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Title: Il tulipano nero
Author: Dumas, Alexandre
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Il tulipano nero" ***


   [Illustrazione: Alle preghiere di sua moglie piangente
   finalmente egli firmò, aggiungendo oltre al suo nome queste
   due lettere: V. C. (VI COACTUS) che vogliono dire: OBBLIGATO
   DALLA FORZA. pag. 4.]

                                   IL
                             TULIPANO NERO


                                  PER
                            ALESSANDRO DUMAS


                        Prima Versione Italiana
                         DI GIOVANNI CHIARINI.

                             Volume Unico.
                              PARTE PRIMA.



                                FIRENZE
                            VINCENZO BATELLI
                                Editore.



        L’editore intende valersi del diritto accordatogli dalla
          Legge dei 22 Maggio 1840 sulla proprietà letteraria.

                 Firenze, Tipografia del Vulcano, 1851.



    _Omne tulit puntum, qui miscuit utile dulci,_
    _Lectorem delectando, pariterque monendo._
        Q. HORAT. FLAC. De Art. poetic.

    Quei che l’utile al dolce accoppia, coglie
    Pienamente nel segno, dilettando
    E del paro ammonendo il suo lettore.



L’EDITORE AI SUOI LETTORI


_Due parole per conto mio a Voi, pregiatissimi soscrittori a questa mia
Raccolta Romantica, le quali stieno a testimoniare la mia riconoscenza
e il mio intendimento. La prima è piena e sentita; e non potrei con
parole esprimerverla, veggendo il favore con cui avete accolto questa
mia impresa tipografica, tenue sì per il suo intrinseco, se voglia
guardarsi alla scorza, ma forse grande pel suo morale intendimento._

_E siccome tutto giorno va ripetendosi che meglio sarebbe chiudere
tutte le tipografie, perchè così non si guasterebbe la mente ed il
cuore dei creduloni e dei malaccorti, io intendo di mettervi innanzi
candidamente le mie idee su questo proposito, per corrispondere in
tal guisa al valido soccorso, che mi prestate, aprendovi la stranezza
della mia mente, la quale non credo così malata, come tante altre che
si stimano sane, a cui più non basterebbe fare ogni anno il viaggio ad
Anticira._

_Verissimo che sonovi per nostra disgrazia non pochi libri, se vuolsi,
dannosissimi non solo allo individuo che ne assapora la lettura, ma
all’ordine sociale, cui tendono al dissolvimento. Che vorrebbesi
addurre da ciò? Il pio desiderio di dare l’ostracismo a qualsiasi
libro, che non fosse di quel dato peso, e misura? Cosa ben difficile
a conoscere il peso e la misura delle anime pie, cui esse cambiano a
seconda delle loro ardenti aspirazioni. Ma non sarebbe meglio, senza
por mente alle stranezze di qualsiasi genere, che ci fosse in ogni
Stato un’estesa pubblica istruzione, una educazione morale, la quale
per tempo insegnasse a fare distinguere il pane dai sassi, come suol
dirsi; ed allora ogni pessima lettura servirebbe viepiù a rinforzare il
sentimento del buono e dell’onesto, come i veleni più micidiali servono
sovente a ricondurre l’ammalato in piena salute._

_Mettiamoci un poco la mano sul cuore, e neghiamo, se siamo da tanto
che tutte le vicissitudini, i movimenti, i desiderii, le tendenze
attuali non sieno il frutto della voluta privativa della scienza per
incatenare con l’anima il corpo? Quando mi si riduce l’uomo allo stato
di bruto, bisogna bene che le sue opere concordino con la sua natura,
che io chiamerò francamente, brutale, perchè la parola, la quale
sola lo distingue dagli esseri non pensanti, ve lo congiunge pel non
sviluppo razionale, che così invano Iddio gli avrebbe donato. E le
povere masse su questo rapporto troveranno certo misericordia appo Dio,
che non vorrà punirle come il servo cattivo del Vangelo, che invece di
trafficare il talento datogli dal suo padrone, andò a sotterrarlo: nel
nostro caso gli è fatto sotterrare non dalla propria paura di esserne
derubato, come il servo del Vangelo, ma dalla paura del padrone, il
quale stoltamente crede che il servo lo possa trafficare a di lui
danno._

_E poi si grida alla canaglia! al fango! Ma, Signori miei,
rammentiamoci che il fango in mano di abile e saggio agricoltore,
che lo manipoli e lo riduca, diventa il terreno più fertile per ogni
genere di raccolta, ed è adatto alla cultura dei fiori i più belli
per spoglia, e i più grati per effluvi odorosi. Ditemi un poco, se
non fosse il fango, cosa sarebbe l’Egitto? un deserto più mortifero di
quello che lo circonda. Ma se i saggi agricoltori con l’industria e con
arte non facessero sì di fare quel fango prontamente disseccare e non
lo lavorassero, l’Egitto sarebbe una pestifera palude. Il fango del
Diluvio, simboleggia saggiamente la Mitologia, procreò uno smisurato
serpente, che divorava tutte le nuove generazioni; Apollo, simbolo
della scienza educatrice, lo uccise. Non si trascuri l’esempio di
Apollo, se non vuolsi che il serpente nato dal fango divori tutti gli
ordinamenti sociali._

_I popoli educati e istruiti sono stati i più tranquilli e i più
morali uomini del mondo. Contatemi tra il popolo ebreo una rivoluzione
sociale. Nessuna; perchè tutti erano profondamente istruiti nei doveri
religiosi e civili. David era un pastore; si leggano i suoi salmi, e ci
faremo un’idea della educazione di tutto il popolo ebreo._

_Chi più severi di costume e più leali nel trattare, e più forti nelle
armi degli Spartani? L’esercizio giornaliero del corpo, il profondo
rispetto pei più vecchi, la venerazione per un Dio supremo, erano il
frutto di queste loro virtù famigliari, anzi cittadine._

_Nè mi si venga a ricantare, che Licurgo gran legislatore di Sparta
avesse proibito ogni lettura ai suoi concittadini. Per quanto sappiamo
non si conoscevano altri scritti che quelli del grande Omero; e di
questi non solo ne permise la lettura, ma raccomandolla: perchè nella
Iliade specialmente di quel divino poeta avvi tutta la scienza tanto
sacra che profana, con la quale potevasi informare la mente ed il cuore
dei suoi concittadini._

_Non mi si gridi: alla croce! se io con questa premessa sembrassi
voler concludere, che anco con i Romanzi, ma però morali, e informati
da sani principii e aventi per fine una qualche privata o pubblica
virtù, si possa educare e istruire. Lungi il sacrilegio del confronto,
ma non mi si nieghi l’utilità: l’ombra di Omero, cieca come il
Destino e dura come il di lui trono di ferro, nebulosa giganteggia
ancora sul mondo pagano, nascondendo il suo capo tra le fitte tenebre
della degradata divinità; come l’ombra di Dante caccia la sua lucida
fronte negli splendori eterni di un Dio tutto misericordia, mentre
tremenda per i rei stringe nella destra il flagello inesorabile della
divina giustizia; e solo quest’ultimo, se si avessero avuti degli
accorti Licurghi, basterebbe per civilizzare il mondo intero. Ma per
intenderlo, per alzarsi seco lui fino al Paradiso, ci abbisogna il
soccorso delle scienze teologiche che ci vengono insegnate con la
Dottrina del Bellarmino, e il corredo delle scienze umane, la cui
porta si apre col Donato e dopo sette anni si chiude col Mancino ai
pochi eletti a non intender nulla e a voler di tutto parlare. Ecco la
gangrena dell’attuale società._

_Ora dunque, che vi è tanta smania di leggere, e leggere specialmente
tutti i Romanzi d’oltremonti (non esclusi i giornali, sfacciati Romanzi
diurni) mi sono proposto di darne una collezione di_ SEI, _ma però
scelti come suol farsi per una collana di opere di morale istruzione, e
offrirla ai miei concittadini. La Francia, l’Inghilterra, la Germania
mi daranno la loro contribuzione, che però sarà nuova per l’Italia; e
già non ho mancato di procurare un nuovissimo Romanzo italiano a questa
mia raccolta, il quale di soggetto storico, rammenterà le gesta, i
rivolgimenti e i falli dei nostri padri, a insegnamento della presente
generazione._



IL TULIPANO NERO



I

Un popolo riconoscente.


Il 20 agosto 1672, la città dell’Aya così vispa, così candida, così
gaia che sarebbesi detto, tutti i giorni essere domeniche; la città
dell’Aya col suo passeggio ombreggiato, co’ suoi grandi alberi
inclinati sopra le sue case gotiche, coi larghi specchi de’ suoi
canali, nei quali reflettonsi i suoi campanili a cupolette quasi
all’orientale; la città dell’Aya, capitale delle Sette Provincie Unite,
gonfiò tutte le sue arterie di un flusso nero e rosso di cittadini
incalzantisi, affannosi, inquieti, i quali correvano coi coltelli
a cintola, il moschetto sulle spalle o il bastone in mano verso il
Buitenhof, formidabile prigione di cui ancor oggi mostransi le finestre
inferriate, e dove, dopo l’accusa di assassinio portatagli contro
dal chirurgo Tyckelaer, languì Cornelio de Witt fratello del gran
Pensionario di Olanda.

Se la storia di quel tempo e soprattutto di questo anno, al cui scorcio
cominciamo il nostro racconto, non fosse strettamente legata co’ due
nomi che citeremo, le poche linee di schiarimento che andiamo a dare,
potrebbero sembrar fuori di luogo; ma noi preveniamo sulle prime il
nostro lettore benevolo, cui promettiamo di piacere alla prima pagina,
e cui parliamo bene o male nelle pagine seguenti, lo preveniamo, che
questo schiarimento è indispensabile, tanto alla intelligenza della
nostra storia, quanto del grande avvenimento politico da cui questa
storia si parte.

Cornelio o Cornelius de Witt, _ruward_ di Pulten, cioè ispettore
delle dighe di quel paese, ex-borgomastro di Dordrecht, sua città
natale, e deputato agli Stati di Olanda aveva 49 anni, allorchè il
popolo olandese, stanco della repubblica, come intendevala Giovanni
de Witt gran Pensionario di Olanda, fu preso d’un pazzo amore per lo
Statolderato, il quale dal permanente editto, imposto da Giovanni de
Witt alle Provincie Unite, era stato per sempre abolito in Olanda.

Come gli è raro che in questi sconvolgimenti capricciosi lo spirito
pubblico non veda un uomo di dietro al principio, di dietro alla
repubblica il popolo vedeva le due severe figure dei fratelli de
Witt, questi Romani dell’Olanda, disdegnosi di piaggiare la velleità
nazionale e inflessibili amici di una libertà non licenziosa, e d’una
prosperità non strabocchevole, mentrechè dessi vedevano dietro lo
Statolderato la fronte bassa, grave e pensierosa del giovine Guglielmo
d’Orange, soprannominato da’ suoi contemporanei e passato alla
posterità col nome di Taciturno.

I due de Witt maneggiavansi con Luigi XIV, di cui vedevano ingigantire
l’ascendente morale su tutta Europa, e ne sentivano l’ascendente
materiale sull’Olanda a cagione dei successi della meravigliosa
campagna del Reno, illustrata da quell’eroe da romanzo, che chiamavasi
conte di Guisa, e cantata da Boileau, campagna che in tre mesi avea
abbattuto la potenza delle Province unite.

Luigi XIV era da lunga pezza nemico degli Olandesi, che insultavanlo
o motteggiavanlo a tutta possa e quasi continuamente, è vero, per
bocca dei francesi rifugiati in Olanda. L’orgoglio nazionale faceane
il Mitridate della repubblica. Stava dunque contro ai de Witt
l’animavversione, che resulta da una vigorosa resistenza susseguita da
un potere reluttante al gusto della nazione e della stanchezza naturale
a tutti i popoli vinti, quando sperino che un altro capo possa salvarli
dalla rovina e dalla vergogna.

Quest’altro capo, pronto a mostrarsi e prontissimo a misurarsi contro
Luigi XIV, che apparve talmente gigante da preludiarne la sua fortuna,
gli era Guglielmo principe d’Orange, figlio di Guglielmo II e nipote
per mezzo di Enrichetta Stuart di Carlo I re d’Inghilterra, giovine
taciturno, la cui ombra abbiamo noi detto apparir già dietro lo
Statolderato.

Questo giovine nel 1672 avea ventidue anni. Giovanni de Witt era stato
suo precettore, ed avealo allevato col fine di fare di questo antico
principe un buon cittadino. Aveagli, amando più la patria che il suo
allievo, troncato col perpetuo editto la speranza dello Statolderato.
Ma Dio avea deriso queste umane pretensioni, che fanno e disfanno le
potenze della terra senza consultare il re del cielo; e pel capriccio
degli Olandesi e pel terrore ispirato da Luigi XIV mutava la politica
del gran Pensionario e aboliva l’editto perpetuo, ristabilendo lo
Statolderato per Guglielmo d’Orange, su cui egli aveva i suoi disegni,
nascosti ancora nella profonda oscurità dell’avvenire.

Il gran Pensionario piegossi dinanzi la volontà de’ suoi concittadini;
ma Cornelio de Witt fu più recalcitrante, e malgrado le minacce di
morte del popolaccio orangista che assediavalo nella sua casa di
Dordrecht, rifiutò di firmare l’atto che ripristinava lo Statolderato.

Alle preghiere di sua moglie piangente finalmente egli firmò,
aggiungendo oltre al suo nome queste due lettere: V. C. (_vi coactus_)
che vogliono dire: _obbligato dalla forza_.

Fu per vero miracolo che in quel giorno scampasse dalle mani de’ suoi
nemici.

Quanto a Giovanni de Witt quantunque la sua adesione fosse più pronta
e più facile al volere dei suoi concittadini, non fugli però più
profittevole; avvegnachè fosse qualche giorno dopo vittima di un
attentato di assassinio. Ferito da colpi di stile, non morì nonostante
di quelle ferite.

Non accontentavansi di sì poco gli Orangisti; la vita dei due fratelli
era un ostacolo eterno ai loro progetti. E’ cangiano momentaneamente
di tattica, lasciando a un momento prefisso di coronare la seconda
per la prima vittima, e si propongono di sacrificare sull’altare della
calunnia quello che non avevano potuto spacciare col pugnale.

È cosa ben rara che a un momento prefisso si trovi lì per l’appunto
sotto la mano di Dio un grand’uomo per eseguire un’azione grande;
ed è per questo che, allorquando dassi per caso tale combinazione
provvidenziale, la storia registra all’istante il nome di quest’uomo
straordinario e lo raccomanda all’ammirazione della posterità.

Ma allorquando il diavolo si mescola negli affari umani per rovinare
una esistenza o rovesciare un impero, egli è ben raro che non abbia
lì pronto qualche miserabile, al quale non ha che a sibillare
nell’orecchio una parola, perchè costui si metta immediatamente
all’opera.

Tal miserabile che in questa circostanza trovossi lì pronto per essere
l’agente del malvagio spirito, chiamavasi, come ci pare aver già detto,
Tyckelaer chirurgo di professione.

Egli depose, che Cornelio de Witt disperato, come provavalo la sua
postilla, per l’abrogazione dell’editto perpetuo, e spumante di rabbia
contro Guglielmo d’Orange, aveva dato commissione a un sicario di
sbrogliare la repubblica dal nuovo Statolder, e che tal sicario era
lui, Tyckelaer, che inorridito alla sola idea dell’azione, che gli si
voleva affidare, amava meglio rivelare che commettere un tale delitto.

Ora si giudichi qual baccano si facesse questa nuova di complotto
dal partito orangista. Il procuratore fiscale fece arrestare Cornelio
nella sua propria casa il 16 agosto 1672; il _ruward_ di Pulten, il
nobile fratello di Giovanni de Witt subiva in una sala del Buitenhof la
tortura preparatoria destinata a strappargli come al delinquente il più
abietto la confessione del suo preteso complotto contro Guglielmo.

Ma Cornelio non era solamente di spirito grande, ma ancora di gran
cuore; chè gli era di quella famiglia di martiri che, avendo la
fede politica come i loro antichi aveano la religiosa, sorridono
ai tormenti, e nella tortura egli recitò con voce ferma e cadenzata
secondo il metro la prima strofa del _Justum et tenacem_ di Orazio,
niente confessando e stancando di più non solo la forza ma ancora il
fanatismo dei suoi carnefici.

I giudici non ostante assolsero da ogni condanna Tyckelaer, e
profferirono contro Cornelio una sentenza, che degradavalo da tutte
le sue cariche e dignità, condannandolo alle spese del giudizio, ed
esiliandolo per sempre dal territorio della repubblica.

Egli era qualche cosa per la soddisfazione del popolo, a’ cui interessi
erasi costantemente dedicato Cornelio de Witt, la condanna profferita
non solamente contro un innocente, ma pur anco contro un gran
cittadino. Pur come si va a vedere, non fu ciò sufficiente.

Gli Ateniesi, che hanno lasciato un’assai bella reputazione
d’ingratitudine cedevanla in questo punto agli Olandesi; che
contentaronsi di bandire Aristide.

Giovanni de Witt al primo rumore della querela contro suo fratello,
erasi dimesso dalla sua carica di gran Pensionario. Era costui in tal
guisa degnamente ricompensato della sua devozione al paese; chè portò
nella vita privata i suoi nemici e le sue ferite, soli guadagni che
vengono in generale ai galantuomini colpevoli di essersi affaticati per
la loro patria, obliando se stessi.

In questo frattempo Guglielmo d’Orange attendeva, non senza affrettarne
l’avvenimento con tutti i mezzi in suo potere, che il popolo, di cui
egli era l’idolo, gli facesse del corpo dei due fratelli i due gradini,
di cui aveva bisogno per montare al seggio dello Statolderato.

Ora il 20 d’agosto 1672, come abbiamo detto al cominciare di questo
capitolo, tutta la città correva al Buitenhof per assistere all’escita
di prigione di Cornelio de Witt, però per l’esilio, e vedere quali
tracce avesse lasciato la tortura sul nobile corpo di quest’uomo, che
sapeva così bene il suo Orazio.

Ci affrettiamo aggiungere che tutta quella moltitudine, che dirigevasi
al Buitenhof, non vi si dirigeva solamente con l’innocente intenzione
di assistere a uno spettacolo, ma non pochi tra quella eranvi per
eseguire una parte, o piuttosto per adempire un impiego, che trovavano
essere stato male disimpegnato. Noi vogliamo parlare dell’impiego di
carnefice.

Eranvi accorsi altri, è vero, con intenzioni meno ostili. Per
loro soltanto trattavasi di uno spettacolo sempre attraente per la
moltitudine, il cui orgoglio istintivo è sodisfatto nel vedere nella
polvere colui, che lungamente è stato sul piedistallo.

Questo Cornelio de Witt, quest’uomo senza paura, dicevasi, non era
infermo, fiaccato dalla tortura? Non andavasi a vederlo, pallido,
sanguinoso, svergognato? Non l’era un bel trionfo per la borghesia ben
più invidiosa del popolo, al quale ogni buon borghese del’Aya doveva
prender parte?

E poi diceano tra sè gli agitatori orangisti, furbescamente mescolati
nella folla, che essi contavano di ben maneggiare come strumento
tagliente e contundente ad un tempo; non troverassi dal Buitenhof alla
porta della città una benchè piccola occasione per gettare un po’ di
fango, anche qualche pietra a quel _ruward_ di Pulten che ha solamente
accordato lo Statolderato al Principe d’Orange _vi coactus_, ma che ha
voluto eziandio farlo assassinare?

Senza contare, aggiungevano i feroci nemici della Francia, che
diportandosi bene e bravamente all’Aya, non lascerebbesi partire per
l’esilio Cornelio de Witt, il quale una volta all’estero rannoderebbe
tutti i suoi intrighi con la Francia e vivrebbe con quel grande
scellerato di Giovanni suo fratello con l’oro del marchese di Louvois.

Si vede bene che in simili disposizioni li spettatori corrono e non
camminano; ed ecco perchè gli abitanti dell’Aya precipitavansi verso il
Buitenhof.

Tra quelli, che più correvano con la rabbia in cuore e senza progetto
nell’animo era l’onesto Tyckelaer, corteggiato dagli orangisti come un
eroe di probità, d’onore nazionale e di carità cristiana.

Quel bravo scellerato raccontava, abbellendoli di tutti i fiori del suo
spirito e di tutte le risorse della sua imaginazione, i tentativi messi
in opra da Cornelio de Witt contro la sua virtù, le somme che aveagli
promesse e l’infernale macchinazione prima preparata per appianare a
lui Tyckelaer tutte le difficoltà dell’assassinio.

E ogni frase del suo discorso avidamente raccolta dal popolaccio
sollevava grida d’amore entusiasta pel principe Guglielmo, e urli di
cieca rabbia contro i fratelli de Witt.

La canaglia malediva i giudici iniqui, il cui decreto lasciava fuggire
sano e salvo un sì abominevole delinquente, qual’era lo scellerato
Cornelio.

E qualche istigatore ripeteva a voce bassa:

— Parte! ci scappa!

Cui altri rispondevano:

— Un vascello, e un vascello francese, l’attende a Scheveningen;
Tyckelaer lo ha visto.

— Bravo Tyckelaer! pernio dei galantuomini! gridava la folla in coro.

— Senza badare, diceva una voce, che nel tempo di questa fuga di
Cornelio, l’altro traditore da tre cotte, il suo fratello Giovanni si
salverà del paro.

— E i due bricconi vanno a mangiare in Francia il nostro denaro, denaro
dei nostri vascelli, dei nostri arsenali, dei nostri cantieri venduti a
Luigi XIV.

— Impediamoli la partenza! gridava un patriotto più spinto degli altri.

— Alla prigione! alla prigione! ripetevano tutti.

E a queste grida i paesani correvano più forte; montavansi li schioppi,
luccicavano le scuri, foscheggiavano li sguardi.

Niuna violenza però non erasi ancora commessa, e la linea di
cavalleria, che guardava l’entrata del Buitenhof stava impassibile,
fredda, silenziosa, più minacciante con la sua calma di tutta quella
ciurmaglia borghese con le sue grida, con la sua agitazione, con le sue
minacce, immobile sotto gli occhi del conte di Tilly capitano della
cavalleria dell’Aya, il quale teneva la spada sfoderata, ma con la
punta volta all’angolo della sua staffa.

Questo squadrone solo riparo che difendesse la prigione, conteneva con
la sua attitudine non solo le masse popolari disordinate e ardenti,
ma ancora il distaccamento della guardia paesana, che posta in faccia
al Buitenhof per mantenere l’ordine unitamente alla truppa, dava ai
perturbatori l’esempio degli urli sediziosi, gridando:

— Viva l’Orange! abbasso i traditori!

La presenza del Tilly e de’ suoi cavalieri era, è vero, un freno
salutare a tutti que’ soldati paesani; ma a poco a poco esaltaronsi
a quelle stesse lor grida, e, siccome non capivano che puossi aver
coraggio senza gridare, imputarono a timidezza il silenzio della
cavalleria e fecero un passo verso la prigione, strascinandosi dietro
tutta la turba popolare.

Ma allora il conte di Tilly s’avanzò solo loro incontro, e sollevando
soltanto la sua spada con ciglia aggrottate:

— Ohe! signori della guardia paesana, chiese, perchè vi avanzate e che
desiderate?

I paesani agitarono i loro schioppi, ripetendo le grida!

— Viva l’Orange! morte ai traditori!

— Viva l’Orange! Sia! disse il Tilly, giacchè io preferisco le figure
vispe alle figure sgangherate. Morte ai traditori! se lo volete, e
molto più sel volete con le sole grida. Gridate quanto vi piace: Morte
ai traditori! ma quanto a metterli effettivamente a morte, io son qui
per impedirlo e impedirollo certo.

Quindi rivolto a’ suoi soldati:

— Soldati, all’arme! gridò.

I soldati del Tilly obbedirono al comando con una precisione calma,
che fece immediatamente indietreggiare i paesani e il popolo non senza
confusione da svegliare il sorriso al comandante della cavalleria.

— Via, via, disse con quel tuono motteggiatore proprio solo all’uomo di
spada; tranquillizzatevi, o paesani, i miei soldati non daranno fuoco
ad uno scodellino; ma voi dal vostro canto non avanzerete un passo
verso la prigione.

— Sapete bene, signor officiale, che noi abbiamo dei moschetti? mostrò
infuriato il comandante dei paesani.

— Lo vedo bene, per... che voi avete dei moschetti, disse Tilly, chè
me li fate balenare davanti agli occhi; ma sappiate del pari che noi
abbiamo delle pistole, che mirabilmente colpiscono a cinquanta passi, e
che voi non siete che a venticinque.

— Morte ai traditori! gridò la compagnia dei paesani esasperati.

— Veh! ripetete sempre la stessa cosa, borbottò l’officiale, l’è
seccante!

E riprese il suo posto alla testa del suo squadrone, intantochè andava
aumentandosi il tumulto attorno al Buitenhof.

Nel momento stesso in cui il popolo agognava il sangue di una delle
sue vittime, non sapeva che l’altra, come se avesse furia di andare
incontro alla sua sorte, traversava la piazza cento passi dietro i
gruppi e i cavalli per portarsi al Buitenhof.

Infatti Giovanni de Witt scendeva di carrozza con un domestico e
traversava tranquillamente a piedi la corte innanzi alla prigione.

Fecesi innanzi al carceriere, che già conosceva, dicendo:

— Buon giorno, Grifo; vengo a prendere mio fratello Cornelio de Witt,
condannato, come tu sai, al bando, per condurlo fuor di città.

E il carceriere specie d’orso, intento ad aprire e chiudere la porta
della prigione, avealo salutato e lasciato entrare nell’edifizio, le
cui porte erano state dietro lui richiuse.

A dieci passi di distanza aveva incontrato una bella giovinetta dai
diciassette ai diciotto anni, in costume frisone, la quale aveagli
fatto un grazioso saluto; ed egli prendendola pel mento, aveale detto:

— Buon giorno, mia bella e buona Rosa; come sta mio fratello?

— Oh! signor Giovanni, rispondeva la giovinetta, non è il male che gli
è stato fatto, che mi fa paura: il male fatto è passato!....

— Che temi dunque, mia bella ragazza?

— Temo, signor Giovanni, il male che gli si vuol fare.

— Ah! sì, disse il de Witt, il popolo, eh?

— Lo sentite?

— Infatti è molto commosso; ma quando ci vedrà, siccome gli abbiamo noi
fatto sempre del bene, forse si calmerà.

— Questa disgraziatamente non è una ragione, mormorò la giovinetta,
allontanandosi per obbedire a un cenno imperioso di suo padre.

— No mia ragazza, no; l’è pur troppo vero ciò che tu dici.

Poi continuando il suo cammino:

— Ecco, mormorò, una giovinetta che probabilmente non sa nè leggere nè
scrivere, e che riassume la storia del mondo in una sola parola.

E sempre calmo, ma più melanconico che alla sua entrata, l’ex-gran
Pensionario continuò il suo cammino verso la stanza del suo fratello.



II

I due fratelli.


Come in un dubbio pieno di presentimento l’aveva detto la bella Rosa,
mentre Giovanni de Witt saliva la scala di pietra che conduceva
alla prigione di Cornelio suo fratello, i paesani facevano il più
che potevano per allontanare la truppa del Tilly, che tenevali in
soggezione.

Ciò vedendo, il popolo, che molto apprezzava le buone intenzioni della
sua milizia, gridava a tutta gola:

— Viva i paesani!

Quanto al Tilly, prudente quanto fermo, parlamentava con quella
compagnia popolana sotto le pistole cariche del suo squadrone,
spiegandole alla meglio che la consegna datale dagli Stati imponeva di
guardare con tre squadriglie la piazza della prigione e le sue entrate.

— Perchè questi ordini? perchè guardare la prigione? gridavano gli
orangisti.

— Oh bella! rispose il Tilly, mi domandate d’assalto più di quello
che possa sapere. Mi è stato detto: «Guardate» e guardo. Voi che siete
una specie di soldati, o signori, dovete sapere che non si domanda il
perchè di una consegna.

— Ma v’è stato dato quest’ordine, perchè i traditori possano escire di
città.

— Può anch’essere, perchè i traditori sono condannati al bando, rispose
il Tilly.

— Ma chi ha dato quest’ordine?

— Li Stati, perdio!

— Tradiscono!

— Quanto a ciò, non me n’intendo niente.

— E voi tradite.

— Io?

— Sì, voi.

— Ah via! signori popolani, intendiamoci un po’ tra noi; chi tradirei?
Li Stati? Non li posso tradire, perchè essendo al loro soldo, eseguisco
puntualmente la loro consegna.

E molto più, siccome il conte aveva perfetta ragione da non ammettere
risposta, i clamori e le minacce raddoppiarono tanto spaventevolmente,
che il conte rispondeva con tutta l’urbanità possibile:

— Ma, signori popolani, di grazia smontate i vostri fucili, perchè se
per accidente ne scatti uno e ferisca un mio soldato, vi getteremo a
terra almeno dugento uomini, con grande nostro dispiacere, ma più con
vostro, non essendo ciò nè mia, nè vostra intenzione.

— Dio vi guardi se lo fate, gridarono i popolani, che noi non staremo
con le mani a cintola.

— Sì, ma quando facendo fuoco su noi ci uccideste tutti dal primo fino
all’ultimo, quelli da noi uccisi non risusciteranno mica.

— Cedeteci dunque il posto, e allora farete atto da buon cittadino.

— Prima di tutto non sono cittadino, disse Tilly, sono officiale, cosa
molto differente; e poi non sono olandese, ma francese, cosa differente
d’assai. Io dunque non conosco che gli Stati i quali mi pagano;
portatemi un loro ordine che io ceda il posto, ed io fo subito un mezzo
giro, perchè mi son già molto noiato.

— Sì, sì! gridarono cento voci che moltiplicaronsi all’istante a
cinquecento altre. Andiamo al palazzo comunale! andiamo dai deputati!
andiamo, andiamo!

— Via, mormorò Tilly vedendo allontanare i più arrabbiati, andate al
palazzo comunale, a dimandare una vigliaccheria, e vedrete se vi si
accorda; andate amici, andate!

Il degno officiale contava sull’onore dei magistrati, che dal loro
canto contavano sull’onore dei soldati, su lui.

— Dite dunque, o capitano, disse all’orecchio del conte il suo primo
luogotenente, se i deputati ricusassero a questi arrabbiati ciò che
domandano, non sarebbe male, mi pare, che c’inviassero un rinforzo.

Frattanto Giovanni de Witt, che abbiamo lasciato che saliva la scala
di pietra dopo la sua conversazione col carceriere Grifo e con sua
figlia Rosa, era giunto alla porta della stanza, dove giaceva sopra
un materasso suo fratello Cornelio, al quale aveva il fiscale, come
abbiamo detto, fatto applicare la tortura preparatoria.

Il decreto di bando era venuto, il quale aveva resa inutile
l’applicazione straordinaria della tortura.

Cornelio steso sul suo letto, i polsi slogati, le dita slogate,
non avendo niente confessato di un delitto che non aveva commesso,
respirava alfine dopo tre giorni di patimenti, sentendo che i giudici,
da cui aspettavasi la morte, lo avessero piuttosto voluto condannare al
bando.

Corpo energico, anima invincibile, egli avrebbe bene sconcertato i suoi
nemici, se avessero potuto nella squallidezza profonda della stanza
di Buitenhof veder brillare sopra il suo pallido viso il sorriso del
martire, che oblia il fango della terra dopochè ha scorto gli splendori
celesti.

Il _ruward_ aveva per la potenza della sua volontà più che per un
soccorso reale potuto ricovrare tutte le sue forze, e calcolava quanto
tempo ancora le formalità giuridiche lo riterrebbero in prigione.

Era appunto in questo momento che i clamori della milizia paesana
uniti a quelli del popolo alzavansi contro i fratelli, minacciando
il capitano Tilly, che serviva loro di riparo. Quel frastuono, che
veniva a rompersi come un maroso crescente al piè delle muraglie della
carcere, saliva fino al prigioniero.

Ma per quanto fosse minacciante quello strepito, Cornelio trascurò
d’accertarsene, ovvero non si prese la pena di alzarsi per guardare tra
le traverse di ferro della stretta finestra, che dava adito alla luce
ed al mormorio esterno.

Egli era tanto assuefatto agli affanni, che gli erano divenuti
familiari per abitudine; e di più sentiva con ineffabile diletto la
sua anima e la sua ragione così vicine a sbarazzarsi degli impacci
corporei, che sembravagli già che l’anima e la ragione distaccate dalla
materia le si librassero al disopra come guizza sul focolare quasi
estinto la fiamma, che abbandonalo per alzarsi al cielo.

Pensava puranco a suo fratello.

Senza dubbio era il suo appressarsi che, pe’ misteri sconosciuti che il
magnetismo ha scoperti in seguito, facevasi così presentire. Al momento
stesso in cui Giovanni era così presente alla mente di Cornelio da
mormorarne quasi il di lui nome, si aperse la porta, Giovanni entrò e
di un passo accelerato venne al letto del prigioniero, che stese le sue
braccia scorticate e le sue mani fasciate verso quel glorioso fratello
ch’egli era riuscito a sorpassare non pei servigi resi al paese, ma
nell’odio che portavangli gli Olandesi.

Giovanni baciò teneramente in fronte suo fratello, e riposò dolcemente
sullo strapunto le di lui mani malate.

— Cornelio, povero mio fratello, egli disse, tu soffri molto, non è
vero?

— Non soffro più, fratello mio, dacchè ti vedo.

— O mio caro Cornelio, io allora in vece tua soffro in vederti così, te
lo accerto.

— Anch’io ho pensato più a te che a me; e mentre che mi torturavano,
non ho fiatato che una sol volta per dire: «Povero fratello!» Ma eccoti
qui, si dimentichi tutto. Vieni a prendermi, è vero?

— Sì.

— Sono guarito; aiutami ad alzarmi, e tu vedrai, fratello mio, come io
cammini bene.

— Non avrai molto a camminare, chè la mia carrozza è al fosso dietro lo
squadrone di Tilly.

— Lo squadrone di Tilly? Perchè dunque sono al fosso?

— Ah! si suppone, disse il gran Pensionario con quella sua fisonomia
ridente in mezzo alla sua abituale tristezza, che le genti dell’Aya ti
vogliano veder partire, e si teme di un po’ di tumulto.

— Di un tumulto? riprese Cornelio, fissando il suo sguardo sul suo
fratello imbarazzato; di un tumulto?

— Sì, Cornelio.

— Allora ecco perchè io sentiva quel frastuono, disse come parlando a
sè stesso.

Poi rivolgendosi al fratello:

— V’è molta gente sul Buitenhof, eh?

— Sì, mio fratello.

— Ma allora per venir qui....

— Ebbene?

— Come ti hanno lasciato passare?

— Tu sai bene, o Cornelio, che non siamo punto amati, rispose il gran
Pensionario con una melanconica amarezza; ho preso per vie traverse.

— Ti sei nascosto, o Giovanni.

— Io aveva disegnato di giungere a te senza perder tempo; ed ho fatto
come fassi in politica e in mare, quando si ha il vento contrario: ho
bordeggiato.

In questo momento lo strepito salì più furioso dalla piazza alla
prigione. Tilly era in dialogo con la guardia paesana.

— Oh! oh! soggiunse Cornelio, tu sei un benaccorto pilota; ma non so se
ti basterà l’animo di cavar fuori dal Buitenhof tuo fratello in questa
marea e tra’ frangenti popolari con tanta fortuna con quanta guidasti
la flotta da Tromp ad Anversa in mezzo ai bassi fondi dell’Escaut.

— Con l’aiuto di Dio, o Cornelio, almeno lo tenteremo, rispose
Giovanni; ma prima una parola.

— Di’....

I clamori scoppiarono di nuovo.

— Oh! oh! continuò Cornelio, come sono in collera! Contro te? o contro
me?

— Credo contro tutti e due... Io dunque ti diceva, che ci rimproverano
gli orangisti tra le altre scempiate calunnie di aver negoziato con la
Francia.

— Negale!

— Sì, ma ce lo rimproverano.

— Ma se quelle negoziazioni fossero riuscite, loro avrebbero
risparmiato le sconfitte di Rees, d’Orsay, di Wesel e di Reimberga;
loro avrebbero fatto evitare il passaggio del Reno, e l’Olanda potrebbe
credersi ancora invincibile in mezzo alle sue maree e ai suoi canali.

— È vero, fratello mio, ma è una verità ancora più assoluta che, se
in questo momento venisse trovata la nostra corrispondenza col signor
di Louvois, per quanto buon piloto io mi sia, non potrei salvare il
fragile schifo che è per portare i de Witt e la loro fortuna fuori
dell’Olanda. Tale corrispondenza, che proverebbe a persone oneste come
io ami il mio paese, e quali sacrifizii personalmente io mi offriva
di fare per la sua libertà, per la sua gloria, tale corrispondenza
ci perderebbe presso gli orangisti nostri vincitori. Perciò, caro
Cornelio, mi giova credere che l’abbiate bruciata prima d’abbandonare
Dordrecht per venirmi a raggiungere all’Aya.

— Fratello, rispose Cornelio, la tua corrispondenza col Louvois prova,
che sei stato negli ultimi tempi il più grande, il più generoso e il
più abile cittadino delle Sette Provincie Unite. Amo la gloria del mio
paese; amo soprattutto la tua gloria, o mio fratello, ondechè mi sono
ben guardato di bruciarla.

— Allora siamo perduti per questa vita terrestre, disse tranquillamente
l’ex-gran Pensionario, appressandosi alla finestra.

— Anzi tutto all’opposto, o Giovanni; e noi avremo a un tempo la
salvezza del corpo e la resurrezione della popolarità.

— E allora che cosa hai fatto di quelle lettere?

— Le ho affidate a Cornelius Van Baerle, mio figlioccio, che tu conosci
e che dimora a Dordrecht.

— Oh! povero giovine! caro e leale, ei sa, cosa rara, tante e poi tante
cose, e non pensa che ai fiori che salutano Dio, e pensa a Dio che
fa nascere i fiori! L’hai incaricato di un deposito mortale; così, o
fratello, è perduto quel povero e caro Cornelius!

— Perduto?

— Sì, perchè sarà forte, o sarà debole. Se è forte (perchè egli è
estraneo a ciò che ci accade; perchè, quantunque sepolto a Dordrecht,
quantunque distratto, ed è un miracolo! saprà un giorno o l’altro ciò
che ci è accaduto) se è forte, si vanterà di noi; se debole, avrà paura
della nostra intimità; se è forte propalerà il segreto; se debole, se
lo lascerà prendere. Nell’uno e nell’altro caso, o Cornelio, lui e noi
siamo perduti del pari. Perciò, fratello mio, fuggiamo presto, se ci
resta ancor tempo.

Cornelio sollevossi sul letto e prendendo la mano di suo fratello, che
trasalì al contatto delle fasce:

— E se non ne sapesse nulla il mio battezzato? che credi non abbia io
saputo leggere ciascun pensiero nella sua testa, ciascun sentimento
nell’anima di Van Baerle? Mi domandi, se gli è forte, se gli è debole?
Non è nè l’uno nè l’altro, ma che importa ciò che ci sia? Il forte sta
che custodisca il segreto, bene intesi che egli punto lo conosce.

Giovanni si volse sorpreso:

— Oh! continuò Cornelio col suo dolce sorriso, il _ruward_ di Pulten è
un politico allevato alla scuola di Giovanni; te lo ripeto, o fratello,
Van Baerle ignora la natura e il valore del deposito che gli è stato
confidato.

— Presto allora! esclamò Giovanni, giacchè c’è ancora tempo,
facciamogli passare l’ordine di bruciare l’involto.

— Per mezzo di chi gli si fa passare?

— Pel mio servitore Craeke, che ci deve accompagnare a cavallo e che è
entrato meco nella prigione per aiutarvi a scendere la scala.

— Pensateci, Giovanni, prima di bruciare quei titoli gloriosi.

— Prima di tutto penso, mio bravo Cornelio, che i fratelli de Witt
salvino la loro vita per salvare la loro rinomanza. Noi morti, chi ci
difenderebbe, o Cornelio? Chi ci avrebbe neppure compreso?

— Credi dunque che trovando quei fogli ci ammazzerebbero?

Giovanni senza rispondere al fratello stese la mano verso il Buitenhof,
donde slanciavansi in questo momento degli scoppi di grida feroci.

— Sì, sì, disse Cornelio, intendo bene questi clamori; ma che cosa
dicono?

Giovanni aprì la finestra.

— Morte ai traditori! urlava il popolaccio.

— Ora intendi, o Cornelio?

— E i traditori siam noi! disse il prigioniero alzando gli occhi al
cielo e ristringendosi nelle spalle.

— Siam noi, ripetè Giovanni de Witt.

— Dov’è Craeke?

— Credo, alla porta della tua stanza.

— Allora fallo entrare.

Giovanni aprì la porta; il fido servitore attendeva difatti sulla
soglia.

— Venite, Craeke, e rammentatevi bene di tutto ciò che vi dirà mio
fratello.

— Oh! no, Giovanni; non basterebbe il dire, bisogna che
disgraziatamente io scriva.

— E perchè?

— Perchè Van Baerle non renderebbe quel deposito, nè lo brucerebbe
senza un ordine preciso.

— Ma potrete scrivere? domandò Giovanni alla vista di quelle povere
mani tutte bruciate e scorticate.

— Oh! tu vedresti, se avessi penna e inchiostro.

— Ecco almeno un apis.

— Hai punta carta? Perchè qui non mi hanno lasciato niente.

— Questa Bibbia. Strappa la prima pagina.

— Benissimo.

— Ma il tuo scritto sarà inleggibile.

— Su dunque! disse Cornelio riguardando il fratello. Queste dita
che hanno resistito alle corde del carnefice, questa volontà che
ha spregiato i dolori, vanno a unirsi di un comune sforzo, e, sta’
tranquillo, che la riga sarà scritta senza un solo serpeggiamento.

In effetto, Cornelio prese l’apis e scrisse.

Potevano vedersi sotto la fascia bianca trasparire le goccie di sangue,
che la pressione delle dita sull’apis spremeva dalle aperte carni.

Grondava il sudore dalle tempie del gran Pensionario. Cornelio scrisse:

      «Caro figlioccio!

  «Brucia il deposito, che ti ho confidato, brucialo senza guardarlo,
  senza aprirlo, affinchè ti sia sconosciuto. Son di tal genere i
  segreti, che ucciderebbero il depositario. Brucia, e avrai salvato
  Giovanni e Cornelio.

  «Amami, addio.

      «20 Agosto 1672.

                                                 «CORNELIO DE WITT.

Giovanni con le lacrime agli occhi asciugò una goccia di quel nobile
sangue che aveva macchiato il foglio, lo consegnò a Craeke con
un’ultima raccomandazione, e tornò da Cornelio, che il patimento avea
reso pallido e quasi presso a svenirsi.

— Ora, diss’egli, quando il bravo Craeke avrà fatto sentire il suo
antico fischio di contromastro, essendo già fuori dei gruppi, dal lato
opposto del vivaio.... allora partiremo noi.

Non erano passati cinque minuti che un prolungato e vigoroso fischio
percosse col suo trillo marinaresco il nero fogliame degli olmi
acuminati, e dominò i clamori del Buitenhof.

Giovanni alzò le braccia al cielo per ringraziarnelo.

— Ora, disse, partiamo, o Cornelio.



III

L’allievo di Giovanni de Witt.


Mentre che gli urli della folla stivata sul Buitenhof, sempre più
crescenti, determinavano Giovanni de Witt a sollecitare la partenza del
suo fratello Cornelio, una deputazione di paesani era andata, come si è
detto, al palazzo comunale, per dimandare l’allontanamento del corpo di
cavalleria del Tilly.

Non v’era molta distanza dal Buitenhof all’Hoog-straat; talchè poteva
scorgersi uno straniero, che dal momento in cui era cominciata questa
scena ne aveva seguiti i dettagli con una certa curiosità, dirigersi
con gli altri, o piuttosto di seguito agli altri, verso il palazzo
comunale, per sapere con più sollecitudine ciò che si andasse a fare.

Quello straniero era un uomo molto giovine al più di ventitrè a
ventiquattro anni, senza apparente robustezza. Nascondeva — senza
dubbio con la ragione di non essere riconosciuto — la sua faccia
pallida e allungata dentro un fino fazzoletto di tela di Frigia, col
quale incessantemente asciugavasi la fronte bagnata di sudore o le sue
labbra ardenti.

L’occhio immobile come quello dell’uccello da preda, il naso aquilino
e lungo, la bocca sottile e diritta, aperta o piuttosto tagliata come
i labbri di una ferita, costui avrebbe offerto al Lavater, se fosse
vissuto in quest’epoca, un soggetto di studi fisiologici, che non
sarebbero tornati in gran prò della sua scienza.

Tra la figura del conquistatore e del corsaro dicevano gli antichi,
qual differenza ci trovi? quella che trovo tra l’aquila e il falco: la
sicurezza o l’inquietudine.

Medesimamente quella fisonomia livida, quel corpo gracile e
malaticcio, quel portamento inquieto, mentre andavasene dal Buitenhof
all’Hoog-straat accodato a tutto quel popolo urlante, presentava il
tipo di un padrone sospettoso o d’un ladro inquieto; e un poliziotto
avrebbe certo opinato per l’ultimo, a cagione della premura che costui,
del quale ci occupiamo in questo momento, prendeva a nascondersi.

Egli era d’altronde vestito semplicemente e senza armi apparenti;
il braccio magro ma nerboruto, la mano scarna ma bianca, sottile,
aristocratica, appoggiavasi non al braccio ma alla spalla di un
officiale, il quale col pugno sulla spada dal momento in cui il suo
compagno erasi mosso e avealo secolui trascinato, aveva osservato tutte
le scene del Buitenhof con un interesse facile a comprendersi.

Giunto sulla piazza di Hoog-straat, l’uomo dal viso pallido spinse
l’altro dietro un uscio aperto, e fissò l’occhio sul palazzo comunale.

Alle grida forsennate del popolo le finestre dell’Hoog-straat
s’apersero, e avanzossi un uomo per parlare con la folla.

— Chi comparisce al balcone? domandò il giovane all’officiale,
accennando coll’occhio soltanto l’arringatore, che parlava molto
commosso, che più che appoggiarsi, reggevasi al terrazzino.

— Gli è il deputato Bowelt, replicò l’officiale.

— Che uomo è questo deputato Bowelt? lo conoscete?

— Un buonuomo, per quello che so, mio signore.

Il giovine sentendo tale commendatizia del carattere di Bowelt fatta
dall’officiale, fece un movimento sì strano di disapprovazione, di
scontento sì visibile, che rimarcato dall’officiale affrettossi a
soggiungere:

— Così si dice, mio signore. Quanto a me non posso nulla affermare, non
conoscendolo personalmente.

— Bravo, replicò colui, che era stato chiamato, mio signore; volevi
dire buonuomo, o bravuomo?

— Ah! mio signore, scusatemi; non oserei fare cotale distinzione alla
presenza di un uomo che, io lo ripeto a Sua Altezza, non lo conosco che
di vista.

— Al fatto, mormorò il giovane; aspettiamo e vedremo.

L’officiale piegò la testa in segno di assentimento e si tacque.

— Se questo Bowelt gli è un bravuomo, continuò l’Altezza, riceve
scimunitamente la domanda, che gli fanno questi arrabbiati.

E lo scatto nervoso delle mani sue, che agitavansi suo malgrado sulle
spalle del compagno, come avrebbero fatto le dita di un suonatore
sulla tastiera di uno strumento, tradiva la sua ardente impazienza sì
male mascherata in tali momenti, e specialmente in questo sotto l’aria
gelata e scura della sua fisonomia.

Intendevasi allora il capo della deputazione paesana interpellare
il deputato, perchè dicesse, dove trovavansi gli altri deputati suoi
colleghi.

— Signori, rispose per la seconda volta il Bowelt, vi ripeto che in
questo momento io sono solo col signor d’Asperen, e solo non posso
prendermi la responsabilità della decisione.

— L’ordine! l’ordine! ripeterono migliaia di voci.

Il Bowelt volle parlare, ma non s’intesero le sue parole, e videsi solo
l’agitar delle braccia in disperata maniera.

Perlochè vedendo di non potere farsi intendere, si volse verso la
finestra aperta e chiamò l’Asperen; che comparve alla sua volta al
balcone, dove fu accolto con grida anche maggiori di quelle, che fosse
accolto dieci minuti fa il signor Bowelt.

Tentò ei pure d’arringare la moltitudine; ma ella preferì sforzare
la guardia degli Stati, che d’altronde non fece resistenza al popolo
sovrano, invece di ascoltare il discorso dell’Asperen.

— Via, disse freddamente il giovine mentre che il popolo internavasi
per la porta principale dell’Hoog-straat, parrebbe, o colonnello, che
la deliberazione debba aver luogo nell’interno. Andiamo a sentire la
deliberazione.

— Ah! mio signore, mio signore, pensateci.

— Perchè?

— Tra quei deputati avvene molti che sono di vostra relazione, basta
che uno riconosca Vostra Altezza....

— Sia, purchè non mi possano accusare d’essere l’istigatore di tutto
questo. — Hai ragione, disse il giovine, le cui guance arrossirono
un istante pel rimorso d’aver mostrato tanta precipitazione nei suoi
desiderii; sì hai ragione, restiamo qui, donde li vedremo tornare
con l’autorizzazione o senza; e così potremo giudicare della sorte
del Bowelt, se sia un bravuomo o un buon uomo, il che molto importa a
sapere.

— Ma, disse l’officiale riguardando con meraviglia quello cui dava il
titolo di mio signore, ma Vostra Altezza non suppone per un momento,
io penso, che i deputati possano ordinare ai cavalieri del Tilly di
ritirarsi; non è così?

— E perchè? dimandò freddamente il giovine.

— Perchè se l’ordinassero, sarebbe l’istesso che segnare la condanna a
morte di Cornelio e di Giovanni de Witt.

— Lo vedremo, rispose freddamente l’Altezza; Dio solo legge nei cuori
umani.

L’ufficiale guardò alla sfuggita la faccia impassibile del suo
compagno, e impallidì.

Quell’officiale era a un tempo un buonuomo e un bravuomo.

Dal punto ov’erano rimasti l’Altezza e il suo compagno sentivano il
baccano e le petizioni del popolo nelle scale del palazzo comunale.

Quindi s’intese uscire quello strepito e spandersi sulla piazza per
le finestre aperte di quella sala col balcone, su cui era comparso
Bowelt e d’Asperen, i quali erano rientrati per paura senza dubbio che
sospingendoli il popolo non li facesse saltare dal terrazzino.

Poi si videro ombre tumultuosamente passare e ripassare davanti a
quelle finestre. La sala delle deliberazioni andava empiendosi.

A un tratto cessa lo strepito; poi ad un tratto raddoppia d’intensità e
giunge a tale detonazione da scuoterne dai fondamenti l’edifizio.

Poi finalmente il torrente si precipitò per le gallerie e le scale fino
alla porta, da cui videsi sboccare come un uragano.

Alla testa del primo gruppo più che correre volava un uomo orribilmente
trasfigurato dalla gioia. Era il chirurgo Tyckelaer.

— L’abbiamo! l’abbiamo! urlò, agitando un foglio per l’aria.

— Hanno l’ordine! mormorò l’officiale stupefatto.

— Ebbene, eccomi convinto, disse tranquillamente l’Altezza. Non
sapevate, mio caro colonnello, se Bowelt fosse un buonuomo o un
bravuomo. Non è nè l’uno nè l’altro.

Poi continuando senza batter’occhio tutta quella folla, che versavasi a
lui davanti:

— Adesso, soggiunse, venite, o colonnello, al Buitenhof; io credo che
saremo per vedere uno strano spettacolo.

L’officiale piegossi e seguì senza rispondere il suo padrone.

La folla era immensa sulla piazza e all’entrate della prigione; ma i
cavalieri del Tilly contenevanla sempre con la stessa bonomia e molto
più con la stessa fermezza.

Bentosto il conte intese il rumore crescente che faceva appressandosi
quella massa di uomini, le cui prime ondate scorgevansi precipitantesi
con la rapidità della caduta da una cataratta.

Nel tempo medesimo egli scorse il foglio sventolato per l’aria al di
sopra delle pugna strette e delle armi luccicanti.

— Ohè! fece alzandosi sulle staffe e toccando col pomo della spada il
suo luogotenente, credo che i miserabili abbiano l’ordine.

— Furfanti vili! esclamò il luogotenente.

Difatti era l’ordine, che la compagnia dei paesani ricevette con segni
di gioia.

Essa immediatamente si mosse e marciò ad armi basse e gridando a tutta
possa contro i cavalieri del conte di Tilly. Ma il conte non era uomo
da lasciarsela approssimare più del dovere.

— Alto! gridò, alto! largo davanti a’ miei cavalli, o comando: Avanti!

— Ecco l’ordine! risposero mille voci insolenti.

Lo prese con istupore, gettovvi sopra un rapido sguardo, e disse ad
alta voce:

— Quelli che hanno firmato quest’ordine, sono i veri carnefici di
Cornelio de Witt. Quanto a me non vorrei con nessuna delle mie mani
avere scritto una sola lettera di quest’ordine infame.

E respingendo col pomo della spada l’uomo che voleaglielo riprendere:

— Un momento, disse, uno scritto come questo importa che sia conservato.

Piegò il foglio e lo ripose con cura nella tasca della sua sottoveste.
Poi voltandosi alla sua truppa:

— Cavalieri di Tilly, comandò, fila a diritta!

Quindi sottovoce, e nonostante in guisa che le sue parole non
isfuggissero a tutti:

— Ora, assassini, compite la vostra opera.

Un grido furioso formato da tutti gli odii invidiosi e da tutte le
gioie feroci, che ringhiavano sul Buitenhof, salutò quella partenza.

I cavalieri sfilarono lentamente. Il conte rimase dietro, facendo
fronte fino all’ultimo momento alla canaglia briaca, che guadagnava
terreno a misura che il cavallo del capitano abbandonavalo.

Come si vede, Giovanni de Witt non aveva punto esagerato il pericolo
quando, aiutando suo fratello ad alzarsi, pressavalo a partire.

Cornelio scese dunque, appoggiato al braccio dell’ex-gran Pensionario,
la scala che conduceva nella corte.

Appena sceso trovò la bella Rosa tutta tremante.

— Oh! signor Giovanni, diss’ella, che guaio!

— Che c’è dunque, mia ragazza? domandò il de Witt.

— C’è che si dice siano andati a cercare all’Hoog-straat l’ordine per
fare allontanare la cavalleria del conte di Tilly.

— Oh! oh! fece Giovanni. In effetto, o mia ragazza, se se ne vadano i
cavalieri, la nostra posizione è cattiva.

— Però avrei un consiglio a darvi.... disse la giovinetta tutta
timorosa.

— Dàllo, mia ragazza. Qual meraviglia che Dio mi volesse parlare per
tua bocca?

— Ebbene! signor Giovanni; io non me ne anderei per la strada
principale.

— E perchè no, se lo squadrone del Tilly è sempre al suo posto?

— Sì, ma fintanto che non sia rivocato, l’ordine è di restare davanti
la prigione.

— Senza dubbio.

— Ne avete nessuno che v’accompagni fuori di città?

— No.

— Ebbene, appena avrete passato il primo cavallo, caderete nelle mani
del popolo.

— Ma la guardia paesana?

— Oh! la guardia paesana è la più arrabbiata!

— Allora, che fare?

— Al vostro posto, signor Giovanni, continuò timidamente la giovinetta,
io escirei per la postierla, che dà sopra una strada solitaria, perchè
tutti sono sulla grande strada, aspettando all’entrata principale; e
guadagnerei la porta per cui volete andarvene.

— Ma mio fratello non potrà camminare.

— Mi proverò, rispose Cornelio con un’espressione di sublime fermezza.

— Ma non ci avete la vostra carrozza? domandò la giovinetta.

— È là presso alla gran porta.

— No, rispose la giovinetta. Io ho pensato che il vostro cocchiere
fosse un uomo fidato, e gli ho detto che vada ad aspettarvi alla
postierla.

I due fratelli si guardarono commossi, e i loro sguardi esprimenti la
loro sentita riconoscenza si concentrarono tutti su quella giovinetta.

— Ora, disse il gran Pensionario, resta a sapersi se Grifo ci voglia
aprire la porta.

— Oh! no, disse Rosa, nol vorrà certo.

— Ebbene! e allora?

— Allora io ho previsto il suo rifiuto, e nel momento che questionava
dalla prigione con un carabiniere, ho preso il mazzo delle chiavi.

— E tu hai la chiave?

— Eccola, signor Giovanni.

— Mia ragazza, disse Cornelio, io non ho nulla a darti in contraccambio
del servigio che tu mi rendi, fuorchè la Bibbia che tu troverai nella
mia camera: l’è l’ultimo dono di un uomo onesto; spero che ti porterà
fortuna.

— Grazie, signor Cornelio; la porterò sempre meco, rispose la
giovinetta.

Poi tra sè sospirando:

— Che sfortuna che io non sappia leggere!

— Ecco che raddoppiano i clamori, o mia ragazza, disse Giovanni; credo
che non vi sia un momento da perdere.

— Venite dunque, disse la bella Frisona.

E per un andito interno condusse i due fratelli dal lato opposto della
prigione.

