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Title: I due Desiderii
Author: Farina, Salvatore
Language: Italian
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                            SALVATORE FARINA


                            I DUE DESIDERII

                          (Prologo ed Epilogo)



                                 MILANO
                          ALFREDO BRIGOLA & C.
                                EDITORI



                     Proprietà Letteraria riservata

           Milano, 1889 — A. Colombo & A. Cordani, tipografi.



_A Salvatore Delogu — Roma._


                                                      _Natale, 1888._

  _Salvatore mio caro,_

Come vedi, ho scritto un’altra novella che tu giudicherai almeno almeno
curiosa, perchè si compone unicamente del Prologo e dell’Epilogo d’un
gran romanzo, il quale ognuno di noi, più o meno, ha vissuto.

Ragioni d’arte che non sto a dichiarare, ma che tu intenderai senza
fatica, mi avevano consigliato fin da principio a non disporre questo
romanzo in capitoli, e in ultimo a tacerlo, accennandovi solo da
lontano il tanto che bastasse a illuminare lo studio psicologico.
Vorrei dire lo “studio filosofico„ se non avessi paura di far la
voce troppo grossa, chè si sa bene essere la filosofia e la poesia
e qualunque cosa altissima negata sopratutto a chi fa il romanziere,
negata non tanto dai profani di lettere, ma da molti burbanzosi che
di lettere insegnano dalla cattedra. Dunque il mio romanzo è lasciato
all’immaginazione del lettore, il quale non stenterà a farsene uno con
le traccie che gli ho dato; io ho scritto solo il principio e la fine.

Tu leggi con la bontà che mi hai sempre dimostrato, pensando che se
la mia scrittura non avesse altro pregio, questo ha almeno agli occhi
miei d’essere intitolata a te, che, fra i molti amici cari, sei uno dei
pochissimi avanzati. Gli altri sono morti o peggio che morti. Così ti
siano risparmiate le afflizioni, e concessa lunga vita ai tuoi affetti.

                                                           S. FARINA.



PROLOGO

I.


Il primo a svegliarsi nell’ampio dormitorio, era sempre Desiderio;
quando entravano per i finestroni le luci smorte dell’alba, il piccino
si era già messo a sedere sul letticciuolo ad aspettarle, e per non
ricadere nel sonno, aveva contato i letti del camerone, che erano
trentadue, oltre quello del sorvegliante, in fondo in fondo, sotto
l’immagine della Madonna.

Tutti quei piccoli dormenti, che empivano l’aria di strani suoni, visti
di scorcio o di profilo, alla scarsa luce mattutina, con le bocche
aperte e gli occhi chiusi, offrivano a Desiderio un po’ di svago. Ma
gli davano anche un certo sgomento dal giorno che, svegliandosi, e
non udendo la respirazione del piccolo Giulio, il quale dormiva nel
letticciuolo accanto al suo, avea poi riconosciuto che il letto era
vuoto: nella notte Giulio si era sentito male, e l’avevano trasportato
nell’infermeria.

Quel Giulio era un buon ragazzo, ma piangeva sempre, perchè avendo
conosciuto la mamma, che gli era morta, si ostinava a volerla ancora.

Desiderio si era provato tante volte a consolare il suo vicino,
dicendogli che le mamme si ritrovano poi in paradiso; ma un giorno
Giulietto gli aveva risposto che lui di queste cose non ne poteva
sapere, perchè la mamma non l’aveva conosciuta, e forse non l’aveva
avuta nemmanco.

Era vero; Desiderio la mamma non l’aveva conosciuta, e forse non
l’aveva nemmeno avuta; di modo che, non si sentendo l’autorità di
far cessare le lagrime di Giulietto con quest’argomento, non aveva
più saputo che cosa consigliare... Però se cercasse di svagarsi, di
leggere, per esempio... Oibò! a Giulietto non piacevano i libri se non
sulle ginocchia della mamma, e voleva morire per andare a leggere in
paradiso.

Dunque ogni mattina Desiderio, svegliandosi quasi al buio, stava
ad ascoltare se mai fra i varii suoni dei compagni russanti potesse
discernere anche la respirazione debole del piccolo Giulio; ma non
udendo nulla, e riconoscendo il letto vuoto prima ancora che l’alba
glielo facesse vedere, si domandava, con un po’ di terrore, se
Giulietto fosse proprio morto per andar a trovare la mamma, e il suo
piccolo criterio gli diceva di no, che se Giulio fosse morto, il suo
letto non sarebbe rimasto tanto tempo vuoto.

Poi la luce entrava dai finestroni, Desiderio cavava di sotto
il guanciale un libro, un magnifico libro pieno di storielle, e
dimenticava Giulietto ammalato e tutti i suoi compagni che russavano
nel camerone, per pensare solo a Puccettino e alla Bella addormentata
nel bosco.

Il letto di Desiderio era l’ultimo del dormitorio; un vicoletto largo
una spanna lo separava appena dal muro, poi vi era un altro vicoletto
più largo, poi il letto vuoto di Giulio; così il fanciullo era quasi
isolato in mezzo ai compagni. Non ne era scontento, tutt’altro, perchè
da soli si viaggia meglio con gli stivali delle sette leghe.

E poi quella barriera che la malattia di Giulio metteva fra lui e il
mondo, gli faceva pensare a un altro personaggio, di cui aveva inteso a
parlare, a un certo Robinson, che si era perduto in un’isola, e aveva
vissuto tanto tempo senza la zuppa di latte, perchè non aveva pane e
nemmeno latte, facendo però delle scorpacciate di frutta. Desiderio
una buona scorpacciata di frutta non l’aveva potuta fare ancora, ed era
press’a poco convinto che non la farebbe mai, salvo di capitare anche
lui in un’isola disabitata. Ma chi sa se d’isole disabitate ne sono
rimaste? Dopo che Robinson ha insegnato ai ragazzi come si fa a vivere
nelle isole deserte, tutti ci saranno voluti andare, e sarà forse là
come in Milano, la zuppa di latte la mattina, la minestra e la carne
lessata al mezzodì, la zuppa di brodo la sera, e qualche mela nana ogni
tanto.

Una notte Desiderio si svegliò, e tese l’orecchio; la lampada notturna,
che per solito ardeva all’estremità opposta del dormitorio, sopra
il letto del sorvegliante, s’era spenta; ma il buio non era fitto:
penetrava dagli ampi finestroni, insieme con la luce diffusa delle
stelle, un bagliore incerto e rossigno, il raggio smarrito d’un
lampione lontano.

Era difficile anche agli occhi avvezzi di Desiderio, comporre in
quello spazio nero la visione che gli appariva ogni mattina; pure vi si
provò, tanto non aveva sonno. Ecco... in faccia a lui, là, proprio là,
ci deve essere il letto di Gabriele, il piccolo Gabriele dagli occhi
scerpellini, dalla faccia rossa; ma che è stato? dov’era il letto di
Gabriele non vi è più nulla e in quella direzione, ma lontano, lontano,
ecco apparire il corpo accoccolato di un gigante nero. Desiderio capì
che se fosse stato solo, avrebbe avuto paura di quel corpo nero, ma
siccome sapeva d’essere in compagnia numerosa, fissò audacemente il
gigante per costringerlo a smascherarsi e a dirgli: “ho fatto per
celia, non sono un gigante, sono il cassettone a piedi del letto di
Gabriele.„ Ma il corpo nero non mutò positura. Desiderio perdette la
pazienza e volle dormire, oibò... non aveva sonno. Allora si voltò in
modo da porgere l’orecchio destro per udire il respiro di qualcuno...
Ed ecco un altro fenomeno; accanto a lui, così vicino che par che
gli soffii addosso, qualcuno russa leggermente. E proprio lì, vicino
vicino, più vicino del letto di Giulio, ma non può essere se non nel
letto di Giulio....

Chi mai nella notte era venuto ad occupare il letto di Giulio, se
non era Giulio stesso? Desiderio ascoltò lungamente; era un respiro
regolare, non sonoro ma robusto, senza quei gemiti che qualche volta
gli avevano fatto venire in mente l’orco quando va per iscannare
Puccettino e i suoi fratelli e scanna invece le proprie figliuole.
Quella respirazione, sceverata di mezzo al suono delle altre
respirazioni più lontane, dopo alcune cadenze ritmiche precise si
faceva più complicata e più ricca; aveva accenti singolari, smorzature
flebili, sospensioni misteriose: poi a un tratto cresceva d’intensità,
si avviava deliberatamente come a dire qualche cosa di tremendo, in
cui entrassero la morte e la dannazione eterna fino ad esaurire il
suo tema,... e silenzio, un gran silenzio oratorio prima di tornare da
capo.

Desiderio, che non aveva avuto paura del gigante nero raggomitolato in
distanza, cominciava a sentire il fascino tormentoso di quello strano
linguaggio che gli empiva l’orecchio, e per romperlo addirittura chiamò
a bassa voce: Giulio! Nessuno gli rispose, ed egli chiamò più forte:
Giulio!

— Che cosa è? domandò qualcuno svegliandosi in sussulto.

Non pareva la voce di Giulio, ma il fanciullo non sapendo più di che
cosa fidarsi in quel buio, ripetè ad ogni buon conto: Giulio?

— Che cosa è stato? chiese una voce grossa. Parlava dal letto di
Giulio, ma non era Giulio.

— Che cosa vuoi? insistè la voce.

— Credevo che mi avessi chiamato.... disse Desiderio.

— Io no, dormivo....

— Chi sei? Come ti chiami? domandò Desiderio.

— Desiderio! rispose l’altro, ho sonno... e tu come ti chiami?

— Desiderio!

Ma l’incognito, invece di rispondere all’immenso stupore del suo vicino
con uno stupore simile, ricominciò a russare.

In quel momento entrò la luna nel dormitorio degli orfanelli, e
Desiderio volse l’occhio prima di tutto a cercare il gigante nero
lontano. Scomparso.

Ecco il letto di Gabriele dagli occhi scerpellini ed ecco tutti gli
altri letti in fila; ma lì presso, nel posto rimasto vuoto per tanto
tempo, dorme ancora qualcuno che gli volta la schiena, Giulio senza
dubbio, sebbene abbia detto d’esser Desiderio! Curiosa idea di volersi
chiamare Desiderio, ma forse sognava.

Anche il vero Desiderio non tardò a sognare.

E sognò d’essere arrivato al castello della bella addormentata,
la quale assomigliava ad una bambina che aveva visto un giorno in
parlatorio; perchè era bionda come quella bambina, perchè era vestita
color di rosa come quella bambina.

Subito si era svegliata e gli si era buttata al collo per dirgli: “è un
pezzo che ti aspetto!„

E anche la voce era la stessa di quella tal bambina.

Quella tal bambina, per dire addirittura tutto quello che sapeva di lei
il piccolo orfanello, si chiamava Speranza.



II.


Siccome aveva perduto un’oretta di sonno, il piccino si svegliò un
po’ più tardi del solito, cioè quando le prime luci dell’alba erano
già entrate nello stanzone bigio e melanconico. Aprendo gli occhi vide
un ragazzo dell’età sua, che stava a sedere sul letto di Giulio e lo
guardava fissamente. Non era Giulio. Aveva una faccetta angolosa, una
gran fronte sporgente, due occhioni neri e profondi e i capelli rossi.
Senza dargli tempo ad uscire dallo stupore, quell’ignoto gli domandò.

— Come ti chiami? e perchè l’interpellato non fu pronto a rispondere,
ripetè: come ti chiami?

— Desiderio! balbettò il piccino.

— Mi hai preso il nome! disse l’altro, anch’io mi chiamo Desiderio,
però a bottega non ero più che Derio, perchè tutto il nome, vedi, era
troppo lungo! chiamami anche tu Derio, se lo preferisci.

— Io no.: ma tu avrai un altro nome giusto, ti chiamerò con quello per
non confonderci.

— Allora il Matto.... mi chiamavano anche così.

— Preferisco Derio.

— Ho anche un altro nome.... Coppa, Desiderio Coppa, il Matto. C’è da
scegliere.

— Dove sei stato finora, che non ti ho mai visto?

— A bottega; mi è morto il babbo, che faceva il calzolaio, un
mestieraccio da cane; non mi ci divertivo proprio, te lo assicuro. La
zia è povera e mi ha fatto entrare qui. Per farmici venire mi ha detto
che ci si sta tanto bene, che il luogo è bello, che qui si vive come i
figli della gente ricca. Stavo appunto guardando, non mi pare poi così
bello come in casa dei signori. Io in casa dei signori ci sono andato
tante volte quando viveva il babbo... Se tu vedessi! altro che qua!...

— Ma qui non si sta male, osservò Desiderio, sentendosi attratto da una
strana simpatia verso quel fanciullo, che portava il suo medesimo nome
e che gli si era messo accanto in un modo così insolito, vedrai.....

— Ho già veduto abbastanza, ribattè l’altro con sussiego, il luogo
è nero; a me piacciono le case tutte bianche, dentro e fuori, oppure
rosse, blu e dorate, con gli scaloni di marmo.

— Come la casa della bella addormentata nel Bosco! esclamò Desiderio.

— Non ci sono mai stato, osservò il Coppa serio serio. È bella?

— Altro!

E Desiderio cominciò a descriverla; ma quando stretto dalle domande
del suo omonimo, confessò di non averla veduta se non in un libro, il
Matto alzò gli occhi al soffitto e allungò le labbra ad una smorfia di
compassione.

Non disse altro per lasciar intendere il proprio pensiero, ma non ce
n’era bisogno.

— Vuoi che facciamo un patto?

— Facciamolo.

— Promettiamo d’essere amici per tutta la vita. Vuoi?

— Altro! disse Desiderio abbassando troppo la voce, perchè il matto
l’alzava troppo.

— Come lo dici!

— Perchè non si svegli il sorvegliante; altrimenti ci fa star zitti;
sono appena le cinque...

— Aspetta, disse il nuovo venuto, bisogna giurarlo....

E uscendo quasi dal letto e allungando le braccia presentò al piccolo
amico i due indici messi in croce....

— Che cosa devo fare?

— Mettici la mano sopra e giura che saremo amici, per la vita e per la
morte.

Desiderio non capiva bene come ci entrasse la morte, ma quel giuramento
solenne fatto a quel modo misterioso, durante il sonno di tutta la
camerata, lo lusingava, e giurò, per la vita e per la morte, non senza
ammirarsi un tantino. Il Matto fece subito altrettanto, poi disse: “Più
tardi ti darò da bere il mio sangue, ed io berrò il tuo.„

Oh! Come? In un modo semplicissimo; intanto Desiderio non doveva
chiedere altro.

— Ora che siamo amici, ripigliò il Coppa, ci dobbiamo proporre di
andare poi insieme a visitare quel magnifico palazzo....

— Quale palazzo?...

— Quello della bella che dorme; l’andremo a svegliare noi due.... Sei
contento?

Desiderio manifestò il proprio dubbio che quel palazzo non esistesse
più, o non avesse esistito mai, ma il Matto non gli volle credere. Se
l’aveva letto in un libro, ci doveva essere. Il libro non diceva dove
fosse quel palazzo? — No, non lo diceva. — Ebbene, non importa, lo
troverebbero poi lo stesso.

— Ancora non mi hai detto come hai fatto a venire nel letto di Giulio,
senza che io ti abbia visto.

— Dormivi quando io sono arrivato; non mi volevano ricevere, perchè era
troppo tardi, ma un signore con la barba, non so chi sia, ha creduto a
tutte le bugie che gli ha detto la zia per iscusarsi, e mi ha lasciato
venire.... Mi hanno messo qui, per questa notte soltanto, ma se credono
di cambiarmi di letto, sbagliano.... io qui sto bene.

Vi era qualche cosa nel linguaggio del Matto, che a Desiderio non
andava a versi; e pure la sua simpatia per il nuovo amico non ci pativa
nulla.

— Quant’anni hai? gli chiese il Coppa.

— Io, dieci compiti...

— Ed io, dieci non compiti, rispose l’altro, e parve umiliato di essere
più giovine; ma sono più alto di te, guarda.... E di botto, senza dir
altro, lasciò penzolare le gambe sotto le lenzuola, e quando fu ritto,
ripetè: guarda!

Forse non era vero che fosse più alto di Desiderio, ma il fanciullo non
si curò di correggere quella piccola vanità, accontentandosi di dirgli
che tornasse subito in letto, perchè era proibito levarsi prima che
sonasse la campana.

— Quando suona la campana? domandò il piccolo insofferente,
ricacciandosi sotto la coltre.

— Sono le cinque.... fra mezz’ora.

Il Coppa non udì neppure questa risposta; pareva distratto da un’altra
idea, e Desiderio stette un po’ a guardarlo con una grande indulgenza,
come se sapesse già la parte che gli spettava nella nuova amicizia.

— Tu ed io siamo due Desiderii; disse a un tratto il Coppa; tu che cosa
desideri?

Il fanciullo, così interrogato, stette un po’ perplesso; non sapeva
bene nemmanco lui che cosa desiderava, forse nulla

— Non è vero, osservò l’altro; pensaci bene; devi desiderare qualche
cosa.

Allora il piccino confessò che desiderava passassero due anni, per
poter entrare nella seconda sezione, dove gli orfani imparano il
disegno.

— Ma questo non è un desiderio, disse il Coppa.

— Perchè?

— Perchè è una cosa sicura; che gusto ci è a desiderare le cose quando
devono proprio succedere? È lo stesso come desiderare che fra sette ore
sia mezzodì.

Desiderio non era preparato a rispondere a questo argomento, e si
accontentò di ripetere che per ora non desiderava altro.

— Per ora; insistè il Coppa; ma per dopo?

— Per dopo, non so, disse Desiderio.

Era sincero nella propria ignoranza come il Matto nel suo stupore.

— Io invece, annunziò solennemente quest’ultimo, penso sempre al
_dopo_; io desidero, lo vuoi sapere che cosa desidero?

— Sì, dillo.

— Desidero di diventar ricco, ricco, ricco, di poter sempre avere le
tasche piene di monete d’oro e d’argento, e spenderle senza contare, e
regalarne agli amici, ma averne poi sempre delle altre.

— Ma tu desideri l’impossibile....

— Chi ti dice che sia impossibile?...

— Ma.... mi pare. Che speranza hai di diventar tanto ricco?

— Io, nessuna....

— Lo vedi! esclamò baldanzosamente il piccolo filosofo, ma subito,
accorgendosi di aver detto qualche cosa che impensieriva il suo
interlocutore, e di cui non vedeva bene il fondo egli stesso, stette in
silenzio a riflettere.

— Temo anch’io che sia una cosa impossibile, concluse il Matto, ma a
desiderarla non ci è alcun male.

Desiderio allora non rispose nulla, ma un momento dopo, scotendosi ai
suoni prolungati della campana mattutina, disse più a sè stesso che al
suo nuovo amico:

— Non so.

— Che cosa non sai?

— Se a desiderare l’impossibile non ci sia del male.

E balzò giù dal letticciuolo.

L’aspetto del dormitorio era interamente mutato, e sopra ogni
letticciuolo era ripetuta in diverso modo la medesima scena: un
fanciullo seminudo, in piedi, o seduto, o giacente ancora, ma con le
braccia alzate al soffitto; sbadigli che fendevano similmente le guance
paffute e le smunte. In pochi istanti tutta la camerata fu a terra, a
frugare nel cassettone, a infilare i calzoni di tela, a lustrarsi le
scarpe posando i piedi sullo sgabello di ferro, poi a lavarsi la faccia
con gran chiasso nel lavatoio comune, e in ultimo a rifare i letti.

Desiderio dovette insegnare al nuovo amico come si rifà il letto, e
il Matto imparò subito; in compenso volle che Desiderio apprendesse da
lui a rendere lucide le scarpe senza molta fatica, alternando sul cuoio
l’alito caldo e i colpi di spazzola rapidi e leggieri.

In sostanza quella scenetta del risveglio non aveva infastidito
troppo il signor Coppa; ma rimaneva ancora a fare qualche cosa che
Desiderio non sapeva come sarebbe accolta dal novizio: la rimboccatura
ai letti. Anche questa andò benone; appena il Matto udì ripetere di
bocca in bocca per tutto il dormitorio: “la corda, la corda„ e vide
venti braccia agitarsi per afferrare una corda, subito, senza nemmeno
intendere di che si trattasse, a furia di spintoni allontanò quanti gli
stavano dinanzi e spiccando un salto afferrò la corda lui. Ma quando
l’ebbe in mano non avrebbe saputo che farne se Desiderio non gli avesse
detto che bisognava tenderla da un capo all’altro del dormitorio, sui
letti, per.... perchè mai? per allineare le rimboccature.

Un risultato simile dopo una prodezza non iscoraggerebbe l’eroismo del
novizio? Desiderio ne ebbe un po’ di timore, ma s’ingannò, perchè il
Coppa, dopo d’aver tesa la corda, parve contentone di poter accomodare
la rimboccatura del proprio letto.

Gli orfani erano lavati, asciugati, spazzolati; il piccolo tumulto non
poteva più durare, e pure durava ancora per opera di pochi volonterosi,
che si erano imbrattati le dita e correvano un’altra volta al lavatoio,
o non si erano asciugata bene la faccia, o avevano dimenticato di
chiudere le spazzole nel proprio cassettone, mentre i più tranquilli
erano già schierati in fila, dinanzi all’immagine della Madonna, per
udire la preghiera del mattino.

Il sorvegliante, dominando con l’alta statura quel piccolo drappello,
radunò gli sbandati e fece affrettare i tardivi; poi ad un cenno
s’inginocchiarono tutti insieme.

Quella mattina toccava a Desiderio leggere la preghiera del mattino,
ma egli l’aveva tutta in mente e non ebbe neppur bisogno di guardare la
scritta.

Quando egli incominciò con la sua vocetta limpida e dolce: “La notte
è passata, ed io vivo ancora, o Signore, mentre chi sa quanti sono
comparsi questa notte medesima dinanzi a voi per essere giudicati....„
il Matto che gli si era inginocchiato accanto, lo guardò fisso in
bocca per non perdere una sillaba. Quando Desiderio a nome di tutta
la camerata promise al Signore di approfittare dell’educazione
intellettuale e di prepararsi da buon cittadino ad onorare la patria,
la sua voce tremava un tantino come per una segreta commozione, e
quando disse che “sebbene questa terra non fosse la sua patria eterna,
la vita era un dono col quale poteva prepararsi la corona del cielo„,
egli abbassò la voce e rallentò la lettura quasi pigliasse tempo
per intendere tutto il significato di quelle mistiche parole. Poi la
vocetta di Desiderio squillò un’altra volta nella sala, per assicurare
ai compagni che gli avrebbe amati, cercando d’essere loro di buon
esempio.

A questo punto una mano strinse di nascosto un lembo del camiciotto
di Desiderio, tanto per stringere qualche cosa; ed era la mano del suo
nuovo amico.

“Tutto questo vi prometto, o Signore, conchiuse il piccino, voi datemi
la grazia di non mancare. Mandatemi l’angelo vostro, che m’illumini, mi
custodisca, mi governi e mi salvi da tutti i pericoli che incontrerò in
questo giorno„.

— _Amen_, disse l’assistente, e gli orfanelli balzando in piedi
ripeterono _amen_. Poi s’avviarono deliberatamente al refettorio.

Uno solo rimaneva ancora in ginocchio, come smemorato, a guardare
Desiderio che riattaccava al chiodo la scritta delle preghiere. Il
sorvegliante si accostò al piccino e gli disse:

— Non ti ho mai veduto; come ti chiami?

— Desiderio Coppa il Matto; rispose l’interrogato levandosi in piedi.

— Perchè il _Matto?_

— Non lo so.

— Bisogna essere savio, piccino mio, savio come questo tuo compagno,
che ha appunto il tuo nome.... Lo prometti?

Il Coppa gettò un braccio al collo del nuovo amico e dichiarò senza
scomporsi:

— Allora non bisogna cambiarmi di letto, bisogna dire a quel signore
con la barba che io voglio dormire sempre dove ho dormito stanotte.

Scesero anch’essi in refettorio a mangiarsi la zuppa di latte caldo;
ma il Coppa non aveva fretta, sebbene avesse un appetito!... Egli
si piantò sul pianerottolo, dopo la prima scala, e trattenne il suo
piccolo amico per dirgli:

— Dimmi un poco, è la stessa cosa tutte le mattine?

— Sì, tutte.

— Ogni mattina tu dici al Signore che ti mandi l’angelo?...

— Non sono sempre io che leggo, si va per turno; leggerai anche tu.

— E quest’angelo, insistè il Coppa, fisso nella sua idea, è mai venuto?

— Io credo di sì..,

— L’hai visto tu?

Desiderio avrebbe potuto rispondere che l’aveva veduto tante volte,
guardando dal cortile attraverso i vetri del parlatorio, e che era un
angelo color di rosa, e che veniva accompagnato dalla sua mammina,
a visitare uno dei grandi della prima sessione, e che si chiamava
Speranza; tutto questo avrebbe potuto dire, ma non sapeva ancora se il
Coppa fosse degno di una confidenza simile.

— Ho capito, disse il piccolo indiscreto leggendo nella faccia del
nuovo amico un po’ di titubanza — me lo dirai più tardi.

— Sì, più tardi, esclamò Desiderio, lieto in fondo di aver sotto mano
un confidente.

— Più tardi, ripetè il Matto con accento misterioso, di cui Desiderio
intese con raccapriccio tutto il senso arcano.

Ancora egli non aveva bevuto il sangue del Coppa, nè il Coppa aveva
bevuto il suo.



III.


Desiderio non aveva dimenticato Giulio, sebbene dopo tanto tempo che
lo conosceva non si sentisse legato a lui da quel misterioso laccio,
che in poche ore gli aveva stretti così bene, il Coppa e lui. L’ingenuo
orfanello se ne faceva quasi un rimprovero, e cercando di scusarsi,
non trovò altro che una piccola bugia da dire al cuore. “Non è vero, si
provò a dire, che questo nuovo venuto che ieri non conoscevo neppure,
mi sia più caro del piccolo Giulio che ha pianto tante volte dinanzi a
me e persino sul mio capezzale.... Non è vero....„ Ma sì, era proprio
vero, e Desiderio comprese allora come le bugie che qualche volta
diciamo al cuore non abbiamo la minima fortuna.

Dunque Desiderio pensava a Giulio, ma pensava anche alla solenne
cerimonia del sangue, la quale gli metteva un po’ di paura, prima
perchè immaginava che non si potesse far uscire il sangue senza
pungersi in qualche parte del corpo, poi perchè, non avendo mai bevuto
il sangue di nessuno, non sapeva che effetto straordinario avesse a
produrre nella sua amicizia per il Matto.

