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Title: Il castello di Trezzo - Novella storica
Author: Bazzoni, Giambattista
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il castello di Trezzo - Novella storica" ***

                              IL CASTELLO
                               DI TREZZO


                            NOVELLA STORICA

                                   DI

                         GIAMBATTISTA BAZZONI.



                                PARIGI.
                       BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA,
                     9, RUE DU COQ, PRÈS LE LOUVRE.
                                 1838.



                      DALLA STAMPERIA DI CRAPELET,
                          9, RUE DE VAUGIRARD.



IL CASTELLO DI TREZZO.



CAPITOLO I.

    E voi degli altri secoli feroci
    Ed ispid’avi... co’ sanguinosi
    Pugnali a lato, le campestri rocche
    Voi godeste abitar, truci all’aspetto
    E per gran baffi rigida la guancia
    Consultando gli sgherri.
                           PARINI.


Nell’età di mezzo, età d’armi e di fanatismo, in cui rade volte i
principi s’avevano di mira il pubblico bene, l’Italia non offriva
quell’aspetto florido e ridente che attualmente presenta. Non vedevansi
allora comode ed ampie strade, non sodi ponti sui molti suoi fiumi e
torrenti, non villaggi ben costrutti e popolosi. Nell’alta Lombardia
specialmente a piè de’ colli e a dilungo de’ fiumi erano vaste foreste
e boschi antichissimi; il suolo in molte parti non appariva che nuda
brughiera o inculta landa; le strade erano torti viottoli, la maggior
parte ne’ dì piovosi impraticabili, ne’ villaggi stavano ammucchiati
gli abituri dei contadini, fabbricati parte di legno e parte di sassi e
creta, che mal valevano a proteggerli dalla intemperie delle stagioni.
Surgevano all’incontro pel contado castelli di massiccie mura,
cerchiati da profonda fossa e chiusi da porte ferrate: quivi o nobile,
o feudatario, o guerriero stava rinchiuso per esercitare prepotenze
sopra i vassalli, per tendere agguati a’ vicini, o per sottrarsi alle
pene meritatesi coi delitti e co’ tradimenti. Qua e là sparsi per le
borgate e la campagna erano conventi e certose, i di cui superiori od
abbati possedevano sovrani diritti. Le città presentavano l’aspetto
più di fortezze che si guatino minacciose, che d’asilo di pacifici
cittadini: l’una dell’altra inimiche, sempre tementi d’assalti,
andavano tutte cinte d’altissime mura; e si amava più tosto con
fossati e bastite di renderne l’avvicinamento difficile, di quello che
procurarle ingresso comodo ed ornato.

Nè a que’ tempi era agevole attraversare le acque: i torrenti si
passavano a secco od a guado; e quanto ai fiumi, se ne togli i luoghi
più importanti per vie militari, ove gittavansi ponti, da per tutto il
passaggio si mostrava disastroso, e il più delle fiate impossibile.
E dove scorgi presentemente il maestoso ponte sull’Adda tra Canonica
e Vaprio, allora non t’abbattevi che in due altissime ripe, entro cui
quasi avvallate correvano le acque, inette a guadarsi. Surgevane pel
vero un altro, erettovi dal duca Bernabò Visconti, allorchè rialzò
dalle rovine il Castello di Trezzo; esso era guernito a due capi da
torri, ma non porgeva altro ingresso fuor che al castello: e però
niuno ardiva, anzi che passarlo, nè pure accostarvisi: chè chiunque
fosse stato trovato o su una strada, o sovra un ponte di Bernabò, era
crudelmente tormentato e quindi ucciso.

Alla necessità de’ passaggeri s’era però provveduto presso Vaprio con
un porto costrutto rozzamente, come quella età comportava. Appena si
usciva di Canonica, scontravasi un sentiero che, passando tra ciottoli
ed arene, attraversava qua e là i rigagnoli del Brembo (il quale
scende dalle valli bergamasche per iscaricarsi nell’Adda), e dopo breve
tratto di cammino, mettea capo a quel fiume in sito ove partitosi in
due rami presentava nel di lui seno un’isoletta. Quivi la fiumana,
men rigogliosa d’acque pei non ricevuti torrenti e per la partizione
sofferta, dava facile adito al porto, il quale constava di due zattere
locate agli opposti lati dell’isola ed aventi nella parte di mezzo un
grosso palo, alla cui cima correva una fune infissa alle due bande del
fiume. La prima di queste recava il passeggiero dalla sponda sinistra
dell’Adda persino all’isola; la seconda dall’isola al destro lido; e
qui si arrampicava novellamente un viottolo che adduceva alla via detta
del bosco, tra Vaprio e Concesa.

Quest’isola era chiamata la Ca di Mandellone, perchè abitata da Nicola
di Mandello, che per esser pingue appellavasi _Mandellone_; ed era
uomo sollazzevole e di gaio aspetto, non che fino amatore del danaro.
Guidava egli le zattere, e s’era per ciò edificata in mezzo all’isola
una casuccia ove dimorava con sua figlia ed un famiglio; vendeva anche
vino e cibi a’ viandanti, i quali astretti a passare di là, vi si
fermavano volentieri, adescati da sue lusinghe a vuotarne un bicchiere.

La casa di Mandellone sorgeva in luogo un po’ elevato: un praticello
ombreggiato da alte piante vi si stendea di prospetto, ed offriva qua
e là de’ sedili foggiati coi tronchi d’albero, e qualche tavola per
gli avventori. Circuiva il prato un orticello che forniva i legumi per
la cucina, e quivi mettean capo le due stradicciuole che si volgeano
tra le piante ver gli opposti lidi dell’Adda. Allorchè l’albergatore
udiva la chiamata di chi volea passar l’acque (ed era un grido od un
fischio), soleva affacciarsi ad una finestretta per dove scorgeva i
passeggeri senz’essere veduto: e se era tempo o persona opportuna,
si muoveva a passarla, altramente fingeva di non udirla. Imperocchè
capitando alla Ca di Mandellone ogni maniera di gente, siccome
gabellieri, contrabbandieri, ladri, sgherri, venturieri, donne, frati,
pellegrini, e simil fatta di persone, l’accorto nocchiero-albergatore
evitava succedessero in sua casa incontri che valessero a porne a
repentaglio la sicurezza, o cagionare disgusti agli avventori: e da che
un _non vi ho inteso_ per sua parte, qualche rimbrotto dal canto di chi
non veniva passato, accomodavano ogni faccenda, in tal guisa adoperava
il brav’uomo, che tutti gli restavano amici.

Volgeva l’anno 1385, ed era il venticinque maggio, giorno di giovedì,
allorquando un’ora avanti al cader del sole Mandellone, che quetamente
si stava nel suo casolare, udì dalla riva del bosco di Concesa
partirsi un acutissimo fischio a cui varii altri si succedettero a
brevi intervalli. Spiò a prima giunta dal fenestruolo, e tosto corse a
staccare le zattere per levare un passeggero che lo pressava a gesti
dalla sponda, e volgevasi ogni tratto a guardarsi alle spalle. Era
costui un uomo a trent’anni, alto della persona, di fieri lineamenti
forte adusti dal sole; sotto le larghe alaccie di un logoro cappello
colla testiera a cono muoveva due occhi vivi ed agitati: aveva il
mento coperto da folti peli nerissimi. Il suo vestire constava d’un
rozzo giubbone di lana scura e di due ampie brache; le sue gambe erano
nude, tranne i piedi calzati in grosse scarpe acuminate; teneva tra
le mani uno stocco irrugginito, la di cui punta luccicava tuttavia;
e due pugnali stavangli infissi ai fianchi entro larga coreggia di
cuoio, «Per Sant’ Afra! (egli gridò) che ti possa affogare; sei più
lento di una lumaca a muovere quelle tue quattro tavole mal connesse.
— Vengo, vengo; non t’arrabbiare, Tencio (rispose Mandellone): aspetta
che mi ti accosti.» Ma fu indarno, perchè Tencio spiccò un salto; e
sebbene arrischiasse di capovolgere la zattera, datosi tosto a tirarne
la corda a tutta possa, la fece retrocedere velocemente. Appena
giunti all’isola, cacciossi fra le piante. Costui era un fuoruscito,
il quale si aggirava per que’ dintorni con due suoi compagni a fine
di svaligiare i viandanti; e pel suo viso abbronzato s’avea avuto il
soprannome di Tencio. Raccontò desso a Mandellone d’aver veduto uno
stuolo d’uomini armati a piedi ed a cavallo, i quali s’avviavano dalla
strada di Vaprio verso Concesa: per lo che avea divisato di porsi
prestamente in salvo. «Crederesti (gli disse Mandellone) che debbasi
muovere un’armata per prender te, o il Carbonaio, o il Brescianino?
Sarà Bernabò che si recherà colla sua corte al Castello di Trezzo. —
E sia chi diavolo si voglia (rispose Tencio); se ci trovassero, pensi
tu che ristarebbero dal porre le nostre teste in una gabbia di ferro
sovra qualche albero ad uso di lanterna per la strada maestra? — Eh
sì certo, che non faresti gran lume! (soggiunse Mandellone).» Mentre
muovevano simiglianti discorsi, videro alla sommità della sponda donde
era calato il Tencio alzarsi fra le piante un polverìo, ed udirono un
calpestío di cavalli e un rumore di ruote, senza però scorgere persona:
chè i folti rami degli alberi glielo impedivano. Quel calpestìo
allontanandosi svanì del tutto; e Tencio e Mandellone si ritrassero in
casa, persuasi essere quegli il principe che si recava a villeggiare al
suo castello. Trascorsi pochi istanti si udirono novelli fischi dalla
stessa sponda; Mandellone guardò, e conobbe essere i due compagni del
Tencio: sicchè temendo del lasciar solo in casa quell’uccellaccio da
preda, sia a riguardo di sua figlia Maria, sia a riguardo delle botti,
si diè a chiamar Trado il famiglio perchè lì passasse. Giunti i due
compagni, strinsero a Tencio la mano, e gridarono festanti: «Novità,
grandi novità: evviva Galeazzo! Quel can di Bernabò vien condotto fra
soldati al Castello di Trezzo a guisa di un assassino.» Tutti fecero
le maraviglie; e il Carbonaio e il Brescianino proseguirono la rozza
narrazione del fatto interrotta di quando in quando da contumelie
indiritte a Bernabò: quel racconto non era che una fedele sposizione di
quanto avevano veduto essi medesimi, mentre si stavano celati nel bosco
che correva a’ fianchi della strada.

«Dinanzi a tutti venivano (dissero essi) due lancie[1] ed ogni caporale
di lancia aveva il roncone in resta, ed abbassata sul volto la celata:
indi sur un cavallo fulvo si avanzava il capitano della compagnia, che
distinguevasi per le alte piume del suo cimiero e per la bella armatura
damascata. Dietro a costui erano altre quattro lancie; e poscia
circuito da due alabardieri, uno de quali teneva le redini della mula,
veniva Bernabò coverto d’un abito cremisino, col solito suo cappuccio
in testa; ma non gli vedemmo spada, nè bacchetta: teneva le braccia
incrocicchiate al seno, e il capo piegato, quasi dicesse orazioni.
Alle terga gli stava sovr’altra mula un frate che aveva un largo
cappello da eremita; ravvolgevasi in veste bigia, gli calava sul petto
una lunga barba bianca, e nelle mani recava un grosso libro. Venivano
quindi altre lancie e quattro alabardieri a cavallo che tenevano
in mezzo due giovani, l’uno vestito di velluto azzurro, l’altro di
rosso, entrambi incatenati: poscia seguivano altri soldati; e a coda
di questi una paraveréda[2] tirata da quattro mule con uomini a piedi
che le guidavano; e pareva racchiudere donne. Altre lancie chiudevano
la comitiva.» Aggiunsero essere certi che questa dovette prendere la
strada di Vaprio, quantunque più lunga per giungere a Trezzo, perchè
la sola da cui potesse passare la paraveréda. E posero fine a sì fatta
narrazione collo esporre la novella, raccolta da uno del paese, che
il maestro delle gabelle e il daziere del transito di Vaprio venivano
richiamati, e se ne mandavano due altri i quali tenevano aspetti meno
burberi, onde giovava sperare che le loro faccende coi contrabbandieri
del Bergamasco sarebbero andate a maraviglia.

Terminato il racconto, tutti fecero gli evviva a Giovan Galeazzo:
imperciocchè erasi divulgata una voce in que’ giorni che a cagione del
Conte di Virtù (così Galeazzo chiamavasi) fossero accaduti a Milano
importanti avvenimenti. Ma a quei tempi le notizie si propagavano
con tanta difficoltà e lentezza, che non si potevano conoscere che
tardi i particolari del fatto. Arguivano però che la prigionia di
Bernabò essere dovesse opera del di lui nipote Giovan Galeazzo: e
quindi a questi, siccome spogliatore del potere d’un principe che
per le sue crudeltà era abborrito da tutti, portarono unanimi le loro
acclamazioni.

Mandellone rivóltosi allora alla brigata, disse: «In segno d’allegria
vo’ imbandirvi uno squisito banchetto; e cápiti chi può a far da spia,
saprò ben tenere la lingua in bocca.» Così dicendo s’avviò vèr l’orto,
diè mano ad una zappa, scavò la terra a piè di un albero e ne trasse
due lepri non che un pezzo di cinghiale, da lui fatti uccidere nei
boschi dell’Adda. Erano vivande queste che di consueto gelosamente
celava per poi farne parte a’ più fidati amici; imperò che sotto
Bernabò l’uccidere una lepre od un cinghiale delle sue caccie era
cotale misfatto da averne strappata la lingua, o peggio ancora.

I tre masnadieri, riposte da un canto le armi, si adoperarono allo
scorticare le lepri, raunarono legna in mezzo al prato, infilarono
le cacciagioni sur uno spiedo, che era l’arma del Brescianino; ed
appoggiatolo a due bastoni forcuti, se ne servirono da girarrosto.
Maria intanto recava due ampii vasi del vino brianzesco più eccellente,
giacchè l’accorto Mandellone soleva esser cortese con quei ladri che
non isminuzzavano le lire di terzoli, ma davano generosamente fiorini
d’oro, senza mai chiederne il resto. Alloraquando le lepri si furono
cotte, sdraiaronsi sull’erba sotto gli alberi; e dopo avere invocato
la protezione della Vergine, si posero a mangiar festosamente, ed a
trar lunghe golate dai vasi a salute del Conte di Virtù e ad ignominia
di Bernabò, mescendo però saviamente agli augurii le invocazioni del
passaggio di ricchi viandanti, onde cavarne buono scotto.

Compivano appena il loro pasto, quando udissi risuonare in voce nasale,
sulla medesima sponda destra del fiume, un _Deo gratias_. Si volsero
presti, e videro all’estremo del sentiere che scendeva dall’erta
un frate in aspettazione della zattera. Mandellone avvertì i suoi
commensali che avrebbe mandato a passarlo, perocchè non era quegli
persona da cagionar loro timore di sorta. E pel vero non sarebbonsi per
lui scostati d’un passo, siccome fecero tosto, se scorto non avessero
dall’altra banda venire da Canonica per le arene del Brembo alla volta
dell’Adda due uomini a cavallo preceduti da un contadino. Presero essi
le loro armi, calarono sulle fronti il cappello, e ripararono da un
lato dell’isola dietro un gruppo di piante. L’ombra gittata dall’alta
sponda a ponente del fiume spandeva sulle acque e sull’isola una
sufficiente oscurità per toglierli facilmente all’altrui vista, giacchè
i raggi del sole già vicino al tramonto si riflettevano appena sui rami
più elevati degli alberi.

Intanto il frate, che aveva attraversato il fiume sulla zattera,
s’avviava pel sentieruolo dell’isola inverso il prato. Sebbene le
scorrevoli acque dell’Adda mantenessero quivi una grata frescura, pure
il calore della stagione e il sereno dell’aere erano tali da invitare
allo starsi a testa scoperta: ciò nulla meno quel monaco portava sul
capo il suo pesante cappuccio, e lo teneva abbassato sin quasi sugli
occhi. La grossa veste di lana a colore ulivigno che gli scendea
sino ai piedi, sembrava chiusa superiormente ed avviluppata intorno
al mento: per lo che non appariva del di lui viso altro che un naso
adunco, due occhi neri, e alcuni peli rossastri che gli ombravano
le guancie. Era uomo costui d’alta statura, di portamento franco
ed altiero, ben diverso da quello che convenivasi ed un religioso
mendicante: teneva ambe le mani insaccate nelle larghe maniche, e
procedea lentamente. Giunto innanzi alla casa di Mandellone, porse a
Trado una picciola moneta; e gli dimandò se nel primo paese, varcato il
fiume, si trovassero conventi. Trado rispose che no: e il frate, girato
uno sguardo intorno, chiesegli se avrebbe quivi potuto passar la notte:
il famiglio soggiunse, attendesse il padrone: che se quegli assentiva,
avrebbero cercato di ricoverarlo alla meglio nella loro povera casetta.
Il frate chinò il capo, e andò ad assidersi sovra un sasso locato alla
porta dell’abituro.

Mandellone, a cui il ricco vestire de’ due viandanti che venivano a
dilungo del Brembo avea fermato il pensiere, lasciò si ritraessero
gli amici, corse alla zattera, e addottala all’altro lido, quivi fe’
alto onde riceverli. Accostatiglisi i passeggeri, scesero dalle loro
cavalcature, e vennero a due riprese passati: il villico che avea loro
servito di guida, ebbe la mercede, e fu rimandato. Il primo de’ due
stranieri che s’avea valicato le acque, era un giovane di bellissime
forme, snelle insieme e robuste: il di lui viso andava altiero per
maschie tinte, e ne’ lineamenti sentiva altamente di un far nobile ed
espressivo. Sebbene atteggiasse lo sguardo imperiosamente, pure le sue
pupille apparivano sede di sentimenti dolci ed appassionati; il suo
capo era coperto da uno scuro berretto adornato da due candide piume;
e sotto questo cadevagli sugli omeri nerissima capellatura foggiata a
leggiadre anella. Il collo mostravasi nudo; e l’abito color ranciato
non gli scendea che al ginocchio, mentre lo difendeva internamente una
fina corazza d’acciaio; ne’ fianchi lo cingea larga cintura di pelle,
rafferma all’avanti da aurato fermaglio; ed a tracollo portava una
ciarpa azzurra, a cui s’appendeva la spada di ricca impugnatura. Egli
conduceva a mano un bianchissimo destriero, il cui arcione e le briglie
erano fornite di ricami e dorature. Quegli che lo seguiva, mostravasi
abbigliato quasi alla stessa foggia, benchè meno riccamente; e il di
lui cavallo portava in groppa un grosso involto, lo che dava indizio
dell’essergli scudiere.

Quando pervennero all’abituro di Mandellone, questi disse loro se
amavano ristorarsi: ed iva loro esagerando la lunghezza e l’andar
malagevole del cammino di Vaprio. Gli stranieri fiaccati dal caldo,
colle fauci esauste dalla polvere della strada, sedotti d’altronde
dalla freschezza e amenità del luogo, assentirono al prendere un po’ di
posa, ed ordinarono a Mandellone di recar loro un vaso di vino. Chiamò
questi la figlia Maria, chiamò il famiglio, e li pressò a ben servire
quei signori. Egli intanto si diè cura di acconciare con eleganza sur
un gran piatto di rame i rimasugli del suo pasto coi ladri, e venne
a presentarglielo siccome vivanda degna d’eccellente convitto. Sulla
rozza tavola ov’egli depose il piatto delle lepri, aveano di già
Trado e Maria arrecato i vasi del vino, il pane e gli altri utensili
della mensa. Lo scudiere non fu tardo a gittarsi su que’ cibi come
avoltoio, e trangugiarseli a grossi bocconi. Il cavaliere all’incontro
bevette alcuni sorsi di vino, quindi s’adagiò sur un tronco d’albero,
e volgendo gli occhi tra quelle piante, assunse in viso una tinta di
soave malinconia: chinò il capo, appoggiandolo al palmo della mano, e
parve assorto in profonda meditazione.

Il frate, che all’arrivo di que’ due forestieri s’era precipitosamente
ritirato dietro le piante, sostò fra quelle a guatarli per alcun
tempo, esternando tratto tratto atti di stupore. Avanzossi di
queto verso di loro; e avvicinatosi, inchinò umilmente la testa; e
portandosi le braccia al petto, disse: «Dio vi salvi, o fratelli.»
Lo scudiere gli porse uno sguardo di dispetto, quasi credesse costui
uom venuto a dividere le sue provvigioni: ma il cavaliere al suono
di quella voce alzò lo sguardo; e miratolo fisamente per qualche
istante, levossi in piedi siccome chi è côlto da maraviglia. Il
frate gli andò dappresso con circospezione, e preselo per mano, seco
il condusse lungo il sentiero a man ritta: quivi, dopo aver data
un’occhiata d’intorno, trasse subitamente indietro il cappuccio, e
scoverse un’altiera testa ricinta da rossi capegli. Attonito a quella
vista il cavaliere, esclamò: «Come, Aldobrado, tu qui?» Ma l’altro
ricopertosi immediatamente, portò il dito alla bocca accennandogli di
tacere. Indi accostatoglisi all’orecchio, con voce bassa e interrotta
gli disse: «Voi non sapete, Palamede, quali terribili avvenimenti
siano accaduti in Milano da venti giorni? Bernabò, i suoi figli,
la signora Donnina de’ Porri, Ginevra (a questo nome il cavaliere
impallidì) furono imprigionati, e quest’oggi stesso vennero condotti
al castello di Trezzo.» Il cavaliere sbigottì a sì fatta novella, ed
eccitò Aldobrado a narrargli come si fossero queste venture accadute.
Ritornarono a questo fine nel prato, ove Palamede per allontanare lo
scudiere intimògli andasse ad abbeverare i cavalli nel fiume: indi,
seduti a fianco l’un l’altro, Aldobrado gli fece minuto racconto
dell’imprigionamento del vecchio Principe.

Narrò egli siccome Giovan Galeazzo, nipote di Bernabò, il quale sino
a que’ giorni portava soltanto il titolo di conte di Virtù, e che
tenea sede in Pavia, vivendo vita tranquilla, e servando fama d’uom
bacchettone e dappoco, si fosse partito dal suo castello il giorno
sei di maggio, spargendo voce di volere pellegrinare per divozione
al Santuario della Vergine del Monte sopra Varese. A mal disegno però
s’aveva menato con sè più di quattrocento uomini armati. Giunto alla
distanza di due miglia da Milano, eranglisi mossi incontro fuori di
Porta Ticinese i signori Rodolfo e Ludovico, figliuoli maggiori di
Bernabò, i quali vennero da lui accolti con atti di cortesia: poscia
arrivato alle mura della città, non entrò già per Porta Ticinese, ma
girando a mancina lungo il fossato s’incamminò verso il Castello di
Porta Giovia[3]. Pervenuto appena alla _pusterla_ di Sant’Ambrogio,
s’abbattè presso le mura di quello spedale in Bernabò, il quale
cavalcando una mula traeva innanzi con pochi de’ suoi, onde riceverlo.
Giovan Galeazzo, fattoglisi vicino con ilare aspetto, diè di subito
un segnale: e Giacomo del Verme, il quale capitanava le lancie di
Galeazzo, fu il primo a por le mani addosso a Bernabò, e gridare
ch’egli era prigioniero. Ottone da Mandello gli tolse dalle mani
le briglie e la bacchetta; e recidendogli il pendon della spada, lo
disarmò: il che fu pure eseguito verso gli altri cortigiani e verso i
figliuoli del principe. Fatti in tal guisa prigioni, vennero trascinati
al castello di Porta Giovia, e chiusivi nella torre con buon numero
di guardie. Poscia Giovan Galeazzo entrò co’ suoi militi in Milano; e
sparsasi novella dell’accaduto, trasse a lui tutto il popolo gridando:
_Viva il conte di Virtù: muoiano le colte e le gabelle_. Galeazzo
venne riconosciuto per signore; e si piacque permettere alla plebe il
saccheggio dei palazzi di Bernabò e de’ suoi figli: sicchè in breve vi
andarono a ruba tutti gli argenti, le gioie, i denari e ricchissimi
arredi; indi si posero a sacco gli uffizi de’ dazi e delle gabelle,
e se ne arsero i libri. Il principe e la di lui famiglia stettero
rinchiusi nel castello di Milano sino al giorno venticinque, in cui
di buon mattino vennero spediti sotto scorta armata, condotta da
Gasparo Visconti, acerbo inimico di Bernabò, al Castello di Trezzo. Co’
prigioni erano il padre Leonardo degli Eremiti di Sant’Ambrogio _ad
nemus_, Donnina de’ Porri, di cui conoscevasi il generoso carattere,
e che s’aveva ottenuto licenza da Galeazzo di poter seguitare Bernabò
nel luogo della di lui reclusione, unitamente alle sue figlie Ginevra e
Damigella, le quali colla vecchia Geltrude, chiuse in una paraveréda,
doveano cogli illustri prigionieri essere già entrate in castello.
«Io (proseguì Aldobrado), che voi ben sapete di quale amicizia fossi
legato a Bernabò, paventando l’ira di Galeazzo, e assai più del popolo,
che nel bollore della rivolta uccise Baldizone e il Malaspina, stetti
celato sino a questo istante da mia sorella Lucia, sperando che la
plebe, o le milizie fossero per volgersi novellamente a nostro favore.
Ma allorchè mi fu narrato che tutti i cittadini di Milano avevano
acclamato signore Giovan Galeazzo, ed il vecchio Bernabò doveva venire
tradotto dal castello di Porta Giovia al forte di Trezzo, divisai
di recarmi a salvamento. Questa istessa mattina fuggii col nome e
gli abiti di mio fratello Bernardo cappuccino, col pensiero di farmi
soldato da ventura, e pormi a servigio o dei signori della Scala, o dei
Veneti; oppure congiungermi a’ Ghibellini di Toscana, che ben sapete
quanto amino Bernabò. Così mi sarà dato tentare di muovere qualche
potente soccorso a vantaggio del mio antico signore.»

Palamede, a cui avean trafitto l’animo le narrazioni di quel funesto
successo, prese la mano d’Aldobrado e gli disse: «Sa la Vergine Santa
se io non retrovolgerei con tutta la brama il mio cavallo per teco
ritentare la sorte dell’armi a fine di trarre Bernabò dalla prigionia
ove l’ha gittato il tradimento; ma ripartirmi senza vedere dopo due
anni di dura assenza le torri e le mura della mia Milano, riedere senza
fisarmi in Ginevra, senza parlarle, non posso. Io ho abbandonate le
più belle speranze di gloria e di potere che mi si apparecchiavano da’
Veneziani, per ritornare a lei. Non sarà un mese che la laguna e S.
Marco risuonarono d’applausi tributati al mio valore: ma tutto feci
per lei. Ella mi cinse la spada: e allora giurai per lei stessa e per
Sant’Ambrogio di deporla dopo due anni coperta di gloria a’ suoi piedi.
Ned io posso mancare al giuramento: nè fia che alzi lancia o spada in
guerra, se prima non ho veduta Ginevra.»

Aldobrado, sebbene della nobile stirpe de’ Manfredi, aveva costumi
da sgherro anzi che da amico intimo d’un Principe (se pure Bernabò
ebbe intimi amici): laonde era troppo estranio ai sentimenti d’amore
e d’onore cavalleresco per concepire nella loro forza le parole di
Palamede; e ritornando alle abituali sue idee di crudeltà, proruppe
con ironico sogghigno a così dire: «Voi penderete appiccato senz’occhi
dal più alto merlo delle torri di Trezzo prima di satisfare al vostro
giuramento. Ginevra è chiusa fra impenetrabili mura; e a cento passi
del castello sta indubitatamente la morte. Nè vale bravura: ch’io ben
mi so quali soldati abbiano scelto per far quivi la guardia. Rimontate
a cavallo, date a me quello dello scudier vostro, e andiamocene a
Verona. — No (rispose l’altro), se mi dovessero gittare nel forno
di Monza. — Ma come credete riuscire nella vostra pazza impresa? —
Me ne andrò da Galeazzo, invocherò da lui di vedere Ginevra, e meco
menarla sposa in altre regioni. Quali timori potrà destargli, quali
sospetti una giovinetta timida, innocente, la di cui forza sta nella
bellezza, e la di cui sola ambizione sarà la gloria del proprio sposo!
Oh certo egli saprà accordarla alle mie preci. — Lasciatevi scorgere
entro le porte di Milano (disse l’altro freddamente), e vorrei essere
arruotato vivo se voi non marcite nella Malastalla[4].» Palamede cadde
a queste parole in seria meditazione, interrotta a quando a quando
da profondi sospiri. Aldobrado si alzò, fisò un momento lo sguardo
sovra di lui: indi, movendo l’occhio irrequieto, e concentrandosi
in riflessioni, fece qualche moto colle braccia, come se gli si
allacciassero dispiacevoli idee; indi a lui vòlto: «Ebbene (disse)
giacchè volete assolutamente veder Ginevra, io ne conosco il mezzo, ma
è ardito e terribile. — Spiégati (disse l’altro con ansietà, sorgendo
da’ gravi pensieri in cui tutto erasi immerso): dovessi affrontare
un’armata (e portò la mano alla spada), io non tremo. — Sappiate
(proseguì Aldobrado) che ho veduto, saranno tre lustri, a ricostruire
ed ampliare il Castello di Trezzo, e ne conosco le fondamenta più
che il palmo della mia mano. Allora io vidi scoprirsi, e qualche
volta dappoi (e sì dicendo espresse col volto un atto involontario di
ribrezzo) io mi trovai per ordine di Bernabò in un sotterraneo che ha
l’uscita in fondo agli scogli dell’Adda, e l’ingresso in un sepolcro
della cappella dei morti della chiesa del castello: se voi trovate il
modo di avvertire Ginevra, perchè vi si rechi, e se avete coraggio di
penetrarvi, potrete seco voi condurla, senza aver d’uopo d’invocare
concessioni da Galeazzo.» Un lampo di gioia brillò a questi accenti
sul viso di Palamede, abbracciò Aldobrado: «Eh ch’io possa (esclamò)
vederla, parlarle, premere la sua mano sulle mie labbra, e saprò
sostenere animoso tutte quelle venture di disagio e di perigli che
al cielo piacesse prefiggermi. — Ma vi avverto (Aldobrado continuò)
che l’impresa è scabrosa; ch’io v’addito i luoghi, nè vo’ seguitarvi:
d’altronde saranno indispensabili due uomini molto pratici di questi
dintorni, e sperti vogatori, onde guidare e tener ritta una barca sulla
corrente dell’Adda. — Quanto al pericolo, io so sprezzarlo; ma dove
(disse Palamede, disanimandosi), dove rinvenire due fidi ed intrepidi
rematori che vogliano meco dividere sì grave rischio?» Aldobrado
ristè a queste parole alcun tempo sopra pensiero; poscia disse: «Avete
dell’oro? — Non me ne manca. — Ciò basta, venite meco.» E in così dire
s’avviarono verso la casa di Mandellone.

Il giorno in tanto era sparito del tutto, e già vedevansi da mezzo i
rami delle piante luccicare le stelle. Lo scudiere di Palamede, dopo
avere abbeverati i cavalli, scorto il suo signore in istretto colloquio
col frate, avea levato i freni, e lasciate ire le bestie pel prato
pascolando: e’ si stava intanto sulla porta della casa a ragionare
con Maria, a cui le sue belle vesti ed i modi meno aspri di que’ di
Tencio e di Trado aveano cagionato un’assai aggradevole sensazione.
Palamede entrando in casa disse allo scudiere d’aver cura de’ cavalli,
e di levar loro anco gli arcioni, poichè avrebbero passata la notte
nell’isola. Quest’annunzio riuscì graditissimo allo scudiero ed alla
figlia di Mandellone; la quale facendogli lume con facella di rami
accesa, mentre esso stava spogliando i cavalli, tutta si ringalluzzava
alle graziose parole con che l’andava tratto tratto vezzeggiando.

Aldobrado e Palamede entrarono allora in una stanza le di cui pareti
erano formate di grosse travi insieme connesse ed appoggiate ad
alberi vivi, de’ quali apparivano le ruvide scorze; ed era addobbata
con pochi arnesi di cucina e qualche attrezzo da barca. Sedettero
entrambi all’intorno d’una tavolaccia su cui ardeva un lume in vase
d’olio: Aldobrado diessi a chiamar Mandellone. Questi non attendeva
che d’essere domandato per sapere se essi intendevano fermarsi quella
notte da lui; e nel caso contrario, già s’avea preparato una lunga
narrazione dei pericoli che avrebbero incontrato, se fossero partiti
a quell’ora. «Senti (gli disse il finto frate, vibrandogli un’occhiata
minacciosa e indagatrice, mettendosi nello stesso istante colla persona
fra l’oste e la porta): io ti conosco da lungo tempo. Tu devi aver
degli amici che sarebbero da molt’anni appiccati, se non sapessero ben
maneggiare una barca e nuotar come pesci, allorchè hanno gli uomini
d’arme alle calcagna: io m’ho bisogno di loro.» Mandellone impallidì
a queste parole pronunziate con tanta asseveranza, e volea protestare
contro sì fatta asserzione. «Padre (diss’egli in atto umile), io non
vi ho mai veduto... — T’ho veduto io più volte, e ti basti. Pensa per
domani prima del partir nostro, che sarà all’alba, a far sì che si
trovino in quest’isola due uomini i quali sappiano ben trar di remi
e di stocco: e saravvi dell’oro per essi e per te; altrimenti (e cavò
dalla larga manica uno stile a tre punte) prima di mezzogiorno te ne
andrai all’inferno. — Se così vogliono (rispose tremando Mandellone),
potrei farli venire sull’istante. — Tanto meglio (riprese Aldobrado);
e lasciò che Mandellone uscisse dalla camera. «Sono varii anni
(proseguì con Palamede) ch’io conosco quest’isola; e se Bernabò ora
non fosse prigioniero, dovea questo grosso bue di Mandellone, al primo
villeggiare di quel principe, dileguare sull’eculeo, come le lepri
ch’egli va rubando e mettendo allo spiedo.»

S’intese in questo mentre un fischio, e dopo breve intervallo diverse
pedate le quali s’avvicinavano alla casa. Palamede e Aldobrado
furono presi dalla tema di essere traditi, perchè un momento prima
l’isola era loro sembrata perfettamente deserta: per il che al vedere
spalancarsi la porta, e presentarsi tre figuraccie da sgherri, che
il chiarore fosco e giallastro del lume rendeva ancor più terribili,
Palamede rizzossi in piedi, e portò la mano alla spada; e Aldobrado
si trasse dietro alla tavola, mirando a un grosso palo di ferro che
stava appoggiato alle pareti. «Sono gli amici (gridò Mandellone al di
fuori);» e Tencio, che s’era avanzato pel primo, fermandosi a certa
distanza, e levandosi il cappello in atto di rispetto, rassecurò
l’animo loro: onde Aldobrado rimessa sul volto l’espressione della
fierezza e del comando, fattosi avanti disse: «Dovete giurare su
questo crocifisso (e ne trasse uno di legno dall’abito) che voi non ci
tradirete, nè paleserete ad alcuno quanto vi diremo, e comanderemvi di
fare.» E que’ tre posero la mano sul crocifisso, e giurarono: poichè
sebben gente da masnada e ferocissima, pure era tale in quella età
il fascino della superstizione mista alla più crassa ignoranza, che
si giurava di commettere i delitti, si commettevano per adempiere al
giuramento. Aldobrado continuò dicendo che prometteva dieci fiorini
d’oro per ciascuno, purchè trovassero una posizione sicura, daddove
l’un di essi stesse ad attendere l’avviso per muovere un battello in
certo punto dell’Adda superiormente a Trezzo, in cui sarebbevi entrato
egli medesimo con quel cavaliere: e di quivi avessero ad ubbidirli
ciecamente, e condurli colla maggior diligenza ove accennerebbero; e
gli altri in quel mentre dovessero star pronti ad eseguire arditamente
quanto loro verrebbe imposto. I tre ladri assentirono; e il Tencio
soggiunse che alla mattina averebbeli condotti per la via del bosco di
Vaprio in sito sicuro e segreto, da cui potere con sicurezza ordinare
tutte le loro operazioni. Palamede, a cui que’ ceffi davano non lieve
noia, intimò si ritirassero; e ingiunse a Mandellone di dar loro quanto
avessero voluto. Indi si stese vestito sur un giaciglio di foglie di
faggio composto in un canto della stanza: il che pur fece Aldobrado,
volgendo ciascun d’essi nell’animo diversissimi pensieri.



CAPITOLO II.

      E nel mezzo su un sasso avea un castello
      Forte, e ben posto, e a meraviglia bello.
    Ma ahi lasso, che poss’io più che mirare
      La rocca lungi ove il mio ben m’è chiuso!
                                  ARIOSTO.


Veloce e fragorosa travolge l’Adda le molte sue acque uscendo dal
Lario da cui è formata, e versandosi nel Po, che maestoso attraversa
l’alta Italia, ricogliendo nel di lui seno i fiumi tutti che scendono
dall’Alpi. Poco lungi dai moni che l’Adda abbandona, fluendo in retta
linea verso mezzodì, e correndo avvallata fra sponde di enormi massi,
incontra a man destra una rupe, che protendendosi a settentrione la
astringe a ripiegarsi per superarla, ed a girarle d’intorno onde
riprendere la primiera direzione. Su questa rupe, cinta da tre
lati dall’Adda a maniera di penisola, surgevano un tempo le mura
del forte di Trezzo, di cui a dì nostri poche rovine attestano la
passata grandezza. Primi i Longobardi innalzarono colà una rocca
onde proteggere i colli della Brianza dalle scorrerie de’ feroci
Orobii: e se la fama non erra, la stessa Teodolinda avrebbene poste le
fondamenta. Egli è certo però che verso il mille dell’era nostra, quel
forte fu venduto al duca Ottone III da Liutefredo, vescovo di Tortona,
a cui fu vinto da un suo campione in singolar conflitto tenuto alla
presenza dell’Imperadore di Germania, contro Riccardo Vaidrada che ne
era signore. La rocca a quella età s’ergeva sul ciglione della rupe che
rade il masso a settentrione: gotica erane l’architettura, ma non vasta
nè adorna; ed era solo fiancheggiata da piccola torre.

Da Ottone passò in podestà di più baroni e nobili lombardi, sinchè
discese con formidabile esercito, a danno dei Milanesi, Federigo
detto il Barbarossa, il quale nell’aprile del 1158, valicata l’Adda a
Cassano, invase la Brianza tutta, e si rese padrone anche di Trezzo
e della sua rocca. Quivi lasciò un forte presidio, capitanato dal
marchese di Wenibach e da Corrado di Maze. Erasi allora formato in
que’ dintorni un contado detto della Bazana, e Trezzo vi fu eletta a
capitale. I due comandanti imperiali che ivi stanziavano, si diedero ad
abbellirne il forte siccome luogo di loro residenza, e vi costrussero
in giro tre torri quadrate, una delle quali eretta per intiero con
oscuri macigni, prese il nome di _Torre nera di Barbarossa_. Di là
sbucavano que’ duci a devastare il territorio, esigendo enormi tasse;
mettevano a ruba il contado, ed esercitavano il barbaro _jus foderi_.
Simili vessazioni durarono sino a che i Milanesi, congiuntisi alla
Lega Lombarda, ebbero rotto l’esercito di Federigo; e mentre essi
ritornavano trionfanti dall’assedio posto a Lodi per gastigarne
i cittadini riluttanti ad associarsi alla Lega, assembratisi co’
Bergamaschi, si diressero vér Trezzo a fine di espellervi gl’Imperiali,
che stavano nella rocca soccorsi da alcune bande paesane. Costò a’
Lombardi non poco travaglio il possederla: nè a tanto pervennero se
non dopo due mesi di assedio, e mercè l’astuzia di Praello Imblavato,
il quale fe’ all’uopo construrre un gran ponte galleggiante sull’Adda.
Espugnato quel forte, ne uscirono gl’Imperiali cogli onori di guerra:
ed i Milanesi, postevi a sacco le molte ricchezze in oro, argento
e vasellami preziosi, che gli Alemanni vi aveano accumulate colle
depredazioni, incendiatolo l’abbandonarono.

Stette quella rocca deserto albergo de’ gufi e degli assassini sino
al 1211, nel quale anno venne da papa Innocenzo inviato per suo legato
in Lombardia il cardinale Gherardo da Sessa, abbate di Tiglieto e già
vescovo di Novara. Il Legato, pervenuto in Lombardia, elesse Trezzo
a sua dimora, ed ordinò si riattasse la rocca; al che convennero
coll’opera e colle sostanze gli abitanti dei contorni, eccitativi
dalle esortazioni delle compagnie degli Umiliati o Berretani[5]: ordine
dal Cardinale singolarmente protetto, e che a norma del suo instituto
iva per le piazze e per le chiese predicando ogni benedizione a quel
prelato.

Allontanatosi da Trezzo il cardinal Gherardo, quella rocca passò in
possesso di varii signori; uno dei quali (e vuolsi fosse Guazzone da
San-Gervaso) costrussevi un ponte, opera arditissima per que’ tempi,
poichè con un solo arco attraversava l’Adda dalla sponda milanese a
quella del Bergamasco. Acutissima ne era la volta, e constava di grosse
pietre rozzamente connesse; e dal capo opposto del castello surgeva a
sua difesa una barricata di pesanti travi, chiusa alla testa del ponte
da enorme catena di ferro.

Erano scorsi pochi anni da che quella rocca era stata restaurata, ed
il ponte edificato, quando il feroce signore della Marca Trivigiana,
Ezzelino da Romano, devastando furibondo tutte le città e i villaggi
che incontrò sul suo cammino, pervenne sino al di qua dell’Adda.
Irritato perchè a vuoto gli fossero tornati gli assalti con cui aveva
tentato d’impadronirsi di Monza, difesa valorosamente dai cittadini,
salì coll’armata alla Brianza ed a Trezzo; e come avea fatto degli
altri paesi, così pose a ferro ed a fuoco pur questa terra, e ne
rovinò coll’incendio la rocca. Nove anni dopo, nel 1278, impadronissi
della demolita Trezzo, Cassone Torriano. Covando que’ signori della
Torre acerbissimo odio contra i Milanesi, ed in ispecial modo contro
la famiglia de’ Visconti, che privati li aveva della signoria di
Milano, scacciandoli dalla città colle armi, tennero secrete pratiche
co’ Tedeschi, co’ Vicentini e coi Parmigiani, sinchè, ragunata grossa
mano d’uomini, piombarono sovra Lodi, e la presero. Duce di quella
gente era Cassone Torriano; e con lui combattevano i suoi fratelli
Leone e Rainaldo. Presa Lodi, si aggiunse ai Torriani, con molti suoi
guerrieri, il Patriarca d’Aquileia, e coll’armata riunita avanzatisi
persino a San-Donato, ivi al 13 di luglio ebbero uno scontro co’
Milanesi. Feroce e sanguinosa durò la battaglia, sino a che i Milanesi
andarono vôlti in fuga, e Cassone vittorioso ebbe campo d’invadere
gran tratto di paese e rimontare sino a Trezzo. In quella zuffa
varii combattenti caddero prigionieri in potere di Cassone, il quale
tradottili alla rocca di Trezzo, ivi ne fece scelta; e rimandati liberi
i Milanesi, fe’ rinchiudere i Comaschi nella Torre nera di Barbarossa,
ove li pose a cruda morte a fine di vendicare Napo Torriano, il quale
preso dai Comaschi nella battaglia di Desio, non venne reso nello
scambio de’ prigionieri, ma fu lasciato perire in un gabbione di ferro
nella torre di Baradello, in pena dell’aver fatto uccidere Simon da
Locarno.

Nè per la rotta di San-Donato i Milanesi si perdettero d’animo:
condotti dal loro arcivescovo Otto Visconti, e fatta lega col marchese
di Monferrato, cacciarono nel seguente anno di bel nuovo i Torriani
al di là dell’Adda, e ripreso Trezzo, ne ricostrussero il ponte, che
dai Torriani era stato spezzato. Poco tempo dopo, variando la sorte
delle armi, ricadde la rocca di Trezzo nelle mani torriane; e vi si
stabilirono Napino e Rainaldo, i quali l’abbellirono, ed a prova del
loro dominio fecero scolpire sulle torri e lungo le mura i loro scudi
cogli stemmi della famiglia. Ma fu pur breve quella loro signoria;
perchè, assediativi dalle armi de’ Milanesi condotti dai Visconti,
vennero fatti prigioni e poscia scacciati: sicchè quella rocca,
rovinata di nuovo dagli assalitori, pervenne verso il 1320 nelle mani
de’ Visconti, i quali datisi interamente alle cure di stato di cui
ambivano, come infatti ne ottennero il reggimento, più non pensarono nè
a Trezzo nè al castello, il quale per que’ potenti sarebbe riuscito una
troppo meschina dimora.

Passata la signoria di Milano e di tutte le città di Lombardia da
Lucchino Visconti all’arcivescovo Giovanni suo fratello, questi chiamò
eredi al sovrano potere i suoi tre nipoti, figli di Stefano Visconti,
Matteo, Galeazzo e Bernabò; de’ quali i due ultimi erano stati da
Luchino cacciati in esiglio per la loro prepotente audacia e sfrontata
inobbedienza. Que’ tre fratelli succedettero allo zio arcivescovo
nel 1350, e si divisero lo stato in tre parti. La parte orientale,
che abbracciava le città da Lodi a Bologna sino a Pontremoli, toccò
a Matteo; l’occidentale e meridionale, a Galeazzo, e si dilungava da
Como a Novara colla Lumellina, e da Pavia sino ad Asti ed Alessandria;
e la settentrionale a Bernabò, che dal lago di Garda, con Brescia,
Bergamo e Valle Camonica, toccava sino a’ confini del Comasco. Si
tennero a podestà comune le due città di Milano e di Genova. Matteo
però, sei anni dopo esser pervenuto alla signoria, morì: e il popolo
reputò fosse vittima della eccessiva libidine a cui sfrenatamente era
inchinato; ma chi lo avvicinava ben si accorse com’egli periva per
veleno propinatogli dai due fratelli, che per tal guisa assecuravano la
propria vita contra gli attentati della di lui ambizione, ed ampliavano
i proprii dominii. Rimasti assoluti signori Bernabò e Galeazzo,
spartirono fra loro i possedimenti di Matteo, e si tenne ciascuno la
signoria di quattro porte e quattro pusterle della città di Milano.
Ebbe Bernabò la Romana, la Tosa, l’Orientale e la Nuova, e Galeazzo la
Comasca, la Vercellina, la Giovia e la Ticinese, le quali mettevano a’
suoi dominii in cui egli abitava di consueto, recandosi rade volte a
Milano; e precipuamente stanziava a Pavia, dove avea fatto erigere un
ricco castello.

Bernabò, amante siccom’era della caccia, appena le molte guerre glielo
permisero, pensò eleggersi abitazioni ne’ luoghi più adatti al suo
diletto diporto. E sebbene allora corressero tempi in cui le ricchezze
non abbondavano nè pur nelle mani dei principi, pure Bernabò non ne
pativa mai scarsezza: tanto colle estorsioni, gli esorbitanti tributi,
le regalie forzate e le dispotiche confiscazioni, egli seppe procurarsi
lauti mezzi di scialacquo! Ordinò l’innalzamento di magnifici castelli
ne’ siti che gli parvero più ameni ed accomodati alle caccie. Restaurò
quel di Desio, ne eresse di nuovi a Melegnano, a Senago, ad Umbro ed a
Pandino. Cacciando un giorno per gli ampii boschi che al piè de’ colli
briantei si stendevano dal Lambro all’Adda, frammezzati soltanto di
distanza in distanza da qualche villaggio e da pochi campi, copiosi
oltremodo di salvaggiume, in ispecie di lepri, cervi e cinghiali,
pervenne sino a Trezzo. Quivi giunto, fu d’un subito rapito da quella
felice posizione, che dominava tanti boschi vicini e che presentava col
suo ponte sull’Adda un breve passaggio alle selve del Brembo. Osservò
la vecchia rocca, e trovandola devastata, sdegnò abitarla; ed ordinò si
erigesse un nuovo castello de’ più grandi ed adorni che mai vi fossero
a quella età. Nel 1370 fu data opera dai più valorosi architetti ed
artisti lombardi alla costruzione di un castello, che a forza d’oro e
d’uomini fu in sette anni e tre mesi condotto a perfetto compimento.

Surse questo castello sull’istessa rupe che è ricinta dall’Adda, e
sulla quale già esisteva l’antica rocca; ma non fu inalzato come quella
rasente il masso a settentrione, di cui a picco si guarda nel fiume,
ma sibbene assai più vêr mezzogiorno. Aveva esso la forma d’un ampio
quadrato, le cui ruvide mura alla sommità andavano cinte di merli, ed
alla base erano costrutte con grossi massi tagliati. Nel lato vôlto a
mezzodì, surgeva nel mezzo una quadrata torre, merlata anch’essa, alla
cui cima, siccome di tutte l’altre pareti del castello, allargavansi le
mura a risalto, lasciando fra l’intervallo delle mensole lo spazio per
altrettante balestriere. Questa torre era fasciata a metà da una zona
di marmo, su cui stavano scolpiti a basso rilievo i ritratti di Bernabò
e di Regina della Scala di lui moglie, e frammezzo ad essi grandeggiava
uno scudo acuminato, su cui era rilevata la biscia incoronata, che
ripiegata addenta un uomo nudo. Nel lato istesso scorgevasi doppio
ordine di finestre con archi a sesto-acuto, ornati all’intorno da
bellissimi fregi, tratteggiati nello stesso ammattonato di cui erano
costrutte le mura. La porta d’ingresso del castello stava alla destra
della torre, e vi si giugneva attraversando la fossa, su cui dava
passaggio il ponte levatoio, tutto di ferro: era questo raffermo da
due enormi travi sporgenti sotto la vôlta della porta, ed incassate al
di sopra dell’arco, cui era attaccata doppia catena di ferro, per la
quale e si poteva abbassarlo, ed a piacere rilevarlo, facendolo entrare
nelle imposte di sasso che contornavano la porta: col che essa veniva
a chiudersi perfettamente. Stava sovra la porta un’apertura, ed era la
vedetta per cui una guardia che vi facea di continuo la scolta, valeva
a dar presto avviso di tutte le persone che si fossero presentate per
avere ingresso.

Valicato il ponte levatoio, non penetravasi di botto nel castello,
ma era d’uopo aggirarsi in un andito lungo il lato destro del forte,
sinchè si giugneva al fianco settentrionale, ove affacciavasi un’altra
porta da cui si aveva entrata all’interno del castello: lungo le
pareti di quest’ultimo ingresso eransi praticate molte feritoie
corrispondenti a due stanze, in cui dimorando i soldati potevano non
visti offendere agiatamente quelli che entravano, se così si avesse
voluto. Penetrati nel castello, scorgevasi un ampio cortile, detto la
piazza d’armi, intorno al quale girava un porticato ad archi gotici,
ricinti ne’ contorni da pietre alternate a quadrati bianchi e cilestri,
e sostenuti da immani, ma rozze colonne. Lungo le mura si difilavano
in bell’ordine le finestre, parte ferriate e parte no; ed erano quelle
de’ varii appartamenti del principe e della corte. A pian di terra
giacevano le armerie da guerra e da caccia, i quartieri, le cucine,
le stalle ed i canili. Magnifiche scale conducevano agli appartamenti
superiori addobati fastosamente con arrazzi, ed in cui molte sale
vedevansi dipinte a suggetti di caccie, di guerre e di religione; ma
tai dipinture erano grette, quantunque di vivace colorito, siccome dava
l’arte di que’ tempi.

