Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Del governo della peste - e della maniera di guardarsene
Author: Muratori, Lodovico Antonio
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Del governo della peste - e della maniera di guardarsene" ***

BIBLIOTECA SCELTA

DI OPERE ITALIANE ANTICHE E MODERNE

_vol. 297_

LOD. ANT. MURATORI

_GOVERNO DELLA PESTE._


   [Illustrazione: LODOVICO ANTONIO MURATORI]


                              DEL GOVERNO
                              DELLA PESTE
                     E DELLA MANIERA DI GUARDARSENE


                                TRATTATO
                           DI L. A. MURATORI


                                 DIVISO
                  IN POLITICO, MEDICO ED ECCLESIASTICO
                              CON AGGIUNTA
                      _DELLA RARISSIMA RELAZIONE_
                        DELLA PESTE DI MARSIGLIA
                               PUBBLICATA
                  DAI MEDICI CHE HANNO OPERATO IN ESSA



                                 MILANO
                         PER GIOVANNI SILVESTRI
                            M. DCCC. XXXII.



BREVI CENNI

INTORNO ALLA VITA E ALLE OPERE DI L. A. MURATORI


Di umile schiatta nacque il dì 21 ottobre 1672 in Vignola, terra del
Modenese, ed ebbe in età fanciullesca un dozzinale maestro di rudimenti
di lingua latina da cui spesso distaccavasi volentieri per deliziarsi
nella lettura dei romanzi della francese Scudery. Si portò giovanetto
a Modena, dove vestì l’abito chericale, e dove sortir potè migliori
institutori, ch’egli seguitò con fervore. Iniziato già nelle leggi
e nella moral teologia, volealo il padre di nuovo in Vignola a fine
che tornasse utile alla bisognosa famiglia, ma preso avendo grande
affetto alla poesia, alla eloquenza ed alla conversazione di svegliati
ingegni, egli ottenne di non distaccarsi da una città che ben presto
riconobbe in lui un prodigio di spirito e d’ingegno. Il celebre P.
Benedetto Bacchini si prese singolar cura nel dirizzarlo a’ migliori
studi, come pur fatto avea col Maffei, sicchè potè quegli dirsi il
padre de’ due più grandi Italiani del suo secolo. La lettura delle
opere di Giusto Lipsio invaghì il Muratori dell’antica erudizione,
e, voglioso d’impadronirsi della lingua greca, seppe riuscirvi da
sè solo dopo ostinata fatica. La fortuna gli rise intanto propizia
nell’incontrare a mecenati il march. Gio. Gioseffo Orsi, bolognese,
e monsig. Anton Felice Marsigli, vescovo di Perugia, e col mezzo loro
potè esser invitato dal conte Carlo Borromeo di Milano a prender posto
nella famosa biblioteca Ambrosiana. Laureatosi prima in leggi con
istraordinario applauso, si recò subito a Milano alla fine dell’anno
1694, dov’ottenne titolo di dottore dell’Ambrosiana, e prima che
terminasse l’anno susseguente venne ordinato sacerdote. Primo e nobil
saggio del suo utile rovistare i codici della biblioteca furono gli
_Aneddoti latini_, a’ quali succedettero gli _Aneddoti greci_, e sì
agli uni come agli altri aggiunse illustrazioni di antichità cristiana,
e di disciplina ed erudizione ecclesiastica. Salì in rinomanza;
e non toccava ancora il suo vigesimoquinto anno, che già i primi
letterati italiani, un Noris, un Bianchini, un Ciampini, un Sergardi,
un Magliabecchi, un Salvini, e que’ di oltremonti, un Mabillon,
un Ruinart, un Montfaucon, un Gianningo, un du Pin, un Baillet, un
Papebrochio gli dimostravano grande benevolenza e considerazione.
Cinque interi anni si passarono da lui nell’Ambrosiana, frammischiando
a’ serj studi anche i più gentili, intervenendo alle accademie che
allora s’instituivano, e strignendo amicizie considerevoli, siccome
fu quella del valente numismatico Gio. Antonio Mezzabarba, e l’altra
del valoroso poeta Maggi, che mancato a’ vivi l’anno 1699, ebbe nel
Muratori lo scrittore della sua Vita.

Le indagini genealogiche che allora per commissione dell’elettore
di Hannover si facevano a fine d’illustrare l’origine italica della
casa di Brunsvico derivata dal ceppo Estense, impegnarono il sovrano
di Modena, Rinaldo I, a richiamare il Muratori alla contrada nativa,
ed egli, rassegnato ad obbedire al suo signore, quantunque con pena
lasciasse gli amici di Milano, l’anno 1700 fu reduce a Modena, dove
si tenne costantemente fermo pel mezzo secolo che tuttavia visse,
rinunziando poi ad ogni offertaglisi più splendida fortuna, ed il più
bel fregio diventando della biblioteca Estense. Concepì in patria il
grandioso disegno dell’opera delle _Antichità Italiane del medio evo_,
libro immortale e senza cui non avremmo forse oggidì nè le storie
del Gibbon, nè quelle del Sismondi. Nacquero intanto in Italia piati
e puntigli per lo dominio di Ferrara e di Comacchio, e ’l nostro
Bibliotecario non poche scritture pubblicò, che ’l misero anche in
voga d’uno de’ più scienziati pubblicisti, ed in fatti riuscì tale da
rapir di mano la palma al Fontanini, bellicoso campione dei diritti
della corte romana. Da questa controversia nacque nel Muratori il
pensiero della famosa Raccolta degli _Scrittori delle cose d’Italia_,
che ordinò e rese ricca di cognizioni storiche risguardanti la gente
italiana dal secolo V al XV; e nel frattempo che sì sontuosa impresa
andava progredendo colle stampe in Milano, quasi per sollievo e diporto
compose il _Trattato della perfetta poesia_, in cui spiegò un sistema
conforme a’ pensamenti di Bacone da Verulamio. Di altro disegno fu
l’opera che colorì poco dopo del _Buon gusto_, o sia Riflessioni sopra
le scienze in genere; ed anche questo libro, dettato con facile stile,
e pieno, pe’ suoi tempi, di novità, ebbe alto grido, e collocò l’autore
tra que’ filosofi che precipuamente adopravansi all’incremento del
sapere italiano. Tra le amene sue distrazioni vanno ricordate le Vite
che scrisse del _Petrarca_, del _Castelvetro_, del _Sigonio_, del
_Tassoni_, del march. _Orsi_, del P. _Segneri juniore_. Era tale e
tanta la fecondità del suo ingegno, che due opere ad un tratto stava
per ordinario scrivendo, e non solo di erudizione o di critica, ma
attenenti eziandio alla teologia, all’ascetica, alla filosofia, alla
politica, e sin alla medicina, come il comprovano il suo _Trattato del
Governo della peste_[1], e la sua Dissertazione _De potu vini calidi_;
e tutto questo faceva senza mancar mai un istante all’adempimento
più scrupoloso de’ doveri del religioso suo stato. Egli era Proposto
della Pomposa in Modena con cura di anime, e con zelo vivo e indefesso
vi attendeva esemplarmente, rendendosi sino benemerito della umanità
colla filantropica instituzione di una così detta _Compagnia della
Carità_. Quanto fosse vivamente compreso di vero spirito di religione
può conoscersi dall’unico suo _Trattato della Carità Cristiana_, che
intitolò all’imp. Carlo VI, il quale lo regalò di ricca collana d’oro;
e quanto fosse maestro profondo in divinità scorgesi dalla sua opera
_De ingeniorum moderatione in religionis negotio_, opera che non
soltanto in Italia, ma in Germania ed in Francia ebbe assai credito. Ma
libri tanto frequenti e di genere sì disparato non poterono talvolta
non promovere opposizioni, dibattimenti, censure; il Muratori poi
niente inquieto di quelle che ad argomenti scientifici si riferivano,
con rigido occhio mirava soltanto le teologiche e le ecclesiastiche.

Era già il Muratori alla sessagenaria età pervenuto; nè potendo più
reggere alle parrocchiali fatiche per la indebolita salute, rinunziò
alla propositura della Pomposa, attendendo soltanto con perseveranza
a comporre e pubblicare opere sempre nuove. Deonsi a quest’epoca
i suoi _Compendj in lingua italiana delle Dissertazioni delle
Antichità d’Italia del medio evo_; la _seconda parte delle Antichità
Estensi_; il _Nuovo Tesoro delle iscrizioni_, ed i libri di brieve
mole, ma non men rilevanti, _della Morale Filosofia_; delle _Forze
dell’intendimento umano_; della _Forza della fantasia_; dei _Difetti
della Giurisprudenza_, e quelli risguardanti antichità profane, come la
_Dissertazione de’ Servi e Liberti_; quella de’ _Fanciulli alimentarj
di Trajano_, e quella dell’_Obelisco di Campo Marzo_. All’erudizione
sacra ed a materie ecclesiastiche spettano i volumi che scrisse
contro l’inglese _Burnet_; le _Missioni del Paraguay_; l’_Antica
Liturgia romana_, e sopra tutto il classico _Trattato della Regolata
divozione_[2], con cui volendo estirpare certe pratiche superstiziose
volgarmente in corso, erasi proposto di assuefar meglio i fedeli al
culto interiore. Il cardinale Gerdil chiama _aureo_ il suo _Trattato
della Pubblica Felicità_, e dice essere la _voce del cigno_, perchè
lo scrisse un anno prima della sua morte. Anche i celebratissimi
_Annali d’Italia_ sono un frutto di sua vecchiaja, e di essi ne diede
un ponderato giudizio il valente ultimo biografo del Muratori il ch.
Francesco Reina.

Egli già già toccava l’anno settantesimosettimo della sua vita quando
dopo avere languito per lunga malattia, ed essere sin rimaso privo
della luce degli occhi, per colpo di paralisia passò da questa a più
gloriosa e durevole vita il dì 23 gennaio 1750.



PREFAZIONE E DEDICAZIONE

AGL’ILLUSTRISSIMI SIGNORI CONSERVATORI DELLA CITTÀ E SANITÀ DI MODENA.


Grande apprensione e paura, o illustrissimi signori Conservatori della
città e sanità di Modena, se vogliam confessarla schietta, ci han
recato nel prossimo passato anno 1713 i romori di peste. Inoltratasi
ella dall’Ungheria nell’Austria, e quindi in Praga, in Ratisbona e
in altri paesi, e nello stesso tempo svegliatasene un’altra, ch’io
suppongo diversa, in Amburgo, aveva un tal malore col miserabile
scempio di que’ popoli spinto il terrore anche in tutti i vicini. Già i
men coraggiosi quasi la miravano passeggiar per le contrade d’Italia e
andavano divisando le maniere di scamparne; anzi non lasciavano i più
saggi di dubitarne anch’essi sul riflesso di varie circostanze che si
adunavano a rendere fondato il dubbio, e non irragionevole il sospetto.

Imperocchè gran tempo è corso che l’Italia non ha provato questa, che
alcuni chiamano _guerra divina_; ed essendosi dall’una parte osservato
nel corso di tanti secoli addietro, che dopo il periodo ora di molti,
ed ora di pochi anni, ma non già quasi mai aspettando un secolo, suol
tornare la peste a visitar i popoli; e dall’altra parte, costando che
dal 1630 e 1631 fino all’anno 1713 ne avea goduto la Lombardia una
totale esenzione, poteva probabilmente temersi che tal disavventura
omai venisse spedita anche a noi dall’adorabil Provvidenza di Dio, e
massimamente considerando le colpe nostre, degne di questo e di peggio.
Aggiungevasi aver noi in pochi anni provato tanti mali, ora di guerre,
ora di carestie, ora di freddi acerbissimi con seccamenti di viti e
d’altri alberi, ed ora di spaventose inondazioni che in altri tempi
si sarebbe facilmente creduto vicino il giudizio finale. Quando si
cominciano ad infilare l’un dietro l’altro i malanni, sembra che non
ne finisca il corso e la catena sì tosto, e che anzi il compimento di
tutti gli altri soglia essere il terribile del _contagio_.

Parimente dava e poteva dar moto ai timori d’alcuno la fierissima e
compassionevole mortalità de’ buoi, che, non ancor ben estinta da tre
anni in qua, è andata e va desolando la misera Lombardia con tanti
altri paesi, fino a temere alcune città ne’ lor territorj il totale
eccidio di bestie sì necessarie all’uomo. Non è già che a simili
epidemie tenga sempre dietro quella degli uomini; imperocchè d’una
peste de’ buoi accaduta nel 1514 fa menzione il Fracastoro nel suo
Trattato del Contagio; e pure ella non venne seguitata dalla strage del
genere umano. D’un’altra preceduta dalla sterilità delle viti lasciò
memoria il Poeta Sassone all’anno 809 con tali parole:

    ............ _Sævior omni_
    _Hoste nefanda. Lues pecudum genus omne peremit_, ec.

Ma nè pure allora passò sopra gli uomini il micidiale influsso. Così
per attestato di Rolandino storico nell’anno 1238: _Fuit hyems aspera
et horribilis, ita quod nivis et frigoris superfluitate insolita,
mortuæ sunt vinæ, olivæ, ficus et aliæ multæ arbores fructiferæ_
(altrettanto noi provammo nel principio del 1709). _Et post illam
pestem eodem anno pestis sequuta est avium, et præcipue gallinarum,
boum et multarum utilium bestiarum_. Ma non si legge accaduto lo stesso
agli uomini ne’ seguenti anni.

Contuttociò non mancavano giusti fondamenti al timore, mentre, per
sentimento di celebri autori, l’infezione del genere umano non rade
volte è stata preceduta da quella dei bruti; ed eccone gli esempi.
Infin l’antichissimo Omero, narrando nel lib. I dell’Iliade la peste
(vera o finta, non importa) che fu scagliata dall’arco d’Apollo, cioè
dal soverchio calore del sole, nell’esercito de’ Greci, scrisse che
prima ella fece strage delle bestie, e poscia penetrò negli uomini:

    _Assalì prima e muli e cani, e quindi_
    _Scagliò le sue mortifere saette_
    _Contra gli uomini stessi._

Livio nel lib. 41 delle sue Storie fa menzione d’un’altra con queste
parole: _Delectus consulibus eo difficilior erat, quod pestilentia,
quæ priore anno in boves ingruerat, eo verterat in hominum morbos_, ec.
Così Ovidio, descrivendo una peste nel lib. VII delle Metamorfosi, la
dice prima toccata anche ai buoi:

    _Strage canum primo, volucrumque, aviumque, boumque,_
    _Inque feris, subiti deprehensa potentia morbi est_, ec.
    _Pervenit ad miseros, damno graviore, colonos_
    _Pestis, et in magnæ dominatur mœnibus urbis._

Ammiano Marcellino nella sua Storia attribuisce a’ vapori corrotti che
escono dalla terra le pestilenze, inferendone perciò prima la morte
de’ bestiami che pascono l’erba, e poi quella degli uomini. _Affirmant
alii_, dice egli, _terrarum halitu densiore crassatum aera, emittendis
corporum spiraminibus resistentem, necare nonnullos. Qua caussa,
animalia præter homines cetera, jugiter prona, Homero auctore, et
experimentis deinceps multis, quum tales incessunt labes, ante novimus
interire_. Così Claudiano nel lib. I contra Ruffino:

    _Ac velut infecto morbus crudescere cœlo_
    _Incipiens, primo pecudum depascitur artus,_
    _Mox populos, urbesque rapit._

E l’antico medico Paolo da Egina nel lib. II, cap. 36, lasciò scritto
che _la morte degli animali reca una gagliarda coniettura di una futura
pestilenza anche degli uomini_.

Andarono unite nell’anno 820 molte disgrazie mentovate negli Annali
Fuldensi, perciocchè _hominum et boum pestilentia longe lateque ita
grassata est, ut vix ulla pars regni Francorum ab hac peste immunis
posset inveniri. Fruges quoque vel colligi non poterant, vel collectæ
putruerunt; vinum etiam propter caloris inopiam acerbum et insuave
fiebat._ Così per attestato di Matteo Paris nella Storia Anglicana
all’anno 1103: _Pestifera mortalitas animalium maxima quoque hominum
hoc tempore fuit_. Aggiungasi Ermanno Contratto, il quale nella sua
Cronaca scrive che dell’anno 1044: _Maxima pestis pecudum et hyems
satis dura et nivosa magnam vinearum partem frigore perdidit, et
frugum sterilitas famem non modicam effecit_. Poscia all’anno 1046
aggiunge, che _magna mortalitas multos passim extinxit_. Anche nelle
Memorie stampate dalla città di Ferrara per la preservazion dalla
peste del 1630, si legge che nel marzo di quell’anno fu replicata la
proibizione di mangiar carni di bestie morte da sè, perchè in quelle
parti _si cominciava a sentir la mortalità nelle bestie bovine, non
cagionata, come pensavano alcuni, dall’inondazione di tre anni avanti
del Po nella Diamantina, ma sì bene da contagio speziale comunicato
dalle bestie bovine del Mantovano, rifuggite nel Ferrarese, come si
conobbe evidentemente_. Ma io non so dire se questo contagio precedesse
quello degli uomini. Dirò bensì che il cardinal Gastaldi nel suo
Trattato della Peste accenna anch’egli qualche mortalità d’animali
e nominatamente de’ buoi, la qual precedette la pestilenza del 1656.
Che più? S. Ambrosio nel lib. _de Noe et Arca_, cap. 10, così scrive:
_Si quando est pestilentia corrupto cœli tractu, prius ea quæ sunt
irrationabilia lues dira contaminat, et maxime canes, equos, boves;
atque ea inficit, quæ cum hominibus conversari videntur. Sic morbi vis
etiam genus humanum implicat_. E nella sposizione sopra S. Luca nel
lib. X: _Quæ omnium fames, lues pariter boum, atque hominum, ceterique
pecoris, ut etiam qui bellum non pertulimus, debellatis tamen nos pares
fecerit pestilentia?_ E però il Quercetano ed altri, in ragionando
della peste riposero tra i segni che minacciano il contagio agli uomini
il precedente dei buoi, avendolo probabilmente imparato anch’eglino
dalla sperienza. Alcuni sono d’avviso che gli aliti pestilenziali de’
buoi o de’ lor cadaveri infetti, sieno finalmente cagione che anche
gli uomini contraggano il morbo. Verisimilmente ciò non sussiste,
veggendo noi e sapendo da tanti altri esempi che la peste d’una spezie
d’animali d’ordinario non passa nell’altre. Ma senza questo, perchè
potevasi dubitare che da alcuni anni in qua fosse corrotta in qualche
maniera l’aria o pure il sugo stesso della terra, mentre non solamente
si mirava il suddetto luttuosissimo morbo de’ bestiami, ma di più
una fiera ed insolita copia di vermi, che rodevano i grani in erba,
e qualche, per dir così, inclinazione del terreno alla sterilità o a
produrre assai loglio con tante altre immondezze, e a non istagionar
più i frutti che sì facilmente poi marcivano (colpa forse tutta delle
stagioni sconcertate); certo non pareva sprezzabil coniettura che di
qui ancora potesse venir danno agli alimenti e agli uomini de’ corpi
umani, ed essersi potuto formare o disporre qualche fomite anche per
la loro pestilenza. Maggiore ancora poteva temersi questo pregiudizio,
mancati quegli animali che guadagnano il pane all’uomo, e il cibano
colle lor carni e coi lor latticinj, riconoscendosi che una tal
disavventura poteva tirar seco delle peggiori conseguenze.

Quel nondimeno che, prescindendo anche dalla considerazione de’
nostri peccati e delle circostanze accennate, solo bastava a porgere
giustissimo fondamento di timore agl’italiani, si era il vivo e
strepitoso _contagio della Germania_ ch’io di sopra accennai. Non
s’intenderebbe punto di _peste_ chi non sapesse qual gran facilità
ella s’abbia d’innoltrarsi e di far conquiste nuove qualora non le
sia posto argine. Per tacere di tanti altri tempi, l’anno 1630, in cui
avvenne l’ultimo contagio della Lombardia, ben trovò maniera il veleno
pestilenziale di penetrar per l’Alpi e d’infettar poi e di desolare
assaissime città d’Italia. Molto più poi ragion di temere c’era in
questi tempi, durando la scarsezza de’ viveri e la guerra, e tanti
altri sconcerti del mondo che la sperienza ha fatto conoscere, non dirò
solo per forieri, ma per mirabili disseminatori e veicoli de’ contagi.
Quindi pertanto nell’anno prossimo passato si credette obbligata
a tante diligenze e a tanti rigori, la prudenza di molti principi
d’Italia e massimamente della sereniss. Repubblica di Venezia, sempre
acuta in prevedere e sempre attenta a provvedere, per quanto possono
le forze umane, acciocchè non passino nel suo dominio mali stranieri.
Quindi medesimamente venne il gravoso interrompimento di commercio fra
tante città con tanti stabilimenti di guardie, di cancelli, di fedi,
cose tutte che andavano dicendo che si temeva e si doveva temere.

Ma finalmente in Vienna, in Praga, in Ratisbona e in altre città
e contrade della Germania è terminata col benefizio del freddo la
terribile e minacciosa influenza, di maniera che sembra estinta col
male anche ogni ragione di non paventarlo più per ora in Italia. Già
è restituito il sospirato commercio fra le città della Lombardia; ed
essendo spuntata in questi tempi anche la pace a consolare i popoli
cattolici, moltiplicate ragioni abbiam tutti di dar lode e di render
grazie immortali all’onnipotente Dio che ci vuol far sentire in varie
guise gli effetti della sua misericordia. Ora in tal congiuntura due
cose abbiam potuto imparare, meritevoli di somma attenzione. L’una
è che il temere ed anche l’eccedere in timore, ove nascano sospetti
di contagio, suol conferire assaissimo a preservarsi dal contagio
medesimo. Imperciocchè allora si moltiplicano i ripari e si mettono
in opera que’ ripieghi sì spirituali come temporali che la religione
e l’umana prudenza suggeriscono per fermare il corso a un sì poderoso
nemico. Certo che non alle diligenze degli uomini, ma alla provvidenza
benefica di Dio si dee attribuire il gran benefizio di conservarsi
immune dalle pestilenze e da altri flagelli. Contuttociò, essendo
anche certo, piacere a Dio che le creature ragionevoli operino dal
canto loro ciò che si conviene alla natural preservazione, valendosi
egli dell’operar nostro per effettuare i suoi incomprensibili disegni;
perciò utile e necessaria cosa è, e sempre sarà, il non perdonare
in casi tali a precauzione e industria alcuna, di cui sia capace
l’intendimento del saggio. A certe persone di mezzana comprensione
pare un augurio di peste il solo udir parlare di peste, e ad altri poi
compariscono facilmente eccessivi i timori e i rigori che nei sospetti
delle pestilenze si usano da alcuni principi ne’ loro stati. Ma in fine
ci vuol poco a capire che il ragionarne, il paventare e il provvedere,
per quanto mai si può, in pericoli sì fatti e per precauzione
dell’avvenire, non è quello che metta l’ali alla pestilenza e la faccia
calare dai paesi stranieri o confinanti. Certo altresì ha da essere,
che il non aver paura, o l’occultarla, questo sarebbe uno spedirle
solenne ambasciata, invitandola a venirci a visitare il più presto
che ella può. E perciò ogni ragion consiglia l’imitare in altre simili
congiunture più tosto i rigori, benchè forse superflui ed anche molto
dispendiosi, ultimamente praticati da parecchie città della Germania e
dell’Italia, che l’uso di altri popoli men paurosi o meno guardinghi.
Sarà, anche molto più da desiderare che occorrendo tali sconcerti, a
niuna delle città d’Italia venga impedito dalla positura de’ suoi siti
ed affari il camminar concorde con le altre, a fine di tener lungi con
egual diligenza un malore che minaccia tutti, ma che però suol portare
rispetto a chi rigorosamente si oppone ai suoi passi.

L’altra verità che abbiamo imparato in questa occasione, si è, che
accadendo sospetti o rischi di pestilenza, allora si mirano in gran
confusione ed imbroglio non solamente le private persone, ma gli stessi
pubblici magistrati di molte città, mentre tutti in quel frangente
vorrebbono pur sapere come abbiano da governar sè stessi e gli altri,
ma senza per lo più poter rinvenire chi abbastanza gl’illumini.
Non mancano libri, è vero, che hanno trattato questo argomento; ma
i più del popolo ne patiscono inopia, e moltissimi nè pure un solo
possono mostrarne, siccome opere che non si leggono mai volentieri, e
che, finito il bisogno, si lasciano alla polvere o a’ pescivendoli,
cercandosi poi esse indarno ove ritorni a fischiare questo pesante
flagello. Che se non mancano libri tali ad alcuni studiosi, tuttavia
suol avvenire che in man loro non si trovino anche tutti i migliori,
che pure più degli altri sono da consultare in simili e in altre
occasioni. Ora pensando io a questa non lieve necessità de’ privati
e del pubblico, fattaci pur troppo avvertire dal grave pericolo che
ultimamente ci sovrastava, mi applicai fin l’autunno prossimo passato
a leggere quanti antichi e moderni potei ritrovare che maneggiassero
questa materia; e col notare ciò che mi compariva più utile a sapersi,
venni stendendo il presente Trattato del _governo della peste_,
con isperanza che il mio studio privato potesse tornare in qualche
benefizio e comodo ancora del pubblico, e spezialmente della patria
mia, sì per preservarsi, e sì per sapersi regolare in casi di tanta
sciagura. E l’intenzione mia è stata di fare un trattato popolare,
cioè utile e intelligibile ai più del popolo, avendo io perciò fuggito
le quistioni spinose e scolastiche e insino i termini astrusi, con
cui alcuni professori della medicina cercano di farsi credito con
poca spesa presso i meno intendenti. Per altro col fiero influsso che
è passato, parrà, il so, passato ancora il bisogno; ma non è così,
perciocchè i posteri nostri, anzi la nostra medesima età, avran sempre
da temere di provare un dì quello che è piaciuto alla divina Clemenza
di non far sentire ai presenti giorni. Non convien aspettare che sia
giunto il nemico per istudiar poi allora la maniera del difendersi; ma
s’hanno da aver sempre l’armi preparate e pronte. Gli altri, finita
la peste, sono stati soliti a scrivere e pubblicar libri intorno la
stessa; ed io altresì suggerirò quel che può essere più a proposito,
affinchè essa mai non cominci, o pure acciocchè s’abbia con facilità
il migliore regolamento, qualora ne tornasse mai più il bisogno.
Così in Firenze si va oggidì ristampando la Relazion del Contagio
del 1630 fatta dal Rondinelli, perchè ultimamente è stato avvertito
ch’esse era divenuta stranamente rara, e vuolsi perciò provveder
meglio all’avvenire. Così la peste che nel 1679 fece le sue prodezze
in Vienna, in Sassonia e in altre parti, con grande apprensione anche
allora dei popoli italiani, diede motivo al saggio maestrato della
sanità di Ferrara di pubblicare nel 1680, per prudente precauzione
de’ tempi venturi, un’opera molto utile, ove son registrate _le
regole da osservarsi ne’ sospetti di contagio_. Altrettanto dunque
ho risoluto anch’io di fare, o illustrissimi signori, acciocchè voi
e il popolo nostro abbiate e un attestato dell’ossequio mio, e quel
soccorso di più, quando mai accadessero que’ miseri tempi, ch’io
desidero lontani sempre dagli stati di ciascuno e massimamente da
quei della sereniss. Casa d’Este e della patria nostra. Ho pertanto
divisa la materia _del governo della peste_ in tre parti, cioè in
_politica, medica_ ed _ecclesiastica_, immaginandomi che maggiore con
ciò possa anche riuscire il benefizio. Imperocchè gran copia di libri
può ben qui mostrarci l’arte medica per quello che a lei s’aspetta;
ma scarsissimo ne è il _governo politico_ e l’_ecclesiastico_. Oltre a
ciò, non solendo trovarsi uniti insieme tutti e tre i suddetti governi,
sembra a me d’avere a moltissimi risparmiata la fatica di pescare
qua e là ciò che per lor servigio si troverà qui raccolto in un solo
trattato. Chi più degli altri avrà maneggiato e letto libri intorno
a quest’argomento, quegli sarà più atto a comprendere l’utilità e il
comodo che può venire al pubblico e al privato dall’operetta, qualunque
sia, che io ora vi presento.

In questa impresa dunque mi son io regolato sulle notizie ed
osservazioni degli antecedenti scrittori, con ponderare, scegliere,
disporre ed aggiugnere, secondochè è paruto meglio al mio corto
intendimento e giudizio. Che se talun chiedesse, come io, che
medico non sono di professione e nè pure mi son trovato giammai a
quel terribile incendio, abbia preso un tale assunto con fidanza di
potervi competentemente soddisfare, risponderò, che se non ne posso
io parlar di vista, ho ben potuto io parlarne con tanti morti che
furono spettatori delle pestilenze, e che ce le hanno lasciate in
tanti libri descritte. E se non son io medico, studiarono ben medicina
per me e la praticarono in tempi di contagio quegli scrittori ch’io
citerò, di maniera che non l’autorità mia, ma quella dei professori
di quest’arte potrà dar credito al mio Trattato, il quale in oltre
non uscirà alla luce senza l’approvazione de’ migliori filosofi e
medici che si abbia la nostra città. Per altro confesso anch’io che
la parte medica potrebbe promettersi maggiori chiarezze e più lustro e
più ordine nella divisione dei medicamenti, ove la trattassero medici
insigni tra i moderni. E spezialmente si avrebbe a sperare questo
vantaggio dalla mano di que’ valentuomini che oggidì illustrano cotanto
con le loro opere, stampate ugualmente, le lettere e il dominio della
serenissima Casa d’Este, cioè i signori _Bernardino Ramazzini_, gloria
di Carpi, e _Antonio Vallisnieri_, decoro di Reggio, che nella famosa
Università di Padova empiono le prime due cattedre della medicina;
e il signor _Francesco Torti_, splendore di Modena, medico del mio
padron serenissimo, e pubblico lettore anch’esso nella patria; e il
signor _Antonio Pacchioni_ reggiano, che in Roma fa risplendere il suo
sapere in pro della medicina; siccome ancora molto potrebbe sperarsi
dal signor _Dionisio Andrea Sancassani_ da Sassuolo, medico primario di
Comacchio, dalle cui fatiche riconosce molte utilità la cirugia. Mi sia
lecito nondimeno di dire che quantunque ingegni grandi si applicassero
a trattar questa materia, pure non sarebbe subito da sperare che molti
d’essi potessero produrre rimedj migliori e più efficaci di quelli che
anch’io ho saputo e potuto raccogliere. Più tosto potrebbe accadere
che alcuni d’essi, senza curarsi di edificar meglio, distruggessero
ancora quel poco ch’io colla scorta de’ più accreditati autori ho qui
esposto, giacchè questo è il costume d’oggidì, nè par difficile il
mettere nella medicina quasi ogni cosa in dubbio per farla conoscere
non men lei un’arte fallace e debolissima che i suoi medicamenti
dubbiosi e talvolta ancora nocivi, siccome fecero già il Carrara,
l’Agosti ed altri, ed hanno tentato ai dì nostri di mostrar nelle
opere loro il defunto Lionardo da Capova, e il vivente signor Anton
Francesco Bertini, medici rinomati, l’ultimo nondimeno dei quali l’ha
del pari difesa. E assai più sarebbe questo facile, trattandosi di
quel fierissimo morbo desolatore, in cui confessano tutti i medici savj
che l’arte loro va più che altrove a tentone, nè ha sistema sicuro, nè
medicamenti da fidarsene molto.

Ma comunque sia, penso io che troppo importi il non atterrire, nè far
disperare il popolo in tali congiunture con biasimargli e screditargli
tutto. E però avendo io composto il presente libro, non per desiderio
di gloria, ma per brama unicamente di giovare in ciò, per quanto
io posso, alla patria mia, e a chiunque non avrebbe altri migliori
aiuti, per regolarsi, almeno con qualche prudenza, nei pericoli e
nei tempi di tanta calamità, io mi auguro ch’essa riesca veramente
utile; ma di gran lunga più auguro a tutti che non se n’abbiano mai
a valere, se non per un mero divertimento della loro curiosità. Che
se pure avesse un giorno da arrivare ciò che nessuno di noi desidera
di vedere, probabilmente non si pentirà alcuno d’aver prima in questo
mio libro imparato alquanto a premunirsi col conoscere la faccia di
questo terribil nemico, e i disordini e gli strani suoi effetti. Pur
troppo ne abbiam mirato anche un picciolo abbozzo, ma però esempio
vivo, nella funestissima mortalità della spezie bovina, penetrata nel
prossimo passato settembre anche in varj siti del ducato di Modena,
Reggio, ecc. Da questo flagello si è già potuto apprendere non poco
qual cura più esatta si dovesse avere in pericoli di _contagio degli
uomini,_ per non restar delusi dalle guardie che si dicon fatte, ma
certo non bene; e per vietare a tempo i mercati e le fiere nostre e
l’adito alle straniere, benchè non apparisca entrato colà peranche il
malore, e con quai rigori e ripieghi si possa precedere per disputare a
passo a passo il terreno a questo male, facendo su i principj e finchè
la sciagura è fuori di casa, grandi strepiti, intimazioni rigorose,
visite frequenti ed improvvise, e quanto mai si può far concepire, se
pure è possibile, ai contadini e alle guardie, il pericolo che loro non
pare mai imminente, e il gravissimo danno di chi è colpito da simili
disavventure, il che non s’intende mai bene se non dappoichè non c’è
più tempo di rimedio.

Pensano alcuni che questa crudel _pestilenza dei buoi_ non solamente
si comunichi pel contatto delle bestie, o degli uomini che abbiano
conversato con bestie infette, ma ancora spontaneamente salti fuori in
alcune stalle, lontane talora più miglia dal paese infetto e custodite
con rigorose diligente. Lo stesso vien sovente e sospettato e creduto
anche nelle _pestilenze degli uomini_. Non voglio io mettermi qui a
negare assolutamente questa partita; ma dico bene che non è se non
difficilmente da credere, avendo noi veduto illese tante stalle, nelle
cui bestie sarebbe stato pronto e tosto si sarebbe acceso il fomite
del male, se queste avessero comunicato con altre infette. Per ogni
buon fine saggiamente si fa e si farà sempre in ogni peste, ad operare,
come se il morbo non si pigliasse mai se non per via di contagio.
Bisogna figurarsi che ancorchè non si sappia trovare, pure ci sarà
stata qualche persona o roba che avrà portato il veleno in quella casa.
I cani, le guardie, i medici stessi possono disavvedutamente portarlo
con seco; e dall’accuratissimo nostro signor Vallisnieri nel T. X dei
Giornali d’Italia è stato anche avvertito che fra le molte maniere
di propagarsi la peste de’ buoi c’è stata quella di condurli senza
precauzione alcuna a farli benedire con altri, o pure il permettere
che taluno andasse a benedire indifferentemente tutte le stalle. Quello
che più d’ogni altra cosa affligge e spaventa, si è il verificarsi in
questa mortalità de’ buoi ciò che già Virgilio nel fine del lib. III
della Georgica, ed altri osservarono in simili pestilenze d’animali,
e vien confermato nel suddetto tomo X de’ Giornali dell’anno 1712
dall’autorità di varj valentuomini, cioè che nessun rimedio può dirsi
fondatamente che vaglia; e se bene alcuni paiono talvolta giovevoli
(essendo guarita ancora in queste parti una porzione d’essi buoi
infetti), pure non servono poi a tanti altri; anzi voglia Dio che
talora alcun d’essi non affretti loro la morte, e non faccia perire
chi senza rimedi sarebbe risanato. Pur troppo avvien lo stesso anche
nelle _pestilenze degli uomini_. Perciò egli è cosa da savio il
non fissarsi mai tanto in alcune massime, precauzioni e rimedj, che
sopravvenendo lumi migliori, non si voglia più, nè si sappia mutar
registro. E più lumi per l’ordinario avrà una persona giudiziosa sul
fatto che un intero magistrato in lontananza. Ma veniamo finalmente a
trattare l’argomento nostro nel nome di quell’onnipotente Signore, la
cui giustizia dobbiam tutti temere, la cui misericordia dobbiam tutti
implorare, tanto nelle prosperità, quanto nelle tribolazioni.

                                              Modena, 15 giugno 1714.



DEL GOVERNO POLITICO DELLA PESTE

LIBRO PRIMO.



CAPO I.

  _Spiegazione della peste: origine e durata d’essa. Differenze fra
    l’una peste e l’altre. Suo orribil danno ed aspetto. Obbligazione
    e possibilità di difendere il paese da questo flagello. Diligenze
    umane utili e necessarie_.


La peste, uno de’ più terribili mali che possano affliggere il genere
umano, benchè non sia propriamente lo stesso che il contagio, pure
suol avere fra noi il nome di contagio, perchè col toccare i corpi,
o l’aria degli appestati, o le merci, o robe loro, se ne infettano i
sani, con più forza e strage che non accade in altri morbi epidemici
e attaccaticci; dilatandosi la peste sino a spopolar le città, le
campagne e le province d’abitatori. Consiste la pestilenza in certi
spiriti velenosi e maligni, che, corrompendo il sangue o in altra
maniera offendendo gli umori, levano di vita le persone, spesso in
pochi, e talora in molti giorni, o pur all’improvviso. Quella che nasce
dalla totale infezion dell’aria, mai, o quasi mai non suol accadere,
benchè per accidente succeda che l’aria ambiente gli appestati
s’infetti anch’essa, e tanto più cresca tal infezione, quanto più
copioso e vicino è il numero di quegl’infermi. All’incontro bensì
frequentemente accade quella che è infezion di corpi contagiosa,
cioè, che s’attacca agli altri col contatto e che riesce maggiormente
pericolosa nelle città molto popolate e ristrette, e dove non soffiano
venti che purgano l’aria.

Non è affatto improbabile che a differenza di altre epidemie, le quali
si generano e saltano fuori spontaneamente nei luoghi per cagion dei
cattivi alimenti, o degli aliti paludosi, o dei venti nocivi, o d’altri
simili seminarj di morbi, la peste sia un’epidemia stabile che vada
mantenendosi in giro pel mondo, e passando d’uno in altro paese, e
tornandovi dopo molti o pochi anni, secondo che la negligenza degli
uomini, la disposizion de’ corpi o altre circostanze le aprono la
porta, quantunque sia certo che la peste d’un tempo non sia simile
in tutti i suoi sintomi ed effetti a quelle degli altri tempi. E per
dir vero, la sperienza ha fatto veder troppo spesso che la peste non
nasce da per sè stessa in tanti paesi, ma o vi ripullula talvolta da
panni che ritengono il veleno della peste antecedente, o vi entra,
portatavi da altri paesi (e questo è frequente) col mezzo di persone, o
di merci, o di altre robe infette e senza che alle volte si penetri il
come. Chi potesse raccogliere sicure annue notizie di tante e sì varie
province dell’Asia, Affrica ed Europa, troverebbe che non c’è anno,
in cui la peste non vada desolando qualche paese, e dopo la strage
d’uno non passi nel vicino a sfogarsi colla stessa carnificina. Gli
stati massimamente suggetti al Turco, sono, sto per dire, un perpetuo
seminario dì peste, perchè quasi mai non se ne disparte ella, e
particolarmente si fa sentire spesso in Costantinopoli e nel gran Cairo
in Egitto, di modo che è pericoloso sempre ogni commercio con que’
paesi. E appunto le più recenti pesti dell’Italia e dell’Europa, o son
passate per trascuraggine d’alcuni dall’Affrica nelle isole cristiane
del Mediterraneo e poi entrate in terra ferma, o pure dall’oriente
penetrando nell’Ungheria, Dalmazia, Polonia ed altri confini del Turco,
hanno poi afflitto varie altre parti della nostra Europa. Non occorre
far qui menzione di tante pestilenze che di secolo in secolo hanno più
volte desolata la terra; ma non si vuol lasciar d’accennarne una delle
più terribili che si sieno mai provate, descritta da varj storici e
spezialmente dai Cortusi, dal Petrarca e da Matteo Villani. Si partì
questa nell’anno 1346 dalla Cina che anche allora era conosciuta, e
s’andò avanzando per le Indie Orientali sino alla Soria e Turchia,
all’Egitto, alla Grecia, all’Affrica, ecc. Alcune navi di cristiani
partite di levante nel 1347 la portarono in Sicilia, Pisa, Genova,
ecc. Nel 1348 giunse ad infettar tutta l’Italia, salvo che Milano e
certi paesi vicini all’Alpi che dividono l’Italia dalla Germania, ove
fece poco nocumento. Nel medesimo anno passò le montagne stendendosi
in Savoia, Provenza, Delfinato, Borgogna, Catalogna, Granata,
Castiglia, ecc. Nel 1349 prese l’Inghilterra, la Scozia, l’Irlanda e
la Fiandra, a riserva del Brabante, ove poco offese. Nel 1350 oppresse
l’Alemagna, l’Ungheria, la Danimarca ecc., continuando ad affligger
poscia altri paesi; e quindi tornò indietro di nuovo in Francia e
in Italia nell’anno 1361, ove desolò Milano, Avignone e Venezia con
levar di vita lo stesso doge Delfino e molti cardinali. Passò dipoi
un’altra volta a Firenze nel 1363 e vi morì il suddetto Villani. Ora
ecco come l’un paese infetti l’altro. Così nel 1393, siccome scrive S.
Giovanni da Capistrano nel suo Specchio della coscienza, da un infetto
fu portata a Bologna la peste, e dalla Romagna passò ella in barca a
Genova e Venezia, e un altro l’introdusse dipoi in Brescia, Verona,
ecc. Tuttavia con questi ed altri infiniti esempj che si potrebbono
recare, io tengo che la peste nasca talvolta da sè stessa, senza essere
portata altronde, cagionata o dalla cattiva costituzione dell’aria, o
dal fetore de’ cadaveri, o pure dai patimenti degli uomini per qualche
fame o guerra, o da altri simili disordini, e nata poi l’infezione
contagiosa, si attacchi ai vicini e si chiami contagio o peste, quando
essa ha certi sintomi e fa grande strage de’ popoli.

L’ordinaria permanenza della peste in una città suol essere di nove
in dodici mesi, dopo di che suol cedere. Ma in alcuni paesi ove si
vive con bestiale sprezzo o troppa familiarità di questo morbo, e
senza curarsi molto delle espurgazioni, e senza mettere in opera tanti
altri rimedj che si usano nelle savie città, vi ha fatto soggiorno
più anni, o pure vi è da lì a non molto ripullulata. Della suddetta
peste del 1348, narra il Villani che essa non durava più di cinque
mesi in ciascuna terra: i Cortusi dicono sei mesi. Nel 1630 la peste
che saccheggiò cotanto l’Italia, entrò anche nella nostra città di
Modena nel mese di Luglio, siccome appare dagli editti d’allora e cessò
il dì 13 di novembre di quello stesso anno, benchè si continuasse a
star senza commercio, e con tutti i riguardi sino al fine del gennaio
dell’anno seguente 1631, sì per attendere all’espurgazione, come ancora
per non praticare colla gente o sospetta o infetta del contado, essendo
anche dopo il dì suddetto di novembre succeduto in città qualche caso
di morte pestilenziale che fece proseguir le cautele. Nelle città
grandi e popolate non è sì facile che la peste ceda presto, perchè il
pascolo della morte è grande, e non bastano spesso tante diligenze e
spurghi in campo sì vasto. Gli esempj son chiari di Venezia, Milano,
Napoli, ecc. In questa ultima città si accese ella l’anno 1526, e
continuò del 27, 28 e 29, come narra il Summonte. Tuttavia, ove si
pratica esattezza singolare, la pertinacia del male resta vinta.
In Roma entrò la peste l’anno 1656 sul principio di giugno; e verso
la metà di marzo nell’anno seguente 1657, mercè del buon governo si
cominciò ivi a goder buona salute. Ma succeduti dipoi nuovi casi, si
replicarono le diligenze finchè il male cessò affatto sul fine del
seguente luglio.

Più strage suol ordinariamente far la peste nei mesi caldi o negli
autunnali che nei freddi; ma non lascia ella d’infierir talvolta anche
più nel verno che nella state, forse perchè allora occorrono venti
caldi, o perchè cominciata la peste nell’autunno o nella state, il suo
maggior furore ed accrescimento viene a cadere nel verno. La peste del
1630 fu al sommo in Padova ne’ mesi di giugno e luglio, ma in Venezia
la stessa fece strage maggiore nell’ottobre, novembre e dicembre,
continuando poi quasi tutto l’anno seguente 1631 sempre diminuendo.
Nella Gheldria la peste del 1636 esercitò le maggiori sue forze dal
principio di maggio sino al fine d’ottobre. Gran varietà è in questo
punto; ma, come dissi, la state d’ordinario mette in maggior rabbia
questo perniciosissimo veleno, e il verno freddo o l’indebolisce o
l’estingue.

Un’altra diversità fra peste e peste suol appunto consistere nella
minore o maggior fierezza. Alcune son funestissime, ed empiono
la terra di strage; altre men crudeli si contentano di un tributo
più discreto di morti. Quella del 1348 che testè accennammo, levò
del mondo quasi le quattro delle cinque parti della gente europea
per attestato del Villani e d’altri scrittori. Nel medesimo secolo
altre non men fiere pestilenze portarono un’incredibil mortalità per
l’Italia, Germania, Francia e Spagna. Quella del 1564 sì rabbiosamente
infierì pel Lionese, per la Savoia con istendersi ne’ confini degli
Svizzeri e nel territorio de’ Grigioni, che in quelle bande uccise
poco meno dei quattro quinti. L’altra che nel 1575 e nei seguenti
afflisse alcune città d’Italia, fu di gran lunga più mite in Milano,
che un’altra ivi pur succeduta prima nel secolo stesso; e all’incontro
essa fu perniciosissima alla città di Venezia. L’altra del 1630 portò
un’orribil desolazione al suddetto Milano, nella qual città e diocesi
dal principio d’aprile, in cui si dichiarò per peste, fino alla
metà del prossimo settembre, ascese la mortalità a 122 mila persone,
continuandovi poi ancora per alcuni mesi. Si è anche osservato che
qualche peste ha infettato gli uomini di certe professioni o nazioni,
e lasciati intatti quei d’altra professione o nazione, benchè tutti
abitassero nel medesimo paese infetto.

Questa differenza di effetti deriva o dalla qualità della pestilenza
medesima, i cui spiriti sono ora più ora men velenosi; o pure dalla più
o meno esatta cautela e preservazione delle città, o dalla precedente
diversa disposizione dei corpi, delle stagioni e dell’aria. Nel 1628 fu
gran carestia nello stato di Milano e in altre parti della Lombardia,
accresciuta poi dalla guerra che sopraggiunse, di maniera che in
quello e nel seguente anno 1629 morì di fame e di stento in Milano
stesso non poca gente, e vi fu una sollevazione del popolo. Ora non è
da maravigliarsi se succedendo poi la peste da lì a poco, e trovando
sì mal nutrita e piena di mali umori la povera plebe della Lombardia,
ne levò tante centinaia di migliaia dal mondo. In Modena però e nel
suo contado noi sappiamo che il mal contagioso non infierì come in
altri paesi. Per altro non sono d’ordinario men sottoposte a perir di
peste le persone sane e ben nutrite, che le infermicce e mal nutrite,
anzi talvolta è accaduto che più quelle che queste sieno restate preda
del male. Un’altra differenza si può osservar fra alcune pesti, ed è
che le une porteran seco flussi di sangue, petecchie, dissenterie, ed
altre vomiti, frenesie, abbattimenti di forze e simili altri sintomi.
Sogliono nulladimeno tutte le vere pesti generar carboni e buboni, del
che ragioneremo a suo luogo.

Mi terrò io lontano dal voler qui atterrire i lettori coll’immagine
orribile di qualche peste, esposta secondo la relazione di coloro che
ne furono miseri spettatori, perchè piuttosto mio intento sarà di
preparare e consigliar coraggio in sì funeste occasioni. Tuttavia,
affinchè le persone, e massimamente i magistrati, considerando per
tempo, e serbando viva davanti agli occhi l’eccessiva miseria di questo
gran flagello, mettano in opera qualunque possibil mezzo e diligenza
per preservarsi e per tenerlo lungi, stimo necessario di ricordare
che fra i mali che possono affliggere un pubblico, non c’è il più
orrido, nè il più miserabile della peste, sì per quei che soccombono
alla sua fierezza morendo, come per quei che si van conservando in
vita. Chi mira una città sana in questo punto e vi figura poi entrato
il contagio, può senza timor di fallare dire fra sè stesso: Ecco di
tante migliaia di persone robuste e sane, di tanti artefici ed operai,
di tanti cittadini onorati, dabbene, utili, alcuni miei parenti o
amici, e tutti fratelli in Cristo, tanti e tanti non ci saran più,
e fra pochi mesi; e una gran mano d’essi morrà quasi all’improvviso,
benchè sanissima dianzi, parte barbaramente abbandonata da’ figliuoli,
da’ fratelli, dai mariti, da’ parenti o dai suoi più cari, parte di
stento e per difetto o di soccorso o d’alimenti; e ciò ne’ lazzeretti
medesimi che pure sono inventati principalmente per la salute de’
poveri appestati; e talvolta senza sacramenti e senza chi assista
a quel gran passaggio, e con total disperazione, siccome fuggita o
derelitta da tutti. Al prender poi vigore la peste è incredibile che
terrore assalisca chi non è provveduto di buon coraggio (e questi sono
i più del popolo) al mirarsi circondato di morti, all’udire il suono
o al vedere il brutto aspetto delle carrette che asportano ammontati
l’un sopra l’altro i cadaveri degli estinti, e al temere continuamente
che da un’ora all’altra possa intervenire lo stesso a chi ora si sente
benissimo di sanità. Il solo doversi tener rinchiuso per settimane
o per mesi in casa (e tanto più se per ordine del magistrato) è una
penosissima prigionia, aggiunti tanti bisogni che occorrono, e il non
potersi allora far molto capitale d’amici, o di parenti o dei suoi
contadini, per la difficoltà o impossibilità del commercio, talmente
che al vedersi attorniati da tanti suoi ed altrui mali, alcuni
diventano come stolidi, ed altri si muoiono anche senza essere tocchi
dalla peste. E siccome i principi perdono in tal occasione il nerbo
maggiore del loro dominio, cioè tanti sudditi, e la maggior parte
delle gabelle e dei tributi, e ciò per molti anni appresso, essendo
di più anch’eglino costretti a digerire non pochi disagi e pericoli,
durante il contagio, e dipoi, giacchè i principi stessi, al pari
dell’infimo de’ sudditi, son sottoposti agli assalti e alle ferite di
questo tirannico male: così i sudditi si trovano allora per la maggior
parte privi delle proprie rendite e del traffico, e però sottoposti a
diversi altri gravosissimi incomodi delle lor case. Nè colla peste suol
finire il danno della peste, mirandosi per lo più venirle dietro la
carestia per mancanza di chi lavori le campagne, e non trovarsi se non
difficilmente i necessarj artefici, operai e servitori, e doversi pagar
carissimo tutte le manifatture dimestiche e le robe forestiere, senza
rimettersi o mai più, o se non dopo lungo tempo, nello stato di prima
l’abbattuta e desolata terra o città.

Ho detto molte, e pure non ho detto assai per far ben intendere i
gran danni, terrori e miserie che reca seco la pestilenza. Ma si
può facilmente immaginare il resto, e questo ancora è di troppo, per
discendere ad una importantissima riflessione, cioè alla necessità
che hanno tutti i principi, magistrati e capi de’ popoli, d’impiegare
quanto mai possono sì d’ingegno e di attenzione, come di premura e
spesa, per impedire alla peste l’adito nei lor paesi, e per tenerla
lontana o scacciarla presto introdotta che sia. Bisogna pertanto
persuadersi che le diligenze umane, purchè non vadano disgiunte da un
fedele ricorso a Dio, possono preservare e preservano dal contagio
i paesi, e per conseguenza che il non usarle per quanto si può e a
tempo, questa è una solenne e miserabil pazzia, o pure una negligenza
difficilmente degna di perdono sì presso agli uomini come presso a Dio.
Nè pretendesse alcuno di esentarsi da tale obbligazione, o di sfuggire
tal sentenza con dire che quando Dio vuol flagellare una città, a nulla
servono le diligenze umane; perciocchè quantunque sia certissima questa
conclusione, pure non tocca a noi ciechi mortali il voler entrare ne’
gabinetti dell’alta provvidenza di Dio; ma bensì a noi s’appartiene il
far quanto prescrive l’umana prudenza per preservar noi e il prossimo
nostro dalle infermità, morti e miserie, implorando nel medesimo tempo
dal misericordiosissimo nostro Dio il perdono delle colpe e il soccorso
nelle necessità. Ai soli Turchi si lascia il non provvedere, quando
pur si possa ai mali o presenti o avvenire, quasi ciò sia un temerario
o superfluo operare contra i decreti del cielo. Il cristiano ha da
venerare in tutto i santi e sempre giusti e saggi voleri di Dio, certo
superiori a tutti gli sforzi degli uomini; ma non crede egli quel fato,
o destino che insegnarono i gentili: e sa che la divina provvidenza
non confonde il corso della natura e delle cagioni seconde, nè toglie
la libertà agli uomini, anzi comanda loro l’uso della prudenza negli
affari e nella custodia e conservazione di questa vita terrena. Però in
infinite altre occorrenze, e nel guardarsi da tanti altri mali, anche i
più dotti e santi non debbono ommettere, nè ommettono diligenza veruna,
e spezialmente ciò fa e dee fare la cristiana repubblica ne’ pericoli
de’ contagi.

Si può anche opporre che poco frutto s’abbia in fine da sperare in
molti paesi da sì fatte diligenze, considerata la mancanza di tante
cose e massimamente di vettovaglie, per provveder le quali dovendosi
necessariamente commerciar co’ vicini, troppo riesce difficile il non
partecipar della loro sciagura. Ma si risponde esserci regole e maniere
d’aver commercio infin co’ paesi infetti o sospetti in tempo di peste
per trarne vettovaglie, senza che per questo se ne tragga ancora la
peste. Le accenneremo a suo luogo. Il punto sta che tali regole non
si fanno osservare, nè son bene spesso osservate, con restare perciò
inutili tutte le antecedenti diligenze; e però qui ha da essere lo
studio e l’attenzione più premurosa de’ magistrati, acciocchè nessun
vi manchi per frode, interesse o negligenza non perdonando per questo
oggetto nè a premj, nè a pene, nè a vigilanze, nè a spese.

Ma perciocchè a convincere che una cosa può facilmente farsi,
non c’è il più palpabile argomento che il mostrarlo facilmente ed
effettivamente fatto in tante altre congiunture: cito qui la memoria di
molti a ricordarsi di quante pestilenze sono accadute a’ suoi giorni,
o sono a lui note per altra via; e in ognuna d’esse troverà egli che
la peste si lascia porre degli argini, e non s’inoltra dapertutto,
ma si ferma ai confini, e alle porte di chi vi s’oppone con prudenti
e rigorose cautele. Pochi anni passano, che non s’oda regnar la
peste o in Costantinopoli, o alle Smirne, o in Grecia, Bossina ed
altre province del Turco, confinanti al dominio Veneto; e pure non
penetra ella d’ordinario più innanzi, stante la gran precauzione di
quell’inclita repubblica, la quale può appellarsi maestra di tutti
anche nella diligenza e prudenza di tener lungi questo terribil
flagello. Pochi anni sono, la Polonia, l’Ungheria, la Prussia, la
Danimarca ed altre province settentrionali furono gravemente infestate
dal contagio; ma questo non passò già a maltrattare le contrade
confinanti. Si vide il medesimo regnar in Vienna d’Austria a’ tempi
di Leopoldo I, ma fu così ben posto argine alla sua furia che non si
stese per tanti altri paesi. Così la città di Conversano nel regno
di Napoli a’ tempi della sede vacante d’Alessandro VIII ne restò
fieramente afflitta, ma mercè d’un cordone di separazione dagli altri
paesi sani, non comunicò il suo malore ai vicini. Nell’anno 1576 furono
oppresse dalla peste le città di Milano, Mantova, Padova, Venezia ed
altri luoghi; ma la maggior parte dell’altre città della Lombardia si
difesero; e fu osservato dal Cavitelli che nel Cremonese non si godè
mai sì buona salute, come allora, quantunque Parma e Piacenza avessero
bandita quella città per sospetto ch’ella non potesse esentarsi dal
commercio con Milano. Infierì essa peste allora anche nella Sicilia,
e nella Calabria e Puglia, e pure la città di Napoli tante diligenze e
strettezze usò che seppe preservarsi, e ciò contuttochè per attestato
del Summonte vi penetrassero di nascosto alcuni appestati, i quali
occultamente furono curati senza danno degli altri. Nel 1656, Roma,
Napoli, Genova ed alcune poche altre città soggiacquero alla peste;
ma senza che se ne comunicasse il veleno al di qua dall’Appennino, nè
alla Toscana, nè a tanti altri paesi confinanti. Anzi Castel Gandolfo,
benchè vicino a quel di Marino e ad altre terre infette, si preservò
per cagion delle diligenze ivi adoperate.

Ma per venire alla peste del 1630, funestissima in tutta la Lombardia,
e di cui dura puranche memoria nella nostra città, egli è certo che la
città di Treviso, avvegnachè assediata d’ogn’intorno dal male, restò
illesa. Ferrara anch’ella si preservò; e pure, come diremo, entro
d’essa accadde qualche caso di peste. La città di Faenza fu quella
che col mantenersi sana tagliò i progressi al morbo, che da Bologna
si sarebbe inoltrato nella Romagna. E ciò avvenne, perchè poste dai
Faentini le guardie ad un fiume che scorre poco lungi dalla città,
un degno prelato ch’era allora al governo e alla custodia d’esso,
indefesso di giorno e notte, quando manco si pensava, compariva a
cavallo a riveder le guardie e i passi del fiume più facili; e tenendo
le forche in piedi fuori della città, non risparmiava nè terrore, nè
gastighi ai disubbidienti. Così la città di Reggio, benchè posta fra
Modena e Parma, ambedue città infette, lungamente si mantenne sana, e
forse ne sarebbe andata esente, se il male non vi fosse stato portato
disavvedutamente da chi era di sopra alle leggi. E in quella medesima
peste del 1630, egli è noto fra noi che nel ducato di Modena le terre
di Vignola, Guiglia, e tante altre castella della collina e della
montagna, quantunque confinanti ad altre infette dalla pestilenza o
circondate da essa, pure col mezzo delle guardie e diligenze usate
schivarono così terribil disavventura.

All’incontro quasi tutte le terre e città invase dalla peste, sanno e
saprebbono dire, onde sia proceduto il principio della loro infezione,
cioè dall’aver trascurate le debite diligenze, e dal non aver fatto
osservare le leggi prudentemente stabilite in somiglianti pericoli
e disordini. Io non parlerò qui se non di Roma e Padova. Infierendo
l’anno 1656 la peste in Napoli (che v’era penetrata dalla Sardegna)
furono asportate molte vesti e panni, che maneggiati da persone
appestate aveano contratta la semenza del male; e questi introdotti in
Civitavecchia e Nettuno, passarono anche furtivamente entro di Roma
stessa, accendendo poscia in tutti que’ luoghi il fuoco contagioso
che a poco a poco si dilatò ne’ contorni. Penetrò la peste in Padova
nell’anno 1630, perchè furono poste le guardie a’ confini del Vicentino
infetto; ma queste erano malamente tenute con far anche supplire i
ragazzi, e trovarsi talvolta gente ai passi, a cui bastava mostrare
qualche bulletta per passar oltre. Persone potenti da un’altra parte
entravano per forza nel distretto padovano, essendo in qualche paese
le leggi, come le tele di ragno che fermano le mosche, ma cedono tosto
a chi ha l’ali più vigorose. L’interruzion del commercio avea ridotta
la città in secco di molte merci solite a condursi da Venezia, e in
particolare di cordovani da scarpe, il che era di gran molestia. Fece
un mercatante venire alquante balle d’essi cordovani da Venezia già
infetta, e parte ne introdusse nel luogo della contumacia per farne
lo spurgo e parte fece furtivamente tirarli di notte su per le mura.
Questi ultimi infettarono prima i facchini e poscia ogni sorta di
persone. Tralascio altri esempj.

Ecco dunque di che conseguenza sia l’uso o l’ommissione delle diligenze
umane in pericoli sì gravi quali sono quei d’una pestilenza. Ma se
l’accuratezza del governo politico può tener lungi da una terra e
città questo orribil male, la conseguenza è chiara, esser degni di
gran vitupero presso degli uomini i capi del popolo che le trascurano,
o non le fanno eseguire ne’ sospetti di peste, e dover eglino rendere
un conto strettissimo a Dio d’avere per lor negligenza così mal difesa
in sì importante bisogno la gente raccomandata alla lor cura dalla
provvidenza divina. Di più questo è non meno un obbligo gravissimo che
un interesse rilevantissimo tanto dei sudditi quanto del principe. Nè
perchè possono costar molte spese al pubblico e moltissimi incomodi ai
privati, sì fatte diligenze, si dee tralasciare; perciocchè ha da star
fissa in mente dei principi, dei magistrati e dei privati questa gran
verità, cioè, non esserci spesa, nè incomodo che uguagliar possa in
conto veruno le spese e gl’incomodi terribilissimi d’una peste; e non
impiegarsi mai meglio le fatiche e i danari, che per conservare a un
tempo stesso la salute propria e la vita del popolo tutto. Si spende,
e si dee spender tanto in lazzeretti e mantenimento di poveri, e cure
d’infermi, e in guardie e ministri, allorchè è venuta una peste; e pure
anche allora si perdono migliaia di persone utili o necessarie alla
repubblica: quanto più dunque si dovrà amare o tollerare di spendere,
e spendere tanto meno, per tener lontano un contagio e salvar con ciò
la vita a sì gran numero di persone che perirebbono per mancanza di
tali spese e diligenze? Chi s’intende punto di economia e molto più di
carità cristiana, tosto comprenderà la necessità di queste preventive
diligenze, delle quali passerò ora a trattare con esporre il _governo
politico_ in tempi di peste.



CAPO II.

  _Argini e difese da opporsi affinchè il contagio non s’accosti.
    Con quali diligenze se gli abbia a disputar l’ingresso e
    l’avanzamento. Entrato il morbo, tentativi per soffocarlo.
    Quarantena proposta a questo effetto._


Bisogna sulle prime figurarsi che nei sospetti e pericoli di peste
una città si trova nello stato medesimo, come se fosse minacciata di
guerra da un principe o popolo vicino di gran possanza e fierezza,
che pensasse ad occupare e devastare il territorio di lei e in fine
lei stessa; con questa sola differenza che i mali e danni d’una guerra
vengono regolarmente da chi è nimico e straniero; e quei della peste
da chi regolarmente è amico ora straniero ed ora del paese, o da
chi involontariamente vi porta la rovina anche sua. Ma chiunque vuol
offendere la vita nostra e del popolo nostro, quantunque internamente
non covi egli in seno sì barbara voglia, pure si presume nostro
nimico; e si può o si dee tener lontano colla forza e metterlo in
istato di non poterci nuocere atterrendolo, fermandolo, gastigandolo,
ed anche rigorosamente secondo i differenti casi di maggiore o minore
negligenza, malizia e fraude. Sicchè a guisa de’ pericoli della guerra
s’ha ne’ pericoli della peste da adoperare ogni possibil forza e
difesa, a fin di salvare il proprio distretto e la propria terra o
città.

Allorchè dunque s’ode incrudelire questo terribil morbo in paesi
contigui all’Italia, o di tal positura che possa di colà passare
alle nostre città, convien subito mettersi in difesa e unirsi coi
confinanti e coll’altre città italiane, per impedirgli l’entrata in
Italia. Avendo il Signore Iddio separata coi monti e col mare questa
grande e felicissima provincia dall’altre, non è a lei difficile il
guardarsi e salvarsi dalla vicinanza o dagli assalti d’una peste,
purchè la violenza sregolata dell’armi e degli armati non disordini
e renda inutili le buone regole degl’Italiani e non venga per forza
a rovinarci. Le diligenze che usa una città o provincia di frontiera
in simili casi, sono non men difesa di lei, che difesa dell’altre,
le quali stanno più addietro; e appunto le leggi della natura e delle
genti ci obbligano tutti a simil difesa anche per salute de’ vicini.

Che se penetrasse in Italia, e si avvicinasse il contagio
pestilenziale, coll’andar superando gli argini dell’altre città più
esposte, allora la nostra dee raddoppiar le diligenze e difese, come
se l’effettivo esercito o principe nimico venisse per assediarla
e soggiogarla. Consistono tali diligenze in esigere le _fedi della
sanità_ con gran rigore, avvertendo bene che non vi sia frode in esse,
e che per le persone del distretto sieno almen riconosciute e segnate
dal curato della villa. Ne’ pericoli gravi sarà prudenza non solo
il contrassegnar le fedi, ma ancora il bollarle con sigillo a posta,
mettendovi anche numero d’abaco particolare e usando altre cautele.
Accade pur troppo che alcuni concedono fedi le quali non contengono
verità con aggravio ed inganno de’ vicini. Altri le falsificano, ed
altri non sapendole ben leggere, o confrontare, restano delusi. Ne’
gravi sospetti non si ammette forestiero e nè pur terriero se non
si sa di certo che egli sia dianzi stato per molto tempo in luogo
sano. Parimente convien sospendere il commercio a luoghi sospetti,
non accettando senza quarantena persone o robe che vengano di colà; e
in levarlo affatto ai luoghi infetti di peste, con regolar solamente
qualche comunicazione per le grascie e vettovaglie, se la necessità
il richieda secondochè diremo più a basso. In oltre il costume è di
mettere guardie a tutto il confine, distanti in maniera che nessuno
possa entrare senza veduta e permissione dei deputati; di far battere
da gente a cavallo la pattuglia ai confini; di tagliar tutte le strade
che abbiano comunicazione col paese appestato, talmente che resti
interdetto ad ognuno, sia forestiero, sia paesano, il venir di colà
se non per la via che per necessità fosse stata destinata e riservata
dai magistrati e sotto gli occhi di chi è deputato alla custodia de’
passi; di custodir bene le porte e mura della terra o città, chiudendo
ancor le porte men necessarie, e di usar altre simili cautele e
provvisioni che son triviali e notissime a tutti. Ma si avverta che
riusciranno inutili le guardie, se non si farà buona guardia alle
stesse guardie; cioè saranno necessarie persone d’autorità e d’attività
che indefessamente facciano eseguir gli ordini e fare il suo dovere
alle sentinelle e ai corpi di guardia, altrimenti la trascuraggine
o venalità di costoro lascerà per poco entrare la peste e indarno si
dirà poi: Bisognava fare così e così: io non credeva, e simili altre
superflue scuse e inutili pentimenti.

Appresso è da osservare che per ben assicurarsi da questo non men
fiero che fraudolento nimico bisognerebbe non contentarsi d’un solo
trincieramento ai confini, ma disporne alcun altro più indentro
e finalmente alle porte della terra o città, acciocchè se mai per
negligenza o malizia delle guardie poste a’ confini penetrasse il male,
non passi egli il secondo argine, o superato questo non s’inoltri
al terzo e così al cuore del popolo. Si dee far quanto si può per
custodire tutto il confin dello stato; ma perchè tal custodia suol
riuscire pericolosa e difficile, ove i confini dell’una giurisdizione
coll’altra son vasti e facili a superarsi, nel qual caso talvolta
i forestieri e sovente i paesani poco scrupolosi e molto ingordi di
guadagno passano e ripassano: perciò il più sicuro trincieramento si
dee credere che sia quello de’ monti, fiumi, canali grossi, fosse
profonde e simili. Un grande argine facile a guardarsi, purchè si
volesse far bene il suo ufizio, sarebbe per esempio il Po allorchè
dalla Germania penetrasse la peste nell’Oltrapò, e il di qua da Po
potrebbe agevolmente preservarsi. Ma conciossiachè in sì gravi pericoli
non convien fidarsi molto de’ vicini, oltre alle guardie che dovrebbero
porsi ai confini esposti di tutto lo stato del sereniss. Duca di
Modena, bisognerebbe ancora metterle alle rive della Secchia e del
Panaro e in una linea da tirarsi fra questi due fiumi, per custodir
Modena, e lo stesso dovrebbon fare dal canto loro l’altre città e
terre del suddetto stato, ai fiumi o canali o argini che paressero
più proprj; affinchè se il confine dello stato non bastasse a tenere
indietro il nemico, quest’altro più forte trincieramento l’arrestasse.
Che se nè pur questo reggesse, le porte e mura della città sono e
possono essere d’un antemurale fortissimo e sicuro, purchè si osservino
accuratamente le regole prescritte dai saggi in tali congiunture, col
non permettere commercio fra i cittadini sani e i forensi infetti e col
non prendere le robe di questi se non colle cautele che si accenneran
più a basso. E sopra tutto s’abbia ben l’occhio in ogni popolazione
a certuni, le cui rendite, anzi il quotidiano vitto son riposte nel
condurre continuamente da un paese all’altro o vettovaglie o bestiami
o altre robe venali. Costoro anche colla forca sugli occhi vogliono
continuare il loro mestiere, nè si può dire con che pregiudizio o
pericolo della pubblica salute.

Anzi è da sapere che entrato il male anche nella città, qualora se
ne accorgano per tempo i magistrati, si può sopire e per così dire
affogare nei suoi principj, chiudendo e tagliando fuori dal commercio
degli altri quelle case che avessero qualche persona infetta e le
persone che avessero comunicato con esso lei o maneggiato sue robe. C’è
di più, può anche darsi che col tagliare una contrada o un quartiere
d’una città si preservi il rimanente degli abitanti. Ripullulato il
contagio in Firenze l’anno 1632 si serrò nel quartiere ove esso faceva
danno e in venti giorni tornò a restituirsi il commercio. Così nella
peste di Roma del 1656 una porzione della città di là dal Tevere,
scopertasi infetta, fu in una sola notte rinserrata e fatto un muro
all’intorno con istupore e con inutili doglianze di quegli abitanti
che se ne avvidero la mattina. Così in Venezia nella peste del 1576
declinando il male nella parte della città di qua dal canal grande,
questa fu difesa con guardie dall’altra, ove tuttavia infieriva il
male. Narra il Faustini nelle storie di Ferrara che del 1630 essendo
già la peste in Verona, si dilatò la mortalità sino ad Ostiglia,
da dove essendo passato a Ferrara un Veronese appestato, andò ad
alloggiare in casa d’un suo compare abitante incontro alla chiesa di
S. Antonio vecchio. Costui si pose a letto con febbre, e visitato da’
medici fu giudicato tocco della peste, siccome era in fatti, e in due
giorni morì. Il perchè quel cadavero fu subito sepolto nella calce
viva, e chi l’avea ricettato in casa fu condotto colla sua famiglia al
lazzeretto fuori della città e chiusa la sua casa. Quindi si rinovarono
le diligenze, e non restò per tal accidente presa dalla peste quella
città, benchè il male si dilatasse poi sino a Melara e Brigantino, e
passato il Po venisse ancora al ponte del Lagoscuro e in altre ville
poco lungi da essa Ferrara. In somma convien tentare tutti i mezzi
per vedere di opprimere sì crudele avversario, disputandogli a palmo a
palmo il terreno come si fa nelle città assediate, delle quali, insin
quando l’oste contraria s’è impadronita della fossa e de’ bastioni, a
forza di tagliate e barricate si va mantenendo il cuore della città.
Ma si ricordino bene tutti i principi e magistrati, essere un punto di
somma importanza il non avere allora nè lasciar avere parzialità per
alcuno, sia cavaliere, sia dipendente da’ ministri, sia privilegiato
dal principe stesso. Un solo peccato d’indulgenza può portare l’eccidio
a un pubblico tutto. Riuscì bene in Roma nella peste del 1656, perchè
non si guardava in faccia ad alcuno.

Ma poniamo che il morbo, superato ogni riparo, ed entrato in una
terra o città non si possa colle vie suddette soffocare, e che oggi
uno, domani due o tre e in luoghi diversi dalla città, comincino a
morir di peste, in guisa che resti solo ii gran pensiero di salvare
da così fiero incendio i più che si potranno del popolo, allora è
necessario che i magistrati con una pronta e ben pesata consultazione
propongano l’ultimo de’ rimedi che son per accennare. Non è già esso
da mettere in disputa, essendo efficacissimo e tale che si dee, purchè
si possa, tosto abbracciarlo; ma solo è da esaminare se si abbiano
o possano aversi mezzi per mettere in opera questo ripiego, il qual
pure fu insegnato e praticato in vari luoghi con felicissimo successo
dal P. Maurizio da Tolone cappuccino, siccome egli narra nel suo
Trattato Politico della Peste, opera molto utile, stampata in Genova
l’anno 1661. Consiste esso nel mettere in quarantena almeno tutto il
basso popolo della città, dal quale, e non dai nobili e dalle persone
comode, la sperienza fa troppo spesso vedere che il male è facilmente
disseminato e introdotto anche nelle case de’ più guardinghi. Cioè
dopo avere ordinato che chi vorrà in termine di alcuni giorni partirsi
dalla città, possa farlo, si ha assolutamente da rinserrare nelle
proprie lor case il volgo e i poveri tutti sotto pena della vita, con
interdire ogni commercio fra una casa e l’altra, e con provveder poscia
ai rinserrati bisognosi il vitto ed altro che occorra. Scorgendosi
dipoi infetta alcuna d’esse case, quella colle robe sue e non le altre,
si dovrà purgar coi profumi, avendo buona cura delle persone che, o
ivi restano o si conducono altrove, siccome sospette del male. Che se
anche nell’ordine più civile de’ cittadini fosse penetrata la peste, i
medesimi si dovrebbono obbligare a questa medicinal prigionia.

Un gran bene si ricava da tal rinserramento, perchè così vien tolta
l’occasion di conversare e di vicendevolmente imbrattarsi. I magistrati
più facilmente esercitano le loro incumbenze; e si schivano le ladrerie
costumate in simili tempi, nei quali la vil plebe si fa lecito ogni
disordine e coll’appropriarsi le robe degli appestati, tira addosso a
sè la morte e la comunica ad altri. Basta il tempo di quaranta giorni
per recidere e soffocare il male, mentre chi è sano, si fa conoscer
tale dopo tal prova; e chi tale non era o avea in casa i semi del male
o manca di vita o guarisce; ed espurgandosi immediatamente la sua
casa e robe, si taglia la via al male di passare ad infettare altre
persone e case. Il sequestrar la plebe minuta nella forma suddetta,
può conservar la vita a loro e a tante altre migliaia di persone, le
quali pel conversare potrebbono contrarre un morbo che sì facilmente
si comunica per commercio o delle persone o delle robe. Dopo i suddetti
quaranta giorni scorgendosi che non muore alcuno di peste, ed espurgati
i luoghi e le robe o sospette o infette, si può rimettere come prima il
commercio interno della terra o città.

Il punto sta, come dissi, in consultar bene se vi sia nerbo per
provveder di vitto il popolo rinchiuso. Ma si osservi, essere di spesa
ed impegno maggiore il mantenimento delle capanne e dei lazzeretti, i
quali in fine non difendono la gente dalla morte, anzi talvolta servono
a far morire chi non sarebbe morto o ad affrettargli il passaggio,
e certamente non sono atti ad estinguere il male già penetrato ed
allignato in una città. Nè la spesa di tal quarantena si troverà
insoffribile alle prove, sì perchè moltissimi cittadini si saran già
ritirati alle ville; e di quei che restano in città, buona parte sarà
provveduta di vettovaglie, senza che i magistrati abbiano da pensare al
loro sostentamento. Io per me non so precisamente, come riesca e fosse
per riuscire in pratica e massimamente in città grandi, questo rimedio
che in teorica mi comparisce sommamente utile, per non dir anche
necessario. Ma so bene che nelle due pestilenze che tanto afflissero
la popolata città di Milano negli anni 1576 e 1630 dopo esser morte
tante migliaia di persone, non cessando il male, altro rimedio non
si trovò per vederne il fine (e si noti bene) che quello di mettere
in quarantena, cioè di rinserrar nelle sue case per quaranta dì tutto
il popolo, sì nobile come ignobile a riserva de’ magistrati, ministri
e serventi necessari: dopo di che restò oppressa e cessò affatto la
pertinace mortalità, mantenuta fino allora dal commercio de’ cittadini,
e spezialmente da quello della plebe e de’ poveri. Ma se infine bisogna
ridursi alla quarantena o sia a tal rinserramento, per salvare le
reliquie del popolo fin allora preservate dal comune incendio: quanto
più gioverà e sarà convenevole quando mai si possa, il tentare lo
stesso rimedio e scampo su i principj per vedere di mettere in salvo
la cittadinanza tutta? Per compimento di ciò aggiungerò le parole
stesse del soprammentovato cappuccino, il quale dopo aver consigliato
e commendato questo ripiego, come atto a purgare dal contagio
qualsivoglia città, così conchiude: _La lunga pratica ed isperienza è
quella che m’ha insegnato, non potersi dare rimedio nè più facile nè
più efficace, nè più presentaneo di questo_.



CAPO III.

  _Alleggerire le città d’abitatori. Poveri se si abbiano da
    escludere. Libertà ai cittadini di ritirarsi in villa. Fuga
    utile e permessa a tutti, fuorchè alle persone necessarie per la
    repubblica._


Passiamo ad altre provvisioni necessarie in sospetti di contagio. La
prima d’esse ha da esser quella di alleggerir di gente la città. Appena
s’odono casi di peste lontana sì ma che obblighi alle precauzioni
delle fedi di sanità e ai rastelli o cancelli, si debbono licenziar
dalla città, anzi da tutto quanto lo stato in termine di pochi dì, i
birbanti, vagabondi, cingani, questuanti, lebbrosi, impiagati e simil
sorta di gente che non eserciti qualche arte, e non voglia procacciarsi
il pane se non col mezzo troppo comodo del mendicarlo. Tal proclama
ha da essere per i forestieri, perciocchè ragion vuole che costoro non
occupino essi il pane ai veri poveri del paese nelle strettezze d’una
pestilenza; e non è un mancare di carità verso di quelli l’assicurarsi
il più che si può che non venga meno la carità a’ poveri della patria
sua, perciocchè nell’ordine della carità hanno questi da essere
preferiti agli altri. Anzi in ogni buon regolato governo nè pure in
tempi liberi da ogni sospetto di male si dovrebbono permetter coloro
che non vogliono faticare, ma sì bene vogliono nudrirsi delle altrui
fatiche nella terra non sua, con pregiudizio di chi è ivi cittadino,
ed è veramente bisognoso e degno dell’altrui limosina. Facilmente bensì
potrebbono mancare i magistrati alla giustizia e carità, se in pericoli
di contagio volessero espellere fuori dello stato anche i poveri nativi
o già divenuti cittadini della terra, essendochè questi sono parte
della repubblica e hanno diritto d’essere soccorsi nella loro necessità
dalla lor patria. Nè gioverebbe il dire che non lavorano; poichè,
qualora possono lavorare, ha da imputare a sè il principe, se non
gl’impiega e costringe alla fatica lor conveniente; e quando non sieno
atti a guadagnarsi il pane colla fatica a cagione delle loro infermità,
tutte le leggi della carità insegnano che s’hanno da alimentare coi
soccorsi e colle fatiche dei sani della sua terra. Anzi se avvenisse
che trovandosi oramai chiusi tutti i passi non potessero sloggiare dal
paese i poveri forestieri, non è lecito il cacciar via nè pur questi;
ma si debbono tollerare e soccorrere in tal congiuntura, essendo colpa
dei soli magistrati il non avere per tempo scaricato il paese di queste
bocche. Io non intendo però con questo di riprovare la sentenza del
Ripa legista, il quale insegna doversi anche espellere i poveri del
paese che possono e non vogliono lavorare; perchè, dice egli, e dice il
vero, costoro coll’andar qua e là questuando son quelli che seminano
e dilatano il contagio. Quando non si potesse provvedere a questo
inconveniente con altro che con iscacciarli, allora sarà lecito il
farlo. Ma si potranno trovar de’ rimedi men crudi di questo.

Avvicinandosi poi a gran passi la peste, o accaduto qualche caso in
città, onde si vegga evidente il rischio di non poterla cacciar fuori o
tenerla lontana, hanno alcuni osato d’intimar la partenza dalla città
a chi non ha maniera di sussistervi; ed altri nè pure han voluto dar
licenza ai cittadini di ritirarsi alla campagna e alle loro ville.
L’uno e l’altro ripiego è crudele ed ingiusto. Il primo, perchè si
espone la povera gente ad un manifesto pericolo di morir poscia di fame
o di stento per la campagna; il secondo, perchè si espone troppa gente
al pericolo d’infettarsi in mezzo al commercio e alle morti frequenti
d’una città. Sarà pertanto convenevole e giusta la determinazione
di permettere a chiunque voglia il ritirarsi fuor della città, e il
cercare ricovero in parte men pericolosa. Questo può essere ugualmente
utile a chi va e a chi resta.

Imperocchè certa cosa è che il contadino o cittadino in campagna,
siccome segregato dagli altri e lontano dal concorso e commercio di
chi può attaccargli il male, purchè si abbia buona cura nel praticar
co’ vicini, e non porti seco nella solitudine il veleno già preso, si
può con gran facilità preservare illeso dalla pestilenza. All’incontro
diminuendosi il numero degli abitanti nella città, men pascolo viene
a restare al morbo, e men occasione di comunicarlo vicendevolmente
l’uno all’altro. Volesse perciò Iddio che in sì terribil congiuntura
si potesse trovar modo, che o tutti abitassero largo in una terra,
o città sorpresa dal contagio, o che coll’uscire alla campagna tanto
si diradasse il numero degli abitatori che divenisse ancora più rado
il commercio di chi resta in essa terra o città. La conversazione e
il concorso son quelli che fomentano e dilatano di troppo il male
quantunque ancora si serrino le strade e si suggellino le case; e
dove le città sono di gran popolazione, e le famiglie, massimamente
de’ poveri, sono strette di casa e sono affollate, quivi la peste fa
incredibile strage. Perciocchè è da sapere che un infermo di peste può
infettar tutta l’aria della camera ove si ricovera, e con ciò venir
ad infettar le vicine se quell’aria può passarvi dentro; e perciocchè
i poveri non hanno via per l’ordinario di segregarsi dagli appestati
della lor famiglia, però agevolmente restano anch’essi trafitti; e
col moltiplicarsi l’aria infetta, giungono talvolta a penetrar nelle
abitazioni contigue gli spiriti velenosi colla rovina ancora di chi
rinserrato nella sua stava in diligente custodia di sè stesso e de’
suoi.

Perciò nelle contrade più strette e ricolme di poveri abitanti, entrato
che vi sia il male, si vede in poco tempo una spaventosa desolazione;
e le città più popolate restano a proporzion più afflitte che l’altre
men popolate, non solo per la maggior copia delle persone, ma ancora
per la maggior facilità, necessità, e strettezza del commercio e
delle abitazioni. Così Venezia e Milano nella peste del 1630 diedero
uno spaventoso spettacolo di morti; e così avvenne anche a Napoli e a
Genova in quella del 1656, laddove Roma in questa ultima non ebbe che
circa sedicimila estinti, non tanto per le ottime diligenze ivi usate,
quanto ancora per l’abitato che è largo. Il perchè torno a dire che
l’alleggerire il più che si possa la città d’abitanti all’arrivo d’un
contagio, questo è uno de’ più utili mezzi per levare il pascolo alla
morte che s’avvicina, e per conservare più facilmente in vita chi esce
e chi resta. E qui si vuol far menzione delle famose _pillole dei tre
avverbj_ decantate da tutti coloro che trattano della peste, come di
quel rimedio e preservativo che si conosce tosto pel più efficace, e
più sicuro di quanti mai si possano prescrivere contra la pestilenza
nel governo politico e medico. Bisogna prenderle per tempo, e a tempo;
e così prese certo è che faranno un mirabile effetto. Consistono esse
in questi tre avverbj _mox, longe, tarde_, cioè nel fuggir presto,
andar lontano e tornare ben tardi. Ciò fu espresso nel seguente
distico:

    _Hæc tria tabificam tollunt adverbia pestem,_
    _Mox, longe, tarde, cede, recede, redi._

Sel tengano a memoria i lettori; e giacchè la fuga in tali casi è
lecita, e nello stesso tempo utile al pubblico e al privato, hanno i
principi e magistrati da permettere che tutti i cittadini a’ quali non
manchi la comodità di farlo, si ritirino alle lor ville e al largo
della campagna, ricordandosi ancora di quelle parole d’Ezechiele,
cap. 7: _Qui in civitate sunt, pestilentiæ et fame devorabuntur, et
salvabantur qui fugerint ex ea_.

Da questa general regola e permissione però si debbono eccettuar
le persone, che trovansi per lo speziale ufizio loro impegnati
ed obbligati al servigio della repubblica, e sono in sì funesta
congiuntura necessarj all’altrui conservazione e governo. Tali sono
i magistrati, i parochi, i medici, i cerusici o barbieri, i notai,
le levatrici, o sia le mammane ed altre simili persone, alle quali si
suole e si dee con pubblico editto vietare l’absentarsi dalla città.
In oltre, secondochè occorra il bisogno, si possono i gentiluomini ed
altri cittadini (seguitando però sempre la giustizia distributiva)
obbligare a certi ufizj e guardie che sieno credute necessarie,
ciascuno per la sua parte e rata di tempo. E sono specialmente tenuti i
nobili, siccome persone che si presumono più fedeli e più zelanti del
ben pubblico, alla guardia delle porte, alle quali si avverta che non
dee permettersi il giocare, nè il dar ivi colezioni, nè il far bagordi;
siccome ha anche da essere vietato ad ogni ufiziale o ministro il
prendere mancia alcuna dai passeggieri.

Finalmente (e si avverta bene) se sono esentati i cittadini dal
trattenersi nelle terre e città in sì pericolosi tempi, non si hanno
già da credere esentati anche da alcune leggi della carità cristiana,
restando allora nelle città i mendichi, gli artigiani, e tanti altri
soliti a guadagnarsi il pane alla giornata, perchè loro manca la
comodità di ritirarsi altrove; e dall’altro canto potendo cercar asilo
nella campagna i soli meglio stanti: ognuno intende che viene a mancare
alla povera gente della città, chi loro faccia limosina, e somministri
da lavorare, e perciò vien loro meno il granaio e la dispensa di ogni
giornata, con rimaner tutti esposti al quotidiano pericolo di morir
di fame, non meno che di pestilenza. Pertanto non è un solo consiglio,
ma ancora un precetto chiaro della carità cristiana che stando anche i
cittadini fuor di città, aiutino in sì estrema necessità, e soccorrano
i rimasi nella medesima, ciascuno secondo le forze sue, siccome più
precisamente diremo a suo luogo.



CAPO IV.

  _Necessità di magistrati prudenti e attivi pel governo della
    peste. Autorità e rigore conveniente ad essi. Loro cautele per
    preservarsi. Elezione d’altri subordinati. Non doversi forzare
    i medici alla cura degl’infetti; e come governarsi per conto
    d’essi._


Il maggior benefizio che nel governo politico possa accadere ad un
popolo, durante il pericolo, o la disavventura d’un contagio, si è
l’essere provveduto di buoni magistrati che colla lor vigilanza e
prudenza arrestino il morbo ai confini, ovvero l’imprigionino in
qualche terra o porzion del paese ove sia penetrato, o pure così
valorosamente gli facciano fronte arrivato che sia nella città che o
presto si soffochi o non faccia considerabile strage. Non riceve mai
la peste forze maggiori, nè più francamente si dilata, quanto dai
disordini della vil plebaia, allorchè sprovveduta di buoni capi e
di leggi, o perduta la riverenza ai magistrati, ogni cosa confonde.
Debbono pertanto in occasione di tanto bisogno mettersi al governo
degli affari della sanità persone piene di carità e d’onore, e
persuase di doversi acquistare presso gli uomini, e infinitamente più
presso Dio, un merito grande per le lor fatiche in benefizio della
loro afflitta patria. Scelgansi persone abbondanti di amore verso la
lor terra e verso il prossimo, e provvedute di competente saviezza,
esperienza e di attività il più che si può coraggiosa e non timida. Chi
ad ogni menomo aspetto della nostra mortalità, si sente cadere il cuore
a terra, dee starsene in casa ad aiutar con orazioni pie e con atti di
carità il prossimo suo. La vigilanza de’ magistrati, col non trascurar
nulla, e principalmente finchè è tempo, può far dei miracoli in tutte
le occasioni, ma spezialmente in questa; perchè in fine si tratta d’un
nemico, il quale non porta seco artiglierie per valicar colla forza
i confini d’uno stato, o superar le porte di una città. Oltre di che,
introdotto il morbo, le negligenze de’ magistrati il rendono sfrenato.
Certo in sì gravi pericoli, e in tanta necessità di conservare il
popolo, chi governa si potrà ben pentire di non aver fatto assai, ma
non mai d’aver fatto troppo. Non la mansuetudine e piacevolezza, ma
il rigore è qui necessario a chi governa; e ciò per maggior bene della
repubblica stessa, a cui si nocerebbe coll’indulgenza, e si può giovare
infinitamente col fare a puntino e irremissibilmente rispettare ed
eseguir le leggi. In tempi tali, secondo il parere dei savj, è maggiore
sopra i sudditi la podestà del principe e dei magistrati, potendosi
condannar le persone a varie pene per soli sospetti e senza processo,
e valersi delle lor case, poderi, danari, vettovaglie, ecc. qualora il
pubblico ne abbia bisogno.

Filippo Ingrascia, celebre medico di Sicilia, che scrisse un utile
trattato della peste, prescrive per principalissimi rimedj, espugnatori
di questo male i tre seguenti, cioè l’_oro_, il _fuoco_ e la _forca_.
Il primo pel mantenimento de’ poveri, e per tante altre spese che
occorrono allora; il secondo per l’espurgazion delle case, robe ed aria
e il terzo per l’osservanza delle buone leggi e regole da stabilirsi
in quel tempo. Può mancare il primo di questi rimedj; e in quanto
al terzo, si suol far piantare in più luoghi, entro e fuori della
città, esse forche, per punirvi prontamente certi gravissimi delitti
di disubbidienza dannosa al pubblico. Facciasi però il men che sia
possibile, potendosi con altri minori gastighi e col terrore tenere in
dovere i popoli, e massimamente in queste parti d’Italia ben diverse
nella focosità dai cervelli della Sicilia. Un esemplar gastigo dato
sulle prime gioverà assaissimo, siccome ancor il lasciar correre voce
che sieno stati immediatamente uccisi alcuni trasgressori degli ordini
della sanità. E se taluno si avesse a far morire per qualche delitto,
il divolgare che tal gastigo venga per la trasgressione suddetta,
metterebbe gran freno agli altri. Le città e terre preservate non hanno
riportato sì gran benefizio senza la morte di qualche disubbidiente
in cose gravi, quale è chi venendo da luogo appestato passa i confini
senza fedi, o con fedi false e simili trasgressori troppo nocivi;
per altro ai conservatori della sanità s’ha a dare in tali casi
un’assoluta balìa ed autorità di poter procedere _mori belli_ contra
i trasgressori; e, se la necessità il richiede, sarà carità verso il
pubblico il rigore verso qualche privato disubbidiente, e massimamente
nella guardia de’ confini e delle porte in sospetti di contagio. A
quattro prelati della congregazione della sanità di Roma nella peste
del 1656 fu data autorità di poter procedere anche contra le persone
ecclesiastiche e regolari a qualsivoglia pena ed esecuzion d’essa, sino
alla morte naturale exclusive per qualsivoglia delitto concernente la
sanità, _sola veritate inspecta, denegatis defensionibus, more belli_.
Così debbono fare anche i vescovi nelle altre diocesi. Il vuole il
diritto della natura. Anzi tiene il cardinale de Luca nel cap. 41 del
Principe che dai sudditi sani si possa negare l’ingresso e il commercio
al principe infetto, perchè l’esporre alla peste un luogo sano, non è
un operare da principe padre de’ popoli.

Un punto poi di grande importanza sarà, che i magistrati conservino ben
sè stessi per poter conservare gli altri. Perciò sia lor cura di far
circondare la casa dove abitano, o si adunano con rastrelli di legno,
ai quali niuno possa avvicinarsi se non in lontananza di quindici
passi. Tengano pochi servitori, e vietino loro il conversar fuori e
il vagare; e non sieno con esso loro donne, fanciulli, cani e gatti.
Facciano buona provvisione di ciò che spetta al vitto, ed abbiano
seco sacerdote, medico e cerusico coi medicamenti per curare la peste.
Uscendo di casa, vadano a cavallo o in seggetta, parlino alle guardie
e all’altre persone solamente da lontano, incaricando ai servitori
il fare lo stesso; e tornati a casa, facciano lavare i cavalli de’
quali si saranno serviti. Finalmente mettano in opera tutti gli altri
preservativi generali e particolari che s’andranno accennando sì nella
pulizia della casa, come nella temperanza del vitto, nell’uso de’
profumi e in altre somiglianti cautele.

Non è men necessario l’eleggere per subordinati e deputati alle
guardie, al regolamento delle contrade, allo spurgo, alla distribuzion
del pane, alla cura de’ lazzeretti, ecc., altre persone fedeli, abili
e dabbene, nobili, cittadini, mercatanti, ecclesiastici e religiosi,
in numero nondimeno che non generi confusione, dando loro quella
autorità che conviene, con ordine di comunicare al magistrato supremo
tutto ciò che di rilevante andrà succedendo nella lor giurisdizione.
Chi di tali deputati, ufiziali e subalterni avrà da praticar con
infetti e sospetti, dovrà anch’egli contarsi nel numero de’ sospetti,
cioè dovrà astenersi dal commercio dei sani e portar segni visibili
d’essere sospetto; e la casa e famiglia sua non comunicherà coi sani.
Bene spesso terminerebbe presto la peste, se non vi fossero ufiziali
che volessero far la loro fortuna colle spoglie altrui: il che però
non viene lor fatto, perchè anch’essi muoiono, e sovente senza nè pure
aver tempo di accusare ai ministri di Dio le loro iniquità. Adunque per
quanto mai si può, convien cercare persone disinteressate e timorate
di Dio, con assegnare a ciascuna un competente salario. Nello spazio
di due mesi il P. Maurizio da Tolone cappuccino scacciò da una città
di Provenza la peste, non tanto co’ suoi profumi, quanto per la fedeltà
degli operai e dei prefetti delle cariche. Sempre poi gioverà per certi
ufizj di molta gelosia il deputare qualche ecclesiastico, o secolare,
o religioso, d’accreditata integrità che esercitando quel caritativo
impiego con fedeltà, sappia egualmente piacere a Dio ed aiutar la sua
patria. Pongasi anche mente alla necessità di deputare per cadauna
villa qualche persona d’abilità e buona fede, che invigili, visiti e
avvisi ogni caso di male, o altro disordine a uno de’ conservatori
destinato a posta per questo. Anche i parochi possono giovare
assaissimo. Qualor si difenda il territorio, egli è facile il salvar la
città.

Per conto de’ medici e cerusici, s’è ben di sopra chiamato giusto il
costringergli a non partir di città; ma non sarebbe già conforme alla
giustizia il forzargli ancora a medicar gli appestati. Dicono che le
leggi il vogliono; e in Sicilia fu fatto così; e lo stesso venne una
volta preteso in Padova, perchè nel prender ivi la laurea dottorale si
fossero obbligati i medici a servire anche in tempo di peste. Ma grida
la ragione che non son tenuti ad esporsi e non si debbono esporre per
forza all’evidente rischio della vita persone, la conservazion delle
quali è troppo necessaria alla repubblica. Non ci vuol poco a formare
un buon medico; e formato che sia è un grande interesse del pubblico
ch’egli non perisca. Oltre di che se i medici avessero per forza da
conversare con gli appestati, nulla farebbono di giovamento ai medesimi
per l’apprension della morte e per la rabbia e per l’abborrimento a
quell’impiego che parrebbe loro, e non immeritamente, una gran pena
e gastigo. Aggiungasi che più non potrebbono, dopo aver trattato
con gl’infetti, praticar coi sani; e infermandosi questi di qualche
malattia, chi dovrebbe poscia curarli? E se perissero i medici nella
cura degli appestati, chi avrebbe poi cura degli appestati e dei sani?
Aggiungasi per compimento di tutto, che pur troppo i medici non hanno
recipe alcuno specifico e sicuro per espugnare una peste; e però non
si può chiamare precisamente necessaria la loro visita personale
o assistenza agl’infetti, nè si dee pretendere ch’essi per forza
espongano la loro certa salute per l’incerta altrui, potendo essi in
altre guise e colla mano e voce d’altri sustituti, supplire il bisogno
e somministrar que’ rimedi che crederan più a proposito.

Ma, e non ci ha da essere, dirà taluno, medico per i miseri appestati
e per i lazzeretti? Debbono senza fallo i magistrati far tutto il
possibile per indurre a tal cura quei che occorrono, non già col duro
mezzo della forza e del comando, ma col dolce de’ premj e d’un buon
stipendio; e invitino ancora, se possibil fia, qualche straniero che
assuma tale incumbenza. Nè mancherà chi l’assuma: imperocchè, siccome
dirò in altro luogo, v’ha i suoi mezzi di preservarsi illeso fra
la gente appestata, e ciò spezialmente per i medici. Notisi ancora,
che più aiuto darà nei contagi un medico pratico ben mediocre o un
cerusico, il quale facendosi avanti senza timore, aiuti ed istruisca
gl’infermi, o porti loro cerotti ed empiastri o tagli ed operi, che non
sarà un gran medico pauroso. E il soprammentovato cappuccino che più
volte fu in mezzo ai contagi, asserisce non essere necessari i medici
ne’ lazzeretti, ma sì bene i cerusici, i quali veramente, allorchè il
male prorompe alla cute o con buboni o con carboni, possono salvar
molti dalla morte, e però sono sommamente utili e necessari e si
debbono salariar bene, acciocchè con puntualità e carità facciano il
loro uffizio in tali congiunture.