Sempre guidati da Rosa discesero una scala di una dozzina di gradini,
traversarono una corticella con le mura merlate, e per la porta a sesto
acuto già aperta, trovaronsi dall’altro lato della prigione sulla via
deserta in faccia alla carrozza che aspettavali col montatoio calato.

— Eh! presto, presto, miei padroni, non sentite? esclamò il cocchiere
tutto spaventato.

Ma dopo aver fatto montare Cornelio, il gran Pensionario si volse alla
giovinetta:

— Addio, mia ragazza, disse; tutto quello che ti si potesse dire,
non ti esprimerebbe che debolmente la nostra riconoscenza. Ti
raccomanderemo a Dio, che ricorderassi, io spero, che tu hai salvato la
vita a due uomini.

Rosa prese la mano stesale dal gran Pensionario, e baciolla
rispettosamente.

— Andate, andate; chè sforzano la porta.

Giovanni de Witt montò precipitosamente, prese posto accanto al
fratello, e chiudendo lo sportello della carrozza, esclamò:

— A Tol-Hek!

Il Tol-Hek era il cancello che chiudeva la porta conducente al
piccolo porto di Scheveningen, nel quale una barchetta aspettava i due
fratelli.

La carrozza partì di galoppo tirata da due robusti cavalli sauri, seco
portando i fuggitivi.

Rosa seguilli coll’occhio, finchè non ebbero voltato l’angolo della
strada. Allora rientrando chiuse dietro a sè la porta e gettò le chiavi
in un pozzo.

Lo strepito che aveva fatto presentire a Rosa che il popolo sforzasse
la porta, era in effetto così, perchè dopo aver fatto sgombrare la
piazza della prigione, ruinava contro la porta.

Benchè solida che ella fosse, e quantunque il carceriere Grifo —
bisogna rendergli questa giustizia — ricusasse ostinatamente d’aprirla,
sentivasi che non avrebbe resistito a lungo; perciocchè Grifo tutto
smarrito s’interrogava se non fosse meglio aprire che lasciare
sfasciare la porta; allorquando si sentì tirare dolcemente pel vestito.
Si volse e vide Rosa.

— Apriresti, eh?

— No, lascerei sfondare la porta.

— Ma mi ammazzeranno!

— Sì, se ’l volete.

— E come fare a non volerlo?

— Nascondetevi.

— Dove?

— In una segreta.

— E tu, figlia mia?

— Io, babbo mio, scenderovvi con voi; ne chiuderemo la porta; e quando
avranno lasciata la prigione, allora esciremo dal nostro nascondiglio.

— Hai per..., ragione! esclamò Grifo; l’è un prodigio il giudizio che
sta in cotesta testolina!

— Venite, venite, babbo mio, disse Rosa aprendo una piccola ribalta.

— Ma intanto i nostri prigionieri? soggiunse Grifo.

— Dio veglierà su loro, o babbo mio, disse la giovinetta; permettete
che io vegli su voi.

Grifo seguì sua figlia, e la ribalta si richiuse sulle loro teste
giusto nel punto, che la porta sfracellata dava adito alla canaglia.

Del resto quella prigione, dove Rosa faceva scendere suo padre, e che
chiamavasi la segreta, offriva ai due personaggi, che noi siamo forzati
a lasciare per un istante, un sicuro asilo, non essendo conosciuta che
dalle autorità, le quali alcuna volta faceanvi chiudere qualche gran
colpevole, di cui si temesse una rivolta o una rapina.

Il popolo precipitossi nella prigione, urlando:

— Morte ai traditori! Cornelio de Witt alla forca! A morte! a morte!



IV


Il giovine così imbacuccato nel suo cappellone, sempre appoggiato al
braccio dell’officiale, sempre asciugantesi la fronte e le labbra col
suo fazzoletto, quel giovine in un canto del Buitenhof, incastrato
nel vano di un arco di una bottega chiusa, solo riguardava immobile
lo spettacolo che davagli quel furioso popolaccio, e che pareva
avvicinarsi al suo svolgimento.

— Oh! disse all’officiale, io credo che abbiate ragione, o Van Deken, e
che l’ordine firmato dai signori deputati, sia un vero ordine di morte
di Cornelio. Sentite il popolo? Non ne vuol più sapere dei signori de
Witt.

— In verità, rispose l’officiale, di clamori simili non ne ho mai
sentiti.

— Bisogna credere che abbiano trovato la prigione di quel nostro uomo.
Oh! guardate; non è quella la finestra della stanza, dov’è stato chiuso
Cornelio?

Difatti un uomo abbrancava e scuoteva violentemente le sbarre di ferro
che chiudevano la finestra del carcere di Cornelio, il quale egli aveva
abbandonato dieci minuti innanzi.

— Urà! urà! gridò quell’uomo; non ci sta più!

— Come, non ci sta più? domandarono dalla strada coloro che giunti gli
ultimi non erano potuti entrare, tanto era affollata la prigione.

— No, no, ripeteva quell’uomo furioso, non ci sta più; si vede che se
l’è svignata.

— Che cosa dice quell’uomo? domandò impallidendo Sua Altezza.

— Oh! mio signore, ei dà una nuova che sarebbe bene avventurosa, se
fosse vera.

— Sì, senza dubbio, sarebbe una nuova bene avventurosa, se fosse vera,
disse il giovine; disgraziatamente non può esserlo.

— Frattanto vedete.... disse l’officiale.

Difatti altri visi arrabbiati e contraffatti dalla collera mostravansi
alla finestra, gridando:

— Salvo! fuggito! gli è stato tenuto di mano.

Il popolo rimasto nella strada ripeteva con spaventevoli imprecazioni:

— Salvati! fuggiti! Perseguitiamoli, raggiungiamoli!

— Mio signore, pare che realmente Cornelio di Witt siasi salvato, disse
l’officiale.

— Sì, forse dalla carcere, rispose colui, ma non dalla città; voi
vedrete, o Van Deken, che il pover’uomo troverà chiusa la porta, che
crederà trovare aperta.

— Dunque, o mio signore, è già stato dato l’ordine di chiudere le porte?

— No, io non lo credo; chi avrebbe dato tale ordine?

— Ebbene! chi ve lo fa supporre?...

— Sonvi delle fatalità, rispose sbadatamente l’Altezza, e i più grandi
uomini sono spesso caduti vittime di cotali fatalità.

L’officiale sentì corrersi a quelle parole un brivido per tutta
la persona, perchè comprese che in una maniera o in un’altra, il
prigioniero era spacciato.

In quel momento i ruggiti della folla scoppiavano come un tuono, perchè
erasi accertato che Cornelio de Witt non era più in carcere.

Di fatti Cornelio e Giovanni, dopo aver costeggiato il vivaio, avevano
presa la grande strada, che conduce al Tol-Hek, raccomandandosi al
cocchiere che rallentasse il passo dei suoi cavalli per non isvegliar
sospetti nel loro passaggio.

Ma giunto a mezzo della via, quando vide da lontano il cancello,
quando pensò che lasciavasi indietro la prigione e la morte e che aveva
innanzi la vita e la libertà, il cocchiere lasciò ogni precauzione e si
mise al galoppo. Tutto a un tratto arrestossi.

— Che c’è? domandò Giovanni mettendo fuori della portiera la testa.

— Oh! esclamò il cocchiere, c’è....

Il terrore gli soffocò la parola.

— Via, finisci, disse il gran Pensionario.

— C’è che il cancello è chiuso.

— Come! il cancello è chiuso? Cosa insolita che stia chiuso di giorno.

— Lo veda da sè.

Giovanni de Witt si spenzolò dalla carrozza, e vide difatti il cancello
chiuso.

— Seguita, disse Giovanni, ho meco il contrordine, e il portiere ci
aprirà.

La carrozza riprese la sua corsa, ma si vedeva bene che il cocchiere
non sferzava più i suoi cavalli con la medesima confidenza.

Al momento che avea messo fuori della portiera la testa, Giovanni de
Witt fu visto e riconosciuto da un birraio, che in assenza dei suoi
compagni chiuse in tutta fretta la bottega per andare a raggiungerli
sul Buitenhof.

Egli cacciò un grido di sorpresa e corse dietro ad altri due uomini che
correvano innanzi a lui. Dopo dugento passi li raggiunse e parlò loro;
tutti e tre si fermarono, guardando la carrozza che si allontanava, ma
tuttora non ben certi di chi racchiudesse.

La carrozza intanto arrivava al Tol-Hek.

— Aprite, gridò il cocchiere.

— Aprire, disse il portiere comparendo sulla soglia di casa, aprire, e
con che?

— Con la chiave, per.... rispose il cocchiere.

— Sì, con la chiave; ma bisognerebbe averla.

— Come! domandò il cocchiere, non avete la chiave della porta?

— No.

— Che ne avete fatta?

— Madonna! mi è stata presa.

— Da chi?

— Da qualcuno che probabilmente gl’importava che nessuno escisse di
città.

— Amico mio, disse il gran Pensionario, mettendo fuori la testa e
risicando tutto per tutto, amico mio, gli è per me e per mio fratello
Cornelio che conduco in esilio.

— Oh! signor de Witt, mi dispiace, disse il portiere precipitandosi
verso la carrozza, ma sul mio onore, la chiave mi è stata levata.

— Quando?

— Stamattina.

— Da chi?

— Da un giovine di ventidue anni, pallido e magro.

— E perchè glie l’avete consegnata?

— Perchè aveva un ordine firmato e sigillato.

— Da chi?

— Dai signori del palazzo comunale.

— Or su, disse tranquillamente Cornelio, si vede molto chiaro che siamo
spacciati.

— Sai, se la medesima precauzione sia stata presa dappertutto?

— Non lo so.

— Tira via, disse Giovanni al cocchiere, Dio comanda all’uomo che
faccia di tutto per conservare la vita; affrettati a un’altra porta.

Nel mentre che il cocchiere faceva voltare la carrozza:

— Grazie della tua buona volontà, amico mio, disse Giovanni al
portiere; l’intenzione vale quanto il fatto; tu avevi l’intenzione di
salvarci, e agli occhi del Signore gli è come ti fosse riescito.

— Ah! disse il portiere, vedete laggiù?

— Passa di galoppo a traverso di quel gruppo, gridò Giovanni al
cocchiere, e prendi la strada a sinistra; è la sola speranza.

Il gruppo, di cui intendeva parlare Giovanni, erasi formato intorno
ai tre uomini, che abbiamo veduto seguir con gli occhi la carrozza, e
che nel tempo che Giovanni parlamentò col portiere, eransi seco loro
riuniti in numero di sette o otto.

Que’ nuovi sopraggiunti avevano evidentemente intenzioni ostili
sul conto della carrozza; cosicchè vedendola venire di gran galoppo
incontro a loro, si sfilarono a traverso la strada, agitando i bastoni,
di cui erano armati e gridando:

— Ferma! ferma!

Dal suo canto il cocchiere chinato su i malti sferzavali a tutta possa,
talchè carrozza e uomini vennero a urtarsi tra loro.

I fratelli de Witt, chiusi nella carrozza non potevano nulla vedere;
ma sentirono inciampare i cavalli, e poi una violenta scossa. Vi fu un
momento di resistenza e di sussulto in tutto il legno in corsa, che
riprese la sua andata passando sopra a qualche cosa di rotondo e di
pieghevole somigliante a corpo d’uomo rovesciato; e che allontanavasi
in mezzo alle bestemmie.

— Oh! disse Cornelio, temo non si sia fatto un qualche male.

— Al galoppo! al galoppo! gridò Giovanni.

Ma malgrado quest’ordine il cocchiere ad un tratto fermossi.

— Ebbene? domandò Giovanni.

— Vedete? disse il cocchiere.

Giovanni guardò. Tutto il popolo del Buitenhof appariva alla estremità
della strada, che doveva seguire la carrozza, e avanzavasi urlante e
fremente come un oragano.

— Ferma e salvati, disse Giovanni al cocchiere; è inutile voler
proseguire; noi siamo perduti!

— Eccoli! eccoli! ripeterono mille voci.

— Sì, eccoli, i traditori! gli omicidii! gli assassini! rispondevano a
questi quelli che rimasti dietro alla carrozza, la seguivano, portando
sulle braccia il corpo pestato di uno dei compagni, il quale avendo
voluto avventarsi al morso dei cavalli, era stato da loro rovesciato.

I due fratelli aveano sentito l’intoppo e la scossa della carrozza,
passando sopra costui.

Il cocchiere fermossi, ma per quante istanze gli facesse il padrone,
non volle salvarsi. In un momento la carrozza rimase in mezzo a quelli
che la seguivano e a quelli che venivanle incontro; sicchè in mezzo a
quella folla agitata trovossi in un istante come un’isola ondeggiante.

Ad un tratto l’isola ondeggiante si arrestò. Un maresciallo percosse
di un colpo di mazza uno dei due cavalli, il quale cadde sul colpo. In
quel momento dall’imposta d’una finestra semiaperta comparve il viso
e gli occhi foschi del giovine, i quali fissavansi sullo spettacolo
che andava preparandosi. Dietro a lui vedevasi la testa dell’officiale
quasi pallido come il compagno.

— Oh! Dio! o Dio! mio signore, che succederà mai? mormorò l’officiale.

— Certamente qualche cosa tremenda, rispose colui.

— Oh! vedete, mio signore, strappano dalla carrozza il gran
Pensionario, lo percuotono, lo sbranano.

— In verità, bisogna bene che quella gente sia forte indignata,
replicò il giovane con la medesima impassibilità che aveva finallora
conservata.

— Ed ecco Cornelio tirato fuori della carrozza già tutto pesto, già
tutto stronco dalla tortura. Oh! guardate! guardate!

— Sì, è lui.

L’officiale mandò un grido doloroso, e volse lo sguardo.

Sull’ultimo gradino del montatoio, primachè avesse toccato terra, il
_ruward_ riceveva un colpo di una spranga di ferro, il quale aveali
spaccato la testa. Rialzossi nonostante per poi ricadere.

Quindi alcuni uomini prendendolo pe’ piedi tiravanlo tra la folla, in
mezzo a cui segnava una traccia sanguinosa, che veniva chiusa dalla
moltitudine baccante di gioia feroce.

Il giovine divenne anco più pallido, cosa che si sarebbe creduto
impossibile, e il suo occhio velossi un istante sotto la sua
palpebra. L’officiale vide quel moto di pietà, il primo che il suo
severo compagno si fosse lasciato sfuggire; e volendo profittare di
quell’ammollimento dell’anima:

— Venite, venite, mio signore, diss’egli, altrimenti assassinano ancora
il gran Pensionario.

Ma il giovine aveva già riaperto gli occhi:

— In verità, disse, questo popolo è implacabile. Non v’è da guadagnare
a tradirlo.

— Mio signore, disse l’officiale, ma non si potrebbe salvare quel
pover’uomo che ha educato l’Altezza Vostra? Se v’ha un mezzo, ditelo; e
vi dovessi perdere la vita....

Guglielmo d’Orange, che era lui, increspò la fronte in modo sinistro,
estinse il fosco lampo del suo furore che scintillava sulla sua
palpebra e rispose:

— Colonnello Van Deken, andate, vi prego, a raggiungere le mie truppe,
affinchè prendano le armi ad ogni evento.

— Ma che debbo dunque lasciarvi qui solo in mano di questi assassini?

— Non vi prendete cura di me più di quello che io non me ne prenda,
replicò seccamente il principe. Andate.

L’officiale partì con una rapidità, che più che l’obbedienza, mostrava
la gioia di non assistere all’odioso assassinio dell’altro fratello.

Non aveva egli ancora chiuso l’uscio della stanza che Giovanni il quale
con un ultimo sforzo aveva guadagnato lo scaglione di una casa posta
quasi dirimpetto a quella, dov’era nascosto il suo allievo, accennò
cadere sotto le percosse, che avventavanglisi da tutti i lati, dicendo:

— Mio fratello! dov’è mio fratello?

Uno di quei furibondi con un pugno fecegli saltare di testa il
cappello. Un altro mostravagli il sangue di cui aveva imbrattate le
mani; un terzo dopo avere sventrato Cornelio accorreva per non perdere
l’occasione di fare altrettanto al gran Pensionario, intantochè
strascinavasi alla forca il cadavere di quello che era già morto.

Giovanni gemè dolorosamente, e si copri gli occhi con le mani.

— Ah! tu chiudi gli occhi, disse un soldato della guardia paesana;
ebbene, te li voglio cavar’io!

E lo percosse nel viso con un colpo di picca, per cui spicciò il sangue.

— Fratello mio! esclamò il de Witt cercando di vedere ciò che fosse
accaduto di Cornelio, a traverso alli spilli di sangue che accecavanlo:
fratello mio!

— Va’ a raggiungerlo! urlò un altro assassino, appoggiandogli il
moschetto alla tempia, e scattando al grilletto. Ma il colpo non partì.
Allora l’omicida prendendo l’arme per la canna a due mani, percosse col
calcio Giovanni de Witt, che barcollò e cadde ai suoi piedi.

Ma con uno sforzo supremo rialzossi:

— Fratello mio! gridò con voce talmente lamentevole, che il giovine
chiuse l’imposta.

D’altronde restava poco più a vedersi, perchè un terzo assassino
per finirla scaricogli un colpo di pistola, che questa volta prese,
e fecegli saltare il cranio. Giovanni de Witt cadde per non più
rialzarsi.

Allora ognuno di quei miserabili fatti arditi della sua caduta scaricò
la sua arme sopra quel cadavere; ognuno volle dargli un colpo di
mazza, di spada o di coltello; ciascuno volle la sua goccia di sangue,
ciascuno un brano del suo vestito.

Poi, quando ambedue furono morti affatto, sbranati, spogliati, il
popolaccio strascinolli nudi e sanguinanti a una forca improvvisata,
dove furono sospesi pei piedi da carnefici dilettanti.

Allora arrivarono i più vigliacchi che, non avendo ardito colpire la
carne viva, spezzettarono la carne morta; e poi andarono a vendere per
la città quei piccoli pezzetti di Giovanni e di Cornelio a dieci soldi
l’uno.

Noi non possiamo affermare se a traverso la fessura della imposta il
giovine vedesse la fine di questa terribile scena; ma nel tempo stesso
che appendevansi alla forca i due martiri, egli traversava la folla
ormai troppo occupata della gioiosa bisogna ch’ella andava a compire
per occuparsi di lui; e guadagnava il Tol-Hek sempre serrato.

— Ah! signore, esclamò il portiere, che mi riportate la chiave?

— Sì, mio amico, eccola, rispose il giovine.

— Oh! gli è una gran disgrazia, che non me l’abbiate riportata una
mezza ora prima, il portiere soggiunse sospirando.

— E perchè? domandò il giovine.

— Perchè avrei potuto aprire ai signori de Witt, i quali avendo trovata
la porta chiusa, sono stati obbligati a tornare indietro, per cui sono
caduti in mezzo di quelli che perseguitavanli.

— La porta! la porta! gridò una voce che sembrava quella di un uomo che
avesse furia.

Il principe si volse e trovossi innanzi il colonnello Van Deken.

— Siete voi colonnello? diss’egli. Non siete ancor fuori di città? È un
servirmi adagio.

— Mio signore, rispose il colonnello, ecco la terza porta a cui mi sono
presentato, avendo trovate le altre chiuse.

— Ebbene! questo bravuomo ci sta aprendo questa.... Apri, amico, disse
il principe al portiere, il quale era restato a bocca aperta sentendo
il titolo di _mio Signore_, che dava il colonnello Van Deken a quel
giovine pallido, a cui egli aveva parlato con tanta familiarità. Talchè
per riparare al suo errore, affrettossi ad aprire il Tol-Hek, che
spalancossi cigolando sopra i suoi gangheri.

— Mio signore, vuol profittare del mio cavallo? domandò il colonnello a
Guglielmo.

— Grazie colonnello; a qualche passo di qui deve aspettarmi una
cavalcatura.

E prendendo un fischietto d’oro dalla sua tasca, cavò da quello
strumento, che a quell’epoca serviva per chiamare i domestici, un
sibilo acuto e prolungato, al cui echeggiare accorse uno scudiero a
cavallo, tenendo un altro cavallo a mano.

Guglielmo saltò in sella senza servirsi della staffa, e spronando
guadagnò la strada di Leyda. Giuntovi si rivolse indietro; ma il
colonnello seguivalo a rispettosa distanza. Allora il principe gli fece
segno che venisse seco del paro.

— Sapete voi, disse senza fermarsi, che quelle buone lame dopo avere
ucciso Cornelio hanno anche massacrato Giovanni de Witt?

— Ah! mio signore, disse tristamente il colonnello, amerei meglio per
voi che restassero ancora a superare que’ due intoppi per essere voi di
fatto Statolder di Olanda.

— Certo, sarebbe stato meglio che il successo non fosse successo; ma
alla fine dei conti quel che è fatto è fatto, e noi non ne siamo la
causa. Sproniamo presto, o colonnello, per arrivare a Alphen prima del
messaggio che certamente li Stati m’invieranno al campo.

Il colonnello piegò il capo, lasciò passare avanti il suo principe e
prese il posto che teneva prima che gli avesse diretto la parola.

— Ah! mi pare mill’anni, mormorò malignamente Guglielmo d’Orange,
aggrottando le ciglia, serrando le labbra, e ficcando li sproni nel
ventre al cavallo, mi par mill’anni di vedere la figura, che farà
Luigi[1] il Sole, quando accerterassi di qual maniera sono stati
trattati i suoi buoni amici de Witt! Oh! sole, sole, io mi chiamo
Guglielmo il Taciturno; sole, guarda a’ tuoi raggi!

E corse veloce sopra il suo buon cavallo quel giovine principe accanito
rivale del gran re, quello Statolder sì poco solido la vigilia ancora
nella sua potenza novella, ma che i paesani dell’Aya aveangli fatto un
montatoio coi cadaveri di Giovanni e di Cornelio, due nobili principi
tanto rimpetto agli uomini che a Dio.



V

L’amatore dei Tulipani e il suo vicino.


Intanto, mentrechè i paesani dell’Aya mettevano in pezzi i cadaveri
di Giovanni e di Cornelio, mentrechè Guglielmo d’Orange dopo essersi
assicurato che i suoi due antagonisti erano per certo morti, galoppava
sulla strada di Leyda seguito dal colonnello Van Deken, che egli
trovava un poco troppo compassionevole per continuargli la confidenza
di cui avealo onorato fin allora: Craeke servo fedele montato dal suo
canto sopra un buon cavallo e ben longi dal sospettare i terribili
avvenimenti che erano accaduti dopo la sua partenza, correva sugli
argini fiancheggiati di alberi finchè non fu fuori della città e dei
villaggi vicini.

Una volta in sicuro per suscitare sospetti lasciò il suo cavallo in
una stalla e continuò tranquillamente il suo viaggio in barchetta, che
lo menò a Dordrecht, passando destramente per le scorciatoie di quei
bracci sinuosi del fiume, i quali stringono accarezzando con umido
amplesso quelle isolette graziose fiancheggiate di salci, di giunchi
e d’erbe fiorite, le quali pascola a suo bell’agio il grasso armento
rilucente ai raggi del sole.

Craeke riconobbe da lungi Dordrecht, città ridente al piè della sua
collina seminata di molini; vide le belle case rosse a strisce bianche,
bagnanti nell’acqua i loro piedi di mattoni e facenti sventolare
dai balconi aperti sul fiume i loro tappeti di seta con fiori d’oro
a rilievo, meraviglie indiane e chinesi, e presso la gran linea dei
tappeti le reti permanenti per prendere le anguille voraci che attirano
intorno alle abitazioni le giornaliere immondezze che le cuoche gettano
nell’acqua dalle finestre.

Craeke dal ponte della barca a traverso a tutti quei molini ad ali
giranti, scorgeva al declive del poggio la casa bianca o rossa scopo
della sua missione. Ella nascondeva i comignoli del suo tetto tra’
fogliami giallastri di una siepe di pioppi, e spiccava dal fondo
scuro, che facevale un bosco d’olmi giganteschi. Ell’era situata di
tal maniera, che il sole piombando su lei come in un imbuto, vi veniva
a prosciugare, intiepidire e fecondare anche l’ultima guazza, che la
barriera di verdura non poteva impedire che mattina e sera non ve la
portasse il venticello del fiume.

Sbarcato in mezzo all’ordinario andirivieni della città, Craeke si
diresse prontamente verso la casa, della quale andiamo a presentare ai
nostri lettori una indispensabile descrizione.

Bianca, netta, rilucente, più propriamente lavata, più diligentemente
incerata nei quartieri nascosti, che in quelli aperti, questa casa
racchiudeva un mortale felice.

Quel mortale felice, _rara avis_ (la Fenice) come dice Giovenale, era
il dottore Van Baerle battezzato di Cornelio. Egli abitava la casa da
noi descritta fino dalla sua infanzia; perchè era la casa natale di suo
padre e del suo nonno, antichi nobili mercanti della nobile città di
Dordrecht.

Van Baerle padre aveva ammassato nel commercio delle Indie tre o
quattro cento mila franchi, che Van Baerle figlio aveva trovati tutti
nuovi nel 1668 alla morte de’ suoi buoni e cari parenti, benchè quei
fiorini non fossero tutti dello stesso millesimo, gli uni del 1640,
gli altri del 1610; il che provavano che v’erano fiorini del padre e
del nonno Van Baerle. Questi quattrocento mila fiorini, ci affrettiamo
a dirlo, non erano che la borsa, il denaro di tasca di Cornelius Van
Baerle, eroe di questa storia, chè le sue proprietà della provincia
davangli un’entrata di circa diecimila fiorini.

Allorchè il degno cittadino padre di Cornelio era per passare dalla
vita alla morte, tre mesi dopo i funerali di sua moglie, che sembrava
essere partita la prima per rendergli facile il cammino della morte,
com’ella aveagli reso facile il cammino della vita, egli aveva detto a
suo figlio, abbracciandolo per l’ultima volta:

— Bevi, mangia e spendi, se vuoi vivere realmente, perchè non è vivere
lavorare tutto il giorno sopra una seggiola di legno o sopra una
poltrona di pelle in un laboratorio o in un magazzino. Tu morrai la tua
volta, e se tu non hai la fortuna di non avere un figliuolo lascerai
estinguere il nostro nome, e i miei fiorini ammassati troverannosi ad
avere un padrone sconosciuto, que’ fiorini nuovi che nessuno ha mai
contati fuorchè mio padre, io e il monetiere. Soprattutto non imitare
il tuo padrino Cornelio de Witt, che si è gettato nella politica, la
più ingrata delle carriere, e che certamente finirà male.

Poi morì quel degno Van Baerle, lasciando tutto desolato il suo figlio
Cornelio, il quale amava pochissimo i fiorini, e moltissimo suo padre.
Cornelio restò dunque solo nella gran casa.

Invano il suo compare Cornelio gli offerse impiegarlo in servigi
pubblici; invano volle fargli gustare la gloria, quando Cornelio per
obbedire al suo padrino si imbarcò con il de Ruyter sul vascello _le
Sette Province_, il quale comandava a cento trentanove bastimenti, coi
quali l’illustre ammiraglio andava solo a bilanciare la fortuna di
Francia e d’Inghilterra riunite. Allorchè condotto dal pilota Lèger
giunse a un tiro di moschetto dal vascello _il Principe_, sul quale
trovavasi il duca di York fratello del re d’Inghilterra; allorchè
l’attacco di Ruyter suo principale fu sì fiero e sì abile, che il duca
d’York vedendo il suo bastimento vicino all’arrembaggio, ebbe appena
il tempo di salire a bordo del _S. Michele_; allorchè ebbe visto il
_S. Michele_ conquassato, traforato dalle palle olandesi, escire di
combattimento; allorchè ebbe visto saltare in aria un vascello, _il
Conte di Sanwick_, e perire tra i flutti o nel fuoco quattrocento
marinari; allorchè ebbe visto che dopo tutto questo, dopo aver messo in
pezzi venti bastimenti, dopo tre mila morti, dopo cinque mila feriti,
rimase indecisa da una parte e dall’altra, che ciascuno attribuivasi,
la vittoria, che bisognava ricominciare, e che solamente un nome di
più, la battaglia di Southwood-Bay, erasi aggiunto al catalogo delle
battaglie; quando egli ebbe calcolato quello che perda di tempo,
ammazzandosi gli occhi e gli orecchi un uomo che voglia riflettere
nel momento che i suoi simili si cannoneggiano tra loro: Cornelio
disse addio a Ruyter, al _ruward_ di Pulten e alla gloria, baciò le
ginocchia del gran Pensionario, ch’egli aveva in profonda venerazione,
e rientrato nella sua casa di Dordrecht, ricco del suo riacquistato
riposo, de’ suoi ventotto anni, di una salute di ferro, di una vista
acuta, e più che dei suoi quattro cento mila fiorini e de’ suoi
dieci mila fiorini di rendita, ricco della convinzione che un uomo ha
ricevuto dal cielo tanto per essere felice, molto per non esserlo.

In conseguenza per farsi una felicità a suo modo Cornelio si mise a
studiare i vegetabili e gli insetti, raccolse e classò tutta la flora
delle isole, appuntò tutta l’entomologia della provincia, sulla quale
compose un trattato manoscritto con tavole disegnate di sua mano, e
finalmente non sapendo più cosa farsi del suo tempo e soprattutto del
suo danaro, che andavasi accrescendo smisuratamente, si mise a cercare
tra tutte le follie del suo paese e dell’epoca sua una delle più
eleganti e delle più cortesi. Egli amò i Tulipani.

Era il tempo, come ognun sa, in cui i Fiamminghi e i Portoghesi,
invidiandosi tal genere d’orticoltura, erano arrivati a divinizzare
il Tulipano e a fare di questo fiore venuto dall’Oriente ciò che mai
nessun naturalista aveva osato fare della razza umana per paura di non
dare gelosia a Dio.

Ben presto da Dordrecht a Mons non si parlava d’altro che dei tulipani
del _mynheer_ Van Baerle, e le sue tavole, i suoi irrigatorii, le sue
stanze da prosciugare, le sue carte di cipollette furono visitate come
una volta le gallerie e le biblioteche di Alessandria dagli illustri
viaggiatori romani.

Van Baerle cominciò per spendere le sue rendite annuali a stabilire
la sua collezione, poi ad intaccare i suoi fiorini nuovi per
perfezionarla. Però la sua fatica fu ricompensata da un resultato
magnifico: ne trovò cinque specie differenti, che nominò la _Giovanna_
dal nome di sua madre, la _Baerl_ dal nome di suo padre, la _Cornelia_
dal nome del suo compare; gli altri nomi ci sfuggono, ma gli amatori li
possono ritrovare con tutta sicurezza nei cataloghi del tempo.

Nel 1672 al principio dell’anno Cornelio de Witt venne a Dordrecht per
starvi tre mesi nella sua antica casa di famiglia; perchè si sa che non
solo Cornelio era nativo di Dordrecht ma che la famiglia dei Witt era
originaria di quella città.

Cornelio cominciava allora, come diceva Guglielmo d’Orange, a godere
della più perfetta impopolarità; tuttavia per i suoi concittadini, i
buoni abitanti di Dordrecht, e’ non era ancora uno scellerato da forca,
e quantunque poco soddisfatti del suo repubblicanismo un poco troppo
puro, ma fieri del suo valor personale, vollero offrirgli il vino della
città alla sua entrata.

Dopo aver ringraziati i suoi concittadini, Cornelio andò a rivedere
la sua vecchia casa paterna e ordinò qualche acconcime prima che la
signora de Witt sua moglie vi si venisse a stabilire co’ suoi bambini.

Poi il _ruward_ si diresse verso la casa del suo figlioccio, che forse
era il solo a Dordrecht che ignorasse ancora la presenza del de Witt
nella sua città natale.

Quanto Cornelio de Witt aveva sollevato invidia maneggiando il mal
seme che chiamasi passione politica, tanto Van Baerle aveva accumulato
simpatie, trascurando completamente la coltura della politica, assorto
come gli era nella cultura dei suoi tulipani.

Però Van Baerle era prediletto da’ suoi domestici e da’ suoi operanti;
talchè egli non poteva supporre che esistesse al mondo un uomo che
volesse male a un altr’uomo.

E nulladimanco sia detto a vergogna della umanità, Cornelio Van Baerle
aveva senza saperlo un nemico ben altrimenti inferocito, ben altrimenti
arrabbiato, ben altrimenti irreconciliabile che fino allora non ne
avessero avuti il _ruward_ e il suo fratello tra gli orangisti i più
ostili a quell’ammirabile fratellevolezza, che senza nube durante la
vita prolungavasi per attaccamento al di là della morte.

Quando Cornelio cominciò a addarsi ai tulipani e vi gettò le sue
rendite annuali e i fiorini d’oro di suo padre, eravi a Dordrecht,
dimorando nella casa accanto, un certo paesano nominato Isacco Boxtel;
che dal giorno che aveva cominciato ad avere il lume della ragione,
aveva seguito la medesima inclinazione e andava in deliquio al solo
sentire la parola _tulban_, che a quanto ci assicura il _Fiorista
francese_ che è quanto dire lo storiografo il più sapiente di questo
fiore, è la prima parola che nel linguaggio dei Cordeglieri ha servito
a designare quel capo d’opera della creazione che si chiama tulipano.

Boxtel non aveva la fortuna d’esser ricco come Van Baerle; erasi dunque
fatto a grande stento e a forza di cure e di pazienza nella sua casa di
Dordrecht un giardino comodo alla coltura; avea manipolato il terreno
secondo le prescrizioni volute e dato a’ suoi postimi precisamente
tanto calore e frescura quanta ne prescrive il codice dei giardinieri.

Isacco sapeva quasi appuntino la temperatura delle sue cassette;
sapeva il peso del vento e lo cribrava in maniera da bilanciarlo giusto
giusto allo stelo de’ suoi fiori; talchè i suoi prodotti cominciavano
a piacere; ed erano belli e ricercati. Molti amatori erano venuti a
visitare i tulipani di Boxtel, che alla fine aveva lanciato nel mondo
dei Linnei e dei Tournefort un tulipano col suo nome. Questo tulipano
aveva viaggiato, traversata la Francia, entrando in Ispagna era
penetrato in Portogallo, dove il re don Alfonso VI il quale, cacciato
da Lisbona erasi ritirato nell’isola di Terzeira, ove divertivasi non
già come il gran Condè ad annaffiare aglietti, ma a coltivare tulipani,
aveva detto «NON C’È MALE» osservando il suddetto _Boxtel_.

Tutto ad un tratto in seguito di tutti li studi ai quali erasi
dedicato, la passione del tulipano avendo invaso Cornelio Van Baerle,
lo fece risolvere a modificare la casa di Dordrecht che, come abbiamo
detto, era vicina a quella di Boxtel, e fece alzare di un piano un
certo fabbricato d’in sulla corte, che con la elevazione tolse un mezzo
grado circa di calore e in iscambio rese un mezzo grado di freddo al
giardino di Boxtel, senza contare che diminuivagli la ventilazione,
sconcertava tutti i calcoli e tutta l’economia orticola del suo vicino.

Postutto non era questo il solo malanno agli occhi del vicino Boxtel.
Van Baerle non era che un pittore, quanto dire una specie di pazzo,
che cerca di riprodurre sulla tela, sfigurandole, le meraviglie della
natura. Il pittore faceva alzare di un piano il suo laboratorio per
aver luce migliore, ed era nel suo diritto. Van Baerle era pittore come
Boxtel filotulipaniere; voleaci sole pe’ suoi quadri; e prendevane un
mezzo grado ai tulipani di Boxtel.

La legge era per Van Baerle: _Bene sit_; ma d’altronde Boxtel aveva
scoperto che il troppo sole nuoce al tulipano, e che questo fiore
germoglia meglio e più colorito col tiepido sole del mattino o della
sera, che col brucente sole del mezzo giorno.

Ne seppe dunque quasi buon grado a Cornelio Van Baerle d’avergli
fabbricato gratis un parasole.

Forse non era tutt’affatto vero, e ciò che Boxtel diceva sul conto del
suo vicino Van Baerle, non era l’intera espressione del suo pensiero.
Ma le grandi anime trovano nella filosofia stupende risorse in mezzo
alle grandi catastrofi.

Ma ohimè! come divenne quello sfortunato Boxtel, quando vide i vetri
del piano novellamente fabbricato guarnirsi di cipollette, di talli,
di tulipani in vegetazione, di tulipani in postime, finalmente di tutto
ciò che concerne la professione di monomane Tulipaniere?

V’erano gl’involti galanti, v’erano le cassette, v’erano le buchette
a spartimenti e le reti di ferro destinate a chiudere le cassette per
rinnovarvi l’aria senza dare accesso ai topi, ai punteruoli, ai ghiri,
alle donnole e alle talpe, tutti curiosi amatori dei tulipani a duemila
franchi la cipolletta.

Boxtel fu fortemente sorpreso, allorchè vide tutto quel materiale, ma
non comprendeva ancora tutta la grandezza della sua disgrazia. Sapevasi
che Van Baerle era amico di tutto ciò che rallegrasse la vista;
studiava a fondo la natura per i suoi quadri, finiti come quelli di
Gherardo Dow suo maestro e di Mièris suo amico. Non poteva darsi che
volendo dipingere l’interno di un Tulipaniere, avesse ammassato nel suo
nuovo studio tutti gli accessorii della decorazione?

Intanto, benchè uccellato da questa lusinghiera idea, Boxtel non poteva
resistere all’ardente curiosità che lo divorava. Venuta la sera, egli
appoggiò una scala al muro a confine e spiando là il suo vicino Baerle,
si convinse che la terra di un quadrato smisurato, popolato poco fa di
piante differenti, era stata rimescolata e deposta in tante caselle di
terriccio mischiato di belletta di fiume, composizione essenzialmente
simpatica ai tulipani, il tutto rinforzato di piote per impedirne i
riscaldamenti. Inoltre sole di levante, sole di ponente, ombra fatta in
maniera da smussare il caldo del meriggio; acqua abbondante prossima,
esposizione al sud-sud-ovest, condizioni di necessità di mezzo non solo
per la riuscita, ma per il progresso. Non più dubbio, Van Baerle era
diventato tulipaniere.

Boxtel figurassi su due piedi quel sapiente dai quattrocentomila
fiorini di contante, dai diecimila fiorini di rendita, impiegante
le sue risorse morali e fisiche alla cultura in grande dei tulipani.
Ne travide il successo in un vago ma non lontano avvenire, e concepì
anticipatamente un tal dolore, che le sue mani rilassandosi, le sue
ginocchia piegandosi, ei disperato rotolò giù dalla sua scala.

Cosicchè non era pe’ tulipani dipinti, ma pe’ tulipani reali che Van
Baerle toglievagli un mezzo grado di calore; e di più aveva la più
ammirabile delle esposizioni solari e una vasta stanza, dove conservare
le sue cipollette e i suoi talli; stanza luminosa, ariosa, ventilata,
ricchezze interdette a Boxtel, che era stato costretto di consacrare
a quest’uso la sua camera, e che per non nuocere con l’influenza
degli spiriti animali ai suoi talli e ai suoi ovoletti aveva fatto la
privazione di dormire in granaio.

Così uscio a uscio, muro a muro Boxtel andava ad avere un rivale,
il quale invece di essere un giardiniere oscuro, sconosciuto, era il
figlioccio di messer Cornelio de Witt, quanto dire una celebrità.

Boxtel, si vede bene, aveva lo spirito men generoso di Poro, che
consolavasi d’essere stato vinto dal grande Alessandro, precisamente a
cagione della celebrità del suo vincitore.

Difatti che accaderebbe se mai Van Baerle trovasse un nuovo tulipano
e lo nominasse _Giovanni de Witt_ dopo averne nominato un altro la
_Cornelia_? Sarebbe lo stesso che crepare di rabbia.

Così nella sua previdenza invidiosa Boxtel profeta del suo male,
indovinava quello che sarebbe accaduto. Per lo chè fatta questa
scoperta, egli passò una notte la più esecrabile a immaginarsi.



VI

L’odio di un Tulipaniere.


Da questo momento invece di una preoccupazione Boxtel ebbe una paura.
Tutto ciò, che dà vigore e nobiltà agli sforzi del corpo e dello
spirito, la cultura di un’idea favorita, Boxtel la perdette, macinando
tutti li svantaggi, che causavagli il progetto del vicino.

Van Baerle, come si può pensare, dal momento che intese a questo scopo
la perfetta intelligenza, di cui avealo dotato la natura, riuscì ad
allevare i più bei tulipani.

Meglio degli orticultori dell’Aya e di Leida, città che offrono i
terreni migliori e il clima il più sano, Cornelio riuscì a variarne i
colori, a modificarne le forme, a moltiplicarne le specie.

Egli era di quella ingegnosa e originale scuola del secolo XVII la
quale prese per divisa questo aforismo sviluppato nel 1653 da uno dei
suoi adetti:

_È disprezzare Dio il disprezzare i fiori._

Premessa di cui la scuola tulipaniera, la più esclusiva delle scuole,
fece nel 1653 il seguente sillogismo:

_È disprezzare Dio il disprezzare i fiori._

_Più il fiore è bello, più disprezzandolo si offende Dio._

_Il tulipano è il più bello di tutti i fiori._

_Dunque chi disprezza il tulipano offende smisuratamente Dio._

Col qual ragionamento, si vede bene, se aiutato da cattiva volontà, i
quattro o cinquemila tulipanieri di Olanda, di Francia e di Portogallo
senza contare quelli del Ceylan, dell’India e della Cina, avrebbero
messo l’universo fuori della legge e dichiarato scismatici, eretici e
degni di morte più centinaia di milioni di uomini freddi pel tulipano.

Non v’è dubbio nessuno che Boxtel per simile cagione, quantunque nemico
mortale di Van Baerle, non avesse militato sotto la medesima bandiera.

Dunque Van Baerle ottenne numerosi successi e fece parlare di sè tanto,
che Boxtel disparve affatto dalla lista dei notabili tulipanieri
dell’Olanda, e che la tulipaneria di Dordrecht fu rappresentata da
Cornelio Van Baerle, modesto e inoffensivo sapiente.

Similmente dal fusto il più umile la gemma fa germogliare i rampolli i
più superbi, e la rosa canina dai quattro pètali incolori dà vita alla
rosa gigantesca e profumata. Così le case reali hanno preso qualche
volta nascimento dalla taberna di un beccaio o dalla capanna d’un
pescatore.

Van Baerle dedicato tutto ai lavori di semente, di piantagioni e di
ricotte, carezzato da tutti i tulipanieri di Europa, non sospettava
neppure per idea, che accanto a lui vi fosse un disgraziato tolto
di piedistallo, di cui egli era l’usurpatore. Egli continuò le sue
esperienze e per conseguenza le sue vittorie, e in due anni coperse le
sue caselle di oggetti talmente maravigliosi, che nessuno mai, eccetto
forse Shakspeare e Rubens, dopo Dio aveane tanti creati.

Bisognava per avere un’idea d’un dannato dimenticato da Dante, vedere
Boxtel in quel tempo. Mentre che Van Baerle sarchiava, sugava,
innaffiava le sue caselle; mentre che inginocchiato sulle piote
erbose analizzava ogni vena del tulipano in fioritura e meditava le
modificazioni che vi si potevano fare, i maritaggi dei colori, che vi
si potevano sperimentare, Boxtel nascosto dietro un piccolo sicomoro,
che avea piantato lungo il muro, e di cui facevasi un ventaglio,
seguiva con gli occhi gonfi, con la bocca spumante, ogni passo,
ogni gesto del suo vicino; e quando credeva vederlo gioioso, quando
sorprendeva un sorriso sulle di lui labbra, un lampo di contentezza
nei di lui occhi, allora scagliavagli tante maledizioni, tante minacce
furibonde, che non potevasi concepire, come quei soffi appestati
d’invidia e di collera non andassero infiltrandosi negli steli dei
fiori, a portarvi principii di scadimento e germi di morte.

Ben presto, tanto il male una volta padrone di un’anima umana favvi
rapidi progressi, Boxtel non gli piacque di veder più Van Baerle; ma
volle vedere però i suoi fiori. Egli in fondo era artista, e stavangli
a cuore i capi d’opera di un rivale.

Egli comprò un telescopio, coll’aiuto del quale poteva seguire, bene
quanto il proprietario ciascuna rivoluzione del fiore dal momento che
germoglia nel primo anno il suo pallido rampollo fuori di terra fino a
che dopo aver compito il suo periodo di cinque anni ei rotondeggia il
suo nobile e grazioso cilindro, sul quale apparisce l’incerta vicenda
del suo colore e si sviluppano i petali del fiore, che allora soltanto
rivela i segreti tesori del suo calice.

Oh! quante volte lo sfortunato invidioso, montato sulla sua scala,
vide nelle caselle di Van Baerle tulipani che abbagliavano con la loro
beltà, soffocavano per la loro perfezione!

Allora, dopo il periodo di ammirazione ch’egli non poteva vincere, lo
dibatteva la febbre dell’invidia, male che rode gl’intestini e che
cangia il cuore in una miriade di serpentelli, che divoransi l’un
l’altro, sorgente infame di orribili dolori.

Qualche volta in mezzo ai suoi martirii, di cui descrizione nessuna
potrebbe darne un’idea, Boxtel fu tentato di saltare di notte nel
giardino, di sperperarvi le piante, di stritolare coi denti le cipolle
e di sacrificare alla sua collera lo stesso proprietario se avesse
osato difendere i suoi tulipani.

Ma uccidere un tulipano agli occhi di un vero orticultore è un delitto
troppo spaventevole! Uccidere un uomo meno assai.

Intanto in grazia dei progressi che faceva ogni giorno Van Baerle nella
scienza, che egli sembrava indovinare per istinto, Boxtel montò in tal
parossismo di furore, che meditò di gettare pietre e randelli nelle
caselle dei tulipani del suo vicino.

Ma siccome riflettè che l’indomani alla vista del guasto Van Baerle
farebbe il referto che si costaterebbe, essendo la strada lontana, che
pietre e randelli non potevano cadere dal cielo nel XVII secolo, come
ai tempi degli Amaleciti: che l’autore del delitto, benchè consumato
nella notte, sarebbe scoperto e non solo punito dalla legge ma
disonorato ancora per sempre agli occhi dell’Europa tulipaniera; perciò
Boxtel assottigliò l’odio con la frode, risolvendo impiegare un mezzo
che non lo potesse compromettere. Lo cercò, è vero, per un pezzo, ma
alfine trovollo.

Una sera attaccò due gatti per un piede di dietro con una funicella
lunga dieci piedi, e gettolli dall’alto del muro in mezzo della casella
maestra, della casella principesca e della casella reale, la quale
conteneva non solo la _Cornelia de Witt_, ma anco la _Brabaziana_
bianca lattata, porporina e rosacea, la _Marbrèa_ di Rotre color panno
greggio, rossa e incarnata accesa, e la _Meraviglia_ di Harlem, il
tulipano _Tortora scuro_ e _Tortora chiaro sbiadito_.

Quegli animali inferociti precipitando dall’alto del muro, ruzzolarono
dapprima sulla casella, ciascuno dal canto suo cercando di fuggire,
tantochè il filo che tenevali uniti, fu teso; ma allora sentendo la
impossibilità dell’allontanarsi, vagarono qua e là con spaventevoli
miagolati, troncando con la corda i fiori, in mezzo ai quali
dibattevansi; poi finalmente dopo un quarto d’ora di lotta accanita,
essendo giunti a strappare il filo, che accoppiavali, disparvero.

Boxtel nascosto dietro il suo sicomoro non vedeva nulla a cagione della
oscurità della notte; ma al grido arrabbiato dei gatti si figurò tutto,
e il suo cuore traboccante di fiele riempissi di gioia.

Il desiderio di assicurarsi del guasto commesso era sì grande nel cuore
di Boxtel che restò fino a giorno per godere con gli occhi proprii
dello stato, in cui la lotta dei due gattacci avesse messo la casella
del suo vicino.

Egli era gelato per la brina mattinale; ma non sentiva il freddo,
perchè scaldavalo la speranza della vendetta. Il crepacuore del suo
rivale l’avrebbe ricompensato di tante sue pene.

Ai primi raggi del sole si aperse la porta della casa bianca; Van
Baerle mostrossi, e si avvicinò alle sue caselle, sorridendo come un
uomo che ha riposato nel suo letto, e che vi ha fatto dei buoni sogni.

Tutto a un tratto s’accorse dei solchi e dei monticelli su quel terreno
che la vigilia avea lasciato pari come uno specchio; tutto a un tratto
si accorse che le file simmetriche de’ suoi tulipani erano scomposte,
come sono le picche di un battaglione in mezzo a cui sia caduta una
bomba. Tutto pallido accorse; e Boxtel trasalì di contento.

Quindici o venti tulipani sminuzzati, pestati giacevano curvi o tronchi
affatto già appassiti; colava il latte dalle loro ferite, il latte,
prezioso sangue che Van Baerle avrebbe voluto ricomprare a prezzo del
proprio.

Ma oh! sorpresa! oh! gioia di Van Baerle! oh! dolore inesplicabile
di Boxtel! neppur’uno dei quattro tulipani minacciati dall’attentato
dell’ultimo erano stati tocchi; e alzavano superbamente le loro nobili
teste sopra i cadaveri dei loro compagni. Ciò era molto per consolare
Van Baerle, ciò era molto per far crepare di rabbia l’assassino, che
stracciavasi i capelli alla vista del suo commesso delitto e commesso
inutilmente.

Van Baerle, deplorando la sciagura che colpivalo, sciagura che per
grazia di Dio era del resto meno grande che non avrebbe potuto essere,
non potè indovinarne la causa. Informossi solo, e intese tutta la
notte era stata turbata da terribili miagolati. Di fatti ci conobbe che
v’erano passati dei gatti per le tracce improntate da’ loro artigli,
per il pelo lasciato sul campo di battaglia, sul quale le gocce
impassibili della rugiada tremolavano come facevano accanto sopra le
foglie di un fiore calpestato; onde per evitare che un simile malore si
rinnovasse in avvenire, ordinò che un garzone giardiniere dormisse ogni
notte nel giardino dentro un casotto presso la casella.

Boxtel sentì dare l’ordine. Egli vide fare il casotto quel giorno
medesimo, e troppo fortunato di non essere stato preso in sospetto,
ma però più invelenito contro quel felice orticultore, attese migliori
occasioni.

Ciò accadde verso l’epoca che la società tulipaniera di Harlem propose
un premio per chi scoprisse, noi non osiamo dire, per chi fabbricasse
il gran Tulipano Nero, però senza vergature, problema non risoluto
e riguardato come insolubile, se si consideri che a questa epoca la
specie non esisteva neppure allo stato del bistro in natura. Il che
faceva supporre a ognuno che i promotori del primo avrebbero potuto
eziandio assegnare due milioni invece di cento mila lire; tanto la cosa
era impossibile.

Il mondo tulipaniero non fu meno compreso di stupore di una tale
proposta. Pure alcuni amatori ne presero l’idea, ma senza credere
alla sua applicazione. Nulladimeno è tale la potenza immaginaria degli
orticultori, che riconosciuta fin da principio senza fondamento la loro
speculazione, non pensassero al momento che al gran tulipano nero,
reputato chimera come il cigno nero d’Orazio e come il merlo bianco
della tradizione francese.

Van Baerle fu uno dei tulipanieri, che ne prendesse l’idea; Boxtel
fu uno di quelli, che si attennero alla speculazione. Dal momento che
Van Baerle si ficcò tale idea nella sua testa perspicace e ingegnosa,
cominciò la sementa e le operazioni necessarie per condurre dal rosso
al bruno e dal bruno al bruno assoluto, i tulipani che aveva finallora
coltivati.

L’anno innanzi aveva ottenuto prodotti di un bistro perfetto, e Boxtel
li vide nella di lui casella, mentrechè egli non aveva trovato ancora
che il bruno chiaro.

Sarebbe forse importante spiegare ai lettori le belle teorie, che
consistono a provare che il tulipano impronta agli elementi i suoi
colori; ci si saprebbe forse buon grado lo stabilire che niente sia
impossibile all’orticultore, che mette a contribuzione, non già la
sua pazienza e il suo genio, ma la freschezza delle acque, i succhi
della terra, lo spirare dell’aria e il calore del sole. Ma questo non
è un trattato sul tulipano in generale, è la storia di un tulipano in
particolare che noi ci siamo risoluti di scrivere; noi faremo punto per
quanti attraenti vi potessero essere sul proposto soggetto.

Boxtel vinto anche una volta dalla superiorità del suo nemico,
disgustossi della cultura, e mezzo pazzo dedicossi tutto alla
osservazione.

La casa del suo rivale era dominata. Giardino aperto al sole, gabinetto
vetriato visibile; visibili cassette, armarj, involti e etichette,
alle quali il canocchiale giungeva facilmente. Boxtel lasciò perire le
cipollette nei loro postimi, seccare i semi nelle loro casse, morire i
tulipani nelle cassette, e ormai vivendo solo per vedere, non si occupò
che di quello che accadeva presso Van Baerle, sospirando a’ bei steli
dei di lui tulipani, dissetandosi con l’acqua che loro gettavasi, e
saziandosi della terra molle e fine che sovrapponeva il suo vicino alle
sue benamate cipollette.

Ma la più curiosa delle operazioni non operavasi nel giardino. Suonava
il tocco dopo la mezzanotte; e Van Baerle saliva al laboratorio nel
suo gabinetto invetriato, dove il canocchiale di Boxtel giungeva
benissimo, e là mercè la lucerna del sapiente facente le veci del lume
diurno, la quale illuminava muro e finestre, dava possibilità di veder
funzionare il genio inventivo del rivale. Boxtel lo vedeva manipolante
i suoi semi e umettanteli di sostanze destinate a modificarli o
a colorirli; e osservavalo attentamente, quando riscaldando certi
suoi semi, bagnandoli poi, poi combinandoli con altri con una specie
d’innesto, operazione minuziosa e maravigliosamente accorta, chiudeva
allo scuro quelli, che dovevano dare il color nero, esponeva al sole o
al lume quelli che dovevano dare il color rosso, metteva ad un continuo
reflesso dell’acqua quelli che dovevano fornire il bianco, candida
rappresentanza ermetica dell’umido elemento.

Questa magia innocente, frutto delle visioni infantili e del genio
virile uniti insieme, questa paziente occupazione continua, della quale
Boxtel riconoscevasi incapace, faceva sì che l’invidioso versasse nel
canocchiale tutta la sua vita, tutto il suo pensiero, tutta la sua
speranza.

Cosa strana! tanto interesse e l’amor proprio dell’arte non avevano
estinto in Isacco l’invidia feroce e l’assetata vendetta. Qualche volta
avendo sotto il suo canocchiale Van Baerle, era preso dalla illusione
d’imberciarlo con un moschetto infallibile, e cercava col dito il
grilletto per esplodere il colpo che lo doveva uccidere. Ma è tempo che
riattacchiamo a quest’epoca delle fatiche dell’uno e dello spionaggio
dell’altro la visita, che Cornelio de Witt, _ruward_ di Pulten, faceva
alla sua città natale.



VII

L’uomo felice fa conoscenza con l’infelicità.


Cornelio dopo avere sbrigato gli affari di famiglia, arrivò dal suo
figlioccio Cornelio Van Baerle nel mese di gennajo 1672.

Facevasi notte. Cornelio benchè assai poco orticultore, benchè assai
poco artista, visitò tutta la casa, poi l’opificio fino ai tepidarii, e
poi i quadri fino ai tulipani. Ei ringraziò il suo figlioccio d’essersi
esposto sul ponte dell’ammiraglia _le Sette Province_ durante la
battaglia di Southwood-Bay e di aver dato il suo nome a un magnifico
tulipano; e tutto ciò con la compiacenza e l’affabilità di un padre
per un figlio. Ed infrattanto, che egli ispezionava così i tesori di
Van Baerle, la folla curiosa stava con rispetto alla porta dell’uomo
felice.

Tutto quel frastuono svegliò l’attenzione di Boxtel, che se ne stava
presso al fuoco. S’informò di ciò che fosse, lo seppe, e svignò al
suo laboratorio, dove malgrado il freddo s’istallò con l’occhio al
canocchiale.

Questo canocchiale non gli era più di una grande utilità dopo
l’autunno del 1671; perchè i tulipani freddolosi come tutti i veri
figli dell’Oriente, non potevansi coltivare a cielo aperto nel tempo
d’inverno. Eglino hanno di bisogno dell’interno della casa, del
letto delicato delle cassettine, e delle dolci carezze della stufa.
Però tutto l’inverno passavalo Cornelio nel suo laboratorio in mezzo
ai libri ed ai suoi quadri. Raramente andava nella stanza delle
cipollette, se non nel caso di farvi penetrare qualche po’ di sole,
appena presentassesi, che faceva cadere, aprendo una ribalta di vetri,
volesse o non volesse, dentro quel recinto.

La sera, di cui noi parliamo, dopochè il de Witt e Cornelio avevano
insieme visitato gli appartamenti, seguiti da alcuni domestici:

— Figlio mio, disse sottovoce Cornelio a Van Baerle, licenziate questa
gente e permettete che restiamo alcuni momenti soli.

Cornelius fece cenno di obbedire; e poi a voce alta:

— Signore, vi piacerebbe, disse Van Baerle, di visitare adesso il mio
prosciugatoio dei tulipani?

Il prosciugatoio, questo _Pandemonio_ della tulipanerìa, questo _santo
santorum_, era già come in Delfo interdetto ai profani.