Quando il Coppa, dopo la colazione, fu chiamato dal rettore, Desiderio
sentì uno sgomento, pensando che se il suo nuovo amico non sapeva
rispondere alle domande di catechismo e di grammatica, non lo avrebbero
lasciato nella stessa scuola e nella stessa camerata.

— Che cosa sai tu? gli domandò in fretta.

— Non so, rispose ingenuamente il Coppa.

— Chi ci ha creati? insistè Desiderio.

— La mamma, rispose il Coppa impassibile.

— No, non bisogna dire così; se il rettore ti domanda chi ci ha creati,
devi dire che è _Dio_; poi il rettore ti domanderà per qual fine Dio ci
ha creati, e tu risponderai: per amarlo ed onorarlo....

Il Coppa crollava il capo.

— Ma se non sai queste cose, ti metteranno in prima, e allora ci
toccherà separarci.

Fu un gran colpo pel povero Coppa.

— L’articolo lo sai? E il pronome? E le coniugazioni dei verbi, le
sai?.... Ma che cosa sai?

— So leggere e scrivere, so far le somme e le sottrazioni.

Era già qualche cosa.

— Non sai altro?

— Aspetta, che mi ricordi, disse il Coppa....

— Va, va, gli disse Desiderio, non bisogna far perdere la pazienza al
rettore. E il Coppa s’avviò a capo chino, cercando di radunare le poche
cognizioni dimenticate a bottega.

Desiderio durante la mezz’ora di ricreazione che precedette la scuola,
vagò come un’anima smarrita nel cortile: si era dimenticato perfino
del piccolo Giulio, e non aveva occhi se non per la porticina, da cui
doveva da un momento all’altro affacciarsi la testa rossa del Coppa. Ah
quanto tardava!

Finalmente il Coppa fece irruzione nel cortile: coi capelli rossi
tagliati a spazzola e con la gioia che gli balenava negli occhioni
pareva un raggio di sole perduto in quel luogo melanconico.

— Mi lasciano con te! gridò da lontano, mi lasciano con te, gridò
anche quando fu addosso al suo nuovo amico, e lo scrollava tutto in un
amplesso.

— Come hai fatto?

— E stata una cosa facile. Ha voluto sapere chi mi ha creato ed io gli
ho risposto: Dio, per fargli piacere; mi ha fatto fare una somma, mi ha
fatto leggere, mi ha fatto scrivere.... voleva anche che gli dicessi
che cosa è il pronome possessivo, ma io gli ho risposto che una volta
lo sapevo e che se mi lasciava con te, mi sarebbe venuto in mente.
Ci ha pensato un poco. Poi voleva che gli dicessi almeno che cosa è
l’articolo.... E dalli! fra otto giorni saprò ogni cosa.

— E lui?

— E lui ci ha pensato un altro poco, mi ha messo la mano sulla testa,
e mi ha detto che andassi pure, che voleva contentarmi. Tu m’insegnerai
quello che non so, e staremo sempre insieme.... che piacere!

— E Giulio? chiese allora Desiderio.

— Quale Giulio? quello che dormiva nel mio letto?

— Sì, quello.....

— Hanno detto che sta male, molto male.

Allora venne in mente a Desiderio che per legittimare l’irresistibile
simpatia da cui si sentiva legato al suo omonimo bisognasse far visita
al piccolo Giulio ammalato e fargli conoscere il Coppa.

— Vieni, disse a quest’ultimo e si avvicinò al vice-rettore, che
attraversava in quel mentre il cortile.

— Signore, gli disse col berretto in mano, il Coppa ed io, invece
di giocare, vogliamo far visita al piccolo Giulio ammalato; ce lo
permette?

Non era la prima volta che l’uomo con la barba nera dava indizio di
avere il cuore tenero, ed il Coppa notò il sorriso melanconico con cui
accolse la richiesta.

— Venite con me, disse il vice-rettore, il quale non era uomo da
abbandonare ad altri lo spettacolo melanconico e sano che offrono
talvolta l’affetto e la sventura uniti insieme.

I due piccini, tenendosi per mano, con quella trepidanza che danno
anche le azioni generose, risalirono le scale, attraversarono parecchi
stanzoni bigi e melanconici e giunsero all’ingresso della infermeria.
Nel primo stanzino erano due letti, e in uno di essi un piccolo infermo
col corpo abbandonato su due guanciali moveva a fatica alcuni soldatini
di piombo, che non volevano star ritti sulla rimboccatura del lenzuolo.
Non alzò nemmeno la testa al lieve rumore che fecero i due bambini, e
Desiderio tratteneva il respiro, guardando la larva di colui che era
stato per tanto tempo il suo vicino di letto.

— Giulio! balbettò finalmente.

L’infermo alzò gli occhi, riconobbe il suo piccolo amico e gli sorrise;
e allora Desiderio corse al capezzale. Il Coppa, rimasto sull’uscio,
era commosso ed agitato da qualche cosa che somigliava alla gelosia, e
si sentiva solo, sebbene avesse alle spalle il vice-rettore.

— Giulio! disse Desiderio con voce in cui tremava una lagrima repressa,
Giulio, come stai?

— Sei venuto, ora sto bene, rispose il fanciulle continuando a drizzare
i soldatini caduti, con quella suprema indifferenza di chi si sente
nulla più che un soldatino caduto nell’ampio mondo.

Desiderio non sapeva che dire, e allora l’ammalato volse il capo verso
di lui, con gran fatica, e mormorò:

— Hai fatto bene a venire.

— Povero Giulio! disse Desiderio perchè gli ripugnava discolparsi, io
credeva di trovarti quasi guarito.

— Presto, disse Giulio, e lasciò ricadere la testa stanca sui
guanciali. Al lieve urto anche i soldatini di piombo si rovesciarono
come persone stanche.

Dopo un istante di silenzio, che Desiderio occupò accarezzando il
visino patito di Giulio, l’infermo chiese:

— Chi è questo ragazzo?

— È il Coppa, rispose Desiderio con titubanza pensando che forse non
conveniva far sapere a Giulio che il suo antico letto era occupato, ma
non sapeva come prevenire il nuovo amico.

— È un nuovo? domandò Giulio.

— Sì, è un nuovo; gli ho detto che venivo a vederti ed ha voluto venire
anche lui, perchè abbiamo parlato tanto di te....

Desiderio si fece rosso appena ebbe detta questa bugia innocente, che
gli era sembrata necessaria.

— Perchè sta lì? disse Giulio.

— Coppa, disse Desiderio, avvicinati. Giulio ti vuol vedere.

Il Coppa si fece innanzi e domandò bruscamente:

— Come stai? quando guarisci?

L’ammalato non rispose; ma fissò un momento gli occhi luccicanti dalla
febbre sulla faccia del Coppa.

— Hai la mamma tu? e quando seppe che non l’aveva mai avuta (perchè
il Coppa rispose così), egli chiuse gli occhi, mormorando qualche cosa
che i fanciulli non intesero bene. In quel momento si udì la campana, e
Giulio disse: “La scuola!„

Allora Desiderio si curvò sul guanciale del piccolo ammalato e lo baciò
in fronte.

— Ritornerò, disse, guarisci.

— Guarisci, disse il Coppa.

Giulio fissava gli occhi nella finestra dirimpetto; giungeva fino a
lui, dal cortile sottostante, un rumore confuso; erano i compagni che
facevano irruzione nella scuola.

— Mi pare di vederli, disse l’ammalato, mi piacerebbe venire alla
lezione ancora una volta per salutarli tutti.

Desiderio non rispose, aveva il cuore stretto, ma il Coppa rispose per
lui: li saluteremo noi.... ma tu prometti di guarire.

— Presto, disse Giulio.

Quel giorno alla lezione del pomeriggio tutti gli scolari della seconda
elementare poterono leggere, scritte a grossi caratteri, queste parole
che occupavano tutta la lavagna: _Giulio ammalato manda tanti saluti ai
suoi compagni di scuola_. Anche il signor maestro lesse la scritta, e
non ebbe cuore di cancellarla, nemmeno per ispiegare la sottrazione dei
numeri decimali.



IV.


Due giorni dopo il piccolo Giulio era morto, e i suoi compagni
aggiunsero un _de profundis_ alla loro preghiera prima d’andare a
letto. Il Coppa quella notte non potè chiudere occhio; il cadaverino
di Giulio affascinava, da lontano, la sua giovane immaginazione; se il
regolamento non lo avesse vietato, egli sarebbe balzato dal letto nel
cuore della notte per andare ad empirsi l’anima di terrore al capezzale
del morticino.

Però non versò una lagrima, ingegnandosi di consolare sottovoce il suo
piccolo amico, il quale aveva soffocato i singhiozzi sul guanciale,
finchè il sonno lo aveva preso a tradimento.

Quando il giorno successivo tutti gli orfani della seconda elementare
furono chiamati ad assistere all’uffizio mortuario nella cappella,
e si avviarono a due a due dietro la piccola bara, dall’ospizio al
camposanto, Desiderio ricominciò a piangere e il Coppa ripigliò a
consolarlo. E quando Giulio fu calato nella fossa e i suoi compagni
cominciarono a buttare le manate di terra sulla bara sonora, il Coppa,
che avea guardato ogni cosa attentamente, tirò in disparte Desiderio e
gli disse: non era un ragazzo coraggioso, è meglio che sia andato con
sua madre, non avrebbe mai fatto fortuna.

— Sì, è forse meglio, disse Desiderio, asciugandosi la faccia lagrimosa.

Per tutta la via, finchè furono tornati all’ospizio, i due fanciulli
non dissero nulla, ma durante l’insolita ricreazione, che gli aspettava
appena arrivati, invece della scuola, il Coppa prese Desiderio in
disparte e gli disse: ora che Giulio è morto il tuo amico son io, non è
vero?

Desiderio accennò di sì, ma non era punto rassicurato da quel
preambolo, che annunziava pur troppo una cerimonia temuta.

— Dobbiamo bere il nostro sangue, assicurò il Matto, è necessario. Non
aver paura, è una cosa da nulla, beverai tu prima il mio, sta a vedere
come si fa....

Così dicendo cacciò la punta d’un ago nel polpastrello dell’indice
e ne fece spicciare alcune goccie di sangue, ma Desiderio si rifiutò
ostinatamente di fare altrettanto.

— Non ci è bisogno del sangue, disse, per essere amici; non l’abbiamo
noi giurato?

Quella debolezza non fece un grand’onore a Desiderio nel concetto del
Coppa, ma egli fu generoso, e perdonò. Solo disse con severità:

— Se è vero che mi sei amico non devi avere segreti con me; dimmi tutto
quello che pensi, tanto vedi, io ti ho già capito: tu sei innamorato.

Terribile omino il Coppa, egli aveva messo il dito proprio in mezzo
al cuore del suo piccolo amico, a cui fu impossibile negare una verità
che cavava gli occhi alla gente. Non perciò Desiderio fu sconfortato,
tutt’altro; egli aveva, come tutti gli innamorati, un gran bisogno
di confidare il gran segreto ad uno che lo sapesse intendere, tanto
più che tra la sua innamorata e lui non ci era stato se non scambio
d’occhiate, le quali dicono fino a un certo punto, ma si sa....

— Si sa, approvò il Coppa; però qualche volta si dice anche meno con la
bocca... io stesso vedi...

— Tu?

Sì, proprio lui, si era già innamorato due volte, e non era mai stato
capace di dichiarare la sua fiamma. — Ma si era mai trovato da solo a
solo coll’innamorata? — Sicuramente, quando era a bottega e per ragioni
di professione andava nelle case dei signori, una volta aveva visto
una donna. — Una donna? — Già una donna, tanto bella, tanto bella....
bella come.... non sapeva come, non c’era nessuna altra donna bella
a quel modo, la chiamavano donna Lucia, era maritata ad una specie di
colonnello.... un pezzo di diavolaccio alto così, ma non era stato per
paura del marito, non sapeva neppur lui perchè era stato; non le aveva
mai parlato. Desiderio rimaneva a bocca aperta, ascoltando la storia di
questo amore straordinario.

— E l’altra volta? chiese.

— L’altra volta ho parlato, rispose, perchè era dipinta.... Però, si
affrettò a dire per parare la beffa, mi guardava sempre, io girava di
qua e di là ed essa mi accompagnava con gli occhi sin sull’uscio; mi
pareva perfino che movesse la testa, ma non n’ero sicuro....

— Dove hai veduto quella donna dipinta? chiese Desiderio.

— Nell’anticamera d’una casa di signori.

— Oh! quanto mi piacerebbe saper dipingere una donna così bella.

— Tu la dipingerai, ed io quando sarò ricco te la pagherò bene e la
metterò nel mio palazzo....

Accomodate così le cose, non rimaneva alcun pretesto di ritardare la
confidenza, e Desiderio cominciò titubando:

— La mia innamorata ha solo otto anni, non l’ho vista se non in
parlatorio attraverso i vetri della finestra, ha già capito che io le
voglio bene e mi ha fatto intendere che anche essa me ne vuole. Io non
so quando le potrò parlare; essa viene con una donna a visitare uno dei
grandi, ed io in parlatorio non posso mai andare, perchè a vedermi non
viene mai nessuno.

Diceva queste parole senza falso sentimentalismo, ma con la melanconia
di chi vede un ostacolo al proprio sentimento e non sa ancora in che
modo superarlo.

— Come si chiama? domandò il Coppa.

— Si chiama Speranza.

— Senti, tu me la farai vedere domenica, attraverso i vetri ed io le
parlerò per te; mi dirai che cosa le dovrò dire; non aver paura che
te la rubi; prima di tutto a me non piacciono le bambine, e poi siamo
amici.

— E tu le parlerai?

— Sicuro che le parlerò. Mia zia viene qualche volta a trovarmi, io le
dirò che non posso stare senza vederla tutte le domeniche....

Sonò la campana; — la ricreazione era finita. — Ragazzi a scuola!


Era stato concesso al Coppa di provare le proprie forze nella seconda
elementare, sebbene la sua dottrina messa per tanto tempo al contatto
delle ciabatte più logore di Porta Garibaldi avesse perduto tutta
la freschezza e in più luoghi abbisognasse di toppe. Ma egli aveva
promesso al signor maestro di far sue prima di un mese tutte quelle
suppellettili scientifiche che fanno l’ornamento dell’ingegno in
seconda elementare, e si poteva star sicuri che non avrebbe mancato di
parola.

Aveva una memoria pronta e tenace, e fu per lui un gioco il colmare
le lacune grammaticali ed aritmetiche che lo separavano dai colleghi.
Quando ebbe assicurato per tutto l’anno il proprio posto, a scuola
e nella camerata, accanto al suo nuovo amico, si tenne contento.
Il maestro gli diceva che continuando così (cioè ad ornarsi delle
suppellettili scientifiche) poteva essere uno dei primi della
scuola, ma egli non continuò così, aveva ben altro per la testa
che le suppellettili del signor maestro. Viveva già in un suo mondo
fantastico, oltre le mura di quell’ospizio che gli aveva tutta l’aria
di una prigione; aveva aspirazioni ignote all’infanzia, desiderii
strani e curiosità a cui nessuno dei libri di scuola sapeva rispondere.

— Perchè tu non sei nato ricco? domandò un giorno al suo compagno.

— E tu? rispose Desiderio ridendo.

Il Coppa non rise.

— Perchè vi è della gente che nasce ricca, e dell’altra che ha sempre
appetito? Lo sai tu?

Desiderio non sapeva; forse il signor maestra lo sapeva, ma non glielo
avrebbe voluto dire.

— Ci è però della gente che nasce povera e poi si fa ricca.... osservò
il Coppa.

— Lavorando, disse Desiderio, senza pensarvi troppo.

— Già lavorando, brontolò il Coppa; ma non a fare il ciabattino; vorrei
avere tante lire quante toppe ha messo il babbo finchè ne è morto.
Eppure ci è della gente che non metterebbe una toppa nemmeno per due
lire, nemmeno per quattro. Farò così anch’io quando sarò ricco. E tu?

Desiderio non spingeva ancora l’occhio fino a quel tempo remoto;
l’unico avvenire che lo tentava era lontano due anni; quando egli fosse
nella sezione dei grandi, e potesse imparare il disegno, non vorrebbe
più nulla.

— Ti pare, disse il Coppa; ma quando ci sarai, vorrai dell’altro; io
invece no....

Egli furbo voleva addirittura una bella carrozza, con due cavalli,
e due servitori incipriati; però non aveva ancora deciso se dovesse
bastargli un milione, o se ci volesse un miliardo; ci penserebbe poi.

Intanto giunse la domenica.

— Mi viene un’idea, aveva detto il Coppa al compagno; scrivi alla
tua innamorata ed io le consegnerò la lettera, le dirò che sei tu che
gliela mandi.

— Essa non sa il mio nome....

— Non importa; tu ti metterai dietro i vetri, io farò un segno verso di
te, ed essa comprenderà subito.... le ragazze sono furbe.

— E se qualcuno se ne accorge....

— Lascia fare a me.... tu scrivi....

Ed allora Desiderio non aveva saputo resistere alla tentazione ed aveva
scritto:

      “_Speranza mia_,

  “Io sono quello che ti guarda sempre dai vetri del parlatorio, e
  che ti vuole tanto bene. Io non posso andare in parlatorio perchè
  nessuno viene a vedermi; non ho più la mamma, non ho più parenti;
  ma se tu non mi abbandoni non sarò mai solo. Ho saputo il tuo nome
  un giorno che tua madre venne senza di te; tuo fratello, appena
  entrato, domandò: E _Speranza?_ Non udii altro perchè la porta si
  chiuse, ma tua madre gli rispose di sicuro che eri un po’ malata.
  Io vidi dalla faccia che soffriva parlando. Ho sofferto molto tutta
  quella settimana, era come se mi fossi perduto in mezzo alla gente;
  non lo so esprimere bene, ma era una cosa così. La domenica dopo,
  vedendoti, mi sembrò di ritrovare la mia strada. Dunque, Speranza
  mia, non mi lasciare; promettimi di esser mia per tutta la vita. Mi
  pare che con te al fianco, io non mi perderò in mezzo alla gente.
  Mi chiamo Desiderio, ho già dieci anni compiti, e ti voglio tanto
  bene.„

Il Coppa lesse questa lettera con molto raccoglimento, e si degnò
di lodarne la struttura. “Non vi sono errori di grammatica, disse,
va benissimo.„ Ma era chiaro che diceva così per non scoraggiare
un principiante; le lettere che egli aveva scritto alla moglie del
colonnello erano ben altro; non certamente calligrafiche, e forse
nemmeno in pace con la grammatica, ma calde; parlavano meglio il
linguaggio che bisogna usare colle innamorate.... Se quella donna
superba le avesse lette.... — Perchè vedi, spiegò il Coppa, alle donne
piace sentirsi dire: “Mia bella, mio tesoro, anima mia,„ e poi bisogna
sempre promettere qualche cosa alle donne... Vediamo se tu promettessi
alla tua Speranza di coprirla di pietre preziose.... no? non vuoi? sarà
per un’altra volta — del resto la tua lettera va benissimo.

— La mia Speranza è modesta, rispose il fanciullo, guardando attraverso
i vetri del parlatorio; e d’improvviso esclamò:

— Eccola!... Guardala, soggiunse mostrando al suo compagno la faccia
illuminata dalla gioia, guardala....

— È quella biondina cogli occhi azzurri? chiese il Coppa accostando
l’occhio alle commessure dei vetri smerigliati, quella che ha i capelli
sciolti.... quella che....

Era proprio quella, e Desiderio non gli poteva rispondere.

Bisognò tirarsi da parte per non farsi scorgere troppo, essendo
l’affacciarsi ai vetri del parlatorio una delle tante cose proibite dal
regolamento.

Un momento dopo si venne all’uscio a gridare il nome del Coppa.

— Presente, rispose il piccino mettendosi alle spalle del sorvegliante
che si affacciava a cercarlo con gli occhi. Dammi la lettera, mormorò
all’orecchio di Desiderio, sta vicino ai vetri e vedrai....

La raccomandazione era soverchia; il suo nuovo amico non era ancora
scomparso quando Desiderio appiccicava la faccia ai vetri a rischio di
guastarsi col regolamento.

Il Coppa, appena entrato nel parlatorio cominciò ad essere imbarazzato
della parte difficile che si era preso senza riflettervi molto. Sua
zia lo trovò distratto più del solito e glielo disse, ed egli rispose
distrattamente che era verissimo. Un’idea lo tentava. Quando la
faccia di Desiderio appariva dietro i vetri smerigliati col nasino
schiacciato, il Coppa sentiva venuto il momento di precipitarsi verso
la piccola Speranza, fingendo di raccogliere qualche cosa che le fosse
caduto per metterle in mano il bigliettino. Ma se non capisse? Intanto
pensava: “È bella questa biondina, troppo piccola e troppo insipida per
un uomo come me, ma è proprio bella. In tutto il parlatorio non ce n’è
nemmeno una da metterle a confronto.„

Egli volle assicurarsi meglio se non ce ne fosse almeno una e fece
delle risposte così strambe alla zia, che per poco non la mise in
collera.

— Che cos’hai questa mattina? gli disse.

— Non ci badare, rispose il fanciullo serio serio; sono tanto contento
che tu sia venuta a vedermi; promettimi di non mancare mai....

— E allora dimmi qualche cosa....

— Non ho nulla da dirti; mi piace vedere la gente ed esserti vicino....

La povera donna pensò che non per nulla suo nipote si chiamava il
Matto; sedette sopra una panca e si contentò di tenere nelle proprie
una mano del piccino, lasciando che tutto il resto, anima e corpo,
fosse da un’altra parte.

No, in tutto il parlatorio non v’era alcuna donna che potesse
paragonarsi a Speranza. Era pur fortunato Desiderio! Oh! sta a vedere
che egli invidiava la sorte del suo disgraziato amico, costretto per
vedere la sua bella di mostrarle il naso schiacciato e perduto nella
nebbia.

Non lo invidiava, ma veniva cercando intorno a sè qualche donna di
cui innamorarsi. Non ce n’era proprio! Erano tutte troppo vecchie, o
troppo brutte. “Il biglietto, il biglietto!„ sembrò dire il nasino di
Desiderio picchiando contro il vetro e il Coppa senti la necessità di
essere un eroe. Egli si sprigionò dalla stretta della zia, si cacciò
attraverso la folla dei visitatori e passando rasente a Speranza le
prese coraggiosamente una mano e v’introdusse il biglietto.

“È di lui,„ disse senza arrestarsi; il nasino di Desiderio in quel
momento scomparve.

La fanciulla si era fatta rossa fossa, ma aveva capito benissimo;
passato il primo sgomento, mandò in giro un’occhiata per accertarsi che
nessuno le aveva gli occhi addosso, poi guardò coraggiosamente il Coppa
e gli sorrise per ringraziarlo.

Dio! quanto era bella! sorridendo, lasciava vedere i dentini tersi e
lucenti; gli occhioni azzurri, guardando, sembravano andare incontro
alla gente.

Il Coppa fece queste osservazioni, mentre la zia, tiratolo un’altra
volta a sè, gli veniva aggiustando le pieghe del camiciotto perchè non
gli facesse smorfie sulla persona. Era la cerimonia dell’addio; quella
buona donna, che veniva in parlatorio per semplice carità cristiana,
non immaginava di aver fatto il proprio dovere di zia amorosa e di
potersene andare tranquillamente a casa, e più tardi in paradiso, se
non avesse accomodato il camiciotto del suo ragazzo.

— Me ne vado, disse la zia.

— Così presto? domandò il Coppa, occupato a studiare l’innamorata del
suo amico per farsene un’idea chiara.

— Mi aspettano a casa.

In quel momento appunto, la piccola Speranza fu presa per mano dalla
mamma e fece atto di avviarsi.

— Va pure, disse allora il Coppa, ma non mancare domenica.

Speranza parve cercare sul vetro della finestra un nasino schiacciato
che da un poco non si mostrava, poi diede ancora uno sguardo di
gratitudine al Coppa, il quale pensò: “pare una donnina!„ e lo andò a
dire a Desiderio.

— La tua Speranza pare una donnina, ed è proprio bella; se non fosse la
tua innamorata, la piglierei per me.

Perchè aveva egli detto queste parole? Perchè le aveva pensate prima
e perchè era schietto. Non aveva forse fatto bene a dirle? Certo che
sì; eppure quando le ebbe dette come per levarsele dal capo, si trovò
occupato a ripeterle mentalmente; allora gli parve di far male.

Quella notte il Matto sognò che era matto davvero, che aveva rubato
l’innamorata al suo amico migliore, dopo d’averlo trafitto con un
temperino per bevente il sangue.

Si svegliò piangendo, e anche quando si fu ben bene assicurato che
Desiderio russava e ch’egli era innocente, non potè più chiudere
occhio. Pensava ai casi suoi, scendeva in fondo alla propria coscienza
a ricercare le magagne con una crudeltà fanciullesca. Intravvide, e
ne fu atterrito, quella specie di ossessione che esercita un pensiero
cattivo quando si è formato interamente; ma nella sua ingenuità ne
attribuì a sè solo la virtù maligna.

Sbagliando ancora, egli si provò a ripetere a bassa voce che se
quella Speranza non fosse stata dell’amico gli sarebbe piaciuto farla
sua; ma ancora non sentì che lo stratagemma avesse allontanato da
lui l’immagine della fanciulla, come egli aveva voluto fare in buona
coscienza. Nessuno era al suo fianco per dirgli che le idee malsane
bisogna combatterle in embrione, negarle risolutamente mentre si stanno
formando nel cervello, perchè a cacciarnele dopo non basta battere il
capo nella parete.

Dopo una lunga smania il fanciullo ricadde sfinito in braccio al sonno,
e non si svegliò se non al suono della campana.

Due idee gli erano entrate in capo mentre dormiva, e appena desto le
vide e le manifestò all’amico. Prima idea: Desiderio doveva andare in
parlatorio con lui, perciò basterebbe dire alla zia che lo chiamasse;
seconda idea: assolutamente bisognava trovare un’innamorata anche al
Coppa.



V.


Il Coppa fece anche di più per tornare in pace con sè medesimo; la
domenica successiva trovò modo di avvicinarsi alla piccola Speranza
e di parlarle dell’amico suo con un linguaggio d’innamorato. Nessuno,
in quell’ampio parlatorio, badava ai due piccini, che si erano messi
sopra una panca a discorrere. Mentre la zia dell’uno era intenta a far
la calza e a dire il rosario, e la mamma dell’altro non aveva occhi se
non per il suo figliuolo, un bel pezzo di ragazzo tredicenne, il Coppa
diceva a Speranza:

— Tu non hai visto ancora Desiderio?...