Era in quel castello una picciola chiesa dedicata alla Vergine, a
cui aderiva una cappella, detta dei morti, perchè conteneva arche
ed ossami ivi trasferiti dalla vecchia rocca. Nè mancavano pure
tenebrose carceri e camere appartate, in cui si erano praticate
ribalte, o siano trabocchelli, i quali consistevano in mobile pavimento
artificiosamente sospeso, sul quale se taluno saliva, levandosi una
sosta si rovesciava, e precipitava lo sgraziato in un pozzo armato
a punte che lo trafiggeano. Correva voce altresì che quivi fossero
sotterranei ed altri luoghi spaventosi e secreti di cui si parlava con
sospetto, ma de’ quali tutti ignoravano e l’ingresso e l’uscita. Taluno
però asseriva d’avere inteso voci e lamenti partirsi dalla cappella
de’ morti e dalla torre nera di Barbarossa, la quale stava rovinosa
nel fondo del parco vicino all’antica fortezza. Perocchè al lato di
tramontana del castello eravi una porta la quale adduceva ad un picciol
parco, che occupava quello spazio che stendevasi tra ’l castello e
l’isolata estremità del ciglione della rupe. In fondo al parco, difeso
in giro da grossa muraglia, stavano gli avanzi della vecchia rocca. In
questo muro eransi praticate varie porte munite di forti cancelli, ed
a cui mettean capo alcune stradicciuole che scendendo a scacco per la
rupe, o si recavano al piano dell’Adda, o si dirigevano pei villaggi
e pei boschi. Ove il parco avea fine, eravi altra porta fiancheggiata
da due torri, la quale dava passaggio al ponte sull’Adda, novellamente
ricostrutto, assai più grandioso e massiccio del primo. All’altro capo
del ponte eransi erette due altre torri quadrate che ne difendevano
l’ingresso, chiuso inoltre da una barricata di travi a punte di ferro.

Già da dieci anni sorgeva questo castello, ed il parco era folto d’alti
e fronzuti alberi, ed alla sommità degli archi di pressochè tutte le
porte vedevansi appesi ove teschi di cinghiali, ove la ramosa fronte
d’un cervo, ove falchi ed avoltoi, trofei delle molte caccie date da
Bernabò, alloraquando sul finire del giorno, per noi già annunziato[6],
giunse Bernabò stesso, condottovi prigioniero colla comitiva descritta
a Mandellone dai due ladri, che dissero d’averla iscorta per la via del
bosco di Concesa.

A pena la guardia posta alla vedetta del castello vide spuntare le
lancie fuori del bosco, diè fiato al suo corno d’avviso, e accorse
tosto il castellano, che era Tadone Fosco: veduto egli soldati
lombardi, e fra essi il cappuccio di Bernabò, fece immediatamente
abbassare il ponte levatoio. I due capi di lancia che erano
all’antiguardia, passato a pena il ponte, si posero vicini alle catene
interne delle travi che servivano a rialzarlo, facendone sgombrare i
due uomini che vi si trovavano. Gasparo Visconti, spronato il cavallo,
fu a dosso al castellano, e curvandosi sull’arcione levò d’un colpo
il mazzo delle chiavi che appese ei teneva ad una cintura di cuoio;
la quale per la strappata spezzossi, ed il povero Tadone cadde a terra
dimandando pietà: poichè mal sapendo la causa di sì inusato procedere
contra di lui, temeva la mala ventura. Ma Gasparo Visconti gli fe’
cenno s’alzasse, e lo precedesse al castello; il che Tadone eseguì
senza trar fiato. Tutti i soldati, i prigionieri e la paravéreda
entrarono nella prima porta, e da quella volgendo lungo l’andito,
passarono nella seconda; dove le guardie, vedendo quella comitiva
preceduta dal castellano, non opposero al loro ingresso resistenza
alcuna. Non sì tosto il seguito fu entrato, che Gasparo Visconti fece
rialzare il ponte levatoio, ed intimò a Iacopo del Verme, che teneva
il comando sotto di lui, di dar subitamente la muta alle sentinelle,
disarmando i soldati di Bernabò, e coloro fra questi che non giurassero
fede a Giovan Galeazzo, facesse chiudere nella torre. Iacopo del Verme
dispose i suoi soldati alla porta maggiore del castello ed a tutte le
altre entrate. Ne pose una parte anche alla porta del parco, e fece
chiudere le barricate del ponte, collocando soldati nelle torri che
lo fiancheggiavano; poscia ordinò alcune scolte, onde si aggirassero
intorno alle mura del castello.

Bernabò frattanto e i suoi due figli Rodolfo e Lodovico erano stati
condotti nella sala maggiore dei superiori appartamenti, dove li aveano
seguiti frate Leonardo, Donnina de’ Porri, e le sue due figlie colla
vecchia Geltrude. Poichè furono i prigionieri assecurati nel castello,
Gasparo Visconti usò seco loro maniere più gentili, siccome eragli
stato imposto da Galeazzo, il quale voleva che a Bernabò ed a’ suoi,
sebbene prigionieri, si avessero que’ riguardi che erano dovuti alla
dignità ed al grado di parentela in cui gli erano congiunti. Appena
infatti tutte quelle persone si furono raccolte nella gran sala,
argomentando il capitano che la sua presenza non poteva riuscire che di
peso a Bernabò ed agli altri, partissi di là per far disporre a comodo
comune il restante dell’abitazione.

La bella luce del declinare del giorno penetrava nella maggior sala del
castello per le vetriate a più colori di due ampie finestre rivolte
ad occidente, e da due altre al lato opposto si vedeva riflettere
rosseggiante sulle mura merlate e sugli archi del cortile. Stavano
in quella sala appese intorno alle pareti varie armature e scudi con
fascie e campi a diversi colori; e vi erano disposti ampii seggioloni
riccamente coverti di drappi trinati in oro, ed altre sedie minori.
Sopra un seggiolone si assise Bernabò, rigettando dalla testa la
pelliccia d’ermellino con cui di consueto si ricopriva: pingue era la
sua persona, aveva elevata e calva la fronte, bianchi i capelli che ne
velavano le tempie, oblungo il viso e di lineamenti marcati e severi.
Si adagiò, tutto abbandonandosi colla persona nel sedile; alzò gli
occhi alle pareti: un lampo di sdegno rifulse nel suo sguardo, che girò
torbido e minaccioso, sinchè lo abbassò raccogliendo in atto doglioso
le braccia al petto. Alla sua destra stava ritto in piedi frate
Leonardo eremita, il cui rozzo saio, la lunga barba, le macre guancie e
lo sguardo umile ed inclinato, spiravano i patimenti e la sofferenza.

Alla sinistra di Bernabò era seduta Donnina della nobile famiglia
de’ Porri, che Bernabò aveva eletta a marchesa della Martesana,
infeudandola d’un ricco dominio. Essa fu l’ultima e la più fedele fra
le molte di lui amate, poichè soffrì dividere con esso la prigionia
unitamente alle proprie figlie, per continuargli le sue cure, e
temperarne gli affanni. L’età di lei era oltre i quarant’anni; e
sebbene non conservasse nel volto la leggiadria e la freschezza di
sua prima beltà, vi avea però ancor dipinta tutta la dignità e quella
nobile elevatezza dell’animo, ch’è pregevole ne’ prosperi, e sublime
nei contrarii eventi; mostravasi taciturna, ma cogli sguardi spiava in
volto a Bernabò quali idee lo agitassero, onde arrecargli conforto di
qualche consolante parola.

Presso a lei era Damigella sua seconda figlia: appena il
quattordicesim’anno faceva in essa spuntare i primi fiori della
giovinezza; il tondeggiante suo viso, colorito dalla salute, annunziava
l’innocenza ed il brio della tenera età; i di lei occhi, nerissimi al
pari de’ suoi capegli, piegavano mesti verso il viso di sua madre, il
cui melanconico contegno ne frenava l’usata vivacità, ciò null’ostante
svolgea scherzando intorno alle proprie dita il cordoncino d’oro che le
allacciava la veste, quasi fosse incapace di starsi in perfetta quiete,
e si rivolgea di quando in quando a guardar Geltrude, che seduta
da un canto era tuttora disaggradevolmente sorpresa dell’improvviso
cangiamento di sue abitudini.

Più in là verso la vetriata, in atto meditativo, stava dai cristalli
contemplando il cielo, Ginevra, la primogenita di Donnina; il color
roseo della luce si mesceva al pallido del suo volto, e le dava un
non so che di trasparente. Ne’ suoi grandi occhi azzurri, entro cui
la melanconia e le lontane memorie spremevano una lagrima, si leggeva
il bisogno di teneri sentimenti; una reticella formata d’un filo
misto d’oro e verde le annodava le biondissime treccie, di cui alcune
ciocche ricadevanle sulla fronte; un corpetto ricamato a neri fiori
sopra fondo scuro, il quale era aperto e rannodato sul seno da una
cordicella d’argento, ed una veste di drappo azzurro formavano il di
lei abbigliamento.

Più lungi Rodolfo e Lodovico sommessamente andavano cangiando qualche
motto fra loro; la ricciuta capellatura di Rodolfo e la fierezza dello
sguardo e de’ robusti lineamenti davano alla sua persona un aspetto più
tosto minaccioso che abbattuto; mentre la chioma liscia e inanellata
che ricadeva sul collo a Lodovico, non che i tratti gentili del di lui
viso atteggiati a mestizia, appalesavano quanto riuscisse doloroso al
suo cuore lo stato del proprio padre e della famiglia.

Tutti questi personaggi serbavano già da qualche tempo un profondo
silenzio, meditando forse ciascuno la sua trista fortuna presente e
l’incerto avvenire che gli si preparava; fors’anche eran compresi dalla
solennità dell’ora che precede la notte, in cui la desolazione ed un
segreto spavento penetrano nelle anime afflitte, quasi se sparendo la
luce, sparisse un amico consolatore, allorchè entrò in quella sala un
paggio, annunziando a Bernabò che se, come era suo costume, intendeva
discendere nella chiesa del castello per recitare le preghiere della
sera, tutto era disposto; e udissi in questo mentre la campana suonare
il segno usato per chiamare alle orazioni vespertine. Bernabò fu più
scosso da questo suono che dalle parole del paggio; e frate Leonardo a
lui rivolto disse:

«Scendiamo, o Principe, ad impetrare dalla gran Madre di Dio un
sollievo ai nostri mali. Se ella degna ascoltare le nostre preghiere,
e infonderà nel cuore quella pace e quella rassegnazione che la nostra
umana fralezza non saprebbe ritrovare in tutte le vanità della terra.»
E in così dire gli si accostò per porgergli braccio ad alzarsi dalla
sedia su cui stava assiso; ma Bernabò, alzandosi da sè francamente: —
«Per Sant’Ambrogio (gridò), io pregherò assai meglio nostra Signora
di Trezzo che quell’ipocrita di Giovan Galeazzo non avesse pensato
di pregare la Vergine del monte di Varese.» Nè potè trattenersi dal
dire fra i denti la sua solita e terribile espressione di vendetta:
«Che egli venga squarciato da’ miei cani.» Ma Donnina, che lo
intese, tremando che alcun altro l’avesse udito, vibrògli uno sguardo
significante, e Bernabò s’avviò silenzioso verso la porta della scala.
Il principe era appoggiato all’eremita; Donnina al suo fianco sinistro;
dietro le venivano Ginevra e Damigella con Geltrude; indi Rodolfo e
Lodovico. Le guardie che stavano al piede della scala abbassarono
l’alabarda al passare di Bernabò, e la comitiva, attraversato il
cortile, entrò nella gotica porta della chiesa.

L’oscurità che ivi regnava non era diradata che dalla luce rossastra
di due lampade che ardevano innanzi all’immagine della Vergine; e
questa luce diffondendosi sotto quella volta rischiarava alcuni avelli
di marmo trasportati dalla vecchia rocca, che forse erano quelli
de’ suoi primi fondatori, e ripercuotevasi sui profili delle statue
che vedevansi distese sopra le arche, atteggiate all’eterno sonno;
penetrava pur anche fiocamente quel lume entro il cancello che chiudeva
la cappella de’ morti; e facea luccicare alcune ossa pulite dal tempo
e dalle mani di chi toccandole invocava pace allo spirito che le aveva
animate, e le quali stavano disposte in giro sulle pareti. Collocatisi
ciascuno in divota posizione, disse l’eremita un sermone sulla caducità
delle umane grandezze; indi intuonò le preci con canto monotono e cupo,
ma con voce pietosa. Rispondevano a quel canto nello stesso tenore
alternativamente i supplicanti; e quelle voci di dolore replicate dagli
echi della volta della chiesa, perdendosi in un mormorio indistinto
nella cappella de’ morti, incutevano negli animi un terrore e una
mestizia profonda.

Ma nessun cuore fra tutti quelli che palpitavano in seno a que’
preganti, era commosso ed agitato al pari di quello della bella
Ginevra. Genuflessa, col volto raccolto nelle proprie palme, ella
talora lasciava scorrere la sua mente sulla folla delle tenere memorie
che in lei si destavano; ma oppressa da crude ambascie e dal doloroso
aspetto dell’avvenire, traeva in segreto affannosi sospiri; tal fiata,
condannandosi come rea, perchè nella casa di Dio attendesse a sì fatti
pensieri, alzava gli occhi all’immagine della Vergine, e ne invocava
il possente aiuto. Alfine il tenebrore di quel sacro luogo, i tristi
oggetti che la circondavano, l’alternare di quelle voci, i terrori che
l’agitavano, addensarono un velo così funesto sulla di lei fantasia,
che le forze sarebbonle mancate sotto l’angoscia che la premeva, se
fosse durata nello stesso stato più a lungo; ma in quell’istante
terminarono le preci, e tutti rialzatisi si mossero per uscire di
chiesa. Pallida, tremante, ella si rilevò: appoggiossi a Geltrude,
e a lenti passi si avviò fuor del tempio. La freschezza dell’aere, e
il bel color d’argento di cui la rivestiva la luna nascente che già
imbiancava i merli delle mura e delle torri, e il brillar di varie
stelle che scintillavano nell’azzurro del firmamento, sollevarono quel
peso di terrore e di affanno che si era concentrato nel cuor suo; più
liberamente ella respirò; e il pallore quasi mortale che si era diffuso
sulle sue guancie divenne debilmente animato da un lievissimo color di
rosa.

Attraversato di nuovo il cortile, tutti risalirono nella sala maggiore,
e di là, dai paggi che Gasparo Visconti aveva a ciò destinati, vennero
condotti in varii appartamenti. Bernabò fu posto in quello in cui era
accostumato abitare, e che stava nel lato meridionale del castello,
al fianco sinistro della torre; presso a sè egli volle ritenere frate
Leonardo, e nelle attigue stanze Donnina. Rodolfo e Lodovico furono
collocati in ricche camere al fianco destro della torre; e Ginevra e
Damigella con Geltrude furono poste nel lato orientale del castello,
ove da un verone guardavasi nell’Adda; ed era un appartamento da
Bernabò un tempo addobbato per ospiziarvi le dame che egli accoglieva
in quella dimora. Gasparo Visconti e Iacopo del Verme, colle altre
persone d’armi di maggiore conto, ebbero buon alloggio nelle molte
camere dal lato occidentale.

Vennero apprestate le cene, e tutti furono nelle diverse camere
serviti. Gabriella, che era la guardiana del castello, siccome moglie
di Tadon Fosco, donna accorta, di modi franchi e gioviali, perchè
accostumata a trattar soldati e cortigiani, fu destinata al servizio
di Donnina e delle sue figlie. Salita nelle stanze di queste, recando
loro una cena ch’ella stessa avea allestita, vedendo che Ginevra
mesta e taciturna non era punto dai cibi solleticata a mangiare, si
pose barzellettando a farle animo per divagarla dalla melanconia; e
le disse che sarebbe stata sì agiatamente in quel castello quanto nel
suo palazzo di Milano. Fece una pomposa descrizione del parco, e narrò
meraviglie dei due cervi addimesticati che vi passeggiavano; parlò
delle rovine della vecchia rocca, della torre nera di Barbarossa e
degli spiriti che la abitavano; i quali durante la notte correvano per
il parco cavalcando i cervi: spiriti però all’intutto innocui, poichè
Tadone suo marito, che tal fiata ella astringeva a passar la notte da
lei discosto, trovandosi nel parco, fu sommamente spaventato dal loro
incontro, ma giammai ne patì offese. Vedendo però Gabriella che tutte
le sue narrazioni nessun sollievo arrecavano all’animo di Ginevra,
pensò, da donna accorta qual era, che il di lei male tenesse radice
ben più profonda che non nel semplice dispiacere della reclusione in
tal luogo: sicchè, fissandola con uno sguardo malizioso e penetrante, e
parlandole sommessamente, le disse:

«Se mai, signora, v’accrescesse il disgusto di abitare in questo
castello, l’idea di non potervi procurare a piacer vostro qualche velo
o drappo di que’ de’ Segazoni[7], oppure di non poter mandare a qualche
vostra amica un nastro da voi trapunto, sappiate che qui abita un
aríolo[8], detto Enzel Petraccio, il quale sa tutto e va per tutto; e
se pur vi fossero dieci capitani d’armi e diecimila soldati a custodire
il castello, e se queste mura avessero lo spessore d’una montagna, egli
entra ed esce a suo senno dal castello, senza che alcuno lo possa nè
scorgere nè arrestare. Io e mio marito l’abbiam sempre lasciato abitar
qua liberamente, perchè esso ci racconta tutte le novelle del paese,
e ci serve fedelmente in tutto ciò che gli comandiamo; e se a voi
piacesse aver notizia degli avvenimenti di qualunque persona che gli
chiediate, ve li narrerà dalla nascita sino al momento in cui vi parla;
se desiaste inviarlo a recare, o ricevere qualche cosa, gli è come se
vi andaste voi stessa... Ah! pur troppo egli sa tutto!.. Sapeva già da
un mese la disgrazia che doveva accadere a Bernabò; ma siccome racconta
le cose con motti stravaganti, non l’avevamo compreso chiaramente.»

Ginevra al sentire che esisteva un uomo capace di rischiararla
sul destino di persone lontane, fu punta da viva brama di parlare
all’Aríolo per intendere che mai fosse di una persona che il suo cuore
forte ardeva di rivedere; ma temè di fidare il segreto suo più caro
ad un uomo che esser poteva un astuto ingannatore di quelle genti
ignoranti, e porne sì a parte una donna che ancora non conosceva.
Quindi dopo un istante di riflessione ringraziò Gabriella di sue
cortesi offerte, e licenziolla dicendo volersi recare al riposo.
Partita Gabriella, Ginevra si accostò al verone, e le si stese alla
vista un vasto piano variamente illuminato dalla luna, nel quale
scorgevansi grandi spazii, erano i folti boschi dei dintorni; spinse
indi lo sguardo al più lontano orizzonte, dalla parte d’oriente,
sospirò, e ricadde in una tetra melanconia. Universale era il silenzio
e la quiete intorno a lei, rotta soltanto dal romoreggiare incessante
dell’Adda che frangevasi contro la rupe del castello, o da qualche
lontano grido, o scoppio di risa che partiva dalle stanze inferiori,
ove i soldati ed i paggi stavano lietamente gozzovigliando.



CAPITOLO III.

    Di terra passarono in terra,
      Cantando giulive canzoni di guerra,
      Ma i dolci castelli pensando nel cor.
      Per valli petrose, per balzi dirotti
      Vegliaron nell’armi le gelide notti
      Membrando in fidati colloquii d’amor.
                      MANZONI.


A pena la luce del primo biancheggiare dell’alba trapelò per entro
i fessi delle travi della capanna di Mandellone, Palamede, che
ansiosamente fra gli interrotti sonni aveva atteso il giorno, si levò
dal giaciglio di foglie su cui aveva passata la notte. Girando lo
sguardo fra quel lume incerto, il primo oggetto che gli occorse alla
vista si fu il crocifisso di legno sul quale Aldobrado aveva a’ ladri
fatto prestar giuramento, e che pria di coricarsi avea riposto sovr’una
tavola. Palamede alzò colla destra quel crocifisso, e piegatoglisi
innanzi con un ginocchio a terra, mandò alcune fervorose preghiere,
invocandone il potente patrocinio nell’impresa che stava per assumere;
indi rilevossi, e lo ripose. Staccò poi da un uncino di legno la sua
spada che appesa vi avea la sera, baciò tre volte la ciarpa a cui
andava rafferma, e, siccome per voto soleva, fecesi il segno della
croce colla impugnatura su cui stava effigiata a cesello l’imagine di
Sant’Ambrogio contornata di pietre preziose, e se la mise a tracolla.

In questo mentre svegliossi anche Aldobrado, balzò in piedi d’un
salto, e volse intorno gli occhi con sospetto, parendo ne’ primi
moti intricato nella lunga veste che lo avviluppava; ma assecuratosi
dell’esser solo con Palamede, si rinfrancò, diè di piglio al
crocifisso, e toccatosi con quello il petto, se lo ripose sotto la
tunica: indi uscirono ambedue dalla capanna.

Già i primi raggi dell’aurora imporporavano la dentata cima del Segone
e degli altri monti di Lecco e del Bergamasco, e dalla parte del Brembo
il cielo s’investiva della lucida tinta del crepuscolo, sebbene dal
lato opposto risplendesse ancora qualche rara stella. Si udiva per
entro i folti rami degli alberi dell’isola uno stormire di uccelletti,
e uno zirlare di tordi e allodole, a cui si univa un mormorio delle
foglie per l’alitare d’una brezza mattutina, che increspava le correnti
acque dell’Adda. Nel praticello poco lungi dalla porta della capanna,
già stavano intesi al partire il Tencio, il Brescianino e il Carbonaio,
muniti ciascuno delle proprie armi; un po’ più discosto eravi lo
scudiere di Palamede, il quale teneva pel freno il suo destriero e
quello del cavaliere, a cui aveva addossati gli arcioni e le armi; e vi
era pur Mandellone con sua figlia Maria, che avea costretto a dormire
al suo fianco sulla zattera; e il servo Trado. Tutti, all’aprirsi
della porta della capanna, ed all’uscirne di Palamede ed Aldobrado,
s’inchinarono, scoprendosi il capo; ma più d’ogni altro inchinossi
umilmente Mandellone, che si accostò al cavaliere, chiesegli scusa
pel disagiato letto su cui aveva dovuto passare la notte, e gli offrì
con voce melata una refezione per disporsi al viaggio. Ma Aldobrado
interruppe bruscamente il suo parlare, e volgendosi a Palamede gli
disse con voce sommessa: «Per l’impresa che meditammo, e pei compagni
che ne deggiono seguire (ed accennò i tre ladri), fa d’uopo che
cangiate quegli abiti di troppo ricchi ed appariscenti; armatevi il
capo, e riponete le piume. — E che farem noi dei cavalli?» soggiunse
Palamede: «È necessario (riprese l’altro) o qui lasciarli, o mandarli
a qualche vicino contado al di là dell’Adda, onde si trovino pronti
sulla strada al ritorno che faremo, compiuta l’impresa.» E in così
dire fe’ cenno a Mandellone ed allo scudiere che gli si avvicinassero;
e trattili in disparte, disse loro: «Tu, Mandellone, terrai in
quest’isola questo scudiere e quei due cavalli, e loro presterai tutto
quanto sarà d’uopo; e tu, scudiere, attenderai qui il ritorno o del tuo
signore, o di me che ti recherò i di lui comandi.» Ambedue mostrarono
la loro grata sommissione a tale ordine; il primo, perchè isperava una
lauta ricompensa; l’altro, perchè il bel volto e gli occhi espressivi
della figlia di Mandellone aveangli reso piacevolissimo il soggiornare
nell’isola. Palamede, fattesi recar le armi, si levò l’abito ranciato e
la maglia, ed addossò una fina armatura d’acciaio non pesante, ma salda
a tutte prove, che avanti la sua partenza aveale donata il marchese
Azzo Liprando, che teneagli luogo di padre, e lo amava qual figlio;
acconciossi i bracciali ed i guanti; lasciò il berretto, e si coverse
il capo con un elmo a celata, ma senza cimiero; ritenne la spada in una
catenella che si cinse, v’infisse un pugnale di una forma singolare che
acquistato egli aveva a Venezia da un Greco della corte di Bisanzio,
e gittossi alle spalle un bruno mantello. Porse a Mandellone due
imperiali d’oro; indi raccomandossi allo scudiere perchè avesse special
cura del suo cavallo, a cui innanzi al partire palpeggiò la groppa,
ed accarezzò il muso ed il collo, acquetandolo colla voce, mentre egli
ergeva la testa nitrendo e scalpitando, impaziente che il suo signore
gli salisse sul dorso onde mettersi in cammino. Affrettato da Aldobrado
si pose in via. Mandellone corse a staccare la zattera, e li trasportò
al di là dell’Adda.

Giunti a piè della ripa, il Brescianino, il quale, velocissimo di
gambe, soleva prestamente ire e redire spiando da lungi se a caso si
avessero ad incontrare persone sulla strada, salì all’uopo pel primo,
quasi servisse d’antiguardo; indi seguivalo il Tencio, e dietro a lui
Aldobrado e Palamede; a retroguardia stette il Carbonaio, il quale
indossando abiti alla foggia de’ villici di que’ luoghi, e portando
una scure da taglialegne, non valeva ad incitare sospetto alcuno, se
iscorto lo avessero i gabellieri od i soldati: potea così dare avviso
se taluno li sorprendesse alle spalle. Salita l’erta ed elevata sponda,
trovaronsi sulla strada del bosco di Concesa, la quale fu da loro
abbandonata per cacciarsi dirittamente nella foresta che le sorgeva a’
fianchi.

Foltissimo era quel bosco, formato da spesse ed antichissime piante:
le quercie, gli olmi, i faggi, le elci, qualche pioppo e platano
occupavano i fondi paludosi, e s’intralciavano fittamente coi rami in
guisa da produrre un’ombra densissima. Al loro piede i vepri, le spine,
i vimini ingombravano il terreno; a cui si mescevano ne’ siti umidi,
canne e giunchi; ne’ più silvestri, rose e pruni selvatici. Su pei
tronchi serpeggiavano l’ellera, ed altre piante parassite, le quali
in varii luoghi slanciandosi come le liane da un albero all’altro,
attraversavano il cammino a guisa di verde tenda. Quivi eran piante
per vecchiezza cadute; altre là si sfasciavano ritte sulle morte
radici: tutto in somma nel folto di quella selva annunziava che la mano
dell’uomo non l’avea da gran tempo tocca.

Il Brescianino però frammezzo a quegli inviluppi s’avea messo per un
sentiero che non potevasi discernere che da chi n’aveva gran pratica,
il quale, aggirandosi in volte e rivolte per lo intrecciarsi delle
piante, conduceva fra levante e settentrione al centro del bosco. Gli
altri lo seguivano a varie distanze, spiando attentamente i di lui
moti, per iscorgere se mai per la selva vi fossero appiattate insidie.
E siccome ad ogni tratto da una parte o dall’altra, spaventati dal
rumore che essi facevano nel passare fra i rami e le foglie, sbucavano
dalle macchie fuggendo pel bosco o cerbiatti o lepri, e tra le fronde
svolazzavano uccelli, o saltellavano scoiattoli, Palamede e Aldobrado
si arrestavano insospettiti; chè pel vero accostumati siccom’erano a
percorrere le selve nel frastuono delle caccie, giammai fu loro dato
di udire quella pressa di animali, che il guaire de’ cani suol volgere
in fuga anzi l’arrivo del cacciatore: così tra l’aspetto selvaggio del
luogo e le antiche abitudini tenevano opinione di null’altro ritrovare
colà fuorchè silenzio profondo.

Dopo aver camminato lungo spazio di tempo fra un labirinto di piante,
giunsero ove il bosco, diradandosi, presentava un aspetto di solitudine
più gradevole; indi pervennero in un largo spazio verdeggiante, in
cui s’ergeva un’antica solitaria chiesa; chè tale parve sulle prime
a Palamede l’edifizio che gli si offerse dinanzi. Era questo una
rotonda non molto vasta che serbava le forme di un tempietto romano;
e scorgevasi che un tempo andava decorata in giro da ornamenti
architettonici, di cui però non apparivano qua e là che pochi avanzi.
Sull’ingresso, che era volto a ponente, stava un peristilio di gusto
gotico, il quale constava di una guglietta acuta sostenuta da quattro
sottili colonne, che appaiate s’appoggiavano alla base sul dorso di
due leoni, a cui o il tempo o gli accidenti aveano ad uno mozzato il
capo per intero, all’altro per metà. Sull’avanti della guglietta, in un
campo triangolare, stava effigiata a bassorilievo una donna incoronata,
rivolta verso un’altra figura di cui non si scorgeva più l’aspetto,
ed in giro vi erano alcune lettere scolpite, che nessuno di loro
seppe, o si curò di leggere. Palamede ammirò, compreso da una certa
meraviglia, quell’edifizio locato in un luogo sì solitario, e gli parve
destarglisi una sensazione, non dissimile da quel sacro orrore, che già
infondevano gli antichi templi che, per farne più solenne ai profani
l’avvicinamento, si ergevano nelle foreste.

Il Brescianino intanto era penetrato per la non difesa porta di quel
tempietto (che que’ ladri nel loro gergo chiamavano la _tana del
cervo_), allorchè diè d’un subito indietro, gridando spaventato:
«Il diavolo! il diavolo!» E s’intese in quel mentre come un lungo
e lamentoso ruggito partirsi dall’interno dell’edifizio. Tutti
arretraronsi sulle prime inorriditi, e ad Aldobrado un visibilissimo
pallore salì alle guancie; ma il Tencio, accortosi ben tosto di ciò che
fosse, alzò lo stocco che tenea fra le mani, e voltosi al Brescianino
disse: «Se tu andassi allo spiedo, siccome io vi metterò quest’oggi il
diavolo che sta là dentro, sarebbevi al mondo un vigliacco infingardo
di meno.» Resi impertanto avvertiti i compagni a star colle armi
preparati al colpire, si cacciò nel tempio. Palamede sguainò la spada;
Aldobrado, non avendo armi all’uopo, levò un grosso masso, uno dei
tanti ruderi caduti dall’edifizio e giacenti sull’erba; il Brescianino,
benchè ancor tremante dallo spavento, dirizzò il suo spiedo; e il
Carbonaio, che era giunto in quell’istante all’orlo della boscaglia,
subitamente arrestossi, alzando la scure. S’intese nel tempio gridare
il Tencio a tutta gola, al che successe un parapiglia, uno incalzarsi
rumoroso; indi si vide sbucare dalla porta un nero animale zannuto,
ed era un cinghiale, il quale, scoperti que’ che fuori lo attendevano,
tentò di arretrarsi; ma il Tencio, pungendolo collo stocco nel dorso,
lo costrinse ad uscire. I tre al di fuori gli furono addosso, e il
ferirono in varie parti; ma sarebbesi tuttavia recato in salvo, se
Aldobrado col colpo di pietra non gli spezzava una gamba, per cui venne
a cadere ai piedi del Carbonaio, che gridando «A me, a me!» gli spaccò
il cranio con un colpo di scure vibrato a due mani. Il Tencio rientrato
nel tempio, ne uscì portando nella destra sospesi per un piede due
cinghialini a pena nati; e ben si avvidero che l’ucciso animale era una
cinghialetta che colà avea deposto i suoi parti. «Male per chi va nella
tana del cervo che ha le corna di ferro (disse il Carbonaio, accennando
la scure): così per un po’ di giorni noi avremo l’arrosto. — Vedi come
abbiamo trattato il tuo diavolo?» soggiunse il Tencio volgendosi al
Brescianino, il quale presa la scrofa per una gamba se la trascinava
nel tempio, in cui tutti penetrarono.

Nude erano le interne pareti di quell’edifizio, e la volta dal lato
meridionale appariva diroccata: quivi trapelava per ampio foro la
luce. Il pavimento si offriva tuttora lastricato di marmi; e nel
suo mezzo si ergevano disposti in foggia quadrangolare dei massi che
formavano una specie di altare o d’ara, a cui si ascendeva per due in
allora sconnessi gradini. Recatisi dietro quest’ara, il Tencio e il
Carbonaio, l’uno collo stocco, l’altro colla scure, puntarono ad una
lastra di pietra, facendo sì che questa levandosi, aprisse il varco
ad una angustissima scala che metteva sotterra. Appuntellata la pietra
invitarono Palamede e Aldobrado a discendere, senza tema di sorta, in
quella che essi appellavano la _fontana_, di cui dissero mille elogi,
tanto per la freschezza che vi si godeva, di grande ristoro in quella
stagione, quanto per la sicurtà del nascondiglio. Discesero la scala
essi pei primi; chè d’alquanto furono ritrosi da principio il finto
frate e il cavaliere, cui mosse non lieve ribrezzo quell’entrare là
sotto; ma presa fidanza ne’ giuramenti dei ladri e nella guarantia
delle proprie armi, pronti alla fine vi si risolvettero. Ultimo a
discendere si fu il Brescianino, che calò al basso prima la uccisa
scrofa; indi, fatti alcuni gradini; levò il ferro che sosteneva la
pietra, la quale abbassatasi chiuse il sotterraneo.

Affatto tenebrosa parve a prima giunta quella sotterranea stanza ai
due che vi erano stranieri, e solo a’ loro orecchi risuonò un lieve
gorgoliar d’acqua. Scorsi alcuni istanti, e dileguatasi dalle loro
pupille la impressione della viva luce esterna, cominciarono ad
iscorgere varii fori praticati in giro delle pareti, per dove penetrava
uno scarso lume: indi si avvidero di trovarsi sotto una volta sostenuta
da due massiccie colonne, e il vano del sotterraneo corrispondere in
estensione al pavimento superiore del tempio: osservarono pure che
la scala per cui eran discesi girava a spira intorno ad una di quelle
colonne. Presso la parete in fondo, era un avello di marmo, da cui la
soverchiante acqua ricadeva con debile mormorio in sottoposto bacino,
e appese qua e là per le muraglie stavano armi ed altri arnesi. Nel
mezzo eravi un grosso tavoliere di legno, ed in giro vani sedili. «Qui,
signori miei (disse Tencio ai due che si erano seduti a canto di quella
tavola, guardando intorno con atti di meraviglia), qui voi potrete
abitare securi, anche sino a quando quella santa, di cui nessuno sa
il nome, abbia tratto la freccia.» E in così dire, accennò una rozza
scultura sulla volta, che rappresentava una Diana in atto di tender
l’arco. «Sappiate che niuno ha mai ardito di penetrare nella tana del
cervo, e molto meno qua sotto a ber di quell’acqua, da che Guandaleone
da Dongo, mio zio, detto l’Eremita bruno, venne a stabilirvisi,
al tempo che il signor Bernabò, fabbricando il castello di Trezzo,
chiuse nel parco la vecchia torre di Barbarossa, sua prima abitazione.
Perocchè Guandaleone era un uomo penitente, il quale non amava che tre
cose: sant’Uberto, di cui portava sempre seco l’imagine, la solitudine,
e la borsa dei passeggeri. — Ma che? di’ tu il vero? (esclamò Aldobrado
il quale al nome di Eremita bruno era balzato in piedi atterrito.)
Questa è la grotta dell’Eremita bruno? di quello spirito spaventoso
del bosco, di cui narravasi esserne così tremendo l’aspetto? di colui
che or prendeva le forme di un falco, or di un cinghiale, ora di una
vipera, per assalire spietatamente que’ che s’avessero la disavventura
di essere da lui veduti prima di scorgerlo. Dalla cui grotta narravasi
uscisse un fumo, il quale aveva il potere di incenerire chiunque vi
si accostasse? e però i contadini non solo, ma Bernabò, io stesso, e
tutta la gente di corte, quando scorgevamo per questo bosco levarsi in
qualche sito del fumo, recedevamo rapidamente. — Ah! Ah!» a que’ motti
diedero in uno scroscio di risa i tre ladri. «Il fumo, proseguì il
Tencio, non era che quello delle legne con cui egli faceva qui sotto
arrostire le lepri, che io stesso uccideva pel bosco; e que’ che si
accostavano, non rimanevano morti che per mezzo dell’asta uncinata che
là vedete, e colla quale il romito, mirandoli qui celato da quel foro,
sapea colpire sì bene da trapassare un uomo con maggiore destrezza
ch’io non faccia d’una lepre: così non era dato pur mai al tapino di
accorgersi da qual banda partisse il colpo. «E dove trovasi adesso
codesto terribile Guandaleone?» disse Palamede. «Qui sotto (rispose il
Tencio, percuotendo con un piede il terreno); ma credo che il diavolo
si porti via le ossa ad uno ad uno, perchè veggo qui ogni giorno,
abbassarsi il suolo. — E voi tre (riprese Palamede), a che veniste a
compagni di Guandaleone, se, come tu dicesti, o Tencio, egli amava la
solitudine?»

«Questi due (rispose Tencio) ci vennero quando l’anima di Guandaleone
era già volata in giù, mercè un colpo di lancia che un bravo sulla
strada di Vimercate, non volendo perdere il proprio denaro, seppe
vibrargli: sicchè appena ebbe forza di rientrare nel bosco, e
strascinarsi fin qui, dove innanzi al morire imposemi di seppellirlo
nello stesso luogo ove sarebbe spirato, il che ho eseguito appena ebbe
chiusi gli occhi, perchè non venisse la notte, urlando e fischiando,
a rompermi colle catene il sonno. Non erano allora che tre anni da
che io mi trovava con lui, e ciò fu per ben tenue cagione. Sappiano,
signori, che recatomi un giorno a Milano, andai con uno mio compare in
una taverna, entro cui venne pure un soldato, che sul morione[9] teneva
un bel pennacchio rosso. Mio compare, che amoreggiava Bertranda della
pusterla Fabbrica, alla quale piaceva il pungerlo del continuo, perchè
innanzi le comparisse con qualche ornamento della persona, pensò farsi
bello con quel pennacchio: lasciato che il soldato deponesse il morione
sopra un sedile, staccògli la piuma, e se la nascose fra le pieghe de’
scoffoni[10], che ricoprì col guarnello, accennandomi che partissimo.
Avevamo già tocco la porta, quando accortosi il soldato dello
smarrimento del suo pennacchio, si slanciò sovra ambedue, serrandoci
fra le sue braccia, e gridando: «Alla ruota i ladri! alla ruota!» Io
allora per divincolarmi gli menai sulla testa un colpo del mio martello
da fabbro, che sempre teneva appeso alla cintura, e lo feci cadere
colla fronte insanguinata sul pavimento: ma il taverniere frattanto
se ne era ito di fuori gridando «aiuto, soccorso!» e fe’ giugnere
alcuni uomini d’arme che stavano alla guardia del gonfalone di porta
Ticinese, i quali mentre s’impossessavano di mio compare, diedermi
campo di saltare per la finestra nel cortile di attiguo monistero, dal
quale rapidamente mi fuggii per la porta, e mi recai a salvamento. Due
ore dopo, il mio compare era già sulla ruota colle braccia e le gambe
spezzate ad assordare i corvi, e ad attendere dal carnefice il colpo
di grazia. Spaventato dal pericolo di vedermi frante le ossa, non volli
più fermarmi a Milano, e pensai far ritorno a Brivio nella mia fucina:
il giorno era già prossimo ad oscurare quando io mi posi in istrada;
camminai tutta la notte, sebbene la oscurità mi astringesse più volte
a sostarmi, e verso il mattino io mi trovai un po’ al disopra di
Gorgonzola lungo la Molgora, ed al limitare di questo bosco. Procedendo
allora più veloce nel cammino, m’abbattei in un uomo assai bruno in
viso, e vestito da eremita, il quale guardatomi fisamente, mi disse:
«Dove vai a quest’ora, o Tencio da Brivio?» Atterrito al sentire il
mio nome pronunziarsi da uno sconosciuto, dubitai forte dapprima che
quei si fosse uno spirito infernale; e ne presi certezza, allorchè
mi sovvenne al pensiero che quegli si era l’Eremita bruno. Laonde
credendo ch’ei fosse venuto a portarmi negli abissi pel mio peccato,
girandomi al suolo, mi feci più volte il segno della croce; ma quegli,
accostatomisi, disse: «Non temere, o Tencio; alzati, e narrami qual
causa ti condusse a quest’ora da solo in vicinanza di questo bosco?»
Ed io gli raccontai, senza mai fisarlo in volto, la disavventura di
mio compare e il spavento. «Ebbene, pel sangue che mi lega a tua
madre Berta da Dongo, tu verrai meco, e nessuno ardirà alzare la
mano sopra di te.» Io non sapea per il timore dove mi fossi; ma egli
prendendomi per mano, fecemi entrare nel bosco, e qui mi addusse,
dove mi rinfrancò, mi ristorò, e palesatomi il grado di parentela che
a lui mi univa, essendo io figlio di sua sorella, mi significò qual
fosse il modo di vita a cui doveva accostumarmi. Da quell’istante non
lo abbandonai sin che visse, e morto che egli fu mi associai a questo
poltrone di Castel Martinengo, a cui le scrofe sembrano diavoli (ed
additò il Brescianino), e che fu da me tratto dalle unghie di Ubaldo
Ugoni, perchè altrimenti sarebbe stato appiccato. — E strinse pur lega
con me (interruppe il Carbonaio), cui il mestiere di tagliar alberi sul
Legnone[11] fra gli orsi, onde a stento accattarmi un tozzo di pane dai
minatori del ferro, non mi andava per nulla a grado.»

Questi cenni delle avventure dei ladri, e il ritrovarsi in quel
sotterraneo luogo diffusero in Palamede una tetra amarezza, prodotta da
riflessioni che già gli si erano svolte nella mente sin dal mattino,
per cui cadde in un assopimento meditativo. Pensò egli quanto fosse
indegno e pericoloso per la sua fama l’essersi unito ad assassini di
quella fatta, qualunque scopo pur avesse nel giovarsi dell’opera loro:
comprese che ad un cavaliero le leggi di onore imponevano che in campo
aperto e colla forza del proprio braccio dovesse compiere le imprese;
ed egli diveniva immeritevole di portar spada e sprone adoperando gli
infami e vili maneggi dei ladri, onde venire a capo de’ suoi progetti.
Agitato nel bollore dell’ira e dell’indegnazione, stava per iscagliarsi
con pungenti parole contro Aldobrado, che tratto lo aveva a quel turpe
partito: quando accortosi costui, per l’indole generosa che conosceva
in Palamede della causa che il faceva pensieroso, e veduti gli sguardi
moltiplici e sdegnosi volti sopra di sè, ruppe il silenzio, dicendogli
sommessamente: «Egli è tempo che pensiamo alla vostra Ginevra.» Un
brivido improvviso scosse a tal nome il cuore di Palamede, e ne scemò
il tumulto dell’ira non a segno però ch’egli non riprendesse con
voce risentita: «Dove mi avete voi mai condotto? e fra quali persone?
Se fossimo qui, o per la bosacaglia, sorpresi dai soldati di Giovan
Galeazzo, qual vituperosa fine non sarebbe a noi riservata? Io fremo
in pensarvi. — Non bramaste voi stesso (rispose bruscamente Aldobrado)
vedere ad ogni costo Ginevra? Guerriero da poco voi mi sembrate, se
tremate a’ perigli cui vi espone il tentativo di conseguire il possesso
della vostra innamorata. Io, che non nutro passione alcuna per lei, non
mi trovo forse in pericolo al pari di voi? Pensate (proseguì con voce
più espressiva) che in questa notte istessa, o dimani, Ginevra sarà
vostra; e voi cui non mancano nè in patria nè fuori molte ricchezze e
ornate abitazioni, potrete condurla al talamo, e trarre con lei onorata
e comoda vita. Mentre all’infelice Aldobrado proscritto e ramingo
null’altro avanza che l’errare di città in città, armando il braccio
alla ventura per accattare il pane della miseria. — Ah! (soggiunse
commosso Palamede) perdonatemi, Aldobrado, io ebbi torto di lagnarmi di
voi: guidatemi dove volete, purchè Ginevra sia mia. A voi non mancherà
giammai nè un tetto, nè una mensa ospitale.» E dicendo queste parole si
porsero la mano, e con trasporto di affetto parve la stringessero l’un
l’altro; ma se sul volto di Palamede traspariva la sincerità d’un’anima
leale e generosa, negli occhi e sul viso di Aldobrado apparve un
maligno sorriso di trionfo, per la di lui credulità. Per convincere
però maggiormente Palamede dell’interesse che lo animava, onde la
impresa fosse presto condotta a felice compimento, chiamò i ladri per
disporli alla ricerca dei mezzi opportuni.

Eransi costoro, mentre i due stranieri ragionavano fra loro,
sdraiati in un angolo del sotterraneo, e quivi stavano con una lama
di spada iscuoiando un pezzo della cinghialetta uccisa, e ripulendo
dalle ceneri una buca nel suolo che loro serviva di focolare; alla
chiamata di Aldobrado, gli si avvicinarono, ed egli disse: «Su via,
degni successori di Guandaleone, diamo mano all’opera per la quale
ci addussimo nel nido degli avoltoi a pericolo d’aver tutti le ali
traforate dallo stesso giavellotto. È d’uopo impossessarsi dapprima
di una barca, e tenerla disposta a’ nostri cenni lungo la sponda
dall’Adda in sito superiore d’un miglio al Castello di Trezzo. In
qual modo, o Tencio, diviseresti di fare? — Datemi cinque o sei lire
di terzoli (rispose Tencio), e la barca si troverà tosto in pronto
a’ vostri comandi.» Aldobrado cavò dalla tunica una manata di monete,
e le porse a Tencio; questi consegnolle al Carbonaio dicendogli: «Va
tosto a Brivio nella fucina di Filippo, dàgli questo denaro, e degli
che pagherai il valore di tanto pesce quanto Tedrigello d’Olginate ne
vende in una settimana ai signori di Lecco, purchè ti porga la chiave
della catena colla quale assecura alla spiaggia il suo battello, e
vi passi quattro remi per gli anelli. Se egli acconsente a quanto tu
sei per chiedergli, digli pure che se terrà brighe co’ gabellieri di
transito, o cogli sgherri, troverà degli amici; altramente bisbigliagli
il mio nome all’orecchio.» Il Carbonaio, preso fra le mani un nodoso
bastone, salì tosto la scala del sotterraneo, uscì dall’apertura, e la
turò novellamente. «Ora, o Tencio (proseguì Aldobrado), io m’aspetto
dal tuo ingegno l’eseguimento di altra impresa assai più ardua. — Se
vi riesci (dissegli Palamede) noi ti daremo un premio doppio di quanto
ti abbiamo promesso. — Tu devi trovare (proseguì Aldobrado) un uomo
fidato il quale rechi alla persona che ti additeremo un viglietto entro
il castello di Trezzo. — Intendo (rispose il Tencio): le signorie loro
vorrebbero spezzare uno staggio del gabbione in cui sta rinchiuso il
vecchio orso, affinchè ei si fugga. — O l’orso, o l’armellino (riprese
Aldobrado), questo a te non deve importare: rifletti a quanto hai
giurato, alla mercede che ne ritrarrai, e risolviti.

«Ho giurato (replicò il Tencio) di adoperarmi alla cieca per loro, e
ben vi sono disposto, perchè, avvenga che può, se io non do questa
fiata nella rete, ho in animo di abbandonare la tana del cervo, e
se avrò tanto da comperarmi una tunica, mi ritirerò in un convento a
pentirmi de’ miei peccati, ed a levarmi dagli occhi quella maledetta
ruota, su cui parmi ancora di scorgere mio compare a penzoloni.
Rispetto all’inviare il viglietto nel castello, le cui porte sono
sì gelosamente guardate a questi giorni, non è di certo agevole
faccenda. Io però ho conoscenza di due garzoni spenditori di Tadon
Fosco castellano, i quali per lo addietro erano destinati a recarsi
nei contadi a comperare le provvigioni pel castello. Amighetto, l’un
d’essi, è il più fidato ragazzo ch’io mi conosca, e se gli si paga una
misura di quel di Montevecchia, chiude in corpo un secreto più che nol
siano i bizantini nell’arca di un avaro; nè gli trarrebbono un terzuolo
colla corda. Consegnatemi il viglietto ch’io m’andrò in cerca di lui, e
se lo trovo, l’impresa è assicurata.»

Poco mancò che Palamede per gioia lo abbracciasse, se non che
trattenendosi gli disse: «Senti, o Tencio, se le mie speranze saranno
coronate da un esito felice, io penserò a far sì che nè tu nè i tuoi
compagni abbiate mai più a temere di sgherri o di ruote; voi sarete tre
prodi soldati a cui la spada e il valore sapranno cancellare le macchie
della vita trascorsa.»

Mentre il Tencio indossava una larga zimarra da bifolco, Aldobrado
si trasse un pezzo di pergamena che avea seco, e diella a Palamede,
il quale colla punta dello stilo fattasi una picciola ferita in una
mano, vergò col sangue una lettera a Ginevra. In essa narravale il suo
ritorno e l’amor sempre ardente che per lei nutriva; la scongiurava
per amor suo a discendere nella cappella de’ Morti attigua alla chiesa
del castello, in quell’ora della notte in cui avrebbe udito una voce
dir forte sotto le sue finestre «_È l’ora._» Descrisse il modo per ivi
rendersi inosservata, uscendo dalla sua camera di riposo, e calando
per una tribuna di cui le additava la posizione, e giusta gli andava
mano mano dettando Aldobrado conoscitore espertissimo di tutti gli
andirivieni del castello; e chiuse il suo dire altamente pregandola a
intervenirvi, se desiderava rivederlo anzi morire. Scritta la lettera,
la involse strettamente nel nastro che legava la vagina della sua
spada colla ciarpa, e ravviluppolla eziandio entro una tela su cui
scrisse in minuto: _Ginevra_. Consegnolla indi al Tencio, dicendogli
che incaricasse il messo, che arrecar la doveva in castello, a far sì
che pervenisse nelle mani di quella fra le due donzelle la quale avesse
riconosciuto ivi scritto il proprio nome: al che aggiunse esser dessa
di bionda chioma; che se mal riuscisse l’impresa, dovea rendere il
viglietto, minacciandolo fieramente se fosse caduto in altre mani. Il
Tencio, assecurando di tutto eseguire appuntino, pose alle spalle una
vanga; salì la spirale scalea, e sparve, ingiugnendo al Brescianino che
acconciasse di che satollarsi per essi e gli ospiti novelli.

Partito costui, Palamede rimase dubbiante ed agitato da mille speranze
e timori, che si succedevano senza tregua nel suo cuore; ed ora
sentiasi rimordere, perchè affidato avesse un’impresa di sì alto
momento a mani tanto vili, ed ora gli arrecava conforto la certezza
di rivedere colei per cui s’era fatto cavaliere, quella per cui solo
avea cercato rinomanza nelle guerresche venture. In quella foga di
affetti parve accrescergli angustia il vedersi cinto dalla oscurità che
regnava nel sotterraneo: laonde bramò di uscirne, a fine di spirare
aura più lucente e più libera. Il Brescianino lo precedette, sollevò
la lastra che chiudeva l’ingresso, e lo rese avvertito che non si
discostasse dal tempio; che se avesse bisogno di lui, o pur amasse
rientrare, replicasse un lieve batter di mani. Vagò Palamede per la
tranquilla ombra delle altissime piante che circondavano il tempio;
e all’ondeggiare affannoso della sua mente, trovò consolante ristoro
nel ripensare a’ più cari momenti de’ passati suoi giorni. Rapida gli
rinasceva la memoria di quel tempo felice in cui, giovinetto, in una
splendida corte vestiva la prima volta le armi; pensava a’ torneamenti
di Milano ed alle gualdane che si correano per le contrade e per le
piazze, ov’egli primeggiando attraevasi gli occhi di tante nobili
donzelle e matrone pomposamente ornate, che lo miravano dai veroni
e dai palagi: ma tremando gli risovvenne quel primo sguardo che,
irridiato da una luce celeste, incancellabile gli penetrò nel cuore.
Una serie di ineffabili ricordanze gli corsero alla mente; e la voce, e
gli atti, e le parole, e gli amorosi colloquii per le domestiche sale,
o per l’aule festose, o ne’ solitarii giardini; e quando gli cingeva la
ciarpa da lei trapunta; e il piangere e lo svenire dell’ultimo addio.
Indi gli si schierarono innanzi le sue prime battaglie guerreggiate con
Bernabò, poi le Venete bandiere, e i singolari combattimenti sostenuti
per terra ferma e per le isole; le sue vittorie e la sua gloria.
Gravato dalle ricordanze del passato, stanco, si assise, e l’animo
corse festivo a’ futuri avvenimenti che lo attendevano.

Aldobrado, il quale era rimasto nella fontana sotterranea, trattasi la
fratesca tunica ulivigna, apparve vestito con farsetto e calzamento
stretto alle membra. Diessi intanto ad esaminare le varie armi
irrugginite e gli attrezzi che stavano appesi alle pareti; e tratto
tratto arrestavasi colle braccia conserte al petto, e col capo
inchinato, girando l’occhio inquieto, e svolgendo in se stesso cupi
pensieri. Ora un sorridere di compiacenza, ora uno aggrinzarsi di
rabbia apparivano a vicenda sul di lui viso; e qualche volta movea
tronche parole al Brescianino che era intento a cuocere lentamente
sotto le ceneri un pezzo di cinghiale.

