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Title: L'Italia nel 1898: (Tumulti e reazione)
Author: Colajanni, Napoleone
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "L'Italia nel 1898: (Tumulti e reazione)" ***


                              N. COLAJANNI


                           L’ITALIA NEL 1898

                          (TUMULTI E REAZIONE)


                    Il quarantotto italiano, compiuto poi nel
                    ’60, non fu neppure politico, fu strettamente
                    nazionale e meschinamente unitario e dinastico.
                    _L’Italia attende ancora il suo quarantotto
                    politico, che le dia le condizioni essenziali
                    della vita moderna, e permetta di studiare
                    il passo sulla via già percorsa dalle nazioni
                    sorelle._

                                                     FILIPPO TURATI



                                 MILANO
                       SOCIETÀ EDITRICE LOMBARDA
                           Corso Venezia, 13



A CHI LEGGE


_Il lettore intelligente sa che non è cosa facile scrivere la storia
contemporanea e dire tutta quanta la verità, o quella, che, in buona
fede, tale si crede. Non si può dirla specialmente quando essa può
procurare molestie e persecuzioni agli attori o ai testimoni; quando si
può sospettare, che impedimenti verrebbero posti alla circolazione di
un libro, che si proponesse di farla nota tutta intera._

_Questa avvertenza serve per coloro, che mi hanno somministrati
elementi preziosi sui fatti di Milano e che non li vedranno in queste
pagine riprodotti, non ostante che essi si siano dichiarati pronti a
sostenere la esattezza delle loro informazioni anche nei Tribunali._

_La prudenza che mi ha suggerito di ometterli non ha spiegato la sua
azione nello interesse mio personale; ma in quello del libro, che potrà
compiere opera utile correggendo errori e pregiudizi, che hanno falsato
la pubblica opinione. Il libro mira sopratutto a far breccia in quella
che lo Zerboglio ha chiamato la _reazione onesta_ e che costituisce la
forza maggiore dei politici partigiani e disonesti._

_Così è: nella massa degli avversari del socialismo e della democrazia
in genere, in Italia e in questo quarto d’ora, per deficienza
di cultura e di conoscenza degli uomini e delle cose, la grande
maggioranza è composta di persone che, con tutta sincerità, credono che
la_ reazione _presente sia stata provocata dalle colpe e dagli errori
dei socialisti e dei democratici di ogni gradazione; e che essa sia
necessaria per salvare lo Stato e la società._

_Questo libro si rivolge alla _reazione onesta_ nella speranza
di richiamarla alla realtà e di ricondurla sopra la retta via. Vi
riuscirà? Lo ignoro; per riuscire, però, ho messo ogni studio — anzi
si dirà che sono stato esagerato in questo studio — per esporre i
_fatti_ quali li presentarono i giornali conservatori o reazionari
— _Corriere della Sera, Perseveranza_, ecc., di Milano; _Nazione_ di
Firenze, _Corriere_ e _Mattino_ di Napoli, ecc., ecc., e il periodico
_I Tribunali_ di Milano, che pubblicò i resoconti stenografici dei
processi svoltisi innanzi ai Tribunali di guerra della stessa Milano
col visto del Regio Commissario straordinario Generale Bava-Beccaris.
In quanto ai _giudizî_ sulle cause prossime, che generarono i fatti,
del pari, ho messo la massima cura nel presentarne una specie
di antologia ricavata da articoli e dai libri dei monarchici più
autorevoli, più colti e più onesti._

_Dai lettori invoco un benevolo compatimento per le deficienze dello
stile e della esposizione, che in questo mio libro sono maggiori che
nei miei precedenti. Per farmele perdonare dirò loro che scrissi in
gran fretta i singoli capitoli e li mandai a stampare uno per uno nella
speranza di poterli in ultimo rileggere in una volta per correggerli,
coordinarli e completarli. Per ragioni da me indipendenti non potei
compiere che assai incompletamente questo necessario lavoro di fusione
e di revisione. Ad ogni modo, tale quale esso è rimasto, spero che
verrà accolto come la espressione di chi non si è proposto che la
ricerca della verità e il bene del proprio paese._

_Castrogiovanni, 12 Dicembre 1898._

                                            Dott. NAPOLEONE COLAJANNI



I.

SIAMO IN RITARDO


Imprendendo a dire, con tutta la prudenza imposta dalla reazione
trionfante, dei casi che si svolsero in Italia nella primavera 1898
e che, per colpa del governo, assunsero proporzioni minacciose ed
impronta speciale in Milano nelle giornate dal 6 al 9 Maggio, sento il
bisogno di riprodurre le pagine colle quali posi termine al libro sugli
_Avvenimenti di Sicilia_ del 1893-94, che agli ultimi intimamente si
connettono.

Scrivevo adunque nell’autunno del 1894: «I segni precursori del
principio della demolizione di tutto ciò che esiste in politica in
Italia non mancano e presentano una grande analogia con quelli che
nel secolo scorso precedettero lo scoppio tremendo della rivoluzione
francese».

«Si legga l’_Ancien régime_ di Tocqueville e di Taine e si vedrà che
in Francia prima del 1789, come a Napoli, nelle Puglie, in Sicilia
nel 1893 e nel 1894, si sente che c’è un popolo in rivoluzione
latente, che aspetta l’occasione per irrompere; che questo popolo
manca ancora di organizzazione e di capi, non avendo più fiducia in
quelli che hanno l’autorità legale. Anche allora si gridava: «_Pane,
non tasse, non cannoni_! ch’è il grido del bisogno, dice Taine, e il
bisogno esasperato irrompe e va avanti come un animale inferocito. E i
magazzini, i convogli di cereali arrestati, i mercati saccheggiati. E
si grida: _Abbasso l’ufficio del dazio!_ E le barriere sono infrante,
gl’impiegati vinti e scacciati... E si danno al fuoco i registri delle
imposte, i libri dei conti, gli archivî dei comuni e si fa tutto al
grido di: _Viva il Re!_»

«La scena descritta dal Taine per Bignolles e per altri siti non
sembra la fotografia di ciò che è avvenuto a Valguanera, a Partinico,
a Monreale, a Castelvetrano, a Ruvo, a Corato? Eppure i contadini di
Sicilia e di Puglia non sanno o non conoscono cosa sia la rivoluzione
francese, i cui preludî imitano e ripetono!»

«Non basta ancora; l’analogia continua più grande che mai sulle cause,
che accelerano la catastrofe in Francia e che potranno accelerarla
adesso in Italia. Si disse dei gravissimi imbarazzi finanziari in cui
si dibatte il nostro paese; e Gomel ha messo stupendamente in evidenza
le cause finanziarie della rivoluzione francese».

«Qualche piccola inversione nell’ordine degli avvenimenti vi potrebbe
essere; quando Joly de Fleury si decise all’aumento delle imposte i
Parlamenti di Francia protestarono e invocarono la riunione degli
Stati Generali. Noi non abbiamo assemblee che per la loro storia
si rassomiglino ai Parlamenti francesi, ma abbiamo una Camera dei
Deputati, che dovrebbe equivalere agli Stati Generali, la quale sotto
l’incubo dello scioglimento ha approvato le imposte proposte dall’onor.
Sonnino e che potrà essere disciolta se non farà quell’_ultimo sforzo_,
che si chiama _ultimo_ per ischerzo, ma ch’è sempre seguito dalla
domanda di un _altro_».

«Chi può garantire che in Italia non si cominci da uno scioglimento
mentre in Francia si cominciò da una convocazione? E qualche altra
differenza ci sarebbe ancora nei protagonisti del prologo. L’Italia da
alcuni anni ha visti i Maurepas, i Vergennes, i Calonne, i Brienne,
i Joly de Fleury ed anche i d’Ormesson; l’Italia potrà anche trovare
il suo Neker; ma in tanta decadenza indarno cerca un Turgot! Dov’è il
Ministro che dica coraggiosamente al Re ch’è impossibile ogni ulteriore
accrescimento delle imposte; che prestiti non se ne possono fare più;
che la salvezza è nelle economie e nelle riforme?»

«E tutto ciò disse Turgot al buon Luigi XVI; ma non fu ascoltato!»

«Lo sarebbe adesso in Italia?»

«Nessuno può dirlo; ma tutti devono riconoscere che gli avvenimenti
incalzano e che la scintilla partita dalla Sicilia, che nell’arte,
nella coltura, nella organizzazione sociale, in tutto, si trova —
come direbbe Giuseppe Ferrari — in ritardo di fronte alle fasi di
sviluppo percorse dalla Francia e da altre regioni dell’Alta Italia,
che sentirono l’alito della rivoluzione francese: quella scintilla,
ove non si provveda in tempo, potrà, varcando lo stretto, far divampare
l’incendio nel resto d’Italia».

«Comunque, se insipienza di uomini di governo o fatalità di cose
vorranno che gli avvenimenti non abbiano quel corso pacifico ed
evolutivo, che dev’essere vagheggiato da quanti conoscono i danni e gli
orrori delle cruenti rivoluzioni, io faccio voti ardenti pel bene del
mio paese che il grido: «_morte a li cappedda_» non possa acquistare
quella triste celebrità che al di là delle Alpi acquistò il grido: _Les
aristocrates à la lanterne!_»[1]

Il riavvicinamento tra i prodromi della grande rivoluzione francese e
gli avvenimenti di Sicilia, che riporta il nostro paese ad un secolo
fa, può oggi essere completato con un altro riscontro storico che
somministra l’Inghilterra.

Al di là della Manica l’evoluzione politico-sociale non fu tranquilla
e pacifica sempre, come, nelle sue grandi linee, si è andata svolgendo
nella seconda metà di questo secolo.

Vi furono due grandi periodi di sommosse, di tumulti, di repressioni
sanguinose e di reazione, che ricordano la fase che attraversa l’Italia
dal 1893 in poi. Il primo va dal 1799 al 1824; il secondo dal 1837 al
1848. Tra i due periodi non mancarono le agitazioni, che terminarono
qualche volta in conflitti sanguinosi — specialmente nel 1819, nel
1831, nel 1832, nel 1839, ecc.; — e non fecero difetto completamente
dopo il 1848: astraendo dall’Irlanda — dove gli avvenimenti
presentarono sempre caratteri complessi non paragonabili mai con quelli
italiani — per tutti basta ricordare la _domenica sanguinosa_ — _the
bloody Sunday_ — 13 novembre del 1887.

I due periodi storici inglesi, classici per le turbolenze, il secondo
dei quali comprende il movimento _cartista_, vanno rievocati oggi in
Italia per concludere dal confronto — da completarsi più tardi — che se
in Inghilterra fossero stati adottati i criteri di governo che formano
ormai la gloria non invidiabile della borghesia italiana, il boja
avrebbe dovuto lavorare in permanenza; gli anni di galera distribuiti
ai _ribelli_ e ai sovversivi avrebbero dovuto contarsi non più a
secoli, ma a migliaia di secoli; la costituzione anzichè svolgersi
sempre più e continuamente nel senso democratico avrebbe dovuto essere
soppressa; la reazione sfrenata, insomma, quale del resto la vagheggiò
e consigliò in Inghilterra il partito dell’_ultratorismo_, vi si
avrebbe dovuto insediare sovrana e incrollabile.

Qualcuno potrà obbiettare, che accennando al lavoro del boia si vien
meno alle condizioni di una buona comparazione e che viene a mancare
ogni analogia, perchè condanne a morte ci furono in Inghilterra —
benchè non eseguite — ma non una — eccettuato il caso Barsanti, che
non entra nel periodo in discussione — ne inflissero i mal giudicati
Tribunali militari Italiani nel 1894 e nel 1898.

All’obbiezione si trova risposta nelle differenze tra i due
paesi: nella natura degli avvenimenti, nella proporzione e durata
delle repressioni, nella giustizia delle altre pene, nella serena
imparzialità dei giudici ordinari — e non eccezionali — nella sapienza
e moderazione delle classi dirigenti e dei governanti.

Le differenze ci sarà occasione di rilevarle, nella misura consentita
dall’indole di questo scritto, man mano che procederà la narrazione; e
le differenze eloquenti non potranno non richiamare alla realtà triste
della nostra enorme inferiorità politica e morale, quanti leggeranno
coll’animo intento alla ricerca del vero.

Per ora basta fermare questo: che i tumulti, le sommosse, i tentativi
coscientemente insurrezionali che afflissero l’Inghilterra per
cinquant’anni circa spesso tolsero a pretesto le riforme politiche; ma
il fondo dei movimenti fu e rimase sempre economico. Non cade dubbio
sulla natura del movente nel primo periodo dei torbidi inglesi; invece
qualcuno vorrebbe negarla pel secondo. E in verità, guardando alla
superficie e alle dichiarazioni di alcuni capi del _cartismo_, si
potrebbe credere che questo movimento celebre, durato circa dieci anni,
sia stato essenzialmente politico. Erano, infatti, d’indole politica
i famosi sei articoli della _Charta del popolo_; ma nella intenzione
dei _cartisti_ delle due scuole, essi dovevano servire come _mezzo_ per
ottenere il miglioramento economico delle masse lavoratrici.

I promotori ed organizzatori del movimento trovarono grande seguito
per lo appunto perchè tristissime erano le condizioni economiche degli
operai nella grandissima maggioranza.

Ciò era a conoscenza dei capi del _cartismo_; tanto che il reverendo
Stephens, uno dei più audaci e dei più infervorati, predicava che il
_cartismo_ era sopratutto una _quistione di forchetta e di coltello_!

Risalendo dal caso particolare all’indole generale dei movimenti
politici inglesi, il Rise, ch’è uno degli scrittori che ha iniziato
la illustrazione della cosidetta _Era Vittoriana_, ha scritto queste
parole significative non per i soli inglesi ma per tutti i popoli
che hanno coscienza delle proprie sofferenze: «John Bull al verde,
egli osserva, è il più persistente dei malcontenti e svolge principî
politici — ma sempre con un occhio volto agli affari futuri. Quando
è sazio di carne e di birra ha poche idee e la sua soddisfazione è
colossale». (_Rise of democracy._ London. Blackie et Son 1897 pag.
129). A provare l’esattezza del giudizio, un poco più oltre aggiunge:
«Appena R. Peel risolvette la quistione tributaria, la stabilità fu
assicurata alle industrie, alla società, alle istituzioni». (pag.
130).[2]

Il 1848 trovò disarmato il _cartismo_ dalla precedente riforma; così
l’eco della proclamazione della repubblica in Francia, invece di
trascinarlo ad una rivoluzione trionfante, ne segnò la morte. La sua,
però, non fu opera inutile: destò dal letargo le classi dirigenti,
mise sotto i loro occhi i pericoli cui andavano incontro ostinandosi
nella resistenza e contando sulla repressione e le costrinse alle
trasformazioni economiche e politiche indicate dai tempi, reclamate dal
popolo.

I sei articoli della _Charta_, dichiarati da principio irrealizzabili,
incontrarono la sorte di molte utopie e in gran parte oggi sono stati
tradotti in leggi; con questo in più: che ogni riforma politica fu
seguita — più raramente preceduta — da una riforma economica. Così da
questa lezione dei fatti svoltisi in Inghilterra emergono insegnamenti
non solo per le classi dirigenti italiane, ma anche per una parte
degli elementi avanzati, che — almeno sino a poco tempo fa — tenevano
in grande dispregio la politica. La tenne anche in dispregio Roberto
Owen, più di sessant’anni or sono, al di là della Manica e smarrì la
diritta via per conseguire quelle riforme economiche e morali di cui fu
apostolo geniale.

Ma è per le classi dirigenti italiane, che sopratutto sono ricchi di
ammaestramento questi raffronti storici dell’Italia colla Francia da
una parte e coll’Inghilterra dall’altra.

In Francia la cecità dei governanti nel secolo scorso condusse alla
grande rivoluzione con tutti i suoi eccessi e con tutti i suoi orrori,
che potranno ripetersi se la degenerata borghesia, che ha in mano
le sorti della terza repubblica, non si libera dalle strette del
militarismo. In Inghilterra le classi dirigenti, imitando gli esempi
dei buoni tempi di Roma, seppero sempre cedere a tempo. Se ricorsero
alla repressione, anche energica, non la resero sistematica, facendola
assurgere ad esclusivo metodo di governo e risposero ai tumulti da
disagio economico con riforme economiche; ai tumulti ed alle agitazioni
politiche fecero seguire le riforme politiche. Sinanco quando i
movimenti vi assunsero forme decisamente criminose le classi dirigenti
inglesi guardarono al fondo e alla sostanza e pensarono di eliminare il
delitto allontanandone le cause. Così la borghesia e l’aristocrazia,
e sopratutto gli industriali, allarmati ed indignati pei famosi
_delitti di Sheffield_, cominciano nel 1867 una grande inchiesta colla
intenzione di riuscire alla repressione severa del fenomeno criminoso;
ma appena constatatolo, anche per la confessione di qualche reo, si
cambia rotta e si riesce alla sapiente prevenzione colle leggi del
1870 e del 1875, che accordarono agli operai la più ampia libertà di
organizzazione, di sciopero e di quel _picketing_, che sembrerebbe
anche una enormità a molti democratici italiani[3].

Di fronte ai tumulti, alle sommosse, alle insurrezioni, adunque, alle
classi dirigenti italiane la storia addita due vie tracciate senza
incertezze e quasi senza alcuna di quelle oscillazioni e deviazioni
ordinarie nel corso degli avvenimenti sociali. Sull’una sta scritto
al termine: _rivoluzione_; è la via battuta dai governanti francesi.
Sull’altra, al principio risplende una insegna sulla quale si legge:
_riforme_. È l’insegna antica di casa nostra — l’insegna di Roma; ma
l’Inghilterra l’ha rimessa a nuovo e l’ha circondata di affascinante
forza di persuasione[4].

L’Italia è in ritardo nella sua evoluzione rispetto alla Francia
e all’Inghilterra; ma se questo ritardo sotto molti aspetti è
deplorevole, esso ha almeno un lato buono: consente al nostro paese di
trarre profitto dei risultati degli esperimenti politico-sociali che
furono fatti altrove.



II.

LA MARCIA DELLA SOMMOSSA


La formula: _riforme o rivoluzione_, — formula adottata dal partito
repubblicano parlamentare nel manifesto indirizzato al paese
all’indomani della repressione dei tumulti di Aprile e Maggio 1898
(_Rivista popolare._ Anno III, 21) — sembrerebbe adatta a chiudere
questo studio; invece la si è allogata nel proemio. Non a caso. Al lume
del dilemma che la storia pone ai governanti d’Italia si può esaminare
quali le tendenze che si possono constatare per prevedere, entro i
limiti delle previsioni sociologiche, se si otterranno le _riforme_ o
se si arriverà alla _rivoluzione_.

Queste tendenze non si possono indurre dalla osservazione degli
avvenimenti svoltisi nel corso di pochi anni; nè si può assicurare che
le _riforme_ non verranno più tardi solo perchè esse non vengono fatte
immediatamente. Ogni _riforma_ la quale vuole raggiungere lo scopo
prefisso dev’essere preparata e maturata con intelletto e con amore,
con conoscenza piena delle condizioni da modificare e delle altre, che
alle medesime si spera sostituire.

Il malessere economico, politico e morale in Italia non data da
pochi anni, perchè dal 1870 in poi è andato crescendo, quasi senza
interruzione; i segni ne furono manifesti e indussero allo studio delle
cause che lo generarono i privati e lo Stato.

Questi studî sono notissimi e non occorre enumerarli; tra i tanti
basta ricordare l’_Inchiesta parlamentare agraria_, che se ha poco
valore in alcune parti, ne ha uno sommo nel Proemio e nella conclusione
magistralmente esposta da Stefano Jacini.

Dal volume breve di mole e ricco di contenuto dell’illustre senatore
lombardo sono scorsi alcuni lustri e di rimedî adottati tra quelli
indicati come necessari ed urgenti si ha scarsa notizia e magrissimi
risultati. Sicchè da allora ad oggi i mali deplorati, anzicchè
diminuire, andarono crescendo in guisa da rendere facile a qualunque
osservatore mediocre la previsione di qualche catastrofe, per la
innegabile persistenza delle classi dirigenti nel sistema di governo
che era riuscito disastroso per tanti anni.

Se il periodo dell’osservazione in Italia fosse soltanto durato da
Caltavuturo — 21 Gennaio 1893 — alla primavera del 1898, si potrebbe
dire che esso sarebbe stato insufficiente per indurre le tendenze?
Ciò potrebbe dirsi pel passato remoto; non più oggi. Nella esperienza
sociale c’è acceleramento rapidissimo ch’è in ragione diretta del tempo
trascorso e dell’esperienza aumentata in ragione composta dei mezzi di
studio sempre più copiosi e perfezionati e degli altri per divulgare i
risultati raccolti.

Infatti in Inghilterra non si comprende la lentezza delle nostre
_Inchieste_ e l’oblìo cui vengono condannate dopo compiute — condizioni
tra noi divenute inseparabili e che destano un sorriso d’incredulità
quando qualcuna nuova ne viene annunziata. Il pubblico, anzi, l’accetta
come una indecente mistificazione; ed a giudicarne dalla ordinaria
inutilità, non sbaglia.

Dell’Inghilterra, invece, si sa questo: che cominciato lo studio delle
condizioni delle _Trade-Unions_ nel 1867 in seguito ai _delitti di
Sheffield_, si venne ai primi provvedimenti nel 1871; che constatata
con una inchiesta nel 1868-69 la poca diffusione dell’istruzione, si
ebbe il primo _Education act_ nel 1870; che ripreso, con un’altra
inchiesta lo studio dell’Irlanda nel 1879-80 il Gladstone dette il
grande _land act_ per l’isola Verde nel 1881. Gli esempi potrebbero
continuare; e il significato di questa lodevole rapidità nel far
seguire il rimedio alla diagnosi non può essere infirmato dalla
relativa lentezza sui provvedimenti radicali per combattere la
_disoccupazione_; a riguardo della quale, del resto, alcune misure
parziali lenitive si sono prese. Ma qui conservatori, liberali,
radicali e socialisti, che hanno rivolto le loro cure al grande
problema, con pari ardore, si capisce che devono procedere coi piedi di
piombo, perchè si tratta di una delle manifestazioni più salienti della
questione sociale.

Quanto diversa corre la bisogna in Italia! Quel capitolo degli
_Avvenimenti di Sicilia_ che intitolai dalla desolante inazione del
governo di fronte ai mali constatati — _Nulla è mutato!_ — potrei
ripeterlo oggi applicandolo all’Italia tutta, e potrebbesi rendere il
titolo più espressivo e corrispondente alla verità affermando che da
allora ad oggi: _Molto s’è peggiorato!_ Al lume dei fatti si vedrà che
questo pessimismo è giustificato.

La necessità e l’urgenza di opportuni provvedimenti che dalla Sicilia
si estendessero a tutta la penisola ed alla infelicissima tra le
sue regioni, la Sardegna, emergevano evidenti dalle discussioni
parlamentari del 1894, continuate ed allargate successivamente.

Furono gli ardenti unitari come Fortunato, Imbriani, ecc., che
insistettero nel dimostrare che il disagio che affliggeva le
popolazioni al di là dello Stretto, imperversava del pari in tutto
il resto del regno. Era vero; ed erravasi soltanto affermando che in
Sicilia il malessere non avesse caratteri particolari, che lo rendevano
più sensibile.

Qualche cosa si fece per la Sicilia — utilissima l’abolizione
del dazio di uscita sui zolfi, che permise la costituzione
dell’_Anglo-Siciliana_; e ciò, in parte, spiega la tranquillità del
1898 di alcune provincie. Ma le condizioni peggiorarono nella penisola,
o almeno non furono sensibilmente alleviate. Era prevedibile quindi, e
fu previsto, che le manifestazioni del disagio, dovunque non ne erano
state rimosse o attenuate le cause, dovessero presentarsi o continuare.
La scintilla, perciò, che nel 1892-93, poco mancò non divenisse grande
incendio in Sicilia, varcò lo stretto negli anni successivi.

Dal 1894 a tutto il 1897, in corrispondenza della varietà delle
condizioni economiche, politiche, morali e intellettuali, che è
propria delle diverse regioni d’Italia — fatta federale dalla natura
e dalla storia — i segni del malessere profondo sono differenti nel
mezzogiorno, nel centro e nel settentrione.

Mentre in Sicilia, nel Napoletano, nel Lazio si tumultua, s’incendiano
le case comunali, gli uffici daziari al grido _Viva il Re_ e si
continua ad eleggere quei deputati e quei consiglieri provinciali e
comunali, cui si attribuiscono i malanni contro i quali si sollevano;
nel Piemonte, in Lombardia, nella Emilia, ecc., — regioni dalla
maggiore coltura intellettuale e politica e dall’industria maggiormente
sviluppata — la protesta assume forme e caratteri moderni e civili:
le sofferenze dei lavoratori si traducono in iscioperi, in elezioni di
consiglieri e deputati repubblicani, socialisti ed anche conservatori
nel senso buono — appartenenti, cioè, a quel gruppo, che fa capo
all’onor. Colombo e che da anni domanda un mutamento d’indirizzo nella
politica e nell’amministrazione dello Stato.

La storia di questi scioperi — parzialmente illustrati con metodo
positivo dall’Einaudi — e di queste elezioni come prodotto del
malcontento e del disagio è ancora da farsi e deve mettersi in chiaro
l’anomalia del buon successo degli scioperi agricoli a preferenza di
quelli industriali. È certo, però, che i governanti, di fronte a queste
proteste civili e moderne, tennero un contegno incivile e disumano:
non seppero che applicare l’art. 247 ed altri analoghi articoli del
Codice penale — che in Italia stanno a fare le veci del _picketing_
inglese! — ricorrere alla violenza ed organizzare la concorrenza nel
lavoro dei soldati a benefizio dei capitalisti. Questi esempi, che
venivano dall’alto dovevano consigliare i lavoratori dall’affidarsi ai
mezzi legali e convincerli, al contrario, che essi non potevano sperare
salvezza e miglioramento se non dall’uso della forza brutale.[5]

Si accenna appena a queste manifestazioni legali del disagio
illegalmente represse dal governo che sotto Di Rudinì volle acquistare
fama non bella a Molinella, come altri se l’aveva assicurata
tristissima a Conselice; e si è anche costretti a sorvolare sulla
inattesa agitazione agraria delli Castelli Romani — inframescata di
violenze, di ferimenti, di arresti e di processi; ma tanto legittima
nelle sue cause da accapparrarsi le simpatie e la benevolenza degli
ufficiosi del tempo — l’està del 1897 — e di alcuni rappresentanti del
potere politico: Bonerba ispettore di Pubblica Sicurezza e Marchese
Cassis ispettore generale al ministero dell’interno. È tutto dire! Si
fa una semplice menzione della grande manifestazione di Roma contro la
ricchezza mobile, che ebbe il suo epilogo tragico in Piazza Navona;
e la si ricorda particolarmente: da un lato perchè sintomatica del
generale malcontento della borghesia; dall’altro perchè segna la sua
illogica e contradditoria condotta. Questa borghesia, infatti, che fa
le elezioni, che ha in mano le redini del governo e vuole la politica
dispendiosa, ha perduto il diritto di protestare contro la soverchia
gravezza delle imposte: se vuole gli obbiettivi dei megalomani deve
somministrare i mezzi per conseguirli.

Si sorpassa su tutte queste manifestazioni che si svolsero dal
gennaio 1894 al maggio 1898 che rappresentano gli anelli della catena
interminabile del malcontento e che sono degnissime dello studio
dello psicologo politico, per venire a quella che rimarrà lugubremente
celebre negli annali nostri come la _protesta dello stomaco_.

La protesta dello stomaco per un momento ridà all’Italia una unità di
sentimenti, che le mancava da anni parecchi; la protesta dello stomaco
assegna al nostro paese un posto speciale, perchè vide riprodurre
fenomeni che non si credevano più possibili nella civile Europa
occidentale in questo scorcio di secolo. Infatti solo da noi si ebbero
i tumulti per carestia, per fame, per cause che agirono egualmente
presso gli Stati del vecchio continente, ma senza produrre gli effetti
dolorosi, che rimangono propri ed esclusivi dell’Italia.



III.

LA CRONACA SANGUINOSA


L’anno 1897 erasi chiuso per l’Italia sotto i più sinistri auspici.
Nelle Marche, nella Romagna, in vari altri punti del regno, durante
l’autunno, quasi per non interrompere la cronaca dei tumulti e delle
sommosse, c’erano state delle manifestazioni, ora lievi, ora gravi che
costituivano l’indice più eloquente del malessere generale.

A Forlì si assaltano le botteghe nelle quali si vende il pane; la
sommossa dura alcuni giorni in Ancona dove si saccheggia la casa di
un negoziante di grano; a Macerata gli affamati s’impadroniscono del
frumento messo in vendita e si rompono i vetri della casa del Sindaco
e del Municipio; a Senigallia si saccheggiano i magazzini di frumento
del principe Ruspoli; a Chiaravalle vi sono colpi di revolver ed un
carabiniere viene ferito; a Gallipoli si dà fuoco alla casa di un ricco
cittadino; a Firenze — la mite e gentile Firenze — scene simili si
ripetono e molti agenti di polizia vengono feriti; a Milano, a Napoli,
a Palermo, a Ferrara, a Bologna, società operaie ed associazioni
politiche protestano contro il rincaro del prezzo del pane e si
moltiplicano le riunioni degl’infelici che domandano: _pane e lavoro!_

Non ci potevano essere e non ci furono equivoci sull’indole di siffatte
dimostrazioni; erano la protesta dello stomaco. Tali vennero giudicate
con singolare unanimità dalla stampa di ogni partito e dagli uomini
politici, che le segnalarono in Parlamento e fuori, ed il giudizio
non poteva essere modificato dal grido: _Viva la Repubblica! Viva il
Socialismo!_ echeggiato in quei giorni nella minuscola Subiaco. Era
evidente l’urgenza di misure che attenuassero almeno le più crudeli
sofferenze dei lavoratori e della borghesia magra. Qualche cosa fecero
i Municipi specialmente in Sicilia, dove era fresca la memoria dei
tumulti del 93-94: e con qualche sacrifizio ed anche con qualche
strappo alla legge tennero il prezzo del pane entro limiti normali.
Riuscirono con ciò a mantenere la calma. Nulla, o ben poco, fece
il governo, su cui pesarono le maggiori responsabilità e che poteva
prendere i più efficaci provvedimenti di sana prevenzione; esso non
credeva allo spettacolo doloroso delle inaudite miserie, non sentiva il
cupo muggito della tempesta che si avvicinava rapida e minacciosa.

Il timore manifestato nel 1894 era già una realtà nell’autunno del
1897: la sommossa aveva valicato lo stretto e dalla Sicilia si era
propagata in tutto il continente. Sullo scorcio di quell’anno, però,
essa non aveva assunto i caratteri che l’avevano distinta nell’isola.
Il fenomeno si riprodusse in tutti i suoi dettagli nell’anno 1898, che
rimarrà celebre nei nostri annali per la cronaca sanguinosa della sua
primavera.

Ed è la Sicilia, dove sono i centri del dolore, che suona la diana:
a Modica ed a Troina si tumultua per fame e rinnovansi le stragi del
1893-94. Sorpassano la decina gli affamati uccisi in Febbraio in quelle
due città, e centinaia di feriti cercano salvezza nella fuga, perchè
la polizia non contenta delle generose somministrazioni di piombo cerca
vittime nuove per le patrie galere.

Passano due mesi in una calma relativa, che non inganna i veggenti,
e quando verso la fine di Aprile si esauriscono le provviste
locali di frumento e si eleva rapidamente il prezzo per la guerra
ispano-americana, che rese più scarsa l’importazione, l’incendio
divampa da un capo all’altro d’Italia con una rapidità prodigiosa
spiegabile colla facilità e rapidità dei mezzi di comunicazioni di ogni
genere; i tumulti e le sommosse assumono le proporzioni di una vera
epidemia alla cui diffusione, oltre le cause economiche, politiche
e morali persistenti, somministra un contributo considerevole il
mimetismo, il contagio psico-sociale.

Ecco la cronaca sanguinosa fatta di date e di cifre; ed avverto che,
pur troppo, essa non è completa[6].

I tumulti, le sommosse cominciarono il 26 Aprile a Faenza ed a
Finale-Emilia. Si ripetono il 27 a Faenza e Bari; il 28 a Faenza,
Foggia, S. Giovanni a Teduccio, Arzano, Benevento, Secondigliano; il
30 a Modugno, Aversa, Palermo, Piove, Pesaro, Ferrara, Rutigliano,
Castelsanpietro, Forlì, Rimini, Camerino, Napoli; il 1.º Maggio a
Monopoli, Molfetta, Minervino-Murge, Benevento, Ferrara, Napoli,
Rimini, Bagnacavallo, Ascoli Piceno, Resina, Ponticello, Giuliano,
ecc.; il 2 a Bagnacavallo, Ascoli Piceno, Cesena, Piacenza, Parma,
Ferrara, Ariano di Puglia, Salerno, Palermo, Pesaro; il 3 a Pesaro,
Figline Valdarno, Avellino, Soresina; il 5 a Pavia, Livorno, Sesto
Fiorentino; il 6 ad Avellino, Livorno, Firenze, Pisa, Padova, Palermo,
Milano; il 7 a Livorno, Pistoia, Fermo, Porto Maurizio, Milano; l’8 a
Firenze, Monza, Como, Padova, Pescia, Genzano di Roma; il 9 a Milano,
Napoli, Pontedera, Monza, Saronno, Como, Brescia, Rovigo, Vicenza,
Reggio-Calabria, Siracusa, Bologna, Monsummano, Tropea, Castelvetrano,
Foggia, Matelica, Livorno, Pisa, Siena, Roccastrada, Bologna, Ferrara
e dintorni, Ancona, Velletri, Messina, ecc., ecc.; il 10 a Napoli,
Livorno, Genova, Porto-Maurizio, Chiavari, Ravenna, Castelferretti,
Tropea, Velletri; l’11 a Caserta, Aversa, Cimitile, Novara, Luino,
Messina, ecc.

Col giorno 11 Maggio si può dire che cessa il periodo acuto delle
dimostrazioni. I governanti che per oltre quindici giorni sono stati in
preda del terrore — altrettanto grande quanto era stata grande la loro
precedente incosciente serenità — hanno compiuto la repressione, hanno
consolidato lo stato di assedio in tre grandi regioni, delle quali
due tra le più agiate e le più colte della penisola, la Toscana e la
Lombardia — e possono trionfalmente annunziare che: _l’ordine regna in
Italia_.

La gravità dei fatti non fu da per tutto uguale; ma fu identica la
loro fisonomia da Messina a Luino. Per un momento le manifestazioni
politico-sociali di questo regno d’Italia malconnesso, lo ripeto,
assunsero impronta rigidamente unitaria: da Luino a Messina, unica fu
la causa che sollevò la protesta ed uguale dappertutto la forma di
questa protesta dello stomaco. Il primo grido che si sentì per ogni
dove fu quello di _pane e lavoro_, cui successivamente e in varia
misura si aggiunsero altri gridi sovversivi — altri _evviva!_ ed altri
_abbasso!_ secondo il diverso temperamento locale. Ai gridi più spesso
si aggiunsero minaccie contro le autorità, contro le persone invise;
alle minaccie seguirono i fatti: rotture di fanali, di vetri delle
case, devastazioni, incendi, saccheggi; ed a questi le repressioni ora
miti ora feroci; gli arresti a migliaia e i massacri.

Una prima e necessaria constatazione: la ferocia della repressione
non sta menomamente in rapporto colle gravità ed un poco anche
coll’indole dei tumulti. A Bari ed a Foggia i fatti sono gravissimi
e stante la importanza delle due città possono riuscire pericolosi;
eppure non ci sono i morti di Molfetta e di Modugno. A Faenza, che
inizia il movimento e dove sin dal primo giorno si concede il pane a
30 centesimi, si arriva alla costruzione di vere barricate; ma non si
deplora un eccidio come a Bagnacavallo. Tra Prato e Sesto Fiorentino,
tra Parma e Piacenza da un lato, Monza, Luino e Soresina dall’altro,
in ambienti tanto diversi, intercedono le medesime differenze dianzi
accennate e che si verificarono anche in Sicilia nel 1893-94. Ciò prova
che dovunque le autorità furono longanimi e prudenti si evitò o si
ridusse a ben poca cosa il versamento del sangue.

Se in questa diversità di risultati c’entrano le differenze individuali
delle autorità locali, c’entra in misura maggiore la mancanza di savia
ed uniforme direzione dal centro.

Ho enumerato senza alcun ordine le città, i paesi, i villaggi che
somministrano elementi alla cronaca sanguinosa perchè l’apparente
disordine si presta a considerazioni d’indole apparentemente geografica
che assurgeranno più tardi ad importanza maggiore per giudicarne
l’indole. Anzitutto, se in generale si può affermare che i tumulti
cominciano nel mezzogiorno per propagarsi gradatamente al settentrione,
non è meno vero, però, che la prima scintilla si parte dal centro
e dal nord della penisola — Faenza e Finale Emilia — e divampa più
qua e più là, mostrando che le cause determinanti esistono in tutta
la penisola ed agiscono disordinatamente e contemporaneamente sui
grandi e sui piccoli centri, senza che possa affermarsi esservi
una prevalenza decisa dei primi o degli ultimi in guisa che possano
stabilirsi i primitivi centri d’irradiazione. Solo può rilevarsi che i
casi di Milano esercitarono maggiore influenza degli altri se si deve
giudicarne dal numero delle località che furono tumultuanti il giorno
nove Maggio.

Il fenomeno è naturale ed ha la sua ragione di essere in quella specie
di egemonia, che la _capitale morale_ esercitava ed esercita in gran
parte d’Italia ed a cui si sottraggono l’estremo mezzogiorno e la
Sicilia. Si noti intanto che Firenze non ricordava forse da secoli
tumulti quali quelli del 1898; che Napoli abbandona la sua proverbiale
indifferenza apatica e memore delle prime prove dell’agosto 1893,
persiste per più giorni nei tumulti senza lasciarsi intimidire dagli
apparecchi micidiali di guerra teatralmente allineati nelle sue
piazze e vede le sue donne smunte, i suoi fanciulli laceri, le sue
larve di lavoratori sfidare la forza pubblica ed in qualche momento
affrontare serenamente la morte. Il contegno di queste due città da
solo somministra all’osservatore politico qualche indicazione, che
non dovrebbe andare perduta per valutare al giusto lo intervento delle
cause, che riuscirono ai tumulti.

Un’ultima constatazione mercè la quale la geografia e la cronologia
alleate rivelano l’indole dei luttuosi avvenimenti in discorso.

Il 1º Maggio, giorno sacro pei socialisti e che avrebbe potuto fornire
occasione a dimostrazioni facilmente degeneranti, passa tranquillo dove
i socialisti sono forti per numero e per organizzazione. Solo a Rimini,
a Bagnacavallo ed un poco a Ferrara, contrade pervase discretamente
dalla corrente delle nuove idee, nel giorno della festa del lavoro vi
furono tumulti; prevalsero questi nel mezzogiorno — Napoli, Monopoli,
Minervino Murge, Molfetta, Benevento, Resina, Ponticello, Giuliano,
ecc. — dove possono esservi socialisti, ma non esiste affatto un
partito socialista, nemmeno in embrione.

E chiudo questa cronaca sanguinosa con cifre, che, per quanto
incomplete, riescono dolorose ed eloquentemente rivelatrici.

Bisogna rinunziare ad enumerare gli arresti. In un giorno c’erano oltre
500 detenuti per causa dei tumulti nelle carceri giudiziarie della
sola Bari; 300 cittadini in una volta furono imprigionati a Livorno;
un migliaio circa in più volte in Napoli. In Italia gli arresti, senza
timore di esagerare, si può affermare, che nel periodo dei tumulti
dovettero contarsi a decine di migliaia.

La statistica dei ferimenti tra i cittadini è ancora più incerta;
chi è ferito nei tumulti si presume che abbiavi preso parte. Non si
ammette che sul luogo ci si sia trovato accidentalmente o trascinato
dalla marea; perciò se fa noto il suo stato è sicuro che egli verrà
sottoposto a processo. In questo caso sarà fortuna se uscirà assolto;
ma nessuno lo risarcirà mai dai parecchi mesi di carcere preventivo
sofferto. Si comprende perciò che il numero dei feriti tra i cittadini
denunziati dai giornali dal 26 Aprile alli 11 Maggio debba essere molto
al disotto del vero; riuscii a raccoglierne circa duecento, ma con
molta probabilità avranno passato il migliaio.

Più sicuro è il numero dei morti e ce ne furono cinquantuno oltre
quelli di Milano. La forza pubblica non ebbe che un morto e ventisette
feriti; e tra le ferite furono calcolate le leggere contusioni. Nella
forza pubblica le lesioni furono quasi tutte lacero-contuse. Il popolo
in armi, che movevasi in seguito a complotto preordinato da lunga mano,
non possedeva che sassi e bastoni!



IV.

A MILANO


Le notizie delle sommosse e dei tumulti che il telegrafo comunicava
ai giornali e che questi diffondevano in ogni angolo d’Italia
avevano eccitato la opinione pubblica nella misura consentita dalla
inerzia morale e intellettuale, da cui è afflitto il nostro paese;
l’eccitamento raggiunse il colmo suo in tutte le classi sociali,
nelle sfere politiche, nei rappresentanti del governo, quando corse
la prima voce che la sommossa incomposta per fame del mezzogiorno si
era trasformata in rivolta a Milano e che la rivolta poteva divenire
rivoluzione. Un pubblicista, conservatore di merito in Napoli, non
esitò a ricordare la famosa risposta del Liancourt a Luigi XVI.
(_Corriere di Napoli_).

Non poteva essere diversamente. L’importanza della città di Milano
e le sue condizioni, note ed in parte esagerate, facevano presumere
che i moti del resto d’Italia dovevano assumere carattere diverso
riproducendosi nella _capitale morale_; sicchè appena si seppe
delle prime dimostrazioni del giorno 6 maggio osservossi un notevole
mutamento nel linguaggio dei giornali conservatori e degli altri, che
rispecchiavano le opinioni delle sfere governative.

Si cominciò a tacere delle cause economiche, che avevano determinato i
primi tumulti, e si segnalò con accenni vaghi e timidi da principio,
più recisi e chiari in appresso, l’azione dei partiti sovversivi —
repubblicani, clericali e socialisti, — il complotto, la preordinazione
voluta e cosciente di tutti quei movimenti che erano stati
considerati con singolare unanimità spontanei, improvvisi, e sottratti
all’influenza di qualsiasi partito politico. In questa guisa tutto
l’interesse e tutta l’attenzione della frazione della nazione che pensa
e partecipa alla vita politica concentrossi su Milano, da cui possono
prender nome tutti gli avvenimenti luttuosi della primavera del 1898.
E dal carattere reale o artificiosamente attribuito agli avvenimenti
di Milano presero l’intonazione tutti i provvedimenti politici,
che costituiscono uno dei periodi della più stolta e ingiustificata
reazione, che abbia attraversato l’Italia nuova.

A Milano, perciò, si assomma la storia dei tumulti di cui
c’intratteniamo ed è indispensabile esporre colla maggiore esattezza
possibile quali furono i fatti che vi si svolsero dal 6 al 9 maggio,
onde assegnare le rispettive responsabilità agli attori del dramma e
riuscire al giudizio complessivo equanime sull’opera del governo.

Non è facile fare la cronaca imparziale, obbiettiva, degli avvenimenti
ai quali si ha assistito o si ha preso parte diretta o indiretta;
l’impresa è più ardua quando chi scrive è uomo di parte. È bene, però,
che chiunque desidera che la luce si faccia intera, a tale impresa si
accinga, perchè su ciò che può esservi di errato nella narrazione, dai
viventi possa venire la rettifica o la smentita opportuna.

Comincio, adunque, sereno la cronaca dei fatti di Milano; per la
quale si ha un documento importante nei resoconti stenografici dei
processi, che si svolsero innanzi ai Tribunali militari. A proposito
dei quali non si deplorerà abbastanza la condotta insana del Generale
Bava-Beccaris, che sottrasse elementi preziosi per la storia colla
censura esercitata sulla stampa e coi tagli fatti eseguire negli stessi
resoconti stenografici dei processi[7].

I tumulti di Milano prendono le mosse da un manifesto che i socialisti
indirizzarono il giorno 6 ai cittadini. In esso si domandava la
restaurazione della libertà e della giustizia, l’abolizione dei
privilegi, la guerra al militarismo, il suffragio universale e si
concludeva chiamando il paese a salvare se stesso per evitare nuove
stragi.

Si può discutere sulle opportunità di questo appello; è indubitabile,
però, che il suo contenuto non era criminoso: ogni singolo punto del
medesimo era stato impunemente più volte e in vario modo discusso ed
affermato. Pensarono diversamente le guardie di Pubblica Sicurezza pel
malvezzo prevalso d’intervenire sempre e passarono all’arresto di un
distributore presso Ponte Seveso.

L’arbitrio era reso pericoloso dall’eccitamento degli animi ed ebbe
quelle conseguenze dolorose che la più elementare prudenza doveva far
prevedere. Gli operai, in gran parte appartenenti allo stabilimento
Pirelli, in via Galilei, protestarono e chiesero la liberazione degli
arrestati accompagnando la richiesta con urli e fischi contro gli
agenti della forza, il cui contegno fu provocante oltre misura. I sassi
volarono contro la delegazione della questura in Via Napo Torriani; e
sassi furono lanciati contro lo stabilimento Stigler perchè gli operai
non vi lasciavano il lavoro. In questi episodi vennero operati altri
arresti.

Una commissione di operai con a capo il socialista Dell’Avalle si portò
dalle autorità di pubblica sicurezza scongiurando che si lasciassero
in libertà gli arrestati per disarmare l’ira popolare. La preghiera fu
ascoltata per metà: due furono rilasciati ed un terzo, Amadio Angelo,
venne trattenuto col pretesto che era stato colto coi sassi in mano.
L’ottenuta parziale liberazione incoraggiava nella insistenza da un
lato, mentre la negata liberazione dell’altro esasperava gli animi
maggiormente.

In questo primo tafferuglio non vi furono che delle contusioni, per
colpi di pietra; ma non doveva tardare l’intervento della truppa
invocato insistentemente dalla questura e che doveva riuscire
micidiale. Il primo picchetto, del 47 fanteria alle 15,30 fu schierato
verso la fronte dello stabilimento Pirelli, dove lavoravano 2400
persone. Altra truppa arriva un poco più tardi e si dispone sempre
nei pressi dello stabilimento suddetto. Alle 16,30 un battaglione del
57 fanteria prese posto nell’Ippodromo del Trotter. Così si trovano
di fronte gli elementi dell’incendio e non occorre che una scintilla
perchè esso divampi.

Quando più viva era la dimostrazione e gli operai evocano indignati
l’uccisione di Muzio Mussi, i deputati Turati e Rondani sovraggiungono
sul luogo e si rinnovano i consigli di calma dati prima dal
Dell’Avalle; il consiglio avvalorano colla promessa della liberazione
dell’Amadio, coll’annunzio dell’abolizione del dazio comunale sulle
farine e sui cereali.

Alle ore 18 comincia per gruppi l’uscita degli operai dello
stabilimento Pirelli e la gente sulla via Galilei si sfoga gridando:
_Evviva Turati! Evviva Rondani! Abbasso il governo provocatore!_
Parlano di nuovo i due deputati socialisti e pare che ogni pericolo di
conflitto sia scongiurato.

Ma un gruppo di persone, da 200 a 300 — in gran parte donne e fanciulli
— si avviò, cantando l’Inno dei Lavoratori, verso via Ponte Seveso e
Andrea Doria e fischiando gli agenti di polizia, tra i quali un certo
Viola, _el calabres_, assai inviso perchè tra i più petulanti nelle
provocazioni. Si torna a domandare la liberazione dell’Amadio e si
scagliano di nuovo sassi contro l’ufficio della Questura in via Napo
Torriani. Alle 19 circa esce dal Trotter una compagnia di fanteria
che viene accolta anche essa a fischi ed a sassate. Una pietra, dice
il _Corriere della Sera_, colpì in fronte un soldato. «Questo fatto,
continua lo stesso giornale, le cui parole riproduco testualmente,
_parve l’ordine di reagire con la forza alla forza_; e dalla truppa
partirono otto o dieci colpi di moschetto, _pare_, sparati in aria.
Fu quello un momento di panico e di confusione. Molti dei dimostranti
_parevano_ disposti a resistere anche di fronte alle schioppettate
e seguitavano a lanciar sassi; ma i più spaventati fuggivano a
rompicollo, spingendo, rovesciando quelli che si trovavano di ostacolo
sui loro passi. Le guardie della sotto brigata uscivano con le
rivoltelle in pugno, sparando esse pure, mentre altri colpi partivano
dalla truppa. Il parapiglia durò pochi minuti, ma ebbe esito letale»
(N. 124).

Infatti vi lasciarono la vita nello stesso giorno un certo Savoldi e
l’odiata guardia di Pubblica Sicurezza, il Viola, ch’era in borghese
e che per dare da vicino la caccia ai dimostranti trovossi insieme
a loro fatto bersaglio alle scariche dei soldati. Affermasi, anzi,
che fu proprio il Viola che uccise il Savoldi. All’indomani cessò di
vivere uno dei feriti più gravi, l’Abbiati. Numerosissimi i feriti.
La giornata lugubre ebbe uno di quegli epiloghi di una spontanea
teatralità, che impressionano le menti le meno eccitabili. Il Savoldi,
raccolto da pietosi operai, fu messo sul tram elettrico per essere
condotto all’ospedale dei Fatebenefratelli. Ma durante il tragitto
morì. Fu ricondotto, sempre in tram, ed accompagnato da operai
in Piazza del Duomo, dove formossi un assembramento di circa 500
persone. La polizia voleva impossessarsene; ma i compagni di lavoro
non se lo lasciarono strappare dalle mani e lo condussero al Cimitero
Monumentale.

La passeggiata di quel cadavere pareva invocasse vendetta; e vendetta
chiedevano gli operai. L’ucciso la meritava. Dalla testimonianza del
Commendator Pirelli innanzi al Tribunale Militare si seppe che il
Savoldi era un operaio che aveva lavorato tutto il giorno nel suo
stabilimento e che si trovava nella folla per curiosità. (_Udienza del
28 Luglio_).

Qualche cosa di grave sarebbe avvenuto in Milano la sera del 6; ma un
provvidenziale acquazzone alle 20 sciolse l’assembramento di Piazza
del Duomo. Più tardi la Galleria, i Portici settentrionali e la Piazza
del Duomo furono affollatissimi e si cantò l’Inno dei Lavoratori; ma
riuscì agevolmente alla forza di fare sgombrare. Vi fu qualche arresto
e qualche spiacevole incidente; ma a mezzanotte tutto era finito.

È necessario assodare la responsabilità di questa prima giornata; ciò
che avvenne dopo non fu che la conseguenza fatale.

È innegabile l’illegalità dei primi arresti, che procurarono le
dimostrazioni e la sassaiuola per ottenere la liberazione degli
arrestati. A parte ogni altra considerazione di ordine politico e
sentimentale, è del pari innegabile che si continuò nella illegalità
nel momento in cui si arriva alla catastrofe. Mancarono infatti i tre
squilli di tromba voluti dalla legge per intimare lo scioglimento di
una dimostrazione. Il _Corriere della sera_, la cui narrazione dei
fatti pare tutta intesa ad attenuare la responsabilità della forza
pubblica e delle autorità, parla di _un solo_ squillo di tromba dato
dalle guardie di pubblica sicurezza; ma non fa menzione di alcun
squillo al momento in cui la truppa fa la sua scarica micidiale.

I _tentativi di resistenza_ dei dimostranti sono una semplice ipotesi
non avvalorata da alcun elemento di fatto; le scariche sin dalle
prime dovettero mirare a colpire, perchè la fuga precipitosa cui si
dettero gli operai non consentiva, se non come espressione di ferocia,
la continuazione del fuoco; e i morti e i feriti caddero colla prima
scarica, tanto improvvisa, che non dette tempo alla guardia Viola di
ritirarsi.

L’illegalità fu aggravata dalla mancanza assoluta di tatto politico.
Anche se l’Amodio fosse stato un pericoloso delinquente — ed era un
inerme ragazzo; anche se avesse confessato il _grave_ reato di avere
scagliato delle pietre, in quell’ora di grande eccitamento, dinanzi ad
una folla numerosa e tumultuante, sarebbe stato atto savio lasciarlo in
libertà — salvo a riprenderlo e processarlo più tardi, se di processo e
di pena, ritornata la calma, lo si fosse ritenuto meritevole.

Che la prudenza consigliasse la liberazione lo riconobbe il comm.
Pirelli, uomo d’ordine per eccellenza e tanto alieno dalla sovversione
che non volle contaminato il balcone del proprio stabilimento
permettendo che l’on. Turati facesse opera di pace colla sua valida
ed ascoltata parola. Fu il Pirelli, che sin dal primo momento chiese
telefonicamente alla Questura la liberazione dell’Amodio; e fu il
Pirelli che da buon politico avvertiva il Questore dei pericoli cui
si andava incontro ostinandosi nel rifiuto, che poscia confessava al
Turati — che richiedevalo di notizie delle pratiche fatte inutilmente
presso la Questura per rimuovere la causa occasionale del disordine.
Quando le pratiche furono rinnovate con insistenza dai deputati Turati
e Rondani, il signor Questore all’imprudenza volle aggiungere il
mendacio; in un momento insolito di tenerezza per la legalità scusossi
di non potere liberare l’Amodio perchè non era più in sua facoltà il
farlo, avendolo deferito all’autorità giudiziaria. E non era vero; e
la falsità del pretesto venne subito dimostrata dalla risposta data
dal Procuratore del Re allo stesso Turati, che rapido era corso da lui
per ottenere dall’autorità giudiziaria ciò che era stato negato dalla
autorità di Pubblica Sicurezza[8].

Forma un contrasto stridente colla condotta inqualificabile della
Questura quella ammirevole e pacificatrice dei socialisti più noti. Il
Dell’Avalle sin dai primi momenti fu sul luogo e consigliò vivamente la
calma e s’intese col Pirelli nel consigliare a chiedere la liberazione
del detenuto. A lui si unirono tosto gli onorevoli Turati e Rondani per
tale intento.

Due volte parlò nelle strade il Turati e parlò pure il Rondani e
fece pena il vedere innanzi al Tribunale Militare come si accanisse
l’Avvocato Fiscale nel contorcere il senso delle loro parole, astraendo
completamente dalla gravità del momento in cui furono pronunziate,
dalle intenzioni chiare univoche di coloro che le pronunziavano,
dall’effetto prodotto e dallo scopo raggiunto.

Si ammetta pure la versione più rivoluzionaria dei discorsi dei
due deputati socialisti e si riconosca pure che essi abbiano voluto
scongiurare il pericolo _presente_ promettendo una _futura_ levata di
scudi: non è evidente che essi in tal modo soltanto potevano esercitare
un’azione moderatrice sulla folla esaltata? Ogni altro linguaggio
avrebbe fatto perdere la popolarità agli oratori senza ammansare gli
esaltati.

L’intenzione del Turati era tanto retta e pacificatrice che ai
tumultuanti annunzia e promette anche ciò che non aveva ancora
ottenuto: la liberazione di Amodio; egli era tanto sicuro nel tentativo
di disarmare i tumultuanti che si affretta a dare la buona novella
della deliberazione della Giunta sul dazio comunale sulle farine e
sui cereali; e la opera sua fu così efficace, che dove essa spiegossi
raggiunse l’intento. Lo riconobbe il _Corriere della Sera_.

Erano dunque ben strani rivoluzionari questi socialisti che nel momento
del massimo fermento, quando la loro parola può trasformare il tumulto
in rivolta, consigliano ed ottengono la calma! E non è una delle minori
enormità di questo periodo tristissimo di reazione l’insano tentativo
di attribuire a colpa degli accusati ciò che costituiva il loro
migliore titolo per ricevere azione di grazie anzichè punizione[9].



V.

DAL SACCHEGGIO DI CASA SAPORITI ALLA BRECCIA DEI CAPPUCCINI


Il sangue corso nelle vie di Milano nella sera del 6 maggio doveva
farne versare dell’altro nei giorni successivi. Era facile prevedere
che qualche cosa di più grave poteva avvenire e all’indomani le
autorità politiche, militari e amministrative avrebbero dovuto prendere
provvedimenti adatti per calmare gli animi e prevenire i disordini.

Nulla di tutto ciò; le misure adottate, intese ad intimidire, non
potevano che sovreccitare gli animi ancora di più. Solo nel pomeriggio
del giorno 7 comparve un manifesto a firma del sindaco Vigoni, che
invitava alla calma!

In quel manifesto mancava il calore sincero, che occorreva in quei
momenti; era scialbo e rispecchiava lo stato di animo di coloro
che lo avevano redatto — coscienti che non c’era corrispondenza di
sentimenti tra l’anima del popolo e quella dei suoi rappresentanti
legali; ed armonia d’intenti non poteva esservi tra un sindaco e i suoi
rappresentati, quando il primo potè proclamare la sua città travolta
da un’_onda di barbarie_ e potè invocare in nome della paura lo stato
d’assedio, che non avevano potuto ottenere prima i telegrammi del
Generale Bava e del prefetto Winspeare (_Secolo_, 8 Settembre 98).
Mai come in questa circostanza fu avvertito il danno e il pericolo di
questa dissonanza!

In quanto alle parole di pace del Comandante del corpo di armata e del
Prefetto, si comprende che non potevano essere ascoltate, perchè erano
ritenuti — a torto o a ragione — responsabili dei fatti del giorno
precedente. A loro non restava che far sentire la voce della minaccia e
la fecero sentire nelle ore pomeridiane — poco dopo che avevano fatto
appello al patriottismo di Milano — colla proclamazione dello Stato
d’assedio.