Nessun servo mai aveavi messo il piede audace, come avrebbe detto
il gran Racine, che fioriva a quest’epoca. Cornelius non vi lasciava
penetrare che la granata inoffensiva di una vecchia servente frisiana,
già sua balia, la quale dacchè Cornelius erasi dedicata al culto dei
tulipani, non osava mettere più cipollette negli stracotti per paura di
scorticare e di assassinare gli Dei del suo allattato.

Cosicchè alla sola parola di _prosciugatoio_, i servi che portavano i
doppieri si allontanarono rispettosamente. Cornelius prese la candela
di mano del più vicino e precedette il suo compare nella stanza.

Aggiunghiamo a ciò che siamo per dire, che il prosciugatoio era quello
stesso gabinetto invetriato, sul quale Boxtel puntava incessantemente
il suo canocchiale.

L’invidioso era più che mai immobile al suo posto. Ei vide dapprima
rischiarare le mura e le vetrate, e poi apparire due ombre. L’una
d’esse maestosa, grande, severa si assise presso la tavola, dove
Cornelio avea depositalo la candela. In quest’ombra Boxtel riconobbe
il viso pallido di Cornelio de Witt, i cui lunghi capelli neri divisi
sulla fronte cadevano sulle sue spalle.

Il _ruward_ di Pulten dopo aver detto a Cornelius alcune parole, di
cui l’invidioso non potè comprenderne il senso al movimento delle
labbra, cavò di seno un involto bianco diligentemente chiuso, e glie lo
porse; il quale involto Boxtel al modo con cui Cornelius lo prese e lo
depose in un armadio, sospettò potessero essere fogli della più grande
importanza.

Egli dapprima pensò che quell’involto prezioso racchiudesse qualche
tallo nuovamente venuto dal Bengala o dal Ceylan; ma avea ben tosto
pensato che Cornelio punto coltivava i tulipani e non occupavasi
d’altro che dell’uomo, cattiva pianta, molto meno gradevole a vedersi e
soprattutto ben più difficile a farsi fiorire.

Fermossi dunque a questa idea che quell’involto contenesse puramente
e semplicemente fogli riguardanti politica. Ma perchè dare dei fogli
riguardanti politica a Cornelius, che non solo era, ma si vantava
essere tutt’affatto estraneo a quella scienza ben più oscura a suo
parere della chimica e dell’alchimìa ancora?

Senza dubbio era un deposito che Cornelio già minacciato dalla
impopolarità, di cui cominciavano a onorarlo i suoi compatriotti,
consegnava al suo battezzato Van Baerle; e la cosa era tanto più
probabile per parte del _ruward_ per la certezza che presso Cornelius
estraneo ad ogni intrigo non sarebbesi pensato a inquisire un simile
deposito.

D’altronde se l’involto avesse contenuto cipollette, Boxtel conosceva
il suo vicino, che non si sarebbe potuto tenere senza dubbio come
appassionato amatore di non guardare e apprezzare il presente che
venivagli fatto.

Invece al contrario Cornelius ricevette rispettosamente il deposito
dalle mani del _ruward_, e sempre rispettosamente riposelo in un
armadio, ma però in fondo, certamente perchè non si potesse vedere in
primo punto, e in secondo perchè non occupasse molto posto riserbato
alle sue cipollette.

Appena riposto l’involto, Cornelio de Witt alzossi, e stretta la mano
al suo figlioccio s’incamminò verso la porta. Van Baerle prese in
fretta la candela, e gli corse innanzi per fargli gentilmente lume.

Allora il chiarore insensibilmente si estinse nel gabinetto invetriato
per andare a ricomparire nella scala, poi sotto il vestibolo e
finalmente nella strada, ancora ingombrata di gente, che volevano
vedere rimontare in carrozza il _ruward_.

L’invidioso non erasi punto ingannato nelle sue supposizioni; che il
deposito accuratamente consegnato fosse la corrispondenza di Giovanni
con il de Louvois. Solamente tale deposito era stato consegnato,
come poi Cornelio disse al fratello, senzachè ne facesse neppure alla
lontana sospettare l’importanza politica al suo figlioccio.

La sola raccomandazione che gli fece, fu di non consegnare il deposito
che a lui, o con un ordine suo in iscritto, qualunque si fosse la
persona che venisse a ricercarlo. E Van Baerle, come abbiamo visto,
aveva chiuso il deposito nell’armadio delle cipollette rare.

Poi, il _ruward_ partito, brusìo e chiarore estinti, il nostro
galantuomo non aveva più pensato a quell’involto, al quale però pensava
fissamente Boxtel, che simile all’esperto pilota vedeva in quello la
nuvoletta lontana e microscopica, che ingrandisce camminando e che
chiude in seno l’uragano.

Ed ora ecco tutti i germi della nostra storia piantati nel grasso
terreno che estendesi da Dordrecht all’Aya. La segua chi vuole nei
successivi capitoli; che quanto a noi non per altro ci siamo fin qui
allungati se non per provare che nè Cornelio nè Giovanni de Witt non
ebbero in tutta Olanda un più feroce nemico di quello che Van Baerle
aveva nel suo vicino Isacco Boxtel.

Tuttavolta il tulipaniere vivendo di tutto ciò allo scuro, aveva fatto
cammino verso la meta proposta della società di Harlem, ed era passato
dal tulipano bistro al tulipano caffè bruciato. Ora tornando a lui nel
giorno medesimo, che succedeva all’Aya il grande avvenimento da noi
già raccontato, lo ritroviamo verso il tocco dopo mezzogiorno levare
dalla sua casella le cipollette ancora infruttifere di una semenza da
tulipani caffè bruciato, la cui fioritura fino a quel momento abortita
era fissata al principio dell’anno 1673, la quale non poteva mancare di
dare il gran tulipano nero richiesto dalla società di Harlem.

Il 20 agosto 1672 al tocco dopo mezzogiorno Cornelio era dunque nel suo
prosciugatoio co’ piedi sulla traversa della sua tavola, co’ gomiti
sul tappeto, considerando con deliziosissima curiosità tre talli che
separava dalla cipolletta: talli puri, perfetti, intatti, primordii
impagabili di uno dei più maravigliosi prodotti della scienza e della
natura, uniti in tale combinazione, la cui riuscita doveva illustrare
per sempre il nome di Cornelio Van Baerle.

— Sì, troverò il gran tulipano nero, diceva tra sè Cornelio, separando
i talli; mi toccheranno i cento mila fiorini del premio proposto, che
io distribuirò ai poveri di Dordrecht; e in questo modo l’ira che ogni
ricco ispira nelle guerre civili, acquieterassi, e così io potrò senza
punto temere dei repubblicani o degli orangisti, continuare a tenere
le mie casellette in magnifico stato. Non temerò più che in un giorno
di sommossa i bottegai di Dordrecht e i marinai del porto vengano a
sbarbare le mie cipollette per nutrire le loro famiglie, come mi sono
qualche volta sentito sussurrare dietro, quando sia stato loro referito
che ho comprato una cipolletta per due o trecento fiorini. Io donerò
dunque, sta fermo, i cento mila fiorini di premio ai poveri; benchè....

E a questo _benchè_ Cornelio Van Baerle fece una pausa e sospirò.

— Benchè, riprese, que’ centomila fiorini applicati all’ingrandimento
del mio plantario oppure ad un viaggio nell’Oriente patria de’ bei
fiori sarebbe una spesa ben più dolce. Ma ohimè! non v’è luogo a
pensare a tutto questo; moschetti, bandiere, tamburi e proclami, ecco
ciò che domina al presente!

Van Baerle levò gli occhi al cielo e sospirò; poi chinò il suo sguardo
verso le sue cipollette, che nel suo spirito andavano bene innanzi ai
moschetti, ai tamburi, alle bandiere e ai proclami tutte cose solo atte
a turbare lo spirito di un galantuomo:

— Ecco intanto dei graziosissimi talli, riprese; come sono lisci, come
ben fatti; hanno una tale aria melanconica, che promette assolutamente
il nero al mio tulipano! Sotto la loro pelle le vene di circolazione
non si vedono ancora ad occhio nudo! Oh! dicerto non una macchiolina
guasterà la veste di doglia del fiore che dovrammi i suoi giorni...
Come chiamerassi questa figlia delle mie veglie, della mia fatica, del
mio pensiero? _Tulipa nigra Barlaeensis_.

«Sì, _Barlaeensis_; che bel nome! Tutta l’Europa tulipaniera, quanto
dire tutta l’Europa intelligente, sarà sorpresa, quando il rumore
trascorrerà su i venti ai quattro punti cardinali del globo: IL GRAN
TULIPANO NERO È TROVATO! — Il suo nome? domanderanno gli amatori. —
_Tulipano nero Barlaeense_. — Perchè _Barlaeense_? — A cagione del suo
inventore Van Baerle, sarà risposto. — E chi è questo Van Baerle? — È
quello stesso che ha già trovato cinque specie nuove: _la Giovanna, la
Giovanni de Witt, la Cornelia_, ecc. Ebbene, ecco la mia ambizione: non
costerà una lacrima di chicchessia; e parlerassi ancora della _Tulipa
nigra Barlaeensis_ quando forse il mio compare così sublime politico
non sarà più conosciuto che pel tulipano al quale ho già dato il suo
nome.

«Che talli graziosi!...

«Quando il mio tulipano avrà fiorito, continuò Cornelio, io voglio,
se la tranquillità sarà tornata in Olanda, dare ai poveri soli
cinquantamila fiorini; alla fin fine non è mica poco per un uomo che
non è po’ poi obbligato a niente. Allora co’ cinquantamila fiorini
farò nuove sperienze; con que’ cinquantamila fiorini voglio arrivare
a profumare il tulipano. Oh! se potessi arrivare a dare al tulipano
l’odore della rosa o del garofano, oppure un odore affatto nuovo,
che sarebbe ancor meglio. Se io rendessi a questa regina dei fiori il
generico natural profumo, che ella ha perduto passando dal suo trono
d’Oriente sul suo trono europeo, quello che deve avere nella penisola
dell’India, a Goa, a Bombay, a Madras, e soprattutto in quell’isola,
che una volta, come ci si assicura, fu il paradiso terrestre e che si
chiama Ceylan, oh! qual gloria sarebbe! Amerei meglio, lo confesso,
amerei meglio allora essere Cornelio Van Baerle che Alessandro, Cesare
o Massimiliano.

«Che talli ammirabili!...»

E Cornelio si dilettava nella sua contemplazione e tutto si assorbiva
nei sogni i più dolci; quando all’improvviso il campanello del suo
gabinetto fu suonato più forte del solito. Ei trasalì, stese la mano
sopra i suoi talli e si volse.

— Chi è? domandò.

— Signore, rispose il servitore, è un espresso dall’Aya.

— Un espresso dall’Aya... Che vuol’egli?

— Signore, è Craeke.

— Il cameriere di confidenza del signor Giovanni de Witt? — Bene! Che
aspetti.

— Non posso aspettare, disse una voce nel corridoio.

E nel tempo medesimo senza permesso Craeke si precipitò nel
prosciugatoio.

Questa apparizione che puzzava di violenza, era una tale infrazione
alle abitudini stabilite nella casa di Cornelio Van Baerle, che
costui scorgendo Craeke precipitantesi nella stanza, fece un tal moto
convulsivo con la mano, che copriva i talli, da far saltar via due
cipollette, una sotto al tavolino vicino alla gran tavola, e l’altra
nel cammino.

— Ah diavolo! disse Cornelio precipitandosi dietro alle sue cipolle;
che v’è dunque, o Craeke?

— V’è, signore, rispose Craeke, depositando il foglio sulla gran
tavola, dov’era rimasta la terza cipolletta: v’è che voi siete invitato
a leggere questo foglio senza perdere un solo istante.

E Craeke che avea creduto rimarcare nelle vie di Dordrecht i sintomi
di un tumulto simile a quello, che avea poco fa lasciato all’Aya, fuggì
senza volgersi indietro.

— Bene! bene! mio caro Craeke, disse Cornelio stendendo il braccio
sotto la tavola per raccogliervi il tallo prezioso; la leggerò, la tua
lettera.

Poi raccogliendo la cipolletta, che messe nel cavo della sua mano per
esaminarla:

— Buono! disse, eccone già una intatta. Demonio di Craeke, veh! entrar
così nel mio prosciugatoio. Vediamo l’altra.

E senza posarla, Van Baerle si avvicinò al cammino, e in ginocchioni
con la punta del dito si mise a razzolare la cenere, che fortunatamente
era diaccia. Dopo un momento sentì la seconda cipolletta.

— Buono, disse, eccola.

E osservandola con una attenzione quasi paterna:

— Intatta come la prima, soggiunse.

Nel medesimo istante che Cornelio ancora ginocchioni esaminava
la seconda cipolletta, la porta del prosciugatoio fu scossa così
violentemente e di tal maniera si aperse che Cornelio sentì montarsi
al viso e alle orecchie la fiamma di quella trista consigliera che
chiamasi collera.

— Che c’è da capo? domandò. Ohè! che si è pazzi qua dentro?

— Signore, signore, gridò un domestico precipitandosi nel prosciugatoio
col viso più pallido e il fare più spaventato di quello che non
l’avesse Craeke.

— Ebbene? chiese Cornelio presagendo una disgrazia a questa doppia
infrazione di tutte le regole.

— Ah! signore, fuggite, fuggite presto! gridò il domestico.

— Fuggire! e perchè?

— La casa è piena di guardie degli Stati.

— Che domandano?

— Vi cercano.

— Per che fare?

— Per arrestarvi.

— Per arrestarmi, me?

— Sì, o signore; e sono preceduti da un cancelliere.

— Che vuol dir ciò? dimandò Van Baerle serrando i suoi due talli nella
sua mano, e ficcando l’occhio spaventato verso la scala.

— Salgono, salgono! gridò il servitore.

— Oh! mio caro figlio, mio degno padrone, gridò la balia, facendo
anch’ella a suo turno l’entrata nel prosciugatoio. Prendete il
vostr’oro, le vostre gioie, e fuggite, fuggite!

— Ma dove vuoi che io fugga, balia mia? domandò Van Baerle.

— Saltate dalla finestra.

— Venticinque piedi?

— Cadrete sopra sei piedi di terra smossa.

— Sì, ma cadrei sopra i miei tulipani.

— Non importa, saltate.

Cornelio prese il terzo tallo, si avvicinò alla finestra, l’aprì, ma
all’aspetto del guasto che avrebbe causato nelle sue caselle ben più
che alla vista dell’altezza che bisognerebbe saltare.

— Mai! disse, e fece un passo indietro.

In questo momento vedevansi riflettere nei muri della branca di scala
le alabarde dei soldati.

La nutrice alzò le braccia al cielo.

Quanto a Cornelio Van Baerle, bisogna dirlo a lode non già dell’uomo,
ma del tulipaniere, la sua sola preoccupazione fu per i suoi
inestimabili talli.

Cercò cogli occhi una carta dove involgerli, scòrse il foglio della
Bibbia posato da Craeke, lo prese senza ricordarsi, tanto era grande
il suo turbamento, donde gli fosse venuto, e involtandovi le tre
cipollette, se le nascose in petto, aspettando. I soldati preceduti dal
cancelliere entrarono in quel momento.

— Siete voi il dottore Cornelio Van Baerle? domandò il cancelliere,
benchè lo conoscesse perfettamente; ma in ciò conformavasi alle regole
della procedura; il che dava, come si vede, una somma gravità alla
interrogazione.

— Son’io, messer Van Spennen, rispose Cornelio salutando gentilmente il
suo processante; e voi ben lo sapete.

— Allora consegnateci le carte sediziose che voi nascondete.

— Le carte sediziose? ripetè Cornelio tutto sbalordito dell’apostrofe.

— Non fate lo stordito.

— Io vi giuro, Messer Van Spennen, riprese Cornelio, che io non so
davvero cosa vi vogliate dire.

— Allora, o dottore, vi metterò sulla via, disse il giudice;
consegnateci le carte che il traditore Cornelio de Witt ha depositato
presso di voi nel mese di gennaio decorso.

Un lampo traversò la mente di Cornelio.

— Oh! oh! disse Van Spennen, ecco, ecco che cominciate a ricordarvene,
eh?

— Senza dubbio voi parlate di carte sediziose ed io non ho carte di
questo genere.

— Oh! negate?

— Certamente.

Il cancelliere scorse con un’occhiata tutto il gabinetto e domandò:

— Quale stanza di vostra casa chiamasi prosciugatoio?

— Questa appunto, dove siamo, messer Van Spennen.

Il cancelliere gettò un rapido sguardo sopra una piccola nota posta a
principio del suo processo.

— Va bene, disse come un uomo che è assorto.

Poi rivolgendosi a Cornelio, disse:

— Volete voi consegnarci i fogli?

— Non posso, messer Van Spennen. Quelle carte non mi appartengono
punto; mi sono state rimesse a titolo di deposito, e un deposito è
sacrosanto.

— Dottor Cornelio, disse il cancelliere, a nome degli Stati, vi comando
di aprire quella cassetta, e di consegnarmi le carte che vi sono
chiuse.

E col dito accennò per l’appunto la terza cassetta di un armario posto
presso il cammino.

Le carte consegnate dal _ruward_ di Pulten al suo figlioccio erano
effettivamente in quella terza cassetta; pruova che la polizia era
stata bene informata.

— Ah! non volete farlo? disse Van Spennen; vedendo che Cornelio era
rimasto pietrificato dallo stupore. L’aprirò da me.

E tirando la cassetta fino in fondo, il cancelliere pose dapprima in
vista una ventina di cipollette, disposte e segnate accuratamente; poi
veniva l’involto di carte esattamente nel medesimo stato, in cui aveale
rimesse al suo figlioccio il disgraziato Cornelio de Witt.

Il cancelliere ruppe i sigilli, strappò l’involto, gettò un’occhiata
avida sulle prime pagine che gli si offersero al guardo, e gridò d’una
voce terribile.

— Ah! la giustizia non aveva dunque ricevuto un falso rapporto.

— Come! disse Cornelio; che c’è dunque?

— Non mi fate più il nesci, o Van Baerle, rispose il cancelliere e
seguiteci.

— Come! seguirvi! io? esclamò il dottore.

— Sicuro, perchè a nome degli Stati io vi arresto.

Non si arrestava ancora a nome di Guglielmo d’Orange, che per far
questo non era da molto tempo Statolder.

— Mi arrestate! esclamò Cornelio; ma cosa ho dunque fatto?

— Ciò a me non spetta, o dottore; ve la intenderete coi vostri giudici.

— E dove?

— All’Aya.

Cornelio stupefatto abbracciò la sua vecchia balia, che sveniva, diede
la mano ai suoi servitori che struggevansi in lacrime, e seguì il
cancelliere che chiuselo in una vettura come un prigioniero di stato e
fecelo tradurre di gran galoppo all’Aya.



VIII

La Camera di famiglia.


Tutto ciò che è accaduto, era, come ognuno se lo indovina, l’opera
diabolica d’Isacco Boxtel.

Ci si rammenti che con l’aiuto del suo cannocchiale, non avea
perduto la minima cosa dell’abboccamento di Cornelio de Witt e il suo
battezzato.

Ci si rammenti che non avea inteso nulla, ma che avea visto tutto.

Ci si rammenti, ch’egli aveva indovinato l’importanza di quelle
carte confidate dal _ruward_ di Pulten al suo figlioccio, vedendo
quest’ultimo chiudere accuratamente l’involto a lui rimesso nella
cassetta, dove serrava le sue cipollette le più preziose.

Ne resultò che, allorquando Boxtel, che seguiva la politica con un poco
più di attenzione del suo vicino Cornelio, seppe che Cornelio de Witt
era stato arrestato come colpevole di alto tradimento verso gli Stati,
pensò tra sè che ei non aveva che ad aprir bocca per fare arrestare il
figlioccio contemporaneamente al compare.

Però per quanto iroso fosse il cuore di Boxtel, ei abbrividì sulle
prime all’idea di denunziare un uomo, che da una tal denunzia potrebbe
essere condotto al patibolo.

Ma il terribile delle idee cattive si è che a poco a poco li spiriti
malvagi si familiarizzino con quelle. D’altronde Isacco Boxtel
incoraggiavasi con questo sofisma:

«Cornelio de Witt è un cattivo cittadino, dacchè è accusato di alto
tradimento e arrestato.

«Io sono un buon cittadino, dacchè non sono accusato di niente al mondo
e che sono libero come l’aria.

«Ora se Cornelio de Witt è un cattivo cittadino, il che è indubitato,
dacchè è accusato di alto tradimento e arrestato, il suo complice
Cornelio Van Baerle è un cittadino non meno cattivo di lui.

«Dunque, siccome io sono un buon cittadino, ed è dovere dei buoni
cittadini di denunziare i cattivi, è dovere di me Isacco Boxtel di
denunziare Cornelio Van Baerle».

Ma questo ragionamento non avrebbe forse, per ispecioso che fosse,
predominato completamente su lui, e forse l’invido non avrebbe ceduto
al semplice desiderio di vendetta che rodevalo, se a quel demone non si
fosse unito quello della cupidigia.

Boxtel non ignorava il punto in cui era delle sue ricerche Van
Baerle intorno al gran tulipano nero. Per modesto che fosse il dottor
Cornelio, non aveva potuto nascondere ai suoi più intimi che egli aveva
la quasi certezza di guadagnare nell’anno di grazia 1673 il premio di
centomila fiorini proposto dalla società di orticultura di Harlem.

Ora questa quasi certezza di Cornelio Van Baerle l’era la febbre
che consumava Isacco Boxtel. Se Cornelio fosse stato arrestato, ciò
cagionerebbe certamente un grande scompiglio nella di lui casa; e
perciò la notte successiva all’arresto nessuno avrebbe pensato a
vigilare su i tulipani del giardino.

Ora in quella notte Boxtel scavalcherebbe il muro, e siccome egli
sapeva dov’era la cipolletta, che doveva dare il gran tulipano nero, la
porterebbe via; e così invece di fiorire presso Cornelio, il tulipano
nero fiorirebbe presso di lui, ed egli ne avrebbe i centomila fiorini
di premio invece di Van Baerle, senza porre in conto il supremo onore
di chiamare il nuovo fiore _tulipa nigra Boxtellensis_, resultato che
non solo appagava la sua vendetta, ma ancora la sua cupidigia.

Sveglio, non pensava che al gran tulipano nero; addormentato non
sognava che quello. Finalmente il 19 agosto verso le due dopo
mezzogiorno, la tentazione fu così forte, che Isacco non vi seppe più
resistere a lungo.

In conseguenza indirizzò una denunzia anonima, alla quale suppliva, per
autenticarla, la precisione delle indicazioni, e gettolla alla posta.
Mai carta più venefica sdrucciolata per le buche di bronzo di Venezia
produsse un più pronto e un più terribile effetto.

La stessa sera il primo magistrato ricevè il dispaccio; e all’istante
convocò i suoi colleghi per l’indomani mattina. La dimane eransi
riuniti, ne aveano deciso l’arresto e rimesso l’ordine, affinchè fosse
eseguito, a messer Van Spennen, che erasi assunto, come abbiam visto,
tal dovere di degno olandese, ed aveva arrestato Cornelio Van Baerle
proprio nel momento in cui gli orangisti dell’Aya arrostivano i pezzi
dei cadaveri di Cornelio e di Giovanni de Witt.

Ma fosse vergogna o debolezza nel delitto, Isacco Boxtel non aveva
avuto il coraggio di puntare in quel giorno il suo canocchiale nè sul
giardino, nè sullo studio, nè sul prosciugatoio.

Ei sapeva troppo bene ciò che andasse a succedere in casa del povero
dottore Cornelio per aver di bisogno di guardarvi. Non si alzò
neppure, allorquando il suo unico servitore, che invidiava la sorte dei
servitori di Van Baerle, non meno amaramente che invidiasse Boxtel la
sorte del padrone, entrò nella sua camera. Boxtel gli disse:

— Oggi non mi leverei; mi sento male.

Verso le nove sentì un gran baccano nella strada e rabbrividì a quello
strepito; in quel momento era più pallido di un vero ammalato, più
tremante di un vero febbroso.

Il suo servo entrò; Boxtel cacciossi dentro le coperte.

— Ah! signore, esclamò il servo senza porre in dubbio che egli,
deplorando la disgrazia sopraggiunta a Van Baerle, andava a dare una
buona nuova al suo padrone; ah! signore, voi non sapete ciò che ora
succede?

— Come vuoi che io lo sappia? rispose Boxtel con voce quasi
inintelligibile.

— Ebbene! in questo momento si arresta il vostro vicino Van Baerle come
complice di alto tradimento.

— Uh! mormorò Boxtel con una voce fioca, non è possibile!

— Madonna! almeno è ciò che si dice; d’altronde ho veduto entrare da
lui il cancelliere Van Spennen e gli arcieri.

— Oh! se hai visto, sarà.

— In ogni caso, voglio informarmi di nuovo, disse il servo, e non
dubitate, o signore, che terrovvi in corrente.

Boxtel contentossi d’incoraggire con un cenno lo zelo del suo
servitore, che uscì e tornò un quarto d’ora dopo.

— Oh! signore, tutto quello che vi ho raccontato, l’era pretta verità!

— Come va?

— Il signor Van Baerle è arrestato, messo in una vettura e spedito
all’Aya.

— All’Aya?

— Sì; e dove, se è vero ciò che si dice, non gli anderà bene.

— E che si dice? domandò Boxtel.

— Madonna! si dice, ma questo non è ben sicuro, si dice, o signore,
che i paesani siano sul tiro a quest’ora d’avere assassinato i signori
Cornelio e Giovanni de Witt.

— Oh! mormorò o piuttosto ragghiò Boxtel chiudendo gli occhi come per
non vedere la terribile immagine che offrivasi senza dubbio ai suoi
sguardi.

— Diavolo! fece il servo ritirandosi, bisogna che il padrone sia ben
malato per non aver saltato dal letto a un simile annunzio.

Difatti Boxtel era veramente malato, malato come un uomo che ha
assassinato un altro uomo. Ma egli aveva assassinato uno con doppio
scopo; il primo era compiuto; il secondo restava a compirsi.

Venne la notte; era quella che aspettava Boxtel. Alzossi, e poi montò
sul suo sicomoro.

Egli aveva ben calcolato; nessuno pensava a guardare il giardino; casa
e servitori erano silenziosi. Egli sentì in seguito battere le dieci,
le undici, mezzanotte.

A mezzanotte il cuore palpitante, le mani convulse, il viso livido,
scese dal suo albero, prese una scala, appoggiolla al muro, salì
fino al penultimo scalino e si mise in orecchi. Tutto era tranquillo;
nemmeno un alito rompeva il silenzio della notte.

Un solo lume vigilava in tutta la casa: era quello della balia.

Il silenzio e l’oscurità fecero ardito Boxtel; cavalcò il muro; e
poi ben sicuro che non aveva nulla a temere, passò la scala dal suo
nell’altro giardino e discese.

Quindi, siccome sapeva la direzione del luogo, ov’erano sotterrate
le cipollette del futuro tulipano nero, vi corse, seguendo però le
viottole per non essere tradito dalle orme de’ suoi piedi, e arrivato
al luogo preciso, con una gioia di tigre ficcò le sue mani nel molle
terreno.

Non trovò nulla e credette essersi ingannato.

Intanto il sudore gli gocciava dalla fronte. Frugò accanto: niente;
frugò a diritta e a sinistra: niente; frugò d’avanti e di dietro:
niente.

Fu per divenir pazzo, perchè alla fine si accorse che in quella stessa
mattina la terra era stata smossa.

Infatti, mentre Boxtel era in letto, Cornelio era sceso nel suo
giardino, aveva disotterrato la cipolletta e, come lo abbiamo visto,
aveala divisa in tre talli.

Boxtel non poteva decidersi ad abbandonare il posto. Aveva rimescolato
con le mani più di dieci piedi quadrati di terra.

Finalmente non restavagli più nessun dubbio sulla sua disgrazia. Bianco
di collera, riguadagnò la sua scala, ricalvalcò il muro, ripassò la
scala nel suo giardino, e vi scese incontinente.

Ad un tratto gli sopravvenne un’ultima speranza: che i talli fossero
nel prosciugatoio. Bisognava penetrare nel prosciugatoio come era
penetrato nel giardino. Colà li troverebbe. Del resto non eravi altra
difficoltà.

Le vetrate del prosciugatoio alzavansi come quelle di una chiusa.
Cornelio aveale aperte la stessa mattina e nessuno aveva pensato a
richiuderle. Il forte era di procurarsi una scala assai più lunga, una
scala di venti piedi invece di dodici.

Boxtel aveva rimarcato nella via dov’egli abitava, una casa in
riattazione, a cui stava appoggiata una scala gigantesca. L’era a
proposito per lui, se i manifattori non l’avessero remossa.

Corse alla casa, e la scala v’era. Boxtel la prese e la portò a mala
pena nel suo giardino; e con pena anche maggiore dirizzolla alla
muraglia della casa di Cornelio.

La scala era alla precisa lunghezza. Boxtel mise una lanterna cieca in
tasca, montò la scala e penetrò nel prosciugatoio.

Giunto in quel tabernacolo, si arrestò, si appoggiò alla tavola; le
gambe gli mancavano sotto, il suo cuore batteva da soffocarlo.

Là era ben peggio che nel giardino: direbbesi che l’aria aperta
togliesse alla proprietà ciò che ella ha di rispettabile; perchè chi
salta una siepe, o chi scala un muro, si arresta poi alla porta o alla
finestra di una stanza.

Nel giardino Boxtel non era che uno scorridore; nella stanza era un
ladro.

Non pertanto riprese cuore: non era là venuto per tenere le mani a
cintola.

Ma ebbe un bel cercare, aprire e chiudere tutte le cassette, e la
privilegiata pure, dov’era il deposito stato così fatale a Cornelio;
trovò etichette come in un giardino di piante, la _Giovanna_, la _de
Witt_, il tulipano bistro, il tulipano caffè bruciato: ma del tulipano
nero, o piuttosto dei talli, dove esso era ancora addormentato e
nascosto nel limbo della fioritura, non eranvi tracce.

Ma però sul registro dei semi e delle cipollette tenuto in doppia
scrittura da Van Baerle con più cura e esattezza del registro
commerciale delle prime case di Amsterdam, Boxtel lesse queste linee:

«Oggi 20 agosto 1672 io ho disotterrato la cipolletta del gran tulipano
nero, che ho separato in tre talli perfetti.»

— Questi talli! questi talli! urlò Boxtel rovistando dappertutto nel
prosciugatoio, dove mai li ha cacciati?

Poi tutto a un tratto battendosi in fronte da ammaccarsi il cervello:

— Oh! miserabile che sono! egli esclamò; ah! Boxtel sfortunatissimo,
che gli è inseparabile dai suoi talli? Come non lasciarli a Dordrecht,
partendo per l’Aya? Ma che non può vivere senza i suoi talli; i
talli del tulipano nero? L’infame! si vede che ha avuto il tempo di
prenderli, se li è nascosti e li ha portati all’Aya!

Era un lampo che mostrava a Boxtel l’abisso di un inutile delitto.
Ei cadde fulminato su quella medesima tavola, a quel medesimo posto,
dove alcune ore innanzi lo sfortunato Van Baerle aveva ammirato sì
lungamente e sì compiacentemente i talli del tulipano nero.

— Ebbene! al postutto, disse l’invidioso alzando la testa livida, se li
ha seco, non può custodirli che fino a tanto che sia vivo, e...

Il resto del suo orrendo pensiero si assorbì in uno spaventevole
sorriso.

— I talli sono all’Aya, riprese; dunque non posso più vivere a
Dordrecht. All’Aya per i talli! all’Aya!

Boxtel, senza fare attenzione alle ricchezze immense che lasciava,
tanto egli era preoccupato da un’altra inestimabile ricchezza, escì
per dove era venuto, si lasciò strisciare giù per la scala, riportò
l’istrumento del furto, dove avealo preso, e simile a un animale da
preda rientrò ruggendo in casa sua.



IX

La Camera di famiglia.


Era circa la mezza notte, quando il povero Van Baerle fu recluso nella
prigione di Buitenhof.

La previsione di Rosa erasi avverata. Trovando la stanza di Cornelio
de Witt vuota, era stata immensa la collera popolare; e se Grifo fosse
caduto tra le mani di quei furibondi, l’avrebbe certamente scontata pel
suo prigioniero.

Ma quella collera avea trovato da sbramarsi largamente sopra i due
fratelli, che erano stati raggiunti dagli assassini in grazia della
precauzione stata presa da Guglielmo, uomo delle precauzioni, di far
chiudere le porte della città.

Vi fu dunque un momento, in cui la prigione essendo stata sgombrata,
il silenzio era successo al rimbombo spaventevole degli urli che
romoreggiavano giù per le scale.

Rosa profittò di questo momento, escì dalla segreta e ne fece uscire
suo padre.

La prigione era completamente deserta; a che prò restare nella
prigione, quando scannavasi al Tol-Hek?

Grifo escì tutto tremante dietro la coraggiosa Rosa; e insieme andarono
a chiudere alla meglio la porta principale; e diciamo alla meglio
perchè era per metà fracassata. Scorgevasi che il trabocco di una
potente collera era di là passato.

Verso le quattro s’intese il romorio che ritornava, ma non presagiva
nulla d’inquietante per Grifo e per sua figlia. Quel romorio era dei
cadaveri che erano strascinati e condotti ad essere appiccati nella
piazza solita alle esecuzioni.

Anco questa volta Rosa si nascose non per paura ma per non vedere
l’orribile spettacolo.

A mezza notte fu picchiato alla porta del Buitenhof, o piuttosto alla
barriera che aveala rimpiazzata. Era Cornelio Van Baerle che colà era
condotto.

Quando Grifo carceriere ricevette quel nuovo ospite, ed ebbe veduto sul
mandato di reclusione la qualità del personaggio:

— Figlioccio di Cornelio de Witt, mormorò col sogghigno del carceriere;
oh! giovanotto! abbiamo qui appunto la camera di famiglia; eccoci a
darvela.

E contento del bel garbo da lui disimpegnato, il tristo orangista prese
la sua lanterna e le chiavi per condurre Cornelio nella cella, che
Cornelio de Witt aveva lasciato quella stessa mattina per l’_esilio_
tale, quale lo intendono in tempo di rivoluzione quei moralisti
sublimi, che spacciano come assioma di alta politica:

«I morti soli non tornano.»

Grifo dunque si preparò a condurre il figlioccio nella camera del
compare. Per dove bisognava passassero per arrivare a quella stanza,
il disperato coltivatore di fiori altro non intese che l’abbaiare di un
cane, altro non vide che la faccia di una giovinetta.

Il cane escì da una nicchia praticata nel muro scuotendo una grossa
catena, e fiutò Cornelio affine di bene riconoscerlo al momento che gli
fosse comandato di divorarlo.

La giovinetta, quando il prigioniero fece cigolare l’appoggiatoio
della scala sotto la sua mano sbalordita, semiaperse la bussola di
una stanza, che ella abitava, sulla grossezza della scala medesima;
e col lume nella mano diritta ella rischiarò al tempo stesso la sua
rosea faccia avvenente, contornata da stupendi capelli biondi a grosse
ciocche, tanto che dalla sinistra scendeanle sotto il petto giù per la
bianca veste da notte, perocchè ell’era stata svegliata dal suo primo
sonno dall’arrivo inatteso di Cornelio.

Era un quadro degno di essere dipinto dal maestro Rembrandt cominciando
dall’oscura spira della scala illuminata dal fanale rossastro di Grifo
dal sembiante arcigno di carceriere; in cima la melanconica figura di
Cornelio, che piegasi sull’appoggiatoio per guardare al di sotto di lui
il soave viso di Rosa incorniciato dalla porticella illuminata, e il di
lei fare pudico cagionato forse dall’essere Cornelio sopra di lei nella
scala, da dove il di lui curioso sguardo compiacevasi incerto e tristo
vagheggiare le bianche e pienotte spalle della giovinetta.

Poi in basso tutt’affatto nell’ombra a quel punto della scala, dove
l’oscurità fa sparire i dettagli, gli occhi di bragia del molosso
strascinante la sua catena, dalla quale il doppio lume della lucerna di
Rosa e del fanale di Grifo faccia rimbalzare un brillante chiarore.

Ma ciò che in questo suo quadro non avrebbe potuto rendere il sublime
maestro, l’è la espressione dolorosa sfumata sul viso di Rosa, quando
ella vide quel bel giovine pallido salire lentamente la scala, nel
sentirgli dirigere da suo padre queste sinistre parole:

— _Voi avrete la camera di famiglia._

Questo colpo pittoresco durò un momento e meno tempo assai che non
abbiamo messo a descriverlo. Grifo continuò la sua via. Cornelio fu
obbligato a seguirlo, e dopo cinque minuti entrava nella segreta, che
gli è inutile descrivere, dappoichè il lettore già la conosce.

Grifo, dopo aver mostrato col dito al prigioniero il letto, sul quale
avea tanto sofferto il martire, che in quella giornata medesima aveva
resa l’anima a Dio, riprese la sua lanterna e uscì.

Quanto a Cornelio, rimasto solo, gettossi sul letto, ma non chiuse
occhio, e tenevalo sempre fisso sulla stretta finestra inferriata,
la quale corrispondeva sul Buitenhof; di tal maniera che vide
biancheggiare al di là degli alberi il primo albore, che il cielo
lascia cadere sopra la terra come un bianco lenzuolo.

Durante la notte qualche cavallo aveva galoppato in su e in giù
sul Buitenhof. Il passo cadenzato delle pattuglie aveva percosso il
selciato della piazza, e le micce degli archibusi, infiammandosi al
vento di ponente, avevano lanciato fino ai vetri della prigione lampi
di luce passeggiera.

Ma quando il dì nascente illuminò i culminati cammini delle case,
Cornelio impaziente di sapere, se fosse attorno di lui anima viva, si
accostò alla finestra, e volse intorno un mesto sguardo.

Alla estremità della piazza una massa nerastra velata dalla brina
mattinale di un turchino cupo, alzavasi riflettendo la sua ombra
irregolare sulle pallide abitazioni.

Cornelio riconobbe la forca, a cui pendevano due informi avanzi, i
quali non erano più che due scheletri ancora sanguinanti.

Il buon popolo dell’Aya aveva spezzato le carni delle sue vittime, ma
riportato fedelmente alla forca il pretesto di una doppia iscrizione
tracciata sopra un cartellone enorme; sul quale con i suoi occhi di
ventotto anni Cornelio arrivò a leggere le seguenti linee impresse
dalla spada appuntata di qualche imbrattatore d’insegne:

  «Qui pendono il grande scellerato Giovanni de Witt e il meno
  briccone Cornelio de Witt di lui fratello, due nemici del popolo,
  ma amici grandi del re di Francia.»

Cornelio gettò un grido di orrore, e nel trasporto del suo terrore
frenetico percosse con le mani e coi piedi con tal violenza e con tale
impeto la porta che Grifo accorse frettoloso col suo mazzo enorme di
chiavi in mano.

Aperse, e scagliando orribili imprecazioni contro il prigioniero, che
incomodavalo fuori delle ore cui era solito incomodarsi, gridò:

— Olà? anco quest’altro de Witt che gli è arrabbiato? Tutti i de Witt
hanno il diavolo in corpo!

— Signore, signore, disse Cornelio prendendo il carceriere pel braccio
e traendolo verso la finestra; signore che mai ho letto laggiù?

— Dove laggiù?

— Su quel cartellone.

E tremante, pallido e ansante mostrogli in fondo alla piazza la forca
sormontata dalla cinica iscrizione.

Grifo si mise a ridere.

— Ah! ah! Sì, voi avete letto.... Ebbene, mio caro signore, ecco dove
s’incappa quando si hanno intelligenze coi nemici del signor principe
d’Orange.

— I de Witt sono stati assassinati! mormorò Cornelio grondante sudore
e lasciandosi cadere sul suo letto con le braccia spenzolate e con gli
occhi chiusi.

— I signori de Witt hanno subita la giustizia del popolo, disse Grifo;
chiamate assassinati quelli? Io per me dico: giustiziati.

E vedendo che il prigioniero non solo era in istato di calma, ma di
annientamento, escì dalla stanza, tirando la porta con violenza, e
facendo strisciare rumorosamente i chiavistelli.

Tornando in sè, Cornelio trovossi solo, e riconobbe la camera in cui
era, la camera di famiglia, come aveala chiamata Grifo, quel passaggio
fatale che doveva portarlo a una misera morte.

E siccome gli era un filosofo, siccome gli era soprattutto un
cristiano, cominciò a pregare per l’anima del suo compare, poi per
quella del gran Pensionario, poi alla fine rassegnossi egli stesso a
tutti i mali, che a Dio piacesse mandargli.

Quindi dopo essere ridisceso dal cielo in terra, dopo di terra essere
rientrato nella segreta e bene assicurato che in quella egli era
solo, cavò di seno i tre talli del tulipano nero e nascoseli dietro un
palchetto sul quale posavasi il tradizionale boccale, in un canto il
più oscuro della prigione.

Inutile fatica di tanti anni! O dolci speranze perdute! La sua scoperta
avrebbe fatto capo al niente, com’egli alla morte! In quella prigione
nemmeno un filo d’erba, un briciolo di terra, un raggio di sole.

A questo pensiero Cornelio fu preso da tetra disperazione, da cui non
escì che per una circostanza straordinaria.

Qual fu questa circostanza?

Ci serbiamo dirlo nel capitolo seguente.



X

La figlia del Carceriere.


In quella stessa sera Grifo portando da mangiare al prigioniero,
nell’aprire la porta della carcere sdrucciolò sull’impiantito umidiccio
e cadde sforzandosi invano di sorreggersi. Battuta la mano in falso, si
ruppe il braccio al disotto del pugno.

Cornelio fece un movimento verso il carceriere; ma siccome non
sospettava della gravità del caso:

— Non è niente, disse Grifo; zitto.

E volle rialzarsi appoggiandosi al suo braccio, ma si piegò l’osso;
allora soltanto Grifo sentì il dolore e cacciò un grido.

Si avvide che aveva il braccio rotto; e costui sì duro per gli altri
ricadde svenuto sulla soglia della porta, dove rimase inerte e freddo
simile a un morto.

Per tutto quel tempo la porta della prigione era rimasta aperta,
e Cornelio trovavasi quasi libero. Non gli passò per la mente
neppure l’idea di profittare di quell’accidente. Egli aveva veduto
nel modo, con cui erasi piegato il braccio, allo scatto che aveva
fatto piegandosi, che v’era dolore; perciò non pensò ad altro che a
soccorrere il ferito, per quanto male intenzionato gli fosse paruto
costui a suo riguardo nell’unico abboccamento, che egli aveva avuto con
lui.

Al fracasso che Grifo aveva fatto cadendo, al rammarico che erasi
lasciato sfuggire, fecesi sentire un passo precipitoso per le
scale, e alla apparizione, che seguì immediatamente lo strepito del
calpestio, Cornelio cacciò una voce, alla quale rispose il grido di una
giovinetta.

Aveva risposto al grido la bella frisona, che vedendo suo padre disteso
in terra e il prigioniero chinato sopra di lui, aveva creduto dapprima
che Grifo, di cui ella conosceva la brutalità, fosse caduto per una
rissa attaccata tra lui e il prigioniero.

Cornelio ne comprese il pensiero; ma la giovinetta, essendosi al primo
colpo d’occhio assicurata della verità, e vergognandosi d’averlo solo
sospettato, alzò sul giovine i suoi begli occhi lacrimosi, e gli disse:

— Perdono e grazie, o signore. Perdono di ciò che ho pensato, e grazie
di ciò chè avete fatto.

Cornelio arrossì, e rispose:

— Non ho fatto che il mio dovere di cristiano, soccorrendo il mio
simile.

— Sì, e soccorrendolo stasera, avete dimenticato le ingiurie che vi
ha detto questa mattina. Signore, è più che da uomo, è più che da
cristiano.

Cornelio alzò gli occhi sulla bella fanciulla, tutto maravigliato di
sentire dalla bocca di una figlia del popolo una parola al tempo stesso
così nobile e così compassionevole.

Ma egli non ebbe tempo da testimoniarle la sua sorpresa; chè Grifo
riavutosi aprì gli occhi, e con la vita ritornò la sua usuale
brutalità:

— Ah! d’ecco cosa tocca! diss’egli, ci si affretta a portare da
mangiare al prigioniero, si cade sorreggendosi, e cadendo ci si rompe
il braccio, e lascianvi là sul mattonato.

— Zitto, babbo mio, disse Rosa, voi siete ingiusto verso questo
signore, che ho trovato tutto occupato a soccorrervi.

— Lui? fece Grifo non persuaso.

— Gli è tanto vero, o signore, che sono pronto ancora a soccorrervi.

— Voi? disse Grifo; che siete dunque medico?

— È la mia prima professione, rispose il prigioniero.

— Talchè mi potreste rimettere il braccio?

— Perfettamente.

— E che ci vuole, vediamo?

— Due spranghette di legno e fasce di lino.

— Senti, Rosa, disse Grifo, il prigioniero mi rimette il braccio;
vediamo, aiutami ad alzarmi: — sono di piombo.

Rosa presentò al ferito la sua spalla; ed egli abbracciò il collo della
giovinetta col braccio sano, e facendo uno sforzo, rizzossi, mentrechè
Cornelio per risparmiargli di muoversi, tirò verso lui una seggiola.
Grifo vi si assise, e poi volgendosi alla sua figlia, le disse:

— Hai bene inteso? Va’ a cercare ciò che ci vuole.

Rosa scese e ritornò poco dopo con due doghe da barile e una gran
fascia di lino. Cornelio si era intanto occupato a levare il vestito al
carceriere e a rovesciargli le maniche.

— Va bene così? domandò Rosa.

— Sì, mia fanciulla, le rispose Cornelio gettando un’occhiata sugli
oggetti portati; sì, va bene. Intanto accostate cotesta tavola, mentre
che io sorreggo il braccio di vostro padre.

Rosa accostò la tavola, su cui Cornelio stese il braccio rotto,
e con una perfetta abilità, raggiustò la frattura, adattovvi
l’incannucciatura e strinse le fasce.

All’ultima stretta il carceriere si svenne per la seconda volta.

— Andate a cercare dell’aceto, mia cara giovine, disse Cornelio; gli
bagneremo le tempie e riavrassi.

Ma invece di adempire la prescrizione, che erale stata data, Rosa dopo
essersi assicurata che suo padre era fuori dei sensi, si avanzò verso
Cornelio:

— Signore, diss’ella, piacere per piacere.

— Cioè? mia bella fanciulla? domandò Cornelio.

— Cioè, signore, che il cancelliere che vi deve interrogare dimani è
venuto oggi ad informarsi della stanza che occupate; e che essendogli
stato risposto che occupate la carcere di Cornelio de Witt, egli ha
sogghignato sinistramente; il che mi fa credere che nulla di buono vi
attenda.

— Ma, domandò Cornelio, che cosa mi possono fare?

— Vedete di qui quelle forche?

— Ma non sono colpevole, soggiunse Cornelio.

— Eranlo pure quelli laggiù, appiccati, mutilati, sbranati?

— Gli è vero, disse Cornelio attristandosi.

— D’altronde, continuò Rosa, l’opinione pubblica vuole che voi siate
colpevole. Ma colpevole o non colpevole, il vostro processo comincerà
dimani e posdimani sarete condannato: le cose vanno presto ai tempi che
corrono.

— Ebbene, che concludete con ciò?

— Concludo, che io sono sola, che sono debole, che mio padre è svenuto,
che il cane ha la musoliera, che niente per conseguenza v’impedisce di
salvarvi. Salvatevi dunque, ecco la conclusione.

— Che dite?

— Io dico, ohimè! che non ho potuto salvare nè Cornelio nè Giovanni
de Witt, e che vorrei salvarvi... voi. Solamente fate presto; ecco la
respirazione che ritorna a mio padre, forse tra un minuto riaprirà gli
occhi e allora sarà troppo tardi. Esitate?

Effettivamente Cornelio stava immobile, guardando Rosa, ma come s’ei la
guardasse senza intenderla.

— Non capite? disse la giovinetta impazientita.

— Capisco, rispose Cornelio, ma....

— Ma?

— Non accetto. Sareste processata.

— Che importa? disse Rosa arrossendo.

— Grazie, fanciulla mia, rispose Cornelio; ma io resto.

— Voi restate! Mio Dio! mio Dio! Non avete dunque capito che sarete
condannato... condannato a morte, giustiziato sopra un palco e forse
assassinato, messo in pezzi come sono stati assassinati e messi in
pezzi Giovanni e Cornelio? A nome del cielo, non vi occupate di me, e
fuggite questa stanza dove voi siete. Guardatevene, che fu fatale ai de
Witt.

— Ohè! esclamò il carceriere riavendosi. Chi parla di quei malanni, di
que’ miserabili, di quegli scellerati dei de Witt?

— Non ve ne importi, mio brav’uomo, disse Cornelio col suo amabile
sorriso; chè ciò che v’ha di peggio per le fratture, è il riscaldamento
del sangue.

Poi sotto voce a Rosa:

— Mia ragazza, soggiunse, io sono innocente, aspetterò i miei giudici
con la tranquillità e con la calma di uno innocente.

— Zitto! disse Rosa.

— Zitto e perchè?

— Bisogna che mio padre non si accorga che abbiamo insieme discorso.

— E che male sarebbe?

— Che male sarebbe? D’impedirmi che io qui più tornassi, disse la
giovinetta.

Cornelio accolse questa infantile confidenza con un sorriso;
sembravagli che un raggio di bene splendesse sopra la sua disgrazia.

— Ebbene! che cosa barbottate costì voi due? disse Grifo alzandosi e
sorreggendo il suo braccio diritto col suo sinistro.

— Niente! rispose Rosa; il signore mi prescrive il regime che dovete
seguire.

— Il regime che io devo seguire! eh! il regime che io devo seguire! Voi
pure, o graziosina, voi pure ne dovete seguire uno!

— E quale, babbo mio?

— Di non affacciarvi neppure alle carceri dei prigionieri, e quando vi
comparirete, d’andarvene il più presto possibile; via dunque innanzi a
me, e lesta!

Rosa e Cornelio cambiaronsi un’occhiata; quello di Rosa voleva dire:

— Voi lo vedete!

Quello di Cornelio:

— Sia fatta la volontà del Signore!



XI

Il Testamento di Cornelio Van Baerle.


Rosa non si era punto ingannata: i ministri processanti vennero
l’indomani al Buitenhof e interrogarono Cornelio Van Baerle. In verità
l’interrogatorio non fu lungo; fu accertato che Cornelio aveva serbato
la corrispondenza fatale dei de Witt con la Francia. Ei non lo negò
minimamente.

L’era solo dubbioso agli occhi dei giudici che la corrispondenza gli
fosse stata consegnata dal suo compare Cornelio de Witt.

Ma siccome, dopo la morte dei due martiri, Cornelio Van Baerle non
aveva ragione di niente più nascondere, non solamente non negò che il
deposito eragli stato confidato da Cornelio, ma raccontò ancora, come,
quando e dove il deposito eragli stato confidato.

Questa rivelazione implicava il figlioccio nel delitto del compare;
eravi complicità patente.

Cornelio non si limitò a questa semplice confessione: egli disse
tutta la verità delle sue simpatie, delle sue abitudini, delle sue
familiarità; disse la sua indifferenza per la politica, il suo amore
per li studi, per le arti, per le scienze e per i fiori. Raccontò che
più mai dal giorno, in cui era andato a Dordrecht e aveagli confidalo
il deposito, esso non era stato più toccato e neppure conosciuto dal
depositario.

Gli si obiettò a questo proposito che gli era impossibile che ciò fosse
vero, dappoichè i fogli erano precisamente chiosi in una cassetta, dove
ogni giorno metteva gli occhi e le mani.

Cornelio rispose che l’era ciò la verità, ma che metteva solo la
mano nella cassetta per assicurarsi che le sue cipollette fossero ben
prosciugate e vi gettava gli occhi per assicurarsi soltanto se le sue
cipollette tallissero.

Gli si obiettò che la sua pretesa indifferenza a riguardo di quel
deposito non potevasi ragionevolmente sostenere, avvegnachè fosse
impossibile che avendo ricevuto dalle mani del suo compare un deposito
così fatto, egli non ne conoscesse l’importanza.

Al che egli rispose: che al suo compare lo amava troppo e di più gli
era un uomo troppo saggio per non avergli niente detto del contenuto di
quei fogli, giacchè tal confidenza non avrebbe servito ad altro che a
tormentare il depositario.

Gli si obiettò che se il signor de Witt avesse di tal sorte operato,
avrebbe unito all’involto in caso di accidentalità un certificato
costatante che il suo battezzato era completamente estraneo a quella
corrispondenza, ovvero durante il suo processo avrebbegli scritto una
lettera che potesse servire a sua giustificazione.

Cornelio rispose che senza dubbio il suo padrino non aveva pensato
affatto che il suo deposito corresse pericolo alcuno, nascosto
com’era in un armario che era riguardato come sacro al pari dell’arca
da tutta la casa Van Baerle; che aveva per urgenza stimato inutile
il certificato; che quanto a una lettera gli pareva sovvenirsi che
un momento prima del suo arresto, siccome egli era assorto nella
contemplazione di una cipolletta delle più rare, il servitore di
Giovanni de Witt era entrato nel di lui prosciugatoio e aveagli rimesso
un foglio; ma che di tutto questo eragli rimasto una ricordanza simile
a una visione; che il servitore era scomparso e che quanto al foglio
forse troverebbesi facendone diligente ricerca.

Quanto a Craeke era impossibile trovarlo, avvegnachè avesse abbandonato
l’Olanda; e quanto alla carta gli era così poco probabile potersi
ritrovare, che non valse neppure la pena a farne ricerca.

Cornelio stesso non insistè molto su questo punto, perchè posto anche
che il foglio si ritrovasse, non potrebbe forse avere nessun rapporto
con la corrispondenza che formava il corpo del delitto.

I giudici vollero avere l’aria di spingere Cornelio a difendersi
meglio di quello che ei lo facesse; e usarono in faccia a lui di
quella pazienza benigna, che denota o un magistrato interessato per
l’accusato, o un vincitore che abbia atterrato il suo avversario, e che
essendo completamente padrone di lui non ha bisogno di opprimerlo per
perderlo.

Cornelio non accettò niente affatto tale ipocrita protezione, e in
un’ultima risposta che diede con la nobiltà di un martire e la calma di
un giusto, disse loro:

— Voi mi domandate cose, o signori, alle quali non ho niente altro a
rispondere che la verità. La verità esatta, eccola. L’involto è venuto
a me per la via che ho detto; protesto davanti Iddio che ne ignorava e
ne ignoro ancora il contenuto; che nel giorno soltanto del mio arresto
ho saputo che quel deposito era la corrispondenza del gran Pensionario
col marchese di Louvois. E protesto finalmente che ignoro come siasi
potuto sapere che quell’involto fosse presso di me, e soprattutto come
io possa essere colpevole per avere ricevuto ciò che portavami il mio
illustre infelice compare.

Questa fu tutta la perorazione di Cornelio. I giudici andarono ai
considerandi:

Che ogni germoglio di dissenzione civile è funesto, e suscitatore di
guerra, e che è interesse di tutti estinguere.

Che (e questa considerazione fecela un uomo che passava per un profondo
osservatore) quel giovine così flemmatico in apparenza doveva in
sostanza essere dannosissimo, attesochè dovesse nascondere sotto il
manto di ghiaccio che servivagli di inviluppo, un ardente desiderio di
vendicare i signori de Witt suoi prossimani.

Che, secondo un altro, l’amore dei tulipani legasi perfettamente con la
politica, e che è storicamente provato che molti uomini pericolosissimi
hanno atteso al giardinaggio nè più nè meno, che se eglino se ne
occupassero esclusivamente, quantunque in fondo si occupassero di ben
altre cose; testimone Tarquinio Prisco, che coltivava papaveri a Gabio,
e il gran Condè che innaffiava i suoi aglietti nella reclusione di
Vincennes, e ciò al momento che il primo meditava la sua rientrata a
Roma e il secondo la sua escita di prigione.

I giudici conclusero con questo dilemma:

O Cornelio Van Baerle ama fortemente i tulipani, o ama fortemente la
politica; nell’uno e nell’altro caso ha mentito, primo perchè è provato
che si occupasse di politica, e ciò con le lettere trovate pressa di
lui; secondo perchè è provato che occupavasi dei tulipani: i talli ne
fanno fede. In fine — e qui sta l’enormità — perciocchè Cornelio Van
Baerle occupavasi al tempo stesso di tulipani e di politica, dunque
l’accusato era di una natura ibrida, di una organizzazione anfibia,
occupatesi con eguale ardore alla politica e al tulipano, il che
darebbegli tutti i caratteri della specie di uomini la più dannosa al
pubblico riposo, e una certa anzi una completa analogia coi grandi
spiriti, di cui Tarquinio Prisco e il principe di Condè fornivano a
proposito un esempio.

Il resultato di tutti questi ragionamenti fu che il principe statolder
d’Olanda saprebbe senza dubbio buon grado alla magistratura dell’Aya
di semplificargli l’amministrazione delle Sette Province, distruggendo
fino all’ultima radice la cospirazione contro la sua autorità.

Questo argomento prevalse a tutti gli altri e per distruggere
efficacemente i germi delle cospirazioni, la pena di morte fu
pronunziata all’unanimità contro Cornelio Van Baerle, interrogato
e convinto di avere, sotto le innocenti apparenze di un amatore
di tulipani, partecipalo ai detestabili intrighi ed ai complotti
abominandi dei de Witt contro la nazionalità olandese, ed alle loro
segrete relazioni col nemico francese.

