmondo
si ritirò nella sua camera da letto. Era già passata la mezzanotte. Il
suo capo era leggiermente sconcertato dal vino del Reno bevuto in non
discreta quantità. Ma da tanto tempo egli non si abbandonava alle gioie
della cena! Da tanto tempo non pasceva cogli amici una serata a tavola,
libando i piaceri di Bacco e di Minerva ad un tempo, dappoichè egli
solo avea saputo accordare le due cose più opposte e ricalcitranti.
Filosofia ed orgia. D'altra parte, egli avea voluto festeggiare
l'ultima sera del soggiorno di Daniele a Manheim. La tristezza, la
concentrazione del giovine italiano non erano sfuggite al Baronetto, il
quale, ingannandosi sulla loro origine e significazione, avea creduto
d'indovinarne la cagione nell'affetto del giovine e nel rammarico di
doversi separare da lui. Nell'entrare nella sua camera da letto, il
cameriere gli consegnò una lettera che il corriere avea recato d'Italia
qualche ora innanzi. Era una lettera di Maurizio Barkley concepita in
questi termini;

  «Signor Baronetto — In questo momento ho ricevuto la vostra
  lettera, nella quale mi mettete a parte dello strano testamento
  che avete fatto e della persona da voi scelta per vostro erede,
  nel caso che adempirà alle condizioni che già avete imposte. Voi mi
  dite che questa persona ha accettato il patto, e che ora i vostri
  sonni son placidi e non più turbati da strane e lugubre fantasime.
  Il mio cuore ne è sollevato, però che il pensiero delle vostre
  sofferenze morali mi torturava, e veniva ad aggiungersi agli altri
  motivi di tristezza che ha il mio cuore. Sento però il dovere di
  farvi ora un'importante rivelazione; dappoichè forse un giorno mi
  fareste il rimprovero di avervi serbato il segreto sopra un fatto
  di tanto momento. Le vostre relazioni colla persona che dovea
  essere vostro erede cangiano interamente l'aspetto delle cose; mi
  affretto dunque a dirvi che Daniele dei Rimini, il giovine pianista
  italiano, vostro ospite a _Schoene Aussicht_, che avete nominato
  vostro erede, e che dovrà essere il custode del vostro cadavere,
  Daniele de' Rimini è la stessa identica persona di Daniele
  Fritzheim; vostro figlio!

  «Questo importante segreto è ora nelle vostre mani, signor
  Baronetto: a voi lo rivelo, non a lui; fate quello che credete;
  non ispetta a me darvi consigli. Soltanto non posso celarvi che
  fareste bene a discoprirvi al figliuol vostro, e dare sfogo al
  vostro amor paterno: non posso dirvi perchè opinò così. Aspetto i
  vostri comandi. Vi rinnovo la preghiera che vi diedi coll'ultima
  mia lettera: vi dirò le ragioni della mia richiesta. Mi dite di
  aver pensato a me nel vostro testamento: vi ringrazio dal profondo
  del mio cuore; ma spero non vedere il giorno in cui sarà data
  esecuzione alla vostra ultima volontà. Iddio mi concederà la grazia
  di morire prima di voi.

                                                  Il vostro schiavo
                                                 «MAURIZIO BARKLEY»

Chi può dire l'effetto che produsse questa lettera sul cuore di
Edmondo! Era questa la più forte sensazione ch'egli avesse provata nel
corso di sua vita! Daniele era suo figlio! Daniele era là, al primo
piano, poco da lui discosto! Alquanti scalini, ed il padre avrebbe
abbracciato il figlio! Edmondo ebbe come un capogiro, una vertigine; il
suo cuore, le sue vene, la sua testa erano in ebollizione. Gli fu forza
rileggere molte volte la lettera di Maurizio per poterla comprendere,
il Baronetto non era sicuro della realtà delle cose, credeva essere
sotto l'impero dell'ubbriachezza. Ci fu un momento che stimò una
menzogna lo scritto del suo schiavo. Ma il carattere di Maurizio,
grave, probo, nemico di ogni simulazione, il persuase che il contenuto
della lettera fosse vero.

Il primo movimento ch'egli fece fu di correre verso l'uscio per andare
al primo piano, per volare da suo figlio, dal caro suo figlio, e dirgli
tutto, e abbracciarlo, e ritenerlo sempre con sè. Ma si rattenne
poscia, e pensò che gli avrebbe fatto al domani questa inaspettata
rivelazione.

«Quando mio figlio verrà da me per congedarsi, io gli mostrerò questa
lettera, lo stringerò tra le mie braccia, e gli dirò: Ora neppur la
morte potrà rompere i vincoli che ci uniscono!. Ma con qual fronte
mi mostrerò a mio figlio? Oh! se egli mi dimanderà di sua madre!...
No... no, nulla gli dirò ancora... domani, con un pretesto, cercherò di
trattenerlo con me per qualche tempo ancora... Mio figlio! Mio figlio!
il figlio dell'infelice Juanita!... O Ente supremo, che reggi il mondo,
questa è opera della tua mano onniponente!... Qual luce rischiara
l'anima mia! Qual raggio divino tocca il marmoreo mio cuore!!! I miei
figli; e figli miei... Dove sono? Che vengano, che io gli abbracci
tutti e cinque, ch'io li senta qui sul mio cuore: Daniele, Federico,
Eduardo, Luigia, Estella... non più divisi da me! Infelici creature
da me abbandonate, oh mi perdonerete voi, n'è vero? Io vi opprimerò di
tenerezza, di felicità: a forza d'amore cercherò di farvi dimenticare
i torti che ho avuti verso di voi. Domani io più non sarò lo stesso
uomo di quello che fui! Domani sarà per me giorno di luce e di verità!
l'alba che sorgerà sarà per me l'alba di un'altra vita!... E tu,
Maurizio Barkley, virtù incomparabile, tu mi salvasti la vita, ed or mi
salvi l'anima. Dio mi ti fece incontrare nel cammino della colpa perchè
tu mi avessi dischiuse le porte del cielo».

Edmondo s'inginocchiò nel mezzo della sua camera da letto, congiunse le
mani, e, cogli occhi rivolti al cielo, profferì la seguente preghiera:

«Dio d'immensa misericordia e bontà, le cui leggi per tanto tempo
ho calpestate e infrante, perdona le colpe della passata mia vita, e
accetto il mio avvenire in espiazione dei miei peccati. Sorreggi col
possente tuo ausilio le risoluzioni che tu m'ispiri questa notte, e
feconda il mio pentimento co' tesori della tua grazia Celeste».

Edmondo restò circa un quarto d'ora genuflesso orando col pensiero.
Indi si alzò, si svestì dei suoi panni, accese la lampada d'oro
a fianco del suo letto, e si coricò. Per la prima volta il segno
della Croce passò sulla fronte e sul petto di quell'uomo. Col capo
abbandonato in su i guanciali, Edmondo pensava:

«Che felicità sarà la mia nel vedermi in mezzo a' miei figliuoli! Che
nuova e dolce esistenza sarà questa! Con quanto amore li contemplerò
seduti alla mia mensa! Io li legittimerò tutti e cinque: darò loro il
mio nome e le mie ricchezze; farò che ritrovino sul paterno mio seno
quelle gioie di cui la loro infanzia è stata defraudata. E le loro
madri!... Infelici... Dio m'ispirerà sulla loro sorte... Com'esser
debbono gentili e belli i miei figliuoli! E Daniele che tanto mi
rassomiglia: Ah! ora comprendo l'inesplicabile simpatia che il costui
sembiante eccitò in me fin dal primo momento che il vidi. Ora comprendo
i moti del mio cuore. Quelle sue labbra sono dell'infelice Juanita!
Figli, figli miei, e come ho potuto tenervi per tanti anni discosti da
me! O cuor mio, non ribaltar così nel mio povero petto! E mio figlio
è là, nella stessa mia casa, ed io l'ho tenuto più di un mese con
me! Che aspetto gentile! che genio in quegli occhi!... Ed io volea
farne il custode del mio cadavere!... Follia! follia! Domani lacererò
lo _stolto testamento, figlio dei lugubri fantasmi che assediavano
la mia rea coscienza_. Quando Iddio mi chiamerà ad altra vita, le
mie spoglie mortali riposeranno in pace nella mia villa di _Schoene
Aussicht_: i miei figli mi chiuderanno gli occhi... Morire nella grazia
di Dio, in calma colla mia coscienza in mezzo ai miei figliuoli, non
sarà questa la più bella delle morti? Lasciare un'eredità di affetti
non val meglio che lasciare per nove mesi il disgustoso spettacolo
d'un cadavere che desterà ribrezzo ed orrore in tutti quelli che il
riguarderanno?... Richiamerò con me il mio caro Maurizio Barkley, al
quale io debbo tanto che e sarà per me più che un amico, un fratello...
Virtù impareggiabile, come sublime, Iddio ti avea posto al mio fianco
per ispirarmi tutti i più dolci sentimenti, e per dischiudermi la via
del pentimento. Maurizio Barkley, tu che mi hai conservato i figli,
che spesso mi parlavi di loro, tu che non lasciavi mezzo intanto
per cercare di commuovere il ferreo mio cuore, tu al quale io dovrò
la felicità di una piena riconciliazione con me medesimo, Iddio ti
benedica, com'io ti benedico, e come benedico per la prima volta nel
Divino suo nome i miei cinque figli, Daniele, Federico, Eduardo, Luigia
e Estella».

Pronunziando queste ultime parole, una calma celeste si sparse sulla
sua nobile fisonomia: la natura reclamò i suoi dritti; il sonno
si abbattè sulle stanche palpebre. Edmondo si addormentò pentito e
tranquillo... per non più ridestarsi!

Eran due ore dopo la mezzanotte. Tutti i domestici del Baronetto
erano immersi nel sonno. Un cameriere inglese, il più fido dei suoi
camerieri, avea il suo letto poche stanze appresso a quella dove
riposava il suo padrone. Essendo interna la comunicazione dal primo al
secondo piano, una semplice bussola li dividea. Daniele avea lasciata
aperta questa bussola... Egli era penetrato al secondo piano, senza
aver bisogno di schiudere una porta. L'oscurità più fitta invadeva
tutto il resto delle stanze dov'erano i dormienti. Daniele avea
studiato tutte le posizioni, tutti i passaggi, tutt'i corridoi che
menavano alla camera verde. Giunto in essa, per procurarsi un poco di
luce egli non ebbe bisogno di far altro che aprire le imposte d'una
finestra. Una luna limpidissima rischiarava l'orizzonte: i suoi raggi
gittarono nella camera verde tanta luce quanta bastava per l'operazione
che dovea far Daniele.

Durante il banchetto della sera precedente e nella confusione cagionata
dal vino, Daniele si era destramente accostato al forziere indicato
il mattino dal Baronetto, e ne avea involata la chiave ch'era ivi,
avendo il Baronetto tolto di là alcuni oggetti che gli eran serviti pel
festino della sera.

La scatoletta d'argento, che contenea la fatale polvere dell'Upas,
fu tolta dal forziere. Un'astuzia infernale che altrove narreremo,
avea prestato i mezzi a Daniele d'impadronirsi della chiave della
scatoletta. Come aprirla e toccare la polvere mortale? Era questo il
grande ostacolo, che Daniele superò, essendosi provveduto d'un lungo
bastone, alla cui borchia avea attaccato un pezzettino di carta a forma
di cono. Deposto a terra il cassettino, e, datovi un giro di chiave,
col pomo del bastone sollevò il coverchio, e coll'altra estremità
della mazza fece entrar nel cono di carta una quantità di quegli atomi
distruttori. Durante quest'operazione egli si era chiuso ermeticamente
la bocca e le narici con un fazzoletto.

Senza fare il minimo rumore, Daniele penetrò nella camera da letto di
Edmondo, e stette qualche tempo immobile sotto l'uscio per accertarsi
che questi era immerso nel sonno.

Assicuratosi di ciò, il perfido si avvicinò al letto dell'infelice;
colla propria persona nascose la luce che veniva dalla lampada; si celò
interamente il viso col fazzoletto, tranne gli occhi, e con mano ferma
accostò la borchia del bastone alle labbra del dormiente. Il cono di
carta scaricò la sua polvere!

Edmondo mise un rantolo soffocato, strinse i denti e i pugni, stravolse
gli occhi.

EGLI ERA CADAVERE!

Daniele rimase immobile, tremante, senza respirare, a fianco della
sua vittima. La morte era stata così rapida, così istantanea, ch'egli
non credea che il Baronetto fosse estinto. Il singulto che questi avea
messo avea fatto gelare il sangue nelle vene del suo assassino. Passò
un quarto d'ora, a capo del quale Daniele alzò la lampada sul volto
di Edmondo, Daniele fremè! Gli occhi del Baronetto erano spalancati
e terribili! Non ci era dubbio! Egli era morto!... Le sue labbra eran
nere come la sua barba...

Accertatosi di aver fatto il colpo, Daniele si diede a sperdere ogni
orma dell'assassinio.

Corse alla scrivania dell'estinto, e lacerò quella pagina delle costui
memorie dove si parlava dell'Upas. Ritornò alla camera verde, prese
la scatola del veleno ben chiusa, e la portò seco per farla sparire il
giorno appresso.

Poco stante, Daniele era nel suo letto... Egli si preparava a
rappresentare la sua parte nel comune dolore che avrebbe eccitata nel
dì vegnente la notizia della improvvisa morte del Baronetto Edmondo
Brighton, Conte di Sierra Blonda, e proprietario della vasta tenuta di
_Schoene Aussicht_.



IV.

IL TESTAMENTO


Il domani, verso le nove del mattino, confusione e terrore nel casino
di _Schoene Aussicht_. In un attimo, tutta la città di Manheim fu piena
della trista notizia della improvvisa morte del Conte di Sierra Blonda,
avvenuta, come si dicea, per un colpo di apoplessia fulminante.

Un'ora dopo che si era diffusa la trista nuova il casino fu tutto
ingombro di gente. Gli amici di Edmondo, varii medici, parecchie
persone ragguardevoli di Manheim, e grande stormo di curiosi
penetrarono negli splendidi appartamenti, dove il giorno innanzi
un uomo, ricolmo di vita, di salute, di tutt'i beni che si possono
godere su questa terra, ragionava lietamente cogli amici sul modo di
procacciarsi la più lunga e avventurata serie di anni. Il Dottor Weiss
si diede ad esaminare il cadavere del Baronetto. Nessun carattere di
apoplessia presentava l'estinto.

Il Dottor Weiss interrogò gli altri colleghi; si tenne consulto
sulle spoglie esanimi del Conte; due ore di discussione non avea
fruttato nessun risultamento: la scienza esauriva le sue congetture,
e perdeva la sua logica sovra un genere di morte che offriva nuovi
caratteri e specialità straordinarie. Il Baronetto non era morto
per istrangolamento, però che i segni esterni di questa morte sono:
enfiatura del collo e della faccia, la quale è cosparsa di lividore
nerastro; tumefazione della lingua, che pel consueto suole uscir di
bocca; occhi rossi e sporgenti: estremità fredda e di color violaceo.
Qualcuno appena di questi segni rinvenivasi sul capo di Edmondo. Si
passò eziandio in discussione se egli fosse morto per mefitismo, e
si ricusò questa supposizione come assurda, non pure per non essersi
trovata cagione alcuna di viziamento d'aria nella camera dov'egli
giaceva, ma neanche gl'indizii cadaverici che attestano tal causa
di estinzione. La maggior probabilità poggiava sull'opinione che il
Baronetto fosse morto per una specie di sorda asfissia o per una
terribile colica cieca. In fatti, un indizio di questa morte suol
ricavarsi dall'annerimento de' labbri.

Il pensiere che il Baronetto fosse stato avvelenato non lasciò di
presentarsi vagamente nell'animo del Dottor Weiss, il quale rivolse con
astuzia molte interrogazioni ai camerieri e a' domestici.

Ma il Baronetto avea cenato assieme a' suoi amici, e dopo cena non
avea preso neppure un bicchier d'acqua: la cena era stata innocua,
dappoichè le altre persone che n'ebbero parte non aveano sofferto
alcun male. D'altra parte, i segni caratteristici di un avvelenamento
non si erano affacciati sul cadavere del Baronetto, la nerezza delle
labbra era un fenomeno nuovo e strano, ma non bastava di per sè
solo a fare argomentare una morte per avvelenamento. Questa idea fu
bandita, e si pensò tosto a far eseguire le ultime volontà del defunto.
Il dottor Weiss conosceva l'esistenza del testamento, però che il
Baronetto gliene avea molte volte parlato, per riguardo all'articolo
dell'imbalsamazione, il quale, siccome è noto a' lettori era così
concepito:

«È mia precisa volontà che il _mio cadavere_ sia imbalsamato col nuovo
metodo d'iniezione alle carotidi. Questa operazione dovrà esser fatta
dal mio medico dottor Weiss di Francoforte varii giorni dopo ch'io
non avrò dato più segni di vita, e dietro i più esatti e scrupolosi
esperimenti per accertarsi della vera mia morte. Per tale operazione
gli si darà in compenso la somma di diecimila fiorini».

Questo articolo era stato letto al dott. Weiss fin dal giorno che il
Baronetto lo scrisse, e indi riletto altre volte, quando il misero era
oppresso da' fantasmi della morte apparente.

Noi non osiamo asserirlo per rispetto, che abbiamo all'umana dignità,
ma non possiamo astenerci dal formare una trista congettura. Quella
cifra di diecimila fiorini era troppo prevaricante; e forse il dottor
Weiss sacrificò i suoi sospetti di avvelenamento alla paura di perdere
un guiderdone che si sarebbe sfumato. Se si fosse dato peso all'idea
dell'avvelenamento, e se questo sospetto fosse stato ventilato,
l'autorità avrebbe richiesto un'autopsia cadaverica; ed allora
l'imbalsamazione non avrebbe avuto più luogo.