Intanto era dato l’impulso sin dalle prime ore del mattino al
movimento, che doveva più tardi terminare tragicamente. Gli operai,
addolorati e indignati pei fatti del giorno precedente, volevano
manifestare i loro sentimenti astenendosi dal lavoro. La decisione fu
presa in principio da quelli dello stabilimento Pirelli; gradatamente
venne comunicata ed accettata da quelli di quasi tutti gli altri
stabilimenti della città e dei sobborghi.

Si è scritto e detto che gli operai in grandissima maggioranza erano
contrari alla cessazione del lavoro: ma la facilità colla quale venne
eseguita dapertutto, anche se chiesta da sole donne — come constatano
i rapporti ufficiali — prova che ciò non è esatto. Mancarono i segni di
un qualsiasi dissenso.

In questa guisa la valanga dei dimostranti partita dallo stabilimento
Pirelli andava ingrossandosi e verso mezzogiorno era composta di
parecchie migliaia di persone. _Il Corriere della Sera_ osserva
che «all’avanzarsi di quella minacciosa marea si chiudevano
precipitosamente i portoni delle case ed i negozi; _e quanti ne
uscivano andavano ad aumentare la folla dei curiosi_.» (N. 125). E che
si trattasse di _curiosi_ lo stesso giornale ripete più esplicitamente
più oltre in un appello intitolato: _A casa, a casa!_ nel quale
deplorava che «quando più grave e penoso si fa il dovere dell’Autorità
militare, proprio nei punti ove il tumulto facilmente degenera in
tragedia, si affolla una moltitudine di _curiosi_, quasi fossero devoti
ad un nuovo genere di _sport_».

In questa constatazione preziosa c’è tutto lo spirito che animava la
massa dei dimostranti; era composta di _curiosi_! E mi piace ripetere
il punto ammirativo dello stesso _Corriere_. Che fossero _curiosi_
verrà confermato più in là. Era minacciosa la folla? È una gratuita
supposizione non corredata da alcuna prova. Se tra migliaia di persone
se ne trova una — dato che il fatto sia vero — che dice ad un grande
industriale, il Grondona: _È venuta l’ora per noi di non lavorare più
e di vedere sgobbare voi altri!_ ciò dimostra che non mancava qualche
esaltato.

Mancò qualunque violenza, qualunque aggressione contro gl’industriali;
e se questi furono previdenti ed avveduti, specialmente il Pirelli,
gli operai, si potrebbe soggiungere — tenendo conto dei fatti — si
mostrarono pieni di benevolenza verso i padroni. Il grido: _Morte ai
signori!_ se realmente fu emesso da qualche pazzo, non rispecchiava le
intenzioni dei lavoratori.

Ma delle intenzioni pacifiche della immensa massa si ha la
irrefragabile testimonianza nei fatti, che valgono più delle
insinuazioni. Non c’erano armi tra i dimostranti — e in buona parte
erano donne e fanciulli — e non commisero alcun atto che potesse far
fede delle loro intenzioni ostili.

In quel giorno malaugurato sarebbe bastato che — come in Roma per la
dimostrazione Frezzi — la forza avesse brillato per la sua assenza e
Milano dopo poche ore avrebbe ripreso la fisonomia ordinaria di città
colta, tranquilla e industriosa. Invece chi stava a capo del governo
— invido degli allori raccolti da altri in Sicilia; forse spronato da
volontà diverse — volle mostrarsi forte e dette istruzioni conformi
ai propositi. Perciò, sin dalle prime ore del giorno, uno squadrone di
cavalleria fece una perlustrazione nelle adiacenze degli stabilimenti
industriali: _adiacenze che presentavano la tranquillità abituale_
(_Corriere della Sera_).

La piazza del Duomo venne occupata militarmente da fanteria, cavalleria
e artiglieria sotto il comando di Bava Beccaris. Chiuso dai bersaglieri
lo sbocco della Galleria verso la Piazza del Duomo; dalla cavalleria lo
sbocco della piazza verso il Corso; da alpini e fanteria via Mercanti,
via Torino, via Carlo Alberto, via Rastrelli: militarmente occupate
tutte le porte della città. Era evidente che l’autorità militare aveva
preso tutte le disposizioni strategiche contro una rivolta di là da
venire e di cui mancavano i segni precursori. Queste disposizioni,
intanto come avviene sempre in casi simili, non potevano esse stesse
che provocare la rivolta.

I dimostranti, rei di cantare l’inno dei lavoratori, ebbero le prime
cariche della cavalleria nel Corso di Porta nuova e nelle vie adiacenti
e _fuggirono_. «L’intero reggimento di cavalleria, lascio la parola
al _Corriere della Sera_, percorreva di continuo al trotto in colonne
serrate e sparse, le vie Principe Umberto, i viali Venezia, Porta Nuova
e Garibaldi, via Moscova, corso Porta Nuova ed i bastioni. Tutti i
negozi erano chiusi; molte finestre sbarrate; i curiosi si ritiravano
spaventati. Ma un residuo del grosso della dimostrazione si ridusse
in via Melchiorre Gioia, presso la Dogana. Dinanzi alla cooperativa
ferroviaria tennero un conciliabolo, emettendo di quando in quando
grida ed agitando in alto i _bastoni_, i _cappelli_ ed i _fazzoletti_.
Arrivò, dopo poco, una compagnia di fanteria, che venne fermata a
_spall-arm_ di fronte ai dimostranti, colla cavalleria alle spalle.
_Venne ordinato il pied-arm e ciò contribuì alquanto a far allontanare
l’attruppamento, che si frazionò poi in gruppi e si disperse. Verso
mezzogiorno le vie sunnominate, percorse incessantemente dalla
cavalleria, erano quasi sgombre_».

Dunque, nel _conciliabolo_ improvvisato su una strada, si scoprono le
armi dei rivoltosi: _bastoni_, _cappelli.... e fazzoletti_. I rivoltosi
erano tanto decisi alla lotta, che si disperdono al semplice comando di
_pied-arm...._

Testimoni oculari, invece, narrano di modi straordinariamente
provocatori adoperati da ufficiali e sott’ufficiali, da guardie di
pubblica sicurezza e da carabinieri e che contribuirono ad invelenire
gli animi.

Si può ammettere che ci siano delle esagerazioni; comunque, i
fatti reali ed un certo cinismo mostrato da militari in via Carlo
Alberto e altrove, nulla prova contro l’insieme dell’esercito. Gli
esempi contrari e belli non mancarono; ed una nobile esortazione di
un ufficiale ai soldati perchè non facessero uso delle armi senza
l’esplicito comando, venne narrata dal Secolo; di soldati che spesso
sparavano in aria narrano gli stessi testimoni oculari più corrivi ad
accusare i militari. Il vero è che in questi casi, ponendo a contatto
truppe armate e dimostranti inermi, devono avvenire fatalmente dei
conflitti, che si risolvono in massacri; come una miccia accesa
accanto alla polvere deve determinare un’esplosione. L’esperimento
venne fatto in Sicilia su larga scala nel 1893; ed era stato fatto a
San Luri, a Calatabiano, a Ruvo, a Corato, ecc. Ed è istruttivo che
le stesse condizioni spesso riescirono agli stessi risultati anche in
Inghilterra.

Queste condizioni fecero sì che il giorno 7 in più punti della città,
a Porta Venezia, a Porta Vittoria, a Porta Ticinese, a Porta Sempione,
in via Torino il fuoco della truppa sia stato più o meno vivo nelle ore
pomeridiane e che abbia tuonato anche il cannone.

La narrazione di questi luttuosi avvenimenti che hanno dato i giornali
conservatori e reazionari di Milano, lascia intendere chiaramente che
mancarono i fatti provocatori degli eccidi da parte dei dimostranti,
e che le fucilate vennero sempre determinate dalle insolenze e dalle
sguaiataggini delle donne e dei monelli, che rappresentarono la parte
più ardita e più persistente dei tumultuanti: molte donne portavano in
collo i figlioletti.

È chiaro dallo insieme delle testimonianze raccolte dai resoconti dei
giornali e dalle risultanze processuali, che la costruzione delle poco
serie barricate — che non ebbero in verun punto veri difensori — e le
deboli offese dei cittadini furono la conseguenza diretta ed immediata
delle fucilate dei soldati, che stesero sul terreno parecchi morti
e moltissimi feriti. E le offese non furono che quelle, che potevano
venire da sassi e da tegole lanciate da mani deboli — da donne e da
fanciulli — e da tetti dai quali non scorgevansi nemmeno coloro che
avrebbero dovuto essere presi di mira. Ma sulle barricate e sulle armi
dei rivoltosi avrò agio di ritornare.

Un testimonio oculare, che assistette a molti incidenti e ad una
continuata serie di provocazioni da parte delle truppe, con maggiore
precisione accorda una importanza decisiva alla scarica micidiale
fatta da un plotone di bersaglieri in via Torino senza che ci fosse
stato alcun squillo di tromba. Questo stesso cittadino immediatamente,
in una a due altri, raccolsero un bambino di circa otto anni
colpito mortalmente e lo portarono davanti al generale Bava Beccaris
apostrofandolo vivacemente. Il generale dette ordine di arrestarli;
ma non fu ubbidito, perchè il caso pietoso s’imponeva anche ai
cervelli ubbriacati dal fumo della polvere. I tentativi di offesa che
erroneamente vengono chiamati tentativi di resistenza e le barricate
sarebbero stati la conseguenza del sangue versato in via Torino. Questo
eccidio non trova alcuna giustificazione: tale non può menomamente
considerarsi il fatto dei ragazzi arrampicati su di una scala Porta,
che costretti, con cattivi modi a discendere, lanciarono dei pezzi di
legno, che non offesero alcuno.

In questa triste giornata, durante la quale fu commesso il cosidetto
saccheggio del Palazzo Saporiti, sul quale ritornerò, all’Ospedale
Maggiore e in quello dei Fate bene fratelli furono portati dodici morti
e quarantanove feriti gravemente. Ma queste cifre non danno che un’idea
lontana del sangue versato.

Da ogni parte della Lombardia, dal Piemonte e da Piacenza, nelle varie
ore arrivarono rinforzi di truppe: fanteria, alpini e cavalleria;
e in ogni punto della città si procedette alle perquisizioni e
agli scioglimenti dei circoli, e delle associazioni repubblicane e
socialiste e della Camera del Lavoro, con sequestro di carte innocue e
di registri.

Alle 17 e mezza tutta la redazione dell’_Italia del Popolo_, in una a
quanti si trovavano nel giornale di Via S. Pietro all’Orto per puro
accidente o per doveri professionali — come il moderato avvocato
Valentini — e in una all’on. De Andreis, che volle essere condotto
in questura per protesta o per atto di solidarietà, viene arrestata e
sospeso il giornale.

Alle 22,30 al Comando si apprende che le numerose barricate sono state
tutte espugnate.

La giornata si chiude con una grande vittoria del partito moderato
lombardo: alle 23 l’ispettore Latini comunica che viene anche sospeso
il _Secolo_. L’avv. Carlo Romussi suo direttore e il suo redattore
Emilio Girardi vengono trattenuti in questura.

Il fatto culminante del giorno 7 Maggio fu il saccheggio annunziato e
strombazzato del Palazzo Saporiti; attorno al quale saccheggio figurano
gli annunziati conflitti in diversi punti della città, la resistenza
degli insorti e le facili espugnazioni delle barricate sorte qua e
là come segno di protesta e d’indignazione anzichè come vero mezzo di
organizzare una insurrezione.

L’alba del giorno 8, in conseguenza, sorgeva in mezzo alla generale
preoccupazione ed un certo squallore poteva notarsi sin dalle prime ore
nella popolosa, ricca ed allegra città.

La preoccupazione non era fuori proposito. Se realmente nella
popolazione ci fosse stata l’intenzione di venire ad una rivoluzione,
il giorno 8, perchè festivo, si prestava benissimo; ma la giornata non
fu delle più calde.

In Piazza del Duomo, occupata da cavalleria, fanteria e artiglieria,
mantiene il suo quartier generale Bava Beccaris, quasi a dirigere le
operazioni di guerra; operazioni nelle quali non si potè ammirare
l’unità e la intelligenza della direzione, ma che spiccano per la
facile e disumana energia.

In molti punti si assicura che sorgono barricate e da molte finestre si
afferma che partono colpi di fucile e di rivoltella contro le truppe.
Quanto valgano le prime e quanto veri i secondi si vedrà in appresso;
rimane certo che la ragazzaglia e molte donne ostentano la loro
antipatia all’esercito con qualche insolenza, con qualche innocuo sasso
e con molti fischi.

Ufficiali e soldati ricambiano queste manifestazioni con fucilate
e puntate di baionetta, che ammazzano e feriscono; e la cavalleria
ce l’ha specialmente contro le donne, che contando sulla generosità
dei cavalieri, in qualche punto sperarono sbarrare la strada coi
loro corpi: furono calpestate inesorabilmente. A Porta Ticinese, in
Piazza Sant’Eustorgio, nel Corso e nel Sobborgo San Gottardo, a Porta
Ludovica, a Porta Tenaglia, a Porta Sempione, a Porta Romana, ecc.,
vi furono i soliti incidenti luttuosi cominciati colle rincorse tra
soldati armati e ragazzi che urlano e fischiano e terminati colla
uccisione e col ferimento di molti cittadini.

Il cannone tuonò lugubremente in diversi punti e in più volte,
specialmente al Corso San Gottardo e in Piazza S. Eustorgio. L’affare
dovette essere grave in Corso S. Gottardo, perchè c’era da fare
contro i _2000 studenti venuti da Pavia e armati di rivoltella_: tanto
risoluti che i pattuglioni di cavalleria non poterono disperderli e
n’ebbe ragione soltanto il cannone! (_Perseveranza_ 9 Maggio).

Nell’insieme la giornata passò in modo migliore di quello temuto:
l’avvenimento più caratteristico fu l’arresto dell’on. Turati e della
dottoressa Koulichoff e degli on. Costa e Bissolati, ch’erano corsi a
Milano alla notizia divulgatasi in Italia della morte del primo.

Tutti i prigionieri furono condotti al cellulare scortati dalla
cavalleria e dalla fanteria in piena disposizione di battaglia.

Colla ripresa del lavoro il lunedì, giorno 9, avrebbe dovuto ritornare
completamente la calma; così non piacque allo zelo repressivo delle
autorità politiche e militari che il lavoro proibirono e che scovrirono
il maggior pericolo di rivoluzione che abbia corso Milano e lo
distrussero con l’usata energia.

Lasciando da parte i minori incidenti, il pericolo in discorso fu
visto nella zona da Porta Vittoria a Porta Venezia che ebbe per
centro Porta Monforte. Qui, secondo la fervida immaginazione del
Generale Bava Beccaris e della stampa moderata, nel convento dei
Cappuccini si asserragliarono gl’insorti ed organizzarono vigorosa
resistenza, coadiuvati dalle fucilate delle case adiacenti; ma superata
valorosamente dai bersaglieri, che rinnovarono le prodezze della
Cernaia, prendendo di assalto la improvvisata fortezza, sulla quale il
cannone aveva aperta una breccia superiore nell’importanza a quella di
Porta Pia....

I soldati arrestarono gl’insorti, i cappuccini loro complici e gli
studenti travestiti da cappuccini e li condussero nell’atrio della
Prefettura prima, e al cellulare dopo....

Di questo movimento i giornali di Milano del 9 e 10 — compresa _La
Lombardia_ — dettero una narrazione paurosa; e fortunatamente fu
l’ultimo atto dell’insurrezione di cui ebbero ad occuparsi.

Qui si pone termine alla sintetica esposizione dei tumulti della
capitale lombarda: cominciati per imprudenza e testardaggine
dell’autorità politica il giorno sei; continuati per la fretta
d’intervenire e di mettere in contatto truppe e cittadini eccitati
il giorno sette — quando si denunzia il preteso attentato contro la
civiltà coi saccheggi e colle devastazioni; — il giorno 8 — quando si
crede completare la eliminazione delle menti direttive coll’arresto
dei deputati socialisti; — e il 9 — quando si pensa di schiacciare la
testa all’idra insurrezionale colla espugnazione del convento di via
Monforte.

In due successivi capitoli si troveranno dettagli e schiarimenti, che
metteranno il lettore in condizione di potere apprezzare equamente
l’entità dei fatti sin qui sommariamente enunziati. Ora mi limito a
notare con tristezza le voci corse e i fatti assodati, che possono in
modo complessivo fare giudicare il carattere dell’azione militare.

Non raccoglierò le voci che narrano del cinismo di alcuni ufficiali di
cavalleria, che parlarono del poco numero dei morti come se si fosse
trattato di una battaglia contro nemici stranieri; nè le altre, di
ufficiali di fanteria e dei bersaglieri, che sciabolarono i soldati
che non volevano sparare o miravano male. Non le raccolgo, quantunque
corrano ancora in Milano dopo sei mesi, perchè le credo messe in giro
in momenti di eccitamento e di passione, che fanno travedere uomini
abitualmente calmi e che pur serbandosi in buona fede inventano o
esagerano. Mi piace, invece, insistere sulla condotta umana e prudente
di molti ufficiali, che raccomandavano ai soldati di non reagire contro
le provocazioni dei ragazzi e delle donne, mostrandosi longanimi e
pazienti.

Per quanto si sia intenzionati di gettare un velo sul passato, pure
giustizia vuole che si rilevino alcune particolarità innegabili, che
indicano la via per trovare i veri responsabili del massacro di Milano.

È innegabile, infatti, che la repressione assunse talvolta un carattere
individuale odioso: si sparava ai singoli individui che si affacciavano
alle finestre, che attraversavano una strada in fretta per condursi
alle loro abitazioni.

Si fecero scariche in punti deserti — come in via Pioppette il giorno
7, dove rimase ucciso un cittadino che transitava. Si sparò quasi
sempre sulla folla, che fuggiva. Si sparò dai bastioni contro le
case le cui imposte delle finestre erano chiuse e vi furono freddati
individui che si portavano da una stanza all’altra[10]. Si dette
la caccia ai ragazzi che occupavano i tetti; caccia descritta dalla
_Perseveranza_ nei termini seguenti: «Allora i carabinieri salgono
colla consegna o di fermare i ragazzi sui tetti o di _sparare_....
Avviene una caccia sui tetti. Qualcuno si ferma, altri non odono
ragione e vengono freddati a colpi di revolver. Sul tetto di casa
Saporiti in breve vi sono due morti e quattro feriti gravemente».
(Numero del giorno 8 Maggio). E tra quei ragazzi alcuni erano di dodici
e tredici anni; ed erano tutti inermi; e nella peggiore delle ipotesi
non potevano che scappare senza poter nuocere ad alcuno....

Questi fatti resero credibili alcuni altri insistentemente smentiti;
e fu smentito solennemente dall’Avvocato fiscale Bacci l’uccisione
di un fanciullo di dieci anni con un colpo di revolver per parte di
un carabiniere; alcuni non negano, ma rettificano affermando che la
vittima vi perdette soltanto un occhio. Furono riferiti dai giornali
e non smentiti questi casi pietosi e raccapriccianti — di cui qualcuno
olezzante poesia rivoluzionaria.

Il giorno 7 un gruppo di giovani seguiva un operaio nel Corso
Garibaldi, che portava, mostrandolo ai passanti, un berretto contenente
materia molle biancastra; diceva che fosse il prodotto dei cervelli di
sette ragazzi. _La Perseveranza_ corregge sulla fede di un medico: Nel
berretto c’era il cervello di un solo uomo. (_N. del giorno 8 maggio_).
Nello stesso giorno 7, nei giardini pubblici, di fronte al Palazzo
Rocca-Saporiti e precisamente nel punto indicato da una pozza di
sangue, ove nella mattinata era rimasto ucciso da un colpo di revolver
un ragazzo undicenne, fu piantato un palo sormontato da una corona
intrecciata di foglie verdi e margherite, e da un cartello con frasi
di pietà per la vittima e di sdegno contro gli strumenti crudeli della
borghesia (_Lombardia_ N. 125).

Non accordo realtà alla leggenda, che si forma in tutte le guerre
civili, del soldato che uccide la sorella che si trova nelle fila degli
insorti e che si è ripetuta per Milano; ma non si può negar fede a
questo episodio, che per ultimo narro.

Nel settembre, alla redazione del _Secolo_ risorto, presentossi
un vecchio abbonato, che consegnò al cronista due lire perchè le
destinasse a qualcuno delle famiglie delle vittime dei tumulti di
Maggio e narrò: «Sono i risparmi della mia povera nipotina novenne,
anch’essa curiosa, ed uccisa nei moti dello scorso maggio». Il giorno
era uscita insieme a suo zio per impostare una lettera al padre
lontano; nella quale, dati i pericoli del momento, lo si pregava di
non ritornare subito in patria. Per via la scheggia di una cannonata —
la prima sparata — le squarciò lo stomaco. Fu portata a casa informe
cadavere «Oggi, continuò il vecchio, frugando tra i suoi abitini che
mi erano venuti tra le mani, in una borsa trovai due lire: erano i suoi
piccoli risparmi; a nessun miglior uso possono servire che a beneficare
l’orfanello di chi, come lei, cadde vittima della reazione». Il povero
vecchio andò via piangendo!

Il dolore suscitato da questi incidenti caratteristicamente tristi
delle lotte civili non può essere lenito che dal ricordo degli atti
umanitari; e la stampa di quei giorni, con giusta ragione, dette
lodi al Senatore Negri, che affaticossi nel fare preparare bende e
barelle.... Egli — il capo incontestato degli uomini politici che
avevano voluto la reazione e che dalla reazione speravano trarne i
maggiori profitti — adempiva scrupolosamente al suo dovere di capo
della Croce Rossa!...



VI.

LA MENZOGNA AL SERVIZIO DELLA REAZIONE


Il movimento politico sociale che in quest’ultimo quarto di secolo si
è svolto con meravigliosa rapidità ed intensità tra i popoli civili
era stato lento e stentato in Italia. Le cause di questo ritardo nella
sua evoluzione sono parecchie e degne tutte di uno studio speciale;
qui basta enumerarle: mancanza di uno sviluppo industriale e di
relativa concentrazione ed organizzazione delle classi lavoratrici,
analfabetismo, miseria, deficiente libertà ed educazione politica
rudimentale, esaurimento derivante da un lungo periodo di cospirazioni,
di rivolte e di guerre per conseguire l’unità e l’indipendenza dallo
straniero, servilismo infiltrato nelle ossa delle popolazioni per la
servitù per secoli durata, differenze ed antagonismi regionali che
paralizzano molte forze ed energie locali e che, abilmente sfruttate,
servono a comprimere le une per mezzo delle altre, ecc.

Di questo ritardo nella evoluzione politico-sociale si risentono
tutte le classi: le dirigenti come le cosidette classi inferiori.
Ond’è che mentre nelle ultime manca la coscienza dei propri diritti
e l’aspirazione generale ad un tenore di vita più umano — mancanza
contrassegnata dalle alternative tra la rassegnazione ignominiosa e le
esplosioni selvagge — nelle classi dirigenti, invece, c’è l’avversione
verso le innovazioni e la credenza in diritti propri, che rappresentano
una sopravvivenza del tramontato regime feudale. Queste condizioni,
si sa che sono più vive nel mezzogiorno e nelle isole; il settentrione
è stato maggiormente penetrato dalla corrente della vita moderna. Non
tanto, però, da aver modificato sensibilmente la costituzione politica
e intellettuale della maggioranza delle classi dirigenti, rimaste più
reazionarie che sanamente conservatrici. Se n’ebbe la prova, con una
certa sorpresa in molti, in occasione dei moti di Maggio.

Per quanto lento il movimento politico sociale elevante le classi
lavoratrici, esso allarmava già le classi dirigenti che da un pezzo
manifestavano il rammarico profondo e il pentimento per le meschine
riforme concesse — e specialmente per la riforma elettorale politica
del 1882 ed amministrativa del 1889.

I moti di Sicilia del 1893-94 manifestarono lo stato d’animo delle
classi dirigenti, le quali perdonarono a Crispi le brutture di cui
era macchiato, in grazia della repressione pronta e severa. Tutto
perdonarono col proprio disdoro a chi aveva iniziato con fortunati
auspici la reazione.

Venne Abba Garima e fatalmente produsse la Caduta di Crispi; ma caduto
il vessillifero, la reazione dava segni d’impazienza per riprendere la
marcia trionfale interrotta dal disastro africano, nel quale c’era la
complicità innegabile delle classi dirigenti.

I moti del 1898, perfettamente analoghi, e solo più generali e più
vasti nelle proporzioni di quelli del 1893-94, somministrarono propizia
l’occasione per riprendere l’interrotto movimento reazionario.

Questi moti da principio furono talmente violenti e si propagarono
con tanta rapidità, che le classi dirigenti ne provarono paura e
sbalordimento, ma rinfrancatesi man mano che il telegrafo dava
notizia delle repressioni riuscite e della buona prova fatta
dall’organizzazione dell’esercito — per la quale trepidarono fortemente
nel momento del richiamo delle classi in congedo — ripresero con
energia compensatrice della breve sosta l’opera malvagiamente
reazionaria interrotta nel 1896.

Intanto nel mezzogiorno, dove queste classi dirigenti sono meno colte
ed hanno minore coscienza collettiva dei propri interessi e delle
proprie aspirazioni, si applaudiva al governo per la repressione ed
anche la s’invocava più feroce e più continuata, ma venne meno la loro
azione diretta; in Toscana e nella Lombardia, dove supponevasi che le
classi dirigenti dovessero essere più illuminate e più modernamente
conservatrici, invece furono esse gli elementi attivi che presero la
mano al governo centrale e quasi gli imposero la reazione. La loro
attività in tale senso fu in ragione diretta del pericolo da cui si
sentivano minacciate: la perdita del dominio e dell’influenza a causa
dei progressi rapidi della democrazia repubblicana e socialista.

La reazione, per colorire i propri disegni, si servì della menzogna e
della esagerazione, che le avevano reso eccellenti servizi nel 1893-94.
Allora ai buoni italiani del continente si fece comprendere che in
Sicilia non erano i lavoratori che si movevano, stanchi di vessazioni e
di soprusi e di spogliazione, che non erano i contadini che reclamavano
la terra loro o patti agrari tollerabili se non equi del tutto; ma
che l’isola fosse in aperta insurrezione per attentare all’unità della
nazione ed erigersi a stato indipendente o porsi sotto la protezione
non si sa bene se della Francia, o della Russia: il _trattato di
Bisacquino_ non lo definiva chiaramente.

Il giuoco riuscito allora fu ripetuto nel 1898; e sino ad un certo
punto con ugual fortuna. Si scrisse che a Napoli si gridava: _Vulimme
ò re nusto!_ cioè il Borbone. Si ripetè che in Lombardia si volesse
costituire lo _Stato di Milano_.

Di vero c’era questo solo: che a Napoli, come à Milano, il malcontento
era generale e profondo e correvano per la bocca di tutti certi
confronti odiosi. Ma era una menzogna che a Napoli e a Milano il
tumulto avesse una bandiera politica qualsiasi.

La menzogna poi divenne gigantesca nelle proporzioni date agli
avvenimenti dalle classi dirigenti che volevano sfruttarli
disonestamente; ciò specialmente in Toscana e in Lombardia. Nella mite
e gentile Toscana l’opera dei reazionari sorpassò tutto ciò che era da
attendersi dalla paura folle che imperava sovrana a Palazzo Braschi;
e i reazionari ottennero lo Stato di assedio, in tutte le provincie,
di cui non sentiva il bisogno il Prefetto di Firenze, ch’era pure un
avveduto uomo d’ordine e per soprammercato un generale — l’ex deputato
Sani. Ed a Pisa il Regio Commissario straordinario per la Toscana
arriva a scorgere pericoli dove non ne vedeva il Prefetto Minervini.
Sicchè si ebbe in quei momenti: un Prefetto dimissionario perchè seppe
proclamate misure non chieste dalla salute pubblica; ed un altro
Prefetto punito coll’aspettativa perchè non volle sciogliere delle
associazioni non pericolose e non sovversive!

I disordini repressi facilmente e rapidamente nel mezzogiorno e
nel centro della penisola non potevano esercitare valida influenza
sull’indirizzo politico dello Stato; l’esercitarono invece e vigorosa
quelli di Milano, esagerati e falsati con impudenza pari alla
persistenza.

E questi uomini non esitarono a spargere in Italia, per ottenere le
invocate misure, notizie tali, che fecero rinvigorire i tumulti e le
sommosse e crearono pericoli reali non sospettati dagli imprudenti
loro inventori e propalatori! Poco mancò che l’annunzio telegrafico:
_il cannone tuona da otto ore in Milano!_ non provocasse una vera
insurrezione altrove....

«I moti di Milano, si affermò nei giornali e nei corridoi allarmati di
Montecitorio, nelle sale di Palazzo Braschi, e in altre più auguste,
non solo mirano ad abbattere le istituzioni, a rompere l’unità
d’Italia; ma costituiscono un attentato contro la stessa civiltà».

I singoli elementi dovevano essere adeguati al giudizio complessivo
e finale; perciò da un lato si ingigantirono tutti gli episodi che
facevano fede della forza e della organizzazione dell’insurrezione e
dei pericoli conseguenti per lo Stato; dall’altro si somministrarono
altri dettagli paurosi dai quali dovevasi argomentare di che cosa
fossero capaci i barbari moderni, padroni di una città civile e ricca.

In tal guisa si sospingeva il governo ad una repressione pronta ed
energica sino alla ferocia; e non solo si mirava alla repressione, che
deve durare sintanto che c’è l’imminenza o l’immanenza del pericolo,
come espressione della legittima difesa dello Stato, ma si mirava a
giustificare la reazione permanente come mezzo adatto per distrurre le
cause, che avevano generato i barbari moderni.

Così si diffusero con amorevole sollecitudine notizie sulle barricate,
sul complotto, sulla uccisione degli alpini, sulle bande svizzere,
sulla resistenza fiera — anche eroica — degli insorti, sulla impedita
partenza dei treni, sulla necessità del cannoneggiamento, sulle case
designate al saccheggio e alla distruzione, sul saccheggio avvenuto di
Palazzo Saporiti, della Cassa di Risparmio, sulla distruzione della
Villa reale di Monza; sui contadini di Corbetta che marciavano su
Milano per vendicare Muzio Mussi; sui contadini bolognesi concentrati
sulle sponde del Po, ecc., ecc.

Di ciascuno di questi elementi giustificatori della repressione e
della reazione dirò qui rapidamente col vivo rammarico di non poterne
trattare più ampiamente e di non saperne dire in forma artistica,
mescolando il ridicolo colla rampogna, per flagellare gli eroi della
menzogna e della calunnia.

Comincio cogli atti che dovevano far designare gl’insorti come i nuovi
vandali; e perciò come tanti salvatori della civiltà gli uomini della
reazione.

L’invenzione più grottesca fu quella delle case designate al saccheggio
e alla devastazione nella nuova San Barthelemy anarchica e socialista
colle lettere rosse — il colore adatto! — _B_ e _F_ che indicavano:
_Bombe_ e _Fuoco_. La notizia corsa per la prima fu delle prime
smentite come un prodotto di una morbosa immaginazione e furono gli
stessi giornali conservatori a constatare l’esistenza delle famose
lettere, che, però, non erano state scritte dai rivoluzionari, ma
dagli agenti della autorità municipale; la _B_ indicava che lì presso
c’era una _bocca di presa_ dell’acqua potabile; la _F_ era un segno pei
lavori di _fognatura_!

Ebbe sorte più prospera, dal punto di vista degli inventori, la notizia
sul saccheggio della Cassa di Risparmio e del Palazzo Saporiti; la
notizia fu accreditata a Roma e non fu delle minori nel determinare la
proclamazione dello Stato di assedio. Mancava ogni base al saccheggio
della Cassa di Risparmio e la notizia circolò per breve tempo; c’era
qualche lieve indizio per la seconda ed ebbe la sua discussione innanzi
al Tribunale Militare.

E dal Tribunale Militare si seppe ciò che c’era di vero in questo
episodio disonorevole per gl’insorti di Milano.

Nel terzo processo il Tribunale Militare si occupò del saccheggio del
Palazzo Saporiti. — Gli accusati erano nove: di due non fu indicata
l’età; sette erano minorenni tra i 14 e i 18 anni; di uno la polizia
dette cattive informazioni e non trova da dire sui precedenti degli
altri. Ben terribili questi saccheggiatori e ben grave dovette essere
la devastazione compiuta! Sentiamo dal processo.

Un testimonio oculare, il cocchiere di Casa Saporiti, dice che avevano
preso della biancheria... per fare delle barricate. Ma se essi furono
arrestati sui tetti! Palazzo Saporiti è tra i più ricchi di Milano;
fu completamente in mano dei barbari devastatori per alcune ore; ma in
tutto non si accusa che un danno di circa ottomila lire. E fosse vero!
Ascoltiamo un testimonio che vale di più del cocchiere e dei portieri;
per un caso strano, questo testimone è il difensore di ufficio dei
vandali imberbi. Il Barone Di Loreto, capitano dei Lancieri di Firenze,
colla ingenuità di chi non apprese nelle Università il diritto e nelle
aule l’arte oratoria, dice: «Signori giudici! Basta guardare il fisico
e l’aspetto di Molteni e degli altri imputati per convincersi che
non potevano essere devastatori e saccheggiatori. _E poi, il corpo
del reato dov’è?_ L’atto d’accusa parla di gioielli e biancheria
trafugata per il valore di otto e più mila lire, _mentre gl’imputati
al momento del loro arresto non possedevano un oggetto d’oro, un
capo di biancheria, nè altro. Io presi parte alla repressione col mio
squadrone, e stetti fermo presso una barricata per dieci minuti, quando
fummo avvertiti che i tetti erano occupati dai dimostranti_. Dopo i
tre squilli molta gente si ritirò nei Giardini pubblici e molti altri
entrarono in casa Saporiti...»

È chiaro, dunque, che i _saccheggiatori_ e i devastatori entrarono in
Casa Saporiti per paura; e vi rimasero in trappola. Tentarono fuggire
dal palazzo Richard, ma vennero arrestati. Se vi avessero avuto seco
la _res furtiva_ non avrebbero avuto modo di nasconderla: dal luogo
del saccheggio passarono al cellulare. Non importa: il Tribunale li
condannava; e dà 8 anni di reclusione al Sormani e 2 anni e 6 mesi ad
un Bianchi di quindici anni....

Il _saccheggio_ di Casa Saporiti somministra materia per un altro
processo. Si svolge il 26 Luglio e compariscono sullo sgabello....
tre donne. Su di una concentrasi l’accusa: la Ferrari, che piange
e si dichiara innocente. Una compagna l’accusa di aver preso della
biancheria; l’avv. fiscale è più preciso e tremendo: assicura che prese
stoviglie, bicchieri ed altri oggetti che furono poi distrutti...
La Ferrari insiste, sempre piangendo, di non aver raccolto che dei
fiori....

La sventurata poteva essere creduta: fu proprio la _Perseveranza_
del giorno 8 ad annunziare che le donne misero sossopra i giardini
_divellendo piante e fiori!_

Ad ogni modo non prestiamole fede ed ammettiamo ch’essa abbia rubate
tante stoviglie e bicchieri.... quanto ne poteva contenere il suo
grembiale. Anche qui manca la _res furtiva_; ma si conceda che siano
stati bene applicati i due anni e mezzo di reclusione appioppatile dal
Tribunale Militare.

Si parlò, e ci fu il relativo processo, del saccheggio del gioielliere
Amodeo. Ma il _Corriere della Sera_ (N. 125) dà la spiegazione del
fatto. Corse voce che l’Amodeo avesse ucciso un popolano con un colpo
di revolver. Il colpo fu vero, e il _Corriere_ deplorò l’imprudenza;
ma non fu seguito da saccheggio a scopo di furto, sibbene da tentativo
di devastazione per indignazione. Dei sei accusati, quattro erano
_minorenni_, come risulta dal 56º processo.

Ebbene: questi fatti e questi processi autorizzano chicchessia ad
atteggiarsi a salvatore della civiltà? In tutte le parti del mondo e
in tutti i tempi si legge di tumulti e di sommosse che non siano stati
accompagnati da reati più numerosi e più gravi? Vi sono operai, dice
Louis Blanc, che la miseria tiene continuamente a disposizione dei casi
imprevisti.

Per un momento, durante il perturbamento, da paura o da altro men
lodevole motivo si arriva a comprendere che si creda alla menzogna
ed alla esagerazione senza che si metta in dubbio la buona fede di
chi la menzogna divulga; perciò si può essere disposti a perdonare la
_Perseveranza_ del giorno 8 che diceva essere quello degli insorti
programma di _rivoluzione_, di _saccheggio_, di _devastazione_. Ma
tornata la calma si può e si deve essere inesorabili verso chi continua
nel mendacio e nella calunnia. Ed è dopo una settimana circa da che
la repressione è compiuta e la verità si è fatta strada in tutti i
giornali d’Italia che la _Perseveranza_ scrive: «I nostri agitatori
non sdegnano l’appoggio di quegli abbietti per costumi, rotti al vizio
od al delitto, che continuamente escono e rientrano nelle carceri con
fatale intermittenza di delitti e di castighi, e che, mentre non si
mostrano nei momenti di calma, sbucano dall’ombra nei tempi di lotte
cittadine; come non sdegnano l’appoggio di quegli anarchici dallo
stampo francese qualificati per _démolisseurs, ravageurs, barberes de
la Société_» (15 Maggio). E dire che la _Perseveranza_ è l’organo del
filosofo Negri!



VII.

LE ISTITUZIONI IN PERICOLO!


Il saccheggio e la devastazione di Milano ricca e colta furono
inventati per suscitare l’indignazione contro i barbari contemporanei;
ma queste menzogne forse non erano sufficienti per determinare l’azione
energica del governo.

Chi poteva assicurare che al Ministero stessero proprio a cuore
gl’interessi delle civiltà! Bisognava creare il pericolo delle
istituzioni; inventare, perciò, o esagerare le forze e la resistenza
dei tumultuanti. Presto fatto: donne e bambini, uomini inermi furono
tramutati in combattenti, cui _onestamente_ accordossi anche l’eroismo,
che faceva comodo.

Analizziamo le creazioni dei denunziatori della pericolosa insurrezione
di Milano. Ecco un primo gruppo di notizie assolutamente fantastiche:
gli alpini uccisi, una compagnia disarmata, gli studenti di Pavia in
marcia sopra Milano, ecc., ecc.

Di alpini uccisi si seppe a Palazzo Braschi e nei corridoi di
Montecitorio; ma, malauguratamente per coloro cui faceva comodo il
grave fatto, nulla se ne seppe a Milano. I becchini non poterono
trovare, tra i cadaveri dei cittadini massacrati, alcun soldato alpino
ucciso dai tumultuanti, così del pari i superiori non poterono prender
conoscenza di alcuna compagnia disarmata; come la cavalleria mandata
in perlustrazione fuori Milano, le truppe appiattate nelle cascine non
poterono sorprendere in marcia i _duemila_ studenti armati di Pavia.
Sperossi di trovarne qualcuno travestito da cappuccino; ma le barbe dei
frati arrestati dopo la breccia erano barbe autentiche....

E si passi sopra ai diversi strombazzati assalti della stazione, alla
complicità dei ferrovieri per impedire la partenza dei treni: in grazia
della esagerazione della confusione, che doveva esservi in una stazione
di città cannoneggiata, si ha almeno la soddisfazione di cogliere
una preziosa confessione dalla bocca della _Perseveranza_. Eccola:
«Insistente era la voce della sommossa alla stazione, con demolizione
della tettoia, sciopero dei ferrovieri, arresti, fuoco, vittime. Quando
ieri — il 9 — ci recammo alla stazione per assumere informazioni,
trovammo l’ex onor. Zavattari che si affannava a persuadere gli
increduli — increduli anche sul posto! — che nulla, nulla era
succeduto. Tutti i treni andavano e venivano regolarmente, tranne,
come era noto dal giorno precedente, quelli della linea Alessandria
in seguito anche ai fatti di P. Genova e di P. Ticinese di ieri
l’altro. Però la stazione e il difuori erano garantiti dalla truppa.
_Dobbiamo una parola di elogio ai facchini della stazione — il seguito
dello Zavattari_ — che si prestarono coi migliori modi ad assistere i
forestieri in arrivo, specialmente alla sera, quando non c’erano più nè
vetture, nè omnibus. Non ostante l’ora tarda, parecchi accompagnarono i
forestieri agli alberghi». (_N. del 10 Maggio_).

Pare, dunque, che Zavattari si sia adoperato efficacemente per il
mantenimento dell’ordine; per ciò, forse, fu arrestato e condotto
innanzi al Tribunale militare, che — _incredibile dictu!_ — lo
assolvette non ostante il suo riaffermato repubblicanesimo.

Ma se fin qui siamo di fronte al fantastico, entriamo nel campo
della realtà colle _Bande svizzere_, colla complicità di Cipriani ed
un po’ anche — come nel _Trattato di Bisacquino_ — della Francia:
l’ingrediente necessario per fare effetto sulla immaginazione dei
_patrioti_.

A tumulti finiti — si badi bene — scrivono da Torino alla diligente
e onesta _Perseveranza_. «_Voci dall’estero assai esplicite_. — Mi si
afferma da _persona autorevole_ che a Parigi si sapeva quanto doveva
succedere a Milano, dove la preparazione alla sommossa era stata ideata
e condotta abilmente da qualcuno di coloro i quali o vennero arrestati
in flagrante, oppure presero il largo. Pare che anche il Cipriani non
ignorasse ogni cosa, ma che egli abbia consigliato o sconsigliato,
ignoro perchè non mi si volle, o non mi si seppe dir di più. Certo
la miccia venne accesa a Bari e percorse tutta linea ascendente fino
a Milano, lasciando nello scoppio parecchi strascichi e numerosi
addentellati a nuovi incendi ovunque il malcontento, la miseria, la
corruzione, la malvagità trovavano buona presa davanti il sonno delle
cosidette Autorità di vigilanza e di tutela dell’ordine pubblico». (_N.
del 15 Maggio_)[11].

Tutto questo sarebbe stato grave... se fosse stato vero. Non lo era;
e a quali innocenti, anzi miserevoli proporzioni si riducesse la
partecipazione dell’indispensabile Cipriani lo si apprese dal processo
dei giornalisti: allo scambio di poche parole tra Carlo Romussi e il
valoroso di Domokos nel passare da Milano per ritornare in Francia.

Ma chi può negare l’esistenza delle bande d’insorti italiani, che
dovevano calare dalla Svizzera sopra Milano?

Le avevano organizzate l’on. Rondani e gli altri rifugiati in Lugano,
Lausanne ecc; l’on Morgari aveva valicato il confine per condurle
in Italia; l’_Agenzia Stefani_ le aveva annunziate; tutta la stampa
monarchica aveva protestato energicamente contro l’indegna repubblica
elvetica, che non sapeva esercitare i suoi doveri di buon vicinato.
È l’_Opinione_ di Roma — l’ufficiosa di tutti i ministeri — che dà il
monito alla Svizzera; e Visconti Venosta rincara la dose con una _nota_
diplomatica.

Quanti erano gl’italiani delle bande? dove erano indirizzati? La stampa
monarchica non esitò a valutarne le forze: da 500 a 5000; indicò la
direzione o meglio la meta precisa: Milano. Questo è certo: le bande
non penetrarono in Italia e non furono arrestate nemmeno dall’esercito,
che in forza discreta venne scaglionato al confine per impedire
l’entrata di questo pericoloso contrabbando.

In questa creazione delle bande svizzere c’era un nocciolo di verità,
che fu ridotto alle sue giuste proporzioni sopratutto dalle risultanze
processuali e dalle testimonianze delle autorità federali e cantonali —
Camuzzi, Bernasconi, Primavesi e Rupa. — Le notizie false ed esagerate
sugli avvenimenti di Milano avevano messo il fermento nella numerosa
colonia italiana in Isvizzera; i primi esaltati socialisti — poco più
di un centinaio — mossero verso il confine; vi arrivarono in _dieci_;
non avevano nè armi nè denaro; mancavano di pane e di vestiti...
(_Deposizione del Consigliere di Appello Primavesi, giudice istruttore
in Lugano_. Udienza del 29 Luglio). Verso il confine potevano arrivare
più numerosi; ma ciò fu impedito dai telegrammi, dalle lettere, dai
consigli e dalle preghiere degli on. Morgari e Rondani e dell’avv.
Tanzi. Rondani e Tanzi rimasero in Isvizzera. Morgari rientra in
Italia, di nulla diffidando come chi ha coscienza di aver fatto
doverosa opera di pace; ma n’è punito col carcere preventivo e col
processo e dovette sentirsi ascrivere a colpa dal Tribunale Militare
l’influenza esercitata nello scongiurare un tentativo d’invasione.
Punito come Zavattari!

E siamo alle barricate. L’Italia e l’Europa seppero che a Milano i
tumulti si erano trasformati in vera rivoluzione; tanto che vi erano
sorte le barricate come a Palermo nel 1860 e 1866; come a Vienna, a
Parigi, a Berlino, nella stessa Milano nel 1848 ecc.

La notizia, se anche vera nella sua essenza, non doveva lasciarsi
circolare perchè non poteva non esercitare una influenza eccitatrice; e
il governo che sopprimeva giornali e telegrammi che dicevano la verità
poteva impedire la trasmissione dei dettagli di queste barricate;
doveva almeno ridurle a quello che erano in realtà. Che fosse
necessaria la riduzione è evidente.

Si sa dalla breve cronaca che barricate erano sorte in vari punti
della città e nei tre giorni di conflitto. Stando al _Corriere della
Sera_ (N. 125) rinforzato dalla _Perseveranza_, queste barricate
dovevano essere una cosa molto seria la cui espugnazione avrebbe dovuto
costare molto sangue alla truppa, se fossero state il prodotto _di una
rivolta preparata con tutta la calma, mentre la truppa era impegnata
in altri punti della città_ e non l’episodio di un tumulto improvviso.
Queste barricate costituivano, secondo i giornali delle reazioni, una
_fortezza_ nel punto in cui s’incontrano corso Garibaldi, via Moscova e
via Statuto; e ne avevano altre di _rinforzo_ in altre vie collaterali.
E la _Perseveranza_ del giorno 8 scrisse che il giorno precedente
soltanto a Porta Garibaldi vi furono tredici barricate _sapientemente_
costrutte e _tenacemente_ difese.

Chi conosce la storia delle barricate vere nelle varie rivoluzioni di
Europa si attende uno svolgimento tragico. E ci fu la tragedia; molti
cittadini lasciarono la vita o furono feriti _presso_ le barricate; non
ve la lasciò alcun soldato o ufficiale.

Un criterio veramente infallibile sulla entità di queste barricate
l’abbiamo nei processi e nelle condanne del Tribunale Militare. Il
31º processo, ad esempio, per le barricate, per così dire premeditate
— quelle del _Corriere_ — di Corso Garibaldi e Via Moscova avrebbe
dovuto presentare il maggiore interesse e i più gravi accusati. Invece
tra i quindici condannati la maggiore pena inflitta fu di un anno e
mezzo di reclusione. Una vera miseria per difensori di barricate, che
si suppongono presi colle armi in mano; ai preparatori ideali della
insurrezione si appiopparono sei, dieci, quindici anni di reclusione!

Non a Milano soltanto, ma dapertutto le risultanze processuali sono
riuscite a smentire le menzogne della polizia sulla gravità dei fatti.
Così i _delitti_ dei cittadini di Sesto Fiorentino, che condussero ad
altro piccolo massacro, furono così terribili, che le pene inflitte
ai colpevoli dal Tribunale militare di Firenze non raggiunsero i _sei
mesi_ di carcere!

La verità è diversa da quella che si vorrebbe dare ad intendere per il
decoro e per la serietà dei conservatori, dei generali e dei Ministri
del regno d’Italia. Queste famose barricate non rappresentano che
una specie di esercizio sportivo dei ragazzi e dei dimostranti; erano
poco consistenti e mancavano del requisito principale: mancavano di
difensori. Si espugnavano senza alcun pericolo, senza fucilate e senza
cannonate: a colpi di scudiscio. Erano una parata da teatro che non
meritava il sangue di cui furono bagnate. Se i processi e le pene non
bastassero per giustificare questo giudizio, ci sarebbe una prova
strana — in un certo senso anche umiliante: furono tranquillamente
fotografate e dalla parte, naturalmente, nella quale stavano gli
assalitori....

Veniamo all’ultima invenzione sbalorditoia: alla resistenza degli
insorti ed alla breccia aperta nel Convento dei Cappuccini.

Per giustificare questo ignominioso episodio, s’inventarono rivoltosi
e combattenti all’Acquabella e altrove. Nello stesso intento la
_Perseveranza_ del giorno 10 Maggio narrò che uno squadrone del
reggimento cavalleria Milano, appena arrivato da Lodi, veniva lanciato
fuori Porta Monforte e riusciva a prendere alle spalle un _gruppo di
riottosi, intimando la resa, minacciando la carica colle lance_; e il
gruppo si arrese: i 150 circa, che lo componevano, erano la =più parte
armati di rivoltella e altri di coltello=; Falso, falso, falso!

Affare grosso quello dei Cappuccini! Infatti, dice la _Perseveranza_,
gl’insorti, inseguiti lungo i bastioni, continuarono a sparare e
ripararono nel Convento dei Cappuccini invadendolo e _trincerandovisi
fortemente. La truppa dovette snidarli mediante un vigoroso fuoco
di fucileria. I soldati poterono accerchiare l’edifizio e la chiesa
attigua. Furono circuiti e_ =arrestati tutti i combattenti, che non
riuscirono a salvarsi=.

Qui siamo in piena e vergognosa menzogna. Qui, come alle barricate,
mancarono gl’insorti e i difensori dell’improvvisata fortezza; in loro
vece c’erano frati caritatevoli, che vennero arrestati in vent’otto,
e vecchi e vecchie mendicanti che erano andati a prendere la loro
scodella di minestra e vi trovarono la morte.

La menzogna vergognosa viene confessata a denti stretti dal _Corriere
della Sera_ (N. 128); più dettagliatamente dalla _Perseveranza_ (giorno
11) che sente il rimorso delle precedenti affermazioni e, forse, voleva
farsi perdonare dai suoi buoni amici di una volta, i clericali. _La
Perseveranza_ ci narra che la truppa _ignorava_ (_!?_) l’esistenza del
convento e che si allarmò del movimento attorno al cancello — ed erano
i poveri che atterriti dalle fucilate cercavano riparo in luogo, che,
scioccamente, ritenevano sacro — ed aprì la breccia a colpi di cannone;
è la _Perseveranza_ che ci narra che il Padre Isaia venne arrestato e
_ferito_ — avrà ricevuto una medaglia il valoroso che lo ferì? — mentre
lavava una ferita ad una vecchia....; è la _Perseveranza_ che riproduce
dalla _Lega Lombarda_ la notizia della sorpresa che fece allibire il
Prefetto Winspeare quando si trovò dinanzi quegli strani prigionieri: i
frati cappuccini e i vecchi mendicanti!

Questo episodio dei Cappuccini di Monforte fu tanto enorme che
l’Autorità Militare ordinò un’inchiesta; la quale dovette _spiegare_
l’errore di chi ordinò il fuoco e la breccia, ma non potè fare a meno
di condurre alla liberazione dei poveri frati — avvenuta il 15 Maggio —
che devono solo alle loro condizioni se non ricevettero i loro anni di
reclusione anzichè le scuse umilianti di tutte le autorità. In questa
liberazione sta, però, l’implicita condanna di autorità militari,
che si mostrarono deficienti di tutto — specialmente di prudenza, di
umanità e d’intelligenza — e che completarono i trofei raccolti nei
giorni precedenti raccogliendo larga messe d’infamia e di ridicolo:
infamia per avere ucciso dei poveri in cerca di pane; ridicolo per
avere aperto la breccia in un inerme e pacifico convento, con cannonate
che sono degne di essere messe alla pari con quelle contro i bovi del
pozzo di Tata nella _gloriosa_ campagna contro Re Giovanni nel 1887.

Riassumo. La cronaca e le poche considerazioni esposte in questo
capitolo dimostrano che cosa fosse la pericolosa insurrezione di
Milano. Ci sono ancora altre prove schiaccianti contro coloro che
inventarono pericoli inesistenti o li centuplicarono.

Queste prove vengono somministrate: dal numero dei morti e dei feriti
tra i combattenti; dalla natura della morte e delle ferite tra le
truppe; dalla condizione delle vittime tra i cittadini.

Con insistenza meravigliosa, nella cronaca delle luttuose giornate
di Maggio, dai giornali si narra di fucilate e di colpi di revolver
partiti dalle barricate e dalle finestre delle case vicine. Ma da
tutti i processi non si potè apprendere che nelle case immediatamente
visitate dalla polizia e dai soldati si siano trovate armi da fuoco
e combattenti. Se combattenti colle armi in mano si fossero trovati
sarebbero stati certamente fucilati. E non mancava l’animo al generale
Bava Beccaris di farli fucilare — a lui che avrebbe già voluto far
passare per le armi l’onor. De Andreis, cui si trovò in tasca un
terribile esplodente: un progetto per la illuminazione elettrica.

L’inchiesta sulla breccia dei Cappuccini avrebbe dovuto condurre alla
scoperta di queste case, che davano asilo agli insorti omicidi — di
queste case cui il Regio Commissario straordinario consacrò uno dei
tanti suoi balordi proclami.

Ma guardate, fatalità: durante l’assalto dei Cappuccini si va ad
esplorare una casa dalla quale si supponeva che si fosse sparato; e in
quella stessa casa si conduce, per farlo curare, un ufficiale ferito
in via Moscova! Almeno a Napoli trovarono da condannare la disgraziata
complice di uno studente, che sparò da una casa, ma che fu assolto...
per non provato reato. A Milano nulla!

Se gli insorti spararono per tre giorni di seguito in tanti punti, tra
i soldati avrebbero dovuto essere numerosi i morti e i feriti per arma
da fuoco. Ma la forza non ebbe che due morti; la guardia di Pubblica
Sicurezza Viola e il soldato Grazia Antonio Tommazzetti. Il primo
venne ucciso da una scarica della truppa; il secondo _non si sa_ (_?!_)
_se venne ucciso per arma da fuoco o per una caduta di comignolo sul
capo_. Così il _Corriere della Sera_ (N. 130). C’è anche chi afferma,
che venne ucciso da un ufficiale perchè negavasi di far fuoco contro i
cittadini; ma la voce non è accreditata.

Di più. Il _Corriere_ dà nello stesso numero l’elenco nominativo dei
soldati ed ufficiali raccolti negli ospedali militari; tra ventidue
feriti, _due_ soli lo furono per arma da fuoco; _tre_ da coltello; gli
altri presentano ferite lacero-contuse o semplici leggere contusioni.
Le lesioni più gravi sono per rottura dei malleoli per caduta dal
cavallo. E chi garantisce che i _cinque_ non feriti da arma contundente
non siano vittime dei colpi della forza, che sparava e caricava
all’impazzata? C’è da sospettarlo: il _Corriere_ (N. 132) infatti
constata che il soldato Malinverni ferito da arma da taglio _lo fu
dalla bajonetta di un commilitone_ contro il quale urtò accidentalmente
nel parapiglia!

Non ci potevano essere, come non ci furono, feriti d’arma da fuoco e
da taglio tra i soldati perchè i terribili insorti di Milano — donne e
fanciulli in massima parte — possedevano ben curiose e allegre armi.
Il _Corriere_, la _Perseveranza_ e gli altri giornali non videro che
cappelli, fazzoletti, bastoni.... e sciabole di legno da bambini.
Contro la forza furono scagliati sassi e — inorridite! — un pajo di
scarpe.

E che in Milano ci fossero armi più serie lo si vide dal numero dei
fucili che vennero portati al Comando Militare quando venne l’ordine
del disarmo.

Ma siccome giornali ed autorità parlano con tanta insistenza di colpi
di arma da fuoco.... che per tre giorni di seguito in molti punti non
ammazzano nè feriscono, bisogna ricorrere ad una curiosa ipotesi: che
gl’insorti sparassero a polvere, per intimorire la forza e costringerla
a retrocedere amichevolmente. Ma non erano a polvere, però, i colpi di
fucili e di cannone sparati dalle truppe; se ne ha la prova dolorosa
nella loro micidialità. Intorno al numero dei morti corsero — anche
sulla _Tribuna_ — delle esagerazioni: si parlò di 800, di 300 morti.
Accettiamo la cifra officiale, benchè ancora discussa: circa 80 morti e
450 feriti.

Se gli uccisi, se i feriti fossero stati insorti veri, anche se
armati di scarpe o di sciabole di legno, avrebbero meritato la
loro sorte; ma invece «alla statistica dei feriti e dei morti hanno
dato una straordinaria percentuale i _curiosi_, gl’_imprudenti_, i
_disgraziati_....» Questa la confessione del _Corriere della Sera_ (N.
127). La _Lombardia_ (N. 126) riferì il giudizio di un professionista
indignato che nel sobborgo S. Gottardo si fosse sparato non contro
bande di rivoltosi, ma contro casigliani _endimanchés_ =curiosi= e che
non sapevano stare in casa in un giorno di primavera. E le cannonate?
Non è vero, dice lo stesso professionista, che quelle a mitraglia
siano state precedute da quelle a polvere; o almeno l’intervallo di
pochi minuti tra le une e le altre toglieva qualunque significato
di avvertimento alle ultime. Che più? È la stessa _Perseveranza_ che
riconosce che sparasi contro le finestre dalle quali affacciavansi,
_curiosi_; e aggiunge che a Porta Garibaldi, a Porta Ticinese, a Porta
Genova, a Porta Vittoria, specialmente sul corso Loreto, tratto tratto
le truppe dovevano far fuoco _per disperdere i curiosi_! (Numero del
giorno 10 Maggio). La _ferocia_ dei combattenti di cui ci dettero
notizia gli organi del Regio Commissario era tale che.... _assistevano
i soldati caduti_. Ce lo fece sapere la _Perseveranza_ del giorno 8. In
Italia, in questo triste quarto d’ora, non è lecito commentare come si
dovrebbe l’insieme di queste note sull’_insurrezione_ di Milano; sarà
lecito almeno di rilevare che dalle medesime risulta non essere stato
mai in pericolo nel maggio 1898, nè la civiltà, nè le istituzioni; se
pericoli corsero, nella peggiore delle ipotesi, l’una e le altre lo
devono ai rappresentanti dell’ordine, i quali vollero ed eseguirono una
carneficina non necessaria; e in politica niente è così disastroso e
deplorevole quanto ciò che è inutile.