La sentenza portava provvisoriamente che il suddetto Cornelio Van
Baerle sarebbe estratto della prigione del Buitenhof per essere
condotto al patibolo alzato sulla piazza dello stesso nome, dove
l’esecutore di giustizia gli taglierebbe la testa.

Come se questa deliberazione fosse stata seria, era continuata una
mezz’ora, durante la quale il prigioniero era stato ricondotto in
prigione.

Là il cancelliere degli Stati andogli a leggere la sentenza.

Maestro Grifo era obbligato a guardare il letto per la febbre
cagionatagli dalla frattura del braccio. Le sue chiavi erano passate
in mano di un secondino, dietro al quale, che aveva introdotto il
cancelliere, Rosa la bella Frisona erasi venuta a porre sull’angolo
della porta col fazzoletto alla bocca per soffocare i suoi sospiri e i
suoi singhiozzi.

Cornelio ascoltava la sentenza con volto più maravigliato che tristo.
Letta la sentenza il cancelliere domandogli se avesse qualche cosa a
dire:

— Affè! no, rispose; ma confesso solamente che tra tutte le cause
di morte, che un uomo cauto può prevenire per iscansarle, non ho mai
neppure per immaginazione pensato a questa.

Alla qual risposta il cancelliere salutò Cornelio Van Baerle con
tutta la considerazione che tal sorta di funzionarii accordano ai gran
delinquenti di ogni genere. Ed essendo per escire:

— A proposito, signor cancelliere, disse Cornelio, per qual giorno è la
cosa, se non vi dispiace?

— Oh! per oggi, rispose il cancelliere un poco piccato dal sangue
freddo del condannato.

Scoppiò un singulto dietro la porta. Cornelio si sporse per vedere
da chi venisse; ma Rosa aveva indovinato la mossa ed erasi tirata
indietro.

— E, soggiunse Cornelio, a qual’ora l’esecuzione?

— Signore, pel mezzogiorno.

— Diavolo! mi pare, se non sbaglio, aver sentito battere le dieci
almeno da venti minuti fa. Non ho tempo da perdere.

— Per riconciliarvi con Dio, sì, o signore, disse il cancelliere
salutandolo profondamente, e potete chiedere quel ministro che vi
piacerà.

Dicendo queste parole escì all’indietro, e il carceriere provvisorio
affrettavasi a seguirlo chiudendo l’uscio di Cornelio, quando un
candido braccio tutto tremante s’interpose tra quell’uomo e la porta
pesante.

Cornelio non vide che la cuffia d’oro a orecchiette di merletti
bianchi, acconciatura delle belle Frisone; ei non intese che un
bisbiglio all’orecchio dello sbirro; ma costui mise le sue chiavi
pesanti nella bianca mano a lui stesa, e scendendo alcuni scalini si
sedette a mezza scala, da lui guardata all’alto, al basso dal cane.

La cuffia d’oro fece un volta faccia, e Cornelio riconobbe il viso
irrigato di pianto e i grandi occhi turchini tutti bagnati della bella
Rosa.

La giovine avanzossi verso Cornelio, appoggiando le sue due mani
sull’affranto suo petto.

— Oh! signore! signore! diss’ella.

E non potè dirè altro.

— Mia bella ragazza, replicò commosso Cornelio, che desiderate da me?
Ormai non ho da star molto su questa terra, voi già lo sapete.

— Signore, vengo a chiedervi una grazia, stendendo un po’ le braccia
verso Cornelio e un po’ verso il cielo.

— Racconsolatevi, o Rosa, disse il prigioniero; imperciocchè le vostre
lacrime mi commovono assai più della mia morte vicina. E, voi il
sapete, più il prigioniero gli è innocente, più deve incontrare la
morte con calma e ancora con gioia, dappoichè egli muore martire. Via,
non piangete più e ditemi il vostro desiderio, mia bella Rosa.

La giovinetta si lasciò cadere in ginocchio:

— Perdonate a mio padre, diss’ella.

— A vostro padre? ammirò Cornelio.

— Sì, gli è stato così duro per voi! ma gli è così per natura, gli
è così con tutti, e non siete solamente voi che ha così brutalmente
trattato.

— È punito, cara Rosa, più che punito pel caso accadutogli, e gli
perdono.

— Grazie! disse Rosa. E adesso, ditemi, poss’io invece qualcosa per voi?

— Potete asciugare i vostri begli occhi, cara fanciulla, rispose
Cornelio col suo dolce sorriso.

— Ma per voi... per voi...

— Chi non ha da vivere che un’ora, è un gran sibarita, se gli ha
bisogno di qualche cosa, mia cara Rosa.

— Il ministro che vi era stato offerto?...

— Ho adorato Dio per tutta la mia vita, o Rosa. Io l’ho adorato nelle
sue opere, benedetto nella sua volontà. Dio non può aver nulla contro
di me, io non chiederovvi dunque un ministro. L’ultimo pensiero che mi
occupa, o Rosa, è tutto volto a glorificare Iddio. Aiutatemi, mia cara,
ve ne prego, nel compimento di quest’ultimo pensiero.

— Ah! signor Cornelio, parlate, parlate! esclamò la giovine inondata di
lacrime.

— Datemi la vostra bella mano, e promettetemi di non ridere, mia
fanciulla.

— Ridere! esclamò Rosa con dispiacenza, ridere in questo momento? Ma
non mi avete dunque guardato, signor Cornelio?

— Io vi ho guardato, o Rosa, e con gli occhi del corpo e con gli occhi
dell’anima. Giammai mi si è offerta dinanzi donna più bella e anima più
pura; e se fin d’ora non vi guardo più, perdonatemi, perchè pronto a
lasciare la vita, amo meglio di non aver nulla a rimpiangervi.

Rosa trasalì. Mentre il prigioniero proferiva queste parole, battevano
le undici alla torre del Buitenhof. Cornelio la comprese.

— Sì, sì, spicciamoci, diss’egli; avete ragione, o Rosa.

Allora cavando dal petto, dove aveala nascosta dappoichè non aveva più
paura di essere frugato, la carta che involtava i tre talli:

— Anima mia bella, soggiunse, ho molto amato i fiori in tempi, in cui
io ignorava che si può amare qualche altra cosa. Oh! non arrossite,
non vi volgete altrove, o Rosa, non sono per farvi una dichiarazione
di amore. Ciò, povera giovine, non avrebbe scopo; che avvi laggiù sul
Buitenhof un certo ordigno che tra sessanta minuti farà ragione della
mia temerità. Amo dunque i fiori, o Rosa, e avevo trovato, lo credo
almeno, il segreto del gran tulipano nero, che si crede impossibile
e che è, lo sappiate o non lo sappiate, l’oggetto di un premio di
centomila fiorini proposto dalla società orticola di Harlem. Questi
centomila fiorini — e Dio sa che io non mi lagno per essi — questi
centomila fiorini io li ho in questa carta; che sono guadagnati con i
tre talli che racchiude e che voi potete prendere, o Rosa, chè io ve li
dono.

— Signor Cornelio...

— Oh! li potete prendere, o Rosa, non fate torto a nessuno. Io sono
solo al mondo; mio padre e mia madre sono morti; non ho mai avuto
nè fratelli nè sorelle; non ho mai pensato ad amare persona di
cuore, e se qualcuna ha pensato ad amarmi, io non l’ho mai saputo.
D’altronde vedete bene, o Rosa, che sono abbandonato, dappoichè
voi sola a quest’ora siete nella mia segreta mia consolatrice e mia
incoraggiatrice.

— Ma, signore, centomila fiorini...

— Ah! l’è una cosa seria, cara fanciulla, disse Cornelio. Centomila
fiorini saranno una bella dote alla vostra bellezza; voi li avrete i
centomila fiorini, perchè sono sicuro dei miei talli. Voi li avrete
dunque, mia cara Rosa, e non vi domando in contraccambio che la
promessa di sposare un bravo giovine, che vi ami quanto io amai i
fiori. Non m’interrompete, o Rosa, ho pochi minuti più...

La povera figlia soffocava i suoi singulti. Cornelio le prese la mano.

— Ascoltatemi, continuò egli; ecco come farete. Prenderete della terra
del mio giardino di Dordrecht; chiederete a Butruysheim mio giardiniere
del terriccio della mia casella n.º 6; vi pianterete in una cassetta
profonda questi tre talli, che fioriranno nel maggio prossimo, che è
quanto dire tra sette mesi; e quando vedrete il fiore nel suo boccio,
passate le notti a guarantirlo dal vento, il giorno a salvarlo dal
sole. Il fiore sarà nero, ne sono sicuro. Allora farete prevenire il
presidente della società di Harlem, che farà constatare dal consiglio
il colore del fiore, e vi saranno contati i centomila fiorini.

Rosa gettò un gran sospiro.

— Adesso, disse Cornelio, asciugandosi una lacrima affacciatasi
all’orlo della sua palpebra e che era tributata più a quel maraviglioso
tulipano nero che non doveva ormai vedere, che alla vita ch’ei doveva
lasciare, io non desidero più niente se non che il tulipano si chiami
_Rosa Barlaeensis_, cioè che richiami al tempo stesso il vostro nome e
il mio; e non sapendo voi punto di latino, facilissimamente vi potreste
dimenticare di tali parole, fate che io abbia un apis e della carta,
che ve le scrivo.

Rosa singhiozzando forte, porsegli un libro rilegato in sommacco, che
portava le iniziali C. W.

— Che cosa è? domandò il prigioniero.

— Ahimè! rispose Rosa, è la Bibbia del vostro compare Cornelio de
Witt, in cui attinse la forza di subire la tortura e di ascoltare
senza impallidire la sua sentenza. L’ho trovata in questa stanza dopo
la morte del martire e la conservo come una reliquia; ve l’avevo oggi
portata, perchè mi pareva che questo libro avesse in sè questa forza
tuttaffatto divina. Voi non avete avuto bisogno di questa forza che
Dio vi ha concessa. Che sia lodato! scriveteci sopra ciò che avete da
scrivere e, per quanto io abbia la disgrazia di non saper leggere, sarà
fatta la vostra volontà.

Cornelio prese la Bibbia e la baciò rispettosamente, dicendo:

— Con che scriverò io?

— Vi ha dentro un apis, disse Rosa. Vi era, e l’ho conservato.

Era l’apis che Giovanni de Witt aveva prestato a suo fratello e che non
aveva pensato a riprendere.

Cornelio lo prese e sulla seconda pagina, — perchè, rammentiamoci, la
prima era stata staccata, — presso a morte come il suo compare egli
scrisse con mano non meno ferma.

  «Il 23 agosto 1672, sul punto di rendere, benchè innocente, l’anima
  mia a Dio sopra di un palco, io lego a Rosa Grifo il solo bene
  che siami restato di tutti i miei beni in questo mondo, gli altri
  essendo stati confiscati; io lego, ripeto, a Rosa Grifo tre talli,
  che nella mia convinzione profonda devono dare nel mese di maggio
  prossimo il gran tulipano nero, oggetto del premio de’ cento mila
  fiorini proposti dalla società di Harlem, desiderando che ella
  riceva que’ cento mila fiorini in mio luogo e vece e come mia unica
  erede col solo obbligo di sposare un giovine della mia età a un
  circa, che l’ami e sia da lei amato, e di dare al gran tulipano
  nero, che creerà una nuova specie, il nome di _Rosa Barlaeensis_
  dal suo ed il mio nome congiunti.

  «Dio mi accordi grazia, a lei salute!

                                             «Cornelio VAN BAERLE.»

Poi dando la Bibbia a Rosa le disse:

— Leggete.

— Ahimè! rispose la giovinetta, già ve l’ho detto che non so leggere.

Allora Cornelio lesse a Rosa il testamento ch’egli aveva fatto. I
singulti di quella povera giovine si raddoppiarono.

— Accettate le mie condizioni? interrogò il prigioniero
melanconicamente sorridendo, e baciando la punta delle dita tremanti
della bella Frisona.

— Oh! non saprei, signore, disse balbettando.

— Non lo sapete, mia ragazza? E perchè mai?

— Perchè ve n’è una delle condizioni che non saprò mantenere.

— Quale? Io credeva pertanto aver concluso il nostro trattato
d’alleanza.

— Voi mi date i centomila fiorini a titolo di dote?

— Sì.

— E per sposare un uomo che io amassi?

— Senza dubbio!

— Ebbene! signore, non è per me quel denaro. Non amerò mai nessuno e
non mariterommi mai.

E dopo queste parole pronunziate a stento, Rosa piegossi sulle
ginocchia, e sveniva di dolore; ma Cornelio spaventato di vederla così
pallida e così moribonda si affrettò di sorreggerla sulle sue braccia,
quando un passo pesante seguito da rumori sinistri risuonò per le scale
accompagnato dall’abbaiare del cane.

— Si viene a cercarvi! esclamò Rosa incrociando le mani. Mio Dio! mio
Dio! avete più altro a dirmi, o signore?

E cadde in ginocchio, con la testa nascosta tra le sue mani e soffocata
dai singulti e dalle lacrime.

— Ho a dirvi che nascondiate preziosamente i vostri tre talli, e che
ne abbiate cura secondo le prescrizioni che vi ho date, per amor mio.
Addio Rosa.

— Oh! sì, disse Rosa senza alzare la testa, oh! sì farò tutto quello
che avete detto; fuorchè di maritarmi, soggiunse a voce bassa, perchè
questo, oh! questo io lo giuro, mi è cosa impossibile.

E cacciò nel suo seno palpitante il caro tesoro di Cornelio.

Il romore che avevano sentito Cornelio e Rosa, facevalo il cancelliere
che tornava a cercare il condannato, seguito dall’esecutore, dai
soldati destinati a guardia del palco, e dai curiosi famigli della
prigione.

Cornelio senza debolezza come senza millanteria li ricevette piuttosto
da amici che da persecutori, e feceli fare ciò che loro piacque per
l’esecuzione del loro ufficio.

Poi con un’occhiata gettata sulla piazza per la sua finestrella
inferriata scorse il palco a venti passi dal quale la forca, da cui per
ordine dello Statolder erano state distaccate le reliquie vituperate
dei due fratelli de Witt.

Quando gli convenne discendere per seguire le guardie, Cornelio ricercò
con gli occhi l’angelico sguardo di Rosa, ma non vide dietro alle spade
e alle alabarde che un corpo steso presso di una panca, e una faccia
livida e mezzo velata dai lunghi capelli.

Ma Rosa cadendo esanime, aveva per obbedire al suo amico posata la mano
sulla sua giubbetta di velluto, e nell’oblio anco dei sensi, continuava
istintivamente a sorvegliare il deposito prezioso, che aveale confidato
Cornelio.

I! giovine lasciando la segreta potè travedere tra le dita serrate di
Rosa il foglio giallastro della Bibbia, sul quale Cornelio de Witt
aveva con tanto stento e con tanto dolore scritto alcune linee, le
quali, se Cornelio le avesse lette, avrebbero salvato un uomo e un
tulipano.



XII

L’esecuzione.


Cornelio non aveva che trecento passi a fare fuori della prigione per
arrivare a piè del palco. In fondo alla scala il cane lo guardò passare
tranquillamente; Cornelio credè pure rimarcare negli occhi del mastino
una certa espressione di dolcezza che confinasse con la compassione.
Forse il cane conosceva i condannati, e mordeva solo quelli che
escissero liberi.

Si capisce bene che quanto più il tragitto era corto dalla porta della
prigione a piè del palco, tanto più era ingombro di curiosi. Erano li
stessi, che iniquamente inebriati dal sangue che avevano già bevuto tre
giorni innanzi, attendevano una nuova vittima.

Però appena che Cornelio comparve un urlo immenso prolungossi per la
via, s’intese su tutta la superficie della piazza e si distese in tutte
le direzioni delle strade che sboccavano al palco e che erano ingombre
di accorrenti, cosicchè il palco rassomigliava a un’isola, che fossero
venute a battere onde di quattro o cinque fiumane.

In mezzo alle minacce, agli ululati e agli schiamazzi, senza dubbio per
non intenderli, Cornelio erasi tutto riconcentrato in se stesso.

A che pensava il giusto che andava a morire? Non ai suoi nemici, non
a’ suoi giudici, non a’ suoi carnefici. Pensava a’ bei tulipani, che
vedrebbe dall’alto dei cieli, sia a Ceylan, sia a Bengala, sia altrove,
allorchè assiso con tutti gl’innocenti alla destra di Dio egli potrebbe
riguardare con compassione questa terra dove erano stati scannati
Giovanni e Cornelio de Witt per aver troppo pensato alla politica, e
dove si andava a scannare Cornelio Van Baerle per aver troppo pensato
ai tulipani.

— Un colpo di spada, diceva il filosofo, e comincerà la mia bella
visione.

Solamente restava a sapersi se come al de Chalais, come al de Thou e ad
altri iniquamente uccisi, il boia non serbasse più di un colpo, quanto
dire più di un martirio al povero tulipaniere.

Non per questo Van Baerle montò meno risolutamente li scalini del suo
patibolo. Vi montò orgoglioso, che che ne fosse, di essere l’amico
dell’illustre Giovanni e il figlioccio del nobile Cornelio, che i
furfanti accalcati per vederlo avevano spezzato e arrostito tre giorni
innanzi.

S’inginocchiò, fece la sua preghiera e rimarcò non senza provare una
viva gioia, che posando la sua testa sul ceppo e tenendo gli occhi
aperti vedrebbe fino all’ultimo momento la finestra ferrata del
Buitenhof.

Era venuta finalmente l’ora di venire a quell’atto: Cornelio posò il
suo mento sul ceppo umido e freddo; ma in quel momento a suo malgrado
gli si chiusero gli occhi per sostenere più risolutamente l’orribile
fendente che era per cadergli sul collo e per rapirgli la vita.

Un lampo balenò sul tavolato del palco: il boia sguainava la spada.

Van Baerle disse addio al gran tulipano nero, certo di svegliarsi
dando il buon giorno a Domeneddio in un mondo altramente illuminato,
altramente colorito.

Tre volte sentì il vento freddo della spada passare sul suo collo
rabbrividito; ma oh! sorpresa! non sentì nè dolore nè scossa; non vide
nessun cambiamento di sorta.

Poi ad un tratto, senzachè egli sapesse da chi, Van Baerle si sentì
rialzare da mani assai delicate, e bentosto ritrovossi ritto su’ suoi
piedi un pochetto barcollanti.

Riaprì gli occhi. Qualcuno leggeva qualche cosa presso di lui sopra una
cartapecora con un gran suggello di ceralacca.

E il medesimo sole giallastro, come conviensi a un sole olandese,
splendeva in cielo e la medesima finestra ferrata lo guardava dall’alto
del Buitenhof, e i medesimi marrani non più urlanti ma sbigottiti,
riguardavanlo dal basso della piazza.

A forza di aprire gli occhi, di riguardare, di ascoltare, Van Baerle
cominciò a comprendere questo: Che monsignor Guglielmo principe di
Orange, temendo senza dubbio che le diciassette libbre di sangue,
che Van Baerle oncia più oncia meno aveva nel corpo, non facessero
traboccare la bilancia della giustizia celeste, aveva avuto
misericordia del suo carattere, compassione della sua innocenza.

In conseguenza di che sua Altezza aveagli fatto grazia della vita.
Ecco perchè la spada, che erasi alzata con reflesso sinistro,
aveva volteggiato tre volte attorno la sua testa, come l’uccello di
malaugurio attorno a quella di Turno; ma non l’aveva percosso e perciò
ne aveva lasciate intatte le vertebre.

Ecco perchè non aveva sentito nè dolore nè scossa. Ecco ancora
perchè il sole continuava a ridere nell’azzurro slavato, è vero, ma
sopportabilissimo delle volte celesti.

Cornelio che aveva sperato Dio e il panorama tulipanico dell’universo,
rimase un poco sconcertato, ma si consolò della sua non trista
avventura con le risorse intellettuali di quella parte del corpo, che i
Greci chiamavano _trachelos_, e che noi Francesi modestamente nominiamo
collo.

E poi Cornelio sperò che la grazia fosse completa, e che si liberasse e
si rendesse alle sue caselle di Dordrecht.

Ma Cornelio prese un _qui pro quo_; come diceva verso il medesimo
tempo la signora di Sévigné, eravi un _post-scriptum_ alla lettera,
e la parte più importante della lettera era nel _post-scriptum_ col
quale Guglielmo Statolder d’Olanda condannava Cornelio Van Baerle a una
perpetua prigionia.

Egli era poco colpevole per la morte, ma troppo colpevole per la
libertà.

Cornelio ascoltò dunque il _post-scriptum_, poi dopo la prima
contrarietà sollevata dalla decezione, che recava il _post-scriptum_:

— Eh! pensò egli, non è tutto perduto; che nella risoluzione perpetua
avvi del buono: vi ha Rosa, sonvi ancora i miei tre talli del tulipano
nero.

Ma Cornelio dimenticava che le Sette Province possono avere sette
prigioni, una per provincia; e che il pane del prigioniero è d’altronde
meno caro all’Aya che in una capitale.

Sua Altezza Guglielmo, che non aveva, a quello che pareva, i mezzi
di alimentare Van Baerle all’Aya lo recluse in prigione a vita nella
fortezza di Loevestein ben presso a Dordrecht, ma ahimè! ben troppo
lontano; benchè Loevestein, dicono ì geografi, sia situato alla punta
dell’isola, la quale in faccia a Gorcum formano il Wahal e la Mosa.

Van Baerle sapeva molto ben la storia del suo paese per non ignorare
che il celebre Grozio era stato recluso in quel castello dopo la
morte di Barneveldt, e che li Stati nella loro generosità verso il
celebre pubblicista, giureconsulto, istorico, poeta, teologo, aveangli
accordato la somma di ventiquattro soldi di Olanda al giorno pel suo
mantenimento.

— Io che sono ben lontano da valere quanto Grozio, diceva a se stesso
Van Baerle, mi si daranno dodici soldi al più, e vivrò malamente, ma
pure vivrò.

Poi a un tratto colpito da una ricordanza terribile:

— Ah! sclamò Cornelio, quel paese è umido e nebbioso! quel terreno
è cattivo pe’ tulipani! E di più Rosa non sarà a Loevestein, mormorò
lasciandosi cadere sul petto la testa, che poco era mancato che non gli
cadesse più basso.



XIII

Ciò che in quel tempo passava nell’animo di uno spettatore.


Mentrechè Cornelio così divagava col pensiero, una carrozza erasi
avvicinata al palco. L’era pel prigioniero, e vi si invitò a montare.
Obbedì.

Il suo ultimo sguardo fu pel Buitenhof; sperava vedere alla finestra
la faccia consolatrice di Rosa, ma la carrozza era attaccata a
buoni cavalli, che trasportarono ben presto Van Baerle dal seno
delle acclamazioni, che vociferava quella moltitudine in onore del
magnanimissimo Statolder con una certa mescolanza di invettive diretta
ai de Witt e al loro figlioccio salvata dalla morte.

E li spettatori perciò pensavano:

— È stata una gran bella cosa la nostra furia di giustiziare quel gran
scellerato di Giovanni e quella buona lana di Cornelio, senza che la
clemenza di Sua Altezza ce li avrebbe liberati come ha liberato costui!

Tra tutti quelli spettatori che erano stati attirati sul Buitenhof
dalla esecuzione di Van Baerle, e che la faccenda come l’era andata,
dissestava non poco, certamente il più dissestato era un certo
borghigiano vestito propriamente, e che fin dalla mattina aveva
così ben lavorato di mani e di piedi, che avea fatto tanto da non
essere separato dal palco che dalla fila di soldati, che chiudevano
l’istrumento del supplizio.

Erasi mostrato molto avido di vedere scorrere il _perfido_ sangue del
colpevole Cornelio; ma nessuno nella espressione del funesto desiderio
avea mostrato l’accanimento del borghigiano in questione.

I più arrabbiati erano venuti alla punta del giorno sul Buitenhof per
avere un posto migliore; ma costui più arrabbiato degli arrabbiati
aveva passato la notte alla soglia della prigione, e dalla prigione
era arrivato alla prima fila, come abbiamo detto, _unguibus et rostro_,
graffiando gli uni, urtando gli altri.

E quando il boia ebbe condotto il suo condannato sul palco, il
borghigiano montato sul parapetto della fontana per meglio vedere
ed essere meglio veduto, aveva fatto al carnefice un gesto che
significava:

— È fissato, eh?

Gesto al quale il boia aveva risposto con un altro gesto che voleva
dire:

— Sta bene.

Chi era dunque il borghigiano che pareva tanto intrinseco del boia, e
che voleva dire tal ricambio di gesto?

Niente di più naturale; il borghigiano era Isacco Boxtel, che dopo
l’arresto di Cornelio, come abbiamo visto, era venuto all’Aya per far
di tutto onde appropriarsi i tre talli del tulipano nero.

Boxtel aveva sulle prime pensato di interessarvi Grifo; ma costui in
quanto a fedeltà, a diffidenza e a mancinate aveva del _bouledogue_.
Aveva in conseguenza preso contropelo l’odio di Boxtel, avealo
battezzato come un ardente amico che figurando indifferenza si
maneggiasse certamente di trovare un qualche mezzo di fare evadere il
prigioniero.

Però alla prima proposizione fatta a Grifo da Boxtel, di sottrarre
cioè i talli, che Van Baerle se non in seno, per lo meno in qualche
cantuccio della sua segreta doveva avere nascosto, Grifo non aveva
risposto che con una scarica accompagnata dalle carezze del cane
guardiano della scala.

Boxtel non si era perduto di coraggio ad onta di un brano di calzoni
rimasto tra’ denti del mastino. Era tornato alla carica; ma questa
volta Grifo era in letto, febbricitante e col braccio rotto. Egli
dunque non aveva neppure ammesso il postulante, che erasi rivolto
a Rosa, offrendo a quella giovinetta, in cambio dei tre talli
un’acconciatura d’oro puro. Il perchè la nobile giovinetta ancora
insciente del valore del furto che le si proponeva fare, e che le si
offriva pagare così bene, aveva rinviato il tentatore al boia non solo
ultimo giudice, ma ancora ultimo erede del condannato.

Questo rinvio fece nascere nello spirito di Boxtel un’idea. In questo
mezzo la sentenza era stata pronunziata; sentenza espeditiva, come
abbiamo visto. Isacco dunque non ebbe tempo di corrompere nessuno; e
per conseguenza si fermò all’idea suggeritagli da Rosa; andò a trovare
il boia.

Isacco non dubitava che Cornelio morisse co’ suoi tulipani sul cuore;
perchè non poteva indovinare due cose:

Rosa, cioè l’amore;

Guglielmo, cioè la clemenza.

Meno Rosa e meno Guglielmo il calcolo dell’invidioso sarebbe stato
giusto.

Meno Guglielmo, Cornelio sarebbe morto; meno Rosa, Cornelio sarebbe
morto co’ suoi talli sul cuore.

Boxtel andò dunque a trovare il boia, si diede a costui come uno dei
grandi amici del condannato, e meno gli oggetti d’oro e di argento
comprò ogni spoglia del futuro morto per la somma un po’ eccessiva di
cento fiorini.

Ma cosa era una somma di cento fiorini per un uomo lì lì per tal somma
sicuro di comprare il premio della società d’Harlem?

Era lo stesso che mettere il denaro a mille per uno, onde bisogna
convenire che era molto bene allogato.

Il boia dal canto suo non aveva niente o quasi niente a fare per
guadagnare i suoi cento fiorini; solamente doveva a esecuzione finita
lasciar montare il bravo Boxtel sul palco col suo servo per raccogliere
gli esanimi avanzi del suo amico.

La cosa del resto era in uso tra i fedeli, quando uno dei loro maestri
moriva pubblicamente sul Buitenhof. Un fanatico, com’era Cornelio,
poteva aver bene un altro fanatico, il quale desse cento fiorini per le
sue reliquie.

Però il boia accondiscese alla proposizione. Non aveva premesso che una
condizione: di essere pagato avanti.

Boxtel, come tutti coloro che entrano nella baraonda della fiera,
poteva non essere contento e per conseguenza non voler pagare che alla
consegna; ma pagò avanti, e aspettò.

Giudichi ognuno da questo, se Boxtel fosse agitato, se invigilasse
guardie, cancelliere, esecutore, e se lo inquietassero i movimenti di
Van Baerle. Come si aggiusterebbe sul ceppo? Come cadrebbe? Cadendo
non potrebbe schiacciare l’inestimabili talli? Avrebbe avuto la cura di
chiuderli in una scatoletta d’oro, exempli grazia essendo l’oro il più
duro di tutti i metalli?

Noi lascieremo di descrivere l’effetto prodotto sopra questo degno
mortale per l’ostacolo sopravvenuto alla esecuzione della sentenza. A
che dunque il boia perdeva il suo tempo a sventolare la sua spada così
al disopra della testa di Cornelio invece di troncarla? Ma quando vide
il cancelliere prendere la mano del condannato, rialzarlo tirando fuora
di tasca una pergamena; quando intese la lettura pubblica della grazia
accordata dallo Statolder, Boxtel non fu più un uomo. La rabbia del
tigre, del jena e del serpente schizzò da’ suoi occhi, dal suo grido,
dal suo gesto; se egli fosse stato a portata di Van Baerle, sarebbesi
gettato su lui e avrebbelo assassinato.

Così dunque Cornelio vivrebbe, e andrebbe a Loevestein; là nella sua
prigione porterebbe i talli e troverebbevi un giardino, dove potrebbe
far fiorire il tulipano nero.

Sonvi certe catastrofi che la penna di un povero scrittore non possono
descrivere, e che egli è costretto lasciarle alla imaginazione de’ suoi
lettori in tutta la semplicità del fatto.

Boxtel scornato cadde dal suo muricciuolo sopra alcuni orangisti
scontenti come lui dal giro che andava a prendere l’affare, i quali
pensando che i gridi cacciati dal bravo Isacco fossero gridi di gioia,
lo gratificarono di pugni di tutto carato, i quali certo non sarebbero
stati meglio consegnati al di là dello stretto.

Ma un pugno più o meno non poteva accrescere il dolore che provava
allora Boxtel. Volle correr dietro alla carrozza che portava Cornelio
co’ suoi talli; ma nella sua furia non vide un lastrone, inciampicò,
perdette il suo centro di gravità, ruzzolò a dieci passi di distanza,
e non rialzossi che calpestato, ammaccato, solo quando tutto il fangoso
popolaccio dell’Aya gli ebbe passato di sopra.

Anco in questa circostanza Boxtel, che era in vena di malanni,
ebbe pure tutti gli abiti stracciati, il dosso ammaccato e le mani
sgraffiate.

Sarebbesi potuto credere che tutto ciò fosse assai pel nostro Boxtel;
ci si sarebbe ingannati.

Rizzatosi, stracciossi a tutta possa i capelli, e gettolli in olocausto
a quella divinità feroce e insensibile che chiamasi Invidia.

La fu senza dubbio un’offerta gradita a quella divinità che non ha,
dice la Mitologìa, che serpenti per capigliatura.



XIV

I piccioni di Dordrecht.


Era già un grande onore per Cornelio Van Baerle d’essere recluso
precisamente in quella medesima prigione, che aveva ospitato il
sapiente Grozio.

Ma una volta giunto alla prigione, un onore ben più grande attendevalo.
Si combinò che la stanza abitata dall’illustre amico di Barneveldt era
vuota a Loevestein, quando la clemenza del principe d’Orange v’inviò il
tulipaniere Van Baerle.

Questa stanza aveva una ben pessima reputazione nel castello, dacchè
grazie all’inventiva di sua moglie, Grozio se n’era fuggito nella
famosa cassa da libri, che si era trascurato di visitare.

Dall’altro canto ciò parve di buono augurio a Van Baerle, che quella
stanza gli fosse data per alloggio; perchè alla fin fine, secondo
la sua maniera di vedere, non avrebbero mai dovuto fare abitare ad
un secondo piccione la colombaia, donde un primo si fosse facilmente
involato.

La stanza è istorica; ma non perderemo il nostro tempo a descriverla
per filo e per segno. Salvo un’alcova che era stata appositamente
fatta per la signora Grozio, l’era una stanza da prigione come tutte
le altre, forse un po’ più sfogata; cosicchè avevasi dalla finestra
ferrata una incantevole veduta.

D’altronde l’interesse della nostra storia non è in un certo numero di
descrizioni d’interni; e poi per Van Baerle la vita era tutt’altra cosa
che un apparecchio respiratorio. Il povero prigioniero amava al di là
della sua macchina pneumatica due cose, di cui soltanto il pensiero,
questo libero viaggiatore, potevagli ormai fornire il fittizio
possesso: un fiore e una donna, l’uno e l’altra da lui per sempre
perduti.

Ingannavasi per bonomia il buon Van Baerle. Dio che avealo nel
momento che andava al patibolo, riguardato col sorriso di padre,
Dio riserbavagli nel seno stesso della sua prigione, nella stanza di
Grozio, l’esistenza la più avventurata che sia mai toccata in sorte a
un tulipaniere.

Una mattina stando alla finestra a respirare l’aria fresca, che saliva
dal Wahal, e ad ammirare in lontananza dietro una foresta di cammini i
molini di Dordrecht sua patria, vide dei piccioni volare in frotta, da
quel punto dell’orizzonte, e appollaiarsi, spollinandosi al sole, sugli
acuti comignoli di Loevestein.

— Que’ piccioni, disse tra sè Van Baerle, vengono da Dordrecht
e conseguentemente vi debbono ritornare. Chi gli attaccasse un
fogliettino sotto un’ala, correrebbe il rischio di far sapere le sue
nuove a Dordrecht dove l’è pianto.

Poi dopo un momento di meditazione:

— Sta a me, soggiunse, a prenderne qualcuno.

Si è pazienti, quando si ha vent’otto anni e che si è condannati a una
perpetua prigionia, che equivale giù per su a ventidue o ventitre mila
giorni di reclusione.

Van Baerle pensando solo a’ suoi tre talli, — perchè questo pensiero
batteva sempre nel fondo della sua memoria come batte il cuore nel
fondo del petto, — Van Baerle, diciamo, pensando solo ai suoi tre
talli, tese un aguato ai piccioni. Ei tentò quei volatili con tutte le
risorse della sua cucina, otto soldi di Olanda (dodici di Francia) e a
capo di un mese d’infruttuosi tentativi, prese alla fine una femmina.

Gli ci vollero due altri mesi per prendere un maschio; poi li mise
insieme, e verso il principio dell’anno 1673, avendo fatto le uova,
diede la via alla femmina, che fidando nel maschio che le covasse in
suo luogo, se ne andò tutta gioiosa a Dordrecht col suo bigliettino
sotto l’ala.

Ritornò la sera: aveva ancora il biglietto. Lo conservò così per
quindici giorni; dapprima con grave sconcerto, poi con gran dispiacere
di Van Baerle. Finalmente il sedicesimo tornò senza.

Ora Van Baerle indirizzava quel biglietto alla sua balia, la vecchia
Frisona, e supplicava le anime caritatevoli che lo trovassero, di
farlo a lei recapitare con la maggiore sicurezza e la maggior prontezza
possibile.

Dentro a quel biglietto per la balia era un bigliettino per Rosa.

Dio che porta col suo soffio i semi di capperi sulle muraglie dei
vecchi castelli, e con un poco di pioggia falli fiorire, Dio permise
che la balia di Van Baerle ricevesse quella lettera.

Ed ecco come. Lasciando Dordrecht per l’Aya e l’Aya per Gorcum,
Isacco Boxtel aveva abbandonato, non solo la casa sua, non solo il
suo servitore, non solo il suo osservatorio, non solo i suoi tulipani,
ma ancora i suoi piccioni. Il domestico, lasciato senza provvisione,
cominciò dal mangiare quel poco che avea di risparmi, e poi si mise a
mangiare i piccioni; il che questi vedendo, emigrarono dalla colombaia
di Boxtel a quella di Van Baerle.

La balia aveva buon cuore, chè sentiva il bisogno di amare una qualche
cosa. Ella fece stretta amicizia con quei piccioni venuti a chiederle
ospitalità; e quando il servitore d’Isacco reclamò, per mangiarli,
i dodici o quindici ultimi, come aveva mangiato i dodici o quindici
primi, la buona donna gli offrì di comprarli pagando sei soldi d’Olanda
all’uno.

L’era il doppio del valore dei piccioni; il perchè il servitore accettò
con gioia il prezzo offerto.

La balia dunque trovavasi legittima padrona dei piccioni
dell’invidioso; i quali erano mescolati con altri che nelle loro
peregrinazioni visitavano l’Aya, Loevestein, Rotterdam, andando senza
dubbio in cerca di biada di un’altra natura, di canape di un altro
gusto.

Il caso, o piuttosto Dio, chè Dio solo ci vede a fondo, Dio permise che
Cornelio Van Baerle avesse preso per l’appunto uno di quei piccioni.

Ne resultò che se l’invidioso non avesse abbandonato Dordrecht per
seguire il suo rivale all’Aya sulle prime, e poi di seguito a Gorcum
o a Loevestein, come si vedrà, non essendo que’ due luoghi separati
che dalla giunzione del Wahal con la Mosa, il biglietto scritto da Van
Baerle sarebbe caduto nelle sue mani e non in quelle della balia; di
modo che il povero prigioniero, come il corvo del ciabattino romano,
avrebbe perduto tempo e fatica, e noi, invece d’avere a raccontare i
varii casi che simili a un tappeto a mille colori vanno a svolgersi
sotto la nostra penna, noi non avremmo avuto a descrivere che una lunga
serie di giorni, pallidi, tristi e cupi come il manto della notte.

Il biglietto cadde dunque nelle mani della balia di Van Baerle;
imperò verso i primi giorni di febbraio, quando le prime ore di sera
discendevano dal cielo, lasciando dietro a sè le stelle nascenti,
Cornelio intese nella scala della torricella una voce che fecelo
trasalire.

Si posò le mani sul cuore e stette in orecchi. Era la dolce e armoniosa
voce di Rosa.

Confessiamolo, Cornelio non fu però così stordito dalla sorpresa e così
fuor di sè dalla gioia, quanto lo sarebbe stato senza la storia del
piccione; il quale aveagli recato in cambio sotto la sua ala una lieta
speranza; e stava ogni giorno in espettativa, perchè, se il biglietto
le fosse rimesso, conosceva Rosa, di aver nuove del suo amore e de’
suoi talli.

Si alzò, porse l’orecchio, chinando il capo verso la porta. Sì, l’era
la voce che così dolcemente avealo commosso all’Aya.

Ma ora che Rosa aveva fatto il viaggio dall’Aya a Loevestein, che
era riuscita, Cornelio non sapeva come, a penetrare nella prigione,
giungerebb’ella così felicemente a penetrare fino al prigioniero?

Mentrechè Cornelio a tal proposito accatastava pensiero sopra pensiero,
desiderii sopra inquietudini, lo sportello posto alla porta della
sua cella si aperse, e Rosa brillante di gioia, d’aspetto, e bella
soprattutto per l’angoscia che da cinque mesi aveva impallidito le sue
guancie, Rosa accostossi alla ferrata di Cornelio, dicendogli:

— Oh! signore, signore, eccomi!

Cornelio stese le braccia, guardò il cielo, e cacciò un grido di gioia.

— Oh! Rosa, Rosa! esclamò.

— Zitto! Parliamo sotto voce, che mio padre m’è dietro, disse la
giovinetta.

— Vostro padre?

— Sì, gli è giù in corte in fondo alla scala, che riceve le istruzioni
dal governatore, e sale.

— Le istruzioni dal governatore?...

— Sentite, vi racconto tutto in due parole. Lo Statolder ha una villa
a cinque miglia da Leida, o piuttosto una gran cascina, e non altro; la
sua balia è mia zia, che ha la direzione di tutti gli animali che sono
chiusi in quella masseria. Dacchè ho ricevuto la vostra lettera, che
non ho potuto leggere, ahimè! ma che mi ha letto la vostra balia, sono
corsa dalla mia zia; là sono rimasta fino a che il principe venne alla
cascina, e appena vi giunse, gli domandai, che mio padre fosse promosso
dalle sue funzioni di primo soprastante della prigione dell’Aya a
quello di carceriere alla fortezza di Loevestein. Ei non sospettò
affatto del mio fine; che se lo avesse anche trapelato, forse me lo
avrebbe recusato, ed invece me lo concesse.

— Di sorte che eccovi qui?

— Come vedete.

— Di modo, che vi vedrò tutti i giorni?

— Il più spesso che potrò.

— O Rosa! mia bella Rosa! disse Cornelio; voi dunque mi amate un poco?

— Un poco... diss’ella, oh! voi non siete troppo esigente, signor
Cornelio.

Cornelio le stese passionatamente le mani; ma le sole loro dita
poterono toccarsi a traverso la ferrata.

— Ecco mio padre! disse la giovanetta.

E Rosa lasciò prontamente la porta e si lanciò verso il vecchio Grifo,
che appariva in cima alla scala.



XV

Il Carceriere.


Grifo era seguito dal mastino, che facevagli fare la sua ronda perchè
all’occasione riconoscesse i prigionieri.

— Babbo, l’è qui la famosa stanza donde Grozio evase; l’avete sentito
nominare, Grozio?

— Sì, sì, quel mariolo di Grozio; un amico di quello scellerato di
Barneveldt, che io vidi giustiziare quando ero bambino. Grozio! ah! ah!
evase da questa stanza. Ebbene, io scommetto che nessuno a suo esempio
potrà evadere.

E aprendo la porta, cominciò dall’oscuro a volgere il suo discorso al
prigioniero.

Quanto al cane, andando a fiutare le polpe al prigioniero, pareva gli
volesse domandare con qual diritto non fosse morto, egli che aveva
veduto uscire col cancelliere e col boia. Ma la bella Rosa chiamollo, e
il mastino obbedì.

— Signore, disse Grifo, alzando la sua lanterna per farsi un po’ di
lume all’intorno, voi vedete in me il vostro nuovo carceriere. Io sono
il capo soprastante, e le stanze tutte sono sotto la mia sorveglianza.
Non sono perverso, ma sono inflessibile per tutto ciò che concerne la
disciplina.

— Oh! vi conosco perfettamente, mio caro Grifo, disse il prigioniero
avanzandosi dentro il circolo di luce, che gettava la lanterna.

— Toh! toh! Siete voi, sig. Van Baerle, disse Grifo; oh! siete voi;
guarda, guarda, come ci si rincontra.

— Sì, e godo infinitamente, mio caro Grifo, nel vedere che il vostro
braccio va a meraviglia, perchè con quello appunto tenete la lanterna.

Grifo aggrottò il sopracciglio e rispose:

— Vedete, come va in politica, si fa sempre qualche sbaglio. Sua
Altezza vi ha lasciato la vita, e io non l’avrei fatto mai e poi mai.

— Voi? domandò Cornelio; e perchè?

— Perchè voi siete uno da cospirare nuovamente; voialtri scienziati
avete commercio col diavolo.

— Ohè! maestro Grifo, non siete stato contento del modo con cui vi ho
rimesso il braccio, ovvero del prezzo che vi ho chiesto? disse ridendo
Cornelio.

— Al contrario, perbacco! al contrario! mormorò il carceriere; me
l’avete rimesso benissimo; vi è sotto qualche stregoneria: in capo a
sei settimane io mi serviva del braccio, come nulla mi fosse accaduto.
A segno tale che il medico del Buitenhof, che sa il fatto suo, voleva
rirompermelo, per rimettermelo nelle regole, promettendomi che questa
volta starei tre mesi senza potermene servire.

— E voi non avete voluto?

— Ho detto: No. Tanto che con questo braccio possa farmi il segno della
croce (Grifo era cattolico) tanto che con questo braccio possa farmi il
segno della croce, mi rido del diavolo.

— Ma se vi ridete del diavolo, maestro Grifo, a più forte ragione vi
dovete ridere dei sapienti.

— Oh! i sapienti, i sapienti! esclamò Grifo senza rispondere alla
domanda; i sapienti! amerei meglio avere da guardare dieci soldati
che un solo sapiente. I soldati fumano, bevono, si ubriacano; sono
trattabili come pecori, quando si dà loro dell’acquavite o del vino
della Mosa; ma un sapiente ha ben altro che fumare, bere, ubriacarsi!
Gli è sobrio, stringato, e conserva la sua testa per cospirare. Ma
comincio dal dirvi che non vi sarà molto facile il cospirare; onde
punti libri, punta carta, punti grimaldelli. Grozio si salvò per i
libri.

— Vi assicuro, maestro Grifo, riprese Van Baerle, che forse per
un momento mi è venuta l’idea di salvarmi; ma che ora non ci penso
neppure.

— Va bene! va bene! rispose Grifo, vegliate su voi che io farò
altrettanto. Ci vuol pazienza, ma Sua Altezza ha fatto un brutto
sbaglio.

— Non facendomi mozzare la testa?.... Grazie, grazie, maestro Grifo.

— Senza dubbio. Guardate un po’ come ora stanno buoni i signori de Witt.

— È atroce quel che dite, o maestro Grifo, disse Van Baerle volgendosi
altrove per nascondere il suo disgusto. Voi dimenticate che uno di
quegl’infelici era mio amico e l’altro.... l’altro mio secondo padre.

— Sì, ma mi ricordo che l’uno e l’altro erano cospiratori. E poi parlo
così per filantropia.

— Ah! davvero? Spiegatemelo dunque un poco, mio caro Grifo, perchè non
lo capisco bene.

— Sì, se voi foste rimasto sul ceppo di maestro Harburck.....

— Ebbene?

— Ebbene! voi non soffrireste più. Mentre, non ve lo nascondo, son qui
per rendervi la vita dolorosissima.

— Grazie della promessa, maestro Grifo.

E mentre che il prigioniero sorrideva ironicamente al vecchio
carceriere, Rosa di dietro alla porta rispondevagli con un sorriso
pieno di angelica consolazione.

Grifo andò verso la finestra. Faceva anche tanto di giorno da vedere
senza distinguere un immenso orizzonte che perdevasi in una nebbia
grigiastra.

— Qual veduta di qui si gode? domandò il carceriere.

— Bellissima, rispose Cornelio, guardando Rosa.

— Sì, sì, troppa veduta, troppa veduta.

In quel frattempo i due piccioni spaventati dalla vista, e più dalla
voce di quello sconosciuto, escirono dal loro nido e disparvero
sbigottiti in mezzo alla nebbia.

— Oh! oh! che cosa è questa? domandò il carceriere.

— I miei piccioni, rispose Cornelio.

— I miei piccioni! esclamò il carceriere, i miei piccioni! Che forse un
prigioniero ha qualcosa di suo?

— Allora, soggiunse Cornelio, i piccioni che Dio buono mi ha imprestati.

— Ecco già una contravvenzione, replicò Grifo; dei piccioni! Ah!
giovanotto, giovanotto, io vi prevengo di una cosa, ed è che non più
tardi di dimani quegli uccelli bolliranno nella mia pentola.

— Bisognerebbe prima di tutto che voi li prendeste, disse Van Baerle.
Non volete che quei piccioni sieno miei, e vi giuro che non lo sono, ma
molto meno sono vostri.

— Il lasciato non è perso, borbottò il carceriere, e non più tardi di
dimani, loro torcerò il collo.

E nel fare questa sgarbata promessa a Cornelio, Grifo si spenzolò al di
fuori per esaminare la struttura del nido: ciò che diede campo a Van
Baerle di correre alla porta e di stringere la mano di Rosa che gli
disse:

— Stasera alle nove.

Grifo tutto occupato dal desiderio di prendere nell’indomani i
piccioni, come aveva promesso di fare, niente vide e niente intese;
e dopo chiusa la finestra prese a braccio la figlia, escì, diede due
girate alla serratura, spinse i chiavistelli e andò a fare le medesime
promesse ad un altro prigioniero.

Appena partito, Cornelio si approssimò alla porta per ascoltare lo
strepito decrescente dei passi; poi, appena acquietato, corse alla
finestra e guastò da capo a fondo tutto il nido dei piccioni.

Amava meglio di cacciarli per sempre dalla sua presenza, che esporre
alla morte i gentili messaggeri, ai quali doveva la felicità d’avere
riveduta Rosa.

La vista del carceriere, le sue minacce brutali, la cupa prospettiva
della sua sorveglianza, di cui egli conosceva gli abusi, nulla di tutto
questo potè distrarre Cornelio dai dolci pensieri e soprattutto dalla
dolce speranza, che la presenza di Rosa veniva a risuscitare nel suo
cuore.

Aspettò impazientemente che le nove suonassero all’orologio di
Loevestein.

Rosa aveagli detto: «Stasera alle nove.»

L’ultimo tocco del bronzo vibrava ancora per l’aria, quando Cornelio
intese su per le scale il passo leggiero e la veste ondeggiante della
bella Frisona, e ben presto la graticola della porta, sulla quale
desiosamente Cornelio fissava gli occhi, rischiarossi. Lo sportello
dall’altra parte si aperse.

— Eccomi, disse Rosa, ancora tutta ansante per aver salito le scale,
eccomi!

— Oh! buona Rosa!

— Siete dunque contento di vedermi?

— E lo domandate! Ma, dite come avete fatto a venire?

— Sentite, mio padre si addormenta tutte le sere non appena ha
mangiato; allora io lo metto a letto un poco stordito dallo spirito di
ginepro. Non ne fate parola, perchè grazie a questo sonno potrò ogni
sera venire a discorrere un’oretta con voi.

— Oh! ve ne ringrazio, Rosa, mia cara Rosa.

E così dicendo, Cornelio accostò la sua faccia così vicina allo
sportello, che Rosa ritirò la sua.

— Vi ho riportato, diss’ella, i vostri talli di tulipano.

Il cuore di Cornelio balzò. Non aveva ancora osato di domandare a Rosa
che cosa avesse ella fatto del prezioso tesoro che aveale confidato.

— Ah! li avete dunque conservati?

— Non me li avevate consegnati come una cosa a voi carissima?

— Sì, ma appunto perchè ve li avevo donati, sembravanmi cosa vostra.

— Miei dopo la vostra morte, ma siete vivo per fortuna. Ah! come ho
benedetto sua Altezza! Se Dio accordi al principe Guglielmo tutte le
felicità che gli ho augurato, certamente sarà l’uomo il più felice del
suo regno, ma ancora di tutta la terra. Voi siete vivo, e conservando
io la Bibbia del vostro compare, ero risoluta di riportarvi i vostri
talli; solamente io non sapeva come fare. Sul punto di prendere la
risoluzione d’andare a chiedere allo Statolder il posto di carceriere
di Loevestein per mio padre, la balia portommi la vostra lettera. Ah!
piangemmo tanto e poi tanto insieme, credetemelo; ma la vostra lettera
non fece che confermarmi nella presa risoluzione. Fu allora che partii
per Leida; voi sapete il resto.

— Come, come, mia cara Rosa, riprese Cornelio, dunque prima di vedere
la mia lettera pensavi a venirmi a trovare?

— Se io vi pensavo! rispose Rosa lasciando prendere al suo amore il di
sopra al suo pudore, non pensava che a questo!

E dicendo queste parole Rosa divenne così bella, che per la seconda
volta Cornelio precipitò la sua fronte e le sue labbra sulla graticola,
e ciò senza dubbio per ringraziare la bella giovanetta, che si ritirò
come la prima volta.

— In verità, diss’ella con quella civetteria, che palpita in cuore di
tutte le giovanette, in verità mi sono bene spesso rimproverata di non
saper leggere; ma non mai tanto e di tal maniera che quando la vostra
balia mi portò la vostra lettera. Io ho tenuto in mano mia quella
lettera che parlava per gli altri e che per me povera balorda l’era
muta.

— Voi vi siete molto spesso pentita di non saper leggere; e in quale
occasione?

— Madonna! esclamò la giovine sorridendo, per leggere tutte le lettere
che mi si scrivono.

— Voi ricevete lettere, o Rosa?

— A centinaia.

— Ma chi vi scriveva dunque?...

— Chi mi scriveva? Primieramente tutti li studenti che passavano sul
Buitenhof, tutti gli officiali che andavano alla piazza d’arme, tutti
i giovani di banco e li stessi negozianti, che mi vedevano alla mia
finestrella.

— E cosa voi facevate, mia cara Rosa, di tutti quei biglietti?

— Un tempo, rispose Rosa, me li facevo leggere da qualche amica, e ciò
mi divertiva assai; ma da poco in qua, a che prò perdere il suo tempo a
sentire tante sciempiaggini? da poco in qua le brucio.

— Da poco in qua? esclamò Cornelio con occhio a un tempo confuso tra la
gioia e l’amore.

Rosa abbassò gli occhi fattasi rossa di maniera che non vide accostarsi
le labbra di Cornelio che s’imbatterono ohimè! nella graticola; ma che
malgrado quell’ostacolo inviarono fino alle labbra della giovinetta il
soffio ardente del più tenero bacio.

A quella vampa che arse le sue labbra, Rosa divenne tanto pallida,
più pallida forse che non l’era stata al Buitenhof il giorno della
esecuzione. Ella cacciò un gemito lamentevole, chiuse i suoi begli
occhi e se ne fuggì col cuore palpitante, sforzandosi invano di
comprimere sotto la mano i palpiti del suo cuore.

Cornelio rimasto solo contentossi di aspirare il dolce profumo dei
capelli di Rosa, rimasto come prigioniero tra le sbarre.

Erasi Rosa così precipitosamente ritirata, che avea dimenticato di
rendere a Cornelio i tre talli del tulipano nero.



XVI

Maestro e Scolara.


Quel buonuomo di Grifo, come si è visto, era ben lungi di divider la
buona volontà di sua figlia verso il battezzato di Cornelio de Witt.

Non aveva che cinque prigionieri al Loevestein; l’incarico di
carceriere non era dunque difficile a disimpegnarsi, e l’ergastolo era
una specie di riposo accordato alla sua età.

Ma nel suo zelo il degno carceriere aveva ingigantito con tutta la
potenza della sua immaginazione l’officio statogli imposto. Per lui
Cornelio aveva preso la proporzione gigantesca di un delinquente di
prima classe; ed era in conseguenza per lui divenuto il più pericoloso
de’ suoi prigionieri. Sorvegliava ogni suo movimento e lo lasciava
sempre con viso crucciato, facendogli portare la pena, com’egli diceva,
della sua orribile ribellione contro il clemente Statolder.

Egli visitava tre volte il giorno la stanza di Van Baerle, credendo
sorprenderlo in fatto; ma Cornelio aveva renunziato alle corrispondenze
dacchè aveva presso la sua corrispondente. È parimente probabile che
Cornelio se avesse ottenuto la sua intiera libertà e pieno permesso di
ritirarsi ovunque gli fosse piaciuto, avrebbe preferito a ogni altro
domicilio il domicilio della prigione con Rosa e con i suoi talli.

E di fatti ogni sera alle nove Rosa aveva promesso di venire a
discorrere col caro prigioniero, e fin dalla prima sera, lo abbiamo
visto, Rosa aveva mantenuta la parola.

L’indomani ella salì come la sera innanzi col medesimo mistero e con le
medesime precauzioni. Solamente aveva fatto proposito di non accostar
troppo la faccia alla graticola. D’altronde per entrare ad un tratto in
discorso, che potesse sul serio occupare Van Baerle, ella cominciò da
porgerli a traverso alla graticola i di lui tre talli sempre rinvoltati
nel medesimo foglio.

Ma a gran meraviglia di Rosa, Van Baerle respinse la di lei bianca mano
con la punta delle sue dita. Il giovine aveva riflettuto:

— Ascoltatemi, disse; rischieremmo troppo, io credo, se mettessimo
tutta la nostra fortuna nel medesimo sacco. Pensate che si tratta, mia
cara Rosa, di compire una impresa che si riguarda fino al giorno d’oggi
come impossibile. Si tratta di far fiorire il gran tulipano nero.
Prendiamo dunque tutte le nostre precauzioni, affine se non si riesce
di non avere nulla a rimproverarci. Ecco qual è il calcolo che ho fatto
per giungere alla meta.

Rosa prestava tutta la sua attenzione a ciò che anderebbegli a dire
il prigioniero, e ciò più per l’importanza che vi attaccava l’infelice
tulipaniere, che per l’importanza che ella per sè vi annettesse.

— Ecco, continuò Cornelio, come io ho calcolato la nostra comune
cooperazione in questo grande affare.

— Vi ascolto.

— Avrete in questa fortezza un piccolo giardino, o in mancanza una
corte qualunque, o in mancanza pure di questa una terrazza?

— Abbiamo un bellissimo giardino, disse Rosa: si stende lungo il Wahal,
ed è pieno di belle piante annose.

— Potreste voi, mia cara Rosa, portarmi un po’ di terra del giardino,
affinchè ne giudichi?

— Dimani.

— Ne prenderete all’ombra e al sole, affinchè io giudichi delle sue due
qualità sotto le sue condizioni di asciuttezza e di umidità.

— Siate tranquillo.

— La terra scelta da me e modificata se ve n’è di bisogno, faremo tre
parti dei nostri tre talli; voi ne prenderete uno che pianterete il
giorno che vi dirò io, nella terra da me scelta; fiorirà certamente se
voi lo custodirete secondo le mie indicazioni.

— Le eseguirò a puntino.