Affrettiamoci a dire che Daniele simulò in modo ammirabile la sorpresa,
il dolore... La sua agitazione, la sua estrema pallidezza, la bieca
espressione del suo sguardo ingannarono tutti. Il suo trionfo era
pressocchè assicurato. L'impunità gli sorrideva, e con essa l'avvenire
colmo di delizie e di piacere. Ma Dio avea già stampato su quella
fronte il marchio della riprovazione. Innanzi tutto, le autorità locali
di Manheim richiesero l'immediata lettura del testamento. Già si era
presentato a _Schoene Aussicht_ il notaro nelle cui mani il testamento
era stato depositato. Tutti si prepararono ad ascoltare l'_ultima
volontà_ dell'estinto milionario.

L'_ultima volontà_! Ah! non era quella l'ultima volontà dell'infelice
e pentito Edmondo! Egli avea sepolto per sempre con sè il suo vero
testamento!

A mezzo giorno si diè lettura legale dell'atto olografo, essendosi
affrettata quest'operazione ad istanza del dottor Weiss, il quale avea
detto ai commessari del governo di Manheim esser necessaria la pronta
lettura del testamento per ragioni che si sarebbero palesate nello
stesso scritto del Baronetto. Il cadavere di Edmondo, da lui destinato
a rappresentare una parte importante nelle condizioni di eredità,
giaceva tuttavia nudo nel proprio letto, coverto interamente da una
coltre di seta di Persia.

In quali mani andaveno a ricadere le immense ricchezze del Conte di
Sierra Blonda? Quali n'eran gli eredi? Questa dimanda ciascuno volgeva
a sè stesso con più o meno perplessa curiosità, a seconda della
maggiore o minore probabilità che ciascuno credeva di avere ad una
parte dell'eredità.

Oltre di cento persone ingombravano quella camera. Quando il notaro
fe' segno che si accingeva a leggere, un silenzio profondo ebbe
luogo. I primi articoli del testamento erano l'enumerazione dei beni
e delle ricchezze del Baronetto, dei suoi crediti, delle sue immense
possessioni e dei suoi capitali versati su quasi tutta le Banche
d'Europa.

Era una fortuna prodigiosa! DUE MILIONI E QUATTROCENTOMILA PIASTRE DI
SPAGNA, vale a dire, la rendita annuale di CENTOVENTIMILA COLONNATI,
alla modesta ragione del cinque per cento. Questa fortuna era calcolata
senza gl'innumerevoli crediti che il Baronetto vantava su molti
cospicui banchieri di Londra, di Parigi, di Madrid, di Calcutta e di
altri paesi. Non possiamo dipingere la sorpresa che colpì tutti gli
astanti allora che il notaio lesse il seguente articolo:

«Di tutt'i suddetti miei beni mobili ed immobili coi titoli annessi,
in mancanza di eredi legittimi, lascio mio erede universale il giovine
Daniele de' Rimini, di Napoli, esercente la professione di pianista».

Tutti gli sguardi si volsero immediatamente verso Daniele, dagli occhi
del quale lampeggiava una gioia superba e feroce. Un lungo mormorio
interruppe la lettura. Ciascuno dimandava al suo vicino chi era quel
giovine, donde era venuto, e quali relazioni eran passate tra lui e
il Baronetto, per far decider questo a nominarlo erede universale di
tutte le proprie ricchezze. In moltissimi surse il pensiero che il
giovine italiano fosse figliuolo naturale del defunto, e che questi
avesse voluto, morendo, fare ammenda del passato. Ma e perchè non
legittimarlo? Il vasto campo delle congetture si diradò ed il silenzio
più profondo si ristabilì, quando il notaio seguitò la lettura del
testamento.

La maraviglia degli astanti si accresceva ad ogni parola di quel
testamento straordinario. Con somma attenzione si prestava ascolto alle
condizioni che il Baronetto metteva al possesso della sua eredità.

Un grido di sorpresa e di orrore, seguito da un subuglio indicibile, si
udì alle parole;

«Il signor Daniele de' Rimini, mio erede ed esecutore testamentario,
dovrà essere il custode del mio cadavere durante nove mesi a contare
dal giorno della mia morte.»

Non era più possibile di proseguire la lettura, sì grande era la
confusione ed il vocio che si sparsero tra i diversi crocchi. Tutti
gli occhi eran volti a Daniele, il quale poco pensiere parea prendersi
di quanto si diceva intorno a lui. Ogni articolo di quelle strane e
terribili condizioni facea raccapricciare gli astanti. L'articolo
undecimo delle condizioni prevedeva il caso in cui da Daniele si
fosse mancato ad uno degli obblighi impostigli, e il dichiarava, ciò
accadendo, scaduto dal diritto di eredità.

Il testamento conteneva nel seguito altre disposizioni, di cui citeremo
le seguenti come le più importanti:

«Articolo 12º Lascio al mio schiavo Maurizio Barkley, in segno di
riconoscenza, di amicizia e di affetto, la rendita annuale di Duemila
piastre, ed il mio feudo a Yorkshire in Inghilterra denominato _The
Raven Spot_ (il sito del corvo).»

Daniele fece un salto sovra se stesso: il nome di Maurizio Barkley
avea colpito le sue orecchie.. Maurizio Barkley era lo schiavo del
Baronetto.

Una luce terribile strisciò sul cervello del giovine: il notaio
proseguì:

«Art. 21. Lascio un capitale di Dodicimila piastre da distribuirsi ai
seguenti cinque individui,

Federico Lennois, di Parigi.

Eduardo Horms, di Glascovia.

Daniele Fritzheim, di Napoli.

Luigia Aldinelli, di Pisa.

Estrella Encinar, di Cadice.

«Affido a Maurizio Barkley l'esecuzione di questa mia disposizione,
conoscendo egli una per una le cennate cinque persone e le loro
rispettive dimore.»

Questa volta un grido si fece udire nella stanza, ma un solo l'avea
gittato! Daniele! Egli era fuori di sè! i capelli gli si eran sollevati
sul capo; le labbra gli tremavano convulse; gli occhi schizzavangli
fuori come per furiosa demenza. Il segreto cercato da tanti anni era
scoperto! L'ignota mano che il beneficava era trovata!

L'orribil luce che avea per un tratto schiarata la mente dello
sciagurato giovine gl'incendiava in pari tempo la testa e il cuore.
Un'idea, una parola si avvoltolava nel capo di quel misero, una idea,
una parola che il rendean matto: PARRICIDA!

Egli tremava di questo orrendo fatto. Intanto il grido ch'egli
avea messo avea richiamato intorno a lui l'attenzione universale.
Nessuno potea spiegarsi lo stato di agitazione, di turbamento, di
estrema sofferenza in cui vedean Daniele; epperò mille supposizioni
si formavano, mille pensieri e mille congetture; ma in nessuno
entrò minimamente il sospetto che Daniele si fosse l'assassino del
milionario, non offrendo il cadavere alcun segno di morte procurata
da esterna violenza, ed avendo i medici rigettata come assurda ed
improbabile l'idea di un avvelenamento. Altre disposizioni conteneva il
testamento, di piccoli legati a favore de' suoi domestici. Il Baronetto
raccomandava al suo erede ed esecutore testamentario di ritenere per
amministratore la stessa persona, di cui egli si era servito, e la
quale era un americano di comprovata probità. Da ultimo, il testamento
conteneva le disposizioni che avrebbero dovuto aver luogo nel caso
previsto di una mancanza di Daniele a' suoi obblighi. I suggelli furono
apposti alle carte del Baronetto; un minuto _inventario_ fu formato di
tutte le suppellettili di _Schoene Aussicht_. Daniele non doveva essere
posto in possesso di tutto, che dopo compiti i nove mesi. L'Autorità
procedè a quei provvedimenti che sono richiesti per garentire l'esatto
adempimento della volontà del testatore.

Il dottor Weiss, incaricato della imbalsamazione, si apprestò a far
paghi i desiderii del suo defunto amico, il quale gli avea con tutto
il calore dell'amicizia raccomandato di assicurarsi bene della realtà
della sua morte. Il dottor Weiss volle rimaner solo col cadavere del
Baronetto. Egli cominciò da prima ad esplorare se fosse incominciata
la latente insensibil putrefazione delle parti mobili del corpo, primo
segno che caratterizza la morte. L'organismo di Edmondo era intatto,
epperò non era impossibile che un resto di vitalità si nascondesse
in uno de' precipui organi destinati a conservar la vita. Con ogni
minutezza ei procedè in tal dilicata disamina. Egli è certo che,
quando un principio di vitalità rimane concentrato nelle più intime
parti dell'organizzazione, non può sfuggire allo sguardo profondo e
indagatore dell'uomo dell'arte; imperocchè in questo caso la fisonomia
del creduto estinto offre indizii e caratteri che sono ben diversi da
quelli che si scorgono su i volti dei veri morti.

Il dottor Weiss notò l'incipiente sfiguramento de' lineamenti del
volto del Baronetto; l'espressione morale della fisonomia sparisce
sotto il marchio della morte. Tutte le fisonomie de' cadaveri hanno
una sola espressione, la serenità. Nel volto de' morti apparenti
i vasi capillari ed il sistema linfatico hanno un movimento benchè
esilissimo, e le cellulari un certo turgore, che mantiene alla persona
il suo aspetto abituale. Ne' cadaveri un color plumbeo si spande sulle
forme del volto: la pallidezza è tetra e si avvicina al giallognolo.
Il dottor Weiss pose il termometro al contatto delle parti vitali
del corpo del Baronetto! un freddo glaciale abbassò leggermente il
mercurio. Un altro segno caratteristico della morte vera, secondo
Nysten, è la inflessibile rigidezza dei muscoli. E i muscoli del
Baronetto eran duri come legno.

Il dottor Weiss osservò che gli occhi di Edmondo, comunque trovati
aperti in tutta la loro ampiezza, eran privi di ogni moto, ed
incominciavano a diventare a poco a poco affossati, nebbiosi e
flaccidi. Era quasi impossibile di abbassare la palpebra superiore. Il
medico alzò la mano del Baronetto, nè riunì le dita, e passò un lume
dietro ad esse; nessuna trasparenza vi si notò, come vi si osserva ne'
vivi.

Le palme delle mani e le piante dei piedi avean preso un color giallo
carico. Gli sfinteri eran rimasti aperti e dilatati senza veruna
elasticità. Il dottor Weiss non lasciò alcun tentativo per accertarsi
della morte effettiva del Baronetto; egli operò eziandio parecchie
forti fregagioni sulla cute dell'estinto, ma questa non si arrossì
affatto, nè si riscaldò. Finalmente, per esaurire tutt'i mezzi di cui
l'arte si vale per iscoprire la vitalità ne' morti apparenti, il medico
tedesco fece uso del più sicuro di tutti, quello cioè dello stimolo
elettrico[6].

La più compiuta certezza era ormai nell'anima del dottor Weiss
sulla morte del Baronetto, dal cui corpo cominciava ad esalare quel
nauseante odore, specifico dei cadaveri, e che annunzia l'incipiente
decomposizione. Il dottor Weiss, comechè pienamente sicuro della morte
del Baronetto, volle per altro, lasciar passare l'intera giornata
e la notte consecutiva, prima di accingersi all'operazione della
imbalsamazione. E il dì vegnente, a prim'ora del giorno, egli vi si
apprestò.

Molti giovani studenti di medicina, moltissimi curiosi, la maggior
parte degli amici di Edmondo, e quasi tutti i suoi domestici vollero
assistere all'operazione. Daniele era nel numero. Muniti dei necessarii
strumenti e degli agenti chimici che sono richiesti, il Dottor Weiss
eseguì l'imbalsamazione con profonda sagacia ed esattezza. Egli
polverizzò due libbre di arsenico colorandolo con un poco di cinabro
o minio, per ottenere il colore del sangue; e sciolse il tutto in
una quantità d'acqua naturale! eseguì poscia l'incisione verticale
alla sinistra arteria carotide, e v'iniettò la composizione che
abbiam cennata; legò il segmento superiore dell'arteria recisa non
sì tosto vide da questa comparire il materiale iniettato. Il resto
dell'operazione fu fatto con pari accortezza e sagacia[7]. Terminata
l'operazione, il dottor Weiss, rivoltosi al cadavere del Baronetto, gli
disse:

— Eccoti pago, infelice mio amico; ho adempito al mio debito! ti ho
strappato alla corruzione.

Voltosi poscia a Daniele, che pallido, stralunato, immobile, era stato
presente all'imbalsamazione, gli disse:

— Ora spetta a voi, signor custode della morte; consegno a voi il
cadavere del Conte di Sierra Blonda in ottimo stato, esso si manterrà
fresco, flessibile, e naturalmente colorito. A voi, dunque, signor
Daniele de' Rimini, incominciate il vostro ufficio! i nove mesi
principiano: l'eredità vi aspetta!

Dette poscia un'occhiata all'orologio, e con sarcasmo soggiunse:

— Sono le otto: andiamo, signor de' Rimini, il Baronetto attende il suo
caffè!



V.

LA CAMERA VERDE


È anche mia precisa volontà che il MIO CADAVERE dopo l'imbalsamazione,
rimanga nella camera verde del secondo piano della mia proprietà di
_Schoene Aussicht_.

«Il mio cadavere sarà vestito con quella proprietà e decenza che si
convengono al rango ed alle ricchezze del Baronetto Brighton, Conte
di Sierra Blonda. Ogni giorno se gli cambierà la biancheria, ed ogni
settimana i vestiti.

«Due volte al giorno il signor Daniele de' Rimini recherà egli stesso
al mio cadavere, nel cospetto de' servi testimoni, il caffè e in quelle
stesse ore in cui soglio prenderlo al presente».

Era ormai tempo di eseguire le dette prescrizioni del Baronetto.

A quella parola che il dottor Weiss avea diretta con sarcasmo a
Daniele, ricordandogli di dover porgere il caffè al morto, la comitiva
raccapricciò. Tutti guardarono con una certa angosciosa ansietà il
giovine italiano che doveva adempire a quell'ufficio sì tristo e
ridevole a un tempo. Ma Daniele non indietreggiò innanzi all'orrore
che gli ispirava ormai quel cadavere: egli non doveva vacillare un
momento. Eran cominciati i nove mesi, a capo dei quali erano la fortuna
e la felicità. Daniele comandò a' servi che allestissero il caffè. Una
febbrile energia invadeva le fibre dell'erede... Egli più non capiva
quello che veniva buccinato nei diversi gruppi sperperati nella camera;
il suo volto era livido, ma la vivacità del delirio era nei suoi occhi;
la coscienza della propria situazione non l'avea per altro abbandonato.
Il caffè fu recato nella solita coppa d'oro in cui il Baronetto solea
prenderlo. Daniele tolse di mano ai servi il vassoio d'argento sul
quale era la tazza ricolma di caffè, e con piè fermo si accostò al
letto su cui giaceva l'estinto. Il vassoio non pertanto traballava
nelle mani del perfido. Giunto alla sponda del letto, Daniele, con voce
tremante e appena sensibile, dimandò al cadavere:

— Signor Baronetto, vuole il caffè?

Dagli occhi del morto parve che balenasse uno sguardo elettrico e
fulminante. Daniele vacillò, le ginocchia mancarongli... ei cadde e
con esso il vassoio colla tazza. Si corse in suo aiuto, ma egli si
rimise ben presto, balbettò alcune frasi di giustificazione, e chiese
un bicchiere d'acqua però che si sentiva ardere il petto e mancare il
respiro.

Prima di esporre a' nostri lettori il quadro terribile che pur ci è
forza di ritrarre, vale a dire: IL FIGLIO PARRICIDA ALLA PRESENZA DEL
CADAVERE DEL PADRE — dobbiamo sdebitarci di una promessa, ch'è quella
di narrare il modo che tenne Daniele per involare dalla scrivania di
Edmondo la chiave della scatoletta contenente la polvere di Upas.

Nel corso del giorno in cui Daniele avea meditato l'enorme delitto, poi
che si ebbe congedato dal Baronetto dicendogli che il domani sarebbe
partito per Darmstadt, il mandò a pregare che essendo quello l'ultimo
giorno della sua dimora a _Schoene Aussicht_, voleva riavere il piacere
di pranzare con lui. È a notarsi che, dal momento in cui nell'animo
di Daniele era nato il funesto pensiero di por termine a' giorni del
Baronetto, egli non ebbe più la forza di sedersi alla medesima mensa
con lui; di che si scusò, adducendo per pretesto che la sua salute non
consentiva che avesse pranzato in sul tardi. Il Baronetto accolse con
estremo piacere il desiderio del giovine e il tenne quale attestato
del suo affetto. Daniele pranzò col Baronetto: egli seppe abbastanza
infingersi, bensì non tanto che la cupa preoccupazione del suo pensiero
non trasparisse: ma Edmondo ne spiegò la ragione pel rammarico che il
giovine dovea sentire per la prossima sua partenza. Poche parole disse
Daniele durante il desinare, e pochissimo mangiò. Alquanti giorni
innanzi, Edmondo, in una delle serali conversazioni che tenea cogli
amici, avea detto di aver ricevuto da un suo corrispondente delle
Indie la narrazione di un conflitto avvenuto nel Ponjab tra gl'Indiani
e la guarnigione inglese. Daniele, a pranzo, fece cadere astutamente
il discorso su questo fatto, e pregò il Baronetto di leggergli la
lettera del corrispondente; il perfido giovine sapea che il Baronetto
tenea questa lettera in uno de' cassettini della scrivania, e che
una sola chiave aprivali tutti. Edmondo, di nulla sospettando, volea
chiamare il suo cameriere per fargli prendere dalla scrivania la
lettera; ma Daniele si offrì di recarsi egli medesimo nello studio per
prenderla. Edmondo gli affidò la chiave. Daniele tornò colla lettera
del corrispondente delle Indie. Egli avea già involata la piccola
chiave che dovea servire a schiudere la scatoletta dell'Upas. Alzati
di tavola, Edmondo abbracciò Daniele e tornò a pregarlo che la sera
non fosse mancato alla solita riunione degli amici. E Daniele tornò a
promettere che non sarebbe mancato la sera, siccome avea promesso in sè
medesimo di non mancare la notte! Il compimento dell'infame delitto è
già noto. Dopo aver somministrato il caffè al cadavere del Baronetto,
Daniele si accinse ad eseguire le condizioni impostegli. Il cadavere
di Edmondo fu vestito con quella proprietà e decenza ch'egli avea
raccomandate. Il suo abito era tutto nero, così avendo egli disposto
negli articoli suppletorii del suo testamento. Il cadavere dovea per
l'intera durata de' nove mesi portare il lutto della propria morte.
Egli avea comandato eziandio che ogni settimana se gli indossassero
abiti nuovi. Il sarto francese fu incaricato di fornire ogni sabato le
vestimenta nuove del Conte di Sierra Blonda. Daniele dovea vestire e
spogliare il Baronetto, adempiendo verso lui all'ufficio di cameriere.