Dopo alcune ore di aspettazione, udissi il fischio del Tencio,
che trafelato dal caldo e dal cammino, rientrò nel sotterraneo
con Palamede, il quale lo pressava ad inchieste sull’esito del
di lui invio. Ma vide egli con inesprimibile angoscia il Tencio
trarsi dalla cintura l’involto, e riporlo sulla tavola, dimenando
mestamente il capo per segno della fallita impresa. Anche Aldobrado
restò vivamente colpito dalla mala riuscita del tentativo; ma mentre
l’amante cavaliere ricogliendo il volto nelle mani si abbandonava ad
un totale abbattimento, quasi per lui fosse tutto perduto, l’altro in
vece concentratosi stette investigando quali altre vie rimanessero
a compiere il meditato disegno; voltosi quindi a Tencio gli disse:
«Forse allorchè tu giugnesti a Trezzo e ne’ paesi d’intorno l’ora era
già tarda: dimani vi tornerai più per tempo, e se non ti abbatterai
in Amighetto, troverai pur qualche altro che sia amico di Tadone ed
abbia viso miglior del tuo. Gli consegnerai con qualche fiorin d’oro il
medesimo involto, onde lo arrecchi al castellano, il quale se borbotta
le parole su certi vecchi fogli di cui io non comprendo sillaba,
saprà anche leggere questo indirizzo: ed è persona da rimetterlo così
fidamente come farebbe di un cartoccino di polvere di san tossico.»

Il Tencio fe’ cenno che eseguirebbe, e Palamede riprese speranza.
Dopo alcune ore ritornò il Carbonaio che avea sortito miglior esito
del compagno nella sua impresa, e semibriaco qual era pel molto vino
che avea bevuto coi terzoli, di cui a Filippo di Brivio non avea data
che piccolissima parte, narrò il modo di sua spedizione, e mostrò le
chiavi della barca e de’ remi. Quel prospero evento temperò alquanto il
rammarico arrecato dal primo andato a vuoto; e fu argomento a ciascuno
di buono augurio. Passò quel giorno, e ver l’alba del dì vegnente
il Tencio, a cui Palamede avea dato alcuni imperiali, partissi dalla
tana del cervo, e frugò tutte le taverne de’ villaggi per più miglia
d’intorno a Trezzo, ma invano: scontrò qua e là sparsi de’ soldati di
Giovan Galeazzo, dal cui contatto si astenne; nè mai gli fu dato di
abbattersi in uomo che fosse il ben trovato pel suo bisogno. Ritornò
afflitto alla tana, ove i due lo attendevano impazienti: così furono
convinti della impossibilità di pervenire al loro scopo, essendo il
castello guardato con troppa avvedutezza ed entro e fuori. Deposta
da Palamede ogni speranza di rivedere Ginevra nel modo consigliato
da Aldobrado, fermò quindi nell’animo di tentare altre vie. Chiarì ad
Aldobrado il suo proposito di abbandonare la impresa; e checchè questi
gli dicesse onde impegnarnelo nuovamente, tutto parve vano. Venne
perciò statuito che al mattino venturo, pagato un premio a’ ladri,
sarebbero ritornati alla Ca di Mandellone per riprendere i cavalli, ed
avviarsi ciascuno ove il proprio destino li avrebbe condotti.

Era vicina la notte, e Palamede, a cui il fine male avventurato del
suo disegno avea resi ancor più odiosi i ladri e la loro sotterranea
abitazione, uscì all’aperta per meditare da solo che mai dovesse
intraprendere, onde venire a capo d’una impresa da cui dipendeva
unicamente la sua felicità, ed alla quale era legato per religione e
per le leggi di amore e di onore. Sparso era il cielo di oscure nubi,
e il vento forte fischiava tra le frondi del bosco; udivasi da lungi
mormorare il tuono e scorgevasi un balenare incessante. Quell’aspetto
tempestoso dell’aere consuonava pur bene coll’agitazione dell’anima
di Palamede. Rimase questi colà sino al completo oscurarsi del
cielo, ora scorrendo pel bosco, ora appoggiandosi alle colonne del
peristilio del tempio a contemplare l’addensarsi ed abbuiarsi delle
nubi; ora ascoltando con segreto compiacimento il soffiare del vento
e il rimbombare del tuono. Quando la notte si fu alta, e gli oggetti
d’intorno ravvolti in una profonda oscurità, Palamede destatosi da
quella intensa concentrazione in cui l’aveano condotto i suoi mesti
pensieri, si ritrasse nell’interno del tempio, e cerchi gli sconnessi
gradini dell’ara, vi si pose genuflesso ad invocare il patrocinio
di Sant’Ambrogio e della Vergine, nelle cui chiese di Milano avea
tante volte aperto i più segreti affetti del cuore, ponendoli sotto
il loro patrocinio. Leniva così il peso del suo affanno, esalandolo
nell’entusiasmo religioso, che in lui era caldo al pari dell’amore. E
siccome abborriva il ridiscendere nel covo co’ ladri, pensò vegliare
quella notte nel tempio, attendendo il primo albeggiare per ritornare
all’isola di Mandellone. Cedendo però ad un certo languore delle
membra inoperose, si avvolse nel bruno mantello, e si stese sul nudo
macigno de’ gradini, facendosi del braccio guanciale. Per la rotta
volta del tempio vedevasi uno spazio di cielo che a pena pel tenebrore
che l’ingombrava si distingueva da’ contorni della nera volta: e
mentre Palamede vi intendeva lo sguardo l’oscuro seno di una nube
diradatosi, lasciò scorgere uno spazio sereno di firmamento in cui
ardeano luminose le stelle. Fu argomento di non poca gioia al cavaliere
quell’apparirgli d’un subito la veduta degli astri, dalla cui posizione
si traevano in allora tanti felici od avversi auspicii. Egli pensò
che si fosse qualche prospera congiunzione di pianeti a suo favore;
ed osservando quello spazio sereno che incominciando dalla parte di
Milano, avanzatasi per dilungo delle rotte nubi ver Trezzo, non dubitò
punto gli recasse l’annunzio che l’appagamento dei suoi voli sarebbesi
compiuto nel castello di Trezzo, dopo aver tratto principio da Milano.
Le nubi intanto si rinserrarono; il sereno affatto disparve, e il vento
soffiò più forte. Palamede, immerso in gradite illusioni, fu vinto a
poco a poco dalla stanchezza de’ sensi, e si assopì in profondissimo
sonno.

Cupa, sommessa, sconosciuta una voce, ruppe il sonno al cavaliere,
chiamandolo per nome. Levò esagitato la testa appuntellandosi sul marmo
colla destra, e addomandando chi fosse ad una nera figura ravvolta in
un manto, la quale si inchinava versò di esso, e che da lui fu scorta,
perchè il cielo rasserenatosi del tutto tramandava per entro il foro
della volta uno scarso raggio di luna. «Non destate, o cavaliero (gli
disse l’incognito), i serpenti nella tana che li rinchiude; seguitemi
per amor di Ginevra; la colomba difesa dall’aquila non temerà gli
artigli del falco.» Sprezzatori de’ perigli e amanti delle strane
avventure e del maraviglioso, siccom’erano i guerrieri di que’ tempi,
non esitavano certo a slanciarsi là dove un arcano avvenimento apriva
loro un campo di far mostra d’intrepidità e di valore. Palamede, a
cui si risvegliarono in quell’istante nell’animo tutte le credenze
ne’ prestigii e nelle apparizioni di esseri soprannaturali a guida
delle umane azioni, giudicò che colui il quale mosso gli avea quelle
voci si fosse uno spirito a lui inviato da’ santi suoi patroni.
Laonde, levatosi tostamente in piedi, si chiuse nel mantello e si
dispose a seguirlo; ma appena uscito dal tempio, forte paventò ch’ei
fosse uno spirito infernale, o l’anima di Guandaleone che frequentava
que’ luoghi: gli si accostò allora, e di celato toccògli il manto
coll’imagine di Sant’Ambrogio che serbava sculta sulla spada, e
fecesi il seguo della croce. L’incognito per ciò non disparve nè urlò:
ond’egli prese fidanza, e seco lui internossi fra le piante del bosco.

Buio, inestricabile, incerto era il cammino della selva: chè lo
intrecciarsi foltissimo de’ rami non lasciava penetrare il debilissimo
raggio della luna nascente. Avanzatisi quindi un trar d’arco, parve
impossibile a Palamede il procedere più oltre per quella oscurità
piena di ostacoli innumerevoli: ma ad un tratto sentì che l’incognito
agitava qualche corpo nell’aria, e vide con maraviglia accenderglisi
nella destra una fiaccola, che rischiarò di repente con una luce
improvvisa que’ luoghi. Gialliccia, offuscata da un denso fumo che
effondeva, sventolava la larga fiamma di quella face, tramandando un
lume che spandeva sui tronchi e sulle foglie degli alberi un livido
colore, ed iva a perdersi fra il denso della boscaglia. Scorse allor
Palamede che la sconosciuta sua guida si era un uomo di non alta
statura, tutto ravvolto in bruno ammanto che gli si avviluppava
sino al capo; aguzzo avea il mento, e coverto da una ciocca di peli;
larga la bocca; protendenti, ma scarne le mascelle; gli occhi assai
incavati. «Chi sarà mai costui, al quale è noto il mio nome e l’amor
mio per Ginevra!» disse Palamede fra sè, mirando l’incognito la di cui
fisionomia, sebbene negromantica e di straordinario aspetto, teneva pur
assai del terreno per presupporlo uno spirito, o celeste, o infernale.
«Sarebb’egli uno sgherro di Gian Galeazzo? Sarebb’egli uno stregone
abitatore di questa selva?» Ma fidando nel proprio coraggio, serbando
la destra sull’impugnatura della spada, e colla manca affrancandosi
il mantello sul petto, proseguì intrepido a tenergli dietro. Dopo un
breve tratto di cammino per la boscaglia, lo sconosciuto, soffermatosi,
infisse in un tronco per l’acuta estremità la face che portava, e
disse a Palamede: «Voi udirete il canto di Ginevra a piè delle mura che
la rinserrano: mal volle ella credermi quando le susurrai che voi le
eravate vicino; io deggio dunque mostrarvi ai di lei occhi. Che se non
bastassero le vostre forme, ch’ella vedrà lontane, porgetemi un segno
od una parola per cui indubbiamente vi riconosca.» Maravigliato il
cavaliere a sì fatto parlare, da cui comprese quanto egli sapesse de’
suoi amori con Ginevra, fu punto dalla brama di chiedergli di lei più
cose: quando un suo guardar penetrante ed istrano gli impose silenzio.
Per cui tacitamente trasse la lettera involta nel nastro che già porto
aveva al Tencio, e gliela diede. L’incognito, presolo allora per mano,
proseguì seco lui il cammino per la selva lievemente rischiarata dalla
face rimasta nel tronco, e che dileguossi alla loro vista un momento
prima che uscissero fuori interamente del bosco, ove nessun ingombro
divietò che la luna loro apparisse splendente di tutta luce.

Torreggiavano poco lungi di là le mura del castello di Trezzo, di cui
irradiava la luna il fianco orientale, verso la qual banda Palamede
si volse coll’incognito. Quivi pervenuti, ascendendo ad un masso che
sorgeva a’ fianchi del castello, lo sconosciuto disse a Palamede:
«Arrestatevi qui sino a che un lume là sopra (ed additò le finestre)
verrà acceso, indi spento; e tosto che spegnerassi ritornate nel bosco
alla tana del cervo, da cui non partirete pria di rivedermi.» In così
dire accostossi dippiù alle mura, e cacciatosi nell’ombra, sparve d’un
subito agli occhi di Palamede, attonito a sì strana ventura.

Era il cielo stellato e sereno, e la luna diffondeva per l’aere una
limpida luce: il mormorare dell’Adda rompea solo il silenzio che
regnava d’intorno. Stava il cavaliero con un’ansia inesprimibile
attendendo surgesse la voce di Ginevra; allorchè vide un lume
riflettersi, e passando per le vetriate delle finestre, in pria
oscure, che a lui sovra stavano, arrestarsi nella camera presso il
verone. Dopo pochi istanti un improvviso toccar di corde di un liuto
dolcemente risonante partì dall’unica finestra illuminata del castello,
e si diffuse in melodiose voci per l’aria silenziosa. Irruppero
dapprima rapide note, scorrenti velocemente dai gravi agli acuti; alle
quali a grado a grado mancanti succedette uno arpeggiare armonioso,
che vagando con risentiti passaggi in tuoni variati, ricercò e si
trattenne sul toccare di una affettuosissima minore. «O mano d’amore!
Ginevra, mio unico bene!» disse fra sè Palamede premendosi le mani
congiunte al seno, e volgendo lo sguardo ove udiva que’ suoni, rapito
dall’entusiasmo del più puro trasporto. E chi potrebbe esprimere la
piena di affetto che invase l’anima del cavaliero, udendosi risuonare
all’orecchio, dopo tanta lontananza e sì fieri avvenimenti! il preludio
della canzone del ritorno del guerriero crociato, ch’egli stesso aveva
a Ginevra insegnata? L’estasi sua toccò il colmo, allorchè ascoltò la
di lei voce proferirne le parole che così suonavano:

    Da lontane estranie terre,
      Dal sepolcro del Signor,
      Dai perigli e dalle guerre
      Io ritorno vincitor.
    Altri raggi in altri suoli
      Irradiaro il mio cimier:
      E le vampe d’altri soli
      Abbruniro il cavalier;
    Ma il mio tetto ed i miei cari
      Sempre fissi in cor restâr,
      Nello scorrere dei mari,
      Nella foga del pugnar.
    Ah! mio ben, che in queste mura
      Fida attendi al mio venir,
      Frena il pianto e l’ansia cura:
      Io ritorno a’ tuoi desir.

Due volte ripetè questi ultimi accenti; e a pena cessò il canto,
apparve la bella sul verone. Il manto del cavaliero gli era in quel
mentre caduto dagli omeri senza ch’ei nel rapimento della passione se
ne avvedesse, e un raggio di luna brillava vivissimo sul terso acciaio
della sua armatura e dell’elmo. Al vedersi si riconobbero l’un l’altro
quegli amanti, e nella piena dell’affetto che loro ardeva in cuore
avrebbero forse alzata la voce a parlarsi: quando Palamede scórse
ispegnersi di repente il lume entro la stanza del verone, e Ginevra da
quello ritrarsi rapidamente. Stette un istante sospeso il cavaliero; ma
ripensando alle parole dello sconosciuto, diè ratto di volta verso il
bosco, e vi si internò camminando alla cieca: sino a che, scoperta allo
splendore la fiaccola infissa al tronco, la riprese, e colla scorta di
essa ricalcò il sentiero già percorso dapprima.



CAPITOLO IV.

    Questi in diverse lingue era eloquente,
      E sapeva in ciascuna all’improvviso
      Compor versi, e cantar sì dolcemente,
      Che avrebbe un cor di Faraon conquiso.
                             TASSONI.


Lo sconosciuto, che aveva guidato Palamede fra le tenebre del bosco
ad udire il canto di Ginevra, niun altro si era fuorchè quell’Enzel
Petraccio, aríolo, i di cui buoni uffici aveva offerto Gabriella
(la moglie del castellano) a Ginevra, nella prima sera che questa
si trovava nel castello. Era Enzel venuto da lontani paesi al di là
di Lamagna, e capitato in Lombardia al seguito di Ernesto il Bavaro,
duca di molti castelli, allorchè questi menò in moglie Lisabetta la
Piccinina, una fra le dieci figlie legittime di Bernabò. Enzel si era
introdotto fra la schiera dei servi del Duca, e con essi recatosi a
Trezzo, rinunziò al vivere errante che per tanti anni avea condotto, e
pensò fermar stanza colà, dove, a motivo delle sue arti che sapevano
di negromanzia, era richiesto dal volgo, e tenuto in gran pregio.
Sapeva però celare con astuzia quegli artificii ai frati ed ai ricchi,
per tema di avere a sperimentare il suo magico potere contro le
fiamme di accesa catasta, o nella gola arroventata di un forno. Enzel
parlava talvolta una lingua stranissima, ed era il solo che servisse
d’interprete fra le genti del paese e gli alabardieri alemanni, gli
arcieri svizzeri, e i cavalieri francesi e normandi, di cui qualche
schiera sempre si trovava a Milano e ne’ dintorni, condotti dai tanti
principi che si recavano alla corte di Bernabò, od attraversavano
la Lombardia per guerreggiare in Italia. Aveva egli veduto Vienna
d’Austria, dopo essere stato a Rodi, a Bisanzio, e persino a
Trabisonda. Tratteneva le persone narrando maraviglie di spaventose
montagne, di fortune di mare, di singolari costumi di popoli lontani,
di guerre, d’assalti, di giostre e duelli di cavalieri; mesceva a’
suoi racconti amori di dame e di regine, storie di maghi, di miracoli
e d’effetti d’influssi di pianeti. Astuto indagatore de’ fatti altrui,
richiesto di consiglio e d’aiuto nelle traversie, sapea di tutto
giovarsi, penetrando ne’ segreti di chicchessia: andava nelle case,
nelle taverne, e frequentava le corti dei castelli e de’ conventi:
spiava i moti di ognuno, meditava sulle parole che inavvedutamente
isfuggivano; e combinando con accortezza tratti che sembravano i
più disparati, spesso giungeva alla scoperta di fatti segretissimi:
quindi molte fiate sapea prevedere ciò che taluno di celato divisasse
intraprendere.

Aveva fatto lega coi tempestarii, ed altri aríoli, i quali dicevasi
tener possanza sulle meteore e sugli spiriti che abitavano l’aria:
eglino venivano consultati non solo dal volgo, ma anche da’ cavalieri
e signori di castelli, e in ispecial modo dalle donne, a cui la
molta ignoranza e superstizione dei tempi facea credere infallibili
gli oracoli che pronunciavano. Per tal guisa adoperando, Enzel
avea cognizione delle insidie e de’ tradimenti che celatamente si
preparavano; sapea le corrispondenze più ignote e le violenze praticate
fra impenetrabili mura. Amico de’ sgherri e degli assassini, de’
contrabbandieri e de’ gabellieri, egli penetrava sicuro in tutti i
boschi, in tutte le trabacche dei soldati; derisore in suo secreto di
gran parte de’ pregiudizi che esso co’ suoi racconti tenea vivi negli
altri, punto non temea di cacciarsi per luoghi oscuri e disabitati,
ne’ sotterranei e nelle caverne, qualunque pur fosse la fama tremenda
che s’avessero. Infatti egli aveva scoperto nel castello di Trezzo,
entro la torre nera di Barbarossa, l’ingresso ad un sotterraneo a cui
niuno ardiva accostarsi, e ne approfittava onde uscire e rientrare a
suo senno nel castello: il che non eseguiva che in casi importanti,
mal volendo qualche fiata essere scorto da taluno; così, comunque pur
fossero guardate le mura e le porte, per esso riuscivano mai sempre
libere come aveva a Ginevra narrato Gabriella. Questa singolare persona
vestiva calzoni di una foggia particolare, a color nero, e rannodati al
confine del piede; talvolta portava un mantello e un cappello a larghe
falde, e tal altra un guarnello con cappuccio, da cui le sue guancie
sporgenti e gli occhi da gufo ricevevano uno stravagante risalto.

Petraccio era stato introdotto nascostamente da Gabriella nelle
camere delle figlie di Bernabò: imperocchè ella amava ad ogni patto
che Ginevra abbandonasse quel malinconico e segreto affanno che la
opprimeva, od almeno desiderava scoprirne la vera cagione. Quindi avea
caldamente raccomandato all’aríolo che tutte ponesse in opera le arti
sue a fine di alleviarla, o dir le sapesse qual fosse l’origine del suo
secreto dolore: l’aríolo, che sempre compiaceva a Gabriella, siccome
quella che usavagli di molte cortesie, assunse con tutta premura tale
impegno. Entrato in quelle camere, diè principio al narrare istorie
scherzose, che vivamente ricrearono Damigella, la quale pendeva
ammaliata dalla voce strana di lui, da’ suoi gesti, dagli sguardi ed
atteggiamenti variati del volto, non che dalla verità e vivezza delle
sue descrizioni. Col racconto delle sue fiabe guadagnossi pure, a grado
a grado, l’attenzione della vecchia Geltrude, e finalmente s’accorse
che anche Ginevra porgeva orecchio a’ suoi detti, per cui, mutata
insensibilmente maniera di narrativa, parlò d’amori, di sventure, e
fece quadri di avvenimenti diversi, sino a che venne ad un racconto che
parve destare in Ginevra il più vivo interessamento: arguì tosto che
le cose ch’ei diceva fossero le più conformi a’ sentimenti da cui era
quella fanciulla travagliata, e perciò su quelle insistendo, iscoprì
dagli affetti che si pingevano variamente sul di lei viso, e dalle
mozze parole che involontarie ella pronunciava, la qualità delle idee
che fitte le stavano nel pensiero.

Allora quando Enzel pose termine a’ suoi racconti, e si partì dalle
stanze delle figlie di Bernabò, erasi già seco stesso assicurato che
gli affanni di Ginevra procedevano da una segreta fiamma d’amore,
e che l’oggetto de’ suoi pensieri si trovava da molto tempo da lei
discosto fra le venture dell’armi. Diessi quindi con arte a ricercare
fra i vecchi servi di Bernabò, se pur taluno serbasse memoria delle
persone che frequentavano la casa di Donnina de’ Porri, e così
rintracciare qualche filo a guidarlo alla conoscenza dell’amante di
Ginevra; ma le sue ricerche furono vane. I servi erano a que’ tempi
sì umilmente suggetti a’ loro padroni, che se questi fossero stati
persone principesche, dir si potevano più tosto schiavi che domestici;
eseguendo esattamente quanto veniva loro imposto, si tenevano a tale
distanza dai loro signori, che ne ignoravano le segrete relazioni,
o conoscendole non ardivano palesarle. Enzel uscì dal castello, e
meditando la scoperta in cui s’era impegnato, si pose in traccia d’un
altro aríolo il quale era stato lungo tempo a Milano, e tutti sapea
gli avvenimenti delle persone di corte di Bernabò; nè lo rinvenendo,
si diresse ver la casa di Mandellone a cui quasi tutti recavansi o per
sollazzo o per passaggio, onde quell’ostiere gli additasse ove potea
rintracciarlo.

Attraversata l’Adda sulla zattera, a pena pose piede nell’isola,
apparve maravigliato in veggendo fra quelle piante due bellissimi
cavalli ir pascolando: si avanzò, e vide alla porta della capanna
Mandellone e sua figlia, e dall’un canto starsi un estranio in abito da
scudiere. Giuntogli vicino, l’oste il conobbe ben tosto, e facendogli
gran festa si volse allo scudiere, che quello si era di Palamede,
dicendogli: «Signor scudiere, questi è Enzel Petraccio aríolo, il
quale è stato in paesi più in là di tutte le montagne le cento miglia:
e’ sa tutto, e va per tutto senza neppure il soccorso dello spirito
maligno. Standosi qui, ei sa vedere le cose che avvengono a Milano così
chiare siccom’io dalla sponda veggo un temolo nel fiume.» Lo scudiere
squadrollo più volte, indi sorrise, facendosi beffe della figura di
questo singolare personaggio; e ciò si era perchè non gli garbava
l’annunzio della costui onniscienza, poichè temeva non isvelasse le
molte menzogne che, per farsi tenere in conto di guerriero valoroso,
egli avea narrate all’oste ed alla di lui figlia: quindi si persuase
facilmente che quanto di costui gli avea detto Mandellone, proveniva
dalla di lui ignoranza, della quale ei stimavasi scevro siccome soldato
ed uom di ventura. Chiamò quindi per ischerno ad Enzel se sapea che
facesse in quel momento il boia di Milano: e questi, fisandolo con
occhi grifagni, rispose all’istante che stava sulla piazza di Santa
Tecla frustando uno scudiere poltrone. Diede a tale risposta Mandellone
uno scroscio di risa, che intese da qual dente fosse morso lo scudiere;
ma questi si irritò fieramente, e volendo ad ogni patto porre a terra
la vantata scienza dell’aríolo, e beffarlo alla presenza dell’oste
istesso e di Maria, gli fece gran numero di dimande sulla posizione e
singularità di moltissimi paesi, certo di coglierlo in fallo, e così
schernirnelo acremente.

Ma Enzel rispose a tutto, narrando le più minute particolarità de’
luoghi pe’ quali aveva viaggiato lo stesso scudiero, per cui questi,
udendo che l’aríolo tanto sapea, e che d’altronde non lo smentiva,
prese gradatamente interesse al parlare di lui, ed andava ripetendo,
secondo i nomi delle terre che Enzel rammentava, le guerre e le
avventure a cui era stato colà presente; ed aggiungeva molti fatti
del valore del cavaliere che egli aveva ovunque seguito, non poco
esagerando per vanità la di lui e la propria bravura. Quando Enzel
si vide amicato lo scudiere, pel campo che gli porse a darsi vanto
presso Mandellone e Maria di uomo famoso nell’armi, imperocchè quegli
zotici prestavano piena fede a ciò che lo scudiere diceva a motivo che
l’aríolo stesso sembrava e crederlo e confirmarlo, a lui rivolto disse:
«Valoroso voi siete, e intrepido è il cavaliero che avete seguito,
ed i suoi fatti onorano la nobile sua patria. — Oh al certo (rispose
lo scudiere) Palamede de’ Bianchi sta fra i più prodi cavalieri di
Milano; alla corte di Bernabò veniva stimato de’ più leggiadri di
volto, e valorosi di braccio: egli diè prove stupende colla spada e
la lancia ne’ tornei di Verona, ma più che in altri luoghi nel campo
de’ Veneziani.» Quando Enzel intese che il signore di quello scudiere
era un cavalier di Milano stato alla corte del Visconte, e che tornava
da lontane guerre, gli nacque dubbio improvviso, potesse essere quel
cavaliere l’amante di Ginevra: per cui si raccolse un instante; indi
sorridendo guardò in viso allo scudiere, e gli disse: «Quante dame e
ricche figlie di potenti signori avranno desiderato che il valoroso
cavaliere vestisse il loro colore, facendolo trionfare nelle giostre e
ne’ tornei?»

«Molti sguardi (riprese lo scudiero) e molte soavi parole erano a lui
dirette; ma egli è ammaliato da una ciarpa che porta sempre sul petto,
e da un nome che proferisce sovente, per cui quanto io mi curava di
mostrarmi innamorato di tutte le belle figlie dei guardiani di castelli
e delle damigelle che sfuggivano un istante sull’imbrunire agli sguardi
delle loro gelose signore, altrettanto il mio cavaliere era riservato
nel trattare con queste. Nè nei tanti castelli e palagi ove abbiamo
albergato, mai un marito, entrando secretamente nelle sale della sua
donna che con Palamede conversasse, colse questi in qualche atto per
cui si sguainassero spade o pugnali. Ed io potrei far sacramento,
che persino in Venezia stessa, che è la città dell’allegria e degli
amori, tutte le lusinghe delle leggiadre e libere patrizie cadevano al
nome di Ginevra. — Al nome di Ginevra,» ripetè ad alta voce l’aríolo,
la pelle bruna del cui volto, raggrinzandosi, espresse un riso di
trionfo; ma poscia accostatosi allo scudiere, e posandogli sulle
spalle una mano, gli disse sommesso: «Credevate voi ch’io m’ignorassi
che il cavaliere de’ Bianchi ama Ginevra la bella, figlia di Donnina
de’ Porri e di Bernabò, e che ne va con pari ardore corrisposto?
Conosco la storia degli amori di Palamede, come vedo in cuore alla
figlia di Mandellone tutto l’affetto che ella sente pel di lui gentile
scudiere.» La lusingata vanità di costui, che non gli lasciò scorgere
quanto era facile l’avvedersi dai lunghi sguardi che a lui porgeva,
e dall’interessamento con cui tutte Maria ne raccoglieva le parole,
ch’ella era di lui innamorata, e l’avere udito l’aríolo nominare i
parenti di Ginevra, che egli credeva che a sì rustica persona esser
dovesse affatto incognita, produssero in esso lui tale meraviglia,
che diessi a credere con tutta certezza ciò che di Enzel gli avea
Mandellone narrato. Quindi gli fece grandi interrogazioni, da cui seppe
lo scaltro aríolo schermirsi per non iscemare l’opinione che si aveva
acquistata, pago in suo cuore d’aver quanto ei cercava rinvenuto.

Non sapea però Enzel rendere a sè stesso ragione della causa per cui
lo scudiere si trovasse solo coi cavalli nell’isola di Mandellone; si
volse all’oste dopo aver entro sè stesso pensato, e disse: «Chi detto
avrebbe, o Mandellone, che l’erba del tuo prato, la quale non è brucata
che dalle mule dei mercanti, o dalle rozze del priore di Caravaggio,
dovesse essere mangiata da due sì bei destrieri? — E sì, rispose
l’oste, che ne hanno già mangiata più d’un fascio, e non so se tutta
basterà, perchè il cavaliere si è cacciato con un falso monaco insieme
al Tencio e gli amici dentro il bosco: e il motivo di ciò non puoi
saperlo che tu, che tutto sai; per me lascio lor fare quanto vogliono,
perchè mi hanno tinta la mano col giallo dell’oro. Ma ho sospetto da
certe parole che intesi pronunciare da quel frate e dal cavaliere sul
castello di Trezzo, che si voglia ricondurre alla selva quel vecchio
cignale di Bernabò, che il signor Giovan Galeazzo ha fatto rinchiudere
nel castello. — Segreta è la tana del cervo (rispose l’aríolo assumendo
un’aria misteriosa); ma le sue corna non giungeranno innosservate
presso le porte di cui vegliano a difesa le spade e le alabarde.» E
in così dire si accomiatò da Mandellone, che invano gli offerse una
buona misura di vino brianzolo, e trasportato da Trado colla zattera,
attraversò l’Adda, salì la sponda, penetrò nel bosco della strada di
Concesa, e venne sin presso al tempio, che era quella stanza de’ ladri
detta _la tana del cervo_. Colà si ascose fra le piante spiando, e vide
in leggiera armatura uscirne dalla porta un giovane di belle forme, che
si diede pensoso a passeggiare. Esaminollo attentamente, e vedendogli
una ciarpa azzurra ritenne ch’ei fosse, siccom’era di fatto, Palamede;
ma senza lasciarsi da lui scorgere, a pena ebbesi fitto in mente la sua
imagine, chetamente ritirossi, e lieto di quanto avea scoperto rientrò
nel castello.

Ginevra, nella cui anima gli artificiosi racconti di Enzel avevano
reso più intenso il fuoco che la consumava, non seppe più a lungo
resistere al desiderio di chiedere a costui, ove si trovasse il
cavaliero oggetto de’ suoi sospiri, e se a lei sarebbe dato ancora una
volta di rivederlo: poichè si era di già persuasa che vero fosse che
l’aríolo conoscesse anche le cose che di lontano accadevano, non che
i futuri avvenimenti, siccome la avea accertata Gabriella. Attese un
istante in cui sola trovossi con questa, e le palesò che ella bramava
avere una conferenza coll’aríolo. Nulla potea riuscir più gradito alla
moglie del castellano che una tale richiesta, perchè alfine era sicura
di penetrare la causa de’ secreti affanni che angosciavano Ginevra.
Discese ella, e trovato Enzel che stava meditando una storia la quale
contenesse tutto ciò che egli aveva scoperto per narrarla alla figlia
di Donnina, ne lo avvertì che seco lei salisse nelle camere di Ginevra.

Era sull’ora del declinare del sole, e dal verone, le cui colorite
vetriate stavano aperte, penetrava viva e serena la luce entro una
camera ornata nella volta da arabeschi dorati; un ricco drappo
cremisino a fiori d’argento ne vestiva le pareti, intorno alla
sommità delle quali, in larga zona orlata da gotici fregi, vedevansi
rappresentate le nozze di Bernabò con Regina della Scala. Nel mezzo
della camera un liuto, che parea coperto da una sottilissima rete di
madreperle ed oro, stava appeso con verde nastro ad un leggío di legno
prezioso, intagliato elegantemente a fogliami, sul quale era stesa una
pergamena coperta di note musicali, e sulla cui sommità posavano libri
con ricche coperte ed aurei fermagli.

Sola, mesta, e tutta in un pensiero raccolta, stava colà Ginevra
adagiata sovra un sedile, sul cui appoggio, che serbava le forme d’un
drago d’oro alato, posava il destro braccio, su quello colla persona
languidamente abbandonandosi. Cheto e quasi di soppiatto fu l’aríolo
colà da Gabriella condotto, la quale tosto si ritrasse, recandosi
a favellar con Geltrude e Damigella onde tenerle occupate. L’aríolo
scoprisi il capo, e rivoltosi con modo rispettoso a Ginevra, animando
il viso e dando cert’aria solenne di profetica ispirazione alla sua
voce, le disse: «Fate cuore, o leggiadra figlia di Donnina, e ridonate
il sereno alla vostra candida fronte, perchè io ho consultati i segreti
vuoti dell’aria, abitati dagli spiriti invisibili, ho meditato sul
soffio de’ venti, ed i segni formidabili delle nubi e dei lampi, e
le potenze misteriose si sono accordate nel pronosticare un fortunato
passaggio di pianeti sul vostro capo. Dall’oriente si levò un’aura che
riposava da molto tempo, per disperdere le nebbie che si addensavano
intorno a voi. — Che dici mai? (rispose Ginevra) è egli vero che è
surta un’aura d’oriente che mi deve liberare dagli affanni che mi
circondano? Oh soffii, soffii con forza quell’aura in questo cuore; la
mia felicità da colà solo mi deve ritornare.... o dalla Vergine, che mi
accoglierà nel suo grembo, quando avrò espiate le mie colpe. Ma ora mi
spiega tu, cui sono palesi i profondi arcani e le cose ignote, che vuol
egli significare il sollevarsi di quest’aura orientale? — Quest’aura
a me significa (Enzel riprese) che un cavaliero cui cinge il petto una
ciarpa azzurra, dopo essersi fatto acclamare fra i più prodi in campo
chiuso ed aperto, ritorna valoroso alla nobile donzella, il cui nome
fu sempre sulle sue labbra e l’imagine dentro il cuore.» Una gioia
vivissima apparve a queste parole nello sguardo e nel viso di Ginevra.
«Rieda (ella esclamò) il cavaliere a chi con tanti e lunghi sospiri
ne ha incessantemente invocato il ritorno; ma come rivederlo (proseguì
ella ricadendo nella usata mestizia) se io son chiusa fra le custodite
mura di questo castello, cui nessuno può ardire appressarsi?»

Enzel le si accostò, fisolla in volto; poscia girando lo sguardo per la
camera onde assecurarsi che le sue parole non erano da altri intese,
le disse sommesso: «Datemi fede di eseguire ciò che vi dirò, ed io
vi giuro per le tre punte del fulmine, che fra pochissimo tempo vi
mostrerò il cavaliero che amate.» Ineseguibile parve sulle prime così
fatta promessa a Ginevra; e sebbene ella ardentemente lo bramasse, e
avesse fede eziandio nel potere dell’aríolo, tanti erano gli ostacoli
che la sua mente le depinse opporsi a sì fatto disegno, che le sembrò
impossibil cosa il mandarlo ad effetto, e temette un istante non
volesse l’aríolo prepararle un inganno; ma trasportata dal pensiero
della gioia che avrebbe provato se la promessa dell’aríolo si fosse
avverata, non volle affatto dubitare di lui, ma pensò previamente
assicurarsi di sua scienza con prove maggiori. Chiese quindi all’aríolo
il nome del cavaliere e le di lui forme, non che i paesi dove avea
guerreggiato; e dimandogli ove ella lo avesse conosciuto, da quanto
tempo essi si amavano, e molte altre circostanze della loro affettuosa
corrispondenza. Ed Enzel a ciò che avea saputo dallo scudiero satisfece
con precisione: a tutte le altre domande rispose involgendo i concetti
in oscure parole, e frammezzandoli colla narrativa di quei fatti che
sono indivisibili da simigliante passione; per lo che tanto persuase
la mente di lei, che le si affidò intieramente, e sicura che l’aríolo
avrebbe condotto a lei davanti Palamede, gli promise di far tutto ciò
che a quest’uopo fosse per imporle.

La notte istessa di quel giorno in cui l’aríolo ebbe sì fatto colloquio
con Ginevra, si recò alla _tana del cervo_, ove trovando Palamede
dormiente sui gradini dell’ara, lo condusse a traverso al bosco sino
sotto al verone di Ginevra, e colà lasciandolo, dopo averlo ammonito
di ciò che avesse a fare, penetrò pel sotterraneo nel castello, e salì
inosservato nelle camere di Ginevra, recando l’involto che racchiudeva
la lettera col nastro, che Palamede invano cercò dal Tencio far
consegnare all’amante. Quando Ginevra vide Enzel entrare da lei a
quell’ora, fra il palpito della speranza e del timor di un inganno,
gli chiese se ei veniva ad adempiere la promessa che le aveva giurata.
Enzel, senza rispondere alla sua inchiesta, svolse il nastro che
rannodava il foglio, e glielo presentò, certo che Ginevra l’avrebbe
riconosciuto per un oggetto che apparteneva a Palamede.

Non è esprimibile la maraviglia ed il trasporto con cui quella
innamorata mirò, e riconobbe il nastro, che ella avea trapunto e
rannodato di propria mano alla guaina della spada del suo cavaliero nel
giorno di sua partenza.

Ella guardò fiso l’aríolo, e poco stette nell’entusiasmo della sua
gioia, se non era la sua figura troppo stravagante e brutta, ch’ella
nol venerasse come un essere potente disceso dal cielo per renderla
felice. Applaudivasi l’aríolo in sè stesso di cagionare tanta
contentezza ad una fanciulla, il cui grado e la cui beltà la rendevano
sovra ogni altra interessante; ma sollecitandolo il tempo e il timore
non venisse dalle guardie scoperto Palamede, disse a Ginevra: «Io vi
assicurai che vedreste il cavaliero; e voi lo vedrete. Questi oggetti
saranno però inutili per accertarvi che quegli che vi si offrirà
allo sguardo sia Palamede, perchè l’occhio dell’amore ne scorgerà le
sembianze anche al pallido raggio della luna.» Ginevra slanciossi
a questi detti avidamente verso le vetriate onde mirare a piè del
castello; ma Enzel ne la impedì, dicendole che tutto tornerebbe vano
s’ella non eseguiva quanto era per dirle; e le intimò si recasse
nella sala del verone, ed accompagnandosi col liuto intuonasse un
canto noto al cavaliero: poichè alla sola sua voce questi sarebbesi a
lei fatto palese. Ginevra eseguì infatti ciò che l’aríolo le impose,
e fu solo quando ebbe dato fine al canto che affacciatasi al verone
scorse brillare ai raggi di luna l’armatura di un guerriero, ch’ella
immantinente riconobbe essere Palamede. L’aríolo, che in quel mentre
erasi posto in agguato, onde gli amanti non fossero sorpresi, udì farsi
qualche rumore, benchè lieve, nel cortile del castello; ed era una
scolta, che avvedutasi della presenza di un armato sotto le mura, mandò
ad avvertirne Iacopo del Verme, il quale, siccome gli s’indicò, veniva
per assicurarsene alle stanze di quelle fanciulle: l’aríolo, udendo
l’alternare dei passi di taluno che si appressava, ritrasse Ginevra dal
verone, spense il lume, e uscito rapido qual lampo rasente il muro di
un andito opposto si perdette nelle lontane camere superiori.



CAPITOLO V.

    Quel guerrier, come ardito, invitto e franco,
    Si volse indietro, e vide il traditore
    Che ferito l’avea nel lato manco,
    E gridò forte: O crudel peccatore,
    A tradimento mi desti nel fianco.
                   PULCI. _Il Morgante._


Sebbene Palamede fosse rientrato nel bosco prima di essere scorto
palesemente dagli uomini d’arme, che facevano la scolta sull’alto
della bastita, e l’aríolo fosse scomparso senza essere veduto dal
loro capitano, pure non era ancora surto il mattino, che già una
voce erasi sparsa fra le genti del castello d’uno straordinario
avvenimento, accaduto la notte sotto le mura. E siccome la prigionia
di un principe che avea per tant’anni signoreggiato, non che quella
dei di lui congiunti, si riguardava come un avvenimento a cui
dovevano concorrere cause soprannaturali, dicevasi quindi già averlo
preconizzato la comparsa di una cometa a coda sanguinea, e l’essersi,
come allora divulgarono gli astrologi, congiunti i pianeti di Giove,
Marte e Saturno nella casa dei Gemini; oroscopo che si credeva fatale
ai principi, al che s’aggiungeva il pronostico più patente e terribile
del replicato scagliarsi dei fulmini sul palazzo di Rodolfo figlio di
Bernabò.

Per tal guisa gli animi delle genti erano di leggieri preparati a
dar fede a qualunque strana novella venisse narrata. E ciò tanto
maggiormente, in quanto che sebbene Bernabò fosse da tutti come
crudele e capriccioso tiranno abbominato, pure molti erano stati
nella coscienza offesi dal modo con cui suo nipote Giovan Galeazzo
lo aveva sorpreso e imprigionato, simulando un divoto pellegrinaggio
alla Madonna del Monte presso Varese. La qual cosa a que’ tempi dava
agio alle fantasie di mescere a tal fatto l’intervento di demonii, di
vendette celesti, di spaventose apparizioni. Gli uomini all’incontro
meno servi delle favole grossolane dai più credute, e conoscitori delle
variabili ed armigere inclinazioni di che allora iva animata la plebe
ed alcuni signori, non furono dal primo istante dell’imprigionamento
di Bernabò senza sospetti di una rivolta a suo favore, contra il
conte di Virtù. Quindi, secondo il modo che ciascuno dei militi che
erano nel castello considerava nel proprio pensiero quel fatto, andava
diversamente ripetendo le cose che si raccontavano avvenute la notte
sotto le mura, e vi facea varie conghietture.

Nei cortili del castello, nelle ampie e rozze stanze delle torri, e
lungo il porticato ove stavano i soldati ripulendo le armature, gli uni
andavano dicendo che si erano la notte uditi per l’aria suoni e canti
di angeli, e s’era veduta una gran luce a cui stavan per entro molte
persone danzanti in candide vesti: ciò che era segno di un felicissimo
avvenimento. Altri sostenevano al contrario, che ad un tratto videsi
ardere il bosco di Trezzo, e comparire al piè delle mura del castello
un gran demonio lucente, che cantò con voce femminina per addormentare
le guardie, e così divorarle; e che non vi riuscendo, si era gettato
nell’Adda. Ma negli appartamenti superiori, i principali fra i caporali
di lancia che si erano raccolti, con Iacopo del Verme, dal capitano
Gasparo Visconti, pensarono esser potesse qualche tradimento con cui
si avesse tentato sorprendere quel forte onde liberare i prigionieri,
e determinarono doversi addoppiare la vigilanza, e spedire a Milano ad
avvertirne Giovan Galeazzo.

La novella pervenne ben tosto anche all’orecchio di Bernabò e suoi
figli, non che di Donnina e di frate Leonardo. Accesi tutti dal
desiderio e dalla speranza della loro liberazione, credettero esser
potesse alcuno de’ loro amici e fautori di Milano, o di altra città
soggetta al dominio di Bernabò, che radunata gran mano d’uomini,
venisse a trarnelo da quel luogo di prigionia. Il vecchio principe per
le lunghe esortazioni del frate eremita, con cui l’andava dissuadendo
della vanità delle terrene grandezze, e gli infondeva in cuore, coi
consigli della religione, la pazienta nelle traversie, invitandolo a
sofferire quel doloroso rovescio di fortuna ad espiazione delle proprie
colpe, aveva piegato l’animo a deporre ogni desiderio di grandezza e di
signoria; e innanzi all’altare della Vergine avea promesso che nessun
altro pensiero sulla terra lo avrebbe padroneggiato fuorchè quello
di un amaro pentimento de’ suoi peccati. Appena però gli balenò allo
sguardo un lampo di speranza di riprendere il potere de’ suoi vasti
dominii, la brama d’impero, di vendetta e di tirannia, che avea messe
radici profonde nell’omai decrepito suo cuore, si risvegliò con somma
violenza, squarciando quel velo di forzata sommissione penitente a’
decreti della Provvidenza, creata più dalla necessità delle cose, dallo
spavento della disgrazia e dei rimorsi, che non da vero sentimento di
pietà, troppo straniero all’orgoglioso, fantastico e nella crudeltà
corrotto animo di Bernabò. Quando egli ebbe udito che correa voce
essere stati veduti nella notte soldati estrani aggirarsi intorno alle
mura del castello, e che forte dubbiavasi fossero stati spediti per
liberarlo, d’un subito i lineamenti tutti del di lui viso, piegati a
mestizia ed abbattimento, furono animati dall’avanzo di quel fuoco
guerriero che tanto, durante la sua vita, l’aveva agitato: quindi
fieramente alzando il capo con tuono d’impero, mirando in volto a’
suoi due robusti figliuoli, e girando lo sguardo alle armature che
stavano appese come trofei intorno alle pareti di quella sala, parve
loro accennasse che ad ogni evento ei non sarebbesi con essi rimasto
inoperoso.

Rodolfo, inteso il cenno del padre, strinse colla sinistra la mano
a Lodovico; e protendendo la nerboruta sua destra, assecurollo
silenziosamente ch’egli ne agognava l’istante. Donnina, a cui
non facevano illusione que’ vaghi racconti, ma sempre tremava che
irritandosi, o insospettendosi Giovan Galeazzo non venisse inasprito il
trattamento di Bernabò, e frate Leonardo del pari, a cui solo stava a
cuore la di lui eterna salute, gli si fecero incontro per rattemprarne
lo spirito esaltato, e Donnina gli disse: «Volesse il Cielo, che ai
nostri amici di Milano avesse conceduto San Giorgio la sua lancia e il
suo cavallo, che a quest’ora non sarebbevi più dentro le otto porte un
solo dei militi del conte di Virtù nè de’ suoi Francesi! E potrebbe
anch’essere vero quanto si va dicendo degli armati, che questa notte
furono veduti tentare di sorprendere questo castello; io però credo
esser questo null’altro che ciance de’ soldati, sparse fors’anco ad
arte dai capitani, per tenerli in maggior vigilanza, o per trarre il
vostro generoso e ardito cuore a qualche movimento, che riferito a
Giovan Galeazzo aumenti verso di voi e di noi tutti l’odio ed i suoi
scellerati disegni. Ond’io scongiuro voi ed i vostri valorosi figli
per l’istessa vostra salute a nulla operare nè dimostrare che vaglia ad
infondere sospetti in chi ci tiene qui rinchiusi, perchè non abbia la
loro mano ad aggravarsi sopra di noi: e pregovi attendiate con pazienza
la fine di questi mali, che se così piacerà alla Vergine sacrosanta,
non saranno, siccom’io spero, di una lunga durata.» Frate Leonardo
stava per avvalorare colle sue le parole di Donnina, ma Bernabò vibrò
ad ambedue uno sguardo feroce, talquale e’ soleva allorachè minacciava
un tremendo gastigo.

«Voi, Marchesa (le disse), dovreste arrossire di consigliare in tal
guisa una vile soggezione ad uomini che sino dalla infanzia trattarono
le armi, e combatterono tante battaglie. Io non presto fede alcuna
a’ rumori che si spandono; penso solo che grandi signori d’Italia e
stranieri ebbero le mie figliuole e le loro ricche doti, che molti
principi vanno a me legati di sangue, ed in Milano istessa lasciai
de’ miei figli, e assai cavalieri che io ho creati nobili e doviziosi.
Antonio della Scala, nipote della mia Regina, ed or signore a Verona,
odia mortalmente Giovan Galeazzo; i Bresciani sono per me, e il ponte
di Cassano non è difeso. Qual meraviglia che mille de’ suoi cavalieri
fossero poco lungi da queste mura? Io m’ho perduto i miei castelli,
i miei boschi, i miei palazzi: uso a vincere i miei nemici, guidando
tanti soldati e prodi guerrieri, venni a tradimento, e da un ipocrita
malvagio serrato in questo forte, e forse già pensa chiudermi nelle sue
torri di Pavia a far la tormentosa quaresima. Perchè dunque tremerò nel
tentar di sottrarmivi? temerò l’esporre questo capo e questo petto,
invecchiati sotto il ferro, alle spade de’ militi di Galeazzo? È men
dolorosa una lancia nel cuore, che questo maladetto carcere, e questi
volti abborriti che comandano a chi non fu mai suggetto che a Dio.»

Placato l’animo con questo sfogo del suo sdegno, si rivolse a frate
Leonardo, che lo guardava con occhio pietoso, addolorato che sì profani
pensieri fossero rientrati nel cuore di lui, dopo che avea protestato
nella chiesa a’ suoi piedi di non nutrire altra speranza che quella
del celeste perdono; ed a lui disse: «Molti gravi peccati, o Eremita,
stanno sull’anima mia, ed io dovrei benedire la mano che mi percuote;
ma pure penso che il Nostro Salvatore avrà misericordia di me: perchè
se ho comandato punizioni di tormenti e di morte, fu il più delle volte
per vendicare il sangue de’ poveri e deboli suggetti, da prepotenti
signori con assassinii versato, e non ho sprezzato la giustizia quando
lo spirito maligno non acciecavami la mente con violente passioni. Ho
soccorso i carcerati della Mala Stalla, ordinando lor si recasse il
pane giornaliero; ho arricchite le chiese ed ordinati molti divini
uffizii. Concederà ella dunque la Vergine che io stia nelle mani
abbominevoli di chi l’ha codardamente sprezzata?» Troncò il parlare
di Bernabò, e in grave agitazione pose tutti gli animi l’annunzio
della venuta colà di Gasparo Visconti; il quale, come soleva ogni
giorno, recavasi a visitare il prigioniero, ed in modi cortesi, sebbene
poco accetti, esibissi a soddisfarlo in qualunque cosa gli piacesse,
soggiungendo così avergli imposto Giovan Galeazzo. Dai prigionieri,
nè dal Visconti, nulla si accennò intorno alle notizie che si erano
sparse; se non che si serbò un contegno grave più dell’usato per la
speranza di vendetta nell’animo degli uni, e per sospetto di esterne
intelligenze nel cuore dell’altro. Bernabò, invelenita l’anima dalla
presenza di quel capitano d’armi, in cui balía si ritrovava, tosto si
ritrasse alle proprie stanze, seguito da Donnina e dall’eremita.

In questo frattempo le idee ed i sentimenti che si succedevano nella
mente di Ginevra erano affatto opposti a quelli che colà si svolgeano.
L’influenza delle avversità, della rozzezza dei tempi che teneva
desto il sentimento del maraviglioso e più viva la concentrazione e
l’entusiasmo delle passioni, congiunta ad una squisita sensibilità ed
una viva tenerezza di affetto, aveano composto l’anima di Ginevra ad
un sentimento sublime d’amore, il quale dispiegossi in lei altamente
alloraquando conobbe il giovinetto Palamede de’ Bianchi, la cui
leggiadria e prodezza lo rendeano stimato fra i più compiti cavalieri
che vestissero armatura. Questi due amanti dovevano tosto andar
congiunti coi nodi nuziali, siccome avea promesso lo stesso Bernabò
allorchè li ebbe fidanzati, attendendo il ritorno di Palamede quando
si fosse procacciata fama e scienza nell’armi, esercitandosi fra i
guerreggianti a capitanare soldati. Ma avvenuto il disastroso mutamento
di fortuna per questo principe, mentre il cavaliere era lontano,
Donnina non volle abbandonare la figlia in potere di Giovan Galeazzo,
dal quale potea ricevere onte e maltrattamenti: amò meglio, come le
venne conceduto, di tenerla presso di sè, conducendola nel castello di
Trezzo, ove venne con Bernabò rinchiusa.