— Me ne darete un altro che io procurerò di allevare qui nella mia
camera, onde così passare meno peggio l’intiere giornate, duranti le
quali io non vi vedo. In quanto a questo, ve lo confesso, ci ho poca
speranza, e preventivamente riguardo una tale sciagura come resultato
del mio egoismo. Nonostante il sole mi visita di tanto in tanto; io
trarrò artificiosamente partito da tutto, anco dal calore e dalla
cenere della mia pipa. Infine terremo, o per dir meglio terrete in
riserva il terzo tallo, nostra ultima risorsa nel caso che le nostre
due prime speranze fossero mancate. In tal maniera, mia cara Rosa, è
impossibile che noi non arriviamo a guadagnare i centomila fiorini di
vostra dote, e a procurarci la suprema contentezza di vedere riuscire
l’opera nostra.

— Ho inteso, disse Rosa. Dimani vi porterò della terra, e voi
sceglierete la mia e la vostra. Quanto alla vostra mi ci vorranno molti
viaggi perchè non ve ne potrò portare che poca alla volta.

— Oh! non c’è furia, mia cara Rosa; i nostri tulipani non devono essere
interrati che di qui a più di un mese, cosicchè voi vedete bene che
abbiamo del tempo d’avanzo. Solamente per piantare il vostro tallo
seguirete tutte le mie istruzioni, eh?

— Ve lo prometto.

— E una volta piantato, mi terrete in corrente di tutte le circostanze
che possano interessare il nostro allievo, come cangiamenti
atmosferici, orme nelle viottole, orme nelle caselle. Ascolterete la
notte se il nostro giardino fosse mai frequentato da gatti; chè due di
questi tristi animali mi hanno in Dordrecht rovinato due caselle.

— Ascolterò.

— I giorni di lunazione.... Avete veduta sul giardino, mia cara ragazza?

— Vi dà sopra la mia finestra di camera.

— Buono! I giorni di lunazione guarderete se dai buchi del muro escono
dei topi, che sono rosicatori terribili; ed ho veduto alcuni tulipani
sfortunati rimproverare bene acremente il patriarca Noè per aver messo
una coppia di topi nella sua arca.

— Guarderò, se vi sono gatti, topi...

— Bene, e avvisarmene. In seguito, continuò Van Baerle divenuto
sospettoso dacchè egli era in prigione: in seguito avvi un animale più
terribile ancora del gatto e del topo!

— E qual’è?

— È l’uomo! Voi capite, cara Rosa, che si ruba un fiorino, e si risica
la galera per una simile miseria; a più forte ragione si può rubare un
tallo di tulipano, che vale centomila fiorini.

— Nessuno fuorchè io entrerà nel giardino.

— E me lo promettete?

— Ve lo giuro!

— Bene, Rosa! grazie, cara Rosa! Oh! dunque ogni contentezza mi viene
da voi!

E siccome le labbra di Van Baerle ravvicinavansi alla graticola col
medesimo ardore della sera innanzi, e che d’altronde era giunta l’ora
di ritirarsi, Rosa allontanò la testa e allungò la mano.

In quella mano gentile, di cui la birichina aveva una cura tutta
particolare, era il tallo. Cornelio le baciò la punta delle dita; e
perchè? Perchè forse quella mano teneva il gran tulipano nero? Perchè
forse era la mano di Rosa?

Lasciamo ciò a indovinare ai più sapienti di noi. Rosa si ritirò con
gli altri due talli, che serrava contro il suo petto.

Ma serravali contro il suo petto, perchè fossero i talli del gran
tulipano nero, o perchè fossero di Cornelio Van Baerle?

Questo punto, a nostro credere, sarà più facilmente spiegabile
dell’altro. Comunque fosse, a partire da questo momento la vita
divenne dolce e piena pel prigioniero. Abbiamo visto che Rosa aveagli
restituito un tallo.

Ogni sera ella portavagli una manciata di terra della porzione del
giardino, la quale egli aveva ritrovata migliore, e che difatti era
eccellente.

Una larga brocca abilmente da Cornelio sboccata davagli una favorevole
profondità; empilla a metà e mescolò la terra portata da Rosa con
un po’ di poltiglia di fiume, ch’ei fece seccare e che fornigli un
eccellente terriccio.

Poi verso i primi di aprile vi depose il primo tallo. Ridire quali
cure, abilità, accorgimento usasse Cornelio per nasconderlo alla
sorveglianza di Grifo, la gioia delle sue fatiche, non ci sarebbe
possibile. Una mezz’ora è un secolo di sensazioni e di pensieri per un
prigioniero filosofo.

Non passava giorno che Rosa non venisse a discorrere con Cornelio.
I tulipani, di cui Rosa faceva un corso completo, fornivano il fondo
della conversazione; ma per interessante che sia un tale soggetto non
si può sempre parlare di tulipani.

Allora parlavasi d’altro; e con grande sua sorpresa il tulipaniere si
accorse della immensa estensione che potrebbe prendere il circolo della
conversazione.

Solamente Rosa aveva preso un’abitudine: teneva il suo bel viso a sei
pollici di distanza dalla graticola, perchè la leggiadra Frisona era
senza dubbio diffidente di sè stessa, dacchè aveva sentito a traverso
la graticola come il fiato di un prigioniero possa ardere il cuore di
una giovinetta.

V’era una cosa che specialmente inquietava a quest’ora il tulipaniere
quasi quanto i suoi talli, e sulla quale tornava incessantemente col
pensiero: che Rosa dipendesse da un uomo come suo padre.

Cosicchè la vita di Van Baerle, dottore sapiente, artista pittorico,
uomo eccezionale, di Van Baerle che il primo avrebbe secondo tutte
le probabilità scoperto quel capo d’opera della creazione che
chiamerebbesi, com’era stato già deciso, _Rosa Barlaeensis_; la vita, e
meglio della vita, la felicità di quest’uomo dipendeva dal più semplice
capriccio di un altro uomo, che era un essere di spirito inferiore,
e di un’infima classe; gli era un carceriere, alcunchè di meno
intelligente della stessa serratura che egli chiudeva, qualche cosa
di più duro del chiavistello che tirava. Gli era un qualche cosa del
Caliban della _Tempesta_, un medio tra l’uomo e la bestia.

Ebbene la felicità di Cornelio dipendeva da quest’uomo; e quest’uomo
poteva un bel giorno annoiarsi a Loevestein, trovarvi l’aria malsana,
l’acquavite di ginepro non perfetta, e lasciare la fortezza e condur
seco sua figlia; e così Rosa e Cornelio essere separati un’altra volta.
Dio, se lasciasse troppo fare alle sue creature, forse allora finirebbe
col non più riunirle.

— E allora a che prò i piccioni viaggiatori, diceva Cornelio alla
giovinetta, perocchè, mia cara Rosa, non sapete leggere ciò che io vi
scrivessi, nè scrivermi ciò che avreste pensato?

— Ebbene, rispose Rosa, che in fondo del suo cuore temeva quanto
Cornelio la separazione, abbiamo un’ora tutte le sere, impieghiamola
bene.

— Ma mi pare, rispose Cornelio, che non s’impieghi po’ poi tanto male.

— Impieghiamola anche meglio, disse Rosa, sorridendo. Insegnatemi a
leggere e a scrivere; profitterò delle vostre lezioni, credetemelo, e
così non saremo noi più mai separati che per nostra mera volontà.

— Oh! allora, esclamò Cornelio, abbiamo l’eternità dinanzi a noi.

Rosa sorrise e alzò dolcemente le spalle.

— Che volete restare per sempre in prigione? E dopo avervi donato la
vita, non potrebbe sua Altezza ridarvi la libertà? Allora tornereste
in possesso dei vostri beni? E come sarete ricco? E una volta libero e
ricco, sdegnerete abbassare lo sguardo, quando passerete a cavallo o in
carrozza, sulla infima Rosa, figlia d’un carceriere, quanto dire poco
meno che del boia?

Cornelio voleva protestare, e certo avrebbelo fatto di tutto cuore e
nella sincerità dì un’anima traboccante d’amore; ma la giovinetta lo
interruppe, dimandandogli sorridendo:

— Come va il vostro tulipano?

Parlare a Cornelio del suo tulipano era il vero mezzo per Rosa di
fargli dimenticare anche lei.

— Ma bene assai, diss’egli; la pellicola annerì, la fermentazione è
cominciata, le vene del tallo riscaldansi e ingrossansi; da qui a otto
giorni, e forse innanzi, si potranno distinguere le prime protuberanze
della germinazione.... E il vostro Rosa?

— Oh! io ho fatto le cose in grande e secondo le vostre indicazioni.

— Vediamo, Rosa, che cosa avete fatto? disse Cornelio col guardo
ardente, l’alito quasi anelante come nella sera, che i suoi occhi
avevano arso il viso e il suo alito il cuore di Rosa.

— Io ho, disse la giovinetta (perchè in fondo del cuore non aveva
potuto vedere e studiare il doppio amore del prigioniero, per lei e pel
tulipano nero), ho fatto le cose in grande; mi sono preparata un’aiola
spolta, lungi dagli alberi e dai muri, in una terra leggermente
sabbiosa, piuttosto umida che arida, senza un grano di ghiaia, senza un
sassolino, e mi sono composta una casella, come me l’avete descritta.

— Bene, bene, o Rosa.

— Il terreno in tal guisa preparato aspetta le vostre prescrizioni.
Alla prima buona giornata mi direte di piantare il mio tallo, e io lo
pianterò; sapete che io debbo fare la mia piantagione dopo di voi,
perchè ho tutto più favorevole, aria buona, sole, e abbondanza di
succhi terrestri.

— È vero, è vero! esclamò Cornelio, stropicciandosi tutt’allegro le
mani; e voi siete una buona scolara, o Rosa, e guadagnerete certamente
i vostri cento mila fiorini.

— Non dimenticate dunque, disse Rosa ridendo, che la vostra scolara,
giacchè così mi chiamate, ha ancora un’altra cosa a imparare oltre la
coltura dei tulipani.

— Sì, sì, e mi preme quanto a voi, o bella Rosa, che voi sappiate
leggere.

— Quando cominceremo?

— Subito.

— No, dimani.

— Perchè dimani?

— Perchè oggi la nostra ora è trascorsa, e vi debbo lasciare.

— Di già! Ma dove leggeremo?

— Oh! disse Rosa, ho un libro, un libro, che io spero, ci porterà
fortuna.

— Dunque a dimani?

— A dimani.

All’indomani Rosa tornò con la Bibbia di Cornelio de Witt.


  _Fine della Parte prima._

   [Illustrazione: All’indomani, come abbiamo detto, Rosa tornò
   con la Bibbia di Cornelio de Witt. (IL TULIP. NERO) (pag.
   151)]



IL TULIPANO NERO

PARTE SECONDA.



I

Primo Tallo.


All’indomani, come abbiamo detto, Rosa tornò con la Bibbia di Cornelio
de Witt.

Allora cominciò tra il maestro e la scolara una di quelle scene
piacevoli che fanno la gioia dei romanzieri quando abbiano la fortuna
che si abbattino sotto la loro penna.

La graticola, sola apertura che servisse di comunicazione ai due
amanti, l’era troppo alta perchè persone che finallora eransi
contentate di leggersi sul viso tutto ciò che aveano a dirsi, potessero
comodamente leggere sul libro che Rosa aveva portato.

In conseguenza la giovinetta dovè appoggiarsi alla graticola, con la
testa piegata, col libro all’altezza del lume, che ella teneva con
la diritta, e che per riposarla un poco Cornelio, immaginò di fissare
con un fazzoletto a una traversa di ferro. D’allora Rosa potè seguire
con un dito sul libro le lettere e le sillabe che facevale rilevare
Cornelio, il quale provvisto di un filo di paglia a guisa d’indicatore
designava le lettere da un buco della graticola alla sua attenta
scolara.

Il chiarore del lume rischiarava i ricchi colori di Rosa, il suo occhio
turchino e profondo, le sue bionde trecce sotto la cuffietta d’oro
brunito, che, come abbiamo detto, serve di acconciatura alle Frisone;
le sue dita tese da cui il sangue scendeva, prendevano un tuono pallido
rosa risplendente dicontro al lume e indicante la vita misteriosa, che
vedesi circolare sotto le carni.

L’intelligenza di Rosa sviluppavasi rapidamente sotto il contatto
vificatore dello spirito di Cornelio; e quando la difficoltà compariva
troppo ardua, gli occhi spinti negli occhi, le ciglia a contatto delle
ciglia, i capelli congiunti ai capelli, tramandavano tali elettriche
scintille capaci di rischiarare le tenebre stesse dell’idiotismo.

E Rosa, scesa nella sua stanza, ripassava sola nella mente sua le
lezioni di lettura, e nella sua anima contemporaneamente le non
confesse lezioni di amore.

Una sera venne più tardi del solito una mezz’ora. Gli era un caso
troppo grave perchè Cornelio non s’informasse prima di tutto della
causa del ritardo.

— Oh! non mi sgridate, disse la giovinetta; non ci ho colpa. Mio padre
ha rinnovato la sua conoscenza a Loevestein con un buonuomo, che era
venuto frequentemente all’Aya a sollecitarlo per vedere la prigione.
È un buon diavolo, amicone del fiasco, e narratore di graziose
istorielle, e di soprappiù largo di tasca da non mai ricusare lo
scotto.

— Non lo conoscete per altro? domandò Cornelio sorpreso.

— No; solo da circa quindici giorni mio padre è affollato dalle assidue
visite di questa nuova conoscenza.

— Oh! disse Cornelio scuotendo la testa con inquietudine (avvegnachè
ogni nuovo avvenimento gli presagisse una catastrofe) qualche spia del
genere di quelli, che si mandano nelle fortezze per sorvegliare insieme
prigionieri e custodi.

— Non lo credo affatto, rispose sorridendo Rosa; se questo bravuomo
spia qualcheduno, non è certo mio padre.

— E chi allora?

— Me, per esempio.

— Voi?

— Perchè no? disse Rosa sorridendo.

— Ah! gli è vero, riflettè sospirando Cornelio; voi non avrete, Rosa,
sempre dei vani pretendenti: costui può divenir vostro marito.

— Non dico di no.

— E su che fondate questa gioia?

— Dite signor Cornelio, questa paura.

— Grazie, Rosa, perchè avete ragione; questa paura......

— La fondo su questo......

— Vi ascolto proseguite.

— Costui era già venuto più volte al Buitenhof all’Aya; e guardate,
appunto quando vi foste recluso. Io allontanata, e lui pure; io qui, e
lui qui. All’Aya prendeva per pretesto di volervi vedere.

— Vedere, me?

— Oh! certo, pretesto, perchè oggi ancora che potrebbe far valere la
medesima ragione, dappoichè siete ridivenuto il prigioniero di mio
padre, o piuttosto che mio padre è ridivenuto vostro carceriere, non
ricerca più di voi; ma bene al contrario jeri l’intesi dire a mio padre
che non vi conosce niente affatto.

— Continuate, o Rosa, ve ne prego, che io mi picco d’indovinare chi sia
e che voglia costui.

— Siete sicuro, signor Cornelio, che nessuno dei vostri si possa
interessare per voi?

— Non ho amici, o Rosa, fuorchè la mia balia, che ormai siete di
conoscenza. Ahimè! la povera Zug senza finzione verrebbe da sè, e
piangendo direbbe a vostro padre o a voi: «Caro signore, o cara
signorina, il mio figlio è qui, vedete come io sono disperata,
lasciatemelo vedere solamente per un’ora, e per tutta la mia vita
pregherò Dio per voi». Oh! no, continuò Cornelio, oh! no, a meno della
mia buona Zug, non ho amici al mondo.

— Io torno dunque al mio primo pensiero e tanto più che ieri al
tramontare del sole, essendo io a preparare la casella per dove
piantare il vostro tallo, vidi un’ombra che per la porta socchiusa
strisciavasi dietro i sambuchi e gli albereti. Feci finta di non
vedere, ma gli era il nostr’uomo. Si nascose, vedendomi rivoltare la
terra; e certo era bene io che egli seguiva, che egli spiava. Io non
diedi un colpo di rastro, non toccai un briciolo di terra che egli non
guardasse con tanti di occhi.

— Oh! sì, sì, gli è un amoroso, disse Cornelio. È giovine, bello?

E fissò avidamente Rosa aspettando con impazienza la di lei risposta!

— Giovine! bello? esclamò Rosa dando in uno scoppio di risa. Gli è
orrendo di viso, ripiegato di corpo, di cinquant’anni di età, e si
vergogna guardarmi e parlare a voce alta.

— E si chiama?

— Giacobbe Gisels.

— Non lo conosco.

— Vedete bene che dunque non viene per voi!

— In ogni caso se v’amasse, o Rosa, il che è ben probabile, perchè
vedendovi bisogna amarvi, non l’amereste voi?

— Oh! no, dicerto!

— Voi volete che mi tranquillizzi, non è vero?

— Vi c’impegno.

— Ebbene! Or che cominciate a saper leggere, voi leggerete, o Rosa,
tutto ciò che io vi scriverò, non è così? su i tormenti della gelosia e
su quelli della lontananza.

— Se scriverete grosso, leggerò.

Poi siccome il giro che prendeva la conversazione, cominciava ad
inquietare Rosa, diss’ella:

— A proposito come va il vostro tulipano?

— Rosa, figuratevi la mia gioia: stamattina guardavalo al sole; dopo
aver leggermente scansato lo strato di terra che cuopre il tallo, ho
visto spuntare la gemma del primo boccio. Ah! Rosa il mio cuore si è
liquefatto per la gioia: quell’impercettibile bottone biancastro, cui
un’ala di mosca sfiorando romperebbe, quella dubbiosa esistenza, che
rivelasi per insensibile testimonianza, mi ha più commosso della stessa
ordinanza di sua Altezza, che con l’arrestare la scure del carnefice
rendevami la vita sopra il palco del Buitenhof.

— Sperate dunque? disse Rosa sorridendo.

— Oh! sì, spero!

— Ed io alla mia volta quando pianterò il mio tallo?

— Alla prima giornata favorevole, ve lo dirò io; ma soprattutto non vi
fate aiutare da nessuno, soprattutto non confidate il vostro segreto
a chicchessia, che un amatore, vedete, sarebbe capace nulla più che
alla sola ispezione del tallo, conoscerne il suo valore; soprattutto,
o mia Rosa, soprattutto serrate diligentemente la terza cipolletta, che
ancora vi resta.

— È ancora, signor Cornelio, nel medesimo foglio, dove voi lo avete
messo, e tale e quale me lo avete dato, rincantucciato tutto in fondo
della cassetta sotto i miei merletti, che tengonlo all’asciutto senza
schiacciarlo. Ma addio povero prigioniero.

— Come! di già?

— Per forza.

— Venire così tardi, e partire così presto!

— Mio padre potrebbe impazientirsi non vedendomi tornare; l’amoroso
potrebbe sospettare di avere un rivale.

E intanto ella inquieta stava in ascolto.

— Che cosa avete? domandava Van Baerle.

— Mi par di sentire....

— Che cosa?

— Un che di stropiccio sommesso di piedi per le scale.

— Non può essere Grifo, disse il prigioniero, che si sente da lontano.

— Non può essere mio padre, ne sono certa, ma....

— Ma..... che?

— Potrebb’essere Giacobbe.

Rosa si precipitò verso la scala, e s’intese nel tempo stesso un uscio
che si richiuse rapidamente prima che la giovinetta fosse discesa i
primi dieci scalini.

Cornelio rimase molto inquieto, ma non era che per lui un preludio.

Quando la fatalità comincia un’opera cattiva, egli è ben raro che non
prevenga caritatevole la sua vittima come uno spadaccino fa del suo
avversario per dargli l’agio di mettersi in guardia.

Quasi sempre cotali avvisi, i quali emanano dall’istinto dell’uomo
o dalla complicità degli oggetti inanimati, spesso meno inanimati di
quello che generalmente si creda, quasi sempre, ripetiamolo, cotali
avvisi sono negletti. Il colpo ha fischiato per l’aria, e cade sopra
una testa che tal romba doveva avvertire, e che avvertita doveva
premunirsi.

Il domani passò senza che cosa rimarchevole avvenisse. Grifo fece
le sue tre visite, e niente scoperse. Quando egli sentiva venire il
suo carceriere (e Grifo nella speranza di sorprendere i segreti del
suo prigioniero non veniva mai alla stessa ora) quando sentiva il
suo carceriere, con l’aiuto di un macchinismo, che Van Baerle aveva
inventato, e che rassomigliava a quelli per mezzo dei quali si salgono
e si scendono i sacchi del grano nelle fattorie, Van Baerle aveva
immaginato la maniera di calare il suo vaso prima sulla gronda di
tegoli e poi su quella di pietra che sporgeva sopra la sua finestra.
Quanto alle funicelle per mezzo delle quali operavasi il movimento, il
nostro meccanico aveva trovato un mezzo di nasconderle colla borraccina
che vegetava sulle tegole e nei fessi delle pietre.

Grifo non poteva scorger nulla.

Questa manovra riuscì per otto giorni.

Ma una mattina che Cornelio assorto nella contemplazione del suo
tallo, da cui lanciavasi già un punto di vegetazione, non aveva sentito
salire il vecchio Grifo (giorno che tirava gran vento, e buffava nella
torricella), la porta si aperse ad un tratto e Cornelio fu sorpreso col
suo vaso tra’ suoi ginocchi.

Grifo vedendo un oggetto sconosciuto e per conseguenza proibito in mano
al suo prigioniero, precipitossi su quell’oggetto più rapidamente che
non faccia il falcone sulla sua preda.

Il caso o la destrezza, che il cattivo spirito fatalmente sempre
accorda agli esseri malefici, fece che la sua callosa manona si
cacciasse di botto nel bel mezzo del vaso sulla porzione di terriccio
depositario della preziosa cipolletta stringendolo sì forte al polso,
che Van Baerle aveagli saggiamente opposto.

— Che cosa avete costì? disse Grifo: vi ci ho preso.

E cacciò la sua mano dentro la terra.

— Io? niente, niente! esclamò Cornelio tutto tremante.

— Ah! vi ci ho preso! Un vaso con della terra! avvi qualche colpevole
segreto nascosto qui dentro!

— Caro signor Grifo, disse supplichevole Van Baerle come una pernice
cui il mietitore abbia sorpreso il suo nido.

Difatti Grifo cominciava a gettare all’aria la terra con le sue mani
birnoccolute.

— Signore, signore! adagio! disse Cornelio impallidendo.

— A che? affè di Dio! a che? urlò il carceriere.

— Adagio! vi dico; voi l’uccidete!

E con un rapido movimento, quasi da disperato, strappò dalle mani
del carceriere il vaso, cui egli nascose come un tesoro sotto la
salvaguardia delle sue braccia.

Ma Grifo caparbio come un vecchio, e sempre più convinto d’avere
scoperto una cospirazione contro il principe d’Orange, Grifo avventossi
al suo prigioniero col bastone alzato, ma vedendo l’impassibile
fermezza del recluso risoluto a proteggere il suo fiore piantato, si
avvide che Cornelio tremava meno per la sua testa che pel suo vaso.

Cercò dunque di strapparglielo a viva forza, dicendo furibondo:

— Ah! vedete bene, che vi ribellate.

— Lasciatemi il mio tulipano! gridava Van Baerle.

— Sì, sì, il tulipano, replicava il vecchio. Si conoscono tutte le
furberie dei signori prigionieri.

— Ma io vi giuro....

— Lasciatemelo, ripeteva Grifo, battendo i piedi; lasciatelo, o chiamo
la guardia.

— Chiamate chi diavol volete, ma non avrete che con la mia vita questo
povero fiore.

Grifo arrovellato cacciò per la seconda volta le sue dita nella terra,
e questa volta tirò fuori il tallo tutto nero, e intanto che Van Baerle
felice per aver salvato il contenente, non immaginavasi che il suo
avversario possedesse il contenuto, Grifo gettò via violentemente il
tallo ammorbidito, che s’infranse sul mattonato e quasi sul subito
disparve spiaccicato sotto li scarponi del carceriere.

Van Baerle vide lo sterminio, scorse gli umidi avanzi, comprese la
gioia feroce di Grifo e cacciò un urlo di disperazione che avrebbe
intenerito quel carceriere assassino, che alcuni anni prima aveva
ammazzato il ragno di Pellico.

L’idea di finire quell’uomo spietato passò come un lampo attraverso il
cervello del Tulipaniere. Il fuoco e il sangue montarongli insieme alla
testa e lo acciecarono; alzò a due mani il vaso pesante di tutta la
terra che ormai conteneva, e un solo istante di più avrebbelo lanciato
sul cranio calvo del vecchio Grifo.

Un grido arrestollo, un grido di pianto e di angoscia, che cacciò di
dietro al carceriere dalla graticola la povera Rosa, pallida, tremante,
con le braccia alzate verso il cielo e interposte tra il padre e
l’amico.

Cornelio lasciossi cadere il vaso che s’infranse in mille pezzi con un
fracasso spaventevole. E allora Grifo comprese il pericolo che aveva
corso, onde scese a terribili minacce.

— Oh! bisogna, gli disse Cornelio, che voi siate un uomo ben vile
e ben perverso, per strappare a un povero prigioniero la sua unica
consolazione, una cipolletta di tulipano!

— Olà! babbo mio, soggiunse Rosa, gli è un delitto che voi avete
commesso.

— Ah! siete voi fanciulla! gridò rivolgendosi verso la figlia il
vecchio tutto bollente di collera, mischiatevi de’ fatti vostri, e
prima di tutto scendete al più presto.

— Infelice! infelice! continuava Cornelio disperato.

— Alla fin dei conti non è che un tulipano, soggiunse Grifo un po’
piccato. Vi se ne darà quanti volete, dei tulipani; ne ho da trecento
nel mio stanzone.

— Oh diavolo! i vostri tulipani! esclamò Cornelio. Essi per voi hanno
un prezzo, e li apprezzate. Oh! corpo di mille milioni! se li avessi
io, li darei per quello che avete schiacciato così.

— Ah! ah! fece Grifo trionfante. Vedete bene che non è il tulipano
che vi preme. Vedete bene che eravi in quella falsa cipolletta qualche
stregoneria, un mezzo forse di corrispondenza coi nemici di Sua Altezza
che vi ha fatto grazia. Lo diceva ben’io che ebbe gran torto a non
farvi scorciare il collo.

— Babbo mio! babbo mio! esclamò Rosa.

— Ebbene! tanto meglio! tanto meglio! ripeteva Grifo animandosi, l’ho
distrutto, sì l’ho distrutto. Ogni qualvolta ricomincerete, e io da
capo! Ah! vi avevo prevenuto, mio caro amico, che avreivi resa la vita
dura.

— Maledizione! maledizione! urlò Cornelio tutto disperato, rivolgendo
con le sue dita tremanti gli ultimi vestigi del tallo, cadavere di
tante gioie e di tante speranze.

— Dimani noi pianteremo l’altro, mio caro Cornelio, disse sottovoce
Rosa che comprendeva tutto l’immenso dolore del tulipaniere, e che
gettò, cuore angelico, questa dolce parola come una goccia di balsamo
sulla sanguinante ferita di Cornelio.



II

L’amante di Rosa.


Rosa aveva appena rivolte queste parole di consolazione a Cornelio che
s’intese per le scale una voce, che dimandava a Grifo come la fosse
andata.

— Babbo mio, non sentite?

— Chi?

— Il signor Giacobbe vi chiama; l’è inquieto.

— Si è fatto tanto fracasso, che sarebbesi detto che questo sapiente mi
assassinasse. Ah! si passa sempre qualche guaio con i sapienti!

Poi accennando col dito la scala a Rosa, soggiunse:

— Andate avanti, signorina!

E chiudendo la porta, si affrettava dicendo:

— Son da voi, amico Giacobbe.

E Grifo era escito con Rosa, lasciando nella sua solitudine e nel suo
amaro dolore il povero Cornelio che mormorava:

— Oh! tu m’hai assassinato, o vecchio boia; non gli posso sopravvivere!

E difatti il povero prigioniero sarebbesi ammalato senza il
contrappeso, cui la Provvidenza aveva messo alla di lui vita, e che
chiavamasi Rosa.

La giovinetta tornò alla sera.

La sua prima parola fu per annunziare a Cornelio che ormai suo padre
non sarebbesi più opposto che egli coltivasse fiori.

— E come lo sapete? disse il prigioniero di un aria trista alla
giovinetta.

— Lo so perchè l’ha detto.

— Forse per ingannarmi?

— No, è pentito.

— Oh! sì, ma troppo tardi.

— È pentimento non suo.

— Come dunque si è pentito?

— Se voi sapeste, come lo sgrida il suo amico!

— Ah! il signor Giacobbe; dunque non vi lascia il signor Giacobbe?

— In ogni caso meno che può.

E sorrise di tale una maniera che la nuvoletta di gelosia, che aveva
appannata la fronte di Cornelio, dileguossi.

— Come l’è andata? domandò il prigioniero.

— Come l’è andata? interrogato mio padre dal suo amico a pranzo, ha
raccontato la storia del tulipano, o piuttosto del tallo, e il bello
sperimento che aveva egli fatto pestandolo.

Cornelio cacciò un sospiro che aveva più faccia di gemito.

— Se voi aveste visto in quel momento messer Giacobbe! continuò Rosa.
In verità, ho creduto che volesse dar fuoco alla fortezza; i suoi occhi
erano due carboni ardenti, i suoi capelli irti, le sue pugna strette;
un momento ho creduto che volesse strozzare mio padre. — Egli gridò
«Avete fatto questo! avete pestato il tallo? — Già» rispose mio padre.
— «Gli è infame! continuò egli, gli è vergognoso! Questo è un delitto,
urlò Giacobbe, un delitto che avete commesso!» — Mio padre restò
stupefatto, e domandò al suo amico: «E che sì che siete impazzato?

— Oh! che uomo degno che è cotesto Giacobbe, mormorò Cornelio; è un
cuore schietto, un’anima eletta.

— Il fatto sta che gli è impossibile trattare un uomo più duramente di
quello che egli abbia trattato mio padre, soggiunse Rosa; egli mostrava
un vero dispiacere, e ripeteva senza tregua: «Calpestato! il tallo
calpestato! o mio Dio, mio Dio, calpestato!» — Poi volgendosi a me
domandò: — «Ma non sarà il solo che egli abbia?

— Ha domandato questo? interruppe Cornelio prestando attento le
orecchie.

— «Voi credete che non fosse il solo che egli abbia, disse mio padre.
Bene, si cercheranno gli altri. — Voi cercherete gli altri!» esclamò
Giacobbe, prendendo mio padre alla pistagna; ma lasciollo subito. Poi
volgendosi verso me, domandò: — «E che ha detto il povero giovine?

«Io non sapeva cosa rispondere, avendomi voi forte raccomandato
di non lasciar trapelare l’interesse che avete per questi talli.
Fortunatamente mio padre cavommi d’imbarazzo.

— «Che cosa ha egli detto? Fa la bava dalla bocca.

«Io l’interruppi: Come non andar per le furie, essendo voi stato così
ingiusto e brutale.

— «Ohè! sei pazza ancor tu? esclamò mio padre alla sua volta; che gran
disgrazia lo spiaccicare una cipolletta di tulipano! Se ne hanno a
centinaia per un fiorino al mercato di Gorcum.

— «Ma non mai pregevole quanto quello, mi spiace rispondervi.

— E Giacobbe a queste parole? domandò Cornelio.

— A queste parole, io debbo dirlo, mi parve che il suo occhio gettasse
un lampo.

— Sì, fece Cornelio, ciò non fu tutto: profferì parola?

— «Così dunque, o bella Rosa, diss’egli con voce melata, credete quella
cipolletta preziosa?

— Mi accorsi aver fatto uno strafalcione, e risposi non curante:
«Che so io? Che m’intend’io di tulipani. Io so solamente dacchè,
ahimè! siamo condannati a vivere con i prigionieri, io so che, per i
prigionieri ogni passatempo ha il suo pregio. Questo povero Van Baerle
sollevavasi con quella cipolletta; e dico perciò che bisogna essere ben
crudele per togliergli un tale divertimento.

— «Ma _in primis_, riflettè mio padre, come s’è egli procurata quella
cipolletta? Ecco ciò che sarebbe buono a sapersi, mi pare.

«Torsi altrove lo sguardo per evitare l’incontro di quello di mio
padre; ma incontrai gli occhi di Giacobbe.

«Sarebbesi detto che egli volesse perseguitare il mio pensiero fino nel
fondo del mio cuore.

«Un movimento di mal’umore dispensa talvolta da una risposta. Io feci
una spallata, un giro a sinistra e un passo verso la porta.

«Ma fui fermata da una parola, che per quanto pronunziata sotto voce,
io la presi a volo.

«Giacobbe aveva detto a mio padre:

— «Perbacco! non è tra gl’impossibili l’assicurarsene!

— «E come?

— «Frugando; e s’egli abbia altri talli, li troveremo, perchè
ordinariamente se ne tengon tre.

— Se ne tengono tre! esclamò Cornelio. Ha detto che io avevo tre talli?

— Capite bene, che il detto mi sorprese come ha sorpreso voi. Mi
rivolsi. Gli erano così occupati che non si accorsero della mia mossa.

— «Ma, disse mio padre, le sue cipollette, non le ha forse in dosso.

— «Allora sotto un qualsiasi pretesto fatelo scendere; e intanto io
frugherò la sua stanza.

— Oh! oh! fece Cornelio. Gli è uno scellerato cotesto vostro Giacobbe.

— Ne ho paura.

— Ditemi, o Rosa, continuò Cornelio tutto pensieroso.

— Che?

— Non mi raccontaste, che il giorno che preparavate la vostra casella,
vi aveva costui seguito?

— Sì.

— Che si strisciò come un’ombra dietro i sambuchi?

— Davvero.

— Che pareva contasse ogni zappata?

— Ad una ad una.

— Rosa! disse Cornelio impallidito,

— Ebbene!

— Non seguiva voi.

— Chi dunque?

— Non è amante di voi.

— E allora di chi?

— Ei segue il mio tallo: gli è invaghito del mio tulipano.

— Ah! potrebbe anche darsi! esclamò Rosa.

— Volete assicurarvene?

— In qual modo?

— Oh! l’è cosa ben facile.

— Parlate!

— Dimani andate al giardino; silenziosa come la prima volta, onde
Giacobbe non sappia che vi andate; silenziosa come la prima volta,
facendo le viste di non vederlo; figurate di sotterrare il tallo,
escite dal giardino, ma osservate dal fessolino della porta, e vedrete
che cosa sia egli per fare.

— Bene! Ma poi?

— Poi? Come opererà, noi opereremo.

— Ah! disse Rosa sospirando, amate ben molto la vostra cipolletta, o
signor Cornelio.

— Il fatto stà, disse il prigioniero con un sospiro, dacchè vostro
padre ha calpestato quell’infelice tallo, parmi che una porzione della
mia vita sia paralizzata.

— Vediamo! disse Rosa, volete fare ancora qualche altra prova?

— Quale!

— Volete accettare l’offerta di mio padre?

— Quale offerta?

— Di cipollette di tulipani a centinaia.

— È vero.

— Accettatene due o tre, e tra queste due o tre cipollette potrete
allevare il terzo tallo.

— Sì, l’anderebbe bene, disse Cornelio aggrottando le ciglia, se vostro
padre fosse solo; ma c’è un altro, quel signor Giacobbe, che ci spia.

— Ah! l’è vero; però, riflettiamo: vi private così di una gran
distrazione.

Ella pronunziò queste parole con un certo sorriso che non era del tutto
esente dalla ironia.

Infatti Cornelio pensò per un momento: gli era facile vedere che egli
lottava con un gran desiderio.

— Ebbene, no, esclamò egli con uno stoicismo proprio all’antica, no,
sarebbe dabbenaggine, sarebbe una pazzia, sarebbe una vigliaccheria!
Se io dessi in balia a tutte le perverse vicende della collera e
della invidia l’ultima risorsa che ci rimane, sarei un uomo indegno
di perdono. No! Rosa, no! dimani risolveremo sul conto del vostro
tulipano; lo coltiverete secondo le mie istruzioni; e quanto al terzo
tallo, — Cornelio sospirò profondamente, — quanto al terzo, custoditelo
nel vostro armario! custoditelo come l’avaro custodisce la sua prima
o la sua ultima moneta d’oro; come la madre custodisce il suo figlio;
come il ferito custodisce la sua ultima goccia di sangue nelle sue
vene; conservatelo, o Rosa! Un non so che dicemi che lì sta la nostra
salvezza, la ricchezza nostra! Custoditelo! e se il fulmine cadesse su
Loevestein, giuratemi, o Rosa che invece delle vostre gioie, de’ vostri
anelli, della vostra bella scuffiettina d’oro, che così bene incornicia
il vostro viso, giuratemi, o Rosa, che voi salverete quell’ultimo
tallo, che racchiude il mio tulipano nero.

— State tranquillo, signor Cornelio, disse Rosa con una dolce mistura
di tristezza e di solennità, state tranquillo; i vostri desiderii sono
per me comandi.

— E medesimamente, continuò il giovine infervorandosi sempre di più,
se vi accorgeste d’essere seguita, i vostri passi esplorati, le vostre
conversazioni prese in sospetto da vostro padre e da quell’orribile
Giacobbe che io detesto; ebbene! o Rosa, sacrificate me sull’istante,
me che più non vivo che per voi, che più non ho al mondo che voi,
sacrificatemi, e non vedetemi più mai.

Rosa si sentì serrare il cuore, e spuntarono su i suoi occhi le lacrime.

— Ahimè! sospirò ella.

— Che? dimandò Cornelio.

— Vedo una cosa.

— Che vedete?

— Vedo, disse la giovinetta singhiozzando, vedo che amate tanto i
tulipani, che non resta posto nel vostro cuore per un altro affetto.

E se ne fuggì.

Cornelio passò la serata dopo la partenza della giovinetta, e una delle
più cattive nottate che avesse mai passato.

Rosa era scorrucciata contro di lui e aveva ragione.

Ella forse non ritornerebbe più a vedere il prigioniero, non avrebbe
più nuova nè di Rosa nè de’ suoi tulipani.

Ora, come spiegheremo noi il bizzarro carattere dei veri tulipanieri
tali quali esistono ancora nel mondo?

Lo confessiamo a smacco del nostro eroe e della orticultura, de’
suoi due amori, quello che Cornelio sentivasi più inclinato a
rigettare, l’era l’amor di Rosa; e allorquando verso le tre di mattina
addormentossi sfinito dalla stanchezza, bersagliato dal timore,
compunto dai rimorsi, il gran tulipano nero cedè il primo posto ne’
suoi sogni agli occhi turchini così dolci della bionda Frisona.



III

Donna e Fiore.


Ma la povera Rosa chiusa nella sua camera non poteva indovinare chi
sognasse Cornelio.

Ne conseguitava però che da ciò ch’egli aveale detto, Rosa era ben più
inclinata a credere ch’egli sognasse i suoi tulipani che lei, e non
pertanto Rosa ingannavasi.

Ma siccome non era là nessuno per dire a Rosa che s’ingannava,
avvegnachè le imprudenti parole di Cornelio erano cadute sulla di lei
anima come goccie di veleno, Rosa non sognò già, ma pianse.

Difatti essendo Rosa una creatura di spirito elevato, di un senso
diritto e profondo, rendevasi giustizia, non già quanto alle sue
qualità morali e fisiche, ma quanto alla sua posizione sociale.

Cornelio era sapiente e ricco, almeno innanzi la confisca de’ beni;
Cornelio era di quella borghesia commerciale, più fiera delle sue
insegne di bottega delineate a guisa di blasone, di quello che non
lo sia mai stata la nobiltà di razza delle sue armerie ereditarie.
Cornelio poteva dunque trovare Rosa buona per una distrazione, ma
a colpo sicuro quando si trattasse d’impegnare il suo cuore per un
tulipano, cioè pel più nobile e pel più fiero dei fiori, egli lo
impegnerebbe piuttosto, che per Rosa umile figlia di un carceriere.

Rosa dunque comprendeva questa preferenza che Cornelio dava al tulipano
nero invece che a lei, ma la non era meno disperata appunto perchè lo
comprendeva.

Cosicchè aveva preso una risoluzione durante questa nottata terribile,
questa nottata d’insonnia che aveva passato. La risoluzione si era di
non tornare più alla graticola.

Ma com’ella sapeva l’ardente desiderio che nutriva Cornelio d’avere
nuove del suo tulipano; come ella non volevasi esporre a rivedere un
uomo per cui ella sentiva accrescersi la sua pietà al punto che dopo
essere passata per la simpatia, quella stessa pietà incamminavasi
diritta diritta e a gran passi verso l’amore; ma come ella non voleva
mettere alla disperazione costui, risolvette di solo proseguire le
lezioni di lettura e di scritto già cominciate, e fortunatamente
progredite a tale profitto, che un maestro non sarebbe stato più
necessario, se quel maestro non si fosse chiamato Cornelio.

Rosa dunque si mise accanitamente a leggere nella Bibbia del povero
Cornelio de Witt, sopra la cui seconda pagina, divenuta la prima dacchè
l’altra era stata staccata, era scritto il testamento di Cornelio Van
Baerle.

— Ah! mormorò rileggendo quel testamento che la non terminava mai senza
che una lacrima, perla d’amore, scorresse da’ suoi occhi sereni sopra
le sue pallide guancie, ah! che allora credetti che egli mi amasse!

Povera Rosa! s’ingannava. Mai l’amore del prigioniero era stato più
effettivo che al momento in cui ora ci troviamo, dappoichè, l’abbiamo
detto con un po’ d’imbarazzo, nella lotta tra il gran tulipano nero e
Rosa, il gran tulipano nero aveva dovuto soccombere.

Ma Rosa, lo ripetiamo, ignorava la disfatta del gran tulipano nero.

Cosicchè la sua lettura finita, in cui Rosa aveva molto profittato,
prendeva la penna e mettevasi accanitamente all’opera non meno lodevole
e ben più difficile dello scritto.

Ma siccome Rosa scriveva già quasi leggibilmente il giorno che Cornelio
aveva così imprudentemente lasciato parlare il suo cuore, ella punto
disperossi di far progressi assai rapidi per dare al più tardi tra otto
giorni nuove del suo tulipano al prigioniero.

Non aveva dimenticato neppure una sillaba delle raccomandazioni che
aveale fatto Cornelio. Del resto Rosa mai dimenticava una sillaba di
ciò che dicevale Cornelio, anche quando non avesse avuto l’aspetto
della raccomandazione.

Egli dal canto suo svegliossi più innamorato di prima. Il tulipano
ancora era ben luminoso e vivido nel suo pensiero, ma non vedealo già
più come un tesoro a cui tutto egli dovesse sacrificare, anche Rosa,
ma come un fiore prezioso, una maravigliosa combinazione della natura e
dell’arte che Dio accordavagli per abbellimento della sua donna.

Pertanto tutta la giornata perseguitavalo una vaga inquietudine, simile
a quegli uomini, il cui spirito è abbastanza forte per dimenticare
momentaneamente che un gran danno la sera o l’indomani li minacci. La
preoccupazione una volta vinta, vivono della vita ordinaria, soltanto
di tempo in tempo il male dimenticato loro morde il cuore ad un tratto
con l’acuto suo dente. Trasaliscono, s’interrogano perchè abbiano
trasalito, poi rappellandosi ciò che avevano dimenticato:

— Oh? sì, dicono con un sospiro, è questo!

Il _questo_ di Cornelio l’era la paura che Rosa non venisse punto nè
poco nella sera secondo il solito. E a misura che avanzavasi la notte,
la preoccupazione diventava più viva e più pressante fino al punto che
impadronivasi di tutto il corpo di Cornelio e che egli non poteva più
vivere senza di lei.

Fu per questo che salutò l’oscurità con un battito prolungato di
cuore; a misura che l’oscurità cresceva, le parole da lui dette la sera
innanzi a Rosa, le quali avevano tanto afflitto quella povera ragazza,
facevansi più presenti al suo spirito, e dimandavasi come avesse potuto
dire alla sua consolatrice di posporla al suo tulipano, quanto dire, se
bisogno ci fosse, di rinunziare di vederla, quando per lui la vista di
Rosa era divenuta una necessità della sua vita.

Dalla camera di Cornelio sentivasi battere le ore all’orologio della
fortezza. Suonarono le sette, le otto, poi le nove; mai squillo di
bronzo vibrò più profondamente al fondo di un cuore che nol facesse il
martello battente il nono colpo delle nove ore.

Poi tutto fu silenzio. Cornelio appoggiò la sua mano sul cuore per
soffocarne i battiti, e si pose in ascolto.

Lo stropiccio de’ piedi e lo scartocciare delle vesti di Rosa a’ primi
gradini della scala era assuefatto a conoscere così bene, quando ella
saliva, che diceva:

— Ah! ecco Rosa.

Quella sera nessuno strepito turbò il silenzio del corridore;
l’orologio battè le nove e un quarto; poi con due suoni distinti nove
ore e mezzo; poi nove ore e tre quarti; poi infine col suo tuono grave
annunziò non solo agli ospiti della fortezza ma ancora agli abitanti di
Loevestein che l’erano le dieci.

Era l’ora che secondo il solito Rosa lasciava Cornelio; l’ora era
suonata e Rosa non era ancora venuta. Di guisa che i suoi presentimenti
non l’aveano ingannato; Rosa irritata se ne stava nella sua camera, e
abbandonavalo.

— Oh! che ho ben meritato ciò che mi accade, diceva Cornelio; oh! non
verrà, e farà santamente, che io in suo luogo farei altrettanto.

E a malgrado ciò Cornelio ascoltava, aspettava e sperava sempre.

Ascoltò e aspettò così fino alla mezza notte; ma a quest’ora cessò
d’aspettare e tutto vestito si gettò sul letto.

La notte fu lunga e trista, poi si fece giorno; ma il giorno non portò
speranza alcuna al prigioniero.

Alle otto di mattina la sua porta si aperse: ma Cornelio non volse
neppure la testa, che aveva conosciuto il passo pesante di Grifo, e
avealo sentito perfettamente solo.

Non guardò neppure dalla parte del carceriere; e nonpertanto avrebbe
ben voluto interrogarlo, domandargli nuove di Rosa. Fu sul punto per
stravagante che sembrato fosse al di lei padre, di fargli tale dimanda.
Sperava l’egoista che Grifo gli rispondesse, che sua figlia l’era
malata.

A meno che in casi straordinarii Rosa non veniva mai di giorno;
perlochè Cornelio non sperava vederla. Contuttociò alle sue subite
scosse, al suo stare in orecchi verso la porta, alle sue rapide
occhiate gettate sulla graticola, vedevasi bene che il prigioniero
aveva la muta speranza che Rosa farebbe una infrazione alle sue
abitudini.

Alla seconda visita di Grifo, Cornelio contro ogni sua aspettativa
aveva dimandato al vecchio carceriere e ciò della più dolce maniera del
mondo, nuove della sua salute; ma Grifo laconico come uno Spartano, si
era ristretto a rispondere.

— Va bene.

Alla terza visita Cornelio variò la forma della interrogazione,
dimandando:

— C’è nessuno malato al Loevestein?

— Nessuno! rispose più laconicamente ancora della prima volta,
chiudendo Grifo la porta sul muso al prigioniero.

Grifo, punto abituato a simili leziosaggini da parte di Cornelio,
sospettò nel suo prigioniero un indizio di attentata corruzione.

Cornelio ritrovossi solo; l’erano le sette di sera. Si rinnovarono
allora con una gradazione più intensa della sera antecedente le angosce
che ci siamo sforzati descrivere.

Ma, come la veglia, le ore si successero senza ricondurre la dolce
visione che rischiarava a traverso della graticola la segreta del
povero Cornelio e che, allontanandosene, vi lasciava la luce per tutto
il tempo della sua assenza.

Van Baerle passò la notte in una vera disperazione.

La dimane, Grifo gli parve più rotto, più brutale, più sgraziato del
solito: eragli passato per la mente, o piuttosto pel cuore la lusinga
che egli impedisse Rosa di venirci.

Si sentì preso da un’ira feroce di strangolare Grifo; ma strangolato
che l’avesse, tutte le leggi divine e umane proibivano a Rosa di mai
più rivedere Cornelio.

Il carceriere scampò dunque senza saperlo a una delle più grandi
sciagure che egli avesse mai corso in sua vita.

Venne la sera, e la disperazione cangiossi in melanconia, che l’era
tanto più tetra, quanto a suo malgrado le rimembranze del suo povero
tulipano mescolavansi al cordoglio che egli provava. S’era giusto
all’epoca che i giardinieri i più esperti nel mese di aprile indicano
come il punto preciso per la piantagione dei tulipani. Egli aveva detto
a Rosa:

— V’indicherò il giorno che dovrete porre in terra il tallo.

Doveva fissare quel giorno, il domani, nella sera seguente. Il tempo
era bello, l’atmosfera quantunque peranco un po’ umida cominciava ad
essere temperata pe’ pallidi raggi del sole di aprile, che per essere i
primi parevano così dolci ad onta del loro pallore. Se Rosa lasciasse
passare il tempo della piantagione! Se al dolore di non vedere più la
giovinetta si aggiungesse quello di vedere abortire il tallo per essere
stato piantato troppo tardi, oppure per non essere stato nientaffatto
piantato!

Per questi due dolori era certo da perdere l’appetito; e accadde il
quarto giorno.

L’era un crepacuore veder Cornelio, muto pel dolore, pallido per la
fissazione spenzolarsi fuori della ferrata col rischio di non poter
più tirar fuori dalle traverse di ferro la sua testa, sforzandosi così
di scorgere a sinistra il giardinetto, di cui aveagli parlato Rosa,
e il cui parapetto, ella aveagli detto, che dava sul fiume; e tutto
ciò nella speranza di scoprire a quei primi raggi del sole d’aprile la
giovanetta o il tulipano, due suoi amori infranti.

La colazione e il pranzo portato da Grifo, appena la sera Cornelio
aveali assaggiati.

Il giorno dopo non prese niente, e Grifo riportò in giù i commestibili
perfettamente intatti, destinati ai due pasti.

Cornelio non erasi alzato nella giornata.

— Buono! disse Grifo scendendo dopo l’ultima visita, buono! presto ci
andiamo a sbarazzare del sapiente.

Rosa trasalì.

— Eh! fece Giacobbe; come mai?

— Non beve più, non mangia più, non si leva più, disse Grifo; come
Grozio escirà di qui in una cassa, ma però mortuaria.

Rosa divenne pallida come la morte.

— Oh! mormorò tra denti, capisco, è inquieto pel suo tulipano.

E alzatasi oppressa di cuore, rientrò in camera sua, dove ella prese
una penna e della carta; e per tutta la notte esercitossi a tracciare
lettere.

L’indomani per istrascinarsi fino alla finestra, Cornelio si avvide di
una carta che era stata infilzata di sotto alla porta.

Si lanciò su quella carta, l’aprì e lesse uno scritto che avrebbe avuto
pena a riconoscere per quello di Rosa, tanto ella avealo migliorato nei
sette giorni di questa sua assenza:

  «State tranquillo, il vostro tulipano va bene».

Benchè queste poche parole di Rosa calmassero un pochettino i dolori
di Cornelio, non fu però meno sensibile all’ironia. Cosicchè, l’era
un fatto, Rosa non era niente affatto malata, ma era ferita; niente
affatto le si usava forza perchè non venisse da Cornelio, ma se ne
teneva volontariamente lontana.

Rosa di tal fatta libera, trovava nella sua volontà la forza di non
venire a vedere colui che moriva di crepacuore per non poterla più
vedere.

Cornelio aveva carta e un apis che aveagli portato Rosa. Si accorse che
la giovinetta aspettava la risposta, ma che non la verrebbe a prendere
che nella notte; in conseguenza egli scrisse sopra un foglio simile a
quello che aveva ricevuto:

  «Non è già l’inquietudine, cagionatami dal mio tulipano, che mi
  rende malato; l’è il crepacuore, che io provo, di più non vedervi».

Escito Grifo dopo ritornato la sera, egli strisciò la carta di sotto la
porta e ascoltò.

Ma per quanto egli orecchiasse, non intese nè il passo di Rosa nè lo
scartocciare delle sue vesti.

Egli intese una voce leggiera come un alito di vento e dolce come una
carezza, che gettogli dalla graticola queste dolci parole:

— A dimani.

Dimani era l’ottavo giorno. Negli otto giorni Cornelio e Rosa non
s’erano punto veduti.



IV

Ciò che era accaduto negli otto giorni.


Difatti la sera del giorno appresso all’ora solita Van Baerle intese
picchiettare alla sua graticola, come era solita fare la bella Rosa ne’
bei giorni della loro amicizia.

S’intende che Cornelio non fosse molto lontano dalla porta, attraverso
alla cui ferriatella rivedeva finalmente la graziosa figura da troppo
lungo tempo scomparsa.

Rosa che l’aspettava col lume in mano, non potè trattenere un movimento
quando ella vide il prigioniero così pallido e così tristo.

— Voi siete malato, signor Cornelio? ella dimandò.

— Sì madamigella, rispose Cornelio, malato di spirito e di corpo.

— Ho visto, o signore, che non mangiavate più, disse Rosa; mio
padre mi ha detto, che non vi alzavate più; e allora vi ho scritto
per tranquillizzarvi sulla sorte del prezioso oggetto delle vostre
inquietudini.

— Ed io, disse Cornelio, vi ho risposto. Io credeva, vedendovi
ritornare, mia cara Rosa, che voi aveste ricevuto la mia lettera.

— Difatti l’ho ricevuta.

— Non addurrete la scusa questa volta che non sapete leggere. Non
solo leggete speditamente, ma avete ancora incredibilmente profittato
rapporto allo scritto.

— Difatti ho non pur ricevuto ma letto il vostro biglietto. È ben per
questo che sono venuta per vedere se fossevi qualche rimedio atto a
rendervi la salute.

— A rendermi la salute! esclamò Cornelio; ma che avete dunque qualche
buona nuova a darmi?

E così dicendo, il giovine ficcò su Rosa due occhi brillanti di
speranza.

Ossia ch’ella non comprendesse quello sguardo ossia che non lo volesse
comprendere, la giovanetta rispose con gravità:

— Ho solamente a parlarvi del vostro tulipano, che è, lo so bene, la
più grave vostra preoccupazione.

Rosa pronunziò queste poche parole con un accento ghiacciato che fece
rabbrividire Cornelio.

Lo zelante tulipaniere non comprendeva mica ciò che nascondesse sotto
il velo della indifferenza la povera ragazza sempre alle prese con la
sua rivale, il tulipano nero.

— Ah! mormorò Cornelio, e batti e batti! Ma mio Dio! non vi ho detto,
o Rosa, che io non penso che a voi, che eravate voi sola che io
rimpiangeva, voi sola, di cui sento la privazione, voi sola che pel
vostro allontanamento mi toglievate l’aria, il giorno, il calore, la
luce, la vita insomma?

Rosa sorrise melanconicamente, e disse:

— Eh! il vostro tulipano ha corso un grave pericolo!

Cornelio si scosse suo malgrado, e lasciossi prendere al laccio,
seppure egli era.

— Un grave rischio! esclamò tutto tremante; mio Dio! e quale?

Rosa riguardollo con dolce compatimento; sentiva che quello, che
ella vorrebbe, era al di sopra delle forze di costui, e che bisognava
prenderselo con quella sua debolezza.

— Sì, diss’ella; voi deste proprio nel segno; il pretendente,
l’amoroso, quel Giacobbe non veniva mica per me.

— E per chi dunque? dimandò Cornelio con ansietà.

— Pel tulipano.

— Oh! fece Cornelio impallidendo a tal nuova più assai che non
impallidì, quando Rosa ingannatasi aveagli giorni fa annunziato che
Giacobbe venisse per lei.

Rosa vide quello spavento, e Cornelio si accorse alla espressione del
di lei viso che ella pensava ciò che andiamo a dire.

— Oh! perdonatemi, o Rosa diss’egli; vi conosco e so la bontà e
l’onestà del cuor vostro. Dio avvi donato il pensiero, il giudizio,
la forza e il movimento per difendervi, ma al mio povero tulipano
minacciato, Dio niuna di tali cose ha concesso.

Rosa non degnò di risposta questa scusa del prigioniero, e continuò:

— Dacchè quell’uomo, che mi aveva seguito in giardino, e che io aveva
riconosciuto per Giacobbe, v’inquietava, e inquietava me più ancora,
fissai dunque far ciò che mi diceste, il giorno appresso in cui vi vidi
per l’ultima volta, e in cui mi diceste.....

Cornelio la interruppe:

— Perdono, ancora una volta, o Rosa! esclamò. Ciò che vi dissi ebbi
torto a dirvelo; vi ho chiesto già perdono di quella parola fatale, e
ve lo ridomando ancora. Non mi esaudirete mai?

— Il giorno appresso, riprese Rosa, richiamandomi alla mente tutto
quello che mi avevate detto.... dell’astuzia da mettersi in opera per
assicurarmi, se me o il tulipano seguisse quell’odiosa creatura....

— Sì, odiosa... Mi pare, soggiunse, che l’odiate a dovere?

— Sì, l’odio, rispose Rosa, perchè gli è cagione di quanto ho sofferto
in questi otto giorni!

— Ah! voi pure avete sofferto? Grazie, o Rosa, di questa buona parola.

— Il giorno appresso di quel giorno sfortunato, continuò Rosa, scesi
dunque in giardino, e mi avanzai verso la casella, dove io dovea
piantare il tulipano, guardandomi dietro con la coda dell’occhio, se
questa come l’altra volta egli mi seguisse.

— Ebbene? domandò Cornelio.