«La più minuta e scrupolosa cura sarà messa dal signor Daniele
dei Rimini a tener mondo il mio corpo da qualsiasi impurità della
corruzione.»

Quest'articolo delle condizioni facea fremere Daniele. Egli è vero che
per effetto dell'imbalsamazione la putrefazione interna cadaverica
è impedita, ma è egli mai possibile, senza le più assidue cure,
impedire che si formi su qualche parte del _corpo morto_ un principio
d'impurità? E ogni giorno la biancheria doveva esser cambiata al
cadavere!

Il Baronetto avea benanche disposto che ogni giorno il suo parrucchiere
dovesse recarsi, come al solito, a _Schoene Aussicht_, per prender
cura del suo capo e della sua barba. La paga del parrucchiere era
triplicata. E il primo giorno, in fatti, dopo l'imbalsamazione,
i capelli del Baronetto furono lisciati, scrinati ammorbiditi con
finissimi olii e pomate; la sua barba fu pettinata ed allustrata,
raccorciandosi i peli disuguali e livellandosi così bene come
se il Baronetto avesse dovuto trarre a qualche festa di ballo.
Così acconciatosi e vestito a bruno, il Conte di Sierra Blonda fu
trasportato nella Camera verde, secondo le disposizioni del testamento.
Egli venne adagiato sovra una delle magnifiche seggiole d'avorio a
forma di baldacchino. Era questa sedia interamente coperta da soffici
cuscini orientali, a disegni cinesi di color scarlatto. Nappe di fili
d'oro scendevano da una specie di tettino della sedia, lavorato ed
intagliato con tanta ricercatezza e con tanta minuta fatica che quel
tettino era un capolavoro di scultura. I piedi di questa seggiola,
non più lunghi di un palmo, rappresentavano quattro piccole pagodi con
bambocci cinesi nell'interno, figuranti alcuni mandarini che fumavano.
Il cadavere era coricato anzicchè seduto su questa seggiola, tranne
che il busto era sollevato e appoggiato a morbidi cuscini. Le braccia
del Baronetto erano adagiate in sul corpo in una positura semplice e
naturale. Le mani erano intrecciate senza stento l'una nell'altra.

Nell'entrare in quella camera era impossibile il ravvisare un cadavare
nell'uomo che riposava leggiadramente su quello splendido divano
cinese. Il volto del Baronetto non era dissimile da quello ch'era
quando era vivo, anzi una leggiera tinta di vermiglio si sfumava
in sulle gote, effetto della preparazione del minio, ch'era entrato
nella composizione dell'imbalsamazione. Nell'atteggiamento di quel
corpo, nella giacitura del capo alquanto inchinato a destra, quasi che
avesse guardato, dalla dischiusa finestra, gl'incanti paesaggi che si
disegnavano sulle rive del Reno, in quegli occhi vagamente socchiusi,
come per evitare la troppa luce che veniva dal giorno sereno e ricco
di sole; in tutta la sua persona insomma nulla era che non avesse
perfettamente simulata la vita.

Illusione spaventevole che metteva ad ogni istante il ghiaccio e la
morte nel cuor di Daniele!

Il dubbio terribile che dalla lettura del testamento era nato
nell'animo dell'assassino di Edmondo diventò orrenda certezza per una
di quelle circostanze che la Provvidenza fa nascere al bisogno quando
intende premiare o punire. Edmondo solea ricevere gli amici con tutta
la splendidezza ed il fasto d'un milionario. Pel consueto, egli era
vestito con giubba nera. E quella sera, ultima della sua vita, egli
aveva indossato una giubba nuova. Daniele stimò per la prima volta
vestire il cadavere con quel medesimo abito: e nel passarlo in sul
corpo dell'estinto, si avvide di una carta ch'era nella tasca della
giubba. Egli se ne impossessò. Era la lettera di Maurizio Barkley la
quale contenea la rivelazione della vera entità di Daniele de' Rimini.
È indicibile il furore da cui fu preso il perfido Daniele alla lettura
di quella lettera... Egli versò segrete lagrime di disperazione; si
strappò i capelli; la sua ragione si confondeva!

«Da quanto tempo mio padre era conscio del segreto? dimandava a sè
stesso il forsennato... Io forse l'uccisi nel momento in cui egli
sognava di stringermi al suo cuore!... Oh, ne son sicuro! Mio padre non
avrebbe indugiato a palesarsi a me, a riconoscermi, a legittimarmi!...
Mio padre! mio padre! Io ho ucciso mio padre! l'ho vilmente assassinato
nel proprio suo letto, come fanno i ladri per impossessarsi d'un
tesoro! ed io mi sono seduto alla sua mensa! Molte volte mi chiamò
suo figlio!... La prepotente voce del sangue parlava in me! Ed io
l'ho soffocata! Maledetto il momento che conobbi Emma di Gonzalvo!...
Maledetto il momento che posi il piede a Manheim!... No, questa lettera
è d'una data recentissima; essa non ha potuto arrivare che ieri!...
ieri sera forse!! Mentre io meditava il delitto e mi accingeva a
compirlo, mio padre sapea di avere in me un figliuolo!... All'alba
forse egli sarebbe corso da me per abbracciarmi!... Ed io ho sepolto
per sempre nel petto di mio padre un avvenire di amore, una vita di
felicità!

Tutto quel primo giorno di adempimento dei patti, Daniele non rimase
che pochi momenti da solo col cadavere del Baronetto. Quasi tutti gli
abitanti di Manheim si recavano a _Schoene Aussicht_ e dimandavano
il permesso di entrare nella camera verde. Daniele, in qualità di
esecutore testamentario, era ormai la sola volontà che dominasse a
_Schoene Aussicht_: egli però permise agli abitanti di Manheim di
trarsi la curiosità di vedere _il morto in funzione_, siccome nel paese
diceasi. Il fatto è che quegli abitanti guardavano con più sorpresa il
giovine italiano che il cadavere del Baronetto. Non si tosto Daniele
entrava nella camera verde, un bisbiglio si levava, e tutti gli occhi
eran volti verso di lui. «Ecco, ecco, il CUSTODE DELLA MORTE,» si
sentiva susurrare con mistero e paura. Daniele fu costretto di proibire
l'ingresso a tutti i curiosi; e questo fu peggio per lui, perchè così
era lasciato solo nella camera verde. E questa solitudine diventò
orribile allora che le tenebre caddero sulla terra. La camera verde
era rischiarata da un gran globo d'alabastro, che spandeva in quella
stanza una luce vaporosa e fantastica. Entrando ivi di sera, Daniele
gittò un'occhiata sul Baronetto, ed un brivido gli corse per le ossa.
L'illusione era completa!

A malgrado dell'estrema ripugnanza che egli sentiva a guardare il
cadavere in sul volto, Daniele rimase lunga pezza a contemplarlo. Parea
che quegli occhi, renduti immobili per morte, si drizzassero a lui con
orrenda espressione... Strani fantasmi, stranissime larve si aggiravano
in quei momenti per la fantasia dello sciagurato giovine. Tra le altre
cose, un continuo buccinamento gli stava nelle orecchie: sentiva sempre
la voce del Baronetto, che gli ripeteva con sarcasmo le parole che gli
disse non appena fu conchiuso il funesto contratto: _D'ora in poi io vi
considero qual figlio mio!..._ Indi ricordava quello che il Baronetto
gli disse innanzi di conchiudere il contratto: _Io vi sarò debitore
d'una eterna obbligazione!_

«ETERNA! ETERNA! — I capelli si alzavano sul capo di Daniele;... i suoi
occhi si affissavano con indicibile espressione sul sembiante di suo
padre...

«Dov'è al presente la tua anima, o padre mio, pensava lo sciagurato
immobile sul cadavere,.. perduta forse! ETERNAMENTE PERDUTA!... e per
mia cagione! Ed io l'ho spinta all'eterna perdizione! O padre mio, tu
riposavi con tanta placidezza allora che l'infame mio braccio ti aprì
in un baleno l'eternità!»

Daniele non piangeva; ma una lagrima secca e disperata, una lagrima di
fuoco si era fermata nel mezzo della sua vitrea pupilla, e la camera
verde gli sembrò dipinta a rosso; e gli parve che le braccia di suo
padre si muovessero per dimandargli soccorso. Allora ei si trovò sulle
labbra certe parole antiche, che gli avevano insegnate quando era
bambino... Daniele compitò macchinalmente una prece.

Le nove della sera battevano all'orologio. Il cameriere inglese si
allacciò in sull'uscio della camera verde e disse a Daniele:

— Signor de' Rimini, è l'ora del tè.

Daniele fu scosso come da uno stimolo elettrico: con faccia stupida
chiese al cameriere che cosa bramava, il cameriere ripetè la formola.

Era convenuto che ogni azione di Daniele, relativa alle condizioni del
testamento, doveva esser fatta alla presenza del cameriere inglese
e di due altri testimonii, i quali firmavano ogni sera il verbale
della giornata. E questo, per attestare, alla fine dei nove mesi
l'adempimento degli obblighi imposti all'erede. Daniele tornò in se
ebbe rossore di sè medesimo, pensò ad Emma e al Duca di Gonzalvo,
riprese coraggio, si alzò e si dispose a porgere il tè al Baronetto.

«Ogni sera, dopo l'ora del tè, il signor Daniele de' Rimini suonerà,
alla presenza del mio cadavere, un pezzo a piano-forte e canterà
un'aria di sua scelta.»

E quest'ora terribile era giunta! E non solamente il cadavere del
Baronetto ma tre altre persone doveano ascoltare quella musica e
quel canto, i tre testimoni! Daniele, coll'occhio delirante, col
vòlto pallidissimo, coll'anima lacerata a brani dal rimorso, si sedè
al piano-forte. Il cadavere del padre gli era di rimpetto. Daniele
fece sforzo incredibile nel porre le mani sulla tastiera: egli non
si ricordava niente più, avea smarrito le regole dell'armonia, del
contrappunto, non riconosceva più i tasti!! Ma di botto, la sua faccia
s'irradiò, i suoi occhi scintillarono, la sua testa tremò... Una
melodia dolcissima.... celeste.. straziante esalò da quella tastiera.
Gli occhi de' tre testimoni si empirono di lagrime!... Era il _Requiem_
di Mozart quello che Daniele avea sonato!

Sopraggiunta la notte, Daniele ordinò che il suo letto fosse
trasportato nella stanza contigua alla camera verde. Nonostante il
ribrezzo che gl'ispirava la prossimità del cadavere, egli non volea per
tanto discostarsene in nessuna ora del giorno e della notte, imperocchè
temeva che qualcheduno di quelli che aspiravano all'eredità del
Baronetto avesse involato o fatto sparire il prezioso deposito, della
cui custodia e conservazione esso Daniele era incaricato. La camera
verde avea due usci, per l'un dei quali si andava allo studio del
Baronetto e ad altre stanze, e per l'altro si riusciva sulla villetta.
Di entrambi questi usci, ben chiusi, Daniele conservò le chiavi. Egli
non volle far rimanere altro lume nella camera verde, durante la notte,
che quella stessa lampada d'oro che soleva rischiarare la stanza da
letto di Edmondo. Daniele accese dunque a fianco del Baronetto il
lume; serrò con molta cura le finestre e le porte; dette un'occhiata al
cadavere, e rimase a mezzo la camera, colpito da un pensiero che gli
andò a toccare le più recondite fibre del cuore. Daniele era solo al
cospetto di suo padre!

L'anima di costui il vedeva e l'udiva... Daniele pensò gittarsi a piede
del cadavere di suo padre, sciogliersi in amare lagrime di pentimento,
chiedergli perdono di avergli data la morte, non conoscendo esser lui
suo padre; implorarne la benedizione. Un quarto d'ora all'incirca restò
il giovine battagliando con sè medesimo; ma ogni volta che lo sguardo
si portava sulla vittima, parea che questi il respingesse. Daniele non
ebbe la forza di mandare ad effetto il suo proponimento, e poco stante,
gittando un altro sguardo di angoscia sul cadavere, come se avesse
voluto dargli la buona notte, si ritirò nella stanza contigua, dove
avea fatto preparare il suo letto. Daniele, com'è a supporsi, non potè
chiudere gli occhi per tutta la notte. Sebbene l'uscio che il separava
dalla camera verde fosse chiuso a chiave, ad ogni momento sembrava allo
sciagurato giovine che quella porta si aprisse, e che il Baronetto
redivivo gli comparisse dinanzi per opprimerlo dei più strazianti
rimproveri. Qualche volta Daniele, cascando a sonno per stanchezza, si
destava poco di poi a soprassalto, col petto affannoso, colla faccia
livida e cogli occhi smarriti; spalancava gli occhi, si poneva a
sedere in letto, e volgeva lo sguardo atterrito intorno a se. Egli avea
sognato che suo padre stesse seduto alla sponda del letto.

Altre volte il misero, non si tosto, dopo lunghe ore di agitazione,
giungeva a prender sonno, sentiva nell'orecchio la voce del
padre, e gittava uno strido altissimo, e si svegliava per non più
raddormentarsi. Una notte, mentr'ei vegliava, secondo il consueto, e
tenea rivolto lo sguardo sull'uscio della camera verde, vide di repente
sparir la luce che rischiarava quella stanza!...

La lampada era spenta!

Daniele solea farla provvedere di tant'olio da poter durare la luce per
molte notti. Come dunque si era spenta quella lampada? Lo sciagurato
giovine fu preso da strani timori; volle alzarsi per trarre nella
stanza del cadavere, ma non bastogli a tanto il coraggio; e stava
con un violento battito di cuore. Mentre così rimanea perplesso ed
insonne, Daniele porse attento l'udito... Un lamento fioco, indistinto,
un pianto soffocato partiva dalla camera verde!! Fu così terribile
l'illusione, che Daniele, balzato di letto, corse precipitosamente a
destare i servi, e narrò loro lo strano fenomeno che avea colpito le
sue orecchie. Si entrò con lumi accesi nella camera verde; si ricercò
della cagione del lamento... Nulla si era mosso in quella stanza...
Il Baronetto era sempre al suo posto, ironico e beffardo simulacro di
vita!

Così Daniele avea passato circa una ventina di notti. Egli non era più
riconoscibile: profonde occhiaie gli si erano scavate in sul volto! La
sanità del suo corpo era perduta, la sua ragione era vicina a perdersi.
Eppure, egli attingeva forza, energia e coraggio pensando all'avvenire,
pensando alla sospirata fine di quei nove mesi, che dovevano partorire
la FELICITÀ. LA FELICITÀ! Ecco L'OMBRA dell'uomo in sulla terra; essa è
sempre indietro o innanzi a lui! La felicità non è che in Dio. La virtù
soltanto avvicina l'uomo a Dio, e la morte sola fa sparire la distanza
che li separa.

Fra gli altri fantasmi che confondeano la ragione e abbattevano
la salute di Daniele, ogni giorno, nel primo entrare ch'ei faceva
nella camera verde, pareagli che il Baronetto non si trovasse in
quella medesima posizione in cui era la sera precedente. I camerieri
si burlavano di queste allucinazioni di Daniele e si ingegnavano
di richiamarlo alla ragione; ma tutto indarno, perocchè quelle
allucinazioni erano figlie della rea coscienza. Ammirabil disegno. Il
cadavere del Baronetto ch'era stata la serpe morale la quale avea roso
le notti di Edmondo, era parimente il verme che rodeva le notti di
Daniele. Per colpire le coscienze colpevoli, Dio si vale ben sovente
delle loro stesse immaginazioni. In qualche notte, Daniele distraeva
le sue veglie rimandando il pensiero a' tempi della sua fanciullezza.
Allora egli pensava con orgoglio all'alta sua nascita, pensava con
tenerezza alla madre sua di cui l'immagine se gli piangea ben viva alla
mente; e cercava di adunare e collegare tutte le più lontane e sparse
reminiscenze per trarne qualche illazione o spiega. Talvolta egli
pensava con lacerante rammarico a' giorni tranquilli e felici della
sua adolescenza passata sotto il tetto di Giacomo Fritzheim; ricordava
l'amor tenerissimo della virtuosa Lucia; rimembrava le notti di
placidissimo riposo che il ristoravano.. E un orrendo paragone il facea
disperare!

Il riposo della virtù sotto l'umil tetto del povero: l'insonnia del
delitto sotto le dorate volte del ricco palagio!


Erano scorse alquante settimane dal dì della morte del Baronetto.
Una sera, dopo l'ora del tè, e dopo aver suonato il pezzo di musica
e cantata un'aria, che per lo più era una melodia tristissima o
una preghiera, Daniele era rimasto seduto al suo posto, vicino al
piano-forte, abbattuto dagli sforzi di coraggio che tuttodì faceva,
non meno che dalle veglie, da' rimorsi e dalle sofferenze morali.
Egli era solo: i testimoni si erano ritirati. Il globo d'alabastro
schiarava la camera e l'immobil fisonomia del Baronetto. Daniele, collo
sguardo fisso sul cadavere di suo padre, era sepolto nella tristezza
più desolante. Gli occhi del cadavere il faceano fremere, ma pure un
fascino terribile, una forza inesplicabile costringevanlo a guardar
sempre la faccia del padre. L'oscillante e vaporosa luce del globo
d'alabastro disegnava stranamente gli angoli del volto del morto, e
dava alla sua fisonomia qualche cosa di mobile e di vivo: quelle labbra
pareano sogghignare, pareano socchiudersi per parlare. Daniele era
agghiacciato di spavento, eppure non avea la forza di abbandonar quella
camera. Di botto, la sedia a letto, su cui era adagiato il cadavere, si
mosse, come se questo avesse fatto uno sforzo per levarsi.

Orribile a dirsi!! Il braccio destro del cadavere si alzò! Daniele mise
un grido fortissimo e chiuse gli occhi. — L'UPAS!! L'UPAS!! CHE FACESTI
DELL'UPAS?