Immensa si fu e inesprimibile la desolazione che angosciò il cuore
di quella innamorata fanciulla, cui la lontananza del cavaliero, il
proprio rinchiudimento in un castello gelosamente difeso da tanti
armati, l’odio che ella credette nutrir dovesse il conte di Virtù
contro il cavaliero stesso, facevanla disperare non solo di possederlo
giammai, ma nè pure di vederlo ancora una sola volta. Quanto straziante
era stato quel dolore, altrettanto si fu viva la speranza che le destò
l’aríolo, il quale detto le avea di condurle innanzi l’amante, per il
che gli si fe’ ardente sopra ogni dire il trasporto di rivederlo. Ed
appena ebbe posato su di lui lo sguardo, benchè per un istante, più
non tremò per la sua vita, chè fra i combattimenti poteva esserle ad
ogni momento rapita: sapea che egli le era vicino, e a questo solo
pensiero, come se la luce divenuta più viva e il cielo reso più sereno
avessero dissipate spaventose tenebre, tutto si era fatto ridente a lei
dintorno.

Ella teneva fra le mani quel nastro e quel foglio scritto col sangue
di Palamede, che le aveva recato l’aríolo; ed ora il premea sul cuore,
or sulle labbra, e nella piena della sua gioia si prostrava innanzi
ad una imagine della Vergine, che stava nella sua camera dipinta,
e la ringraziava con un sentimento il più vivo di riconoscenza, da
lei ripetendo l’adempimento di quel suo ardentissimo voto. Invocava
poi ch’ella le rischiarasse la mente, quando letto lo scritto di
Palamede, dopo averne a prima giunta assecondata colla imaginazione la
richiesta, nacquele vivo contrasto e tema di darvi esecuzione; poichè,
sebbene s’applaudisse dell’amore che per lui sentiva, essendogli stata
solennemente fidanzata, nè per la innocenza de’ suoi pensieri, e la
riservatezza divota che negli atti e nelle parole avea sempre seco
lei usato Palamede, ombra di colpa ravvisasse in un colloquio da sola
con lui, pure l’idea di sottrarsi nascostamente a Geltrude, e venir di
notte per anditi sconosciuti nella cappella dei morti onde parlargli,
le infondeva nell’animo un palpito che aumentava la sua naturale
timidità.

Nella tenzone de’ suoi affetti, dopo aver ricorso alla Vergine, ella
rivolgeva il pensiero all’aríolo, confidando nella di lui sapienza per
avere una retta guida in questa circostanza da lui stesso preparata;
quando appunto lo vide entrare cautamente nella propria stanza, ove
approfittando della di lei sorpresa, assunto un far grave, e voce
repressa e interrotta, le disse che il suo amante sarebbe stato
inevitabilmente dalle guardie del castello condotto a mal fine.
Atterrita Ginevra gli dimandò in qual modo si fosse scoperta la venuta
del cavaliero sotto il di lei verone, e se corresse pericolo che egli
venisse sorpreso. «I demonii (riprese l’aríolo) sono entrati in corpo
degli uomini d’arme e del loro capitano: questi fan loro immaginare di
vedere fuoco, spiriti, nemici intorno alle mura, e pare che l’inferno
s’abbia a scatenare per venir costà. Duplicarono le sentinelle sugli
spaldi e presso le porte, e dall’alto delle torri, due soldati posti
in vedetta debbono render conto per sino delle cornacchie e degli
sparvieri che vedranno levarsi a volo da tutti i boschi dintorno.
Temono che i Milanesi vengano a prendersi Bernabò. Guai se un guerriero
si accostasse un tiro d’arco o di pietra a questi baluardi! avesse
egli l’acciaio della armatura incantato con cento spergiuri e segni
diabolici, verrebbe d’un subito traforato e schiacciato come debile
insetto. — O santa Vergine (esclamò Ginevra cui tutta invase un
terrore profondo), chi salverà Palamede? Chi lo terrà lontano da questa
castello in cui esso tenterà forse questa stessa notte di penetrare?
Deh per pietà, corri, vola, trovalo: fa colle tue arti che egli non
s’accosti a queste mura; digli che si allontani rapidamente, che l’ira
del conte di Virtù contra di noi si calmerà; digli infine che io invoco
con tutto il fervore ogni giorno dal cielo la nostra unione, ed ho
ferma speranza che i nostri voti saranno esauditi.»

Stupì grandemente l’aríolo a queste parole: «E come sapete voi (le
disse con passione) che Palamede tenterà questa notte di qui penetrare,
ed in qual guisa porlo ad effetto? — In qual modo, l’ignoro (soggiunse
Ginevra); ma che egli debba trovarsi nella vicina notte in questo
castello, lo ha scritto egli stesso in questo foglio, che tu mi hai
recato.» Prese tosto l’aríolo quel foglio, e rapidamente leggendolo,
non poca si fu la sua maraviglia nel ritrovare ivi descritti
esattamente gli anditi e le camere che conducevano dalle stanze di
Ginevra alla chiesa e nella cappella dei morti. Non sì tosto ebbe
letto quel foglio, che bene scoprì la causa per cui il cavaliero si era
ritirato nel bosco coi ladri, e non esitò a credere che uno di costoro
gli doveva servire di guida in sì fatta impresa. Ignorando però egli
affatto che esistesse un sotterraneo il quale dall’Adda conducesse
alla cappella, altri non conoscendone che quello antico per la torre
nera di Barbarossa, mal sapeva concepire in qual maniera il cavaliero
sarebbe colà pervenuto. Meditando però fra sè, e richiamandosi alcuni
racconti per lui intesi di rumori uditisi per quelle parti, non che
di gente scomparsa da luoghi ignoti, nacquegli sospetto che ivi pur
anco esistesse sotterranea via per la quale di certo avea Palamede
divisato di penetrare in castello. Se le voci sparsesi quella mattina
e la raddoppiata vigilanza nelle guardie non lo avessero intimorito di
qualche danno, egli non avrebbe esitato a secondare questo tentativo
premeditato dal cavaliere, che potea ridonar pace a quella fanciulla,
per la quale un po’ di vanità e una segreta simpatía che le avea
ispirato in veggendola, lo aveano mosso a vivamente interessarsi. Ma
riflettendo alla gelosia con cui era il castello difeso, pensò essere
più vantaggioso per lui e per quelli amanti il dissuaderli da tale
disegno; e quindi rivolto a Ginevra: «Signora (le disse), se le mie
arti bastassero ad addormentare tutti questi soldati, o a renderli
di sasso per una notte intera, mi adoprerei con tutto l’impegno per
farlo, affinchè voi possiate liberamente trattenervi con Palamede; ma
ciò è a me impossibile, ed a lui pericoloso, mentre nessun vivente
potrebbe approssimarsi impunito a queste mura. Ubbidirò quindi a’
vostri cenni, ed andrò ad avvertirlo, perchè rapidamente si allontani
da questi luoghi. — Prendi (rispose Ginevra staccandosi il fermaglio
d’oro a forma di croce greca, contornato di perle e gemme, col quale
rannodavasi al petto un nastro trapunto d’argento, che servendogli di
cintura ricadea colle estremità lungo la veste; e raggruppatosi intorno
il nastro, consegnò il fermaglio ad Enzel): Prendi (proseguì) questa
croce che mi donò mia zia Matilde, quando io era fanciulletta, nel suo
convento di Sant’Agnese, e che sempre ho portata sovra di me perchè
possiede una mirabile virtù: consegnala a Palamede, e digli che quando
vedrà queste perle annerirsi, ed impallidire i diamanti, s’abbia per
certo ch’io mi muoio. Preghi egli allora il Signore onde mi raccolga
in pace là dove io lo starò attendendo; ma lo assecura che sin che
dureranno candidissime le perle, e lucenti i diamanti, serberassi del
pari intatto nel mio animo l’amore ardentissimo che per lui nutro, e la
brama irresistibile di esser sua per sempre.»

Tosto che la fanciulla ebbe pronunciate queste parole, ed Enzel,
riposto per entro i panni quel prezioso fermaglio, si disponeva a
partire, udissi un veloce mutar di pedate di persona che si appressava
a quella stanza. Presi ambedue da instantaneo timore, mal sapendo chi
si fosse, si racquetarono in veggendo Gabriella, la quale entrando
precipitosa colà si volse all’aríolo e: «Presto (tutta ansante gridò)
spiega, metti in campo tutte le tue arti, i tuoi poteri; chiama gli
spirti, le nubi che ti portino lontano mille miglia, perchè se non
voli come un falco, o non ti profondi come una vipera sotto terra,
non ti rimangono tre minuti di vita.» Il viso dell’aríolo a queste
parole divenne cinericcio pel pallore, ed i suoi occhi, fattisi
protuberanti, girarono spaventati intorno, e con voce tremante disse:
«Perchè mai una tal cosa? Che è egli avvenuto? — E tu, che tutto sai,
lo ignori? (riprese con maraviglia Gabriella). Non sai tu dunque che
Tignacca, caporale di lancia, il quale conduceva la scolta alla guardia
del ponte, ha detto di averti veduto entrare nella torre nera di
Barbarossa, ed uscirne al momento dell’apparizione dei demonii, intorno
alle mura, e che dopo attraversato il parco sei entrato nel gran
cortile del castello? e non sai che per questo ed altre voci che si
sparsero delle tue arti, i soldati credono che tu con sortilegi e magia
evocasti in questo luogo gli spiriti infernali per liberare Bernabò;
e per tal motivo frugano per tutti i nascondigli del castello onde
ritrovarti, ed hanno già preparata un’ampia catasta di vecchie legna
nel parco per gettarti ad arrostire, onde vedere tutti i diavoli uscire
dalla tua bocca. E buon per te che fosti in queste camere, mentre non
vennero qui pel rispetto che fu loro imposto per queste fanciulle; ma
da un istante all’altro alcuno de’ più arditi potrebbe salire quassù,
perchè ti stanno sulla traccia con tutta la foga. E tu ignoravi questo
imminente pericolo? Vola, ti dico, celati rapidamente, chè non hai un
momento da perdere.»

Il coraggio, che l’aríolo aveva affatto perduto quando intese che il
parco era guardato dai soldati, riuscendogli in tal modo impossibile
lo uscire pel sotterraneo della torre, ritornò in lui colla usata
freddezza di spirito e ardimento ne’ perigli, quando il suo sguardo
cadde sulla lettera di Palamede che stava sopra una tavola innanzi a
Ginevra: il suo volto si ricompose, cessò il tremito delle sue membra,
si allacciò più strettamente una cintura di pelle intorno alla persona;
e mentre fuori si udiva Geltrude in alterco con uomini di voce aspra e
minacciosa, ed il gridar con ispavento di Damigella, Enzel promise a
Ginevra, la quale era quasi dal terrore tramortita, che si sarebbero
riveduti; assicuratosi in fronte il cappello, spalancò le imposte di
una finestra che da quella camera mirava in un corridoio, e attaccatosi
colla destra alla colonnetta che dividevala in due archi acuti,
spiccato un salto, l’attraversò allontanandosi a rapidi e leggieri
passi.

Mentre tali cose avvenivano nel castello di Trezzo, nell’asilo de’
ladri dentro al bosco componevasi un nero tradimento, che doveva
costar la vita a Palamede. Aldobrado, a cui il mal esito del progetto
di penetrar nel castello aveagli tolta ogni speranza di compire uno
scellerato disegno contro il cavaliere, che s’avea nutrito sino dal
primo istante che a lui suggerì quell’impresa, meditò in suo segreto
un altro mezzo onde riuscire egualmente a quello scopo. Abituato ai
delitti ed alle uccisioni che commetteva impunemente qual sicario
di Bernabò, la rea anima di costui determinavasi ad un assassinio,
benchè minimo fosse l’interesse che gliene poteva scaturire. Profugo
da Milano, ove avrebbe pagato il fio di tanti misfatti, travisatosi
in abito fratesco, egli s’era proposto di vagare in cerca di qualche
forte truppa di banditi, per farsi con loro ad assalire e depredare
villaggi e baronie. L’oro e gli osceni piaceri ch’egli si gustava anche
con mani fumanti di sangue, costituivano i soli diletti di Aldobrado,
il quale in pochi anni era stato carnefice, spia di guerra, soldato
e cortigiano quando scontrò Palamede nell’isola di Mandellone, e
rilevò come questi avesse con sè molti fiorini d’oro, gli vide una
ricca armatura, ed intese che ad ogni costo volea favellare alla
bella prigioniera del forte di Trezzo, egli pensò tosto alla strada
sotterranea che conduceva alla cappella dei morti nella chiesa del
castello, e suggerigli i mezzi di penetrarvi, non già per favorire ai
desiderii del cavaliere, ma perchè in quella via tenebrosa e segreta,
piena di rivolte e di perigli, e nota esattamente a lui solo, poteva
agevolmente impossessarsi e dell’amante e dell’oro di Palamede, che
con un colpo del proprio stilo trafiggeva, e quivi lasciava celato. A
questo fine, trovandosi da solo nella tana del cervo col Brescianino,
mentre Palamede passeggiava pel bosco, e il Tencio e il Carbonaio erano
usciti, aveva tentato di guadagnarlo a sè, e facilmente ne venne a capo
colla promessa di molto oro, e di condurlo seco in lontani paesi. A
questi però non isvolse la trama che avea disposto; gli impose soltanto
che entrando nel sotterraneo del castello non gli si scostasse giammai
dal fianco, e stesse pronto ad eseguire alla cieca e arditamente ciò
che gli avrebbe ordinato, badando principalmente che se gli avesse
affidato una donna, le impedisse, per qualunque causa si fosse,
emissioni di grida, turandole, se occorreva, la bocca co’ proprii lini.

Ito a vuoto un tale disegno per causa che il Tencio non potè far
pervenire nel castello il foglio di Palamede, e questi stabilì
irremovibilmente di partire da quel bosco al mattino seguente,
Aldobrado, cui sempre ardeva il desiderio dell’oro del cavaliero, non
depose il pensiero di rapirglielo. Quando sul far della sera Palamede
uscì dalla fontana sotto terra, onde passar la notte nel tempio, pensò
di lasciarlo addormentare, e silenziosamente sbucare dal sotterraneo,
e ovunque si trovasse, assalirlo e spogliarlo. Infatti lasciò si
avanzasse la notte, e già stava per eseguire tale progetto, allorchè
intese nel tempio un lieve rumore di pedate: stette cheto credendo si
fosse Palamede risvegliato; ma all’incontro era Enzel, sconosciuto al
cavaliere, il quale colà era venuto per condurlo sotto il verone di
Ginevra. Udì quel traditore l’uscir che fece il cavaliere dal tempio,
ma pensò fosse causa l’interna agitazione che nol lasciava riposare,
e non disperò che sarebbesi racquetato. Infatti dopo molto tempo, non
ascoltando più moto alcuno, uscì chetissimamente dalla tana, ma non lo
scorgendo nel tempio, venne all’incerto lume di luna nel bosco, e qual
fu la sua meraviglia in vederlo avanzarsi fra le piante colla fiaccola
nella destra! Palamede appena lo vide, ebbro di gioia pel canto e per
la vista dell’amata fanciulla, tutto a lui narrò, dello sconosciuto
che lo aveva destato e condotto al castello, e del cantar di Ginevra, e
del foglio a lei mandato, e di ciò che lo sconosciuto gli aveva detto,
cioè di non partirsi di colà sino a che non lo avesse riveduto. Questo
intervento di uno sconosciuto andò per nulla a sangue ad Aldobrado, che
temeva potesse attraversare i suoi perfidi disegni. Quindi fingendosi
lietissimo di questa avventura, rallegrossene con Palamede; ma in
suo cuore pensò di ucciderlo al primo momento che all’uopo gli si
presentasse. Intanto i ladri, udendo rumore, osservarono dagli spiatoi;
e non vedendo che i loro ospiti, uscirono tosto dalla fontana. Palamede
allora disse che avrebbe quel giorno sicuramente dimorato ancora con
essi; e per ciò quando spuntò il mattino, il Tencio e il Carbonaio
se ne partirono per recarsi ne’ vicini contadi a procurarsi le
provvigioni. Aldobrado e Palamede si trattennero lunga pezza ragionando
con maraviglia del chi potesse essere quella ignota persona comparsa
con tanto mistero in quel luogo, e come mai fosse consapevole de’ di
lui amori con Ginevra, e in qual modo tenesse seco lei relazione,
serrata siccom’era in un castello sì custodito. Dopo avere a lungo
favellato, Aldobrado domandò a Palamede se il corsaletto d’acciaio
che vestiva non gli dasse noia pel caldo ardente che il sole già alto
spandeva intorno. Il cavaliere rispose che sì; e disse di volersene
spogliare, poichè sembravagli inutile tale arnese in sito tanto remoto.
Aldobrado, a tale risposta, si offerse tosto a sfibbiargli le piastre
delle reni; ma Palamede, che era uso addossarlo e levarlo sempre da
sè, non glielo permise; e solo il pregò gli slacciasse dagli spallacci
i bracciali: per cui dovendogli Aldobrado rimanere sempre da lato,
gli fu impossible eseguire il suo reo disegno; oltre che il cavaliere
proseguiva a ragionare cogli occhi ver lui rivolti: il che non sarebbe
avvenuto standogli alle reni, dove appena slacciato il corsaletto
poteva inosservato, siccom’era suo pensiere, trarre il pugnale e
infiggerglielo nella nuca o nella schiena.

Più cupida e più ostinata fece in quel traditore la smania di togliere
al cavaliere la vita e la fallita speranza del colpo in quel momento,
e il vedere fra i lini sul petto di lui una collana di smeraldi
e crisoliti, a cui certamente stava unita qualche santa reliquia,
e la cintura di pelle che correvagli intorno a’ fianchi, ch’ei si
pensò, come era difatti, carca di molt’oro. Aggravasi quindi a lui
dintorno intento, inquieto, spiandone i movimenti come un lupo alla
preda; ma siccome Palamede si era ricinta la spada, non si azzardava
di scagliarsegli addosso, persuaso che se il colpo mancava, egli
era morto. Ma in quel mentre tutto allegrossi lo scellerato avendo
udito dal cavaliere ch’egli bramava colà riposare all’ombra di quelle
piante, poichè sentivasi assalito da un sonno prepotente; ed infatti
ricolto il corsaletto, se lo acconciò per guanciale, e adagiossi.
Affinchè nella perfetta solitudine più celeremente e con più agio
egli si addormentasse, pensò Aldobrado di ritrarsi, ed attendere col
Brescianino, il quale stava entro il sotterraneo disponendo qualche
refezione, e di cui avrebbe abbisognato allo svegliarsi del cavaliere.

Disceso nella fontana, si assise sul masso a piè del quale era
sepolto Guandaleone; e fissando in volto il Brescianino, che stava
arrotando sull’orlo della vasca della fontana il suo stocco, volse
nel pensiero il dubbio se avesse o no ad associarlo nel fatto che
era per commettere: e si risolvette di farlo, perchè questi poteva
accorgersene, mentre egli lo eseguiva, e sturbarnelo; e perchè di tal
guisa avrebbe avuto un compagno di cui giovarsi in avvenire, e che era
in sua balía il togliersi d’intorno quando il volesse. Appena concepito
tale divisamento, si alzò, prese al ladro una mano, e stringendola
gli disse: «Brescianino, la tua sorte è fatta: tu puoi essere ricco
quanto un castellano, e non temer più nè sgherri nè ruota. E ciò con
far null’altro che trapassare con quello stocco la gola ad un uomo
che dorme. — E chi sarà costui? (rispose sorpreso da tale proposta il
Brescianino) — È quel cavaliere (proseguì Aldobrado) che venne con
noi dall’isola di Mandellone; egli è stato questa notte al Castello
di Trezzo, ed attende qui alcune persone, sicuramente per tradirci e
farci prendere ed appiccare. Egli ha sopra di sè molti danari; ed è il
più bel colpo che tu possa fare, e di cui ti avanza tutta la vita onde
pentirtene, racquistandoti il cielo. Andiamcene, egli è addormentato
sul limitare del bosco fuori di questa tana: non incontreremo alcun
pericolo nell’assalirlo.»

Detto questo, Aldobrado colla mano sull’impugnatura dello stilo,
il Brescianino brandendo lo stocco, salirono queti queti i gradini
della scala del sotterraneo: venuti nel tempio, Aldobrado si
affacciò cautamente alla porta, e vide Palamede che giaceva sotto le
piante immerso in profondo sonno; lo additò al Brescianino: quindi
assicuratosi, porgendo orecchio, che realmente il suo sonno era greve,
s’avanzarono verso di lui a passi lenti e dubbiosi, soffermandosi ad
ogn’istante: sino a che giuntigli sopra, Aldobrado, tratto il pugnale,
glielo appuntò al cuore, e il Brescianino lo stocco alla gola, quando
una voce improvvisa e stridente dal bosco gridò: «Svégliati, svégliati,
Palamede!»

Indietreggiarono un passo a tal voce improvvisa; e Palamede,
sull’istante risvegliato, mirando intorno a sè que’ due colle armi,
balzò d’un salto in piedi ponendo mano alla spada. Il Brescianino, che
gli era più da presso, e che teneva lo stocco ancora a lui rivolto,
pensando, se tardava a fuggire o difendersi, essere perduto, gli si
slanciò alla vita, vibrandogli la punta al petto; ma nol colpì che nel
braccio sinistro, con cui sosteneva la guaina della spada; colla quale
tosto cacciatoglisi contro ne ribattè due colpi, ed al terzo gliela
conficcò nel petto trabalzandolo a terra insanguinato. Aldobrado,
al rapido rialzarsi di Palamede, si era velocemente ritratto dietro
un albero, onde la persona che avea gridato nol sorprendesse; ma non
iscorgendo alcuno, e vedendo il Brescianino alle prese col cavaliero,
slanciossi egli pure contro di esso per ferirlo da un fianco; e se un
momento di più durava la zuffa col ladro, Palamede veniva trafitto;
ma invece ei menò tosto un fendente ad Aldobrado, gridandogli: «Vile
assassino, pagherai colla vita il tradimento.» Ma Aldobrado si schermì
d’un salto; e gettatosi nel bosco, sparve fuggendo a tutto corso.

Palamede non l’inseguì; ma si arrestò trasognato per quell’inatteso
avvenimento, e mirava al suo braccio ferito che grondava, e al ladro
che boccheggiava spirando steso al suolo, immerso nel proprio sangue.
Risuonavagli tuttora all’orecchio quella voce che desto lo aveva,
e voce parevagli non ignota; mal però valeva a concepire quale di
tutto ciò fosse stata la causa. Ad un tratto, uscendo dal bosco, si
appresentò a lui un uomo che tosto dal volto e dai panni riconobbe
per quello stesso che gli era apparso nella notte; e si accorse che
la voce che avea gridato era appunto quella di costui. Era infatti
Enzel l’aríolo, il quale sfuggito dal castello pel sotterraneo della
cappella de’ morti alla ricerca dei soldati, si era cacciato nel
bosco per venire in traccia di lui, siccome avea promesso a Ginevra;
ed era giunto a veduta di Palamede, nel momento che questi stava per
cader vittima degli scellerati. Siccome non teneva armi di sorta,
osato non aveva di uscire all’aperto per difenderlo, per non essere
anch’egli ucciso se il cavaliere succombeva. Palamede, a lui rivolto,
disse: «Chiunque tu sii, che certo mi sembri inviato da un mio santo
protettore, io a te debbo la vita: dimmi quindi se ho a venerarti come
un amico dei celesti, o premiarti con oro, o cosa io debba fare perte;
ma spiegami, te ne scongiuro, come tu mai avesti di me conoscenza e di
Ginevra, e per qual motivo volevano costui, che ho ucciso, ed Aldobrado
togliermi la vita, e in qual modo tu mi hai salvato.»

«Cavaliero (rispose l’aríolo), ora non è tempo da dirvi tutte queste
cose; pensate a riparare la ferita del vostro braccio, ed a partire
tosto da questi malaugurati luoghi, ricovero di assassini; ritornate
all’isola di Mandellone, riprendete il vostro cavallo, ed avviatevi
alla volta di Milano, ove io verrò seco voi, e vi narrerò cose che
vi riusciranno di sommo aggradimento.» E in così dire, accostatosi a
Palamede, gli fasciò il braccio con una benda che tolse d’addosso al
Brescianino che era già affatto morto; si armò collo stocco di questo;
e addossatosi il corsaletto d’acciaio che Palamede a causa della ferita
non potea rivestire, si pose frettolosamente sul sentiero che guidava
alla strada di Concesa.



CAPITOLO VI.

    Indi partimmo, e senza più riposo
      Lambro passammo per trovar Milano;
      Nè non ne fue per lo cammino ascoso
      Veder Cassano, Monza e Marignano.
      . . . . . . . . . . . . . .
    Dimmi, diss’io, per cui si apre e serra
      Questa città che vive sì felice
      Con fede, con giustizia e senza guerra.
                  FAZIO, _Dittamondo_.


«Chi non cangerebbe il convito del più fastoso principe d’Italia con
questo insipido pezzo di lepre, per avere il piacere, mangiando, di
fissare lo sguardo ne’ due occhi più belli che il signore abbia infissi
sotto la candida fronte d’una sua creatura?» Così, divorandosi il
fianco d’un leprotto abbrustolito sulle bragie, favellava lo scudiero
di Palamede alla bella figlia di Mandellone, che stava ritta innanzi
alla pietra che a lui serviva di desco. Egli aveva astutamente voluto
farsi disporre il pranzo sul margine dell’isola, all’ombra d’un gruppo
di piante, ond’essere discosto dall’ostiere, che, occupato in altre
faccende, era costretto mandare la figlia a recargli quelle poche
mal condite vivande che gli apprestava; e lo scudiero approfittava di
questi momenti per amoreggiar con Maria, ch’era essa pure innamorata
di lui, e sulla quale in ogni altro istante il sospettoso Mandellone
invigilava gelosamente. «T’avvicina, bella Maria (proseguiva lo
scudiero, prendendole una mano, mentre ella tutta arrossendo a lui
s’accostava), riempi tu stessa questa tazza di vino: poichè io ho
giurato di non beverne una goccia, fossi anche sulle sabbie della
Palestina, se tu prima non ne assorbi un sorso con que’ tuoi labbruzzi
più rossi del sangue di tutti i guerrieri che io ho ammazzati.»

Maria s’accostò, sorridendo, quella tazza alla bocca; e resala allo
scudiere, questi se la tracannò d’un fiato. «Eh, che vernaccia! che
vin greco! (esclamò). Qui, qui dentro stanno tutti i sapori. Ah! Maria,
la tua bocca ha trasfuso in quel vino il fuoco o il veleno. Per pietà
siedi qui su questo sasso vicino a me; sta preparata a soccorrermi,
perchè io sento un ardore circolarmi per le vene che tutto m’abbrucia.»
La semplice Maria, dal timore, dall’ansia amorosa, dall’agitazione,
dalla forza delle braccia di lui fu costretta a sedersi; allora lo
scudiero serrando ambedue le mani di lei fra le sue: «Tu non sai
(le disse) quante dame e principesse, le più ricche e belle donne
del mondo, hanno sospirato per me; ma io sempre resistetti alle loro
attrattive. Tu, tu sola, o Maria, con que’ tuoi occhi vivissimi, che mi
han penetrato il fondo del cuore, mi hai vinto, ed acceso di un fuoco
violento a cui non posso resistere. Io voglio farmi tuo cavaliere,
condurti nelle più grandi città, darti palazzi, ricchezze, tutto
ciò che potrai desiderare; ma....» Gli occhi di lui sfavillanti, il
rosseggiare delle sue guancie, il moto inquieto della sua persona e
delle sue braccia misero gran paura a Maria; che, rialzatasi, faceva
forza per divincolarsi da lui; e la lotta ineguale sarebbe durata a
lungo se un fischio che s’intese dalla sponda dell’Adda, facendo venire
Mandellone a quella volta, non vi avesse posto fine. Lo scudiero lasciò
Maria, che fuggì verso la capanna, ed ei si recò indispettito verso
la riva onde vedere chi fosse che sì a contrattempo per lui veniva a
passare il fiume.

Agli atti replicati di rispetto che faceva Mandellone, alla diligenza
con cui accostò alla sponda la zattera, e porse mano al passeggiero a
salirvi, lo scudiero riconobbe in questo il suo signore; e nell’altro
che lo seguiva, quell’aríolo con cui aveva il giorno avanti ragionato:
corse perciò anch’esso al luogo dello sbarco a riceverli, mostrando
tutta la premura e il contento di rivedere il cavaliere. Appena questo
fu a terra, gli chiese dove fosse il suo cavallo; e lo scudiero
rispondendogli ch’era dall’altro lato dell’isola che stava col suo
proprio pascolando, gli impose di condurli tosto presso la capanna per
sellarli e porli in arnese onde partire immediatamente.

L’oste gli aveva preceduti, e stava affaccendato chiamando Trado e
Maria, comandando loro ad alta voce che disponessero deschi, tondi,
tazze per servire il cavaliero; ma questi, sopraggiunto coll’aríolo,
disse che null’altro gli abbisognava fuorchè un vaso di fresca acqua,
e pregò Maria gli arrecasse de’ lini ed un nastro; sedutosi poscia
sopra un sasso, sentendosi gravemente addolorato il braccio a causa
della ferita, ch’era profonda, se lo dispogliò dei panni. L’oste e la
figlia, che gli si fecero dintorno, mentre Enzel era andato in cerca
di erbe, rimasero attoniti allo scorgere il suo braccio ravvolto in una
benda tutta intrisa di sangue. Mandellone, cui aveva recato sorpresa la
mutata compagnia con che vide ritornare il cavaliero, pensò a quella
vista, ed all’abbattimento che scorse a lui in volto, che loro fosse
accaduta qualche mala ventura; ma nulla nè chiese, nè disse; e porse
mano a Maria, che lo veniva con gran cautela sfasciando. Tramandava
la piaga nuovo sangue ancora su quello che le stava intorno aggrumato:
essi gliela lavarono; e allorchè fu ripulita, ritornò Enzel recando un
fascetto di erbe e fiori, fra cui ne scelse alcuni, che tritò, pose
in un vaso, e pestili a gran forza, ne versò poscia il succo a varie
gocce nella ferita; quindi vi sovrappose altre erbe fresche; e ravvolto
entro bianco lino il braccio, glielo cinse d’un nastro. Subito dopo
questa medicazione, fosse la freschezza dell’acqua con cui fu lavata
la ferita, o qualche naturale virtù delle erbe, Palamede disse di
non provare quasi più dolore alcuno, per cui potè rivestire gli abiti
che indossava la prima volta che venne nell’isola; e quell’immediato
giovamento ridondò a grande onore dell’aríolo, poichè si attribuì alla
di lui sapienza nella scelta delle erbe, ed al suo potere di renderle
salubri.

Avendo lo scudiero condotti colà i cavalli, loro riposti gli arcioni
e gli altri arnesi, Palamede trasse alcune monete d’oro, e le diede
a Mandellone, il quale appunto, colla speranza di riceverle, venía
porgendogli tutti i voti per la di lui prosperità e la speranza di
rivederlo; ed appena ebbe quel denaro nelle mani, facevan contrasto
visibilissimo sul suo volto la contentezza di possederlo, e
l’afflizione esagerata che forzavasi di dimostrare per la partenza e
la ferita del cavaliero. Non così Maria, i cui occhi si gonfiarono di
lagrime allorchè vide lo Scudiero avviarsi al fiume guidando a mano i
due cavalli, preceduto dal suo signore, dall’oste e dall’aríolo; quando
furono saliti sulla zattera, e che lo scudiero, fissandola, sorridendo
la salutò della mano, ella diede in uno scoppio di pianto, pel quale
tutti a lei si rivolsero, ed ella si tolse dalla sponda, nascosto il
viso nel grembiale, ritirandosi alla capanna.

Superata l’erta riva dell’Adda, Palamede e lo scudiero salirono i loro
destrieri; e l’aríolo veniva camminando dietro al cavaliero, il quale
tratteneva il cavallo, ardente di slanciarsi in corsa, ad un lento
passo, a causa che la picciola strada su cui viaggiavano, essendo al
margine dell’erta sponda del fiume, era piena di scoscendimenti. Dopo
poca via il cavaliero, bramosissimo di favellare con quell’uomo per
lui misterioso, che avevagli resi sì segnalati servigi, chiamollo al
proprio fianco, e gli chiese instantemente chi egli mai si fosse, e
in qual modo avesse conoscenza di lui e di Ginevra. «Chi io mi sia
(rispose Enzel), nulla vi gioverebbe il conoscerlo: quindi null’altro
vi dirò di me, se non che mi chiamo Enzel Petraccio l’aríolo, che
già da varii anni abitava il castello di Trezzo, d’onde non sarei
ora sloggiato se non mi fossi fitta in capo la voglia di veder
rasserenato il volto della bella Ginevra, su cui mi sembrava che
troppo ingiustamente regnasse la tristezza cagionata dalla prigionia.
Conducendo voi a questo fine sotto il di lei verone, mi posi a pericolo
d’essere arrostito come un mago alleato dell’inferno; ma mi sottrassi a
tempo dalle unghie de’ soldati, e giunsi a voi vicino nel vero momento
in cui la mia venuta vi valse la vita. Per lo che se voi mi accorderete
la vostra protezione, sono contentissimo di aver abbandonato quel
castello. — Non dubitare, o Enzel (a lui rispose Palamede): poichè
ti debbo la vita, dovessi perderla per giovarti, non mi vedrai punto
esitare; ma ora vorrei sapere, se Ginevra stessa ti appalesò qual fosse
la causa della sua tristezza, e come mai tu giungesti a scoprire che
io mi trovava entro quel bosco coi ladri. L’aríolo, a lui rispondendo,
non gli spiegò il modo vero ingegnoso con cui venne a capo di tale
scoperta; ma usando parole artificiose e stravaganti, il lasciò
sospettare ch’egli possedesse arti secrete, ma naturali, con cui senza
il soccorso di spiriti maligni conosceva gli avvenimenti ignoti; poscia
gli manifestò che Ginevra nutriva per lui un amore sempre ardentissimo;
gli narrò tutto ciò ch’ella faceva nel castello, e come veniva per
ordine del capitano rispettosamente trattata; finalmente, ripetendogli
gli ultimi discorsi ch’ella gli aveva tenuti: «Che ciò che io vi narro
sia la verità, aggiunse, e che la vostra Ginevra abbia piena fidanza
in me, ve lo provi questo gioiello maraviglioso ch’ella mi diede
ond’io a voi lo consegnassi.» E così parlando si trasse dal di sotto
dell’abito quel prezioso fermaglio che aveagli dato Ginevra, e lo porse
a Palamede. Questi lo riconobbe all’istante, perchè tante volte ne avea
vedute brillare le gemme sul petto a Ginevra, quand’ella, collocata
fra varie nobili giovanette nelle sale o ne’ tempii, attraeva i suoi
sguardi, che posando su di lei incessantemente, avevano imparato a
distinguerne i più minuti ornamenti. Mentre egli avidamente contemplava
questo prezioso dono, l’aríolo gli ridisse quel portentoso potere
di cui gli avea narrato Ginevra essere dotato: cioè di appalesare,
coll’impallidirsi delle perle e l’annerirsi de’ diamanti, il momento
della morte di chi glielo donava; e con tutta l’eloquenza gli descrisse
l’ardore col quale ella aveva pronunciata la promessa d’essergli
costante sino agli estremi della vita. Il cuore di Palamede s’intenerì
profondamente alle di lui parole, ed un trasporto d’amore trasse
sull’occhio del guerriero una stilla di pianto, che cadde su quella
croce, sacro pegno del più puro affetto.

Le ruinose mura del castello di Vaprio si appresentarono a capo della
strada; il giorno s’avanzava; e il cavaliere, riposto il gioiello, e
calmata l’agitazione soave del cuore, propose all’aríolo di salire in
groppa al cavallo dello scudiero, chè in tal modo avrebbero fatto più
rapido cammino. Ciò fece infatti l’aríolo; e messisi sulla strada di
Vaprio, che era assai più della prima restaurata, posero i cavalli a
buon trotto.

Il canale che porta il nome di Naviglio della Martesana, il quale,
uscendo dall’Adda poco al di sotto di Trezzo, corre dirittamente sino
a Groppello, indi volgendosi a ponente discende a Milano, giovando
colle abbondanti sue acque al commercio ed all’irrigazione, e che
ora s’incontra circa alla metà della strada fra Vaprio e Gorgonzola,
non era stato a que’ tempi scavato, per cui la via s’allungava fra
terreni incolti, sparsi qua e là di qualche rustico e miserabile
casolare. Arrivarono que’ viaggiatori a Gorgonzola, che loro s’indicò
da lungi colla sua bruna torre, entro cui era stato rinchiuso nel 1245
Enzo figliuolo dell’imperador Federigo, il quale, fatto prigioniero
da’ Milanesi, venne reso in cambio dell’intrepido Simon da Locarno.
Passarono quel borgo, che portava ancora in alcune devastate case i
segni della terribil lotta fra i Torriani ed i Visconti colà consumata.
Attraversata la Molgora, pervennero, dopo un bel tratto di cammino, al
Lambro, dove, pagato il pedaggio per passarne il ponte, entrarono in
Carsenzago. Ben lungi allora dal fare lieta mostra di se, siccome ora
avviene a causa degli ameni e gentili casini disposti lungo il naviglio
che lo fiancheggia, Carsenzago non era in que’ tempi che un villaggio
di rozzi abituri rusticali e di edifici cinti da grosse mura a foggia
d’altrettanti piccioli castelli, ne’ quali albergavano i ricchi del
contado.

Fermarono i cavalli que’ viatori vicino alla chiesa di quella terra
presso la canonica, che era un convento di Sant’Agostino; ed essendone
uscito un monaco, Palamede lo richiese se vi si trovasse ancora frate
Baldizone Scaccabarozzo. «Voi mi chiedete del nostro abbate (rispose il
monaco): ecco ch’egli a noi sen viene.» Balzò da sella il cavaliere, ed
accorse ad un vegeto e venerando vecchio, che era l’abbate suo zio, il
quale ver lui si avanzava; in atto umile gli prese la mano, e la baciò.
Frate Baldizone riconobbe il nipote; e pieno di gioia per il di lui
ritorno, se lo strinse affettuosamente al seno; e voleva a forza che,
riposti i cavalli, sì lui che i due che lo seguivano pernottassero nel
convento; ma Palamede insistendo di voler giungere a Milano, il frate
l’obbligò a prendere almeno un reficiamento: il che venne accettato,
con gran giubilo dello scudiero, cui dava maggior pensiero la fame
che la memoria dell’abbandonata Maria. Levati i freni ai cavalli, che
si lasciarono nel cortile del monastero a pascer l’erba, vennero gli
ospiti condotti a capo d’un lungo porticato entro una sala prossima
al refettorio, dove in un istante, per ordine dell’abbate, dai frati
serventi fu imbandita una mensa. Mentre Palamede si ristorava coi
cibi, frate Baldizone, sedutoglisi di prospetto, dopo averlo richiesto
de’ suoi viaggi e delle sue venture: «Senti, figliuol mio (gli andava
dicendo), tu ritorni in una città in cui la dimora è assai pericolosa
e per la vita temporale e per l’eterna. Per la temporale, perchè,
come avrai inteso, pel recente cambiamento di principe gli odii e le
vendette hanno ora un libero campo; e quantunque valoroso di braccio,
o potresti essere a tradimento offeso, o dal signore dello stato,
per ingiustizia, fatto prendere e mal versare; dell’eterna corri
pericolo, non già per i molti vizii che infestano quelle mura, per
la licenziosa e corrotta vita de’ signori fra cui tu abiterai, chè di
ciò ti guarderanno i riserbati e saggi tuoi costumi, ma bensì per le
massime perverse che si vanno spargendole che qual veleno sottilissimo
s’insinuano nella mente, corrompono lo spirito, e lo portano
all’eterna perdizione. Queste massime, di cui ti parlo, sono quelle
de’ Ghibellini, sacrileghi disprezzatori degli ordini del pontificato,
contro cui van cercando d’armare tutte le città d’Italia ed anche i
principi lontani. Ti guarda da loro siccome da serpi insidiosissime.»

Palamede, che era in cuor suo Ghibellino, perchè nutrito alla corte
dei Visconti, che, sempre in guerra con Roma, favorivano le parti
ad essa nemiche in Firenze, in Parma, in Bologna, e più nella loro
propria città, rispose con un cenno di capo ai consigli dello zio,
che, essendogli noto qual ardente Guelfo, non osava contraddire. «Tu
non avrai di certo sopra di te (proseguì l’abbate) un salvacondotto
di Giovan Galeazzo; e siccome fosti amico di Bernabò, io ti consiglio
a non entrare in Milano nè da Porta Renza, nè dalla Tosa, nè dalla
Nuova, specialmente avvicinandosi la sera, ma ci entrerai dalla
Pusterla Brera del Guercio[12]; ove, se t’avvenisse contrasto alcuno,
potrai farti giovare dal padre Lanfranco Guinicelli, detto il Guelfo
Bolognese, priore del colà vicino convento di San Marco del nostro
ordine degli Agostiniani. Io ti darò per lui un foglio, ed a quello
potrai aver ricorso in qualsiasi traversia, ch’egli ti gioverà co’ suoi
santi consigli e coll’oro, e troverai entro le mura del suo convento
un inviolabile asilo.» Terminate queste parole, chiamò un frate, e
gli bisbigliò qualche motto all’orecchio: questi tosto si ritrasse;
e Baldizone fece invito a Palamede di salire nella parte superiore
del convento, onde vedere e venerare la camera in cui avea dormito la
notte dei dieci maggio 1251 il papa Innocenzo quarto. Due frati li
precedettero per i schiudere e spalancare alcune massiccie porte; e
il cavaliero seguito dall’abbate entrò in una vecchia camera, assai
meno delle altre ornata, che accusava l’antica povertà del convento
a raffronto della sua allor vigente prosperità. Entro quella camera
stava un letto con grossolane cortine, e pochi altri mobili mezzo rosi
dal tarlo. I frati s’abbassarono ginocchioni, e baciarono le cortine
di quel letto e l’inginocchiatoio che gli stava a fianco, sul quale il
papa aveva fatte le sue serali e mattutine preghiere; e Palamede fu
costretto a far lo stesso. Uscendo da quella camera, l’abbate indicò
a Palamede le mura del vicino spedale da poco tempo da loro stessi
riedificato ed ingrandito. Quando furono a piè delle scale, quel
frate a cui Baldizone avea parlato, gli si presentò con una pergamena
scritta in latino, su cui l’abbate impresse il sigillo nella cera, che
a tal uopo vi stava distesa; e arrotolatala, la consegnò al cavaliero,
dicendogli essere la lettera per frate Lanfranco di San Marco. Il
cavaliero la ripose, porgendogliene vive grazie; ordinò allo scudiero
di allestire i cavalli, abbracciò lo zio; e salito in arcione, uscì,
seguito dagli altri due, dalla porta del convento.

Lasciato Carsenzago, pervennero rapidamente a Gorla, e poco dopo questo
villaggio cominciarono a discernere fra le piante alcuni campanili di
Milano. Già forte batteva a quella vista il cuore a Palamede; e tutto
l’indomabile amor di patria invadendolo, con dolcissimo palpito il
commoveva nell’imo petto: se non che sorse crudelmente ad amareggiare
quella contentezza il pensiero della lontananza di Ginevra, e l’idea
dei tanti ostacoli ed umiliazioni che dovea affrontare onde giungere
a farla sua; nè dall’ondeggiamento doloroso di timori e speranze, che
forte l’assalì, valse a distrarlo l’ampia vista che al cominciar d’una
diritta via a lui si offerse, delle torri, delle cupole, delle mura di
Milano. Immerso in tristi pensieri, là dove avea sperato non risentir
che gioia, rallentò il moto del proprio cavallo; e procedendo verso
la città, deviò sulla destra dalla strada maggiore che entrava per
Porta Renza, dirigendosi per un viottolo al sobborgo di San Marco, onde
entrare nella città dalla pusterla Brera del Guercio, come lo zio gli
aveva detto di fare.

Non era allora Milano compreso entro lo spazioso giro di mura in cui
ai nostri giorni si trova. Quest’ampia e ricca città, regina d’una
fra le più belle parti d’Italia, la Lombardia, in mezzo alle cui
feconde pianure s’innalza maestosa, era antichissimamente villaggio
degli Etruschi; andò d’età in età ampliandosi a cerchii concentrici,
ed ai nostri tempi la vediamo ciascun giorno ripulirsi dalla ruggine
de’ barbari secoli, e gareggiare colle più cospicue d’Europa per
l’eleganza delle sue vie, de’ suoi palagi, de’ templi, de’ teatri, de’
pubblici monumenti. Ammasso di capanne di pastori allorchè l’Insubria
era abitata da’ suoi primi popoli, prese Milano, siccome d’età in età
se ne sparse la storia, il nome e la forma di città, sei secoli circa
avanti l’era nostra, da una colonia di Galli Senoni, che condotti dal
loro capo Belloveso valicarono le Alpi, scacciarono gli Etruschi, e
si fecero abitatori di questa florida terra. Quattrocento anni dopo,
la Romana repubblica, che già potente dispiegava le grandi ali del
suo dominio, essendo consoli Gneo Cornelio Scipione e Marco Marcello,
vinse e s’impossessò di tutto il paese fra il Po e le Alpi, il quale
venne chiamato col nome di Gallia cisalpina. Milano allora divenne
sede d’un presidio romano. Non offrendo questa nè per coltura nè per
scienze, arti o ricchezze, attrattive a quei dominatori del mondo, non
figura nella loro storia che a causa d’un tratto di spirito di Giulio
Cesare, che dona risalto alla semplicità della vita e de’ costumi di
quei cittadini che veniano dai corrotti Romani derisi. Sebbene però
quasi pel corso di cinque secoli fosse tenuta in nessun conto, essendo
in questo tempo la Gallia cisalpina stata compresa nelle provincie
d’Italia, Milano, divenuta città romana, ebbe qualche maggior decoro;
e vuolsi fosse allora per la prima volta cinta di mura, le quali
comprendevano uno spazio assai angusto a fronte del vasto cerchio entro
cui attualmente si stende; e si può dire che la città d’allora non
fosse che il nucleo di ciò che dovea col tempo diventare. Designando i
luoghi coi nomi che presero dopo lunga età, si ha fondamento di credere
che quelle mura passassero nel sito ove ora stanno San Giovanni in
Conca, Sant’Ambrogio alla Palla, San Maurilio, le Meraviglie, la Scala,
l’Agnello, San Fedele, e di là si ricongiungessero con una linea poco
eccentrica.

L’innocenza e la bontà dei costumi degli abitanti, la semplicità del
loro vitto, delle vesti e di ogni abitudine della vita, la rozza e
semplice forma degli edifizii, de’ templi, delle mura durarono in
Milano fino a tanto che i Germani, superate le Alpi, incominciarono
nel terzo secolo dell’era a molestare colle scorrerie l’impero. I
romani imperatori, ond’essere più pronti alla difesa de’ confini che
i Barbari tentavano violare, portarono la loro sede in questa capitale
dell’Insubria, recando seco loro il lusso e la magnificenza, e fecero
di Milano una seconda Roma. Massimiano Erculeo sul finire del terzo
secolo, dopo avere abbellite Cartagine e Nicomedia, venuto in questa
città, si diede ad ornarla con opere grandiose. Fu per ordine di lui
che nuove fortissime mura, erette con grossi massi e munite di distanza
in distanza di quadrate torri, cinsero Milano con un giro assai più
vasto del primo. Nove furono le porte aperte in quelle mura; ed a
ciascuna di esse corrispondeva un quadrivio, cioè uno spazio in cui
concorrevano molte strade, un solo dei quali ritenne fino a’ dì nostri
quel nome sotto il corrotto vocabolo di Carrobbio, che sta ove aprivasi
in allora la Porta Ticinese. Le altre si erano la Porta Erculea, che
trovavasi al terminare dell’ora contrada degli Amedei; la Romana, che
era al cominciare del Corso presso la contrada della Maddalena; la
Tonsa, al finir di San Zeno; l’Argentea, detta Renza od Orientale,
al Leone; la Nuova, presso San Francesco di Paola; la Comasina, a San
Marcellino presso la contrada del Lauro; la Giovia, al terminare di San
Vicenzino; e la Vercellina, detta, come si vuole, di Venere, a Santa
Maria alla Porta. Oltre queste mura, Milano fu in que’ tempi decorata
d’un circo, d’un teatro, di varii palazzi imperiali, di molti tempii,
fra i quali magnifico era quello di Ercole fuori della Porta Ticinese,
la cui grandezza ci è ancora attestata da un avanzo delle colonne del
peristilio, che stanno presso San Lorenzo. Ebbe monumenti ed archi di
trionfo, il più celebrato de’ quali fu l’Arco Romano, che era una gran
torre quadrata sostenuta da quattro immani pilastri, ornata di trofei,
e formante una gran porta trionfale che esisteva ove ora trovasi il
Ponte di Porta Romana.

Durante tutto il quarto secolo Milano gareggiò con Roma, e la vinse in
fasto ed in potenza; ma al finire di quello s’ecclissò la gloria della
nostra città, per non risorgere che dopo una lunga serie di anni. I
destini del mondo stavano per cangiarsi. Torrenti di Barbari piombati
sul colosso dell’impero di Roma lo crollarono affatto, e immersero
l’Europa nelle guerre, nelle superstizioni, nell’ignoranza profonda.
Sola, in tanto naufragio, una nuova religione, la cristiana, prosperava
ed ergeva vittoriosa l’emblema di un divino sagrificio sugli altari
dell’abborrito politeismo. Milano accolse la nuova dottrina allorchè
essa era ancora in fiore; e l’importanza delle sue ecclesiastiche
dignità fu pari a quella delle politiche. Ai vescovi metropolitani di
Milano furono suggette tutte le città da Coira a Genova, da Brescia
a Torino. Questo potere dei vescovi milanesi salvò in varie epoche la
città dallo sterminio totale, e le ridonò un grado di splendore fra le
città italiane.

Il primo colpo funesto fu recato a Milano da Attila, che, guidando
gli Uni nel 452, assediò, vinse e pose la città a ferro e fuoco; mal
ristorata ancora da questa offesa, nel 539 fu da Uraia, condottiero de’
Goti, riconquistata; e così acerbamente, come a lui dettava l’amore
della vendetta, trattata, che più non apparve che quale ammasso
desolato di ruine. Quasi tutti i monumenti della passata grandezza
perirono sotto il gotico ferro, e appena ne rimasero i nomi.

I Longobardi, fattisi sovrani dell’alta Italia, cui diedero il loro
nome, si rifiutarono di soggiornare in una città per gran parte
distrutta; e scelta per loro sede reale Pavia, Milano venne posta
nel numero delle minori città. Cinque secoli bastarono appena per
ricomporre sugli atterrati avanzi di Milano, capitale dell’Insubria e
residenza dei romani imperatori, una città longobardica, senz’ordine
nella distribuzione, e con forma o gotica o affatto barbara negli
edifizii, con poche chiese del gusto di que’ tempi, sparsi qua e là di
spazii non riedificati, che divennero campi coltivati, detti Broli,
Brere e Pasquari. I soli vescovi, che presero titolo d’arcivescovi,
tenendo una corte cardinalizia, mantenendo con pompa la loro dignità,
che dura stabile fra il continuo cangiare del politico dominio,
divennero poco a poco quasi principi; e il popolo più a loro obbediva,
che ai duchi e ai conti che qui sedevano governatori pei Longobardi e
pei Franchi. Agli arcivescovi si deggiono molti ristauri ed erezioni
di edifizii; specialmente ad Ansperto di Biassonno cui va ascritto
l’ingrandimento della città dal lato di Porta Vercellina.

Guerre intestine ed esterne per frivole cause, ribellioni,
sottomissioni, furono i fatti dei Milanesi sino verso il mille; nella
qual epoca, sottrattisi al dominio degli Imperatori di Germania, si
eressero in repubblica, che durò sino al 1162, nel qual anno furono
vinti da Federico Primo Barbarossa, che presa la città la fece per la
terza volta distruggere, non in modo però, come fu scritto, che tutte
le chiese e gli edifizii venissero pareggiati al suolo, poichè varii
fabbriccati costruiti anteriormente a quel tempo sussistono ancora
a’ nostri giorni. Dopo replicate battaglie, stabilitasi la pace, i
Milanesi rientrarono nella loro città; e la ricostrussero, tenendola
dentro il giro di fortificazioni che aveano fatto contro Federigo, le
quali consistevano in una gran fossa ed un terrapieno, detto allora
Terraggio, che cingeva la città nella linea stessa su cui corre
attualmente il Naviglio; e così stette sinchè nel 1330 Azzone Visconti,
signore di Milano, fece dare a quel terrapieno la forma di mura, e
fece costruire massicce porte munite di ponti levatoi, di stanze per
le guardie, e di sarasinesche che pesantemente le chiudevano. Varie di
quelle porte furono atterrate a’ dì nostri per abbellire la città, ma
alcune ne esistono ancora presso i ponti del Naviglio.