In Parlamento e fuori, coloro che difesero l’uccisione di oltre
centocinquanta cittadini ed il ferimento di oltre un paio di migliaia,
dissero, per attenuare la responsabilità degli omicidi, che lo Stato
aveva agito per _legittima difesa_; ora, pur essendo generosi, non
si può accordare che l’_eccesso di difesa_, che va sempre punita. La
punizione verrà; ma dal Tribunale della Storia.



VIII.

L’OPERA DELLA REAZIONE


Qualunque sia stata l’importanza dei tumulti della primavera del 1898
e siano state anche semplicemente _sportive_ le barricate costruite
in Milano e tentate pure in Faenza, a nessuno verrà in mente di negare
al governo il diritto e il dovere di ristabilire l’ordine, che — bene
inteso — è condizione vera di progresso e di libertà ad un tempo.
S’intende perciò la repressione immediata, anche se riesca a ferire
interessi legittimi e sentimenti alti e rispettabili; ma se ne deve
discutere la misura. E nessuno dei pari vorrà negare la convenienza,
la necessità anzi, di questa discussione; poichè in politica l’assoluto
non esiste e la misura è tutto.

Se la repressione si arresta appena cessata la sua urgente indicazione,
quella troverà poche censure e solleverà poche e fiacche proteste.
Se la repressione continua quando è cessato il pericolo che la impose
allo Stato, in nome del preteso diritto di legittima difesa, diviene
reazione, che toglie a pretesto le sommosse e non si propone soltanto
il ristabilimento dell’ordine.

Ancora: Della misura, e perciò della legittimità della repressione, si
potrà opportunamente giudicare in seguito alla esatta valutazione dei
fatti che la determinarono e delle cause di ogni specie che suscitarono
i fatti stessi.

Questa conoscenza è indispensabile non solo per assegnare le rispettive
responsabilità, ma anche per giudicare e prevedere quale sarà la
efficacia dei provvedimenti presi — se riusciranno a mantenere
lungamente quell’ordine che sta, almeno in apparenza, in cima dei
pensieri dei governanti; e ad impedire, a più o meno lunga scadenza, la
ripresentazione dei tumulti.

La semplice cronaca ci ha fatto già conoscere quale sia stata la
loro entità; meglio e più completamente l’apprezzeremo al lume delle
risultanze dei processi. Le quali saranno tanto più significative
inquantochè i processi furono istruiti col minimo di regolarità
procedurale e di garanzia nella difesa dei presunti rei e col massimo
di severità nei giudici eccezionali, che conobbero e giudicarono dei
reati. Queste risultanze, quindi, potranno peccare per eccesso; ma non
si potrà sospettare che presentino attenuata la gravità dei fatti. Si
può presumere anche la esagerazione, perchè in questa sta il tentativo,
l’unica speranza di giustificazione della condotta del governo e
delle classi dirigenti che lo inspirarono e spronarono nell’azione
repressiva[12].

Senza anticipare le risultanze processuali e il giudizio che potrà
desumersi dalla conoscenza delle cause delle sommosse, per ora
continueremo la cronaca della repressione, mettendone in evidenza
alcuni dettagli che servono a gettare sprazzi di viva luce sull’indole
dell’azione del governo e delle classi dirigenti.

Nelle Puglie, dove i tumulti assunsero gravi proporzioni e furono
accompagnati da episodi selvaggi, come quelli di Minervino-Murge, la
repressione fu breve e non uscì dai limiti del dovere e del diritto
di ogni governo di garantire a tutti l’ordine. Fu in parte merito del
Generale Pelloux di non avere trasmodato; in gran parte si deve alla
mancanza di stimolo da parte delle classi dirigenti che non sentono
alcun pericolo politico e si accontentano dell’ordine materiale.

Mancavano le ragioni di provvedimenti che uscissero dall’ordinario
a Napoli e nella sua provincia; dove la repressione pronta ed
energica e non duratura al di là della durata degli insignificanti
tumulti sarebbe stata più che sufficiente. La proclamazione dello
stato d’assedio e la istituzione dei tribunali di guerra, quindi,
vennero giudicate intempestive, capricciose, suggerite da preconcetti
politici e da ricordi recenti — dal ricordo delle scene dolorose
dell’Agosto 1893. Il lusso di cannoni e di cavalleria nelle piazze e
nelle strade di Napoli, anche prima che venisse proclamato lo stato
d’assedio, venne interpretato come un espediente, pericoloso sempre,
per mascherare l’intrinseca e reale debolezza militare del governo. I
provvedimenti, infine, furono tanto sproporzionati al pericolo temuto,
che fu possibile sospettare che essi siano stati presi in odio ad una
persona e ad un giornale invisi all’onor. marchese Di Rudinì e che
non si potevano colpire sotto l’impero delle leggi ordinarie. Enunzio
l’ipotesi, perchè più volte e da più parti ripetuta, senza nascondere
che per quanto poca stima si abbia e per quanto poco stimabili
siano i governanti italiani, essa non sembra credibile. Comunque, mi
piace constatare che a Napoli, come nelle Puglie, mancò sul governo
la pressione delle classi dirigenti in favore di una repressione
trasmodante ed a suo onore ricordo, che il sindaco di Napoli, Marchese
di Campolattaro, insistette presso il Ministero affinchè lo stato
d’assedio, innocuo ed inavvertito per la cittadinanza, dannoso a
quanti vivono dei numerosi forestieri e pericoloso solo pei Tribunali
militari, venisse tolto al più presto possibile.

Altrettanto ingiustificato fu lo stato d’assedio in Firenze e in tutta
la Toscana; odioso perchè fatto nell’interesse di una classe, o meglio
di una ristretta casta.

Della assoluta mancanza di necessità dello stato dì assedio nella
Toscana si ha la prova nella narrazione e nei commenti ai fatti che
dette la _Nazione_, l’organo massimo dei conservatori toscani e che
combatteva il Ministero Di Rudinì, perchè fiacco verso i partiti
sovversivi; dei quali anzi lo diceva complice più o meno cosciente. La
prova irrefragabile sta poi in questo: l’autorità politica che doveva
giudicare sulla convenienza del provvedimento, il Prefetto di Firenze,
nulla ne seppe ed apprese il decreto che lo esautorava e gli sostituiva
un Regio Commissario straordinario, dal proclama che lesse uscendo da
Palazzo Riccardi. Ed il prefetto era un militare ed un accorto uomo
politico: il generale Sani. Questo episodio, che non ha precedenti,
viene completato dalla punizione inflitta al comm. Minervini, Prefetto
di Pisa, perchè si era rifiutato di sciogliere alcune società innocue
che mai erano uscite dall’orbita della legalità; scioglimento imposto
dal Generale Heusch in un momento di morboso furore reazionario.

A Firenze e in Toscana lo stato d’assedio e i conseguenti Tribunali
militari, non giudicati necessari dalle autorità politiche locali,
le sole competenti sulle misure opportune e sconsigliati dagli onor.
Nicolini e Brunicardi, vennero chiesti ed ottenuti, dalle consorterie
politiche locali, verso le quali il Ministero Di Rudinì, nella folle
preoccupazione di superare in energia Francesco Crispi, ebbe il torto
imperdonabile di mostrarsi condiscendente[13].

Lo stesso avvenne a Milano ed in Lombardia; dove almeno il Prefetto
ed il generale comandante la direzione chiesero il provvedimento
eccezionale, ma non fu concesso se non in seguito a telegramma del
sindaco della capitale morale ed alle pressioni esercitate sul governo
da una frazione del partito conservatore lombardo. I fatti di via Napo
Torriani del giorno sei, cagionati più che altro dalla imprudenza
e dalla cocciutaggine della questura, non avrebbero mai potuto
giustificare la proclamazione dello stato d’assedio in una città come
Milano; e l’insieme degli avvenimenti autorizza a sospettare poscia
che la continuazione dei tumulti, sino alla breccia tragicocomica
aperta nel convento dei Cappuccini, furono se non voluti e provocati,
come qualcuno si arrischia a dire, certo comodi e ben venuti per dare
parvenza di opportunità a misure eccessive e deplorevoli.

I mezzi adoperati dai conservatori toscani e da quelli Lombardi per
trascinare il governo, bendisposto a lasciarsi trascinare, furono
identici: la calunnia e l’esagerazione. Ma quest’ultima può trovare
scusa nella paura grande e nei minacciati interessi; non la prima. Nel
calunniare gli avversari e nell’esagerare i fatti, alcuni e qualche
giornale non conobbero limiti di decenza: si vide la _Perseveranza_
farsi la denunziatrice sfacciata dei giornali democratici,
fraintendendo, sino a disonorarlo, l’ufficio della stampa[14].

Per singolare coincidenza, in due scritti — l’uno pubblicato a Firenze
ed attribuito al Generale Sani o per lo meno da lui inspirato;
e l’altro a Ginevra da un profugo — dei gruppi, delle caste, se
non delle classi che spinsero maggiormente il governo italiano ad
oltrepassare la repressione per abbandonarsi nelle braccia di una
reazione rabbiosa, si danno note psicologiche caratteristiche, che
si rassomigliano meravigliosamente. Della consorteria di Firenze, che
invocò ed ottenne lo stato di assedio, si dice: che manca d’ideale, che
accetta la dinastia sabauda come accetterebbe qualunque altra; e che
nella monarchia vede un _mezzo_ per mantenere a se stessa il primato
in tutte le faccende pubbliche, a scopo di lucro più che altro[15].
Il profugo di Ginevra scrive che i conservatori lombardi, in fondo,
sono rimasti quello che erano gli aristocratici ai tempi di Parini
e che pochi — nella _Costituzionale_ di Milano non arrivarono che a
novanta in circostanze solenni — ma arditi, sotto la guida del Senatore
Negri, vollero non la repressione dei tumulti, ma la vera reazione per
mantenersi al potere. In Toscana, come in Lombardia, questi gruppi di
uomini, queste consorterie, agirono energicamente perchè si sentivano
vicini a perdere ogni influenza ed ogni supremazia: la democrazia
batteva alle porte e stava per entrare nelle loro cittadelle[16].

Si comprende perciò che questi interessati promotori della repressione
energica al di là delle esigenze di una savia politica, abbiamo visto
con favore i tumulti ed abbiano inventato essi stessi il _complotto_,
di cui si dirà in appresso. Per loro, come ingenuamente confessò un
giornale di Genova, la reazione non era temuta, ma _sospirata_[17].

Non spenderò parole per stigmatizzare gl’intenti e i mezzi adoperati
da queste consorterie per conseguirli e i pericoli che creano pei
popoli e pei governi; meglio delle parole servirà la esposizione dei
fatti. La loro opera, sommariamente, la farò giudicare da Carlo Luigi
Farini, che scrivendo delle _sette_ dei suoi tempi — specialmente
delle reazionarie — parve anticipare la fotografia e il giudizio sulle
contemporanee. «I governi che istituiscono _sette_ governative o ne
accettano gli aiuti, scrisse il celebre moderato romagnolo, vengono a
termine di quegli individui, i quali essendo istitutori o direttori
delle _sette_ di opposizione, invece di guidarle ne sono guidati, e
costretti ad operare, buono o mal grado a posta di quelle. Nessuna
idea è più autopetica all’idea di governo, quanto l’idea di _sette_.
Governare vale ed importa moderare l’umana associazione a vantaggio
dei più, secondo gli eterni principii della giustizia e della ragione:
far _setta_ vale ed importa imporre ai più le opinioni, le volontà,
le passioni dei meno, cioè sragionare, scapestrare sovente, sgovernare
sempre; le _sette_ governative hanno poi questo peggiore sconcio, che
trascinando il governo ad operare ingiustizia, attentano al principio
morale dell’autorità, e la rendono così esosa, che gli uomini non la
considerano altrimenti come una necessaria tutrice e moderatrice,
ma come una nemica da invigilare con istudio e guerreggiare con
perseveranza»[18].

È logico e naturale che dove più intensa fu l’opera delle _sette_ per
trascinare il governo alla reazione, ivi più clamorose siano state
le manifestazioni e gli atti di grazia perchè scongiurati i pretesi
pericoli corsi dalla patria e dalla civiltà — cioè dai loro interessi.

A Milano, perciò, non appena cessato il primo periodo della reazione
— quello della repressione sanguinosa — si assiste ad un nauseante
scambio di ringraziamenti e di congratulazioni che ricorda lo
spettacolo vergognoso dei tempi peggiori del servilismo e della
tirannide. La deputazione provinciale, il consiglio comunale di Milano,
alcune associazioni politiche mandarono al generale Bava Beccaris
indirizzi traboccanti di riconoscenza, nei quali l’esagerazione e la
menzogna colle forme di rettorica sbilenca arrivano alle lodi smaccate
per la _energia_, per la _intelligenza, per gli elevati intendimenti
civili e patriottici_ spiegati nel salvare Milano dal _saccheggio_ e
dall’_anarchia_, e nel conservare all’Italia le _gloriose istituzioni
vigenti_[19].

Della sincerità e del valore delle manifestazioni di una parte delle
classi dirigenti lombarde molti dubitano ricordando che rettoricume
analogo venne adoperato sotto l’Austria e in favore dei generali che
salvarono le istituzioni di allora contro coloro che, complessivamente,
sono i governanti di oggi. La storia somministra parecchi esempi
degradanti di questo invertimento di parti e di questi trapassi
repentini dalla condanna all’apoteosi, e viceversa. Checchè ne sia
della sincerità della riconoscenza manifestata è, però, assai probabile
che un militare, ignorante le vicende della storia, l’abbia accettata
come oro di coppella e si sia lasciato suggestionare sino a dirigere
all’esercito quest’ordine del giorno, che costitusce l’esaltamento più
caloroso dell’opera propria:

  «_Ufficiali, sott’ufficiali e soldati, funzionari ed agenti di
  Pubblica Sicurezza_.

  «In questi tristissimi giorni, non badando nè a fatiche nè a
  disagi, voi avete reso un grande servizio al Re, alla Patria, alla
  Civiltà.

  «Per opera vostra la pace è restituita a questa grande Metropoli,
  la quale 50 anni or sono, per virtù, per valore e per concordia di
  tutti i suoi cittadini, seppe risorgere a libera vita.

  «I malvagi di ogni partito, concordi nel folle intento di
  sovvertire le Istituzioni e disfare l’Italia, l’avrebbero
  ripiombata in una servitù peggiore della prima.

  «Voi l’avete impedito: nel nome del Re e della Patria vi ringrazio.

  «Milano, 11 Maggio 1898.

                 «_Il regio Commissario Straordinario_

                  Tenente generale F. BAVA BECCARIS.»

L’esagerazione interessata, la vera ubbriacatura locale, infine, spiega
come e perchè si abbia perduto l’esatta percezione degli avvenimenti a
Roma e fa anche supporre la buona fede nei Ministri, che distribuirono
medaglie ed onorificenze in numero sbalorditivo e suggerirono al Re
questo telegramma, di cui a loro resta tutta la responsabilità:

  «_Roma, addì 6 giugno 1898 — ore 21,20._

  «Ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal
  ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e
  col darvi la mia approvazione fui lieto e orgoglioso di onorare la
  virtù di disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero
  mirabile esempio. A Lei poi personalmente volli conferire di
  _motu proprio_ la Croce di Grand’ufficiale dell’ordine militare
  di Savoia, per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle
  _istituzioni_ ed alla _civiltà_ e perchè Le attesti col mio affetto
  la riconoscenza mia e della Patria.

                                                         «UMBERTO».

Dinanzi a questo lusso di ringraziamenti, di lodi e di ricompense,
saremmo curiosi di conoscere quali severe parole dovrebbe adoperare
l’onorevole Deputato Franchetti, che altra volta si scandalizzò
— consenziente l’on. Pelloux allora ministro della Guerra — delle
numerose ricompense accordate per la cosidetta battaglia di Coatit,
e nelle quali non esitò a scorgere «sintomi, nei gradi supremi
dell’esercito, di stanchezza, di rilassatezza nell’apprezzare l’ideale
militare, di disinteressamento da quegli interessi alti, il cui
complesso, costituisce appunto la forza militare della nazione»[20].
E molti che amano la monarchia e l’esercito, con uno sconforto
indicibile, di fronte alla suprema onorificienza militare — il titolo
di _Grande uffiziale dell’ordine militare di Savoia_ — accordato al
Generale Bava Beccaris, si domandano quale altra si dovrebbe e potrebbe
concedere al fortunato soldato che salvasse l’Italia da un invasore
straniero![21]

Se la vittoria ottenuta dall’esercito in Milano, dal punto di vista
militare, per denominarla benevolmente, si deve dirla lillipuziana,
dall’altro canto non si può dire che brillarono le doti politiche e
civili del Regio Commissario Straordinario in guisa da compensare
l’assoluta mancanza dei meriti guerreschi — mancanza aggravata da
questo ingenuo appello ai cittadini di Milano:

      _Cittadini!_

  Da tre giorni la truppa del presidio, in continuo servizio di
  pubblica sicurezza, si trova talvolta nella impossibilità di
  provvedere alla confezione del rancio giornaliero.

  Questo disagio aggiunto agli altri di questi giorni riesce assai
  penoso.

  Faccio quindi appello al cuore della cittadinanza, fiducioso
  che essa vorrà concorrere volonterosamente ad eliminare questo
  inconveniente.

  A tale scopo ho autorizzato i signori comandanti dei singoli
  riparti di truppa a rivolgersi ai privati, ai proprietari delle
  locande, dei ristoranti, degli alberghi per ottenere da essi la
  concessione temporanea delle cucine e di quanto occorra per la
  cottura del vitto.

  Dai signori comandanti militari saranno rilasciati, a richiesta,
  buoni per ottenere, a suo tempo, il rimborso del prezzo delle
  somministrazioni fatte.

  _Milano, 10 maggio 1898._

                          Il tenente generale

                      R. Commissario Straordinario

                           F. BAVA BECCARIS.

Questo appello, fatto quando era cessato ogni simulacro di lotta,
dove non c’erano nemici da respingere, dove i quartieri, i depositi,
le vie di comunicazione erano in potere delle truppe, fa comprendere
che in una vera guerra guerreggiata, i soldati italiani, in mancanza
di cittadini che possano essere incitati a fornirli di rancio, devono
morire di fame o provvedere all’esistenza col saccheggio barbarico e
medioevale.

Questo appello, non abbastanza notato da coloro che si occupano della
difesa dello Stato, dà la misura della organizzazione del servizio
delle sussistenze e commenta e completa eloquentemente la guerra
d’Africa coi pasti poco omerici forniti dalle cosce di muli morti per
esaurimento.

La fantasia ariostesca trascinò il Generale Bava Beccaris, che
confidava nei cittadini pel fornimento dei viveri alle truppe, a
deplorare che gli stessi cittadini abbiano concesso ai rivoltosi
di salire sui tetti per gettare tegole sulla via e di sparare dalle
finestre sui soldati... (_Manifesto del 10 maggio_).

L’opera politica e civile del Regio Commissario Straordinario,
infine, può desumersi dai consigli dati al clero, che non aveva preso
la menoma parte nei tumulti; dai rimproveri altezzosi rivolti al
cardinale-arcivescovo di Milano perchè era venuto meno ai suoi doveri;
e dalle ipocrite e stravaganti risposte date agli onorevoli Mussi e De
Cristoforis ed al signor Edoardo Sonzogno, che domandavano il permesso
— alla fine del mese di maggio — di potere ripubblicare il _Secolo_. Il
consiglio dato al Sonzogno di adibire gli operai, per dar loro lavoro,
_specialmente nelle pubblicazioni che hanno di mira l’istruzione e
l’educazione della gioventù_, venendo da un uomo di caserma, riesce
un capolavoro di ironia grottesca. (Lettera al sig. E. Sonzogno del 27
Maggio 1898).

Ma tutte queste opere militari, politiche e civili non possono
giustificare la dignità senatoria e il più alto grado nell’ordine
militare di Savoia, accordati al Generale Bava Beccaris; il quale
avrà creduto di ripagare il ministero di tanta generosità verso di lui
dimostrata, col famoso rapporto del 29 Maggio.

In questo rapporto si fece strazio della verità con una impudenza
non mai riscontrata per lo passato nei documenti ufficiali e non
prevedibile neppure, forse, dallo stesso senatore Saracco quando
consigliò il Presidente del Consiglio a far conoscere agli italiani
una verità a scartamento ridotto. Fra le tante perle colate a getto
continuo dalla penna dello espugnatore dei Cappuccini, segnalo queste:
L’illustre generale vi afferma che in Borsa, durante le giornate
di Maggio, vi era allarme e che molti intendevano sbarazzarsi dei
titoli di rendita italiana; che l’Università di Pavia era un covo di
rivoluzionarî e i suoi studenti erano venuti a Milano per prendere
parte alla rivoluzione; che il legato Loria era divenuto il _tesoro
di guerra_ della rivoluzione; che tutte le precedenti autorità
politiche erano state _deboli, incostanti_ nella difesa contro i
partiti sovversivi; che c’era _apatia_ nel partito dell’ordine ed
_indifferenza_ nelle classi dirigenti ecc., ecc.

C’è un metro preciso per apprezzare il valore di questo rapporto: i
giornali dell’_ordine_ e delle _classi dirigenti_, quando il _Secolo_
ne cominciò la pubblicazione a brani staccati, lo fecero supporre
alterato o maliziosamente dimezzato. Il documento pubblicato nella sua
interezza provò che il giornale democratico non era colpevole dei reati
attribuitigli: il vero reo era il suo autore, ch’è stato ufficialmente
invitato dal Rettore dell’Università di Pavia, Prof. Bellio, a
rimangiarsi le menzogne spacciate — dopo oltre venti giorni dalla
data dell’invenzione! — sul conto degli studenti e che potrebbe essere
querelato per _false notizie_ dagli agenti e frequentatori della Borsa
di Milano!

Non si sa di provvedimenti presi dal governo contro le autorità
denunziate come _fiacche ed incostanti_; ma al generale Bava Beccaris
si può tenere conto della verità detta sulle classi dirigenti e
della grande prudenza e della grande modestia dimostrata tacendo —
eloquentissimo silenzio! — sulla breccia _gloriosa_ dei Cappuccini....

Comunque, se poca gratitudine deve il governo al Regio Commissario
Bava Beccaris; se nessuna gliene devono l’Italia, le istituzioni e
la civiltà — molta, moltissima; gliene devono i moderati lombardi, o
meglio di Milano.

Il Regio Commissario Straordinario consolidò il loro potere con
una serie di misure, che avrà potuto illuderli sulla durata delle
conseguenze, ma che pel momento, non frenò ma eliminò, soppresse, i
loro avversari. Sciolti i circoli repubblicani e socialisti, radicali
e clericali — quantunque gli ultimi li abbiano avuti alleati pel
passato in quasi tutte le lotte amministrative; sciolta l’_Umanitaria_,
fondata coi milioni lasciati da Mosè Loria, soppressi tutti i giornali
e le riviste che potevano dare fastidio — la _setta_ rimase padrona
incontrastata del Municipio, della Provincia, della Congregazione di
carità, di tutte le istituzioni, dalle quali si può esercitare una
qualsiasi influenza economica, politica e morale.

Di tutti questi provvedimenti, i più mostruosi certamente rimarranno lo
scioglimento dell’_Umanitaria_ e la soppressione dei giornali, poichè
collo scioglimento della prima si arrecò un colpo al Codice Civile e
con la soppressione dei giornali si ferì a morte l’opinione pubblica.

Con ciò l’eccesso dell’arbitrio si rese dannoso a coloro che dovevano
usufruirne; poichè, mentre si spera che l’indole dell’_Umanitaria_ si
sia permanentemente mutata, in guisa da farne strumento docilissimo
nelle mani della _Setta_[22]; mentre ci vorrà del tempo per la
ricostituzione dei Circoli disciolti; invece, appena cessato lo
stato d’assedio, risorse più gagliardo di prima il _Secolo_, che
rappresenta l’aculeo più doloroso confitto nelle carni dei conservatori
lombardi[23].

Gl’interessi e le ambizioni di una _setta_, più direttamente feriti in
Lombardia e in Toscana, dettero la spinta energica al governo verso lo
stato di assedio e verso la trasformazione delle repressione, anche
severa ma temporanea, in furiosa reazione duratura; ma la iniziativa
dei conservatori dì Milano e di Firenze trovò un terreno ben preparato
per attecchire in tutta Italia. Infatti la borghesia alta e gli avanzi
dell’aristocrazia dappertutto sentivano che avanzavasi la marea
democratica, che doveva sommergerli presto o tardi, quantunque del
pericolo non avessero coscienza piena, perchè non lo avevano provato
imminente come in Toscana e in Lombardia e in qualche altra regione
dell’Italia settentrionale ed un poco della centrale. La reazione
perciò, appena cominciata, perdette l’impronta locale e divenne
nazionale, senza trovare serie resistenze nella opinione pubblica e
molto meno nel Parlamento[24].

Degli uomini e degli organi della reazione bisogna esaminare le
dichiarazioni, le leggi, gli atti, tenendo di mira che le dichiarazioni
hanno preso il posto delle leggi ed hanno generato gli atti. Sotto
questo aspetto e contro la comune opinione, il ministro Pelloux ha
segnato un peggioramento su quello Di Rudinì; in quanto che l’ultimo
voleva legalizzare la reazione; l’altro la mette in pratica senza
sentire il bisogno di nuove leggi, anzi calpestando e consigliando
apertamente a tutti i subordinati di calpestare le leggi vigenti.

Una reazione non tradotta in leggi potrebbe e dovrebbe considerarsi
come un male minore, perchè lascerebbe sperare la brevità della durata,
la limitazione al periodo eccezionale che la suscitò. Ma dove il
sentimento della legalità è scarsissimo, per non dire insussistente,
come in Italia, l’ostentata, continuata ed impunita violazione di ogni
legge, riesce esiziale nei rapporti pubblici e privati, aggrava sino a
renderli insanabili i mali esistenti e rappresenta l’inizio di una vera
dissoluzione dell’organismo politico-sociale.

La presente reazione non data dalla primavera del 1898, ma rimonta
al gennaio 1894 con una sosta notevolissima — è doveroso rendere
giustizia ai caduti — dall’aprile 1896 all’aprile 1898. Agli estremi
di vita sua il ministero Di Rudinì — cui devesi imputare come colpa
grave l’abbandono del primitivo programma militare, — invaso dal demone
della paura e dall’ardente desiderio di mantenersi la fiducia delle
alte sfere, parve voler far dimenticare il bene fatto in senso legale e
liberale e si dette a sfrenata reazione.

La sua caduta è un incidente personale, anzichè parlamentare, che
non esercita alcuna influenza sull’andamento della cosa pubblica:
la reazione continua pazza, furiosa e rincrudisce quando avviene
l’assassinio dell’Imperatrice d’Austria. La differenza sta in questo:
Di Rudinì, dopo aver militarizzato i ferrovieri, voleva ristabilire le
leggi sul domicilio coatto, modificare il diritto elettorale, infrenare
la libertà di stampa, di riunione e di associazione, disciplinare
lo stato d’assedio, ecc., mediante nuove leggi o modificazioni delle
antiche. Il successore onorevole Pelloux parve più liberale, oltre che
per la buona compagnia di ministri che dai loro precedenti dovevano
giudicarsi più o meno democratici, anche perchè buttò in mare gran
parte di quel bagaglio; e non era, perchè continuò risolutamente per la
via battuta dal predecessore. Ebbe il merito della sincerità — elemento
mancante ai nostri politici e non trascurabile nella vita pubblica —
perchè egli con franchezza davvero soldatesca dichiarò di voler _fare_
senza preoccuparsi di _legiferare_. Quando non _fa_, lascia _fare_
tranquillamente ai subordinati, che non solo eseguiscono con disciplina
militare, ma interpretano le intenzioni dei superiori con meravigliosa
intuizione, che sembrerebbe lettura del pensiero alla Pickmann se non
si sapesse ch’è l’effetto delle circolari segrete e delle reversioni
storiche. Egli è così che sotto Pelloux si formulano canoni nuovi di
governo e si compiono atti che fanno dire al conservatore dianzi citato
dell’_Idea liberale:_ «Siamo oggi più che mai in una paurosa condizione
di arresto di sviluppo intellettuale e morale, per cui tutto vacilla e
scricchiola, mentre ci sta sul capo la minaccia di una crisi orrenda
in cui tripudieranno le impulsività ataviche della bestia umana e le
_libidini feroci di Valentino in sessantaquattresimo che questi anni di
pseudo libertà hanno fecondato a legione_».

Di questi canoni e di questi atti dell’on. Pelloux ne nunzio, per ora,
sette, che si potrebbero chiamare i sette peccati mortali di questo
ministero soldatesco, procedendo dal minimo al massimo in ordine
d’importanza e che comprendono tutte le principali norme direttive
della funzione parlamentare e governativa.

L’on. Pelloux, spronato a dichiararsi di _Sinistra_, a chi lusingavasi
di vedere risorto l’antico partito liberale sotto la protezione di
parecchie sciabole, risponde che non ne sente il bisogno e che i
sostenitori li prende dove li trova. Spronato da Barzilai, non vuole
trovare nemmeno una frase equivoca contro la soluzione incostituzionale
delle crisi parlamentari. Telegrafa al Prefetto di Torino per lodarlo
di avere sciolto il comizio elettorale _pro_ De Amicis. Permette che
il Sottoprefetto Santini presieda una riunione elettorale _contro_
Rondani. Raccomanda di sequestrare qualunque giornale, qualunque
rivista che appaia sovversiva, senza preoccuparsi dei processi e
degli esiti loro. Dichiara fuori della legge tutti i partiti che non
accettano incondizionatamente l’ordinamento politico-sociale vigente.
Proclama, infine, che vuol pacificare gli animi con tutti i mezzi, =non
esclusa la giustizia=: concetto cinico che fa il pajo coll’altro più
recente di voler dare col suo comodo l’amnistia per poter =sfollare le
prigioni=!

Ciascuna di queste massime e ciascuno di questi atti o è una orrenda
bestemmia, o è un arbitrio da Valentino in sessantaquattresimo: la
frase che contiene il severo giudizio è di un monarchico liberale, come
s’è visto. In altri tempi e in altri paesi uno solo di tali elementi
sarebbe bastato a far cadere vituperato un Ministero; certo è che essi
non distruggono soltanto il regime parlamentare, ma sovvertono ogni
ordinamento civile. È del pari indiscutibile che il cinismo assurge
a proporzioni eroiche quando si proclama che nella pacificazione
degli animi la _giustizia_ non ci deve entrare che come un mezzo
eccezionale. Che razza di _pace_, con questi mezzi non informati a
giustizia si possa conseguire, un avvenire non remoto ci dirà. Per
ora basta ricordare che gli strumenti della volontà ministeriale sono
prefetti e magistrati provati a malfare e che non avevano bisogno degli
incoraggiamenti per continuare peggiorando.

La enunciazione di questi canoni e la conoscenza degli uomini di
governo che devono metterli in pratica, dispenserebbero da qualunque
enumerazione dei fasti della reazione. Pure, ad eliminare qualunque
sospetto di esagerazione ed il dubbio che i fatti siano stati
migliori delle parole spavalde e ciniche, giova ricordare qualche data
dell’ultima fase della reazione cominciata in Aprile 1898 e che non
si sa quando possa aver termine: reazione criminosa che non infuria
soltanto dove additossi un pericolo, sia pure immaginario, ma in
tutta Italia, anche nelle regioni che non ne somministrarono il minimo
pretesto.

Ecco l’elenco doloroso dei fasti della reazione, senza ordine
cronologico e senza disposizione ascendente o discendente per la loro
importanza.

1. _Stato di assedio e Tribunali militari_. Vi accenno senza insistervi
ulteriormente perchè lo stato di assedio fu dimostrato non necessario,
perciò iniquo, dai fatti esposti e dai giudizi non sospetti riportati.
Ai giudizî ne aggiungo uno solo: quello dell’on. Pelloux! In un
momento di espansione intima — ci vanno soggetti anche i militari e
gli uomini politici! — confessò la non necessità del provvedimento
all’onor. De Cristoforis. Vennero le smentite dei giornali ufficiosi;
non quella diretta del Ministro. Potrà venire; ma se venisse, tra uno
che afferma e l’altro che nega, gli Italiani sceglierebbero a seconda
delle tendenze e della conoscenza che ciascuno ha degli individui in
contrasto. In politica, del resto, i provvedimenti raramente vanno
giudicati in sè, ma dai risultati che danno; e lo Stato di assedio,
oltre che per le conseguenze economiche e politiche, va misurato dal
figlio suo primogenito: il Tribunale militare. La sua opera verrà
esaminata a parte.

2. _Arresto di deputati._ L’art. 45 dello Statuto non è un privilegio,
ma una garanzia, nell’interesse collettivo, della libertà e della
indipendenza del rappresentante del popolo. Secondo lo stesso Statuto,
può essere arrestato il deputato in flagranza di un reato. In forza
della sospensione delle leggi ordinarie, deputati vennero arrestati, ad
esempio, nel 1862 a Napoli, nel 1894 a Palermo. Si allargò per comodità
del governo il concetto della flagranza; ma non si era arrivati ad
arrestare nei luoghi non sottoposti allo stato di assedio e quando
nemmeno esistono gli elementi più fantastici della flagranza; ciò
avviene nel 1898 a danno di Quirino Nofri. Non solo: si arrestò per
lo passato, ma non si andò oltre senza l’autorizzazione a procedere
della Camera dei Deputati. Se ne fece a meno nel 1898 e si processò e
condannò Quirino Nofri prima che fosse chiesta tale autorizzazione.
Arriviamo ad un colmo: Quirino Nofri sente il bisogno di rinunziare
alle immunità, che accorda quel famoso ed umoristico art. 45 e vuole
essere trattato da semplice cittadino.... per paura, volendo godere
della immunità parlamentare, di rimanere più lungamente in carcere!

3. _Punizioni di Prefetti._ Raramente occorse in Italia che un Prefetto
venisse punito per avere violato le leggi; non si era mai dato — e
forse non si darà mai per lo avvenire, perchè le Autorità sanno ormai a
che attenersi — che un Prefetto a punizione venisse sottoposto proprio
perchè.... non volle violare la legge. È il caso Minervini.

4. _Inchiesta sui testimoni veridici._ Vedremo a che cosa sia stato
ridotto il sacro diritto della difesa nella discussione sui Tribunali
Militari; qui di volo sia menzionato uno stranissimo episodio che fa
capo ad un Tribunale civile. Sinora, anche iniquamente, s’incriminarono
i testimoni quando furono sospettati ed accusati di dire il falso.
Ora si apre un’inchiesta su di un maggiore, Mascilli, ed un capitano,
Minto, dell’esercito, che ebbero il torto di dire la verità nel
processo Barbato. Che abbiano detto il vero si deve tenere per cosa
giudicata, perchè il Tribunale di Palermo non li incriminò come falsi
testimoni... Avviso ai militari, che avessero un concetto _antiquato_
sulle leggi dell’onore.

5. _Spionaggio obbligatorio._ Lasciamo alle fisime della morale o alla
poesia dei senza cervello ogni considerazione sull’orrore che desta la
spia: limitiamoci ai confronti. Prima si corrompevano, si seducevano,
s’incoraggiavano i disgraziati per abbandonarsi al brutto mestiere. Si
progredisce colla nuova reazione; e non solo si ricorre alla denunzia
anonima come elemento per istruire i processi — come si vedrà più
innanzi — ma si arrestano gli onesti cittadini per costringerli a fare
la spia: premio la libertà. Caso Gatti in Milano. E dell’esportazione
in Isvizzera delle spie che a tempo perso esercitano il mestiere di
truffatore, o esercitarono quello di corruttore e di ladro? Informino i
casi Santoro, De Benedetti, Mantica, ecc.

6. _Libertà del domicilio._ Tra i vantaggi attribuiti alla unificazione
d’Italia ci fu quella della libertà del domicilio: il cittadino di
qualunque regione acquistò il diritto di stabilirsi dovunque più
gli torna comodo, purchè vi viva onestamente e vi si procuri stabile
lavoro. Fisime. Si arresta l’avvocato Nino Verso Mendola, che da sette
anni esercita la professione a Bologna e lo si traduce ammanettato a
Riesi suo luogo di nascita. Non si potè imputare alcun reato, nè grande
nè piccolo; non si potè trascinarlo nè dinanzi ad un Tribunale militare
nè dinanzi ad un Tribunale civile. Non si potè neppure proporlo —
parrebbe impossibile, colla _larghezza_ dei criteri adottati — pel
domicilio coatto. Il caso Verso Mendola ha non pochi compagni; uno
recentissimo: ad uno studente s’impose lo sfratto da Bologna, perchè
meridionale; ma gli si consentì il domicilio a Modena.

7. _Domicilio coatto._ È istituto posseduto esclusivamente dall’Italia.
Un consigliere della Corte di Cassazione e Professore illustre di
Diritto penale, il deputato Lucchini, assicurò che esso disonora la
terra classica del giure. Si credette di avere attenuato il disonore
disciplinandolo, facendo precedere l’assegnazione da una larva di
processo e da una difesa. Si torna all’antico, peggiorandolo: si
arrestano i cittadini durante lo stato d’assedio e si mantengono
nelle isole senza processo e senza condanna, anche quando venne
tolto lo stato di assedio. Casi Mocchi, Brambilla, Casilli, ecc. Il
Casilli, ex deputato al Parlamento, è tanto ricco quanto onesto. Al
domicilio coatto, perfezionato, si assegna altra funzione: quella
correttiva dei magistrati, che giudicano secondo coscienza, non
secondo l’ordine della polizia. Il Magistrato assolve? L’innocente
riconosciuto viene assegnato al domicilio, facendolo pentire, forse,
di non avere preferita pochi mesi di reclusione a parecchi anni nello
scoglio di Tremiti. Caso Podrecca. Il magistrato dà una pena giudicata
insufficiente dalla polizia? Si ricorre al domicilio coatto come
supplemento di pena. Caso Modigliani. Il domicilio coatto, infine,
diviene strumento comodissimo per eliminare i giornalisti non corrotti
ed ammazzare i giornali sovversivi. Caso Garzia Cassola.

8. _Piccolo Stato di assedio._ Il nome e la cosa sono di origine
tedesca; li inventò Bismark per combattere il socialismo; ma li ebbe e
li adoperò per legge. Di legge, però, non c’è bisogno in Italia, dove
gli arresti arbitrarî e in massa, specie alla vigilia di elezioni e
di viaggi reali, sono nella tradizione mai smentita del governo. Anche
per questi arresti ora c’è la nota che indica il progresso: le retate
a centinaia prima si facevano per maggiore sicurezza delle _persone
reali_; ora si fanno a benefizio dei semplici ministri. Oltre duecento
cittadini vennero tradotti in _domo petri_ a Palermo per l’arrivo
degli on. Masi, Finocchiaro e Fortis. Questo per amore di verità.
Questi arresti — e gli arrestati è noto che possono essere _frezzati_
o _suicidati_ — però, assunsero proporzioni gigantesche, al di fuori di
ogni legge e di ogni procedura, coll’ultima reazione. Sicchè alla cosa
che c’era _Don Chisciotte_ — giornale monarchico come tutti sanno dette
il nome. Casi: tutti i giorni e in tutta Italia.

9. _Soppressione di giornali._ Si spiegava quello dell’_Italia del
Popolo_: era un giornale repubblicano e pubblicavasi in una città
dove c’era lo stato di assedio. Pareva enorme quella del _Secolo_,
semplicemente democratico; e vada pure pel _Secolo_, in grazia dei
poteri eccezionali del Regio Commissario! Ciò che si applica pure al
_Mattino_ di Napoli, quantunque monarchico — anzi entusiasticamente
dinastico. Ma come e perchè soppressi i giornali nel resto d’Italia
dove si viveva sotto l’impero della legge comune? La cosa fu tanto
bestiale, che la riprovò lo stesso _Corriere della Sera_, anche dopo
che la direzione era stata abbandonata da Torelli Viollier, divenuto
troppo liberale pei tempi che correvano. Casi a centinaia e per ogni
colore — dal monarchico al repubblicano, dal clericale al socialista.

10. _Sequestri._ La morte violenta è la soppressione. Non è sempre
praticabile, ma quando, per un avanzo di pudore, che non voglio nemmeno
chiamare ipocrisia, un giornale inviso non viene ucciso di un colpo,
si cerca farlo morire lentamente coi sequestri. D’onde l’orrenda
bestemmia, cioè la nuova teoria giuridico costituzionale del Pelloux,
sui sequestri senza preoccupazione di processi. I Procuratori del
Re non sono stati sordi; e dove lo furono, i Procuratori generali
li hanno richiamati al dovere: caso Panighetti — quello del processo
Cavallini — e si sono avuti i tardivi sequestri per ordine dei Regi
Procuratori di Sondrio e di Como; i sequestri e le condanne per gli
articoli lasciati passare a Roma; i sequestri dei fregi o dei segni
di lutto che da 28 anni portava liberamente l’_Unità Cattolica_ in
Firenze; i sequestri degli scritti di Mazzini, che circolano con
altrettanta libertà da cinquant’anni; i sequestri in Milano di uno
scritto di Leone Tolstoi che ha sperimentato il regime della Russia del
mezzogiorno; i sequestri, infine, contro la prosa sovversiva dell’on.
Pelloux, purchè riprodotta sulle colonne dell’_Avanti_; i sequestri
delle sciarade dello stesso giornale; i sequestri dell’_Asino_ per
avere messo in burletta una cosa sacra ed inviolabile: gli speroni
del generale Pelloux: i sequestri di libri che circolano liberamente
nel rivoluzionario impero Germanico, come quello di Kantschy sul
_Capitale_ di Marx[25]. I fatti hanno avuto il commento più allegro
che si possa immaginare: B. Cirmeni ha fatto sapere al mondo che il
Generale Pelloux è pieno di buone intenzioni verso la stampa. E chi ne
poteva dubitare? Si sottintende che la benevolenza del Presidente del
consiglio si esplica a benefizio di quei giornali che interpretano i
suoi pensieri![26].

11. _Scioglimenti._ Furono sempre incerti i limiti del diritto di
associazione; perciò si ebbe un’alterna vicenda di scioglimenti e di
ricostituzione di Società dichiarate sovversive. La manìa di colpire
quelle esclusivamente economiche era cominciata in Sicilia nel 1894; ma
i casi sporadici di allora divennero epidemia spaventevole nel 1898. A
migliaia furono sciolte, non solo i circoli socialisti e repubblicani,
ma le casse rurali, le cooperative di consumo e di lavoro, generando
situazioni giuridicamente strane, a vantaggio di debitori che non
sanno più a chi pagare le cambiali; invertendo o sperperando capitali
che rappresentano i risparmi sudati dei lavoratori. Dicono che
arrivano a circa _quattromila_ questi scioglimenti: rimangono tipici
i casi delle _Lega dei Ferrovieri_, delle _Cooperative ferroviarie_,
dell’_Umanitaria_, delle _Casse rurali_. Il criterio dello
scioglimento viene esteso ai consigli comunali: sciolto quello di Bruno
(Alessandria) perchè sospettato socialista, e destituito il sindaco di
Sorso, il sig. Catta, perchè socialista. A quando il ristabilimento
del Tribunale della Santissima Inquisizione? Del resto siamo sulla
buona: Il Tribunale di Genova, nel processo Festa — il _macellaretto_
— ha assodato che le _lettres de chachet_ e la tortura sono in uso in
Italia...

12. _Militarizzazione ferroviaria._ È il caso dei casi; rappresenta
la novità assoluta nell’arbitrio; mercè la quale si prendono tre
piccioni con una fava: si privano del diritto di voto migliaia di
cittadini, che non avevano saputo esercitarlo votando pei socialisti;
si assicura l’ordine colla minaccia permanente del Tribunale di Guerra,
anche in tempo di pace — anche quando è cessato l’artificioso stato
di guerra creato collo stato di assedio; si consegnano mani e piedi
legati gli operai, che perdono qualunque mezzo per migliorare la
propria condizione ed a fare rispettare i propri diritti e si mette
a disposizione di una società di speculatori un corpo organizzato
militarmente dallo Stato. Vilfredo Pareto chiama questa geniale trovata
del Generale Afan de Rivera — che vi guadagnò il suo posto di ministro
— semplicemente il ristabilimento della schiavitù.[27] Il provvedimento
è tanto più iniquo in quanto che un’_inchiesta ufficiale_, quella
presieduta dal Senatore Gagliardo, ha constatato che il Governo e la
Magistratura non hanno saputo, voluto o potuto garantire ai ferrovieri
quel minimo di diritto, ch’era stato loro assicurato dalle _convenzioni
ferroviarie_ del 1885.

13. _Concorrenza economica. Lo Stato contro i lavoratori._ Messo
sulla china di servire ai capitalisti privando i ferrovieri dei mezzi
di lottare legalmente colle società, che le sfruttano contro legge
— le tante vittorie ottenute dai primi nei Tribunali e nelle Corti
di appello, ed annullate spesso dalla Cassazione, ne fanno fede — lo
Stato si è sentito trascinato a favorire qualunque piccolo o grande
proprietario. C’erano già stati dei saggi di concorrenza nel lavoro,
fatto per ordine del governo contro i lavoratori in isciopero; ora
si rinunziò ad ogni avanzo di pudore e si disse agli operai, della
campagna in ispecie, che lo Stato non solo era pronto a sostituire
quelli in isciopero coi suoi soldati; ma che metteva la forza a
disposizione dei proprietari costringendo i lavoratori a contentarsi
dei salari che i primi _generosamente_ avrebbero voluto loro
concedere. Il contegno delle autorità negli scioperi era stato sempre
indecentemente ostile agli operai; ma a Molinella si mise da parte
ogni rimasuglio di decenza. Ora si minaccia il peggio stando a questo
brano di corrispondenza da Ferrara ad un giornale ufficioso: «Lunedì
prossimo comincerà la mietitura del frumento, _e perchè questa segua il
suo corso regolare_, il generale Mirri ha opportunamente dislocate le
truppe. La cavalleria visiterà con apparizioni improvvise e con marcie
notturne tutte le località........»[28]. Ogni commento è assolutamente
superfluo. Noto soltanto che c’è un progresso dal 1894 al 1898: allora
i latifondisti di Sicilia si limitarono a rompere i così detti _patti
di Corleone_ sui contratti agrari; ora la cavalleria _presiede_ alla
mietitura...

14. _La volontà degli elettori._ Non è stata militarizzata perchè è
incoercibile; ma si è sulla buona via per neutralizzarla. I metodi
elettorali adoperati nel Collegio di Cossato e di Torino — dove il
Sottoprefetto presiede le riunioni in favore del candidato del governo
— lasciano intendere che da ora in poi le conferenze elettorali devono
farle i delegati di pubblica sicurezza, visto che non si lasciano
parlare i deputati che non vanno d’accordo col governo. Nè i deputati
possono tenersi in comunicazione cogli elettori, come vorrebbe il buon
regime parlamentare: si è impedito a De Cristoforis ed a Prampolini
di parlare ai loro elettori a Milano ed a Reggio-Emilia. Il disprezzo
verso gli elettori, poi, venne ufficialmente proclamato nella lettera
che il Generale Pelloux rivolse al Generale Tarditi, quando il collegio
di Fossano, non ostante le seduzioni e le violenze di ogni genere, non
volle scieglierlo a suo rappresentante. Sanno ormai gli elettori che
il capo del governo li considera come spregievoli quando non portano
i loro voti sui candidati ufficiali. Si stava meglio sotto il secondo
Impero.

15. _La scuola._ I nostri governanti e le nostre classi dirigenti non
sono degli sciocchi, che per puntellare il loro dominio confidano
soltanto sulla forza brutale, sempre infida, e che a data ora si
esaurisce o si ritorce contro coloro che l’adoperano; essi tengono
conto anche della forza morale, perciò la loro attenzione si è rivolta
alla scuola da un duplice punto di vista. Da un lato vogliono limitare
la diffusione dell’istruzione: in questo senso la manifestazione
più caratteristica è venuta dal modesto comune di S. Marco in Lamis
(Foggia) il cui consiglio comunale ha fatto voti al Governo del Re
perchè venga abolita la legge sull’istruzione obbligatoria; però questa
esplosione di sincerità risponde al pensiero intimo dei conservatori
del resto d’Italia ed è una eco altrettanto sincera di quella voce che
si levò nella Sala Ragona di Palermo nel 94.

Da un altro lato si bada con ogni cura alla qualità dell’istruzione
che s’impartisce; perciò in alto e in basso si sorveglia, si punisce,
si epura il personale insegnante. Si protestò, anche dai conservatori
settentrionali, quando nel 1894 corse voce che il Regio Commissario
militare per la Sicilia, Generale Morra di Lavriano, aveva fatto
ammonire privatamente qualche professore dell’Università di Palermo;
ma questi stessi conservatori non protestano più quando s’infligge la
censura ad un Professore Pantaleoni, quando si puniscono o si riprovano
apertamente Ettore Ciccotti, Fabio Luzzati, Ruggero Panebianco, Giorgio
Levi, addetti all’insegnamento in varie Università del Regno; rimossi
dall’insegnamento o ammoniti vengono alcuni insegnanti delle Scuole
Secondarie. A Milano e Torino, a Rovigo, a Mantova e in altri punti
ancora gl’insegnanti delle scuole comunali e delle scuole secondarie
vengono ammoniti, sospesi, e licenziati solo perchè professano
principii socialisti «benchè, come diceva la relazione del sindaco
della _capitale morale_, non si possedessero prove, che essi abbiano
profittato della cattedra per insegnare massime e principii contrari
all’attuale costituzione politica e sociale».[29]

Questi insegnanti puniti sono tra i più diligenti, più onesti e più
colti; e quelli della provincia di Mantova e di Rovigo furono quasi
tutti discepoli di Ardigò. Una volta messi sulla via lubrica della
persecuzione del pensiero, non si sa più dove si può arrivare; e
mentre organizzasi la più degradante sorveglianza sugli studenti — come
risulta da documenti relativi alla provincia di Trapani — lo scandaloso
esempio dato dal governo e dai partiti politici che lo sorreggono è
stato seguito dai clericali, i quali a Brescia hanno licenziato dalla
Scuola commerciale il Prof. Tirale solo perchè è monarchico liberale.
Non è il caso di ripetere: _qui gladio feriit, gladio periit?_

Contro questo tentativo ignominioso di snidare la libertà di
pensiero dall’ultimo baluardo che le rimane in Italia, la scuola,
si ebbe la protesta alta e generosa di Cesare Lombroso, rimasta
sterile ed isolata. La reazione aspetta tranquilla il ritorno del
ministro-carabiniere alla Minerva per compiere la militarizzazione
della scuola; e allora essa crederà di avere infiltrato sino nel
midollo delle ossa degli italiani, servili per tanti secoli di
soggezione, i principii che la informano.

E conchiudo queste osservazioni sull’opera compiuta sinora della
reazione con due constatazioni; una di origine italiana e l’altra
straniera. Il monarchico _Mattino_ di Napoli dall’esame degli
avvenimenti ultimi è indotto ad allarmarsi perchè «_tutte le ire
e tutti i rancori suscitati dalla politica bestiale del governo si
accumulano sull’esercito_»; e si domanda: «quale concetto deve, per
necessità, scaturire da tutte queste stravaganze — gli atti del governo
— e radicarsi nello spirito della plebe? Che i 240 milioni del bilancio
della guerra non servono già alla difesa del paese dai nemici esterni,
ma alla difesa delle istituzioni vigenti. Ora, quale insensatezza e
quale delitto maggiore potreste voi immaginare di questo far apparire
le istituzioni, emanate meno di mezzo secolo fa dai plebisciti, come
puntellate solamente dalla forza delle bajonette?» (N. del 2 Agosto
1898).

Uno straniero alla sua volta esaminati i fatti recenti conchiude:
Lo Statuto costituisce un insieme di franchigie che la dinastia ha
concesso in blocco alla nazione e che il potere esecutivo ha ripreso in
dettaglio.

E non ci può essere alcuno che vorrà ritenere eccessivo il giudizio
dello straniero quando, in ispreto delle leggi e dello Statuto:
si esigono le imposte non votate dal Parlamento; si abolisce la
libertà del domicilio, di stampa, di riunione e di associazione; si
ristabilisce la tortura e si rimettono in uso le _lettres de cachet_;
si uccidono impunemente i detenuti; si sottraggono i cittadini ai
giudici legittimi; si falsano sistematicamente le elezioni; si riduce
ad una farsa il regime parlamentare.

Nella credenza che si allarga sulla nuova funzione dell’esercito e nel
trionfo della reazione che ha annientato lo Statuto, vi sono germi di
pericoli gravi ed ammonimenti per tutti: anche pei reazionari.



IX.

LASCIAMO PASSARE LA GIUSTIZIA!


_Ella passa terribile per la notte_... canta il poeta. Chi passa? La
giustizia. Quale? Passa la giustizia italiana del 1898.

Questa giustizia procede innanzi secura perchè non è alle sue prime
armi. Ha progredito dal 1860 in poi: si è provata in Sicilia e nel
mezzogiorno contro Garibaldi e i suoi, contro i renitenti, contro il
brigantaggio; ha ripetuto le prove a Palermo nel 1866; nell’Emilia —
quando il pane fu impastato col sangue — con Lobbia, con Barsanti, con
Tanlongo; si fortificò nel 1894 in Sicilia. Ora è adulta, è forte, è
vigorosa.

_Ella passa terribile_..... ed è cieca affinchè la vista di colui che
dovrà essere colpito dalla sua spada non la conturbi e non la trascini
a parzialità; ed ha la bilancia in mano affinchè il pro ed il contro
venga equamente pesato. Si può sospettare che abbia falsi i pesi e
disuguali i piatti? Può anche temersi che, per essere troppo giusta, la
questura tolga di mano, alla Dea venerata, pesi e bilancia?

Può sospettarlo un giornale maldicente e farlo sospettare coi suoi
pupazzetti (_Don Chisciotte_); ma per togliere ogni pericolo che
le venga arrecata offesa, la forza si è messa a disposizione della
giustizia; l’esercito l’ha messa sotto la sua protezione e la fa
amministrare nei tribunali militari.

Dicono che questa giustizia italiana del 1898 non sia quella consentita
dallo Statuto e voluta dalle leggi; chi lo dice non è un malcontento,
un volgare brontolone: è un uomo d’ordine, che presiede la più alta e
importante Magistratura del Regno, la istituzione destinata controllare
tutta l’azione del governo. È il senatore Finali che nella Gran Corte
dei Conti si è rifiutato a registrare i decreti relativi allo Stato
d’Assedio, da cui contortamente si volle far derivare il diritto
di sottoporre i liberi cittadini a Tribunali eccezionali di Guerra
esplicitamente condannati dallo Statuto[30].

A che pro discutere delle legittimità dello Stato di Assedio e dei
Tribunali Militari quando essi sono un fatto che l’Italia ha subìto
e che il Parlamento ha approvato? La discussione teorica in questo
momento non conta; meglio esaminare se questa giustizia eccezionale ha
assolto bene il compito suo sanando anche i vizî possibili della sua
origine; più utile indagare se la giustizia, amministrata da questi
Tribunali eccezionali, abbia aumentato il prestigio dell’Esercito da
cui emanano, colla serietà dei reati puniti, colla correttezza nella
istruzione dei processi, colle garanzie indispensabili accordate alla
difesa, colla sapienza dei giudici, col tatto nella direzione dei
dibattimenti, colla equità nell’applicazione delle pene.

Un uomo d’ordine per il primo nella Camera dei Deputati, l’on.
Galimberti, discutendosi l’autorizzazione a procedere contro i deputati
Bissolati, Costa, De Andreis, Morgari e Turati osservò: che nel modo
come si facevano funzionare i Tribunali di Guerra e colla competenza a
giudicare di frivolezze per le quali dovrebbe bastare un Vice-Pretore,
si toglie alla istituzione la solennità dei giudizî suoi e si attenta
all’autorità ed al prestigio dell’esercito. Fu più esplicito e più alto
chi meno era sospettabile di tenerezza per i rivoltosi, chi non può
non avere a cuore l’esercito di cui fa parte: il colonnello Siacci,
infatti, in Senato ebbe a pronunziare gravi parole sui Tribunali di
Guerra istituiti nel 1898 e che egli vide funzionare a Napoli.

«I recenti bandi militari, disse l’illustre Senatore, hanno allargata
smisuratamente la cerchia delle attribuzioni dei Tribunali di Guerra,
chiamando questi Tribunali a conoscere anche delitti contemplati dal
Codice penale comune, delitti le cui figure non sempre si riesce
chiaramente a distinguere senza un certo acume, senza una certa
pratica di diritto penale. Per esempio, l’istigazione a delinquere. Un
articolo di giornale, quattro chiacchiere fatte al caffè, _il discorso
stesso che ho l’onore di fare in questo momento al Senato, diventano
facilmente istigazione a delinquere_.[31] Dal Ministro guardasigilli,
perciò, invoco che si provveda ad una revisione sollecita, sia pur
sommaria, di tutti i processi, e ad una _pronta riparazione di molte
condanne eccessive, per non dire ingiuste_. Egli è ministro di grazia
e di giustizia, ma in questo caso la grazia e la giustizia fanno una
cosa sola.... Io questo invoco, non solo per amore della giustizia,
_ma anche nell’interesse del prestigio dell’esercito. Fanno più
male all’esercito certe ingiustizie a freddo che venti uomini caduti
sotto una scarica provocata da una folla che insulta la truppa; e mal
provvede al suo prestigio tanto chi l’obbliga a subire impassibile
coll’armi al braccio le replicate offese della piazza, quanto chi
gl’impone funzioni odiose, contrarie alla sua stessa natura_»[32].

Ma il deputato e il senatore forse avevano le traveggiole scorgendo
certi pericoli dove non c’erano? Così pare.