Daniele gittava gridi orribili!... I servi accorsero... e trovarono il
giovine mortalmente svenuto.

[Illustration]



VI.

L'AMICO


Un uomo avea mosso il braccio del cadavere e profferito quelle parole.
Egli era Maurizio Barkley!

Diamo la spiegazione di questa che all'apparenza può sembrare stranezza
di Maurizio.

Nove giorni dopo la morte del Baronetto, Maurizio leggeva nelle
_Notizie diverse_ di un giornale francese:

«Ci viene scritto da Baden che nella città di Manheim è morto alcuni
giorni fa il proprietario della bella tenuta di _Schoene Aussicht_.
Egli è stato trovato estinto nel proprio letto, dopo aver passata la
sera precedente a banchettare cogli amici. Egli ha lasciata una fortuna
stragrande ad un giovine italiano, a patto che questi custodisca il
cadavere di lui per nove mesi, nella stessa abitazione di _Schoene
Aussicht_. La strambezza e la originalità di un tal testamento formano
il subbietto di tutte le conversazioni».

Confessiamo di non trovare espressioni bastevoli a dipingere la
sorpresa e il dolore del buon Maurizio a tal nuova inaspettata!
Allorchè egli attendeva con ansia una risposta all'ultima lettera
scritta al Baronetto, gli giunge, per via indiretta, la notizia della
costui misteriosa morte! Non sappiamo dire quante volte Maurizio
rilesse le parole del giornale francese, quasi non credendo agli occhi
propri. Maurizio amava il Baronetto, l'amava con tanta appassionata
venerazione, che avrebbe mille volte sacrificata la propria vita per
lui. I trascorsi della vita di Edmondo, le costui follie, i pericoli
incessanti a' quali si esponeva, erano cagioni di gravi cordogli
all'animo del nobile schiavo, il quale, con tutto quel poco d'influenza
che avea sul cuore del Baronetto, ingegnavasi di rimenarlo ad un
tenor di vita meno esposto a pericoli ed a rimorsi. Edmondo ricambiò
l'affetto dello schiavo con altrettanto attaccamento, e, poscia che
questi l'ebbe cansato da morte imminente, Edmondo ringraziò il cielo di
avergli conceduto un vero amico, e come tale sel tenne appresso a sè in
prosieguo di tempo, affidandogli, siccome altrove dicemmo, gl'incarichi
più difficili e dilicati.

Maurizio, prima di concepire l'ardente passione per Emma di Gonzalvo,
non sentiva altro amore che pel Baronetto. E anche la sua passione
per Emma non attenuò per niente o indebolì il suo amore per Edmondo.
Era questo amore radicato nell'animo integro dell'Africano, così che
se gli era renduto un elemento di vita. Maurizio amava il Baronetto
siccome amava l'aria e la luce, con quell'amore cioè che più non
si avverte, sendosi fatto abituale e intrinseco all'esistenza, con
quell'amore placido, uguale, costante, inalterabile. Il Baronetto era
per lui più che un padrone, più che un amico, più che un padre; era
un nume! Maurizio era felice nell'amare Edmondo e dimostrarglielo con
un attaccamento e con una fedeltà a tutta prova, siccome era felice
nell'amare la figliuola del Duca di Gonzalvo e nasconderglielo. Alla
notizia della morte del Baronetto, Maurizio non avea pianto, non avea
messo gemiti e grida, siccome suol disfogarsi un acerbissimo dolore:
il suo primo movimento fu porre la mano sopra uno stiletto inglese che
portava sempre addosso. Ma nel puntare il pugnale contro il proprio
petto, due pensieri il rattennero: la notizia poteva esser non vera
o almeno esagerata; se vera, un delitto era stato commesso e a lui
spettava il vendicarlo.

L'Africano possedeva uno sguardo morale, acuto e penetrante al pari
del suo sguardo fisico. Ratto come il baleno, il suo pensiero corse a
Daniele, e indovinò in questi l'autore della improvvisa e arcana morte
del Baronetto. Maurizio sapea quali tristi passioni albergassero nel
cuor del giovine pianista, e come l'avidità dell'oro spegnesse in lui
ogni altro buon sentimento; sapea che questi avea promesso di ritornar
milionario dopo due anni per impalmare Emma di Gonzalvo; e fin dal
momento che il Baronetto gli scrisse di aver conchiuso col pianista
quella specie di funesto contratto di morte, Maurizio temè gli agguati
di Daniele, tanto che si affrettò di scrivere a Edmondo la lettera
che questi ricevè poche ore prima di miseramente morire. Ricordiamo il
seguente passo di questa lettera:

«Questo importante segreto è ora nelle vostre mani, signor Baronetto:
a voi lo rivelo, e non a lui; fate quello che credete, non ispetta
a me darvi consigli. Soltanto non posso celarvi che fareste bene a
discoprirvi al figliuol vostro e dare sfogo al vostro amor paterno:
_non posso dirvi il perchè opino così_.»

Maurizio _opinava così_ perchè suspicava quello che appunto era
avvenuto! Nello stesso giorno in cui Maurizio aveva letto la notizia
della morte del Baronetto nei pubblici fogli, giunsegli una lettera
dell'amministratore Americano che gli dava i tristi ragguagli di questa
morte non meno che delle disposizioni testamentarie del defunto, della
sua imbalsamazione, del cominciato adempimento delle condizioni di
eredità; e soggiungeva in un _postscriptum_:

«Il _Custode della morte_ sembrava essere stato vivamente colpito dalla
improvvisa catastrofe del Conte: il suo cervello sembra averne patito.»

Ciò bastava per confermare i sospetti di Maurizio. Il rimorso era che
sconcertava la ragione di Daniele. Maurizio rimase lunga pezza immerso
nel più profondo dolore, ma ora egli aveva un dovere a compiere: volare
a _Schoene Aussicht_, obbedire all'ultima volontà del Baronetto,
trovar le orme del delitto, e vendicarlo. Lungamente egli pensò al
come il perfido giovine avea potuto dar morte al Conte: pose a tortura
il cervello per indovinare il modo che il Daniele avea tenuto per
ischiudere impunemente una tomba: passò in rivista tutt'i veleni più
segreti, e da ultimo il pensiero dell'Upas gli sfolgorò alla mente
come luce improvvisa. Maurizio conosceva che il Baronetto conservava le
foglie dell'Upas, però ch'egli stesso era stato testimone della morte
de' due schiavi nell'isola di Giava, i quali avean perduta la vita nel
togliere dall'albero omicida le fronde che dovean servire ad arricchire
il piccolo museo di curiosità del milionario. All'infuora di questo,
Edmondo avea letto le sue _Memorie_ al suo amico Barkley, nelle quali
eran notate le velenose qualità della pianta _Bohon-Upas_. Daniele
dunque si era servito dell'Upas per uccidere Edmondo.

Maurizio era stupefatto di sorpresa, di dolore. In che modo Daniele
avea potuto impossessarsi del veleno? Ecco il mistero che restava
a schiarire. Il più importante a farsi era di volare a Manheim.
Nessun obbligo il trattenea più a Napoli: era finita la sua missione
presso il Duca di Gonzalvo... Maurizio si affrettò a recarsi colà
dove il chiamava un tristo dovere. Egli dette in fretta un addio al
Duca, ad Emma, che si mostraron addolorati pel suo allontanamento da
Napoli: promise di ritornar presto; nulla rivelò della cagione della
sua repentina partenza, e soltanto disse che dovea trasferirsi in
Inghilterra per mettersi in possesso di una eredità.

Dopo dieci giorni Maurizio era a _Schoene Aussicht_: Egli arrivò
al casino nelle ore vespertine: aveva il suo proponimento: non si
fece vedere che al solo amministratore Americano, cui pregò di tener
nascosto il suo arrivo a tutti, e particolarmente al giovine de'
Rimini. Con ogni possibile cautela Maurizio entrò nello studio del
Baronetto, e si diede a ricercare lo scritto in cui questi avea gittate
le memorie della sua vita. La prima cosa che andò a trovare in quelle
memorie si fu il viaggio di Edmondo nella Meganesia; il suo soggiorno
nell'isola di Giava. La pagina che conteneva i ragguagli sull'albero
_Bohon-Upas_ era disparsa!

Non cadeva più dubbio! Maurizio pensò di fare in qualche modo
confessare tacitamente il delitto allo stesso delinquente.

«Se Daniele è innocente, pensava l'amico di Edmondo, la parola Upas non
debbe cagionargli alcuna commozione; al contrario, se egli è colpevole,
siccome tutto il rivela, questa parola debbe di necessità produrre in
lui sbigottimento e terrore.»

Pensato a questo, Maurizio aspettò il momento, in cui il giovine si
fosse trovato al cospetto del cadavere della sua vittima. Terminato
il pezzo di musica e l'aria cantata da Daniele, e allora che i servi
testimoni si furono ritirati, Maurizio era destramente entrato nella
camera verde, per mezzo dell'uscio della villetta. Favorito dalle ombre
della sera e dalla preoccupazione del giovine, egli si era con ogni
precauzione celato dietro la sedia a letto ove giaceva il cadavere. È
da notarsi che la spalliera di questa sedia era situata quasi di contro
all'uscio che metteva nella villetta, così ch'era difficile di scorgere
il personaggio ch'era entrato, e che rimaneva a tal modo nascosto agli
occhi del giovine. Alle grida di profondissimo terrore che Daniele
avea messe, Maurizio si accertò della realtà del delitto, e la sua
bell'anima ne fu lacerata.

Dicemmo che Daniele fu trovato da' servi mortalmente svenuto. Egli fu
trasportato privo di sentimento sul suo letto, dove gli vennero usate
le cure che il suo stato richiedeva. Maurizio rimase solo col cadavere
del Baronetto. Non mai di afflizione più profonda si vide cosparso
il sembiante dell'Africano. Egli rimase gran tempo a contemplare quel
cadavere, che gli disbranava il cuore: si gittò poscia a' piedi di lui,
e su quelle fredde mani fe' cadere un diluvio di baci e di lagrime.

Virtù rara e sublime! Maurizio poteva con una sola parola vendicare il
Baronetto, annientare il frutto del delitto di Daniele, consegnandolo
all'autorità sotto il peso di sospetti ben fondati; e poteva egli
solo, Maurizio, mettersi in possesso dell'intera eredità di Edmondo:
dappoichè era detto nel testamento che, qualora dal giovine de' Rimini
si fosse mancato agli obblighi impostigli, l'eredità ricadeva tutta su
Maurizio Barkley, ritenendosi per tanto tutte le altre disposizioni a
favore delle persone nominate nel testamento. Aggiungi che Maurizio,
distruggendo l'avvenire di Daniele, distruggeva in lui un potente
rivale in amore. Ma il Cafro pensava che denunziando il giovine alla
giustizia, egli denunziava il figlio del suo amico il Baronetto!
D'altra parte, non avendo pruove evidentissime del misfatto, ma
soltanto semplici induzioni e sospetti, la giustizia avrebbe tenuta
così fatta denunzia come figlia della brama di mettersi in possesso
della eredità del milionario, privandone, sotto il peso di un'accusa
capitale, il giovine pianista. Maurizio fermò adunque di non palesare
ad anima viva i sospetti, che per lui erano lampante certezza, e di
abbandonare il parricida alle mani di Dio. Maurizio si affrettò di
eseguire la volontà del Baronetto e gli ordini, di cui questi lo aveva
incaricato.

In quella sera stessa egli andò dal notaio di Edmondo per aggiustare
tutte le faccende riguardanti le disposizioni testamentarie. Prima
di ogni altra cosa, Maurizio volea provvedere al più presto al
sostentamento dei figli del suo amico, distribuendo il capitale
lasciato loro in retaggio. Tranne Daniele e Eduardo, gli altri tre
figli di Edmondo, eran poveri, e fino a quel momento eran vivuti coi
mensili assegnamenti che il padre facea lor capitare.

Era d'uopo congedare gli agenti posti agli ordini di esso Maurizio:
essendo ormai inutile l'opera di costoro. Barkley doveva a volo recarsi
a Parigi, a Glascovia, a Pisa e a Cadice, volendo per l'ultima volta
rivedere i figli del suo amico, rivelare ad essi il segreto che per
tanti anni avea lor tenuto nascosto, e consegnare a ciascuno la parte
del retaggio paterno che gli spettava. Maurizio avrebbe offerto a
ciascuno di loro i suoi servigi, e gli avrebbe pregati di far capitale
di lui in ogni rincontro e circostanza della loro vita, essendo egli
stato il più fedel servo e affettuoso amico del padre loro. Oltre a
ciò, Maurizio dovea fare una corsa in Inghilterra per prender possesso
del feudo lasciatogli dal Baronetto a Yorkshire, e denominato, siccome
accennammo, _The Raven-Spot_.

Prima di allontanarsi per sempre da _Schoene Aussicht_, Maurizio
avrebbe voluto dilucidare un dubbio che il tormentava. Aveva il
Baronetto ricevuto, pria di morire, la lettera nella quale se gli facea
la rivelazione di essere Daniele dei Rimini suo figlio? a malgrado di
tutte le sue dimande e indagini, Maurizio non avea potuto dileguare
il suo dubbio e venire in chiaro di un fatto che avrebbe forse potuto
allontanare da Edmondo il crudel destino che lo avea colpito. Pel dì
vegnente, a prim'ora del giorno, Maurizio avea stabilito di abbandonar
per sempre Manheim e _Schoene Aussicht_, luoghi che ad ogni passo gli
ricordavano il disgraziato suo amico. Ed in fatti, in sull'alba, egli
trasse nella camera verde per lo stesso uscio della villetta, per lo
quale era entrato il giorno innanzi. Daniele abbattuto da febbre e
da delirio nella notte, non avea pensato, come al solito di chiudere
le porte di quella camera e conservarsene le chiavi. Maurizio volle
rivedere per l'ultima volta il suo amico, il Baronetto e dargli
un eterno addio. Entrato però nella camera verde, il Cafro baciò
rispettosamente la mano del cadavere, e stette a guardarlo con muta
espressione di profondissimo dolore. Mentre così egli stavasi, l'uscio
della stanza contigua si dischiuse, e Daniele si affacciò sulla soglia,
pallido, emaciato, tremante per acuta febbre, e coverto appena da
una veste da camera. Egli avea sentito rumore nella stanza ove era il
cadavere, ed alla febbricitante fantasia corse il pensiero che alcuno
involasse il deposito che dovea fruttargli l'eredità; era però balzato
dal letto, si era gittato addosso quella veste, e veniva ad impedire
che gli fosse rubato il cadavere. Daniele rimase stupito veggendo
Maurizio Barkley.

— Voi qui, signore! ebbe appena la forza di balbettare.

— Son venuto a trovarvi, signor Daniele, perchè ho qualche cosa
per voi, disse freddamente Maurizio mettendo la mano in tasca e
consegnandogli una cambiale.

«Eccovi la parte di eredità che vi spetta, signor _Daniele Fritzheim_;
vostro padre m'incarica di darvi queste duemila e quattrocento piastre,
quinta parte delle dodicimila che debbo distribuire tra voi e gli altri
quattro fratelli vostri... Via su, non arrossite, signor Fritzheim,
e aggiungete questa piccola somma a due milioni che toccheranno al
_Custode della morte_, Daniele dei Rimini, al quale direte da parte
mia che adempia esattamente agli obblighi impostigli, perchè Emma, sua
cugina, lo aspetta».

Maurizio uscì da quella stanza presto come un baleno, senza dare il
tempo al giovine di rispondere una sola parola. Daniele rimase appo la
soglia... Un'altra parola avea colpito le sue orecchie, un'altra parola
che contribuiva maggiormente a porre lo scompiglio e la morte in quella
povera ragione.

Emma era sua cugina.



Parte Sesta



I.

JUANITA


Ci corre debito verso i nostri lettori di rischiararli rapidamente
sovra alcuni punti tuttavia scuri della nostra narrazione, ed in
ispecialità su la miserevol fine della madre di Daniele, Juanita de
Gonzalvo.

Al capitolo I. della Parte terza, in toccando la vita del Baronetto,
dicemmo come, durante la sua dimora nell'Andalusia, egli avesse
stretto amicizia col Duca di Gonzalvo, capo politico di quella
provincia, il quale, imprudentemente concedendo favore e protezione
alle scorrerie e alle scappate dei cavalieri del Firmamento, avea per
qualche tempo nascosto e coperto agli occhi del governo di Madrid le
follie di Edmondo e compagni. Dicemmo che il Duca di Gonzalvo aveva
una sorella, giovinetta di straordinaria bellezza e d'indole franca,
espansiva, appassionata. Era Juanita il più bel fiore di Siviglia;
non vi era giovine _hidalgo_ nel paese, il quale non sospirasse per
la bella germana del governatore. Novella Rosina, ella era l'oggetto
dell'ammirazione e dei voti di un gran numero di Lindori: battaglie di
serenate, di fiori, di biglietti simbolici, gare di sospiri e di dolci
parole, guerre di dichiarazioni: tutto ciò divertiva la fanciulla, ma
nessun cavaliere avea fatto ancora profonda impressione sull'anima
di lei, infino a tanto che i suoi occhi s'imbatterono in quelli del
giovine inglese, di trista rinomanza nel paese, del nuovo Don Juan,
cav. del Firmamento.

È curiosa e deplorabile ad un tempo la propensione che si hanno le
donne in generale per gli uomini di reprensibili costumi, i quali
hannosi acquistato un certo nome di avventurieri e girovaghi. In
concorrenza, un giovine dabbene e costumato perde per lo più nello
spirito delle donne, a paragone di un galante scioperato. Ciò vuol dire
che, per lo più, le donne, hanno la fantasia più impressionevole del
cuore, e caggion però negli agguati che vengon tesi alla loro vanità.
Ma il pentimento tien dietro a tali inconsiderate simpatie.