Intanto i medici debbono attendere a preservare i sani e a visitare
chiunque è infermo, ma non di contagio, per la città. Impiego loro
altresì ha da essere di assistere ai magistrati e di consultar con
essi e fra loro il metodo e i medicamenti che possono allora credersi
giovevoli o riconoscersi per nocivi. Prendano giornalmente quante
notizie possono dai cerusici intorno ai sintomi e accidenti del male
e al successo o utile o vano de’ metodi e dei medicamenti, con farne
sperimentar molti, e mutar di mano in mano secondo le osservazioni
e il bisogno. Che se nella visita degl’infermi s’abbatteranno contro
lor voglia a praticar con qualche appestato, allora dovranno per dieci
dì chiudersi in casa colla lor famiglia, siccome sospetti, in guisa
che alcuno non v’entri, o ne esca, restando nondimeno libero a tali
medici di uscire se vogliono, ma coi segnali de’ sospetti e senza
poter praticare liberamente co’ sani. In Ferrara, nel 1630 si videro
buoni effetti d’un proclama fatto, ove si astringeva ognuno a denunziar
quello che sapeva di pregiudiziale alla sanità. Altrettanto è da fare
altrove in simili casi; e riuscirà anche più utile, se oltre alle
pene si aggiungerà la proposizione de’ premj ed anche l’impunità ai
trascorsi altrui, quando fossero col solo onesto fin del ben pubblico
denunziati da persone onorate.



CAPO V.

  _Peste comunicata pel contatto dell’aria, de’ corpi e delle
    robe appestate. Come l’una parte del paese abbia da difendersi
    dall’altra. Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non
    occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera di opprimere la
    pestilenza introdotta._


Egli è notissimo che dall’intrinseco veleno della peste viene l’uccider
ella sì facilmente gli uomini, e che dal suo contagio, cioè, dal
toccar l’aria o i corpi o le robe appestate vien poi l’ucciderne
ella tanti, e lo spopolar le città: il perchè contagio suol anche
appellarsi la peste. Il principal dunque e quasi infallibil rimedio
per guardarsi da così terribil nemico, non è altro che il guardarsi
dal toccamento di tutto ciò che può contenere e comunicare il veleno
pestilenziale. Gli altri rimedi son fallaci le più delle volte: questo
solo vien comprovato per sicuro dalla sperienza di tutti i tempi.
Perciò abbiam lodato cotanto di sopra il fuggire, ed ora dobbiamo
maggiormente inculcare che la gran cura dei magistrati ha da consistere
nell’impedire affatto o nel regolar così bene il commercio che i
corpi sani si difendano dal malore degl’infetti. _Nullum praesentius
remedium adversus pestem comprobavit usus, quam sana corpora adiuvare,
ne inficiantur,_ così scrisse dopo la sperienza fattane il cardinal
Gastaldi.

Ora in due tempi e forme si dee levare il commercio delle persone e
robe; cioè o ne’ sospetti di peste o dopo aver già la peste invasa
la città. Per conto del primo le savie città, udito qualche sospetto
o romor d’infezione nelle circonvicine, non fidandosi (e con troppa
ragione) degli avvisi delle medesime, spediscono segretamente colà
qualche medico non conosciuto o altra persona accorta che s’informi
bene e ponderi ogni successo; e sulla relazione prendono poi le loro
misure e cautele. Poscia appena s’udirà grave sospetto o dichiarazion
chiara di peste in qualche popolo, che gli altri popoli sani, i
quali ragionevolmente possono temere di contrarre quel morbo, debbono
interrompere il commercio con esso, bandendolo con rigorosi editti,
e non accettando più, se non colla quarantena, persone, merci e robe
di colà procedenti, e nè pure ammettendole talvolta colla quarantena,
secondo la qualità o vicinanza del male. Questo è notissimo; e volesse
Dio che gli altri popoli imitassero in ciò la saggia e severa condotta
della repubblica veneta. Egli è facile, così facendo, lo schivar le
pesti, e però il poco fa citato cardinal Gastaldi formò queste due
verissime conclusioni: _Contagium negligere crebrior in pestilentiis
error a prudenti regimine magis cavendus. Pestis praevisa facile
vitari potest_. Poscia crescendo il pericolo, dee ogni terra e città
ordinare che ognuno denunzi qualunque malato all’ufizio della sanità.
Di cadauno sia fatta la visita attenta da qualche medico o chiamato da
essi o deputato dalla città, il quale fedelmente riferisca con fede
in iscritto la qualità di quel male, per poter passare ad ulteriori
ripari in caso di bisogno. Niuno, eccettochè il medico ed altre persone
necessarie, possa visitare infermi, ancorchè non si sia peranche
scoperta la peste. Anche i conventi de’ religiosi e delle religiose,
e i conservatorj saran tenuti alla stessa denunzia; e il medico e
cirusico d’essi luoghi dovrà anch’egli dare la relazione.

Ma qualora la peste, superati i confini d’uno stato, penetri in qualche
terra, castello o porzion del medesimo, i circonvicini e la città
capitale debbono bandirla e tagliare ogni commercio con quella parte
infetta, serrandola, mercè d’un cordone o d’altri ripieghi, tanto
che non comunichi il suo veleno alle parti intatte di quello stato o
distretto, ma senza mancare di prestar loro ogni possibile soccorso ed
istruzione in tanta calamità. Così l’un castello può e dee difendere
sè stesso e il territorio suo dall’infezione degli altri, levando
loro ogni commercio. Di più infettata la città capitale, non solamente
possono, ma debbono le altre città e terre bandirla; anzi il principe
o i magistrati debbono loro ordinarlo. Così fece ancora il nostro
duca Francesco I nel contagio del 1630, scrivendo a san Felice e ad
altre terre che mettessero sotto il bando la stessa città di Modena.
Altrettanto fu eseguito nel contagio di Roma del 1656, essendosi con
pubblico proclama ordinato che le terre e castella sane potessero
e dovessero bandire Roma infetta co’ suoi casali, vigne e case di
campagna. E certo una tal cautela e difesa delle parti sane è secondo
il gius della natura; e i principi e superiori peccherebbono contra
la giustizia a contra la carità, anzi contra il pubblico e proprio
interesse, ove non cercassero di salvare quanto si può dello stato loro
e volessero per la loro o negligenza o ostinazione involto tutto nel
comune naufragio.

Quel solo che qui è da avvertire si è che il distretto suburbano e le
ville poste nel contorno della città si debbono ben difendere colle
possibili diligenze dal contrarre il morbo penetrato nella città; ma
non possono elle, nè debbono con rigoroso bando segregarsi da essa
città: altrimenti affamerebbono i cittadini padroni d’esso territorio;
e inutile ancora riuscirebbe un tal rigore, ove tali ville fossero
anch’elle infette. Sicchè la cura che i rustici di queste terre e i
cittadini hanno d’avere, sarà quella di ben regolare il commercio de’
viveri e delle persone, in guisa che i sani non prendano l’infezione
dei malati e seguiti a concorrere alla città quel soccorso di
vettovaglie che le occorre e le è dovuto. Anzi, siccome vedremo, si
può ordinar bene il commercio dei viveri, che annona e grascia vengono
appellati, tra una città o terra infetta e bandita, e le altre sane,
senza che si comunichi o si riceva il veleno pestilenziale; e perciò
le terre e castella sane che abbiano bandita la città, debbono poi
permettere il trasporto delle grascie ad essa città colle cautele
decretate.

Allorchè la peste s’è finalmente spinta ed ha preso possesso in qualche
città, o popolazione, s’ha da attendere a vietare il commercio, per
quanto si può, fra il popolo infetto o sospetto e il tuttavia sano
ed illeso. Qui è il difficile e qui ha da essere lo studio più acuto
e la maggior attenzione e vigilanza dei magistrati; imperocchè il
nemico feroce è in casa e la maggior parte del popolo costretta dalla
necessità a fermarsi ivi, non gli può abbandonare il campo. Ove dunque
ci sia modo di mettere su quel principio in quarantena tutto il popolo,
riuscirà, siccome dicemmo, assai facile il liberar la terra o città in
poche settimane dal male, non essendoci più efficace maniera d’impedir
la comunicazione, non che la dilatazione d’una pestilenza, e di poter
purgare in breve tutta la città che questo imprigionamento e questo
levare affatto il commercio. Ma perciocchè a molte città mancheranno i
mezzi per istituire e sostenere questa rigorosa universal quarantena
o pure per negligenza o frode d’alcuni non se ne caverà il profitto
che pure se n’avrebbe a sperare: convien sapere e mettere in opera
gli altri consigli e mezzi finora praticati dal saggi magistrati per
impedire o per ben regolare il commercio e salvarsi in mezzo alla peste
e fra la gente appestata o sospetta.

In tre maniere si può ricevere il veleno della pestilenza, cioè
toccando i corpi umani appestati o le robe e gli animali da loro
maneggiati e toccati ovvero l’aria respirata da essi o contigua. Gli
spiriti velenosi di questo fierissimo morbo, oltre all’uccidere con
facilità quelle persone, in cui si cacciano, agitati dal respiro e dal
calor febbrile ed interno; si spargono ancora per l’aria a una debita
distanza dal corpo infetto; e s’attaccano alle merci, a’ panni e ad
altre robe e agli animali e agli altri corpi umani, co’ quali esso
corpo infetto ha comunicazione col contatto. Per questo i sani debbono
guardarsi dal commercio e contatto non men delle persone infette che
delle robe e dell’aria loro. Io tratterò in primo luogo del commercio
delle persone.

E qui avanti ad ogni altra cosa si dee osservare, qualmente scoperto,
che la peste sia contagiosa ed abbia già avuto adito nello stato o
nella città, si fa un solenne sproposito a volerla tenere occulta,
per timore di perdere il traffico e commercio coi vicini. Questa è la
via di lasciarle ben prendere piede e dilatarla, senza più speranza di
espugnarla e con danno gravissimo sì de’ cittadini che dei forestieri,
i quali praticando alla buona e non usando le debite cautele, perchè
non avvisati del male, s’infettano e portano a’ vicini e a’ lontani
la rovina. Bisogna dunque subito scoprirla e combatterla e avvisare
del pericolo il popolo tutto e chiunque dianzi praticava con libertà.
Per sentimento del Rondinelli, se quando in una città il contagio
comincia, si potesse far tosto crederlo tale a tutti e farlo temere
per quel mostro divoratore ch’egli è, il male non farebbe tanto
progresso nè si vedrebbe nelle case l’esterminio che molte volte
accade. Appresso è sommamente da avvertire che in sospetti di peste
hanno i medici da stare attentissimi ad ogni accidente o malattia,
per avvertirne i magistrati e discernere se vi sia caso di peste.
Ma si tengano essi lontani da quelle strane dispute che son talvolta
succedute ne’ principj del male, cioè se sia o non sia pestilenziale,
sostenendo ciascuno per impegno l’opinione sua, ma con incredibil
danno della città, che su questo dubbio non si risolve agli ultimi
rigorosi spedienti e rimedj. Nel 1576 la pestilenza prese gran piede
in Venezia, con farvi poi un’orribilissima strage, perchè non si
dichiarò, se non troppo tardi che era peste vera; e ciò per colpa de’
medici che non finirono mai di disputare se fosse o non fosse. Per
quanto narra nelle sue storie Natal Conti, furono chiamati da Padova
a Venezia Girolamo Mercuriale e Girolamo Capovacca, celebri medici,
i quali sostennero quelle non essere infermità pestilenziali e si
esibirono alla lor cura. Così continuando il commercio cominciò a
morir tanta gente e a dilatarsi cotanto la furia del male, che i due
medici suddetti conoscendo scaduta la loro riputazione ed in pericolo
d’oltraggi la loro persona, si ritornarono a Padova mal soddisfatti
di sè medesimi. Altrettanto avvenne in Firenze per la peste del 1630,
altrettanto in Malta per quella del 1675. Altri esempi ce ne sono
stati; ma pur troppo ce ne darà degli altri il tempo avvenire, perchè
le teste umane saran quelle di sempre. Meglio è in tali casi ingannarsi
col prendere per effettivo contagio quello che non è, e provveder per
tempo, benchè senza bisogno, che il trascurare gli opportuni ripari
per volerla far da accurato filosofo nel riconoscere la vera essenza
e le qualità del male. Se a questo si fosse badato meglio dai medici
di Vienna, non avrebbe nel presente anno 1713 preso tanto possesso in
quella imperial città l’epidemia contagiosa che vi regna o almeno si
sarebbero facilmente preservate da sì dannosa influenza altre province
confinanti all’Austria, le quali gemono anch’esse sotto questo flagello
con pericolo ancor dell’Italia.

Ho detto di sopra che la città di Ferrara si preservò illesa nel 1630
dal contagio, quantunque fosse attorniata dal medesimo, e succedesse
entro la stessa qualche caso di peste. Ora debbo aggiungere potersi
attribuire una sì mirabil preservazione a varie cagioni sì naturali,
come soprannaturali, come sarebbe l’essersi finalmente appigliato quel
magistrato al rigore di non lasciar entrare in città persone, tuttochè
procedenti da luoghi sani, senza una particolare ispezione, e di
negare affatto l’ingresso a qualsivoglia mercatanzia, di cui anche vi
fosse stato bisogno, con lasciare che i mercatanti gridassero, e con
escludere insino le suppellettili degli stessi Ferraresi che aveano
villeggiato, e con altre esecuzioni d’austerità contro i trasgressori
delle leggi, ladri di robe infette, ecc. Ma forse il più utile dei
ripari fu la sollecitudine ed esattezza nel pubblicare ed estinguere
il male nascente. Altre città, come Verona, Milano, Parma fecero
quanto poterono per occultar l’infezione già presa, o sia perchè ivi
troppo si disputasse, secondo il solito, se fosse o non fosse male di
peste, o sia perchè ad ognuno rincresce d’essere bandito e privato del
commercio co’ vicini. E perciocchè tali città dai vicini più attenti
vennero bandite, non s’udivano che querele, ascrivendosi tali bandi
a precipizj e a passioni, benchè poi simili prevenzioni de’ vicini
restarono comprovate giuste dalla peste che giunse da lì a poco a non
potersi negare. I savi magistrati di Ferrara non si guidarono così,
come si ha dalle lor memorie stampate. Appena addì 13 di maggio fu
scoperto il male del Veronese di sopra accennato che, tuttochè non
fosse se non dubbioso quello essere tocco di pestilenza, fu risoluto di
pubblicarlo come veramente pestilenziale, con trasportare di bel mezzo
giorno al lazzaretto tutti gli abitanti della casa ove morì costui,
colle robe loro, e sequestrando chi aveva conversato con esso lui,
credendo meglio i Ferraresi il perdere, siccome avvenne, per tal rumore
il commercio co’ vicini, che l’esporre la patria al pericolo d’un
danno incomparabilmente maggiore. In fatti gli abitanti d’essa casa,
al numero di sette, morirono successivamente di poi, e parte d’essi
con buboni e carboni evidenti. Altri casi di chi morì chiaramente di
peste succedettero in quello stesso anno nella città medesima; ma colla
pronta provvisione si troncarono tutte le conseguenze pregiudiziali. In
una parola, dopo il primo caso si stabilì e fu conosciuta necessaria,
non che utilissima, quella gran massima di sempre interpretare per
peste ogni accidente indicante indifferentemente peste e non peste;
e quantunque alcune volte (furono nondimeno esse ben poche) forse
non si accertasse ivi nel giudicare, tuttavia si accertò sempre in
assicurar la patria, essendosi apertamente veduto che in sette o otto
casi almeno dentro la città e in altri nel territorio restò oppresso
il male vero e reale, senza lasciargli campo a dilatarsi. In effetto
molte terre di quel distretto, contuttochè circondate dal morbo,
seppero così ben difendersi col rigore e colla diligenza, o opprimere
il male introdotto, specialmente col confinar esso, e con lo starsene
le persone ritirate, che la passarono netta. Gioverà ad ognuno l’avere
sempre mai presenti simili rilevanti esempj, per non dormire e per
non disperarsi quando mai venissero que’ miseri tempi. Il perdere
il commercio de’ vicini, il penuriar di molte mercatanzie e d’altri
comodi della vita, certo è un male; ma questo male può dirsi un nulla
in paragone del fuoco divoratore della peste; anzi la perdita di esso
commercio, benchè mal veduta, può chiamarsi un gran bene, perchè serve
anch’essa a impedire la comunicazione del contagio. In somma ebbero,
secondo me, ragione i Ferraresi di conchiudere nelle lor memorie poter
eglino _certificare agli altri che il pubblicare prontamente il male,
e il tenere per contagioso ogni caso che sia capace di sospetto, è
l’unico rimedio all’estinzione del medesimo male_.



CAPO VI.

  _Commercio fra le persone come da regolarsi, qualora non si possa
    opprimere la peste. Lazzeretti e sequestri, e attenzione agli
    infermi. Provvisione per li mendicanti. Cimiteri pubblici fuori
    della città. Regole per li medici, cerusici, confessori, e loro
    segni. Sequestro de’ fanciulli e delle donne. Provvisioni per li
    beccamorti. Commercio fra’ cittadini e contadini._


Qualora poi sembri o vicino o inevitabile il malore, s’hanno allora
da preparar lazzeretti con tutta sollecitudine, quando non se ne
avessero dei già preparati, e quando abbiano le comunità nerbo per così
dispendiose provvisioni. Potendosi mettere sui principj in quarantena
la terra o città, si elegga per ogni contrada un capostrada, uffizio
di cui sarà il far portare alla gente rinchiusa della contrada a
lui commessa le cose bisognevoli, consegnando ad ognuno entro una
cesta, che verrà calata dalle finestre, la porzione competente alla
sua famiglia, e tenendo sempre buona nota di cadauna persona d’essa
contrada, e de’ malati e morti, che ogni giorno si darà al suo
commissario, e da questo al magistrato. Se alcuno si ammalasse di
peste, converrà senza dimora trasferirlo al lazzeretto, e gli altri
della famiglia, siccome sospetti d’aver contratto il male, al luogo del
sospetto, di cui parleremo a suo tempo. Si segni immediatamente quella
casa, acciocchè subito sia purgata coi profumi, e renduta abitabile
nell’avvenire, notando poi con altro segno che quella è purificata.

Non potendosi tentare l’utilissimo rimedio della general quarantena,
di mano in mano si manderanno gl’infetti di peste al lazzeretto; e
chi si trova aver praticato con esso loro, al luogo del sospetto,
espurgando e purificando immediatamente le case e robe loro. Quando
non si possano aver lazzeretti e luoghi del sospetto, bisognerà fare
come si può; cioè sequestrare nelle loro case le famiglie infette
o sospette, le quali con profumi purgando tanto le camere ove sono
stati infermi, quanto le robe loro, oppure con segregarsi affatto
da quelle stanze e robe appestate, dovranno cercar di salvarsi; e
scoprendosi sane dopo almeno venti giorni, si potranno con licenza de’
deputati rimettere alla libertà del commercio, purchè prima sia seguita
l’espurgazione legittima delle loro case e robe. Ogni quartiere della
città abbia un medico ed un cerusico assegnato, i quali per quanto
potranno, fedelmente e con zelo faranno l’uffizio loro per iscacciare o
reprimere il veleno della pestilenza. Sopra le porte delle case infette
o sospette, e perciò chiuse d’ordine de’ magistrati, si dovrà scrivere
_SANITÀ_, o fare una croce o altro segno ben visibile e notificato
a tutti, acciocchè ognuno conosca non potersi entrare colà, nè indi
uscire senza permissione de’ conservatori, sotto pena della vita, nella
quale ancora incorrerà chiunque levasse il segno suddetto o il mettesse
alle case non sospette. Partita la città in varj quartieri, per maggior
comodità de’ ministri si segnerà ogni casa di cadaun quartiere col
suo numero, cominciando dall’uno, e seguitando innanzi con ordine, e
facendo quel numero ben visibile con terra rossa o d’altro colore sul
muro, vicino alle porte delle case. Miransi tuttavia contrassegnate
in Genova le case nella forma suddetta, perchè posti que’ numeri
in occasione del fierissimo contagio del 1656 s’è trovato utile il
conservarli per potere con facilità identificare e distinguer le case
nella distribuzione de’ pubblici aggravj e in altre occorrenze.

Procede poscia in ogni sistema di governo intorno alla peste la
notissima regola di proibir subito le scuole, le feste da ballo, i
ciarlatani, i giuochi pubblici, i mercati, fuorchè de’ commestibili, le
fiere, ed altre adunanze e conversazioni allora non necessarie, siccome
ancora il sospendere i tribunali giudiziarj per le funzioni strepitose
a fine d’evitare il concorso. E perciocchè nessuno più facilmente che
i mendicanti, o sia limosinanti, e birbanti suol portare e dilatare il
contagio, si dee far quanto si può per provvedere a questo pericolo: il
che avverrà ove si possano rinserrar tutti alle spese del pubblico in
qualche luogo spazioso fuori della città con santissimo ed utilissimo
ripiego, essendo i poveri per lo più quei che rendono frustraneo il
buon regolamento del contagio e della città afflitta. Dovrà questo
luogo esser guardato da milizie per impedirne la fuga, diretto da
ministri savj, come un monastero, per togliere la confusione; e con
divieto che niuno ne esca e niuno v’entri, se non chi per uffizio dee
farlo; e con prevedere e impedire gli scandali che potessero nascere
dal mescolamento d’uomini e donne. Vi sia divisione di stanze per gli
accidenti che possono occorrere. Trovato alcuno che si fosse occultato
per non ridursi al luogo destinato, sia punito, con lasciar adito agli
altri nascosti di potersi colà ridurre, e avvertendo di non mettere i
nuovi a tutta prima con gli altri, ma di tenerli per qualche giorno in
luoghi separati per assicurarsi d’ogni dubbio. Che se non vi sarà forza
per effettuar questo disegno, veggasi di rinchiudere essi questuanti
nelle proprie lor case, alimentandoli poi alle spese del pubblico, o
con limosine raccolte per mezzo di persone deputate dal magistrato,
e facendo proibizione agli altri di questuare o mendicare. In caso di
necessità si permetterà ai bisognosi il questuare, ma con istar fermi
in qualche luogo loro destinato da chi avrà tale sopraintendenza, il
quale darà loro un bollettino; e senza questa licenza in iscritto sia
vietato a cadauno il mendicare. Si osservi nondimeno che il radunar
tutti i poveri in luogo appartato può esser bene, purchè tutti sieno
sani, altrimenti un solo appestato può successivamente ammorbar tutti
gli altri. Dovrà parimente pensarsi ai filatoi della seta, utilissimi
ai poveri, ma pericolosi in tempi tali per lo concorso colà dei
medesimi. Sarà pertanto da esaminare se debbano chiudersi, oppure se
si possano permettere con varie cautele. Convien anche deputare un
nobile per commissario della sanità sopra il ghetto degli Ebrei; e caso
che entri la peste in città, converrà tener ivi chiuso quel popolo,
con avvertenza di prendere per esso una casa vicina al ghetto, ma non
comunicante col ghetto, ove stieno cinque o sei deputati ebrei per
far tutte le provvisioni necessarie alla loro università; nè questi
entreranno mai dentro i rastrelli che chiuderanno il ghetto.

In Roma nel 1656 fu fatto (e così dee farsi altrove) editto di
denunziare qualunque malato e qualunque morto, benchè non dessero
segno o sospetto di peste, all’uffizio del notaio deputato per ogni
quartiere, con obbligare a ciò i suoi famigliari, il medico e il
parroco, o chi ha cura d’anime, sotto pena della galera e anche
della vita, e con vietare a’ medici e cerusici il dar medicamenti
a chicchessia se non denunziassero tali persone. Ogni dì si dovrà
dare tal denunzia dal notaio, o da altro deputato ai magistrati, con
tenere esatta nota di tutte le case o sospette o infette, siccome
ancora delle espurgate. Gioverà a motivo di maggior cautela, oltre ai
contrassegnati da buboni, carboni e petecchie, creder tutti morti di
peste coloro che nello spazio di soli sette giorni fossero mancati di
vita. Parimente fu proibito ai beccamorti il seppellire alcun cadavero
senza partecipazione del deputato. Così è da vietare a tutti l’esporre
fuori di casa morto o malato alcuno, se non per consegnarlo ai ministri
della sanità. Non potendosi poi commetter più grave nè più pericoloso
errore quanto è quello del seppellire nelle sepolture ordinarie e ne’
cimiteri delle chiese, e massimamente entro le città, i cadaveri degli
appestati, perchè ciò fomenta il male, e si crede che possa facilmente
ravvivarlo anche dopo molti anni; quindi è che tali cadaveri debbono
assolutamente seppellirsi fuori della città in luogo destinato, in
fosse profonde e con gran terra addosso, coprendoli prima di calce
viva, che presto li consumi e impedisca le perniciose esalazioni, e
con editto che non si muova più quel terreno. Ivi stieno guastatori
a posta per cavare le fosse. Nel contagio della nostra città l’anno
1630 fu permessa la sepoltura in chiesa e ne’ cimiteri, quando colla
fede giurata di medico approvato costava che alcuno fosse morto senza
peste. Tuttavia essendo nati troppi assurdi e frodi da tal permissione,
fu dipoi generalmente proibito il seppellire alcuno, fosse sospetto o
non sospetto, eccettochè nel luogo destinato fuori della città. Così
dee farsi in altre simili congiunture, e non permettere pompa alcuna
di funerali in que’ tempi; anzi si dee consigliare e desiderare che,
per non somministrare maggior pascolo alle rapine de’ beccamorti,
i cadaveri vengano loro consegnati se non ignudi, almeno quasi
ignudi, per quanto comporta la decenza; e certo non mai con addobbi e
superfluità, che servono solo di spoglie ai suddetti beccamorti per
appestar poi altre persone, e aumentare o far ripullulare il male.
I ricchi si possono portare in cassa da quattro serventi esposti che
avvisino, occorrendo, le persone a ritirarsi. I poveri si conducano
in carro coperto. E prima della notte sieno asportati i cadaveri, per
vedere che i beccamorti non asportino robe rubate. Che se per poca
avvertenza alcun morto con segni di mal contagioso fosse stato sepolto
in chiesa, quelle sepolture si debbono ben murare, o impiombare, e
non aprirsi mai più senza licenza de’ magistrati, o senza lo spurgo
che accenneremo. Sopra ciò fu fatto editto in Roma ed anche in Modena
ne’ contagi passati. E perciocchè alcuni per non esser condotti a’
lazzeretti, o non veder ammontati e seppelliti i suoi alla rinfusa
col volgo, occultano le malattie della lor casa, e giungono sino
a seppellire scioccamente nelle proprie case i cadaveri de’ loro
congiunti: si tenga nota distinta dal deputato d’ogni contrada di
quanti si trovino in cadauna casa, per potere in tempo e forma propria
riscontrare il numero d’essi, con farli venire alle porte o finestre,
e così schivar que’ pericoli e quelle frodi che possono tornare in
gravissimo danno non meno di quelle famiglie che del pubblico. In
Palermo ogni mattina i deputati riconoscevano se alcuno delle famiglie
loro assegnate mancava, o era infermo, o mostrava cattiva ciera,
facendo venir cadauno alle porte.

Fu ordinato in Roma che nessuno potesse entrare, nè fermarsi di notte
in casa di meretrici. Che gli osti non potessero dar da mangiare a
più di quattro persone per tavola, sfuggendo ogni ridotto, bagordo e
raunanza. Che non fosse permesso il visitar malati, eccettochè a quei
della sua famiglia, a’ parochi, confessori, medici, cerusici, speziali,
notai, testimonj, mammane ed uffiziali della sanità. Gli altri senza
licenza non poteano. Ma affinchè il commercio di queste persone
eccettuate con gli appestati non pregiudichi al resto dei sani, è da
lodare e seguire il metodo poscia ivi prescritto; cioè furono deputati
e salariati dal pubblico due medici e altrettanti cerusici con titolo
di sospetti per visitar la gente sospetta, e due altri medici con
titolo di brutti (si possono chiamare esposti) per visitar le persone
infette. Nella stessa maniera i confessori erano distinti parte in
sospetti e parte in brutti, o sia esposti; nessuno di questi medici,
chirurghi e confessori potea andare alla visita delle persone sane, nè
conversar con esso loro, nè entrare in casa che non fosse già stata
dichiarata brutta (cioè infetta) ovvero sospetta, nè uscir mai fuori
della propria casa senza portare in mano una bacchetta lunga almeno sei
palmi e scoperta, con una crocetta di sopra, affinchè potesse vedersi
da tutti e fuggirsi la loro pratica, portando di più gli esposti un
abito di taffettà o di tela incerata. Furono ancora destinate due
mammane, o sia levatrici, per le donne gravide sospette, con indicare
nel pubblico editto i nomi e la casa d’esse mammane e de’ medici e
cerusici deputati.

Ivi ancora fu fatto editto che gli speziali e cerusici, soliti a
servire infermi, quando fossero chiamati da essi dovessero somministrar
loro medicamenti, cavar sangue, ecc., purchè essi infermi avessero
attestato dal medico di non essere aggravati da mal contagioso.
Che se per disavventura il male si fosse scoperto tale, doveano i
suddetti cerusici e speziali star rinserrati solamente dieci giorni,
dopo i quali, ritrovandosi goder buona salute, erano liberi. Del
pari fu ordinato che nessuno potesse mutar casa senza licenza de’
soprintendenti; che nessuno ardisse di mutarsi nome; che agli osti e
locandieri non fosse permesso senza licenza de’ magistrati il ricevere
in loro casa malato alcuno; e che niuno, sotto pena della vita, osasse
uscire di qualsivoglia casa serrata per cagione della sanità, siccome
neppur dai lazzeretti, senza averne licenza da’ soprintendenti. E
perciocchè fuggì un ministro de’ lazzeretti e alcun’altra persona,
con pubblico bando e gravi pene fu intimato a’ complici ed informati
il denunziar tali fuggitivi. Fu parimente proibito che niuno si
fermasse nelle strade uscendo dalle case o botteghe sue per unirsi ove
comparissero i ministri de’ lazzeretti, o dove fossero condotte via
persone sospette o infette, con ordine ai ministri che camminassero
per mezzo alle strade coi loro contrassegni, ammonendo le genti a star
lontane da essi.

I fanciulli sino all’età di quindici anni almeno (altri dicono sino a’
dieci, ma par troppo poco), siccome quelli che più innavvertentemente
conversano con tutti e son più facili pel tenero lor temperamento ad
infettarsi e ad infettare, perciò per consiglio de’ medici e di tutti
i professori, si debbono confinar nelle case loro, senza permettere
loro l’uscirne. Altrettanto (benchè non sia necessario un egual
rigore) si dee ordinar per le donne, anch’esse per la lor complessione
sottoposte ad una facile infezione, avvertendo però, che alle povere
donne e famiglie, alle quali per non potere uscir fuori mancasse
il mantenimento, gliel’ha da provvedere il pubblico, o per via d’un
sussidio giornaliere o con somministrar loro da lavorare: altrimenti
sarebbe lo stesso il morire di fame, che di contagio. In alcune città,
e spezialmente in Modena, fu fatto il suddetto regolamento, obbligando
a pene pecuniarie i padri, i mariti, i fratelli e i padroni di chi
contravveniva. Solamente fu dai nostri conservatori saggiamente
permesso che per ogni famiglia mancante d’uomini, una donna avesse
libertà d’uscire di casa per provvedersi del bisognevole a quell’ora
che sonava una campana determinata, e potesse star fuori, finattantochè
essa campana cominciasse a sonare i botti o tocchi, nel qual tempo
aveano esse donne da ritirarsi prima che finissero i botti. Furono
eccettuate da tal proclama quelle donne e que’ fanciulli che poteano
andare in carrozza propria, purchè non fossero di case sequestrate;
come ancora le contadine ed ortolane, portanti vettovaglie e frutta,
con ordine però che non entrassero in casa alcuna e portando a’ padroni
qualche cosa, la ponessero sulla porta della casa senza entrar dentro.
Furono altresì eccettuati i fanciulli contadini che venissero avanti ai
buoi e non altrimenti; e le rivenderuole d’erbe e frutta non abitanti
in case sospette e non inferme, e le levatrici, alle quali era lecito
l’andare a levare i parti, ma non ad altro nè per altro. Sarebbe
sommamente utile il provvedere ancora a que’ gravi disordini che
possono cagionare, molto più in questi che negli altri tempi, le donne
da partito o pubbliche meretrici. E per conto dei servitori e delle
serve, avvertano i padroni, che chi ha il comodo, li faccia dormire
cadauno in un letto da per sè solo, acciocchè portato il male da un
solo non pregiudichi a tutti.

Emanò anche editto in Modena che nessuno ammalato, o di pestilenza o
di qualsivoglia altro male, potesse camminare per le città, siccome
nè pure introdursi in essa città o mutar casa, senza licenza del
magistrato. Sarebbe anche necessario il far girare di notte tempo la
pattuglia con alcuno della sanità, sì per impedire i furti e delitti,
e sì per sorprendere chi violasse i sequestri e i trasporti furtivi
di robe infette, con contravvenire a’ premurosi editti che saranno
stati fatti e si dovranno rigorosamente far eseguire, dipendendo in
gran parte da questi due riguardi o la continuazione o l’aumento
irreparabile del contagio. Gioverebbe ancora serrar con barricate
tutte le contrade o almen le più infette, e custodirle poi di notte,
per vietare i suddetti disordini, con libertà a chi fa la guardia
di tirare archibusate a chi furtivamente tentasse la fuga. Ciò fu
saviamente praticato in Palermo per le contrade che avevano tutti
gli abitanti infetti, facendo mutar casa solamente a quei pochi che
non erano peranche colpiti dal male. Si fuggono d’ordinario assai
volentieri i beccamorti, e spezialmente in tempo di peste; contuttociò
fu saggiamente ordinato con pubblica grida, che i medesimi (siccome
gli altri serventi de’ lazzeretti) portassero tutti un abito uniforme,
cioè un camiciotto di tela incerata del medesimo colore, acciocchè
ognuno si tenesse lungi da loro; e, fuori del tempo del loro uffizio,
stessero serrati nelle case loro assegnate in sito men geloso, con
sola permissione di andare ad un’osteria destinata per loro soli, i cui
abitanti non poteano aver commercio con altri. E per animar le persone
basse a questo abborrito bensì, ma molto caritativo impiego, si tassò
la lor mercede a sette lire (queste presso a poco importavano allora
dieci paoli) per ciascun morto che portavano a seppellire in casse; e
per gli altri fuori delle casse lire cinque; e per gli poveri l’uffizio
della sanità pagava loro quaranta soldi per ciascuno. Nessuno poteva
esercitar la funzione di beccamorto senza licenza ed approvazione
del magistrato. Tutto saggiamente. E si avverta che per quanto si può
s’hanno a scegliere persone dabbene per tale incumbenza. Ma perchè non
è molto facile il trovarne delle sì fatte, ma sì bene è facilissimo
che assumano tal carico uomini immodesti e disordinati, e quasi tutti
con disegno e speranza di far bottino, non mancando avaroni che contra
tutti i divieti cercano di profittare colla compra di tali robe, si
procuri almeno di dar loro uno o più capi timorati di Dio e di maggior
prudenza e disinteresse che li tengano in freno e possano gastigarli
o farli gastigare, occorrendo, ancora col più grave de’ gastighi,
in caso di disubbidienza; invigilando sopra tutto che non rubino con
discapito dell’anima loro, e con accrescere mercè delle robe infette il
pericolo a sè stessi o ad altri di perire un giorno. Questo disordine
è quasi irremediabile, e si provò anche in Venezia, dove pur tali
persone nascono eredi della professione; ma può rimediarvi non poco la
vigilanza dei magistrati, mettendo spie, diffidenze e uomini dabbene
fra loro. È stato osservato che alquanto dopo fornita la peste mancano
di vita non pochi di costoro che s’erano preservati in mezzo alla
peste. Per altro la sperienza fa vedere in que’ tempi che i beccamorti,
benchè tutto dì maneggino con graffi, uncini e bene spesso colle mani
cadaveri appestati, pure non ne sogliono restar essi infettati, o sia
perchè siccome ad altri veleni si può a poco a poco avvezzare un uomo,
così anch’eglino s’accostumino a quello della peste; o sia (e questo
sembra più verisimile) che s’imbattano a far quel mestiere persone di
temperamento opposto alla forza di questi spiriti velenosi e incapace
di riceverli, siccome d’ordinario sono incapaci di ricever la medesima
peste tanti quadrupedi ed uccelli, quantunque praticanti con uomini
appestati. Non si vuol però tacere che sul principio delle pestilenze
molti de’ beccamorti sogliono sloggiare anch’essi dal mondo, e restar
preda della loro preda; e così, non subito, ma a poco a poco viene a
formarsi l’assemblea di quei che restano vivi, perchè resistenti al
male e che seppelliscono tanti senza cader eglino mai nella fossa. Per
altro in Roma fu osservato che nessuno di quelli che toccavano corpi
morti, quando erano nudi, fu assalito dalla peste: il che se fosse
vero, darebbe valore all’opinione di chi crede che nei cadaveri, quando
son freddi, sieno mancati ed estinti i semi dell’infezione, e che
solamente dai corpi caldi si possano tramandare gli effluvj velenosi.
Ma queste sono sperienze dubbiose, e la prudenza insegna che non se
ne ha molto a fidare se non in caso di necessità. Ogni quartiere avrà
i suoi beccamorti assegnati, che o la mattina per tempo o la sera
sul tardi raccoglieranno i cadaveri per trasportarli sulle carrette
al luogo destinato, dando segno alle case o con la voce o in altra
forma. In caso di gran necessità si potrà dar questo impiego a chi già
fosse stato condannato alla morte o alla galera, s’eglino il vorranno,
badando però che non sieno rei di ladrerie, nè di coscienza troppo
perduta. Così può ancora farsi negozio, affinchè i poveri si guadagnino
il vitto o con tale impiego o con servire ai lazzeretti.

Essendosi poi osservato in Modena che riusciva di molto pregiudizio il
commercio de’ cittadini coi contadini, comunicando disavvedutamente gli
uni agli altri il mal contagioso, fu con pubblico proclama ordinato
che essi contadini, venendo alla città, non potessero praticare, nè
commerciare co’ cittadini, nè entrar nelle case d’essi, fuorchè ne’
cortili e nelle cantine, in occasione d’introdurvi le uve ed altre
entrate della campagna. Anzi scorgendosi quasi estinto nella città
il morbo da cui non erano alcune ville peranche affatto immuni, fu
pubblicato nuovo editto, in cui si proibiva ai contadini l’entrare in
modo alcuno in città con fedi di sanità o senza. Nulladimeno conducendo
vettovaglie, si permetteva loro l’ingresso, purchè dirittamente
andassero a varj luoghi destinati nella città per venderle, e non
uscissero da questi luoghi e serragli. E chi conduceva carri con legna,
fieno, vettovaglie e simili rendite della campagna, dovea condurle
a dirittura ove erano destinate, senza però entrar nelle case, e con
iscaricarle nella strada. Ma perchè i cittadini o per inavvertenza,
o per malizia, poteano trattare e commerciar con costoro nel loro
passaggio, anche a ciò sarebbe stato bene il trovar ripiego. Non ben
sopito il male nella nostra città, fu ordinato che i cittadini, i
quali andavano e tornavano di villa, non avessero più questa libertà,
ma in termine di otto giorni, se voleano, ritornassero entro la città,
avvisando però due giorni prima di venire, acciocchè si prendessero
le dovute informazioni se si potevano ammettere. Non venendo entro
quel termine non erano più ammessi: e ciò per essersi osservato molto
pregiudiziale l’andar loro e venire dopo aver praticato coi contadini
infetti.

Si stese la cura e lo zelo dei conservatori della nostra città al buon
ordine delle ville del distretto in que’ fieri tempi. Pertanto con
pubblica grida furono destinati per ogni villa uno o due deputati de’
meglio stanti e più abili, i quali fossero tenuti ad assister ivi, e
far eseguire i seguenti ordini della sanità: cioè, che avessero tutti
tanto contadini come cittadini ivi abitanti, da denunziare i morti
e gl’infermi a persona destinata; che non si facesse ivi trasporto o
maneggio di mobili infetti o sospetti; si provvedesse ai miserabili;
si destinassero beccamorti coi dovuti riguardi; quei d’una villa non
andassero a messa in altra villa; non potessero, nè anche per condurre
vettovaglia alla città, partirsi dalla lor villa, senza licenza del
deputato e fede del curato attestante la sanità, il quale andasse ben
circospetto in farla; si vietassero conviti, giuochi, trebbi, adunanze,
ecc; dovesse ogni massaro o sostituto ciascuna domenica far leggere
alla chiesa i nomi e i cognomi dei morti per contagio, e de’ vivi
sospetti e di chi avesse trattato con esso loro a fine di fuggirne il
commercio. Con questi ed altri ordini si procurò soccorso e difesa
anche al contado. E qui si ricordino i conservatori e le terre e le
ville d’aver l’occhio attentissimo sopra le donne che vanno a trar la
seta, chiamate da noi calderane. Da queste, che finite le lor faccende,
vogliono a tutti i patti tornarsene alle lor case, fu nel 1630
disseminata la peste in varie parti delle montagne di Modena che dianzi
godeano buona salute. Dai vignolesi, che continuamente battevano i
propri confini, ne furono sorprese due, e impedito loro fortunatamente
il passaggio, perchè da lì a poco si scopersero infette e lasciarono
poi di vivere sotto una quercia, ma senza nocumento di quel paese.



CAPO VII.

  _Commercio co’ forestieri interdetto. Regole per preservarsi illeso
    nelle terre e città appestate. Cautele del vestire e del praticar
    con infetti. Prove che si può facilmente preservare, tratte dalla
    sperienza. Necessità e utilità dei coraggio in tali casi._


Altri utili regolamenti furono fatti e pubblicati dalla nostra città,
soliti e comuni anche alle altre, per evitare sul principio e nel
proseguimento della peste, il commercio co’ forestieri. In tempi tali,
venendo persone da luogo infetto o sospetto, hanno i deputati ai passi
e confini, senza nè pure riconoscer le fedi d’esse, da rimandarle;
o se già sono entrate, gastigarle o metterle in contumacia, cioè
costringerle alla quarantena o in lazzeretti o in capanne alla campagna
o in case destinate a posta, facendo loro buona guardia. Per altro nei
timori del male si vieta l’ingresso a persone tali sotto pena della
vita; e alcuni magistrati che conoscono necessario il rigore, talvolta
hanno fatto eseguire tal pena per terrore degli altri. Il permutarla
e diminuirla secondo la maggiore o minor frode loro e più o men grave
pericolo dello stato, si rimette alla prudenza e carità di chi comanda.
Venendo poi viandanti da luoghi non infetti nè sospetti, i deputati non
li lasceranno avvicinare se non quanto possano udirli e vederli, finchè
sia riconosciuta la fede legittima della sanità. Nel ricever le fedi,
dovranno i suddetti deputati avere in mano una canna (o altro simile
strumento) e in capo ad essa pigliarle, e prima che le tocchino farle
passar sopra il fuoco, quanto basti per purgarle. Venendo seco lettere,
non le lascino passare, senza prima abbronzarle, purchè sieno espresse
nelle fedi, e non vengano da luoghi sospetti, dovendosi in dubbio
chiarire. Dee pure provvedersi ai corrieri, postiglioni e staffette,
affinchè si regolino anch’essi colle leggi degli altri, e duri, finchè
si può, il commercio delle lettere, ma senza pregiudizio della sanità.
L’aver talvolta disputato con gran freddezza l’ingresso a certe persone
o mercatanzie dubbiose, ha dato quasi miracolosamente assai tempo di
scoprire ch’esse portavano seco la peste. Ferrara preservata ne vide
alcuni esempi. Dee parimente provvedersi ai disordini che potrebbono
recare i birri in portarsi a far le loro esecuzioni entro o fuori della
città.

Sotto pena della galera e di 200 scudi, ed anche maggiore, niuno,
sia forestiero, sia del paese, venendo da territorio straniero non
bandito nè sospeso, possa indirettamente o furtivamente, e fuorchè
per le strade destinate, entrar nello stato o distretto, e nè pure
toccarne una parte, senza aver prima presentate ai confini e passi
le sue fedi ai deputati. Chi poi entrasse furtivamente, venendo da
paese infetto o sospetto, benchè con fede di sanità, è senz’altro già
incorso nelle pene dei bandi. Trovando i contadini alcun forestiero
fuori delle strade maestre, saranno obbligati, sotto pena afflittiva
ed altre, ad interrogarlo ove sia indirizzato il suo viaggio; e
conoscendo o dubitando che si sia divertito dalla diritta strada, o
pure solamente scorgendo che non abbia fede di sanità, saran tenuti
a fermarlo, ovvero, occorrendo, dovranno levargli dietro romore e
condurlo immediatamente all’ufficio della sanità del passo più vicino,
consegnandolo all’ufiziale. È anche da farsi rigorosissimo editto che
nessuno ardisca di uscire del territorio per andare in luoghi sospesi
o banditi per esca di guadagno o per altro rispetto con pensiero di
ritornarsene poi segretamente nello stato.

Notizie, triviali forse per alcuni, ma certo ignote e necessarie ai
più del popolo, per non essersi eglino mai trovati in sì terribili
assedj, sono in buona parte le fin qui esposte. Non si può dire,
nè raccomandare abbastanza cosa importi e quanto giovi in questi
cimenti il guardarsi dal commercio altrui, e insin delle persone che
sembrano più sane e più guardinghe. Il cardinal Gastaldi, che fu uno
de’ principali regolatori di Roma nella peste del 1656, scrive che di
tanti rimedi che si proponevano, non si trovò mai il meglio di quello
di proibire severamente il commercio fra le persone, imperocchè troppo
disavvedutamente si riceve e si comunica il contagio pestilenziale.
Magnopere, dic’egli, semper institi, ut severe commercia omnia
interdicerentur, experientia edoctus. Più delle amicizie giovano in
tempo di contagio le nemicizie, ed è meglio trovarsi allora in prigione
che poter liberamente vagare qua e là. In fatti si osservò nella peste
suddetta di Roma e in quella di Modena del 1630 che non penetrò il male
in alcuni conventi di religiosi, e molto meno in quei delle monache;
e se cacciossi pure in due o tre, non vi fece verun progresso, ma si
soffocò con gran felicità.

Sicchè (e sel ricordino bene i lettori) il morir di peste, d’ordinario
non viene dal trovarsi in mezzo alla peste, e in una città o terra
appestata, ma dal non sapere o dal non poter ivi schivare o ben
regolare il commercio colle persone. E ciò mi fa scala ad un altro
punto di grandissima importanza, che desidero ben impresso in mente
di tutti. Dico pertanto che in tempi di contagio chiunque non può
ritirarsi dalla città ed è necessitato a fermarsi ivi, sia perchè non
ha ricovero altrove, o perchè gl’impieghi, uffizj ed interessi suoi
l’obbligano a non partirsene: dee farsi animo e concepire un gran
coraggio, persuadendosi che con tutto lo strepito della pestilenza egli
ne potrà facilmente campare, e ne camperà coll’aiuto del Signore Iddio,
in cui dee riporre la sua maggior fiducia, se userà quelle cautele e
quei preservativi che s’andranno divisando.

E che ciò sia vero, non c’è il migliore argomento per provarlo che
l’esperienza stessa. Egli è notissimo che chi allora può tenersi
chiuso nelle sue case, fuggendo il commercio dello persone pericolose,
e tenendo ben serrate e assicurate le porte sue, per l’ordinario non
contrae la peste, purchè non fosse appestata l’aria tutta di quella
terra o città (il che quasi mai non avviene), e purchè l’abitazione sua
non sia così stretta o mal posta, che per necessità le si comunichi
l’aria infetta delle camere abitate da infermi di mal contagioso. Lo
stesso che accade ai monisteri, succede per gli abitanti delle case
private, ogni qual volta queste case si facciano diventare come tanti
monisteri di religiose. Nulladimeno perchè la necessità costringe
anche la maggior parte di coloro che stanno volontariamente rinchiusi
a provvedersi di cibi e d’altre cose che loro mancano, basta che
usino alcune circospezioni praticate allora da tutti i saggi con buon
successo. Voglio dire che stando le persone rinserrate nelle case
senza uscirne, possono elle provvedersi di tutto, calando corde con
una cesta o canestro o altro simile ricettacolo dalle finestre, e
tirando su tanto i cibi quanto i medicamenti, utensili ed ogni altra
cosa che loro occorra. Si fa star fuori di casa un servo che provvegga
di tutto; che se non si ha tal comodità, non mancano persone che per
pochi soldi vanno provvedendo e portando giornalmente i cibi e le
altre cose a chi ne ha bisogno; e mancato un provveditore estraneo, se
ne trova immediatamente un altro, perciocchè o il magistrato deputa
questi vivandieri, o suppliscono i men comodi e bisognosi che allora
sono molti, ingegnandosi ciascuno di vivere alle spese de’ cittadini
comodi. Quali robe possano riceversi e maneggiarsi senza sospetto,
e come s’abbia ad assicurar le altre, il vedremo fra poco. Sicchè il
primo gran preservativo per chi può è il fuggire; e il secondo per chi
non può o non dee fuggire, si è lo starsi ritirato in casa e lontano
dall’altrui commercio.

C’è di più: non solamente chi si chiude fra le mura della sua casa,
ma eziandio chi o per bisogno, o per uffizio ha da uscire fuori di
casa e aver qualche commercio con gli altri, potrà farlo e dovrà
farlo intrepidamente, purchè lo faccia colle cautele che si andranno
accennando e che possono molto ben conservarlo illeso, anche se
tratterà ne’ lazzeretti e con persone infette o sospette, come accade
a molti uffiziali, cerusici, ecc. Sarebbe bene allora per tutti quei
che escono di casa, ma certo sarà specialmente bene, anzi necessario
per chi dee praticar gente ammorbata, il portare una sopravveste di
tela incerata, oppure di marrocchino o d’altro cuoio sottile (queste si
credono migliori di tutte), ovvero di taffettà o d’altra manifattura
di seta, perchè alle vesti di lana troppo facilmente s’attaccano gli
spiriti velenosi del morbo, ma non già s’attaccano se non difficilmente
(per quanto vien creduto) alle incerate e a’ marrocchini, e non
si possono ritener lungo tempo dalla seta spiegata. Avvertasi però
che le vesti di seta non debbono esser fatte con lusso, nè con gran
cannoni e piegature, ma hanno da farsi povere e piuttosto corte,
avendo lasciato scritto il Mercuriale che alcuni medici nella peste
di Venezia de’ suoi dì si tirarono addosso la rovina per aver nelle
visite degl’infetti portate vesti lunghe e larghe, e delle pelliccie,
secondo l’uso d’allora. Chi non ha seta, nè altro di meglio, usi almeno
lino o canape piuttosto che lana. Alcuni hanno talvolta usato di coprir
anche la faccia con una maschera, o bautta, a cui mettevano due occhi
di cristallo; ma non è necessaria tanta scrupolosità. Per chi non
potesse trovar incerate, nè saperne fare, stimo bene insegnarne loro la
ricetta. Si fa bollire a fuoco moderato per quattro o cinque ore olio
di noce, o di semenza di lino, e quando non s’abbia altro, d’uliva,
mettendovi dentro per ogni libbra d’olio un’oncia di litargirio e una
dramma di mastice, e dimenandolo di quando in quando con una spatola.
Raffreddato che sia l’olio, si dà con pennello una mano d’esso al
taffettà colorito che si vuol incerare, facendolo stare ben tirato in
telaio, e mettendolo poi al sole per due o tre giorni occorrendo, tanto
che sia bene asciugato. Quindi se gli dà un’altra mano d’esso olio,
e si torna a far asciugare, con che si avrà senza cera il taffettà
incerato, pieghevole e maneggiabile. Nella stessa guisa si potranno
incerare altre tele sottili di lino. Per le tele grosse si mescola
coll’olio terra d’ombra bea sottilizzata e passata per setaccio, di
quel colore che si vuole. Ma per queste usano di mettere più litargirio
nell’olio, cioè sino a tre once per libbra d’olio, chiudendolo in una
pezza, la quale si fa stare immersa e sospesa nel suddetto olio quando
bolle.

Appresso convien adoperare profumi, spugne inzuppate in liquori, ed
altri preservativi de’ quali si andrà parlando di mano in mano. Si
può anche passar per le contrade e far altre faccende per la città,
ma badando di non toccar robe sospette e di non accostarsi a gente
infetta o dubbiosa, secondo i segni ch’essa ha da portare; e sarà
sempre maggior sicurezza il fidarsi poco di tutti. Dovendo parlare a
tal gente, se le parli in lontananza; e pel resto degli uomini sarà
anche buon consiglio il tenersi in qualche distanza da loro, e non
accostarsi molto alle medesime senza necessità. Così i medici possono
parlare agl’infermi con farli venire alle porte o alle finestre,
intendendo lo stato loro e prescrivendo loro opportuni rimedj. Che
se pur vogliono o debbono accostarsi e toccare il polso agl’infetti
di morbo pestilenziale, hanno da toccarli colle dita prima bagnate
nell’aceto, che porteran sempre seco, e con tener la faccia rivolta
all’indietro guardarsi di non ricevere il fiato dell’infermo, usando
anche un ventaglio, con cui spingano l’aria verso la persona malata,
siccome ancora osservando che non ispiri vento dalla parte d’essa
verso il sano. Altrettanto avran cura di fare i cerusici, uffiziali e
serventi. Nè entrino in camera ove sieno infetti, se prima le finestre
non saranno state aperte per buono spazio di tempo, e rinnovata e
rettificata l’aria d’essa stanza con qualche profumo. Oltre a ciò
sogliono alcuni chiamati a medicar infetti turarsi per quanto possono
il naso e la bocca, e tutti poi si difendono il respiro (e questo
basta) con la spugna inzuppata in aceto, anzi alcuni si coprono quasi
tutto il volto con un panno bianco inzuppato del medesimo liquore.

Con queste diligenze e con gli altri preservativi ed ordini che
accennerò intorno alla dieta, egli è certo che prudentemente si può
praticare ancora con gli abitanti d’una città o terra infetta senza
timore e con virile coraggio. In fatti l’esperienza (torno a dirlo)
troppe volte ha fatto vedere essere convenevole e fondatissimo un tal
coraggio, e potersi facilmente preservare il savio in mezzo alla peste
e nel commercio degli appestati. Nel contagio di Roma dell’anno 1656
il sommo pontefice con assai cardinali stette fermo in città; e di
tanti prelati e nobili che governarono allora quel popolo e tutto dì
cavalcavano per la città, visitavano lazzeretti e faceano tante altre
funzioni, non si sa che alcuno perisse di quel male; e pure entrò
esso anche nella famiglia bassa d’alcuno di loro. Lo stesso avvenne
durante la peste della nostra città nel 1630, e noi sappiamo che
Marsilio Ficino, Filippo Ingrascia, Girolamo Fracastoro, Silvio de le
Boe e tanti altri medici famosi si trovarono in mezzo alle pestilenze,
e coraggiosamente vi assisterono senza riportarne alcun nocumento.
Bernardino Cristini, cognito fra i Minori Osservanti per gli Arcani del
Riverio, ed altre opere di medicina da lui pubblicate, era stato dianzi
medico d’un lazzeretto in Roma nel poco fa mentovato contagio, in cui
nota anche il cardinal Gastaldi che Gregorio Rossi, medico valente,
praticò sempre e curò gli appestati, e non contrasse mai morbo alcuno.
Il Diembrochio, celebre medico, anch’egli senza menoma lesione medicò
infetti e non infetti nella pestilenza di Nimega del 1636 col metodo
che diremo più a basso. Tanti altri medici che scrivono della peste,
furono la maggior parte intrepidi in tempi d’essa, e non lasciarono di
visitar gli appestati.

Non è degno di minor attenzione il sapere che, quantunque talvolta
anche qualche principe sia morto di peste, e sia avvenuta la stessa
disgrazia a dei nobili, deputati allora al governo; tuttavia le persone
nobili e civili d’ordinario si preservano molto bene nelle stesse città
infette, ed esercitano egregiamente i loro uffizj, nè si tengono in
una volontaria prigione. Il potersi eglino nutrire di cibi sani, e
l’abbondare di molti comodi e preservativi, con case larghe, vesti a
posta, e senza necessità o ingordigia di toccar robe infette, serve
loro di un continuo riparo contro il veleno. Se principi e nobili
in tali occasioni mancarono di vita, ciò fu per un ardente zelo di
carità che li fe’ troppo esporre ai pericoli per benefizio del popolo
loro e della lor patria, ovvero perirono essi per poco uso del lor
giudizio, e solamente in città che per la gran popolazione e strettezza
rendevano indomita e stranamente comunicabile la fierezza della peste.
Del resto nell’altre terre e città meno strette e meno abitate, le
persone nobili, civili e comode, purchè savie, sogliono passarla netta:
e ciò costa da troppe esperienze. Contro il povero volgo, e contro
chiunque è costretto allora dal bisogno a non istare in riguardo,
o è lusingato dalla brama d’arricchire, si suole scaricare il furor
del contagio. Osservò il Rondinelli nel contagio di Firenze del 1630
come cosa degna di gran considerazione che essendo in varie case di
gentiluomini entrato il male, portatovi o dalle serve o da’ servitori,
non vi fu esempio che si attaccasse ai padroni, i quali pure erano
stati serviti e maneggiati da chi aveva l’infezione addosso. Anche
nella peste che tre anni sono afflisse cotanto la Polonia, toccò quasi
tutto alla misera plebe il flagello, restando intatta la nobiltà; e
ciò tuttavia si osserva in quella che sì malamente infesta le province
dell’Austria, della Boemia e le circonvicine: il che però non adduco
per bastante esempio agli Italiani, essendo io assai persuaso che in
questi paesi più caldi la peste sia meno discreta, e ch’ella farebbe
strage anche della nobiltà, se questa non usasse più riguardi di
quei che si praticano in Germania. Finalmente è da osservare che in
cadauna peste si trovano persone giovani e vecchie, maschi e femmine,
infermicci e mal nutriti, oppur sani, robusti e nutriti bene che,
quantunque vivano con appestati e tocchino le robe loro, pure non
contraggono la peste a cagione della lor particolar disposizione o
complessione, dotata d’un’occulta attitudine per resistere agli aliti
e spiriti pestilenziali. Perciò si mirano allora tanti beccamorti,
serventi, cerusici ed altri che si mantengono sani ed illesi in mezzo
agli appestati. Sarebbe temerità il fidarsi o far prova di questo senza
necessità; ma posta la necessità, è bene ricordarsi ancora di tale
osservazione. Similmente gioverà il non dimenticarsi che tal sorta
di gente, restando essa illesa dall’infezione, la può poi facilmente
portare ad altri che non si guardano dal loro commercio.

Il perchè torno a dire che chi non può, o non vuol ritirarsi dalle
terre e città infette, dee far coraggio: che si può molto bene anch’ivi
resistere a questo nimico, purchè si mettano in opera gli avvertimenti
e preservativi che ci sono insegnati da maestri di sperienza, e ch’io
ho nella presente opera raccolti. Anzi aggiungerò cosa che parrà strana
ad alcuni, e pure vien insegnata da chiunque tra i medici e politici
ha trattato di questa materia: cioè che lo stesso aver coraggio, e il
vivere allora senza paura, è un potentissimo preservativo contra la
peste. Ci assicurano i medici trovatisi a questo fuoco, essere al sommo
nociva la forte apprensione, e il timore che d’ordinario s’imprime
allora nella maggior parte del popolo, di dover morire e di non poter
fuggir questo colpo e di aver da prendere la peste ad ogni passo.
Così disposti, e mal affetti gli animi e i corpi, troppo facilmente
contraggono allora il mal pestilenziale; e non pochi, anche senza aver
la peste, vengono a morire per paura della medesima peste; laddove
all’incontro tanti altri, benchè tutto dì conversino con appestati,
pure si preservano: frutto del loro coraggio, il quale non teme la
vicinanza di quel male, benchè mostrino, secondo i consigli della
prudenza, di temerlo col non trascurar que’ riguardi e preservativi
che convengono in tali occasioni. Anche i più coraggiosi in guerra van
cauti; altrimenti sarebbono non coraggiosi, ma temerarj ed audaci, e
intanto il loro coraggio suol difendere essi, toccando poi le busse
ordinariamente ai soli paurosi.



CAPO VIII.

  _Come si possa guardare dall’aria infetta. Odori preservativi, e
    varie ricette. Odori sottili e calidi nocivi. Maniere di purgar
    l’aria delle case e delle città._


Passiamo all’_aria_, per mezzo di cui può comunicarsi ai sani l’altrui
malore. Certo è che la respirata dagli appestati, e quella che è
ambiente del corpo loro, può sino alla distanza d’alcuni passi stendere
il suo veleno. Perciò i sani debbono passar lontano, e tenersi lungi
dalla gente infetta e sospetta; e molto più hanno da guardarsi d’entrar
nelle camere, ove sieno o sieno stati infermi di mal contagioso; o
entrandovi, hanno da usar le cautele dette di sopra, e l’altre che
diremo trattando dell’espurgazion delle case. Ma per assicurarsi bene
di non tirar col respiro l’aria infetta, chiunque esce di casa, e molto
più chi ha da praticar con persone pericolose, porterà sempre seco in
un vasetto, bussolotto, o palla una spugna inzuppata di aceto, o pure
porterà pomi artifiziali odoriferi, e o quella o questi andrà odorando
e fiutando, e non li deporrà mai, quando sia vicino a persona infetta o
sospetta e alle robe loro. Da quasi tutti i corpi, anche duri, e molto
più dagli animali, dai vegetabili, dai minerali, ecc., escono continui
effluvj che formano un’atmosfera o circonferenza intorno a quel corpo;
e però quei di gagliardo e sano odore diffondendosi all’intorno
della persona, la difendono dai pestiferi, o tenendoli lontani o
correggendoli.

L’aceto solo, purchè fatto di buon vino, è bastevole preservativo.
Tuttavia chi può, gli accrescerà il vigore nella seguente forma.


_Aceto imperiale._

_Recipe radici d’angelica, d’imperatoria, di garofoli ana_ (cioè
parti eguali, o sia di cadauna) _dramme due. Soppistale leggiermente,
e mettile in un vaso di grandezza mediocre, dove sia aceto ottimo e
bianco se fia possibile. Chiudi bene il vaso, e agitalo, sbattendolo
molte e molte volte, acciocchè gl’ingredienti si mescolino bene.
Lascia il tutto in infusione per una notte sopra le ceneri calde. Di
poi conservalo per gli tempi di bisogno, inzuppandone una spugna da
portarsi in mano serrata nella palla, per gli buchi della quale ne
tirerai spesse volte l’odore. Oltre a ciò potrai ancora con lo stesso
aceto ungere le narici, i polsi delle tempia e delle mani._


_Pomo o palla odorifera che preserva dalla peste._

℞. _Polvere di garofoli, cannella, noci moscate ana mez. onc., storace,
bengioino ana dram. 2, maggiorana, menta, salvia, ana dram. 1. Si
pongano in acqua rosa, ove prima sia dissoluta gomma dragante. Se
vorrai, potrai aggiungervi alquanto di muschio o di zibetto, e con
questo formerai un pomo da portare in mano per odorarlo._

Avverto però qui, che per parere dei più accreditati medici servono
poco, e fors’anche potrebbono nuocere in tempi di peste gli odori del
muschio, dello zibetto ed altri simili di qualità, per così dire,
dilatante, lussuriosa e offensiva del capo, siccome troppo sottili
e calidi. L’ambra grisa dovrebbe entrare in questa classe; ma veggo
molti commendarne l’uso in varie guise ne’ tempi di peste, e però
non mi arrischio a condannare i pomi appellati d’ambra. All’incontro
sono di un mirabil aiuto gli altri odori, per dir così, restringenti,
freddi e confortativi che andrò accennando. Assaissimo in primo luogo
è da stimarsi la canfora, usandola allora o per l’odore portandone
in una palla bucata, o nei medicamenti. Alcuni se ne fidano più
che dell’aceto. Io non direi tanto, perchè l’aceto è il re degli
odori preservativi in tempo di contagio; ma dirò bene che la canfora
anch’essa vien concordemente da tutti i migliori autori commendata
assaissimo, siccome uno dei più potenti preservativi; e perciò si
troverà qui consigliata in molte altre guise, ma coi riguardi che
dirò a suo luogo. La comunità di Ferrara fa manipolar certe palle
odorose di mistura particolare che son credute molto giovevoli. Ma io
son d’avviso che ogni palla, purchè di gagliardo e sano odore, possa
produrre il medesimo effetto; perciocchè inclino a credere che non dal
semplice contatto delle robe, per chi è sano di cute, ma dal respiro
del fiato per cui s’introducono i corpicciuoli pestilenziali nel corpo,
soglia sempre, o per lo più venire la comunicazion della peste, e però
qualunque odor grave e vigoroso che si adoperi, sia bastevole a tener
lontani o a correggere gli effluvj pestilenziali.

Vogliono altri che mirabilmente serva da odorare, da tener in mano, e
da ungere le narici quest’altra composizione.


_Palla odorifera oliata._

℞. _Olio di carabe fatto per distillazione parti due, olio di noce
moscata fatto per espressione parte una, cera bianca tanta che possa
tenere in corpo questi olj. Poi liquefà la cera, scalda gli olj, il
tutto separatamente. Mescola dipoi insieme, lascia raffreddare, e
formane palla, che o porterai in mano, o terrai chiusa in un vasetto
per andarla odorando._

Altri pomi o palle preservative dalla peste, da portarsi in mano per
odorarle spesso, ed anche in seno, si possono formare delle seguenti
cose o di parte d’esse ben polverizzate e passate per setaccio, e
impastate con gomma arabica, o dragante con olio di spica, o con
acqua rosa, o altro liquore; _Rose rosse, sandali bianchi e rossi,
legno aloè, cinnamomo, macis, canfora, noce moscata, seme e scorze
di cedro, storace, calaminta, ladano, fiori di nenufari, spodio,
basilico, maggiorana, cubebe, carabe, mastice, calamo aromatico, mirra,
bengioino, radici di valeriana, di tormentilla, dittamo, foglie di
ruta, trementina bislavata,_ ecc.

Per tutte le persone e per tutti i tempi servirà l’avere una palla
rotonda o come ovata, da tenersi comodamente in mano, fatta d’argento
o d’avorio o di stagno o di cipresso, lauro, ginepro o d’altro legno,
se si può odoroso, vota di dentro e perforata nella parte di sopra, che
possa aprirsi e serrarsi, entro cui si mette ordinariamente un pezzetto
di spugna nuova inzuppata in acqua rosa, malvagía, e buon aceto rosato
o violato, o di ruta. Una tal palla è utile a tutti, e sbattendola alle
volte sopra la palma delle mani, si possono bagnare i polsi. Altri vi
aggiungono alcune delle polveri odorifere dette di sopra; o aggiustano
l’aceto con ruta ed angelica, aggiungendovi tre grani di canfora; o
pure pigliando la ruta fresca e agitandola con aceto, mentre si pesta
nel mortajo, la pongono entro la palla. Chi non avesse palla, potrà
tenere composizioni odorose fasciate dentro zendado, o tela di lino
rara. E chi non potesse far altro, porti seco mazzetti di fiori ed erbe
odorifere, come ruta, melissa, maggiorana, menta, salvia, absintio,
origano, rosmarino, fiori d’arancio, di cedro, ninfea, basilico, timo,
appio, aneto, foglie di alloro, cipresso, aranci, limoni, cotogni,
ecc. Di queste cose ancora gioverà il tenerne nelle stanze. Benchè
l’aceto rosato, o di ruta, sia di miglior perfezione e maggiore
efficacia, tuttavia il semplice aceto, purchè fatto di vin generoso,
è bastevole preservativo; e i poveri non cerchino altro, nè credano
che le composizioni sieno sempre più utili perchè composte di più
ingredienti. Angelo Sala prescrive con assaissime robe la ricetta per
comporre un aceto bezoartico, tenuto da lui per mirabile in resistere
all’infezione, con andarlo odorando. Insegna ancora un balsamo
bezoartico, a cui attribuisce la medesima efficacia, coll’ungerne
di quando in quando le nari, le tempia e i polsi. Io lasciando tali
composizioni inventate per gli ricchi, riferirò solamente la ricetta
prescritta da lui di un


_Aceto preservativo per gli poveri._

℞. _Grani di ginepro freschi, absintio, ruta secca ana once 4. Incenso,
mirra, ana once 2. Si taglino i grani di ginepro coll’erbe minutamente,
e grossamente si polverizzi il resto. S’infonda tutto in due misure
d’ottimo aceto, entro d’un vaso ben serrato con sughero. Si ponga in
luogo caldo, o in un cantone presso il fuoco, di modo che tal materia
stia calda per due o tre giorni. Poi si sprema e si conservi per
valersene ad odorarla._

Per tutti poi potrà servire quest’altra facile composizione.


_Aceto rosato preservativo._

℞. _Aceto rosato, acqua rosa e vin bianco ana, cioè parti eguali, e
ponvi dentro carlina, genziana, radice di ruta capraria, detta giarga,
manipolo, cioè pugno uno, scorze di cedro, e un poco di zedoaria. Fa
bollire alquanto e stare in infusione per 6 ore; poi cola e riponi in
vaso. Di questo alle occorrenze bevi spesso una gocciola, e spesso
bagnati le mani e il viso, e alcuna volta con la spugna tutta la
persona._

Egli è necessario difendersi il corpo, o per dir meglio il respiro, con
questi ed altri odori dall’aria pericolosa ne’ tempi di peste, e sarà
ancora molto giovevole e necessario il procurar la pulizia e purgar
l’aria medesima nelle proprie abitazioni. Poco prima del tramontar del
sole per parere di tutti egli è necessario chiuder le finestre, e non
aprirle se non levato il sole; avvertendo ancora, che passando cadaveri
per le strade, o potendo venir cattiva aria dalle vicine camere o
case, ove sieno infetti, bisogna custodirsi bene con tener chiuse
allora le finestre e gli usci pericolosi. Quindi si debbono profumar
le stanze con solfo, pece, incenso, mirra, ed altri simili odori sani,
benchè talvolta spiacevoli, o pure con far ivi bollire aceto, in cui
sia infusa canfora, garofoli, scorze di cedri, aranci, ecc. Gioverà
nella stessa guisa spruzzar le camere con aceto o con altre decozioni
odorifere; siccome ancora il far ivi bruciare ed il tener ivi legni
di buon odore segati, come sono il ginepro, il pino, il lauro, il
cipresso, l’abete, il mirto, il rosmarino, il frassino. Alcuni usano
allora di aver due camere separate, cambiandole mattina e sera, con
istare nell’una, mentre purgano l’aria dell’altra; e si bagnano spesso
le mani e la faccia con acqua fredda mischiata con aceto rosato,
profumando ancora le vesti e asciugandole bene al fuoco. Si astengono
allora dalle saponette in lavarsi, essendosi osservati de’ cattivissimi
effetti di tutto il sapone, saponate e ranno, o sia liscivo, in
tempi di peste. Altri procurano di rinovar l’aria e di purificarla
nelle medesime camere ove stanno infetti, tenendo aperte le finestre
e facendovi giocare il vento, se si può: con avvertenza però di non
infettar con quell’aria pestilente le vicine camere sane.

Non è di minore importanza il tener purgata o il purgare l’aria della
stessa città. A questo fine appena s’ode romor di contagio, che in
ogni ben regolato governo si danno tutti gli ordini più premurosi e si
fanno prontamente eseguire e mantenere per la pulizia della città, e
con far nettare diligentemente le strade e piazze e ogni altro luogo
dalle immondezze e da qualunque cosa fetente, e con rigorosamente
proibire il gittarvene alcuna, e sopra tutto gli escrementi e le orine
delle persone inferme. Si vietino i porci, le oche ed altri o uccelli
o bestie immonde, e il far massa alcuna de’ letti de’ vermi da seta o
delle foglie di moro, dovendosi tali puzzolenti masse, almeno di due
in due giorni, portar fuori di città e ben lontano, senza permettere
il gittarli in canali o canalette. Hanno scritto alcuni che dai fetidi
letti de’ vermi da seta la peste di Desenzano del 1567 ed altre del
Piemonte avessero origine. Lascio la verità al suo luogo, credendo
io che questo possa aumentare e non cagionare una peste vera. Stimano
altri che sia giovevole e preservativo in tempi di peste l’odore o sia
il puzzo che esala dalle concie e fabbriche de’ corami, cordovani,
ecc., siccome ancora dai maceratorj della canape; ma vien posta in
dubbio una tal opinione da altre sperienze e da accreditati autori,
essendosi veduto entrar molto bene in que’ luoghi o strade il contagio,
e farvi forse più strage che altrove. Più facilmente s’allignano e si
dilatano gli spiriti velenosi del male, quando si possono mettere in
groppa a vapori e alle esalazioni del succidume e di tutte le robe
marce e fetenti. S’ha eziandio da vietare il movere allora alcuna
cloaca e il dar alle fiamme per la città erbacce, pagliacci e simili
materie che recano cattivo odore, e tanto più se avessero servito a
gente infetta o inferma, dovendosi queste portar a bruciare fuori della
città, lontano almeno due miglia. Hanno anche le sagge città da usare
una straordinaria diligenza per gli Ebrei, nazione d’ordinario abitante
assai sporcamente, e assegnar conservatori particolari che abbiano cura
della lor pulizia.

Vogliono alcuni che giovi il far allagare nei bollori della state le
strade, per chi ha la comodità d’acque o fontane correnti. Anzi v’ha
chi crede non inutili a purgar l’aria i tiri d’artiglierie, scrivendo
Levino Lemnio, che la città di Turnai fu coi frequenti sbarri delle
medesime liberata in breve da una fiera peste, pel movimento e per
l’odore impresso con esse nell’aria. Che che sia di ciò, egli è ben
certissimo che la polvere da archibuso bruciata co’ debiti riguardi
è un profumo di somma energia ed utilità per le case; e che di
un’universale ed incredibil aiuto a preservarsi dal contagio e ad
espurgar le robe e a profumar le abitazioni, è il solfo, di cui perciò
bisogna far buona provvisione e fidarsi non poco in tempo di peste.
Anche gli antichi ne conobbero la forza antipestilenziale, essendo
giunti coi profumi d’esso a liberar molte città da sì crudel nemico, e
insino l’antichissimo Omero nel 22 dell’Ulissea fa chiedere ad Ulisse
fuoco e solfo, ch’egli chiama medicina de’ mali, per purgar le stanze
della casa.



CAPO IX.

  _Commercio di robe infette proibito. Necessità di prima espurgarle.
    Tre maniere di spurgo. Più utile e più facile quello dei profumi.
    Dose e metodo per profumar robe, case ed altri luoghi. Ordini
    rigorosi per lo spurgo, e necessità di questo rimedio._


Per l’ordinario le pesti hanno l’origine o la loro dilatazione dalle
robe, cioè dalle suppellettili, panni o merci procedenti da luogo
infetto o maneggiate da persone contaminate da esso morbo. Certo
nessuna cosa più spaventosamente fomenta in tempi tali la carnificina
degli uomini, quanto la diabolica ingordigia di tanti, che entrando
nelle case derelitte per la morte de’ padroni, quindi furtivamente
asportano robe infette, contaminando con ciò sè stessi, altre famiglie
e talora altri dopo molto tempo. Il perchè una delle più importanti
cure del governo della sanità ha da esser quella d’impedire il
commercio delle merci o robe infette e sospette. Per questo, su i primi
timori d’una pestilenza vicina, si proibisce l’ingresso a qualsiasi
roba de’ paesi infetti, e non si ammettono le procedenti da luoghi
sospetti se non dopo la quarantena, e dopo una leggittima espurgazion
delle medesime, che si dee fare prima d’introdurle in città, cioè
in qualche luogo eletto a questo fine fuori della città e lungi
dall’abitato. E notino i magistrati, essersi più d’una volta alle porte
della città sotto carra di fassine o di fieno o di paglia, trovate
robe, delle quali non era permesso l’ingresso. La confiscazion d’esse e
delle carra servì a benefizio de’ lazzeretti, e il gastigo per esempio
degli altri. Di più convien avere particolarmente l’occhio sopra gli
Ebrei, siccome gente che fa uno de’ suoi maggiori capitali il traffico
e trasporto di tali robe. In Germania alcune città nè pure concedono
a tal gente le fedi della sanità, perchè vogliono interdetto ogni loro
commercio.

Penetrato il male nella terra o città, allora si volgerà tutto lo
studio a trattenere i sani dal toccar le robe toccate dagl’infetti
o sospetti. Per attestato del Rondinelli, che parla con la sperienza
alla mano, siccome quello che ci ha lasciata un’utile relazione del
contagio di Firenze dell’anno 1630 e 1633, _se fosse possibile spuntar
questa cosa, in qualunque città agevolmente si sbarberebbe il contagio;
e se rimedio alcuno ci ha, è solo uno, cioè straordinario rigore
contro chi nasconde i panni infetti o li vende, li compra o in altro
modo li semina_. Ordinare pertanto con pene rigorosissime, siccome fu
fatto in Roma, ed anche nella nostra e in altre città, che nessuno
senza licenza del deputato ardisca levare o far levare qualsivoglia
roba da alcuna casa, monistero o altro luogo ove sia stato alcun
malato o morto, ancorchè non infetto di mal contagioso. Che a niuno
sia permesso l’introdurre lettere o altre robe, fuorchè per le porte
aperte della città e con participazione de’ deputati, sotto pena della
galera ed anche della vita, al qual castigo furono sottoposte per
ordine espresso del papa ancora le persone ecclesiastiche, secolari e
regolari e costituite in dignità. Che i confessori, medici, cerusici,
barbieri, mammane, sospetti o esposti, e i lor servitori, i beccamorti
e ogni altra persona non possano estrarre senza licenza del deputato
roba di qualunque sorta dalle case o luoghi segnati per cagione di
sanità, ancorchè la levassero per pagamento de’ lor crediti o per loro
mercede o per limosina o per convertirla in suffragio delle anime o per
iscarico della coscienza de’ padroni o per espressa commessione de’
medesimi. E qualora ne sieno state asportate, tutti, sì asportatori,
come complici e consapevoli, debbano in termine di tre giorni sotto
pena della vita e confiscazione, a cui sieno sottoposte d’ordine
del vescovo anche le persone ecclesiastiche, darne esatta notizia al
tribunal destinato, stante il troppo danno che nasce dal commercio,
maneggio e traffico di robe non espurgate; con promettere l’impunità
ai denunzianti, purchè non sieno già carcerati o inquisiti per tal
fatto. Si dee aggiungere una proibizion rigorosa di non poter vendere,
comperare, prestare e permutare senza licenza sì fatti mobili, panni e
vesti usate di qualsivoglia sorta; e per ogni maggior cautela proibir
l’introduzione in città di mobili e suppellettili, a riserva delle
biancherie di bucato, degli arnesi di cantina, rami o altri metalli,
vietando nella stessa guisa, se sarà creduto bene, il poter dare a
tingere o a lavare ad altri senza licenza le suppellettili, lasciando
solo che ognuno possa lavar le sue in sua casa o all’acqua corrente.

Essendo poi stato conosciuto anche dagli antichi che il maggior male
vien dal contatto di robe e mobili infetti, una volta si bruciava
una gran quantità d’esse, a fin di levar l’occasione alla gente
inavvertita o maliziosa ed avara di tirar addosso a sè stessi la morte
e di parteciparla ad altri. Ma perciocchè il ripiego di bruciar tante
robe, oltre che riusciva di non poca afflizione e danno ai padroni e
di pregiudizio ancora al pubblico, e tanto più se l’incendio si faceva
entro la città per cagion degli aliti pestiferi che ne esalano, era
anche cagione che tutti s’ingegnassero di nascondere e trafugar le robe
infette senza espurgarle, del che non può darsi uno sproposito più
pregiudiziale: furono dunque inventate espurgazioni regolate, mercè
delle quali si possono conservar quasi tutte le masserizie, vesti e
mobili delle case infette e sospette. Basta oggidì solamente consegnare
al fuoco i pagliacci o pur le sole paglie, i guanciali, i cuscini,
i cenci o sia gli stracci ed altre robe di minor conto che abbiano
immediatamente servito agli appestati, siccome ancora le piume dei
materassi, poichè si possono molto bene espurgar le lane e le fodere
d’essi.

In tre maniere pertanto può farsi l’espurgazion delle robe. La prima
si è d’esporle all’aria aperta, spiegandole e aprendole ben bene,
affinchè possano giocar in esse e in tutte le lor parti per molto tempo
il sole e l’aria, e battendole di quando in quando con bacchette. Ciò
si dimanda sciorinare, e col Ficino e col Mercuriale credo anch’io
che possano bastare venti giorni a tal sorta di spurgo; con avvertenza
però, che se fosse tal tempo solamente umido o spirassero scirocchi,
non sarebbe tolto ogni pericolo. La seconda è di mettere in una
caldaia d’acqua bollente, e di far bollire le robe capaci, e di lavar
le altre che possono sofferirlo, nell’acqua corrente, e di bagnare
e pulire la superficie degli altri mobili con aceto o simili potenti
antipestilenziali liquori. In Roma trovarono la forma di valersi a tal
effetto di folli che nell’acqua di canale andavano coi loro martelli
movendo e purgando le robe. Alle merci nuove, come lane, bombaci,
sete, lini e simili, che non possono senza gran discapito bagnarsi,
basterà la sciorinatura. La terza maniera è quella de’ profumi, cioè di
accender materie odorose, al fumo delle quali esposte le robe infette
o sospette, perdono qualunque spirito velenoso da loro contratto.
Ancor questo è un costume antico, e si praticavano profumi anche nelle
antiche pesti; ma se n’è fatto conoscere dipoi maggiormente l’utilità
del P. Maurizio da Tolone cappuccino, che gli adoperò con grande
utilità del pubblico in varie città, e massimamente in Genova nella
peste del 1656 siccome abbiamo dal suo Trattato politico. Esporrò
io qui il metodo suo, siccome quello che a me sembra il più facile,
plausibile ed utile.

Prescrive egli tre sorte di profumi, de’ quali ecco la composizione:


_Profumo per espurgare le case ed altre suppellettili grosse; e dose
per comporne cento libbre._

  _Solfo lib._ 5.
  _Rasa di pino lib._ 5.
  _Antimonio crudo lib._ 3.
  _Orpimento lib._ 3.
  _Mirra lib. 3._
  _Incenso comune lib._ 3.
  _Ladano lib._ 2.
  _Cubebe lib._ 2.
  _Grani di ginebro lib._ 2.
  _Pepe lib._ 4.
  _Zenzero lib._ 4.
  _Cumino lib._ 4.
  _Cipero rotondo lib._ 2.
  _Calamo aromat. lib._ 2.
  _Aristolochia lib._ 2.
  _Euforbio lib._ 4
  _Crusca o sia remolo e breno lib._ 50.


_Profumo più violento; e dose di cento libbre per purgare i lazzeretti,
le sepolture, ed altre robe bisognose di maggior purgazione che le
case._

  _Solfo lib._ 6.
  _Rasa di pino lib._ 6.
  _Orpimento lib._ 4.
  _Antimonio lib._ 4.
  _Arsenico lib._ 1.
  _Assa fetida lib._ 3.
  _Cinabro lib._ 3.
  _Sale armoniaco lib._ 3
  _Litargirio lib._ 4.
  _Cumino lib._ 4.
  _Euforbio lib._ 4.
  _Pepe lib._ 4.
  _Zenzero lib._ 4.
  _Crusca lib._ 50.


_Profumo più soave, appellato della sanità; e dose di cento libbre._

  _Incenso lib._ 5.
  _Gomma lib._ 3.
  _Storace lib._ 4.
  _Mirra lib._ 5.
  _Cannella lib._ 4.
  _Noci moscate lib._ 2.
  _Anisi lib._ 6.
  _Iride di Firenze lib._ 6.
  _Ladano lib._ 5.
  _Pepe lib._ 8.
  _Solfo lib._ 4.
  _Crusca lib._ 46.

Tanta quantità d’ingredienti spaventerà forse alcuni e rincrescerà ad
altri; ma io per me tengo essere bensì utili, ma non essere necessari
molti d’essi, e bastare per li primi due profumi i principali d’essi
ingredienti che sono presso a poco i sei primi. E per conto dell’ultimo
profumo della sanità, dovrebbono bastarne alcuni altri, fra’ quali
non si dee mai tralasciare il solfo, la cui virtù contra gli spiriti
pestilenziali è di troppo momento, anzi sola basterebbe allo spurgo
delle case e delle robe. Che se ancora tali aromati mancassero alla
povera gente, procuri essa almeno di prendere legno o foglie e grani di
cipresso e di ginepro, rosmarino, timo, lavanda, salvia, maggiorana,
absintio o sia medichetto, o sia assenzio, melissa ed altre erbe
simili di sano e potente odore, e ben secche le riduca in polvere,
e mescolatele con un poco di solfo, ne faccia profumo. Le ragioni
fisico-mediche comprovano il valor di tali profumi; e Francesco
Ranchino con altri stima essere maggior l’efficacia di quei che son
fetenti o velenosi; ma io lasciando tali ricerche, mi ristringo alla
sperienza e all’uso, per quanto c’insegna il mentovato cappuccino.

Il profumo, dice egli, della sanità è un preservativo mirabile; e
se dall’uomo, cui convenga trattar con altri ed esporsi ad evidente
pericolo di restar ferito, sarà applicato a sè e alle vesti prima
di partirsi di casa, non si contrarrà il veleno pestilenziale, mercè
della qualità contraria impressa avanti da quel fumo, la cui virtù da
me scoperta (dovea dire, ancora da me conosciuta alle prove, perchè
ancora i vecchi usarono tali profumi, e il suddetto Ranchino, medico
di Mompeliere ne avea fatto molto prima un Trattato a posta per lo
spurgo della peste) la provarono i maestrati di Genova, i quali,
benchè più fiera che mai incrudelisse la peste, ad ogni modo, uscendo
per soddisfare nella città alle obbligazioni delle cariche loro, mai
più per divin favore non s’infettarono. Impedirono cotali profumi
che non si dessero alle fiamme tante robe, come si faceva prima con
danno incredibile de’ particolari, e pericolo della stessa città per
altri conti. Per mezzo d’essi non si smarrisce cosa alcuna, nè meno
abbandonandosi dagli abitanti le lor case, e si toglie a’ ladri la
comodità di rubare.

Questi profumi mutano l’aria delle case. Giovano, è vero, ancora i
gran fuochi ne’ cortili e innanzi alle finestre; ma non s’hanno a
tralasciare gl’interni delle medesime. Vero è che le robe sospette o
infette, purchè possa in tutte le lor parti giocar l’aria e il sole, se
vi stiano esposte per lungo tempo, si purgano abbastanza. Senza questo
si coverà quel veleno e potrà far gran danno anche molti anni dopo. Più
sono stimabili i profumi perchè in termine di ventiquattro ore restano
purgatissime le case e i lazzeretti medesimi e insino i letti degli
appestati; laddove le robe esposte all’aria han bisogno di quaranta
giorni, tempo molto lungo per una purga, e sono sottoposte a vari
accidenti di pioggia e ladri, e ad altri incomodi.

I profumi si fanno così. Bisogna chiuder porte, finestre e cammino;
e sopra una corda distribuire e collocar le vesti infette, lenzuola,
coperte, ecc., scucendole prima. Poi prese quattro o cinque libbre
di fieno molto secco, e compresso ben questo fieno vi si ponga sopra
tanto profumo, quanto capirà in ambe le mani unite insieme per due
volte; e poscia ricoprir questo con altro poco fieno spruzzato d’aceto,
acciocchè quella materia non si consumi se non a poco a poco. Si
attacchi il fuoco dalla parte di sotto in due o tre luoghi del fieno,
sostenendolo con bacchetta; e non si parta il profumatore, se nol vedrà
ben acceso. Dopo di che si ritiri ognuno, e si chiudano le porte molto
bene. Alcuni persuadono l’esporre anche dipoi le robe all’aria libera,
e il maneggiarle e batterle con verghe. Sarà utile, ma non è forse
necessario.

Per le robe non infette, ma sospette, basterà aprir le casse, le
credenze, gli armari, le scatole, gli scrigni, ecc. Le robe preziose
si potran coprire con qualche tovaglia o tela grossa, affinchè non
ricevano in sè la parte più grossa e terrea del fumo. Le vesti, ove sia
argento, e così i vasi d’argento patiscono notabilmente, come ancora le
pitture; e però si può adoperar loro qualche leggier profumo in camera
aperta, o pure esporli all’aria e al sole per quindici dì. Alle robe
solamente sospette si può adoperare il solo profumo della sanità. Per
l’espurgazion delle case infette è necessario il primo dei suddetti
profumi, fatto il quale, si lascino per tre giorni ben chiuse la casa e
le stanze; e dipoi spalancate le porte e finestre, si faccia che l’aria
vi giuochi e ne scacci il cattivo odore. Si può dipoi, occorrendo,
far ivi qualche soave profumo, per liberar le camere dal puzzo. Oltre
a ciò è ottimo consiglio il fare, e prima e poscia, scopar ben bene
tutte le stanze e insino i cammini, e in fine imbiancar di nuovo le
muraglie; e credo io che gioverebbe ancora il solo bagnarle con acqua
ove fosse stemperata calce viva. Certo la calce smorzata con acqua
entro le camere infette, è creduta bastante col suo penetrante fumo
a dissipare o consumare i semi nascosi del contagio; e la sperienza
lunga ha poi fatto conoscere che il dare più d’una mano d’essa alle
pareti, riesce uno spurgo delle case sicuro ed egualmente comodo a’
poveri che a’ ricchi. Deesi pur lavare il pavimento ed altri mobili
delle stanze, purchè ne sieno capaci, con un forte liscivo o aceto;
avvertendo di non lasciare indietro alcun ripostiglio o masserizia
e mobile capace di simili lavande e sospetto d’infezione, con levar
via insino le tele de’ ragni, e mandar lontano dalla casa tutte le
immondezze ivi raccolte e bruciarle. Natal Conti narra che nella peste
di Venezia del 1576 più di tutti gli altri giovarono dodici Grigioni, i
quali tra due o al più quattro giorni, purgavano le robe contagiose; nè
molti, quantunque diligentissimi perscrutatori, poterono intendere il
modo da lor tenuto. Usavano diversi, spessi ed efficacissimi profumi,
e praticando nelle case senza nocumento alcuno, restituirono le robe
purgate ai padroni che più non ne sentirono danno. Così era vicina
nell’anno 1675 a rimanere affatto spopolata per cagion della peste
l’isola e città di Malta; ma chiamati colà i profumatori di Marsiglia,
non diversi nell’operare dal P. Maurizio da Tolone, seppero così ben
profumare case, robe e persone, che indi a poco cessò interamente
quella terribile pestilenza.

Per li lazzeretti e per le sepolture, ove imprudentemente fossero
stati seppelliti cadaveri d’appestati, a fine di non perderne l’uso
e di levar anche i pericoli, caso che s’aprissero un giorno, usava
il suddetto cappuccino il secondo de’ profumi, cioè il più violento.
In Genova nella peste del 1656 purgò egli 430 tombe, ripiene sino al
colmo, colla seguente ingegnosa invenzione. Fece fare un tabernacolo di
legno, cioè il telaio d’una gran cassa quadrata lungo e largo dodici
palmi; e fattolo tutto al di fuori coprire e foderar molto bene di
tela incerata, di modo che non potesse il fumo aver uscita, lasciava
nelle parti che poggiavano in terra due fenestrelle quadrate di
quattro palmi l’una, acciocchè per l’una d’esse si aprisse il sepolcro
e per l’altra si preparasse o presentasse il profumo. Questo telaio
si andava postando sopra cadauna sepoltura; e mentre questa dall’una
delle fenestrelle facilmente s’apriva, dall’altra si accendeva e
spingeva dentro la composizione violenta. Ciò terminato, tutte e due
subito si chiudevano; e quel terribil fumo penetrando nelle tombe, non
solo soffocava e distruggeva il veleno pestilenziale, ma corrodeva
e consumava i cadaveri stessi. Dopo un’ora estinto il profumo, si
rimoveva il cassone dall’avello, e in esso gittata copiosa quantità
di terra, e calata poi con una fune nel vacuo rimanente nuova materia
da profumare ben aspersa di solfo pesto, vi si lasciava accesa, con
riporre al suo luogo la pietra e suggellarla diligentemente con
calcina, acciocchè il profumo di dentro purgasse ogni cosa. Dopo
qualche anno si poteano liberamente aprire ed usar quelle sepolture.
Ma chi abbonderà di giudizio, non avrà mai bisogno di fare espurgar
le tombe, perchè in tempi di peste non permetterà che alcuno sia ivi
seppellito.

Già è manifesto doversi espurgar tutte le robe infette o sospette,
sieno del paese o della città, sieno forestiere, nè poter queste
rientrar nel commercio degli uomini e de’ padroni stessi, se non sarà
preceduto lo spurgo: sopra che debbono farsi ordini rigorosissimi, con
replicarli ed accrescerli, affinchè tutto venga denunziato fedelmente
ai deputati, ancorchè fossero robe d’altri, e benchè rubate; nel qual
caso non si procederà criminalmente contra i ladri denunzianti. In
Roma, ove ogni cosa dovea portarsi agli espurgatorj e ben lontano,
con quel grave incomodo che si può facilmente immaginare, ma che si
può anche schivare usando i sopra insegnati profumi, i deputati allo
spurgo prendeano per sè una nota di tutte le robe loro consegnate,
e un’altra simile ne lasciavano ai padroni. Erano costituite gravi
pene ai deputati che levassero cosa, benchè di minimo valore,
portata allo spurgo: il che dee praticarsi in ogni sistema. Le gioie,
danari, ori ed argenti si purgavano senza levarli dalle case dove si
trovavano, e doveano subito consegnarsi ai padroni, o non essendovi
essi, portarli al Monte di Pietà in credito d’essi padroni o eredi.
Era vietato a tutti, ed anche agli ecclesiastici, l’entrare senza
licenza negli espurgatorj, siccome luogo infetto o sospetto. Sogliono
anche deputarsi religiosi per sovrastanti allo spurgo; e i medesimi
assistono all’inventario delle robe, entrando anch’essi nelle case per
impedire che i ministri non rubino. Sempre poi dee avvertirsi che gli
espurgatori e i condottieri di robe infette o sospette non hanno da
praticar con altri, e saran tenuti a portare abiti e segni distinti,
siccome gente sospetta. Nella nostra città fu nel 1630 prudentemente
pubblicata intimazione che i mobili e le case da espurgarsi non si
potessero espurgare nè far espurgare senza l’intervento dei pubblici
deputati e senza servare il modo prescritto per tal funzione; ed
altrimenti facendo, dovea riputarsi nullo, e rifarsi lo spurgo. Le
città ricche alle spese del pubblico fanno espurgar case e robe o
almeno esentano i poveri da tale aggravio. Quantunque poi molti de’
beccamorti ed espurgatori sogliono resistere al mal contagioso,
tuttavia per ogni buon fine vien loro consigliato e prescritto,
allorchè hanno da entrar in case ammorbate, il prendere prima qualche
antidoto e il non andarvi digiuni. Abbiano sempre la lor sopravveste di
tela incerata ed anche alle mani guanti di simil materia. Entrino colà
portando avanti a sè vasi di fuoco che faccia fumo. Entrati, aprano
le finestre e gli usci, ritirandosi, finchè l’aria abbia fatto un poco
di sventolamento, e dispersi que’ maligni vapori. Dopo di che facciano
l’uffizio loro. Altri sogliono, e saggiamente entrar nelle case infette
con de’ soffioni accesi, composti di polvere da fuoco, salnitro,
canfora, carbone di salce, e con un poco d’acquavite, o pure con torcia
da vento accesa. Per alcuni già avvezzi a trattar dimesticamente con
gli spiriti pestilenziali, parran forse superflue alcune di queste
precauzioni; ma pur troppo quello è un nimico da non fidarsene mai; e
però anche gli espurgatori abbiano manopole, legni lunghi, graffi di
ferro, mollette, forchette ed altri ordigni per maneggiare il men che
potranno colle mani le robe.