I Tribunali di guerra, invece, si occuparono di certi reati gravi, che
avevano davvero bisogno di una punizione esemplare, solenne! Vediamo.

Un Caimi prende due anni di reclusione e 500 lire di multa per rottura
di lampioni; un Majocchi viene condannato perchè dà dello _stupit_, del
_macaco_ ad una sentinella. Non è ben sicuro che quelle parole fossero
indirizzate alla sentinella; ad ogni modo il capitano De Caroli che
tradusse l’accusato in Tribunale, riconobbe che il Majocchi pronunziò
quelle parole per fare lo spiritoso! Un Bianchi compare innanzi al
Tribunale di guerra perchè chiama _cappellone_ un brigadiere dei
carabinieri; Pedotti e Brusa, alla loro volta, vengono condannati
perchè chiamano _mangiapagnotta_ un tenente di cavalleria che passava
in carrozza. A Firenze si danno otto mesi di reclusione al Cassi perchè
chiamò _pagliacciate_ gli arresti. Nella stessa Firenze si procede
contro Melani perchè ha chiamato mangiapatate un sott’ufficiale _che
non può mentire_, dice il Presidente. E questa perla di Presidente,
ad un accusato che dice di aver deplorato i tumulti, dà una lezione di
fierezza esclamando: _Come!... voi socialista, deplorate le gesta dei
vostri compagni?_...

Questi ed altri casi simili a Milano. C’è di meglio — ossia di peggio
— a Napoli. Filosa, un ragazzo, prende tre mesi di detenzione per
avere gridato: _E billoco!_ (Eccoli!) — una frase trovata nell’agosto
1893 per avvisare l’arrivo di dimostrazioni e degli agenti di polizia.
Verniero, il famoso gobbetto il cui caso fu portato in Senato dal
colonnello Siacci, ebbe due anni di reclusione perchè leggeva i
giornali al caffè e li commentava, manifestando delle simpatie pel
socialismo; si badi: lettura e commento precedettero la proclamazione
dello stato di assedio. Un ragazzetto si buscò quattro mesi per avere
abbattuto(?) un albero; tre donne rispettivamente ebbero un anno,
9 mesi e 7 mesi di reclusione, per aver preso parte ad una pacifica
dimostrazione; 2 anni ciascuno ebbero Del Giudice e Carozza per avere
presentato al Prefetto, la mattina del 30 aprile, una commissione di
donne: erano stati arrestati la stessa sera, ma vennero rilasciati
spontaneamente l’indomani perchè non si era trovata alcuna ragione
per processarli. Altri tre, nello stesso processo e per gli stessi
reati(?) ebbero un anno, due anni e mezzo e tre anni; 18 mesi per
uno altri tre ragazzi per avere abbattuto un palo. Bavarese e Fiore
di Torre Annunziata, due donne, ebbero tre anni per una, con 6 mesi
di segregazione cellulare per avere detto che sarebbe avvenuta la
rivoluzione come nel 1848. De Cicco ebbe 8 mesi per avere eccitato
all’odio di classe in Pomegliano d’Arco cogli articoli pubblicati a
Gallipoli. Alcuni soldati delle compagnie di disciplina ebbero 3, 4 e
5 anni di reclusione come accusati d’insubordinazione e di anarchismo,
per avere detto, vedendo maltrattare un compagno: _queste sono boiate!_
Il soldato Muscari fu condannato a 7 anni e mezzo di reclusione per
avere sfidato un tale in borghese, che lo aveva insultato perchè gli
chiese un cerino per accendere un sigaro. E sì che il Tribunale gli
accordò le circostanze attenuanti... Sotto gli abiti di un borghese
si nascondeva un ufficiale e il disgraziato ebbe il torto di non
accorgersene!

I processi e le condanne per contravvenzioni di ogni genere ai bandi
non si contano; e furono tanti che i maligni dissero che si processava
e si condannava per giustificare la continuazione dello stato di
assedio; mentre si manteneva lo stato di assedio perchè i Tribunali
Militari avevano ancora della carne al fuoco... Strano circolo vizioso!

Alla qualità dei processi svoltisi innanzi ai Tribunali Militari
naturalmente doveva corrispondere e corrispose la quantità. Si vedrà
dal riassunto statistico. Del pari è facile supporre che si sia
proceduto con soverchia leggerezza — quale parola più mite potrebbe
adoperarsi? — nello imbastire i suddetti processi.

Se la supposizione risponda alla realtà si può argomentarlo facilmente
da quanto appresso. Base generale ai processi furono: le confidenze,
le denunzie anonime, le asserzioni gratuite... ed umoristiche, altri
elementi che se pur avessero avuto un valore intrinseco, c’erano
passati sopra tanti anni a farglielo perdere completamente.

Mi sbarazzo alla lesta di questi ultimi e ne cito uno tipico; la
lettera di Andrea Costa ad un Bordigiago di Padova... del 1881. Ma
questo singolarissimo documento non potè essere valutato dai giudici
militari, perchè la Camera dei deputati non gli accordò alcuna
importanza, quantunque gliene abbia data una schiacciante l’on. Tommaso
Villa! In compenso l’_Inno dei lavoratori_ pubblicati nel 1884, mai
sequestrato per lo passato, servì a fare aggravare la pena contro
Filippo Turati.

In quanto alle _confidenze_ e alle denunzie anonime, furono il prodotto
dello spionaggio rimesso in onore come ai tempi dei passati regimi.
A Milano, come a Firenze, come a Napoli, gli amici si guardavano
sospettosi e non si comunicavano le impressioni che con straordinaria
circospezione. Per Milano il fenomeno fu constatato da parecchi
giornali; per Napoli posso aggiungere, per personale esperienza, che
in qualche caffè dove riunivansi deputati e senatori, i più prudenti
consigliavano spesso di parlare a bassa voce. E la prudenza non era
superflua: al gobbetto dell’on. Siacci si appiopparono due anni di
reclusione per avere chiacchierato in un caffè.

Lo spionaggio assunse tali proporzioni che ben cinquemila lettere
anonime furono indirizzate alla polizia nella sola Milano (_Secolo_).
E la libertà, l’onore, la posizione dei cittadini furono lasciati
in balìa dei miserabili che per invidia, per rancore, per bassa
speculazione si abbandonarono all’infame mestiere di spia.

Era tanto iniqua la base di questi processi, che la _Nazione_ di
Firenze, benchè tardivamente — in Settembre — a proposito della
perquisizione in casa del Prof. Pullè, protestò energicamente contro la
_perfidia dell’anonimo e delle denunzie false_.

Quale influenza abbiano esercitata non solo sui processi, ma anche
sulle condanne le _confidenze_ delle spie si apprenderà da questo
dato: la pretesa prova più importante contro Gustavo Chiesi fu quella
di essere stato visto in carrozza in luogo dove vennero erette delle
barricate. Negava l’accusato; affermava il questore Minozzi, che
l’aveva saputo da persona che non volle nominare. Meno male se una
semplice guardia, un carabiniere, a viso aperto, avesse deposto di
averlo visto!

L’insieme delle deposizioni degli agenti della forza pubblica, delle
confidenze, delle denunzie portava seco l’impronta evidente della
falsità. E per falsi bollò i rapporti alla Questura il tenente
difensore Forzano nella udienza del Tribunale di Milano del 18
Giugno. E lo stesso avvocato fiscale in Firenze rimprovera aspramente
una guardia di pubblica sicurezza a nome Ghezzi per le sue palmari
contraddizioni nell’accusa contro Teschi; ma Teschi viene condannato!

Poteva ammettersi per vero, ad esempio, un rapporto della questura
di Milano su certa riunione notturna in casa di un Dottor Ceretti? I
convenuti furono designati come anarchici, repubblicani e socialisti.
Chiesti i nomi, si rispose dalla questura che non li sapeva! Si
designa il colore politico di individui che.... non si conoscono.
Siamo in piena amenità — i tempi non consentono adoperare altra parola
— a Napoli nel processo pei fatti di Resina. Le guardie barricate
in caserma riconobbero i tumultuanti attraverso.... il buco della
serratura.

Meno male se i rei riconosciuti in tale strana guisa fossero stati
pochi: trattavasi di una vera folla; a ben sessantaquattro individui si
distribuirono _centoventun’anni e nove mesi_ di reclusione.

La falsità dei rapporti talora è umiliante.... anche per un poliziotto
italiano. Egli è così che la Questura di Milano scrive essere stato
visto Angiolo Cabrini insieme ad altri a parlare con la Kulichoff
in via dell’Unione il 6 Maggio. L’accusa — se il parlate con amici
è un reato — è precisa; ma l’_alibi_ di Cabrini è irrefragabile.
Egli insegna nel Ginnasio di Mendrisio e il direttore Borella manda
certificato sulla presenza del Cabrini nella scuola per tutto il giorno
6 a fare, come di dovere, le sue lezioni. Cabrini venne condannato in
contumacia a tre anni di detenzione ed a 1000 lire di multa. Tal altra
la falsità apparisce lampante all’udienza. Nel processo pei tumulti
di Resina un brigadiere accusò un imputato di avergli afferrato la
sciabola: _tanto vero, soggiungeva, che l’accusato ha ancora le mani
tagliate_. L’accusato leva le mani e le mostra vergini di qualunque
ferita; e davvero, in questo caso, potevano essere levate verso il
cielo invocando giustizia.

Il record tra i documenti di questi processi viene vinto dalla
famosa cartolina-fantasma partita da Firenze. È la cartolina firmata:
_Speranza 333_, il cui sequestro, come quello del cifrario dell’onor.
Bissolati, fece annunziare trionfanti agli organi della reazione che
si era scoperto e documentato il complotto con tutto il suo seguito.
La gioia loro però fu di breve durata, perchè il Generale Heusch — il
regio Commissario straordinario per la Toscana: nientemeno! — appena ne
fu annunziata là scoperta gloriosa, dichiarò esplicitamente: _trattarsi
di un artifizio allo scopo di fuorviare il sereno corso della giustizia
e di danneggiare le persone nella lettera nominata_.

Per credere alla serietà e realtà di una cospirazione i cui segreti
comunicavansi per mezzo delle _cartoline postali_, ci voleva tutta
la imbecillità e la malvagità della polizia italiana che aveva
prestato fede al proclama _firmatissimo_ di Petralia ed al _Trattato
di Bisacquino_. Ad onore del vero, però, deve avvertirsi subito, che
l’avvocato fiscale, a richiesta della difesa, nel processo Chiesi,
Romussi e Compagni, dichiarò di non volersi avvalere di un siffatto
documento: tanto, era sicuro della condanna degli accusati![33]

Il Tribunale militare di Firenze chiuse bene la sua vita condannando
l’autore della cartolina _Speranza 333_ e di altri quattro analoghi
documenti, lo sciagurato Sciascia-Sicurelli. Ma di questo atto di
giustizia finale sentì rammarico la magistratura cosidetta civile;
ed a Piacenza, nel processo Verrazzani-Marchesi, condannò in base
ad una cartolina rassomigliante al documento _Speranza 333_ che _fu
letta e veduta_ da testimoni di accusa che l’ebbero in mano.... e non
la conservarono! La circostanza va notata perchè dà la misura della
illusione nutrita da coloro che credono tuttavia che la giustizia
sarebbe stata amministrata meglio dai magistrati ordinarî.

Questi mezzi edificanti, presentati come prove contro le migliaia
di accusati che passarono dinanzi ai Tribunali militari, lasciano
l’adito a pensare che alla difesa in ogni caso sarà riuscito facile
la demolizione degli edifizi artificiosi dell’accusa. Il senatore
colonnello Siacci che aveva constatato la deficiente coltura giuridica
degli avvocati fiscali, causa prima di errori e di esagerazioni, con
rara opportunità aveva deplorato vivamente che tale deficienza sia
stata maggiore tra gli improvvisati difensori; di talchè il duello
tra l’accusa e la difesa avveniva quasi sempre ad armi disuguali
— cioè sleale.[34] Quando uno di questi difensori di ufficio,
onestamente, confessa la propria ignoranza e domanda un breve rinvio
per farsi chiarire, da persone competenti, un punto di diritto per lui
indecifrabile, i superiori non mancano di infliggergli una punizione
disciplinare[35]. I difensori intelligenti e coscienziosi, del resto,
venivano continuamente beffeggiati dall’avv. fiscale e redarguiti
in nome della disciplina dal Presidente in piena udienza. Così nel
Tribunale di Firenze pel processo pei tumulti di Riglione il tenente
Ercolani si azzardò a dire, che quel processo era stato ordito dai
preti. Il presidente si alza infuriato e lo redarguisce: «Così non
si va! Cotesti apprezzamenti se li tenga per sè. _Osserviamo la
disciplina_, se no rinvio il dibattimento; e allora guai a chi tocca!».

_Incredibile dictu_: finiti i processi, fu punito coll’allontanamento
da Firenze l’avvocato fiscale Gavino Ricci perchè non era stato
abbastanza feroce! La misura era tanto punitiva che l’avvocato
fiscale Bargalossi, chiamato a sostituirlo, alla prima udienza si
disse _addolorato pel suo ingiusto allontanamento..._ (_Nazione_ del
5-6 ottobre). Del resto siamo arrivati a questo: che agli ufficiali
s’impone di _difendere_ gli accusati; ma non si lascia loro libertà di
difesa; e pare che agli stessi ufficiali le autorità politiche vogliano
proibire di dire la verità se chiamati come testimoni in un processo.
Parrebbe inverosimile se non fosse vero; ciò si rileva dal processo
Barbato e dall’inchiesta fatta contro il maggiore e il capitano di
fanteria, che deposero in favore dell’accusato!

Meno male se davanti ai Tribunali militari, come presso tutti i
popoli civili, fosse stata sacra la difesa! Ma a questa furono imposti
limiti davvero inqualificabili e la si fece svolgere in condizioni,
che dovevano renderla assolutamente inefficace, inadeguata. Tale, a
mo’ d’esempio, doveva riescire quando ad un solo ufficialetto ignaro
del diritto e delle schermaglie procedurali, affidavasi la difesa
di dieci, di venti accusati; e per di più, si presentavano in blocco
requisitoria e difesa di molti processi in una volta. Così a Milano, si
raggrupparono sei processi — dal 41º al 46º in un giorno; ed altri sei
— dal 47º al 52º — se ne raggrupparono in un altro.

Il povero ufficiale difensore quasi sempre si rimetteva in questi casi
alla clemenza del Tribunale segnalando la buona condotta e i buoni
precedenti dei suoi poveri clienti. Oh, se si correva nell’accusare e
nel condannare! si correva tanto, che l’avvocato fiscale in Milano,
sicuro del fatto suo, dichiarava inutile provare l’accusa.... Era
inutile l’accusa perchè era impossibile la difesa.

Gli ostacoli, spesso insormontabili, si sollevano al punto di origine
dei documenti della difesa: il Prefetto di Ravenna, ad esempio, negasi,
contro legge, a legalizzarne uno che doveva servire alla difesa di
De Andreis. Del resto tutti i documenti possibili e immaginabili non
pesano nella bilancia dei Tribunali militari.

Della libertà di difesa consentita agli accusati si avrà un idea da
questo breve dialogo avvenuto nel processo pei fatti di Pomigliano
d’Arco (Tribunale di Napoli): _Imputato_: Debbo dire mezza parola.
_Presidente_: Dite pure. _Imputato_: Domandate al Signor Brigadiere....
_Presidente_: Oh! ne avete già dette cinque di parole... Basta! — E lo
fa sedere. Ancora. Nel processo dei ferrovieri di Napoli: _Imputato
Fortina_: Vorrei s’inscrivesse nel verbale questa circostanza....
_Presidente_: Qui non state nella vostra _lega_, ma innanzi al
Tribunale di Guerra e basta che noi sentiamo; non occorre inserire nel
verbale. In quanto a verbali — afferma Walter Mocchi in un giornale di
Roma — gl’istruttori non si curano di fare firmare gl’interrogatori; ed
a domanda rispondevano: «Non importa; tanto ve la vedrete col Tribunale
il giorno dell’udienza!»

L’ottimo colonnello Mondino, Presidente di uno dei due Tribunali di
Napoli, aveva dichiarato non occorrere verbale: _bastare che egli
sentisse_. Avrebbe potuto bastare realmente se egli e i giudici suoi
colleghi avessero sentito da tutte e due le orecchie. Disgraziatamente
per la giustizia e ancora di più per gl’imputati, i Presidenti dei
Tribunali di Guerra non sentivano che da una sola; sicchè la bilancia
non poteva che essere falsa perchè la lancia non poteva pendere
fatalmente che dal solo lato del piatto esistente, ch’era quello
dell’accusa.

Lo dichiarano più volte ed esplicitamente i signori Presidenti dei
Tribunali di Guerra, con grave scandalo di coloro che dai medesimi
attendevansi giustizia spiccia e sollecita, perchè liberata dalle
formalità curialesche, ma giusta. Detti illustrissimi Presidenti
dichiarano che non volevano testimoni a difesa, o ne volevano pochi;
pochi o molti, del resto, soggiungevano che non avrebbero loro prestato
fede.

Queste dichiarazioni fatte caso per caso, improvvise, nel calore
del dibattimento — se dibattimenti possono chiamarsi i monologhi
dell’accusa — senza consultare i membri del Tribunale, costituivano in
sè un’offesa alla dignità di questi ultimi ed erano contro la legge. Il
Presidente, come argutamente osservò il Mocchi[36], anticipava la legge
sul Giudice unico, e parafrasando il motto del Re Sole esclamava: _Il
Tribunale sono io!_

Non c’è dubbio su questa che sembrerebbe una enormità incredibile
se non fosse rigorosamente vera: il partito preso di impedire la
presentazione dei testimoni della difesa. Chi percorre i resoconti
dei Tribunali di Milano se ne può convincere; ed a Milano occorse il
caso più clamoroso della condanna iniqua di un imputato, che aveva
un omonimo, di cui non si vollero ascoltare i testimoni a difesa.
L’iniquità è stata documentata dallo stesso Avvocato fiscale, che sotto
l’aculeo del rimorso ha avanzato egli stesso la domanda di grazia al Re
in favore del povero condannato.

Si capisce, però, la renitenza dei Presidenti a sentire i testimoni a
difesa: li credevano perfettamente inutili, perchè non degni di fede.

Lasciamo apprendere al lettore la grave circostanza dal drammatico
resoconto dei dibattimenti. Siamo a Firenze nel processo pei tumulti di
Figline. Il tenente Thermes, a difesa del colono Nocentini, presenta
una lista di otto testimoni; non se ne ammette che uno. Il difensore
ci tiene al numero: _Presidente_: al numero e a qualche cos’altro....
_Tenente Thermes_: Sta bene: ma se otto testimoni deponessero che il
Nocentini non si mosse del lavoro... _Presidente_: =Anche se fossero
cinquanta sarebbe lo stesso= (Mormorio). I carabinieri e le guardie
hanno deposto in modo da non lasciar dubbio, dando prova di possedere
una memoria assai lucida. _Tenente Thermes_: Eccezionalmente lucida...
_Presidente_: Qui non si tratta di far discussione. L’incidente
è esaurito. — E Nocentini è condannato. Lo stesso Presidente del
Tribunale di Firenze dichiara: _Si citano solamente i testimoni che
possono deporre su cose importanti!_ (Processo Guiducci e Teschi).

A Napoli. Processo di Resina. _Presidente_: D’Antonio Maria, alzatevi.
Negate pure se volete: ma vi avverto che non crederò una parola di
quanto direte. — Processo di Giuliano. _Tenente Susanna_: Il mio difeso
ha citato quattro testimoni, che non sono presenti. _Presidente_:
oh! se lei lascia fare a quelli lì, faranno venire a testimoniare
tutta Giuliano! E fa comprendere che se tutta Giuliano venisse, non
servirebbe a scuotere l’edifizio dell’accusa.=Nello stesso processo.
_Un imputato_: Ma io tengo i testimoni... _Presidente_: Oh! per me
i vostri testimoni valgono zero. =Per me i testimoni buoni sono i
carabinieri e le guardie=.

In quanto a Milano, i dialoghi hanno forma più garbata; ma il succo
è lo stesso ed è questo: il Presidente non accorda valore al numero
e alle qualità dei testimoni a difesa. Ne accorda tanto poco a tutta
la difesa, che a Filippo Turati preannunzia la condanna. E su questa
_inezia_ giuridica l’on. Barzilai ha presentato una interpellanza alla
Camera dei Deputati. I criterî del magistrato sulla utilità della
difesa appaiono nella loro ributtante nudità nella risposta che lo
stesso Presidente dette all’onorevole De Andreis: _Ma crede lei che il
tribunale sia disposto a prestar fede alle sue difese?_...

Fermiamoci un istante sulla questione dei testimoni. Il difensore
tenente Ponti, nel 36º processo di Milano, con amarezza, che gli fa
onore, diceva: «Prima di terminare, noto che le risultanze dei vari
processi m’inducono a credere che è assai più facile il venir qui ad
accusare che a difendere. È noto: 1º che si ha tendenza a prestare
maggior fede a chi accusa che a chi difende; 2º che le classi meno
elevate dimostrano di possedere in misura ben ristretta quella qualità
che si chiama coraggio civile e che fa ritenere fra i più sacri doveri
quello di saper difendere a tempo e luogo il proprio simile, lasciando
a parte il timore di conseguenze spiacevoli».

No, tenente Ponti! Non è il _coraggio civile_ che mancò alle classi
meno elevate. Egli è che i rappresentanti delle classi più elevate
resero assai pericoloso l’adempimento del proprio dovere. I testimoni
della difesa andavano incontro al pericolo di essere incriminati, —
e si arrestò il Sartori a Firenze perchè l’Avvocato Fiscale dichiarò
_essersi formato il convincimento ch’esso mentiva_ — mentre non
s’incriminarono mai i testimoni dell’accusa anche quando il mendacio
loro era lampante. E poi, a che pro’ esporsi a questi pericoli?
Anche quando in favore degli accusati vanno a deporre gli uomini che
occupano le più elevate e delicate posizioni sociali, il risultato
non muta: si nega a loro la fede, che si accorda intera alle guardie
di P. S., ai carabinieri, agli anonimi, alle spie reclutate nei più
bassi fondi sociali. Un’enorme quantità di testimoni appartenenti
alle classi dirigenti depone in Firenze in favore dell’Avv. Crosti;
e Crosti è condannato; il Comm. Pirelli depone in favore di Turati:
Turati è condannato. L’on. Colombo depone in favore di De Andreis:
De Andreis è condannato. Il capo del gabinetto del Questore di Napoli
depone in favore di Lamberto Sbarra: Sbarra è condannato. Il capitano
dei carabinieri che ha il servizio politico in Napoli depone in favore
di De Cicco: De Cicco è condannato. Il tenente colonnello comandante
l’arsenale di Castellammare di Stabia depone in favore di Scognamiglio:
e Scognamiglio viene condannato. Il Senatore colonnello Siani depone in
favore di Verniero: e Verniero viene condannato....

A che cosa possono servire i testimoni più degni di fede quando un
sostituto avvocato fiscale Ricci (processo dei socialisti di Monza, 30
Giugno e 1 Luglio) dichiara che non sono attendibili i testimoni tutti,
tra i quali il =Sottoprefetto di Monza?= c’è di meglio: nell’udienza
del 1 Giugno a Firenze, un maresciallo dei carabinieri afferma e il
fornaio Beccani nega. E il Presidente: _non esito a credere piuttosto
al valoroso maresciallo, che al Beccani, ch’è un pusillanime!_

Non è tutto. Se mancano i testimoni della stessa accusa, non si
manda in libertà l’imputato, ma si rinvia il processo per supplemento
d’istruttoria sino a tanto che si riesce a condannarlo per un qualsiasi
plausibile motivo. Ciò accadde ad un Raffaele Esposito in Napoli.

Con processi istruiti con metodi assolutamente incivili e nella
mancanza completa di una vera difesa, le probabilità in favore di
giudizi giusti rimanevano attaccate al filo sottilissimo delle qualità
personali dei giudici: dovevano supporsi in loro eccezionalmente
sviluppate l’intelligenza e l’equanimità.

In generale, dello sviluppo intellettuale di un individuo si ha un
primo ed importante indizio nel tatto, nella garbatezza, nel sapere
rispettare quelle che sono le regole del galateo. Questo rispetto
imponevasi specialmente di fronte agli accusati, che presentavansi
innanzi ai Tribunali militari in così straziante inferiorità.

Usare modi cortesi verso questi poveri inermi costretti a combattere
contro uomini ferrati, era un dovere più che una generosità; ma anche
ogni residuo di gentilezza venne meno nelle pubbliche udienze e la
brutalità della caserma si mise in evidenza in tutta la sua bruttura.
Si dice che delle invettive, dei sarcasmi inopportuni, ingenerosi,
adoperati dal colonnello Parvopassu nei primi dibattimenti davanti
il Tribunale militare, si scandalizzarono anche in alto e gli furono
rivolti consigli di temperanza. Ammansato egli arrivò al processo
De-Andreis-Turati, nel quale volle dar mostra di gentilezza col
rivolgere a Turati qualche complimento — _senza sarcasmo_ — egli stesso
fu costretto ad aggiungere — sapendo che non sarebbe stato creduto
sincero. Chi alla brutalità ed alle ingenerosità aggiunse i tratti
del buffone, fu il colonnello Mondino che credette poter passare alla
storia provocando indecentemente l’ilarità del pubblico nel distribuire
secoli di galera.

Di lui ricostruì la ributtante _silhouette_ il Mocchi nell’articolo
cennato e credo doveroso non insistervi oltre; aggiungo soltanto, che
suscitò la nausea il Presidente del Tribunale di Milano quando tentò
vilipendere villanamente l’on. Maffi. E che dire di quel tenente
colonnello Giacosa che alla fine della udienza del 9 agosto, in
Firenze, consiglia gli accusati: _se vi vengono tra i piedi socialisti
e anarchici, mettete una mano nell’orologio e l’altra nel portamonete?_

In questi processi pei tumulti di Aprile e Maggio 1898 non occorreva
soltanto l’ordinaria sapienza giuridica; ma era indispensabile pure una
discreta conoscenza delle scienze politiche e sociali, senza la quale
non potevansi valutare al giusto i fatti e si dovevano scorgere dei
reati dove tra i popoli civili non se ne scorge traccia alcuna. Ora,
l’ignoranza dei giudici militari su questo si chiarì sbalorditoria ed
indusse il colonnello Parvopassu a chiedere all’Ing. Valsecchi cosa
s’intendesse dai socialisti per _conquista dei poteri pubblici_; a
Maffi imputava a delitto — eccitamento all’odio di classe — il parlare
di _sane e pratiche rivendicazioni del proletariato_; a Gustavo Chiesi
rimproverasi il discredito gettato sull’esercito colle sue critiche
della campagna d’Africa del 1887; e sempre si videro terribili reati
nelle frasi: _lotta di classe, leghe di resistenza_, ecc., ecc.

Nel campo giuridico, l’ignoranza non era minore; e preferisco
attribuire ad ignoranza certi errori e certe contraddizioni, che
altrimenti si dovrebbero ascrivere a brutale malvagità.

Egli è così che Romussi, Chiesi e altri giornalisti vengono condannati
come _complici_ nei fatti che procurarono devastazione e saccheggio,
mentre la stessa sentenza dichiara quei fatti essere avvenuti
indipendentemente dalla loro volontà. Per Valera, Koulichoff, ecc.,
manca l’estremo delle pubblicità necessarie perchè ci sia il reato
imputato. Al gruppo dei giornalisti contumaci, che dovevano rispondere
dei reati contemplati negli art. 246 e 247 si regalarono sei mesi di
più di quelli che loro spettavano. A Pescetti si danno 10 anni, mentre
a Turati e De-Andreis, per un reato minore, se ne danno dodici. Rilevo
infine, che si distribuirono pene enormi per reati insussistenti ed
anzichè rilevarlo colla parola calda e dotta dei valorosi avvocati che
difesero i condannati in Cassazione mi piace farlo con quelle di un
modesto difensore militare.

Il tenente Mazza, nell’udienza del 21 Giugno, in difesa di Valera
innanzi al Tribunale militare di Milano osserva:

«Trovo scritto in un libro, compilato da una delle menti più eccelse
che onorano l’Italia (parlo dell’illustre Zanardelli e del suo Codice
Penale, che segnò il trionfo del senso morale e della sociologia) come:
«_Nessuno possa essere punito per un fatto che secondo la legge del
tempo in cui fu commesso, non costituiva reato_». (Articolo 2)

«Ora, lo stato di assedio coi Tribunali di guerra, per quanto possa
modificare la procedura penale, per quanto accordi competenza a reati
anteriormente commessi, non potrà mai annullare il dispositivo di un
articolo di legge, facendo considerare reato un fatto che, secondo la
legge del tempo in cui fu commesso, reato non costituiva.

«E che fatti ora incriminati, sia per articoli di giornali o discorsi
o conferenze pubbliche, non costituissero reato, lo prova con evidenza
l’aver liberamente concesso ai giornali di circolare senza sequestro,
il non aver mai spiccato contro i direttori, collaboratori, gerenti e
conferenzieri alcun mandato di arresto o di semplice comparizione.

«Se i miei difesi avessero, come sostiene l’accusa, commesso delitti
contro i poteri dello Stato, o eccitato a commettere tali delitti, se
avessero pubblicamente istigato a delinquere, o fatto l’apologia d’un
reato, o incitato all’odio fra le classi sociali, certamente il potere
giudiziario sarebbe intervenuto per reprimere il reato coll’azione
penale.

«Ora invece il Regio Procuratore mai intervenne contro i nostri difesi
e la stessa autorità di P. S., che con i suoi rapporti ha scoperto ora
tanto materiale di accusa, non ha mai provocato dal potere giudiziario
alcun provvedimento.

«Cosa dice adunque codesto non intervento, se non che discorsi,
conferenze, sermoni ed articoli di giornali, che ora si vogliono
incriminare, non raggiunsero mai gli estremi del reato, e quindi non si
agì a termine di legge, perchè il fatto nel suo assieme non costituiva
reato?»

E non basta condannare per i reati insussistenti; ma si condanna per
i reati che avrebbero potuto avvenire, nel processo dei socialisti del
Circolo di Chiusi — Firenze, udienza del 13 Giugno — si accusa l’Avv.
Crosti pei _disordini che si sarebbero verificati se il circolo non
fosse stato sciolto...._

Questo è di una evidenza sorprendente e si applica alle numerosa
categoria dei condannati giornalisti — da Chiesi, Romussi e Valera a
Menzione e De Cicco.

La stessa sapienza giuridica fa condannare la povera Maria Marone
di Napoli a 12 anni di reclusione come _complice_ dello studente
Cupola, suo amante, che si seppe difendere da sè e che perciò venne
assolto![37]

Questa ignoranza crassa può spiegare certe sentenze davvero draconiane:
7 anni ad una donna per essersi trovata a capo di una innocua
dimostrazione di donne; 100 anni di reclusione a 60 persone accusate
di avere incendiato un carrozzone di tram in Milano; 2 anni a chi
affrettossi a portare nei casotti i fucili abbandonati dalle guardie
daziarie di Resina — ebbe pure le lodi del Presidente! — 20, 22, 25
e 30 mesi di reclusione a _quattro_ imputati di avere dato _una_ sola
bastonata ad un agente della forza pubblica in Casoria...

Quattro anni di reclusione ebbe il Trinci per avere scagliato dei sassi
innocui in Firenze....

È chiaro: i Tribunali di guerra, in quanto a somministrazione di pene,
adottarono questa savia massima: _melius est abundare quam deficere!_

Ed abbondano anche contro il parere dell’accusa: a Firenze l’Avv.
Fiscale Gavino Ricci domandò sei mesi di detenzione contro Del Buono ed
un anno contro Ciotti; il Tribunale ne dette quattro anni e due mesi a
quest’ultimo, otto mesi al primo.

Tanta severità viene compensata dalle imparzialità!.. Imparziali sempre
i giudici militari passano sopra alla parola del Re e condannano
gli amnistiati, i contumaci, i pazzi, gli ubbriachi. Sui reati del
borbonico Menzione passano sopra due amnistie e la pena scontata, ma
il Tribunale di guerra cancella tutto e condanna. I contumaci erano
stati risparmiati sotto Francesco Crispi, che non si lasciò smuovere
dallo scrupolo insolito pel rispetto alla legge da chi avvertivalo che
sfuggiva alla lontana una grossa preda: Cipriani (_Don Chisciotte_,
N. 208 del 1898); ma furono inesorabilmente condannati nell’anno di
grazia 1898. I pazzi furono ritenuti sempre irresponsabili; ma il
Tribunale militare di Milano scrive un nuovo capitolo di psichiatrica,
e pei fatti di Seregno condanna un Confalonieri il cui solo testimone
di accusa — il maresciallo dei carabinieri — lo dichiara pazzo; e
condanna Zoppini per avere gridato il _19 Maggio_ nel corso Vercelli:
_Viva il socialismo! Viva l’anarchia!_ La sola data del reato bastava
ad assodare lo squilibrio mentale; lo dichiararono irresponsabile
tre periti medici; ma Zoppini viene condannato, benchè sia stato
_diciannove volte_ al manicomio!

Si può immaginare se trovarono grazia gli ubbriachi: un De Ambrogi
venne condannato per avere emesso non so qual grido sovversivo dopo
essere stato per sette ore continuo all’osteria... e per avere gridato:
_vorrei avere tanta..._ _carta_ _da dare fuoco a tutto il mondo!_

Pietà non si ha se non per coloro che nei processi del mezzogiorno
risultarono all’evidenza istigatori e promotori dei disordini per
gare municipali: nessuno di loro fu condannato. Erano cavalieri,
commendatori, uomini _d’ordine_, che a data ora davano la caccia ai
sovversivi e meritarono tutti i riguardi. Nessuno sospettò in questa
pietà l’influenza del pregiudizio o dell’interesse di classe!

E se a Milano si condanna Don Albertario, trovano pietà i preti in
Firenze, dove vengono assolti tutti quelli del 25 giugno per accuse che
avrebbero procurato anni ed anni di reclusione ai socialisti.

Con processi istruiti nel modo che abbiamo visto, senza difesa, coi
criteri, colla sapienza e colla imparzialità dei giudici che ci sono
noti: i Tribunali di Milano distribuirono anni 1390, mesi 3 e giorni
2 di reclusione; anni 90, mesi 1 e giorni 6 di detenzione; anni 307
di sorveglianza e L. 33,952 di multa a 688 imputati — dei quali 17
donne e molti minorenni. A Napoli vennero condannati 812 individui —
tra i quali molte donne e molti minorenni — a 624 anni, 11 mesi e 21
giorni di reclusione e detenzione; 80 anni e 6 mesi di sorveglianza e
L. 50,927 di multa. Le condanne più gravi furono quelle del Tribunale
di Firenze pei fatti di Figline: un Pampoloni ebbe 27 anni di galera;
Fabbricanti e Giani 25, Musuai 24, Laperini, Borghesi e Gabrielli
22, Coloni 20, ecc., ecc.[38] Questa statistica è veramente paurosa e
fa temere che i Tribunali di guerra abbiano sparso copiosamente seme
di odio; ed è un giornale conservatore, cui non sfugge la realtà, a
pensare che le condanne degli uomini politici e dei giornalisti di
Milano ha avuto tutto il carattere di una _vendetta_, più che di un
severo atto di giustizia. (_Mattino_ 19 Agosto 1898).

Se la vendetta e l’odio seminati possano produrre la pace o l’amore
non so; auguriamoci che l’avvenire sia migliore di quello intravvisto
e temuto. Per ora concludiamo col senatore e colonnello Siani: coi
Tribunali di guerra si sono avute condanne feroci; _feroci sino al
ridicolo!_

L’illegittimità dei Tribunali militari, le basi delle accuse, la
mancanza della difesa, l’ignoranza dei giudici — il tutto coronato da
questa _ferocia sino al ridicolo_ nelle pene, spiegano come e perchè
il movimento in favore dell’amnistia si accentui e divenga una valanga
irresistibile che schiaccierà coloro che vogliono arrestarla: valanga a
cui hanno portato il loro contributo tutti i partiti e tutte le classi
sociali. E si vuole l’amnistia, nel senso di giustizia riparatrice,
perchè nei condannati si riconoscono delle vittime, non dei delinquenti
— nè politici, nè comuni. Di grazia, di perdono hanno bisogno soltanto
i giudici.



X.

LA CONDANNA DELLE IDEE


Avvenne dei processi svoltisi innanzi ai Tribunali Militari ciò ch’era
avvenuto pei tumulti: l’attenzione del pubblico concentrossi a Milano.

Quasi tutte le udienze del Tribunale di guerra consacrate ai
tumultuanti di Maggio ebbero la loro speciale importanza in quanto che
somministrarono gli elementi migliori pel retto giudizio sull’indole
vera dei moti; la sintesi sui vari elementi, poi, si desume chiara
e completa dei due processi dei _giornalisti_ e dei _deputati_, come
vennero denominati.

La qualità degli accusati e la natura dei reati che vennero loro
imputati spiegano il fenomeno e danno ragione del vivo interesse
col quale gl’italiani ne seguirono lo svolgimento. Allora venne in
discussione esplicitamente il _complotto_.

È chiaro: se si fosse provato che le sommosse della primavera del
1898 furono la conseguenza della preesistente organizzazione e della
decisa determinazione di un partito per provocarli e riuscire ad una
rivoluzione, la gravità delle prime sarebbe stata enorme ed avrebbe
potuto giustificare sino ad un certo punto l’allarme delle classi
dirigenti e dei conservatori e l’azione spiegata dai governo. Ma la
dimostrazione mancò completamente.

Nei moti del mezzogiorno non si tentò neppure di accennare alla
esistenza di un complotto, tanto essi furono improvvisi, disordinati,
apolitici. Se ne parla in Toscana. Ma a Firenze dove avrebbe dovuto
farsi più palese, il complotto fu escluso quando più la paura spingeva
alle esagerazioni, anche sincere, dall’organo massimo dei conservatori:
dalla Nazione. L’importanza e la natura reale dei tumulti, quando
più viva era l’impressione dai medesimi suscitata, può dedursi dai
seguenti brani, che tolgo da quel giornale: «Dopo il giorno 6 Maggio,
non una mosca venne molestata; nessun disordine fu segnalato dentro
le mura cittadine; _e nemmeno nel giorno sei nessun disordine sarebbe
accaduto... se si fosse operato in altro modo... Questi fatti dolorosi
non si sarebbero certo prodotti se, mentre si era esagerato l’allarme
con la ingiunzione di chiudere le botteghe e dopo aver fatto uscire
la truppa, quando meno ve n’era bisogno, non si fosse abbandonata la
Piazza Vittorio Emanuele, lasciando rinchiusi, poco lontani, interi
battaglioni di truppa_».

Così la _Nazione_ del giorno 7 Maggio, che rincalzava il 9: «_Il
panico fu superiore ai fatti avvenuti_. Giornali esteri e, sopratutto
i giornali di certe regioni, che hanno interesse a far concorrenza a
Firenze, diffondono le notizie più esagerate. — _Ed è obbligo delle
autorità il farle smentire_».

Ci fu tanto il complotto, che l’avvocato Fiscale, per i caporioni
arrestati a Firenze, chiese il massimo di un anno[39].

E nel processo di Figline, che fu seguito, come sappiamo, dalle
più severe condanne, la stessa sentenza ammette l’influenza della
propaganda dei partiti sovversivi, ma esclude l’associazione a
delinquere ed il complotto.

Per Milano, siccome nei tumulti escludevasi l’azione determinante del
disagio economico, così potè sorgere spontaneo e sincero il sospetto
della cospirazione e dei motivi politici tanto nella stampa locale
quanto in quella del resto del regno. Il sospetto divenne certezza per
gli organi conservatori e reazionari.

Il _Corriere della Sera_, in prima pagina, all’indomani dei fatti del
7 scriveva: «La questione del pane è passata in seconda linea, anzi
qui non vi fu mai. Essa servì di pretesto agli _organizzatori dei
disordini_ per ispingere giovani incoscienti, operai mal consigliati,
donne, ragazzi ad eccessi che a Milano non si sarebbero mai creduti
possibili». Meglio informato e più equanime, il cronista in seconda
pagina spiega e corregge, ed augurandosi che i rivoltosi dalle misure
prese vengano distolti da nuovi pazzi tentativi, soggiunge: «Ce lo fa
sperare _la mancanza di direzione e di organizzazione nella sommossa_.
I conflitti avvenuti ieri non indicano da parte dei tumultuanti,
_nessun disegno prestabilito. Le barricate furono improvvisate senza
un concetto tattico e furono abbandonate_ =senza essere difese=. Salvo
pochi revolvers, =non si videro armi da fuoco= _in possesso degli
assalitori_(?). _Nè si videro materie esplosive. Le colluttazioni
avvennero alla spicciolata.... Non si nominano capi che dirigono la
sommossa. Non si vedono proclami che diano una direttiva al movimento._
=Non si ode un grido che abbia un significato qualunque e che accenni
ad una meta=». (N. 125).

Questa la verità che non teme smentita. C’è voluto tutto l’accecamento
partigiano della _Perseveranza_ per affermare: «Il movimento del 7 ebbe
un carattere rivoluzionario spiccato. La sommossa scoppiò in varî punti
della città simultaneamente. _I fatti si svolsero facendo credere_
=ad un grandioso piano prestabilito di rivoluzione, di saccheggio, di
devastazione=». (Numero del giorno 8 Maggio). E il giorno 9 insiste
accusando i repubblicani come autori principali, che trascinarono
i socialisti. E la stolta accusa ripete il giorno 12 — quando erano
noti tutti i dettagli, quando essa stessa sentivasi umiliata della
_breccia dei Cappuccini_! — parlando dell’accordo dei repubblicani
cogli anarchici, coll’imbeccata che i rivoltosi ricevevano dalla vicina
Svizzera, in cui _risiedeva la mente direttrice_(?), _lo stato maggiore
del partito_(?), del complotto ordito dai repubblicani e secondato dai
socialisti senza entusiasmo, della distribuzione di rivoltelle fatta
dai repubblicani, ecc., ecc. E tutte queste menzogne le dava come
=notizie precise= _ricevute da fonte attendibile circa la preparazione
e l’organizzazione della rivolta_, =che troveranno la conferma nelle
risultanze del procedimento penale....=[40].

In questa criminosa aberrazione, la _Perseveranza_ ebbe complici la
Questura e l’accusa. L’identità assoluta del linguaggio autorizza
ad ammettere che gli articoli del giornale conservatore, i rapporti
del Questore Minozzi e degli altri delegati, gli atti di accusa le
requisitorie degli Avvocati fiscali e il rapporto Bava Beccaris abbiano
la stessa origine. A tutti le risultanze del procedimento penale
inflissero la più clamorosa smentita, la più vergognosa umiliazione.
Il Tribunale di guerra, infatti, escluse esplicitamente il complotto in
entrambi i processi.

E per quanto quei giudici si siano mostrati sempre ingiustificatamente
severi, il complotto non avrebbero potuto ammetterlo senza coprirsi di
disonore. Non potevano e non dovevano prestar fede al complotto di casa
Ceretti; non a quello presso la redazione dell’_Italia del Popolo_ —
dove sedeva il Comitato _pro-repubblica_ che comprendeva il monarchico
Valentini; — non all’antico accordo tra repubblicani, socialisti e
anarchici, smentito da una serie interminabile di lotte e il cui solo
sospetto avrebbe fatto ritornare anti-socialista Edmondo De Amicis. Nè
potevano prendere sul serio la bandiera... di _carta_ dell’_anarchico_
Callegari sulla quale era scritto... _Evviva la repubblica!_

Meno ancora le contraddizioni di un disgraziato Avvocato fiscale
Torre, che pei fatti del 6 Maggio, mentre afferma l’_organizzazione di
un vero e proprio moto rivoluzionario_, negli accusati non trova che
_fannulloni, i quali si sono messi nella dimostrazione per fare del
chiasso_: fannulloni ai quali fa regalare sette anni di reclusione!

È innegabile: il Tribunale di guerra, escludendo il complotto, più che
fare atto di giustizia, provvide alla propria dignità[41].

Sfumato questo umoristico complotto, che non ebbe capi, armi,
programma, nè bandiera, e mancata completamente la dimostrazione della
partecipazione ai tumulti dei giornalisti e dei deputati, non si riesce
assolutamente a comprendere per quale titolo essi vennero condannati.

I motivi della condanna sfuggono ad ogni ricerca; ond’è che l’onor.
Barzilai afferma essere entrato nell’aula dei Tribunali di guerra
il simbolismo ibseniano, che fa scorgere in Turati, in De Andreis,
negli altri accusati, dei simboli, delle personificazioni dei partiti
ribelli. Altri chiama _metaforici_ i reati attribuiti agli accusati e
_allegorici_ i processi; nei quali, con fantasia ariostesca, ai verbi
_parlare, dire, scrivere, professare_... accompagnati ora da una ed ora
da un’altra espressione avverbiale, _come parlare con sarcasmo, parlare
in modo sospetto, professare apertamente delle idee, scrivere articoli
sui giornali_ — si attribuisce una speciale efficienza criminosa, quasi
che le parole si possano tramutare in _bombe_, i discorsi in _tumulti_,
le idee e gli articoli in _corpi armati_, ecc.!

Si sa, però, che non furono allegoriche o metaforiche le condanne!

È bene aggiungere — e lo rilevò l’Impallomeni nel ricorso in Cassazione
— che per Turati, oltre la _capacità a delinquere_ — non quella di
Chauvet — riconosciuta in tutti e tramutata con un giuoco di bussolotti
in _reato commesso_, come notò il Barzilai, c’era qualche cosa di più
concreto, che accennava ad un fatto: egli il giorno sei _raccomandò la
calma_ in modo non giudicato ortodosso; e parlò coll’avvocato Cavalla
in modo da _potere_ essere sentito dai rivoltosi....

Ben gli stia la condanna! Perchè andare ad esporre la vita per
raccomandare la calma? Se qualche parola non fu ortodossa però,
il Tribunale riconobbe che le intenzioni erano corrette: disse
esplicitamente, infatti, _che i capi socialisti e repubblicani, i
tumulti non li volevano_.

Non insistendo più oltre su queste sentenze del Tribunale di Milano, i
cui considerando Barzilai li chiama degni della Papuasia, e smettendo
ogni ironia, si può riassumere l’opera tutta di questa magistratura
eccezionale, non consentita dallo Statuto, in questo giudizio: essa non
ebbe che uno scopo: la persecuzione e la condanna del pensiero, delle
idee, della legittima e pacifica propaganda.

Che sia stato questo il fermissimo proponimento dei Tribunali Militari
appare chiaro, lampante dalla motivazione della sentenza contro i
giornalisti: «l’opera di Chiesi e di Romussi, repubblicano il primo e
radicale il secondo, _nella quale si mantennero sino alla soppressione
dei loro giornali_, costituisce il fatto =materiale=(?) diretto a
suscitare la guerra civile, _sebbene ciò non fosse in quel momenti
da essi desiderato e sia avvenuto per causa indipendente dalla loro
volontà_».[42]

I motivi generici e specifici di responsabilità di Turati e di De
Andreis sono identici: s’imputano all’uno gli articoli del 1896,
l’_Inno dei lavoratori_, ecc.; e all’altro le opinioni repubblicane,
la costituzione di circoli e i discorsi repubblicani... La prova
delle prove, infine, la ritrovano nelle parole, _interpretate_
loiolescamente, che Turati e De Andreis pronunziarono imprudentemente,
— quando il loro animo era abbeverato di amarezza, quando
l’indignazione avrebbe eccitato gli uomini più miti e più teneri delle
istituzioni! — alla presenza di un ufficiale e di un avvocato Cavalla,
che si fece un merito nel denunziarle.

Questa persecuzione e condanna del pensiero, delle idee, della
propaganda pacifica ch’era negli intendimenti dei Tribunali di guerra,
armonizza perfettamente colla corrente psicologica degli avvocati
fiscali e delle Regie questure. Queste ultime trovarono un’aggravante
nella stessa temperanza del _Secolo_; perchè con questa temperanza,
disse un testimonio poliziotto, riusciva meglio a fare breccia negli
animi[43] mentre il Tribunale non può menar buona a Don Albertario la
_fine ironia_ adoperata nei suoi articoli....

In una _nota_ precedente e in altre pagine furono rilevate le accuse
sbalorditone scagliate dalle questure del regno agli imputati, nelle
quali si parla sempre di _opuscoli_, di _discorsi_ sovversivi — mai
incriminati per lo passato — più specificatamente si rimprovera al De
Cicco in Napoli di ricevere e leggere riviste e giornali repubblicani
e socialisti; nei certificati rilasciati dalle autorità si rileva
spesso la morale buona, ma _cattiva la condotta politica_; l’avvocato
fiscale recede dell’accusa contro Zavattari _benchè_ repubblicano; il
rapporto della questura per Valera confessa che non fu _possibile aver
dati positivi per credere che esso abbia preso parte attiva ai tumulti_
(pag. 217) ma viene condannato lo stesso per le sue opinioni. Ma perchè
cercare elementi ed indizi per assodare questa determinata e voluta
persecuzione contro il pensiero?

È il colonnello Parvopassu, che — sapendo di non avere _fatti_ a
disposizione per condannare — in uno scatto imprudente, volto a Turati
esclama; _le vostre idee sono criminose!_

Tanto criminose, che non gli consente quella libertà di esporle che
il Tribunale Militare di Palermo concesse nel 1894 a De Felice e
Barbato...

Chi può negare il progresso compiuto in quattro anni? In Italia non si
cammina, si galoppa sulla via della reazione...

Dichiarare criminose le idee; processare il pensiero; condannare
la pacifica e legittima propaganda...! Ma per impedire tutto ciò
che ritenevasi mostruoso, per acquistare la libertà delle idee, del
pensiero, della propaganda, migliaia di martiri lasciarono la testa
sul patibolo o gemettero per anni ed anni nelle galere del Piemonte,
dell’Austria, del Papa, del Borbone: per conquistare tanta libertà,
l’Italia fece cento insurrezioni e parecchie sanguinose rivoluzioni che
costarono la vita a migliaia dei suoi figli!

Il gretto e prosaico materialismo contemporaneo risponde a queste
evocazioni liriche con una sdegnosa scrollatina di spalle indicante
il nessun conto in cui devono tenersi questi ricordi oramai troppo
antichi, stantii.

Ebbene, questa incoercibilità del pensiero, questa legittimità della
propaganda delle idee hanno in favore la parola indiscutibilmente
autorevole di un contemporaneo: di Giuseppe Zanardelli, in nome del cui
Codice Penale si processa e si condanna[44].

Se Zanardelli appare un dottrinario liberale, si rievochi la memoria di
un conservatore autoritario, quella di Silvio Spaventa, che non solo la
libertà delle idee voleva piena ed intera, ma anche quella di riunione
e di associazione[45].

Ad ogni modo confortiamoci. Contro le aberrazioni di Tribunali, i
cui giudici educati nella caserma ignorano il diritto, la storia, la
politica, la scienza sociale, c’è il correttivo: c’è la suprema Corte
di Cassazione di Roma — la cittadella del diritto, la magistratura
_istituita per mantenere la esatta osservanza delle leggi_[46].

Vero è che il supremo magistrato nel 1894 dette uno strappo allo
articolo dell’ordinamento giudiziario, che assegnavale l’altissima
funzione di mantenere la esatta osservanza delle leggi, rinunziando
a conoscere delle illegalità dello Stato di assedio e dei Tribunali
Militari; ma si poteva vivere sicuri che le sentenze dei Tribunali
militari, che colpirono le idee, le opinioni, la propaganda pacifica
sarebbero state annullate e avrebbero condotto alla liberazione dei
cittadini ingiustamente condannati. Ci si poteva contare, perchè
la Cassazione nel 1894 — nelle cause Fiorenza e Molinari — aveva
proclamato costituire violazione di competenza, sindacabile in
Cassazione:

I. il qualificare _eccitamento alla guerra civile_ un semplice
danneggiamento, un tumulto, ecc.

II. il qualificare come _fatti diretti ad eccitare la guerra civile_ le
semplici conferenze, le lettere, gli articoli di giornali, ecc.

III. il ritenere in _rapporto immediato di causalità_ con gli
avvenimenti, che provocarono lo stato di assedio, le conferenze
(tenute anteriormente ad essi) nelle quali non si uscì dal campo
degli incitamenti a semplici parole ed in cui non si presero accordi o
determinazioni per compiere i fatti criminosi poi consumati.

Non è chiaro che colle massime riconosciute dalla Cassazione nel 1894
la condanna dei giornalisti e dei deputati nel 1898 è ingiusta e sarà
cassata? È chiaro come la luce del sole; ma non è utile nel momento
storico che attraversiamo e la Cassazione mettendosi in armonia coi
tempi e cogli uomini che ci governano, ripudia le massime solennemente
promulgate e conferma la sentenza contro la libertà del pensiero e
contro la legittimità della propaganda[47]. Da questa minima _capitis
diminutio_ alla massima che si ebbe nel 1894, la decollazione della
giustizia è compiuta![48]

Commentando quest’ultima sentenza della Suprema Corte di Cassazione di
Roma, un giornale amaramente conclude:

«A noi pare che i giudici della Corte abbiano fatto opera meritevole di
elogio per parte d’ogni buon patriota. Essi hanno conferito valore al
concetto unitario».

«L’unità politica fu conseguita nel 70.

«L’unità morale è posteriore; è dovuta a uomini di grande pregio, non
ultimi il Depretis, il Crispi e il Rudinì; i settentrionali passarono
ai meridionali il contagio delle speculazioni; questi insegnarono a
quelli il modo di reprimere con energia (_vulgo_ violenza) i tumulti
delle folle: per questa via si ebbe l’unità. Ora si aggiunge, terza,
l’unità della giustizia.

«Alcuni (i sobillatori non mancano mai) andavano bucinando che, oltre
la giustizia militare, una ve ne fosse, detta, non si sa perchè,
civile. Tentavano portare una divisione nel campo della giustizia: una
specie di lotta di classe con annesso eccitamento, ecc., ecc.

«Ma i giudici della Corte suprema, con pensiero altamente patriottico,
han voluto significare con la sentenza d’oggi che la giustizia in
Italia è unica ed uniforme. Gli antichi dettaron la massima: _cedant
arma togae_; massima da baggei; noi siam gente moderna, e noi non ci
sappiam figurare la giustizia se non armata di spada.

«Concludendo, l’Italia ora può dirsi compiuta. Ha l’unità politica,
l’unità morale e l’unità giuridico-militare. Non è ancor perfetta
l’unità tributaria, troppe essendo le disuguaglianze tra cittadino
e cittadino: ma per la perequazione della miseria sta provvedendo
alacremente l’agente delle tasse».

In questa conclusione sull’unità giuridico-militare raggiunta, c’è da
fare una correzione: essa non data dal 1898; pur troppo e più antica!

Le pietre miliari della decadenza della Magistratura cosidetta civile
sono innumerevoli: dal processo Lobbia al processo Tanlongo; dalla
impunità assicurata ai grandi ladri delle ferrovie a quella accordata
agli assassini di Frezzi, di Donati, di Castellano, di Siculiana.
Questa magistratura _civile_, che non ebbe viscere per trovare un
responsabile della catastrofe della miniera Virdilio-Mintinella e per
assegnare un misero compenso alle desolate famiglie degli ottanta
minatori che vi lasciarono la vita; questa magistratura, che non
trova modo di colpire i ministri delinquenti; questa magistratura
che _delicatamente_ avverte prima delle perquisizioni da fare se
i presunti rei.... sono monarchici[49] — oh! questa magistratura
_civile_, e sopratutto umana, trova tutta la sua energia e tutta la sua
severità per processare e punire i disgraziati, che rubarono per fame:
essa processa e condanna in Torino Margherita Giustetto per essersi
_impossessata, per trarne profitto, di un chilogramma di frumento del
valore di_ =centesimi venti...= processa e condanna in Roma _un ragazzo
a quattro mesi di reclusione per avere rubato quattro grappoli di
uva!_[50]

Questa magistratura _civile_ ha voluto mostrarsi all’_altezza_ della
giustizia militare; perciò essa, che in un momento di _aberrazione_
aveva assolto in Tribunale Barbato, lo condanna nella Corte di Appello
di Palermo. E perchè da un estremo all’altro del Regno l’_unità_
sia completa e incrollabile, la Corte di Appello di Milano respinge
il ricorso dei contumaci facendo fare un passo tanto gigantesco al
giure, da espellerlo dalle aule sacre alla giustizia affermando «che
le sentenze essendo state pronunziate per =esempio= non possono venire
modificate!»

E dicano gl’italiani se non è santa l’indignazione del deputato
Lucchini, =membro della Cassazione di Roma=, che vede la magistratura
compromessa in _uffici più o meno politici e_ =polizieschi= e che nei
giudizi in discorso scorge _la rovina della legge, delle istituzioni e
dei principî di ordine e di autorità_. Della libertà non parla perchè,
egli dice, non conta più nulla![51]

Non pel desiderio di chiudere questa dolorosa narrazione con delle
frasi sensazionali, per amore di rettoricume da cui rifuggo, adunque,
ma perchè le parole del poeta corrispondono rigorosamente alla realtà
dei fatti, torno a ripetere con Rapisardi che «passa terribile per la
notte» la giustizia, di cui sghignazza la turba; e passa la giustizia

    «C’ha il cervel nella borsa e l’anima nell’epa,
    Che al boia dice: salve; ed al povero: crepa;
    Ch’erto sul banco traffica l’opra, le forze, il sangue,
    L’onor d’una cenciosa plebe che stenta e langue,
    E scannando se stessa i suoi tiranni impolpa,
    D’un formicaio umano, cui la miseria è colpa.
    La sventura destino, il lamento delitto,
    Un patibol la vita ove Dio l’ha conflitto,
    L’error pane dell’anima, un tranello l’inferno
    La speranza una frode, la giustizia uno scorno...»