Dentro questo giro di mura stava Milano quando Palamede collo Scudiero
e l’Aríolo, dopo aver fiancheggiato il baluardo che divideva dalla
città il convento e la chiesa di San Marco, arrivarono alla pusterla
detta Brera del Guercio. Sebbene i cavalli, passando sul ponte
levatoio, ne facessero rimbombare del suono delle ferrate spranghe la
volta della porta, il portinaio, o si trovasse lontano, o negligentasse
d’uscire per assicurarsi se erano cittadini o stranieri, loro non si
presentò, ed essi procedettero innanzi.

Già la sera s’avanzava, e appena gli ultimi raggi del crepuscolo
vedeansi leggiermente rischiarare i tetti delle alte case e le sommità
dei bruni campanili e delle chiese: pochi passi dentro la pusterla, a
sinistra folte piante, avanzo dell’antica Brera, cingevano il piccolo
convento degli Umiliati, che stava ove ora s’innalza il palazzo delle
scienze ed arti; più avanti si apriva la contrada, che s’internava
ristretta fra alte case, le cui sporgenti tettoie ne aumentavano
l’oscurità, ed offriva in quell’ora più l’aspetto di un sotterraneo
che d’una via cittadinesca. In quella strada, preceduti dall’aríolo,
posero i cavalli Palamede e lo scudiero, rallentandone il passo, perchè
essa era, come tutte le altre di Milano, piena di inciampi e di buche,
e nella notte pericolosissima. Non iscorgevasi luce alcuna, fuorchè
quella di qualche rado lume che vedevasi trasparire qua e là dalle
vetriate delle finestre di alcune elevate case; poche persone, di cui
non si scorgeva che in nero la forma, vedevansi entrare ora in una,
ora in altra delle porte che erano per la maggior parte già chiuse.
Al terminare della contrada di Brera la strada s’allargava innanzi
ad un monastero che era detto la Casa delle Umiliate di Blasonno;
poscia restringevasi tosto alla chiesa di San Silvestro e continuava
così ristretta sino a Santa Maria della Scala, che Palamede stupì di
scorgere innalzata, non essendosene, quand’egli partì, che poste le
fondamenta per ordine di Regina della Scala moglie di Bernabò.

Passata la Scala, entrarono in un viottolo che passava per mezzo
alle ampie ruine delle case dei Torriani, che da settant’anni e più
stavano ammucchiate là dove surse e si trova tuttora San Giovanni
alle Case Rotte: proseguendo il cammino lungo il muro della chiesa
di San Fedele vennero nella contrada di San Raffaello, una delle sei
chiese che contornavano il tempio di Santa Maria Maggiore Iemale,
la quale occupava una parte dello spazio su cui un anno dopo dovea
innalzarsi il grandioso Duomo; e lasciata alla sinistra questa chiesa,
ed alla destra Santa Tecla che le stava di fronte, giunsero al palagio
del marchese Azzo Liprando. Serrata ne era cautamente la porta, cui
ricopriva una lastra di ferro cesellata; e l’aríolo coll’impugnatura
dello stocco battendovi ripetutamente, per ordine di Palamede, ne
trasse un rumor forte. A quelle busse s’affacciò il portiere ad uno
spiatoio, e addomandò chi fosse; «Sono Palamede (disse il cavaliero);
non mi riconosci, o Gottardo?» Gottardo il riconobbe, e corse colle
grosse chiavi a disserrare la porta e spalancare i battenti. Al cigolar
di questi, al calpestio de’ cavalli sul lastricato del cortile, tutti
gli abitanti della casa furono in moto: in un istante la novella
dell’arrivo di Palamede vi si sparse; molti doppieri risplendettero
sulle scale e sulle finestre. Leone e Guido, figli del marchese Azzo,
discesero rapidamente all’incontro del cavaliero che amavano più che
fratello, e si precipitarono l’uno nelle braccia dell’altro. Dopo
lunghi amplessi, Palamede, salendo le scale fra loro e le altre persone
della casa, entrò nella sala ove l’attendevano Azzo colla moglie
Ricciarda, che l’abbracciarono teneramente, ed Adelaide loro figlia,
la quale arrossendo ricevette e gli porse sulla fronte un fraterno
bacio. Al primo sfogo di un’affezione viva e sincera succedette uno
scambio d’inchieste e di risposte, ed uno interessarsi a vicenda
delle disavventure e delle prosperità, che avrebbe protratto quel
conversare troppo a lungo, se non fosse stato interrotto da Ricciarda,
che consigliò Palamede a ritrarsi al riposo, di cui già da molto
tempo abbisognava, e che in quella notte a causa della ferita, della
cui doglia si risentiva, e dell’agitazione dell’animo, ardentemente
bramava.



CAPITOLO VII.

    La bellicosa ampia Milan di lieti
      Inni eccheggia, e di cantici devoti.
      Splendon del maggior tempio le pareti
      Per cento fiammeggianti auree lumiere.
                           GROSSI.


Allorchè Palamede schiuse gli occhi dal sonno, che avea ristorate le
sue forze e recatagli la calma nel cuore, splendeva già il sole sul
rustico muro che di prospetto alla finestra della sua camera chiudeva
il giardino. La luce, gli addobbamenti, gli arnesi che ornavano
quella stanza, destarono un’impressione vivissima nel suo spirito,
che rinfrancato dal riposo si riaprì pieno di sensibilità alle tenere
sensazioni. Ancora fanciulletto avea Palamede perduti entrambi i
genitori. Alberto de’ Bianchi, conte di Velate, suo padre, essendo
stato creato console di giustizia della città di Milano, era perito,
vittima dello zelo pel pubblico bene, nella peste che desolò questa
città nel 1361; e sua madre Gella Pusterla scese col marito nella
tomba, uccisa dal velenoso miasma che le sue cure per lui le avevan
fatto assorbire. Alberto andava congiunto in istretto parentado con
Ricciarda, venuta allora a nozze col marchese Azzo Liprando, uno
de’ più fidati di lui amici, per cui, vicino a spirare, fece ad essi
loro consegnare l’infante Palamede, affidandogli la cura d’educarlo
e d’amministrarne il ricco patrimonio. Troppo era sacra pel generoso
Liprando la parola d’un moribondo amico, onde egli ne tradisse i voti
usurpando gli averi, o trascurando pensatamente il suo pupillo: ciò
che in que’ tempi sarebbe stato per un iniquo assai facile impresa,
poichè ne porgevano agevoli mezzi e i molti chiostri, in cui racchiusi
giovinetti inesperti venivano con lusinghe o spaventi forzati a vestir
l’abito monacale, ed a rinunziare a doviziose sostanze, e i facili
raggiri forensi in tanta confusione e assurdità di leggi, e le molte
guerre, in cui se aizzato con mal consiglio un giovane guerriero
rimaneva indubitatamente estinto. Azzo all’incontro tenendo sempre il
giovinetto Palamede presso di se, ne coltivò con tutto il potere il
mansueto animo, lo svegliato e dolce ingegno, la destrezza e la forza;
e fece di lui uno de’ più compiti giovani signori di quell’età, che a
tutti veniva proposto a modello di bravura nelle armi e di moderatezza
e leggiadria di costume. Tante doti e il suo candido animo l’avean reso
assai caro a tutte le persone di quella famiglia, dove era amato qual
figlio e qual fratello, e nella cui casa, prima della sua guerriera
spedizione, avea sempre dimorato.

Quante aurore nella sua infanzia e ne’ primi anni della giovinezza
lo avevano veduto in quella camera istessa, nella quale nulla era
alterato, risvegliarsi, colmo il cuore del sentimento felice che
abbella la prima esistenza, e di cui non si perde mai la rimembranza,
o colla mente assorta nei pensieri della gloria dell’armi, o nella
speranza e le gioie d’amore! Trapassò al cavaliero come un lampo fugace
della fantasia la memoria delle sue lontane imprese, e di ogni fatto
accaduto; e ripensando ai dolci momenti che prima della sua partenza
egli aveva in Milano e in quella istessa casa trascorsi, immerso nel
pensiero della sua Ginevra, gli sembrava che l’ora consueta battesse
in cui concesso gli era vederla nel di lei palazzo; e stava in questa
soave illusione, quando un rumoreggiare di turbe e gridi di _Viva
Giovan Galeazzo_, _Viva il conte di Virtù_, che a lui dalla sottoposta
contrada salivano, gli ridestarono con maggior vigore l’amara
riflessione della realtà: onde un dolor cupo l’invase, poichè pensò al
suo ed al destino della fidanzata prigioniera.

Al tumultuare del popolo, ch’ora s’allentava, ora andava crescendo,
si frammischiò il tintinnare delle campane delle chiese vicine e
delle lontane torri. Palamede stette sulle prime in forse, fosse nata
qualche sollevazione di plebe; ma distinguendo fra i suoni, a cui porse
attento orecchio, il tocco grave e rimbombante della campana del gran
consiglio, si persuase che dovea essere la chiamata a radunanza degli
ottocento, onde stabilire qualche nuova legge o statuto: per tale fatto
egli determinossi di recarsi fra il popolo, o riunirsi, secondo avrebbe
dato il caso, agli uomini d’armi della sua parrocchia, di cui era uno
de’ capitani, e al possedimento del qual grado tanto maggior titolo
s’aveva per la fama di valoroso ed esperto acquistata nelle guerre
dei Veneziani. Così operando, rifletteva fra se, gli sarebbe dato
scoprire quali pensieri nutrissero i Milanesi intorno alla loro nuova
signoria; e se nulla egli poteva intraprendere a favore di Bernabò,
avrebbe cercato almeno di guadagnar l’animo d’alcuno fra quelli che
avvicinavano il principe, onde ottenere che gli fosse conceduta in
isposa Ginevra.

Entrarono in questo mentre i servi nella stanza di lui ad abbigliarlo,
ed egli fece chiamare Enzel Petraccio, il quale si presentò recando
una fiala d’acqua ch’ei diceva portentosa, onde rimedicargli la ferita
del braccio, già quasi all’intutto rimarginata. Allorchè furono i
servi allontanati, «Da che proviene (disse il cavaliero all’aríolo)
il gridare di popolo e suonar di campane che già da qualche tempo mi
ferisce l’orecchio? — Oh! (rispose Enzel) non vi potete immaginare,
signor cavaliero, qual movimento ci sia quest’oggi in Milano! da
che provenga, di certo io ancora non lo potei scoprire; ma parmi da
ciò che si va narrando qua e là, che sia a causa delle novità che il
signor Giovan Galeazzo ha ordinate, le quali debbono riuscire molto
gradite a questa gente. — Pur troppo (mormorò fra se Palamede) Bernabò
lasciò largo e facile campo a chi gli successe nel dominio di farsi
amare dai soggetti!... — Per tutto (proseguì l’aríolo) s’incontrano
uomini e donne festeggianti e genti allegre che fanno gli evviva; per
tutto veggonsi ricchezze, che sembra che l’oro e l’argento sian caduti
dalle nuvole; i soldati delle porte e delle parrochie hanno pulite le
loro armature e infisse le penne nei morioni; i capitani si scorgono
risplendenti come soli; le tuniche nere dei signori del consiglio
appaiono in ogni strada, e dicesi che l’arcivescovo, i vicarii di
provvisione e il podestà s’abbiano a raccogliere nel broletto nuovo.
Non vi saprei ben dire quanti forestieri trovansi ora in questa
città, tanto si è il loro numero: Pavesi, Veneziani, Francesi, se ne
incontrano assai. Basta ch’io vi narri che a causa della solennità di
questo giorno, per sino messer Beltramo speziale avea tutta adorna la
sua bottega con paramenti, quand’io v’entrai per comperar quest’acqua,
segreto mirabile che possiede egli solo, e mi narrò, che deve verso
il mezzodì recarsi a Sant’Ambrogio, per porsi a fianco di maestro
Arnolfo capo del Paratico degli speziali, il quale ha ad assistere
al gran consiglio. — Ho grand’uopo, in questo giorno, dell’opera
tua (l’interruppe Palamede abbassando la voce, e dispiegandola in
modo d’additargli che gli confidava un importante incarico); tu devi
recarti fra il popolo, ascoltare, penetrare, interrogando ciò che si
pensa di Giovan Galeazzo e Bernabò e ritenere quanto si va dicendo
di questo e di quello; scoprire, se puoi, quali siano i partigiani
dell’uno e dell’altro, ed isvelare se il principe prigioniero possegga
ancora qualche caldo amico; devi spiare cosa sente il nuovo signore
ed i suoi, de’ partigiani di Bernabò, e se contro questi si tramino
sorprese o tradimenti; e fra i forestieri devi porgere orecchio per
udire se qualcuno mal vegga questa usurpazione di stati, e se ne
mediti vendetta: in somma cerca di scoprire i pensieri, i divisamenti
del popolo, dei signori, degli estranei, per riportarmeli fedelmente,
poichè tutto io mi prometto dalla fina arte tua. — Non dubitate, signor
Palamede, io farò tutto quello che sarà in mio potere per compiacervi;
poichè vi assicuro che tanto la vostra, quanto la felicità della
signora Ginevra mi stanno veramente a cuore — Ebbene sappi (rispose
Palamede a tai detti, stringendogli una mano affettuosamente), quanto
io ti debbo per avermi salvo da un assassinio, sarà un nulla nella
misura della mia riconoscenza a fronte di quanto meriterai da me se
giungerò per tuo mezzo ad ottenere la figlia di Donnina.»

Dopo queste parole, l’aríolo, fatta riverenza al cavaliero, pieno di
allegrezza per la persuasione che possedeva la confidenza e l’affezione
di lui, uscì aguzzando gli occhi, tutto in se raccogliendosi, torcendo
il collo ed avanzandolo, come se si trovasse di già fra la moltitudine
di cui dovea osservare i moti e raccogliere le parole. Palamede,
preceduto da un valletto, lasciò le sue camere e recossi nella sala
dove l’attendeva la famiglia di Azzo.

Quivi entrato abbracciò Leone e Guido, ed a Ricciarda, che amorosamente
qual madre l’accogliea, baciò con trasporto la mano. S’immaginò
bentosto la cagione per cui vedeva Guido involto in una bruna zimarra
col nero berretto del consiglio, e Leone vestito a tutto punto d’una
armatura lucente colle piume ondeggianti sul cimiero. Stava per
ritrarne, interrogandoneli, più certa cognizione, allorchè spalancati
i battenti della porta entrò colà il marchese Azzo. Una ricca veste
di colore scarlatto broccata in oro lo ricopriva, e vedevasi su di
essa nella parte che gli vestiva il petto, da destra ricamato lo
scudo argenteo di Milano colla croce rossa, da sinistra due vipere
ondeggiate, collocate paralellamente in senso opposto, chiuse in gira
da questo motto in caratteri gotici colore di sangue: _Vipera victrix
audet_, lo che era lo stemma della famiglia Liprando; tenea sul capo
un berretto pure scarlatto con fiori d’oro, sotto cui rìcadeangli sul
collo le chiome che incominciavano a incanutire; a fianco gli pendea
una lunga spada in ricca guaina, e tale era l’abito dei vicarii di
provvisione, uno de’ quali era appunto il marchese Azzo. I figli e
Palamede al suo apparire gli si fecero incontro ad abbracciarlo; il
marchese rendendo l’amplesso, e fissando con molta compiacenza gli
occhi in volto a Palamede, ad un tratto si turbò, scorgendogli nelle
pupille le lagrime che stavano per ispuntare. Palamede abbassò il
capo; Leone e Guido si fecero muti, e tutti intesero qual segreta causa
spingeva sul ciglio di lui quella stilla involontaria di pianto.

«Mio diletto figlio (rompendo pel primo il silenzio, disse il marchese
con voce affettuosa rivolto a Palamede), conosco che tu sei già fatto
consapevole del grande avvenimento che cangiò le sorti nostre e di
tutta questa città, per cui vedi che siamo stati in oggi chiamati
a riordinare e creare nuovi statuti, onde migliorare le condizioni
generali della nostra patria. Se la mano di Dio e del glorioso
Sant’Ambrogio hanno gravitato sul capo di Bernabò, egli, è d’uopo
confessarlo, provocò questo castigo colle sue azioni, poichè eravamo
oramai da’ suoi capricciosi scialacquamenti, dalle sue tirannie e dalla
prepotenza de’ suoi figli ridotti agli estremi; nè sicurezza di vita,
di sostanze o di onore più ci rimaneva. Ciò che al cuore veramente
mi pesa, si è che la marchesa Donnina de’ Porri, mal fidente nella
moderazione del conte di Virtù, s’abbia condotta seco in prigionia la
tua Ginevra. Pensai quanto recasse affanno a lei l’essere strascinata
lontana da queste sue native mura, pressochè nello stesso istante in
cui tenea per fermo che il tuo ritorno avrebbe coronate le sue vive
speranze; e sento per te quanto t’angosci una sì ardente brama delusa,
da poi che tanto ti eri adoprato ad ottenerla. Ma ti conforta, mio
Palamede, e t’assicura: Giovan Galeazzo è principe umano, saggio,
generoso, egli non vorrà or certo opporsi a’ tuoi desiderii negando
concederti che ritrar possi dal castello Ginevra; nè ciò ti negheranno
Bernabò e Donnina che teco l’han fidanzata. Io, te ne accerto, non
poserò in quiete il capo sugli origlieri che non abbia con tutte le
posse adoperato per ottenerti la donna che il tuo cuore ha scelta a
compagna.»

A tali parole, che la dolce ed autorevole voce e la fisonomia
imponente, ma nel tempo stesso assicurante, del marchese rendevano
insinuanti e solenni, il cuore di Palamede fu penetrato da consolatrici
riflessioni che lo riapersero alla speranza: quindi il rasserenarsi
dell’anima si palesò sul di lui volto con un sorriso, e Guido e
Leone gli si accostarono, parlandogli ciascuno della bontà di Giovan
Galeazzo, e traendone sicuro argomento che avrebbe ottenuta l’amata
fanciulla. Ricciarda e la figlia Adelaide avevano, siccome il lungo
amichevole affetto ad esse imponeva, appressate Donnina e Ginevra
sino agli ultimi momenti in cui eran rimaste libere in Milano; e fu
innanzi a loro che l’innamorata donzella diè libero sfogo alla piena
di dolore che opprimeva il suo cuore, lacerato dall’orribile idea
di essere condotta lontana, e forzata, come ella pensava, a perdere
per sempre l’oggetto dell’amor suo più ardente, alla cui mano per
le nuziali promesse avea acquistato diritto. Avevano esse miste le
loro alle lagrime di Ginevra, ed ogni via tentata per consolarla,
ma vanamente: per cui, quando videro Palamede trafitto dall’angoscia
della di lei perdita, cedere al pianto, nella mente loro s’appresentò
l’immagine della desolata Ginevra; e vivamente commosse dalle sventure
di que’ fidanzati, intenerite, a grave stento frenavano i singhiozzi
e le lagrime; ma al racconsolarsi di Palamede per le parole di Azzo,
esse pure si allegrarono, sperando che un giorno esso sarebbe felice;
ed Adelaide a lui s’appressò con seducente ingenuità, e fisandogli in
viso gli occhi ancor umidi di pianto, disse: «La tua Ginevra m’impose
d’invocare ogni giorno dalla Vergine il tuo ritorno, e ti assicuro che
mai non passò sera che io prostrata innanzi alla sua immagine, a cui
offriva i più freschi fiori, non gli chiedessi con tutto il fervore
una tal grazia, ed ella m’esaudì, ed esaudì pure nostra madre, che
tante volte mi guidò nella chiesa a pregar seco per la tua salute.»
Palamede affettuosamente abbracciandola palesò a lei, a Ricciarda e ad
Azzo la sua gratitudine per la cura che di lui s’eran presa, e disse
a Leone che bramava, qual capitano dei militi della parrocchia, porsi
in arnese guerriero, ed uscire seco lui ond’essere spettatore della
radunata del gran consiglio, se però l’essere stato uno degli amici
di Bernabò non gli poteva attirare l’odio o le insidie dei governanti.
Leone gli rispose che erano stati prescelti alcuni de’ capitani d’armi
per accompagnare i gonfaloni delle Porte al Broletto nuovo, e ch’esso,
come uno de’ più distinti, ne verrebbe ricercato; e l’assicurò che
scacciati i figli di Bernabò e i ministri delle loro perfidie, nessun
altro cittadino era stato molestato; per cui poteva ciascuno vivere
tranquillo, e più di ogni altro gli uomini valorosi, pe’ quali il Conte
di Virtù avea grande stima. S’allontanò Palamede, e ritornò coperto
delle sue armi, portando a tracolla la ciarpa azzurra, dono di Ginevra,
da cui pendeva la ricca sua spada; s’accompagnò con Leone, e, seguito
dagli scudieri, lasciò il palazzo.

Era prossima la metà del giorno, e le campane ripetevano coi romorosi
suoni la chiamata al gran consiglio. Per tutte le molte strade che
conducevano da Sant’Ambrogio al Carrobbio di Porta Ticinese, di là
per San Giorgio alla Piazza del Broletto nuovo (ora de’ Mercanti)
era un’onda di popolo innumerevole. Dovea l’arcivescovo, che
trovavasi essere in quell’epoca Antonio di Saluzzo, assistere coi
principali del clero alla grande adunata. Abitava esso nel monastero
di Sant’Ambrogio, imperocchè il palazzo arcivescovile, che sorgeva
poco lungi dall’attuale, ma più dal lato di santo Stefano, ruinoso
e disadorno com’era, non offriva una degna abitazione a sì eminente
prelato. Al tempio di Sant’Ambrogio s’eran quindi recati sei vicarii di
provvisione, un distinto numero di consiglieri, consoli di giustizia,
rettori della comunità scelti da ogni porta, e due vicarii del principe
Giovan Galeazzo, onde assistere alla celebrazione de’ divini ufficii,
indi condurre l’arcivescovo alla sala del consiglio. Dopo avere con
gran pompa Antonio compite le sacre funzioni, s’avviò col numeroso
seguito al Broletto.

Sui terrazzi delle case, sui balconi e sotto gli acuti archi delle
finestre stavano affollati i fanciulli e le donne spettatrici del
generale movimento, e in attenzione del passaggio dell’arcivescovo
colla sua nobile comitiva. Ai balconi de’ palazzi scorgeansi le dame
e le ricche donzelle far gran mostra di drappi d’oro, di piume, di
cinti e catenelle, ed aversi da un lato panieri di fiori, onde tenere
profumata l’aria d’intorno. Anche nelle case però de’ meno agiati
cittadini e della plebe miravansi le donne non prive di ornamenti, ed
alcune portare assai preziosi gioielli: il che non doveva a que’ giorni
recar meraviglia, poichè nel sacco dato dal popolo ai palagi di Bernabò
che era la rocca di Porta Romana, ed a quelli de’ suoi figliuoli,
furono rinvenuti ed involati gioielli, addobbamenti, preziose vesti
e suppellettili pel valore di molte migliaia di fiorini d’oro, oltre
ingenti somme di denaro, e ciò tutto era passato nelle mani delle
persone del popolo e de’ cittadini.

Quel luccicare dell’oro e delle gemme, lo splendore delle vesti per
le finestre ed i balconi, che si prolungava variatamente lungo le
pareti delle contrade, ottenea vivace risalto dal contrasto che vi
faceano i bruni colori delle rozze muraglie delle case, delle chiese,
de’ palazzi, le quali ove erano costrutte di pietre le aveva il tempo
annerite, ed ove formate di mattoni, si lasciavano senz’intonaco, chè
così volea l’uso de’ tempi: quindi gli edifizii nuovi rosseggiavano, e
i vecchi imbrunivano a norma dell’età rispettiva.

La folla eziandio, nelle vie stivata, non presentava il monotono
aspetto che a’ nostri giorni offrono le adunate di gente per il quasi
uniforme moderno vestire d’ogni classe di persone tanto ne’ colori
degli abiti che nella forma. Era in quell’epoca una varietà grandissima
di maniere e di coloriti; e sempre o nelle armi o negli adornamenti
risplendevano i metalli, il che ammirabile e svariatissimo spettacolo
porgeva, atto a recare una viva e profonda impressione, ne’ nostri
tempi svanita.

Vedeansi in allora uomini d’armi tutti ruvidi di ferro dai capelli
alla punta de’ piedi; e diverse erano le forme delle armature, poichè
l’uno copriva il capo col semplice elmo, ed aveva giaco di maglia;
l’altro portava visiera e gorgiera a lamine sovrapposte, e corazza
d’acciaio; questi tenea cimiero cesellato con piume ondeggianti, e
quello berretto di ferro puntuto; spade, targhe, brandistocchi pendeano
a’ fianchi, sospesi a ciarpe e pendagli di varii colori. I nobili,
i semplici cittadini e gli artigiani vestivano abiti con proprie
foggie, e scorgevansi agli uni sopravvesti guernite di pelliccie e
di passamani di molte maniere; agli altri, guarnelli, farsetti a più
colori, e brache che aderivano alle membra, o s’allargavano alle coscie
smisuratamente: collari larghi ed elevati, berretti ora acuminati, or
distesi, variatamente tinti, diversificavano gli abbigliamenti delle
molte classi di patrizi, ricchi ed artieri. Così eran pure distinti
i magistrati ed i dottori per le toghe e le assise. Ma ciò che fra
tanta diversità di costumi produceva un singolare contrasto, si erano
gli abiti de’ numerosi frati, de’ confratelli, de’ pellegrini e degli
uomini della plebe. Per le vie talvolta scorgevasi un eremita curvato
dagli anni, coperto il dosso da un rozzo saione olivastro, e il capo
d’un largo cappuccio, la di cui incolta barba e il macilento viso
mostravano la rigida astinenza, collocato fra un baldo guerriero
lucente d’acciaio, e un patrizio sfolgorante per drappi d’oro,
porgere una vivente immagine congiunta della forza, della umiltà,
dell’orgoglio. In quella età, meno dal sociale attrito contusi e
rammorbiditi i costumi, i sentimenti animavano gli spiriti ed i volti
d’un’aria originale e caratteristica: maniere franche, risolute, e
fors’anco fiere, lineamenti risentiti, variati e pittorici, e gli
abbigliamenti che davano alle forme un piccante risalto, manifestavano
lo spirito d’un secolo incolto, pregiudicato e feroce, ma in cui però
erano passioni ardentissime, affetti infrenati e robusti, e un non so
che di più vivo, animato e risentito delle altre successive età.

Il Broletto nuovo, verso cui dirigevasi tutta la folla del popolo,
era il palazzo del comune o del podestà, perchè colà questi abitava:
contenea esso la loggia degli Osii, che è quell’antico edifizio che
ancora esiste nella parte meridiana della Piazza de’ Mercanti, adorno
d’antiche statue di santi, ed in una fascia, sul prospetto del quale
vedonsi scolpiti degli scudi con varii stemmi, che erano quelli delle
diverse porte di Milano. Antichissimo fabbricato era quello, e venne
nel 1316 ristorato, abbellito ed ampliato da Matteo Visconte, il
quale, fatte atterrare molte casupole che lo deformavano, lo ridusse
ad un vasto edifizio oblungo ed isolato, che da San Michele al Gallo
si prolungava sino al vicolo della Foppa. Era in esso una grandissima
sala in cui si radunava il consiglio degli ottocento, e contenea con
quella del podestà l’abitazione de’ suoi ufficiali: s’aveva congiunta
una piccola chiesa dedicata a Sant’Ambrogio, e gli sorgea nel mezzo una
quadrata torre, su cui stava una grossa campana e tre altre più piccole
per chiamare a raccolta i consiglieri ed il popolo. Dalla parte ove ora
sta l’archivio notarile, la piazza era affatto sgombra e si stendea
sino al cominciare di Santa Margherita, cinta intorno di alte case e
palagi; questa piazza era destinata a contenere il popolo accorrente ad
intendere le decisioni del consiglio.

Zeppa per la moltitudine era quella piazza, quando il ridestarsi più
rumoroso del suono delle quattro campane della torre, e lo stivarsi
più fitto della folla, annunziò l’avvicinarsi dell’arcivescovo.
Precedevano que’ ch’eran puri membri del consiglio, seguivano questi
i consoli di giustizia, i quattro vicarii di provvisione, indi i
priori, gli abbati de’ principali conventi, ed i sacerdoti maggiori
delle basiliche di Sant’Ambrogio, San Lorenzo e Santa Maria Iemale;
dietro a questi veniva l’arcivescovo sovra un bianco cavallo, con
gualdrappa d’oro e ricchissima bardatura, guidato a mano da un giovine
patrizio pomposamente vestito, con bianchi guanti di serica stoffa
ricamata in oro; ai lati del cavallo stavano i due vicarii di Giovan
Galeazzo, e due di provvisione, e dietro altri monaci, sacerdoti,
magistrati e municipali. Seguivano la comitiva i vessilli delle sei
principali porte della città, portati ciascuno da un gonfaloniere,
fiancheggiato da quattro capitani d’armi delle quattro più distinte
parrocchie d’ogni porta. Precedeva il vessillo di Porta Ticinese,
ch’era una candida bandiera con asta d’oro, e questo fu il primo,
siccome quello che apparteneva ad una parte della città già soggetta
alla signoria di Giovan Galeazzo prima del consolidamento in lui di
tutto il dominio di Milano; quindi non volle andar a paro con quello
di Porta Orientale, come soleva per lo addietro, perchè il signore di
questa era caduto: onde l’Orientale veniva seconda, portando nel suo
vessillo un leon nero. Notavansi fra i capitani d’armi, che seguitavano
questo vessillo, Palamede e Leone, il primo de’ quali per la lunga
assenza, la ricca armatura, il nobile e mesto aspetto s’attraeva gli
sguardi della moltitudine; seguiva lo stendardo di Porta Vercellina,
ch’era bruno con una bianca stella; poscia quel rosso di Porta Romana;
indi lo scaccato bianco e rosso di Porta Comasina, e finalmente il
vessillo di Porta Nuova col leone bianco; chiudevano la comitiva gli
anziani de’ Paratici, ossia capi delle università delle arti, gli
operai di ciascuna delle quali, come barbieri, armaiuoli, tessitori,
fabbri, pellicciai, avevano un capo o maestro, che era loro giudice
e presidente, ne decideva le controversie e manteneva i diritti. Il
podestà, ch’era Liarello da Zeno, veneziano, accompagnato da’ suoi
militi ed ufficiali, venne al peristilio della maggior porta del
palazzo per farsi incontro all’arcivescovo, il quale, disceso dal
suo cavallo, offrì al bacio del podestà l’anello che tenea in dito
contenente una rara reliquia, e dopo essersi rivolto a benedire il
popolo che stava prostrato, entrò, con tutti quelli che ne formavano il
seguito, nel gran consiglio.

Cessò in quell’istante il rimbombare dei bronzi, e quattro trombettieri
con trombe d’argento, ed altrettanti banditori, sopra i cui cappelli
stavano alte piume, apparvero sulla loggia del palazzo. Si fece
universale silenzio, ed essi annunziarono che il gran consiglio dava
incominciamento alle decisioni.

Una sana e previdente politica, anzi direm piuttosto il solo amor
dell’ordine, tanto necessario nelle cose di pubblico momento, non
avevano fino a quell’epoca portata luce alcuna o chiarezza nella
direzione delle città e dei popoli. Il principe, sdegnando i consigli
d’una scelta di personaggi sapienti ed esperimentati, dettava a
capriccio assurdi ed ingiusti decreti; un’unione di uomini ignoranti
o servili che rappresentava la popolazione, riceveva, o rigettava
tumultuariamente, contendendo sulle leggi e gli statuti ciò che
quasi sempre le era svantaggioso. Le armi, le rapine, i patiboli
costringevano i meno resistenti a sostenere il carico di enormi spese
fatte per guerre ingiuste, per lusso esorbitante, per largizioni
delittuose. Non registrazione di pubblici atti, non raccolte o
promulgazioni di leggi e prescrizioni: per tutto era un operare alla
cieca, un eludersi e paralizzarsi di forze mal dirette, e un dominare
dell’astuzia, della ribalderia, della prepotenza. Se pubbliche calamità
o penuria affliggevano i popoli, si consultavano del rimedio gli
astrologi, che da sognate combinazioni di pianeti, dall’apparizione
di sanguigne comete, o dalle meteore facean sempre derivare i mali di
questa terra; si erigevano chiese e conventi, e si trascuravano tutti
gli altri mezzi che poteano recare riparo o salvezza.

Bernabò non ebbe mai più di due vicarii e tre consiglieri; non volle
segretarii, scrittori, persone istruite in somma che tenendo conto
delle entrate, dei consumi della corte e della nazione, ne accennassero
le fonti, le cause, e ne dirigessero i modi. Suo fratello Galeazzo,
padre di Giovan Galeazzo, dotato d’uno spirito intraprendente,
ingegnoso, pel primo pensò che gli uomini scienziati potevano giovare,
concorrendo allo sviluppo delle ricchezze, del commercio, della
popolazione, ad ingrandire la potenza del principe. Spinto da tale
considerazione e dal consiglio di alcuni letterati e filosofi de’ suoi
tempi, e in ispecie da Signorello Amadio e Baldo giureconsulti, da
Emanuello Crisolora bizantino e da Ugo sanese, diede principio alla
famosa università di Pavia, ch’era la capitale de’ suoi stati; quivi
raccolse con generosi stipendii molti uomini dotti, ed aviò la gioventù
alle scientifiche discipline.

Giovan Galeazzo, la cui mente profonda e intellettiva era stata,
nella corte del padre, da uomini saggi, con una educazione per que’
tempi raffinatissima, resa adorna, acuta, calcolatrice e ripiena di
vastissime idee, aveva fatto tesoro di molte massime della sapienza
politica degli antichi filosofi e legislatori, che quel maraviglioso
ingegno di Francesco Petrarca, uno de’ suoi precettori, gli svolgeva,
corredandole di gravissimi ed esperimentati consigli.

Dappoi che per un ritrovato della propria mente con somma astuzia
condotto, ebbe fatto il primo passo verso l’elevata meta a cui mirava
fisso in suo segreto, concentrando nelle proprie mani l’impero degli
stati dello suocero zio, lasciò scorgere con universale sorpresa parte
di quell’energia ed intelligenza di cui era dotato; giacchè più non
necessitava a’ suoi scopi il farsi credere un ignorante pinzochero,
stupidamente dato ai soli atti d’una superstiziosa devozione, coi
quali ingannando sul proprio carattere non il solo Bernabò lontano,
ma ben anco i suoi più intimi famigliari, era giunto a far cessare
nello zio ogni pensiero di vigilanza sovra di lui, a segno di trarlo
nell’agguato che gli aveva disposto sotto le mura della stessa
Milano. Conceduto, pei primi momenti del suo insignorirsi dell’intera
città, uno sfogo all’ira della plebe e de’ cittadini, lasciandoli
scagliare sulle dimore di Bernabò e de’ suoi figli, d’onde trassero
gli ammassati tesori, permettendo di lacerare i libri delle gabelle
e de’ dazii, e di imperversare liberi per qualche giorno; assodato
il suo potere col favore dell’aura popolare, meditò di dar opera
al compimento del suo disegno di perfezionare il dominio. Aveva
appreso Giovan Galeazzo, e teneva per assoluta sentenza, che l’ordine
era il primo cardine d’ogni civile consorzio; considerava che le
magistrature, i regolamenti distribuiti a seconda de’ diversi bisogni
dello stato, ed una forza coattiva congiunta a ciascun d’essi per
l’esatta esecuzione delle incumbenze, doveano produrre inesprimibile
vantaggio alla politica società. Meditava sulle greche e le romane
istituzioni; quegli areopaghi, que’ senati, que’ tribunali erano gli
ordini ch’egli agognava di costituire ne’ suoi dominii; ma a’ suoi
concepimenti frapponevano sommo incaglio le cangiate circostanze de’
tempi e delle indoli nazionali, e la di lui ostinatezza nel non volere
che s’allentasse menomamente nelle sue mani il potere, onde l’ardimento
altrui non rendesse vani i suoi divisamenti.

In tale tenzone di pensieri, riservando a più opportuno momento
l’esecuzione di vasti disegni, pensò che gli era d’uopo giustificare
la sua usurpazione presso la propria e le estranee nazioni; fece
a questo fine stendere dai giureconsulti un atto d’accusa contro
Bernabò, in cui enumerandosi i molti di lui delitti, attentati
e malie a danno della vita di Giovan Galeazzo, si deducesse non
essere stato l’imprigionamento di Bernabò che un atto di difesa,
di giustizia e la liberazione della patria; volle nello stesso
tempo, onde accaparrarsi sempre più l’amore dei popoli, esentarli
da varie imposizioni pesantissime, le quali alla fin fine venivano
dai gabellieri consunte: a fin poi di fondare le prime radici dei
futuri più stretti regolamenti, fece stendere varii statuti pei
quali alle università delle arti, i cui membri essendosi attribuiti
molti privilegi che le consuetudini avevano resi inviolabili, erano
insubordinati all’autorità, congregandosi ne’ proprii quartieri, e
così congiunti ammutinandosi, veniva prefissa una dipendenza in varii
determinati casi dai consoli di giustizia, la quale dovea metter freno
al loro insorgere; ma negli statuti però s’accordavano titoli d’onore
agli anziani ed alcune facoltà illusorie. Finalmente ad esecuzione
delle leggi fece decreti che i consigli tenessero registro delle
decisioni, le quali scritte, venissero solennemente depositate negli
archivii. Statuite queste disposizioni, Giovan Galeazzo ne dimostrò il
vantaggio a Liarello da Zeno podestà, a Piosello da Saratico vicario
di provvisione; e fatti molti de’ consiglieri, del clero, de’ capitani
d’armi, degli anziani favorevolmente prevenire, ordinò l’adunanza del
gran consiglio, ch’era quella che in quel giorno si raccolse, onde i
suoi decreti venissero letti, approvati, ed ottenessero esecuzione;
mandò quivi suoi vicarii, ossia rappresentanti, Biagio Pelacane
parmigiano e Demetrio Cidonio di Tessalonica, il primo eletto ingegno,
il secondo parlatore facondissimo.

La sala del consiglio era un’aula amplissima, la cui volta, non molto
elevata, andava dipinta a fondo azzurro con stelle d’oro, le mura
delle pareti erano di marmo con una fascia superiormente d’ornati in
rilievo rappresentanti figure d’animali ed arabeschi; in ciascuno dei
quattro angoli stava uno stemma della città di Milano. Sur un gran
seggio elevato coperto di velluto cremisino sedeva il podestà, a’ suoi
fianchi stavano pur seduti i due vicarii del principe, e dietro a loro
eran paggi e cancellieri, poscia quei di provvisione, indi tutti i
consoli di giustizia, i rettori delle comunità, i consiglieri a varii
ordini; di fronte al podestà stava sur una elevata sedia, protetta da
un baldacchino con frangia d’oro, l’arcivescovo circondato dal clero.
Alla destra parte del podestà, dietro ai consiglieri, stavano ritti in
piedi i gonfalonieri coi vessilli ed i capitani d’armi, alla sinistra
gli anziani delle arti ed i loro collaterali. Quando furono quivi tutti
raccolti e disposti i numerosi componenti del consiglio, s’avanzò un
cancelliere, davanti a cui un giovinetto paggio recava una guantiera
d’argento su cui vedeansi varii rottoli di pergamena coi contorni
dorati; il cancelliere venuto innanzi a Demetrio Cidonio vicario del
principe, che stava alla destra del podestà, l’inchinò profondamente,
e dal paggio, che piegò un ginocchio sui gradi dell’alto sedile, fece
a lui porgere quelle pergamene. Demetrio, alzatosi in piedi, una ne
prese, la svolse e si fece a leggerla con robusta voce. Era l’accusa
di Bernabò. Quasi tutti gli uditori, o vinti da Giovan Galeazzo, o
stati offesi dall’altro signore, applaudirono e confermarono quelle
imputazioni, sebbene molte ve ne fossero false ed altre assurde,
siccome quella delle arti magiche che si dicevano adoperate da quel
principe onde il nipote non avesse prole; ed allorchè il vicario
conchiuse che per giustizia e diritto, imperocchè Venceslao imperator
d’Alemagna avea il solo Giovan Galeazzo investito della signoria
degli stati Lombardi, a lui solo appartenea il dominio, tutti si
alzarono gridando: _Viva Giovan Galeazzo, viva il conte di Virtù nostro
signore_; e s’udirono le trombe annunziarlo al popolo, ed il popolo far
eco con altri viva.

Fra i pochi avversi all’applaudire al nuovo signore, il più ardente
si era Palamede che, offeso dalle calunnie con cui udiva venir
Bernabò incolpato, poco stette, dimentico d’ogni altro affetto, dallo
slanciarsi in mezzo al consiglio a difenderlo colla voce e la spada; ma
Leone che gli era al fianco il trattenne colle parole, e il marchese
Azzo cogli sguardi che a lui volgea imperiosi dal seggio ove stava
assiso.

Dopo l’accusa di Bernabò venne letto il decreto di abolizione e
diminuzione delle gabelle del grano, e degli istrumenti, che così
chiamavasi la tassa che veniva esatta nei contratti, e delle ruote
ferrate che si sborsava da chiunque teneva cocchi o carri. Non ponno
descriversi le espressioni di gratitudine e i segni di contento che
dai consiglieri e dal popolo si diedero alla lettura di tale decreto.
Quindi generale fu l’assentire alle innovazioni ordinate nel modo di
tenere i consigli, ed agli statuti per le università delle arti; per
cui chiuso che fu il consiglio, uscendo i vicarii di Giovan Galeazzo
dal Broletto nuovo, vennero coi più rumorosi applausi ricevuti dal
popolo che si disperse, persuaso essere venuta l’età della vita felice.



CAPITOLO VIII.

    Fra l’ombra della notte e degli incanti
      Ei muove dubbio e mal securo il piede.
      Sul limitar d’un uscio i passi erranti
      A caso mette, nè d’entrar si crede;
      Ma sente poi che suona a lui diretro
      La porta, e in loco il serra oscuro e tetro.
                                    TASSO.


Lunghi e dolorosi scorrevano i giorni pei prigionieri di Trezzo.
Il destino di Bernabò e de’ suoi congiunti formava argomento al
ragionare di ogni persona. Era pensiero di tutti che da Giovan
Galeazzo non sarebbesi giammai ridonata loro la libertà, e quindi
facile il prevedere che avrebbe cercato ogni via di togliersi la
briga di custodirli. Chi passando pe’ boschi d’intorno, o battendo i
sentieri che salivano le alture vicine al castello, vedea la sommità
delle torri e delle mura merlate sorgere fra gli antichi alberi che
il circondavano, anzichè ritrarne pensieri di caccie, di feste, di
principeschi passatempi che soleva quella vista produrre, non provava
che sentimenti di pietà o di soddisfatta vendetta, secondo che amava od
odiava quel principe; ma tutti però i riguardanti risentivano una certa
impressione di meraviglia e tristezza che le disavventure di personaggi
potenti sogliono infondere nell’anima, forse per le secrete riflessioni
che ci destano sull’instabilità delle umane sorti, e fors’anco perchè
mettendoci colla mente in loro, pensiamo quanto debba riuscir doloroso
il rapido passaggio da uno stato di impero e ricchezza a quello di
soggezione e miseria.

Nell’interno del castello regnava di continuo una tristissima quiete.
Abbenchè racchiudesse molti abitatori, avea esso l’aspetto d’un
castello deserto: solitarii se ne vedevano i cortili, gli atrii, i
porticati, ed il silenzio che per tutto si manteneva non era interrotto
che d’ora in ora dal risuonare dei pesanti passi degli uomini d’armi
che distribuivansi per scolta alle porte, alle torri ed al ponte
dell’Adda. Ciò solo che recava qualche movimento fra quelle mura, si
era al cader del sole il suono della campana della chiesa, alla cui
chiamata tutti attraversando il maggior cortile venivano nel tempio.
Vero è che la mestizia che scorgeasi dipinta in volto ad ognuno, il
procedere lento e taciturno di tutti, in vece di porgere conforto,
aumentava il cordoglio ne’ cuori.

Dopo quel giorno che nel castello s’era sparsa la voce d’una notturna
apparizione che aveva dato motivo a quanti vi abitavano di formare
diverse congetture, a norma delle proprie speranze o timori, un
avvenimento era seguito per cui s’accrebbe d’assai l’amarezza di quel
soggiorno in Bernabò e negli altri ivi seco rinserrati. Il capitano
Gasparo Visconti avea, come vedemmo, creduto, coi principali de’ suoi
armati, che quell’apparizione altro non si fosse che un tentativo per
liberare il principe prigioniero. Venne in tal sua opinione confermato
dalla scomparsa che gli fu riferita dell’aríolo, ch’ei pensò dover
essere uno degli interni cooperatori ad agevolare la fuga di Bernabò o
la presa del castello, se i di lui liberatori fossero stati numerosi.
Il Visconti spedì quindi immediatamente un messo a Giovan Galeazzo a
recargli avviso di tale evento, onde avvenendo nemica sorpresa stesse
parato a mandargli soccorso.

Recò grave agitazione tale annunzio a Giovan Galeazzo, che mal
rassicurato era ancora sull’usurpato seggio, e per tutto temeva
congiure e nemiche fazioni: pensò esso sulle prime che l’impresa di
togliere dalle sue mani Bernabò non potesse essere tentata fuorchè
da Carlo figlio di quello, il quale all’insignorirsi ch’ei fece di
Milano s’era alle sue ricerche sottratto colla fuga; ma allorchè
seppe che questi stava a Verona presso Antonio della Scala, che gli
era cognato, fatto da molti soldati ricercare tutti i luoghi contigui
a Trezzo, e non vi ritrovando armati, nè sapendo che vi fossero
macchinazioni, mandò ad accertare il capitano Visconti che non temesse
d’ostili insidie, nè per tanto cessasse d’invigilare gelosamente su i
prigionieri.

Giovan Galeazzo non rimase però pago di questo. Paventando sempre che i
figli di Bernabò, aiutati da principi stranieri, o da partigiani nello
stato, avessero a ritrovar qualche mezzo di render liberi il padre ed
i fratelli, fece più strettamente rinchiudere addoppiando la vigilanza
sovra Sagramoro e Galeotto altri di lui figli che teneva prigioni nel
castello di Monza, e diede comando si togliesse Rodolfo da quello di
Trezzo onde disgiungerlo dal padre e dal fratello Lodovico, e fosse
condotto nel forte di San Colombano.

Venti uomini d’armi capitanati da Giovanni Ubaldino partirono da
Milano, e si recarono a Trezzo per eseguire tal ordine di Giovan
Galeazzo. Quando que’ soldati comparvero presso le mura del castello, e
riconosciuti amici, loro fu abbassato il ponte levatoio per riceverli
al di dentro, un secreto terrore invase il cuore de’ prigionieri.
Ubaldino si recò da Gasparo Visconti, ed a lui presentò una lettera del
suo signore, nella quale gli veniva ingiunto di consegnarli Rodolfo.
Gasparo Visconti recossi tosto da questo, e il fece avvertito si
disponesse a partire coi soldati novellamente giunti nel castello,
poichè era volontà del principe ch’egli fosse tolto da Trezzo, e
condotto a San Colombano.

Rodolfo a tale comando pensò che ciò null’altro si fosse che un
pretesto per trarlo a morte lungi dagli occhi del padre: tale pensiero
gli si affacciò tosto alla mente, poichè conoscendo gli usi del
tempo, era quanto ei s’attendeva sin dal momento che era stato fatto
prigioniero, e sperando di potere sottrarvisi altrimenti, fece in suo
cuore una disperata risoluzione: stabilì, appena si fosse trovato fuori
di quelle mura, sul sentiero presso all’Adda, di scagliarsi, inerme
com’era, sui soldati che lo scorterebbero, e pervenendo a sciogliersi
da loro, precipitarsi nel fiume e salvarsi a nuoto colla fuga, o perire
piuttosto trafitto dalle spade o nelle acque dell’Adda, anzichè sui
patiboli secreti di Giovan Galeazzo.

Con questa determinazione nell’animo, ed anelando l’ora di trovarsi
nella lotta, recossi nelle stanze del padre a prendere congedo da
lui, da Lodovico, da Ginevra, Damigella e Donnina, che tutti quivi
convennero. Quando furono raccolti, Rodolfo con ferma voce spiegò
che veniva a dar loro l’addio, forse estremo, essendo costretto a
separarsi da essi per essere rinserrato fra altre mura. A queste
parole un disperato dolore trafisse il cuore di Bernabò, e il furore
si dipinse sul suo volto: egli non s’aspettava tal colpo doloroso che
tutte annientava le sue speranze, privandolo del più fidato appoggio
che s’avesse, chè tanto era per lui quel suo vigoroso ed ardito figlio,
quando si fossero offerti i soccorsi ch’egli mai sempre sperava. La
di lui fronte si raggrinzò, gli occhi rosseggiarono per lo sdegno,
e un tremito di rabbia gli si sparse per le membra. Alzatosi, gridò
furibondo, maledicendo Giovan Galeazzo ed i suoi fautori; ma i figli
e le figlie, e frate Leonardo e Donnina gli furono d’intorno, e col
pianto e le preghiere pervennero a racquetarne lo spirito. Allorchè,
calmato, fissò lo sguardo in Rodolfo, larga copia di lagrime gli
rigò le guancie, e porgendo a lui la destra, con voce tremante, che
palesava quanta fosse l’angoscia che chiudeva in petto: «Ah! figlio mio
(esclamò), tu mi sei tolto per sempre: sì pur troppo m’accorgo che si
vuole ch’io chiuda questi miei occhi nel sonno eterno, senza che stia
a me vicino un solo de’ miei figliuoli che m’invochi la grazia del
signore nell’ultim’ora, e preveggo che non vedrò intorno al mio letto
di morte che i volti degli abborriti sgherri del conte di Virtù. Ma
che dico?... Non si stanno forse già preparando le trame per me, per
voi tutti, onde toglierci l’uno lontano dall’altro la vita? Tu, mio
Rodolfo, ne sei la prima vittima.» A tali detti i singhiozzi di tutti
quegli astanti si raddoppiarono; il solo Rodolfo, intrepido in viso,
e con sguardo sicuro, animando ferocemente la voce, disse: «Non temere
per me, padre mio: se lo spirito infernale non mi toglie le forze, io
non perderò al certo la mia vita entro le mura d’un castello; se il
cielo mi protegge, potrebbe avvenire che io riesca ancora formidabile
al nostro oppressore.» In così dire piegò un ginocchio davanti a
Bernabò, ed in tale attitudine ne baciò la mano; ma questi il rilevò,
e gli porse un bacio in fronte bagnandolo di lagrime. Rodolfo, toltosi
all’amplesso del padre, abbracciò Lodovico e le sorelle, strinse a
Donnina ed a Leonardo la mano; a tutti il pianto soffocava la voce,
ed una visibile commozione atteggiava quasi alle lagrime anche i fieri
lineamenti di Rodolfo, quando, raccolta tutta la sua forza, pronunciò
un «Addio,» ed uscì da quelle stanze.

Bernabò rimase immobile pel dolore; Ginevra cadde svenuta a’
suoi piedi; Donnina e Damigella, pallide e tremanti, accorsero a
soccorrerla; Lodovico, straziato da così funesta scena, stava dubbiando
o di seguire il fratello, o di restare a conforto del padre; ma
attenendosi a questo partito, rimase accanto a Bernabò in mestissimo
atteggiamento: frate Leonardo ergeva ammutolito lo sguardo al cielo
invocandone la pietà sovra quei desolati parenti. Bernabò, scosso
alfine da quella tremenda concentrazione, si volse al frate, e gli
disse: «Ah! Leonardo, ora sento sinceramente che non mi resta altra
speranza che quella del Cielo;» e così dicendo riprese in volto i
tratti dell’usata severità.