— Sì, l’ho visto.... rispondeva Speranza senza falsa modestia.

— Come hai fatto?

— L’ho visto tante volte; quando fa troppa caldo, aprono la finestra e
allora si può vedere in cortile.

— Ti piace? domandò il Coppa.

Nemmeno questa domanda brutale scoraggiò la fanciulla, la quale alzò,
gli occhi per far rientrare il suo interlocutore nei confini della
discrezione.

Il Coppa si affrettò a soggiungere:

— Se tu sapessi quanto è buono, gli vorresti anche più bene. Ha poi un
talento.... ha poi un cuore.... ha poi una memoria....

Che cosa non aveva quel giorno il povero Desiderio? Aveva ogni ben di
Dio, salvo uno: la ricchezza; ma a questa penserebbe lui, proprio lui,
perchè non vi era dubbio che un giorno, lui, proprio lui, il Coppa,
diventerebbe milionario.... e allora?

Non finirono qui le confidenze che il fanciullo fece all’innamorata
dell’amico; senza avvedersene, come qualche volta accade, per parlare
di Desiderio era costretto a dire delle proprie aspirazioni, dei
proprii sogni, dei proprii disegni d’avvenire; ma quando si accorgeva
d’aver perduto il filo, lo ripigliava bruscamente dimostrando in modo
repentino una nuova virtù dell’amico.

Così la piccola Speranza seppe del giuramento che legava i due
Desiderii per la vita e per la morte, della cerimonia del sangue e
perfino del piccolo Giulio, che era morto per tornare con la mamma.

Allo spirare dell’ora del parlatorio, il Coppa, che aveva già preparato
ogni cosa con la zia, disse alla fanciulla che la domenica successiva
avrebbe visto e parlato a Desiderio....

Speranza non osava domandar come, ma interrogava con gli occhi, e
questi occhi erano così grandi e venivano così bene incontro alla
gente quando interrogavano a quel modo, che il fanciullo fu costretto
a guardare di qua e di là, per cercare un’innamorata. Ahi! in tutte
quelle donne giovani o vecchie, che distribuivano baci agli orfanelli,
non ve n’era una, il cui bacio potesse valere più dei baci appaiati che
gli dava la zia nell’andarsene, e nemmeno più d’un bacio spaiato.

E forse il Coppa cominciava a pensare che avrebbe baciato volontieri
l’innamorata del suo grande amico, senza metterci malizia.

Ma un altro amplesso lo distrasse, e gli troncò a mezzo il pensiero —
era la zia che aveva intascata la calza e gli piombava addosso col suo
paio di baci regolamentari.

La piccola Speranza già perduta in mezzo alla folla si voltava verso i
vetri della finestra, dove si vedeva ancora la traccia di due labbra,
la punta schiacciata d’un nasino e qualche altra parte di una faccetta,
i cui contorni si smarrivano come nella nebbia.

Il Coppa raggiunse l’amico nel cortile e gli annunziò la lieta novella.

— Acconsente.

— Davvero?

— Sì, domenica ti farà chiamare, e tu parlerai alla tua Speranza;
e sarà così tutte le domeniche; non avrai più bisogno di stare
dietro i vetri; se tu vedessi come sei brutto, quando hai il naso
schiacciato!...

Dunque, in grazia dell’amico suo, Desiderio potè un giorno andare in
parlatorio. Mettendo il piede in quello stanzone, che non riceveva luce
se non dalla finestra coi vetri smerigliati, udendo un bisbiglio di
voci carezzevoli in ogni crocchio, il piccino si trovò come smarrito,
e credette di sentire per la prima volta tutta la miseria di chi non
ha altra famiglia che l’ospizio. Ma avvezzandosi a quella scarsa luce,
egli vide in fondo alla stanza due occhi pieni di consolazione, i cari
occhioni della sua Speranza; e fu necessario che il Coppa gli desse uno
spintone amichevole per impedirgli di precipitarsi da quella parte e
mandarlo prima di tutto dalla zia.

— Come sta? chiese il fanciullo timidamente.

— Sta benone, rispose il Coppa per sua zia; e rivolgendosi alla buona
donna, che era occupata ad estrarre da una tasca profonda qualche cosa
che pareva una mela, ma non poteva essere se non il gomitolo della
calza, proseguì: questo qua è il mio amico di cui ti ho parlato; egli
non è mai venuto in parlatorio, e si immaginava che fosse una specie di
teatro.... Ma noi ci divertiremo lo stesso, concluse.

La zia del Coppa si credette in obbligo di promettere il paradiso
all’amico di suo nipote, se fosse savio, rispettoso, e non tralasciasse
di fare le devozioni ogni giorno; quando ebbe assestato questo
conticino con la propria coscienza, si cacciò un ferro da calzetta
nel costato destro come se volesse per la via del martirio arrivare in
paradiso più presto — e cominciò a contare tranquillamente le maglie.

Allora i due ragazzi la lasciarono, e facendo gli sbadati con un’arte
sopraffina, vennero entrambi dinanzi alla panca della fanciulla.
Speranza e Desiderio si fecero rossi rossi, perchè erano troppo
felici, e il Coppa, che aveva lavorato tanto a quella felicità, se ne
sentì respinto, e voltò le spalle con falsa disinvoltura. Egli andò a
mettersi in un canto, senza sapere nemmanco lui perchè e lasciò venire
a sè tutti i pensieri amari.

Quella donna che faceva la calzetta e diceva le orazioni, senza voltare
nemmeno gli occhi a cercare di lui, era dunque la sola persona al mondo
incaricata d’amarlo in terra e di insegnargli la via del paradiso!

Dacchè egli era al mondo, aveva voluto bene soltanto a suo padre,
un buon uomo, che lavorava troppo, digiunava troppo, e lo picchiava
troppo; alla moglie d’un colonnello che non si era nemmeno accorta
di lui, a una donna dipinta ed ora a Desiderio. Avrebbe amato ancora
volontieri qualcuno o qualcuna perchè tutto l’affetto che non aveva
potuto spendere gli faceva nodo nel cuore. Gli pareva di doversi
precipitare verso i due smemorati, i quali non badavano più a lui, e
dire... che cosa? che voleva essere il servo del loro amore, e che gli
ordinassero subito di fare qualche grossa pazzia, e poi lo pizzicassero
a sangue, o accarezzassero la sua testa matta.

Eccoli là, soli, poveri, dimenticati; e lui del pari, ma più solo e
più dimenticato, s’immaginava di proteggerli con lo sguardo e aveva un
sentimento di tenerezza quasi materna nel ripetere a sè stesso che egli
voleva essere qualche cosa per la loro felicità.

Subito dopo si adirava della loro indifferenza per lui; voleva
tenere il broncio a Desiderio, e intanto si provava a non degnare
nemmeno d’una occhiata quella biondina — ma quando il suo sguardo
aveva ramingato un poco nello stanzone nero, ritornava ai due piccoli
innamorati. Seduti l’uno vicino all’altro sopra una panca, protetti
dalla loro età, essi potevano discorrere come vecchi amici senza
che nessuno desse loro noia. Avevano l’aria di dirsi le cose più
indifferenti, e perfino la madre di Speranza, che si voltava ogni tanto
a ricercare la sua figliuola, non entrava in sospetto di nulla.

Quel giorno l’ora del parlatorio parve lunga al povero Coppa, sebbene
avesse sentito una compiacenza malsana nello scoprire che egli era
grandemente infelice.

Violando per la prima volta un giuramento fatto per la vita e per la
morte, il Coppa non disse nulla al suo grande amico; e per tutto il
resto di quel giorno sentì crescere la propria infelicità, nella lotta
tra il bisogno di confidarsi e un nuovo sentimento, come di vendetta,
che gli consigliava di serbare tutto il dolore per sè solo. Anche la
notte, quando fu entrato nel suo letto, egli ebbe la forza di augurare
buon riposo a Desiderio e di soggiungere che aveva un gran sonno per
troncare in bocca all’amico le espansioni della felicità, e per essere
lasciato solo con il suo dolore sconosciuto.

Per solito essi aspettavano che il sonno fosse sceso sui letticciuoli
più vicini per incominciare poi sottovoce una conversazione, che aveva
il sapore del frutto proibito.

Peccato che il Coppa avesse tanto sonno, mentre Desiderio non poteva
chiuder occhio! Purè il Coppa non russava ancora, e Desiderio si provò
a tentarlo chiedendo con un filo di voce:

— Dormi?

Il Coppa aveva gli occhi aperti, non rispose.

Era una cattiveria, e pure ci trovava gusto.

— Dormi? ripetè il piccino.

Sì, era una crudeltà, il non rispondere, ma gli piaceva che tutte le
voci della propria coscienza gridassero insieme: cattivo, cattivo,
cattivo!

Quando Desiderio tacque e si voltò sull’altro fianco invocando un sonno
che gli ripresentasse le vaghe immagini della veglia, il povero Coppa
sentì tutta la propria miseria, e pianse, senza sapere perchè.

Quel pianto gli fece bene; gli sembrò di vedere attraverso le lagrime
il cadaverino del piccolo Giulio di cui occupava il letto, e s’immaginò
d’essere morente anch’egli e di avere al capezzale Desiderio e la sua
piccola innamorata, e dir loro prima di chiudere gli occhi per sempre:
“siate felici!„ E lo disse veramente “siate felici!„ perchè Desiderio,
il quale non dormiva ancora e da un poco s’era accorto che l’amico suo
faceva uno strano sogno, si voltò di botto e disse: Coppa? che cosa
hai?

— Ho fatto un cattivo sogno, rispose il fanciullo lottando con le
ultime riluttanze. Ma subito soggiunse tutta la verità, o almeno quella
che a lui pareva tutta la verità, cioè che quel giorno si era sentito
solo, e che gli sembrava di essere stato infelicissimo.

Desiderio non capì gran che, e pure con la massima sincerità disse che
anche lui, qualche volta, provava qualche cosa di simile... ma che poi
passava... “Bisogna dormire, consigliò, e domandare al cielo un bel
sogno...„

— Hai provato a ripetere la preghiera?

Il Coppa non aveva provato, non avrebbe nemmeno potuto provare perchè
non la sapeva.

— Io la so tutta, disse Desiderio; qualche volta quando non posso
dormire la ripeto mentalmente, e sento che mi fa bene. Mi sembra
perfino che dicendola sottovoce sia ancora più bella... Senti.

E con un bisbiglio che pareva una carezza, cominciò:

“Ancora un giorno è passato, o Signore, ed eccomi alla vostra
presenza.....

“O Signore, che godete più del nome di padre che di quello di giudice,
non mi trattate come ho meritato, ma secondo la grandezza della vostra
misericordia.„

Egli tacque, aspettando che il Coppa dicesse qualche cosa, e in quel
breve intervallo fu pigliato dal sonno.

Il Coppa, rimasto un’altra volta solo, ripetè più volte prima di
addormentarsi: “non mi trattate come ho meritato, ma secondo la
grandezza della vostra misericordia.„

Poi dormì e sognò d’essere trattato male.



VI.


Da quel giorno incominciò per il Coppa la peggiore di tutte le
torture mortali, quella di chi serba il cuore retto quando i sensi
sono turbati. Che cosa fece il povero fanciullo in questa orrenda
congiuntura?

Alle prime interrogazioni della coscienza, cercò di rispondere una
bugia, ma stretto dalle domande ingegnose e crudeli, si diede vinto,
confessò tutto: egli voleva un’innamorata, che fosse come quella del
suo grande amico, così bella, così serena, così buona, così bionda,
egli voleva Speranza, egli amava Speranza, la piccola Speranza d’un
amico legato a lui per la vita e per la morte.

E si diceva indegno dell’amicizia, dell’amore, di tutte le cose belle
che adornano il creato, e del sole che ce le fa vedere. Questo fece il
povero fanciullo, ma che cosa avrebbe fatto di meglio un uomo?

Quell’idea entrata nel suo cervello, l’occupava tutto, tormentandolo ad
ogni ora del giorno e della notte; egli si provò a cacciarla in mille
modi, studiando molto la lezione, e non studiandola affatto per essere
messo in castigo, evitando di parlare di Speranza coll’amico suo, e
parlandone invece fino a stancare lo stesso amore tanto per vedere da
vicino l’immagine di quella felicità su cui il suo demonio lo spingeva
a stendere una mano ladra. Questo fece, e inutilmente, il povero
fanciullo; l’uomo non avrebbe fatto altrimenti.

Desiderio intanto era così ingenuo, o così felice, che non si accorgeva
di nulla; nelle parole e nei silenzii del Coppa egli non vedeva se non
nuovi aspetti di quel temperamento bizzarro a cui avevano messo nome il
_Matto_.

La loro amicizia del resto non ci pativa; il Coppa aveva anzi per
Desiderio una specie di tenerezza che somigliava alla pietà; si
umiliava volentieri al suo cospetto, qualche volta avrebbe voluto
farsi picchiare da lui.... o da lei. Dà lei! Oh, essere picchiato da
Speranza, che dolcezza infinita!

Bizzarra cosa: in quella lotta per nascondere il proprio sentimento e
per vincerlo, il Coppa era contrastato senza avvedersene dalla propria
vanità; egli non dubitava mai di nulla, si sa bene, non immaginava
neppure che Speranza, invitata a scegliere tra l’amico e lui, non
avesse a buttargli nelle braccia; anzi perciò solo aveva una gran
compassione di entrambi, perchè si credeva d’aver in pugno la loro
felicità. Egli non dubitava nemmeno delle proprie forze; anche quando
abbandonava la testa stanca sul guanciale, persisteva in lui una falsa
coscienza che, pur di volere sul serio, egli potrebbe da un momento
all’altro strapparsi di dosso la strana malìa.

Questa falsa convinzione che egli avrebbe voluto smentire, per trovarsi
meglio con la coscienza, ma che l’amor proprio avvalorava di nascosto,
gli fece del male; a poco a poco, senza avvedersi, egli cominciò
davvero a lottare per stancarsi e per soffrire, ma non più per vincere.

La domenica, all’ora del parlatorio, vi andava tirandosi dietro
l’amico, e studiandosi di fare un ingresso decoroso.

Perciò dopo aver salutato con un cenno del capo dal basso in alto la
piccola Speranza, le voltava le spalle addirittura, perchè essa non
gli potesse leggere nel cuore, e innamorarsi lei, povera creatura, e
guastare il sacrifizio che egli voleva fare ad ogni costo.

Ma quando aveva arrestato un momentino la zia nella strada del
paradiso, e chiestole come aveva passata l’ultima settimana in questa
terra, quando aveva udito contare le maglie della calzetta eterna, il
disgraziato Coppa era spinto da una mano invisibile al cospetto dei
due innamorati, per vedere da vicino che sorta di balocco essi andavano
facendo della sua felicità distrutta.

E quella vista era così dolorosa, che egli avrebbe voluto spirare ai
loro piedi, per colpire di sgomento la loro spensieratezza.

Poi si pentiva, e tornava al suo cantuccio, a girare sguardi inquieti
per l’ampio stanzone, cercando inutilmente un sorriso sopra una faccia
giovine e bella.

Quello strazio durava da qualche tempo, e Desiderio non si accorgeva
di nulla. Un giorno alla passeggiata, il Coppa, che era stato sempre
silenzioso ed inquieto, vide passare entro una carrozza, tirata da due
cavalli bianchi, una bellissima giovinetta.

— Guarda, disse a Desiderio, guarda in quella carrozza.... guarda....
ah! non sei più in tempo, è passata.

— Chi?

— La mia Speranza.

Allora Desiderio lo guardò in faccia, perchè non capiva, il Coppa si
credette scoperto e si fece rosso.

— È passata, disse celiando a stento, ma la raggiungerò; i suoi cavalli
bianchi corrono molto, ma anche i miei correranno molto.

— Non ti capisco, confessò l’amico umilmente.

— Eppure non è difficile, disse il Coppa con calma, volevo anch’io
un’innamorata, ed ora ce l’ho; è passata in questo momento; era bella,
era bionda; la chiamerò Speranza, come la tua.

— Matto! disse Desiderio.

— Sì, matto, disse il Coppa.

Tacque; ma dopo un centinaio di passi, impacciato dal proprio silenzio,
tanto per dire qualche cosa, fece una strana proposta all’amico:

— Ti piacerebbe andarcene pel mondo, noi due, a cercar la fortuna? Si
fuggirebbe dall’ospizio insieme, e si andrebbe fuori di porta, sempre
diritti, fino a Parigi o fino a Londra? Ti piacerebbe?

— A me no, rispose schiettamente Desiderio.

— A me invece, tanto. Si andrebbe laggiù a cercar la fortuna; al
ritorno tu sposeresti la tua Speranza, io.... andrei a trovare quella
ragazza, che è passata or ora, e le direi: mia cara, tu devi sapere
che io t’ho vista un giorno nel viale dei giardini pubblici, allora ero
orfano e povero, oggi sono....

— Oggi sei più matto del solito, interruppe Desiderio.



VII.


La stramba idea che, sorgendo a un tratto sul lastrico di Milano,
aveva lusingato il Coppa con la sua monelleria, non lo lasciò più.
Egli era così fatto, il povero orfanello, che l’insolito lo seduceva,
e il pericoloso lo attirava. La notte, nel silenzio del dormitorio,
quando egli cercando di dormire, poteva credere in buona fede di
non ricordarle più, qualcuno gli venne presentando ad una ad una le
sue medesime parole: “ti piacerebbe andare per il mondo a cercar la
fortuna?„

Aprì gli occhi, e alla scarsa luce della lampada notturna, il camerone
gli parve più nero; stette in ascolto, e gli sembrò che tutti i suoi
compagni si lamentassero nel sonno, tranne uno, che era felice anche
dormendo, Desiderio.

Sì, fuggire domani stesso, questa notte medesima, subito, che bella
impresa! Bella, ma difficile.

Allora si finse prigioniero coll’immaginazione, e si provò ad
architettare la sua fuga. Prima di tutto egli aspetterebbe ancora
un’ora per assicurarsi che tutti dormissero, poi si vestirebbe di
nascosto, farebbe un fardelletto delle sue robe... Di tutte? No,
bisognava lasciare all’ospizio ogni cosa che l’ospizio gli aveva dato;
salvo un paio di grosse scarpe, dovendo camminar molto; il difficile
nell’uscire dal dormitorio, sarebbe l’aprir l’uscio così piano che
non facesse rumore. Giunto sulle scale, scenderebbe tentoni fino al
gran cortile. E poi? Come arrampicarsi fino al ciglio del muro? Non
vi erano scale a piuoli ed egli non si sentiva capace di tirarsi su
puntellandosi con le mani e coi piedi nell’angolo dei due muri, come
aveva visto fare ad altri. Bisognava rinunziare alla scalata e trovare
un’altra uscita più volgare.

Finchè rimase sveglio, il Coppa non trovò nulla, ma appena si fa
addormentato tutto ciò che gli era riuscito scabro gli si appianò
dinanzi; egli trovò subito un’uscita, e fuggì, e andò per Milano e per
il mondo a cercar la fortuna, e la trovò a Parigi, o a Londra, e fu
ricco ed ebbe due cavalli bianchi e un’innamorata bionda.

L’alba svegliandolo da quei sogni lo consolò dandogli un rimorso. Egli
si accusò d’aver tradito l’amicizia, d’aver potuto pensare alla fuga
abbandonando nell’ospizio l’amico a cui era legato per la vita e per
la morte. Per fare la pace con la coscienza, confessò a Desiderio il
proprio sogno, poi disse:

— Ci ho pensato anche da sveglio, ma per celia; io non me ne vado, se
tu non vieni; perchè dimmi un poco, se non ci fossi io, come faresti tu
ad andare nel parlatorio? Povero Desiderio!

Povero Coppa! egli compiangeva il suo rivale, e per respingere la
tentatrice idea d’una fuga dall’ospizio non trovava un argomento più
valido di questo: no, io devo rimanere perchè Desiderio possa andare in
parlatorio a vedere la sua innamorata!

E ci andò in parlatorio, il povero Desiderio, dieci volte, venti,
e fa ogni volta più felice, e non vide, non sospettò mai lo strazio
del piccolo eroe dimenticato, che andò egli pure in parlatorio, e fu
infelice sempre più.

Ma intervenne la morte a rompere questo idillio penoso.

Una domenica, i due fanciulli aspettavano l’ora del parlatorio, quando
si venne a chiamare il Coppa, il Coppa soltanto.

— E tu? chiese il fanciullo al suo compagno, e lui? domandò al
sorvegliante. Non è mia zia che mi chiama?

— No, è un uomo.

— Povero Desiderio! mormorò il Coppa, offeso da una pallida gioia
entrata furtivamente nel proprio cuore.

Nel parlatorio si vide venire incontro un certo Tita che egli conosceva
appena, un vicino di casa della zia.

— La zia è malata? domandò il fanciullo.

— È morta! rispose bruscamente Tita.

— Morta? ripetè il fanciullo come uno smemorato.

— Sicuro; fino a jeri l’altro stava meglio di me e di te, spiegò
l’impassibile visitatore; io dico che dev’essere stata qualche cosa che
aveva dentro e che si è rotta.

— Morta! ripeteva il Coppa.

— Sicuro, è morta ieri mattina all’alba; oggi alle quattro la portano
al camposanto.

Ad ogni parola di quell’uomo, che gli parlava con una voce strascicante
mettendo nel suo discorso delle cadenze pigre, il fanciullo vedeva
un’immagine desolata. Fissava gli occhi nella parete dirimpetto, o
guardava senza vederle le faccie indifferenti dei visitatori; egli
vide così sua zia, stecchita, immobile entro una cassa d’abete e vide
i ceri che ardevano nella stanzetta, e vide una calza non finita sul
canterano.

E intanto ripeteva, come se stentasse ad afferrarne bene tutto il
significato, questa grande parola: morta!

La piccola Speranza era là; ma i suoi occhioni azzurri interrogavano
invano; oggi la morte soltanto parlava all’anima sbigottita del
fanciullo.

Più tardi il Coppa sarebbe stato sincero nel misurare la sventura
che lo colpiva, ma in quel momento non la misurava ancora; e poteva
accettare senza rimorso il nuovo sentimento di forza che gli veniva
offerto dalla morte. Non sapeva come avvenisse, ma era quasi sicuro di
non offendere nessuna religione umana, lasciandosi accarezzare da una
baldanza nuova. E poi, toccato dalla sventura, egli si sentiva di tanto
più alto della piccola Speranza, che non badava nemmanco più ai due
grand’occhi fissi sopra di lui, e poteva lusingarsi che tutto sarebbe
finito fra loro due.

Intanto Tita gli veniva dicendo:

— I corvi sono già venuti; sono già là, a spartirsi quella poca roba;
tua zia voleva bene a te più di loro; ma se non ha fatto testamento tu
non avrai nulla.

— I corvi? balbettò il fanciullo.

— I tuoi zii; non li conosci?

— No.

— Ne hai due, uno più bello dell’altro; sono là — tu non sai se tua
zia abbia fatto testamento?... No?... peccato! Della bella e buona roba
ce ne aveva; il canterano è un bel mobile..... il letto è vecchio, ma
solido; ci sono due gran guardarobe verniciate; e poi doveva avere del
denaro...

A me, prima di morire, ha chiesto una calza incominciata, col suo
gomitolo, e ha detto che l’aveva fatta in parlatorio per te.

— Per me? balbettò il Coppa, e pianse. Non aveva potuto strappargli una
lagrima la notizia che sua zia era morta, ma l’idea che la buona donna
veniva ogni domenica, e si metteva a sedere là, su quella panca, e
cavava di tasca la calzetta che essa destinava a lui, senza vantarsene,
e che egli quasi se ne era indispettito, e una volta ne aveva riso,
quest’idea gli gettò un gran turbamento nel cuore, e lo fece piangere.

All’estremità del camerone, la piccola Speranza indovinò un gran
dolore, ed ebbe voglia di piangere anch’essa.

— Eccola! disse Tita.... ma è inutile piangere; eccola! insistè, e si
cavò di tasca la famosa calzetta, lasciando cadere a terra il gomitolo,
che rotolò fino a Speranza.

Subito la fanciulla lo prese e lo portò all’incognito, ma il Coppa la
vide appena e si compiacque di sentire che gli occhioni smarriti della
fanciulla lo lasciavano freddo.

— La riconosci? proseguì Tita, ravvolgendo il filo al gomitolo, è
questa qui; te l’ho voluta portare io stesso, perchè è cosa tua,
sebbene non sia finita, anche i tuoi zii non hanno detto di no.

— Grazie, balbettò il fanciullo, e nascose la calzetta sotto il
camiciotto.

— Non ci ho altro, conchiuse Tita, e me ne posso andare; però se tu
avessi voglia d’uscire domani per visitare tua zia in camposanto, io
verrò.

— Grazie.... ripetè il fanciullo

— Devo venire?

— Sì, sì, venga; ma bisogna chiedere il permesso al rettore.

— Lo chiederò.

— Venga presto.

Tita se ne era già andato tranquillamente, e il Coppa rimaneva ancora
nel mezzo dello stanzone.

Nella vetrata della finestra appariva e spariva il nasino di Desiderio;
gli occhioni di Speranza interrogavano invano.

Il fanciullo la vide, le si accostò, e le disse semplicemente:

— Mi è morta la zia, non verrà più nessuno a chiamarmi in parlatorio;
non ci vedremo più.

La fanciulla spensieratamente gli prese una mano, ed a quel contatto il
Coppa sentì che la malia si rinnovava.

— Mi dispiace per voi altri, disse il Coppa, e anche per me; tu sei
tanto bella!...

Si arrestò; tutti i suoi nervi tremavano.

— Addio, ripetè a un tratto, e fuggì.

La vocetta di Speranza mormorò: addio, ma il Coppa era già lontano.



VIII.


Il rettore dell’ospizio, quando seppe della disgrazia toccata al Coppa,
chiamò il fanciullo, doppiamente orfano, e gli disse:

— La morte di tua zia ti lascia solo nel mondo; ma questa gran famiglia
d’orfani è la tua; molti dei tuoi fratelli, uscendo di qui, si sono
fatti un gran nome nel mondo; imita il loro esempio, studia....
eccetera.

Il Coppa crollò il testone rosso in una certa maniera, che non diceva
nè sì, nè no, e uscì dallo stanzino del rettore per andare al cospetto
del direttore spirituale.