A fin poi di ben comprendere la somma importanza e necessità di una
esatta e fedele espurgazion delle case e robe infette, ha ciascuno
da imprimersi altamente nell’animo che tali robe e case facilmente
possono portar la morte a’ padroni stessi e a qualunque altra persona
che le maneggi o le abiti, non solamente allorchè dura la peste, ma
eziandio dappoichè essa è cessata. Quella di Roma nell’anno 1656 finì
verso la metà di marzo; ma per l’occultare che suol farsi delle robe
infette e non spurgate, il male ripullulò, con succedere varie morti
anche per alcuni mesi dipoi, finchè, replicate le diligenze, restò esso
affatto espugnato circa il principio dell’agosto. In tali casi, benchè
fosse stato restituito il commercio colle terre e città confinanti,
è necessario levarlo francamente di nuovo, col bandire sè stesso dai
sani, così esigendo la buona politica e la carità cristiana; e s’ha
poi da restituire a poco a poco la comunicazione, secondochè detterà la
prudenza. In Marsilia l’anno 1649, già cessata la peste e restituito il
commercio, dal contatto d’alcune vesti non ancora purgate fu riacceso
il fuoco in alcuni quartieri della città, il quale con rigoroso governo
fu sì valorosamente ristretto che non s’innoltrò in altre parti della
città con incendio maggiore. Il che si noti ancora, per chiudere,
occorrendo, quelle contrade che sole fossero infette, tentando la
preservazione di quelle che fossero sane. Gli editti pubblicati in
Modena l’anno 1630 fanno giustamente sospettare o credere che anche
dopo il dì tredici di novembre (in cui la festa che tuttavia si fa,
venne instituita, perchè in quel dì non morì alcuno di contagio)
succedessero casi di peste entro la medesima città, essendo rimaso
nel solo seguente gennaio affatto estinto il malore per le diligenze
che si replicarono. Quello ancora che dee far più spavento, si è la
sicura testimonianza di Filippo Ingrascia, celebre medico, il quale
narra che finita in Palermo la peste, per cui egli tanto scrisse ed
operò, questa da lì ad un anno ripullulò, e sì fieramente, come se
non vi fosse stata dianzi; colpa di robe non purgate e portate colà da
altri luoghi non peranche liberi dal male. Così, terminato affatto in
Firenze il contagio l’anno 1631, e restituita col commercio la pubblica
tranquillità, vi fu esso di bel nuovo portato da Livorno nel 1632. Come
si potè il meglio fu fatto riparo a questo nuovo assalto con rimettere
il lazzeretto e usar le altre diligenze, tanto che si credette con
grande allegrezza della città estinto il malore. Ma sul principio del
1633 divampò esso in un più grave incendio per cagione di panni infetti
venduti agli Ebrei e seminati per la città. E però anche finita la
peste, bisogna invigilare a’ casi che seguono, perchè questo è un male
che rifiglia. Nè per altro è credibile che si rinnovi tanto spesso in
Costantinopoli e in altre città del Turco la pestilenza, se non perchè
ivi troppo bestialmente si sprezzano o si trascurano gli spurghi. Il
Fracastoro, Giorgio Garnero, Alessandro Benedetto, Erasmo Edeno, Mattia
Untzero ed altri scrittori raccontano vari casi di robe infette che
dopo molti mesi ed anche anni, tirate in luce e toccate infettarono
le persone. Tralascio tanti altri esempi, bastando questi per ben
concepire che grave tradimento, sì del pubblico come di sè stesso,
commetta chiunque nasconde robe, vesti e masserizie infette senza i
convenevoli spurghi, e quanto sia biasimevole e nociva in questo punto
la negligenza o indulgenza de’ magistrati.



CAPO X.

  _Cautela per esentar dallo spurgo varie robe. Provvisioni per
    gli cani e gatti. Monete ed altri metalli se suggetti a portar
    infezione. Regole per le robe ed animali. Luoghi eletti pel
    commercio de’ commestibili, e maniera di farlo. Se si dia
    contagio disseminato o dilatato dalla malizia. Riflessioni
    intorno a’ mali effetti del terrore, e cautele._


Noteremo ora altri ricordi intorno all’infezione che può venir dalle
robe, e intorno allo spurgo delle medesime. E primieramente a fin di
salvarne molte dalla necessità dello spurgo, riuscirà di maggior quiete
e minore incomodo del pubblico, e di sommo vantaggio de’ particolari
prima che nella casa succeda accidente alcuno di peste, il levare
dalle guardarobe e stanze tutti i mobili, le scritture, pitture ed ogni
altra suppellettile che non servisse all’uso quotidiano o non potesse
bisognare in que’ pericolosi tempi, e far tutto rinchiudere in una o
più stanze con far sigillare le porte di essa o di esse camere per mano
di pubblico ministro, e con sigillo del pubblico o almeno con sigillo e
rogito di pubblico notaio, di maniera che nessuno possa entrarvi senza
rompere quel sigillo. Operando così, qualora dipoi avvenisse disgrazia
di peste in quella casa, le robe tutte ivi rinserrate s’intenderanno
non suggette all’incomodo degli spurghi. In Ferrara nel 1630 fu per
buona precauzione ordinato agli ufiziali del monte di pietà e a’
banchieri ebrei di mettere in luogo separato i pegni da loro presi per
l’addietro, e non di confonderli coi susseguenti, bollando le stanze
ove li riponevano, con sigillo e notizia del pubblico o in altra
maniera che assicurasse non aver eglino dipoi maneggiate più quelle
robe.

Gli animali irragionevoli possono ricevere nei loro peli o piume gli
spiriti pestilenziali e portarli seco e comunicarli a chi degli uomini
non si guarda, benchè eglino per l’ordinario nulla ne patiscano,
essendo cosa notissima che la peste d’una spezie d’animali non suol
ferire quei dell’altre spezie, ma sì ben dilatarsi e comunicarsi
per mezzo ancora di chi non ne resta internamente infetto. Così
all’incontro è avvenuto ed avviene nella terribil mortalità delle
bestie bovine, che da tre anni in qua va devastando senza rimedio
tanti territorj di Lombardia, ed entra, mentre sto scrivendo, anche
nel nostro paese, con far parimente una misera strage nel regno di
Napoli, nello Stato della chiesa romana, in Olanda e in altre parti
dell’Europa, mentre gli uomini praticando con buoi e vacche infette
senza provarne eglino danno alcuno nella persona portano via quegli
alimenti velenosi e infettano disavvedutamente le stalle, proprie o
d’altrui. Perciò in tempo di peste convien provvedere al pregiudizio
che possono recare i cani e gatti col portare nella lor pelle alle case
e persone sane l’infezione raccolta altrove, siccome ce ne assicurano
Marsilio Ficino, Guglielmo Grattarolo ed altri. Sogliono perciò le
ben regolate città allora far editto che si uccidano tali bestie, e
il pubblico d’alcune ha talvolta pagato sei o otto giulj per cadaun
cane ucciso, purchè fosse d’altri. Dovendosi nondimeno osservare che
nel 1630 per essere stati ammazzati tanti gatti in Padova, fu quella
città col suo territorio soggetta per gli due anni seguenti ad una
mirabil quantità di sorci; parrebbe più sicuro ripiego il solamente
ordinare che tutti custodissero con diligenza, anche per proprio bene,
i loro gatti e cani, con facoltà poi ed ordine di ammazzar quelli
che uscissero delle case e vagassero per le strade o per le case
altrui. Si può esser più rigido co’ cani cittadini, perchè la lor vita
regolarmente importa poco al pubblico, e sarebbe sciocchezza il volere
unicamente per lusso esporre a un gran pericolo la propria e l’altrui
vita.

Per poi regolarsi bene nel commercio o contatto degli altri animali
e delle altre robe, si osserveranno le seguenti regole tratte da’
migliori maestri. Alcuni (e fra essi l’Ingrascia, il Mercuriale e il
Diemerbrochio) tengono che l’oro, l’argento e gli altri metalli non
ricevano nè serbino contagio; e il suddetto Ingrascia fa sapere agli
altri medici che piglino pur le monete allegramente, mentre anch’egli
faceva lo stesso insino dagli appestati, e così caldi caldi se li
metteva in tasca, non avendo operato diversamente gli altri medici
e cerusici del suo paese, e tutti senza infezione e danno. Certo la
superficie de’ metalli per sè stessa, a cagione della lor densità
e freddezza, non par capace di ritener gli spiriti velenosi della
peste. Tuttavia perchè può essere attaccata qualche ruggine, feccia,
untume o altra materia impura o terrea ad essi metalli, e massimamente
a’ danari, e con ciò unirsi gli aliti pestilenziali, e possono i
medesimi essere stati toccati dal sudore d’un infetto: per ogni maggior
cautela si dee ritenere o non abbandonare la regola inveterata di
purgarli, mettendoli in aceto o in acqua ben calda. Le pietre preziose
anch’esse si porranno solamente in acqua, acciocchè non restino
offese dall’aceto. Da altri si crede che la carta e per conseguente le
lettere non contraggano nè ritengano l’infezione per cagione della lor
superficie consistente e liscia. Trattandosi nondimeno di risparmiare
i pericoli, s’ha da ritener la saggia cautela di profumare o bagnar
coll’aceto le carte sottili da scrivere o da stampare, e di profumare
i libri, ma con più diligenza; e non sarebbe se non bene il tenere,
dopo i profumi, la carta grossa e i cartoni e le pergamene all’aria per
molti giorni. Per conto poi delle lettere suddette, costume lodevole
si è il profumarle ben bene, bagnandole anche prima con aceto, e il
tagliare i pieghi affinchè entro vi penetri il profumo. Gli espurgatori
di esse lettere debbono contenersi come gente sospetta, e perciò
non trattar co’ sani, e hanno anch’essi da preservarsi con guanti,
incerate, profumi, ecc. Le lettere che vengono da paese infetto o non
si debbono ammettere, o convien aprirle e profumarle con più diligenza.
Che se ne’ pieghi delle lettere si chiudesse altro che carta, s’ha da
provvedervi con aprirle; avvertendo di deputare per sì geloso ufficio
persone timorate di Dio, ed anche religiose che prendano giuramento di
non rivelare i fatti altrui.

I vasi di vetro coperti di paglia o vimini si purghino col profumo;
se nudi, con acqua sola. Ogni sorta di panno, corde e tele, sì di seta
come di lino, canapa, bambagia, e massimamente di lana, si purghi per
due ore col profumo della sanità. Le piume, i peli e le pelli d’ogni
animale, quando non sieno salate di fresco ed umide, sono soggette a
ricevere e comunicar l’infezione; e però si debbono ben purgare o con
profumi o con esporle per molto tempo all’aria e al sole. I cavalli,
buoi, vitelli, muli ed altri giumenti e le capre, purchè si facciano
prima transitar per acqua ovvero sieno immersi più volte in essa o
lavati interamente due o tre volte con essa, potranno ammettersi,
avvertendo però che vengano nudi; perchè portando capezze, corde,
briglie o selle, si dovranno tali arnesi profumare o almeno lavar con
lisciva o con sapone. A’ castrati ed agnelli e alle pecore, se avranno
pelle, e molto più se questa sia ben lanuta, sarà necessaria maggior
diligenza, per essere certo che la lana riceve e nutrisce più delle
altre cose il veleno pestilenziale. I polli, i capponi, le galline
e gli uccellami tutti, quando abbiano le piume, insegnano alcuni che
non basti il tuffarli nell’acqua, ma che si ricerchi l’immergerli più
volte nell’aceto, ovvero per più sicurezza, spogliatili delle piume,
abbrostolirli; ma altri tengono che sia sufficiente una buona lavata
con acqua pura.

L’uova cavate dalle ceste e poste sulla nuda terra, si prenderanno
senz’altro con rimetterle in altre ceste; e lo stesso può farsi per
le erbe e frutta e per le carni fresche senza pelle. Andrà nulladimeno
più sicuro chi laverà con acqua robe tali. L’olio può prendersi colle
nude pelli senza altra diligenza, purchè non vi si lascino corde oltre
a quella che lega sufficientemente la bocca della pelle, la quale non è
capace d’infezione. Il pane, vino, zucchero, i limoni, cedri e aranci,
il mele, i salumi e formaggi, gli aromati, le robe medicinali, le cere
e le droghe d’ogni sorta si possono ricevere liberamente, avvertendo
solo di levare gli invogli, le corde, i secchi, le carte, le casse,
i vasi, i barili ove fossero tali robe. Così le farine, il frumento,
frumentone, o sia grano turco, e tutti gli altri grani e legumi si
possono liberamente prendere, a riserva sempre de’ sacchi e d’altri
simili invogli ed arnesi, che si debbono lasciare indietro o profumare
o lavar con acqua secondo la loro qualità.

Ed a fine di regolar bene colle maggiori cautele possibili il
commercio tra chi conduce o vende e chi ha da comperare grani, vino
ed altre grasce e commestibili che abbiano detto esenti dal portar
seco infezione, è da fuggirsi per quanto si può l’avvicinamento delle
persone e il contatto delle vesti, de’ sacchi e d’ogni altra roba che
possa, coll’aver seco la peste, pregiudicare a chi è sano. Per questo
ottima regola si è il deputar certi siti e luoghi aperti, fuori, se si
può mai, della città, con piantar ivi due file di cancelli o palizzate,
che impediscano dall’una parte e dall’altra il passaggio e contatto
de’ cittadini e paesani. Le robe vendute si depongono in terra, o
sopra lenzuoli o coperte stese in terra, quando si possa, e poi vanno
a prenderle i compratori. I vini ed altri liquori si vôtano da quei
di fuori ne’ vasi deposti in terra dai cittadini, senza toccar punto
essi vasi. Il danaro che si sborsa sarà purgato per ogni buon fine da
chi il riceve, bagnandolo in aceto. E perciocchè troppo è necessario
che vengano alla città le grasce o vettovaglie, e ciò dee anche farsi
senza pregiudizio della salute de’ condottieri; sarà libero a questi il
poter andare e venire colle loro fedi di sanità, purchè non si levino
dal diritto cammino e si guardino di praticar per viaggio con genti
sospette. A qualche osteria deputata in mezzo al cammino dovrà farsi
la posata dai vetturali. Fuori della città saranno deputate osterie
per loro soli; e si farà il commercio della roba da loro condotta ai
cancelli posti fuori d’essa città, in maniera che i sani esteri non
pratichino coi sospetti cittadini. Nulla si dovrà consegnare se non
alla presenza de’ commissari, che invigileranno all’esecuzione degli
ordini, affinchè non segua miscuglio nè contatto. I consoli o massari
delle arti si troveranno ad essi cancelli per istabilire i prezzi e far
tosto pagare e sbrigare i condottieri. Si vieterà ai commessari delle
porte il comperare e mercantar le vettovaglie portate ai cancelli,
per rivenderle poi ai bottegai, benchè per altro sia da procurare che,
mancando compratori, vi sia qualche deputato il quale comperi quelle
robe, affinchè si tenga viva ne’ rustici e in altre persone estere
la voglia di condurne e di accrescere il mercato, e a fine ancora di
spedire in breve i poverelli del contado, aspettati a man giunte dalla
misera lor famigliuola con qualche soccorso.

Con queste ed altre simili precauzioni un popolo sano può aver
commercio di vettovaglie con un altro infetto, senza contrarne la
stessa disgrazia. E perciò, posto ancora che l’uno bandisca l’altro,
si può ai confini fare una specie di mercato, quando vi sia bisogno
di ricevere o comperar grasce, obbligando però tutti a non far questo
commercio se non ne’ luoghi destinati e sotto gli occhi de’ deputati
da ambedue le parti. In Modena fu fatto editto che niuno potesse
toccar vettovaglie, frutti e simili commestibili prima d’averli
pagati. Nelle città, e massimamente in quelle di gran popolazione,
bisogna provvedere che tutta la gente non concorra ad un luogo solo per
comperar da vivere, perchè ci vuol poco ad intendere che mescolandosi
e fregandosi insieme moltissimi, alcuni pochi infetti, de’ quali ne
trapela sempre fuori qualcheduno, possono appestar gli altri; pericolo
a cui sono sottoposti tanto i poveri quanto i ricchi, quelli per
andarvi in persona, e questi pel commercio con la servitù. Tutte le
botteghe ove si vendono robe soggette a ricevere infezione e quelle
dei commestibili, e così le spezierie, dovranno tener chiuse le loro
porte o con rastrelli o in altra forma, di modo che niuno v’entri, ma
si eseguisca la consegna delle robe o per le finestre o pei cancelli;
nè si faccia adunanza entro o davanti bottega alcuna. Specialmente si
usino tali riguardi alle botteghe de’ fornai e a’ macelli, o sia alle
beccherie. Le stesse cautele possono proporzionatamente osservarsi
nel somministrar cibi ed altre robe agl’infetti o sospetti di mal
contagioso, potendosi ciò bene spesso fare senza accostarsi loro e
senza toccare i loro vasi e robe. Nella peste di Roma del 1656 furono
pubblicate sagge istruzioni, raccolte poi tutte dal cardinale Gastaldi
nel suo Trattato della Peste, con insegnar al popolo la maniera di
governarsi nel commercio delle robe e persone. Altre ne furono fatte
pei deputati ai quartieri ed ai mercati fuori della città; pei medici,
cerusici, speziali, osti, guardarobieri, soldati di guardia ed altri
ministri de’ lazzeretti; pei deputati all’espurgazione delle case e
robe infette o sospette, insegnando ancora la maniera di far tali
spurghi. Così nel 1680 furono stampati in Ferrara vari ordini da
osservarsi in sospetti e tempi di contagio da tutti gli uffiziali della
sanità, con un editto ancora del vescovo pei conventi delle monache,
mentre allora la peste di Vienna metteva molta apprensione all’Italia
tutta. È degna quell’opera di essere studiata e tenuta davanti agli
occhi dai maestrati delle altre città, alla prudenza de’ quali in tempo
di contagio apparterrà il vedere quali e quante istruzioni s’abbiano a
formare e pubblicare, secondo le forze e il sistema di ciascuna.

Hanno in oltre i maestrati da invigilare non solamente per impedire
che il morbo non si comunichi e dilati inavvertentemente per lo
commercio delle persone e robe infette o sospette, ma ancora per vedere
che non sia esso accresciuto dalla malizia e diabolica ingordigia
degli scellerati. È cosa che fa orrore, anzi può comparir tosto come
incredibile, cioè che si dieno delle pesti suscitate o dilatate per
via di veleni, polveri ed unzioni pestifere. Alcuni negano che ciò sia
avvenuto mai o possa avvenire; ma superiori in numero e più accreditati
sono quelli che l’asseriscono, e citano i casi. Raccontano essi che
nella peste di Casale del 1536 furono giustiziati molti i quali in
numero di 40 s’erano congiurati per moltiplicare la mortalità con
unguenti e polveri pestilenziali. Niccolò Polo scrive succeduto lo
stesso in Franchestein l’anno 1606. Ercole Sassonia e il celebre nostro
Falloppia attestano il medesimo della peste de’ loro tempi, ed altri
narrano fatta la medesima scelleraggine in diverse pesti di Ginevra,
Parma, Padova e d’altre città. Non importa che io citi gli autori.
Mattia Untzero nel lib. 1, cap. 17 del suo Trattato della Peste ne ha
raccolto molti. Ma nessun caso è più rinomato di quel di Milano, ove
nel contagio del 1630 furono prese parecchie persone che confessarono
un sì enorme delitto, e furono aspramente giustiziate. Ne esiste ivi
tuttavia (e l’ho veduta anch’io) la funesta memoria nella Colonna
infame posta ov’era la casa di quegli inumani carnefici. Il perchè
grande attenzione ci vuole affinchè non si rinnovassero più simili
esecrande scene.

Tuttavia avvertano i saggi maestrati e i lettori che una tal vigilanza
non degenerasse poi in superstizione e in timori ed in apprensioni
spropositate, dalle quali potrebbono poi nascere altri non meno
gravi disordini. Il punto è di particolare importanza, e però bisogna
pesar bene e tenersi a mente anche le seguenti riflessioni: Egli è
facilissimo, secondo me, che sia accaduto spesso ed accada spessissimo
anche di nuovo ne’ tempi di peste ciò che veggiamo tante volte accadere
nei mali straordinari o non molto usitati delle donne e de’ fanciulli
del volgo, mentre con gran leggerezza s’attribuiscono quasi tutti
a malie e stregherie e ad invasioni di spiriti cattivi, giungendosi
anche talvolta non solo a sospettare, ma a credere streghe certe povere
donne che altro delitto non hanno se non quello d’esser vecchie. Molto
più senza paragone possono occorrere tali sospetti nell’inusitato ed
orrendo spettacolo d’una pestilenza, al mirar tante morti, e tanti che,
di sani che erano, restano all’improvviso estinti. Basta che un solo
cominci a sparger voce, benchè dubbiosa e timida, che quella misera
e non mai più veduta carnificina proceda da stregherie, unguenti, o
polveri di veleno artefatto, affinchè tal voce prenda gambe e corpo, e
diventi una indubitatissima verità in mente dei più del popolo. Il solo
aver letto o inteso a dire che si danno e si sono date dilatazioni di
peste per empia e crudel manifattura d’alcuni, è bastante a cagionare
in molti una fiera apprensione dello stesso, e che l’apprensione
gagliarda ad ogni picciol rumore od osservazione passi in ferma
credenza. In que’ tempi sì calamitosi, nei quali, per attestato di
chi n’ha veduta la prova, non si può dire quanto sia il terrore del
popolo, passando esso insino a farne molti stolidi ed insensati, egli è
troppo facile il concepir simili spaventi, e che alla fantasia sembri
poi di trovar qua e là fattucchierie, e unti i martelli delle porte,
o le panche o i vasi dell’acqua santa nelle chiese, e sparse polveri
pestifere, e simili altre visioni.

Da questo stravolgimento di fantasmi nasce poi un’incredibil miseria
di molti che temono la morte anche dove non l’hanno da temere; e
alcuni si muoiono, anche senza peste, di pura apprensione e spavento.
Anzi si giunge ad imprigionar delle persone, e per forza di tormenti
a cavar loro di bocca la confessione di delitti ch’eglino forse non
avranno mai commesso, con far poi di loro un miserabile scempio sopra
i pubblici patiboli. Questa malattia dell’immaginazione è vecchia
in altri simili; ed è curioso quanto abbiamo dal famoso arcivescovo
e scrittore Agobardo, il quale nel libro _de Grandine et tonitruis_
al cap. XVI narra che, insorta a’ suoi tempi, cioè nell’anno 810, la
mortalità de’ buoi, quale ancor noi abbiamo provata, si ficcò nella
mente a molti che tale disavventura procedesse da Grimoaldo duca
di Benevento, il quale, per esser nemico di Carlo Magno imperadore,
avesse mandato in Francia persone a spargere polveri micidiali pe’
campi, monti e prati. Furono presi non pochi su questo sospetto, ed
alcuni ancora trucidati; e il mirabile era che taluno confessava questo
delitto, senza mai porsi mente come potesse formarsi una polvere sì
giudiziosa e discreta che desse morte ai soli buoi e non agli altri
animali. Così Agobardo. Ma i tormenti (torno a dirlo) hanno il segreto
di far confessare misfatti anche agl’innocenti. Ho trovato gente savia
in Milano che avea buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto
persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi, i quali si
dissero sparsi per quella città, e fecero tanto strepito nella peste
del 1630. Anzi ho osservato esserne stato in dubbio lo stesso cardinale
Federigo Borromeo, arcivescovo allora di Milano, personaggio di santa
ed immortale memoria e gran filosofo ancora, il quale fece insigni
azioni durante quella pestilenza, e potè parlarne con fondamento. Fu
anche più orrida la scena nella terribilissima peste del 1348, poichè,
sparsa la voce che alcuni, e specialmente i Giudei, fossero quegli
che con vari veleni e malie avessero introdotta e dilatata quella
incredibile mortalità, furono trucidati molti Cristiani, e moltissime
poi migliaia d’Ebrei per la Francia e per la Germania, di modo che lo
stesso papa Clemente VI fu mosso dalla carità cristiana a soccorrere
e proteggere con varie Bolle quella povera gente, al certo non rea di
questo delitto. Bisogna dunque andar adagio in profferir sentenze e in
avvalorar sospetti allorchè si spargono tali voci. Nel presente anno
1713 abbiamo co’ nostri occhi veduto nella nostra città che rumori,
che paure e cavate di sangue abbia cagionato la voce disseminata
che si mirasse di notte una fantasima per le contrade. Oh! molti la
videro; ma loro la fece vedere la sola precedente apprensione e paura,
la quale è un’industriosa dipintrice, massimamente in tempo di notte.
Quel solo che si può credere senza veruna difficoltà essere avvenuto
qualche volta e poter di nuovo avvenire, si è che qualche scellerato
possa in tali occasioni valersi di veleni o d’unguenti pestiferi per
incamminare all’altro mondo qualche particolare e determinata persona,
la quale non avesse gran fretta o voglia d’andarvi, per isperanza di
cogliere i loro danari, o saccheggiare le loro case: il che avrà anche
dato motivo a più larghi e generali sospetti, e al che si dee ben por
mente, invigilando specialmente alla condotta de’ beccamorti, gente
ingordissima, e di chi volesse fare il medico e il cerusico allora
senza le legittime licenze ed approvazioni della sua abilità e fedeltà.
Per altro, che si dieno congiure di gente la quale con simili unti e
veleni si metta a far morire il popolo alla rinfusa, io non m’indurrei
a crederlo se non dopo una grande evidenza. La peste sola ha troppa
possanza d’empiere una città di stragi, senza ricorrere ad altre
incerte e straordinarie cagioni, lasciata la visibile e certa. Che se
faransi ben eseguir le regole fin qui prescritte non sarà facile che
alcun particolare insidj alla vita altrui, perchè tolta la comodità di
poter rubare o trasportar le robe infette, sarà anche tolto il prurito
di rubar prima la vita alle persone comode con falsi medicamenti e
veri veleni. Dirò in fine ch’io concepisco per cosa possibile che
infuriando la peste in una città, naturalmente compariscano talvolta i
martelli delle porte ed altri corpi duri come unti, qualora sia umida
o sciroccale l’aria, poichè la gran dissipazione e svolazzamento che
allora si fa di spiriti e vapori sì da tanti infermi come da tanti
cadaveri, può esser cagione che si fermi sulla superficie di alcuni
corpi qualche untuosità, se pure il gran terrore non fa allora prendere
per untumi la sola umettazione dell’aria e dello scirocco.



CAPO XI.

  _Preparamento di lazzeretti per gl’infetti e pei sospetti.
    Regole per luoghi tali. Danni che provengono dai lazzeretti;
    sequestri ed altri rigori. Precauzioni necessarie. A chi si possa
    permettere il sequestro. Attenzione sopra i beccamorti._


Un’altra gran cura de’ maestrati della sanità in tempo di peste ha
da esser quella de’ lazzeretti, per prepararli sul principio, se già
sieno fatti, o pure per costruirli, se mancassero, con provvederli di
tutto il bisognevole, cioè di ministri, letti, mobili, medicamenti,
vettovaglie, ecc. Sieno questi separati, se si può, dal corpo della
città, ma non molto lontani, in sito d’aria buona, ed abbiano le
stanze che non comunichino l’una con l’altra, acciocchè sia diviso chi
abita, e ricevano aria più tosto dalla tramontana che dal mezzogiorno,
dovendosi tener chiuse le finestre allorchè spirano dalle parti
meridionali venti caldi, sempre mal sani, ma specialmente in tempo
di peste. Abbiano fosse e mura d’intorno che impediscano ai sani il
commerciare e l’accostarsi, e agl’infermi il fuggire; con due sole
porte ben custodite dalle guardie, per l’una delle quali entrino
gl’infermi ed escano i cadaveri, e per l’altra passino gli uffiziali e
le vettovaglie. Il cimitero sia per un gran tratto distante da essi,
acciocchè i suoi vapori non arrivino ad accrescer l’infezione di chi
sta ne’ lazzeretti. Le case o camere degli uffiziali sieno segregate
anch’esse in buona forma dalle camere degl’infetti; anzi, se mai si
può, la loro abitazione sia separata affatto dallo stesso spedale,
poichè, per attestato de’ saggi, ciò ajuta di molto per conservar
quelli che operano in servigio degli appestati. Si provvederà d’uno
o più sacerdoti che ministrino i sacramenti e celebrino la messa
nella cappellina aperta da tutti i lati, la quale sarà situata in
mezzo al cortile, onde gl’infermi tutti dalle loro camere possano
vedere il santo sacrifizio. S’abbia ivi, se si può, un medico; ed
è indispensabile l’avervi uno o più cerusici, speziale, cuochi,
vivandieri, o sia provveditori del vitto, beccamorti, oste, o sia
dispensiere de’ cibi, con un direttore supremo ed altri uffiziali
subalterni e serventi, tanto uomini quanto donne per servigio dell’uno
e dell’altro sesso, che ivi ha da essere segregato. Tali basse persone
sogliono allora non difficilmente trovarsi, avvertendo eziandio che ai
disubbidienti del popolo si cambia talvolta la pena da loro meritata
nell’aggravio di servire ai lazzeretti: nel che però si dee camminare
con pesatezza, perchè la forza è un duro maestro al ben fare. Si
tenga nota del nome, cognome e parrocchia di chi vi entra e della sua
morte, occorrendo, per avvisarne poi il paroco o altri uffizi, cosa
da ricordarsi anche pel resto della città. Si faccia anche provvisione
di molte donne lattanti, avendole pronte pei fanciulli sani, ma rimasi
orfani e abbandonati per la morte de’ suoi. E in difetto di nutrici, si
procurino per tempo molte capre, le quali sono ottime balie in caso di
necessità, come s’è tante volte provato. Alle donne che lattano bisogna
levare, immediatamente che s’ha indizio del loro male, i fanciulli,
con poscia provveder cagnoline che tirino il latte loro, quando ve ne
sia bisogno. Si terranno rinchiuse tali bestie come se fossero persone
sospette; e infettandosi esse (il che succede) debbono tosto ammazzarsi
e prontamente seppellirsi in fosse profonde.

Due lazzeretti indispensabilmente convien costituire. Il primo per
gl’infetti, ove debbono condursi senza dilazione coloro che si scoprono
aver segni o infermità pestilenziale; e l’altro per gli sospetti,
cioè per condurvi coloro che non sono già infetti, ma hanno praticato
con infetti o robe infette. Egli è una crudeltà somma l’obbligare
quest’ultima sorta di persone ai lazzeretti degli appestati, perchè
potendo facilmente essere elle con tutto il sospetto ben sane, la
carità e giustizia esige che non si espongano al gravissimo pericolo
di divenir veramente infette nel coabitar con tanti altri appestati. Se
in questo secondo lazzeretto alcuno si scoprirà ferito dalla peste, si
trasferisca subito all’altro degl’infetti, acciocchè non si ammorbino
gli altri; e si profumi la stanza sua per renderla abitabile ad altri
che sopravvengano. Chi dei sospetti dopo 20 giorni resta sano, si
licenzj; e può in questo lazzeretto tenersi unita cadauna famiglia, con
che però, se venisse ad ammalarsi alcuno in essa con segni d’infezione,
e perciò s’avesse immediatamente da trasferire all’altro lazzeretto,
debba il resto della famiglia cominciar da capo la contumacia de’
sospetti. Ma avvertasi che prima di licenziare alcuno tanto da questo
quanto dall’altro lazzeretto, s’hanno di nuovo da purgare le vesti e
il corpo di lui. Cioè nel lazzeretto degl’infetti, risanato che uno
sia ben bene, v’ha da essere una gran caldaia d’acqua bollente in cui
si purgheranno le lenzuola, i panni e le vesti che servono o hanno
servito a lui, purchè sieno robe che soffrano tal purga; e si useranno
i profumi coll’altre robe incapaci di sofferir la caldaia. Intanto
il guarito, trattenendosi nudo in una stanza per un quarto d’ora, si
laverà o lascerà lavarsi il corpo con una buona lavanda d’aceto. A
chi dovrà licenziarsi dal lazzeretto de’ sospetti, basterà fare sì a
lui come a’ suoi panni un leggier profumo per lo spazio di mezz’ora.
Consigliano alcuni che i liberati dal male e dal chiostro degl’infetti
si facciano passare per alquanti giorni a quello dei sospetti. In tutti
e due i lazzeretti si faranno giornalmente dei profumi. Veggasi che
anche i poveri Ebrei costituiscano per lazzeretti della lor nazione
alcune case del loro ghetto colle necessarie provvisioni, ed abbiano
carretta a posta che in sito determinato fuori della città conduca i
loro cadaveri ad essere seppelliti. In difetto di fabbriche di pietra
pei lazzaretti, si sono talvolta fatte gran file di capanne alla
campagna aperta con tavole e travicelli a guisa de’ lazzeretti formali,
e tutto alle spese del pubblico. Dee anche avvertirsi che i condottieri
degl’infetti, siccome gente sospetta, debbono regolarsi come tutti
gli altri uffiziali e serventi de’ lazzeretti nell’abitare e vestire,
acciocchè ognuno fugga il commercio loro; ed essendo costoro per lo più
di genio ed impiego poco diversi da’ beccamorti, sarà necessario aver
sopra di loro una somma attenzione, perchè nel trasporto degl’infermi
non nascano que’ disordini, che non sono rari, di violenze, di ruberie
o di strapazzi a quei miseri pazienti. Chi poi potesse costituire un
terzo lazzeretto per i convalescenti a fine di condurvi i risanati
dalla peste, per assicurarsi meglio, farebbe un’utilissima provvisione.
Ciò si è praticato e si pratica dalle città doviziose. Ma le altre
appena han forza da reggere agli altri più necessari lazzeretti. Almeno
si noti ciò che scrive il P. Maurizio cappuccino colle seguenti parole:
Gli ammalati attuali s’hanno a separare dai convalescenti, perchè
questi sono molto più facili ad infettarsi dei primi, come in Genova,
Marsiglia e Tolone ed altrove ho diligentemente notato.

Null’altro dirò io intorno al governo de’ lazzeretti per non ingrossar
di troppo quest’opera. La prudenza de’ maestrati supplirà facilmente
a ciò ch’io tralascio; e il volume del cardinale Gastaldi risparmierà
loro la fatica di pensarvi molto. Più tosto mi preme di esporre qui
alcuni dei mali effetti e disordini che nascono dall’introduzione ed
uso tanto dei lazzeretti quanto dei sequestri degli infetti o sospetti
nelle loro case, in difetto di lazzeretti. Certo la sperienza ha
fatto vedere che tali ritrovamenti, utilissimi senza fallo, quando se
ne fa buon uso, accrescono, non diminuiscono i malori della peste,
se sono male usati. Il perchè presso alcuni scrittori è un punto
disputato forte, se talvolta sia maggiore l’utilità o il danno dei
lazzeretti, sequestri ed altri simili rigorosi rimedi politici. Se
crediamo a Lorenzo Candio e ad altri, nel 1478, essendo fiera la peste,
furono introdotti rigori inusitati, e cominciarono circa que’ tempi a
dirizzarsi lazzeretti (forse prima si mandavano gl’infetti alle sole
capanne, praticate anche dipoi in alcune città), e a mettersi pena la
vita per ogni minima cosa. La misera plebe spaventata e dal male e dai
rimedi del male, cadeva morta per tal timore impresso vivamente nella
loro immaginazione, massimamente al mirar tante morti ogni giorno. Si
facevano tutto dì ripari nuovi e consigli di medici, ma senza frutto e
sempre peggio. Finalmente aperti gli occhi, fu risoluto generosamente
di rallentare l’austerità; laonde cominciò a declinare il male, e in
breve cessò. Perciò non par buon consiglio l’usar talvolta eccessivi
rigori, sostenendo alcuni essere alle volte stati più quelli che in
tempi tali sono morti d’inopia e terrore senza peste, che gli altri
estinti di peste vera.

L’invenzione de’ lazzeretti e sequestri, soggiungono essi, apre l’adito
a mille ingiustizie, oppressioni e rubamenti, mentre quando non si
possa convenevolmente provvedere al bisogno degl’infermi e sequestrati,
è cagione che molti periscano di fame, di fetore, di doglia di cuore
e disperazione, essendo i lazzeretti d’ordinario mal tenuti e mal
provvisionati, e bene spesso serviti da gente empia e ladra. Il solo
timore d’essere condotto colà o di essere sequestrato, fa che molti
ascondano il male e conversino con gli altri; e senza medicarsi, e,
quel che è peggio, senza sacramenti, se ne muoiano e facciano morir
altri che alla buona hanno praticato con esso loro. Certo è che la
maggior parte naturalmente abborrisce l’essere strascinato sul carro
e il venir consegnato a gente non conosciuta e inumana, fra i puzzori
e le schifezze di tanti ammorbati. Che se vengono nelle lor case
sequestrati, niuno talora ardisce di dar loro mangiare e di medicarli,
morendo perciò alcuni abbandonati e disperati, anche per mali non
pestilenti, perchè nè pure i parenti osano entrare in casa di que’
meschini, per non esser poi anch’eglino sequestrati o condotti al
lazzeretto. E poi, chi è d’animo sì forte che non si atterrisse e non
cadesse in qualche o disperazione o passione straordinaria d’animo al
vedersi per ogni picciolo motivo di male, che talvolta nè pure è di
peste, levato e rapito improvvisamente, e con rigori e violenze, dal
proprio letto e casa, o dalle braccia de’ suoi più cari, con pericolo
ancora o perdita di tutte le robe sue (come tuttavia succede in qualche
paese d’Europa), e al mirarsi portato in massa con altri ammorbati in
que’ lazzeretti, che pur sono come tante beccherie, e luoghi regolati e
serviti per lo più da gente di poca o niuna carità, la quale non aiuta
nè consola, e se pur si risolve a soccorrere, il fa colla punta d’una
lunga picca, e con roba che non sollieva, ma accresce la miseria?

E per conto degli altri usi e rigori, egli è troppo facile l’avvilirsi
e il morire di spavento al vedere o sentire i ministri de’ lazzeretti
e i beccamorti andare attorno con facce orribili, abiti stravaganti e
voci spaventevoli, e portar via infermi e sani, vivi e morti, purchè
vi sia da rubacchiare. Nè si può dire che orrore spiri il frequente
suono di que’ loro campanelli. Certo si sa per relazione di persone
accreditate che molti da questi e simili spaventi oppressi, senza
essere appestati, vi lasciarono la vita. Perciò anche Livio narra
essersi in una peste mossi i Romani a rallentar tanti rigori; il che
fe’ in breve cessare la mortalità. Narrano parimente che ne’ contagi di
Firenze del 1325 e 1340 fu provveduto che si levassero via certi segni
funebri, certi suoni di campanelli per le strade, i quali aumentavano
la mestizia e il terrore ai poveri infermi, e che si rammentassero
loro i vivi e non mai i morti, con assicurarli di non muoverli dalle
loro case. In Bologna nella peste del 1527 fu ritrovato in fine per
miglior rimedio il levare i sequestri, e, lasciata la libertà e rimesso
il commercio, permettere che tutti comprassero e vendessero: con che,
tolta la strettezza, slargossi il cuore al popolo, e molti camparono
che sarebbono morti. Così in Venezia una volta e in alcune terre grosse
di Lombardia nel 1630 e 1631, dove moriva in quantità la povera gente,
nè si sapeva più che rimedio prendere, ho letto che furono levati i
sequestri, e subito que’ miseri tanto si rallegrarono, che uscendo
tutti all’aria libera e andando a procacciarsi le cose necessarie,
cominciarono a risanarsi la maggior parte, e cessò la mortalità.

Tali sono i sentimenti d’alcuni scrittori, ed io n’ho fatta menzione
non perchè s’abbia a mutare alcuna delle regole prescritte da
tanti saggi e praticate da loro, ma perchè questi disordini e
danni facciano ben tenere aperti gli occhi a’ maestrati, affinchè
i rimedi non diventino mali intollerabili anch’essi. Vero è che la
costituzione dei lazzeretti e il rigore dei sequestri soggiacciono a
diversi abusi; ma così è di tanti altri savi ritrovamenti e costumi
politici, il bene de’ quali non si ha da dismettere, perchè esso
non vada disgiunto per l’ordinario da molti pericoli e mali. Sicchè
considerino seriamente i maestrati di prevenire e rimediare, per
quanto si può, agli accennati abusi. Quando non possano provvedere
di tutto il bisognevole i lazzeretti, si contentino de’ sequestri.
Men male sarà, o almeno men crudeltà, il lasciare in mano alla divina
Provvidenza i poveri infermi nelle case loro e fra i loro parenti,
che trascinarli a morire di disperazione e di stento in lazzeretti
informi e senza misericordia. Che se mancassero anche le forze per
mantenere i sequestrati bisognosi, meno male sarà il permettere a tutti
qualche forma di libertà, attendendo allora a regolar solamente il
commercio, affinchè si distinguano e si fuggano dai sani gl’infetti e i
sospetti, con obbligar questi a non camminare senza certi convenienti
segnali, e coll’impedire il più e il meglio che si potrà i concorsi
e miscugli delle persone; ricordandosi che è un gran vantaggio nella
state e nell’autunno il guadagnar tempo con salvare la gente, poichè
d’ordinario il freddo del verno suol metter fine a tante miserie. Non
si nieghi ai sequestrati l’ingresso de’ medici, cerusici e sacerdoti;
o pure sieno essi dalle finestre o porte ascoltati e consigliati da
essi medici. Chi può curarsi in sua casa nelle debite forme, o essere
inviati a’ suoi poderi, sarebbe da esaudire. Coi poverelli abbandonati
e privi di scampo, e con chi sarebbe troppo di danno agli altri,
e massimamente per chi abita case anguste, si venga al ripiego del
lazzeretto, ma con tutti i buoni termini e carità cristiana. S’abbia
cura delle loro vesti, esponendole all’aria e purgandole, e salvando
loro quel che lasciano in casa e quel che vogliono portar seco, giacchè
non dee essere interdetto a chi è condotto ai lazzeretti il menar
seco quelle comodità o robe che a lui saranno più in grado, e di cui
egli sia padrone. Si procuri di non accrescere il terrore al popolo,
ma di sminuirlo per quanto sia possibile. E per questo non si suonino
allora campane a morto, nè si lascino mirare ai fanciulli, alle donne,
ai melanconici le carrette dei cadaveri, nè altri funesti spettacoli.
Consentono tutti i medici che sia di un singolar pregiudizio alla
sanità in tempi sì fatti il timore e lo spavento. Una divota allegria
può recare allora un giovamento incredibile. Del pari si procurerà,
per quanto si può, di destinar ministri fedeli e serventi caritativi
e timorati di Dio alla cura degli infermi ne’ lazzeretti ed altrove; e
vi sia soprintendente il quale ogni dì faccia la visita con informarsi
dalla bocca propria di ognuno se hanno avuto i medicamenti destinati,
e come si portino gli astanti messi per loro servizio, i quali non
saranno allora presenti, per correggerli o scacciarli occorrendo. E
torno a dire che si abbia una rigorosa avvertenza sopra gli andamenti
de’ beccamorti e de’ condottieri degl’infermi, nè mai si permetta
che chi è solamente sospetto sia condotto ai lazzeretti degl’infetti,
quando non meritasse, per essere caduto in pena, d’essere forzato a
fermarsi colà per servire agl’infermi. Non si portino sullo stesso
carro infetti e sospetti ai lazzeretti; non insieme morti e semivivi
alla sepoltura: queste sono crudeltà indegne d’uomini, non che di
cristiani. Nella peste di Milano del 1576, cioè a’ tempi di S. Carlo,
accadde questo caso. Fu portato dallo spedale, o sia lazzeretto
di S. Gregorio un uomo non peranche morto di peste alla sepoltura,
confuso con gli altri. Stette egli tutta la notte in una massa di
que’ cadaveri. Passando la mattina per quelle bande il sacerdote che
portava il viatico agli appestati, il povero uomo per gran desiderio
di quel divino cibo, si alzò in ginocchioni tutto pieno d’allegrezza
e d’ansietà, e con quella voce che potè, siccome spirante, chiese la
santa comunione. Avendogliela volontieri data il sacerdote, ed avendola
egli ricevuta con somma venerazione e tenerezza, da lì a poco in quel
luogo tutto consolato se ne morì. Alessandro Benedetto racconta d’una
nobil matrona portata inavvertentemente alla fossa, creduta già morta.
Licostene, l’Ildano, il Crafizio, il Diemerbrochio riferiscono altri
simili casi accaduti nelle pesti de’ loro tempi. Adunque raccomandare
e invigilare, affinchè non si commettano somiglianti errori o
barbarie dai beccamorti, soliti in qualche luogo a portar via i poveri
agonizzanti, o tuttavia spiranti, con quell’indegno pretesto che tal
gente si può contare per morta. Alcuni già tenuti per estinti, si sono
riavuti ed hanno ricuperata la vita e la salute. E perciocchè talvolta
accade che alcuni cerusici o per ignoranza o per poca diligenza
mandano al lazzeretto persone inferme, ma non di contagio, perciò
fatti depositare gl’infermi in un lettuccio prima d’introdurli, e ben
visitati da’ cerusici del lazzeretto alla presenza del religioso, se vi
troverà che sieno appestati, loro si dieno ivi i sacramenti, e poscia
entrino; o pure, scoperti infermi d’altro male, si mandino al luogo de’
sospetti.

Nelle città opulente e capaci di far grossissime spese per la salute
del popolo suo, tutto può venir ben fatto, e non seguiranno tanti
disordini, cagionati per lo più dal voler certi buoni fini senza
aver anche buoni mezzi per arrivarvi. Ed eseguendosi le leggi fin qui
accennate, i lazzeretti, sequestri ed altri rigori torneranno tutti
in vantaggio del popolo. L’altre città o terre debbono regolarsi come
possono il meglio. Almeno procurino di formare un lazzeretto per gli
appestati, poichè alle persone solamente sospette si può provvedere in
caso di bisogno con ben regolati sequestri, e senza lazzeretto a posta.
Nella nostra città l’anno 1630 tre erano gli spedali degl’infermi,
cioè uno a S. Lazzaro, un altro nelle Sgarzerie e il terzo nelle
Stimmate, tutti e tre mantenuti alle spese del pubblico. Si lasciavano
nelle loro abitazioni le persone comode, e molte altre che aveano
case capaci per separar gl’infermi e i sospetti dai sani, restando
proibito che nè essi infetti o sospetti, nè chi loro serviva potessero
praticar con altri, e venendo obbligato al sequestro medesimo chiunque
avesse conversato con esso loro. I poveri e alcuni altri, secondo la
prudenza dei conservatori e deputati, si mandavano ai lazzeretti. Nella
peste di Roma sul principio si camminò con gran rigore; e il condurre
irremissibilmente ai lazzeretti anche i cittadini più comodi, fece che
gli altri furono più ritirati dal conversare e più cauti dal contagio.
Ma non istettero molto ivi a permettere che restassero in casa propria,
per far ivi la contumacia, le persone civili o agiate, purchè con
rigorosa separazione dai sani. Altrettanto è da fare in altre simili
funeste congiunture, asserendo ancora accreditati scrittori che basta
rinserrare i sospetti nelle loro case, con profumar bene le medesime
e le robe loro, e con visita giornaliera dei medesimi rinchiusi,
facendoli venire alle porte o finestre, per chiarirsi se alcuno si
fosse di nuovo ammalato. Dopo quindici dì trovandosi eglino tutti sani,
si può dar loro la libertà. Certo i profumi serviranno di gran rimedio
e di risparmio di molte altre spese ed incomodi. Morto che sia di peste
alcuno, profumandosi la sua stanza colle robe ivi poste o che abbiano
servito a lui, possono ivi abitar fra non molti giorni altre persone;
e potendo i sospetti sequestrati in essa casa abitar altre stanze,
non c’è necessità precisa di forzarli ad uscire, giacchè il soccorso
dei profumi può liberar quelle stanze e le robe loro dai vapori
pestilenziali che per disavventura vi fossero penetrati. Vero è che in
Firenze nel 1630, essendosi osservato che il lasciar fare la quarantena
nelle case ove era morto alcuno di peste, riusciva di gran nocumento ai
sani, perciò fu risoluto da lì innanzi di condurli tutti al lazzeretto
de’ sospetti; ma il danno procedeva dalle anguste e pestilenti stanze:
al che ci è rimedio, come s’è detto, e massimamente per chi ha case
larghe e abbonda di comodità. Ivi medesimamente ripullulato il contagio
nel 1633, vinse il parere di chi consigliava il contentarsi dei soli
sequestri nelle case proprie degl’infetti; ma conosciuto da lì a non
so quanti giorni che si andava di male in peggio, si aprì di nuovo il
lazzeretto, non ostante l’abborrimento che vi aveva il povero volgo, e
se ne provò in breve buono effetto. In Ferrara nel 1630 fu preparato
per lazzeretto il monistero di S. Giorgio degli Olivetani, ed altre
città si sono pure servite d’altri conventi in sì estremo bisogno.



CAPO XII.

  _Luogo e regole della quarantena. Se sieno necessari 40 giorni
    per essa. Regolamenti per l’introduzione delle vettovaglie.
    Obbligazione dei ricchi di soccorrere i poveri. Doversi
    facilitare il fare i testamenti. Cura degli spedali e delle
    prigioni._


Volendo persone o robe procedenti da luoghi sospetti introdursi
in un territorio sano, ognuno sa che debbono elle soggettarsi alla
contumacia, o sia alla quarantena, la quale nè pur si dee, se non con
gran riguardo, concedere a chi venga da paese infetto e vicino. Per la
quarantena si ha da eleggere un luogo ameno e separato dalla frequenza
degli altri, colle sue divisioni per varie famiglie e persone, e
regolarsi poi nella seguente forma. Sul principio, spogliate le persone
delle loro vesti, si lavino ben bene i loro corpi con aceto in ogni
parte e si rivestano con altri vestimenti non sospetti. In mancanza di
questi altri abiti, dovranno sopportare il profumo della sanità per lo
spazio di mezz’ora in circa con tutte le robe che avranno portato, in
una camera ben chiusa, avendo ben distese essa robe ivi, in maniera che
per due ore possano ricevere perfettamente il profumo, dopo il quale
si possono usar come nuove. Ciò fatto, si noti in un libro il giorno
da cui comincerà la quarantena. Non parlino, nè trattino con altri se
non con le cautele prescritte per la gente sospetta. Se si ammalasse
alcuno, il visitino i medici o cerusici; e scoperto appestato o temuto
per tale, si farà porre in una capannetta molto separata dall’altrui
abitazione con guardie. Ma non avendo peste, si potrà curare in
compagnia de’ suoi, i quali, solamente in caso ch’egli fosse scoperto
infetto di mal contagioso, dovranno ricominciare la quarantena. Sui
principj si può con questo ripiego soffocar la peste nascente.

Il tempo della quarantena, secondo la pratica de’ prudenti maestrati
di Venezia, ora è di pochi, ora è di molti giorni, prendendosi la
misura di ciò dal maggiore o minor pericolo e sospetto, e dalla
maggiore o minor lontananza dell’infezione. L’intera quarantena è di
40 dì, dal che venne il suo nome, e tanto si suol richiedere negli
urgenti sospetti di peste. Nulladimeno a me sembra meritevole di molta
riflessione e fondatissima la sentenza di Lodovico Settala e del P.
Maurizio da Tolone cappuccino, dell’ultimo de’ quali rapporterò i
sentimenti e le ragioni. La pratica, dice egli, di 20 e più anni mi dà
animo di francamente asserire essere bastevoli 20 giorni di quarantena,
benchè l’uso sia introdotto di 40. Certo è che chi avrà maneggiato robe
infette, o attratta aria appestata, in guisa che gli si sia attaccato
il male, proverà prima che passino 15 dì qualche grave accidente, come
di febbre con vertigini ed inquietudine; camminerà vacillando; avrà gli
occhi ottusi ed aggravati, la faccia pallida e livida, vomito, sonno
grave che ha del letargo, frenesia, ecc., o veramente mostrerà segni
esterni di buboni, petecchie, ecc. Quindi è che se qualche persona
sospetta si sarà, nell’entrare in quarantena, lavata bene con aceto,
mutando le vesti e insieme profumando tutte le altre suppellettili, nè
avrà sentito ombra o apparenza di male, si può, passato il ventesimo
giorno, licenziare come sicura di ogni infezione, avendo io più volte
osservato non esservi infetto che prima de’ 15 evidentemente non si
conosca, o abbia passato quel termine con salute e poi si sia scoperto
appestato. Vero è che se si trascurassero le cautele suddette e le
diligenze prescritte ne’ lazzeretti, potrebbe la peste divampare non
solo dopo i 30, ma anche dopo i 40 giorni. Avverto che la mutazione
dell’aria fatta da luogo infetto in altro sano è cagione che la
malignità del morbo si dia più presto a conoscere che se si fosse
fermato nel primo.

Stieno poi bene oculati i conservatori della sanità, perchè nel dare
le quarantene si commettono tutto dì dei gran disordini, con venir
delusi i saggi editti. Le guardie, persone vili, per danari permettono
tutto, e spezialmente l’oltrepassar le mete sì a’ quarantenari come
a quei di fuora. Spirando scirocco, o aria umida e piovosa, avvertano
che l’infezione delle robe, anche esposte all’aria, non si leva, ma si
fomenta, facendosi talvolta la quarantena intera senza purgarsi. Si
dee anche temere d’un inconveniente nel verno che non suol accadere
la state, cioè che in tempo freddo, o spirando la tramontana, si
nascondono e si concentrano nei panni e nelle robe gli spiriti
pestilenziali, i quali, venuto poi il caldo, fanno strage orribile.
Ma in qualunque tempo che corra, se saranno ben fatti i profumi alle
robe e verrà ben custodita la persona e governata coll’aceto e colla
mutazione dei panni, la quarantena sarà mezzo sicuro per accertarsi se
la persona abbia condotta seco l’infezione, e per liberarnela ancora.
Nessuno (aggiunge il mentovato Cappuccino) adduce una ragion soda
e vera per cui si assegnino 40 giorni alla purga suddetta. Ma posto
per vero che la pestifera qualità del male non può stare più di 15
dì a scoprirsi, hanno da bastar 20 giorni. E per le robe, quantunque
infettissime, si purgano queste in 24 ore a segno che si potranno dipoi
maneggiare con tutta sicurezza. Ad un uomo che parla colla sperienza
alla mano e reca buone ragioni, parmi che si possa acquetar la prudenza
anche a’ tempi nostri. Veggasi Paolo Zaccaria, lib. 9, tit. 5 delle
Quist. Medico-Legali, che tiene e diffusamente tratta la sentenza
medesima.

Una delle più dure e difficili, ma delle più necessarie applicazioni
di chi governa in congiuntura di contagio, si è quella dell’annona e
delle grasce, cioè di provveder grani e vettovaglie, e massimamente
per mantenere alle spese del pubblico i poveri e chiunque non ha
mezzo allora per alimentarsi colle sue rendite o colle sue fatiche. Il
cardinale De Luca saggiamente insegna che i due punti principali del
buon governo in tempi di peste sono l’ubbidienza rigorosa, eguale in
tutti e senza eccezione o rispetto di persona alcuna, e l’allettamento
e la piena libertà de’ vivandieri che da’ paesi non infetti, colle
dovute cautele, portino vettovaglie. E certo non si dee in tempi tali
perdonare a diligenza e spesa veruna, perchè la fame può fare non meno
danno allora che la peste medesima. Questo è un atto di somma carità,
ed è medesimamente un interesse importantissimo, perchè, perduti gli
artigiani, i contadini, i trafficanti e gli altri operai, non si può
dire che pregiudizio ne venga a coloro che restano in vita. È misero il
capo allorchè nol servono o gli mancano le membra. Finita la peste del
1630, e finite tante altre, fu carestia in alcuni paesi perchè erano
mancati i contadini. Le persone ricche e nobili furono gastigate nella
morte dei poveri, perchè non trovavano più chi loro servisse, nè chi
rendesse loro frutto de’ loro poderi, case, botteghe, dazi, gabelle
e fondachi. Tutte le mercatanzie, sì del paese, come straniere, e le
manifatture del vestire, fabbricare, ecc., vennero carissime, con tanti
altri danni e sconcerti che si possono bene immaginare moltissimi, ma
che non si possono saper bene tutti se non da chi ha la disavventura
di farne la prova. Il perchè gran gastigo è la peste, anche dopo esser
finita, per gli effetti suoi, e per conseguente i principi, le città,
i ricchi e i nobili dovrebbono ben accudire per preservare il paese da
sì aspro flagello, o almeno per conservare in vita il più che potessero
il misero popolo, contro del quale suol per l’ordinario sfogarsi il
principal furore della pestilenza. E i vicini sani anche debbono,
purchè possano, vendere e condurre al paese infetto, che ne abbisogni,
i viveri, sì per motivo di carità cristiana, e sì per altri riguardi.
Si ricordino che nella peste del 1576 i cittadini di Monza rinserrati,
non sapendo come vivere, per disperazione saccheggiarono il paese
circonvicino.

Non solamente hanno i maestrati e i principi da adoperare ogni sforzo
per la pronta ed anticipata provvisione delle biade, e perchè si
seguiti a fare il trasporto delle vettovaglie, col concedere ancora,
occorrendo, esenzioni al condottieri, ma debbono con egual cura
invigilare, affinchè non succedano monopolj e frodi, assai facili in
tempi sì sconcertati, con troppo aggravio o delle borse o della sanità
del popolo. Non si vendano dunque commestibili a prezzo eccedente,
nè vini guasti, nè altre robe nocive; e però sieno vietate le frutta
acerbe o fradice, i citroni, l’uve immature, i moscatelli, le persiche,
i funghi di qualsivoglia sorta, il latte quagliato e il pesce preso
con pasta o esca, o pur cattivo o fradicio, e anche il marinarlo o
friggerlo per poi venderlo. Ricordo nondimeno che il sugo d’agresta
è utile in tempi tali per condirne le vivande entrando esso fra gli
acidi che possono o debbono adoperarsi. Nella nostra città fu in
fine proibito il vendere anche ogni sorta di pesce forestiero fresco,
tanto vivo quanto morto, a fine di fuggire vari mali effetti che ne
venivano o ne poteano venire. Così è da vietare l’estrazione dell’olio,
delle droghe, dei commestibili e d’altre robe non facili ad aversi.
Appresso è da tener l’occhio attentissimo ai macelli, acciocchè non
si vendano se non carni sane, e molto più ai fornai e ai provveditori
di grani, farine e pane, per impedire che non si vendano biade guaste
o immonde, o non si assassini, col pane stesso pieno di loglio e
d’altre brutture, il povero popolo, e non succedano frodi o ruberie
nella loro distribuzione. Meglio è pane sano con acqua pura che cibo
guasto. Tengano l’occhio ai mulini ove sì macina grano, perchè si
schivi il mescuglio de’ sacchi per quanto si potrà. Facciano custodire
con buon recinto i pubblici forni, ed abbiano premura che i fornai si
tengano lontani dal commercio dei popolo, mentre più volte è accaduta
la disgrazia che o morti, o caduti infermi essi fornai per poca loro
avvertenza, s’è provata per qualche giorno nella città non lieve
penuria d’un alimento sì necessario. In Firenze l’anno 1630 la maggior
parte de’ fornai s’infettò pel concorso di tante persone e maneggio
di tante asse e tele. Convien pensare al rimedio. Dovrassi anche
ordinare per tempo che le spezierie sieno provvedute con abbondanza di
medicamenti, droghe ed altre cose occorrenti in simili congiunture,
prestando anche danaro del pubblico agli speziali, qualora mancasse
loro il mezzo di far simili provvisioni. Toccherà poi ai medici
l’osservare che non si vendano ivi robe tarlate, muffate o guaste,
e medicamenti inutili o finti, senza verun giovamento e forse con
pregiudizio della salute altrui, e nulla si venda a troppo caro prezzo.
Sarà anche interdetto agli speziali il vendere medicine solutive e a’
barbieri il cavar sangue senza licenza de’ medici per le ragioni che si
diranno.

E perchè in sì fastidiosi tempi sogliono i nobili, i cittadini e
l’altre persone comode allontanarsi dalla città, il che pure s’è
da me ancora consigliato di sopra, alla riserva di quelli che sono
tenuti alle pubbliche incumbenze e a certe obbligazioni per la cura
della patria, sarà necessario provvedere che la loro ritirata non
gli esima dal sovvenimento dei poveri e dall’impiego dei pubblici
uffizj, quotizzando tutti nel far collette di letti, biancherie,
buoi, cavalli, carrette e simili cose, e obbligandoli, se sarà creduto
bene, a supplir col danaro l’opera che negassero prestar colla propria
persona, essendo pur troppo in tali disgrazie gravissimi i pubblici
dispendi. Nella nostra città l’anno 1630, a dì 3 di settembre si venne
al seguente placido ripiego. Fu fatta pubblica intimazione a tutti
i capi di famiglia, abitanti o soliti ad abitare in città in casa
propria o tenuta ad affitto, e ad ogni altro cittadino originario
abitante del distretto, purchè questi possedessero beni in essa città
o suo distretto, che in termine di tre giorni sotto pena di molti
scudi si trovassero, o venissero, o mandassero deputato in città a
fare l’infrascritta obblazione, con obbligare a ciò anche i minori e
le donne, ed altri che fossero capi di famiglia, per i quali erano
tenuti i tutori e curatori. Cioè sapendosi pur troppo il bisogno
della città per le intollerabili spese che giornalmente si faceano
in occasione della peste, doveano tutti fare un’offerta di danari, o
biade, o argento, o oro conforme alla loro possibilità, presentandola
con polizza a chi era deputato. Si aggiunse che non si voleva far
colletta forzata, perchè più si sperava dalla spontanea amorevole
carità de’ cittadini. Tuttavia a chi fosse più scarso di quello che
portassero le forze sue (sopra che s’invigilerebbe) si facea sapere
che verrebbero presi contro di lui altri spedienti; e che incorrerebbe
nella pena chi mancasse all’offerta fatta, la quale si dovea poi pagare
in termine di quindici giorni: sperandosi intanto che il Signore Iddio
avrebbe inspirato nella mente e nel cuore di tutti un acceso e piissimo
sentimento di carità, e una pronta risoluzione d’impiegare tutto quel
che potessero in soccorso e servizio dell’afflitta loro patria.

Fu anche nella nostra città facilitata con dispensa del principe la
maniera di far testamento durante il contagio. In città era lecito il
farlo con un legittimo notaio e tre testimoni, bastando pei codicilli
il notaio con due testimoni. Quanto al distretto e alle ville sue, ove
non si potesse facilmente trovar notaio, bastava che del testamento
o codicillo si rogasse il proprio paroco, o pure il cappellano, in
assenza o legittimo impedimento del paroco, alla presenza di due soli
testimoni; ma che non si usassero fraudi, perchè, scoperte, sarebbono
con ogni rigor punite. Che se venissero a mancare nella città i notai,
allora anche per la città si concedeva la facoltà conceduta alle ville
suddette. Così furono levate via le dispute che possono nascere per
le formalità d’essi testamenti, intorno ai quali hanno, oltre a vari
legisti, scritto due teologi, cioè il P. Marchino o il P. Gio. Angelo
Bossio, t. 2, tit. 9. Gli appestati si potranno far portare alle
finestre o alle porte, ed ivi alla presenza de’ testimoni e del notaio
pubblicare la loro ultima volontà. Non aggiungo altro intorno a questo
argomento per non entrare nel caos. Certo è che in tempo di peste
sono validi molti atti, benchè mancanti di alcune solennità richieste
dalle leggi in altri tempi; perchè, a cagion d’esempio, allora basta
un testimonio, dove regolarmente ce ne vorrebbero due; e una donna può
servire di testimonio a un testamento, ed essa può far dei contratti
senza l’intervento de’ parenti o vicini, per tacer altri privilegi di
que’ miseri tempi. In Roma fu anche ordinato che gli strumenti pubblici
allora fatti si conservassero diligentemente ne’ protocolli, e se ne
desse copia senza dilazione al pubblico archivio.

Abbiano cura i maestrati anche degli spedali. Se ve n’ha di quegli
ove si ricevano bambini esposti, orfani e vecchi inabili, non si
permetta che vi entri o ne esca alcuno se non per necessità e con gran
riguardo, tenendoli chiusi con rigoroso sequestro. Si può provvedere
al loro bisogno senza capitarvi dentro; e quando vi penetrasse il
morbo, sarebbe difficile l’impedire che non vi facesse un eccidio
universale. Gli altri spedali, ne’ quali si sogliono ricevere o i
febbricitanti, o i piagati, sarà necessario chiuderli affatto per tali
persone, affinchè sotto l’apparenza d’altro male non vi entrasse la
peste che di tutti farebbe scempio. Non meritano minor attenzione le
pubbliche carceri. Per le segrete, ove non suol trattenersi che uno o
pochi altri per cadauna, la disgrazia stessa è una specie di ventura
per quei prigionieri, mentre, segregati dal commercio altrui, possono
facilmente assicurarsi ancora dal morbo. Solamente per costoro s’ha
d’aver cura de’ loro custodi, acciocchè incautamente somministrando il
cibo, non portino la morte entro que’ nascondigli, o pure se venissero
a mancar tali guardiani, i miseri carcerati, coll’essere dimenticati,
non perissero anch’essi. Il pericolo e la difficoltà maggiore si è
per le prigioni comuni, che essendo d’ordinario ripiene di rei e di
sordidezze, sono per conseguente una facile occasione e un più facile
pascolo alla pestilenza. Adunque o liberare i rei di minore importanza
e mettere nelle segrete gli altri, o pur chiuderli tutti, o trovarvi
altro più utile o più plausibile e spedito ripiego, comandato dalla
giustizia o consigliato dalla carità. In Palermo nella peste del 1625
non si carcerava alcuno per liti civili. Per delitti criminali leggieri
si assegnava la casa per carcere sotto pena della vita; e per gli
eccessi gravi il reo si metteva in prigione, ma non se gli lasciava
portar seco altro che il solo vestito e una camicia bianca. E ciò
sia detto del Governo Politico io tempo di peste. Passiamo al Governo
Medico.



DEL GOVERNO MEDICO DELLA PESTE

LIBRO SECONDO.



CAPO I.

  _Regole mediche per preservarsi dall’aria. Ricette varie per
    profumi. Come si debba governare nell’uso del mangiare e bere;
    del sonno e della vigilia; del moto e della quiete, e delle
    passioni dell’animo. Grande utilità dell’intrepidezza, e del
    coraggio._


Dopo le diligenze de’ magistrati per tener lontano il contagio o per
impedirgli venuto che sia, ulteriori progressi e maggiori stragi,
è da vedere quanto dal canto loro debbano e possano fare i medici
per ottener lo stesso fine. Ancor qui l’arte loro principalmente si
divide in preservativa e curativa. In quanto alla prima; c’insegnano
essi a regolarci bene, massimamente in que’ tempi, nella dieta, cioè
nell’uso di sei cose appellate da loro non naturali, che sono l’aria,
il mangiare e bere, il movimento e la quiete, il sonno e la vigilia, la
retenzione ed escrezione delle cose consuete, e le passioni dell’animo.

Non occorrerebbe dir qui altro intorno all’uso dell’aria, perchè già
di sopra se n’è parlato diffusamente, coll’addurre ancora i rimedi
preservativi, affinchè essa resti purgata, o per mezzo di essa non si
contragga l’infezione. Tuttavia aggiungerò qui che il fuoco è uno de’
migliori correttivi dell’aria pestilenziale, avendo insin lo stesso
Ippocrate, per quanto si crede, domata ed estinta quella fierissima
pestilenza che a’ suoi dì passò dall’Etiopia nella Grecia col far
accendere, e specialmente in tempo di notte, dei gran fuochi per la
città. Questi tanto più riescono utili quanto più sono odorose le legna
accese. Ma sovente, costando troppo simili incendi, e potendo essi
talvolta cagionarne anche de’ maggiori nelle città, basterà ritenerne
l’uso per purgare l’aria interna delle case, bruciando ivi per le
camere ginepro, frassino, cipresso ed altre simili legna di grato e
sano odore, che sono mirabili correttivi degli effluvj pestilenziali.
Nicolò IV, sommo pontefice, nella pestilenza del 1288, e Clemente VI in
quella del 1348 si tenevano chiusi nelle loro stanze, facendo far ivi
e per tutto il palazzo gran fuoco anche nel mese di luglio. In tempo di
state ardendo tai profumi e fuochi in una camera, si può stare ritirato
in un’altra; e allora ancora gioverà il valersi di sprazzi d’aceto,
e di fiori, e d’erbe odorifere sparse per le stanze. Ho veduto alcuni
che in vaso di maiolica o d’altra terra bene inverniciata conservavano
varie erbe con fiori di buona fragranza, alquanto spruzzate di sale,
bagnandole di quando in quando con acqua in tempo di state, con che
davano buon odore a tutta la stanza. Sono erbe sane ed odorifere la
menta, la salvia, l’origano, l’abrotano, il puleggio, la calaminta,
la satureja, la lavanda, l’erba sangiovanni, cioè la sclarea o sia il
gallitrico, la ruta, l’artemisia, la matricaria, ecc. Il più sicuro
però fra simili preservativi si è l’uso dei profumi sopra da noi
descritti. Si facciano dunque per le camere in tutti i tempi dell’anno
due o tre volte il giorno. E perciocchè abbiamo già biasimato certi
odori acuti e calidi, come quei del muschio e dello zibetto, ora non
vo’ tacere che dopo il Massaria, seguitato da altri, il Diemerbrochio,
uno de’ più dotti ed esperti maestri di questa materia, ci assicura
d’aver notato che i suffumigi di soave e sottile odore (quali dice
egli essere anche lo storace, il ladano, il belzoino, i garofoli, ed
altri simili) non solamente poco giovavano nella peste del suo tempo,
ma ancora a moltissimi erano di gran nocumento, se non per altro, per
recar loro doglia di capo. Però lasciando egli stare i lussi del naso,
prescriveva odori anche poco soavi, ma più sani, e non già molti,
ma pochi. Utilissimo è il suo ricordo; nè ciò si oppone a quanto ho
consigliato di sopra colla scorta d’altri autori intorno al valersi
ancora di alcuno d’essi odori sottili, essendo bensì da dir nocivi i
profumi composti di soli ingredienti, per dir così, effemminati, ma non
già se alcuno d’essi venga unito ad altri odori maschili e alquanto o
molto spiacenti alle narici.

Il perchè lo stesso Diemerbrochio commendava quasi a tutti le seguenti
cose: Cioè far profumi con incenso e bacche di ginepro parti eguali,
essendochè tal profumo, quantunque vile e comune, vince però in vigore
moltissimi altri. Prescriveva egli anche i seguenti


_Pastelli per profumi._

℞. _Incenso, grani di ginepro, succino bianco, ana (cioè parti eguali,
o sia di cadauno) mezz’oncia; mirra, belzoino, mastice, storace, ana
dram. 2; garofoli dram. 1 e mez. Si polverizzi tutto, e con mucilagine
di dragante se ne formino pastelli da bruciar sulle brage._


_Altri pastelli._

℞. _Zolfo, incenso, grani di ginepro, pece navale, ana mezz’onc.
Mescolati e preparati si riducano in pastelli._


_Altri pastelli._

℞. _Incenso onc. 1, solfo onc. 1, mirra dram. 4, pece navale, belzoino,
storace, succino, ana dram. 1 e mez.; garofoli dram. 1. Se ne faccia
polvere, a cui aggiungi olio di ginepro scrup. 2 con mucilagine di
dragante quanto basti, e se ne facciano pezzetti per profumi._

Il Sennerto pei poveri prescrive le seguente


_Polvere da far profumi._

℞. _Bacche di ginepro manipoli o pugni 2, scorze di bacche di lauro
manip. 1, incenso mez. lib., foglie d’assenzio, o sia medichetto, ruta,
quercia, ana manip. 2, segatura di legno di ginepro manip. 4, ambra
bianca onc. 1. Se ne faccia polvere._

Il medesimo e Gregorio Horstio lodano molto per la prova fattane quest’


_Altra polvere da far profumi._

℞. _Bacche o sia grani di ginepro manip. 4, radici di ellenio, di
scorza esteriore di bieta, corno di becco raspato, sabina, ana manip.
2; foglie di quercia, mirra, ana onc. 1. Se ne faccia polvere e si
bruci per le stanze._

Torno poi ad inculcare che il solo solfo può servire d’un mirabil
profumo, poichè il suo alito e fumo resiste mirabilmente agli aliti
pestilenziali e toglie in poco tempo ed ottimamente le corruzioni
dell’aria. Ma perchè solo esso riesce troppo spiacevole e stringe il
respiro, perciò gioverà mischiarlo con altri meno molesti suffumigi.
Anche la pece è stimatissima, ed essa dicono che fu il segreto
d’Ippocrate per correggere l’aria infetta. Lo stesso buon effetto può
sperarsi da altri bitumi. Pazienza se il naso ne ha disgusto: la sanità
ne avrà ben vantaggio. Oltre di che non c’è necessità di star nelle
stanze allorachè si profumano col solfo. È anche migliore il solfo
col nitro, e perciò la polvere da fuoco è tenuta per egregia ed ottima
medicina per purgare l’aria. Levino Lemnio ed altri lodano molto pei
suffumigi le corna delle bestie, siccome ricche di sale volatile, e
massimamente quelle di becco. Possono anche bruciarsi scarpe vecchie,
e peli, e unghie ed anche sterco di bestie bovine: delle quali cose
io fo menzione perchè in difetto di meglio possano i poveri ricorrere
ad un sì facile profumo. Anche il fumo del buon tabacco è creduto
giovevole più di moltissimi altri per impedire o estinguere il contagio
dell’aria nelle case. Sembra poi ottimo consiglio, quando il tempo
non sia piovoso o nebbioso, l’aprire la mattina, una o due ore dopo la
levata del sole, le finestre delle camere, quelle però che riguardano
l’oriente, e molto più le volte a tramontana, acciocchè v’entri
buon’aria, lasciando sempre chiuse quelle che mirano il mezzodì, e le
cloache fetenti o altre case confinanti ove fossero ammorbati. Il vento
aquilone, o sia la tramontana, è tenuto da Ippocrate e dagli altri
medici per molto salutifero in Europa; e all’incontro i venti spiranti
dall’austro, cioè dal mezzodì, sogliono essere nocivissimi, essendo
stato osservato insin da Plinio che spirando gli scirocchi s’aumenta la
peste.

Per conto del mangiare e bere, allora più che mai debbono guardarsi gli
uomini da cibi malsani e di cattivo nutrimento, e dalle bevande guaste
o perniciose anche in altri tempi. Non è qui luogo da copiare la Scuola
Salernitana; e sarebbe anche per altro impresa tendente al ridicolo il
mettersi, come appunto fanno alcuni medici, ma non di prima sfera, in
trattando del contagio, a decidere sopra l’utile o danno d’una lunga
serie di carni, pesci, frutta, ecc., ventilando tutto come vuole la
lor fantasia, e pronunziando: Questo è buono e sano; quell’altro è
cattivo. Una tale scrupolosità viene derisa dai medici più assennati,
perch’eglino sanno non doversi, nè potersi camminare con sì rigoroso
bilancino, e dependere il buono o il cattivo dei cibi non tanto dalla
loro qualità, quanto dalla disposizione di chi ha da prenderli. Basterà
pertanto avvertire che i commestibili, de’ quali abbiam detto di sopra
doversi proibire il mercato, regolarmente si hanno a fuggire da tutti
in tempo di contagio, ed esser bene l’astenersi, per quanto si può,
da quelli che si credono di mal sugo o per la loro troppa grassezza,
o troppa durezza, o troppa facilità a corrompersi, come per esempio
le carni di porco ed altri simili grassumi, i salmoni, le anguille, i
legumi, il latte, i cocomeri, i melloni, le cerase, le pesche, o sia
i persici, esortando insino alcuni a non mangiare quasi mai frutta in
tempo di peste: il che a me sembra troppo, e così credo che parrà ai
più intendenti di me. Convengono ancora gli scrittori doversi allora
più che mai lasciare i cibi molto dolci, come il mele, i canditi, lo
zucchero, ed altre simili dolcezze anche dei vini e delle frutta (nè
l’acquavite è creduta giovevole), attenendosi per quanto si può a
cibi e bevande che abbiano sapore naturale e sano di acido e di amaro.
Perciò sono anche da ricercarsi allora, siccome utilissimi, i limoni,
cedri ed aranci, i pomi cotogni e i granati, il ribes e simili, che
possono coll’acetoso ed astringente loro preservare dalla corruttela
e dallo scioglimento gli umori e il sangue, mischiandone il sugo col
vino o spremendolo sopra le vivande. Anche le scorze degli agrumi sono
buone. Del resto chi è solito a nutrirsi di cibi grossi, non dee allora
mutar registro, siccome nè pure chi è assuefatto a cibi leggeri e di
facile digestione. E perchè è comune opinione, assistita ancora da
non pochi medici, che gli agli e le cipolle sieno un gran preservativo
contro la peste, si vuol avvertire che tal credenza viene impugnata da
altri medici, tenendo essi che sì fatti cibi, almeno l’aglio, sieno di
cattivo sugo, e producano dei mali effetti nel corpo umano. Tuttavia
per la gente di stomaco gagliardo e usata alle fatiche, quali per
l’ordinario sono i contadini e i facchini, l’arte medica li permette,
e forse loro giovano assai. Potrebbe consigliarsi ai delicati e a’
nemici della fatica corporale che se ne astenessero, almeno dall’aglio,
chiamato da Galeno triaca bensì dei rustici, ma non già di tutte le
persone; quando non volessimo supporre che l’aglio, preso in discreta
quantità, potesse colle sue parti saline e penetranti avvalorare la
digestione del ventricolo, spesso languente nelle persone delicate, e
introdurre col suo odore ne’ fluidi certe parti vigorose per resistere
agli aliti pestilenziali. E che questi frutti dell’orto possano, se non
con altro, almeno col grave loro odore difendere dagli spiriti velenosi
della peste, io facilmente il credo, nè trovo chi fra i medici si metta
a risolutamente negarlo, per nulla dire, scriversi dal Sennerto che se
non sono buoni per alimento, sieno ben buoni per medicamento contro il
morbo suddetto.

E questo quanto alla qualità de’ cibi e delle bevande. Quanto alla
quantità, si dee ricordare che il troppo e il troppo poco sono due
estremi da’ quali dee allora più che mai tenersi lontano chi vuol
preservarsi ed ama la sua salute. Se si ha da pendere all’uno di questi
due estremi, si faccia allora verso il poco, più tosto che verso il
molto, con guardarsi accuratamente dai conviti e dalle gozzoviglie e
dalla moltiplicità delle vivande, e sopra tutto da certe composizioni
inventate dal frenetico lusso della gola per rovina degli stomachi
e dispendio delle borse. S’hanno per consiglio di tutti da amare
ed eleggere cibi e vivande semplici e naturali; e ancora di questi
conviene mangiar moderatamente per ischivar le indigestioni e crudità,
cioè la sorgente della maggior parte dei mali che fanno fare il mestier
del corriere ai medici e buone faccende alla morte. Questi sono ricordi
utilissimi per tutti i tempi, ma specialmente per quei del contagio,
ne’ quali per l’ordinario chi ha umori cattivi più degli altri è
in viaggio per quel paese ove i medici non hanno giurisdizione. La
sperienza poi ha fatto vedere con troppi casi (non dovendosi attendere
alcuni pochi in contrario) che l’ubbriachezza allora è più che mai
perniciosa; anzi alcuni proibiscono affatto in quelle congiunture il
vino. Ma per parere de’ migliori esso, purchè sano e moderatamente
preso, è preservativo dalla pestilenza: il che fu asserito ancora
dagli antichi. Anzi alcuni il lodano, e permettono insino alle persone
febbricitanti, ferite dalla peste medesima, e ne concedono più spessi i
bicchieri alle malinconiche.

Che la stessa moderazione s’abbia a servare nell’uso del sonno e della
vigilia, essendo cattivo l’eccesso d’amendue, ce ne avvertì, son già
due mila anni, Ippocrate in uno de’ suoi Aforismi. Ai dormiglioni ha un
gran genio la peste per parere dell’Untzero. Egli è sempre pericoloso
il dormire sopra fieno e paglia fatti di fresco, o di notte a certe
arie, ma specialmente in tempi di peste. Similmente convien temperare
il troppo moto o la troppa quiete del corpo, con questa avvertenza però
che ne’ tempi sani _inertia atque torpedo plus detrimenti facit, quam
exercitium_, come diceva Catone, riferito da Aulo Gellio, ma qualora
l’uomo si trovi in mezzo alle morti, più sicura o meno pericolosa sarà
la quiete e l’ozio, e massimamente per chi non è avvezzo in altri
tempi a tener molto in moto i piedi e le braccia. Certo non sarà
se non giovevole il guardarsi allora da qualunque grave fatica che
riscaldi di soverchio e stanchi le membra, inducendo sudore, perchè
così troppo aperti i pori più facilmente contraggono i malori dell’aria
impura. Hanno osservato i saggi che dopo i violenti esercizi molte
persone venivano sorprese dalla peste, di modo che avvedutisene anche
i contadini, non si arrischiavano poi a continuare le loro necessarie
fatiche. In alcuni paesi il gusto del nuotare ne’ fiumi era pagato
bene spesso dal terribile disgusto della peste che sopravveniva.
Intorno alla ritenzione ed escrezione delle cose consuete non potrei
dire se son cose spettanti alla dietetica di tutti i tempi; e però mi
basterà di aggiungere avere la sperienza insegnato che allora più che
mai s’hanno con gran temperanza da cercare i piaceri leciti del santo
matrimonio, perchè ciò in tempi pestilenziali troppo dispone i corpi
a facilmente ricevere gli spiriti velenosi della pessima influenza che
corre. Sel ricordino specialmente gli sposi novelli, fra’ quali è stato
notato che spesse fiate la morte ha introdotto un eterno divorzio.

Finalmente le gagliarde passioni dell’animo, regnando il contagio,
possono chiamarsi i primi beccamorti dell’uomo. Gridano qui ad una
voce tutti i medici che specialmente la collera, la malinconia e il
terrore s’hanno a fuggire come la peste medesima, e doversi in loro
vece dar luogo all’intrepidezza, ilarità e quiete dell’animo. Tucidide
racconta che nella gravissima peste da lui descritta più degli altri
cadevano estinti i melanconici e paurosi. Altrettanto hanno osservato
ai tempi loro diversi medici; e fra gli altri il Sennerto attesta
essere stati presi da questo morbo non pochi pel solo terrore conceputo
al mirar da lontano, o pure, senza vederlo, al solo ascoltare che
passava sotto le finestre il carro funereo su cui erano condotti i
cadaveri degli estinti. Altri spaventati da un solo sogno funesto,
si sono tanto abbattuti di cuore, che caduti infermi hanno deluso
tutti i medicamenti. Ed è anche stato avvertito essere più rade volte
scampati coloro che dopo un gran terrore contraevano la peste che gli
altri assaliti dal morbo, ma senza precedente costernazione d’animo.
Ferita l’immaginazione e messi in disordinato moto gli spiriti e gli
umori da qualche spaventoso spettacolo, troppo agevolmente si prende il
veleno pestilenziale, ed anche senza peste si muore talvolta di pura
costernazione ed umor nero. Per lo contrario le osservazioni fatte
ci assicurano che i coraggiosi, gl’intrepidi ed allegri sono meno
soggetti all’infezione; e però dovrà allora eleggersi una forma di
costanza cristiana e di allegria onesta d’animo, fuggendo la mestizia
e la paura e le occasioni d’adirarsi, con tenersi a memoria le parole
del Bauderon parlante della peste: _Confidentes ut plurimum servantur;
contra, meticulosi facile corripiuntur_. Tanto è ciò vero, che non
mancano filosofi e medici, condottiere dei quali è l’Elmonzio, i
quali pensano che la cagione prossima ed essenziale della peste altro
non sia che il terrore e non già la comunicazione de’ sottilissimi
spiriti pestilenziali. Anche il Rivino, trattando della peste di
Lipsia dell’anno 1679 o 80, ha tenuta la medesima opinione. Il suddetto
Elmonzio però insegna non bastare il non apprendere per terribil cosa
la peste, ma essere necessario il credere e tener per certo che non
ne resteremo infetti, perchè in tal maniera l’archeo, o sia l’aura
vitale dell’uomo, viene a fortificarsi con un’idea contraria all’idea
perniciosa che può in noi imprimere il terrore e la paura. Io per me
non credo vero tutto ciò che in questo proposito hanno alcuni autori,
e molto meno mi assicuro sopra l’idea fantastica dell’Elmonzio; ma con
tutto ciò possiamo almeno di qui maggiormente imparare essere allora
di sommo giovamento il guardarsi dalla paura e da ogni gagliarda
apprensione di quel morbo micidiale, essendo probabile che una tal
passione cagioni la depressione delle parti spiritose del sangue, nel
quale stato poi si renda esso più atto a ricevere con minore contrasto
le velenose impressioni degli effluvj contagiosi. Finirò con riferir
qui ciò che ha il Rondinelli nella Relazione della peste di Firenze
del 1630 e 1633. Quei che erano portati al lazzeretto si esaminavano
come avessero preso la peste, se per aver mangiato robe infette,
ovvero praticato con appestati, si trovò che alla maggior parte
veniva senza averle dato occasione. Una delle principali era essersi
riscaldato o nel camminare, o nel durar fatica, o per essersi messo
sudato al fresco, o aver bevuto, di modo che l’aver preso una calda
era delle principali disposizioni per la peste. Si conosceva, seguita
egli a scrivere, che quello che per ordinario sarebbe stato male di
punta, febbre maligna, quartana, terzana, si convertiva in buboni e
carboncelli. Nè in Firenze, nè altrove fu in questi tempi alcuna sorta
di febbre, ma quasi tutti i mali battevano in contagio. Io nondimeno,
quanto a me, sarei duro a credere tutto questo. Egli è difficile pel
volgo il saper dire cosa abbia loro nociuto in tempi tali. Ma di questo
non più.



CAPO II.

  _Cauteri commendati per preservarti dalla peste. Quali persone più
    facilmente contraggano il morbo. Salassi e medicine solutive,
    preservativi biasimati. Amuleti o pericolosi, o dubbiosi contro
    la pestilenza. Attenzione de’ magistrati contro chi spaccia
    rimedi vani o nocivi. Sacchetti preservativi. Olio del Mattiolo
    utile anche nella preservativa._


Altri rimedi, che più da vicino servono a preservar dalla peste, ci
vengono suggeriti dall’arte medica. E primieramente i cauteri, o sia le
fontanelle, fatte o nelle braccia o nelle cosce, non hanno più presso
alcuni medici moderni quel credito che aveano presso gli antichi. A me
non si conviene l’esaminar le ragioni dell’una e dell’altra parte, ma
l’avvisar solamente che in moltissime pesti si sono veduti dei mirabili
effetti di un tale sfogo artifiziale degli umori nocivi e corrotti del
corpo umano; e perciò ne è sommamente commendato e consigliato l’uso
per preservarsi dal contagio nelle opere dell’Ingrascia, dell’Arcolano,
del Parisino, del Pareo, d’Antonio Porto, di Niccolò Massa, d’Ercole
Sassonia, del Sennerto, dell’Untzero e d’altri assaissimi medici
insigni, coi quali s’accordano il Diemerbrochio, l’Etmullero ed altri
moderni che ne hanno vedute eglino stessi le prove. Anzi gioverà
rapportar qui le parole precise di Alessandro Massaria: _Illud_,
scrive egli, _experientia satis confirmavit, quandoquidem accurata
observatione compertum est, non solum apud nos, verum etiam apud
Venetos, Patavinos et alios, ex infinitis pestilentia sublatis, aut
nullos, aut certe paucos objisse, quibus alicubi cauteria inusta
essent_. Abbiamo parimente da Guglielmo Ildano che nella fiera peste di
Losanna del 1612 niuno di quei che portavano cauteri vi morì di peste,
a riserva d’uno o due, pieni prima di mali umori; e però aggiunge
egli d’avere osservato in sè stesso e in altri quanto sia efficace
un tal preservativo. Giorgio Guarnero anch’egli attesta di non aver
veduto che nella peste di Venezia del 1576 morisse alcuno di quei
che s’erano premuniti con fontanelle; e il Quercetano scrive d’aver
conosciuto molti cerusici destinati alla cute degli appestati che
si difesero meglio con questo che con alcun altro rimedio. Girolamo
Mercuriale, uomo anch’egli di sperienza e credito riguardevole, ne
scrive nei seguenti termini: _Dicam quod ego experientia vidi. Possum
testari, me innumeros hac peste extinctos vidisse, nec unquam vidisse
quemquam qui haberet cauterium, præter unum tantum, atque ille erat
sacerdos. Interrogavi etiam hac de re multos medicos qui testati sunt,
neminem se vidisse. Quod quidem argumentum esse potest, hoc genus
auxilii magnopere conducere, et summa cum ratione; quandoquidem per
cauteria, tamquam per cloacas, continuo ichores, pravi et putredini
obnoxii educuntur_. Parimente Giovanni Doleo attesta di averne veduta
felicissima la sperienza nel contagio de’ suoi giorni. E però mi ha
quasi fatto ridere Olao Borrichio, uomo per altro celebre, il quale
appresso il Boneto pubblica come un segreto _inobservatum hactenus_ il
vantaggio che nella peste si ricava dai cauteri. _Deprehensum_, dice
egli, _nobis, grassante hinc ante 20 annos pestilentia, propemodum
extinctum fuisse eorum neminem, quibus in aliqua corporis parte hiabant
fonticuli_. La stessa osservazione fu fatta dal P. Chirchero, il quale
nel suo Trattato della Peste asserisce che durante il contagio di Roma
del 1656, ov’egli si trovò, niuno segnato con questi spiragli della
natura fu invaso dalla peste, a riserva d’alcuni di vita epicurea e
dissoluta, siccome egli intese dipoi da medici degni di fede. Parmi
che in questo anche il Chirchero possa meritar fede da noi; e tanto più
perchè ne fa fede ancora il celebre ed accuratissimo monsignor Lancisi,
medico pontificio.

Nulla però di meno hanno licenza i lettori di dar qualche calata
a tanti magnifici encomi dei cauteri, giacchè del loro valore, per
quel che concerne la preservativa, non è sì facile l’addurre qualche
fisico-anatomica ragione che appaghi. Oltre di che può avvenire che
non in tutte le pesti si ottenga lo stesso buon effetto; e in fatti
il Diemerbrochio scrive di aver osservato in quella dei suoi giorni
che qualche persona mancò di vita pel veleno contagioso, tuttochè
provveduta di fontanelle. Forse era gente disordinata. Comunque però
sia, buon consiglio reputo io il non trascurare in occorrenza di peste
questo preservativo, o almeno questo tentativo, che che sentano in
discredito di esso alcuni moderni seguaci delle ingegnose, ma non
di rado stravaganti idee dell’Elmonzio, giacchè la sperienza, più
venerabile di tutte le speculazioni, sembra commendarlo per utile,
e vien esso consigliato anche dal mentovato Diemerbrochio; e tanto
più perchè non è molto l’incomodo di tali emissari, quand’anche
fossero superflui, e cessata la peste e il bisogno, si può facilmente
lasciarne l’uso. Fu anche notato che alcuni sentendosi assaliti
dalla peste, avendo prontamente preso qualche rimedio sudorifero,
ne restarono liberi in breve, coll’avere la natura cacciato fuori
per le fontanelle una marcia nera e velenosa. Il suddetto Chirchero
scrive d’aver conosciuto un medico, deputato alla cura d’uno de’
lazzeretti di Roma, che si fece cinque cauteri, e si preservò sempre
illeso. Io non assicurerei però che questa fosse la precisa cagione
d’essersi egli felicemente salvato; ma dirò bene d’esser io persuaso
che almeno per la curativa possano recar molto vantaggio sì fatti
emissari. Per queste medesime ragioni è lodato da alcuni medici, al
primo sospetto d’aver contratta la peste, il forar la cute di qua e
là nell’estremità de’ muscoli delle braccia, ovvero de’ fianchi, con
poi mettervi e tenervi dentro radice d’elleboro nero, come si fa a’
buoi e cavalli, essendo veramente tal erba un semplice di gran forza
per attraere (mi sia lecito di così parlare) o per purgare (qualunque
sia il modo con cui ciò si faccia) i cattivi umori e i sali peccanti,
e potendo esso in tal guisa impedire la generazione de’ carboni e
de’ tumori pestilenziali. Se poi tale operazione, chiamata setaccio,
e dai nostri popolari sedagno, riesca di grande utilità alle prove,
nol so dire; ma sembra che non dovrebbe se non giovare per l’analogia
che ha coi cauteri. Angelo Sala molto la magnifica, citando ancor qui
la sperienza sua, e contando miracoli dell’elleboro nero, del quale
dice egli non darsi medicamento più efficace per tirar via gli umori
peccanti. Nulladimeno essendo i medici-chimici, fra’ quali è celebre
questo autore, in concetto di aprir molto la bocca, bisogna star cauto
in credergli tutto; e in fine essendo questo un rimedio dolorosissimo,
si dovrà andare adagio a valersene e a consigliarlo. Quello sì che
vien tenuto per certo si è, che non meno, e forse più de’ cauteri
artificiali, giovino e difendano dalla peste i cauteri fatti dalla
natura, quali sono la rogna, le ulcere e le fistole; e però allora non
bisogna chiudere, nè levare questi canali e sfoghi de’ perversi umori,
ma lasciarli aperti per isperanza d’un maggior benefizio. Questa è
sentenza quasi comune.

Oltre a queste persone sottoposte meno dell’altre all’infezione della
peste, ne accennerò qui per parentesi alcune che più o meno vi sono
soggette. Già notammo che i fanciulli e i giovanetti, a cagione non
meno della loro tenera complessione, che della loro poca avvertenza,
più di tutti sono facili a contrarre questo morbo attaccaticcio. Ai
vecchi difficilmente s’appicca esso; e le donne più degli uomini, e
più le parturienti, e più le gravide che le altre il contraggono. I
podagrosi, o sia gottosi, e quartanarj meno degli altri; e i flemmatici
meno de’ sanguigni e biliosi prendono la pestilenza. Così le persone
comode e ricche meno dei poveri, a cagione del loro miglior nutrimento
e governo, e non già per altro privilegio; perciocchè in Firenze l’anno
1630 fa osservato che pochissimi bensì de’ nobili s’infettarono, ma
pochissimi ancora ne guarirono. Del resto quantunque regolarmente
più sieno in pericolo di restar ferite dal veleno della pestilenza
le persone piene di cattivi umori e disordinate nella dieta, che non
sono i ben sani di corpo e ben regolati nel vivere, tuttavia bisogna
confessarlo, la peste non porta rispetto nè meno a queste; nè serve
allora il gloriarsi di sentirsi ben forte, giovane e sano, perchè più
forte si è la malignità di questo nemico nell’assalire i corpi umani,
o deboli o robusti che sieno, qualora essi non istan bene in riguardo.
Il che sia detto per consigliar le cautele a chi può, poichè per altro
è degno di molta attenzione l’osservazione fatta da alcuni; cioè che
nel principio de’ contagi molti di coloro che servono agli appestati
si appestano anch’essi, e molti ancora ne muoiono. Crescendo la strage
del morbo, meno di queste persone resta infetto; e allorchè il contagio
è nel suo furore e in declinazione, pochissimi e quasi niuno di tali
serventi o beccamorti s’infettano; o pure infettandosi, meno degli
altri restano offesi. Può proceder questo o dal restare in vita quei
che hanno interna disposizione per resistere al veleno pestilenziale,
mancando gli altri che ne sono privi, o pure dalla poca apprensione
e dal molto coraggio di costoro, essendo questo un gran preservativo
autenticato dalla sperienza; ovvero dall’assuefarsi eglino a poco a
poco e col lungo uso a quel veleno, talmente che non ne sentano poi
nocumento. Appresso è da avvertire che chi una volta ha avuta la peste
e ne è guarito, per l’ordinario non è più soggetto a questo pericolo
durante la medesima; dissi per l’ordinario, perchè Marsilio Ficino ed
altri non concedono sì francamente questa esenzione, raccontando essi
qualche caso di chi più d’una volta è stato colto da questo morbo e
ne è restato morto alla seconda o alla terza. Ma siccome si osserva
che chi ha provato una volta i vaiuoli e la rosolia, o sia le ferse,
non torna più a patirne, contuttochè si legga qualche caso di chi
per la seconda volta ne è stato o si crede che sia stato colpito;
così è da dir della peste, in cui per lo più i guariti dalla medesima
sogliono poscia andarne esenti finch’essa dura. Tuttavia le eccezioni,
osservate ancora a questa regola, debbono rendere guardinghi e cauti
i risanati dal medesimo mortalissimo morbo. Anche Evagrio nel lib. 4,
cap. 28 della Storia Ecclesiastica narra che in quella orrenda peste,
che durò 52 anni e girò per tutta la terra, accadde alle volte che chi
una e insin due fiate era guarito da esso morbo, alla terza ne restava
oppresso.

Ritorniamo ora ad altri antidoti preservativi della peste, insegnatici
o dalla chirurgia o dalla farmacia. Alcuni professori di medicina,
il cui gran capitale consiste nel prescrivere a diritto e a rovescio
la purgazione del ventre e la cavata del sangue, vogliono ancora
promettere l’immunità dalla peste a chi si premunisce per tempo con
questi due gran rimedi, replicati di quando in quando. Ma i medici
più accreditati e saggi non solamente ne biasimano il consiglio,
ma ci assicurano essere riuscito un tal preservativo in quei tempi
nocivissimo, non potendo certamente i purganti rendere più gagliardi
gli umori e gli spiriti contro la peste, dopo averli sì fattamente
agitati e indeboliti; nè potendo sperarsi di meglio dal salasso, il
quale anzi può far sì che più intimamente si mescolino colle particelle
del sangue gli aliti pestilenziali. Certo è stato allora osservato in
assaissime prove che con tali preservativi mirabilmente si preparavano
e disponevano i corpi a ricevere con più facilità la peste, e che
più questi che gli altri ne rimanevano estinti. Gioverà dunque il
solo riserbare in que’ tempi qualche alleggerimento di sangue ai
temperamenti pletorici; e lasciati stare i gagliardi purganti, sarà da
lodarsi il tener con piacevoli medicamenti sufficientemente lubrico
il corpo. Anzi queste benigne medicine non si dovranno scegliere a
capriccio, ma comporle d’ingredienti che abbiano del balsamico per
resistere alla putredine e alla malignità de’ veleni, e servano dì
corroborativo alle viscere. Mi sia lecito il valermi di questi termini,
perchè credo che abbastanza esprimano ciò che voglio dire. Sono in
questo genere decantate e lodate da tutti le antichissime pillole di
Rufo, o sia pillole De Tribus, come un antipestilenziale maraviglioso;
e tanto più sono esse da stimare, quanto che si fanno con poca spesa,
e tengono senza sensibile incomodo lubrico e netto il ventre. Si
compongono nella seguente forma.


_Pillole di Rufo, o De Tribus._

℞. _Aloè, incenso, ammoniaco, ana part. 2, mirra part. 1. Pestati, si
mescolino con vino odoroso, e se ne formino pillole._

Oggidì però la maggior parte dei medici prescrive quest’altra
composizione e la crede migliore.