— Ebbene! la medesima ombra strisciossi tra la porta e il muro, e
disparve ancora dietro i sambuchi.

— Figuraste di non vederlo, ci s’intende? dimandò Cornelio,
rammentandosi in tutti i suoi dettagli il consiglio che avea dato a
Rosa.

— Già, e mi piegai sulla casella, che bucai con un cavicchio, come se
io vi piantassi il tallo.

— E lui..... lui..... in quel frattempo?

— Vedevagli brillare gli occhi ardenti come quelli di un tigre
attraverso le frasche.

— Vedete voi? vedete voi? disse Cornelio.

— Poi facendo finta d’aver finito, mi ritirai.

— Ma solo dietro la porta del giardino, eh? Dimodochè dalle fessure
o dal buco della chiave voi poteste vedere, una volta partita, ciò
ch’egli facesse.

— Aspettò un momento senza dubbio per assicurarsi che io non
ritornassi; poi escì fuori a passo di lupo, si avvicinò alla casella
con un lungo giro; poi giunse alfine alla sua meta, cioè di faccia
al punto dove la terra era di fresco smossa, si arrestò con aria
indifferente, girò il guardo attorno, interrogò ciascun angolo del
giardino, interrogò ciascuna finestra delle case vicine, interrogò
la terra, il cielo, l’aria, credendo di essere affatto solo, affatto
isolato, affatto fuori di vista a chicchessia, precipitossi sulla
casella, cacciò le sue due mani nella terra molle, levonne una
porzione, che sbriciolò delicatamente tra le sue mani per vedere se
vi si trovasse il tallo, ricominciò per tre volte la stessa faccenda,
ed ogni volta con una azione più ardente fino a che, cominciando
a comprendere di essere uccellato, si ricompose, benchè roso dalla
stizza, prese la zappa, spianò il terreno per lasciarlo nel medesimo
stato in cui trovavasi, prima che lo rimescolasse, e tutto arrabbiato,
tutto sbuffante, riprese il cammino verso la porta, affettando l’aria
innocua di un ordinario passeggiatore.

— Oh! disgraziato! mormorò Cornelio asciugandosi le gocce di sudore che
gli sgorgavano dalla fronte. Oh! disgraziato! io l’avevo indovinato.
Ma del tallo, o Rosa che ne avete fatto? Ahimè! e già un pochetto tardi
per piantarlo.

— Il tallo è da sei giorni che gli è in terra.

— Dove? come? esclamò Cornelio. Oh! mio Dio! che imprudenza! Dove? in
qual terra? A buona o cattiva esposizione? Non c’è pericolo che ce lo
rubi quell’assassino di Giacobbe?

— Non c’è pericolo che sia rubato, a meno che Giacobbe forzi l’uscio di
camera mia.

— Ah! è presso voi, è in camera vostra, o Rosa, disse Cornelio un poco
tranquillizzato. Ma in qual terreno? in qual recipiente? Non lo fate
germogliare nell’acqua, come le buone donne di Harlem e di Dordrecht,
che s’incapano a credere che l’acqua sia un succedaneo della terra,
come se l’acqua, che è composta di 33 centesimi di ossigeno e di 66 di
idrogeno, potesse rimpiazzare..... Ma cosa vi dico mai?

— A vero dire, l’è troppa scienza per me, rispose sorridendo la
giovanetta. Mi contenterò dunque di rispondervi per tranquillizzarvi,
che il vostro tallo non è nell’acqua.

— Ah! respiro.

— È in un vaso di terra cotta, della larghezza giusta della brocca,
dove voi avevate interrato il vostro; gli è in un terreno composto di
tre quarti di terra ordinaria presa nel miglior punto del giardino e
d’un quarto di terra di belletta di via. Oh! l’ho inteso dire così
spesso da voi e da quell’infame di Giacobbe, come voi lo chiamate,
in qual terra deve spuntare il tulipano, che lo so come il primo
giardiniere di Harlem!

— Ora ah! ci resta l’esposizione. A quale è, Rosa?

— Ora tutta la giornata è al sole, quando c’è; ma quando il tulipano
sarà spuntato dalla terra e quando il sole sarà più caldo, farò, caro
signore Cornelio, come facevate qui voi. L’esporrò sulla mia finestra
di ponente dalle tre pomeridiane alle cinque.

— Oh! così, così! esclamo Cornelio; voi siete un perfetto giardiniere,
mia bella Rosa. Ma or che ci penso, la cultura del mio tulipano
occuperà tutto il vostro tempo.

— Sì, gli è vero, disse Rosa; ma che importa? Il vostro tulipano
è mio figlio; gli consacro tutto il tempo che spenderei per un mio
bambino, se io fossi madre. Solo col divenire sua madre, soggiunse Rosa
sorridendo, posso cessare di essergli rivale.

— Buona e cara Rosa! mormorò Cornelio, gettando sulla giovanetta uno
sguardo, dov’era più dell’amante che dell’orticultore, e che consolò un
poco Rosa.

Poi dopo un momento di silenzio, intantochè Cornelio aveva cercato per
le aperture della graticola la mano fuggitiva di Rosa, riprese:

— Cosicchè son già sei giorni che il tallo è in terra?

— Sì, sei giorni, signor Cornelio, rispose la giovinetta.

— E ancora non si mostra?

— No, ma credo che domani spunterà.

— Dimani sera mi darete le sue nuove con le vostre, non è vero,
Rosa?.... M’inquieto bene del figlio come ancora dicevate; ma
m’inquieto ben più della madre.

— Dimani, disse Rosa, guardando Cornelio con la coda dell’occhio,
dimani non so se potrò.

— Eh! mio Dio! esclamò Cornelio, perchè mai non potrete dimani?

— Signor Cornelio, ho mille cose a fare.

— Mentre che io non ho che una, mormorò Cornelio.

— Già, rispose Rosa; amare il vostro tulipano.

— Voi, o Rosa.

Rosa scosse la testa: e si rifece silenzio.

— Finalmente, continuò Cornelio, rompendo il silenzio, tutto si cangia
nella natura; ai fiori di primavera succedono altri fiori, e vedonsi
le api che carezzano teneramente le mammolette e le garofanate, posarsi
col medesimo amore sul caprifoglio, le rose, i gelsomini, i crisantemi
e il giranio.

— Che vuol dir ciò? dimandò Rosa.

— Ciò vuol dire, mia signorina, che voi avete dapprima amato sentire
il racconto delle mie gioie e delle mie angoscie; avete carezzato
il fiore della nostra reciproca giovinezza: ma la mia si è appassita
all’ombra. Il giardino delle speranze e dei piaceri di un prigioniero
non ha che una stagione; chè non è come i bei giardini all’aria aperta
ed al sole. Una volta la messe fatta, una volta la preda presa, le api
come voi, o Rosa, le api dal corpo delicato, dai pennoncelli d’oro,
dalle ali trasparenti, attraversano i cancellati, fuggono il freddo, la
solitudine e la tristezza per andare a trovare altrove i profumi e le
tepide esalazioni.... la contentezza, infine!

Rosa guardava Cornelio con un sorriso, che egli non vedeva; perchè avea
gli occhi verso il cielo.

Egli continuò con un sospiro.

— Mi avete abbandonato, o Rosa, per avere le vostre quattro stagioni
di piacere. Avete fatto bene, non me ne lagno; qual diritto aveva io di
esigere la vostra fedeltà?

— La mia fedeltà? esclamò Rosa tutta piangente e senza la pena più a
lungo di nascondere a Cornelio la rugiada di perle che le scorrevano
sulle guance; la mia fedeltà! che non vi sono stata fedele, io?

— Ahimè! si chiama essermi fedele, esclamò Cornelio, e poi abbandonarmi
e lasciarmi qui morire?

— Ma, signor Cornelio, disse Rosa, non faccio tutto quello che possa
farvi piacere? Non mi occupo io del vostro tulipano?

— La sola gioia ch’io mi abbia provata al mondo senza che sia stata
intorbidita dall’amarezza. Voi me la rimproverate, o Rosa!

— Non vi rimprovero nient’altro, signor Cornelio, se non l’affanno
profondo che io provo dal giorno che mi si venne a dire al Buitenhof,
che voi andavate ad essere giustiziato.

— Vi dispiace, o Rosa, mia cara Rosa, vi dispiace dunque che io ami i
fiori.

— Non mi dispiace che voi li amiate, signor Cornelio, ma mi attrista
bensì che li amiate a preferenza di me.

— Ah! cara, carissima creatura, esclamò Cornelio; guardate come tremano
le mie mani, come la mia fronte è pallida; ascoltate, ascoltate come
batte forte il mio cuore. Ebbene non è mica perchè mi sorrida e mi
appelli il mio tulipano nero: è perchè voi mi sorridete, è perchè
voi piegate verso di me la vostra fronte, è perchè, — e io so se l’è
vero, — perchè, quantunque le fuggano, le vostre mani aspirano alle
mie, è perchè io sento il calore delle vostre guancie dietro la fredda
graticola di ferro. Rosa, mio amore, spezzate il tallo del tulipano
nero, distruggete la speranza di questo fiore, spengete la dolce luce
del casto e delizioso sogno che ogni giorno abitualmente io faceva;
sia pure! i fiori dalle ricche spoglie, dalle grazie eleganti, dai
capricci divini, sì toglietemeli tutti, o fiore geloso degli altri
fiori, sì toglietemeli tutti, ma non mi togliete la vostra voce, il
vostro gesto, lo strepito de’ passi vostri su per la trista scala; deh!
non mi togliete il fuoco degli occhi vostri per lo scuro corridoio, la
certezza del vostro amore che perpetuamente carezzerà questo mio cuore.
Amatemi o Rosa, perchè io non posso amare che voi.

— Dopo il tulipano nero! sospirò la giovanctta, le cui mani calduccie e
carezzevoli passate alla fine a traverso alle sbarrette di ferro erano
sotto le labbra di Cornelio.

— Prima di tutto, o Rosa....

— Che vi debbo credere?

— Come credete in Dio.

— Sia, ma ciò non vi obbliga ad amarmi molto?

— Troppo poco, pel volere, mia cara Rosa, ma obbliga pur voi.

— Me? dimandò Rosa; e mi obbliga a che?

— A non potervi maritare prima di tutto.

Ella sorrise dicendo:

— Ah! ecco come siete tiranni voialtri. Voi adorate una bella: non
pensate che a lei, non sognate che lei; siete condannato a morte:
andando al patibolo le consacrate il vostro estremo sospiro, ed
esigete da me povera meschina il sacrifizio de’ miei sogni, della mia
ambizione.

— Ma di qual bella mi parlate voi, o Rosa? disse Cornelio cercando, ma
inutilmente, nelle sue rimembranze una donna alla quale Rosa potesse
fare allusione.

— Della bella nera, signore, della bella nera dalla forma svelta, dal
piè sottile, dalla testa dignitosa. Parlo del vostro fiore, non mi
capite?

Cornelio sorrise.

— Bella immaginaria, mia buona Rosa, mentre voi, senza contare il
vostro amoroso Giacobbe, o per dir meglio, il mio, voi siete attorniata
di partiti, che vi fanno la corte. Rammentatevi, o Rosa, ciò che mi
avete detto degli studenti, degli officiali, dei commessi dell’Aya?
Ebbene! a Loevestein non sonvi commessi, officiali, studenti?

— Oh! ve ne sono, e come! disse Rosa.

— Che scrivono?

— Sicuro.

— E ora che sapete leggere....

E mandò un sospiro, pensando, che Rosa doveva a lui, povero
prigioniero, il privilegio di saper leggere i bigliettini amorosi, che
ella riceverebbe.

— Ma, signor Cornelio, mi pare, disse Rosa, che leggendo i bigliettini,
che mi sono scritti, e adocchiando li zerbini, che mi fanno la ronda,
io non faccia che seguire le vostre istruzioni.

— Come le mie istruzioni?

— Già, le vostre istruzioni! Fate lo scordato, continuò Rosa,
sospirando la sua volta, fate voi lo scordato del testamento scritto
da voi sulla Bibbia del signor Cornelio de Witt? Non me ne scordo mica
io; perchè ora che so leggere, lo rileggo tutti i giorni, e non una,
ma spesso due volte. Ebbene! In quel testamento voi mi ordinate di
amare e di sposare un bel giovine da ventisei ai ventotto anni. Io lo
cerco questo giovine; e siccome tutta la giornata la consacro al vostro
tulipano, bisogna bene che mi lasciate la sera per trovarlo.

— Ah! Rosa, il testamento è fatto nella previsione della mia morte, e
grazie al cielo io sono vivo.

— Ebbene! dunque non cercherò più il ben giovine dai ventisei ai
ventotto anni, e verrò a veder voi.

— Brava, Rosa! sì, sì; venite!

— Ma a una condizione.

— L’ho già accettata!

— Che per tre giorni non si parli del tulipano nero.

— Non se ne parli più, se così vi piace.

— Oh! disse la giovanetta, non bisogna mai chieder l’impossibile.

E come per sbadataggine ella appressò la sua fresca guancia così presso
alla graticola, che Cornelio la potè sfiorare con le labbra.

Rosa diè uno strillo sommesso mandato dal cuore, e ratto disparve.



V

Il secondo tallo.


La notte fu buona, e la giornata del domani fu ancora migliore.

I giorni precedenti la prigione erasi fatta squallida, scura, bassa
bassa; gravava di tutto il suo peso sul povero prigioniero. I suoi
muri erano neri, la sua aria fredda, le spranghe così raffittite da
lasciarvi appena penetrare il giorno.

Ma quando Cornelio risvegliossi, un raggio di sole mattinale strisciava
sulla ferrata; alcuni piccioni fendevano l’aria con le loro ali stese,
mentre altri coccolavano amorosi sul tetto vicino alla finestra ancora
chiusa.

Cornelio corse alla finestra e l’aperse; parvegli che la vita, la gioia
e quasi la libertà entrassero con i raggi del sole nell’oscura sua
stanza.

Fioriavi l’amore e con lui fioriva attorno al prigioniero ogni cosa:
l’amore, fiore celeste ben’altrimenti profumato di tutti i fiori
terreni.

Quando Grifo entrò nella stanza di Van Baerle invece di trovarlo
mesto e coricato come gli altri giorni, trovollo alzato, e cantante
un’arietta di un’opera.

— Ohè! fece Grifo.

— Stamani come va? disse Cornelio.

Grifo lo guardò in cagnesco.

— Il cane, il signor Giacobbe, la nostra bella Rosa, stanno tutti bene?

Grifo digrignò i denti e tagliò corto, rispondendo:

— Eccovi la vostra colezione.

— Grazie, amico Cerbero; viene a tempo, che ho una gran fame.

— Ah! voi avete fame? disse Grifo.

— Toh! perchè no? domandò Van Baerle.

— Pare che la cospirazione cammini, disse Grifo.

— Qual cospirazione? dimandò Cornelio.

— Buono! so quello che mi dico, ma staremo con tanti d’occhi, signor
sapiente; state tranquillo: sì con tanti d’occhi.

— Così va fatto amico Grifo! così va fatto! La mia cospirazione come
pure la mia persona è ai vostri comandi.

— Si vedrà a mezzogiorno, disse Grifo, e escì.

— A mezzogiorno, ripetè Cornelio, che cosa vuol dire? Via, aspettiamo
mezzogiorno e vedremo.

Gli era facile aspettare mezzogiorno: aspettava le nove ore.

Battè mezzogiorno, e s’intese per le scale non solamente il passo di
Grifo, ma il passo di tre o quattro soldati che salivano con lui.

Si aprì la porta, Grifo entrò introducendo gli uomini, e chiuse l’uscio
dietro a loro.

— Via! ora perquisiamo.

Fu cercato nelle tasche di Cornelio, tra l’abito e la sua sottoveste,
tra la sottoveste e la camicia, tra la camicia e la carne: non fu
trovato niente.

Fu cercato dentro le lenzuola, dentro le materasse, dentro il saccone:
non fu trovato niente.

Quanto allora felicitossi Cornelio per non avere accettato il terzo
tallo. Grifo in questa perquisizione avrebbelo certo trovato per ben
nascosto che fosse stato, e lo avrebbe trattato come il primo.

Del resto mai prigioniero assistette di un viso più sereno a una
perquisizione fatta nella sua stanza.

Grifo si ritirò coll’apis e i tre o quattro fogli di carta bianca che
Rosa aveva dato a Cornelio; ciò fu il solo trionfo della spedizione.

Alle sei Grifo tornò ma solo; Cornelio volevalo addolcire; ma Grifo
brontolò, serrandosi con le due dita le labbra, ed escì all’indietro
come un uomo che abbia paura di essere aggredito.

Cornelio diede in uno scroscio di riso; per cui Grifo che ne conosceva
il perchè, gli gridò attraverso la graticola:

— Bene! bene! ben ride, chi ultimo ride.

Chi doveva ridere l’ultimo, in quella sera almeno, era Cornelio, perchè
aspettava Rosa.

Rosa venne alle nove, ma venne senza lanterna: non avea più bisogno di
lume, chè sapea già leggere. E poi il lume poteva tradire Rosa viepiù
spioneggiata da Giacobbe. E poi al fin dei conti vedevasi troppo il
rossore di Rosa, quand’ella arrossiva.

Di che parlarono i due giovani quella sera? Di quelle cose di cui
parlano in Francia sulla soglia di una porta tutti gl’innamorati, da
una parte all’altra del balcone in Ispagna, dall’alto al basso di un
terrazzino in Oriente.

Parlarono di cose che mettono le ali ai piedi alle ore, e aggiungon
penne al tempo.

Di tutto parlarono fuorchè del tulipano nero.

Poi alle dieci come il solito si lasciarono.

Cornelio era felice e così pienamente felice quanto può esserlo un
tulipaniere cui non siasi punto parlato del suo tulipano.

Ei trovava Rosa graziosa come senza paragone: la trovava buona,
leggiadra, avvenente.

Ma perchè Rosa proibiva che si parlasse del tulipano?

L’era un capriccetto di Rosa. E Cornelio diceva dentro di sè
sospirando, che la femmina non è perfetta.

Una parte della notte meditò su questa imperfezione; che è quanto dire
che, finchè fu sveglio, pensò sempre a Rosa.

Una volta addormentato, la sognò. Ma la Rosa dei sogni era ben
altrimenti più perfetta della Rosa reale. Non solamente quella parlava
del tulipano, ma di più portava a Cornelio un magnifico tulipano nero
piantato in un vaso della China.

Cornelio svegliossi con un brivido universale di gioia, e mormorò:

— Rosa, Rosa, io ti amo.

E siccome facevasi giorno, Cornelio non giudicò a proposito di
riaddormentarsi. Restò dunque tutta la giornata fisso nella idea che
gli era rimasta svegliandosi.

Ah! se Rosa avesse parlato del tulipano, Cornelio avrebbela preferita
alla regina Semiramide, alla regina Cleopatra, alla regina Elisabetta,
alla regina Anna d’Austria, che è quanto dire alle più grandi e alle
più belle regine del mondo.

Ma Rosa avea proibito sotto pena di non tornar più, avea proibito che
per tre giorni non si parlasse di tulipani.

Erano settantadue ore concesse all’amante, è vero; ma erano settantadue
ore minimate alla orticultura. È vero però che su queste settantadue
ore già trentasei erano passate; e le altre trentasei passerebbero ben
sollecite, diciotto aspettando, e diciotto ricordando.

Rosa tornò alla medesima ora: Cornelio sopportò eroicamente la sua
penitenza. Questo Cornelio gli era un degnissimo pitagorico, e purchè
fossegli permesso di avere una sola volta per giorno novelle del suo
tulipano, sarebbe rimasto anche cinque anni senza parlare d’altro,
secondo lo statuto dell’ordine.

Del resto la bella visitatrice capiva bene che quando si comanda da
una parte, bisogna cedere dall’altra. Rosa lasciava prendere le sue
dita dalla graticola; e lasciava che Cornelio baciasse a traverso della
ferratella, le sue ciocche di capelli.

Povera ragazza! tutti questi vezzi amorosi le erano ben più dannosi che
di parlare del tulipano.

Ella ben lo comprese tornando nella sua stanza col cuore palpitante, le
guancie ardenti, le labbra arse, gli occhi rugiadosi.

Il dimani sera poi dopo scambiate le prime parole, dopo le prime
carezze fatte, Rosa guardò Cornelio attraverso la graticola, al buio,
con quello sguardo che sente anche quando non vede.

— Ebbene! ella disse, ha buttato!

— Ha buttato! che? che? domandò Cornelio, non osando credere che Rosa
da sè abrogasse la durata della sua prova.

— Il tulipano, disse Rosa.

— Come, esclamò Cornelio, voi dunque permettete?....

— Eh! sì, disse Rosa di un tuono di tenera madre che permetta a suo
figlio una contentezza.

— Ah! Rosa! esclamò Cornelio, sporgendo le sue labbra, attraverso le
sbarrette di ferro, nella speranza di toccare una guancia, una mano,
la fronte, qualche cosa insomma; ma meglio di queste, toccò due labbra
semiaperte.

Rosa gettò un piccolo strillo. Cornelio si accorse che bisognava
affrettarsi a proseguire la conversazione, perchè il suo inatteso
contatto aveva spaventato fortemente Rosa.

— Buttato ben diritto? egli dimandò.

— Diritto come un fuso di Frigia, disse Rosa.

— È ben’alto?

— Due pollici almeno.

— Oh! Rosa, abbiatene ben cura, e vedrete come crescerà presto.

— Posso averne più cura? disse Rosa. Non penso che a lui.

— Che a lui, o Rosa? Guardate che ora sono geloso io.

— Eh! voi sapete bene che pensando a lui è lo stesso che pensare a voi.
Non lo perdo mai di vista; lo vedo da letto; mi sveglio, ed è il primo
oggetto che miro; mi addormento, è l’ultimo oggetto che perdo di vista.
Il giorno seggo e lavoro vicino a lui; chè dal momento che è in camera
mia, non lascio più la mia stanza.

— Avete ragione, o Rosa: è la vostra dote, lo sapete.

— Sì, e mercè sua potrò sposare un giovine di ventisette o ventotto
anni, che io amerò.

— Zitta, cattivella.

E Cornelio potè prendere le dita della giovanetta, il che se non fece
cambiar di conversazione, fece almeno succedere il silenzio al dialogo.

Quella sera Cornelio fu il più felice dei mortali. Rosa lasciogli la
sua mano per quanto egli volle, e lasciollo parlare a suo piacere del
tulipano.

A partire da questo momento ciascun giorno apportava un progresso
nel tulipano e nell’amore dei due giovani. Una volta eransi aperte le
foglie, un’altra erasi sbocciato il fiore.

A questa nuova la gioia di Cornelio fu grande, e le sue dimande
succedevansi con una rapidità che testimoniavano la loro importanza.

— Sbocciato! esclamò Cornelio, sbocciato?

— È sbocciato, ripete Rosa.

Cornelio si sentì mancare dalla gioia, e fu costretto ad attenersi alla
ferriata.

— Ah! Dio mio! esclamò.

Poi rivolgendosi a Rosa:

— L’ovale è regolare? il cilindro è pieno? le punte sono ben verdi?

— L’ovale è quasi un pollice e si appunta come un ago; il cilindro
gonfia i suoi fianchi, e le punte sono pronte a screpolare.

Questa notte Cornelio potè dormir poco: l’era un momento supremo quello
della screpolatura delle punte.

Due giorni dopo Rosa annunziò che erano screpolate.

— Screpolate, o Rosa! esclamò Cornelio; l’involucro è screpolato! Ma
dunque allora si vede, si può distinguere già?....

E il prigioniero arrestossi affannoso.

— Sì, rispose Rosa, sì, può distinguersi una strisciolina di differente
colore, sottile come un capello.

— E il colore? insistè Cornelio tremando.

— Ah! rispose Rosa, l’è ben cupo.

— Bruno?

— Oh! più cupo.

— Più cupo, mia buona Rosa, più cupo! oh! grazie. Cupo come l’ebano,
cupo come....

— Cupo come l’inchiostro col quale vi ho scritto.

Cornelio gettò un grido di stolta gioia. Poi arrestandosi ad un tratto,
disse a mani giunte:

— Oh! Rosa, non vi può essere angiolo da compararsi a voi.

— Veramente? disse Rosa sorridendo a tale esaltazione.

— O Rosa, voi avete fatto tanto; o Rosa, vi siete tanto adoperata per
me; o Rosa, il mio tulipano va a fiorire, e fiorisce nero! Rosa, Rosa,
Dio non ha creato sulla terra cosa più perfetta di voi.

— Dopo il tulipano però?

— Chetatevi, cattivella; chetatevi! Per pietà non turbate la mia gioia!
Ma ditemi, Rosa, credete che tra due o tre giorni al più tardi il
tulipano vada a fiorire?

— Dimani o posdomani, dicerto.

— Ah! e io non lo vedrò, esclamò Cornelio rovesciandosi indietro, non
lo bacerò come una meraviglia di Dio che deve adorarsi, come bacio le
vostre mani, o Rosa, come bacio i vostri capelli, come bacio le vostre
guancie, quando per caso trovansi a contatto della graticola.

Rosa avvicinò la sua guancia non per caso, ma volontariamente; le avide
labbra del giovine vi si affissero.

— Madonna! esclamò Rosa, ve lo porterò, se volete.

— Ah! no, no! Appenachè sarà aperto, guardatelo bene all’ombra; e
sull’istante, vedete, sull’istante spedite a Harlem a prevenire il
presidente della società di orticultura, che il gran tulipano nero è
fiorito. Lo so bene, Harlem è lontano, ma coi quattrini troverete un
espresso. Ne avete o Rosa?

Rosa sorrise, rispondendo:

— Oh! sì!

— Un buon pochi? dimandò Cornelio.

— Trecento fiorini.

— Oh! se avete trecento fiorini, non un espresso, ma voi stessa dovete
andare a Harlem.

— Ma in questo tempo il fiore?.....

— Lo porterete con voi. Capite bene che non bisogna che ve ne separiate
neppure per un minuto.

— Ma non separandomi punto da lui, mi separo però da voi, signor
Cornelio, disse Rosa attristata.

— È vero, mia dolce, mia cara Rosa. Mio Dio! gli uomini sono cattivi!
Che ho loro io fatto? e perchè mi hanno tolto la libertà? Avete
ragione, o Rosa, non potrei vivere senza di voi. Ebbene ecco spedirete
qualcuno ad Harlem; e in fede mia, il miracolo è tanto grande da far
muovere lo stesso presidente, che verrà in persona a Loevestein a
cercare del tulipano.

Poi arrestandosi a un tratto e con voce tremante:

— Rosa! mormorò, Rosa! e se non fosse poi nero?

— Madonna? lo saprete dimani o posdimani a sera.

— Aspettare fino alla sera per saperlo, o Rosa!... Morirò d’impazienza.
Non potremmo combinare un segnale?

— Farò di meglio.

— Che farete?

— Se si apre di notte, verrò, oh sì! verrò a dirvelo da me; e se di
giorno, verrò all’uscio, e striscerò un biglietto o di sotto alla porta
o per la graticola tra la prima e la seconda ispezione di mio padre.

— Oh! Rosa, che mi dite mai! Ciò sarà per me una doppia contentezza.

— Ecco le dieci, bisogna che io vi lasci.

— Sì, sì, disse Cornelio, andate, Rosa, andate!

Rosa si ritirò quasi che trista; Cornelio l’avea quasi mandata via.

Era, è vero, per vegliare sul tulipano nero.



VI


Scorse la notte ben dolce, ma nel tempo stesso bene agitata per
Cornelio. A ogni minuto sembravagli che la soave voce di Rosa lo
chiamasse; svegliavasi in sussulto, andava alla porta, avvicinava
il viso alla graticola; ma la graticola era solitaria, il corridoio
deserto.

Senza dubbio Rosa dal canto suo vegliava pure; ma più felice di
lui, vegliava sul tulipano. Avea là sotto gli occhi il nobile fiore,
meraviglia delle meraviglie, non solo ancora sconosciuta, ma creduta
anco impossibile.

Che dirà il mondo quando saprà che il tulipano nero sia trovato, che
esista, e che sia Van Baerle il prigioniero che lo abbia trovato?

Cornelio avrebbe scacciato da sè chiunque gli avesse proposta la
libertà in cambio del suo tulipano!

Il giorno venne senza avviso nessuno; il tulipano non era ancora
fiorito.

La giornata passò come la notte innanzi, e venne l’altra con Rosa tutta
lieta, con Rosa leggiera come una lodoletta.

— Ebbene! dimandò Cornelio.

— Ebbene! va tutto a meraviglia: stanotte indispensabilmente il nostro
tulipano fiorisce.

— E fiorirà nero?

— Nero come un’ala di corvo.

— Senza la minima vergaturina?

— Senza neppure l’ombra.

— Misericordia del cielo! Rosa ho passato la notte pensando prima a
voi...

Rosa accennò insensibilmente di non crederci.

— E poi a ciò che dobbiamo fare.

— Ebbene!

— Ebbene! ecco ciò che ho deciso. Quando il tulipano fiorito, sarà ben
costatato sia nero, e nero perfetto, bisogna che troviate un espresso.

— Se non è che questo, l’ho bell’e trovato.

— Un espresso sicuro?

— Ne rispondo io; gli è un mio innamorato.

— Spero non sia Giacobbe.

— No, state tranquillo. È il navicellaio di Loevestein, giovanotto
avvistato, di venticinque ai ventisette anni.

— Diavolo!

— State tranquillo, disse Rosa ridendo, non ha ancora l’età, giacchè
voi stesso l’avete fissata dai ventisei ai ventotto.

— Ma credete di poter contare su questo giovine?

— Come su me; si getterebbe dalla sua barchetta nel Wahal o nella Mosa,
come più mi piacesse, se glielo comandassi.

— Eh! potrebbe, o Rosa, questo giovinotto essere in dieci ore a Harlem.
Datemi apis e carta, meglio ancora penna e inchiostro, che scriverò...
anzi è meglio che scriviate voi; io povero prigioniero potrei dar
sospetto, come a vostro padre, di una cospirazione nascosta. Scriverete
al presidente della società d’orticoltura, e, ne sono certo, verrà quà
il presidente.

— Ma se tardasse?

— Supponete che tardi un giorno o due; ma gli è impossibile, che un
amatore di tulipani come lui tardi anco un’ora, un minuto, un secondo
a mettersi in via per vedere l’ottava maraviglia del mondo. Ma, come
io diceva, tardasse pure un giorno, ne tardasse due, il tulipano
sarebbe in tutto il suo splendore. Visto il tulipano dal presidente, ci
s’intende, voi riterrete, o Rosa, un duplicato del processo verbale,
e gli consegnerete il tulipano. Ah! se lo avessimo potuto portar da
noi, o Rosa, sarebbe stato un dolce peso un po’ alle mie e un po’
alle vostre braccia; ma è un sogno cui non bisogna pensare, continuò
Cornelio sospirando; altri occhi lo vedranno sfiorire! Oh! soprattutto,
o Rosa, che non lo veda persona, prima del presidente. Buon Dio! il
tulipano nero sarebbe visto e preso!

— Ih!

— Non mi avete detto voi stessa i vostri sospetti sul conto di quel
vostro Giacobbe? Si ruba un fiorino, perchè non ne possono essere
rubati cento mila?

— Starò in guardia, via; state tranquillo.

— Se mentre siete qui, si aprisse?

— N’è ben capace il capriccioso, disse Rosa.

— Se tornando voi lo trovaste fiorito?

— Ebbene?

— Ah! Rosa, appena sia fiorito, ricordatevi che non avvi un minuto a
perdere per prevenirne il presidente.

— E voi, ci s’intende.

Rosa sospirò, ma senza amarezza, e come donna che comincia a capire,
sebbene stenti ad abituarvisi, che l’è una debolezza.

— Torno presso il tulipano, signor Van Baerle, e appena aperto, sarete
prevenuto; e subito partirà l’espresso.

— Rosa, Rosa, io non so più a qual meraviglia del cielo o della terra
compararvi.

— Comparatemi al tulipano nero, signor Cornelio, e ne sarò ben
lusingata, ve lo giuro. Dunque a rivederci, signor Cornelio.

— Oh! dite: A rivederci, amico mio.

— A rivederci, amico mio, disse Rosa un poco consolata.

— Dite: Amico mio diletto.

— Oh! amico mio...

— Diletto, o Rosa, ve ne supplico, diletto, diletto, non è così?

— Diletto, diletto, pronunziò Rosa palpitante, inebriata, pazza per la
gioia.

— Allora, o Rosa, dacchè avete detto diletto, dite pure felice; felice
quanto uomo giammai sia stato felice e benedetto sotto il cielo. Non mi
manca che una cosa, o Rosa.

— Quale?

— La vostra guancia, o Rosa, la vostra guancia fresca, rosea,
vellutata. Oh! ma di vostra volontà non più per sorpresa, non più per
caso. Rosa, ah!

Il prigioniero finì la sua preghiera in un sospiro; chè vennero le
sue labbra a incontrarsi con quelle della giovinetta non più per caso,
non per sorpresa, come cent’anni dopo Saint-Preux doveva incontrare le
labbra della sua Giulietta.

Rosa s’involò; e Cornelio restò con l’anima sospesa alle di lei labbra,
e col viso fisso alla graticola.

Soffocato dalla gioia e dalla felicità, egli aperse la finestra e
contemplò lungamente col cuore pregno di letizia l’azzurro celeste
senza nuvole e la luna al di là delle colline versante un torrente
d’argentea luce sopra lo specchio dei due fiumi. Rinfrescò i suoi
polmoni d’aria pura e balsamica, lo spirito di dolci idee, l’anima di
riconoscenza e di religiosa ammirazione.

— Oh! voi siete eternamente lassù, o mio Dio! esclamò genuflesso con
gli occhi fitti nel firmamento; — deh! perdonatemi, se mai nei giorni
trascorsi io avessi quasi dubitato di voi; ravvolto dentro il vostro
manto di nubi, per un istante cessai di vedervi, o Dio buono, Dio
eterno, Dio misericordioso! Ma oggi, ma stasera, ma stanotte oh! vi
vedo tutto intiero nello specchio dei vostri cieli, e soprattutto nello
specchio del mio cuore.

Era guarito il povero malato; era libero il povero prigioniero!

Per una gran parte della notte Cornelio restò fisso alle sbarre della
sua finestra a orecchie tese, concentrando i suoi cinque sensi in un
solo, o piuttosto solamente in due: guardava e origliava.

Guardava il cielo, e ascoltava la terra.

Poi di tratto in tratto volgeva l’occhio verso il corridoio, dicendo:

— Laggiù è Rosa, che veglia come me, come me aspetta di minuto in
minuto. Laggiù sotto gli occhi di Rosa è il fiore misterioso che vive,
che screpola, che si apre; forse in questo momento Rosa tiene tra
le sue dita tiepide e delicate lo stelo del tulipano. Sia delicato
il contatto, o Rosa! Forse tocca co’ labbri suoi il calice del fiore
semiaperto. Sfioralo con precauzione, o Rosa! le tue labbra bruciano!
Forse in questo momento i miei dolci amori si carezzano sotto lo
sguardo di Dio.

In quel momento una stella strisciò al mezzogiorno, traversò tutto
lo spazio che separava l’orizzonte della fortezza e venne a cadere su
Loevestein.

Cornelio trasalì:

— Ah! disse, ecco che Dio invia un’anima al mio fiore.

E come se avesse colto nel segno, quasi nello stesso momento il
prigioniero intese nel corridoio dei passi leggeri come quelli di una
silfide, lo sventolìo di una veste che pareva un ventilar di ali, e una
voce ben conosciuta, che diceva:

— Cornelio, amico mio, amico diletto e ben felice, venite, venite
presto!

Cornelio non fece che un salto dalla finestra alla graticola. Questa
volta ancora incontraronsi le sue labbra con quelle mormoranti di Rosa
che gli disse con un bacio:

— È sbocciato; è nero, eccolo!

— Come eccolo! esclamò Cornelio staccando le sue labbra da quelle della
giovinetta.

— Sì, sì; merita bene correre un piccolo rischio per dare una gioia:
eccolo, guardate!

E con una mano alzò all’altezza della graticola una lanternina sorda,
da lei allora aperta, mentre alla medesima altezza mostrava con l’altra
il miracoloso tulipano.

Cornelio gettò un grido e credette svenire.

— Oh! mormorò, Dio mio! Dio mio! mi ricompensate della mia innocenza e
della mia prigionia, dappoichè avete fatto che si accosti questo dolce
fiore alla graticola della mia prigione.

— Abbracciatelo, disse Rosa, come io l’ho abbracciato or ora.

Cornelio ritenendo il suo alito toccò a fior di labbra la punta del
fiore, e mai altro bacio impresso sulle labbra di una donna, di quelle
puranco di Rosa, non così profondamente mai gli scesero sul cuore.

Il tulipano era bello, splendido, magnifico; il suo gambo aveva più di
dieci pollici di altezza; slanciavasi dal seno di quattro verdi foglie,
liscie, diritte, come quattro ferri di lancia; e il suo fiore era nero,
brillante come polverino.

— Rosa, disse Cornelio tutto anelante, Rosa, non c’è un istante a
perdere, bisogna scrivere la lettera!

— L’è scritta, mio diletto Cornelio, disse Rosa.

— Davvero!

— Mentre aprivasi il tulipano, io scriveva, perchè non volevo che
andasse perduto neppure un secondo. Leggete la lettera, e ditemi se va
bene.

Cornelio prese la lettera e lesse uno scritto ancora moltissimo
migliorato dacchè egli avea ricevuto quelle due parole:

      «Signor Presidente,

  «Tra dieci minuti forse il tulipano nero sboccerà; e appena ciò
  sia, io vi invierò un espresso per pregarvi di venire in persona
  a vederlo nella fortezza di Loevestein. Io sono la figlia del
  carceriere Grifo, quasi prigioniera quanto i prigionieri di mio
  padre, sicchè da me non potrei recarvi questa maraviglia. Il perchè
  oso supplicarvi a venirvelo a prendere da voi.

  «Mio desiderio sarebbe che si chiamasse _Rosa Barlaeensis_.

  «È sbocciato, è nerissimo... Venite, signor Presidente, venite.

  «Ho l’onore di essere vostra umilissima serva

                                                       «ROSA GRIFO.

— Va benone, va benone, mia cara Rosa. Questa lettera è una maraviglia;
non l’avrei scritta io con tanta semplicità. Al congresso darete tutti
i ragguagli che vi saranno richiesti; saprassi come il tulipano sia
cresciuto; di quali cure, veglie e timori sia stato cagione; ma ora,
Rosa mia, ora non un istante da perdere... L’espresso! l’espresso!

— Come si chiama il presidente?

— Qua, ci metterò io l’indirizzo. È ben conosciuto, è Van Herysen,
sindaco di Harlem.... Qua, Rosa, qua.

E con mano tremante fece la soprascritta:

      «A Pietro Van Herysen

            «Sindaco e Presidente della Società orticola di Harlem.

— Ora andate, Rosa, andate, disse Cornelio; e affidiamoci a Dio, che ci
ha ben guardati fin qui.



VII

L’Invidioso.


Difatti que’ poveri giovani aveano ben molto bisogno di essere guardati
dalla protezione del Signore.

Mai non erano stati così presso alla disperazione quanto in questo
stesso momento in cui credeansi certi della loro felicità.

Noi non metteremo in dubbio la perspicacia dei nostri lettori al
punto di sospettare neppure che nel nostro amico Giacobbe non abbiano
riconosciuto il nostro antico nemico Isacco Boxtel.

Il lettore ha dunque indovinato che Boxtel avesse seguito dal Buitenhof
al Loevestein l’oggetto del suo amore e l’oggetto del suo odio: il
Tulipano nero e Cornelio Van Baerle.

Ciò che tutt’al più un tulipaniere, e un tulipaniere invidioso non
avrebbe mai potuto scuoprire, l’esistenza cioè dei talli e le ambizioni
del prigioniero, l’invidia se non avesseli fatti scuoprire a Boxtel,
avvebbeglieli fatti almeno indovinare.

L’abbiamo visto più fortunato sotto il nome di Giacobbe che d’Isacco
fare amicizia con Grifo, la cui conoscenza e ospitalità innaffiò per
alcuni mesi col miglior ginepro che fosse stato mai fabbricato da Texel
ad Anversa.

Ne addormentò le diffidenze; perchè abbiamo visto che il vecchio Grifo
era diffidente; ne addormentò le diffidenze, diciamolo, lusingandolo di
un connubio con Rosa.

Carezzò inoltre i di lui istinti sbirreschi, dopo aver piaggiato il di
lui orgoglio paterno. Ne carezzò gl’istinti sbirreschi, dipingendogli
coi più scuri colori il sapiente prigioniero che Grifo teneva sotto i
suoi chiavistelli, e che al dire dello sciocco Giacobbe, aveva fatto un
patto con Satanasso per nuocere a Sua Altezza il principe d’Orange.

Era dapprima così ben riuscito con Rosa non già con ispirarle
simpatia, — Rosa aveva sempre pochissimo amato il _mynheer_ Giacobbe,
— ma parlandole di matrimonio e d’amorosa follia, aveva sulle prime
ammorzato ogni sospetto che ella avesse potuto concepire.

Abbiamo visto come la sua imprudenza a seguitare Rosa nel giardino
l’avesse denunziato agli occhi della giovinetta, e come l’istintivi
timori di Cornelio avessero messo ambo i giovani in guardia contro
costui.

Ciò che aveva di più inquietato il prigioniero, — il nostro lettore
deve ricordarsene, — fu la collera grande, in cui montò Giacobbe contro
Grifo a proposito del tallo calpestato.

In questo momento la sua rabbia era altrettanto più grande in quanto
che sospettasse sì che Cornelio avesse un secondo tallo, ma il sospetto
era la sua certezza.

Spiò perciò Rosa e seguilla non solo nel giardino, ma ancora ne’
corridoi.

Solamente, siccome questa volta seguivala allo scuro a piedi scalzi,
non fu nè visto nè sentito, menochè a Rosa parve vedere sbalugginare un
non so che come un’ombra verso la scala.

Ma gli era troppo tardi; Boxtel aveva saputo dalla stessa bocca del
prigioniero l’esistenza del secondo tallo.

Scotto della furberia di Rosa, che avesse fatto sembiante di non
accorgersene dalla caselletta, e non dubitando, che quella commediola
non fosse stata rappresentata per isforzarlo a tradirsi, ei raddoppiò
di precauzione e messe in scena tutti gli accorgimenti del suo spirito
per continuare a spiare altrui senza esser’egli spiato.

Vide portare da Rosa un gran vaso di maiolica di cucina in camera; vide
che Rosa lavossi poi a molte acque le sue belle manine tutte imbrattate
di terra, che aveva impastata per preparare al tulipano il miglior
letto possibile.

In fine prese in una soffitta una cameretta giusto in faccia alla
finestra di Rosa, abbastanza distante da non poter essere riconosciuto
a occhio nudo, ma abbastanza vicina per potere seguire col soccorso
del suo cannocchiale tutto quello che fosse fatto al Loevestein nella
camera della giovinetta, come aveva seguito a Dordrecht tutto quello
che facevasi nel prosciugatoio di Cornelio.

Da soli tre giorni era istallato nel suo soffitto, che non aveva più
alcun dubbio.

Di mattina alla levata del sole il vaso di maiolica era sulla finestra;
e simile alle avvenenti donne di Mieris e di Metzu, Rosa appariva alla
finestra, incorniciata dai primi tralci verdeggianti della vergine vite
e del caprifoglio.

Rosa guardava il vaso di maiolica di tale occhio che mostrava a Boxtel
il valore reale dell’oggetto racchiusovi.

Il racchiuso nel vaso era dunque il secondo tallo, cioè la suprema
speranza del prigioniero.

Quando le notti minacciavano di essere troppo fresche, Rosa riponeva il
vaso di maiolica. E faceva bene: seguiva le istruzioni di Cornelio, il
quale temeva che il tallo non si gelasse.

Quando il sole divenne più caldo, Rosa riponeva il vaso dalle undici di
mattina alle due dopo mezzogiorno. E faceva pur bene: Cornelio temeva
che la terra non si prosciugasse troppo.

Ma quando la punta del fiore comparve fuori, Boxtel ne fu tuttaffatto
convinto; e non era alto ancora un pollice che grazie al suo
canocchiale l’invidioso non aveva più dubbio nessuno.

Cornelio possedeva due talli, e il secondo era affidato all’amore e
alla cura di Rosa. Perchè, bene intesi, l’amore dei due giovani non era
isfuggito a Boxtel.

Bisognava dunque trovare il modo di trafugare quel secondo tallo
confidato alle cure di Rosa e all’amore di Cornelio. Ma non era facil
cosa.

Rosa vigilava il suo tulipano, come una madre sorveglia il suo bambino;
più ancora, come una tortorella cuopre le sue uova.

Nella giornata Rosa non assentavasi dalla sua camera; di più, cosa
strana! Rosa non assentavasi più neppure la sera.

Per sette giorni spiò Rosa inutilmente: non escì punto di camera sua.

Ciò accadde nei sette giorni d’imbroglio, che resero Cornelio così
infelice, privandolo a un tempo di tutte le nuove di Rosa e del suo
tulipano.

Rosa durerebbe per sempre a tenere il broncio con Cornelio? Gli avrebbe
reso ben più difficile di quello che non se l’era immaginato, un tale
furto.

Lo diciamo furto, perchè Isacco con tutta semplicità erasi fermato a
questo progetto di rubare il tulipano; e siccome germogliava nel più
profondo mistero, siccome i due giovani nascondevano la sua esistenza
a tutto il mondo, e siccome sarebbesi più creduto a lui, tulipaniere
riconosciuto, che ad una giovinetta estranea a tutti i dettagli
della orticoltura, o ad un prigioniero condannato per delitto di alto
tradimento, rinchiuso, sorvegliato, spiato, e che malamente avrebbe
dal fondo del suo carcere potuto reclamare; d’altronde fattosi egli
possessore del tulipano seguendo la legge dei mobili e di tutti gli
altri oggetti trasportabili in cui il possesso fa fede della proprietà,
otterrebbe dicertissimo il premio, sarebbe dicertissimo coronato
invece di Cornelio, e il tulipano invece di chiamarsi _Tulipa nigra
Barlaeensis_ chiamerebbesi _Tulipa nigra Boxtellensis_ o _Boxtellea_.

Il _minheer_ Isacco non erasi ancora deciso quale di questi due nomi
dare al tulipano nero; ma siccome tutti e due significano la stessa
cosa, non stava qui l’importanza.

L’importanza stava nel poter rubare il tulipano. Ma perchè Boxtel
potesse rubarlo, bisognava che Rosa escisse di camera.

Però fu una vera gioia per Isacco o per Giacobbe, come si dirà, nel
vedere riprendere i convegni soliti della sera.

Ei cominciò a profittare dell’assenza di Rosa per istudiare intanto la
porta, che chiudeva benissimo e a due mandate con una semplice toppa,
di cui Rosa sola teneva sempre la chiave.

Boxtel ebbe il pensiero di sottrarre la chiave a Rosa, ma oltrechè
ciò non fosse cosa molto facile di frugare nelle tasche della giovine,
appena che si fosse accorta di averla smarrita, avrebbe fatto mutare la
toppa, non escendo di camera sua se non a serratura cambiata; e allora
Boxtel avrebbe commesso un delitto inutile.

Adunque valeva meglio valersi di un altro mezzo.

Boxtel fece una raccolta di chiavi le più che potesse, e mentre che
Rosa e Cornelio passavano alla graticola una delle loro ore fortunate,
egli provolle tutte.

Due dicevano alla serratura; una girò la prima mandata, ma non fece
scattare la seconda. Poteva servire questa con poca rettificazione a
farlesi.

Boxtel la spalmò leggermente di cera e rinnovò lo esperimento.
L’ostacolo rincontrato dalla chiave nella seconda girata lasciò
l’impronta sulla cera; cosicchè non ebbe egli che a seguire quella
impressione con una lima sottile.

Con due giorni di lavoro Boxtel condusse la chiave a perfezione. La
porta di Rosa fu aperta senza strepito, senza sforzo, e il falsario
trovossi nella camera della giovine, solo a solo col tulipano.

La prima azione criminosa di Boxtel era stata di scavalcare un muro per
disotterrare il tulipano; la seconda di penetrare nel prosciugatoio di
Cornelio per una finestra aperta; e la terza d’introdursi nella camera
di Rosa con una chiave falsa.

Lo si vede, che l’invidia faceva fare a Boxtel rapidi passi nella
carriera del delitto. Ei trovossi dunque solo a solo col tulipano.

Un ladro ordinario si sarebbe messo il vaso sotto braccio, e l’avrebbe
portato via. Ma Boxtel non era un ladro ordinario e fece i suoi
calcoli, osservando il tulipano coll’aiuto della sua lanterna cieca.
Vide che non era ancora tanto innanzi da dargli la certezza che fosse
nero, quantunque le apparenze ne offrissero tutta la probabilità.

Riflettè che se non fiorisse nero, o che se pure fiorisse con qualche
macchia qualunque, avrebbe commesso un furto inutile.

Riflettè che tal furto avrebbe fatto strepito, che sarebbesi preso
qualche indizio dopo il fatto del giardino, che si farebbero delle
ricerche, e che, per quanto bene potesse egli nascondere il tulipano,
non sarebbe stato impossibile ritrovarlo.

Riflettè che nascondendolo di maniera che non si fosse potuto
ritrovare, potrebbe nel portarlo or qui or là subire un qualche
malanno.

Riflettè finalmente che meglio valeva, dacchè egli teneva la
contracchiave della camera di Rosa e poteavi entrare a suo beneplacito,
valeva meglio aspettarne la fioritura, prenderlo un’ora avanti o un’ora
dopo che fiorisse, e partire sull’istante senza perdere un minuto
di tempo per Harlem, dove, primachè si fosse reclamato, il tulipano
sarebbe davanti i giudici.

Allora o lui o lei reclamassero pure e accusassero Boxtel di furto.

Gli era un piano ben concepito e degno in tutto e per tutto di chi
l’aveva ideato.

Perciò tutte le sere durante l’ora zuccherata, che i giovani passavano
alla graticola della prigione, Boxtel entrava nella camera di Rosa,
non già per violare il santuario della verginità, ma per seguire i
progressi che faceva il tulipano nero nella fioritura.

La sera, a cui siamo arrivati, egli era per entrarvi come l’altre sere;
ma, noi l’abbiamo visto, i giovani non avevano scambiate che poche
parole, quando Cornelio licenziò Rosa, perchè vegliasse sul tulipano.

Boxtel, vedendo Rosa rientrare in camera sua dieci minuti dopo esserne
escita, si accorse che il tulipano avesse fiorito o che fosse lì lì per
fiorire.

Era dunque in questa notte che la gran partita andava a giocarsi; e
però Boxtel presentossi a Grifo con una doppia provvisione di ginepro,
cioè con una bottiglia per tasca.

Grifo brillo, Boxtel poco meno restava padrone di casa.

Alle undici Grifo era ubriaco spolpo. Alle due di mattina Boxtel
vide Rosa escire di camera, ma teneva ella visibilmente in braccio un
oggetto che portava con gran precauzione.

Quell’oggetto doveva essere senza dubbio nessuno il tulipano nero
allora fiorito.

Ma che ne farebbe?

Che forse con quello partirebbe sul momento per Harlem?

Non pareva possibile che una giovinetta sola, di notte, si azzardasse a
un viaggio simile.

Andava a mostrare a Cornelio il tulipano?

Era più probabile.

Seguì Rosa scalzo e sulla punta de’ piedi.

La vide accostarsi alla graticola; la sentì chiamare Cornelio.

Al lume della lanterna cieca, vide il tulipano sbocciato, nero come la
notte, nella quale egli era nascosto.

Intese tutti i progetti fissati tra Cornelio e Rosa d’inviare un
espresso a Harlem.

Vide le labbra dei due giovani toccarsi, poi intese che Cornelio
licenziò Rosa.

Vide Rosa chiudere la lanterna cieca e incamminarsi alla sua camera. Ve
la vide rientrare.

Poi dieci minuti dopo la vide riescire e chiudere l’uscio con due
mandate.

Perchè chiudeva la porta con tanta cura? Perchè dentro a quella porta
chiudeva il tulipano nero.

Boxtel che vedeva tutto dal sottoscala del piano superiore alla camera
di Rosa, scese uno scalino dal suo piano, mentre Rosa scendevane uno
dal suo; di maniera che quando Rosa fu all’ultimo scalino della sua
scala scesa con piè leggiero, Boxtel con mano anco più leggiera toccava
la serratura della camera di Rosa.

E in quella mano, ci s’intende bene, era la contracchiave che apriva la
porta di Rosa, nè più nè meno facilmente della vera.

Ecco perchè abbiamo detto al principio del capitolo, che i poveri
giovani avevano bisogno di essere guardati dalla protezione diretta del
Signore.



VIII

Come il Tulipano nero muti padrone.


Cornelio era sempre là come Rosa avealo lasciato, cercando quasi
inutilmente in sè la forza di sostenere il doppio carico della
felicità.

Era passata una mezz’ora. Già i primi raggi mattutini entravano
cilestri e freschi attraverso le sbarre della finestra nella prigione
di Cornelio, quando trasalì a un tratto al sentire montare la scala, e
gridare persona che avvicinavasi a lui.

Nel tempo medesimo il suo viso trovossi in faccia del viso pallido e
stralunato di Rosa.

Egli pure impallidendo per lo spavento si fece indietro.

— Cornelio! Cornelio! gridò colei tutta affannosa.

— Che c’è? mio Dio! dimandò il prigioniero.

— Cornelio, il tulipano...

— Ebbene?...

— Ma come dirvelo?

— Dite, dite, o Rosa.

— Ci è stato preso, ci è stato rubato.

— Ci è stato preso, ci è stato rubato! esclamò Cornelio.

— Sì, disse Rosa appoggiandosi contro la porta per non cadere. Sì,
preso, rubato!

E suo malgrado ripiegandosele le ginocchia, scivolò e cadde ginocchioni.

— Ma come mai? dimandò Cornelio. Ditemi... spiegatemi...

— Oh! non ci ho colpa, amico mio.

Povera Rosa! non osava più dire mio diletto.

— L’avete lasciato solo! disse Cornelio con un accento doloroso.

— Per un momento, tanto per andare a cercare il nostro espresso, che
abita a cinquanta passi appena sulla riva del Wahal.

— E intanto a malgrado le mie raccomandazioni, avete lasciato la chiave
nell’uscio, sciagurata ragazza!

— No, no, no; eccola ancora qui, senz’averla punto lasciata; anzi
l’ho costantemente tenuta in mano, come se avessi avuto paura che mi
scappasse.

— Ma allora come l’è andata?

— E che lo so io? Consegnai al mio espresso la lettera, che partì me
presente; tornai, la porta era chiusa; tutto era al suo posto in camera
mia fuorchè il tulipano che era sparito. Si vede che qualcuno si è
procurata un’altra chiave della mia camera, o ne ha fatta fare una
falsa.

Restò soffocata, le lacrime troncandole a mezzo la parola.

Cornelio immobile, col viso stravolto, ascoltava quasi senza
comprendere, mormorando soltanto:

— Rubato! rubato! rubato! Io sono perduto.

— Oh! signor Cornelio, grazia! grazia! esclamò Rosa, che io ne morirei.

A questa minaccia di Rosa, Cornelio abbrancò le spranghe della
graticola, e stringendole con furore:

— Rosa, gridò, ce l’hanno rubato, è vero; ma che ci abbiamo a dare per
vinti? No, grande è la sventura, ma riparabile forse: conosciamo il
ladro.

— Ahimè! come è possibile che ve lo possa precisare?

— Oh! ve lo preciso io: è l’infame Giacobbe. Lasceremo noi ch’ei
s’abbia il premio a Harlem del frutto delle nostre fatiche, del
resultato delle nostre veglie, del sollievo del nostro amore? Rosa,
bisogna perseguitarlo, bisogna raggiungerlo!

— Ma come fare tutto questo, amico mio, senza scoprire a mio padre
che noi siamo d’intelligenza! Come io, donna sì poco franca, sì poco
capace, come raggiungere io quello scopo, cui forse voi stesso non
raggiungereste?

— Rosa, Rosa, apritemi la porta, e vedrete se io non lo raggiunga;
vedrete se non vi scopra il ladro, vedrete se io non lo faccia
confessare il delitto, e chiedere misericordia!

— Oh! me meschina! disse Rosa singhiozzando, e che vi posso aprire, io?
Che ho le chiavi? E se le avessi avute, non sareste già libero da un
pezzo?

— Le ha vostro padre; il vostro infame padre, quel che mi schiacciò il
mio primo tallo di tulipano. Ah! miserabile, miserabile! è complice di
Giacobbe.

— Sommesso, sommesso, in nome del cielo!

— Oh! se non mi aprite, o Rosa, gridò Cornelio farnetico di rabbia,
sfondo la graticola e ammazzo quanti incontro nella prigione.

— Amico mio, per pietà!

— Vi dico, o Rosa, che pietra per pietra demolirò la prigione.

E il disgraziato con le sue due mani, la cui forza era raddoppiata
dalla collera, conquassava con gran fracasso la porta, e tramandava tal
gridi disperati, che tuonavano fino in fondo allo spirale sonoro della
scala.

Rosa spaventata procurò ma invano di calmare quella furiosa tempesta.

— Vi dico che ammazzerò l’infame Grifo, urlò Van Baerle; vi dico che
verserò il suo sangue, che lui ha versato quello del mio tulipano nero.