Il poeta si rinfranca perchè sente imminente l’arrivo di un’altra
giustizia che vince, passa, impugnando la scure di acciaio, squassando
la face

    «E dal sommo d’un monte, dritta in faccia all’aurora
    Grida con bronzea voce di mille tuoni: È l’ora![52]

È l’ora? Lo pensa, lo spera forse, il vate; e bisogna lasciargli questa
illusione.



XI.

LE CAUSE ECONOMICHE DEI TUMULTI


I giudici più benevoli dei governanti italiani, i cittadini che non
sono complici o comunque interessati nella repressione, riconoscono
che nell’ultima, ancor prima che si tramutasse in confessata reazione,
vi fu eccesso di difesa. Pochi hanno formulato questa colpa del
governo italiano con tanta precisione quanto l’on. Galimberti, la cui
opinione non è sospetta perchè anche lui è uomo di ordine come vogliono
essere chiamati i nostri monarchici. Egli, trattando della _vera
responsabilità_, riconosce che essa sta nell’eccesso della repressione
— specialmente a Milano, dove fu adoperato il cannone contro gli
inermi. «Contro gl’inermi il cannone! egli continua. Ecco la colpa
di tutti i governi deboli, francesi e spagnuoli, da che si dettero le
costituzioni: aver adoperato le armi da fuoco contro gl’inermi... Chi
si è assimilato la vita inglese, sa molto bene che le dimostrazioni
in Inghilterra assumono proporzioni maggiori che da noi. Si dicono e
rimangono infatti dimostrazioni pacifiche solo perchè il governo si
guarda bene dal provocare la rivoluzione adoperando le armi da fuoco.
Esagerare i movimenti popolari, cambiare le dimostrazioni in tumulti,
per mezzo di agenti provocatori, e i tumulti in rivoluzioni per mezzo
di cannonate contro castelli in aria, è anche rivelazione d’insipienza
politica».

Così scrive saviamente e onestamente un ex sottosegretario di Stato e
non c’è da aggiungere che questo corollario: chi commette un eccesso
di difesa è colpevole in diritto privato e merita una condanna — anche
lieve. Non può essere diversamente in politica, dove dal diritto
privato, male a proposito, è stato trasportato il principio della
legittima difesa[53]. In Italia, nell’anno 1898 — in altri tempi le
cose procedevano diversamente: lo vedremo — ai colpevoli anzichè pena
toccò in sorte l’apoteosi: l’abbiamo visto. Di più: gli strumenti
principali dell’eccesso di difesa, i militari, furono chiamati a
giudicare le vittime!

Era possibile, era umano supporre, che essi sarebbero stati imparziali
nella causa propria?

Intanto, per assurda ipotesi, si conceda che non ci sia stata
sproporzione tra i tumulti e la repressione; che non ci sia stato
l’eccesso di difesa esplicitamente ammesso dal Galimberti. Accettata
questa ipotesi, sorge il dovere di un’altra disanima: perchè
gl’italiani si abbandonarono alla sommossa?

In nome del diritto della difesa dello Stato si può ammettere che i
rivoltosi, i tumultuanti siano anche impiccati; ma più che nel nome
della giustizia, in quello della sapienza politica e della vera ragione
di Stato, bisogna ricercare quali furono le cause che spinsero i
cittadini al tumulto, o alla rivolta.

Questa indispensabile ricerca causale ha doppio interesse: 1.º assegna
la vera responsabilità — massime in coloro, che col loro mal governo
resero fatale la ribellione; 2.º provvede per lo avvenire: uomini
veramente di Stato, infatti, non si contenteranno del ristabilimento
momentaneo dell’ordine materiale, ma penseranno ad eliminare le
cause che provocarono i tumulti, affinchè questi non si riproducano
a scadenza più o meno lontana. Poichè, come ha riconosciuto un
pubblicista dei più devoti alle istituzioni, «le cause delle ribellioni
non sono mai negli uomini, ma nelle _cose_; e ogni provvedimento,
giudiziario o di polizia, contro gli uomini, non serve a nulla, finchè
le cose restino dopo, quali erano prima degli avvenimenti» (RASTIGNAC).

La causa occasionale degli ultimi dolorosi avvenimenti è nota: il
rincaro fortissimo del prezzo del pane. Questo fenomeno, però, non fu
che la scintilla, la quale dette fuoco alle mine preparate e pronte.

La causa occasionale, del resto, in sè e da per sè era bastevole a
produrre i più gravi perturbamenti; poichè il caro del pane fu davvero
straordinario: arrivò a 54 centesimi il chilogramma a Soresina; da 50 a
60 in Napoli. L’efficienza di questo prezzo elevatissimo del principale
alimento degli italiani — alimento quasi esclusivo nelle masse
del mezzogiorno — potrà valutarsi al giusto ponendo mente a queste
circostanze: 1.º salari bassi; 2.º disoccupazione prevalente; 3.º
consumo del pane scarsissimo, anche prima del suo rincaro. Nel 1895 il
consumo giornaliero del grano era in Italia di grammi 330 per abitante,
mentre elevavasi a grammi 533 in Francia[54]. Figuriamoci se non si
doveva trattare di vera fame nel 1898 quando il prezzo del pane venne
raddoppiato!

Ma se il pane divenne carissimo in Italia, perchè prendersela col
governo e coi municipi? Le folle furono guidate dall’intuito, che non
le ingannò: le imposte dirette ed indirette di ogni genere che governo
e municipi fanno gravare su di un quintale di pane, rappresentano il
42,85% del suo prezzo totale. (FIORETTI).

Nè si dica che questo abbandonarsi ai tumulti ed alle sommosse per
il prezzo e per la scarsezza del pane, cui si riduce nella sua più
semplice e genuina espressione il disagio economico, sia propria
caratteristica degli italiani: i famosi anglo-sassoni subiscono la
stessa influenza ed agiscono alla stessa guisa degli italiani quando
stanno male economicamente. Uno dei protagonisti del _cartismo_,
lo Stephens, diceva che il movimento non fu solo politico, ma fu
sopratutto una _quistione di forchetta e coltello_. E più di recente,
celebrandosi il 60.º anniversario del regno di Vittoria, un altro
scrittore constatava: «John Bull al verde è il più persistente dei
malcontenti e svolge principi politici — ma sempre con un occhio volto
agli affari futuri. Ma quando è sazio di carne e di birra, ha poche
idee e la sua soddisfazione è completa.»[55].

Altri, riferendosi a questi avvenimenti del 1898 esclusivi dell’Italia,
giustamente osserva: il nostro paese è assai sciagurato, è il solo in
cui fenomeni economici comuni a tutta Europa abbiano una ripercussione
così terribile; altrove, mali come questi si sopportano e si tollerano:
da noi divengono insopportabili e intollerabili e provocano alla
disperazione. Una crisi economica genera subito qui una grande miseria
e la miseria genera un movimento tumultuario e folle che lungi dal
diminuire il male, lo fa più acuto e lo aggrava di mille doppi; quale
speranza di posare, di respirare, di risorgere possono nutrire regioni
intere in cui la vita normale, il lavoro, i commerci sono sospesi?»

Così il Deputato Oliva nel _Corriere della Sera_ (1898 N. 122).
Poteva aggiungere che tumulti per il pane non ce ne furono — almeno
nelle proporzioni dell’Italia — nemmeno nei paesi, nei quali, sotto
la pressione del forte rincarimento del prezzo dei cereali, i governi
rifiutaronsi ad abolire, anche temporaneamente, il dazio doganale sui
medesimi.

La ragione per cui una crisi economica comune a tutta l’Europa produce
soltanto in Italia effetti che non produce altrove, è chiara, evidente
e nota da alcuni anni: da noi questa crisi rappresenta la goccia,
che fa traboccare il liquido dal vaso; non è una vera crisi, ma la
fortissima riacutizzazione di una grave malattia cronica preesistente.

Di una condizione economica morbosa della Italia veramente eccezionale
si conoscono da tempo gl’indici diretti ed indiretti — analfabetismo,
delinquenza, contrazione di consumi, espropriazioni per inadempiuto
pagamento d’imposte, emigrazione, ecc., ecc. — e fu cecità dei nostri
uomini di governo e delle nostre classi dirigenti il non avere tenuto
conto degli ammonimenti severi ed inesorabili, che venivano fuori da
tutte le pubblicazioni statistiche ufficiali del Comm. Bodio e dei loro
illustratori.

Non c’era bisogno di attendere i tumulti di Sicilia del 1893-94,
nè quelli del resto d’Italia, per prevedere che ogni ulteriore
aggravamento del disagio economico esistente — ogni altro accidente
che presso popoli in condizioni normali sarebbe passato inosservato,
fra noi avrebbe prodotto conseguenze gravi, che all’osservatore
superficiale sarebbero sembrate sproporzionate alle cause[56].

I fatti recenti — tumulti di Sicilia, dei Castelli romani, ecc. —
aprivano gli occhi anche ai ciechi; figuriamoci a coloro che avevano
scienza e coscienza delle vere condizioni economiche dell’Italia!

Egli è così che un conservatore liberale vero e sincero, quale
il Marchese De Viti De Marco, nell’Ottobre 1897 spiegava col
generale malessere economico quei fenomeni. E l’eminente professore
dell’Università di Roma soggiungeva: «La politica del governo va in
cerca dei _sobillatori_; invece è dessa che crea i pericoli.»[57]

La miseria dei lavoratori era trovata eccessiva e tale da non trovare
riscontro in Europa se non in Irlanda, sin da quando Stefano Iacini
— quale sobillatore! — scriveva il prezioso _Proemio all’Inchiesta
agraria_. D’allora ad oggi la situazione, specialmente pei contadini, è
peggiorata.

Quale si era ridotta la situazione giova conoscerlo dalla confessione
consacrata in un documento ufficiale ancora più prezioso del _Proemio_
di Iacini. Eccolo: «Il progressivo e costante aumento dell’emigrazione
che in un decennio ascende all’altissima cifra di 2,391,139, come si
rileva dal prospetto qui unito desunto dall’annuario statistico del
1895, la permanenza delle cause che ingenerano le manifestazioni di
questo fenomeno sociale, e cioè il malessere profondo che affligge
l’economia nazionale, la depressione generale dell’agricoltura e
dell’industria, dovuta a ragioni di concorrenza mondiale e alla
mancanza di capitali disponibili a miti condizioni per l’insufficienza
del risparmio nazionale, la miseria dolorosa di alcune popolazioni
agricole, la sovrabbondanza di lavoratori avventizi ognor crescente
di fronte allo estendersi dei latifondi, alla soppressione dei grandi
lavori pubblici, l’aumento stesso troppo rapido della popolazione
povera, sono fatti di così grave importanza etico-sociale, che esigono
la più alta e profonda considerazione da parte del governo.»

Chi è dunque quest’altro pericoloso anarchico, meritevole del domicilio
coatto, che denigra l’Italia in faccia al mondo? L’on. Di Rudinì!
Col brano sopra riportato, comincia, infatti, la relazione al disegno
di legge: _Costituzione dei Comuni rurali e delle borgate autonome_,
presentato alla Camera dei Deputati nella seduta del 13 Aprile 1897....

Potrei centuplicare le citazioni delle previsioni e dei giudizî
analoghi al precedente, se non temessi di annoiare; ma non so
resistere alla tentazione di riprodurre un brano di un discorso
ispirato pronunziato da Giustino Fortunato in mezzo alla religiosa
attenzione della Camera: «Io sono stato lungamente l’autunno scorso,
diceva il rappresentante della Basilicata, in un angolo remoto del
nostro Appennino, ove ho molto guardato intorno, molto osservato,
molto ascoltato in tutte le classi sociali; ci sono tornato durante il
periodo elettorale, e a me corre l’obbligo di dirvi _che noi dormiamo
sopra un vulcano!_ I lavoratori della terra nell’Italia meridionale,
_che nulla sanno di repubblica, nè di socialismo_ non hanno bisogno
di essere agitati dalla propaganda dei partiti estremi _perchè essi
sono già abbastanza agitati e sospinti alla disperazione per conto
loro_; i lavoratori della terra tacciono laggiù, perchè credono di
essere ancora deboli, ancora impotenti contro un ordine politico, la
cui funzione principale è quella dell’esattore, la cui organizzazione
tributaria rasenta il regime della confisca. _Ma c’è nell’aria qualche
cosa di quell’afa che annunzia e precede gli uragani, qualcosa, non
so, come una tempesta sorda di odii e di rancori, che non può, a quanti
aborrono, come io ne abborro, dalla violenza e dalla lotta di classe,
non farci paventare e prevenire il pericolo. Il_ =disagio economico=;
_questa è la vera debolezza d’Italia; questa la sola forza dei suoi
nemici_. E la scienza politica non è così miseramente superba, che
debba, io credo, non solo rifiutare gli avvertimenti, ma sdegnare
financo gli avvisi»[58].

Nelle parole di Giustino Fortunato che furono materialmente ascoltate
con attenzione ed anche con emozione, c’è qualche cosa di fatidico;
ma le parole non si tradussero in quella forza affettiva, che conduce
all’azione; ed ebbero egual sorte di quelle pronunziate da me il 31
Gennaio 1893 all’indomani della strage di Caltavuturo.

Il discorso del Deputato di Melfi è del Maggio 1897, quando non era
sopraggiunta e non era prevedibile la crisi eccezionale del pane,
quando non erano scoppiati i moti dei Castelli Romani e meno ancora
erano alle viste quelli delle Marche (Ancona, Sinigaglia, Macerata,
ecc.); ma non c’era bisogno di questi ultimi svegliarini per sentire
ch’era tempo ed era dovere di cittadino e di politico il dare il grido
di allarme, perchè la condizione generale, che andavasi maturando da un
pezzo era evidentemente disastrosa.

La visione chiara di tale situazione non l’avevano soltanto gli
studiosi solitari, che hanno agio di ricercare i dettagli e l’insieme
ad una volta, ma s’imponeva anche agli uomini di governo ai quali
spesso, per voler guardare lontano e nel complesso, sfugge la
percezione esatta della realtà e non si accorgono delle piccole
magagne, che, talora all’improvviso, fanno scoppiare una caldaia e con
essa tutta la macchina dello Stato.

Per citarne pochi ed autorevoli, ricorderò che ebbe questa percezione
esatta della realtà Ruggero Bonghi — un ex ministro di _destra_ —
che nel monito famoso dato al _principe_ avvertiva: «Il pericolo
di offendere le istituzioni attuali in Italia è maggiore che in
Inghilterra perchè l’Italia è messa insieme appena da un terzo di
secolo, malamente cementata, vanamente inquieta, conquassata da
dolori di ogni sorta, ma tutti pungenti, economicamente disagiata,
finanziariamente squilibrata, incerta in tutte le istituzioni sue
civili e sociali, incalzata dal disavanzo, ed esitante o divisa tra
il mantenere alleanze che le pesano o scioglierle con pericolo di
essere minacciata da altre parti. E questo forse è peggio: _che ciò
che altrove è effetto di ricchezza mal distribuita_, =qui è effetto di
miseria ugualmente distribuita=.»[59].

Da Bonghi a Saracco, dalla _destra_ alla _sinistra_, da un temperamento
e da una origine tanto diversa nell’uno e nell’altro, il salto è
grande; ma a quattro anni di distanza, il secondo riesce alla esplicita
conferma del giudizio del primo; e vi riesce con una dimostrazione che
si può risparmiare ai lettori, perchè viene magnificamente riassunta
nel titolo dell’articolo: _Siamo poveri o non siamo?_[60]

Lo stesso Saracco, immemore di essere stato compagno al governo di
Francesco Crispi che colle sue follie militari era stato causa precipua
del dissesto finanziario dello Stato ed economico della nazione, in
una critica mordace delle illusioni e dell’ottimismo di Luigi Luzzati
sul _fondo di sgravio_, dopo aver detto che le _leggi in Italia si
fanno per ingannare il prossimo_, riesciva a questa conclusione ultra
sobillatrice: «Che dire della serietà di queste promesse, innanzi ad
un programma che le mette tutte bravamente a dormire? Non sarà ancora
il _protesto_, ma sarà per lo meno la _moratoria_, che precede il
_fallimento_. Ora i popoli sono pazienti, ma non sopportano a lungo di
essere ingannati»[61].

Certamente questo è un linguaggio che se fosse venuto da un
repubblicano o da un socialista, sarebbe stato ritenuto un eccitamento,
una preparazione alla ribellione; ma, ripeto, esso corrisponde
alle verità. Va notato altresì, che la condizione del bilancio, se
direttamente riguarda lo Stato, rimane un indice eloquente della
condizione economica della nazione: l’instabilità o il _deficit_
dell’uno rispecchia la corrispondente situazione dell’altra[62].

Alle illusioni sul bilancio dello Stato fanno riscontro quelle del
risparmio nazionale, che dà luogo a tante volate liriche, basate
esclusivamente sull’aumento dei depositi delle Casse di risparmio
ordinarie e postali. Su questi aumenti in generale deve osservarsi,
che sono un fenomeno naturale derivante dall’aumento parallelo della
popolazione e dello spirito di previdenza che comincia a penetrare da
per tutto e induce molti a collocare a tenui interessi quel peculietto
che prima tenevano nascosto nel fondo di una cassetta; nonchè della
sfiducia crescente in altri istituti ed in altri impieghi. Infatti
l’aumento nelle casse di risparmio ordinarie in lire 277 milioni dal
1886 al 1896 e di lire 205 milioni in quelle postali dal 1886 al 1894
ha la sua dolorosa contro partita nella diminuzione di lire 514 milioni
di altre Banche e società di credito dall’anno 1886 al 1894 per alcune
e 1895 per altre[63].

I calcoli e le previsioni degli uomini di governo, colla piccineria
reale o immaginaria della nostra vita politica, si possono supporre
suggeriti da quel pessimismo che viene dalla nostalgia del potere,
quando se ne è lontani. Se così fosse, potremmo contentarcene; ma pur
troppo ci sono i dati statistici obbiettivi che vengano dal Bodio o
dal Mulhall, riescono alla stessa conclusione: alla miseria nostra
assoluta, umiliante, messa al confronto colla ricchezza di altre
nazioni. Egli è così che il Prof. Federico Flora — un avversario deciso
del socialismo — poggiandosi sui dati del Bodio e capitalizzando i 54
miliardi di ricchezza totale della Italia al 5% assegna un reddito
medio per ogni famiglia di lire 350 all’anno: _reddito buono a
lasciarci morire di fame_, egli soggiunge[64].

Questa dolorosa condizione economica si connette intimamente — in
gran parte sta con essa in relazione di causa ed effetto — col regime
tributario italiano, che pare fatto apposta per assottigliare lo scarso
reddito, per impedire la formazione di capitale riproduttivo, per
iscoraggiare le industrie nuove. Un rapido sguardo al nostro meccanismo
finanziario ed alla sua funzione, tradotti in poche cifre, vale più di
molti lunghi discorsi e di qualunque elegante dimostrazione[65].

  =Ricchezza privata=                    =Per capo=

  Quinquennio 1873-77 Miliardi 42,2       L.  1507
        »     1888-92    »     54         »   1768
  Aumento                      28%            17%

  =Spese pubbliche=                      =Per capo=

  Quinquennio 1873-77 Milioni  1133       L.   40
        »     1888-92    »     1626       »    52
  Aumento                       40%            30%

In Inghilterra il rapporto tra la spesa e la ricchezza è di 1/77; in
Francia di 1/68; in Italia di =1/32=. E più chiaramente: supponendo una
ricchezza di L. 10,000 sulla medesima un inglese pagherebbe L. 130, un
francese L. 147, un italiano L. =307=. (FLORA).

A più amare riflessioni dà luogo la ripartizione del prodotto delle
imposte: la spesa.

Nel bilancio del 1895-96 figuravano:

  Spese per debito pubblico  Milioni  685  il  42,5  %
    »   militari                »     443   »  27,5  %
    »   di riscossione          »     160   »  10    %
    »   per servizi civili      »     318   »  20    %

Si apprende in questa guisa che le spese improduttive rappresentano
l’80%; mentre per le produttive non resta che il 20% (FLORA). Se si
pensa che nelle spese dei servizi civili ci sono quelli che rendono
— ad esempio poste e telegrafi — si scorgerà che la quota reale
della spesa pei servizi civili è inferiore a quella sopra indicata;
che era del 33% nel 1862. Evidente dunque il continuo peggioramento
sotto questo aspetto: la contrazione delle spese pei servizi civili —
specialmente nei lavori pubblici — spiega il crescente fenomeno della
disoccupazione. (CONIGLIANI).

Ma su chi pesano maggiormente le imposte che alimentano le spese
pubbliche così malamente ripartite? Ecco il lato più doloroso della
questione. Le cifre confermano la sintesi esposta altra volta dall’on.
Giolitti, e cioè: che in Italia c’è una progressione tributaria al
rovescio. Infatti sui 1361 milioni, che rendono i tributi — imposte sui
terreni, sui fabbricati, sugli affari, consumi e lotto — 731 milioni
pesano sui meno abbienti e sulle classi lavoratrici (FLORA) ond’è che
rimangono completamente giustificati questi giudizii manifestati da due
eminenti economisti appartenenti a due scuole diverse: «È cominciato
un moto di reazione generale contro un _sistema tributario selvaggio_.
Tutti gli interessi antagonistici delle classi dirigenti si rimettono
di accordo quando si tratta di scaricare sulla massa dei consumatori
una valanga di balzelli incivili e per affidare ai _pezzenti_ il
patriottico compito di tenere in pareggio il bilancio». (DE VITI DE
MARCO). La disonestà, pari soltanto alla impreveggenza delle classi
dirigenti, rese addirittura intollerabile la condizione delle classi
lavoratrici. «Nei Comuni si può, sotto l’egida delle leggi, col
beneplacito dell’autorità tutoria, dare ascolto alle clientele locali,
alle coalizioni di vergognosi interessi aggravando la mano sui più
deboli contribuenti,» (CONIGLIANI)[66]. L’iniquità tributaria così è
completa: comincia per conto dei Comuni e si completa per conto dello
Stato.

Ma vi sono sofferenze e sofferenze; variano per la intensità da una
classe all’altra, dall’una all’altra regione.

Dove sono stabilite delle industrie importanti e che rivestono il
carattere della moderna grande industria, non si può negare una
relativa prosperità non ostante la _intransigenza_ e la _pedanteria
del fisco_, stigmatizzata fieramente da un ex ministro del Tesoro,
che spesse volte la costringe ad emigrare[67]. Ma le miserie
incommensurabili si riscontrano nelle regioni agricole; perchè il fisco
italiano pare che abbia preso di mira specialmente l’agricoltura: con
questa c’è la morte. I dettagli di questa persecuzione del fisco contro
l’agricoltura sono scandolosi; ma qui basta ricordare i termini estremi
di questo esoso e pazzesco fiscalismo. Mentre la terra tra tributi
erariali e locali, paga il 16 per cento in Francia, il 15 in Germania,
dal 13 al 20 in Inghilterra, in Italia le imposte assorbono dal =30= al
=50= per cento del reddito prediale (FLORA). In conseguenza di questo
brutale sistema l’Italia vince il _record_ nelle espropriazioni per
causa d’imposta: ci furono _sessantaquattromila_ vendite d’immobili
rustici ed urbani dal 1 gennaio 1884 al 31 dicembre 1895, cioè 567
espropriazioni per ogni 100 mila abitanti e per ogni 3000 proprietari.
Il 18,90% dei proprietari è stato espropriato! Queste cifre divengono
più imponenti quando si considera: 1.º che nel 1895 il 76 per cento
dei beni espropriati rimase aggiudicato al demanio, perchè non
trovò acquirenti; 2.º che nel 62,49 per cento dei casi il prezzo di
aggiudicazione dello immobile espropriato fu inferiore a 50 lire. Sono
cose orribili e vergognose, esclama il Fioretti[68].

E lo stesso Fioretti saviamente osserva che più iniqua dell’imposta
fondiaria riesce l’imposta agraria di ricchezza mobile sopratutto,
perchè nelle campagne e nei piccoli centri nulla sfugge all’occhio
linceo del Fisco, mentre nelle grandi città si può fortunatamente
calcolare che almeno il 50 per cento del reddito tassabile sfugge
all’imposta. È questa una fortuna singolare, egli soggiunge; se
fosse altrimenti, la vita economica dell’Italia sarebbe materialmente
strozzata da un giorno all’altro[69].

Con ciò rimane dimostrato che l’antica affermazione del De Laveleye
sul collettivismo fiscale non è una immagine rettorica, ma una
rigorosa realtà, che induce il Flora e il Fioretti a riconoscere che
il vero nemico della proprietà privata in Italia è lo Stato e non il
collettivismo; il primo fa fatti; il secondo semina idee; il Fisco
rappresenta un pericolo presente; il collettivismo un pericolo futuro e
assai remoto[70].

Le maggiori sofferenze dell’agricoltura e delle classi agricole dicono
di primo acchito che il disagio economico dev’essere di gran lunga
superiore nel mezzogiorno d’Italia e nelle sue due maggiori isole.
Questo disagio maggiore vi è sottolineato: 1.º dalla più numerosa
emigrazione delle classi agricole; 2.º dai minori consumi; 3.º dal
maggiore numero di espropriazioni; 4.º dalla enorme sproporzione
nello accumolo dei risparmi. E mi fermo a questi soli quattro indici
diretti della condizione economica[71]. Essi bastano ad assodare
irrefragabilmente la miseria squallida del mezzogiorno prevalentemente
agricolo e la relativa agiatezza del settentrione prevalentemente
industriale; o dove, almeno l’industria è tanto prospera che rimargina
le ferite sanguinanti dell’agricoltura[72].

Queste diversità di condizioni economiche spiega tutta la fenomenologia
sociale diversa tra il settentrione e il mezzogiorno e dà la ragione
dei tumulti più frequenti, che si deplorano nella bassa Italia, sebbene
non vi esistano nè socialisti almeno organizzati come partito — nè
propagande socialiste e meno ancora repubblicane[73].

È la miseria maggiore, che spinge per fame ai tumulti; e la miseria
è determinata da un sistema tributario la cui rapacità supera quella
deplorata da Salviano; quella descritta da Vauban nella sua _Dime
Royal_ sotto l’_Ancien régime._ Nessuno si meraviglia più che siffatte
cause in Francia abbiano dato come risultato la grande rivoluzione
dell’89; c’è da meravigliarsi come non lo abbiano dato altrove. Lo
daranno in Italia, se non si muterà strada. Di ciò cominciano ad essere
convinti anche i conservatori.

Un conservatore dei più convinti qual’è il Fioretti, nel mezzogiorno
riconosce che gli ultimi moti sono stati l’espressione della profonda
crisi economica che travaglia la patria nostra; e la crisi alla sua
volta è determinata unicamente dalla enormità del nostro sistema
tributario. Di che, in teoria, pare che siano anche convinti i
conservatori lombardi.

La _Costituzionale_ di Milano, il 7 giugno 1898, votò un ordine
del giorno in cui invocava la _sollecita restaurazione degli ordini
economici ed amministrativi del paese affine di scemare il disagio che
lo affligge_.

L’on. Colombo in altra riunione della stessa associazione (17 maggio)
disse _disastrosissime le nostre condizioni economiche_. Non fu meno
severo l’onorevole Prinetti, parlando al _Circolo Popolare_ (20
Maggio), verso il Fisco e verso il nostro sistema tributario; ivi
e allora un Socio dello stesso circolo, l’Albasini Scrosati, disse
_profonda la miseria del paese_. Si commossero anche i giovincelli
dell’Associazione monarchica fra gli studenti che trovarono non solo
soverchiamente fiscale il nostro sistema tributario, ma anche gravante
in modo sproporzionato sulle classi meno abbienti[74].

Mi sono fermato sui giudizi dei conservatori lombardi con particolarità
perchè essi sono stati e sono i più rabbiosi nell’invocare ferro, fuoco
e galera contro i _sovversivi_; essi, perciò, erano i più interessati
nel diminuire l’importanza delle cause vere dei tumulti. Pure
l’evidenza si è imposta anche a loro e li ha costretti a confessioni
che suonano condanna severa dei loro metodi di governo; metodi di
governo che si riassumono nella esclamazione brutale, ma vera di Don
Albertario. «Ah! canaglie, voi date piombo ai miseri che avete affamato
e poi vi lanciate contro i clericali!»[75].

Concludo. Ci furono altri e veri responsabili degli ultimi tumulti;
coloro che li prepararono e li resero fatali: i governanti e le classi
dirigenti[76]. Chi pensa che quei tumulti potevano essere evitati;
chi pensa che non si ripeteranno se si continuerà nei vecchi metodi
di governo ignora la storia. La grande sobillatrice è stata e sarà la
fame; e in Italia il padre premuroso delle sobillatrice è il Fisco.

Ma i tumultuanti, si domanda, colla violenza migliorarono forse
la loro sorte? A questa domanda si può rispondere colla esperienza
politico-sociale; tutte le grande riforme economico-sociali, anche
nella stessa Inghilterra, furono precedute e provocate da tumulti
e da violenze. Il poco che si è ottenuto in Sicilia si deve alla
insurrezione del 1866 e ai tumulti del 1893; il poco che si è ottenuto
in Italia — alleviamento prima, ora abolizione del dazio comunale sulle
farine, la sospensione del dazio governativo sui cereali — si deve
ai tumulti del 1898! Così non dovrebbe essere; ma così è! I tumulti,
perciò, nuociono alle vittime; giovano alle collettività.

A chi biasima e condanna la violenza, che anche io biasimo e condanno,
ritorcendo l’argomento si può chiedere: forse furono permesse le
dimostrazioni pacifiche? forse i ministri non dissero ricca l’Italia e
capace di sopportare nuove imposte? forse la dimostrata irrefragabile
miseria indusse il governo a far senno?

E poi: sotto gli stimoli della fame si pretende che gli uomini
ragionino! Ma ragionarono mai le folle impulsive? e perchè avrebbero
dovuto ragionare in Italia, dove in quarant’anni nulla si fece per
elevarne la cultura intellettuale e morale?



XII.

LE CAUSE POLITICHE E MORALI


Ebbi occasione di avvertirlo: i tumulti, appena risalgono dal
mezzogiorno verso il nord e si ripetono a Milano, avviene un
perturbamento profondo nell’animo e nella mente dei monarchici tutti.
Essi non sanno o non vogliono rendersene ragione e mutano linguaggio
e dopo essersi confessati rei, perchè autori del malgoverno fatto
dall’Italia per quarant’anni, si fanno accusatori degli avversari
politici, alla cui propaganda sovversiva attribuiscono in Milano ciò
che in tutto il resto della penisola avevano attribuito all’azione
della collettività governante.

Spiegano e giustificano — spesso in buona fede — il mutamento
dell’attitudine colle condizioni economiche di Milano: non intendono
che Milano ricca e prospera possa abbandonarsi a quelle sommosse, che
altrove scoppiarono improvvisamente per fame.

Questo mutamento, che — è bene ripeterlo — non sempre è suggerito
dalla mala fede, più che ignoranza della storia e della scienza
politica, indica l’accecamento, cui tutti andiamo soggetti di fronte
a certi avvenimenti che ci scuotono profondamente e ci producono un
risveglio doloroso. La paura, il dispetto, la sorpresa, allora riescono
all’amnesia più o meno completa; pare che subiamo un improvviso tuffo
nel fiume Lete e così dimentichiamo ciò che la storia di tutti i tempi
e di tutti i paesi, a qualunque grado di civiltà, ci ha insegnato; e
il suo insegnamento chiaro e costante è questo: tumulti, sommosse,
insurrezioni, rivoluzioni spesso non traggono origine immediata
da cause economiche; e tumulti sommosse e risurrezioni precedono
e preparano quasi sempre le rivoluzioni. Sicchè governi e classi
dirigenti, che hanno interesse ad impedire le rivoluzioni, nei tumulti
dovrebbero scorgere degli avvertimenti salutari.

Riguardo all’etiologia di questi perturbamenti politico-sociali,
senza voler fare dell’ecletismo comodo, ma per semplice ossequio
alle realtà, ci si deve tener lontani tanto dalle esagerazioni del
Loria, che nei medesimi sempre scorge il _substratum_ economico se
non l’azione diretta ed immediata delle cause economiche; quanto delle
altre di Lombroso, che soverchiamente riduce l’influenza del fattore
economico contraddicendo alle teorie del determinismo economico.[77]
La verità è che i vari fattori sociali — economici, politici, morali,
intellettuali, ecc. — alternano la loro azione nella determinazione dei
perturbamenti politici di vario grado; e che tutti, poi, essendo tra
loro intimamente connessi, non riesce agevole scinderli ed assegnare a
ciascuno di essi l’efficienza precisa ed esclusiva.

Queste considerazioni si applicano a rigore di termini ai tumulti
di Milano; i quali inducono a ricercare se nella _capitale morale_
d’Italia, in mancanza delle cause economiche, non avessero potuto agire
le cause politiche e morali.

La ricerca sulle condizioni politiche e morali del regno va preceduta
da qualche osservazione che ha speciale importanza tra noi.

L’influenza delle condizioni politiche e morali, alcuni, a torto,
vorrebbero deriderla e metterla in cattiva luce sotto il nome
d’idealismo politico; certo è che tutti, anche i derisori, s’inchinano
riverenti verso le manifestazioni di questo idealismo, quando si
constatano in casa altrui o si riferiscono a tempi remoti. Così tutti
leggono ammirando ciò che Louis Blanc scrisse nella sua magnifica
_Storia dei dieci anni_ sulle cause essenzialmente politiche e morali,
che determinarono in Francia le due rivoluzioni del 1830 e del 1848.
Giuseppe Zanardelli, con parola elevata ed opportuna, nella Camera dei
Deputati, onde stigmatizzare le violazioni dello Statuto perpretate
da Crispi nel 1895 ricordò, per lodarla, la resistenza del Parlamento
e del popolo francese agli arbitri di Carlo X e del suo ministro
Polignac, resistenza che doveva fatalmente condurre alle barricate
di Luglio. Ed è caratteristico, che le barricate di Febbraio 1848 in
Parigi ebbero a pretesto la proibizione dei banchetti elettorali, in
risposta sdegnosa al materialismo volgare di Guizot, che da Lisieux
aveva gridato ai francesi: _arricchitevi!_ quasi a distorli da ogni
preoccupazione di ordine politico e morale.

Non basta. Quanto più le rivoluzioni sembrano sottrarsi alla
influenza delle cause economiche, dei disprezzati impulsi partiti
dalle contrazioni dello stomaco, tanto più esse vennero esaltate e
glorificate da poeti e da storici, da romanzieri e da politici come la
espressione ideale dei più nobili sentimenti umani. Questa esaltazione
per oltre cinquant’anni formò specialmente tutta la educazione politica
e intellettuale degli italiani; e ad essa consacrarono le forze i
migliori ingegni del paese, che fecero fiere campagne contro coloro
che, immemori delle origini e delle vicende dello Stato italiano, i
precedenti rivoluzionarî, con tutti gli annessi martiri ed eroismi,
non tennero abbastanza in onore. Chi lo crederebbe? Anche oggi alcuni
contro i socialisti non sanno scagliare altra accusa se non quella di
sacrificare tutto al culto della materia!

«Se una suggestione più vicina ha potuto favorire l’irreparabile
esplosione di malcontento, scrive il Ciccotti, lo si può e deve cercare
altrove che non nella propaganda socialista.

«I fasti della rivoluzione borghese italiana rigurgitano di congiure,
di rivolte, di resistenze continue e violente: e il trionfo di quel
movimento rivoluzionario ha portato all’apoteosi di tutti questi
episodi.

«In ogni città d’Italia si trovano lapidi e monumenti eretti per
glorificare quei fatti. Lo stesso regicidio è glorificato nella persona
di Agesilao Milano, e una forma di attentato, che in altri casi destò
tanta indignazione, ha avuto anch’esso il battesimo della gloria
nei nomi di Monti e Tognetti, cantati da poeti di grido (Carducci),
raccomandati all’ammirazione dei venturi perfino su mura di pubblici
edifici.

Il cinquantesimo anniversario del 1848 ha riportato quest’anno, in
folla, la rievocazione e il riconoscimento ufficiale del diritto di
rivolta.

«Già, parecchi anni addietro, il re aveva contribuito all’erezione di
un monumento a Giuseppe Mazzini, condannato a morte un tempo sotto la
monarchia[78].

«Quest’anno le barricate del quarantotto sono state commemorate,
festeggiate, ribenedette, in adunanze ufficiali da senatori e
conservatori di ogni calibro.

«Un senatore, già ministro e vice presidente del Consiglio superiore
dell’istruzione, ha pubblicato con accompagnamento di parole laudative
e pietose in una rivista le memorie dell’ex deputato Polti dei Bianchi,
che organizzò il moto abortito del 6 febbraio 1853: e quella congiura
segreta si proponeva — come lo stesso Polti dice — di pugnalare
all’impensata sulle vie i soldati austriaci, di sterminarli con bombe,
di fomentare la diserzione e i tradimenti nella loro fila»[79].

Nulla c’è adunque di più illogico in Italia quanto il biasimo inflitto
dalle attuali classi dirigenti a coloro che cercano nella violenza la
soluzione dei problemi politico-sociali, la via per porre termine ai
tormenti che subiscono. Si risponde dai rivoluzionari antichi, chiamati
volgarmente _quarantottisti_, che bisogna sempre saper distinguere;
ed è giusto infatti, che respingendo l’assoluto, si esamini se le
condizioni che giustificarono la rivoluzione contro gli antichi regimi
sussistano ancora per ispiegare i moti contro l’attuale. È l’esame cui
si procederà ora.

Ci è nota la condizione economica degli italiani odierni; la quale
certamente non è peggiore di quella di cinquant’anni or sono, ma è
più avvertita e resa più penosa dai cresciuti bisogni da soddisfare,
dai contatti più frequenti tra classi e classi, tra popoli e popoli
che suscitano maggior numero di desideri e che accrescono l’invidia e
l’aspirazione al meglio, che sono le grandi molle di ogni progresso.
L’istruzione maggiormente diffusa dà più chiara coscienza dei torti
che si subiscono e delle iniquità sociali esistenti e lo stesso senso
morale più evoluto spinge a proteste ed a tentativi per eliminare le
più stridenti ingiustizie.

Il criterio relativo, adunque, che s’invoca per le opportune
descriminazioni tra rivoluzioni e rivoluzioni, induce a ritenere che
psicologicamente oggi la rivoluzione dovrebbe essere più facile e più
giustificata.

Ciò dal lato economico. Il risultato non è diverso procedendo alle
constatazioni delle condizioni politiche e morali.

C’è un punto in cui la condizione economica stessa è il prodotto della
vita e delle condizioni politiche. La pressione tributaria schiacciante
ch’è tanta parte della miseria italiana è filiata dalla pessima
politica e dall’amministrazione ora pazza, ora disonesta. Le inchieste,
che rimontano se non erro, al 1865, assodarono tale sperpero del
pubblico denaro, che sarebbe stato sufficiente a gettare il discredito
e la diffidenza sullo Stato, che lo permise o meglio che ne fu l’autore
principale.

Il carattere generale precipuo della politica italiana nei suoi
rapporti colla finanza fu il difetto assoluto di coordinazione della
politica all’economia, della spesa alla ricchezza razionale; sul quale
non è uopo insistere perchè venne lumeggiato dai teorici dell’economia
— ultimi Pareto Flora e Conigliani — e dai politici non sospetti per
idee sovversive da Carmine e Colombo risalendo al marchese Alfieri
di Sostegno, a Stefano Iacini, che primo tale politica combattè come
megalomaniaca.

Questa politica disastrosa ha i suoi capisaldi: le pensioni, le
ferrovie, le spese militari. Le pensioni sono divenute un cancro
roditore; rappresentano oltre ottanta milioni all’anno nel bilancio;
e crescono dando luogo a scandali grossi e piccini — sia che si
riferiscono a cittadini che se la pappano nel fiore degli anni; sia che
si accumulino indebitamente su di una stessa persona.

Conseguenze più gravi sul bilancio ebbero le costruzioni ferroviarie.
I molti miliardi che costarono furono causa d’ira e di sdegno, più
che di critica obbiettivamente economica, tra gli economisti della
scuola ortodossa — e sopratutto da parte del Pareto e del De Viti;
spesso si dimenticò, però, che le spese ferroviarie che gravano sul
bilancio dello Stato, furono causa di risveglio e di prosperità per
la nazione. Il compenso vale la pena di essere messo in evidenza;
nè può dimenticarsi che la configurazione geografica dell’Italia
è tale che necessariamente rende poco remunerative alcune linee —
sempre indispensabili per debito di giustizia distributiva — le quali
però danno il loro contributo per rendere proficue le altre. Dove
la critica si appunta bene e mai abbastanza severa è nella quantità
della spesa e nei modi per procurarsi i mezzi per farla. Fra tanti, un
discorso parlamentare dell’on. Rava, dimostrò che coi metodi adoperati
dai finanzieri italiani per ferrovie e per altre spese si assunsero
prestiti che ci fanno pagare l’interesse su 100 mentre s’incassò poco
più di 50!

Come si siano spesi i quattrini che lo Stato ottenne a condizioni di
minorenne che fa cambiali a _babbo morto_, si apprenderà da queste
poche cifre: il preventivo della Novara-Pino da 20 milioni salì a
44: della succursale dei Giovi dai 21 ai 78: della Cuneo-Ventimiglia
da 38 a 91; della Faenza-Firenze da 40 a 77; della Parma Spezia da
46 a 119... La litania potrebbe continuare e i commenti potrebbero
essere più pepati ricordando che alcune di queste linee non sono
ancora complete. Queste cifre dicono che le nostre ferrovie avrebbero
potuto costare un terzo di meno se _onestamente_ costruite; e che la
spesa avrebbe potuto ridursi ulteriormente, se alla medesima si fosse
provveduto con intelligenza e prudenza. Non la spesa ferroviaria in
sè, dunque, va condannata — perchè se anche sproporzionata produsse e
produce del bene — ma il modo dello spendere.

La spesa militare sorpassa di gran lungo quella ferroviaria e con
minori risultati: gli _otto_ e più _miliardi_ assorbiti dall’esercito
e dalla marina dal 1871 al 1897 hanno lasciato indifeso lo Stato e
non gli hanno procurato nemmeno il conforto illusorio della gloria:
esercito e marina non possono ricordare che Custoza, Lissa e Abba
Carima — tre date, che rendono acutissimo il dolore della miseria
economica prodotta dalla loro preparazione; dolore che non può essere
lenito in alcun modo dalle _vittorie_ ottenute contro i contadini
inermi di Sicilia e di Molinella, contro gli operai del pari inermi di
Molinella o di Milano![80]

Era il Generale La Marmora, poi, che raccomandava di respingere i
consigli di coloro che credono o fanno credere che all’Italia non deve
bastare la sua indipendenza e la sua libertà e vanno predicando ch’essa
ha bisogno di _gloria militare_, perchè essi sono _scellerati_ e più
che scellerati, _assurdi_.... (_De Viti De Marco_).

Questa enorme sproporzione tra la potenzialità economica della Nazione,
la spesa militare e i risultati suoi fu messa in evidenza centinaia
di volte da scrittori ed oratori d’ogni colore; ma per ragioni facili
ad intendersi mi piace soltanto di far menzione del Jacini, del
Carmine, del Colombo — autentici ed eminenti conservatori lombardi;
l’ultimo, con coerenza che altamente l’onora, due volte abbandonò il
ministero del tesoro perchè si volle continuare nelle follie militari
connesse alla _triplice alleanza_, aggravate dalle follie coloniali.
Affinchè, poi, non si dica che la grettezza e la micromania del Colombo
non possono essere adottate a criteri direttivi della politica di
una grande nazione — stigmatizzata a varie riprese da sinceri amici
dell’Italia nuova, quali Gladstone, De-Laceluy, Castelar, soccorre
opportuno il giudizio di chi fu compagno di ministero del megalomane
tipico: Crispi.

Nel cennato articolo — _Siamo poveri o non siamo?_ — l’on. Saracco
scriveva: «non possiamo sovra tutto non dobbiamo dimenticare questo
vero, che _qualunque svolgimento di militare potenza che uno Stato
intende fare per il mantenimento della sua preponderanza politica,
affinchè non risulti precario ed artificiale, deve essere in armonia
colle forze economiche della nazione_».

La citazione non potrebbe essere più opportuna nel momento in cui si
parla _di 500 milioni_ da spendere per la marina!

Il popolo italiano, benchè incolto, avvertì le conseguenze economiche
delle spese militari: d’onde germogliarono sentimenti politici, ch’è
bene, a scanso di equivoci e di allarmi del Fisco, esporre colle parole
d’un monarchico convinto. «Si pensa che la monarchia costituzionale
da noi o diventa civile sul modello della inglese _o manca alla sua
missione nella terza Italia_; la monarchia civile sarebbe all’unissono
con l’interesse della gran massa dei contribuenti e porrebbe radici
profonde nel sentimento del popolo ch’è sempre monarchico; _la
monarchia militare si mette contro l’interesse della nazione_. Due
crisi extra parlamentari, che hanno eliminato dal governo, prima
uno e poi due ministri lombardi favorevoli alla riduzione delle
spese militari, hanno personificato e drammatizzato nella fantasia
popolare il contrasto tra la Corona e il Popolo. _Così il sentimento
antimilitare è divenuto poco alla volta_ =antimonarchico=». (_De Viti
De Marco_).

Pensioni, spese ferroviarie, spese militari, che ballano sinistramente
sullo sfondo cupo dello sperpero abituale e della malversazione
generale, hanno generato rapidamente l’enorme debito pubblico — i cui
_quattordici miliardi_ assorbono per interessi gran parte del bilancio
italiano, togliendogli ogni elasticità — sino ad impedirgli per molti
mesi la sospensione del dazio sul grano, reso inevitabile dalla fame,
— circoscrivendolo entro un cerchio di ferro, che costituisce la
corona di spine della nazione, la pompa perennemente aspirante delle
sue risorse. Così queste condizioni economiche generate dalla politica
hanno rigenerato il più profondo e giustificato malcontento politico.

Meno male se l’azione dello Stato avesse trovato un correttivo in
quella delle amministrazioni locali; ma queste hanno creduto bene
di modellarsi sul primo e ne hanno anche esagerato i difetti e gli
errori in tutto e per tutto, aggravando, rispetto ai Contribuenti, le
disastrose condizioni create dallo Stato[81]. Con questo in più: che le
malversazioni locali più note hanno suscitato maggiore risentimento;
che i balzelli si sono resi odiosi; che le passioni locali hanno
inasprito tutte le ferite antiche e recenti.

Che cosa fossero e quanto contribuissero a generare il generale
malessere economico, politico e morale, le amministrazioni locali
fu detto ripetutamente in Parlamento; e più di recente in occasione
dei moti di Sicilia del 1893-94 e della legge pel Regio Commissario
straordinario civile per la stessa isola in Luglio 1896[82]. Ma nessuno
con sintesi mirabile poteva e con maggiore autorità ne scrisse meglio
dell’attuale ministro dell’Interno. Proprio il Generale Pelloux in
una circolare ai Prefetti del Settem. 1898, rubando il mestiere ai
sobillatori, dice:

«Ho potuto nel mio breve soggiorno nelle Puglie nella scorsa primavera
e nei pochi mesi dacchè mi trovo alla direzione del ministero
dell’interno, rilevare che, in parecchie località, lo stato delle
cose lascia a desiderare.... La disonestà nella amministrazione
va colpita subito, senza misericordia, con tutta la severità delle
leggi.... E la disonestà nelle amministrazioni, bisogna pur dirlo, si
può manifestare e si manifesta sotto le forme più svariate: con ogni
sorta di abusi, a cominciare talvolta col colpevole favorire gli amici
e i congiunti mediante la creazione per essi d’impieghi non necessari;
colle destinazioni abusive di essi a posti che non potrebbero coprire;
col fare eseguire lavori, e permettere spese non necessarie, a solo
scopo partigiano, andando fino alle alterazioni delle liste elettorali
comunali; alle falsificazioni dei ruoli d’imposte a danno degli altri
(pur troppo anche talvolta a danno dai meno abbienti); al non esigere i
pagamenti dovuti alla amministrazione dai proprii amici; al creare così
contabilità artificiali che diventano presto indecifrabili e permettono
poi ogni specie d’inganni e di frodi; rasentando o toccando persino
talvolta l’appropriazione indebita collo storno dei mezzi destinati
al servizio pubblico, impiegandoli invece a scopo ben diverso. Se
ciò non si frena con tutto il rigore, con tutta l’energia che è del
caso, _invano si può tentare di sperare di fare argine alle dottrine
sovversive alle propagande ostili, le quali diventano tanto più facili
in quanto che trovano un terreno preparato a far germogliare le loro
idee_».

Meglio e più onestamente non si potrebbe dire; in quanto al fare è un
altra cosa. Si sa che tra il dire e il fare c’è il mare!

Ma rimane d’importanza capitale l’esplicita confessione del ministro
che sta a capo della feroce reazione contro i partiti avanzati: che i
veri e diretti responsabili dei tumulti non sono le vittime colpite.

Sta pure in fatto che i più volgari appetiti, le ambizioni più
sfrenate, i rancori più profondi in tutto il mezzogiorno soffiarono
e soffiano nel fuoco per fare divampare incendi dai quali tutti,
disonestamente sperano trarre profitto. E questi sciagurati provocatori
di tumulti sono stati quasi sempre i più insistenti nell’invocare
misure di rigore contro i _sovversivi_, che spesso furono soltanto
imprudenti e ciechi perchè non si avvidero che servirono di strumento
ai biechi fini altrui[83].

Intanto i veri colpevoli rimasero impuniti — talora premiati colla
conquista del municipio; le masse incoscienti furono massacrate; i
repubblicani, e i socialisti innocenti condannati alla reclusione
per discorsi o scritti di data remota e che non potevano esercitare
influenza diretta sugli avvenimenti.

Questa vita comunale e provinciale, che da se stessa — dati gli stretti
rapporti col potere centrale — deve reagire sulla vita nazionale,
per la grande ignoranza delle masse ha fatto accumulare odî contro
il governo; poichè tali masse per lo appunto tutte le sofferenze,
che loro vengono da cause locali, per la impossibilità in cui si
trovano di discernere con esattezza, le hanno addossate allo Stato.
Nell’errore sono state dolorosamente confermate dalle repressioni
largamente ordinate ed eseguite dalle autorità che lo rappresentano; e
in questa guisa, anche tutte le anomalie più o meno criminose di indole
locale sono andate ad accrescere il torrente impetuoso del malcontento
politico.

A frenarlo, ad inalvearlo per renderlo meno rovinoso, sarebbero occorsi
uomini di Stato di grande levatura al centro ed alla periferia; ma
certamente se l’Italia li avesse avuti, non sarebbe stata ridotta
così a mal partito come si trova oggi. I politici italiani, senza
distinzione di partiti — e sarei disposto ad aggravare la mano più su
quelli di _sinistra_ che di _destra_ — si sono chiariti impulsivi,
impreveggenti, preoccupati degli interessi individuali o di un
minuscolo gruppetto — che non diviene partito — senza alcuna grande
direttiva d’interesse collettivo, nazionale. Quando hanno sacrificato
se stessi ed hanno compiuto qualche atto di abnegazione — caso, del
resto, assai raro — il sacrifizio avvenne a beneficio della dinastia;
giammai della patria. Gli interessi veri dello Stato, quelli superiori
delle Società quasi mai ebbero il sopravvento nelle determinazioni dei
politici nelle cui mani rimase il governo per circa quarant’anni; e
quando gli interessi individuali furono posposti, giova ripeterlo, non
prevalsero che quelli dinastici[84].

Non faccio entrare nel novero dei fattori politici del malcontento
le violazioni ripetute, sistematiche dello statuto, l’adulterazione
sfacciata del regime rappresentativo e la riduzione al minimo delle
pubbliche libertà: sono notissimi, qui stesso vi si è accennato
più volte e basta a proposito di esse rammentare che _da soli_
determinarono in Italia e fuori rivoluzioni, che furono lodate ed
esaltate. Giova invece chiudere questa serie di considerazioni con un
cenno fugacissimo sulla politica ecclesiastica.

In quasi tutti gli Stati c’è un clero e c’è una religione, che
servono di cemento e che quasi sempre funzionano come strumenti di
conservazione. Ben diversa è la situazione in Italia; nè c’è duopo
rammentare per quali cause lo Stato si trovi in conflitto colla Chiesa
dominante. Ora è precisamente in questo conflitto, che si è mostrata
— fatta eccezione, è notevolissima, della sapiente _legge delle
guarentigie_ del 1871 — tutta l’insipienza e la bestiale indiscrezione
della politica italiana, che ha oscillato continuamente tra principî
cari a Zanardelli a quelli sottolineati da Prinetti colla sua visita
al cardinale Ferrari; contraddizione impersonata talora ed esplicatesi
clamorosamente a piccoli intervalli in uno stesso individuo, che ora
invoca Dio colla formula del più schietto legittimismo clericale ed
ora si affida a Crisostomo per dare consigli al Papato dopo avere
inneggiato alla Dea Ragione. Egli è così che clero e religione, che
altrove sono fattori di stabilità e di conservazione sui quali lo Stato
può contare, tra noi sono divenuti massimi elementi di perturbamento. E
meno male che in Italia è fiacco il sentimento religioso, e sono timidi
i clericali![85].

Il disagio economico, che arriva alla miseria vera, il dispotismo e
l’insipienza dei governanti talora si tollerano e si subiscono in pace
quando un soffio di moralità lambisce gli uomini e le istituzioni
e in qualche guisa li vivifica e li sorregge. Invece tra noi un
fermento putrido virulentissimo s’infiltra dappertutto e spinge alla
dissoluzione.

Il fermento putrido nulla ha risparmiato; dalla vita privata
si è riversato nella vita pubblica — che per comodità di molti
lojolescamente si vollero staccare; e quando nella seconda la sua
azione virulenta ha raggiunto il massimo d’intensificazione, è tornata
a devastare la compagine sociale.

Egli è così che nella delinquenza abbiamo il tristissimo primato che
in Europa nessun altro popolo ci può contendere[86]; e che questa
delinquenza, sotto forma larvata talora e tal altra più imprudente e
sovvertitrice perchè sicura dell’impunità, ha conquistato i municipi,
le provincie, gli uffici pubblici, tutto il complesso organismo dello
Stato. Le cifre delle statistiche penali documentano il primato della
criminalità; la storia di ogni giorno dei cassieri che scappano; degli
istituti che falliscono fraudolentemente; dei commendatori tratti in
arresto.... la storia della inchiesta sulle ferrovie meridionali nel
1864 — inchiesta misteriosamente scomparsa —, delle inchieste sulla
Regia interessata dei tabacchi e del relativo processo Lobbia....
delle inchieste sulla Banca Romana con relativi amminicoli; la _storia
meravigliosa_ sulla influenza che può esercitare un Costanzo Chauvet;
i discorsi da ministri e le relazioni parlamentari — per citare i più
recenti — di Saracco, di Prinetti, di Brunicardi sui lavori pubblici,
ecc., ecc., costituiscono il più doloroso pendant della delinquenza
privata e completano il quadro cupo della pubblica moralità che a
larghe pennellate, per quanto in forma solennemente ufficiale, ci
fece conoscere la circolare del Generale Pelloux sulle amministrazioni
locali[87].

Chi vuole avere un quadro rassomigliante al vero, ma sempre più bello
del vero, legga sulla degenerazione politica in Italia ciò che scrisse
Ruggero Bonghi per commemorare la breccia di Porta Pia[88]. E vorrei
possedere tutta l’autorità di cui godeva Ruggero Bonghi e vorrei
che in Italia si godesse quella poca libertà di cui si godeva ancora
nel 1893, per esporre altre considerazioni importantissime che egli
allora espose, rivolgendosi a chi di dovere, in quei famosi articoli
sull’_Ufficio e sul diritto del Principe in uno Stato libero_ e che gli
valsero la punizione per lui più dolorosa: l’ostracismo dal Palazzo del
Quirinale[89].

Ma se certi tasti oggi non è più lecito toccare senza riportare
gravi scottature, sarà lecito, però, ripetere ciò che opportunamente
disse testè Giulio Prinetti, togliendolo a prestito da Guizot: _nelle
monarchie moderne, che non discendono da Dio, la sovranità risiede
nella_ =giustizia=[90]. Or bene, ciò che manca assolutamente tra noi è
la giustizia!

Questa mancanza cominciò ad essere avvertita più di venti anni or
sono da Marco Minghetti in un libro, che rimase classico; ora non è
più da alcuno negata o attenuata e se ne discorre come del fenomeno
più pericoloso e meglio constatato. Sin dal principio della XIV
legislatura, il Re, nel discorso inaugurale dei lavori parlamentari,
promise provvedimenti per ristaurare il regno della giustizia; ma
ancora non c’è stato il tempo di prenderli. E senza la giustizia non si
sorregge alcuna società civile![91].

Il popolo, che conosce queste condizioni deplorevoli, diffida sempre
della giustizia legale e crede spesso di esercitare un sacrosanto
diritto facendosela da sè ed a modo suo: _more barbarico_.

È questo l’ultimo fattore di ordine politico-morale del presente
perturbamento italiano su cui ho creduto di dovermi fermare; ed esso
solo è tale da rendere possibile qualunque movimento violento inteso a
provvedere. Ed il popolo da gran tempo avrebbe provveduto, se in esso
la coscienza dei mali e del loro esatto rapporto colle cause vere che
li hanno generati non fosse ottenebrata dalla ignoranza crassa e dalla
deficentissima educazione politica; avrebbe provveduto, se ogni energia
non fosse stata fiaccata dalla lunga servitù ed esaurita da oltre
settant’anni di lotta per conquistare l’unità e la indipendenza della
nazione.

L’insieme di queste condizioni economiche, politiche, intellettuali
e morali quale è stato riconosciuto ed esposto dagli scrittori di
ogni colore politico in occasione degli ultimi tumulti,[92] spiega
esaurientemente la genesi di questi fenomeni, che mi piace segnalare
colla parola di tre uomini, dei quali nessuno metterà in dubbio la
devozione all’Italia, alla dinastia, alle presenti istituzioni.