Il buon prete cominciò con le stesse parole del rettore, ma proseguì
dicendo che sotto l’occhio di Dio nessuno è solo, e che coll’aiuto del
cielo, il coraggio e il lavoro tolgono l’uomo da ogni impiccio.

E questa volta il testone del Coppa disse propriamente di sì.

Poi il fanciullo andò risolutamente incontro a Desiderio, e gli disse:

— Desiderio mio, perdonami.

— Che cosa?

Il fanciullo fu lì lì per confessare che aveva detto a Speranza: tu sei
tanto bella! ma non ne ebbe cuore.

— Io ti lascio, io me ne vado.

— Perchè?

— Perchè sono solo nel mondo, e non ti posso essere utile.... ora che
mia zia è morta, non andrò più in parlatorio nemmen io....

Desiderio si provò inutilmente a dimostrargli la stranezza del suo
disegno; appunto perchè la zia era morta, bisognava rimanere....

— Me l’ha detto anche il signor rettore; ma io non la penso così; stavo
qui per non dare dispiacere alla zia, e ci sarei rimasto volontieri per
te.... ma ora....

— Ma ora?

— Ora non posso: giurami, proseguì affrettandosi a colmare
l’involontaria reticenza; giurami che anche lontani, noi saremo sempre
amici, e ci ritroveremo un giorno.

Parlava con tanta enfasi, che Desiderio volle secondarlo e giurò.

— Di’ così: per la vita e per la morte.

— Per la vita e per la morte.

— Me ne andrò domani, disse il Coppa con pacatezza.

— E dove andrai? chiese Desiderio con voce soffocata.

— Prima di tutto in camposanto, a visitare mia zia, poi andrò pel mondo.

Queste parole facevano un magnifico effetto anche all’orecchio del
Coppa che le diceva; quanto a Desiderio egli era sbalordito.

— Coraggio, gli disse l’amico suo.

Era inutile lottare col Coppa; quando un proposito buono o cattivo era
entrato in quel testone, non ne usciva più; Desiderio lo sapeva bene, e
non si provò neppure a rimuoverlo, ma pianse molto, pianse troppo, e al
Coppa, oltre il pensiero di preparare ogni cosa per la fuga, toccò il
compito di consolare il suo piccolo amico.

— Credi a me, gli diceva, tu studierai il disegno, e diventerai un
pittore famoso, e sarai ricco anche tu, e sposerai la tua Speranza; ci
troveremo poi nel mondo quando uscirai di qui: intanto io ti scriverò
spesso, ogni settimana, o tutti i giorni, e tu mi risponderai. È
inutile piangere, il pianto non serve a nulla.

E così dicendo egli raccoglieva nella propria pezzuola le lagrime calde
e frequenti di Desiderio.

— Non piango più, disse il fanciullo mostrando gli occhi rossi.... ma
tu, tu?

— Io me ne andrò solo pel mondo; è il mio destino; io non avrò mai una
Speranza al fianco, lo sento bene, ma non importa; ho una gran voglia
di arrivare ad essere ricco, e arriverò. Vedrai.... non affliggerti per
me, ti scriverò tutto...

Quella notte, finchè Desiderio fu sveglio, i due fanciulli non
fecero altro che discorrere del loro avvenire. Siccome sarebbero
stati imbarazzati a servirsi delle Regie Poste, il Coppa fece una
magnifica pensata: ogni domenica, uscendo a passeggio, Desiderio doveva
raccogliere una lettera fatta a pallottola che il Coppa avrebbe deposto
prima sul davanzale d’una finta finestra a terreno, dinanzi alla quale
il drappello d’orfani doveva necessariamente passare. La domenica
successiva vi deporrebbe la risposta.

— E Speranza?

— Andrò a trovarla, promise il Coppa, e le dirò che ti voglia sempre
bene, e che non ti tradisca mai per un altro.

Al povero Coppa tremava un tantino la voce, facendo questa ardua
promessa, ma egli voleva espiare anche il pericolo corso di essere lui
il traditore dell’amico suo, e questo gli pareva il modo migliore.

Finalmente il sonno chiuse gli occhi di Desiderio; allora il Coppa fu
libero di pensare ai casi suoi.

Egli non voleva essere preso alla sprovveduta il domani; quel Tita
che aveva promesso di chiedere per lui l’uscita straordinaria, doveva
venire di buon’ora, e bisognava che il fardello del Coppa fosse pronto.
Quale fardello? Pensandoci meglio, il povero fanciullo riconobbe
che, anche volendo, non avrebbe potuto portare seco se non gli abiti
che avrebbe messo in dosso, cioè quelli dell’uscita, perchè non lo
avrebbero lasciato uscire con altri panni. Poteva però vestire due
camicie almeno, due paia di mutande, e infilare più d’una calza, finchè
ce ne potesse entrare nelle sue scarpe migliori.

Voleva poi portare nel pellegrinaggio attraverso il mondo i libri e
i quaderni di scuola che avrebbero trovato posto fra la camicia e il
giubbetto; infine non bisognava dimenticare la penna e il calamaio per
scrivere subito a Desiderio.

Prese queste disposizioni mentali, si abbandonò al sonno.


Come il Coppa aveva immaginato, il Tita fu mattiniero; gli orfani non
erano entrati in scuola, quando egli attraversò il cortile dirigendosi
al camerino del rettore, per chiedere l’uscita straordinaria del Coppa.

Passando, cercò con gli occhi il fanciullo; lo vide e gli fece un
cenno di complicità; pareva un brav’uomo, e al Coppa venne lo scrupolo
d’ingannarlo.

Ma si fece forza, perchè non era momento di debolezze, come fece
osservare anche a Desiderio, che stava lì lì per tradirlo con le
lagrime.

— Che cosa hai da piangere? disse forte, perchè il sorvegliante lo
udiva; non sai forse la lezione?... Vediamo, soggiunse tirandolo in
disparte, non bisogna essere come le bambine. Fra pochi minuti ci
separiamo; ti ricorderai di tutto?

— Sì, balbettò Desiderio, il quale non si sentiva tanto forte da
lottare contro il capriccio del suo grande amico, ma in cuor suo aveva
sperato che, dormendoci sopra, il Coppa avesse a pentirsi dell’ardito
disegno — sì, ma non te ne andare.

— La finestra finta a terreno... ricordalo bene; tutte le domeniche
all’ora della passeggiata.

— Sì, ripeteva Desiderio, ma non te ne andare; ritorna, pensaci
ancora.... sarai in tempo un’altra volta...

— Per la vita e per la morte, conchiuse solennemente il Coppa,
stampando due baci sulle guancie dell’amico.

Il Tita riappariva allora.

Desiderio lo guardò sperando di leggergli in faccia che il rettore non
avesse concesso l’uscita; ma vi lesse il contrario.

— Andiamo, disse Tita.

— Addio, disse il Coppa a Desiderio.

Un sorvegliante venne a dirgli d’andarsi a vestire, perchè gli era
concessa l’uscita per tutto il giorno. Gli orfani, che si mettevano in
fila per entrare in iscuola, guardarono il loro fortunato compagno con
invidia; il solo Desiderio non vide più nulla, perchè aveva dinanzi
agli occhi un velo di lagrime.

Quando il Coppa scese tutto corazzato di libri e di quaderni, aveva
quasi un aspetto battagliero; si doveva capire, solo a guardarlo, che
egli andava a sfidare la vita, e che il mostro non gli faceva paura.

Era già sull’uscio, ma si arrestò.

— Ho dimenticato una cosa.... disse; torno subito. E via di corsa, su
per le scale, fino al dormitorio; colà giunto, aprì il suo piccolo
canterano e ne tolse una calza incominciata, quattro ferri e un
gomitolo, l’eredità della zia.

Cacciò ogni cosa in una tasca, raggiunse la sua guida, ed uscì a
respirare l’aria libera.

— Andiamo a casa, disse il Tita.

— No, rispose risolutamente il Coppa, io vado al cimitero.

L’uomo stava dubbioso.

— Ci sai andare al cimitero?

— Altro! esclamò il fanciullo, a cui non sembrava vero di poter essere
libero così presto; ma sentì un’altra volta lo scrupolo d’ingannare
quell’uomo che si era incomodato per lui, e ripetè con accento più
dimesso che al cimitero ci sapeva andare.

L’uomo guardò a diritta ed a mancina, come cercando un’uscita
all’irresolutezza, poi concluse:

— Ebbene, vacci; io ti aspetto in casa; bada a non arrestarti in piazza
Castello, dinanzi alle baracche dei giocolieri.

Il Coppa crollò il capo, e si pose in cammino.

— Coppa! gli gridò il Tita alle spalle.

Il povero fanciullo credette che il suo liberatore si fosse pentito, ed
affrettò il passo.

— Coppa! ripetè l’altro, e il Coppa si arrestò.

— Per sapere dove è seppellita tua zia, disse il Tita, domandalo al
custode.

Il fanciullo chinò il capo, e tirò innanzi frettoloso.

Eccolo solo nell’ampio mondo.



EPILOGO

I.


La portinaia doveva essere entrata senza far rumore; aveva deposto,
lì accanto, sulla scrivania, quella lettera voluminosa, e se n’era
andata in punta di piedi, per non svegliarlo; sicuramente egli si era
riaddormentato a tavolino, sebbene si fosse levato appena di letto.

Così pensò lungamente il vecchio Desiderio, e fu un pensiero languido,
quasi inconscio, a cui seguì quest’altra riflessione:

“Il sole è entrato in camera da un’ora almeno; già dev’essere alto
sull’orizzonte, perchè la striscia d’oro ha lasciato il letto di
Speranza, ed è scesa sull’ammattonato.„

Per un poco non pensò più nulla, finchè il lavorìo pigro della sua
mente gli disse: “La striscia d’oro è impallidita; il cielo è nuvolo.„

Al vecchio Desiderio non importava affatto che il cielo si annuvolasse;
dacchè era venuto in terra, egli aveva preso il cielo come il Signore
glielo mandava, e da un poco in qua lo accettava anche con più
rassegnazione; pure a un pallido riflesso dei sentimenti modesti che lo
avevano animato una volta, vide nel proprio cervello l’idea fuggitiva
che quella giornata bigia non sarebbe piaciuta a Speranza.

“Poveretta! pensò; essa avrebbe spiato tutta la mattina un raggio
di sole, assicurandomi che prima del mezzodì la giornata si sarebbe
accomodata. E molte volte si accomodava per davvero, a quel tempo!„

Ora no; il bel sole non sarebbe più entrato nella casa che la
vecchia Speranza aveva lasciato da un mese, per sempre; o forse
vi rientrerebbe, una volta ancora, presto, appena Desiderio avesse
spiccato anche lui il gran volo. Quel giorno sarebbe festa solenne nel
melanconico nido.

Sì, era ben questo il solo, forse l’ultimo, desiderio di quell’anima
battuta e contenta; assomigliava a tutti i desiderii del passato,
perchè era modesto come quelli, e si sarebbe compiuto del pari, ma
anche più securamente.

Teneva gli occhi fissi sul letterone, e non gli nascendo ancora la
volontà di pigliarlo in mano, per indovinare chi gli avesse scritto,
continuava ad essere con la sua morta, rifaceva nel pensiero i
cinquanta anni di vita passati insieme. Appena due mesi fa, Speranza
era viva, sana, allegra; aveva ancora un viso gentilino, in cui
le rughe erano disegnate appena; ancora i grandi occhi di lei gli
promettevano la serenità del cielo; ancora la voce nota gli mormorava
parole che sonavano come la musica di chiesa.

Contenti entrambi, ringraziavano il cielo ogni sera perchè dalla loro
casa aveva allontanato la morte, la disgrazia e il turbamento d’ogni
brama smodata, avendo avuto cento occasioni, non una, di toccare con
mano quanta sia l’infelicità della gente che non si sa contentare del
poco. Una volta sola, quarant’anni prima, Desiderio aveva guardato
troppo in alto; e fu quando, maestro di disegno in una scuola serale,
sposato appena alla sua Speranza, immaginando che il nido luminoso
dovesse splendere più ancora se l’arte vi avesse mandato un raggio di
gloria, si lasciò tentare dall’idea ambiziosa di mettere un cartone
sopra il cavalletto.

— Farò il tuo ritratto, aveva detto pomposamente; sei contenta che io
veda se sono artista?

Speranza avendo battuto le mani, si era andata a mettere, come suo
marito aveva voluto, accanto alla finestra, in modo che la luce
battesse in pieno sulla faccetta bianca e sui capelli d’oro. E subito
erano venute due voglie all’artista novellino: coprire di baci il
volto ridente, e fare un capolavoro. Una voglia fu contentata subito;
ma inutilmente il povero maestro d’ornato consumò molti carboncini per
fare una figura che somigliasse press’a poco a Speranza. Sbricciolò
molta mollica di pane per cancellarla, dopo di che mise il cuore in
pace e scrisse allegramente sul foglio cancellato appena queste poche
parole che erano tutta la verità:

“Desiderio mio, rassegnati; tu non sei nato pittore, e ti manca la
forza di diventarlo.„

Anche sua moglie prese la cosa celiando, ma le rimaneva in cuore un
sentimento: “chi sa? la forza che ora ti pare di non avere, ti verrà
forse in seguito.„

— Forse; speriamolo.

La forza non gli venne mai, e il maestro di disegno si accontentò di
ammirare senza invidia la pittura degli altri.

Solamente non era persuaso che egli non fosse un pochino artista;
scandagliando tutto sè stesso, trovava in un cantuccio della mente
il germe di qualche cosa che poteva essere l’arte; e la sera, dopo
la scuola, menando a spasso la sua Speranza per i viali ombrosi, o
ascoltando il mormorio delle foglie, si sentiva tentato dallo stimolo.

Diceva allora dopo un lungo silenzio:

— Sai? mi pare proprio che qualche cosa di buono ci sia qua dentro; il
difficile è metterlo fuori.

Un giorno assicurò bonariamente che l’arte non è facile a nessuno, e un
altro giorno ebbe l’intuizione fuggitiva che i pittori veramente grandi
_forse_ erano stati quelli a cui la pittura aveva prima voltato le
spalle per darsi poi interamente all’artista importuno.

Desiderio volle essere importuno un’altra volta; solamente in luogo di
ostinarsi a pretendere che il cartone gli ripetesse la figura che aveva
sempre nel pensiero, sempre nel cuore, si provò a riprodurre sulla tela
e con colori un lembo del giardino in cui andava a spasso ogni sera.

Non riesci meglio. Il suo paesaggio, dopo aver rallegrato molto i
monelli che si avvicinavano al pittore in silenzio, e se ne andavano
gridandogli forte una parola sola, ma significativa, disse a lui stesso
quella parola schietta: cerotto.

Il maestro di disegno non se la lasciò dire due volte; si arrese alla
prima, e quel giorno tornò a scuola con lo sgomento di scroccare le
poche lire che il municipio gli pagava ogni mese per insegnare ogni
sera il disegno d’ornato ai monelli, i quali un giorno forse gli
griderebbero in coro: cerotto!

Fu uno sgomento passeggiero, chè anzi in fine d’anno l’assessore
municipale, avendo fatto una visita alla scuola, espresse al giovine
maestro la propria soddisfazione per il profitto e per la disciplina
della scolaresca.

Ah! sì; quanto alla disciplina il maestro di scuola poteva farsi bello;
non se ne vantava perchè Desiderio era prima d’ogni cosa ingenuo, e
dopo aver confessato a sè stesso che quella disciplina non gli costava
ombra di fatica, sarebbe stato capace, capacissimo di dirlo anche
all’assessore.

— Tener a segno i miei scolari mi è facile, perchè essi sono buoni e mi
vogliono bene; ma è merito degli scolari, non del maestro. Ti pare?

Questo diceva alla sua compagna, e Speranza gli rispondeva che a buon
conto non lo stesse a ripetere alla gente.

Campavano allegri, potendosi quasi dire felici, se questa parola avesse
un significato preciso; anzi sì, felici propriamente perchè i due
sposi novellini vivevano sognando sempre, ma poco, e che altro è la
felicità se non un sogno bello e discreto? Ahi! quanti ne avevano già
conosciuti, ammalati di aspettazione, rosi dall’impazienza, scontenti
della sorte e di sè stessi, che avevano sempre l’aria d’esser destati
appena da un sogno audace!

Il Coppa per esempio. Quello era un sognatore di prima forza! Dacchè
se n’era andato per il mondo, fuggendo dall’ospizio, egli non aveva
fatto altro che seminare le avventure; facendo cento professioni, in
cento paesi, attraverso tutti i mari dell’orbe terraqueo; innamorandosi
molte volte, e non capitando mai bene. Sebbene vivesse con molta più
larghezza del necessario, si sentiva nelle angustie di un creditore, il
quale non possa riavere il fatto suo.

Questo lo aveva appreso molti anni prima, quando si erano riveduti a
Milano nel teatro Santa Radegonda; allora il Coppa era un prestigiatore
famoso e faceva stare a bocca aperta il pubblico affollato; allora,
come sempre, Desiderio continuava a campare della disciplina dei propri
scolari, della disciplina dei propri sogni.

Perchè a quel tempo felice ne aveva ancora dei sogni belli. Avendo
imparato a sonare l’organo, era entrata nel suo cervello l’idea che
potesse diventare organista d’una chiesa, per accompagnare la messa
cantata e la benedizione prima e dopo la lezione di disegno; egli
appunto aveva il resto della sera libero, e poteva disporre delle
domeniche e delle altre feste comandate come ogni buon cristiano.

Quando il Coppa gli aveva confidato tutte le vicende fortunose
della sua vita, la quale ancora non era riuscita a contentarlo, e il
proposito immutabile di pigliar la fortuna per il ciuffo e costringerla
a darsi vinta, il povero Desiderio si era creduto in dovere di
confessare anche lui qualche cosa.

— E tu che desideri? che speri? gli aveva detto il Coppa.

— Unicamente di avere il posto di organista, nella chiesa di San Babila.

Appunto l’organo era ancora occupato da un vecchio prete, malandato in
salute, e Desiderio aveva paura che la propria speranza affrettasse la
catastrofe di Don Gioachino.

Per placare la coscienza, non solamente sonava invece del vecchio
prete, senza intascare mai un quattrino, ma ogni sera aggiungeva alla
preghiera imparata nell’ospizio una parola buona, perchè il Signore
tenesse in vita lungamente l’organista ammalato.

E perchè il Coppa, a cui la vita aveva insegnato qualche cosa di più,
si era messo di buon umore a questa affermazione, Desiderio andando
a letto disse all’Eterno Padre: “Il mio cuore vi è aperto; se le
mie intenzioni non sono giuste, correggetele voi, Signore, mandatemi
l’angelo vostro che m’illumini.„

Don Gioachino si era fatto aspettare molto in paradiso, ma finalmente
fece l’improvvisata e vi andò; al funerale del vecchio prete, Desiderio
accompagnò la messa di morto a capo chino, col cuore stretto, e al _De
profundis clamavi_ due grosse lagrime gli gocciolarono fra le dita.

Ma il nuovo organista di San Babila asciugò prontamente la tastiera,
e lavorò forte col pedale, per confondere, nel medesimo stordimento,
l’organista morto, l’organista vivo e le sue quattrocento lire annue, e
perfino la soddisfazione d’aver versato quelle lagrime sulla tastiera.

Messo una volta a sedere davanti all’organo di San Babila, Desiderio
non la finiva più; sonava Palestrina, Marcello e Bach, e qualche volta,
ma solo dopo la benedizione nel mese di Maria, lasciava scattare una
pioggia di note allegre, che faceva alzare la testa ai fedeli e gli
inchiodava in chiesa, intanto che il sagrestano spegneva le candele
dell’altare maggiore.

A piè della scala dell’organo, Speranza sua era sempre pronta a
stringergli la mano in silenzio, e lo menava subito fuori di chiesa per
mostrargli la faccia illuminata dalla contentezza.

— Hai sonato come si suona in Paradiso; aspetta che sia a casa, e
sentirai che cosa ti farò...

Desiderio sorrideva un po’ di compiacenza, ma più perchè sapeva già che
cosa lo aspettava a casa, un bacio, due, dieci bacioni filati.

Ma non perciò si era impuntato a voler diventare un organista famoso.
Contento del suo pubblico di donnette, che non sarebbero mai andate a
cena fino che egli lo avesse permesso, contento dei suoi allievi di
disegno, egli aveva rinunziato volontieri alle smanie dell’arte per
essere semplicemente un uomo felice.


La striscia d’oro pallido dell’ammattonato era scomparsa, brontolava
il tuono annunziando il solito temporale d’ogni mattina. Desiderio,
indifferente a tutto, allungò il braccio, e la mano sua trovò la
lettera all’estremità del tavolino.

I bolli, il suggello, dissero al vecchio che quel letterone veniva
da Buenos Ayres; la scrittura gli annunziò dalla soprascritta che si
preparasse a leggere le grandi imprese che in questi ultimi mesi erano
state osate dal Coppa.

E parve a Desiderio che qualche cosa o qualcuno sorridesse nell’anima
sua.

Staccò lentamente il suggello di ceralacca, in modo che la busta
rimanesse intatta, e andò pensando da quanto tempo il Coppa non gli
dava notizia dei fatti suoi. Da sei mesi almeno; l’ultima Volta aveva
scritto da Nuova York, dove aveva ripreso in teatro gli esercizi di
magia bianca e nera, dopo aver venduto per poco danaro un pozzo di
petrolio nel Canadà, perchè si era stancato di vivere in mezzo ai
boschi di Petrolea.

Aveva intanto levato dalla busta il foglio e spiegatolo innanzi a
sè; ma quando volle leggerlo, se lo lasciò cadere di mano alle prime
parole, e gli occhi gli si empirono di lagrime, perchè la lettera
cominciava così: “Miei buoni amici.„

Il Coppa dunque non sapeva in che miseria fosse piombata quell’anima
contenta; non poteva saper nulla, perchè, dopo la disgrazia, Desiderio
si era fatto neghittoso e sonnolento, svegliandosi appena dalla
melanconia taciturna, per empirsi l’orecchio e la mente delle parole
solenni di Bach.

La stanza melanconica fu empita da un lampo e subito da uno scoppio
tremendo e lungo come l’ira di Dio, poi la pioggia si rovesciò con
impeto.

Desiderio levatosi per chiudere la finestra, stette un poco a guardare
a traverso le vetrate i goccioloni che, rimbalzando sul davanzale,
sembravano animati da un’allegria furiosa; ma non si sentiva invasato
da quella furia; non gridava, non batteva le mani come aveva fatto più
d’una volta in compagnia della sua morta; e solo quando lo scrosciare
della pioggia ebbe preso quell’andatura solenne, confacente col proprio
sentimento, egli si andò a sedere davanti al vecchio _harmonium_ che
gli ripetè gli accordi del _De Profundis_.

Quando cessò la pioggia ed entrò un raggio di sole nella stanzetta,
Desiderio asciugò la tastiera silenziosa. Non piangeva più, poteva
ascoltare quello che il Coppa avrebbe detto da Buenos Aires ai buoni
amici suoi.



II.


Miei buoni amici. — L’ultima volta che vi ho scritto mi pareva d’essere
giovine ancora; oggi mi sento vecchio, sebbene da quel tempo siano
passati sei anni appena. Fino a poco fa, mi sono creduto padrone della
sorte; non avendo mai dubitato un momento che il voto mio si avesse
a compiere un giorno, ora che finalmente è compiuto, ho paura di
aver sbagliato strada. Ho camminato tutta la vita verso la ricchezza
soltanto; eccomi ricco, non perciò felice. Anzi il contrario, perchè
soltanto ora mi pento di aver sprecato tanta vita e tanto ardore
nell’inseguire un’ombra. Direte: ti rimane però la soddisfazione di
essere riuscito nel tuo intento. No, non mi rimane nemmeno questo. Non
è stato il mio lavoro, non è stata una mia idea a farmi ricco; è la
fortuna cieca ed imbecille, che per un peso me ne mette in tasca cento
mila.

Lo volete sapere? Ho vinto il primo premio in una lotteria. Continua,
in una nuova forma, la mia miseria vecchia. Miei buoni amici, voi non
sapete tutto quello che possa confessare a se stesso un uomo beffato
lungamente dalla fortuna. A me premeva d’essere forte, e perciò di
dimostrarmi sicuro di tutto quanto facevo; ma oggi guardo la mia vita
male spesa e mi confesso a voi, che siete buoni e mi volete un po’ di
bene.

Sì, ho sciupato il meglio delle mie facoltà. Avevo dell’ingegno e che
ne ho fatto? tante cose sbagliate, una sola riuscita: il prestigiatore;
ho avuto e sento di avere ancora un po’ di forza, sono stato amico
della verità, della giustizia, del bene, e non mi è riuscito _veramente
bene_ altro mai che l’inganno, prima in piazza, ora sul palcoscenico;
ebbi sempre il cuore aperto agli affetti, ma per fatalità ho sbagliato
l’amore, e se non fosse di voi, non mi rimarrebbe nemmanco un amico.

Un attento esame di tutto il mio passato mi ha lasciato persuaso d’una
verità che ho notato così sul mio taccuino: “ho visto l’amore generare
il dolore, dalla grave fatica nascere la felicità; e la vita non ha
nulla di meglio che l’amore e il lavoro.„

Ma vuol essere lavoro utile, come quello che si faceva in cerca di
pozzi di petrolio al Canadà, in mezzo ai boschi con l’accetta in pugno
per aprirsi il sentiero, scavalcando le macchie e lasciando lembi di
carne alle spine. O come quello che avevo fatto prima a Nuova York, di
modellare figurine di gesso e venderle in piazza. Ma queste fatiche
mi stancarono, appena potei temere che non mi conducessero diritto
alla ricchezza; e allora disperando di me stesso, tornai di mala
voglia all’inganno più rimunerato del prestigiatore. Spesso vedendo
un facchino vacillare sotto un peso enorme, o un minatore fendere col
piccone il granito del monte, o un contadino vangare al sole cocente,
mi fermai a guardare la loro fatica; non già che mi paresse meno aspra
o meno ingrata, pure mi tratteneva, senza desiderio, senza compianto,
ma non indifferente. Non sapendo nemmeno io che cosa sentissi a
quella vista, qualche volta mi parve di indovinare lo scoraggiamento
per la inettitudine di chi si è posto innanzi agli occhi una meta da
raggiungere, e che intanto si balocca per via, corbellando il prossimo
e un po’ sè stesso.

Dunque finalmente sono ricco! Non quanto ho sognato nell’ospizio, ma
tanto da poter contentare molti dei miei desideri d’una volta se me ne
fossero rimasti.