L’infelice cominciava a dar la volta al cervello.

— Oh! sì, diceva Rosa palpitante, sì, sì, ma calmatevi; sì, prenderò le
sue chiavi, sì, sì, vi aprirò; ma calmatevi, mio Cornelio.

Non aveva ella ancora finito, che un urlo cacciatole in faccia
interruppe la sua frase.

— Mio padre! esclamò Rosa.

— Grifo! ruggì Van Baerle, ah! scellerato!

Il vecchio Grifo in mezzo a tutto quel frastuono era salito senzachè si
fosse sentito.

Ei prese bruscamente sua figlia pel polso.

— Ah! voi mi prenderete le chiavi, disse di una voce cupa per la
collera. Ah! questo infame, questo mostro, questo cospiratore è il
vostro Cornelio! Ah! si tiene di mano ai prigionieri di stato! Va bene!

Rosa battè insieme le mani per la disperazione.

— Oh! continuò Grifo passando dall’accento febbricitante della collera
alla fredda ironia del vincitore, ah! ah! signor tulipaniere innocente,
ah! ah! signor sapiente inzuccherato, voi mi massacrerete, voi beverete
il mio sangue! Benone! non si fa dimeno! E la mia figlia complice. O
Gesù! ma che sono io in una caverna di assassini, che sono io in un
coviglio di briganti? Ah! stamattina il signor governatore saprà tutto,
e dimani saprà tutto S. A. lo Statolder. Noi conosciamo la legge:
«Chiunque si ribellerà in prigione (articolo 6).» Noi vi andiamo a
dare una seconda edizione del Buitenhof o signor sapiente, e sarà la
buona edizione. Sì, sì, stringete le pugna come un orso in gabbia,
e voi bellina, divorate con gli occhi il vostro Cornelio. Vi avverto
però, o miei agnellini, che non avrete più questa felicità di cospirare
insieme. Giù, via discendi, snaturata figliuola. E voi, signor
sapiente, a rivedervi; siate tranquillo, a rivedervi!

Rosa fuori di sè per il terrore e per la disperazione, gettò un bacio
al suo amico; poi senza dubbio illuminata da un pensiero istantaneo, si
affrettò alla scala, dicendo:

— Non è ancora tutto perduto; conta su me, mio Cornelio.

Suo padre seguivala urlando.

Quanto al povero tulipaniere, lasciò a poco a poco le sbarre strette
dalle sue dita convulsive: la sua testa aggravossi, gli occhi
suoi oscillarono nella loro orbita, ed egli cadde come un cencio
sull’impiantito della camera, mormorando:

— Rubato! me l’hanno rubato!

In questo frattempo Boxtel escì di castello per la porta che
aveva aperta la stessa Rosa, e col tulipano nero involto dentro un
mantello erasi gettato in un calesse, che lo aspettava a Gorcum, e
disparve senza avere, ci s’intende, avvertito l’amico Grifo della sua
precipitosa partenza.

Ed ora che lo abbiamo visto montare nel suo calessino, lo seguiremo, se
il lettore ce lo acconsente, fino al termine del suo viaggio.

Camminava di passo: non si fa correre impunemente la posta a un
tulipano nero.

Ma Boxtel temendo di non arrivare a tempo, fece fabbricare a Delft una
cassetta tutta intorno vestita di bella borraccina fresca, e v’incassò
il tulipano, cosicchè il fiore vi si trovava così mollemente accomodato
da tutti i lati, e arieggato al di sopra, che il calessino potè
prendere il galoppo senza possibile pregiudizio.

Arrivò l’indomani mattina a Harlem, spossato ma trionfante, mutò il suo
tulipano di vaso per fare sparire ogni traccia di furto, spezzò il vaso
di maiolica, e gettò i cocci nel Canale, scrisse al presidente della
società orticola una lettera, nella quale annunziavagli, che egli era
giunto a Harlem con un tulipano perfettamente nero, e istallossi in una
buona osteria con il suo fiore intatto.

Là egli attese.



IX

Il presidente Van Herysen.


Rosa lasciando Cornelio, aveva preso il suo partito; ed era, o di
rendergli il tulipano rubatogli da Giacobbe, o di non rivederlo mai
più.

Essa aveva visto la disperazione del prigioniero, doppia e incurabile
disperazione.

E poi da un canto era una separazione inevitabile avendo Grifo a un
tempo sorpreso il segreto del loro amore e dei loro convegni.

Dall’altro era il rovesciamento di tutte le speranze d’ambizione di
Cornelio Van Baerle, e tali speranze nutrivale da sette anni indietro.

Rosa era una di quelle donne, che non si perdono mai di coraggio, piene
di forza contro un male estremo trovano nel male medesimo l’energia per
combatterlo, o la risorsa per ripararlo.

La giovanetta rientrò nella sua stanza, vi gettò un ultimo sguardo per
vedere se mai si fosse ingannata, e se il tulipano fosse per disgrazia
in un qualche cantuccio, e quindi sfuggito alla sua vista. Ma Rosa
cercò invano: il tulipano non v’era più, il tulipano era stato rubato.

Fece un fagottino delle bricciche che le sarebbero necessarie, prese
i suoi trecento fiorini di risparmi, cioè tutta la sua ricchezza,
frugò sotto i suoi merletti, ov’era riposto il terzo tallo, se lo
cacciò delicatamente in seno, chiuse la sua porta a doppia mandata
per ritardare di tutto il tempo necessario per aprirla il momento, che
si conoscesse la sua fuga, discese la scala, escì della prigione per
la porta, che un’ora innanzi aveva dato l’egresso a Boxtel, si portò
presso un affittuario di cavalli, e chiese la vettura di un calessino.

Il vetturino non ne aveva che uno: era per l’appunto quello affittato
fin dalla vigilia a Boxtel, sul quale correva per la via di Delft.

Noi diciamo per la via di Delft, perchè bisognava fare un enorme giro
per andare da Loevestein ad Harlem: a volo di uccello la distanza non
sarebbe stata della metà.

Ma non vi sono che gli uccelli che possano viaggiare a volo in Olanda,
paese il più intersecato da fiumi, da ruscelli, da canali, da riviere e
da laghi di qualunque altro paese del mondo.

A Rosa dunque fu forza di prendere un cavallo, che le fu facilmente
fidato: chè il vetturino conosceva Rosa per la figlia del soprastante
della fortezza.

Rosa aveva una speranza, ed era di raggiungere il suo espresso, buono e
bravo giovinotto, che la condurrebbe seco e che le servirebbe al tempo
stesso di guida e di appoggio.

Difatti non aveva corso ancora una lega, che ella lo scorse allungare
il passo sopra una proda di una graziosa strada che costeggiava la
riviera.

Messe il cavallo al trotto e lo raggiunse.

Il bravo giovane ignorava l’importanza del suo messaggio, e nulladimeno
camminava come se lo conoscesse. In meno di un’ora aveva già fatto una
lega e mezzo.

Rosa gli riprese il biglietto diventato inutile, e gli fece sentire che
ella aveva bisogno di lui. Il navicellaio misesi a sua disposizione,
promettendo di andare quanto il cavallo, purchè Rosa gli permettesse di
appoggiar la mano sulla di lui groppa o sulla spalla.

La giovinetta permisegli che appoggiasse la mano dove volesse, purchè
non la ritardasse minimamente.

I due viaggiatori erano già partiti da cinque ore e aveano già fatto
più di otto leghe, che Grifo non si figurava punto ancora che la
giovine avesse lasciato la fortezza.

Il carceriere d’altronde, pessimo uomo in sostanza, gongolava per avere
ispirato a sua figlia un profondo terrore.

Ma intanto, che felicitavasi di avere a raccontare una così bella
storia al compagnone Giacobbe, Giacobbe pure era sulla via di Delft.

Solamente in grazia del suo calessino era già quattro leghe avanti a
Rosa e al navicellaio.

Mentrechè Grifo figuravasi Rosa tremante, o borbottante in camera sua,
Rosa guadagnava terreno.

Nessuno fuorchè il prigioniero non eravi dunque che non avesse la
credenza di Grifo.

Rosa compariva così poco da suo padre dacchè erasi messa intorno al
tulipano, che solamente all’ora di desinare, cioè a mezzogiorno, Grifo
si accorse misurando il suo appetito, che sua figlia bronciava un po’
troppo.

La fece chiamare da un suo porta chiavi; siccome costui discese
annunziando che aveala cercata e chiamata invano, risolvette di
cercarla e chiamarla da sè.

Cominciò con andare diretto alla di lei camera; ma ebbe un bel
picchiare, Rosa non rispose nè punto nè poco.

Fu fatto venire il guardaroba della fortezza, il quale aprì la porta,
ma Grifo non vi trovò Rosa, come Rosa non vi aveva trovato il tulipano.

In questo stesso momento Rosa entrava a Rotterdam; e perciò Grifo non
poteala trovare in cucina, come non l’aveva trovata in camera; non
poteala trovare in giardino come non l’aveva trovata in cucina.

Che si giudichi della collera del carceriere, quando avendo fiutato
ogni angolo seppe che sua figlia aveva preso a vettura un cavallo, e
come Bradamante e Clorinda erasene partita da vera venturiera, senza
dire ove si dirigesse.

Grifo risalì furibondo da Van Baerle, lo ingiuriò, lo minacciò, sgominò
tutto il di lui meschino mobiliare, promisegli l’ergastolo, promisegli
la prigione sotterra, promisegli la fame e le bastonate.

Cornelio senza neppure dargli retta, lasciavasi maltrattare,
ingiuriare, minacciare, impassibile, silenzioso, disensito, insensibile
a ogni emozione, morto a ogni paura.

Dopo aver cercato di Rosa in ogni cantuccio. Grifo cercò di Giacobbe;
e non trovandolo al pari di sua figlia, sospettò all’istante che glie
l’avesse involata.

Frattanto la giovinetta dopo aver fatto una fermata d’un paio d’ore a
Rotterdam, erasi rimessa in cammino. La stessa sera pernottò a Delft, e
la mattina seguente arrivò a Harlem quattro ore dopo di Boxtel.

Rosa si fece subito condurre dal presidente della società orticola,
messer Van Herysen.

Trovò quel degno cittadino in una situazione, che non ci permettiamo
di passarla senza dipingere, per non mancare a tutti i nostri doveri di
pittore e di storico.

Il presidente redigeva un rapporto al comitato della società.

Tale rapporto era in gran foglio e nel migliore scritto che potesse
fare il presidente.

Rosa fecesi annunziare sotto il suo semplice nome di Rosa Grifo; ma
questo nome per sonoro che fosse, era sconosciuto al signor presidente,
il perchè Rosa non fu ammessa. È difficile forzare le consegne in
Olanda, paese delle dighe e delle chiuse.

Ma Rosa non si sconcertò per questo; erasi imposta una missione ed
aveva giurato a se stessa di non lasciarsi abbattere nè dai rabbuffi,
nè dalle brutalità, nè dalle ingiurie.

— Annunziate al signor Presidente, ella disse, che gli vengo a parlare
del tulipano nero.

Queste parole non meno magiche delle famose: _sèsamo, apriti_, delle
Mille e una notte, servironle di passaporto. Mercè queste parole
penetrò fin nello scrittoio del presidente Van Herysen, che ella trovò
galantemente che veniva ad incontrarla.

Era un piccolotto, sciugnolo, rappresentante precisamente il gambo
di un fiore, la cui testa formasse il calice; due braccia ondulanti
e pendenti simulanti la doppia foglia oblunga del tulipano; un certo
tentennìo, che eragli abituale, completava la sua rassomiglianza con
quel fiore, quando piegasi sotto il soffio del vento.

Abbiamo detto che chiamavasi Van Herysen.

— Signorina, esclamò egli, venite da parte del tulipano nero?

Pel signor presidente della società orticola il _Tulipano nero_ era una
potenza di primo ordine, che poteva bene nella sua qualità di regina
dei tulipani inviare ambasciatori.

— Sì, signore, rispose Rosa, vengo per lo meno a parlarvi di lui.

— Sta bene? fece Van Herysen con un sorriso di tenera venerazione.

— Ahimè! disse Rosa, non lo so, o signore.

— Come! sarebbegli accaduto qualche disgrazia?

— Ben grande, signore, ma non a lui, a me.

— Quale?

— Mi è stato rubato.

— Vi è stato rubato il tulipano nero?

— Sì, signore!

— Sapete da chi?

— Oh! lo dubito, ma non oso ancora accusarlo.

— Ma la cosa sarà facile a verificarsi.

— Come ciò?

— Dacchè vi è stato rubato, il ladro non sarebbe lontano.

— Perchè non può essere lontano?

— Perchè non sono più di due ore che l’ho veduto.

— Avete veduto il tulipano nero? esclamò Rosa precipitandosi verso il
signor Van Herysen.

— Come vedo ora voi.

— Ma dove?

— Apparentemente, presso il vostro padrone.

— Presso il mio padrone?

— Sì... Non siete voi al servizio del signor Isacco Boxtel?

— Io?

— Senza dubbio, voi.

— Ma per chi dunque mi prendete voi, signore?

— Ma per chi mi prendete voi, voi costì?

— Signore, io vi prendo, lo spero, per quello che siete, cioè a dire
per l’onorevole signor Van Herysen sindaco di Harlem e presidente della
società orticola.

— E che mi volete dire?

— Vi voglio dire, o Signore, che mi è stato rubato il mio tulipano.

— Allora il vostro tulipano è quello del signor Boxtel. Allora voi vi
spiegate male, o mia ragazza; non a voi dunque, ma al signor Boxtel è
stato rubato il tulipano.

— Vi ripeto, signore, che non so chi si sia questo signor Boxtel, e che
questa è la prima volta che lo sento nominare.

— Non sapete chi si sia questo signor Boxtel, e avete medesimamente un
tulipano nero?

— Che ve n’è dunque un altro? domandò Rosa rabbrividendo tutta.

— Vi è quello del signor Boxtel, già.

— Com’è?

— Nero, permio!

— Senza una macchia?

— Senza la minimissima macchia, senza il minimissimo puntolino.

— E voi avete questo tulipano? Ed è qui depositato?

— No, ma saravvi depositato, perchè ne debbo fare l’esibizione al
comitato, prima che il premio sia conferito.

— Signore, esclamò Rosa, questo Boxtel, questo Isacco Boxtel, che si
dice proprietario del tulipano nero....

— E che lo è difatto.

— Non sarebbe mica un uomo magro?

— Sì.

— Calvo?

— Sì.

— Guercio?

— Credo che sì.

— Inrequieto, storto, ranco?

— In verità, che ne fate il ritratto lineamento per lineamento del
signor Boxtel.

— Signore il tulipano è egli in un vaso di maiolica turchina e bianca a
fiori giallognoli rappresentanti una panierina sopra le tre faccie del
vaso?

— Oh! quanto a questo, non ne sono sicuro, che ho più osservato il
fiore del vaso.

— Signore, è il mio tulipano, è quello che mi è stato derubato;
signore, è la mia fortuna: vengo qui a reclamarlo avanti a voi, da voi.

— Oh! oh! fece Van Herysen guardando Rosa. Che! Venite qui a reclamare
il tulipano del signor Boxtel. Affè di Dio! siete una comare un po’
ardita!

— Signore, disse Rosa un poco conturbata da quell’apostrofe, io non
vengo a reclamare il tulipano del signor Boxtel, ma vengo a reclamare
il mio.

— Il vostro?

— Sì: quello che ho piantato e allevato io stessa.

— Ebbene, andate a trovare il signor Boxtel all’Osteria del _Cigno
Bianco_, ve la intenderete con lui; quanto a me, siccome la causa parmi
non meno difficile di quella portata davanti al fu re Salomone, e che
io non ho la pretensione della sua sapienza, mi contenterò di fare il
mio rapporto, di constatare l’esistenza del tulipano nero e di ordinare
la collazione di cento mila fiorini al suo inventore. Addio, mia
ragazza.

— Oh! signore! signore! insistè Rosa.

— Solamente, ragazza mia, continuò Van Herysen, siccome siete
graziosetta, siccome siete giovane, siccome siete non ancora affatto
pervertita, accettate il mio consiglio. Siate prudente in questo
affare, perchè noi abbiamo un tribunale e una prigione in Harlem;
inoltre noi siamo estremamente solleciti sull’onore dei tulipani.
Andate, mia ragazza, andate. Signore Isacco Boxtel, Osteria del _Cigno
Bianco_.

E Van Herysen, riprendendo la sua bella penna, riprese l’interrotto suo
rapporto.



X

Un membro della società orticola.


Rosa smarrita, quasi impazzita di gioia e di paura alla idea che
il tulipano nero fosse ritrovato, si diresse all’Osteria del _Cigno
Bianco_, seguita sempre dal suo navicellaio, robusto giovanotto della
Frigia capace di divorarsi solo dieci Boxtel.

Per istrada il navicellaio era stato messo alla confidenza di tutto;
egli era pronto ad adoprare le mani quando ne venisse la necessità; e
solamente non dandosi questa eventualità, aveva ordine di pigliarsi il
tulipano.

Ma giunta in Groote Markt, Rosa si fermò su due piedi: che presela un
subito pensiero, simile alla Minerva d’Omero, che prende Achille per i
capelli nel momento che la monta nelle furie.

— Mio Dio! ella mormorò, ho fatto uno sbaglio massiccio; ho forse
perduto e Cornelio e il Tulipano e me...! Ho svegliato il formicolaio,
ho dato l’indizii; io non sono che una donna, e costoro possono legarsi
contro di me, e allora sono perduta... Oh! perduta io, non vorrebbe dir
nulla, ma Cornelio, ma il tulipano!

Stette un momento sopra se stessa.

— Se vado da questo Boxtel, e che io nol conosca punto; se questo
Boxtel non fosse il mio Giacobbe, se fosse un altro amatore che lui
pure avesse scoperto il tulipano nero, od anco se il mio tulipano fosse
stato rubato da un altro e non da chi sospetto, o che sia passato in
terza mano; se mi fosse appieno sconosciuto l’uomo, e riconoscessi solo
il mio tulipano, come provare che sia il mio? Da un altro canto se io
riconoscessi questo Boxtel per il falso Giacobbe, chi può sapere come
la cosa la s’andasse. Mentre che noi staremmo a contrastare insieme, il
tulipano morrebbe. Oh! ispiratemi voi, Vergine santa! Si tratta della
sorte della vita mia, si tratta del povero prigioniero, che forse in
questo momento medesimo rende l’anima a Dio.

Fornita questa preghiera, Rosa attese religiosamente la ispirazione che
invocava dal cielo.

Frattanto un gran sussurro alzavasi alla estremità di Groote Markt; le
genti accorrevano, schiudevansi le porte; e Rosa sola era impassibile a
tutto questo movimento della popolazione.

— Bisogna, mormorò, ch’io ritorni dal presidente.

— Ritorniamo, disse il navicellaio.

Presero il vicolo della Paglia che li menò diritti alla residenza
del signor Van Herysen, il quale col suo più bel carattere e con la
migliore sua penna continuava a lavorare al suo rapporto.

Dappertutto passando Rosa non sentiva che parlare del tulipano nero e
del premio di cento mila fiorini: n’era già piena la città.

Rosa non incontrò ostacolo nessuno per ripenetrare presso Van Herysen,
che puranco sentissi commosso, come la prima volta, alla parola magica
di tulipano nero.

Ma quando riconobbe Rosa, la quale dentro di sè aveva egli battezzato
per pazza e forse peggio, montò in collera e voleva scacciarla.

Ma Rosa giunse le sue mani, e con un accento di verità, che penetra i
cuori, disse:

— Signore, a nome del cielo! non mi cacciate: ascoltate al contrario
ciò che io vengo a dirvi, e se non potrete farmi rendere giustizia,
almeno non avrete a rimproverarvi un giorno in faccia a Dio di essere
stato complice di una cattiva azione.

Van Herysen trepidava d’impazienza; l’era la seconda volta che Rosa
disorientavalo da una redazione, alla quale ei metteva il suo doppio
amor proprio di sindaco e di presidente della società orticola.

— Ma il mio rapporto! esclamò egli, il mio rapporto sul tulipano nero!

— Signore, continuò Rosa con la fermezza della innocenza e della
verità, signore, se non mi ascoltate, il vostro rapporto sul tulipano
nero poserà sopra fatti criminosi, o sopra dati falsi. Ve ne supplico,
signore, fate venir qui alla vostra presenza e mia questo signor
Boxtel, il qual sostengo che sia il signor Giacobbe, e giuro a Dio di
lasciargli la proprietà del suo tulipano, se non conosco nè il tulipano
nè il suo proprietario.

— Viva Dio! bella promessa! disse Van Herysen.

— Che vorreste dire?

— Vi domando che cosa ciò proverebbe, quando voi lo aveste riconosciuto?

— Ma alla fine, disse Rosa disperata, voi siete un uomo onesto, o
signore. Ebbene non solo andreste a dare il premio ad un uomo per
un’opera che non ha fatto, ma ancora per un’opera rubata.

Forse l’accento di Rosa cominciava ad ispirare un certo convincimento
nel cuore di Van Herysen, che si preparava a risponderle più
dolcemente; quando un grande strepito fecesi sentire nella strada, che
pareva puramente e semplicemente che fosse un aumento del frastono, cui
Rosa aveva già inteso, ma senza attaccarvi importanza nessuna, a Groote
Markt, e che non aveva avuto la forza di astrarla dalla sua fervente
preghiera.

Ardenti acclamazioni scossero la casa. Van Herysen porse le orecchie
attente a queste acclamazioni, le quali dapprima non erano state
neppure uno strepito per Rosa, ed ora erano per lei un semplice
strepito ordinario.

— Che cosa è questa, esclamò il sindaco, che cosa è questa? Sarebbe mai
possibile! Che io abbia inteso bene!

E precipitossi verso la sua anticamera senza più guardare a Rosa che
lasciava nel suo scrittoio.

Van Herysen appena giunto nell’altra stanza cacciò un gran grido,
scorgendo lo spettacolo della sua scala invasa fino al vestibolo.

Accompagnato, o piuttosto seguito dalla moltitudine, un giovine vestito
semplicemente di vellutello violetto ricamato in argento saliva con
nobile lentezza li scalini di pietra, lucenti di bianchezza e di
nettezza.

Dietro a lui venivano due officiali, uno di marina e l’altro di
cavalleria.

Van Herysen facendosi largo tra i domestici spaventati, venne a
inchinarsi, a prosternarsi quasi davanti il nuovo arrivato, che
cagionava tutto questo rumore.

— Mio Signore, esclamò, mio Signore! Come? l’Altezza Vostra da me!
Onore impareggiabile sempre per la mia umile abitazione!

— Caro Van Herysen, disse Guglielmo d’Orange con una serenità che in
lui teneva luogo di sorriso, io sono un vero olandese, vedete; amo
l’acqua, la birra e i fiori, e qualche volta pure il formaggio, di cui
fanno tanto conto i Francesi; tra fiori quelli che io preferisco, sono
naturalmente i tulipani. Ho udito dire a Leida che la città di Harlem
possedeva finalmente il tulipano nero, e dopo essermi assicurato la
cosa esser vera, quantunque incredibile, vengo a chiederne novella al
presidente della società di orticoltura.

— Oh! mio Signore, disse Van Herysen in estasi, qual gloria per la
società, se i di lei lavori possono aggradire all’Altezza Vostra!

— L’avete qui il fiore? disse il principe che già senza dubbio
pentivasi d’aver troppo parlato.

— Ahimè! no, mio Signore, non l’ho qui.

— E dov’è?

— Presso il suo proprietario.

— Chi è il proprietario?

— Un bravo tulipaniere di Dordrecht.

— Di Dordrecht? Come si chiama?....

— Boxtel.

— Alloggia?

— Al _Cigno Bianco_; mando ad avvisarlo; e se intanto aspettando, l’A.
V. mi vuol far l’onore di passare nel salone, egli certo affretterassi,
sapendo che monsignore è qui, a portare il suo tulipano.

— Va bene; avvisatelo.

— Sì, Altezza. Solamente....

— Che cosa?

— Oh! niente d’importanza, mio Signore.

— Tutto è importante in questo mondo, signor Van Herysen.

— Bene, mio Signore; si eleva una difficoltà.

— Quale?

— Questo tulipano vorrebbesi rivendicare da degli usurpatori: vale
cento mila fiorini!

— Davvero!

— Sì, mio Signore, da degli usurpatori, da dei falsarii.

— Sarebbe un delitto.

— Sì, Altezza.

— E avete le prove di questo delitto?

— No, ma la colpevole...

— La colpevole?...

— Voglio dire colei che reclama il tulipano, o mio Signore, è qui nella
stanza accanto.

— Qui! Che ne pensate voi, signor Van Herysen?

— Penso, l’appetito dei cento mila fiorini l’abbiano tentata.

— E lei reclama il tulipano?

— Sì, mio Signore.

— E che dice ella dal canto suo, come lo prova?

— Cominciavo a interrogarla, quando è entrata l’Altezza Vostra.

— Sentiamola, signor Van Herysen, sentiamola; io sono il primo
magistrato del paese, sentirò l’interrogatorio e renderò giustizia.

— Ecco trovato il mio re Salomone, disse Van Herysen facendo reverenza
e accennando il cammino al principe, che precedeva il suo introduttore;
quando arrestossi ad un tratto, disse:

— Andate innanzi, e chiamatemi Signore.

Entrarono nello scrittoio. Rosa era sempre allo stesso posto,
appoggiata alla finestra e guardante dai vetri nel giardino.

— Ah! ah! una Frisona, disse il principe scorgendo la cuffietta d’oro e
le ciocche rosse di Rosa.

Costei si volse allo strepito, ma vide solo balenare il principe, che
assidevasi nell’angolo più oscuro dell’appartamento.

Tutta la sua attenzione, ci s’intende, era volta all’importante
personaggio che chiamavasi Van Herysen, e non per quell’umile
straniero, che seguiva il padrone di casa e che probabilmente non
farebbesi conoscere.

L’umile straniero prese un libro dello scaffale, e fece segno a Van
Herysen di cominciare l’interrogatorio.

Van Herysen sempre al cenno del giovine dall’abito violetto, si
assise, e tutto felice e superbo della importanza che eragli accordata,
cominciò:

— Mia ragazza, mi promettete la verità, tutta la verità, sul conto del
tulipano?

— Ve la prometto.

— Ebbene, parlate dunque davanti al signore, che è uno dei membri della
società orticola.

— Signore, che cosa potrei dirvi, che io non abbia già detto?

— E allora?

— E allora, non posso che rinnovare la preghiera che vi ho diretta.

— Quale?

— Di far venir qui il signor Boxtel col suo tulipano, se io vedo che
non sia mio, lo dirò francamente; ma se io lo riconosco, lo reclamerei
anco davanti a Sua Altezza lo Statolder, con le prove alla mano!

— Voi dunque avete delle prove, bella ragazza?

— Dio, che sa il mio buon diritto, me le fornirà.

Van Herysen scambiò un’occhiata col principe che dalla prima parola
di Rosa, sembrava cercasse di richiamarsi alla memoria, come avesse
sentito altra volta quell’armonica voce.

Partì un officiale per cercare di Boxtel.

Van Herysen continuò l’interrogatorio, proseguendo:

— E su che basate voi queste asserzioni, di essere proprietaria del
tulipano nero?

— Sopra una cosa ben semplice, ed è d’averlo io piantato e coltivato
nella mia propria camera.

— In camera vostra? E dov’è la vostra camera?

— A Loevestein.

— Siete di Loevestein?

— Sono la figliuola del carceriere della fortezza.

Il principe fece un piccolo movimento che voleva dire:

— Ah! è lei, ora me ne ricordo.

E figurando di leggere, traguardava Rosa anco con più attenzione di
prima.

— E voi amate i fiori? continuò Van Herysen.

— Sì, signore.

— Allora voi siete una fioraia sapiente?

Rosa esitò un istante; poi con accento tirato dal più profondo del
cuore, ella disse:

— Signori, parlo ad uomini di onore?

L’accento era così vero, che Van Herysen e il principe risposero ambo
ad una volta con un movimento di testa affermativo.

— Ebbene, no, non sono io una fioraia sapiente! Io non sono che una
povera ragazza del popolo, una povera paesana di Frisia, che non son
che tre mesi che non sapeva nè leggere nè scrivere. No, il tulipano
nero non è stato ritrovato da me.

— E da chi gli è stato trovato?

— Da un povero prigioniero di Loevestein.

— Da un prigioniero di Loevestein? ripetè il principe.

Al suono di quella voce, Rosa alla sua volta trasalì.

— E allora da un prigioniero di Stato, continuò il principe, perchè al
Loevestein non sonvi che prigionieri di Stato.

E si rimise a leggere, o almeno fece le viste.

— Sì; mormorò Rosa tremante, sì, da un prigioniero di Stato.

Van Herysen impallidì udendo pronunziare una simile confessione davanti
un simile testimone.

— Continuate, disse freddamente Guglielmo al presidente della società
orticola.

— Oh! signore, disse Rosa indirizzandosi a colui che ella credeva suo
vero giudice, è quanto dire che vo ad accusarmi ben gravemente.

— Infatti, disse Van Herysen, i prigionieri di Stato dovrebbero essere
in segreta al Loevestein.

— Ahimè! signore.

— Da quello che dite, parrebbe che voi abbiate profittato della vostra
posizione di figlia del carceriere, e che abbiate comunicato con un
prigioniero di Stato per coltivare dei fiori.

— Sì, signore, mormorò Rosa sconcertata; sì, son forzata a confessarlo,
lo vedevo tutti i giorni.

— Disgraziata! esclamò Van Herysen.

Il principe alzò la testa e osservando lo spavento di Rosa e il pallore
del presidente, disse con la sua voce spiccata e fermamente accentuata:

— Ciò punto spetta ai membri della società orticola: essi debbono
giudicare puramente del tulipano nero, e non si occupano di delitti
politici. Continuate, giovanetta continuate.

Van Herysen con una occhiata eloquente ringraziò a nome dei tulipani il
nuovo membro della società orticola.

Rosa rassicurata da questa specie d’incoraggiamento che aveale dato
lo sconosciuto, raccontò tutto ciò che da tre mesi era accaduto, ciò
che aveva fatto, ciò che aveva sofferto. Parlò delle durezze di Grifo,
della distruzione del primo tallo, del dolore del prigioniero, delle
precauzioni prese, affinchè il secondo tallo arrivasse a bene, della
pazienza del prigioniero, delle sue agonie durante la loro separazione;
come egli avesse voluto morire di fame, perchè non aveva più nuove
del suo tulipano; e della gioia che egli aveva provato nella riunione;
con in fine la disperazione di ambedue, quando si avvidero che il loro
tulipano appena fiorito era loro stato rubato.

Tutto ciò fu raccontato con tale accento di verità che lasciava
impassibile il principe, almeno in apparenza, ma che non lasciava di
fare il suo effetto sopra il signor Van Herysen.

— Ma, disse il principe, non è molto che conoscete questo prigioniero?

Rosa aperse i suoi grand’occhi e fissò lo sconosciuto, che cacciossi
nell’ombra come se non si fosse voluto far vedere.

— A che ciò? dimandò Rosa.

— Perchè non sono che quattro mesi che il carceriere Grifo e sua figlia
sono a Loevestein.

— È vero, signore.

— A meno che non abbiate sollecitato la permuta di vostro padre per
seguire qualche prigioniero che sia stato dall’Aya trasportato a
Loevestein.

— Signore! fece Rosa arrossendo.

— Finite, disse Guglielmo.

— Lo confesso, io aveva conosciuto il prigioniero all’Aya.

— Fortunato prigioniero! disse Guglielmo sorridendo.

In questo momento l’officiale che era stato inviato a Boxtel rientrò,
annunziando al principe che seguivalo col suo tulipano.



XI

Il terzo Tallo.


L’annunzio della venuta di Boxtel era appena dato che egli entrò
in persona nel salone del signor Van Herysen, seguito da due uomini
portanti in una cassa il prezioso peso, che fu depositato sopra una
tavola.

Il principe prevenuto, lasciò lo scrittoio, passò nel salone, ammirò
e tacque; quindi tornò silenziosamente a prendere il suo posto
nell’angolo oscuro, dove da se stesso aveva collocato la sua seggiola a
braccioli.

Rosa palpitante, pallida, esterrefatta, aspettava di essere alla sua
volta invitata per andare a vederlo.

Sentiva la voce di Boxtel.

— Gli è lui! ella esclamò.

Il principe fecele segno che ella guardasse dalla porta socchiusa: e
Rosa esclamò:

— È il mio tulipano! è lui, lo riconosco. O mio povero Cornelio!

E si struggeva in lacrime.

Il principe alzossi e andò fino alla porta, dove rimase per un istante
alla luce.

Gli occhi di Rosa si fermarono su di lui; e più che mai si convinse che
quella non era la prima volta che ella avesse veduto quello straniero.

— Signor Boxtel, disse il principe, entrate.

Boxtel accorse frettoloso e trovossi faccia a faccia con Guglielmo
d’Orange.

— Sua Altezza! esclamò tirandosi indietro.

— Sua Altezza! ripetè Rosa tutta stordita.

A questa esclamazione venuta dalla sua sinistra, Boxtel si volse, e
vide Rosa.

A questa vista tutta la persona dell’invidioso si scosse come al
contatto della pila voltaica.

— Ah! mormorò tra sè il principe, egli si è turbato.

Ma Boxtel con uno sforzo potente sopra di sè, erasi già rimesso.

— Signor Boxtel, disse Guglielmo, parrebbe che voi aveste trovato il
segreto del tulipano nero?

— Sì, mio Signore, rispose Boxtel con una voce che rivelava un po’ di
turbamento.

È vero che il turbamento poteva originare dalla emozione provata dal
tulipaniere nel riconoscere Guglielmo.

— Ma, riprese il principe, ecco una giovine che ha pure la stessa
pretensione.

Boxtel sorrise di sdegno e fece una spallata.

Guglielmo notava tutti i suoi movimenti con uno interessamento di
rimarcabile curiosità.

— Del pari, non conoscete punto questa giovine?

— No, mio Signore.

— E voi, ragazza, conoscete Boxtel?

— No, non conosco il signor Boxtel, ma conosco il signor Giacobbe.

— Che volete voi dire?

— Voglio dire che a Loevestein, costui, che si fa chiamare Isacco
Boxtel, chiamavasi signor Giacobbe.

— Che rispondete, signor Boxtel?

— Dico, mio Signore, che questa giovine mentisce.

— Voi negate di non essere mai stato a Loevestein?

Boxtel esitò; l’occhio fisso e imperiosamente scrutatore del principe
impedivagli di mentire.

— Non posso negare di essere stato a Loevestein, mio Signore, ma niego
di avere rubato il tulipano.

— Me l’avete rubato e di camera mia! esclamò Rosa indignata.

— Lo niego.

— Ascoltate; niegate voi d’avermi seguito nel giardino il giorno, in
cui io preparava la casella, dove io doveva sotterrarlo? Niegate voi
d’avermi seguito nel giardino il giorno, in cui io finsi di piantarlo?
Niegate voi quella sera stessa d’esservi gettato, dopo la mia partenza,
sul luogo dove voi speravate di trovare il tallo? Niegate voi di aver
frugato la terra con le vostre mani, ma inutilmente per grazia di Dio,
perchè non era che una furberia per conoscere le vostre intenzioni?
Dite, mi negherete tutto questo?

Boxtel non giudicò punto a proposito di rispondere a queste diverse
interrogazioni; ma lasciando la polemica suscitata da Rosa e volgendosi
al principe, disse:

— Sono venti anni, mio Signore, che coltivo tulipani a Dordrecht; ho
parimente acquistato in quest’arte una certa reputazione: uno dei
miei ibridi portò in Catalogna un nome illustre. L’ho dedicato al
re di Portogallo. Ora ecco la verità. Questa ragazza sapeva che io
aveva trovato il tulipano nero e di concerto con un suo amante, che
ha nella fortezza di Loevestein, si è formata il progetto di rovinarmi
coll’appropriarsi il premio de’ cento mila fiorini, che otterrò, spero,
in grazia della vostra giustizia.

— Oh! esclamò Rosa soffocata dalla collera.

— Silenzio! disse il principe.

Poi volgendosi a Boxtel, gli disse:

— E chi è questo prigioniero che voi dite amante di questa ragazza?

Rosa fu per isvenirsi, perchè il prigioniero era raccomandato dal
principe come un gran colpevole.

Niuna cosa poteva essere più aggradevole a Boxtel di questa dimanda.

— Qual’è il prigioniero? rispose Boxtel.

— Sì.

— Il prigioniero, mio Signore, è un uomo, il di cui nome solo proverà
all’Altezza Vostra, qual fede possa prestargli: è un reo di Stato,
condannato già alla morte.

— E si chiama?...

Rosa nascose il viso nelle sue mani con un movimento disperato.

— Si chiama Cornelio Van Baerle, disse Boxtel, ed è il vero figlioccio
dello scellerato Cornelio de Witt.

Il principe si scosse, il suo occhio calmo gettò una favilla, e il
freddo di morte si stese di nuovo sul suo viso impassibile.

Egli appressossi a Rosa e fecele segno col dito di togliersi le mani
dal viso. Rosa obbedì, come avrebbe fatto senza vedere una donna
sottomessa al magnetismo.

— Per costui dunque veniste a dimandarmi a Leida la permuta di vostro
padre?

Rosa abbassò il capo e mormorò disperata:

— Sì, mio Signore.

— Continuate, disse il principe a Boxtel.

— Non ho altro a dire, seguitò costui, Vostra Altezza sa tutto. Ora
ecco ciò che io non voleva dire per non fare arrossire questa fanciulla
della sua ingratitudine. Sono andato a Loevestein, perchè i miei
affari mi vi richiamavano; hovvi fatto conoscenza col vecchio Grifo,
sonomi innamorato di sua figlia, l’ho chiesta in moglie e, come io non
era ricco, le ho confidato la mia speranza di conseguire cento mila
fiorini; e per giustificare questa mia speranza, le ho mostrato il
tulipano nero. Allora, siccome il suo amante, a Dordrecht per dare la
polvere negli occhi su i complotti che ei tramava, affettava coltivare
tulipani, ambedue hanno macchinato la mia perdita. La vigilia della
fioritura del fiore, il tulipano mi fu involato da questa ragazza,
portato in camera sua, donde ho avuto la fortuna di riprenderlo al
momento in cui ella aveva l’audacia di spacciare un espresso per
annunziare ai signori Membri della società di orticoltura, che aveva
trovato il gran tulipano nero; ma la non si è discreduta per questo.
Senza dubbio, le poche ore che lo ha tenuto in camera sua, avrallo
mostrato a qualcheduno che chiamerà in testimonio? Ma fortunatamente,
mio Signore, eccovi prevenuto contro questa intrigante e contro i suoi
testimoni.

— Oh! mio Dio! mio Dio! Oh! profferì Rosa lacrimando e gettandosi ai
piedi dello Statolder, che per quanto la stimasse colpevole, sentiva
pietà della di lei terribile angoscia.

— Voi avete male operato, o ragazza diss’egli, e il vostro amante sarà
punito per avervi così consigliata; perchè siete così giovane e avete
l’aria così buona, che mi giova credere che il male venga da lui e non
da voi.

— Mio Signore, mio Signore! esclamò Rosa, Cornelio non è colpevole.

Guglielmo fece un movimento.

— Non colpevole di avervi consigliata. Volete dir questo, non è vero?

— Io voglio dire, mio Signore, che Cornelio non è colpevole tanto del
primo che del secondo delitto, che gli si vuole imputare.

— Del primo? E sapete voi qual sia il suo primo delitto? Sapete voi di
che sia stato accusato e convinto? D’avere, come complice di Cornelio
de Witt, conservata la corrispondenza del gran pensionario e del
marchese di Louvois.

— Ebbene, mio Signore, egli ignorava di essere detentore di tale
corrispondenza; la ignorava completamente. Eh! mio Dio! me l’ha detto
lui. Quel cuore per adamantino che fosse, qual segreto mai avrebbe
avuto per me? No, no, mio Signore, lo ripeto, dovessi io incontrare
anco la vostra collera, Cornelio non è colpevole tanto del primo
che del secondo delitto. Oh! se voi, mio Signore, conosceste il mio
Cornelio!

— Un de Witt! esclamò Boxtel. Oh! mio Signore, lo conoscete pur troppo,
dacchè gli faceste grazia della vita.

— Silenzio, disse il principe. Tutte queste cose di Stato, l’ho già
detto, non interessano punto la società orticola di Harlem.

Poi aggrottando il sopracciglio:

— Quanto al tulipano, siate tranquillo, signor Boxtel; sarà fatta
giustizia.

Boxtel col cuore pieno di gioia fece un inchino, e ricevette le
congratulazioni del presidente.

— Voi, ragazza, continuò Guglielmo d’Orange siete caduta in un grave
delitto, di cui non già punirò voi; ma il vero colpevole la pagherà per
tutti e due. Un nomo del suo calibro può cospirare, tradire ancora...
ma non mai rubare.

— Rubare! esclamò Rosa, rubare! lui, Cornelio! Oh! Signor mio, non
lo dite; ei morrebbe, se ascoltasse le vostre parole! che le vostre
parole ucciderebberlo più sicuramente che non fece la scure del boia
sul Buitenhof. Se v’è furto, mio Signore, quest’uomo, ve lo giuro è il
ladro.

— Provatelo, disse freddamente Boxtel.

— Ebbene, sì. Coll’aiuto di Dio lo proverò, disse la Frisona con molta
energia. Poi voltatasi a Boxtel:

— Il tulipano era vostro?

— Sì.

— Quanti talli aveva?

Boxtel esitò un momento; ma comprese che la giovine non farebbe cotale
dimanda, se soli esistessero i due talli conosciuti.

— Tre, disse.

— Di che ne sono stati? dimandò Rosa.

— Di che ne sono stati?... Uno è abortito, l’altro ha dato il tulipano
nero...

— E il terzo?

— Il terzo!

— Il terzo dov’è?

— Il terzo l’ho io, disse Boxtel tutto turbato.

— L’avete voi? dove? A Loevestein o a Dordrecht?

— A Dordrecht, rispose Boxtel.

— Mentite, esclamò Rosa. Mio Signore, soggiunse volgendosi al principe,
vi andrò a raccontare io la vera storia dei tre talli. Il primo è stato
calpestato da mio padre nella stanza del prigioniero, e costui lo sa
benone, perchè sperava d’impossessarsene; e quando vide svanita la
sua speranza, si mise a maltrattare mio padre, perchè operando in quel
modo aveagli tolto di effettuarla. Il secondo da me custodito ha dato
il tulipano nero, e il terzo e ultimo (la giovane se lo cavò di seno)
eccolo qui nello stesso foglio che involtava gli altri due, quando
prima di montare il patibolo, Cornelio Van Baerle davameli tutti e tre.
Prendete, mio Signore, prendete.

E Rosa svolgendo il tallo dal foglio, lo porse al principe, che preselo
in mano per esaminarlo.

— Ma, mio Signore, questa ragazza non me lo potrebbe avere rubato come
il tulipano? borbottò Boxtel spaventato dell’attenzione, con la quale
il principe esaminava il tallo, e specialmente di quella che ponea Rosa
a leggere alcune linee tracciate sul foglio rimasto in mano sua.

Ad un tratto gli occhi della giovine s’infiammarono, rilesse ansante
quel foglio misterioso, e cacciando un grido, lo porse al principe,
dicendo:

— Oh! leggetelo! mio Signore; a nome del cielo, leggetelo!

Guglielmo passò il terzo tallo al presidente, prese il foglio e lesse.

Appena vi ebbe gettato gli occhi, che tentennò; la sua mano tremante
lasciò quasi cadere la carta; e i suoi occhi presero una espressione di
dolore e di pietà.

Il foglio datoli da Rosa, era la pagina della Bibbia che Cornelio
de Witt aveva spedita a Dordrecht a mano di Craeke cameriere del
suo fratello Giovanni, per pregare Van Baerle che bruciasse la
corrispondenza del gran Pensionario con Louvois.

Cotal preghiera, si ripete, era concepita in questi termini:

      «Caro figlioccio!

  «Brucia il deposito che ti ho confidato, brucialo senza guardarlo,
  senza aprirlo, affinchè ti sia sconosciuto. Son di tal genere
  i segreti, che ucciderebbero il depositario. Brucialo, e avrai
  salvato Giovanni e Cornelio.

  «Amami, addio.

      «20 Agosto 1672.

                                                «CORNELIO DE WITT.»

Questo foglio era ad un tempo la prova della innocenza di Van Baerle e
il suo titolo di proprietà sul tallo del tulipano.

Rosa e lo Statolder cambiarono un solo sguardo.

Quello di Rosa voleva dire: «Voi vedete bene!»

Quello dello Statolder significava: «Silenzio e attendete».

Il principe asciugossi una goccia di sudor freddo che gli era colata
dalla fronte alla guancia. Piegò lentamente il foglio, lasciando
sprofondare col pensiero i suoi sguardi nell’abisso senza fondo e senza
risorsa che chiamasi pentimento e vergogna del passato.

Ben presto rialzando il capo con isforzo, disse:

— Andate, signor Boxtel, sarà fatta giustizia; ve l’ho promesso.

Poi al presidente:

— Voi, mio caro Van Herysen, custodite qui questa ragazza e il
tulipano. Addio.

Tutti s’inchinarono, e il principe escì ricolmo di numerose
acclamazioni popolari.

Boxtel se ne tornò al _Cigno Bianco_ molto inquieto. Quel foglio che
Guglielmo avea ricevuto dalle mani di Rosa, che avea letto, piegato e
messo in tasca con tanta cura, quel foglio inquietavalo.

Rosa si accostò al tulipano, ne baciò religiosamente le foglie e
confidossi del tutto in Dio, mormorando:

— Dio mio! voi sapete il buon fine, per cui Cornelio insegnommi a
leggere!

Sì, e Dio lo sapeva, dacchè egli punisce e ricompensa gli uomini
secondo i meriti loro.



XII

La canzone dei fiori.


Intanto che compievansi gli avvenimenti da noi or ora raccontati,
lo sfortunato Van Baerle, obliato nella stanza della fortezza di
Loevestein, soffriva per parte di Grifo tutto ciò, che un prigioniero
può soffrire, quando il suo carceriere si sia prefisso di trasformarsi
in carnefice.

Grifo non avendo nuova nessuna di Rosa, nuova nessuna di Giacobbe, si
persuase che tutto ciò che eragli accaduto, fosse opera del demonio, e
che il dottore Van Baerle fosse un di lui inviato sulla terra.

Ne resultò che una bella mattina, — era il terzo giorno della
sparizione di Rosa e di Giacobbe, — ne resultò che una bella mattina
che salì nella stanza di Cornelio era anche più furioso del solito.

Costui con i gomiti appoggiati alla finestra e la testa dentro alle
mani, gli sguardi perduti nell’orizzonte nebbioso, che i molini di
Dordrecht rompevano con le loro ali, spirava l’aria per respingere le
sue lacrime e per impedire alla sua filosofia che si evaporasse.

Eranvi sempre i piccioni ma non v’era più la speranza, ma l’avvenire
mancava.

Ahimè! Rosa sorvegliata non più sarebbe potuta venire; potrebbe
scrivere forse? ma scrivendo potrebbe fargli pervenire le sue lettere?

No! Aveva scorto la sera, e la sera innanzi troppo furore e
malignità negli occhi del vecchio Grifo, perchè la di lui vigilanza
si rallentasse un istante; e poi oltre la reclusione, oltre
l’allontanamento, chi sa che non soffrisse tormenti ancora peggiori.
Quel bestiale, quel sacripante, quell’ubriacone non vendicherebbesi
alla maniera dei padri del teatro greco? Quando il ginepro montavagli
al cervello non dava al suo braccio troppo bene rimesso da Cornelio, la
vigoria di due braccia e di un bastone?

L’idea che Rosa forse fosse maltrattata, esasperava Cornelio. Sentiva
allora la sua inutilità, la sua impotenza, il suo niente. Dimandava a
sè stesso se fosse giusto che due creature innocenti soffrissero tanto;
e certamente in quel momento la sua fede vacillava. La disgrazia non
rende credenti.

Van Baerle aveva bene formato il progetto di scrivere a Rosa; ma Rosa
dov’era?

Aveva bene avuto l’idea di scrivere all’Aya per allontanare dalla sua
testa il nuovo uragano, che Grifo senza dubbio stava suscitandogli
contro per una denunzia.

Ma con che scrivere? Grifo aveagli tolto apis e carta. D’altronde
avesse avuto pure l’uno e l’altra, dicerto non sarebbe stato Grifo che
sarebbesi incaricato della sua lettera.

Allora Cornelio andava e riandava nella sua testa tutte quelle povere
furberie solite impiegarsi dai prigionieri.

Aveva ancora pensato a una evasione, cosa a cui non aveva pensato,
quando vedeva Rosa tutti i giorni. Ma più vi pensava, più una evasione
parevagli impossibile. Egli era di quelle nature perfette, che hanno
orrore anco dell’apparenza del disonesto; e perciò ogni buona occasione
della vita loro manca, sbaglio imperdonabile di non aver preso la via
dei volgari, battuta dalla gente di mezza tacca, la quale menali a
tutto.

— Come sarebbe possibile, dicevasi Cornelio, che io me ne possa fuggire
di Loevestein, donde già se ne fuggì Grozio? dopo questa evasione, non
è stato a tutto previsto? Le finestre non sono assicurate? le porte
non sono doppie e anco triplicate? I guardioli non sono dieci volte più
vigilanti?

«E poi oltre le finestre assicurate, le porte doppie, i guardioli più
vigilanti di prima, non ho io un Argo infallibile, un Argo tanto più
maligno, che ha gli occhi dell’ira, non ho io Grifo?

«Infine non evvi una circostanza che mi paralizza? L’assenza di
Rosa. Quand’anco impiegassi dieci anni della mia vita a fabbricarmi
una lima per segare le mie sbarre, a intrecciare le mie corde per
discendere dalla finestra, o ad attaccarmi delle ali alle spalle
per involarmi come Dedalo... Ma sono in un pessimo bivio! La lima
potrebbesi consumare, le corde rompere, le mie ali struggersi al sole:
mi ammazzerei malamente. E al più mi rialzerei zoppo, monco, sfilato;
e sarei classato nel museo dell’Aya tra la porpora tinta di sangue di
Guglielmo il Taciturno e la femmina marina raccolta a Stavoren, non
avendo la mia intrapresa avuto per resultato che di procurarmi l’onore
di far parte delle curiosità dell’Olanda.

«Ma no; un bel giorno, ed è assai meglio, Grifo farammi qualche
angheria. Perdo la pazienza dopo aver perduto la gioia e la società
di Rosa, e soprattutto dopo aver perduto il mio tulipano. Non cade
dubbio che un giorno o l’altro Grifo non mi attacchi d’una maniera
sensibile al mio amor proprio, al mio amore o alla mia sicurezza
personale. Dalla mia reclusione in poi mi sento una forza strana,
stizzosa, insopportabile; ho un pizzicore d’accapigliarmi, un appetito
di adoprare le mani, una sete di pugni; salterei insomma con tutta
la buona volontà del mondo alla gola del mio vecchio aguzzino, e lo
strangolerei!»

Cornelio a quest’ultimo proponimento arrestossi un istante con la bocca
contratta e l’occhio fisso. Un’idea, che sorridevagli, affacciavasi
alla sua mente.

— E già! continuò Cornelio, una volta Grifo strangolato, perchè non
prendergli le chiavi? Perchè non prendere la scala, come se io avessi
commesso l’azione la più virtuosa? Perchè non andare a trovar Rosa
nella sua camera? Perchè non ispiegarle il fatto e saltar seco lei
dalla finestra nel Wahal? Io so certo nuotare per due. Con Rosa? ma
Grifo, mio Dio, è suo padre; ella per quanto mi ami, non potrebbe
perdonarmi giammai d’averle strangolato il padre benchè bestiale,
benchè più che severo cattivo. Bisognerà allora entrare in discussione,
in ragionamento, durante il quale sopraggiungerà qualche aiuto, qualche
soprastante, che avendo trovato Grifo ancora scalciante o strozzato
affatto, mi rimetterà le mani a dosso; e rivedrò allora il Buitenhof
e il lampeggiare di quella maledetta spada, che questa volta non si
arresterebbe a mezzo, e farebbe conoscenza con la mia nuca. Niente di
tutto questo, Cornelio, amico mio, niente; gli è un cattivo mezzo! Ma
allora cosa almanaccare? come ritrovar Rosa?»

Tali erano le riflessioni di Cornelio, tre giorni dopo la scena funesta
della separazione tra Rosa e suo padre giusto nel momento, in cui noi
abbiamo mostrato Cornelio appoggiato sulla sua finestra. E in questo
stesso momento entrò Grifo.

Ei teneva in mano un enorme bastone; gli occhi suoi balenavano un
pensiero sinistro; un sinistro sorriso increspava le sue labbra;
un sinistro ondeggiamento agitava la sua persona, e il suo contegno
silenzioso spirava disposizioni sinistre.

Cornelio affranto, come lo abbiamo visto, dalla necessità, che il
raziocinio avea condotto fino alla convinzione, Cornelio lo intese
entrare, indovinò che fosse lui, ma non si volse nemmeno un tantino.

Ei sapeva che questa volta Rosa non verrebbegli dietro.

Non avvi cosa più spiacevole a chi sia in vena di stizza, della
indifferenza di coloro, cui deve essa dirigersi.

Fatta la spesa, si vuol godere. Uno che siasi montato la testa, uno che
abbiasi messo il sangue a bollore, vuole almeno la soddisfazione di una
piccola scarica.

Ogni onesto briccone, che abbia aguzzato il suo cattivo genio, desidera
di fare almeno una buona ferita a qualcuno.

Così Grifo, vedendo che Cornelio non fiatava, si mise a interpellarlo
con un vigoroso:

— Ohè! ohè!

Cornelio canticchiò tra’ denti la canzone dei fiori, triste ma graziosa
canzone.

    Del fuoco segreto
      Del fuoco, che serra
      Per entro ogni vena
      Fecondo la terra;
    Dell’Alba dai crini
      Lucenti, vermigli,
      E della rugiada
      Noi tutti siam figli.
    Siam figli dell’aria,
      Siam figli del rio,
      Ma prima di tutto
      Siam figli di Dio.

Questa canzone di un’aria calma e soave accresceva la placida
melanconia, esasperava Grifo.

Percosse l’impiantito col suo bastone, gridando:

— Eh! signor cantante, non mi date retta?

Cornelio si volse:

— Buon giorno, disse.

E riprese la sua canzone.

    Amando, ci uccide
      Ognuno; che solo
      Un fragile filo
      Ci tiene qui al suolo;
    Un fil, che la vita
      Qui solo ci allaccia.
      Ma in alto ben alto
      Sporgiamo le braccia;

— Ah! stregone maledetto, tu mi prendi a gabbo! gridò Grifo.

Cornelio continuò:

    Al ciel, nostra patria
      Verace, le alziamo,
      Al ciel, donde in terra
      Noi puri scendiamo;
    E dove il profumo,
      Nostr’anima vera,
      Soave risale
      Sull’ala leggiera.

Grifo accostossi al prigioniero:

— Tu non vedi dunque che ho preso la buona via per metterti giudizio, e
per farti confessare le tue scelleratezze?

— E io ci scommetto che siete impazzato, signor Grifo mio caro? disse
Cornelio volgendosi a lui.

E siccome, nel proferire tai detti, vide la faccia alterata, gli occhi
scintillanti, la bocca schiumante del vecchio carceriere:

— Diavolo! continuò, siam più che pazzi a quel che pare; siamo furiosi!

Grifo fece il molinello col suo bastone; ma senza scrollarsi, seguitò
Van Baerle incrociando le braccia.

— Via messer Grifo, che vi salterebbe il ticchio di minacciarmi?

— Oh! sì, ti minaccio! urlò il carceriere.

— Con che?

— Primieramente guarda cosa tengo in mano.

— Un bastone, disse Cornelio con calma, e grosso bene; ma non posso
supporre che mi vogliate minacciare con codesto.

— Ah! non lo puoi supporre! E perchè?

— Perchè ogni carceriere, che percuota un prigioniero, si espone a due
punizioni; la prima art. 19 del regolamento di Loevestein:

«Sarà espulso ogni carceriere, ispettore e soprastante che metta le
mani addosso ad un prigioniero di Stato.»

— La mano, disse Grifo fuor di sè per la collera, non il bastone. Il
regolamento non parla punto di bastone.

— La seconda, continuò Cornelio, la seconda, che non istà registrata
nel regolamento, ma che si trova nel Vangelo, la seconda eccola:

«Chi di coltello ammazza convien che muoia.

«Chiunque percuota col bastone, sarà rosolato col bastone.»

Grifo sempre più inasprito dal tuono calmo e sentenzioso di Cornelio,
brandì il suo randello; ma al momento che alzavalo, Cornelio slanciossi
su lui, e glielo strappò di mano, e se lo mise sotto al braccio!

Grifo urlava di rabbia.

— Via, via, buonuomo, disse Cornelio, non vi esponete a perdere
l’impiego.

— Ah! stregone maledetto! ti arriverò altrimenti, va là! mugghiò Grifo.

— Alla buon’ora.

— Tu vedi che la mia mano è vuota, eh?

— Già, lo vedo e ne godo.

— Tu sai che non l’è egualmente quando la mattina salgo la scala?