_Altre pillole di Rufo più usitate._

℞. _Aloè epatico dram. 3, mirra dram. 2, croco, o sia zafferano dram.
1. Di queste cose peste si formano pillole, con acqua di melissa o
d’acetosa, o con vino odoroso._

Altri vi uniscono mezz’oncia di diagridio, e mezzo ottavo di canfora.
Altri v’aggiungono altri ingredienti. Vedi lo Scradero, il Lemery,
o pure il Donzelli nel Teatro Farmaceutico, part. 3, pag. 654. Una o
due volte per settimana prese due o tre o quattro di sì fatte pillole
grosse come un pisello o cece, senza incomodo tengono in ubbidienza il
corpo, e si credono un utile preservativo. Il Diemerbrochio dice che 4
once del seguente vino fanno il medesimo effetto.


_Vino d’aloè._

℞. _Radici d’angelica, d’elenio, di petasitide, di dittamo, scorze
d’aranci ana dram. 1; aloè lucido scrup. 6 e mez., cardo santo
mezzo pugno, centaurea minore pugn. 2, assenzio pugn. 1. Si taglino
minutamente e si ripongano in un sacchetto entro lib. 6 di vino
generoso, e non si levi via il sacchetto se non finito di bere il
vino._

Prima però d’inoltrarmi nel gran caos de’ preservativi farmaceutici
che si prendono in bocca o per bocca, mi sbrigherò dagli esterni.
Che non fa l’intenso natural desiderio che ha ognuno di conservare la
sanità e la vita in mezzo ai gran pericoli? Esso ha anche inventato non
pochi antidoti esteriori ed amuleti contro la peste, con dar loro, o
buonamente o maliziosamente, un credito e spaccio considerabile. Gli
astrologi e i superstiziosi hanno inventato molti sigilli, medaglie,
bullettini, anelli, carte e simili cose con figure, segni, numeri e
parole anche sacre. Alcuni, e massimamente in Germania, esaltano e
danno per un preservativo maraviglioso il portare in tempi di contagio
sospeso al collo un rospo seccato o bruciato e ridotto in cenere,
e chiuso in un sacchetto. Altri nella stessa guisa, consigliano il
portare argento vivo ben chiuso e sigillato con cera in una noce
o in una penna da scrivere, e ne raccontano mirabili effetti. Per
parere d’altri lo smeraldo, lo zaffiro, il giacinto ed altre gemme
appese al collo, in maniera che tocchino l’esterna regione del cuore,
atterriscono talmente la peste, che non osa accostarsi. Più celebri
degli altri sono gli amuleti d’arsenico cristallino puro, o varie
paste e composizioni di polveri ed erbe, nelle quali entra arsenico o
sublimato, da portar chiuse in uno zendado o sacchetto di tela vicino
al cuore. Anche i nostri medici italiani, e fra essi alcuni de’ primi,
commendano forte questo segreto, citando massimamente l’esempio di papa
Adriano VI, che dicono preservato dal contagio per mezzo d’una lamina
d’arsenico portata sopra la regione del cuore, e sostenendo che l’un
veleno resiste all’altro.

Io lascio altri simili curiosi antidoti, e mi ristringo a dire che i
precetti della religione infallibile sono chiari contro que’ rimedi
che vengono manipolati dalla superstizione, essendo non meno delitto
presso a Dio che follia presso gli uomini il prestar fede a tali
invenzioni. E per conto degli amuleti velenosi, creduti contravveleni,
i più saggi tra i medici li vogliono sbanditi dall’uso; e ciò perchè
la ragione fa intendere che o non sono atti a giovare, come si crede,
o possono anche nuocere. In fatti la sperienza adduce vari casi
funesti, che qui non importa riferire, avendo essi avvelenato chi
veniva a sudare e chi per mezzo loro si credeva sicuro dall’altro
veleno, e non avendo essi difeso tanti altri dalla peste, che pur
deridevano i medici con portar simili amuleti. Io per me non oserei
affatto riprovare l’uso di questi pretesi rimedi; ma dirò bene che
non saprei fidarmene molto. E se taluno rispondesse che per attestato
d’insigni medici hanno essi giovato e giovano nella peste, se gli vuol
rispondere essere più che difficile in molti casi (e possono in ciò
prendere abbaglio anche le prime teste) il decidere qual cagione o
rimedio abbia precisamente preservato dal male o salvato dalla morte un
uomo. Ne’ tempi di contagio può essere che si sieno preservati molti,
portanti simili velenosi amuleti, non per cagione d’essi amuleti, ma
per altre circostanze, ed anche talora per la gran fede che appunto
aveano riposta in essi e che li riempieva d’intrepidezza e coraggio,
due già da noi dichiarati buoni preservativi contro la pestilenza.
All’incontro sapendosi che rospi, ragni, arsenici, argenti vivi ed
altri di questi almeno sospetti ritrovamenti, sono stati avvertiti per
inutili ne’ medesimi contagi da altri più attenti e men creduli medici,
egli è difficile che la sperienza di questi abbia preso abbaglio; e
perciò bisogna qui andar cauto per non cadere nel cerretanismo, da cui
pur troppo non sanno talvolta tenersi lontani alcuni ancora che fanno
strepito nella medicina. Aggiungo nulladimeno che se tali amuleti, e
specialmente il mercurio, di cui so alcuni mirabili effetti in altri
casi, verranno portati in maniera da non poter nuocere, allora se ne
potrà permettere l’uso; purchè non si tralascino altre diligenze e
preservativi non pericolosi e degni di più fede. È bizzarro il Rivino
nel trattar della peste di Lipsia, che dopo aver derisi tutti gli
amuleti, ne eccettua la radice dell’erba colchico, la quale è da lui
commendata come un sicurissimo amuleto contro la peste. Io non ne so il
perchè.

Egli è poi qui da ricordare ai savi maestrati che nascendo e crescendo
più in tempo di peste che negli altri i ciurmatori, i medicastri e i
venditori di specifici e di segreti, con attribuirsi allora anche le
persone idiote il diritto di prescrivere medicine, bisogna con pubblico
e rigoroso editto rimediare al disordine di tali rimedi. Cioè convien
proibire che senza l’approvazione de’ medici deputati non sia venduta
o spacciata cosa alcuna sotto nome di preservativo o di curativo per
la peste, nascendo per lo più tali invenzioni o da una ridicola e
temeraria ignoranza, o da unico motivo di proprio interesse, senza
pensare all’inganno della povera gente, facilissima a credere ciò
che desidera, e per tali imposture distratta dal procacciarsi altri o
meno disutili, o più giovevoli medicamenti. Fanno anche gran male in
tempi tali alcuni cerusici che in loro cuore credendosi degni della
toga dottorale, la fanno da medici risoluti, e prescrivono rimedi
soporiferi, purganti, amuleti ed altri medicamenti, in parte ancor
qui riprovati, mandando per le poste all’altra vita infermi che forse
sarebbono guariti. Ci bisogna rimedio per quanto si può a questi
omicidi. Per parere ancora del signor Gian-Domenico Santorini, valente
protomedico della sanità in Venezia, d’una cui giudiziosa Istruzione
MS. ho anch’io profittato in questa occasione, si è sperimentato più
volte riuscir veleni quei che si dispensavano come antidoti, non già
perchè si sapessero e si dispensassero come tali da una abbominevole
malizia, ma perchè senza cognizione e metodo venivano impastati e
spacciati dalla temeraria ignoranza. Noi vedremo che anche il cavar
sangue e il dar medicine solutive agli appestati, possono essere due
veleni che così alla buona vengano prescritti nelle pesti da chi è
dottore senza dottrina, o ha sempre il nome, ma non sempre il giudizio
de’ medici veri.

Del resto non è che non possano permettersi e anche lodarsi in tempi
di contagio alcuni sacchetti da portarsi appesi al collo e sulla
regione del cuore, purchè la loro composizione ammetta soli ingredienti
chiamati per la loro qualità o odore antipestilenziali. In questa
forma, quand’anche non giovassero, siccome dovrebbono coll’espansione
delle loro particelle odorose, certo non nuoceranno, e potrebbono almen
recare quel non picciolo benefizio d’indurre animosità e fiducia in chi
li portasse: il che in tempi sì fatti è di molto vantaggio. Tale sarà
la seguente composizione:


_Sacchetto preservativo._

℞. _Radici d’angelica, zedoaria, elenio, dittamo, ana mez. dram.,
castorio dram. 1, canfora scrup. 1, croco, cioè zafferano mez. scrup.,
incenso mez. dram., triaca d’andromaco dram. 1 e mez., olio d’ambra
gocce 4, olio di ginepro gocce 2. Polverizzate le robe, e mischiate
con mucilagine di dragante in aceto di ruta, se ne faccia una massa o
crescentina, e chiusa in un pezzo di seta si porti appesa al collo._

L’uffizio della sanità di Milano divulgò nel 1630 quest’altra
composizione, come usata per preservativo da chi senza appestarsi
spargeva la peste colà (così fu preteso); e molte altre città
l’approvarono. Per le ragioni di sopra addotte è da considerare se
sia da ritenere uno di questi ingredienti, cioè l’arsenico; e di tal
composizione potrebbe forse valersi chi sta esposto al servigio degli
appestati o al maneggio delle robe e dei cadaveri loro. Eccone la
ricetta:


_Sacchetto preservativo._

℞. _Incenso maschio bianco, solfo, ana onc. 6, arsenico cristallino
onc. 1, bacche di lauro, garofani di droga, ana num. 9, radici
di verbena, di zenzero, foglie di peonia, rafano, centaurea, erba
sampietro, ana manip. 1, scorze di melarancio, noce moscata una, mirra,
mastice, ana gran. 5, semi di ruta num. 30. Si pestino tutte, e ridotte
in polvere si pongano in un sacchetto di raso o di damasco o simile che
abbia corpo, acciocchè non escano, e questo sacchetto si porti dalla
banda del cuore._

Sono ancora consigliati e descritti dai medici per preservativi della
peste molti balsami, unguenti, pittime, ecc., o da tener sulla regione
del cuore, o da ungerne le narici e i polsi. Il P. Maurizio da Tolone
loda la seguente


_Pittima per corroborare il cuore._

℞. _Acqua rosa di buglossa ana onc. 6, vino ordinario onc. 3, aceto
rosato onc. 1, polveri d’angelica, mirra, alchermes, ana mez. dram.,
garofani e cannella polverizzata, ana mez. onc., confezione d’alchermes
e di giacinti, ana dram. 1. Di tutte le suddette cose si formino
pittime con olio di scorpioni del Mattiuolo da mettere sopra la parte
del cuore._

Si noti qui non essere approvate da alcuni dei migliori medici le
pittime da tenere sulla regione del cuore che sono composte di Semplici
cotti in acqua o vino, o mischiati con acqua distillata. Può essere
che ancor le altre non influiscano con quella forza che taluno crede
a preservare l’interno dell’uomo; ma purchè non sieno atte a nuocere,
si permettano pure; e per altro io so da persone intendenti che l’olio
di scorpioni, con ungerne lo stomaco, fa degli utilissimi movimenti
interni contro la malignità d’altre febbri. Ed appunto, giacchè abbiamo
parlato di quest’olio, appellato ancora del _Mattiuolo_, benchè nella
sostanza esso fosse conosciuto molto prima del Mattiuolo, egli è
da sapere che questo vien comunemente lodato da tutti e commendato
come un ottimo preservativo antipestilenziale, e se ne contano de’
mirabili effetti anche fuori dei casi di peste. Consigliano gli autori
di ungersene prima d’uscir di casa le tempie, le narici, le palme
della mano e tutta la regione del cuore. Se ne può anche bere una o
due gocciole in un poco di brodo. Non ne rapporto la ricetta perchè
facilmente si trova negli antidotari degli speziali e presso vari
medici. Lo stesso olio ha preso diversi nomi, secondochè alcuni vi
hanno aggiunto nuovi ingredienti. Tale è l’olio chiamato del Gran Duca,
del Brasavola, (non so se diverso da quello che fa fare ogni anno il
comune di Ferrara, ed è ivi molto lodato) del Minderero, di Lodovico
Leoni, valoroso pratico bolognese, e d’altri, che tutti possono giovare
al fine proposto. Il Diemerbrochio prescriveva ai desiderosi di rimedi
non usuali l’unguento che segue:


_Unguento preservativo._

℞. _Triaca d’Andromaco dram. 1, canfora gran 9, olio di noce moscata
spremuto, olio di scorpioni, sugna di serpenti, ana scrup. 2, olio di
succino, olio di ruta distillata, ana mez. scrup., olio di cinnamomo,
di garofani, ana gocc. 1, olio di scorza di cedro gocc. 5. Si mescolino
insieme, e ogni mattina se ne ungano le narici, le tempie, i polsi e la
regione del cuore._

Io lascio di riferire altri simili olj, unguenti, balsami, ecc., nei
quali, per consiglio d’alcuni più sinceri medici, non s’ha poi da
confidar troppo, sì perchè non sono assai note o certe le loro forze,
e sì ancora perchè molti paiono inventati parte per soddisfare agli
uomini timorosi in que’ terribili tempi, e parte dall’avarizia di
certi medici o speziali, che non solo spremono volentieri le borse
altrui, ma molto più facilmente le spremono quanto più è il numero
degl’ingredienti dei loro recipe, e quanto più costano sì fatte
composizioni, quasi ciò che è più prezioso, e si paga più caro, sia
ancora più atto a guarir dai mali e a sbandire la morte. Così in oggi
nelle città ove sono medici di gran sapere e di buon gusto, e che
amano i disinganni suoi e gli altrui (tale per la Dio grazia è la
nostra città) non hanno più voga, o almeno tanta voga, come una volta,
i magisteri, le tinture e le confezioni di perle, d’oro e di gemme,
avendo insegnato i chimici più accreditati colle sperienze fatte che
queste ricche preparazioni sono o inutili trasmutazioni, o superficiali
corrosioni delle materie preziose, le quali per la sanità non hanno
altro valore se non se quello che loro impone la vanità di chi le
prescrive, o la credenza dei corrivi che a gran prezzo le comperano,
sperandone, ma indarno, salute o profitto.



CAPO III.

  _Preservativi da prendersi per bocca. Erbe e tavolette a questo
    effetto. Mitridate minore commendato da molti. Altre bevande,
    polveri, conserve, elettuari, vini, unguenti, ecc., creduti
    preservativi. Aceto, e lodi d’esso, e d’altri acidi contro il
    veleno pestilenziale. Metodo d’alcuni medici per preservarsi nel
    commercio con appestati._


Un’altra classe di preservativi contro la peste si è quella dei rimedi
che possono prendersi per bocca. E primieramente in que’ fieri tempi,
siccome vien consigliato dai saggi il non aprir le finestre delle case
se non dopo la nascita del sole, e il chiuderle prima ch’esso tramonti;
e siccome per loro parere non si dee uscir di casa finchè non sia
levato il sole, e vi s’ha a tornare avanti il fine della giornata,
quando gravi urgenze non impedissero l’uso di questa regola, così
ci viene da tutti consigliato il non partirsi la mattina di casa, nè
accostarsi a parlar ad altri, o a medicare infermi, o trattar persone o
robe sospette, senza aver prima preso qualche medicamento preservativo.
Quando altro non s’abbia, almeno si faccia colazione con qualche cibo
sano e una bevuta di vino generoso. Il ventre digiuno è un mal compagno
in questi pericoli. Uscendo dal corpo e specialmente dalla bocca di chi
s’è così premunito una evacuazione odorosa, non tanto per la qualità
della bevanda, quanto perchè l’aiuto sopravvenuto allo stomaco mette
più in moto gli umori del corpo, e viene a formarsi, per così dire,
un’atmosfera di buoni aliti, che hanno forza di tener lontani gl’impuri
e pestilenziali, o pure di correggerli allorchè si accostano.

Ma quali saranno questi interni preservativi? Ne contengono una gran
farragine i libri de’ medici. Io ne trasceglierò quelli che scorgerò
più accreditati dalla sperienza e dalla riputazione degli autori,
dovendosi qui anteporre quelli che per la loro balsamica, odorosa e
spiritosa qualità si conoscono più propri per resistere ai veleni,
alla putredine e ai vapori maligni. Correndo dunque tempi di peste, può
giovare molto, massimamente a quei che debbono uscir di casa, il tenere
in bocca e andar masticando qualche cosa odorosa e sana. L’Ingrascia
asserisce che moltissimi si preservarono dalla peste ch’egli descrive,
e in particolare i beccamorti e i serventi de’ lazzeretti e simili
altre persone, col masticare fra giorno l’erba zedoaria e inghiottir
quella saliva. Altri lodano il tenere in bocca la radice d’essa erba,
o quella di dittamo, o di genziana, o dieci grani di ginepro macerati
in aceto, o pure la polvere di cardo santo. Anche il nostro Falloppio
scrive che a’ suoi dì chi serviva agli appestati, non si preservò
con altro che col masticare la mattina zenzero e bevervi appresso un
bicchiero di malvagìa e coll’andare masticando dipoi tutto il giorno
zedoaria. Così un grano di garofano di quei di Levante tenuto in bocca,
quando non s’abbia di meglio, vien creduto giovevole, siccome ancora le
scorze di cedro o di melangolo. Altrettanto scrivono alcuni della mirra
coll’inghiottire di quando in quando la saliva; ma questa suol riuscire
pel suo sapore troppo spiacevole, e l’Elmonzio l’ha osservata fallace
in casi tali. La radice d’angelica viene assaissimo consigliata ai
poveri da masticare. Quella poi dell’elenio, o masticata secca, o presa
in polvere, o condita con un poco di zucchero, in guisa però che resti
più tosto disgustosa al palato, è sommamente lodata dal Diemerbrochio,
il quale consigliò a moltissimi questo solo preservativo, facendone
mangiar delle condite due o tre o quattro la mattina, perchè dice
d’averle trovate più giovevoli che assaissimi altri medicamenti
preparati con gran fatica e spesa. Jacopo Primerosio ed altri credono
che il tabacco nulla vaglia contro la peste. Ma il fumarlo nelle pipe
vien decretato da altri per un potente preservativo; e il suddetto
Diemerbrochio attesta d’averne provato in sè stesso e in assaissimi
altri un insigne giovamento nel contagio dei suoi giorni; sostenendolo
per un’erba di qualità specifica per resistere a simili veleni e alla
corruzione, ed aggiungendo che non solo moltissimi coll’unico uso del
fumar tabacco restarono illesi da quel morbo, ma che alcuni ancora,
colpiti dal medesimo, coll’uso del solo fumo di tabacco sul principio
del male se ne liberarono. Ma conviene adoperarne, dell’ottimo e colle
foglie non putride e ben torte, e valersene poi anche moderatamente.
Chi però se ne serve (che tutti non possono) si guardi dall’acquavite,
non convenendo insieme tal rimedio con tal disposizione, secondo il
parere di alcuni. Nè credesse persona che il bere sugo di tabacco o
l’inghiottire la sua sostanza, producesse l’effetto medesimo. Sarebbe
anzi un veleno tanto nella preservativa quanto nella curativa della
peste, per le deiezioni di ventre e per gli sconvolgimenti di spirito
che da esso provengono. Il noto, perchè l’esempio d’alcuni pazzi
potrebbe tornarsi a vedere.

Per preservativi da prendersi per bocca vengono lodate le seguenti


_Tavolette preservative._

℞. _Fiori di solfo mez. onc., trocisci di vipera dram. 3, polvere di
diarrbodon e diamargariton freddi, ana onc. 1, confezione d’alchermes
e di giacinti, ana scrup. 4, zucchero bianco dissoluto in acqua di
scorzonera o di cardo santo quanto basta. Con ciò formerai pasta e
tavolette. Pigliane la mattina una dramma, bevendovi appresso un poco
di vino puro._


_Altra sorta di tavolette preservative._

℞. _Fiori di solfo dram. 6, canfora scrup. 1, zucchero bianco dissoluto
in acqua di scabbiosa quanto basta. Formane tavolette come sopra; e
camminando o dimorando in luoghi infetti potrai tenerne in bocca._


_Altre tavolette preservative._

℞._ Polvere bezoartica dram. 1, liberante mez. dram., radici d’elenio
secche, d’angelica, di petasitide, ana scrup. 1 e mez., fiori di solfo
tre volte sublimati dram. 1. Se ne faccia polvere sottilissima, e
discioltala con zucchero bianco e acqua di cardo santo quanto basta, se
ne formino tavolette._

Altre tavolette sono prescritte dai medici, impreziosite ancora da
perle e coralli preparati, da oro in foglia e da altre gemme: cose
tutte che bene spesso entrano per sovrammercato in composizioni per
altro buone.

A tutti, ma specialmente ai poveri, si può consigliare il Mitridato
minore, che è un preservativo antichissimo, attribuito, non so se
con tutta ragione, a Mitridate re di Ponto, ma certo comunque sia,
generalmente lodato da tutti i medici per i tempi di peste, dicendosi
ancora che Carlo V salvò dal contagio con questo sì facile, ma
stimatissimo rimedio l’esercito suo: nel che io lascio la verità a suo
luogo.


_Mitridato minore preservativo._

℞. _Foglie di ruta num. 20, due fichi secchi, due noci secche con 4
grani di sale comune. Se ne faccia un boccone da prendere la mattina
a digiuno. Il sale però non è di necessità. O pure si formi con una
libbra per uno dei tre suddetti ingredienti. Vi si può anche aggiungere
siroppo di limoni quanto basta per fare elettuario, dopo aver pestato
ben bene in mortaio di pietra con pestello di legno gl’ingredienti ad
uno ad uno._

E qui si noti che per parere di tutti la ruta è di una singolare
efficacia contro la pestilenza; e però doversene far molto capitale,
giovando anche sola. Ma perchè non a tutti sempre è permesso l’avere
ruta fresca, si può prepararne molto medicamento in una volta sola,
a proporzione della seguente composizione. ℞. _Foglie di ruta fresche
onc. 1 e mez., noci secche nette onc. 2, fichi secchi onc. 1. Si pesti
ogni cosa benissimo, e si faccia passare per setaccio con aceto rosato
quanto basti per distemperare la mistura. Fatta questa, se vi si vede
soprannuotare l’aceto ed esser troppo, si ponga al sole o a simil caldo
in vaso atto ad asciugarsi, finchè resti in debita forma d’elettuario,
del quale si debbono prendere ogni mattina due cucchiai. Si potrebbe
anche aggiungere all’elettuario fatto un’oncia d’estratto di bacche di
ginepro. Le noci si monderanno dalla pellicina con tenerle per un poco
in acqua caldetta_.

Che se taluno vorrà conservarsi delle foglie di ruta come fresche per
ogni tempo, ne ponga molte in qualche vaso di vetro dalla bocca larga,
acciocchè ne possa cavar fuori senza gran pena, e le cuopra di buon
aceto, tenendo anche il vaso ben coperto. Così egli conserverà la ruta,
ed avrà pure aceto preparato con essa, il quale anche da per sè viene
molto stimato in tempi di peste, e serve per odorarlo, e per prenderne
anche la mattina un poco in bevanda. Altri medici hanno accresciuto,
ciascuno a suo gusto, il Mitridato minore; ma io penso d’avere
accennato quello che basta.

Altri lodano come utilissima la seguente


_Bevanda preservativa._

℞. _Dieci noci fresche mondate dalla pellicina, 10 spicchi d’aglio
mediocri mondati, 3 onc. in circa di bacche di ginepro, un pugno di
foglie di ruta. Le prime si pestino grossamente; la ruta si tagli
minuta. Posto tutto in pignatta vetriata con una inghistara in circa
di buon aceto, si copra essa pignatta sicchè non respiri, accomodando
creta o simil cosa tra il coperchio e la pignatta, e lasciandola per 24
ore sopra le ceneri calde. Poi si levi dal fuoco e si ponga ogni cosa
insieme in fiasco ben turato al sole per tre o quattro giorni. Di tal
composizione si beva ogni mattina a digiuno mezzo cucchiaio, ed anche
un intero; e con lo stesso aceto si bagnino le tempie, i polsi e le
narici._

Io volentieri accenno qui le composizioni facili e di poca spesa,
affinchè tutti, e massimamente i poveri, possano provvedersi di qualche
riparo contro gli assalti della pestilenza. Allorchè questa è padrona
del campo, a molti mancano gl’ingredienti, e a più manca ancora il
danaro per procacciarseli. E se taluno dicesse di non aver gran fede
in certe semplici o vili composizioni, ho il dispiacere di rispondergli
che nè pur egli s’ha a fidar troppo d’altre composizioni e preservativi
più preziosi e faticosi; perciocchè in mezzo alla peste nessun altro
rimedio sicuro e privilegiato c’è se non la mano di Dio; e per conto
dei rimedi umani più talvolta gioverà un poco d’aceto, di solfo, di
ruta, di canfora o altro semplice, che un lunghissimo recipe composto
dall’ambizione. Seguitiamo dunque a dire che alcuni trovano buono il
seguente


_Preservativo antipestilenziale._

℞. _Fiori di solfo e zucchero bianco in polvere in egual quantità; e
mescolati insieme, prendine la mattina a digiuno un mezzo cucchiaio per
bocca, bevendovi appresso un poco di vino bianco buono._

Potrà parimente giovare ai poveri il porre in infusione entro vino
buono foglie verdi di pimpinella, e beverlo alquante ore dopo. Ovvero
mettere la sera in aceto buono, sicchè stia coperta, una noce secca
mondata dalla pelle; e la mattina seguente si mungi la noce e si beva
l’aceto. Questo, benchè tanto facile, pure si dà per un buon difensivo.
Può essere che si metta a ridere qualche medico, non però addottorato
in medicina; ma sappia egli che in fatti alcuni, anche valentuomini,
col solo aiuto dell’aceto, preso in picciola dose le mattina con
un poco di pane, e fiatato alle occasioni, si sono preservati. Ne
parleremo fra poco. Le bacche poi di ginepro mature e fresche, cioè
di color nero o pavonazzo, e non rosse, vengono commendate da tutti,
ed entrano in moltissime composizioni contro la peste. Si potrà farne
estratto, cioè cavarne il sugo con acqua, dove sieno state infuse e
calde per tre giorni, spremendole dipoi per pezza netta. O pure si
tengano in fiasco con vino buono sopra, per mangiarne tre o quattro per
volta, riuscendo anche utile lo stesso vino.

Angelo Sala insegna a fare il mele, o sia l’estratto di ginepro, con
pestare grossamente nel mortaio le bacche fresche, e cuocerle poi
in acqua, finchè si vegga separata la materia glutinosa. Spremuta la
decozione, per quanto si può, si faccia essa di nuovo cuocere, finchè
si riduca in consistenza di mele, che sarà dolce e fragrante. Servivasi
poi il medesimo autore di questo estratto per uno degl’ingredienti a
formare la seguente composizione, chiamata da lui Triaca de’ poveri, e
consigliata come un eccellente antidoto contro la peste:


_Triaca de’ poveri._

℞. _Erb. veronica, scordio, cardo santo seccate, ana onc. 2, feccie
d’aro, fiori di solfo, ana onc. 1, zedoaria, radice d’imperatoria,
di elenio, di irundinaria (che m’immagino essere la chelidonia), di
carlina, di valeriana, mirra eletta, dram. 6, olio di vitriuolo dram.
1, mele odoroso spumato lib. 3, estratto di ginepro mez. lib. L’erbe
e le radici separatamente si polverizzino bene, e si triti a parte la
radice d’aro preparata. Poi si mettano il mele e l’estratto in pignatta
ben vetriata, facendo solamente scaldare e non bollire la materia; e
dopo vi si mescolino le polveri suddette, movendo tutto fortemente
con pestello di legno, finchè si riducano in forma di elettuario.
Raffreddata la composizione, aggiungi i fiori di solfo, la mirra
e l’olio di vitriuolo; e mettendo tutto in vaso di terra vetriata,
riponlo a fermentarsi. Se ne prenda, secondo la diversità de’ corpi che
debbono valersene, da uno scrupolo fino a una dramma._

Varie erbe possono servire di preservativo. Sei d’esse fra l’altre sono
credute contravveleni, cioè l’ipperico, il vincetossico, l’enula, il
dittamo, l’aristolochia e il rafano selvaggio. Marsilio Ficino dice
d’aver dato del rafano un poco per volta ai poveri con utile notabile.
Si prendono tali erbe in boccone mattina e sera, o seccate in polvere
con buon vino, o il loro sugo si bee al peso di un’oncia in circa.
L’assenzio, che anche medichetto si chiama, è tenuto da tutti per un
egregio preservativo contro il veleno pestilenziale, e moderatamente
preso tiene in buon appetito le persone. In varie maniere si può
prendere; la più facile è d’infonderlo nel vino, e prendere talvolta
una bevuta di questo. Sono ancora lodate quest’altre: Scabbiosa,
tormentilla, pimpinella, sassifraga, acetosella, imperatoria,
scorzonera, angelica, carlina. A chi la borsa non suggerisce di meglio,
potranno giovare questi facili medicamenti, che in fine anche dai
medici migliori sono riconosciuti per non inutili, anzi adoperati come
molto proficui nelle loro ricette. La galega, o sia ruta capraria,
appellata da alcuni castracane, si tiene anch’essa per potente
preservativo contro il veleno pestilenziale. Si usa in vari modi, cioè
cruda in insalata, o cotta in minestra. Si piglia polverizzata in vino
o altra bevanda appropriata. Si mette in infusione entro il vino o
in aceto, che poi di quando in quando si bevono. Se ne bee anche il
brodo e l’acqua distillata; ed è nel verno buona anche la sua radice.
Dell’una e dell’altra piantaggine dicono cose grandi alcuni medici
per preservarsi dalla peste; e lodano altri non poco l’acetosa, cioè
l’oxalide, prescrivendone un boccone d’essa ogni mattina a digiuno.

Per la gente delicata possono servire, secondo il Diemerbrochio, le
scorze di melarancio o di cedro condite, o alcune gocce d’olio di
ginepro da bersi con un poco di vino, o sia l’estratto di bacche di
ginepro, quanto una noce moscata da mangiarsi. Anche gli spiriti
di sale e di vitriuolo, e di zolfo, e di sugo di cedro ed altri
simili acidi, appunto per questa loro qualità, vengono celebrati per
efficacissimi in resistere alle putredini, se mi lice usar questo
termine degli antichi. Si prendono in bevanda d’acqua di scabbiosa, di
cardo santo, di betonica, di melissa, o in altro liquore. I coriandoli
preparati, e presi la mattina a digiuno, e anche dopo pasto, possono
essere di qualche utilità. Per rimedio facile, di poca spesa e di non
poca virtù, viene consigliata da alcuni la seguente


_Polvere preservativa._

℞. _Bolo armeno onc. 1, tormentilla, dittamo bianco, ana mezz’onc.
Pesta ogni cosa sottilmente, e pigliane la mattina un meno cucchiaio in
mezzo bicchiero di vino o in acqua d’acetosa._

Il cardinale Gastaldi insegna quest’altro preservativo, da prendersi
per bocca in rotoline di peso d’una dramma prima di cena o prima di
dormire, aggiungendo che se ne videro degli ottimi effetti nella peste
di Roma del 1656.


_Tavolette o rotoline preservative._

℞. _Confezione di giacinto dram. 1, bolo armeno, radici di carlina,
perle preparate, succino, ana mez. dram; zucchero bianco disciolto in
acqua di cardo santo quanto basta per farne delle rotoline._

Il Diemerbrochio, lasciati stare tanti altri elettuari, sciroppi,
conditi, polveri, tavolette, ecc., formati con gran moltiplicità
d’ingredienti, più per ostentazion di sapere che per altrui utilità,
usava di prescrivere in qualunque tempo l’uso del mitridato minore,
descritto di sopra, e talvolta le seguenti composizioni:


_Condito preservativo._

℞. _Polvere liberante scrup. 4, radici d’elenio condite con zucchero,
scorze di aranci condite dram. 6, diascordio del Fracastoro dram. 3,
olio di ginepro scrup. 1, sciroppo di limoni quanto basta, e se ne
formi condito, o più tosto conserva._


_Altro condito preservativo._

℞. _Conserva d’acetosa di rose rosse, scorze d’aranci condite, rob di
ribes rosso, rob di ginepro, ana mez. onc., polvere liberante dram. 1
e mez., sciroppo di limoni quanto basta. Mesci, e fanne condito, o più
tosto conserva._


_Elettuario preservativo._

℞. _Triaca d’Andromaco, mitridato di Damocrate, ana dram. 1 e mez.,
diascordio del Fracastoro mez. onc., scorte d’aranci condite, rob di
ribes rosso, ana dram. 6, succino mez. scrup., sciroppo di scordio
quanto basta. Mesci, e formane elettuario._


_Altro elettuario preservativo._

℞. _Polvere bezoartica del Renodeo dram. 1 e mez., fiori di solfo
dram. 1, conserva d’assenzio dram. 3, radici d’elenio condite onc. 1,
mitridato minore, diascordio del Fracastoro, ana mez. onc., sciroppo di
sugo di cedro quanto basta, e fanne elettuario._

Non vi mischiava egli polvere di corno di cervo, terra sigillata,
croco, e assaissimi altri ingredienti, perchè tutti stanno nella
confezione liberante, nella polvere bezoartica, nel diascordio, ecc.
Prescriveva ancora ad alcuni il seguente


_Aceto bezoartico preservativo._

℞. _Radici d’angelica, carlina, petasitide, elenio, dittamo, ana
mez. onc., zedoaria dram. 2, erbe cardo santo, scordio, ana dram. 6,
centaurea minore, ruta ana mez. onc., fiori di stecade dram. 2 e mez.,
semi di cardo santo, di cedro, ana dram. 1, bacche di ginepro dram. 3.
Facciasi polvere grossa, e s’infonda in lib. 5 o 6 d’aceto fortissimo,
esponendo il vaso ai raggi del sole per 14 o più dì, e dipoi si coli
con forte spremitura. Potrai, se vuoi, infondere una sola volta di
nuovo in tale aceto la medesima polvere, e allora sarà molto più
efficace._

Il Minderero scrive d’essersi servito per suo primario rimedio
preservativo nella peste de’ suoi tempi del seguente


_Vino medicinale preservativo._

℞. _Assenzio volgare un manip. e mez., scordio, cardo santo, ana un
manip., dittamo cretico mez. manip., scorze di cedro mez. onc., radici
di pimpinella onc. 1 e mez. Si taglino grossamente, e se ne faccia
massa entro tela bianca da sospendersi nel vino, di cui si beva un
bicchiero dopo la colezione._

Scrivono alcuni che in una peste d’Inghilterra fu approvata da tutti i
medici, e trovata alle prove un felice antidoto per chi ne prendeva un
poco ogni mattina, la seguente


_Polvere preservativa._

℞. _Aloè epatico, cinnamomo eletto, mirra eletta, ana dram. 3,
garofani, macis, legno aloè, mastico, bolo armeno, ana mez. onc. Si
polverizzino sottilissimamente._

Può confermare la buona opinione di questo antidoto il vedere che
Cornelio Gemma scrive tenersi dal re di Spagna per segreto riguardevole
(poco importa quand’anco non sia vero) una composizione affatto simile
colla giunta d’una porzione eguale di terra sigillata e di croco, o
sia zafferano. Giovanni Cratone anch’egli con poca diminuzione insegna
lo stesso; e nella peste di Napoli e di Roma del 1656 fu formato di
questa polvere un elisire chiamato _preservativo potentissimo_ nelle
Regole pel Contagio pubblicate l’anno 1680 in Ferrara, con aggiungervi
_solfo puro e rosmarino, ana dram._ 4 _macerando poi tutto in acquavite
secondo l’arte, ed estraendone il liquore. La dose era di_ 3 _in_ 4
_gocciole prese in acqua di cardo santo o scorzonera._ Abbiamo detto
di sopra che il mitridato minore è un preservativo stimatissimo anche
per la facilità di comporlo; ora si vuol aggiungere che la triaca,
il diascordio del Fracastoro, e altri simili rinomati contravveleni
sono de’ più lodati, e consigliati in tempo di contagio, anche per
preservarsi, ma non già col solo odore, che questo gioverebbe poco.
L’Etmullero antepone il diascordio; e il Pareo preferisce a tutti
i cordiali creduti preservativi la triaca e il mitridato, prendendo
mezz’oncia della prima, mischiata nelle stagioni calde con un’oncia e
mezzo di conserva di rose, o di borraggine o di viole, e dramme 3 di
bolo armeno. Altri però stimano necessario il mischiare e temperare la
triaca con qualche acido in tempi di peste. E qui avverto, per chi nol
sapesse, venire stimata più la triaca vecchia che la nuova, purchè non
passi i trenta anni, dopo il qual tempo essa va perdendo la forza. Di
più se per ogni libbra di triaca impasterai dentro once 4 di polvere
di contrajerba, lasciandola così riposare e fermentare per alquanto
tempo, dicono che riuscirà essa di gran lunga migliore contro la peste
e i veleni. È anche lodatissimo il prendere la mattina prima d’uscire
di casa un bicchiero di vino canforato. Si accende un grano di canfora
grosso come un pisello, e si mette a nuotar sopra il vino tanto che
finisca ivi di bruciarsi; e tornandolo ad accendere finchè si consumi,
si bee dipoi quel vino. Così nell’ultima peste di Lipsia si trovò
sommamente giovevole l’olio di succino canforato con prenderne alcune
poche gocce in acqua di scordio; anzi pare che d’esso si valessero i
medici anche nella curativa.

Nell’ultima pestilenza di Polonia del 1709 il miglior preservativo che
si dica ivi provato fu l’elisire dello Schomberi, i cui ingredienti
sono quei che seguono:


_Elisire preservativo._

℞. _Tintura bezoartica secondo l’arte, elisire di proprietà secondo
l’arte, tintura di genziana, essenza di canfora parti eguali. Mesci
tutto insieme, e bevine da 40 a 60 gocce nell’acquavite, o nella birra
calda, o nel buon vino._

L’elettuario, chiamato d’Angrisani, vien chiamato dal Cristini con
parola assai magnifica miracoloso contro la peste, aggiungendo egli
che dell’anno 1656 nella peste di Napoli, Roma ed altri luoghi fu il
medesimo con gli esperimenti provato per uno de’ migliori preservativi
ed anche curativi. Eccone la ricetta:


_Elettuario d’Angrisani preservativo._

℞. _Radici d’angelica, carlina, dittamo bianco, imperatoria,
tormentilla, contrajerba, corallina, bistorta, aristolochia rotonda,
legno aloè, seme di senape bianca, di cardo santo, d’acetosa e di
portulaca, ana onc. 1; croco orientale mez. onc. Si polverizzi tutto, e
sia ben lamisato. Poi prendi estratto di bacche di ginepro delle rosse
e delle nere, ana lib. 2, triaca d’Andromaco vecchia lib. 2, unicorno,
belzoaro ottimo, corno di cervo, ana dram. 2; siroppo d’agro di cedro
quanto basta per unir le robe; e se ne formi elettuario, di cui prendi
per bocca una mezza dramma o un’intera per volta._

Scrive il P. Chirchero che nella peste di Roma del 1656 chiunque si
servì del seguente rimedio si preservò, ancorchè dimorasse nella casa
stessa con appestati o avesse cura di loro. Tanto più volentieri il
rapporto, quanto che è di poca spesa. Così avesse egli anche notata la
dose.


_Antidoto preservativo del P. Chirchero._

℞. _Aceto esquisitissimo, ruta, pimpinella, betonica, noci, aglio,
bacche di ginepro. Aggiungi, se hai il comodo, un pocchetto di canfora,
o almeno un poco di spodio cervino. Fa stare tutto infuso nell’aceto
per 40 ore al sole o pure in qualche stufa. Poscia colatolo, serbalo
per valertene al bisogno, prendendone un cucchiaio la mattina a stomaco
digiuno, ed avrai per quel giorno un preservativo sicurissimo. Nè ti
dispiaccia il sapore ingrato, perchè tanto più simili antidoti sono
contrarj alla peste, quanto più dispiacciono al gusto._

Stimo anche bene di aggiungere, benchè fuor di luogo, che lo spirito
d’orina per testimonianza del Doleo e del Wedelio s’è provato utile
fiutandolo in simili tempi, e m’immagino che si potrà sperar lo stesso
dagli spiriti e sali ammoniacali per la salutevol forza del loro odore.
Parimente non reputo inutile il descrivere qui un’unzione, che dicono
adoperata da coloro che in Milano nel 1630 dilatarono con veleni la
peste, preservandosi eglino che forse non ebbero bisogno o non si
servirono mai d’antidoto alcuno. Soggiugnerò tre altre composizioni,
attribuite pure ai medesimi, forse per dare ad esse più credito, ma che
tuttavia non paiono da sprezzarsi.


_Unguento preservativo._

℞. _Cera nuova, olio comune, olio di lauro, olio di sasso, erba aneto,
bacche di lauro, rosmarino e salvia, pestate tutte grossamente. Poi
fa bollir tutto insieme con un poco di aceto, e riducendolo in forma
d’unguento, ungine alle occorrente le narici, i polsi e sotto le
braccia e le piante de’ piedi._


_Altro unguento preservativo._

℞. _Cera nuova onc. 3, olio comune, olio di edera, ana onc. 2, olio di
sasso, foglie d’aneto, bacche di lauro, ana onc. 5, foglie di rosmarino
onc. 2 e mez., foglie di salvia onc. 2. Si polverizzino le foglie e le
bacche, e con un poco di buon aceto unito ai suddetti olj si faccia
bollir tutto, mescolando, finchè se ne formi unguento da ungere i
polsi, ecc_.


_Elettuario preservativo._

℞. _Imperatoria, carlina, genziana, dittamo cretico, dittamo bianco,
bacche di lauro parti eguali. Polverizzato tutto si mescoli con mele
spumato e chiarificato, facendone elettuario da prenderne per bocca un
cucchiaio la mattina ed anche altra volta fra il giorno._


_Altro unguento preservativo._

℞. _Olio di trementina, di sasso, di gelsomino, di lauro, grasso di
tasso, ana onc. 5, cera nuova, olio comune, ana onc. 3. Si facciano
bollire insieme circa un quarto d’ora; poi vi si aggiunga polvere
d’assenzio, aneto, camedrio, salvia, ruta, ana un’oncia in circa o
un pugno. Si faccia bollir tutto a bagno finchè si riduca in forma
d’unguento da ungerne i polsi e la region del cuore._

E giacchè abbiam nominato il celebre olio di sasso che nasce nello
stato di Modena, dirò che forse non è peranche ben conosciuto tutto
il suo valore, quantunque esso venga portato e ricercato per tutta
l’Europa. Bisognerebbe che eccellenti fisici ne tentassero con varie
prove le virtù. Forse anche egli è da mettere fra i preservativi contra
la peste, sì per l’odore suo, e sì per le qualità balsamiche, delle
quali abbonda, se pure la sua calidità non sia da temere in tali casi.

Ma io avrei un bel che fare, se volessi rapportar qui tanti altri
antidoti preservativi che si leggono ne’ libri dell’Untzero, Alberti,
Quercetano, Cratone, Foresto, Horstio, Dodoneo, Sennerio, Etmullero,
Diemerbrochio, di Cellino Pinto e di altri autori. Forse ne ho anche
rapportato troppi, potendo nascerne confusione ai lettori in tanta
copia; e finalmente nè pur io son persuaso che tanti bei rimedj
abbiano la forza che talun crede contra la peste. Ma che si ha a
fare? La gente vuol dei rimedj da preservarsi. Io ne suggerisco i
più facili, o pure altri, i quali se non gioveranno, certamente nè
pur dovrebbono nuocere, e sono in fine i più commendati dai pratici.
Finirò dunque la serie de’ preservativi con ritoccare per consolazion
de’ poveri un punto di molta importanza, cioè che il Diemerbrochio,
uno de’ più eccellenti medici osservatori e trattatisti di questa
materia ch’io conosca, consigliava nel contagio de’ suoi giorni alla
gente povera il bere ogni mattina uno, due o tre cucchiai d’aceto ben
forte, e fatto di buon vino, con alcuni pochi grani di sal comune, o
pur senza, mangiandovi immediatamente dietro un pezzo di pane, avendo
egli osservato che questo fu allora uno degli ottimi preservativi
purchè non se ne servissero gli asmatici ed altri afflitti da mal di
petto o di polmoni o di reni. Anzi aggiunge d’aver veduto gran copia
di poveri meglio preservati con questo solo antidoto che molti altri
provveduti di preziosissimi preservativi. Anche S. Carlo e i suoi che
lo servivano nella peste di Milano, benchè praticassero sì spesso con
persone e in luoghi infetti, pure si preservarono tutti, senza usare
altro preservativo che non spugna bagnata in aceto, e posta entro una
palla che andavano odorando. Oh! si dirà: egli era un santo. Or bene:
Francesco de le Boe Silvio non è stato altro che eccellente medico,
e pure anch’egli attesta di non aver preso altro preservativo nella
peste de’ suoi dì, se non un cucchiaio d’aceto con una fetta di pane
inzuppata in esso ogni mattina prima di visitar gli appestati; e benchè
seguitasse per otto mesi continui a curare tal sorta di gente, pure
con questo solo rimedio non sentì mai infezione di pestilenza. Avendone
egli nel declinar del morbo dismesso l’uso, provava solamente un certo
dolor di capo ogni volta che entrava in qualunque casa infetta. Non
tutti, e spezialmente quei di temperamento melanconico, potrebbono
seguitare per alcune settimane l’uso dell’aceto; ma a noi basta di
poter qui conchiudere che la virtù dell’aceto per resistere al veleno
pestilenziale è grandissima, ed halla per tale comprovata anche la
sperienza di troppi secoli; ne si troverà medico rinomato che non la
commendi assaissimo. Insino l’antico Rasis tanto la stimava, che in
tempo di peste consigliava il mischiarne ne’ cibi e nelle bevande e
ne’ medicamenti, e il premunirsene coll’odore e lo spargerne insino
per casa. Alcuni medici aggiungono all’aceto in infusione, o in
altra forma, qualche altro semplice di qualità antipestilenziale, e
preferiscono a tutti i preservativi gli aceti triacali. Forse non han
torto. Ecco la composizione d’uno di questi aceti fatta dal Timeo,
che dice d’averne veduto un felicissimo successo nella peste de’ suoi
tempi. Altre simili men ricche, ma forse egualmente efficaci, se ne
possono fare.


_Aceto triacale preservativo._

℞. _Orvietano onc. 2, diascordio onc. 2 e mez., triaca onc. 1, radici
d’angelica, di contrajerba, d’enula, di pimpinella, di tormentilla, di
scorzonera, di dittamo bianco, di petasitide, ana dram. 6; foglie di
scordio, di ruta, di millefiori, ana manipol. 1; fiori di calendola, di
tunica, ana mez. manipol., scorze di frassino, di cedro, ana mez. onc.;
bacche di ginepro onc. 1 e mez.; macis, sedoaria, ana dram. 3, canfora
scrup. 2, croco orientale mez. dram., mirra eletta mez. onc., aceto
di sugo di rovo ideo, cioè di fambrois, quanto basta. Mischiati tutti
gl’ingredienti stieno in luogo caldo ben coperti, finchè se ne cavi la
tintura, la quale colata si conservi per valersene a suo tempo._

Anche l’aceto solo in cui sia stata disciolta canfora, dicono che
preservi egregiamente. Egli è probabile che gli spiriti pestilenziali
ordinariamente penetrino ne’ corpi de’ sani coll’aria, che si tira col
respiro; e però bisogna più di tutto difendere le entrate dell’aria
infetta nelle viscere nostre; al che può mirabilmente servire l’odore
e la sostanza dell’aceto, anche per correggere quegli aliti maligni.
Il Massaria scrive che nella crudelissima peste del suo tempo molti in
vece di aceto, si valevano dell’erba acetosa con effetto felicissimo,
prendendo il sugo d’essa, spremuto, o solo o mischiato con altri
medicamenti, e da questa unicamente riconoscevano la salute preservata.
E perciò il Gordoni ed altri lodano cotanto e con gran ragione per gli
tempi della pestilenza tutti gli acidi, come sono i sughi degli agrumi,
dell’agresta, de’ meli granati, del ribes, dell’acetosa e d’altri
simili, fra’ quali è forse dovuto il primo luogo all’aceto stesso.
Anche il sale comune si trova commendato come un buon preservativo
contra il veleno pestilenziale dell’Augenio, Jouberto, Witichio e da
altri autori.

Solo dee avvertirsi che in tutti questi antidoti, consigliati per
la preservazione, ci vuol parsimonia, per non cadere nel troppo,
che in tutte le cose suol essere nocivo, affinchè per guardarsi da
un male, disavvedutamente gli uomini non se ne tirino addosso degli
altri. Così gli acidi si prendano a poco a poco, e non in furia,
affinchè lo stomaco non se ne risenta, e massimamente vadano cauti
quei che patiscono mali di petto, come asma, tosse, ecc. Il soverchio
uso dell’aceto o del vino d’assenzio o d’altre simili bevande prese
per preservativo, può indurre tali indisposizioni o sconcerti di
stomaco che taluno giunga a credersi appestato senza però esser tale.
Anzi l’Ingrascia è di parere che si debbano andar mutando fra la
settimana que’ preservativi che si prendono per bocca, sul timore che
assuefacendosi troppo la natura ad un solo, non ne provasse poi il
benefizio che suol venir dalle cose nuove. Perciò consigliava egli
il prendere nel primo dì le pillole di Rufo al peso di una dramma
in circa, la sera o la mattina, due o tre ore avanti il cibo, per
ripigliarle dopo quattro o cinque giorni. Nel secondo triaca dram.
1. Nel terzo qualche bevanda o conserva appropriata. Nel quarto
l’elettuario _de sanguinibus_, noto agli speziali, e lodato comunemente
dai medici. Nel quinto triaca di dioscoride o sia mitridato minore con
la giunta d’altri ingredienti; e così di mano in mano.

Bernardino Cristini, che fu uno dei medici dei lazzeretti di Roma
nella peste del 1656, e discepolo del Riverio, confessa che sulle
prime si sentiva battere forte il cuore in petto. Cominciò a valersi
di rimedj antimoniali (da fiero chimico ch’egli era) e di vomitivi e
di bezoartici, bagnando i polsi, le narici e la region del cuore con
balsami o essenza di scorza di cedro, e usando la triaca, canfora,
controierva, angelica, carlina, rosmarino, ginepro, tormentilla, ecc.,
e vedendone benefizio, prese coraggio con altri medici. Il costume,
tanto suo, come de’ suoi famigliari, fu di andar prendendo due o tre
volte per settimana, un quarto d’ora avanti cena, al peso di mezza
dramma, certe pillole piacevolmente purganti e corroborative, le quali
in fine son quelle di Rufo, caricate con altri ingredienti, e descritte
a noi dal Riverio. Eccone la composizione.


_Pillole preservative._

℞. _Aloè lavato ed estratto con sugo di rose fatto ad uso d’estratti,
zafferano, mirra, ana mezz’oncia; balsamo orientale e occidentale
chiamato opobalsamo, ana mezza dramma, ossa di cuor di cervo num. 6;
unicorno e bezoartico orientale, legno aloè, ana grani 10; ambra grisa
gr. 5, magisterio di tartaro e tintura d’elettro quanto basta per
formar la massa delle pillole._

Il medesimo ogni mattina ancora si ungeva le tempie, le narici, la
gola, il cuore e i polsi colla sopraddetta composizione liquida,
aggiuntevi tre gocce d’essenza di rosmarino e tre altre d’olio di
carabe: il qual uso fu seguitato da altri medici, nessun dei quali
risentì nocumento dalla peste. E certo si noti che l’olio di carabe
pel suo potente e confortativo odore è da stimare assaissimo per
preservarsi. In Firenze nel contagio del 1630 fu esso molto usitato,
ungendosene alcuni le narici ed altri portandone una spugnetta
inzuppata entro la palla di ginepro bucata. Per altro hanno alcuni
chimici ed empirici non poca inclinazione ad esaltar come mirabili
tutti i lor medicamenti, che per lo più sono anche astrusi e difficili
a prepararsi e trovarsi, allorchè il contagio fa il padrone delle città
e impedisce troppo il commercio. Lascerò dunque stare molti di quei
meravigliosi alessifarmaci, estratti, tinture, quintessenze e simili
strepitosi e prolissi recipe d’Angelo Sala, dell’Untzero, del suddetto
Cristini e di altri lor confratelli, sì per non eccedere di troppo,
e sì perchè la sperienza ha fatto vedere alle occasioni essere bene
spesso splendidissime le promesse di tal gente, ma poco felici gli
effetti. E questo sia detto col rispetto sempre dovuto ai veri e non
ai ciarlatani e non visionarj chimici, da’ quali riconosce la medicina
molti utilissimi rimedj e dei gran vantaggi. Tali sono il Quercetano,
lo Scrodero, lo Zvelfer, il Rolfiacio, l’Homberg, il Lemery, ecc., e
tali reputo io i due nostri viventi cittadini, cioè il sig. Domenico
Corradi, commessario generale dell’artiglieria e matematico del
mio padron serenissimo, rinomato per altri suoi studj, e il sig.
Giovangirolamo Zannichelli, che ultimamente ha pubblicato in Venezia
un suo trattato _De ferro ejusque nivis praeparatione._ Molto più poi
lascerò alla gente troppo facilmente credula il Fioravanti con tutti
gli altri cerretani e segretisti, perchè quantunque ne’ libri loro
probabilmente v’abbia de’ rimedj anche eccellenti, pure il miscuglio
di molti altri inutili e falsi fa che non si può fidar nè pure dei
veri, senza vederne prima le prove. Anzi qualora io lodo, o dico essere
lodati da altri alcuni rimedj, non intendo io mai di fare la sicurtà
che se ne abbiano a veder dei miracoli.

Darò fine alla parte preservativa coll’accennare ancora il metodo
tenuto dal Diemerbrochio (insigne autore, come dissi, d’uno de’ più
utili e più celebri trattati della peste che si abbiano) per guardarsi
dal contagio dell’anno 1635 e dei due seguenti che afflisse tutta
la Fiandra e gran parte della Germania. Si maravigliava la gente
com’egli visitasse tanti infermi e case d’infetti, intrepido sempre ed
illeso. Ecco la sua forma di vivere. Non avea punto paura del male, nè
permetteva che collera, terrore o tristezza d’animo alloggiasse con
esso lui. Venendo la malinconia, facile a lasciarsi vedere, mentre
in tutta Nimega non v’era casa esente da peste, egli ordinava a tre
o quattro bicchieri di vino che la cacciassero tosto di casa. Non
potendo dormire assai la notte per le troppe faccende del giorno, dopo
il pranzo prendeva sonno d’un’ora. Medicava per carità anche i poveri.
Il suo vitto era di cibi di buon sugo e di facil digestione, con
fuggire gli opposti; e la bevanda vino mediocre, preso talvolta sino
all’ilarità, non mai all’ubbriachezza. Una o due volte fra la settimana
prima d’andare a letto prendeva una o due delle seguenti


_Pillole antipestilenziali._

℞. _Radici di petasitide, carlina, dittamo, angelica, elenio, ana
mezz’oncia, gentiana dram. 1 e mezz., rabarbaro ottimo onc. 1 e mezz.,
agarico bianchissimo mezz. oncia, erbe di scordio, centaurea minore,
ruta, ana mez. onc., cardo santo dram. 6, fiori di steccade dram. 1
e mez., semi di cedro d’aranci, di zedoaria, ana dram. 1. Di tutto si
formi polvere grossa che per due o tre dì si maceri in due o tre libbre
di vino bianco, poi si faccia cuocere per un quarto d’ora e si coli
con forte spremitura nel torchio e la colatura si coli di nuovo per
carta sorbitrice. In questa colatura disciogli aloè ottimo onc. 3 e
mez., mirra chiara in gocce dram. 3 e mez., e in una scudella si faccia
svaporare l’umidità, finchè diventi massa da comporne pillole provate
utilissime in tempo di peste._

La mattina per la nausea egli non poteva prendere medicamento alcuno
prima d’andare alla visita degli ammalati, ma solamente masticava
alcuni grani di cardamomo minore. Da lì però a due ore prendeva un poco
di triaca o di diascordio o una scorza d’aranci condita, ovvero per
lo più tre o quattro pezzetti di radici d’elenio condite. Da lì a poco
mangiava un pezzo di pane con butirro e cacio verde pecorino, bevendovi
appresso birra e talvolta un bicchier di vino medicato con assenzio o
sia medichetto. Due ore prima del mezzodì, se gli era permesso, fumava
una pipa di tabacco; dopo il pranzo ne fumava due o tre altre, e dopo
cena altrettante. Talvolta in qualche ora del dopo pranzo ne prendeva
ancora qualche altra pipata. Se punto punto si sentiva alterato dal
fetore delle case o persone appestate, subito, lasciato stare ogni
altro anche necessario affare, qualunque ora del giorno fosse, fumava
due o tre pipe di tabacco, avendo egli sempre creduto e coll’esperienza
provato per un primario preservativo nella peste il tabacco in fumo.
Teneva egli che non fosse mai stato inventato migliore preservativo
contra la peste, purchè fosse tabacco d’ottima qualità e colle foglie
ben mature ridotto in corda, e purchè fumato, appena che si sentisse
qualche vertigine, nausea o ansietà di cuore, che possono facilmente
assalire chi pratica tra i fetori degli appestati, con passar poco
dopo in vera infezione. Contento egli del tabacco solo, non si valeva
d’altri suffumigi ed odori, avendone consumato non poca quantità,
durante essa peste, la qual poi finita finì anch’egli di fumar tabacco,
affinchè l’uso lodevole non passasse in un abuso detestabile, come
si vede tuttodì avvenire a molti. Può essere che non pochi alla prova
non ne sentissero tanto profitto; ma egli attesta che altri ancora il
provarono utilissimo. Arrigo Sayer, medico valentissimo d’Oxford, per
quello narra il Willis, medicava tuttodì francamente poveri e ricchi
appestati, e maneggiava le ulcere loro senza danno alcuno e senza
adoperare altro preservativo che una buona bevuta di vino generoso
prima di uscir di casa. Chiamato poscia ad un castello dove la peste
era più atroce, avendo avuto l’animo di dormire nel medesimo letto con
un duca suo grande amico infetto della medesima, la contrasse anch’egli
e vi lasciò la vita. Majuscola fu questa bestialità. Non mi fermerò
a pregare i medici nostri di non imitarlo. E ciò basti intorno alla
preservazion della peste per quanto si può sperare dalla medicina.



CAPO IV.

  _Rimedj curativi della peste. Nessuno specifico e sicuro finora
    trovato. Periodo delle pestilenze in una città, principio, mezzo
    e fine e lor diversi effetti. Medicamenti come trovati efficaci
    in una peste e non in altre. Salassi e medicine solutive, rimedj
    allora o pericolosi o nocivi._


Veniamo ora a trattar dei medicamenti e rimedj per curare chi è già
infetto, cioè preso dal morbo pestilenziale. Per tempo sono obbligato
anch’io ad intonare quella spiacevol sentenza, cioè: che non si dà
antidoto alcuno specifico, il quale per sua particular qualità sia
atto a preservare ogni persona dalla peste, e che molto meno si
dà alcun determinato rimedio per guarire chi è già colpito dalla
medesima. Perciò tutto quello che ha mai saputo pensare e suggerir
qui la medicina e la sperienza, consiste in certi rimedj generali per
espugnare la malignità dei veleni contratti e resistere alla putredine,
che per analogia possono anche servire contra la peste. Nè c’è da
maravigliarsene da che l’arte medica con tutti i suoi studj nè pure ha
trovato finora rimedj specifici a tanti altri mali e malattie di molto
minor importanza e malignità che non è il crudelissimo della peste.
Ora anche la curativa può ben vantare per questo morbo un’infinità
di rimedj, pubblicati già in varj ed assaissimi libri che trattano
della pestilenza; ma di nessun d’essi può dirsi con sicurezza: Questo
guarirà. Anzi è da por mente che tanto nella preservazione, quanto
nella cura ad uno gioverà un rimedio che nulla poi servirà ad un
altro ferito del medesimo male, perchè concorre il temperamento e la
disposizione interna delle persone a fare che sia giovevole ad uno
e inutile nello stesso tempo ad un altro il medesimo rimedio. Anzi
si osserva che alcuni medicamenti provati efficaci in una peste, non
servono poi in altre, essendo che quasi ciascuna peste ha qualche suo
proprio e particolar sintoma diverso da quei delle altre. Forse ancora
è avvenuto, ed avverrà, che un medicamento sia stato e sia per essere
utile tra i Franzesi, Tedeschi, Inglesi, ecc., e questo non riesca
poi tra gl’Italiani; oltre al vedersi che ce ne vengono proposti dagli
autori di quei che sono d’indole contraria per preservare e per guarire
dalla stessa stessissima peste; riflessioni tutte che rendono anche
me perplesso e timoroso nel trattar qui dei rimedj. Ma finalmente un
pessimo rimedio potrebbe essere il non voler nè pure tentare veruno di
tanti rimedj che veggonsi ancor qui lodati dai medici saggi.

Credono alcuni che non si trovi, se non tardi, rimedio alla peste,
e che appunto i contagi facciano tanta strage prima di cominciare
a cedere ai medicamenti, perchè non si giunge a scoprire il
proporzionato, se non dopo molte esperienze. Dissi che così credono
alcuni; ma non dirò già che sia certa questa opinione, perchè non ben
sussiste che tardi si trovi il rimedio; ma sussiste più tosto che non
si trova giammai. In qualsivoglia peste v’ha delle cose strane, la
cagion delle quali non si sa rinvenire, almeno con sicurezza, potendo
essa attribuirsi alle qualità meno o più fiere del male, alla buona
o rea disposizion dell’aria e de’ corpi, o pure a un complesso e
concorso d’altre sconosciute circostanze che la man di Dio unisce per
gastigare i cattivi e purgare la terra. Per altro son da avvertire
tre tempi diversi di qualsisia peste, cioè il principio, mezzo e fine.
Nel principio o sia nell’accessione di questo malore, un solo, o pochi
almeno saran quegli che porteranno la peste in una terra o città e la
parteciperanno a chi disavvedutamente con esso loro tratti. Costoro
quasi infallibilmente morranno o perchè non sarà conosciuto per tempo
il male, o i rimedj non avran forza, o nè pure s’applicherà loro alcun
rimedio essendo tutti sul principio d’un contagio pieni più di spavento
che non s’è all’arrivo d’un fiero esercito di nemici in paese disarmato
e che gode da gran tempo la pace. Se però conosciuto tal disordine,
con pronte ricerche e rigorosissime determinazioni, verranno scoperte
e serrate quelle case, e sequestrate persone e robe che possano aver
portata o contratta l’infezione, con separar le famiglie sospette dal
commercio degli altri, e si provvederà coi profumi alle case e robe
loro; la peste sarà soffocata e forzata a cedere e morire, potendosi
con ciò tuttavia preservare la Città, perchè il veleno non è peranche
invigorito, nè dilatato.

Il mezzo, o sia lo stato della pestilenza è quando essa ha preso
possesso delle città e scorre liberamente, atterrando chi le capita
alle mani, e facendo girar le carrette senza riposo. O sia che
allora l’aria stretta delle contrade s’imbeva tutta di quegli aliti
e vapori mortiferi, cagionando con ciò tanta carnificina; o sia che
difficilmente possano le persone, almen popolari, guardarsi allora
dall’ambiente o contatto di qualche aria, persona o roba infetta; o sia
in fine che il veleno pestilenziale si trovi allora nel maggior suo
auge, malignità e furore; certo è che in tale stato di cose i rimedj
non sembrano aver forza e difficilmente si veggono guarir gl’infermi.
Anzi è stato osservato che alcune persone, benchè si tenessero chiuse
nelle lor case, nè conversassero con alcuno, pure se per altri lor
disordini o casualmente venivano assalite da una febbre, non si
fermavano qui, perchè la febbre degenerava poscia in peste. Del pari
scrivono alcuni che altri mali spontaneamente allora si mutavano in
pestilenza: il che però potrebbe essere stato cagionato o dalla visita
di qualche medico, o da altre persone o robe infette, senza che se ne
accorgessero i poveri infermi. Nel fine poi, o sia nella declinazion
del contagio, il male così facilmente non si comunica, nè passa
dall’uno nell’altro della stessa famiglia, e gl’infetti facilmente
guariscono, riducendosi le morti a poco a poco in nulla. Può essere
che dopo avere il morbo perduto il suo pascolo con essersi perduta
tanta gente, venga egli meno, non già perch’esso manchi di malignità,
ma perchè manchi a lui la preda; ovvero che restando solamente in vita
quei che sanno ben difendersi o col ritiro o con altri preservativi,
e quei che hanno (e non son pochi) un temperamento talmente opposto
alla qualità del male che anche in mezzo agli appestati e senza alcun
preservativo, non ne risentono danno; può, dico, essere che il morbo
non trovi finalmente alcuno, sopra cui infierire; nè fomite o esca,
ove più attaccare il suo incendio; o non gliel lasci trovare il buon
governo de’ maestrati, i quali non ommettendo diligenza e premura
alcuna di profumi, sequestri ed altri mezzi, si studino di conservare
illesi quei che fin allora son campati.

Contuttociò non sembra nè pure improbabile che il veleno stesso della
peste possa andare a poco a poco smarrendo il suo vigore dopo alcuni
mesi di dimora entro d’una città, tanto che si lasci vincere o dalle
naturali forze dei corpi umani, o da quelle de’ medicamenti che dianzi
nel suo furore valevano poco o nulla. Anche il morbo gallico sul
principio e per molti anni, era quasi immedicabile o certo faceva dei
terribili danni. Va esso a poco a poco perdendo la sua rabbia, e si
lascia medicare con facilità, benchè la calata in Lombardia di tanti
eserciti dalla parte del Rodano ne abbia tornato ad inferocire alquanto
gli spiriti dal 1701 fino ai dì nostri, siccome ho inteso dire ad
eccellenti medici che l’hanno osservato. Non m’arrischierò già di dire
che passando il veleno pestilenziale da tanti in tanti altri corpi si
vengano a poco a poco a rintuzzare le particelle acute, fiammeggianti
e maligne che il compongono; perciocchè so che se da quella città,
in cui esso finisce, passerà ad un’altra fin’allora intatta, si
vedrà ch’esso ivi sarà quel vigoroso tiranno di prima. Ma dirò bene
che per un vento, il qual venga a soffiare in quella città, portando
seco o nitro o zolfo o altri effluvj e vapori, correttivi dell’aria e
contrarj al veleno pestilenziale che vien creduto da alcuni formato di
particelle d’arsenico o napello o aconito, questo potrà infiacchirsi,
e divenir tale che dia poi luogo ai medicamenti, o non sia ivi tanto
attaccaticcio, o non conduca sì facilmente alla fossa. Ovvero potrebbe
immaginarsi che tali venti e vapori, senza cangiar punto la qualità
di questo veleno, cangiassero la costituzion dell’aria e de’ corpi
umani di quella città, onde eglino da lì innanzi non sentissero sì
presto, nè provassero così fiero questo crudelissimo morbo, rendendosi
disposti a maggiormente resistergli. Così qualora accade che, contro
il costume ordinario, infierisca più una peste in tempo di verno che
di state, probabilmente ciò verrà de qualche pernicioso scirocco che
ostinatamente allora soffj, e con alterare e mettere in moto il sangue
e gli umori, faccia strada alle devastazioni del veleno pestilenziale.
La tramontana molte volte ha snervata o fermata affatto la peste. Guai
se da qualche cagione esterna, operante o nell’aria, o ne’ corpi,
o pure contro le particelle del fermento contagioso, non venisse
indebolito e finalmente estinto questo morbo: non si rimarrebbe esso
mai di fare strage nelle città finchè vi fosse popolo. E pure si sa
ch’esso dopo il periodo d’alcuni mesi per l’ordinario si estingue, e
che talvolta un improvviso gran freddo l’abbatte affatto.

Comunque sia, Bernardino Cristini scrive che nel contagio di Roma
del 1656 sul principio si adoperavano vari rimedi, ma indarno tutti.
Sospetta egli che non giovassero agl’infermi del lazzeretto, perchè
non erano ministrati al debito tempo dai serventi, impauriti dal
pericolo della morte; ed aggiunge che non si può esprimere qual fosse
il disordine dei cerusici; ma che nel progresso del male cominciò egli
con altri medici a far di belle cure e a guarir non pochi appestati.
All’incontro il cardinale Gastaldi nella descrizione di quella peste
medesima, ove egli sostenne la prefettura dei lazzeretti, attesta
essere stati di gran lunga più i guariti ne’ lazzeretti romani per
benefizio della loro natura che i risanati dal sapere e dalle ricette
dei medici. Quegl’infermi che aveano gagliardìa di spiriti vitali,
espugnavano il contratto veleno per mezzo di ascessi o sudori, effetti
tutti della loro benefica natura, benchè poi paressero ridonati
alla vita dal possente aiuto delle medicine; ed appunto anche senza
medicamenti guarirono molti dai buboni. Di più scrive egli essersi
conosciuto alle prove che niuno seppe trovare un vero e specifico
antidoto contro quella pestilenza; che i medicamenti giovevoli agli
uni, riuscivano poi nocivi ad altri; e che meno degli altri medici
conobbero o seppero medicare tal morbo quei che si credeano più
barbassori nella professione medica; e in fine che tanti bei rimedi
e consigli suggeriti dai libri de’ medici, o dalla loro viva voce,
o mandati anche dagli stranieri a Roma in soccorso di quella misera
congiuntura, più tosto portarono confusione che sollievo; e ancorchè
per avventura avessero giovato in altre pesti, in quella si trovarono
vani, e talvolta ancora dannosi.

Queste sono cattive nuove. Contuttociò non bisogna perdersi d’animo.
Certo io per me sono abbastanza persuaso (e di questo sentimento sono
anche tutti i medici, non ciarlatani nè ipocriti, ma galantuomini),
cioè che la guarigione de’ mali venga per lo più dalla natura, vera
medicatrice d’essi, qualora è alle sue forze permesso il fare le
separazioni ed espulsioni de’ cattivi umori, nel che consistono le vere
crisi. Ma credo ancora del pari che il dotto e giudizioso medico possa
contribuir molto alla salute degl’infermi, prescrivendo opportunamente
rimedj che aiutino i movimenti regolati della natura, e che in certo
modo la correggano se talvolta ella sceglie le strade non convenienti,
o pure se caccia fuori con disordine gli umori confusi e non peranche
ben separati. Perciò siccome può essere che alcuni medici romani si
facessero vento alla barba con troppa facilità nell’attribuire a sè
la guarigione di tanti, così può darsi caso che anche il cardinale
Gastaldi si dilungasse alquanto dal vero nell’ascrivere al solo
benefizio della natura ciò che ancora fu benefizio d’alcuni medicamenti
opportunamente dati e trovati buoni in quella occasione. Passiamo
dunque avanti per consultare ancor qui la medicina, di cui in fine,
non ostante tutta la sua incertezza e debolezza, si dee fare anche ne’
tempi di peste un gran capitale.

Ma prima d’accennare ciò che può essere utile, convien dire quello
che può nuocere. Il Mercati, il Mercuriale, il Foresti, il Massaria,
Zacuto Portoghese con altri insigni medici sostengono che si abbia da
cavar sangue nel principio del male agli appestati, mettendo mano a
vari raziocini e testi de’ medici antichi, e il Settala cita anche la
sperienza sua. Certo non è improbabile che in qualche peste ciò sia
stato di giovamento; io però inclino a credere che queste lodi del
salasso sieno procedute dall’osservazione di soli pochi casi che non
bastano a fissare una decisione legittima, o pure che s’esso giovò,
fu per cagione de’ sintomi e non della peste medesima; e però quando
non ne apparissero chiari da un’accurata inspezione i suoi buoni
effetti, quanto a me senza fallo non mi lascerei allora cavar sangue;
e quando la sperienza non gridasse in contrario, consiglierei anche
a tutti gli altri il non lasciarsi aprire la vena in casi tali: sì
se fanno conto della loro pelle. Un’altra folla d’eccellenti medici,
fra’ quali il Fracastoro, il Cardano, il Fernelio, il Platero, il
Salio, il Riverio, il Barbetta, il Doleo, il Sorbait, il Waldschmidio,
e per tacer di tanti altri, il celebre nostro Falloppio, asseriscono
che questo è un colpo mortale, recando non solamente ragioni e testi
migliori, ma anche la sperienza, vera maestra in simili dispute. Il
Falloppio scrive che nella lunga peste che dal 1524 durò in Italia
sino al 1530, morirono tutti coloro a’ quali fu cavato sangue; e
molti, che se ne guardarono, salvarono anche la vita. Anche il Pareo
interrogò una gran moltitudine di medici e chirurghi trovatisi nella
peste del 1565, che infestò quasi tutta la Francia, e n’ebbe per
risposta che nessuno campò dopo il salasso, risanati all’incontro
moltissimi coll’uso de’ soli alessifarmaci. Lo stesso fu osservato in
altre pestilenze dall’Andernaco, da Arrigo Fiorentino, dal Dodoneo,
Minderero, Hildano, Gesuero, Bauhino e da altri assaissimi rinomati
fisici, che per brevità tralascio. E per parlare de’ contagi più
recenti, abbiamo anche l’attenta osservazione del Diemerbrochio, il
quale ci assicura che chiunque ferito dalla peste de’ suoi giorni era
salassato, indubitatamente e presto moriva. Anzi osservò egli di più
che gl’infermi d’altri mali, se si lasciavano aprir la vena, poco dopo
venivano presi dalla peste; e che anche a moltissimi dei sani dopo
il salasso incontrò la medesima disgrazia. Misera condizione degli
uomini, diventando carnefici nostri quei che sono scelti per conservare
la nostra vita. Abbiamo ancora dal Cristini che nella peste di Roma
del 1656 fu perniciosissima la cavata del sangue, notizia confermata
medesimamente dal cardinale Gastaldi con dire essersi avverata anche
allora l’osservazione del Falloppio, il quale narra che un medico
famoso de’ suoi tempi fece cavar sangue a mille appestati, e che
appena due scamparono dalla morte. Aggiunge però il Gastaldi che fu
meno dannoso il taglio della safena per alcuni pletorici e robusti.
Finalmente anche nella nostra città, grassandovi la peste nel 1630,
fu stampato un avvertimento in cui si faceva sapere come osservato in
varie città che il cavar sangue e dar medicine da purgare il ventre,
affrettava irremissibilmente la morte ai malati, e probabilmente
uccideva alcuni che sarebbono guariti. Il punto è importantissimo,
e però mi son qui diffuso. Tuttavia concepisco io molto bene che in
alcune pesti la sperienza possa far conoscere utile la cavata del
sangue, almeno per le complessioni pletoriche, e solo in principio,
o pure quando il morbo cagionasse sintomi di pleuritidi o altre
infiammazioni: al che i saggi medici porranno ben mente. Il moderno
contraddittore d’Ippocrate, Michele Sinapio, scrive che a quanti
della corte del principe di Radzvil, ambasciatore di Polonia a Vienna,
fu aperta la vena nella peste dell’anno 1679 tutti guarirono, morti
all’incontro quei d’essa famiglia che se ne astennero. Aggiungo di più
insegnare il Sidenham che il salasso, purchè fatto con larga mano e
replicato più volte, prima che escano fuori i buboni, giova assaissimo;
e nuoce solo il cavarne poco, o pure l’aspettare a cavarlo dopo
l’uscita dei tumori. Cita la sperienza sua e l’autorità di Leonardo
Botallo. Così egli; la disgrazia però si è che lo stesso Sidenham
in fine, vedendo, che questo suo metodo zoppicava forte, abbandonò i
salassi, e si diede anch’egli ai sudoriferi, che trovò meno pericolosi
e più utili. In una parola, ci vuol qui gran cautela trattandosi d’un
rimedio che può essere anch’egli pestifero.

La medesima ragione ha poi fatto che anche il cavar sangue colle
ventose e colle sanguisughe o colle scarificazioni, venga riprovato
da qualche eccellente medico, tuttochè Galeno conti una storia
d’una scarificazione ben fortunata in una gamba, da cui poscia han
preso motivo altri di lodare un tal tentativo ne’ tempi di peste,
con citare anch’essi dal canto loro qualche prova fortunata. Oltre
a questi pericolosi rimedi chirurgici, è da avvertire il pericolo
medesimo in un altro che è farmaceutico. Certo non meno de’ salassi
ha fatto conoscere la sperienza che le medicine solutive del ventre
in tempi di peste, e prima che la natura avesse sciolto il morbo
degl’infermi, erano veleni, conducendo in breve alla morte con una
diarrea che teneva lor dietro: il che si verificava eziandio nei
corpi pieni di mali umori; essendosi all’incontro osservato che la
stitichezza del ventre non noceva ad alcuno. Imperocchè non hanno
le medicine purgative ingegno da scegliere e votare con distinzione
gli umori, nè hanno forza di purgarci dagli umori cattivi, potendo
anzi con gli scioglimenti e con le precipitazioni che cagionano
corrompere i buoni, e dissipare ed infettare gli spiriti, i quali
nella pestilenza, più che in qualsivoglia altro male, bisognerebbe che
fossero puri e vigorosi. Perciò Ippocrate, Cornelio Celso, il Fernelio,
il Saraceno, il Fracastoro, il Palmario, il Cardano, l’Acquapendente,
il Barbetta, ed assaissimi altri de’ più rinomati medici, riprovano
colla sperienza alla mano in tempo di peste i purganti; e nel secolo
prossimo passato le infelici prove d’alcuni insegnarono troppo agli
altri di astenersene, per non accrescere i mali della pestilenza.
Anche il Marchino e il Grillot lasciarono memoria che nella peste
di Firenze del 1630 e 1631, e in quella di Lione del 1628 furono
perniciosissimi i purganti. Aggiungono che i salassati morirono quasi
tutti: il che ci fa svanir fra le mani l’autorità del Rondinelli, da
cui nella Descrizione della medesima Peste di Firenze fu notificato
ai posteri essersi allora _veduto per isperienza che nel principio
del male, mentre l’ammalato aveva buone forze, quegli a chi si cavava
sangue la maggior parte guarivano, se bene fosse apparito o il bubone
o il carbonchio, con questa eccezione però di farlo parcamente, e
molto meno di quello che per l’ordinario si farebbe, ecc._ In fatti lo
stesso Rondinelli scrive altrove che fu proibito assolutamente il dar
medicine, _siccome il cavar sangue_; poichè per esperienza si vedeva
che tutti quelli che in casa loro o altrove l’avean fatto morivano; e
in Firenze non ne campò niuno. È ben vero che quando la natura sfogava
da per sè, o pel naso, o venivano alle donne le solite purghe, purchè
non in quantità straordinaria, nell’uno e nell’altro caso era segno
di salute. La conclusione pertanto si è non essere molto da fidarsi
di chi ha cotanto esaltato i salassi e gli evacuanti, anche violenti,
per chi è preso dal morbo pestilenziale, mentre nè pure i lenienti
e nè pur le pillole di Rufo sogliono allora se non recar nocumento
a chi è già infermo. Non sono tanto pericolosi allora i cristeri, o
sia i lavativi; anzi per parere d’alcuni riescono utili. Ma perchè
l’uso loro vien riprovato dalle ragioni d’altri, e, quel che è più, da
sperienze in contrario, perciò converrà andar cauto a valersene. Così
gli emetici, o vomitori, anche stibiati, de’ quali son tanto amici i
chimici ed alcuni oltramontani ed empirici, per disgrazia talvolta di
chi in loro s’incontra, benchè dal cardinale Gastaldi venga scritto che
talora parevano giovevoli nella peste di Roma, dati nel principio del
male, tuttavia per l’ordinario in tempi di peste si son fatti conoscere
per aiutanti e sergenti della morte. Così attestano insigni autori. In
somma egli è una gran felicità rincontrarsi in medici che rendano, se
è possibile, agli infermi la vita; ma non è minore o è anche maggior
felicità il trovar medici i quali sappiano non levar la vita ai miseri
infermi, che pure tanto si fidano del loro aiuto. Passiamo ora a rimedi
più accettati in tempo di peste, perchè conosciuti per giovevoli, o
almeno per non nocivi.



CAPO V.

  _Sudoriferi uno de’ rimedi più commendati nella cura della peste.
    Varie ricette di questi._


Subito che si scorge l’uomo preso dal morbo contagioso, cerca di dargli
soccorso la medicina con sudoriferi e con antidoti creduti opposti alla
corruzione, procurando o di vincere in casa il fermento pestilenziale,
o di ridurlo alla cute e di espellerlo fuori. Per conto dunque del far
sudare, io non voglio tacere che il cardinale Gastaldi, ragionando
della peste di Roma, dice che un tal rimedio talvolta fu utile e
talvolta ancora nocivo; e che i sudoriferi si formavano di pietra
bezoar sino a cinquanta grani, o pure di polvere viperina o di bacche
di lauro, e di simili cose, con riguardo sempre ai vari temperamenti.
Anche il Sidenham trova in questa operazione degl’incomodi, o perchè
cagioni frenesie in chi difficilmente può sudare, o perchè impedisca
il nascere o faccia tornare indietro i buboni, che potrebbono essere
più legittimi ascessi del male. Nulladimeno la comune opinione si è
che il promovere sulle prime il sudore ai feriti dalla peste, possa e
soglia riuscir loro di sommo giovamento, purchè si faccia con prudente
moderazione e con diversi riguardi alle forze, al sesso, all’età, al
paese e alla stagione. Lo stesso Sydenham, come dicemmo, lasciati stare
i salassi, si diede in fine tutto ai sudoriferi, coi quali confessa
d’aver guariti moltissimi.

Un’infinità di sudoriferi ci viene suggerita dai medici: io
trasceglierò quei massimamente che sono più facili a trovarsi o a
comporsi, e che possono venire più prontamente alle mani della povera
gente, rimettendo al discernimento de’ medici il prescrivere quei che
meglio converranno, secondo la disposizione degl’infermi e del morbo.
Vero è però che non è sempre in mano de’ medici il far sudare; e in
oltre dubito io se certi generosi diaforetici meritino le lodi con
cui sono esaltati, appunto perchè forse troppo generosi, credendo io
che possano adoperarsi con profitto maggiore quei che senza far troppa
violenza alla natura e agli umori sono buoni da promuovere benignamente
il sudore. Per altro a tal crisi la natura suol inchinare al morbo
pestilenziale. Appena dunque si scopre alcuno ferito dalla peste, che
dovrà egli mettersi in letto, e preso uno dei seguenti diaforetici, a
cui beverà dietro, un’ora dopo, un poco di brodo caldo, si coprirà bene
affinchè si provochi il sudore; replicando poi varie volte lo stesso
rimedio, e aiutando con qualche cibo o bevanda il corpo subito che si
sentirà infiacchito dall’espansione degli spiriti ed umori.


_Sudorifero I._

_Prendi una cipolla bianca e scavala alquanto, poi mettivi dentro
scrup. 4 di triaca, e ricopertala col tassello o pezzo prima levato
via, e involta in carta sorbitrice bagnata d’aceto, falla cuocere o
arrostir lentamente sotto le ceneri calde. Dipoi spremuto quanto puoi
il sugo, aggiungivi aceto semplice o bezoartico onc. 1, e bevi. Alcuni
fanno cuocere nella cipolla anche della ruta e un poco di zafferano e
d’acquavite._


_Sudorifero II._

℞. _Triaca dram. 1, aceto di vino generoso o di calendola o bezoartico
onc. 2; olio di ginepro gocce 7, o mez. scrup. o uno intero. Mischia
insieme, e fanne bevanda. Scrivono che sia efficacissima per far
sudare._


_Sudorifero III._

℞. _Foglie di ruta fresca manip. 1. Pestale nel mortaio, e unisci loro
aceto bezoartico o di calendola onc. 2. Spremi forte, e al sugo colato
aggiugni sale d’assenzio scrup. 1 e mez.; triaca o diascordio dram. 1 o
scrup. 4. Mesci, e fanne bevanda._


_Sudorifero IV._

℞. _Radici di petasitide, angelica, elenio, ana dram. 1; erba ruta,
cardo santo, scordio, ana mez. manip; vino bianco quanto basta. Si
cuocano secondo l’arte, e si colino. Prese di questa colatura 2 o 3
onc., aggiugni sale di scordio o di cardo santo scrup. 1, triaca scrup.
2, e fanne bevanda._


_Sudorifero V._

℞. _Radici di dittamo, petasitide, ostruzio, angelica, ana dram 2;
scordio, cardo santo, ruta, ana mez. manip. Si cuocano per qualche
tempo in parti eguali di aceto e vino; e la colatura spremuta si beva._


_Sudorifero VI._

℞. _Radici d’angelica, imperatoria, enula campana, ana dram. 1;
scordio, cipresso, salvia, assenzio, o sia medichetto, cardo santo, ana
manip. 2; artemisia, celidonia, ana manip. 1; anisi bacche di ginepro
onc. 6; cannella, garofani pestati mez. dram. Si secchino bene l’erbe;
poi metti ogni cosa in infusione in 2 lib. di vino bianco ottimo,
e lasciavelo per 3 dì in bagno maria. Distilla, e serba il liquore
in vaso di vetro ben serrato per quando ne avrai bisogno, perchè
veramente è efficace. Si prenda mezzo bicchiero di quest’acqua e vi si
metta dentro triaca dram. 1; confezione d’alchermes dram. 2. Dissolvi
tutto, e bevi per sudare. Si piglia ancora della suddetta acqua per
preservativo la mattina a digiuno due volte la settimana, quanto è un
bicchierino d’acquavite._


_Sudorifero VII._

℞. _Ossimele onc. 2, aceto onc. 3, sugo di cipolla onc. 1. Mesci,
scalda, e bevi. Con tale bevanda Michele Mercati narra che nella peste
di Sicilia molti appestati sudavano assai, e si liberavano._


_Sudorifero VIII._

℞. _Aceto forte onc. 4, mitridato onc. 1. Distempera, e bevi. Scrivono
che ancor questo faceva guarir molti._


_Sudorifero IX._

_Altri in essa peste davano polvere di bacche di lauro dram. 1 e
mez. in acqua di cardo santo o in altra simile, e faceano guarir
molti. Anche il Cristini dice d’aver provato con buon effetto questo
sudorifero._


_Sudorifero X._

℞. _Sugo di calendola, o pure di verbena, o di tormentilla, o di
zedoaria, o di scabbiosa, o di cardo santo, o di ruta capraria.
Chiarificato con zucchero e riscaldato, se ne diano all’infermo onc.
3 o 4, e poi si copra bene. Aggiungendovi mez. dram. di triaca, sarà
meglio. Ma non si tardi a dar tali sughi più di 7 ore dopo scoperto il
male._


_Sudoriferi vari XI._

℞. _Tormentilla, o angelica, o bistorta dram. 1, ovvero contrajerva,
o bolo armeno scrup. 1; o pure radici d’aristologia tonda, di dittamo
bianco, di tormentilla, scorze di cedro, sandali rossi, bolo armeno,
ana dram. 1; canfora mez. dram; zucchero mez. onc. Mesci tutto, e
prendine dram. 1 per volta due volte il giorno con qualche acqua
cordiale. Ovvero prendi radici di contrajerva o di bistorta, bacche di
ginepro e di lauro, ana dram. 1; canfora mez. dram., e fa come sopra._


_Sudorifero XII._

℞. _Sugo di cipolla bianca, di millefoglie, di ruta, parti eguali;
aceto fortissimo a discrezione quanto basta. Si mescoli tutto, e se ne
formi bevanda calda, dandone due terzi di un bicchiero all’infermo da
6 in 12 ore dappoichè è scoperto appestato, ed anche più presto se si
può._


_Sudorifero XIII._

℞. _Cipolla cotta e pestata in mortaio. Infondi 4 o 5 cucchiai d’aceto
buonissimo. Cola con pezza di lino, e danne all’infermo per farlo
sudare._

Dicono ancora che serve molto bene a far sudare alquanto di polvere
di radici d’angelica in un bicchiero d’acqua della stessa pianta,
replicando ciò ogni sette ore; e mancando l’erba fresca da farne acqua,
si può farla con infusione o decozione della radice. È decantata anche
la polvere di bacche d’edera colte ben mature e seccate all’ombra,
prendendola in un mezzo bicchiero di vino bianco buono. Le bacche
esposte alla tramontana si credono di più virtù. Se in luogo di ciò
darai 3 once d’acqua distillata d’esse bacche fresche, attestano che
se ne vedrà più felice l’effetto. Ottimo per far sudare la gente
povera scrive l’Etmullero che è il darle alcuni capi d’aglio ben
pestati con aceto o vino generoso. Anche 2 once di sugo di cipolla
bianca con mezz’oncia di aceto ottimo in acqua di cardo santo, o in
altre simili, bastano per far sudare. Lo stesso otterrai bevendo un
bicchiero di decozione di foglie e bacche di ginepro, o pure quella di
cardo santo, cotta insieme con una dramma di triaca, o anche prendendo
prima la triaca in un bocconcino, e poi bevendole dietro la decozione.
Ovvero cotta che avrai una cipolla, infondila in aceto rosato; cavala
dall’aceto e spremila; aggiungi poscia a tal sugo una dramma di triaca
e un’oncia di siroppo d’agro di cedro. Parimente mezza dramma o due
scrupoli di fior di solfo o di solfo sublimato, che è lo stesso, presa
con 3 once d’aceto tepido comune, fa egregiamente sudare. Pietro da
Castro scrive che nella peste di Roma del 1656 sommamente giovò il
dar 2 dramme di solfo ben polverizzato con 2 o 3 once di buon aceto.
È tenuto ancora per facilissimo sudorifero il solfo vergine con sale,
bollito in vino a bagnomaria, o pure quello del Crollio. Lo stesso
dicono del sale di frassino preso in acqua di cardo santo al peso
di 12 grani. Oltre a ciò un bicchier di vino bianco potente, con
alquante gocce di spirito di vitriuolo, ma moderatamente, e non in
guisa che diventi brusco, servirà egregiamente ad ottener l’intento;
il che però camminerà nel supposto che la peste sia dissolvente, come
poi cercheremo. Teofrasto anch’egli il loda; e l’Untzero tiene che
questo spirito sia uno de’ migliori medicamenti contro la peste sì per
preservarsi, come per curarsi, e cita moltissimi autori che sono dello
stesso parere. In fatti la ragione s’accorda con tale sentenza, se non
che avendo esso del corrosivo, potrebbe lo stomaco risentirne grave
nocumento, ove con qualche intemperanza e senza la compagnia di molto
fluido si prendesse. L’olio di vitriuolo anch’esso è stimatissimo.
Entra esso nel seguente


_Sudorifero XIV._

℞. _Estratto di cardo santo, sale d’assenzio, ana scrup. 1; sale di
cardo santo mez. scrup.; triaca dram. 1; acqua triacale e di cardo
santo, ana onc. 1; olio di vitriolo gocc. 15. Mesci, e fanne bevanda._

Le bevande tutte hanno da esser caldette. Già si sa che per far sugo di
qualunque erba convien pestarla in mortaio, spremerla forte, e lasciare
che il sugo deponga le parti più grosse. Chi avesse abborrimento al
sugo dell’erbe crude, le faccia cuocere in poca acqua e non tanto che
sfumi tutto il balsamico, e spremute poi ben bene esse erbe, ne beva
quella decozione, entro la quale chi ancor volesse far cuocere un poco
di carne, può farlo.

Buona parte dei sudoriferi fin qui descritti è stata da me a bello
studio trascelta, per essere d’ingredienti e materie facili a trovarsi
e a manipolarsi, e di poca spesa, sul riflesso di somministrar
consigli, e soccorsi alla gente povera o poco comoda, cioè ai più del
popolo. Del resto i medici, la giurisdizione de’ quali io non pretendo
di usurpare, potranno suggerirne non pochi altri di composizioni
più strepitose, le quali può essere che facciano miglior effetto, ma
può anche essere che non uguaglino talvolta il valore d’alcune più
semplici. Certo s’io riferissi come utile sudorifero una modesta bevuta
d’aceto fortissimo con un poco di sale, questo non avrebbe passaporto
presso di alcuni; e pure per attestato di qualche insigne medico,
non poca gente colta dalla peste s’è osservata guarir prestissimo
dal pericolo con tale sudorifero preso sul principio del male, perchè
cagione a loro d’un sudor copiosissimo. In una cosa poi non si potrà
fallare, e sarà nell’aggiungere, quando non manchi il comodo, ad alcuni
de’ suddetti diaforetici qualche ingrediente antipestilenziale di più,
come sarebbe un poco di mitridato, di triaca o di diascordio, o pure
qualche acido, come l’aceto, il sugo di cedro, l’olio o spirito di
vitriuolo, il sale d’assenzio, o simili. Veggo ciò fatto da eccellenti
medici. E perciocchè alle prove si può trovare che alcuni sudoriferi
riescano deboli pel bisogno degli appestati, ne riferirò alcuni altri
più potenti nel seguente capitolo, e finirò il presente con rapportare
la ricetta d’un’acqua ed estratto di maggior vigore, ma troppo
laboriosa, insegnata e praticata dal Diemerbrochio con felicissimo,
per quanto egli scrive, e maraviglioso successo nella peste del
suo paese. La mischiava però egli con alcun altro de’ medicamenti
antipestilenziali poco fa accennati, o con sale di ruta, o di cardo
santo, o di scordio, o con estratto d’angelica, o di cardo santo, o
coll’aceto bezoartico riferito di sopra nel capo III, ovvero con bolo
armeno o con terra sigillata.


_Acqua sudorifica._

℞. _Radici d’ostruzio, o sia d’imperatoria, petasitide, angelica,
carlina, valeriana, ana onc. 2 e mez.; radici d’enula campana, scorze
d’aranci secche, ana onc. 3; erbe scordio, assenzio, ana onc. 2; cardo
santo onc. 3; fiori di rose rosse mez. onc., di stecade dram. 3; bacche
di ginepro onc. 2 e mez.; grani di cardamomo minore dram. 5; cinnamomo
eletto onc. 1. Tutte queste cose sieno secche, si tritino insieme e si
pestino grossamente in mortaio di pietra, infondendovi poi vino bianco
buono mediocre lib. 22, acqua di rose lib. 2. Serrato bene il vaso,
stieno per 10 dì in infusione, e dipoi vi si aggiungano queste altre
erbe verdi e fresche, tagliate minutamente e pestacchiate, cioè foglie
di ruta manip. 6, tanaceto manip. 4, rosmarino, pimpinella, ana manip.
1 e mez. Stieno insieme in infusione per altri 8 o 10 giorni, movendole
ogni dì con una bacchetta. Dipoi mettivi dentro sugo di cedro lib. 2.
Stieno in infusione per 3 o 4 altri giorni, e poi fatto bollir tutto
leggermente al fuoco, si coli, e si sprema gagliardamente nel torchio.
La colatura spremuta si distilli in bagno maria, o nella rena, per
lambicco di vetro_.

Soggiugne l’autore la preparazione d’un estratto dalle fecce nel modo
seguente:

_Quello che dopo la distillazione resta nel fondo, aggiuntavi acqua di
cardo santo, s’ha da colare per carta sorbitrice; e tal colatura s’ha
da essiccare a lento fuoco, tanto che giunga a consistenza d’estratto
il quale si ha da salvare pel bisogno. Abbiamo dato il nome di
Magistrale a questo estratto._



CAPO VI.

  _Altri medicamenti per curar la peste. Quali usati ne’ contagi
    del 1630 e 1656. Canfora commendata assai, e varie composizioni
    canforate. Solfo, e suoi pregi contro la pestilenza. Bolo armeno,
    triaca, diascordio, ed altri antidoti o lodati, o riprovati._


Per espugnare l’interno veleno della peste hanno sempre studiato i
medici, ma senza trovar finora medicamento alcuno sicuro, specifico ed
universale. In difetto di ciò si sono eglino rivolti a prescrivere que’
rimedi che per la loro naturale attitudine sono o paiono contrari ai
veleni, ed atti ad impedire o correggere la corruzione, o il troppo o
troppo poco moto dei fluidi del corpo umano, e non senza apparenza di
aver eglino con ciò aiutata di molto la natura, allorchè ne seguita la
sanità degl’infermi. Egli è incredibile, quanta copia di radici, erbe,
fiori, frutta, semi, oli, pietre, sali, estratti, siroppi, conserve,
conditi, minerali, polveri, elettuari, ecc., ci venga posta davanti nei
libri loro col bell’elogio di medicamenti efficaci o mirabili contro la
peste, sì semplici come composti. Io non prenderò qui ad esporre, come
fa l’Untzero con assai curiosa minutezza, ad una per una tutte l’erbe,
radici, frutta, ecc., che servono o si pensa che possano servire contro
i morbi pestilenziali. Non crederebbono nè pure gli altri a me, siccome
io non credo a tanti discorsi prolissi degli altri intorno alla virtù
di sì gran copia di medicamenti. E dopo ancora che avessi riferito
tutto, ci resterebbe da imparare a fare il medico (che tale non sono
nè pur io) per sapere a chi convengano questi medicamenti, e come
s’abbia a mescolare ed usare ora questo ed ora quello; cosa nondimeno
anche difficile per i medici stessi, perchè dipendente dal giudizio
pratico e dalla prudenza, con la quale, per colpire nel segno, s’hanno
da considerare non solamente il mal della peste, ma ancora i sintomi
che l’accompagnano, e il temperamento, le forze degl’infermi, ed altre
non poche circostanze, dalle quali nascono diverse indicazioni. Mi
ristringerò io dunque a notar solamente i primari e più facili de’
medicamenti e rimedi che sono creduti a proposito per guarire, piacendo
a Dio, il morbo della pestilenza. E sono principalmente, per quanto
ho ricavato da vari autori, gli aromatici e balsamici, de’ quali vien
creduto che possano col loro sale volatile oleoso resistere, diciamo
così, alla corruzione degli umori; e i diaforetici, o sia sudoriferi,
prescritti con intenzione di espellere fuori della cute il veleno
pestilenziale, ed aiutar la crisi più salutevole che possa tentar la
natura. Hanno pure tra questi alessifarmaci il luogo loro e le lor
lodi molti acidi, i quali possono in alcune pesti impedire o levare
lo squagliamento e sfibramento degli umori e del sangue, e talvolta
ancora, secondo il parere d’alcuni, o col precipitare o col dar tuono
alle fibre, contribuire all’operazione del sudore, alla quale dee
allora particolarmente mirare la diligenza dei medici.