Ahi! l’infelicità di ognuno è proprio questa, di non desiderare più
nulla quando si ha ottenuto tutto; ma l’infelicità mia è peggio, perchè
all’assenza di ogni bramosia si aggiunge il rimpianto.

Mi dolgo di non essere stato felice, di non avere avuto al mio fianco
una compagna, se non bella e amabile come la tua, ma tale almeno a
cui potessi dire oggi: tu sei invecchiata aspettando il mio amore; ora
questo amore eccolo; è tutto tuo, se ancora lo vuoi.

E anche m’affliggo di non aver dato all’arte o alla scienza la forza
che ho speso per inseguire la felicità senza afferrarla mai. Non sarei
stato felice, perchè me ne mancava il temperamento, ma se non altro nel
mio paese sarei stato buono a qualche cosa, forse uno scrittore onesto
e povero, o un inventore di qualche macchina, o magari un filosofo
solitario poco apprezzato dai contemporanei, ma che avrebbe parlato
forte e lontano alla posterità.

Da una settimana sono in possesso dei miei pesos fiammanti, e già mi
danno battaglia per non sapere che buon uso farne; e mentre nella mia
povertà avevo speso la ricchezza avvenire, dandole tante buone opere da
compiere per me stesso e per gli altri, ora guardando intorno non vedo
gli altri; scendendo in me stesso, quasi non mi ritrovo.

Il mio sogno, ve lo ricordate? era di arricchire più presto, e anche
meglio, cioè con un po’ di soddisfazione, intanto che tu, Desiderio
mio, combattevi ancora per l’arte ed eri giovane e povero, per poter,
io solo, dare un po’ di luce e d’aria alla vostra casa. Ma ora molto
tempo è passato, e voi non avete più bisogno di nulla. Mi par d’udire
la voce mite e buona della tua compagna: “ci sono tanti ammalati
unicamente di miseria; ne guarisca più che può.... Non ha detto così,
signora Speranza?„


Desiderio non resse oltre; tutto il passato che il Coppa era andato
rimescolando, empiendogli il petto di singhiozzi repressi, diè una
lunga voce di pianto.

“Ma no, non ha detto nulla, non dirà più nulla; essa è là sotto, muta,
fredda ma non indifferente... ed ama ancora.„


“Non ha detto così, signora Speranza?

Ci ho pensato, sa? Ma mi sono convinto che per cominciare a guarire
il prossimo ammalato di miseria non sono ricco abbastanza; a fare
l’elemosina, non mi si apre altra via che beneficare un ospedale;
quanto a correre in traccia di miserie vere per portarvi io stesso
il rimedio, non m’illudo già più, ed ho incominciato appena. Mi sono
convinto che siamo tutti quanti un po’ prestigiatori; io trasformo
l’acqua in vino, quando il pubblico mi guarda; ma a quattr’occhi ho
trovato dei compari più forti di me, compari sanissimi, i quali mi
hanno fatto credere d’essere paralitici, zoppi, pieni di malanni e di
appetito, mentre non era vero nulla, vivevano di rendita, erano capaci
di digerire i miei bussolotti.

Non ho rinunziato a fare un po’ di bene, ma mi scoraggiano le prove
fatte fin qui. Una sola mi rallegra, se anche non mi contenta.
Talvolta, dopo aver desinato all’aperto, adocchio un miserabile che
va in giro fra i tavolini, cacciato inutilmente dai camerieri, per
raccogliere croste di pane e mozziconi di zigaro che egli raduna in
una tascaccia; chiedo al mio vicino una moneta per fare un giuoco, la
moneta mi vien data, sparisce, la si trova poi nella tascaccia fra i
mozziconi di zigaro e le croste di pane. Qualche volta veggo splendere
una gioia ingenua sulla faccia dell’accattone: _grazie_, mi dice, e se
ne va allegramente; ma non sempre è così; ieri soltanto ne ho trovato
uno così ladro e così sciocco che sostenne a faccia tosta d’aver avuto
quella moneta da un signore, e giurava su Dio, sulla Madonna, sui
Santi, sulla salute eterna dei suoi morti, perchè aveva paura di dover
restituire la moneta.

Oggi dunque, sono ricco, ma questa ricchezza che ho tanto desiderato
non mi contenta ancora; non mi contenterà mai più, essendo sceso nella
mia coscienza a vedere da vicino che il mio desiderio aveva preso un
nome falso; si doveva invece chiamare la _felicità_.

E vedo che anche la ricchezza come l’ho desiderata io doveva venirmi
dalla mia volontà e dalla mia intelligenza; ma per arricchire a questo
modo, come arricchirono tanti, bisognava scegliere una via sola, e
avviarsi per quella senza arrestarsi mai, contento di sapermi ogni
giorno più vicino alla meta. Non perciò sarei stato felice, perchè la
meta era troppo lontana dal desiderio mio. Rallegratevi, amici cari,
che almeno voi siete stati più savi.

Tronco il piagnisteo con una nota allegra; non sono io che rido, è la
sorte beffarda.

Vi ricordate della eredità avuta dalla zia dell’ospizio? Quella calza
incominciata dalla buona donna, è sempre rimasta intatta. Viaggiò
in fondo alle mie valigie e molte volte la guardai per farmi cuore,
pensando che era press’a poco tutto quanto il capitale che il mondo mi
aveva dato per sfidare la vita.

L’altro giorno mi cadde sott’occhio e non mi parlò con parole
amare e forti; mi suggerì invece di servirmi del gomitolo, nella
rappresentazione d’addio facendovi trovare un biglietto da cinquanta
pesos che vi avrei fatto entrare prima per regalarlo poi ai poveri
italiani di Buenos Ayres. I miei giochi me li preparo da me e la cosa
fu lunga. Non sospettereste mai che cosa trovassi in capo al filo?
Un biglietto di cinquecento fiorini austriaci che la povera zia aveva
sottratto all’avidità dei suoi fratelli per favorire me senza svegliare
rancori.

La scoperta m’intenerì e mi fece dispetto, pensando che quella somma
trovata in un buon momento avrebbe forse mutato interamente la mia
condizione.

La mia lettera è già lunga, e ancora non ho detto il meglio. Sappiate
dunque che io abbandono il teatro, e che me ne torno in Italia, e che
non tornerò solo. Ho conosciuto una buona ragazza italiana, povera e
ancora onesta; ha diciotto anni, è bella, andava cantando al suono del
suo mandolino per le osterie e per i caffè. Molti avventori dicevano
che ha una voce meravigliosa, e non è vero; da una settimana non canta
più, perchè io me ne sono impadronito. E come? L’ho semplicemente
comprata da suo _nonno_; i cinquecento fiorini della calza non bastando
al contratto, ne ho aggiunto degli altri in _pesos_. Ed ora Bambina è
_nostra_, perchè voi le vorrete bene. Speranza le farà di mamma, e tu
sarai un magnifico padre. Io non mi conto, perchè non so quello che
farò del rimanente della mia vita, e poi mi conosco tanto da dubitare
di un disegno che ora mi sembra bello bello bello.

Bambina è in festa; l’idea di tornare a Milano che essa ha lasciato a
dodici anni, d’imparare il canto nel Conservatorio e l’organo alla tua
scuola, Desiderio mio, e di non dover più trascinare la sua giovinezza
per le bettole di Buenos Ayres, le sembra un sogno. Facciamo lunghe
passeggiate per la campagna; essa ha la chiacchierina affettuosa
d’una vera bimba; mi narra il suo breve passato con tanta ingenuità da
intenerirmi. Sono convinto che è rimasta onesta per miracolo, o a dir
meglio che la stessa sua ingenuità invece di perderla l’ha salvata.
Ma, quando indovino le trame che erano già state messe in opera per
corromperla, complice il vecchio _nonno_, l’ira mi manda dal cuore una
parola che vorrebbe arrivare fino a Dio.... e forse non arriva. Sì,
ho promesso a me stesso di salvare Bambina; a lei ho detto che se non
potremo farne una gran cantante, almeno a tempo giusto le... daremo
marito. Bambina ha riso e giurato (perchè le hanno imparato a giurare)
che non saprebbe che fare d’un marito. Infine mi pare che sia entrato
un raggio di sole nell’anima mia; non sono proprio sicuro, ma ringrazio
il cielo di avermi dato una buona opera da compiere, un’opera che non
mi lascierà sconsolato, se mi aiutate voi pure.

Partiremo di qui col _Sud America_ fra dieci giorni, che tanti ce ne
vogliono per preparare ogni cosa.

Addio, ottimi cuori; a rivederci presto.

                                                   Il fratello vostro

                                                     DESIDERIO COPPA.



III.


La lunga lettera era finita, e ancora Desiderio non sapeva se il
contenuto di quelle sedici pagine lo contentasse interamente. Certo
la notizia della prossima venuta del suo amico migliore portava una
pallida luce in quell’anima addolorata, ma non era come una volta, no,
non era come una volta. Rilesse qua e là, a spizzico, qualche periodo
senza quasi intendere il senso; pensava, o meglio aspettava che il
pensiero neghittoso si formasse a poco a poco, e solo quando si formò
tutto, fu contento di dire a sè stesso: “Coppa non poteva sapere quanta
era la mia felicità! Ora che l’ho perduta, gli dirò che io stesso non
lo sapeva bene.„

Poi il suo pensiero interrogò:

“Che faremo di Bambina? Ah! se ci fosse ancora la mia morta, che
festa sarebbe per tutti! Essa sì, saprebbe accomodare la nostra vita;
quella ragazza deve essere proprio una buona figliuola; non avendo
più la mamma, avrà tanto più bisogno di carezze; e Speranza mia era
carezzevole tanto!

Lungamente si fermò in quest’idea e solo quando il portinaio gli portò
la ciotola di latte fresco e la pagnotta della colazione, Desiderio
rialzò il capo affrettandosi a cancellare le idee melanconiche col
sorriso buono con cui era solito accogliere quel servizio.

Il portinaio brontolò:

— Ha visto che sorta di lampi, ha sentito che carambola?

— Che carambole? che partita?

— M’intendo, i tuoni! e che diluvio eh!

Ah! sì, Desiderio aveva sentito, visto e anche pianto.... ma non lo
disse; ora sorrideva per placare il suo portinaio.

— Quella lettera che ho messo sul tavolino?... ah! l’ha letta.... Lei
dormiva, e io l’ho lasciato dormire e me ne sono andato....“ma che idea
di addormentarsi appena alzato?

— Grazie, Peppino; voi siete sempre buono con me, siete accorto e
indulgente.

Peppino non tentò di meravigliarsi punto di questa sua indulgenza,
parve anzi assicurare con un brontolìo che forse era la verità, ma per
dimostrare che almeno l’accortezza era verità accertata e sacrosanta,
domandò:

— O che quel letterone di America ci ha dentro del buono? Io ho visto
subito che veniva da lontano.... se i francobolli non le servono, me li
può dare, che io ci ho la mia ragazza che ne va matta....

— Pigliate la busta, Peppino....

Peppino eseguì, senza dir _grazie_. Questa parola bassa non gli usciva
mai di bocca, avendo capito che se il decoro della sua posizione umile
poteva essere mantenuto di fronte alla superbiaccia degli inquilini
il sistema ottimo era di parlare con voce brusca ed impaziente,
malmenandone qualcuno ogni tanto.

Ma era anche verissimo che Peppino aveva il verso buono e che chi lo
sapeva prendere per quello con la debita prudenza, poteva maneggiarlo
senza pericolo.

Con i “coniugi dell’organo,„ che così venivano chiamati Desiderio e la
sua compagna, Peppino si era oramai quasi mansuefatto, al punto che
da quando la vecchia aveva lasciato il quartierino al quarto piano
per andare “più basso che a terreno„, secondo la sua espressione
pittoresca, egli si era offerto subito di salire due volte il giorno
i novantasei gradini per fare i piccoli servigi di casa al vedovo
sconsolato, per pochissimo salario. Non ci guadagnava nemmeno le
suole delle scarpe, ma al mondo ci si è per qualche cosa, anche per
far un po’ di bene al prossimo; che se Peppino per andare su e giù
tutto quanto il giorno, adoperava solo le scarpe acciabattate dei
vari inquilini, in un paio solo di quante gli eran state regalate
non gli era riuscito d’infilare il piede, ed era appunto in quelle di
Desiderio.

— Che sorta di piede ha lei? gli aveva detto riportandole al donatore
per confonderlo; lei ha dei fusi invece di piedi. Le sue scarpe non mi
vanno, _grazie tante._

Ma Peppino fu giusto; riconobbe prontamente che il vecchio Desiderio
non aveva se non i piedi che il Signore gli aveva attaccato alle
gambe, tenne a buon conto le scarpe per farne un’elemosina, e continuò
inalterabile a fare i novantasei gradini due volte il giorno.... per
tre lire di salario.

— Il latte è fresco; la pagnotta è calda calda; se la mangi subito —
ordinò Peppino.

Nel cervello di Desiderio si era affacciata un’idea, e pregò Peppino di
fargli vedere ancora la busta della lettera di Buenos Ayres.

— È in ritardo, disse dopo aver esaminato lungamente e fatto il suo
conto; ha impiegato più di 50 giorni; il mare sarà stato burrascoso.

Restituì la busta al portinaio e cominciò ad immollare la pagnotta
nel latte riducendola in bocconcini; pensava ancora, e nel punto di
sorbire la prima cucchiaiata, fece stupire l’attonito Peppino, dicendo
bruscamente:

— Ma se il _Sud America_ ha fatto meglio la traversata, essi dovrebbero
essere arrivati; forse a quest’ora sono qui.

Il portinaio si voltò istintivamente verso l’uscio, poi insistè con la
solita indulgenza:

— E se sono qui, li vedrà; ma intanto lei metta in corpo quella poca
grazia di Dio; io me ne vado.

Se ne andò infatti dopo essersi accertato che i suoi ordini
cominciavano ad essere eseguiti.

Desiderio, continuando a trangugiare la zuppa di latte caldo, pensava
melanconicamente al prossimo incontro col Coppa; gli pareva che,
avvisato da una lettera o magari da un telegramma — perchè l’amico
suo era sempre stato spendereccio e tanto più doveva essere ora che
sentiva il bisogno di alleggerirsi dei suoi pesos — gli pareva dunque
che, avvisato da un telegramma, egli andrebbe alla stazione centrale ad
aspettare il Coppa e la sua piccola compagna: “Dov’è Speranza? Come sta
Speranza?„ e allora invece di rispondere Desiderio si stringerebbe al
petto il testone rossigno e piangerebbero insieme.

I bocconi della zuppa di latte non passavano facilmente, perchè questa
immagine li tratteneva, ma infine passarono tutti, e quando l’organista
solitario depose il cucchiarino nella chicchera si asciugò i pochi peli
bianchi che aveva lasciato crescere sul mento e sulla faccia. Li aveva
lasciati crescere per negligenza. “Tanto, diceva allo specchio se gli
accadeva d’incontrarvi per caso la propria faccia melanconica, tanto a
che serve radersi ora?„

In quel mentre tornò Peppino trafelato.

— Sono ancora qui, era già giunto all’ultima scala quando lui mi ha
detto: “L’organista è in casa?„ E in casa, ho detto, gli ho portato
appena la scodella di latte fresco. — E lui ha detto: _fammi_ il
piacere — già, ha un certo modo di parlare quel suo amico, dà del _tu_
grosso un braccio — _fammi_ il piacere di tornar di sopra ad avvertirlo
che viene su una visita. Non mi sarei mosso, come è vero Dio, ma quel
suo amico ha un certo modo di parlare, di guardare la gente.... (Poteva
ben dire tutta la verità, tanto che male vi era?...) e di fare il
solletico nella palma della mano.

Rideva l’allegro Peppino; ma vedendo che l’organista era diventato
pallido e non trovava parole guardando verso l’uscio, si affrettò a
soggiungere con gravità:

— Ora egli viene su a poco a poco per non perdere il fiato, come ho
fatto io; la sua ragazza lo accompagna... è una bella tosa... per
quello che ho potuto vedere... Eccoli!

Desiderio si era sentito mancare le forze a queste parole del portinaio
e stentava a reggersi in piedi; quando Peppino disse: _eccoli_! il
vecchio non si mosse, come da un poco andava pensando di fare per
correre incontro all’amico sul pianerottolo, ma per istinto cercò un
appoggio, e trovò la tastiera dell’armonio.

Era rimasto un filo d’aria nei mantici che, sprigionandosi, sembrò
mandare un sospiro.

— Desiderio! gridò la voce nota del Coppa; Desiderio, sono qui.

Il Coppa, impetuoso come era sempre stato, non badò neppure allo
stato dell’amico; gli fu addosso, lo prese per le braccia e lo baciò
ripetutamente sulle guancie.

Desiderio, vinto dalla tenerezza, non parlava ancora. Peppino, rimasto
sull’uscio, continuava a dire a qualcuno di venire pure innanzi.

— Che hai? disse poi il Coppa; non ti senti bene?

— Mi sento benissimo, rispose il vecchio sorridendo; solamente sono un
po’ più vecchio di te, lo sai bene, e non ho mai avuto la tua forza. Mi
sento debole, mi sento debole tanto da poco tempo in qua...

Il Coppa guardò con occhio indagatore la faccia sparuta dell’amico, e
assicurò:

— Ti darò io un po’ di forza; ma poi aggiunse: se ancora me n’è
rimasta... chè ora comincio a dubitare d’essere stato mai forte.
Bambina! Vieni innanzi; ecco qui il mio migliore amico; è un amico
d’infanzia; abbiamo dormito in due letti accanto all’ospizio degli
orfani; abbiamo detto la preghiera insieme tutte le mattine e tutte le
sere; è anche un bravo organista e ti insegnerà a sonare.... Si chiama
anche lui Desiderio... Desiderio Diodato. Ma dove è andata Speranza?

A questa domanda, Desiderio ruppe in un singhiozzo e curvò la lunga
persona per nascondere la faccia sull’omero del Coppa.

Peppino, rimasto sull’uscio a guardare la scenetta, se ne andò in
silenzio.



IV.


— Senti, disse il Coppa melanconicamente; ora hai pianto abbastanza;
guardiamo insieme l’avvenire, perchè forse ancora ce ne rimane uno: a
te almeno sicuramente.

A queste parole Desiderio, rialzando la faccia lagrimosa, balbettava:
_l’avvenire?_

— Sì, l’avvenire! Tu puoi ancora essere felice, e pregare il tuo Dio
che ti conceda un lungo tempo per la nuova felicità. Bambina è savia,
e tu sei amorevole. Fa tu il padre di questa poveretta, e la tua morta
sarà contenta. Sentila!

Dalla vicina stanza giungeva il riso allegro di Bambina, la quale
preparava la colazione, aiutata da una fantesca novizia. Diceva con la
sua vocetta buona: “fra tutte e due non ne sappiamo molto.„ La fantesca
muggì che essa credeva di saperne abbastanza, purchè la si lasciasse
fare; e Bambina rise forte fino a far ridere la stessa Togna, la quale
assicurò poi che la signorina aveva buon tempo.

I due Desiderii stettero un po’ ad ascoltare, finchè la risata si
spense nell’implacabile mugolìo di Togna.

Allora il Coppa interrogò per la centesima volta in due giorni:

— Non è vero che è un fiore?

— Sì, è un fiore, confermò Desiderio, ma la paura mia è che siamo
troppo vecchi per essa!

A questa frase che era stata accolta male già una volta, la faccia
del Coppa si trasformò come per dolore, e la mano inquieta cercò una
risposta nella fitta capigliatura rossa ancora, ma già velata dalla
polvere del tempo. Non la trovando, tacque.

Desiderio, tenendo gli occhi fissi nella sua idea melanconica, insistè:

— Mi pare che essa dovrebbe aver bisogno di vedere delle faccie giovani
e liete.... invece che cosa le possiamo offrire noi? E mi viene anche
in mente che un giorno possa essere ripresa dalla nostalgia di vivere
all’aperto, di cantare davanti alla folla col suo mandolino....

Il Coppa taceva sempre.

— Ora la novità le dà un po’ di svago, ma chi sa in seguito? Potremo
noi essere tutto quello che questa povera Bambina ha diritto di trovare
nella vita?...

— Ah! taci, taci, taci.

Questa parola ripetuta, senza ombra di collera, ma con voce bassa, in
cui si sentiva tremare la corda del pianto, tolse interamente Desiderio
dal suo pensiero, costringendolo a levare gli occhi dall’ammattonato
per fissarli in un nuovo dolore, che gli si apriva allora.

E con l’anima pietosa interrogò l’anima inquieta del suo vecchio amico.
Il Coppa tacque e Desiderio non indovinò quel silenzio.

— Che cosa hai? chiese poi con un filo di voce.

— Non ho nulla, rispose il Coppa allegramente. Ho che mi hanno sempre
detto il Matto, e che a forza di sentirmelo dire, lo sono diventato
un poco; ecco quello che ho... Non ho proprio nulla... cioè no, ho
la certezza che l’uomo non invecchia mai perchè è fatto d’un’anima
immortale; non è forse vero? So che la volontà è debole, ma diventa una
forza se la fantasia prepotente l’aiuta, e che quando mi hanno dato
battaglia tutte e due insieme, vi ho sempre lasciato un brandello di
carne viva. Da un poco questa battaglia è ricominciata più crudele che
mai.

Queste ultime parole furono mormorate appena, e Desiderio non le intese.

— Che cosa vai dicendo?

Il Coppa tacque un momento ancora; poi rialzò la testa, disse una sola
parola, ma così dolcemente che era una carezza: sentila!

Desiderio cominciò a credere d’aver inteso tutto. Stettero tutti e
due in ascolto, con gli occhi fissi sulla porta socchiusa della stanza
attigua, da cui passava la risata squillante di Bambina.

Poi Desiderio volle leggere in silenzio nell’animo dell’amico suo; e il
Coppa con un gesto soltanto credette di aprirgli il proprio cuore come
un libro.

— Capisco; mormorò Desiderio, non intendendo ancora gran cosa.

Bambina, irrompendo dalla cucina, venne ad annunziare che la colazione
era pronta.

Capì subito che aveva interrotto un discorso, e stette un momentino a
decidere se dovesse tornarsene in cucina alla muta, oppure mettere la
testina bruna a tiro di babbo Coppa, il quale per solito l’attirava
al suo petto e le cacciava una mano nei capelli ricciuti. Ma in quel
momento Desiderio le prese prima una mano, poi l’altra, e guardandola
negli occhioni lucenti: “Lascia che ti guardi„ le disse.

Dopo un esame lungo che Bambina sopportò con calma, soggiunse:

— Sei proprio bella, lo sai?

— Me lo dicevano tutti...

— Ma tu bada a non invanire per questo...

— Che cosa devo fare? interrogò ingenuamente.

Desiderio ci pensò, e non trovando una valida difesa contro il
sentimento della vanità che gli faceva paura, rispose crollando il capo
che forse non ci era nulla a fare.

— Questa tua bellezza io l’ho conosciuta, proseguì, e le parole sue
erano tremanti; è la bellezza buona, è la bellezza che fa pensare, è la
bellezza che sa amare, che accende, ma tien sempre caldo il cuore e non
vi lascia mai una parte addolorata. Questa è la tua missione, Bambina.

— Per Bacco! deve essere difficile? Non è vero, babbo?

— Sì, è difficile, confermò il Coppa pensosamente; vi è della gente
che si accende da sè alla vista d’un visino... come il tuo; poi soffre
senza dirlo; oppure dice a se stesso tante volte: matto, matto, matto!
e nondimeno soffre sempre. Che cosa può mai la bellezza buona perchè
nel cuore di questa gente non rimanga una parte addolorata?

— Nulla, rispose Bambina ridendo.

— Nulla... è quel che dico anch’io, proseguì con accento ilare. Hai
ragione tu, Bambina; questa missione è difficile; ma io voglio sperare
che non sia proprio la tua; ora andiamo a tavola.

Fecero colazione nella camera di Desiderio; la mensa era imbandita
a piè del lettone matrimoniale, dove erano scesi per cinquanta anni
tanti sogni belli, tanti sogni cari... cari anche quando portavano gli
sgomenti inevitabili in un amore che campa di poco. Coppa dal suo posto
vedeva innanzi a sè i due guanciali, ogni volta che alzava il capo dal
piatto; l’amico suo avendo voluto voltare le spalle alle memorie, se
ne sentiva afferrato ogni tanto; e allora interrompeva la chiacchierina
gentile di Bambina con un sospiro.

Che volevano dire gli sguardi fuggitivi che il Coppa gettava come lampi
sopra Bambina e sopra di lui? Desiderio credeva d’aver inteso qualche
cosa della confessione, ma ora a quegli sguardi era ben sicuro che
l’amico credeva di avere detto tutto da essere perfettamente inteso; e
questo lo metteva a disagio. Guardava quella faccetta tonda, fresca,
quella bocca ridente d’un sorriso buono, che metteva in mostra una
dentatura smagliante, scavando due fossette nelle guancie; quegli
occhi profondi e neri come i capelli che scendevano inanellati fino
sull’omero. E quella vista guastava il primo fantasma che, dalla
confessione dell’amico, era entrato nel suo cervello; perchè il Coppa
aveva il pelo rosso, gli occhi bigi, a fior di testa, impazienti.

Pensava: “se Bambina fosse nata di lui, che bisogno ci sarebbe stato di
venirmi a contare la frottola del mandolino e del nonno?„

A un tratto, come seguiva sempre a quell’anima monca dacchè sua moglie
se n’era andata al camposanto, a un tratto l’idea vagante si arrestò e
mandò una luce così viva e così crudele, che gli si empirono gli occhi
di lagrime.

— Povero Desiderio! mormorò, allungando la mano verso il Coppa; ora ho
inteso.

— Che cosa ha inteso? domandò Bambina, arrestando un boccone a mezza
via.

— Curiosaccia! disse il Coppa celiando.

— Sì, che cosa ha inteso, me lo dica... insistè Bambina. Lei lo sa?

— Sì, ma tu non lo saprai... volle promettere il Coppa; si pentì e
soggiunse: Spero almeno.... si pentì ancora e disse: Ma chi sa?....
forse.

E allora non fiatò più per un poco. Bambina insisteva col riso
tentatore fissando gli occhioni in faccia al _babbo_, che cercò uno
scampo così:

— Gli affari si trattano meglio a tavola; ora è il momento di
conchiudere il più importante. Dunque, Desiderio mio, vediamo: questa
casa ti è cara, e si capisce, ma bisogna rinunziarvi per la nostra
figliuola, la quale non può proseguire la vita che fa da quattro
giorni; non può dormire nel tuo studiolo, sopra un materasso buttato su
sei sedie...