Juanita s'invaghì di Edmondo: tutti invidiarono la sorte del nuovo
Almaviva, compassionando interamente quella della sconsigliata
fanciulla. Il giovine Conte di Sierra Blonda traeva ogni giorno a
casa di Gonzalvo, dov'era ben accolto dall'amico e dall'amante; ma
egli simulava con l'uno e con l'altra. Edmondo mal soffriva l'altera
probità del capo politico di Siviglia; ciò non pertanto se gli mostrava
affettuoso, e ascoltava con infinta docilità le amichevoli suggestioni
del nobil Duca, il quale, con ogni maniera di dolci rimproveri,
ingegnavasi a quegli ammonimenti fraterni, per indurre il Duca a
scusare la sua condotta appo il governo centrale, che fulminava da
Madrid contro la comitiva dei cavalieri del Firmamento.

Ben più agevol si era il persuader Juanita, buona credula, confidente
appassionata fino al delirio. Edmondo le avea detto ch'egli non
poteva parlar di nozze al Duca, fratello di lei, perocchè avea dato
imprudentemente promessa di matrimonio a una giovinetta di Cadice.

— Se per poco si buccina il nostro amore, diceva il Baronetto alla
sorella del Duca, io sono perduto. Già il governo mi minaccia; già
mi tien d'occhio, e senza la protezione di tuo fratello, a quest'ora
già sarei fuori de' confini di Spagna. Fa però tener d'uopo per ora
celato a tutti il nostro amore, e sovrammodo al Duca tuo fratello, così
sospettoso e che non ha di me il miglior concetto del mondo. Usiamo
grande circospezione e prudenza. Verrà il tempo, e non lontano, che
potrem disvelare agli occhi del mondo il nostro affetto: fidati a me
che ti amo quanto la pupilla degli occhi miei. D'altra parte, se io
mi aprissi a tuo fratello noi non potremmo sì facilmente vederci, come
di presente, ad ogni ora del giorno: forse ei mi proibirebbe la soglia
di questa casa, infino a tanto ch'io non divenissi tuo sposo. E allora
potremmo noi vivere, lontani l'uno dall'altra?

A questa rete infernale venia colta la misera donzella, che amava
con quell'abbandono e con quella confidenza onde amano le fanciulle
sensitive. Frattanto la voce d'una perfidia senza pari commessa dal
Baronetto a Cadice giunse all'orecchio del governo unitamente a'
richiami d'una onesta famiglia oltraggiata. Il governo era stanco
di udir richiami e doglianze. Non ostante l'alta protezione di cui
godevano i cavalieri del Firmamento, un decreto di bando emanò da
Madrid. Il Conte di Sierra Blonda e i suoi amici doveano tra otto
giorni valicar le frontiere della penisola spagnuola.

Edmondo era furioso, non perchè costretto ad abbandonare il teatro
delle sue follie, ma perchè non avea potuto ancora far di Juanita
un'altra sua vittima. Ma quando si trattava di criminosi proponimenti,
la sua fantasia era fertile di diabolici trovati. Edmondo rinvenne il
modo col quale, anche lontano, poteva avvicinare a sè la disgraziata
giovinetta.

Il Baronetto aveva un giorno presentato un suo amico al Duca di
Gonzalvo: era quest'amico, o per meglio dire, questo complice di
Edmondo, un giovine spagnuolo di costumi viziosi e d'indole maligna.
Questi si era, per avidità di danaro, venduto in anima e corpo al
Baronetto, e serviva alle costui follie con zelo e fedeltà degna di
miglior causa. Il Duca avea stretta con confidenza la mano di questo
uomo, siccome quella del Baronetto, e stimava entrambi leali e ben nati
cavalieri. La sua casa era aperta ai due amici: una fiducia illimitata
lor veniva accordata. Egli e il suo complice si congedarono dal Duca
di Gonzalvo, il quale, gli abbracciò col volto bagnato di lagrime, e
manifestò loro il più profondo cordoglio per la condanna che li aveva
colpiti. Più strazianti ancora si furono gli addio di Edmondo e di
Juanita, la quale non potè, alla presenza del fratello, disfogare tutto
quel dolore che le cagionava la partenza del suo amato. Gli è vero che
il giorno dinanzi, Edmondo l'avea in segreto rassicurato che le sarebbe
rimasto fedele insino alla morte, confortandola a sperare nell'avvenire
e negli aventi, e nella promessa che ei le dava di sposarla non si
presto ritornava a porre il piede in Ispagna.

Edmondo e il suo amico doveano attraversare quasi tutta la Spagna
per trasferirsi a Bajonna, sulle frontiere della Francia, per dove
intendevano muovere, e dove il Baronetto possedeva un piccol feudo.

Giunti a Madrid, l'amico di Edmondo si presentò all'autorità, e
pronunziò una di quelle parole che bastano a troncare una vita
civile: era una orribil calunnia politica contro il Duca di Gonzalvo,
governatore d'Andalusia. Una falsa scritta ben congegnata fu recata
a luce e il Duca fu accusato d'intelligenza co' nemici del paese e
di clandestina corrispondenza coll'uomo che avea già ripieno il mondo
colla fama delle sue gesta militari. Il giorno appresso, un dispaccio
telegrafico da Madrid ordinava la dimissione del Duca di Gonzalvo dalla
sua carica, e il pronto suo sgombero dal territorio spagnuolo. Il Duca
fu colpito senza conoscere che cosa avea cagionata la sua condanna: non
valsero le sue proteste, le sue giustificazioni: l'ordine era preciso
ed inappellabile. Il nobile spagnuolo fu ferito nell'anima; versò
lagrime amare! perocchè non tanto gli dava cruccio la perdita della
sua carica e l'esilio al quale era condannato, quanto il pensare alla
macchia che avrebbe bruttato il suo cognome, venuto per secoli in gran
grido di attaccamento e fedeltà ai Monarchi delle Spagne.

Non osiamo dipingere gli eccessi della sua collera, quando da Madrid
gli venne comunicata la cagione del suo bando e l'infame calunnia che
lo avea prodotto. Il Duca si abbandonò a tal furore che gittava urli
disperati ed imprecazioni atroci contro l'ignoto nemico che lo avea
vilmente calunniato. Oh se egli avesse saputo chi era il vero autore
del tradimento! Frattanto giunsegli una lettera di Edmondo, colla quale
questi, dicendogli di aver conosciuta la disgrazia di lui, invitavalo a
venire a Bajonna, insieme a sua sorella, e gli offriva la propria casa
per soggiorno.

Il Duca fu commosso da questo ch'ei credeva sincero attestato di
amicizia, e non ebbe difficoltà di accettare l'offerta di ospitalità
che gli faceva il Conte di Sierra Blonda, suo amico. L'ex-capo politico
di Andalusia dovea partire immantinente: le sue istanze di recarsi
a Madrid furono rigettate. Il Duca era allora promesso sposo della
giovanetta Isabella di Monreal, che abitava coi suoi genitori nel
castello di Santiago, poco discosto dal capoluogo della provincia.
Egli scrisse alla sua fidanzata la disgrazia che lo avea colpito, di
cui giurò di essere innocente. Ignaro del proprio destino, egli volle
mandare alla sua promessa sposa un pegno del suo amore e della sua
fedeltà, e le regalò il proprio ritratto che un pittore italiano gli
fece in tutta fretta: era quello appunto che avea fatto impressione a
Daniele.

Il Duca si separò con dolore da' pochi amici che gli erano rimasti
divoti dopo la sua disgrazia, e s'imbarcò a Cadice sopra un piccolo
legno commerciale, colla sorella Juanita che avea voluto partecipare
alla sua sorte, e con un fedel domestico che non volle dividersi dai
suoi padroni. Tutta la provincia di Andalusia rimpianse la perdita
del buon governatore, e stimò, com'era, calunnia l'accusa che avea
provocato l'esilio.

Nell'entrare sotto il tetto del suo amante, Juanita si credè felice e,
stimò arrivato il momento in cui i suoi voti sarebbero stati esauditi.
Nessun ostacolo più si frapponeva alle sospirate nozze! Edmondo nulla
più aveva a temere da quella famiglia di Cadice, nel seno della quale
egli avea portata la sventura. Più saldi vincoli di amicizia e di
fratellanza stringeva ormai tra lui ed il Duca l'ospitalità generosa
offerta ed accettata con piena fiducia ed amore.

Fin dal primo giorno che Juanita si trovò sotto il tetto di Edmondo, il
pregò con tutta la forza che sapea ispirarle l'amore, di svelare alla
fine al Duca il loro affetto e chiederla in isposa. Edmondo promise di
appagare al più presto il desiderio di lei, ch'era puranche, com'ei
diceva, il suo più ardente voto. Intanto, un mese passò, passaron
due passaron tre mesi; Edmondo nulla avea detto al Duca di Gonzalvo,
trovando sempre nuovi pretesti al suo silenzio...

Juanita sperava, e amava! Edmondo aspettava!!

E l'ora che il perfido aspettava non tardò a giungere!.. E l'ora della
colpa fu al tempo stesso il germe dell'ora del castigo.

L'OSPITALITÀ TRADITA CON UN DELITTO a Bajonna, additava L'OSPITALITÀ
TRADITA CON UN DELITTO a Manheim!

JUANITA SEDOTTA diveniva la madre di DANIELE PARRICIDA!!...


Tiriamo un velo densissimo sulle funeste conseguenze di una colpa,
sulla quale Juanita pianse a lagrime di sangue. Inauditi sacrifici
di ogni giorno, di ogni ora, di ogni minuto; palpiti orribili di
paura, di vergogna; sussulti di speranza, angoscie di cuor tradito
nella sua piena annegazione; preghiere fervidissime rigettate dal più
duro cinismo; amarissime lagrime divorate nel segreto delle notti;
apprensioni terribili; ecco la storia di questa misera esistenza di
donna. Juanita s'infermò, la sua malattia fu avventurosa, perocchè
essa, celando la colpa, allontanava la vendetta del Duca che sarebbe
piombata terribile su lei e sul perfido amico.

Dopo un anno della dimora del Duca di Gonzalvo e di Juanita
nell'ostello del Baronetto a Bajonna, un bambino apparì in quella casa.
Daniele fu detto esser figlio di una cameriera ch'era stata presa a'
servigi di Juanita. Per molto tempo durò la simulazione.

Edmondo avea gittato l'ipocrita maschera. Ogni speranza era morta nel
cuor di Juanita! La disperazione avrebbe indotto la misera donzella
a porre un termine ai propri giorni, se un poderoso sentimento non
l'avesse obbligata a vivere, l'amor materno.

Ma un giorno, orribil giorno! tutto fu discoperto agli occhi del
nobile Duca di Gonzalvo. Uno slancio di amor materno avea tradita
la sciagurata Juanita! Il Duca si abbandonò a tutti gli eccessi di
un furore che non conosceva alcun limite. La mano del fratello avea
colpito l'infelice vittima del più vil tradimento. Ella fu salva per
miracolo dall'ira del nobile che aveva una benda di sangue innanzi
agli occhi. Edmondo si era codardamente involato alla vendetta dello
spagnuolo.

La madre eziandio fuggì col fanciullo, scampato per prodigio al
furore del Duca. Per ben tre anni Juanita errò in Francia e in Italia;
comprando la sua vita e quella del figlio colle fatiche delle proprie
braccia. Sovente lo scherno o l'ingiuria accoglievano le sue istanze
per ottener lavoro. Intanto per le vicende de' tempi e per la fortuna
delle armi francesi in Ispagna, la condanna del Duca di Gonzalvo era
annullata. Juanita, tenendo per certo il ritorno del Duca suo fratello
in Siviglia, concepì la speranza di un perdono per un fallo, di cui
ella stessa era stata la più misera vittima, e che già aveva espiato
con parecchi anni di abbandono, di miseria e di crudeli fatiche,
Juanita deliberò di far ritorno in Ispagna. Ella si trovava allora
nelle nostre Calabrie.

Per mandare ad atto il suo proponimento, ella scrisse una lettera
commoventissima ad un vecchio amico della sua famiglia, implorandone
i buoni uffici appo il fratello, e pregandolo di mandarle del denaro
per intraprendere il lungo viaggio. In questa lettera essa gli
raccontava la serie dolorosa delle sue sciagure, i giorni di miseria
e di vagabondaggio ch'era stata costretta a menare per sostentare il
pargoletto figliuolo, e faceva tal quadro tristissimo della propria
situazione da dover muovere anche un macigno.

Dopo non pochi mesi giunse una risposta a questa lettera. Il vecchio
amico della nobil famiglia di Gonzalvo le scriveva: essere il Duca
tuttavia fuori della sua patria, non avendo voluto profittare della
grazia concedutagli, per rimaner fedele e devoto al suo legittimo
Sovrano. Soggiungeva la lettera che il Duca si era ammogliato da
parecchi anni con Isabella di Monreal, la quale avea voluto seguir
la sorte di suo marito, e che avea fatto porre nelle condizioni
del matrimonio di non dover giammai il Duca suo marito accogliere
novellamente in casa la sciagurata Juanita, disonore della propria
famiglia. L'amico esortava nella lettera la disgraziata giovine a
dismetter l'idea di andar giammai a raggiungere il fratello, dal quale
non avrebbe ricevuto accoglimento veruno; sconsigliavala parimente a
ritornare in Ispagna, dove il suo nome era esecrato e dove non avrebbe
incontrato che ingiurie e abbandono da tutti gli antichi amici della
sua casa. Tutta la lettera era dettata con una durezza di cuore che
si spingea fino al sarcasmo e alla derisione. Il cuore di Juanita fu
trapassato da acuta freccia essa si tenne abbandonata da Dio e dagli
uomini. Allora che ricordava i giorni della sua innocenza, gli agi,
gli onori, i piaceri, l'amore della sua famiglia, ed ora si vedea
caduta all'imo della sventura e della prostrazione, l'infelice facea
risuonar l'aere del suo meschino abituro con grida e pianti altissimi,
che faceano gridare e piangere il fanciulletto Daniele, senza che
avesse compreso la ragione di quelle lagrime e di quei gemiti. La
madre stringeva al seno l'innocente figliuolo, il divorava di baci, ed
alle infantili dimande di lui non sapea rispondere che con lagrime e
carezze.

Era l'anno 1809, e per le nostre contrade tempi di politiche sciagure.
Le Calabrie, messe qualche anno addietro in istato di guerra, erano
tuttavia il teatro di frequenti deplorabili fatti. Juanita lucrava il
sostentamento suo e del figliuoletto, dandosi a' lavori più umili.
Ella abitava una casipola posta a piè d'una montagnuola. Ne' primi
giorni di quell'anno 1809, la misera fu colta dal vajuolo. Chi può
narrare le angosce di quel cuore di madre che vedea mancare il pane
al figlio, e non potea procacciargliene, affranta com'era dal male,
abbandonata da tutti e pel timore del contagio ond'eran presi i vicini
abitanti, e pei tempi che si erano rotti piovosissimi e tetri. Un
giorno, la derelitta non potendo più resistere al pianto del fanciullo
che chiedeva del pane, il mandò con un suo biglietto a una donna che
dimorava poco distante, e ch'era di compassionevol cuore; pregandola
di aver pietà dell'innocente fanciullo e dargli qualche moneta,
ch'ella le avrebbe immancabilmente restituita non appena rimessa in
salute. Quel fanciullino era così bello, così gentile, così nobil
di volto! il piccolo messaggiere partì non senza aver ricevuto dalla
sventurata madre un milione di baci e di raccomandazioni. Si trattava
di attraversare una strada non più lunga di un quarto di miglio. La
madre aspettava con grande e perplessa ansietà..... Daniele più non
tornò! Il fanciullo era stato rapito da alcuni facinorosi e condotto in
altra provincia delle Calabrie. Lasciamo immaginare a' nostri lettori
la disperazione dell'infelice madre e tutto ciò che fece per trovare le
orme dello smarrito figliuolo. Tutto fu inutile!

Giunse una mattina alle orecchie della sventurata che un fanciullo
era stato trovato estinto in un vicino bosco. Colma era la tazza
della sventura! Juanita perdè la ragione! La mattina del 25 gennaio
di quell'anno 1809, il cadavere d'una donna fu visto galleggiare
sulle acque del fiume Basento. La notte precedente, Juanita vi si
era gittata. Inesplicabili decreti di Dio! In quella medesima notte,
Giacomo Fritzheim, reduce da un piccol viaggio fatto nell'interno del
reame per commissione, ed avendo smarrito il cammino, s'imbatteva, in
una selva della Sila, nel fanciullino, e seco il menava a Napoli, dopo
aver fatto le debite dichiarazioni alle autorità del paese. Il figlio
era trovato, ma troppo tardi! Daniele, di peso e d'incomodo a' suoi
rapitori, era stato da essi abbandonato nelle boscaglie della Sila.

Molti anni dopo la morte di Juanita, tutta la sua tristissima storia
fu nota al Baronetto Edmondo, origine di tante miserie e sciagure.
E quando, credendo di fare ammenda delle sue colpe, volle pensare
al sostentamento de' propri figli, Maurizio Barkley, incaricato di
questo pietoso uffizio, non ebbe bisogno che di prendere da' registri
municipali i connotati lasciativi dalla deposizione di Giacomo
Fritzheim, per porsi sulle tracce del figliuolo di Edmondo.

Il Duca di Gonzalvo seppe la crudel tragedia della sorella, ed ebbe
un gran pentimento della inflessibile durezza del proprio carattere.
Egli era frattanto tornato nel 1815 a Siviglia, investito novellamente
del suo pristino potere e dell'alta carica che dinanzi vi occupava.
Gli avvenimenti politici del 1820 il toglievan d'ufficio, dacchè egli
era accusato di troppo attaccamento all'antica forma del governo della
Spagna. Il Duca di Gonzalvo, già padre della bella Emma, nel cui amore
egli era felice, traeva con la sua famiglia a soggiornare in Napoli.

Questi rapidi cenni bastano a rannodare con lucidezza gli avvenimenti
che abbiam preso a narrare, ed al cui sviluppo ormai ci accostiamo.



II.

IL RITORNO


Qualche tempo è scorso dagli avvenimenti che abbiamo narrati nella
quinta parte di questo racconto.

Erano le dieci del mattino d'una rigida giornata d'inverno. Nel palazzo
di S... a Toledo tutto annunziava che la notte durava ancora: chiusi
i terrazzini e le finestre della camera da letto; i servi oziosi
nelle sale; il silenzio nell'interno de' vasti appartamenti. Una
elegantissima carrozza chiusa, al cui timone erano attaccati quattro
superbi cavalli inglesi, si fermò dinanzi al portone del Palazzo S...