E primieramente nella peste del 1630, per quanto apparisce
dall’Avvertimento stampato allora in Modena, si vede che in molte
città fu costume, subito che appariva la vanguardia più ordinaria del
morbo contagioso, cioè febbre mista con dolore di capo, il prendere in
bevanda alquanto di polvere, creduta cordiale, con un poco di brodo
o acqua di scorzonera, ed ungere la regione del cuore con olio del
Granduca o del Mattiuolo. Poco dopo si bevea una dramma di triaca o di
elettuario del Mattiuolo, distemperata in 6 once dell’acqua suddetta,
o in altra simile, per promuovere il sudore, dopo il quale solevano
uscire i carboni, o buboni. Il corno di cervo, la terra sigillata e gli
occhi di granchio si costumavano ancora con profitto; cose nondimeno
che non veggo tenute per rimedi di gran forza contro il ferocissimo
assalto della pestilenza. Anzi essendo stato osservato da altri che
i coralli, gli occhi di granchio e la creta sono medicamenti che
opprimono l’acido e levano l’appetito, perciò vien consigliato che
si vada cauto a valersene nelle pesti, le quali pur troppo sogliono
indurre inappetenza. Non trovo poi qual altro preciso rimedio
giovasse allora, se non era il ben curare i carboni e i buboni; del
che parleremo a suo luogo. È bensì notato ivi che tutti gli altri
esperimenti contro la febbre pestilenziale di quel tempo riuscivano
vani, e che nella forma suddetta quasi tutti cominciarono a guarire; il
che però si noti essere stato avvertito solamente nella declinazione
della peste, lasciando ciò dubitare che forse nel suo furore anche il
mentovato metodo riuscisse inutile, siccome avviene allora di tanti
altri medicamenti.

Nel contagio di Roma del 1656 per quanto abbiamo dal cardinal Gastaldi,
parve che giovassero le seguenti cose: Cioè, scoperta in alcuno la
malattia pestilenziale, ungergli la region del cuore con olio del
Mattiuolo o della comunità di Ferrara o del Granduca e simili; dargli
prontamente bocconi cordiali di confezion di giacinto, d’alchermes
e altri di tal fatta; nel secondo giorno fargli bere sugo di cedro
mischiato con acqua triacale e con alquante gocciole di spirito di
vitriuolo e con polvere di bolo armeno in brodo o acque distillate
di galega, scabbiosa, sonco, scorzonera e simili alessifarmaci.
Di più parea salutifero l’applicare i vescicanti nel principio,
particolarmente alle gambe. Si osservò ancora giovevole nello stesso
ardore della febbre il bere orzate, e spezialmente nel tempo estivo,
temperandosi anche la sete col tenere in bocca sal prunello. Bernardino
Cristini espone anch’egli il metodo da sè tenuto in medicare nella
medesima peste di Roma. Certo farà egli prendere più coraggio a chi
subito voglia accomodar la sua fede a quanto egli lasciò scritto nel
suo libro intitolato _Arcana Riverii_. Chi però non crede sì tosto alle
magnifiche promesse dei chimici, nè si lascia incantare dai grandi o
strani nomi delle cose, anderà lento a fidarsene.

Secondo lui, per medicare allora gl’infetti, non v’era cosa più potente
delle confezioni ristorative in forma soda o liquida, prese per bocca,
e massimamente giovavano i bezoartici diaforetici, o sia sudoriferi.
Prescriveva egli in forma soda il seguente


_Antidoto curativo._

℞. _Conserva di fiori di borraggine, di rose, di viole, ana mez. onc;
fiori di cedro, di pomi medici, di anthos, ana dram. 2; conserva di
tutto cedro, radici di tormentilla, d’angelica, bistorta, scorzonera,
contrajerva, ana dram. 1; confezion d’alchermes, di giacinto, ana dram.
1 e mez.; unicorno vero, bezoartico animale, corna di cervo, bezoartico
solare, joviale, lunare, minerale, ana mezza dram. Mischia insieme, e
prendine un cucchiaio per volta cinque o sei volte il dì, come ancor
nella notte._


_Antidoto curativo in forma liquida._

℞. _Acqua di cardo santo, di scorzonera, di ruta capraria, di
borraggine, di scordio, di acetosa di rose, di tutto cedro, ana onc.
6; spirito di zolfo, dram. 1; essenza di triaca, di contrajerva, di
ginepro, d’angelica, di carlina, di tormentilla, di bistorta, scorze
di cedro, elixir vitae, elissire di proprietà, balsamo di vita, balsamo
di salute, ana mez. scrup. Mischia insieme, e prendine 2 onc. per volta
quattro o cinque volte il dì e altrettante la notte._

Questi medicamenti, se crediamo all’enfasi del suddetto autore, faceano
dei miracoli, richiamando uomini ad una nuova vita; e quantunque
possa parere diversamente a molti medici, pure tal sorta di rimedj
fra gl’infiniti che furono adoperati, questa dice egli che fu divina.
Aggiunge d’aver egli dato ad alcuni infermi con dei bezoartici bolo
armeno e terra sigillata che a questo effetto son decantati da molti
per mirabili; ma che in quel contagio servivano solamente a far del
male, nè mai operavano bene. Ordinava egli per le stanze dei malati,
affinchè non s’infettassero anche le camere e case dei sani, alcuni
profumi di legni di ginepro, cipresso, incenso, mirra, belzoino,
storace calamita e simili. Erano profumi più gagliardi quei ch’egli
due volte il giorno adoperava nelle stanze sue e de’ suoi amici, cioè
le fecce di regolo antimoniale; ma perciocchè riesce troppo ingrato
l’odore solfureo, vi aggiungeva pastelli composti di storace o altri
simili grati odori, con che egli e tutti i suoi amici si conservarono
sempre sanissimi in mezzo ai lazzeretti.

Passiamo noi innanzi a cose forse più sicure. E primieramente la
canfora nella cura della peste è esaltata dal Goclenio, dal Cratone,
dal Minderero, dal Sennerlo e da altri per uno de’ più potenti ed
efficaci rimedj, e alcuni la tengono quasi il migliore di tutti. Fra
gli altri l’Etmullero scrive che la canfora leva la palma a tutti gli
altri alessifarmaci nella peste. Certo in lodarla assai s’accordano i
migliori medici, considerata la sua qualità e attesi i buoni effetti
che ne ha fatto veder la sperienza. Perciò abbiamo dagli autori varj
medicamenti, ne’ quali entra la canfora. Il Minderero loda come più
utile di tutti i più preziosi bezoartici, purchè non vi sieno dolori
gagliardi di capo o di ventricolo, la seguente polvere descritta anche
dal Platero e del Diemerbrochio, e commendata dal Follino.


_Polvere canforata._

℞. _Zucchero candito dram. 3; zenzero bianco dram. 2; canfora dram.
1. Si faccia polvere. La dose è di dram. 1 in liquore conveniente e si
beva._

Il Riverio prescrive quest’altra, di cui dice essersi egli felicemente
servito.


_Altra polvere canforata._

℞. _Bezoartico minerale dram. 3; sal prunello dram. 2; canfora dram.
1. Se ne formi polvere e se ne prenda dram. 1 in acqua di cardo santo o
altra conveniente._

Il Cratone si valeva d’un elettuario lodato poi come eccellente da
altri medici. Eccone la ricetta.


_Elettuario canforato._

℞. _Scordio dram. 3; tormentilla, dittamo bianco, zedoaria, genziana,
angelica, garofanata, ana dram. 1; zafferano, canfora, ana scrup. 2.
Polverizzato sottilissimamente si spruzzi con acqua di cardo santo, in
cui sieno state disciolte 2 dramme di triaca, e con sciroppo di sugo di
cardo si formi elettuario._

Fu anche dal suddetto Cratone composta e poi lodata da altri la seguente


_Polvere canforata._

℞. _Radici di tormentilla dram. 3; dittamo bianco dram. 2; osso di cuor
di cervo, sandalo rosso, ana dram. 1; canfora scrup. 2. Mischia insieme
e fanne polvere. La sua dose è di dram. 1 in liquore conveniente._

Cornelio Gemma formò un altro elettuario canforato con dire d’averne
egli e suo padre provato felici effetti.


_Altro elettuario canforato._

℞. _Canfora part. 1; zenzero bianco part. 2; zucchero rosato part. 4;
vino quanto basta. Mescolato tutto ben bene, se ne formi elettuario, e
se ne dia una dramma all’infermo per farlo sudare._

Più generoso o almen più composto è questo


_Altro elettuario canforato._

℞. _Canfora, dittamo eretico, scordio, radici di angelica, di zedoaria,
cinnamomo, zenzero, ana dram. 1; noce moscata dram. 2; bolo armeno mez.
dram., seme di ruta, macis, zafferano, ana scrup. 1; muschio gran. 7;
zucchero bianco, vino odoroso, ana quanto basta. Si formi il tutto a
guisa d’oppiata._

Giovanni Poppio disciolta la canfora in aceto ne dava un cucchiaio
all’infermo. Giovanni Hartmanno racconta che nella peste del 1611 giovò
ad assaissimi la seguente


_Acqua canforata._

℞. _Spirito di vino ottimo lib. 1; canfora scelta dram. 7 e scrup. 1
per la state, e dram. 10 e scrup. 2 pel verno. Mischia insieme, tritata
prima la canfora, la quale si scioglierà tosta sensa fuoco. Appendi
in una pezza croco orientale mez. scrup. Lo spirito di vino diverrà di
color d’oro. L’acqua si conservi in un vetro capace e non pieno, cioè
lasciandone vota la quinta o sesta parte._

Mattia Untzero forma uno spirito triacale con canfora da darne una
dramma e mezza o pur due dramme in alquanto d’acqua di cardo santo, per
far sudare: il che narra egli essere egregiamente succeduto nella peste
di Halla del 1610. Eccone la composizione:


_Spirito triacale canforato._

℞. _Triaca vecchia onc. 5; mirra rossa onc. 2 e mez.; croco orientale
mezz. onc., spirito di vino ottimo onc. 10. Posto tutto in boccia di
vetro e sovrapposto lambicco cieco, nel cui becco sieno prima poste
dram. 2 di canfora, stia in infusione per 8 dì in luogo caldo; poi si
distilli in bagno maria a fuoco lentissimo e ne avrai spirito triacale
sottilissimo_.

Se vogliam credere al suddetto Untzero, purchè con dram. 5 di questo
spirito triacale si mescolino dram. 3 di spirito di tartaro ottimamente
rettificato sopra colcothar di vitriuolo, cioè sopra vitriuolo
bruciato, e dram. 1 e mez. di vitriuolo, si ha una composizione
mirabile, contenente tutti i requisiti per la perfetta cura de’
morbi pestilenziali e superiore a tutti gli altri antidoti contra la
pestilenza. Una tal composizione certo sarà da stimarsi; ma l’Untzero
fu chimico di professione, e perciò magnifico nelle promesse. L’olio
pestilenziale dell’Einisio medico veronese scrivono che facesse delle
maraviglie nella peste della sua patria, di maniera che gli fu dopo
la morte alzata una statua. Si compone di parti eguali d’olio di
canfora, olio di succino, olio di scorze di cedro ben mischiate, con
prenderne dieci o quindici gocce, secondo le circostanze. Entra anche
la canfora nell’acque triacali e cordiali composte dagli autori contra
la pestilenza; ma è tempo di finirla.

Mi sono steso forse più del dovere intorno all’uso della canfora;
ma mi dee essere perdonato, perchè son persuaso che veramente possa
trarsene gran benefizio in tempi di peste. Solamente è da avvertire col
Sennerto che chi è debole di capo o di ventricolo, o ha abborrimento
alla canfora, dee medicarsi con altro, e massimamente essendo utile per
altre ragioni l’andare allora mutando medicamenti. Di più hanno alcuni
avvertito che trattandosi della preservazione i medicamenti o gli
odori canforati possono indebolire negli uomini la virtù generativa. Ho
veduto impugnata da altri tal opinione, ma dappoichè il Diemerbrochio
attesta d’aver egli dovuto medicare varie persone che per l’uso d’essa
canfora aveano patito il suddetto difetto, non so se non consigliare
a chi ha interesse di conservarsi quella virtù, il valersene per la
preservazione con gran riguardo. Per altro quando si tratta d’infermi
di peste s’hanno a dar loro liberamente gli antidoti canforati, dovendo
maggiormente ad essi premere la conservazion della vita, giacchè la
canfora è in questo credito di contribuir cotanto a risanar dalla
peste.

Già di sopra abbiam detto essere il solfo per la sua qualità uno de’
più efficaci rimedj contra gli spiriti pestilenziali per preservarsi da
loro. Aggiungiamo ora che può il medesimo produrre ottimi effetti anche
nella cura di chi già ha contratta la peste, e che tutti gli autori
s’accordano in chiamarlo un potente rimedio contra quel morbo, di modo
che Paracelso (autore però, il quale non si può negare che non abbia
avuto parecchie idee stravaganti) scrive che il solfo e il sale bastano
alla cura della peste, nè bisognarvi altri medicamenti. Servono, come
abbiam già osservato, i fiori di zolfo per promuovere il sudore;
e congiunti con estratto d’enula campana vien creduto che giovino
assaissimo; ma più, secondo il parere di alcuni, gioveranno se con esso
loro si unirà un poco di triaca e di canfora. Il Sennerto descrive
una composizione di questi fiori, dice egli, efficacissima contra la
peste; ed altri medici ne commendano fortemente l’uso e la virtù. Ma
lo Zvelfero ha più fede al solfo depurato che alla preparazione dei
suddetti fiori. Sopra tutto poi vien decantato l’elisire pestilenziale,
composto d’essi fiori di zolfo dal Crollio, e predicato per singolare
e miracoloso contra il morbo pestilenziale da molti e massimamente
dall’Untzero che dice d’averne fatte felicissime prove nella peste
del 1610 allorchè tal rimedio veniva preso per tempo nel principio
del male, con far sudare due o tre volte. Tanto il Crollio, quanto
l’Untzero furono spargirici, e però bisogna andar cauto in prestar
loro fede. Tuttavia la qualità degl’ingredienti basta essa sola ad
accreditare di molto questa composizione. Così fosse ella men faticosa
e meno astrusa per la manipolazione, onde potessero parteciparne i più
del popolo. Si fa nella seguente forma:


_Elisire pestilenziale del Crollio._

℞. _Fiori di solfo preparati spargiricamente onc. 3. Mettivi sopra
olio di bacche di ginepro rettificato in bagno, tanto che vi stia sopra
all’altezza di tre o quattro dita. Aggiungi olio di succino tre volte
rettificato in bagno, e sia tanto come la quarta parte dell’olio di
ginepro. Stieno insieme in fuoco di ceneri o di rena, movendoli spesso,
acciocchè i fiori senza bruciarsi si sciolgano e diventino liquidi.
Poscia_

℞. _Triaca di Venezia lib. 1, da cui con ottimo spirito di vino
estrarrai la tintura, la quale separata dallo spirito di vino serberai
in disparte. Estrarrai col medesimo spirito tintura di radici d’elenio,
angelica, bacche di ginepro pestate, ana onc. 3. Presa questa tintura
separata in bagno dallo spirito di vino, la mescolerai colla tintura
della triaca, e vi metterai sopra gli olj di ginepro e d’ambra uniti
co’ fiori di zolfo, e filtrati prima per carta sorbitrice; poi lascerai
per 14 giorni sopra lentissimo calore di ceneri tutta la composizione,
dimenandola di quando in quando._

_La dose per la preservazione è di una o due gocciole in vino o
aceto ogni mattina, o pure in cadauna settimana 8 o pur 10 gocciole
a digiuno, aspettando il sudore. Chi è preso dalla peste, subito nel
principio ne prenda da uno o due scrupoli in vino o aceto di ruta o
altro conveniente liquore, e sudi._

Il bolo armeno vien descritto da Galeno per un singolare antidoto
contra la peste, preso in un bicchier di vino bianco mediocre. Il
Cristini, siccome vedemmo, sente diversamente; ma quasi tutti gli altri
medici s’accordano in ciò con Galeno, aggiungendo ancora non pochi
d’averne scorto colla sperienza buon effetto. Le qualità d’una peste,
diverse per lo più da quelle dell’altre, possono esser cagione che in
una non riesca ciò che si provò per utile in un’altra. Molto poi più
sono da stimare quegli altri due nobili e certo antichissimi antidoti,
cioè la triaca d’Andromaco e il mitridato di Damocrate, le virtù
de’ quali contra i veleni e contra quello ancor della peste, hanno
già conseguita dal consenso di molti scrittori e dalla sperienza di
tanti secoli una competente approvazione, essendosi trovato aver essi
già fatto dei miracoli, ma giovato più in tali casi che innumerabili
altri medicamenti, esaltati con gran bocca da chi cerca il bel titolo
d’inventore e di autore, col proporre nuove ricette e screditar le
antiche. Presi questi antidoti discretamente, e con varj riguardi
all’età e qualità delle persone, servono o vien creduto che servano
mercè della qualità dei loro ingredienti atta non meno a difendere
dalla malignità degli spiriti velenosi e dalla corruzione, le viscere
e gli umori del corpo umano; che ad espellere per li pori della
cute colla lor qualità sudorifica il veleno stesso della pestilenza.
L’elettuario dell’uovo, la triaca del Monavio ed altre nuove triache
di varj autori, vengono anch’esse predicate per molto utili ne’ casi
di pestilenza; e quantunque non manchino valentuomini che antepongano
loro di molto la triaca ordinaria e il mitridato suddetti, nulladimeno
potrà esserne giovevole l’uso. Il Sennerto rapporta un medicamento
composto dal celebre Ticone Brac (se però è vero) di triaca, fiori di
zolfo, ecc.; ma per essere troppo prolisso e non facile a manipolarsi,
io il tralascio con tutte le sue lodi. Così l’antidoto magno, o sia
elettuario del Mattiuolo, se noi vorremo ascoltare una gran folla
di medici è anch’esso un rimedio felicissimo contra la peste. Alcuni
altri non lo stimano tanto, non bastando i grandi epiteti dei lodatori
per far che sia veramente grande la virtù d’un medicamento, siccome
non basta un’eterna filza d’ingredienti a formare un antidoto di
mirabil efficacia, e tanto più perchè non è peranche deciso che molti
ingredienti non perdano la lor forza e virtù, ammassati con tanti
altri e non possano con ciò diventare anche nocivi. Quell’antidoto è
quasi il compendio d’un’intiera spezieria. I moderni si servono più
volentieri di medicamenti semplici che composti, per quanto possono.
Contuttociò io non vieto, nè biasimo ad alcuno il seguire ancor qui
la corrente, e valersi di quell’elettuario con isperanza di frutto.
Il diascordio bensì del Fracastoro (la cui dose è di prenderne in
bevanda dram. 1 con sugo d’acetosella onc. 2, sugo di cedro onc. 1,
specie cordiali di gemme scrup. 2, aceto onc. 1, mischiando tutto) vien
comunemente dai medici di maggior reputazione creduto e predicato per
un insigne antidoto contra la peste, perchè è concorsa la sperienza
ad accreditarlo per tale. Il Minderero, che ne fa de’ grandi elogi, e
sperimentollo con felicità nel contagio de’ suoi giorni, stima che per
le persone delicate, come i fanciulli e per le donne gravide, sia il
diascordio medicamento anche più sicuro della triaca e del mitridato,
siccome men calido d’essi. Debbo nondimeno avvertire che nel contagio
di Palermo del 1624, 1625 e 1626 fu provato per esperienza che gli
appestati guarivano più facilmente con cose rinfrescative, come cucuzze
lunghe, latte, sugo di limoni, ecc., che con triache ed altre robe di
sostanza ed aromatiche. Forse nel clima caldo della Sicilia saranno
riusciti giovevoli tali rimedj che in altri poi non riusciranno; o
pure noi crediam troppo a certi strepitosi antidoti composti, e perciò
trascuriamo i semplici, che talora sono i migliori, e non badiamo ad
altri metodi forse più utili. Certo il P. Filiberto Marchino attesta
anch’egli che il metodo suddetto di Palermo riuscì più giovevole nella
peste di Firenze del 1630. I saggi medici ne faranno le prove ne’ tempi
di bisogno.

Oltre all’acqua triacale del Diemerbrochio, descritta nell’antecedente
capitolo e da lui celebrata assaissimo per gli effetti da lui osservati
in valersene durante la peste del suo tempo, si leggono nei libri di
medicina oltre acque triacali, bezoartiche e cordiali del Sassonia,
del Sennerto, del Porzio, del Quercetano, del Langio, del Bauderon, del
Mattiuolo, del Platero, ecc., che tutte possono probabilmente servire,
siccome ancora varj altri decotti, estratti, aceti bezoartici, apozemi,
quintessenze, ecc., riferiti dall’Untzero, dal Diemerbrochio e da
altri. Non la finirei mai, se volessi copiarli tutti e massimamente
quei recipe che empiono le facciate de’ libri e danno da faticar ben
bene agli speziali. Mi basterà di rapportarne solamente quattro altri,
lodati non poco dai professori della presente materia. Il primo è una
bevanda, la quale per attestato del cardinal Gastaldi giovò assaissimo
nella pestilenza di Roma.


_Bevanda antipestilenziale._

℞. _Radici di carlina, zedoaria, angelica, scordio, dittamo cretico,
scorzonera, cinnamomo, croco orientale, ana dram. 1; mirra, mastice,
aloè socotrino, ana mez. dram. Facciasi polvere di tutto, la cui dose
è una dramma con un’oncia di sciroppo di limoni e 3 onc. d’acqua di
acetosa. Si prenda prima del sonno, essendo attissima a liberar dalla
peste._


_Decotto antipestilenziale._

℞. _Radici di calendola, di elenio, fiori di ruta, di nepeta, di
nasturzio acquatico, ana onc. 1 e mez.; radici di aristolochia fabacea
onc. 1; occhi di granchio onc. 1 e mez., aceto comune di vino buono
lib. 8. Si cuoca tutto, finchè se ne consumi la metà. Colato il sugo
aggiungivi onc. 1 e mez. di triaca e mischia insieme. Se ne dia un buon
bicchiero all’infermo, e sudi._


_Aceto di Paolo Barbetta._

℞. _Radici d’angelica, zedoaria, ana onc. 1; di petasitide onc. 2;
foglie di ruta, di melissa, scabbiosa, fiori di calendola, ana onc.
2; noci immature tritate lib. 2; pomi di cedro freschi e tritati lib.
1. Pesta tutto insieme, e dipoi mettivi sopra aceto ottimo sino a tre
quarti. Fa digestione in boccia di vetro nella rena, e poi distilla a
fuoco lento sino a seccarsi, ma non a bruciarsi. Adopera questo aceto
per preservativo. Che se fossi sorpreso dalla peste, allora congiungi
diascordio scrup. 4; sal prunello scrup. 1; assenzio mez. scrup.; aceto
suddetto, acqua di cardo santo, sciroppo di berberi, ana onc. 1. Bevi,
e suda._


_Condito del medesimo autore._

℞. _Radici di contrajerva mez. onc., di petasitide, tormentilla,
enula campana, ana dram. 2; terra sigillata, bolo armeno, ana dram.
3; polvere di corno di cervo, d’avorio, ana dram. 1; coralli rossi
preparati scrupol. 4; cinnamomo acuto, dram. 2; antimonio diaforetico
mez. onc. Formane condito. Per la cura prendine scrup. 1, e aggiungi
tartaro vitriolato gran. 8; sale di coralli gran. 15; confezione
d’alchermes mez. dram.; aceto descritto qui sopra onc. 1 e mez.; acqua
di ruta quanto basta. Bevi e suda._

Il croco, o sia zafferano, può aver qualche adito ne’ rimedj
antipestilenziali; ma non è da usare se non con gran parsimonia, perchè
può offendere il capo, e per altro non se n’è veduto mai gran profitto.
Il bere l’urina propria è stato creduto in alcuni paesi per efficace
rimedio; ma le prove non l’hanno mai autenticato per tale. È stata
bensì da non pochi usata e predicata anche per eccellente antidoto
nella peste la pietra bezoar; e gli encomj suoi non son leggieri
anche per questo conto. Ma il Sassonia, il Minderero, il Cratone, il
Diemerbrochio ed altri sostengono esser ben utile questa pietra per
altri morbi maligni, ma non già per quello della pestilenza; anzi
asseriscono eglino di non averne mai veduto alcun buon effetto, e
che si trovarono troppo burlati coloro che nel principio del male si
confidarono nel solo bezoar: il perchè non ne fecero più essi medici
capitale per quei tempi e mali. In Firenze l’anno 1630 morì chiunque
ne prese a riserva d’un solo che si ridusse in malissimo stato. Le
confezioni di alchermes e di giacinto son lodate in tempi di peste, e
veggendole io usate da’ medici men creduli, penso che possa aversene
qualche stima, avvertendo solo che sieno preparate senza muschio, il
quale nuoce regolarmente agli appestati. Altri antidoti, ove entra
polvere di smeraldo, di zaffiro e d’altre gemme, hanno gran credito
presso alcuni medici; ne han poco o nulla presso altri e probabilmente
con più ragione. Non è men controversa la virtù dell’unicorno e de’
medicamenti viperati, ove si tratti di domar la peste. Al sapersi però
che questi ultimi in tanti altri mali son rimedj assai valorosi, pare
che per la peste ancora meritino riflessione, e tanto più, perchè
col loro sal volatile possono aiutare ai sudore. Del corno di cervo
particolarmente bruciato o filosoficamente calcinato, leggo io presso
alcuni di gran lodi anche per guarire il morbo pestilenziale; ma non
veggo poi che tali encomj s’accordino colla sperienza d’altri. Oltre
di che, quando il corno suddetto sia bruciato o dai vapori dell’acqua
calcinato, sembra ch’esso non abbia d’avere maggior virtù che altri
alcalici per assorbire, come essi dicono, le particelle velenose, ed
impedire i flussi e tormini del ventre. In fine non convien credere sì
facilmente ai chimici, e nè pure ad alcuni medici per altro insigni,
allorchè s’empiono la bocca delle lodi di questo medicamento (lo
stesso è di altri antidoti cari a loro, o da loro inventati per la
peste) perciocchè altri autori ci avvisano essere la virtù sua contra
il fermento pestilenziale di gran lunga minore di quel che corre la
fama; e per conseguente non doversi contentare di lui solo. Se io non
vo citando gli autori, non è già ch’io non gli abbia prima consultati.
Alcune composizioni mediche fatte col corno di cervo e stimate potenti
contra la peste, saran forse tali non per la sua, ma per la virtù
d’altri ingredienti.

Veggo convenire i medici nell’asserire per utili in tal occasione
i sali di varie erbe e massimamente quei di ruta, d’artemisia,
discordio e di scabbiosa; ma più d’ogn’altro il sale di cardo santo e
quel d’assenzio. Certo l’erbe stesse per parere di tutti hanno delle
qualità sommamente correttive del veleno pestilenziale. Da alcuni è
creduto che non sieno di men profitto che la triaca stessa contra la
peste le bacche di ginepro, le quali perciò son chiamate triaca de’
Tedeschi, allorchè se ne fa estratto e se ne cava il rob, cioè il sugo
inspissito. Il P. Marchino scrive che la controyerva o sia contrajerva
a noi portata dalle Indie, si provò nella peste di Firenze del 1630
pel più salutare di tutti i rimedj. Ridotta in polvere si prendeva
con qualche acqua creduta cordiale, o di cedro o di scorzonera; o pure
distillata riusciva meglio. Presa tre o quattro volte dall’infermo, se
ne vedeano mirabili effetti, mentre per sudori ed orine si scaricava
la natura. Per parere d’altri è moltissimo da stimare ed usare allora
l’olio di vitriuolo. La sua singolar possanza in conservare mercè del
suo sanissimo acido i corpi ed umori dalla corruzione è attestata
dal Sassonia, dal Mercuriale, dal Mattiuolo, dall’Augenio, dal
Diemerbrochio e da assaissimi altri, di modo che stima il Minderero
con altri che se venisse impedito l’uso dei medicamenti vitriolati,
si resterebbe senz’armi per curare la peste. Se ne guardino però gli
asmatici e gli altri che patiscono mali di petto, di reni o di vescica.
Contra la peste uno de’ più famosi ed accreditati rimedj si è l’olio
di scorpioni o sia olio del Mattiuolo, che preparato diversamente si
chiama anche olio del Granduca. Non solamente serve a preservare dalla
pestilenza, ma ancora alla cura della medesima, bagnando con esso i
polsi delle tempie, mani e piedi e la region del cuore, ed anche le
parti circonvicine ai buboni. È comune sentenza che quest’olio e nel
morbo pestilenziale e in altri participanti di veleno, possa produrre e
produca de’ mirabili effetti. Il punto sta ad averne del ben preparato
e del non finto dall’avarizia e poca coscienza d’alcuni. La sua ricetta
è notissima agli speziali, e si legge in varj libri. Il Rondinelli
nella descrizion della peste di Firenze del 1630 e 1631 avvertì che
sopra tutti gli altri antidoti avea giovato la triaca e l’olio contra
veleni del Granduca, co’ quali due rimedj soli molti guarirono, e dove
era la febbre non troppo ardente, l’averne dato dodici o quindici
gocciole per bocca su lo sciroppo, riuscì con ottimo successo,
essendo periti pochissimi di coloro che il presero. E questo basti
intorno agli antidoti pestilenziali. Poco importerebbe e pochissimo
gioverebbe ai più dei lettori, se volessi adunar le sentenze de’ medici
intorno a tanti altri semplici e composti che son descritti come
antipestilenziali, ma che non si saprebbe come o quando avessero da
usarsi. Quanto più fosse il numero de’ medicamenti, tanto più sarebbono
alcuni intrigati a scegliere. Convien dunque contentarsi di quelli che
son creduti i migliori, e che mi sono ingegnato anch’io di raccogliere
o di accennare in questa mia operetta. E mi si perdoni se ho voluto più
tosto sovrabbondare in ciò, che scarseggiare, poichè non tutti hanno
libri di queste materie alle mani, e può esser utile il conoscere ed
aver pronte molte armi diverse per tentare di far fronte a sì gagliardo
e sì strano nemico.



CAPO VII.

  _Metodo da tenersi nel curar gl’infetti. Sudoriferi rimedio creduto
    il più utile degli altri. Aforismi intorno ai sudori, e maniera
    di far sudare. Camere degl’infermi come s’abbiano a custodire.
    Quai cibi e bevande loro convengano._


Veniamo ora al metodo tenuto dai migliori medici nella cura degli
appestati. Sogliono precedere in qualsivoglia peste alcuni sintomi,
indicanti che uno sia già stato preso dal male. Tali sono dolori
acuti di capo, vertigini, vomiti, abbattimenti di forze, una fiera
ansietà, rosseggiamento d’occhi, sonnolenza, febbre, ecc., riuscendo
in ciò molto diverse l’una dall’altra le pestilenze, ma riuscendo
anche facile in cadauna l’accorgersene dall’esempio degli altri.
Appena dunque si ha un giusto sospetto o una chiara cognizione di aver
contratto il morbo, debbono il più presto che sia possibile le persone
infette ricorrere all’ajuto di qualche buon sudorifero, mettendosi in
letto ben coperti e procurando di promuovere il sudore. Quanto più
tardi si darà di piglio a questo rimedio, tanto più difficile sarà
il superar l’infezione; siccome all’incontro quanto più presto, tanto
più agevolmente si potrà vincere l’interno nemico, purchè non sia di
quei terribilissimi che in poche ore affogano la fiamma vitale e fanno
cader morte all’improvviso le persone, come in alcune pesti è accaduto.
Il perchè dee ben procurarsi di non perdere tempo, ma di venire ai
sudoriferi, prima che le particelle pestilenziali abbiano onninamente
infettati i fluidi e dissipati gli spiriti salutevoli, e in tempo che
la natura non peranche abbattuta fa i suoi sforzi per cacciar fuori
il veleno; altrimenti a poco o a nulla servirebbe poi la virtù delle
medicine. Al che riflettendo anche l’Ippocrate dei latini, voglio dir
Celso, in proposito della peste lasciò così scritto: _Quo celerius
ejusmodi tempestates corripiunt, eo maturius auxilia, etiam cum quadam
temeritate, rapienda sunt._

I sudori dunque per quanto abbiamo dalla sperienza, o spontanei, o
provocati sollecitamente con antidoti antipestilenziali, son creduti
un potentissimo rimedio, anzi il migliore di tutti contra il morbo
della peste, e forse non si troverà contagio, in cui i sudoriferi
non sieno stati di giovamento, in tanto che infiniti esempj han fatto
conoscere che pochissimi senza sudare e moltissimi all’incontro col
sudare sono scampati da quel fierissimo tossico. Vero è che muoiono
allora anche persone che pure son ricorse ai sudoriferi; ma può
essere che alcuni d’essi vi sieno ricorsi troppo tardi; o che la loro
immaginazione o soverchia paura gli abbia, malgrado i medicamenti,
strascinati alla morte; o che sopra la loro malsana costituzione
abbiano preso tal possesso i cattivi afflati del veleno che non sia
rimasto campo all’operazion degli antidoti. Perciò, a riserva d’alcuni
pochi medici, che forse son di coloro, i quali non altronde cercano
gloria fuorchè dall’impugnare coi loro acuti raziocinj, ma non già
colla sperienza alla mano, le sentenze degli altri: comune parere dei
medici e spezialmente dei più accreditati, si è che speditamente si ha
da far sudare chiunque è ferito dal morbo, e che da questo più che da
altri rimedj si può sperar la salute. Quasi tutti gli antidoti da me
rapportati ne’ due capi antecedenti hanno questa mira. Si noti pertanto
che non facendo i sudoriferi idonei sudare, per lo più morranno
quegl’infermi. Dove è sudore spontaneo più copioso, ivi è maggiore
speranza di salute. Provocato esso ancora con medicamenti diaforetici
e temperanti l’acrimonia del veleno pestilente, fa molto sperare. Per
lo più esce fetente; e tal fetore può essere che sia dispiacevole al
malato, ma non si sa che punto gli riesca dannoso. Allorchè l’infermo
suda, il dormire sarebbe per lui nocivissimo (il che però parrà strano
ad alcuni che veggono diversamente succedere in altre febbri); e però
se ne guardi ben egli con gran premura, e se non altro, abbia d’intorno
chi colle parole, o in altra guisa il tenga svegliato. Gioverà per
tener lontano il sonno l’odore dell’aceto semplice o rosato, accostando
alle narici una spugna o pezza bagnata in esso. Chi prima d’aver finito
di sudare la seconda volta dorme, s’è osservato esserglisi talmente
sminuite le forze che più non le ricuperò; e pochissimi si salvarono di
quei che dormirono nel primo sudore. E qui mi sovviene d’aver lodato
per sudoriferi la triaca, il diascordio ed altri oppiati, che pure
incitano al sonno; perciò chi non avesse buoni svegliarini appresso,
pensi se abbia da ricorrere a sudoriferi tali. Appresso si badi che il
malato non sudi più di due o tre, o al più quattro ore, avuto riguardo
alle forze maggiori o minori del corpo suo. E perciocchè dall’un canto
non si può di meno che il sudore non debiliti, e sarebbe dall’altro
di sommo pregiudizio, se restassero abbattute le forze dell’infermo,
appena finito il tempo di sudare ed ancora, occorrendo, durante la
sudatura, egli si dee rifocillare e corroborare con odori confortativi
o con acque o bocconi cordiali, e con vino generoso o in altra guisa. I
medici suggeriscono alcune compositioni utili a questo effetto, perchè
composte d’ingredienti che resistono alla malignità, ed eccone un
saggio:


_Condito corroborativo._

℞. _Scorze di melaranci condite, miva di cotogni, rob di ribes rossi,
ana dram. 5; polvere liberante dram. 1, magisterio di perle, confezion
di giacinto, ana scrup. 2; sciroppo di limoni quanto basta: formane
condito._


_Bevanda ristorativa._

℞. _Acqua di rose odorosissima, di acetosa, ana onc. 8; aceto di rovo
ideo, aceto rosato, ana onc. 6; vin bianco odoroso lib. 1; sciroppo di
limoni, giulebbe rosato, ana onc. 2; scorze di cedro esteriori fresche,
minutamente tagliate onc. 1 e mez. Tutto mischiato stia in vaso di
vetro, tanto che tiri ben l’odore delle scorze di cedro, e se ne diano
all’infermo dopo il sudore onc. 5 ovvero 6._


_Acqua ristorativa._

℞. _Scorze di cedri fresche, esteriori e ben nettate dalla polpa.
Bagnate con sugo di pomi, acqua rosata e vino malvatico; poi
cavane secondo l’arte il liquore, che resiste alla peste, e rimette
egregiamente le forze del cuore._


_Sciroppo confortativo._

℞. _Vino di granati acidi onc. 4; sciroppo di sugo d’acetosa onc. 3;
di limoni onc. 2; di sugo di cicoria, d’agresta, ana onc. 1; giulebbe
rosato onc. 1 e mez.; olio di vitriuolo quanto basta per un acido
giocondo. Mischia insieme, e prendine ad ogni due ore un’oncia e mez.,
o mescolandovi qualche acqua cotta, formane un giulebbe da estinguer la
sete._

È creduto da’ più saggi un grande errore il negar da bere o brodo
caldo, o acque calde ai malati allorchè sudano, ed anche allorchè il
sudore non vuol uscire, lasciando che i miseri si tormentino, e venga
loro deliquio per mancanza d’umidità. Una bevanda calda e moderata fa
più facilmente sudare. Se l’acqua fresca possa anch’ella convenire nel
sudar che fanno gli appestati, siccome certo conviene in altre febbri,
io nol trovo, nè oso determinarlo.

Quando il sudore uscisse difficilmente, consigliano alcuni che si
applichi ai piedi, alle ascelle e all’anguinaia qualche sacchetto
di tela di lino pieno di rena secca riscaldata, che questo aiuterà.
Se il malato rigettasse col vomito i sudoriferi, si replichino due
e anche tre volte; o pure in vece di bevanda se gli diano bocconi o
polveri sudorifere, come sarebbe _triaca, diascordio, ana scrup. 1 e
mez., sale di scordio mez. scrup., olio di vitriuolo goc. 5. Mischia
insieme e fanne un boccone, a cui si può aggiugnere ancora qualche
grano di bezoar orientale, o scrup. 1 di confezione di giacinto senza
muschio, ecc. O pure se gli dia polvere liberante scrup. 1, bezoar
orientale mez. scrup., canfora gran. 2, ovvero 3, formandone polvere._
Il Sydenham osservò che appena promosso alquanto il sudore, cessava la
nausea; e però a chi rigettava i sudoriferi, consigliava il procurar
di sudare alquanto a forza di coperte; ed appena bagnati da un poco di
sudore, porgeva loro triaca, o altri sudoriferi, che erano poi molto
ben ritenuti, e faceano buon effetto. Alcuni lodano il mutare spesso
le camice e le lenzuola degl’infermi nel sudare e dopo aver sudato;
ma altri, come il Diemerbrochio e il Barbetta, hanno osservato che i
panni freschi di bucato, ed anche i chiusi lungo tempo nelle casse,
sono di sommo nocumento, e a ciò attribuiscono il peggioramento, anzi
la morte d’alcuni infermi. Per questo consigliano essi l’adoperar panni
lini o tovaglie scaldate per asciugare il sudore, o pure il mutarsi con
camice e lenzuola prima adoperate da altri; aggiungendo che il fetente
sudore degli appestati loro non è punto nocivo. Io non so se così
riuscirà in altre pesti; ma non sel dimentichino i medici e i lettori.
Abbiamo detto altrove che il sapone e il ranno o sia lisciva, in tempi
di peste si sono osservati nocivi. Participando della loro qualità i
panni di bucato, non sarebbe da maravigliarsi che nocessero anch’essi.
Crederei nulladimeno che si potesse rimediarvi con far prima profumare
tali biancherie con solfo, mirra, o altro odore antipestilenziale e
distruttivo o correttivo de’ sali lisciviali. Se non sente il malato
dopo il primo sudore alleviamento, ma cresce il male, dopo alcune poche
ore si ripeta, e poi si torni a ripetere il sudorifero, non dovendosi
per questo desistere dagli antidoti, nè perdere il coraggio. Se dopo il
secondo sudore la febbre con gli altri sintomi cresce, è pessimo segno;
siccome all’incontro il sollievo suo e la diminuzione dei sintomi dopo
il primo o secondo sudore, suol dare grande speranza di salute. Dopo
dieci o dodici ore, e ne’ dì seguenti anche per quattro o cinque volte,
secondo il bisogno, si potranno ripetere i sudoriferi. Il Barbetta loda
il dare due ed anche tre volte il giorno i sudoriferi, e crede meglio
il non ammettere indugio. Nelle ore frapposte si facciano pigliare
all’infermo vari antidoti antipestilenziali, che anch’essi è creduto
che spingano la malignità dal centro alla circonferenza. Il sudor
freddo, e massimamente se grosso e vischioso, dà indizio di cattivo
stato. Venendo esso poi caldo, vi resterà da sperare per l’infermo.
L’esporsi dopo il sudore all’aria o al freddo, non andrà sì di leggieri
esente da un gran precipizio. Dopo tali osservazioni gioverà avvertire
che il sopra mentovato Sydenham riprova forte l’interrompere i sudori
per paura che i malati perdano le forze, mentre quando sudano, allora
eglino si sentono in vigore meglio di prima. Però egli usava di
far continuare il sudore per 24 ore agl’infermi, nè voleva che si
asciugassero punto, nè che mutassero camicia, anzi nè pure permetteva
che questa si levasse finito il sudore, desiderando ch’ella si seccasse
in dosso al malato. Imperocchè dice d’aver colla sperienza conosciuto
che promovendo il sudore per sole poche ore, i sintomi dipoi tornano
crudi come prima, e resta di nuovo in pericolo la vita dell’infermo,
che sarebbe in salvo mediante una sudata più prolissa. Che quanto più
sudavano le persone, tanto più crescevano loro le forze. Osservò ancora
più volte che verso le ultime ore del sudare soleva uscire un sudore
più naturale e copioso di quel primo che era tirato fuori a forza
di medicamenti. Però potersi dare a chi suda brodi ed altri liquori
confortativi, se ne avessero bisogno; e se verso il fine paresse che
venissero meno, si dia loro un uovo da sorbire, o brodo caldo, o altro
liquore congiunto a cordiali e a sudoriferi, come sarebbe _sythogala_
alterata dalla salvia, per continuare il sudore. Finalmente dice
che questo metodo gli riusciva utilissimo, avendo guarito moltissimi
appestati, e che dopo averlo trovato non gliene morì alcuno. Sarà cura
dei medici il farne la prova. A me basta d’averlo notato. Aggiungo
che nel Ferrarese l’anno 1630, siccome abbiamo dalle Memorie stampate
di quella città, _fu provato che il sudare in eccesso fu il migliore
d’ogni rimedio, laonde chi ebbe forze sufficienti si salvò._

Si tengano poi ben pulite e nette le stanze degl’infermi, e ne’ primi
tre o quattro dì ben chiuse (se così richiedesse il tempo) affinchè
gli umori maligni possano uscire o per sudore, o per insensibil
traspirazione, nè vengano serrati i pori dal freddo. Ma se il vomito,
la diarrea, o altra cagione di fetore vi fosse, allora converrà per un
quarto d’ora, ed una o due volte il dì, aprir qualche finestra verso
settentrione o verso oriente, per dissipare la puzza. Ne’ tempi freddi
si tenga continuamente ivi acceso il fuoco, diminuendolo secondochè
diminuisce il freddo; e ne’ tempi caldi si lasci affatto il fuoco, e
in sua vece si spargano per la camera foglie di ninfea, pimpinella,
ed altre erbe odorose refrigeranti immerse in aceto non caldo. Tre o
quattro fiate ciascun giorno si facciano profumi per le stanze. Finiti
i tempi di sudare, potranno i malati dormire, ma con moderazione
scrupolosa.

Dopo l’uso de’ sudoriferi, che avanti ad ogni altra cosa si hanno da
adoperare nel principio dell’infezione, bisogna attendere a cibare
e cibar bene gl’infetti. Non è questo come alcuni altri morbi. Qui
si fa una gran dissipazione e corruzione di spiriti vitali; e però
bisogna rimetterli, e si debbono anche sforzare allora gl’infermi a
prender cibo. Chi patisce inedia allora, dà segno d’essere spedito.
Conobbero ciò anche i medici antichi; anzi Ippocrate, Galeno ed
Avicenna scrivono che solamente o più facilmente guariva nelle pesti
chi più valorosamente mangiava e beveva. Credo nulladimeno che tutti
intendano non doversi empiere spropositatamente il sacco, perchè
gli eccessi sono sempre eccessi. Buon consiglio pertanto sarà il
prendere allora (eccetto che nei due o tre primi giorni) il vitto con
mano liberale. I cibi sieno di buon sugo, e facili a digerire, come
il lesso, i brodi, e cose simili, astenendosi da tutti i pesci e da
tutte le carni salate, o di porco, o molto calide, quando la necessità
altrimenti non vi costringa. Ai cibi stessi gioverà aggiugnere qualche
acido sano, che non solo svegli o mantenga l’appetito ai malati, ma
anche resista alla putredine e alla malignità del veleno. Tali sono i
sughi de’ limoni, cedri ed aranci, e l’aceto semplice, o pure rosato,
o calendolato, co’ quali sarà bene andar condendo i cibi. Vengono
massimamente stimati dal concorde giudizio dei medici i cedri, e credo
ancora i limoni, per la loro forza antidotale, e tanto il sugo quanto
i semi e la scorza loro, e specialmente l’esteriore gialla. Tagliati
dunque in fette questi agrumi, possono cuocersi coi cibi, e il sugo
loro mischiarsi con le bevande. Similmente saranno utili i brodi di
carne bollita con acetosa, pimpinella, borraggine, melissa, radici di
petrosemolo, ribes rossi, marene, cedri, limoni, aranci, cotogni, ed
altre simili cose. Coi cibi non si mescoli triaca, nè altra materia
disgustosa, per non far prendere loro abborrimento dai malati. Fra i
medici è gran disputa se convenga e sia giovevole l’acqua in sì fatto
morbo. Gli antichi tengono di sì; buona parte de’ moderni inclina
al contrario. I neutrali tengono per utile la medesima, purchè sia
purissima ed ottima, come appunto sono le ammirabili fontane della
nostra città, celebrate dal chiarissimo nostro Ramazzini, e purchè
se ne beva con parsimonia, giovando ancora l’aggiungervi un poco di
sugo di cedro o limone. Non è minore fra i medici la lite se abbia a
permettersi o negarsi il vino agl’infermi di pestilenza. I più saggi
tengono ch’esso allora giovi, purchè di buon odore, brusco, leggiero o
inacquato, e purchè moderatamente preso, e purchè non vi sia delirio
o grande infiammazione. Certo la sperienza concorre ad accreditarlo
nelle infermità di peste anche per un gran medicamento; e il Minderero,
il Riverio, Zacuto Portoghese ne contano degli ottimi successi. Se
non mancano medici che ancora in altre febbri hanno permesso l’uso
moderato del vino, dicendo d’aver eglino fatto più felici e numerose
cure con tal metodo, e con cibare di buoni cibi gl’infermi, che non
faceano altri ai nemici di questo liquore; quanto più converrà esso
nella peste, ove certo è da osservarsi che mirabilmente si ricreano gli
spiriti e si ristorano le forze dei malati? Ma in Firenze si attribuì
all’aver bevuto di soppiatto un po’ di vino l’essere alcuni poche ore
appresso mancati di vita. Ma nè pur questa è sperienza sicura. Certo
è bensì aver usato alcuni in qualche città, allorchè ai sentivano
presi dalla peste, di correre ad ubbriacarsi con del buon vino,
credendolo un valoroso antidoto; ma a quasi tutti è costato la vita
questo spropositato ripiego. Altre bevande, acque stillate, giulebbi,
conserve, ecc., sono insegnate qui dai medici. Io non credo necessario
il riferirne di più.



CAPO VIII.

  _Buboni, carboni e petecchie; sintomi ordinari di questo morbo.
    Pronostici intorno ai buboni. Tre maniere di curarli. Più sicura
    dell’altre quella di condurli alla suppurazione. Vari empiastri
    utili o efficaci per maturar buboni. Metodo e medicamenti vari
    per finirne la cura. Uso dei vescicanti._


Allorchè il veleno pestifero co’ suoi sottilissimi spiriti, che
facilmente si diffondono per l’aria, è penetrato ne’ corpi umani,
regolarmente la natura pare che si sforzi di scaricarsene con
tramandarli alla cute. S’ella è sì debole da non poter condurlo colà o
da per sè, o aiutata dai sudoriferi o dagli antidoti antipestilenziali,
il caso è spedito per l’ordinario. Tramandandolo, nasce una giusta
speranza di guarigione; e tanto maggiore sarà cotale speranza, quante
più gagliarda sarà la natura del corpo infetto, essendosi, come
dicemmo di sopra, osservato che non pochi sono talvolta guariti anche
senza medicamenti, e per valore della sola benefica loro natura.
Uscito dunque sul principio il sudore, o spontaneo, o procurato
dai diaforetici, non di rado restano liberi gl’infermi, quando il
veleno sia debole, uscendo le sue particelle per i pori. Ma quando
ciò non succeda, è solita la natura prorompere fuori in tre altre
guise, cioè o coi buboni, o coi carboni, o colle petecchie. Potrebbe
qui mettersi in disputa se tali tumori e macchie sieno critiche
separazioni ed industriose espulsioni della natura, o pure scarichi
solamente sintomatici fatti da una fissazione o stravasazione d’umori
o di sangue nelle glandole o tra le fibre dei muscoli, con medicare i
quali non si possa propriamente levar via il male, essendone essi un
effetto e non la cagione. Ma non volendo, nè dovendo io metter bocca
in tali quistioni, chiederò qui licenza di potermi valere, occorrendo,
delle espressioni o degli antichi o de’ moderni, e di credere che
i carboni e le petecchie sieno un segno funesto della gravezza del
male, che per lo più conduce alla morte; e che i buboni possano essere
una separazione fatta consigliatamente dalla natura, la quale voglia
valersi degli emuntorj per isbrigarsi dai sali pestilenziali. Che
che però ne sia, parleremo ora di questi ultimi tumori, che, secondo
la differenza delle glandole, buboni e parotidi vengono chiamati,
e presso il volgo hanno anche il nome di ghiandusse. Vengono essi o
sotto le fauci e gli orecchi, o sotto le ascelle, o all’anguinaia; e la
lor cura principalmente spetta ai cerusici, troppo necessari in tali
congiunture, non dovendosi però disperare alcuno, quand’anche manchi
l’aiuto d’essi, perchè non pochi si fanno medicare da’ parenti ed
amici, ed anche possono talvolta medicarsi da sè stessi; anzi ad alcuno
è accaduto che i buboni senza suppurazione (venire a cò il chiamano i
nostri popolari) sieno spontaneamente svaniti con loro salute.

Notinsi dunque i seguenti pronostici lasciati a noi dal Diemerbrochio
e dal Barbetta, che però, siccome fondati in non molte pesti, potrebbe
darsi caso che a puntino non confrontassero con altre, non essendo per
l’ordinario gli stessi i sintomi di tutti i contagi. — 1.º Quanto più
presto escono i buboni pestilenziali, tanto più sogliono dare speranza
di salute, mostrando una tal prontezza che c’è gagliardia nella natura.
2.º Maggiormente si avrà da sperare se usciranno senza febbre; e tutto
il contrario se dopo la febbre, e molto più se dopo gran febbre. 3.º
Quando i predetti tumori, e specialmente i nati sotto le orecchie e
le fauci, crescano a una gran mole nello spazio di 12 o di 20 ore,
e si sentano teneri a guisa d’un tumore ventoso, con infiammazione o
senza, sogliono sempre essere mortali; e benchè allora i malati per
qualche tempo paiano passarsela bene, pure tutti sogliono morire. 4.º
All’incontro ove nel principio sieno duri e rigidi, e crescano a poco
a poco, divenendo lunghi con dolor tollerabile, sarà buon segno; e
massimamente se crescendo riterranno quella durezza per qualche tempo.
5.º Ma se quei buboni duri avranno un certo cerchio intorno di vario
colore a guisa d’un’iride, come ancora se diventeranno lividi o neri,
sarà pessimo segno. Per altro l’infiammazione grave in essi non dee
spaventare il cerusico. 6.º Svanendo e ritirandosi essi al di dentro,
è spedito il malato, quando però svaniscano a precipizio e duri la
febbre, e la natura non si scarichi altrove. 7.º Se verranno presto
alla suppurazione, daranno indizio di salute; ed anche svanendo a
poco a poco senza alcuna suppurazione, purchè cessi la febbre, nulla
avrà da temersene. — E qui torno a ricordare che il Sydenham, il quale
tiene questi tumori per ascessi lodevoli tentati dalla natura, crede
pregiudiziali i sudoriferi allora che i buboni sono usciti fuori, quasi
che s’interrompa il corso preso dalla natura di scaricare gli umori o
spiriti peccanti pel tumore, e perciò retrocedano i buboni colla rovina
dell’infermo. Quantunque il Sydenham fosse di quelli che presero per
qualche tempo le Pillole dei Tre Avverbi, pure la considerazione sua
dee tenersi a mente dai medici per consultarla meglio colla sperienza,
avvertendo però che il medesimo autore non sembra dipoi fare gran caso
di questa paura, mentre tiene minor pericolo il promuovere i sudori
per 24 ore, che il tardi aspettare la legittima maturazione delle
aposteme, la quale in un affetto sì precipitoso suol riuscire molto
incerta e fallace. Per altro anch’egli praticò, e con felice successo,
i sudoriferi prima che nascessero tali tumori.

In tre maniere si fa la cura dei buboni pestilenziali. La prima,
che si chiama per discussione, e che non so se fosse meglio appellar
derivazione, vien lodata e insegnata da alcuni medici di gran nome;
ed è tale: Sotto dei tumori mettono essi due o tre ventose l’una
sotto l’altra, e nell’inferiore posto un vescicante, e svegliata
la vescica, di là procurano di tirar fuori la materia peccante,
applicando ai buboni degli emollienti caldi con pezza di lino, o
del decotto di betonica, isopo, malva, meliloto, aneto, camomilla,
e semi di comino e di fenicolo, applicandolo caldo al tumore con
piumacciuolo di stoppa sopra, mutando tutte ad ogni ora. Se dopo il
settimo giorno non isvaniscono i buboni, vengono poi ai suppuranti.
Altro non dirò di questo metodo, perchè quantunque sia buono, pure
dalla comune de’ medici savi non è creduto il migliore, e gioverà
fermarsi ove più importa. Il secondo metodo, appellato per diversione,
viene anch’esso commendato assaissimo da alcuni, e descritto nella
forma seguente: Nelle parti più lontane dal cuore e meno pericolose,
e specialmente in mezzo alle cosce, fanno un picciolo taglio della
cute, ove mettono dentro un pezzetto di pseudoelleboro, o sia veratro
nero, a cui sia levata la scorza, sovrapponendovi poi un empiastro
tenace; e custodiscono per 24 ore l’infermo colle mani e coi piedi
legati, finito il qual tempo, dicono che tutto il veleno è tirato colà
dalla forza dell’elleboro, e che l’infermo è guarito da ogni pericolo.
Angelo Sala esalta sino alle stelle questa maniera di curare i buboni,
dicendo d’aver fatto dei miracoli colla radice dell’elleboro, ch’egli
tiene per dotato d’una incredibil forza magnetica ed attrattiva. Ma
dall’un canto noi non possiamo assicurarci che un tal rimedio faccia
sì meravigliosi effetti; e dall’altro è chiaro riuscire il medesimo
sì doloroso ai poveri infermi, ch’eglino sono vicini ad impazzire,
nè ci vuol meno d’una forte legatura per tenerli saldi in sì aspro
martirio ed ambascia. Il perchè non oserò io consigliare ad alcuno
questo barbaro ripiego, siccome nè pure l’applicar tali ventose agli
stessi buboni, cosa per altro lodata da alcuni riguardevoli professori
di medicina, e praticata anche da taluno in Roma nella peste del 1656,
perchè quantunque ciò non abbia contraria la ragione, ha però contraria
la sperienza, avendo altri insigni medici osservato con vari sperimenti
che tali ventose nessun buon effetto hanno prodotto, ma solamente hanno
dopo di sè lasciato negl’infermi maggiore l’inquietudine, più acerba la
febbre, e più smoderato il tormento del male. Si è anche avvertito non
ricavarsi frutto dalle sole ventose applicate alle parti più vicine ai
buboni, nè dall’applicar galline o colombi squarciati vivi ai buboni
tagliati; e riuscir troppo pericolosi e dolorosi tutti i tagli fatti
avanti che la materia delle aposteme e dei tumori sia venuta ad una
competente suppurazione. Racconta l’Alberti d’un contadino, il quale
si tagliò un bubone che gli dava intollerabil dolore all’anguinaia. Vi
trovò dentro materia bianca, tenace e grossa. Tentando di tirarla fuori
(nel qual tentativo sentiva eccessivo dolore) la ruppe in modo che
mezza restò dentro. Tuttavia essendo egli rimaso molto sollevato dal
solito cruccio, fatto buon animo, poco dipoi curò il resto, e rimase
come per miracolo libero del tutto dal tormento. Nettò egli poscia e
medicò da sè stesso la ferita, e serrato in pochi giorni il taglio,
si trovò affatto sano. Fo menzione di questo caso non per animare
alcuno a fare altrettanto, ma appunto per avvertire che questi sono
pericolosi eccessi, e cure sregolate da lasciare a chi vuole con gli
spasimi o affrettare, o tirarsi addosso la morte. Conchiudo colle sagge
parole d’Alessandro Massaria: _Sententiæ nostræ summa est, hos tumores
non admodum graviter ed aspere tractandos esse, tam incipientes, quam
declinantes; quum perpetuo nos oporteat operam dare, ut naturam juvemus
ac foveamus, at nullo pacto ut eam magis vexemus et labefaciamus: illa
namque sola et vera est morborum omnium medicatrix_.

La terza maniera dunque di curare i buboni si è quella della
suppurazione e maturazione, lodata e approvata da tutti, cioè di
applicarvi rimedi chiamati emollienti e maturanti, i quali aiutino
la concozione della materia trattenuta nel tumore, e dispongano il
medesimo al taglio. Ne rapporterò qua alcuni, e massimamente de’ più
facili per la povera gente.


_I. Empiastro per ammollire i buboni._

℞. _Butirro e trementina, e fanne mistura calda che stenderai sopra il
bubone, dappoichè l’avrai prima fomentato con acqua calda per un pezzo.
Tienlo poi ben coperto e caldo._

II. Ovvero ℞. _Mele crudo con fior di farina di frumento. Fanne
empiastro, che è buono per far maturare e rompere._

III. O pure. ℞. _Butirro ben rotto con due rossi d’uovo fresco. Sbatti
tutto per mezz’ora, e poi mettilo in catino grande, con acqua fresca,
e lava bene quella composizione, mutando l’acqua molte volte: Quindi
mettilo grosso sopra i buboni, e di sopra foglia di verze, o sia di
cavoli._


_IV. Altro empiastro._

℞. _Rosso d’uovo duro, cotto a lesso, e si mescoli con lievito acido
(levatore si chiama _fra noi altri_) di farina di frumento e sugna di
qualunque sorta (salata o non salata non importa), o pure in luogo di
sugna, si metta cipolla cotta, formandone empiastro in buona forma.
Oppure fa empiastro di rosso d’uovo, zucchero e zafferano che sarà
utilissimo. È anche sufficiente quello di rosso d’uovo e sale_.


_V. Altro empiastro per maturar buboni coperti di carne e duri._

℞. _Foglie di malva e di verze, e cipolle di gigli bianchi, e cuoci
tutto in acqua. Dappoichè saranno ben cotte e ben trite, unisci loro
sugna di porco vecchia, e tanto lievito acido di farina di frumento
quanto è la metà della sugna. Si ponga e mantenga caldo sopra il
tumore. È rimedio attissimo anche per gli altri buboni._


_VI. Altro empiastro per ammollire._

℞. _Radici di giglio bianco, cipolla bianca, fichi, malavischio, o sia
altea, lapazio, malva, scabbiosa parti eguali a discrezione. Con queste
cose cotte si metta farina di frumento; e con sugna, butirro e un poco
di triaca e di mitridato, si formi empiastro._


_VII. Empiastro maturante._

℞. _Radici di altea decott. lib. 1. Si tritino e si mescolino con
cerotto diachilò con gomma onc. 6; grasso d’oca, midolla d’ossa di
vitello, ana onc. 3; olio di camomilla, di aneto e di gigli bianchi,
ana quanto basta, e fanne empiastro._


_VIII. Altro empiastro del Cristini più gagliardo per ammollire que’
buboni che sembrano difficili a venire alla suppurazione._

℞. _Malva, scabbiosa, ana manipol. 1; cipolla detta squilla, radice di
narciso, ana onc., 2; radice d’iride mez. onc.; semi di senape, semi
di bombace, ana dram. 6; lumache senza guscio num. 10; sugna di porco
onc. 4; triaca, mitridato, ana onc. 1; zafferano dram. 1. Si formi
empiastro._


_IX. Altri empiastri suppuranti._

℞. _Radici d’altea onc. 3; fiori di malva, viole, di sonco, ana
manipol. 1. Fa bollir tutti,e dopo averli spremuti, aggiungi unguento
di altea, di mucilagine, butirro, sugna vecchia di porco e di gallina,
ana onc. 1 e mez. Mischia e fanne empiastro, adoperandolo caldo mattina
e sera._

X. Ovvero ℞. _Malva e radici, o cipolle di giglio bianco; e cotte bene,
e tritate, se ne metta in quantità sopra il tumore._

XI. O pure ℞. _sugna di porco la più vecchia che si trovi mezza libbra,
e mescolata con onc. 3 di lievito, si scaldi e si metta sopra il
bubone._


_XII. Empiastro emolliente ed attrattivo del Diemerbrochio._

℞. _Radici di gigli bianchi onc. 2; erbe ruta, malva, altea, ana
manipol 1; scabbiosa manipol. 1 e mez._ (quest’erba è lodatissima da
tutti per maturar buboni) _fiori di camomilla mez. manipol., fichi
secchi polputi num. 9; acqua comune quanto basta. Si cuocano seconda
l’arte, e si pestino minutissimamente nel mortaio, con aggiungervi
tre o quattro bulbi, o spicchj di cipolle, prima involti in carta
sorbitrice bagnata d’aceto e alquanto abbrustoliti sotto le ceneri. Poi
prendi polvere di radici d’altea mez. onc.; sterco di colombi onc. 2 e
mez.; lievito di pane onc. 1 e mez.; farina di frumento dram. 3. Unisci
queste cose alla colatura delle precedenti, e tutto mischiato si cuoca
alla forma de’ cataplasmi, a cui in fine aggiungi mele onc. 1; unguento
basilicon mez. onc.; sugna d’anitra, ovvero olio di scorpioni e butirro
onc. 1. I ricchi vi possono aggiungere talvolta anche un poco di triaca
d’Andromaco, e i poveri alquanto della triaca de’ rustici._


_XIII. Altri empiastri suppuranti._

℞. _Ruta verde, rafano tagliato in fette, ana mez. manipol.; senape
un cucchiaio. Cadauna cosa separatamente si pesti, e poi mischiato il
tutto, si metta sopra il bubone._

XIV. Ovvero ℞. _Sterco di gallina mischiato con chiaro d’uovo in forma
di cataplasma. Forse è da scrivere rosso, o sia tuorlo d’uovo._

XV. O pure ℞. _Corteccia di mezzo del sambuco onc. 1; farina di avena
onc. 2; e fatto cuocer tutto in latte dolce a guisa di cataplasma,
applicandone alle aposteme, dicono che le fa maturar presto._

XVI. O pure ℞. _Lievito mez. onc., rafano onc. 1 e mez.; farina di semi
di senape dram. 1; cipolla cotta sotto le ceneri dram. 2 e mez.; aglio
cotto nella stessa forma dram. 1 e mez.; triaca dram 3. Mesci tutto nel
mortaio, e fanne empiastro._

XVII. Ovvero ℞. _Fichi secchi polputi dram. 3; polpa d’uve grosse,
gomma ammoniaca, ana mez. onc.; bdellio, sagapeno, ana dram. 2 e mez.;
sugo d’oppio onc. 2 e mez. Si disciolgano le gomme in aceto; poscia
tutto si mescoli nel mortaio, e di sei in sei ore si muti questo
empiastro._

XVIII. O pure. ℞. _Fichi secchi: cuocili e pestali, o pur cipolle sotto
le ceneri; poi mischia con esso loro un pochetto di butirro vecchio e
di triaca, che ancor questo ha giovato a molti._

Oltre a tanti empiastri che ho qui notato per tutti, e principalmente
per la povera gente, sappiasi ancora che le sole foglie di cavolo
rosso unte con olio di rape, bastano a maturare i buboni coll’andarle
mutando, e innumerabili in questa maniera furono ne’ tempi addietro
curati. Altri presa una cipolla e scavandola alquanto vi metteano
dentro un poco di triaca; poi fattala arrostire sotto le ceneri calde,
la pestavano ben bene e ridottala in forma d’empiastro e mischiatavi
sopra sugna di porco se ne servivano con felice successo a maturare
i buboni. Alcuni stimano meglio l’aggiungervi la triaca, dappoichè la
cipolla è cotta; siccome ancora credono meglio non arrostir molto la
cipolla affinchè non perda la miglior sua forza. Scrive il Foresti che
un chirurgo d’un lazzeretto si valea spezialmente di cipolle cotte e
tritate con senape bianca frescamente macinata, o in vece di senape
mischiava alquanto di triaca colle cipolle, e senz’altro spesse volte
in due o tre dì, e al più in quattro i buboni restavano maturati.
Non parlo qui del servirsi che fanno molti oltramontani di rimedj
mercuriali, o sia argento vivo, ovvero di rospi secchi per curare i
tumori pestilenziali, imperocchè il primo rimedio è stato trovato da
altri sommamente dannoso o pericoloso; e l’altro non porta seco un
carattere autentico che il lasci facilmente approvare. Chi volesse
qui fidarsi dei chimici e spargirici, troverà lodatissimi fra essi un
empiastro di Paracelso per maturar buboni, e un altro d’Angelo Sala,
e finalmente uno di Paolo Barbetta, decantato assaissimo. Io per me
non oserei riprovare, ma nè pur consigliare sì fatti rimedj sulla fede
sola dei loro per altro celebri autori, perchè le promesse e idee di
molti chimici o empirici non son diverse da quelle degli alchimisti.
Nulladimeno perchè il Barbetta è medico di gran credito e scrive di
non aver conosciuto empiastro più nobile ed utile del seguente, mentre
posto sopra i buboni, senza far crosta ne traeva sì egregiamente gli
umori maligni, che il bubone fra quattro o sei dì si levava affatto
via, io il riferirò qui. L’aveva egli preso dall’Agricola e vedremo che
Angelo Sala se ne era fatto bello anch’egli.


_Empiastro magnetico arsenicale._

℞. _Gomme sagapeno, armoniaco, galbano, magnete arsenicale, ana dram.
3; trementina di larice, cera, ana mez. onc.; olio di succino dram.
2; terra di vitriuolo dolcificata dram. 1. Disciogli le gomme in buon
aceto, e spremutele per panno di lino fa che bollendo insieme di nuovo
s’inspissiscano sino a prendere la prima consistenza. Poi separatamente
fa liquefare la cera e la trementina, e agita tutto fuori del fuoco,
finchè si riducano in forma d’unguento. Aggiungi poi le gomme, la
magnete e il resto degl’ingredienti, e avrai un empiastro efficacissimo
a tirar fuori ogni sorta di veleno_.

Come si faccia la magnete arsenicale, la quale manipolata che sia non
è più velenosa, per quanto dicono, potendone ognuno farne prova con
darne ai cani, l’impareremo più a basso da Angelo Sala. Venendo crosta
ai buboni, si leverà facilmente via (e questo importa assaissimo) con
una sola spatola dopo un giorno, o poco più, se unirai all’empiastro
suddetto un poco d’unguento basilicon o di triaca.

Allorchè si sarà continuato per qualche giorno sopra i buboni l’uso
de’ suddetti cataplasmi e cominceranno a maturarsi le materie, allora
si lascino stare gli attraenti, come sono lo sterco di colombi, il
lievito ecc., con adoperar poi soli maturanti. Il Diemerbrochio scrive
d’essersi spesse volte servito, e con felicità, del solo seguente
empiastro dal principio fino al fine della cura. ℞. _Gomma galbano
disciolta in aceto, empiastro oxicrocco, diachilò con gomma, ana
onc. 1, mischiando tutto_. Nota egli ancora di non aver medicato con
gagliardi attraenti i buboni nati presso alle orecchie per ischivare
il pericolo della soffocazione, avendo anche osservato che con
empiastri que’ tumori in poche ore crescevano a dismisura e portavano
poscia molti alla buca, e però medicava quelli con soli emollienti o
con leggieri attraenti. Con gli altri non occorreva tanto riguardo.
Maturati perfettamente i buboni, per lo più nè pure si rompono da per
sè stessi; e però bisogna allora tagliarli o romperli con un legnetto
acuto, se si può; se no, col ferro. Si facciano aprire non nella cima,
ma in fondo, e nella parte più bassa affinchè la marcia più facilmente
ne esca. I cauterj potenziali non son qui lodati. Consigliano alcuni
medici di tagliare i buboni maligni e pestilenziali prima che sieno
perfettamente maturi; e l’Ingrascia è di parere che quando coi buboni
va congiunto qualche grave accidente, o febbre, che minacci rovina,
allora sia meglio aprirli, benchè non maturi. Ma la sperienza ci
avvisa che per lo più a tentativi sì animosi succedono fieri dolori,
infiammazioni e cancrene; e però non s’ha per lo più a ricorrere, se
non con gran riguardo, a queste troppo sollecite operazioni. Nella
peste della nostra città del 1630 in un avvertimento pubblico fu
lodato il tagliar profondamente sul principio i buboni d’umor tenero
e liquido, curandoli poi con digestivi. Fu anche notificato che in
quei d’umore molle sì, ma non fluido, conveniva dopo il taglio coprir
le taste di corrosivi. Questi però non sono metodi da approvarsi
così alla cieca. Avvisavano bensì saviamente che i buboni duri come
ghiande non si doveano tagliare; altrimenti l’infermo se ne andava,
e che però conveniva ungerli con olio di giglio bianco più volte,
che così o si risolvevano in nulla, o si maturavano. Pare a me d’aver
suggerito empiastri più gagliardi a questo effetto. Tagliati i tumori,
e spremuta la marcia, si attende poi a curar la ferita, tenendovi tasta
con digestivo e sopra un qualche empiastro emolliente, ungendo intorno
con olio rosato. Si può far anche senza tasta, secondo il metodo
stimabilissimo del Magati, ultimamente illustrato dal dottore Dionisio
Andrea Sancassani, purchè la piaga stia aperta e si possa andar
purgando: il che in questo caso è più necessario che nelle piaghe non
pestilenti. Per un digestivo insigne vien commendato dal Diemerbrochio
il seguente


_Empiastro digestivo per i buboni tagliati._

℞. _Scordio sottilissimamente polverizzato dram. 2; rosso d’un uovo,
trementina di Venezia, mele, unguento degli apostoli, ana mez. onc.
Mesci tutto._

E Silvio de le Boe scrive d’aver adoperato con buon esito, per guarire
in breve essi buboni aperti il balsamo di zolfo trementinato e anisato,
insieme con unguento basilicon e triaca, mettendo di più sopra esso
medicamento l’empiastro _diapompholygos_ o altro simile.

Resta ch’io dica qualche cosa dell’uso dei vescicanti nella cura dei
buboni. Alcuni li riprovano con varj raziocinj; ma Ercole Sassonia,
e meglio ancora di lui altri valorosi medici, hanno diffusamente
risposto a tali difficoltà; e noi abbiam qui la sperienza anche del
soprammentovato Diemerbrochio, il quale ha osservato mille volte che i
vescicanti, purchè applicati nel primo apparir dei buboni, son riusciti
di un notabilissimo giovamento, di modo che scaricandosi per la loro
ferita il maligno umore a molti sono da per sè svanite quelle velenose
aposteme. Il suo metodo perciò era questo. Subito che apparivano essi
buboni egli applicava un vescicante alla lor parte inferiore talmente
che toccasse la lor durezza. Svegliata nello spazio di otto o dieci ore
la vescica, e levatala via, metteva sopra la piaga una foglia di cavolo
rosso o di bieta unta con butirro vecchio o con olio di rape, acciocchè
restando aperto il luogo si potessero per colà evacuare i cattivi
umori. Noi abbiamo nelle nostre spezierie il cerotto vescicante.
Tuttavia aggiungerò altre ricette.


_I. Vescicante._

℞. _Radici di piretro, semi di senape bianca, ana mez. dram.; cantaridi
scrup. 1 e mez., o pure scrup. 2; mele dram. 1; lievito di pane acido
dram. 1 e mez. o dram. 2; aceto rosato quanto basta. Se ne formi pasta
vescicatoria._


_II. Altro vescicante._

℞. _Semi di senape bianca, di euforbio, ana dram. 1; radici di piretro
mez. dram.; cantaridi dram. 2; ragia di pino, cera quanto basta. Si
faccia pasta._


_III. Vescicante del Mercuriale._

℞. _Cantaridi preparate dram. 3; lievito mez. onc.; un poco d’aceto
fortissimo, e mischia._


_IV. Vescicante del Pareo._

℞. _Cantaridi, pepe, euforbio, piretro, ana mez. dram.; lievito dram.
2; semi di senape dram. 1; un poco d’aceto, e mischia._

Silvio de le Boe scrive di non aver mai potuto avvertire qual buon
effetto succeda dai vescicanti; ma giacchè non dice d’averlo veduto nè
pur cattivo in tempo di peste, e gli altri ne contano molti vantaggi,
pare che sia bene il valersene. Altri poi hanno usato di applicare
i vescicatorj lontano dai tumori, per esempio a mezza la coscia, se
questi erano all’anguinaia; ma un tal metodo non è approvato da altri
intendenti che il pretendono o inutile o nocivo. Se il vescicatorio non
eccita secondo il suo costume la vescica, è quasi inevitabile la morte;
e ciò sia detto della cura dei buboni.



CAPO IX.

  _Carboni pestilenziali. Pronostici intorno ad essi. Varj metodi
    per curarli poco lodevoli. Maturarli e separarli, maniera più
    commendata dell’altre. Varj medicamenti per questo effetto, ed
    altri per levar via l’escara._


Più perniciosi delle finora descritte aposteme pestilenziali sono i
carboni, chiamati antraci dai Greci, e formati anch’essi dal veleno
della peste, il quale venendo probabilmente spinto dalla natura alla
cute per via dell’arterie e della circolazione del sangue disciolto,
ed ivi arrestandosi per qualche stagnazione o fissazione d’esso
sangue, forma in varie parti esterne ed anche interne del corpo
delle vesciche e pustole dolorosissime e infiammate che mortificando,
cioè rendendo morta la carne, a poco a poco diventano dure, livide
o nere. Talvolta si son vedute insino a trenta di queste fierissime
pustole in un solo appestato, nascendo esse nel petto, collo, schiena,
braccia, cosce, diti, ecc, ed anche internamente nelle tuniche del
ventricolo e in altre viscere: nel qual ultimo caso è spedita la
vita degl’infermi. Notinsi le seguenti osservazioni fatte da medici
accurati: I. Se nascono carboni nelle glandule emuntorie in luogo
di buboni, ciò è mortalissimo. II. Quei che vengono o nel principio
del male, o poco dopo, in siti carnosi, sono lodevoli o tollerabili.
III. All’incontro i nati nelle dita de’ piedi e delle mani e sopra
la spina del dorso e sopra nervi, danno campo di pessimi augurj; e
però questi debbono eccettuarsi dalla regola d’alcuni medici, i quali
stimano tanto men pericolosi i carboncelli, quanto più escono lontani
dal cuore. IV. Se hanno una certa coda, o pure se nascono tardi, è
cattivo indizio; pessimo se prorompono in molta quantità, essendo ciò
un effetto di maggiore e più grave copia di veleno. Il Mercuriale con
altri tiene diversamente; ma il Sennerio, il Riverio, il Barbetta
ed altri assaissimi confermano con troppe sperienze l’osservazione
suddetta; potendosi nondimeno immaginare che tal diversità di pareri
sia proceduta dal diverso carattere delle medesime pesti. V. carboni
biancheggianti senza diminuzion di febbre, levano la speranza di
guarire; ma se fra due o tre dì fanno un cerchio rosso all’intorno, più
facilmente e più presto degli altri guariscono. VI. Se diventano molto
larghi e di gran mole, come talvolta accade, riescono difficilissimi
a curarsi, anzi mortalissimi se spuntano sopra qualche parte
nervosa. VII. Qualora nel principio si fermano e quasi spariscono,
o pure restando in vigore la febbre si seccano, predicono la rovina
dell’infermo. Nella peste, che in questi medesimi giorni affligge
Vienna ed altri paesi, escono buboni, ma non già carboni, segno non
essere quella epidemia di gran malignità, e perciò doversene sperare la
fine con la venuta del verno. Ivi il maggior benefizio si è ottenuto
finora dai sudori provvocati sul principio del male coll’uso delle
seguenti


_Pillole antipestilenziali d’Emanuele, chiamate anche di Gesù e del
general Cusani._

℞. _Aloè epatico purissimo onc. 1; zafferano, mirra, ana dram. 1;
zedoaria, genziana, ana scrup. 1; rabarbaro scelto dram. 2; agarico
bianco dram. 1; triaca d’Andromaco, quanto una noce. Si polverizzino
separatamente, poscia si mescolino in mortaio e se ne facciano pillole
della grossezza d’un pisello. Per la preservativa se ne prende una
ciascun giorno; per la curativa 8 o 10 in acqua, e il malato ben
coperto sudi. Non è necessario l’agarico nè il rabarbaro._

In quanto alla cura de’ carboni, il cardinal Gastaldi scrive che nel
contagio di Roma del 1656 nessun rimedio era più giovevole, quanto
l’adoperare la scarificazione, cioè il tagliar loro d’intorno, con
separare la carne morta dalla viva, e lo scarificarli anch’essi e cavar
via molta copia di sangue, ungendoli poscia con unguento egiziaco,
triaca ed olio di scorpioni, e finalmente ungendo l’escara, o sia
la crosta, con sugna, o butirro, finch’essa cadeva. Essendosi prima
trovati inutili altri rimedj, questo in fine parve il metodo più utile
per curare i carboni ed anche i buboni. Nell’avvertimento stampato in
Modena pel contagio del 1630 si legge che i carboni si medicavano con
refrigeranti d’intorno e con empiastri in mezzo; tanto che separati
dalla carne buona, si cavassero con la molletta, applicando poi in que’
fori gli ordinarj digestivi delle ferite. Oribasio, Egineta ed altri
antichi e moderni consigliano anch’essi lo scarificare profondamente,
ovvero il tagliarli sino alle radici con un rasoio; imperocchè temono
che sia rimedio troppo debole e lento quello degli empiastri.

Il perchè secondo altri si può tagliar la crosta del carbonchio in
croce, o in più tagli (quanti più se ne fanno, tanto dicono che sia
meglio) profondandoli sino a toccar del vivo, ma non penetrando nel
vivo per timore d’arterie, vene, nervi, ecc. Indi si ha da procurar
l’uscita al sangue, sbruffandolo d’acqua salsa calda, o fomentando
il luogo con ispugna bagnata nell’acqua suddetta, ma avvertendo di
far uscire il sangue in quantità discreta e non troppa. Poscia si
dee asciugar bene la ferita, e far entrare nei tagli zucchero candido
fatto sottilissimo come fior di farina, mettendovi poi sopra qualche
empiastro.

Un’altra via di debellare il carbone, è scottarlo con ferro infocato,
come sarebbe testa di chiodo grande; e sarà bene aver prima levato via
della grossezza della crosta ciò che si potrà levare senza dar dolore
al paziente. Dee la scottatura essere tanto larga, che tutto intorno
tocchi del vivo; potendosi anche scottarlo in diverse volte con ferro
picciolo a parte a parte. Così ci son molti che nelle parti carnose li
separano dalla carne buona con ferro tagliente, e dipoi li spiccano,
operando in più volte un poco per giorno, affinchè il dolore riesca più
tollerabile. Fanno il taglio in maniera che si veda la carne buona,
mettendo, finchè si finisca di spiccarli, tra il buono e il cattivo
della carne o zucchero candido ben sottilizzato, o rosso d’uovo con
sale ben polverizzato, o pure rosso d’uovo con trementina, ovvero fili
asciutti. Se vi resta del cattivo, convien porvi qualche corrosivo, o
pure tagliare quel che resta sino a toccar del vivo, facendo uscire
il sangue con acqua calda. Che se il carboncello è duro, alcuni lo
scarnano tutto intorno assai profondamente in una o più volte; poscia
legatolo bene con uno spago o simile legatura, il cavano con una pronta
strappata, sicchè talvolta resta la carne netta di sotto, e talvolta
ancora vi resta qualche bisogno di mondificare. Altri ancora adoperano
vescicatorj e acqua forte, e altri simili aspri rimedi.

Ma si avverta che tutti i metodi finora accennati sono da lasciarsi
il più che si può, non solo perchè portano degl’intollerabili dolori
agl’infermi, con accrescer loro anche la febbre e la vigilia, ma
ancora perchè moltissimi altri medici hanno osservato che questi sì
precipitosi tagli, o rimedi crudeli, poco o nulla giovano, e conducono
bene spesso più velocemente alla morte i miseri infermi. Siccome
per lo contrario la sperienza ha mostrato che i carboni quanto più
piacevolmente sono trattati, tanto più presto sono guariti, Tommaso
Cornelio, celebre medico, in un suo Dialogo favoloso, composto alla
guisa di quei di Luciano, consiglia il lasciare più tosto alla natura
che il dare in mano ai medici i malati di peste; perocchè, dice egli,
i medici adoperano facilmente rimedi perniciosi, facendo essi ciò che
talvolta non giungerebbe a fare il morbo medesimo. Può essere che il
Cornelio parli da burla; ma può anche essere che burlando egli colpisca
nel vero, e che la suddetta disgrazia non si fermi nella sola malattia
pestilenziale. Certo nei lazzeretti troppo spesso s’è fatta vedere
la crudeltà de’ cerusici nel ricorrere al ferro infocato per curare
i carboni, mentre senza badare bruciavano nervi, tendini, muscoli e
vene (e l’osservò anche il Cristini nella peste di Roma del 1656), di
maniera che molti non solamente morivano, ma morivano ancora martiri
della cirugia per 25 o 30 bottoni di fuoco. Nè pare che si opponga a
tali sperienze ciò che testè ci fece udire il cardinal Gastaldi; perchè
forse quelle furono scarificazioni modeste, o pure elle cominciarono
a trovarsi utili solamente nella declinazione della peste, cioè in un
tempo in cui il morbo suol cedere da per sè stesso, con attribuirsi
poi la gloria della guarigione ai rimedi che si usano allora: dal che
mi figuro io che sieno procedute altre contrarietà, e probabilmente
alcuni inganni di molti medici nell’esaltare o biasimare or questo
ed ora quel rimedio. La conclusion nondimeno si è, che i tagli prima
del tempo nei carboni s’hanno da abborrire, e doversi eleggere il
metodo più regolare, più mite e meno pericoloso, qual è quello che ora
soggiugnerò.

Presi che avrà l’infermo i sudoriferi ed altri antidoti interni,
che sono creduti abili a spingere fuori il più che si può del veleno
pestilenziale per i pori, ed usciti i carboni, si dee immediatamente
metter loro sopra una foglia di cavolo, o sia verza rossa unta con olio
di rape. Dipoi, ed anche sul principio, sarà meglio mitigare il dolore
de’ carbonchi con de’ rimedi emollienti ed anodini, a fine di separar
con essi la carne morta del carbone dalla vicina viva e buona. Ecco la
ricetta d’uno presa dal Diemerbrochio:


_Suppurante per i carboni._

℞. _Radici di consolida maggiore secche, erba scordio secca, ana dram.
2; radici d’altea secche, farina di semi di lino passata per setaccio,
fior di farina di frumento, ana onc. 1. Fanne polvere sottile, in cui
metti dentro acqua comune quanto basta. Si cuocano alquanto, acciocchè
si sciolgano le mucilagini, e la composizione venga in forma di polenta
grossa. Aggiungi mele, trementina, unguento d’apostoli, ana dram. 3;
pece liquida, unguento basilicon, ana dram. 2; il rosso d’un uovo;
zafferano scrup. 1. Mescola tutto. Se gli può anche aggiungere triaca
dram. 2._

Il suddetto Diemerbrochio scrive d’aver provato molti medicamenti; e
di non averne trovato alcuno migliore di questo, con cui in breve si
otteneva la separazione de’ carboncelli, stendendolo grosso sopra i
medesimi, e rinnovandolo due o tre volte il giorno. Ma per facilitare
ai poveri e a chi non ha comodità di speziali e di meglio, i soccorsi
pel bisogno loro, raccoglierò qui altri suppuranti suggeriti dai medici
in tal congiuntura, benchè non tutti di egual vigore.


_Altri suppuranti per maturar carboni._

℞. _Cipolla cotta con triaca, o aggiuntavi dopo la cottura, ed olio
di lino o di noci; e quando questi olj manchino, quello d’ulive,
mischiando tutto._

Ovvero ℞. _Tuorlo d’uovo e sale prima seccato, poi polverizzato
sottilmente come fior di farina. Aggiungi caligine, butirro e carbone
pesto ben bene, di quel che è bruciato sul focolare. Unisci tutto con
diligenza, e formane empiastro. In vece di sale comune è meglio un
oncia di sale ammoniaco._

O pure _Empiastro di butirro mischiato con olio rosato. O empiastro
fatto di cipolle di gigli bianchi cotte sotto le ceneri e pestate, o
sole, o insieme con butirro o con olio rosato._

Dicono che questi tre empiastri tra i facili e di poca spesa sono i
principali che vengano lodati per maturare e far separare i carboni.
Nel primo si può mettere mitridato di Diamocrate in vece di triaca; ma
comunque si faccia, il tengono per molto utile al suddetto oggetto.
Altri adoperano butirro solo lavato, quando loro manchi tutt’altro.
Altri mischiano insieme rosso d’uovo, zucchero bianco ben polverizzato
e zafferano. Altri foglie di lapazio, che rumice suol chiamarsi, foglie
di piantaggine, butirro, o sugna di porco senza sale, pestando tutto
insieme. Dicono che sia potente empiastro il prendere radici d’altea,
che è malvavischio, cotte nell’acqua, e poi ben peste, e mescolate con
alquanto d’olio di lauro e con rosso d’uovo. Il Rondinelli scrive che
in Firenze per i carboni grandi si trovò cosa ottima l’applicar loro
l’empiastro di cinque farine, che manteneva il calore, e li separava.
Ai mezzani si applicava un poco di capitello per poter arrivare più
alle radici, e così si fermavano. Ai piccioli si adoperava unguento
egiziaco. Nè si trovò mai che chi aveva i carboni non avesse anche i
buboni. Se crediamo a Giovanni Tragaulzio, l’erba consolida maggiore,
pestata fra due pietre, sana egregiamente i carbonchi, e in termine di
24 ore. Io per me non crederei tanto senza vederne più d’una prova.
Anche il Bauderon attribuisce il medesimo valore alla scabbiosa
verde, pestata in mortaio di pietra; ed altri scrivono che la carne
di bue diligentemente pestata e posta sopra i carboni, in tre giorni
li stacca. Paracelso, il Sennerto, ed alcuni spargirici lodano il
premere la circonferenza del carbone, subito ch’esso è nato, con un
zaffiro o giacinto, girandolo intorno per un quarto d’ora, tanto che il
cerchio sulla carne apparisca livido. Scrivono che questo accelera la
separazione del carbone, e che la stessa gemma zaffiro è anche buona da
impedire il nascere ai carboni, e che in oltre posta sopra i medesimi
li estingue. Il rapporto io, non perchè mi senta disposto a crederlo
buonamente, ma per dire agli altri che non se ne fidino nè pur essi
senza averne veduto de’ legittimi sperimenti.

Altri prendono fichi secchi, sugna di porco maschio e sterco di
colombo, il qual empiastro conviene a maturare ogni altro tumore.
O pure mele crudo con fior di farina di frumento, dicendo essere
empiastro ottimo per far maturare. Anche le foglie di cavolo crude
pestate con sale, e ridotte in empiastro; e parimente il rafano
preparato nella stessa maniera, possono servire alla suppurazione de’
carboni. Lodano alcuni come empiastri molto efficaci i due seguenti, e
il secondo specialmente dicono che quasi violenta i carboni a cedere.


_Suppuranti per maturar carboni._

_Togli farina di frumento onc. 1; un rosso di uovo; sterco rosso di
gallina, sterco bianco di colombo, seme di eruca, o sia rucula, ana
mez. dram.; sale polverizzato sottilissimamente dram. 1; mele tanto che
basti per far buona composizione. Tutte le cose sieno ben macinate, e
miste insieme._

O pure ℞. _Un pomo granato garbo, cioè di mezzo sapore, e tagliatolo in
pezzi minuti, fallo cuocer benissimo in aceto; dipoi ben pestato fanne
empiastro, accomodandolo al carbone con pezza bianca, sopra bagnata
nello stesso aceto della decozione; e tienlo così senza muoverlo,
attendendo a bagnarlo coll’aceto sopra la pezza. Va messo grosso questo
empiastro, e tenuto caldetto._

Altri consigliano per la gente povera il prendere trementina lavata
in acqua di scordio, e mele rosato mezz’oncia per sorta, e farne
empiastro. Se gli può aggiungere pece liquida, con un poco di sapone
spagnuolo, per renderlo più efficace. E a proposito della pece, in
Olanda i poveri in tempo di peste prendono pece navale liquefatta,
e mischiando seco altrettanta quantità di pece liquida, ne formano
empiastro, attestando il Diemerbrochio d’aver osservato moltissime
volte i carboni egregiamente separati con questo solo rimedio. Viene
stimato e consigliato assaissimo l’empiastro di diachilon con gomma, o
il basilicon, o l’empiastro formato di galbano, oxicroceo e diachilon
mischiati insieme. Aggiungerò ora altri empiastri creduti anch’essi
molto utili. Il Pareo scrive d’essersi spesse volte servito con
felicità del primo d’essi.


_Empiastro suppurante per i carboni._

℞. _Caligine di cammino onc. 4; sale comune onc. 2. Si riducano in
polvere sottile, e aggiunti due rossi d’uovo, si sbattano finchè
prendano consistenza, e si mettano tepidi sopra i carboncelli._


_Altro empiastro maturante._

℞. _Fichi secchi polputi, uve passe, noci monde, ana onc. 2. Si cuocano
per alquanto tempo in vino bianco quanto basta; dipoi si pestino bene
in forma di cataplasma, a cui aggiungi due rossi d’uovo e un poco di
sale._


_Empiastro di Giulio Palmario._

℞. _Rossi d’uovi freschi num. 6; sale comune ben seccato onc. 1; olio
di gigli mez. onc.; triaca dram. 1; farina d’orzo quanto basta. Fanne
empiastro, che sarà anche più gagliardo se vi aggiungerai sapone,
calcina poco fa smorzata, e un poco di lievito acido e di sugna vecchia
e salata di porco._


_Empiastro lodato assai da Francesco Joele._

℞. _Triaca d’Andromaco, mitridato, ana dram. 2; trementina lavata
in acqua di scordio, butirro senza sale, ana mez. onc.; mele rosato
dram. 3; sale seccato dram. 2; caligine dram. 5; sapone nero dram. 6;
un rosso d’uovo. Si pestino e maneggino secondo l’arte, e se ne formi
empiastro._


_Empiastro d’Angelo Sala._

℞. _Pece navale, ragia di pino, gomma ammoniaca depurata, cera vergine,
ana onc. 1 e mez.; asfalto onc. 1; mele cotto sino a divenir nero
mez. onc.; canfora disciolta in olio di succino dram. 1. Si faccia
empiastro._

Il medesimo Sala prescrive un altro empiastro attraente e rottorio per
i carboni, chiamato da lui eccellentissimo specifico, e tale ch’egli
non crede trovarsi un rimedio simile fra tutti i topici, operando
esso in poche ore effetti mirabili. Quantunque io mi sia astenuto dal
produrre molte altre composizioni di certi medici spargirici, perchè
troppo difficili, e perchè non credute da me di quel valore che viene
spacciato da’ loro autori, tuttavia riferirò questo, che però non è
molto diverso da quello del Barbetta riferito nel cap. antecedente.


_Empiastro chiamato efficacissimo dal Sala._

℞. _Gomme sagapeno, ammoniaca, galbano, ana dram. 3; trementina cotta,
cera vergine, ana dram. 4 e mez.; magnete arsenicale sottilmente
polverizzata dram. 2; radici d’arone polverizzate dram. 1. Le gomme
si depurino, cioè si sciolgano con aceto scillitico, e si cuocano a
consistenza di empiastro._

Ma affinchè si sappia ciò che sia la magnete arsenicale, ecco la
maniera di prepararla:

℞. _Arsenico cristallino, solfo vivo, antimonio crudo, ana, cioè
parti eguali. Polverizza tutto in mortaio di ferro, e ponlo in vaso
fortissimo di vetro al fuoco di arena, finchè il vetro ottimamente si
riscaldi, e le suddette cose si disciolgano e liquefacciano, il che si
osserverà quando si manderà giù al fondo qualche filo, il quale tirato
su sarà rigido a guisa di trementina, e darà segno di bastante cottura.
Poi leva il vetro dal fuoco, e quando sarà raffreddato, rompilo, e
sottilmente polverizza quella pietra, serbandola per l’uso._

Silvio de le Boe anch’egli loda assaissimo la suddetta magnete.
Nell’anno 1655, allorchè la peste malmenava la città d’Utrecht ed
altre molte in Fiandra, fu ritrovato per la cura dei carboni l’olio,
o sia il butirro d’antimonio. La maniera di adoperarlo era questa:
Ungevano leggermente con una piuma intinta in esso olio il carbone,
dopo averlo prima attorniato con un cerotto difensivo per impedire la
dilatazione del corrosivo. Ora scrivono che esso carbone mirabilmente
in poco tempo si separava dalla carne sana, e che potevasi facilmente
staccare. Di più era tale unzione efficacissima per impedire il
serpeggiare e dilatarsi dei carboni. Con fidanza m’induco a proporlo
e a credere che possa veramente riuscire di gran profitto, perchè il
Diemerbrochio, medico poco creduto, e assai guardingo e sincero, ci
assicura d’averne provato maravigliosi effetti, con chiamarlo anche
_acerrimum quidem, sed aureum certe remedium_. Altrettanto ne attesta
per esperienza anche il suddetto Silvio de le Boe. E sapendo io che del
pari i medici italiani se ne servono con buon successo, come d’ottimo
rimedio caustico o corrosivo, in altri casi, purchè se ne vagliano a
tempo e con cautela, perciò me l’immagino giovevolissimo anche in tempi
di peste. Lo Scradero nella sua Farmacopea, e il Donzelli nel Teatro
Farmaceutico con molte lodi rapportano la ricetta della composizione
suddetta nella seguente forma:


_Olio, o sia butirro d’antimonio._

℞. _Antimonio purissimo, mercurio sublimato, parti eguali. Mischia
accuratamente in mortaio di pietra con pestello di legno, avvertendo
di non toccar mai colle mani la composizione; e poi mettila nella
storta di vetro, e quindi posala in cantina per tre giorni, acciocchè
gl’ingredienti s’inumidiscano. Appresso per la stessa storta si
distillino in arena a fuoco mediocre o a fuoco aperto accresciuto a
poco a poco. Ne uscirà liquore, o sia butirro d’antimonio a guisa di
ghiaccio. Se si quagliasse nel collo, accostavi cautamente un carbone
infuocato, acciocchè resti libera l’uscita al medesimo. Uscito il
butirro, accrescendo il fuoco, sublima nel collo della storta il
cinabro, che chiamano d’antimonio. Si rettifichi dunque per istoria il
liquore uscito; o pure quest’olio avanti la rettificazione s’impregni
del suo cinabro, il che si fa coll’aggiungere al suddetto olio il
cinabro tritato, e farlo stare così per 24 ore in vetro chiuso entro la
cenere, affinchè in tal maniera s’unisca bene il tutto, dopo di che si
rettifichi per istoria di vetro_.

Voglio aggiugnere la maniera tenuta dal Cristini (chimico anch’esso)
nel curare i carbonchi durante la peste di Roma del 1656. Applicava
egli alla vescica de’ carboni, coprendola tutta, uno dei seguenti
trocisci, inventati però dal Riverio suo maestro.