— Le sedie sono otto, corresse Bambina, e ci si sta tanto bene!

— Le avrei ceduto il mio letto, e non ha voluto; ha detto che aveva
paura di perdersi in un letto così grande... ma tu piuttosto non puoi
continuare a dormire all’albergo... Ci ho pensato, sai?

— A che cosa hai pensato?

— Che si potrebbe comprare due letti, uno per Bambina e uno per te; tu
dormiresti come una volta accanto a me.

— Ma tu dimentichi che ora siamo ricchi, uscì a dire con accento
nervoso il Coppa, che ora possiamo avere ciascuno la nostra camera per
empirla di sogni e di smanie... I novantasei gradini della tua scala
li ho contati; sono troppi per... Bambina; per me sono meno di nulla,
anzi... ma per Bambina sono gravi... non dire di no, che so io quel che
mi dico. Ho già il fatto nostro; sette stanze allegre, piene di sole,
al secondo piano, con la vista verso un giardino... è già contratto
fatto, e quando ti dirò di venirci a stare, tu non mi dirai di no.

Tacque per aspettare una risposta, ma Desiderio non la diede subito,
e mandava in giro un’occhiata pietosa alle pareti coperte d’una carta
cenerognola tempestata di fiorellini rossi, ma non si sentiva male
all’idea dell’abbandono, quanto avrebbe potuto immaginare, perchè era
entrato nell’anima sua uno sgomento nuovo, che vinceva ogni altro al
paragone.

— Farò tutto quello che vorrai, rispose, povero Desiderio mio!

— Oh! non mi stare a compiangere ancora; la partita è appena
incominciata; posso guadagnare.

— Che partita? domandò Bambina.

— Dunque è inteso; vedi bene che tutto sta a scegliere il buon momento,
e si vince sempre... ora la verità è questa, che le sette stanze non
ci sono ancora, ma ci saranno prima di sera. Scarrozzeremo per Milano,
Bambina e noi due, fino a tanto che abbiamo trovato il fatto nostro...
Non guardare i garofani della parete; ne metteremo anche nella tua
camera; ti parrà ancora di essere qui dove hai vissuto tanto tempo. E
la tua Speranza, soggiunse sommessamente, ti verrà a trovare...

Queste parole del Coppa chiamarono un sorriso sulle labbra scolorite di
Desiderio.

— Ella è sempre accanto a me; non mi abbandona mai.

Intanto che Bambina sparecchiava, continuava a vagare nel cervello del
vecchio organista un pensiero inquieto, e appena la ragazza fu andata
nella sua cameretta per vestirsi, Desiderio interruppe:

— Dunque?

— Dunque l’amo, dunque soffro perchè l’amo come un pazzo; ma essa
non sa nulla, e non saprà mai nulla, rispose il Coppa con accento
tranquillo.

— E da quando?

— Da un mese forse; eravamo a bordo del _Sud-America_ quando feci la
strana scoperta che la mia pazzia era cominciata. Viaggiava con noi
un giovinotto, un commesso viaggiatore di una gran casa di prodotti
chimici; egli adocchiava Bambina da un pezzo; una sera che il mare
era tempestoso, e la piccina ed io soffrivamo entrambi, egli mi chiese
timidamente licenza di offrirle un suo rimedio contro il mal di mare;
e fu allora che vidi chiaro nell’anima mia, lo vidi dallo sforzo che
feci per ringraziarlo, invece di percuoterlo. Ottenuto il permesso,
egli si accostò a Bambina, che era al parapetto, ed io mi rizzai in
piedi e gli venni accanto. A me il mal di mare era passato. “Prova,
dissi a Bambina, prova, ti farà bene.„ E speravo, speravo proprio
che il rimedio di quel giovinotto non avesse nessuna efficacia; e mi
afflissi che invece Bambina se ne trovasse ristorata per un poco, e
quando il mal di mare fu più forte della medicina mi sentii consolato,
come se avessi ottenuto un trionfo. Cessò la burrasca nell’oceano, nel
mio cuore, no; e fino a tanto che a Gibilterra non vidi scendere quel
commesso viaggiatore della disgrazia, io non ritrovai più me stesso.

— E che pensava Bambina?

— Non si era accorta di nulla.

— Bravo!

— Perchè dici bravo?... La vigilia della fermata a Gibilterra
quell’innamorato timido, che da un poco andava cercando di attaccar
discorso con me per giungere meglio alla piccina, mi si mise al
fianco e mi disse che il giorno dopo mi avrebbe lasciato per _fare_
la Spagna. Egli non potè penetrare la soddisfazione mia nel dirgli:
“Oh!... me ne dispiace tanto! E _fare_ la Spagna, gli dissi, non sarà
una cosa spiccia.„ — “Più spiccia che non crede; il mio prodotto si
vende solo nelle piazze principali, e da pochi consumatori in grande.„
E mi assicurò che bastandogli un mese, dopo se ne ritornerebbe in
Italia a Milano. — “Lei pure va in Italia? E ci si fermerà? E andrà
a Milano?„ Risposi la verità, ma circondandola di tanti _forse_, di
tanti _se_, che il povero innamorato deve aver inteso che io non gli
volevo dar animo d’aprirsi meglio, come voleva fare. — “Mi chiamo Piero
Corruccini, mi confessò timidamente, se posso esserle utile in qualche
cosa in Spagna...„ Gli dissi gentilmente che non poteva essermi utile
in nulla nè in Spagna, nè altrove. “Il mio nome è Desiderio Coppa„
conchiusi. — Non avendo potuto arrivare fino a Bambina per la mia
porta, egli quella sera medesima volle tentare l’usciolino segreto,
di mettere in mano di Bambina una dichiarazione scritta. Ma egli
non aveva la pratica di far _passare_ nè biglietti nè altro; io lo
prevenni, e quando egli per disperazione volle cacciare il biglietto
in un guanto abbandonato della mia ragazza io m’impadronii del guanto,
e nel consegnarlo a Bambina ne levai il contenuto. E mi venne anche
il ticchio di fare una celia crudele, svolgendo la carta sotto gli
occhi di Piero Corruccini, dicendo; “Stiamo a vedere che cosa si era
cacciato nel tuo guanto; leggi.„ E Bambina lesse ridendo la lista del
desinare ultimo. “Non serve più a nulla, feci notare all’innamorato,
ora il desinare è digerito.„ Piero Corruccini mi guardò fieramente,
io guardai lui; ma mentre mi sembrava di essermi vendicato, un’idea mi
pigliò, e nel momento di dire _addio_ al commesso dei prodotti chimici
mi venne detto invece _a rivederci_, e gli dissi dove mi avrebbe potuto
rivedere, cioè in Milano, scrivesse al mio recapito fermo in posta. Se
ne andò in estasi.

— Bravissimo! mormorò Desiderio.

— Tu dici _bravissimo_, come io direi ad altri, come inutilmente ho
detto tante volte a me stesso. Dicevo _bravo_ quando mi sentivo la
forza di rinunciare a questo sentimento che del mio vecchio cuore ha
fatto un trastullo pietoso; non lo dico più ora...

Stettero un po’ in silenzio. Parve al vecchio organista che dalla
stanza vicina venisse ogni tanto un canto lieto vincendo il pedale
basso di Togna. — Era la voce di Bambina.

— Oh! poveretta me! diceva quella voce allegra, oh! poveretta me!...

— Poveretta te! disse il Coppa, parlando quasi a se stesso, poveretta
te, se la mia pazzia non mi lascia; se tu per compassione rinunzi alla
tua parte di felicità, che è la gioventù e l’amore, poveretta te!

— Oh! poveretta me; continuava a dire Bambina, e ad un tratto irruppe
dall’uscio di cucina, e venne innanzi al Coppa: — Guarda, babbo, sono
insudiciata molto?

Mostrava la faccetta bruna, in cui si vedeva uno sberleffo nero di
fuliggine.

Il babbo rise molto nel vederla, disse che faceva orrore, che corresse
subito in camera a lavarsi col sapone.

E appena Bambina fu scomparsa, proseguì coll’accento di prima:

— Sì, Desiderio mio, ho fatto perfino questa magnifica pensata,
sposarmela; essa ha diciott’anni non compiuti, io ne ho settanta...
non compiuti; ma sono ricco; a quella povera ragazza che l’altro giorno
ancora sonava il mandolino nelle bettole di Buenos-Ayres, alla mercè di
un argentino intraprendente o danaroso, posso dare uno stato splendido
in cambio della sua gioventù, della sua bellezza. Essa non direbbe di
no; è tanto bambina! Ancora non sa come è fatta la felicità, e posso
farle credere che sia fatta così: lei diciott’anni, io settanta. — Il
mondo batterebbe le mani come al teatro, quando un giuoco è riuscito. E
ora...

— E ora? interrogò Desiderio melanconicamente.

— Ci ho pensato meglio; perciò te la lascio, e me ne vado... Non per
sempre, però; per un poco soltanto; quando la mia pazzia sia passata,
verrò anch’io a pigliarmi la mia parte di carezze; e penseremo tutti e
due a darle un buon marito, sceglieremo un giovane che le voglia bene,
che renda felice lei e noi contenti.

Disse queste ultime parole stentatamente; Desiderio cercò in silenzio
la mano dell’amico suo, e la tenne a lungo nelle sue, tacendo sempre.
Poi Bambina apparve nel vano dell’uscio, e disse con compiacenza al
Coppa:

— Guardami, _babbo_, sono bella?

Era veramente uno splendore.



V.


La ricerca dell’appartamento fu lunga perchè il Coppa non era mai
contento delle stanze che vedeva, perchè Desiderio in cuor suo era
sempre scontento di abbandonare le proprie dove aveva amato, dove aveva
pianto.

Ma infine si trovarono. E furono proprio sette, non contando un
corridoio, che doveva servire di anticamera; a terreno, ma piene di
sole, come il Coppa le aveva volute, e non solo con la vista d’ampie
praterie, perchè Desiderio non si dolesse troppo di perdere la
prospettiva dei comignoli, ma con un piccolo giardino dove Bambina
potesse coltivare i piselli e le insalatine.

La segreta cura del Coppa era stata d’andare in cerca d’una tappezzeria
coi fiorellini rossi per la camera del gran letto matrimoniale; furono
papaveri invece di garofani di prato, ma il fondo bigio era lo stesso,
e l’insieme così ridente che Desiderio se ne dovesse contentare.
Veramente se n’era contentato subito, non già che quei papaveri gli
ricordassero meglio i garofani che aveva lasciato, ma perchè il povero
vedovo, avendo l’animo docile e riconoscente, era incapace di resistere
a una dimostrazione d’affetto anche se paresse costargli un sagrificio.

E poi la sua morta si era affrettata a venire al capezzale durante il
sonno per dirgli che andava bene ogni cosa, che non pensasse tanto a
raggiungerla perchè, avendo ancora molto da fare in terra, a vedersi in
cielo c’era tutta l’eternità. “Ma tu, Speranza cara, non ti stancherai
d’aspettare?„ aveva chiesto lui — e la morta aveva assicurato che la
stanchezza è una cosa della terra e di là non se ne intende neanco la
parola.

Siccome questa risposta non lo contentava, aveva soggiunto: “io non ho
perduto nulla; ti sono sempre accanto, ti vedo meglio di prima; tutta
l’anima tua ora mi appartiene; pur che tu non mi respinga, io posso
leggere ciò che stenti a vedere tu stesso; e non è nemmanco vero che io
non ti possa parlare; parlo al tuo pensiero, ti conforto, t’incoraggio,
ti contrasto alla muta — solamente mi rimane un dolore, ed è che tu non
abbia la coscienza della felicità del mio stato.„

Dunque fin da quel primo sogno era svanito ogni scrupolo di abbandonare
la vecchia casa; altri sogni seguirono nei quali la morta approvò la
scelta dell’abitazione vicina al Conservatorio; consentì che il Coppa
se ne andasse per il mondo un pochino ancora, fino a tanto che non
si fosse medicato della sua ultima ferita, e raccomandò ben bene che
Desiderio insegnasse l’organo a Bambina, che lui in persona, nessun
altri, accompagnasse la fanciulla al Conservatorio nell’andare e nel
venire; e infine nulla impediva... (ma questo non fu la morta a dirlo,
fu invece il Coppa) nulla impediva...

— Che cosa?

Che per Desiderio la fanciulla fosse ribattezzata Speranza.

— I morti non devono essere gelosi, insinuò il Coppa, — almeno mi pare.

— Non sono gelosi, assicurò Desiderio; la chiameremo Speranza.

— Io no; per me rimane Bambina.

Accomodate le cose in tal guisa, il vecchio Desiderio vide venirsi
incontro la felicità un’altra volta; e così lietamente, e così bella
e così larga di promesse al suo cuore modesto, che quasi gli pareva
soverchiare non le proprie forze, chè egli si sentiva fortissimo più
che mai, ma il ragionevole e il lecito ad una povera creatura mortale.
E si sentiva perfino scrupolo quando confessava a se stesso che la
morte di Speranza non aveva tolto nulla alla sua vita, perchè Bambina
era venuta, e la morta era viva ancora.

— Ma tu, povero amico mio, ma tu? interrogava spesso.

— Io sto bene, rispondeva il Coppa; tu sai che io so soffrire, e so
anche vincermi; ci ho la lunga pratica; chi sa, a forza di vincermi, a
che eccellenza arriverò?

— Ma soffri?...

— Altro! ma taccio. Spero che Bambina non abbia penetrato nulla; ogni
mattina, quando mi viene dinanzi e si rizza in punta di piedi perchè
io le dia un bacio paterno, essa non immagina il supplizio che mi dà.
Ma posso soffrire ancora: quando non potrò proprio più, me ne andrò a
spasso per il mondo, e tornerò guarito.

E in buona coscienza il Coppa, il vecchio Coppa, a cui la vita aveva
insegnato tante cose, il Coppa che aveva visto il doppio fondo di
molte gherminelle umane, il Coppa si vantava. Povero lui! Si credeva
forte perchè sapeva soffrire! Desiderio, il quale lo ammirava senza
restrizioni anche in questo, espresse una volta un pensiero che gli era
venuto.

— Lo so che tu sei forte, disse; e so che te ne compiaci; ma la forza
sta nel saper poi soffrire, oppure nel non soffrire? Chi sa? Forse i
fortissimi sono gl’indifferenti.

— Può essere.


Bambina era una scolara disattenta, e dopo poche settimane il vecchio
organista potè dire che di quell’allieva non avrebbe mai fatto nulla
di buono; essa rideva di tutto, assicurando che la lezione l’aveva
imparata benissimo, e per pagarsi della noia che le voleva infliggere
il professore con i suoi accordi, staccava dalla parete il vecchio
mandolino e strimpellava una canzone d’osteria. Era un dolore per
Desiderio, era anche uno strazio per il suo orecchio avvezzo alla
maestà dell’organo di Bach, udire quella musicaccia sonata con quello
strumento di tortura, ma quando il Coppa e Bambina ridevano, anche lui
rideva. Soggiungeva poi senza rancore che l’uomo che aveva inventato il
mandolino doveva essere ubbriaco, o forse paralitico, o almeno ammalato
di nervi.

In ogni modo Bambina per degnazione imparò le scale e gli accordi, e il
vecchio organista non disperava ancora che la passione dell’organo non
la pigliasse come aveva preso lui, quando la sentiva dire: “ora suona
qualcosa tu, che suoni tanto bene; mi fa tanto piacere ascoltare...„
Desiderio sonando Marcello e Bach, con gli occhi fissi al soffitto,
sembrava interrogare il cielo, mentre il Coppa seduto in disparte a
capo chino, con la faccia nascosta fra le mani, cercava nella faccia di
Bambina una ragione seria della propria pazzia.

Diceva a se stesso: “ma chi mi assicura che sia proprio una pazzia?„

E veramente sapeva egli dove, nella vita sociale, finisce il senno
e comincia la mania? Chi sa? La vera saviezza sta forse nel sapersi
sbarazzare la strada per arrivare al proprio contentamento; ed è pazzo
soltanto chi, avendo finalmente a tiro di mano la felicità, s’impunta a
non allungare il braccio e dire: è mia, me la piglio.

Un giorno Bambina sembrava cedere dolcemente alla tentazione di Bach,
ma sorrideva ancora ogni tanto guardando ora l’uno, ora l’altro dei
due babbi; mentre il vecchio organista con gli occhi sempre fissi
nell’ideale era lontano, le idee del Coppa si ordinarono meglio alla
battaglia.

Finora l’aveva tenuto lo scrupolo d’incatenare la gioventù fiorente al
vecchio egoismo, ma se qualcuno gli dimostrasse che sposando i suoi
settant’anni ai diciotto di Bambina per darle un nome, uno stato, la
ricchezza... e perfino, sì, perfino l’amore forte dei vecchi, perchè
solo i vecchi sanno amare... se qualcuno con intelletto pietoso gli
facesse questa dimostrazione piena di senno, confortandola con molti
esempi ricavati da quello che si è fatto sempre nel mondo, da quello
che si fa tutti i giorni, e si farà ancora: se...

— Scommettiamo, entrò a dire qualcuno, che se tu facessi a Bambina la
proposta di sposarla subito, essa non direbbe di no; si scoterebbe,
mentre ora sta per addormentarsi, balzerebbe in piedi e, battendo le
mani, griderebbe: sposiamoci subito.

— È tanto bambina! rispose il Coppa; non vi sarebbe da stupire! Ma io
non vorrei questo, io vorrei...

Che cosa? Non lo voleva dire; non lo voleva pensare neanco lui?
Egli, se non fosse stata troppa audacia il solo immaginare, avrebbe
voluto semplicemente che Bambina, coi suoi diciott’anni, con la sua
bellezza, s’innamorasse di lui, della sua persona lunga e magra, del
pelo quasi rosso, della sua barba e dei capelli tagliati a spazzola.
Ecco che cosa voleva. S’innamorasse scioccamente, da non vederci più,
da perdere quella testina vezzosa; e dei molti giovinotti belli, forti
ed invaghiti di lei così bella, essa preferisse il vecchio Coppa solo
perchè egli le voleva più bene di tutti quanti presi insieme; e un
giorno vinta da quello stranissimo amore, confidasse la propria smania
a babbo Desiderio, o a lui stesso... il quale... il quale avrebbe
aperto le braccia per stringerla al proprio petto, lagrimando per
tenerezza come un fanciullone.

E allora forse Desiderio stesso, l’amico per la vita e la morte...
troverebbe finalmente la parola incoraggiante che ora gli repugnava
pronunziare: “Lo vedi bene, gli direbbe, è innamorata di te; sposala e
falla felice.„ Il Coppa s’immaginava l’accento di queste parole, gravi
come se le dicesse il divino Bach: non ci entrava sicuramente neanco
un’ombra d’invidiuzza, neanco il timore che l’avvenire non potesse
bastare a dar realtà a una gran speranza; infine il Coppa non era
ancora da buttar via, e si sentiva la forza di campare cento anni per
amare. Non erano forse di Desiderio quelle parole consolatrici: “La
felicità arriva sempre, per chi sa aspettarla.„ — “Io l’ho aspettata
settant’anni, disse a se stesso il Coppa: ora è arrivata, è lì a tiro,
basta che allunghi un braccio e dica: _è mia_.„

L’organo tacque e Desiderio si volse sorridendo:

— Ti credevo addormentato, come Bambina...

— Pensavo invece...

— A che pensavi?

— Pensavo che bisogna vincere, che bisogna strapparmi dal cuore questa
malia...

Desiderio, rizzandosi innanzi all’amico suo, crollava il capo, ma non
diceva nulla, altro che la pietà.

— Pensavo che bisogna darle marito... ecco ciò che Bach mi ha detto
poc’anzi.

— E a me pure Bach ha detto una parola che accomoderà forse ogni cosa,
se gli diamo retta.

Il Coppa si alzò in piedi di scatto.

— Dimmela...

— Tu vuoi bene a Bambina (e il vecchio si voltò per assicurarsi che
la loro figliuola dormisse veramente), le vuoi molto bene, come le
voglio io, ma un po’ più di me; hai bisogno di essere al suo fianco per
amarla; non è vero?

Il Coppa non fece cenno di sì; aspettava il resto.

— Di goderti la sua chiacchierina gentile, le sue carezze, di guardare
la sua bellezza buona... non è vero? e tutto questo per egoismo,
s’intende; ma anche di proteggerla, di avere diritto in faccia al mondo
di vantarla _tua_, di poterle dare il tuo nome... —

— Dunque, interruppe il Coppa, dunque sposala; non è questo che mi vuoi
dire?

Desiderio rimase un po’ sbigottito dalla interruzione e dall’accento
tremante con cui era fatta, non rispose subito. L’altro proseguì:

— E sei tu, il compagno mio, l’amico mio d’infanzia, proprio tu che mi
dai questo consiglio? Ti ringrazio di cuore; tu forse finisci con una
parola la lotta che sopporto da molto tempo. Ma io vi penso, vi voglio
pensare ancora... Guardala... povera Bambina!

— Dorme... povera Bambina! ripetè Desiderio, rinunziando
melanconicamente a finire il pensiero che gli era venuto.

Dopo un poco di silenzio il Coppa interrogò:

— Era questo che mi volevi dire?

— Questo... sì... questo; solamente che se sposarla non ti sembrasse
la via migliore per dare la felicità a lei ed a te, ci era un’altra via
che forse vi avrebbe reso felici entrambi.

— Un’altra via?

— Sì... adottarla.

Bambina si svegliò allora.

— Brava figliuola mia, esclamò Desiderio mettendo una nota allegra, ma
falsa, nella voce lenta e grave; brava! a te che cosa ha detto Bach? me
lo vuoi dire?

Il Coppa guardava sottecchi attentamente.

— Non mi ha detto nulla!

— Bambina! Bambina! minacciò Desiderio.

Bambina, dopo aver cercato per la stanza un punto dove mettere lo
sguardo securamente, uscì di corsa.

— Che è stato? domandò Desiderio al Coppa, e il Coppa rispose
trepidante:

— Non dormiva, ha inteso ogni nostra parola.

E non sapendo ancora se doveva essere molto afflitto, gli parve di
sentire una contentezza strana, la vecchia contentezza d’ogni volta
che gli era riuscito di fare una corbelleria col fermo proposito di non
farla.



VI.


_Adottala!_ Con questa sola parola Desiderio aveva preparato una
battaglia all’anima inquieta dell’amico suo: ma il Coppa, che non
lasciava mai andar a male una goccia di fermento sol che potesse dargli
un’ora di spasimo, il Coppa non s’era ripetuto ancora il consiglio
di Desiderio. Però l’aveva in serbo per essere infelicissimo più
tardi. Intanto pensava alla rivelazione uscita di bocca ai due vecchi
imprudenti, mentre Bambina doveva dormire. Ma che ci sono più delle
bambine che dormano veramente? Una volta, ai loro tempi, forse ce n’era
qualcuna, ma oggi le ragazze che hanno in vista il marito sono tutto
orecchi anche se hanno l’aria di essere addormentate.

Così assicurava il Coppa con un po’ di celia baldanzosa, per chiedere
poi in modo dimesso:

— Ma perchè è andata via di corsa? lo immagini tu? che significato ci
vedi?

Desiderio non ci vedeva altro significato se non uno, cioè che Bambina
non dormiva ed aveva inteso ogni cosa...

— E allora? domandò il Coppa.

— E allora, rispose a se stesso, allora aspettiamo.

Volendo raccogliere qualche indizio, egli sentiva che la collaborazione
dell’amico suo gli era indispensabile, ma non si faceva illusione sul
sentimento di Desiderio; dalle parole incerte, dal tono rassegnato
con cui le balbettava, e più dai silenzi lunghi comprendeva che il
matrimonio non avrebbe contentato l’amico vecchio. Mentre era probabile
che Bambina, messa alle strette, avesse a dire sì senza riflettere,
era quasi possibile che, avendo riflettuto già un poco, aspettasse con
impazienza. Si sa, le Bambine di quell’età non hanno paura di nulla!

Vincere la ritrosia di Desiderio! ecco il punto; per ora almeno era
l’indispensabile, perchè il Coppa non si indurrebbe mai a guadagnare la
battaglia se prima tutti i sofismi che egli stesso aveva armati contro
il suo proprio senno, contro il suo proprio sentimento di giustizia,
passando nell’anima del vecchio amico, non gli parlassero con l’accento
della verità. Rispetto a Bambina, la pratica del mondo e degli uomini
gli aveva già detto molte parole consolatrici.

— Senti, Desiderio mio, voglio che tu mi dica una parola schietta,
voglio che non rimanga all’oscuro neanco un cantuccio della nostra
coscienza.

Così incominciò il Coppa, a cui Desiderio rispose con poca voce: —
Parla, ti sto a sentire.

— Ti ho detto, e tu me lo avevi letto nel cuore, che ho commesso uno
sproposito, che mi sono innamorato di Bambina; facendo di tutto per
resistermi, forse lo spropositaccio si è andato formando meglio; ora
è fatto perfettamente. Ho cercato di leggere di nascosto nella tua
coscienza, e mi è sembrato di vedere che il negozio più onesto e più
leale in faccia al mondo, il negozio in cui la società non vedrebbe
ombra di male, ti mette un po’ di paura. Questa povera creaturina tanto
bella, tanto dolce ha diritto ad uno sposo molto diverso — hai pensato
tu, come ho pensato io — ma dimmi: la felicità di due che si sposano
dipende infallibilmente dai loro anni? O piuttosto molti matrimoni non
vanno a male, se non perchè i coniugi sono stati legati quando l’uomo
non era maturo per dargli una compagna?

— Questo è vero, rispose Desiderio; ho visto tante unioni imbarcate
allegramente naufragare dopo un anno solo; più raro è il caso quando il
marito...

La frase aveva una chiusa difficile.

— Quando il marito ha settant’anni, disse il Coppa.

— Non volevo dir così. So bene che a settant’anni si può essere giovani
come a quaranta, quando si ha la fibra sana; — la morte picchia a tutti
gli usci senza distinzione; so anche questo — e so un’altra cosa...
proseguì Desiderio con un accento baldanzoso insolito in lui.

— Che cosa sai?

— So che contro un sentimento la discussione è inutile, che bisogna
accettare l’amore in ogni età. E quando ci pare buono a darci la
felicità, forse la pazzia è di contrastargli troppo. Forse...

Il Coppa strinse la mano dell’amico senza dir parola.