— Ah! l’è vero; mi portate secondo il solito la più trista minestra del
mondo, o la più misera pietanza che possa mai immaginarsi. Ma ciò non è
mica per me una privazione; mangio pane, e il pane quanto più cattivo è
pel tuo gusto, o Grifo, tanto è migliore pel mio.

— È migliore pel tuo?

— Sì.

— La ragione?

— È semplicissima.

— Sentiamola dunque.

— Volentieri; so che col darmi cattivo pane, tu credi farmi soffrire.

— Il fatto però sta, che io non te lo do per farti piacere, o brigante.

— Benissimo! Io che sono stregone, come sai, cangio il tuo pane cattivo
in buono, che mi appetisce più dei biscottini; ed allora ho un doppio
piacere, prima di tutto di mangiare secondo il mio gusto, e poi di
farti orribilmente arrabbiare.

Grifo urlò di collera, dicendo:

— Ah? tu confessi dunque che sei stregone!

— Perbacco! e di che tinta. Non lo dico davanti a persone, perchè ciò
mi farebbe correre in mano del beccaio come Goffredo o Urbano Grandier,
ma siccome siamo a quattr’occhi, io non ci vedo nessuno inconveniente.

— Bene, benone, rispose Grifo, ma se lo stregone può fare il pane di
nero, bianco; se egli non ne abbia neppure un pochino, può egli morire
di fame?

— Psih! fece Cornelio.

— Dunque non ti porterò più punto pane, e allora ci rivedremo tra otto
giorni.

Cornelio impallidì.

— E comincieremo da oggi, continuò Grifo. Giacchè tu sei così bravo
stregone, vediamo un po’, se cangi in pane i mobili della stanza; che
quanto a me guadagnerò ogni giorno i diciotto soldi, che mi si danno
pel tuo mantenimento.

— Sarebbe un assassinio! esclamò Cornelio, trasportato da un primo
movimento di terrore ben concepibile, che venivagli ispirato da tal
genere orribile di morte.

— Bene, continuò Grifo rampognandolo, bene, dappoichè sei tu stregone,
vivrai a tuo marcio dispetto.

Cornelio riprese la sua aria disinvolta, e scuotendo la testa:

— Non hai visto che ho fatto venire i piccioni di Dordrecht?

— Ebbene?... disse Grifo.

— Ebbene! i piccioni sono un buon’arrosto; e un uomo che mangi ogni
giorno un piccione arrosto, non può, mi pare, morire di fame.

— E il fuoco? disse Grifo.

— Il fuoco! ma tu sai bene che ho fatto un patto col diavolo. E pensi
tu, che il diavolo mi lasci mancare il fuoco, quando il fuoco è il suo
elemento?

— Un uomo per robusto che sia, non saprà mangiare un piccione tutti
i giorni. Sonosi fatte per questo delle scommesse, e sonosi dati per
vinti.

— Benissimo! Quando sarò nauseato dei piccioni, farò montar quassù i
pesci del Wahal e della Mosa.

Grifo fece tanti d’occhi.

— Amo molto i pesci, continuò Cornelio; tu non me ne porti mai. Ebbene!
giacchè vorresti farmi morire di fame, m’imbandirò allora del pesce.

Grifo fu lì lì per sfinire di collera e di spavento. Ma riavendosi:

— Ebbene, disse mettendo la mano in tasca, giacchè mi vi forzi...

E ne cavò un coltello aperto.

— Ah! un coltello! esclamò mettendosi sulle difese col suo bastone.



XIII

Come Van Baerle, prima di lasciare Loevestein, metta in pari i suoi
conti con Grifo.


Ambedue soprastettero un istante. Grifo sulla offensiva, Van Baerle
sulla difensiva.

Poi, siccome la situazione poteva prolungarsi all’indefinito, Cornelio
volendosi informare delle cause di questa recrudescenza di collera
presso il suo antagonista, domandollo:

— Ebbene! che cosa volete?

— Che cosa io voglio, te lo vado a dire. Voglio che tu mi renda la mia
figlia Rosa.

— La vostra figlia! esclamò Cornelio.

— Sì, Rosa! La mia Rosa che mi hai involata con la tua arte diabolica.
Vediamo; vuoi tu dirmi ov’ella sia?

— Rosa non è a Loevestein? esclamò Cornelio.

— Fai il nesci. Me la vuoi tu rendere, ancora una volta?

— Eh! disse Cornelio, l’è un’insidia che tu mi tendi.

— Per l’ultima volta, mi vuoi tu dire ove trovasi mia figlia?

— Oh! indovinalo, farabutto, se non lo sai.

— O guarda, o guarda! pronunziò Grifo pallido e con le labbra tremanti
per la furia, che salivagli al cervello. Ah! non mi vuoi tu dir niente;
ebbene! t’aprirò io i denti.

E fece un passo verso Cornelio, a cui mostrando l’arme che luccicavagli
in mano:

— Vedi, disse, questo coltello? ho ucciso con questo più di cinquanta
galli neri. Ammazzerò pure come quelli il diavolo loro principale:
aspetta, aspetta!

— Dunque, furfante, mi vuoi tu ammazzare davvero?

— Ti voglio spaccare il cuore, per vedervi il luogo dove tu nascondi
mia figlia.

E dicendo queste parole con lo smarrimento febrile, Grifo si precipitò
su Cornelio, che ebbe appena tempo di ripararsi dietro la sua tavola
per ischivare il primo colpo.

Grifo brandiva il suo coltello proferendo orribili imprecazioni.

Cornelio previde che, se egli era fuori di tiro del braccio, non l’era
però fuori della portata dell’arme; perchè lanciata da lontano poteva
traversare lo spazio e venire a conficcarsi nella sua pancia. Non perdè
dunque tempo, e col bastone, che non aveva abbandonato, assestogli un
colpo vigoroso sul pugno che teneva il coltello.

Il coltello cadde a terra, e Cornelio vi pose sopra il piede.

Poi, siccome Grifo pareva volesse attaccarsi a una lotta accanita, la
quale il dolore del colpo di bastone e la vergogna di essere stato per
la seconda volta disarmato avrebbe resa implacabile, Cornelio abbracciò
un gran partito.

Scaricò una tempesta di colpi sul carceriere col più eroico sangue
freddo, azzeccandoli in modo che ogni bussa cadeva appieno.

Grifo non tardò molto a chiedere misericordia; ma prima di chiederla
aveva strillato e molto. Le sue grida erano state intese ed avevano
messo in allarme tutti gl’impiegati della casa. Due soprastanti, un
ispettore e tre o quattro secondini comparvero dunque ad un tratto,
e sorpresero Cornelio in flagrante col bastone in mano e il coltello
sotto il piede.

Alla vista di tutti quei testimoni del misfatto or ora commesso, le
circostanze attenuanti, come si dice oggigiorno, non erano conosciute,
Cornelio sentissi senza scampo perduto.

Difatti tutte le apparenze gli stavano contro.

In un attimo Cornelio fu disarmato e Grifo circondato, rialzato,
sostenuto potè contare le ammaccature, che gonfiavano le sue spalle e
la sua schiena come altrettante giogaie addentellanti le creste di una
montagna.

Fu steso il processo verbale delle violenze esercitate dal prigioniero
sopra il suo guardiano; e questo processo insufflato da Grifo non
potevasi accusare di tiepidezza. Non trattavasi niente meno che di
un tentativo di assassinio premeditato da lungo tempo e attentato sul
carceriere; dunque premeditazione e ribellione aperta.

Mentrechè istruivasi il processo contro Cornelio, i ragguagli dati da
Grifo rendendo il suo confronto inutile, i due soprastanti l’avevano
fatto scendere nel suo quartiere tutto maculato e gemebondo.

Intanto le guardie, che eransi impadronite di Cornelio, occupavansi
cristianamente ad istruirlo degli usi e costumi di Loevestein, che del
resto egli conosceva bene quanto loro, essendogli stata fatta lettura
del regolamento quando entrò in quella prigione, e certi articoli
specialmente essendogli rimasti perfettamente a memoria.

Gli raccontarono inoltre, come l’applicazione di quel regolamento
fosse stata fatta sul conto di un prigioniero nominato Mattias, che nel
1668, cioè cinque anni prima aveva commesso un atto di ribellione ben
altrimenti più lieve di quello che erasi permesso Cornelio.

Egli aveva trovato la sua minestra bollente e aveala schiaffata sul
muso del capoguardia, che al seguito di questa ablazione aveva avuto il
disappunto asciugandosi il viso di venirgli dietro una buona parte di
pelle.

Mattias dentro le dodici ore era stato estratto dalla sua stanza,
poi condotto al guardiolo, dove era stato iscritto come assente di
Loevestein; poi menato alla spianata, la cui visuale è bellissima,
estendendosi a dodici leghe di distanza; poi quivi avendogli legate
le mani e bendati gli occhi, si recitarono tre preghiere; e poi
fu invitato a inginocchiarsi, e le guardie di Loevestein in numero
di dodici a un segnale fatto da un sergente gli applicarono ognuno
abilissimamente una palla nello stomaco.

Per quelle pillole Mattias essere morto nell’atto.

Cornelio ascoltò con la più grande attenzione questo racconto non molto
piacevole; e dopo averlo ascoltato, disse:

— Ah! ah! dentro le dodici ore, dite voi?

— Già, la dodicesima ora, a quel che credo, non era finita di suonare,
disse il narratore.

— Grazie, disse Cornelio.

La guardia non aveva finito la graziosa sua risata, che serviva di
puntuazione al suo racconto, che un passo sonoro risuonò per la scala:
un tintinnio di sproni come di marcia militare.

Le guardie scansaronsi per lasciar passare un officiale, che entrò
nella stanza di Cornelio al momento in cui il cancelliere di Loevestein
stendeva il verbale.

— È questo il N.º 11? domandò.

— Sì, capitano, rispose il sottofficiale.

— Allora è questa la camera di Cornelio Van Baerle? Egli domandò
dirigendosi questa volta allo stesso prigioniero.

— Sì, signore.

— Seguitemi.

— Oh! oh! disse Cornelio il di cui cuore si risollevava, oppresso
dalle prime angoscie della morte, come ci si spiccia alla fortezza di
Loevestein! E il mariolo che mi aveva parlato di dodici ore!

— Ohè! la va come ve l’ho contata? fece il novelliere all’orecchio del
paziente.

— Una bugia.

— Come?

— Mi avete promesso dodici ore.

— Ah! sì. Ma vi si manda un aiutante di campo di Sua Altezza, e anche
uno de’ suoi più intimi, il signor Van Deken. Canchero! Non si fece un
simile onore al povero Mattias.

— Andiamo, andiamo, disse Cornelio gonfiando i suoi polmoni con la
più gran quantità d’aria possibile; andiamo e mostriamo loro che un
popolano, battezzato di Cornelio de Witt, può, senza fare smorfie,
contenere altrettante palle di moschetto, quante quel Mattias di buona
memoria.

E passò fieramente dinanzi all’attuario, che interrotto nelle sue
funzioni si azzardò di dire all’officiale.

— Ma, capitano Van Deken, il processo verbale non è ancora terminato.

— Non vale neppure la pena di finirlo, rispose l’officiale.

— Buono, replicò il processante chiudendo filosoficamente le sue carte
e la sua penna in un portafoglio usato e tutt’unto.

— È stato scritto, pensò il povero Cornelio, che io in questo mondo
non abbia da dare il mio nome nè a un bambino, nè a un fiore, nè a un
libro, tre necessità, di cui Iddio una almeno, come ci si assicura,
impone a ciascun’uomo per organizzato alla meglio che e’ sia, e che
egli si degna che gioisca sulla terra della proprietà di un’anima e
dell’usufrutto di un corpo.

E seguì l’officiale col cuore risoluto e con la testa alta.

Cornelio contava i gradini che conducevano alla spianata,
rimproverandosi di non aver dimandato alla guardia quanti ve ne
fossero; che colui nella sua officiosa compiacenza non avrebbe certo
mancato di dirglielo.

Ciò che oltremodo spiaceva al paziente in questo tragitto da lui
riguardato come l’ultimo suo viaggetto, si era di veder Grifo e non
Rosa. Infatti qual soddisfazione doveva brillare sul viso del padre, e
qual dolore sul viso della figlia.

Grifo come avrebbe applaudito a quel supplizio, vendetta feroce di
un atto eminentemente giusto cui Cornelio aveva la coscienza d’aver
compìto come un dovere!

Ma, Rosa, la povera ragazza, s’ei non vedevala, se andava a morire
senza darle l’ultimo bacio o almeno l’ultimo addio; s’egli andava
a morire in fine senza avere alcuna nuova del gran tulipano nero, e
risvegliarsi lassuso senza sapere da qual parte bisognasse volgere gli
occhi per ritrovarla!

In verità per non disfarsi in lacrime in simile momento il povero
tulipaniere, aveva intorno al cuore più l’_aes triplex_ (triplice
bronzo) di Orazio, da lui attribuiti al navigatore che il primo visitò
l’infami sugli acrocerauni.

Ebbe un bel riguardare a dritta, ebbe un bel riguardare a sinistra;
arrivò sulla spianata senza avere scorto Rosa, e senza avere scorto
Grifo.

Eravi quasi una compensazione.

Cornelio giunto sulla spianata cercò col guardo i suoi esecutori, e
vide di fatti una dozzina di soldati assembrati a chiacchera; ma senza
moschetto, senza essere a rango; condotta che parve a Cornelio indegna
della gravità che presiede d’ordinario a consimili avvenimenti.

Ad un tratto Grifo zoppicante, barcollante, appoggiato ad una gruccia,
apparve fuori del suo guardiolo. Egli aveva acceso per lanciare un
ultimo sguardo d’ira tutto il fuoco de’ suoi occhi grigi di gatto; e
nel tempo stesso si mise a vomitare contro Cornelio una tale tempesta
di abominande imprecazioni, che Cornelio dirigendosi all’officiale:

— Signore, disse, non credo sia ben fatto lasciarmi così insultare da
cotest’uomo, e soprattutto in un momento simile.

— Datemi retta, rispose l’officiale ridendo, è ben naturale che questo
bravuomo vi rampogni: pare che non lo abbiate conciato molto bene.

— Ma, signore, fu per sola difesa.

— Ohè! disse l’officiale dando alle sue spalle un movimento
superlativamente filosofico; ohè! lasciategli almeno il fiotto libero:
non ve ne vien nulla.

Un sudor freddo venne sulla fronte di Cornelio a questa risposta,
che riguardava come una ironia che puzzasse di bestiale, per parte
specialmente di un officiale che gli si diceva stare al fianco della
persona del principe.

Il disgraziato comprese che non aveva più risorsa nessuna, non più
amici, e rassegnossi.

— E sia, mormorò abbassando la testa; se ne fecero delle più acerbe a
Cristo; e la mia innocenza non è alle mille miglia paragonabile alla
sua. Cristo sarebbesi fatto battere dal suo carceriere, e non l’avrebbe
battuto.

Poi rivolgendosi all’officiale, che pareva attendesse gentilmente, che
egli avesse finito le sue riflessioni:

— Via, signore, domandò, dove debbo andare?

L’officiale accennogli una carrozza tirata da quattro cavalli, che
ricordavagli molto la carrozza che in una simile circostanza aveva già
colpito i suoi occhi al Buitenhof.

— Montate là dentro, gli disse.

— Ah! mormorò Cornelio, parrebbe che non mi fosse riserbato l’onore
della spianata!

Pronunziò queste parole abbastanza forte da essere comprese dallo
storico che non avealo lasciato.

Senza dubbio ei credette che fosse suo dovere di dare nuovi
schiarimenti a Cornelio, perchè accostossi alla portiera e intanto
che l’officiale col piede sul montatoio dava alcuni ordini, ei diceva
sommessamente:

— Si è dato che qualche condannato sia stato tradotto nella propria
città e, perchè fosse l’esempio più strepitoso, vi abbia subito il suo
supplizio davanti la porta della propria casa. È forse questo.

Cornelio fece un segno di ringraziamento; e poi a quello di rincontro:

— Ebbene, disse, alla buon’ora! ecco qui un giovanotto che non manca
mai di interporre una consolazione, quando gli si presenti il destro.
Amico mio, ve ne sono davvero obbligato. Addio.

La vettura si mosse.

— Ah! scellerato! ab! brigante! urlò Grifo mostrando le pugna alla sua
vittima che scappavagli di mano. E dire che se ne va senza rendermi mia
figlia!

— Se mi si conduce a Dordrecht, disse Cornelio, vedrò passando da casa
mia almeno le mie casellette se siano ben tenute.



XIV

Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual supplizio sia riserbato.


La vettura trottò per tutta la giornata; si lasciò Dordrecht a
sinistra, traversò Rotterdam, toccò Delft: alle cinque di sera erano
state percorse almeno venti leghe.

Cornelio diresse qualche interrogazione all’officiale che servivagli
a un tempo di guardia e di compagno; ma per circospette che fossero le
sue dimande, egli ebbe il cordoglio di vederle restare senza risposta.

Cornelio rimpianse di non aver più a fianco suo quella guardia così
compiacente, che parlava almeno senza farsi pregare.

Colui senz’altro avrebbegli prodigato intorno a questa singolarità,
che sorvenivagli nella sua terza avventura, dettagli così graziosi e
spiegazioni così precise come intorno alle due prime.

Si passò la notte in vettura; l’indomani alla punta del giorno,
Cornelio si trovò al di là di Leida, avendo a sinistra il mar del Nord
e a diritta il mare di Harlem. Tre ore dopo entrava in Harlem.

Cornelio ignorava affatto l’accaduto in quella città, e noi lo
lasceremo in questa ignoranza, finchè non ne sia tratto dagli
avvenimenti.

Ma non può essere così del lettore, che ha il diritto di essere messo
in corrente delle cose prima del nostro eroe.

Abbiamo visto che Rosa e il Tulipano come due fratelli e due orfani
erano stati lasciati dal principe Guglielmo d’Orange presso il
presidente Van Herysen.

Rosa non ricevette nuova alcuna dello Statolder dalla sera del giorno
che avealo visto di persona.

Verso la sera un officiale venne da parte di Sua Altezza in casa di Van
Herysen, per invitare Rosa a portarsi al palazzo comunale, dove, in una
gran sala di consiglio introdotta, trovò il principe che scriveva.

Egli era solo e aveva a’ piedi un gran levriero di Frisia, che
guardavalo fisso, come se il fido animale si volesse ingegnare di fare
quello che non era dato neppure all’uomo: leggere nel cuore del suo
padrone.

Guglielmo continuò a scrivere per un altro momento; poi alzando gli
occhi e vedendo Rosa ritta presso la porta:

— Accostatevi, ragazzina, disse senza lasciare di scrivere.

Rosa fece qualche passo verso la tavola.

— Mio Signore, diss’ella arrestandosi.

— Va bene, profferì il principe. Accomodatevi.

Rosa obbedì perchè il principe la guardava. Ma appena egli ebbe rimessi
gli occhi sulla carta che si ritrasse tutta vergognosa.

Il principe finiva la sua lettera; e intanto il can levriero era andato
di faccia a Rosa, e l’aveva fiutata e accarezzata.

— Ah! ah! fece Guglielmo al suo cane, si vede bene ch’ell’è una tua
compatriotta; tu la riconosci.

Poi rivoltosi verso Rosa, e fissando su lei i suoi sguardi scrutatori e
velati ad un tempo.

— Vediamo, figlia mia, cominciò egli.

Il principe aveva appena vent’otto anni. Rosa diciotto o venti al più;
avrebbe detto meglio: sorella mia.

— Figlia mia, disse con un accento stranamente imponente, che
gelava tutti quelli che lo avvicinavano, non siamo che tra noi due,
discorriamo un poco.

Rosa cominciò a tremare da capo a piedi; contuttochè fosse dipinta sul
viso del principe una tal quale benevolenza.

— Mio Signore, ella malamente espresse.

— Avete un padre a Loevestein?

— Sì, mio Signore.

— Che l’amate?

— Non l’amo tanto, quanto una figlia dovrebbe amare suo padre.

— È male di non amare suo padre, mia ragazza, ma è bene di non mentire
al suo principe.

Rosa abbassò gli occhi.

— E per qual ragione non amate tanto vostro padre?

— È cattivo.

— In qual maniera si mostra la sua cattiveria?

— Maltratta tutti i prigionieri.

— Tutti?

— Tutti.

— Ma non maltratta particolarmente più qualcuno che gli altri?

— Mio padre maltratta particolarmente più Van Baerle, che...

— Che è vostro amante.

Rosa fece un passo indietro.

— Che io stimo, mio Signore, rispose con alterezza.

— Da molto tempo? dimandò il principe.

— Dal giorno che l’ho veduto.

— E l’avete veduto?...

— Il domani del giorno, in cui furono così terribilmente messi a morte
il gran pensionario Giovanni e Cornelio suo fratello.

Le labbra del principe si chiusero, la sua fronte impallidì, e le
sue palpebre abbassaronsi in modo da nascondere per un istante i suoi
occhi. Dopo un momentaneo silenzio, ei riprese:

— Ma che vi giova amare un uomo destinato a vivere e morire in prigione?

— Se non ad altro gioverammi ad aiutarlo a vivere e morire.

— E voi accettereste la condizione d’essere la moglie di un prigioniero?

— Io sarei la più fiera e la più felice delle creature umane essendo la
moglie di Van Baerle; ma...

— Ma che?

— Non l’oso dire, mio Signore.

— Avvi un sentimento di speranza nel vostro accento, che sperate voi?

Alzò i suoi begli occhi sopra Guglielmo, occhi così puri e di una
intelligenza così penetrante, che andarono a ricercare nel fondo di
quel cuore cupo la clemenza addormentatavi di un sonno simile alla
morte.

— Ah! capisco!

Rosa sorrise giungendo le mani.

— Voi sperate in me, disse il principe.

— Sì, mio Signore.

— Ehi!

Il principe piegò la lettera che aveva scritta, e chiamò un suo
officiale.

— Van Deken, disse portate a Loevestein quest’ordine, di cui prenderete
lettura, e eseguirete ciò che vi riguarda.

L’officiale salutò, e s’intese rimbombare sotto le volte sonore della
casa il galoppo di un cavallo.

— Mia figlia, seguitò il prìncipe, domenica è la festa del tulipano,
e domenica è posdimani. Fatevi bella con questi cinquecento fiorini;
perchè voglio che quel giorno sia per voi un gran giorno di festa.

— Come vuole l’Altezza Vostra che io sia vestita? mormorò Rosa.

— Prendete il costume delle spose frisone, disse Guglielmo, che vi
starà molto bene.



XV

Harlem.


Harlem, dove noi fin da tre giorni fa siamo entrati con Rosa, e dove
noi rientriamo seguendo il prigioniero, è una graziosa città, che
a buon dritto è superba di essere una delle città più ombreggiate
dell’Olanda.

Mentrechè altre mettevano il loro amor proprio a brillare per gli
arsenali e per i cantieri, per i magazzini e per i bazar, Harlem
metteva tutta la sua gloria a primeggiare su tutte le altre città
degli Stati con i suoi olmi fronzuti, co’ suoi pioppi slanciati, e
soprattutto con i suoi passeggi ombreggiati a cui facevano volta la
quercia, il tiglio e il castagno.

Harlem, vedendo che Leida sua vicina, e Amsterdam sua regina prendevano
l’una il cammino per diventare una città di scienze, e l’altra quello
di diventare una città di commercio, Harlem aveva voluto essere una
città agricola, o piuttosto orticola.

In effetto ben riparata, ben riscaldata dal sole, ella dava ai
giardinieri tal garanzia, che ogni altra città co’ suoi venti marini, o
col suo suolo di piano non avrebbe a loro potuto offrire.

Così vedevansi stabilire ad Harlem tutti li spiriti tranquilli,
che amano la terra e i suoi beni, come vedevansi a Rotterdam e ad
Amsterdam tutti gli spiriti inquieti e girovaghi che amano i viaggi
e il commercio, come vedevansi stabilire all’Aya tutti i politici e i
galanti.

Abbiam detto che Leida era stata la conquista dei sapienti; Harlem
dunque prese il gusto delle cose dolci, della musica, della pittura,
dei verzieri, dei passeggi, dei boschetti e dei viali.

Harlem divenne pazza pei fiori e tra gli altri dei tulipani. Propose
premii a onore dei tulipani, e giungiamo così naturalissimamente, come
si vede, a parlare di quello che la città propose il 15 maggio 1673 in
onore del gran tulipano nero, senza macchia e senza difetto, che doveva
portare cento mila fiorini al suo inventore.

Harlem avendo messo in luce la sua specialità, avendo fissato il suo
gusto pe’ fiori in particolare in tempi, in cui tutto era volto alla
guerra o alle sedizioni; Harlem avendo avute l’insigne gioia di veder
fiorire l’ideale delle sue pretensioni e l’insigne onore di veder
fiorire l’ideale dei tulipani: Harlem graziosa città piena di boschetti
e di sole, d’ombra e di luce, aveva voluto fare della cerimonia
dell’inaugurazione del premio una festa, che durasse eternamente nella
memoria degli uomini.

Ed ella aveane tanto più il diritto, essendo l’Olanda il paese delle
feste; giammai natura più flemmatica spiegò ardore più brillante,
cantante e danzante di quei dei buoni repubblicani delle Sette
Provincie all’occasione dei divertimenti.

È meglio vediate i quadri dei due Tenier.

Egli è certo che i flemmatici sono di tutti gli uomini i più ardenti
a spossarsi, non già quando mettonsi al lavoro, ma quando mettonsi al
piacere.

Harlem erasi dunque messa in triplice gioia, perchè aveva da
festeggiare una triplice solennità: era stato scoperto il tulipano
nero, poi il principe Guglielmo d’Orange assisteva alla ceremonia
da vero Olandese come egli era, finalmente era onore degli Stati di
mostrare ai Francesi in seguito di una guerra così disastrosa, com’era
stata quella del 1672, che le dighe della repubblica batava erano
solide a segno da potervi ballare sopra con l’accompagnamento dei
cannoni dei vascelli.

La società orticola di Harlem erasi mostrata degna di sè, dando
centomila fiorini per una cipolletta di tulipano. La città non aveva
voluto rimanere indietro, e aveva votata una somma eguale, che era
stata rimessa in mano de’ suoi notabili per festeggiare quel premio
nazionale.

Però alla domenica fissata per questa ceremonia eravi un tale
accalcarsi di gente, un tale entusiasmo dei cittadini, che era gioco
forza, anco col sorriso narcotico dei Francesi che di tutto ridono,
ammirare il carattere di que’ buoni Olandesi; pronti a spendere il
loro denaro tanto per costruire un vascello destinato a combattere il
nemico, cioè a sostenere l’onore della nazione, quanto per ricompensare
l’invenzione di un fiore nuovo destinato a brillare un giorno, e
destinato a distrarre per quel giorno le donne, i sapienti e i curiosi.

A capo dei notabili e del comitato orticolo brillava il signore Van
Herysen, addobbato dei suoi più ricchi abiti.

Il degno uomo aveva fatto tutti i suoi sforzi per rassomigliare al suo
fiore favorito con la eleganza dimessa e severa degli abiti suoi, e ci
affrettiamo a dire per gloria sua che eravi riuscito a meraviglia.

Nero di spolverino, velluto a squamme, seta violetta, tale era con
biancheria nettissima il vestiario di ceremonia del presidente, che
procedeva alla testa del suo comitato con un mazzo mostro eguale a
quello che portava dugento ventuno anni dopo Robespierre alla festa
dell’Ente Supremo.

Solo il bravo presidente in luogo del cuore tumido d’ira e di
risentimenti ambiziosi del tribuno francese, aveva in petto un fiore
più innocente del più innocente che egli tenesse in mano.

Vedevansi dietro al comitato, stretto come piota erbosa, profumato come
una primavera, le corporazioni sapienti della città, le magistrature,
le milizie, i nobili e i contadini.

Il popolo anco presso i signori repubblicani delle Sette Province non
aveva luogo in questa marcia ordinata; facevale ala.

Era del resto il miglior posto di tutti per vedere... e per avere.

Gli è il posto delle moltitudini, che aspettano, filosofia degli Stati,
che i trionfi abbiano sfilato, per poi sapere ciò che dirne, e qualche
volta ciò che farne.

Ma questa volta non trattavasi nè del trionfo di Pompeo nè di quello di
Cesare; questa volta non celebravasi nè la sconfitta di Mitridate, nè
la conquista delle Gallie. La processione era placida come il passaggio
di un branco di pecore, e inoffensiva come il volo di una schiera di
uccelli.

Harlem non aveva altri trionfatori che i suoi giardinieri; adoratrice
dei fiori, Harlem divinizzava i coltivatori dei fiori.

Vedevasi nel centro del corteggio pacifico e profumato il Tulipano
Nero, portato sopra una barella addobbata di velluto bianco a frange
d’oro. Quattro uomini portavano le stanghe, e vedevansi rimpiazzati da
altri, come erano egualmente a Roma rimpiazzati coloro, che portavano
la madre Cibele, quand’ella entrò nella città eterna portatavi
dall’Etruria al suono delle fanfare e all’adorazione di tutto il
popolo.

Cotale esibizione del tulipano era un omaggio reso da tutto un popolo
senza coltura e senza gusto al gusto e alla coltura dei capi celebri
e pietosi, il cui sangue sapevano spargere sulla fangosa piazza del
Buitenhof, o più tardi a iscrivere i nomi delle sue vittime sulla
pietra più bella del Panteon Olandese.

Era convenuto che il principe Statolder conferirebbe certamente in
persona il premio dei cento mila fiorini, il che interessava tutti in
generale, e che forse pronunzierebbe un discorso, il che interessava i
suoi amici e nemici in particolare.

Difatti nei discorsi i più indifferenti degli uomini politici gli
amici o nemici di costoro vogliono sempre travedervi, e credono sempre
potervi interpretare per conseguenza un raggio del loro pensiero.

Come se il cappello dell’uomo politico non fosse un coperchio destinato
a intercettare ogni luce.

Finalmente quel gran giorno tanto aspettato del 15 maggio 1673 era
dunque arrivato, e Harlem tutta intera rinforzata dai suoi dintorni
erasi sfilata lungo i magnifici alberi del bosco con la risoluzione
col proposito fermo di non applaudire questa volta nè i conquistatori
guerrieri, nè scienziati, ma prettamente i conquistatori della natura,
i quali obbligavano questa inesauribile madre al parto finallora
creduto impossibile, del tulipano nero.

Ma niente tien meno presso il popolo che la risoluzione presa di non
applaudire che a tale o a tal’altra cosa. Quando una città è in treno
d’applaudire, è come quando l’è in treno di fischiare; non sa mai
finirla.

Ella dapprima applaudì dunque a Van Herysen e al suo mazzo, applaudì le
sue corporazioni, applaudì sè stessa; difatti giustamente questa volta,
confessiamolo, ella applaudì all’eccellente musica che i signori della
città prodigavano generosamente ad ogni fermata.

Tutti gli occhi cercavano presso il semidio della festa, che era il
tulipano nero, l’eroe della festa che era naturalmente l’autore del
tulipano.

Quest’eroe conoscendosi dal discorso, che abbiamo visto con tanta
coscienza elaborare da Van Herysen, avrebbe prodotto dicerto più
effetto dello stesso Statolder.

Ma per noi l’interesse della giornata non è nè nel venerabile discorso
del nostro amico Van Herysen, per eloquente che fosse, neppure nella
gioventù aristocratica masticante i suoi gravi pasticci, e nemmeno alla
povera meschina plebaglia mezza nuda trangugiante anguille affumicate
simili a bastoni di vainiglia. Non è l’istesso interesse per le belle
olandesi dalle trecce rosse e dal candido seno, nè per i loro ortolani
grassi pinzati che non erano mai usciti quattro braccia fuori della
porta di casa, neppure per gli smilzi e gialli viaggiatori giunti da
Ceylan e da Giava, e nemmeno pel popolaccio alterato che ingozza come
un rinfresco il cetriolo acconciato nella salamoia. Per noi non istà
qui l’interesse della situazione scenico-drammatica.

L’interesse è nella figura raggiante e animata che cammina in mezzo
ai membri del comitato di orticoltura, l’interesse è nel personaggio
fiorito a cintola, leccato, lisciato, vestito tutto di scarlatto,
colore che fa risaltare il suo nero pelame e la sua tinta giallastra.

Questo trionfatore raggiante, inebriato, questo eroe destinato
all’insigne onore di far dimenticare il discorso di Van Herysen e la
presenza dello Statolder, gli era Isacco Boxtel, che vedeva alla sua
diritta andarsi innanzi sopra un drappo di velluto il Tulipano nero,
suo prezioso figlio; a sinistra in una vasta borsa i cento mila fiorini
in belle monete d’oro luccicanti, abbaglianti, che egli avea preso il
partito di sbirciarli di fuori per non perderli un istante di vista.

Di tempo in tempo Boxtel affretta il passo per strisciare il suo gomito
al gomito di Van Herysen. Boxtel da ciascuno prende un po’ del suo
valsente per formarne un valsente proprio, tale quale ha fatto rubando
a Rosa il suo tulipano per farsene sua gloria e sua fortuna.

Anche un quarto d’ora e il principe arriverà e il corteggio farà alto
all’ultima posata; il tulipano essendo posto sopra il suo trono, il
principe cedendo il primo posto al suo rivale nell’adozione pubblica,
prenderà una pergamena squisitamente miniata, sulla quale è scritto
il nome dell’autore, e proclamerà a voce alta e intelligibile, che è
stata scoperta una meraviglia; che l’Olanda per l’intermediario di quel
Boxtel ha forzato la natura a produrre un fiore nero e che questo fiore
chiamerassi per l’avvenire _Tulipa nigra Boxtellea_.

Di tratto in tratto perciò Boxtel leva gli occhi per un momento dal
tulipano e dalla borsa, e guarda timidamente nella folla, perchè in
questa paventa soprattutto di scorgere la pallida faccia della bella
Frisona.

La gli sarebbe uno spettro, si capisce, il quale turberebbe la festa,
presso a poco come lo spettro di Banco turbò il convito di Macbetto.

E lo ripetiamo, questo miserabile, che scavalcò un muro che non era
suo, che scalò una finestra per entrare nella casa del suo vicino, che
con una contracchiave riaprì la camera di Rosa, costui finalmente che
ha rubato la gloria di un uomo e la dote di una ragazza, costui non si
crede mica un ladro.

Egli ha talmente vegliato sul tulipano, lo ha seguito così ardentemente
dall’armadio del prosciugatoio di Cornelio fino al palco del Buitenhof,
da questo alla prigione della fortezza di Loevestein; hallo visto
nascere così bene e crescere sulla finestra di Rosa, ha tante volte
intorno a lui intiepidita l’aria col suo alito, che niuno più di lui
può vantarsene autore; cosicchè chi adesso a lui prendesse il tulipano
nero, parrebbegli che gliel derubasse.

Ma non scorse punto nè poco Rosa.

Ne resultò che la gioia di Boxtel non fosse minimamente turbata.

Il corteggio arrestossi nel centro di una rotonda ricinta di alberi
magnificamente decorati di ghirlande e di iscrizioni; e arrestossi
al suono di una musica fragorosa, e allora le giovinette Olandesi
fecersi innanzi per scortare il tulipano all’alto seggio, ch’ei doveva
occupare sulla gradinata accanto alla poltrona d’oro di Sua Altezza lo
Statolder.

E l’orgoglioso Tulipano, collocato sul suo piedistallo dominò ben
presto l’assemblea, che battè le mani, e fece risuonare gli echi di
Harlem di un applauso prolungato.



XVI

Un’ultima preghiera.


In quel solenne momento allo scoppio dei ripetuti applausi, una
carrozza passava per la strada fiancheggiata dal bosco, seguiva
lentamente il suo cammino a cagione dei bambini spinti fuori della
linea degli alberi per l’accalcamento degli uomini e delle donne.

Polverosa, stanca, cigolante sopra i suoi fuselli quella carrozza
chiudeva l’infelice Van Baerle, cui dall’aperta portiera cominciavasi
ad offrire lo spettacolo che noi abbiamo impreso, molto imperfettamente
senza dubbio, a mettere sotto gli occhi dei nostri leggitori.

La folla, il frastuono, la pompa di tutti gli umani e naturali
splendori sbalordirono il prigioniero come se un baleno fosse entrato
nel suo ergastolo.

Malgrado la poca prontezza che aveva usata il suo compagno a
rispondergli allorquando avealo interrogato sulla propria sua sorte,
egli si azzardò d’interrogarlo un’ultima volta intorno a tutto quel
tramestio, che sulle prime poteva e doveva credere ch’ei ne fosse
affatto estraneo.

— Che cosa è questa, vi prego, signor luogotenente? domandò
all’officiale incaricato di scortarlo.

— Come potete vedere, o signore, replicò costui, è una festa.

— Ah! una festa! disse Cornelio con quel tuono tristamente indifferente
di un uomo, a cui nessuna gioia di questo mondo non più appartenga da
molto tempo.

Poi dopo un po’ di silenzio e qualche passo della vettura, domandò:

— La festa patronale di Harlem? perchè vedo gran fiori.

— Infatti l’è una festa in cui i fiori sono, o signore, i protagonisti.

— Oh! il dolce profumo! oh! che bei colori! esclamò Cornelio.

— Fermate, disse l’officiale al soldato che faceva da postiglione con
uno di quei dolci movimenti di pietà che non trovansi che nei militari,
fermate perchè il signore possa vedere.

— Oh! grazie, signore, della vostra gentilezza, soggiunse
malinconicamente Van Baerle; ma emmi ben dolorosa la gioia altrui, vi
prego dunque, risparmiatemela.

— Come vi aggrada; andiamo, via. Avevo comandato che si fermasse,
perchè me lo avevate richiesto, e di più perchè passate per amatore dei
fiori, e di quelli specialmente, di cui oggi si celebra la festa.

— E quali fiori si festeggiano oggi, signore?

— I tulipani.

— I tulipani! esclamò Van Baerle; oggi è la festa dei tulipani?

— Sì, signore; ma giacchè questo spettacolo vi affligge, andiamo.

E l’officiale si apprestava a dare l’ordine di continuare il cammino.

Ma Cornelio l’arrestò; un dubbio doloroso attraversogli la mente.

— Signore, domandò di una voce tremante, non sarebbe oggi che si
conferisce il premio?

— Il premio del tulipano nero, già.

La faccia di Cornelio imporporossi; il brivido gli corse per tutto il
corpo; e il sudore gocciavagli dalla fronte.

Poi riflettendo che lui e il suo tulipano assenti, la festa abortirebbe
senza dubbio per mancanza di un uomo e di un fiore per coronarla:

— Ahimè! egli disse, tutte queste brave persone saranno come me
infelici, perchè non vedranno questa gran solennità, alla quale sono
invitate, o per lo meno la vedranno incompleta.

— Che volete voi dire?

— Voglio dire, disse Cornelio, accovacciandosi in fondo della vettura,
che eccetto qualcuno che io conosco, il tulipano nero non sarà mai
trovato.

— Allora, signore, disse l’officiale, cotesto qualcuno che voi
conoscete, lo ha trovato; perchè quello che in questo momento tutta
Harlem contempla, è il fiore che voi riguardate come introvabile.

— Il tulipano nero! esclamò Van Baerle, gettandosi più che a metà fuori
della portiera. Dov’è? dov’è?

— Laggiù sul trono, lo vedete?

— Lo vedo!

— Andiamo, signore, disse l’officiale, ora bisogna partire.

— Oh! per pietà, di grazia, signore, disse Van Baerle, oh! non mi
menate via! lasciatemi guardare un altro poco! Come? Quello che vedo
laggiù è il tulipano nero, proprio nero... possibile? Oh! signore,
l’avete voi visto? No, no, deve avere delle macchie, deve essere
imperfetto, e forse è tinto di nero; oh! s’io fossi lì, saprei ben
dirlo io, o signore; lasciatemi scendere, lasciatemelo vedere da
vicino, ve ne prego.

— Che siete matto? Non posso.

— Ve ne supplico.

— Ma dimenticate che siete prigioniero!

— Sono prigioniero, è vero; ma sono un uomo d’onore, e sul mio onore,
o signore, non fuggirei mai, non tenterei mai di salvarmi; lasciatemi
solamente guardare il fiore!

— Ma i miei ordini, signore?

E l’officiale fece un nuovo movimento per ordinare al soldato di
rimettersi in via.

Cornelio l’arrestò ancora.

— Oh! siate paziente, siate generoso! tutta la mia vita dipende da un
moto della pietà vostra. Ahimè! la vita mia, o signore, probabilmente
non sarà lunga. Ah! che voi non sapete quanto io soffra; non sapete
l’aspra guerra che fassi nella mia testa e nel mio cuore; perchè se
fosse mai, continuò Cornelio disperatamente, perchè se fosse mai il mio
tulipano rubato a Rosa! Oh! signore; capite bene che cosa sia l’aver
trovato il tulipano nero, l’averlo visto un momento, averlo conosciuto
perfetto, che gli è a un tempo un capo d’opera dell’arte e della
natura, e doverlo perdere e perdere per sempre? Oh! signore bisogna che
scenda e vada a vederlo; voi mi starete accanto se vi piace, ma voglio
vederlo, sì, voglio vederlo!

— Tacete, disgraziato, e rientrate presto in carrozza, perchè ecco la
scorta di Sua Altezza lo Statolder che passa d’innanzi; se il principe
rimarcasse uno scandalo, se sentisse un rumore, si sarebbe fatta buona
io e voi.

Van Baerle più spaventato pel suo compagno che per sè, si rimise in
carrozza, ma non vi potè stare un mezzo minuto, ed erano appena passati
i primi venti cavalieri, che si rimise alla portiera, accennando e
supplicando lo Statolder giusto al momento ch’ei passava.

Guglielmo impassibile e semplice secondo il solito, portavasi al posto
per compire il suo officio di presidente. Aveva in mano il suo rotolo
di pergamena, che in questo giorno di festa era divenuto il suo bastone
del comando.

Vedendo quell’uomo che accennava e supplicava, riconoscendo forse
ancora l’officiale che accompagnavalo, il principe diede l’ordine di
fermarsi.

Nel momento i suoi cavalli frementi sugli zoccoli ferrati fermaronsi a
sei passi da Van Baerle rannicchiato nella sua carrozza.

— Che cosa c’è? dimandò il principe all’officiale, che al primo cenno
dello Statolder era saltato giù dalla vettura, e gli si avvicinava
rispettosamente.

— Mio Signore, gli rispose, è il prigioniero di Stato che per ordine
vostro, sono stato a cercare a Loevestein e che vi conduco a Harlem,
come Vostra Altezza ha desiderato.

— Che cosa vuole?

— Dimanda istantemente che gli si permetta di fermarsi qui per un
momento.

— Per vedere il tulipano nero, mio Signore, esclamò Van Baerle,
giungendo le mani, e poi quando lo avrò visto, quando avrò saputo ciò
che mi preme sapere, allora morirò, se bisogni, ma morendo benedirò
a Vostra Altezza, misericordiosa intermediaria tra la Divinità e me,
Vostra Altezza che permetterà che la mia opera abbia avuto il suo fine
e la glorificazione sua.

Era infatti un curioso spettacolo vedere questi due uomini, ciascuno
alla portiera della sua carrozza, cinta dalle loro guardie; uno
onnipotente, e l’altro miserabile; l’uno nell’atto di salire sul suo
trono, l’altro credentesi vicino a montare sul suo palco.

Guglielmo aveva riguardato freddamente Cornelio e ascoltato la di lui
fervorosa preghiera.

Allora indirizzandosi all’officiale:

— Costui, disse, è il prigioniero ribelle, che ha tentato di uccidere
il suo carceriere a Loevestein?

Cornelio cacciò un sospiro e abbassò la testa. La sua faccia dolce e
mesta arrossì e impallidì al tempo stesso. A quelle parole, a quella
infallibilità divina del principe onnipotente e onnisciente, il quale,
per qualche secreto messaggio invisibile al resto degli uomini, sapeva
già il suo delitto, e presagivagli non solo una punizione indubitata,
ma ancora un rifiuto.

Non si provò niente affatto a contrariare o a difendersi: offerse
al principe il toccante spettacolo di una ingenua disperazione bene
visibile e commovente per un cuore così grande e di uno spirito tanto
vasto quanto quello che lo contemplava.

— Permettete al prigioniero che scenda, disse lo Statolder, e che vada
a vedere il tulipano nero, ben degno di essere veduto almeno una volta.

— Oh! fece Cornelio mezzo svenuto dalla gioia e pencolante sul
montatoio della carrozza; oh! Signor mio!...

E gli si strinse la gola; e se non l’avesse sorretto l’officiale col
braccio, co’ ginocchi e la fronte nella polvere il povero Cornelio
avrebbe ringraziato Sua Altezza.

Dato il permesso, il principe continuò il suo cammino nel bosco in
mezzo alle acclamazioni le più entusiaste.

Giunse ben presto alla sua gradinata, e il cannone tuonò nel lontano
orizzonte.



XVII

Conclusione.


Van Baerle accompagnato da quattro guardie, che aprivansi un passo tra
la folla, tagliò obliquamente verso il tulipano nero, cui via via che
si avvicinava, divorava con gli occhi.

Lo vide finalmente, vide quell’unico fiore, che doveva sotto
sconosciute combinazioni di caldo, di freddo, d’ombra e di luce
apparire un giorno per mai più scomparire. Lo vide a sei passi; ne
assaporò le grazie e la perfezione; lo vide da dietro le giovinette,
che formavano una guardia d’onore a quel re della nobiltà e della
purezza. E intrattanto però quanto più assicuravasi co’ suoi occhi
della perfezione del fiore, tanto più il suo cuore era lacerato.
Egli cercava attorno di sè alcuno per indirizzargli una domanda sola;
ma dovunque visi sconosciuti, dovunque intenti col guardo al trono,
dov’erasi assiso lo Statolder.

Guglielmo, che attirava l’attenzione generale, si alzò, girò intorno
tranquillamente lo sguardo sulla folla esaltata, e il suo occhio
perspicace arrestossi a riprese sulle tre estremità di un triangolo
formato in faccia di lui da tre scene e tre drammi ben differenti.

A uno degli angoli, Boxtel impaziente e divorante senza battere occhio
la persona del principe, i fiorini, il tulipano nero e l’assemblea.

All’altro, Cornelio ansimante, muto, fisso, senza vita, senza cuore,
senza amore, se non che pel tulipano nero sua creatura.

Finalmente al terzo, ritta sopra di un gradino tra le vergini di
Harlem, una bella Frisona vestita di merino rosso ricamato d’argento,
e velata di merletti cascanti in larghe pieghe dalla sua cuffietta
d’oro; Rosa finalmente che appoggiavasi palpitante e l’occhio tumido al
braccio di un officiale di Guglielmo.

Vedendo allora il principe tutto il suo uditorio disposto, svoltolò
lentamente la pergamena, e con voce calma, chiara e benchè fievole
senzachè si perdesse un accento in grazia del silenzio religioso che
formossi ad un tratto sopra i cinquanta mila spettatori e rattenne
perfino il respiro sulle loro labbra:

— Voi sapete, disse a qual fine vi siete qui congregati.

«Il premio di cento mila fiorini è stato promesso a colui che trovasse
il tulipano nero.

«Il tulipano nero! — e questa maraviglia dell’Olanda è là esposto ai
vostri sguardi; — il tulipano nero è stato trovato, e tale con tutte le
condizioni volute dal programma della società orticola di Harlem.

«La storia del suo nascimento e il nome del suo autore saranno
inscritti nel libro di onoranza della città.

«Fate accostare il proprietario del tulipano nero».

E pronunziando queste parole, il principe per giudicare dell’effetto
che produrrebbero, girò il suo occhio aquilino sulle tre estremità del
triangolo.

Vide Boxtel lanciarsi dal suo gradino;

Vide Cornelio fare un movimento involontario;

Vide finalmente l’officiale incaricato di sorvegliare Rosa, condurla o
piuttosto spingerla dinanzi al trono.

Un doppio grido partì contemporaneamente dalla diritta e dalla sinistra
del principe.

Boxtel fulminato, Cornelio smarrito avevano ambedue gridato:

— Rosa! Rosa!

— Il Tulipano è vostro, o giovinetta, non è vero? disse il principe.

— Sì, mio Signore! mormorò Rosa, che un bisbiglìo universale salutavala
nella sua commovente bellezza.

— Oh! mormorò Cornelio, ella dunque mentiva quando diceva che
avessergli rubato il fiore. Ah! ecco perchè dunque ha lasciato il
Loevestein! Oh! dimenticato, tradito da lei, da lei che io credeva la
mia amica migliore!

— Oh! gemè Boxtel dal canto suo, io sono perduto!

— Il Tulipano, proseguì il principe, porterà dunque il nome del suo
inventore, e sarà inscritto al catalogo dei fiori sotto il titolo di
_Tulipa nigra Rosa Barlaeensis_ a cagione del nome di Van Baerle, che
sarà in seguito il nome di questo fiore.

E al tempo stesso Guglielmo prese la mano di Rosa e la pose nella mano
di un uomo che erasi slanciato pallido, istupidito, morto dalla gioia,
a piè del trono, salutando ora il suo principe, ora la sua fidanzata,
ora Iddio che dal sublime dei cieli di zaffiro riguardava benigno lo
spettacolo di due cuori felici.

Nel tempo stesso era del pari caduto ai piedi del presidente Van
Herysen un altro uomo colpito da una ben differente emozione.

Boxtel annichilato sotto la rovina delle sue speranze, erasi svenuto.

Fu rialzato, gli fu sentito il polso e il suo cuore; era morto.

Tale incidente non turbò niente affatto la festa attesochè nè il
principe nè il presidente non paresse che molto se ne interessassero.

Cornelio indietreggiò spaventato: nel ladro, nel falso Giacobbe aveva
riconosciuto il vero Isacco Boxtel, suo vicino, che nella purezza della
sua anima non aveva mai sospettato neppure per un istante di una azione
così iniqua.

Del resto fu una gran fortuna per Boxtel che Dio gli spedisse proprio a
tempo quell’attacco apopletico fulminante, che gli tolse di vedere più
a lungi cose tanto dolorose al suo orgoglio e alla sua avarizia.

Poi al suono di trombe la processione riprese il suo cammino senzachè
niente fosse cambiato nel ceremoniale, se togli Boxtel morto, e
Cornelio e Rosa trionfanti che camminavano accanto impalmati.

Quando si fu rientrati al palazzo comunale, il principe accennando col
dito a Cornelio il sacchetto di cento mila fiorini d’oro:

— Io non so bene, diss’egli, da chi sia guadagnato quel denaro, se da
voi o da Rosa; perchè voi avete ritrovato il tulipano nero, ella lo ha
allevato e fatto fiorire; cosicchè offrendolo ella per dote non sarebbe
giusto. D’altronde è il dono della città di Harlem fatto al tulipano
nero.

Cornelio stava attento per sapere che volesse inferire il principe, che
continuò:

— Io dono a Rosa cento mila fiorini, che ha ben guadagnati e che può
offrirvi; sono il premio del suo amore, del suo coraggio e della sua
onestà. Quanto a voi, o signore, grazie pure a Rosa che ha portato la
prova della vostra innocenza, — e dicendo queste parole, il principe
porse a Cornelio il famoso foglio della Bibbia, sul quale era scritta
la lettera di Cornelio de Witt, e che aveva servito a rinvoltare i
tre talli; — quanto a voi si è convinti che siete stato carcerato per
un delitto che non avevate commesso. Perciò non solo siete libero, ma
ancora i vostri beni come innocente sono per non confiscati, e vi sono
resi. Signor Van Baerle, voi siete il battezzato di Cornelio de Witt
e l’amico di Giovanni; restate degno del nome che vi ha affidato l’uno
sul fonte battesimale, e dell’amicizia dell’altro, della quale aveavi
onorato. Conservate la tradizione dei loro meriti, perchè quei de Witt
mal giudicati, mal puniti in un momento d’aberrazione popolare erano
due grandi cittadini, di cui l’Olanda va oggi superba.

Il principe a queste ultime parole, che pronunziò di una voce commossa
contro il suo solito, diede a baciare le sue mani ai due sposi, che
inginocchiaronsi dai lati.

Poi sospirando, continuò:

— Ahimè! siete voi ben felici, voi che forse sognando la vera gloria
dell’Olanda e soprattutto la sua felicità vera, non cercate di
conquistarle che tulipani di nuovi colori.

E gettando un’occhiata verso la Francia, come se egli vedesse nuove
nuvole addensarsi da quella banda, rimontò nella sua carrozza e partì.


Dal canto suo Cornelio il medesimo giorno partì per Dordrecht con Rosa,
la quale per mezzo della vecchia Zug spedita a suo padre in qualità
d’ambasciatrice, fecelo prevenire di tutto il successo.

Quelli, che per il da noi esposto conoscono il carattere di Grifo,
comprenderanno che ben difficilmente si riconciliò col suo genero. Egli
aveva fitto nel cuore tutte le bastonate ricevute e da lui contate
sulle ammaccature; egli diceva che sommavano a quarant’una; ma però
finì coll’arrendersi per non essere meno generoso, come ei diceva, di
Sua Altezza lo Statolder.

Divenuto custode dei tulipani dopo essere stato carceriere di uomini,
fu il più crudo guardiano dei fiori che s’incontrasse in tutti i Paesi
Bassi: bisognava vederlo sorvegliare le farfalle dannose, uccidere i
gattacci e scacciare le api troppo affamate.

Siccome seppe la storia di Boxtel, e andava per le furie nel solo
pensare che era stato lo zimbello del finto Giacobbe, fu lui che demolì
l’osservatorio alzato già dall’invidioso dietro il sicomoro; perchè il
recinto di Boxtel venduto all’incanto venne a ingrandire le caselle di
Cornelio, che si chiuse in maniera da sfidare tutti i cannocchiali di
Dordrecht.

Rosa sempre più bella, divenne anche più istruita, e a capo di due
anni di matrimonio sapeva così ben leggere e scrivere da potersi sola
incaricare della educazione di due bei figlioloni, che avea partorito
nel mese di maggio del 1674 e 1675, come due tulipani, ma che aveanle
dato tanto meno dolore del fiore famoso, al quale ella era debitrice di
averli.

La ci s’intende che uno un bimbo e l’altro una bambina ebbero il nome
di Cornelio e di Rosa.

Van Baerle restò fedele a Rosa come ai suoi tulipani; per tutta la sua
vita si occupò del benessere di sua moglie e della coltura dei fiori,
mercè la quale ei trovò un gran numero di varietà che sono iscritte al
catalogo olandese.

I due principali ornamenti della sua sala erano in due gran cornici
d’oro le due pagine della Bibbia di Cornelio de Witt; sopra d’una,
sovvenghiamocene, il suo compare aveagli scritto di bruciare la
corrispondenza del Marchese di Louvois; sull’altra aveva ei testato a
Rosa la cipolletta del tulipano nero a condizione che ella con la dote
di cento mila fiorini sposasse un bel giovine da ventisei a vent’otto
anni, che riamata l’amasse, condizione scrupolosamente adempita, benchè
Cornelio non fosse morto, e appunto perchè non era morto.

Finalmente per combattere i futuri invidiosi, di cui la Provvidenza
non si sarebbe forse compiaciuta di sbarazzarnelo come aveva fatto del
_mynheer_ Isacco Boxtel, egli scrisse sulla sua porta questo detto,
che Grozio aveva scolpito il giorno della sua evasione sul muro del suo
carcere:

  «Chi alcuna volta non ha molto sofferto non può mai avere il
  diritto di dire: _Io sono troppo felice_.»


  _Fine della seconda ed ultima Parte._



NOTE:


[1] _Luigi XIV; così chiamato per adulazione._



INDICE


  L’Editore ai suoi lettori                              Pag. V

  PARTE PRIMA
  I. Un popolo riconoscente                                   1
  II. I due fratelli                                         13
  III. L’allievo di Giovanni de Witt                         24
  IV.                                                        35
  V. L’amatore dei Tulipani e il suo vicino                  48
  VI. L’odio di un Tulipaniere                               58
  VII. L’uomo felice fa conoscenza con l’infelicità          68
  VIII. La Camera di famiglia                                81
  IX. La Camera di famiglia                                  90
  X. La figlia del Carceriere                                96
  XI. Il Testamento di Cornelio Van Baerle                  102
  XII. L’esecuzione                                         116
  XIII. Ciò che in quel tempo passava nell’animo di uno
          spettatore                                        121
  XIV. I piccioni di Dordrecht                              126
  XV. Il Carceriere                                         132
  XVI. Maestro e Scolara                                    140

  PARTE SECONDA
  I. Primo Tallo                                            151
  II. L’amante di Rosa                                      162
  III. Donna e Fiore                                        170
  IV. Ciò che era accaduto negli otto giorni                179
  V. Il secondo tallo                                       191
  VI.                                                       200
  VII. L’Invidioso                                          208
  VIII. Come il Tulipano nero muti padrone                  217
  IX. Il presidente Van Herysen                             223
  X. Un membro della società orticola                       231
  XI. Il terzo Tallo                                        242
  XII. La canzone dei fiori                                 251
  XIII. Come Van Baerle, prima di lasciare Loevestein,
          metta in pari i suoi conti con Grifo              261
  XIV. Quando Van Baerle cominci a dubitare a qual
         supplizio sia riserbato                            270
  XV. Harlem                                                275
  XVI. Un’ultima preghiera                                  283
  XVII. Conclusione                                         289



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è
stato aggiunto un indice a fine volume.



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