_Trocisci per curare i carboni._

_Togli fecce di regolo d’antimonio, e mettile in luogo umido sopra un
marmo e sotto d’un vaso, di modo che non vi possa piovere sopra, ma vi
penetri la sola aria. Si scioglieranno in olio, che poi si dee esalare
a fuoco lento, e se ne formerà un sale pungentissimo, del quale prendi
onc. 1. Aggiungi mercurio sublimato onc. 1; farina d’orzo e di lente,
ana onc. 2; gomma dragante liquefatta in acqua rosata dram. 2. Formane
trocisci, che applicati ai carboni, mirabilmente corrodono la carne
cattiva._


_Empiastro da applicarsi intorno ai carboni._

℞. _Unguento di mucilagine, d’altea, ana onc. 2; sugna vecchia e non
salata di gallina e di porco, ana onc. 1; fichi secchi onc. 6; uva
passa mondata da’ suoi acini, o granelli, onc. 3; lievito acido mez.
onc.; farina di semi di lino e di fieno greco, ana onc. 1; zafferano
scrup. 2; olio di camomilla e di gigli, ana onc. 1. Mescola, e fanne
empiastro._

Col sopraddetto trocisco si formava l’escara, o sia la crosta sopra il
carbone; e coll’empiastro si maturava in tal maniera, che in termine di
24 ore il carbone si poteva staccare con tutta la sua radice. Espurgava
dipoi il Cristini la fossa restata nella carne buona, e la medicava con
unguenti atti a rimettere la carne. Se s’incontrava in carboni ostinati
che in 24 ore non venissero alla separazione, tagliava loro intorno,
e levata via con un coltello l’escara, applicava di nuovo il trocisco
e l’empiastro, ed anche la terza volta occorrendo, finchè si sterpasse
la radice del carbone, dopo di che adoperava i digestivi ordinari per
sanar quelle piaghe. Notisi nondimeno che è proprio de’ chimici, e
specialmente di certi empirici, il promettere di guarir molti mali
coi loro rimedi in 24 ore; ma il mantener la parola, oh questo è
il difficile. Molto più si noti che in tutti i metodi, allorchè il
carbone si vede suppurato, o, per dir meglio, disposta la sua carne
morta a separarsi dalla viva, si ha da aiutare a cavarlo fuori col
ferro. Nell’Avvertimento stampato in Modena l’anno 1630 si vede che
ai carboncelli si metteva sul principio una pezzetta sopra, o pure
sfilacci, con unguento egiziaco e triaca insieme, e sopra empiastro
diachilon semplice. L’altro giorno, dopo aver unto il carbone con
butirro, se gli metteva sopra una pezzetta con unguento isis, a cui era
mischiato alquanto di precipitato, e sopra essa aggiungevasene un’altra
con unguento diapalma. Vedutosi nel terzo dì il carbone mortificato,
che si scarnava, il tiravano via colla molletta, medicando poi la
piaga con digestivo, e di sopra diachilon semplice o mollitivo, ovvero
unguento semplice. Benchè un tal metodo abbia del triviale e qualche
pregiudizio de’ nostri vecchi, nè sia proprio per far dei miracoli,
tuttavia ho voluto farne menzione, perch’esso in fine non è pericoloso,
e può trarsene profitto. Paolo Barbetta scrive che se dal vescicante o
da un cauterio attuale in termine di 12 o di 24 ore non è impedito il
crescere del carbone, è imminente la morte dell’infermo, come ancora
se non ne esce umidità alcuna; ma che venendo la vescica e la marcia
nella debita forma, e facendosi la separazione, si salverà. Lascerò
considerar meglio a chi è della professione questo aforismo.

E perciocchè accade che i carboni facciano escara, o sia crosta dura,
che impedisce l’operazione dei rimedi, insegnavano i secoli antecedenti
di ammollirla con butirro fresco, aggiuntovi un poco di zucchero, o
con sugna di porco, o con altri simili lenitivi. O pure adoperavano
sughi di appio o di porro, cotti con mele; ovvero mollica di pane con
sugo d’appio o di basilico; siccome ancora digestivo di rosso d’uovo
o d’olio rosato con trementina, a cui si può aggiungere un poco di
zafferano. L’Ingrascia insegna la seguente composizione da usarsi sopra
sfilacci, siccome proporzionata non solo per far cadere l’escara, ma
per mondificare la piaga.


_Unguento per levare l’escara de’ carboni._

℞. _Mele rosato onc. 3; sapa onc. 1 e mez.; sugo d’appio, di assenzio,
ana dram. 7; sugo di scabbiosa onc. 1 e mez.; trementina onc. 6; farina
d’orzo, di frumento, ana onc. 2. Purificati prima i sughi, si bollano
insieme tutte le suddette cose, finchè si faccia unguento, a cui
s’aggiunga in fine sarcocolla dram. 3, zafferano mez. dram._


_Empiastro per far cadere l’escara._

℞. _Farina di frumento, d’orzo, ana onc. 3. Impastisi con decozione
di malva, di viole, di radici d’altea; aggiugnendo sugna di porco
liquefatta e butirro, ana onc. 2, e due rossi d’uovo. Pestate le cose
pestabili, si cuocano e si mescolino insieme, facendone empiastro._


_Unguento del Barbetta per far cadere la crosta de’ buboni e carboni._

℞. _Mele vergine, sugna d’anitra, ana onc. 1; caligine di cammino dram.
6; trementina onc. 1; rossi d’uovo 2; triaca dram. 3; olio di scorpioni
semplice quanto basta. Mescola, e fanne unguento._

Quando l’escara sia pertinace, si osservi che non è bene il fare
violenza col ferro, apportando ciò molto cruccio e qualche pericolo
ai poveri pazienti. Si attenda coi rimedi ad espugnarla. Finalmente
separato ed estratto il carboncello, convien purgare e governar la
piaga coi digestivi, e poscia a guisa delle altre ulcere condurne la
cura, finchè s’incarni a poco a poco, e senza precipizio si cicatrizzi.
A questo effetto potrà bastare unguento composto di cera nuova, sugo
d’appio o mele bene spumato. Francesco de le Boe Silvio scrive che a
mondificar presto la piaga serve mirabilmente il balsamo di solfo,
e specialmente l’anisato, mischiato con unguento tetrafarmaco e
basilicon, e applicato alla piaga. E fin qui della cura de’ carboni.



CAPO X.

  _Petecchie, febbre, delirio, vigilia, sonno, vomito, siccità
    di lingua, emorragie, ed altri sintomi delle pestilenze.
    Sollecitudine necessaria in curar per tempo gl’infetti. Veleno
    pestilenziale se coagulante o squagliante il sangue. Quai rimedi
    maggiormente s’abbiano ad aver pronti per i tempi della peste._


Suol anche scoprirsi il veleno pestilenziale per via di certe macchie,
picciole per lo più, e di colore purpureo, le quali veggono chiamate
petecchie. Io non son da tanto che possa mettermi ad esaminare
se queste sieno prodotte della coagulazione o dallo scioglimento
del sangue, siccome ancora se sieno porzioni di questo, fermatesi
nelle boccucce delle vene capillari, o pure efflorescenze di sali
volatili d’esso sangue venuti alla cute. Lascio volentieri ai medici
l’importanza di queste riflessioni per regolamento de’ pronostici e
della cura in tali casi; e solamente oserò, fidato sul parere de’ più
saggi, chiamar esse petecchie, nella peste vera, peggiori degli stessi
carboni, con farne di più un infausto pronostico, per essere stato
osservato allora che comparendo esse, o purpuree, o verdi, o violacee,
hanno quasi sempre annunziata vicina la morte. Alcuni medici di gran
nome le hanno credute salutevoli; ma è da vedere se tal credenza
sia stata appoggiata solamente sopra acuti raziocini, perciocchè la
sperienza ha fatto apparir troppe volte l’opposto, mentre in alcune
pesti non è campato nè pur uno di quei che le aveano, e senza giovare
che fossero in poca quantità, poichè il caso era tuttavia disperato.
Così parlo io secondo l’altrui sentenza e sperienza, non lasciando però
di concepire che si possano dar pestilenze di tal natura e discretezza,
che lascino anche guarire le persone assalite dalle petecchie,
perciocchè son persuaso che da una sola peste non si può nè si dee
misurare ogni altra peste, per quel che riguarda alcuni medicamenti e
sintomi. Non è costume delle petecchie il dare allora tempo a’ rimedi.
Ma prendendo gl’infermi senza dilazione alcuna i sudoriferi e gli
altri antidoti contro la pestilenza, può accadere che la natura (mi sia
lecito il valermi sempre di questo nome, perchè qui non occorre entrar
nelle dispute delle scuole) con altre più favorevoli crisi si liberi
dai sali pestilenziali intenti ad opprimerla, e prevenga le petecchie,
indizio allora di morbo già troppo avanzato e malignato.

La febbre è uno degli ordinari corteggi della peste, e ad espugnarla
servono gli antidoti finora descritti. Ed avvertasi accadere spesso in
tempi di peste che le febbri continue, terzane e simili, e i vaiuoli,
ed altri mali, facilmente degenerino, ed anche molti giorni dipoi,
in febbre pestilenziale; e perciò saggiamente opereranno i medici,
trattando allora tutte le febbri nel principio d’esse come veramente
pestilenziali, e prescrivendo i sudoriferi ed antidoti che sono a
proposito contro la peste. Probabilmente però non succederà questo,
ove si tenga il malato in debita distanza dall’aria, ambiente le
persone, robe e case appestate. Appresso con questo fierissimo morbo
s’accompagna sovente una fiera doglia di capo, che porta intollerabil
tormento agl’infermi; ma anch’essa suol cedere agli antidoti suddetti;
e, occorrendo, i medici possono prescrivere qualche anodino. Lo stesso
dico del delirio e della frenesia, avvertendo qui che il dar bevande di
mandorle, che mandolate si chiamano, e vengono lodate contro il delirio
e il dolor di capo, ecc., s’è osservato non solamente lontano dal
giovare, ma anche molto nocivo, cagionando esse dipoi vomiti, ansietà,
ed altri gravi sintomi. Così i medicamenti oxirrodini, e i frigidi, e
i narcotici, e i meri sonniferi sono da fuggire, non potendosi allora
adoperare senza pericolo d’altri sconcerti. Scrive il Belcaire che in
una peste di Firenze le fanciulle divenendo frenetiche, si andavano ad
affogar ne’ pozzi; ma fatti per ordine dal magistrato strascinare per
la città i cadaveri nudi delle sommerse, un tale spettacolo indusse
cotanta vergogna e terrore nell’altre, che si frenò meglio con questo
ripiego, che col timore della morte la loro insania. _Sit fides
penes auctorem_. Trovo io però in Eliano che le fanciulle di Mileto,
benchè non corressero tempi pestilenziali, caddero in una somigliante
disgrazia, e vi fu adoperato il medesimo rimedio. La vigilia è stato
avvertito che non fa gran danno. Bensì ne porta dei gravissimi il
sonno nel principio del morbo, e finchè non sieno presi i sudoriferi,
al contrario di quel che si osserva in altri mali, ne’ quali ricevono
gl’infermi tanto ristoro dal sonno, e massimamente solendo esso
contribuir molto all’operazione del sudore. Perciò allora a tutti i
patti bisogna tenere svegliati gl’infermi, permettendo poi loro dopo il
terzo o quarto giorno di dormire per tre o quattro ore, finchè abbiano
ricuperata la sanità. Al più al più, quando la vigilia fosse continua,
unger loro le tempie con olio di noce moscata spremuto; ma non dar loro
nè oppiati, nè altri soporiferi per bocca, a riserva della triaca, del
diascordio, dell’orvietano, e d’altre simili composizioni, che sono
bensì alquanto oppiate, ma non in guisa da nuocere per questo, essendo
poi necessarie per altri effetti. L’aceto canforato, lo sbuffar nel
viso alquanto di vin bianco generoso, ed altri rimedi possono giovare
a tenersi svegliato. Dopo il sudore suol cessare la gran voglia di
dormire.

Sono ancora compagni per l’ordinario del morbo pestilenziale una somma
debolezza, un’ansietà di cuore e un vomito o nausea fastidiosissima,
inutile, anzi sommamente nociva, di modo che non si vuol prendere,
nè si può ritenere alcun medicamento. Per provvedere a tutto vengono
sommamente lodate le seguenti composizioni dal Diemerbrochio.


_Rimedi per la debolezza e pel vomito._

℞. _Conserva di rose rosse onc. 1 e mez.; diascordio del Fracastoro
dram. 3 ovvero 4; acqua triacale descritta di sopra in questo libro
onc. 4; sugo di limoni fresco, acqua di cinnamomo, ana onc. 1 e mez.
Mischia, e dopo aver lasciato posare per una o due ore, cola tutto
con pezza bianca. Aggiugni alla colatura confezione di giacinto
senza muschio dram. 1, e mischia. Prendine spesse volte il giorno un
cucchiajo._


_Linimento._

℞. _Olio di noce moscata spremuto, olio di scorpioni del Mattiuolo o
di lauro, triaca, ana dram. 1; olio di ginepro mez. scrup., di succino
scrup. 1, di garofani o di cannella gocce 3. Mischia insieme, e fanne
linimento, col quale tiepido ungi la bocca dello stomaco due o tre
volte il giorno. Dipoi mettivi sopra la seguente_


_Pasta._

℞. _Radici di calamo aromatico, noce moscata, ana dram. 1; garofani,
benzoino, ana mez. dram; foglie di menta dram. 2. Polverizzato il tutto
sottilmente, aggiungi onc. 3 o 4 di mollica di pane, e aceto rosato
quanto basta, e fanne pasta, che stesa sopra una pezza, e scaldata,
applicherai alla regione del ventricolo._

Il Sennerto, citando la sua sperienza, scrive che a comprimere la
voglia del vomitare è rimedio quasi miracoloso il dare una dramma
di sale di assenzio in un cucchiajo di sugo fresco di limoni. Altri
danno del vino bianco con entro polvere di cannella e di noce moscata
caldissimo all’infermo, e il fanno alquanto dormire. Per rimettere
l’appetito del cibo consigliano altri lo spirito dolce di sale e
l’elisire di proprietà. Così vien creduto che conforti assai l’olio di
scorpioni del Mattiuolo o del Granduca, per tacere altri rimedi.

Alla gran siccità della lingua molte abluzioni sono prescritte dai
medici. S’è osservato che la migliore di tutte è l’acqua semplice. Il
mischiarvi aceto fa che dopo essersi sciacquato ritorni la sete e la
siccità più molesta di prima. Non occorre sperar rimedio agli spessi
starnuti, nè al singhiozzo nella peste, perchè questi sono irritazioni
convulsive, e segni allora di morte imminente ed inesorabile; e
poco ci manca a poter dire lo stesso delle orine grosse, oleose e
nericce. Rarissime volte ancora accade che in tempi tali si freni lo
sputo del sangue, o il suo flusso per le parti d’abbasso, cagionato
probabilmente dai sali corrosivi della peste, che aprono le bocche dei
vasi, e sfibrano, e disciolgono il sangue. Alla emorragia bensì delle
narici, quantunque non tanto pericolosa, e ai flussi naturali, ma fuor
di tempo, delle donne, si può talvolta rimediare, ed è necessario
rimediare, per quanto si sa, non essendo questa per l’ordinario in
tempi pestilenziali una salutevol crisi della natura (come alcuni si
sono figurato, e può esser vero in altri morbi acuti) ma un effetto
pernicioso della violenza del male. Tutte le emorragie sono allora
indizio di pericolo, o pure di morte inevitabile. Così scrivono
comunemente i medici, e l’avverte ancora Paolo Barbetta; ma non vo’
lasciar d’avvertire anch’io venire asserito dal medesimo Barbetta che
chi nella peste del suo tempo aveva l’emorragia del naso e il flusso
mestruo, per lo più si salvava. Qualora dunque si scorga nocivo il
flusso del sangue, converrà dar di piglio a rimedi esterni ed interni,
refrigeranti ed astringenti, come insegna la medicina, e non perdere
tempo. In Firenze si trovò molto buono il sugo d’ortica, con cui si
bagnava la fronte e le tempie, turando ancora le narici con due taste
intinte nel medesimo sugo. Altri pigliavano pelo di lepre tirato
finissimo, e il soffiavano nel naso. In quanto alla diarrea, conosciuta
dai più saggi anch’essa per uno dei più perigliosi sintomi della peste,
e massimamente allorch’ella sopravviene a chi è già ferito dalla peste
(essendo all’incontro la stitichezza un indizio lodevole); la ragione e
la sperienza hanno insegnato che s’ha da procurar di fermarla e senza
menoma dilazione, altrimenti il malato sen va. Quando ciò non succeda
nel principio, si rende questo incomodo incurabile. I sudoriferi ed
antidoti astringenti sono quelli che debbono usarsi e che possono
domarlo, scegliendo specialmente i più propri per resistere al veleno e
alla putredine della pestilenza. Il Pareo loda assaissimo la seguente


_Polvere per curare il flusso del ventre._

℞. _Bolo armeno, terra sigillata, pietra ematite, ana dram. 1; pece
navale dram. 1 e mez.; corallo rosso, perle preparate, corno di cervo
bruciato e lavato con acqua di piantaggine, ana scrup. 1 e mez.;
zucchero rosato in tavolette onc. 1. Se ne faccia polvere, di cui si
dia un cucchiajo al malato prima del cibo o con un rosso d’uovo._

Eustachio Rudio per la cura di questo flusso loda molto lo scordio dato
con zucchero rosato o conserva d’acetosa. Più gioverebbe prendendolo
colla suddetta polvere, o pure con un poco di triaca o di diascordio,
ovvero, se la febbre fosse ardentissima, con alquanto di conserva di
rose rosse, o con rob di cornio, o sia corniolo, o di acacia.

Ed ecco ciò che ho creduto di dover notare intorno alla cura e al
Governo Medico del morbo pestilenziale. — Finirò con alcune poche
osservazioni. La prima, e più importante di tutte, si è che in ogni
male, ma specialmente in questo, è pericoloso ogni indugio nel prendere
i medicamenti. Non bisogna perder tempo, nè si vogliono imitare que’
poveri sconsigliati che per paura di perdere il commercio, o di tirarsi
addosso altri danni, occultano il male con sua ed altrui inevitabile
rovina. Allorchè il veleno s’è impossessato degli umori ed ha indotta
la corruzione in essi o nelle viscere, non c’è rimedio che vaglia,
e l’esterminio è certo. Attesta il Rondinelli, che fu spettatore del
contagio in Firenze l’anno 1630, che _coloro i quali presto ricorrevano
ai rimedi per lo più guarivano_; e il Sennerto, ed altri valentuomini
hanno anch’essi troppo spesso osservato in pratica che molti i quali
appena sentendo d’essere feriti dalla peste, ricorrevano ai sudoriferi
ed antidoti, dopo copioso sudore si trovavano sani; siccome per
lo contrario di cento che tardavano molto a curarsi, appena uno ne
campava. Talvolta il veleno pestilenziale preso sarà poco, sarà debole,
si potrà con facilità espugnare da chi non è pigro coi medicamenti,
ma se gli si lascerà prender piede e forza, egli resterà il vincitore
senza difficoltà. E specialmente avverto ciò per le donne, e molto più
per le fanciulle, alle quali venendo buboni ed altri perniciosi effetti
della peste in parti che il pudore tien celate, facilmente nascondono
il male, perendo esse, e facendo perire altri poco appresso. Presto
dunque ai rimedi; che il far presto in casi tali si può chiamare il
_recipe_ principale e il più efficace rimedio.

Appresso, in ogni costituzione di peste hanno immediatamente i medici
da considerare tutti i suoi più ordinarj sintomi, procurando anche,
prima che arrivi il morbo, di risaperlo da chi già ne ha fatto o ne fa
miseramente la prova, per poi stabilire, se fia possibile, la qualità
del suo veleno, e qual metodo sia da tenere per curarlo ed espugnarlo.
Dichiamola però schietta: questo non è che troppo difficile, e
più difficile ancora sarà che felicemente colpisca il bianco in
tali dispute chi non è libero da certi ciechi pregiudizj in favore
dell’antichità, e solo incensa Galeno ed Avicenna, (benchè non mai
letti) e non sa, o non ha mai ben pesato il valore di molte opinioni
moderne. A determinare le qualità precise d’un veleno pestilenziale,
molto più de’ meri empirici, potrà giovare un chimico non visionario
e un acuto e sincero esaminator della natura, perchè meglio intendente
della combinazione, configurazione e risoluzione delle particelle dei
misti, dei sali, ecc. Nulla dirò io delle opinioni dell’Elmonzio,
del Langio e d’altri, se non che sembrano a me molto improbabili.
Altrettanto avrei detto ancora dell’opinione del P. Atanasio Chirchero,
il quale fa consistere le pestilenza in certi vermicciuoli infettanti
e corrompenti il sangue degli uomini, se il chiarissimo nostro signor
Antonio Vallisnieri in una sua lettera al signor Cogrossi intorno al
male contagioso de’ buoi, ultimamente pubblicata in Milano, non avesse
corretto insieme e mostrato possibile, anzi probabile un sì fatto
sistema. Vero è (per tacer altre cose) che presso di me resta incerto,
se, posti anche vermi nel sangue de’ corpi appestati, sieno essi poi
subito da dirsi cagione di quel morbo, e tanto più ove si ammettesse
col Levenocchio che trovinsi vermi anche nel sangue dei sani. Vero è
altresì, non trovar io finora spiegata una cosa, di cui son persuaso,
cioè quel diffondersi dal fiato e dalla traspirazione di tutto un corpo
vivente appestato (e proporzionatamente ancora dei cadaveri), fino ad
una certa distanza, semi di pestilenza per l’aria, i quali possono e
sogliono infettare chi s’avvicina e non va premunito; il che non so
come ben cammini in questo sistema, e perciò figurarmi io tuttavia per
più verisimile che la peste consista in effluvj e spiriti velenosi. Ma
ciò non ostante confesso io pure ingegnosa ed utile, anche per altre
ricerche, l’opinione suddetta; e potrebbe un dì la sperienza recar
lumi tali che maggiormente credibile ce la rendessero. Intanto nel
mio, cioè nell’ordinario sistema, gioverà considerare i veleni come di
due specie, secondochè vien fatto da molti moderni, cioè o dissolventi
o coagulanti, proprio de’ quali si è o lo squagliare e disciogliere
il sangue e gli umori del corpo umano, o pure di coagularli e di
legare gli spiriti necessarj alla vita. Si dovrà dunque osservare
se si potesse ad una di queste due spezie ridurre la pestilenza che
corre, la quale in fine altro non pare che sia, se non un veleno, per
determinare con quali antidoti si debba susseguentemente combattere
in tal congiuntura. A questa diversità è probabile che s’abbia da
riferire il trovarsi alcuni rimedj giovevoli in una peste, e non
giovevoli o nocivi in un’altra. Il Willis, il Langio, il Doleo e il
Rivino tengono che il veleno della peste operi col coagulare. Carlo
della Fonte difende l’opposto, e seco s’accordano il Diemerbrochio, il
Barbetta, il Graff, Luca Tozzi ed altri. Veramente sembra più probabile
che d’ordinario le pesti sieno un veleno dissolvente, perchè non se
ne troverà forse alcuna, in cui i medicamenti acidi non sieno riusciti
un efficace rimedio tanto nella preservazione, quanto nella cura della
medesima, e perchè ordinariamente si osserva divenire il sangue negli
appestati sì fluido e sottile che spesso prorompe fuori del naso e per
bocca e per i canali dell’infimo ventre e talvolta infin per la cute,
di modo che per lo più è difficile, o impossibile il metter freno
all’emorragia. Taccio altre ragioni. Ma perchè io non veggo stabili
alcuni supposti di chi tiene questa sentenza, e discordano fra loro
i medici nel descrivere i sintomi di varie pesti, perciò volentieri
sospendo qui il mio giudizio, e confessando che da una, due o tre
pesti non si dee, nè si può dedurre una regola generale per tutte le
altre, rimetto all’accurata osservazione de’ medici il deliberare su
questo punto, allorchè s’avesse la disavventura di doverne mirare il
terribil aspetto. Noterò solo, pensare il Sydenham che questo veleno
consista in particelle infiammatorie che rompano le fibre del sangue;
e Francesco de le Boe Silvio il fa consistere verisimilmente in un
sale volatile, lisciviale ed agro, il quale penetrando nel sangue il
renda più fluido del solito, sfibrandolo e inducendo la putrefazione
in esso o in altri umori e parti del corpo, dove egli si scarica o
si ferma. E conciossiachè, secondo il suo sistema, da questo maligno
sale vien diminuito o distrutto l’acido che era, ed ha da essere nel
sangue, utilissimo per conseguente, anzi necessario per rimetterlo
si è il ricorso all’aceto, agli agrumi, al vitriuolo ed altri simili
acidi, riuscendo all’incontro nocivi i medicamenti puramente alcalici.
Così l’acquavite semplice o triacale ed altri alcali si sono osservati
pregiudiziali a molti in que’ tempi; il che non suol avvenire degli
acidi, purchè presi colla debita moderazione e senza esorbitanza.
Chi nondimeno abborrisse gli acidi meri in bevanda, non farà male
mischiando con esso loro un poco d’acquavite, o temperando in altra
guisa l’austero o acerbo d’alcuni acetosi, per accidente spiacevoli. In
fine si ricordino bene i saggi medici di ciò che viene avvertito anche
dal suddetto sig. Vallisnieri nel tom. X de’ Giornali d’Italia, cioè
darsi o potersi dare dei veleni pestilenziali che rechino seco tutti e
due i sintomi dello squagliamento e della coagulazione; nel qual caso
poscia s’intenderà il perchè ne’ rimedj antipestilenziali si mescolino
gli acidi e gli alcalici.

Per altro può di leggieri accadere che nè pure a’ valenti medici riesca
di determinare la vera natura e il costitutivo d’una peste, perchè
la sua malignità potrebbe consistere in altre cagioni e maniere a
noi incognite. Nulla però dovrebbe conferir tanto alla conoscenza del
male, quanto il vedere quali rimedj o cose giovino o nuocano allora.
Pazienza, se questa non è forma diritta di filosofare e s’ella è
suggetta a molti inganni. Può essa nondimeno avvicinarsi non poco al
vero. Ordinariamente si medicano, e talvolta bene, tanti altri mali; e
pure la vera loro essenza e cagione è poco nota ai medici. Non voglio
qui lasciar di aggiungere che dai professori della chimica son forte
lodati nella peste i rimedj e le preparazioni antimoniali. E certo
essendoci degli antimoniali che per la lor preparazione son privi
di forza emetica e catartica, e solamente son diaforetici, questi
potrebbono senza gran paura, anzi con isperanza di molto vantaggio,
consigliarsi e accettarsi nella cura delle pestilenze, siccome sono
utili e lodevoli in altri mali. Anche Giovanni Zvelfero avverte che
la maggior parte di quei che infetti di peste usarono al peso d’una
dramma l’antimonio diaforetico, restò guarita, ed egli medesimo si
confessa testimonio di sì felici successi. Molti altri autori citati
da Paolo Boccone gli danno la stessa lode; e Pietro Moratti in una
Relazion della peste del 1630 attesta che in Bologna riuscì molto
utile un estratto d’esso antimonio diaforetico, triaca, zedoaria,
angelica e fiori di solfo, infondendo tutto prima in ispirito di vino
per lo spazio di quattro giorni, poi colando e di nuovo infondendolo,
con farlo finalmente esalare a bagnomaria. Se ne davano dram. 2 al
paziente in acque, o brodi, o siroppi, con che si movevano sudori le
più delle volte puzzolenti e si provocavano le orine. Ma non è da tutti
il preparar così bene l’antimonio ch’esso riesca solamente sudorifero,
e non ritenga, o non ricuperi la forza emetica, o sia vomitoria. E
perciò ripeterò io qui ciò che ha il nostro sig. Zannichelli nella
Dissertazione della Neve di ferro: _Agitur de vita hominum; proinde
satis admirari neque facilitatem, qua medicamenta, præsertim ex
mercurio et antimonio passim conficiuntur: res certe plena periculi,
adeo ut non solum artificibus quibusdam mechanicis, se ipsis etiam
artis professoribus timorem incutere debeat. Caveant qui ista jactitant
absque sufficienti peritia et diligentia; sed multo magis caveant,
qui eisdem fidunt, propriamque vitam hujusmodi farinæ hominibus
committant._ Questi sono sentimenti d’un saggio ed onorato chimico; e
perciò non sarà se non bene per conto di certi antimoniali e d’altri
simili strepitosi rimedj l’assicurarsi prima colle felici prove altrui
dell’innocente e benefica loro natura. Il Willis descrive alcuni
sudoriferi e cordiali, proprj per combattere contra la coagulazione, ed
altri contra la dissoluzione del sangue.

Ma perciocchè, posta o l’una o l’altra natura della peste, non si
saprà combinar seco da alcuni il tanto poi lodarsi l’uso di non pochi
medicamenti, che paiono opposti fra loro, e pure sono stati commendati
da me, io lascerò volentieri sì fatte quistioni e ricerche alla scuola,
e mi contenterò di dire che comunque si senta dalla natura della peste,
resterà sempre certo che gli acidi e il solfo e i sudoriferi sono i
rimedj più potenti e i più approvati della peste, secondo il parere di
tutti i medici e di qualunque pratico di que’ fieri tempi, il che più
di tutto a noi importa di sapere. E però venendo contagi, chi non ha,
nè può aver medici, medicamenti e speziali, vegga di provvedersi almeno
di buon aceto e di solfo, che questo può bastare. L’aceto suol mancare
a pochi e il solfo è facile negli stati del principe nostro ad averlo,
ed ottimo, dalla miniera di Scandiano. Silvio de le Boe tiene che nulla
ci sia di sì vigoroso per mitigare l’acrimonia del sale pestifero e
di fissare la fluibilità del sangue, come il solfo minerale, ch’egli
però desidera prima fissato dall’arte. Per parere di lui il salnitro,
e massimamente lo spirito di nitro, hanno somma virtù per fissare ed
espugnare il sale maligno della pestilenza, dovendosi però questi, come
anche altri acidi, temperare con umore acqueo conveniente, acciocchè
soli non recassero altri mali. Abbiam lodato assaissimo la canfora,
la triaca, il diascordio, l’olio di scorpioni. A questi pochi rimedj
si può ridurre la privata spezieria di chi non ha maggiori comodità.
Dell’erbe e di molte altre cose da noi commendate in questo libro, per
l’ordinario non ci vuol fatica o spesa a trovarne. Coraggio dunque,
che ancora con provvisione di sì poco, e senza fastose e lunghe
ricette, possono le persone condur seco la speranza di preservarsi e
guarire dalla pestilenza col nome del Signore, del cui potentissimo e
necessario aiuto passerò ora a parlare, con esporre da qui innanzi il
Governo ecclesiastico ne’ tempi di contagio.



DEL GOVERNO ECCLESIASTICO DELLA PESTE

LIBRO TERZO.



CAPO I.

  _Necessità di ricorrere a Dio e di placarlo, massimamente in tempo
    di peste. Quali in pericolo di contagio abbiano da essere le
    incumbenze de’ vescovi e degli altri ecclesiastici per tener
    lungi il morbo; e quali i preparamenti prima ch’esso venga._


Spediti dalla cura politica e medica del morbo pestilenziale, passiamo
alla terza, che è la più importante di tutte, cioè alla cura dell’anime
in tempi di peste e a ciò che riguarda Dio; il che vien compreso nel
Governo ecclesiastico. E primieramente chiara cosa è che in forma
distinta convien ricorrere al possente aiuto di Dio, allorchè s’ode
fischiare in qualche vicinanza il terribil flagello della peste. Per
comando o permissione di lui vengono le calamità, ma spezialmente si
conosce che vengono quelle più strepitose che affliggono i popoli
interi, o per castigo de’ peccati o per ispurgo dei malviventi, o
affinchè la gente, che facilmente si addormenta sopra la terra, quasi
incantata da questi pochi beni transitorj, si risvegli, e conosca
che c’è Dio padrone delle robe e delle vite, e a lui si converta.
Perciò la peste vien bizzarramente chiamata da Tertulliano, _Tonsura
lascivientis ac silvescentis generis humani._ Ora se questo gran Dio
vuol punire o purgare la terra secondo i decreti della sua infinita
giustizia e della sua sapientissima provvidenza, chi ci sarà che possa
resistere alla sua volontà? Indarno si oppongono al supremo suo volere
le prevenzioni e diligenze umane; e indarno veglia chi fa la guardia
alla città, se non la custodisce colla sua invisibile parzialità ed
assistenza l’Onnipotente e saggio Regolatore del tutto. Certo non
si vede mai così bene, come sia corta e fallace l’umana prudenza, e
come Dio sappia confondere la sapienza del secolo, quanto nei tempi
di peste. Dopo tutte le cautele e le precauzioni usate, si trova bene
spesso passato il contagio per dove meno s’aspettava, entro un paese
e nelle città. Non bastano le guardie; anzi le guardie son quelle
talvolta che l’introducono. O pure permette il Signore Iddio che i
principi o i maestrati, dimentichi del debito loro, anzi di sè stessi,
o cadano in una supina negligenza, o trascurino allora alcune opportune
diligenze, col non ascoltare o non curare il consiglio de’ migliori,
lasciando con ciò aperta la via al morbo desolatore. All’incontro si
veggono preservati altri paesi, e con diligenze molto minori; essendo
stato anche osservato che mentre la peste facea nell’anno 1630 strage
sì grande nello stato di Milano, l’armata spagnuola che trattenevasi
a Casale di Monferrato, e tuttodì ricevea vettovaglie dai Milanesi,
pure si mantenne sempre intatta ed esente dall’infezion dominante.
Abbiam anche detto altrove che la città di Faenza si preservò nel fiero
contagio dell’anno suddetto, e il fermò a’ suoi confini; e pure si sa
che segretamente ne uscivano e vi tornavano non pochi, a’ quali premeva
più il proprio guadagno col trasporto delle grasce verso Bologna, che
la salute del pubblico suo.

Adunque la più ferma speranza di tener lontana la peste dee riporsi
nella misericordia del nostro Dio; e per rendersi capace di questa,
egli è necessario il fare per tempo un fedele e non finto ricorso a
lui con pubbliche orazioni e con una seria emendazion della vita,
acciocchè liberi il suo popolo dal pericolo che sovrasta. Siccome
abbiamo dal lib. 3, cap. 8 dei Re, e dal lib. 2 dei Paralipom., cap. 6,
la maggior fiducia del popolo Ebreo in tempi di calamità veniva riposta
nell’umiliarsi colle preghiere a Dio; altrettanto e più dovrà fare
e sperare il suo eletto e diletto popolo della legge nuova, per cui
la somma sua clemenza non ha risparmiato il sangue e la vita del suo
Unigenito, e a cui questo medesimo suo benedetto Figliuolo ha promesso
tante cose, e tante volte, nel suo santo infallibile Vangelo. Pertanto
correndo sì gran pericolo, dovrà il vescovo, secondo le istruzioni di
S. Carlo, ordinare processioni per tre giorni, come ancora digiuni ed
altre opere di penitenza e di pietà per placar Dio e implorare la sua
gran benignità, con ordinare ancora una comunion generale in qualche
giorno di festa. Disporrà il giro delle quaranta ore per l’esposizion
del Venerabile, acciocchè in nessun’ora manchino le preghiere e
il culto a chi ha da essere la nostra maggiore speranza. In oltre
prescriverà un giorno o due di digiuno per ogni settimana; e in una
festa determinata darà le ceneri benedette a tutto il popolo, come se
fosse il principio della quaresima. Così fece ancora S. Carlo. Quindi
tanto esso vescovo, quanto i parochi e i predicatori e i direttori e
capi de’ monisteri rivolgeranno lo studio loro a levar via e sradicare
quelle corruttele e que’ peccati pubblici che più irritano lo sdegno di
Dio, come sono gli adulterj, i concubinati, le usure, le ingiustizie,
i contratti illeciti, le oppressioni dei poveri, le usurpazioni della
roba altrui, le nemicizie, l’irriverenza a sacri templi e simili altre
offese del Creatore. Qui più che mai ha da accendersi e da sfavillare
lo zelo de’ ministri di Dio senza però mai dimenticare le leggi e i
consigli della prudenza, fedele compagna d’ogni operazione e virtù.

Oltre a ciò se l’intenderà il vescovo co’ principi e magistrati
secolari per levar via dal paese gli scandali, i pubblici giuochi e
balli, le bestemmie, le ubbriachezze, i banchetti, certe conversazioni
ed altre somiglianti azioni o pubblicamente peccaminose, o almen tali
che da loro non va bene spesso disgiunto il peccato. Medesimamente
esorterà egli co’ suoi editti e per mezzo ancora dei parochi e
predicatori, tutto il popolo alla pace e concordia, a compor le liti,
gli odj e le fazioni, a perdonar le ingiurie, a lasciare il lusso,
a restituire il mal tolto, e, in una parola, a mutare e migliorar la
vita e far penitenza, unico mezzo per mitigar l’ira di Dio ed ottenere
la protezion del suo braccio nelle calamità imminenti. Chiunque ben
rifletterà all’orribilità, alla prontezza, alla crudeltà e desolazion
d’una peste, e al pericolo che sta tutto giorno davanti agli occhi, di
chi la sente vicina o la rimira presente, se non è un pazzo o un empio,
non tarderà punto a convertirsi. Appresso dovrà inculcarsi a tutti il
tenersi ben lungi, massimamente allora, da ogni offesa di Dio, e se
mai cadessero, il confessarne subito e il farne ancora, occorrendo,
un’intera purga con una confession generale, e in somma lo star ben
preparati. Il terribil rendimento de’ conti forse non è lontano, e però
si dee far loro considerare che venendo la peste, essa o non lascia
tempo da confessarsi, o non permette facilmente comodità di confessori
e di altri aiuti spirituali. Del pari s’avrà da persuadere la frequente
comunione, almeno una volta per settimana, e l’impiegarsi allora più
che mai in orazioni, digiuni, limosine ed altre opere di pietà e di
carità. E perciocchè niuno potrebbe promettersi nel fiero scompiglio
d’una pestilenza tempo ed agio di ben disporre gli affari suoi e
della sua famiglia, convien ricordarsi e far ricordare agli altri che
dichiarino i lor debiti e crediti, che facciano testamento, se ne han
bisogno, che paghino, per quanto sia in loro potere, i debiti contratti
senza lasciarne la cura agli eredi. Può essere vicina la partenza: chi
ha tempo, non aspetti tempo.

In questo mentre non si dovrà ommettere alcuna delle diligenze
pubbliche e private che si credono proprie per tener lontano il
contagio. Non è questo un temerario opporsi alle risoluzioni divine.
Sarebbe anzi una temerità e un tentare Iddio il tralasciar simili
diligenze; imperocchè quantunque non in esse, ma nella clemenza e
nell’aiuto dell’Altissimo, s’abbia a confidare, tuttavia essendo
solito il Signor Iddio di operare i suoi voleri per mezzo delle
seconde cagioni e giusta le leggi ordinarie della natura, sarebbe un
obbligarlo a fare un miracolo, anzi infiniti miracoli, quell’esigere
ch’egli allora preservasse chi senza necessità non volesse guardarsi
dal commercio delle persone e robe appestate o sospette. Il perchè,
qualora occorresse, contribuirà anche il vescovo co’ suoi editti alla
difesa della pubblica salute, ordinando quelle cose che inviolabilmente
si debbono osservare dai sudditi suoi ecclesiastici e ne’ luoghi
ecclesiastici, e accordandosi col maestrato secolare, nel promuovere
il bene della repubblica, con dar anche facilità ai vicarj foranei e ai
parochi di ordinar lo stesso secondo i bisogni. Può essere che ciò non
sia necessario; ma certo sarà ben poi indispensabil cura de’ parochi,
predicatori, confessori, ecc., l’istruire il popolo che tutti sono
obbligati in coscienza ad ubbidire ed osservare esattamente in casi di
sì terribil conseguenza gli editti e le regole de’ principi e maestrati
secolari, sì per non coprire il suo o l’altrui male, come ancora per
non maneggiare, vendere o trasportar robe infette conosciute tali. Per
parere di tutti i teologi, anzi per dettame della stessa natura e della
retta ragione, non può alcuno senza peccato gravissimo tirar addosso a
sè stesso colla trasgression delle leggi un malore cotanto micidiale,
nè introdurlo in paese sano, nè comunicarlo a chi ne è libero. Davanti
a Dio e davanti agli uomini sarà sempre reo d’una gran colpa e degno
di gravissime pene chi non volendo eseguire le provvisioni e leggi dei
principi (le quali certo è che in questi casi obbligano sotto pena
di peccato mortale, e ciò quando anche l’ubbidienza dovesse costare
un danno grave di roba) cooperasse all’esterminio suo e del prossimo
e della patria sua. In Roma nella peste del 1656 erano non men dei
secolari sottoposti gli ecclesiastici di qualsivoglia fatta ai gastighi
temporali intimati contra simili trasgressori. Così è stato fatto e
dee farsi in altre simili congiunture. Questa legge vien dalla natura;
e oltre a ciò non lasciando gli ecclesiastici d’essere parte della
repubblica, son perciò tenuti anch’essi, almeno al pari degli altri,
se non anche più di molti altri, alla conservazione, quiete e felicità
d’essa, e a preservarla, per quanto possono, dalla rovina.

I maestrati secolari, non già per titolo di giurisdizione, ma per
titolo di natural difesa possono impedir l’ingresso o prescrivere
sequestri alle persone ecclesiastiche sospette di pestilenza,
acciocchè non infettino i sani, siccome ancora opporsi, affinchè nè
pur gli ecclesiastici morti di peste vengano seppelliti in chiesa.
Nulladimeno affinchè i vescovi conservino quelle prerogative che
hanno debbono in tempo di peste delegare la loro autorità sopra gli
ecclesiastici al magistrato secolare, per tutto quello che possa
bisognare a tener lontano il contagio e a mantenere la sanità, l’annona
e l’altre leggi stabilite allora pel pubblico bene. O pure hanno
essi da unire un loro deputato ecclesiastico per assessore ad esso
maestrato secolare, dandogli facoltà di esercitare la giurisdizione
sopra i chierici sì coattiva, come punitiva, riservando a sè la
sola pena della morte. Tanto si ha dal Diana. Ricorderò anch’io qui
ciò che prima di me consigliò il P. Filiberto Marchino ch. reg.
barnabita nel suo utilissimo libro intitolato, _Bellum divinum,_
cioè che il vescovo _pestis tempore de ecclesiastica jurisdictione
admodum ne sit sollicitus, nam inde scandala multa orientur; caveat ab
excommunicatione; comiter et suaviter facultatem suam aliis deleget;
ipseque ad spiritualem curam animarum studium omne convertat. Tunc non
est de jurisdictione altercandum._ Finalmente sarà cura del prelato
e de’ ministri di Dio il raccomandare che il popolo sia divoto verso
Dio, e nello stesso tempo sia rassegnato e ubbidiente ai maestrati.
Che non fugga l’andare ai posti, alle porte e agli uffizi destinati.
Che accuratamente assista, acciocchè nulla entri o passi che non sia
ben riveduto o purgato dal suddetto anche menomo d’infezione. Che
niuno tradisca la fede che si ha in lui con parzialità, negligenza o
interesse. Non si creda di farsi poco merito presso chi ha da giudicare
i vivi e i morti quel cittadino che s’applichi a servire con tutta
fedeltà ed attenzione in sì gran pericolo alla patria sua. Purchè
intenda di servire a Dio, nel servire al prossimo suo, questo sarà un
atto di nobilissima carità, talvolta più meritevole di mercede in cielo
che non sono moltissimi altri atti di divozione.

Prima poi che s’interrompa affatto il commercio, e allorchè s’avrà
giusto sospetto di dover soggiacere al flagello che gira nelle
vicinanze, cerchi il vescovo dal sommo pontefice facoltà di dispensare
indulgenza plenaria agli appestati che si confesseranno o mostreranno
segni degni di contrizione. Come ancora altre indulgenze per chi
ogni giorno reciterà le orazioni o farà altre azioni pie che saranno
prescritte dal vescovo stesso. E a fine di maggiormente accendere le
persone all’esercizio della carità cristiana, cotanto necessaria e
meritoria in que’ tempi, chiederà delle altre indulgenze per i parochi
ed altri ecclesiastici sì secolari, come regolari che assisteranno
agli appestati. Altre ne dimanderà per i medici e chirurghi, per
le nutrici e levatrici, per gli altri ministri nobili o ignobili,
facchini e beccamorti, sì dei lazzeretti, come fuori dei lazzeretti
che piamente attenderanno alla cura e al governo del popolo infetto.
Altre per chi farà limosine o con altre azioni caritative soccorrerà
allora agl’infermi ed anche i sani bisognosi. In oltre chiederà facoltà
di assolvere di qualunque censura e caso riservato al papa nella bolla
_in cœna Domini_ e in tutte l’altre bolle, specificando per maggior
sicurezza il delitto dell’eresia, e di poter delegare ad altri tal
facoltà e di poter liberare i sacerdoti da alcune irregolarità incorse,
ancorchè per morte involontariamente accaduta e di assolvere dalle
censure suddette anche nel fôro esterno. Non intendo io qui di derogare
alla facoltà oggidì disputata d’assolvere da tutte le irregolarità e
sospensioni, nate da delitto occulto, fuorchè dall’omicidio volontario
e da tutti i casi occulti riservati alla S. Sede, che nel concilio
di Trento sess. 24, cap. 6, fu conceduta o conservata ai vescovi
e anche di delegarla ad altri. Chieda ancora per chi farà opere di
carità la licenza di eleggersi un confessore, benchè regolare, il
quale assolva da ogni caso e censura riservata. Di più procurerà
l’autorità di permutare l’uno d’alcuni legati pii in sollievo de’
poveri, potendo ciò essere necessario o utilissimo in quelle misere
contingenze e gratissimo a Dio, che che potesse parere ad alcuni, i
quali talvolta non sanno assai bene estimare le intenzioni pie dei
testatori e i privilegi della carità e necessità. Chieda eziandio di
poter adoperare, anche senza la permissione de’ loro superiori, que’
religiosi che volessero santamente dedicarsi al servigio de’ lazzeretti
e degli appestati; siccome ancora di poter costringere le persone
religiose ed altri ecclesiastici, o luoghi, esenti dalla giurisdizione
episcopale, a far ciò che richiederà la pubblica utilità durante il
tempo della peste. Di tutto poi si varrà il vescovo, caso che ne venga
il bisogno, secondo la sua prudenza. Finalmente egli è da sperare che
se si avvicinassero le minacce d’una pestilenza, si moverà di buon’ora
il piissimo zelo de’ sommi pontefici a concedere un Giubileo che potrà
essere efficacissimo mezzo a placare lo sdegno divino o ad incitar
maggiormente i popoli al timore di Dio, alla divozione e alle opere
sante.



CAPO II.

  _Quanto sia necessario il coraggio ne’ tempi della pestilenza_.
    _Fede e speranza, virtù divine e fonti d’intrepidezza e di
    giubilo. Bontà e misericordia di Dio ricordate ai peccatori.
    Rassegnazione a Dio, e darsi tutti a lui._


Allorchè la peste entra in qualche città per la prima volta e già
si scorge cominciare, vittoriosa d’ogni ostacolo, a mieter le vite
del popolo, pochi son quelli che spettatori di sì orribile, non mai
veduto e tanto pericoloso spettacolo, non s’empiano di terrore,
di costernazione ed anche di viltà. E benchè non pochi ripiglino
animo coll’andar più innanzi, simili a certi soldati, timorosi nella
prima battaglia, ma che poi vanno a poco a poco formando il coraggio
nell’avvezzarsi al fuoco; pure più son quelli che durante il contagio
pusillanimi sempre, sempre conservano il primiero orrore, temendo di
tutto, e da per tutto mirando dipinta nelle morti altrui la propria
morte. Ma se c’è tempo in cui sia necessaria la costanza dell’animo,
l’intrepidezza e il coraggio, quel della peste è sicuramente, e
più degli altri, tale. L’ho detto e il torno a ripetere: secondo la
conclusione di tutti i più saggi medici e di qualunque pratico di
sì funeste occasioni, uno dei gran preservativi della peste si è il
non aver paura della peste. Il coraggio, l’allegria, la tranquillità
dell’anima tenendo in un sano equilibrio e senza alterazione, gli
spiriti ed umori del corpo, tengono serrato in qualche guisa il passo
anche al veleno esterno della pestilenza. Non s’hanno a trascurare gli
altri mezzi e i rimedj per preservarsi; ma questo ha da essere uno
dei primi. L’apprensione, il terrore e la malinconia sono anch’essi
una peste ne’ tempi di peste, disordinando la fantasia e disponendo
la massa degli umori a facilmente ricevere e in certa guisa chiamar da
lontano il veleno regnante, siccome con infiniti casi ha fatto vedere
la sperienza. Necessarïssima dunque si è allora la fortezza e costanza
dell’animo per benefizio di cadauno in particolare; ma spezialmente ve
n’è estrema necessità, per benefizio del pubblico, nei maestrati, nei
sacerdoti e in qualunque altra persona, a cui sia appoggiato il governo
o spirituale o temporale del popolo in mezzo a sì fiera calamità.
Se questi son dominati dalla paura, se questi fuggono, lasciando di
regolare e di soccorrere con opportune provvisioni e colla lor presenza
il povero popolo, immenso è il disordine, somma la disperazione,
infinita la strage. Ma se questi, fortificato il lor cuore da un nobile
e savio coraggio, accenderanno in esso anche il fuoco della carità,
viscere d’amore paterno e cristiano, e nulla ommettendo per salute
della lor patria, non si può dire quanti metteranno in salvo, loro
mercè, la vita dell’anima, e quanti ancora quella del corpo.

Abbiamo altrove accennato alcune ragioni umane da far coraggio ne’
contagi; abbiam di più riferito que’ preservativi che giustamente
accrescono la speranza di esentarsi dal morbo in mezzo al morbo. Ora
aggiungiamo che nulla più può inspirare e rassodare negli uomini la
tranquillità e fortezza, quanto le massime della legge cristiana, cioè
la scuola del santo Vangelo. Allora dunque convien mettersi davanti
agli occhi la brevità e miseria di questa vita, la speranza della beata
eternità e la sommessione che dobbiam tutti al sommo nostro padrone
Iddio. Brevi sono i giorni dell’uomo: chi nol vede? e volere o non
volere, tutti andiamo a gran passi verso il nostro fine. Quand’anche
menassimo sino all’estrema vecchiaia i nostri giorni, pochissimo
sarebbe ancora questo tempo. Ora speriamo noi forse la nostra felicità
da pochi momenti di vita temporale? Troppo è caduca, troppo incerta,
piena troppo d’angustie e d’afflizioni si è questa misera terra; ognuno
il sa per prova. Il nostro Dio anche per questo ordinò che i mali
abitassero nel mondo, acciocchè ci andassimo ricordando che questa
non è la patria nostra, ma un esilio, ed esilio penoso, e qui non
abbiamo una città, in cui si possa fare lunga permanenza, ma cercarne
noi un’altra che ha da venire. Animo dunque: se si avrà a sloggiare,
facciamolo con franchezza, perchè già si ha a fare o presto o tardi,
e sempre si farà da un paese di miserie. Il rattristarsi, il darsi in
preda all’apprensione, al dolore sarebbe un dolore e un male di più,
e non già una via di fuggire la morte. Facciamo intrepidamente di
necessità virtù, e senza fermare il pensiero in que’ pochi beni, o veri
o apparenti, che ci dà questa vita terrena, pensiam più tosto a quei
tanti veri mali, onde essa abbonda, avendone noi provato in sì gran
copia finora o nell’animo o nel corpo nostro; e perciò prepariamci,
se così sarà volere dell’Altissimo, ad uscirne fuori con coraggio, con
rassegnazione e con giubilo.

E giubilo appunto proveremo, se ravvivando in noi la virtù della
fede per credere fermissimamente il regno dell’eternità e le sublimi
promesse lasciate a noi dal veracissimo e onnipotentissimo Dio, si
ecciterà in nostro cuore la speranza di que’ sommi ed infiniti beni
che non avranno mai fine. Speranza dolcissima, speranza confortatrice,
alla cui voce si rallegra tutto l’interno de’ veri fedeli, e il timore
di più non dover vivere si cangia in un vivo desiderio o almeno in
un saggio sprezzo di morire quaggiù per avere a regnare eternamente
con Dio. Ma perchè si oppone per lo più a così nobile speranza la
memoria de’ molti e moltissimi peccati nostri, dobbiamo allora di
nuovo rivolgerci a Dio con un forte e vero pentimento delle colpe
nostre, considerando più che mai, quanto grande, quanto costante sia
la sua divina misericordia. Non c’è alcuna sua dote, di cui ci abbia
egli dato più spesso, nè più ampiamente, idea e sicurezza, quanto
della sua immensa bontà e clemenza. Egli la replica, e tante volte
la replica nelle sacre carte, quasi questo buon Dio temesse che ce ne
dimenticassimo qualche volta o che ne avessimo da dubitare un giorno.
Egli sempre fa e sempre si ricorda che noi siam polvere, che noi siam
facili a cadere, e purchè ci vegga pentiti di cuore delle offese a lui
fatte e veracemente determinati a servirlo e a non offenderlo, ci corre
questo buon Padre incontro, ci cade sul collo con tenerezza inudita e
mette tutta in festa la sua real corte per la gioia d’aver ricuperato i
figliuoli che s’erano perduti. Adunque possiamo sperar tutto del nostro
benignissimo Dio, purchè ci presentiamo a lui con vero abborrimento
al peccato, e con filiale amore verso di lui che è il Dio della
misericordia. Ma che dissi possiamo? Anzi dobbiamo sperar tutto di
lui, perchè egli stesso ci comanda che speriamo, e c’inculca nelle sue
divine Scritture la celeste virtù della speranza; nè si dee mai partire
dal nostro cuore e dalla nostra bocca quella tanto vera e tanto dolce
sentenza: _Chi spera in lui non sarà confuso in eterno._

Finalmente si dee allora di continuo considerare l’obbligazione che
tutti abbiamo di fare la volontà di Dio. Siamo sue creature, suoi
servi, suoi figliuoli: adunque se il Creatore, se il Padrone, se il
Padre ci chiamerà a sè, dobbiamo ubbidirgli con tutta sommessione
e rassegnazione, e di buona voglia. Diciamo tuttodì nell’orazione
insegnataci dal suo divin Figliuolo che _venga il regno suo, che sia
fatta la volontà sua._ Non la vorremo noi fare allora? o pur la faremo
con ripugnanza ribelle e con un timore e dispetto a lui ingiurioso?
Ad ogni modo si ha da eseguire il volere santissimo di Dio: sarà una
deforme debolezza e una spezie di stoltizia il non far volentieri ciò
che per necessità si ha da fare. È amara la morte a quei soli che
han riposta ogni lor felicità in questa per altro fallace e misera
vita terrena, e non amano di sottomettere la propria volontà a quella
dell’amantissimo nostro padre Iddio. Tolga egli per la sua infinita
clemenza e colla sua potentissima grazia che noi siam di questi.
Se ci rifletteremo bene e non saremo accecati dalla passione, ci
apparirà chiaro che se mancheremo di vita in un contagio, mancheremo
in un tempo in cui più che in altri è facile alle anime cristiane il
passare da questa valle di miserie e di peccati, al beatissimo regno
del nostro gran Dio e Salvatore Gesù. In altri tempi suole arrivarci
addosso la morte all’improvviso, con trovarci mal preparati al viaggio
dell’eternità; ovvero, assalendoci le febbri ed altri mali, non ci
lasciano l’uso della ragione e dei sensi per poter saldare i conti
con Dio e col mondo, prima di metterci in cammino. Ma infierendo la
pestilenza, l’aspetto ed esempio altrui grida a gran voce che la morte
viene, e che ci convertiamo a Dio, potendosi perciò colla mente sana
disporre ciascuno ad agevolmente conseguire la gloria che ci aspetta
nell’altra vita. Oltre di che, la peste è un gran campo da esercitar le
virtù, e a darsi un ampio capitale di merito appresso il Padron della
morte e della vita. Lo stesso sofferir la morte di buon grado, con
intenzione d’ubbidire allora a Dio, sarà di un merito immenso presso
Dio. _Questa peste_, così diceva S. Cipriano di quella de’ suoi giorni
nel sermone della mortalità, _questo morbo che si mostra sì spaventoso
e mortifero, va investigando chi sia o non sia dabbene, ed esamina le
menti del genere umano; se i sani servano agl’infermi; se i parenti con
carità si amino insieme; se i padroni abbiano compassione de’ servitori
che languiscono; se i medici non abbandonino gl’infermi; se i crudeli
raffrenino la loro violenza; se i rapaci, almeno per paura della morte,
estinguano il continuo ed insaziabile ardore della furiosa avarizia; se
i superbi pieghino il collo; se gli scellerati depongano l’audacia; se
i ricchi, almeno dappoichè muoiono i lor cari e restano senza eredi, e
sono anch’essi vicini alla morte, donino alcuna cosa. Queste non sono
per noi disgrazie funeste, ma esercizi che porgono all’animo la gloria
della fortezza, e col dispregio della morte ci preparano alla corona._

Adunque il miglior partito in sì fatti tempi sarà il prepararsi, come
se si avesse infallibilmente a morire, e poi gittarsi tutto in braccio
alla Provvidenza divina; e, ciò fatto, attendere coraggiosamente a’
suoi affari, senza però trascurar le diligenze e cautele umane. Quindi
verrà confidenza ed allegria, quindi coraggio e costanza di cuore. Se
così piacerà a Dio, resteremo qui suoi; se no moriremo parimente suoi,
e con isperanza anche più grande che in altri tempi di passar tosto
o in breve all’immortalità beata. Eroico poi e degno d’invidia sarà
il coraggio di chi allora si sacrificherà tutto agli esercizj della
carità cristiana nella cura e nel soccorso del povero popolo. Ma di
questo a suo luogo. Chiudiamo il presente argomento con un ricordo
a coloro che non solamente ripongono allora tutta la speranza di
schivar l’infezione nelle sole diligenze umane, senza curar molto la
grazia e la protezione di Dio, ma ancora cercano più che mai lo sfogo
dei loro appetiti, nulla movendosi ad una delle maggiori prediche
che loro si possano fare nel mondo, cioè al terribilissimo aspetto
d’una peste. Sappiano essi avere eglino allora da temer più degli
altri che il potente braccio di quello stesso Dio gli arrivi. Non
mancheranno mezzi allo sdegno divino di deludere i loro aerei scampi
e consigli, e di colpirli quando meno sel penseranno. Durante la peste
di Milano del 1586, siccome narra il Giussano nella vita di S. Carlo,
s’erano ritirati alcuni nobili cittadini in un castello, per fuggire
il pericolo del contagio, e dandosi eglino falsamente a credere che
ottimo rimedio, per non prendere il mal della peste, fosse lo stare in
qualunque maniera allegri e il darsi di buon tempo, concertarono certi
trattenimenti profani ad imitazion del Boccaccio, formando una raunanza
con titolo di _Accademia d’amore_; ed ivi consumando tutto il giorno in
giuochi, novelle e trastulli, quasi affatto se ne stavano dimentichi di
Dio e della loro eterna salute. Ma mentre in questi spassi e diletti
pensavano d’essere sicuri da ogni pericolo di male per le diligenze
che usavano in guardare quel castello, ecco che tutto in un tratto si
scoprì loro addosso lo sdegno di Dio, entrando colà la pestilenza e
facendovi più strage che altrove. Un’allegria, ma cristiana, ma santa,
cioè fondata sopra una coraggiosa rassegnazione a Dio e sopra un vero
desiderio di piacere in tutto a lui, e nutrita dall’orazione e da altri
onesti esercizi, con pregar anche l’Altissimo che ci mantenga liberi
dall’apprensione e dal timore dei mali temporali e senza voler punto
scrutiniare i suoi profondi giudizj; quella sarà la vera allegria che
dee accompagnarsi con esso noi, e che principalmente contribuirà a
tenerci lontana la peste, ministra fedele dell’ira e provvidenza di
Dio.



CAPO III.

  _Uffizio de’ vescovi venuto il contagio. Provvisione di ministri
    e d’altri soccorsi temporali e spirituali. Lazzeretto per gli
    ecclesiastici. Consolare e animare il popolo colla presenza e con
    altri aiuti. Varie licenze da concedersi dal prelato. Messe ove
    da dirsi. Prediche e processioni come da farsi. Quali regole in
    tempo di generale quarantena._


Felici que’ popoli a’ quali il cielo comparte e principi, e maestrati,
e vescovi pieni in tutti i tempi d’amore paterno verso i sudditi, e
di nobilissimo zelo pel pubblico bene. Ma non mai si prova cotanto
che bel regalo del cielo sia questo come nella disgrazia d’una peste.
Sogliono allora i buoni pastori ecclesiastici fare un’offerta a Dio
di tutti sè stessi, promovendo poscia con vigilanza continua non meno
la felicità spirituale, che la politica delle loro pecorelle, con
aiutare il governo secolare a difenderle, per quanto mai si può, dalla
peste insieme e dalla fame, e con accudire a far curare gl’infermi,
e a consolare e rincorare il popolo afflitto. Sarà pertanto cura del
prelato, entrata che sia la peste, l’assistere ai maestrati, acciocchè
senza dilazione sieno messi in ordine, o fondati, se la possibilità
il permette, lazzeretti ben capaci per gl’infetti e sospetti, e
affinchè vengano essi ben provveduti di medici, cerusici, medicamenti,
serventi, balie, levatrici, capre, beccamorti, ed altri ministri, colla
distinzione degli uomini dalle donne, anzi con procurare eziandio,
se si potrà, che le maritate stieno segregate dalle fanciulle, il che
per vari riguardi vien consigliato dai saggi; e che non si permettano
visite, passaggi e colloqui sotto pretesto alcuno di parentela,
amicizia, o d’altro. Veglierà il vescovo, acciocchè ivi non abbia luogo
alcun altro scandalo, ma vi si eserciti la carità con esattezza, e
vi si promuova la pazienza e la divozione. Metterà ogni applicazione
per adunar sacerdoti, confessori, visitatori, ed altre persone tanto
ecclesiastiche quanto secolari, che assistano ai lazzeretti, ai
monasteri delle monache, e alla cura d’alcuni degl’infetti, ed altri
dei sani, e specialmente in sussidio dei parochi, pensando a tutto
quello che possa occorrere per l’amministrazione de’ sacramenti. A
questo fine sul principio convocherà gli ecclesiastici della città
e i capi degli ordini religiosi, e insinuerà, o farà loro insinuare,
quello essere il tempo da far conoscere a Dio e al mondo lo spirito
della loro pietà, carità e santa vocazione, coll’impiegarsi in servigio
specialmente spirituale del prossimo e de’ loro fratelli in Cristo. E
qui proseguirà adducendo i motivi più forti per esortarli ed animarli
a non mancare d’aiuto in sì estremo bisogno al popolo di Dio, ciascuno
secondo le sue forze, abilità ed inclinazioni, per farsi del merito
in cielo, e beneficare la patria. Per mezzo ancora de’ parochi, o de’
predicatori, o di qualche editto, o in altra guisa che si trovi più
praticabile, farà esporre questo medesimo invito ai secolari maschi
e femmine. Tutti quegli, sì laici, come ecclesiastici, che accesi del
fuoco dell’amore di Dio si offeriranno al servigio o dei lazzeretti, o
degl’infermi, o per altri ministerj caritativi, col nome di _oblati_,
si daranno in nota al vescovo, che ne terrà buon conto per distribuirli
a suo tempo, e secondo il bisogno, ne’ vari impieghi della carità
cristiana, avvertendoli poi di non ricevere cosa alcuna dalla gente
infetta o sospetta, affinchè non pregiudichino al proprio corpo, e
all’anima ancora, coll’esporsi all’evidente pericolo di contrarre
l’infezione anch’essi.

Fu praticato in Milano (e sarebbe desiderabile che potessero far lo
stesso altre città) di non mandare gli ecclesiastici al lazzeretto
comune degl’infetti; ma erettone un altro a posta per i medesimi, si
liberò il pubblico da questa cura, e si provvide con più comodità e
decenza al bisogno dei ministri di Dio, con obbligare l’università
degli ecclesiastici medesimi a somministrare quanto occorreva. In
questo luogo verranno ricoverati gl’infermi dell’uno e dell’altro
clero, con questa differenza nondimeno, cioè che per carità e senza
spesa alcuna saranno ivi accolti e mantenuti quegli ecclesiastici
tanto secolari quanto regolari che avessero preso il male nell’attuale
servigio dei lazzeretti o degl’infermi, o pure per la loro povertà non
potessero spendere; resteranno obbligati a pagare gli altri che non
faticano e possono pagare.

Quindi rivolga il prelato il suo studio a levare dagli animi del popolo
la costernazione e la stupidezza, che spesso allora assalisce quasi
tutti, ed impedisce non solamente l’esercizio de’ vari uffizi, ma
eziandio la buona cura di sè stesso, non che degli altri. Anch’egli
esorterà ciascuno alla costanza e al coraggio, dandone prima, per
quanto potrà, egli medesimo esempio a tutti. A ciò contribuirebbe
assaissimo s’egli potesse di quando in quando lasciarsi vedere per
le contrade e piazze della città a cavallo, come hanno costumato in
simili occasioni i cardinali S. Carlo e Federigo Borromei, arcivescovi
di Milano d’immortale memoria, Gianfrancesco di Sales vescovo di
Ginevra, successore e fratello degnissimo di S. Francesco, e tanti
altri cardinali, vescovi e principi. Non si può dire che consolazione e
che gioia inspiri ne’ cuori o mesti o abbattuti della gente, il poter
mirare allora dalle porte o dalle finestre, o pure a cielo aperto il
volto del loro sacro pastore, o di chi li governa. Quell’osservare
che personaggi tanto loro superiori non paventano la peste, è una
grande scuola di non paventare anche agli altri; e quel chiarirsi
che i governatori dati loro da Dio si prendono in persona tanta cura
d’essi, e si sforzano di rimediare alle loro miserie e pericoli,
accresce a tutti il conforto e il coraggio per non disperar da lì
innanzi, e per sopportare con più tolleranza gli incomodi di quella
misera congiuntura. Utilissimo pertanto al popolo e glorioso ai vescovi
e ad altri superiori sarebbe allora il portarsi sino alle porte dei
lazzeretti e il passeggiar talvolta per le contrade, informandosi
eglino stessi dello stato degli infermi e di qualunque altro bisognoso,
con ascoltarli o dalle finestre o in una convenevole lontananza,
tenendo poi registro di tutto per soccorrere, come si potrà il meglio,
alle necessità di cadauno. A questo atto d’eroica fortezza e d’insigne
carità cristiana, certo è che terranno dietro le benedizioni non
meno di tutto il popolo, che di Dio. Qualora non sia loro possibile
il farlo, almeno mandino i loro primari ministri o altre accreditate
persone, che in loro nome s’informino, e confortino, e rincorino chi ne
ha bisogno, soccorrendo poi con gli effetti alle indigenze altrui.

Parimente dovrà il vescovo concedere a tutti i confessori da sè
approvati, e specialmente ai parochi, e in caso di necessità anche ai
sacerdoti semplici (che si riputeranno approvati senza esame in caso
di necessità) la facoltà di assolvere non solamente gli appestati, ma
eziandio tutto il resto del popolo dai casi e dalle censure riservate
a loro, ed anche riservate al sommo pontefice, avendone prima ottenuta
la licenza dalla S. Sede. E perciocchè può accadere che in que’ sì
sconcertati tempi non possano i parochi, confessori e vicari foranei
facilmente ricorrere al prelato, concederà loro in tal caso le più
ampie facoltà, come sarebbe di potere, occorrendo il bisogno, ascoltare
le confessioni senza tutti i sacri riti esteriori che si usano in altri
tempi, purchè il facciano con pia decenza; e di sottoporre le parti
delle parrocchie di villa alle più comode ed intatte, qualora per i
passi levati non potessero accorrere alla propria parrocchiale, o l’una
parte fosse infetta e l’altra illesa; e di ommettere le denunzie per
contrarre matrimonio fra persone che in pericolo di morte volessero
appagar la loro coscienza e legittimare la prole. Darà ancora licenza
di poter celebrare messa in ogni chiesa, ed anche con altare di legno
fuori di chiesa, o nelle piazze e vie; e di poter soddisfare in essi
altari all’obbligazione di celebrare in altri; e di poter costituire
ed approvare confessori secondo il bisogno. Il Diana mette in dubbio
se il vescovo possa anche dar licenza di celebrare il santo sacrifizio
nelle case private. Dicono di sì il Marchino e il Pasqualigo; e alla
loro sentenza si può saggiamente aderire. Imperocchè non essendoci
più salutevol mezzo umano per isfuggire o non comunicare ad altrui la
peste, quanto lo star ritirato e consolato, non pare conveniente il
costringere le persone, e massimamente le nobili, ad uscir di casa, e
a portarsi con tanto loro ed altrui pericolo alle chiese o ai pubblici
luoghi per ascoltare la messa, quando si possa in altra più comoda
e sicura forma soddisfare alla loro divozione e pietà. Cessano qui i
motivi per cui non si concede tal grazia in altri tempi; e vi entra
il motivo di concederla pel pubblico e privato bene; anzi vi ha luogo
il riflesso della necessità, che, considerato dalla Chiesa, fa in
altri tempi accordare la licenza medesima. E quantunque non vi sia,
rigorosamente parlando, questa necessità, perchè allora non corre il
precetto di uscire di casa per portarsi ad udite la messa, tuttavia si
può chiamare in certa guisa necessario il consolare; per quanto si può,
la gente ivi ristretta, alla quale è fuor di dubbio che riesce allora
di una somma consolazione il poter assistere al divino sacrifizio
senza pericolo alcuno. E giacchè ai pastori ordinari non è vietato da
alcuna precisa legge il dare questa facoltà nei pericolosissimi casi
della peste, e la Chiesa tacitamente concede ai vescovi il provvedere
e dispensare in casi tali secondo il bisogno e l’utilità della loro
greggia, perciò è da preferire la sentenza dei teologi suddetti. Lo
stesso credo io che si possa tenere intorno al dar licenza di mangiar
carne per alcuni giorni di quaresima, cioè tre o quattro per settimana,
con ritener però l’obbligo del digiuno. Alcuni teologi l’insegnano.
Sarà eziandio cura dei vescovi il proibire anch’eglino allora, caso che
i magistrati ne facessero istanza, la pompa e ogni altra formalità di
funerali; e l’ordinare che niuno sia seppellito entro le chiese e ne’
cimiteri soliti, quantunque nè pur fosse stata la sua morte di peste,
a fine d’evitare ogni pericolo ed inganno, potendosi solo esentare
da tal divieto qualche persona di molta distinzione con permetterle
sepolcro solitario e in casse impiombate. Ordineranno ancora i vescovi
che la notte di Natale si canti la messa, ma a porte chiuse, e senza
ammettervi il popolo, con proibir parimente certi presepi o sepolcri,
ai quali si potesse fare un imprudente concorso di gente. Ho udito dire
che nella peste di Genova del 1656 l’essere corso il popolo ad un luogo
da dove si facevano sperar miracoli per preservarsi dal morbo, costò la
vita a molte migliaia di persone, che s’infettarono in pochi giorni.

Di troppa importanza si è il non permettere allora le grandi raunanze
in luogo alcuno, e per conseguente si dovrà andare con gran riguardo a
permetterle anche nelle stesse chiese, perciocchè sarebbe facilissimo
l’attaccare l’uno all’altro il contagio. Non si dee tentar Dio che
faccia dei miracoli per preservarci ne’ luoghi sacri dagli effetti
naturali di quel morbo. Il perchè è stato in uso in altre pesti, e
viene ancora approvato dal consiglio de’ teologi, il dirizzare altari
nelle piazze e in capo alle contrade, e far ivi celebrare la santa
messa, acciocchè le genti preventivamente avvisate dal suono delle
campane, e a certe ore determinate, possano assistervi, o stando alle
finestre e porte, o pure all’aperto, ma colla dovuta distanza fra loro.
Regolerà il prelato questa faccenda, e concederà le facoltà necessarie.
L’arcivescovo di Firenze nella peste del 1630 proibì il suonar campane
o campanelli per invitar gente all’accompagnamento del sacro Viatico,
essendosi provato molto nocivo un tale concorso. Così nella peste che
afflisse la città di Palermo negli anni 1624, 1625 e 1626 si lasciò
di mettere l’acqua santa nelle chiese, perchè si riconobbe pigliarsi
facilmente per mezzo d’essa il morbo. Altrettanto gioverà fare in
simili congiunture. Il levare poi affatto le prediche in tempi tali
non sembra conveniente, siccome soccorso che allora è più che mai
utile o necessario al popolo per far coraggio e concepire sentimenti
di vera penitenza e divozione, e prepararsi per tutti gli avvenimenti.
Osservisi dunque se si potesse predicare in diversi luoghi spaziosi
della città, e con dividere e diradare quanto più fosse possibile
gli uditori. In Firenze l’anno 1630 furono sospese le prediche,
giudicandosi questo il partito più sicuro.

Prima della peste lodano tutti l’implorare il soccorso divino
con pubbliche numerose processioni, avuto riguardo però che non
v’intervengano o concorrano persone le quali potessero portar seco
il malore. Venuta poi la peste, suole disputarsi se convenga fare
lo stesso. Certo ci assicurano le storie essersi osservata in varie
città e terre, anche anticamente, la diminuzione o cessazione della
pestilenza dopo sì fatte processioni, e il P. Teofilo Rinaldo ne
reca vari esempi. Ma, secondo altri, meglio sarà l’astenersene per
la ragione suddetta di non doversi esigere da Dio degli evidenti
miracoli, e per altri motivi che tralascio. Noi sappiamo che dappoichè
in Milano nel 1576 ne fu fatta una solennissima da S. Carlo, e
un’altra addì 13 giugno 1630 dal cardinale Federigo Borromeo, si
vide immediatamente aumentarsi il furore della pestilenza. Così per
attestato del P. Marchino addì 28 giugno del 1630 furono da Nonantola
con solenne processione portati a Modena i corpi de’ SS. Sinesio e
Teopompo (siccome per relazione del Sigonio fu anche fatto nell’anno
1006), ed esposti per due giorni nel duomo con gran concorso di popolo,
vennero finalmente ricondotti a Nonantola. Io non leggo che prima di
quel dì la peste fosse entrata nella nostra città; leggo bensì che da
lì a pochi giorni essa cominciò a farci strage. Perciò in Roma, cioè
in quella città che fu regolata con mirabile saviezza nel contagio
del 1656, non fu, per quanto io sappia, ordinata alcuna di queste sì
strepitose processioni nel bollor della peste. All’incontro in Firenze
nell’anno 1630 ne furono fatte alcune, ma dal solo arcivescovo e da
alcuni ecclesiastici secolari e regolari diradati, stando intanto
il popolo alle finestre, o pure in orazione entro le loro case,
avvertito dall’invito generato delle campane. E questa appunto è una
via di mezzo che sembra la più lodevole e la più da praticarsi in
altre simili occasioni. In tal guisa potrebbero anche portarsi per
la città i sacri corpi de’ santi protettori, o altre insigni e più
venerate reliquie; e specialmente sarebbe da farsi qualche volta la
processione del santissimo Sacramento, conducendola ora per queste
ed ora per quelle contrade: il che tutto riuscirebbe d’incredibile
consolazione ed utilità al popolo in que’ miseri tempi. Il mandare
ancora sacerdoti, o secolari o religiosi, qualche volta a benedire
i cibi de’ poveri infermi o altre cose, calate giù dalle finestre
o esposte alle porte, è riuscito di gran conforto, ed ha inspirato
coraggio, allegria e divozione alla viva fede dei medesimi. Anzi
per tenere santamente allegra la gente, ottimo consiglio allora sarà
rinviare per ogni parocchia a certi tempi, e massimamente alle prime
ore della notte, senza bisogno che gli abitanti aprano allora le
finestre, un determinato numero di soli ecclesiastici, o secolari
o regolari, i quali per le strade cantino con voce divota le laudi
del Signore, o altre preghiere e componimenti di divozione in lingua
volgare, il più che si può intelligibili da tutti, ed approvate prima
dal vescovo, le quali inanimiscano il popolo, consolino ed inspirino
l’amore di Dio, la speranza in lui, la pazienza, e lo sprezzo del
mondo. Ma ci vuole il giudizio d’astenersi allora da quelle espressioni
che possono accrescere il terrore o la mestizia. Di queste due
micidiali passioni non v’è inopia in que’ tempi: v’è bensì penuria
di coraggio e d’ilarità, che pure sono potenti rimedi, non tanto per
preservarsi, quanto per risanare dall’infezione. A questo fine potrebbe
ancora giovare l’aver pronte e il far cantare in qualche divoto tuono
dal popolo certe preghiere a Gesù, prima d’ora stampate, potendo esse
servire di gran conforto nei continui bisogni, e massimamente nel
gravissimo della pestilenza. Così gioverà il prescrivere orazioni
da recitarsi privatamente, o pure da cantarsi pubblicamente circa
l’un’ora, o la mezz’ora di notte alle finestre pel popolo, invitato a
ciò dalla campana d’ogni parrocchiale.

E perciocchè può darsi il caso che s’abbia a mettere in quarantena
tutto il popolo, sequestrando, fuorchè le persone necessarie, tutti
gli altri nelle loro case per 40 giorni, il che fu fatto in Milano
dell’anno 1576, essendosi trovato questo ripiego veramente utile, da
che si vide che il morbo non cessava; e potendo essere il medesimo
utilissimo anche nei principj dell’altre pestilenze, gioverà a tutti
il sapere quali ordini prescrivesse allora S. Carlo, acciocchè in così
lungo ozio d’un popolo numeroso tutti santamente s’impiegassero nel
bene e schivassero il male, e fosse servito, non offeso Iddio. Pregò
egli i laici di confessarsi e comunicarsi tutti il giorno avanti che
entrassero in quarantena. Per gli esercizi spirituali di quel tempo,
ordinò prima che ciascuno sentisse messa divotamente ogni dì, al
qual fine fece ergere molti altari ai capi delle strade e a’ luoghi
cospicui della città, per dar comodità a tutti di assistere al santo
sacrifizio stando in casa propria, e trovò sacerdoti che vi celebravano
ogni giorno. Così provvide di confessori, i quali andavano con un
treppiede in braccio per sedervi sopra di porta in porta, confessando
tutto il popolo. Stava il penitente dentro, e il confessore sedeva di
fuori, servendo la porta chiusa per confessionale. La domenica poi si
comunicavano nel medesimo luogo con molta riverenza, perchè veniva il
curato col santissimo Sacramento, accompagnato da alcune persone pie
con lumi accesi, e da un cherico che il serviva, comunicando cadauno
alla porta della loro casa. Di maniera che quasi tutto il popolo facea
la sacra comunione ogni domenica a guisa di tante persone claustrali,
non potendosi spiegare la tenerezza con cui i buoni ricevevano in
quella forma il vero conforto dei tribolati. Ordinò che ogni vicinanza
facesse orazione sette volte tra il giorno e la notte a due cori, come
se fossero stati collegi di canonici. Cantavano salmi, litanie, laudi
ed altre orazioni accomodate ai bisogni di quel tempo; e l’ore erano
distribuite ordinatamente, dandosi il segno di ciascuna d’esse col
suono della campana più grossa del Duomo. Allora tutte le famiglie
andavano alle finestre, e un sacerdote o altra persona deputata dava
principio all’orazione, e tutti gli altri genuflessi rispondevano,
e seguitavano sino al fine, avendo ognuno il suo libro in mano,
stampato per tal effetto, come fanno i canonici in coro. Perciò era
cosa di stupore e che faceva intenerire ognuno il vedere o udire
quella gran città, numerosa di circa 200 mila persone, lodar Dio in un
tempo medesimo da ogni parte, e sentire un rimbombo d’infinite voci,
che chiamavano aiuto da tutto il cielo in quella pubblica calamità.
Certamente pareva allora Milano non solamente un miracoloso monistero
di claustrali dell’uno e del l’altro sesso, che servissero a Dio
rinchiusi nelle proprie celle, ma quasi un’altra Gerusalemme santa,
piena di gerarchie celesti. Pubblicò ancora il piissimo arcivescovo
una lettera pastorale, in cui insegnava ed esortava a fare certe altre
orazioni vocali e mentali, e leggere libri spirituali; ed egli stesso
mostrava i punti che s’aveano a meditare ogni giorno, stampati in essa
lettera; e in fine concedeva varie indulgenze per la facoltà apostolica
ch’egli aveva a tutti quelli che si esercitavano in queste pie
divozioni e pregavano Dio per gli appestati. Ed ecco un vivo esempio
e modello su cui si potranno regolare i vescovi in simili congiunture,
per promuovere allora più che mai l’unione delle anime a Dio, a cui dee
rassegnarsi totalmente ogni fedele per sua maggior quiete e conforto,
e in cui solo si dee sperare e confidare per preservarsi in mezzo ai
pericoli e alla confusione del contagio. A tal fine ancora dovranno
i vescovi in occasione di qualche editto proibire l’uso ingiurioso
a Dio e stolto di tutti i bullettini, anelli, ecc. e d’altri simili
preservativi superstiziosi che allora facilmente si mettono in campo o
dall’ignoranza, o dalla malizia.



CAPO IV.

  _Uffizio de’ parochi e confessori prima del morbo, e venuto il
    morbo. Cautele per le chiese e per i confessionari. Se i parochi
    sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti, e quali
    sacramenti. Come si possa ministrare la Penitenza, il Viatico e
    l’estrema Unzione. Voti, quali da persuadersi._


Per conto de’ parochi, confessori ed altri sacerdoti, si ponga mente
alle seguenti cose. Appena si udirà avvicinarsi o essere già pervenuta
ai confini la peste, che dovrà ogni paroco di terre, castella e ville
ammonir per tempo tutti a confessarsi prima del morbo, predicare il
pericolo della morte, l’ira di Dio, l’emendazione della vita, i quattro
Novissimi, _ne præoccupati die mortis quærant spatium pœnitentiæ, et
illud nequeant invenire._ Dovrà pure sostituire anch’egli una solenne
e divota processione di penitenza, con digiuni, comunione generale,
ed altre opere di pietà, a fine di placare Dio e d’implorare il
suo santo aiuto. Da queste pubbliche e strepitose divozioni, tanto
della città quanto della diocesi, ne risulterà anche un vantaggio
temporale. Cioè i popoli si metteranno in maggior apprensione di quel
terribile ed imminente flagello; cosa utilissima, perchè così ognuno,
aperti gli occhi per tempo, si guarderà con più cura dal pericolo di
prendere, o d’introdurre il contagio. Non si può dire fin dove giunga
alle volte la zotica e supina disattenzione, o sciocca temerità della
gente rozza. Vanno alcuni senza pensarvi a cogliere la peste fuori
del loro distretto sano in territori infetti o sospetti, conversando
alla buona con persone appestate, o maneggiando robe, che portano poi
la morte ad essi e l’esterminio alla patria loro. Bisogna perciò che
anche la Chiesa con azioni vistose di pietà faccia avvertiti tutti del
suo e dell’altrui pericolo. Anzi debbono i predicatori e i parochi
dall’altare e in altre guise andar per tempo inculcando la miseria
della peste, il rischio che sovrasta, la necessità di guardarsi per
sè e per gli altri, e il peccato grave di chi trascura sè stesso, e
tradisce il suo prossimo, e disubbidisce al principe e alle leggi, e
in un affare di tanta conseguenza e rovina. Mostrino ancora al popolo,
finchè è tempo (che questo pure sarà un atto di carità), in quante
guise si possa contrarre e comunicare il veleno della pestilenza,
e come le buone cautele hanno forza di preservare e difendere le
popolazioni dall’infezione. Fatto uno sproposito, indarno si cercherà
il rimedio, e in vano si dirà: Bisognava governarsi in questa o in
quella maniera.

Che se la peste entrerà, allora i parochi vadano similmente ricordando,
come potranno il meglio, ai loro parochiani quanto gravemente pecchino
quelli che celano l’infezione contratta, non per altro che per
timore di qualche suo danno, perchè maggiore sarà sempre il danno che
recheranno non solamente agli altri con disseminarla e comunicarla,
ma anche alla propria vita, col non lasciarsi curare, e coll’esporsi
al pericolo d’una morte repentina, e senza tempo di sacramenti e
di contrizione. Gran conto dovrà rendere a Dio chi per sua colpa o
negligenza dilata il male e l’attacca agli altri che con buona fede
hanno commercio con esso lui, o colle robe di lui. Nel contagio di
Palermo del 1625 fu proibito sotto pena della vita che nessuno potesse
trasportar robe da una casa in un’altra, ed anche vi fu imposta la pena
della scomunica; e a certi tempi colle cerimonie solite della Chiesa
venivano dichiarati scomunicati i trasgressori: il che faceva grande
effetto per lo spavento che cagionavano tali cerimonie. Questo è un
rimedio troppo violento, e da non praticarsi così facilmente altrove,
benchè non sieno scomuniche _latæ sententiæ_, e perciò s’intimino
solamente a terrore. Si può provvedere in altre guise. Dovranno
al certo i ministri di Dio inculcare la grande obbligazione di non
trasportare, rubare o contrattar robe infette o sospette, e quella
altresì di denunziar subito ai deputati quei della sua famiglia, o gli
altri che vengano a scoprire infetti. Molto maggior obbligazione si
è quella di denunziare gl’infetti medesimi al paroco o al sacerdote
deputato per l’amministrazione dei sacramenti, affinchè niuno manchi
di vita senza i soccorsi spirituali della grazia di Dio. Nella nostra
città, allorchè la peste del 1630 ci prese piede, fu dai conservatori
della sanità con pubblico proclama ordinato che se alcuno o parente, o
coabitante nella casa di qualche infermo fosse ricercato da esso malato
di chiamare il confessore, e non vi andasse, costui cadesse in una
grave pena pecuniaria, da estendersi anche ad arbitrio sino alla galea.

Per maggiormente preservarsi i parochi ed altri sacerdoti nel dire la
messa, avranno cura di mettere cancelli, sbarre, o altro impedimento
intorno all’altare dove dovranno celebrare, affinchè niuno del popolo
vi si accosti, o la dicano essi in chiesa o fuori. Maggior cautela
sarebbe che cadauno avesse i suoi determinati paramenti, de’ quali
nessun altro allora si servisse. E tal cautela sarà poi necessaria
per chi abbia da praticare con ammorbati o sospetti. I sacerdoti
che dovranno amministrare i sacramenti saranno divisi in due classi,
cioè altri per i sani, ed altri per gl’infetti e sospetti, secondo la
disposizione e distribuzione che ne farà il vescovo. I primi, cioè
quei dei sani, che si appelleranno sacerdoti o confessori ordinari,
non potranno, se non in caso di estrema necessità, ministrare i
sacramenti a gente appestata o sospetta; e se per necessità, o pure
disavvedutamente, praticassero con infermi di questa fatta, o dessero
loro i sacramenti, non potranno eglino per alquanti giorni praticare
con sani, ma staranno ritirati, facendo una specie di contumacia in
casa propria. All’incontro i destinati per la gente infetta o sospetta,
che si chiameranno sacerdoti o confessori della carità, e saranno
anche essi divisi in due schiere, non potranno conversar con sani,
nè ministrare i sacramenti ad alcun sano, anzi nè pure a chi fosse
infermo d’altro male che di peste, qualora questi non si trovasse
in pericolo di vita e in necessità legittima del loro ministero. Per
assicurarsi meglio di non errare in questo, potrebbe praticarsi che
gl’infetti e sospetti ricavassero una fede del medico d’essere tali;
e allora sarebbe moralmente sicuro il sacerdote della carità di non
accostarsi ad infermi d’altro male. Così fu praticato nel contagio
della nostra città l’anno 1630. Per questo ancora la sacra pisside
destinata agli infetti dovrà tenersi non nelle chiese ove entrano i
sani, ma in luogo decente separato secondo che prescriverà il vescovo,
ove sia tabernacolo e lampana di continuo accesa. Non è lecito ai
principi l’impedire ai parochi o ad altri sacerdoti l’amministrazione
de’ sacramenti; ma sarà loro ben lecito l’impedire a quei che gli
amministrano ad infetti il commercio coi sani, passando in ciò
d’intelligenza coi vescovi, siccome stabiliscono il Marta, il Barbosa
e il Benzoni, con altri. E però di necessità si ha da dare uno o più
coadiutori al curato esposto al servigio degl’infetti, secondo il
_c. tua nos, de clerico ægrotante_. Avverto qui che i parochi non
sono allora tenuti ad assistere alla sepoltura dei defunti, nè ad
accompagnare verun cadavero; anzi se ci fosse chi volesse allora che
il paroco seppellisse alcuno de’ suoi in luogo sacro, quando occorresse
sospetto d’infezione, egli dovrà costantemente opporsi, e molto più poi
se avrà ordine dai superiori in contrario.

Sarà poi cura dei sagrestani ogni mattina e sera il far de’ profumi,
quando se ne conoscesse il bisogno, intorno agli altari ove si celebra
e nella sagrestie, e certo non tralascino di farlo ai confessionarj.
Anche intorno a questi sarà necessario mettere allora qualche sbarra
o steccato o altro impedimento con panche, sicchè si trattenga la
gente dall’accostarsi al confessore. Anzi allora dovranno star assai
radi fra loro e in una competente distanza dal sacerdote, al quale non
s’avvicineranno se non chiamati da lui. Oltre alle grate perforate di
ferro, il costume è di tenere ai confessionarj una membrana o sia una
carta pecorina, o almeno una carta ordinaria ben incollata, con telajo
che chiuda ben le fissure; perciocchè con essa benissimo s’ascoltano
i penitenti e restano difesi dal pericoloso lor fiato i confessori.
Gioverà il rimutare e profumare di quando in quando tali membrane.
Fuori del confessionale (il che facilmente allora può accadere e si
dee permettere dal vescovo) il confessore potrà ascoltare i penitenti
in distanza di tre o quattro braccia, badando che il sito non sia
esposto alle orecchie altrui. Tanto prescrisse S. Carlo ne’ suoi
piissimi e prudentissimi regolamenti intorno alla peste, pubblicati
nel concilio V provinciale di Milano. Per purificare le dita dopo
aver comunicato il popolo, si tenga aceto in cambio d’acqua; e i
sacerdoti che comunicano, si tengano il più che possono lontani dalle
persone che prendono il sacramento, procurando ancora di star sempre
in mezzo a due torce accese, acciocchè venga purificata l’aria. Non
diasi abluzione, non si metta tovaglia alcuna, siccome nè pure per
qualunque festa o funzion che si faccia, non si dovranno ornare con
paramenti le mura delle chiese. Anzi han praticato i saggi di levare
insin le panche da esse chiese e le portiere e simili altre robe che
possono facilmente pigliare infezione. Qualora abbiano i confessori
della carità da ascoltare infermi appestati, prima d’andarvi prendano
qualche antidoto preservativo interiore ed esteriore; e alquanto prima
d’entrar nelle stanze d’essi, facciano aprir le finestre, acciocchè
l’aria sventolando disperga quei cattivi effluvj, o per dir meglio,
facciano ben profumare, se si potrà, quella stanza. Ad ogni buon fine
però v’entrino essi sempre con un profumo davanti o pure abbiano
in mano una torcia accesa, che terranno fra la bocca loro e quella
dell’infermo. I beccamorti ed espurgatori entrando nelle case infette
sogliono coprirsi il naso e la bocca con un fazzoletto bagnato in
aceto, ove sia stato dell’aglio in infusione potranno i confessori
cautelarsi in altra somigliante maniera. In Firenze l’anno 1630
un sacerdote esposto, andando a sacramentare infetti, pigliava una
spugna divisa pel mezzo ed allacciatasela agli orecchj con due nastri,
bagnatala prima con aceto rosato fortissimo, l’accomodava in maniera
che pigliava tutta la bocca e le narici, correggendo così l’aria che
respirava; invenzione non men felice che ingegnosa, poich’egli si
conservò sempre senza male. L’esempio è da notarsi ed imitarsi. Se
poi si può senza intollerabil incomodo degl’infermi, il confessore li
faccia venire in luogo aperto o in un cortile, o alla porta, o alle
finestre della casa, o all’uscio della camera che potrà star chiuso e
ascoltarsi anche bene la confessione. Il P. Filiberto Marchino insegna
che potendo gl’infetti uscir di letto e venire all’aria aperta o tenere
altra via di confessarsi senza pericolo della vita del paroco, e non
volendolo fare, esso paroco non è tenuto ad entrare in lor casa per
ascoltarli. È interesse del pubblico e degli altri parrocchiani che i
pastori si conservino illesi. In Firenze si servivano tali confessori
di un certo strumento di legno o di ferro, atto a ripararsi dal fiato
pestifero degl’infetti. Nel portare il Viatico al malati, usino i
sacerdoti veste corta con cotta e stola, lasciando stare il piviale,
in cui vece terranno sopra la cotta una veste di tela incerata. Anzi
nè pur la cotta sarà necessaria e nè pure la stola secondo la sentenza
di Leandro; e il vescovo potrà dispensar da tal obbligo, massimamente
per i lazzeretti, ne’ quali i sacerdoti sogliono accostarsi agl’infermi
colla lor sola veste incerata e col Santissimo chiuso in una borsa con
piccola pisside, pendente dal collo e con ombrella di cuoio, la quale
anche per città si terrà nel portare il Viatico, bastando una o due
torce accese per accompagnamento del Signore, e senza far precedere
suono di campana o di campanello. Abbiano sempre seco una spugna
bagnata in aceto per purificarsi le dita.

Ma chi dei sacerdoti è obbligato ad amministrare i Sacramenti agli
appestati? E a che son tenuti allora i parochi? Regolarmente parlando,
i semplici sacerdoti, tanto secolari come regolari, cioè quelli che
non han cura d’anime, non sono tenuti a ciò per debito di giustizia.
Possono solamente venirvi obbligati da qualche caso d’estrema necessità
del prossimo, perchè allora entrano a comandarlo loro le leggi della
carità cristiana. La sentenza è comune. In quanto ai vescovi e parochi,
certo è ch’essi in tempo di peste hanno gravissima obbligazione di
risedere nella lor parrocchia e di non abbandonare per conto alcuno
la loro greggia. Veggasi il Barbosa con altri autori. Ma per quel che
riguarda l’amministrazione dei sacramenti alla gente infetta è stato
disputato fra i teologi, se i curati sieno a ciò eglino obbligati,
ancorchè con troppo verisimil pericolo della lor vita. Il Molfesio e
alcuni altri tengono di sì, stante la gran necessità d’essi sacramenti
per la salute del prossimo, e stante il diritto che hanno le pecorelle
di chiedere e d’ottenere il cibo dell’anima dai proprj pastori. Ma
il Marchino, il Diana ed altri esentano il paroco da obbligo tale,
a condizione però che vi sia altro sacerdote che in luogo di lui
supplisca al bisogno degl’infetti. E all’opinione loro può starsi,
perchè il Barbosa ed esso Diana sì nella Somma come nel tomo II delle
sue opere e il Tamburino citano le risposte date a S. Carlo dalla
sacra congregazione il dì 10 di dicembre del 1576, con approvazion
del Santissimo che sono del seguente tenore: _Parochi tempore pestis
teneantur omnino residere in suis ecclesiis parochialibus; et si
non resideant, agendum contra eos, etc. Ministrent vero parochianis
peste infectis sacramenta pœnitentiæ et baptismi per alios. Et hoc
ad commodum parochianorum, qui verisimiliter nollent conversari cum
parochis euntibus ad infirmos peste. Et licet Alciatus diceret, quod ex
duobus ultimis verbis videatur prohiberi, ne parochi, etiam volentes,
per se ipsos hæc duo Sacramenta ministrent: tamen tota congregatio
dixit, quod ista erat mens Sanctissimi in prohibendo hæc parochis ad
commodum parochianorum, qui sani essent; hi enim universaliter nollent
conversari cum parochis cuntibus ad infirmos peste._

Il Benzoni prova a lungo e seco s’accordano altri antichi teologi
che il vescovo e il paroco non pecchino fuggendo dal luogo della
peste, purchè provveggano il grege loro di un vicario o sostituto
sufficiente, e mancando questo, ne somministrino un altro o tornino
essi alla lor residenza. Ma stante il suddetto decreto non è più
da seguitare una tal sentenza. Anzi è da avvertire col Marchino
e con altri essere tenuti alla residenza in tempi tali ancora i
confessori di monache, gli abati, i priori, guardiani ed altri capi
di case religiose. Dal suddetto decreto parimente si ricava che ogni
qual volta il paroco abbia o pure il vescovo deputi (siccome egli
ha da fare e fu fatto anche nel contagio di Modena del 1630) altri
sacerdoti che amministrino i sacramenti ai parrocchiani appestati,
egli sarà esente da tale obbligazione, e dovrà allora attendere alla
cura dei soli sani o infermi, ma non di peste, cioè ai più della
sua parrocchia. Nulladimeno accadendo che manchino tali sacerdoti
sussidiarj, allora esso paroco sarà tenuto egli in persona, ancora
con pericolo della vita, a soccorrere gl’infetti, non solamente per
debito di carità, stante la necessità delle sue pecorelle, ma ancora
per obbligo di giustizia a cagione del carico ch’egli ha come pastore;
poichè in tal caso non mancherà via agli altri parrocchiani non
infetti di ricevere i sacramenti da altra mano, non essendo questi
in eguale necessità, potendosi più facilmente trovar sacerdoti che
soddisfacciano al bisogno del popolo intatto dalla peste. Di più il
paroco è tenuto a ricercare chi stia in pericolo o articolo di morte e
se abbia bisogno di confessarsi. Che se mancassero ministri idonei per
l’amministrazione de’ sacramenti, sarà tenuto il vescovo a provvederne
anche con sua grave spesa. Così tengono S. Tommaso, il Bagnez, il Sa,
il Benzoni. Dovranno però anche i parochi contribuire una porzione
delle rendite loro, e non bastando nè il vescovo nè i parochi a tale
spesa, i parrocchiani dovrebbono somministrar dell’aiuto. Avvertasi
col Marchino e con altri autori, non esser bene che il vescovo vieti
la fuga ai parochi sotto pena della scomunica, ma bastare che intimi
pene pecuniarie, perdite di frutti o la privazione del benefizio,
benchè per altro non sia lecito al paroco in tempo di pestilenza nè
pure il rinunziare alla sua chiesa. Io non ho veduto, ma so esserci un
libricciuolo di Francesco Lazzaroni _de privilegiis parochorum tempore
pestis_, stampato in Venezia dell’anno 1631 in ottavo. Il Benzoni col
Turrecremata, in caso che non si trovassero sostituti, stimerebbono
bene che il vescovo tirasse a sorte tre o quattro parochi, i quali
assistessero agl’infetti, restando gli altri al servigio de’ sani,
e mancando i primi, succedessero gli altri. Parimente nelle terre e
castella ove non sia che un solo sacerdote, il vescovo dovrà mandare
almeno un altro coadiutore, acciocchè l’uno attenda ai sani e l’altro
agli appestati, e se il coadiutore non vorrà per carità ministrare
i sacramenti ad essi infetti, allora questo carico apparterrà per
giustizia al curato. Mancando i parochi, sarebbe di dovere il subito
conferire la lor chiesa al sostituto che avesse con generosa carità
preso a servire agl’infetti; anzi potrebbe il vescovo per tempo
ricercare dal sommo pontefice la facoltà di stabilire una spezie di
coadiutori, a’ quali si conferisse tosto la chiesa, accaduta la morte
del paroco, meritando tal grazia il pio coraggio di simili sacerdoti.
Che se il curato o altro prete fosse solo, allora potrà egli più
discretamente governarsi nel ministrare i sacramenti, affinchè mancando
lui, non manchi l’aiuto spirituale a tanti altri che possono averne
bisogno, essendo egli in parità di circostanze tenuto più ai molti che
ai pochi. Ma non si credesse alcuno esentato dall’obbligo di confessare
gl’infetti per quella sola ragione che da taluno è stata addotta, cioè
perchè essi possono fare un atto di contrizione, e salvarsi senza
l’attual confessione ed assoluzione del ministro di Dio. Imperocchè
tal sentenza è troppo pericolosa, lasciando esposti i peccatori ad un
evidente rischio di non pentirsi come debbono, e perciò di dannarsi.
Per altro chi infermo di peste non ha confessore, è tenuto a formare un
atto di contrizione, e potendo aver confessore è tenuto a non differire
di confessarsi.