— Forse, ripetè Desiderio; ma il Coppa non lasciò luogo a pentimenti,
assicurando che quello che aveva detto era proprio pieno di senno.

Nondimeno resisteva ancora a se stesso.

— Infine, che ricerca la ragazza nel matrimonio? un compagno che l’ami,
che si occupi di lei, che le dia, se può, un figliuolo o due; a questo
patto essa è innamorata, è fedele, è felice. Ti pare che io non possa
far tutto questo?

— Altro!

— Sì, io lo posso, assicurò il Coppa; posso dare ancora la felicità
alla mia donna e forse a me stesso.

— Sarebbe ora! disse l’amico melanconicamente.

— Sì, sarebbe ora; perchè proprio proprio, io non so come sia fatta la
felicità; la immagino composta di pace, di amore, di... non so di che
altro... forse di lavoro...

— È fatta anche di rassegnazione.

Ed è così fatta, avrebbe voluto soggiungere Desiderio, che a te, mio
povero amico, non piacerà mai; ti passerà rasente e la guarderai in
faccia senza riconoscerla.

Ottenuto il suo intento da Desiderio, al Coppa rimaneva ancora la
bramosia di accertare subito il sentimento di Bambina. Essa era
schietta, e interrogata a quattr’occhi avrebbe detto tutta l’anima sua;
ma appunto sarebbe stato meglio se egli, potendo gettare lo scandaglio
in quel cuore turbato dalla rivelazione, lo rasserenasse poi con una
parola quando mai il turbamento fosse ansietà o sconforto, senza metter
lei brutalmente alle strette, povera Bambina tanto cara! Gli sembrava
un egoismo abusare di quella fragile creatura per darle a sostenere una
battaglia intima. Mentre lui si sentiva forte da sfidare il rifiuto, da
ridere con lei di se stesso — perchè questo sentimento della propria
forza non aveva mai abbandonato il Coppa — s’inteneriva al pensiero
di far soffrire una persona cara. Tutto ben considerato, era ancora il
meglio affidare a Desiderio il difficile incarico.

— Senti, amico mio, parlale tu stesso; leggi tu nel suo cuore, prima di
me; a quest’ora essa forse pensa, ed aspetta; va subito, io rimango...

Desiderio accondiscese, ma il Coppa non rimase in salotto; se ne
andò subito in cucina, dove, mettendo l’occhio alla toppa della porta
che metteva nella camera di Bambina, sperava di poter vedere e udire
quanto si diceva. Non gli passava nemmeno in mente che quel modo di
leggere nell’anima delle persone care fosse basso o maligno o soltanto
impertinente; sapeva bene che per una cosa importante non sono mai
volgari i mezzi per riuscire. Non aveva forse, in mezzo a un pubblico
strepitante d’applausi, non aveva forse fatto apparire una vaschetta
piena d’acqua e con i pesci rossi... appendendosela di dietro, sotto le
falde della marsina?

Desiderio era entrato appena, e, stando ritto nel mezzo della camera,
guardava amorevolmente verso Bambina che il Coppa non poteva vedere —
taceva ancora, ma sorrideva, cercando le migliori parole per entrare in
argomento.

Finalmente disse adagino, come se non volesse svegliare gli echi
d’un’anima turbata:

— Bambina!... vieni a darmi un bacio... vieni a dire al babbo quello
che non può restare troppo tempo nell’anima tua, senza farti male.

Bambina s’accostò senza dir parola; e Desiderio proseguì:

— Qui, sul mio cuore di padre... perchè ora devi aver compreso che,
di due babbi, te ne rimane uno solo, e sono io quello... Ma non aver
paura d’essere amata meno di prima; sappi che io so come si ama una
creaturina buona come sei tu... solamente mi fa paura di conoscermi
egoista, perchè io godo, io sono felice, e non dovrei essere tanto
contento d’essere rimasto solo.

Bambina, appoggiando la testina al petto del vecchio, sollevava verso
di lui uno sguardo luminoso.

Desiderio le accarezzava la fronte, i capelli, il visino rosato; poi
proseguì con l’accento di prima:

— Egli non gode, egli non è felice, e soffre... perchè ti vuol bene in
un altro modo... ma se tu vuoi... sarà felice.

— Come? domandò Bambina abbassando lo sguardo.

— Lo hai già capito... _se puoi_... se nulla ti trattiene, nè una
promessa, nè un sentimento... e se... egli non ti sembra troppo
vecchio.

S’interruppe.

Bambina ci pensò un poco, tenendo sempre gli occhi fissi
sull’ammattonato.

— Mi piace com’è; disse lentamente; gli vorrei bene come gliene ho
voluto finora... ma...

Un lungo silenzio.

Meravigliato di sentire una contentezza inesplicabile, Desiderio
aspettò che Bambina proseguisse:

— Ma _egli_ deve arrivare fra poco, anzi quest’oggi stesso, a quest’ora
forse è arrivato...

— Chi?

— Piero... Piero Corruccini, così si chiama..., è un giovane con cui
ho viaggiato per mare, da Buenos Ayres a Barcellona;... mi ha detto che
gli piaccio tanto, che vuol sposarmi se io non gli dico di no.

— E tu?

— Non gli ho detto nulla...

Un altro silenzio lungo.

— E come sai che egli deve arrivare a Milano oggi?

— Me lo disse lui stesso a bordo, me l’ha anche scritto in un pezzo di
carta... che mi lasciò in mano nel salutarmi...

— In questo tempo hai pensato a lui?

La risposta non fu pronta, ma fu leale.

— Sì, ho pensato sempre a lui; sapendo che doveva arrivare, che forse
è arrivato, ho mandato or ora Togna a buttar nella buca un bigliettino
fermo in posta... non gli dico altro che la via e il numero della
casa... egli forse verrà.

— Verrà di sicuro, affermò Desiderio, baciando la fronte bianca di
Bambina — questa piccola ruga non ci dev’essere; mandala via subito.

— Gli dica che gli voglio tanto bene, e che se vuole proprio io mi
lascio sposare; ma allora deve pensare lui a parlare con Piero... a
dirgli...

Al pensiero di ciò che il Coppa dovrebbe dire a Piero per mandarlo
via, Bambina sentì venire le lagrime, e nascose il viso nel petto del
babbo. Il quale, mettendole le mani sulla testa, disse a bassa voce: ho
capito!

— Che cosa ha capito? domandò Bambina, scostando appena il viso e
alzando gli occhi verso Desiderio; non è vero che io sia innamorata di
Piero, ma ho tanto pensato a lui... e forse lui non ha pensato a me, e
non verrà nemmeno.

— Verrà, affermò un’altra volta Desiderio, e allora Bambina mostrò
tutta la faccia luminosa.

— Ecco Togna, disse la fanciulla sentendo rumore in cucina — ma
correndo all’uscio, vide che si era ingannata, perchè Togna arrivava
appena allora.

Desiderio, andato in salotto a capo chino, non si aspettava di trovarvi
il Coppa, e sopratutto di trovarlo tanto di buon umore.

— Non hai nulla di consolante, scattò a dire; ti si legge in viso
la mia sconfitta — negalo se puoi; ma non potendo consolarmi tu, mi
consola la mia filosofia. Ce ne ho anch’io una! non mi serve molto
a ragionare prima di commettere le corbellerie, ma mi calza come un
guanto quando la corbelleria l’ho commessa. Dimmi un poco: se non fosse
di questa filosofia, ti pare che avrei potuto campare settant’anni,
ammucchiando spropositi senza mai imbroccarne uno che mi desse la
felicità per isbaglio?

Desiderio lo guardava con faccia pietosa; avendo preparato la frase con
cui doveva incominciare, aspettava che il Coppa gli porgesse occasione
di dirla. Aveva congiunto le mani per aver più forza.

— Bambina ti vuol tanto bene, dice che se...

— Dice che se voglio proprio sposarla, si lascia sposare, ma che in
questo caso devo parlare io stesso al signor Piero per fargli intendere
che la sua innamorata ha trovato di meglio... Ero in cucina; ho inteso
tutto.

Desiderio sciolse le mani una dall’altra, e le lasciò penzolare lungo i
fianchi. Il gesto significava: tanto meglio.

— Il signor Piero verrà domani o doman l’altro; ma stasera io parto.
Che ci vuoi fare? la mia filosofia non va fino a preparare le nozze
del mio rivale. È già bello avere un rivale alla nostra età — perchè
tu l’hai sentito “se io voglio proprio, mi sposa„ ma io non voglio
proprio, povera Bambina! Tu accoglierai bene il signor Piero, ti
informerai quale stato può offrire alla nostra ragazza, e gli dirai
che Bambina ha cinquantamila franchi di dote.... a patto che lo sposo
permetta al babbo di finire i propri giorni in casa di sua figlia...
E il babbo, resta inteso, sei tu; t’informi da un notaio come va fatta
questa cosa, e adotti Bambina. Va bene così?

No, non andava bene; si leggeva nel viso di Desiderio, che la cosa,
combinata con tanta filosofia, non andava bene. Era troppo bella; bella
troppo singolarmente per uno dei due Desiderii. Ma l’altro?

Il Coppa intese quasi tutto il significato del silenzi del vecchio
amico.

— Vi è una cosa che non va bene, non è vero? Dimmela, e vedremo se la
possiamo accomodare.

Desiderio pensò un poco prima di rispondere, e rispose con una domanda:

— Stasera dunque vuoi andar via? e dove vai? e quando ritorni?

Il Coppa sorrise e assicurò che dopo sessant’anni non rinnoverebbe
la fuga dell’ospizio; solamente andrebbe via perchè, qualche cosa di
fanciullone rimanendogli anche a settant’anni, non si sentiva forte da
sfidare lo sguardo di Bambina. Tornerebbe poi, quando ogni cosa fosse
assestata per il contratto e per pagare la dote.

Ecco: Desiderio intendeva benissimo che il Coppa avesse il bisogno
d’andarsene subito; certo che se fosse tanto forte, come si era sempre
vantato, e tanto filosofo come si vantava ora, rimarrebbe a pigliar
per le corna il suo demonio; ma vi è filosofia e filosofia; quella che
ha paura forse non è la peggiore; la chiamano prudenza, mentre l’altra
più audace non è forse che temerità. Che domani o al più tardi doman
l’altro il signor Piero Corruccini si avesse a presentare per chiedere
il fatto suo cioè la mano di Bambina, nessuno dei due Desiderii poteva
metterlo in dubbio; ma che fosse assolutamente necessario che uno dei
due pagasse la dote, e l’altro desse il proprio nome, mentre era così
decoroso, così bello, così filosofico per il Coppa che fosse lui solo
a far tutto questo, Desiderio, per quanto gli costasse dirlo, non lo
poteva intendere.

— Sta bene, acconsentì il Coppa, può essere che abbi ragione tu; per
ora l’essenziale è d’andarmene.

I preparativi della partenza furono cosa spiccia: due valigie a mano,
nient’altro; più lungo fu invece scrivere le istruzioni a Desiderio
perchè nella sua assenza le cose andassero come se lui non mancasse;
più lungo ancora radersi. Questa operazione delicata che il Coppa era
solito fare con le proprie mani il sabato, fu fatta questa volta in
venerdì.

“Il meno che ti possa capitare, assicurò il Coppa parlando a se stesso
nello specchietto, è di metterti una virgola sul mento. Bada a te se
non vuoi guastare la tua faccia.„ Ma non ci badò abbastanza quando vide
Bambina nello specchietto, la quale arrivò proprio a tempo per vedere
un orrore... il sangue che guastava mezza la faccia rasa del Coppa,
mentre l’altra metà avea tutto il suo pelo della settimana.

— Che cosa ti sei fatto, babbo? esclamò Bambina — ti sei fatto male?
domandò Desiderio.

Il Coppa si voltò ridendo.

— Nulla di male.

E contento di potersi lavare nel catino, fin che il sangue non
colasse più dalla piccola ferita, pensava che il rasoio era stato più
intelligente di lui, facendo ciò che egli non avrebbe saputo fare.
Ora poteva ridere forte sotto gli occhi di Bambina, la quale gli aveva
detto _babbo_ come gli altri giorni e cercava con l’occhio negli angoli
della stanza una tela di ragno per medicarlo. Appena il Coppa non
perdette più sangue, finì tranquillamente di radersi; si voltava ogni
tanto verso Bambina a ridere della paura che le aveva fatto, e quando
la faccia sua fu rasa, la sua determinazione pure fu mutata.

— Non me ne vado più, disse a Desiderio.

— Volevi andar via? domandò Bambina, tentando leggere sul viso sbarbato.

— Avrei dovuto partire per una faccenda; sarei stato assente pochi
giorni; ma ho pensato che alle altre faccende vi è sempre tempo, mentre
per fare la felicità d’una Bambina cara, che sei tu, proprio tu, il
tempo buono è questo; perciò rimango.

— Oh! in buon ora! esclamò Desiderio, ecco una parola che mi piace!
Questa è la filosofia.

— Che cosa è la filosofia? domandò Bambina.

— Pare che sia una cosa così: farsi una virgola sulla faccia col rasoio
e rimanere quando si ha fermamente deciso di partire.

All’opera del rasoio miracoloso mancava ancora che il Coppa si
pigliasse fra le mani la faccetta tonda di Bambina e se la baciasse
in faccia a Desiderio, come aveva fatto ogni giorno — ma a questo il
vecchio Coppa non si sapeva indurre, perchè anche Bambina non veniva a
mettere a tiro la testina tentatrice.



VII.


A quattr’occhi il Coppa diede a Desiderio spiegazioni larghissime,
anche più larghe del necessario, del suo repentino mutamento; voleva,
come aveva già espresso, trovarsi accanto a Bambina quando Piero
Corruccini venisse a prendersela; voleva assestare il contratto di
nozze, voleva scrivere a Buenos Ayres, con la speranza che Domenico
Lauri, il vecchio _nonno_ di Bambina, vi fosse ancora e gli potesse
dire qualche cosa dei genitori, e consentire all’adozione della
ragazza. Tante altre cose voleva che Desiderio intese a volo,
approvando tutto.

Il rimanente di quel giorno il Coppa fu sereno, così sereno che,
venuta l’ora d’andare a letto, notando che Bambina dava la buona notte
a Desiderio senza porgergli la fronte perchè egli v’imprimesse il
solito bacio, la prese per mano e la tenne prigioniera dinanzi a sè.
E le disse: “dunque la nostra figliuola non ci vuol più bene; e che le
abbiamo fatto? Nulla? e allora non ci è bisogno di rinunciare al bacio
che ogni sera mi hai dato prima d’andare a letto; dammelo oggi pure, se
vuoi che i bei sogni scendano sul tuo capezzale.„

Bambina si fece rossa, diede il bacio voluto e rise forte; poi tornò
davanti a Desiderio.

— A lei non l’ho dato; sono proprio una distratta... lo vuole?

Altro che volerlo!

Anzi Desiderio, appena la ragazza se ne fu andato in camera sua, si
accostò al Coppa e se lo strinse al petto.

— Sono proprio contento, disse poi sottovoce.

La mattina successiva il Coppa si mostrò un po’ nervoso, soltanto fino
all’ora del pasto. Egli aveva creduto possibile, e l’aveva detto a
Desiderio, che il signor Piero, appena avuta la lettera di Bambina,
ne avesse subito scritta un’altra a lui per annunziargli che dopo il
mezzodì sarebbe venuto a fargli visita; ma non avendo la posta del
mattino portato nulla di nulla, egli poteva correggere i suoi calcoli
così: “Corruccini non ha scritto, e non scriverà; verrà in persona
verso l’una.„ E anche questa predizione volle affidare a Desiderio, il
quale non vi trovando nulla di improbabile, aggiunse:

— Bambina deve aver pensato la stessa cosa, perchè mi sembra inquieta;
ha cominciato tre volte: _Una voce poco fa_... ed ha troncato subito.
Sicuramente essa pure aspetta il signor Piero dopo il mezzodì.

Ma il signor Piero all’ora della cena non era ancor venuto. Tutto il
pomeriggio il Coppa lo aveva aspettato inutilmente; era andato su e giù
un gran pezzo per il salotto, poi, sentendo venire un po’ di pazienza,
si era accomodato in una poltrona a sdraio, e la pazienza essendogli
cresciuta, si era perfino fatto bello dinanzi allo specchio, così,
per fare qualche cosa. Il vecchio Desiderio — quello sì era vecchio!
— il vecchio Desiderio aveva passato il suo tempo interrogando alla
muta ora l’amico, suo, ora Bambina, la quale per verità non gli pareva
afflittissima come avrebbe pensato.

Senza rammaricarsi troppo, che sarebbe stato un ipocrita, e nemmeno
compiacersi, dimostrandosi un fatuo ed un egoista, il Coppa a cena non
fiatò di Fiero come se si chiamasse Paolo, come se non avesse lui le
chiavi del cuore di Bambina.

Lo aspettò in buona coscienza fino alle nove, alimentando lui solo la
conversazione con molte peripezie della sua vita, scegliendo però bene,
per non danneggiarsi troppo agli occhi dei suoi ascoltatori; e infine,
prima che la ragazza scendesse nella sua camera, le disse a fior di
labbro: _verrà domani_. Bambina rise forte e se n’andò canticchiando:
_Una voce poco fa, Qui, nel cor, mi risonò_...

Ma anche il domani, il signor Piero non si lasciò vedere, e nemmeno
il giorno dipoi, nè l’altro. I vecchi Desiderii erano tutti e due
d’accordo nel dire che era una cosa strana, perchè i viaggiatori di
commercio, per abito di professione, sono puntuali alle poste date,
non si dimenticano mai di visitare la casa d’un cliente buono il
giorno stabilito, fosse anche alla distanza d’una stagione intera,
fosse anche alla distanza di tutto un anno; e tanto più poi quando
hanno un incendio acceso in qualche parte del corpo. E il Coppa,
facendosi la barba tutti i giorni dacchè aveva corso rischio di farsi
una guancia per aver lasciato crescere troppo il pelo rossigno, finì
con l’enunziare una sua sentenza: “i giovani d’oggi sono di poco
peso; vuoi scommettere qualche cosa che il signor Piero ha piantato la
_nostra_ Bambina per un’andalusa; pianterà più tardi l’andalusa per una
parigina.„

Desiderio, senza arrivare fino a questo punto, non scommetteva nulla.

— Io invece, ci sono arrivato subito.

E scommetteva volontieri, perchè conosceva il mondo, povero Coppa!

Lo sgomento dei due Desiderii fu che la ragazza non ridesse abbastanza,
perchè il pensiero del viaggiatore tardivo le occupasse il cuore, o
che canterellasse troppo, per stordirsi e non pensarci. Ma Bambina non
tenne lungamente in angustie i vecchi, che le volevano tanto bene, e
appena si fu accorta della loro inquietudine li rasserenò con poche
parole: “se viene bene; se non viene...„

— Se non viene? insistè Desiderio.

— Se non viene, meglio.

E sembrava quasi sincera.

Il Coppa non fiatò, ma sentì martellare qualche cosa dentro, un
desiderio forse, o una speranza.

Lungamente i due vecchi aspettarono Corruccini, quando Bambina non
ci pensava più. Sapendo che la ragazza aveva scritto una lettera per
dare il recapito al pretendente, il Coppa andò a sincerare la cosa
alla posta, e trovò la lettera che aspettava Piero da quindici giorni.
L’impiegato gli domandò se fosse lui veramente Piero Corruccini, ed
il Coppa confessò che egli non era quello, ma che era stato lui a
scrivere, e voleva sapere quanto tempo ancora la lettera aspetterebbe
il destinatario.

L’impiegato postale ebbe la bontà di fare il conto sulle dita, e dirgli
che quel giorno medesimo doveva mettere la lettera nelle caselle delle
arretrate....

Allora il Coppa, avvedendosi che aveva da fare con un impiegato umano;
(chè qualche volta accade anche questo), pregò che la lettera rimanesse
ancora qualche giorno nella casella solita.

— Fin che qui sono io, lo prometto; ma quando viene un altro
distributore, farà quello che dice il regolamento... però se lei mi
dice di dove viene la lettera... io posso consegnargliela, e lei la
imbucherà un’altra volta mettendo un nuovo francobollo, così rimarrà
altri quindici giorni nella casella.

— La lettera è scritta da Milano, dà un recapito; niente altro; se
vuole la imbuco alla sua presenza... lì c’è una buca, che sembra fatta
a posta.

— È fatta a posta... ma si vede bene che lei è una persona come si
deve... concluse il distributore consegnando la lettera.

— Grazie mille; la prego di stare attento che ora la imbuco...

— S’immagini, disse l’altro, e il Coppa insistè, mentre appiccicava un
francobollo nuovo: No, mi faccia il piacere di guardare...

Il distributore guardò sorridendo per contentare il buon vecchio, il
quale dopo aver imbucato la lettera si rivolse a salutare l’amabile
distributore dicendo: è passata.

Invece no, non era passata. Al momento di imbucare la lettera gli era
venuto l’idea tentatrice di trattenerla; come fu in via Rastrelli la
guardò lungamente per dar tempo alla monelleria che gli aveva parlato
all’orecchio di dire tutto il suo pensiero.

Perchè aveva egli fatto quel giochetto? Non già per la soddisfazione di
corbellare un distributore di buona fede e distratto; e dunque perchè?

Forse perchè Bambina aveva detto così: _se non viene, meglio_.

“Ecco, ora quella lettera che dà il recapito a Piero Corruccini è in
mani mie, ed io posso distruggerla; venga Piero e non troverà nulla; il
distributore, se anche è lo stesso di questa mattina, non si ricorderà
più di niente, o crederà che la lettera sia già stata consegnata da
un suo collega — allora Piero si ricorderà di scrivere a me, fermo
in posta, come gli avevo detto, ma io non vado mai alla posta, perchè
le lettere mi vengono recapitate a casa. Piero Corruccini si stanca,
rinunzia al suo scopo, se non vi ha rinunziato ancora, e se ne va a
fare altre piazze„.

Il Coppa ripetè parecchie volte a se stesso queste ed altre parole,
mentre andava di buon passo al portico di piazza del Duomo; giunto
colà si arrestò un momento; poi tornò indietro a passi lenti fino alla
posta, ed imbucò la lettera, la quale diceva a Piero Corruccini di
venire pure subito in casa di Bambina, e di chiedere la sua mano che
non gli sarebbe rifiutata.

Tornando a casa, il Coppa per consolarsi si ripetè mentalmente più
volte, come se qualcuno le andasse scrivendo nel vuoto: “se non viene,
meglio.„



VIII.


Non si era più detta una parola che ricordasse Piero, e il Coppa non
se lo poteva levare dal capo; invece pareva proprio che Bambina non
ci pensasse più, anzi da poco in qua canterellava e rideva meglio,
era più docile alle lezioni di organo di babbo Desiderio, e parlava
di andare al Conservatorio ad imparare il canto teatrale. Ma il Coppa
interveniva ogni volta a dire che la carriera del palcoscenico non era
fatta per lei, che la sua carriera era un’altra. “Qual’è?„ interrogava
la fanciulla. Il Coppa non diceva quale.

Ma sempre pensava quelle quattro parole: “se non viene meglio.„

Le pensava anche Desiderio.

“Che cosa aspettiamo? diceva segretamente a se stesso. Se questa
corbelleria si ha a fare, almeno si faccia subito; per quanto _egli_
dica, mi pare che tempo da buttar via non ne abbia troppo; può essere
che egli possa ancora fare cose grandi, ma se giudico da me...„

Zitto, neanco l’aria doveva sapere la segreta paura di Desiderio, il
quale avrebbe riso volentieri della smania del suo vecchio amico, se
non fosse stato un vecchio amico, se quella smania non fosse stato un
dolore. Invece lui, rinato alla felicità, ringraziava il cielo ogni
sera, perchè gli aveva concesso sul limitare della tomba la bellezza
buona di Bambina, ringraziava la sua morta ogni mattina perchè la notte
era stata un pezzo al suo capezzale.

Anche gli sorgeva in un cantuccio della mente l’idea di dare il proprio
nome alla ragazza. Diodato! Non era il nome di suo padre e nemmeno
della mamma, perchè non aveva conosciuto nè l’uno nè l’altra; era un
nome tutto proprio; glie l’aveva dato l’ospizio dei trovatelli... o
forse Dio in persona. Bambina, pigliando quel nome, si ribattezzerebbe
Speranza Diodato per andare a nozze! Peccato che, sposata, rimuterebbe
da capo e rimuterebbe male. E veramente che sugo vi è a chiamarsi la
signora Coppa? Un’altra cosa non sembrava vera nè possibile al buon
Desiderio, cioè che egli dovesse diventare suocero del vecchio amico
d’infanzia. Però, se il cielo lo avesse voluto, se sua figlia fosse
veramente contenta, se il genero fosse finalmente felice; che festa!
Di tutte queste cose non impossibili, a rigor di linguaggio, la meno
probabile era l’ultima, cioè che finalmente il Coppa trovasse una
contentezza che paresse a lui la felicità; sicuramente, egli vorrebbe
afferrare la felicità vera e propria e così la contentezza svanirebbe
subito.

Lo stesso Coppa ebbe un giorno il medesimo timore. Desiderio gli
aveva sparato a bruciapelo una schioppettata: “Piero Corruccini si è
dimenticato di Bambina,„ gli aveva detto. “Bambina mi pare avviata a
dimenticarsi di Piero; è il buon momento; se ti senti di far felice
questa buona ragazza, e di fare la tua vecchiaia contenta, fa presto,
sposala.„

Il Coppa arrossì come un fanciullone; ma dopo quel lampo di felicità,
si accasciò subito brontolando che ci voleva pensare ancora.

Mentre egli ci pensava, venne Piero.

Venne di buon mattino, segretamente, quasi avesse paura di lasciarsi
vedere; mandò dalla portinaia la sua carta di visita a dire che egli
era da basso, a chiedere se potesse venire a quell’ora.

Il Coppa corse in camera di Desiderio, per consultarsi con lui, ma ebbe
appena detto di che cosa si trattava e si accostò all’uscio per dire
alla portinaia: _venga_.

Il vecchio Desiderio non fiatava; cercò di leggere nel volto del Coppa,
mentre egli finiva di vestirsi, e l’amico andava su e giù.

— Bambina dorme ancora? chiese il Coppa.

E Bambina rispose essa stessa, picchiando alla porta:

— Ci è un signore che cerca di te...

— Entra, Bambina.

La fanciulla, entrata con l’aria ridente d’ogni giorno, corse ad
appiccare un bacio sulla guancia dei due vecchi.

— Quel signore... interrogò il Coppa fissandola in volto... l’hai visto?