Rodolfo, posto fra mezzo agli uomini d’armi, salendo un cavallo di cui
un soldato tenea la briglia, uscì dalla gran porta del castello sempre
fermo nel suo ardito proposito. Giunto ch’ei fu colle scorte d’appresso
alla ripida sponda dell’Adda, guardò all’acque, e d’un salto balzato
di sella, si slanciò per calarsi dalla riva; ma uno dei militi fu
pronto ad attraversargli col cavallo la via, e mentre Rodolfo mirava ad
evitarlo, gli altri gli furono addosso. Robustamente ei si dibattè. Ma
i soldati, essendo di molto numero ed armati, l’atterrarono, e cintolo
di nodi duramente il riposero sul cavallo, e fu così tradotto sino a S.
Colombano, dove venne rinchiuso nel mastio della torre.

Quando Rodolfo fu disgiunto dal padre, il capitano Gasparo Visconti
venne chiamato a Milano da Giovan Galeazzo, ed a comandante del
castello di Trezzo ed a guardia de’ prigionieri rimase Iacopo del
Verme. I piovosi giorni e le melanconiche nebbie dell’autunno, che
s’inoltrava, rendevano sempre più triste l’abitar quivi: ingiallivano
i boschi d’intorno, e denudavansi i rami; non più s’udiva l’usignuolo
rallegrare le notti, nè il gaio canto degli uccelletti salutare
il mattino; lunghe schiere di corvi vedevansi la sera attraversare
con alto volo il castello recandosi ne’ boschi dell’Adda; il loro
gracchiare, lo stridire di qualche sparviero che si posava sui merli
delle torri, o il grugnire pe’ boschi d’affamati cignali, erano le sole
voci di esterni esseri viventi che pervenivano a quelle mura.

Dal dì della partenza del figliuolo, neri presentimenti travagliavano
lo spirito di Bernabò. Conscio di ciò che avea praticato assai volte
per togliere di mezzo uomini potenti che si opponevano a’ suoi fini,
pensava che il conte di Virtù non sarebbe stato meno scellerato con
lui, di quello ch’egli stesso era stato con altri. La profonda malizia
d’infingersi per tanto tempo uomo nullo, senza pensieri di regno o
d’ambizione, e l’arditezza con cui condusse il tradimento di prenderlo
prigioniero, bene il persuadevano che Giovan Galeazzo, quantunque
suo nipote, e marito d’una propria figlia, era atto a commettere
qualunque misfatto quando gli fosse tornato utile l’eseguirlo. I
veleni, i pugnali, i capestri erano in quella età modi frequenti di
morte entro le mura de’ castelli; ed una ricca pompa funebre onorava
spesso la vittima dell’occulta prepotenza, e persuadeva al popolo che
un assassino, un parricida era uomo umano e religioso. Per ciò Bernabò
paventava ad ogni istante di finire violentemente i giorni, quantunque
considerasse che non si sarebbe tralasciato di porre il suo cadavere in
magnifica arca sotto le volte d’una cospicua chiesa di Milano.

La crudele aspettativa di maggiori delitti non contristava Ginevra,
poichè il suo cuore innocente, non agitato che dai dolci moti della
pietà e della tenerezza, era straniero a tutti i calcoli di uomini
feroci, il cui sommo bene stava nell’imperare e nell’opprimere. Ma ciò
null’ostante la vivissima afflizione che le aveva cagionato il distacco
del fratello, l’ignorare che fosse avvenuto di Palamede, il non avere
persona da cui ricevere conforto, o nel cui seno versare le proprie
pene, bastavano a rendere infelicissima l’esistenza di quella sensibile
fanciulla. Aumentavano i mali della sua addolorata mente la mestizia
de’ giorni autunnali, l’imponente aspetto di quelle mura che parevano
doverla racchiudere eternamente, e le truci sembianze de’ soldati che
alcune volte scorgea ne’ cortili e nella chiesa. Non più Gabriella co’
suoi motti vivaci potea giungere a trarle il sorriso sulle labbra, nè
i racconti della vecchia Geltrude attiravano la di lei attenzione:
un affanno profondo inconsolabile le occupava tutta l’anima, ne
consumava con interno martiro la freschezza de’ giorni. Solo raggio
di gioia in tante angosce era per lei la memoria di quel momento in
cui le comparve allo sguardo Palamede sotto il verone del castello;
ma le arcane parole colle quali l’aríolo l’aveva preparata a quella
inaspettata apparizione, il rapido dileguarsi di questa, e la strana
fuga di Enzel, le lasciarono una tinta misteriosa di quell’avvenimento,
per cui talora lo dubitava accaduto per opera d’incanto: e quindi
pensava che Palamede fosse estinto, e che quello apparsogli altro non
si fosse che la larva di lui; tal altra fiata, persuadendosi che quella
era stata un’illusione della sua fantasia, credeva che l’amante suo
giacesse in qualche carcere, o si fosse congiunto coi nodi nuziali ad
altra donzella. Spesso però questi dubbii le erano sospesi dalla vista
e dalla lettura del foglio di Palamede che le avea recato l’aríolo, e
in cui le ripeteva la costanza del suo affetto: ella riconosceva que’
caratteri siccome stesi dalla mano dell’adorato cavaliero; ma nascevale
temenza talvolta che fossero fatti per arte negromantica, tremava al
toccarli, e si ritraeva da loro spaventata. In mezzo a tali ambasce
si effondeva ogni giorno in fervidissime preghiere alla Vergine, e ne
bagnava di lagrime il simulacro, invocandone la protezione; ma sentendo
sempre più le pene aggravarlesi nel cuore, credeva che le proprie
colpe e il troppo amore per un essere terreno l’avessero resa indegna
delle grazie del cielo, e con riscaldata fantasia paventava l’eterna
perdizione, e meditava ai tormenti dell’abisso. Abbandonato giaceva il
liuto appeso alle pareti della camera di lei, e nè pur esso giovava
a raddolcire co’ suoni le ore di quella giovinetta infelice, la cui
anima, in tutti i più soavi sentimenti straziata, agognava alla pace
della tomba.

In questo intervallo stando in Milano Palamede sempre incitato
dall’amore ardentissimo per la fanciulla prigioniera, nè d’altro
pensiero curandosi che di ottenerla, tutto aveva posto in opera per
piegare l’animo di Giovan Galeazzo ad accordargliela. Da prima il
marchese Azzo Liprando s’era presentato a questo fine al principe
onde richiedergliela, certo che questi, ch’egli reputava umanissimo e
cortese, non gli avrebbe dato rifiuto; ma ciò appunto fu quello che
avvenne con somma sua sorpresa e rammarico. Allorchè Azzo gli fece
richiesta di Ginevra, era a Giovan Galeazzo da poco tempo giunto il
messo di Gasparo Visconti, recando la novella della tentata liberazione
de’ prigionieri: il sospettoso signor pensò che quella richiesta
fosse fatta ad arte per favoreggiare la trama d’introdurre stranieri
in quel castello, e il rimandò non solo inesaudito, ma con pungenti e
minacciose parole.

Palamede fu sopra modo desolato da questo fallito tentativo, poichè
s’avea riposta gran fidanza nell’impegno del marchese Azzo, la cui
dignità e potenza sembravano dovere ottenergli molti riguardi dal nuovo
signore; e già paventava gli venisse Ginevra negata per sempre, poichè
vedendo l’accanimento di Giovan Galeazzo contro la famiglia di Bernabò,
tremava facesse ad essa pure togliere la vita, o la chiudesse in un
chiostro costringendola a vestir abiti monacali, onde per lei non si
estendesse la discendenza di quel principe, la cui rimembranza volea
in tutto spenta. Non arrischiandosi quindi a far sì tosto nuovamente
richiedere Giovan Galeazzo del concedergli la sua fidanzata, per non
destarne contro di lei lo sdegno, ed irritarne i sospetti, dispose
l’animo a pazientare, siccome Azzo stesso lo consigliava, attendendo
più opportuno momento, che sarebbesi al certo offerto quando la
sicurezza del dominio avesse tolta ogni tema di tradimento dall’animo
del principe.

Il vivissimo affetto del cavaliero non gli lasciava intanto riposo.
Egli non viveva che per Ginevra, e tutte le sue idee s’aggiravano
intorno al modo di avvicinarlesi, o di darle di se contezza. Più
volte aveva instato presso l’aríolo onde il giovasse colle arti sue
a penetrare nel castello di Trezzo; ma l’aríolo sempre rifiutossi
a secondarlo; anzi l’aveva dissuaso da questo progetto siccome
ineseguibile, e certa via a perder se stesso, e peggiorare la sorte dei
prigionieri. Ciò non pertanto Palamede s’era più volte recato nelle
vicinanze di Trezzo; seguito da Enzel. Lasciava i cavalli nell’isola
di Mandellone, e guidato dall’aríolo, esperto conoscitore dei luoghi,
s’accostava inosservato al castello, ed era pago del contemplare le
mura impenetrabili che rinserravano colei che avea in suo cuore giurato
di ottenere, o di perire. L’aríolo gli additava il verone e le finestre
nelle stanze ove abitava Ginevra, e d’onde era partito quel canto che
il rese una notte felice; e il cavaliero meditava fra se, e poneva
l’ingegno e la cupidigia di Enzel a tutte le prove, onde ritrovasse
qualche mezzo per cui pervenire a parlare, o almeno vedere l’amante: ma
quel castello era troppo da vigilanti armati in ogni punto esattamente
guardato, e l’appressarvisi a tiro d’arco sarebbe stata pericolosissima
prova; nè Enzel, il quale teneva al vivo impresso nella mente per
qual raro caso fosse sfuggito alle ricerche de’ soldati che volevano
abbruciarlo, s’arrischiava porre in uso arte o raggiro per cercare di
introdurvisi, dal sotterraneo della torre nera, o della cappella de’
morti. Onde per quanti disegni componesse colla fantasia Palamede,
nessuno gliene s’appresentava che valesse a suggerirgli un mezzo o di
forza, o d’astuzia, per impossessarsi di Ginevra, ed era necessitato ad
attenersi a quel solo di averla per consenso di Giovan Galeazzo.

Questo principe frattanto, chiamato da gravi cure di stato, s’era
recato a Pavia, nel castello della qual città, sua corte paterna,
soleva abitare con sua madre Bianca di Savoia, e la moglie Caterina,
che, come figlia di Bernabò, non volle fosse presente in Milano
al tradimento commesso contro il di lei padre. Allorchè ciò seppe
Palamede, avendo spesse volte veduta Caterina nei palazzi di Bernabò e
nella casa di Donnina de’ Porri, pensò che questa avrebbe per lui e per
Ginevra preso caldo interessamento, ed avrebbe assunta ogni cura per
rendere assenziente il marito alle loro nozze. Ma gli fu detto che era
assai difficil cosa il poter favellare a Caterina, mentre per ordini
secreti di Giovan Galeazzo, che di tutto temeva, ella veniva guardata
con molto rigore onde non le si accostasse persona invisa od ignota a
Giovan Galeazzo, sebbene la tenesse d’altra parte circondata di pompe e
di principeschi onori.

Palamede tentò pure di vincere tale ostacolo. Immerso com’era di
consueto in tristi pensieri, soleva passare alquante ore del giorno
nei solitarii recessi del convento di San Marco, dove fra molti
libri e religiosi pensieri trovava occupazione. Aveva fatta per
ciò stretta conoscenza con frate Lanfranco Guincinelli priore di
quel convento, quello stesso per cui lo zio Baldizone gli diede in
Carsenzago un foglio in cui lo raccomandava calorosamente. Palamede
aveva a Lanfranco palesata la causa della sua melanconia. Lanfranco,
finissimo conoscitore degli uomini, intendeva di leggieri che Giovan
Galeazzo non si era tale da lasciarsi piegare da guelfeschi maneggi,
quantunque a questa parte piuttosto che alla ghibellina era sembrato
inchinevole quando viveva a null’altro dato che agli atti religiosi:
dubbiando perciò dell’essere ben accolto dal principe, non aveva
offerta l’opera sua a Palamede. Allorquando però il cavaliero narrògli
che stando Giovan Galeazzo a Pavia egli si prometteva felice riuscita
alle sue speranze, se fosse pervenuto ad istruire Caterina di quanto
chiedeva, il che era per lui impossibile, Lanfranco si esibì di
superare per lui non solo qualunque ostacolo a ciò s’opponesse, ma di
aggiungere in favor suo le parole di Bianca madre del principe. Era
desso amicissimo di Alberigo da Bereguardo priore degli Agostiniani
di San Pietro in Ciel d’oro di Pavia, il quale aveva a suo talento per
molto tempo governato lo spirito di Giovan Galeazzo; e morto esso lui,
aveva sempre continuato a possedere l’intimità di Bianca, ed era il
solo che tenesse libero accesso in Pavia presso di lei e di sua nuora
Caterina. Lanfranco, ammaestrato uno de’ suoi monaci di quanto dovesse
operare, lo mandò a Pavia a frate Alberigo, e rincorò Palamede onde
stesse d’animo sicuro, che finalmente avrebbe ottenuto ciò che tanto
desiderava.

La trepidazione in cui visse il cavaliero aspettando da un istante
all’altro il momento di poter volare a rivedere Ginevra, fu pari al
suo dolore, o piuttosto alla disperazione, quando un mattino dopo tre
giorni dall’invio del messo, con mesto viso appresentatosi a lui frate
Lanfranco gli disse: «Figliuol mio, il Signore non ha concesso che le
tue brame siano esaudite. Bianca e Caterina hanno tutto adoperato per
ottener da Giovan Galeazzo che ti sia data Ginevra; ma egli fermo in
suo proposito rigettò le loro istanze: perciò ti do consiglio a non
tentare più l’animo di lui; chè se non si piegò alle richieste della
madre e della moglie, nessun’altra persona vorrà cedere se Iddio non
gli cangia il cuore, e tu insistendo attireresti l’ira sua; però ti
raccomanda alla divina Provvidenza, ch’ella suole con impreveduti
avvenimenti, quando meno si attende, esaudire i voti di chi sa
meritarne le grazie.»

Ma il cavaliero, sordo a miti consigli, più non spirava a queste parole
che odio e vendetta. La durezza di Giovan Galeazzo gli sembrava sì
tirannica e capricciosa, e tanto addentro lo feriva nel cuore, che ei
meditava le più disperate imprese per vendicarsi: e certo a qualche
tremendo fatto si sarebbe lasciato condurre se un singolare avvenimento
non fosse sorto di mezzo a variare il destino di lui.

Enzel Petraccio si era legato ad amicizia con molti altri aríoli,
tempestarii e vagabondi, alcuni de’ quali andavano al servizio de’
potenti ne’ castelli e nelle città, e servivano loro di spioni, o
di guide negli assalti e nelle guerre; altri seguivano le torme de’
soldati di ventura, i quali spesse volte facevano il mestiero degli
assassini: non formavano però gli aríoli lega coi _bravi_ e cogli
sgherri, perchè questi usavano nei loro fatti la prepotenza colla forza
dell’armi, e quelli, sebbene portassero sempre tra i panni pugnali,
punte, mezzelame, e prezzolati commettessero ogni sorta di delitti,
pure aveano per divisa la pacatezza ed il far umile, nè vestivano
armature, ma abiti plebei, e larghi cappelli: in somma adoperavano
tutti que’ modi che giovassero ad ingannar la gente facendosi credere
o mendicanti, o pellegrini, o villici, o uomini del popolo. Essi però
costituivano una società, e si riconoscevano per certi segni, parole e
costumanze particolari.

In Milano eranvi molte persone di questa professione, poichè vi
venivano da tutte le parti d’Italia, e qui s’avevano una specie di
riunione centrale d’onde poi si diramavano in diversi altri paesi. Per
non dare di loro sospetto, e non arrischiare d’essere arsi come maghi o
stregoni, del che era facile in que’ tempi destare dubbio se si fossero
lasciati scorgere a congregarsi in secrete combriccole, avevano gli
aríoli un luogo di convegno, fuori dalla città dalla parte occidentale,
affatto appartato, sebbene non molto lungi dalle mura.

Enzel, che venne riconosciuto da loro per sapientissimo, siccome
esperto nell’astrologia, nelle arti di formare secreti farmaci
e pozioni, fu ricercato si portasse un giorno nel luogo del loro
convegno, ed egli v’acconsentì. Era questo un giorno sul finir di
novembre; giusta il convenuto Enzel sul far della sera s’appostò presso
la muraglia dell’orto del Monastero Maggiore, e quivi attese un altro
aríolo di nome Gallinaccio. Allorchè questi passò, avvertito dal di
lui fischio, Enzel il seguì, ed uscì seco da Porta Vercellina, che
trovavasi, come abbiam detto altrove, nel luogo in cui ora sta il ponte
del Naviglio, che a que’ tempi non era che una larga fossa la quale
si passava sovra un ponte levatoio: fuori della porta incontravasi il
Borgo delle Grazie, al terminar del quale non eravi, come al presente,
una strada diritta, solida, larga, ma bensì una ristretta via, guasta,
avvallata fra due alte sponde, tutta ingombra di sassi e pantani.

Giunti al cominciar di questa via Enzel e Gallinaccio si riunirono, non
essendovi persona alcuna a cui questi due insiem congiunti potessero
cagionar sospetto. Quando ebbero fatto qualche tratto di strada
entrarono sulla destra in un piccolo sentiero che s’innoltrava fra alte
piante. Il giorno non era caduto affatto, ma la nebbia che s’alzava
oscurava l’aria, e la rendeva umida e fredda; a traverso ai nudi rami
degli alberi, da cui il gelido soffio del vento staccava le ultime
foglie disseccate, appariva un cielo di tristo color cenericcio, alcun
poco biancastro ad occidente, verso cui camminavano gli aríoli. Dopo
alquanti passi il sentiero cessò, il bosco divenne più folto, ed essi
entrati in quello giunsero alla sponda dell’Olona. Sopra un dossetto
presso a quel piccolo fiume stava un diroccato edifizio cinto da
rottami incespati di spine e di roveti; dal lato da cui vennero que’
due, scorgevasi un elevato muro che aveva costituita una parete di quel
fabbricato, e che ora stava solo eretto fra le ruine, e dalle finestre
del quale vedeasi l’opposto cielo. Gallinaccio condusse Enzel fra gli
spinai verso questa muraglia, e pervenutivi dappresso, discesero in
un fossato asciutto che circondava l’edifizio, nel quale scorsero una
porta, dalle cui fessure intravedevasi un lume lontano. Gallinaccio
bussò tre volte a quella porta, e diede altrettanti fischii; si udì
taluno appressarsi, che tolse ai battenti una spranga, e li aprì.
Entrarono que’ due, fu richiusa la porta, ed essi, passando sotto una
lunga oscura volta, giunsero in un’ampia stanza, la metà superiore
della quale era ripiena dal fumo che tramandava un gran fuoco acceso
in mezzo ad essa. Dintorno a questo stavano molti aríoli disposti in
variate posizioni.

Taluno era sdraiato sul pavimento, altro seduto sovra le legna che
servivano ad alimentare il fuoco; questi incrocicchiava le gambe alla
turchesca, quegli rannicchiato sporgeva il capo fra i ginocchi, ma
tutti però tenevano il volto in verso alla fiamma, la quale, secondochè
risplendeva vivace, od andava calando, ne illuminava variatamente le
strane fisonomie e gli abbigliamenti, progettandone le ombre, fatte per
la distanza gigantesche, sulle ruvide pareti di quella camera, o direm
piuttosto cantina o sotterraneo.

Vestivano essi tutti in foggie particolari. L’uno andava coperto da
una zimarra a doppio colore, rossa sul petto, verde sul dorso, ma
lacera e rattoppata; l’altro aveva sul corpo un saione fratesco, questo
indossava una schiavina; portavano tutti però o gabbani, o casacche, o
tabarri di colori oscuri, rossi o cilestri, ma di grossolani tessuti.
Alcuni coprivansi la testa con cappe e cappucci, altri la tenevano
scoperta, e mostravano calve fronti od irte e scarmigliate capellature,
e ruvidi crini cadenti in ciocche a mischiarsi colle scomposte barbe e
le folte basette.

«Ecco una nuova volpe che viene al covo (disse una rauca voce rivolta
ad Enzel appena questi fu colà entrato). — Nuova a questo covo (egli
rispose), ma vecchia per i pollai e le lepri. — Ti conoscono assai
bene (disse Gallinaccio), e puoi stare fra noi ed esserci maestro. Ti
ritira (soggiunse ad uno che stava più degli altri presso la fiamma),
e lasciaci, o Calabrese, sedere vicini al fuoco, perchè veniamo da
dove spira un’aria di neve che ci ha intirizziti.» Si ritrasse il
Calabrese, ed accovacciatosi in altra parte: «Prosegui (disse con
accento di sua nazione), Masiello, a raccontare come sia finita la
storia della regina Giovanna.» Masiello, che stava a lui di prospetto,
e verso cui tutti rivolsero ansiosamente gli occhi, con voce di chi
riprende una storia così parlò: «Andò all’inferno nell’istesso modo
che vi aveva fatto andare otto de’ suoi innamorati e due mariti. Due
giorni dopo che fummo giunti ad Aversa, Cecarello, che ivi ne aveva
condotti, eseguendo l’ordine del signor duca Carlo Durazzo, mi palesò
cosa avessi a fare, e mi fece aprire l’uscio della camera della torre
ov’ella dormiva. Vecchia così come era tentò trarmi ai lacci, e vedendo
di non riuscirvi invocò il cielo e tutti i santi; ma Cecarello m’avea
prefisso il tempo, e il di lei collo era sì sottile, che non sudai a
sbrigarla. Mi fu dato per sì picciola fatica più oro che quando venni
mandato da Napoli, attraversando di verno gli Appennini, a Bologna
a prendere da certo speziale un’acqueruola che non seppi poi mai chi
l’abbia bevuta. — Per quant’oro toccasse allora la tua mano, o Masiello
(riprese un altro), non sarà certo stato tanto quanto quello che un
barone Piccardo tolse al duca d’Angiò ch’era venuto per quella stessa
regina in Italia, e metà di quell’oro lo recai io a Venezia, dove
il Francese mi fece seco a parte a scialacquarlo. Ma ti debbo però
dire che me lo era guadagnato con maggior fatica della tua. Il Papa
d’Avignone mi avea spedito a Parigi a portare lettere al duca d’Angiò,
imponendomi di servire ad esso di guida a discendere per l’Alpi:
eseguii tale comando, e quando fummo di poco col Francese inoltrati
in Italia, il duca d’Angiò mi diede ordine che mi recassi a Roma dai
Colonna, ed a Napoli da Giovanna per certe intelligenze: giunto nella
prima città, il Papa di Roma mi fece prendere, e voleva mi appiccassero
in castel Sant’Angelo, ciò che avveniva di certo se non mi fossi calato
per le mura; ma finalmente arrivai anche a Napoli, ed adempiute le
commissioni, a traverso all’armata di Carlo Durazzo pervenni a Bari,
dove il duca d’Angiò m’aveva imposto di recarmi; egli era colà, ma
più non aveva nè soldati nè danari, e null’altro possedeva di tutto
ciò che aveva recato di Francia fuorchè la spada e il valore: perciò
senza nulla darmi, ma facendomi grandi promesse, pregommi riconducessi
nella sua terra il barone Piccardo, che avrebbe recato molto oro e
soldati: il feci infatti; e il Piccardo, giunto a Parigi, ebbe l’oro
dal re e dai fratelli del duca; ma soldati non ne ricercò, nè volle,
perchè piacevagli marciar spedito: quest’oro ce lo distribuimmo sulla
persona e sui cavalli, e per le vie diaboliche del paese degli Svizzeri
tornammo in Italia, ed andammo a Venezia; dove lo si profuse _gaîment
pour dames et bon vin_, come soleva dire il Piccardo; e il duca d’Angiò
seppi poscia che morì a Bari di fame.»

Dopo questo racconto, l’un l’altro eccitandosi, narrarono moltissimi
fatti da essi loro eseguiti, o di cui erano stati spettatori: quasi
tutti consistevano in astuzie, raggiri, insidie adoperate per impedire
od anche agevolare conquiste di terre e castelli, incendii, assassinii,
rapimenti di donne e fanciulle; ciò che rendeva singolari quelle
narrazioni, era l’influsso sugli avvenimenti umani che attribuivano ai
prestigi, ai pianeti ed alle magiche virtù di molte sostanze naturali
preparate con certe arti o segni stravaganti.

Poscia che ebbero a lungo favellato, l’ultimo che parlò disse ad uno
che gli stava di fianco: «Andreazzo, è tempo oramai che ci bagniamo
la gola; non hai tu portato qualche poco di vino? — Non beveremo, per
Satanasso, sin che non abbiamo detto qualche cosa di meglio delle
ciancie che si son fatte finora.» Così pronunciò con voce grave e
rude, che non s’era mai intesa durante i ragionamenti, una persona la
quale, involta sino alla metà del viso in un mantello a lungo pelo
nero, e tenendo calato un berretto pur di pelo sino alle ciglia,
movendo sotto assiepate palpebre due bigi occhi feroci, s’aveva la
forma piuttosto d’orso che d’uomo. «Non abbaiare, Can-di-monte (a lui
rispose Andreazzo), se bevessimo anche tosto, io tengo qui tal liquore
che non ti parrà certo decotto amaro, ma se tu hai a dire alcun che
d’importante, dillo col malanno che ti porti, che ti ascolteremo.»

Can-di-monte, che tal era il soprannome di quell’ispida figura, volse
ad Andreazzo uno sguardo minaccioso di sdegno, quindi disse: «A ciò
che è avvenuto io non penso mai, e lascio ai cantafavole le parole o le
novelle: io voglio fatti ed azioni, e perciò bado a quel che faccio o
che dovrò fare; il passato è come se non fosse mai stato. Voi v’avete
stancata la lingua con vecchie storie, e nessuno ha palesato ancora
ciò che farà domani, onde possiamo porgerci mano a condurre a buon fine
qualche impresa.»

— «Hai ragione, Can-di-monte (soggiunse l’un d’essi); io non so come
mai m’abbia a lungo garrito in inutili baie, mentre ho un rilevante
messaggio da farti da parte di un tale, che ieri ritrovai presso
Magenta, e che mi disse che ti risovverresti chi fosse, rammentandoti
il Frate Rosso. — Oh! il conosco assai bene, è Aldobrado Manfredi;
e che ti disse egli per me? — Ei mi ha detto che domani a notte ti
attende nelle valli di Ticino, presso al gran pioppo nel bosco del
Crocifisso, dove saranno seco lui i soliti amici. — Ma non sai tu,
Squarcia (chiese Can-di-monte), per qual motivo? — Te lo dirò, ma
non lo seppi da lui: esso vuole appostarti sulla strada di Novara per
dargli segnale del momento in cui passerà il duca Lodovico di Francia,
e gli altri signori i quali vengono a Milano a nozze, poichè egli ha
disegno di guardar loro ne’ forzieri per vedere quali doni rechino
alla signora Valentina. — Si è assunto un difficile impegno (disse
quello che aveva narrata la storia del duca d’Angiò), poichè conosco i
cavalieri di Francia, ed hanno spade affilate, e le menano di taglio e
punta, che guai dove colgono. — Sappi (gli rispose Can-di-monte), che
Aldobrado non mette rete che non prenda pesce; sai che è stato più anni
confidente di Bernabò: allora ho fatto per suo comando delle operazioni
che s’avevano altre spine, ed egli ha date prove sufficienti di quanto
valga. — Mi fu narrato (proseguì Squarcia) che, dopochè il suo padrone
venne mandato a Trezzo, si è dato a condurre una masnada a svaligiare i
passeggieri, e non vi sono fanti che battano la sua traccia, perchè si
è reso formidabile. — Ma come deve esser ella la faccenda dei Francesi?
(disse Enzel Petraccio, che si fece attentissimo a raccogliere tutte
le parole su tale argomento). — Come vuoi che sia? Aldobrado fu
avvertito che il duca Lodovico volendo far grata sorpresa a Giovan
Galeazzo, onde giungere inaspettato a sposarne la figlia, passerà fra
tre giorni con pochi cavalieri e senza scorta dalla strada di Novara,
ed Aldobrado co’ suoi li assalirà, perchè miglior bottino a’ nostri
giorni non si potrebbe sperare.» Can-di-monte volgendo ad Andreazzo
gli occhi, da cui trapelava l’allegrezza recatagli da tale notizia:
«Porgi ora da bere (disse), e se è vino che mi piaccia, ti voglio fra
quattro giorni donare una delle più belle gioie del duca Lodovico. —
Potresti anche fra quattro giorni (disse Andreazzo) lasciare il pelo
sotto il rasoio del boia;» e in così dire s’alzò, e venne in un angolo
di quella stanza, smosse una tavola dal muro, e levò un gran vaso che a
due mani portò in mezzo al circolo presso al fuoco: molte legna furono
gettate ad avvivare la fiamma, ed una scodella di terra girò d’intorno,
riempiendosi ad ogni istante del vino che quel vaso conteneva.

Riscaldati da quel liquore, lunga pezza fecero i socii parole, risa
e gridi; ma a poco a poco i più s’addormentarono, altri rimasero
ragionando a bassa voce: la fiamma mancando d’alimento si spense, e
restarono nell’oscurità rotta solo dal rosseggiar de’ carboni attizzati
di quando in quando da alcuno de’ più vigilanti con una palla di ferro.
Sorto finalmente il mattino, ad uno ad uno uscirono tutti da quella
casa, e si dispersero disgiuntamente.



CAPITOLO IX.

    Ma qui pur gli oppressori omicidi
      Or s’accampan la legge insultando;
      Qui si sente un tumulto di stridi
      Prorompente lontano lontan.
      ...........................
      E non sai che col vanto di prode
      Or sovente dal laccio si pende?
       GUIDOBALDO IL CACCIATORE. _Mel. Lir._


L’antico arco, che in Milano dicesi volgarmente _voltone_, che sta
al ponte del Naviglio di Porta Ticinese, formava a’ tempi de’ quali
parliamo la porta stessa, per cui la chiesa di Sant’Eustorgio e l’unito
convento di Domenicani, che sono alquanto al di là di quel voltone,
si ritrovavano in un sobborgo della città. Per entro un’appartata
via di questo sobborgo, alla quale facevan parete da un lato il muro
del cimitero posto a canto alla chiesa di Sant’Eustorgio medesimo, e
dall’altro San Barnaba al fonte, con varie antiche case, s’inoltrava
a passi rapidi Palamede. Era esso ravvolto in un mantello che
scendendogli al ginocchio lasciava vedere al di sotto una parte della
lunga spada che teneva sospesa al fianco, e il suo capo era coperto con
un berretto senza piume od altri adornamenti. Camminò egli frettoloso
sin presso alla metà di quella via, poscia ad un tratto soffermossi in
atto pensoso.

Già spuntato era il sole, ma il cielo nebbioso rendeva incerta la
luce: rade persone scorgevansi passare per quella via, e queste erano
o villici o servi che recavano le provvigioni al convento. Palamede
girò lo sguardo, investigando se alcuno lo tenesse di mira; indi, colla
risolutezza di chi prende irrevocabilmente un partito, proseguì il
cammino. Giunto al terminare di quella strada, stava per porre il piede
sul limitare d’una casa, quando sentendosi afferrare pel mantello,
udì dire: «Dove andate, cavaliero?» Ei si rivolse con isdegno; ma
veduto chi era, «Che vuoi tu, Enzel Petraccio? (gridò con sorpresa).
— Io voglio, signor Palamede (disse Enzel con certa voce di preghiera
e di comando insieme), che voi non andiate in questa casa.» Un lampo
d’ira balenò a questi detti in volto a Palamede; poichè un cavaliero
armato non era uso soffrire da altri il benchè minimo contrasto senza
por mano alla spada; ma riflettendo tosto che l’aríolo non poteva aver
così parlato che col pensiero d’arrecargli vantaggio, «Sai tu (disse
rappacificato) perchè io qui venni a quest’ora? — Non v’ho io provato
che sapeva tante altre cose che v’appartenevano? Or vi persuaderò che
non ignoro neppure la causa per cui siete qui venuto: in questa casa
prese alloggio Gherardo Cappello, il quale è stato mandato a Milano
dal signor di Verona per ragunare e disporre alla rivolta i nemici di
Giovan Galeazzo: così egli fa credere ai varii che diedero retta alle
sue parole, e voi, uno fra questi, venite a riporvi nel novero dei
congiurati. — Sì tu lo sai (rispose Palamede): io vengo a congiungermi
a quelli che hanno giurato di vendicare Bernabò; ma è Giovan Galeazzo
stesso che mi vi spinge. Egli, non sazio d’usare del suo tirannico
potere contro quelli che potrebbono a buon diritto disputargli
l’usurpato dominio, sta fermo per crudeltà in negarmi una fanciulla
che è a me legata per sacre promesse, oh! sentirà quando questo ferro
gli passerà il cuore, che non stanno tutti nel castello di Trezzo quei
di cui deve paventare. — Ah, signor Palamede, che dite mai! (esclamò
l’aríolo, fissandolo con occhi pel terrore di tale idea allargati con
ispavento) questo pensiero vi fu al certo posto in cuore da uno spirito
infernale: tutti i segni del cielo stanno contro di voi se durate
in tale proponimento. Allorchè mi deste l’incarico di gire scoprendo
quali cose si dicessero dal popolo in riguardo di Bernabò e di Giovan
Galeazzo, non v’ho io rapportato, siccome aveva udito, che tutti
mostravansi accaniti contro l’antico, ed affezionati al nuovo signore?
Or bene, non pensate voi che assalire Giovan Galeazzo è lo stesso che
rendersi tutto il popolo nemico, dalle cui mani non riesce facile il
sottrarsi, e quindi la corda o la ruota sarebbe il genere di morte men
doloroso a cui anderebbe incontro chi attizzasse la rivolta?»

Si accostò in così dire all’orecchio di Palamede, che alle di lui
prime parole s’era fatto meditabondo, stando immobile colle braccia
incrocicchiate sul petto; e traendolo dolcemente lontano da quella
casa, con voce a cui, sebbene sommessa, cercava dare un tuono profetico
e misterioso: «Ancorchè aveste certezza (disse) di compire da voi solo
il vostro disegno, non vi fidate di questo Veronese. Dove sono i suoi
soldati, i capitani atti a resistere a quelli del conte di Virtù?
Credetemi! egli cerca di attirarvi nella rete per darvi nelle mani
di Giovan Galeazzo, onde renderlo amico del suo signore.» Palamede,
colpito da tali detti volse uno sguardo fiero a quella casa, indi disse
con instanza all’aríolo: «Sai tu questo di certo?» Ed Enzel, sempre
traendolo più da quel luogo lontano: «Dovreste essere persuaso che io
non soglio ingannarmi; ma vi lascio supporre che il Veronese abbia
realmente a sostenervi in un tale fatto: non è egli inevitabile che
al primo manifestarsi d’un movimento di ribellione Giovan Galeazzo fa
togliere la vita a Bernabò, ai figli, a Ginevra? — Qual via dunque mi
rimane per ottenerla? (proruppe con forza il cavaliero, interrompendo
l’aríolo, quasi non potesse sostenere ch’ei proseguisse con tali
per lui terribili parole). — La via (continuò l’aríolo, contento del
trionfo che conobbe di aver riportato sull’animo di Palamede), la via
si troverà; forse essa non è tanto discosta o difficile come potete
credere: per ora però è d’uopo che facciate forza a voi stesso, e vi
astenghiate da qualunque tentativo.»

Un atto d’impaziente dispetto s’appalesò sul volto a Palamede; e il
di lui mantello, che s’aprì, lasciò vedere la sua mano, che portata
all’elsa della spada la premeva con forza al fianco: involontario
moto che indicava l’interno sforzo nel comprimere l’ira, che tante
opposizioni alle sue brame gli destavano in seno. Enzel, il quale
penetrò che la mente del cavaliero era agitata da fiera tempesta, pensò
essere quel momento opportunissimo a prepararlo ad un progetto che
egli aveva in suo capo formato nella congrega degli aríoli; quindi,
«Non dovete (disse) rimanervi frattanto in un ozio che la vostra
abitudine alle vicende delle armi vi renderebbe penoso. Io voglio
darvi una notizia che vi porgerà campo di vendicarvi d’un traditore
e di reprimere l’audacia di un ribaldo assassino.» Palamede gli
chiese ansiosamente chi questi si fosse; e l’aríolo palesando essere
Aldobrado Manfredi che a lui aveva tentato togliere la vita nel bosco
di Trezzo, narrò il divisamento che quegli avea fatto d’assalire sulla
strada di Novara, presso al Ticino il duca Ludovico di Francia, che
veniva alle nozze della signora Valentina, figlia di Giovan Galeazzo.
Gli ascosi e secondarii pensieri che la narrativa delle disposizioni
dell’assaltamento del duca aveva fatti nascere nell’animo dell’aríolo,
non sorsero a tale novella in cuore a Palamede, la cui mente fu
invasa da tutto lo spirito guerriero e di vendetta, di cui in quella
età non andavano esenti anche i più umani fra quelli che facevano
professione delle armi. Tutto pieno del desío di trovarsi al cimento,
e concentrando in questo solo ogni altro pensiero che lo conturbava,
rifece a passi rapidi, seguito dall’aríolo, quella stessa strada per
rientrare in Milano.

Pervenuti alla via che passando innanzi a S. Eustorgio metteva a Porta
Ticinese, videro un improvviso accorrere di popolo, uno affacciarsi
di genti alle finestre, ed udirono le campane di quella chiesa dare
in suoni festosi. «Arriva il signor Giovan Galeazzo da Pavia (disse
l’aríolo a Palamede); ora che qui sta solo a far da padrone, troverà
nelle sale dei ricchi palazzi, e fra le dame di Milano, un più
aggradevole soggiorno che nelle sacrestie della sua chiesa del castello
e tra i monaci di Pavia.» Si vide infatti il principe coperto da un
fino drappo orlato di pelliccia venire sovra un bianco destriero: gli
cavalcavano al fianco alcuni nobili capitani d’armi, e lo seguivano
molti militi armati in tutto punto. Il popolo, che stava stivato in ale
lungo la strada, faceva eccheggiare l’aria di evviva al suo passaggio.
Quando Giovan Galeazzo fu giunto dappresso al tempio di Sant’Eustorgio,
rivolse verso la porta di quello il proprio cavallo, e così fecero gli
altri. I frati Domenicani usciti dalla chiesa gli vennero incontro:
due persone del suo seguito, balzate da sella, si recarono a lato
del di lui cavallo; e tenendogliene le staffe, gli diedero braccio a
discendere. Egli porgendo con affabilità il saluto a que’ frati, che
con atti di umiltà e di sommo rispetto lo accoglievano, s’avviò alla
chiesa, dicendo essere desideroso di assistere alla celebrazione d’una
messa avanti all’altare de’ tre Re Magi, per rendere grazie a Dio della
sua felice venuta.

I battenti della porta della chiesa furono spalancati, e Giovan
Galeazzo col seguito vi entrò. Un inginocchiatoio adorno di preziosi
ornamenti, con cuscini di seta frangiati in oro, venne recato innanzi
alla cappella dei Re Magi; e il principe piegato su quello, fosse
abitudine, fosse sincero sentimento di religiosa pietà, si compose in
attitudine d’intenso pregare.

Da tutte le celle e le stanze corsero alla sagrestia i frati ed i servi
del convento, e si affaccendarono ad allestire speditamente quegli
oggetti che potevano servire a rendere più splendido l’altare e pomposa
la celebrazione della messa: venne accesa gran quantità di lumi; si
scoprirono le più belle reliquie, e tra tutte la più preziosa, quella
di S. Pietro martire, racchiusa in aurea conserva da molti gioielli
coperta; si trassero i più ricchi paramenti e gli abiti sacerdotali di
maggior riserbo, e col massimo decoro incominciò la religiosa funzione,
che l’incessante suonare dei bronzi annunziava.

Le porte della chiesa eran rimaste aperte; e il popolo, cui i militi
impedivano d’entrarvi, stando al di fuori affollato, rimirava
con divozione e maraviglia quegli splendori dell’altare, ed il
raccoglimento di Giovan Galeazzo e de’ nobili suoi seguaci. Palamede e
l’aríolo trovaronsi essi pure frammisti a quella turba, e guardavano
anch’essi curiosamente il principe; ma i loro pensieri erano d’assai
diversi da quelli delle persone da cui erano circondati. L’aríolo,
astuto e conoscitore siccome era delle altrui ipocrisie, non lasciavasi
dalle apparenze sedurre, e stimava entro di se che quel fervor
religioso del conte di Virtù fosse, piuttosto che al vero scopo
della preghiera, diretto ad ingannare il popolo; nell’animo del quale
quegli esterni atti di pietà sì pubblicamente praticati infondevano
venerazione, e recavano convincimento essere dotato di grande bontà
chi li eseguiva. Nel cuor di Palamede all’incontro quella vista non
mosse che sdegno: egli teneva per fermo che l’eccesso della tirannia
fosse stato da Giovan Galeazzo consumato contro di lui in rifiutargli
replicatamente la prigioniera di Trezzo; quindi si persuadeva che
avendo esso un animo così duro e cattivo, falsa e simulata era l’aria
di divozione con cui stava innanzi agli altari; e poco avvezzo a
frenare l’impeto de’ proprii sentimenti, «Cuor di serpe (esclamò), i
santi non ascolteranno i tuoi bugiardi voti....» ed avrebbe proseguito
imprecando contro di lui, con pericolo d’attirarsi l’attenzione e
l’ira degli astanti, se Enzel noi costringeva con rapide parole al
silenzio, ed aprendogli un passaggio in mezzo alla folla, nol traeva
di là lontano; per buona sorte nessun individuo del popolo aveva
prestato orecchio a que’ detti, per cui, senza che persona al mondo
loro abbadasse, ripresero la strada di Porta Ticinese e rientrarono in
Milano.

L’aríolo, cui pressava sommamente l’impresa del cavaliero contro
l’aggressione del duca di Francia, meditata da Aldobrado, si diede
con ogni studio a ricercar di sapere il giusto momento in cui
questi sarebbe passato presso il fiume Ticino, luogo ove l’assassino
ritrovavasi; e col mezzo degli altri aríoli venne a capo d’aver notizia
che il duca Ludovico era pervenuto di già a Novara, e il giorno
seguente sul far della sera sarebbe giunto a Milano: fece per ciò
calcolo che al mezzodì all’incirca dovea giungere al fiume, e corse ad
ammonirne il cavaliere, che ansiosamente ne attendeva l’istante.

Appena comparve l’alba di quel giorno, Palamede abbandonò tacitamente
le piume e il palagio del marchese Azzo Liprando, mentre, per non
cagionare in quella casa agitazioni per lui, avea già mandato lo
scudiero coi cavalli e le armi in una lontana abitazione. Quivi
l’attendeva l’aríolo che si era svisato addossando abiti da taglialegna
e portando una scure, onde mischiarsi, se ne veniva il destro, fra i
ladri, per meglio spiarne i moti senza essere riconosciuto. Palamede
vestì la sola armatura del petto, chè non stimava degno di prode
guerriero l’armarsi a tutto punto per combattere assassini; ricoperse
il capo con una celata lombarda senza cimiero, e con visiera e fori
traversali; prese una lunga spada, non volle nè scudo nè lancia;
e salito in arcione, seguito dallo scudiero, armato esso pure, e
dall’aríolo, prese via ver Porta Vercellina.

Lasciate le mura della città, Enzel si pose di buon passo a camminare
a fianco del cavaliero. Indurata dal gelo era la strada, gli alberi
e il terreno biancheggiavano per le brine; sorgeva il sole come
un rosso disco, ravvolto nelle nebbie, dietro le torri di Milano.
L’aríolo, per distrarre Palamede dai tristi pensieri che la melanconica
vista dell’invernale squallore e il languire della natura gli andava
aumentando, si fece a narrare varii racconti tratti da storie, vere
in parte ed in parte con fino artificio da lui adattate alla di lui
situazione di animo; e frammezzando queste narrazioni col dispiegare il
modo a cui dovea egli attenersi nell’eseguire l’impresa alla quale si
era accinto, manteneva nel di lui cuore un entusiasmo che lo spirito
d’avventure dei tempi e il desiderio di vendetta facevano ancor più
vivo.

Passata a guado l’Olona, povera d’acque nella stagion delle nevi,
incontrando qualche rustico casolare e villaggio di distanza in
distanza, pervennero presso Magenta. Enzel consigliò il cavaliero
di non passare per quel borgo, onde non dar sospetto di ciò a cui
intendevano; ma ponendosi per un sentiero che correva fra i campi
ne andasse oltre al di fuori: «Io (disse) che con questi abiti sarò
sconusciuto, entrerò nel borgo e andrò nella casa dell’oste, per
osservare se vi si trovino persone le quali sappiano quanto sta per
accadere; e ci porrei il capo che alcuno della squadra d’Aldobrado
vi sta in sentinella per correre a recar avviso a compagni se mai
apparissero sgherri o soldati.»

Il cavaliero seguì il consiglio di Enzel; ed attraversando collo
scudiero, rasente una siepe di piante, alcuni campicelli, riprese al di
là dell’abitato la strada principale; soffermò il cavallo attendendo
l’aríolo, il quale dopo alquanti minuti il raggiunse a frettolosi
passi; ed appressatosi gli disse: «Due spioni dei ladri, travestiti
da miserabili storpi, stanno appostati alle estremità del borgo; e
fingendo chiedere l’elemosina, si accostano alle persone che vi entrano
od escono, e le esaminano attentamente: io li ho ravvisati sotto i loro
cenci, ma essi non conobbero me al certo. Nell’osteria, ho chiesto
carne di cervo all’oste; ed egli mi rispose che già da qualche tempo
più non ne cuoceva, a causa che occupando gli assassini i boschi e
le vallate d’intorno, nessuno oramai s’arrischia girne alla caccia;
e soggiunse che i signori del contado ed i villici, che talvolta
sono da loro molestati nelle proprie case, hanno fatta determinazione
d’armarsi in massa e sterminarli. — Troncherò io la testa del serpente
(disse il cavaliero, che la vicinanza del cimento rendeva più ardente
d’incontrarlo): presto, o aríolo, mi guida sulla traccia di queste
vipere; saprò io rintuzzarne le velenose loro lingue.» Indi, alzando
gli occhi al cielo, con voce solenne: «Siccome (disse) i più nobili
cavalieri non isdegnarono mettere le loro spade nel sangue degli
scellerati per liberare innocenti vittime dalle oppressioni, così io
voto il capo del traditore Aldobrado al glorioso Sant’Ambrogio ed alla
mia Ginevra.» Ciò detto, ripresero cammino alla volta de’ boschi.

Quanto però s’era aumentato l’ardore del combattimento nell’animo del
cavaliero, altrettanto se n’era scemato il desiderio nell’aríolo;
pensava egli che trovandosi senza elmo e corazza, la punta d’una
squarcina o d’uno spuntone gli potevano entrare nel corpo agevolmente;
giacchè se i ladri erano in gran numero, Palamede avrebbe trovato
molte faccende alla spada per proprio conto, senza vegliare alla di
lui difesa; ed Enzel teneva assai poca fidanza nella bravura dello
scudiero. Tali riflessioni agitavano la mente dell’aríolo, e stava
avvisando ai modi di scansare il periglio, allorchè guatandosi dintorno
vide che i coltivati campi andavano terminando, e la strada s’inoltrava
fra un’alta selva. Un tremito di paura l’invase tutto; ma mirando al
cavaliero che ancor teneva la visiera alzata, vedendone il contegno
fiero e sicuro, e temendone le rampogne se mostrasse viltà, riprese
coraggio, e nello scaltro spirito fece calcolo dei mezzi di porsi in
salvo senza guastar l’impresa; s’accostò quindi a Palamede, e disse:
«Non è convenienza il rimanere su questa strada, poichè io so che poco
lungi deve ritrovarsi Can-di-monte, posto a guardia per dar segnale ai
ladri, che saranno appiattati in vicinanza della strada del momento
in cui passeranno i viaggiatori Francesi; se esso ci scorge, darà
loro qualche segnale; ed essi rientreranno nel bosco, e il colpo ci
va fallito: meglio si è che cerchiamo di guadagnare la sommità della
valle di Ticino; tenendoci così alle loro spalle, noi potremo vedere
l’avvicinarsi di questi signori di Francia, e appena verranno assaliti,
accorrere improvvisi al luogo della zuffa.» Sebbene il cavaliero fosse
impaziente d’adoperare la spada, ed avendo in costume di combattere il
nemico di fronte in campo aperto, stesse qualche istante in forse che
quel prendere nascoste vie non offendesse le leggi del valore; pure,
persuadendosi che tale si era l’unico modo di venirne a capo, piegossi
alla proposta dell’aríolo, e pose il cavallo nella selva. Gli alberi
spogli di fronde, le boscaglie e gli spineti disseccati e rotti non
frapponevano che lieve ostacolo al loro passaggio; essi si diressero
alquanto all’interno: indi ripresero via in direzione della maggior
strada, e dopo non lungo andare pervennero al margine superiore della
gran valle, nel mezzo della quale scorre il Ticino.

L’aríolo, fattosi innanzi, trovò un luogo eminente nel terreno; ed ivi
chiamò il cavaliero, e glielo additò siccome opportuno ad arrestatisi.
Libera da quel sito scorrea la vista sovra la sottoposta valle, che
più estesa che erta s’allarga d’alcun miglio; i contorni occidentali
di essa si disegnavano sul lontano giogo delle alpi candide di neve,
che il sol meriggio irradiava. Selvaggi come natura li giva creando,
s’appresentavano per l’inclinato piano immensi boschi; le elci e pochi
altri alberi, che il verno non spoglia, porgeano all’occhio qua e là
le loro verdi foglie tra le altre infinite piante che i nudi rami
intrecciavano. Nel fondo della valle scorgevansi per varii tratti
le azzurre acque del fiume di cui i boschi impedivano di vedere la
continuità.

Poco al di sotto dell’elevato luogo ove trovavasi Palamede, la strada
per Novara scendeva verso il Ticino, e se ne seguiva coll’occhio lunga
pezza il giro: indi essa perdevasi, e ricompariva al di là del fiume
salendo l’opposto lato della valle; ma la distanza e le folte selve ne
la celavano tosto interamente.

«Vedete voi là (disse l’aríolo al cavaliero) quell’uomo con nera
giubba e cappuccio che stando sulla strada taglia lentamente colla
falce i rami sporgenti degli alberi, quello è Can-di-monte che attende
i passeggieri per avvertirne la masnada d’Aldobrado che certamente
sta in agguato poco lontano da lui, e forse tra quella massa d’alti
alberi. — Il veggo (rispose Palamede, cui scorgeasi in volto che gli
era penoso il più oltre frenarsi); ma dimmi, Enzel, or che sappiamo
dove Aldobrado si trova, perchè mi trattieni dal ritrovarlo anzi che
giungano questi passeggieri? Essi incontreranno più facile cammino
quando il ribaldo sarà ucciso.» L’aríolo, al compimento de’ cui disegni
ed alle precauzioni per la propria sicurezza premeva l’intervento dei
nobili francesi, con tutta la propria facondia si fece a dissuadere
il cavaliero da quella richiesta, e guardando il sole: «Già da un’ora
(disse) è passato il mezzodì; d’assai non ponno stare a pervenire in
questi luoghi.... Ma.... non m’inganno.... eccoli.... eccoli.... li
vedete voi?.... là.... dicontro a noi.... tre.... quattro.... cinque
uomini a cavallo.... discendono verso il fiume. Che c’è dietro a
loro?... Una _paraverèda_... donne.... dame sicuramente, e poi tre
cavalli con altre some.... È il duca Lodovico senz’altro. Che bottino
per Aldobrado se potesse riuscire a porvi le mani! Presto scendiamo:
entrate in questo letto di torrente, esso giunge vicino alla strada:
quivi attenderemo il giusto momento per uscir loro addosso. Se ci
scoprissero, perdiamo tutto il frutto della nostra fatica.»