Appresso è da notare che il ministrare l’Estrema Unzione agli appestati
sarà sempre bene, e si dee procurar loro, per quanto si potrà, questo
spirituale aiuto e conforto; tuttavia non essendo esso un sacramento
necessario alla salute, dicono i teologi che non è obbligato il
paroco sotto rigoroso precetto ad amministrarlo allora. Il che però
secondo il Diana ed altri si dee intendere quando l’appestato si sia
prima confessato ed abbia ricevuta l’assoluzione; altrimenti s’egli
non avesse potuto confessarsi per aver perduta la favella, converrà
dargli almeno questo sacramento. Per altro essendo da amministrare,
per quanto si può ancora questo sacramento, si avverta per parere del
Chapeavilla, Silvio, Layman, Diana ed altri essere lecito l’ungere
una sola parte del corpo, e fare una sola unzione, unendo poi nella
forma delle parole l’udito, la vista e gli altri sensi dell’uomo. Per
sentenza ancora de’ suddetti teologi, del Marchino, Suarez, Barbosa
ed altri sarà lecito ungere gli appestati con una lunga bacchetta, in
cima alla quale sia bombace intinto nell’olio sacro che dovrà subito o
almen poco dopo bruciarsi. In oltre tengono il Filiarco, il Marchino,
il Tamburino ed altri, appoggiati anche al suddetto decreto, che
purchè l’infetto sia legittimamente confessato, non son obbligati i
parochi a ministrargli con tanto lor pericolo il Viatico, siccome non
necessario alla salute; e nè pure il sacramento della Penitenza, quando
si fosse moralmente certo che l’infermo non avesse peccati mortali.
Così ancora tiene il Benzoni vescovo di Recanati. Avvertasi però che
questo ultimo non si dee presumere senza gravissime ragioni. Vedi
il Molfesio e il Diana alla parola Communionis minister e parochus.
E per conto del Viatico bisogna far quanto si può per ministrarlo;
essendo poi non solo lecito, ma obbligo di non darlo, quando il paroco
fosse solo e la sua morte potesse ridondare in danno di tanti altri.
Mancando i sacerdoti o non volendo essi dare l’Eucaristia, per comune
sentenza potranno ministrarla i diaconi. In caso poi che nel distribuir
le sacre particole mancasse all’improvviso di peste il sacerdote, le
altre particole si hanno non già da bruciare, ma da conservare o pur
debbono distribuirsi a persone infette o assumersi da qualche sacerdote
esposto. Qualora sovrasti pericolo di morte a molti appestati, basterà
che ciascuno dica qualche peccato al confessore, acciocch’egli possa
assolverli di tutti. Così insegnano il Coninco, Diana, Suarez, ecc.
E basterà ancora, quando non si possa far di meglio, che mostrino
segni di penitenza a fine di poterli assolvere. Parimente tengono
non pochi teologi, cioè Zambrana, Granado, Laiman, Conioco, Hurtado,
Turriano, Suarez, Diana, ecc., che si possa assolvere l’appestato
colla confessione non intiera, quando il confessore probabilmente
tema d’infettarsi anch’egli, come sarebbe o pel troppo fetore, o per
la troppa dimora dell’infermo, con assicurare il malato che una tal
confessione è sufficiente, restando nondimeno l’obbligazione, guarito
che sia, di confessarsi di quei che tralascia. Queste sentenze sembrano
anche a me tutte ragionevoli e da osservarsi in pratica. Che poi i
semplici sacerdoti non approvati per le confessioni possano in tempo
di peste confessare e assolvere dai peccati i sani, è sentenza del
Marchino, del Corneo, di Polidoro Ripa e dell’Homobono, perchè, dicono
essi, allora gli uomini sono moralmente posti tutti, benchè sani,
in pericolo di morte; e per conseguente secondo il loro parere cessa
allora anche la riservazione di tutti i casi e delle censure. Il Diana,
il Benzoni, il Bossio tengono il contrario. Io qui distinguerei: Se la
peste fosse di quelle fierissime che in un momento fanno cader morte
le persone, come è qualche volta accaduto, ed allora la persona sana
non avesse in pronto un confessore approvato, in tal caso ogni semplice
sacerdote potrà confessarla, ed assolverla da tutto, con obbligo però
che ella si presenti subito che potrà ai superiori, caso che avesse
censure. Anzi il Preposito, il Laiman e il Diana tengono per opinion
probabile che anche il semplice chierico e il laico stesso possano
assolvere non già dai peccati, ma sì ben dalle suddette censure chi è
posto in articolo di morte; e il Marchino scrive che tal sentenza non
solo si può, ma si dee praticare in casi di tanto bisogno. Quando poi
la peste sia tale che dia, siccome d’ordinario accade, tempo di poter
cercare confessori approvati, e questi sieno nel luogo della peste,
allora non sarà lecito ai semplici sacerdoti, sieno secolari, sieno
regolari, senza l’approvazione del vescovo, l’ascoltare ed assolvere
penitenti sani. Per chi è gravemente infermo o in pericolo di morte,
ove il paroco o altri confessori legittimi mancassero, allora qualunque
sacerdote ha facoltà di dargli l’assoluzione da ogni peccato e censura.
Questa è cosa chiara.

Alcuni teologi hanno scritto che in tempi di contagio è stato in uso,
ed essere lecito il porgere alle persone infette il santissimo Viatico
sopra un foglio di carta, lasciandolo ivi prendere ad esse, con poi
bruciare la carta; o pure si può porgerlo in un cucchiajo d’argento
o con legno lungo formato a guisa d’una foglia di palma, nella cui
sommità incavata a guisa di patena si mette l’ostia sacra, o pure in
altre guise. Ma il Diana con alcuni altri disapprovano tutti questi
ripieghi, come poco decenti, adducendo per ragione che la Chiesa ha
i suoi usi, e questi non è convenevole mutarli, e che S. Carlo nel
concilio provinciale V riprovò tali industrie della paura. Contuttociò
si vuol qui riflettere, doversi per quanto si può provvedere ai
pericoli altrui e conservare la salute de’ poveri sacerdoti o parochi,
essendo ancor questo un debito della carità e della giustizia de’
superiori, i quali senza precisa necessità non debbono esporre a
rischio manifesto la vita dei pastori, e ciò anche per bene delle lor
pecorelle. Ora quando si possa con qualche onesto ripiego ministrare
agl’infetti l’Eucaristia, e provedere nello stesso tempo all’identità
di chi la ministra, tenendolo lungi dal pericolosissimo fiato degli
appestati, c’è una ragion troppo gagliarda di non rigettare questo
partito e di non esigere troppo dalla debolezza altrui. Bisogna qui
facilitare il santo ministero e figurarsi non di essere a decidere
ad un quieto tavolino, ma in mezzo a quella gran tempesta; nè si dee
camminar con un rigore che potrebbe tirar addosso a’ poveri sacerdoti
la morte e spaventar gli altri da così pio e caritativo impiego. Qui
poi non c’è divieto preciso della Chiesa in contrario; le costituzioni,
o, per dir meglio, le istruzioni di S. Carlo, sono bensì venerabili,
ma da sè sole non hanno forza d’obbligar tutti i fedeli; anzi son tali
che possono molto bene interpretarsi in questo caso per non obbliganti
a peccato grave nè pure i sudditi di quella metropoli. Oltre di che non
bisogna misurare coi riti del tempo placido quei che possono convenire
alla necessità de’ tempi miseri e stravaganti d’una peste. Nè v’è
indecenza, ma solamente ve la fa nascere la nostra immaginazione in
alcuni di questi ripieghi, e molto meno vi sarebbe, se gl’infermi si
prendessero in sè il sacro Viatico posto sulla patena, la qual poscia
si potrebbe purificare. Nei primi secoli non credette mai la Chiesa
che fosse indecente il porgere l’Eucaristia in mano agli uomini e
sopra un fazzoletto alle donne che si aveano da comunicare, per tacer
d’altre usanze che una volta erano lodate o permesse. E tanti autori
che tengono per lecito ad un laico il ministrare il Viatico ad un
infermo o pure a sè stesso, in caso di estrema necessità, non trovano
già indecente un tal atto. Il che sia detto per modo di disputa,
poichè qualora i vescovi ordinassero in contrario, dovranno ubbidire
i sacerdoti loro sudditi, e tutti poscia ubbidire, se dalla S. Sede
uscisse decreto su questo punto. Intanto reputo io questa sentenza per
molto probabile, sì per le ragioni addotte, e sì perchè l’approvano
o non la disapprovano il Possevino, il Mancino, il Vettorelli, il
Bonacina, il Venero, il Marcanzio, il Gavanto, il Tamburino ed altri
teologi.

Oltre a ciò si osservi che i fanciulli poco fa nati, qualora sieno o
infetti o pure sospetti per essere nati da madre infetta, si dovran
tosto battezzare da sacerdote deputato, con farli portare all’aria
aperta e adoperando acqua pura; ovvero saran battezzati in caso di
bisogno da altre persone, per far poscia le cerimonie della Chiesa
a suo tempo, se resteranno in vita. In caso di estrema necessità,
affinchè un’anima non perisca, è tenuto sotto grave peccato ciascuno
a soccorrerla, anche con pericolo della sua vita. Questa è sentenza
comune. Battezzati che sieno i fanciulli, si dovrà subito registrare
il nome loro nel libro de’ battesimi, o pure battezzandoli qualche
laico, avverta egli di por al collo, se è possibile, un bullettino
di carta pecora o almeno di ordinaria, ove sia scritto il giorno ed
anno in cui sono nati e battezzati col nome del padre e della madre.
Sono ancora consigliati i parochi, secondo l’istruzione di S. Carlo, a
guardarsi dall’indurre gl’infermi a far testamento, quando questo non
si richiedesse per atto di carità, cioè per bisogno dei figliuoli o
parenti. In oltre si asterranno, per quanto possono, dallo scriverlo
essi, e non condescenderanno a ciò se non in caso di particolar
necessità. Comunque poi sia, fuggano ogni ombra d’interesse e di
guadagno sordido, e non convertano in loro pro le disgrazie altrui.
Nè persuadano voti dispendiosi, ma più tostò que’ voti che riescono
più facili e di maggior profitto spirituale dell’anime. Anche le città
in que’ tempi debbono andar con riguardo ad obbligarsi a certi voti
di spesa grande, perchè o questi malamente si eseguiscono poi, o pure
elle hanno bisogno di soddisfare ad altri debiti antecedenti, (e se
ne fanno e se ne debbono fare assaissimi anche in tempo di contagio)
e la giustizia vuole che questi si paghino e si sgravi per quanto è
possibile il popolo dagli oneri imposti loro dalla necessità e dalle
disgrazie de’ tempi. Alle volte noi trattiamo con Dio e coi santi,
come se li supponessimo dediti all’interesse a pari di noi. Così è
da invigilare che alcuni allora non facciano guadagno, ed altri non
facciano abuso di certe divozioni esteriori e di qualche amuleto sacro
da portare addosso, con riporre in essi una tal fidanza che poi si
trascurino le cautele umane prescritte per guardarsi dal prendere e
dall’attaccare ad altri la pestilenza, e si disubbidisca senza positiva
necessità ai comandamenti de’ superiori spirituali e temporali. Il
miglior preservativo e la più soda divozione allora, e sempre, sarà la
vera penitenza e il darsi ad una vita santa e caritativa, con fiducia
in Dio e con ricorrere anche all’intercessione dei santi, senza però
ommettere le diligenze e precauzioni prudenti per sicurezza propria e
d’altrui. Queste ancora le ama e le comanda Dio che non vuol fare de’
miracoli sensibili a capriccio nostro.



CAPO V.

  _Carità verso il prossimo quanto essenziale al cristiano, e
    massimamente nelle calamità d’una peste. Obbligazione de’
    secolari in tempi tali di soccorrere il prossimo. Varie maniere
    di esercitare la carità. Confraternità della misericordia. Lode
    di chi assiste alla cura de’ suoi parenti infermi._


Sempre siam tenuti ad avere in noi la regina di tutte le virtù, cioè la
_carità verso Dio e verso il prossimo nostro_, e ad esercitarla secondo
le occasioni; ma nessun tempo ci è, in cui sia più da accendersi in
noi e da praticarsi questa celeste virtù, quanto ne’ tempi della
pestilenza. Allora il bisogno della repubblica e dei privati suol
giungere al sommo; e però il dar loro quel soccorso che ognuno può
secondo le forze e il grado suo, non è per lo più solamente una lodevol
cosa, ma è anche un’obbligazione precisa, ed obbligazione non solo
di cittadino, ma ancora di cristiano. Tutti siam tenuti a difendere
ed aiutare la patria nelle necessità, per un patto stabilito dalla
natura e dal diritto delle genti, allorchè entriamo nella società degli
altri uomini. Ma molto più, e più largamente fu, ed è imposto a noi
questo debito dalla legge santissima di Cristo, legge a noi mandata
dal cielo, spezialmente per introdurre e dilatare fra gli uomini lo
spirito della carità. Nulla più ci comanda, o ci raccomanda il nostro
divino Salvatore e maestro, per bocca sua e degli apostoli suoi, quanto
l’amar Dio, e dopo Dio l’amarci l’un l’altro, l’aiutarci, e il mettere
anche la vita nostra in soccorso de’ nostri fratelli, sì se vogliamo
distinguerci dalle bestie irragionevoli, dai gentili e dai pubblicani.
E il suo santo apostolo Paolo scrive che potremo forse avere molte
e molte virtù, e divozioni; ma che se non avremo ancora, e in primo
luogo, la carità, noi non saremo niente buoni e nulla faremo di bene;
perciocchè in questa virtù è riposta l’essenza, non che la perfezione
della vita cristiana. Amare Iddio, e amare il prossimo per amore di
Dio, sono i due precetti massimi della nostra santa legge, e chi gli
eseguisce sarà salvo, sarà beatissimo. Il perchè, ben considerate
le angustie, alle quali in tempo di peste è soggetta la patria e il
prossimo nostro, ognuno dee allora maggiormente ravvivare in sè le
fiamme santissime della carità, e fissarsi bene in mente e in cuore che
quello è più che mai il tempo di farsi conoscere per buon cittadino
alla patria, e per vero seguace e discepolo di Gesù all’afflitto
prossimo suo. Divozione più accetta a Dio in que’ tempi, nè che tanto
possa impegnare la divina sua misericordia a preservarci illesi, anche
in mezzo agl’infermi e ai cadaveri, non ci è, quanto questo applicarsi
alla carità verso la patria e verso i nostri fratelli, con far del bene
e porgere aiuto, per quanto sarà in nostra mano, ai corpi e alle anime
loro.

Da questi principj deriva l’obbligazione che hanno i nobili cittadini,
e i meglio stanti di far certe guardie ed ufizj che non possono farsi
dai poveri e dagli artigiani, perchè intenti a guadagnarsi il vito, e
che debbono farsi da gente piena d’onore, la quale si presume incapace
di lasciarsi corrompere. Quindi anche viene l’obbligo de’ medici,
cerusici e d’altre persone, di assistere allora in persona ai bisogni
del pubblico. Chi fa questo, senza fallo esercita un atto di nobile
carità cristiana; e indirizzando a Dio l’offerta di tali sue fatiche
in pro del suo prossimo non si può dire quanto sia per dar gusto al
nostro comun padre Iddio. Tutti gli altri poi, se hanno sentimenti di
vera carità verso Dio, debbono anch’essi in qualche altra guisa porre
in opera la carità verso il pubblico e verso i privati, impiegandosi o
colla persona o colle facoltà, e meglio poi se in tutte e due queste
forme, per sovvenire agli altrui bisogni. È incredibile la spesa
che allora dee fare un comune. E come farla, se mancassero i fondi
e l’erario del pubblico, e non soccorressero i cittadini? Bisogna
allora alimentar tutti i poveri, mantenere i lazzeretti, provvedere
agli altri infermi, pagar medici, cerusici e tanti altri o ufiziali o
serventi. Mille altre cure ed impensati aggravj si debbono sostenere,
uno però dei quali non vo’ lasciar di accennare, cioè, che non pochi
degli operai, degli artigiani e de’ servitori restano allora senza
traffico e senza padroni che li licenziano, riducendosi con ciò alla
mendicità e per conseguente al bisogno di essere nutriti dal pubblico.
Ora in tali casi non è solamente un consiglio, ma è un precetto
chiaro chiarissimo della dottrina cristiana, registrato da tutti i
teologi che cadauno, secondo la sua possibilità, ha da concorrere al
mantenimento degli altri cittadini bisognosi e impotenti a guadagnarsi
il vitto in sì miseri tempi, ed è tenuto in coscienza a contribuire
in aiuto altrui il suo superfluo, e talvolta ancora parte di ciò che è
a lui necessario, se fosse in urgente ed estremo pericolo di morir di
fame e di stento uno de’ nostri fratelli in Cristo. Anzi in sì gravi
bisogni hanno i maestrati da fare quanto possono di bene, e usare gran
carità insino ai poveri Giudei, creature anch’essi di Dio e prossimi
nostri. Santamente fecero in Roma nel contagio del 1656 que’ maestrati
nell’aiuto che diedero anche agl’infelici Ebrei, fra i quali poi fu
osservata, per attestato del cardinal Gastaldi, questa carità, cioè che
quei d’altre città d’Italia sane spedirono non leggieri soccorsi di
danaro all’università appestata degli Ebrei di Roma. Sicchè chiunque
ha viscere di carità cristiana e stimolo d’onore, come può essere
che potendo soccorrere non soccorra al miserabile e compassionevole
stato di tanti suoi concittadini, che non per loro colpa, ma per la
costituzione del tempo, si veggono esposti ogni momento a morir di
fame o pure di peste, e a cagion della loro miseria? Perduto è quello
che si dona al lusso e ai peccati: non è così di ciò che s’impiega in
sollevare le altrui calamità. Prescindendo anche dalla legge cristiana,
non ci può essere secondo le leggi del mondo azione più gloriosa ed
eroica che il sovvenire ai bisogni della patria e del prossimo. Quanto
più dunque dovrà ciò farsi da chi seguita Cristo, il quale nel dì del
giudizio null’altro più dimanderà agli uomini, quanto se abbiano usata
carità e misericordia verso dei bisognosi? Oltre a ciò egli ha detto
in S. Giovanni al cap. XIII, 35 (e ce ne abbiam da ricordare tutti, e
sempre) che un distintivo d’essere vero cristiano e suo buon seguace,
consiste nell’amarci l’un l’altro. _In hoc cognoscent omnes, quia
discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem._ E questo
santo amore, senza il quale non saremo riconosciuti nè dagli uomini,
nè da Dio per veri cristiani, non ha già da essere un amor di sole
parole, ma un amore di fatti; e ce ne avvisò il suo diletto discepolo
Giovanni nella epist. I, cap. III, 18, con quelle parole: _Filioli
mei, non diligamus verbo, neque lingua, sed opere et veritate._ Cioè:
_miei cari figliuoli, amiamoci non colle parole, e colla sola lingua,
ma colle opere e colla verità._ Certo poteva il Signore Iddio fare
che chi ora è comodo e ricco, nascesse, e durasse per tutta la sua
vita nel numero dei pezzenti e del povero volgo. Non l’ha fatto per
sua bontà. Ora che ingratitudine non sarebbe mai, se in così evidente
incredibile necessità i benestanti non sovvenissero col superfluo loro
ai bisogno e ai guai dell’infelice plebe? Questa giustizia l’esige Dio;
questa gratitudine l’aspetta quel benefico Signore da tutte le persone
comode, e da quel remuneratore potentissimo ch’egli è; non mancherà
poi di ricompensarla con centuplicata mercede in terra, difendendo
spezialmente la vita dei caritativi, e poi d’infinitamente premiarla,
quando a lui piacerà, nel suo beatissimo regno.

La carità è ingegnosa allorchè ci sta nel cuore; e però sarebbe
superfluo l’insegnar qui ad alcuno, come si debba o si possa giovare in
tempi di peste al prossimo nostro. Dirò nulladimeno che primieramente
bisogna di buon cuore concorrere alle collette, che facesse il pubblico
di letti, biancherie, legnami, vettovaglie, danari, ecc. Girolamo
Previdello, legista reggiano, nel suo Trattato della peste tiene con
Baldo, che nessuna persona, quantunque privilegiatissima, sia scusata
da queste collette e nè pure gli ecclesiastici, i quali però s’intende
che debbono essere regolati in questo dai loro prelati. Poscia sarà un
bell’impiego della carità il ritenere per amore di Dio que’ servitori
che già si avevano in casa, senza ascoltare l’interesse o la politica
del mondo che forse in quelle strettezze e timori consiglierebbero
il licenziarli. Diventerà ancora assai meritorio presso a Dio il dare
allora (senza che se ne abbia bisogno) da lavorare ai poveri, acciocchè
si guadagnino il pane, ad oggetto appunto di far loro del bene; perchè
se ben paresse agli occhi del mondo interessata questa azione, pure
agli occhi di Dio comparirà per un atto di lodevol carità. Chi poi
prendesse ad alimentare allora alcuni determinati poveri (e i parenti
spezialmente, se ne avessero bisogno) scaricando i conservatori del
pubblico dal peso d’essi, e dandone loro contezza, acciocchè non
cogliesse tal gente anche la limosina altronde; certo è che di lunga
mano più inviterebbe sopra di sè le benedizioni di quel gran Dio che
ama e consiglia tanto la beneficenza verso il prossimo. Molto più si
farebbe, ricoverando povere fanciulle rimaste orfane, e perciò in
pericolo di perdere l’onestà e la vita, e il vescovo spezialmente
accudirà e farà accudire a questo, con provveder poscia dopo la
peste, per quanto potrà, al sostentamento e all’asilo di quelle che ne
avessero bisogno. Che se il Signor Iddio preserva qualche terra o parte
del paese, hanno gli abitanti d’essa da tenere sempre davanti agli
occhi le calamità de’ vicini infetti, e inviar loro quell’ajuto che
possono. Queste son divozioni sode, perchè la carità è la principale
delle virtù e la regina delle divozioni. In una parola, con danari,
vettovaglie, mobili, medicamenti, ecc., si può allora porgere soccorso
al bisogno e alle infermità altrui; e il non porgerlo per timore che
possa poi mancare un giorno a sè il bisognevole, sarà talvolta un poco
fidarsi di Dio, e un consigliarsi colla sola avarizia e col troppo amor
di sè stesso. Se non faremo allora del bene al prossimo, quando poi
vorremo noi fargliene?

E perciocchè alcuni appunto ci sono che in tempi di pestilenza credono
che loro debba mancar la terra sotto i piedi, e non si saziano d’unir
vettovaglie, quasichè il cattivo influsso avesse a durar degli anni;
anzi si trovano di quelli che sol pensano a far traffico e guadagno
delle disgrazie altrui, dovranno i parochi e predicatori raccomandare
anch’essi a tutti, sia chi si voglia, il non nascondere e non incarire
i grani, essendo obbligo di peccato grave il vendere allora e a giusto
prezzo, l’annona superflua al bisogno suo. Troppo è facile in sì fatte
congiunture che la povera gente muoia di fame e di disagio. Uniscasi
appresso coi magistrati il vescovo zelante, per adunar limosine e
apprestare ogni aiuto al prossimo, studiandosi, se mai si potesse,
di raccogliere in un luogo solo tutti i mendicanti, e di alimentarli
ivi, siccome ancora d’impiegare in varj ministeri, necessarj allora al
pubblico, le persone che restassero senza padroni, o senza mezzo di
procacciarsi il vitto coll’arte ed impiego loro consueto. Tanto pur
fece S. Carlo, concorde coi maestrati nella peste di Milano, avendo
egli procurato un luogo fuori della città a tre o quattro cento di
questi poveri artisti e servitori sfaccendati, con alimentarli dipoi
e farli regolare come se fossero stati entro d’un monastero. Oltre al
soccorso ch’egli contribuiva del suo, inviava poi gli stessi poveri
ordinati in ischiere per le vicine terre, cantando le Litanie ed altre
orazioni col crocifisso avanti, per eccitar maggiormente i fedeli a
far loro larghe limosine. E perchè venuto il verno, non si trovava
provvisione per vestirli e difenderli dal freddo, non potendo sofferire
il pietoso padre di vederli patire, trovò finalmente un buon partito,
che fu di pigliare tutte le tappezzerie, portiere, padiglioni e quanti
altri panni e drappi egli aveva in casa, non riservando per sè e per la
sua famiglia, se non da mutarsi una volta; e questi panni e drappi di
varj colori fece convertire tutti in vesti per quei poverelli. A tanto
ancora si ridusse il santo e caritativo cardinale che si privò infino
del proprio letto per soccorrere alle necessità del suo dilettissimo
popolo.

Dovrà dunque il vescovo tener conto esatto di tutti quelli che avran
bisogno d’aiuto, inchiudendo in questo numero anche i monasteri ed
ogni altro ecclesiastico povero, per provvedere a ciascuno, secondo
che potrà il meglio, anteponendo sempre i più miserabili e bisognosi
agli altri. A questo effetto sarà non solo utile, ma ancora necessario
l’instituire una pia confraternità, che si chiamerà _della misericordia
o della carità_, o pure instituirne molte, cioè una per quartiere,
ufizio di cui sia il visitare i poveri e gl’infermi, e l’invigilare
ai lor bisogni, l’avvisarne i deputati e il raccogliere limosine di
danari, farine, pane, vino ed altri commestibili, o pur di biancherie,
vesti, mobili, ecc., per poi distribuirle ai lazzeretti, ovvero ai
bisognosi della città e de’ quartieri, e per mantener loro medici,
cerusici, spezieria, ecc. Medesimamente si arroleranno a questa divota
compagnia tutti quegli dell’uno e dell’altro sesso, che, animati dallo
spirito di Dio con particolar vocazione, si offeriranno al servigio
degli appestati e de’ lazzeretti. Nella pestilenza che accadde a’
tempi di S. Cipriano in Cartagine, per quanto narra Ponzio Diacono,
il santo vescovo esortò ognuno agli ufizj della carità, in maniera
che tutto quel buon popolo infervorato si accinse ad aiutarsi l’un
l’altro. Appresso _distributa sunt continuo pro qualitate hominum atque
ordinum ministeria. Multi, qui angustia paupertatis, beneficia sumtus
exbibere non poterant plus sumptibus exibebant, compensantes proprio
labore mercedem divitiis omnibus cariorem_. Non si ammetteranno però se
non persone che sieno dabbene, e dalle quali si possa ragionevolmente
sperare fedeltà e carità. Ogni paroco descriverà nella sua parrocchia
quei che si esibissero a questo santo impiego, e ne darà nota al
vescovo, il quale secondo le occorrenze destinerà loro gli impieghi.
Leggiamo del suddetto S. Carlo che osservatasi dalle finestre
dell’arcivescovato una fanciulla, poco lontana dallo spirar l’anima, a
cui la madre presente non osava accostarsi, nè porgere aiuto, il santo
Cardinale avendo egli medesimo veduto il misero stato della povera
figliuola, mosso a compassione di lei, fece chiamare una vergine di S.
Orsola, che già se gli era offerta per somiglianti bisogni, e la mandò
a soccorrere l’infelice moribonda. Entrò coraggiosamente la vergine in
quella stanza, e levando di mezzo a due fratelli morti l’agonizzante
zittella, la lavò e le fece altri fomenti, con che si riebbe, in
guisa che dopo varj altri ajuti fu condotta al lazzeretto e restituita
in perfetta sanità. Altrettanto fece nella peste di Lione del 1629,
per attestato di Teofilo Rinaldo, un’onesta e generosa vedova, per
nome Giovanna Mauris, che inteso esser morti di peste i genitori
d’un bambino lattante, corse in quella casa, e preso l’abbandonato
fanciullo, diede poscia a lattarlo ad una capra.

La distribuzione delle limosine si farà non dal paroco, ma dai capi
d’essa confraternità, o da altri conosciuti per molto fedeli e savj.
Che se il paroco dovrà farla egli, abbia in sua compagnia qualcuno
d’essi confratelli o altre persone timorate di Dio. E si ricordi
ai raccoglitori e distributori che sarebbe reo di colpa mortale chi
dispensasse, o ritenesse per sè tali limosine senza necessità, essendo
questo un rubare a quei che hanno vero bisogno. Dovrà poi il vescovo,
quando la necessità il richiedesse, permettere che s’impieghino in
sollievo de’ poveri alcuni legati annui, destinati ad altre opere
pie. Raccomandi ancora, se ne conoscesse il bisogno, ai maestrati e
deputati, di non lasciar mai abbandonato alcuno o sospetto o infetto,
finchè sia vivo, perchè il fare altrimenti è un’indicibile crudeltà.
Di più raccomandi loro che per quanto si potrà, non impediscano che
i figliuoli ai genitori, i genitori ai figliuoli, e i parenti ai
parenti servano nell’infermità o nel sospetto di peste, essendo ciò un
ufizio di gran carità e pietà. Anzi accadendo pur troppo che allora
molti si avviliscano, e dimentichi delle leggi della natura e molto
più di quelle della carità, pensino a salvar solamente sè stessi nel
naufragio, senza badare nè al pericolo nè al bisogno de’ loro più
congiunti, sarà cura dei parochi e predicatori il raffrenare, per
quanto potranno, una tale mostruosità, con rappresentarne la bruttezza,
e con inculcare a tutti il debito della gratitudine, e i bellissimi
e santissimi insegnamenti della carità cristiana. Ci avvisa qui S.
Antonino che il non somministrare quando si possa agl’infetti le
cose necessarie al corpo e all’anima loro, _est contra charitatem,
humanitatem, et cristianam pietatem._ E giacchè il Signor Iddio (non
si può ricordare abbastanza) nel finale giudizio più d’ogni altra cosa
ci chiederà se avremo esercitate le opere della misericordia verso
il prossimo nostro, quanto più sarà inesorabile il suo sdegno contra
chi nè pure avrà aiutato i congiunti che noi più degli altri dobbiam
amare e soccorrere; e quanto più perdonerà il Dio della carità, e darà
premj di vita eterna a coloro che, coraggiosi e fedeli, senza lasciarsi
atterrire nè da pericoli, nè da incomodi, nè dall’aspetto della morte
terrena, avranno assistito con santa unione e pazienza alla cura e al
bisogno de’ lor genitori, figliuoli e parenti?

A questo proposito non sarà grave ad alcuno l’intendere ciò che scrive
uno degli antichi storici italiani, cioè Matteo Villani, il quale
descrivendo la spaventosa peste de’ suoi giorni, accaduta nel 1348,
così parla: _Tra gl’infedeli cominciò questa inumanità crudele che i
padri e le madri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e
i padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti; cosa crudele
e maravigliosa, e molto strana della barbara natura, ma molto più
detestanda tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le nazioni
barbare ed infedeli, questa crudeltà si trovò. Essendo cominciata nella
nostra città di Firenze, fu biasimato da discreti la sperienza veduta
di molti, i quali si provvidono, e rinchiusono in luoghi solitarj
e di sana aria, forniti d’ogni buona cosa da vivere ove non era
sospetto di gente infetta. Ma in diverse contrade il divino giudizio
(a cui non si può serrar la porta) gli abbattè come gli altri che non
s’erano provveduti_. _E molti altri, i quali si disposero alla morte
per servire i loro parenti ed amici malati, camparono avendo male; e
assai non l’ebbono, continuando, in quel servigio: per la qual cosa
cadauno si ravvide, e cominciaro senza sospetto ad aiutare e servire
l’un l’altro; onde molti guarirono; e guarendo erano più sicuri a
servir gli altri._ Anche Evagrio nel lib. 4, cap. 28, della Storia
narra che in una gran peste molti servendo ai suoi parenti malati,
benchè desiderassero anch’essi di morir con esso loro, pure non
s’infermavano punto. L’ordine poi della carità richiede che si aiuti
prima il padre e l’avolo che gli altri parenti; prima i figliuoli che
la moglie; prima i parenti che gli amici; prima chi è posto in estrema
necessità spirituale, che il costituito in sola estrema necessità
corporale. Finalmente per animar sempre più il popolo a soccorrersi
caritativamente in occasione sì propria e di sì grave bisogno, potrebbe
il vescovo far dare alle stampe cose pie, spettanti a simili calamità,
come un’omelia di S. Gregorio Nazianzeno, due sermoni di S. Gregorio
Nisseno intorno al soccorrere i poveri, un sermone di S. Cipriano della
mortalità, ed uno sopra la limosina, e così altre omelie del Crisostomo
e d’altri SS. Padri che inspirassero e dilatassero la santissima virtù
della carità ne’ fedeli, e tutte tradotte in italiano, affinchè il
latino non ristringesse il frutto a quei soli pochi che l’intendono.



CAPO VI.

  _Carità de’ principi verso i lor sudditi. Maggiore si esige
    dagli ecclesiastici che dai laici e molto più dai benefiziati.
    Obbligazione dei regolari. Doversi in caso di necessità impiegare
    anche i vasi sacri. Carità eccellentissima di chi si espone alla
    cura degl’infetti. Come s’abbiano da preservare tali caritativi._


Ma se, in tempi massimamente di pestilenza, tutto il popolo dee aver
tanto a cuore ed esercitare le carità, quanto più poi dovranno averla
ed esercitarla i capi del popolo, i principi della terra? Sanno essi
che il difendere, conservare e soccorrere i proprj sudditi, è un
debito patente del loro grado, e un interesse premurosissimo della lor
potenza, e che non possono altronde sperar gloria più grande quanto
dal ben soddisfare a questo ufizio. Sanno che il Signor Iddio nel
costituirli sopra il popolo gli obbligò a procurare più la felicità di
questo popolo che la loro propria; e che appunto dalla conservazione e
felicità dei sùdditi dipende la maggiore lor felicità e riputazione.
Il perchè, quando s’odono le minacce, o si prova il flagello della
pestilenza, i buoni principi prima degli altri sottopongono sè stessi
alle leggi ed ai riguardi comuni, per tener lontano questo fiero
nemico, e non portare in seno ad alcuno la rovina. Non permettono che i
lor ministri, dazj e gabelle sieno d’impedimento alla preservazione del
popolo; anzi stimano gran guadagno le perdite loro, se queste possono
contribuire alla salute del pubblico. In una parola, siccome veri padri
del popolo, non perdonano a spesa, diligenza e premura alcuna, per
salvare e sovvenire in tanta calamità la gente, consegnata alla lor
prudenza e carità dalla provvidenza divina, come se fossero tanti loro
figliuoli.

E qui merita d’essere rammemorato uno dei principi italiani del secolo
prossimo passato, per le sue gloriose azioni in occasion di contagio,
cioè Ferdinando II, granduca di Toscana. Entrò la peste in Firenze
nel 1630, e quel caritativo principe mantenne sempre del suo ed anche
con suntuosità i tre lazzeretti allora costituiti. Non cessando poi
la strage, si venne finalmente al ripiego di mettere sul principio
dell’anno seguente in general quarantena tutta la città, e nello stesso
tempo ancora tutti i luoghi del suo distretto; risoluzione che da tutti
i saggi fu creduta e provata in fatti per l’unico antidoto che estinse
affatto il male. Descritti pertanto gli abitatori tutti colla loro età,
condizione e sesso, emanò un editto che chi avea bisogno di vitto dal
pubblico, stesse per 40 dì in casa (si allungò poi questo sequestro
sei altri giorni di più per arrivare al principio della quaresima) nè
potesse sotto qualsisia pretesto uscirne senza licenza de’ deputati. A
chi potea vivere a sue spese, era prescritto che un solo ben sano della
famiglia potesse, con licenza però del maestrato in iscritto, uscir
di casa una sola volta il dì al suono d’una campana, per provvedersi
di quello che bisognava, con poter anche andare ai cancelli fuori di
tre porte per comperarne dai rustici affatto esclusi. Per i bisognosi
erano preparati magazzini di vino, olio, grano, farina, ecc., a’
quali soprintendevano nobili, portandosi alle case d’essi poveri la
porzione, cioè per ciascuna persona, senza riguardo di sesso o di età,
due libbre di pane, una misura di vino e mezz’oncia di sale ogni dì,
mezza libbra di carne ogni tre dì della settimana, e negli altri giorni
due uova o talvolta due once di cacio, oltre a certa distribuzione di
olio, aceto, fascine, ecc., nel che quella città impiegò rilevantissime
somme di danaro. Dì e notte i soldati battevano la pattuglia, e due del
maestrato della sanità andavano ogni dì girando a cavallo per udire
il bisogno di tutti. Ora durante la suddetta quarantena il granduca
Ferdinando, non contento di tanti altri atti del suo amore, che qui
tralascio, verso il suo popolo, non lasciava giorno, quantunque la
stagion fosse rigida, che anch’egli non passeggiasse per le contrade,
consolando i mestissimi sudditi, ascoltando le lor necessità e
provvedendo a tutto; atto veramente eroico di un principe vero padre
del suo popolo.

È chiara l’obbligazion dei laici di soccorrersi l’un l’altro in tempi
di tanta miseria; ma molto più senza fallo dovranno allora accendersi
di carità e giovare al prossimo, gli ecclesiastici sì secolari, come
regolari. Parla da per sè questa verità, ed è superfluo il citare
autori. Per l’obbligo ch’essi hanno di dar buon esempio agli altri, e
per debito della lor professione, che è d’essere più virtuosi degli
altri, siccome entrati nella sorte ed eredità del Signore, questo
medesimo Dio richiede e aspetta da loro nelle calamità della pestilenza
ogni ufizio di carità fraterna. Chi può colla roba, dee soccorrere con
essa alla miseria del popolo; chi non può con questo, vegga di potere
colla persona o in altra forma. I vescovi spezialmente sono a ciò
obbligati dai sacri canoni e dai ss. Padri. E per conto della roba,
è da ricordarsi che se bene gli ecclesiastici che godono commende,
abbazie e benefizj, o semplici o curati, conceduti loro dalla Chiesa,
son tenuti in ogni tempo sotto pena di grave peccato a distribuire
in usi pii, e massimamente in benefizio de’ poveri, le rendite d’essi
beni, con potersi eglino solamente riservare quello che è necessario
all’onesto e non pomposo loro sostentamento, pure allorchè infierisce
la pestilenza, cresce questo obbligo, dovendo eglino vivere allora più
frugalmente che mai, e sottrar molto alle loro comodità, per rimediare
in quel che possono ai tanti incomodi ed affanni che il popolo è
costretto allora a sofferire. Le rendite della Chiesa, per comune
sentenza de’ concilj, de’ ss. Padri e de’ teologi, sono _Bona Christi,
Pauperum Patrimonia_. Quando mai è più proprio il tempo che i poveri
godano il frutto di questi lor patrimonj, che nelle estreme necessità
e sciagure d’una pestilenza? E quand’anche non ci fosse questa
obbligazion precisa, imposta dalla Chiesa, anzi, per così dire, dalla
natura stessa, a tutti i benefiziati di qualunque ordine e grado che
sieno, dovrebbe essere più che sufficiente a muovere gli ecclesiastici
che possono, all’altrui sovvenimento, l’aspetto e la considerazione di
tante miserie, nelle quali è allora involta l’infelice plebe, se pur
eglino han cuore in petto e si ricordano d’essere servi dichiarati di
Cristo, e ministri del vangelo e da chi eglino han ricevuto que’ beni
stessi. Ma che sarebbe poi, se taluno del clero, in vece di contribuire
le sue sostanze in sollievo de’ miseri, s’industriasse di far anche
guadagno sulle sciagure altrui, e facesse servire il suo contribuir
soccorsi spirituali al popolo per veicolo de’ proprj temporali
profitti?

Corre poi questa medesima considerazione anche per i luoghi pii e per
qualunque monistero, convento e comunità religiosa benestante, dovendo
anch’essi contribuire il loro superfluo, anzi assai più del superfluo,
con risparmiar quanto possono allora, per soccorrere quel popolo, onde
eglino una volta riceverono i beni temporali. Guglielmo, abate di S.
Benigno di Digione, o sia Divionense, uomo di santa memoria, nel secolo
XI tornato d’Italia, trovando che i suoi monaci aveano la dispensa e
il granaio pienissimo, e che contenti di dare ai poveri l’ordinaria
limosina, non soccorrevano ad essi come potevano, sdegnato sbalzò
su dalla sedia, e girando pel monastero non si saziava di replicare
o con alta o con bassa voce: _Ubi est charitas? Ubi est charitas?
Dove è la carità?_ Quindi fece chiamare i poveri e distribuir loro
quanto gli venne alle mani e ai monaci che voleano dipoi placarlo,
andavano pure rispondendo: _Ubi est charitas?_ Anzi nelle calamità
d’un contagio nè pure si hanno allora a lasciare in dietro i ricchi
arredi e i vasi sacri delle chiese; ma conviene, o è necessario il
convertirli in soccorso de’ poveri, qualor ne corra il bisogno. Non
solo non sarà disgradevole a Dio un impiego tale delle oblazioni a lui
fatte, ma anzi sarebbe a lui troppo disgradevole, se non si facesse
e se l’umano interesse, furtivamente ammantandosi delle vesti della
pietà e religione, trovasse colori e via per consigliare il non farlo.
Premono più senza fallo al Signore i poveri, cioè la sua famiglia,
e i tempj animati dello Spirito Santo, che gli ornamenti esterni del
tempio materiale, i quali sono bensì lodevoli e parte ancora necessarj,
ma senza che sia necessaria anche la lor ricchezza ed abbondanza. Io
potrei provare più diffusamente questa sentenza, se credessi che alcuno
ne avesse bisogno. Basterà pertanto il ricordare qui che S. Giovanni
Grisostomo, S. Girolamo, S. Bernardo ed altri SS. Padri non lasciano
dubitarne, da che eglino non hanno molto lodato chi fa servire senza
necessità al lusso dei sacri tempj ciò che sarebbe meglio impiegato in
soccorso delle necessità dei poveri. Ma più degli altri, parla chiaro
un altro dottore della chiesa, cioè S. Ambrosio nel lib. 2, cap. 28
_de officiis_, le cui parole furono poi riferite da Graziano nel c.
_Aurum_ 13, _Qu._ 2. Eccone alcuni sensi: _Hoc maximum incentivum
misericordiæ, ut compatiamur alienis calamitatibus; necessitates
aliorum, quantum possumus, juvemus, et plus interdum quam possumus,
etc. Aurum ecclesia habet, non ut servet, sed ut eroget, et subveniat
in necessitatibus. Quid opus est custodire, quod nihil adjuvat?
Nonne melius conflant sacerdotes propter alimoniam pauperum, si alia
subsidia desint? etc. Nonne dicturus est Dominus: Cur passus es tot
inopes fame mori? Et certe habebas aurum, ministrasses alimoniam. His
non posset responsum referri. Quid enim diceres: Timui ne templo Dei
ornatus deesset? Responderet: Aurum sacramenta non quærunt. Ornatus
sacramentorum redemtio captivorum est. Vere illa sunt vasa pretiosa,
quæ redimunt animas a morte, etc. Numquid dictum est S. Laurentio:
Non debuisti erogare thesauros ecclesiæ, vasa sacramentorum vendere?_
Veggasi il resto. Basterà qui a me in luogo d’ogni altro esempio quello
del B. Ricardo abate di S. Vitono di Verduno. Nell’orrenda mortalità
cagionata dalla fame nell’anno 1028 che desolava la città, quell’uomo
di Dio, per quanto narra Ugone Flaviniacense nella sua cronaca: _dopo
aver distribuito alla povera gente quanto aveva, non perdonò ai tesori
della sua chiesa; anzi vendute le cose più preziose d’essa a quella
di Rems, ne distribuì subito il prezzo ai poveri, de’ quali ancora
ritenne presso di sè un determinato numero per alimentarli. Inviò
ancora lettere e messi ai re, principi e vescovi suoi amici, chiedendo
soccorso di carità a tutti. Impegnò ancora i beni del monastero_ per
soccorrer pure in quante maniere poteva alla miseria del popolo. Questi
sono santi, questi esecutori veri della mente di quel buon Padre che
abbiamo in cielo.

Ma il più eccellente atto di carità che possa farsi in tempo di peste
verso il prossimo, e per conseguenza verso Dio, da cui vien ricevuta
come fatta a sè ogni opera di misericordia che esercitiamo verso il
prossimo nostro, purchè accompagnata da essa carità e dall’intenzione
di piacere allo stesso Dio, si è l’esporre allora la propria vita
in soccorso degli appestati e spezialmente nei lazzeretti, o per
medicarli, governarli e cibarli o per aiutar l’anime loro alla
pazienza, ovvero al passaggio dell’eternità coi sacramenti e con
altri mezzi della pietà e carità cristiana. Certo che di un sommo
merito presso Dio si è ancora l’attendere con indefesso studio alla
preservazione dei sani e del povero popolo, e il sovvenir loro
con aiuti temporali o spirituali; e massimamente perchè ciò non
può farsi d’ordinario senza esporsi a molti rischi di lasciarvi un
giorno o l’altro la vita. Ma il vedere allora persone non solamente
ecclesiastiche, ma ancora secolari che volontariamente e senza obbligo,
rinunziano a tutte le speranze della vita terrena, e, lasciata al
Signore la cura della lor sorte, corrono piene d’allegrezza e di
coraggio, e accese del fuoco celeste della carità, al governo e
soccorso o temporale o spirituale degl’infetti; questo è uno spettacolo
degno degli occhi del paradiso, e che supera tutti gli altri, e che non
si può abbastanza lodare da noi, ma si saprà ben premiare infinitamente
ed eternamente da Dio. Quando anche la morte accada in così eroico
e santo ministero, il morire, quantunque non sia propriamente un
martirio, pure è una similitudine o spezie di martirio, siccome
il P. Teofilo Rinaldo mostra in un suo trattato. E S. Bernardino
coll’autorità delle Scritture prova in una delle sue prediche
quaresimali che se un assassino, un ladro o altro più gran peccatore,
corresse in soccorso di qualche appestato abbandonato dai suoi e in
pericolo di perdere per la disperazione il corpo e l’anima, a fine
di confortarlo e di aiutarlo a salvarsi, mosso a ciò da vera carità
cristiana, cioè da un eroico amore di Dio, e costui in sì pio ufizio
venisse colpito dalla peste, e tanto improvvisamente morisse che non
potesse pensare a’ suoi peccati, nè confessarsi, egli si salverebbe,
mercè di quell’atto coraggioso di santissima carità, tanto commendata
da Cristo, e contenente in sè virtualmente anche la contrizione.
Ed appunto in questa scuola di carità si segnalarono i cristiani
d’Alessandria a’ tempi di S. Dionisio, e in altre pestilenze e
mortalità S. Cipriano, S. Gregorio taumaturgo, S. Cutberto, S. Antonino
arcivescovo di Firenze, il venerabile Girolamo Emiliano, S. Gaetano, il
B. Luigi Gonzaga, e tanti altri vescovi e santi: in questa incominciò
Bernardino da Siena, giovane di venti anni, con dodici altri pii
giovanetti il noviziato della sua santità; in questa finalmente fece il
santo arcivescovo di Milano Carlo Borromeo sì mirabili azioni ch’elle
non si possono leggere nella sua vita senza lagrime di tenerezza. Così
in altre pesti si son veduti divoti e generosi secolari dell’uno e
dell’altro sesso, sacrificare al Signore ogni riguardo di questa vita
terrena, per servire e soccorrere i poveri infermi. E gli ecclesiastici
secolari, non meno che gli ordini religiosi, hanno spesse volte fatto a
gara nel contribuire (anche sopra le loro forze, e con tirarsi addosso
non pochi debiti) o aiuti spirituali, o pur grani, medicamenti ed
altri simili soccorsi della lor carità; essendosi in oltre quasi sempre
distinti nell’assistere o al governo, o alle confessioni della gente
infetta, i PP. cappuccini e i PP. della compagnia di Gesù con dare
molti di loro lietamente la vita per la salute del prossimo loro.

E non è già che tutti poi questi generosi servi del Signore sieno
mancati di vita in mezzo alle morti altrui. Di moltissimi ha accettato
il medesimo Dio la prontezza, ed offerta di morire nel Suo santo
servigio, ma gli ha voluti anche preservare sani e gli ha risanati
infermi. Tuttavia si mirano in Firenze appesi ad un altare nella chiesa
delle Carmelitane, per voto fatto a S. Maria Maddalena de’ Pazzi, gli
abiti che portava nella peste della nostra città l’anno 1630 il P.
D. Vincenzo Maccanti fiorentino, cherico regolare teatino, il quale
intrepido sino al fin del contagio assistè agli appestati; cioè una
sopravveste e una sottanella ambedue di cuoio, una stola bianca, due
stivali e un’ombrella pure di cuoio, con altri arnesi. Mi contento
di questo solo esempio, perchè sono infiniti gli altri ecclesiastici,
medici, cerusici, serventi, ecc., che non risentirono infezione alcuna
dal praticare fra tanti infetti. Anzi parrà incredibile, e pure
viene attestato, come fatto patente e notissimo da Auberto Mireo,
dall’Elmonzio, da Antonio de Lions, che la pia confraternità di S.
Eligio instituita in Fiandra e in Normandia, prova una particolar
protezione da Dio per la lor carità verso gli appestati. Assistono
essi agl’infetti, ne toccano le piaghe, i cadaveri, e pure si
mantengono illesi in questo caritativo esercizio, e tornando alle lor
case non portano la rovina alle lor famiglie. Che che sia di questo,
so bene che per attestato del P. Marchino nella peste di Firenze
del 1631 i confratelli della misericordia, almeno in due per volta,
accompagnavano i morti alla sepoltura in una debita distanza con lumi
accesi, fermandosi poi fuori delle porte della città, nè si vide che
alcun d’essi morisse di peste. Qui nondimeno reputo io necessario il
ricordare, non doversi nè pure chi con una vocazione sì degna d’invidia
tutto allora si sacrifica a Dio, tralasciar le umane cautele, e i
riguardi e preservativi, per tener lungi da sè il morbo e la morte.
Il fare altramente, sarebbe un tentare Iddio, e uno scialacquare que’
giorni che la carità vorrebbe impiegati nel corso intrapreso per
benefizio del popolo. Perciò sarà loro cura di andar continuamente
premuniti con vesti incerate di tela Sangallo, o di seta, o di cuoio
sottile (il che è meglio) e con odori e profumi, e con aceto ed altri
alessifarmaci, e di guardarsi dall’affaticarsi in maniera da sudare
e da rendersi con ciò più atti a contrarre l’infezione, dovendosi
eglino conservare, se non a sè, almeno al prossimo, lasciando poi
che il celeste Padre disponga, come a lui parrà meglio, della loro
vita. Portino ancora berrette di cuoio, e giunti alle proprie stanze,
benchè non sudati, mutino spesso camicia e vesti, esponendo le altre
all’aria. Nel lazzeretto di Firenze per relazione del Rondinelli, i
PP. cappuccini che ne avevano cura, si governavano nella seguente
forma per non infettarsi. Pigliavano della bambagia rassodata, e
tuffandola nell’elisire, si turavano con essa le narici e le orecchie,
perchè il cattivo fiato degli appestati non penetrasse, o penetrando
restasse corretto dall’altro odore confortativo della testa. In bocca
tenevano incenso o solfo; e quando uscivano, si cavavano la bambagia e
lasciavano libera la bocca, bagnandosi tutto il capo con acquarello di
elisir-vite, perchè non è tanto potente. Avevano due abiti, l’uno, col
quale stavano nel lazzeretto, mutandolo la sera e facendolo profumare
con incenso, mentre il solfo dava loro troppo fastidio, e si mettevano
l’altro. Si lavavano di quando in quando la persona con aceto,
ovvero con qualche bagnuolo odorifero. E tale era la lor maniera per
difendersi.

Finirò con accennare una particolarità degna di essere tenuta a
memoria, e registrata dal P. Teofilo Rinaldo della compagnia di
Gesù, in occasione di parlare della peste che afflisse Lione a’ suoi
tempi, cioè l’anno 1629. Dopo aver egli narrato in quante maniere
esercitassero allora i PP. Gesuiti la loro carità in pro del popolo,
aggiugne che quantunque molti d’essi religiosi stessero nella loro
chiesa quasi continuamente esposti a confessar la gente, pure niuno di
que’ confessori fu mai toccato dalla peste. Due soli, che non andavano
mai, o di rado andavano a quel santo ministero, e si credevano più
sicuri dal pericolo con lo star ritirati, morirono di pestilenza, ad
esempio nostro, che non si ha da mettere la speranza della sanità nella
ritirata, quando non assista Iddio, e che chi è assistito dalla sua
misericordia, può andar franco in mezzo a tutti i pericoli. Perirono in
quell’occasione anche molti sacerdoti secolari per aver data solenne
sepoltura ad alcuni morti, come non morti di peste, secondo le fedi
false dei medici, e per aver toccato danari ed altre robe loro date
dai penitenti. Del resto nota il medesimo scrittore essere stato
il popolo di quella numerosa città in mezzo alle terribili angosce
della pestilenza sì divoto, sì compunto e disposto a ricevere dalla
mano di Dio qualunque sorte, e con tal disprezzo delle cose caduche
di questo misero mondo, che parevano persone della primitiva Chiesa.
Chi potè colla roba, aiutò; chi era povero, colla fatica e con altri
atti di carità. Inspiri il Signore Iddio a tutti i popoli fedeli, e
massimamente al nostro, in tutti i tempi, e molto più quando egli
volesse visitare un giorno con mano più pesante i nostri peccati,
questo spirito di rassegnazione, penitenza e carità, per l’amore
ch’ei porta al suo dilettissimo figliuolo, Gesù, e faccia che i mali
temporali servano a noi d’incentivo a maggiormente temerlo ed amarlo, e
di scala a goderlo un dì nel regno della sua carità.



CAPO VII.

  _Pietà e divozione quanto necessarie in tempo di pestilenza.
    Malvagità d’alcuni, che diventano allora peggiori. Quali prediche
    si convengano per costoro. Esercizi per accrescere e nutrire
    la pietà. Lezione spirituale, orazioni vocali, meditazioni e
    giaculatorie._


Sempre dovrebbe la pietà, o sia la divozione, essere il mestiere de’
cristiani, ma specialmente ha da essere nelle influenze pestilenziali.
Ognuno allora ha più che mai bisogno del potente soccorso di Dio
per preservarsi in vita. L’offenderlo, o l’essere in disgrazia
di lui, certo non è un mezzo proprio per prometterlo a sè stesso.
Ognuno conosce che stando allora la morte ai fianchi di tutti, v’ha
bisogno di sempre andar preparato pel gran viaggio dell’eternità,
e per conseguente d’intendersela bene con chi ha in suo pugno di
farci eternamente felici, o eternamente miseri. E pure, di che non è
capace la corrotta ed infelice natura degli uomini? Ho gran pena ad
accennarlo, ma pur si dee accennarlo per istruzione nostra. In quei
miserabili tempi, la sola relazione de’ quali, non che l’aspetto
effettivo, dovrebbe pur bastare per santamente atterrirci tutti e
condurci totalmente a Dio, in que’ tempi, dissi, non mancano persone
che non solo non diventano migliori, ma più che mai s’immergono ne’
peccati con temerario sprezzo di Dio, giudice onnipotentissimo, e con
pazza dimenticanza del grande interesse dell’anima loro. Alcuni pur
troppo intuonano il _Mangiamo e beviamo, che domani morremo_; ed altri
già descritti dalla divina Sapienza si fanno animo l’uno all’altro con
dire: _Godiamo dei beni finchè li abbiamo; coroniamoci di rose prima
che marciscano; nè ci sia prato per cui non passi la nostra lussuria_.
Peggio fanno altri, i quali, figurandosi di portar seco un’infallibile
salvaguardia, non credono che la peste abbia veleni per loro, e però
si danno a ladrerie e ad ogni altra sorta d’iniquità ed eccesso. Non
si crederebbono cose tanto stravaganti se la sperienza non le avesse
più volte fatto vedere, e non fosse ancora per rinnovarne gli esempi.
In somma è pur troppo vero ciò che anche il grande arcivescovo S.
Carlo diceva d’aver conosciuto per prova nella peste de’ suoi tempi,
cioè: _Che il buono si emenda sotto il flagello, e il cattivo sempre
peggiora_.

Ora contro tali pazzi ed empj egli è necessario che vegli e s’armi in
primo luogo la giustizia dei principi, gastigando immediatamente e con
qualche rigore certi delitti enormi, o pure pubblicamente scandalosi,
ove sia con loro mischiata la disubbidienza agli editti allora
pubblicati dal buon governo; e ciò per salutevol terrore ed esempio
degli altri. Benchè non sarà tanto facile il commetterne di questi,
ove si proceda con quelle provisioni e leggi che si sono proposte in
trattando del governo politico. Contro certi altri delitti che non
appartengono alla giustizia punitiva del fôro o per la loro qualità, o
per la loro segretezza, ma che senza fallo non fuggiranno gli occhi di
Dio, dee in quei tempi sfavillare più che mai lo zelo e l’eloquenza de’
predicatori e confessori, inculcando a questa gente cieca e dimentica
di sè stessa, ora con aspri ed ora con piacevoli modi, ma sempre con
paterna censura, il tremendo giudizio di Dio, la sua gran giustizia,
la sua immensa potenza in gastigare i figliuoli ribelli ed ostinati.
E conciossiachè a certe persone di scorza dura, e tali ordinariamente
non per altro se non perchè credono poco, essendo la divina virtù
della fede troppo languida in esse, non fanno gran forza, nè mettono
terrore certi esempi ed insegnamenti delle sacre Scritture, appunto
perch’esse credono poco, bisogna dar di piglio anche alle ragioni umane
e filosofiche, per levar loro di mente, se fia possibile, gl’incanti
delle loro passioni e la sciocchezza de’ loro consigli e raziocini.
Gioverà per tanto dilucidar loro questi inganni, e mettere in mostra
tutto il pericolo e l’orror della morte imminente che quegli infelici
mirano ben allora con gli occhi del corpo, ma non già con quei
dell’anima, e quindi passare a far conoscere quanto sia folle e nemico
di sè stesso chi in tempi tali va sì malamente spendendo i forse pochi
momenti che gli restano di vita e quanto sia terribile il cadere nelle
mani di Dio vivo e vero, giustissimo punitore delle offese e degli
strapazzi contro di lui usati, e usati con tanto sprezzo di lui, perchè
in tempi sì fatti; e quanto in fine sia necessaria a tutti la penitenza
e la divozione e pietà, per preservarsi allora dalla morte temporale, e
molto più dall’eterna. S. Gregorio il Grande, scrivendo appunto della
pestilenza a Domenico vescovo di Cartagine, nell’epist. 41 del lib. 8
già ci avvertì che _Inter flagella positos, flagellis digna committere,
contra ferientem est specialiter superbire, et sævientis acrius
iracundiam irritare_.

Ma per tali miscredenti ed iniqui, che finalmente poi, allorchè il
flagello di Dio fa una lesione cotanto sensibile ai peccatori, si
riducono a poco numero, pongasi mente di non atterrire la maggior parte
del popolo che o è buona da lungo tempo, o certo allora si dà di vero
cuore al pentimento de’ suoi peccati. A questi si ha da dire che non
si parla, ma sì bene a certi ostinati, per i quali hanno anzi tutti
gli altri veramente pentiti e compunti e tutti i buoni da implorar con
preghiere la divina misericordia che li muova e converta. Colla gente
già buona, o divenuta buona nelle calamità, io torno a ripeterlo, non
si ha allora da metter mano al terrore, ma sì bene alle consolazioni,
parlando della infinita clemenza di Dio verso chi daddovero ricorre a
lui, e inanimendo, e confortando chi fa profitto dei gastighi di lui.
Corrono bene; non bisogna avvilirli nel corso, servendo già loro di
sprone la terribil faccia della stessa pestilenza.

Appresso è da promuovere la pietà nel popolo, in guisa però che non
si contravvenga alle sagge regole del governo politico con adunanze
pericolose, o pure con disubbidienze che dispiacerebbono al medesimo
Dio. Prescriverà dunque il vescovo certe regole di vita cristiana,
orazioni vocali, meditazioni, ed altri simili esercizi di vera
pietà; o pure, non facendolo il vescovo, ognuno si aiuterà da sè
stesso, e potrà essere aiutato dai confessori e predicatori. Gioverà
pertanto leggere allora più che mai libri divoti che trattino delle
tribolazioni, per imparare da essi la maniera cristiana di tollerarle;
ed altri che insegnino la vita divota e la perfezione, per unirsi
bene a Dio, e rassegnarsi al suo santo volere. Alcuni consigliano il
leggere, oltre ad alcune omilie da me accennate di sopra, l’operetta di
Tertulliano intorno alla pazienza, il Trattato del Disprezzo del Mondo
d’Innocenzo III, il Tesoro della Misericordia di Gabriello del Toro, il
Cacciaguerra della Tribolazione, il Conforto degli Afflitti di Gasparo
Loarte, alcuni Sermoni di Gabriello Biele e del Busto in materia di
peste, le Opere del P. Bartolomeo da Saluzzo, il Conforto degl’Infermi
del P. Stefano Binetti. Io per me consiglierei tutti a leggere allora
in primo luogo, per chi può, i divini libri, specialmente del nuovo
Testamento; e secondariamente le vite dei santi o beati, scegliendo
anche i più caritativi, sieno martiri, sieno confessori e vergini,
purchè scritte da autori approvati, e con semplicità di stile, e
con verità di storia. Quelle dei santi e beati degli ultimi secoli,
siccome più diffuse, e per lo più composte o tradotte in volgare,
riusciranno maggiormente comode ed utili al popolo. S. Filippo
Neri, gran maestro di spirito, raccomandava più che gli altri libri
di divozione la lettura di queste vite, perchè sapeva che ivi nel
medesimo tempo s’imparano le massime della santità, e si mira la
santità posta in esercizio, restando chi legge egualmente istruito e
spronato dall’esempio altrui. In terzo luogo essendo facilissimo l’aver
seco o il trovare l’aureo libro dell’Imitazione di Cristo di Tommaso
da Kempis, o sia dell’abate Giovanni Gersen, e tutte le sugose ed
eccellenti opere del P. Luigi Granata e di S. Teresa, e quelle ancora
di S. Francesco di Sales, io persuaderei tutti ad attenersi ben forte
più alla loro lettura piena di santa unzione, che a quella d’alcuni
altri libri, i quali non toccano bene spesso il cuore, benchè parlino
o insegnino tanto. Chi potesse anche leggere il Trattato dei Travagli
di Gesù del P. Tommaso di Gesù agostiniano, e l’Erario della Vita
Cristiana del P. Giambatista Sangiurè della compagnia di Gesù, e le
Opere Ascetiche del piissimo cardinale Giovanni Bona, e del P. Lorenzo
Scupoli, cherico regolare teatino, per tacer d’altri autori, ne speri
gran soccorso e consolazione spirituale.

Quindi si potrà e dovrà esercitare la divozione in orazioni vocali e
mentali, che ognuno sceglierà secondo la capacità sua, o pure secondo
la direzione del vescovo o del confessore. Il basso popolo, che non
sa leggere, ha le sue orazioni, che basteranno purchè accompagnate
dal buon cuore e dall’intenzione pura di pregare o lodar Dio. Quei
di sfera un poco superiore ne aggiungeranno dell’altre conformi alla
necessità di que’ tempi, con ricordarsi principalmente di recitare
almeno una volta il giorno, più col cuore che con la bocca, gli Atti
di fede, di speranza, d’amore di Dio e di contrizione, siccome le
più sode orazioni che dopo la dominicale e il simbolo della fede,
dovrebbono praticarsi nella nostra santa religione. Ma non si può
dire che utilità e divozione, e qual soave conforto possano recare
in ogni tempo, e specialmente in quello della calamità, alcuni salmi
della divina Scrittura. D’ordinario non se ne sente il mele e non se
ne cava gran profitto anche recitandoli, perchè o non s’intende la
lingua in cui si recitano, o non si ferma l’attenzione, nè fa posata
la mente sopra i loro santissimi sensi e mirabili affetti. Sarà
pertanto allora di un sommo vantaggio e conforto alla gente pia il
parlare attentamente con Dio mercè d’alquanti salmi, scelti apposta per
cura del prelato, ed anche volgarizzati, con lasciar da parte tutti
que’ versetti che non si adattano al bisogno d’allora, ovvero che
esigono troppo comento per capirne gli alti loro sensi e misteri. Gli
abbiamo tradotti in volgare per opera di Pellegrino degli Erri, nostro
Modenese, e stampati in Venezia l’anno 1573. Anzi perchè i più del
popolo, a cagione del non intendere il latino, non sono atti a trarne
tutto quel frutto che possono gl’intendenti, sarebbe da desiderarsi
che venisse composta una selva di varie orazioni e di affetti, tutta di
versetti de’ salmi, per quanto si può continuati, e talvolta ancora di
salmi interi, con aggiugnere in un’altra colonna la loro traduzione, e
con ridurre essi sotto diverse categorie, come sarebbe di pentimento,
di speranza, di coraggio pio, di preghiere nelle tribolazioni,
di risoluzione per eseguire la santa legge, di consolazione per i
giusti, di confidenza de’ buoni in Dio, di ringraziamento, di lodi
del Signore, e simili. Certo è che quelle parole, per esser dettate
dallo Spirito Santo, purchè intese e recitate con attento e divoto
cuore, più di qualunque altra orazione formata dagli uomini, ci possono
riempiere di tenerissimi e santi affetti. Sarebbe propria di qualche
anima innamorata di Dio, e insieme molto giudiziosa e intendente,
l’esecuzione di un tal disegno; ma quando niuna di queste vi si
applicasse, bramerei di poter io un giorno tentare, se mai ciò mi
riuscisse, in una forma tollerabile.

Chi poi ha il costume e la grazia da Dio di potere e saper meditare,
più allora che mai si dovrà esercitare in questo efficacissimo pascolo
della vera divozione, ricordandosi però che il profitto dell’anima
non consiste in pensar molto, ma in amar molto Dio, e in determinarsi
a conformare in tutto e per tutto la nostra volontà a quella di Dio,
e ad operare e patire assaissimo per amore di lui, e in farlo poi
quando se ne offra l’occasione. Ancor qui potrà il vescovo suggerire,
o pure cadauno consigliandosi col suo direttore, o coll’intendimento
suo, eleggerà i punti che principalmente sono da meditare ne’ tempi di
gran calamità, mettendo in primo luogo la Passione del nostro divino
Redentore per addestrarci coll’esempio del nostro divino Duce a patire,
e a patir coraggiosamente e volentieri, per dar gusto a lui e per
fare il suo santissimo volere. Lo sprezzo del mondo, la rassegnazione
che dobbiamo a Dio, la grandezza dei beni ch’egli ci riserva nel
suo regno, la misericordia sua, l’utilità delle tribolazioni, i
mirabili insegnamenti di carità dati a noi da esso Dio, sopra tutto
coll’esempio e colla voce del suo divino Figliuolo, ed altri simili
argomenti saranno a proposito per eccitar allora maggiormente le anime
a pensieri ed opere sante, e all’effettivo loro esercizio. S’hanno in
fine da scegliere varie giaculatorie ben vivaci e pie, essendo queste
per consiglio de’ maestri un cammino de’ più corti e de’ migliori per
unirsi e per istare continuamente unito a Dio.



CAPO VIII.

  _Ricorso all’intercessione de’ santi; ma spezialmente ricorso a
    Dio. Sua immensa bontà, e meriti di Gesù che ci fanno coraggio.
    Amore e divozione verso Gesù e speranza in lui; utili e necessarj
    soccorsi in ogni tempo, ma in quei massimamente delle calamità._


Sarà ancora utile il ricorrere nei calamitosi tempi della pestilenza
alla protezion de’ santi, nel che è da desiderare, che siccome noi
certo possiamo sperar molto dalla loro intercessione, così ancora si
potesse in ciò ben regolare il corso d’alcune persone o rozze o non
abbastanza istrutte. Sarà cura dei vescovi, e degli altri uomini dotti
e pii l’osservare che l’interesse umano non entri a persuadere certe
divozioni troppo superficiali e molto meno a contaminare le pratiche
pie, e che l’ignoranza non giunga ad abusarne con dispiacere della
chiesa santa. Gioverà principalmente il ricorrere all’intercessione
della purissima e santissima Madre di Dio e de’ santi protettori
della città e di quelli spezialmente dei quali si conserva il sacro
deposito, al qual fine serviranno quelle che appelliamo Litanie della
Vergine e dei Santi. Ma la vera maniera d’impegnare i beati del cielo
alla nostra tutela, si è quella di pentirsi daddovero, e di lasciar le
offese di Dio, e di praticar le virtù che piacciono a Dio, e piacquero
tanto anche agli stessi buoni servi di lui. La divozione verso i santi,
consistente in una sola esteriorità o di orazioni vocali, o di voti,
o di offerte, ma scompagnata dall’interiore e vero amore di Dio e
del prossimo, contuttochè possa essere anche lodevole, pure non dee
e non può promettersi molto da que’ fortunati cittadini del cielo,
amanti troppo dell’onore e della gloria del nostro e loro Dio. Allora
sì potremo confidare assai nel patrocinio loro ed anche per ottener
grazie temporali, quando li pregheremo del pari che interpongano le lor
preghiere appresso l’Altissimo, acciocchè per sua clemenza, e colla sua
potente grazia di cattivi ci faccia buoni.

Ma s’egli è utile e lodevole sempre, e molto più ne’ pericoli e guai
della pestilenza, il fare ricorso ai santi nostri avvocati, egli è più
poi necessario il farlo ancora, e principalmente e con più attenzione a
Dio, cioè all’Onnipotente e comune padrone di tutti e del tutto. Questo
ricorso ha da consistere in un verace pentimento delle nostre colpe,
e in una risoluzione ferma di volerlo amare, ubbidire e servire sempre
sempre. Dopo ciò esporremo a lui le nostre miserie, e i bisogni nostri
anche temporali, e la nostra debolezza, con supplicarlo di pietà,
d’aiuto e di conforto. Io non so se ci sia, o ci possa essere alcuno,
il quale metta tutto il suo studio e la sua speranza nell’amicizia e
nel culto dei santi, servi del Signore, quasi non osando presentarsi
egli giammai a dirittura al soglio di Dio, per pregarlo di soccorso
e di grazie. Ma se mai ci fosse, sappia ch’egli fa torto a quello
stesso Dio, a cui non ricorre e non può piacere ai santi medesimi,
e si allontana dai dogmi della chiesa cattolica romana. Sarebbe un
gravissimo errore il figurarsi in Dio i difetti degli uomini e dei
principi della terra. Nulla più egli desidera, quanto che tutti a lui
ricorrano di buon cuore e il preghino; anzi esige da noi questi atti
d’ossequio, d’umiliazione, d’amore e di confidenza, non tanto come
nostro adorabil sovrano, quanto ancora come padre di tutti. Che se mai
taluno rispondesse di non avere merito, anzi di scorgere in sè dei gran
demeriti e mancandogli ragion di sperare beneficenza dal suo diritto
ricorso a Dio, rivolgersi perciò egli all’intercessione dei servi di
Dio che hanno tanto merito presso di lui; oda egli per suo disinganno
e conforto ciò che c’insegna colle scritture sante la chiesa di Dio:
Buono è sempre di raccomandarsi anche ai buoni della terra, non che
ai santi e beati del cielo che preghino e intercedano per noi; ma
non dee tralasciarsi mai di sempre ricorrere al supremo loro e nostro
Padrone. Imperocchè ognuno è a ciò tenuto per debito di suggezione; e
ognun di noi, per gran peccatore ch’egli sia stato, o sia, ha poi due
potentissime ragioni di sperar da Dio un favorevol rescritto di quanto
non disconvenga a Dio il concedere, e sia utile alle anime nostre
l’ottenerlo.

La prima si è l’immensa bontà, benignità e clemenza dello stesso Dio.
Giustissimo, egli è vero, e terribile si fa sentire Iddio contra de’
peccatori ostinati, e massimamente contra chi si abusa delle grazie
e della misericordia di lui, e non curando le sue divine chiamate gli
vuol pure mantener viva la guerra. Ma per chi fedelmente l’ascolta e
umilmente a lui ricorre, e con amore e confidenza da figlio chiede
a lui pietà e soccorso, non si dimentica mai il buon Dio della sua
misericordia infinita, nè d’essere nostro Padre. E Padre appunto ci
ha insegnato a chiamarlo il suo unigenito Figliuolo nella celeste
orazione del _Pater noster_, dettataci da lui stesso e a questo
medesimo oggetto, affinchè noi misere creature avessimo ogni giorno
un mezzo fortissimo per placare il suo divin Padre, e impetrarne con
questo dolcissimo esordio le grazie che ci bisognano. Anzi sull’immensa
bontà di questo comun Padre è principalmente fondata e dee fondarsi
la speranza, cioè una delle virtù soprannaturali che esso Dio concede
al suo popolo fedele, giungendo egli a prometterci tutto in bene delle
anime nostre, se con fede ed amore ricorrendo a lui, in lui riporremo
ogni nostra speranza e fiducia. L’altra stabilissima ragione di potere
e dovere sperare ogni grazia spirituale e soccorso ne’ travagli dal
nostro celeste Padre, viene dai meriti infiniti del suo dilettissimo
Figliuolo e Signor nostro, Cristo Gesù. Apposta per nostro amore,
apposta per giovare a noi tutti, e per unirci tutti all’eterno suo
Padre, è venuto dal cielo, ed è morto sopra la croce questo benedetto
divino Salvatore. Ed egli con quell’augusto sacrifizio della sua
gran carità divenne per sempre la nostra redenzione e la nostra
propiziazione, di maniera che basta che il peccatore, per iniquissimo
che egli sia, o sia stato, mostri a Dio le piaghe del di lui dolcissimo
Figliuolo, e di vero cuore chiegga pietà e si emendi, per disarmar
subito tutto lo sdegno divino, e per impetrar da lì innanzi ogni favore
ed aiuto. Se dunque non abbiam merito noi, anzi se proviamo in noi
tanti demeriti, ha bene il nostro Gesù un merito infinito e l’ha tutto
per noi; perciocchè non per bisogno ch’egli ne avesse per sè, ma solo
pel bisogno che n’aveano, ed erano per avere gli uomini, sparse questo
amoroso Dio fatto uomo tutto il suo sangue, sangue di prezzo immenso,
e che noi possiamo offerire come cosa nostra al suo celeste Genitore,
per iscontare i nostri peccati, ed impetrar tutto ciò che è per nostro
bene, e ci può condurre a lui. E però finchè abbiamo Cristo Gesù dalla
nostra (e il non averlo può solo venire da mancamento nostro) noi
possiamo e dobbiamo sperar tutto dall’eterno suo Padre.

Queste son verità di fede, e che debbono consolarci tutti; ma quello
che importa più, sono verità che dovrebbono farci tutti innamorare,
e senza misura, del nostro amantissimo Redentore Gesù, via, verità e
vita di tutti gli uomini, il quale tanto ha amato ed ama noi altri,
che per un eccesso del suo amore e per cibarci, aiutarci, e farci
suoi e del suo divin Padre, vuol sempre ancora starsi in persona
fra noi, rinchiuso nell’ineffabile Sacramento dell’altare. E giacchè
noi trattiamo della pestilenza, ora debbo soggiungere che in tutti i
tempi, ma spezialmente in quei delle terribili calamità, non ci ha
da essere divozione a noi più cara di quella del nostro Gesù che è
la divozion delle divozioni. Le altre possono esser buone ed utili;
ma questa sarà sempre e senza paragone più utile dell’altre; anzi
è la necessaria ad ogni cristiano, mentre c’insegnano gli apostoli
e la Chiesa, che nell’onorare, amare ed imitare per quanto si può;
massimamente nell’esercizio della carità, la sacrosanta persona di
Gesù Cristo, consiste l’essenziale e più sodo impiego che s’abbia
d’avere la vita del cristiano. Oltre di che nulla possiamo sperare
noi peccatori da Dio, se non per mezzo del santo de’ santi, cioè di
Gesù, mediatore di Dio e degli uomini, terminando appunto per questa
ragione la Chiesa, custode della verità, tutte le orazioni e preghiere
sue con quelle parole: _per Dominum nostrum Jesum Christum, etc. Nulla
possiam fare senza Gesù_: l’ha detto egli di sua bocca in S. Giovanni;
tutto possiamo e potremo con Gesù e colla sua potentissima protezione
e grazia. Il perchè non ha molto, il P. Nepueu della compagnia di
Gesù in un suo libro (tradotto, accresciuto e ristampato dal P. Paolo
Segneri juniore, insigne missionario della stessa compagnia, le cui
incomparabili virtù abbiam noi pure ammirato in Modena, e la cui morte,
ah troppo immatura! accaduta in Sinigaglia nel presente anno 1713, ha
riempiuto di dolore noi tutti) deplorava l’uso di molte persone nel
cristianesimo, anche delle più pie, le quali s’occupano in tante altre
divozioni non comandate, non necessarie e parte ancora superficiali,
trascurando poi la divozion di Gesù che è d’obbligo, e che sopra ogni
altra dee abbracciarsi, e dee consigliarsi dai predicatori e direttori
d’anime siccome la più propria, sicura e facile per condurci tutti alla
perfezione e ad ogni vera felicità di spirito.

Adunque convien seriamente applicarsi in questa misera nostra vita
a contemplare la vita di Gesù, esempio a noi di tutte le virtù e
motivo di tutte le consolazioni. Bisogna impiegar quanto possiamo
per intendere le obbligazioni che gli abbiamo, per dargli l’onore
ch’egli merita, per conformarci a lui per amarlo. L’Apostolo delle
genti, innamoratissimo di questo amabil Redentore, non potè ritenersi
nell’epist. 1 a quei di Corinto d’intimare una grave scomunica a chi
non ama il nostro Signor Gesù Cristo._ Si quis non amat Dominum nostrum
Jesum Christum, sit anathema_. E lo stesso Signore ci ha detto egli
di sua bocca appresso S. Giovanni che se ameremo lui saremo amati
dall’eterno suo Padre. _Qui diligit me, diligetur a Patre meo, et ego
diligam eum._ Che pretendiamo di più? Che se c’incontreremo nelle
tribolazioni, nessuno maggior conforto e vigore potremo ritrarre,
che dal considerare che Gesù ci va avanti condottiere amoroso colla
sua passione e croce; e che questa medesima croce e i travagli, e non
già le terrene felicità sono la via che conduce sicuramente al cielo;
e che nel patir volentieri per amor di Gesù, le persone buone e pie
trovano (e questa è una verità certissima: così avessimo la fortuna
d’intenderla ancor noi) più consolazione e godimento, che i tepidi e i
cattivi in tutti i loro sognati o veri piaceri dal mondo. In oltre se
avremo bisogno di grazie e d’aiuti, anche per questa vita temporale,
o per noi stessi, o pel popolo e prossimo nostro, a chi meglio ci
potremo rivolgere che a Cristo Gesù, e in chi più confidare che in
lui? Egli ci ama, e svisceratamente ci ama: basta mirarlo sulla croce
per noi e nell’augustissimo Sacramento dell’altare per nostro amore;
e basta ricordarsi di quelle tenere parole che lasciò scritto, non
un uomo volgare, ma il suo diletto apostolo Giovanni nell’epist. 1,
cap. 2. _Filioli mei, hæc scribo vobis, ut non peccetis. Sed et si
quis peccaverit, advocatum habemus apud patrem Jesum Christum Justum;
et ipse est propitiatio pro peccatis nostris; non pro nostris autem
tantum, sed etiam pro totius mundi._ Cioè: _Figliolini miei cari, vi
scrivo queste cose, affinchè non pecchiate. Che se pure alcuno per
sua miseria avrà peccato, noi abbiamo appresso il padre per avvocato
nostro Gesù Cristo, giusto ed innocente. Egli è quello che il placa, e
il rende propizio ai peccati nostri, e non solo ai nostri, ma a quelli
ancora di tutto il mondo._ Adunque egli (non ce n’ha da esser dubbio)
vorrà aiutarci. Di più egli può tutto non solo come Dio, ma ancora come
uomo, non essendo già questa un’esagerazione divota, ma un indubitato
articolo di fede, avendo detto egli stesso appresso S. Matteo nel cap.
28, che lo stesso suo divin Padre ha dato a lui ogni potere in cielo e
in terra: _Data est mihi omnis potestas in cœlo et in terra._ Adunque
non solo egli vorrà, ma potrà aiutarci in ogni nostra angustia e ne’
tempi massimamente della pestilenza, se a lui ci rivolgerem daddovero,
e se ameremo di cuore questo benedetto ed amatissimo Dio e confideremo
in lui.

Ora per quante divozioni io ed altri sapessimo consigliare ne’ fieri
pericoli e bisogni d’un contagio, anzi in tutti i tempi, niuna mai
ne troveremo che uguagli la divozione verso la sacratissima persona
del nostro Gesù. Divozione pertanto alla sua croce e passione
dolorosissima, divozione al divino Sacramento dell’altare, divozione
al suo dolcissimo e santissimo nome. Ed appunto il solo suo nome è
bastante a riempierci di consolazione e di tenerezza, perchè ci ricorda
ch’egli ci ha salvati, e se noi ricorreremo fedelmente a lui ci salverà
dall’ira ventura. Anzi, cosa non possiamo noi sperare dal suo Padre
Iddio e da lui medesimo, nominandogli con viva fede questo amoroso
nome, e pregandolo per gli suoi meriti infiniti? Tutto potremo sperare,
da che egli stesso, che non può mentire, ce ne ha espressamente
assicurati in S. Giovanni al cap. XIV con dire: _Quodcumque petieritis
Patrem in nomine meo, hoc faciam. Si quid petieritis me in nomine
meo, hoc faciam._ Animo dunque ne’ pericoli, nelle infermità, nelle
pestilenze. Ricorriamo a Gesù che potremo sperar tutto. E sappiasi a
questo proposito che S. Bernardino, uno dei santi più innamorati di
Gesù, predicando un quaresimale in Padova, ed esponendo nel Sermone
XLI i raggi co’ quali egli faceva scolpire questo santo nome, scrisse
che il terzo d’essi raggi era detto _remedium infirmitatum_, perchè
il Signor nostro in S. Marco al cap. XVI, promise che i fedeli nel suo
nome scaccerebbono i demonj, guarirebbono gl’infermi e farebbono altre
maraviglie. Soggiugne poscia che vedendo le pesti, elle cederanno alla
forza del nome santissimo di Gesù, citando appunto ciò che era avvenuto
in Ferrara sotto i suoi occhi, mentre quel popolo, mercè d’esso nome
posto sopra le porte delle case, si vide in breve libero dalla peste,
quand’ella dovea naturalmente aumentarsi. Ecco le sue parole: _Sequitur
pestilentia in aliqua terra, vel regione, et talis pestilentia cum
nomine Jesu auferetur. Illud expertus sum, quod me prædicante tempore
vigentis pestis Ferrariæ de nomine Jesu, ad tantam fidem illius nominis
fuerunt accensi et devoti, ut quasi totus ille Ferrariensis populus,
mediante nomine Jesu, quod superliminari cujuscumque domus apposuerat,
remedium illius pestiferi morbi senserit, nam illa pestis cessavit,
quando secundum naturalem rationem debebat accrescere._ Non c’è già
necessità di tenere scolpito in marmo sopra le porte delle case il
nome del Salvatore. Basta averlo, ed è necessario l’averlo scolpito nel
cuore da un tenero amore e da una viva fede.



CAPO IX.

  _Riguardi per conservare illesi i conventi de’ religiosi. Varie
    cautele a tal fine ed altre in caso che v’entrasse il male.
    Quando sieno tenuti i religiosi a ministrare i sacramenti
    agl’infetti e quando gli ecclesiastici secolari. Monasteri delle
    monache come s’abbiano a custodire, e regole se vi penetrasse la
    peste. Esortar la gente allo spurgo. Dopo il contagio promovere
    la pietà. Conformità al volere di Dio cagione della vera
    tranquillità._


Ai magistrati secolari, e molto più alla cura del vescovo sarà ne’
tempi di peste raccomandata la preservazione de’ conventi de’ religiosi
e delle religiose. Certo è (il ripeto) che questi luoghi, ma senza
paragone molto più quei delle monache, si possono e si sogliono
difendere, essendosi osservato anche nel contagio del 1630 della nostra
città che colà non entrò, o appena entrò in due o tre, che da lì a poco
fu soppresso il morbo, e quel che è più, de’ PP. Benedettini Cassinesi
che restarono nel loro monastero in questa città, eccettuatone un solo,
niuno s’infettò, laddove alcuni d’essi che s’erano ritirati in villa
a S. Cessario, morirono e di contagio. In Firenze per attestato del
Rondinelli si conservarono illesi tutti i monasteri delle monache,
a riserva di S. Maria sul Prato, ove, secondochè alcuni credettero,
morirono di peste due religiose, ma non vi seguì altro danno. Ivi
all’incontro quasi niuno de’ conventi de’ frati restò intatto. Furono
più fortunati, perchè più guardinghi, alcuni gran conventi di religiosi
in Palermo. Anche Roma nella peste del 1656 vide preservati i suoi
monasteri; e ho inteso a dire che in Genova stessa, ove del medesimo
anno fece tanta strage il male, pure rimasero illesi tutti i conventi
delle monache. In quanto alle case dei religiosi dovrà avvertirsi
che vivendosi ivi in un continuo commercio di coro, di refettorio e
d’altri impieghi, troppo danno potrebbe recare a tutta la comunità
un solo che vi portasse dentro disavvedutamente la pestilenza. Il
perchè trattandosi di famiglie sacre molto numerose, sarà necessario
custodire tai luoghi nella guisa de’ lazzeretti, con questo divario
però che laddove dai lazzeretti non si lascia uscire persona o roba che
sia sospetta o infetta, nei conventi non v’ha da entrare nè persona,
nè roba che abbia minimo sospetto d’infezione, a riserva di quelle
che sono necessarie al mantenimento de’ religiosi. Vi si ammetteran
dunque i commestibili che d’ordinario sono incapaci d’infezione, e se
dovrà introdursi per necessità altra roba o persona atta a portar seco
il morbo, non verrà ammessa senza le cautele e i riguardi, e profumi
che son prescritti per tutti dal governo politico. Del resto sarà
interdetto a qualunque dei religiosi o de’ ministri e serventi l’uscir
fuori, o pure, usciti che sieno, si dovrà loro vietare il ritorno. A
questo effetto il pubblico, o il vescovo potrà, occorrendo, destinare
un custode secolare della sanità, che alle spese d’essi religiosi
guardi continuamente la porta del convento, la quale sarà una sola
in que’ tempi, acciocchè più sicuramente venga eseguito il suddetto
regolamento, ovvero si provvederà in altra competente forma. Pei
conventi di poche persone non occorre tanta esattezza o strettezza.

Agli ecclesiastici secolari che s’impieghino in opere di carità,
come di confessione, comunione o d’altro, assistendo agl’infermi o
moribondi, sarà permesso il ritornare alle lor case e dimorarvi, benchè
fieno sospetti, avvertendo solo che non passi commercio fra loro ed
altri sani, e che la lor famiglia, siccome sospetta, non pratichi con
altri. Ma per gli regolari di grossa famiglia, quando uno o due o più
d’essi consacrassero sè stessi all’assistenza caritativa del prossimo
infetto, si dovrà camminare con diverso stile. Cioè sarà utile il
proibir loro il ritorno in convento, affinchè non rechino la disgrazia
a que’ molti che si conservano coi necessarj riguardi della salute e
possono esser utili per altri tempi ed impieghi. Viveran dunque tali
caritativi religiosi esposti, ritirati in qualche casa decente ed
appartata, ove possano recare men pregiudizio che ai loro conventi; e
venendo ivi nelle debite forme soccorsi e mantenuti, sarà loro facile
il continuare la necessità del loro sacro utilissimo ministero. Il che
sia detto in caso che il convento non avesse delle stanze in disparte
con passaggio o con porta propria, da collocarvi per quel tempo simili
zelanti servi di Dio, e separarli dal resto della comunità. Si ha
da stendere tal cautela sino a non praticare per qualche giorno que’
religiosi che fossero chiamati a visitare o confessare qualche infermo,
benchè non sospetto di morbo contagioso. Le chiese dei religiosi
dovranno regolarsi anch’esse come l’altre della città, cioè o tenerle
chiuse, o pur coi rastrelli o cancelli agli altari e a’ confessionarj,
per impedire i mali influssi dell’avvicinamento delle persone. Tengano
ai campanelli della porta, della sagristia, ecc., un filo di ferro in
cambio di corda, fin dove possono arrivar le mani. Ripongano ancora,
e chiudano in luogo a parte ben sigillato le scritture e cose più
preziose della chiesa, acciocchè se alcun sagrestano cadesse mai
infermo di peste, rimangano tali robe esenti dal bisogno dello spurgo.

Se non ostanti simili diligenze e cautele, forse non eseguite con gran
puntualità, venisse ne’ chiostri d’essi regolari a scoprirsi alcuno
infetto, si dovrebbe anch’esso con celerità trasportare al lazzeretto
pubblico, o pure a quello degli ecclesiastici se vi fosse. Si procurerà
ancora di levare tutto ciò che potesse indurre ulteriore infezione
negli altri religiosi, e di separare i sani da quei che avessero avuto
un intrinseco commercio coll’infetto, restando però tutti come sospetti
rinchiusi nel proprio convento. Ma quando al claustrale infetto
riuscisse, siccome spesso suole, di grande spiacimento l’essere portato
al lazzeretto, e ciò servisse d’occasione ad altri per occultare il
male e per comunicarlo con poca carità a chi non se ne guarda, sarebbe
miglior consiglio, qualora il permettesse la capacità dell’abitazione,
il segregarlo interamente con chi l’ha da servire, dagli altri
religiosi, mettendolo in camere ben appartate, ovvero in qualche
capanna nell’orto: il che pure si può e suol praticare, però con
particolar inspezione dei pubblici deputati, per gli secolari abitanti
case grandi e comode della città. In tal guisa è da credere che il
religioso non atterrito dalla paura del lazzeretto, immediatamente
rivelerà la sua infezione, ed apporterà men pericolo agli altri
che tosto si segregheranno da lui. Caso poi che crescesse in quella
sacra famiglia il furore del contagio, allora converrà estrarne tutti
gl’infetti, conducendoli al lazzeretto o in altro luogo proprio; ovvero
si faranno uscire i rimasti sani, ma per rinserrarli siccome sospetti
in qualche casa fuori del monastero.

Si disputa fra i teologi se gli ecclesiastici regolari sieno tenuti a
servire agl’infetti di peste quando il loro prelato glielo comandasse.
A me piace la saggia sentenza del Sanchez che, nel tom. II sopra
precetti del Decalogo, decide con varie limitazioni la quistione.
Cioè: eglino non sono obbligati a servire gl’infetti estranei; ma in
quanto ai religiosi domestici appestati sarà obbligato al servigio
loro quel religioso a cui il suo superiore il comanderà; avvertendo
solo che imprudentemente opererebbe il prelato, qualora esponesse a
questo pericolo, chi fosse di pochissima sanità o persona egregia, e
per le sue rare qualità utile al pubblico o all’ordine suo. I Certosini
e i monaci di S. Benedetto, di S. Girolamo, ed altri simili che non
hanno per loro instituto la vita attiva, non sono tenuti a ministrare
i sacramenti agl’infetti estranei e possono fuggire dal luogo infetto.
Nè pure sono a ciò rigorosamente obbligati, nè si possono obbligare
dal loro superiore i religiosi che si chiamano mendicanti, o che
godono i lor privilegi, benchè facciano professione di vita attiva;
e però anch’essi regolarmente sono esenti dall’obbligo di fermarsi
in luogo ove sia la peste. Avverto però essere sentenza del Benzoni
che la fuga di questi religiosi difficilmente sarà scusata da peccato
mortale pel gravissimo scandalo che ne verrebbe al popolo, da cui
essi hanno ricevuto, o ricevono tante rendite e limosine, e a cui
poscia non vogliono assistere in caso di sì premurosa necessità. Ma la
suddetta libertà ed esenzione dee intendersi qualora vi sieno parochi
o altri sostituti, i quali sufficientemente possano adempiere l’ufizio
di ministrare i sacramenti al popolo infetto. Altrimenti, essendovi
penuria di questi, o troppa abbondanza d’infermi bisognosi di soccorso
spirituale, e non trovandosi altri sacerdoti, che o per carità o per
mercede, e alle spese del vescovo, aiutassero o supplissero il difetto
de’ parochi (i quali sussidiarj è in primo luogo tenuto il vescovo a
provvederli), allora i religiosi mendicanti si giudicheranno obbligati
a soccorrere il popolo infetto e a ministrargli i sacramenti, perchè,
secondo l’ufizio loro, eglino son coadiutori de’ vescovi e de’ parochi
nel procurar la salute spirituale del prossimo, e vengono per questo
fine mantenuti dalle limosine de’ fedeli, come ottimamente insegnano
con S. Tommaso varj teologi. Anzi è tenuto il prelato regolare a
somministrar soccorso, e inviare alcuno de’ suoi religiosi anche da un
luogo sano ad un infetto, qualora in questo venissero meno i parochi,
nè vi fosse altro sovvenimento al bisogno spirituale di quel popolo.
Anche il Benzoni con altri autori sostiene le suddette conclusioni,
ricordando egli in oltre essere obbligati per debito di giustizia, non
che di carità, a servire gl’infermi que’ religiosi che per professione
si sono obbligati a tal servigio, come quei della congregazione di S.
Giovanni di Dio, chiamati Fate bene Fratelli.

Aggiungo io che molto meno de’ religiosi saranno obbligati i sacerdoti
secolari non legati da cura d’anime a servire gl’infetti, siccome nè
pure a ministrar loro i sacramenti, quand’anche fosse loro comandato
dal vescovo, perciocchè nè pure hanno essi quello strettissimo voto
d’ubbidienza verso i proprj prelati, come hanno i regolari verso i
lor superiori. E però concedono i teologi che i preti ed ancora i
canonici, purchè non curati, si possano ritirare dal luogo infetto,
come si può vedere nel Trattato del suddetto monsignor Benzoni e
presso il Marchino, il quale con altri teologi stabilisce che un
canonico assente per tal cagione non perde le distribuzioni, ove sia
l’uso di non perderle per cagione giusta. Qualora nondimeno vi fosse
necessità estrema di ministrare la Confessione o altro sacramento agli
appestati, e mancassero o giustamente o ingiustamente, i parochi ed
altri sussidiarj, in tal caso ogni sacerdote, o certosino, o monaco,
o secolare è obbligato sotto pena di grave peccato a soccorrere i
popoli costituiti in bisogno, con pericolo ancora della sua vita, sia
egli persona malsana o sia quanto si voglia di gran valore ed utilità
al pubblico. Senza che nessun prelato il comandi ciò è comandato
dalle leggi santissime della carità cristiana, ricordate a noi in
tal proposito da S. Agostino, da S. Tommaso e dalla maggior parte dei
teologi. Per altro intervenendo simili estreme necessità, il vescovo
può e dee comandare a tutti, sì secolari come regolari, il supplire
secondo che giudicherà bene la sua prudenza, avvertendo però di non
ordinar ciò in individuo ad alcun religioso, ma solamente al loro
superiore. Che se questi non volesse poi permettere, nè comandare
che alcuno de’ suoi venisse in soccorso, allora egli peccherebbe, e i
religiosi saranno tenuti, secondo il Bagnez, Benzoni, Vigant ed altri,
ad ubbidire più al comandamento del vescovo che a quello del loro
superiore. Se poi sia vero per sentenza del suddetto Vigant che in
tal caso restino più obbligati gli ecclesiastici secolari ad ubbidire
al vescovo che i regolari esenti, io non voglio metterlo, ma si può
certo mettere in disputa, e il vescovo Benzoni e il P. Marchino tengono
appunto il contrario. A noi basti di sapere che tutti sono tenuti, e
potersi inferire dalle annotazioni del cardinal de Luca al concilio di
Trento, essere più de’ semplici sacerdoti secolari obbligati in tal
caso a servire quei che hanno uffizj e benefizj residenziali, come i
canonici, i cappellani ed altri che costituiscono qualche spezie di
capitolo o di congregazione. Nella peste di Palermo del 1625 furono
assegnati quattro o cinque religiosi per parrocchia, che abitavano
insieme; ma per l’infezione d’uno infettandosi gli altri, si provò
miglior partito l’assegnare ad ogni due contrade uno col suo compagno,
e in camere vicine a qualche oratorio già fatto, o pure costituito con
licenza dell’ordinario, ove egli celebrava, senza che alcuno entrasse
in tal casa od oratorio, dove teneva il Santissimo Sacramento e
l’Estrema Unzione.