La cassetta di questa carrozza era difesa dalle ingiurie del verno da
un ricchissimo copertone sul quale sedevano il cocchiere e un valletto,
entrambi vestiti a nero con grandissima decenza. Al seggiolo del
servitore stava sdraiato un gigante _cacciatore_ dalla barba foltissima
e colle solite armi proprie della sua carica. Arrivata la carrozza
al portone, costui smontò dal suo seggiolo e si fece dappresso ai
cristalli dello sportello per prendere i comandi del padrone. Intanto
il portinaio del Palazzo S... veduto quella carrozza di gran signore
fermarsi alla bocca del portone, stimò suo dovere inoltrarsi fin presso
al montatoio del cocchio per sapere chi era il proprietario di que'
magnifici quattro cavalli inglesi, e che si volesse. La tendina che
copriva nell'interno lo sportello fu scostata alquanto, e una faccia
pallidissima si mostrò dietro di essa. Poco stante, i cristalli furono
abbassati, e una voce partì dalla carrozza per trasmettere un ordine.
Il _cacciatore_ chiese al guardaportone se il Duca di Gonzalvo era in
casa. Dietro l'affermativa, il predellino fu abbassato, e un uomo venne
fuora della carrozza ed entrò nel portone. Quell'uomo era Daniele.

Era impossibile di riconoscerlo. Un pallor plumbeo covriva le sue
guance, il cui lividore maggiormente risaltava sulla barba nera che
di presente gli chiudeva la faccia in ogni verso. La sclerotica degli
occhi, da bianca, era divenuta affatto gialla, e due cerchi neri, come
due ferri di cavallo, solcavangli l'altezza delle gote. Qualche cosa di
stralunato e di infermiccio era nel suo sguardo incerto e sospettoso.
Piuttosto che un giovine di venticinque anni, l'aria della sua persona
ne dava a credere trentacinque o quaranta. I suoi lunghi capelli
erano già bigi! il delitto avea gittato la prematura canizie su quel
giovine capo: le sue spalle erano bastantemente ricurve. Daniele avea
puntualmente adempito ai patti della eredità del Baronetto! i nove
mesi di crudeli sofferenze fisiche e morali erano spirati. Non diremo
nove mesi, ma nove anni eran passati pel figlio di Edmondo, contati
colla febbrile impazienza di tutte le più veementi passioni, onde può
essere agitato il cuore umano. Quei nove mesi erano stati una lunga
e tormentosa tensione di tutte le facoltà dell'animo di quel giovine;
la sua vita e la sua ragione erano state attaccate ad un sol filo: la
passione dell'oro. Prima di conseguire l'eredità, il pensiero di Emma
era secondario in lui; ma, dopo, la passione per l'Andalusa si alzò a
prima potenza nel suo cuore.

Noi non tenteremo di rimuginare nella melma di quel cuore e rimestarvi
le passioni odiose che il fanno pulsare e vivere. Sfuggito all'umana
giustizia, Daniele è sotto l'invisibil PROCESSO d'un'altra giustizia,
alla quale nessun reo può sottrarsi. Noi però non oseremo gittare
un'occhiata nel fondo di quel cuore, caos tenebroso e terribile, su cui
è sospeso il fulmine di Dio. Questa volta Daniele non fu introdotto
nel modesto stanzino da studio del Duca di Gonzalvo, bensì nel gran
salotto, di ricevimento. Nel riporre il piede in quella casa, l'antico
maestro di Emma fu preso da una forte vertigine e dovè appoggiarsi
contro un muro per non cadere. Entrando nel salotto, ei disse al
cameriere di annunziare al Duca di Gonzalvo _un signore che dee
parlargli per negozi d'importanza_. Egli volea sorprendere il Duca alla
sprovvista.

Siccome accennammo la famiglia di Gonzalvo era tuttavia a letto, però
conveniva a Daniele di aspettare: ei si sedè sovra un canapè, e si
abbandonò alle profonde meditazioni che gl'ispirava la sua situazione.
Tutto quanto gli era accaduto sembravagli un sogno strano e orrendo?
Non per tanto egli tornava ricco, ricchissimo! La sete ardente della
sua giovinezza era appagata! Due volte milionario!! Quest'idea non era
più per lui l'oasi lontana, inaccessibile a' suoi passi, meta favolosa
delle sue febbrili aspirazioni; e sibbene era una realtà, un fatto!
il più ricco tra i giovani! Tra pochi momenti avrebbe riveduta Emma di
Gonzalvo, la superba spagnuola, che aveva affettato disprezzo per lui
meschino maestro di musica! Tra pochi momenti avrebbe riveduto quel
Duca orgoglioso e altero che tanto lo aveva umiliato in quell'ultimo
abboccamento ch'egli si ebbe con lui! Daniele mormorava tra i denti con
sogghigno:

— Ah! Signor Duca di Gonzalvo, voi dicevate che una _stolta speranza
mi aveva illuso: perdonavate alla mia fanciullezza l'audacia delle
mie parole_, chiamaste _insulto_ la mia proposta di matrimonio!
Ah... Signor Duca, gli è vero che allora io non aveva due milioni
da offrirvi; ma io allora era giovine, avea genio, speranze, ERA
INNOCENTE!! Oggi, io vengo a portarvi il MILIONE che voi mi chiedete
per mezzo della mano di Emma! _Un milione rappresenta dieci generazioni
di nobiltà; un milione è una potenza, una grandezza, uno stato._ Furon
queste le vostre parole, signor Duca! Ed eccovi soddisfatto! Io ritorno
milionario, siccome vi promisi.

La faccia di Daniele si allividì maggiormente, ed egli soggiunse
cupamente, e con infernale sarcasmo.

— Ma voi, signor Duca, dimenticaste di aggiungere queste altre parole
ch'io soggiungo alle vostre: UN MILIONE RAPPRESENTA ANCORA DIECI
GENERAZIONI DI COSCIENZE IMPURE; UN MILIONE È UN MARCHIO D'IGNOMINIA
PER LA FRONTE DI UN UOMO.

Poco di poi Daniele ripigliava sempre tra sè:

— _Direte da parte mia a Daniele de' Rimini che adempia esattamente
agli obblighi impostigli, perchè Emma sua cugina, lo aspetta!_ Che
intese dire quell'uomo? Emma mia cugina! Eppure, sempre che penso allo
strano rapporto delle mie reminiscenze infantili, sempre che penso
all'impressione che fece in me quel ritratto del Duca, che io vidi
in questa casa in quell'ultimo giorno che io qui venni, non so perchè
trovo spiegabile il mistero di questa parentela! Emma, mia cugina! E il
Duca che mi colmava di umiliazioni e d'ingiurie è dunque mio zio! mio
padre gli era dunque fratello, o mia madre sorella! Quando ricordo la
spiacevole impressione che il nome di Gonzalvo produceva sull'animo di
mio padre, non posso che sempre più convincermi delle relazioni che han
dovuto passare tra loro!.. Ma questo mistero tra poco sarà schiarato!
Tra poco il superbo spagnuolo dovrà in ogni modo umiliarsi al mio
cospetto! Oh il denaro è pur la gran potenza! Ora io mi sento grande
quanto le più grandi sommità sociali, mi sento forte, ardito, superiore
a tutti... Ora si che si può vivere!

Ciò dicendo, un urto di tosse cupa e profonda si fece udire dalla
cavità del suo petto; e due fiammelle di rosso carico apparvero sulle
sue gote. In questo, il Duca di Gonzalvo entrò nel gran salotto di
ricevimento. Daniele si alzò, chinò la testa, e nulla disse, aspettando
che il Duca l'avesse riconosciuto.

— Chi è il signore, e che cosa brama? chiese il nobile tenendosi
all'impiedi.

— Non ho il bene, signor Duca di essere da lei riconosciuto? disse
Daniele, fissando gli occhi sul volto di lui.

Il Duca il ragguardò con grande attenzione, cercando di richiamare
le sue rimembranze, ma non potè risovvenirsi di quel personaggio che
gli stava dinanzi. Daniele era del tutto cangiato; la sua barba, il
suo pallore cinereo, l'aria del suo volto, le spalle alquanto ricurve
ne avean fatto un altro uomo, per modo che non pure al Duca ma a
chiunque altro più intrinseco col giovine, sarebbe stato impossibile il
riconoscerlo.

— Non ricordo di lei, disse freddamente il Duca di Gonzalvo.

— Allora aiuterò le rimembranze di lei, signor Duca, pronunziando il
mio nome che forse non le sarà uscito di memoria. Io sono Daniele de'
Rimini.

— Daniele de' Rimini! ripetè il nobile, e stette per qualche tempo in
cerca de' propri pensieri.

— Non ricorda il mio nome, signor Duca? Ricorderà io spero, il maestro
di piano-forte di sua figlia Emma.

Il Duca ebbe un soprassalto di sorpresa.

— Ah! voi, signore! Voi, Daniele de' Rimini, quel giovine ch'ebbe la
follia d'innamorarsi di mia figlia!

— Per lo appunto, signor Duca, io sono quel desso!

— Ah! bravo! mi fa veramente piacere di rivedervi, signore; piacciavi
di accomodarvi. E da quanto tempo siete di ritorno in Napoli?

— Da pochi giorni, signor Duca, rispose Daniele sedendo sovra una
poltrona.

Il Duca si era seduto, e sembrava lietissimo di rivedere il giovine
pianista.

— Vi ringrazio davvero di esservi ricordato di noi, mio caro de'
Rimini; eh, come si sta? Vi confesso che vi trovo molto cambiato, tanto
che mi è stato malagevole di riconoscervi. Avete forse sofferto qualche
malattia?

— Sì, signor Duca, molto ho sofferto, ho avuto malattie mortali; eppure
il vivo desiderio di mantenere la mia promessa verso di voi me le ha
fatto superare... Oh! io temeva tanto di morire prima di questo giorno!

— Voi avete una promessa verso di me? dimandò il Duca maravigliato.

— Sì, signor Duca, siccome voi pure l'avete verso di me. Io non ho
dimenticato la mia, ma veggo pur troppo che voi avete obliata la
vostra.

Il nobile incominciava a comprendere; egli era estremamente sorpreso,
ma non era sicuro della sanità della mente nel giovine, per maniera che
il ragguardava con sospetto misto a dolore.

— Mi avveggo che non mi avete ancora compreso, signor Duca: cercherò
di farmi comprendere meglio. Oggi, signor Duca, siamo a MERCOLEDÌ 17
DICEMBRE 1828.

— Or bene? chiese il nobile sempre più maravigliato.

— Or bene compiacetevi di gittare un'occhiata su questa carta.

Daniele trasse da un elegante portafogli un fogliettino di carta e il
consegnò al Duca; il quale con indicibile sorpresa lesse:

_Oggi io Duca di Gonzalvo prometto sul mio onore a Daniele de' Rimini
di non prender verun impegno di matrimonio per mia figlia Emma prima
che spirino due anni dalla data di questo giorno. Napoli 17 dicembre
1826_ — DUCA DI GONZALVO.

Il volto del Duca diventò pallidissimo come cera.

— Che vuol dire questo? dimandò egli con turbamento.

— Vuol dire, signor Duca, ch'io vengo a reclamare da lei l'adempimento
delle sue promesse.

— Delle mie promesse?

— Si signor Duca, il prezzo che voi metteste alla mano di vostra figlia
era enorme; io non poteva allora offrirvelo: presi due anni di tempo e
non ho mancato alla mia parola. IO SONO MILIONARIO, signor Duca.

— Voi, voi, milionario!

— Per lo appunto, e vengo a chiedervi la mano di vostra figlia.

Il Duca non dubitò più che Daniele fosse demente.

— E dove l'avete il milione? dimandò con sarcasmo il padre di Emma.

— Su quasi tutte le banche di Europa, rispose il giovine. Se vi
compiacerete di passare al mio studio, strada Toledo, Palazzo M... vi
si darà minuta contezza de' miei beni.

— Al vostro studio!

— Eccovi il mio indirizzo, signor Duca.

Daniele cavò dal portafogli una cartellina e la consegnò nelle mani
del nobile, il quale vi gittò distratto un'occhiata. Quella cartellina
conteneva le seguenti parole:

_Il Conte di Sierra Blonda — Strada Toledo, Palazzo M._

Il Duca mise un grido altissimo; afferrò Daniele per ambo le braccia,
il guardò con occhio di matto.

— Il Conte di Sierra Blonda! Il Conte di Sierra Blonda!! Dov'è costui?
Dov'è l'infame? Che rapporto avete voi col Conte di Sierra Blonda? Chi
siete voi? Come questo abborrito nome si trova in su questa cartella?
Chi siete? parlate.

— Sono il suo erede.

— Erede!!... Egli è dunque morto!

— Morto!! ripetè Daniele.

Il Duca ricadde estenuato e affranto in sulla sedia.

— E dove, dov'è morto l'infame?

— A Manheim, in Germania.

— In Europa! così vicino!! mormorò il Duca... E voi, signore, chi siete
voi che avete ereditato le ricchezze e i titoli di quel ribaldo?

— Io sono... SUO FIGLIO.

— Suo figlio! E la madre vostra... chi era ella?

— L'ignoro, signor Duca, conosco soltanto che mia madre era spagnuola.

— Spagnuola!... Ma il vostro cognome non è dei Rimini?

— Lo era, signor Duca, due anni fa; io sono Daniele Brighton, Conte di
Sierra Blonda.

Il Duca sembrava un forsennato. Questa scoperta inaspettata gli avea
posta la febbre nei polsi... Daniele forse era suo nipote, figlio della
sventurata Juanita, figlio dell'abborrito Edmondo. Il nobile si era
coperto la fronte con ambo le mani, e si era sepolto nei suoi pensieri,
cercando di strigare il caos che si era formato nella sua mente.
Daniele frattanto, dopo alcuni momenti di silenzio, ripigliava;

— Quali che sieno state le relazioni passate tra voi e mio padre,
signor Duca, non potranno mai influire sul reciproco adempimento delle
nostre promesse. Oggi io sono milionario e nobile, e ripeto vengo a
dimandarvi la mano di vostra figlia.

Il Duca alzò il capo, e guardò Daniele in maniera come se non l'avesse
compreso. Daniele ripetè:

— Non avete nessuna risposta a darmi, signor Duca?

— Voi mi chiedete la mano di mia figlia?

— Per lo appunto.

— Voi dunque ignorate che mia figlia è MARITATA?

Daniele si levò di botto, come, per lo scatto di una molla.

— Maritata!! Emma maritata!

Il Duca fu spaventato dalla feroce espressione degli occhi del giovine.

— Ella è maritata, vi ripeto.

Daniele mise un sordo gemito, indi fu assalito da una tosse violenta e
terribile, che durò alcuni minuti, a capo de' quali disse al Duca con
voce appena sensibile:

— Uomo senza onore vil creatura!.... Maritata!.... E chi è l'indegno
ch'ella ha sposato?

— Ecco lo sposo di mia figlia, disse il Duca additando un uomo ch'era
apparso sulla soglia del salotto.

— Maurizio Barkley! esclamò Daniele, e una fiamma di furore gli
incendiò la faccia.



III.

LO SCHIAVO


Innanzi tutto spieghiamo in che modo era avvenuto il matrimonio tra
Maurizio ed Emma.

Già motivammo le ragioni che a poco a poco persuasero la figlia del
Duca a disamar Daniele. Un giorno ch'ella era in compagnia di Lucia
costei le palesò la storia del giovin trovatello; le disse come
Daniele era stato educato insieme con lei; le narrò fil per filo la
storia dei loro innocenti e fanciulleschi amori, ond'ella concepì in
appresso tanta passione; non le nascose il giuramento che Daniele avea
profferito al letto di morte del suo secondo padre e benefattore; e
soltanto non disse motto riguardo al sussidio mensuale ch'egli ricevea
da misteriosa mano, avendole proibito Maurizio di palesar questo alla
Duchessina. Maurizio era divenuto l'amico più intimo della giovinetta
Lucia: quelle due anime nobili e gentili si erano ravvicinate nella
simpatia della virtù. Lucia trovò, un fratello in Maurizio. Molte
volte la fanciulla il pregò di rivelarle il nascimento di Daniele; ma
egli, anche dopo la morte del Baronetto serbò il segreto su questo
particolare, aspettando che gli avvenimenti avessero rischiarato un
fatto, sul quale non volea gittare alcuna luce, però ch'ei temeva
giustamente di perdere l'amicizia del Duca di Gonzalvo e di Emma, se
avesse fatto conoscere le relazioni che eran passate tra lui ed il
Baronetto Brighton.

Ritornato in Napoli, dopo il viaggio rapidissimo che avea fatto in
diversi paesi di Europa per eseguire l'ultima volontà di Edmondo,
Maurizio mantenne il più assoluto silenzio su gli avvenimenti ch'erano
accaduti a Manheim. Riveduto con estremo piacere dal Duca di Gonzalvo
e da Emma, la sua passione per la giovine Andalusa si accrebbe a
tale, che gli fu impossibile di nasconderla più a lungo agli occhi
della nobile giovinetta: Emma il comprese, ed il suo cuore indovinò
ch'ella era da gran tempo amata. Il cuore di Emma era libero. Maurizio
era il modello della virtù sulla terra: non passava giorno in cui
quel generoso amico non le desse novello argomento di stima e di
ammirazione, tanto che agli occhi di lei nessun uomo avrebbe mai potuto
arrivare all'altezza cui si era messo l'Esquire Barkley. Egli non era
nè ricco, nè nobile, ma la sua anima era una miniera inesauribile di
ricchezze e di nobiltà. Tutti gli uomini sembravano ad Emma o troppo
effeminati, o infinti, o pieni di basse e volgari passioni, o troppo
invasi d'amor proprio e tronfi di sè stessi. Ella finì col disprezzare
tutti gli adoratori che le facean cerchio, e non tenne in pregio che il
solo Maurizio.