1. Coloro che amano le istituzioni e vogliono conservarle in Italia
hanno poca fiducia in se stessi; e questa poca fiducia ne turba le
menti. La confessione amara è dell’on. Di Rudinì in una circolare del
Maggio 1898 a tutte le Autorità del Regno, in cui deplorava il malvezzo
delle continue richieste di truppa, nella quale soltanto scorgevasi la
salute.

2. Nel disagio pubblico, nel disordine delle istituzioni liberali
e nello aumento della immoralità si trovano le propizie condizioni
della cresciuta forza del brigantaggio e del clericalismo e della
_diminuzione_ del _sentimento unitario_. Ciò riconobbe Ruggiero
Bonghi[93].

3. «Le nostre popolazioni sono _malcontente e sentono disgusto di
un regime_, che le condanna ad una vita di privazioni e di stenti,
che possono talvolta apparire incomportabili». Questo è il giudizio
del Senatore Giuseppe Saracco, che viene ribadito da cento altri
pareri, altrettanto espliciti, e tutti di monarchici che constatano
con infinito dolore la diminuzione o la scomparsa della fede nelle
istituzioni[94].

Per dire come e perchè gli errori e le colpe degli uomini possano far
perdere la fede nelle istituzioni buone — le nostre sono eccellenti!
— occorrerebbe lungo discorso. Dal quale mi dispensa il parere
autorevole.... di Vittorio Emmanuele II. Fu il _gran re_ per lo appunto
che in uno dei discorsi della Corona saviamente ammonì: _I popoli
apprezzano le istituzioni in ragione dei risultati che danno_.

Che cosa abbiano dato le istituzioni sinora in Italia abbiamo visto:
i loro prodotti si assommano nel tumulto e nel delitto anarchico.
Questi risultati si devono all’opera costantemente sovvertitrice
degli uomini che ebbero in mano la cosa pubblica da quarant’anni in
qua;[95] e questi uomini meritevoli di gogna o di galera si sono eretti
a giustizieri ed hanno punito negli altri le colpe proprie: hanno
mandato alla reclusione coloro che altro reato non commisero se non
quello di denunziare e di stigmatizzare l’opera di sovvertimento delle
istituzioni da loro compiuta!



XIII.

LA CAPITALE MORALE


La ricerca sommaria sinora eseguita sarebbe bastevole per provare
che in Italia esistono tutte le condizioni politiche per rendere
intelligibile qualunque moto — anche improvviso, impulsivo e senza
scopo preciso — inteso a modificare uno stato di cose dichiarato
addirittura intollerabile dagli uomini eminenti che contribuirono a
crearlo. È chiaro, del pari, che se in Italia c’è una città o una
regione che per le condizioni politiche, morali, intellettuali ed
economiche si differenzia dal resto del regno — in questa città o in
questa regione più vivo e più intenso deve sentirsi il desiderio o
meglio il bisogno di un mutamento radicale. E deve sentirsi urgente
questo bisogno, se avvertite le disastrose condizioni delle altre
regioni, perchè deve sorgere spontaneo il timore che a lungo andare il
male comune intacchi anche le parti sane o meno ammalate. La differenza
constatata e la paura del male prossimo danno pure ragione di una
tendenza vaga ed indeterminata al separatismo o al rimpianto di una
riunione che si crede verificata a proprio danno.

Questa città, che riflette nelle linee generali le condizioni di tutta
la regione di cui geograficamente e storicamente è il centro, c’è:
Milano; Milano, da tempo chiamata la _capitale morale_ d’Italia, ora
con senso di ammirazione e d’invidia — ora con una ironia che nasconde
male la poca sincerità di chi la manifesta.

Ho avuto agio di deplorare che Milano soverchiamente si sia inorgoglita
della sua prosperità e che abbia misconosciuto quanto essa deve
alle altre regioni d’Italia, che apportano il loro contingente per
crearla[96]. Mentirei a me stesso se non riconoscessi che _Milano_
merita sul serio la fama buona di cui gode e il titolo di _capitale
morale_.

Le sue condizioni forse saranno inferiori a quelle di parecchie altre
grandi città del mondo civile; per lo insieme sono di gran lunga
superiori a quelle del resto d’Italia — non esclusa Torino che in
qualche cosa la supera.

Gli elementi giustificatori del buon nome di Milano sono numerosi;
ma prima di esporli sommariamente giova fermarsi sulla condizione
economica sua ed esaminare se cause d’indole strettamente economica,
quali furono quelle che determinarono i tumulti nel resto d’Italia,
potevano commuoverla.

La miseria generale ed intensa della penisola ha fatto comparire
maggiore la prosperità economica di Milano. Epperò di fronte agli
ultimi dolorosi avvenimenti parecchie cose sono da osservare:

1. Non è esatto che il benessere nella capitale lombarda sia così
grande e diffuso come si vuole far credere; la miseria vi è soltanto
minore, meno estesa che altrove. I salari degli operai della Ditta
Pirelli esposti dal cav. Calcagno innanzi al Tribunale militare
(udienza del 18 Giugno) provano che per la massa essi sono di gran
lunga inferiori a quelli delle grandi industrie europee, mentre gli
operai della Ditta Pirelli sono tra i meglio pagati d’Italia[97].

2. A Milano, per la minore miseria e per la fama di grassa e ricca
di cui gode e per le ristrettezze delle altre parti d’Italia, è
supponibile che in ogni tempo siano accorsi operai e spostati dalle
altre parti d’Italia a costituirvi l’armata di riserva degli affamati e
dei disoccupati. Non si dimentichi che la condizione dei contadini dei
dintorni è miserissima. Sicchè si deve prestar fede alla _Perseveranza_
(9 Maggio) quando dei tumultuanti scrive: «Le campagne dettero un
contingente di contadini laceri, scalzi, senza cappelli, dalle facce
stravolte...»

Che tra i tumultuanti il massimo contingente sia stato fornito da
elementi senza lavoro e residenza stabile, ce lo prova all’evidenza
una nota di cronaca del _Corriere della Sera_ che all’indomani della
breccia di Porta Monforte constatò che negli stabilimenti industriali
_quasi tutti_ gli operai il giorno 10 Maggio erano tornati al
lavoro[98]. Sarebbe stata impossibile questa generale ripresa del
lavoro cogli 80 morti, col migliaio di feriti e coi 2000 arresti
praticati, se ai morti, ai feriti e agli arrestati avessero dato
il loro contingente gli operai che stanno relativamente bene e che
lavorano regolarmente.

3. Infine si dimentica un canone di psicologia popolare, indiscutibile
oramai, ch’è questo: le influenze dei perturbamenti economici
regressivi si risentono più rapidamente e più intensamente dove
maggiore è il benessere; invece l’adattamento all’ambiente sociale
è tale tra i popoli caduti nell’abbiezione della miseria e della
ignoranza, ch’essi divengono insensibili a qualunque male nuovo e a
qualunque peggioramento di quelli esistenti. Inversamente cresce il
desiderio di benessere, di coltura e di libertà, in ragione diretta dei
miglioramenti conseguiti. L’osservazione è di Buckle e fu ripetuta da
Spencer e da Lombroso[99].

Perciò si mossero la Sicilia nel 1893 e la Puglia nel 1898 e rimasero
tranquille la Calabria e la Sardegna. Qui la miseria dura ininterrotta
da anni ed anni e le popolazioni che le abitano si sono adattate ad un
regime inferiore. Il passaggio rapido da un relativo benessere ad un
certo grado di miseria spingea a ribellione le prime. Questi principî
di psicologia collettiva, che trovarono la loro applicazione ripetute
volte, poterono agire a Milano come in varie altre contrade[100].
Milano, che aveva tumultuato il 1 Aprile 1886 per il dazio sul pane e
per le angherie degli agenti daziari, non poteva rimanere insensibile
quando il prezzo del pane subì nel 1898 un aumento di quasi il
50%[101].

A Milano, inoltre, come si disse, dovettero intensamente agire altre
cause, perchè Milano è la _capitale morale_. Che lo sia lo dicono le
cifre, che bisogna lasciar parlare. Cominciamo da quelle relative alla
base biologica, che con qualche confronto con quelle della maggiore
città del mezzogiorno, Napoli, serviranno a fare apprezzare più al
giusto la costituzione bio-sociologica della metropoli del Nord e di
quella del Sud[102].

L’aumento della popolazione nella capitale della Lombardia, se
non è vertiginoso come quello di alcune grandi città dell’Europa
settentrionale o degli Stati Uniti, è assai considerevole. Contava
351,941 abitanti nel 1885 ed arrivò a 441 nel 1895. L’aumento fu più
rapido tra il 1881 e il 1891 — da 314 a 414 mila abitanti; mentre
Napoli nello stesso tempo da 493 salì a 527 mila. In media a Milano
l’aumento fu di circa 10,000 abitanti all’anno, mentre a Napoli non
arrivò a 3000.

Questa prima ed enorme differenza acquista un significato economico
sociale interessantissimo quando si saprà che la natalità di Milano nel
1895 era molto ai disotto di quella media del regno: rispettivamente di
28,21 e di 38,67 per mille abitanti.

Questa natalità arriva alla cifra dei popoli orientali meno avanzati
in civiltà in Napoli: nel 1891 di 41,4 nel quartiere S. Lorenzo, dove
nel 1881 mantenevasi a 49,8. Questi altri dati, oltre l’influenza
esercitata dalla diversità delle condizioni economiche degli abitanti
delle due città, danno ragione in parte della differente mortalità:
a Milano, per l’igiene, la pulizia e il rinnovamento edilizio, si
spendono Lire 1318,80 per 100 abitanti; a Napoli si arriva a poco più
della metà, a L. 693.85.

L’aumento della popolazione, dunque, a Milano, come nelle altre città
civili, non è determinato da forte natalità, ma dalla sua minore
mortalità ridotta a 24,52 nel 1895 colla media del regno di circa 26
e di Napoli, che mantenevasi a 30,6 nel 1893. L’aumento dovuto alla
minore mortalità viene accresciuto dalla immigrazione, che fu di
10,511 nel 1885 e discese a 9545 nel 1895; inversamente l’emigrazione
tra gli stessi anni salì da 2944 a 3194. Queste ultime cifre sono
interessantissime, perchè dimostrano: 1º la quantità considerevole di
persone nate fuori di Milano, che nella ricca città vanno a prendere
dimora; 2º che il movimento ascenzionale della prosperità, a giudicarne
dalla diminuita immigrazione e dall’aumentata emigrazione, aveva già
cominciato a subire un arresto nel 1895.

Occorrerebbe una speciale monografia per illustrare la vita economica
industriale di Milano, che non è uguagliata da quella di verun’altra
città italiana; vi sarà agio di accennarvi un poco più in là, e qui
basta ricordare che la _Cassa di Risparmio_ costituisce l’indice
migliore della ricchezza della Lombardia. Gli ottocento milioni
all’incirca di depositi e risparmi della Lombardia rappresentano oltre
due terzi del totale spettante alle provincie meridionali come si è
visto in uno dei capitoli precedenti.

La superiorità di Milano è indiscutibile e considerevole dal punto di
vista intellettuale e morale. Milano spende L. 655,20 per istruzione
e L. 1,23 per culto ogni 100 abitanti; Napoli invece presenta queste
cifre: L. 354 e L. 19,67. Alle due spese corrispondono rigorosamente
i dati dell’analfabetismo e quei della superstizione, dimostrabili
colla statistica per la prima parte e riconoscibili soltanto dalla
cronaca per la seconda. A Milano, infatti, su 100 sposi, un poco
più di 16 non sanno sottoscrivere; più di 50 a Napoli. Quasi tutti i
ragazzi che hanno l’obbligo della scuola — 96 su 100 — la frequentarono
in Lombardia negli anni 1894-95; arrivarono a 63 nella Campania.
Aggiungasi che mancarono qui tutte, o quasi, le scuole e le istituzioni
complementari, che rendono meno illusoria l’istruzione obbligatoria.

In perfetta armonia coi dati economici e morali sono quelli morali
come si può rilevare da questo specchietto che si riferisce al triennio
1893-95. Per 100,000 abitanti:

                                       Milano   Napoli

  Reati d’ogni specie denunziati       1316     3984
  Contro il buon costume                 10,48    40,54
  Omicidi                                 3,02    28,35
  Lesioni violente                      101,61   511,30
  Reati contro proprietà                352,97   498,25

Milano supera tutto il mezzogiorno nel numero delle nascite
illegittime (10,2 per 100 nascite); ma si sa che questo è l’indice
meno significante della moralità pubblica; tanto che Torino, la quale
nell’insieme sta innanzi a Milano per la istruzione e pei reati, la
supera nelle quote degli illegittimi, con 14,1. Milano anche in uno
degli elementi più dolorosi, si rivela a livello delle regioni più
colte di Europa: nel 1895 ebbe 90 suicidi; non furono che 53 a Napoli,
con circa 90 mila abitanti in più.

Se dal lato negativo della statistica morale si passa a quello
positivo, in qualche modo rappresentato dalla beneficenza e dalla
previdenza, riscontriamo dati che armonizzano coi precedenti e
li spiegano. A Napoli si spendono L. 118,72 per 100 abitanti per
beneficenza pubblica ed a Milano 185,15. Ma queste cifre non danno che
una pallidissima idea dello spirito filantropico di Milano, in tutte le
sue classi sociali. Chi volesse rendersene conto, legga in _Appendice_
ciò che brevemente ci scrisse persona che conosce la _capitale morale_
e non potrà fare a meno di sentire per essa una viva ammirazione.

Accanto alla beneficenza sta la previdenza. Oltre il Monte di Pietà
e la Cassa di Risparmio, a Milano vivono o meglio vivevano, prima che
la raffica reazionaria le devastasse, oltre 160 associazioni di mutuo
soccorso tra professionisti ed operai di ogni specie. Si può assicurare
che i più umili mestieri e i più vari hanno la loro associazione di
mutuo soccorso; prima fra tutte l’_Associazione generale_, che ha un
capitale di oltre 600,000 lire e che per potenza economica e numero di
soci gareggia con quella di Torino; entrambi sono tra le pochissime in
Italia che reggono al paragone delle inglesi. Milano, colle sue diverse
opere di beneficenza e di previdenza, spende la bella somma di circa
otto milioni e duecento mila lire all’anno.

Floridissima e bene organizzata era la Camera del Lavoro, cui il
municipio aveva accordato un sussidio annuo di L. 10,000 e la sede
gratuita in via Crocefisso ed a cui facevano capo circa 120 sodalizi
che rappresentavano tutto il lavoro manuale e parte di quello
intellettuale — associazioni tra insegnanti, ecc. — Serviva come
intermediaria tra capitale e lavoro, tra l’offerta e la domanda di
lavoro e patrocinava gli interessi dei lavoratori.

L’opera sua fu sempre efficacissima e spesso compose degli scioperi o
li evitò; lo stesso Municipio in qualche occasione si rivolse ad essa.
L’ultima sua buona opera compiuta fu nello sciopero dei tramvieri,
che durò un sol giorno e terminò colla vittoria dei lavoratori contro
il Municipio e contro la società Edison. L’ira della reazione non la
risparmiò, non ostante che non avesse carattere politico.

E colla Camera del Lavoro possiamo passare alle associazioni
schiettamente politiche. Quelle di mutuo soccorso hanno ciascuna
una prevalente tendenza politica; l’_Associazione generale_, ad
esempio, è nelle mani dei monarchici moderati che se ne avvalgono ed
acquistano una influenza superiore alla loro forza reale. La norma
delle associazioni monarchiche è la _Costituzionale_ presieduta dal
nobile G. Visconti Venosta e dove si raccolgono i reazionari più
feroci, reclutati nell’aristocrazia e nella grassa borghesia: le sue
idee vengono rappresentate nella stampa della _Perseveranza_. Sono
monarchiche varie società fra militari ed alcuni circoli elettorali —
tra i quali un Comitato elettorale permanente nel terzo collegio, che
tra i principali capi di accusa contro i suoi avversari enumera quello
di essere appartenenti alla massoneria. Merita menzione speciale il
_Circolo popolare_, che vorrebbe un partito conservatore moderno ben
distinto dal reazionario, a cui appartengono Prinetti e Ambrosoli,
tra gli altri deputati; ma che sinora non è riuscito ad avere molta
fortuna; non ne ha avuto una maggiore l’_Associazione monarchica fra
gli studenti milanesi_.

Un tempo era potentissimo il Consolato Operaio schiettamente
democratico e che fu lo strumento della vittoria clamorosa della
lista democratica e repubblicana alla prima elezione generale a
suffragio allargato nel 1882. Fu battuto in breccia dai socialisti,
che gradatamente gli sottrassero molti importanti sodalizi e gli era
stato sostituito il _Tribunato dei lavoratori_, ch’era schiettamente
repubblicano[103]; e repubblicani erano molti circoli elettorali ed
altre società — compresa una d’irredenti ed altre fra gli studenti
raccolti nel _Fascio Carlo Cattaneo_. Repubblicani e democratici
potevano contare su di alcune società di mutuo soccorso, sulla _Società
democratica tra i Reduci dalle Patrie battaglie_ e sulle _Società
Reduci volontari garibaldini_.

Erano oltre venticinque le società e trenta gli oratorii cattolici,
nei quali stava la forza disciplinata del partito clericale. Alcune
organizzazioni avevano scopo esclusivamente elettorale e riuscirono
utilissime ai moderati nelle elezioni amministrative.

I sodalizi socialisti sembravano scarsi di numero; ma erano
mirabilmente organizzati e di una sorprendente attività. Alla
_Federazione socialista_, all’_Associazione elettorale socialista_,
al _Circolo di studi sociali_ facevano capo molti circoli — alcuni
prevalentemente elettorali — ed altre utili istituzioni, come il
Ristorante cooperativo di Ponte Seveso che riusciva efficacissimo per
la propaganda. L’organizzazione socialista era la più disciplinata e la
più forte: la sola che poteva competere col partito clericale. Nè la
disciplina veniva rotta dalle diversità della corrente che cominciava
a designarsi tra i moderati guidati da Turati e dalla Koulischoff, che
volevano accordi coi partiti affini, e gli intransigenti che di accordi
non volevano sapere in alcun modo. Gli uni e gli altri — moderati
e intransigenti — erano decisamente avversi a qualunque tentativo
rivoluzionario, almeno tra gli elementi direttivi e tra gli oratori
delle frequenti e frequentate conferenze.

Con un cenno alla _Massoneria_ — scissa durante il governo Crispi,
perchè a lui si riteneva troppo ligio il Gran Maestro del tempo — alla
_Società internazionale per la pace_, dove trovano posto uomini di
tutti i colori — dal conservatore Albasini-Scrosati ai repubblicani
Maffi e Premoli — e al _Circolo per la solidarietà internazionale_,
ch’è una emanazione della precedente, con intendimenti più larghi e più
pratici, pongo termine alla rapidissima rassegna delle associazioni
di Milano, che possono già dare un adeguato concetto della sua
vivace attività politica, che meglio risalterebbe dalla storia dei
suoi singoli collegi fatta al lume dei risultati elettorali. Le
ultime elezioni, ad esempio, insegnano che nel solo VI collegio, tra
socialisti e repubblicani, gli antidinastici sono oltre 3000.

Questi dati politici e intellettuali vengono completati dalle seguenti
notizie sulla stampa. Milano ha i giornali più diffusi in Italia, se
non i meglio compilati.

Comincio dall’_Italia del Popolo_ che non risorgerà più nella _capitale
morale_ e che rivivrà a Roma sotto il semplice titolo: _Italia_.
Benchè intransigentemente repubblicana — talvolta bigotta — e non ben
fatta dal lato tecnico e deficientissima pel servizio telegrafico, era
riuscita ad avere quattromila abbonati. Era grande il valore morale dei
suoi collaboratori — oggi quasi tutti in carcere — ma era maggiore la
diffusione delle idee repubblicane; tale da consentirle una tiratura
di oltre 15 mila copie, quale non l’ebbero mai _L’Unità Italiana, Il
Dovere, La Lega della democrazia_, non ostante la direzione di uomini
che si chiamavano Maurizio Quadrio, F. Campanella, Alberto Mario. E
l’_Italia del Popolo_, per le deficienze indicate, non oltrepassava i
confini dell’Emilia.

Tra i quotidiani, il primo posto per la diffusione lo tiene a Milano
e in tutta Italia _Il Secolo_, la cui tiratura oscilla attorno alle
100 mila copie e che esercita una grande e benefica influenza in senso
democratico in tutto il regno. E per questa sua azione venne soppresso
dal generale Bava Beccaris. Viene dopo _Il Corriere della sera_,
che col volteggiare accorto del Torelli-Viollier, che sapeva a tempo
debito secondare l’opinione pubblica e colla grande cura posta nella
compilazione, aveva ottenuto una considerevole diffusione. Coll’uscita
dell’antico direttore, cui parvero enormi i fasti reazionari dello
stato di assedio, si è avvicinato politicamente alla _Perseveranza_
— l’organo più sfacciato della reazione, ma che per fortuna esercita
scarsissima influenza, per la sua scarsa diffusione. Non arrivò
a guadagnare neppure durante lo stato di assedio, quando ridusse
democraticamente il prezzo di vendita da 10 a 5 centesimi.

La _Lombardia_ era un giornale alquanto democratico, non bene
definito, ma che per le sue imparzialità godeva di molte simpatie
tra la borghesia che non vuole arrivare al _Secolo_, ma che non può
acconciarsi agli organi della reazione; ora ha mutato indirizzo, come è
pure mutato tutto il personale di redazione, volontariamente dimessosi
per atto di solidarietà con il suo direttore, non avendo voluto il
direttore Gianderini acconciarsi a fare un giornale reazionario.
Invece è discretamente diffusa _La Sera_, sempre — almeno sinora —
ministeriale, per l’ora tarda in cui si pubblica e che la fa ricercare
per le notizie ultime. L’_Osservatore Cattolico_ di Don Albertario e la
_Lega Lombarda_ sono i due quotidiani cattolici: la seconda fornica coi
moderati e qualche volta assume intonazione conciliazionista.

_La Lotta di Classe_ — risorta sotto il titolo di: _Lotta_ con un
valoroso direttore — Claudio Treves — _Il Socialista, L’elettore
cattolico milanese, il Popolo cattolico, Il lavoratore italiano_,
clericale, e _L’Idea liberale_ sono settimanali: sarebbe fortuna per
tutti se le idee temperate dell’ultima prevalessero tra i monarchici
milanesi.

Milano ha inoltre: 23 pubblicazioni commerciali e industriali — tra
i quali _Il Sole_ e il _Commercio_ quotidiano; 22 di medicina; 5
giornali giuridici — _I Tribunali_ divennero quotidiani durante i
processi politici ultimi; 16 agricole; 22 di moda; 14 strettamente
religiose; 29 letterarie, educative, scolastiche, ecc.; 13 per le
famiglie ed umoristiche — argutissimo _Il Guerrino Meschino_ e assai
popolare _L’Uomo di Pietra_; 13 teatrali; 3 di viaggi; 5 di pubblicità;
9 di sport, caccia e scherma; 15 di genere diverso; 12 scientifiche —
tra le quali _Il Pensiero italiano_ di Pirro Aporti. E chiudo questa
eloquentissima enumerazione con un cenno speciale alla soppressa
_Critica Sociale_, che mercè l’opera assidua, intelligente ed amorevole
di Filippo Turati aveva acquistato fama grande e meritata in Italia e
fuori e che tutti si augurano di vedere risorgere presto e rigogliosa e
battagliera, non appena il suo valoroso direttore avrà riacquistata la
libertà.

Da tutto ciò si può già concludere che Milano è città essenzialmente
politica e intellettuale; e chi conosce la vivacità delle discussioni
nei caffè, nei ritrovi familiari, nelle piazze; la frequenza e varietà
delle conferenze pubbliche — molte delle quali, naturalmente con
diversità d’intenti, organizzate dal florido _Circolo Filologico_
e dalla _Società internazionale per la pace_ — tutte affollate e
parecchie tenute nella stessa ora, potrà ancora più agevolmente
ricostruire mentalmente l’ambiente psichico di Milano.

Questo ambiente, è naturale, non si formò in un giorno, nè in un anno.
Degli anni ce ne vollero perchè quello descritto da Parini si mutasse
radicalmente.

Non è qui il luogo per dimostrare quali fattori naturali e sociali
abbiano contribuito a preparare e maturare il mutamento facendone
un centro attivissimo di vita economica e intellettuale; certamente
l’Austria colla sua cura di forche, di piombo e di galera ne ricostituì
sano e vigoroso il carattere politico; ne formò la tradizione fiera,
indipendente, indomita.

In un solo anno — dall’agosto 1848 all’agosto 1849 — furono eseguite
non meno di novecento sessanta sentenze di morte sopra individui
accusati o semplicemente sospettati autori di reati politici, compresi
taluni pei quali non esisteva neppure il sospetto, ma che vennero
giustiziati sol perchè tratti accidentalmente in arresto. Alcune
esecuzioni acquistarono celebrità per alcuni episodi eccezionali.

È così che i milanesi vanno orgogliosi del: _Tiremm innanz!_ di Sciesa
(1850).

«Il trattamento dei bruti a cittadini che insultati risentono
l’insulto, dice il Senatore Piolti de’ Bianchi, segnò tra Milano e
l’Austria una macchia indelebile, una pagina d’odio, che nessuno mai
straccerà».

E quest’odio spiega come, perchè Milano _pacifica_ e umana fra le
città italiane, abbia manifestato un entusiasmo come per una vittoria
nazionale all’annunzio dell’assassinio del D.r Vandoni (1851) reo di
aver denunziato alla polizia il suo amico Dottor Ciceri[104].

Il moto del 6 Febbraio 1853 — nel quale ebbero parte Visconti Venosta
e Depretis — e tutte le successive cospirazioni e impiccagioni
consecutive, sino alla liberazione del 1859, non fecero che rinvigorire
e rendere adamantino questo carattere politico della Lombardia e della
sua capitale.

Una nuova vita avrebbe dovuto cominciare colla cacciata degli
Austriaci; e lombardi e milanesi vi credettero tanto a questa nuova
vita, che essi, nei primi anni della costituzione del regno, sembrarono
tra i più devoti alla dinastia sabauda; tanto devoti, che Enrico
Cernuschi, indignato, preferì alla cittadinanza italiana la francese.
— Le elezioni politiche erano l’indice migliore dei sentimenti della
massa che godeva del diritto di voto. C’erano già dei brontoloni,
disgustati che Vittorio Emmanuele non avesse mantenuto l’antico
impegno di convocare la Costituente; ma i più erano soddisfatti della
liberazione dal giogo austriaco e preoccupati e distolti da altre
aspirazioni, dal desiderio ardente di compiere l’unità e l’indipendenza
della nazione, sino a tanto che lo odiato e antico oppressore rimaneva
accampato nel Veneto. Qualche elezione — quelle di Giuseppe Ferrari, di
G. Mussi, e più tardi di Carlo Cattaneo — più che alla influenza della
corrente politica che rappresentavano gli eletti — era un omaggio alla
eminenza della persona o l’effetto di condizioni locali.

La reazione contro il sentimento monarchico-moderato andavasi maturando
man mano che i governanti discreditavansi per errori politici e per
immoralità delle quali non potevansi vittoriosamente difendere.

Era divenuta vigorosa all’epoca del _Gazzettino Rosa_ — che potè
fare di più per la demolizione delle istituzioni coi duelli de’
suoi redattori viventi _en bohemiens_, che non gli articoli logici e
serrati dell’_Unità Italiana_ — ed esplose colle infamie del processo
Lobbia[105].

Passò inosservata, o quasi, la cospirazione repubblicana del 1869
— per la quale venne arrestato sulla Piazza del Duomo il Dott.
Pantano, tradito da un ufficiale; ma suscitò maggiore interessamento
il tentativo insurrezionale della Caserma di Pavia colla conseguente
fucilazione di Barsanti.

I sotterfugi miserevoli di Lanza per negare la grazia del povero
caporale, chiesta in nome delle donne italiane da una Pallavicini, al
cui consorte grazia non era stata negata dall’Imperatore d’Austria,
produsse la più penosa impressione nella pubblica opinione. E la
Lombardia cominciò a divenire un semenzaio di deputati schiettamente
repubblicani — Sonzogno, Billia, Ghinosi, Mussi, Cavallotti — molti
dei quali forniti dal _Gazzettino Rosa_, divenuto popolare perchè
battagliero ed anticesareo. 1 fatti di Via Moscova — 23 Marzo 1879[106]
— e tanti altri fasti della polizia, che non lasciava passare occasione
per agire austriacamente, accelerarono l’evoluzione di Milano e della
Lombardia in senso democratico e repubblicano: evoluzione che trovava
il suo terreno ben preparato nella tradizione storica e nella influenza
che dovevano esercitare legittimamente, sopra tutti gli elementi
intellettuali e sani, un gigante come Carlo Cattaneo, uomini come
Giuseppe Ferrari e Gabriele Rosa; evoluzione che divenne ufficialmente
palese colle elezioni generali del 1882.

In tal modo si andò preparando in Milano e in Lombardia un ambiente non
solo repubblicano, ma schiettamente federalista, con questo in più: che
la tendenza federalista non era esclusiva dei repubblicani, ma invadeva
più o meno apertamente su tutti gli altri partiti e su tutte le classi
sociali, percorrendo una gamma al cui centro stava l’_Italia del
Popolo_ coll’indimenticabile Dario Papa, e, agli estremi, da un lato
Filippo Turati e dall’altro Giuseppe Colombo.

Date le condizioni tristi del resto d’Italia e data la coscienza
della superiorità economica, intellettuale e morale di Milano
e della Lombardia, coloro che si sapevano superiori e vedevansi
legalmente accoppati da una forte maggioranza avversa, non potevano
che riconfermarsi nel sentimento e nell’aspirazione federalista nella
quale vedevano una nuova liberazione dai _barbari_ del mezzogiorno.
Così formossi la leggenda dello _Stato di Milano_, in fondo della quale
c’era e c’è un assieme di verità, che non dovette rimanere del tutto
estranea negli ultimi moti di Maggio[107].

Milano e la Lombardia si credettero addirittura sottoposti ad un
dominio odioso sotto il secondo ministero Crispi: il quale ricambiava
i lombardi di cordialissima antipatia e designavali come _Galli
cisalpini_. Antipatia scambievole, sottolineata dai solenni fischi di
Milano al Presidente del Consiglio, tanto più significante in quanto
che la rottura colla Francia accentuata da Crispi, più che alle altre,
economicamente, riusciva profittevole alle industrie lombarde.

Lo spirito lombardo, in ultimo, parve impersonato in Cavallotti che
alla sua tenace e meravigliosa opposizione dette il profumo che veniva
dalla _questione morale_; sicchè le manifestazioni violente di Milano e
di Pavia dopo Abba Carima e la successiva caduta di Crispi parvero una
vittoria, una rivincita del bardo glorioso della democrazia e dei suoi
rappresentati.

Questo l’ambiente politico-morale di Milano; che a buon diritto può
essere chiamata la _capitale morale_ d’Italia per lo insieme armonico
delle sue condizioni. Torino che l’uguaglia, le sta dappresso o
la supera nella vita economica, nell’alfabetismo e nella minore
delinquenza, non ha la vivacità e l’energia politica di Milano. E
si spiega la calma di Torino durante gli ultimi moti non solo col
desiderio di non nuocere al successo della sua Esposizione e colla
forte organizzazione del suo socialismo intransigente, ma anche col
suo temperamento e colla influenza della tradizione dinastica ancora
tanto viva su di un Edmondo De Amicis che manifesta un sacro orrore
per l’idea repubblicana innanzi al Tribunale militare, che doveva
condannare a dodici anni di reclusione il suo amico e compagno di fede
Filippo Turati!

L’ambiente politico-morale di Milano, sovraccitato già in modo
straordinario dalla morte e dai funerali di Cavallotti e dalla rassegna
delle forze repubblicane e socialiste fatte nella commemorazione
solenne del cinquantesimo anniversario delle Cinque Giornate — era tale
che sarebbe stato miracolo se i moti per la fame del resto d’Italia
non vi avessero ottenuto una forte ripercussione. Sarebbe bastato
il contagio psichico, tanto più facile dove il terreno è adatto, a
determinarla[108]; l’uccisione di Mussi doveva renderla inevitabile.
L’imprudenza — altri forse dirà il calcolo, se la reazione era
realmente _sospirata_ — delle autorità politiche e militari dovevano
necessariamente riuscire agli episodi sanguinosi di Maggio 1898. Nei
quali, per quante ricerche abbia fatte, non sono riuscito a convincermi
che vi abbia avuto parte principale la teppa, come da qualcuno, che
ha voluto erroneamente scagionare Milano dei tumulti avvenuti, è stato
asserito[109].

La manifestazione primitiva del 6 Maggio fu essenzialmente politica
e tali rimasero le successive. Così doveva essere. Se le condizioni
d’Italia sono tali che a giudizio di Saracco destano il _disgusto del
presente regime_ — e testè gli fecero dire che per salvare l’Italia
si dovrebbe _ricondurre il senso chiaro, esatto della moralità nella
coscienza pubblica, in basso e in alto_[110] — non era evidente, non
era logico, che questo disgusto prorompesse in pubbliche manifestazioni
nella _capitale morale,_ dove identiche esplosioni, per cause minori,
c’erano state altre volte? Se questa volta si arriva alle barricate,
che nessuno, però, difende, la colpa è tutta delle autorità politiche e
militari, che agirono in guisa da far sospettare che abbiano voluto le
barricate per arrivare alla reazione.

Per parte mia non esito ad aggiungere che se le barricate rimasero
indifese, se i moti non furono più gravi ciò si deve al fatto che
mancò assolutamente ogni preparazione ed ogni direzione e sopratutto
al dissidio tra i socialisti e una borghesia colta e repubblicana,
che ha un obbiettivo determinato, ma che ebbe tagliati i garretti
dal socialismo, che le sottrasse le masse. In queste poi poterono
più la tradizione, il temperamento, che non poteva essere modificato
in pochi anni, anzichè la propaganda sinceramente e costantemente
antirivoluzionaria dei socialisti; ed esplosero[111].

La protesta di Milano fu essenzialmente politica e morale; ma credo
di avere dimostrato ad esuberanza che non ebbe il menomo carattere di
un vero tentativo insurrezionale. Se a Milano, come alcuni, a torto,
pretendono, mancò l’influenza economica nella determinazione della
protesta, ciò tornerebbe sempre a suo grandissimo onore. I socialisti
non deridono a sangue ogni giorno la quistione sociale perchè alcuni
socialisti la riducono a semplice _quistione di stomaco?_ Ebbene, diano
tutta la loro ammirazione a Milano che si leva in nome delle più sante
ed alte idealità!

In quanto alle sozze calunnie di chi disse i moti di Milano e del resto
d’Italia voluti e preparati dai socialisti e repubblicani agli _ordini
ed agli stipendi_ del Papa e della Francia, esse non meritano che il
più profondo disprezzo[112].

Quattro mesi di reazione non poterono modificare l’ambiente politico e
morale di Milano.

La _capitale morale_ rimane uno scandalo per alcune parti d’Italia ed
un pericolo — se non si vorrà trarre ammaestramento dagli avvenimenti
— per le istituzioni; si capisce perciò che ci sia qualche nuovo
Barbarossa, come venne chiamato chi ebbe la triste ventura di spegnere
Cavallotti, che la vorrebbe annientata; si capisce ancora che ci sia
chi vorrebbe metterla sotto la _tutela affettuosa_ dell’Italia.

Oh! il momento per togliere di mezzo questa minaccia permanente alla
tranquillità dello Stato, di porre sotto tutela.... la _capitale
morale_ è veramente opportuno! Quando all’estero, per nostra
incancellabile vergogna, si discute sulla convenienza di porre l’Italia
sotto la tutela dell’Europa perchè non sa guarirsi dalla miseria e
dall’analfabetismo, che generarono il pericolo anarchico[113], è giusto
che ci sia all’interno chi voglia spento il focolaio di benessere, di
sana energia, di vera civiltà che risiede in Milano!

Se i nuovi Barbarossa esprimessero il sentimento della maggioranza
degli italiani sarebbe segno che l’Italia non potrebbe tollerare che
una sua grande città venisse chiamata la _capitale morale_....



XIV.

CONFRONTI


Si afferma di ordinario dalle persone che non vogliono darsi la pena di
comparare per riflettere ed agire in conformità dei risultati ottenuti
dalla comparazione: i confronti sono odiosi. Dovrebbe dirsi invece:
i confronti sono dolorosi e vergognosi per coloro che sono costretti
a constatare la propria inferiorità e per quanti furono e sono causa
della inferiorità stessa.

La comparazione che s’impone quando si è dato il bando all’assoluto
è di una indiscutibile utilità nella politica, che vuole essere
sperimentale perchè, trovando termini di confronto con dati
avvenimenti, si acquistano elementi per una specie di giudizio di
appello, ammaestramenti ed indicazioni sulle conseguenze non remote
degli avvenimenti comparati a seconda della diversità delle misure
adottate di fronte ai medesimi.

Non si deve tacere che nella comparazione e nelle induzioni si deve
andare guardinghi, perchè la diversità delle condizioni tra popolo e
popolo ed anche tra periodi diversi nella vita di una stessa nazione,
può indurre in errore e far formulare previsioni che non si realizzano
generando meraviglia e disillusioni; ma, oltrecchè nella fase presente
di evoluzione la diversità delle condizioni è in continua attenuazione
tra i popoli europei, è innegabile che la comparazione rimane come
il metodo migliore per fare della politica sperimentale, pur facendo
riserve sulle indicazioni che somministra e ricorrendo a tutti i
temperamenti nell’applicazione, che possono essere suggeriti dalla
conoscenza delle più salienti diversità di condizioni.

Convinto della eccellenza di questo metodo, mi pare che non si
potrebbe conchiudere più opportunamente questo studio sui tumulti della
primavera del 1898 e sulla conseguente reazione se non coi confronti
sul rispetto delle leggi e delle costituzioni, sulla libertà lasciata
ai cittadini, sulle misure adottate dai vari Stati d’Europa in casi
analoghi a quelli italiani.

Se si dovesse prestar fede ai grotteschi apologisti del vigente regime
italiano, i quali non esitano ad affermare che in fatto di libertà e
di osservanza della costituzione il nostro paese nulla ha da invidiare
agli Stati più liberi del mondo, e che arrivano all’impudenza di
dire che ne gode una maggiore della Francia, si potrebbe stabilire
un contrasto stridente ed umiliante per noi, ponendo il paragone tra
l’Italia e la Svizzera, tra l’Italia e gli Stati Uniti d’America;
ma queste vanterie si devono prendere per quello che sono: per
ridicolaggini divulgate con serietà o per ignoranza compassionevole
o per insigne e interessata malafede. Perciò rinunzio a qualunque
paragone non solo con detti Stati retti a repubblica, ma anche colle
monarchie scandinave, dove da anni i tumulti per cause economiche e
politiche sono sconosciuti è dove è illimitata la libertà e tutto vi si
discute: dal Re alla organizzazione sociale; da questa alle compagine
nazionale[114].

I nostri millantatori si avrebbero a male il paragone tra l’Italia,
paese a regime rappresentativo, con la Germania o con l’Austria, stati
semplicemente costituzionali. Invece sono le due nostre alleate che
avrebbero giusto motivo di offendersi del paragone. Il Cancelliere di
Ferro, quando volle darsi nelle braccia della reazione, prima contro
i cattolici e poscia contro i socialisti, si armò di leggi. Tra noi
invece vige da anni, intendiamoci, e non da ieri soltanto, il cosidetto
_piccolo stato d’assedio_, senza che leggi, e nemmeno i famosi
decreti-leggi lo abbiano autorizzato. Le leggi talora sono applicate
severamente in Germania; ma quando esistono queste leggi, almeno
ogni cittadino sa a che cosa attenersi e a quali rischi si espone
violandole. Tra noi l’arbitrio sostituito sistematicamente alla legge
produce in tutti una incertezza ed un perturbamento, che sono tra le
cause maggiori della nostra decadenza politica.

In quanto a libertà di stampa e di riunione, chi legge il _Worwärts_
e gli altri giornali e riviste dei socialisti, chi ha conoscenza delle
conferenze innumerevoli che si tengono in tutte le birrerie di Berlino
e della Germania, chi ha seguito l’ultimo congresso socialista di
Stuttgart, in cui si affermò la dottrina collettivista da un lato e
dall’altro si manifestarono voti aperti per la repubblica e si lanciò
una sfida solenne all’Imperatore sulla famosa questione degli scioperi
— si convincerà che il confronto non regge.

Non regge neppure coll’Austria, che siamo abituati a considerare come
sinonimo di dispotismo. Ha certi freni la stampa e i sequestri qualche
volta colpiscono anche le riviste — ad esempio, Die Zeit di Vienna; —
ma c’è una misura, vi sono criteri stabili. Non parliamo del diritto
di riunione; quando i socialisti austriaci promossero l’agitazione
pel suffragio universale a Vienna, si fecero dimostrazioni di venti e
quarantamila persone, che procedettero ordinate per lo più.

Qualche volta ci furono colluttazioni, anche gravi, colla forza;
avvennero arresti e condanne severe — conformi alle leggi; ma il
governo austriaco non pensò di sopprimere il diritto di riunione.

Gravi tumulti in Austria sono avvenuti negli ultimi anni e qualche
volta fu proclamato lo Stato di assedio, consentito dalle leggi. Ma nè
per la durata, nè per gli episodi che lo contrassegnarono in Boemia per
la questione recentissima delle lingue, nè nell’Istria alcuni anni or
sono, per l’altra analoga delle tabelle bilingui, si rese odioso come
in Italia dal 1894 in poi. Nemmeno il più lontano paragone è possibile
per le condanne dei tumultuanti, che furono mitissime anche quando
andavano a colpire i cittadini rei di manifestazioni anti-nazionali,
come fu il caso nei tumulti per le tabelle bilingui nell’Istria. Chi
avrebbe potuto immaginare che l’Austria ci avrebbe dato lezioni di
liberalismo e di costituzionalismo?

Il paragone prediletto ai nostri monarchici costituzionali è quello
coll’Inghilterra. Essi ci tengono, o meglio ci tenevano[115], a dire
che in Italia, in grazia della _lealtà_ di Casa Savoja e dell’affetto
popolare da cui è circondata, è stato possibile il godimento
della massima libertà e del più perfetto svolgimento del regime
rappresentativo. Nulla, intanto, di più grottescamente falso.

Il paragone, sotto tutti i punti di vista, non regge ora; e non reggeva
neppure pei tempi migliori della libertà italiana.

Rimontando a sessant’anni or sono per la libertà di stampa ed a più di
settant’anni per il diritto di riunione, per i criteri repressivi, per
le condizioni lavoratori, deisi potrebbe trovare qualche somiglianza
tra l’Inghilterra di allora e l’Italia odierna. Non più oggi.

Due parole sulla libertà della stampa, che è divenuta la libertà
fondamentale: essa sola vale quanto gli articoli più larghi di una
carta costituzionale, che possono rimanere lettera morta dove c’è un
esercito stanziale numeroso e disciplinato[116]; essa sola sostituisce
efficacemente ogni più severo controllo sull’opera politica e morale
del governo.

Per dare la misura di questa libertà di stampa in Inghilterra, bisogna
leggere la collezione del _Truth_, del _Reynold’s News paper_, della
_Modern Society_, dell’_Irish Weekly Independent_, del _Labour Leader_,
di altre riviste o giornali socialisti, repubblicani, radicali e
irlandesi. Indarno si cerca nella storia dei processi da anni ed
anni qualche cosa che rassomigli all’applicazione dell’articolo
247 del Codice penale e di altri articoli consimili. Le istituzioni
politico-sociali vi sono discusse e attaccate con una violenza di
linguaggio inaudita; la Camera dei lords, nell’anno di grazia 1898,
dal _Reynold’s Newspaper_ viene considerata come un’assemblea di
speculatori, di usurai, di ladri.... E non sono meglio trattati
la Regina e tutti i membri della famiglia reale. Su i Re tutti
d’Inghilterra, da Guglielmo il conquistatore a Vittoria, circola
liberamente il libro di I. Morrison Davidson — _The New Book of Kings_:
Il nuovo libro dei Re — di cui si sono fatte parecchie edizioni, e
che riporta tutti gli aneddoti più feroci e più scostumati che possano
discreditare le persone reali e le istituzioni monarchiche.

Questa non è la libertà che si esercita su coloro che già appartengono
alla storia — e che in Italia sono sempre _sacre ed inviolabili_; — ma
si esercita piena, illimitata, sui contemporanei. Nel numero del 17
aprile 1898, _Gracchus_ scrive una lettera al _Reynold’s News paper_
nella quale dimostra il nessun valore politico, intellettuale e morale
degli illustri parenti della Regina e della regina dice: «_Vittoria
ha schivato l’adulterio_. E sta bene: l’ammiriamo. E l’ammiriamo
in quanto, convinti del dogma della ereditarietà, chiunque avrebbe
giurato, che essa avrebbe seguito la grossolana immoralità, che
caratterizza i suoi zii particolarmente....».

Ma se la Regina viene risparmiata da _Gracchus_ — nessuno risparmia
il Principe di Galles, ch’è stato messo alla gogna nei Tribunali, nei
giornali, nei _meetings_ — non la è da altri. Così l’_Irish Weekly
Independent_ nel febbraio 1898 pubblicò un articolo: _Is the Queen
mad?_ — La Regina è pazza? — dove si facevano allusioni agli amorazzi
antichi della Regina con un suo prediletto e notissimo servitore, che
— si assicura — la confortò dopo la morte del Principe-sposo Alberto.
Nel numero del 1º maggio, lo stesso giornale, ch’è illustrato, in
prima pagina, sotto il titolo: _A Jubilea Idyll_ si vedeva la Regina
Vittoria, volante come una furia orrida, con la face in mano, portar
la guerra dapertutto, mentre intorno e sotto di lei i cannoni che
scoppiano producono incendii, rovina e desolazione... In Italia, un
giornale fu sequestrato perchè mise in caricatura... gli speroni del
generale Pelloux!

Gli emblemi, i motti allegorici, che si portano in processione, i
discorsi che si pronunziano nei _meetings_ sono dello stesso genere; e
questo genere violento non è escluso dal Parlamento; dove, ad esempio,
il Wakley, direttore del _Lancet_ e deputato di Londra, domandando
l’amnistia pei condannati cartisti di Monmouthshire, chiama _traditori_
i Re e parla di _royal miscreants_, di _royal ruffians_ — canaglie
reali, banditi reali...

Questi saggi di massima libertà di linguaggio, che si potrebbero
moltiplicare a piacere, rispondono alla sciocca obbiezione che si
sente spesso ripetere in Italia: in Inghilterra si può concederla
perchè non se ne abusa. Ed a questa obbiezione rispose qualche anno
fa Pasquale Villari, senatore, conservatore ed ex ministro del regno,
col seguente giudizio: «La stampa più moderata usa in Inghilterra un
linguaggio che a noi parrebbe sovversivo, ma che colà è giudicato prova
di un vero spirito conservatore. _Da noi si direbbe, che questo è un
eccitare i tumulti colà si crede che questo sia un conoscere i propri
tempi...._[117]».

E parliamo di tumulti e di sommosse, ch’è quello che maggiormente
importa.

La storia dell’Inghilterra — proprio per ismentire anche su questo quei
capi ameni i quali vogliono stabilire certe differenze di trattamento
politico in ragione delle differenze di temperamento tra gli italiani e
gl’inglesi — è piena di tumulti e di sommosse assai più gravi di quelli
che abbiamo deplorato in Italia nella primavera del 1898.

Se ci rifacciamo alla storia del primo quarto di questo secolo, anche
al di là della Manica riscontriamo un periodo agitatissimo di fame, di
prepotenze, di tumulti, di repressioni, di reazione, che nulla o ben
poco ha da invidiare al nostro presente.

È il periodo dell’_ultratorismo_ contrassegnato dal sistema iniquo
delle imposte, dalla niuna protezione sociale ai lavoratori, dalla
prevalenza megalomaniaca e militaresca, dalla mancanza di libertà
politica e di giustizia penale. Fu la vergogna dell’Inghilterra e
scomparve più di settant’anni or sono.

Sorpasso sui tumulti del 1829 e accenno appena a quelli che si
riferiscono alla prima riforma, per fare comprendere a coloro che
non conoscono gli inglesi quale sia la _flemma_ e il _rispetto_ delle
persone e delle leggi di questi famosi anglo-sassoni.

Nel 1831, appena Lord Russell presentò il _bill_ di riforma, vi furono
luminarie e dimostrazioni di gioia. In Italia gli amici delle riforme
si sarebbero contentati di manifestare la propria soddisfazione con
degli evviva! In Inghilterra si sentì il bisogno di una vigorosa
sassaiuola contro i nemici del _bill_; e la sassaiuola degenera in
gravi tumulti dopo il rigetto da parte dei lords (18 ottobre 1831). Si
fanno le elezioni generali sulla questione della riforma e riescono
favorevoli al _bill_; e allora, in previsione della opposizione
della Seconda Camera, i lords vengono minacciati e scoppiano
dappertutto tumulti sanguinosi. Viene bastonato il duca di Newcastle;
schiaffeggiato il marchese di Londonderry; gettato da cavallo il duca
di Cumberland — un membro della famiglia reale!

Si riesce ad immaginare che cosa avverrebbe in Italia se casi simili
si verificassero? Un milione almeno di cittadini sarebbe gettato
in galera; della costituzione non rimarrebbe traccia; meno ancora
del disegno di legge. Cedere in Italia alla pressione della piazza:
vergogna! orrore! Nulla di tutto ciò in Inghilterra. Il _bill_ ebbe il
suo corso e i _lords_, ammoniti a scongiurare bufera più tremenda, non
osarono più respingerlo. Non solo: il Re — oh scandalo! — favorevole al
_bill_, annunziò che avrebbe licenziato le persone di casa reale, che
non si adoperassero pel suo trionfo.

Ancora un dato interessante. Scoppia un altro tumulto in Londra il 13
maggio 1833; un policeman viene ucciso, altri feriti. Ebbene, i giurati
mandarono assolto l’uccisore per _omicidio giustificato...._ In Italia,
per Decreto reale, sarebbe stata soppressa la giuria. Fermiamoci ai
tumulti più caratteristici: a quelli che si riferiscono al movimento
_cartista_ durato dieci anni e più — dal 1837 al 1848. Ci dobbiamo
fermare a questi tumulti perchè hanno qualche analogia coi nostri e per
questo aneddoto di dolorosa attualità.

Paolo Valera — oggi in carcere e ch’era vissuto parecchi anni in
Inghilterra — impressionato degli avvenimenti italiani del 1893-94,
volle fare conoscere il movimento cartista in una serie di articoli
della _Critica sociale_ raccolti in opuscolo con una prefazione di
Filippo Turati, nella quale si leggono queste parole:

«Collo studio sul movimento chartista, noi squaderniamo al lettore
un brano di storia inglese vecchio di mezzo secolo che varcando la
Manica e il Gottardo, si ringiovanisce, diventa quasi dell’attualità.
Più ancora: _diventa forse ad un dipresso, la storia nostra di
domani_»[118].

Filippo Turati fu profeta. La storia di 60 anni fa è divenuta la storia
di oggi.... peggiorata. Niuno lo sa meglio di lui, che soffre nella
tetra cella di Pallanza!

Peggiorata? Vediamo.

In Inghilterra ci furono condanne severissime durante il movimento
chartista; Iohn Frost ed alcuni altri furono condannati a morte: la
pena fu commutata. Ma queste condanne furono conforme alla legge; non
stati di assedio; non Tribunali militari; non processi senza difesa e
senza garanzia. Si vide anzi questo caso strano: scambi di cortesia, di
parole di stima, di ringraziamenti tra.... giudici e condannati. Cose
dell’altro mondo!

Non solo questo; ma le condanne, dal punto di vista della legalità,
furono meritate e corrispondevano esattamente ai reati commessi. È
facile dimostrarlo perchè i fatti abbondano.

In Inghilterra i tumulti non avvennero improvvisi come in Italia; ma
furono voluti e preparati. Quando la _carta_ chiesta dai riformatori
venne seppellita legalmente, cominciarono a prevalere i così detti
_cartisti della forza fisica_, la cui denominazione dice chiaramente,
che la violenza era l’ingrediente principale del loro programma.

Non si trattava di chiacchiere. In quasi tutte le officine
d’Inghilterra si lavorava giorno e notte a preparare picche a tre
scellini e mezzo per una per la rivoluzione di domani; e i capi
volevano che tutti preparassero armi e alle armi si addestrassero. Il
reverendo Stephens invitò le moltitudini ad andare ai _meetings_ con
un pugnale nella destra e una face nella sinistra; al _meetings_ in
Ashton-Under Lyne, dopo una furiosa requisitoria contro il Ministero
Whig, domandò alla folla: _siete armati?_ Parecchi gli risposero con
delle scariche in aria. — _Va bene_, disse il ministro di Dio. _Buona
notte!_

Questi comizi notturni e con gli intervenuti armati; dovevano allarmare
naturalmente il governo, che li proibì. In questa proibizione di
_meetings_ con esercizi militari illuminati dalle torce si vide un
insulto al popolo oppresso e una violazione della costituzione; perciò
anche alcuni, che deplorarono le violenze dei _cartisti della forza
fisica_, come Feargus O’ Connor, si resero solidali con Stephens.

I motti sulle insegne e i discorsi che si tenevano in questi
comizi erano la prova lampante delle intenzioni dei promotori
ed organizzatori: erano schiettamente rivoluzionari. Stephens si
proclamava rivoluzionario _fino al coltello_ ed alla morte ed insegnava
che «riprendere le ricchezze male acquistate» «non è altro che atto
di giustizia». Parlando dei padroni delle fabbriche, incitò la folla
a coprire di pece e di penne Iones (un padrone) ed a dargli fuoco.
Insegnò ai presenti come prendersi del pane: «colla picca sul petto
dite ai prestinai che alla prossima volta vi prenderete la pagnotta
colla sua punta».... Il farmacista Pott — un altro fanatico _cartista_
— appendeva alle sue finestre palle di piombo dorate con questa
scritta: _pillole pei tories!_

Dalla preparazione si passò all’azione; e bande armate, con un capo
— Iohn Frost — con un programma preciso, il 4 Novembre 1839 dettero
l’assalto a Newport. Vi fu conflitto con undici morti e molti feriti;
e fu questo l’avvenimento che dette luogo nel 1840 alle severe condanne
emanate dalla giuria, di cui si fece precedente menzione.

In Italia non si può trovare un solo fatto, che si possa paragonare
a questo assalto di Newport; eppure, data la diversità dei Codici,
le condanne pei tumulti di Sesto Fiorentino furono infinitamente
più severe. Volendo essere generosissimi coi nostri giudici militari
e col governo che li mise a funzionare, i reati maggiori avrebbero
qualche lontana, stentata, artificiosa analogia con quelli attribuiti a
Stephens. Ebbene, mentre i Rondani, i Turati, i De-Andreis, i Chiesi,
i Romussi, per articoli o discorsi scritti e pronunziati alcuni anni
prima e che erano infinitamente meno eccitanti di quelli del prete
inglese, ebbero dai sedici ai sei anni di reclusione, lo Stephens fu
processato a piede libero e non ebbe che _diciotto_ mesi di carcere!
In Italia, in mancanza della pena di morte, lo avrebbero condannato
al massimo della reclusione o della galera e i giudici sarebbero
rimasti dolenti di non potergli dare gli anni di vita di Matusalem per
appioppargliene novecento...

I tumulti del periodo _cartista_ non durarono un mese o un anno, ma
con maggiore o minore intensità si riprodussero per dieci anni: la
fame li rese acuti nel 1842, quando si assaltarono e saccheggiarono
anche le _Workhouses_. Dettero luogo al cosidetto processo _mostruoso_
dei 59, durante il quale ci fu il discorso lunghissimo, commovente
e convincente di O’ Connor, che indusse i giudici a dichiarazioni
pubbliche di stima e di simpatia verso gli accusati. Si ebbe la
sentenza; ma ne venne sospesa l’esecuzione per un errore di forma:
l’Inghilterra non ha una Cassazione disciplinata! Il processo non
venne ripreso perchè il governo non se ne occupò più. «I Ministri,
dice Valera, avevano fiutata l’opinione del paese contraria a questi
processi contro le manifestazioni del pensiero».

La diversità dei criteri di governo, del rispetto per la libertà, per
le leggi e per la costituzione tra l’Inghilterra e l’Italia, in questi
dolorosi casi risulta all’evidenza dalla differenza tra i generali
preposti alla repressione. Conosciamo i nostri Bava Beccaris, gloriosi
vincitori all’interno; il Valera, e fece bene, ci presentò il generale
Napier, che fu mandato a schiacciare il _cartismo_ in undici contee
settentrionali. Il generale Napier fece il suo dovere di soldato; ma
quale uomo fosse, si può scorgere dal modo come pensava. Dei tumulti
riteneva responsabili i governanti e malediceva coloro ch’erano causa
delle guerre civili. Le insurrezioni, egli diceva, non sono provocate
dai capi del _cartismo_, ma dal debito nazionale, dalle leggi sui
cereali, dalle nuove leggi sulla carità pubblica. Il _cartismo_ è il
prodotto della ingiustizia dei Tories e della imbecillità dei whigs.
Sferzava i magistrati pusillanimi che divenivano leoni dietro le
baionette dei soldati. Deplorava che il Parlamento avesse votato 12,000
sterline per le scuderie reali, mentre altrove si moriva di fame.
Sconsigliava l’arresto di O’ Connor e voleva che si dasse la _Carta_.
E concludeva: _È crudele ed inutile sopprimere la vita per delle
idee. Non è giustizia, è barbarie, è vendetta di partito dominante.
Magistrati, lords, duchi_ =sono tutti assetati di sangue=.

Ecco in bocca ad un generale la frase, che doveva procurare sei anni di
reclusione a Gustavo Chiesi...

Tutto questo sfata l’umoristica ed accreditata leggenda sul carattere
inglese e prova a luce meridiana che gli inglesi abusano più dei latini
della libertà di parola; che gl’inglesi tumultuano tanto frequentemente
quanto gl’italiani quando soffrono ed hanno fame.