Veduti i viaggiatori da lungi ed udite queste parole, Palamede mosse
il cavallo: lo scudiero il seguì, e l’aríolo si tenne dietro a loro:
per greppi e ciottoli discesero sin dove aveva indicato Enzel, e quivi
si fermarono cheti. Pochi istanti erano scorsi, quando uditosi uno
appressarsi di cavalli e di ruote, s’intese un fischio; un rumore gli
successe di genti accorrenti, ed un gridare improvviso, e percuotersi
di armi. Palamede diè di sprone al cavallo, calò la visiera, sguainò
la spada, e in pochi slanci fu sulla strada; il seguitava lo scudiero,
ma l’aríolo era scomparso. Di rapido galoppo il cavaliero fu in mezzo
alla zuffa. Presso un cavallo atterrato, stava facendo forza per
rialzarsi uno de’ passeggieri giovane e riccamente abbigliato; ma
un ladro, tenendolo a terra, gli misurava al cuore una pugnalata: il
cavaliero con un fendente spaccò a questi il capo e lo stese al suolo.
Tre altri viaggiatori assaliti ciascuno da più assassini, tratte le
spade, s’andavano difendendo; e un quarto più vecchio, già disarmato,
veniva violentemente strascinato da cavallo; altri ladri s’erano posti
intorno alla _paraveréda_, e ne discendevano le donne; ed alcuni,
scaricate le some, scioglievano i forzieri. Palamede, slanciatosi
fra loro, menando colpi maestri con vigoroso braccio, quanti colpiva,
tanti poneva a terra. Gli assassini, sopraffatti da questo inatteso
assalto, avevano abbandonati i passeggieri; e già ritraevansi al bosco,
quando l’un d’essi coperto da una pelle di lupo che vestivagli le
spalle, il petto e la testa, alzando furiosamente una mazza di ferro,
con voce orrenda gridò: «Giuro per l’inferno di fracassare il cranio
a chi non mi segue: stringiamoci insieme; uccidiamo.» Tutti a queste
parole corsero dintorno a lui; e in tal modo congiunti, scagliatisi con
estrema forza contro il più prossimo de’ passeggieri, lo rovesciarono a
terra in un fascio col cavallo. Palamede, udendo quelle voci, e vedendo
l’inferocito capo degli assassini, «Ti conosco (esclamò), ribaldo
traditore; ora tu stesso non potrai sottrarti alla mia vendetta.» Così
dicendo, verso di lui precipitando il destriero, mirògli colla punta
alla gola. Aldobrado iscansò il colpo, che venne a ferire un altro di
sua schiera, ed «atterriamolo, atterriamolo» gridava disperatamente.
Tutti gli assassini furono colle armi addosso al cavaliero, che
roteando la spada rapidamente d’ambo i lati, ribattè una tempesta di
colpi; e cogliendo il destro, e pungendo a due sproni il cavallo,
drizzò al volto d’Aldobrado sì giusto l’acciaro, che coltolo alla
guancia, lo traforò, facendoglielo uscire per la nuca; e così trafitto
il trascinò per la violenza della spinta più passi lontano; ove
cadendo, gli si scopersero i rossi capelli del capo, ed il feroce viso
apparve deforme e insanguinato.

I passeggieri, vedendo gli assalitori tutti dintorno al cavaliero, si
slanciarono essi pure alla lor volta contro di loro. Questi mirando
ucciso il condottiero, e sentendosi da forti spade incalzati, si
diedero alla fuga, cacciandosi verso i boschi; ma a toglier loro tale
scampo, sbucarono fuor della selva improvvisamente molti taglialegna,
che atterrando i fuggenti a colpi di scuri, li presero presso che
tutti, e con forti lacci gli uni agli altri avvinsero, onde non
potessero più sottrarsi al destino che li attendeva. Primo fra loro fu
Enzel Petraccio, che innanzi a tutti uscì dal bosco gridando: «Vivano
i prodi cavalieri! Viva Palamede!» il che gli altri ripeterono con alto
frastuono.

All’aríolo era dovuta la presa dei ladri: egli mentre faceva via pei
boschi, udendo un lontano succedersi di botte per la selva, persuaso
che fossero villici intenti ad atterrar piante, aveva formato il
progetto di condurli alla zuffa, onde prestar soccorso se per avventura
Palamede perigliasse. Infatti mentre questi discendeva dall’alto
della valle pel letto del torrente alla strada, s’allontanò da lui; e
dirigendosi verso il luogo d’onde partiva quel martellare di scuri, vi
trovò molti taglialegna. Ansante e premuroso, come chi rechi notizia
di grande avvenimento, a loro narrò che quella banda di ladri tanto
in que’ boschi terribile era stata da valorosi guerrieri sorpresa, e
posta in ispavento e fuga; che oramai gli assassini non potevano aver
salvezza che ritraendosi pei boschi, e che essi accorrendo avrebbero
loro tolto questo rifugio, e sarebbonsi liberati da sì funesti vicini.
Con tali detti destò in quei lavoratori gran curiosità e coraggio, e
li guidò correndo in truppa giù pei burroni al sito dell’assalto, ove
giunse al momento che il successo aveva fatte verificare le sue parole.

Grandissima, come è da credere, fu la sorpresa e la maraviglia de’
nobili viaggiatori francesi per questo evento. Il repentino assalto da
tanti uomini contro di loro eseguito, lo sconosciuto guerriero che con
stupende prove di valore li rese salvi da sì grave periglio, avevano
ad essi recata l’impressione che far sogliono i più straordinarii
avvenimenti; e la comparsa in quel momento quasi magica di molti
villici la fece loro ancor più sorprendente. Allorquando di quella
schiera di ribaldi molti furono uccisi, e il dar delle armi cessato
per la presa degli altri, essi si fecero intorno a Palamede, e in
lingua di Francia gli porsero, colle lodi per sua bravura, le più
grandi attestazioni di riconoscenza, ed il pregarono a render loro
manifesto come fosse sì singolare accidente accaduto: quegli però le
cui parole appalesevano maggior gratitudine, e che colle più affettuose
espressioni dicevasi al cavaliero debitore della vita, si era il
più giovane fra loro, e lo stesso che stava sotto il pugnale d’un
assassino quando primamente sovraggiunse Palamede. Non difficile fu
l’accorgersi ch’egli era il duca Lodovico, poichè gli altri, vedendolo
a terra, erano tutti discesi da cavallo, a gara ciascuno offrendo a lui
il proprio, e gli stavano a fianco con atti di rispetto e premurosa
attenzione: istantemente questi chiese a Palamede che alzasse la
visiera e si desse loro a conoscere. Palamede, il quale era istruito
della lingua provenzale, poichè le amorose e cavalleresche canzoni che
si cantavano per le corti d’Italia erano pel maggior numero in tale
idioma, intese il loro parlare; e levando la visiera dal volto, loro
rispose, con simil favella, ch’era dovere d’ogni cortese cavaliero il
distruggere gli uomini infesti, e ch’egli così operando s’era vendicato
d’un traditore; poscia, rivolgendo da se il discorso, disse ch’era
d’uopo per l’istante dar opera a rincorare le dame da quel trambusto
agitate, ed assettare gli equipaggi, onde riprendere cammino per
abbandonare il luogo di così orribile scena.

A queste parole i nobili Francesi, cui quel solo sommo dovere della
riconoscenza aveva fatto per un momento dimenticare la galanteria, si
volsero frettolosi alla _paraveréda_; ma le dame in numero di due, con
due damigelle, erano di già discese da quel cocchio, e stavano intente
a soccorrere il viaggiatore più vecchio giacente al suolo, poichè la
furia de’ ladri nell’istrapparlo da sella lo aveva in più parti offeso.

A tal vista fattisi tutti a lui vicini: «O mio Montaigu (disse
con grave cordoglio il giovane duca Lodovico), sei tu ferito? — No
(egli rispose con una serenità che nel di lui animo, sempre lieto
e inalterabile, non valeva quel lieve disastro a turbare): io sono
smontato da cavallo un po’ sgarbatamente; ma starei ritto e franco
sulla persona come sta qui avanti a me il cavaliere di Beaumanoir,
che ebbe pochi momenti sono la mia stessa sorte, se non mi tenessero a
terra gli anni, doppii de’ suoi.»

Mentre i Francesi ragionando intorno al conte di Montaigu davansi
mano a recarlo nella _paraveréda_, e le dame lo interrogavano delle
circostanze di quel fatto e dello sconosciuto loro difensore, Palamede
ordinava all’aríolo ed allo scudiero di fare da alcuno di que’
contadini ricaricare le some sui cavalli de’ viaggiatori, e spogliare
dai ricchi arnesi l’ucciso destriero del duca, riponendoli fra gli
altri loro oggetti. Di que’ taglialegna, varii infatti si fecero a
raccogliere gli sparsi forzieri e rinchiuderli; altri ricercavano le
armi dai masnadieri perdute, e frugavano loro ne’ panni per levar ad
essi i denari o gli oggetti preziosi che possedevano. Alcuni stavano
a guardia di quelli presi e legati, ed andavano con poca umanità
ingiuriandoli, rinfacciando ad essi i commessi delitti, e minacciandoli
di prossimo patibolo; alcuni altri finalmente, levando sulle spalle gli
uccisi, gli appendevano ai rami delle piante di lato alla strada; ed un
di loro arrampicandosi ad alta quercia, trasse per una corda a quella
sommità il cadavere d’Aldobrado, e lasciollo quivi legato pendere
penzoloni.

Allorchè furono le cose rimesse in ordine, e i viaggiatori risaliti in
sella, tutti presero insieme cammino, salendo la vallata. Precedevano
i taglialegna conducendo i malfattori annodati; seguivano a qualche
distanza i nobili Francesi, frammezzo ai quali stava Palamede;
indi venivano le dame nella _paraveréda_, e dietro più lentamente
seguitavano i caricati cavalli.

Enzel Petraccio camminava presso allo scudiero, restando il più che
gli era possibile inosservato: poichè essendo il di lui piano riuscito
felicemente, temeva che venendo egli veduto colà da alcuno degli aríoli
che erano stati in quella notturna adunanza presso l’Olona, avesse
a segnarlo qual traditore, che aveva tratto profitto d’una notizia
quivi palesata per far distruggere quella masnada d’assassini fra cui
ve ne erano molti stretti con essi in amicizia; e paventava, se ciò
avvenisse, di essere vittima d’una loro secreta vendetta.

In un tratto essendosi sparsa la voce di ciò ch’era avvenuto, tutte
le genti del contado si recavano in folla sulla strada ad incontrare
quella comitiva, e numerose voci applaudivano ai cavalieri, ed
obbrobriavano i ladri. Gli abitanti del borgo di Magenta rimasero
stupiti che uomini stranieri avessero così prestamente ed a loro
insaputa eseguita un’impresa ch’eglino stessi stavano con gran
sollecitudine disponendo: andavan essi chiedendo come fosse avvenuto
quel fatto, e sebbene ne fosse la storia di già travisata in mille
guise, pure una voce generale ne indicava Palamede come autor
principale: onde tutti si affollavano ad ammirarlo, e facevan le
maraviglie per la sua prodezza. Egli però, poco ambizioso di que’
popolari applausi, giva sollecitando i Francesi ad affrettare i
cavalli, poichè essendo il giorno avanzato assai, necessitava far
veloce cammino per giungere pria che fosse notte alle mura di Milano.
I Francesi infatti seguirono il di lui consiglio, e di buon trotto
tutti si tolsero alla vista di que’ terrazzani, i precipui fra i
quali stavano divisando di festeggiarli; ma non potendo ciò eseguire,
occuparono il rimanente di quella giornata all’orribile spettacolo di
vedere innanzi alla casa del comune torturare ed uccidere gli assassini
stati presi.



CAPITOLO X.

    Qui sono le famose e sacre soglie
      Di Giovan Galeazzo primo duce
      Che è de’ Visconti ancor splendida luce,
      Unde ogni esemplo di virtù si toglie.
            BERNARDO BELLINZONE, _Sonet._


Gastone conte d’Armagnac, che era stato spedito da Carlo re di
Francia a Milano per trattare le nozze del di lui fratello Lodovico
colla figlia di Giovan Galeazzo, abitava in una magnifica casa di
questa città. Egli aveva avuto secreto avviso che il giovane duca
sarebbe giunto a Milano all’insaputa del Visconte, a cui voleva,
coll’improvviso suo comparire, recare grata sorpresa; ma ignorava
però il giorno in cui doveva pervenirvi, imperocchè la malagevolezza
delle vie non permetteva di formar calcolo esatto del tempo ch’era
d’uopo impiegare nel viaggio. Fu questa la causa per cui non si recò
ad incontrarlo, e che col maggior contento lo accolse coi cavalieri e
le dame che ne formavano il seguito, allorchè giunsero a sera avanzata
nella di lui abitazione.

Palamede aveva accompagnato il duca sino alla casa del conte
d’Armagnac, e quivi preso da lui congedo ritirossi nel proprio palazzo.
Il valore di lui, e forse più di questo la dolcezza congiunta alla
nobiltà della persona e dei modi, si erano sì addentro impressi
nell’animo di Lodovico, che spiacevole sommamente gli sarebbe stato il
distacco del cavaliero, se non avesse questi data parola di venire nel
seguente giorno a visitarlo.

Il dì appresso infatti Palamede recossi alla dimora di Gastone, ove
il duca e gli altri cavalieri e le dame di Francia lo ricevettero con
somma cortesia, presentandolo al conte siccome quel prode cavaliero che
era stato loro liberatore nel tremendo periglio che avevano corso nel
viaggio, e di cui, appena giunti, fecero ad essolui minuta narrazione.
Il conte rese esso pure le più vive grazie a Palamede per sì segnalato
favore fatto al fratello del suo re, e mostrò molta meraviglia per non
aver mai veduto alla corte di Giovan Galeazzo un cavaliero lombardo
di tanto valore. Lodovico, nel cui animo la giovanile età e l’affetto
che gli si era destato per Palamede, producevano un entusiasmo di
riconoscenza, dichiarò che se un sì degno cavaliero non veniva dal
Visconte onorato, egli lo avrebbe condotto seco a Parigi, ove sarebbe
stato ricevuto fra i più distinti baroni della corte di re Carlo.

Palamede, protestandosi a Lodovico gratissimo, rispose che egli non
ambiva distinzioni dai principi, poichè la sua spada e il suo braccio
erano i soli mezzi a cui affidava la propria gloria; ma, soggiunse,
che Giovan Galeazzo, ben lungi dal porgergli segni d’onore, era ver lui
crudelissimo, offendendolo nel più vivo del cuore.

A questi detti, tutti mostraronsi compresi da sdegno e da dolore, e
Lodovico istantemente pregò il cavaliero a palesare per qual causa il
conte di Virtù fosse a lui nemico, e qual modo tenesse nell’essergli
tiranno. Con quella veemenza ed espressione che il risentimento
d’un’offesa congiunto all’idea della propria forza accendono in un
animo vigoroso ed ardente, Palamede, svelando il proprio lignaggio,
narrò la storia dell’amor suo per Ginevra, e rammentando il rovescio
della fortuna di Bernabò, disse come Giovan Galeazzo tenesse con
irremovibile ferocia quella sua fidanzata rinchiusa in un castello
per null’altra cagione che per farla languire disperatamente, onde
accrescere per tal barbaro modo il dolore ed accelerare la morte del
padre di lei, di cui si voleva spenta nella mente di tutti la memoria.

Tale racconto, che l’espressive sembianze di Palamede, dipingendosi
nel dirlo a varii affetti, rendevano più vero ed interessante, penetrò
d’un senso di tenerezza e pietà i cuori di que’ nobili Francesi, e
quello del giovane duca più d’ogn’altro, che, commosso, esclamò: «Falsa
era dunque, o Gastone, la rinomanza che del conte di Virtù suonava
in Francia, come di generoso e saggio signore!... Il Re mio fratello
venne tratto in inganno, poichè egli non vuol certo congiungermi alla
figlia d’uno sleale oppressore, ed io abborro il farmi suocero un
principe che calpesta così empiamente i nodi del sangue.» Il conte
d’Armagnac, cui doleva l’ira impetuosa del duca, lo assicurò con molte
parole, che Giovan Galeazzo dimostravasi coi soggetti d’animo giusto
ed umano, di che faceva prova l’amore a lui dai vassalli attestato con
molteplici omaggi; ed accertò Palamede che il rifiuto fattogli della
prigioniera di Trezzo non poteva derivare che da cautele di dominio, e
non da tirannia; ed egli stesso lo accertava che assumendosi il duca
Lodovico l’impegno di ottenerla, il principe non gli avrebbe fatta
negativa, nè sarebbero scorsi lunghi giorni che egli potrebbe condurre
libera la sua fidanzata al giuro nuziale innanzi agli altari. A queste
parole Lodovico esclamò che non avrebbe giammai dato mano di sposa alla
figlia di Giovan Galeazzo, se questi pria non porgeva sacra promessa di
concedere Ginevra al cavaliero.

Le speranze di Palamede, già tante volte deluse, rinacquero a tali
detti; ed ebbe convincimento che la dignità del duca e la solennità
del momento in cui chiederebbe per lui quel favore, avrebbero di
certo costretto Giovan Galeazzo ad accordarlo: sicchè più non dubitò
che verrebbe al fine l’istante che sua sarebbe colei per possedere la
quale, se gli fosse stata ancora contrastata, era ormai per appigliarsi
alle più violente e disperate risoluzioni.

Il contento che tale pensiero gli infondea nel cuore si manifestò
nel suo volto, e, fattosi lieto, stette lunga pezza fra que’ nobili
Francesi intrattenendosi de’ gioviali colloquii che vennero posti in
campo dal conte di Montaigu, che, pienamente risanato della caduta,
facea scopo di allegro racconto quel disastroso avvenimento che lo
aveva posto in necessità di percorrere la strada dal Ticino a Milano
chiuso colle dame nella _paraveréda_. Dopo molti altri ragionamenti
Gastone fece al giovane duca un quadro della corte di Giovan Galeazzo,
descrivendo i personaggi più distinti che v’intervenivano, ed ogni
elogio prodigalizzando alla bellezza, alle grazie ed all’ingegno di
Valentina, dandogli fede che non era dessa in ogni pregio inferiore
ad Isabella di Baviera, di cui a Parigi s’eran celebrate da poco tempo
le nozze con re Carlo, la quale aveva vinte tutte le dame francesi sì
per l’avvenenza della persona, come per la novità e l’eleganza degli
abbigliamenti. La fantasia di Lodovico, già per indole focosa, fu
più che mai accesa da queste narrative, e voleva recarsi incontanente
alla corte del principe per vedere Valentina, ed ottenere Ginevra a
Palamede.

Ma Gastone fece a lui presente ch’era d’uopo a tal fine attendere la
sera, tempo in cui Giovan Galeazzo soleva adunar la corte a festoso
convegno, al quale intervenivano Caterina di lui moglie, con Valentina
e le più nobili dame; poichè in altri momenti chiudevasi in appartate
stanze, nè alcuno ammetteva alla propria presenza se non fosse stato
dapprima minutamente istruito del chi si fosse, e che chiedesse,
e sarebbesi in tal modo svanito l’effetto della gentile sorpresa
che aveva meditata venendo celatamente a Milano. Accettando questo
consiglio, in cui tutti come ottimo convennero, Lodovico prefisse la
sera di quel giorno istesso per recarsi alla corte, e diè comando si
disponessero le più ricche vesti che avea recate di Francia, e che
erano al suo nobile grado convenienti.

Quando la signoria di Milano venne divisa tra i due fratelli Galeazzo
e Bernabò, s’avevano essi scelta per loro dimora l’uno il castello
di Porta Giovia, e l’altro quello di Porta Romana, abbandonando
entrambi il magnifico palazzo che Azzone Visconti, essendo solo signore
della città, aveva fatto costruire circa l’anno 1335 nel luogo detto
del Broletto vecchio. Giovan Galeazzo, allorchè s’ebbe sbarazzato
dello zio, fattosi così unico padrone dello stato, amando il fasto
principesco, ed aspirando alle grandezze d’un più esteso potere, volle
per luogo di sua corte il palazzo di Azzone, e lo fece più riccamente
addobbare che ai tempi d’Azzone stesso non fosse. Quell’edificio
innalzavasi presso che sull’area stessa, ove trovasi ai nostri giorni
il reale palazzo, se non che stava più al lato destro di questo,
stendendosi tra la regia cappella di San-Gottardo e il Duomo, occupando
una parte del suolo ora coperto da quest’ultimo tempio.

Era desso di forma quadrata: le porte e le finestre ad archi acuti
vedevansi intorno ornate d’arabeschi e figure: in mezzo alla sua fronte
s’innalzava una larga torre, lungo i cui profili scorgevansi sottili
colonne e statuette di varie foggie; da settentrione stavagli presso
la chiesa di Santa Maria Iemale, e a mezzodì San-Gottardo, di cui il
campanile, che ancora vediamo, quello stesso si è, fatto da Azzone
elevare, e su cui venne posto a que’ tempi il primo orologio che
si vedesse in Milano, e forse in Italia, il quadrante del quale era
distinto in ventiquattro ore che venivano annunziate dai tocchi d’una
grossa campana, lo che recava una generale meraviglia, e fu causa che
alla contrada che vi passa dappresso s imponesse il nome di Contrada
delle ore.

In mezzo a quel palazzo stava un vasto cortile cinto da porticato,
d’onde ampie scale conducevano agli interni appartamenti ripartiti in
sale e stanze adorne con gran magnificenza: erano le volte coperte
d’oro e di smalti, le porte contornate di fregi scolpiti in marmi
preziosi, e dai battenti risortivano figure cesellate in bronzo; la
luce entrava da grandi vetriate infisse in imposte dorate, dipinte a
vivaci colori. La gran torre nel centro andava divisa in varii piani,
ognuno dei quali era un’elegantissima camera, fra cui v’aveva quella le
cui aperture erano chiuse da una rete dorata che conteneva moltissimi
uccelli rari con isplendide penne.

Ritrovavansi uniti al palazzo ameni giardini in cui stava un chiostro
tutto ricco al di dentro di pregiati dipinti, e di gotica architettura
al di fuori, al piede del quale stendevasi un laghetto, nelle cui
limpide acque esso si specchiava. In mezzo al laghetto sorgeva sovra
un’alta base una colonna sostenuta sul dorso di quattro leoni, dalla
bocca dei quali scaturiva un largo getto d’acqua, alla cui sommità
stava un angelo portante nella destra una bandiera, nel cui campo
vedevasi la vipera d’oro. Eravi eziandio un serraglio di animali
stranieri, fra cui contavasi uno struzzo, l’unico che in que’ tempi
vivesse in Europa.

Questa dimora, piuttosto degna d’un gran re che d’un principe resosi da
poco tempo signore dello stato, soddisfaceva pienamente alle brame di
Giovan Galeazzo. Amava che tutti quelli che entravano nella sua corte
restassero presi d’ammirazione per la magnificenza che vi vedevano
spiegata, e teneva per fermo che pensieri e modi sovrani guidavano le
potenti persone ad assumerne la dignità.

Egli però di tutto quel vasto palazzo tenevasi di consueto in una
sola appartata stanza, nel cui addobbamento più all’agiatezza che alla
sontuosità s’aveva avuto riguardo, contiguo alla quale stava un segreto
oratorio. Nella stessa camera vedevansi in ricchi scaffali riposti
molti libri, alcuni de’ quali andavano stretti in coperture ornate
di pietre preziose e di lamine d’oro; altri, aperti sui tavolieri,
mostravano larghi fogli di pergamena scritti in gotici caratteri, le
cui iniziali erano abbellite da miniature che occupavano gli spaziosi
margini.

Tra questi volumi i principali erano stati trascelti e pel principe
acquistati da Francesco Petrarca, che li disseppellì dai polverosi
ammassi raccolti ne’ monasteri. Ivi scorgevansi i libri della filosofia
d’Aristotile, gli Annali di Tacito, i poemi d’Omero e di Virgilio, le
opere teologiche di Sant’Ambrogio e di altri Santi Padri, la Bibbia,
molte sacre preci, il Canzoniere e l’Africa del Petrarca istesso, le
Poesie di Pietro Bescapè, le Romanze dei trovatori e le storie dei
tempi.

Giovan Galeazzo racchiudevasi ogni giorno in quella stanza, ove non
ammetteva che i più fidati ministri de’ suoi disegni, che consultava
intorno ai più importanti affari, e passava del resto solingo molte ore
attendendo alla lettura delle istorie degli antichi, le cui grandezze
ed i famosi fatti tanta brama gli destavano di imitarli; e meditando
agli interessi dello stato, non per migliorarne le condizioni, ma per
consolidarne in se il dominio, ed allargarne i confini, onde ottenere
una possanza tale che valesse a porgli nella destra uno scettro reale.

Sebbene egli possedesse quasi tutta l’alta Italia, dal Mincio al
mare Mediterraneo, sentiva che non teneva ancora sufficienti forze
da opporre con esito certo a quelle de’ Veneziani, del Pontefice,
o dei Germani in caso di loro discesa; e faceva calcolo che ad
ottenere un’assoluta preponderanza su tutti gli stati d’Italia era
d’uopo stendesse il proprio dominio fino all’Adriatico; per venirsi a
frapporre tra lo stato della Chiesa e la Veneta Repubblica. Seguendo
questo pensiero guardava con occhio contento, assoggettando alle sue
politiche riflessioni, le contese insorte tra Francesco di Carrara
signore di Padova, ed Antonio Della Scala signor di Verona; e poichè
gli era noto che i Veneziani porgevano secreti aiuti allo Scaligero
per togliersi la vicinanza del Carrarese, egli stabiliva fra se di
farsi in soccorso di questo, impossessarsi di Verona, scacciando lo
Scaligero, che gli era anche particolar nemico per aver dato rifugio
ai figli di Bernabò, e sotto velo di difesa mandar soldati a Padova,
da dove gli riescirebbe poi facile allontanarne Francesco di Carrara,
e fattosi così padrone di quello stato venire a porsi alle porte
della repubblica, e rendersi signore di quasi tutto il corso del Po.
Pervenendo a questa meta, rifletteva che avrebbe potuto dettare a tutti
gli altri principi le condizioni che gli andrebbero a grado, e nessuno
avrebbe osato opporsi al suo disegno di assumere il titolo e le insegne
di re d’Italia.

Dappoco egli frattanto stimava se stesso, perchè non teneva la signoria
che come vicario degli imperatori d’Allemagna; e benchè mirasse più
alto, voleva nel frattempo fregiarsi la fronte della corona ducale,
come primo passo al regno; per il che tenevalo assai in pensiero il
progetto di spedire un ambasciatore alla corte di Venceslao imperatore,
ed avea frequenti colloquii a questo fine con Guido Pallavicino, uomo
assai accorto e delle arti cortigianesche espertissimo, che sembravagli
il più atto ad ottenergliene a forza d’oro o d’intrighi l’imperiale
diploma. Vero è che mezzo più certo e pronto onde avere da Venceslao la
concessione del titolo di duca sarebbe stato il trattare le nozze della
propria figlia Valentina con alcuno della famiglia di quell’imperatore,
il che era pure desideratissimo da tutti i potenti lombardi signori;
ma in ciò l’ambiziosa cupidigia di Giovan Galeazzo cesse all’amor
paterno. Egli amava la Francia, perchè una bella Francese era stata
sua prima moglie, e sempre gli era rimasta dolce in cuore la memoria
delle feste cavalleresche e del lusso della corte di Parigi: onde per
sì fatta inclinazione sua e per l’indole di pompeggiare, ch’egli vedeva
con compiacenza svilupparsi in Valentina, volle fidanzarla al duca di
Turenna, fratello del re di Francia, per mandarla ad una corte in cui
la sua tendenza alla splendidezza avesse avuto campo di segnalarsi; e
per ciò davagli eziandio in dote la città di Asti, tutti i castelli del
Piemonte e quattro centomila fiorini d’oro.

Ma il desio di farsi grande e dominatore non era il solo che la
smisurata ambizione nutriva nell’animo di Giovan Galeazzo; egli voleva
eziandio recare stupore ai presenti, e mandar famoso il suo nome ai
posteri, innalzando monumenti di sorprendente grandezza e maestà.
Era per ciò anche oggetto di sua meditazione l’idea di far erigere
presso il proprio palazzo un tempio di cui un simile non si vedesse
al mondo. Fu infatti questa idea del principe effettuata il vegnente
anno nell’erezione del nostro maestoso Duomo, che dimostrò, sin da
quando gli si diede incominciamento, ch’essere dovea la più vasta
chiesa di tutta Cristianità, e che non ancora ai nostri giorni, a
causa dell’immensità dei lavori, a perfezione condotto, è soggetto di
meraviglia ai riguardanti per la colossale sua mole e gli innumerevoli
ornamenti, attestando quanto dovevano essere grandi le idee e la
vanità di un principe di piccolo stato, che in tempi d’ogni prosperità
pubblica difettosi ne concepiva il pensiero, e lo faceva eseguire. La
Certosa eretta più tardi nel suo parco di Pavia, pel compimento della
quale fece assegno della rendita di molte terre, si può credere a buon
diritto dovuta alla stessa di lui brama di gloria, sebbene egli dicesse
che facevala costruire per mantenere un voto fatto per la salute di sua
moglie Caterina, ed in espiazione delle proprie colpe, come era l’uso
dei tempi.

Tutte queste immagini di potenza e di gloria che signoreggiavano
lo spirito di Giovan Galeazzo erano però sovente, nell’epoca di cui
parliamo, offuscate e sospese da un terribile pensiero. Nel castello
di Trezzo, egli rammentavasi, esisteva ancora Bernabò. Per quanto fosse
certo che da quelle mura non potesse sottrarsi, pure la fantasia spesso
glielo rappresentava trionfante e libero in atto d’entrare in Milano
a strappargli il potere e la vita: quando agitavangli il cuore tali
spaventose idee, un truce disegno gli si affacciava alla mente; ma la
sete di regnare non valeva a soffocargli i rimorsi e il terrore di che
l’esecuzione di quel progetto il minacciava. Abbenchè molte pratiche
di pietà, da Giovan Galeazzo tenute, fossero false od esagerate, avea
egli non pertanto una viva religiosa fede, nè era spoglio di tutte
le superstiziose credenze che in quell’età dominavano: per lo che le
scellerate brame, sebbene non spente, erano in lui frenate dal pensiero
della divina vendetta, che combattendo in suo cuore coll’avidità del
potere, il teneva di frequente dolorosamente angosciato.

Da tali gravi cure, che durante il giorno gli incatenavano la mente
in profonde meditazioni, egli prendeva la sera sollievo recandosi
frammezzo a numerosa scelta di dame, cavalieri, scienziati, artisti,
che faceva chiamare a serali veglie nella propria corte, con tutti
piacevolmente intrattenendosi ragionando.

L’adunanza si raccoglieva in quel palazzo nella gran sala detta della
_Gloria_, che era la più vasta e magnifica che mai si vedesse. L’ampia
sua volta era tutta ricoperta da uno smalto azzurrino a fiori d’oro:
le pareti ne erano maestrevolmente dipinte, vi si scorgea la Gloria
raffigurata da una alata matrona con ricchissimi abiti, a’ cui piedi
stavano armi e corone; intorno ad essi eranvi molti personaggi favolosi
e storici, come Ercole, Teseo, Enea, Attila, Carlo Magno ed Azzone
Visconti. Vedevansi appesi in bell’ordine alla sommità delle pareti
stesse varii scudi a modo di trofei, sui quali stavano gli stemmi del
principe e di sua famiglia; v’era la biscia coronata, v’erano i due
secchii pendenti dal tronco acceso, insegna che il padre di Galeazzo
si acquistò guerreggiando in Fiandra; e v’era l’albero carico di
frutti, impresa di Giovan Galeazzo come conte di Virtù. I tavolieri
posti intorno alla sala erano di squisito lavoro, ed i sedili andavano
ricoperti con velluti preziosi; varie lamiere pendevano dalla volta
sospese a catene d’oro, e molti doppieri ne aumentavano la luce.

Nella sera dal duca Lodovico prefissa a recarsi alla corte, il consueto
adunamento fu oltremodo splendido e numeroso. Trovavansi quivi i
più nobili signori di Milano, di altre città soggette al Visconti e
straniere; v’erano gli ambasciatori di varii stati, ciascuno dei quali
vestiva con proprio costume; notavansi tra questi Ottonello Discalzo,
famoso dottore in legge, mandato dal Gonzaga signor di Mantova, Alvise
Pepoli, spedito dalla repubblica di Venezia, il legato del papa Urbano
VI e l’ambasciadore di Firenze. V’erano tra i varii capitani d’armi i
due celebri giovani Sforza e Braccio da Montone, venuti di quel tempo
in questa città col conte Alberigo Balbiano: era in loro notabile,
oltre l’intrepido virile aspetto, la foggia conforme dell’abito partito
a quarti di diversi colori. Alla metà destra del petto ed alla coscia
sinistra vedeasi di colore incarnato, ed alle opposte parti di color
bianco e cilestro. Ritrovavansi in quell’adunanza giureconsulti,
medici, poeti, non che architetti, pittori e musici distinti: ciò
però che ivi recava il maggior brio, ed appagava più dilettosamente lo
sguardo, erano le dame e le patrizie donzelle, in cui le venustà delle
forme givano pari alla ricchezza e bellezza dell’abbigliamento.

Allorchè quel principesco crocchio fu compiutamente nella sala
raccolto, preceduto dai paggi e dai servi, vi venne Giovan Galeazzo
accompagnato colla moglie Caterina e seguito dalla figlia Valentina che
stava fra varie nobili damigelle.

Il principe contava gli anni trentotto; era ben fatto della persona, e
siccome addestratosi in gioventù al maneggio delle armi, aveva presenza
maschia e robusta; i suoi lineamenti erano carraterizzati e virili; ma
benchè vi si scorgesse l’impronta di famiglia, apparivano più dolci
e maestosi di quelli de’ suoi avi; nell’alta sua fronte qualche ruga
immatura accusava le fatiche del suo spirito; il suo sguardo era vivo
e indagatore; usava affabilità nei modi, ma sapeva imporre ad un tempo
soggezione e riverenza a chi l’appressava; portava una sopravveste
di drappo d’oro, sulla quale, al petto, ricamata a bruno, vedevasi la
serpe spirale di cui formavano gli occhi due grossi rubini.

Caterina toccava il sesto lustro; le sue forme non erano belle, ma una
mestizia e un pallore le si scorgea nel volto, che la rendevano assai
interessante: causa di tale di lei tristezza era la prigionia del padre
e dei fratelli voluta dal proprio marito, a cui le era vietato farne
parola: vestiva essa un abito di drappo bianco con larghe maniche di
seta a fregi d’oro, e portava sui fianchi una cintura contornata di
perle, i di cui opposti capi le ricadeano pel dinanzi sino al lembo
della veste, ove congiungevansi in una larga rosa formata da pietre
preziose.

Valentina portava una veste di stoffa d’argento listata a cerulee
striscie, simili recava i calzari; e il farsetto di velluto, del colore
dell’amaranto, era tutto da fili d’oro trapunto, ne’ suoi neri capelli
vedeasi un nastro che si aggirava tra il volume delle treccie, indi
le scendeva diviso sul candido collo. Presso al ventesimo anno, ella
s’avea congiunta nella bella persona l’alterigia dei Visconti e le
grazie d’Isabella sua madre; i suoi neri occhi si volgevano con impero
d’intorno, tutto il suo viso era composto alla severità; ma se avveniva
che piegasse al sorriso le labbra, un non so che di così amoroso
e gentile le si diffondeva pel volto, che avea una irresistibile
attrattiva.

Fra le donzelle compagne di Valentina una ve n’era la cui beltà vinceva
quella di tutte le altre ivi adunate, se non che alla figlia di Giovan
Galeazzo in ciò solo cedeva, che da’ suoi lineamenti non traspariva
principesca maestà, ma piuttosto dolcezza affettuosa e inclinazione
alla tenerezza. Era questa Agnese Mantegazza, le grazie del di cui
viso è più agevole immaginare che descrivere: un’idea potrebbesi
desumere dalle tele divine di Leonardo da Vinci, che seppe ritrarre o
crear volti in cui la verginità, il sentimento ed il sapore squisito
delle forme vanno congiunte ad una nota caratteristica dei tempi di
cui non havvi modello ai nostri giorni. Leggiadre pozzette, morbida
increspatura di capelli, sorriso in cui, unita a tutta l’innocenza e
il pudore, v’avea l’espressione dell’amore, erano i pregi della beltà
d’Agnese.

Quando questa e Valentina pervennero nella gran sala, i cupidi
sguardi de’ giovani conversanti si portarono tosto su loro; ma mentre
Valentina li rintuzzò col contegnoso portamento, Agnese abbassò gli
occhi al suolo arrossendo. Nessuno però ardiva insidiare al cuore di
lei, poichè sapevasi che era prediletta da Giovan Galeazzo, il quale,
non capriccioso e incontinente nelle amorose passioni come gli altri
principi di sua casa, amando unica questa, affetto per affetto cercava,
ed ottenutolo, con lei sola per tutta la vita ebbe corrispondenza.

Quel nobile convegno formossi in cerchio intorno al principe,
rispettosamente attendendone, come era di costume, le parole. Giovan
Galeazzo volse primamente il discorso a Sforza e Braccio, e con
gli elogi di loro bravura li lusingava, perchè nutriva desiderio di
trattenergli presso di se, onde giovarsene nelle guerre che meditava.
Parlò affabilmente all’ambasciatore veneziano e al pontificio legato;
dopo avere favellato di caccie, di tornei, di statuti coi signori di
varie città, si volse a Matteo Selvatico celebre poeta, e con lui più a
lungo ragionò di poetiche composizioni.

Poco ambiziosi delle principesche parole, e della propria arte
caldi amatori, i due architetti Odoardo Balbi milanese e Nicolò de’
Selli aretino stavano in un canto della sala disputando dei modi
architettonici italici e germanici con un Gamodía alemanno, famoso
maestro esso pure di tal arte: quando Giovan Galeazzo gli scorse, si
fece tra essi, e volle proseguissero nei loro ragionamenti. Benchè
i due Italiani con evidenza invincibile dimostrassero che, per buon
gusto di forme e maestà, l’edificio all’italiana maniera ad ogni altro
fosse preferibile, pure nel principe, che in tutte le cose al lusso
ed allo straordinario mirava, fece più breccia la descrizione postagli
innanzi dal Gamodía d’un fabbricato di nordico stile, per la bizzarria
che narrò richiedersi nelle sommità, l’abbondanza e la minutezza degli
ornamenti; per lo che raccogliendo piacevolmente quelle impressioni
nello spirito, le riferiva al grandioso tempio che pensava innalzare.

Lasciati gli architetti, recossi presso le dame, loro di femminili
oggetti ragionando, e dall’una all’altra venendo, giunse presso
a Valentina. Balenato un amoroso sguardo ne’ begli occhi d’Agnese
che stava a lei dal lato, fece le meraviglie per non vedere quella
sera Gastone d’Armagnac, che soleva sovente con Valentina stessa
intrattenersi, dispiegandole i costumi della corte di Parigi.
Valentina, ansiosissima di farsi nel numero delle principesse di
Francia, viveva alquanto indispettita pel ritardo che frapponeva
a giungere in Milano il suo fidanzato duca; ma serrando in cuore
tale doglia, chiese al padre, con aspetto d’indifferenza, se non
avesse ricevute notizie del duca di Turenna. Giovan Galeazzo stava
rispondendole, afflitto che già da alcun tempo era privo di novelle di
Francia, quando un paggio entrò ad annunziargli che il conte francese
con altri cavalieri e dame chiedeano l’ingresso: ordinò si facessero
tosto entrare; e spalancate le porte, si vide il giovane Lodovico, alla
cui sinistra era Armagnac, avanzarsi seguito da’ suoi cavalieri e dalle
dame.

Generale fu la sorpresa, ignorando tutti chi si fossero quegli
stranieri sì pomposamente abbigliati. Gastone condottosi davanti a
Giovan Galeazzo, gli presentò Lodovico, nominandolo, qual era, duca
di Turenna, conte di Valois, e fratello del re di Francia. Fattosi
lietissimo a tali nomi, il principe abbracciò Lodovico con vero
trasporto di contentezza, reso più vivo dalla sua improvvisa comparsa,
e con affabili saluti accolse gli altri cavalieri e le dame.

Non è da esprimersi la meraviglia che a tutti recò l’arrivo inaspettato
del duca. Sollecito e curioso ciascuno s’appressava per mirarlo: chi
il nobile portamento e la leggiadria ne ammirava, chi la espressiva
fisonomia e la bellezza. Le donne al volto ed alle sfarzose vesti
osservando, invidiavano Valentina, d’un sì grande e vago signore
prossima posseditrice; ed ella, tutta da una secreta compiacenza
compresa, col viso imporporato dal pudore, riceveva i primi omaggi che
Lodovico colla più nobile galanteria tributavale.

Dopo il duca, i cavalieri e le dame di suo seguito furono soggetto
di tutti gli sguardi. La novità del costume, degli abiti femminili in
ispecie, destò l’interessamento universale. Quelle Francesi vestivano
conforme alle mode recate allora recentemente a Parigi da Isabella di
Baviera[13], e di cui in Italia non si aveva ancora sentore alcuno,
particolarmente di certi alti ornamenti del capo a maniera orientale,
da cui ricadevano collane di perle ed altri intrecciamenti.

Giovan Galeazzo vide con molta soddisfazione, tra i cavalieri del duca,
il conte di Montaigu, che più d’una volta era stato alla sua corte di
Pavia, e l’aveva accompagnato giovinetto in Francia: festeggiandolo
insiememente a Lodovico, andava l’un l’altro interrogando di re
Carlo, de’ suoi zii e fratelli; e nel mentre che replicava parole
di contentezza per l’inatteso loro arrivo, rimproverava dolcemente a
Lodovico la non partecipatagli venuta, per ciò solo che gli aveva tolta
la possibilità di preparargli almeno nel proprio dominio gli onori
del ricevimento a lui dovuti. A queste parole scherzosamente il conte
di Montaigu: «Gli onori del ricevimento (rispose) ci vennero fatti
nei vostro stato alla vostra insaputa, un po’ ruvidamente per altro;
ma credo che ciò avvenisse per provare la verità di quel motto, che
un cavalier francese è pronto a brandire la spada dovunque e contro
qualsiasi assalitore.»[14]

Il principe fu sommamente sorpreso da tali parole, e il richiese
narrasse speditamente che fosse loro accaduto di sinistro. Prese a
rispondergli Lodovico; e col calore ch’egli mettea nell’esposizione
dei fatti che al vivo l’interessavano, fece il racconto dell’assalto da
essi sofferto presso il Ticino da una banda di masnadieri, del pericolo
che avevano tutti corso per il numero degli assassini scagliatisi
improvvisamente addosso a loro, che per essere in terra amica e
popolosa non vestivano armatura: disse come atterratogli il destriero
egli stesso fosse per rimaner trafitto, quando apparso un ignoto
cavaliere, con maravigliose prove di valore sterminando molti di que’
ribaldi, li fece salvi e sicuri.

Doppio cordoglio risentì Giovan Galeazzo alla narrazione di tale
periglioso avvenimento: lo assalì il pensiero dell’onta e del danno
che gli sarebbero derivati, se il duca fosse stato assassinato ne’
suoi dominii; e l’offese il sapere che nei boschi delle sue caccie
stavano numerose truppe di malviventi, nè egli ne fosse conscio, nè
dai guardasele si rintracciassero. Condolendosi con Lodovico per tale
infausto evento, ed accertandolo che avrebbe tratto di quell’attentato
assassinio la più fiera vendetta, il domandò con premura, se quel
prode guerriero che loro aveva recato sì inaspettato soccorso si fosse
appalesato. «Sì (ripose il duca); ma ora non dirò io il suo nome.
Chieggo, o principe, un’ora domani, perchè debbo a lungo favellarvi di
lui.»

Mille congetture diverse si destarono nella mente di Giovan Galeazzo, e
degli altri che tale richiesta intesero; ma il principe, dissimulando,
disse a Lodovico che in qualunque momento gli fosse piaciuto parlargli
potea liberamente recarsi da lui; nè per quella sera più oltre si tenne
su tale argomento discorso.

Tutti andavano a gara nel fare ogni cortesia e festeggiamento ai
Francesi, e musicali concenti e magnifici rinfreschi protrassero
giulivamente ad inoltrata notte quella veglia; terminata la quale,
e il duca ed i suoi furono per ordine di Giovan Galeazzo ne’ ricchi
appartamenti di sua corte principescamente albergati.



CAPITOLO XI.

    Oh voce!... Oh vista, oh gioia!...
      Parlar... non... posso... O meraviglia!.. E fia
      Ver ch’io t’abbraccio?..
                            Oh quale
      Qual mi dà forza il sol tuo aspetto! Io tanto
      Per te lontan tremava.
                      ALFIERI. _Saul_. At. 1.


Era di poco scorso il mezzodì del giorno seguente, allorquando un messo
del principe si presentò alla casa del marchese Azzo, a chiedere di
Palamede de’ Bianchi. Fu ad Enzel Petraccio, il quale oziando presso
la porta del palazzo, che quel messo diresse tale richiesta. Enzel gli
domandò con gran premura che volesse da Palamede; e il messo rispose
che aveva ricevuto ordine da Giovan Galeazzo d’invitarlo a recarsi
all’istante alla di lui corte. A primo tratto si volsero dubbii a
tali parole i pensieri in capo all’aríolo, poichè l’essere chiamati
al cospetto del principe non era sempre indizio di riportarne segni
di benevolenza; ma allorchè fece riflessione che quell’invito poteva
essere effetto del racconto, che dovevano aver fatto quei signori di
Francia dell’avvenimento dei ladri, lieto salì rapidamente alle camere
di Palamede a dargliene avviso come di felice novella.

Il cavaliero, avendo fede nella parola datagli e nella dignità del
duca, stava attendendo ansiosamente quella chiamata, e le sue speranze
all’annunzio di essa si fecero più che mai vive e sicure. Nobili vesti
frettolosamente indossò; e colmo il cuore della lusinga di pervenire
alfine al possesso del desiato bene, discese, s’avviò col messo al
palazzo del principe. Giunto a quelle soglie, le guardie, come ne
avevano avuto comando, il lasciarono liberamente entrare, e i paggi lo
guidarono per molte camere ad una sala in cui trovavasi Giovan Galeazzo
con Lodovico.

Il duca corse ad abbracciare Palamede, e il principe l’accolse con un
benigno sorriso. Il cavaliero però nel mirare Giovan Galeazzo sentissi
ridestare un lampo di quello sdegno che contro di lui aveva per tanto
tempo nutrito; ma la cortesia di Lodovico e la dolcezza dell’aspetto
del principe gli temperarono quell’ira involontaria, e fecero sì
che, frenando i moti del proprio cuore, a lui si volse con rispettoso
saluto.

«Il vostro valore (gli disse Giovan Galeazzo con affabile e insieme
dignitoso modo) e il segnalato servigio che avete reso a questo mio
caro parente, e quindi a me stesso, vi danno diritto a tutta la mia
riconoscenza. Seppi con dolore che voi foste quello di cui disgustose
circostanze mi costrinsero replicatamente a rigettare un’inchiesta;
ma voglio ora che vi sia caparra della mia gratitudine e della stima
che sento per voi, il concedervi volontariamente ciò che bramate.
Domani allo spuntar del giorno due miei capitani d’armi ritroveransi
alla vostra abitazione, e voi, se ancora vi piace, partirete seco loro
alla volta di Trezzo, nel cui castello sarete per mio comando accolto
colle distinzioni al vostro merito dovute. Quivi potrete trattenervi il
tempo richiesto a disporre la vostra fidanzata alle nozze, a celebrare
le quali però desidero che a questa città ritorniate, poichè voglio
intervenirvi io stesso, e bramo che stiate poscia presso di me, poichè
non debbono essere per la vostra patria negletti la guerresca perizia e
il valore che possedete.»

Queste espressioni di bontà cancellarono in un baleno l’astio che
durava in cuore a Palamede contro il principe: egli ne porse a lui
affettuose grazie, dandogli fede che quanto bramava sarebbe stato da
esso puntualmente eseguito, e appena Ginevra si fosse congedata dai
parenti, l’avrebbe a Milano condotta, dalle cui mura non sarebbesi in
seguito allontanato che per prestargli il suo braccio in guerra.

Il duca Lodovico, giojoso e soddisfatto oltremodo nel vedere
appagato Palamede, mostrandosi di ciò gratissimo a Giovan Galeazzo,
stringendo al cavaliero la destra, a lui rivolto disse: «Vivete
sicuro, o principe, che se questo guerriero ha tanta scienza di campo
quanta forza e destrezza di spada, egli sarà uno de’ più periti duci
d’eserciti, nè alcuno straniero assoldare potreste che più di questo
valoroso Milanese valga a far trionfare le vostre insegne.»

Di null’altro era più desideroso Giovan Galeazzo che di rinvenire
tra i suoi soggetti prodi capitani, giacchè sapeva per esperienza
che quelli che si assoldavano a ventura, non bramosi che dell’oro,
facilmente venendo dagli avversarii corrotti, commettevano ogni
sorta di tradimenti: quindi fu lieto assai in apprendere che Palamede
avea sostenute molte battaglie dei Veneziani, seguendo esperimentati
capitani, e guidando egli stesso non rade volte gli assalti; e perciò
gli nacque tanta brama di lui, che usò seco sì gentili espressioni
allorchè prese congedo, che Palamede ebbe intimo cordoglio d’avere
odiato un principe di tanta cortesia dotato.

Quando fu partito il cavaliero, Lodovico prese commiato, e Giovan
Galeazzo si ritrasse solingo nella sua appartata e consueta stanza.
Appena si fu quivi assiso, il funesto pensiero che soleva frapporsi
e rompere i suoi più arditi disegni, lo assalse più che mai
spaventosamente. Egli meditò, fremendo, a ciò che avea concesso: dare
assenso ad un guerriero esperto e forte di recarsi nel castello ove
stava Bernabò rinchiuso, per isposarne una figlia, era porgere un certo
mezzo al prigioniero di concertare secreti maneggi a propria salvezza.
Il cavaliero uscito dal castello si sarebbe adoperato ad ordire trame
in seno alla sua stessa corte; gli amici del vecchio principe, la
propria moglie, diverrebbero per ciò suoi secreti nemici: quindi non
viverebbe più vita sicura da domestiche insidie, nè dalle esterne
terrebbe lo stato difeso.

Da sì fatte idee agitato già rivocava la data concessione a Palamede,
già stabiliva esiliarlo da Milano e da tutte le terre a lui soggette,
quando, riflettendo più maturamente, e pensando alle calde richieste di
Lodovico pel cavaliero, alla promessa fatta in compenso del suo valore,
si persuadeva che oramai l’opporsi diverrebbe un atto troppo indegno,
che avrebbe gli animi contro di se inaspriti.

Combattuto da tali opposti pensieri, e meditando più addentro in
se stesso, si convinse che mai tranquillità di vita nè certezza di
dominio vi sarebbero state per lui, sinchè respirasse Bernabò; che
l’esistenza di questo era la vera causa d’ogni sua più fiera pena; e
che vivente lo zio non l’avrebbero abbandonato un momento quei palpiti
crudeli. Questo convincimento in quell’istante, più che in ogni altro
tempo profondamente sentito, superò i terrori della sua coscienza.
Vinte tutte le altre voci del cuore, e solo compreso da una tremenda
risoluzione che accolse e fermò irrevocabile, chiamò immediatamente
un paggio, e il mandò in traccia di Giovanni Ubaldino, imponendogli
d’inviarlo tostamente a lui.

Era Ubaldino quello stesso capitano d’armi che aveva condotto Rodolfo
dal castello di Trezzo a quello di San Colombano: uomo di duro cuore
e d’una impenetrabile segretezza, odiava mortalmente Bernabò ed i
suoi figli, da cui era stato con molti insulti inasprito; per ciò
Giovan Galeazzo lo adoperava nelle esecuzioni che comandava contro di
loro. Quando questi giunse a corte fu subito nella secreta stanza del
principe introdotto.

Stava Giovan Galeazzo scrivendo sovra un foglio; un visibile turbamento
gli si scorgea nella fronte e negli occhi, e un’inquietudine nelle
membra. Veduto ch’egli ebbe Ubaldino, compì frettolosamente e chiuse
il foglio; indi consegnandoglielo, con voce da sensibile interno
commovimento alterata, gli disse, che nel mattino del seguente giorno
dovesse recarsi con altro capitano d’armi, ch’egli avrebbe trascelto,
alla casa del marchese Azzo Liprandi, d’onde guiderebbero il cavaliere
Palamede de’ Bianchi nel castello di Trezzo; ed ivi giunto desse a
Iacopo del Verme quel foglio; ma due cose gli imponeva colla minaccia
di tutto il proprio sdegno se le trasgrediva o palesava, ed erano: che
sullo scritto a lui dato nessuno dovesse portare lo sguardo, eccetto
quello a cui era diretto, al quale, pervenuto nel castello, doveva
in tutto ciecamente ubbidire; e che siccome lo avrebbe in quella
spedizione fatto seguire da Ambrogio Lanza proprio fidato domestico,
dovesse tenerlo celato sotto nome di suo scudiero, e come tale a chi ne
chiedesse annunziarlo.