Dal momento che la figliuola del Duca si accorse di essere amata
dall'inglese, ella non si abbandonò più verso di lui a quelle
espressioni di amicizia a cui dianzi abbandonavasi. Maurizio si avvide
di essersi tradito, di essere stato compreso, e da questo istante i
suoi giorni non furono che una continua trepidazione. Nel cospetto di
lei, egli allibiva, arrossava, confondevasi, tremava! Un giorno Lucia
Fritzheim era in casa di Emma. Queste due tenerissime amiche si vedeano
ben sovente, e la loro affettuosa intrinsechezza avea in qualche modo
fatto sparire la distanza che la fortuna avea messa tra loro. In mentre
che le due fanciulle stavano col cuor sulle labbra raccontandosi tutte
quelle piccole avventure di famiglia che formano l'ordinario subbietto
delle conversazioni donnesche, Maurizio si presentò... Il suo volto era
scolorato, i suoi occhi erano bagnati di pianto.

— Io parto, diss'egli seccamente alle due fanciulle.

— Partite!! esclamaron queste con maraviglia e dolore.

— Sì, signorine, parto per l'Inghilterra.

— Un'altra volta? disse Emma, a cui tutto il sangue era sparito dalle
sembianze ed era ito a piombarle sul cuore, cagionandole un palpito che
le serrava il respiro.

— E quando ritornerete? dimandò Lucia.

— Non tornerò più, mormorò cupamente l'Africano, figgendo con disperata
angoscia i due strali dei suoi occhi su quelli della fanciulla, che
egli amava ormai con amore da scoppiarne.

Emma comprese tutto quel baleno, e, per una di quelle risoluzioni
istantanee che sono il retaggio esclusivo dei cuori nobili e sensitivi,
ella si alzò e disse:

— Avete dunque obbliato ch'io vi amo, signor Barkley!

A queste inaspettate parole, Maurizio restò in sulle prime stupefatto
dalla gioia... Ma subitamente un tristo pensiero se gli affacciò
nell'animo. Egli suppose che Emma avesse pronunziata quella frase per
secondare, alla presenza di Lucia, la menzogna ch'egli avea detto a
questa giovinetta per isbandir da lei ogni sentimento di gelosia.

Maurizio rimanea però confuso e mutolo. Emma il prese per la mano, il
guardò negli occhi con una espressione da farlo impazzar d'amore, e gli
disse con quella voce ch'ella sola possedea, voce ammaliatrice:

— Voi non partirete, non è vero, Maurizio? Voi non partirete, se mi
amate.

Maurizio non rispose che cadendo alle ginocchia della giovinetta, ed
esclamando con un accento di passione estrema:

— O Emma se tu fingi, uccidimi, e così almeno io rimarrò eternamente
nella terra ove tu sei.

Due mesi dopo di questa scena, Maurizio Barkley era lo sposo di Emma
di Gonzalvo. Il Duca e la Duchessa erano stati vinti e soggiogati
dall'ascendente che il Barkley avea preso sul loro animo, e non
avean saputo resistere alla volontà della diletta figliuola. Un tal
matrimonio sorprese tutti; le più assurde voci corsero nel paese e
ne' crocchi della nobiltà sulle ragioni che avevano indotto l'altero
spagnuolo a dar sua figlia ad uno sconosciuto straniero; e tutti
ammiravansi del come la superba moglie del Duca, così severa in
sull'articolo di nobiltà, fosse condiscesa ad una unione che non
offriva, da parte dello sposo, almeno una mezza dozzina di blasoni e
di titoli. E noi stessi saremmo maravigliati d'un tal matrimonio e non
sapremmo spiegarcelo, se non guardassimo ad altre considerazioni di
gran lunga più alte, e non ne trovassimo la ragione in quelle arcane
fila che ordisce la Provvidenza affinchè la virtù non vada priva di
ricompensa.

MAURIZIO BARKLEY SPOSO DI EMMA DI GONZALVO ci sembra l'umana soluzione
d'un problema provvidenziale.

Maurizio era dunque apparso in sul limitare dell'uscio del salotto di
ricevimento. Se la rabbia, il dolore e la sorpresa di Daniele furon
grandi, non minore fu lo stupore del Barkley nel ravvisare il figliuolo
di Edmondo. Daniele rimase per qualche istante muto e fulminato da
quell'impensato avvenimento. Egli guardava con occhi di tigre affamata
lo sposo di Emma, ed un affanno il prese... Il respiro gli usciva
a sbruffi concitati dalla bocca e dalle narici. Poco stante, ei si
lanciava su Maurizio, il ghermiva per ambo le braccia, e, con voce
strozzata da violentissima rabbia, diceagli.

— Maurizio Barkley, io so tu chi sei. Indarno ti ascondi sotto le tue
vesti d'un'affettata probità, e covri l'infame tuo volto colla maschera
dell'educazione: io ti conosco.

Appresso di questo, Daniele, tenendo sempre stretti nei suoi pugni di
acciaio i due avambracci di Barkley, si voltava inverso il Duca, e gli
dicea:

— Signor Duca, IL CIELO VI PUNISCE DEL VOSTRO ORGOGLIO e della mancanza
alle vostre solenni promesse. Voi avete data vostra figlia in isposa al
MIO SCHIAVO QUICKEYE!

— Che! Che cosa dite mai! esclamò con voce di folgore il nobile
spagnuolo.

— Dico ripigliò Daniele, che questi è un Cafro mio schiavo comprato da
mio padre in America tra un carico di schiavi provvenienti da Bahor. Il
nome di Maurizio Barkley gli fu dato dallo stesso mio padre.

— È vero quanto costui dice? dimandò il Duca esterrefatto al genero.

— È vero, rispose Maurizio con pacatezza.

Il Duca fe' velo delle mani alla faccia e restò atterrato: non mai
umiliazione maggiore quel superbo avea sofferto. D'improvviso i
suoi occhi s'incendiano di fuoco, tutta la sua persona trema per
compressione d'ira che sta per iscoppiar terribile.

— Sciagurato, ei grida, mi pagherai colla vita l'agguato al quale mi
hai colto.

Ciò dicendo, si spingea matto di rabbia contro Maurizio, ma Daniele il
rattenne, dicendo:

— Frenate la vostra collera, signor Duca, un tal matrimonio è nullo; io
lo distruggo.

— Che! sarebbe possibile! esclamò di Gonzalvo.

— Gli schiavi non possono contrarre matrimonio senza il permesso dei
loro padroni. Oltre a ciò essi non possono torre in moglie una donna
libera.

— Cielo, ti ringrazio; mia figlia è salva almeno! tornò ad esclamar di
Gonzalvo; indi, rivolto a Maurizio, gli disse con voce soffocata dalla
rabbia:

— Vilissimo schiavo, la tua perfidia senza pari sarà punita: tu darai
severo conto alle leggi della tua condotta verso di me... Esci, esci
dalla mia presenza, e preparati al castigo dovuto alla tua infame
dissimulazione.

— Costui mi appartiene, disse Daniele, egli è mio schiavo, mi seguirà;
a me spetta il punirlo; andiamo. Ci rivedremo tra poco, signor Duca: ma
fin da questo momento Emma è libera!

— Figlia! Figlia mia! sposa di uno schiavo!! O vergogna incancellabile!
o macchia esecrata che avvelenerà il resto dei miei giorni! Signore,
ripongo il mio decoro nelle vostre mani, disse poscia a Daniele, fate
che al più presto un tal matrimonio sia dichiarato nullo, e disponete
di me, della mia vita, delle mie sostanze, della figlia mia.

— Io so quello che debbo fare, rispose Daniele con ghigno feroce, e
si appressava a menar seco Maurizio, quando costui, dato un forte e
terribile crollo di braccia, fece barcollare e stramazzar Daniele;
afferrò colle due mani che gli erano rimaste libere, il polso di
Daniele e quelle del Duca, e con ferma voce e pacata disse:

— Fermatevi, e ascoltatemi entrambi! Tocca ora a me di parlare. Figlio
di Juanita di Gonzalvo, io non sono tuo schiavo, nè sono più lo schiavo
di alcuno. Prima di contrarre matrimonio, chiesi ed ottenni la libertà
da Edmondo Brighton, tuo padre: ne conservo l'autentico attestato che
all'uopo farò valere. Fratello di Juanita di Gonzalvo, non vergognarti
di aver dato tua figlia in legittima sposa ad un uomo libero e da bene.
Se il cielo mi fe' nascere schiavo, nessuna viltà contaminò mai la mia
vita, nessuna colpa bruttò la mia coscienza; la mia fronte è pura e
serena, i miei sonni son placidi. Nato nella più brutale condizione,
seppi, colla sola virtù, infrangere i ceppi del servaggio ed innalzarmi
su tutte quelle misere creature, miei compagni di sventura, ed
umana mercanzia. Oggi io non sono che l'Esquire Maurizio Barkley,
proprietario di _Raven-Spot_ in Inghilterra, e mi credo tanto superiore
a voi altri quanto la farfalla su i vermi schifosi della terra. Se io
non sono nobile per nascimento, non porto un nome disonorato: i miei
figli andranno superbi del padre loro, e non dovranno arrossare per
l'origine di certi titoli più ignominiosi del marchio di schiavitù
di cui mi fate una colpa. Se io non sono ricco quanto voi, non ho
guardato a vista un cadavere per nove mesi, nè mi sono sporco le mani
con ignobili e vergognose transazioni. Se io non vi ho portato un
milione, signor Duca, vi reco in vece la più sicura guarentigia della
felicità di vostra figlia, la mia vita incontaminata e la purezza dei
miei sentimenti. Se la vostra stolta superbia si offende e si addolora
all'idea di aver data vostra figlia in isposa ad un uomo ch'è stato
uno schiavo, il vostro amor paterno dee rallegrarsi al pensiero di
non aver oggimai nulla a temere per la felicità di lei. Ricordatevi,
signor Duca, che l'uomo a cui avete dato gli epiteti di _vilissimo_ e
d'_infame_ è quello stesso che salvò la figlia vostra da sicura morte.
E tu, Daniele, sappi che senza il coraggio e l'affetto dello schiavo
Quickeye, tu non saresti ora milionario, perocchè tuo padre sarebbe
morto prima nell'Isola di Cuba. E sappiate l'uno e l'altro che, se
giammai un pericolo minaccerà i vostri giorni, immancabilmente mi
troverete al vostro fianco. Oggi io sono libero, indipendente, forte e
felice; se mi accettate per amico, lo sarò franco, sincero, devoto; se
mi volete nemico, io vi disprezzo entrambi com'esseri deboli e inermi,
incapaci di lottar meco. Pensateci, signor Duca; e tu, Daniele, pensa
che io potrei schiacciarti con una sola parola: ascoltala e fremi.

Maurizio si accostò all'orecchio di Daniele e profferì questo solo
motto: UPAS.

Daniele gittò un grido selvaggio; una tosse orribile il colse e gli
lacerò il petto. Maurizio era sparito.

Dopo alcuni momenti, il nuovo Conte di Sierra Blonda era trasportato
nel suo palazzo a Toledo in uno stato che agghiacciava il cuore dei
suoi servi. Condotto privo di sensi al suo domicilio, dopo la crisi
violenta e terribile che lo avea assalito in casa del Duca di Gonzalvo,
e messo a letto incontanente, Daniele restò come persona morta per
tutto il resto di quella giornata, e per metà della notte.

In sull'una, l'etico dischiuse gli occhi. Due uomini vegghiavano al
capezzale del suo letto; Padre Ambrogio e Maurizio.



IV.

QUI AMAT DIVITIAS, FRUCTUM NON CAPIET EX EIS


Per maggior dilucidazione di questi avvenimenti, ricordiamo che
il mattino della orrenda notte in cui fu commesso l'assassinio del
Baronetto, allora che Daniele entrò nel costui studio, trovò che questi
era occupato a suggellare una lettera per Maurizio Barkley. Ricordiamo
le parole del Baronetto, il quale avea detto al suo ospite: _Questa
mattina io sono veramente felice, imperciocchè con quella lettera che
ho spedita nel vostro paese, a Napoli, mi sono sdebitato di un antico
dovere di gratitudine_.

Quella lettera era la libertà di Maurizio, che questi avea dimandata,
avendo già qualche lontana speranza di sposare la figliuola di
Gonzalvo. Ricordiamo eziandio che nella lettera che Maurizio avea
scritta al Baronetto per rivelargli l'entità di Daniele, e che quegli
avea ricevuta qualche ora innanzi di morire, erano queste parole:
_Vi rinnovo la preghiera che vi diedi coll'ultima mia lettera: vi
dirò le ragioni della mia richiesta_. Si comprende oramai qual era la
_preghiera_, di Maurizio e quali le _ragioni_ di essa.

I medici chiamati ad assistere Daniele, dichiararono offrire il suo
male pochissima speranza di salvezza. Padre Ambrogio e Maurizio non
si erano, neppure per un momento, allontanati dal letto dell'infermo,
il quale sembrava compreso di stupefazione: poco o nulla intendeva.
A quando a quando figgeva lo sguardo in sul volto del sacerdote e di
Maurizio, e nulla dicea; pur nondimeno parea tocco di riconoscenza per
le cure di cui gli eran prodighi quei due uomini. Un giorno era scorso
dal momento che Daniele fu tratto semivivo al suo domicilio, quando
stretta la mano di Padre Ambrogio gli disse:

— Padre, imploro da voi una grazia.

Eran queste le prime parole che Daniele avea pronunziate dopo la crisi
violenta da cui fu assalito.

— Lodato Iddio! esclamò il sacerdote, egli ne riconosce! Parla,
figliuol mio; noi qui siamo a servirti a tutto quello che può
contribuire alla tua guarigione.

— La mia guarigione!

Daniele sorrise amaramente. Egli era rassegnato.

— Padre, ripigliò con voce debolissima, io più non mi lusingo sul
mio stato; sento che la vita mi sfugge: la giustizia di Dio mi ha
raggiunto!... Possa la mia morte espiare il mio delitto!

— Il tuo delitto!

— Sì, Padre, tutto vi rivelerò tra poco, se Dio assisterà la mia
ragione e mi farà la grazia di farmi confessare i falli della mia vita.
Ma, prima di tutto, intendo mantenere il giuramento da me fatto al
letto di morte del mio benefattore.

— Che! esclamò Padre Ambrogio colle lagrime agli occhi; sarebbe
possibile! Dio di bontà, compi l'opera tua.

— Sì, Padre; la grazia, che io imploro da voi si è quella di far sì
ch'io sposi fra ventiquattr'ore Lucia Fritzheim.

— Il cielo ti benedica, figliuol mio, e ti ridoni la salute del corpo,
come quella dell'anima. Io corro ad annunziare alla povera Lucia
questa suprema felicità... Oh se sapessi quante volte ella ha mandato a
prender conto della tua salute!

— Andate, Padre mio, andate: fate che io rivegga al più presto
quell'angiolo! Oh se non mi fossi giammai allontanato dal suo fianco!

Una lagrima cadde dagli occhi di Daniele. Padre Ambrogio se lo strinse
al cuore, e volò da Lucia per menarla da colui ch'ella amava sempre, a
malgrado dell'abbandono e del tradimento fattole.

Daniele restò solo con Maurizio. È inesplicabile l'impressione che
facea sull'infermo l'aspetto del marito di Emma. Dal primo istante
che Daniele lo avea veduto alla sponda del suo letto, aveva provato un
sentimento di ripulsione e di odio, ma a poco a poco un tal sentimento
era scomparso, ed ora Daniele il guardava come si guarda un amico.
Soltanto nella mente del giovine risuonava ancora l'orrenda parola che
colui gli avea susurrata all'orecchio in casa del Duca di Gonzalvo;
quella parola che avea cagionato la crisi mortale pel figlio di Edmondo
formava per lui un mistero profondo e tenebroso.

Daniele fece uno sforzo violento, raccolse l'energia della mancante sua
vita, guardò fisamente in volto a Maurizio, e gli disse:

— Maurizio Barkley, la dissimulazione è ormai inutile; e, quando la
giustizia di Dio colpisce un uomo, questi non ha più a temere della
giustizia degli uomini. Io mi accosto alla mia fine... Dite, Maurizio
Barkley, il mio delitto vi è noto?

— Sì, rispose Barkley, abbassando gli occhi.

— Voi dunque sapete...

— Che il mio infelice amico Edmondo Brighton fu da voi avvelenato colle
foglie dell'upas.

Daniele si nascose il volto nelle mani, e stette qualche tempo in
silenzio.

— E voi non rivelaste ad alcuno i vostri sospetti? chiese Daniele.

— A nessuno.

Daniele gli stese la mano e mormorò tra i denti:

— Uomo raro! virtù incomprensibile! mi perdonerai tutti gli oltraggi
che ti ho fatti?

Maurizio strinse quella mano scottante e vi appoggiò la fronte senza
dir niente.

Il palazzo M... era assediato in ogni ora del giorno dagli antichi
amici di Daniele e da uno stormo di gente che le ricchezze del nuovo
milionario richiamavano d'intorno a lui. Ma a pochi si dava l'accesso
nella camera ove giaceva l'infermo, avendo così ordinato il suo medico.
Un'ora dopo ch'era uscito dalla stanza di Daniele, Padre Ambrogio vi
tornava ansante e trafelato.

Entrando ivi, egli si accostò al giovine ammalato e sotto voce gli
disse.

— Lucia è qui!

Daniele ebbe un soprassalto di gioia, spalancò gli occhi, mandò
un grido fioco, e le lagrime sgorgarongli dagli occhi con impeto
irrefrenabile. Lucia era già alla sponda del suo letto.



V.

LE NOZZE


Lucia, prese tra le sue mani la destra di Daniele, l'inondò colle sue
lagrime. Le violente commozioni che soffriva le avean fatto un tal nodo
alla gola, ch'ella non potè pronunziare una sola parola; pur nondimeno
il suo pianto narrava abbastanza la piena di affetti che mettea
sossopra la sua anima. Ella rivedea, dopo due anni, l'uomo ch'era stato
la prima e l'unica passione della sua giovinezza; il rivedea ridotto
alle porte della tomba, a tanto che poche altre ore parea che gli
avanzassero di vita.