Se le cose procedono diversamente, in ultimo, in Inghilterra e in
Italia, egli è che le moltitudini inglesi sanno farsi rispettare
e difendono la libertà. Pare che essi abbiano letti i commentarî
di Blackstone e vi abbiano imparato che il popolo ha il diritto
di manifestare la sua volontà primo colla petizione, secondo colla
rimostranza, terzo colle armi. Così il Valera.

Se le moltitudini sono impregnate dallo spirito di Blackstone, i
governanti, in generale, da oltre cinquant’anni in qua, sono del
pari convinti che il loro dovere è quello di rispettare i diritti del
popolo. E rispettandoli, sanno di fare un buon affare nello interesse
sociale e delle classi che rappresentano. Se ne dimenticano qualche
volta ed avvengono allora perturbamenti gravissimi. Tale quello della
_domenica sanguinosa_ (13 Novembre 1887), quando la polizia volle
impedire, la riunione di un _meeting_ in Trafalgar-Square e il popolo
scatenossi come una furia su Londra, provocando conflitti sanguinosi,
devastazioni di ogni genere. Così avviene sempre, ogni volta che la
polizia interviene per impedire una manifestazione; il suo intervento
in Italia come in Inghilterra genera la sommossa. La sua assenza è
la migliore garanzia dell’ordine, sia in Italia come in Inghilterra.
Roma vide trentamila cittadini protestare pacificamente per
l’assassinio _Frezzi_ con tanto ordine e con tanta compostezza, quanta
se ne può riscontrare a Londra durante le più ordinate e pacifiche
manifestazioni. Mancava la polizia[119]. E ci fu in Parlamento chi
trovò da rimproverare all’on. Di Rudinì questo atto politico e questo
rispetto alla legge e ai diritti dei cittadini!

I nostri monarchici — distinzione, onestamente, non si potrebbe fare
fra la _destra_ e la _sinistra_ — messi colle spalle al muro dalla
eloquenza dei fatti, non si danno per vinti e dopo aver blaterato per
tanto tempo sulla solidità delle nostre istituzioni e sulla popolarità
della nostra monarchia, confessano umiliati che ciò che riesce
innocuo in Inghilterra, dove la monarchia ha secolari radici, non si
può consentire in Italia, dove le istituzioni vigono appena da mezzo
secolo.

L’obbiezione, mentre li umilia, perchè sfronda molte aureole, si
mostrerà che è infondata da un altro punto di vista. Ma prima di venire
a questa dimostrazione, ce n’è un’altra da fare, ricorrendo alla storia
e alla vita politica del Belgio.

La dinastia che regna nel Belgio non vanta la durata della Sabauda: è
nata ieri — nel 1830; le istituzioni presenti non godono del benefizio
della tradizione come le inglesi. Le condizioni, adunque, vi sono molto
rassomiglianti a quelle dell’Italia. Ed ecco che cosa ci apprende la
storia e la vita politica del Belgio.

Non discutiamo sul diritto di associazione e di riunione; una
sola parola lo qualifica: è illimitato per tutto e per tutti — pei
socialisti e pei clericali, pei monarchici e pei repubblicani. Bandiere
rosse, fiori e nastri rossi, _marsigliese, carmagnola_, ecc., sono
ingredienti immancabili d’ogni comizio republicano o socialista e nel
quale la polizia brilla per la sua assenza: perciò vi mancano del pari
i disordini. E si grida _Viva la repubblica!_ nei comizi, come lo si
grida alla Camera dei Deputati, dopo che vi entrarono i socialisti.

Altrettanto illimitata è la libertà di stampa. Giornali e riviste
pubblicano continuamente articoli contro il Re, contro la famiglia
reale, contro l’esercito, contro tutte le istituzioni e contro tutti
gli individui dichiarati in Italia sacri, inviolabili, intangibili e
che sarebbero tra noi severamente puniti come _sovversivi_. Là passano
inosservati in tempi ordinari; ed anche all’indomani dei gravissimi
tumulti del 1886, il De Fuisseaux — un _sovversivo_ per eccellenza
— potè pubblicare un giornale, il cui semplice titolo tra noi
costituirebbe un reato: _La repubblique belge_.

La misura vera di questa illimitata libertà di stampa viene data da
ciò che si scrive sulla vita pubblica e privata del Re e della famiglia
reale.

Non esiste l’ipocrito rispetto alla formola menzognera: _il re regna
e non governa_, e al Re si fanno rimontare le responsabilità tutte che
tra noi si preferisce addossare ai ministri responsabili. Ci vorrebbe
un volume, per riassumere soltanto ciò che si è scritto nella forma
più violenta contro Leopoldo II a proposito del Congo; a lui si fa
colpa anche di qualche inezia: De Fuisseaux lo attaccò vivacemente nel
celebre _Catechismo del popolo_ perchè venne annullata la decisione del
Comune di Lacken, che lo sottoponeva all’imposta come qualunque altro
cittadino[120]. Questi attacchi sono divenuti violenti nell’està del
1898 per il progettato porto militare di Bruges, combattuto aspramente
alla Camera dei Deputati da Anseele come una impresa di Re Leopoldo.
Su questo porto militare un giornale di Bruxelles pubblica un articolo
dal titolo caratteristico: _Un roi encombrant_ nel quale riassumeva i
pareri assai violenti contro il Re di altri giornali — tra i quali _La
Patrie_ e _Le bien public_, monarchici e clericali.

Meno male se il Re lo si attaccasse soltanto come capo dello Stato;
ma lo si tratta peggio nella sua vita privata. Così nel _Peuple_ (15
Settembre 98) leggevasi un articolo sul _Pericolo congolese_ nel quale
lo si consigliava di andarsene nel Congo e costatava con rammarico che
egli _preferiva di andare a Parigi per trovarvi Emilia d’Alençon e Cleo
de Merode_. Il Bertrand aveva già accennato alle relazioni scandalose
di Leopoldo II con Madame Ieffries. Al Re non si rinfacciarono soltanto
le debolezze per le _cocottes_ parigine, ma gli si rimproverò di essere
associato negli utili di una _bisca_ ad Anderme e che stava fondando
ad Ostenda un gran Casino da giuoco — uso Montecarlo — insieme al suo
amico e protetto Colonnello North.

Ebbene: Leopoldo II non richiese la punizione degli autori di questi
scritti pubblicati nel Belgio e vendicossi domandandone il sequestro
quando vennero riprodotti in Germania dal _Proletario_ e dall’_Eco_ di
Amburge[121]. Chi vuol sapere come vengono trattati i suoi congiunti,
legga l’opuscolo di Bertrand: _Leopoldo II e la sua famiglia_. Vi
è detto, ad esempio, che il Conte di Fiandra è un vero _tipo di
degenerato_, che gode di un appannaggio di L. 200,000 per la sola
ragione ch’è fratello del re; e _ancora ciò non è provato, perchè nel
Belgio la ricerca della paternità è interdetta_.

Non mi permetto di riprodurre ciò che si scrive nei manifesti e nei
giornali del movimento antimilitarista, perchè, trattandosi di una
istituzione che vive e funziona anche tra noi, darebbe occasione al
Fisco d’infierire; potrà aversene un’idea leggendo tutta la collezione
della _Caserne_ e del _Peuple_ di Bruxelles.

L’eccitamento all’odio di classe e il discredito delle istituzioni vi
sono versati a piene mani. Preferisco arrivare ai tumulti, ai processi
ed alle condanne, che hanno analogia con quelli ultimi d’Italia.

Non rievocherò la lotta per il suffragio universale, strappato al
governo ed al Parlamento clericale per mezzo di un atto veramente
rivoluzionario: lo sciopero generale. Gli animi erano eccitati, la
situazione molto tesa: a Bruxelles e nelle altre città del Belgio
migliaia e migliaia di operai in isciopero domandavano minacciosamente
il diritto al voto e gridavasi a perdifiato: _Viva la repubblica!_ Non
stati di assedio, non arresti, non processo. Fu arrestato uno dei capi
ed organizzatori dello sciopero, Emilio Vandervalde; ma per una sola
notte!

Mancarono i tumulti, perchè mancò la provocazione e mancò l’intervento
della polizia. Ci furono altra volta i tumulti e furono tremendi
e dettero occasione a condanne severe: furono quelle dell’_Année
terrible_ del Belgio, l’anno 1886.

In quest’_année terrible_, ripeto, ci furono condanne severe: a vita, a
15 anni di lavori forzati, ecc., per i fatti dei dintorni di Charleroi.
Ma tutto per le vie ordinarie, per mezzo dei giurati, senza stato di
assedio e senza tribunali militari, non ostante che nel momento della
repressione tutti i poteri fossero stati accentrati nelle mani del
generale Vandersmissen.

Non ostante queste condanne severe, che suscitarono la generale
indignazione, nessuno oserebbe paragonarle a quelle italiane dell’anno
1898, di fronte alle quali risulterebbero assai più miti; e soprattutto
giuste.

I tumulti furono cagionati dallo sciopero tra i minatori, cominciato il
25 Marzo a Fleurus.

Si riproducono al vero le scene di _Germinal_ e di _Happe-Chaire_ e
divengono persone vive i tipi dei capolavori di Zola e di Lemonnier.
Le bande degli operai gridando: _Viva la repubblica!_ cantando la
marsigliese, seguendo le bandiere rosse, percorrono eccitatissime il
paese; pregano, minacciano, impongono lo sciopero e dalle miniere di
carbone lo comunicano alle vetriere.

Da principio il governo non interviene; ma il suo intervento diviene
una vera necessità di ordine sociale. Sono gli scioperanti armati
di revolver, i primi a far fuoco a Gilly sulla guardia civica il 27
Marzo. A Roux, poco dopo, la truppa fa fuoco, ma per difendere uno
stabilimento, che gli scioperanti si ostinavano a voler prendere per
distrurlo.

Di che cosa fossero capaci i tumultuanti, si vide in diversi punti.
Vi furono scene dì orrore vero e se ci si attenesse alle descrizioni
che ne dettero i monarchici e i clericali, si potrebbe credere alla
calunnia suggerita dalla passione di parte; invece sono gli scrittori
socialisti che confessano i saccheggi, i ricatti, le distruzioni,
gl’incendi vandalici degli scioperanti di Marzo[122]. Ciò che fecero
da Baudoux, un industriale odiato per i perfezionamenti introdotti
nell’industria vetraria, fu incredibile. Una banda ubbriacata di
saccheggio e di distruzione, dicono Vandervelde e Destrèe, incendiò
tutto lo stabilimento, e saccheggiò l’abitazione del Baudoux, mentre
una folla immensa assisteva indifferente, senza prestare soccorso ed
aiuto di sorta. Al seguito degli scioperanti, aggiungono gli stessi
scrittori socialisti, sbucarono dalle loro tane oscure tutte le bestie
immonde, i vagabondi, i pregiudicati, i malfattori, che si fanno
innanzi in ogni movimento sociale (pag. 69 e 70).

Scene analoghe non si videro in Italia; ma ciò che rende veramente
caratteristica la differenza fra i tumulti del Belgio e quelli italiani
fu sopratutto la causa.

Si sa che la fame fu la grande sobillatrice fra noi. Nel Belgio i
minatori soffrivano alquanto; ma non in modo eccezionale da spiegare i
barbarici eccessi menzionati. Destrèe e Vandervelde confessano: _questo
sciopero sembrava che non avesse alcuna ragione particolare; era
diretto contro gli speculatori, contro il Governo, contro la Società,
contro chiunque..._ Era una solenne protesta sociale! C’era ignoranza
profonda nel popolo sollevato, che non sapeva ciò che voleva.... _C’era
nella sommossa un desiderio brutale, feroce, incosciente di godimento e
di ricchezza._

Da particolare a particolare, questo si chiama furto. Ma da classe a
classe, da nazione a nazione, ciò cambia carattere e costituisce il
preludio delle grandi rivoluzioni sociali (pag. 65 e 66).

E meno male se gli scioperanti fossero stati i soli minatori; ma i
vetrai, continuano i due scrittori socialisti, non erano miserabili
e non avevano alcuna seria ragione per porsi in isciopero. Forse si
sono esagerate le loro buone condizioni; ma ciò non pertanto esse
erano soddisfacenti: _la maggior parte avevano una casa, dei risparmi,
godevano di un certo comfort, erano una specie di aristocrazia nelle
classi operaie e avrebbero dovuto rimanere estranei allo sciopero_
(pag. 67).

A Milano, a Napoli, a Firenze, nessuno dei condannati si trovò nelle
condizioni dei saccheggiatori e degli incendiari del Belgio; ma le
condanne non furono inferiori. Nel Belgio sembrarono enormi le condanne
di Charleroi, da sei mesi di prigione al disotto, per oggetti rubati
negli scioperi e ci fu uno scoppio d’indignazione perchè un Gillet fu
condannato ad _otto giorni_ di carcere perchè trovato possessore di
un pugnale e perchè minacciò un maggiore dell’esercito. In Italia gli
_otto giorni_ sarebbero divenuti _otto anni_ di reclusione; e nessuno
se ne sarebbe sorpreso!

Ma la iniquità delle condanne italiane diventa spaventevole quando si
paragonano a quelle inflitte nel Belgio agli elementi intellettuali,
ritenuti inspiratori e promotori diretti o indiretti dei tumulti.
Alfredo De-Fuisseaux, che col suo _Catechismo del Popolo_, vendutosi
a molte decine di migliaia di copie, aveva certo eccitato moltissimo
gli animi, venne condannato a _sei mesi_ di prigione dalla Corte di
Assise di Bruxelles. Il 4 Giugno, innanzi al giurì di Gand, comparve
E. Anseele sotto l’accusa di avere attaccato la forza delle leggi e di
avere oltraggiato il Re per un articolo pubblicato nel _Vooruit_ nel
quale si scongiurarono le madri di scrivere ai loro figli dell’esercito
perchè non tirassero sugli operai in isciopero e per un discorso
pronunziato in un comizio nel quale, volto agli operai, consigliando la
calma, aveva detto: se voi vi esaltate, il governo non domanderebbe di
meglio che massacrare; _e in questo giorno vi sarebbe festa al palazzo
dell’arcivescovo di Malines ed al castello di Leopoldo II,_ =assassino
I....= Anseele confessò di avere pronunziato queste parole a fine di
bene e nel momento dell’eccitamento; venne assolto e condannato a _sei
mesi_ di prigione per la prima accusa!

_Sei mesi_ di prigione nel Belgio a chi afferma che il capo dello
Stato avrebbe fatto festa per il massacro del popolo, a chi chiama
_assassino_ il Re! li hai ben meritati i tuoi _dodici anni_ di
reclusione, tu, Filippo Turati, che non pensasti mai d’insultare
atrocemente il sovrano d’Italia e che profferisti parole di pace, tali
riconosciute dai tuoi avversari!

Non basta. Si assicura già che il governo prenderà l’iniziativa di una
legge che dichiarerà nulli i voti dati ai condannati politici.

E nel Belgio? Anseele, proclamato candidato in Bruxelles nell’ottobre
1886, viene messo in libertà, affinchè possa sostenere la campagna
elettorale..... Rientra in prigione, perchè non eletto.

Le origini dello sciopero e dei successivi tumulti e gli episodi che
li accompagnarono, i processi — tutto contribuisce a stabilire la
maggiore gravità dei fatti del Belgio. Eppure non venne proclamato
lo stato d’assedio, non sottratti gli accusati ai giudici legittimi,
non proposta alcuna misura restrittiva delle libertà di stampa, di
associazione, di riunione, non pensata alcuna diminuzione del diritto
elettorale.

Appena un mese dopo i tumulti, il 25 e il 26 Aprile, il partito
socialista belga potè riunirsi liberamente a congresso a Gand ed una
colossale manifestazione in favore dei condannati potè farsi in Agosto
a Bruxelles, dove già si era esasperati perchè il borgomastro Buls —
senza ingerenza del governo — l’aveva proibita in Giugno; e solenni
manifestazioni, punite in Italia, come apologia di reati, si svolsero
pacificamente in tutte le città del regno.

Questo avviene nel Belgio, dove la dinastia dei Coburgo regna da
sessant’anni appena ed è straniera e non crede di avere speciali
benemerenze per la liberazione e per l’unificazione del paese...

In Italia... in Italia, — ricordiamolo, per attenuare l’amarezza che
suscita la reazione e l’abbiezione presente, in altri tempi non si
procedeva come si procede al giorno d’oggi. Era maggiore il rispetto
delle leggi, lo Statuto pareva cosa viva, vi si godeva di un _minimum_
di libertà indispensabile in uno stato civile contemporaneo. Le radici
delle istituzioni non erano e non potevano essere più profonde che oggi
non siano e le scosse erano forti; ma la reazione, dopo Aspromonte,
dopo il massacro di Torino — allora il Re licenziò il ministro che
l’aveva consumato — dopo Mentana, dopo i tentativi insurrezionali e le
cospirazioni del periodo 1869-71, non raggiunse mai l’intensità e la
sfacciataggine di quella odierna.

Non rievocheremo i ricordi dei tempi delle lune di miele del popolo
collo Statuto, quando Didaco Pellegrini, eletto mentre era in prigione
per reato politico — 2 Dicembre 1848 — venne convalidato e liberato;
ma è bene ricordare questo episodio, che si riferisce al periodo più
burrascoso della nostra storia. Si era nel 1867 ed a Firenze, appena
conosciuto l’arresto di Garibaldi a Sinalunga, una dimostrazione
imponente protesta; e protesta con intendimenti, che non ebbero mai
i tumultuanti del 1898 nè a Milano, nè altrove; infatti si disarma il
picchetto di Guardia nazionale a Palazzo vecchio e si saccheggiano due
botteghe di armaiuoli; un brigadiere di P. S. viene ucciso e diciotto
agenti feriti. Nulla seguì che possa paragonarsi alla reazione odierna.

Ma il guasto odierno è immenso e nella speranza di suscitare un
salutare risveglio, è necessario che si tracanni sino all’ultima stilla
il fiele dei confronti storici.

Faremo l’ultimo, che riuscirà amarissimo ai bigotti della monarchia
sabauda e che farà rinnovare l’accusa sciocca di leso patriottismo
contro chi lo pone: quello col governo borbonico — col _governo
negazione di Dio_.

Nel mezzogiorno, il popolo ha posto già il confronto; e quando certi
movimenti della pubblica opinione esistono, il dissimularseli non
sarebbe che una ipocrisia, una menzogna pericolosa. Il popolo ha posto
tanto il paragone, che deve riuscire la più degradante condanna della
presente reazione, che il poeta dialettale notissimo, Ferdinando Russo,
la sua canzone per Piedigrotta — per la festa più popolare di Napoli,
la festa nella quale si espande l’anima del popolo, la fa seguire dal
ritornello: _Franceschiello, Franceschiè_....

C’è chi s’indigna ed approva il sequestro di una canzonetta, che
per bocca di un _tipo di plebeo sordidamente ignorante si aggira su
questo ignobile tema:_ =Si stava meglio sotto il Borbone=[123]. Questa
indignazione è del tutto inopportuna o va riserbata tutta, intera,
contro i governanti, che hanno fatto strazio dell’Italia ed hanno reso
possibile il paragone[124].

Ma è proprio possibile questo confronto?

Chi non tiene conto delle mutate condizioni psicologiche, dei
progressi politici e intellettuali, dapertutto compiutisi, nega la
possibilità di questi confronti, soprattutto perchè non trova oggi in
Italia notizia di fucilazioni, che furono tanto frequenti nel regno
delle due Sicilie. Costoro non hanno senso storico e dimenticano che
Ferdinando II, se oggi governasse ancora a Napoli, non sarebbe quello
di sessanta anni fa, anche senza essere stato costretto a trasformarsi
da alcuna rivoluzione. I Borboni di Francia, rimessi sul trono dalla
Santa Alleanza, non si sognarono mai di potere cancellare la storia
— questa stolta idea non albergò che nella mente del Re di Sardegna
— e non ostante gli orrori del _terrore bianco_, nei primi momenti
della restaurazione, non credettero mai più di potere riprendere quei
diritti assoluti che con Luigi XIV confusero lo Stato colla persona
del Re. Dopo l’assassinio del Duca di Berry, i reazionari rovesciarono
il Decazes chiamandolo complice di Louvel: _il principe_, dicevano,
_è stato pugnalato da una idea liberale_. Ma fu cosa transitoria; e
durò meno di quella stessa reazione che in termini identici accusò
Zanardelli e Cairoli di avere armato il pugnale di Passanante. La
ragione dei tempi s’impose, sotto la restaurazione, in guisa che
i più convinti monarchici, che altra volta non si scandalizzarono
delle Saint Barthelemy e delle Dragonnades, per bocca di Demarcay e
di Casimir Perier protestarono fieramente per avere visto i dragoni
caricare la folla inoffensiva; questa ragione dei tempi indusse anche
i legittimisti a protestare contro la soppressione di un giornale e
l’arresto del suo direttore Robert, rese gigante Manuel in Parlamento
sotto la restaurazione e mentre assicura la popolarità al mordace Paul
Louis Courier, induce i De Remusat, i Thiers a protestare in difesa
della libertà della stampa contro le ordinanze di Luglio.

Questa stessa ragione dei tempi, che comincia ad imporsi alla Russia
e s’imporrà alla Turchia, non ostante la protezione dell’Imperatore
di Germania, avrebbe trasformato Ferdinando II, che si sapeva Re per
diritto divino e che nulla credeva dovesse al popolo. Che cosa avrebbe
fatto Re Bombase il popolo, colle sue battaglie e coi suoi sacrifizî,
lo avesse creato Re d’Italia?

Un parallelo tra le condizioni odierne e quelle del regime borbonico
non si può porre in Sicilia, nè prima del 1848. Non in Sicilia, per lo
stesso motivo per cui delle istituzioni e della educazione politica
inglese non se ne può giudicare vedendole alla prova in Irlanda.
Non prima del 1848, perchè il reame di Napoli era vissuto al difuori
delle correnti innovatrici europee e della ferocia politica era meno
responsabile di quella identica che il governo del Regno di Sardegna
spiegò sino a quell’epoca verso la _Giovine Italia_ o verso i liberali
del 1821.

Non possono sorprendere anche dopo il 1848 le fucilazioni ch’erano
nei codici non solo, ma nella coscienza pubblica. Sarebbero uno
spaventevole anacronismo oggi in Italia pei reati politici, quando la
pena di morte è stata abolita per gli assassini comuni efferati e pei
parricidi.

Comunque, tale quale la consentivano i tempi e le istituzioni
politiche, l’azione del governo borbonico dopo il 1848 nel continente
napoletano non perde nel paragone con quello del governo italiano nel
1898. Questo insegnano i fatti, che desumo dalle sorgenti più ortodosse
per patriottismo o per italianità[125].

Ricordiamo e confrontiamo. L’avvenimento più clamoroso contro i
Borboni fu il sangue versato in Napoli il 15 Maggio 1848. Si disse
che Ferdinando II per fare sorgere le barricate ed avere pretesto
alla repressione, si sia servito di agenti provocatori. L’accusa trova
oggi smentita nella _Nuova Antologia_ per bocca del Masi, e la si deve
considerare come una calunniosa fandonia.

Più interessanti sono gli episodi che si svolsero nella triste giornata
e che la seguirono.

Il 15 Maggio, in Napoli, si contavano 79 barricate vere — e non uso
Milano — con difensori armati, che sparavano ed ammazzavano — difensori
che nessuno potè vedere a Milano: la forza non potè acchiapparne uno
solo!

Verso le 11 e mezza i primi colpi erano tirati; alla caduta di un
granatiere e di un capitano della guardia, il fuoco si accende ben
nutrito. Michelangelo Ruberti fa tirare da Sant’Elmo sulla città; ma
a polvere — i cannoni sparavano a mitraglia nelle strade di Milano.
Un maggiore, sei ufficiali e ventuno soldati vennero uccisi; due
colonnelli, undici ufficiali, centottantuno soldati feriti con arma da
fuoco. Queste sono, del resto, le perdite dei soli _Svizzeri_; non vi
sono comprese quelle della guardia reale e degli altri corpi militari.
A Milano un solo soldato fu ucciso; e nessuno può assicurare che lo sia
stato dai tumultuanti.

Dalle perdite delle truppe si dovrebbe argomentare che a Napoli
gl’insorti — insorti veri — abbiano dovuto avere perdite enormi;
e Nisco calcola che i morti siano stati 500, tra cui 19 donne; ma
l’esagerazione è evidente. Più ragionevole pare quindi la cifra che
altri dà di 132 morti e 600 feriti tra l’una e l’altra parte. Di poco
quindi, in una vera battaglia, sarebbero stati superati i caduti di
Milano.

D’Hervey Saint-Denis — un borbonico — afferma che durante la lotta
nessun cittadino inoffensivo fu colpito se non a caso. A Milano quasi
tutti gli uccisi erano cittadini inoffensivi: non ne fu trovato uno
solo armato. Mac Farlane scriveva a lord Aberdeen che il Re avesse
detto ad un generale che chiedeva istruzioni: _risparmiate i miei
sudditi, fate prigionieri, non uccidete!_ Mettiamo in quarantena questa
pietà di Re Bomba, perchè affermata da uno straniero — uno scultore —
stipendiato dal governo borbonico; mettiamola in quarantena, quantunque
siano numerose le prove della sincerità della pietà di Ferdinando II,
ma c’è un atto che fa onore al tatto politico di Ferdinando II e che
da nessuno è messo in dubbio: _800 prigionieri furono lasciati liberi
all’indomani del 15 Maggio!_ Quest’atto non compensa la fucilazione
dei 27 prigionieri presi coll’arma alla mano, fatta eseguire dal Conte
d’Aquila?[126] Qui manca il termine di paragone per l’Italia... Allora
come oggi venne proclamato lo stato di assedio; ma quanta differenza, a
disdoro dell’Italia una, libera!

Ecco il decreto del Maresciallo Labrano — il Bava Beccaris del tempo —
se si può insultare la memoria di un uomo con questo paragone.

L’art. 1 istituiva una Commissione inquirente.

L’art. 2 diceva: «La Commissione ha l’incarico d’inquisire su tutti
i reati contro la sicurezza interna dello Stato e contro l’interesse
pubblico _che sono stati commessi dal 1º Maggio_ in poi e che si
potranno commettere fin che dura lo stato d’assedio.

Art. 3. Dopo l’inquisizione, la Commissione rimetterà gli atti alle
_autorità ordinarie competenti a norma delle leggi di Procedura
Penale_.

Art. 4. La Commissione avrà facoltà di fare incarcerare le persone per
misura preventiva e ritenerle in carcere _per un periodo non maggiore
di 15 giorni,_ dopo i quali dovrà rimandarli all’autorità competente
per farli giudicare».

Dedichiamo questo decreto a coloro che commemorarono in Napoli il
15 Maggio. In questo decreto, la retroattività era stabilita con
data certa e non si aveva, almeno, un processo per reati commessi
quattordici anni prima... come in Italia.

Lo stato di assedio in Napoli non durò un mese: venne tolto il 14
Giugno 1848. Ma un mese di stato di assedio intensamente applicato in
Napoli avrebbe potuto valere ai servizi della reazione quanto i quattro
mesi di Milano. Adagio, non calunniamo... i borboni.

Si potrebbe pensare che durante lo stato di assedio siano stati
arrestati e processati tutti i liberali — almeno i capi più noti —
punita qualunque manifestazione sovversiva; — così almeno si è fatto
in Italia. Nulla di tutto ciò. A Napoli avvennero cose addirittura
sbalorditive.

A Napoli la _Gazzetta Ufficiale_ pubblicava la lista di sottoscrizione
in favore... dei liberati dal carcere politico. A Napoli il tenente
De Sauget — morto generale del Regno d’Italia — e il tenente di
artiglieria Bellelli rifiutarono le onorificenze date loro per la
repessione dei moti rivoluzionarï... e non furono molestati[127]. A
Napoli si trovò un Procuratore del Re, De Horatiis, che rifiutossi di
sottoscrivere l’ordine di arresto per Silvio Spaventa. Mancano i fatti
analoghi nell’Italia nuova e libera.

A Napoli — caso ancora più sbalorditivo — furono imputate 321 persone
immediatamente dopo il 15 Maggio; ma solo contro 59 arrestati e 11
contumaci continuò il processo. I capi, i veri promotori del movimento,
liberali del resto, non vennero arrestati durante lo stato di assedio —
pare impossibile a chi ricorda i recentissimi casi nostri. Ferdinando
II, l’odiato e odioso _Re Bomba_, non voleva abusare della vittoria;
non ne abusò sino a quando non ricominciarono le manifestazioni
rivoluzionarie e le cospirazioni. Occhio alle date. Il primo arresto
pel processo cosidetto dell’_unità italiana_, nella persona di Nicola
Nisco, avveniva in Novembre del 1848; Silvio Spaventa venne arrestato
il 13 Marzo, Settembrini il 23 Giugno, Poerio il 19 luglio, Scialoia
il 26 Settembre 1849... Un anno e più mesi dopo le barricate di Maggio!
Forse il processo non sarebbe continuato se altri gravi avvenimenti non
avessero allarmato il Re; il 16 Settembre 1849 un gruppo di liberali
volle turbare la benedizione data dal Papa dalla terrazza del Palazzo
Reale, gettando delle vipere; e Faucitano veniva arrestato colle vesti
abbruciate e le mani annerite per una bomba, che gli scoppiava in
tasca.

E come condotti i processi sotto i borboni! Durò otto mesi il processo
cosidetto dei 42; si svolse innanzi ai magistrati ordinari; i migliori
avvocati difesero gl’imputati[128]. Gli storici liberali deplorano
che si sia prestata fede alle deposizioni dei birri del tempo e che si
siano istruiti i processi in base a denunzie anonime.... Sappiamo ciò
ch’è avvenuto in Italia![129].

Le condanne? Severe: tra le quali sette di morte, tutte commutate, nel
solo processo dei 59.

C’è ancora una statistica più eloquente: quella delle condanne. Mariano
D’Ayola, vittima dei borboni, assicura che dal 1815 al 1856, sotto
il _governo negazione di Dio_, ci furono 2067 condanne politiche — in
_quarant’uno anni!_[130] In Italia, in _pochi mesi_, i soli Tribunali
militari di Napoli, Firenze e Milano ne condannarono circa 2500!! E
non si aggiungono le condanne dei Tribunali ordinari in tutto il resto
d’Italia.

Un ultimo confronto: Il trattamento dei detenuti politici. Il governo
borbonico si disonorò trattandoli come i detenuti comuni; questo
trattamento suscitò l’indignazione di Gladstone. Ma che cosa fa di
diverso il governo italiano? Fa qualche cosa di peggio: non concede
ai socialisti e ai repubblicani — anche deputati — quella libertà
di studio concessa da Ferdinando IIº alle sue vittime: Settembrini
traduceva in carcere le opere di Luciano ed a Spaventa si permettevano
libri che per quei tempi erano rivoluzionari[131].

Tivaroni, sdegnoso, protesta perchè si rasero barba e capelli ai
detenuti politici e fossero stati condannati come rei comuni sotto il
borbone; e dice che a quarant’anni di distanza, certe cose sembrano
impossibili. Che diranno i posteri, per lo stesso trattamento fatto
subire a Barbato, a De Andreis, a De Felice, a Turati, a Romussi, a
Chiesi?

Non lo sappiamo. Sappiamo ciò che pensano i contemporanei — tra i
popoli civili e liberi. E sappiamo che l’associazione dei giornalisti
inglesi si è rivolta al Re, invocando un trattamento umano; e
che questo intervento degli stessi giornalisti inglesi, cui sono
associati quelli del Belgio, fa discendere l’Italia a livello della
Turchia; sappiamo che _Ouida_ in Inghilterra, Mead negli Stati Uniti
hanno rievocato il giudizio di Gladstone e lo proclamano a maggior
ragione meritato dal governo italiano. Il Mead, anzi, vorrebbe che
l’ambasciatore degli Stati Uniti protestasse ufficialmente in nome
della lesa umanità. Sappiamo, dunque, che _il libero_ regime italiano
viene giudicato alla pari del _dispotico_ regime dei Borboni[132].

Tutto questo è grave e pericoloso sia per l’Italia che per le sue
istituzioni. Credono alcuni, stoltamente, che a garanzia delle medesime
stia l’esercito; ma anche i Borboni pensavano lo stesso: fu proprio
Silvio Spaventa a constatare, che tutte le cure del governo _negazione
di Dio_ erano state rivolte all’esercito e che la reazione che li aveva
separati dalla parte morale e intelligente della popolazione, li aveva
gettati nelle braccia dei militari. Ma l’esercito non li salvò.

Il Tivaroni, chiudendo il suo studio sul regime borbonico, ricordati
i processi, le condanne e i mali trattamenti fatti subire ai detenuti
politici, osserva: «con tali mezzi la dinastia borbonica scavava con le
sue mani la propria tomba».

Che la dinastia savoiarda possa finire in ugual modo nessuno crede;
— _honny soit qui mal y pense!_ — ma è innegabile che alcuni suoi
consiglieri mettono dell’impegno per rovinarla. Dopo tutto, se la
reazione durerà, sarà la prima volta nella storia, che essa avrà
salvato una istituzione ed una dinastia.

Le lezioni della storia, però, non devono essere rammentate soltanto
ai conservatori ed agli uomini dell’ordine. La storia insegna pure:
«che il quarantotto italiano, compiuto poi nel sessanta, non fu
neppure politico, fu strettamente nazionale e meschinamente unitario
e dinastico. L’Italia attende ancora il suo quarantotto politico, che
le dia le condizioni essenziali della vita moderna e le permetta di
studiare il passo sulla via già percorsa dalle nazioni sorelle».

Questo insegnamento dovrebbero ricordare tutti i democratici italiani;
e non dovrebbero dimenticare un solo istante soprattutto i socialisti
italiani, che la pacifica ed onesta voluzione economica da loro
vagheggiata non sarà possibile senza la preliminare conquista della
libertà politica. L’ammonimento viene a loro da Filippo Turati; ma se
la voce eloquente del recluso di Pallanza non potesse essere ascoltata,
dovrebbe essere inesorabilmente ascoltata quella che vien fuori dagli
ultimi tumulti, che somministrarono il pretesto alla presente reazione.



DELLO STESSO AUTORE


  =La libertà e la quistione sociale=. Milano 1879  (_Esaurito_).
  =La repubblica e le guerre civili=. Firenze 1882  (_Esaurito_).
  =Le Istituzioni Municipali=. Catania 1883            L. 3,00
  =La delinquenza della Sicilia=. Palermo 1885.
    (_In preparazione la seconda edizione_).
  =L’alcoolismo: sue conseguenze morali e sue
    cause=. Catania 1887                               »  3,00
  =Oscillations thermometriques et delicts contre les
    personnes=. Lyon 1887                              »  1,00
  =Corruzione politica=. Catania 1888 (_Esaurita
    la prima e seconda edizione_).
  =La Sociologia Criminale=. 2 grossi vol.
    Catania 1889                                       » 13,00
  =Ire e spropositi di Cesare Lombroso=. Catania 1890  »  1,25
  =La politica coloniale=. Seconda ediz. Palermo 1892  »  3,50
  =La difesa nazionale e le economie militari=.
    Catania                                            »  1,00
  =Banche e Parlamento=. Milano 1893                   »  2,00
  =In Sicilia=. Roma 1894                              »  1,00
  =Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause=.
    Palermo                                            »  2,00
  =Consule Crispi=. Palermo 1895                       »  1,25



PUBBLICAZIONI

DELLA SOCIETÀ EDITRICE LOMBARDA


  =Felice Cavallotti nella vita e nelle opere= IX ediz.      L.  2,50
  BJÖRNSON      =Il Re= (traduzione di F. Fontana)            »  2, —
  M. MAZZOLANI  =Via Trita= — Versi —                         »  3, —
  FR. CHIESA    =Preludio= — Versi — (_con 19 illustr._)      »  5, —
  T. PEYRANI    =Verità e ignoranza= (_studio critico sulle
                  credenze religiose_)                        »  2, —
  DARIO PAPA    =Viaggi= (III edizione 500 pag.)              »  3, —
  F. FONTANA    =Poesie Vecchie e nuove= (III edizione
                  500 pagine)                                 »  2,50
      »         =Viaggi in Europa, in America, in
                  Africa= (III edizione 500 pagine)           »  3, —
      »         =La Polpetta del Re= (_illustrazioni di
                  L. Conconi_)                                »  —,50
  G. VENANZIO   =Giovani= (Goliardica)                        »  3, —

                           L’ITALIA FEMMINILE
                          GIORNALE SETTIMANALE
                 _Mode, Lavori femminili, Letteratura_
               _Questioni del giorno, Attualità, Varietà_
                        Abbonamento annuo L. 5.
                    Un numero separato Centesimi 10

  Lodi. — Tip. E. Wilmant, 1898



NOTE:


[1] (_Gli avvenimenti di Sicilia._ R. Sandron. Palermo 1894, pag. 505 a
808).

[2] La riforma tributaria fu iniziata nel 1842. Fece un passo
gigantesco, mercè l’efficacissima cooperazione di Gladstone, nel
1845-46. Fu, si può dire, condotta a termine dal solo Gladstone nel
1853 e nel 1860. Sulla riforma tributaria inglese sono da leggere vari
eccellenti articoli pubblicati dal Prof. Ricca Salerno nella _Nuova
Antologia_ ed uno del Conigliani (_Gladstone e la finanza inglese_)
nella _Riforma Sociale_ del 15 Luglio 1898. Sul movimento _cartista_,
coloro che vogliono averne piena conoscenza, potranno leggere le opere
di Henriet Martineau, di Molesworth, di Justin M’Carthy. Un’idea chiara
l’avranno dallo scritto vivace, quasi drammatico, di Paolo Valera:
_L’insurrezione Chartista in Inghilterra_, con Proemio di Filippo
Turati. (Milano 1895, presso la _Critica Sociale_). Paolo Valera, nella
cella del reclusorio di Finalborgo, potrà meditare sulla differenza
tra l’Italia e l’Inghilterra, ch’egli aveva studiata ed esposta
senza sospettare, che doveva poco tempo dopo averne la dolorosa prova
personale.

[3] Sul _Picketing_ si riscontrino gli accenni del mio opuscolo: _La
grande battaglia del lavoro_. Per più ampie notizie sulla importanza
delle leggi del 1870 e 1875 e sulla riconosciuta consuetudine del
_Picketing_ che ne risultò, si leggano: Howell: _Le passé et l’avenir
des Trades Unions_; Coniugi Webb: _Histoire du Trade Unionisme_; K.
Lavolléc: _Les classes ouvrières d’Europe_, Vol. III, _Angleterre_.

[4] Mi sia permesso ricordare che queste idee svolsi sommariamente nel
1879 in un opuscolo: _La questione sociale e la libertà._ (Milano;
Tipografia Gattinoni) Lo ricordo non per vanità, ma per convincere
il lettore che non per comodità polemica suggeritami dagli altri
avvenimenti ricorro a certi confronti; sibbene perchè gl’insegnamenti
che ne scaturiscono formano parte integrale del mio patrimonio
intellettuale senza alcuna subordinazione od opportunismo politico di
sorta.

[5] La diversità di queste manifestazioni ho illustrato in: _Mouvements
sociaux en Italie._ Parigi 1898. Presso la _Rivista Popolare._ L. 1.

[6] Ho raccolto molte date e molte cifre da vari giornali d’Italia e
con particolarità dal _Secolo_ di Milano e dalla _Tribuna_ di Roma che
ebbero il più largo servizio telegrafico ed epistolare dalle provincie.

[7] Il _Corriere della Sera_ annunziò che ciò che stampava
_naturalmente_ era sottoposto alla revisione del Regio Commissario
Straordinario. _I Tribunali, Giornale di cronaca e di critica
giudiziaria_, non poche volte negli appositi _supplementi_ ha degli
spazi bianchi, che rappresentavano i brani soppressi del resoconto
stenografico. C’è una soppressione nel dodicesimo processo pei fatti
di Sesto S. Giovanni; ma sono quattro nel tredicesimo per le barricate
di Porta Venezia. In questo processo venne soppresso anche un brano
della requisitoria dell’avvocato fiscale.... Per la narrazione mi sono
servito dei giornali locali — con particolarità del _Corriere della
Sera_ — e di memorie fattemi pervenire da testimoni oculari.

[8] Un caso identico a quello del 6 Maggio si ripetè a Milano nella
stessa via Napo Torriani quattro mesi dopo; ma non si venne alle
fucilate perchè la polizia fu più prudente.

[9] La figura del Questore Minozzi si avrà intera da questa risposta
data da lui nell’Udienza del 28 Luglio innanzi al Tribunale militare.
_Presidente:_ È vero che disse al Turati «_quando c’è lei non succedono
disordini_»?

_Questore Minozzi:_ Sì, perchè egli sa contenersi molto bene nei
discorsi, è padrone delle parole, ha molta influenza sulle masse
operaie e _quando vuole non succede niente; ma se non vuole sa
incitare, per il che, se avvengono tumulti_, =è perchè egli li ha
voluti=.

Superflui i commenti alla insinuazione loiolesca.

[10] Ho l’elenco nominativo di questi casi. Non lo pubblico per motivi
facili ad immaginare.

[11] Il sig. Stillman — l’uomo nefasto che per venti anni ha falsato
l’opinione pubblica d’Inghilterra sulle cose d’Italia, per mezzo delle
sue corrispondenze al _Times_ — ritiratosi in America ha avuto il
coraggio di scrivere al _Transcript_ di Boston che i moti d’Italia non
furono determinati dalla fame, ma da una cospirazione repubblicana,
i cui capi erano al servizio del Papa e della Francia.... La buona
e gentile vedova di Dario Papa, Fidelia Dinsmore, ha smascherato
l’indegno calunniatore.

[12] La _Perseveranza_ ed altri giornali reazionari sperano di poter
giustificare le eccessive misure repressive e la reazione bestiale
colle relazioni, che ha promesso di pubblicare il governo. È bene si
sappia che tali documenti, come tutti i documenti ufficiali, saranno
compilati _ad usum delphini_: conterranno tutto, meno la verità e lo
ha confessato coll’abituale franchezza il generale Pelloux. Egli in
Senato, rispondendo al senatore Cannizzaro, dichiarò che pubblicherà
una relazione sugli ultimi fatti, ma soggiunse che _non si può
tutto dire al pubblico perchè certe cose è bene che il pubblico non
le sappia_. Il soldato così prometteva lealmente... di non dire la
verità... Per la Storia è bene aggiungere che in questa condotta venne
incoraggiato dall’onor. Saracco con le seguenti dichiarazioni che gli
fruttarono la Presidenza del Senato:

«Il ministero dell’Interno vedrà quello che si può dire e quello che
non si può dire sui moti di Milano e di altri paesi dove fu mestieri
ricorrere alla repressione.

«Egli farà, probabilmente, come fanno i ministri degli affari esteri,
preparerà cioè il suo libro verde, giallo o nero, ma dirà solo quanto
conviene si dica, e nulla più.

«Se domani il ministro degli interni, d’accordo coi suoi colleghi,
presentasse una relazione dalla quale risultasse che i moti dello
scorso maggio si spiegano in molta parte col disagio economico, pare
a me che farebbe opera non solamente vana, ma insana, se non sapesse
di poter presentare contemporaneamente i provvedimenti più acconci
per migliorare questa disgraziata situazione che fu cagione o pretesto
delle sommosse».

Se abbia accettati i consigli e come li abbia messi in esecuzione,
vedrassi, dal rapporto del Generale Bava di cui si farà parola più
innanzi.

[13] Per completare le notizie sulla natura dei fatti che determinarono
la proclamazione dello Stato di assedio in Toscana, aggiungo
che la _Gioventù monarchica_ portò una vivace protesta contro il
contegno provocante della questura di Firenze il giorno 7 maggio al
_Fieramosca_. Questo — giornale monarchico e temperato — scrisse che
_sarebbe bastata una buona annaffiata per spazzar via la ragazzaglia
che si abbandonò ai tumulti_.

[14] La _Perseveranza_, del giorno 9 Maggio, ad esempio, denunzia
formalmente _La Brianza lavoratrice_; dice cosa iniqua il non
sequestrarla. Dopo avere dato precise indicazioni al Procuratore del
Re, si compiacque in un numero successivo che fossero stati esauditi
i suoi desideri. Dei singoli privati la stessa _Perseveranza_ scrisse
in guisa che la _Lega Lombarda_ ebbe a parlare di _delazioni_. Il
giornale milanese prese gusto al mestiere e denunziò pel sequestro
_L’Italia Nuova_ di Lugano, il _Dovere_ e la _Rivista popolare_
di Roma. Un trafiletto della cronaca del _Corriere della Sera_ sul
linguaggio dell’_Italia del Popolo_ del giorno 6 Maggio, parve una
denunzia per la soppressione avvenuta immediatamente dopo. Parecchi
giornali accolsero e commentarono quel trafiletto come vera denuncia.
Quando il commento venne riprodotto nella _Rivista popolare_, il
_Corriere della Sera_ protestò energicamente. In quella protesta sta
la più severa condanna dell’atto in sè e della _Perseveranza_ che
l’ha ripetuto. Sento il dovere altresì di scindere le responsabilità
nel parlare dei conservatori lombardi. Una parte di essi inflisse il
biasimo più severo alla condotta dei reazionari. La lettera aperta di
Torelli-Viollier a Luigi Roux (_Stampa_ di Torino 1898, N. 163) rimane
un documento schiacciante contro gli ubbriachi reazionari di Milano.
La parte giovane e sinceramente conservatrice della Lombardia fece
sentire più volte la sua voce anche durante lo stato di assedio, per
mezzo dell’_Idea liberale_ di Milano. Ma tutta l’amarezza dell’animo
per lo strazio dello Statuto, della legge e della libertà, detta
rivista la manifestò appena potè sentirsi liberata dalla cappa di
piombo del generale Bava Beccaris, con una lettera aperta del direttore
G. Borelli indirizzata a me (N. del 15 Settembre 1897). Anche tale
lettera suona condanna severissima dello stato di assedio e dell’opera
compiuta dai reazionari. La voce del Torelli-Viollier e del Borelli
hanno eccezionale importanza perchè è quella di due monarchici e per
soprassello moderati, che conoscono gli uomini e gli avvenimenti del
loro paese. Il Borelli e l’_Idea liberale_ si possono considerare come
la espressione dei sentimenti del _Circolo Popolare_ di cui il profugo,
che citerò più innanzi, scrive che è un gruppo _quasi repubblicano per
la monarchia e troppo monarchico ancora per la repubblica_ e che perciò
non potè fare molta strada.

[15] _Per la verità_. Appunti sullo stato di assedio a Firenze del
Comm. *** — Firenze, Settembre 1898. pag. 6 e 7.

[16] _La sommossa di Milano_ — Note di un profugo — Ginevra 1898, pag.
13 a 29.

[17] _Note di un profugo_, pag. 29. Il _profugo_ è il Professore Ettore
Ciocotti.

[18] _Lo stato romano dall’anno 1815 al 1850_ — Firenze — Le Monnier,
1853 — Vol. I, pag. 11.

[19] L’ordine del giorno votato dal Consiglio Comunale di Milano su
proposta del Senatore Negri venne votato per alzata e seduta. Tutti si
alzarono ad eccezione dei consiglieri Majno, Angiolini e Carabelli.

[20] Discorso pronunciato alla Camera dai Deputati sul Disegno di legge
per l’ordinamento dell’esercito nella tornata del 5 maggio 1897. A
proposito di onorificenze si ricordi la polemica sollevata da Massuero
— convintissimo monarchico — colla notizia pubblicata sulla punizione
grave — la messa in disponibilità — inflitta al colonnello Crotti
per avere rifiutato qualsiasi onorificenza agli ufficiali del proprio
reggimento. La motivazione del rifiuto era elevata: da soldato che ama
il proprio paese. L’_Esercito_ smentì fiaccamente; ma seguitando la
polemica potè anche sapersi che chi propose la punizione sia stato il
Generale Pallavicini, forse quello che diresse il fuoco ad Aspromonte
contro Garibaldi. Se è lui, si vede che invecchiando non ha mutato
natura.

[21] Molti monarchici protestarono contro le pazzesche manifestazioni
di riconoscenza all’esercito; nobilmente il prof. Nitti nella _Riforma
Sociale._ L’aberrazione dei civili fa comprendere perchè, ubriacatisi
di lodi, abbiano perduto la testa i militari. Un capitano Ranzi,
nei servizi resi dall’esercito nel 1898 trovò la giustificazione
del militarismo e l’occasione per attaccare aspramente Guglielmo
Ferrero per le sue brillanti conferenze contro la guerra e contro il
militarismo — riunite in volume e pubblicate da Treves — alle quali,
quasi, si attribuivano i tumulti. Ferrero rispose con un magistrale
articolo nella _Vita Internazionale_ di Milano (Novembre 1898) mettendo
in evidenza la poca consistenza delle virtù dei nostri ufficiali.

[22] Nella seduta del Consiglio Comunale di Milano del 22 agosto
1898, venuta in discussione la trasformazione dello Statuto
dell’_Umanitaria_, il consigliere De Herra adoperò frasi scottanti
contro il colpo di mano dei moderati, che trassero profitto dello stato
di assedio per impadronirsene. L’amministrazione, anche sotto lo stato
di assedio, impose la nuova cinta daziaria. Ci fu chi volle assicurare
il _maximum_ della impopolarità alla setta, proponendo il collocamento
sulla piazza all’uopo destinata della statua di Napoleone III, nascosta
da tanti anni nell’atrio del palazzo del Senato dove la confinò la
volontà dei cittadini.

[23] Basta leggere l’ultimo numero del _Secolo_ (7-8 maggio)
pubblicatosi sotto il regime della sciabola per convincersi della
brutalità della misura presa dal Regio Commissario in odio non dei
repubblicani e dei socialisti, ma dei semplici democratici. In quel
numero, in prima pagina, si parla, è vero, con parole severe del
cinquantenario dello Statuto, che doveva celebrarsi l’indomani in
Torino; ma le sue parole erano più moderate di quelle di molti altri
giornali che non furono neppure sequestrati. In terza pagina poi,
a proposito dei tumulti del giorno precedente, c’era un appello
che incitava i cittadini alla calma che avrebbe potuto scrivere e
sottoscrivere qualunque uomo d’ordine. Nè si dica che la paura od il
senso dell’opportunità abbiano suggerito tale linguaggio: in parecchie
altre occasioni — e particolarmente nel 1886 all’epoca dei tumulti
provocati dai moderati pel dazio municipale sul pane — il _Secolo_ non
usò termini diversi.

[24] Sino a pochi giorni dopo i tumulti di Milano, faceva pena ad
ascoltare i discorsi reazionari fierissimi che tenevano nei corridoi
di Montecitorio alcuni deputati ritenuti veramente liberali. La verità
sui pericoli corsi dalle _istituzioni_ e dalla _civiltà_ non era
ancora conosciuta. Uno studio particolare meriterebbe l’attitudine
dei vari giornali liberali, in generale disenzienti dai deputati delle
rispettive regioni, dal quale risulterebbe la poca influenza esercitata
dalla stampa nel creare le correnti della opinione pubblica. I giornali
più ferocemente reazionari si sono affermati in Lombardia, nell’Emilia,
nel Veneto, ecc., mentre si può dire che mancano in Sicilia e nel
mezzogiorno: ivi manca il pericolo democratico.

[25] Un giornale pubblicò una notizia degna di fare la compagnia, se
vera, con questo sequestro: alla Biblioteca Marucelliana non si danno
più in lettura per ordine superiore i libri socialisti; ad un prete fu
negato il _Capitale_ di Marx.

[26] In fatto di sequestri va rilevata la vera anarchia nei criteri
dei magistrati. Si sequestra in una città ciò che venne liberamente
pubblicato altrove. Si sequestra a Varese un articolo di _Vamba_ non
sequestrato in Roma. Più tipico il caso mio e della _Rivista popolare_.
Si sequestrò _la Valtellina_ di Sondrio perchè aveva riprodotto un
articolo mio non sequestrato in Roma quando comparve sulla _Rivista
popolare_. Si fa il processo; vengo regolarmente interrogato dal
giudice istruttore come autore dell’articolo; ma all’ultima ora si
lascia in pace me e si condanna dal Tribunale di Sondrio il povero
gerente della _Valtellina_.... Nell’articolo si faceva l’apologia....
della monarchia inglese! Quegli ottimi magistrati nel parallelo che
ogni lettore poteva fare videro una offesa alla monarchia italiana.

[27] _La liberté economiques et les evenements d’Italie._ Lausanne
1898. p. 5. Il Pareto narra questo edificante episodio accaduto a
Sulmona. Un meccanico ferroviere va dal barbiere e si fa radere
quando viene il suo turno. Aveva dimenticato che in forza della
militarizzazione dei ferrovieri egli non era che un sergente. Un
capitano di fanteria arrivato dopo di lui lo mise agli arresti perchè
non aveva ceduto il posto al superiore. Numerosi altri casi consimili
si sono verificati in ogni parte del regno.

[28] PARETO, pag. 8. Nella _Grande battaglia del lavoro_ (Roma 1898)
ha stigmatizzato questa sleale concorrenza che il governo fa fare
dai soldati ai lavoratori a vantaggio dei proprietari. In Lombardia i
soldati furono anche adibiti per mungere le vacche.

[29] Il reato massimo che somministrò il pretesto per la destituzione
del Prof. Gottardi fu il suo opuscolo: _La boie_ scritto in dialetto
e nel quale così riassume il catechismo socialista: «Amé i vostri
bambini, le vostre done, i vostri veci. Per esser socialisti bisogna
esser boni. Bisogna sentirse capaci de amar tuti, de no odiar
nessuno, altro che el mal». I tre maestri di Milano puniti avevano
rispettivamente 19, 23 e 29 anni di servizio. Lina Malnati, una delle
punite, mandò al Secolo questa nobile lettera.

  «Agli onesti giornali che han difesa la causa dei maestri
  socialisti, il mio ringraziamento speciale.

  «Ventitrè anni e mezzo di onorato servizio — la scrupolosa cura
  di non portare le mie idee politico-sociali nel sereno ambiente
  della scuola, non valsero a salvarmi dalla condanna pel delitto
  di pensare a modo mio, fuori di scuola. Chino la testa innanzi
  all’ingiusto provvedimento, ma rialzo l’anima nella quale mi riposa
  tanta altarezza e tanta dignità, da soffocarvi ogni sentimento di
  rancore o di rivolta. Mi vien tal luce dalla coscienza, che basta
  essa sola a confortarmi nell’immenso dolore di dover dare un addio
  alla mia scuola.

                                              _Dev._ LINDA MALNATI.

[30] Ho esaminato la questione della legalità dello Stato d’assedio e
dei Tribunali militari altrove (_Gli avvenimenti di Sicilia e le loro
cause_. Palermo, Remo Sandron 1895, Cap. XXI). La grave controversia
più volte si è dibattuta in Parlamento e venne esaminata con rara
perspicuità dalla Commissione per l’Esame delle questioni legali
riguardanti la difesa davanti ai Tribunali di Guerra (Agrati, Alberti,
Ferrari, Majno e Valdata) nominata dall’_Associazione Lombarda dei
Giornalisti_ (Milano Tipografia Nazionale di V. Romperti 1898).
L’onor. Avv. Carlo Altobelli riassunse brillantemente le ragioni
giuridiche costituzionali, che stanno contro lo Stato di Assedio e
contro i Tribunali di Guerra iniziando la difesa dei giornalisti e dei
deputati condannati in Milano davanti alla Suprema Corte di Cassazione
del Regno. L’indole di questo lavoro non si presta a svolgere questo
argomento, ripetendo del resto scuse e difese notissime. Qui mi limito
ad esporre qual’è stata l’opera dei Tribunali militari in occasione dei
tumulti di Aprile e Maggio 1898.

[31] _Don Chisciotte_ (15 Luglio 1898) infatti ironicamente denunziò il
colonnello Siacci come un _nuovo pericoloso_ pel discorso _sovversivo_
pronunziato in Senato. A quando l’ammonizione?

[32] Resoconto ufficiale della Seduta del Senato del 13 Luglio 1898.

[33] Essendo passati alla storia il documento _firmatissimo_ e
il _trattato di Bisacquino_, non si può sottrarre alla storia il
documento _Speranza 333_ che fu spedito da Firenze a Turati il 7 Maggio
coll’ambulante Firenze-Milano. Eccolo nella sua integrità:

V. V. è stato impossibile spedire. = (per 000) si è tentato farlo
Rifredi, Sesto inutilmente. Bicchi non ricevendo 000 combinato
Romussi (=|=) tornossene a Livorno dove aveva trattato V per 000 poco
fino Genova dove Zandrino avrebbe provveduto per Alessandria dove
di qui partito per Villavecchia avrebbe condotto Milano aggiungendo
racimolato locale. Avverto che 17 sono stati consegnati solo 270
non essendo pronti gli altri 329. Però Bicchi assicurami che entro
domani radunerà 000 manderà li Ciotti Blasi i quali hanno precise
istruzioni farmi recapitare non per = ma per (= =). Appena effettuata
||| da Genova Zandrino spediravvi bolletta dichiarata 10 sottosuolo
rimanenti 17 complemento. Bicchi operato miracoli. Sesto, Figline,
Prato hanno corrisposto ultimo momento Δ messi sospetto non mandarono
più rinforzi, modo Firenze rimasero molti 17. Però non dubitate 237-471
alacremente provvedete 000 anche da Pavia. Doveva andare Bicchi = senza
spesa; stima però prudente non muoversi aspettando notizie. Blasi non
corrisponde....

[34] In diritto romano si scusa l’_ignorantia juris_ ai minorenni, alle
donne, ai rustici.... ed ai soldati. Ah, quei romani!....

[35] Non raccolgo la voce corsa di ufficiali puniti per avere fatto
delle difese troppo buone, sebbene la trovi riprodotta da vari
giornali. Mi sembra inverosimile la cosa. Tale voce corse pure pei
processi di Palermo nel 1894; ed era insussistente.