Le medesime cautele prescritte per i conventi de’ religiosi, ed anche
più dovranno osservarsi per preservare e custodire quei delle monache.
Perciò è assolutamente da assegnarsi un custode della sanità alla
porta o al rastrello del loro monastero, che avrà buona serratura
anche al di fuori, con obbligazione di non allontanarsi mai da quella
porta o rastrello per cui solo, e non per altre porte o finestre, che
tutte s’intendano chiuse, dovran le monache ricevere il bisognevole al
sostentamento loro. Per bisognevole s’intendono le cose spettanti al
vitto o vestito, dovendosi allora astener le monache dal ricercare e
dall’accettar altro che sia non necessario e sia capace di portar entro
i loro recinti l’infezione, e dovendo elle valersi anche delle cautele
comuni agli altri nel ricevere le cose sospette loro necessarie.

Il vescovo in oltre assegnerà un canonico o altro ecclesiastico co’
suoi assistenti per commessario ad ogni tre o quattro conventi di
monache, il quale unito ai sindici farà, occorrendo, la visita e darà
gli ordini opportuni del buon governo de’ monasteri a lui appoggiati.
Sarà sua cura il fare che le religiose si provveggano il più presto e
il più che potranno di vettovaglie e massimamente di frumento, farina,
vino, olio, formaggio e sapone; con poi ricordar loro l’economia, e
prescriverla ancora, se bisognasse, con suprema autorità. Visiterà il
medesimo commissario co’ sindaci a’ primi sospetti tutto il recinto
della clausura, facendo chiudere ogni porta, o altro luogo, per cui si
potesse parlare, dar fuori o ricevere roba, lasciando solo aperta la
porta comune colle ruote e co’ parlatorj annessi. Sceglierà ancora in
ogni monastero due siti appartati e capaci per servire di lazzeretti,
Infetto e Sospetto, in caso di bisogno, tagliandone il meglio che si
potrà la comunicazione col resto della casa o pur disponendo tutto per
far capanne nell’orto, quando a ciò la necessità costringesse. E a fine
di risparmiare l’entrar sovente nella clausura, potrà farsi fare una
pianta distinta di tutto il convento con tutti i siti e specificazione
d’ogni cella e di chi l’abita, ordinando poscia che niuna muti
abitazione senza licenza di lui, e di ciò terrà egli registro. Ogni
dì ancora visiterà i monasteri assegnati a lui (e non potendo egli
farà farlo da uno degli assistenti) informandosi e osservando se
le monache sieno tutte sane e di buon colore, e incoraggiandole
per quanto si potrà, mentre il timor nelle donne può cagionar, più
che negli altri, dei gravi disordini; e sopra tutto badando che se
il male fosse in città, niuno vada loro contando le nuove funeste.
Ammalandosi alcuna, se ne darà tosto avviso al commessario suddetto,
e il medico invigilerà a tutti gli accidenti del male, per vedere se
vi fosse sospetto di contagio. Morendo essa, non potrà seppellirsi
senza l’attestazione del medico che non vi sia segno di contagio, e
senza la licenza del commessario in iscritto, dovendo questi notare
al suo libro tanto le inferme, quanto le morte per mandarne nota ogni
sera al notaio destinato dal vescovo, il quale ne trasmetterà poi
copia alla congregazione della sanità. Comanderà ancora esso vescovo
con precetto penale che ognuna che si ammali vada indispensabilmente
all’infermeria, e che quantunque non vi sia sospetto di contagio, non
possano visitarla, nè capitarvi se non le monache o converse, deputate
infermiere, perchè in tal maniera, accadendo maggiori disgrazie, le
altre resteranno esenti dall’obbligo della quarantena.

Sarà parimente d’uopo l’assegnare, se mai si potrà, al confessore una
casa contigua al monastero, con vietargli l’uscirne mai, se non per
entrare nella chiesa delle monache, e con ordinargli di non conversar
con altri, nè di ricevere altra roba dal di fuori del monastero che per
le mani del solo custode della sanità, il quale dovrà essere persona
d’una inalterabile fedeltà e puntualità. In questa forma conventi
ben numerosi in que’ calamitosi tempi si sono sempre conservati
illesi. Ma per maggiormente ottener questo intento, il vescovo
formerà un’istruzione per cadaun convento, prescrivendo come s’abbia a
contenere il custode e il confessore, e come si debbano ricevere ivi le
vettovaglie ed altre robe necessarie. Non permetterà, se non in caso
di gran necessità, l’entrata nella clausura a persone estranee e nè
pure visita alcuna al parlatorio, ordinando che le monache non possano
ammetterla senza ordine sottoscritto dal vescovo medesimo. Dovranno
pertanto star sempre chiusi i parlatoj e le grate, e se pur occorresse
di parlare ad alcuno, ciò si potrà fare senza aprir le stesse grate,
alle quali ancora aggiugneranno un telaio di carta per guardarsi dal
fiato delle persone estere. Prima ancora della formal dichiarazione
della peste o dell’evidente pericolo d’essa, vieterà il vescovo alle
religiose l’accettare in custodia robe di estranei, anche parenti,
non tanto per esimere il chiostro da ogni introduzion di male, quanto
ancora per risparmiare alle medesime varj disturbi. Parimente proibirà
alle monache il ricever altre lettere che le scritte o dai superiori,
o per bisogno del monastero, le quali ancora non dovranno ammettersi
senza cautela, cioè prendendole con due forbici o molette, e purgandole
poi con aceto o ripassandole sopra il fuoco. Sarà loro interdetto il
dar fuori a lavare panni, o, non potendosi di meno, s’insegneran loro
le precauzioni. Così ancora sarà necessario prescrivere buona regola
per gli paramenti ed altri ornamenti e vasi dell’altare, con avvertenza
di lasciar fuori i soli che fossero necessarj e con prevenire che
chierici o sacerdoti estranei non possano portar colà pericolo
d’infezione. Non ripiglieran, dico, indietro i paramenti destinati ai
lor cappellani; e occorrendo farli imbiancare, ciò si faccia a spese
loro fuori del convento. Dovendo far macinare, mandino il grano per
gli uomini loro e con il lor carro al mulino, facendovi assistere i
medesimi uomini, acciocchè i lor sacchi non tocchino quei degli altri.
Gioverebbe allora aver forno nel proprio monastero.

Che se con tutte queste cautele giungesse il morbo a penetrare in
qualche chiostro di religiose, al primo indizio d’esso, immediatamente
se ne darà avviso al commessario, il qual subito lo spedirà al
vescovato e alla congregazione di sanità per provvedere sì dentro come
fuori. Quindi farà quanto prima mettere l’infermo nel luogo destinato
pel lazzeretto delle infette, e le altre persone, che avran praticato
con esso lei almeno quel dì, nell’altro delle sospette. Ammetterà
poscia i ministri del pubblico lazzeretto degl’infetti che bruceranno
quello che occorresse, e seppelliranno, accadendo la morte, il cadavere
fuori del convento, ove sarà creduto bene dal vescovo. Similmente
introdurrà gli espurgatori per espurgare subito l’infermeria, o cella,
e l’altre robe che ne avessero bisogno. Quando le monache o converse
non s’inducessero per carità a servir le infette nel loro lazzeretto,
il vescovo penserà se voglia costringerle o pure provveder loro donne
di fuori. Niuna delle sane entrerà nei lazzeretti, e nel somministrare
il vitto le sane non toccheranno gli arnesi che servono alle infette o
sospette. Alla cura di queste verranno i medici, cerusici e religiosi
esposti o sospetti del pubblico, entrando i quali tutte le monache si
ritirino in luogo appartato. Guarendo le inferme, e avutane la fede
dal medico, passeranno poi, senza portar seco cosa alcuna, a fare la
quarantena nel lazzeretto delle sospette. Di tutto si andrà comunicando
notizia al vescovo, e questi la darà al magistrato secolare per
camminar di concerto. Si avrà del pari gran cura che le robe toccate da
infette o sospette non entrino in commercio, se prima non saranno state
ben espurgate dai ministri pubblici dello spurgo. Lo stesso dovrà farsi
alle camere e ad altri luoghi che ne abbiano bisogno.

Avvertasi ancora che occorrendo introdur colà persone straniere o
per medicamenti o per altro, dovrà tal cura, per quanto si potrà,
appoggiarsi dal vescovo, non ad uomini, ma a donne di conveniente
probità e perizia. Posto poi che crescesse l’infezione fra le
religiose, allora il vescovo determinerà se sieno da cavarsi fuori di
clausura le malate, lasciandovi le illese, o pure le sane, lasciandovi
le infette, inerendo alla costituzione di Pio V, che comincia _Decori
et honestati._ Questo ultimo sarà partito più sicuro. Qualunque
determinazione però si prenda, converrà trovare a quelle che saranno
estratte una decente abitazione, congiunta o vicina, se mai si
potrà, al monastero medesimo, ove le religiose verranno accomodate in
onesta forma e con una spezie di clausura e coi riguardi e soccorsi
convenienti a persone consecrate a Dio. E perciocchè sogliono le
monache frequentemente desiderare, ed anche talora senza molto bisogno,
l’aiuto del medico, qualora il monastero tutto si sia conservato illeso
(ciò milita ancora per quei de’ religiosi e per gli conservatorj de’
poveri e simili gran corpi), potrà entrarvi il medico non sospetto, ma
in maniera che non abbia verun commercio nè con robe, nè con persone;
ma visiti secondo il costume dei lazzeretti, cioè osservando per quanto
sia possibile e ordinando medicamenti in distanza, affinchè egli,
tuttochè riputato sano, disavvedutameute non portasse in monastero
l’occulta fin’allora infezione sua, forse contratta dal commercio col
resto della città. Finalmente prescriverà il vescovo alle religiose
quel metodo di orazioni e di opere di pietà ch’egli giudicherà più
conveniente ne’ tempi di tanta tribolazione e necessità.

Resta ora da dire che i vescovi, parochi, predicatori e confessori
debbono, per quanto possono, non solo impedire anch’essi la dilatazione
del morbo contagioso, ma ancora aiutare ad estinguerlo. Faranno perciò
conoscere, e il vescovo con suo editto potrà farlo meglio degli altri,
uniformandosi ai maestrati, che grave peccato sia il nascondere vesti,
mobili ed altre robe infette, e il non denunziarle ai deputati dello
spurgo, potendo questa disubbidienza comunicare ad altri e rinovar
la pestilenza anche estinta, e recar morte agli stessi possessori,
quando tali robe non sieno diligentemente espurgate da chi è atto a
farlo. Mostrino ancora (io nol ripeterò mai abbastanza) essere vietato
dalle leggi divine e naturali il toccare, contrattare e asportare
non solamente le altrui, ma anche le robe proprie infette, e molto
più poi il rubarle. Doversi prima denunziare e poi spurgare anche
ogni minimo panno sì per la propria, come per l’altrui sicurezza,
non essendo capace di assoluzione chi non vuol ubbidire a questo
precetto naturale. Data che sia dai maestrati l’impunità ai ladri di
simili robe, si persuaderà loro dai confessori l’andarle a rivelare.
Che se non fosse peranche stata conceduta questa impunità, non si
dovranno essi obbligar tosto a rivelarle e denunziarle in persona,
ma si regoleranno i confessori o secondo i dettami del vescovo o pure
secondo i consigli della prudenza. L’anno 1633 l’arcivescovo di Firenze
proibì sotto pena di scomunica da incorrersi ipso facto, riservando
l’assoluzione a sè medesimo, eccettuato l’articolo di morte, il rubare,
trasportare, nascondere, tenere in deposito o custodia, maneggiare,
vendere o comprare o in qualsivoglia modo contrattare per sè o per
interposta persona, direttamente o indirettamente, robe d’altri o
proprie appestate o sospette o state in luogo infetto o sospetto di
mal contagioso, senza licenza espressa, intervento o permissione dei
deputati per la sanità; comandando a tutti i confessori sotto pena
di scomunica _latæ sententiæ_ di non assolvere alcuno incorso in tal
peccato, senza sua licenza o di alcuni deputati da lui, volendo che, se
occorresse qualche dubbio in questa materia, lo partecipassero o seco
o coi suddetti, senza palesare nè direttamente, nè indirettamente il
penitente, per ricercare que’ rimedj che fossero giudicati opportuni.

Finita poi la peste, allora il vescovo e i parochi rimetteranno in
piedi e promoveranno più che mai la pietà e l’estirpazione de’ vizj,
perciocchè talvolta forse più di prima ve ne potrà esser bisogno.
Certo in molte terre e città la sola terribile scuola de’ gastighi
di Dio ha fatto per lo più riformare i costumi; ed avendo gli uomini
conosciuto meglio di prima che c’è Dio e che non si può sperar felicità
dai peccati, nè far capitale in questa miserabile e caduca vita del
mondo, si sono dati alla pietà e alle virtù con una santa perseveranza.
Ma in qualche paese, benchè paia poco verisimile, pure la verità è
che dopo la pestilenza comparve questo mostro, cioè che gli uomini in
vece d’essere diventati di miglior coscienza e più timorati di Dio
e più amatori del prossimo, pel flagello che aveano veduto ed anche
provato, pure si mostrarono più perversi e peggiori di prima in ogni
conto e in ogni iniquità, e non meno i poveri che i ricchi, quasi che
paresse loro, superato quel gran pericolo, di non dover più morire,
nè di dover più temere l’ira di Dio, o pure si credessero di aver
da compensare la malinconia passata con ogni sorta d’allegria anche
disordinata e con lo sfogo di tutti i loro appetiti. Matteo Villani,
il cardinal Federigo Borromeo ed altri scrittori, testimonj oculati
ed autentici di tale mostruosità, non mi lasciano mentire. Ed ecco la
gratitudine che usano alcuni cristiani al proprio Dio per la parzialità
de’ benefizi ch’egli ha usata verso di loro. Sarà pertanto incumbenza
del vescovo, allorchè si scorgerà ben quetata ed estinta la pestilenza,
l’intimare ed ordinare tre giorni di divozioni e processioni, non
guidate dall’allegria, ma dall’umiltà e dalla compunzione, per un
solenne ringraziamento all’Altissimo dall’essersi egli finalmente
lasciato cader di mano il flagello meritato dai peccati degli uomini.
E qui verrà in acconcio ai predicatori d’esortar tutti ad essere da
lì innanzi fedeli ed attaccati a Dio, esponendo le obbligazioni che il
popolo preservato in vita ha verso la divina misericordia, e con inveir
poi particolarmente contra chi non s’è emendato peranche, o pensa più
che prima a soddisfare alle sue passioni, senza curarsi dello sdegno
di Dio e senza voler apprendere che quel gastigo ed altri possono
tornar di nuovo e presto, siccome è altre volte avvenuto, e che il non
profittar dei flagelli è uno dei più chiari indizi che si vuole ad onta
di Dio dannare e perdere l’anima per sempre. Vedesi un libricciuolo
esquisito, composto dopo la peste da S. Carlo col titolo di Memoriale,
stampato nell’_Acta Mediolanensis Eclesiæ_, con tutte le altre accurate
istruzioni che quel zelantissimo e santo pastore lasciò scritte per
simili tempi calamitosi.

Farò io qui fine con dire, che per quante regole e rimedj io abbia
raccolti in questo trattato a fine di tener lungi o di scacciare
la peste, io non ho però insegnato tanto da assicurare alcun paese
o persona da così fiera tempesta. Nei pericoli e nei disordini
massimamente d’una pestilenza non si può dai magistrati preveder tutto,
nè proveder tutto. La medicina anch’essa, arte in tanti altri mali
incerta e cieca, molto meno ci può promettere immunità in questo che
è sì fiero, e che porta seco tante stravaganze che indarno l’umano
intelletto studia per trovarne la sorgente e i rimedj. Anzi si è
osservata tante volte e si osserverà di nuovo una cosa che dee affatto
confonderci tutti; cioè, che le stesse provvisioni politiche e gli
stessi rimedj della medicina son quelli talvolta che aiutano la peste
o a dilatarsi maggiormente, o a levar dal mondo assai persone, le quali
probabilmente senza tante invenzioni della prudenza e speculativa umana
avrebbono schivata la morte. La conclusione dunque si è, non dover
già i magistrati e la prudenza di ciascuno, lasciar mettere in opera
quanti documenti e mezzi si credono più propri per salvare il pubblico
e sè stesso, da questo miserabile infortunio; ma dover molto più noi
metterci tutti nelle mani di Dio, dispensiere dei beni e dei mali
anche sopra la terra, e che, secondo il suo beneplacito, può disporre
dei giorni della nostra fugace vita terrena. Questo ha da essere non
l’ultimo, ma il primo dei rifugi; questa è l’âncora a cui dobbiamo
attenerci tutti. Abbassiamo dunque il capo, vili creature che siamo,
adorando la sua divina provvidenza e considerando che noi tutti dal
canto nostro abbiam dei peccati, e molti e grandi; e che non farà mai
torto a noi il nostro supremo Padrone con qualunque flagello ch’egli
ci mandi. Pensi ciascuno come egli abbia trattato Dio ne’ tempi della
prosperità, della sanità, della ricchezza. Superbissimi vermi della
terra, allora più che mai ci siamo dimenticati di lui, anzi abbiam
calpestata pazzamente la sua santissima legge. Diciamolo dunque ora e
diciamolo sempre tutti: _Justus es, Domine, et rectus judicium tuum._
Che se durante l’età nostra si degnerà la sua bontà di farci solamente
udire in lontananza il fischio della sua spada sterminatrice, impariamo
a far profitto degli esempj altrui, e con ricordarci che al Signor non
mancano altri flagelli e che noi siam degni di tutto, emendiamoci, e
mettiamci cadauno in quella via, ove brameremo che il Signor Iddio
ci trovi alla morte, la quale infallibilmente ha da venire o tosto
o tardi, ma che sempre verrà più presto di quel che crediamo. Che se
altrimenti avvenisse, impieghi ciascuno e studio e preghiere a Dio per
impetrare, e preparare una santa rassegnazione ai voleri del medesimo
Dio per tutte quelle avventure che piacesse a lui di mandarci nel tempo
che ci resta di vita. Miseri di noi che o non intendiamo, o troviam
troppo dura questa mirabile lezione dei santi, anzi questa dottrina
dello stesso Dio. E pure se abbiam qualche discernimento, non possiamo
non conoscere ancor noi per certissimo che l’unica e vera strada di
godere una dolce e stabile contentezza di cuore in questa abitazione
terrena e in tutti i tempi, si è quella di conformare la nostra alla
volontà di Dio, siccome protestiamo ogni dì nell’Orazion dominicale,
e di bramare che sia fatto in tutto e per tutto, non il nostro, ma il
volere del nostro celeste Padre, che sempre è rettissimo e sempre torna
in bene de’ buoni figliuoli che in lui si rassegnano. Le tribolazioni,
la pestilenza, la morte, al solo pensarle, non che al vederle o
provarle, empiono di malinconia o trafiggono il cuore a tanti di noi,
perchè si oppongono al nostro volere; ed appunto per questo sono o son
dette mali nel mondo. Ma chi non vuole se non il gusto del suo Signore,
si trova sempre in pace, aspettando senza pena e ricevendo ancora con
allegria gli stessi travagli, e il fine stesso de’ suoi giorni, perchè
ciò s’accorda col proprio volere tutto attaccato a quel del sommo
padrone, e si uniforma al non desiderar altro, se non che sia fatta
come in cielo, così anche in terra la volontà divina. Prudenti dunque e
felici quelli che per tempo si danno tutti a Dio e si riposano in una
coraggiosa e pia rassegnazione ai voleri dell’Altissimo, mettendosi
tutti nelle sue pietosissime mani. Questo è un farsi anche presso di
lui un indicibile merito, essendo certo che in un tal atto si contiene
un atto eroico di fede, di speranza e d’amor di Dio, virtù che sono
l’anima del vero cristiano. Beati in somma quei che imparano per tempo
a dire, e dicono sempre di cuore: _Ego autem in te speravi, Domine:
dixi: Deus meus es tu: in manibus tuis sortes meæ. — Ora io, o Signore,
ho riposta in voi ogni mia speranza. Ho detto: Voi siete il mio Dio, il
mio padrone. Fate di me quel che volete. In mano vostra stanno le sorti
mie._ Egli intanto col suo unigenito figliuolo Cristo Gesù, Signor
nostro, e con lo Spirito Santo, sia, non meno nelle prosperità nostre
che nelle nostre avversità, benedetto, amato e glorificato da noi e da
tutti, per tutti i secoli de’ secoli. E così sia.


  FINE.



RELAZIONE DELLA PESTE DI MARSIGLIA

PUBBLICATA DAI MEDICI CHE HANNO OPERATO IN ESSA _CON ALCUNE
OSSERVAZIONI_ DI L. A. MURATORI.


Non sarà inutile ai lettori che io presenti loro il compendio di una
Relazione francese intorno al terribil contagio, da cui non è per
anche ben libera la misera città di Marsiglia, affinchè meglio impari
il pubblico a conoscere l’atrocissimo nemico che va desolando la
Provenza e che fa tremare tutti i vicini; e, conosciuto che l’abbia,
ognuno si accinga a quelle diligenze e rigori che possono tenerlo lungi
dall’Italia. Fu composta la Relazione suddetta dai signori Chicoyneau,
Verny e Soullier, medici di Mompelieri, i quali spediti in soccorso
di quella città, con incessante zelo hanno assistito alla medesima in
tanta calamità, con avere anche diligentemente notato gli accidenti
e sintomi d’essa peste, e i tentativi da loro fatti per curarla. Fu
creduto bene di pubblicarla colle stampe in Marsiglia stessa dopo il dì
20 dicembre del 1720, e venne essa immediatamente ristampata in Torino
per pubblico bene. Ecco ciò che ho creduto opportuno di tradurre per
istruzione ancora degl’Italiani.

Tutti i malati di peste in Marsiglia possono ridursi a quattro classi.

La prima, osservata specialmente nel primo periodo, e nella più gran
foga del male, era assalita dai seguenti sintomi. Cioè si notavano
in tali persone dei rigori sregolati di freddo, un polso picciolo,
molle, raro o pure frequente, ineguale, concentrato; una pesezza di
testa sì considerabile, che il malato stentava molto a tenerla su,
parendo egli occupato da uno stordimento e da una turbazione simile
a quella d’una persona ubbriaca; la vista fissa, appannata, che
mostrava lo spavento e la disperazione; la voce tarda, interrotta di
quando in quando, lamentevole; la lingua quasi sempre bianca, sul
fine secca, rossiccia, nera, ruvida; la faccia pallida, di colore
piombino, sparuta, cadaverosa; de’ mali di cuore frequentissimi; delle
inquietudini mortali; un abbattimento e abbandonamento generale, degli
sfinimenti, de’ sopimenti, delle voglie di vomitare, de’ vomiti, ecc.
Le persone in tal forma assalite morivano ordinariamente nello spazio
di alcune ore, d’una notte, d’un giorno, o al più al più di due o tre,
come per consumamento degli spiriti, talvolta con moti convulsivi e
tremori, senza che apparisse al di fuori alcun tumore o macchia. Egli
è facile a giudicare da tali accidenti che infermi di tal fatta non
erano in istato di sostenere il salasso. E in fatti coloro coi quali
si è tentato questo rimedio sono mancati di vita poco tempo dopo. Gli
emetici e i purganti riuscivano loro egualmente inutili, e sovente
nocivi con effetto funesto. I cordiali e sudoriferi erano i soli rimedi
ai quali si ricorreva, ma che nondimeno a nulla servivano, o che al più
facevano prolungare di qualche ora gli ultimi momenti.

La seconda classe è di coloro che tosto risentivano rigori di freddo,
come i precedenti, e la stessa specie di stordimento, e un dolore
di capo aggravante; ma i ribrezzi erano seguitati da un polso vivo,
aperto, gagliardo, ma che nondimeno si perdeva per poco che si premesse
l’arteria. Questi malati sentivano interiormente un ardore che li
bruciava; e intanto il calore al di fuori era mediocre e temperato; la
sete era ardente, e per così dire inestinguibile; la lingua bianca,
o di un rosso scuro; la parola precipitata, balbettante, impetuosa,
gli occhi rossicci, fissi, scintillanti; il colore della faccia d’un
rosso molto vivo, e talvolta inclinante al livido; e provavano mali
di cuore molto frequenti, benchè assai meno dei precedenti. Il respiro
era frettoloso, faticoso, o grande e raro, senza tosse, senza dolore;
nausee e vomiti biliosi, verdastri, nericci, sanguinosi; profluvj
di ventre della stessa specie, senza però tensione o dolore nel
basso ventre; deliri frenetici; orine spesso naturali, qualche volta
torbide, nericce, bianchicce o sanguinose; sudori di odore rare volte
cattivo, che in vece di sollevare il malato, altro non facevano che
indebolirlo; in alcuni casi emorragie, le quali, benchè mediocri, sono
sempre state funeste; un grande abbattimento di forze; e soprattutto
una sì gagliarda apprensione di morire, che non v’era modo da poter
incoraggiare questi poveri infermi, considerandosi eglino dal primo
istante del male come destinati a una morte sicura. Ma quello che
merita d’essere ben osservato, e che sempre è sembrato caratterizzare e
distinguere questo morbo da ogni altro, egli è che quasi tutti avevano
dal principio o nel progresso dei buboni dolorosissimi, situati nelle
parti del corpo descritte nel lib. 2, cap. 8 del Governo della Peste;
come ancora dei carboni, sopra tutto nelle braccia, gambe e cosce;
e delle piccole pustole bianche, livide, nere, sparse per tutta la
superficie del corpo. Di rado si salvavano i malati di questa seconda
classe, ancorchè la durassero un po’ più dei precedenti. Eglino sono
periti quasi tutti con segni d’infiammazione cancrenosa, specialmente
nel cervello e al petto. E una cosa che parrà singolare fu che quanto
più essi erano robusti, grassi, pieni e vigorosi, tanto meno restava
loro da sperare.

Quanto ai rimedi, tali persone non sopportavano meglio delle prime
la cavata del sangue, la quale, a riserva dell’essere fatta al
primiero istante del male, riusciva loro evidentemente nociva. Elle
impallidivano, e cadevano, anche nel tempo del primo salasso, o poco
dopo, in isfinimenti che non potevano per lo più essere attribuiti
ad alcuna paura, ripugnanza o diffidenza, poichè elleno stesse
chiedevano con premura che si aprisse loro la vena. Tutti gli emetici,
eccettochè l’ipecacuana, erano loro spessissimo più nocivi che utili,
cagionando irritazioni e soprappurgazioni funeste, che non si potevano
poi calmare, nè fermare. I purganti alquanto forti e attivi tiravano
dietro a sè i medesimi malanni. I prescritti sotto forma di tisana
rilassativa, come ancora le bevande copiose, nitrose, rinfrescanti e
leggermente alessiterie, recavano qualche sollievo, ma non impedivano
il ritorno degli accidenti. Tutti i cordiali e sudoriferi, se non erano
dolci, leggieri e benigni, non servivano che ad affrettare il progresso
delle infiammazioni interne. In fine, se pure ne scampava (il che era
ben di rado), pareva ch’eglino non da altro dovessero riconoscere la
loro guarigione che dalla sortita del male al di fuori, allorchè questa
notabilmente succedeva o per le sole forze della natura, o coll’aiuto
dei rimedi tanto esteriori come interiori, che determinavano il sangue
a scaricar sè stesso fuori del corpo dal maligno fermento, di cui esso
era infetto, nella forma che si dirà più abbasso.

Bisogna anche por mente che un grandissimo numero di differenti specie
di malati non risentivano accidenti che molto mediocri, la forza e
malignità dei quali pareva assai minore di quella che tutto dì si
osserva nei sintomi delle febbri infiammatorie o putride le più comuni,
o in quelle che comunemente si chiamano maligne, eccettuati i segni del
timore e della disperazione, che erano estremi o nel più alto grado; di
maniera che di questo gran numero di malati, che sono morti, pochissimi
ve n’ha avuto che dal primo istante del male non si sieno creduti
perduti senza riparo, qualunque cosa potessero dire i medici per far
loro animo. Anzi non pochi d’essi, quantunque comparissero innanzi
all’accesso del morbo con un carattere di spirito costante, coraggioso,
e risoluto ad ogni avvenimento, pure appena ne sentivano i primi
assalti, che ai loro sguardi e ragionamenti era facile il conoscere
quanto eglino fossero convinti che il loro male era irrimediabile
e mortale, tuttochè nello stesso tempo nè il polso, nè la lingua,
nè il male di testa, nè il colore della faccia, nè la disposizione
dell’animo, nè in fine la lesione di qualche altra funzione del corpo
umano, indicassero cosa alcuna di funesto, o dessero occasione di
predizione così dura.

La terza classe è di coloro che erano bensì assaliti dagli stessi
accidenti che sono riferiti nella seconda, ma in guisa che tali
accidenti si sminuivano o sparivano da sè stessi al secondo o al terzo
giorno, fosse effetto dei rimedi interni, o a cagione della notabile
sortita de’ buboni e carboni, nei quali il maligno fermento, sparso
nella massa del sangue, pareva tutto raccogliersi, di modo che questi
tumori crescendo di dì in dì, e venendo poscia aperti, e giugnendo a
suppurarsi, i malati scampavano dal minacciato pericolo, per poco che
fossero aiutati. Avvenimenti sì facili indussero i medici a raddoppiar
la loro attenzione durante tutto il corso di questo male, a fine di
affrettare, per quanto comportava lo stato degl’infermi, l’uscita,
l’elevazione, la suppurazione e apertura dei suddetti buboni e carboni,
con intenzione di sbrigare il più presto che fosse possibile per
tal via la massa del sangue dal funesto fermento che la corrompeva,
aiutando la natura con un buon governo e con rimedi purgativi, cordiali
e sudoriferi convenienti allo stato presente e al temperamento degli
infermi.

La quarta ed ultima classe abbraccia tutti i malati che senza sentire
alcuna commozione, e senza che apparisse alcun tumulto o lesione nelle
funzioni, aveano dei buboni e carboni che crescevano a poco a poco,
alcuni dei quali facilmente giugnevano alla suppurazione, ed altri
divenivano scirrosi, e talvolta ancora, ma di rado, si dissipavano
insensibilmente senza lasciare alcuna conseguenza fastidiosa; di
maniera che senza alcun abbattimento di forze e senza mutare maniera
di vivere, si vedeva quantità di tali infermi andare e venire nelle
strade e piazze pubbliche, medicandosi eglino stessi con qualche
semplice empiastro, o chiedendo ai medici e cerusici i rimedi dei quali
abbisognavano per queste specie di tumori suppurati o scirrosi.

Il numero dei malati compresi in queste due ultime classi è stato sì
considerabile, che si crede di poter dire senza esagerazione alcuna che
da quindici a venti mila persone si sono trovate in tal caso, e che se
il male non avesse preso spessissimo questa piega, ora non resterebbe
in Marsiglia la quarta parte de’ suoi abitanti.

In fine i rimedj impiegati qui dai medici sono quelli che per la
loro efficacia e maniera d’operare vengono giornalmente dalla lunga
sperienza commendati, e riconosciuti proprj a soddisfare a tutte
le indicazioni rapportate di sopra, non essendosi per altro ommessi
alcuni pretesi specifici, come la polvere solare, il kermes minerale,
gli elisiri ed altre preparazioni alessiterie comunicate da persone
caritative e attente al pubblico bene; ma furono i medici dalla
sperienza convinti, che tutti quei rimedj particolari non erano al più
al più utili che a rimediare a certi accidenti; ed intanto riuscivano
bene spesso contrarj a molti altri, e per conseguente, incapaci
di guarire un male caratterizzato da un numero di diversi sintomi
essenziali.

Metteremo ora qui i differenti metodi praticati per curare i malati
compresi nelle suddette quattro classi. E, quanto a quelli della prima,
purchè si faccia un poco d’attenzione alla natura degli accidenti
rapportati di sopra, cioè al polso piccolo, ineguale e concentrato,
ai ribrezzi del freddo, e al freddo universale, sopra tutto nelle
estremità, e ai mali di cuore quasi continui, e a quelle facce
piombine, smorte, cadaveriche, all’abbattimento generale di tutte le
forze, egli sarà facilissimo (dicono quei saggi medici) di giudicare
ch’eglino non avevano a ricorrere se non ai cordiali più attivi e più
spiritosi, come la triaca, il diascordio, l’estratto di ginepro, il
fioraliso, o sia giglio delle convalli, le confezioni di giacinto,
d’alkermes, gli elisiri cavati dai misti, che più degli altri abbondano
di sal volatile, le acque triacali e di ginepro, i sali volatili di
vipera, d’armoniaco, di corno di cervo, i balsami più spiritosi, in
una parola tutto ciò che è capace di animare, eccitare, fortificare;
aumentando, raddoppiando e triplicando anche la loro dose ordinaria,
secondo che il caso era più o meno pressante.

Tutti questi rimedj ed altri della stessa natura, erano senza fallo
proprïssimi a rianimare e risuscitare, per così dire, le forze quasi
estinte di quei poveri infermi, e pure (bisogna confessarlo con dolore)
si vedevano perire quasi tutti subitaneamente; cosa che confermava
il sentimento generalmente ricevuto, che la malignità del fermento
pestilenziale è di una forza superiore a quella di tutti i rimedj.
Ma essendo che essi medici in alcuni casi particolari ne videro un
buon successo, perciò s’apre il campo a presumere (e pur troppo se ne
professano essi convinti da una fatale sperienza) che la ritirata, e
il non operare della maggior parte delle persone, le quali potevano
dar soccorso, e la mancanza del nutrimento, dei rimedj e del servigio,
siccome ancora la funesta persuasione d’essere assaliti da un male
incurabile, e la disperazione di vedersi abbandonati senza riparo
alcuno, tutte queste cagioni unite insieme hanno, più che la violenza
del male, contribuito a far perire tanto subitaneamente sì gran numero
di malati, non solo della prima classe, ma ancora delle seguenti.
Perciocchè a misura che questa mortal paura del contagio è andata
diminuendo, e che le persone vicendevolmente hanno dato aiuto l’una
all’altra, la fidanza e il coraggio sono ritornati, e in una parola il
buon ordine si è ristabilito in Marsiglia per l’autorità, la costanza
e la vigilanza del sig. cavaliere di Langeron, per le somme attenzioni
del signor governatore, e per le premure continue e infaticabili dei
signori Escevini, e da lì innanzi si è veduto diminuire insensibilmente
il progresso e la violenza di questo terribile flagello, e i medici
hanno provata più felicità nel governo degl’infetti.

Quanto ai malati della seconda classe, la cura d’essi, più che
quella dei precedenti, ha tenuto in esercizio i medici a cagione
della moltiplicità e varietà degli accidenti, che nello stesso tempo
offerivano molte indicazioni tutte meritevoli d’osservazione. Potevano
queste ridursi a due principali, che esigevano tanto più d’attenzione
e di prudenza, quanto più erano opposte; imperocchè si osservava nel
medesimo malato un miscuglio prodigioso di tensione e di rilassamento,
di freddo e di caldo, d’agitazione e di sopimento; di modo che erano
essi medici obbligati a stare continuamente attenti per cacciare i
maligni fermenti chiusi nelle prime vie, o sparsi in tutta la massa
del sangue, senza però inferocirli, o a corregerli e a rintuzzarne
l’attività, senza però indebolire l’infermo. Bisognava, per esempio,
far vomitare, o purgare, senza irritare o consegnare gli spiriti;
procurare una libera traspirazione, o il sudore, senza dare troppo moto
o infiammare, fortificare senza troppo riscaldare; finalmente temperare
senza rilassare: cose tutte ch’eglino procurarono d’eseguire col metodo
seguente.

Supposto che fossero chiamati sul principio del male, e che l’infermo
non sembrasse loro affatto abbattuto, gli prescrivevano tosto un
rimedio proprio a nettare lo stomaco, cioè un leggier vomitivo,
come l’ipecacuana, avuto sempre riguardo per la dose all’età e al
temperamento, facendolo prendere in un poco di brodo o d’acqua comune.
Usarono essi di rado il tartaro o il vino emetico per ischivare
le troppo gagliarde irritazioni, se non allora che si trattava
di corpi robusti e pletorici, o che qualche accidente particolare
sembrasse richiederlo. Sollevano di poi l’azione del rimedio con
quantità d’acqua tiepida o thè o decozione di cardo santo. Produceva
ordinariamente questo primo rimedio un maggior abbattimento di forze;
e però s’ingegnavano essi di fortificare l’infermo con qualche leggier
cordiale, e massimamente colla triaca e col diascordio, perchè questi
sono proprj a prevenire o fermare le soprappurgazioni.

A questi due rimedj tenevano dietro i purganti mediocri per nettare
senza irritazione gl’intestini dalle materie grosse, che potevano
opporsi all’operare degli altri rimedj, o al loro libero passaggio
nei vasi. Questi purganti erano tisane rilassative fatte con senna e
cristallo minerale, e ordinate per bevanda; le decozioni di tamarindi,
o le infusioni d’erbe vulnerarie, nelle quali si dissolveva manna, sal
prunello, cassia, sciroppi di cicorea col reobaro. A’ quali succedevano
ancora i cordiali e alessiterj dolci, per fortificare e fermare le
soprappurgazioni che infallibilmente avrebbono cagionato qualche
funesto abbattimento di forze. E supposto che la triaca e il diascordio
fossero insufficienti per soddisfare a questa ultima indicazione, essi
aggiugnevano terra sigillata, coralli, bolo armeno, ec., che venivano
renduti anche più efficaci in caso di necessità, mischiandovi qualche
goccia di balsamo tranquillo o laudano liquido, cosa che ha prodotto
buoni effetti in molti casi, non solamente per fermare le evacuazioni
smoderate, ma ancora pei sogni e delirj frenetici, per le emorragie ed
altri sintomi di questa specie.

La polvere solare d’Amburgo, il kermes minerale, ed altri rimedj, loro
comunicati e molto raccomandati, sono stati impiegati come emetici
e purganti, e talvolta con buon successo, avendo anche osservato che
in alcuni casi hanno fatto sudare e traspirare; ma, come si è detto,
comparvero sempre insufficienti ad operare la guarigione radicale di
questo morbo.

Quanto ai sudoriferi, subito che essi medici osservavano qualche
anche menoma disposizione a una traspirazione libera o al sudore,
qualunque fosse il tempo della malattia, attendevano diligentemente
a promuoverla, e tanto più da che alcuni scamparono per questa via,
confessando essi valentuomini di sapere molto bene che tal sorta di
crisi è raccomandata come salutevolissima da tutti gli autori che
trattano di peste. Ricorrevano dunque ai cordiali riferiti di sopra,
e massimamente alla triaca e al diascordio, ai quali si aggiugneva
polvere di vipera, antimonio diaforetico, zafferano orientale, canfora,
ecc. Veniva ajutato l’effetto di tai rimedj da bevande replicate di
thè, infusioni d’erbe vulnerarie degli Svizzeri, acque di scabiosa, di
cardo santo, di ginepro, scordio, ruta, angelica ed altre commendate
per ispingere dal centro alla circonferenza, cioè per depurare la
massa degli umori per la via dell’insensibil traspirazione senza troppo
commovere; osservando sempre che i malati non fossero d’un temperamento
troppo secco ed ardente, o che in procacciando troppo questa sorta di
crisi, egli non venissero a restare esausti con loro rovina.

Si rimediava ai gran caldi, all’alterazione, o sete ardente con
bevanda abbondante e replicata d’acqua di pane, orzate ed altre acque,
nelle quali si faceva distogliere sal prunello o nitro purificato,
mescolandovi di tanto in tanto alcune gocce di spirito di zolfo,
o di nitro dolcificato o di vitriuolo, come ancora le confezioni
di giacinto, d’alkermes, sciroppi di limone, o alcun altro leggier
cordiale per ischivare la sopraccarica e il rilassamento.

Tutti questi rimedi impiegati a proposito e maneggiati colla dovuta
prudenza, bastavano per soddisfare alle diverse indicazioni di questa
seconda classe, purchè il terribil pregiudizio della incurabilità,
la costernazione e la disperazione non ne sospendessero gli effetti;
potendosi all’incontro citar molti esempli di coloro che, sostenuti
da molta fiducia, coraggio e costanza, ne hanno provato un buono
e salutevol soccorso; di maniera che la natura, coll’aiuto di essi
fortificata, sollevata e sbrigata in parte dai maligni fermenti che
l’opprimevano, e sopra tutto liberata dal pericolo d’infiammazioni
interne per mezzo delle eruzioni esterne, voglio dire dei carboni,
buboni, parotidi, ecc., altro più non occorreva che curare
metodicamente questi tumori; al che si applicavano i medici dal
principio del male con tanto maggior premura, quanto che avevano molto
ben osservato che il destino degl’infermi quasi sempre dipendeva dal
successo di queste sortite del morbo, la cura delle quali si dirà
appresso.

Circa il metodo impiegato nel governo de’ malati della terza classe,
conobbero i medici che principalmente doveva esso consistere in ben
curare i buboni e carboni. Egli è vero che i sintomi, i quali si
manifestavano dal principio nei malati di questa classe, erano quasi
gli stessi che quei della seconda; e però si praticarono i rimedi
proprj, come gli emetici dolci; i purganti leggieri e i sudoriferi
della stessa specie, secondo le indicazioni occorrenti, facendo intanto
osservare agli infermi una dieta molto esatta. Ma dipendendo, come è
detto, il buono o tristo successo principalmente dalla notabil sortita
e lodevol suppurazione de’ buboni e carboni, questi tumori erano sempre
l’oggetto primario della diligenza e attenzione de’ medici, la cura de’
quali tumori è stata la seguente, comune a tutte le classi.

Cioè per conto de’ buboni, o sia delle parotidi, che comparivano
in vari siti del corpo ove sono glandule ed emuntorj, in qualunque
tempo che uscissero, si applicavano i medici a curarli. Se il tumore
era picciolo, profondo e doloroso, e restava tempo per procurare
di ammollirlo, si cominciava dall’adoperare cataplasmi emollienti e
anodini. E perciocchè la miseria e l’abbandonamento non permettevano
che si ricorresse a droghe scelte, si faceva preparare e applicar
subito, e caldamente, una specie di pappa con mollica di pane, acqua
comune, olio d’ulivo e qualche rosso d’uovo, o pure una grossa cipolla
cotta sotto le ceneri, bucata prima e riempiuta di triaca, sapone,
olio di scorpioni o d’ulivo, impiegando poscia per le persone comode i
cataplasmi fatti con latte, mollica di pane, rossi d’uova e con polpe
d’erbe e radici emollienti.

Ma perocchè i malati delle prime classi perivano spesso subitaneamente,
e allorchè meno vi si pensava, in tal caso non si perdeva tempo,
e senza altra applicazione di cataplasma s’accingevano i medici
all’apertura del tumore. A questo effetto senza dilazione gli facevano
applicare un caustico, o sia pietra da cauterio, o cauterio potenziale,
lasciandovelo per lo spazio d’alcune ore, più o meno secondo la
profondità, situazione e volume delle parti, e la costituzione grassa o
magra dei malati. Formata l’escara, si tagliava e apriva senza ritardo
per poter poscia meglio esaminare le glandule gonfiate, che bisognava
appresso curare coi digestivi, dopo averle un poco tagliate, o pure
estirparle s’elle erano mobili, e se si potevano cavare senza tirarsi
dietro delle emorragie, le quali, secondochè si osservò, riuscirono
sempre mortifere, quantunque mediocri; per la qual ragione giudicarono
bene di rigettare il metodo di estirpare sì fatti tumori, usato prima
che essi medici entrassero nell’afflitta città di Marsiglia. Quello
di aprirli subito colla lancetta, benchè più spedito che quello de’
cauteri, sembrò loro in molti casi insufficiente e men sicuro, come
quello che recava poco lume e che lasciava bene spesso dopo di sè degli
ascessi, delle fistole e dei tumori scirrosi. Quanto alle ventose e
ai vescicatorj, il loro effetto comparve pigro e inutile, e talvolta
gli ultimi riuscirono pericolosi in certe persone, avendo prodotto
l’applicazione d’essi delle infiammazioni interne, particolarmente
nella vescica.

Ritornando dunque al cauterio o caustico, essendo formata l’escara
e fatto il taglio colla precauzione di ben discoprire le glandole
gonfiate in tutta la loro estensione per non lasciarvi delle reliquie
maligne, non si badava ad altro che a curare queste medesime glandole
per mezzo di buoni digestivi, che si formavano con parti eguali di
balsamo d’arceo, d’unguento d’altea o di basilicon, aggiungendovi
trementina e olio d’ipericon, che si mischiava esattamente. E posto
che vi fosse una corruzione notabile nella parte, si aggiungevano alla
trementina e all’olio d’ipericon le tinture di mirra, aloè, acquavite
canforata e sale ammoniaco; tergendo poscia e nettando la marcia,
allorachè era spessa e troppo corrosiva, con lavande fatte d’acqua
d’orzo, mele rosato, canfora, o con le decozioni vulnerarie di scordio,
assenzio, centaurea minore e aristolochia. Da che l’ulcera era ben
nettata e le glandole gonfie interamente consumate per la suppurazione,
altro non restava da fare che applicare un semplice empiastro per
condurre la piaga a una perfetta cicatrice.

Per conto del curare i carboni, trovarono essi medici, tal sorta di
tumori in un grandissimo numero d’infermi di tutte le classi, benchè
meno frequentemente che i buboni; e si osservavano anche bene spesso
nella medesima persona tutte e due queste eruzioni. Comparivano essi
a tutta prima in forma d’una fistola o di un tumore bianchiccio,
giallognolo o rossiccio, pallido nel suo mezzo, o di colore tendente
al rosso scuro, che diveniva insensibilmente nericcio, con crosta,
specialmente ne’ contorni.

S’intraprendeva tosto la cura d’essi carboni per via di scarificazioni,
facendo dei tagli a diritta e a sinistra, nel mezzo e ne’ contorni,
fino alla carne viva. E posto che l’escara fosse grossa e callosa, si
forava con portar via tutta la grossezza e callosità, per quanto la
situazione delle parti poteva permettere.

Non credettero que’ saggi medici a proposito l’adoperarvi de’ cauterj
attuali o potenziali, perchè avendoli usati sul principio, osservarono
che producevano delle infiammazioni sì considerabili, che ne seguitava
poco appresso la cancrena. Il cauterio potenziale non riusciva bene che
per i piccioli carboni, i quali guarivano quasi, senza verun soccorso.
Dopo avere scarificati questi tumori, vi si applicavano sopra de’
piumacciuoli carichi di un buon digestivo, come si costumava anche
per i buboni, con questa differenza, che ne levavano gl’ingredienti
che fanno marcire, adoperando solamente triaca, trementina, balsamo
d’arceo, olio di trementina. E posto che vi fosse della corruzione, vi
si aggiungevano le tinture d’aloè, di mirra, di canfora, ecc.

Su i piumacciuoli si mettevano cataplasmi emollienti, anodini o
spiritosi e risolventi, come sopra i buboni, secondo la diversità delle
indicazioni. Nel suo proseguimento si faceva la stessa cura ai carboni
che ai buboni, conforme all’esigenza dei casi. E se nel corso della
suppurazione le nuove carni erano di tanta sensibilità che i digestivi
applicati vi cagionassero un dolore vivissimo, come spesso accadeva, si
sostituivano piumacciuoli carichi di unguento nutritum con riportarne
tutto il buon successo che se ne sperava.

Il metodo per la cura dei malati della quarta classe era lo stesso che
degli antecedenti, nè merita particolar menzione. Intanto il detto
fin qui potrà bastare per istruzione ai giovani medici e cerusici,
caso mai (il che Dio non voglia) avessero da governar gente infetta di
peste, e nello stesso tempo affinchè il pubblico sappia quale speranza
egli abbia a collocare in certi metodi particolari e in certi pretesi
specifici sì vantati dal popolo e da alcuni empirici.

Finalmente con lettera sua a parte aggiugne il signor Chicoyneau,
cancelliere dell’università di Montpellier (cioè uno dei tre suddetti
medici inviati in soccorso di Marsiglia, che fino al dì 20 dicembre,
1720, assisterono continuamente alla cure di quel povero popolo, e
fecero la relazione riferita fin qui), ch’egli non entra ad esaminare
la cagion primaria d’un male sì funesto, persuaso che nulla si possa
dire intorno a ciò che non sia molto problematico; e che tutto quello
che ne hanno scritto gli autori e i più valenti fisici è puramente
un’ipotesi, e a nulla può servire per la guarigione degl’infermi.
Perciò soggiugne egli che necessariamente convien contentarsi di por
ben mente alle cagioni evidenti che sono effetti della cagion primaria,
essendo queste cagioni evidenti indicate dai sintomi del morbo.

Per altro dice egli che dopo molte sue riflessioni ed osservazioni
sopra il contagio, egli non è affatto persuaso che questo male
si comunichi per contatto, ma ben più tosto per via di miasmi o
corpicciuoli, i quali scappano fuori o dalle mercatanzie infette, o
dalle viscere della terra, o da qualche sorgente superiore, e che si
spargono per l’aria, o, mischiati con gli alimenti, producono i lor
funesti effetti sopra i corpi e spiriti mal disposti; di maniera che
la ripienezza, le crudità, le passioni dell’animo, e sopra tutto il
terrore, la tristezza, e l’agitazione degli spiriti danno a questi
corpicciuoli forza di operare con tanta malignità. Anzi asserisce egli
di non aver osservato caso alcuno di peste in Marsiglia (nella quale
città nondimeno egli aveva veduto perire di tal morbo quasi 50 mila
persone) che non se possa attribuire con più giusto titolo ad alcuna
delle suddette cagioni, più tosto che al contagio. Finalmente scrive
egli d’aver assistito con molti suoi colleghi medici, dappoichè giunse
in quella città, a un grandissimo numero d’appestati, e ch’eglino gli
aveano toccati, maneggiati ed esaminati, come se questo fosse stato
un male ordinario senza provarne alcun sinistro effetto, e col non
prendere altra precauzione che quella di fare un solo pasto per giorno
all’ora del pranzo, essendo eglino per altro persuasi che tutti i
preservativi che si è costumato di praticare in simil caso sono più
tosto nocivi che utili. Così il signor Chicoyneau.



OSSERVAZIONI

_Intorno all’antecedente Relazione._


Ora io aggiugnerò che quantunque sia verissimo che nulla suol influire
alla guarigione degli appestati il disputarsi fra i medici qual sia
la cagione primaria di questo morbo desolatore; tuttavia chi potesse
penetrare nella cognizione de’ suoi veri primi principj, potrebbe
anche giovare assaissimo al pubblico, se non per la cura, almeno per
la preservativa. Anzi bisogna guardarsi di non istabilir qui, e in
trattando ancora delle cagioni seconde e delle maniera di operare di
questo morbo, massima alcuna che tornasse poi in danno al pubblico.
Perciocchè quando non sia evidente il sistema che possa formare taluno
intorno alla pestilenza (il che non avverrà giammai), ragionevol cosa
è che citiamo più tosto col volgo in ben custodirci anche più di quel
che conviene, che in seguitare le opinioni filosofiche con pericolo
di non difenderci abbastanza. Dico ciò, perchè, a udire il signor
Chicoyneau dubitante, se tal morbo si comunichi per contatto, ma par
questo un quasi far coraggio alla gente che si vadano ad appestare.
Certo è che per contatto e contagio intendiamo il toccarsi insieme
de’ corpi, ed è lo stesso in tal caso il toccarsi un corpo umano, o un
panno infetto di peste, che il toccare gli spiriti pestilenziali che
sino a una tal distanza possono diffondersi da quel corpo o panno. Ma
se noi mettiamo che non dal contatto di queste cose infette proceda
l’appestarsi d’un uomo poco prima sano, egli potrà liberamente e
senza precauzione praticare con infetti e maneggiar robe appestate,
senza timore che gliene abbia a venir male. Ma questa opinione il buon
popolo, e molto più i saggi, hanno da cacciarla via colle pertiche,
anche senza esaminarla, non essendo saviezza il farne, senza necessità,
la sperienza con pericolo della propria vita. E tanto più poi perchè
non si sa intendere come mai venga nè pure in pensiero a persone che
riflettano alquanto ai passi d’una peste, ch’ella non si comunichi
per contatto o contagio. La peste de’ buoi l’abbiam veduta; e ciò
che avviene in tal disavventura a quella specie di animali, è un vivo
ritratto di quanto è altre volte succeduto e può succedere di nuovo
agli animali ragionevoli. Si toccava con mano che le tali e tali stalle
erano infette, perchè per la vicinanza del morbo o esse bestie avevano
conversato con altre ammorbate, o pure con uomini che aveano praticato
con buoi appestati. Le lontane si salvavano; e se in siti remoti
saltava su un sì micidial malore, indagando si trovava la maniera e via
per cui era stato portato colà. E l’aver subito sequestrate le bestie
infette e gli stessi padroni, con far loro dì e notte le guardie,
non solo tratteneva che il male non s’inoltrasse, ma giunse ancora ad
estinguerlo in alcune stalle nel cuor del paese, dove era passato sul
principio (e se ne sapeva il come) allorachè si faceva men diligenza
per impedire la comunicazione degli infetti co’ sani. Salvossi in tal
maniera la maggior parte del ducato di Modena e di Reggio, con evidente
documento che, tolta essa comunicazione, cioè il contagio o contatto,
venivano anche tolti i piedi al morbo per avanzarsi. Altrettanto
visibilmente accade anche oggidì in Provenza nella fiera mortalità
degli uomini, ed accaderà in tutt’altro paese. La vera peste non nasce
come i funghi, nè ha l’ali di volar lontano se non gliele prestano gli
uomini stessi.

E però su tal riflessione dee maggiormente animarsi lo zelo dei
principi e de’ maestrati d’Italia a procurare che il morbo desolatore
della Provenza, il quale per via di contatto si va sempre più
dilatando per quelle contrade, non valichi l’Alpi, e non riduca
in solitudine anche le città e campagne d’Italia. Supposto sempre
l’aiuto potentissimo di Dio, si può tener lungi un sì tiranno
avversario. Se le diligenze umane han fatto che per lo spazio di
novant’anni la Lombardia, la Toscana ed altre parti d’Italia si sono
preservate dalla peste, e se ne preservarono infin quando nel 1656 le
città di Roma, Napoli e Genova provarono questo terribil flagello,
perchè non potrà sperarsi il medesimo felice effetto anche oggidì,
se metteransi in opera quelle diligenze e que’ rigori che non sono
mai abbastanza in casi di tanta necessità e interesse del pubblico?
L’esempio è notabilissimo, e tale da far di nuovo coraggio ai nostri
medesimi tempi e paesi, purchè oggidì si adoperino quelle sbarre che
saggiamente furono in altri tempi usate. Ma se si addormenterà chi
è obbligato ad abbondare in vigilanza, se non si metterà una forte
briglia all’ingordigia del privato interesse, se si vorrà lasciare
aperto il passo a merci straniere, benchè non necessarie, procedenti da
paese sospetto, affinchè le gabelle e dogane non patiscano danno; la
desolazione pur troppo verrà, cioè per non perdere un poco si perderà
tutto, e arriveremo a mirare quella grande scena che fa ora tanta
paura, e pure non par temuta abbastanza da chi potrebbe e dovrebbe far
molto per tenerla lontano, e forse nol fa.

Un’altra massima de’ medici che hanno operato in Marsiglia, è quella
di attribuire tanta rovina nel genere umano a varie altre cagioni,
_più tosto che al contagio_. E tali cagioni sono, secondo essi,
l’indisposizione de’ corpi e degli spiriti animali dell’uomo, cioè la
troppa copia o crudezza degli umori, le passioni dell’animo, _e sopra
tutto il terrore e la tristezza_. Incontrandosi in corpi e spiriti sì
mal disposti certi corpicciuoli e miasmi che escono da merci infette,
o dalle viscere della terra, o da qualche sorgente superiore (vorran
dire gli influssi delle stelle) e che volano per l’aria, o si mischiano
con gli alimenti, se ne produce, secondo essi, il terribilissimo morbo
e la morte di tanti, in guisa che più tosto all’indisposizione interna
degli uomini, che alla maligna attività di quei corpicciuoli s’hanno
da imputare questi mortiferi effetti. Primieramente si vuol rispondere
che l’attribuire la cagion della peste alle costellazioni (se pure
d’esse si parla), è sentenza oramai troppo rancida, conoscendosi
chiaramente che la forza delle stelle non fa all’improvviso uscir fuori
la vera peste in qualche paese, s’ella non vi è portata da un altro
già infetto. Nè può credersi che escano dalle viscere della terra i
corpicciuoli pestilenziali, siccome nè pure che entrino mischiati con
gli alimenti nell’uomo, perchè niuno in tal sistema sarebbe sicuro,
anche astenendosi dal praticar persone o robe infette; il che è
contrario alla sperienza e all’asserzione d’innumerabili autori che
si sono trovati a questo medesimo fuoco. Ed ultimamente il signor
Bartolomeo Corte, dottissimo medico di Milano, in una sua lettera quivi
stampata intorno alle _Cagioni della peste_ ha assai concludentemente
provato non poter venire la peste nè dall’aria, nè dai nutrimenti
cattivi.

Secondariamente godo io che que’ valenti medici rilevino e facciano ben
ravvisare i cattivi effetti del terrore, della tristezza e dell’altre
passioni dell’animo, allorachè la pestilenza arriva con mal talento
di spopolare le città. Imperocchè, abbattuti gli spiriti animali
nell’uomo e tolto l’equilibrio agli umori del corpo, riesce facile
al morbo l’entrare in una piazza sì mal difesa e l’atterrarla anche
prestissimo. Perciò colla scorta di moltissimi altri autori ho anch’io
nel Trattato del Governo della Peste sommamente raccomandato, e più
d’una volta, l’armarsi allora di fiducia, di coraggio, di persuasione
di non dover essere colto dal male, e di guardarsi con particular cura
dalla tristezza, dalla paura, dal terrore, dalla disperazione; poichè
questi abbattimenti d’animo fanno la strada all’abbattimento ancora
della vita del corpo. Quand’anche non fosse vera tale opinione, pure
non potendo essa dall’un canto nuocere, e potendo forse dall’altro
giovare assaissimo, ottimo consiglio sarà sempre il tenerla e
figurarsela per vera. E quantunque, presa che si sia la peste, non paia
che sia da attribuirsi, siccome vorrebbono i medici suddetti, la morte
delle persone alla funesta persuasione che il male sia incurabile, o
alla disperazione, o ad altre simili gagliarde passioni dell’animo,
essendochè il terrore, la malinconia, ed altre perniciose affezioni
sono effetti quasi inseparabili del morbo preso, che è micidiale, e non
già cagioni ch’esso morbo diventi micidiale; tuttavia gioverà ancora
sposare sì fatta opinione, perch’essa in fine può recare singolar
giovamento e non mai nocumento agl’infermi. Certo noi veggiamo che il
solo terrore, anche senza la peste, cagiona di gravissimi sconcerti
nella sanità delle persone; e l’abbandonarsi poi un malato a questa e
ad altre somiglianti passioni, può dare il tracollo a ogni speranza di
riaversi. All’incontro il coraggio serve a rinforzare i conati che fa
la natura per iscaricarsi del nemico interno. Servirà a ciò l’esempio
degli stessi medici che hanno operato in Marsiglia, i quali, ancorchè
continuamente conversassero con appestati e li maneggiassero, nè
usassero particolari preservativi, pure si son salvati in mezzo a sì
fiero conflitto; e ciò a cagione, per quanto essi sostengono, dello
sprezzo ch’essi facevano di quel male, e del coraggio che rinforzando i
loro spiriti, li rendeva abili a resistere agli spiriti pestilenziali,
e a non risentirne offesa. In somma, secondo tale opinione, avviene lo
stesso nel conflitto della peste che accade nella guerra; chi ha più
cuore e men paura d’ordinario non è vinto, e vince gli altri. Che se la
filosofia non sapesse ben trovarne la ragione, e movesse qui di grandi
difficoltà, poco importa; anzi sarà sempre meglio il fortificare, che
il tentare d’abbattere una sì fatta sentenza, perchè sentenza utile, e
non pregiudiziale ad alcuno.

In terzo luogo. Ma non si può, ne si dee già menar buono al signor
Chicoyneau ch’egli metta per più _nocivi che utili tutti i preservativi
che si costumano in tempo di peste_. Si esalti pure qual preservativo
gagliardo il suddetto coraggio; ma escludere poi _tutti_ gli altri,
questo è troppo; e una tal massima potrebbe tirarsi dietro delle
conseguenze sommamente funeste. Non v’ha dubbio, di tanti preservativi
per la peste, de’ quali è fatta menzione ne’ libri che trattano
di questo argomento, moltissimi saranno inutili, ed alcuni ancora
nocivi, siccome anch’io ho accennato nel Governo della Peste; ed
alcuni ancora utili, perchè usati troppo spesso, o in troppa quantità,
potranno divenir pregiudiziali alla salute. Ma non per questo s’hanno
da screditare e sconsigliare universalmente alla rinfusa. Con tutto
il nostro bel dire egli non è certo che il coraggio, la fidanza
e l’intrepidezza sieno bastevoli a difendere il corpo umano dagli
assalti di questo potentissimo e feroce avversario. Adunque esige la
prudenza che aggiugniamo a questo anche altri preservativi, o esterni
o interni, i quali maggiormente si trovino commendati dalla sperienza
e dai saggi, a fine di ottenere con più sicurezza il grande intento
di salvare la vita d’un uomo. Purchè sieno riconosciuti per incapaci
in sè stessi di nuocere, e si prendano colla dovuta moderazione, e
solo nella necessità; che male si farà a valersene, quando, per parer
d’altri e per fondate ragioni, si può credere o sperare che riescano
di giovamento? Troppo distruggono queste nuove opinioni; e il saggio
ha da adoperarle con discretezza, altrimenti è da temere che si paghi
caro, cioè con lasciarvi la vita, la troppo poca stima delle opinioni
de’ vecchi e dei preservativi innocenti in tante altre pesti adoperati,
e giudicati giovevoli. Meglio è fallare moltiplicando senza bisogno i
riguardi e i ripari, allorchè si tratta d’un sì poderoso nemico, che
trascurandoli o sprezzandoli tutti per bizzarria d’opinioni. E però sia
bensì l’intrepidezza uno de’ preservativi, ma non sia sola; e si ponga
mente anche ad altri mezzi che sempre più potranno custodire illesa
fra’ pericoli la salute del corpo.

In quarto luogo merita d’essere e ricordata e lodata, siccome molto
ingegnosa, l’opinione d’alcuni dottissimi uomini dell’età nostra, che
son d’avviso consistere la peste, non meno de’ buoi che degli uomini,
in certi maligni sottilissimi vermicciuoli che corrompono il sangue e
gli umori del corpo, e che la propagano col moltiplicarsi e insinuarsi
ne’ panni e nelle persone di chi vi si accosta. Così hanno creduto, per
tacer d’altri, il celebre P. Kirchero e il vivente rinomatissimo signor
Vallisnieri; e non ha molto in Milano l’ha sostenuta il soprallodato
signor medico Corte in una sua lettera stampata intorno alle cagioni
della peste. Ma per quanto accennai nel lib. 2, cap. 10 del Governo
della Peste, è ben soggetta a molte difficoltà una tale sentenza.
Imperocchè traspirando pei fori della gente appestata corpicciuoli
atti ad infettar altre vicine persone, ed essendo anche portati per
l’aria, con restarne in qualche maniera impregnato l’ambiente degli
infetti, bisogna per conseguente ammettere una mirabil sottigliezza in
questi pretesi vermicciuoli, e farli volare per aria vivi e compiuti,
e dar loro quella mole stranamente minuta che noi diamo agli spiriti
che escono del corpo. Io vo’ mettere che non sia assurdo l’immaginare,
nè impossibile il trovare di questi per così dire atomi animali,
incomparabilmente minori degli acari, ma certo è difficilissimo
il provare o mostrare che esistano o sieno essi i promotori e
disseminatori della peste. Che se si trovano vermi ne’ corpi appestati,
forse non ne vanno senza gli umori del corpo anche fuori de’ tempi di
pestilenza, ed anche in sanità. E poscia sì fatti vermi dovrebbono
appellarsi effetti più tosto che cagioni d’esso morbo, e tanto più
perchè, osservati in qualche persona infetta, non saranno mai di quella
estrema mirabil minutezza che necessariamente bisogna supporre in essi,
se hanno da galleggiare, o sia nuotare e muoversi per l’aria. Oltre
di che se il sangue o altri fluidi sono il loro elemento, come poi ne
vivono fuori? Come si mantengono vivi in panni e merci per molto tempo?
E ciò sia detto col rispetto dovuto ai filosofi di tanto nome, e alla
loro, se non vera, certo giudiziosa sentenza, potendo essere ch’eglino
sapranno ben dileguare queste ed altre difficoltà che potrebbono farsi;
benchè in fine poco giovi e poco importi se sieno animati o inanimati
que’ sottilissimi corpicciuoli che van facendo tanta strage sulla
terra, perchè in tutti e due questi sistemi l’hanno fatta, e la faran
tuttavia.

Intanto verrò io dicendo che dovendo noi cercare non il nuovo, ma il
vero, sembra più probabile e fondata, e soggetta a men difficoltà,
l’opinione antica e corrente, cioè: altro non essere la peste che
corpicciuoli, effluvj, atomi e particelle sottili e velenose, le
quali, o sia, come anch’io credo, sempre vivo il loro seminario nei
vasti paesi dell’Asia e dell’Affrica, che ne vanno regalando talvolta
anche l’Europa, o sia che essi talvolta spuntino fuori per accidental
corruzione in qualche popolo, penetrano nelle interne parti dell’uomo,
ed ivi con subitanea ferocia sconvolgendo gli umori e atterrando
gli spiriti, cagionano quei tanti sintomi che sono descritti nella
Relazione di sopra, conducendo in tal guisa le persone a pagare con
gran fretta il tributo della natura, se pure non le aiuta il benefizio
degli emuntorj, a’ quali tenta naturalmente la massa del sangue
infetto di condurre il maligno fermento per isgravarsene. Non occorre
cercare se questi velenosi corpicciuoli sieno di arsenico o d’altra
sorta di veleno. Basta sapere che possono appellarsi veleno, da che
producono lo stesso effetto che il veleno; e può dirsi che fra tanti
veleni, tutti possenti ad atterrar l’uomo, la peste ne sia uno che
formi una sua specie particolare. Se crediamo al signor Chicoyneau,
la forza d’uccidere non è già in questi corpicciuoli, ma sì bene loro
la dà la mala disposizione de’ corpi umani, ne’ quali per avventura
abbiano essi l’adito. Non mi metterò io a negare risolutamente questa
partita; anzi dirò di giudicarla assai probabile, per non dir certa,
ma in forma differente da quello che crede il medico suddetto. Per
cattiva disposizione egli intende il trovarsi nel corpo umano troppa
copia di sangue o d’altri fluidi, o pure questi indigesti e crudi,
ovvero l’animo tutto sconvolto da qualche gagliarda passione. Io per
me tengo che un’altra più larga e a noi occulta disposizione d’umori e
di spiriti si richiegga nell’uomo, affinchè gli effluvj pestilenziali
possano ivi esercitare la loro attività. Perciocchè alcuni, anche
paurosi, anche melanconici, anche malsani, non risentono verun danno
dal praticare con appestati; e coloro che son colpiti una volta da
questo atrocissimo morbo, e ne guariscono, d’ordinario sono sicuri
di non provarlo più. Lo stesso avviene de’ vaiuoli, della rosolia, e
di simili morbi, che non cagionano i lor maligni effetti nel corpo
umano, se prima in esso corpo non trovano una disposizione che è
incomprensibile a noi ed occulta. E può osservarsi il medesimo arcano
in altri morbi epidemici, endemici e sporadici. Ora io crederei più
proprio e più fondato il dire che i corpicciuoli pestilenziali quei
sono che seco portano l’abilità e forza di sconcertare ed abbattere il
microcosmo umano, e non già che loro la somministri l’interna cattiva
disposizione dell’uomo, avvegnachè senza tal disposizione non sogliano
essi far uso della lor fierezza. Quello che più importa si è, che
dovendo ogni persona in tempi di peste dubitare e temere di portare
dentro di sè una disposizione a contraere questo terribil male, dee per
conseguenza camminar con riguardo, e molto più studiosamente cercare di
preservarsi, che non fa chi, non avendo mai provato i vaiuoli, desidera
anche di non provarli giammai.

Ma un’altra rilevantissima osservazione vo’ io qui aggiugnere,
accennata già nel Governo della Peste, non che io osi tenerla e
spacciarla per certa e indubitata, ma perchè a me sembra almeno
probabilissima, e da avervi particolar attenzione in tempi di tanta
miseria. Coloro che non hanno allora bisogno alcuno di trattar con
gente infetta o sospetta, stieno pure alla ritirata, abbondino in
preservativi anche inutili, e studino tutte le cautele anche superflue
e vane; che in fine meglio è, trattandosi d’un sì feroce nemico,
eccedere nella troppa che nella troppo poca difesa. Ma tanti altri ci
sono, che per necessità o del loro impiego caritativo, o del vitto,
non possono a meno di non conversare con appestati, e debbono toccarli
e maneggiarli: ora che preservativi debbono essi portare con seco?
Quanti ne possono, rispondo io, ed anche una carretta; ma insieme
aggiungo, inclinar io forte a credere che si debba ridurre, e si riduca
in fatti, ad un solo punto il gran segreto per preservarsi dalla peste
(anche trattando con chi ne è già tocco, anche stando in mezzo alle
città appestate), cioè al saper difendere dagli spiriti ed effluvj
pestilenziali le due porte della umana respirazione, voglio dire il
naso e la bocca. Il che dicendo, non escludo mai, anzi amo sempre in
compagnia di questo preservativo l’altro del coraggio e della fidanza,
con escludere que’ brutti ceffi del terrore e della malinconia. So che
la comune sentenza vuole che anche per la cute s’introduca la peste.
Ma ecco i motivi che io ho da dubitarne: e non sarà inutil cosa che
valenti filosofi e medici ne facciano un più accurato esame. Già abbiam
premesso come sentenza più probabile dell’altre che la peste consista
in corpicciuoli e spiriti sottilissimi e velenosi. La struttura del
corpo umano vivente è costituita in maniera che col calore e moto del
sangue e col vigore elastico dell’aria inchiusa ne’ vasi e respirata
continuamente sta in esso una tensione al di fuori; cioè per un
certo meccanismo gli spiriti ed umori sono in qualche forma spinti
e inclinati ad uscir fuori per tutta la circonferenza del corpo. In
effetto quasi sempre per li pori della cute vanno insensibilmente
uscendo spiriti e particelle dal corpo umano in tal guisa, che secondo
la statua del Santorio, una tal traspirazione ogni dì ascende a una
considerabile quantità.

Ciò posto, facilmente s’intende come entrati nell’uomo essi spiriti
velenosi, e introdotto nel sangue e negli altri umori un pessimo
fermento, ivi si formi una fierissima corruzione, per cui gli spiriti
ed umori prima sani, si rendono maligni ed omogenei al fermento
entrato, ed agitati forte scappano poi fuori anche per li pori, non
che pei soliti meati della respirazione, potendo essi per conseguenza
portar l’infezione ad altri non infetti. Ma sarà ben difficile il
provare che tali spiriti ed effluvj pestilenziali possano introdursi
per i fori della cute in un uomo, da che loro è chiuso l’adito e fatta
resistenza dagli altri spiriti ed umori che per l’interna pressione
traspirano o cercano di traspirare dal corpo d’ognuno. La forza che
dal di dentro spinge al di fuori, è evidente nella struttura degli
animali. Ma, giacchè l’attrazione è omai troppo screditata fra i
migliori medici, si penerà ad assegnare una forza al di fuori che possa
cacciar dentro per via de’ pori una torma di spiriti velenosi, e tale
da vincere l’opposta interna forza, che tende ad espellere; e tanto più
perchè l’accuratissimo Malpighi nel suo Trattato dell’Organo del Tatto
osservò formarsi della cuticola ne’ vasi escretorj del sudore una certa
pellicella convessa, che a guisa di valvula sembra impedire l’ingresso
ai fluidi esterni.

Si può forse dare che applicati con forza alla cute dell’uomo alcuni
corpi, come unzioni, liquori, empiastri, cataplasmi, ecc. possono
introdurre pei fori qualche lor particella sottile; benchè più
probabilmente sia da chiamar bene spesso un’illusione quel credere
con tanta facilità che tali corpi applicati al di fuori operino con
penetrare ne’ corpi per la cute, quando essi solamente giovano, se pur
giovano, o con difendere dall’aria nociva, o con fomentare il calore
nelle parti offese o pure con ammollire, cioè con rarefare i pori, pei
quali poi esce sottilizzata l’interna nociva materia; o finalmente col
penetrare, non già per la cute, ma per la bocca o pel naso, nel corpo
umano mercè delle particelle sottili ed odorose, nocive o giovevoli che
vanno da essi emanando. Non parlo dei caustici, perch’essi colle loro
particelle aguzze ed infiammatorie rompono la tessitura della cute,
applicate ad essa, e si fa sentire al di fuori la loro operazione.
Parimente non parlo nè delle cantaridi, nè del mercurio esteriormente
applicato nelle unzioni, perchè ne’ medesimi possono concorrere delle
ispezioni particolari.

La maniera con cui ne’ corpi viventi operano, o nocendo o giovando, gli
altri corpi, non rade volte si asconde anche agli occhi più acuti di
chi contempla la natura; e molte sentenze passano per vere solamente
perchè ci riposiamo sulla corrente degli scrittori e dell’uso, ma
non perchè un diligente esame ci abbia persuasi della loro verità e
certezza. Serva per esempio la torpedine. Tanti e tanti, sì antichi
come moderni, hanno insegnato avere in sè quel pesce la virtù
d’istupidire la mano che il piglia; e ciò appunto potrebbe rammentarsi
per provare che certi spiriti velenosi trovano benissimo l’adito per
penetrare dentro la cute dell’uomo. In fatti non è questa una favola,
avendone fatta la prova anche l’attentissimo Redi, il quale nondimeno
confessa che bisogna stringer forte la torpedine, se ha da cagionare
stupore e dolore nel braccio. Veggasi ancora il Willugby nella Storia
de’ Pesci. Ma il celebre Borelli avendo con più attenzione e con
esperimento più esatto esaminata questa faccenda, tiene non operar
la torpedine per qualche aura velenosa che da lei si tramandi, perchè
toccata e maneggiata quando essa riposa, ed anche prendendola stretta
colla mano nelle parti laterali, non nuoce. Allora dunque solamente
induce stupore e dolore quando la mano stringe il torace di lei vicino
alla spina, dove sono de’ nervi e muscoli in gran copia; perciocchè
insorgendo in quel pesce un tremore e uno scotimento gagliardo, questo
si comunica alla mano e al braccio, cagionando in essi una sensazione
molesta, anzi insoffribile. Che poi il preteso veleno della torpedine
passi all’uomo fino per l’asta o per le funi delle reti, questa è
una frottola secondo il suddetto Borelli. Lo stesso probabilmente è
da sospettare d’altre simili immaginazioni. Comunque nondimeno ciò
sia, quand’anche si ammettano corpi che introducano nell’uomo le lor
parti sottilissime, verisimilmente si troverà ancora che da qualche
vibrazione o forza esterna sono introdotte sì fatte particelle. Ma ciò
non appare già ne’ corpicciuoli pestilenziali, che, siccome sciolti,
leggieri, svolazzanti e non applicati con forza, sembra per conseguente
che sieno incapaci di entrare per li forellini della cute, nè son già
descritti per corrosivi da potersi fare strada per essa. Anzi quando
anche il corpo avesse piaghe o ferite, non perciò questo veleno sembra
atto a penetrare e infettare per quella parte, giacchè tanti e tanti
commendano i cauterj per preservativo della peste medesima, e la rogna
vien creduta giovevole in tal tempo: il che è sommamente da notare.
Nè l’Elmonzio è un autore di tanto credito che s’abbia a riposare
sulla sua fede, allorchè narra che, capitata a certuno una lettera
scritta da città appestata, appena apertala, cominciò costui a sentirsi
nelle dita un dolore come di punture d’aghi, e appresso a tremare con
tutto il corpo; del che egli morì fra pochi giorni. O la storia non
sussiste, o se sussiste, può attribuirsi l’infezione di costui all’aver
egli bevuto gli spiriti pestilenziali chiusi nella carta col tirare
del fiato. Nè un altro simile esempio, poco però verisimile, recato
dal Diemerbrochio, può fare stato, perciocchè infiniti altri hanno
maneggiato e maneggiano corpi e robe infette senza provare puntura
veruna alle mani; il che parimente avvien tutto dì a coloro che toccano
altri veleni e materie mortifere, le quali se non entrano o per ferita
fatta, o pei canali del respiro, nessun danno recano alle persone. Nè
alcuno dei tanti medici i quali hanno conversato con sì gran numero di
appestati, e ci han lasciato le loro osservazioni su questo morbo, ha
mai accennato che l’accesso del medesimo si risentisse alla cute o per
qualche dolore, o anche per semplice prurito; siccome nè pure ciò si
osserva nella comunicazione de’ vaiuoli e d’altri malanni epidemici,
simili nel corso, benchè diversi nella ferocia dalla vera peste.

All’incontro una via certa e indubitata per nuocere all’uomo, l’hanno
i corpicciuoli pestilenziali, ed è quella del respiro; e questa è la
facile per introdurre il nemico in casa, e per portar tosto a dirittura
l’incendio nelle viscere e nel sangue; e questa è la confessata da
chiunque ha scritto di questo fierissimo morbo; nulla importando se
non ben sappiamo tutte le vie per le quali l’aria respirata si comunica
ad esso sangue, perchè basta sapere che si comunica. Dal corpo infetto
non v’ha dubbio che si fa una copiosa emanazione di effluvj per i pori
della cute e per la respirazione. Si diffondono per l’aria questi atomi
o spiriti maligni fino a quella distanza ove può giugnere la maggiore
o minore vibrazione che si fa dal calore che li spinge fuori, o pure
più lungi, se l’aria impregnata d’essi viene per avventura mossa da
altro corpo. Osservisi nondimeno che se l’aria commossa giugnerà a
segregare e diradare la massa di questi corpicciuoli micidiali, tanto
meno sarà da temer d’essi; e può essa facilmente disperderli in maniera
che quand’anche alcun d’essi si bevesse col respiro, pure non avrà
assai forza per nuocere. Chi dunque si troverà nell’ambiente di un
corpo appestato vivo (poichè de’ non viventi, quantunque appestati,
cioè de’ cadaveri, è cosa dubbiosa se s’abbia a temere) costui, se non
istà in guardia, in tirando il fiato, di leggieri si tirerà addosso
anche l’infezione, perciocchè verrà insieme coll’aria a tracannare
quegli spiriti maligni. Nè qui sta tutto il pericolo. Siccome accade
a chi maneggia corpi odorosi o sta loro vicino, e massimamente se
qualche calore o percossa mette in moto gli spiriti odorosi di quel
corpo, che le sue vesti e mani ed altre membra portino via con seco
di quelle particelle odorifere; così ai panni e ad altre robe degli
infetti e di qualunque altra persona che entri nell’ambiente dell’aria
da loro respirata e degli spiriti venefici emananti dal corpo loro,
insensibilmente si attaccano particelle pestilenziali, le quali
asportate possono lungi di là essere tirate col fiato da altri sani, e
comunicar loro l’infezione e la morte. E questa medesima, s’io mal non
m’oppongo, è l’economia con cui anche tanti altri malanni epidemici,
ma non così feroci e micidiali come la peste, cioè i vaiuoli, la
rosolia, i flussi di sangue, certe febbri maligne o petecchiali, ecc.,
si dilatano talvolta pel popolo, con cagionare pericolose malattie, e
morti non poche.

Ora posto questo sistema, il quale mi contento che nol creda vero chi
in occasione sì funesta può custodirsi col ritiro, dico che chiunque
è in necessità di praticar gente infetta o sospetta di peste, dee
farsi coraggio, e non figurarsi che il vedere un infermo di questo
terribil morbo, e il doversegli accostare e toccar lui e le robe sue,
abbia tosto a far cadere lui pure infermo o morto. Lasciata anche
stare quella natural disposizione che alcuni godono, e probabilmente
altri formano in sè stessi mediante l’intrepidezza, per resistere
agli spiriti micidiali della peste, purchè si studino essi di ben
difendere le suddette due porte della respirazione, hanno quasi
da tenersi in pugno la loro salvezza, anche trattando con persone
appestate. Tanti medici e cerusici ed ecclesiastici, ed altri che
hanno toccato e curato essi infermi o maneggiate le robe loro, ne sono
usciti illesi; non per altro, a mio credere, se non perchè seppero
custodirsi in maniera che non entrò col respiro nel petto loro effluvio
alcuno, procedente da corpo o robe infette; o se vi entrò, entrò
corretto, mortificato, o mutato da altri effluvj antipestilenziali
e preservanti. È un bell’esempio quello del sacerdote fiorentino che
con la spugna inzuppata o spruzzata di buon aceto (sarebbe lo stesso
di un fazzoletto) si preservò sempre in mezzo agl’infetti siccome si
raccoglie dalle Giunte che ho fatto al mio Governo della Peste. Ma
si può dire lo stesso di tant’altri che si sono salvati, dovendosi
per l’ordinario attribuire la lor salute a questa buona difesa. Che
se attestano i medici di Mompellieri che non venne loro danno alcuno
dal luogo lor conversare con tanti appestati di Marsiglia, quantunque
scrivano di non aver usato preservativo alcuno fuorchè quello del
coraggio, quanto più poi dovrà sperare di passarsela netta chi al
coraggio e all’intrepidezza aggiugnerà eziandio que’ preservativi che
possono impedire l’introduzione de’ corpicciuoli velenosi pei canali
del fiato, cioè per quella probabilmente unica via ch’eglino hanno per
nuocere?

Io so che anche riducendo a questo il pericolo d’infettarsi, non si
toglie perciò ch’esso pericolo non sia grandissimo. Ma da che si sa
da qual parte il nemico o il ladro ha da tentare l’entrata, egli non
è tanto difficile il mettersi in difesa. Già nel suddetto Governo
della Peste colla scorta dei migliori ho rapportato gran copia di
profumi e d’altri corpi odorosi, che per la maggior parte son atti o
a tener lontani, o a correggere in guisa gli effluvj pestilenziali,
che o non passino nelle persone, o passino senza ritener più la
possanza di nuocere. Dee ognuno studiarsi secondo la sua prudenza di
valersene, e con ricordarsi sempre di difendere sè stesso non solo
dagli altrui, ma anche da’ propri panni, con profumarli dipoi, qualora
si sia conversato con infetti o sospetti, ma senza sottilizzarla
tanto che si apprenda in ogni oggetto e movimento la propria morte.
Giungono alcuni a temere che fin le mosche ed altri insetti possono
apportar loro da qualche luogo infetto il congedo per l’altro mondo;
e chi credesse ad altri buoni scrittori di questo argomento, udirebbe
simili casi strani intorno alla maniera di prendere il morbo, e che
gli spiriti pestilenziali si conservano per anni e anni ne’ panni,
nelle funi, e infin nelle tele di ragno, con altre avventure che
fan battere forte il cuore a chi è figliuolo della paura. Ma oltre
a tanti rimedi e preservativi inutili e vani per la peste che si
leggono in certi libri di cerretani, vi ha ancora non poche favole
o immaginazioni alle quali non dee punto fermarsi l’uomo saggio e
coraggioso. Similmente dee deporsi la credenza che la peste venga
dall’aria corrotta, essendo ciò falso a riserva di quella che attornia
i corpi e le robe infette. Ed ogni minimo venticello, purchè possa
ben giocare e sventolare, è atto a scuotere dai panni e a dispergere
per l’aria tutti i corpicciuoli maligni, siccome avviene de’ panni
che han preso l’odore se stanno esposti all’aria suddetta. E non v’ha
dubbio che può un sano passeggiate per città appestata, e attendere
a’ suoi affari, senza pericolo d’infettarsi, purchè cammini o stia
in una competente distanza dall’altre persone, e vada tenendo munite
con qualche odore antipestilenziale le porte del respiro. Ferrara, e
tanti altri luoghi assediati intorno intorno dal morbo divoratore, che
pure in essi non penetrò, o se penetrò, vi fu ben presto soffocato ed
estinto; e tanti monasteri di religione che in mezzo a città infette
si son valorosamente preservati illesi, sono ben chiari documenti che
questo malore non procede dall’aria; e ch’esso non si comunica se non
per contagio o contatto nella forma che si è detto di sopra, e che può
molto bene accordarsi il dovere star saldo in una popolazione appestata
col potersi difendere dalla peste, purchè si sappia ben custodire
da’ suoi velenosi effluvj il respiro. Replico nondimeno dovere bensì
questa sentenza far cuore a chi sarà necessitato a comunicare con gente
infetta o sospetta; ma non dover già essa rendere alcuno temerario.
Cioè non hanno le persone poste in sì fatta necessità da lasciar l’uso
di quelle vesti alle quali men che all’altre possono attaccarsi i
semi della pestilenza; non hanno senza gran bisogno da accostarsi ad
infermi, non fermarsi a bel diletto nelle loro stanze. In una parola,
per le ragioni recate, possono tenere per vera essa sentenza, siccome
giovevole ad accrescere l’intrepidezza; ma nello stesso tempo debbono
praticare ogni altra possibil cautela e riguardo, come s’ella non fosse
vera; perchè in tal maniera si verrà a soddisfare al bisogno e alla
prudenza. E ciò basti per ora.

  Modena, 25 febbrajo, 1721.

  FINE.



_INDICE_


  _Brevi Cenni intorno alla vita e alle opere
  dell’autore_                                            pag. v
  _Prefazione e Dedicazione_                               »   1

  _LIBRO PRIMO_
  _GOVERNO POLITICO._

  CAPO I. _Spiegazione della peste: origine e durata
    d’essa. Differenze fra l’una peste e l’altre. Suo
    orribil danno ed aspetto. Obbligazione e possibilità
    di difendere il paese da questo flagello.
    Diligenze umane utili e necessarie_                    »  17
  CAPO II. _Argini e difese da opporsi affinchè il
    contagio non accosti. Con quali diligenze se
    gli abbia a disputar l’ingresso e l’avanzamento.
    Entrato il morbo, tentativi per soffocarlo. Quarantena
    proposta a questo effetto_                             »  32
  CAPO III. _Alleggerire le città d’abitatori. Poveri
    se si abbiano da escludere. Libertà ai cittadini
    di ritirarsi in villa. Fuga utile e permessa a
    tutti, fuorchè alle persone necessarie per la
    repubblica_                                            »  42
  CAPO IV. _Necessità di magistrati prudenti e attivi
    pel governo della peste. Autorità e rigore conveniente
    ad essi. Loro cautele per preservarsi.
    Elezione d’altri subordinati. Non doversi forzare
    i medici alla cura degl’infetti; e come governarsi
    per conto d’essi_                                      »  48
  CAPO V. _Peste comunicata pel contatto dell’aria,
    de’ corpi e delle robe appestate. Come l’una
    parte del paese abbia da difendersi dall’altra.
    Regolamento pel trasporto delle vettovaglie. Non
    occultare il morbo. Uffizio de’ medici, e maniera
    di opprimere la pestilenza introdotta_                 »  56
  CAPO VI. _Commercio fra le persone come da regolarsi,
    qualora non si possa opprimere la peste.
    Lazzeretti e sequestri, e attenzione agli infermi.
    Provvisione per li mendicanti. Cimiteri pubblici
    fuori della città. Regole per li medici, cerusici,
    confessori, e loro segni. Sequestro de’ fanciulli
    e delle donne. Provvisioni per li beccamorti.
    Commercio fra’ cittadini e contadini_                  »  65
  CAPO VII. _Commercio co’ forestieri interdetto. Regole
    per preservarsi illeso nelle terre e città
    appestate. Cautele del vestire e del praticar con
    infetti. Prove che si può facilmente preservare,
    tratte dalla sperienza. Necessità e utilità del
    coraggio in tali casi_                                 »  80
  CAPO VIII. _Come si possa guardare dall’aria infetta.
    Odori preservativi, e varie ricette. Odori
    sottili e calidi. Maniere di purgar l’aria delle
    case e delle città_                                    »  92
  CAPO IX. _Commercio di robe infette proibito. Necessità
    di prima espurgarle. Tre maniere di
    spurgo. Più utile e più facile è quello dei profumi.
    Dose e metodo per profumar robe, case
    ed altri luoghi. Ordini rigorosi per lo spurgo,
    e necessità di questo rimedio_                         » 101
  CAPO X. _Cautela per esentar dallo spurgo varie
    robe. Provvisioni per gli cani e gatti. Monete
    ed altri metalli se suggetti a portar infezione.
    Regole per le robe ed animali. Luoghi eletti pel
    commercio de’ commestibili, e maniera di farlo.
    Se si dia contagio disseminato o dilatato dalla
    malizia. Riflessioni intorno a’ mali effetti del
    terrore, e cautela_                                    » 116
  CAPO XI. _Preparamento di lazzeretti per gl’infetti
    e pei sospetti. Regole per luoghi tali. Danni
    che provengono dai lazzeretti; sequestri ed altri
    rigori. Precauzioni necessarie. A chi si possa
    permettere il sequestro. Attenzione sopra i
    beccamorti_                                            » 130
  CAPO XII. _Luogo e regole della quarantena. Se
    sieno necessari 40 giorni per essa. Regolamenti
    per l’introduzione delle vettovaglie. Obbligazione
    dei ricchi di soccorrere i poveri. Doversi
    facilitare il fare i testamenti. Cura degli spedali
    e delle prigioni_                                      » 143

  _LIBRO SECONDO_
  _GOVERNO MEDICO._

  CAPO I. _Regole mediche per preservarsi dall’aria.
    Ricette varie per profumi. Come si debba governare
    nell’uso del mangiare e bere; del sonno
    e della vigilia; del moto e della quiete, e delle
    passioni dell’animo. Grande utilità dell’intrepidezza,
    e del coraggio_                                        » 154
  CAPO II. _Cauteri commendati per preservarsi dalla
    peste. Quali persone più facilmente contraggano
    il morbo. Salassi e medicine solutive, preservativi
    biasimati. Amuleti o pericolosi, o dubbiosi
    contro la pestilenza. Attenzione de’ magistrati
    contro chi spaccia rimedi vani o nocivi. Sacchetti
    preservativi. Olio del Mattiolo utile anche
    nella preservativa_                                    » 166
  CAPO III. _Preservativi da prendersi per bocca.
    Erbe e tavolette a questo effetto. Mitridato minore
    commendato da molti. Altre bevande, polveri,
    conserve, elettuari, vini, unguenti, ecc.,
    creduti preservativi. Aceto, e lodi d’esso, e di
    acidi contro il veleno pestilenziale. Metodo
    d’alcuni medici per preservarsi nel commercio
    con appestati_                                         » 183
  CAPO IV. _Rimedi curativi della peste. Nessuno
    specifico e sicuro finora trovato. Periodo delle
    pestilenze in una città, principio, mezzo e fine
    e lor diversi effetti. Medicamenti come trovati
    efficaci in una peste e non in altre. Salassi e
    medicine solutive, rimedi allora o pericolosi o
    nocivi_                                                » 211
  CAPO V. _Sudoriferi uno de’ rimedi più commendati
    nella cura della peste. Varie ricette di
    questi_                                                » 224
  CAPO VI. _Altri medicamenti per curar la peste.
    Quali usati ne’ contagi del 1630 e 1656. Canfora
    commendata assai, e varie composizioni
    canforate. Solfo, e suoi pregi contro la pestilenza.
    Bolo armeno, triaca, diascordio, ed altri
    antidoti o lodati, o riprovati_                        » 234
  CAPO VII. _Metodo da tenersi nel curar gl’infetti.
    Sudoriferi rimedio creduto il più utile degli
    altri. Aforismi intorno ai sudori, e maniera di
    far sudare. Camere degl’infermi come s’abbiano
    a custodire. Quai cibi e bevande loro convengano_      » 255
  CAPO VIII. _Buboni, carboni e petecchie: sintomi
    ordinari di questo morbo. Pronostici intorno
    ai buboni. Tre maniere di curarli. Più sicura
    dell’altre quella di condurli alla suppurazione.
    Vari empiastri utili o efficaci per maturar buboni.
    Metodo e medicamenti vari per finirne la
    cura. Uso dei vescicanti_                              » 266
  CAPO IX. _Carboni pestilenziali. Pronostici intorno
    ad essi. Vari metodi per curarli poco lodevoli.
    Maturarli e separarli, maniera più commendata
    dell’altre. Vari medicamenti per questo effetto,
    ed altri per levar via l’escara_                       » 282
  CAPO X. _Petecchie, febbre, delirio, vigilia, sonno,
    vomito, siccità di lingua, emorragie, ed altri
    sintomi delle pestilenze. Sollecitudine necessaria
    in curar per tempo gl’infetti. Veleno pestilenziale
    se coagulante o squagliante il sangue.
    Quai rimedi maggiormente s’abbiano ad aver
    pronti per i tempi della peste_                        » 300

  _LIBRO TERZO_
  _GOVERNO ECCLESIASTICO._

  CAPO I. _Necessità di ricorrere a Dio e di placarlo,
    massimamente in tempo di peste. Quali
    in pericolo dì contagio abbiano da essere le
    incumbenze de’ vescovi e degli altri ecclesiastici
    per tener lungi il morbo; e quali i preparamenti
    prima ch’esso venga_                                   » 316
  CAPO II. _Quanto sia necessario il coraggio nei
    tempi della pestilenza. Fede e speranza, virtù
    divine e fonti d’intrepidezza e di giubilo. Bontà
    e misericordia di Dio ricordate ai peccatori.
    Rassegnazione a Dio, e darsi tutti a lui_              » 326
  CAPO III. _Uffizio de’ vescovi venuto il contagio.
    Provvisione di ministri e d’altri soccorsi temporali
    e spirituali. Lazzeretto per gli ecclesiastici.
    Consolare e animare il popolo colla presenza
    e con altri aiuti. Varie licenze da
    concedersi dal prelato. Messe ove da dirsi.
    Prediche e processioni come da farsi. Quali
    regole in tempo di generale quarantena_                » 334
  CAPO IV. _Uffizio de’ parochi e confessori prima
    del morbo, e venuto il morbo. Cautele per
    le chiese e per i confessionari. Se i parochi
    sieno tenuti a ministrare i sacramenti agl’infetti,
    e quali sacramenti. Come si possa ministrare
    la Penitenza, il Viatico e l’estrema
    Unzione. Voti, quali da persuadersi_                   » 347
  CAPO V. _Carità verso il prossimo quanto essenziale
    al cristiano, e massimamente nelle calamità
    d’una peste. Obbligazione de’ secolari in
    tempi tali di soccorrere il prossimo. Varie maniere
    di esercitare, la carità. Confraternità della
    misericordia. Lode di chi assiste alla cura dei
    suoi parenti infermi_                                  » 365
  CAPO VI. _Carità de’ principi verso i loro sudditi.
    Maggiore si esige dagli ecclesiastici che dai
    laici e molto più dai benefiziati. Obbligazione
    dei regolari. Doversi in caso di necessità impiegare
    anche i vasi sacri. Carità eccellentissima
    di chi si espone alla cura degl’infetti.
    Come s’abbiano da preservare tali caritativi_          » 377
  CAPO VII. _Pietà e divozione quanto necessarie in
    tempo di pestilenza. Malvagità d’alcuni, che
    diventano allora peggiori. Quali prediche si
    convengano per costoro. Esercizi per accrescere
    e nutrire la pietà. Lezione spirituale, orazioni
    vocali, meditazioni e giaculatorie_                    » 390
  CAPO VIII. _Ricorso all’intercessione de’ santi;
    ma spezialmente ricorso a Dio. Sua immensa
    bontà, e meriti di Gesù che ci fanno coraggio.
    Amore e divozione verso Gesù e speranza in
    lui; utili e necessarj soccorsi in ogni tempo,
    ma in quei massimamente delle calamità._               » 398
  CAPO IX. _Riguardi per conservare illesi i conventi
    de’ religiosi. Varie cautele a tal fine ed
    altre in caso che v’entrasse il male. Quando
    sieno tenuti i religiosi a ministrare i sacramenti
    agl’infetti e quando gli ecclesiastici secolari.
    Monasteri delle monache come s’abbiano
    a custodire, e regole se vi penetrasse la
    peste. Esortar la gente allo spurgo. Dopo il
    contagio promovere la pietà. Conformità al volere
    di Dio cagione della vera tranquillità_                » 407

  _Relazione della peste di Marsiglia_                     » 429
  _Osservazioni intorno all’antecedente Relazione_         » 447


                               PUBBLICATO
                         IL GIORNO XXX GENNAJO
                            M. DCCC. XXXII.

                    Se ne sono tirate due sole copie
                      in carta turchina di Parma.



NOTE:


[1] _Per eseguire la ristampa di quest’opera ci siamo serviti delle due
edizioni di Modena 1714 e di Milano 1720, ed abbiamo scrupolosamente
collocate a debito luogo le aggiunte che si trovano in fine di ambedue
le edizioni. — Il_ Corniani _dice che non vi è libro del Muratori, il
quale vanti un egual numero di edizioni_.

[2] _V. il vol. CCLV della nostra Bibl. scelta, an. 1830_.



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "Del governo della peste - e della maniera di guardarsene" ***

Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home