Ubaldino rispose, giurando al principe che come non aveva mai per
l’addietro violati i suoi comandi qualunque si fossero, così anche
quelli che attualmente gli imponeva verrebbero da lui con ogni
esattezza adempiuti. Giovan Galeazzo, tanto da Ubaldino ottenuto,
il licenziò, e fatto chiamare Lanza famoso manipolatore di farmaci
potenti, che qual famigliare in corte abitava, secreti discorsi tenne
pure a lungo con questo, il quale allontanatosi dalla presenza del
principe, si chiuse tutto quel giorno e la notte in una recondita
cameretta ad ogni persona impenetrabile, che era l’officina delle sue
distillazioni, dei filtri e di altre arcane preparazioni.

Appena Giovan Galeazzo ebbe gli ordini distribuiti pel compimento del
terribile meditato disegno, sentissi da più violenta interna guerra
assalito: la solitudine di sua stanza gli piombò con ispavento al
cuore: balzò dal sedile esterrefatto, e verso il contiguo oratorio
rapido si mosse; ma come se un’invisibile mano da quelle soglie il
respingesse, ne ritorse con terrore lo sguardo: compressa l’anima sua
da troppo orrendo peso, già stava per annullare i dati comandi, quando
gli si attraversò più evidente allo spirito l’immagine di Bernabò
trionfante: a questa idea la di lui sorte fu decisa: per non cedere
ad un più aspro conflitto della mente, Giovan Galeazzo abbandonò quel
solingo ricetto, e venuto tra suoi, fatti allestire i destrieri, cercò
distrazione al pensiero, velocemente con numerosa comitiva per le
aperte campagne cavalcando.

Palamede in questo frattempo, pieno il cuore della dolce aspettativa
del tanto desiato momento, era corso in seno della famiglia di Azzo
a versare tutta la sua gioia colla felice novella del concessogli
ingresso nel castello di Trezzo. Il marchese, i suoi figli, Ricciarda,
Adelaide, da tale impreveduto annunzio maravigliati, ne risentirono
la più viva contentezza. Narrato il fatto lietamente scorse per loro
quel giorno, dei nuziali arredi ragionando, e delle festose pompe
da disporsi pel pronto ritorno del cavaliero colla fidanzata, che
doveasi guidare all’altare tosto che fosse giunta in Milano: l’un
d’essi parlava degli addobbi della casa, l’altro delle vesti e dei
doni; chi assumevasi di far allestire i conviti con vivande dorate
come era costume, chi si accingeva all’ordinamento dei giuochi e delle
feste: quanto in somma era stato il dolersi agli affanni di Palamede,
altrettanto fu il gioire a’ suoi contenti.

Enzel Petraccio per l’udita fausta notizia era sovra ogni dire lieto
e soddisfatto: le ascose fila da lui tese con arte aveano finalmente
condotto al preveduto scopo, ed egli in se stesso si dava tutto il
vanto della riuscita di quell’avvenimento. Chiamato in quella sera da
Palamede, salì alla sua camera, e venne accolto da lui colla più grande
espansione d’affetto: ripetendo che solo a causa della intromissione
del duca di Francia s’era piegato volonteroso il principe alle sue
richieste, il cavaliero confessò che tale favore del duca eragli
derivato dall’impresa eseguita contro Aldobrado, e da lui suggerita,
e disse che perciò anche questo evento era a lui dovuto, e gli rinnovò
la promessa che sempre lo terrebbe presso di se, che di tutto ciò che
aveva desiderio ed era in suo potere liberamente disponesse, perchè
i molti resigli servigi non potevano essere mai da lui abbastanza
ricompensati. L’aríolo, porgendogli grazie per sì generose offerte,
ed accertandolo che egli null’altro bramava che di rimanersi tra i
suoi servi, gli disse che volentieri, se glielo concedeva, l’avrebbe
seguito al castello di Trezzo, poichè aveva gran desiderio di
rivedere la signora Ginevra per narrargli come avesse eseguita la
commissione datagli l’ultima volta che aveva con lei favellato: «Nè
adesso (proseguì) dovrò temere che i soldati mi ardano temerariamente
i panni indosso, poichè vestendo abiti vostri saranno forzati ad
avermi rispetto.» Palamede acconsentì di buonissimo grado a questa
brama dell’aríolo, perchè ovunque si ricasse seguito da lui s’aveva
fiducia che nulla di avverso potesse accadergli, e il pregò vegliasse
per tempo nel seguente mattino per attendere i due capitani d’armi
che Giovan Galeazzo avrebbe inviati. Enzel rispose che prima che il
gallo salutasse il giorno egli porrebbe in piedi tutti i famigli, ed
augurando lieti sogni a Palamede, discese al riposo.

Giovanni Ubaldino, Marco Ferro, altro capitano d’armi, e Ambrogio
Lanza in abito da scudiero, posti in sella, quando fu l’albeggiare si
presentarono al palazzo del Liprandi: le porte ne erano di già aperte,
e il destriero di Palamede, tratto dalle scuderie, stava nel cortile
coi servi che il ponevano in arnese. Entrati que’ capitani, Palamede,
il marchese Azzo ed i suoi figli scesero loro incontro, e dopo uno
scambio di gentili saluti, salito il cavaliero in arcione, il che pur
fece sovra un proprio cavallo l’aríolo, tutti congiuntamente presero
cammino.

Era ciascun d’essi involto in un mantello foderato di soffici pelliccie
per difendersi dalla rigidezza del mattinale aere dicembrino,
che quando ebbero lasciate le mura della città fecesi sentire più
rigoroso, accusando le molte nevi cadute dalla sommità delle Alpi
ai colli verso cui dirigevano il loro viaggio. Pensando Ubaldino che
la strada presso l’Adda tra Vaprio e Trezzo esser dovea più che mai
malagevole e perigliosa per l’alta neve che ricoprendola celerebbe gli
scoscendimenti che la fiancheggiavano, tenne proposito di prender la
via di Monza, e per Vimercate giungere a Trezzo. Palamede, abbenchè
non ardesse che di pervenire alle mura che chiudevano Ginevra, e
sarebbe passato per mezzo alle spade onde giungere alcuni istanti più
presto a quella meta, convenne esso pure per cortesia nella proposta
di prendere la via più comoda. Seguendo tale direzione, e cavalcando
di buon trotto, pervennero prestamente a Monza. Entrati in quella
città, giunsero, fiancheggiato il castello, innanzi alla chiesa di San
Giovanni; ivi presso la porta maggiore fermarono i cavalli in ischiera,
e, trattisi i berretti, orarono brevemente; indi riprendendo il
cammino, attraversato il Lambro su gotico ponte, uscirono dalla città
per opposta parte. Fatto poco viaggio, incominciarono a vedere il suolo
biancheggiante di neve, la quale mano mano che s’avanzavano facevasi
più alta. Essa però non fu a loro sino a Vimercate di così fastidioso
inciampo, quanto allorchè, passata questa terra, pervennero al di là
della Molgora.

Tra i nevosi sentieri di folto bosco inceppati dai rami che il verno
e l’età avevano schiantati, trovavano i destrieri penoso passaggio.
Per alleviare la noia prodotta dalla lentezza a cui i disagi di quel
cammino li costringeva, trasse Marco Ferro argomento a ragionare
dai molti fatti che si narravano accaduti in quei boschi istessi
per cui camminavano. Fece racconto dell’Eremita bruno, terribile
abitatore di quella selva, ripetè le maravigliose istorie che intorno
a lui correvano; disse pure dei ladri che vi dimoravano, e d’un loro
nascondiglio in cui nessuno aveva avuto l’ardimento di penetrare. Non
nuove riuscirono al certo a Palamede le narrazioni di Marco Ferro,
poichè egli era stato istruito del vero essere di quell’Eremita e dei
ladri dalla bocca stessa di questi nella loro segreta _tana del cervo_:
tacque però d’averne cognizione; e siccome dolorosa anzi che piacevole
impressione recavangli quelle memorie, così tutto abbandonando il
pensiero alla dolcezza dell’istante che lo attendeva, e l’occhio
rivolgendo alla strada, seguiva il cammino senza porgerli orecchio.

L’aríolo, investigatore e conoscente com’era, per indole e per uso,
degli altrui pensieri, aveva al cominciare di quel viaggio esaminato
collo sguardo lo scudiero che seguiva i capitani d’armi. Una certa
aria che vi scorse nella fisonomia, non dura, non franca, come ad un
milite servo si conveniva, ma piuttosto meditabonda, e che appalesava
abitudine al riflettere anzi che all’affaticare, gli fe’ nascere
alcun sospetto sulle qualità di quella persona. Lontan lontano, lungo
il cammino, con fina arte, il venne prendendo con ragionamenti di
guerreschi esercizi e delle servili incombenze di sua professione.

Lanza, accostumato agli agi di corte ed al lambicco della sua officina,
rispondeva alla cieca alle parole di Enzel: per lo che questo accortosi
fondatamente che esso non era mai stato uomo d’armi o di battaglie,
sentì svegliarsi gran desiderio di scoprire chi mai esso si fosse, e
come due guerrieri si facessero seguire da uno scudiero che ignorava
tutti gli usi di tale servigio. A questo fine approfittando delle
angustie della strada in que’ boschi, standogli d’appresso, mentre
i cavalli mutavano lenti i passi, fingendosi uomo affatto rozzo, di
varie cose l’andava interrogando con sembiante di chi tutto ascolta
maravigliando. Il finto scudiero, credendo che quello a cui parlava
fosse di massiccia ignoranza, pensando recargli sommo stupore,
dopo varii ragionamenti venne a discorrere dei prodigii e delle
trasmutazioni ch’egli sapeva far prendere alle erbe, ai sassi, ai
metalli, e nel calore del suo dire, narrando delle prove che aveva date
della sua arte maravigliosa non istette sì guardingo di non lasciar
penetrare all’attento e veggente spirito dell’aríolo, ch’egli aveva
molto uso di corte e la confidenza del principe stesso.

Grande fu la sorpresa di Enzel a tale scoperta. Chi poteva essere quel
personaggio, non di certo nè uno scudiero nè un servo? A qual fine
seguiva i capitani al castello? Chi ve lo mandava? Tali riflessioni
volgendo l’aríolo pieno di diffidenza, e agitato da mille dubbii, stava
tentando di disvelare più addentro quell’arcano, quando, terminata la
via tra i boschi, uscì la comitiva allo scoperto, e si vide da lato il
borgo di Trezzo, e di fronte il suo castello.

La sommità delle mura e delle torri del castello erano coperte di neve,
che stando rilevata eziandio sulle pietre e gli ornati sporgenti dalle
muraglie, faceva colla sua candidezza singolare contrasto al loro bigio
colore. L’aspetto di esso ne era reso per ciò più tetro e imponente, e
sembrava che quelle torreggianti mura minacciassero della loro ertezza
i riguardanti.

Palamede non risentì però a quella vista che i più vibrati moti
d’amore. Ivi stava Ginevra, ivi la rivedrebbe fra un istante: in questo
pensiero si concentrarono tutte le memorie dei proprii e de’ di lei
passati affanni, e amore, pietà, timori, dolci speranze gli assalirono
con un sol palpito il cuore.

Giunti in vicinanza del castello, Ubaldino fece tutti gli altri
sostare, e da solo accostossi alla porta di esso che ferree imposte
chiudevano. Diè il grido di _Viva il conte di Virtù_, ed al soldato
che dalla vedetta gli intimò di palesare chi fosse, e che chiedesse,
rispose che era un capitano di Giovan Galeazzo che recava ordini
per Iacopo del Verme, e chiedeva l’ingresso nel castello. Comunicato
alle altre guardie tale avviso, venne tosto recato al Del Verme, che
affrettossi alla porta, e riconosciuto dagli spiragli della vedetta
Ubaldino, diè comando si calasse il ponte levatoio per riceverlo.
Entrato questi gli consegnò immediatamente la lettera del principe,
dicendogli che conteneva l’ordine che altre persone che stavano presso
al castello dovessero quivi essere ammesse. Del Verme aprì il foglio, e
lo scorse collo sguardo rapidamente, dando non pochi segni in viso di
inaspettate e gravi sensazioni; ma lettolo, spedì tosto varii soldati
ad invitare i fermati ad avanzarsi. Mossero essi i cavalli a quella
volta, e venuti al ponte, Del Verme si fece loro incontro accogliendo
Palamede con onorevoli parole: questi ricambiandole, giunto sotto
l’arco della porta balzò da sella, il che fecero tutti gli altri, e
stringendo la mano a quel duce, garbatezza per garbatezza rendendo,
seco lui avviossi coll’altre persone verso il cortile.

Due paggi furono tosto mandati ad annunziare a Bernabò l’arrivo di
Palamede, e questi nel frattempo venne condotto nelle proprie sale da
Del Verme, onde prendesse ristoro del faticoso viaggio. Ma il cavaliero
nessun altro uopo sentendo che quello ardentissimo d’appresentarsi
a Ginevra ed a’ suoi, accertò il duce che nulla abbisognavagli, e il
richiese istantemente lo conducesse da Bernabò. Del Verme, ch’aveva
avuti ordini d’accondiscendere in tutto al cavaliero, s’offrì pronto a
compiacerlo.

Il vecchio principe, immerso ne’ suoi tristi pensieri, stava in una
delle stanze a lui destinate insieme a Donnina ed a frate Leonardo,
che rade volte scostavasi da lui; ivi gli venne l’avviso recato della
venuta di Palamede al castello: maravigliando cogli altri ch’erano
seco, udì tal novella, e stava dubbiando se libero o prigioniero vi
fosse giunto, quando Palamede istesso entrò in quella sala.

Somma consolazione recò l’apparire di lui a Bernabò e a Donnina, che
gli si levarono incontro ad abbracciarlo e affettuosamente richiederlo
se volontariamente od a forza era egli quivi venuto; ma soddisfatta
con loro contento tale richiesta, reiterarono gli amplessi. Allorchè fu
calmata in loro quella piena d’affetto che invade potentemente il cuore
al rivedere dopo lunga lontananza amate persone, ricomposti, stettero
per chiedersi l’un l’altro delle loro vicende. Ma, volgendo la mente
al passato, occorse alla memoria di ciascuno d’essi l’istante in cui
si separarono; e il confronto delle grandezze e delle speranze di quel
momento posto a paraggio colle presenti sventure, mosse in tutti sì
dolorosi sentimenti, che, abbassando al suolo gli sguardi dalle lagrime
inumiditi, stettero immobili e silenziosi: così fu manifesta con
maggior eloquenza che di discorso quanta fosse la forza dell’affanno
che a loro pesava sul cuore.

Bernabò vincendo però pel primo il doloroso risentimento delle
proprie disgrazie, diradata la tristezza dal volto, drizzò la parola a
Palamede, interrogandolo del modo con cui era pervenuto al castello.
Questi, in risposta narrò, come nutrendo sempre vivissimo l’amore e
la fede per sua figlia Ginevra, a cui esso stesso l’aveva fidanzato,
ritornasse dalle lontane guerre colla ferma speme di compire i suoi
voti, nè deponesse tale pensiero saputa la di lui prigionia, ma con
replicate inchieste, intercedendone Giovan Galeazzo, giungesse dopo
molte ripulse, per un singolare avvenimento, a vincerne la renitenza,
per cui gli era stata data concessione di venire entro quelle mura per
guidare alle nozze quella donzella che dal sacro nodo d’una giurata
parola era a lui legata, e che s’avea certezza che esso non avrebbe
alle sue brame ed alla sua costanza rifiutata.

Dolce insieme e tormentoso fu questo parlare di Palamede tanto a
Bernabò quanto alla madre di Ginevra: diletta idea era per loro che
la propria figlia, anzi che languire in tristo carcere, tornasse alla
libertà ed alle agiatezze, congiungendosi in decoroso e splendido
maritaggio con sì nobile e valoroso cavaliero; ma li angosciava ad un
tempo il pensiero di doversi da lei disgiungere, e di viverne forse per
sempre lontani. Simili idee volgendo nella mente, rimasero il principe
e Donnina per qualche tempo ammutoliti; ma Bernabò ruppe ancora il
silenzio, dicendo: «Insanabile è la ferita che lascia ogni ramo che si
tronca dall’albero antico, altiero un giorno e frondoso, ora sterile e
presso a morte; ma se il ramo deve trapiantarsi in dolce suolo per dare
soavi frutti, è d’uopo soffrirne il distacco. Io sento appressarmi al
mio tramonto, nè conforto deggio altrove trovare che in cielo; ingiusto
ed empio per ciò sarei se trattenessi spettatrice del misero avanzo di
mia esistenza una figlia alle cui preghiere forse concesse la Vergine
più venturosi giorni. Sì, cavaliero, a te è dovuta, e tua sia Ginevra;
ed io renderò azioni di grazie ai santi del poterti chiamare marito
d’una mia figliuola.» Indi rivolto a Donnina, soggiunse: «Voi, sua
madre, ite a Ginevra, e qui conducetela a rivedere un cavaliero a lei
per sposo in dì più felici promesso, e di cui non le avranno il tempo e
gli affanni cancellata la memoria dal cuore.»

Palamede a tali detti, non sapendo esprimere l’immenso suo trasporto,
precipitossi ai piedi di Bernabò, che, rialzatolo, l’accolse al suo
seno coll’effusione del più grande paterno affetto; Donnina intanto,
obbedendo agli ordini di questo ed alle voci del proprio cuore, che era
a Palamede inclinato, recossi frettolosa a ricercar della figlia.

Dopo alcun tempo da che ella era uscita, udendo l’alternare di passi
femminili che s’appressavano a quella sala, la trepidazione di Palamede
fu al colmo; e quando, spalancata la porta, vide Ginevra entrare,
seguita dalla madre e dalla sorella, a lei incontro slanciatosi, senza
articolare parola, la mano prendendole, se la compresse con forza alle
labbra. Diè un grido Ginevra a sì inaspettata vista, e oppressa, vinta
dalla piena di gioia, non reggendo le sue forze a quel potente assalto,
svenne, abbandonandosi, pallida come neve, nelle braccia di Palamede:
egli stesso era per venir meno all’eccessiva violenza della tenerezza,
se non fosse stato penetrato in quel punto da un sentimento di terrore
e pietà, che allo svenire di lei tutto il comprese. S’atteggiò a
sostenerla, appoggiandone il capo al proprio petto, e l’andò chiamando
coi più dolci nomi, sinchè, fosse effetto del suono di sua voce, o
vigor di natura, ricomparvero i segni di vita sul viso di lei, che
aprendo gli occhi, languidamente in quelli fissandoli di Palamede
che la riguardava, entrambi con un lungo inenarrabile sguardo tutta
espressero l’immensa fiamma d’amore di che ardevano nell’anima.

Ritornate intiere a Ginevra le smarrite forze, staccossi lentamente da
Palamede, ed al braccio affidossi della madre, con un soave sorriso
misto a lagrime di gioia, tutta significando la dolcezza di quel
momento.

Allo scorgere sì fatte prove della potenza del loro amoroso trasporto,
quelli che stavano mirandoli, pensarono agli affanni che in tanto tempo
di loro separazione dovevano quegli amanti aver durati. Bernabò con più
affettuosa voce che non solesse, dimenticando i propri mali, e perdendo
la severità del volto: «Questo tuo amato (disse), o mia diletta figlia,
ti sarà sposo: il cielo, di tante nostre sventure pietoso, volle un suo
raggio mandare sovra di noi; e te, la più degna, consolando nelle tue
fervide brame, far risplendere per tutti un giorno sereno. Seguiranno,
è vero, neri nembi la bella calma d’un momento; ma il mio spirito,
già a lungo provato nei giorni dell’avversità, riprenderà vigore da
questo lampo di luce, che mi convince che il mio soffrire è accetto a
Dio, e cancella le mie colpe alla sua presenza. Io accolgo devotamente
questa grazia come un segno della divina clemenza, e benedico al nodo
che fra poco vi stringerà, abbracciandovi come i miei più cari figli:
se l’indegna mia voce sale al trono dei Celesti, invoco che tu, o
Ginevra, dimentica della funesta dimora in questo mio carcere, porti,
premio alla fede del tuo sposo, ogni ventura in lieto soggiorno; e tu,
o cavaliero, fatto padre di bella prole, non possa negli anni di tua
vecchiezza vederti strappare i figli barbaramente d’intorno.»

A questi accenti Ginevra e Palamede, che s’erano precipitati negli
amplessi di Bernabò, versarono nel suo seno più largo pianto di
contentezza e di commozione.

Donnina obbliando essa pure il dolore che l’attendea nel disgiungersi
dalla figlia, e non mirando che al di lei contento, l’accolse dopo
Bernabò nelle braccia, unendo alle sue, materne lagrime di tenerezza.
Lodovico, accorso alle sale del padre, Damigella e Leonardo a tale
affettuosa scena inteneriti, attestavano col pianto quanta parte
prendessero alla felicità di quegli amanti. Così tra i più dolci
sentimenti e l’espressione della reciproca gioia tutto scorse il giorno
dell’arrivo di Palamede al castello di Trezzo.

La profonda ambascia che avea per tanto tempo l’anima angosciata di
Ginevra, e spentale ogni speranza in cuore, all’apparirle innanti del
cavaliero, al saperlo suo, sparve, quasi da portentoso balsamo sanata;
nuove soavi idee rifluendo in lei, recaronle in cuore una beata aura
di vita. Quel bene che si era convinta che non sarebbe più mai stato
suo in terra, e collocandolo colla mente in cielo, ivi contemplava,
agognando, per ottenerlo, la morte, inaspettatamente le era dato
possedere; più volte in un istante dubitava essere in preda ad una
tenera illusione; ma quanto ha di più puro e di più espressivo l’amore,
la convinceva che era reale quel suo sentire.

In Palamede, quando fu al di lei fianco assiso, svanirono dal pensiero
le rimembranze delle passate cure: assorto ne’ di lei sguardi, sentì
paghi tutti i suoi voti; e la sua felicità sarebbe rimasa a lungo
inalterata, se al dividersi da lei nelle ore notturne, una sinistra
novella, che gli venne secretamente recata, riempiendolo di sospetto e
d’agitazione, non gli avesse amareggiato il cuore.



CAPITOLO XII.

    Un cadaver qui giace; lacerate
      Son le squallide fibre, e l’ossa peste,
      Le chiome sulla fronte rabbuffate,
      E le luci terribili e funeste:
      Ha l’insegne regali...
                 GIANNI, _Poes. estemp._


Enzel Petraccio, entrato che si fu nel castello, ruminando le parole
intese nel viaggio da quello ch’ei suppose finto scudiero, s’era
fitto in capo di scoprire ad ogni patto chi egli realmente si fosse.
Recatosi seco lui alle stalle, veggendolo in ambarazzo nel dissellare
i cavalli, s’avea dato con premurosa opera a prestargli mano; per il
che Lanza, alleggerito da quelle servili fatiche a lui poco gradevoli,
gli si dimostrò sommamente obbligato. Enzel per tale amichevole di
lui disposizione d’animo, venuto seco a confidenziali parole, il seguì
nelle stanze prossime alle cucine, destinate alla dimora dei servi.

Pochi istanti eran quivi rimasi, attendendo fra le ciance d’altri paggi
e domestici che loro s’allestisse il pranzo, quando portossi colà il
capitano Ubaldino, e disse alcune secrete parole a Lanza; che levatosi,
uscì tosto con lui da quelle camere. Una lunga ora stette esso lontano:
indi rivenne solo e con fisonomia più meditabonda di prima. Ritornato
ch’ei si fu, vennero tosto ivi recate molte vivande ed ampii vasi di
vino.

Mentre mangiavano, assisi ad un desco, ristorati dal calore d’un
gran fuoco che ardeva quivi d’appresso, e vuotando molti bicchieri,
l’aríolo non perdendo mai di mira il proprio divisamento, circuiva
Lanza traendolo con molt’arte a famigliari discorsi. Dopo varii cibi fu
portato innanzi a loro un piatto con legumi saporitamente conditi. «Noi
siamo da più di un principe (disse Enzel sorridendo): il signor Bernabò
forse non mangiò mai fagiuoli più gustosi di questi[15].»

— «Egli li mangerà però gustosissimi (rispose Lanza) la prima volta che
si assiderà alla mensa: v’è tal cuoco che glieli cucinerà ottimamente.»
Siccome avea esso la testa già alterata dal vino, pronunciò queste
parole con tal aria misteriosa e con sì sinistro sogghigno, che
penetrate nel profondo del cuore dell’aríolo, il colpirono di spavento.
Avanzando le labbra e spalancando gli occhi, come chi fiuta alcun
che con gran sospetto: «Non ne mangio altri (esclamò rimescolando
que’ legumi col cucchiaio): sentono odore di cataletto. — Mangiane,
scudiero, mangiane ancora (soggiunse Lanza mirandolo collo sguardo
fatto più torvo dal vino e dai truci pensieri): il sale che vi è sparso
non fu liquefatto sui miei carboni.»

Questi tronchi detti, il volto di Lanza su cui stava una malefica
espressione come d’uomo dato alle malie ed agli incantesimi, persuasero
l’aríolo che egli era stato spedito colà per consumare nascosamente
qualche delitto o contro Bernabò ed i suoi, o contra Palamede.
Perturbato, tremante per tale convinzione, temendo a se stesso grave
danno se ciò avveniva, torturò lo spirito per trovare un riparo al
tradimento che si preparava; ma nessun modo gliene si offriva alla
mente. Pensò di recarsi a svelare l’arcano a Bernabò; ma fece calcolo
nell’istesso tempo che se si fosse scoperto ch’esso l’aveva palesato,
sarebbe stato immancabilmente ucciso, e il colpo consumato per diversa
via. Da mille sospetti agitato, nè sapendo a qual partito appigliarsi,
stette in quelle sale con Lanza sino all’ora del riposo, pel quale
furono loro indicate due contigue camerette presso una torre del
castello.

Ivi recatisi, Lanza si rinchiuse nella propria a chiavistello; ed
Enzel non potendo prender sonno, vedendo trapelare lume pei pertugi
dell’uscio della stanza del finto scudiero, si pose per quelli a mirare
attentamente che facesse. Vide che spogliatisi gli abiti servili era
sotto coverto da fini drappi; e lo scorse trarsi dai panni un involto,
e scioltolo da molti nodi levare da quello una fialetta cristallina
piena d’un bianco liquore, e sturatala infondervi una polvere che tenea
chiusa in una picciola scatola di metallo che aveva nascosta sotto i
lini del petto: quel bianco liquore tocco dalla polvere, intorbidatosi,
illividì: allora Lanza turata di nuovo la fialetta, la scosse innanzi
al lume a più riprese; indi la ripose nell’involto, che rannodò
diligentemente; ed ascosala sotto il guanciale, sdraiossi, e spense il
lume.

L’aríolo, che aveva più volte veduti e maneggiati veleni, s’accorse ben
tosto dal colore verde-giallo che veleno appunto era quella polvere
infusa da Lanza nella fiala. Tosto gli occorse al pensiero che in
un angolo del parco del castello avea altre volte veduta crescere
un’erba la cui radice, bollita con fresco latte, era ottimo antidoto
alle inghiottite velenose sostanze. Racconsolato da tale scoperta, e
gioiendo in sè stesso pel colpo di difesa che poteva recare a quello
che stava per iscagliare il finto scudiero, proponendosi, appena
spuntasse il giorno, di disporre il suo contravveleno, s’adagiava
al riposo; allorchè udendo rumore di persone, le quali uscendo dagli
appartamenti di Bernabò attraversavano il cortile, e distinguendo in
esso la voce di Palamede, pensò essere saggio consiglio il recarsi ad
avvertirnelo di tutto, giovandogli per far ciò celatamente la fitta
oscurità della notte. Seguendo tale idea, cheto cheto lasciò la sua
cameretta; ed a passi leggieri venendo lungo il porticato, entrò nelle
stanze in cui s’era ritirato il cavaliero.

Palamede, che non respirava che pensieri d’amore e di gioia, fu
preso da stupore nel vedersi apparire davanti l’aríolo a quell’ora;
e s’accrebbe la sua sorpresa quando questi fatto cenno col dito che
tacesse, accostatoglisi: «Con grave mia pena (disse a voce sommessa)
son costretto a porvi in cuore una spina che parte vi distruggerà della
contentezza recatavi dalla signora Ginevra. — Che mai avvenne? (chiese
palpitando Palamede, cui si trasfuse subito in cuore l’agitazione
che stava in volto ad Enzel, recandogli un’affannosa tema). — Nulla
sinora di disastroso (rispose questo); ma discoprii una serpe che
attende la letizia dei conviti per addentare una segnata vittima. Sì,
ad alcuno di voi dee scorrere di certo per le vene il veleno: esso è
già in pronto; domani a quest’ora potrebbe avervi colpito ed ucciso. —
Che dici? (esclamò Palamede atterrito) è preparato per noi il veleno?
Giovan Galeazzo mi avrà forse lasciato entrare in questo castello per
togliere in una sol volta la vita a me, a Bernabò, a suoi figli?...
Qual tradimento?» A questo pensiero trasportato da un impeto di furore,
impugnata la spada: «M’indica, aríolo (gridò), chi deve eseguire sì
infame comando: io gli passerò questo ferro dieci volte nel cuore.»
Enzel all’infuriare del cavaliero fu preso da doppia paura: temeva che
qualche persona avesse ad udire quegli accenti pronunciati con forza
dal cavaliero, o che questi acciecato dall’ira volesse eseguire ciò che
minacciava; il che riusciva per lui egualmente fatale.

Adoperossi perciò con atti e parole ad acquetarlo; e paventando di
non poterne frenare lo sdegno se palesava tutto ciò che aveva visto
ed udito, determinò in sua mente che bastava a’ suoi fini l’aver
posto Palamede in avvertenza, onde mirando a calmarlo, fingendo di
ritrattarsi, ed addolcendo la voce: «Potrebbe essere (disse) che false
immagini m’abbiano illuso, facendomi veder veleno là dove non eravi
forse che un liquido innocente; ma comunque però sia la cosa, vivete
tranquillo: io tengo disposta una bevanda che ingoiandone poche goccie
al manifestarsi dei sintomi d’attossicamento ne distrugge affatto la
forza. Se per disavventura si avverasse il mio sospetto, io non sarò
mai lontano da voi: chiamatemi, e vi porgerò l’infallibile medicina.»

Queste parole ritornarono più queto il cuore di Palamede. Egli mirò
Enzel attentamente; e vedendone la faccia sconvolta e il guardo vagare
incerto esprimendo interna paura, rammentossi che in quel castello
avea esso corso altre volte pericolo della vita, e pensò che fossero
le sue visioni mosse da panico terrore che il facesse delirare:
onde così rapidamente come avea ricevuta la dolorosa impressione,
accolse quella consolante idea, che la prima cancellava; ma sentendo
nell’istesso tempo pietà dell’aríolo, che credeva trasognante,
affabilmente gli prese una mano, e gli disse: «Ritorna al luogo del
tuo riposo; chiudi pure con placidezza gli occhi al sonno, che io
ho certezza di qui ritrovarmi frammezzo a uomini che non vorranno
attentare alla nostra vita; ne tengo franchigia nei sensi stessi
espressimi da Giovan Galeazzo. Va sicuro; e se funesti pensieri ti
turbano la mente, pensa che domani deve essere per noi tutti un giorno
d’allegrezza. — Un giorno d’allegrezza!... (esclamò l’aríolo con tuono
mesto e solenne, crollando il capo) Lo voglia la Vergine e il glorioso
Sant’Ambrogio!...» Indi serrando la mano a Palamede, e dandogli un
ultimo espressivo sguardo, uscì da quelle stanze.

Il cavaliero seguitollo sino al limitare del cortile. Ivi la densa
oscurità che regnava l’arrestò; da cento diversi moti in seno agitato,
fissò con terrore quelle imponenti tenebre. Appena il profilo delle
mura distinguevasi dal cielo nero; la debole luce d’una lampada della
chiesa che trapelava dalle vetriate, era il solo lume che si scorgesse:
profondo dominava il silenzio, e non udivansi che i passi di Enzel
che s’allontanava, e l’incessante romoreggiare dell’Adda a piè del
castello.

Una paura, un segreto palpito di spavento lo assalì; parvegli scorgere
aggirarsi per l’aere oscuro ombre di morti, ed udire stridule infauste
voci. Si ritrasse velocemente nella propria stanza: ivi si chiuse, e si
piegò innanzi ad un sacro dipinto in fervorosa preghiera. Svanirono a
poco a poco i suoi timori, e l’immagine di Ginevra possedendolo tutta
sola, gli ritornò la gioia nell’anima. Allorchè però si fu coricato,
pensando alle parole, al volto, agli ultimi accenti di Enzel, crudeli
presentimenti lo invasero di nuovo e dolorosamente gli contristarono il
cuore.

Al sorgere del diciannove dicembre, giorno che seguì quello della
venuta di Palamede al castello, Bernabò destossi da un lungo profondo
sonno; e la prima fiata da che era in quelle mura sentissi scendere in
petto un dolce conforto nel pensiero delle vicine nozze della propria
figlia. Levatosi, si recò nella sala maggiore, e volle che tutti i
suoi venissero a fargli corona: essi infatti colà si raccolsero, e con
festosa ilarità molti beni da quel giorno si auguravano.

Ginevra appariva oltre ogni dire bella e ispirante soavi sentimenti: le
si scorgeva in fronte la contentezza, e i suoi azzurri occhi amorosi
si volgevano pieni di contentezza; più ricche e leggiadre portava
le vesti; le bionde chiome con maggior grazia inanellate, ed in più
vaghe treccie sul capo ravvolte. Appressando la madre, attendeva con
ansia Palamede; ed allorquando ivi giunse, da quel desiderato aspetto
inebbriata, d’un roseo colore suffuse le guance, appalesò sul viso il
tripudio del cuore.

La notte fra le agitazioni trascorsa, e il malaugurato sospetto aveva
fatto pallido il volto del cavaliero; ma al primo mirare la sua bella
fidanzata, sparve dal suo spirito come sogno fugace ogni tristezza, e
i suoi pensieri si fecero ridenti. Accolto con un amplesso da Bernabò,
venne poscia ad imprimere, palpitando, sulla destra a Ginevra un bacio
d’amore. Lodovico fraternamente abbracciollo; e fra l’espressione del
reciproco affetto, rammentando la loro passata intimità, ridestarono
mille dolci memorie di Milano e delle loro usate occupazioni, delle
armi, de’ privati tornei e delle corse.

Palamede tenendosi stretto al fianco il giovin figlio di Bernabò:
«Ginevra (disse, mirandola con tenerezza), amaro sommamente riuscir dee
al vostro cuore il disgiungervi da questi cari parenti, abbandonandoli
entro le triste mura d’un castello; ma io ho la ferma speranza, e
ciò sia per voi consolante pensiero, che venuti al cospetto di Giovan
Galeazzo, potremo, colle nostre replicate istanze, cangiare in meglio
la sorte loro.» A Ginevra per questi detti si bagnarono gli occhi di
pianto, e delle braccia cingendo Donnina, ascondendole il volto in
seno: «Madre mia (esclamò), se chi vi tiene qui rinchiusa non ha cuore
di ferro, io tanto da lui e dal cielo invocherò colle lagrime e colla
voce, che voi, e con voi questi altri tutti, verrete liberi nel mio
soggiorno, ed allora potrò chiamarmi compiutamente felice. — Il mio
destino (rispose affettuosamente Donnina additando Bernabò) dipende dal
suo; sposa tu stessa, sentirai fra poco che ogni diletto di moglie sta
nell’essere vicina e nel recar sollievo all’uomo cui si va congiunte.
Per me il mondo più non possiede attrattive; qualunque dimora mi è
egualmente cara, purchè io possa giovare a quello cui ho consacrata
la mia vita. Iddio conosce se mi duole il lasciarti; ma dandoti ad
un prode cavaliero che ti provò sì altamente l’amor suo, io m’affido
in lui che ti avrà ogni tenera cura; e fatta madre de’ suoi figli,
addoppierà per te la stima e l’affetto.»

Palamede, a lei ed a Ginevra rivolto, giurò che morrebbe cento volte
anzi che cessare un istante d’aver cara la sua sposa sovra ogni altro
oggetto; ed espose di volerla tener sempre in quell’elevato grado a cui
i di lei nobili natali l’avevano destinata.

Bernabò da lunga pezza era rimasto in attitudine meditabonda; ma
all’udire questi detti del cavaliero, parve risentirsi; e con certa
lentezza di voce come di chi vaga col pensiero su lontane memorie, e
con sguardo immobile affissato nelle immagini della propria fantasia.
«L’altezza del grado (disse), le ricchezze e il potere sono forse i
più tristi doni della fortuna. Io li possedetti per lunghi anni, or
ne conosco il giusto prezzo. Che mi hanno essi recato di bene? Non mi
sforzarono a mantenere sempre vive atroci guerre, a comandar punizioni,
ed ohimè... a commettere chi sa quanti delitti? Fra il sangue versato
e il terrore dei tradimenti non v’è calma, non v’è pace pel cuore.
— I trionfi — le feste — l’oro profuso non giovano — no — a far paga
l’inquietudine profonda che agita lo spirito e lo tormenta. Nei palagi,
nei castelli, fra i cortigiani e le armi ebbi io mai tranquillità e
contento? — O miei boschi di Marignano! Per le vostre ombre camminando
solingo, io mi sentiva più sicuro che cinto da bastite e da spade —
là scorrevano per me placide ore — quante volte fra l’alte piante,
sui bei pendii del Lambro, guidando lento il destriero, mi sorprese
la notte — allora — allora soltanto svaniva il peso che mi gravava il
seno, nè temeva pugnali, nè agognava vendette. — Chi vi dava, o acque,
nel vostro solitario corso un suono soave? — Chi porgeva un’armonia al
vento della sera che agitava sul mio capo le frondi? — Io trovai nelle
selve i diletti che non rinvenni più mai nelle mie corti. — E tu, o
contadino, che mi fosti guida in una notte oscura ad uscir dal bosco,
tu, la cui miseria ti toglieva il dividere il pane co’ tuoi figliuoli,
non ti vid’io più lieto del dono di poche monete, di quello ch’io nol
fossi stato giammai per le più grandi vittorie? Ancor mi rammento le
tue parole: Tu mi chiedevi qualche cosa per amor di Dio, perchè avevano
usurpati i tuoi campi. Ah! perchè non t’ho io dato le mie città, i
miei tesori, e non ho cangiato i miei palazzi colla tua capanna! — Or
qui non sarei... (ma abbandonando ad un tratto questo pensiero che
gli chiamava sul volto la tristezza e lo sdegno, e cangiando corso
all’immaginare, converso a Palamede, proseguì) — Io spero che il conte
di Virtù non avrà estesa la sua mano rapace anche sui beni ch’io donai
nei giorni della mia prosperità: se la cosa è così, tu avrai ventimila
fiorini d’oro che io costituii in dote a Ginevra sul marchesato della
Martesana, da me regalati a sua madre; quel danaro si trova ora in
custodia di Rinaldo de Porri suo zio; da lui ti reca, ed egli te lo
sborserà.»

Palamede lo accertò che ancorchè il conte di Virtù avesse privato di
quella dote Ginevra, il che non credeva fosse avvenuto, egli possedeva
bastevoli mezzi per farla andar pari alle più doviziose dame di Milano.

Era tra questi ragionamenti venuta l’ora del pranzo, e due paggi
entrarono ad annunziare che la mensa stava disposta. Per ordine di
Iacopo del Verme fu la tavola preparata in una delle più adorne sale,
e fregiata cogli utensili più ricchi che ivi si ritrovassero. Smaltati
a diversi colori vedeansi i vasi di cristallo che capivano i vini, i
bicchieri avevano gli orli d’oro, d’argento erano i tondi, con vaghi
contorni, e le saliere di belle forme stavano con simmetria sul desco
disposte. In mezzo della mensa vedeasi entro gran piatto la testa d’un
grosso cignale con arte rivestita degli irti peli, ed a cui risortivano
dalla bocca candide le zanne; le facevano cerchio lepri, fagiani ed
altro selvagiume.

Tutti vi si assisero intorno: Bernabò stette a capo di essa, e gli
si sedette d’appresso Palamede. La squisitezza dei vini ed i gustosi
cibi posero da loro in bando ogni men lieto pensiero, e dettarono
sollazzevoli motti.

Dato termine al primo servito, mentre alcuni donzelli portavano le
zuppiere colle minestre per gli altri commensali, un paggio s’avanzò
recando sovra una sottocoppa d’oro una scodella coverta, e venne a
deporla innanzi a Bernabò: conteneva essa fagiuoli, suoi favoriti
legumi[16]. Scoperchiata la scodella, ne esalarono densi vapori:
Bernabò si diede a ghiottamente mangiarli; ma allorchè n’ebbe la
maggior parte consunti, arrestossi d’un colpo, e disse: «Qual infernale
sapore m’ha offeso il palato! io non ho mai inghiottita più disgustosa
vivanda; toglietemela davanti.» I servi obbedirono.

Passò a tali parole un lampo funesto per la mente di Palamede, che
impallidì; ma vedendo che Bernabò, accostatosi altro cibo, ne mangiava
con cupidigia, nessuno sgomento dimostrando, ritornò tranquillo. Il
pranzo lietamente procedea: molte vivande erano state successivamente
recate, quando a Bernabò, che gettò da se lontano il cibo tralasciando
tutto ad un tratto di mangiare, manifestossi in volto un eccessivo
pallore; portò le mani al petto, come forzandosi di contenersi, ma
involontariamente fece dolorosi contorcimenti.

Tutti si alzarono sorpresi, e raccerchiarono chiedendo che avesse:
tacque egli un istante ancora, ma poscia dovette palesare che sentivasi
acuti dolori allo stomaco. Una mano gelata piombò sul cuore di
Palamede: senz’altro dire abbandonò quella sala, e precipitoso corse a
ricercare dell’aríolo. Frugò le stanze, i cortili, le stalle, per tutto
il chiamò e richiamò, senza che quello mai gli rispondesse; ne chiese
replicatamente agli uni, agli altri: tutti asserivano di non averlo in
quel giorno veduto; affannato recossi presso la porta del parco; ivi
addomandando un milite che incontrò, udì dirsi che Enzel era entrato
sul far del giorno nel parco, ma che non s’era più veduto uscirne.
Palamede entrò quivi rapido; e vedendo la neve da molte orme segnata,
le seguì e giunse dove eravi uno spazio di terreno scoperto; ma quivi
presso non stava alcuno, se non che vide di là cominciare una striscia
di sangue, ch’egli seguendo atterrito, il condusse alla torre nera
di Barbarossa, entro cui quella sanguigna traccia finiva, ma ivi pure
non eravi persona vivente. Gridò forsennato, chiamando Enzel; ma non
gli rispose che l’eco di quelle diroccate mura con un cupo rimbombo;
ricalcò desolato quella via, rientrò nel cortile; e fatte invano nuove
ricerche, risalì disperato nelle sale del principe prigioniero.

Bernabò, cui s’erano aumentati dolorosi sintomi, tolto da quella sala,
era stato portato sul proprio letto: ivi giaceva col viso squallido,
le chiome scomposte, e rigettate dal seno le coltri, irrequieto si
dibatteva anelando. Donnina, le figlie, frate Leonardo, dalla più
grande costernazione compresi, s’adoperavano intorno a lui per recargli
sollievo. I suoi dolori si facevano di momento in momento più acerbi;
un calore abbruciante gli si sparse per le membra, e venne assalito da
una ardentissima sete. Gli fu tosto recata fresca acqua, che avidamente
bevette, e pel consiglio di Donnina prese tiepidi brodi. Ma poco stette
che da fieri sussulti il suo petto sconvolto rigettò quelle bevande
e parte dei cibi che aveva inghiottiti. Ciò parve giovargli, poichè
dopo quel rigurgito d’alimenti i suoi dolori si alleviarono, il calore
si fece meno ardente, e la sete si mitigò. Riconsolati a tal vista
pendevano tutti dal suo aspetto colla speranza che avesse termine quel
suo terribile sconvolgimento.

Ma i dolori gli si ridestarono più forti, tutte corrodendogli le
viscere; un’arsione feroce gli investì le carni, e la violenza del
tormento portò alla sua anima una mania; gli si fece lo sguardo deliro,
tentò rialzarsi; e rabbiosamente strappandosi i lini dal seno, mandava
disperati lamenti; tremende visioni in quella demenza gli assalirono
lo spirito; con ansia faticosa profonda, con voci aspre e tronche: «Tu
(gridava) mi fai porre su queste brage.... e non vuoi perdonarmi?..
Cessate... allontanate quei tizzoni... io sono Bernabò... Incatenate
i cani; essi mi lacerano il corpo... Io solo ho fatto voi tutti
tormentare ed uccidere, ma io era vostro signore, voi non mi avete
obbedito... è troppo atroce la vostra vendetta... E tu, Matteo...
fratello... non io... Galeazzo... Galeazzo ti ha dato il veleno. —
Oh Dio!... quali pene!... i santi, la Vergine non mi ascolteranno?...
Sarà così eternamente?...» Una sincope lo oppresse. Palamede, Donnina,
le figlie, pallide, tremanti, lacerate da un’indicibile angoscia,
credettero fosse morto; ma egli destossi dal breve letargo, e tramandò
per le fauci un vomito nero. Un livido contorno gli si dipinse alle
pupille, e un sudor freddo gli coprì le membra. Il delirio della mente
cessò, volse intorno gli occhi incassati e semispenti, e fermògli sul
Crocifisso che frate Leonardo gli teneva con una mano levato innanzi al
volto.

Appena il frate lo vide in tal attitudine: «Bernabò (disse
pietosamente), a Questo, a Questo innalzate il pensiero, e sperate
nella sua immensa misericordia, invocate pentito l’onnipossente sua
destra, ed egli la stenderà su di voi, e vi darà forza di sostenere
i patimenti che vi tormentano, onde vi aprano la via al celeste
soggiorno, ergete l’anima al trono d’Iddio: questi brevi mali della
carne possono valervi l’eterna salute; egli vi chiama per una difficile
strada a compire la mortale carriera; voi benedite la mano del
Signore.»

Bernabò, le cui forze erano ormai estenuate, raccolte le braccia, e
incrocicchiatele al petto, tenendo sempre fisso lo sguardo, bagnato
di lagrime, nell’immagine di Cristo: «Mio sommo Dio (pronunciò), voi
che non colpiste mai colla tremenda ira vostra un cuor contrito che vi
si rivolse con umile preghiera, non isdegnate questi estremi accenti
d’un misero peccatore affranto dalle pene. Perdonate a me i miei gravi
e numerosi delitti, come io perdono a Giovan Galeazzo tutte le sue
offese, e questa tormentosa morte, che ben m’accorgo che da lui mi
viene; degnatevi, nel giudizio che mi attende, ricevere le preci de’
miei santi protettori, ed accogliere il mio spirito nel vostro seno.»
Indi dopo alcuni momenti di silenzio allungò la mano; e presa quella
di Donnina, che stava a fianco al letto quasi tramortita d’affanno, e
serrandogliela con quella potenza che gli rimaneva: «Perdona (disse),
o la più diletta compagna de’ miei giorni, i molti mali che per
me soffristi. Tu dividendo meco, volontaria, questo carcere, me lo
rendesti meno grave: io non ho accenti per render grazie a te ed al
Cielo che mi ti diede e mi accorda di morirti vicino.»

Scorgendo poscia Palamede mirarlo lagrimante, e Ginevra per celare la
propria desolazione coprire colle palme il volto: «Sembrommi (proseguì)
che questo dì fosse sorto per me felicemente: io gioiva nel pensare
ai vostri contenti; ma nel convito di nozze mi versarono in seno la
morte. Ciò non vi sia infausto presagio. Io era la meta dell’odio
degli uomini e dei celesti castighi; l’ultimo colpo fu scagliato: io
scendo nella tomba. D’ora innanzi voi vivrete sicuri. Rammentatevi di
pregarmi pace dal Signore: presso la pietra del mio sepolcro invocatelo
per me con lunghe orazioni — ivi insegnate ai vostri figli il mio
nome e le mie disgrazie — io — non posso — che benedirvi....» Tutti
caddero genuflessi al suolo; ed egli, alzata la destra tremante, fe’
il segno di croce. Proruppe uno scoppio di pianto e un sospirare invano
represso.

Bernabò tentò parlare ancora; ma la sua lingua e la bocca inaridite
non emisero che rauchi suoni indistinti — Gli sopravvenne un mortale
singhiozzo; crebbe l’ansia del petto — gli si manifestò un convulso
palpitare delle fibre — gli occhi si intorbidarono — il singhiozzare
addoppiò — stirò le membra gelate, le distese irrigidite — e spirò.

Un raggio occidentale trapelando per rotte nubi, illuminava nel
castello di Trezzo quella funerea scena.

Dietro l’altare maggiore di San Giovanni in Conca sorgeva un mausoleo,
sostenuto da sei colonne, sovra cui stava in bianco marmo scolpito un
destriero di naturale grandezza, il quale recava sul dorso un cavaliero
armato, che era l’effigie di Bernabò. In tale mausoleo, da lui stesso
fatto innalzare, venne per ordine di Giovan Galeazzo deposto con
magnifica pompa il suo cadavere, e celebratene in quella chiesa le
solenni esequie con isfarzo regale.

Lodovico fu condotto nel forte di San Colombano col fratello Rodolfo.

Ginevra e Palamede seguirono Donnina, che si condusse con Damigella al
suo castello della Martesana; ivi furono compite le nozze: nè essi più
apparvero alla corte del Visconte.


  FINE.



NOTE:


[1] Gl’Inglesi furono i primi ad introdurre in Italia verso la metà
del secolo XIV l’uso di condurre la gente a cavallo per lancie. Ogni
lancia era composta di tre uomini, cioè del caporale di lancia, che era
un cavaliere armato in tutto punto d’armadura pesante; dello scudiere,
con elmo, usbergo, gambiere, spada e coltello; e di un paggio o ragazzo
armato alla leggiera. Sulle prime chiamavansi _barbute_ o _bandiere_,
ma allora non constavano che del solo caporale e scudiere.

[2] Vettura di que’ tempi.

[3] Antica porta di Milano, che esisteva di prospetto all’attuale
_Castello_, a que’ tempi chiamato Castello di Porta Giovia o Zobia.

[4] Antica prigione presso la chiesa di San Galdino.

[5] Ordine religioso di que’ tempi, frequente in Lombardia, e detto
_Berrettano_ da una special foggia di berretto con cui que’ monaci si
coprivano il capo.

[6] Venticinque maggio 1385.

[7] La fabbrica di veli e di drappi de’ Segazoni di Milano era a
que’ tempi famosa, non solo in Lombardia, ma per tutta Europa, e
specialmente ne erano ricerche le stoffe a maglia per le sopravvesti.

[8] Gli aríoli erano i zingani di que’ tempi: così detti, perchè
supponevasi avessero potere sull’aria.

[9] Il morione era un elmo dei soldati gregarii.

[10] Brache de’ poveri a larghe pieghe.

[11] Alto monte del lago di Como.

[12] Chiamavansi _pusterle_ le porte minori della città, che non
sussistendo nelle antichissime mura, vennero nella loro nuova
ricostruzione aperte per maggior comodità dei cittadini. Nominavasi
Brera la pusterla che sussiste tuttora al Ponte Beatrice presso il
palazzo di tal nome, già collegio de’ Gesuiti. Fu detta, _Brera_ dal
latino vocabolo _Prædium_ (campo) corrotto in _Braida_ e _Brera_: gli
si aggiungevano gli epiteti del _Guercio_ e d’_Argisio_, perchè tali
si vuole fossero i nomi degli antichi possessori di quella Brera, ossia
campo, dove fu aperta la pusterla.

[13] Dicevasi di lei: _On donne le los à la gracieuse reine Isabelle de
Bavière, d’avoir apporté en France les pompes et les gorgiasetez pour
bien habiller superbement et gorgiasement les dames._

[14] Il motto intero era così: _Le cavalier françois jouste contre tous
venans en champ clos ou ouvert, fust de glaive de paix ou de guerre_.

[15] Essi erano a Bernabò favorita vivanda. _Bernard. Corio._

[16] Bernard. Corio.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



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