[36] Walter Mocchi: _La cosa giudicata_. Nella _Rivista popolare_.
Anno IV, N. 8. Francesco Giarelli nel Caffaro di Genova ha confermato
la narrazione di Mocchi. L’uno e l’altro assistettero alle udienze del
Tribunale di Napoli.

[37] Il caso della Marone ha sollevato un grido d’indignazione nella
stampa di ogni colore, anche devota alle istituzioni (_Tribuna, Don
Chisciotte, Mattino, Roma, Corriere de Napoli,_ ecc.). Ma quanti altri
più enormi non ve ne sono?

[38] Il _Corriere della Sera_ (N. 127 del 1898) con profetica
incoscienza scriveva, prima che incominciassero i processi:

«Alessandro Manzoni, dall’alto del suo piedestallo a San Fedele, pareva
guardasse tutto quel tramestìo con aria mesta e dicesse: È in questo
modo che i Milanesi hanno pensato di commemorare il venticinquesimo
anniversario della mia morte?»

E chi guardava il Manzoni, pensava che il mondo più cambia e più è
la stessa cosa; perchè i subbugli di questi giorni egli li aveva già
descritti nel suo romanzo, sino nelle più minute circostanze; perchè di
ogni arrestato un po’ conosciuto dice quello che il mercante bergamasco
diceva di Renzo: «_Si sa di sicuro che le lettere son rimaste in mano
della giustizia, e che c’è descritta tutta la cabala; e si dice che vi
anderà di mezzo molta gente_».

Oh! se c’è andata di mezzo _molta gente!_ I tempi di Renzo Tramaglino
impallidiscono rispetto a quelli nostri.

[39] _Per la verità._ Appunti sullo Stato di assedio a Firenze del
Comm. *** Firenze — Settembre 1898, pag. 75.

[40] Va rilevato con particolarità il linguaggio della _Perseveranza_,
perchè esso rispecchia il pensiero della frazione del partito
conservatore lombardo, che ha in mano il Municipio di Milano ed altre
importanti istituzioni locali e che, pur troppo! esercitò poderosa
influenza sulle dissennate misure del governo centrale.

[41] È bene che si abbia un’idea dei reati attribuiti dalla questura
nei suoi rapporti e nelle deposizioni dei suoi rappresentanti e
delle prove addotte contro i repubblicani e contro i socialisti. Nel
rapporto della Questura si ascrive a colpa del partito repubblicano
la _chiesta abolizione del dazio sulle farine e la diminuzione
delle spese militari_... (Povero Czar se capiti tra le unghie del
Questore Minozzi!) Sempre secondo la Questura il partito socialista
commise queste scelleratezze: _fece propaganda, ricevette aiuto
dallo straniero... negli scioperi organizzò associazioni... di arti e
mestieri e leghe di resistenza, portò suoi candidati anche nei collegi
nei quali non avevano probabilità di riuscire_.... Alla Koulicioff
— questa iniqua che volle sfuggire la galera russa per assaporare le
delizie della reclusione italiana — si rimproverarono le conferenze sul
miglioramento igienico ed economico delle donne. Tutti questi reati e
queste prove furono trasportati di sana pianta negli atti di accusa e
nelle requisitorie dell’avvocato fiscale che il 21 Giugno affermava
_avere raggiunta la prova di una organizzazione solida e completa_.
Nell’atto di accusa contro i giornalisti, il Bacci, che non trovò modo
di far condannare il Barattieri, affermò che Milano era stata scelta
come centro della rivoluzione poichè per la sua _posizione geografica_
poteva più facilmente isolarsi dal rimanente del regno onde impedire
l’arrivo di altra truppa.... perchè quivi più sollecito sarebbe stato
il soccorso già _preparato ed organizzato_ dei fuorusciti italiani
residenti in Isvizzera. Disse che i tumulti furono fatti sorgere nei
piccoli centri allo scopo di attrarvi le truppe, sguarnire le città e
tentarvi un colpo di mano. Concludeva che _tutti_ i moti d’Italia non
furono che la conseguenza di una lunga preparazione diretta all’unico
scopo di mutare gli ordini politico-sociali.... Queste temerarie
affermazioni che fruttarono secoli di galera, non meritano l’onore
della discussione. Fanno fede della ignoranza fenomenale degli avvocati
fiscali. Oh! se aveva ragione il senatore Siacci ad invocare la riforma
dei Tribunali militari! Ciò s’impone nell’interesse dello stesso
esercito.

[42] Carlo Romussi, dal cellulare di Milano, il 22 Agosto 1898 diresse
una nobile lettera all’_Associazione fra i giornalisti lombardi_ e
ponevale questi tre quesiti:

1. — Se si può chiamare responsabile un giornale ed il suo direttore
di fatti che accadono nella città dove il giornale si stampa e che il
giornale stesso sconsiglia e biasima.

2. — Se giuridicamente si possa prendere il complesso di una serie di
articoli rappresentanti l’opera giornalistica di un uomo, e portarlo
contro di lui come titolo di accusa, dato l’ordinamento nostro per il
quale funziona un procuratore generale, incaricato di controllare volta
per volta ogni singola pubblicazione.

3. — Se non sia da chiedere al Parlamento che le accuse di reati
commessi per mezzo della stampa siano in ogni tempo sottratte ai
tribunali militari e sottoposte al giurì.

L’_Associazione lombarda_ e tutti i giornalisti onesti hanno risposto
conformemente ai dettami dello Statuto e della giustizia, delle leggi
e del buon senso; ma le Sentenze restano e le vittime nei reclusori
d’Italia!

[43] Il _Secolo_ in =dodici= anni ebbe in tutto dodici sequestri; e
furono gli anni della reazione.

[44] Gli Italiani immemori leggano i discorsi di Zanardelli in risposta
alla interpellanza Nicotera in maggio 1878 sul permesso congresso
repubblicano riunito al Teatro Argentina.

[45] Discorso letto la sera del 7 Maggio 1880 nella sala
dell’Associazione costituzionale di Bergamo.

[46] Sulla interpretazione ed applicazione dell’art. 122
dell’ordinamento giudiziario, che contiene le parole su riportate,
si discusse in occasione delle sentenze dei Tribunali militari di
Sicilia e di Lunigiana nel 1894. Gli avvocati Marcora e Majno ripresero
splendidamente la discussione nel ricorso presentato alla Corte di
Cassazione di Roma in difesa di Chiesi, Romussi, Valera, Koulichoff,
ecc. La ripresero per dimostrare — e vi riuscirono luminosamente — che
la Cassazione aveva il diritto o meglio il dovere d’interloquire sulla
legalità dello Stato di assedio e dei Tribunali militari; su questa
questione e sulle altre innumerevoli mostruosità e contraddizioni
delle sentenze di cui qui si discute si possono leggere con grande
profitto oltre la cennata memoria a firma Marcora e Majno, le altre
d’Impallomeni, Escobedo, Orzi, Sacchi in difesa di molti condannati dai
Tribunali militari del 1898.

[47] La stampa liberale a suo tempo (Settembre 1898) si scandalizzò
della promozione accordata al consigliere Nazzari che era stato
relatore in Cassazione contro i condannati di Milano. La stampa ebbe
torto; c’erano i buoni precedenti nella brillante carriera del Tondi,
uno dei giudici che condannarono Lobbia.

[48] L’indole e la mole di questo scritto non mi permettono di entrare
in considerazioni giuridiche sulla sentenza della Cassazione che
respinse i ricorsi dei condannati dai Tribunali militari. Ne fece una
critica dotta, seria, elevata il Prof. Luigi Majno (_Rivista popolare_,
Anno IV, N. 7). Rilevo qui soltanto che la Cassazione di Roma ha osato
completare _in fatto_ le sentenze del Tribunale di guerra, dicendo essa
ciò che il Tribunale di guerra ebbe la onestà di non dire — e cioè che
Chiesi, Romussi e gli altri _vollero i tumulti_. Il Tribunale disse
esplicitamente che _non li vollero!_ I commenti su questa enormità
sarebbero superflui.

[49] Leggo nel _Don Chisciotte_ del 5 ottobre e riproduco integralmente:

«Trascrivo dal _Messaggero_ la notizia seguente mandata da Livorno:

«Ieri il sostituto procuratore del re cav. Bertoli, il giudice
d’istruzione avv. Sighieri e alcuni agenti di pubblica sicurezza si
recarono alla sede dell’Associazione liberale monarchica e fecero una
perquisizione che durò più di tre ore.

«Nessun documento fu sequestrato.

«_Notate bene che da tre giorni il Consiglio della Monarchica era stato
avvisato dalla autorità che i locali della società dovevano essere
perquisiti._

«Per conto mio non aggiungo nulla, neppure la conferma della notizia,
che non posso dare. Ma è certo che così essa si presta a curiose
osservazioni. E prima, anzi principale di tutte: — È vero che una
perquisizione si è compiuta previo avviso di tre giorni?

«Poi non posso a meno di notare: quell’associazione così stranamente
perquisita era la fucina del crispismo per la provincia livornese».

[50] Questi due fatti di cronaca vengono riferiti da _Vamba_ nel
_Don Chisciotte_ (1898 N. 248). Casi simili e più dolorosi sono a mia
conoscenza personale. Della decadenza e corruzione della Magistratura
italiana mi sono occupato in: _Corruzione politica_. Catania 1888;
_Banche e Parlamento_. Milano 1898; _Gli avvenimenti di Sicilia_
Palermo 1895. Ho riportato fatti numerosi e giudizi autorevoli
di uomini appartenenti alle classi più elevate e più colte, che
vivono al difuori della politica. I giudizî degli ex ministri Eula
e Santa Maria Nicolini, gli articoli di Daneo e del prof. Mortara
eliminarono il sospetto che il mio pessimismo, possa essere suggerito
da passione di parte. Se qualche dubbio rimanesse ancora, si legga la
relazione dell’ex ministro Costa sul processo Tanlongo e le _ingenue_
dichiarazioni dell’ex ministro Calenda dei Tavani nella Camera
dei Deputati a proposito del processo Giolitti: suscitarono tale
indignazione, che Villa, Presidente della Camera, gli tolse la parola e
sospese la seduta.

[51] MARIO RAPISARDI: _Giustizia_. Versi. Catania 1892. N. Giannetti p.
5.

[52] _Rivista penale_, Settembre 1898, p. 300.

[53] Questa giustificazione della legittima difesa fu accampata in
Parlamento — pare impossibile! — da un giurista: dall’on. Villa.
Ora l’_omnes leges omniaque jura permittunt vim vi repellere_, non
può invocarsi che contro la aggressione presente, per respingere la
_violenza attuale_, così com’è detto nella parte generale del Codice
penale. Ma con qual diritto la scusa della legittima difesa si può
invocarla quando giudici militari e ministri hanno riconosciuto,
che s’intendevano punire i pretesi colpevoli di violenze passate? La
_legittima difesa_ può sinanco giustificare le cannonate; giammai i
Tribunali di guerra!

[54] GIULIO FIORETTI: _Pane, governo e tasse in Italia_. Napoli, L.
Pierro, 1898. L. 2,50, pag. 67. Il Fioretti è uno dei più colti e
battaglieri conservatori del mezzogiorno. Mi riferirò spesso al suo
pregevole libro limitandomi ad indicare l’autore.

[55] ROSE: _Rise of democracy_. London 1898, p. 129.

[56] Feci questa osservazione sin dal 1892 attenendomi agli studi ed ai
dati del Bodio, del Pantaleoni, del Delivet. Vedi: _La difesa nazionale
e le economie nelle spese militari_, Catania, N. Giannotta, 1892, p. 10
e 11.

[57] _Giornale degli Economisti_, Ottobre 1797.

[58] Discorso sull’_Ordinamento dell’esercito_ del 4 maggio 1897.
Da parte mia ripetute volte, sino alla noia, ripetei prima e dopo
di Giustino Fortunato le stesse cose nel Parlamento e fuori; più
esplicitamente — ed era facilissimo farlo — in Die Zeit del 12 Febbraio
1898 e nella _Revue Socialiste_ dell’Aprile 1898. Era tanto facile fare
da profeta, che i tumulti predissero — pare impossibile! — i prefetti
del regno d’Italia. Così almeno telegrafava al _Corriere della Sera_ il
deputato Torraca nel Gennaio del 1898.

[59] _Il diritto del Principe in uno Stato libero_. Nuova Antologia, 15
Dicembre 1893.

[60] _Nuova Antologia,_ 30 Novembre 1897.

[61] _Nuova Antologia_, 15 Gennaio 1898. Il corsivo nel brano riportato
ce l’ha messo lo stesso onor. Saracco.

[62] Questa corrispondenza viene bellamente illustrata dalle condizioni
del bilancio e della prosperità economica dell’Inghilterra.

[63] Queste cifre _Il Commercio italiano_ di Roma (14 Agosto 1898) le
ha tolte dall’ultimo _Annuario statistico_.

[64] _La finanza e la questione sociale_. Torino, Fratelli Bocca 1897,
p. 93, Nota 1. Pel Delivet il reddito annuo sarebbe maggiore di L.
223,11 per ogni abitante dedotte le spese militari, mentre sarebbe di
L. 802 per un inglese. Calcolando che pel mantenimento normale occorre
la metà del reddito dell’Inglese, l’Italiano per avere un mantenimento
normale si trova con un _deficit_ di L. 97,75: _deficit_ superato
soltanto da quello dello Spagnuolo e del Russo.

[65] Cifre e confronti sono tolti dal libro di Fioretti: _Pane_, ecc.;
dall’altro pregievolissimo di C. A. Conigliani: _La riforma delle leggi
sui tributi locali_. Modena 1898; dalla prolusione al corso di Scienza
della finanza sul _Nostro sistema tributario_ letta nell’Università di
Genova il 6 Dicembre 1897 e dall’articolo del De Viti De Marco: _Le
recenti sommosse in Italia — Cause e riforme_ (Nel _Giornale degli
Economisti_, Giugno 1898).

[66] DE VITI DE MARCO: _Cronaca del Giornale degli Economisti_. Maggio
1898. CONIGLIANI: Op. cit., p. 7 e 72.

[67] G. Colombo: _Le industrie meccaniche italiane all’Esposizione
di Torino_, Nuova Antologia; 1.º Ottobre 1898. I fasti nefasti del
fiscalismo italiano sono noti e superano quelli della decadenza
dell’Impero Romano. Il deputato Farinet — un conservatore di quattro
cotte — ne ha narrato alcuni edificanti nella _Stampa_ di Torino. Come
deputato ho avuto conoscenza di molti altri inauditi, e devo aggiungere
che spesso una correzione totale o parziale di certe enormità la trovai
nell’amministrazione centrale, che s’inspira ad una certa equità. La
correzione non si ha, però, che coll’intervento di qualche deputato;
ma si sa che i più miseri e i più sacrificati non sempre riescono ad
ottenere l’appoggio di un deputato.

[68] I dati su queste espropriazioni fanno lagrimare in Sardegna.
Quelli sopra Fonni, Bolotana, Lei, Orani, Oniferi, Orotelli, Ottana,
Sarulea (provincia di Sassari) fanno spavento. Si leggano nella _Nuova
Sardegna_ di Sassari del 2 Luglio e 17 Agosto. Negli _Avvenimenti
di Sicilia_ dimostrai che dove era stato minore il numero delle
espropriazioni era stato mantenuto l’ordine nel 1893.

[69] La _rivista popolare_ (30 ottobre 1897) nell’articolo: _Le
proteste dei contribuenti_ a proposito dei precedenti fatti di Piazza
Navona in Roma, rilevò pure che i piccoli centri erano più gravati
della ricchezza mobile che le grandi città; aggiunse che i piccoli
centri non contano nella vita politica e subiscono le conseguenze delle
follie dei _politicians_ delle grandi città.

[70] Il Fioretti afferma che il sistema tributario italiano s’inspira
alle teorie di George; e tra queste e quelle di Sella trova molta
analogia anche dal punto di vista teorico.

[71] Le espropriazioni per cause d’imposta nel periodo 1884-1895
furono: 48, 47 per 100,000 abitanti nel mezzogiorno; 11,78 nell’Italia
centrale; 6,90 nella settentrionale. Inversamente e logicamente al 31
Dicembre 1893 nell’Italia settentrionale con 13.630,904 abitanti c’era
ora _un miliardo quattrocento novantotto milioni di risparmio_; nella
meridionale con 11,668,273 abit. non arrivava che a L. 284,172,606! La
Sicilia con 3,444,394 abitanti aveva risparmi per Lire 62,752,241; la
Lombardia con 4,007,561 abitanti ne aveva per _settecento settantuno
milioni_.

[72] L’on. Colombo, nel citato articolo, riconosce questa maggiore
prosperità del settentrione. Come non si avvede dunque, ch’è ingiusta
la legge sulla perequazione fondiaria, che aggraverà ancora la mano
sulle provincie del mezzogiorno?

[73] In pochi anni nella sola Basilicata dove i socialisti e i
repubblicani si contano sulla punta delle dita vi furono cinque gravi
sommosse con morti e feriti numerosi, con assalti in regola alla
Caserma dei Carabinieri e alle case Municipali: a Bernalda nel 1888,
a Forenza nel 1890, a Palazzo nel 1892, a Montescaglioso nel 1897 e a
Picerno in Novembre 1898. Altre sommosse avvennero in giugno e luglio
1898 in alcuni comuni del Napoletano, non ostante la recentissima
sanguinosa repressione generale.

[74] Una buona osservazione del Fioretti: L’antico motto _dividi ed
impera_ dalla fiscalità italiana si è tradotto nel principio: _dividi
e tassa_. Si fanno approvare le tasse aristocratiche (le dirette)
col concorso dei democratici; e si grava la mano sui poveri (imposte
indirette) colla influenza degli aristocratici. Il Fisco accetta con
uguale compiacimento le imposte aristocratiche e le democratiche
e infin dei conti socialisti e conservatori restano ugualmente
beffati.... e tassati (op. cit. p. 18). Il libro di Conigliani è tutta
una tremenda requisitoria contro il nostro sistema tributario dal punto
di vista economico, politico e morale.

[75] _Osservatore Cattolico_ del 6-7 Maggio 1898.

[76] Il _Corriere della Sera_ di Milano nel Numero del 19 Maggio
1898 commentando i discorsi e i voti cennati così li riassume: «In
complesso gli oratori della _Costituzionale_ hanno riconosciuto che i
partiti dominanti, le classi dirigenti, hanno molta responsabilità ne’
disordini avvenuti in tante parti d’Italia. Nè fucili, nè cannoni, per
quanto numerosi e pronti a sparare, potrebbero garantire l’ordine in
avvenire, se quei partiti o quelle classi non avessero la coscienza di
questa verità».

[77] Loria: _Les bases economiques de la costitution social_. Paris;
Lombroso e Laschi: _Il delitto politico e le rivoluzioni_. Torino.
Fratelli Bocca 1890. Questi ultimi considerano le sommosse, le rivolte,
ecc., come fenomeni patologici; la rivoluzione sarebbe una esplosione
fisiologica. Ma siccome le prime prepararono sempre le rivoluzioni
con queste analogie tra la storia e la biologia — si riesce a questa
strana conclusione: le condizioni patologiche preparano la condizione
fisiologica!

[78] Un busto è stato inaugurato testè in Genova alla memoria dei
fratelli Ruffini; lapidi e busti ricordano Vochieri ed altre vittime
delle insurrezioni contro la dinastia dei Savoia. È tutta un’apoteosi
della lotta contro Casa Savoja, la storia dettagliata e documentata che
Giovanni Faldella, oggi senatore del Regno, ha consacrato alla _Giovine
Italia_ e ai fratelli Ruffini.

[79] _La sommossa di Milano_, pag. 26 e 27. L’apologia della
rivoluzione fatta da Crispi tante volte, fu rifatta in modo più solenne
il 12 Gennaio 1898 in Palermo. L’on. Rosano, ex sottosegretario agli
interni, glorificò nello stesso anno l’insurrezione del 15 Maggio 1848
in Napoli.

[80] Un temperato e coltissimo scrittore, il Nitti, accennando alle
lodi prodigate all’esercito in occasione delle ultime repressioni,
esce in questa sanguinosa ed amara considerazione a proposito della
circolare diramata dal Generale Afan de Rivera assumendo il portafoglio
della guerra: «Adottare leggi di eccezione può essere una necessità
che s’imponga a noi tutti in momenti dolorosi; ma non mai causa
di allegrezza; nè i provvedimenti di rigore chiameremo mai atti di
genialità. In altri tempi, quando l’onor. Afan de Rivera imparava
nell’esercito borbonico i principî che ora esplica, un generale
italiano, glorioso per battaglie vere, Enrico Cialdini, all’indomani
di una vittoria contro le truppe del Borbone, invitava gli ufficiali
ad una messa solenne: non già per rallegrarsi, egli diceva, poichè la
vittoria era stata ottenuta contro altri italiani, ma per commemorare
insieme i defunti d’ambo le parti». (_Le sommosse dell’ieri e le
repressioni dell’oggi_. Nella _Riforma Sociale_ di Torino. Giugno
1898).

[81] Sin dal 1883 nel libro sulle _Istituzioni municipali_ dimostrai
il grande marcio e i pericoli che si annidarono nei Comuni e nella
Provincia; da allora ad oggi chi sa dire di quanto si siano aggravati i
mali?

[82] Per la parte che in Sicilia nel 1893-94 rappresentarono i partiti
locali — _apolitici_ benchè mascherantisi da socialisti o altro — si
legga il mio libro: _Gli avvenimenti di Sicilia_, ecc., e gli scritti
del Deputato Di San Giuliano e del Senatore Pasquale Villari.

[83] Anche il _Corriere della Sera_ in una corrispondenza da Foggia
(1898 — N. 121) lascia intendere chi furono i responsabili dei tumulti
di Bari e di Foggia. Dettagli più sinistri, anche sulla complicità
della autorità politica, pei gravissimi fatti di Minervino Murge si
possono leggere in un opuscolo di A. Panarelli: _Il primo Maggio 1898 a
Minervino Murge_. Canosa di Puglia 1898.

[84] Il citato corrispondente da Foggia al _Corriere della Sera_
scriveva: «Un tumulto, quando è solo un tumulto, è cosa dolorosa,
ma passeggera; la gravità di quanto è avvenuto sta più che altro nel
contegno delle autorità: _il quale dimostra qual misera cosa sia presso
di noi l’organizzazione governativa_».

[85] Enrico Panzacchi, che ci tiene ad essere considerato conservatore,
scrisse sulla politica ecclesiastica queste parole:

«Dall’ambigua formula cavouriana abbiamo stillato tutto il succo
deleterio che poteva contenere e ce ne siamo fatto un sonnifero.
Davanti al problema — così singolarmente grave per il nuovo regno
che ha Roma capitale — noi abbiamo riposta tutta la nostra gloria
nell’essere astensionisti, reticenti, evadenti; ossia nell’essere
nulla.

«Non uno Stato confessionale — co’ suoi doveri, ma anche co’ suoi
diritti; non uno Stato laico — nel senso veramente logico e moderno
della parola. Con un po’ di buon volere avremmo potuto avere amico e
pacifico il basso clero cattolico; e con la incuria, le tirchierie,
i mali garbi e le ingiustizie palesi, ce lo siamo inimicato per modo
che il meglio che possiamo aspettarci da lui è d’averlo neutrale. La
storia racconterà poi, a edificazione dei posteri, le incertezze, le
incongruenze d’ogni genere, le provocazioni e le remissioni infelici
nelle quali cademmo, abbozzando trattative e _modus vivendi_ che l’alta
gerarchia ecclesiastica non volle accettare.

«Intanto tutte le nostre leggi sono riuscite a vuoto. Abolimmo i
conventi e l’Italia è piena di frati; incamerammo l’asse ecclesiastico
e lo vedemmo sfumare, non si sa bene il come e il dove, tranne
l’arricchimento dei pubblicani benemeriti; volemmo comprimere con
la libertà il clericalismo, ed esso, con l’aiuto della libertà,
risorse d’ogni lato e minaccia di montarci sul capo, ricco, prospero,
provocante». — _Corriere della Sera_, 1898, N. 133.

[86] Un tempo passavano per nemici della patria coloro che colla
cifra in mano ciò affermavano. L’indignazione sollevata in Europa
dall’assassinio dell’Imperatrice d’Europa costrinse anche i _patrioti_
a confessare la verità. Si legga, ad esempio, l’articolo di Scarfoglio:
_Il nostro primato!_ — _Mattino_ di Napoli, 1898, N. 177.

[87] Per tutto ciò che riguarda molte manifestazioni della nostra
degenerazione morale si leggano i due miei scritti: _Corruzione
politica_ — Catania 1888, II ediz. — e _Banche e Parlamento_ —
Milano 1893. — La documentazione di ciò che ho scritto esige non una
breve pagina, ma qualche volume in folio. Tutte le riviste e tutti i
giornali negli ultimi tempi ne hanno dato saggi edificanti. I fenomeni
morbosi sono stati anche ufficialmente constatati nelle associazioni
costituzionali del regno. Tipica la dichiarazione del Senatore Negri.
Questi, nella riunione della Costituzionale di Milano, tra le cose
erronee, dimostrate tali dai processi, disse questa preziosa verità:
_I tumulti avvennero perchè in tutta l’azione del governo e del paese,
mancò la coscienza del dovere.... Ciò che avvenne si deve al difetto_
=di una politica morale=. E cercano i sobillatori! Un altro tratto:
Giulio Prinetti, nel Parlamento e nel paese vi godeva di grandissime
antipatie — che per parte mia non divisi mai. Bastò che egli mostrasse
alquanta energia — non tutta quella ch’era necessaria — verso alcuni
grandi ladri, perchè le antipatie si tramutassero in una corrente di
calda simpatia e di sincera ammirazione. Tanto sentito è il bisogno di
moralità, e tanto eccezionale è il caso di un ministro che se ne faccia
paladino!

[88] _XX Settembre_ — Nuova Antologia. 15 Settembre 1895.

[89] Sono due articoli pubblicati ad un anno di distanza nella _Nuova
Antologia_ del 15 Gennaio e del 15 Dicem. 1893.

[90] Discorso nel _Circolo popolare_ di Milano nella seduta del 20
Maggio 1898.

[91] Sulla denegata giustizia abituale in Italia e sulle disastrose
conseguenze sue, ha parole roventi la scrittrice inglese _Ouida_
(_An impeachement of modern Italy._ Nella _Review of Reviews_ — 15
Settembre).

[92] Avevo intenzione di riprodurre i più caratteristici giudizi
sintetici emessi da uomini politici, da riviste e da giornali di parte
monarchica in occasione degli ultimi tumulti. Vi sono confessioni
preziosissime sulle cause vere di detti tumulti e sulla enorme, se
non esclusiva, responsabilità degli uomini succedentisi al governo da
quarant’anni e sulle classi dirigenti italiane. Ho dovuto rinunziare
a questa riproduzione perchè sarebbe stato necessario ad essa sola
consacrare un lunghissimo capitolo. Se qualche lettore volesse prendere
il lavoro separatamente, farebbe opera utilissima. Io gli vengo sin
da ora in aiuto con una lista — incompletissima, badiamo — di riviste
e di giornali che enumero senza rispettare nè l’ordine cronologico,
nè quello della loro importanza. Eccola qua. _Perseveranza, Corriere
della Sera, Lombardia_, ecc., di Milano coi discorsi dei membri della
Costituzionale e del Circolo popolare dei giorni 17 e 20 Maggio, e 7
Giugno 1898; _Mattino_ di Napoli; _Corriere della Sera_, con articolo
di Panzacchi (N. 133), dei giorni 25, 26 e 27, 28 Luglio con articoli
di Torraca e della Direzione; _La Lombardia_ con articoli del Prof.
Ercole Vidari; _Rivista penale_ del Giugno colla cronaca del Deputato
Lucchini, Consigliere della Cassazione; _Corriere di Napoli_ del 4 e
8 Maggio; intera collezione del settimanale _Economista_ di Firenze
da Maggio 1898 in poi; _Don Chisciotte_ del 4, 5 e 6 Maggio; _Don
Marzio_ del 5 Maggio; _Tribuna_ con articolo di _Rastignac_ del 7
Maggio; _Nuova Antologia_ del 1 Maggio, del 15 Giugno, del 15 Agosto
con articolo di Maggiorino Ferraris, di Ugo Pisa, di Ercole Vidari;
_Giornale degli Economisti_ di Maggio, Giugno, Luglio e Agosto con
articoli di De Viti De Marco; di Racioppi, ecc.; _Riforma Sociale_
di Maggio e Giugno con articoli di Nitti; _Idea liberale_ del 15 e 30
Giugno e del 15 Settembre con articoli di Borelli, Massuero, Vidari;
_Vita internazionale_ del 20 Giugno con articolo di Massara; _Rivista
politica e letteraria_ di Luglio con articolo di Beroaldo. Tutto il
libro del Fioretti è anche da leggere per la parte politica.

[93] _XX Settembre._ In Nuova Antologia del 15 Settembre 1895. I
bigotti dell’unità e della monarchia quando affermai alla Camera
che il sentimento unitario era in ribasso urlarono. Ora il fatto è
riconosciuto da tutti coloro cui la passione e l’ignoranza non fa velo
alla mente. Coloro che vogliono saperne di più leggano: Colajanni e
Ciccotti: _Settentrionali e Meridionali_, Biblioteca della _Rivista
popolare_ Roma. Remo Sandron. Palermo-Milano 1898.

[94] G. Saracco: _Siamo poveri o non siamo?_ Il Borelli sotto il
muso del Regio Commissario Bava Beccaris, nell’_Idea liberale_ del
15 Giugno, constatava che «nella massa che mormora sottovoce e pare
prostrata mentre osserva ed aspetta _non c’è quasi più un barlume di
fede_; =ove fede è, non rassomiglia più certamente alla nostra=....»

[95] «_Le istituzioni sono sovvertite e coloro che le sovvertono sono
precisamente coloro che governano e amministrano; cioè, per dir meglio,
che dovrebbero governare e amministrare_». Ho raccolto questa gemma
preziosa nel Corriere della Sera del 25-26 Luglio 1898.

[96] D. Napoleone Colajanni: _Settentrionali e meridionali. Agli
italiani del mezzogiorno._ Prof. Ettore Ciccotti: _Mezzogiorno e
settentrione._ Roma-Palermo-Milano, 1898, Prezzo L. 1. Presso la
_Rivista Popolare_ e presso Remo Sandron.

[97] I capisala hanno L. 4,20 al giorno; i garzoni L. 1; gli operai
dalle L. 2 alle 3. Per operai intellettuali e che aspirano ad un
elevato tenore di vita sono abbastanza meschini.

[98] Vale la pena di riferire testualmente le sue parole togliendole
dal N. 127:

«Abbiamo stamani interpellato i principali stabilimenti sulla ripresa
del lavoro ed ecco le risposte che ne abbiamo avute:

  Banfi: amido e ciprie. Quasi tutti gli operai, meno alcune
    donne dimoranti fuor di Milano.
  Bassolini: vernici. Tutti.
  Fratelli Branca; liquori. Quasi tutti.
  Binda: bottoni. Su quattrocento operai ne mancano ottanta,
    per lo più del contado.
  Binda: carta. Tutti.
  Bertarelli Giov. P. G.: arredi sacri. Tutti.
  Besana: stabilimento meccanico. Tutti.
  Buselli: candele. Tutti.
  Bertelli: medicinali. Tutti.
  Breda ing. Ernesto: stabilimento meccanico. Su 1200
    mancavano 200.
  Union des Gaz. Tutti.
  Fonderia milanese acciaio. Tutti.
  Carlo Erba: medicinali. Tutti.
  Blumenthal: conceria. Tutti.
  Brunt: apparecchi a gas. Tutti.
  Stabilimento De Angeli: Quasi tutti: mancano alcuni
    operai del contado.
  Manifattura dei tabacchi: Tutti.
  Stabilimento Pirelli: Tutti.
  Camona e C. Quasi tutti.
  Richard-Ginori: Tutti.

Tutti gli stabilimenti ci assicurano che regna perfetta calma nel ceto
operaio. Alcuni stabilimenti, quali il Centenari e Zinelli e altri che
impiegano specialmente donne, hanno rimandata l’apertura a domattina.
Altri come il Suffert e lo Stigler, non aprirono perchè ignoravano
l’ordine del Comando generale. Gli operai però si presentarono
ugualmente al lavoro, ma dovettero esser rimandati.

[99] Per l’aumentato desiderio di miglioramenti già conseguiti vedi
lo Spencer: _Problèmes de morale et de sociologie._ Guillaumin et C.
Paris 1894 _De la liberté à la servitude_ (pagina 80 a 82). Lombroso
scultoriamente sempre: «È stato osservato che, perchè un popolo si
sollevi, è necessario che si trovi in uno stato relativo di benessere,
perchè nell’eccesso di prostrazione, il popolo come l’uomo non ha
abbastanza energia per reagire; sicchè il massimo della sventura umana,
almeno quanto alle rivolte, ha quasi un’influenza inibitrice che non il
massimo della felicità. È perciò che nel medio evo scoppiarono sommosse
in numero maggiore nelle città rette a comuni che nei paesi dove
vigeva il sistema feudale, nei quali la plebe era stretta dalla più
dura miseria..... Quando le forze del popolo sono consunte dalla fame,
esso è men disposto ad usare dell’energia che gli rimane in tumulti
sanguinosi, che d’altronde non farebbero che aggravare il suo stato,
diminuendogli ancora il lavoro e quindi le fonti della sussistenza.
Noi ne abbiamo un esempio sott’occhio in Italia in cui le condizioni
del contadino, miserabilissime, non diedero luogo a nessuna sommossa
neppure in Lombardia, dove migliaia vivono di una sostanza putrefatta,
che li avvelena.» (_Il delitto politico_, ecc., p. 84 e 85). Forse il
Lombroso generalizza troppo la rassegnazione sotto il regime feudale.
Il Puviani questi principi di psicologia collettiva li ha applicati
al limite di tolleranza delle imposte (_Illusione finanziaria mediante
associazione delle pene delle imposte fra loro e con altre pene._ Nel
_Giornale degli Economisti_ Agosto 1898).

[100] Avverto il lettore che ho sostenuto e documentato l’influenza
del passaggio rapido dal benessere al malessere economico nella
manifestazione individuale nella _Sociologia Criminale_. Catania, 1889.
Volumi due, L. 13.

[101] Il frumento nostrano ebbe un prezzo massimo di L. 23.75 dal
29 Aprile al 1 Maggio 1897, raggiunse quello di 34,25 dal 28 al 30
Aprile 1898. Il prezzo della farina e del frumento risentirono meno
l’aumento. Ringrazio vivamente la Camera di Commercio e il Dott.
Clerici segretario del Comune di Milano, che pregati mi fornirono tutte
le notizie, che furono in condizione di darmi.

[102] Qualche confronto tra Napoli e Milano feci nel _Secolo_ nel
luglio 1897. Li ampliai in due articoli — _Paralleli igienici e
sociali_ — nel _Medico delle famiglie_ di Boston. (Gennaio e Febbraio
1898).

[103] Il Consolato operaio fa fondato dai moderati nel 1860 per
avere il monopolio delle dimostrazioni patriottiche. A poco a
poco si trasformò in senso radicale per opera di Romussi, Prada e
Valera. Vi fu un tempo in cui era il centro di tutto il lavoro utile
per la redenzione politica e sociale delle classi lavoratrici. Le
elezioni del 1882 e del 1886 segnarono il suo apogeo. Penetratavi la
corrente socialista, nacquero nel suo seno vivaci discussioni che lo
indebolirono. Il 21 Ottobre 1892 il Consolato — 16 Società contro 11
— decretò la fusione col partito dei lavoratori e accettò la lotta di
classe. Le altre 11 società fondarono il _Tribunato_.

[104] Per conoscere meglio la formazione dell’ambiente politico di
Milano mi sembra opportunissimo questo brano della relazione del
Senatore Piolti de’ Bianchi sul tentativo insurrezionale del 6 Febbraio
1853 che si riferisce per lo appunto all’assassinio del Vandoni:
«Milano, città pacifica e umana fra tutte, Milano che il suo poeta
sferzava perchè troppo tollerante e troppo molle, Milano che aveva
tenuto per mesi fra l’ugne l’aborrito Bolza senza torcergli un capello,
Milano in quel dì, ad un ignaro, sarebbe parsa una città di cannibali,
tanto gongolava di gioia per un assassinio. Ma il bastone e la verga e
la forca avevano trovato degna risposta nel pugnale; ma la ferocia del
tiranno muta la natura dei popoli più miti, quando sentono la dignità
di sè stessi».

[105] In queste dimostrazioni per Lobbia la polizia agì, come sempre,
austriacamente; suscitarono indignazione i maltrattamenti fatti subire
al maggiore garibaldino Liborio Chiesa, mutilato di una gamba.

[106] In occasione della commemorazione delle cinque giornate, la
polizia, per sequestrare la bandiera della _Fratellanza repubblicana_,
eseguì una vera feroce agressione contro la popolazione inerme, che
venne paragonata a quella dell’8 Settembre 1847 ed organizzata dal
Bolza all’arrivo dell’arcivescovo Romelli. Nel processo, il Generale
Fumel — quello del brigantaggio — ebbe parole asprissime contro le
autorità politiche e militari, che la prepararono ed eseguirono. Era
prefetto il Gravina, questore Amour, comandante dei soldati il Maggiore
Chiala.

[107] L’influenza della tendenza federalista constatata dal _Daily
Chronicle_ e da altri giornali viene esplicitamente ammessa da un
conservatore lombardo, il Siliprandi ex deputato. Questi, da avversario
leale, fa buona testimonianza delle qualità della parte repubblicana e
scrive:

«Una parte notevolissima della borghesia lombarda è repubblicana e,
mi affretto a dirlo, e con piacere lo affermo, trattandosi dei nostri
immediati avversari politici, essa è tanto moralmente rispettabile,
intellettualmente colta, e socialmente elevata quanto la borghesia
monarchica. Essa vanta tradizioni patriottiche indiscutibili, tenacia
di opinioni, attività costante di propaganda, abilità grandissima
di procedimenti. La utopia mazziniana è quasi spenta nelle nostre
provincie, ma il positivo pensiero di Carlo Cattaneo vive robusto e
spontaneo tanto che molti lo nutrono inconsciamente. Esso è magnifica
pianta che facilmente obliqua e cresce rigogliosa sul campo lombardo».
— «Tradizione monarchica razionale in queste provincie non vi fu mai;
sede recente di una repubblica rivoluzionaria e guerriera; vissuta
poi per cinquant’anni in ribellione perenne; fornitrici di presocchè
intieri i repubblicaneggianti eserciti volontari, durante la guerra
del risorgimento italiano, lo spirito di resistenza è cosa facilissima
a destarsi in esse». Dott. SILIPRANDI: _Capitoli Teorico-Pratici di
politica sperimentale._ Mantova 1898. Vol. III, p. 224, nota e seg.

[108] Si sa che le epidemie vengono favorite dalle tristi condizioni
igieniche e biologiche di una popolazione; ma, una volta sviluppate,
non risparmiano gli organismi sani e vigorosi che vivono anche nelle
migliori condizioni. Ciò che si dice delle malattie trova riscontro
esatto nelle epidemie psichiche.

[109] I malviventi nella sommossa di Milano ebbero parte molto minore
di quella che in casi analoghi sogliono avere come risulta dalla
lettura degli stessi processi. Mancarono i reati comuni caratteristici,
che sogliono accompagnare tutti gli sconvolgimenti politici. Con più
ragione potrebbe darsi che le dimostrazioni di Napoli furono suscitate
dalla _camorra_: ivi l’obbiettivo principale dei dimostranti per molte
ore fu la liberazione dei delinquenti comuni rinchiusi nelle carceri
di S. Francesco. Tra i pochissimi giornali d’Italia che hanno visto
giusto nei movimenti di Milano, va segnalato il _Don Chisciotte._ «Che
cosa era quello strano, inaudito fenomeno, il quale certo non poteva
chiamarsi nè una rivoluzione, nè una sommossa? Adesso si dice: era
un movimento teppistico. Ed è una sciocchezza: perchè i teppisti non
sfidano le fucilate senza una ragione qualsiasi e una città intera non
tollera che per colpa loro, essa sia trasformata in uno spettacolo
sanguinoso». Così Luigi Lodi nell’articolo sulla _Liberazione di
Milano_,(1893 — N. 244)

[110] Intervista con un redattore della _Gazzetta del Popolo_ di Torino.

[111] Il Ciccotti fa eccellenti considerazioni sull’azione della
propaganda antirivoluzionaria socialista, e dimostra, che non
poteva essere completa. Si contraddice, però, manifestando il
proprio rammarico per la dimostrata _impotenza ed inettitudine_ del
partito repubblicano (pag. 23). Non è chiaro che l’_impotenza e la
inettitudine_ sono dovute per lo appunto alla efficace propaganda
socialista? Con leggerezza poi afferma che i socialisti non ebbero
parte nei tumulti. Tutti i processi lo smentiscono. Nè questo torna a
loro disdoro; anzi!

[112] Quel miserabile Stillman, ex corrispondente del _Times_, che fu
sempre agli _ordini_ se non agli _stipendi_ di Crispi, così scrisse in
una lettera al direttore del _Boston Evening Transcript_ del 13 Ottobre
1898. Gli rispose onestamente e fieramente Fidelia Dinsmore, la buona e
gentile compagna di Dario Papa.

[113] In risposta alla conferenza antianarchica promossa dall’Italia,
la _Frankfurter Zeitung_ fece tale formale proposta ch’era venuta
già da alcuni giornali della Svizzera. Il _Journal de Généve_,
l’_Independence Belge_ e altri autorevoli giornali francesi, svizzeri
e tedeschi furono di accordo colla _Frankfurter Zeitung_. Sulla
produzione anarchica poi, l’_Economist_ di Londra (22 Ottobre 1898)
scrisse a nostra vergogna:

«Abbiamo detto che l’anarchico è, a nostro giudizio, ordinariamente
un criminale o un pazzo, ma nella produzione sia del criminale che
del pazzo non devesi ignorare la parte esercitata dallo Stato e dalla
società. Lo Stato è, senza dubbio, oggi responsabile di usare mezzi
immorali e _macchiavellici_, educando così i proprii cittadini in idee
immorali. Esso è responsabile, in tutti i grandi Stati continentali,
di impedire quella libertà di parlare, di scrivere e di associarsi che
forma una valvola di sicurezza nel malcontento popolare.

«Il paese, nel quale la politica è nelle mani di.... e le prigioni
sono piene di..... è un paese che merita di avere degli anarchici,
perchè fa del suo meglio per produrli. Il paese, che sperpera il suo
danaro in armamenti oltre i suoi mezzi, nel mentre lascia i suoi poveri
morire di fame e porta il peso di una imposta schiacciante, soffrirà
dell’anarchismo, e nessuna misura di polizia, per perfetta che sia, ne
lo potrà liberare.

«La società, la quale cerca di far moneta in qualsiasi modo, senza
riguardo alle leggi della moralità, coltiverà gli anarchici così
sicuramente, come lo stagno coltiva i bacilli.

«Non vi è scampo da questa legge, ed è bene per la società umana che
nessun scampo vi sia. Se, adunque, le Potenze continentali pensano che
riuscirà loro di abbattere l’anarchismo e di eliminarlo con qualche
provvedimento di polizia, esse si illudono.

«Si faccia energicamente giustizia contro i criminali, con tutti i
mezzi, ma non si dimentichi che l’ingiustizia sociale ed il sistema
vizioso di spese pubbliche aiutano a creare l’anarchismo, e che è di
gran lunga meglio prendersi un po’ di pena per colpire alle sue cause,
che usare tutti i nostri sforzi nell’agire contro i suoi sciagurati
effetti».

[114] Si sa che nella Norvegia il partito radicale discute e propone in
parlamento il distacco della Svezia; la necessità di una separazione
completa della Norvegia dalla Svezia venne affermata testè dal
Congresso dei socialisti norvegesi. Björnson ha messo sulle scene
=Il Re=, di cui Ferdinando Fontana fece una bellissima traduzione
edita dalla _Società Editrice Lombarda_ di Milano, per dimostrarne
il danno o l’inutilità. In uno dei tanti processi svolti innanzi
al Tribunale militare di Firenze, il Presidente Colonnello Roggero
apostrofò l’ufficiale difensore, che ricordò il _caso Dreyfus_ per
dimostrare ch’era possibile un errore da parte dei giudici militari, e
gli ricordò con burlesco orgoglio che in Italia il _caso Dreyfus_ non
era possibile! Ciò che non è possibile in Italia è che si trovi una
Cassazione, che al pari della francese faccia giustizia, come nei _casi
Dreyfus e Picquart_, e non renda servizi....

[115] A questi chiari di luna, in Italia oggi nessuno ripete che il
nostro paese ha poco da invidiare all’Inghilterra. Queste sciocchezze,
però, si ha il coraggio di affermarle ancora da qualche italiano che
vive al di là della Manica. Un signor Dalla Vecchia, rispondendo ad un
articolo onesto e coraggioso di _Ouida_, ha osato scrivere che l’Italia
è ancora il paese che viene immediatamente dopo dell’Inghilterra in
quanto alla influenza della pubblica opinione, (_It is not to describe
Italy as a land where liberty is banished and tiranny rules. All
adverse criticism notwithstanding, Italy, as a nation where public
opinion rules supreme, comes next only to England_). Review of Reviews.
Ottobre 1898. pag. 362.

[116] Ferdinando Lassalle, in uno dei suoi più arguti _pamphlets —
Uber Verfassungwesena_ — a dimostrare che tutti gli articoli delle
costituzioni liberali sono una lustra inutile quando c’è un forte
esercito permanente agli ordini del capo dello Stato, domandava: se nel
vostro giardino avete un melo e vi appendete una tavoletta sulla quale
scrivete ch’esso è un fico, per questo l’albero è divenuto davvero
un fico? No; e quando voi assicurerete a tutti che quello è un fico,
l’albero resterà quello che era e pel prossimo anno produrrà mele e non
fichi.

[117] Citato dall’onor. Mirabelli in un magnifico discorso parlamentare
sulla libertà della stampa.

[118] Proemio di F. Turati all’_Insurrezione cartista in Inghilterra_
di Paolo Valera. Milano 1895, p. 5. Ne raccomandiamo la lettura a tutti
gl’Italiani fiacchi e smemorati.

[119] La longanimità notissima della polizia e il rarissimo intervento
delle truppe sono la precipua ragione per cui oggi le dimostrazioni
non terminano più in massacri nella Gran Brettagna, nemmeno in Irlanda,
che per tanti anni fa trattata da vero paese di conquista e sottoposta
spesso alle leggi eccezionali. Ultimamente, in Belfast, in un conflitto
colla popolazione, la polizia ebbe 106 feriti. In Italia, per punire
i rivoltosi armati, si sarebbe proclamato lo stato di assedio e
mobilizzato un corpo di esercito; niente di tutto ciò oltre la Manica!

[120] _La Belgique en 1886_, Bruxelles, Vol. 1.

[121] Vedi in _Rivista popolare_ (Anno 3, N. 3) l’articolo: _Le roi
s’amuse_. È bene avvertire che di questa estrema libertà possono godere
i cittadini belgi. Si è severi contro gli stranieri. Così fu soppresso
il giornale _Le national_ per un articolo intitolato _Saligand II_
in cui si parlava di certi fatti scandalosi avvenuti in Londra. Il
direttore del giornale era francese e venne espulso.

[122] L. Bertrand: _La Belgique en 1886_; I. Destrèe et E. Vandervelde:
_Le socialisque en Belgique_. Paris. Giard et Briere 1893.

[123] _Don Chisciotte_. N. 239 del 1898.

[124] Lo ha compreso benissimo chi dirige lo stesso _Don Chisciotte_,
che col suo fine intuito politico ha ricordato in numeri immediatamente
successivi l’umiliazione che dovremmo provare nel vedere ricordato
ed applicato in Inghilterra al governo italiano il giudizio dato da
Gladstone sul governo borbonico. (_Dal tempo di Gladstone_. N. 240 _Pei
condannati politici_. N. 246). Ai bigotti sabaudi che si scandalizzano
di questi confronti, Giustino Fortunato — onore del mezzogiorno e
della Camera italiana, di sentimenti, purtroppo! fanaticamente unitari
e monarchici — inaugurando il 20 Settembre 1898 in Potenza una lapide
alle vittime del governo borbonico, ha risposto in questi termini:

«Abbiamo tanto patito, atteso, sperato, e dover poi confessare alle
nuove generazioni, che valeva meglio non farne nulla! Abbiamo tanto
magnificata l’opera nostra, e date assicurazioni al mondo di costanza e
di virtù, perchè poi il mondo meravigliasse nell’udire da noi stessi,
che lo scopo è fallito, che le aspettative sono deluse! Abbiamo,
insomma, offerto per tanti anni tanta decima di sangue e di danaro, ed
essere costretti a conchiudere, che ci siamo solennemente ingannati,
perchè la patria è una astrazione e la libertà una menzogna! E questa
l’Italia che apparve già meritevole della aspettazione della storia?»

Più tardi lo stesso Fortunato, parlando ai suoi elettori di Palazzo San
Gervasio, completava il proprio pensiero con quest’altro periodo, che
si raccomanda ai suddetti bigotti sabaudi:

«Il cinquantesimo anniversario dello Statuto non ha significato, in
sostanza, se non una cosa: un immenso lutto, l’ora più tragica, il
maggior pericolo che l’Italia abbia corso dacchè è surta a dignità
di nazione. L’unità, l’indipendenza, il regime libero, il passaggio,
insomma da una semplice espressione geografica ad una grande potenza,
tutto non era stato se non un miracolo di un pugno di uomini e
della buona fortuna. La immane opera affannatamente, affrettatamente
compiuta, poteva aver chiesto un dispendio eccessivo, forse anche
deprimente, di energie economiche. Nel fatto, la misura era colma
e traboccò. La scuola del dolore dovrebbe quindi ammonirci, che un
qualsiasi altro disperdimento di forze sarebbe, ormai, criminoso,
perchè l’incendio, che cova sotto le ceneri, potrebbe, nuovamente,
divampare. E invece...»

[125] Gli _atti di accusa_ e la _Gazzetta Ufficiale_ del tempo sono
preziosi. Si riscontrino il: _Ferdinando II_ di Mariano D’Ayala; _Gli
ultimi trentasei anni del Regime di Napoli_ di Nisco; e sopratutto
per lo insieme la _Storia critica del risorgimento italiano_ di Carlo
Tivaroni, opera di lunga lena, di grande pregio e molto imparziale.
Editori Roux di Torino.

[126] Ho dato la cifra dei fucilati e la versione su quel fatto, che
corre tra i nemici più fieri del governo borbonico.

Molti negano che il Conte d’Aquila ordinasse la fucilazione; altri
affermano che si trovasse soltanto presente. Ciò che il Conte d’Aquila
smentì sempre. Gli storici borbonici assicurano che i fucilati in
Castelnuovo nel primo furono soltanto 5 o 6 e che le fucilazioni
cessarono appena sopraggiunse il generale Luigi Cosenz.

[127] Il Generale Pelloux, rispondendo all’on. Bissolati nella Camera
dei Deputati in Dicembre 1898, smentì recisamente sul suo onore che il
Colonnello Crotti di Costigliole fosse stato punito per aver rifiutato
la medaglia al valore militare per la repressione di Milano. Benchè
questa circostanza venga riconfermata dalla monarchica _Provincia di
Como_, che per la prima la dette, sono disposto a credere al Generale
Pelloux. Sarebbe doloroso, però, il constatare che nell’esercito
italiano non ci siano stati ufficiali, che abbiano imitato De Sanget e
Bellelli.

[128] Sotto il Papa, nel processo innanzi ad un Tribunale militare,
l’avv. Palomba difese gli accusati.

[129] Benedetto Croce, nipote a Silvio Spaventa, di cui ha cominciato
ad illustrare l’opera, così scrive a Vilfredo Pareto: «Lasciando
ai competenti il confronto fra i sistemi penitenziarii applicati
ora ai condannati politici con quello dei Borboni, e lasciando agli
incompetenti che hanno un po’ di cuore e di sentimento giudicare il
triste spettacolo che offre ora l’Italia libera, a me pare che il
punto sul quale il confronto s’impone irresistibile è sull’indole e sul
modo con cui sono stati condotti i processi politici. Perchè si sono
spese tante parole e tanti colori rettorici per proclamare _iniquo_
il processo, per esempio, fatto dopo il 1848 a Silvio Spaventa? Cito
questo che ho avuto occasione di studiare da vicino. Non certo perchè
lo Spaventa non fosse liberale, nazionalista, anzi unitario: in ciò
i giudici borbonici non sbagliavano, come non sbagliano quelli di
Milano nel giudicare socialisti il Turati e compagni. Ma fu un processo
iniquo, perchè, mancando la prova di reati determinati, si volle
tuttavia condannare nello Spaventa il liberale e l’unitario, ossia
le convinzioni e le opinioni che apparivano certe e non sconfessate.
È vero — si potrebbe dire — che i Borboni provvidero a fornire delle
prove di reato, stipendiando dei falsi testimoni. Ma ciò prova che il
senso giuridico non si era del tutto smarrito! Si riconosceva almeno
la necessità delle prove di fatto e dei reati di azione. I giudici di
Milano non hanno sentito questo bisogno.... — Vilfredo Pareto — _La
Liberté Économique_ — pag. 99-100. _Rastignac_ nel _Mattino_ di Napoli
ha esplicitamente riconosciuto che in Italia, _come sotto i borboni_, i
processi si fanno alle idee.

[130] Gladstone, nelle famose lettere a lord Aberdeen nel 1851, affermò
che i detenuti politici erano nelle provincie napoletane da _15_ a
_30 mila_. Il governo borbonico, in risposta, fece pubblicare una
statistica dalla quale risulterebbe che nel 1851 gl’imputati politici,
in giudizio, in carcere e in custodia erano in tutto _2024_.

[131] _L’associazione Lombarda dei Giornalisti_ ha pubblicato
un’eloquente memoria nella quale è esposto il trattamento cui sono
sottoposti _Giornalisti e condannati politici in Italia e all’estero_.
Il paragone riesce, come sempre, disonorevole per l’Italia! Non
parliamo dei modi civili adoperati dal governo del Granduca di Toscana,
che permetteva a La Cecilia, ed a Guerrazzi di scrivere le _Memorie_ e
_L’Asino_ nelle sue prigioni di Stato. Ma è caratteristica la lettera
che il dott. Giuseppe Canella indirizzò al giornale _Il Secolo_ sul
trattamento dei detenuti politici in _Austria_. Eccola:

«Italiano e non altro che italiano, dal 1848 in poi il mio pensiero
e la mia opera furono sempre per l’Italia. Ho provato le prigioni
politiche dell’Austria, dalla Torre Wanga di Trento a quelle
d’Innsbruck, al Castello di Kufstein, a Rattemberg, Capodistria,
Gradisca, Lubiana e Gratz.

«Non appartenni, nè voglio appartenere a niun altro partito se non
a quello che tende a «fare l’Italia». Qui soffersi molti disinganni
ed amarezze, e non ultima quella di vedere, sotto molti riguardi,
fatti paragoni tutt’altro che lusinghieri per l’Italia in confronto
dell’Austria.

«Leggendo ora sui giornali come sono trattati i prigionieri,
severamente condannati dai tribunali militari, ad onta della mia
ripugnanza, devo convenire che l’Austria, più avveduta nel reprimere e
nel prevenire, si è fatta più ragionevole e più umana nel castigare».

Il podestà di Riva di Trento riassume poscia il regolamento 28 ottobre
1849, firmato dal ministro della Giustizia, Schmerling, che disciplina,
anche attualmente, il trattamento dei condannati politici.

Risulta da esso che, per i crimini politici, i condannati sono
_custoditi_ in un riparto particolare della prigione, e devesi avere
riguardo tanto _al loro grado di coltura_ quanto alla loro età ed al
_loro anteriore metodo di vita_.

Ai condannati è concesso l’uso del proprio letto; possono leggere,
scrivere e ricevere visite di parenti, previo il permesso del preposto
dello stabilimento.

La spesa per il vitto, che lo Stato sopporta per ogni condannato
politico è di 28 soldi al giorno, compresa la razione di pane. Ma
i detenuti politici possono però provvedersi una maggior quantità
di vitto, spendendo del proprio sino ad un fiorino al giorno, e
quindi complessivamente hanno alimenti giornalieri per una somma
corrispondente a circa due lire e mezza italiane.

L’onor. Ettore Sacchi, infine, in una importante lettera allo stesso
_Secolo_ (N. 11643), dimostra che nè dal punto di vista giuridico
nè da quello militare, si possono trattare come delinquenti comuni i
condannati italiani dei Tribunali di guerra. Ma il governo italiano,
in questo come in tutto il resto, continua nella _nobile_ missione di
riabilitare il Papa, l’Austria e i Borboni. Tutte le premure, tutte le
gentilezze il governo italiano le riserba pei delinquenti comuni, si
chiamino Tanlongo o Costella.

[132] Georg Brandes, che ama e conosce l’Italia e che è uno dei più
illustri scrittori scandinavi, visitando nella primavera del 1898 il
nostro paese, rimase scandalizzato dalla cieca e furiosa reazione cui
si abbandonavano i nostri governanti.



INDICE


         A chi legge                                       Pag. 1

     I.  Siamo in ritardo                                       5
    II.  La marcia della sommossa                              15
   III.  La cronaca sanguinosa                                 23
    IV.  A Milano                                              31
     V.  Dal saccheggio di casa Saporiti alla breccia
           dei Cappuccini                                      43
    VI.  La menzogna al servizio della reazione                59
   VII.  Le istituzioni in pericolo!                           69
  VIII.  L’opera della reazione                                83
    IX.  Lasciamo passare la giustizia!                       123
     X.  La condanna delle idee                               151
    XI.  Le cause economiche dei tumulti                      171
   XII.  Le cause politiche e morali                          195
  XIII.  La capitale morale                                   221
   XIV.  Confronti                                            249



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato aggiunto un indice a fine volume.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "L'Italia nel 1898: (Tumulti e reazione)" ***

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