— Appena, appena, rispose Bambina senza evitare lo sguardo di babbo
Coppa.

Sembrava sincera, non era troppo disinvolta e audace — forse non aveva
riconosciuto il Piero dei sogni suoi.

Ed era già un conforto all’animo del vecchio innamorato, al quale venne
in aiuto Desiderio con un’altra domanda:

— Come è quel signore? vecchio o giovane?

— Giovine...

— Bello?...

— Oh! no; mi è sembrato che abbia la faccia gonfia... teneva la testa
bassa... ma perchè mi fai queste domande?...

Il Coppa, senza dir parola, rizzò la testa il più possibile, e andò
incontro al suo rivale.

Aveva ragione Bambina; quel signore era quasi irriconoscibile, ma
era proprio lui. Piero Corruccini aveva passato appena il vano della
porta, non osando quasi arrischiarsi fino in mezzo alla sala, così
forte era lo scoraggiamento che lo vinceva; teneva la testa bassa; la
faccia gonfia, in cui gli occhi quasi si nascondevano, implorava pietà.
Il Coppa ne ebbe molta. Con una tenerezza che egli non spiegava a se
stesso, si accostò subito al poveraccio.

— Cos’è stato? gli disse.

— È stato il vaiuolo. Un mese fa ero a Nizza a fare la piazza; ero
contento di venire a Milano dove speravo d’essere aspettato, quando
la malattia mi colse. Mi ha lasciato così, come mi vede. La signorina
non mi ha riconosciuto, tanto sono mutato; essa invece è sempre tanto
bella.

Piero parlava con accento desolato, e quando disse: “essa invece è
sempre tanto bella„ tremò nella sua voce una corda che era desiderio e
rammarico.

Il Coppa indovinò tutta quell’anima addolorata, e gli parve
d’addolorarsi sinceramente anche lui, nel dirgli bruscamente una parola
di conforto.

— Ma ora è guarito! Non è vero? Dunque non si smarrisca.

— Anche il medico mi ha detto così. Non voleva che io lasciassi Nizza,
ma a me premeva di essere a Milano, non ricevendo risposta alla lettera
che avevo scritto.

— Lei ha scritto a Bambina?

— No, ma ho scritto a lei, fermo in posta, come mi aveva detto; non ha
ricevuto?

— Non ho ricevuto nulla.

— Vede! è il destino. Avevo detto alla signorina d’essere di ritorno
per il primo del mese, e mi ero fatto promettere che essa mi avrebbe
scritto due parole fermo in posta perchè sapessi dove potevo fare... in
ogni caso... una visita al signor Coppa: corro alla posta e non trovo
nulla. Allora ho detto: essa sa che io sono deformato e non mi vuole
più... Ha ragione, povera creaturina: io sono tanto brutto, essa invece
è sempre tanto bella!

Trovandosi a guardare un dibattimento stranissimo che seguiva nel
suo foro interno, il vecchio Coppa non sapeva decidere se egli fosse
afflitto della faccia gonfia di Piero, come gli sembrava, o se il
trionfo sicuro, imminente, della sua propria faccia, sbarbata ogni
mattina, lo contentasse del tutto, come pure gli pareva. Non rispondeva
nulla alle parole del disgraziato. Il quale proseguì:

— Nella lettera che le scrivevo da Nizza, mi raccomandavo a lei perchè
dicesse... alla signorina... che non ho più il coraggio di pensare al
sogno bello fatto a bordo del _Sud America_... che perciò...

— Che perciò?.. insistè il Coppa, tanto per dire qualche cosa.

— Che perciò rinunziavo ad essa...

Nel ripetere a voce bassa queste parole desolate che lo avevano fatto
piangere scrivendole, singhiozzò come un fanciullo.

— Si faccia cuore, disse il Coppa... non pianga ora.

— No, non piango; non volevo nemmanco venire qui, ma è stato più forte
di me...

Il vecchio aveva sulla lingua altre consolazioni di parole; stentava
a metterle fuori, sembrandogli parole ipocrite, condite largamente di
egoismo; taceva, ma anche il silenzio era crudeltà.

— Senta, signor Corruccini, mi dica che cosa vuol fare, che cosa devo
dire io stesso, perchè se posso... creda...

— Mi pare che non ci sia nulla a fare per me... non dica niente... cioè
dica alla signorina in che stato sono ridotto... e avrà detto tutto. Io
me ne andrò per il mondo, come ho fatto fin qui...

Un’idea si era affacciata al Coppa, e da un poco egli si affaticava a
guardarla da lontano, non intendendo bene ancora se fosse da accogliere
o da respingere.

— Sto pensando una cosa, disse tranquillamente; non so se sia buona
o cattiva; deve decidere lei; sto pensando se sia meglio farsi vedere
alla mia ragazza...

Piero fece risolutamente di no col capo.

— No?... Le pare che non convenga, proseguì il vecchio amorosamente,
e allora aspetti che la gonfiezza cessi, perchè deve cessare; allora
la sua faccia riavrà quasi l’aspetto di prima... non si smarrisca; le
ragazze, come la mia, non s’innamorano soltanto d’una faccia liscia.
O il cuore, la gentilezza d’animo... tutto _il resto_ non deve contare
per nulla?

Piero Corruccini fece un atto di sfiducia; a parer suo tutto il resto
contava poco.

— Preferisco che sia informata da lei... se caso mai essa volesse
proprio vedere tutta la mia miseria... mi scriva... io abito in via
Solferino al 41, terzo piano. Ma sono sicuro che non tornerò più in
questa casa.

Il Coppa non gli volle contraddire; accompagnò fin sull’uscio il suo
infelicissimo visitatore, e stringendogli la mano con tenerezza gli
disse _addio_.

Poi raggiunse in sala da pranzo Desiderio e Bambina.



IX.


— Povero figliuolo! esclamò il Coppa entrando.

— Chi? domandò Bambina.

Invece di rispondere, il vecchio interrogò se stesso. Ora gli pareva
proprio d’essere addolorato; l’accento di commiserazione che aveva
messo in quelle due parole, non era ipocrisia sicuramente, e le volle
ripetere variando.

— Povero ragazzo!

— Chi?

— E di chi vuoi che parli se non di lui? Non l’hai visto sull’uscio,
quando entrava?

— Chi?

— Pietro Corruccini.

— Era lui?

— Non l’avevi riconosciuto? Sì, era lui. Io stesso, per verità, con la
sua carta di visita in mano, aspettavo che mi dicesse con chi avevo
l’onore di parlare. Proprio. È stato il vaiuolo a sfigurarlo a quel
modo. Ne fu colto a Nizza un mese fa; ora è guarito perfettamente, ma
gli rimarrà il segno fin che campa. Povero figliuolo!

— Era lui, e non ha voluto vedermi! mormorò la fanciulla.

— Non dir così, poveraccio! piuttosto non ha voluto che tu lo vedessi
per non farti ribrezzo.

Siccome Bambina ripetè un’altra volta come smemorata: era lui — siccome
Desiderio aspettava in silenzio, il Coppa proseguì:

— Che cosa vuol fare? gli ho detto. — Non voglio far nulla; me ne andrò
lontano, a nascondere la mia deformità.

— È proprio così brutto? chiese a bassa voce Desiderio.

— Eh! sì... non è bello; ma sicuramente il tempo accomoderà la sua
faccia, da non... disgustare come ora... Sì, è proprio brutto, ripetè
pietosamente a Bambina, è gonfio e rosso; pare perfino che gli manchino
dei pezzettini di faccia. L’ho consolato, come ho potuto... ma la
verità è... che non è bello... ecco.

Bambina interrogava ancora con gli occhi pieni di lagrime; il Coppa
non sapeva più trovare una parola che lo contentasse, perchè ora gli
sembrava d’essere un ipocrita feroce. Andò due volte su e giù, poi uscì
in silenzio dalla stanza.

Appena se ne fa andato, Bambina corse a buttarsi nelle braccia di
Desiderio, singhiozzando.

— Dunque gli volevi proprio bene?

La ragazza non rispose subito; prima pianse, poi si asciugò gli occhi.

— Non credo che gli volessi bene; se non veniva, io non piangeva; e ora
piango, non so nemmeno io perchè, e mi pare che gli vorrei dare tutto
il mio amore per consolarlo.

Desiderio raccolse nella pezzuola le ultime lagrime di Bambina e la
baciò in fronte.

— Tu hai una bell’anima! E che cosa vuoi fare?

— Lasciarlo andar via così, come un cane, perchè è diventato brutto,
non è vero che sarebbe una cosa crudele? Che colpa ne ha lui se il
vaiuolo gli ha guastato la faccia? Domani non potrebbe guastare la mia?

No; questo poi no: il vaiuolo non può nulla per sè stesso, il cielo
soltanto lo manda a guastare certe faccie così così per far dire che
prima erano bellissime; ma una faccetta così tonda, così bianca, così
ridente, come quella di Bambina...

La dimostrazione che Desiderio voleva fare fu interrotta da poche
parole:

— Senti, se io gli scrivessi?

Sì; se Bambina scrivesse a quel disgraziato, che male vi sarebbe?

— Egli sicuramente aspetta una parola buona...

— E che cosa gli vorresti scrivere?

— Vorrei fargli intendere che non sono una scioccherella, che la sua
disgrazia mi fa pena;... niente più.

Desiderio ci pensò e non vi trovando proprio nulla di male, finì con
accondiscendere. “Scrivi; faremo poi leggere la lettera a babbo Coppa,
che approverà anche lui.„

E Bambina, lì per lì, scrisse poche linee alla buona, come le pensava;
poi le presentò a Desiderio perchè vedesse se ci erano molti sbagli.

Non molti veramente, perchè Bambina, messa al cimento di fare la sua
corrispondenza, si cavava d’impiccio benino; il poco che aveva imparato
a scuola non gli avrebbe servito gran che, ma essa vi aggiungeva
tutto quello che aveva appreso dalle letture, e non solo questo, ma la
malizietta di evitare certi giri di frase in cui non si sentiva franca.
L’ortografia che non si può aiutare col criterio e che richiede sempre
molta pratica, ce la metteva per lo più il Coppa; questa volta ce la
mise babbo Desiderio.

L’amico per la vita e per la morte non era preparato all’idea che
Bambina dovesse scrivere al signor Piero, ma si contenne bene; disse,
come era la verità, d’aver voluto che quel povero ragazzo si mostrasse
alla sua innamorata.

— Nascondersi o fuggire, gli ho detto, non ha mai servito a nulla;
bisogna sempre andare fino al fondo della cosa...

La lettera fu mandata, e il Coppa si preparò alla battaglia, dinanzi
allo specchio. Parendo d’essere proprio risoluto ad andare fino in
fondo della cosa, aspettò di piè fermo la visita del suo rivale; e non
lo confessando a se stesso, si sentiva sicuro di vincere la partita.

Se non che la vergogna fece fare a Piero Corruccini la mossa che solo
avrebbe saputo consigliare la prudenza; l’innamorato non si lasciò
vedere; ma scrisse ingenuamente così:

“Grazie, signorina; lei è tanto buona; io vorrei correre per vederla,
ma mi vergogno perchè sono deformato; il medico mi assicura che se
tengo il viso fasciato sarò meno brutto fra poche settimane. E io
voglio essere meno brutto per presentarmi a lei.„

Quando questa letterina passò sotto gli occhi del Coppa, egli ebbe
un sospetto pauroso, che tutte le arti del pettine e del rasoio non
potessero salvare la sua vecchiaia da una nuova disillusione.

Guardando Bambina nascostamente, egli indovinò subito sulla faccetta
buona un amore fatto di pietà; espresse la propria scoperta a Desiderio
e si sentì rispondere che certamente era così.

— Come lo sai?

— Essa non canta più, e ride solo quando uno di noi la guarda; pensa a
lui... pensa a te.

— A me?

— Sì, anche a te: la stessa pietà che la spinge verso l’infelicità
di Piero, l’accosta pure.... verso la tua... perchè quella ragazza è
proprio buona.

Essere amato e sposato per misericordia! Era una cosa possibile, e
Piero se ne sarebbe contentato, ma il Coppa, no.

Quando fu proprio sicuro che Bambina era tormentata dai due amori
infelici, volle essere forte e generoso.

— Vado a prendere il signor Piero e lo conduco qua, annunziò a
Desiderio una mattina; fasciato o no, ha da combattere se vuol vincere.

— E tu?

— Io farò l’invalido, e sta sicuro che non è un’astuzia di guerra; ma
tu che mi conosci sai che non saprei che cosa fare d’essere amato per
compassione. Non mi dai ragione?

— Non te la dò sicuramente. Che importa la causa, purchè l’amore ci sia
veramente? Pensaci per non pentirti poi: Bambina ti vuol bene, sarebbe
già tua a quest’ora se... quel disgraziato...

— Lo so: essa avrebbe fatto un’opera di misericordia sposandomi, ma ce
n’era da fare un’altra più meritoria... Non è questo che vuoi dire?

Non era questo, ma press’a poco.

In sostanza il Coppa quella stessa mattina andò a trovare Piero
Corruccini, e fece tanto e fece così bene da indurlo a venire a casa
sua. Volle essere lui a presentarlo a Bambina:

— Bambina, le disse, di là ci è il signor Piero; ci è voluto fatica
a farlo venire; non voleva perchè non è ancora accomodato bene; ma si
accomoda ogni giorno un poco; bisognava vederlo l’altra settimana.

La ragazza gli fissava in volto gli occhioni sbigottiti.

— Non mi guardare così; ti dico che è di là, con babbo Desiderio; va,
va, va subito.

Egli si accomodò sopra il seggiolone a dondolo; Bambina, nel lasciare
la stanza alla muta, si voltò un momentino a guardare il vecchio
innamorato. Il quale aveva chiuso gli occhi e lasciandosi cullare da
quel sedile di giunco, non sognava ancora.

Anzi durava il primo proposito, di non sognare mai più, di sagrificarsi
interamente, e già gli sembrava di assaporare la rassegnazione.

“È amara, pensava, ma è sana; molti facendone uso sono guariti d’ogni
malanno, e campano lungamente. Farò anch’io così per campare quanto
Matusalemme.

_Sì, no; sì, no;_ sembrava dire quel letto di vimini col suo cigolìo.

“Ha ragione Desiderio; l’adotterò, si chiamerà Bambina Corruccini
Coppa; sarò per essa l’uomo che l’ha amata più d’ogni altro, sarò il
_padre_ suo.

_Sì, no; sì, no._

“Che fanno ora? interrogò, e subito rispose; Piero è brutto ancora,
ha gli occhi bassi perchè si vergogna della sua bruttezza; Bambina non
osa guardarlo per non dargli soggezione, ma ha già visto abbastanza...
forse vorrebbe essere rimasta con Babbo Coppa, e non sa che dire...
Il mio buon Desiderio non sa nemmeno lui che fare; guarda Bambina
fissamente non sapendo se essa sceglierà l’innamorato vecchio, o
l’innamorato brutto.

_Sì, no; sì no._

“Può essere il contrario. Bambina e Piero si sono intesi alla prima
occhiata, a quest’ora si amano; fra un mese si sposeranno... La scelta
era già fatta, senza che Bambina lo sapesse; vi aveva pensato la
natura. Li amore la vecchiaia ha sempre torto.„

Dopo questa sentenza, il suo pensiero si annuvolò, la fantasia non
seppe presentargli altro che immagini confuse di cose, di persone e
di sentimenti; ed erano cose antiche, sentimenti solitarii, bambine
indifferenti, che piombavano tutte in un medesimo sepolcro.

Quando Desiderio si affacciò all’uscio a interrogare sommessamente:
“dormi?„ il Coppa scostò la mano dal viso bagnato di lagrime.

Non si vergognando di farle vedere all’amico per la vita e per la
morte, interrogò con una sola parola: “dunque?„

Desiderio non rispose, e allora il Coppa rizzandosi in piedi ripetè:
“in amore la vecchiaia ha sempre torto.„ Si asciugò la faccia e
sorrise.



X.


Le valigie erano rimaste in un canto, perchè nè il Coppa nè altri si
era ricordato di esse, per disfarle e riporle nell’armadio.

Quel giorno le dimenticate si fecero innanzi agli occhi del Coppa,
il quale, apertele e richiusele con un sospiro, quella sera medesima
le aveva volute prendere in mano di nascosto per andarsene alla
stazione. Ma di quella sua determinazione era trapelato qualche cosa,
e al momento giusto Desiderio si accompagnò a lui in silenzio, mentre
Bambina era rimasta in casa a piangere.

Sulla via un facchino si offrì di portare le valigie e il Coppa
acconsentì.

— Tornerò presto, assicurava al taciturno amico come per iscusarsi,
capirai bene il mio bisogno di mutar aria; perchè una corbelleria si
rimargini interamente, e non se ne veda neanco il solco, l’impiastro
che mi è riuscito meglio è un viaggio lungo. Ma questa volta sarà un
viaggio breve; appena tu mi abbia scritto che Bambina e Piero si sono
messi d’accordo e vogliono sposarsi, io verrò per dare la dote. Siamo
intesi?

Desiderio accennò di sì; dopo un poco il Coppa aggiunse:

— Ho già tutto disposto; ho sollecitato l’atto di nascita di Bambina,
che servirà per il matrimonio e per l’adozione. Tu stammi allegro e di’
a Bambina che non pianga più, che mi fa male; dille che rida sempre.

— Dove vai? domandò Desiderio quando l’ebbe visto tornare col biglietto.

— A Torino, scriverò subito.

E se ne andò in sala d’aspetto sorridente, a testa alta, preceduto dal
facchino che portava le sue valigie. Desiderio lo seguì con l’occhio e
tornò a casa ad asciugare le lagrime di Bambina.

Il biglietto dava diritto al Coppa di andare d’un fiato a Torino; ma
egli poteva pure fermarsi dove gli piacesse; e allora perchè Torino
invece di Vercelli, dove non era mai stato? Lungamente rimase incerto,
e quando fu annunziato nella notte che si era giunti a Novara, il
Coppa si sentì afferrato da un nuovo dubbio. E perchè Vercelli invece
di Novara? Ci pensò sino al momento che si richiudeva lo sportello, e
scese con le sue valigie.

Solamente quando il convoglio se ne fu ripartito, gli parve che il
fischio della locomotiva gli mandasse da lontano una longa beffa; e
avviandosi all’albergo pensò ai casi suoi.

“Sì, sono diventato irresoluto, perchè sono vecchio e forse perchè sono
debole; la mia volontà se ne sta andando perchè io sto per arrivare
alla indifferenza.

— Vuole un albergo? gli domandò qualcuno.

— Sì, un albergo... Ho sognato per l’ultima volta di potermi rifare
una gioventù; Bambina sarebbe stata la mia pace, e in un lungo tramonto
avrei guardato negli occhi la felicità. Oh! quanto avrei saputo amare
ancora! Ora è finita.

Ma pensandovi, dovette confessare a se stesso che tutto, proprio tutto,
non era finito; tra Bambina e Piero ancora non era stabilito nulla, e
solamente perchè la ragazza non aveva detto addirittura di non sentirsi
il coraggio di amare una faccia buccherata come una grattugia, egli si
era preso in mano le valigie per andarsene.

E volle essere sincero fino all’ultimo: se invece di andare fino a
Torino o anche più distante, come aveva pensato di fare, si era fermato
a Novara, ci doveva essere stata una ragione inavvertita, che è forse
quella che chiamano l’istinto.

Quella notte non chiuse occhio, sebbene egli avesse detto molte volte
a se stesso che stava arrivando all’indifferenza; spento il lume e
fissando gli occhi nel buio, gli venivano scorte alcune linee d’un
mobile che, entrando in camera, non gli pareva d’aver veduto; sembrava
una persona immensa, che allungasse un braccio verso il suo letto, per
far paura al vecchio Coppa. Ma il tempo delle vane paure era passato
da un pezzo per lui. Lo minacciassero pure, egli era tanto indifferente
da non voler nemmeno accertare se fosse la minaccia di un attaccapanni,
come gli sembrava probabile. Chiuse gli occhi, e allora l’attaccapanni
piegò le braccia e si avvicinò senza far rumore fino a mettere la
faccia sua proprio accanto a quella del Coppa. Era una faccia beffarda;
stette un momento così per mettere in collera il vecchio indifferente,
poi si mutò in un altro sembiante. Il Coppa se ne rimase a guardare
sino a tanto che, fra molte trasformazioni, gli si presentò la smorfia
di una faccia butterata dal vaiolo.

— Sei proprio bellino, disse forte il Coppa; no, non te ne andare così
presto, lascia che io ti guardi bene; tu avrai l’amore di Bambina e la
dote che io le farò.

La faccia butterata svanì come le altre e il vecchio la trattenne un
poco ancora:

— No, non te ne andare; tu non sei bello, ma hai la gioventù; e in
amore la vecchiaia ha sempre torto.

Quando la faccia fu scomparsa interamente, entrò nel cervello del Coppa
un’idea di battaglia: chi sa? non è forse detto che la vecchiaia non
possa nulla; essa soltanto ama veramente; e se Bambina sapesse...

“Ancora non ha detto la parola che deve legarla a lui, ma la dirà
domani„ — pensò, e questa idea ficcandogli nel cervello come un chiodo,
lo tenne desto tutta notte. A volte si proponeva di tornare a Milano
col primo treno del mattino per rendere più difficile la vittoria
di Piero, più tormentata la propria sconfitta. Ma si pentiva subito
pensando alla pietà di Bambina. E poi con quale pretesto giustificare
il proprio pentimento? Ah! se in quel letto, dove si voltolava in
silenzio, lo cogliesse un febbrone, che obbligasse lui a tornare,
ovvero inducesse Bambina a correre al suo capezzale d’infermo... a
sanarlo con un bacio, a farlo morire con una parola d’amore!

Finchè il mattino non entrò nella camera, il povero Coppa continuò la
sua smania silenziosa; ma quando la nuova luce gli ebbe fatto vedere
in un canto l’attaccapanni, il quale allungava ingenuamente l’unico
braccio che gli era rimasto, scese un po’ di quiete nel suo spirito, e
il Matto si addormentò sotto l’occhio del sole.

Alle dieci del mattino mandò un telegramma a Desiderio per avvertirlo
che egli si era arrestato a Novara, dove aspettava una _parola_.

Questa parola giunse a Novara il giorno dopo. Era di Bambina. Diceva:

“Perdonami, babbo caro; ma mi sembra di volergli tanto bene!„

Un’ora dopo il Coppa ripartiva per Milano, dove fece stupire la piccina
e il vecchio amico con la sua disinvoltura:

— Dov’è Piero?... domandò allegramente, come! non è qua? è mezzogiorno;
che cosa aspetta? Ai nostri tempi, non è vero Desiderio? ai nostri
tempi non si aspettava l’ora delle visite; quando si poteva andare
in casa dell’innamorata ci si andava a tutte l’ore; quando no, si
passeggiava sotto la finestra buscandosi il torcicollo.

Bambina si lasciò ingannare da quella sicurezza e ringraziò
ingenuamente il cielo che, fra le due misericordie da usare, le
permetteva di far la scelta del giovane Piero; e oltre il cielo
ringraziò babbo Coppa quando le promise di far il necessario perchè la
cosa andasse liscia liscia.

Il _necessario_ nel concetto del vecchio e dall’accento con cui egli
proferiva la parola, comprendeva anche, anzi più che tutto, l’adozione;
ma quando, a furia di lettere, ogni cosa fu pronta, e non mancò altro
che fare gli atti legali, il Coppa ebbe un solo pentimento; mantenne
tutto quanto aveva promesso, ma non volle il meglio: rinunziò ad essere
il padre di Bambina.

Ed ebbe l’aria di essere generoso agli occhi di tutti, nel dire a
Desiderio: “La prima idea era la buona; sarai tu il babbo di Bambina;
io me ne sento incapace.„

L’amico per la vita e per la morte gli si buttò fra le braccia, e
pianse perchè era troppo felice.

Ma il Matto era incapace di nascondere a se stesso il segreto
pensamento, che lo aveva trattenuto nell’atto di fare della fidanzata
(e più tardi della moglie) di Piero Corruccini la propria figliuola!
Ed era la ripugnanza a mettere fra se stesso e Bambina una barriera
legale, insuperabile, per tutta la vita.

Anche quando quella faccia disgraziata di Piero ebbe, con la dote, la
sua magnifica Bambina, il Coppa non si pentì d’essere stato prudente.
Gli durava in mente lo stesso sentimento; non lo voleva confessare più,
non lo confessava quasi, ma qualche volta in segreto pensava che...
non si sa mai che cosa possa accadere... che Piero poteva anche essere
felice, magari Dio dare dei figliuoli a Bambina, durar lungamente e
seppellire il Coppa... ma poteva anche morire... E allora?...

No, non era una speranza; forse non era nemmeno un desiderio... E
allora?...

E allora nessun dubbio che il Coppa avrebbe aperto le braccia perchè
la vedova e tutti i figliuoli di lei vi riparassero come in un porto
sicuro.


  FINE.



OPERE DELLO STESSO AUTORE:


  _Oro nascosto_ — 3ª edizione con ritratto            L. 4 —
  _Capelli biondi_ — 3ª ediz., legato alla bodoniana   »  4 —
  _Amore Bendato_ — 3ª ed. diamante legata in tela     »  3 —
  _Il Tesoro di Donnina_ — 3ª edizione                 »  4 —
  _Racconti e Scene_ — 2ª edizione                     »  2 —
  _Dalla Spuma del mare_ — 2ª edizione                 »  3 —
  _Frutti proibiti_ — 3ª edizione                      »  2 —
  _Un Tiranno ai bagni di mare_ — 3ª edizione          »  1 20
  _Il Romanzo di un vedovo_ — 3ª edizione              »  2 —
  _Prima che nascesse_ — 3ª edizione                   »  1 50
  _Le Tre Nutrici_ — 2ª edizione                       »  1 50
  _Coraggio & avanti!_ — 2ª edizione.                  »  1 50
  _Mio figlio studia_. — 2ª edizione                   »  1 —
  _L’intermezzo e la pagina nera_ — 2ª edizione        »  1 50
  _Mio figlio s’innamora_ — 2ª edizione                »  1 50
  _Il marito di Laurina_ — 2ª edizione                 »  2 —
  _Nonno_ — 2ª edizione                                »  1 50
  _Mio figlio!_ — edizione di bibliofili               » 12 —
  _Il signor Io_ — 3ª edizione                         »  2 50



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. La numerazione del
capitolo V e dei tre seguenti, errata nell’originale, è stata corretta.



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