Alla vista di Daniele, sulle cui sembianze erasi già sparso il
giallognolo pallor di morte, Lucia provò tal stringimento di cuore e
tale ambascia che la sua faccia era divenuta bianchissima. Tutt'i falli
dell'amato giovine ella avea dimenticato; ed avrebbe dato con suprema
gioia il resto della propria vita per rimirar Daniele in quel medesimo
stato di salute in cui era quando partì. Quel che provava il cuore
del figliuolo di Edmondo non tenteremo di esporre. Soltanto diremo
che la presenza di quella fanciulla aveagli cagionato tale tempesta
di emozioni, di rammarichi e di rimorsi, che il suo guardo era rimasto
per qualche tempo fisso al cielo, come se ne avesse implorata tutta la
misericordia. Daniele e Lucia furono lasciati soli.

La conversazione ch'ebbe luogo tra loro, le parole strazianti di
affetti che furono ricambiate fra que' due sono per noi un mistero
che non cercheremo di scoprire, imperciocchè rispettiamo la voce del
pentimento ch'esala dal cuore di un moribondo.

Un quarto d'ora dopo, Lucia entrava cogli occhi smarriti e deliranti
nella stanza contigua dov'erano raccolti gli amici di Daniele, e
annunziava loro che l'ammalato era stato sovrappreso da un deliquio che
facea spavento.

Tutti gli aiuti furono apprestati all'infelice giovine che fu trovato
moriente. I medici dichiararono che qualche ora appena restava di vita
all'infermo. Un tale annunzio fu per tutti un colpo di fulmine. Si
mandò a chiamare un notaro per ricevere dalla bocca del moribondo le
ultime volontà testamentarie. Si dette ordine per le subitanee nozze
di Lucia con Daniele, il quale voleva adempiere a questo atto non
solamente per mantenere il giuramento solenne profferito al cospetto di
Dio, innanzi al quale tra poco sarebbe venuto, ma bensì per lasciare
alla legittima moglie tutt'i suoi beni e ricchezze, quasi ammenda de'
mali che le avea fatti. Egli aveva eziandio manifestato il desiderio di
rivedere i fratelli e la sorella di Lucia. Fu spedita una carrozza di
esso Daniele per andare a prendere la famiglia di Fritzheim.

Tutto il palazzo M.... fu messo in movimento grandissimo. L'arrivo
del milionario, le sue avventure e la sua prossima fine formavano
il subbietto di tutte le conversazioni della capitale; in tutti era
eccitata la curiosità, sicchè le porte e i dintorni di quel palazzo
erano affollati da ogni maniera di gente, ora per servigi, ora per
interrogazioni, ora per visite, ora per mera curiosità. Molte persone
che nessuno conosceva si erano introdotte nel quartiere del Conte di
Sierra Blonda, e ne ingombravano le sale e le stanze interne: qualcuno
si era avanzato finanche nella camera da letto. Nessun comando veniva
più eseguito, dappoichè il solo padrone della casa era Daniele, e
questi non era più nel caso di significare la sua volontà.

Tutto quello che accadeva intorno a lui non colpiva più i suoi sensi,
e soltanto riverberava nel suo cervello a guisa del mormorio delle
lontane onde del mare. Gl'interessi e le cose della terra più nol
toccavano tutto ormai gli era straniero: il mondo si allontanava con
grande velocità da lui, come que' paesaggi indorati dalla luce del sole
che si allontanano dagli occhi dell'esule mentre abbandona la nativa
sua terra.

Allorchè Lucia, pallidissima e sfinita da crudeli commozioni, era
venuta nella stanza contigua a quella dov'era l'infermo, a fin di
chieder soccorso, tutti coloro che si trovavano in quella camera, erano
affluiti dappresso a Daniele. Ma Daniele non dava altro segno di vita
che il girare lentissimo delle smorte pupille. Egli avea perduta per
sempre la parola: la voce era spenta. L'ultima frase che avea detta a
Lucia era stata:

— Non abbandonarmi anche tu, Lucia... il mondo mi abbandona! Addio...
per sempre... io moro!

E da quel momento la voce fu morta!!

Giunse il notaro; giunsero gli ufficiali dello stato civile per le
formalità del matrimonio.

Daniele, mercè l'assistenza efficace di quel santo uomo di Padre
Ambrogio, già si era preparato, col divino ausilio della religione,
all'eterno viaggio.

Irreparabile sventura! Il milionario non avea fatto alcun testamento,
ed ora ei non poteva in nessun modo manifestare la sua volontà.

L'ora terribile era suonata!

Veggendo che non ci era tempo da perdere, si pensò di strappare almeno
un cenno dal moribondo col quale avesse manifestato di sposare Lucia.
Ciò sarebbe bastato perchè la sventurata giovinetta fosse considerata
qual vedova del milionario: era ad ogni modo una maniera di testamento.

La stanza dell'infermo era gremita di gente. Non vi era cuore che non
palpitasse per la misera donzella, la cui commovente fisonomia, il
cui pallore e le cui virtù le aveano attirato l'amore di tutti. Si
desiderava con ansia che il matrimonio avesse luogo.

Gli ufficiali dello stato civile si erano seduti. Uno di loro,
accostandosi al letto del moribondo, dimandò ad alta voce:

— Signor Daniele de' Rimini-Brighton, Conte di Sierra Blonda volete
voi sposare in legittimo matrimonio Lucia Fritzheim, figliuola del fu
Giacomo?

Dalle labbra di Daniele parti un suono indistinto; le pupille si
voltarono al cielo e vi rimasero immobili. Non era già una parola o
una voce quella che era uscita dalle labbra del moriente; era bensì
un singulto breve... profondo... Si ripetè l'interrogazione... La più
assoluta immobilità avea colpito il giacente. Furono brevi momenti di
silenzio agghiacciante. Padre Ambrogio si avvicinò a Daniele, gli toccò
il polso, gli pose la mano in sul petto.

— Morto! esclamò il prete con accento di pietà straziante.

— Morto!! ripeterono tutti compresi d'orrore.

Un silenzio di stupefazione successe tra i gruppi presenti a questo
desolante spettacolo, Lucia avea messo un grido come se un pugnale
le avesse tocco il fondo del cuore. Intanto il notaio e gli impiegati
municipali, alzati, disponevansi a partire quando un giovine forestiero
ch'era in uno dei crocchi di curiosi, si avanzò verso di loro e disse
in francese:

— Fermatevi, signori, la vostra presenza in questo luogo non sarà stata
inutile.

Questo giovine forestiero, quantunque avesse parlato in francese,
lasciava scorgere dal suo accento ch'egli non era nato in Francia:
si comprendeva subitamente ch'ei si serviva di questa lingua non
conoscendo l'idioma del paese. Bello e gentile era il suo aspetto,
biondi i capelli e la sottile lanugine della barba; vivo lo sguardo che
dardeggiava da due occhi cerulei; nobile il portamento e soave, siccome
sogliono averlo i giovani di alta educazione e di cuore ben formato. Da
due giorni questo viaggiatore si era presentato al palazzo M... ed avea
significato il desiderio di vedere il giovine Conte di Sierra Blonda.
La nobiltà e l'avvenenza del suo volto parlavano in suo favore, sicchè
non si trovò la menoma difficoltà a farlo entrare in quella casa, tanto
più che assiem con lui penetravano quivi altri sconosciuti, ai quali
non si badò essendo tutt'i familiari e domestici di Daniele in gravi
e solenni faccende per la dolorosa catastrofe ond'era stato colpito il
loro padrone.

Entrando nell'appartamento di Daniele, lo sconosciuto s'imbattè
in Maurizio Barkley: la sorpresa e il piacere di entrambi furon
grandissimi; eglino si abbracciarono e si baciarono con effusione di
cuore.

Poscia, lo straniero pregò Maurizio di non rivelar per ora a nessuno il
suo nome. Barkley gliel promise, ed il menò nella stanza dove giaceva
Daniele.

Venuto di presso al letto dell'ammalato, lo straniero per lunga pezza
il ragguardò con un sentimento di pietà profonda, e fece appresso una
quantità d'interrogazioni a Maurizio, col quale sembrava essere in
istretta amicizia.

Egli era stato presente a tutto; avea con premura aspettato l'arrivo
di Lucia Fritzheim; avea fatto taciti e ferventi voti nel suo cuore
per la felicità della virtuosa fanciulla; avea palpitato d'ansia
nel solenne momento in cui la figlia del gabelliere sarebbe divenuta
Contessa di Sierra Blonda; imperocchè l'animo di lui era stato tocco
dal commovente racconto fattogli da Maurizio delle sublimi virtù di
lei e della nobil rassegnazione ond'ella avea sopportato l'abbandono e
l'oblio del suo fidanzato. Un altro momento, e Lucia avrebbe ricevuto
il guiderdone dovuto alle sue virtù. Nell'animo del giovin forestiere
nacque tosto una risoluzione ardita ma felice, certo ispiratagli dalla
Provvidenza. Dietro l'impulso istantaneo di questa risoluzione, egli si
era inoltrato inverso l'uscio della camera, avea fermato gli ufficiali
dello stato civile, ed avea pronunziato le parole che abbiamo riferite.

Lo straniero si avvicinò quindi a Lucia e prendendole la mano con
sembiante affettuoso: — Gentil giovinetta, le disse, il tuo infelice
stato, l'elevatezza del tuo animo, il tuo dolore han fatto in me
un'impressione ch'io non so dirti. Il mio primo pensiero, giungendo
in questa città, è stato di conoscerti, dappoicchè fin nelle lontane
regioni donde io sono partito mi furon fatti da Maurizio Barkley gli
elogi della tua virtù impareggiabile; la tua storia mi è nota, come
quella del disgraziato giovine che tu hai amato. Già da molti anni
tu hai appreso a soffrire e a rassegnarti. Iddio ti ha chiamata, a
quest'ultima pruova: alza dunque la nobil fronte, rasciuga le lagrime.
Ormai non ti resta che a pregare l'eterna pace all'anima del tuo
Daniele. Ma il cielo non ha permesso un precipitato matrimonio, sul
quale forse sarebbero corsi i più scellerati comenti del mondo, e che
avrebbe gittata un'ombra sulla tua incontaminata virtù: ti avrebbero,
se non di altro, accusata di cupidigia e d'ambizione. LA PROVVIDENZA
DISNODA MEGLIO DEGLI UOMINI I DRAMMI DELLA VITA. Essa non permise che
tu portassi un nome non puro di macchie; non permise che la fede del
tuo imeneo fossero i ceri della morte... Lucia Fritzheim, al subblime
tuo cuore conviensi un cuor puro e vergine di affetti; alla tua mano
ardente di giovinezza conviensi una mano parimente giovane e forte, e
non già quella di un cadavere. Io ti offro il mio cuore, la mia mano, e
il mio nome ch'è pur quello di Daniele. Io sono Eduardo Horms-Brighton
di Glascovia, figlio di Edmondo Brighton, e fratello di Daniele. Chiamo
in testimonio della verità de' miei detti Dio primamente, e poscia il
mio amico e nobil uomo Maurizio Barkley.

Un lungo mormorio di sorpresa e di ammirazione passò tra i diversi
gruppi degli astanti.

Lucia qual trasognata guardava il giovin forestiere e Maurizio sul cui
volto lampeggiava un raggio di gioia. Oppressa da tante rapidissime
emozioni, ella svenne tra le braccia della sorella Mariella e dei
fratelli ch'erano accorsi ad abbracciarla.

La sera di questo giorno, l'appartamento di Daniele era vestito di
magnifici lugubri parati, e le sue spoglie esanimi riposavano su
splendidissimo feretro. Cento torchi lunghissimi e tetri proiettavano
la loro sinistra luce sui neri lenzuoli di morte che coprivan gli usci
e le pareti di quasi tutte le stanze.

Per qualche ora nella camera dov'era il morto si erano udite le preci
ed il pianto dei fratelli di Lucia. Padre Ambrogio facea lor ripetere
sacri salmi. Uccello guardava il cadavere di Daniele con occhio stupido
e selvaggio; ei sorrideva e non dicea motto. Cessata la preghiera, egli
si accostò a Padre Ambrogio, e, ridendo gli disse:

— Padre Ambrogio, ora, il _contino_ non può più battermi n'è vero?

Il sacerdote gli comandò silenzio, e seco trasse l'idiota fuori di
quella stanza, non senza fare la più trista considerazione sulle parole
profferite da Uccello, che portavano in sè il marchio della Divina
giustizia.

I nostri lettori ricorderanno che fin dal tempo in cui Daniele era in
casa di Giacomo, quei fanciulli gli aven dato il titolo di _contino_.
Il futuro avea forse lampeggiato su quelle anime innocenti?


Maurizio Barkley vegliò tutta la notte a fianco del Cadavere di
Daniele. Egli rimanea lunghe ore in contemplazione di quelle spoglie, e
nella sua mente si aggiravano pensieri strani, indicibili, e che per lo
addietro non si erano mai presentati al suo spirito.

Maurizio non potea staccare i suoi occhi dall'estinto Daniele. Una
strana ed orrenda illusione colpiva i sensi e l'anima di lui, e facea
balenare alla sua mente una celeste luce che gli rilevava i misteri
della Provvidenza e della giustizia di Dio.

IL CADAVERE DI DANIELE RASSOMIGLIAVA IN TUTTO AL CADAVERE DI EDMONDO!
Era lo stesso CONTE DI SIERRA BLONDA!

Era la stessa faccia, la stessa barba, lo stesso abito nero, gli stessi
occhi semiaperti, lo stesso nerore delle labbra!

Altro non mancava per la compiuta illusione che la CAMERA VERDE e il
CUSTODE.

La bell'anima di Maurizio fu tocca dalla luce cristiana!!!


Il domani, per tempissimo, le sale e le stanze dell'appartamento del
Conte di Sierra Blonda erano deserte.

Una donna, vestita di grammaglie, piangeva a dirotte lagrime sul corpo
di Daniele.

Era Emma Barkley di Gonzalvo!



RIEPILOGO


Le grandi ricchezze del Conte di Sierra Blonda, per mancanza di
testamento, erano entrate sotto il dominio della Legge. Nate da mala
radice, esse aveano portato amaro frutto. Dio le disperdeva.

Sei mesi dopo la morte di Daniele, la famiglia Fritzheim non era più
povera. Eduardo Horms, ricco di virtù e di dovizie, era lo sposo di
Lucia, ed aveva ritirato presso di sè i fratelli e la sorella di lei.

Maurizio Barkley ed Emma sua moglie s'imbarcavano per l'Inghilterra;
mentre Eduardo Horms, colla sua nuova famiglia recavasi a Parigi ov'era
aspettato da FEDERICO LENNOIS, altro figlio di Edmondo[8].



INDICE


  Parte Prima

    I. _La famiglia dello stradiere_                   Pag. 5
   II. _Il Giuramento_                                  »  12
  III. _Le ultime parole_                               »  20
   IV. _Uno sguardo indietro_                           »  25
    V. _Il cuore di un prete_                           »  32

  Parte Seconda

    I. _Emma_                                           »  37
   II. _La lezione_                                     »  41
  III. _Due amici di Daniele_                           »  48
   IV. _La serata di Lady Boston_                       »  54
    V. _Un milione_                                     »  59
   VI. _Un tentativo_                                   »  65

  Parte Terza

    I. _Un cavaliere del firmamento_                    »  70
   II. _La serpe morale_                                »  75
  III. _Le notti di Edmondo_                            »  80
   IV. _Un rimedio_                                     »  84
    V. _La ricchezza_                                   »  89
   VI. _L'artista_                                      »  94
  VII. _Le condizioni_                                  »  98

  Parte Quarta

    I. _La cavalcata_                                   » 104
   II. _La visita_                                      » 109
  III. _Maurizio Barkley_                               » 118
   IV. _L'ardita menzogna_                              » 123

  Parte Quinta

    I. _Lotta interna_                                  » 130
   II. _L'Upas_                                         » 135
  III. _E se domani mi cercherai più non sarò_          » 140
   IV. _Il testamento_                                  » 146
    V. _La camera verde_                                » 152
   VI. _L'amico_                                        » 160

  Parte Sesta

    I. _Juanita_                                        » 165
   II. _Il ritorno_                                     » 171
  III. _Lo schiavo_                                     » 177
   IV. _Qui amat divitias fructum non capiet ex eis_    » 182
    V. _Le nozze_                                       » 185



NOTE:


[1] Questa operetta periodica, raccolta letteraria, artistica e di
articoli di moda, pubblicavasi in Napoli con molto buon successo nel
tempo degli avvenimenti del nostro racconto.

[2] Era così chiamato nelle Spagne nei mezzi tempi una comitiva di
giovani di alta nascita e ricchi, i quali andavano la notte in cerca di
avventure.

[3] Chi potrebbe, in paragone delle spagnuole, cercare le pallide
bellezze dei Nord? Come le loro forme, rispetto a quelle sembrano
povere, deboli e languide!

[4] Chiamansi Chattels in generale i beni d'una persona, cui può
lasciare in retaggio, e più particolarmente con tal denominazione
s'intendono nelle colonie inglesi gli schiavi comprati o generati da
altri schiavi.

[5] La maggior parte delle seguenti notizie son vere e attinte da
opere di viaggiatori inglesi di grande reputazione: alcune di esse sono
letteralmente tradotte da dette opere.

[6] Dagli esperimenti di tutt'i moderni fisici risulta che
l'elettricità idrometallica devesi riguardare come un nuovo ed
infallibile termometro per dar giudizio della morte o della vitalità
ancor latente, tanto in una parte, quanto nell'intero corpo; e per
conseguenza le correnti elettriche sono reputate oggidì di grande
soccorso nelle paralisie, ed in tutte le malattie nelle quali il
solido vivo abbisogna di forte stimolo. In fatti, se l'acupuntura
istituita contemporaneamente, con due aghi partenti da due lamine,
che si tocchino, una di rame, l'altra di zinco, non produca alcun
risentimento, alcun movimento fibrillare nemmen quando si comprenda nel
circolo e nell'arco il diaframma od il cuore, allora si può ritenere
che ogni eccitabilità è spenta. PIETRO MANNI — _Manuale per le cure delle asfissie._

[7] È superfluo il ricordare che la scienza va debitrice di questo bel
metodo d'imbalsamazione al nostro professor Tranchina.

[8] FEDERICO LENNOIS è il protagonista e il titolo di altra nostra
narrazione che fa seguito a questa.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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